La speranza di Ethel

di Apricot
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO II ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Si accovacciò in un angolo del letto smisuratamente ampio. Avvolse le gambe con le sue braccia e strinse in modo che le ginocchia premessero bene sul petto.
Tentò di togliersi dal viso i capelli lunghi e sporchi che le coprivano gli occhi senza spostarsi da quella posizione. Impossibile.
Arricciò il naso e chinò la testa il più che poteva.
Il dolore pulsante partì dallo stomaco questa volta, e si espanse per tutto il corpo fino a raggiungere il cervello.
Sentiva che stava impazzendo, non avrebbe potuto farcela. Non da sola.
Il braccio destro le cominciò a tremare. Le faceva male. Le faceva molto male.
Il dolore fisico aumentava secondo dopo secondo. Ormai aveva superato quello psicologico.
Con il braccio ancora sano si tirò dei pugni sulle gambe incessantemente.
Un gemito.
Un grido.
Un grido di dolore. Un dolore troppo forte per essere sopportato. Nemmeno le pastiglie la stavano aiutando.
L'intera superficie della pelle grondava ormai di sudore. Sentiva il vomito salirgli lungo la gola.
Non ce la fece.
Con l'ultimo granello di forza che le rimase si trascinò lungo il bordo del letto sporco e sudato tanto quanto lei e raggiunse il comodino. Aprì il cassetto dopo due tentativi, la mano le tremava troppo.
Aprì la bustina quadrata color argento e sparse il contenuto lungo il bordo del comodino.
Si tirò ancora più avanti spingendosi con i piedi e aggrappandosi alle lenzuola finché non si trovò  il legno freddo del suo unico piccolo mobiletto a contatto con il suo naso.
Inspirò profondamente un'ultima volta e poi cadde accasciata sul materasso con le mani penzoloni.

Non ce l'aveva fatta. Non era riuscita ad uscirne, di nuovo. 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


 
CAPITOLO I
Ethel si svegliò tardi quella mattina. Il freddo invernale trapassava da tutti gli spifferi di casa sua; o meglio di sua sorella.
Aveva un gran fame, ma il mobiletto della cucina era semi vuoto. Cercò qualcosa nella dispensa. Trovò un pacco di caffè non ancora aperto e una scatoletta di tonno che doveva essere lì da troppo tempo.
Optò per il tonno.
Si buttò dentro quella vasca poco igienica del minuscolo bagno che aveva a disposizione, e la riempì di acqua bollente.
Appoggiò la testa contro le piastrelle marroncine e rovinate della parete. Socchiuse gli occhi con il vano desiderio di non riaprirli più.
Non poteva farlo. Non poteva perché era una ragazza forte.
Avrebbe dovuto trovare dei soldi. Quelli di sua sorella non bastavano più. I suoi li aveva praticamente tutti finiti.
Avrebbe sistemato tutto. Ne sarebbe uscita definitivamente. Si sarebbe rivolta a qualcuno di più esperto di lei. Avrebbe ricominciato a vivere come una volta.
Le vie poco trafficate di Doolin le rendevano le cose molto più semplici.
Da quando si era trasferita dalla sorella la situazione era peggiorata notevolmente.
Detestava quel paese. Tutti i paesaggi irlandesi la irritavano senza un vero e proprio motivo.
Passò davanti all'unico mini supermercato presente. Si specchiò nelle vetrate.
La sua immagine esile era più sciupata del mese scorso.
Si toccò la pancia. Piatta. Forse un po' troppo.
L'incavo tra le anche stava diventando sempre più profondo. Poteva far passare l'intera mano dalla pancia alle mutande senza toccare minimamente il bordo dei jeans sgualciti che indossava da giorni.
Le costole le sporgevano, ma lo sapeva nascondere bene.
Il corpo poteva essere mascherato con qualche vestito vecchio che trovava di tanto in tanto in casa, ma il viso no.
Non poteva nascondere il viola che si estendeva sotto gli occhi incavati e arrossati. Non poteva nascondere la pelle eccessivamente bianca, quasi cadaverica.
L'unica cosa che si sarebbe potuta salvare era la chioma che scivolava lungo la schiena, ma ormai anche quella aveva perso il suo fascino.
I suoi capelli erano fini e deboli.
A malincuore notò che persino quel bel biondo, che una volta splendeva, si era spento.
I suoi capelli erano diventati dei comuni capelli. Non venivano notati più da nessuno. Nessuno la distingueva più per quel colore.
I capelli non erano l'unica cosa ad essersi spenta in lei.
Anche quella piccola fiammetta era ormai scomparsa.
Ethel la chiamava così, la speranza.
Girò l'angolo ed attraversò la strada.
Avrebbe dovuto comprare qualcosa da mangiare dato che la casa era completamente spoglia, ma prima doveva sbrigare un faccenda.
Passò sotto il ponte che collegava Doolin al paese vicino e si guardò attorno.
Non c'era nessuno. Non c'era il minimo rumore. Sentì freddo ai piedi; ormai le sue scarpe erano completamente bagnate a causa delle pozzanghere createsi la sera precedente.
Appoggiò la mano alla parete destra del ponte e fissò i graffiti. Erano vecchi e rovinati. Il colore era completamente scomparso e le uniche cose che si potevano leggere erano insulti e parolacce.
Strinse la mano in un pugno e picchiò il più forte che poté contro la parete di pietra umida.
Rivolse il suo sguardo verso la fine del ponte. Un'ombra comparve dal nulla.
Lei si avvicinò.
Anche se quell'ombra era sicuramente qualcosa di fortemente negativo, in quel momento era la sua unica speranza.
A piccoli passi si avvicinò a lei finché poté scorgere il viso.
Si chinò lentamente guardandolo in faccia come se volesse fargli capire le sue intenzioni.
Tirò fuori dai suoi calzini una banconota spiegazzata. Tese il braccio il più possibile, sapeva che sarebbe stato meglio non avvicinarsi troppo.
Il ragazzo afferrò la banconota. Con un rapido gesto la nascose nel palmo della mano e allungò con il pollice una piccola scatoletta rosa.
Ethel l'afferrò e l'aprì.
- Solo questo?-   
- --- -------------------------------É tutto quello che posso darti. Se ne vuoi di più procurati più soldi.-
- Lo sai che non ne ho di soldi. Io ho bisogno che almeno tu mi aiuti, Samuel.-
- Zitta. Io secondo te da dove li tiro fuori i soldi? Non posso più permettermi di pagare la roba anche per te. Ti devi arrangiare da sola. Ora va via.-
- Samuel, per favore.-

Ethel si avvicinò, sperando di fargli compassione.
Quando si spera di far pena a qualcuno pur di ottenere qualcosa significa che la disperazione ha preso il sopravvento.
-Vattene ti ho detto. -
 
Il ragazzo fece due passi indietro, si avvicinò al muro e chiuse la mano a pugno battendo sulla parete.
Secondo battito. Affare concluso.

Ethel scappò via da quel posto.
Aveva passato più tempo seduta su quell'asfalto a fissare dal basso le auto che passavano che a casa sua.
Le erano rimasti pochi soldi. Ma quelli avrebbe dovuto spenderli bene.
Si vergognava di fare la spesa. Più che un super mercato quello era un piccolo negozio di alimentari.
Comprò l'indispensabile. Tutto ciò che non aveva date di scadenza andava bene.
Tutto ciò che era salato andava bene.
Era da mesi ormai che non mangiava più qualcosa di sano.
Era da mesi ormai che non mangiava più qualcosa di realmente nutriente.

Passò davanti alla stazione dei treni con la busta della spesa stretta bene fra le mani.
Affrettò il passo e tenne gli occhi bassi.
Sapeva che Doolin non era pericolosa, ma lei era abituata a ben altri tipi di città; città in cui la stazione dei treni non era il posto più sicuro per una ragazza sola con una borsa colma di cibo fra le mani.
Non appena vi entrò avvertì quell'odore nauseante.
L'odore di sporco e marcio che invadeva le sue narici proveniva dai bagni pubblici. Lei lo sapeva, passava spesso del tempo nei bagni pubblici.
Camminò per quella piccola piazzola ancora vuota. Si affacciò all'unico bar aperto. Annusò l'odore del caffè che vi proveniva. La radio all'interno stava trasmettendo una canzone familiare, ma Ethel non se ne ricordava il titolo.
Continuò per la sua strada, anche se le fragili e magre gambe le davano il tormento.
Attraversò i binari non curante del cartello di divieto che le si trovava di fronte al naso. Scese gli scalini del sotto passaggio e svoltò a destra.
Sapeva che l'avrebbe trovata là.

- Hai visto Samuel?-
Ormai non si dicevano neanche più 'ciao'. Era tutto cambiato, le priorità erano cambiate.
Nonostante questo la loro amicizia era l'unica cosa certa nella sua vita. Non poteva farne a meno.
- No.-
Mentì. Non avrebbe potuto fare altrimenti.
- E quando lo rivedrai?-
- Non lo so.-
- É uno schifo. Tutto questo è uno schifo.-
- Non pensavo che sarebbe successo. Non a me. Io so controllarmi.-
- Ormai è quella cosa che controlla te. Ci controlla tutti ormai. Fanculo.-
- Tu non sei riuscita a rimediare niente?-
- No, sono a secco.-
- Quindi hai passato la notte pulita?-
- Ma scherzi? Trevor me ne ha data un po'. Ma non basta. Non basta, cazzo. Scusa ma tu come hai fatto?-
- Ho rubato i soldi di mia sorella ieri notte e ho usato i suoi.-
Mentì di nuovo. Non poteva farle capire che in realtà vedeva Samuel quasi tutti giorni.
- Stronza! Potevi dirmelo, cazzo. Non vedi come sto!
- Senti erano troppo pochi. Sono bastati per neanche mezza dose, quindi vedi di non arrabbiarti.-
- Che cazzo Ethel, io non ce la faccio più! Aiutami!-
- Come faccio ad aiutarti se non so nemmeno occuparmi di me stessa?-

Ethel scivolò lungo il muro e si sedette sul pavimento piastrellato freddo e sporco, affianco a Frennie. Poteva avvertire la disperazione nella sua voce; non aveva mai provato disperazione prima di quell'anno.
Era successo tutto troppo in fretta.

Sbatté le palpebre molto lentamente e in quell'attimo vide se stessa. Vide se stessa com'era una volta.
Quando ancora poteva dire di avere una vita sua.
Il trasferimento a Doolin l’aveva cambiata, sicuramente peggiorata.
Ricordava le esatte parole che le aveva detto sua madre prima che partisse: ‘Fatti una vita e non combinare casini. Non voglio ritrovarmi responsabile dei tuo atti solo perché sei minorenne.’
Sua madre non era mai stata il classico tipo di madre che ama i propri figli. Avrebbe di gran lunga preferito non averne.
Lasciare Dublino non era stato così difficile, soprattutto perché sapeva sarebbe andata a vivere assieme a sua sorella.
Corinne non era male. Ethel amava vivere con lei. Era la figura materna che non aveva mai avuto.
Anche se Corinne lavorava come cameriera per la maggior parte del giorno, quando tornava a casa era sempre pronta per prendersi cura della sorellina.
Solo che negli ultimi tempi quando usciva dal lavoro Ethel non era mai a casa.
Ogni tanto le capitava di pensare che se non fosse mai andata via da Dublino niente di tutto ciò sarebbe mai successo.
A Doolin era molto più semplice trovare ciò che cercava.

 
-Ti ricordi quando andavamo a scuola?- le aveva chiesto Frennie qualche sera prima a casa sua.
Quella domanda le aveva tolto il respiro per qualche secondo. Frennie la pose abbassando gli occhi e accennando un lieve sorriso, causato probabilmente dai bei ricordi.
Era una domanda retorica. Ovviamente si ricordava di quando andava a scuola. Aveva smesso all’inizio di settembre.
Ma dietro quell’innocua domanda si nascondeva un dolore profondo.
Abbandonare la scuola non era stata una scelta.
Ethel le aveva preso il viso e lo aveva stretto forte.
- Io ti prometto che ritorneremo a scuola. Ritorneremo a vivere come vivevamo prima, ok? Ti ricordi? Ti ricordi quando sono arrivata?-
- Si, a gennaio.-
- Esatto, noi non stavamo messe in questo modo a gennaio. Cosa è successo? Come ha fatto la situazione a scapparci così tanto di mano? -
- Non lo so. È successo tutto troppo in fretta, non me ne sono neanche resa conto.-
- Già. Fanculo.-  

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Capitolo 3
*** CAPITOLO II ***


 
11 MESI PRIMA.
GENNAIO
 
-Ethel! La colazione, muoviti!-
Ethel corse lungo le scale allacciandosi i bottoni dei jeans sgualciti. Saltò gli ultimi due scalini provocando un tonfo che fece scappare il gatto malnutrito di sua madre.
Diede un’occhiata al tavolino rotondo della cucina. Non c’era nessuna colazione.
Aprì l’anta destra dell’unico mobiletto ancora sano presente in quella stanza e tirò fuori una scatola di biscotti. Controllò la scadenza. Aveva imparato a controllare la scadenza di ogni singolo cibo da quando all’età di sette anni stette male per un paio di yogurt andati a male.
Frugò bene con la mano e scelse dei biscotti ancora interi.

Tua sorella è già fuori che ti aspetta in macchina. Vedi di ricordarti tutto, non voglio tue visite impreviste.-


- Certo Hanna.-


Ethel aveva smesso di chiamare sua madre ‘mamma’ da qualche mese. Non la chiamava spesso per nome, solo quando considerava i suoi comportamenti non materni.
Hanna non aveva detto niente a proposito della partenza di Ethel.
In un certo senso non si capiva se ne soffrisse o se per lei fosse una liberazione. Mostrava indifferenza, ma Ethel sosteneva che in realtà non vedesse l'ora di stare da sola.
Afferrò il borsone verde pastello utilizzato anni prima per le lezioni di danza, e il suo zaino. Sua sorella aveva già caricato nel cofano i libri di scuola, anche se non sapeva quanto gli fossero potuti servire.
 
Entrò nella Ford grigio scuro sbattendo la portiera e aprendo il finestrino.
Corinne le rivolse un sorriso di rassicurazione.
Corinne se ne era andata all’età di 19 anni, ma lo avrebbe fatto prima se i soldi glielo avessero permesso.
Quando aveva lasciato quella casa aveva provato una senso di liberazione immenso. Sapeva che sarebbe riuscita a crearsi una vita nuova. Non avrebbe più pensato a sua madre. E così aveva fatto.
La casa a Doolin non era di sicuro la più bella casa del paese, ma a lei andava bene. Aveva il suo lavoro, aveva i suoi amici, aveva il suo ragazzo, aveva la sua casa. Era indipendente, e questo la faceva sentire benissimo.
Ecco perché era così felice di poter vivere con sua sorella minore. Ecco perché era così felice di poter far si che anche Ethel provasse quella bella sensazione che aveva provato lei tre anni prima.
 

- Fra un mese è il tuo compleanno, vecchia!-

- A chi hai dato della vecchia?-
- Cara mia, ormai sono 22!-
- Questi sono gli anni migliori!-
- No, gli anni migliori sono i 16.-
- Non penso proprio, lo capirai.-
- Vero che casa tua non è lontana?-
- No, tranquilla. A proposito, io ti ho sistemata nella mia stessa camera, tanto ho il letto grande. Appena mi avanzano un po’ di soldi in più potremmo andare a comprare un armadio decente, così ci stanno anche i tuoi vestiti.-
- Non ti preoccupare, per me va bene tenerli nel borsone.-
- No! Non ti voglio mica far vivere come una profuga.-
- Lo so, però non voglio che spendi soldi per me. È già tanto che mi ospiti, sono felice di essermene andata di casa.-
- Chiunque lo sarebbe al tuo posto. Come sta la mamma?-
- Come sempre.-
- Beve ancora?-
- Ovvio.-
- Ma come una volta?-
- Ovvio.-

Le loro voci si abbassarono, così come i loro occhi.
Restarono in silenzio per qualche secondo. Entrambe sapevano che cosa significava vivere con Hanna, entrambe avevano provato gli stessi dolori, entrambe avevano vissuto gli stessi incubi.
Corinne buttò una rapida occhiata al suo polso destro. Una parte della cicatrice spuntava dal maglioncino arancio che portava. Era una linea dritta e lunga almeno cinque centimetri.
Ricordava come se l’era provocata come se fosse successo il giorno prima.
Ricordava l’alito che sapeva di alcol della madre, ricordava il suo viso sconvolto mentre rompeva il collo della bottiglia di vino scadente ed economico per poi gettarsi su Ethel. Ricordava come aveva spinto sua sorella per terra in tempo e come il vetro le aveva tagliato il polso facendolo grondare di sangue.
Nessuna delle due aveva provato sensi di colpa per essere andata via, nessuna di loro si preoccupava di come avrebbe potuto vivere la madre una volta rimasta sola in casa.
Ci sono delle volte in cui pensare a se stessi è la soluzione migliore.
 
Ethel riaprì le palpebre lentamente ed alzò il viso. Il finestrino umido e freddo aveva cominciato a darle fastidio.
Sapeva di trovarsi quasi vicino a Doolin.
Questa volta appoggiò il capo sullo schienale nero impregnato dell'odore del fumo delle sigarette di sua sorella.
Presero una stradina stretta, e dopo la terza curva l'auto si fermò.
La casa era piccola. Molto piccola. Gialla, ma di un giallo sbiadito e triste.
In realtà qui quasi tutto è sbiadito e triste, comprese le persone”, le aveva risposto Corinne.
A Ethel però non importava, era felice di essersene andata via. Era felice di aver abbandonato la sua vecchia vita, di aver voltato pagina. Era felice di poter passare del tempo con sua sorella.
Si dice che quando le donne vogliono cambiare radicalmente la loro vita partono dai capelli.
Ethel si era tagliata la frangetta ed aveva raccolto tutta la sua chioma in un'alta coda di cavallo.
A sua madre non erano mai piaciuti i suoi capelli. Biondi. Come quelli di suo padre.
 
Portarono il saccone con i pochi vestiti che aveva e i suoi libri nella stanza al piano di sopra.
La camera era la stanza più grande e più illuminata.
I vetri della finestra grande e bassa facevano trapelare la poca luce del sole presente.
Appoggiò il borsone accanto al letto, anch'esso piuttosto basso.
La camera era di suo gradimento, ma Corinne aveva ragione: c'era bisogno di un armadio grande. 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Le giornate a Doolin passavano lentamente. Più lentamente di quel che ci si aspettasse.

Ethel si trovava spesso a guardare fuori dalla finestra. Poggiava la testa contro il muro e lasciava che il suo sguardo si perdesse nel vuoto.

Fissava le macchine passare e pensava.

Pensava a tutto e a niente. Non pensava a nulla di particolarmente importante e a nulla di particolarmente inutile. Pensava e basta.

Lasciava che le immagini e le voci nella sua testa scorressero via, leggere.

Di tanto in tanto si soffermava a fissare i passanti domandandosi che genere di vita svolgessero e perché si trovassero in quel posto.

Si divertiva ad immaginarsi le vite dei pochi anziani che di tanto in tanto attraversavano quella stradina.

Non aveva più chiamato Hanna.

Non voleva fingere di interessarsi a lei. Nella sua nuova vita non c'era spazio per lei.

Nella sua nuova vita non ci sarebbe più stato spazio per nessuno come lei.

 

Prese il giaccone di sua sorella perché era più caldo del suo.

Se lo infilò e scese le scale.

Per voltare pagina non bastava un taglio di capelli differente, doveva rinnovare completamente il suo stile di vita.

Cominciò dalle passione che non aveva potuto sviluppare quando viveva a Dublino.

Avrebbe voluto fare una lista di tutto ciò che amava fare, ma non c'era tempo.

Quando hai delle belle idee non c'è mai abbastanza tempo.

Corse lungo il marciapiede sotto casa sua ed imboccò la scorciatoia che le aveva mostrato Sam.

In meno di 15 minuti arrivò nel centro di Doolin.

Ethel era abituata a ben altri centri città, ma anche quello di Doolin le piaceva.

Infondo alla piazza, proprio accanto all'unico mini supermercato presente, c'era una biblioteca.

Ethel vi entrò ansimando ancora per la corsa.

Stava cercando un libro, ma non un libro qualsiasi, un libro che la ispirasse. Non le era mai capitato di entrare in una biblioteca senza avere una minima idea di quale libro prendere.

Provò una strana sensazione di ansia ed eccitazione allo stessa tempo, quel genere di sensazione che si prova quando si è alla ricerca di qualcosa, non si sa di cosa, ma si sa di per certo che bisogna trovarla.

 

La biblioteca era infinitamente piccola, ma Ethel si era abituata ai posti piccoli da quando si era trasferita.

Si avvicinò alla prima libreria che incontrò.

Era di legno, quel legno chiaro un po' scadente che si trova ovunque, e con cinque scaffali. Cominciò a cercare tra i libri e tirò fuori quelli con la copertina più bella.

Quand'era piccola Sam le diceva che non bisogna giudicare un libro dalla copertina.

Lei non la pensava così, lei riteneva la copertina una parte fondamentale del libro.

La copertina doveva rappresentare il libro, dunque doveva essere bella quanto le parole scritte all'interno delle pagine. Solo un idiota avrebbe scritto un bellissimo libro per poi ricoprirlo con una copertina brutta.

Aveva provato a spiegare questo concetto a Sam, ma lei e aveva risposto che era una persona superficiale.

Ethel non si riteneva una persona superficiale, affatto, credeva soltanto che l'apparenza fosse una parte importante, perché spesso mostriamo chi siamo, o comunque chi vorremmo essere.

 

Cambiò scaffale, non c'era nulla che attirasse la sua attenzione nel ripiano più alto.

Niente.

Niente.

Non riusciva a trovare niente.

Si spostò nel secondo corridoio per esaminare altre due librerie.

Nessun libro l'attirava davvero, nessun libro le faceva venir voglia di leggere, e alcuni libri le facevano addirittura venir voglia di andarsene. Nulla che facesse al caso suo.

La sala era quasi completamente vuota. Solo un ragazzo era seduto su di una poltroncina blu scuro vellutata vicino alla finestra più grande presente.

Ethel si girò a guardarlo.

Ciò che desiderava si trovava fra le sue mani.

Il libro che voleva era il suo.

Era grande, con la copertina azzurra e il titolo scritto in nero.

Non riusciva a leggere cosa ci fosse scritto, ma lo desiderava.

Sentì quasi un'attrazione per quell'oggetto. Sapeva di volerlo,e se non avrebbe potuto prenderlo non ne avrebbe preso nessun altro.

Non le importava cosa c'era scritto. Voleva quello.

Le piaceva la forma, il colore, lo spessore. Era quel genere di libro che si tira fuori dallo scaffale perché si è attratti dal suo aspetto.

Si avvicinò lentamente poggiando i piedi perfettamente uno davanti all'altro; sapeva tenersi in equilibrio molto bene.

Fece esattamente dodici passi e si fermò dietro la poltrona su cui il ragazzo stava sfogliando velocemente le pagine.

Ethel strizzò gli occhi per mettere a fuoco le scritte e leggere qualcosa, ma non riusciva a vedere niente, sia perché non vedeva bene da lontano, sia perché i capelli castani del ragazzo coprivano la visuale.

Riuscì a leggere il titolo del terzo capitolo: 'Il soggetto'.

Ethel pregò con tutte le sue forze che non si trattasse di un libro di grammatica.

-Cos'è?-
Il ragazzo non si voltò neanche per sapere chi fosse a parlargli; si limitò a guardare con la coda dell'occhio.

-Cos'è cosa?-

- Il libro che stai leggendo.-

-É un libro. -

-Di cosa parla? -

-Perché ti interessa? -

-Perché lo vorrei leggere. -

-Ma non sai neanche di cosa si tratta, come puoi volerlo leggere? -

-Mi piace la copertina. -

-Mai giudicare un libro dalla copertina. -

-Io ritengo la copertina molto importante.-

Il ragazzo si girò puntando i suoi occhi nocciola sul giaccone eccessivamente largo che portava la ragazza. La squadrò dalla testa ai piedi, soffermandosi più a lungo sugli stivaletti neri e sporchi. Ethel distolse lo sguardo dal libro per spostarlo sul ragazzo. Lo riconobbe subito. Era il ragazzo che aveva incontrato davanti alla scuola, quello seduto sul muretto. Da quel giorno non lo aveva più rivisto davanti scuola; in più aveva imparato ad arrivare prima per prendersi il posto sul muretto. Sulla panchina rossa non ci si era più seduta.

 

-É un libro di fotografia.-

-Intendi uno di quegli album con le foto degli animali e dei paesaggi?-


-No, vedi per caso delle immagini? Ci sono solo scritte.-


-E allora che razza di libro sulla fotografia è?-


-É una specie di manuale, ti insegna come fare le fotografie.-


-Ah, e tu non potresti darmelo questo libro?-


-Lo sto leggendo io.-


-Lo so, però a me serve.-


-Ti serve per cosa?-

Se Ethel avesse davvero voluto prendere quel libro avrebbe dovuto avere una motivo plausibile per volerlo.

Esaminò tutte le motivazione che avrebbero potuto spingerla a volere quel libro.

Decise di dire la verità, perché se non altro, fra tutti i possibili motivi per i quali una persona vorrebbe un libro di cui non conosce neanche l'argomento, la verità era quello che avrebbe saputo spiegare meglio.

 

-Mi serve perché devo riscoprire la mia passione.-


-La tua cosa?-


-Passione.-


-Ti piace la fotografia?-


-No. Mi piace leggere.-


-Sei in una biblioteca, ci sono milioni di libri qua dentro, perché tu vuoi proprio il mio?-


-Te l'ho detto, mi piace la copertina.-

-Il ragazzo si voltò di nuovo verso il suo libro e riprese a leggere.


-Scordatelo.-


-Lo leggerai tutto?-


-Si, tre volte.-


-E quando finirai?-


-Fra un anno.-


-Sono seria.-


-Anche io.-


-Davvero vorrei quel libro, quindi se non ti dispiace appena ti stanchi potresti dirmelo così...-


-No.-

 

Ethel aveva tutto il pomeriggio a disposizione.

Si sedette sulla poltroncina azzurra di fronte a quella del ragazzo e cominciò ad osservarlo.

Più che osservarlo lo fissò pregando che si muovesse a leggere.

Di tanto in tanto allungava il collo e posava lo sguardo sulle pagine, ma le scritte erano troppo piccole. Riuscì a vedere un'immagine: uno schema di una macchina fotografica con varie frecce, numeri e spiegazioni a lato.

Il ragazzo si era accorto della presenza di Ethel e del suo continuare a fissarlo.

Cercò di resistere il più possibile.

Non voleva dargliela vinta. Era diventata una specie di gara; il primo a cedere avrebbe perso.

Ethel incrociò le gambe e questa volta, con espressione seria, cominciò a tamburellare le dita sul bracciolo.

Il ragazzo non si mosse di una virgola, sentiva lo sguardo della ragazza addosso, ma non avrebbe ceduto.

 

Un'ora.

Due ore.

Tre ore.

 

-Tieniti sto maledetto libro!-

Il ragazzo alzò lo sguardo e le porse il libro con aria scocciata.

L'aria altrettanto scocciata di Ethel si trasformò in soddisfazione.

Ora aveva il libro che stava cercando.

-Grazie.-


-Spero tu sia contenta adesso.-


-Si, lo sono.-


-Ciao.-

Il ragazzo si alzò e si diresse verso la porta di vetro in fondo al corridoio.

Ethel si alzò esaminando la copertina del libro. Azzurra e spessa con il titolo nero in rilievo, come piaceva a lei. Portò il libro al suo naso per verificare che profumasse di carta. Se non avesse profumato non lo avrebbe preso e quindi avrebbe sprecato un intero pomeriggio.

Fortunatamente le pagine profumavano.

Ethel utilizzò la tessera di sua sorella per prenderlo in prestito, dopo di che uscì .

 

Fuori aveva iniziato a piovere, se ne era accorta mentre stava aspettando seduta.

Si rifugiò per cinque minuti sotto il balcone del palazzo accanto.

Le era saltata alla mente l'idea di chiamare Sam per farsi venire a prendere, ma non voleva disturbarla. Inoltre a quell'ora lavorava ancora.

Di pullman che portassero almeno nelle vicinanze di casa sua alle sei del pomeriggio non ce n'erano, di taxi neanche l'ombra.

Ethel una volta aveva visto un film in cui una donna correva per la strada sotto la pioggia gridando. Aveva trovato quella scena particolarmente bella.

Nascose il libro sotto il giaccone in modo che non si bagnasse e lo tenne fermo con un braccio.

Correre sotto la pioggia era impossibile, o almeno con gli stivali che indossava. Si limitò a camminare.

Le gocce le cadevano sul viso con una violenza tale da farle male. La pioggia era diventata grandine.

 

Non poteva più continuare a camminare sotto quella tempesta per quanto cinematografico fosse. Sentiva il vento freddo penetrarle nelle costole, e questo non è mai un buon segno.

Si avvicinò al bordo della via e si rifugiò sotto il tendone del dehor di un bar.

Tirò un bel respiro profondo e strinse il libro ancora più a sé.

Si strizzò i capelli e si appoggiò alla vetrata del bar chiuso.

Sentì una mano posarsi sulla sua spalla fredda e fradicia.

- Hey. Allora perché volevi quel libro?-

Era il ragazzo della biblioteca, anche lui completamente bagnato e infreddolito.

Ethel non lo vide molto bene in faccia, perché portava i capelli sopra la fronte, e bagnati coprivano anche gli occhi.

Notò però le sue labbra; era viola dal freddo e di tanto in tanto tremolavano.


-Lo voglio leggere-


-Guarda che non è poi così interessante.-


-Si lo so, però è il libro che volevo. Ne stavo cercando uno che mi ispirasse, e questo mi ispira.-


-Perché ti ispira?-

Ethel pensò che quel ragazzo avesse dei seri problemi di memoria.


-Per la copertina!-


-Solo per quello?-


-Si!-


-Te sei strana.-


-Grazie.-


-Non era un complimento.-


-Per me lo era.-

Quella conversazione stava cominciando ad irritarla.

-Come ti chiami?-


-Ethel-


-Ma di dove sei?-


-Come fai a sapere che non sono di qui?-


-Qui si conoscono tutti, e poi hai un accento diverso.-


-Di Dublino.-

 

Il ragazzo si sistemò a qualche metro da lei per ripararsi ed accese una sigaretta.

Ethel lo guardò mentre tutto quel fumo gli usciva dalla bocca. Voleva parlargli, tanto per fare bella figura, tanto per non rimanere imbambolata ad aspettare.

-Che marca fumi?-


-Scusami?-


-Che marca di sigarette fumi?-


-Sigarette? Questa non è una sigaretta.-

Ethel rimase zitta ed immobile. Non sapeva cosa rispondere e tanto meno le interessava farlo.

Dopo tre minuti il ragazzo si voltò ed andò via.

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