Saved by the bell

di berlinene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Toho Stories - Istruzioni per l'uso ***
Capitolo 2: *** Appello - Toho Story 1 ***
Capitolo 3: *** Invito - Toho Story 4 ***
Capitolo 4: *** Parla con me - Toho Story 2 ***
Capitolo 5: *** Solo un nome - Toho Story 3 ***
Capitolo 6: *** Happy Birthday - Toho Story 6 ***
Capitolo 7: *** Qualcosa di caldo, qualcosa di dolce - Toho story 9 ***
Capitolo 8: *** Una Visita - Toho Story 7 ***
Capitolo 9: *** Quasi una sorella - Toho Story 11 ***
Capitolo 10: *** Pasquetta in casa Toho - Toho Story 8 ***
Capitolo 11: *** La genetica non è un'opinione - Toho Story 0 ***
Capitolo 12: *** Fidarsi è bene, non fidarsi... fa male! (Toho Story 5) ***
Capitolo 13: *** Piccoli problemi di cuore - Toho story 10 ***



Capitolo 1
*** Toho Stories - Istruzioni per l'uso ***


intro

Saved by the Bell – Toho Stories

Istruzioni per l’uso

Come ho già accennato si tratta di una raccolta di one shot, solitamente non molto lunghe. Le storie sono per lo più slegate fra loro e non usciranno in ordine cronologico ma saranno riordinate di volta in volta, ovvero: l’ordine dei capitoli che troverete È quello cronologico ma non quello di pubblicazione. L’ordine di pubblicazione è riscontrabile nel numero che segue il sottotitolo “Toho Story #” che affianca il titolo vero e proprio della storiella. Qui di seguito qualche info un po’ noiosa ma utile alla comprensione. 

A proposito del tempo

Tutte le storie sono ambientate durante i tre anni di liceo che seguono la finale vinta a pari merito dalla Toho e dalla Nankatsu. Anni di cui si sa ben poco se non che il Toho umilia per tre anni di seguito Taro e la sua Nankatsu *ridacchia soddisfatta*. All’inizio di ogni storia indicherò l’anno scolastico in cui si svolge. (Lo so sembro maniacale ma credo sia necessario perché non vi perdiate XD... nella mia testa la storyline è ben chiara ma credo che nelle vostre serbiate lo spazio per cose più degne XD).

A proposito del Personaggio Originale

Molti lettori forse hanno già conosciuto Yasu Wakbayashi (o Irene Price) in qualcun'altra delle mie storie. Beh, è sempre lei... la sorella gemella di Genzo e poi “fidanzata” di Ken Wakashimazu. È solare, un po’ maschiaccio, a volte molto insicura altre fin troppo determinata. Rispetto al vecchio “Diario” la sua storia è più fedele al canon. Prima, spesso, usavo l’escamotage di “spostare” in avanti la storia perché i personaggi fossero un po’ più grandicelli, qui invece ho mantenuto il timing del Taka. Come spiego nella prima shot, dopo il campionato delle elementari, Yasu ha seguito il fratello in Germania dove ha frequentato le medie, salvo poi tornare in Giappone per il liceo e trovarsi, quasi per caso, al Toho.
Sebbene conoscesse di vista gli ex giocatori del Meiwa, approfondisce il rapporto con loro e, nel corso del primo anno, si mette anche insieme a Ken.

A proposito degli altri

Credo ci sia molto di personale nella mia caratterizzazione dei Toho-Boys ma credo (e spero) che non li troverete OOC, semplicemente parlo di loro in situazioni un po’ diverse, diciamo più “informali” di quelle a cui siamo abituati, mi è piaciuto vederli come adolescenti “veri”, cercando di ri-calarmi un po’ nel mondo dei teenager... ovviamente quelli dei “miei” tempi...

A proposito del titolo ( e dell’istituto Toho)

A proposito dei “miei” anni dell’adolescenza, un telefilm cult di quegli anni si intitolava proprio “Saved by the bell” (lett. : “Salvati dalla campanella”), noto in Italia come “Bayside School”.
L’idea base di questa raccolta era di restituire un po’ l’atmosfera di questo genere di TF americani ad ambientazione scolastica e mi sono presa la libertà di pensare la Toho School come una scuola a impostazione americana: per cui c’è una “cafeteria”, gli alunni si spostano ogni ora da un’aula all’altra, hanno orari diversi fra loro etc.

Inoltre è una sorta di collegio per cui gli studenti hanno un alloggio all’interno del grande campus. Essendo minorenni, non possono uscire dalla scuola senza permesso.

Ultima informazione utile (ma che sfiora la maniacalità ancor più di quanto detto finora), è la “piantina” dell’appartamento in cui abitano i protagonisti. Si trova al secondo piano di una palazzina. Entrando dal portone si accede a un piccolo corridoio che si allarga sulla sinistra in un salottino con divanetti e TV, mentre sulla destra c’è la porta della cucina\sala da pranzo. Più avanti, una porta conduce a un corridoio su cui si affacciano cinque camere e due bagni.

E infine (giuro)...

Credits e dediche

Un grazie di cuore a sissi, agatha e releuse: senza di voi questa raccolta che adoro non sarebbe nata. Soprattutto grazie ad agatha e rel per i betaggi multipli e il sostegno continuo.

Grazie a sissi per il sottotitolo “Toho Story” che adoro e mi fa rotolare ogni volta. Prima o poi, lo giuro, farò vestire Koji da Buzz Lightyear.

Grazie ancora a releuse per l’idea di inquadrare le storie nella storyline canon. Molto meglio!

Grazie ancora e ancora ad agatha per amare i miei scolaretti *quasi* quanto meJ

E ora zitti, comincia la lezione!

 

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Capitolo 2
*** Appello - Toho Story 1 ***


A differenza di quelle che seguiranno, questa prima storia è in prima persona... anche per creare un legame col Diario...

Il primo giorno di scuola....

Appello

Feci un profondo respiro, prima di varcare gli austeri cancelli dell’Istituto Privato Toho.
Me l’ero cercata. Su tutta la linea.
Eppure, anche se avevo paura, dovevo restare fedele a quella scelta che, per una volta, era stata genuinamente mia.
Da quando lo avevo seguito fuori dall’utero di nostra madre, mi sembrava di non aver mai fatto altro che andare dietro a Genzo. A scuola, agli allenamenti, in Germania…
Era arrivato il momento che Yasu Wakabayashi si facesse la sua vita e aveva deciso di farlo in modo drastico.
Così, quando i miei mi chiesero dove volessi proseguire gli studi, intendendo in che tipo di scuola, al limite in quale città della Germania o dell’Europa, io risposi invece: “In Giappone”. Mancavo dal mio Paese da tre anni, vacanze a parte. Per paura di restare sola, avevo seguito mio fratello ad Amburgo. Mi dispiaceva staccarmi da lui, era da sempre l’unica costante della mia vita, ma, paradossalmente, proprio per quello, frapporre tra noi migliaia di chilometri non mi spaventava: il nostro legame era più forte della distanza.
E, ovviamente, gli avevo anticipato le mie intenzioni. Lui si era stupito, “avevo sempre creduto che l’Europa ti fosse più congeniale” erano state le sue parole. Ma, alla fine, aveva compreso e condiviso questa mia voglia di distacco. E non poteva essere altrimenti.
Mia madre aveva fatto una delle sue solite scenate. Che, poi, era uno dei motivi per cui, invece, frapporre tra me e lei migliaia di chilometri avrebbe avuto di sicuro un effetto positivo sul nostro rapporto.
Mio padre inarcò leggermente il sopracciglio, segno, forse, che non si aspettava quella risposta, ma, al solito, non si scompose più di tanto. L’unica clausola che impose fu che andassi in collegio a Tokyo e non da sola nella villa a Nankatsu. Bene, dopo aver vissuto ad Amburgo, non è che morissi dalla voglia di tornare al paesello. E a Tokyo sarei comunque andata di lì a tre anni per l’università, quindi… “C’è un’ottima scuola, che io stesso ho frequentato e anche tuo fratello Ichirou. Andrai là.”  Aveva concluso, con quella sua solita calma che rasenta pericolosamente l’ indifferenza. Beh, se non sapesse mantenere la freddezza di fronte alle situazioni inaspettate e prendere decisioni su due piedi, non sarebbe l’imprenditore di successo che è! E se uno ci pensa bene, poi, in fondo, sono anche le doti di Genzo e… ma non divaghiamo.
Mi ero preparata a una lunga discussione e quella resa quasi immediata mi aveva spiazzata un attimo. Ma, lungi dal volerlo ammettere, chiesi invece, secca: “E sarebbe?”
“L’Istituto Toho”.
Ne avevo sentito parlare, ovviamente, per via dell’ottima squadra di calcio. I vecchi compagni di Nankatsu me l’avevano citata spesso ma, in quel momento, non ricordavo a che proposito. Sapevo pure che era un’ottima scuola e molto cara. Insomma, tutto sommato, ne ero entusiasta.
Tuttavia, la mia reazione davanti ai miei genitori era stata, al solito, piuttosto tiepida.
“Ok” avevo detto con un’alzata di spalle.
Tornata nella mia stanza, però, mi ero messa a saltellare: i pochi dubbi che avevo si erano dissipati e il futuro mi sembrava carico di promesse e avventure.

L’entusiasmo si era un po’ affievolito di fronte alla stanzetta spartana e disadorna che sarebbe dovuta essere la mia casa, almeno per i successivi tre anni. Tuttavia, avevo cercato di rincuorarmi, dicendomi che l’avrei personalizzata e decorata a modo mio.
Ma di fronte a quel pesante cancello grigio mangiato dalla ruggine, a quegli edifici scuri e austeri, a quella massa di sconosciuti che mi circondava, in quella mattina di aprile nuvolosa e insolitamente gelida, un brivido mi percorse. Mi dissi che era solo il vento, troppo freddo per l’uniforme estiva che indossavo.
Quella. Stramaledetta. Uniforme.
No dico io, con quello che costa la retta, DICO IO, potrebbero almeno fartela su misura? In effetti, la divisa in sé era pensata per essere austera quanto le strutture della scuola: la camicetta bianca e la gonna grigioverde sotto il ginocchio erano piuttosto eleganti. Peccato che la gonna al ginocchio mi ci arrivasse appena e che la  camicetta mi facesse sembrare ancora più piatta di quello che ero. Senza contare che, in puro stile giapponese, avevo deciso di sancire il nuovo taglio che prendeva la mia vita con un nuovo taglio di capelli. Ma come spesso mi accade, ero stata eccessivamente drastica e li avevo tagliati troppo corti. Avevo giurato di non farlo, ma non resistetti: tirai fuori il cappellino dalla borsa e me lo calcai in testa.
Maledetto viziaccio preso da Genzo. Però sì, il fatto di non vedere gli altri, ti fa illudere che gli altri non vedano te e non scorgere i loro occhi mentre ti valutano, ti spinge a convincerti che nessuno stia pensando a quanto sei ridicola con indosso quella divisa.
Percorrendo a lunghe e rapide falcate il vialetto, arrivai di fronte all’ingresso principale e sbirciai i cartelloni per vedere dove dovessi recarmi. Inglese. Bene, almeno si iniziava da qualcosa che mi piaceva. Aula 117. Facile, me l’avevano spiegato: stanza n°7 del primo piano dell’edificio numero uno, il principale.   
Quando raggiunsi l'aula, vidi che l'ingresso era parzialmente ostruito da un ragazzo molto alto che, appoggiato con la spalla allo stipite, chiacchierava animatamente con un compagno, lamentandosi, o almeno così mi sembrò, del fatto di non essere in classe insieme. Non riuscivo a vedere in faccia nessuno dei due.
Mi avvicinai, tentando di sgusciare attraverso la piccola parte libera del vano della porta, calcandomi bene la tesa sul viso per non dare troppo nell’occhio. Ma non riuscii a evitare di urtare il ragazzo più alto che, tuttavia, si limitò a mormorare delle scuse senza nemmeno voltarsi. Per fortuna.
I posti erano già quasi tutti occupati e, cercando di non pensare a tutti quegli sguardi trapunti su di me, mi avvicinai a un banco, in posizione piuttosto defilata, fra la finestra e un altro posto vuoto. O, meglio, occupato solo da una cartella e da un cappellino simile al mio. Il che mi fece venire in mente che era il caso di togliermelo. Me lo sfilai rapidamente e lo riposi in borsa, poi detti un’occhiata alla mia immagine sbiadita riflessa nella finestra. Passai una mano sui capelli, con un sospiro: non erano mai stati un gran che, ma questo taglio era davvero orribile. Desiderai ardentemente potermi rimettere il cappello.
Detti un’occhiata ai miei compagni: le ragazze, quasi tutte posizionate dall’altra parte della stanza, ridacchiavano divise in gruppetti, lanciandomi di tanto in tanto sguardi che andavano dall’incuriosito, al clinico. Una mi sorrise brevemente. Risposi con la solita piega sghemba delle labbra.
I ragazzi, in numero maggiore, discutevano tutti insieme, alcuni parlavano della squadra di calcio: a quanto pareva in settimana ci sarebbero stati i provini. Allungai le orecchie per cercare di capire quando, magari sarei andata ad assistere.
Sospirai guardando fuori. Chissà dov’era in quel momento Genzo: chissà se si sentiva solo come me. Decisi che, più tardi, lo avrei chiamato. Mi voltai e sorrisi vedendo il cappellino sul banco accanto: una parte di me sperava, irrazionalmente, che Genzo sarebbe presto arrivato e si sarebbe seduto lì, vicino, dov’era naturale che fosse.
Continuavo a fissare il berretto senza guardarlo davvero. Mi riscossi quando vidi una mano grande posarsi sul copricapo per prenderlo e ficcarlo con malagrazia nella cartella posata sulla sedia, quindi mettere la borsa a terra. La mano apparteneva al ragazzo della porta. Con la coda dell’occhio lo vidi infilare con un movimento fluido il corpo longilineo fra il banco e la sedia. Ebbi una rapida visione del suo viso affilato e del naso sottile e un po’ all’insù, prima che sparissero dietro una cortina di lunghi capelli neri.
In quel momento entrò il professore e tutti ci alzammo, col solito corollario di sedie e banchi che strusciano rumorosamente sul pavimento.
“Goodmorning, guys” disse. Era giovane e decisamente americano, a giudicare dall’accento.
“’morning teacher” biascicammo in coro.
Mr. Warner, come dichiarò di chiamarsi, aprì il registro e cominciò a fare l’appello, chiedendo a ognuno di presentarsi brevemente, per conoscerci e valutare il livello di inglese.
Se avessi dovuto giudicare io, sarei rimasta molto delusa da quello che sentivo: non solo una serie impressionante di pronunce pessime e orrori di grammatica, ma storielline tutte uguali di figli di capitani d’industria desiderosi di seguire le orme paterne e riuscire ad accaparrarsi un posto dietro una scrivania di mogano in qualche superufficio all’ultimo piano di qualche megagrattacielo, o di fanciulle di buona famiglia alla ricerca di un marito che avesse una scrivania del genere. In alternativa, tanto per mostrarsi moderna e disinibita, qualcuna confessava con una risatina imbarazzata di voler diventare un’attrice o una modella.
Il professor Warner aveva messo i nomi in ordine alfabetico occidentale e il mio si trovava dunque in fondo. Mi stavo quasi assopendo cullata da quelle tiritere sgrammaticate e tutte uguali, crogiolandomi al pensiero che avrei risposto: “My name is Wakabayashi Yasu, I am fourteen years old, I come from Nankatsu but I lived in Germany for the past three years and I want to become a goal-keeper”. Ridacchiavo fra me, pregustando le facce dei miei compagni, quando una voce con una pronuncia migliore delle altre scandì “Goodmorning, my name is Sorimachi Kazuki, I am fourteen years old and I come from the sorroundings of Tokyo. I like playing football and my dream is to become an internationally famous football player”.
Mi voltai per guardarlo e il mio misterioso vicino di banco fece lo stesso, in un turbine di capelli nerissimi e lunghissimi che guardai con una punta d’invidia. Scrollai le spalle e tornai a fissare quel Sorimachi. Lo osservai ringraziare educatamente il professore che si complimentava per il suo inglese, spiegando che era un appassionato di musica. Decisi che potevamo avere diverse cose in comune e che forse avevo trovato un potenziale amico.
Mentre pensavo a come attaccare discorso a fine lezione, magari usando la carta della “sorella di”, sentivo a un altro livello di coscienza il prof che continuava a chiamare nomi e i miei compagni a rispondere. Quando lo sentii iniziare incerto a dire “Waka…”, scattai rapidamente in piedi. Con qualche secondo di ritardo sul mio vicino di banco.
“…bayashi” concluse l’insegnante guardandoci perplesso.
Lentamente mi voltai verso il mio compagno, che mi guardava a occhi sgranati dall’alto del suo metro e ottanta buono di altezza. Mi fissò un attimo poi si guardò attorno. Come se cercasse qualcun altro… mio fratello? Perché ora che l’avevo visto in volto…
Sentii il professore schiarirsi la voce e chiedere in giapponese: “Allora chi è Wakabayashi?”
“Here I am” balbettai. Poi attaccai decisa: “I’m Wakabayashi Yasu. I am fourteen years old, I come from Nankatsu and…” feci una piccolo pausa “I have two older brothers and a twin brother. But they all live and study in Europe” conclusi, rispondendo al muto interrogativo del ragazzo.
“E tu sei Wakashimazu Ken, immagino”.
Ricollegai subito il nome e il volto… certo che lo avevo già visto! Anni prima… a Yomuri Land… il portiere del Meiwa! Ma soprattutto… che idiota! Ma certo, il Toho! La squadra che per tutti gli anni delle medie era arrivata in finale contro i miei ex compagni della Nankatsu e che nell’ultima, solo pochi mesi prima, aveva addirittura vinto il campionato a pari merito con loro!
“Sì, signore” rispose lui con un educato inchino. La voce era incerta, probabilmente era rimasto colpito quanto me da quell’incontro inaspettato. Lo osservai mentre si presentava e concludeva dicendo di giocare per la squadra della scuola: “I am the…” si fermò come se non ricordasse la parola.
“Goalkeeper” gli sussurrai piano. Mi guardò di nuovo sgranando gli occhi neri come la pece.
“I am the goalkeeper” ripeté, tornando a sedersi. Poi mi guardò di nuovo e mi fece l’occhiolino, disegnando un grazie con le labbra sottili. Strizzai a mia volta l’occhio e sorrisi. La sua espressione si fece seria per un attimo, poi sorrise di rimando, scuotendo la testa. Non ci posso far niente se somiglio così tanto a mio fratello quando rido.
Ci sedemmo di nuovo, mentre gli ultimi studenti si presentavano.
“Pss” bisbigliò Ken, interrompendo i miei pensieri. “Quindi tuo fratello è ancora in Germania”.
“Sì” risposi, sempre a bassa voce.
“E ci resta?”
“Sì”
“E cosa fa?”
“Cosa vuoi che faccia” sibilai un po’ stizzita. “Studia, si allena, gioca…”
“E tu come mai sei venuta in Giappone?”
Ora, capivo la sua curiosità su mio fratello, ma cosa gli importava di me? Stavo per rispondergli per le rime, quando il professore ci richiamò ed entrambi tornammo a guardare la cattedra.
“Psss” fece di nuovo.
“Zitto, Wakashimazu” lo rimbrottai. Volevo evitare una punizione subito il primo giorno.  Ma quando mi rivolsi verso il signor Warner, mi accorsi che ci guardava male. E infine fece cambiare posto a Ken, dividendoci.
Con la coda dell’occhio tornai a fissare il portiere del Toho, cercando di sovrapporre il volto allungato dai tratti eleganti, incorniciato da quei meravigliosi capelli neri, al visetto del bambino allampanato che ricordavo, con il ciuffo sugli occhi e lo sguardo furbo. Difficile dimenticare la tracotanza con cui era entrato in campo dichiarando che avrebbe parato il rigore di Matsuyama. Difficile anche dimenticare che, poi, l’aveva fatto davvero, dimostrando un’agilità e un talento inferiori solo a quella sua sfrontatezza ma, forse, sufficienti a giustificarla. Difficile, infine, dimenticare l’ottima prestazione durante la finale di quello stesso campionato… Ora, come allora, sembrava più grande dell’età che aveva – la mia.
Mentre lo guardavo, mi accorsi che le sue labbra si muovevano.
Aspettami a fine lezione.
Lessi. Sicuramente me l’ero sognato. Mi voltai indietro e dalle parti. Non c’era nessun altro. Stava parlando con me.
Io? sillabai in silenzio puntandomi l'indice al petto, poi feci roteare il dito per dire "dopo?".
Lui sorrise di nuovo, con quell'aria un po' supponente. Poi mosse lentamente la testa su e giù: così facendo i capelli scesero di nuovo a coprirgli il viso, ma stavolta le lunghe dita affusolate corsero a risistemarli dietro l'orecchio. Poi incrociò le braccia, appoggiando i gomiti sul tavolo e, sempre voltato nella mia direzione, fece il gesto di bere qualcosa e simulò uno sbadiglio.
Ridacchiai, feci segno "ok" con la mano e mi voltai verso l'insegnante.
D’improvviso realizzai chi fosse l'altro ragazzo sulla porta, prima dell'inizio della lezione: era senz'altro Kojiro Hyuga. Lui e Wakashimazu erano amici e compagni di squadra fin dalle elementari. Erano passati tre anni ma ricordavo bene la sua piazzata durante le selezioni della Nankatsu e ricordavo l’emozione della finale… che partita! Ma, soprattutto, mi ricordai come, nonostante fossi solo una bambina, Kojiro Hyuga mi fosse sembrato bellissimo… Ero curiosa di vedere se crescendo si era mantenuto! Sicuramente in caffetteria ci sarebbe stato anche lui. Sentii un sorriso allargarsi sul volto e lentamente mi voltai di nuovo verso Wakashimazu, rendendomi conto, con un po' di imbarazzo, che i suoi occhi erano ancora incollati su di me. Aveva allungato le gambe chilometriche sotto il banco e incrociato le braccia in grembo: sedeva sul bordo della sedia, appoggiato contro lo schienale.
Quando i nostri sguardi si incrociarono, ebbe un impercettibile sussulto, ma subito le spalle si rilasciarono e sorrise di nuovo, socchiudendo gli occhi.
Credo di essere rimasta un po' imbambolata a osservarlo. Forse è stato uno di quei momenti in cui, per qualche strana congiunzione astrale, hai l'impressione di poter vedere con chiarezza, per un attimo, tutto il tuo futuro, ma l'attimo è talmente breve che, poi, non ricordi niente. Non ero attratta dal suo sorriso come lo sarei stata un giorno, non mi faceva andare in pappa le gambe, né mi faceva venir voglia di baciare quelle labbra sottili.
Tutto questo faceva ancora parte di un futuro che, in quel momento, non sapevo di avere. Ma c'era una scintilla in quegli occhi socchiusi, una scintilla di vitalità e di impazienza, di intelligenza  e di scaltrezza. E di comprensione, di affinità, affiatamento…
Sorrisi ancora, in risposta, e sentii che, stavolta, lo facevo in un modo che era soltanto mio.
"WAKASHIMAZU e WAKABAYASHI!" urlò il professore, evitando abilmente di impappinarsi coi nomi.
Per fortuna la presentazione della classe aveva preso più tempo del previsto e la campanella interruppe il prof e ci salvò da una bruttissima figura.
Mi alzai e recuperai la mia roba, poi mi girai verso di lui calcandomi il berretto in testa. Solo per vederlo compiere, come in uno specchio, lo stesso movimento. Ridacchiammo di nuovo.
"Allora Wakabayashi" pronunciò il mio cognome con una smorfia, come avesse un cattivo sapore. "Andiamo a prenderci qualcosa in –uhm- cafeteria? Vorrei ringraziarti per il suggerimento e scusarmi per averti fatto rischiare una punizione subito il primo giorno."
Dissi che non ce n’era bisogno, ma accettai l’invito e mi affrettai a seguirlo: con pochi passi delle sue gambe lunghissime era già a metà corridoio.
"Anche tu hai la borsa di studio?" chiesi. Mi muovevo a passi rapidissimi per tenere il suo ritmo e avevo un po' di fiatone.
"Sì" rispose secco, rallentando un po'. "Sennò col cavolo che mio padre mi pagava la retta di questo istituto"
“Troppo alta?”
“Beh, per i comuni mortali, sì, è piuttosto alta…”
"Te la meriti, la borsa di studio" risposi trascurando la frecciatina. "Sei un ottimo portiere".
Si fermò e mi squadrò, un sopracciglio alzato.
"Specie da quando tuo fratello non mi fa più concorrenza..."
"Che c'entra? Tu sei bravo, indipendentemente dal confronto con lui".
"Perché lui lo è di più, vero?"
"Non ho detto questo"sbuffai contrariata. Volevo fargli i complimenti per lo scorso campionato, ma evitai.
Nonostante la piccola discussione, appena entrati nel locale che fungeva da mensa e da bar interno, mi fece cenno di sedermi mentre andava a prendere da bere. A quanto pareva, saremmo stati solo noi due. Tornò con due tazze fumanti. Presi la mia e l’avvicinai alle labbra, quando dall’odore mi accorsi che era tè. Abbassai rapidamente la tazza per posarla sul tavolo, con la faccia un po’ schifata, immagino.
“Uh” fece lui, imbronciandosi. “Non ti piace il tè?”
“No” mentii, “è solo mmm troppo caldo”.
Rimanemmo in silenzio un paio di minuti. Io con le braccia conserte poggiate sul tavolino, cercando il coraggio per tirare giù la brodaglia, che, comunque, mi era stata offerta.
Ken sorseggiava lentamente il suo tè, guardandomi. Alla fine si mise a ridere.
“Non devi berlo, se non ti piace” disse.
“Sul serio?” chiesi speranzosa.
“Sul serio”confermò lui, sghignazzando.
“Vado a prendermi un caffè. Vuoi qualcos’altro?” domandai. Volevo farmi perdonare.
“No, grazie”
“Magari un dolcetto, hanno dei muffin meravigliosi” lo tentai.
“Non li ho mai assaggiati…” rispose, aggrottando le sopracciglia.
“Faremo a metà così lo assaggi”.
Tornai di lì a poco con una bella tazza di caffè e un muffin al cioccolato veramente notevole. Lo spezzai con le mani e gliene detti metà.
“Grazie” disse, accennando un inchino con la testa. Dette un morso al dolcetto e gli occhi gli brillarono letteralmente. “E’ buonissimo!”
“Decisamente” confermai io.
“E pensare che è per questo che mio padre non vuol pagare la retta” sospirò, guardando con aria sconsolata l’ultimo boccone al cioccolato.
“Per i muffin?” chiesi strabuzzando gli occhi.
“Ahahaha, certo che no, intendo…” fece un gesto con la mano come a indicare tutto quello che li circondava. “L’impostazione americana”.
“Oh, beh… il motivo per cui io sono qui” ridacchiai.
“Davvero?” si stupì Ken.
“Quando Genzo è partito per la Germania, l’ho seguito. Ma poi ho deciso di tornare in Giappone e mio padre ha voluto venissi qui, dove hanno studiato anche lui e mio fratello maggiore Ichirou”.
“Pensa un po’. Mio padre preferirebbe pagare una buona scuola giapponese che non mandarmi qui gratis…”
“Famiglia tradizionalista?”
“Molto.”
“Io e Genzo, invece, siamo cresciuti con una tata inglese e un maggiordomo tedesco. Da piccoli parlavamo poco giapponese…”
“Beh, a scuola…”
“Finché Genzo non è entrato a giocare nella Schutetsu, avevamo un’istitutrice privata… ma almeno lei era giapponese…” ridacchiai. “E poi, dopo, c’era anche Mikami…”
“Mi… Mikami?” chiese lui, sbalordito, rischiando che l’ultimo sorso di tè gli andasse di traverso. “Tatsuo Mikami, l’ex portiere della Nazionale?”
“Sì” risposi con indifferenza. “Era l’allenatore personale di Genzo, praticamente viveva a casa nostra”.
“Kamisama” mormorò quasi fra sé.
“E invece… tu?” incalzai, curiosa.
“Casa mia è l’opposto” rifletté, guardando pensoso il bicchiere vuoto. “Mio padre gestisce un dojo di karate che è della mia famiglia da generazioni… pensa che mia mamma di solito porta abiti tradizionali, persino in casa – o cazzo.”
Ascoltavo rapita ma quell’imprecazione mi riscosse.
“Dobbiamo andare alla prossima lezione!”
Appurato che anche all’ora successiva saremmo stati compagni di classe, ci fiondammo per il corridoio, raggiungendo l’aula di matematica quasi in tempo.
Nel corso della giornata, scoprimmo di avere praticamente tutti i corsi in comune. In alcuni c’era anche Kojiro. Il quale, per la cronaca, si era conservato parecchio bene (detto in breve, era un figo da paura) anche se non aveva un’aria molto affabile e mi rivolse sì e no due parole, il minimo sindacale della cortesia.
Io e Ken pranzammo insieme e poi ci avviammo verso gli alloggi. Dopo aver finito il discorso sulle famiglie, eravamo passati a parlare di calcio. Gli allenamenti sarebbero iniziati da lì a una settimana, dopo i provini per i nuovi giocatori.
“Quindi avete ancora qualche giorno di riposo” osservai.
“Sì, anche se volevo già iniziare a fare qualcosa… son stato un sacco fermo, prima la spalla, poi la mano…” sospirò.
Ricordava la brutta caduta durante la finale del campionato e la terribile agonia della semifinale dove Wakashimazu aveva giocato con il polso in pessime condizioni…
“Se ti va, ti aiuto ad allenarti,” buttai là, non so neanche io perché. “Posso insegnarti un po’ di cose che mi ha detto il signor Mikami” continuai, mentre mi chiedevo perché diavolo lo stessi facendo.
Mi guardò, sbattendo le palpebre. “Se ci tieni” borbottò con una scrollata di spalle.
“Un po’ di allenamento non fa mai male”.
“Ti andrebbe bene già questo pomeriggio?”
“Sì, sì… il tempo di cambiarmi e…” dissi accennando alla palazzina che avevo di fronte.
“Vivi qui?” chiese stupito.
“Sì”
“Non credevo che i dormitori femminili e maschili… Bah che strano… a che piano?”.
“Secondo”
“Sec- anche io! Sarà l’appartamento di fronte…”
Quando arrivammo al pianerottolo, ci salutammo ancora, dandoci appuntamento da lì a un paio d’ore per andare a correre. Quindi… ci avvicinammo entrambi alla stessa porta!
Ci guardammo stupiti: “E’ questa casa tua?” chiedemmo all’unisono.
La porta si aprì e apparvero Kojiro Hyuga, Kazuki Sorimachi, quello che segue Inglese con me e Ken, e un altro ragazzino più piccolo.
“Ci siamo riusciti Wakashimazu, abbiamo fatto a cambio con quei Watanabe, Uchibe e Wada e ora io, Sawada e Sorimachi viviamo qui. Il quinto non si è ancora visto… però la stanza è occupata…”
“Ehm” intervenni timidamente. “La roba è mia…”
“Tua?” chiese stupito Kojiro, strabuzzando gli occhi. “Ma tu sei una-”
“Ci sarà stato un errore” osservò Sorimachi.
“Credo di sapere cosa è successo” sospirai. “A iscrivermi è venuta la mia tata che non ha ancora capito che se scrive ‘Yasu’ invece di ‘Yasuko’ mi scambiano per un maschio… siccome, a quanto pare, hanno distribuito le stanze per cognome… eccoci qua…”
“Non credo sia un grosso problema…” sorrise Kazuki, vedendomi un po’ mogia. “Ti accompagniamo in segreteria, vedrai che si sistema tutto”.
“Sì, beh, io… devo radunare le mie cose avevo… iniziato a sistemarmi” balbettai.
“Non è necessario che fai tutto di fretta” disse Ken. “Al limite per stanotte rimani qui e poi domani facciamo tutto con calma… non ti pare? Se per te non è un problema…”
“No, no” risposi, con un sorriso. “Se non lo è per voi…”
“Figurati” la liquidò Sorimachi, tornando alla propria stanza.
Ken sorrise: “A quanto pare è il destino che mi mette sempre un qualche Wakabayashi fra i piedi”. Allungò la mano come se volesse spettinarmi i capelli, ma poi optò per una pacca sulla spalla, prima di sparire in camera.
Kojiro guardò l’amico aggrottando la fronte, poi mi squadrò da capo ai piedi e biascicò: “Fa' come se fossi a casa tua”.
Rimase solo il ragazzino che mi tese la mano presentandosi come Takeshi Sawada per poi sparire. In effetti a Yomuri Land avevo visto anche lui, ma era molto crsciuto da allora.
Il pomeriggio passò rapido: i compiti di matematica, la corsa e gli esercizi con Ken, la doccia… Stavo rimettendo la roba in valigia, quando mi chiamarono per cena.
“Avete cucinato?” mi stupii. “Io pensavo di andare in mensa…”
“Veramente,” intervenne Ken un po’ imbronciato, “avevo preparato anche per te”.
“Fidati” mi confidò Kazuki prendendomi per mano e accompagnandomi al tavolo. “La zuppa fatta da Ken è mille volte più buona della merda della mensa.”
Ridemmo tutti e cominciammo a mangiare. Alla fine, mi offrii di lavare i piatti e Kojiro mi aiutò. Sistemammo in fretta la cucina, poi rimanemmo ancora un po’ a parlare, finché la stanchezza della giornata e la prospettiva di doversi svegliare presto la mattina seguente non ebbero la meglio.
Mi addormentai quasi subito, stanca ma felice: era solo il primo giorno e avevo già trovato quattro amici. Peccato non poter restare in quell’appartamento: certo i ragazzi potevo vederli anche fuori, ma chissà con che squinziette avrei dovuto vivere!
Mentre le palpebre si facevano pesanti, mi baloccai con l’idea che, magari, avrei potuto restarci.
E, in effetti, così fu…




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Capitolo 3
*** Invito - Toho Story 4 ***



I anno. Circa un mese dall'inizio della scuola...

Invito


La merenda lasciata in stanza era un pessimo modo per iniziare la giornata. Soprattutto una giornata che precedeva, di poco, quella cazzata di ballo della scuola, a cui, tanto per cambiare, non l’aveva invitata anima. Insomma, niente di nuovo sotto il sole.
Se solo avessero avuto un buon sapore, si sarebbe rimangiata i suoi stupidi commenti su quel cavolo di ballo di inizio anno.

“Che senso ha una festa dopo nemmeno un mese dall’inizio della scuola?” aveva bofonchiato Ken. “Manco ci conosciamo”.
“È, appunto, un modo per conoscersi, Wakashimazu” aveva sbuffato lei in risposta.
“E su che base invito una ragazza, che non conosco, a uscire con me?” aveva insistito lui, accigliato.
“Immagino perché è carina?” era stato il suo superfluo suggerimento.
“Ecco, appunto. Vedi? Ha ragione mio padre, in questa scuola ci addestrano al culto dell’esteriorità, alla superficialità e io…”
“Fossi in te non mi farei problemi” era intervenuto Sorimachi. “Se tu sei troppo timido per invitare una ragazza, sei anche abbastanza popolare perché qualche squinzietta sufficientemente occidentalizzata abbia la sfrontatezza di invitarti di persona”.
“Troverà pane per i suoi denti” aveva chiosato Ken, alzandosi di scatto per andare a mettere a posto il vassoio della mensa.
“Andiamo, non prendere tutto così di petto, è una cosa divertente, per conoscersi” le aveva gridato dietro lei.

Sì, decisamente “divertente” come iniziativa. Si sarebbe rintanata nel proprio alloggio, sperando che la gente non si accorgesse della sua assenza alla festa, come d’altronde non si era accorta della sua esistenza a scuola.
Sbuffando si avvicinò al distributore di merendine, tirò fuori il portamonete e contò gli spicci. Precisamente quanto le serviva.
La prima cosa che andava nel verso giusto.
Inserì le monetine nella fessura e il meccanismo si mise in funzione.
E poi si inceppò, intrappolando la merendina in un modo assurdo.
Yasu bestemmiò sommessamente in tutte le lingue che conosceva, più qualcun'altra.
Depennò mentalmente la somma di spicci trovata nel portamonete quale “prima cosa che andava nel verso giusto”.
Un’altra monetina, infatti, avrebbe fatto ripartire quell’aggeggio infernale e liberato la sua merenda, ma dal borsellino, al massimo, poteva uscire una tarma, come nei fumetti.
Si guardò con circospezione attorno. Il corridoio era deserto.
Dette un colpetto al distributore. Che sembrò non accorgersene. Come minimo pure quello era costruito con criteri antisismici tali da resistere al Ragnarök.
Provò con una spintarella.
Nulla.
Gli dette uno spintone.
Ancora nulla.
Tentò la mossa dell’abbraccio con scuotimento.
NULLA.
“Ne devo dedurre che nessuno ti ha invitata al ballo?” chiese Ken, divertito, nel vederla attaccata al distributore come un polpo.
Yasu lasciò andare di scatto il malefico apparecchio, il viso di un colore tale da mimetizzarsi con il non distante distributore della coca cola.
“Non… non mi risulta che tu stia messo meglio” rispose lei, ridandosi un contegno. “Hai una monetina?” tentò poi di cambiare argomento.
Ken si avvicinò alla macchinetta e sorrise vedendo la merendina incastrata. Con la mano, dette un colpetto di taglio, ben calibrato, in un punto preciso del distributore, e fece cadere l’agognata barretta. Si chinò con eleganza, la prese dallo sportellino e si mise a giocherellarci.
“Posso risolvere il problema quando voglio” disse con un sorriso borioso, lanciando la merendina verso di lei, che l’afferrò. “Anzi…” aggiunse.
Se Yasu non fosse stata ancora agitata per la brutta figura di poco prima, avrebbe notato che il tono del portiere si era fatto meno spavaldo, anzi, di più, quasi insicuro; che le mani erano corse a giocherellare coi capelli e che il pomo d’Adamo era scattato con particolare rapidità.
“Anzi” ripeté. “Sono piuttosto bravo a risolvere anche i problemi degli altri…”
La ragazza sbatté gli occhi, con sguardo interrogativo mentre Ken completava il discorso:“Sì, insomma anche i tuoi…”
Yasu aveva la faccia di chi sta cercando di riavviare i neuroni, tirando la cordicella a mo’ di motore a scoppio. Ma senza risultato. Poi guardò la merendina che teneva in mano e il motore sembrò prendere giri.
“Ah beh, sì. Bravo, grazie” disse scartandola e dandole, finalmente, un morso.
Ken sbuffò, stremato.
“Kamisama, Yasu, non dicono tutti che sei intelligente? Sto facendo una fatica assurda”.
“Per fare cosa?”
“Per invitarti al ballo, cavolo!”.
La tanto sudata barretta finì miseramente a terra. Il cervello della ragazza, ora, lavorava rapidamente alla ricerca della fregatura che, di sicuro, da qualche parte, c’era.
“Seh…” balbettò. “Con tutte le ragazze…”
“Non le voglio tutte le ragazze…”
Una lampadina si accese nel cervello di Yasu.
“Ahhhhhh!” esclamò con l’aria di chi la sa lunga. “Ora si spiegano molte cose! I prodotti per capelli, lo shopping compulsivo… Certo, vuoi che ti faccia da “copertura” perché sei…”
Ken, interrotto nel pieno di quello slancio romantico che gli era costato tanto sforzo, si bloccò e la guardò inarcando il sopracciglio. “Sono cosa?”
“Sei…” Yasu cercava le parole, arricciando il naso. “…gay?”
Ken Wakashimazu strabuzzò gli occhi e per un attimo sembrò veramente arrabbiato. Poi cominciò a ridere.
“No, piccola, non lo sono affatto” disse. Poi la sua espressione si fece seria, si guardò intorno, quindi le si avvicinò. Allungò una mano per scompigliarle i capelli, quindi scese ad accarezzarle una guancia e sistemarle una ciocca ribelle dietro l’orecchio. Un brivido scosse la ragazza e un’espressione terrorizzata si dipinse sul suo viso.
“Ti sembra tanto impossibile che qualcuno voglia invitarti al ballo?”
“Qualcuno come te?” balbettò Yasu. “Sì” scandì decisa, dopo una breve pausa.
“Nel senso di uno che credi frocio?” chiese lui dubbioso.
“No, beh, ecco, uno così… popolare” rispose lei, cercando le parole. “Così… così… bello” disse infine avvampando ulteriormente.
Ken spalancò gli occhi, che corsero a fissare il pavimento, le sopracciglia presero una piega incredula: la mano che scattò a sfiorare la nuca e una risatina imbarazzata completarono il quadro.
Yasu era stupita: davvero non si rendeva conto di esserlo? Suvvia, uno vanesio come lui?
E invece pareva proprio di no… a sua discolpa andava detto che certo Ken non frequentava i bagni delle ragazze istoriati con scritte inneggianti a lui, con tanto di ombrellini e cuoricini abbinati di dubbio gusto.
“Io…” riprese Wakashimazu, ancora visibilmente imbarazzato, “credo che anche tu sia… carina e, soprattutto, con te ci sto bene, sei la mia migliore amica femmina” precisò.
Ah ecco.
Ora la musica cominciava a essere familiare.
“Quand’è così… grazie sì, volentieri” rispose con un sorriso chiaramente forzato.
 “Preferivi andarci con Hyuga? No perché… io glielo ho domandato e mi ha detto che potevo chiedertelo io e-”
“No aspetta… Tu e Kojiro avete discusso su chi dovesse invitarmi?”
“Non esattamente… gli ho chiesto se non gli dispiaceva…”
Il cuore di Yasu accelerò.
“… ma lui mi ha detto di non preoccuparmi, se ci tenevo…”
Era decisamente confusa. Non sapeva se sentirsi triste per l’ennesima, chiara conferma del disinteresse di Kojiro o gioire per essere stata invitata da Ken, così bello e, beh, dolce. Quando rialzò lo sguardo, vide i suoi occhi, ansiosi e un po’ tristi.
“Ken Wakashimazu” disse allora, sorridendo con fare ostentatamente cerimonioso, “sarò lieta di essere la vostra damigella”.
Gli occhi gli brillarono.
“E io di essere il vostro cavaliere”, rispose lui con un inchino. “Ti confesso”, aggiunse poi, “che non vedo l’ora di vederti vestita elegante… l’effetto “Lady Oscar al ballo”, secondo me, è assicurato…”
“Seh, magari” ridacchiò lei. “Aaaargh! Piuttosto, devo andarmelo a comprare il vestito”.
“Se vuoi” tossicchiò. “Ti accompagno a sceglierlo”.
“Perché no?” rispose lei raggiante.
“Oggi dopo le lezioni?” chiese Ken, tornando a studiare il distributore di merendine.
“Andata… ma che fai?” domando Yasu, vedendolo dare un altro colpo alla macchinetta.
Ken infilò la mano nello sportellino e ne estrasse un’altra barretta, identica a quella di prima.
“Visto che ti era caduta e… in attesa del fiore…” disse porgendogliela.
Yasu la scartò e la mangiò di gusto, mentre si avviavano verso le rispettive classi.
“Wakashimazu” esordì all’improvviso, ingoiando l’ultimo cioccolatoso boccone.
“Dimmi”.
“Pensavo alla tua offerta… di andare per vestiti…”
“E?”
“Sei sicuro, vero, di non essere…?”


...con tanti auguri di Buon Natale....

Grazie ad agatha per il betaggio.

Piccola curiosità: questa è la prima TS che ho scritto!

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Capitolo 4
*** Parla con me - Toho Story 2 ***


Siamo durante il primo anno, Yasu e Ken non stanno ancora insieme... però...

Parla con me

Il suo tocco era leggero e attento come sempre. Le dita trascorsero leggere sullo zigomo, sul lato del naso, sul sopracciglio e tutto attorno all’occhio.
“Non c’è niente di rotto” lo rassicurò con un sorriso. “Però ora mi racconti chi ha fatto un occhio nero a un campione di karate” lo prese in giro, scendendo agilmente dalle sue ginocchia.
Per un attimo aveva avuto l’istinto di cingerle i fianchi con le mani e trattenerla lì, guardarla ancora, anche se con un occhio solo, visto che l’altro era gonfio e semichiuso, e poi magari fare un po’ di scena, giusto per strapparle qualche coccola.
Yasu non aspettò la sua risposta, aveva imparato che non sempre i ragazzi volevano raccontare le loro cose e ne aveva preso atto. Invece gli domandò se voleva qualcosa, un tè, un panino…
“Non ti preoccupare, posso fare da solo.” L’educazione gli aveva fatto rispondere così, ma, dentro, il cuore gli batteva forte e suggeriva a gran voce, sì che puoi fare qualcosa, stai qui accanto a me, o siediti ancora sulle mie ginocchia…  
Come aveva fatto prima...

Ken era tornato in anticipo dall’allenamento, proprio per quel piccolo incidente. Era entrato nell’appartamento, aveva preso un po’ di ghiaccio dal frigo e, sedutosi sul divano, se l’era appoggiato sull’occhio colpito. Dopo pochi minuti era rientrata anche Yasu, gridando il suo solito “Salve a tutti”. Appena si era voltata e lo aveva scorto sul divano, si era avvicinata e, preoccupata, gli aveva chiesto cosa gli fosse successo. In tutta risposta, lui aveva allontanato il ghiaccio a mostrare l’occhio gonfio, ormai diventato, probabilmente, di un bel viola scuro.
Lei aveva aggrottato le sopracciglia e sfoderato un sorrisetto sghembo, insieme dolce e un po’ beffardo. “Niente male… certo che sei davvero una fonte inesauribile di infortuni” aveva commentato. “Fammi dare un’occhiata”. Aveva lasciato cadere lo zaino e si era inginocchiata sul divano vicino a lui, ma, sotto di lei, il cuscino cedeva e non le dava la stabilità necessaria per poter procedere all’esame. Così, con grande stupore di Ken, Yasu aveva fatto roteare una gamba fino a posizionarsi a cavallo delle sua ginocchia. Mentre il portiere quasi tratteneva il fiato, la ragazza, soddisfatta del punto di osservazione che aveva infine trovato, gli aveva tastato piano le ossa della faccia, assicurandosi che non ci fossero fratture. Poi, con la stessa naturalezza, aveva portato indietro la gamba ed era tornata in piedi, allontanando così dal volto di Ken il suo profumo dolce e fruttato e le sagome dei seni piccoli, appena suggerite dalla camicetta della divisa scolastica.

“Comunque è stato uno scontro aereo, non ho fatto a botte” spiegò il portiere, nel tentativo di fare un po’ di conversazione.
“E dire che pensavo di averlo avuto io un… duro scontro…”ribatté con un sorriso amaro.
“Cosa è successo? Non hai fatto a botte vero?” le chiese divertito, ma anche un po’ preoccupato. La cosa non lo avrebbe sorpreso più di tanto.
“Oh no” rispose Yasu, agitando la mano, come per minimizzare. “Per fortuna mia madre è oltre la portata del mio braccio”.
Ora, non è che Ken avesse molta dimestichezza con le ragazze… e non solo in quel senso , proprio non ci aveva mai avuto a che fare. Nessuna sorella, nessuna amica nel vero senso della parola. A parte Yasu, ovviamente. Eppure una cosa l’aveva imparata: quelle, le ragazze, avevano sempre una gran voglia di raccontare gli affari loro e potevano andare avanti a commentarci e ricamarci su per ore. Quasi come... un bisogno fisiologico e in questo Yasu non faceva eccezione. E siccome l’aveva vista un po’ triste, pensò che forse si voleva sfogare… E che, forse, l’avrebbe fatto con lui, se solo fosse riuscito a metterla a suo agio…
Peccato che, mentre Ken si faceva questo film, Yasu fosse sparita in camera sua, portandosi dietro lo zaino. Il portiere scrollò le spalle e si mise a sfogliare una rivista, rimandando il progetto “ti va di parlare?” a un momento più propizio.
Dopo qualche minuto, Yasu uscì dalla camera, per scomparire di nuovo in cucina. La sentì armeggiare per un bel po’, come se, incredibilmente, stesse preparando qualcosa. Che strano: non era il suo turno in cucina e quando le toccava, comunque, di solito ricorreva ai surgelati, se non alla rosticceria. Dopo una mezz’ora abbondante, però, un buon profumo di cioccolato iniziò a spandersi per la casa. Se non fosse stato per l’occhio che gli pulsava dolorosamente, si sarebbe alzato per vedere cosa stesse succedendo.
Si era quasi deciso a farlo comunque, quando Yasu riapparve, in mano un vassoio con due bicchieri di latte e due muffin al cioccolato, i responsabili di quel delizioso profumo.
“Nanny diceva che sono la soluzione a tutti i mali” spiegò Yasu, accennando ai dolcetti, mentre appoggiava il vassoio sul basso tavolino del salotto. “Farli ti rilassa e mangiarli ti fa dimenticare i dolori, diceva lei. Ti anticipo che la prima cosa ha funzionato fino a un certo punto, ma credo valga la pena di tentare la seconda. Sarà che cucinare, in generale, non mi rilassa, anzi… e non fare quella faccia, sono l’unica cosa che mi viene oggettivamente buona”. Quindi prese un muffin e lo addentò, ostentando un’aria soddisfatta, come a riprova che non erano velenosi.
Un po’ riluttante, Ken ne prese uno e ne staccò un morsetto, rendendosi conto che era davvero buono. Di lì a un secondo, lo finì.
“Ce ne sono altri” gongolò Yasu, “vado a prenderli!”. Tornò con altri quattro muffin e del ghiaccio per sostituire quello, ormai sciolto, di Ken.
“Grazie!” esclamò allegro, afferrando un altro dolcetto.
“Sembra funzioni” lo canzonò Yasu, sfilandogli dalle dita la busta, che ormai conteneva solo acqua, e chinandosi per appoggiargli sull’occhio il ghiaccio appena preso dal frigo.
“Sì, sto… meglio” rispose Ken, facendo sparire anche il secondo muffin e andando a sostituire la mano di Yasu con la propria, sfiorandogliela appena. “E… tu?” mormorò, arrossendo un po’.
Yasu raddrizzò la schiena, poi prese il proprio bicchiere di latte e si lasciò cadere vicino a lui sul divano. “Dovrei averci fatto l’abitudine ma è una cosa…” si morse le labbra, e a Ken parve che avesse gli occhi lucidi. “Che continua a darmi sui nervi…” Yasu trangugiò un sorso di latte e il portiere si mise di tre quarti per poterla osservare con l’occhio buono, tentando di rivolgergli uno sguardo interessato e incoraggiante, ma non troppo curioso.
Mica facile, eh, soprattutto con un occhio solo.
Lei sbatté le palpebre, prese un’altra sorsata, e poi sospirò: “Mia madre e la sua smania per i buoni partiti. Continua a parlarmi di tutti i figli dei suoi conoscenti in Europa e in Giappone, dicendomi che dovrei incontrarli. I miei… tsk… ostentano tanta apertura mentale, e poi… finiranno per organizzarmi un omiai… Credo che neanche tuo padre arriverebbe a tanto…”
 “Mah, su mio padre non ci metterei la mano sul fuoco… e meno male che non ha figlie femmine” rispose allegro, per sdrammatizzare. In realtà quei discorsi gli davano sorprendentemente fastidio, forse perché gli dispiaceva vedere come la sua amica, sempre così solare e spensierata, se ne facesse un cruccio. “Ma i tuoi…” continuò, “no, non ce li vedo… alla fine… hanno sempre rispettato le tue scelte”.
Yasu rivolse lo sguardo a terra e tirò su col naso. Poi rialzò la testa e accennò un sorriso.
“E poi, comunque, se dovesse succedere, ho pronte due soluzioni.” Affermò e si mise a contare con le dita: “Uno, mi converto al cattolicesimo ed entro in convento. Due, visto che son voluta tornare in Giappone, per essere giapponese…” Si alzò in piedi, posò il bicchiere, e si mise di fronte al divano. “Seppuko!” gridò mimando il gesto di ficcarsi una lama nella pancia e cadere in ginocchio sui cuscini, fino a poggiare la testa sulla spalliera. Si voltò, con la fronte ancora poggiata allo schienale. “Vuoi essere il mio kaishakunin?”
“Quale onore” disse pomposo, brandendo l’involto del ghiaccio come una spada e minando il gesto di tagliarle la testa.
Yasu si fece cadere teatralmente, andando a poggiare il capo in grembo a Ken. “Beh, sei l’unico che conosco che sa vagamente tenere in mano una katana…”
“Ah, ah, va bene cercherò di far pratica. E comunque tu, mia piccola bushi, dovresti fare jigai: tagliarti la gola con un coltello, senza dimenticare di legarti prima assieme le ginocchia per assumere, anche nella morte, una posizione onorevole… come si addice a una nobildonna” sentenziò.
“Che culo” commentò Yasu storcendo la bocca. “Peccato, mi piaceva più la cosa da samurai” mugugnò. Poi il volto della ragazza tornò a rabbuiarsi. “Voglio solo studiare, Ken, diventare una brava fisioterapista… e vivere del mio lavoro… che mi diseredino, mi dimentichino pure… tanto Genzo non mi abbandonerà e lui è la sola famiglia che sento davvero mia” esalò, reprimendo un singhiozzo.
Il portiere le passò una mano sui capelli corti e mossi. Così particolari… come lei. “Ehi, ehi” le sussurrò. “E noi?”
“Beh, certo, adoro anche la nostra buffa ‘famiglia Toho’” rispose subito, l’espressione che tornava serena. Fece una pausa poi riprese: “Però la cosa del samurai mi ha scombinato i programmi… dovrò cercare una terza soluzione”.
“Ho un’idea” disse Ken dopo una breve – troppo breve- riflessione.
“È altrettanto splatter?” chiese Yasu, speranzosa.
“Dipende” rispose Ken, soffocando una risata.
“E sarebbe?” insisté la ragazza, impaziente.
“Sposa me” disse d’un fiato. Mentre lo diceva, si immaginava Yasu vestita in abiti tradizionali e lui che le teneva le mani… ma un secondo dopo si rese conto di averla sparata grossa. Sfruttò al volo il sorriso beato che quel flash gli aveva disegnato sulle labbra, trasformandolo in un ghigno, che poteva voler dire tutto e niente.
“Che… cosa?” balbettò lei, guardandolo sconvolta.
Ken esitò. Ormai doveva dare una risposta brillante se non voleva essere preso per uno sfigato.
“Che se i tuoi ti vogliono costringere a sposare qualcuno, tu vieni da me e li battiamo sul tempo” disse sfoderando un sorriso furbetto, mentre il cuore gli batteva forte. Chissà se lei lo sentiva
Lo guardò ancora seria, poi le labbra di Yasu si piegarono e il corpo cominciò a sussultare, finché non scoppiò in una fragorosa risata. Quando ebbe ripreso fiato, si ricompose ed esclamò: “Ma quando mai! Presto diventerete dei calciatori famosi e sarete circondati da attrici, modelle e vallette bellissime… e della vecchia Yasu non vi ricorderete neppure…” concluse in tono melodrammatico.
“Dimentichi che per uno che è – parole tue - una fonte inesauribile di infortuni, una moglie fisioterapista sarebbe un investimento assai più proficuo di una qualche soubrette” spiegò, con una risatina nervosa.
“Beh, certo, anche quando diventerai un calciatore famoso, modelle e vallette scapperanno vedendoti così…” rise, rimettendosi seduta e dandogli una pacca sul petto. “Anche se… dovresti solo…” allungò una mano per spettinargli i capelli e sistemarli in modo che un ciuffo cadesse a coprire l’occhio pesto. “Ecco qua, sei di nuovo bellissimo, anzi, ti dirò, così hai qualcosa di enigmatico… senza contare che, da questa prospettiva, ti sembrerò ancora più carina”.
Si alzò svelta, forse era un po’ arrossita. Raccolse i muffin residui e borbottò qualcosa sul metterli da parte per Hyuga, Sawada e Sorimachi, sparendo in cucina.
Ken la osservò allontanarsi, il fisico sportivo ma ben fatto che si indovinava sotto la tuta.
Chissà se avrebbe mai avuto il coraggio di dirle che a lui, carina, sembrava sempre, pensò con un sospiro.
“Che poi” riprese Yasu, riapparendo sulla soglia del soggiorno, sorriso ironico, braccia conserte e una spalla poggiata allo stipite. “Cosa ti fa credere che io sarei d’accordo?”

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Capitolo 5
*** Solo un nome - Toho Story 3 ***


Primo anno, inizio dell'inverno... per ora il miele va ancora sprecato...

Solo un nome...

Ken si avvicinò alla porta socchiusa della stanza di Yasu e dette uno sguardo dentro. La ragazza sedeva alla scrivania, le mani premute sulle guance, i gomiti sul tavolo e lo sguardo fisso sul libro di biologia. La sentiva leggere piano fra sé: “La mitosi si compone di cinque fasi…”.
Ken bussò piano, scostando la porta: “Ho fatto il caffè, te ne ho portato un po’” le disse.
“Mmm grazie…” mugugnò lei distrattamente, senza alzare la testa. “…Genzo”.
Quindi tornò come niente a borbottare fra sé di profase, creatina e centrioli.
Ma il ragazzo non ascoltava. Il nome con cui l’aveva chiamato era stato come una coltellata. Posò tremando la tazza sull’angolo della scrivania e se ne andò in silenzio.
Yasu avvicinò la tazza alle labbra e prese un paio di sorsi di caffé. Forse per effetto della caffeina o forse perché il suo cervello si staccò un attimo dall’incombente verifica di biologia, realizzò di aver chiamato Wakashimazu col nome di suo fratello e si lasciò sfuggire una risata.
Poco dopo, arrivata in fondo sia al caffé sia al capitolo, si alzò per andare a riportare la tazza in cucina, approfittandone per sgranchirsi un po’.
Quando arrivò canticchiando  sulla porta, si accorse che Ken era seduto nel salottino, le gambe allungate in avanti, le braccia conserte e un’espressione torva in volto.
Stava per chiedergli sorridente come stesse il suo “nuovo fratello” quando le venne il terribile dubbio che fosse stata proprio la sua gaffe a metterlo di cattivo umore.
Yasu sospirò e alzò gli occhi al cielo: quel ragazzo era decisamente troppo permaloso. Eppure mentre appoggiava la tazza nel lavello, non riusciva a non dispiacersi per averlo ferito. Quindi, prima di tornare in camera, si soffermò sulla porta del salottino e rimase un attimo a guardarlo. Sinceramente non sapeva cosa dire: il nome del fratello le era salito alle labbra per una mera abitudine dovuta a una vita di convivenza…
“Scusa per prima” disse infine. “Sei stato gentile a portarmi il caffè…”
“Non c’è di che…” mormorò continuando a fissare la TV spenta di fronte a lui. “Né da ringraziare, né da scusarsi” precisò.
Yasu era abbastanza d’accordo. Accennò un sorriso e fece per andarsene. Quando lo sentì mugugnare fra sé: “D’altra parte, Genzo viene prima di me nei pensieri di tutti, non vedo perché tu dovresti fare eccezione”.
Il primo istinto sarebbe stato quello di rimproverarlo con una certa durezza, dicendogli di smettere di fare la vittima e di piangersi addosso. Ma c’era un dolore, acuto, dietro quelle parole e più che di sgridarlo,Yasu  ebbe voglia di consolarlo. Tornò sui propri passi e si avvicinò al portiere, tendendogli la mano.”Andiamo fuori a fare due passi, ti va?”
“Ma non hai la verifica di biologia domani?”
“Sì, ma ho bisogno di distrarmi un po’” mentì, dissimulando un sospiro: se pensava a tutte le pagine che doveva ancora studiare, le veniva da piangere. Ma, come al solito, liquidò tutto con una battuta: “Sennò finisce che mi convinco di essere un paramecio anche io”.
Ken accennò un sorriso, che riscaldò subito il cuore di Yasu. Le aveva afferrato la mano e la tenne ancora fra le proprie, mentre si lasciava guidare a prendere il cappotto.
Scesero le scale e si ritrovarono nel vialetto costeggiato di alberi ormai spogli, appena riscaldato da un sole autunnale di metà pomeriggio. Quei raggi timidi irradiavano un piacevole tepore sul viso e le mani dei due ragazzi, mentre una brezza leggera ne carezzava i capelli. Yasu inspirò l’aria frizzante e profumata. “Ah, adoro questo periodo dell’anno” esclamò.
“È vero” constatò Ken con un mezzo sorriso. “Il sole non è troppo caldo e il vento non è troppo freddo”.
“Esattamente”.
Fecero qualche passo senza una meta precisa, solo godendosi quel momento.
Yasu studiò il volto di Ken, illuminato dal giallo carico della luce del tardo pomeriggio. Notò la mascella tesa e le labbra un po’ imbronciate, sotto il profilo perfetto del naso. Inspirò ancora una volta quell’aria fresca che sembrava fatta per infondere coraggio.
“Ti chiedo davvero scusa per prima ma credimi…”
“Non è niente…”
“Non si direbbe”.
Si soffermarono un attimo, occhi negli occhi.
“Colpa mia.” ribatté lui, dopo quella breve pausa.
“Non dovresti prendertela così… Mio fratello è solo…”
“Il portiere migliore del Giappone”.
“Tecnicamente in Giappone manco c’è” osservò lei, tentando di sdrammatizzare.
“Il miglior portiere giapponese” si corresse lui.
“Ma va… è bravo, sì. Ma entrambi avete ancora molto da imparare… persino l’uno dall’altro. Ti stupiresti di quante cose di te ammira e… forse perfino invidia”.
“Tu e tuo fratello avete parlato di me?”
“Certo, secondo te c’è qualche altro portiere di cui dovrebbe preoccuparsi?”
Si guardarono e ghignarono, scuotendo la testa.
“E comunque” riprese Yasu. “Tutte queste considerazioni tecniche sono solo in quella tua testolina che rimugina troppo. Se ti ho chiamato Genzo, è solo perché ho sempre vissuto insieme a lui, è il primo nome che mi viene in mente…”
“Beh è naturale è… tuo fratello. Anche io voglio bene al mio” sospirò con una punta di delusione, lasciandosi cadere su una panchina..
“È qualcosa di più.” Spiegò Yasu sedendosi vicino a lui. “Siamo gemelli e siamo vissuti tanto insieme e da soli. Prima di venire qui, sono pochi momenti che ricordo in cui lui non c’è… In effetti nessuno dei due è mai esistito senza l’altro. In effetti non c’è persona più vicina al mio cuore.”
“Beh, se la metti così…” sussurrò dolcemente, “credo dovrei essere addirittura lusingato che tu mi abbia chiamato col suo nome”.
Yasu si alzò in piedi e, declamando ad alta voce e facendo mille salamelecchi, recitò “Che cosa c’è in un nome? Quel che noi chiamiamo col nome di rosa, anche se lo chiamassimo d’un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo. E così Romeo, pur se non fosse chiamato più Romeo, serberebbe pur sempre quella cara perfezione ch’egli possiede tuttavia senza quel nome. Rinunzia dunque al tuo nome, Romeo, e in cambio di quello che pur non è alcuna parte di te, accogli tutta me stessa.” Concluse, con un cerimonioso inchino.
Solo vedendo l’espressione di Ken passare da divertita a stupita e un po’ imbarazzata, si rese conto del vero significate di quelle parole imparate a mente.
“Ehh” si giustificò arrossendo, “Sai il corso di letteratura teatrale inglese…”
“Ah!” fece lui, mentre il volto gli si illuminava. “E io cosa dovrei rispondere Essere o non essere?”
“No” rispose Yasu con aria saputella. “Quello è Amleto, non Romeo…”. Spiegò mentre con un brivido pensava che la vera risposta sarebbe stata Ti prendo in parola: chiamami soltanto amore, ed io sarò ribattezzato. D’ora in avanti non sarò Romeo.
Giustificò il brivido dicendo che stava rinfrescando e che era meglio rientrare e poi doveva studiare… In realtà aveva le guance in fiamme.
Tornarono di buon passo all’appartamento e Yasu schizzò in camera sua.
Si sedette alla scrivania, fissando per un attimo la propria immagine riflessa nello specchietto che teneva lì per truccarsi.
O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega il padre tuo e rifiuta il tuo proprio nome. Ovvero, se proprio non vuoi, fa soltanto di legarmi a te con un giuramento d’amore, ed io, non sarò più una Capuleti. È soltanto il tuo nome ad essermi nemico: tu saresti sempre te stesso, anche se non fossi un Montecchi. Che può mai significar la parola “Montecchi”? non è una mano, non un piede, non un braccio, né un volto né alcuna altra parte che s’appartenga a un uomo. Oh, sii qualche altro nome! ” mormorò con un sospiro.
Poi ne fece un altro, più profondo, e tornò al libro di biologia.

****
I brani citati da Yasu provengono da W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, (atto II, scena II)... e ho sempre pensato che si adattassero tantissimo ai miei due piccioncini...

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Capitolo 6
*** Happy Birthday - Toho Story 6 ***


Siamo sempre al primo anno e Yasu e Ken non stanno ancora insieme.

***ATTENZIONE***

Si avvisano le Genziane più suscettibili di saltare i primi paragraf i e cominciare da "Pensavo"... lol

*guarda amorevolmente Genzo e gli ricorda quanto bene gli vuole 

ma... si sa... son ragaaaazzi, ci vuol pazienza :P*


Happy Birthday

“Toh!” esclamò Sorimachi, smanettando con quella sua inutile agenda elettronica. “Domani è il compleanno di Wakabayashi”.
“E allora?” chiese Kojiro con un’alzata di spalle. “Cos’è? La Giornata Internazionale della Boria?”
“O il giorno in cui toglie il cappello e lo lava?” incalzò Ken, ridacchiando.
“Anzi no, la Giornata Mondiale delle Teste di Cazzo...”
“O San Genzo Goal Keeper protettore dei tiri da fuori area?”
“La Festa dell’Inviolabilità?”
“Il self-confidence day?”
Kazuki roteò gli occhi e incrociò le braccia, guardando con sufficienza i due compagni sghignazzare e sciorinare battute più o meno divertenti sull’SGGK. Alla fine si reggevano la pancia ridendo sguaiati.
“Posso?” chiese infine il numero nove del Toho.
“Mandargli un bigliettino di auguri?” ghignò Ken. “Sì, però, prima di imbustarlo, dammelo che dentro ci voglio-”
Pensavo...” lo sovrastò con la voce Kazuki, preferendo non sapere quale fluido corporeo del karate keeper sarebbe potuto volare in Germania insieme agli auguri. “… visto che Yasu è la sua sorella gemella, probabilmente è anche il suo compleanno e credevo vi potesse interessare!” urlò, stremato.
Kojiro smise di ridere all’istante scoccando al compagno uno sguardo torvo. Ken lo guardò con occhi spalancati e il volto pallido. Tendeva a resettare il pensiero che Genzo e quella che era diventata la sua migliore amica fossero fratelli gemelli.
“Dobbiamo farle un regalo” balbettò il portiere sconvolto.
Kazuki batté ironicamente le mani un paio di volte. Finalmente ci erano arrivati. “Il problema è: cosa si regala a una miliardaria?”
“Non solo... come facciamo?” Si intromise, pratico, Kojiro. “Oggi è tardi per uscire dal campus e domani fra lezioni e allenamenti non abbiamo tempo”.
“Magari possiamo ordinarle qualcosa per telefono...”
“Sì, una pizza... ma sei scemo, Sorimachi?” lo rimbrottò il capitano, allungandogli uno scappellotto.
“Ma sentiteli! E pensare che se non era per me manco ci arrivavate! E comunque, credo basterebbe che uno di voi si mettesse un bel fiocco di tulle in testa e...”
Hyuga gli scoccò un altro sguardo assassino chiedendogli cosa andasse blaterando, mentre il colore tornava con un certo impeto alle guance di Ken.
La tensione fu rotta dal rumore della porta che si apriva, azzittendoli. Tuttavia, non era l’oggetto delle loro discussioni, bensì Sawada.
“Ciao a tutti” salutò, solare come sempre, il piccolo centrocampista.
“Dove sei stato, Takeshi?”  chiese Ken, desideroso di cambiare argomento.
“A comprare un regalino per Ya-chan” disse pacato, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
“Che cosa?” ringhiarono all’unisono gli altri tre. “Tu lo sapevi?”
“Certo è scritto qui...” disse, sventolando un foglio, che gli altri riconobbero all’istante come quello consegnato loro mesi prima, il primo giorno del ritiro della Nazionale, con tutti i dati di ogni giocatore. D’istinto ognuno si domandò  dove fosse mai finita la propria copia e le ipotesi andarono dall’aeroplanino, alle palline di carta e saliva con cui bersagliare Ishizaki, da fungere da involto per chewing gum  da buttare a chissà cosa.
“E tu lo hai tenuto?” domandò Kazuki, storcendo la bocca e osservando il foglietto perfettamente piegato .
“Certo” annuì deciso Sawada. “Così posso fare a tutti gli auguri per il compleanno...”
Gli altri lo guardarono inorriditi.
“Persino a Ya-chan perché è nata lo stesso giorno di Genzo”. Rise, deliziato dalla straordinaria coincidenza, dall’imprevedibilità del destino o chissà cos’altro.
“E cosa le hai comprato?” chiese Ken, ostentando un’aria vaga.
“Una fascia per i capelli. Dice sempre che le danno fastidio quando corre, ma che ancora sono troppo corti per legarli. È blu e grigia come la divisa del Toho!” concluse entusiasta.
Gli altri lo guardarono con malcelata ammirazione.
“Ora lo vado a nascondere perché fra poco Ya-chan torna da lezione”.
L’espressione dei compagni da ammirata si fece sorpresa e poi allibita quando, giusto due minuti dopo, Yasu rientrò salutando col solito “Salve a tutti!”.

****

Yasu si sedette sul divano in attesa della canonica chiamata di Genzo. Anche se quello era ancora un giorno speciale, la routine rimaneva la stessa: i ragazzi andavano a letto e le lasciavano la privacy per parlare col fratello, che di solito chiamava, per via del fuso orario, attorno alla mezzanotte.
La ragazza aveva un sorriso beato stampato in faccia. I ragazzi potevano dire quello che volevano: era stato uno dei compleanni più belli della sua vita.
Eppure la giornata era cominciata male, malissimo... si era svegliata piangendo, pervasa da un senso di solitudine così totale, che solo chi non nasce da solo può capire. Era il primo compleanno che lei e Genzo trascorrevano separati e le sembrava così strano, brutto, ingiusto. Poi aveva recuperato la calma e la razionalità, affrontando quella giornata come tutte le altre. Certo, aveva sperato che qualcuno le facesse gli auguri… ma vabbè...
Terminate le lezioni, era andata a vedere l’allenamento e dopo era stata trattenuta per motivi futili un po’ da tutti i compagni di squadra, per concludere col mister che l’aveva fatta restare quasi un’ora nel suo ufficio a discutere di cose che avevano già deciso tempo prima. L’inutile riunione si era conclusa con uno strano risolino e un augurio di buon compleanno da parte dell’allenatore.
Era tornata verso l’alloggio imprecando: era tardi ed era il suo turno di fare le pulizie.
Ma quando era entrata in casa, l’aveva trovata pulitissima, dal soggiorno alla cucina, persino la sua stanza era riordinata e splendente.
Guardando meglio, aveva visto che sulla tavola troneggiavano un dolce e un mazzo di fiori, evidentemente molto, come dire, artigianali, ma che le erano sembrati meravigliosi. E dulcis in fundo, quando si era avvicinata, da dietro il muretto che separava l’angolo cottura, erano spuntati i suoi coinquilini gridando “Buon compleanno!”
Dopo si erano profusi in mille scuse per non averle fatto il regalo, se non quella fascia per capelli che, ci tennero a specificare, era da parte di tutti. Ma lei aveva risposto, ed era sincera, che nessun dono poteva valere quanto un turno di pulizie e una cenetta speciale come quella che era seguita.
E, soprattutto, le avevano regalato il sorriso che adesso le piegava le labbra e che quella stessa mattina le sembrava lontano anni luce...
I pensieri di Yasu furono interrotti dal telefono.

Ken sentì squillare il telefono, solo una volta: Yasu stava vicino all’apparecchio e rispondeva subito, per non disturbarli troppo. Controllò l’orologio: di solito la conversazione col fratello durava una decina di minuti, doveva calcolare bene i tempi per intercettarla.
Passati i canonici dieci minuti, Ken afferrò l’involto che aveva tirato fuori dal borsone, aprì piano la porta della propria stanza e si avviò lungo il corridoio. Sentì la voce sommessa di Yasu e ridacchiò: le poche volte che l’aveva sentita parlare al telefono col fratello, aveva constatato che la conversazione consisteva soprattutto in un monologo di Yasu cui Genzo rispondeva, probabilmente, solo a monosillabi*.
E anche ora era così: le stava raccontando della festicciola, anche se una versione un po’ modificata, visto che l’SGGK non era al corrente del fatto che la sorella convivesse con dei maschi. “Glielo dico quest’estate” prometteva sempre.
Rimase per qualche istante nel corridoio, poi la sentì dire quel buffo saluto in tedesco che suonava tipo “ciuss” e seppe che era il momento di andare in scena.

Yasu riabbassò la cornetta con quel misto di nostalgia e allegria che le dava sempre parlare con suo fratello. Menomale che le vacanze di Natale erano vicine e presto lo avrebbe riabbracciato! Era sovrappensiero e l’ombra che si trovò davanti la fece sussultare.
“Ken” sospirò poi, mettendosi una mano sul petto. “Mi hai fatto paura.” Ridacchiò.
“Paura? Nientemeno...” sorrise a sua volta il portiere. “Non pensavo di essere tanto brutto...”
“Che scemo, sai che non è quello il... problema” rispose un po’ imbarazzata. “E’ che ti credevo a letto. Come mai ancora in piedi?”
Il portiere consultò l’orologio e bofonchiò qualcosa circa l’essere ancora in tempo, poi attaccò, incerto: “Ecco... Neanche questo è un vero regalo però...” le porse l’involto. “Mi piacerebbe che li avessi tu...”
“I tuoi guanti portafortuna!?!” esclamò lei riconoscendoli, non appena li intravide.
Ken aggrottò le sopracciglia e le labbra si arricciarono dandogli un’espressione contrariata. “Veramente... tu mi avevi detto che non era vero.”
Yasu rise fra sé, ricordando l’episodio: era stato durante una partita fuori casa, lui era andato nel panico totale perché diceva che se non aveva in borsa quei guanti non poteva giocare, che erano stati i suoi primi guanti eccetera eccetera. Dopo aver rivoltato le borse di tutti, appurato che non c’erano, Yasu si era giocata l’unica carta disponibile e gli aveva fatto un discorso serio e circostanziato sul fatto che la scaramanzia era una cavolata, che i portafortuna non esistevano e che tutto quello che facciamo è il risultato dei nostri sforzi e delle nostre capacità. Ken l’aveva guardata per tutto il tempo con quei suoi profondi occhi neri, le sopracciglia aggrottate e la bocca imbronciata, proprio come in quel momento. Poi aveva visto la fronte distendersi e lo sguardo farsi determinato. “E’ vero” le aveva detto, prendendola per le spalle e trapassandola con una delle sue occhiate taglienti. “Grazie”.
Yasu sorrise ripensando alla fiducia che aveva riposto in lei. Abbassò il capo e confessò: “Sai, lì per lì te l’ho detto solo perché li avevi persi e non volevi giocare senza averli con te...” rise dandogli un buffetto sul braccio.
“Allora - ” balbettò preoccupato.
“Ma credo che sia la verità,” lo interruppe, poggiandogli le mani sul petto e guardandolo dritto negli occhi. “In quella partita giocasti benissimo, no?”
Ken rilassò le spalle, sorrise e annuì.
“Ma anche se sono convinta che la loro presenza nel borsone non influisca sulle tue prestazioni,” proseguì lei, allontanandosi di qualche passo, “resta il fatto che a questi guanti ci tieni, sono un ricordo... non posso accettare...”.
“Ma va’, non mi entrano più da anni. E poi, a scanso di equivoci, puoi sempre portarli tu alle partite.” E così dicendo glieli mise fra le mani.
“Grazie” mormorò lei, tirandoli con attenzione fuori dal sacchetto e guardandoli.
“Provali” la incoraggiò.
Li fece scivolare lungo le mani con sorprendente facilità, li allacciò e vide che le calzavano benissimo. “Grazie” ripeté ancora.
“Sono sempre in discrete condizioni, si meritano di fare qualche altra parata...” sorrise, prendendole le mani per stringerli meglio attorno ai polsi.
“Allora forse non sono la persona più adatta... però, se vuoi, durante le partite li indosserò: sono così comodi...” esclamò allegra, sventolandogli le mani davanti. “Se vuoi che vengano usati dovresti darli al tuo secondo, il portiere della squadra delle medie...”
“Ecco!” fece Ken, battendosi il palmo sulla fronte, come se si fosse scordato qualcosa, ma il lampo che gli passò negli occhi suggeriva che era tutta scena. “La prossima settimana facciamo una partita di allenamento contro la squadra delle medie, ma il loro portiere non c’è... ora, io giocherò nella loro porta per avere contro Hyuga e gli altri, ma ci vuole qualcuno fra i pali della nostra porta... Non è che ti andrebbe...”
“Io?!?” balbettò incredula, puntandosi un dito al petto.
Ken annuì, contento.
Yasu lo fissò per qualche istante, poi gridò “Sììììì!!!” e gli saltò al collo, stringendolo forte.
Era felice, felice per quella giornata, felice per i guanti, felice perché avrebbe giocato insieme ai suoi amici, felice perché aveva i suoi amici, felice perché aveva Ken e lo stava abbracciando, felice perché lui ricambiava, timidamente, l’abbraccio.
Difficile dire quale fosse il regalo più bello.

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Note:

* Un credito doveroso: questo, lo ammetto, l'ho ripreso da Jeans di WYHY (che consiglio vivissimamente). E' un dettaglio che ho adorato, spero non me ne voglia per averglielo "rubato".

Una dedica speciale a sissi, che aveva bisogno di sorridere un po'.

Un grazie alla mia beta rediviva rel, che mi era mancata assai!!!

bacini sparsi a tutti

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Capitolo 7
*** Qualcosa di caldo, qualcosa di dolce - Toho story 9 ***


Stavolta non anticipo niente sulla collocazione temporale... lo scoprirete da soli... e scusate la ficcynosaggine della cosa ma ormai sono una vekkiaminkia rimbambita...


Qualcosa di dolce, qualcosa di caldo





Rabbrividendo, Sorimachi entrò in casa, pregustando il calduccio, al riparo dal gelo che imperversava in quella freddissima giornata di gennaio. La notte prima era persino caduta un po’ di neve. Figurarsi la sua sorpresa quando, entrando nell’appartamento, trovò i suoi coinquilini vestiti da bufera –giaccone, guanti, sciarpe e cappelli- tutti pressati in un divano.
“Beh” chiese con uno dei suoi soliti sorrisetti ironici. “Non usa più togliersi il cappotto per stare in casa?”
“Fallo pure, Sorimachi” sibilò Yasu. “Abbiamo l’imperatore, ma viviamo in un paese democratico.”
Kazuki ridacchiò e scosse la testa, sfilandosi il giaccone. “Ihhhh” trasalì, “ma fa freddissimo! Non va il riscaldamento!?”.
Un applauso ovattato dai guanti si alzò dal divano.
“Riscaldamento andato” spiegò Ken, laconico.
“E fino a domani non possono aggiustarlo” chiosò Takeshi con un sospiro.
Kazuki si sedette sull’altro divano, guardando con invidia i compagni, stretti l’uno contro l’altro.
“Prendi pure il mio posto” fece Yasu, sfilandosi a fatica dallo spazietto dove se ne stava incastrata fra Kojiro e Takeshi. “Abbiamo ancora del cacao in polvere, preparo una cioccolata calda”.
“Buona la cioccolata!” esultò Takeshi.
“Soprattutto calda!” intervenne sarcastico Sorimachi, scimmiottando l’entusiasmo del giovane centrocampista.
Yasu tornò di lì a poco con un vassoio con cinque tazze fumanti. Le distribuì agli altri e prese la propria, andandosi a sedere sul divano vuoto. Mentre soffiava sul cucchiaio colmo di cioccolata, le sovvenne che, forse, doveva avvisarli che la bevanda era bollente, ma non fece in tempo.
Un coro di imprecazioni si levò dai tre ragazzi più grandi, mentre Takeshi li guardava allibito col cucchiaio a mezz’aria.
“Ahiaaaa” protestò Kazuki. “Ma che cazzo è, lava?”
“Scusate, pensavo lo sapeste” disse Yasu, mortificata, spostando d’istinto lo sguardo su Ken. Mentre preparava con cura la bevanda, non aveva mai smesso di pensare al portiere e alla sua passione per il cioccolato… aveva sperato che gli piacesse e le facesse i complimenti per come l’aveva preparata. Invece la sua cioccolata gli aveva ustionato la lingua. Bella prova!
Trattenne il respiro vedendolo passarsi la lingua sulle labbra per valutare il danno. Poi i loro sguardi s’incrociarono: lui sorrise e le fece la linguaccia, accompagnandola con una strizzatina d’occhio.
Yasu sorrise di rimando, alzando gli occhi al cielo con aria birichina. Ridacchiò ancora, vedendo che Kojiro procedeva allo stesso esame del compagno, ma con le dita.
“Così impariamo a fare gli ingordi” disse Wakashimazu, passando a usare il cucchiaio, soffiandoci sopra a lungo, prima di portarselo alla bocca. Yasu si perse un attimo nell’osservare quel movimento, avvicinando a sua volta il proprio cucchiaio alle labbra, immaginando che fosse quello fra le dita di Ken...
Scosse la testa. Doveva smetterla di perdersi in quelle stupide fantasie!
“Ma che si fa?” sbuffò Kazuki, una volta che le tazze furono vuote.
“Magari andiamo a cena in mensa” suggerì Yasu e gli altri annuirono con un sospiro.
“Sì, ok, ma dopo? Se nevica come ieri notte, ci congeleremo!” insisté il numero nove. “Rischiamo di ammalarci, e la prossima settimana abbiamo la partita.”
“Quando a casa mia si rompeva il riscaldamento, e succedeva abbastanza spesso,” bofonchiò Kojiro, alzandosi per raccogliere le tazze e riportarle in cucina, “la notte dormivamo tutti insieme nel lettone dei miei.”
In sua assenza, gli altri si scambiarono sguardi che andavano dallo sconcertato, all’allibito, all’inorridito.
Yasu cercò di non porsi troppe domande sul modo in cui Ken aveva spalancato gli occhi, abbassandoli subito dopo.
“Non ti offendere, capitano,” azzardò Kazuki, quando Kojiro tornò a unirsi al gruppo. “Ma non credo sia la migliore delle strategie”.
“Non è che muoio dalla voglia di dormire con te, Sorimachi… né di essere nei paraggi quando ti togli le scarpe…” disse Kojiro, guardandolo di sottecchi e scatenando una risata generale. “Era per fare conversazione” concluse con un’alzata di spalle.
Kazuki lo guardò inarcando il sopracciglio, chiedendosi da quando in qua il capitano facesse conversazione. Forse anche quello serviva a difendersi dal freddo.
Un gridolino di Yasu interruppe i suoi pensieri: “Ho un’idea!” gongolò la ragazza. “Andiamo a dormire nello spogliatoio! Le panche saranno dure, ma almeno lì il riscaldamento funziona. E io so dove il custode tiene le chiavi di scorta...” concluse con aria soddisfatta.

Dopo la terribile cena della mensa, i ragazzi tornarono nel loro appartamento, presero degli indumenti caldi e tutte le coperte che avevano e si diressero verso il campetto. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi sul dormire nello spogliatoio, con quella breve visita all’appartamento si era definitivamente convinto: là dentro era più gelido del vialetto che stavano percorrendo.
Yasu recuperò le chiavi e aprì il paravento d’ingresso all’edificio che ospitava gli spogliatoi, quindi si soffermò davanti al quadro per accendere le luci e avviare il riscaldamento: presto si sarebbe diffuso un piacevole tepore.

I ragazzi l’avevano preceduta nello spogliatoio e si stavano già sistemando, quando Yasu li raggiunse, fermandosi tuttavia sulla soglia di quella stanza che, da sempre, era l’unico posto dove non poteva seguire i suoi amici. E quella volta non avrebbe fatto eccezione: restando con loro, li avrebbe messi in imbarazzo, quindi decise: “Io mi sistemo in infermeria”.
“Non dormi con noi Ya-chan?” chiese Takeshi un po’ deluso. “Speravo che…”
“Cosa, Sawada, volevi la favola della buonanotte?” lo canzono Kazuki.
Il ragazzo più piccolo aggrottò le sopracciglia e non disse niente ma, di nascosto, guardò Ken.
Il portiere aveva sistemato le proprie cose su una panca e stava appoggiando le coperte di Yasu, che aveva insistito per portare lui, su quella di fronte, ma sentendo le parole della ragazza si era interrotto, adombrandosi.
“Credo che così faremo più il nostro comodo…” spiegò lei, con un fremito nella voce.
“Tu di sicuro te ne starai comoda, sul lettino dell’infermeria…” insinuò Kazuki. “E pure più calda...”
“Non è quello è che -” balbettò, imbarazzata.
“Non devi giustificarti, Wakabayashi” intervenne, autoritario, Kojiro. “E tu Sorimachi lasciala in pace e falle fare quello che si sente. Piuttosto, potresti andare in sala attrezzi a prendere qualche tappetino, così magari dormiamo sul morbido anche noi.”
Kazuki annuì e andò a cercarli.
Yasu si scostò dalla porta per farlo passare, quindi, dopo un attimo di esitazione, fece alcuni passi verso Ken, tendendo le braccia per riavere le coperte.
“Te le porto io di là” ribatté il portiere, brusco.

“Mettile pure lì, grazie” disse Yasu, senza guardarlo negli occhi, indicando uno dei due lettini dell’infermeria. “In effetti c’è già caldo qui, non so se mi serviranno...”
Ken borbottò qualcosa sul fatto che in effetti erano troppe, poi fece quanto richiesto. Il cuore gli accelerò quando con le mani sfiorò il lettino, ricordando tutte le volte in cui lì la ragazza si era presa cura di lui. Certo, lo faceva con tutti, ma gli piaceva pensare al tocco delicato delle sue mani, al suo ciarlare allegro, per distrarti. Scosse appena la testa per liberarsi di quei pensieri e si guardò attorno, le mani sui fianchi.
“Sei sicura di voler stare qui?” le chiese, titubante.
“Sì”
“Da sola?”
“Sì, tranquillo, non ho paura.”
“Noi siamo lì” fece indicando la porta dello spogliatoio, poco più su, lungo l’androne.
“Appunto” sorrise lei, “come a casa.”
“Sì, come a casa. Se hai bisogno-”
“Vi chiamo”.
“Sì, mi chiami” parafrasò lui, quasi senza accorgersene.
Yasu aveva iniziato a preparare il letto. Ken si diresse verso la porta, poi si fermò, appoggiando la mano all’imbotte e tamburellando col pugno un paio di volte. Inspirò a  fondo, poi si voltò verso di lei.
La ragazza era di spalle ma percepì quel movimento e trasalì. Fece un paio di respiri profondi, gli occhi fissi sugli armadietti in fondo alla stanza.
“Yasu...” la chiamò piano.
“Sì, Ken?” rispose lei, cercando di controllare la voce e tutto il resto del corpo, mentre si voltava.
 “Sei...”
“Sì?”
“Sei proprio sicura di stare qui? Guarda che a noi non dai fastidio.” disse tutto d’un fiato. Ma non era quello che voleva dire. Voleva restare lì con lei, sorvegliarla, proteggerla e poi magari tenerla fra le braccia, scaldarla e... deglutì a vuoto.
 “Preferisco così” rispose la ragazza, sperando che la delusione non trasparisse. Non le andava affatto di stare da sola. Avrebbe voluto dormire insieme ai suoi amici. Magari vicino a lui…
Si fronteggiarono per qualche secondo, guardandosi negli occhi solo di sfuggita.
“Buonanotte” disse infine il portiere, accennando un inchino.
“Buonanotte” rispose lei, stiracchiando un sorriso e chiudendogli la porta alle spalle più velocemente possibile.

Ken rimase un attimo fermo in mezzo al corridoio, il respiro accelerato, massaggiandosi l’attaccatura del naso, cercando di calmarsi.
E dandosi dello stupido.

Yasu affondò la testa nelle coperte che Ken le aveva portato, sperando che avessero il suo profumo. Ma l’unico odore era quello della lavanda che teneva nell’armadio. Lui era stato dolce e gentile come sempre, ma l’avrebbe fatto con chiunque, no? Doveva smetterla di pensare che ci fosse qualcosa di più.

Kazuki aprì le braccia, lasciando cadere a terra la pila di tappetini che aveva portato dalla sala attrezzi.
“Visto niente?” chiese Kojiro.
“Ho dato uno sguardo veloce, ma non volevo farmi beccare...”
“Speriamo sia la volta buona” sospirò Takeshi.
“E cosa hai visto?” incalzò il capitano.
“Ken era dentro la stanza e parlavano. Se davvero lei gli piace, non può lasciarsi sfuggire questa occasione, cazzo... sarebbe da…”
“… coglioni. Ma stiamo parlando di Wakashimazu, quello che si butta sotto i camion per salvare i cani e para i rigori con il polso rotto…” bofonchiò Hyuga. Eppure non c’era scherno in quelle parole, solo una semplice constatazione dell’inguaribile impulsività del suo amico, spesso a discapito della sua stessa salute fisica. E di quella mentale di chi, come Kojiro stesso, aveva la pessima abitudine di preoccuparsene.
“Assurdo” commentò Kazuki con un gesto di sufficienza. “Non esita a buttarsi sotto un camion o sui piedi di un giocatore in corsa… e non si butta a provarci con una ragazza, ben sapendo che lei non aspetta altro!”
“No che non lo sa” precisò Takeshi.
“Ma è ovvio, non vedi come lo guarda? Ti sembra che si comporti con lui come con noi? Hai presente come vengono stirate le sue magliette e come le mie?”
“Quello è perché Ken se le stira da solo e tu lo fai fare a Ya-chan” spiegò Takeshi.
“Davvero?” chiese sconvolto Kazuki, col rischio che la mascella gli si staccasse.
Gli altri due annuirono convinti.
“Comunque,” riprese l’attaccante, dando una scrollata di spalle. “Non vede tutto il resto?”
“Noi lo vediamo, ma loro no.” continuò il centrocampista, guardando i compagni con aria seria, seduto a gambe incrociate sulla propria panca. “È come se…” si guardava intorno come per cercare le parole, agitando le mani davanti a sé. “Non riuscissero ad… afferrarlo.”
“Per Wakashimazu non dovrebbe essere una sensazione nuova…” ridacchiò Kazuki. “Fra il Tiger Shot e i phrasal verbs, sono diverse le cose che non afferra…”
Kojiro incurvò la bocca in un mezzo sorriso, invece Sawada si accigliò: “Dico sul serio. Magari sono innamorati…”
Gli altri due lo guardarono come avesse le antenne.
“Sawada ma ti sei rincoglionito pure tu?” fece Kazuki, inarcando il sopracciglio.
Takeshi dette un’alzata di spalle e si coricò girandosi verso il muro. Kojiro sembrò riflettere per un attimo, fissando il pavimento. Quindi scoccò un’occhiata torva a Kazuki e stava per bofonchiare un “Buonanotte”, quando la porta si aprì e apparve Ken.

Il portiere entrò a testa bassa, il viso coperto dai lunghi capelli, si avviò verso la propria panca e ci si lasciò cadere pesantemente.
Takeshi lo guardò di nascosto da sopra la spalla, gli occhi tristi. Kazuki prese fiato come per parlare, ma un’occhiataccia del capitano lo fece desistere.
I taglienti occhi neri di Kojiro, ridotti a fessure, fissarono a lungo quelli di Ken, sondandoli, dall’alto di anni di reciproca e profonda conoscenza. Non li aveva mai visti così. Vi aveva visto la rabbia, la sfida, la sconfitta, ma mai tanta inquietudine. Ebbe voglia di avvicinarsi a lui e passargli un braccio attorno alle spalle e chiedergli cosa avesse. Ma non era così che funzionava tra loro e si limitò a distogliere lo sguardo.
Ken si sdraiò, lentamente, cercando di sistemare la propria mole su quello spazio duro e angusto. Hyuga era preoccupato per lui, glielo aveva letto negli occhi. E stavolta, stranamente, non per qualche cazzata che aveva fatto ma per quello che non aveva fatto, proprio lui che di solito prima si buttava a testa bassa e poi rifletteva. Ma non ce la faceva. Yasu gli piaceva, ma gli piaceva così tanto anche quello che avevano già, che la paura che qualcosa potesse cambiare lo bloccava, come mai gli era successo prima. Niente lo aveva mai fermato finora, non suo padre, non gli infortuni, non il buon senso. Ma quella cosa sì, quella cosa che gli bloccava le gambe, le mani, la gola, il cuore.
Chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro, facendo appello agli esercizi di rilassamento che proprio suo padre gli aveva insegnato. Per un tempo che parve infinito, fissò la cappelliera sopra di lui.
L’aria era ormai tiepida e il respiro dei suoi compagni si era fatto sommesso e regolare, mentre il suo, riusciva ancora a controllarlo a fatica. Provò a cambiare posizione, ma la panca consentiva poco spazio di manovra e s’impose di stare fermo per non cadere. Sentiva ogni muscolo in tensione. Non sarebbe mai riuscito a dormire, quindi si alzò per fare due passi nel corridoio. E naturalmente si ritrovò di fronte all’infermeria e fu oltremodo felice di vedere che c’era la luce accesa.
Fissò la porta socchiusa per qualche secondo, ruotò le spalle e prese un lungo respiro.
E che diamine. Era o non era quello che si buttava a capofitto nelle cose? Che si lasciava trasportare dalle emozioni?
Bussò.
“Chi è?” chiese Yasu da dentro, un po’ spaventata.
“Sono io, Wakas- ... Ken”.
“Vieni pure” rispose, il tono assai più allegro.
Il portiere aprì piano la porta e la guardò: sorrideva e, come sempre quando lo faceva, gli occhi le brillavano e somigliava molto meno a suo fratello.

Yasu sorrideva, perché era irrazionalmente felice che lui fosse tornato, fosse anche solo per dirle qualcosa di stupido.
Per un attimo aveva pensato che, nel dormiveglia, i suoi pensieri avessero preso forma di fronte agli occhi assonnati, ma invece era tutto vero, lui era lì ed era così carino con quell’espressione un po’ timorosa e la coperta stretta nella mano sinistra che strusciava sul pavimento. Una specie di Linus con un bel po’ di centimetri di altezza e di capelli in più.
“Dimmi” lo incoraggiò.
Lui spalancò gli occhi, come alla ricerca di una risposta. Poi ammise: “Non riuscivo a dormire, di là la panca è scomoda e...” fece una pausa. “Ero un po’ preoccupato al pensiero di te qui da sola e allora ho pensato... visto che comunque nello spogliatoio mi sarei steso sul pavimento... ho pensato che potevo dormire qui davanti, nel corridoio... così se mi vuoi sono qui.” Disse chiudendo la porta, senza darle il tempo di replicare.
Yasu rimase a bocca aperta: era un pensiero dolcissimo, che l’aveva colta di sorpresa e destabilizzata. Avrebbe dovuto dirglielo quanto le sembrava carino, o almeno offrigli qualche coperta in più... il corridoio era freddo, specie il pavimento!
Trattenne il respiro ascoltando lo strusciare delle coperte sulle piastrelle e contro la porta.
Poi più niente.
Che si fosse già addormentato? Yasu si distese, ma continuava a stare in ascolto. Lo sentiva cercare la posizione giusta, facendo tintinnare l’uscio, che aveva un po’ di gioco.
Dopo qualche minuto si rese conto che non avrebbe mai dormito in quelle condizioni. Si alzò e aprì piano la porta.
“Non mi va che dormi per terra... se proprio vuoi stare qui puoi sistemarti sull’altro lettino” sparò, senza rifletterci troppo.
“Si- sicura?”
“Sì, mi... fa piacere. In effetti avevo un po’ paura da sola” sorrise. Non era proprio la verità, ma certo se lui stava lì era... meglio.
Il portiere entrò, chiudendosi la porta alle spalle e, senza quasi guardare Yasu, sistemò le coperte sul lettino e si sedette. Solo allora rivolse lo sguardo verso di lei.
“Anche se il mio sarebbe quello” esordì Ken, indicando nella sua direzione.
“Cosa?”
“Il lettino” spiegò. “Di solito mi... ehm ci fai sedere lì.”
“Ah sì, è vero, mi è più comodo per via dell’altezza. Anche se in confronto a te non si direbbe, sono considerata anche io una ‘spilungona’.”
“Ti dispiace?”
“No ma...”
“Secondo me stai bene così”.
“Grazie” mormorò, arrossendo appena. “E comunque immagino ci si possa far poco... beh, vogliamo dormire?” concluse, desiderosa di girarsi verso il muro.
“Sì, che è tardi, buonanotte.”
“Buonanotte”.
Yasu aveva proposto di dormire ma era uno di quei casi in cui fra il dire e il fare... la brandina, seppur relativamente comoda, le sembrava fatta di spilli e sotto le coperte era percorsa a intervalli da brividi e vampate di calore, neanche avesse quaranta di febbre. Cercando di far piano, si rigirò più volte alla ricerca di una posizione confortevole.
Ken, invece, si godette la sensazione di potersi finalmente distendere su una superficie abbastanza ampia e morbida da poter tentare di dormire. Ma stava a orecchie dritte e a ogni movimento di Yasu se ne accompagnava uno del suo cuore.
Dopo qualche minuto, si decise : “Non riesci a dormire? Hai freddo? Sei scomoda?”
“Non ho sonno” rispose.
“Magari ti va di... ehm... parlare un po’?”
Il cuore di Yasu si fermò un istante, poi ricominciò a battere tanto forte, che temette Ken potesse sentirlo. Controllando la voce, chiese se anche lui non riusciva a dormire.
“Più o meno” disse, tirandosi su seduto.
La ragazza si sedette a sua volta e si allungò ad accendere la lampada sulla scrivania dietro di lei. Faceva poca luce, ma sufficiente per indovinare i profili dei mobili. E quello di Ken. Raccolse le gambe al petto abbracciandosele e poggiò la schiena al muro, poi guardò verso il portiere.
Lui si lasciò scivolare giù dal lettino. “Posso sedermi vicino a te?” sussurrò, con la gola secca.
Yasu si spostò di lato e guardò nella sua direzione, poi batté con la mano sulla parte libera del materassino.
“E’ il tuo posto, no?” disse, sforzandosi di ridere.
Ken fremette: lo sapeva che lei si riferiva alla battuta di poco prima sul lettino, ma non riuscì a trattenere il pensiero che sì, il suo posto era vicino a lei.
Si sedette sul bordo del giaciglio, le gambe penzoloni e i piedi che sfioravano il pavimento. Lei era leggermente più indietro. “Di cosa parliamo?” gli chiese dopo un po’, fissandogli la schiena.
Silenzio.
“La tua cioccolata era buona.” Buttò lì Ken, girando la testa per guardarla con la coda dell’occhio.
“Davvero? Ma se ti ha ustionato la lingua...” rispose imbarazzata, rapita dal profilo perfetto del suo naso, e dal movimento ipnotico delle labbra, e dei capelli che lo celavano a tratti.
“E che c’entra, perché sono goloso... ciò non toglie che fosse buona. Bollente, ma buona” ridacchiò.
“Non tutto il male viene per nuocere” commentò Yasu, ridendo di rimando. “Si dice così, no?”
“Sì e io...” Esitò. “Lo penso sempre quando vengo qui dentro...”
“In infermeria?”
“Sì, perché anche se mi son fatto male, ci sei tu...”
Yasu ringraziò di essere appoggiata al muro: quelle ultime tre parole, udite in una qualsiasi altra posizione l’avrebbero mandata a gambe all’aria. Socchiuse gli occhi e inspirò a fondo.“Non importa, sai, che ti fai male..” sussurrò, esitante. “Io... ci sono sempre, per te...” concluse, mettendogli una mano sulla spalla e sporgendosi in avanti.
Ken le sfiorò la mano, staccandola dolcemente per prenderla fra le proprie. I suoi palmi erano grandi e caldi, nonostante il freddo. Yasu si sentiva come se, al posto dello stomaco avesse il vuoto cosmico, un buco nero o qualcosa del genere. Tremava, mentre alzava lo sguardo a incontrare quello del portiere.
“Lo vorresti davvero... insomma... esserci sempre per me? Stare... sempre... con... me...” balbettò Ken, chiedendosi cosa diavolo stesse dicendo. Quando vide quegli occhi color nocciola fissare i propri, il ragazzo non abbassò lo sguardo, anche se per un attimo indugiò sulle labbra rosee, appena dischiuse.
Sembrava stupita.
E lui aveva voglia di baciarla.
Non sapeva da dove venisse quel desiderio... come si poteva desiderare qualcosa di cui non si aveva idea?
Eppure lo voleva. Socchiuse gli occhi e si chinò verso di lei.
Quando scorse quel movimento, Yasu serrò gli occhi. Aveva paura. Quando le labbra di Ken sfiorarono le sue, per un attimo, ebbe voglia di scappare. Ma il suo corpo non le obbedì, ormai rispondeva a un altro richiamo. Quello che la spinse a dischiudere le labbra e ad accogliere quel bacio che, si rese conto, aspettava da mesi.
O forse da sempre.
Yasu sentì un piacevole torpore diffondersi per il corpo e cominciò a ricambiare il bacio, prima timidamente, poi con maggiore confidenza. Finché, con un gemito, Ken non si staccò e si allontanò, premendosi la mano sulla bocca.
Il calore si trasformò in una doccia gelata che la fece vacillare. “Scusami io...” borbottò la ragazza ritraendosi.
“No, no” si affrettò a chiarire Ken. “Era tutto... bellissimo... è solo che ho... la lingua ustionata” disse, trattenendo a stento le risa.
Yasu scoppiò a ridere a sua volta. Poi si fece di nuovo seria, tornò a fissarlo negli occhi e gli poggiò una mano sulla guancia.
“Allora cercherò di essere delicata” sussurrò prima di baciarlo ancora.

***

Yasu si svegliò e dovette sbattere gli occhi due o tre volte prima di realizzare dove si trovava, mettere a fuoco la stanza che la circondava e capire la strana posizione in cui si era addormentata.
Quando le tornò in mente cos’era successo la sera prima, sentì come se della lava incandescente le si riversasse dallo stomaco nell’addome, e il cuore cominciò ad accelerare.
Si girò lentamente e, dalla posizione fetale in cui si era addormentata, si mise a pancia su. Alzò piano il mento e vide il volto addormentato di Ken sopra di lei.
Era come sospettava: lui si era addormentato con la schiena contro il muro, dove la sera prima si era seduto per chiacchierare e poi… Yasu deglutì a vuoto e resistette alla tentazione di portarsi una mano alle labbra, per paura di svegliarlo, muovendosi. Sì perché lei aveva dormito tutto il tempo con la guancia poggiata sulle gambe di Ken, con una delle sue mani grandi posata sul fianco.
Rimase per un po’ lì, cercando di controllare il respiro e di riordinare le idee, ma le uniche parole che riusciva a pensare erano: “E ora?”
I muscoli, irrigiditi dalla strana posizione in cui aveva dormito cominciarono a darle il tormento. Doveva alzarsi, fare due passi, sgranchirsi muscoli e cervello.
E comunque, prima o poi avrebbero dovuto muoversi, non potevano restare lì in eterno. L’idea era allettante ma, ahimè, irrealizzabile.
Si era quasi decisa ad alzarsi, quando qualcuno bussò alla porta un paio di volte. Lei rimase immobile, Ken scosse appena la testa, mugolando piano.
Dopo qualche attimo la maniglia si abbassò e Kazuki fece capolino.
Yasu si alzò di scatto. Ken si svegliò e, d’istinto, la abbracciò come a difenderla.
“Buongiorno piccionc- ahia” esclamò l’attaccante girandosi verso chi, evidentemente, lo aveva interrotto con modi poco gentili.
La porta si spalancò rivelando che il torturatore non era Kojiro bensì Takeshi, che, dopo aver dato un forte pizzicotto a Sorimachi, comunicò loro con un sorriso che a breve sarebbe arrivato il custode ed era dunque ora di sloggiare, quindi richiuse rapidamente la porta rischiando di schiacciare la mano del compagno.
Ken e Yasu, che erano rimasti come imbambolati, si riscossero solo dopo che la porta fu chiusa di nuovo.
“Dobbiamo andare” esalò la ragazza, quasi senza voce.
“Certo.”
“Ehm…” ridacchiò lei. “Dovresti… togliere…”
I suoi occhi divennero enormi e svelto la liberò da quell’abbraccio. Yasu scese lentamente dal lettino e lo guardò stiracchiarsi e scendere a sua volta.
In silenzio, raccolsero le coperte e Ken si avviò verso la porta. Quando poggiò la mano sulla maniglia, Yasu, rimasta qualche passo indietro, lo chiamò.
“E ora?” disse, finalmente ad alta voce.
Lo osservò mentre si voltava e le mancò il fiato perché, dopo quella notte, le parve ancora più bello del solito.
“Beh ora siamo una...” fece una pausa, arricciando il naso, come se cercasse la parola giusta “...squadra” concluse, con una certa soddisfazione. E un sorriso disarmante.
Yasu lo guardò perplessa, ma poi un piacevole calore le si diffuse nel petto, a dispetto del refolo d’aria fresca che veniva dal corridoio. Una squadra suonava decisamente bene, pensò mentre, orgogliosa, afferrava la mano che lui gli aveva teso.
 
*************
Grazie rel, grazie agatha

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Capitolo 8
*** Una Visita - Toho Story 7 ***


Siamo a luglio del secondo anno. Yasu e Ken stanno già insieme da qualche mese ma, fuori dai cancelli del Toho, la storia non è certo di dominio pubblico...
Mettiamo poi che qualcuno di inatteso suoni al campanello...

Una visita


“Che caldoooo” mugolò Yasu, crollando sul tavolo. “Ma perché mettere i compiti in classe a luglio? Kamisama, mica abitiamo in Alaska”.

“Ti lamenti proprio tu che passerai di sicuro?” ringhiò Kojiro, tracciando rabbiosamente una X rossa sull’ennesimo risultato sbagliato dell’equazione.
“Di sicuro c’è solo che sto morendo di caldo” borbottò la ragazza, imbronciata.
“Se ancora il concetto non fosse chiaro…” ironizzò Sorimachi dal bagno.
“Se la smetteste di lamentarvi e punzecchiarvi, finiremmo in fretta e magari potremmo andare un po’ in piscina” intervenne Ken, serio, cercando di placare gli animi surriscaldati dal clima e dalla matematica..
“Dico solo che, come minimo, negli alloggi ci dovrebbe essere l’aria condizionata-”
“Ma sentitela” la interruppe Kojiro. “Dove credi di essere, al Grand Hotel?”
“O a casa tua?” rincarò la dose Sorimachi, sempre urlando attraverso la porta aperta del bagno.
“Io ve lo avevo detto di andare a studiare a Villa Wakabayashi, ma voi non avete voluto! E poi con la retta che paghiamo…” fece una pausa, osservandoli. “Ah già, voi avete tutti la borsa di studio… sarà mica per quello che abbiamo l’appartamento più fatiscente?”
Ken stava per gridare un “BASTA!” ultrasonico, ma il suono del campanello interruppe l’ameno scambio di opinioni fra coinquilini.
Si guardarono con aria interrogativa e tutti scossero la testa: nessuno aspettava visite. Dato il caldo, poi, erano tutti poco presentabili: Yasu indossava un top e dei pantaloncini cortissimi, Kojiro era direttamente in boxer e canottiera, Ken aveva su solo dei bermuda. Per non parlare di Sorimachi che, finiti i compiti, si stava facendo la doccia.
Con un sospiro, il portiere si rese conto di essere l’unico in condizioni vagamente decenti e si trascinò fino al portone. Passando, ebbe il buon gusto di accostare la porta del bagno.
“Sì?” chiese un po’ scocciato, aprendo la porta.
Seguì un silenzio strano. Yasu e Kojiro si guardarono perplessi.
“Ya – Yasu” balbettò poi Ken, dall’ingresso. “Hai hai… visite”.
La ragazza si alzò e si avviò a sua volta verso il portone. “Chi…” la voce le morì in gola e il cuore le rimbalzò forte nel petto. “Genzo!” gridò infine, lanciandosi attraverso il corridoio fra le braccia del fratello.
Non sapeva se piangere o ridere. Cioè, lo sapeva: avrebbe pianto, ma non era sicura se per la gioia di rivederlo, per la disperazione o per le tante, troppe cose da spiegare. Che suo fratello non avrebbe capito.
Nel frattempo, Kojiro si era affacciato dall’uscio della cucina e Kazuki da quello del bagno, come si è detto, in mutande il primo, coperto solo da un asciugamano il secondo. I due giocatori accennarono un mezzo saluto al visitatore ma Genzo non rispose, intento com’era a passare in rassegna, con sguardo torvo, le mise dei quattro studenti.
“Scusa” cercò di batterlo sul tempo Yasu, “stavamo studiando e fa un caldo…”
“E dove sono i loro vestiti?” la interruppe, puntando il dito contro i ragazzi.
“Come ti ho detto…” A Yasu sembrava di sentire le proprie unghie stridere sugli specchi su cui cercava di arrampicarsi. “Stavamo studiando e pensa un po’, avevamo del succo che è finito tutto addosso a Kazuki, nonché sulla maglia di Ken e sui pantaloni di Kojiro…”
Wakashimazu, dietro le spalle di Genzo, si passò la mano sulla faccia, scuotendo il capo. Sorimachi soffocò a stento una risata, mentre Kojiro faceva sforzi disumani per restare impassibile.
“E le tue compagne di appartamento? Non hanno problemi con questi mezzi nudi in giro per casa?”
“Ehhh vabbè…” scherzò Yasu, forzando una risata, “poteva andare loro peggio…” insinuò accennando agli addominali di Ken e ai bicipiti in bella mostra di Kojiro. “E poi come vedi non ci sono… ma che maleducata,” tentò di sviare, “ti lascio lì sulla porta, vieni, appoggia i bagagli in camera mia”.
Peccato che, per arrivare alla stanza di Yasu, bisognasse passare di fronte a quella di Kojiro. La porta era ovviamente spalancata ed era abbastanza evidente che non si trattasse della stanza di una ragazza.
“Yasuko Wakabayashi…” scandì lentamente Genzo. La sorella fece per ribattere, ma lui la anticipò: “Lo so che non ti piace sentirti chiamare così…”
“Non è quello… è che così mi chiama solo mamma e… ehi, sai che con quell’espressione sembri proprio la mamma? E comunque… sì non mi piace” raffazzonò imbarazzata.
“A me non piace essere preso per il culo, invece” disse, guardandola fissa negli occhi. “Vivi insieme a loro, vero?”
Kojiro e Ken trattennero il fiato e distolsero lo sguardo, imbarazzati, mentre Yasu annuiva, fissando il pavimento e mordendosi il labbro inferiore.
“Ehm” si intromise Kazuki. “Visto che la cosa è chiarita posso andare in camera mia a vestirmi? Graaaazieeee” disse educato, insinuandosi fra i due gemelli. Genzo si scansò per farlo passare, quindi tornò a guardare la sorella, braccia incrociate e sopracciglio inarcato:
“Mi sorprende che in una scuola tanto blasonata permettano certe cose. Spiegami come hai fatto”.
Yasu sorrise, furba. “In effetti è una storia piuttosto divertente! Accomodiamoci in soggiorno”.
Genzo e Yasu raggiunsero Ken e Kojiro che, intanto, avevano liberato il tavolo dai libri.
“Ma…” si rese d’improvviso conto Genzo. “Dovete studiare?”
“Non ti preoccupare,” rispose Ken, aprendo bocca per la prima volta, senza guardare l’altro portiere negli occhi, “riprenderemo più tardi.” Concluse sparendo oltre la porta coi libri in mano.
“Qualcosa da bere?” mugugnò Kojiro.
“Volentieri, grazie” disse l’ospite. Un attimo dopo il cannoniere gli mise davanti, senza tante cerimonie, un bicchiere, una bottiglia di coca cola e del succo di frutta. Genzo si servì, accavallò le gambe e si preparò ad ascoltare il racconto della sorella. “Sentiamo” la incoraggiò in tono sarcastico. “Voglio proprio farmi due risate”.
“È stata Nanny a iscrivermi a scuola,” spiegò la ragazza, “e ha scritto solo ‘Yasu’ anziché ‘Yasuko’, così hanno creduto che fossi un maschio… e, siccome ci dividevano per cognome, mi sono ritrovata in appartamento con Ken. Poi Takeshi, Kojiro e Kazuki hanno fatto cambio con gli altri tre e…”
“E ancora nessuno se ne è accorto?” chiese Genzo, sorpreso.
“Oh, sì…”
“E allora? Com’è che ti hanno lasciato qui?”
“Ehm” cincischiò Yasu, giocherellando con l’orlo dei pantaloncini. “Sai com’è, ormai le stanze erano stabilite…”
“Ma se loro” alzò la voce, indicando Kazuki e Kojiro, “hanno fatto cambio!”
“Sì, ma gli alloggi femminili erano completi!”
“WAKABAYASHI YASUKO NON PRENDERMI PER IL CULO!”
“Diciamo che un po’ è vero” s’intromise Sorimachi. “Sarebbe stato un bel casino ricombinare tutto, almeno così dissero…”
“Ma?” incalzò Genzo.
“Eddai, Wakabaya- ehm, Yasu, diglielo e facciamola finita” sbuffò Kojiro, poi si rivolse a Genzo. “Diciamo che tua sorella ha… spinto i tasti giusti …”
“Che… che cosa vuol dire?” chiese l’SGGK. Non sapeva davvero cosa pensare!
“Vuol dire” si decise infine la ragazza, “che ho… ehm… ricordato al consiglio scolastico che… ehm… papà è uno dei maggiori investitori e…”
“Yasu” sospirò Genzo, un misto di rabbia, disperazione e resa totale, mentre si portava le mani al volto.
“Non lo dirai a mamma vero, fratellino mio?”
Fratellino mio? Se mi chiami di nuovo così, le telefono nel giro di cinque minuti…”
“Andiamo, Gen… per favore… loro sono…” lo pregò, quasi con le lacrime agli occhi. “I migliori amici che ho qui a scuola…” confessò, sforzandosi di non guardare Ken.
L’SGGK inarcò il sopracciglio, dando di nuovo uno sguardo a Hyuga, che lo osservava con aria di sufficienza, a cavalcioni della sedia, con indosso solo la biancheria; a Wakashimazu che, tornato in soggiorno con indosso una maglietta, si era messo ad armeggiare alla cucina, senza mai guardarlo negli occhi; e a Sorimachi, che da mezz’ora era sulla soglia, tentando di attirare la loro attenzione per salutarli.
“Sta bene, non lo dico alla mamma” biascicò infine. “Ma non aspettarti che mi complimenti con te per la scelta degli amici”. Concluse con un risolino sghembo.
Yasu alzò preventivamente una mano per zittire Kojiro, poi, con tono mielato, ribatté: “È perché non li conosci, vedrai che se resti un po’ qui, capirai perché voglio loro tanto bene”.
Ken sussultò impercettibilmente, poi uscì dalla stanza mormorando delle scuse.
“A proposito” riprese Yasu. “Com’è che sei da queste parti? Quanto ti fermi?”
“Solo un paio di giorni… poi vado a Nankatsu… sempre se non è un problema… anzi, dovrei cercarmi un albergo…”
“Non se ne parla” lo interruppe la ragazza, “tu dormi qui. Kojiro ha un futon, lo portiamo in camera mia…”
“Ma la tua stanza è piccola!” replicò Hyuga. “Perché non gliela lasci e tu non dormi con-”
Lo sguardo infuocato di Yasu e Kazuki gli fece morire le parole in bocca e realizzare che Wakabayashi non solo non sapeva, almeno fino a pochi istanti prima, che loro erano i coinquilini della sorella ma, soprattutto, non aveva la minima idea dei rapporti di questa con Wakashimazu…
“Hyuga intendeva dire” intervenne Kazuki, tempestivo come sempre, “che metteremo il futon nella sua stanza che è più grande e io o Ken ci andremo a dormire, lasciando all’ ospite una delle nostre stanze”.
“Non voglio disturbare…” Fu l’educata risposta di Genzo.
“Sì, lasciamo perdere” disse Yasu, calcando particolarmente le parole. “Siamo stati nove mesi in un utero, possiamo ben stare due notti in una stanza un po’ piccola, giusto Gen?” ridacchiò nervosa.
“Senza dubbio” rispose atono il gemello, mentre Sorimachi rideva di gusto, a bella posta, per sviare ulteriormente l’attenzione del visitatore.
Yasu si alzò e propose al fratello un giro per il campus, che così i suoi compagni potevano studiare – e calmarsi – pensò, cercando con lo sguardo Ken. Con la scusa di andare a cambiarsi, si avviò verso la propria camera e, di nascosto, raggiunse quella del suo ragazzo.
“Ken…”
“Quando ti dicevo che dovevi raccontarglielo…”
“E che posso farci… è andata così” rispose stizzita, “e… non hai mai pensato che magari preferivo dirglielo di persona?” buttò lì.
“E che sarà mai, non credo sia la fine del mondo…”
“Appunto, allora cosa te ne frega se glielo dico ora!”
“Ma che ne so… mi imbarazza un po’ cenare con lui un’ora dopo che glielo hai detto, ecco”.
“Stai tranquillo” le sussurrò, avvicinandosi e poggiandogli le mani sul petto. “Mi ha sempre detto di stimarti… vedrai che sarà contento”.
****
“CHE COSA???” gridò Genzo, guardandola come se gli avesse detto qualcosa di terribile. Eppure lei l’aveva presa larga, molto larga: avevano attraversato tutto l’immenso campus dell’Istituto Toho: Yasu aveva spiegato la funzione di ogni singolo edificio, accompagnando la spiegazione con episodi divertenti, successi qua e là nel corso dell’anno, cercando di veicolare l’idea di quanto quei mesi fossero stati pieni e divertenti, e di quanto il merito di tutto ciò fosse da imputare ai suoi coinquilini. Cercò di mettere particolarmente in buona luce Ken, evitando tuttavia di non parlare solo di lui, bensì anche di Takeshi, Kojiro e Kazuki.
Infine, erano arrivati al campo di calcio. Genzo espresse la sua approvazione: per essere una scuola giapponese aveva davvero un bell’impianto, paragonabile a quelli che usava in Germania. Yasu tirò fuori le chiavi e gli fece visitare anche gli spogliatoi e la palestra. Sbucarono nel campo vero e proprio. Quasi senza accorgersene, si diressero verso una delle porte.
E inevitabilmente pensò a Ken. Era un segno, un segno evidente che non si poteva più procrastinare. Così, dopo aver parlato di tutti i loro familiari e amici, finalmente Yasu introdusse l’argomento.
“E di te cosa mi racconti? Il fascino esotico funziona ancora con le tedesche?”
Genzo si arrestò un attimo, guardandola torvo, poi, vedendo il sorriso sul volto della sorella, si rilasso a sua volta e rispose divertito: “Abbastanza, grazie”.
Lo guardò, birichina e curiosa.
“Uff, sì sono uscito con un po’ di ragazze…”
“Devo guardare sulla tua agenda o te le ricordi?”
“Mah, sì beh, Karin, Helena… ” cominciò a elencare una serie di nomi che lasciarono Yasu perplessa e forse un pochino gelosa, ma era anche contenta che il fratello si trovasse bene in Europa.
“E… tu?” le chiese, prevedibilmente, a sua volta. Due paroline troppo piccole per capire cosa ci fosse dietro… cosa avrebbe voluto sentire suo fratello, in realtà?
“Beh, non così tanti…” esitò, suscitando l’ilarità del gemello. “D’altra parte si sa che quello bello sei tu…” lo schernì, guardandolo di sottecchi.
“Ma finiscila” borbottò l’altro, arrossendo.
“In effetti molto pochi… o per dire la verità… uno, ecco” balbettò, controllando poi la reazione del ragazzo.
“Ah” fece lui. Poi si cacciò le mani in tasca e fece qualche passo, come stesse pensando. Riflettendo su se uno fosse meglio o peggio di tanti. Poi tentò: “C’è uno… che ti piace?”
L’espressione e il tono di Genzo continuavano a essere imperscrutabili. Yasu davvero non sapeva come mettere la cosa. Infine, decise di dirglielo e basta, tanto, come dire, cambiando l’ordine degli addendi…
A forza di tentare di inculcare la matematica nella testa di Kojiro, ormai, parlavano tutti per teoremi… Il giorno prima, Kazuki aveva espresso il suo snervamento per quella situazione dicendo che la sua pazienza non tendeva a infinito…
Stava divagando… lo sguardo ineffabile ma inquisitorio del fratello la riportò al proprio dovere. Prese fiato, deglutì e forzò un sorrisetto.
“Certo che mi piace… e immagino che la cosa sia corrisposta visto che…” esitò, poi socchiuse gli occhi e sparò: “visto che stiamo insieme…”
La cosa terribile è che quel “CHE COSA???” era arrivato a questo punto. Prima che venisse fuori il nome. Il che non era incoraggiante.
Poi Genzo aveva preso un profondo respiro, si era passato le mani sul viso e le aveva congiunte, esalando: “Non è Hyuga, vero?”
Yasu lo osservò sbattendo le palpebre, non sapendo se sentirsi sollevata, perché almeno in quello non aveva disatteso le aspettative fraterne, o se ridere per quella sua preghiera accorata. Comunque si affrettò a rassicurarlo: “Nooooo” rispose agitando le mani in segno di diniego. “È Wakashimazu!”
****************
“…e menomale tu sei quello che dovrebbe capirmi più di chiunque altro” sbraitò Yasu, sottolineando le ultime parole con particolare teatralità, mentre rientravano nell’appartamento. Genzo alzò gli occhi al cielo e lanciò uno sguardo agli altri inquilini, sorprendendosi del fatto che nessuno avesse fatto una piega davanti a quella scenata.
La ragazza proseguì come una furia verso la propria camera, uscendone attimi dopo con un accappatoio e altra roba in mano. “Vado a farmi una doccia” sputò all’indirizzo del fratello. “Attento che non ti buttino in pentola con le verdure” ghignò, entrando in bagno e sbattendo la porta.
“…e tu vedi di darti una calmata” replicò Genzo, rendendosi tuttavia conto di star parlando all’uscio della toilette. Con un sospiro si sedette in un angolino della cucina, osservando Wakashimazu e Hyuga trafficare ai fornelli. Un inevitabile sorrisino sghembo gli incurvò le labbra.
“Fa sempre così” disse a un tratto l’attaccante, senza alzare la testa “è un po’ incazzosa-”
“Yasu non è incazzosa” lo corresse Ken, smettendo per un attimo di fare qualsiasi cosa stesse facendo, serrando i pugni e girando di scatto il viso verso l’amico. “Che peraltro non vuol dire niente…”
“Oh, sì che lo è” insistette Kojiro. “Ma è questione di qualche minuto poi…”
“… poi si calma, sì, lo so” sospirò di nuovo Genzo.
“E dopo è la persona più razionale e paziente del mondo” sorrise Wakashimazu.
“Basta lasciarla sbollire qualche minuto” dissero tutti e tre praticamente all’unisono. E nascondendo a stento un sorriso.
Poi calò il silenzio e per un po’ si sentirono solo i rumori prodotti dai due “cuochi” all’opera e, in lontananza, lo scrosciare della doccia.
Ken si interruppe di nuovo e si voltò verso Kojiro. “E se lo chiedessimo a lui?”
Genzo li fissò, gli occhi ridotti a fessure. Ma che credevano di essere soli? O che a forza di stare in Germania, non capisse più la sua lingua? Incrociò braccia e gambe in una posa stizzita e inquisitoria. Voleva proprio sentire cosa avessero da chiedergli. Vide Ken voltarsi, appoggiando la schiena al bancone della cucina, socchiudere gli occhi e incrociare, a sua volta, le braccia sul petto. Niente di che, se non avesse avuto ancora in mano un coltellaccio con cui, evidentemente, stava sminuzzando qualcosa. Genzo fissò per un attimo l’utensile e l’altro portiere dovette accorgersene, perché, svelto, lo mise via.
“Scusa” mormorò. Poi riprese e nel suo tono c’era una certa urgenza. “Senti… vorremmo chiederti una cosa…”
“Tu e chi?” chiese l’SGGK.
“Io e beh… Hyuga, Sawada e Sorimachi” rispose, perplesso.
“E sarebbe?”
Guardò verso il bagno. L’acqua che scorreva ancora gli confermò che aveva ancora tempo. Ma Hyuga, che fino a quel momento era rimasto di spalle, dovette scambiare quella pausa per esitazione, perché si voltò e prese la parola.
“Per farla breve, Wakabayashi, il punto è questo. Ci dispiace che tu l’abbia scoperto così ma, ecco, ci teniamo a precisare che con Yasu ci troviamo bene, ci divertiamo e la... rispettiamo” disse, grattandosi la testa, un po’ a disagio. “Insomma... ci fa piacere che viva con noi solo che... a volte abbiamo paura che le manchino un po’ di quelle cose…” fece una smorfia, come cercasse la parola giusta. “Insomma, le cose… da femmine”.
“Tipo?” domandò ancora Genzo, sempre con un’espressione impenetrabile.
“E che ne so?” sbottò Hyuga. “Le cose che fanno le femmine… ho anche io una sorella e spesso invita le sue amiche a casa e parlottano e… starnazzano per ore e ore…”
Il portiere dell’Amburgo aggrottò le sopracciglia, come se riflettesse o cercasse di ricordare. Alla fine scosse la testa.
“Yasu no” sentenziò. “A quanto mi ricordo, ha sempre preferito stare con me e i miei amici, anzi fu proprio quando arrivò Sanae che iniziarono i problemi. Con lei litigava di continuo, cosa che prima non era mai accaduta con nessun altro”.
“Te l’avevo detto” sibilò Ken. “Yasu non è come le altre…”
Genzo fulminò con lo sguardo il collega. “Sì, ho sentito dire che…” All’improvviso gli mancarono le parole. Quella novità doveva ancora metabolizzarla. Eppure c’era una cosa che doveva dire. Inspirò ed espirò pesantemente un paio di volte, quindi puntò un dito in faccia all’altro.
“Non me ne frega un cazzo se sei centesimo dan, se fai soffrire mia sorella, il modo di ammazzarti lo trovo”.
Ken lo guardò con gli occhi spalancati, fissando per la prima volta, direttamente, quelli di Wakabayashi.  Non fu facile sostenerne lo sguardo, così identico a quello della sua ragazza. Ma poi raddrizzò la schiena e, cercando di controllare la voce, rispose molto serio: “Mi sembra giusto”.
Genzo indietreggiò appena, cercando con la mano la sedia, su cui tornò a sedersi. Era arrossito.
“Ma non credo che si renderà necessario” aggiunse Wakashimazu, accennando un piccolo inchino. Poi fece un respiro profondo e tornò a voltarsi.
L’SGGK lo guardò e, malgrado tutto, pensò che era vero.
Hyuga era stato lì lì per intervenire, giusto per evitare che Ken si impelagasse in robe tipo giuramenti d’onore o cose del genere, ma si accorse che quella sfida fra i due portieri era finita. Giusto in tempo, perché l’oggetto del contendere stava entrando nella stanza. Con in mano del cotone e una siringa.
“Sorimachi?” chiese. “Si nasconde come al solito? Tsk, grande e grosso e ha paura di una punturina”.
“Non ho paura” precisò l’interessato, sbucando dalla propria stanza, “è che stasera abbiamo ospiti…”
“Non mi risulta che farsi un’iniezione sia contro il galateo… almeno che non appoggi i gomiti sul tavolo e ti tiri giù le mutande in sala da pranzo… ma devo fartela sul braccio, quindi non si scandalizzerà nessuno, dai che te ne mancano solo due”.
“Andiamo Sorimachi, fatti questa iniezione e finiamola” intervenne brusco Kojiro. “Che qui siamo pronti”.
Yasu e Kazuki sparirono nella camera di quest’ultimo, incrociando nel corridoio Sawada. Il giovane centrocampista, si mostro piacevolmente colpito da quella presenza inattesa e  salutò Genzo con calore. Scambiarono qualche parola e Takeshi gli spiegò anche che un mesetto prima Kazuki si era rotto un dito della mano, l’avevano operato e doveva prendere per un po’ delle iniezioni di calcio-eparina e che Yasu si era offerta gentilmente di fargliele.
Di lì a poco Sorimachi e Yasu tornarono in soggiorno e si sedettero al tavolo che, intanto, Wakashimazu aveva apparecchiato.
Genzo doveva ammetterlo: le sue due nemesi del Toho potevano non avere un carattere a lui congeniale, ma sulla loro bravura ai fornelli, come su quella in campo, non c’era niente da dire.
“Devi ritenerti fortunato” lo informò Yasu. “Il nostro capitano e il nostro portiere hanno onorato la tua visita dando ognuno il meglio di sé”. Poi passò a tessere le lodi del “famoso donburi di Kojiro”, della “gustosissima soba di Ken”, della “ricetta segreta degli yakitori della signora Wakashimazu”. E nessuna lode era immeritata. Genzo fece una scorpacciata di cibo giapponese come non ne faceva da mesi. Tanto che, quando Yasu gli presentò gli usuama che aveva fatto la sera prima insieme a Takeshi, riuscì fisicamente a ingerirne solo due. Infine, anche Sorimachi volle dare il suo contributo alla cena e tirò fuori da un qualche recesso della sua stanza una bottiglietta di saké.
Gli altri strabuzzarono gli occhi alla vista della bevanda alcolica, ma poi tutti favorirono. Per fortuna, la bottiglia era piccola e, divisa in sei, a ognuno toccò solo un bicchierino di saké. Ma fu sufficiente per rendere l’atmosfera più rilassata e risollevare gli spiriti. Collaborando e scherzando fra loro, i ragazzi del Toho sparecchiarono e sistemarono la cucina, Genzo li osservò divertito lanciarsi le cose e schizzarsi con la schiuma, aprire e chiudere gli sportelli usando rigorosamente i piedi. Soprattutto osservava sua sorella: il sorriso che le illuminava il volto, gli sguardi intensi che si scambiava con Wakashimazu, continuando a fare dispetti a Hyuga, rispondere per le rime a Sorimachi e chiacchierare amabilmente con Sawada.
Una volta finito di rimettere a posto, Yasu lo guardò con un sorrisetto sghembo, “Hai un aspetto orrendo, Genzo, mi sa che stai morendo di sonno. Vogliamo andare a prepararti il letto?”.
“Grazie, sorellina, non farmi troppi complimenti… e comunque sì, ti ricordo che sono venuto qui direttamente dalla Germania…”
“Lo so” gli sussurrò dolcemente, tendendogli la mano. “E non ti ho ancora detto quanto sono felice che sei venuto”.
“Magari avrei dovuto avvertire…”
“Naaah, sennò che sorpresa è! E se avvertivi non sarebbe stato altrettanto… come dire… avvincente.”
Genzo sghignazzò, afferrandole la mano e tirandosi su. Una volta in piedi, le rivolse un sorriso particolarmente aperto e tenero. “Vado da solo a sistemare la camera, rimani pure coi tuoi… amici”.
“Ma no, loro li vedo sempre mentre te…” esitò. “Sempre se ti fa piacere”.
“Certo”. Percorsero il corridoio in silenzio poi, quando furono nella stanza, Genzo riprese: “Sono stato un po’ cafone, prima…”
“A cosa ti riferisci?” fece Yasu, intenta a sistemare il futon.
“Beh sì, insomma quando ho biasimato il tuo gusto in fatto di amici…”
La ragazza dette un’alzata di spalle. “Neanche Karl e Hermann sono mai stati il mio ideale… per non parlare di Maria Schneider che ti guarda come se fossi fatto di Marshmallows…” concluse con una smorfia.
“Ma che dici?” protestò il fratello, avvampando. “E allora cosa dovrei dire degli sguardi che vi scambiavate tu e Ken?”
“Io e Ken stiamo insieme” disse, smettendo per un attimo di rifare il letto e guardandolo con un aria fra l’orgoglioso, l’arrabbiato e lo sfottò.
“Uhhhh dimenticavo… è una cosa seria…” la canzonò.
Yasu lo fronteggiò, accigliata. “Certo che lo è”.
Il portiere sbatté le palpebre, colpito dall’espressione decisa che aveva davanti. Un brivido lo percorse. “Yasu… tu… voi… non…”
Era di nuovo arrossito e la ragazza scoppiò a ridere. “No, tua sorella non ha perso la verginità prima di te, non ancor- ahia! Ma sei scemo?” disse, massaggiandosi il braccio su cui il fratello aveva appena assestato un pugno. “Come vedi, dormiamo anche in camere separate e sappi che è stato lui a volerlo.”
“Ah, beh, perché se era per te…”
“Ma no, sono stata d’accordo… noi stiamo bene insieme ma… siamo giovani e… abbiamo tutto il tempo del mondo, no?” sorrise.
“Certo” sussurrò dolcemente, abbracciandola.
Che strano effetto gli faceva quella cosa. Da un lato, se fosse stato un “amico dello sposo”, pensò con un ghigno, lo avrebbe preso per il culo, dandogli dello sfigato, ma, dall’altro lato, in qualità di “fratello della sposa” non poteva che essere profondamente soddisfatto della situazione. Ma c’era  un terzo aspetto della questione: Genzo Wakabayashi era un po’ invidioso… non solo geloso della sua “sorellina”… proprio desideroso di provare, a sua volta, un sentimento del genere.
Preso da questi pensieri, si rigirò nel futon e cercò, nella penombra, quel volto così simile al suo, accorgendosi così che sua sorella dormiva girata verso di lui, un braccio penzoloni a cercare un contatto, dopo che, per mesi, stranamente, tanti chilometri li avevano divisi. Allungò la mano per stringere la sua.
Yasu, così diversa, così uguale a lui. Yasu che ancora una volta gli aveva dato la risposta che cercava prima che lui formulasse, anche solo nei propri pensieri, la domanda.
Aveva tutta la vita davanti, avrebbe trovato anche lui, prima o poi la persona giusta. Yasu diceva bene: avevano tutto il tempo del mondo.
 
 

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Capitolo 9
*** Quasi una sorella - Toho Story 11 ***


Ed eccoci a una nuova sfolgorante TS! Yeeee!

Stavolta siamo verso Settembre-Ottobre del secondo anno...

Vi avverto, ci sono un po' tanti pg originali ma non manca qualche siparietto dei nostri T-Boyz.

Buona lettura.



*******

Quasi una sorella

 
“Salve a tutti!” trillò Yasu, rincasando. Una rapida occhiata al divano e alla cucina e si rese subito conto che mancava qualcuno.
“Dov’è Ken?”
“Ha le sue cose...” ridacchiò Sorimachi. Sawada gli assestò una gomitata e lo rimproverò: “Smettila! Ha detto-”
“Mugugnato” precisò Kazuki.
“SMETTILA! Ha detto che aveva mal di testa e voleva restare da solo in camera sua” continuò poi, rivolto a Yasu. “Credo abbia discusso di nuovo con suo padre.” Aggiunse a mezza voce.
“Per la storia dell’esame?”
“Già” indugiò Sawada. “Se ho ben capito gli rimprovera di non allenarsi abbastanza...”
Yasu sospirò. Nonostante tutti i buoni propositi, il signor Wakashimazu continuava a interferire nella vita del figlio: ma d’altronde era stato lo stesso Ken a promettere di non abbandonare del tutto il karate... e ora che c’era in ballo quella storia dell’esame, il papà non gli avrebbe dato pace. Magari se avesse preso anche quel cavolo di “terzo dan” o quello che era, per un po’ il padre lo avrebbe lasciato stare.
E come sempre Ken somatizzava: non era la prima volta che si chiudeva in camera sua al buio, senza cena, pregandoli di non disturbarlo e di fare meno rumore possibile.
Le altre volte, Yasu si era limitata ad attenersi alle istruzioni.
Ma adesso?
Sì, insomma, ora era la sua ragazza, ora, ormai da qualche mese, stavano insieme. Poteva entrare nella stanza? Doveva vedere come stava?
“Beh?” la richiamò Kojiro affacciandosi dalla cucina con un bicchiere di coca in mano, “ti sei imbambolata?”
Doveva essere rimasta ferma nel corridoio per un po’.
“Sì...” balbettò, “appoggio lo zaino in camera e arrivo”.
“Chiedigli se è sicuro di non voler niente, del tè o che so io.” Borbottò il cannoniere.
Yasu si bloccò di nuovo. Hyuga dava per scontato che sarebbe andata da Ken. Allora doveva? Poteva? Dio, che casino. Avrebbe voluto che esistesse un manuale d’ istruzioni su come  fare la ragazza di qualcuno.
Appoggiò la borsa in camera, mise la tuta che portava in casa e si diresse verso la stanza di Ken. Di fronte alla porta si “imbambolò” di nuovo, come avrebbe detto il capitano.
Al diavolo, al massimo se non voleva vedere nessuno, le avrebbe detto di andarsene.
Dischiuse con cautela la porta, chiamandolo piano.
“Ya-chan sei tu?” la sua voce era flebile e roca, poco più di un sussurro, come se parlare gli costasse fatica.
“Sì, amore, come stai?”
“Non molto bene.”
Nella penombra lo vide alzare una mano e la ragazza si avvicinò al letto per prenderla fra le sue. “Vuoi qualcosa da mangiare o da bere?” Mormorò.
“No, non mi va. Voglio cercare di dormire, poi mi passa, non vi preoccupate.”
“Capisco, se vuoi riposare, me ne vado.”
“No!” Lo pronunciò a voce più alta del dovuto e trasalì, come se gli avesse fatto male.
“Shhh” disse lei carezzandogli i capelli e il viso, dove indugiò, sentendolo premere la guancia contro il proprio palmo. “Ti va di parlare?”
“No, voglio solo stare in silenzio...”
 “Se vuoi resto, ma sai che non so starmene zitta.” Gli sussurrò, in tono allegro.
“Sì, ma resta lo stesso... la tua voce, non so mi fa... bene” le rivelò, stringendo la mano che ancora toccava la sua e portandosela alle labbra per sfiorarla con un bacio.
Yasu sorrise e si sedette in terra vicino al letto, poggiò la testa contro il fianco di Ken continuando a tenergli la mano. Visto che, a quanto pareva, non gli andava di parlare di suo padre e dell’esame, cominciò a raccontargli sottovoce la sua giornata.
 A un certo punto sentì le palpebre farsi pesanti e che stava perdendo il filo del discorso, quando si rese conto che Ken si era addormentato. Allora piegò la testa di e lasciò che il sonno l’avesse vinta anche su di lei.
 
Si svegliò quando la mano, che stringeva ancora, si mosse, poi udì il portiere cambiare posizione. Sentì i suoi capelli sfiorarle il volto e poi le labbra che premevano sulla sua guancia. “Piccolina, ma hai dormito qui? Dai, vieni sopra.”
Yasu si tirò su e s’infilo sotto le coperte, dove Ken le aveva fatto spazio.
“Stai meglio?” gli chiese, una volta che si fu accomodata.
“Molto meglio, grazie.”
Si chinò su di lei, facendo aderire il proprio corpo al suo, e la baciò a lungo sulle labbra e poi sulle guance, e sul collo.
Yasu mugolò soddisfatta, abbracciandolo e ricambiando quelle coccole con entusiasmo.
“Ieri sera Takeshi mi ha detto-” cominciò a dire, ma fu interrotta da uno strano rumore.“È il mio stomaco” spiegò, imbarazzata. “Ieri sera non ho cenato”.
Ken la guardò sorridente. “Nemmeno io e, se vuoi saperlo, muoio di fame. Spuntino delle...” si allungò per guardare la sveglia. “Due?”
 
“Ora sto davvero  bene” disse Ken, fregandosi le mani, guardando le tazze colme di latte caldo e il barattolo della nutella. Yasu era seduta sulle sue ginocchia, che spalmava fette biscottate a getto continuo.
“Fai ‘aaa’...” fece, porgendogliene una perché la mordesse, infilandosi poi in bocca il pezzo rimasto.
“Cosa volevi dirmi prima, hai rammentato Takeshi -”
Ma anche stavolta furono interrotti: in quel momento, infatti, il portoncino d’ingresso si aprì facendoli sussultare. Kojiro, con un pallone sotto braccio, entrò, cercando di non fare rumore.
Quando alzò la testa sobbalzò a sua volta alla vista dei due, perché proprio non si aspettava di trovare qualcuno ancora in piedi. Sentendosi scoperto, da cannoniere di razza, rispose con l’attacco: “E voi che ci fate qui?”
I due, sentendosi altrettanto colti in flagrante, balbettarono all’unisono una risposta, solo che uno disse “Cena” e l’altra “Colazione”.
“E tu invece?” rinviò abilmente Yasu. “Passeggiata al chiaro di luna col tuo migliore amico?” chiese. E scoppiarono tutti e tre a ridere, come sempre, di fronte alle citazioni di Tsubasa.
“Dai siediti con noi, Hyuga” intervenne Ken, mentre Yasu andava a prendere un’altra tazza, la riempiva di latte e la porgeva al nuovo arrivato.
Kojiro la ringraziò, ma preferì prendere della coca dal frigo. Poi si rivolse a Ken: “Sono contento di vedere che stai bene.”
Ken annuì, deglutendo in fretta per rispondere, ma l’altro proseguì con un risolino. “Una guarigione lampo, di solito hai la faccia da zombie fino al mattino dopo...”
Il portiere sorrise imbarazzato, mentre Yasu sceglieva una fetta biscottata particolarmente carica di nutella, e la porgeva a Kojiro, tenendogliela di fronte alle labbra. “Non sai cosa non può fare, un po’ di dolcezza” sussurrò.
Kojiro guardò la fetta arricciando il naso, quindi la strappò dalla mano della ragazza ficcandosela in bocca. Poi ne arraffò altre due già pronte e le mangiò di gusto. “Avevo fame” spiegò con un’alzata di spalle, di fronte allo sguardo divertito degli altri due.
Si sistemò sulla sedia, mangiando le fette che Yasu continuava a spalmare.
D’un tratto si bloccò e li guardò: “Non ho interrotto qualcosa, vero?”
I due scossero la testa all’unisono, ridacchiando. Il capitano ancora non sembrava aver ben realizzato “cosa” fossero loro due. Ma infondo era meglio così.
“Bene” fece Hyuga alzandosi e stiracchiandosi. “Andate pure a letto, sistemo io...”. Si diresse verso il lavello e aprì l’acqua.
Yasu, a sua volta, scese dalle ginocchia di Ken e allungò la schiena. “Sì, ora ci vuole un letto” disse, sbadigliando.
“Che ne dici del mio?” le sussurrò Ken contro l’orecchio, abbracciandola. “Abbiamo un discorso in sospeso...”
“Ma non ti faceva male la testa?” lo canzonò.
“Passato completamente”
“Ma va?” rise. “Mi sa che è meglio se andiamo a letto, ognuno nel proprio” precisò mentre le mani di Ken la cercavano. “Volevo chiederti di tuo padre, ma ne parliamo domani...yawn!” sbadigliò di nuovo.
“Mio padre” sbuffò, lasciando cadere le braccia. “Se volevi smontarmi, hai trovato il modo...”
“Wakashimazu” La voce del capitano li fece scattare entrambi sull’attenti, come sempre. “Mi è sembrato di capire che hai bisogno di alcune ore da dedicare al karate. Ne ho parlato con Nat-san”. 
“Capitano, non...”
“Non abbiamo partite per un po’, quindi se ti alleni a karate, ti autorizziamo a saltare l’allenamento in palestra e ad arrivare un poco dopo l’inizio degli allenamenti. Se qualche volta hai bisogno di saltare proprio, puoi accordarti col portiere delle medie o con Wakabayashi... nel senso di lei” sbuffò, indicando Yasu.
“Grazie capitano, ma non...”
“Ken” disse, asciugandosi una mano insaponata ai pantaloni per poggiarla sulla spalla dell’amico. “Ho bisogno che tu sia sereno, e so che non lo sarai finché non avrai saldato questo... debito d’onore con tuo padre. E so anche che sei bravo e che in fondo ti piace. Non sprecare neanche questo tuo talento. E poi... che portiere del karate sei se non mi diventi almeno terzo dan?”
“Grazie, capitano” ripeté Ken, abbracciandolo. A Yasu venne da sorridere, sentendo la commozione nella sua voce.
“Sì, sì... ti voglio bene anche io, Wakashimazu” bofonchiò Kojiro, divincolandosi. “Ma andiamo tutti a letto, che è tardi”.
“Peccato non avere una macchina fotografica! Eravate così... kawaii!!!” disse Yasu, facendo la vocetta stridula e congiungendo le mani. “Con una foto così, ci potevo fare dei bei soldi...”
“Eh beh, ti avrebbero fatto comodo...” l’apostrofò Ken, allungandole una pacca sul sedere.
Yasu rise e scappò via, seguita dal portiere che la agguantò sulla soglia della camera. “Allora... Buonanotte?” le chiese, sperando di farle cambiare idea circa il letto in cui dormire.
“Buonanotte.” Rispose lei con un sorriso di dolce rimprovero e un bacio leggero. Quindi si diresse verso la propria stanza.
 
****
 
Quando la sera successiva Yasu trillò “Salve a tutti!”, si guardò intorno e chiese: “Dov’è Ken?”, un senso di deja-vu aleggiò nella casa.
Fa le sue cose...”ridacchiò Sormachi, con una piccola variazione sul tema, ma ottenendo la solita gomitata da Sawada.
“Non avrà di nuovo mal di testa?” si preoccupò la ragazza.
“No!” rispose Kazuki con un ghigno. “Sta meditando...”
“Meditando?” chiese Yasu, strabuzzando gli occhi.
“Sììì!” Proseguì l’attaccante, “sai tipo: OOOOMMMM”. E così dicendo, si arruffò i capelli, lasciando cadere un ciuffo sugli occhi, incrociò le gambe, le mani aperte poggiate sulle ginocchia, indice e pollice congiunti, occhi chiusi. “Tu, donna, partorirai con dolore...” salmodiò.
“Kazuki, finiscila” sbuffò Takeshi.
“Tu, invece, ti sfarai di pugnetteeeee” proseguì, cantilenando.
Yasu ridendo, con le lacrime agli occhi, si avviò verso la sua stanza.
 
 
Ken sospirò, sfiduciato. Si era illuso di poter meditare almeno in camera, ma si era arreso all’evidenza che era impossibile.
Per primo era rientrato il capitano: come sempre si era scolato un po’ di coca cola (lasciando, per regola, il solito odioso goccio infondo alla bottiglia che se ti viene voglia di berne un po’ anche tu, lungi dal soddisfarti, ti fa solo incazzare), aveva emesso un rutto da tirannosaurus rex, infine era andato in camera e aveva acceso lo stereo. A dire il vero, aveva regolato il volume piuttosto basso, probabilmente proprio per rispetto nei suoi confronti, ma le pareti di cartapesta dell’appartamento non aiutavano. E per quanto il death metal non gli dispiacesse, non era l’ideale per favorire il rilassamento e la concentrazione.
Poco dopo erano arrivati, praticamente insieme, Sawada e Sorimachi: se il primo aveva quella vocina sottile e discreta, l’altro non poteva esimersi dall’urlare. E sentire solo metà del dialogo che si svolgeva al di là dell’altra parete di cartapesta è quasi più frustrante che sentirlo per intero.
Almeno così aveva pensato, finché non era arrivata anche Yasu. Voleva bene alla sua ragazza, davvero, forse anche qualcosa di più, ma, veramente, darle un nome che significa “pace” era proprio uno scherzo crudele. E poi la sua voce gli faceva l’effetto di quella dell’allenatore in campo, che per quanto casino ci sia, riesci a sentirla al di sopra di tutte, come una radio sintonizzata su una certa frequenza… e se per la maggior parte del tempo la trovava una cosa romantica e lo faceva star bene, come la sera prima, a volte era una gran seccatura, specie quando il tono delle conversazioni era tipo:
 
“SORIMACHI!!! PASSI CHE TU NON ABBIA UNA MIRA INVIDIABILE, MA IN BASE A QUALE FILOSOFIA O RADICATO CREDO RELIGIOSO NON TIRI MAI LO SCIACQUONE?”
“Se è gialla resta a galla, se è marrone tiri lo sciacquone!”
“SORIMACHI FAI SCHIFO!”
Oppure:
“SORIMACHIIIIII!!!!!! NON TI SARAI SBAFATO LA TORTINA CHE ERA IN FRIGO?????”
“Sì, era buonissima… insolitamente dolce per chiamarsi Yasu, come diceva il foglietto attaccato sopra…”
 
E così via. Se non avesse avuto l’esame da lì a pochi giorni, avrebbe trovato i siparietti piuttosto divertenti ma, in quella situazione, non facevano che aumentare il suo nervosismo.
Per non parlare delle visite alla sua stanza.
Non ci entrava praticamente mai nessuno, eppure in quei giorni sembrava che tutti avessero qualcosa da prendere\lasciare\sapere in camera sua… Kojiro doveva restituire dei vestiti che aveva preso per sbaglio, Sorimachi cercava un libro, Takeshi voleva essere aiutato con un tema di letteratura.
Infine, Yasu era entrata senza bussare e, dopo una riflessione di sì e no trenta secondi, prima gli aveva praticamente riso in faccia  e poi si era seduta sul letto vicino a lui…
 
Forte del fatto che la sera prima Ken aveva tanto voluto la sua compagnia, Yasu, messa la solita tuta, non aveva esitato un attimo a entrare in camera del portiere per salutarlo. Si era fermata sulla porta un po’ sorpresa nel vederlo davvero nella posa assunta da Sorimachi e non riuscì a impedirsi di scoppiare a ridere sguaiatamente, ripensando alla spassosissima e quanto mai fedele imitazione. Vedendo che Ken rimaneva immobile, a parte aver dischiuso appena gli occhi, Yasu gli si avvicinò, ma pur impegnandosi per non fare rumore, urtò un paio di cose. Infine, andò a sedersi in fondo al letto, perpendicolarmente rispetto a Ken e si mise a fissarne il profilo immobile.
Ken le lanciò un paio di sguardi in obliquo da sotto le palpebre socchiuse.
Inspirò profondamente e, mettendocela tutta per non sbottare, soffiò: “Yasu sei… inquietante, finiscila di fissarmi così, mi deconcentri!”
Lei sbatté gli occhi un paio di volte, confusa e un po’ offesa: “Vuoi dire che ti do fastidio?”
“Sì.” Rispose, brusco, alzandosi dal letto e poi aggiunse, come ad attenuare il concetto, “un po’…”. Si pentiva di quelle parole già mentre le pronunciava, perché vedere gli occhi color caramello di Yasu velarsi di tristezza era una cosa che non sopportava… Ma era esasperato! Suo padre che gli faceva pressioni, i suoi amici che non capivano le sue esigenze…
“Va… va bene” mormorò la ragazza, confusa. Si alzò dal letto quasi barcollando e si diresse in camera sua.
“Fanculo” sibilò Ken, sferrando un calcio all’armadio.
 
“Sei proprio deciso?” chiese ancora Hyuga.
“Sì, è meglio così, mio padre ha già avvisato la scuola e hanno detto che basta mi tenga in pari con i compiti a casa. In fondo, fra una settimana torno… poi mi metterò un po’ sotto. ci penso io qui” aggiunse, accennando alla tavola apparecchiata per la colazione. “Tanto mio padre viene a prendermi fra un’oretta, voi andate a lezione”.
Yasu osservò Hyuga, Sawada e Sorimachi lasciare la stanza.
“Scusa per ieri sera” dissero praticamente all’unisono, non appena furono soli. Sorrisero.
“Quindi vai a casa per un po’…”
“Sì, niente di personale, lo sai. Mi mancherai ma… ho bisogno di più…”
“…concentrazione. La preparazione di un esame del genere richiede un’intensa preparazione fisica ma anche psicologica…” disse Yasu. Sembrava un discorso imparato a mente, come quando recitava una poesia che dovevano mandare a memoria. E quelle non erano parole sue sembrava più un discorso da…
“Hai parlato a tuo fratello di ieri sera?” Intuì. Per lo più gli stava vagamente sulle palle pensare che Wakabayashi sapesse praticamente tutto della sua vita, ma doveva ammettere che in certi casi si rivelava… illuminante. Nessuno come lui era in grado di far entrare un concetto nella testa della sorella.
“Sì” ridacchiò lei. “Scusa… la sera prima mi avevi voluta vicina anche se stavi male e ho pensato…”
“Piccola mia…” la chiamò, abbracciandola. “Mi mancherà tutto di te… persino, anzi, soprattutto la tua voce…”
“Ti chiamo e poi…” s’interruppe. “E poi tornerai presto!”
Si baciarono, poi lei uscì di corsa, diretta a lezione, in ritardo come sempre.
****
 
Ken sarebbe impazzito di gioia, se lo sentiva. Si chiedeva addirittura se non sarebbe stato meglio farsi vedere solo dopo l’esame: conoscendolo, non voleva farlo emozionare.
Intanto, però, a essere emozionata era lei: il cuore le rimbalzava nel petto come una trottola impazzita.
Non era la prima volta che andava a casa Wakashimazu, e aveva avvertito la mamma di Ken del suo arrivo, pregandola però di non dire niente al figlio… era stata lei a fornirle l’orario esatto dell’esame, che si sarebbe tenuto da lì a qualche ora, nel pomeriggio.
Quando fu a pochi metri dalla casa sentì, distintamente, la risata di Ken. Di rado rideva così, ma lo faceva in un modo che per Yasu era inconfondibile.
Il suo ragazzo che rideva, a cuor leggero, a poche ore da un importante esame di karate? Dopo che per giorni era stato intrattabile e nervoso, quasi ostile, persino con lei?
Intravedeva la testa di Ken oltre la siepe che circondava il giardino della casa e del dojo. Sembrava stesse combattendo, allenandosi con qualcuno. Qualcuno ben più basso di lui, che Yasu non riusciva a scorgere.
Si guardò intorno e, con un sorriso sghembo, individuò il suo punto d’osservazione. Rapida, si arrampicò su un albero del parco vicino e guardò oltre la recinzione.
Osservò Ken lottare contro qualcuno di piccolo e minuto, lasciandosi atterrare e ridendo. Ora, lei di karate non ne capiva un gran che, ma era quasi certa che non contemplasse mosse del genere, per non parlare del rotolarsi per terra ridendo e facendo il solletico all’avversario. Yasu strinse gli occhi per vedere meglio e dovette tenersi forte al ramo su cui si era appollaiata, quando si rese conto che, in realtà, si trattava di un’avversaria. Una ragazza si stava divertendo un sacco col suo fidanzato, mettendogli le mani dappertutto, aggrovigliata a lui in modo strano. E quello rideva, tranquillo, sereno, allegro… come non lo era praticamente mai.
Tremando, Yasu scese con estrema cautela dall’albero e si avviò verso la stazione da dove era arrivata poco prima.
Aveva ragione Genzo: le sorprese fanno schifo e sono sempre una pessima idea.
Si voltò un’ultima volta verso la casa, le lacrime che le pizzicavano gli occhi, le voci divertite dei due combattenti che sembravano trapassarle la testa e il cuore.
Aveva voglia di sbattere la testa contro il muro.
Invece, andò a sbattere in un maglione.
“Ehi, guarda dove vai!”
La voce del ragazzo, altissimo e robusto contro cui era andata a sbattere le suonò estremamente familiare. Quando alzò la testa, si ritrovò davanti un volto noto: una versione più giovane di Wakashimazu-sama, con gli occhi dolci della madre e l’espressione scocciata di Ken.
“Kyo” balbettò Yasu. Il fratello maggiore di Ken, noto alle cronache per essere molto più espansivo del fratello, ma assai più scarso a karate.
“Ci conosciamo?”
“No, sì, cioè io… Wakabayashi Yasu” concluse con un inchino, provvidenziale per nascondere l’imbarazzo che le imporporò le guance. “Ci siamo presentati qualche mese fa, anche se un po’ di fretta”.
“Ma certo! Scusa se non ti ho riconosciuta subito, sono un disastro come fisionomista” ridacchiò, poi riprese, con un sorriso di trionfo sul viso: “Ah! La fidanzatina di Ken! Capiti a proposito…” si sfregò le mani con aria soddisfatta, poi  proseguì: “Sei venuta a vedere l’esame del nostro giovane campione? Ti eri persa? La casa è proprio quella lì... vieni con me, ci prenderemo una piccola rivincita” concluse facendo l’occhiolino, passandole un braccio attorno alle spalle e trascinandola con sé.
Yasu rimase interdetta, impossibilitata a replicare di fronte a quel fiume di parole, senza peraltro aver capito bene cosa intendesse il ragazzo. Ma, volente o nolente, si ritrovò dentro casa Wakashimazu.
La signora la accolse col solito entusiasmo della mamma che da sempre vuole una figlia femmina: inondandola di domande, attenzioni e cose buone da mangiare.
Ancora una volta, Yasu si trovò incapace di reagire: l’educazione le imponeva di rispondere, ringraziare e accettare e, comunque, la signora era talmente solerte, che non avresti avuto cuore di fare diversamente.
“Dopo l’esame faremo un buffet... anzi,magari mi darai una mano, visto che Akiko è impegnata... ma ora mangia qualcosa e riposati, cara, sarai stanca per il viaggio. Dopo andiamo a vedere l’esame.”
Yasu annuì e s’infilò in bocca un paio di onigiri.
Poco dopo, la signora tornò con degli zori con decorazioni in verde e gli appositi tabi bianchi da mettere sotto, porgendo il tutto a Yasu. “Ecco, li avevo presi per te, ti piacciono?”
“Molto” sorrise la ragazza. “Mi spiace solo che magari non ho l’abbigliamento adatto…” disse, contemplando i jeans e la maglietta e si maledisse per non aver pensato a portare il furisode che Ken le aveva comprato mesi prima.
“Mi sono permessa di prenderti anche questo” continuò la donna, tirando fuori anche un kimono con decori verdi intonati alle infradito.
“Grazie, ma non…” Yasu era decisamente imbarazzata.
“Non è bello come il furisode, è solo un komon[1], ma, d’altronde, è giusto una festicciola in casa.Vallo a indossare, cara, ti ho preso la stessa misura dell’altro, dovrebbe andarti bene…”
Yasu tornò di lì a poco, dopo aver indossato l’abito alla bell’e meglio, ma la signora parve soddisfatta. Glielo drappeggiò addosso, quindi le dette in mano un vassoio e la guidò verso una stanzetta sul retro del dojo, arredata con un grande tavolo e alcuni tavolini apparecchiati. Da un lato erano già pronti piatti, bicchieri e bacchette.
Sistemarono alcuni vassoi coperti e dei termos col tè. Quindi, finalmente, andarono in palestra.
 
L’esame, ma a Yasu venne in mente la parola “cerimonia”, era già iniziato. La ragazza notò che tutti gli allievi indossavano il karategi, ma anche il resto degli astanti era vestito in modo tradizionale. Ringraziò mentalmente la mamma di Ken che, con la sua solita delicatezza, le aveva evitato di sentirsi fuori posto.
 Dietro un tavolo sedevano tre signori compunti e autorevoli, che osservavano gli allievi esibirsi. Individuò subito Ken, in piedi, all’altro lato della palestra: era serio e concentrato, si girava nervosamente le mani, lo sguardo fisso di fronte a sé. Eppure sorrise quando la ragazza vista in giardino gli passò accanto. E le appoggiò una mano sulla spalla. Yasu sentì come se un iceberg le scivolasse dentro lo stomaco.
Venne il turno del portiere.
Ancora una volta Yasu si perse ammirando il modo in cui si muoveva: l’agilità e la precisione con cui le gambe scattavano, sia che dovessero raggiungere il pallone in campo,  l’avversario sul tatami, oppure un punto ben preciso noto solo a lui quando si allenava da solo. L’eleganza che sprigionava da ogni gesto. Il modo in cui le mani fendevano l’aria, poi, le riportavano alla mente la sensazione di quelle dita forti sul suo corpo... arrossì pensando che, per quanto poco si intendesse di karate, i movimenti di Ken le sembravano sempre perfetti e sottilmente erotici... specie quando l’unica donna del suo mondo era lei, pensò con un fremito.
Le parve di capire che mentre era persa in quei pensieri, l’esame fosse finito e che tutto fosse andato bene. Ken aveva finito, ansante, aveva fatto un inchino ai tre maestri, i quali avevano annuito e mormorato qualcosa. Poi tutti avevano applaudito. La signora Wakashimazu aveva battuto con grazia e controllato entusiasmo i palmi insieme, gli occhi trapunti sul  figlio prediletto.
Intanto il padre aveva salutato Ken con un cenno appena visibile, ma con uno sguardo che trasudava orgoglio anche a metri di distanza. Quindi Kyo aveva passato un braccio attorno alle spalle del fratello, traendolo verso di sé per spettinarlo con l’altra mano. Infine gli aveva sussurrato qualcosa e aveva indicato nella direzione di Yasu.
Ken aveva alzato la testa e si era letteralmente fiondato verso di lei.
“Hai visto?” Le aveva chiesto, emozionato e ansante, non appena l’aveva raggiunta.
“Sì, anche se...” smozzicò Yasu.
“Non ci credo che sei venuta, mi hai reso felicissimo! E vestita in questo modo sei così bella!” proseguì, chiaramente su di giri, stringendosela contro il petto. Attraverso il karategi sottile e aperto sul petto, Yasu sentì i suoi pettorali tonici, caldi e appena umidi. Si perse in quell’abbraccio che sapeva di lui, ma durò pochissimo. “Oh, tocca ad Akiko!” esclamò, scostandola.
Un nuovo brivido percorse il corpo di Yasu... tutti la conoscevano lì e sembrava normale che fosse in confidenza con chiunque. Ma chi era?
Ken rivolse la sua attenzione al tatami, osservando, col fiato sospeso, la prova della ragazza.
Tutto si svolse più o meno come per Ken, solo che gli esaminatori erano cambiati e le mosse che la ragazza compiva, erano diverse da quelle eseguite poco prima dal portiere, ricordavano piuttosto, realizzò Yasu con una smorfia, lo spettacolo visto in giardino. Quando tutti applaudirono,  intuì che anche Akiko era passata.
Dopo i saluti composti ai maestri, compreso Wakashimazu-sama, la ragazza corse verso di loro e si gettò con slancio al collo di Kyo. Poi raggiunse Ken, saltandogli praticamente in braccio. Yasu abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore.
“Grazie, grazie, grazie, Ke-chan!” esclamò piena di entusiasmo, stampandogli un bacio sulla guancia.
“Un po’ di contegno” la sgridò bonariamente Ken, imbarazzato.
“Andiamo ragazzi” li incitò la signora Wakashimazu, “non ci sono altri allievi, andiamo a controllare che il rinfresco sia perfetto, per i sensei...”
Akiko seguì la signora, Ken appoggiò una mano sulla schiena di Yasu sospingendola verso la stanza sul retro. “Che bella sorpresa mi hai fatto” le sussurrò di nuovo all’orecchio, il fiato caldo e i lunghi capelli  che le sfiorarono il collo.
Di lì a poco anche Kyo li raggiunse, seguito dagli altri allievi ed esaminandi e dai loro accompagnatori. Quindi fecero il loro ingresso i sensei e Wakashimazu-sama.
Una sonora pacca sulla schiena da parte di Kyo suggerì a Yasu, con un istante di ritardo rispetto a tutti gli altri astanti, di chinarsi, tossendo appena per la botta.
“Adesso puoi anche tirarti su.” Le suggerì di lì a poco lo stesso Kyo.
“Grazie” mormorò Yasu, riconoscente.
“Ti va del succo di frutta? Se ben ricordo non ti piace molto il tè…” proseguì il maggiore dei fratelli Wakashimazu.
“Volentieri” rispose la ragazza, seguendolo al banco dei rinfreschi, un po’ stupita di tutte quelle attenzioni. Kyo versò del succo e le porse il bicchiere, cingendole la spalla con un braccio.
“Piaciuta la pantomima?” chiese, storcendo la bocca.
“Affascinante... anche se non ho capito un gran che...” ammise Yasu con un sorrisetto imbarazzato, rigida come un baccalà per quell’abbraccio. Con la coda dell’occhio vide che Ken parlava allegramente coi genitori e i sensei, una mano poggiata sulla spalla di Akiko.
“Capirci qualcosa non rende la cosa più divertente” proseguì Kyo a mezza voce, sempre con la stessa smorfia. “Anzi, direi che dopo un tot perde decisamente ogni fascino... almeno per me...” Fece una breve pausa. “Ken, per dire, ha sempre quello sguardo trasognato, anche quando non è lui a gareggiare.”
“Ama molto il karate.”
“E non solo.”
“In che senso?” chiese Yasu, mentre il cuore le perdeva un battito.
“L’ultimo che hai visto praticato da Akiko era judo…” spiegò, come se parlasse a un bambino di tre anni.
“Ecco! Mi pareva facesse qualcosa di diverso!” esclamò l’altra.
Kyo scoppiò a ridere. Dovette mettersi una mano di fronte alla bocca perché tutti si erano voltati verso di lui. “Finalmente qualcuno che ne capisce meno di me…” sghignazzò.
Yasu aggrottò le sopracciglia, vagamente risentita. “Lieta di essere d’aiuto” sibilò.
“Scusami, non volevo offenderti... comunque sì, Akiko pratica il judo e, se tutto va bene, terrà dei corsi nei locali del nostro dojo... papà ha voluto che fosse esaminata da alcuni maestri suoi amici, prima di darle il permesso” disse, con aria fintamente pomposa come a sottolineare quanto ritenesse esagerata la pretesa del padre. “Akiko ha già insegnato in diverse scuole prestigiose, farle fare un esame è quasi oltraggioso” rintuzzò.
“A vederla non sembrerebbe una ferita nell’orgoglio” ribatté Yasu, un po’ acida.
“Ha grande rispetto di mio padre e anche di mio fratello, per non parlare di mia madre... insomma l’unico che tratta a pesci in faccia sono io!” rise.
“Come si sono conosciuti?”
“Chi?”
“Lei e Ken”.
“Uh, l’abbiamo conosciuta anni fa, quando anche io mi allenavo regolarmente. Prima di dedicarsi al judo, Akiko ha praticato anche il karate. Ovviamente sia lei che Ken mi battevano sistematicamente...” sospirò, senza perdere tuttavia il sorriso. “A pensarci bene” riprese, dopo una breve riflessione, “poi tutti abbiamo preso strade diverse... Akiko il judo, io lo studio e Ken il calcio...” fece un’altra pausa, poi riattaccò, come preso dai suoi pensieri. “La scelta di mio fratello di giocare a calcio mi sorprese all’epoca e continua a farlo... chissà, forse ha bisogno di provare altro... anche solo per convincersi su quale sia la scelta giusta.”
“E tu credi che sia il karate?”
Kyo ritrasse il braccio e versò del succo anche per sé. “Alla fine sì. Credo che in fondo lo voglia, questo dojo.”
“E tu? Non sei tu il primogenito?”
Il ragazzo scrollò le spalle possenti. “Io non sono adatto.” C’era una certa sofferenza nelle sue parole. Per quanto nessuno glielo avesse mai fatto pesare, era evidente che Ken era molto più bravo nel karate. E che era la gioia dei suoi genitori. “Mi occupo dell’amministrazione. Quello mi viene bene... E poi c’è sempre Akiko. Si prenderanno buona cura del dojo, insieme.”
Yasu si appoggiò al tavolo e respirò a fondo, tentando di afferrare il significato di quelle parole. Davvero Ken pensava di abbandonare il calcio? Perché non le aveva detto niente? Che quei giorni al dojo gli avessero fatto cambiare idea? E questo cosa significava? Sarebbe rimasto al Toho? E fra loro cosa sarebbe successo? Ma soprattutto... che ruolo aveva quella Akiko in tutto ciò?
“Stai bene?” le chiese Kyo. Probabilmente era impallidita.
“Sì, sì… tutto bene. Sarà un calo di zuccheri, meglio se mangio qualcosa…”
“Vado a prender- Ah! Vedo che qualcuno previene i tuoi desideri…”
Ken si avvicinò loro con un piatto colmo di roba.
“Stai morendo di fame e ti vergogni ad avvicinarti al buffet, dico bene?”
“Già” mentì Yasu. Anche se aveva lo stomaco chiuso, afferrò una cosa a caso dal piatto e se la ficcò in bocca.
“Usciamo un poco in giardino?” le sussurrò, prendendole la mano.
Yasu annuì appena, convinta che Ken avrebbe confermato quanto detto da Kyo.
“Te l’ho detto che sei bellissima vestita così?” Attaccò, una volta che furono lontani dalla folla.
“Devi ringraziare tua madre, mi ha comprato lei tutto”.
“Il verde ti sta bene” proseguì il portiere, sedendosi su uno dei sassi che delimitavano il piccolo, classico laghetto in cui si muovevano pigre delle enormi carpe koi. Posò il piatto su un altro sasso, e invitò Yasu a sedersi. E lei lo fece, ma rimase in silenzio, lo sguardo fisso sui pesci che si muovevano lenti. Prese dal piatto qualche chicco di riso e lo gettò nell’acqua, sorridendo appena nel vedere le carpe salire in superficie spalancando la bocca.
“Sei connessa, Wakabayashi?” gli chiese Ken un po’ scocciato. Lo era di sicuro, se la chiamava per cognome.
“Mmm? Sì, sì” rispose Yasu, pescando a caso nel piatto e mangiando, ostentando soddisfazione.
“Non mi travolgere con il tuo entusiasmo” bofonchiò il portiere, cupo. Aspettò un attimo la reazione della ragazza guardandola di sottecchi. Quindi sbottò, allargando le braccia e sbattendo rumorosamente i palmi sulle cosce. “Se questa è la tua reazione, potevi restartene a scuola. Credevo… ah, lascia perdere. Tanto nessuno capisce quanto questa cosa conti per me…”
“Più del calcio, vero?” sibilò lei, contraendo i pugni, gli occhi fissi sul laghetto.
“Che cavolo dici?”
“Tuo fratello…”
“Che c’entra Kyo? Cos’altro ha combinato, oltre a fare il cascamorto con te?”
“LUI ha fatto il cascamorto con ME?”
“Tsk, a volte sei così ingenua… Il succo di frutta che ti piace tanto, il braccio attorno alle spalle, le chiacchiere fitte fitte…”
“E tu con Akiko, allora? Tutto quel rotolarsi a terra facendovi il solletico…” sputò, guardandolo con odio.
“Io e Akiko? Ci siamo allenati insieme e… no, aspetta, te l’ha detto Kyo?”
“No, vi ho visti…”
“Quando? E… soprattutto come?”
“Stamattina… io… ecco… mi sono arrampicata su quell’albero” spiegò indicandolo al di là della siepe. “E poi Kyo mi ha detto quella cosa e io non sono stupida…”
“Cosa ti ha detto Kyo?”
“Che tu e lei gestirete insieme il dojo” singhiozzò.
“Io lo ammazzo!” ringhiò Ken, portandosi una mano al volto.
“Io credevo” continuò Yasu singhiozzando, “che nel tuo futuro ci fossimo io e il calcio… ma forse mi sono illusa.”
“Piccola, ma che cosa stai dicendo? Forse in questi giorni mi sono concentrato un po’ troppo sul karate, è una disciplina che amo e che fa parte di me, lo sai. Ma nel mio futuro tu ci sei di sicuro e anche il calcio, pure se ultimamente ho trascurato un po’ entrambi. Non nego che, probabilmente, prima o poi, vorrò prendere le redini del dojo, ma non credo che mio padre  cederà il posto, ancora per qualche anno… E io ho tutto il tempo di diventare il portiere migliore del Giappone…” si pavoneggiò, facendole l’occhiolino. “A proposito, appena questa gente se n’è andata, che ne dici di fare due tiri e poi un po’ di...” le soffiò in un orecchio.
“Davvero?” chiese lei a mezza voce, sentendosi improvvisamente leggera. “Ma allora tu e Akiko…”
Ken sbuffò. “Credo che ci sia un particolare su di lei che ti sfugge… forse perché non si vede dall’albero del parco di fronte…” la canzonò “Vedi piccola, il fatto è-”
“Eccovi qua!” esclamò una voce da lontano. I due si voltarono e videro arrivare Akiko che si trascinava dietro Kyo, tenendolo per mano. La ragazza si avvicinò a Yasu, arrossata in viso per la corsa e sorridente.
“Questi due cafoni non ci hanno nemmeno presentate… Yamazaki Akiko” si dichiarò, facendo un inchino. “Ma immagino tu sappia come sono gli Wakashimazu…”
“Abbastanza” balbettò Yasu un po’ confusa.
“Ken mi ha parlato molto di te” proseguì con entusiasmo. “E credo che andremo molto d’accordo… Possiamo uscire tutti insieme qualche volta…”
Yasu la guardò perplessa: “Noi?”
“Sì, certo! Io e Kyo, tu e Ken…” spiegò indicandoli a turno.
La mascella di Yasu cadde rimanendo penzoloni. “Tu e…” disse indicando alternativamente la ragazza e Kyo, mentre Ken rideva a crepapelle.
Tutti i tasselli andarono a posto nella mente di Yasu: la “rivincita” di cui aveva parlato Kyo, Akiko titolare del dojo… ovvio! In quanto fidanzata e poi magari moglie di Kyo…
“Che stupida!” esclamò Yasu.
“È solo un’idea…” disse Akiko, mortificata.
“Scusa!” si affrettò a correggersi Yasu, prendendo l’altra ragazza per le spalle. “Non parlavo di te, parlavo… lascia perdere! Mi piacerebbe molto uscire tutti insieme… e studiare un piano per difendersi da questi due” sospirò, indicando i fratelli Wakashimazu.
“Certo!” sorrise lei, rincuorata, “in fondo, in un certo senso… per me potresti essere quasi una sorella!”
Perché no? pensò Yasu: infondo con tre fratelli e quattro coinquilini tutti maschi... Sorrise: “È quello che ho sempre desiderato!”



**********

Un doveroso ringraziamento, va alla betina Rel... è stata dura ma ce l'abbiamo fatta... e l'accenno a Nat te lo sei meritato lol

Se volete qualche chiarimento sui *kimoni* ecco qua
http://it.wikipedia.org/wiki/Kimono

Per chi conosce il mio Kyo di "Le cose che amo", nonostante il nome, questo è un personaggio diverso, più alto e più gioviale XD

Grazie, grazie, grazie




 

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Capitolo 10
*** Pasquetta in casa Toho - Toho Story 8 ***



Sì sono un po' in ritardo, ma l'ho scritta proprio la mattina di Pasquetta e poi fra betaggio (grazie rel) e pubblicazione i giorni passano...

Siamo a marzo-aprile fra la fine del secondo anno e l'inizio del terzo. E' appena passata Pasqua ma in Giappone non è festa...

Pasquetta in casa Toho

Anche se i suoi coinquilini lo ignoravano, quella mattina era Pasquetta e pur dovendo andare a scuola, Yasu non voleva rinunciare alla sua classica colazione del Lunedì dell’Angelo.
“Dov’è il mio uovo di Pasqua?” domandò ai ragazzi che, seduti a tavola, finivano i loro caffè.
“Cos’è un uovo di Pasqua?” chiese di rimando Kazuki.
“Un uovo fatto di cioccolata con una sorpresa dentro” spiegò Takeshi, senza alzare gli occhi dal libro su cui stava ripassando per il compito di quella mattina.
Ken e Kazuki si scambiarono uno sguardo fugace e tornarono a fissare con interesse le proprie tazze.
“Esatto” disse Yasu, appoggiandosi con la schiena alla cucina, a braccia conserte. “Anche se, in realtà, siccome ieri l’ho aperto per vedere la sorpresa, adesso somiglia più a un mucchietto di pezzi di cioccolato un po’ ricurvi che avevo messo in un contenitore...”
“Uno tipo questo?” chiese Kojiro, tirando fuori dalla lavastoviglie un Tupperware da cui caddero due o tre sparuti pezzettini di cioccolata. “L’abbiamo svuotato ieri sera, quando siamo tornati dalla partita e tu dormivi già” spiattellò, asciutto, con gli altri che lo guardavano come fosse Giuda.
“Era mio” piagnucolò Yasu. “Me l’aveva fatto mio fratello...”
Kazuki aveva l’aria contrita, ma sentendo le ultime parole, non riuscì a trattenere un risolino: “E da quando in qua Wakabayashi fa l’uovo?”
Tutti gli altri, loro malgrado, ridacchiarono, Yasu compresa.
“Intendevo dire che lo ha fatto fare per me, cretino, per regalo” spiegò la ragazza, tirandogli un canovaccio.
“Ecco sì, da buon galletto ha convinto qualche pollastrella...” incalzò Kazuki.
“Finiscila” intimò Yasu, volendo fare la sostenuta, ma faticando a restare seria. Poi la bocca le si piegò in un sorrisetto sghembo e un po’ beffardo. “Beh, volevo condividere con voi la sorpresa, ma visto che vi siete presi la cioccolata...”
“Cos’era la sorpresa?” chiese Takeshi, serafico, dando voce alla domanda che nessuno degli altri, a quel punto, voleva porre.
“Uh niente... cinque biglietti VIP per la finale di Champions a Monaco di Baviera (1) ...”
Lo sguardo dei ragazzi si fece simile a quello di un branco di vampiri assetati di sangue, mentre la ragazza sciorinava nomi di persone cui poteva dare ai biglietti. “Magari Jun e Yayoi... o i vecchi compagni della Shutetsu... scommetto che sarebbero felici di vedere Genzo, loro...” disse, calcando l’ultima parola e guardando i compagni di sottecchi.
“E comunque come facevamo a venirci? Non potevamo permetterci i biglietti aerei” disse Kojiro, in puro stile volpe e uva.
“Quello non è un problema... con tutti i voli che facciamo io e mio fratello abbiamo accumulato così tante miglia premio che a momenti ci regalano un aereo... non ci vuole niente a trovare qualche posto in turistica a prezzi ragionevoli. E comunque sareste stati nostri ospiti, figuriamoci...”
“Ok” dichiarò Kazuki alzandosi dal tavolo. Vado a mettermi un dito in gola e te lo restituisco, il tuo uovo...”
“Ma che schifo!” esclamarono gli altri storcendo la bocca.
“San Valentino” esordì all’improvviso Ken.
I compagni lo guardarono perplessi.
“A San Valentino abbiamo diviso con te la cioccolata che ci hanno regalato le ‘ammiratrici’” disse mimando le virgolette con le mani. “Adesso siamo pari”.
Kazuki e Kojiro guardarono il portiere con malcelata ammirazione. Quella sì che era un’idea!
Yasu fissò Ken con gli occhi ridotti a fessure. “Direi che è un’obiezione sensata. Il cioccolato del nemico...”
Le spalle del portiere si sollevarono e la risata che gli saliva alle labbra fu smorzata in uno sbuffo. “Esattamente” scandì, alzando lo sguardo verso di lei.
“Così non vale” balbettò Yasu trasalendo appena, persa in quello sguardo tagliente.
“Ci perdoni?” incalzò Ken, fissandola intensamente e traendola a sé.
“Vabbè, diciamo che l’avete fatto per evitarmi i brufoli” capitolò, assecondando Ken e sedendosi sulle sue ginocchia. Si abbandonò fra le sue braccia e si scambiarono un breve bacio, consapevoli del pubblico che li guardava, con aria un po’ schifata.
“E poi” disse Yasu alzandosi dalle ginocchia di Ken e guardando tutti, a braccia conserte, “come avrei potuto portarci qualcun altro?”. Sparì per un attimo in camera, poi tornò e gettò i famosi biglietti sul tavolo. “Ci sono i vostri nomi sopra...”.

*****
 
(1) Quest’anno (2012) la finale si svolgerà a Monaco di Baviera, all’Allianz Arena, che nell’epoca (pur vaga) in cui si svolgono le TS non esisteva. Tuttavia la finale della Coppa dei CampioniChampions League fu giocata nel capoluogo bavarese anche nel ’79, nel ’93 e nel ’97 nel “vecchio” Olympiastadion... *si perde in ricordi di pernottamenti abusivi nel parcheggio per l’Oktoberfest* ...a-ehm quindi, senza voler dare un’esatta collocazione temporale alla fic, come ben si confà a CT, diciamo che la cosa è quanto meno ragionevole...

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Capitolo 11
*** La genetica non è un'opinione - Toho Story 0 ***


Ho scritto questa shottina mesi fa, a seguito diella rece di Kara alla mia "Una vacanza diversa"... Era una scena che avevo in mente da tempo e colsi l'occasione di buttarla giù. Era già apparsa su ELF ma, sebbene non sia proprio una Toho Story,  il periodo è quello e nella raccolta non sfigura... potrebbe essere nell'estate del terzo anno. 
PS: Essendo nata prima, la chiamerò Toho Story 0.


La genetica non è un'opinione...

Yasu tirò un profondo respiro e, boccheggiando, si appoggiò alla parete e allungò le gambe sul pavimento del bagno degli ospiti di casa Wakashimazu.
“Che figura di merda” ansimò, asciugandosi la bocca e guardando Ken, accovacciato lì vicino.
La osservava serio e visibilmente preoccupato. Stiracchiò un sorriso.
“Ma figurati” rispose. “Mica è colpa tua se ti senti male”. Si alzò in piedi e le porse un bicchiere con dell’acqua.
Lei prese un sorso e si sciacquò la bocca. Le poche gocce che scivolarono in gola le fecero pensare, per un attimo, che avrebbe rigettato ancora.
Falso allarme. Prese altro fiato e, a fatica, parlò di nuovo.
“Vabbè, ma la prima volta che i tuoi invitano me e mio fratello… non è bello salutarli al mattino vomitando l’anima, invece che con un classico:‘Buongiorno’”.
Ken ridacchiò ma, poi, si rifece serio e continuò a fissarla. “Yasu…” mormorò dopo un po’, incerto.
“Sì?”
“Sei sicura di star… bene?”
La ragazza aggrottò la fronte. “Non proprio… mi sembra… mmm… evidente” rispose, cercando di alzarsi.
“Quello che voglio dire è che… sei sicura che…?”
“Ken, per favore” sospirò, abbandonando il tentativo. “Non sono in vena di indovinelli…”
“Non sei incinta, vero?” disse, tutto d'un fiato.
Yasu spalancò gli occhi, incredula. “Ma certo che no! Che ti viene in mente…”
“Non lo so, è che a volte siamo stati -ehm-… incauti?”
“Vai tranquillo, Wakashimazu, ho fatto i miei… conti” si sporse a prenderlo per le spalle, guardandolo fisso negli occhi. “Ho preso le mie precauzioni, ci tengo alla mia adolescenza… e alla tua carriera”.
Ken emise un lungo sospiro di sollievo, lasciando cadere la testa in avanti.
Yasu sorrise, tossicchiando appena: “Sollevato?”
Il karate keeper rialzò di scatto il capo, fissandola allarmato. “Non intendevo… avrei fatto tutto-”
“Lo so” fece lei, carezzandogli la testa.
“… e un giorno, lo vorrò-” continuò, col tono di chi sta quasi chiedendo scusa.
“So anche questo”. Gli prese il volto fra le mani e lo zittì, appoggiandogli un dito sulle labbra.
Qualcuno bussò forte alla porta e la voce strozzata di Genzo li chiamò.
“E’ tutto a posto” gli gridò Ken, adesso usciamo… Tu come stai?” Poi, rivolto a Yasu, spiegò che lo aveva sentito lamentarsi tutta la notte. Al che la ragazza sfoderò il classico sorriso di chi la sa lunga.
“Ragazzi, è un’emergenza…” fu la risposta dal corridoio. Senza che i due all’interno del bagno avessero dato all’SGGK il permesso di entrare, la porta si spalancò. Fecero appena in tempo a scansarsi, prima che Genzo si avventasse sul water ripetendo la performance della sorella.
“Ecco la conferma” sghignazzò Yasu, rivolta a Ken. “Nessun ‘girino’ solo- ehm- cozze”.
“Cosa?” chiese il karate keeper confuso.
“C’erano…” ansimò Genzo. “… le… cozze… nella… zuppa… di… ieri… sera?”
“Credo di sì” rifletté Wakashimazu. “Perché?”.
“Siamo allergici” risposero all’unisono i gemelli.

 

 

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Capitolo 12
*** Fidarsi è bene, non fidarsi... fa male! (Toho Story 5) ***



Ed eccoci qua... finalmente (ma anche no) una TS un po’ più lunga e più corale, dedicata specialissimamente a sissi149, ma il perché ve lo spiego alla fine:)
Stavolta facciamo un passo avanti nel tempo, siamo al campionato nazionale del secondo anno delle superiori e Ken e Yasu stanno già insieme.

Fidarsi è bene, non fidarsi... fa male!

Ken uscì dagli spogliatoi tirando un lungo sospiro. Era talmente teso che aveva deciso di farsi la doccia a casa, con calma, senza dover aspettare i comodi dei compagni. Chiuse gli occhi, e, di nuovo, lentamente, inspirò ed espirò. Che palle. Si teneva il braccio sinistro con l’altra mano. Ma stavolta non era la solita spalla a dargli fastidio, bensì la fascia di capitano che indossava ancora. Era come se bruciasse attorno al bicipite. Non che non avesse il carisma necessario: ormai da tanti anni aveva imparato a dare indicazioni ai difensori e non solo, e tutta la squadra riponeva fiducia in lui, ma quello, semplicemente, non era il suo ruolo. Lui non era il capitano della Toho, e odiava esserlo. Anche perché, quando quella cavolo di fascetta finiva a lui era sempre perché Kojiro aveva combinato qualche casino. Appena due anni prima era sparito, mentre adesso aveva avuto la bella idea di prendere una serie di insufficienze che, secondo le inflessibili regole della scuola, gli impedivano di partecipare alle attività extrascolastiche. Stavolta, dunque, non sarebbe bastato prostrarsi tutti davanti al mister, la cosa andava oltre il suo potere. E se i prof di inglese e letteratura si erano dichiarati disposti a chiudere un occhio, quello di matematica non transigeva. Non avrebbe chiuso nessun occhio (anche se, a onor del vero, considerando le performance matematiche di Kojiro, il professor Sasaki avrebbe dovuto come minimo cavarseli entrambi, gli occhi) e non si sarebbe mosso di una virgola se tutta la squadra o persino tutta la scuola si fosse prostrata di fronte a lui. Forse nemmeno se si incatenavano tutti al cancello dell’istituto. Forse nemmeno se immolavano qualcuno…
La serie di iperboli si concluse davanti al portone della palazzina dove abitavano. Lanciò uno sguardo verso il loro appartamento e vide che la luce in camera di Yasu era accesa. Strano che non fosse venuta a vedere gli allenamenti. “Bah”, pensò, “magari doveva studiare”. Gongolò pensando che avrebbe potuto parlarne un po’ con lei, della storia della fascia. Da quando stavano insieme, aveva scoperto che discutere con Yasu dei propri problemi, lo aiutava molto. E magari avrebbe anche millantato l’ennesimo fastidio alla spalla, così le coccole non sarebbero rimaste solo verbali…
Salì le scale a due a due, col sorriso sulle labbra e aprì la porta dell’alloggio. Stava per chiamare la sua ragazza quando scorse la borsa di Kojiro nel corridoio. Sentì le voci dei due provenire dalla stanza di Yasu.
“Sei… sicura?” stava domandando Kojiro, incerto.
“Non ti preoccupare, mettici tutta la forza. Non aver paura di farmi male” disse lei. La voce era diversa dal solito, affannata, ma aveva chiaramente udito quelle parole, mentre la risposta di Kojiro fu solo un mormorio confuso. Sentì un rumore strano, seguito da un grido di Yasu.
Tremando Ken si avvicinò alla porta chiusa e l’aprì.
Ebbe una rapida visione di della sua ragazza fra le braccia di Kojiro, poi il capitano si alzò di scatto, allontanandosi dal letto mentre la ragazza si tirava rapidamente addosso la coperta. “Ken” balbettò, gli occhi spalancati.
“Cosa sta succedendo qui?” ringhiò il portiere, fremendo, in preda a un tumulto di emozioni.
“Te l’avevo detto, Wakabayashi ,” ruggì Kojiro, “che era inutile nascondersi. Credo sia il caso di raccontargli tutto”.

******
Alcuni giorni prima...

“Mi dispiace, Hyuga, ma non è una cosa in mio potere, lo sai” ripeté per l’ennesima volta il mister Kitazume. Poi si avvicinò a Kojiro, mettendogli una mano sulla spalla. “Lo so che così ci rimettiamo tutti, ma devo ammettere che sono abbastanza d’accordo col professor Sasaki. So che tu sei qui perché sei la stella della squadra e tutto il resto, ma in fin dei conti siamo sempre a scuola… e sono ancora convinto che ai ragazzi non si debbano insegnare solo il calcio e la matematica, ma anche ad affrontare le proprie responsabilità. E ad accettare le conseguenze delle proprie azioni”.
Yasu aveva osservato tutta la scena da dietro le spalle del mister mordicchiandosi il labbro, tormentata. Capiva che l’allenatore aveva ragione, ma l’espressione sul volto di Kojiro le spezzava il cuore. “Mister Kitazume, signore” s’intromise allora, timida, “magari potrebbe almeno allenarsi, anche se non giocare”.
Kojiro alzò il viso, annuendo, pieno di speranza.
“Wakabayashi” sospirò l’uomo, “Avevo capito che fossi tu quella brava con le lingue. Sai cosa significa ‘escluso da ogni attività extrascolastica’ ?”
“Sì, signore” rispose la ragazza abbassando il capo.
“Allora ti sei risposta da sola” concluse. E se ne andò.
Hyuga lasciò la stanza a sua volta, non prima di aver rivolto a Yasu un mezzo sorriso del tipo “grazie per averci provato” cui lei rispose con un’impercettibile alzata di spalle.
Di lì a poco, anche la ragazza abbandonò lo studio dell’allenatore. Uscendo dall’impianto sportivo, la sua attenzione fu attirata da Kojiro che l’aspettava seminascosto dietro un albero. “Troviamoci in cafeteria” le sillabò con le labbra, poi si dileguò.
Yasu, curiosa, si avviò verso il luogo dello strano appuntamento.
Quando arrivò, trovò Kojiro già seduto a uno dei tavolini con davanti due bicchieri di cartone. Tè per sé e mokaccino per Yasu.
“Vedo che i miei gusti sono ormai patrimonio dell’umanità” sorrise la ragazza alla vista della bevanda.
“E’ quello che ti prende sempre Ken” borbottò lui con una scrollata di spalle. “Beh, ti siedi?”
“Gli altri non ci sono?” chiese guardandosi intorno perplessa.
“No, volevo parlare solo con te. Anzi, mi devi promettere che sarà un segreto”.
“Ok” disse stupita, scrollando la testa, con un mezzo sorriso.
“Prima di tutto, grazie per poco fa, ho apprezzato molto che tu abbia chiesto al mister di farmi almeno allenare” disse d’un fiato.
“Figurati… è che capisco la posizione del signor Kitazume, ma so anche quanto è importante per te il calcio… Se solo mettessi nello studio un po’ delle energie che profondi nello sport” lo rimbrottò sorridendo e allungando una mano per carezzare quella del cannoniere.  Kojiro trasalì a quel contatto, ma poi si rilassò.
“Ecco” riprese lui, un po’ a disagio, “io vorrei chiederti se…”
Yasu lo guardò, incoraggiante.
“No, lascia perdere, non puoi e basta…”
“Beh, dimmelo e poi vediamo, no?” Ormai era troppo curiosa.
Hyuga prese un lungo respirò e poi parlò: “Mi aiuteresti ad allenarmi?”
“Cosa????”
“Sì, ho bisogno di allenarmi, ma da solo è un casino. E non posso chiedere a Sawada e Wakashimazu di fare allenamenti aggiuntivi, già hanno quelli ufficiali, le partite, la scuola…  e poi se il mister lo venisse a sapere… li metterei nei casini… di nuovo e… non voglio… Ma non voglio crearne neanche a te quindi, dimenticati di tutto” concluse alzandosi e lasciando in tutta fretta la cafeteria.

Quella Yasu proprio non se la aspettava: Kojiro che le chiedeva di aiutarlo ad allenarsi! Ovviamente lo avrebbe fatto volentieri. Certo, avrebbe fatto più comodo a entrambi fare qualche esercizio in più di matematica, senza contare che la cosa avrebbe potuto crearle problemi col mister… ma infondo – pensò- per lei vedere le partite dalla tribuna non avrebbe fatto tanta differenza… non come la fa per un giocatore, comunque. E poi dove stava scritto che non poteva allenarsi con qualcuno? Aveva persino il permesso di usare le attrezzature!
Insomma la decisione era presa.
Tornò all’alloggio, dove Takeshi, Kazuki e Ken, stravaccati sul divano, si godevano il meritato riposo post allenamento e pre-cena. Peraltro sarebbe toccato a lei cucinare, ma ci avrebbe pensato dopo.
“Salve a tutti” salutò, soffermandosi per dare un bacio a Ken. “Kojiro è in casa?”
“In camera sua, sì” rispose Takeshi.
“Te lo ricordi, vero, Wakabayashi che oggi tocca a te a cucinare, se così si può dire?” chiese Sorimachi. “Hai già chiamato la rosticceria?”
“C’è del ramen in scatola, mangi quello Sorimachi non rompere”, ribatté stizzita, dirigendosi verso la camera di Hyuga.
“Ho capito” sospirò Ken. “Cucino di nuovo io”.

“Kojiro?” chiamò Yasu bussando appena.
“Entra pure” fu la risposta dall’interno.
La ragazza scostò la porta, affacciandosi appena: “Volevo solo dirti” scandì, a voce abbastanza alta da farsi sentire dai coinquilini, “che sono disposta a darti quelle ripetizioni, magari mentre gli altri sono all’allenamento”.
Kojiro si voltò per guardarla negli occhi. “Sei sicura?”
“Sì”.

E così fu. Nei giorni seguenti, non appena Ken, Takeshi e Kazuki andavano all’allenamento, Yasu e Kojiro sgattaiolavano fino a un boschetto nel parco della scuola. Avevano trovato una radura nascosta che faceva esattamente al caso loro, dopo un’oretta, Kojiro tornava a casa e Yasu andava a vedere, come al solito, la fine degli allenamenti.
Chiedere alla ragazza del suo migliore amico di aiutarlo ad allenarsi di nascosto da tutti era stata un’idea che gli era venuta così, su due piedi, preso dalla frenesia di giocare: in qualche modo, ed era stata lei stessa, con quella proposta al mister, a dargli l’ispirazione. Ma ogni volta che uscivano dall’alloggio per andare a farlo, era tentato di dirle che era meglio smetterla, con quella storia. Perché non voleva metterla nei casini, né con l'allenatore, né con Ken… insomma non gli sembrava giusto. Ma l’entusiasmo della ragazza era coinvolgente e la sua voglia di giocare quasi più forte di quella di Kojiro stesso. Certo, non era come allenarsi con Ken, ovvio che non aveva la sua forza e la sua bravura, e spesso il cannoniere doveva dosare la propria potenza per paura di farle male, ma Yasu aveva un’energia inesauribile e un’innegabile, naturale predisposizione. Sembrava riunire in sé, seppur in tono minore, le doti del fratello e del fidanzato, come avesse, per anni, assorbito tutti gli insegnamenti impartiti più o meno direttamente, e memorizzato i movimenti visti in centinaia di partite.
Tutto filò liscio per diversi giorni, finché, una volta, distratto da queste riflessioni, Kojiro non controllò abbastanza la propria forza e sferrò all’indirizzo della ragazza un tiro potentissimo e angolato. Se ne rese conto quasi subito, ma i suoi avvertimenti furono inutili. Forse Yasu non lo sentì nemmeno, concentrata come era sul pallone, o forse lo ignorò bellamente: fatto sta che non pensò neanche per un attimo di lasciar perdere, bensì spiccò un balzo particolarmente difficile, seguito da una brutta caduta.
“Tutto a posto?” chiese Kojiro avvicinandosi, visto che la ragazza era rimasta bocconi, anziché rialzarsi subito come faceva di solito.
Yasu rotolò lentamente sul fianco destro, fino a trovarsi a pancia in su: si stringeva la spalla sinistra e una smorfia di dolore le contorceva il viso.
“Credo” mormorò fra i denti, “che mi sia uscita la spalla”.
“Ti porto in infermeria” esalò, allarmato.
“No, il mister e gli altri ci vedrebbero, andiamo a casa, ti dirò quello che devi fare”.

“Porca miseria” imprecò Hyuga mentre riportava a casa Yasu, sostenendola, anzi, portandola quasi di peso: aveva il volto terreo, la spalla doveva farle molto male. Insomma, ormai conosceva la sua amica: non era certo tipo da lamentarsi per niente. “Cazzo, cazzo, cazzo, mi dispiace”.
“Tranquillo, Kojiro” rispose lei, a fatica. “Non è colpa tua, mi sono buttata male”.
“Sì, che è colpa mia, ho tirato troppo forte e comunque non dovevo proprio coinvolgerti in questa cosa, punto e basta… ora Ken ci ucciderà tutti e due…”
“Non deve scoprirlo per forza…”
“Credi davvero di poter nascondere a quel paranoico del tuo ragazzo di avere una spalla fuori uso? Ma se si mette in agitazione anche solo se ti sente fare uno starnuto o ti vede un po’ più stanca! Lo sai, no?”.
Yasu si soffermò un attimo: no, non lo sapeva. Certo, Ken era un tipo premuroso e solerte, ma non le era mai sembrato che la controllasse così tanto… credeva piuttosto di essere lei quella che durante le partite osservava ogni suo minimo gesto, nel timore che qualcosa non andasse…
La scoperta, lo doveva ammettere, le scaldò il cuore. Per un attimo persino il forte dolore che le pulsava nella spalla sinistra sembrò scomparire.
“No, certo ma quando me l’avrai rimessa in sede starò meglio e gli diremo solo che sono inciampata”.

Una volta a casa, Yasu si sedette sul proprio letto, provata. Quindi, con l’aiuto di Hyuga e non poche difficoltà, si sfilò la maglietta e spiegò a Kojiro la manovra che avrebbe dovuto fare. Il ragazzo annuì, cercando di non far caso al fatto che la ragazza indossava solo il reggiseno sportivo.
“Sei… sicura?” chiese. Lui non era per niente sicuro di quello che stava per fare. E se non ci fosse riuscito? E se le faceva ancora più male? Avrebbe preferito ci fosse stato Ken, lui era più pratico ed era il suo ragazzo… Ma Yasu non aveva voluto saperne: era determinata a tenere nascosta al portiere la gravità del proprio infortunio.
“Non ti preoccupare, mettici tutta la forza. Non aver paura di farmi male” lo incitò lei. Sorrideva debolmente, ma dalla voce si capiva che soffriva e aveva paura.
“E sia” sussurrò Kojiro. “Al mio tre. Uno…”
Yasu deglutì e chiuse gli occhi.
“…due…”
Yasu inspirò profondamente e strinse i denti.
“…tre!”
Il rumore fece rabbrividire entrambi e Yasu urlò: nonostante l’immediata sensazione piacevole di sentire tornare tutto a posto, la manovra le aveva fatto tanto male, che per un attimo tutto si era fatto nero e si era accasciata fra le braccia di Kojiro.
Ma si riprese subito, sentendo la porta aprirsi.
Vedere comparire Ken fu uno shock per entrambi: Kojiro si allontanò con uno scatto dal letto, mentre Yasu usò il braccio buono per coprirsi alla bene e meglio con la trapunta.
“Ken” balbettò, poi, incredula.
“Cosa sta succedendo qui?” ringhiò il portiere.
“Te l’avevo detto, Wakabayashi, che era inutile nascondersi. Credo sia il caso di raccontargli tutto”.
Yasu non sapeva da che parte cominciare. Tanto più che le girava la testa e aveva la nausea: sia per il trauma appena subito, sia per quello che avrebbe potuto pensare Ken.
Fu Kojiro, dunque, a spiegare tutto e lo fece per filo e per segno, ignorando lo sguardo della ragazza che lo pregava di minimizzare.
Ken rimase fermo sulla porta, ascoltando in silenzio il racconto del compagno, portandosi una mano al volto per massaggiarsi gli occhi e l’attaccatura del naso.
“… e allora siamo venuti qui e le ho… risistemato la spalla, credo”.
“Guardandovi bene dal passare dall’infermeria, naturalmente” osservò rabbioso il portiere.
“Non volevo che mi vedessi…” spiegò Yasu, “che ti preoccupassi…” aggiunse in tono dolce. “E poi” riprese con piglio deciso, “so cosa fare e-”
CIAF!
Ken non ci mise nemmeno un decimo della sua forza, ma lo schiaffo che colpì Yasu risuonò nelle orecchie e nel cervello di tutti e tre come un colpo di cannone.
“Ma sei scemo?” urlò Kojiro, afferrando il braccio del compagno. “Si è fatta male e tu la meni pure? Ma che modi sono?”
“Se avessi colpito te” soffiò Wakashimazu fra i denti, all’indirizzo del cannoniere, “non sarei riuscito a controllarmi”.
“E ti pare un buon motivo per mettere le mani addosso a una ragazza? Alla tua ragazza? Che, per giunta, si è pure fatta male?”
“E me lo ha nascosto! E non solo quello! Mi ha nascosto che vi vedevate, accampando quell’inutile scusa delle ripetizioni!”
“Le ho chiesto io di aiutarmi con gli allenamenti!” ripeté Kojiro, stremato.
“Lo so ma… io… quando sono entrato” balbettò, arrossendo e distogliendo lo sguardo dall’amico.
“Che Kamisama ci aiuti, Ken, amico mio, nemmeno per un momento devi dubitare…”
“Lo so, lo so!” gridò Wakashimazu, tenendosi la testa. “Ma è stato più forte di me… proprio perché mi fido ciecamente di voi due, il solo pensiero che voi… è stato terribile”.
Yasu era rimasta a fissarli, tenendosi la guancia offesa. Lo stupore e la sorpresa per quel gesto, per lunghi attimi, l’avevano avuta vinta sia sulla rabbia sia sulle lacrime che, lei stessa temeva, potevano prorompere da un momento all’altro. Invece rimase in silenzio, attonita, ad ascoltare il concitato scambio dei due ragazzi.
Fare le cose di nascosto da Ken non era nel suo stile e il pensiero che lui avesse potuto sospettare un tradimento, le diede una fitta al cuore assai peggiore di quelle che le trapassavano la spalla. Allora inspirò profondamente e, cercando di controllare la voce, s’intromise: “Ok, mi fa piacere essere stata utile come sfogo e forse lo schiaffo me lo sono pure un po’ meritato, ma ora basta, va bene? Calmiamoci. Tutti.”
“Scusa Yasu non-” la pregò Ken con voce spezzata. La rabbia e la paura, che lo avevano vinto, andavano placandosi, e, adesso, era sinceramente dispiaciuto per quel gesto impulsivo.
“Lo so.” Lo bloccò la ragazza con dolcezza. “Infatti non mi hai fatto male” lo rassicurò allungando il braccio sano verso di lui. Il movimento la fece comunque trasalire dal dolore.
“Piccolina mia” Ken le si avvicinò, stringendola piano fra le braccia.
“Perdonami per averti tenuto nascosto degli allenamenti… era per non mettere te e gli altri nei casini” sussurrò Yasu, affondandogli la testa nel petto. Quell’abbraccio, seppur cauto, anzi, forse proprio per l’attenzione che il portiere vi profuse per non farle male, la fece sentire amata e al sicuro e sciolse tutte le tensioni, abbattendo ogni sua difesa. E inevitabilmente un paio di lacrime le scesero silenziose lungo le guance, bagnando la maglietta di Ken.
“Certo, l’ho capito…” la blandì lui, carezzandole la testa e la schiena. “Ma perché non mi hai detto che ti eri fatta male?”
“Per non farti preoccupare…” mugolò lei. Si allontanò per guardarlo in faccia e uno sguardo birichino le saettò negli occhi lucidi.
“Yasu, Yasu…” la rimbrottò scompigliandole con affetto i capelli. “Non ci siamo forse promessi di prenderci cura l’uno dell’altra? E quando arriva il mio turno di prendermi cura di te?”.
“Ah, bastava dirlo… mica dovevi aspettare che mi fracassassi qualcosa… Ora, se non vi dispiace, però, vorrei un antidolorifico e un po’ di riposo”.
“Signorasì” fece Ken accennando un saluto militare e uscì dalla stanza seguito da Kojiro che borbottò qualcosa circa il rischio di morire di diabete se si fosse trattenuto oltre in quella stanza.
Wakashimazu tornò poco dopo, con una pastiglia e un bicchier d’acqua. Li posò sul comodino e uscì di nuovo, tornando subito con dei cuscini. Con delicatezza, li sistemò dietro la schiena della ragazza.
“Dovresti stare comoda così” disse un po’ imbarazzato, gli occhi puntati sui cuscini. “Almeno, io li mettevo così quando mi faceva male la spalla. Ti dà molto fastidio?” chiese solerte, porgendole l’acqua e la pastiglia.
"Un po'... anche a te quella, vero?" domandò lei di rimando, accennando alla fascia di capitano che ancora stringeva il braccio di Ken.
"Uh, quella... devo ancora toglierla..." balbettò lui, ostentando un'aria di sufficienza. "A dire il vero devo ancora farmi la doccia" aggiunse facendo il gesto di annusarsi e schifarsi, ridacchiando. “Anzi vado, così ti riposi”.
Yasu rispose con uno sguardo che avrebbe fatto sciogliere l’Antartide.
“Ho capito” sospirò Ken, alzando le mani in gesto di resa. “Sto qui finché non ti addormenti”.
Socchiuse le imposte per schermare gli ultimi raggi di sole, quindi si sedette a terra vicino al letto. Yasu allungò la mano destra a carezzargli i capelli, osservando attraverso le palpebre semi-abbassate lo stupendo profilo del suo bel portiere, e sorrise appena. Intanto l’antidolorifico cominciava a fare effetto e, piano piano, il dolore le concesse un po’ di riposo. "Non ti preoccupare, sarai all'altezza" biascicò, sfiorando la fascetta con la mano. Poi si addormentò tranquilla.

A svegliarla fu, un’oretta più tardi, la luce che filtrò attraverso la porta che veniva aperta.
“Yasu” sussurrò dalla penombra la voce vellutata di Ken. “Vuoi mangiare qualcosa?”
La ragazza sbatté un paio di volte le palpebre, poi il tentativo di alzarsi le fornì un resoconto dettagliato, rammentandole dolorosamente i fatti della giornata. Lo stomaco poi, le ricordò anche che era l’ora di cena.
“Sì, grazie” rispose. “Un attimo e arrivo”.
“Stai ferma lì” la redarguì Ken. “Te lo porto io”.
Scomparve nel corridoio e tornò quasi subito con un piatto colmo di riso, carne e verdure.
A Yasu brillarono gli occhi. “Il… coso…” esclamò estasiata.
“Il Donburi, Yasu, si chiama così” spiegò Ken, alzando gli occhi al cielo. “Ma tu sei sicura di essere giapponese?” chiese sistemando una sedia vicino al letto e sedendosi.
“Uff, lo sai. Ho tre quarti di sangue giapponese e ho avuto un’educazione occidentale” mugugnò. “Dovremo sperare che per avere il beneplacito di tuo padre faccia fede il passaporto…” ridacchiò.
“Tu ci scherzi” sospirò Ken, mettendosi il piatto sulle ginocchia e impugnando le bacchette.
La ragazza lo guardò atterrita, tendendo la mano buona: “Beh? Adesso che fai me lo mangi in faccia?”
Lo sguardo che Ken le rivolse era ancora più atterrito del suo. “Veramente” mormorò arrossendo e abbassando lo sguardo, “volevo imboccarti”.
“Volev -” Uno strano calore le si diffuse in tutto il corpo e, i suoi occhi, immaginò, dovevano aver assunto la forma di due cuoricini color nocciola. Avrebbe voluto buttare la cosa sullo scherzo, come al suo solito, ma alle labbra non le salì nessuna battuta ironica o cinica, solo una risatina nervosa. E di fronte alle bacchette che le porgevano un bocconcino di riso e carne, non le restò che capitolare e aprire la bocca.
“Ma che idillio” gorgheggiò qualcuno dalla porta.
“Fottiti Sorimachi” chiosò Yasu a bocca piena.
“Uh, la contessina sta bene allora” continuò divertito Kazuki, affacciandosi per rivolgerle un sorriso gentile.
Un secondo dopo, apparvero anche i capelli a spazzola di Sawada. La sua testa non sembrava più una palletta, ma aveva ancora i suoi occhioni rotondi, una specie di specchio che restituiva, pari pari, i sentimenti del piccolo centrocampista. In quel momento vi si leggevano la preoccupazione, che probabilmente la notizia dell’incidente gli aveva dato, ma anche la gioia di vedere che Yasu stava abbastanza bene.
“Ciao Ya-chan” disse salutando. “Posso entrare?” chiese guardando Ken e il sopraggiunto Kojiro come per chiedere il permesso.
“Se proprio non ce la fai a trattenerti” rispose il capitano.
“Potresti almeno aspettare che abbia mangiato…” aggiunse Ken.
“Ah, sì” pigolò il ragazzino, con aria abbattuta.
“Ma no, avvicinati pure” lo incitò Yasu. Non riusciva a dire di no a Takeshi, proprio come una sorella maggiore che non può fare a meno di viziare il fratellino.
Il ragazzo entrò allora nella stanza, trascinando un orso grosso quasi quanto lui.
“È per te” specificò il centrocampista. “così non ti senti sola quando andiamo all’allenamento o a lezione”.
“E soprattutto, quando riuscirai a sollevarlo col braccio sinistro, sarai completamente guarita” sentenziò Kojiro, suscitando una risata generale.
“Ragazzi” sorrise Yasu, un po’ commossa. “Vi ringrazio ma… beh, insomma, non sono in fin di vita… potrò venire a seguire gli allenamenti come al solito, e ovviamente a lezione…”.
“Piano, piano, Wonder Woman” la redarguì Ken, premendole l’indice sulla fronte. “Prima di tutto, domani vai in infermeria e poi vediamo…”
Kazuki e Takeshi la salutarono e tornarono in soggiorno, Kojiro dette un’ultima occhiata alla coppia.
“Comunque” disse con un mezzo sorriso, “non dargli mai figli, Wakabayashi”.
“Perché?” chiesero i due all’unisono, un po’ indispettiti.
“Col ritmo che ha per imboccare la gente, te li fa morire di fame”.
“Scusa, Hyuga, non tutti hanno fatto da balia ai propri fratelli minori” sospirò Ken. Poi lo guardò di traverso con un sorrisetto ironico. “E poi lo so perché sei lì che tentenni… vuoi che dica a Yasu che il Donburi l’hai fatto tu per lei… il perché glielo dici tu?” chiese sornione.
“Beh” si schernì Kojiro, scrollando le spalle e incrociando le braccia sul petto come per difendersi. “Perché da piccoli, la mamma ce lo faceva sempre quando stavamo male…”
“E…?” lo incoraggiò Ken.
“…e a Yasu invece davano solo brodaglie europee…”
“E…?” incalzò il portiere.
“E midispiacechesisiafattamaleacausamia” disse tutto d’un fiato.
“Ripeti lentamente” scandì ancora Ken, dispettoso.
“Mi dispiace di che ti sei fatta male per colpa mia”.
Yasu scosse la testa. “Te l’ho detto, ho fatto tutto da sola”.
“Quindi mi perdoni?” chiese Kojiro, con aria un po’ infantile.
“Ma certo!” rispose Yasu allegra. “Non voglio più ripetertelo… non c’è nulla da perdonare.”
Il cannoniere sorrise un po’ imbarazzato, fece un leggero inchino e scomparve.
Ken e Yasu si guardarono ridacchiando.
Poi l’espressione di Yasu si fece seria. “E tu?” chiese guardando Ken con gli occhi tristi. “Mi perdoni? Io farei qualsiasi cosa per-”
“Esattamente le parole che volevo sentire” gongolò il portiere. “C’è una cosa, sì.” Uscì e tornò dopo un po’ con una pila di libri. “Io e Sorimachi avevamo chiesto al professor Sasaki degli esercizi extra da far fare a Kojiro… Eccoli qua. Visto che hai tanta voglia di  aiutarlo e comunque devi stare buona per un po’… te ne occuperai tu.”
“IO???? Ma se ho appena la sufficienza a matematica?”
“Appunto, ti faranno bene degli esercizi aggiuntivi…”
“Ma non sono brava come te e Kazuki…”
“Noi dovremo impegnarci per arrivare infondo al campionato nazionale senza Hyuga e non avremo tempo per compiti extra. Il tuo dovere, invece, sarà di restituirci il capitano per la finale.”
“Ma non so…”
“ARRANGIATI”.

****
Qualche settimana dopo...

Ken non credeva ai propri occhi quando il triplice fischio dell’arbitro decretò il termine della finale del campionato nazionale. Il terzo titolo della Toho era realtà.
Sì ce l’avevano fatta: lui, Sorimachi, Sawada e tutti gli altri avevano raggiunto la finale anche senza il capitano.
Yasu era riuscita a ficcare nella testa di Hyuga numeri e teoremi bastanti per raccogliere una sufficienza piena, giusto qualche giorno prima della finale.
Hyuga, da parte sua, era riuscito a dimostrare al professor Sasaki di non essere buono solo a giocare a calcio. E la fascetta di capitano era tornata, con grande sollievo da parte di Ken, al legittimo proprietario.
Come sempre, il lavoro di squadra della Toho aveva trionfato.
Proprio come due anni prima, anzi meglio perché, come l’anno precedente, la Toho era l’unica vincitrice.
Proprio come due anni prima, Hyuga era rientrato per la finale.
Proprio come due anni prima, Ken era caduto malamente sulla vecchia spalla infortunata, manco a farlo apposta.
Passata l’adrenalina della partita e l’euforia della vittoria aveva realizzato che gli faceva piuttosto male e Yasu era riuscita, dopo lunghe insistenze, a portarlo in infermeria.
Ken ne uscì dopo poco e sorrise nel trovare la propria ragazza che lo aspettava davanti alla porta. Si squadrarono per un attimo, entrambi col tutore alla spalla sinistra e scoppiarono a ridere.
“Ok,” balbettò Yasu, riprendendo fiato, “alla festa per la vittoria di stasera me lo tolgo io, tanto ormai sto bene. Mica ci possiamo presentare così, non riusciamo neanche tenerci per mano!”.
“Però tutti vedranno come siamo… legati dal destino” disse lui con finto trasporto, portandosi la mano destra alla fronte.
“Che scemo, piuttosto, che ti hanno detto?”
“Niente, ho preso una brutta botta… la spalla è infiammata e mi verrà un bel livido, ma nient’altro”.
“Davvero?”
“Sì, non sono io quello che nasconde le cose.” rincarò la dose guardandola storto. “Anzi, impara da me, il dottore ha detto che se non fossi stato così bravo a cadere, avrei potuto infortunarmi gravemente”.
Yasu lo squadrò scettica. “Bravo a cadere? Mah, diciamo che ti ho visto fare cadute più plastiche…”
Ken le dette una forte pacca sul sedere, strappandole un “Ahia, scemo”.
“Lo sai vero” riprese lui avviandosi lungo il corridoio, mentre Yasu gli trotterellava dietro. “Che mi devi restituire i cuscini e che da stasera tocca a te a imboccarmi?”
“Cavoli tuoi, se ti vuoi trovare il letto pieno di riso…”
“Correrò il rischio” rispose il portiere guardandola di sottecchi.
“Ken?” riprese lei, dopo un po’.
“Eh.”
“Ok, i cuscini sono tuoi, ma Deuter l’orsacchiotto posso tenerlo io, vero?”
Wakashimazu rise forte, quindi si fermò e la guardò negli occhi. Fece un passo avanti, poi le passò una mano sotto al mento per alzare il suo viso verso il proprio. Si chinò appena e le sfiorò le labbra, si ritrasse un attimo e aspettò che lei, come sempre, le dischiudesse per accoglierlo. La baciò a fondo, a lungo, mentre ripensava a tutte le avventure delle ultime settimane: il peso del ruolo di capitano, la paura quando aveva scoperto Yasu e Kojiro insieme, l'infortunio della ragazza e il proprio e, infine, la vittoria del campionato nazionale. E capì che tutto, le difficoltà come le cose belle, nella buona e nella cattiva sorte, parafrasò arrossendo leggermente, tutto sembrava più facile e gioioso, perché erano insieme. Perché c’era lei.
Ma non glielo disse. Si limitò a scompigliarle i capelli e a rassicurarla: “Certo, piccolina, l’orsacchiotto Deuter è tutto tuo”.

Commenti finali:

E dopo Cane Genzo... l'Orso Deuter!!! Evvivaaa la zoo-portierofilia dilaaaaaga....
*si ricompone*
Eccoci alle doverose spiegazioni. Questa TS è una delle primissime che ho scritto. In origine, e su suggerimento di sissi (che mi ha dato anche l'idea dell'infortunio a Yasu), era ambientata durante il campionato delle medie (anche se coi protagonisti un po’ più grandicelli) e si incastrava perfettamente con la sparizione di Kojiro, il suo ritorno, il mister che inizialmente lo tiene in panchina salvo poi farlo scendere in campo per la finale e l’infortunio di Ken durante quella stessa partita. Tutto tornava talmente bene che questa storia era uno dei motivi per cui ho riflettuto a lungo sull’idea (invece suggerita da rel –dio ma c’è qualcosa di mio in queste storie??? Bah) di traslare il tutto agli ignoti anni delle superiori... ma poi alla fine l’ho fatto e la storia l’ho aggiustata come avete letto, perde un po’ ma spero vi sia piaciuta comunque. Per creare un legame con la vecchia versione e la nuova ho fatto fare il discorsetto a Ken... e ho lasciato il mister Kitazume perchè lo adoro...
Alla prossima!
E grazie ad agatha per il betaggio e per... TUTTO.

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Capitolo 13
*** Piccoli problemi di cuore - Toho story 10 ***


Siamo all'ultimo anno e ancora una volta nell'appartamento più amato dopo Casa Vianello abbiamo una nuova guest star... ma chi potrà essere mai? Mah, dal titolo proprio non si capisce...

Piccoli problemi di cuore

 

Perché dei giorni tu sei distante più che mai,
Poi mi prendi per mano e ancora te ne vai,
Perciò mi chiedo e mi richiedo se c'è un posticino
Nel tuo cuore per me.
Sono piccoli problemi di cuore
Nati da un'amicizia che profuma d'amore.

(Piccoli problemi di cuore, di A. Valeri Manera – F. Fasano)

 

 

 

 

"Ma ti insegnano anche la respirazione bocca a bocca?" chiese Ken, osservando imbronciato Yasu che preparava la borsa per uscire.
"Credo di sì".
"Però tu la puoi fare solo a me" ribatté, in tono lamentoso.
"Uhm" fece lei, fingendo di rifletterci su. "Credo che il giuramento di Ippocrate non funzioni proprio così..."
“E tu spiega loro che io senza te non respiro”.
Yasu alzò gli occhi al cielo e poggiò pesantemente la borsa sulla scrivania. “Ken” sospirò. “Finiscila. Vado in centro a Tokyo a seguire delle lezioni di primo soccorso, non parto per la guerra”.
“Ma perché devi andarci tu”.
“Mi serve per fare l’accompagnatrice della squadra e mi fa pure crediti per l’università…”
“Ma non mi piace che te ne vai in giro per il centro da sola, la notte…”
“Amore, le sette di sera non è l’ora dei fantasmi e Tokyo non è il Bronx. Quelli che attraverso sono tutti quartieri tranquilli.”
“Mmm, comunque vorrei accompagnarti”.
“…ma hai l’allenamento.”
“Però potrei venire a prenderti… ce la posso fare.”
“Non credo ci sia un modo per dissuaderti, vero?”
Ken scosse lentamente la testa, facendo ondeggiare i lunghi capelli, i suoi stramaledetti occhi magnetici puntati su di lei.
“E sia” sospirò Yasu, con un pizzico di orgoglio.
 
 
Il viaggio in metropolitana era piuttosto lungo e Yasu si trovò a pensare che tornare in compagnia di Ken, in fondo, sarebbe stato piacevole. Tanto più che al corso sarebbe stata circondata da estranei, probabilmente gente più grande... insomma, sarebbe stata ancora più sola che adesso.
Invece si sbagliava.
Appena entrata nella stanza dove si teneva il corso, vide qualcuno che la salutava. Lei sorrise e si accomodò volentieri vicino a Jun Misugi e Yayoi Aoba.
Il ragazzo la salutò con affetto e ricordò alla sua compagna chi fosse Yasu, dato che si erano incontrate poche volte.
“Vi conoscete piuttosto bene…” osservò Yayoi, stiracchiando un sorriso.
“Sì, ci siamo visti in occasione di alcuni ritiri della Nazionale…”
“Davvero? Ma allora non è vero che le ragazze non possono -”
“Beh…” spiegò Jun, come a giustificarsi. “Suo fratello viene di rado in Giappone e se non venisse a trovarlo al ritiro non si vedrebbero mai…”
“E poi conosco bene Mikami” aggiunse ingenuamente Yasu.
“Beh certo. Il nome Wakabayashi apre molte porte, immagino” sibilò Yayoi, quasi fra sé.
“Bello ritrovarsi qui, comunque” intervenne Jun per smorzare la tensione.
“Vero!” esclamò Yasu. “Che bello che ci siete anche voi! Temevo di annoiarmi da sola!”
“In realtà solo io” precisò Jun. “Yayoi seguirà un corso specifico per Scienze Infermieristiche”.
“Uh!” ribatté Yasu. “Hai le idee chiare, Aoba. Io ho ancora dei dubbi…”
“Già” rispose Yayoi guardandoli un po’ storto. “Mi sono già iscritta all’Università. Io so bene cosa voglio”.
“Be- bene” borbottò Yasu, forzando un sorriso. Le dispiaceva un po’ che Yayoi fosse ostile nei suoi confronti. Le era sempre parsa più simpatica delle altre “manager”, ma era anche abituata all’invidia della gente per la sua famiglia e tutto il resto. Le sfuggì un mezzo sospiro di rassegnazione.
“Io vado” riprese Aoba. “Volevo solo accompagnare Jun e vedere dov’è il posto, devo tornarci domani da sola…”
“Mi dispiace non poterti accompagnare, ma già oggi mi tocca saltare gli esercizi… e poi lo studio…”
“Non c’è problema” lo liquidò.
“Non ti preoccupare” scherzò Yasu per smorzare la tensione. “Ci penso io al tuo fidanzato”.
Jun scoppiò a ridere mentre Yayoi non sembrò apprezzare molto l’ironia e uscì spedita dalla stanza.
Yasu e Jun si scambiarono uno sguardo fra lo stupito e l’imbarazzato.
Poi l’insegnante fece il proprio ingresso e non parlarono più dell’accaduto.
 
Finite le lezioni, si soffermarono sul portone dell’edificio che ospitava il centro di formazione, a parlare un po’ del più e del meno: Jun le raccontò di aver intenzione di iscriversi a Medicina e Yasu gli disse che anche lei era interessata all’area sanitaria, probabilmente come fisioterapista.
“Allora hai fatto bene a seguire questo corso” soggiunse Jun. “Uno dei docenti è il Prof. Fukawa, uno dei migliori insegnanti del corso di fisioterapia dell’Università di Tokyo e un grandissimo esperto di Medicina Riabilitativa... io stesso sono stato suo paziente e, se non vado errato, anche tuo fratello... magari lo hai pure visto, spesso viene ai ritiri della Nazionale.”
“E’ possibile” rispose Yasu pensosa, poi dette una scrollata di spalle. “In realtà… non ho ancora le idee molto chiare su cosa fare dopo la scuola, spero che questo corso mi aiuti”.
“Perché no, un’infarinatura generale ti aiuterà di sicuro a capire cosa... oh! Credo che qualcuno ti stia aspettando” sorrise Jun.
“Ken!” chiamò Yasu, salutandolo col braccio.
Il ragazzo li raggiunse rapido, guardandoli con curiosità.
“Visto chi c’è?” proseguì la ragazza, entusiasta. “Visto? Credevo di annoiarmi al corso, invece non sono sola!”
Ken annuì appena, fissando Jun con aria accigliata. Quindi accennò un inchino mormorando: “Misugi...”
“Wakashimazu...” rispose il baronetto con un sorriso. “Anche io sono molto contento che ci sia Yasuko con me...”
Ken si morse le labbra.
“... sì insomma, Wakabayashi. A chiamarla per cognome mi sembra sempre di parlare di Genzo” spiegò ridendo.
“Non ti preoccupare, Jun, anzi, chiamami pure Yasu.”
“Benissimo, Yasu. Eri da queste parti, Wakashimazu?”.
“No,” s’intromise la ragazza. “Ha voluto a tutti i costi venirmi incontro per riaccompagnarmi al dormitorio, io glielo ho detto che non c’è alcun pericolo ma lui non ha sentito ragioni, anzi, diglielo anche tu, Jun...”
“Assolutamente” rispose Misugi, poggiandole una mano sulla spalla. “Ha fatto bene a venire qui. Se tu fossi la mia ragazza, non ti lascerei mai tornare a casa da sola” concluse, carezzandole il braccio e fissandola con gli affascinanti occhi color nocciola.
Sia Yasu sia Ken spalancarono gli occhi, e abbassarono la testa, mostrandosi improvvisamente attratti dal selciato. Ma prima che uno dei due dicesse qualcosa, il baronetto  incalzò: “Tuttavia, dalla prossima volta non c’è alcun bisogno che tu venga... Yasu la posso riaccompagnare io all’Istituto Toho, tanto i miei vengono a prendermi in macchina. É praticamente di strada...”
“Grazie mille Jun! Mi fai un grandissimo favore, non è vero Ken?”
“Già” disse il portiere, poco convinto.
 
Una settimana dopo
 
Era passata una settimana e quel giorno Yasu avrebbe avuto la seconda lezione, pensò Ken, rincasando per posare i libri e prendere il borsone per l’allenamento. Si stupì nel trovare la ragazza ancora lì. Per un attimo sperò che avesse deciso di non proseguire il corso. “E tu che ci fai?” chiese, in tono vago.
“Non vado in metropolitana, passa a prendermi Jun…”
“Ah…” balbettò Ken, rabbuiandosi, ma cercando di controllare la voce. “E come mai?”
“Beh gli è di strada e poi risparmio…”
“E da quando in qua ti mancano i soldi per l’autobus?” chiese, ironico.
Yasu lo guardò da sopra il libro che stava leggendo seduta sul divano, gli occhi ridotti a fessure. “Risparmio tempo Wakashimazu, ce li ho i soldi per l’autobus, grazie” ringhiò.
Il portiere girò i tacchi stizzito e si avviò verso la propria stanza.
Yasu sospirò, chiuse il libro, lo appoggiò sul divano e seguì Ken. Si fermò sulla soglia della stanza di lui e lo osservò riporre accuratamente i libri.
“Pensavo che saresti stato più tranquillo, così…” sussurrò.
“Certo” ribatté lui senza guardarla e cominciando a togliersi la divisa scolastica per mettere la tuta. “È… meglio così…molto meglio.”
Yasu si avvicinò piano, allungò le mani verso i bottoni della divisa, sostituendo le proprie a quelle del ragazzo e cominciando a slacciarli. “Certo… preferirei che mi accompagnassi tu o magari che restassimo qui…” sussurrò, infilando le mani sotto la camicia per fargliela scivolare lungo le spalle.
 Ken la prese per la vita stringendosela contro il petto nudo e abbassando la testa per baciarla. Le aveva appena sfiorato le labbra, quando qualcuno suonò al campanello.
“Dev’essere Jun” esclamò lei, staccandosi e correndo verso la finestra.  Aprì le imposte, si affacciò per salutarlo e dirgli che scendeva subito.   
Passò davanti al portiere come un razzo, si fermò a prendere la borsa e il giubbotto in camera sua e uscì. Non si affacciò a salutarlo, si limitò a gridare un “ciao” prima di chiudersi il portone alle spalle.
“Ciao” mormorò appena Ken, slacciandosi la cintura con un gesto di stizza.
 
Alcune settimane dopo
 
Ken rientrò in casa rabbrividendo, tossì e fece un paio di starnuti: si era alzato la mattina col naso chiuso e un po’ di mal di gola, e ora, dopo un intero allenamento sotto la pioggia battente, probabilmente aveva persino la febbre. Si tolse i vestiti bagnati, fece una doccia calda e si infilò il pigiama. Guardò l’orologio: Yasu sarebbe rientrata a momenti dal corso, che durava ormai già da alcune settimane. Si mise vicino al calorifero, che casualmente stava proprio sotto la finestra, guardando distrattamente fuori, finché non scorse un ombrello giallo...
 
 
“Eccoci qua” disse Yasu allegra, staccandosi dal braccio di Jun, uscendo da sotto l’ombrello giallo e rifugiandosi sotto la tettoia di fronte al portone della palazzina. Veniva giù una specie di nubifragio e lei, al solito, non aveva l’ombrello. Così Jun, oltre ad accompagnarla in auto fino al cancello del Toho, l’aveva anche scortata fino al portone, per ripararla col proprio.
La ragazza aprì e fece cenno a Misugi di entrare:“Vieni dentro, che mi sembra stia aumentando...”
“Sì, magari aspetto un attimo, ma devo subito andare che mia madre mi aspetta...”
“Non sali un po’?”
“No, grazie...”
“Ma no, grazie a te, davvero, non era necessario...” sorrise la ragazza.
“Figuriamoci, ti saresti bagnata da capo a piedi con questo temporale...”
“Ma va, ci sono abituata... e poi potevo cambiarmi subito...”
“Ho promesso ai tuoi amici di riportarti ogni volta sana, salva e... asciutta”.
Yasu rise poi si girò di scatto sentendo dei passi per le scale. Spalancò gli occhi nel vedere Ken in pigiama. Jun lo salutò con la mano.
“Beh, vieni su?” le chiese, senza tanti convenevoli. Quindi tossì appena.
Yasu lo guardò inarcando il sopracciglio. “Ciao Amore, sì, arrivo subito” gli disse, un po’ risentita. “Che c’è?” fece poi, notando il viso un po’ pallido e l’espressione funerea.
“Ho il naso chiuso, il mal di gola e probabilmente qualche linea di febbre...” mugugnò, la voce nasale per il raffreddore e l’aria di chi sta comunicando una diagnosi nefasta. “Stamattina già non mi sentivo benissimo, poi l’allenamento di oggi pomeriggio sotto la pioggia...” Tossì, come ad avvalorare la dichiarazione.
Yasu si avvicinò con un sospiro, allungando la mano per toccargli la fronte. “Mmmh, certo che allora non dovresti startene per le scale in pigiama, dovresti metterti a letto...”
“Ti aspettavo” mugolò.
“Sono qua” le disse lei in tono dolce, baciandolo su una guancia. “Adesso vengo su a farti del latte caldo col miele, ma poi fili a letto, ok?”
Ken le sussurrò qualcosa all’orecchio, Yasu ridacchiò e rispose “Vedremo...”
 Poi tornò a rivolgersi a Jun, che aveva seguito la scena tenendo lo sguardo basso. “Sicuro che non vuoi venire a prendere una tazza di latte caldo anche tu?” gli propose Yasu, facendogli l’occhiolino.
Il baronetto scosse la testa castana e i capelli un po’ umidi caddero a incorniciargli lo splendido sorriso con cui declinò l’invito. “Mia madre mi aspetta” ripeté. Poi dette uno sguardo fuori. “Ha rallentato. Ne approfitto per tornare alla macchina. E voi salite su che qui fa fresco. Ciao”.
Yasu lo salutò, dando una gomitata a Ken perché facesse altrettanto.
“Vieni, andiamo ad assicurarci che tu superi la notte” ridacchiò Yasu.
“Mi prendi in giro... io sto male e tu mi prendi in giro...”
“Dai, non fare il tragico!”
Appena entrati in casa, Yasu si tolse le scarpe e le calze bagnate e poi si mise ai fornelli.
“Gli altri?”
“Hanno fatto la doccia al campo perché poi hanno tutti lezione fino a tardi. E’ martedì, e di solito approfittavamo di avere l’appartamento tutto per noi... ricordi?”
Di lì a poco, suonò il citofono. Yasu alzò il ricevitore, chiese chi era e poi rispose “Certo, sali”. Qualche attimo dopo, Jun Misugi apparve sulla porta.
“Mia madre aveva un sacco di giri da fare sotto la pioggia e a me non andava per niente... così mi sono chiesto se l’offerta del latte caldo fosse ancora valida...” si giustificò.
Yasu consegnò una tazza a Ken, avvisandolo che era bollente, poi sorrise a Jun: “Certo, anzi, rilancio con della cioccolata calda... ti va?”
Ken ebbe un sussulto e per poco non sputò tutto a terra.
Yasu lo guardò preoccupata: “Te l’avevo detto che era caldo... o forse non è buono?”
Il portiere scosse la testa e continuò a sorseggiare il suo latte, fissandoli torvo.
Seguì con lo sguardo tutti i movimenti della sua ragazza, mentre scioglieva con attenzione la cioccolata nel pentolino del latte. L’odore della bevanda gli stuzzicava le narici, ricordandogli molti momenti piacevoli della loro storia.
Vederla che la preparava con tutti i crismi e la porgeva a Misugi avvisandolo che scottava, lo mandava in bestia.
Un paio di starnuti e un accesso di tosse completarono il quadro.
Quando alzò gli occhi e vide lo sguardo preoccupato di Yasu, tuttavia, si rincuorò. Fissandola, le porse la tazza vuota.
“Vorrei anche io un po’ di cioccolata” pigolò.
“Ecco cos’era quella faccia” rise la ragazza. “Hai la gola infiammata, amore, ti fa male... vuoi altro latte?”
“No” rispose imbronciato.
“Allora fila a letto e misurati la febbre”.
“Tu non vieni?”
Yasu lo fulminò con lo sguardo... sembrava che quel raffreddore gli avesse fatto dimenticare anche le norme basilari dell’educazione. “Finisco la cioccolata con Jun e poi arrivo, ok?” sibilò.
“Non badate a me, mi metto alla TV e aspetto che mia madre…” intervenne Misugi, imbarazzato.
“Ma figurati, Jun. Tu sei nostro ospite e lui… non è un bambino piccolo…” sussurrò Yasu, mentre Ken ciabattava mogio verso la propria camera.
Dopo qualche minuto tornò, con in mano un plaid e il termometro e raggiunse gli altri due, che si erano accomodati in salotto e parlavano, a quanto pareva, di ristoranti. Misugi s’ interruppe non appena vide sopraggiungere Ken e gli sorrise, cordiale come sempre.
“Dopo il latte mi sento meglio, sto un po’ qui con voi” dichiarò, sedendosi vicino a Yasu, in mezzo ai due.
“Hai proprio deciso di mischiarcela, l’influenza, eh?” esclamò Yasu, un po’ seccata da quello strano comportamento così infantile.
“Non ho l’influenza, ho preso freddo…” precisò.
Yasu allungò una mano per sentirgli la fronte. “Ti sei misurato la febbre?”
“No” rispose, guardandola con due occhioni lucidi che avrebbero sciolto una montagna e porgendole il termometro.
La ragazza alzò gli occhi al cielo, slacciò i primi bottoni del pigiama e sistemò con cura il termometro sotto l’ascella, quindi prese il braccio di Ken, glielo piegò sul ventre, gli sistemò il plaid e infine vi pose la propria mano, appoggiandosi appena contro la sua spalla.
“Di cosa stavate parlando?” chiese il portiere, come fosse improvvisamente in vena di conversazione.
“Niente di speciale” rispose Jun, pacato, ma a Ken non sfuggi lo sguardo che passò fra lui e Yasu.
In realtà non poteva sapere che Jun e Yasu stavano organizzando un’uscita a quattro, ma per Ken e Yayoi sarebbe dovuta essere una sorpresa e lui era arrivato proprio mentre decidevano i dettagli.
La chiave girò nella toppa e Sorimachi e Sawada fecero il loro ingresso nell’appartamento.
Rimasero un attimo confusi di fronte a quella scena: Ken pallido e avvolto nel plaid, Yasu vicino a lui che lo guardava con apprensione e Jun Misugi seduto un metro più in là.
Kazuki osservò la scena e un sorriso beffardo gli increspò le labbra: “Cos’è, la succursale dell’ospedale?”
Yasu e Takeshi gli lanciarono uno sguardo infuocato, grattandosi la testa imbarazzati, cercando di fargli capire che non era il caso di fare certe battute in presenza di Misugi.
Ma, a sorpresa, fu proprio il baronetto a scoppiare a ridere per primo, alzandosi per salutare i nuovi arrivati. “Già,” esordì, continuando a ridere. “E per una volta non sono io quello messo peggio…”
Yasu sorrise a sua volta, guardando Jun con malcelata ammirazione: sapeva uscire da ogni situazione con la stessa eleganza con cui, in campo, dribblava anche il difensore più tenace.
 “Che piacere vederti, Jun” lo salutò Sawada, solare come sempre.
“E ancora di più vederti in forma” aggiunse Sorimachi, con un sorriso sincero.
“Il piacere è mio”.
“E tu, Ken? Come stai?” chiese poi Takeshi.
“Vediamo subito” rispose Yasu, andando recuperare il termometro. Lo guardò con aria seria: “Amore…” sussurrò.
“Che c’è?”
“Hai oltre trentotto di febbre. FILA IN CAMERA.”
“Wakashimazu, ti prego, non preoccuparti di me,” intervenne Jun, pensando che il ragazzo rimanesse in salotto per dovere di ospitalità. “Yasu ha assolutamente ragione devi riguardarti… e credo anche che dovrebbe accompagnarti di là e starti vicina...” concluse, appoggiando una mano sulla spalla della ragazza e facendole l’occhiolino.
“Jun…” mormorò lei, guardandolo, dispiaciuta.
“Starò benissimo qui con Sawada e Sorimachi… Ha bisogno di te…” sussurrò, accennando al portiere.
“Credo di sì…” mormorò lei, abbassando lo sguardo. Quindi si alzò in piedi e aiutò Ken a fare lo stesso. Il portiere vacillò un po’ e Misugi fu svelto a sostenerlo. “Hai bisogno di aiuto?” chiese, serio.
“Ce la faccio” rispose Wakashimazu, brusco.
“Ken!” lo rimproverò Yasu. “Vabbè che stai male ma non è un buon motivo-”
La mano di Misugi le si posò di nuovo sul braccio: “Va benissimo…”
 
Sorimachi osservò con gli occhi ridotti a fessure le dita del baronetto che scivolavano lungo il braccio di Yasu e il suo sguardo, che seguì brevemente la coppia mentre si allontanava lungo il corridoio, per poi abbassarsi e tornare a rivolgersi a lui e Sawada.
“Approfitto un po’ di casa vostra mentre mia madre si dà allo shopping nonostante il diluvio” sorrise Jun, come per giustificare la sua presenza.
“Figurati” rispose Kazuki in tono neutro, con un’indolente alzata di spalle. Ma continuò a osservare l’ospite, mentre tutti e tre si riaccomodavano sul divano.
“Come va il campionato?” proseguì Misugi, con l’evidente scopo di fare conversazione.
“Senza di te le eliminatorie provinciali sono una passeggiata” sorrise Sawada.
Sorimachi continuava a osservare Jun. Per quanto fatta con le migliori intenzioni e sicuramente meno diretta della sua gaffe di poco prima, l’uscita di Takeshi poteva non suonare troppo educata. Come continuare a girare il dito nella piaga. Ma Jun non perse la sua espressione serafica e rispose:
“Beh siete anche una gran bella squadra. Vi siete meritati su tutta la linea di vincere il campionato nazionale, negli ultimi anni…”
“Ma va, lo sappiamo che parteggi per la Nankatsu” incalzò Kazuki.
Jun sospirò. “Lo ammetto, in generale preferisco il loro tipo di gioco rispetto al vostro ma… visto che i campioni siete voi evidentemente ci sbagliamo” rise.
Takeshi si lasciò andare contro lo schienale del divano. Era noto a tutti che lui ammirava molto lo stile di Misugi e Misaki. Si morse le labbra, guardandosi un po’ in giro, come ad assicurarsi che Hyuga non fosse a portata di voce e poi azzardò: “In effetti è un peccato. La Nankatsu ha così tanti ottimi elementi… ma manca un leader, quali potevano essere Oozora o Wakabayashi. Quello che sei… eri… tu per la Musashi…” concluse, imbarazzato.
“Sono alchimie un po’ imprevedibili…” proseguì Misugi, continuando a glissare sulla sua situazione. “Insomma… Hyuga è un gran giocatore, ma un capitano ben diverso da gente come me, Tsubasa, Wakabayashi o Matsuyama… Eppure il vostro gioco funziona. E come diceva il mio allenatore, chi fa goal ha sempre ragione…”
Fece una pausa e tutti e tre si scambiarono sguardi divertiti.
“Tuttavia” riprese il baronetto, con la voce che vibrava di emozione. “Non ho ancora rinunciato a far valere la mia idea di calcio…” Si interruppe come se avesse detto troppo, imbarazzato di fronte gli sguardi interrogativi dei due.“Diciamo che è… una sorpresa, ecco” raffazzonò.
“Che sorpresa? Adoro le sorprese!” trillò Yasu, sbucando dal corridoio.
“Al contrario di tuo fratello!” esclamarono in coro Sawada e Sorimachi.
Jun li guardò divertito e Yasu sorrise a sua volta. “Take-chan, Kazu-chan, cioccolata?”
I due annuirono convinti e, dopo aver trafficato un po’ in cucina la ragazza tornò con due tazze e un sacchetto di biscotti.
“Hyuga?” chiese, sedendosi.
“Il prof di matematica lo ha trattenuto per fare qualche esercizio extra” ridacchiò Kazuki.
“Sai che novità” ribatté la ragazza, alzando gli occhi al cielo, non riuscendo a sua volta a trattenere un sorrisetto sghembo.
“Uh, Yasu” esclamò all’improvviso Takeshi. “Hai mica visto i miei parastinchi?”
“Non chiedermi perché, ma sono in camera di Ken… li ho visti prima. Li recuperiamo dopo, ora è meglio lasciarlo riposare... A proposito, ti chiedo scusa per lui, Jun, quando è malato regredisce al secondo anno di asilo” sospirò, suscitando l’ilarità degli altri.
Sorimachi aggiunse alla sua lista la familiarità con cui Yasu e Misugi si chiamavano per nome.
“Ah, Kazuki” soggiunse poi la ragazza. “L’hai fatta, vero, la relazione per l’esperimento di chimica? È per domani, ricordi?”.
Dal modo in cui il numero nove impallidì, fu chiaro che non se n’era ricordato affatto. “Uff, finisco la cioccolata e vado… ma… non è che potresti darmi la tua?”
“Ce l’hai già sulla scrivania… ma vedi di farti furbo a copiare, o ci dividono il voto a metà come l’altra volta…”
Jun rise di nuovo di gusto. “Non ci si annoia mai qui, eh? E se non avessero te che fai loro da mammina mi sa che andrebbe tutto a rotoli. Non è che il merito delle vittorie al campionato nazionale in fondo è tuo?”
“Ma no!” si schernì Yasu. “Al massimo si presenterebbero in campo senza qualche pezzo! Ma vincerebbero comunque!” aggiunse, dando il cinque a Takeshi.
Jun guardò l’orologio e poi dette un’occhiata fuori dalla finestra. “Mia madre dovrebbe arrivare a momenti… e ha persino smesso di piovere. Vado ad aspettarla al cancello” disse alzandosi dal divano. “Grazie della squisita ospitalità… e della squisitissima cioccolata” aggiunse facendo l’occhiolino a Yasu, che si era alzata a sua volta per accompagnarlo alla porta.
Sorimachi li osservò parlottare sulla soglia.
“Allora ci vediamo martedì prossimo, vengo a prenderti come sempre” sussurrò il baronetto, guardandola fissa negli occhi. “Ah, ti ricordo che giovedì non ci sono… quindi se magari vuoi dirlo a Wakashimazu…”
“Vabbè, bisogna ancora vedere se facciamo mercoledì o giovedì… E comunque non importa. Non è necessario che gli dica sempre tutto…” rispose lei. “Ciao” aggiunse poi, in un sussurro carezzandogli un braccio.
A Yasu piaceva il modo fisico che aveva Jun di rapportarsi alle persone: era insolito per un giapponese, ma più vicino all’educazione occidentale che aveva ricevuto da piccola.
“Cosa devi fare giovedì?” le chiese a bruciapelo Sorimachi, non appena ebbe chiuso la porta.
“Ma perché non pensi a quello che devi fare tu ora? Tipo la relazione di chimica?” ribatté, stizzita. “E comunque forse abbiamo delle esercitazioni per il corso, ma non si sa ancora quale giorno” aggiunse.
“Non è che mi importi di quello che fai con Misugi” precisò Sorimachi, ponendo l’accento su quel nome. “È solo che giovedì prossimo abbiamo quell’amichevole…”
Yasu si batté la fronte con la mano. “Giusto!”
“A quanto pare ogni tanto ti scordi qualche pezzo anche tu, mammina” scandì, passandole vicino e poi dirigendosi nella propria stanza.
 
Una settimana dopo
 
“Oggi sei stato veramente grandioso Ken, sono contento che ti sei ripreso dalla febbre” disse Kojiro, dando una poderosa pacca sulla spalla sinistra dell’amico. “Dopodomani sono sicuro che non ti farai fare neanche un goal!”
“Urgh, non se continui a darmi quelle pacche, su quella spalla, capitano. Eheh”.
“Ma Yasu c’è all’amichevole?” s’intromise Sorimachi.
“Perché non dovrebbe esserci?” chiese il portiere, rabbuiandosi. Era già dispiaciuto che non lo avesse visto all’opera oggi: gli piaceva così tanto il modo in cui commentava le sue parate, notava sempre dei particolari che ai più sfuggivano.
“Non lo so, eh, ma la scorsa settimana l’ho sentita che fissava qualcosa con Jun Misugi…” buttò lì, spiando la reazione di Wakashimazu, la cui espressione si fece, prevedibilmente, ancora più tetra.
Forse hanno le esercitazioni per il corso che seguono insieme” intervenne Sawada. “Ha detto così.”
“Non mi ha detto niente…” balbettò Ken.
“Sì, beh, quando Misugi ha suggerito di avvertirti, lei ha risposto che non è necessario dirti sempre tutto...”
 
****
“Menomale che le esercitazioni sono domani, così giovedì posso… Jun? Ma mi stai ascoltando? Si può sapere cosa c’hai oggi?” chiese Yasu, ridacchiando. Il corso era appena finito e tutti i loro compagni stavano lasciando l’aula.
“Perché?”
“A parte che avrai ascoltato metà lezione, hai la testa altrove, sembri… euforico” lo guardò di sottecchi. “Aspetta… hai detto che dopodomani non puoi venire a lezione… Uhhh! Scommetto che hai qualche programmino interessante con Aoba…” ghignò, dandogli dei colpetti col gomito.
“Ma cosa vai a pensare!” Jun arrossì vistosamente. “È che-” Pareva che stesse per vuotare il sacco, quando uno strano suono li interruppe.
Yasu guardò perplessa Jun tirare fuori uno strano oggetto, premere con le dita tremanti dei tasti e poi portarselo all’orecchio, dicendo “Pronto, Misugi Jun”. Era emozionato.
La ragazza intuì che fosse un telefono cellulare*… gliene aveva parlato Genzo.
“Ok, è confermato…” disse Misugi con un mezzo sorriso. “Ma non potrebbe dirmi... Certo, certo, capisco. Certo domani alle 14, no va bene,  arrivederci.”
Ma dalla voce e dall’espressione di Jun, avresti giurato che, qualunque cosa fosse, non andava per niente bene.
Senza neanche alzare la testa, Jun premette alcuni tasti.
“Ciao Yayoi. Sì, mi hanno chiamato ma… l’appuntamento è rimandato. No, non c’è nessun problema… era per questo che oggi dovevano chiamare, no? Per confermare… beh, non lo hanno fatto. Sì, mi richiamano nei prossimi giorni… No, Yayoi, non possiamo vederci lo stesso, ne approfitto per studiare. Sì, sono al corso. Sì, c’è anche Wakabayashi” alzò gli occhi, come ricordandosi solo in quel momento di non essere solo, “sì, certo, lei… Sì, anche io, ciao”.
Per tutto il tempo della conversazione aveva mantenuto un tono neutro e controllato, in chiaro contrasto con l’espressione evidentemente preoccupata che aveva in volto.
E, altrettanto evidentemente, aveva appena mentito alla sua ragazza. Yasu distolse lo sguardo, mordendosi le labbra.
Jun infilò tremante il cellulare in tasca, si appoggiò con entrambe le mani sul banco, il respiro affannato.
“Kamisama, Jun, che hai? Stai male?”
Misugi si alzò lentamente e le mise le mani sulle spalle.
Poi, all’improvviso, la strinse fra le braccia. “Oh, Yasu… ho tanta paura”.
La ragazza si irrigidì un attimo, poi ricambiò l’abbraccio, carezzandogli la schiena, che si alzava e abbassava al ritmo del respiro affannato. Restarono così per un po’, nell’aula vuota del centro di formazione.
“Scusa” balbettò lui, staccandosi di colpo.
“Non è niente” rispose lei, con un mezzo sorriso. “Ti va di parlare? Vieni, c’è un bar qua di fronte.”
Jun annuì appena e aggiunse che avrebbe detto alla madre di venirli a prendere fra un’oretta.
 
Si sedettero e ordinarono.
Jun era pensieroso, come se cercasse di riordinare le idee. Quando fu loro portato da bere, tirò fuori il portafoglio e pagò per entrambi, fermando Yasu con un gesto.
Appena la cameriera si fu allontanata, iniziò a parlare.
“Forse saprai che in questi anni in cui non ho giocato, mi sono sottoposto a un rigoso programma riabilitativo, che sembrava procedere per il meglio…” sospirò. “Domani ho un’importante visita, durante la quale mi daranno i risultati di una serie di test e mi diranno, in buona sostanza, se posso o meno riprendere a giocare…”
Yasu trasalì e spalancò gli occhi: “Sarebbe meraviglioso! Era questa la sorpresa?”
“Sì… ero così entusiasta… ero convinto che tutto sarebbe andato per il meglio…”
Yasu aggrottò la fronte: dalla telefonata non le era parso di capire che gli avessero già dato una risposta. “Invece?” lo incoraggiò.
“Oggi dovevano chiamarmi per confermarmi la visita di giovedì. Tsk, mi sono anche fatto dare il cellulare da mio padre per essere sicuro di rispondere…”.
“E cosa ti hanno detto?”
“Che la visita è confermata… solo che quando ho chiesto qualche informazione in più mi hanno detto che era meglio parlarne di persona… e il tizio sembrava molto titubante... come se, per qualche motivo, non volesse dirmi di più…”
Yasu si lasciò andare contro la spalliera della sedia, le braccia incrociate e un’espressione un po’ ironica stampata sul volto, che ricordava tantissimo suo fratello. “Tutto qua?”
Jun rimase basito. Yasu era sempre così paziente e comprensiva… quell’aria di sufficienza di fronte a una cosa che per lui era vitale lo offese. “Beh, sì” rispose un po’ stizzito.
“Perdonami, Jun, ma mi sembra che ti stai perdendo in un bicchier d’acqua. Non ti hanno detto nulla perché magari per telefono non possono. O quello che chiama è solo un impiegato che non ne sa niente… forse è stato un po’ troppo sibillino, ma credo che sia presto per temere il peggio.” La ragazza si allungò sul tavolo, appoggiando la propria mano sulla sua. “Hai avuto così tanta tenacia, non mollare ora, capitano…” disse, guardandolo con quei suoi intensi occhi color caramello. Se un attimo prima aveva ragionato con la fredda e inattaccabile lucidità tipica del suo gemello, ora era di nuovo lei: sorridente, con quell’espressione schietta che ispira fiducia.
“Immagino tu abbia ragione… ma ora che sono a un passo…”
“Lo capisco” disse, stringendogli appena le dita fra le sue. “Hai investito tutte le tue energie in questa cosa e… Jun, vorrei tanto dirti che andrà tutto bene, ma bisogna avere ancora un attimo di pazienza”.
Ritirò la mano e prese qualche sorso di bibita. “Quindi hai mentito a Yayoi” disse, guardandolo dritto negli occhi. “Male, ma le hai mentito.”
Jun distolse rapido lo sguardo, annuendo.
“Lei ti è sempre stata vicino, non se lo merita” rintuzzò Yasu.
“Se la risposta fosse negativa… non vorrei che fosse lì. Ha già sofferto troppo per me.”
“Non la conosco benissimo, ma ci metto la mano sul fuoco che in qualunque caso lei vorrebbe essere lì.”
“Allora diciamo che sarei io a non sopportare di vederla di nuovo piangere per me. O forse non voglio che veda la mia reazione…”.
Yasu sospirò. “E quindi andrai da solo?”
“Sì, anche ai miei lo dirò dopo”.
Entrambi tacquero, sorseggiando in silenzio le loro bevute, senza sentirne davvero il sapore.
“E perché lo stai dicendo a me?” chiese Yasu all’improvviso.
Misugi scosse la testa e scrollò le spalle. “Non so cosa mi sia preso, di solito io non... probabilmente avevo bisogno di parlarne con qualcuno e tu ti sei trovata nel posto giusto al momento giusto, o forse dovrei dire sbagliato” sorrise, amaro. “E poi sei…”
“…una con cui si parla bene, sì lo so… Forse dovrei fare la psicologa invece che la fisioterapista, che dici?”
Jun rise. “Volevo dire che sei un’ottima amica, ecco”.
“Comunque se proprio insisti, ok ti accompagno.”
“Che cosa?”
“Verrò con te alla visita dopodomani… sennò che razza di ottima amica sarei, scusa?”
“Ma no, figurati… il Toho ha la partita, devi…”
“Se ho ben capito la visita è alle 14, mentre la partita è alle 18. Posso farcela.”
“Ti ringrazio, ma ti ho già detto che voglio andarci da solo”.
Yasu sorrise, svuotò il bicchiere che aveva davanti e poi disse: “Se volevi davvero andare da solo, Jun Misugi, non mi avresti raccontato tutto.” Dette uno sguardo fuori. “Andiamo, è arrivata tua madre.”
 
****
Yayoi Aoba rimase un attimo con la cornetta in mano, come se quel tu-tu-tu dovesse ancora dirle qualcosa. “Forse tu-tu-tu sei una stupida” soffiò tra i denti, rimettendola giù con un gesto rabbioso. Conosceva Jun da tanti anni e sentiva che, stavolta, c’era qualcosa di diverso.
Jun, il suo Jun, sempre così gentile, trasparente e sincero le stava nascondendo qualcosa.
E, guarda caso, c’era di mezzo lei.
Si fermò a contemplare la propria immagine nello specchio: i lunghi capelli lisci e ramati, i grandi occhi scuri dal taglio elegante, la pelle color porcellana. Fece scorrere le mani ai lati del corpo, esile ma con le sue curvette al punto giusto.
Quella non era meglio di lei. Sì, insomma… non era male, se ti piace il tipo: alta, muscolosa e con un fisico invidiabile ma… bah, de gustibus: a lei non piaceva neppure il suo tanto decantato fratello!
Solo che Yasu aveva quel modo di fare coi maschi che… Yayoi non se lo sapeva spiegare. Lei stessa aveva sempre avuto un discreto successo coi ragazzi, in modo diverso… spesso la squadravano, le facevano avances e apprezzamenti. Invece con Yasu ridevano e si davano pacche sulle spalle.
Sentiva qualcosa attanagliarle le viscere al pensiero di Jun che passava a prenderla e riportarla per quello stramaledettissimo corso, di loro due che parlavano e ridevano, dandosi quelle cavolo di pacche sulle spalle…
E poi continuava a ronzarle in testa quella frase che le aveva detto il primo giorno del corso. “Ci penso io al tuo fidanzato”. Una battuta, certo… ma cosa ci si può aspettare da una abituata ad avere tutto?
 “Sei proprio stupida” ripeté, snervata, alla sua immagine riflessa.
Quello che pensava non aveva senso, non facevano niente di male e, a quanto sapeva, anche Yasu era fidanzata.
Scrollò la testa come a volersi liberare di quei pensieri illogici e, con un sospiro, tornò in camera propria a studiare.
 
Giovedì.
 
“Come sarebbe a dire che non vieni in mensa?” chiese Ken, gli occhi ridotti a fessure, mentre, mano nella mano, uscivano da lezione.
“Ho un impegno e devo andare anche dal preside a farmi firmare il permesso per uscire”.
“Ancora? Certo solo a te fanno fare quello che vuoi. Ma quanto paga tuo padre-”
“Smettila! È per il corso, la scuola mi ha autorizzato a farlo e quindi mi fanno uscire ogni volta che ne ho bisogno…”
“Ma ce l’ hai anche oggi? Non doveva essere mercoledì oppure giovedì?”.
“Ieri non abbiamo finito.” Yasu odiava mentire, soprattutto a Ken, ma Jun le aveva chiesto di mantenere il segreto. Questione di qualche ora, poi si sarebbe liberata di quel peso.
“E a che ora torni?”
“In tempo per la partita, rilassati. Dobbiamo solo finire delle cose, in cinque ore dovrei farcela, non ti pare?” sbuffò.
“Ti accompagna Misugi?”
“Ma che cazzo è, Wakashimazu, un interrogatorio? Ci manca solo che mi pianti una luce in faccia.” Sospirò. “Comunque no, lui oggi non c’è e vado coi mezzi.”
“E ce la fai a tornare per le sei?”
“Kamisama, che ansia, Ken! Mica devo giocare!”
“Questo vuol dire che non credi di arrivare in tempo…”
Yasu inspirò a fondo, passandosi una mano sul viso. “Vuol dire solo” scandì, controllando la voce, “che nel remoto caso in cui arrivassi con qualche minuto di ritardo nessuno se ne accorgerebbe.”
“Io sì. Sai che prima della partita…”
Yasu si fermò e lo tirò per la mano che stringeva nella sua, costringendolo a voltarsi. Gli fece cenno di chinare la testa e, quando Ken lo fece, lei si alzò sulle punte dei piedi e lo baciò. Sentì le braccia del portiere stringerla e sollevarla appena, mentre il bacio si faceva più profondo. Yasu ricambiò volentieri, ma un po’ stupita: Ken non era solito lasciarsi andare a certe effusioni così, all’aperto, in mezzo al campus. C’erano voluti mesi solo per convincerlo che camminare tenendosi per mano non era poi così disdicevole.
La abbracciava forte, come se non volesse lasciarla andare. Yasu fece una leggera pressione sui suoi pettorali per scostarlo da sé. “Può valere come bacio pre-partita?” sussurrò, cingendogli il collo con le braccia e schioccandogli un altro bacio sulla guancia. “Sarai perfetto, lo so. Loro sono delle schiappe e tu sei il mio gattino, pronto, agilissimo... e coccolone” concluse allegra, carezzandogli il viso.
“Il tuo... per sempre?” chiese, guardandola con aria seria.
“Certo Ken, io... per tutto il tempo che lo vorremo” disse con un brivido.
Ken era sempre tanto sicuro riguardo la loro storia.  Lei ne era strafelice , adorava il suo ragazzo, ma si sentiva così giovane, sentiva che molte cose dovevano ancora succedere, e, sebbene lo sperasse con tutto il cuore, non le pareva giusto promettere che sarebbero stati insieme per sempre. Non le sembrava intellettualmente onesto.
D’altra parte, Ken era sicuro di quello che voleva: diventare un calciatore professionista, sposare Yasu e darle la famiglia che non aveva mai avuto e poi, un giorno, riprendere le redini del dojo. Lei sembrava sempre un po’ spaventata di fronte a tanta sicurezza, ma, in generale, Ken conosceva il suo punto di vista e lo capiva, e sapeva che i suoi non erano dubbi, solo paura che quei progetti potessero non realizzarsi.
In quel momento, però, quelle parole suonarono nella testa del portiere come un altro campanello di allarme. Ormai era talmente sicuro che ci fosse qualcosa fra Yasu e Misugi, che nemmeno il dolcissimo “Ti amo, Ke-chan” con cui la ragazza lo salutò riuscì a dissuaderlo.
Né da quel pensiero, né dall’idea che gli era balenata in testa.
Dopo aver chiesto il permesso ai legittimi proprietari e averli rassicurati che sarebbe tornato in tempo per la partita, Ken andò nell’appartamento e prese una giacca di pelle di Hyuga, un berretto di Kazuki e gli occhiali da sole di Takeshi. Indossò la giacca in modo che gli coprisse i capelli e nascose il viso dietro gli occhiali e si calcò in testa il cappello. Uscì di nascosto dalla scuola attraverso un ben noto buco nella recinzione e aspettò di veder passare Yasu.
Quando la vide scendere le scale per prendere la metro, iniziò a seguirla.
Per fortuna la ragazza, una volta sul treno, si mise a leggere un libro senza guardarsi attorno. Non aveva il minimo sospetto che qualcuno potesse pedinarla ed era una fortuna perché, se lo avesse fissato anche solo per un attimo, di certo non avrebbe certo mancato di riconoscerlo: se i capelli e il volto erano nascosti, la sua figura era comunque abbastanza riconoscibile.
Ken rimaneva a distanza di sicurezza, cercando di stare un po’ curvo per dissimulare la propria altezza, e di mimetizzarsi tra gli altri passeggeri che, grazie a Dio, a quell’ora erano abbastanza numerosi, senza tuttavia mai perdere di vista la sua ragazza.
Si sentiva un po’ stupido e in colpa per non fidarsi di lei, ma la gelosia lo dilaniava e aveva bisogno di sapere. Ebbe un tuffo al cuore quando Yasu non scese alla stazione dove di solito cambiava per il corso.
Proseguì per qualche altra fermata e poi cambiò per una linea che portava in tutt’altra zona della città, verso dei quartieri residenziali.
La seguì poi fuori dalla metro, prestando la massima attenzione e pregando che lei non si voltasse.
Rimase impietrito quando la vide fermarsi di fronte a una casa molto grande ed elegante. Si nascose nell’ombra di uno degli alberi che costeggiavano il viale e la osservò suonare, parlare brevemente al citofono ed entrare dentro.
Tremando, si avvicinò di alcuni passi, per poter leggere la targhetta del campanello, rimanendo tuttavia nascosto.
Misugi lesse.
Fu come se un artiglio gli torcesse lo stomaco, e una freccia lo colpisse dritto nel cuore. Stette immobile di fronte al cancello per qualche secondo, poi un rumore di passi lo costrinse a riprendersi e a indietreggiare.
Una ragazza si avvicinò all’inferriata, ne afferrò due sbarre con le mani e, dopo aver seguito con lo sguardo la figura di Yasu che percorreva il sentiero fino al portone in cui poi entrò, vi poggiò la fronte contro.
Ken si avvicinò. L’aveva riconosciuta quasi subito.
“Aoba” la chiamò, sfiorandole una spalla.
“Chi è lei?” schizzò, la ragazza, impaurita.
“Perdonami” disse Ken. Fosse stato dell’umore, gli sarebbe scappato da ridere: con quella lunga giacca nera, gli occhiali scuri e il cappello sugli occhi non doveva avere un’aria molto raccomandabile. “Wakashimazu Ken” si presentò, accennando un inchino.
“Wakashimazu-kun” sospirò lei portandosi una mano al petto. “Scusa ma ero soprappensiero” mormorò.
“Già, anche io” ribatté lui lanciando uno sguardo sconsolato verso la villetta di  Misugi.
Mentre Yayoi rammentava che era lui il fidanzato di Yasu, vide i due comparire sulla porta.
“Stanno uscendo!” esclamò, spalancando gli occhi.
Ken la prese per un braccio e la portò nel suo nascondiglio, dietro l’albero, stringendola a sé.
Yasu e Jun passarono a pochi metri da loro, diretti verso la metro. Procedevano a passo svelto, in silenzio, senza sfiorarsi. Ken ebbe l’impressione che fossero piuttosto scuri in volto.
“Li seguiamo?” sussurrò, all’orecchio di Yayoi.
Sentì la ragazza sussultare contro il proprio petto. “E se ci vedono?”
“Beh, finora io sono riuscito-”
“Prendono un taxi!”
“Oh, cazzo”
“Ne arriva un altro, andiamo!” disse la ragazza, risoluta e stavolta fu lei a tirare il portiere per un braccio. Fermò l’auto con un cenno della mano e si catapultò dentro, trascinandolo con sé.
“Insegua quel taxi!” gridò al tassista, non appena furono saliti, indicando la vettura su cui viaggiavano Jun e Yasu, che, grazie a un provvidenziale semaforo rosso, non si era allontanata di molto.
Il tassista si girò lentamente e li guardò con aria interrogativa.
“Beh?” esclamò Yayoi scocciata. “Cosa non è chiaro di ‘insegua QUEL taxi’?” ripeté, indicando di nuovo la macchina.
Un sorriso soddisfatto si allargò sul volto dell’uomo. “Niente, signorina. È che è da quando faccio questo lavoro che sogno di ricevere una richiesta del genere!”
“Fantastico” commentò, sarcastica. “Se vuole che il suo sogno si realizzi davvero però PARTA!”
“Sissignora!” disse, infilandosi in strada con una sgommata.
Fece un po’ di zigzag nel traffico e i due ragazzi furono costretti ad arpionarsi ai seggiolini anteriori, quasi rimpiangendo la richiesta avanzata. Ma quando si ritrovarono a seguire tranquillamente l’altra macchina su un grande viale, si scambiarono uno sguardo soddisfatto.
“Non è che state facendo qualcosa di male, vero?” disse a un tratto il tassista, guardandoli dallo specchietto. Lo sguardo indugiò sulla mise di Ken.
“Ma figuriamoci!” rispose lesto il karate keeper, sfilandosi occhiali e berretto e sfoderando un sorriso da copertina. “È solo che…”iniziò incerto.
“Vogliamo fare una sorpresa a dei nostri amici” gli venne in aiuto Yayoi con un sorriso ancora più radioso. E che probabilmente ebbe un miglior effetto sul tassista.
Dentro di sé, Yayoi si sentì morire: era davvero con quell’intenzione che era uscita di casa: fare una sorpresa a Jun che, da quel che sapeva, doveva restare a casa a studiare. Invece a rimanere a bocca aperta era stata lei, insieme a Wakashimazu, a quanto pareva. Ma quando si sarebbero presentati davanti a loro, allora sì che avrebbero avuto una bella sorpresa
“Capisco” commentò pensoso l’uomo. Poi aggiunse: “Visto il luogo, immagino farà loro particolarmente piacere…”
I due ragazzi guardarono incuriositi fuori dal finestrino, stupendosi non poco di trovarsi di fronte a una clinica.
 
****
Yasu camminava nervosamente su e giù per il corridoio. Da tutto il giorno aveva una specie di peso sul petto che si era fatto più pressante col passare delle ore: andava a finire che ricoveravano lei, pensò con un sorriso sghembo. Era una di quelle situazioni in cui avrebbe avuto estremo bisogno dell’insindacabile giudizio di Genzo: lui aveva il potere di farle vedere le cose chiaramente e capire come affrontarle, anche senza darle consigli espliciti. Ma non se l’era sentita di parlargliene durante la classica telefonata serale, per paura che gli altri sentissero, né aveva avuto modo di chiamarlo in un altro momento.
Il corridoio si apriva a un tratto in una specie di slargo: sulla parete di sinistra erano allineati una serie di distributori automatici, quella sul fondo era costituita da una fila di finestre, dalle quali arrivava una luce intensa. Si appoggiò alla parete opposta alle macchinette, godendosi il tepore e la luce, pensando a suo fratello.
Per prima cosa cercò di dare un nome a quel peso che le premeva sul cuore.
Gliene vennero tre.
Ken, a cui aveva mentito, con cui di recente aveva avuto diverse discussioni, che ultimamente si comportava in modo strano. E con cui non faceva l’amore da tanto, troppo tempo.
Yayoi, che conosceva a malapena, ma a cui sentiva di star usurpando qualcosa.
Jun, a cui aveva promesso che tutto sarebbe andato bene… e se poi non era così?
Prese alcuni respiri profondi.
Ripensò a quando aveva detto ai suoi di voler studiare in Giappone. Quando raccontò a Genzo che la mamma si era messa a piangere, lui, serio, le aveva detto che prima o poi avrebbe capito.
“A volte si fa male a qualcuno a fin di bene.” Aveva aggiunto.
Era così. Se avevano mentito a Ken e Yayoi c’era un motivo e glielo avrebbero spiegato, appena finita quella visita.
Che, si ripeté Yasu, doveva andare bene.
Sentì una porta aprirsi e delle voci venire dal corridoio. Si affacciò e sgranò gli occhi di fronte a quella strana scena.
 
Jun pensò che si fossero sbagliati alla grande. Perché in quel momento sentiva il suo cuore battere tanto forte da scoppiare. Sentiva la testa vuota e le orecchie che fischiavano.
Mentre nel cervello gli rimbombavano le parole del dottore.
Per i tre anni delle superiori ti sei tenuto a riposo dedicandoti con impegno alla riabilitazione, al solo scopo di poter partecipare ai mondiali giovanili... il compito di un dottore è curare i propri pazienti, ma per guarire è assolutamente necessaria la collaborazione dei pazienti stessi.
Un aspirante dottore come te dovrebbe saperlo**...
Con uno sforzo enorme balbettò un saluto, le mani gli tremavano stringendo  quella del medico e prendeva con sé tutte le scartoffie. Gli tremavano anche le gambe mentre si avvicinava alla porta e apriva la maniglia.
Invece quello che successe dopo fu così normale.
Aprire la porta.
Trovarsi davanti Yayoi che chiamava il suo nome.
Abbracciarla, ringraziarla e riferire d’un fiato quello che gli avevano detto.
“Grazie Yayoi io tornerò...  tornerò di nuovo sul campo da calcio**”.
La ragazza rimase un attimo rigida fra le braccia di Jun, poi di fronte a quell’annuncio, che aspettavano da tre anni, tutto scomparve e lacrime di pura gioia le rigarono il volto, mentre mormorava: “E’ una splendida notizia...**”
Jun si staccò lentamente da lei, la prese per le spalle, fissandola, quindi si guardò intorno, sbattendo le palpebre un paio di volte.
“A- aspetta... tu... tu cosa ci fai qui?”
Altre lacrime bagnarono le guance di Yayoi, ma stavolta erano di rabbia. Jun lo capì dal modo in cui lei serrò i pugni e si scrollò le sue mani di dosso.
“Perché mi hai detto che la visita era stata rimandata?”
“Yayoi...”
“E perché c’è lei, qui? Avrei dovuto esserci io...” esalò.
Jun si voltò nella direzione indicata da Yayoi e vide Yasu. A qualche metro di distanza, stava immobile, a braccia conserte, visibilmente a disagio.
D’improvviso si avvicinò, con passo deciso.
“E’ colpa mia” dichiarò. “Jun voleva venire da solo ma non mi sembrava il caso e l’ho costretto a portarmi con sé”.
“Dovevo esserci io” ringhiò Yayoi, fronteggiando l’altra ragazza.
“E’ quello che gli ho detto... ma lui...” rispose Yasu.
“Io avevo il terrore che il risultato fosse negativo e te lo volevo risparmiare” intervenne Jun, i pugni serrati.
“Jun... mi hai impedito di starti vicina, ed è l’unica cosa che voglio, lo sai...”
Yasu distolse lo sguardo dalla coppia e solo allora si accorse che, pochi metri più in là, dalla parte opposta rispetto a lei, c’era Ken, che fino ad allora si era tenuto in disparte. Il cuore le mancò un battito.
Wakashimazu fissava a sua volta la scena, serio. Poi chiuse gli occhi, prese un lungo respiro e si avvicinò.
“Io credo” esordì, facendo sussultare e voltare di scatto verso di lui tutti gli altri. “Che ognuno di noi abbia qualcosa da chiarire, spiegare e... farsi perdonare.”
 
“...insomma, mettetevi nei nostri panni... cosa avreste pensato?” concluse Ken, mentre Yayoi annuiva con decisione.
Jun e Yasu si scambiarono uno sguardo imbarazzato e divertito. “Non... saprei...” ammisero, facendo ridere anche i due “aspiranti Otello” come li aveva definiti Yasu. Quando venne fuori che tutti quegli accenni a date e ristoranti erano solo per fissare un’uscita a quattro, Ken e Yayoi ebbero voglia di sprofondare: quante ne avevano pensate! Come avevano fatto a dubitare di loro?
Il suono di un orologio riempì l’aria.
“Occazzo” esclamò Yasu, osservandone il quadrante. “Sono le cinque! Ken, la partita!”
“Merda!” le fece eco il portiere. “Dovrei già essere lì! Dobbiamo recuperare un taxi al più presto!”
“Fretta di andare a festeggiare?” una voce bonaria li sovrastò. Jun si voltò e riconobbe il suo dottore.
“In effetti no… il mio amico è in ritardo per una partita… insomma un’emergenza…” disse Jun, nell’evidente tentativo di congedarsi.
“Beh, sono abbastanza esperto di emergenze… potrei darvi un passaggio” sorrise l’uomo. “Ho una macchina piuttosto veloce e un pass per usare le corsie di emergenza” concluse a mezza voce.
“E’ meraviglioso!” gridò Jun. “Lei oggi non fa che darmi buone notizie…”
“Ma no!” protestò Ken, “il dottore avrà cose più importanti da fare…”
“Non vi preoccupate, altrimenti non ve lo avrei proposto! Beh, andiamo, non eravate in ritardo? A proposito… dov’è che si va?”
 
Yasu tirò un sospiro di sollievo quando i suoi piedi toccarono, tremanti, il marciapiedi di fronte al’Istituto Toho. “Non so se era un passaggio o un test per il cuore” commentò: il dottore aveva sfrecciato per le vie cittadine come fossero autostrade, bruciando semafori, usando scorciatoie poco ortodosse e facendo il pelo a ciclisti e pedoni.
Ma ne era valsa la pena: alle 17.30 in punto erano di fronte al campo. Ken salutò tutti velocemente e si fiondò negli spogliatoi.
Yasu si voltò verso Jun e Yayoi.
“Grazie mille, Jun…” mormorò. “Se non era per te…”
“Ma figurati… è stata pura fortuna…”
“Sì” intervenne Yayoi seria, “arrivare vivi…”. Fissò un attimo le facce imbarazzate degli altri due. Poi sorrise: “Però è stato divertente! Quello è proprio un pazzo!”
“Già! Speriamo che s’intenda più di medicina che di sicurezza stradale” esclamò Jun. “O dovrò chiedere un secondo parere!”.
Risero tutti, poi Yasu chiese agli altri se volevano fermarsi a vedere la partita.
Jun trasalì e guardò la sua ragazza, imbarazzato. “Mah, non saprei forse… volevi andare da qualche parte… da soli, eh, Yayoi?”
“Beh, abbiamo fatto tanto per portare qui Wakashimazu, sarebbe un peccato non vedere se ne è valsa la pena…” sorrise dolcemente.
“E comunque sarete abbastanza soli… io devo stare in panchina e non c’è esattamente il pubblico delle grandi occasioni” ironizzò Yasu, indicando gli spalti semideserti. “L’entrata è là, ci vediamo dopo!” concluse e si avviò rapida verso il campo, dove i giocatori stavano già facendo il loro ingresso, ma si fermò dopo alcuni metri. Si voltò e tornò rapida verso la coppia che già si stava avviando verso il cancello che aveva loro indicato.
“Yayoi” chiamò.
“Sì?” rispose l’interpellata, voltandosi.
Yasu la fronteggiò, guardandola dall’alto dei quindici centimetri buoni che le separavano. Sembrava nervosa, fissava il terreno, mordicchiandosi le labbra. “Io, ecco… scusa!” esclamò infine, abbracciandola per un nanosecondo. “Devo andare” aggiunse poi, prima di dileguarsi, lasciando Aoba di stucco.
Jun la guardò, facendo spallucce come dire “È così, che ci vuoi fare?” poi le prese la mano e si diressero verso gli spalti.
Misugi spiava di sottecchi il viso della ragazza. Sembrava tranquilla e sorridente come sempre, forse un tantino pensierosa.
Si sedettero e guardarono in silenzio i giocatori finire il riscaldamento.
La partita iniziò, ma Jun non riusciva a concentrarsi, continuava a guardare di nascosto Yayoi, cercando di capire cosa pensasse. Aveva ancora quell’aria tranquilla, sorrideva appena, concentrata sulla partita, mormorando qualche commento di quando in quando.
“Yayoi” la chiamò, infine.
Lei si voltò: la luce aranciata della sera rendeva i riflessi ramati dei suoi capelli ancora più splendenti e l’incarnato del viso così candido da sembrare luminoso.
Kamisama, quant’era bella!
“Sì?” ripeté e non una sola volta, di fronte all’espressione imbambolata del ragazzo.
“Yayoi, io…” Non sapeva davvero da che parte cominciare.
Lei raddrizzò le spalle e gli poggiò una mano sulla coscia. “È tutto a posto, Jun. Ho capito perché lo hai fatto ed è… tenero. Ma promettimi che non mi terrai più all’oscuro di qualcosa che ti riguarda. Io voglio starti vicino, sempre. Non chiedo altro, ti prego, concedimelo”.
Jun si sentì… una merda, non c’erano altre definizioni possibili. Lui le aveva mentito e lei gli rivolgeva quello sguardo implorante?
“Io dovrei concederti qualcosa?” esclamò, con un sorriso amaro. “Sei troppo buona con me, Yayoi, dovrei essere io a implorarti di concedermi il tuo perdono… ti ho mentito…”
“Forse. Ma ho capito che, per quanto maldestro, il tuo era un tentativo di proteggermi… e non riesco a essere arrabbiata...”confessò, tormentandosi le mani. “E poi pure io…” ridacchiò.
“Cosa?”
“Insomma, con Wakashimazu abbiamo fatto proprio la figura degli stupidi... vi abbiamo pedinato, ti rendi conto?” rise, portandosi graziosamente una mano sulla bocca. “Lui si era pure vestito per restare in incognito…”. Proruppe in una risata che non riusciva più a trattenere. “Kamisama, quando l’ho visto l’ho scambiato per un maniaco”.
“Ti giuro che non lo abbiamo fatto apposta... anzi... credo che se io e Yasu abbiamo fatto qualche ingenuità, sia proprio perché l’idea non ci sfiorava minimamente... insomma abbiamo voi...” disse, arrossendo appena. “Tu gelosa di Yasu” aggiunse, scrollando la testa, divertito.
“Già...” si rabbuiò appena Yayoi. “So che le ochette starnazzanti che ti ronzano intorno non ti interessano ma a lei... ci tieni, ecco... lo vedo da come ne parli... e da come le parli.”
“Siamo amici, nient’altro, lo giuro. Te l’ho detto, stavamo addirittura organizzando un’uscita a quattro con te e Ken!” esclamò, scuotendo appena la testa. “ E poi, insomma…come potrei desiderare qualcun’altra, avendo te?” Terminò in un sussurro, avvicinando le proprie labbra a quelle di lei.
Yayoi arrossì vistosamente e balbettò qualcosa.
“Come?” chiese Jun, la voce arrochita.
“Hyuga ha appena segnato” sorrise maliziosa, evitando il bacio. Beh, una piccola punizione se la meritava, no?
 
Il primo tempo era trascorso tranquillamente, con niente da segnalare a parte i due goal della Toho, realizzati da Hyuga e Sorimachi, un cartellino giallo per il difensore Kawabi e un brutto fallo ai danni del libero Koiche.
“Sicuro di stare bene?” chiese Yasu a quest’ultimo, vedendolo dolorante.
“Sì, Wakabayashi, tranquilla, arrivo fino in fondo. E poi non abbiamo riserve. Di’ piuttosto a Kawabi di non fare più interventi del genere o lo buttano fuori...”
“Scusa se ho cercato di vendicarti” intervenne il difensore.
“Niente vendette, Kawabi, continuiamo a giocare così e vinceremo” intervenne il mister. “So che è solo un’amichevole, ma voglio il massimo impegno”. Quindi prese da parte alcuni giocatori per dare indicazioni specifiche.
Sawada si avvicinò a Yasu e aspettò che terminasse di sistemare la fasciatura alla caviglia di Koiche, borbottando che secondo lei non doveva proseguire, mentre il libero la rassicurava che sarebbe stato attento.
Quando la ragazza si alzò in piedi, il piccolo centrocampista la raggiunse. “Ken ci ha detto di Jun, che splendida notizia” disse tutto d’un fiato. “Ma è qui?”
“Sì, lui e Yayoi sono sugli spalti.”
“Resteranno a cena da noi, dopo?”
“Beh non so... teoricamente sarebbe vietato...”
“E da quando in qua i divieti ti spaventano, Wakabayashi?” la apostrofò Kojiro.
“Lo dico per voi e le vostre borse di studio, capitano” gli rispose Yasu, dando un’inflessione ironica all’appellativo.
“Scherzi a parte, magari digli che ci aspetti, dopo la doccia passeremo a salutarlo”.
“Volentieri”.
 
Il secondo tempo iniziò piuttosto male, con un goal subito da parte del Toho. Verso la metà poi, Kawabi fece un altro brutto fallo e prese il cartellino rosso. Inoltre, Koiche zoppicava vistosamente.
Fu concesso un breve time out, in cui la Toho si riunì, per discutere sul da farsi.
“Posso continuare” protestò il libero infortunato, stringendo i denti, “Fammi una fasciatura più rigida e posso continuare...”
“Koiche, io non credo che valga la pena rischiare un infortunio grave per un’amichevole” rispose Yasu. “Lei che dice mister?”
“Sono d’accordo, ma giocando in nove non possiamo provare nessuno dei nuovi schemi. Se almeno avessimo qualcuno da far entrare...”
“Metta Wakashimazu in campo e Wakabayashi in porta, mister” suggerì Shimano.
“Non mi sembra una buona idea” commentò Kawabi. “Yasu è forte, ma questi hanno messo in difficoltà Wakashimazu…”
“Diciamo che oggi il nostro portiere non è nella sua forma migliore” rispose il mister, non facendosi sfuggire la preziosa occasione per rimproverare Ken. “Forse se si degnasse di arrivare in orario, riuscirebbe a concentrarsi meglio. Tuttavia sono d’accordo, considerando che sono anche ragazzi più grandi…”
 “Chiedo scusa, signore” rispose il portiere, toccato sul vivo da quelle critiche. “Non succederà più. Anche per questo le chiedo di poter continuare a giocare in porta, per riscattarmi…” aggiunse facendo un profondo inchino. Non era solo quello. Gli avversari giocavano pesante e non voleva che Yasu entrasse.
“Lo capisco, Wakashimazu, però non so…” ponderò il mister guardando Yasu, “in effetti è una buona soluzione, per un quarto d’ora…”
Ken serrò i pugni e andò a sedersi. Non voleva mettere in discussione le capacità della sua ragazza, ripetendo l’errore che aveva fatto circa la sua fedeltà.
Ma a sorpresa fu lei a respingere l’offerta. “Grazie della fiducia, ma non credo sia il caso” disse con un sorriso, rivolgendogli uno sguardo fugace. Lo vide buttarsi seduto sulla panchina e chinarsi in avanti, i gomiti poggiati sulle cosce, lo sguardo fisso in un punto in mezzo alle sue scarpe. Non riusciva a scorgergli il volto dietro la cascata di capelli.
“Ken” sussurrò, sfiorandogli una spalla.
“Grazie, cioè, scusa. Io… non volevo…” disse con un sospiro che parve un singhiozzo.
“Ken” ripeté con voce ferma ma dolce, accovacciandosi di fronte a lui per cercare il suo sguardo. “Calmati, non è successo assolutamente niente… un goal…”
“Non è il goal” ringhiò. “È quello che ho fatto a te, oggi sono stato-”
“Shhh” sorrise poggiandogli un dito sulle labbra. “Ne parleremo dopo, con calma, concentrati sulla partita, ok? E comunque sappi che per me non è successo niente, che sei uno scemo impulsivo io lo sapevo. Vuol dire che ora lo sa anche Misugi…”
“Misugi?” esclamò Ken, drizzando di scatto la schiena.
“Sì” balbettò Yasu. “Non te la prendere, io sdrammat-”
 “Sei un genio, Wakab- ehm, Yasu!” disse con una smorfia disgustata. Quindi le stampò un bacio in fronte e corse da Kojiro. Parlottarono un attimo poi Hyuga si alzò in piedi. “Mister” chiamò. Crede che sarebbe possibile schierare Misugi?”
Tutti lo guardarono sorpresi. Poi l’allenatore sorrise, compiaciuto. “Ottima , idea, Hyuga. In fondo è un’amichevole... verifico con l’arbitro e poi sentiamo se a lui va”.
Yasu osservò l’allenatore confabulare col direttore di gara. “Ma gli avete detto tutto?”
“Al mister? Sì” rispose Sawada. “Ed è stato molto contento della notizia. Detto fra noi, credo che abbia sempre desiderato allenarlo...”
Il mister tornò dicendo che l’arbitro e l’altra squadra erano d’accordo. Yasu fu spedita sugli spalti a chiamare il baronetto e la partita riprese, con Koiche che sarebbe rimasto in campo finché Jun non si fosse scaldato.
 
Aoba e Misugi videro emergere Yasu dalle scale, trafelata.
“C’è qualche problema?” le chiese subito Jun. Ovviamente aveva notato lo stop al gioco.
“Già... oltre all’espulso abbiamo un giocatore infortunato... e niente riserve...”
“Ahhh, brutta storia...”
“Già, ehm... Jun?” chiese un po’ imbarazzata. “Ecco noi ci chiedevamo se tu... insomma, se te la sentiresti...”
“Cosa?” balbettò Jun, presagendo la richiesta.
“Ecco se te la sentiresti di giocare questi ultimi minuti con noi...”
Misugi rimase in silenzio, allibito. Le gambe gli pizzicavano già per la voglia di correre e il cuore gli rimbombava in petto. Poi si voltò e incontrò lo sguardo incredulo di Yayoi. Di sicuro, lei si sarebbe preoccupata un sacco...
“Ecco... ma non ho né la divisa, né gli scarpini...”
“Ne abbiamo della tua misura, credo...”
“E poi dovrei fare riscaldamento...”
“Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi...”
“...non sono allenato...”
“Jun” intervenne Yayoi. “Hai giocato un sacco di volte rischiando la vita e ora che sai di essere guarito fai tutte queste storie?”
“Ma tu...”
“Io starò benissimo... te l’ho detto, non devi proteggermi da te. Mai.”
“Ma non sono pronto...”
“Jun” Yayoi si alzò in piedi, le mani sui fianchi. “Sono tre anni che ti prepari per questo momento. Non potresti essere più pronto di così. Vai!”. Lo spronò, dandogli un buffetto sulla spalla.
“Vieni” sussurrò Yasu, allegra e amichevole come sempre.
Yayoi represse un sorriso vedendola prendere per mano il suo ragazzo e trascinarlo verso gli spogliatoi. Come aveva potuto dubitare di una persona tanto schietta e cameratesca? E quando aveva visto il modo in cui guardava Ken, non aveva avuto dubbi su a chi appartenesse il suo cuore. E adesso che ci pensava bene, anche gli sguardi che Jun riservava a ognuna di loro due erano così diversi…
Doveva ricordarsi di scusarsi a sua volta con Yasu.
Si sedette, tremante. Sarebbero stati, per l’ennesima volta, i dieci minuti più lunghi della sua vita.
 
Yasu si fermò di fronte alla porta dello spogliatoio, facendo cenno a Jun di entrare. “Ci sono alcuni completi, vedi se qualcuno ti va.”
“Questo è perfetto” disse Jun uscendo, dopo pochi minuti, con indosso quello col numero 24. “E anche gli scarpini” aggiunse, picchiettando i piedi a terra.
Yasu lo guardò con un sorrisetto sghembo: non si era mai resa conto che la divisa della Toho potesse apparire così elegante. Né che il baronetto del calcio potesse assumere un’aria tanto da “bad boy”… Si prese qualche secondo per osservarlo. Poi disse: “Benissimo. Vieni”
“Sai che quando sorridi a quel modo somigli a tuo fratello in modo inquietante?”
“Ehehe, sì, me lo hanno detto più volte… e tu sai che la nostra divisa ti dona un sacco?” aggiunse maliziosa, mentre lo guidava lungo il corridoio, fino alla panchina.
Jun voleva ribattere, ma la vista del riverbero verdastro delle luci sull’erba lo fece trasalire. Riconobbe  l’odore della panchina: molti troverebbero sgradevole quel mix di fango, sudore e gomma, ma per lui era il profumo più buono del mondo. Perso in quei ricordi che, si ripeté, erano di nuovo il suo presente, sentì appena Yasu imprecare alla notizia che il risultato era ora di 2 a 2.
“Wakashimazu è stato bravo ma temo risenta del poco tempo avuto per scaldarsi…” spiegò il mister, poi scorse Misugi e lo salutò, con entusiasmo.
Jun,  imbarazzato, accennò un inchino. L’allenatore gli mise una mano sulla spalla, avviandosi verso il bordo campo e parlando fitto fitto, cercando, nel breve spazio del riscaldamento, di dare a Misugi qualche dritta sul gioco della Toho. Anche se il ragazzo sembrava conoscerlo piuttosto a fondo.
“Negli ultimi anni non ho giocato, ma ho studiato” spiegò con un’alzata di spalle. “Sono pronto” dichiarò infine.
“Ah, spero non ti dispiaccia giocare come libero. Devo ammettere che è un ruolo per cui ti ho sempre visto molto portato…”.
“Farò del mio meglio” disse il calciatore, entrando in campo.
 
Evidentemente, o Jun Misugi è di parola o, è proprio più forte di lui: non può esimersi da fare il meglio.
In quei quindici minuti scarsi, dette un saggio della sua bravura e la prova che tre anni di inattività poco avevano potuto contro un innegabile talento naturale.
Annullò diversi tentativi degli avversari, salvando persino un tiro sulla linea di porta e guadagnandosi un sorriso di riconoscenza da Wakashimazu.
Poi tolse la palla a un difensore e volò. Zigzagando fra i difensori, neanche fossero fermi, arrivò fino a centro campo e lo superò.
Servì a Kojiro un assist che valeva mille goal.
E il capitano, da grandissimo attaccante, non si fece sfuggire l’occasione di segnare.
La partita finì di lì a poco con un dignitoso 3 a 2.
Jun rimase per un po’ immobile, in mezzo al campo, godendosi i profumi, i colori, le voci.
Ma di tutti gli occhi puntati su di lui, sentiva solo la carezza di quelli scuri di Yayoi. Le rivolse un sorriso e poi gridò di gioia.
Quel giorno aveva vinto davvero.
 
 
 
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* Ho cercato di dare alle TS un’ambientazione un po’ “Anni Novanta” per cui i cellulari sono ancora una rarità.
** Queste frasi sono riprese fedelmente dal vol. 40, cap. 12.
 
 
Note di chiusura:

Notato che capitolo lungo, eh?

Dedicatissimo a sissi che lo ha aspettato non so per quanto... spero che il finale ti sia piaciuto.

Ma è stato un "parto" travagliato, una FF che mi è cresciuta e si è pesantemente modificata di sua volontà mentre la scrivevo... Ma devo dire che, alla fine, sono soddisfatta del risultato.

Grazie a releuse per il betaggio e ad agatha e sissi per le consulenze passo passo.

PS:  Visto, picciottina75,  non mollo mai ;)


 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

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