I was born for this

di ObliviateYourMind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il dolore ***
Capitolo 2: *** Il ricordo ***
Capitolo 3: *** Il ritorno ***
Capitolo 4: *** La speranza ***
Capitolo 5: *** L'inizio ***
Capitolo 6: *** L'amore ***
Capitolo 7: *** La novità ***
Capitolo 8: *** L'attesa ***
Capitolo 9: *** La fine ***
Capitolo 10: *** L'addio ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il dolore ***


In the mourning, I'll rise
In the mourning, I'll let you die
In the mourning, all my worry..

 

La folla urlava.

Dal pubblico si levarono fischi, applausi, suoni indistinti ma incoraggianti.

Alcuni gridavano il nostro nome, mi sembrò che ci incitassero a continuare.

I miei timpani, ormai sopraffatti dal volume troppo alto, non ce la facevano più, eppure i miei muscoli, il mio cuore, mi imponevano in qualche modo di rimanere lì, immobile e ad occhi chiusi, a gustarmi quel momento di genuina felicità.

Aprii gli occhi un po' timorosa e guardai davanti a me: dal palco si vedeva proprio tutto.

Una distesa di teste, che parevano tante piccole biglie, si muovevano, saltavano senza sosta.

C'erano adulti, ragazzi e bambini, tutti l'uno accanto all'altro, a formare una specie di onda gigantesca che si estendeva fino alla fine del palazzetto.

Afferrai la bottiglietta d'acqua dietro un amplificatore e, mentre bevevo, mi voltai verso i ragazzi.

David teneva la chitarra sollevata a mezz'aria e annuiva verso il pubblico in segno d'incoraggiamento, Matthew stava giocherellando con le sue bacchette lanciando sguardi veloci verso David, Luke passeggiava per il palco, forse per scaricare la tensione, e Brian...lui mi stava fissando.

Non riuscendo a sostenere il suo sguardo, afferrai con uno scatto il microfono e, rivolta alla folla urlante, gridai: «Grazie a tutti, siete stati fantastici! BUONANOTTE!» e scomparvi dietro le quinte.

Gli applausi continuavano a scrosciare.

«Grandissima, siete stati bravissimi!» disse il nostro manager dandomi una pacca amichevole sulla spalla.

«Ben fatto»

«Stupendi! Davvero stupendi!»

Sembravano tutti entusiasti.

Io ero talmente felice da non riuscire a dire una parola, nemmeno una per ringraziare quelle persone così gentili.

 

Brian mi raggiunse lungo le scale mentre mi avviavo verso il mio camerino.

«Ehy, Vic...»

«Sì?»

«Sei stata bravissima. È tutto merito tuo se quelli si gasano così durante i nostri concerti, e..»

«Non dire sciocchezze Brian, - lo interruppi – lo sai benissimo che se voi non ci foste, a quest'ora non sarei qui nemmeno io. Grazie di tutto, davvero. Ah, e comunque volevo solo dirti...»

«EVVAIII!! Stasera eravamo carichissimi! It's enough l'abbiamo fatta benissimo! Complimenti ragazzi». Era arrivato Matthew, e si sentiva. Non la smetteva di parlare, tanto era agitato.

«Vabbé, vado ad aiutare gli altri a sistemare tutto. Vi lascio soli...» e si allontanò lanciandoci uno sguardo per nulla incoraggiante.

Brian fece per prendermi la mano, ma io la scostai.

«Senti, io vado a riposarmi, ho un mal di testa terribile. Ci vediamo dopo, ok?» e mi allontanai, lasciando Brian piuttosto deluso.

 

Mentre percorrevo il lungo corridoio, una decina di persone mi fermarono per complimentarsi con me, ma io li liquidai in malo modo.

Non avrei voluto. Io stessa avrei preferito restare là fuori insieme agli altri a brindare al successo dell'ultimo concerto del nostro tour.

L'Unspoken Tour.

Tentai di ripercorrere brevemente con la memoria la nostra storia, ma quel maledetto mal di testa me lo impediva.

Finalmente raggiunsi il mio camerino. Prima di entrare, d'istinto lessi la scritta sul cartoncino appeso alla porta: Victoria Wood changing room.

Il pomello girò con un sonoro clack.

Il camerino era piuttosto spoglio. C'erano solo un tavolo da toilette con uno specchio sbeccato, un armadietto marrone dalla ante cigolanti, un vecchio orologio da parete bianco e nero e un divanetto rosso e lucido.

Frugai nel mio beauty, incastrato in un cassetto della toilette, e ingoiai una pastiglia contro il mal di testa. Poi mi stesi sul divanetto; non mi diedi neanche la pena di coprirmi, tanto ero stanca.

Diedi un'occhiata all'orologio: era mezzanotte e mezzo.

¨Mi riposerò solo un attimo, solamente il tempo necessario a mandare via il dolore¨ pensai.

Ma mi addormentai profondamente.

 

Toc toc toc.

Mi svegliai di soprassalto. Qualcuno stava bussando..

«Vic, sono io..Brian!»

«Ah..entra pure»

Mentre lui apriva e richiudeva la porta, io mi misi seduta.

Gettai uno sguardo all'orologio bianco e nero: avevo dormito quasi due ore e mezzo!

«Salve, Bella Addormentata» mi salutò Brian con un gran sorriso. «Hai dormito parecchio, eh? Almeno ti senti meglio adesso?» mi chiese.

«Sì, grazie, il dolore è passato» risposi, ricambiando il sorriso.

Brian mi si avvicinò lentamente, poi si sedette sul divanetto di fianco a me.

Mi voltai verso di lui sovrappensiero e mi accorsi che mi stava fissando.

Avvicinò lentamente la testa per poi poggiare le sue labbra sul mio collo. Sempre molto lentamente, la sua bocca si avvicinò alla mia. Assaporai le sue labbra, erano dolci.

Lasciandomi trasportare, poggiai delicatamente una mano sulla sua nuca, e cominciai a baciarlo con passione.

Brian mi aveva appena sollevato il bordo della maglietta, quando improvvisamente venni scossa da un pensiero.

«Oddio, ho dimenticato di chiamare mio padre! - esclamai scattando in piedi -, sarà in pensiero a quest'ora! E il cellulare è ancora spento! Cazzo, cazzo, cazzo!» feci, frugando nella mia borsa in preda all'agitazione.

«Stai tranquilla, vedrai che non se ne sarà nemmeno accorto» disse Brian, che probabilmente si chiedeva il perché fossi così in ansia.

Afferrai il telefono e lo accesi.

 

Trovai tre chiamate perse, tutte da papà.

Lo richiamai e dopo due squilli lui rispose.

«Papà! Oddio, scusa sai...scusa se ti ho fatto stare in pensiero, comunque non è successo niente eh, stai tranquillo! Solamente, mi ero addormentata quindi non ho visto l'ora. Però tutto bene, no?»

Lo avevo letteralmente travolto con le mie parole, ero talmente agitata da non avergli lasciato il tempo di parlare.

Me ne pentii all'istante, perché sentii dei singhiozzi sommessi provenire dall'altro capo del telefono.

«P-papà?»

I singhiozzi non cessavano.

«Scusami, ti ho detto che mi ero solo addormentata! È..è successo qualcosa per caso?» chiesi, titubante.

«Vicky...mi dispiace...»

Alzai lo sguardo. Brian mi guardava preoccupato.

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è In the mourning dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione.

 

Angolo dell'autrice:

Ecco qua il primo capitolo della prima storia che scrivo. Questo racconto ha un significato speciale per me; mi sono emozionata parecchio scrivendolo, spero che anche voi proviate le stesse sensazioni. Se così non fosse, siete comunque invitati a lasciare una recensione e/o un commento, in modo che sappia anche se vale la pena continuare o no :P

a presto, Giulia

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Capitolo 2
*** Il ricordo ***


 

CAPITOLO 2
Il ricordo
After everything has changed,
'cause you remind me of a time
when we were so alive
do you remember that?
«Nonna Faith..è...è in coma» riuscì a dire tra i singhiozzi. «I medici credono sia stata colpa del diabete...l'abbiamo trovata io e tua madre per terra, stamattina, e..» si interruppe, provato dall'emozione.
Le lacrime cominciarono a rigarmi il viso, scendevano lente.
«Ci farebbe piacere se riuscissi a venire al più presto. Forse si riprenderà se...se ci sei tu». Stava quasi sussurrando.
«Certo papà...dove si trova? Prenderò il primo aereo per Denver, domattina» dissi decisa.
«Siamo al St Joseph. Ti aspettiamo, noi...siamo quasi sempre qui» rispose, affranto.
«Ok. Ciao papà, a presto. Ah, ehm...ti voglio bene», ma lui aveva già riattaccato.
Il cellulare cadde a terra con un rumore sordo mentre mi tuffavo tra le braccia di Brian, che nel frattempo era rimasto seduto, immobile.
Il suo bel maglione color verde petrolio cominciò ad  inzupparsi di lacrime e a sporcarsi di mascara. Sentivo le sue mani accarezzarmi la testa dolcemente, lo sentivo sussurrare «Sshh, va tutto bene..tranquilla».
Dio solo sa quanto avrei voluto sollevare la testa, guardarlo negli occhi e dirgli quanto fosse importante per me il fatto che ci fosse lui lì, a consolarmi. Tuttavia non lo feci. Rimasi lì, con la fronte appoggiata alla sua spalla per un tempo interminabile, aspettando pazientemente che le lacrime, imperterrite, smettessero di sgorgare.
Quella notte dormii malissimo.
Feci un incubo: io e Brian ci trovavamo a casa mia, lui era molto arrabbiato. Urlava, incolpandomi della situazione di mia nonna. Diceva che ero stata io, con la mia arroganza e i miei problemi a farla ammalare. Allora io scendevo le scale in tutta fretta cercando i miei genitori, volevo il loro conforto, ma invece di consolarmi, loro mi puntavano il dito contro. Sconvolta, uscivo di casa, e correvo a perdifiato. Lungo la strada incontravo prima David, e poi Luke e poi Matthew, e tutti gridavano a squarciagola “È colpa sua!”, indicandomi e facendo voltare tutti i passanti. Così continuavo a correre, col cuore che mi martellava nel petto, fino all'entrata del parco....e lì mi svegliai.
Avevo il batticuore, ed ero madida di sudore. Scostai la coperta di pile e mi misi seduta, con le mani tra i capelli. 
Io e i ragazzi ci trovavamo in una lussuosa stanza d'albergo, e a giudicare dalla quantità di luce che filtrava attraverso le finestre, doveva essere ormai l'alba.
Cercai con lo sguardo Brian, speranzosa, quando mi ricordai che lui dormiva assieme a Matthew, dietro una parete oltre la quale non riuscivo a vedere. Realizzai di non avere più sonno, perciò cominciai silenziosamente a sistemare l'occorrente per l'imminente partenza. Sarei partita alle dieci dall'aeroporto di Berlino, e avrei viaggiato sola. Questo pensiero mi rattristò moltissimo, ma mi imposi di non pensarci, e di preoccuparmi invece a godermi le ultime ore in Europa, in compagnia dei ragazzi.
In effetti la mattinata trascorse piuttosto velocemente, forse fin troppo. Facemmo colazione insieme, e come al solito Luke e Matt fecero gli scemi lanciando molliche di pane da una parte all'altra del ristorante. Più tardi, tutti optarono per un paio di tuffi in piscina, tutti tranne me e Brian, che invece volle accompagnarmi in camera. Salutai i ragazzi, che furono molto gentili nell'augurarmi buona fortuna, e mi recai al piano superiore assieme a Brian.
Effettuai un controllo dell'ultimo minuto, assicurandomi di non aver dimenticato nulla, e chiamai un taxi, che mi avrebbe scortata fino all'aeroporto.
Brian era in piedi, di fronte a me, lo sguardo assente.
Mi restavano solamente pochi minuti, poi non l'avrei visto per un po', e se c'era una cosa di cui ero certa, era che mi sarebbe mancato moltissimo, indipendentemente dal tempo che avrei trascorso lontana da lui.
Mi avvicinai a lui e lo strinsi in un abbraccio fortissimo. Brian voltò il viso verso il mio e mi baciò. Capii che quei gesti significavano molto per entrambi: non erano necessarie le parole per comunicare, non più. 
Mi avvicinai alla finestra e scostai la tenda per osservare la strada.
«Il taxi è arrivato, io vado...» dissi.
«A presto, Vic. Mi telefonerai quando sarai arrivata a Denver, vero? Guarda che ci conto, eh...»
«Ma certo che ti chiamerò – risposi, soffocando una risatina,- non farai nemmeno in tempo a sentire la mia mancanza, ci rivedremo presto, prestissimo!».
Mi caricai lo zaino in spalla, afferrai la maniglia del trolley ed uscii in corridoio. Mentre mi allontanavo verso l'ascensore, che si trovava dalla parte opposta del piano, gettai qualche rapida occhiata alla porta della nostra camera: Brian era ancora lì, mi seguiva con lo sguardo.
Entrai in ascensore, le porte si chiusero e lui scomparve dalla mia vista.
L'aeroporto era gremito di gente.
Ora che ci pensavo, era davvero buffo sentir parlare tante lingue diverse in un solo luogo, senza riuscire a capirne praticamente neanche una. 
Una donna vestita di rosso dall'aspetto rude mi urtò, facendomi quasi perdere l'equilibrio.
Trascinai con fatica i miei bagagli fino al nastro del check-in. Dopo essermi informata su dove dovessi andare, mi avviai fino all'aereo giusto, e mi imbarcai.
Camminai veloce lungo il corridoio, finché non trovai il posto assegnatomi, e mi accomodai. Dopo qualche minuto, arrivò un ragazzo che si sedette di fianco a me: aveva i capelli rossi, gli occhi azzurri e il viso tempestato di lentiggini, e indossava un maglione verde che pareva essere di due taglie più grandi del necessario. Mi salutò cortesemente, ed io ricambiai, dopodiché mi voltai verso il finestrino e mi rilassai. Era così strano sapere di essere in viaggio verso casa. Non riuscivo ancora a credere che nonna Faith stesse male; ero talmente scioccata da non rendermene conto: per me, lei era ancora sana, così come l'avevo sempre vista. Ma avevo comunque paura. Temevo di non riuscire a riconoscerla, o che lei fosse troppo diversa fisicamente da come la ricordavo.
Però non potevo tirarmi indietro, dovevo vederla, dovevo essere con lei in quel momento così triste per dirle, se fosse stato necessario, quanto fosse stata importante per me.
Il fatto è che non sono mai stata una ragazza semplice, comune forse, ma non semplice.
Il mio stesso nome lo rivela, così come il mio aspetto fisico.
Victoria è uno dei nomi più diffusi negli Stati Uniti, inoltre i miei capelli sono mossi e castani, quindi non proprio inusuali. Forse i miei occhi, che sono verdi, sono l'unica cosa che mi piace veramente di me.
Molti aspetti del mio carattere hanno allontanato alcune persone e ne hanno avvicinate altre.
Alle scuole elementari ero la bambina più timida di tutte, e spesso le maestre scambiavano per presunzione quella che in realtà era semplice insicurezza. Le altre bambine mi accettavano a fatica nei loro gruppi di gioco: come potevo giocare alle bambole con loro quando il mio passatempo preferito era quello di fare la lotta coi maschi?
In effetti non sono mai stata troppo femminile, ora che ci penso. All'età di dodici anni, le mie compagne di classe erano già tutte piccole donne, con le loro forme e i loro pensieri maturi: io ero magra come un chiodo e indossavo solo felpe extra-large e jeans strappati. Loro nel tempo libero uscivano, andavano al cinema e facevano shopping. Io ascoltavo musica e disegnavo, nella solitudine della mia cameretta. Potrà sembrare strano, ma ho sempre preferito la compagnia delle voci dei miei cantanti preferiti rispetto a quella dei miei coetanei. I miei cd erano sempre lì, con le loro parole e melodie adatte ad ogni mio stato d'animo; i ragazzi erano superficiali, strafottenti e menefreghisti.
In particolare, nutrivo una smodata passione per una band, i Paramore.
Le loro canzoni mi emozionavano come niente prima d'allora. Amavo tutto di quel gruppo: dalla potente voce di Hayley Williams ai suoi fiammanti capelli rossi, dal carisma di Jeremy alla simpatia di Josh e Zac. Non passava giorno in cui non li ascoltassi: in autobus, durante l'intervallo a scuola, mentre facevo la doccia... potrebbe sembrare strano in effetti idolatrare in questo modo un gruppo musicale; il fatto è che per me loro non erano un semplice gruppo musicale. Erano i miei migliori amici, coloro sui quali avrei sempre potuto contare; oltre nonna Faith, ovviamente.
Comunque, il mio interesse per la musica si tramutò in passione solo quando, insieme alla mia migliore amica, decisi di iscrivermi ad un corso di chitarra che si sarebbe tenuto nella mia scuola. Avevo dodici anni e tanti sogni da realizzare. Durante quel corso, oltre a suonare, il nostro professore ci insegnò anche a cantare. Lui, che era un uomo fantastico in tutti i sensi, un giorno mi disse che secondo lui quella era la mia strada, e che con un po' di studio avrei fatto grandi progressi. Lì mi si aprì un mondo. Mi resi conto che quando cantavo il mondo non esisteva più. C'eravamo solo io e la mia voce, protagoniste indiscusse di un'esistenza in cui ero io la più spavalda, la più simpatica, la meno timida di tutti. Quella sensazione di onnipotenza però, purtroppo, non durava a lungo, in quanto l'atmosfera a casa mia era alquanto tesa. I miei genitori erano sempre in contrasto e a causa di tutta la rabbia che accumulavano durante la giornata, ero io quella che ci rimetteva. Non dimenticherò mai le continue sgridate, i litigi, le botte. In quei momenti mio padre mi guardava furioso con gli occhi sgranati, e niente e nessuno poteva fermarlo quando decideva di punirmi. Mia madre è sempre stata molto remissiva, ha sempre obbedito agli ordini di mio padre senza mai opporre resistenza. La mia unica colpa era quella di avere sempre la testa tra le nuvole. Lui è una persona così razionale da non essere mai riuscito a comprendermi per davvero.
Ma ecco che lì c'era lei, la nonna.
Il rapporto che avevo con mio papà era esattamente l'opposto di quello che condividevo con lei.
Nonna Faith abitava nell'appartamento sotto il nostro, a Denver, assieme a mio nonno.
Ogni sera prima di andare a dormire, scendevo le scale tutta eccitata e restavo assieme a lei per quello che mi sembrava sempre troppo poco tempo. Insieme guardavamo la televisione, ricamavamo, collezionavamo figurine e giocavamo a carte. Ricordo ancora mio nonno Philip, che se ne stava spaparanzato sulla sua poltrona di pelle nera e ci guardava soddisfatto da un angolo del salotto. Ogni qualvolta mio padre mi sgridava, io sapevo di poter contare su mia nonna. Scappavo via da lui correndo, in lacrime, e allora lei allungava le braccia verso di me e mi faceva sedere sulle sue ginocchia, sussurrandomi dolcemente: «Non ti preoccupare. Qualsiasi cosa succeda, tu sai di poter contare su di me». Ed io sapevo che era la pura verità.
La musica e mia nonna erano i miei punti di riferimento, la luce alla quale potevo affidarmi nei momenti più bui.
Non vedo l'ora di arrivare a Denver. Non ce... la faccio... più...
Sbarrai gli occhi, e la luce abbagliante dei neon mi accecò. Mi ero addormentata profondamente. Sentii la voce stridula della hostess e il cigolio delle ruote del carrello che avanzava lungo il corridoio. Ormai era pomeriggio inoltrato: avevo saltato il pranzo ed ero affamatissima.
Mangiai con appetito e sfogliai una rivista nella quale trovai un piccolo articolo che parlava di noi. Il ragazzo dai capelli rossi seduto accanto a me estrasse un lettore mp3 da una tasca dei jeans strappati, il che mi fece ricordare che anch'io avevo con me l'iPod. Lo cercai nella tasca della giacca e ascoltai i Paramore per un paio d'ore. Il resto del tempo trascorse piuttosto lentamente; ormai ero esausta e non vedevo l'ora di atterrare. Finalmente, dopo quello che parve un tempo interminabile, il comandante annunciò l'imminente atterraggio nell'aeroporto di Denver. Eccitata ma al tempo stesso timorosa, mi preparai a scendere. Camminando velocemente, cercai i miei bagagli sul nastro: per fortuna c'erano ancora tutti. Mi sentivo leggermente più tranquilla, ma non troppo: di lì a pochi minuti avrei rivisto mio padre, Sean, dopo molto tempo. Feci scorrere il mio trolley rosso lungo il vasto salone dell'aeroporto, fino a trovarmi sulla soglia affollata. Allungai il collo sperando di intravedere un viso familiare. Eccolo. Mio padre mi stava aspettando, in piedi, con la schiena appoggiata alla parete grigio opaco dell'edificio. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, i suoi capelli sembravano più bianchi dell'ultima volta, il viso pareva stanco. Indossava un parka color verde militare e un paio di pantaloni marroni. Lentamente, facendomi largo tra la folla, mi avvicinai a lui.
«Papà?» lo chiamai con voce flebile. Non ero sicura mi avesse sentita.
Ma lui alzò il capo e mi fissò dritto negli occhi, e un radioso sorriso gli si dipinse in volto.
«Ciao, Vic»
Lo presi a braccetto e, insieme, ci incamminammo verso il taxi, che ci stava aspettando sul ciglio della strada trafficata.
Non era necessario parlare; entrambi capimmo quanto l'altro fosse felice di trovarsi lì, in quel preciso momento.

After everything has changed,

'cause you remind me of a time

when we were so alive

do you remember that?

 

 

«Nonna Faith..è...è in coma» riuscì a dire tra i singhiozzi.

«I medici credono sia stata colpa del diabete...l'abbiamo trovata io e tua madre per terra, stamattina, e..» si interruppe, sopraffatto dall'emozione. 

Le lacrime cominciarono a rigarmi il viso, scendevano lente.

«Ci farebbe piacere se riuscissi a venire al più presto. Forse si riprenderà se...se ci sei tu». Stava quasi sussurrando.

«Certo papà...dove si trova? Prenderò il primo aereo per Denver, domattina» dissi decisa.

«Siamo al St Joseph. Ti aspettiamo, noi...siamo quasi sempre qui» rispose, affranto.

«Ok. Ciao papà, a presto. Ah, ehm...ti voglio bene», ma lui aveva già riattaccato.

Il cellulare cadde a terra con un rumore sordo mentre mi tuffavo tra le braccia di Brian, che nel frattempo era rimasto seduto, immobile. Il suo bel maglione color verde petrolio cominciò ad  inzupparsi di lacrime e a sporcarsi di mascara. Sentivo le sue mani accarezzarmi la testa dolcemente, lo sentivo sussurrare «Sshh, va tutto bene..tranquilla».

Dio solo sa quanto avrei voluto sollevare la testa, guardarlo negli occhi e dirgli quanto fosse importante per me il fatto che ci fosse lui lì, a consolarmi. Tuttavia non lo feci. Rimasi lì, con la fronte appoggiata alla sua spalla per un tempo interminabile, aspettando pazientemente che le lacrime, imperterrite, smettessero di sgorgare.



Quella notte dormii malissimo. Feci un incubo: io e Brian ci trovavamo a casa mia, lui era molto arrabbiato. Urlava, incolpandomi della situazione di mia nonna. Diceva che ero stata io, con la mia arroganza e i miei problemi a farla ammalare. Allora io scendevo le scale in tutta fretta cercando i miei genitori, volevo il loro conforto, ma invece di consolarmi, loro mi puntavano il dito contro. Sconvolta, uscivo di casa, e correvo a perdifiato. Lungo la strada incontravo prima David, e poi Luke e poi Matthew, e tutti gridavano a squarciagola “È colpa sua!”, indicandomi e facendo voltare tutti i passanti. Così continuavo a correre, col cuore che mi martellava nel petto, fino all'entrata del parco....e lì mi svegliai.

Avevo il batticuore, ed ero madida di sudore. Scostai la coperta di pile e mi misi seduta, con le mani tra i capelli. Io e i ragazzi ci trovavamo in una lussuosa stanza d'albergo, e a giudicare dalla quantità di luce che filtrava attraverso le finestre, doveva essere ormai l'alba. Cercai con lo sguardo Brian, speranzosa, quando mi ricordai che lui dormiva assieme a Matthew, dietro una parete oltre la quale non riuscivo a vedere. Realizzai di non avere più sonno, perciò cominciai silenziosamente a sistemare l'occorrente per l'imminente partenza. Sarei partita alle dieci dall'aeroporto di Berlino, e avrei viaggiato sola. Questo pensiero mi rattristò moltissimo, ma mi imposi di non pensarci, e di preoccuparmi invece a godermi le ultime ore in Europa, in compagnia dei ragazzi.

In effetti la mattinata trascorse piuttosto velocemente, forse fin troppo. Facemmo colazione insieme, e come al solito Luke e Matt fecero gli scemi lanciando molliche di pane da una parte all'altra del ristorante. Più tardi, tutti optarono per un paio di tuffi in piscina, tutti tranne me e Brian, che invece volle accompagnarmi in camera. Salutai i ragazzi, che furono molto gentili nell'augurarmi buona fortuna, e mi recai al piano superiore assieme a Brian.Effettuai un controllo dell'ultimo minuto, assicurandomi di non aver dimenticato nulla, e chiamai un taxi, che mi avrebbe scortata fino all'aeroporto.



Brian era in piedi, di fronte a me, lo sguardo assente.Mi restavano solamente pochi minuti, poi non l'avrei visto per un po', e se c'era una cosa di cui ero certa, era che mi sarebbe mancato moltissimo, indipendentemente dal tempo che avrei trascorso lontana da lui.Mi avvicinai a lui e lo strinsi in un abbraccio fortissimo. Brian voltò il viso verso il mio e mi baciò. Capii che quei gesti significavano molto per entrambi: non erano necessarie le parole per comunicare, non più. Mi avvicinai alla finestra e scostai la tenda per osservare la strada.«Il taxi è arrivato, io vado...» dissi.

«A presto, Vic. Mi telefonerai quando sarai arrivata a Denver, vero? Guarda che ci conto, eh...»

«Ma certo che ti chiamerò – risposi, soffocando una risatina,- non farai nemmeno in tempo a sentire la mia mancanza, ci rivedremo presto, prestissimo!».

Mi caricai lo zaino in spalla, afferrai la maniglia del trolley ed uscii in corridoio. Mentre mi allontanavo verso l'ascensore, che si trovava dalla parte opposta del piano, gettai qualche rapida occhiata alla porta della nostra camera: Brian era ancora lì, mi seguiva con lo sguardo. Entrai in ascensore, le porte si chiusero e lui scomparve dalla mia vista.



L'aeroporto era gremito di gente.Ora che ci pensavo, era davvero buffo sentir parlare tante lingue diverse in un solo luogo, senza riuscire a capirne praticamente neanche una. Una donna vestita di rosso dall'aspetto rude mi urtò, facendomi quasi perdere l'equilibrio. Trascinai con fatica i miei bagagli fino al nastro del check-in. Dopo essermi informata su dove dovessi andare, mi avviai fino all'aereo giusto, e mi imbarcai.

Camminai veloce lungo il corridoio, finché non trovai il posto assegnatomi, e mi accomodai. Dopo qualche minuto, arrivò un ragazzo che si sedette di fianco a me: aveva i capelli rossi, gli occhi azzurri e il viso tempestato di lentiggini, e indossava un maglione verde che pareva essere di due taglie più grandi del necessario. Mi salutò cortesemente, ed io ricambiai, dopodiché mi voltai verso il finestrino e mi rilassai.  

Era così strano sapere di essere in viaggio verso casa. Non riuscivo ancora a credere che nonna Faith stesse male; ero talmente scioccata da non rendermene conto: per me, lei era ancora sana, così come l'avevo sempre vista. Ma avevo comunque paura. Temevo di non riuscire a riconoscerla, o che lei fosse troppo diversa fisicamente da come la ricordavo.Però non potevo tirarmi indietro, dovevo vederla, dovevo essere con lei in quel momento così triste per dirle, se fosse stato necessario, quanto fosse stata importante per me.



Il fatto è che non sono mai stata una ragazza semplice, comune forse, ma non semplice. Il mio stesso nome lo rivela, così come il mio aspetto fisico. Victoria è uno dei nomi più diffusi negli Stati Uniti, inoltre i miei capelli sono mossi e castani, quindi non proprio inusuali. Forse i miei occhi, che sono verdi, sono l'unica cosa che mi piace veramente di me. Molti aspetti del mio carattere hanno allontanato alcune persone e ne hanno avvicinate altre. Alle scuole elementari ero la bambina più timida di tutte, e spesso le maestre scambiavano per presunzione quella che in realtà era semplice insicurezza. Le altre bambine mi accettavano a fatica nei loro gruppi di gioco: come potevo giocare alle bambole con loro quando il mio passatempo preferito era quello di fare la lotta coi maschi?In effetti non sono mai stata troppo femminile, ora che ci penso.

All'età di dodici anni, le mie compagne di classe erano già tutte piccole donne, con le loro forme e i loro pensieri maturi: io ero magra come un chiodo e indossavo solo felpe extra-large e jeans strappati. Loro nel tempo libero uscivano, andavano al cinema e facevano shopping. Io ascoltavo musica e disegnavo, nella solitudine della mia cameretta. Potrà sembrare strano, ma ho sempre preferito la compagnia delle voci dei miei cantanti preferiti rispetto a quella dei miei coetanei. I miei cd erano sempre lì, con le loro parole e melodie adatte ad ogni mio stato d'animo; i ragazzi erano superficiali, strafottenti e menefreghisti.In particolare, nutrivo una smodata passione per una band, i Paramore.

Le loro canzoni mi emozionavano come niente prima d'allora. Amavo tutto di quel gruppo: dalla potente voce di Hayley Williams ai suoi fiammanti capelli rossi, dal carisma di Jeremy alla simpatia di Josh e Zac. Non passava giorno in cui non li ascoltassi: in autobus, durante l'intervallo a scuola, mentre facevo la doccia... potrebbe sembrare strano in effetti idolatrare in questo modo un gruppo musicale; il fatto è che per me loro non erano un semplice gruppo musicale. Erano i miei migliori amici, coloro sui quali avrei sempre potuto contare; oltre nonna Faith, ovviamente.


Comunque, il mio interesse per la musica si tramutò in passione solo quando, insieme alla mia migliore amica, decisi di iscrivermi ad un corso di chitarra che si sarebbe tenuto nella mia scuola. Avevo dodici anni e tanti sogni da realizzare. Durante quel corso, oltre a suonare, il nostro professore ci insegnò anche a cantare. Lui, che era un uomo fantastico in tutti i sensi, un giorno mi disse che secondo lui quella era la mia strada, e che con un po' di studio avrei fatto grandi progressi. Lì mi si aprì un mondo. Mi resi conto che quando cantavo il mondo non esisteva più. C'eravamo solo io e la mia voce, protagoniste indiscusse di un'esistenza in cui ero io la più spavalda, la più simpatica, la meno timida di tutti. Quella sensazione di onnipotenza però, purtroppo, non durava a lungo, in quanto l'atmosfera a casa mia era alquanto tesa. I miei genitori erano sempre in contrasto e a causa di tutta la rabbia che accumulavano durante la giornata, ero io quella che ci rimetteva. Non dimenticherò mai le continue sgridate, i litigi, le botte. In quei momenti mio padre mi guardava furioso con gli occhi sgranati, e niente e nessuno poteva fermarlo quando decideva di punirmi. Mia madre è sempre stata molto remissiva, ha sempre obbedito agli ordini di mio padre senza mai opporre resistenza. La mia unica colpa era quella di avere sempre la testa tra le nuvole. Lui è una persona così razionale da non essere mai riuscito a comprendermi per davvero.



Ma ecco che lì c'era lei, la nonna. Il rapporto che avevo con mio papà era esattamente l'opposto di quello che condividevo con lei. Nonna Faith abitava nell'appartamento sotto il nostro, a Denver, assieme a mio nonno.

Ogni sera prima di andare a dormire, scendevo le scale tutta eccitata e restavo assieme a lei per quello che mi sembrava sempre troppo poco tempo. Insieme guardavamo la televisione, ricamavamo, collezionavamo figurine e giocavamo a carte. Ricordo ancora mio nonno Philip, che se ne stava spaparanzato sulla sua poltrona di pelle nera e ci guardava soddisfatto da un angolo del salotto. Ogni qualvolta mio padre mi sgridava, io sapevo di poter contare su mia nonna. Scappavo via da lui correndo, in lacrime, e allora lei allungava le braccia verso di me e mi faceva sedere sulle sue ginocchia, sussurrandomi dolcemente: «Non ti preoccupare. Qualsiasi cosa succeda, tu sai di poter contare su di me». Ed io sapevo che era la pura verità. La musica e mia nonna erano i miei punti di riferimento, la luce alla quale potevo affidarmi nei momenti più bui. Non vedo l'ora di arrivare a Denver. Non ce... la faccio... più...



Sbarrai gli occhi, e la luce abbagliante dei neon mi accecò. Mi ero addormentata profondamente.

Sentii la voce stridula della hostess e il cigolio delle ruote del carrello che avanzava lungo il corridoio. Ormai era pomeriggio inoltrato: avevo saltato il pranzo ed ero affamatissima. Mangiai con appetito e sfogliai una rivista nella quale trovai un piccolo articolo che parlava di noi. Il ragazzo dai capelli rossi seduto accanto a me estrasse un lettore mp3 da una tasca dei jeans strappati, il che mi fece ricordare che anch'io avevo con me l'iPod. Lo cercai nella tasca della giacca e ascoltai i Paramore per un paio d'ore.

Il resto del tempo trascorse piuttosto lentamente; ormai ero esausta e non vedevo l'ora di atterrare. Finalmente, dopo quello che parve un tempo interminabile, il comandante annunciò l'imminente atterraggio nell'aeroporto di Denver. Eccitata ma al tempo stesso timorosa, mi preparai a scendere. Camminando velocemente, cercai i miei bagagli sul nastro: per fortuna c'erano ancora tutti. Mi sentivo leggermente più tranquilla, ma non troppo: di lì a pochi minuti avrei rivisto mio padre, Sean, dopo molto tempo. Feci scorrere il mio trolley rosso lungo il vasto salone dell'aeroporto, fino a trovarmi sulla soglia affollata. Allungai il collo sperando di intravedere un viso familiare. Eccolo. Mio padre mi stava aspettando, in piedi, con la schiena appoggiata alla parete grigio opaco dell'edificio. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, i suoi capelli sembravano più bianchi dell'ultima volta, il viso pareva stanco. Indossava un parka color verde militare e un paio di pantaloni marroni. Lentamente, facendomi largo tra la folla, mi avvicinai a lui.

«Papà?» lo chiamai con voce flebile. Non ero sicura mi avesse sentita.

Ma lui alzò il capo e mi fissò dritto negli occhi, e un radioso sorriso gli si dipinse in volto.

«Ciao, Vic»

Lo presi a braccetto e, insieme, ci incamminammo verso il taxi, che ci stava aspettando sul ciglio della strada trafficata. Non era necessario parlare; entrambi capimmo quanto l'altro fosse felice di trovarsi lì, in quel preciso momento.

 

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è Franklin dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, ad eccezione dei Paramore.

 

Angolo dell'autrice:

Ciao a tutti, eccomi qua con il secondo capitolo della storia! :) Stavolta ho avuto qualche problema con l'impaginazione, per cui mi scuso se alcuni paragrafi sono confusionari.

Spero vi piaccia! Come sempre, i commenti e le recensioni sono super gradite, ovviamente anche le critiche, purché siano costruttive :D

a presto!

Giulia

ps: grazie mille a chi ha recensito il primo capitolo e mi ha spronato a continuare!



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Capitolo 3
*** Il ritorno ***


And here we go again
With all the things we said
And not a minute spent
to think that we'd regret
So we just take it back


Le luci della città sfrecciavano veloci fuori dal finestrino. I colori si fondevano in unico vortice luminoso mentre, distratta, fissavo il paesaggio davanti a me.

Pensai che ormai non doveva mancare molto.

Una musichetta risuonò improvvisamente nell'abitacolo, e il tassista trasalì impercettibilmente. Mio padre si affrettò a cercare il cellulare nella tasca interna del parka, dopodiché rispose, quasi con il fiatone.

«Pronto? Ah, ciao Mary...sì, sì, stiamo arrivando. Tra dieci minuti saremo lì... Ciao». Riattaccò e infilò il cellulare nella tasca dei jeans.

«Era la mamma – mi disse -, dice che non vede l'ora di vederti.»

«È così anche per me» dissi sorridendo. Lui ricambiò il sorriso. Sembrava stanco, ma era sicuramente sincero.

I profili delle case a me familiari cominciarono a stagliarsi in lontananza. Il tassista imboccò una stradina ghiaiata, ed io provai una strana sensazione allo stomaco, sentivo come un nodo che non accennava a sparire. Di lì a pochi secondi sarei tornata a casa. La mia vecchia casa, dove avevo trascorso tutta la mia infanzia e la mia adolescenza.

«Eccoci arrivati. Sono 26 dollari e 65 centesimi. Grazie». Mio padre allungò al tassista alcune banconote ed uscì sbattendo forte la portiera. Io rimasi immobile per un attimo, intenta a fissare quel luogo che mi era tanto mancato. Dovevo essere soprappensiero da un po' di tempo, perché ad un certo punto il tassista tossicchiò spazientito, così mi affrettai a scendere.

 

Mio padre mi stava aspettando sul ciglio della strada con le valigie. Ci incamminammo insieme lungo il vialetto fino alla porta di casa. Il giardino era esattamente come lo ricordavo, da quando ero partita erano stati piantati solamente alcuni alberelli dalle foglie rosse, che in quel momento ondeggiavano dolcemente, smosse da un leggero venticello.

La porta si aprì d'un colpo e dall'interno fece capolino una figura magra, vestita di blu. Sorridendo mi corse incontro e mi abbracciò stringendomi un po' troppo forte.

«Ehi, mamma...piano..»

Mia madre è una donna molto magra, abbastanza alta; ha capelli color biondo cenere e gli occhi nocciola, la bocca sottile e la pelle chiara.

«Scusa tesoro, scusa...- disse, allentando la presa -, come stai? Tutto bene? Avevo così tanta voglia di vederti...dài, Sean, entrate, venite che inizia a far fresco...»

 

Faceva caldo in casa. La luce diffusa dal lampadario a forma di fiore gettava tante ombre spigolose sulle pareti color giallo uovo del pianerottolo.

«Mamma, dov'è Josh?»

«Ah, è fuori con i suoi amici. Tra poco dovrebbe tornare, comunque».

Josh era mio fratello. Aveva 18 anni, ed era sempre stato un ragazzo molto vivace. Mi mancava molto.

Mi sfilai il cappotto, lo appesi all'attaccapanni dietro la porta e cominciai a guardarmi intorno. I miei genitori mi fissavano mentre, curiosa, esploravo il piano terra della casa. Sulla destra si trovava il salotto, che era pressoché uguale a come lo ricordavo. La pelle del divano era stata cambiata; non era più blu ma rossa. Alcuni nuovi quadri erano stati appesi alle pareti. Una lampada a neon illuminava la stanza in modo innaturale. Il nostro mobile antico troneggiava sulla parete di fronte alla porta; sulle numerose mensole erano stati sistemati tanti soprammobili e fotografie incorniciate: una ritraeva me, Josh e Brian, sorridenti, seduti al tavolino di un bar.

Mi sentivo felice: ero tornata dove tutto aveva avuto inizio. Mi avvicinai lentamente alla ringhiera della scala che portava al piano di sopra, ed esitai. Incrociai lo sguardo di mia madre, che mi incoraggiò a salire. Le mie scarpe da tennis producevano uno strano rumore sui gradini di marmo. Salii fino a raggiungere l'entrata della camera di mio fratello. Era la prima porta sulla destra; l'aprii e accesi la luce. Le pareti erano tappezzate di poster, tutti raffiguranti locandine di film, tranne uno: una foto del mio gruppo. Gli oggetti di Josh erano sparsi per tutta la stanza, un po' sul letto, un po' sul pavimento e sulla scrivania. Sorrisi, pensando che dopotutto era sempre stato molto disordinato. Camminai fino alla porta della mia stanza ed entrai. Era esattamente come l'avevo lasciata prima di partire per il tour: il letto era ancora fatto, le lenzuola blu perfettamente liscie. Tutti i miei vecchi libri di scuola erano accatastati sui ripiani della scrivania; tanti volti felici mi sorridevano dai poster appesi alle pareti; la mia chitarra elettrica era abbandonata in un angolo di fianco alla finestra.

Sentii la voce di mio padre che mi chiamava dal piano di sotto. Abbandonai la stanza e scesi.

«Ehi, Vic...domattina quando ci svegliamo andiamo a fare visita alla nonna, va bene? Adesso vai pure a risposarti, la valigia la porto su io» disse mio padre.

Io feci un debole cenno con la testa, e risalii le scale. Mi rendevo conto solo ora di essere stanchissima; il viaggio doveva avermi stressato molto. Mio papà stava salendo le scale a fatica, reggendo il mio trolley e il beauty case.

«Vic, il beauty lo metto di fianco al lavandino, okay?» e così dicendo sparì nell'oscurità del bagno.

Mentre cominciavo a spogliarmi, mio padre entrò in camera mia con il trolley. Imbarazzata, mi coprii velocemente con la maglietta che mi ero appena tolta.

«Ehm, scusa..fai pure con comodo. Ci vediamo domani, buonanotte» disse, avvicinandosi per baciarmi sulla guancia. Uscì dalla mia camera e sparì giù dalle scale.

Mi preparai e mi lavai molto velocemente; non vedevo l'ora di stendermi e dormire. Quando finalmente i miei piedi freddi toccarono le lenzuola morbide, un brivido mi percorse la schiena. Soddisfatta, mi voltai verso il muro e chiusi gli occhi.

Dopo qualche minuto sentii la porta aprirsi, e dei passi farsi sempre più forti. Capii che doveva essere mia madre perché sentii che una voce familiare mi sussurrava nell'orecchio: ¨Bentornata a casa Vicky. Mi sei mancata, ti voglio tanto bene.¨ Probabilmente dovevo essere nella fase del dormiveglia, perché non ricordo di essermi mossa o di aver risposto. Sprofondai in un sonno senza sogni.

 

Il mattino dopo, mi svegliai con la luce che filtrava attraverso le tende. Diedi un'occhiata alla sveglia sul comodino: erano le nove passate. Dal piano di sotto provenivano alcuni rumori, segno che i miei genitori dovevano essere già svegli. Mi alzai svogliatamente, scelsi qualche indumento comodo dalla valigia e andai in bagno a prepararmi. Dopo qualche minuto fui pronta, così scesi al piano di sotto. In effetti i miei genitori erano già pronti: mio padre era seduto a tavola, in cucina, e stava mangiando una brioche, mia madre stava preparando il caffè.

«Buongiorno!» mi salutarono entrambi non appena mi videro apparire sulla porta.

«Come ti senti? - mi chiese mia madre, porgendomi una tazzina -, ti ho appena fatto del caffè, bevi. Ah, ieri sera ha chiamato Josh...è rimasto a dormire da un amico, dice che nel pomeriggio ci raggiungerà».

«Ho capito. Sempre il solito ribelle, eh?»

Mi sedetti su uno sgabello traballante e trangugiai la mia colazione. Un attimo dopo ero in piedi, impaziente, nell'entrata.

«Hai voglia di vedere la nonna?» mi chiese mio papà in tono malinconico.

«Sì, molta.»

Era vero. Però avevo anche molta paura, ma cercai di non darlo a vedere. Quando i miei genitori furono pronti, ci infilammo i cappotti ed uscimmo di casa.

 

Mio padre guidava tranquillamente, la radio accesa trasmetteva una famosa canzone pop. Era una bella giornata di sole, e me la godetti appieno ammirando il paesaggio fuori dal finestrino.

Dopo una decina di minuti, parcheggiammo l'auto di fronte all'ospedale. Cominciavo a provare l'ormai familiare sensazione di vuoto allo stomaco. Notai che c'era un viavai incredibile di persone che entravano e uscivano indaffarate. Non appena misi piede all'interno, l'odore di disinfettante mi assalì; mi sentivo nauseata. Ci incamminammo verso l'ascensore, che era pressoché pieno di gente, e salimmo fino al terzo piano.

«È la seconda porta sulla destra» mi informò mio padre non appena le porte si aprirono.

Con il cuore che martellava veloce, mi diressi fino alla porta indicata da mio padre, dalla quale sentivo provenire alcune voci.

Quando mi trovai sulla soglia, socchiusi gli occhi per paura di quello che stavo per vedere. Improvvisamente, desideravo con tutta me stessa di trovarmi da un'altra parte; a Berlino coi ragazzi, in casa mia, qualunque posto andava bene pur di non essere lì.

Mi decisi ad affrontare la realtà e, con gli occhi bene aperti, feci il mio ingresso nella stanza luminosa.

Un solo letto era occupato. Le lenzuola candide nascondevano un fagotto, sembravano una specie di bozzolo all'interno del quale era rannicchiata una persona. Un paio di dottori, in piedi di fianco a quel letto, sollevarono lo sguardo verso di noi.

 


Credits: la canzone citata all'inizio è Here we go again dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione.

Angolo dell'autrice: ecco a voi il terzo capitolo della storia. Come sempre vi invito a recensire e a commentare! Grazie a tutti :)

Giulia

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Capitolo 4
*** La speranza ***


 

I'm not going 
cause I've been waiting for a miracle 
And I'm not leaving 
I won't let you 
Let you give up on a miracle 
Cause it might save you 



«Buongiorno signor Wood! Signora...»

Uno dei due dottori si avvicinò a noi a grandi passi, il camice bianco svolazzante. Tese una mano verso entrambi i miei genitori, li salutò e chiese loro come stessero.

«Dottor Folkner! Salve, abbastanza bene, grazie, e lei?» lo salutò mio padre.

«Non c'è male, grazie».

 

A dire la verità, non so come facessi a rendermi conto di quello che stava succedendo attorno a me, perché i miei occhi erano fissi da tempo su quel candido fagotto rannicchiato nel letto, protetto da sbarre.

«Victoria!». La voce del dottore mi fece sobbalzare, mi sentivo leggermente intorpidita.

«È da tanto che non ci vediamo....è la prima volta che vieni a trovare tua nonna, vero?» mi chiese in tono malinconico.

«Sì» risposi, e la voce mi uscì più debole di quanto avessi voluto. Ignorando a fatica gli sguardi di quattro persone che sembravano volermi perforare la pelle – non ho mai amato troppo essere al centro dell'attenzione, nonostante la mia professione – mi avvicinai al letto con le sbarre.

Il fatto era che più vedevo, e meno avrei desiderato vedere.

A quella distanza infatti, le coperte non apparivano più come un indistinto ammasso di cotone, magari lo fossero state; una persona cominciava a prendere forma al loro interno.

Pensai che se i miei genitori non mi avessero avvisata riguardo l'incidente di mia nonna e io mi fossi trovata in quella stanza d'ospedale per caso, molto probabilmente non l'avrei riconosciuta.

Nonna Faith sembrava una bambina. Non in senso estetico ovviamente, le rughe che le solcavano il viso erano ancora lì, al loro posto: era indifesa come una bambina.

I capelli erano spettinati, indossava una larga camicia da notte rosa che la faceva sembrare ancora più magra di quanto già non fosse. Le mani, scheletriche e nodose, erano strette al petto come se avesse avuto paura di venire derubata del suo gioiello preferito, quella catenina dorata che teneva ancora legata al collo.

Gli occhi erano chiusi, e fui sorpresa di notare che le labbra sottili erano tese in una sorta di malinconico sorriso.

 

Mi guardai velocemente intorno, e notai che il dottore che ci aveva salutati si era seduto in un angolo della stanza assieme ai miei genitori, mentre la dottoressa, che era rimasta zitta fino a quel momento, mi posò delicatamente una mano sulla spalla e mi disse, a bassa voce: «Ti lascio sola», e s'incamminò verso l'uscita. La porta della stanza si aprì e si richiuse con un rumore sinistro mentre i miei occhi indugiavano sui minuscoli ricami a fiori delle lenzuola, che mi sembrarono improvvisamente molto interessanti.

Gli unici suoni presenti nella stanza in quel momento erano il basso chiacchiericcio dei miei genitori e del dottore, e i vari bip dei macchinari vicini al letto.

Mi sembrava così strano trovarmi di fronte a lei, mia nonna, in silenzio.

Lei era sempre stata una persona allegra ed estroversa, e non potei fare a meno di immaginare che cosa avrebbe detto in quel momento se solo fosse stata bene.

¨Ehi, cos'è tutto questo silenzio? C'è qualcosa che non va, Vic? Dai, metti un po' di musica o accendi la tv che sicuramente a quest'ora è già iniziato il telegiornale!¨.

Ma quello era soltanto il frutto della mia immaginazione; non sapevo nemmeno se l'avrei sentita ancora la sua voce.

Due lacrime calde corsero veloci lungo il mio viso, e caddero sulle lenzuola immacolate lasciando due piccole macchie umide. Camminai verso il fondo della stanza, presi una sedia e la avvicinai al letto; mi sedetti e presi delicatamente una mano di mia nonna tra le mie. Non era particolarmente fredda, il che mi rincuorò un po'. L'ultima cosa che avrei voluto era che morisse davanti ai miei occhi; se proprio avesse dovuto andarsene, avrei preferito lo facesse lontano da me, o il dolore sarebbe stato troppo.

«Nonna, mi manchi tanto...ti prego, torna da me...» le sussurrai; le lacrime che avevano cominciato a sgorgare intensamente bagnavano le nostre mani.

«Non posso farcela senza di te. Abbiamo bisogno di te, io e Josh...lui ora non è qui ma ti vuole tanto bene, sai. Se solo potessi aprire gli occhi...». Tra le lacrime che mi offuscavano la vista mi sembrò di intravedere un movimento delle sue palpebre, ma quando alzai in fretta lo sguardo per controllare, il cuore che batteva forte, mi accorsi che era stata solo una mia impressione. La delusione mi avvolse lo stomaco in una morsa.

 

Nella stanza quasi del tutto silenziosa, un suono inopportuno rimbombò tra le pareti bianche. Mi voltai in fretta verso i miei genitori perché avevo capito che erano loro la fonte di quella musica, e infatti mia madre stava cercando disperatamente qualcosa all'interno della sua borsa, ma sembrava non trovarla. Finalmente estrasse il cellulare e rispose, la musichetta cessò nell'istante in cui lei cominciò a parlare.

«Pronto? Ah, ciao Josh. Sì...sì, siamo qui, al Saint Joseph. Ah, benissimo, vai piano però.. Terzo piano, seconda porta sulla destra. Ciao». Mia madre ripose il telefono nella tasca del cappotto poi disse, con un debole sorriso sulle labbra: «Josh sta venendo qui, dice che oggi vuole guidare lui. Sa, di solito si fa sempre portare in giro dai sui amici» aggiunse subito, rivolgendosi al dottore, che a quanto pare aveva assunto un'espressione perplessa.

 

Dopo una quindicina di minuti, la porta della stanza si aprì con il solito rumore sinistro, e una figura alta e robusta fece il suo ingresso.

«Josh! Oh, Josh...sei qui, finalmente» dissi mentre gli correvo incontro. Gli gettai le braccia al collo ed esplosi in un pianto pressoché disperato.

«Ehi, Vicky...ciao – disse sorridendo e stringendomi a sua volta – stai tranquilla, dai...ci sono io qui, adesso.»

Mio fratello era fantastico. Oltre ad essere molto carino fisicamente – era molto alto, muscoloso, aveva grossi capelli neri sempre spettinati e occhi verdi – era sempre stato molto dolce con tutti, ma soprattutto con me.

Ora aveva preso ad accarezzarmi la testa, per consolarmi. In effetti, cominciavo già a sentirmi più tranquilla.

«Eh nonna, ci hai giocato un brutto scherzo, eh? Non farlo mai più, per favore» disse sorridendo mentre si avvicinava al letto a lunghi passi.

«Ciao, Josh. Tutto bene?». Il dottore si trovava dietro di noi, e guardava mia nonna con apprensione.

«Salve dottore. Sì, tutto bene, grazie» rispose mio fratello.

«Ho saputo da tua madre che hai guidato tu fino a qui. Vedo che ce l'hai fatta, eh? Sarebbe stato brutto avere anche te ora, qui disteso.» disse il dottore, e scoppiò a ridere. Mio fratello rise di gusto a sua volta.

«Già, in effetti...».

Era bello vedere come si stessero sforzando di sdrammatizzare, in fondo non aveva senso restare lì a piangere tutto il tempo aspettando che nonna Faith si svegliasse.

«Ehi, Vic...tutto bene con Brian?». Mio fratello mi stava fissando, uno strano sorriso stampato in faccia. Probabilmente dovevo avere assunto un'espressione triste o sconsolata, perchè subito aggiunse: «Oh..è successo qualcosa per caso? Ci sono problemi?»

«No no, Josh, tranquillo, va tutto bene con Brian, e anche coi ragazzi. Sono molto soddisfatta di tutti loro, stanno facendo proprio un bel lavoro.» risposi, annuendo decisa.

«A proposito, vi ho visti la settimana scorsa in tv! - intervenne il dottor Folkner - Mia moglie ha insistito perché registrassi la trasmissione – e rise sonoramente -, ma ne è valsa la pena. Mi piacete proprio tanto, sai? E quella canzone, com'è che si chiama....Take you with me...è proprio forte!»

«È Take me with you a dire la verità» lo corressi divertita.

Era un tipo divertente il dottor Folkner.

«Ma sai che mi sembra di non averti mai chiesto una cosa?»

«Mi dica pure. Se abbiamo un po' di tempo cercherò di risponderle» e cercai automaticamente lo sguardo di mia madre, che mi fece cenno di sì con la testa.

«Com'è che è iniziato tutto con la band? Voglio dire...durante le interviste avete raccontato tante storie, ma io voglio saperne una... quella autentica, quella vera», e ammiccò.

«Oh, beh...è una lunga storia a dire la verità...»

 

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è Miracle dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione.

Angolo dell'autricevolevo ringraziare tutte le persone che leggono la mia storia e che mi fanno sempre tanti complimenti, siete troppo gentili, davvero :') vi ringrazio tanto!

Spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento! Ovviamente come sempre sono ben accette le critiche (purché costruttive) perché si può sempre migliorare.

Bene, non mi resta che dirvi di leggere, commentare, recensire ;D a presto!

Giulia

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Capitolo 5
*** L'inizio ***


God knows the world
doesn’t need another band..
(...)

I can't believe we almost hung it up,
We're just getting started!

 

 

Il dottor Folkner continuava a fissarmi con insistenza, ed io cominciai a sentirmi leggermente a disagio, anche se non sapevo bene per quale motivo.

Decisi che gli avrei raccontato la storia in modo molto veloce ed evitando di addentrarmi nei particolari: non mi andava di restare lì per troppo tempo, desideravo tornare a casa e riposare il più presto possibile. I miei genitori avevano ricominciato a chiacchierare, e Josh, mio fratello, stava fissando un punto indistinto fuori dalla finestra.

«Allora...la vera storia, eh? Beh, io avevo tredici anni, e decisi di frequentare un corso di chitarra elettrica assieme alla mia migliore amica di allora...»

Il dottore annuì, poi improvvisamente disse: «Ah, aspetta, forse ho indovinato! È lì che hai incontrato i ragazzi! Vero?»

«No, dottor Folkner, mi dispiace deluderla. In realtà ci iscrivemmo, ma eravamo solamente in quattro a lezione. C'erano un'altra ragazza di nome Julia e un ragazzo, John, che erano molto simpatici. La nostra insegnante ci fece partecipare ad uno spettacolo di musica che si tenne a teatro, qui a Denver. E lì..beh, ho conosciuto i ragazzi.»

«Dottore? La signora della camera accanto ha bisogno di lei..se potesse venire, per piacere..»

L'infermiera che poco prima era uscita dalla stanza ora era sulla porta e si affacciava timidamente.

«Oh, sì..ditele che arrivo subito, Marion.» L'infermiera annuì e sparì nel corridoio.

Il dottor Folkner mi fissò per un istante, sembrava mi volesse dire qualcosa che non riusciva a ricordare. A quanto pare cambiò idea perché pochi secondi dopo disse: «Allora, Victoria, ti devo lasciare! Ovviamente spero di rivederti presto, magari in occasione di un miglioramento», e mi fece l'occhiolino accennando al letto dove mia nonna era stesa.

«Arrivederci signori, ciao Josh! Ci vediamo» disse, stringendo la mano ai miei genitori che erano ancora presi dalla loro discussione.

« Arrivederci dottore, e grazie per tutto quello che sta facendo assieme alla sua troupe, grazie davvero.» disse mio padre mentre il dottore camminava a grandi passi verso l'uscita.

«Si figuri!» rispose Folkner, ma la sua voce era ormai un'eco lontana che si disperdeva lungo il luminoso corridoio.

 

«Adesso che fai, Vic? Torni a casa o resti qui ancora un po'? Io vado, ma tuo padre e Josh preferiscono rimanere..fai come preferisci!» mi disse mia madre alzandosi in piedi.

«Vengo con te, ho voglia di rimanere un po' a casa»

Josh mi venne incontro e mi strinse in un abbraccio affettuoso e anche un po' inaspettato. Pensai che fosse davvero incredibile quanto questo suo gesto potesse farmi sentire meglio. Lo amavo così tanto.

«Grazie, Josh» dissi, con gli occhi un po' lucidi dall'emozione.

«Ciao bella, a dopo.»

 

Salutai mio padre e mi avvicinai al letto di mia nonna.

«Ciao nonna. Adesso io devo andare, ma non ti preoccupare perché tornerò presto. Cerca di riprenderti, ok?» le sussurrai. Non mi aspettavo una vera e propria risposta, naturalmente, ma parlarle come se lei mi potesse sentire mi faceva stare meglio, mi dava un briciolo di speranza.

Mi incamminai verso la porta assieme a mia madre ed uscii in corridoio, dopodiché scendemmo al piano terra e attraversammo l'enorme parcheggio dell'ospedale in cerca della nostra auto.

Il cielo non era più sereno come quando eravamo arrivati, ora alcune nuvole oscuravano il sole e regalavano alla città un'aria misteriosa. Il viaggio in auto fu tranquillo: mia madre era abbastanza silenziosa, ma forse solo perché il suo cd preferito era in riproduzione. Mentre lei canticchiava distrattamente, io cominciai a fantasticare, o meglio, a ricordare.

 

La storia che il dottor Folkner mi aveva chiesto di raccontare non costituiva solamente un vago ricordo per me, anzi: era come impressa a fuoco nella mia memoria. Anche oggi, a distanza di anni da quella mattina, penso che quello in cui conobbi i ragazzi del gruppo fu uno dei giorni più belli ed emozionanti della mia vita.

 

La nostra insegnante, MaryJane, ci aveva giocato uno scherzo: aveva detto che sarebbe rimasta assieme a noi durante la serata, invece quando finimmo di accordare gli strumenti ci accorgemmo che lei era sparita tra il pubblico. Voleva che imparassimo ad arrangiarci, era un comportamento tipico di lei e della sua personalità eccentrica. Sul momento io, Julia e John andammo nel panico. Il teatro ormai era gremito di gente, e noi non sapevamo cosa fare né dove andare. Non dimenticate che eravamo giovani e inesperti, oltre che alquanto ingenui. John suggerì di provare a cercare un camerino di prova per gli artisti in modo da poter riprovare le nostre canzoni con un po' di tranquillità. In effetti sarebbe stata un'idea brillante, se non fosse stato per il fatto che tutti i camerini erano già occupati. Gli addetti alla sicurezza, vedendo che eravamo provvisti di strumenti, non esitarono a farci passare, ma a quel punto si poneva il problema di dove andare. Facemmo irruzione in un paio di camerini, tutti inesorabilmente occupati. Stavamo già per farci prendere dallo sconforto quando John, demoralizzato, aprì l'ennesima porta. Io e Julia ci alzammo in punta di piedi per riuscire a vedere l'interno della stanza.

«Potete restare qui, se volete! Siamo già in quattro, ma non è un problema! Venite pure dentro!».

A quanto pare qualcuno desiderava che entrassimo. Timidamente, sgusciammo all'interno.

La stanza era piccola e priva di finestre, e all'interno faceva un caldo pazzesco. Le pareti erano tinteggiate di arancione; alla mia sinistra c'erano un minuscolo divano nero e, quasi a ridosso della porta, un armadio marrone con le ante quasi completamente scardinate; mentre dalla parte opposta della stanza, un piccolo tavolo sembrava compresso in un angolo. La luce era fioca, e faceva sembrare la stanza ancora più piccola di quanto già non fosse. Mi guardai intorno e rimasi sorpresa: c'erano davvero tante – troppe – persone là dentro, o forse era solo una mia impressione data dalle dimensioni della stanza. Un ragazzo basso e magro, con i capelli scuri che gli ricadevano sugli occhi era appoggiato in piedi nell'angolo più lontano della stanza, e stava suonando qualcosa con la chitarra; era talmente concentrato su ciò che stava facendo che non alzò nemmeno gli occhi per vedere chi fosse entrato.

Altri due ragazzi erano seduti sul tavolino di cui parlavo, ma al contario del ragazzo con la chitarra, ci stavano guardando incuriositi. Uno di loro indossava una camicia a quadri nera e rossa, aveva i capelli castani dal taglio corto e un paio di bacchette in mano. L'altro, che mi colpì molto, era decisamente magro e alto, indossava una maglietta viola e aveva i capelli castani e lunghi fino alle spalle.

La mia testa cominciava a girare, mi mancava l'aria.

«Ehm...ciao» disse John, tentando di rompere il ghiaccio.

«Ciao! Siete anche voi qui per lo spettacolo, vero? Io sono David, piacere!» disse un ragazzo che prima d'allora non avevo notato, facendosi avanti e stringendo la mano a John. Io non mi sentivo affatto bene, le pareti cominciavano a ondeggiare stranamente.

«Noi dobbiamo suonare per ultimi purtroppo...è una bella rottura di palle restare qui ad aspettare!».

Il ragazzo di nome David sembrava essere l'unico propenso a fare una chiacchierata. In effetti, non la smetteva di parlare.

«Sapete, noi stasera suoniamo una canzone dei Cranberries ed una dei Guns! E voi?»

«Noi solamente una dei Sum 41, Pieces.» rispose prontamente Julia.

«Ah, comunque loro sono Matthew, Brian – e indicò i due ragazzi seduti sul tavolino – e Luke, mio fratello. È quello lì, nell'angolo, e sta provando da solo la sua parte di canzone.»

«Io invece sono John, e loro sono Julia e Victoria.»

Tutto questo era troppo per me. David non la smetteva di blaterare, ma ormai la sua voce arrivava alle mie orecchie come attutita. Persa nei miei pensieri, lanciai un'occhiata distratta verso i due ragazzi seduti sul tavolino, e vidi che quello vestito di viola mi stava fissando insistentemente; distolsi subito lo sguardo, ma non feci nemmeno in tempo a sentirmi vagamente imbarazzata che le forze mi abbandonarono e la mia testa si svuotò.

 

 

Nel buio sentivo delle voci. State zitti, lasciatemi in pace.

«Vicky? Victoria? Mi senti? Cazzo, mi sa che c'è davvero troppo caldo qua dentro. Aprite la porta..».

Era la voce di Julia. Qualcuno mi stava tenendo la testa sollevata, ed io lentamente riaprii gli occhi.

«Scusate, non mi sentivo molto bene...fa caldo» dissi, alzandomi faticosamente. Julia mi cinse i fianchi e mi aiutò a restare in piedi.

«Stai bene?»

Era stato il ragazzo vestito di viola a parlarmi. Ora era in piedi di fianco a me e mi porgeva la mano.

«Ciao, io sono Brian. Ehm..piacere di conoscerti»

«Il piacere è tutto mio, Brian»

 

 

Il resto del tempo lo strascorremmo parlando, in attesa che arrivasse il nostro turno. Io, John e Julia avevamo scoperto che noi saremmo stati i penultimi a esibirsi, quindi prima del gruppo che avevamo appena conosciuto.

Parlammo di musica, di scuola e di altre cose più o meno inutili, ma che ci permisero di conoscerci meglio gli uni con gli altri.

Dopo essermi ripresa dallo svenimento mi sentii decisamente meglio, e riuscii persino a partecipare alle conversazioni. Con il passare del tempo, notai che sia David che Brian mostravano un particolare interesse nei miei confronti, e che facevano un po' “a gara” a chi riusciva ad essere più spigliato.

Sarei una bugiarda se non ammettessi che David si fece notare venti volte più di Brian.

Nonostante questo, però, io non riuscivo a togliermi dalla testa quella voce che mi chiedeva “Stai bene?” e mi ritrovavo spesso a fissare quel viso tanto dolce, nei pochi momenti di silenzio che c'erano nella stanza.

Ovviamente, appena anche lui si voltava verso di me, io facevo finta di niente: ero troppo timida per sbilanciarmi.

Dopo un paio d'ore, finalmente fu il momento delle esibizioni.

La nostra non fu proprio un successone, eravamo molto emozionati e sbagliammo diverse cose.

Appena la canzone finì e partirono gli applausi da parte del pubblico, presi la mia chitarra e mi diressi verso le quinte, dietro le quali aspettavano i ragazzi del gruppo.

«Sei stata bravissima, complimenti» mi disse dolcemente David mentre sistemavo lo strumento.

«Grazie mille» risposi io con un sorriso.

Inconsciamente, cercai Brian lo sguardo, e lo trovai: non mi stava affatto fissando, bensì chiacchierava animatamente con Matthew e Luke. Povera illusa. Che cosa mi aspettavo, da uno che conoscevo da poco più di due ore?

 

 

Think of me when you're out, when you're out there..I'll beg you nice from my knees ..”

I miei pensieri furono interrotti improvvisamente dalla suoneria del mio telefono, che ora risuonava forte nell'abitacolo dell'auto.

«Ti decidi a rispondere? Non mi piace per niente quella canzone!» sbraitò mia madre.

«Mi dispiace mamma, ma tu di musica non te ne intendi proprio, eh.. sono i Paramore questi, e lo sai che sono il mio gruppo preferito»

«Va bene, come vuoi tu...adesso però rispondi, sennò riattaccheranno».

«Sì, pronto?»

«Ciao Vic. Sono Brian»

«Ehy, ciao! Come stai? E i ragazzi? Che bella sorpresa!»

«Io sto bene, grazie, e anche gli altri, a parte Luke che s'è preso il virus intestinale...comunque, non volevo parlarti di questo...volevo darti una notizia che spero ti farà felice.»

«Davvero? Dài, dimmi pure». Ero davvero incuriosita.

«Il manager ci ha dato qualche giorno di pausa prima di riprendere il tour. Lo sai, vero, che tra un mesetto dovremo suonare a Tokio? Ecco, fino ad allora possiamo fare quello che vogliamo, ed io pensavo di tornare a Denver, domani

«Dici davvero? Oh, Brian, sarebbe stupendo! Domani...cavolo, così mi fai svenire..come quando ci siamo conosciuti, ricordi?»

«Sì Vic, me lo ricordo eccome! E chi se la dimentica quella serata? - e scoppiò in una risata – Sai, mi manchi tantissimo. Questa sarà la nostra occasione per passare un po' di tempo insieme, da soli.»

«Non vedo l'ora. Dimmi solo a che ora sarai qui, io verrò a prenderti con l'auto»

«Nel pomeriggio credo, verso le quattro e mezzo»

«Va bene allora, a domani. Chiamami quando arrivi!»

«Okay, certamente! Ah, Vic..senti...»

«Sì?»

«Ti amo»

«Ti amo anch'io, Brian. Tantissimo. Un bacio», e riattaccai.



Il resto della giornata passò tranquillamente.

Io e mia madre pranzammo, dopodiché tornarono a casa anche mio padre e Josh. Stranamente non feci caso né alle urla che provenivano dalla camera da letto di Josh, né alle lamentele di mia madre riguardo il disordine, e nemmeno ai brontolii di mio padre che non era soddisfatto del nuovo abbonamento tv.

Tutti i miei pensieri, tutte le mie forze esistevano solamente in funzione di Brian.

Il giorno dopo l'avrei rivisto e, insieme, avremmo passato un altro dei giorni della nostra corta ma significativa esistenza.

 

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è Looking Up, quella citata nel testo è All I Wanted, e sono entrambe dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione (tranne ovviamente la band dei Paramore).


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Capitolo 6
*** L'amore ***


I promised

I'd never sing of love

if it does not exist

but darling you are the only exception

 


Il giorno seguente, quando mi svegliai, il sole non era ancora sorto completamente.

Attraverso le tende bianche filtrava una debole luce che illuminava appena la stanza. Mi stiracchiai tutta, ma muovendo il braccio urtai qualcosa di spigoloso: di fianco a me, sotto le coperte, c'era un libro. D'un tratto ricordai: la sera prima ero talmente stanca che avevo deciso di andare a dormire molto prima del solito, e avevo letto qualche pagina di “Non lasciarmi” prima di cedere al sonno. Gettai un'occhiata alla sveglia sul comodino e decisi che non valeva la pena di provare a riaddormentarmi, così mi alzai e percorrendo la stanza a piedi nudi raggiunsi la scrivania sopra alla quale era appoggiata la mia borsa, estrassi il mio iPod e tornai sotto le coperte.

La riproduzione casuale decise di farmi ascoltare un paio di canzoni dei Coldplay e alcune dei Train, dopodichè mi stancai e optai per i soliti Paramore.

La voce di Hayley raggiunse dolcemente i miei timpani ed io mi tirai le coperte fin sopra la testa.

Give me attention...I need it now...”

“Ma io, di cosa ho bisogno?”, pensai. “Ho bisogno di un attimo di pace e di tranquillità, ho bisogno che accada qualcosa di diverso, di speciale. Qualcosa che smuova la situazione nella quale mi trovo. Tra poche ore arriverà Brian e allora, forse, tutto sembrerà diverso...”

Chiusi gli occhi e il sonno mi rapì di nuovo.

 

«Vicky...ehi, è ora di alzarsi...sono già le dieci, non hai detto che oggi deve venire Brian a trovarti?»

La voce di mia madre era attutita dalle coperte sotto le quali ero nascosta, così mi misi a sedere sul letto e tolsi le cuffiette dalle orecchie.

«Ciao, mamma. Come stai?» dissi, stropicciandomi gli occhi.

«Io bene, e tu? Siamo sole in casa, sai, tuo padre e Josh sono andati a fare un giro, credo che non torneranno prima di stasera... ed io più tardi farò un salto al supermercato, così tu e Brian potrete stare un po' da soli. Intanto, per pranzo vi ho lasciato un po' di pizza nel frigo.»

«Grazie mamma...effettivamente è da molto che non abbiamo l'occasione di stare un po' da soli»

Mia madre uscì chiudendosi la porta alle spalle.

Io cercai della biancheria e dei vestiti puliti, presi il mio beauty case e feci una doccia, dopodiché mi vestii, afferrai alla svelta il cellulare e scesi in salotto.

La televisione era accesa e trasmetteva un programma di cucina.

Biiip biiip

Controllai il cellulare: un nuovo messaggio ricevuto. Era di Brian.

«Tutto a posto?» mi chiese mia madre con un sorriso.

«Sì, sì, è Brian.. dice che tra un'ora sarà qui» risposi io, sorridendo a mia volta.

Mi sedetti sul divano, posai il cellulare e mi misi a fare zapping. Dopo un'ora di programmi musicali, finalmente sentii il rumore di un'auto che attraversava il vialetto ghiaiato davanti a casa. Mi alzai tempestivamente e mi avviai verso l'entrata. Aprii la porta e guardai Brian attraversare il cortile e sorridermi.

«Ciao», disse lui dolcemente.

«Come stai?», gli chiesi io gettandogli le braccia al collo.

«Benissimo, grazie. Il viaggio è stato abbastanza piacevole», rispose.

«E gli altri, stanno bene?»

«Sì sì, ho sentito David appena sono arrivato all'aeroporto... oggi pomeriggio hanno un'intervista con il Rolling Stone. Gli dispiace molto che noi due non ci saremo, ma hanno già spiegato che si tratta di qualcosa di importante, e il direttore non ha avuto niente da ridire.»

«Lo credo bene. Vedrai che con quei tre, tutti avranno modo di divertirsi» dissi ridendo.

Entrammo in casa e mia madre fece capolino dalla parete del salotto.

«Buongiorno signora! Tutto bene?»

«Oh, ciao Brian! Tutto okay, grazie.. e tu?»

«Potrebbe andare meglio in effetti, però sto bene, grazie.»

Mia madre insistette per offrirgli da bere, e Brian accettò una birra, dopodiché salimmo le scale ed entrammo nella mia camera da letto.

Brian scostò la tenda e guardò fuori, ed io lo abbracciai da dietro e gli afferrai le mani. Lui si voltò lentamente e mi guardò negli occhi per un interminabile istante, poi disse :«Finalmente ci sei tu, qui con me. Mi dispiace per tutto quello che sta succedendo, davvero. Vorrei che tutto fosse sempre perfetto, lo sai...e vorrei che tu non soffrissi mai. Non sai quanto mi faccia male sapere che tua nonna è...» e distolse lo sguardo senza riuscire a finire la frase.

«Non devi dispiacerti per me. Si sistemerà tutto, vedrai.» sussurrai, ma nemmeno io ero convinta di quello che dicevo. Chissà se tutto si sarebbe davvero sistemato. Temevo proprio di no, ma in quel momento non valeva la pena farsi prendere dallo sconforto.

Lasciai le sue mani e andai a chiudere la porta, poi tornai da lui.

«Adesso ci siamo solo io e te. Non il gruppo, né la mia famiglia. Godiamoci questo momento, per favore»

«Non c'è bisogno che mi supplichi, lo sai» disse lui a bassa voce, poi afferrò delicatamente il mio viso tra le sue mani e mi baciò.

Un bacio così non lo ricordavo. Era un bacio dolce ma allo stesso tempo appassionato. Le sue labbra erano morbide, e sapevano ancora di birra.

Gli passai le mani tra i capelli: erano soffici al tatto. Sentii le sue mani muoversi dapprima sui miei capelli, poi lungo la mia schiena e infine sul sedere.

Quasi senza staccare le nostre labbra camminammo fino al letto, dove lui mi fece sedere. Velocemente, come se non aspettassimo altro da anni, mi tolse il cardigan e la maglietta, gettandoli a mucchio sul pavimento. Io feci lo stesso con la sua t-shirt, poi alzammo le coperte e ci infilammo a letto. Il suo corpo era caldo, quasi scottava a contatto con la mia pelle.

Le sue mani abili mi accarezzavano ovunque, e quando finalmente lo sentii mio mi lasciai sfuggire un gemito di piacere. I suoi muscoli scolpiti pulsavano mentre si muoveva dentro di me, sempre più forte, finché entrambi non raggiungemmo l'orgasmo.

«Sei stupenda» sussurrò Brian, affondando il viso tra i miei capelli.

Io non avrei saputo esprimere a parole tutte le emozioni che provavo in quel momento, quindi rimasi zitta a godermi quello che era appena successo.

Finalmente qualcosa sembrava andare per il verso giusto. Quella giornata era trascorsa perfettamente, senza che niente di negativo mi turbasse.

Restammo abbracciati sotto le coperte per non so quanto tempo, mezz'ora forse? Oppure di più? Non m'importava. Avrei voluto rimanere lì con lui per sempre. Credo che ad un certo punto ci fossimo addormentati entrambi comunque, perché poi guardai l'orario nella sveglia ed erano già tre passate. Trasalii quando trovai gli occhi di Brian che mi fissavano, spalancati.

«Sei bellissima mentre dormi. Sembri così piccola...»

Lo sapevo. Mi ero addormentata. È più forte di me, cosa ci posso fare?

«Cosa ne dici, scendiamo?» gli chiesi.

«No, aspetta! Resta qui ancora un po'.» rispose lui, ridendo.

«Ancora?! Dài, ormai è tardi, mia mamma sarà già-» cominciai, ma la mia frase si spense all'improvviso. Mia madre mi stava chiamando dal pianerottolo, e a giudicare dalla sua voce sembrava molto agitata. Ma non doveva restare fuori casa per tutto il pomeriggio?

«Victoria! Vicky!»

Mi infilai velocemente la maglietta e i pantaloni, e mentre Brian faceva lo stesso, aprii la porta, col cuore che batteva forte.

«Cosa c'è?»

«Ha chiamato tuo padre dall'ospedale. Dice che ci sono delle novità, e che devi andare subito là»

Mi voltai verso Brian che mi guardava, le sopracciglia aggrottate.

Forse avevo parlato troppo presto, forse non meritavo che tutto andasse per il verso giusto.  



Credits: la canzone citata all'inizio è The only exception dei Paramore. Il libro citato è Non lasciarmi ed appartiene a Kazuo Ishiguro.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, eccetto Paramore, Train e Coldplay.

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Capitolo 7
*** La novità ***


 

Credits: la canzone citata all'inizio è Where the lines overlap dei Paramore, mentre quella che si sente alla radio è I miss you dei Blink 182. Nessuna di queste canzoni mi appartiene.
Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, fatta eccezione per i Paramore.
Angolo dell'autrice:
Dopo un sacco di tempo sono tornata, e sono riuscita ad aggiornare la mia storia. Mi scuso con tutte le persone che hanno atteso il nuovo capitolo - anche se non penso siano molte, ahah -, ma purtroppo l'esame di maturità mi ha tenuta parecchio impegnata (grazie per la vostra pazienzaaa!! ❤)
Ora però sono tornata in forma più che mai (eeeh! xD), e sono pronta ad andare avanti con questa storia che, purtroppo, si avvicina sempre di più alla fine. Spero con tutto il cuore che questo capitolo vi sia piaciuto, io mi sono emozionata molto mentre lo scrivevo. Personalmente, credo che sia il più "personale" di tutti quelli presenti. Non mi resta che ringraziarvi per aver letto e invitarvi a recensire (a me farebbe tanto piacere!) =)
ci vediamo - presto - con il capitolo numero 8!
Baci, Giulia

No one is as lucky as us
We're not at the end but oh we already won
Oh no, no one is as lucky as us
Is as lucky as us



«Non si sa cosa sia successo?» chiesi preoccupata a mia madre mentre afferravo velocemente la borsa.

«No, tuo padre era talmente agitato che ha riattaccato senza spiegarmi nulla. Vi prego, andate subito là, sono molto preoccupata» disse lei.

«Non si preoccupi signora, arriveremo là in un batter d'occhio» disse Brian a mia madre per rassicurarla.

Scendemmo tutti e tre al piano di sotto, e mentre mia madre si lasciava cadere sulla poltrona del salotto, visibilmente scossa, io e Brian uscimmo in fretta e furia facendo sbattere la porta dietro di noi.

La ghiaia scricchiolava sotto i nostri piedi mentre camminavamo a lunghi passi verso la Volvo di Brian. Senza perdere tempo, ci accomodammo sui sedili in pelle e presto la mia casa sparì completamente dalla vista.

Io cominciavo a sentire la tensione. Pensai che non poteva essere successo qualcosa di brutto, non un'altra volta. Se così fosse stato, non l'avrei sopportato. Non potevo sostenere il peso di altro dolore sulle mie spalle: tutto quello che era già capitato bastava e avanzava.

Mi accorsi di essere rimasta zitta per più di cinque minuti, così decisi di alleggerire l'atmosfera ascoltando un po' di musica. Allungai la mano e accesi la radio, ma non appena gli altoparlanti iniziarono a diffondere le prime note, capii che sarei stata meglio in silenzio.

Don't waste your time on me you're already the voice inside my head... I miss you...

Mi affrettai a spegnere il dispositivo e mi voltai verso Brian. Le sue labbra erano contratte e biancastre, dalla fronte scendevano lente alcune minuscole goccioline di sudore. Le sue sopracciglia scure erano aggrottate mentre si concentrava sulla guida, le mani talmente strette al volante che potevo vedere le vene pulsare.

«Ehy... ti senti bene?» gli domandai.

Lui sembrò trasalire leggermente, come se non si ricordasse che c'ero io, lì di fianco.

«Uhm.. s-sì, tutto bene. Scusa, sono solo preoccupato. Credo sia normale, no? Anche tu lo sei, se non sbaglio»

«Certo che lo sono, ma sono anche convinta del fatto che quando arriveremo là scopriremo che tutta questa agitazione non ha motivo di esistere» gli dissi io, con un tono che speravo risultasse convincente. In realtà io ero di tutt'altro avviso: ero sicura di essere talmente sfortunata, che per l'ennesima volta ciò che avrei trovato dietro quella porta non mi sarebbe piaciuto affatto.

«E va bene, hai ragione» mi disse Brian rivolgendomi un sorriso stupendo.

Mi sentivo davvero molto fortunata ad avere lui al mio fianco. Se non ci fosse stato, probabilmente io sarei già piombata nella depressione più totale.

Il paesaggio passava velocemente dietro i finestrini, ed io lo osservavo distratta. La luce quel giorno era strana: sembrava quasi che l'atmosfera risentisse del nostro umore. Le nuvole stavano cominciando ad addensarsi, l'una sopra l'altra, nere e cupe.

«Mi sa che tra poco comincerà a piovere» dissi, tanto per distrarre Brian dai pensieri tristi che certamente in quel momento affollavano la sua mente. Lui si limitò a rispondere con un “Mmh”.

Plic. Plic. Plic.

Alcune gocce di pioggia iniziarono a tamburellare sul tettuccio dell'auto.

Quando finalmente arrivammo davanti all'entrata del parcheggio dell'ospedale, la pioggia si era ormai trasformata in temporale.

Brian sistemò l'auto come meglio poté, dopodiché scendemmo velocemente ed attraversammo di corsa l'enorme parcheggio, l'acqua che si infiltrava tra i capelli e tra i vestiti.

Quando fummo al riparo, salimmo sul primo ascensore che trovammo, e ci fermammo solamente una volta raggiunto il terzo piano.

Con gli abiti sgocciolanti percorremmo il corridoio lasciando dietro di noi delle piccole pozzanghere. L'odore di disinfettante, che tanto detestavo, in quel momento sembrava più forte che mai. Lo odiavo con tutto il mio cuore, così come odiavo quel posto. Quel luogo che mi aveva trasmesso così tante sensazioni negative. Mi chiesi che cosa ci avrebbero detto i medici questa volta. Forse che la nonna era morta? Oppure che per lei c'erano pochissime possibilità di guarigione?

La mano di Brian afferrò dolcemente le mie dita fredde e le strinse.

Le mie gambe tremanti mi condussero fino alla porta numero 13, che in quel momento era chiusa.

«Non ce la faccio ad entrare, Brian» dissi con la voce spezzata da un imminente pianto.

«Stammi vicino, e vedrai che andrà tutto bene. Te lo prometto» mi disse lui, stringendo la mia mano ancora di più. Dopodiché, dopo aver fatto un enorme respiro, abbassò la maniglia. La porta si aprì con un cigolio, come al solito.

Non feci nemmeno in tempo a mettere piede all'interno della stanza che un paio di braccia mi si strinsero attorno al collo, quasi strangolandomi.

«Vic, sei arrivata! Finalmente, non ce la facevamo più ad aspettare!»

«Ma... Josh! - dissi io, riconoscendo al volo la voce della persona che mi aveva abbracciata. - Dimmi tutto, dai! Cosa è successo? La mamma diceva che il papà era preoccupatissimo quando l'ha chiamata!»

Vidi che mio padre si stava avvicinando a noi. Sul suo volto potevo scorgere un'espressione inconfondibile: quella di un uomo felice.

«Ciao Brian, ciao Vicky, finalmente siete arrivati. Mi dispiace che vostra madre si sia preoccupata, perché a dire il vero non c'è proprio niente che non va!» disse lui, soffocando una risata. «Josh, vuoi dirglielo tu?»

«Certo, papà» rispose lui, sorridendo.

Mio fratello mi prese per mano e mi condusse verso il letto sul quale mia nonna era stesa.

Il dottor Folkner era in piedi accanto ad esso, intento a scrivere qualcosa su una cartelletta bianca che teneva in mano.

«Salve, Victoria» mi salutò lui, alzando gli occhi solo per un attimo.

«Buongiorno, dottore. Mi può dire cosa sta succedendo, per favore?» gli chiesi io, impaziente.

«Temo di no, cara. Credo che il compito spetti a tuo fratello»

Guardai Josh con aria interrogativa. Cosa aspettava a parlare? Perché sembravano tutti così misteriosi?

«Vicky, i dottori hanno detto che le condizioni della nonna stanno migliorando! E che forse presto sarà addirittura in grado di parlare, e forse anche di poter stare su una sedia a rotelle! Non è fantastico? Cavoli...»

Nella foga di parlare, il viso di Josh era diventato tutto rosso. I suoi grandi occhi erano bagnati.

Non era possibile. Pensai che quello doveva essere un miracolo, non c'era altra spiegazione possibile. Non era possibile che lassù esistesse qualcuno di così buono da aver dato alla nonna una seconda possibilità.

«È... è fantastico! È vero quello che ha detto, dottore?»

Il dottor Folkner, che aveva smesso di scrivere e ci guardava sorridendo, mi rispose: «Certo, è vero. Abbiamo riscontrato un notevole miglioramento nell'attività cerebrale di tua nonna; è molto probabile che si rimetta nel giro di poche settimane. Ovviamente non possiamo garantire che questo accadrà, perché come tu certamente sai, la scienza è affidabile ma non fa miracoli»

Miracolo. Miracolo. Miracolo.

Quella parola risuonava nella mia mente senza che io riuscissi a fermarla.

«Brian, hai sentito? È fantastico...non ci posso credere...» dissi, scoppiando a piangere tra le braccia del mio amato. Lui mi accarezzò dolcemente la testa, e intanto sussurrava: «Sono felice per te, tesoro»


«Josh, chiama tua madre per favore. Prima ho riattaccato senza spiegarle nulla; ero troppo emozionato. Meglio non farla preoccupare» disse mio padre estraendo il cellulare dalla tasca dei jeans.

Mio fratello lo afferrò impaziente e poi uscì dalla stanza per telefonare.

«Wow, ancora non ci credo» dissi io a bassa voce, mentre mi avvicinavo al letto di mia nonna.

A dire la verità, non è che il suo aspetto suggerisse un'imminente guarigione o un qualche cambiamento.

La sua pelle era pallida come l'ultima volta che l'avevo vista, le labbra marmoree, così come il resto del suo corpo.

Il macchinario appoggiato alla parete continuava a mostrare i battiti cardiaci con i suoi sonori bip.


«Nonna, mi senti? Puoi sentire quello che dico? Il dottore dice che forse presto sarai di nuovo cosciente. Io lo spero davvero tanto...mi manchi. Se potessi anche solo darmi un segnale che qualcosa dentro di te sta cambiando, mi renderesti immensamente felice. Ti prego, torna tra noi, ho bisogno anche di te»

E poi, rivolgendomi a qualcuno o qualcosa, della quale esistenza nemmeno io ero sicura, sussurrai: «Dio, se esisti, fa' qualcosa. Dammi un segnale, ti prego»

In quel preciso momento, mentre il mio sguardo era perso nel vuoto, con la coda dell'occhio mi sembrò di scorgere un movimento nelle labbra di mia nonna.

Scettica, diedi la colpa al fatto che in quel momento ero emozionata e lasciai subito perdere.


Il rumore di una porta che sbatteva mi fece trasalire. Vidi Brian correre verso di me, il viso rosso, le mani tremanti.

«Vic, non ci crederai mai. Oddio, oddio, oddio. Non ci posso credere» cominciò a dire, emozionato.

«Ma...Brian! Cos'è successo adesso? Non dirmi che si tratta di qualcosa di brutto perché in questo momento non sono in vena di tragedie»

«Ecco, allora...stai calmo, Brian, calmo. - disse lui, cercando di tranquillizzarsi – Mi ha appena chiamato David. Ho una notizia fantastica da darti, ma dovresti venire fuori, in corridoio, così possiamo parlare con calma» E poi aggiunse, sottovoce: «Non voglio che nessuno ci senta»

«Come vuoi, ma sbrigati a parlare perché sono curiosa»

Mio padre, Josh, e il dottor Folkner ci guardavano con aria interrogativa mentre uscivamo in corridoio.

Brian chiuse la porta dietro di sé, prese due sedie che trovò qualche metro più in là e le sistemò l'una di fronte all'altra, dopodiché si lasciò cadere pesantemente su una di esse e mi invitò ad accomodarmi.

«Allora? Quale sarà mai questa notizia tanto sconvolgente da costringerci a prendere delle sedie per non rischiare di svenire?» dissi io, ridendo di gusto.

«C'è poco da scherzare, è una cosa seria» mi avvertì lui. «Io per poco non svenivo davvero, poco fa»

«Okay, okay, ti credo. Però se non ti decidi a parlare andrà a finire che se ne andranno tutti e ci lasceranno qui»

«Va bene. David ha detto che stamattina gli ha telefonato Andrew Weiss» cominciò lui, tutto emozionato.

«Ma è il tour manager dei Paramore! Che cosa voleva?»

«Era proprio lui. Ha detto a David di aver visionato alcuni video dei nostri concerti e di aver letto l'intervista che abbiamo rilasciato il mese scorso, ricordi quale?»

«Certo che me la ricordo! E quindi?» gli chiesi io, sempre più impaziente.

«Chiedeva se ci va di aprire i concerti del prossimo tour dei Paramore, e in più di suonare qualche canzone con loro durante la prima data!»

«Ma... oddio, è stupendo!» dissi io, quasi urlando di gioia. «Non ci posso credere!»

Io e Brian ci abbracciammo in preda all'euforia.

Per un attimo credetti che quella fosse veramente la giornata più bella della mia vita.

 

 

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è Where the lines overlap dei Paramore, mentre quella che si sente alla radio è I miss you dei Blink 182. Nessuna di queste canzoni mi appartiene.

Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, fatta eccezione per i Paramore.


Angolo dell'autrice:

 Dopo un sacco di tempo sono tornata, e sono riuscita ad aggiornare la mia storia. Mi scuso con tutte le persone che hanno atteso il nuovo capitolo - anche se non penso siano molte, ahah -, ma purtroppo l'esame di maturità mi ha tenuta parecchio impegnata (grazie per la vostra pazienzaaa!! )

Ora però sono tornata in forma più che mai (eeeh! xD), e sono pronta ad andare avanti con questa storia che, purtroppo, si avvicina sempre di più alla fine. Spero con tutto il cuore che questo capitolo vi sia piaciuto, io mi sono emozionata molto mentre lo scrivevo. Personalmente, credo che sia il più "personale" di tutti quelli presenti. Non mi resta che ringraziarvi per aver letto e invitarvi a recensire (a me farebbe tanto piacere!) =)

ci vediamo - presto - con il capitolo numero 8!

Baci, Giulia.

 

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Capitolo 8
*** L'attesa ***


You can't be too careful anymore

when all that is waiting for you

won't come any closer

You've got to reach out a little more

 

 

Quando raccontai ai miei genitori ciò che Brian mi aveva detto, ovvero che avremmo suonato assieme ai Paramore durante il loro tour, mia madre per poco non si sentì male, mentre mio padre, che era una persona meno emotiva di lei, si limitò a congratularsi.

Josh era davvero entusiasta, non faceva altro che canticchiare canzoni dei Paramore e vantarsi coi suoi amici del fatto che sua sorella avrebbe suonato con loro.

 

A dire la verità, io stessa stentavo a credere che saremmo veramente saliti su quell'enorme palco assieme a loro. I miei idoli. Coloro sui quali avevo sempre potuto contare quando mi sentivo triste e quando mi sembrava che tutto andasse per il verso sbagliato.

Coloro i quali, attraverso delle semplici canzoni, riuscivano sempre a trasmettermi qualcosa di positivo e a farmi sognare. Quante volte, quando ero solamente una ragazzina con il sogno di diventare una cantante, ho immaginato di trovarmi fianco a fianco con Hayley e di duettare assieme a lei? A quei tempi passavo anche molte notti in bianco, versando fiumi di lacrime sul mio cuscino, consapevole che i miei sogni ad occhi aperti non si sarebbero mai trasformati in realtà.

Ecco perché faticavo a credere che il manager dei Paramore avesse scelto proprio noi, i Feelings Outlet.

Sembrava quasi che il destino fosse davvero dalla mia parte, e non potei fare a meno di pensare che forse ero destinata ad essere felice nella mia vita. Prima la notizia del miglioramento delle condizioni di nonna Faith, poi questo.

 

Io e i ragazzi lavorammo duramente per prepararci all'evento. Anche se alla prima data del tour dei Paramore mancavano più di due mesi, cominciammo ad allenarci a partire dal giorno in cui David ci comunicò la notizia. Intensificammo i nostri ritmi: invece di suonare due ore ogni giorno, come facevamo di solito, restammo chiusi in sala prove dalle cinque alle otto ore al giorno.

Come del resto era prevedibile, cominciai presto a sentirmi spossata e ad avere solamente voglia di rimanere in casa a rilassarmi; nonostante questo, la voglia di essere perfetti su quel palco ebbe la meglio, così continuammo imperterriti sulla nostra strada.

 

Dopo un mese di duro allenamento, l'ansia e la fatica cominciarono a farsi sentire in modo pesante.

Ormai trascorrevo più tempo in sala prove che a casa, e la notte non riuscivo a dormire, tanti erano i brividi che mi scuotevano il corpo.

Cominciai a temere il peggio.

E se avessimo sbagliato davanti a milioni di persone? E se non fossimo piaciuti ai Paramore? Cosa sarebbe successo se loro si fossero pentiti all'ultimo momento di aver deciso di farci aprire i loro concerti?

Queste e tante altre domande affollavano la mia mente senza sosta; con il risultato che quando arrivò la data fatidica ero talmente stressata che la paura di sbagliare, nella mia mente era diventata ormai una certezza.

 

La sera precendente il primo concerto, mi trovavo a tavola con mio fratello Josh; stavamo mangiando pollo arrosto con patatine ed io, stranamente, mi sentivo abbastanza tranquilla.

Quel che è fatto è fatto. Non c'è modo di tornare indietro” pensavo.

Era importante, per me, potermi godere una serata in casa in tutta tranquillità assieme alla mia famiglia.

«Allora, domani è il grande giorno, eh?» esclamò Josh portandosi alla bocca un pezzetto di pollo.

«Eh già... domani si comincia... spero solo di piacergli...» risposi io, gettando un'occhiata al mio trolley, già pronto davanti all'entrata.

«Vedrai che andrà tutto bene, Vic. Sarà un'esperienza che non dimenticherai mai» disse Josh affettuosamente.

«Lo so; è proprio per questo che la temo così tanto. So già che in ogni caso, che vada bene o no, ricorderò questi giorni per tutta la mia vita»

Seguì un lungo momento di silenzio, in cui si sentiva solo il rumore delle nostre mascelle che si muovevano.

Ad un certo punto, il campanello suonò.

«Ah, devono essere mamma e papà! Vado io ad aprire» disse Josh, alzandosi in fretta e dirigendosi verso la porta d'entrata.

Dopo pochi secondi, effettivamente, sentii le voci dei miei genitori avvicinarsi sempre di più, finchè con un rumore secco la porta si aprì e Josh li salutò.

«Ciao Josh, tutto bene? Avete già mangiato? Vieni in cucina che dobbiamo parlare di una cosa importante. Ciao Vicky» disse mia madre salutandomi.

«Ciao ma'. Siete andati a vedere la nonna?» chiesi.

«Sì, ed è appunto di questo che dobbiamo parlare» rispose mia madre sedendosi a tavola di fronte a me e Josh.

Cominciai a sentire lo stomaco in subbuglio; tutto d'un tratto il pollo e le patatine non mi allettavano più come prima. Temevo il peggio, temevo che mia madre ci stesse per annunciare che la nonna stava di nuovo molto male.

Intanto lei se ne stava seduta, immobile e composta, con lo sguardo fisso in un punto indefinito.

«E allora? Parla, mamma. Non possiamo stare qui per sempre» intervenne Josh.

Lo ringraziai mentalmente.

«Oh, scusate. Sono solo un po' stanca» disse lei allegramente, svegliandosi improvvisamente dal suo torpore. «Beh, allora... vi devo dare una bella notizia!» annunciò sorridendo.

I nodi presenti nel mio stomaco si sciolsero.

«Io e vostro padre siamo stati poco fa al St. Joseph e abbiamo avuto modo di parlare con il dottor Folkner – e si interruppe un attimo, forse per godersi le espressioni stralunate presenti sui nostri volti -, il quale ci ha voluto informare che le condizioni di vostra nonna stanno decisamente migliorando. Stamattina ha aperto gli occhi e ha persino iniziato a parlare. I dottori non riescono a spiegarsi questo improvviso migioramento. Hanno parlato persino di un... miracolo» disse mia madre, gli occhi lucidi per l'emozione.

Io e mio fratello esplodemmo in un urlo di gioia assoluta.

«Dici davvero? Ma è fantastico, oddio» dissi, felice.

«Certo. Già da domani potrà tornare a casa. È lei che l'ha voluto. Il dottore ha detto di non aver mai avuto a che fare con una paziente testarda come lei prima d'ora. Ovviamente un'infermiera dovrà venire a controllarla ogni giorno: ha ancora bisogno delle sue medicine e di qualche flebo»

«M-ma è fantastico, mamma! Josh, ti rendi conto?» dissi piangendo, e abbracciai forte mio fratello.

Mi sentivo davvero al settimo cielo.

«Bene, Vicky, ma aspetta! Se tu sei d'accordo, domani sera la nonna potrebbe venire ad ascoltarti al concerto. Anche questo l'avrebbe chiesto proprio lei, stamattina, dopo aver saputo che suonerai con la tua band preferita. Sa quanto ci tieni. Folkner mi ha detto di non essere completamente d'accordo, ma che di fronte alle sue suppliche non ha saputo dire di no. L'unica condizione è che stia nel backstage, al riparo dall'eccessivo rumore, e che terminata la tua esibizione torni subito a casa. Sai, è meglio così, nelle sue condizioni»

Ero rimasta senza parole; non sapevo cosa dire per esprimere la mia gioia.

«Sei contenta, vero?» mi chiese mia madre sorridendo. La osservai un momento: aveva gli occhi rossi, segno che era emozionata almeno quanto noi, e qualche ruga le sottolineava lo sguardo. Il suo sorriso era sincero.

«Sì, mamma, sono contentissima» risposi, «peccato che ora sia tardi per andare a trovarla»

«Dai, domani la vedrete. Solo, non aspettatevi troppo da lei. È probabile che non si ricordi molte cose» ci avvertì mia madre.

«Certo, capisco. Non vedo l'ora – dissi, un largo sorriso stampato in volto - Adesso me ne vado a dormire, domani sarà una giornata pesante ed oggi ho già avuto troppe sorprese. Ah, a proposito...dov'è papà?» chiesi perplessa. L'avevo visto entrare in casa ma poi era come sparito.

«Oh, credo sia in bagno, sai? Non ha fatto altro che lamentarsi del dolore alla pancia lungo tutto il tragitto» rispose mia madre ridendo di gusto.

Salutai lei e Josh con un bacio sulla guancia, poi salii le scale e mi diressi verso camera mia, ma non prima di essere passata davanti al bagno e aver salutato mio padre.

Mi preparai velocemente e in un batter d'occhio mi sistemai a letto, volevo essere fresca e riposata per l'evento. Era tutto pronto per il giorno successivo.

Mi stesi e affondai la testa nel cuscino; chiusi gli occhi e provai ad immaginare l'incontro con Hayley, ma non feci nemmeno in tempo a visualizzare mentalmente il suo viso che ero già scivolata nel sonno.

 

 

 

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è Careful dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, fatta eccezione per i Paramore.

 

 Angolo dell'autrice: bene, eccoci arrivati all'ottavo capitolo della storia. Come forse avrete notato è un pochino più corto degli altri, ma da qui fino alla fine della storia (e manca molto poco purtroppo, sigh sigh) la lunghezza dei capitoli sarà molto variabile.

Beh, spero tanto che vi piaccia e vi soddisfi. In ogni caso mi fareste felice se lasciaste una recensione dove mi dite cosa ne pensate! È sempre utile e bello avere tante opinioni diverse (:

se siete arrivati fin qui a leggere vi ringrazio e vi saluto! Alla prossimaaa!

Giulia

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Capitolo 9
*** La fine ***


 

 

Everybody sing like it’s the last song you will ever sing
Tell me, tell me, do you feel the pressure now?

 

Right now you’re the only reason

 

 

 

 

I colori erano sbiaditi. Le persone attorno a me parevano ectoplasmi, tanto i loro contorni erano sfumati. Tutto ciò che riuscivo a udire si riduceva ad un fastidioso fischio che mi perforava i timpani. Cercavo disperatamente qualcuno in mezzo alla folla che mi circondava, invano.

 

«Brian!» urlavo, «Brian! Dove sei?»

Mentre gridavo a squarciagola le persone si giravano e mi fissavano in modo strano.

Senza volerlo, urtai il braccio di una signora che immediatamente si voltò e mi disse: «Cosa ci fai qui? Non sei la benvenuta!», ed i suoi occhi infuocati mi squadrarono dalla testa ai piedi.

«Ma...dove siamo? Dov'è Brian? E David? Io devo trovarli, la prego, mi aiuti...»

Ma più parlavo, più mi rendevo conto che nessuno lì mi avrebbe aiutata. Non riuscivo a capire dove fossi, né chi erano le persone attorno a me che continuavano a fissarmi con occhi maligni.

 

Ad un certo punto, il cuore cominciò a sobbalzarmi nel petto, sempre più velocemente. In lontananza, tra quella miriade di teste sfocate, mi era parso di vedere lei, Hayley, che veniva verso di me.

“Ma allora tutto questo non è un sogno! È la realtà... Ed ora mi trovo proprio nel parco dello Stadio, in attesa di iniziare il concerto”, pensai.

Così cominciai ad urlare per farmi notare da lei.

«Hayley! Ehi... Hayley!», ma lei non mi notò e sparì tra la folla.

 

 

«Vicky! Dai, svegliati! C'è Brian di sotto...»

Di chi era quella voce?

Uno scossone mi riportò velocemente alla realtà. Aprii gli occhi e realizzai.

“Come pensavo. Era solo un sogno.”

Mio fratello era seduto sul bordo del letto, una mano ancora appoggiata sulla mia spalla.

«Finalmente la Bella Addormentata ha deciso di svegliarsi, eh! Guarda che c'è Brian giù in salotto...dice che vorrebbe che beveste qualcosa insieme prima di andare al concerto»

Mi misi a sedere incrociando le gambe, avendo la premura di stiracchiare per bene i miei muscoli intorpiditi.

«Oh...ciao, Josh. Stavo facendo un incubo quando mi hai svegliata, per fortuna che sei arrivato tu» dissi con un sorriso, e mi sporsi in avanti per baciarlo.

«Ehi, ma come sei dolce stamattina! È per caso merito di una certa cosa che deve succedere oggi?» mi disse lui, facendo un sorrisino allusivo.

«Oddio, ti prego, non farmici pensare! Non riesco ancora a crederci» risposi io, sorridendo di rimando.

 

Mi conoscevo abbastanza bene da sapere che se avessi cominciato a fantasticare sul concerto di quella sera, avrei avuto il batticuore per due giorni dall'agitazione. Cercando di pensare a qualcos'altro, mi alzai e mi diressi verso la scrivania sulla quale avevo appoggiato la mia borsa. Accesi il cellulare per precauzione (''Non si sa mai che capiti qualche imprevisto...meglio essere pronti'') e lo riposi nel taschino interno della borsa.

Mentre pensavo disperatamente a cosa indossare, Josh mi fissava con un'espressione scocciata, seduto sul mio letto.

Il mio trolley era ancora di fianco all'armadio da quando ero tornata a casa, quindi non feci altro che infilarci alla rinfusa qualche capo di biancheria intima e chiudere la zip.

«Sei pronta?» mi chiese mio fratello, ma vedendomi indaffarata non aspettò nemmeno che rispondessi e si incamminò lungo le scale.

 

Continuai a frugare nei cassetti per altri cinque minuti, dopodiché mi arresi e scelsi un cardigan rosso e dei jeans neri. Spinta dalla fretta, indossai il cardigan a rovescio per ben due volte. Nel frattempo, le voci di Brian e Josh che discutevano concitati rimbombavano nel pianerottolo.

 

«Vicky! - urlò mio fratello, - dai, sbrigati!»

“Ma per quale motivo sta strillando in questo modo? Le prove non cominceranno prima delle tre!” pensai, intenta ad infilarmi le scarpe.

Gettai un'occhiata alla sveglia: erano le dieci e mezzo. C'era tutto il tempo del mondo.

Ad ogni modo, non avevo voglia di continuare a sentire le urla di mio fratello, perciò afferrai al volo la borsa e mi precipitai al piano di sotto facendo sbattere le ruotine del mio trolley contro gli spigoli dei gradini.

Non appena intravidi le spalle di Brian da dietro lo stipite della porta, provai una gran stretta allo stomaco, simile alla sensazione che danno le vertigini. In effetti, mi sentivo proprio come sull'orlo di un precipizio, sul punto di perdere l'equilibrio e precipitare nel vuoto.

Cercai di scacciare dal mio corpo quella fastidiosa sensazione e mi costrinsi a varcare la soglia.

 

«Hey, ciao!» dissi, salutando Brian con un sorriso e un cenno della mano.

«Ciao, bellissima» rispose lui, e il mio corpo fu scosso nuovamente dalle vertigini. Mi resi conto che probabilmente ero diventata di un colore simile al peperoncino, perciò cercai di comportarmi in modo indifferente fingendo di cercare qualcosa nella borsa. Facevo sempre così, ogni volta che mi sentivo in imbarazzo.

La realtà era che solo un cieco avrebbe potuto non notare che Brian sprigionava una sorta di aura magica, che ti attirava a sé fino a che, ormai, non c'era più niente da fare.

Era così affascinante, così bello, che quando ti fissava sentivi la terra scomparire sotto ai piedi.

La vergogna che avevo provato per quel suo saluto mi aveva distratta così tanto, che non mi ero accorta di ciò che Josh stava urlando ormai da un minuto.

«Pronto? Terra chiama Vic, terra chiama Vic! - diceva, gli occhi sbarrati – Ci sei?»

“Che idiota – pensai tra me e me -, comportarmi così proprio in sua presenza...”

E poi, ad alta voce: «Oddio, scusate, ero convinta di avere perso il cellulare, sapete com'è...perdo sempre tutto» mentii non troppo prontamente.

«Bene Vic, se sei pronta io andrei. Alle tre dovremo essere allo stadio, è meglio non arrivare in ritardo» disse Brian, alzandosi scattante, e così facendo si diresse verso l'entrata per indossare il cappotto.

«Ciao, sorellina. Mi raccomando, eh...non svenire quando incontrerai Hayley e gli altri» mi salutò Josh, con una risata sarcastica. Io purtroppo non risi, poiché sapevo che sarebbe potuto succedere veramente. Allontanai alla svelta quell'orribile pensiero e mi tuffai tra le sue braccia.

«Ciao, ci vediamo questa sera dopo il concerto. Speriamo che la nonna...- iniziai, ma subito mi resi conto di non sapere bene cosa dire – Insomma, ecco, non vedo l'ora!» conclusi, sforzandomi di sorridere.

Raggiunsi di corsa Brian, che mi stava già aspettando lungo il vialetto fuori casa, in piedi di fronte alla sua auto, che lanciava sfavillanti bagliori sotto la luce del sole.

«Ciao Josh, salutami mamma e papà...e soprattutto la nonna!» dissi, aprendo la portiera dell'auto.

 

 

 

Il concerto si sarebbe tenuto al Magness Arena, uno degli stadi più importanti situati alla periferia di Denver, nel quale di solito si tenevano le partite di football. In effetti, sembrava davvero incredibile che il manager dei Paramore avesse deciso di farli esibire proprio lì, a pochi chilometri da casa nostra. In quel momento pensai che doveva essere merito del destino.

Il sound-check non sarebbe iniziato prima delle tre del pomeriggio, per cui io e Brian avevamo un bel po' di tempo a nostra disposizione.

 

«Che ne dici di andare al Rackhouse? È da un po' che non beviamo uno di quei buonissimi drink» propose lui, qualche minuto dopo, mentre con l'auto percorrevamo la Strada Statale.

«Mah, se ne sei convinto...diciamo che a quest'ora mi andrebbe di più una tazza di latte con i cereali» risposi io, con una risata nervosa.

Alla luce del mattino, il viso di Brian sembrava brillare ancora di più. Mi sforzai di non farmi notare mentre osservavo il suo profilo, concentrato sulla guida.

Per un istante mi chiesi se lui mi considerava speciale almeno la metà di quanto io lo pensavo di lui. Mi augurai di sì.

 

 

Le ore successive passarono veloci. Io e Brian pranzammo al pub e lui mi intrattenne con le sue risate e i suoi racconti, tanto che quasi mi dimenticai del concerto.

Quando però mi accorsi, guardando l'orario, che era arrivato il momento di andare, l'ansia tornò a impossessarsi di me.

«Non so, ho...paura» dissi, con un attimo di esitazione, subito prima di salire in macchina nel parcheggio del pub.

Brian mi fissò per un attimo, poi mi abbracciò. Era un abbraccio inaspettato, caldo ed avvolgente.

«È normale che tu abbia paura, Vic. Ne ho anch'io» mi sussurrò dolcemente.

«È che ci sarà anche mia nonna...e ho paura che stia male, che non sia pronta per un passo così grande»

«Ma non devi preoccuparti: se il dottore ha acconsentito a lasciarla venire, un motivo ci sarà. Vuol dire che l'ha ritenuta pronta»

Lo guardai negli occhi. Stava sorridendo, sembrava sereno e soprattutto, sincero.

«Fidati di me» mi disse.

Gli sorrisi e, a malincuore, lasciai la presa sul suo corpo per aprire la portiera dell'auto.

 

 

Quando arrivammo allo stadio, circa mezz'ora più tardi, David e gli altri erano già intenti a sistemare gli strumenti. Una massa di persone era accalcata davanti al cancello d'ingresso, alcuni seduti per terra, altri radunati in piccoli gruppi.

La tensione cominciava a salire. Che quelle persone fossero lì per noi o per i Paramore, poco importava, non cambiava le cose: tutti avrebbero assistito alla nostra esibizione, nel bene o nel male.

 

«Ooooh, finalmente siete arrivati!» esclamò Matthew non appena ci vide arrivare.

«Già...eccoci qui» confermò Brian, rivolgendo un cenno di saluto ai nostri amici.

«Su, non perdiamo tempo, iniziate subito con le prove: quando arriveranno i Paramore il palco dovrà essere già libero, mi raccomando» ci comunicò uno degli organizzatori.

All'udire la parola 'Paramore', il mio cuore ebbe un tuffo. Solo in quel momento mi resi veramente conto di cosa sarebbe successo di lì a poco: avrei incontrato il mio gruppo preferito, ma non solo: avrei cantato assieme a colei che per me era sempre stata un mostro sacro della musica: Hayley Williams.

Probabilmente poiché scorse sul mio volto un'espressione di disagio, Brian mi passò accanto e mi rivolse un sorriso molto significativo.

 

Dopo sole due ore, ero già sfinita. Non che avessi cantato poi così tanto, ma l'attesa e l'ansia a quanto pareva mi stavano uccidendo. Decisi di rifugiarmi in camerino in attesa che quel maledetto mal di testa che mi perseguitava ormai da un'ora passasse.

Distesa sul morbido divanetto in pelle nera, le cose sembravano quasi più chiare di quanto non mi fossero apparse fino a poco tempo prima.

Il mio corpo si rilassò, la mia mente si svuotò e presto mi addormentai.

 

 

«Pssst! Pssst! Victoria, svegliati»

Aprii gli occhi con molta fatica, mi misi seduta e solo allora mi passai forte le mani sulla fronte nel tentativo di svegliarmi come si deve.

Brian era inginocchiato per terra, di fianco al divanetto, e teneva una mano appoggiata sulla mia coscia.

«Oh...sei tu» feci io, come se non mi aspettassi la sua presenza.

Per tutta risposta, Brian si avvicinò lentamente, sporgendosi oltre il bracciolo del divano, e mi baciò.

Era un bacio dolce e consapevole.

Ritrasse le sue labbra all'improvviso, mi guardò serio e pronunciò le due parole più dolci che un essere umano possa sentire: «Ti amo»

«Ti amo anche io, Brian. Non immagini quanto. Essere qui con te, in questo momento, è la cosa più bella che potessi desiderare»

 

Un rumore improvviso alla porta mi fece sobbalzare. Qualcuno stava bussando, ma più che un invito ad aprire sembrava un tentativo di buttare giù la porta.

Brian si alzò molto lentamente e andò ad aprire per vedere chi fosse.

Là fuori c'era il nostro manager, paonazzo e agitato come non mai.

«Sbrigatevi voi due, sono arrivati i Paramore. Non fatevi attendere, per favore. Vi aspetto di là» e se ne andò senza dire altro.

«Merda merda merda» imprecai, fuori di me, mentre tentavo di rendermi vagamente presentabile. Mi sciacquai il viso, pettinai i capelli e misi in bocca una mentina. Decisi che mi sarei truccata poco prima del concerto.

Con il cuore che mi batteva forte, presi per mano Brian ed uscii nel corridoio.

Sentivo delle voci provenire da un camerino poco distante dal mio: mi feci coraggio e mi avvicinai.

La piccola stanza nella quale ero appena entrata era molto più curata e accogliente della mia: colorata e spiritosa, rispecchiava perfettamente il carattere delle persone che la occupavano, seppur temporaneamente.

 

“Eccola lì. È lei”, pensai, nel panico. L'avevo vista, seduta su un pouf blu al centro della stanza.

«Eccovi qui, siete arrivati! Finalmente posso conoscervi...ho sentito tanto parlare di voi, sapete? Soprattutto di te, Victoria»

Hayley, con la sua chioma rossa fiammante che danzava seguendo i suoi movimenti, mi si avvicinò e mi abbracciò.

«Tanto piacere – disse, baciandomi sulle guance – Sono davvero contenta di cantare con voi»

Si avvicinò a Brian e lo salutò allo stesso modo.

“Oh – mio – Dio” pensai. “È assolutamente meravigliosa”

Guardandomi attorno, notai che Jeremy, Taylor e un altro ragazzo che non conoscevo si stavano avvicinando a loro volta per salutarci.

 

I ragazzi furono assolutamente fantastici. Dopo poco, scoprii che David, Matthew e Luke si erano già presentati ai Paramore mentre io e Brian eravamo in camerino.

Quando finalmente ebbi superato – anche se non del tutto – l'ansia che mi attanagliava lo stomaco, riuscii ad osservare per bene le persone che mi circondavano.

Hayley era come me l'ero sempre immaginata. Solare, estroversa e spiritosa. Continuava a fare un sacco di battute alle quali tutti ridevamo.

Quel pomeriggio era vestita con una salopette giallo limone sotto alla quale indossava una t-shirt bianca. Ai piedi portava un paio di Dr. Martens nere con una stampa a fiorellini. Pienamente nel suo stile.

Jeremy e Taylor erano gentilissimi con noi, si preoccupavano che fossimo sempre a nostro agio.

Ovviamente, erano belli come apparivano in tv e sui giornali.

Discutemmo per qualche ora della scaletta, ci chiesero se avessimo delle preferenze particolari ed io intonai assieme ad Hayley qualche stralcio di canzone. Era tutto così perfetto da sembrare un sogno.

Le lancette dell'orologio zebrato appeso alla parete, però, erano impietose con noi: quando me ne accorsi, erano già le otto. Dopo un'ora sarebbe cominciato il concerto.

Nel frattempo, un gran trambusto sembrava sconvolgere il mondo del 'dietro le quinte': dal corridoio proveniva ogni sorta di voce, rumore, grido e perfino, in alcuni casi, imprecazione. Tutti erano ormai nel panico.

Hayley, Taylor, Jeremy e i loro collaboratori ci salutarono e ci chiesero di uscire in modo da lasciare loro il tempo di prepararsi.

 

Non saprei dire se purtroppo o per fortuna, fatto sta che l'inizio del concerto arrivò prima di quanto mi aspettassi. Infatti, nonostante fossi felicissima, l'agitazione mi impediva di godermi appieno quello che stava succedendo.

Da quel momento in avanti, il tempo corse talmente veloce che tutto quello che mi successe apparve come un fulmine al mio cervello: le urla dei fan, i flash delle macchine fotografiche, la prima canzone cantata assieme ai Paramore (facemmo 'Born for this'), l'eccitazione della mia band e tutto il resto.

Era una sensazione molto strana, nonostante l'avessi provata spesso: mi accadeva praticamente tutte le volte che mi esibivo, ma quella sera risultò come amplificata di cento volte.

“Questa è la serata più bella della mia vita” pensai. Il mio sogno si era finalmente realizzato, in più Brian aveva dimostrato di provare qualcosa di speciale per me, il che significava moltissimo.

Ma la cosa che più mi rendeva euforica era che, durante quel concerto, mia nonna Faith mi stesse guardando. Lei era la persona che più mi conosceva: nonostante le sue condizioni di salute non fossero proprio delle migliori, io ero – non so come – assolutamente certa che lei gioisse per il mio successo.

Insomma, non potevo desiderare di meglio.

 

Dopo circa due ore di musica, sudore e adrenalina, il concerto finì.

Con un sorriso a trentadue denti, mi unii alla catena di mani intrecciate iniziata da Hayley e noi, assieme ai Paramore, ci inchinammo davanti alla folla urlante.

Dopo un ultimo saluto, mi diressi verso il fondo del palco e mi nascosi dietro i tendoni neri. Brian mi raggiunse subito.

«Vuoi sapere una cosa?» mi chiese con un sorriso.

«Uhm, sì, dimmi!»

«Sei stata semplicemente favolosa stasera»

Arrossii all'istante e mi affrettai a rispondere: «Grazie, ma...siete stati tutti favolosi. Non solo io»

Brian mi rivolse una strana espressione crucciata, come se lo stessi prendendo in giro.

«Dico sul serio, sai!» esclamai. «Ma...a proposito! Voglio correre dalla nonna, devo salutarla assolutamente!» e così dicendo, corsi via, in cerca dei miei genitori, che mi avevano detto che sarebbero rimasti dietro le quinte tutto il tempo.

 

Dopo qualche minuto di ricerche inutili, mi resi conto che qualcosa non andava. Avrebbero dovuto essere lì, e comunque il concerto era finito da pochissimo tempo. Non potevano essersene già andati!

All'improvviso, una strana luce colpì i miei occhi, già abbastanza provati dal bagliore accecante dei riflettori.

Da dietro un tendone, un vortice luminoso rosso e blu lanciava segnali di allarme. I visi sempre allegri e gioviali delle persone che mi circondavano – organizzatori, manager, amici – sembravano coperti da un velo di morte.

«Che...che cosa sta succedendo?» chiesi, balbettando. Non ero sicura di voler conoscere la risposta. Avevo già capito tutto, ma volevo una conferma.

«Ci sono stati dei, ehm...problemi con tua nonna» mi rispose una voce in mezzo al gruppo che circondava l'ambulanza. Non riuscii a collegarla a nessun viso di mia conoscenza.

«La stanno per portare in ospedale» continuò, sempre la stessa voce.

 

Non feci in tempo a chiedere agli operatori sanitari di aspettare a partire, che quelli avviarono il motore e con un rombo l'ambulanza partì, solo una nuvola di fumo nero e puzzolente dietro di sé.

 

 

 

 

Credits: la canzone citata all'inizio è "Born for this" dei Paramore.
Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, fatta eccezione per i Paramore. Con questo mio scritto non intendo in alcun modo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone.

Angolo dell'autrice:

Dopo tipo un millennio, ecco qui il nono e penultimo capitolo della storia. È molto più lungo degli altri, quindi se siete arrivati a leggere fino alla fine vi ringrazio moltissimo. Sono abbastanza soddisfatta dello sviluppo che ho dato alla storia, e spero che sia la stessa cosa anche per voi =)

mi scuso per il tempo che ci ho messo a completare questo capitolo, ma tra esami, impegni e altre cose non ho mai avuto tempo e nemmeno ispirazione per scrivere.

Alla fine credo che ne sia valsa le pena ^-*

mi piacerebbe tantissimo che mi lasciaste una recensione in cui mi dite cosa ne pensate di ciò che avete letto...accetto critiche, commenti, suggerimenti come sempre!

Ci vediamo al prossimo capitolo – l'ultimo -, spero presto.

Graaaazie e ciao :D

Giulia

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Capitolo 10
*** L'addio ***


Every night I try my best to dream

Tomorrow makes it better

Wake up to the cold reality

That not a thing is changed

But it will happen... Gotta let it happen

 

 

 

«Vi...Victoria? S-sei tu?» sussurrò mia nonna, pronunciando le parole a fatica.

«Sì, nonna, sono io, sono io» dissi io tenendole delicatamente la mano. Un fiotto di lacrime cominciò a bagnarmi il viso, scendendo veloce fino a raggiungere con un leggero rumore la camicia da notte di mia nonna.

Sentirla parlare in quel modo, proprio rivolgendosi a me, mi aveva fatto uno strano effetto.

Lei inclinò la testa verso destra, muovendosi faticosamente, gli occhi opachi semiaperti.

Non sapevo proprio cosa dire. Sapevo che ormai era arrivata la fine, ma mi rifiutavo di ammetterlo, così dissi la prima cosa che mi venne in mente:

«Nonna, hai sentito il concerto? Come...come ti sono sembrata?». Le lacrime non mi davano tregua.

Lei si limitò a spostare lo sguardo verso di me, fissandomi. Ma cosa mi aspettavo? Probabilmente non avrebbe mai più parlato, quello di prima era stato semplicemente un caso.

Infatti, lei chiuse gli occhi e contemporaneamente aumentò la presa sulla mia mano, una presa comunque molto debole.

 

Non so per quanto tempo rimasi là a fissarla, la sua mano nella mia.

Ad un certo punto, trasalii sentendo una voce dietro di me che diceva:

«Vic...mi dispiace tanto. I dottori hanno detto che ha avuto una ricaduta improvvisa, e che è difficile che si riprenda, questa volta»

Era mia mamma, che subito appoggiò una mano sulla mia spalla. Mi voltai: anche lei aveva gli occhi lucidi. Una strana sensazione mi attanagliava lo stomaco.

Per la prima volta da quando ero arrivata assieme a Brian mi guardai intorno: ci trovavamo in una semplice stanza d'ospedale, piccola e spoglia. Non c'erano altri pazienti oltre mia nonna.

Le uniche persone presenti nella stanza erano i miei genitori, Brian e il dottor Folkner, che esibiva uno sguardo preoccupatissimo sul volto sempre allegro.

Il ticchettare dell'orologio appeso alla parete risuonava nel silenzio, correndo inesorabilmente, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto.

L'elettrocardiogramma ci informava che la frequenza cardiaca della nonna era molto lenta; ma nessuno tra i presenti si mosse: né i miei genitori, né il dottor Folkner. Rimasero semplicemente fermi immobili.

«Ehm, signora...credo che ormai stia per...andarsene. Non c'è nulla da fare, mi dispiace» sussurrò il dottore rivolto a mia madre.

Lei per tutta risposta annuì sconsolata.

Io mi avvicinai alla nonna, chinai la testa per darle un bacio, ma proprio in quel momento le sue labbra screpolate si aprirono. «S-sei stata...b-bra...vissima» sussurrò.

Chiuse gli occhi, voltò leggermente la testa e rimase immobile.

«Grazie, nonna, grazie» risposi io con un filo di voce, sapendo benissimo che non avrebbe potuto sentirmi.

Nonna Faith se n'era andata, per sempre.

 

Nel lutto, non potei fare a meno di sentirmi rincuorata, sapendo che le sue ultime parole erano state per me.





Credits: la canzone citata all'inizio è "Last Hope" dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione.

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


I’m writin' the future, I’m writin' it out loud

We don’t talk about the past, we don’t talk about the past, no

So I’m writin' the future, I’m leavin' a key, here
 

 

 

 

Erano trascorsi quattro mesi dal giorno in cui mia nonna se n'era andata.

Quei momenti rimasero impressi a fuoco nella mia mente, non passava giorno in cui non pensassi a quelle ultime parole che mi rivolse prima di morire. Ancora non mi sembrava vero. Nonostante il lutto fosse difficile da elaborare, lentamente capii che permettere a ricordi dolorosi di logorarmi ogni giorno che passava era controproducente, così cercai di concentrarmi sulla mia musica e sul gruppo per scacciare i ricordi dolorosi. Nonostante questo, lei era sempre nei miei pensieri, ed era presente in qualunque mio gesto.

D'altra parte, il lavoro andava più bene che mai. Negli ultimi mesi avevamo girato in lungo e in largo, sia per il nostro tour che come supporter di diverse altre band.

Qualche giorno dopo la morte di mia nonna, ricevetti una email da Hayley in cui mi porgeva le condoglianze da parte del gruppo; fu un gesto che apprezzai molto. D'altra parte, immagino che gli fossimo piaciuti molto la sera del concerto, perché continuammo a restare in contatto nei mesi che seguirono.

 

Tra me e Brian le cose non potevano andare meglio, eravamo più uniti che mai.

Sono fiera di dire che due mesi fa, mentre ci trovavamo soli a casa sua, fui colta di sorpresa quando vidi che lui estrasse dalla tasca dei pantaloni una scatolina blu. La aprì davanti ai miei occhi mentre uno splendido anello ricoperto di diamanti risplendeva in tutta la sua brillantezza. Nonostante io stessi per collassare dall'emozione, riuscii a capire quello che mi stava chiedendo: voleva che diventassi sua moglie.

Io, Victoria, mi sarei sposata con Brian, l'unico uomo che avessi mai amato veramente nella mia vita. Comunque, ciò non successe fino a qualche mese dopo, perché tra un impegno lavorativo e l'altro, non riuscivamo proprio a ritagliarci del tempo per noi e per il nostro matrimonio, dato che volevamo anche partire per un bel viaggio di nozze.

Mia madre e mio padre ne furono felicissimi, per non parlare poi dei ragazzi del gruppo.

 

Tutto sommato, posso affermare che quei mesi furono positivi. Naturalmente le difficoltà non mancarono – come sempre – ma con l'aiuto di Brian riuscii a superare tutti gli ostacoli che mi si presentarono davanti.

Non ho mai sopportato quei libri o quei film in cui l'autore o il regista non riescono a fare a meno di terminare una storia con un lieto fine, il più delle volte fasullo e al di là di ogni realismo.

Perciò rimango sorpresa ogni volta che ripenso a quello che mi è successo. La morte di nonna Faith è stata sì dura e dolorosa, ma mi ha regalato nuova forza, una forza che mai avrei pensato di poter mettere in quello che faccio tutti i giorni.

Lei è stata una luce nella mia vita, un faro di speranza in mezzo all'oceano buio, e le sue ultime parole mi regalarono così tanta felicità, che credo che un barlume di ciò che ho provato quella sera – nei suoi aspetti positivi e negativi – rimarrà dentro di me per sempre.

 

'It's just a spark, but it's enough to keep me going'

 

 

 

 

 

 

Credits: le canzoni citate sono ''Future'' e ''Last Hope'' dei Paramore.
Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione, fatta eccezione per i Paramore. Con questo mio scritto non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone.

Angolo dell'autrice: Eccoci arrivati alla fine della nostra storia.

chiedo umilmente perdono per tutto il tempo che ho impiegato per finirla; è inutile che stia qui a elencarvi tutti i motivi perché sarei noiosa, quindi l'unica cosa che mi sento di dirvi è questa: se avete letto fino a qui, vi ringrazio tantissimo, perché senza qualcuno che mi desse la sua opinione sulla storia non avrei potuto andare avanti.

 

Chiedo a chiunque stia leggendo questa nota di fare un ultimissimo sforzo per dirmi cosa ne pensa di questo finale, di come ho scritto e tutto il resto, insomma... ditemi quello che vi pare, ahah, fa sempre piacere <3 se non ne avete voglia comunque vi capisco, ci ho messo davvero troppo per aggiornare, scusate :c

Non so se essere contenta del finale che ho scritto, sinceramente sono un po' delusa dalla storia in generale, ma forse è solo la mia impressione...non so, sappiatemi dire (:

Comunque vada, spero di avervi fatto trascorrere un po' di tempo in modo rilassante e, perché no, emozionante. Nel prossimo periodo penso che scriverò qualcosa riguardo un libro, ma per ora non vi dico quale perché sarà una sorpresa, se poi vorrete seguirmi anche là ne sarei felicissima, vi prometto che aggiornerò con costanza!

Beh, scusate il papiro...a presto, un bacio

Giulia

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