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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Toho Stories - Istruzioni per l'uso ***
Capitolo 2: *** Appello - Toho Story 1 ***
Capitolo 3: *** Invito - Toho Story 4 ***
Capitolo 4: *** Parla con me - Toho Story 2 ***
Capitolo 5: *** Solo un nome - Toho Story 3 ***
Capitolo 6: *** Happy Birthday - Toho Story 6 ***
Capitolo 7: *** Qualcosa di caldo, qualcosa di dolce - Toho story 9 ***
Capitolo 8: *** Una Visita - Toho Story 7 ***
Capitolo 9: *** Quasi una sorella - Toho Story 11 ***
Capitolo 10: *** Pasquetta in casa Toho - Toho Story 8 ***
Capitolo 11: *** La genetica non è un'opinione - Toho Story 0 ***
Capitolo 12: *** Fidarsi è bene, non fidarsi... fa male! (Toho Story 5) ***
Capitolo 13: *** Piccoli problemi di cuore - Toho story 10 ***
Capitolo 1 *** Toho Stories - Istruzioni per l'uso ***
intro
Saved by
the Bell – Toho Stories
Istruzioni per l’uso
Come ho già accennato si tratta di una raccolta di one shot,
solitamente non molto lunghe. Le storie sono per lo più slegate fra loro e non
usciranno in ordine cronologico ma saranno riordinate di volta in volta,
ovvero: l’ordine dei capitoli che troverete È quello cronologico ma non quello
di pubblicazione. L’ordine di pubblicazione è riscontrabile nel numero che
segue il sottotitolo “Toho Story #” che affianca il titolo vero e proprio della
storiella. Qui di seguito qualche info un po’ noiosa ma utile alla comprensione.
A proposito del tempo
Tutte le storie sono ambientate durante i tre anni di liceo
che seguono la finale vinta a pari merito dalla Toho e dalla Nankatsu. Anni di
cui si sa ben poco se non che il Toho umilia per tre anni di seguito Taro e la
sua Nankatsu *ridacchia soddisfatta*. All’inizio di ogni storia indicherò
l’anno scolastico in cui si svolge. (Lo so sembro maniacale ma credo sia
necessario perché non vi perdiate XD... nella mia testa la storyline è ben
chiara ma credo che nelle vostre serbiate lo spazio per cose più degne XD).
A proposito del Personaggio Originale
Molti lettori forse hanno già conosciuto Yasu Wakbayashi (o
Irene Price) in qualcun'altra delle mie storie. Beh, è sempre lei... la sorella
gemella di Genzo e poi “fidanzata” di Ken Wakashimazu. È solare, un po’
maschiaccio, a volte molto insicura altre fin troppo determinata. Rispetto al
vecchio “Diario” la sua storia è più fedele al canon. Prima, spesso, usavo l’escamotage
di “spostare” in avanti la storia perché i personaggi fossero un po’ più
grandicelli, qui invece ho mantenuto il timing del Taka. Come spiego nella
prima shot, dopo il campionato delle elementari, Yasu ha seguito il fratello in
Germania dove ha frequentato le medie, salvo poi tornare in Giappone per il
liceo e trovarsi, quasi per caso, al Toho.
Sebbene conoscesse di vista gli ex giocatori del Meiwa,
approfondisce il rapporto con loro e, nel corso del primo anno, si mette anche
insieme a Ken.
A proposito degli altri
Credo ci sia molto di personale nella mia caratterizzazione
dei Toho-Boys ma credo (e spero) che non li troverete OOC, semplicemente parlo
di loro in situazioni un po’ diverse, diciamo più “informali” di quelle a cui
siamo abituati, mi è piaciuto vederli come adolescenti “veri”, cercando di
ri-calarmi un po’ nel mondo dei teenager... ovviamente quelli dei “miei”
tempi...
A proposito del titolo ( e dell’istituto Toho)
A proposito dei “miei” anni dell’adolescenza, un telefilm
cult di quegli anni si intitolava proprio “Saved by the bell” (lett. : “Salvati
dalla campanella”), noto in Italia come “Bayside School”.
L’idea base di questa raccolta era di restituire un po’
l’atmosfera di questo genere di TF americani ad ambientazione scolastica e mi
sono presa la libertà di pensare la Toho School come una scuola a impostazione
americana: per cui c’è una “cafeteria”, gli alunni si spostano ogni ora da un’aula
all’altra, hanno orari diversi fra loro etc.
Inoltre è una sorta di collegio per cui gli studenti hanno
un alloggio all’interno del grande campus. Essendo minorenni, non possono
uscire dalla scuola senza permesso.
Ultima informazione utile (ma che sfiora la maniacalità
ancor più di quanto detto finora), è la “piantina” dell’appartamento in cui
abitano i protagonisti. Si trova al secondo piano di una palazzina. Entrando
dal portone si accede a un piccolo corridoio che si allarga sulla sinistra in
un salottino con divanetti e TV, mentre sulla destra c’è la porta della
cucina\sala da pranzo. Più avanti, una porta conduce a un corridoio su cui si
affacciano cinque camere e due bagni.
E infine (giuro)...
Credits e dediche
Un grazie di cuore a sissi, agatha e releuse: senza di voi
questa raccolta che adoro non sarebbe nata. Soprattutto grazie ad agatha e rel
per i betaggi multipli e il sostegno continuo.
Grazie a sissi per il sottotitolo “Toho Story” che adoro e
mi fa rotolare ogni volta. Prima o poi, lo giuro, farò vestire Koji da Buzz
Lightyear.
Grazie ancora a releuse per l’idea di inquadrare le storie
nella storyline canon. Molto meglio!
Grazie ancora e ancora ad agatha per amare i miei scolaretti
*quasi* quanto meJ
E ora zitti, comincia la lezione!
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Capitolo 2 *** Appello - Toho Story 1 ***
A
differenza di quelle che seguiranno, questa prima storia è
in prima persona... anche per creare un legame col Diario...
Il
primo giorno di scuola....
Appello
Feci
un profondo respiro, prima di varcare gli austeri cancelli
dell’Istituto Privato Toho.
Me l’ero cercata. Su tutta
la linea.
Eppure, anche se avevo paura, dovevo
restare fedele a quella scelta che, per una volta, era stata
genuinamente mia.
Da quando lo avevo seguito fuori
dall’utero di nostra madre, mi sembrava di non aver mai fatto
altro che andare dietro a Genzo. A scuola, agli allenamenti, in
Germania…
Era arrivato il momento che Yasu
Wakabayashi si facesse la sua vita e aveva deciso di farlo in modo
drastico.
Così, quando i miei mi
chiesero dove volessi proseguire gli studi, intendendo in che tipo di
scuola, al limite in quale città della Germania o
dell’Europa, io risposi invece: “In
Giappone”. Mancavo dal mio Paese da tre anni, vacanze a
parte. Per paura di restare sola, avevo seguito mio fratello ad
Amburgo. Mi dispiaceva staccarmi da lui, era da sempre
l’unica costante della mia vita, ma, paradossalmente, proprio
per quello, frapporre tra noi migliaia di chilometri non mi spaventava:
il nostro legame era più forte della distanza.
E, ovviamente, gli avevo anticipato le
mie intenzioni. Lui si era stupito, “avevo sempre creduto che
l’Europa ti fosse più congeniale” erano
state le sue parole. Ma, alla fine, aveva compreso e condiviso questa
mia voglia di distacco. E non poteva essere altrimenti.
Mia madre aveva fatto una delle sue
solite scenate. Che, poi, era uno dei motivi per cui, invece, frapporre
tra me e lei migliaia
di chilometri avrebbe avuto di sicuro un effetto positivo sul nostro
rapporto.
Mio padre inarcò
leggermente il sopracciglio, segno, forse, che non si aspettava quella
risposta, ma, al solito, non si scompose più di tanto.
L’unica clausola che impose fu che andassi in collegio a
Tokyo e non da sola nella villa a Nankatsu. Bene, dopo aver vissuto ad
Amburgo, non è che morissi dalla voglia di tornare al
paesello. E a Tokyo sarei comunque andata di lì a tre anni
per l’università, quindi…
“C’è un’ottima scuola, che io
stesso ho frequentato e anche tuo fratello Ichirou. Andrai
là.” Aveva concluso, con quella sua
solita calma che rasenta pericolosamente l’ indifferenza.
Beh, se non sapesse mantenere la freddezza di fronte alle situazioni
inaspettate e prendere decisioni su due piedi, non sarebbe
l’imprenditore di successo che è! E se uno ci
pensa bene, poi, in fondo, sono anche le doti di Genzo e… ma
non divaghiamo.
Mi ero preparata a una lunga
discussione e quella resa quasi immediata mi aveva spiazzata un attimo.
Ma, lungi dal volerlo ammettere, chiesi invece, secca: “E
sarebbe?”
“L’Istituto
Toho”.
Ne avevo sentito parlare, ovviamente,
per via dell’ottima squadra di calcio. I vecchi compagni di
Nankatsu me l’avevano citata spesso ma, in quel momento, non
ricordavo a che proposito. Sapevo pure che era un’ottima
scuola e molto cara. Insomma, tutto sommato, ne ero entusiasta.
Tuttavia, la mia reazione davanti ai
miei genitori era stata, al solito, piuttosto tiepida.
“Ok” avevo detto
con un’alzata di spalle.
Tornata nella mia stanza,
però, mi ero messa a saltellare: i pochi dubbi che avevo si
erano dissipati e il futuro mi sembrava carico di promesse e avventure.
L’entusiasmo si era un
po’ affievolito di fronte alla stanzetta spartana e disadorna
che sarebbe dovuta essere la mia casa, almeno per i successivi tre
anni. Tuttavia, avevo cercato di rincuorarmi, dicendomi che
l’avrei personalizzata e decorata a modo mio.
Ma di fronte a quel pesante cancello
grigio mangiato dalla ruggine, a quegli edifici scuri e austeri, a
quella massa di sconosciuti che mi circondava, in quella mattina di
aprile nuvolosa e insolitamente gelida, un brivido mi percorse. Mi
dissi che era solo il vento, troppo freddo per l’uniforme
estiva che indossavo.
Quella. Stramaledetta. Uniforme.
No dico io, con quello che costa la
retta, DICO IO, potrebbero almeno fartela su misura? In effetti, la
divisa in sé era pensata per essere austera quanto le
strutture della scuola: la camicetta bianca e la gonna grigioverde
sotto il ginocchio erano piuttosto eleganti. Peccato che la gonna al
ginocchio mi ci arrivasse appena e che la camicetta mi
facesse sembrare ancora più piatta di quello che ero. Senza
contare che, in puro stile giapponese, avevo deciso di sancire il nuovo
taglio che prendeva la mia vita con un nuovo taglio di capelli. Ma come
spesso mi accade, ero stata eccessivamente drastica e li avevo tagliati
troppo corti. Avevo giurato di non farlo, ma non resistetti: tirai
fuori il cappellino dalla borsa e me lo calcai in testa.
Maledetto viziaccio preso da Genzo.
Però sì, il fatto di non vedere gli altri, ti fa
illudere che gli altri non vedano te e non scorgere i loro occhi mentre
ti valutano, ti spinge a convincerti che nessuno stia pensando a quanto
sei ridicola con indosso quella divisa.
Percorrendo a lunghe e rapide falcate
il vialetto, arrivai di fronte all’ingresso principale e
sbirciai i cartelloni per vedere dove dovessi recarmi. Inglese. Bene,
almeno si iniziava da qualcosa che mi piaceva. Aula 117. Facile, me
l’avevano spiegato: stanza n°7 del primo piano
dell’edificio numero uno, il principale.
Quando raggiunsi l'aula, vidi che
l'ingresso era parzialmente ostruito da un ragazzo molto alto che,
appoggiato con la spalla allo stipite, chiacchierava animatamente con
un compagno, lamentandosi, o almeno così mi
sembrò, del fatto di non essere in classe insieme. Non
riuscivo a vedere in faccia nessuno dei due.
Mi avvicinai, tentando di sgusciare
attraverso la piccola parte libera del vano della porta, calcandomi
bene la tesa sul viso per non dare troppo nell’occhio. Ma non
riuscii a evitare di urtare il ragazzo più alto che,
tuttavia, si limitò a mormorare delle scuse senza nemmeno
voltarsi. Per fortuna.
I posti erano già quasi
tutti occupati e, cercando di non pensare a tutti quegli sguardi
trapunti su di me, mi avvicinai a un banco, in posizione piuttosto
defilata, fra la finestra e un altro posto vuoto. O, meglio, occupato
solo da una cartella e da un cappellino simile al mio. Il che mi fece
venire in mente che era il caso di togliermelo. Me lo sfilai
rapidamente e lo riposi in borsa, poi detti un’occhiata alla
mia immagine sbiadita riflessa nella finestra. Passai una mano sui
capelli, con un sospiro: non erano mai stati un gran che, ma questo
taglio era davvero orribile. Desiderai ardentemente potermi rimettere
il cappello.
Detti un’occhiata ai miei
compagni: le ragazze, quasi tutte posizionate dall’altra
parte della stanza, ridacchiavano divise in gruppetti, lanciandomi di
tanto in tanto sguardi che andavano dall’incuriosito, al
clinico. Una mi sorrise brevemente. Risposi con la solita piega sghemba
delle labbra.
I ragazzi, in numero maggiore,
discutevano tutti insieme, alcuni parlavano della squadra di calcio: a
quanto pareva in settimana ci sarebbero stati i provini. Allungai le
orecchie per cercare di capire quando, magari sarei andata ad assistere.
Sospirai guardando fuori.
Chissà dov’era in quel momento Genzo:
chissà se si sentiva solo come me. Decisi che,
più tardi, lo avrei chiamato. Mi voltai e sorrisi vedendo il
cappellino sul banco accanto: una parte di me sperava, irrazionalmente,
che Genzo sarebbe presto arrivato e si sarebbe seduto lì,
vicino, dov’era naturale che fosse.
Continuavo a fissare il berretto senza
guardarlo davvero. Mi riscossi quando vidi una mano grande posarsi sul
copricapo per prenderlo e ficcarlo con malagrazia nella cartella posata
sulla sedia, quindi mettere la borsa a terra. La mano apparteneva al
ragazzo della porta. Con la coda dell’occhio lo vidi infilare
con un movimento fluido il corpo longilineo fra il banco e la sedia.
Ebbi una rapida visione del suo viso affilato e del naso sottile e un
po’ all’insù, prima che sparissero
dietro una cortina di lunghi capelli neri.
In quel momento entrò il
professore e tutti ci alzammo, col solito corollario di sedie e banchi
che strusciano rumorosamente sul pavimento.
“Goodmorning,
guys” disse. Era giovane e decisamente americano, a giudicare
dall’accento.
“’morning
teacher” biascicammo in coro.
Mr. Warner, come dichiarò
di chiamarsi, aprì il registro e cominciò a fare
l’appello, chiedendo a ognuno di presentarsi brevemente, per
conoscerci e valutare il livello di inglese.
Se avessi dovuto giudicare io, sarei
rimasta molto delusa da quello che sentivo: non solo una serie
impressionante di pronunce pessime e orrori di grammatica, ma
storielline tutte uguali di figli di capitani d’industria
desiderosi di seguire le orme paterne e riuscire ad accaparrarsi un
posto dietro una scrivania di mogano in qualche superufficio
all’ultimo piano di qualche megagrattacielo, o di fanciulle
di buona famiglia alla ricerca di un marito che avesse una scrivania
del genere. In alternativa, tanto per mostrarsi moderna e disinibita,
qualcuna confessava con una risatina imbarazzata di voler diventare
un’attrice o una modella.
Il professor Warner aveva messo i nomi
in ordine alfabetico occidentale e il mio si trovava dunque in fondo.
Mi stavo quasi assopendo cullata da quelle tiritere sgrammaticate e
tutte uguali, crogiolandomi al pensiero che avrei risposto:
“My name is Wakabayashi Yasu, I am fourteen years old, I come
from Nankatsu but I lived in Germany for the past three years and I
want to become a goal-keeper”. Ridacchiavo fra me,
pregustando le facce dei miei compagni, quando una voce con una
pronuncia migliore delle altre scandì
“Goodmorning, my name is Sorimachi Kazuki, I am fourteen
years old and I come from the sorroundings of Tokyo. I like playing
football and my dream is to become an internationally famous football
player”.
Mi voltai per guardarlo e il mio
misterioso vicino di banco fece lo stesso, in un turbine di capelli
nerissimi e lunghissimi che guardai con una punta d’invidia.
Scrollai le spalle e tornai a fissare quel Sorimachi. Lo osservai
ringraziare educatamente il professore che si complimentava per il suo
inglese, spiegando che era un appassionato di musica. Decisi che
potevamo avere diverse cose in comune e che forse avevo trovato un
potenziale amico.
Mentre pensavo a come attaccare
discorso a fine lezione, magari usando la carta della
“sorella di”, sentivo a un altro livello di
coscienza il prof che continuava a chiamare nomi e i miei compagni a
rispondere. Quando lo sentii iniziare incerto a dire
“Waka…”, scattai rapidamente in piedi.
Con qualche secondo di ritardo sul mio vicino di banco.
“…bayashi”
concluse l’insegnante guardandoci perplesso.
Lentamente mi voltai verso il mio
compagno, che mi guardava a occhi sgranati dall’alto del suo
metro e ottanta buono di altezza. Mi fissò un attimo poi si
guardò attorno. Come se cercasse qualcun altro…
mio fratello? Perché ora che l’avevo visto in
volto…
Sentii il professore schiarirsi la
voce e chiedere in giapponese: “Allora chi è
Wakabayashi?”
“Here I am”
balbettai. Poi attaccai decisa: “I’m Wakabayashi
Yasu. I am fourteen years old, I come from Nankatsu
and…” feci una piccolo pausa “I have two
older brothers and a twin brother. But they all live and study in
Europe” conclusi, rispondendo al muto interrogativo del
ragazzo.
“E tu sei Wakashimazu Ken,
immagino”.
Ricollegai subito il nome e il
volto… certo che lo avevo già visto! Anni
prima… a Yomuri Land… il portiere del Meiwa! Ma
soprattutto… che idiota! Ma certo, il Toho! La squadra che
per tutti gli anni delle medie era arrivata in finale contro i miei ex
compagni della Nankatsu e che nell’ultima, solo pochi mesi
prima, aveva addirittura vinto il campionato a pari merito con loro!
“Sì,
signore” rispose lui con un educato inchino. La voce era
incerta, probabilmente era rimasto colpito quanto me da
quell’incontro inaspettato. Lo osservai mentre si presentava
e concludeva dicendo di giocare per la squadra della scuola:
“I am the…” si fermò come se
non ricordasse la parola.
“Goalkeeper” gli
sussurrai piano. Mi guardò di nuovo sgranando gli occhi neri
come la pece.
“I am the
goalkeeper” ripeté, tornando a sedersi. Poi mi
guardò di nuovo e mi fece l’occhiolino, disegnando
un grazie con
le labbra sottili. Strizzai a mia volta l’occhio e sorrisi.
La sua espressione si fece seria per un attimo, poi sorrise di rimando,
scuotendo la testa. Non ci posso far niente se somiglio così
tanto a mio fratello quando rido.
Ci sedemmo di nuovo, mentre gli ultimi
studenti si presentavano.
“Pss”
bisbigliò Ken, interrompendo i miei pensieri.
“Quindi tuo fratello è ancora in
Germania”.
“Sì”
risposi, sempre a bassa voce.
“E ci resta?”
“Sì”
“E cosa fa?”
“Cosa vuoi che
faccia” sibilai un po’ stizzita. “Studia,
si allena, gioca…”
“E tu come mai sei venuta in
Giappone?”
Ora, capivo la sua
curiosità su mio fratello, ma cosa gli importava di me?
Stavo per rispondergli per le rime, quando il professore ci
richiamò ed entrambi tornammo a guardare la cattedra.
“Psss” fece di
nuovo.
“Zitto,
Wakashimazu” lo rimbrottai. Volevo evitare una punizione
subito il primo giorno. Ma quando mi rivolsi verso il signor
Warner, mi accorsi che ci guardava male. E infine fece cambiare posto a
Ken, dividendoci.
Con la coda dell’occhio
tornai a fissare il portiere del Toho, cercando di sovrapporre il volto
allungato dai tratti eleganti, incorniciato da quei meravigliosi
capelli neri, al visetto del bambino allampanato che ricordavo, con il
ciuffo sugli occhi e lo sguardo furbo. Difficile dimenticare la
tracotanza con cui era entrato in campo dichiarando che avrebbe parato
il rigore di Matsuyama. Difficile anche dimenticare che, poi,
l’aveva fatto davvero, dimostrando
un’agilità e un talento inferiori solo a quella
sua sfrontatezza ma, forse, sufficienti a giustificarla. Difficile,
infine, dimenticare l’ottima prestazione durante la finale di
quello stesso campionato… Ora, come allora, sembrava
più grande dell’età che aveva
– la mia.
Mentre lo guardavo, mi accorsi che le
sue labbra si muovevano.
Aspettami
a fine lezione.
Lessi. Sicuramente me l’ero
sognato. Mi voltai indietro e dalle parti. Non c’era nessun
altro. Stava parlando con me.
Io?
sillabai in silenzio puntandomi l'indice al petto, poi feci roteare il
dito per dire "dopo?".
Lui sorrise di nuovo, con quell'aria
un po' supponente. Poi mosse lentamente la testa su e giù:
così facendo i capelli scesero di nuovo a coprirgli il viso,
ma stavolta le lunghe dita affusolate corsero a risistemarli dietro
l'orecchio. Poi incrociò le braccia, appoggiando i gomiti
sul tavolo e, sempre voltato nella mia direzione, fece il gesto di bere
qualcosa e simulò uno sbadiglio.
Ridacchiai, feci segno "ok" con la
mano e mi voltai verso l'insegnante.
D’improvviso realizzai chi
fosse l'altro ragazzo sulla porta, prima dell'inizio della lezione: era
senz'altro Kojiro Hyuga. Lui e Wakashimazu erano amici e compagni di
squadra fin dalle elementari. Erano passati tre anni ma ricordavo bene
la sua piazzata durante le selezioni della Nankatsu e ricordavo
l’emozione della finale… che partita! Ma,
soprattutto, mi ricordai come, nonostante fossi solo una bambina,
Kojiro Hyuga mi fosse sembrato bellissimo… Ero curiosa di
vedere se crescendo si era mantenuto! Sicuramente in caffetteria ci
sarebbe stato anche lui. Sentii un sorriso allargarsi sul volto e
lentamente mi voltai di nuovo verso Wakashimazu, rendendomi conto, con
un po' di imbarazzo, che i suoi occhi erano ancora incollati su di me.
Aveva allungato le gambe chilometriche sotto il banco e incrociato le
braccia in grembo: sedeva sul bordo della sedia, appoggiato contro lo
schienale.
Quando i nostri sguardi si
incrociarono, ebbe un impercettibile sussulto, ma subito le spalle si
rilasciarono e sorrise di nuovo, socchiudendo gli occhi.
Credo di essere rimasta un po'
imbambolata a osservarlo. Forse è stato uno di quei momenti
in cui, per qualche strana congiunzione astrale, hai l'impressione di
poter vedere con chiarezza, per un attimo, tutto il tuo futuro, ma
l'attimo è talmente breve che, poi, non ricordi niente. Non
ero attratta dal suo sorriso come lo sarei stata un giorno, non mi
faceva andare in pappa le gambe, né mi faceva venir voglia
di baciare quelle labbra sottili.
Tutto questo faceva ancora parte di un
futuro che, in quel momento, non sapevo di avere. Ma c'era una
scintilla in quegli occhi socchiusi, una scintilla di
vitalità e di impazienza, di intelligenza e di
scaltrezza. E di comprensione, di affinità,
affiatamento…
Sorrisi ancora, in risposta, e sentii
che, stavolta, lo facevo in un modo che era soltanto mio.
"WAKASHIMAZU e WAKABAYASHI!"
urlò il professore, evitando abilmente di impappinarsi coi
nomi.
Per fortuna la presentazione della
classe aveva preso più tempo del previsto e la campanella
interruppe il prof e ci salvò da una bruttissima figura.
Mi alzai e recuperai la mia roba, poi
mi girai verso di lui calcandomi il berretto in testa. Solo per vederlo
compiere, come in uno specchio, lo stesso movimento. Ridacchiammo di
nuovo.
"Allora Wakabayashi"
pronunciò il mio cognome con una smorfia, come avesse un
cattivo sapore. "Andiamo a prenderci qualcosa in –uhm-
cafeteria? Vorrei ringraziarti per il suggerimento e scusarmi per
averti fatto rischiare una punizione subito il primo giorno."
Dissi che non ce n’era
bisogno, ma accettai l’invito e mi affrettai a seguirlo: con
pochi passi delle sue gambe lunghissime era già a
metà corridoio.
"Anche tu hai la borsa di studio?"
chiesi. Mi muovevo a passi rapidissimi per tenere il suo ritmo e avevo
un po' di fiatone.
"Sì" rispose secco,
rallentando un po'. "Sennò col cavolo che mio padre mi
pagava la retta di questo istituto"
“Troppo alta?”
“Beh, per i comuni mortali,
sì, è piuttosto alta…”
"Te la meriti, la borsa di studio"
risposi trascurando la frecciatina. "Sei un ottimo portiere".
Si fermò e mi
squadrò, un sopracciglio alzato.
"Specie da quando tuo fratello non mi
fa più concorrenza..."
"Che c'entra? Tu sei bravo,
indipendentemente dal confronto con lui".
"Perché lui lo è
di più, vero?"
"Non ho detto questo"sbuffai
contrariata. Volevo fargli i complimenti per lo scorso campionato, ma
evitai.
Nonostante la piccola discussione,
appena entrati nel locale che fungeva da mensa e da bar interno, mi
fece cenno di sedermi mentre andava a prendere da bere. A quanto
pareva, saremmo stati solo noi due. Tornò con due tazze
fumanti. Presi la mia e l’avvicinai alle labbra, quando
dall’odore mi accorsi che era tè. Abbassai
rapidamente la tazza per posarla sul tavolo, con la faccia un
po’ schifata, immagino.
“Uh” fece lui,
imbronciandosi. “Non ti piace il tè?”
“No” mentii,
“è solo mmm troppo caldo”.
Rimanemmo in silenzio un paio di
minuti. Io con le braccia conserte poggiate sul tavolino, cercando il
coraggio per tirare giù la brodaglia, che, comunque, mi era
stata offerta.
Ken sorseggiava lentamente il suo
tè, guardandomi. Alla fine si mise a ridere.
“Non devi berlo, se non ti
piace” disse.
“Sul serio?”
chiesi speranzosa.
“Sul
serio”confermò lui, sghignazzando.
“Vado a prendermi un
caffè. Vuoi qualcos’altro?” domandai.
Volevo farmi perdonare.
“No, grazie”
“Magari un dolcetto, hanno
dei muffin meravigliosi” lo tentai.
“Non li ho mai
assaggiati…” rispose, aggrottando le sopracciglia.
“Faremo a metà
così lo assaggi”.
Tornai di lì a poco con una
bella tazza di caffè e un muffin al cioccolato veramente
notevole. Lo spezzai con le mani e gliene detti metà.
“Grazie” disse,
accennando un inchino con la testa. Dette un morso al dolcetto e gli
occhi gli brillarono letteralmente. “E’
buonissimo!”
“Decisamente”
confermai io.
“E pensare che è
per questo che mio padre non vuol pagare la retta”
sospirò, guardando con aria sconsolata l’ultimo
boccone al cioccolato.
“Per i muffin?”
chiesi strabuzzando gli occhi.
“Ahahaha, certo che no,
intendo…” fece un gesto con la mano come a
indicare tutto quello che li circondava.
“L’impostazione americana”.
“Oh, beh… il
motivo per cui io sono qui” ridacchiai.
“Davvero?” si
stupì Ken.
“Quando Genzo è
partito per la Germania, l’ho seguito. Ma poi ho deciso di
tornare in Giappone e mio padre ha voluto venissi qui, dove hanno
studiato anche lui e mio fratello maggiore Ichirou”.
“Pensa un po’. Mio
padre preferirebbe pagare una buona scuola giapponese che non mandarmi
qui gratis…”
“Famiglia
tradizionalista?”
“Molto.”
“Io e Genzo, invece, siamo
cresciuti con una tata inglese e un maggiordomo tedesco. Da piccoli
parlavamo poco giapponese…”
“Beh, a
scuola…”
“Finché Genzo non
è entrato a giocare nella Schutetsu, avevamo
un’istitutrice privata… ma almeno lei era
giapponese…” ridacchiai. “E poi, dopo,
c’era anche Mikami…”
“Mi…
Mikami?” chiese lui, sbalordito, rischiando che
l’ultimo sorso di tè gli andasse di traverso.
“Tatsuo Mikami, l’ex portiere della
Nazionale?”
“Sì”
risposi con indifferenza. “Era l’allenatore
personale di Genzo, praticamente viveva a casa nostra”.
“Kamisama”
mormorò quasi fra sé.
“E invece…
tu?” incalzai, curiosa.
“Casa mia è
l’opposto” rifletté, guardando pensoso
il bicchiere vuoto. “Mio padre gestisce un dojo di karate che
è della mia famiglia da generazioni… pensa che
mia mamma di solito porta abiti tradizionali, persino in casa
– o cazzo.”
Ascoltavo rapita ma
quell’imprecazione mi riscosse.
“Dobbiamo andare alla
prossima lezione!”
Appurato che anche all’ora
successiva saremmo stati compagni di classe, ci fiondammo per il
corridoio, raggiungendo l’aula di matematica quasi in tempo.
Nel corso della giornata, scoprimmo di
avere praticamente tutti i corsi in comune. In alcuni c’era
anche Kojiro. Il quale, per la cronaca, si era conservato parecchio
bene (detto in breve, era un figo da paura) anche se non aveva
un’aria molto affabile e mi rivolse sì e no due
parole, il minimo sindacale della cortesia.
Io e Ken pranzammo insieme e poi ci
avviammo verso gli alloggi. Dopo aver finito il discorso sulle
famiglie, eravamo passati a parlare di calcio. Gli allenamenti
sarebbero iniziati da lì a una settimana, dopo i provini per
i nuovi giocatori.
“Quindi avete ancora qualche
giorno di riposo” osservai.
“Sì, anche se
volevo già iniziare a fare qualcosa… son stato un
sacco fermo, prima la spalla, poi la mano…”
sospirò.
Ricordava la brutta caduta durante la
finale del campionato e la terribile agonia della semifinale dove
Wakashimazu aveva giocato con il polso in pessime condizioni…
“Se ti va, ti aiuto ad
allenarti,” buttai là, non so neanche io
perché. “Posso insegnarti un po’ di cose
che mi ha detto il signor Mikami” continuai, mentre mi
chiedevo perché diavolo lo stessi facendo.
Mi guardò, sbattendo le
palpebre. “Se ci tieni” borbottò con una
scrollata di spalle.
“Un po’ di
allenamento non fa mai male”.
“Ti andrebbe bene
già questo pomeriggio?”
“Sì,
sì… il tempo di cambiarmi
e…” dissi accennando alla palazzina che avevo di
fronte.
“Vivi qui?” chiese
stupito.
“Sì”
“Non credevo che i dormitori
femminili e maschili… Bah che strano… a che
piano?”.
“Secondo”
“Sec- anche io!
Sarà l’appartamento di
fronte…”
Quando arrivammo al pianerottolo, ci
salutammo ancora, dandoci appuntamento da lì a un paio
d’ore per andare a correre. Quindi… ci avvicinammo
entrambi alla stessa porta!
Ci guardammo stupiti:
“E’ questa casa tua?” chiedemmo
all’unisono.
La porta si aprì e
apparvero Kojiro Hyuga, Kazuki Sorimachi, quello che segue Inglese con
me e Ken, e un altro ragazzino più piccolo.
“Ci siamo riusciti
Wakashimazu, abbiamo fatto a cambio con quei Watanabe, Uchibe e Wada e
ora io, Sawada e Sorimachi viviamo qui. Il quinto non si è
ancora visto… però la stanza è
occupata…”
“Ehm” intervenni
timidamente. “La roba è mia…”
“Tua?” chiese
stupito Kojiro, strabuzzando gli occhi. “Ma tu sei
una-”
“Ci sarà stato un
errore” osservò Sorimachi.
“Credo di sapere cosa
è successo” sospirai. “A iscrivermi
è venuta la mia tata che non ha ancora capito che se scrive
‘Yasu’ invece di ‘Yasuko’ mi
scambiano per un maschio… siccome, a quanto pare, hanno
distribuito le stanze per cognome… eccoci
qua…”
“Non credo sia un grosso
problema…” sorrise Kazuki, vedendomi un
po’ mogia. “Ti accompagniamo in segreteria, vedrai
che si sistema tutto”.
“Sì, beh,
io… devo radunare le mie cose avevo… iniziato a
sistemarmi” balbettai.
“Non è necessario
che fai tutto di fretta” disse Ken. “Al limite per
stanotte rimani qui e poi domani facciamo tutto con calma…
non ti pare? Se per te non è un
problema…”
“No, no” risposi,
con un sorriso. “Se non lo è per
voi…”
“Figurati” la
liquidò Sorimachi, tornando alla propria stanza.
Ken sorrise: “A quanto pare
è il destino che mi mette sempre un qualche Wakabayashi fra
i piedi”. Allungò la mano come se volesse
spettinarmi i capelli, ma poi optò per una pacca sulla
spalla, prima di sparire in camera.
Kojiro guardò
l’amico aggrottando la fronte, poi mi squadrò da
capo ai piedi e biascicò: “Fa' come se fossi a
casa tua”.
Rimase solo il ragazzino che mi tese
la mano presentandosi come Takeshi Sawada per poi sparire. In effetti a
Yomuri Land avevo visto anche lui, ma era molto crsciuto da allora.
Il pomeriggio passò rapido:
i compiti di matematica, la corsa e gli esercizi con Ken, la
doccia… Stavo rimettendo la roba in valigia, quando mi
chiamarono per cena.
“Avete cucinato?”
mi stupii. “Io pensavo di andare in
mensa…”
“Veramente,”
intervenne Ken un po’ imbronciato, “avevo preparato
anche per te”.
“Fidati” mi
confidò Kazuki prendendomi per mano e accompagnandomi al
tavolo. “La zuppa fatta da Ken è mille volte
più buona della merda della mensa.”
Ridemmo tutti e cominciammo a
mangiare. Alla fine, mi offrii di lavare i piatti e Kojiro mi
aiutò. Sistemammo in fretta la cucina, poi rimanemmo ancora
un po’ a parlare, finché la stanchezza della
giornata e la prospettiva di doversi svegliare presto la mattina
seguente non ebbero la meglio.
Mi addormentai quasi subito, stanca ma
felice: era solo il primo giorno e avevo già trovato quattro
amici. Peccato non poter restare in quell’appartamento: certo
i ragazzi potevo vederli anche fuori, ma chissà con che
squinziette avrei dovuto vivere!
Mentre le palpebre si facevano
pesanti, mi baloccai con l’idea che, magari, avrei potuto
restarci.
E, in effetti, così
fu…
|
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Capitolo 3 *** Invito - Toho Story 4 ***
I
anno. Circa un mese dall'inizio della scuola...
Invito
La merenda lasciata
in stanza era un pessimo modo per iniziare la giornata. Soprattutto una
giornata che precedeva, di poco, quella cazzata di ballo della scuola,
a cui, tanto per cambiare, non l’aveva invitata anima.
Insomma, niente di nuovo sotto il sole.
Se
solo avessero avuto un buon sapore, si sarebbe rimangiata i suoi
stupidi commenti su quel cavolo di ballo di inizio anno.
“Che
senso ha una festa dopo nemmeno un mese dall’inizio della
scuola?” aveva bofonchiato Ken. “Manco ci
conosciamo”.
“È,
appunto, un modo per conoscersi, Wakashimazu” aveva sbuffato
lei in risposta.
“E
su che base invito una ragazza, che non conosco, a uscire con
me?” aveva insistito lui, accigliato.
“Immagino
perché è carina?” era stato il suo
superfluo suggerimento.
“Ecco,
appunto. Vedi? Ha ragione mio padre, in questa scuola ci addestrano al
culto dell’esteriorità, alla
superficialità e io…”
“Fossi
in te non mi farei problemi” era intervenuto Sorimachi.
“Se tu sei troppo timido per invitare una ragazza, sei anche
abbastanza popolare perché qualche squinzietta
sufficientemente occidentalizzata abbia la sfrontatezza di invitarti di
persona”.
“Troverà
pane per i suoi denti” aveva chiosato Ken, alzandosi di
scatto per andare a mettere a posto il vassoio della mensa.
“Andiamo,
non prendere tutto così di petto, è una cosa
divertente, per conoscersi” le aveva gridato dietro lei.
Sì,
decisamente “divertente” come iniziativa. Si
sarebbe rintanata nel proprio alloggio, sperando che la gente non si
accorgesse della sua assenza alla festa, come d’altronde non
si era accorta della sua esistenza a scuola.
Sbuffando
si avvicinò al distributore di merendine, tirò
fuori il portamonete e contò gli spicci. Precisamente quanto
le serviva.
La
prima cosa che andava nel verso giusto.
Inserì
le monetine nella fessura e il meccanismo si mise in funzione.
E
poi si inceppò, intrappolando la merendina in un modo
assurdo.
Yasu
bestemmiò sommessamente in tutte le lingue che conosceva,
più qualcun'altra.
Depennò
mentalmente la somma di spicci trovata nel portamonete quale
“prima cosa che andava nel verso giusto”.
Un’altra
monetina, infatti, avrebbe fatto ripartire quell’aggeggio
infernale e liberato la sua merenda, ma dal borsellino, al massimo,
poteva uscire una tarma, come nei fumetti.
Si
guardò con circospezione attorno. Il corridoio era deserto.
Dette
un colpetto al distributore. Che sembrò non accorgersene.
Come minimo pure quello era costruito con criteri antisismici tali da
resistere al Ragnarök.
Provò
con una spintarella.
Nulla.
Gli
dette uno spintone.
Ancora
nulla.
Tentò
la mossa dell’abbraccio con scuotimento.
NULLA.
“Ne
devo dedurre che nessuno ti ha invitata al ballo?” chiese
Ken, divertito, nel vederla attaccata al distributore come un polpo.
Yasu
lasciò andare di scatto il malefico apparecchio, il viso di
un colore tale da mimetizzarsi con il non distante distributore della
coca cola.
“Non…
non mi risulta che tu stia messo meglio” rispose lei,
ridandosi un contegno. “Hai una monetina?”
tentò poi di cambiare argomento.
Ken
si avvicinò alla macchinetta e sorrise vedendo la merendina
incastrata. Con la mano, dette un colpetto di taglio, ben calibrato, in
un punto preciso del distributore, e fece cadere l’agognata
barretta. Si chinò con eleganza, la prese dallo sportellino
e si mise a giocherellarci.
“Posso
risolvere il problema quando voglio” disse con un sorriso
borioso, lanciando la merendina verso di lei, che
l’afferrò. “Anzi…”
aggiunse.
Se
Yasu non fosse stata ancora agitata per la brutta figura di poco prima,
avrebbe notato che il tono del portiere si era fatto meno spavaldo,
anzi, di più, quasi insicuro; che le mani erano corse a
giocherellare coi capelli e che il pomo d’Adamo era scattato
con particolare rapidità.
“Anzi”
ripeté. “Sono piuttosto bravo a risolvere anche i
problemi degli altri…”
La
ragazza sbatté gli occhi, con sguardo interrogativo mentre
Ken completava il discorso:“Sì, insomma anche i
tuoi…”
Yasu
aveva la faccia di chi sta cercando di riavviare i neuroni, tirando la
cordicella a mo’ di motore a scoppio. Ma senza risultato. Poi
guardò la merendina che teneva in mano e il motore
sembrò prendere giri.
“Ah
beh, sì. Bravo, grazie” disse scartandola e
dandole, finalmente, un morso.
Ken
sbuffò, stremato.
“Kamisama,
Yasu, non dicono tutti che sei intelligente? Sto facendo una fatica
assurda”.
“Per
fare cosa?”
“Per
invitarti al ballo, cavolo!”.
La
tanto sudata barretta finì miseramente a terra. Il cervello
della ragazza, ora, lavorava rapidamente alla ricerca della fregatura
che, di sicuro, da qualche parte, c’era.
“Seh…”
balbettò. “Con tutte le
ragazze…”
“Non
le voglio tutte le ragazze…”
Una
lampadina si accese nel cervello di Yasu.
“Ahhhhhh!”
esclamò con l’aria di chi la sa lunga.
“Ora si spiegano molte cose! I prodotti per capelli, lo
shopping compulsivo… Certo, vuoi che ti faccia da
“copertura” perché
sei…”
Ken,
interrotto nel pieno di quello slancio romantico che gli era costato
tanto sforzo, si bloccò e la guardò inarcando il
sopracciglio. “Sono cosa?”
“Sei…”
Yasu cercava le parole, arricciando il naso.
“…gay?”
Ken
Wakashimazu strabuzzò gli occhi e per un attimo
sembrò veramente arrabbiato. Poi cominciò a
ridere.
“No,
piccola, non lo sono affatto” disse. Poi la sua espressione
si fece seria, si guardò intorno, quindi le si
avvicinò. Allungò una mano per scompigliarle i
capelli, quindi scese ad accarezzarle una guancia e sistemarle una
ciocca ribelle dietro l’orecchio. Un brivido scosse la
ragazza e un’espressione terrorizzata si dipinse sul suo viso.
“Ti
sembra tanto impossibile che qualcuno voglia invitarti al
ballo?”
“Qualcuno
come te?” balbettò Yasu.
“Sì” scandì decisa, dopo una
breve pausa.
“Nel
senso di uno che credi frocio?” chiese lui dubbioso.
“No,
beh, ecco, uno così… popolare” rispose
lei, cercando le parole. “Così…
così… bello” disse infine avvampando
ulteriormente.
Ken
spalancò gli occhi, che corsero a fissare il pavimento, le
sopracciglia presero una piega incredula: la mano che scattò
a sfiorare la nuca e una risatina imbarazzata completarono il quadro.
Yasu
era stupita: davvero non si rendeva conto di esserlo? Suvvia, uno
vanesio come lui?
E
invece pareva proprio di no… a sua discolpa andava detto che
certo Ken non frequentava i bagni delle ragazze istoriati con scritte
inneggianti a lui, con tanto di ombrellini e cuoricini abbinati di
dubbio gusto.
“Io…”
riprese Wakashimazu, ancora visibilmente imbarazzato, “credo
che anche tu sia… carina e, soprattutto, con te ci sto bene,
sei la mia migliore amica femmina” precisò.
Ah
ecco.
Ora
la musica cominciava a essere familiare.
“Quand’è
così… grazie sì, volentieri”
rispose con un sorriso chiaramente forzato.
“Preferivi
andarci con Hyuga? No perché… io glielo ho
domandato e mi ha detto che potevo chiedertelo io e-”
“No
aspetta… Tu e Kojiro avete discusso su chi dovesse
invitarmi?”
“Non
esattamente… gli ho chiesto se non gli
dispiaceva…”
Il
cuore di Yasu accelerò.
“…
ma lui mi ha detto di non preoccuparmi, se ci
tenevo…”
Era
decisamente confusa. Non sapeva se sentirsi triste per
l’ennesima, chiara conferma del disinteresse di Kojiro o
gioire per essere stata invitata da Ken, così bello e, beh,
dolce. Quando rialzò lo sguardo, vide i suoi occhi, ansiosi
e un po’ tristi.
“Ken
Wakashimazu” disse allora, sorridendo con fare ostentatamente
cerimonioso, “sarò lieta di essere la vostra
damigella”.
Gli
occhi gli brillarono.
“E
io di essere il vostro cavaliere”, rispose lui con un
inchino. “Ti confesso”, aggiunse poi,
“che non vedo l’ora di vederti vestita
elegante… l’effetto “Lady Oscar al
ballo”, secondo me, è
assicurato…”
“Seh,
magari” ridacchiò lei. “Aaaargh!
Piuttosto, devo andarmelo a comprare il vestito”.
“Se
vuoi” tossicchiò. “Ti accompagno a
sceglierlo”.
“Perché
no?” rispose lei raggiante.
“Oggi
dopo le lezioni?” chiese Ken, tornando a studiare il
distributore di merendine.
“Andata…
ma che fai?” domando Yasu, vedendolo dare un altro colpo alla
macchinetta.
Ken
infilò la mano nello sportellino e ne estrasse
un’altra barretta, identica a quella di prima.
“Visto
che ti era caduta e… in attesa del
fiore…” disse porgendogliela.
Yasu
la scartò e la mangiò di gusto, mentre si
avviavano verso le rispettive classi.
“Wakashimazu”
esordì all’improvviso, ingoiando
l’ultimo cioccolatoso boccone.
“Dimmi”.
“Pensavo
alla tua offerta… di andare per
vestiti…”
“E?”
“Sei
sicuro, vero, di non essere…?”
...con
tanti auguri di Buon Natale....
Grazie
ad agatha per il betaggio.
Piccola
curiosità: questa è la prima TS che ho scritto!
|
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Capitolo 4 *** Parla con me - Toho Story 2 ***
Siamo
durante il primo anno, Yasu e Ken non stanno ancora insieme...
però...
Parla
con me
Il
suo tocco era leggero e attento come sempre. Le dita trascorsero
leggere sullo zigomo, sul lato del naso, sul sopracciglio e tutto
attorno all’occhio.
“Non
c’è niente di rotto” lo
rassicurò con un sorriso. “Però ora mi
racconti chi ha fatto un occhio nero a un campione di karate”
lo prese in giro, scendendo agilmente dalle sue ginocchia.
Per un attimo aveva avuto
l’istinto di cingerle i fianchi con le mani e trattenerla
lì, guardarla ancora, anche se con un occhio solo, visto che
l’altro era gonfio e semichiuso, e poi magari fare un
po’ di scena, giusto per strapparle qualche coccola.
Yasu non aspettò la sua
risposta, aveva imparato che non sempre i ragazzi volevano raccontare
le loro cose e ne aveva preso atto. Invece gli domandò se
voleva qualcosa, un tè, un panino…
“Non ti preoccupare, posso
fare da solo.” L’educazione gli aveva fatto
rispondere così, ma, dentro, il cuore gli batteva forte e
suggeriva a gran voce, sì
che puoi fare qualcosa, stai qui accanto a me, o siediti ancora sulle
mie ginocchia…
Come aveva fatto prima...
Ken era tornato in anticipo
dall’allenamento, proprio per quel piccolo incidente. Era
entrato nell’appartamento, aveva preso un po’ di
ghiaccio dal frigo e, sedutosi sul divano, se l’era
appoggiato sull’occhio colpito. Dopo pochi minuti era
rientrata anche Yasu, gridando il suo solito “Salve a
tutti”. Appena si era voltata e lo aveva scorto sul divano,
si era avvicinata e, preoccupata, gli aveva chiesto cosa gli fosse
successo. In tutta risposta, lui aveva allontanato il ghiaccio a
mostrare l’occhio gonfio, ormai diventato, probabilmente, di
un bel viola scuro.
Lei aveva aggrottato le sopracciglia e
sfoderato un sorrisetto sghembo, insieme dolce e un po’
beffardo. “Niente male… certo che sei davvero una
fonte inesauribile di infortuni” aveva commentato.
“Fammi dare un’occhiata”. Aveva lasciato
cadere lo zaino e si era inginocchiata sul divano vicino a lui, ma,
sotto di lei, il cuscino cedeva e non le dava la stabilità
necessaria per poter procedere all’esame. Così,
con grande stupore di Ken, Yasu aveva fatto roteare una gamba fino a
posizionarsi a cavallo delle sua ginocchia. Mentre il portiere quasi
tratteneva il fiato, la ragazza, soddisfatta del punto di osservazione
che aveva infine trovato, gli aveva tastato piano le ossa della faccia,
assicurandosi che non ci fossero fratture. Poi, con la stessa
naturalezza, aveva portato indietro la gamba ed era tornata in piedi,
allontanando così dal volto di Ken il suo profumo dolce e
fruttato e le sagome dei seni piccoli, appena suggerite dalla camicetta
della divisa scolastica.
“Comunque è stato
uno scontro aereo, non ho fatto a botte” spiegò il
portiere, nel tentativo di fare un po’ di conversazione.
“E dire che pensavo di
averlo avuto io un… duro
scontro…”ribatté con un
sorriso amaro.
“Cosa è successo?
Non hai fatto a botte vero?” le chiese divertito, ma anche un
po’ preoccupato. La cosa non lo avrebbe sorpreso
più di tanto.
“Oh no” rispose
Yasu, agitando la mano, come per minimizzare. “Per fortuna
mia madre è oltre la portata del mio braccio”.
Ora, non è che Ken avesse
molta dimestichezza con le ragazze… e non solo in quel senso
lì,
proprio non ci aveva mai avuto a che fare. Nessuna sorella, nessuna
amica nel vero senso della parola. A parte Yasu, ovviamente. Eppure una
cosa l’aveva imparata: quelle, le ragazze, avevano sempre una
gran voglia di raccontare gli affari loro e potevano andare avanti a
commentarci e ricamarci su per ore. Quasi come... un bisogno
fisiologico e in questo Yasu non faceva eccezione. E siccome
l’aveva vista un po’ triste, pensò che
forse si voleva sfogare… E che, forse, l’avrebbe
fatto con lui, se solo fosse riuscito a metterla a suo agio…
Peccato che, mentre Ken si faceva
questo film, Yasu fosse sparita in camera sua, portandosi dietro lo
zaino. Il portiere scrollò le spalle e si mise a sfogliare
una rivista, rimandando il progetto “ti va di
parlare?” a un momento più propizio.
Dopo qualche minuto, Yasu
uscì dalla camera, per scomparire di nuovo in cucina. La
sentì armeggiare per un bel po’, come se,
incredibilmente, stesse preparando qualcosa. Che strano: non era il suo
turno in cucina e quando le toccava, comunque, di solito ricorreva ai
surgelati, se non alla rosticceria. Dopo una mezz’ora
abbondante, però, un buon profumo di cioccolato
iniziò a spandersi per la casa. Se non fosse stato per
l’occhio che gli pulsava dolorosamente, si sarebbe alzato per
vedere cosa stesse succedendo.
Si era quasi deciso a farlo comunque,
quando Yasu riapparve, in mano un vassoio con due bicchieri di latte e
due muffin al cioccolato, i responsabili di quel delizioso profumo.
“Nanny diceva che sono la
soluzione a tutti i mali” spiegò Yasu, accennando
ai dolcetti, mentre appoggiava il vassoio sul basso tavolino del
salotto. “Farli ti rilassa e mangiarli ti fa dimenticare i
dolori, diceva lei. Ti anticipo che la prima cosa ha funzionato fino a
un certo punto, ma credo valga la pena di tentare la seconda.
Sarà che cucinare, in generale, non mi rilassa,
anzi… e non fare quella faccia, sono l’unica cosa
che mi viene oggettivamente buona”. Quindi prese un muffin e
lo addentò, ostentando un’aria soddisfatta, come a
riprova che non erano velenosi.
Un po’ riluttante, Ken ne
prese uno e ne staccò un morsetto, rendendosi conto che era davvero buono. Di
lì a un secondo, lo finì.
“Ce ne sono altri”
gongolò Yasu, “vado a prenderli!”.
Tornò con altri quattro muffin e del ghiaccio per sostituire
quello, ormai sciolto, di Ken.
“Grazie!”
esclamò allegro, afferrando un altro dolcetto.
“Sembra funzioni”
lo canzonò Yasu, sfilandogli dalle dita la busta, che ormai
conteneva solo acqua, e chinandosi per appoggiargli
sull’occhio il ghiaccio appena preso dal frigo.
“Sì,
sto… meglio” rispose Ken, facendo sparire anche il
secondo muffin e andando a sostituire la mano di Yasu con la propria,
sfiorandogliela appena. “E… tu?”
mormorò, arrossendo un po’.
Yasu raddrizzò la schiena,
poi prese il proprio bicchiere di latte e si lasciò cadere
vicino a lui sul divano. “Dovrei averci fatto
l’abitudine ma è una cosa…”
si morse le labbra, e a Ken parve che avesse gli occhi lucidi.
“Che continua a darmi sui nervi…” Yasu
trangugiò un sorso di latte e il portiere si mise di tre
quarti per poterla osservare con l’occhio buono, tentando di
rivolgergli uno sguardo interessato e incoraggiante, ma non troppo
curioso.
Mica facile, eh, soprattutto con un
occhio solo.
Lei sbatté le palpebre,
prese un’altra sorsata, e poi sospirò:
“Mia madre e la sua smania per i buoni partiti. Continua a
parlarmi di tutti i figli dei suoi conoscenti in Europa e in Giappone,
dicendomi che dovrei incontrarli. I miei… tsk…
ostentano tanta apertura mentale, e poi… finiranno per
organizzarmi un omiai…
Credo che neanche tuo padre arriverebbe a tanto…”
“Mah, su mio padre
non ci metterei la mano sul fuoco… e meno male che non ha
figlie femmine” rispose allegro, per sdrammatizzare. In
realtà quei discorsi gli davano sorprendentemente fastidio,
forse perché gli dispiaceva vedere come la sua amica, sempre
così solare e spensierata, se ne facesse un cruccio.
“Ma i tuoi…” continuò,
“no, non ce li vedo… alla fine… hanno
sempre rispettato le tue scelte”.
Yasu rivolse lo sguardo a terra e
tirò su col naso. Poi rialzò la testa e
accennò un sorriso.
“E poi, comunque, se dovesse
succedere, ho pronte due soluzioni.” Affermò e si
mise a contare con le dita: “Uno, mi converto al
cattolicesimo ed entro in convento. Due, visto che son voluta tornare
in Giappone, per essere giapponese…” Si
alzò in piedi, posò il bicchiere, e si mise di
fronte al divano. “Seppuko!”
gridò mimando il gesto di ficcarsi una lama nella pancia e
cadere in ginocchio sui cuscini, fino a poggiare la testa sulla
spalliera. Si voltò, con la fronte ancora poggiata allo
schienale. “Vuoi essere il mio kaishakunin?”
“Quale onore”
disse pomposo, brandendo l’involto del ghiaccio come una
spada e minando il gesto di tagliarle la testa.
Yasu si fece cadere teatralmente,
andando a poggiare il capo in grembo a Ken. “Beh, sei
l’unico che conosco che sa vagamente tenere in mano una katana…”
“Ah, ah, va bene
cercherò di far pratica. E comunque tu, mia piccola bushi, dovresti
fare jigai:
tagliarti la gola con un coltello, senza dimenticare di legarti prima
assieme le ginocchia per assumere, anche nella morte, una posizione
onorevole… come si addice a una nobildonna”
sentenziò.
“Che culo”
commentò Yasu storcendo la bocca. “Peccato, mi
piaceva più la cosa da samurai”
mugugnò. Poi il volto della ragazza tornò a
rabbuiarsi. “Voglio solo studiare, Ken, diventare una brava
fisioterapista… e vivere del mio lavoro… che mi
diseredino, mi dimentichino pure… tanto Genzo non mi
abbandonerà e lui è la sola famiglia che sento
davvero mia” esalò, reprimendo un singhiozzo.
Il portiere le passò una
mano sui capelli corti e mossi. Così particolari…
come lei.
“Ehi, ehi” le sussurrò. “E
noi?”
“Beh, certo, adoro anche la
nostra buffa ‘famiglia Toho’” rispose
subito, l’espressione che tornava serena. Fece una pausa poi
riprese: “Però la cosa del samurai mi ha
scombinato i programmi… dovrò cercare una terza
soluzione”.
“Ho
un’idea” disse Ken dopo una breve –
troppo breve- riflessione.
“È altrettanto
splatter?” chiese Yasu, speranzosa.
“Dipende” rispose
Ken, soffocando una risata.
“E sarebbe?”
insisté la ragazza, impaziente.
“Sposa me” disse
d’un fiato. Mentre lo diceva, si immaginava Yasu vestita in
abiti tradizionali e lui che le teneva le mani… ma un
secondo dopo si rese conto di averla sparata grossa. Sfruttò
al volo il sorriso beato che quel flash gli aveva disegnato sulle
labbra, trasformandolo in un ghigno, che poteva voler dire tutto e
niente.
“Che…
cosa?” balbettò lei, guardandolo sconvolta.
Ken esitò. Ormai doveva
dare una risposta brillante se non voleva essere preso per uno sfigato.
“Che se i tuoi ti vogliono
costringere a sposare qualcuno, tu vieni da me e li battiamo sul
tempo” disse sfoderando un sorriso furbetto, mentre il cuore
gli batteva forte. Chissà
se lei lo sentiva…
Lo guardò ancora seria, poi
le labbra di Yasu si piegarono e il corpo cominciò a
sussultare, finché non scoppiò in una fragorosa
risata. Quando ebbe ripreso fiato, si ricompose ed esclamò:
“Ma quando mai! Presto diventerete dei calciatori famosi e
sarete circondati da attrici, modelle e vallette bellissime…
e della vecchia Yasu non vi ricorderete neppure…”
concluse in tono melodrammatico.
“Dimentichi che per uno che
è – parole tue - una fonte inesauribile di
infortuni, una moglie fisioterapista sarebbe un investimento assai
più proficuo di una qualche soubrette”
spiegò, con una risatina nervosa.
“Beh, certo, anche quando
diventerai un calciatore famoso, modelle e vallette scapperanno
vedendoti così…” rise, rimettendosi
seduta e dandogli una pacca sul petto. “Anche se…
dovresti solo…” allungò una mano per
spettinargli i capelli e sistemarli in modo che un ciuffo cadesse a
coprire l’occhio pesto. “Ecco qua, sei di nuovo
bellissimo, anzi, ti dirò, così hai qualcosa di
enigmatico… senza contare che, da questa prospettiva, ti
sembrerò ancora più carina”.
Si alzò svelta, forse era
un po’ arrossita. Raccolse i muffin residui e
borbottò qualcosa sul metterli da parte per Hyuga, Sawada e
Sorimachi, sparendo in cucina.
Ken la osservò
allontanarsi, il fisico sportivo ma ben fatto che si indovinava sotto
la tuta.
Chissà se avrebbe mai avuto
il coraggio di dirle che a lui, carina, sembrava sempre,
pensò con un sospiro.
“Che poi” riprese
Yasu, riapparendo sulla soglia del soggiorno, sorriso ironico, braccia
conserte e una spalla poggiata allo stipite. “Cosa ti fa
credere che io sarei d’accordo?”
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Capitolo 5 *** Solo un nome - Toho Story 3 ***
Primo
anno, inizio dell'inverno... per ora il miele va ancora sprecato...
Solo
un nome...
Ken si
avvicinò alla porta socchiusa della stanza di Yasu e dette
uno sguardo dentro. La ragazza sedeva alla scrivania, le mani premute
sulle guance, i gomiti sul tavolo e lo sguardo fisso sul libro di
biologia. La sentiva leggere piano fra sé: “La
mitosi si compone di cinque fasi…”.
Ken bussò
piano, scostando la porta: “Ho fatto il caffè, te
ne ho portato un po’” le disse.
“Mmm
grazie…” mugugnò lei distrattamente,
senza alzare la testa. “…Genzo”.
Quindi
tornò come niente a borbottare fra sé di profase,
creatina e centrioli.
Ma il ragazzo non
ascoltava. Il nome con cui l’aveva chiamato era stato come
una coltellata. Posò tremando la tazza sull’angolo
della scrivania e se ne andò in silenzio.
Yasu
avvicinò la tazza alle labbra e prese un paio di sorsi di
caffé. Forse per effetto della caffeina o forse
perché il suo cervello si staccò un attimo
dall’incombente verifica di biologia, realizzò di
aver chiamato Wakashimazu col nome di suo fratello e si
lasciò sfuggire una risata.
Poco dopo, arrivata
in fondo sia al caffé sia al capitolo, si alzò
per andare a riportare la tazza in cucina, approfittandone per
sgranchirsi un po’.
Quando
arrivò canticchiando sulla porta, si accorse che
Ken era seduto nel salottino, le gambe allungate in avanti, le braccia
conserte e un’espressione torva in volto.
Stava per chiedergli
sorridente come stesse il suo “nuovo fratello”
quando le venne il terribile dubbio che fosse stata proprio la sua gaffe a metterlo di
cattivo umore.
Yasu
sospirò e alzò gli occhi al cielo: quel ragazzo
era decisamente troppo permaloso. Eppure
mentre appoggiava la tazza nel lavello, non riusciva a non dispiacersi
per averlo ferito. Quindi, prima di tornare in camera, si
soffermò sulla porta del salottino e rimase un attimo a
guardarlo. Sinceramente non sapeva cosa dire: il nome del fratello le
era salito alle labbra per una mera abitudine dovuta a una vita di
convivenza…
“Scusa per
prima” disse infine. “Sei stato gentile a portarmi
il caffè…”
“Non
c’è di che…”
mormorò continuando a fissare la TV spenta di fronte a lui.
“Né da ringraziare, né da
scusarsi” precisò.
Yasu era abbastanza
d’accordo. Accennò un sorriso e fece per
andarsene. Quando lo sentì mugugnare fra sé:
“D’altra parte, Genzo viene prima di me nei
pensieri di tutti, non vedo perché tu dovresti fare
eccezione”.
Il primo istinto
sarebbe stato quello di rimproverarlo con una certa durezza, dicendogli
di smettere di fare la vittima e di piangersi addosso. Ma
c’era un dolore, acuto, dietro quelle parole e più
che di sgridarlo,Yasu ebbe voglia di consolarlo.
Tornò sui propri passi e si avvicinò al portiere,
tendendogli la mano.”Andiamo fuori a fare due passi, ti
va?”
“Ma non
hai la verifica di biologia domani?”
“Sì,
ma ho bisogno di distrarmi un po’”
mentì, dissimulando un sospiro: se pensava a tutte le pagine
che doveva ancora studiare, le veniva da piangere. Ma, come al solito,
liquidò tutto con una battuta: “Sennò
finisce che mi convinco di essere un paramecio anche io”.
Ken
accennò un sorriso, che riscaldò subito il cuore
di Yasu. Le aveva afferrato la mano e la tenne ancora fra le proprie,
mentre si lasciava guidare a prendere il cappotto.
Scesero le scale e
si ritrovarono nel vialetto costeggiato di alberi ormai spogli, appena
riscaldato da un sole autunnale di metà pomeriggio. Quei
raggi timidi irradiavano un piacevole tepore sul viso e le mani dei due
ragazzi, mentre una brezza leggera ne carezzava i capelli. Yasu
inspirò l’aria frizzante e profumata.
“Ah, adoro questo periodo dell’anno”
esclamò.
“È
vero” constatò Ken con un mezzo sorriso.
“Il sole non è troppo caldo e il vento non
è troppo freddo”.
“Esattamente”.
Fecero qualche passo
senza una meta precisa, solo godendosi quel momento.
Yasu
studiò il volto di Ken, illuminato dal giallo carico della
luce del tardo pomeriggio. Notò la mascella tesa e le labbra
un po’ imbronciate, sotto il profilo perfetto del naso.
Inspirò ancora una volta quell’aria fresca che
sembrava fatta per infondere coraggio.
“Ti chiedo
davvero scusa per prima ma credimi…”
“Non
è niente…”
“Non si
direbbe”.
Si soffermarono un
attimo, occhi negli occhi.
“Colpa
mia.” ribatté lui, dopo quella breve pausa.
“Non
dovresti prendertela così… Mio fratello
è solo…”
“Il
portiere migliore del Giappone”.
“Tecnicamente
in Giappone manco c’è”
osservò lei, tentando di sdrammatizzare.
“Il
miglior portiere giapponese” si
corresse lui.
“Ma
va… è bravo, sì. Ma entrambi avete
ancora molto da imparare… persino l’uno
dall’altro. Ti stupiresti di quante cose di te ammira
e… forse perfino invidia”.
“Tu e tuo
fratello avete parlato di me?”
“Certo,
secondo te c’è qualche altro portiere di cui
dovrebbe preoccuparsi?”
Si guardarono e
ghignarono, scuotendo la testa.
“E
comunque” riprese Yasu. “Tutte queste
considerazioni tecniche sono solo in quella tua testolina che rimugina
troppo. Se ti ho chiamato Genzo, è solo perché ho
sempre vissuto insieme a lui, è il primo nome che mi viene
in mente…”
“Beh
è naturale è… tuo fratello. Anche io voglio bene al mio”
sospirò con una punta di delusione, lasciandosi cadere su
una panchina..
“È
qualcosa di più.” Spiegò Yasu sedendosi
vicino a lui. “Siamo gemelli e siamo vissuti tanto insieme e
da soli. Prima di venire qui, sono pochi momenti che ricordo in cui lui
non c’è… In effetti nessuno dei due
è mai esistito senza l’altro. In effetti non
c’è persona più vicina al mio
cuore.”
“Beh, se
la metti così…” sussurrò
dolcemente, “credo dovrei essere addirittura lusingato che tu
mi abbia chiamato col suo nome”.
Yasu si
alzò in piedi e, declamando ad alta voce e facendo mille
salamelecchi, recitò “Che cosa
c’è in un nome? Quel che noi chiamiamo col nome di
rosa, anche se lo chiamassimo d’un altro nome, serberebbe pur
sempre lo stesso dolce profumo. E così Romeo, pur se non
fosse chiamato più Romeo, serberebbe pur sempre quella cara
perfezione ch’egli possiede tuttavia senza quel nome.
Rinunzia dunque al tuo nome, Romeo, e in cambio di quello che pur non
è alcuna parte di te, accogli tutta me stessa.”
Concluse, con un cerimonioso inchino.
Solo vedendo
l’espressione di Ken passare da divertita a stupita e un
po’ imbarazzata, si rese conto del vero significate di quelle
parole imparate a mente.
“Ehh”
si giustificò arrossendo, “Sai il corso di
letteratura teatrale inglese…”
“Ah!”
fece lui, mentre il volto gli si illuminava. “E io cosa
dovrei rispondere Essere o non essere?”
“No”
rispose Yasu con aria saputella. “Quello è Amleto,
non Romeo…”. Spiegò mentre con un
brivido pensava che la vera risposta sarebbe stata Ti prendo in parola:
chiamami soltanto amore, ed io sarò ribattezzato.
D’ora in avanti non sarò Romeo.
Giustificò
il brivido dicendo che stava rinfrescando e che era meglio rientrare e
poi doveva studiare… In realtà aveva le guance in
fiamme.
Tornarono di buon
passo all’appartamento e Yasu schizzò in camera
sua.
Si sedette alla
scrivania, fissando per un attimo la propria immagine riflessa nello
specchietto che teneva lì per truccarsi.
“O Romeo, Romeo!
Perché sei tu Romeo? Rinnega il padre tuo e rifiuta il tuo
proprio nome. Ovvero, se proprio non vuoi, fa soltanto di legarmi a te
con un giuramento d’amore, ed io, non sarò
più una Capuleti. È soltanto il tuo nome ad
essermi nemico: tu saresti sempre te stesso, anche se non fossi un
Montecchi. Che può mai significar la parola
“Montecchi”? non è una mano, non un
piede, non un braccio, né un volto né alcuna
altra parte che s’appartenga a un uomo. Oh, sii qualche altro
nome!
” mormorò con un sospiro.
Poi ne fece un
altro, più profondo, e tornò al libro di biologia.
****
I
brani citati da Yasu provengono da W. Shakespeare, Romeo
e Giulietta,
(atto II, scena II)... e ho sempre pensato che si adattassero
tantissimo ai miei due piccioncini...
|
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Capitolo 6 *** Happy Birthday - Toho Story 6 ***
Siamo
sempre al primo anno e Yasu e Ken non stanno ancora insieme.
***ATTENZIONE***
Si
avvisano le Genziane più suscettibili di saltare i primi
paragraf i e cominciare da "Pensavo"... lol
*guarda
amorevolmente Genzo e gli ricorda quanto bene gli vuole
ma...
si sa... son ragaaaazzi, ci vuol pazienza :P*
Happy Birthday
“Toh!”
esclamò Sorimachi, smanettando con quella sua inutile agenda
elettronica. “Domani è il compleanno di
Wakabayashi”.
“E allora?” chiese Kojiro con un’alzata
di spalle. “Cos’è? La Giornata
Internazionale della Boria?”
“O il giorno in cui toglie il cappello e lo lava?”
incalzò Ken, ridacchiando.
“Anzi no, la Giornata Mondiale delle Teste di
Cazzo...”
“O San Genzo Goal Keeper protettore dei tiri da fuori
area?”
“La Festa dell’Inviolabilità?”
“Il self-confidence day?”
Kazuki roteò gli occhi e incrociò le braccia,
guardando con sufficienza i due compagni sghignazzare e sciorinare
battute più o meno divertenti sull’SGGK. Alla fine
si reggevano la pancia ridendo sguaiati.
“Posso?” chiese infine il numero nove del Toho.
“Mandargli un bigliettino di auguri?”
ghignò Ken. “Sì, però, prima
di imbustarlo, dammelo che dentro ci voglio-”
“Pensavo...”
lo sovrastò con la voce Kazuki, preferendo non sapere quale
fluido corporeo del karate keeper sarebbe potuto volare in Germania
insieme agli auguri. “… visto che Yasu
è la sua sorella gemella, probabilmente
è anche il suo compleanno e credevo vi
potesse interessare!” urlò, stremato.
Kojiro smise di ridere all’istante scoccando al compagno uno
sguardo torvo. Ken lo guardò con occhi spalancati e il volto
pallido. Tendeva a resettare il pensiero che Genzo e quella che era
diventata la sua migliore amica fossero fratelli gemelli.
“Dobbiamo farle un regalo” balbettò il
portiere sconvolto.
Kazuki batté ironicamente le mani un paio di volte.
Finalmente ci erano arrivati. “Il problema è: cosa
si regala a una miliardaria?”
“Non solo... come facciamo?” Si intromise, pratico,
Kojiro. “Oggi è tardi per uscire dal campus e
domani fra lezioni e allenamenti non abbiamo tempo”.
“Magari possiamo ordinarle qualcosa per telefono...”
“Sì, una pizza... ma sei scemo,
Sorimachi?” lo rimbrottò il capitano,
allungandogli uno scappellotto.
“Ma sentiteli! E pensare che se non era per me manco ci
arrivavate! E comunque, credo basterebbe che uno di voi si mettesse un
bel fiocco di tulle in testa e...”
Hyuga gli scoccò un altro sguardo assassino chiedendogli
cosa andasse blaterando, mentre il colore tornava con un certo impeto
alle guance di Ken.
La tensione fu rotta dal rumore della porta che si apriva,
azzittendoli. Tuttavia, non era l’oggetto delle loro
discussioni, bensì Sawada.
“Ciao a tutti” salutò, solare come
sempre, il piccolo centrocampista.
“Dove sei stato, Takeshi?” chiese Ken,
desideroso di cambiare argomento.
“A comprare un regalino per Ya-chan” disse pacato,
con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
“Che cosa?” ringhiarono all’unisono gli
altri tre. “Tu lo sapevi?”
“Certo è scritto qui...” disse,
sventolando un foglio, che gli altri riconobbero all’istante
come quello consegnato loro mesi prima, il primo giorno del ritiro
della Nazionale, con tutti i dati di ogni giocatore.
D’istinto ognuno si domandò dove fosse
mai finita la propria copia e le ipotesi andarono
dall’aeroplanino, alle palline di carta e saliva con cui
bersagliare Ishizaki, da fungere da involto per chewing gum
da buttare a chissà cosa.
“E tu lo hai tenuto?” domandò Kazuki,
storcendo la bocca e osservando il foglietto perfettamente piegato .
“Certo” annuì deciso Sawada.
“Così posso fare a tutti gli auguri per il
compleanno...”
Gli altri lo guardarono inorriditi.
“Persino a Ya-chan perché è nata lo
stesso giorno di Genzo”. Rise, deliziato dalla straordinaria
coincidenza, dall’imprevedibilità del destino o
chissà cos’altro.
“E cosa le hai comprato?” chiese Ken, ostentando
un’aria vaga.
“Una fascia per i capelli. Dice sempre che le danno fastidio
quando corre, ma che ancora sono troppo corti per legarli. È
blu e grigia come la divisa del Toho!” concluse entusiasta.
Gli altri lo guardarono con malcelata ammirazione.
“Ora lo vado a nascondere perché fra poco Ya-chan
torna da lezione”.
L’espressione dei compagni da ammirata si fece sorpresa e poi
allibita quando, giusto due minuti dopo, Yasu rientrò
salutando col solito “Salve a tutti!”.
****
Yasu si sedette sul divano in attesa della canonica chiamata di Genzo.
Anche se quello era ancora un giorno speciale, la routine rimaneva la
stessa: i ragazzi andavano a letto e le lasciavano la privacy per
parlare col fratello, che di solito chiamava, per via del fuso orario,
attorno alla mezzanotte.
La ragazza aveva un sorriso beato stampato in faccia. I ragazzi
potevano dire quello che volevano: era stato uno dei compleanni
più belli della sua vita.
Eppure la giornata era cominciata male, malissimo... si era svegliata
piangendo, pervasa da un senso di solitudine così totale,
che solo chi non nasce da solo può capire. Era il primo
compleanno che lei e Genzo trascorrevano separati e le sembrava
così strano, brutto, ingiusto. Poi aveva recuperato la calma
e la razionalità, affrontando quella giornata come tutte le
altre. Certo, aveva sperato che qualcuno le facesse gli
auguri… ma vabbè...
Terminate le lezioni, era andata a vedere l’allenamento e
dopo era stata trattenuta per motivi futili un po’ da tutti i
compagni di squadra, per concludere col mister che l’aveva
fatta restare quasi un’ora nel suo ufficio a discutere di
cose che avevano già deciso tempo prima. L’inutile
riunione si era conclusa con uno strano risolino e un augurio di buon
compleanno da parte dell’allenatore.
Era tornata verso l’alloggio imprecando: era tardi ed era il
suo turno di fare le pulizie.
Ma quando era entrata in casa, l’aveva trovata pulitissima,
dal soggiorno alla cucina, persino la sua stanza era riordinata e
splendente.
Guardando meglio, aveva visto che sulla tavola troneggiavano un dolce e
un mazzo di fiori, evidentemente molto, come dire, artigianali, ma che
le erano sembrati meravigliosi. E dulcis in fundo,
quando si era avvicinata, da dietro il muretto che separava
l’angolo cottura, erano spuntati i suoi coinquilini gridando
“Buon compleanno!”
Dopo si erano profusi in mille scuse per non averle fatto il regalo, se
non quella fascia per capelli che, ci tennero a specificare, era da
parte di tutti. Ma lei aveva risposto, ed era sincera, che nessun dono
poteva valere quanto un turno di pulizie e una cenetta speciale come
quella che era seguita.
E, soprattutto, le avevano regalato il sorriso che adesso le piegava le
labbra e che quella stessa mattina le sembrava lontano anni luce...
I pensieri di Yasu furono interrotti dal telefono.
Ken sentì squillare il telefono, solo una volta: Yasu stava
vicino all’apparecchio e rispondeva subito, per non
disturbarli troppo. Controllò l’orologio: di
solito la conversazione col fratello durava una decina di minuti,
doveva calcolare bene i tempi per intercettarla.
Passati i canonici dieci minuti, Ken afferrò
l’involto che aveva tirato fuori dal borsone, aprì
piano la porta della propria stanza e si avviò lungo il
corridoio. Sentì la voce sommessa di Yasu e
ridacchiò: le poche volte che l’aveva sentita
parlare al telefono col fratello, aveva constatato che la conversazione
consisteva soprattutto in un monologo di Yasu cui Genzo rispondeva,
probabilmente, solo a monosillabi*.
E anche ora era così: le stava raccontando della
festicciola, anche se una versione un po’ modificata, visto
che l’SGGK non era al corrente del fatto che la sorella
convivesse con dei maschi. “Glielo dico
quest’estate” prometteva sempre.
Rimase per qualche istante nel corridoio, poi la sentì dire
quel buffo saluto in tedesco che suonava tipo
“ciuss” e seppe che era il momento di andare in
scena.
Yasu riabbassò la cornetta con quel misto di nostalgia e
allegria che le dava sempre parlare con suo fratello. Menomale che le
vacanze di Natale erano vicine e presto lo avrebbe riabbracciato! Era
sovrappensiero e l’ombra che si trovò davanti la
fece sussultare.
“Ken” sospirò poi, mettendosi una mano
sul petto. “Mi hai fatto paura.”
Ridacchiò.
“Paura? Nientemeno...” sorrise a sua volta il
portiere. “Non pensavo di essere tanto brutto...”
“Che scemo, sai che non è quello il...
problema” rispose un po’ imbarazzata.
“E’ che ti credevo a letto. Come mai ancora in
piedi?”
Il portiere consultò l’orologio e
bofonchiò qualcosa circa l’essere ancora in tempo,
poi attaccò, incerto: “Ecco... Neanche questo
è un vero regalo però...” le porse
l’involto. “Mi piacerebbe che li avessi
tu...”
“I tuoi guanti portafortuna!?!” esclamò
lei riconoscendoli, non appena li intravide.
Ken aggrottò le sopracciglia e le labbra si arricciarono
dandogli un’espressione contrariata. “Veramente...
tu mi avevi detto che non era vero.”
Yasu rise fra sé, ricordando l’episodio: era stato
durante una partita fuori casa, lui era andato nel panico totale
perché diceva che se non aveva in borsa quei guanti non
poteva giocare, che erano stati i suoi primi guanti eccetera eccetera.
Dopo aver rivoltato le borse di tutti, appurato che non
c’erano, Yasu si era giocata l’unica carta
disponibile e gli aveva fatto un discorso serio e circostanziato sul
fatto che la scaramanzia era una cavolata, che i portafortuna non
esistevano e che tutto quello che facciamo è il risultato
dei nostri sforzi e delle nostre capacità. Ken
l’aveva guardata per tutto il tempo con quei suoi profondi
occhi neri, le sopracciglia aggrottate e la bocca imbronciata, proprio
come in quel momento. Poi aveva visto la fronte distendersi e lo
sguardo farsi determinato. “E’ vero” le
aveva detto, prendendola per le spalle e trapassandola con una delle
sue occhiate taglienti. “Grazie”.
Yasu sorrise ripensando alla fiducia che aveva riposto in lei.
Abbassò il capo e confessò: “Sai,
lì per lì te l’ho detto solo
perché li avevi persi e non volevi giocare senza averli con
te...” rise dandogli un buffetto sul braccio.
“Allora - ” balbettò preoccupato.
“Ma credo che sia la verità,” lo
interruppe, poggiandogli le mani sul petto e guardandolo dritto negli
occhi. “In quella partita giocasti benissimo, no?”
Ken rilassò le spalle, sorrise e annuì.
“Ma anche se sono convinta che la loro presenza nel borsone
non influisca sulle tue prestazioni,” proseguì
lei, allontanandosi di qualche passo, “resta il fatto che a
questi guanti ci tieni, sono un ricordo... non posso
accettare...”.
“Ma va’, non mi entrano più da anni. E
poi, a scanso di equivoci, puoi sempre portarli tu alle
partite.” E così dicendo glieli mise fra le mani.
“Grazie” mormorò lei, tirandoli con
attenzione fuori dal sacchetto e guardandoli.
“Provali” la incoraggiò.
Li fece scivolare lungo le mani con sorprendente facilità,
li allacciò e vide che le calzavano benissimo.
“Grazie” ripeté ancora.
“Sono sempre in discrete condizioni, si meritano di fare
qualche altra parata...” sorrise, prendendole le mani per
stringerli meglio attorno ai polsi.
“Allora forse non sono la persona più adatta...
però, se vuoi, durante le partite li indosserò:
sono così comodi...” esclamò allegra,
sventolandogli le mani davanti. “Se vuoi che vengano usati
dovresti darli al tuo secondo, il portiere della squadra delle
medie...”
“Ecco!” fece Ken, battendosi il palmo sulla fronte,
come se si fosse scordato qualcosa, ma il lampo che gli
passò negli occhi suggeriva che era tutta scena.
“La prossima settimana facciamo una partita di allenamento
contro la squadra delle medie, ma il loro portiere non
c’è... ora, io giocherò nella loro
porta per avere contro Hyuga e gli altri, ma ci vuole qualcuno fra i
pali della nostra porta... Non è che ti
andrebbe...”
“Io?!?” balbettò incredula, puntandosi
un dito al petto.
Ken annuì, contento.
Yasu lo fissò per qualche istante, poi gridò
“Sììììì!!!”
e gli saltò al collo, stringendolo forte.
Era felice, felice per quella giornata, felice per i guanti, felice
perché avrebbe giocato insieme ai suoi amici, felice
perché aveva i suoi amici, felice perché aveva
Ken e lo stava abbracciando, felice perché lui ricambiava,
timidamente, l’abbraccio.
Difficile dire quale fosse il regalo più bello.
************************************************
Note:
*
Un credito doveroso:
questo, lo ammetto, l'ho ripreso da Jeans di WYHY (che
consiglio vivissimamente). E' un dettaglio che ho adorato, spero non me
ne voglia per averglielo "rubato".
Una dedica speciale
a sissi, che aveva bisogno di sorridere un po'.
Un grazie alla mia
beta rediviva rel, che mi era mancata assai!!!
bacini sparsi a tutti
|
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Capitolo 7 *** Qualcosa di caldo, qualcosa di dolce - Toho story 9 ***
Stavolta
non anticipo niente sulla collocazione temporale... lo scoprirete da
soli... e scusate la ficcynosaggine della cosa ma ormai sono una
vekkiaminkia rimbambita...
Qualcosa di dolce, qualcosa di caldo
Rabbrividendo,
Sorimachi entrò in casa, pregustando il calduccio, al riparo
dal gelo che imperversava in quella freddissima giornata di gennaio. La
notte prima era persino caduta un po’ di neve. Figurarsi la
sua sorpresa quando, entrando nell’appartamento,
trovò i suoi coinquilini vestiti da bufera
–giaccone, guanti, sciarpe e cappelli- tutti pressati in un
divano.
“Beh”
chiese con uno dei suoi soliti sorrisetti ironici. “Non usa
più togliersi il cappotto per stare in casa?”
“Fallo
pure, Sorimachi” sibilò Yasu. “Abbiamo
l’imperatore, ma viviamo in un paese democratico.”
Kazuki
ridacchiò e scosse la testa, sfilandosi il giaccone.
“Ihhhh” trasalì, “ma fa
freddissimo! Non va il riscaldamento!?”.
Un
applauso ovattato dai guanti si alzò dal divano.
“Riscaldamento
andato” spiegò Ken, laconico.
“E
fino a domani non possono aggiustarlo” chiosò
Takeshi con un sospiro.
Kazuki
si sedette sull’altro divano, guardando con invidia i
compagni, stretti l’uno contro l’altro.
“Prendi
pure il mio posto” fece Yasu, sfilandosi a fatica dallo
spazietto dove se ne stava incastrata fra Kojiro e Takeshi.
“Abbiamo ancora del cacao in polvere, preparo una cioccolata
calda”.
“Buona
la cioccolata!” esultò Takeshi.
“Soprattutto
calda!” intervenne sarcastico Sorimachi, scimmiottando
l’entusiasmo del giovane centrocampista.
Yasu
tornò di lì a poco con un vassoio con cinque
tazze fumanti. Le distribuì agli altri e prese la propria,
andandosi a sedere sul divano vuoto. Mentre soffiava sul cucchiaio
colmo di cioccolata, le sovvenne che, forse, doveva avvisarli che la
bevanda era bollente, ma non fece in tempo.
Un
coro di imprecazioni si levò dai tre ragazzi più
grandi, mentre Takeshi li guardava allibito col cucchiaio a
mezz’aria.
“Ahiaaaa”
protestò Kazuki. “Ma che cazzo è,
lava?”
“Scusate,
pensavo lo sapeste” disse Yasu, mortificata, spostando
d’istinto lo sguardo su Ken. Mentre preparava con cura la
bevanda, non aveva mai smesso di pensare al portiere e alla sua
passione per il cioccolato… aveva sperato che gli piacesse e
le facesse i complimenti per come l’aveva preparata. Invece
la sua cioccolata gli aveva ustionato la lingua. Bella prova!
Trattenne
il respiro vedendolo passarsi la lingua sulle labbra per valutare il
danno. Poi i loro sguardi s’incrociarono: lui sorrise e le
fece la linguaccia, accompagnandola con una strizzatina
d’occhio.
Yasu
sorrise di rimando, alzando gli occhi al cielo con aria birichina.
Ridacchiò ancora, vedendo che Kojiro procedeva allo stesso
esame del compagno, ma con le dita.
“Così
impariamo a fare gli ingordi” disse Wakashimazu, passando a
usare il cucchiaio, soffiandoci sopra a lungo, prima di portarselo alla
bocca. Yasu si perse un attimo nell’osservare quel movimento,
avvicinando a sua volta il proprio cucchiaio alle labbra, immaginando
che fosse quello fra le dita di Ken...
Scosse
la testa. Doveva smetterla di perdersi in quelle stupide fantasie!
“Ma
che si fa?” sbuffò Kazuki, una volta che le tazze
furono vuote.
“Magari
andiamo a cena in mensa” suggerì Yasu e gli altri
annuirono con un sospiro.
“Sì,
ok, ma dopo? Se nevica come ieri notte, ci congeleremo!”
insisté il numero nove. “Rischiamo di ammalarci, e
la prossima settimana abbiamo la partita.”
“Quando
a casa mia si rompeva il riscaldamento, e succedeva abbastanza
spesso,” bofonchiò Kojiro, alzandosi per
raccogliere le tazze e riportarle in cucina, “la notte
dormivamo tutti insieme nel lettone dei miei.”
In
sua assenza, gli altri si scambiarono sguardi che andavano dallo
sconcertato, all’allibito, all’inorridito.
Yasu
cercò di non porsi troppe domande sul modo in cui Ken aveva
spalancato gli occhi, abbassandoli subito dopo.
“Non
ti offendere, capitano,” azzardò Kazuki, quando
Kojiro tornò a unirsi al gruppo. “Ma non credo sia
la migliore delle strategie”.
“Non
è che muoio dalla voglia di dormire con te,
Sorimachi… né di essere nei paraggi quando ti
togli le scarpe…” disse Kojiro, guardandolo di
sottecchi e scatenando una risata generale. “Era per fare
conversazione” concluse con un’alzata di spalle.
Kazuki
lo guardò inarcando il sopracciglio, chiedendosi da quando
in qua il capitano facesse conversazione. Forse anche quello serviva a
difendersi dal freddo.
Un
gridolino di Yasu interruppe i suoi pensieri: “Ho
un’idea!” gongolò la ragazza.
“Andiamo a dormire nello spogliatoio! Le panche saranno dure,
ma almeno lì il riscaldamento funziona. E io so dove il
custode tiene le chiavi di scorta...” concluse con aria
soddisfatta.
Dopo
la terribile cena della mensa, i ragazzi tornarono nel loro
appartamento, presero degli indumenti caldi e tutte le coperte che
avevano e si diressero verso il campetto. Se qualcuno aveva ancora dei
dubbi sul dormire nello spogliatoio, con quella breve visita
all’appartamento si era definitivamente convinto:
là dentro era più gelido del vialetto che stavano
percorrendo.
Yasu
recuperò le chiavi e aprì il paravento
d’ingresso all’edificio che ospitava gli
spogliatoi, quindi si soffermò davanti al quadro per
accendere le luci e avviare il riscaldamento: presto si sarebbe diffuso
un piacevole tepore.
I
ragazzi l’avevano preceduta nello spogliatoio e si stavano
già sistemando, quando Yasu li raggiunse, fermandosi
tuttavia sulla soglia di quella stanza che, da sempre, era
l’unico posto dove non poteva seguire i suoi amici. E quella
volta non avrebbe fatto eccezione: restando con loro, li avrebbe messi
in imbarazzo, quindi decise: “Io mi sistemo in
infermeria”.
“Non
dormi con noi Ya-chan?” chiese Takeshi un po’
deluso. “Speravo che…”
“Cosa,
Sawada, volevi la favola della buonanotte?” lo canzono Kazuki.
Il
ragazzo più piccolo aggrottò le sopracciglia e
non disse niente ma, di nascosto, guardò Ken.
Il
portiere aveva sistemato le proprie cose su una panca e stava
appoggiando le coperte di Yasu, che aveva insistito per portare lui, su
quella di fronte, ma sentendo le parole della ragazza si era
interrotto, adombrandosi.
“Credo
che così faremo più il nostro
comodo…” spiegò lei, con un fremito
nella voce.
“Tu
di sicuro te ne starai comoda, sul lettino
dell’infermeria…” insinuò
Kazuki. “E pure più calda...”
“Non
è quello è che -” balbettò,
imbarazzata.
“Non
devi giustificarti, Wakabayashi” intervenne, autoritario,
Kojiro. “E tu Sorimachi lasciala in pace e falle fare quello
che si sente. Piuttosto, potresti andare in sala attrezzi a prendere
qualche tappetino, così magari dormiamo sul morbido anche
noi.”
Kazuki
annuì e andò a cercarli.
Yasu
si scostò dalla porta per farlo passare, quindi, dopo un
attimo di esitazione, fece alcuni passi verso Ken, tendendo le braccia
per riavere le coperte.
“Te
le porto io di là” ribatté il portiere,
brusco.
“Mettile
pure lì, grazie” disse Yasu, senza guardarlo negli
occhi, indicando uno dei due lettini dell’infermeria.
“In effetti c’è già caldo
qui, non so se mi serviranno...”
Ken
borbottò qualcosa sul fatto che in effetti erano troppe, poi
fece quanto richiesto. Il cuore gli accelerò quando con le
mani sfiorò il lettino, ricordando tutte le volte in cui
lì la ragazza si era presa cura di lui. Certo, lo faceva con
tutti, ma gli piaceva pensare al tocco delicato delle sue mani, al suo
ciarlare allegro, per distrarti. Scosse appena la testa per liberarsi
di quei pensieri e si guardò attorno, le mani sui fianchi.
“Sei
sicura di voler stare qui?” le chiese, titubante.
“Sì”
“Da
sola?”
“Sì,
tranquillo, non ho paura.”
“Noi
siamo lì” fece indicando la porta dello
spogliatoio, poco più su, lungo l’androne.
“Appunto”
sorrise lei, “come a casa.”
“Sì,
come a casa. Se hai bisogno-”
“Vi
chiamo”.
“Sì,
mi
chiami” parafrasò lui, quasi senza accorgersene.
Yasu
aveva iniziato a preparare il letto. Ken si diresse verso la porta, poi
si fermò, appoggiando la mano all’imbotte e
tamburellando col pugno un paio di volte. Inspirò
a fondo, poi si voltò verso di lei.
La
ragazza era di spalle ma percepì quel movimento e
trasalì. Fece un paio di respiri profondi, gli occhi fissi
sugli armadietti in fondo alla stanza.
“Yasu...”
la chiamò piano.
“Sì,
Ken?” rispose lei, cercando di controllare la voce e tutto il
resto del corpo, mentre si voltava.
“Sei...”
“Sì?”
“Sei
proprio sicura di stare qui? Guarda che a noi non dai
fastidio.” disse tutto d’un fiato. Ma non era
quello che voleva dire. Voleva restare lì con lei,
sorvegliarla, proteggerla e poi magari tenerla fra le braccia,
scaldarla e... deglutì a vuoto.
“Preferisco
così” rispose la ragazza, sperando che la
delusione non trasparisse. Non le andava affatto di stare da sola.
Avrebbe voluto dormire insieme ai suoi amici. Magari vicino a
lui…
Si
fronteggiarono per qualche secondo, guardandosi negli occhi solo di
sfuggita.
“Buonanotte”
disse infine il portiere, accennando un inchino.
“Buonanotte”
rispose lei, stiracchiando un sorriso e chiudendogli la porta alle
spalle più velocemente possibile.
Ken
rimase un attimo fermo in mezzo al corridoio, il respiro accelerato,
massaggiandosi l’attaccatura del naso, cercando di calmarsi.
E
dandosi dello stupido.
Yasu
affondò la testa nelle coperte che Ken le aveva portato,
sperando che avessero il suo profumo. Ma l’unico odore era
quello della lavanda che teneva nell’armadio. Lui era stato
dolce e gentile come sempre, ma l’avrebbe fatto con chiunque,
no? Doveva smetterla di pensare che ci fosse qualcosa di più.
Kazuki
aprì le braccia, lasciando cadere a terra la pila di
tappetini che aveva portato dalla sala attrezzi.
“Visto
niente?” chiese Kojiro.
“Ho
dato uno sguardo veloce, ma non volevo farmi beccare...”
“Speriamo
sia la volta buona” sospirò Takeshi.
“E
cosa hai visto?” incalzò il capitano.
“Ken
era dentro la stanza e parlavano. Se davvero lei gli piace, non
può lasciarsi sfuggire questa occasione, cazzo... sarebbe
da…”
“…
coglioni. Ma stiamo parlando di Wakashimazu, quello che si butta sotto
i camion per salvare i cani e para i rigori con il polso
rotto…” bofonchiò Hyuga. Eppure non
c’era scherno in quelle parole, solo una semplice
constatazione dell’inguaribile impulsività del suo
amico, spesso a discapito della sua stessa salute fisica. E di quella
mentale di chi, come Kojiro stesso, aveva la pessima abitudine di
preoccuparsene.
“Assurdo”
commentò Kazuki con un gesto di sufficienza. “Non
esita a buttarsi sotto un camion o sui piedi di un giocatore in
corsa… e non si butta a provarci con una ragazza, ben
sapendo che lei non aspetta altro!”
“No
che non lo sa” precisò Takeshi.
“Ma
è ovvio, non vedi come lo guarda? Ti sembra che si comporti
con lui come con noi? Hai presente come vengono stirate le sue
magliette e come le mie?”
“Quello
è perché Ken se le stira da solo e tu lo fai fare
a Ya-chan” spiegò Takeshi.
“Davvero?”
chiese sconvolto Kazuki, col rischio che la mascella gli si staccasse.
Gli
altri due annuirono convinti.
“Comunque,”
riprese l’attaccante, dando una scrollata di spalle.
“Non vede tutto il resto?”
“Noi
lo vediamo, ma loro no.” continuò il
centrocampista, guardando i compagni con aria seria, seduto a gambe
incrociate sulla propria panca. “È come
se…” si guardava intorno come per cercare le
parole, agitando le mani davanti a sé. “Non
riuscissero ad… afferrarlo.”
“Per
Wakashimazu non dovrebbe essere una sensazione
nuova…” ridacchiò Kazuki.
“Fra il Tiger Shot e i phrasal
verbs, sono diverse le cose che non afferra…”
Kojiro
incurvò la bocca in un mezzo sorriso, invece Sawada si
accigliò: “Dico sul serio. Magari sono innamorati…”
Gli
altri due lo guardarono come avesse le antenne.
“Sawada
ma ti sei rincoglionito pure tu?” fece Kazuki, inarcando il
sopracciglio.
Takeshi
dette un’alzata di spalle e si coricò girandosi
verso il muro. Kojiro sembrò riflettere per un attimo,
fissando il pavimento. Quindi scoccò un’occhiata
torva a Kazuki e stava per bofonchiare un
“Buonanotte”, quando la porta si aprì e
apparve Ken.
Il
portiere entrò a testa bassa, il viso coperto dai lunghi
capelli, si avviò verso la propria panca e ci si
lasciò cadere pesantemente.
Takeshi
lo guardò di nascosto da sopra la spalla, gli occhi tristi.
Kazuki prese fiato come per parlare, ma un’occhiataccia del
capitano lo fece desistere.
I
taglienti occhi neri di Kojiro, ridotti a fessure, fissarono a lungo
quelli di Ken, sondandoli, dall’alto di anni di reciproca e
profonda conoscenza. Non li aveva mai visti così. Vi aveva
visto la rabbia, la sfida, la sconfitta, ma mai tanta inquietudine.
Ebbe voglia di avvicinarsi a lui e passargli un braccio attorno alle
spalle e chiedergli cosa avesse. Ma non era così che
funzionava tra loro e si limitò a distogliere lo sguardo.
Ken
si sdraiò, lentamente, cercando di sistemare la propria mole
su quello spazio duro e angusto. Hyuga era preoccupato per lui, glielo
aveva letto negli occhi. E stavolta, stranamente, non per qualche
cazzata che aveva fatto ma per quello che non aveva fatto, proprio lui
che di solito prima si buttava a testa bassa e poi rifletteva. Ma non
ce la faceva. Yasu gli piaceva, ma gli piaceva così tanto
anche quello che avevano già, che la paura che qualcosa
potesse cambiare lo bloccava, come mai gli era successo prima. Niente
lo aveva mai fermato finora, non suo padre, non gli infortuni, non il
buon senso. Ma quella cosa sì, quella cosa che gli bloccava
le gambe, le mani, la gola, il cuore.
Chiuse
gli occhi e si concentrò sul proprio respiro, facendo
appello agli esercizi di rilassamento che proprio suo padre gli aveva
insegnato. Per un tempo che parve infinito, fissò la
cappelliera sopra di lui.
L’aria
era ormai tiepida e il respiro dei suoi compagni si era fatto sommesso
e regolare, mentre il suo, riusciva ancora a controllarlo a fatica.
Provò a cambiare posizione, ma la panca consentiva poco
spazio di manovra e s’impose di stare fermo per non cadere.
Sentiva ogni muscolo in tensione. Non sarebbe mai riuscito a dormire,
quindi si alzò per fare due passi nel corridoio. E
naturalmente si ritrovò di fronte all’infermeria e
fu oltremodo felice di vedere che c’era la luce accesa.
Fissò
la porta socchiusa per qualche secondo, ruotò le spalle e
prese un lungo respiro.
E
che diamine. Era o non era quello che si buttava a capofitto nelle
cose? Che si lasciava trasportare dalle emozioni?
Bussò.
“Chi
è?” chiese Yasu da dentro, un po’
spaventata.
“Sono
io, Wakas- ... Ken”.
“Vieni
pure” rispose, il tono assai più allegro.
Il
portiere aprì piano la porta e la guardò:
sorrideva e, come sempre quando lo faceva, gli occhi le brillavano e
somigliava molto meno a suo fratello.
Yasu
sorrideva, perché era irrazionalmente felice che lui fosse
tornato, fosse anche solo per dirle qualcosa di stupido.
Per
un attimo aveva pensato che, nel dormiveglia, i suoi pensieri avessero
preso forma di fronte agli occhi assonnati, ma invece era tutto vero,
lui era lì ed era così carino con
quell’espressione un po’ timorosa e la coperta
stretta nella mano sinistra che strusciava sul pavimento. Una specie di
Linus con un bel po’ di centimetri di altezza e di capelli in
più.
“Dimmi”
lo incoraggiò.
Lui
spalancò gli occhi, come alla ricerca di una risposta. Poi
ammise: “Non riuscivo a dormire, di là la panca
è scomoda e...” fece una pausa. “Ero un
po’ preoccupato al pensiero di te qui da sola e allora ho
pensato... visto che comunque nello spogliatoio mi sarei steso sul
pavimento... ho pensato che potevo dormire qui davanti, nel
corridoio... così se mi vuoi sono qui.” Disse
chiudendo la porta, senza darle il tempo di replicare.
Yasu
rimase a bocca aperta: era un pensiero dolcissimo, che
l’aveva colta di sorpresa e destabilizzata. Avrebbe dovuto
dirglielo quanto le sembrava carino, o almeno offrigli qualche coperta
in più... il corridoio era freddo, specie il pavimento!
Trattenne
il respiro ascoltando lo strusciare delle coperte sulle piastrelle e
contro la porta.
Poi
più niente.
Che
si fosse già addormentato? Yasu si distese, ma continuava a
stare in ascolto. Lo sentiva cercare la posizione giusta, facendo
tintinnare l’uscio, che aveva un po’ di gioco.
Dopo
qualche minuto si rese conto che non avrebbe mai dormito in quelle
condizioni. Si alzò e aprì piano la porta.
“Non
mi va che dormi per terra... se proprio vuoi stare qui puoi sistemarti
sull’altro lettino” sparò, senza
rifletterci troppo.
“Si-
sicura?”
“Sì,
mi... fa piacere. In effetti avevo un po’ paura da
sola” sorrise. Non era proprio la verità, ma certo
se lui stava lì era... meglio.
Il
portiere entrò, chiudendosi la porta alle spalle e, senza
quasi guardare Yasu, sistemò le coperte sul lettino e si
sedette. Solo allora rivolse lo sguardo verso di lei.
“Anche
se il mio sarebbe quello” esordì Ken, indicando
nella sua direzione.
“Cosa?”
“Il
lettino” spiegò. “Di solito mi... ehm ci fai sedere
lì.”
“Ah
sì, è vero, mi è più comodo
per via dell’altezza. Anche se in confronto a te non si
direbbe, sono considerata anche io una
‘spilungona’.”
“Ti
dispiace?”
“No
ma...”
“Secondo
me stai bene così”.
“Grazie”
mormorò, arrossendo appena. “E comunque immagino
ci si possa far poco... beh, vogliamo dormire?” concluse,
desiderosa di girarsi verso il muro.
“Sì,
che è tardi, buonanotte.”
“Buonanotte”.
Yasu
aveva proposto di dormire ma era uno di quei casi in cui fra il dire e
il fare... la brandina, seppur relativamente comoda, le sembrava fatta
di spilli e sotto le coperte era percorsa a intervalli da brividi e
vampate di calore, neanche avesse quaranta di febbre. Cercando di far
piano, si rigirò più volte alla ricerca di una
posizione confortevole.
Ken,
invece, si godette la sensazione di potersi finalmente distendere su
una superficie abbastanza ampia e morbida da poter tentare di dormire.
Ma stava a orecchie dritte e a ogni movimento di Yasu se ne
accompagnava uno del suo cuore.
Dopo
qualche minuto, si decise : “Non riesci a dormire? Hai
freddo? Sei scomoda?”
“Non
ho sonno” rispose.
“Magari
ti va di... ehm... parlare un po’?”
Il
cuore di Yasu si fermò un istante, poi ricominciò
a battere tanto forte, che temette Ken potesse sentirlo. Controllando
la voce, chiese se anche lui non riusciva a dormire.
“Più
o meno” disse, tirandosi su seduto.
La
ragazza si sedette a sua volta e si allungò ad accendere la
lampada sulla scrivania dietro di lei. Faceva poca luce, ma sufficiente
per indovinare i profili dei mobili. E quello di Ken. Raccolse le gambe
al petto abbracciandosele e poggiò la schiena al muro, poi
guardò verso il portiere.
Lui
si lasciò scivolare giù dal lettino.
“Posso sedermi vicino a te?” sussurrò,
con la gola secca.
Yasu
si spostò di lato e guardò nella sua direzione,
poi batté con la mano sulla parte libera del materassino.
“E’
il tuo posto, no?” disse, sforzandosi di ridere.
Ken
fremette: lo sapeva che lei si riferiva alla battuta di poco prima sul
lettino, ma non riuscì a trattenere il pensiero che
sì, il suo posto era vicino a lei.
Si
sedette sul bordo del giaciglio, le gambe penzoloni e i piedi che
sfioravano il pavimento. Lei era leggermente più indietro.
“Di cosa parliamo?” gli chiese dopo un
po’, fissandogli la schiena.
Silenzio.
“La
tua cioccolata era buona.” Buttò lì
Ken, girando la testa per guardarla con la coda dell’occhio.
“Davvero?
Ma se ti ha ustionato la lingua...” rispose imbarazzata,
rapita dal profilo perfetto del suo naso, e dal movimento ipnotico
delle labbra, e dei capelli che lo celavano a tratti.
“E
che c’entra, perché sono goloso... ciò
non toglie che fosse buona. Bollente, ma buona”
ridacchiò.
“Non
tutto il male viene per nuocere” commentò Yasu,
ridendo di rimando. “Si dice così, no?”
“Sì
e io...” Esitò. “Lo penso sempre quando
vengo qui dentro...”
“In
infermeria?”
“Sì,
perché anche se mi son fatto male, ci sei tu...”
Yasu
ringraziò di essere appoggiata al muro: quelle ultime tre
parole, udite in una qualsiasi altra posizione l’avrebbero
mandata a gambe all’aria. Socchiuse gli occhi e
inspirò a fondo.“Non importa, sai, che ti fai
male..” sussurrò, esitante. “Io... ci
sono sempre, per te...” concluse, mettendogli una mano sulla
spalla e sporgendosi in avanti.
Ken
le sfiorò la mano, staccandola dolcemente per prenderla fra
le proprie. I suoi palmi erano grandi e caldi, nonostante il freddo.
Yasu si sentiva come se, al posto dello stomaco avesse il vuoto
cosmico, un buco nero o qualcosa del genere. Tremava, mentre alzava lo
sguardo a incontrare quello del portiere.
“Lo
vorresti davvero... insomma... esserci sempre per me? Stare...
sempre... con... me...” balbettò Ken, chiedendosi
cosa diavolo stesse dicendo. Quando vide quegli occhi color nocciola
fissare i propri, il ragazzo non abbassò lo sguardo, anche
se per un attimo indugiò sulle labbra rosee, appena
dischiuse.
Sembrava
stupita.
E
lui aveva voglia di baciarla.
Non
sapeva da dove venisse quel desiderio... come si poteva desiderare
qualcosa di cui non si aveva idea?
Eppure
lo voleva. Socchiuse gli occhi e si chinò verso di lei.
Quando
scorse quel movimento, Yasu serrò gli occhi. Aveva paura.
Quando le labbra di Ken sfiorarono le sue, per un attimo, ebbe voglia
di scappare. Ma il suo corpo non le obbedì, ormai rispondeva
a un altro richiamo. Quello che la spinse a dischiudere le labbra e ad
accogliere quel bacio che, si rese conto, aspettava da mesi.
O
forse da sempre.
Yasu
sentì un piacevole torpore diffondersi per il corpo e
cominciò a ricambiare il bacio, prima timidamente, poi con
maggiore confidenza. Finché, con un gemito, Ken non si
staccò e si allontanò, premendosi la mano sulla
bocca.
Il
calore si trasformò in una doccia gelata che la fece
vacillare. “Scusami io...” borbottò la
ragazza ritraendosi.
“No,
no” si affrettò a chiarire Ken. “Era
tutto... bellissimo... è solo che ho... la lingua
ustionata” disse, trattenendo a stento le risa.
Yasu
scoppiò a ridere a sua volta. Poi si fece di nuovo seria,
tornò a fissarlo negli occhi e gli poggiò una
mano sulla guancia.
“Allora
cercherò di essere delicata” sussurrò
prima di baciarlo ancora.
***
Yasu
si svegliò e dovette sbattere gli occhi due o tre volte
prima di realizzare dove si trovava, mettere a fuoco la stanza che la
circondava e capire la strana posizione in cui si era addormentata.
Quando
le tornò in mente cos’era successo la sera prima,
sentì come se della lava incandescente le si riversasse
dallo stomaco nell’addome, e il cuore cominciò ad
accelerare.
Si
girò lentamente e, dalla posizione fetale in cui si era
addormentata, si mise a pancia su. Alzò piano il mento e
vide il volto addormentato di Ken sopra di lei.
Era
come sospettava: lui si era addormentato con la schiena contro il muro,
dove la sera prima si era seduto per chiacchierare e poi…
Yasu deglutì a vuoto e resistette alla tentazione di
portarsi una mano alle labbra, per paura di svegliarlo, muovendosi.
Sì perché lei aveva dormito tutto il tempo con la
guancia poggiata sulle gambe di Ken, con una delle sue mani grandi
posata sul fianco.
Rimase
per un po’ lì, cercando di controllare il respiro
e di riordinare le idee, ma le uniche parole che riusciva a pensare
erano: “E ora?”
I
muscoli, irrigiditi dalla strana posizione in cui aveva dormito
cominciarono a darle il tormento. Doveva alzarsi, fare due passi,
sgranchirsi muscoli e cervello.
E
comunque, prima o poi avrebbero dovuto muoversi, non potevano restare
lì in eterno. L’idea era allettante ma,
ahimè, irrealizzabile.
Si
era quasi decisa ad alzarsi, quando qualcuno bussò alla
porta un paio di volte. Lei rimase immobile, Ken scosse appena la
testa, mugolando piano.
Dopo
qualche attimo la maniglia si abbassò e Kazuki fece capolino.
Yasu
si alzò di scatto. Ken si svegliò e,
d’istinto, la abbracciò come a difenderla.
“Buongiorno
piccionc- ahia” esclamò l’attaccante
girandosi verso chi, evidentemente, lo aveva interrotto con modi poco
gentili.
La
porta si spalancò rivelando che il torturatore non era
Kojiro bensì Takeshi, che, dopo aver dato un forte
pizzicotto a Sorimachi, comunicò loro con un sorriso che a
breve sarebbe arrivato il custode ed era dunque ora di sloggiare,
quindi richiuse rapidamente la porta rischiando di schiacciare la mano
del compagno.
Ken
e Yasu, che erano rimasti come imbambolati, si riscossero solo dopo che
la porta fu chiusa di nuovo.
“Dobbiamo
andare” esalò la ragazza, quasi senza voce.
“Certo.”
“Ehm…”
ridacchiò lei. “Dovresti…
togliere…”
I
suoi occhi divennero enormi e svelto la liberò da
quell’abbraccio. Yasu scese lentamente dal lettino e lo
guardò stiracchiarsi e scendere a sua volta.
In
silenzio, raccolsero le coperte e Ken si avviò verso la
porta. Quando poggiò la mano sulla maniglia, Yasu, rimasta
qualche passo indietro, lo chiamò.
“E
ora?” disse, finalmente ad alta voce.
Lo
osservò mentre si voltava e le mancò il fiato
perché, dopo quella notte, le parve ancora più
bello del solito.
“Beh
ora siamo una...” fece una pausa, arricciando il naso, come
se cercasse la parola giusta “...squadra” concluse,
con una certa soddisfazione. E un sorriso disarmante.
Yasu
lo guardò perplessa, ma poi un piacevole calore le si
diffuse nel petto, a dispetto del refolo d’aria fresca che
veniva dal corridoio. Una
squadra suonava decisamente bene, pensò mentre,
orgogliosa, afferrava la mano che lui gli aveva teso.
*************
Grazie rel, grazie agatha
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Capitolo 8 *** Una Visita - Toho Story 7 ***
Siamo
a luglio del secondo anno. Yasu e Ken stanno già insieme da
qualche mese ma, fuori dai cancelli del Toho, la storia non
è certo di dominio pubblico...
Mettiamo
poi che qualcuno di inatteso suoni al campanello...
Una visita
“Che
caldoooo” mugolò Yasu, crollando sul tavolo.
“Ma perché mettere i compiti in
classe a luglio? Kamisama, mica abitiamo in Alaska”.
“Ti
lamenti proprio tu che passerai di sicuro?”
ringhiò Kojiro, tracciando
rabbiosamente una X rossa sull’ennesimo risultato sbagliato
dell’equazione.
“Di
sicuro c’è solo che sto morendo di
caldo” borbottò la ragazza, imbronciata.
“Se
ancora il concetto non fosse chiaro…”
ironizzò Sorimachi dal bagno.
“Se
la smetteste di lamentarvi e punzecchiarvi, finiremmo in fretta e
magari
potremmo andare un po’ in piscina” intervenne Ken,
serio, cercando di placare
gli animi surriscaldati dal clima e dalla matematica..
“Dico
solo che, come minimo, negli alloggi ci dovrebbe essere
l’aria condizionata-”
“Ma
sentitela” la interruppe Kojiro. “Dove credi di
essere, al Grand Hotel?”
“O
a casa tua?” rincarò la dose Sorimachi, sempre
urlando attraverso la porta
aperta del bagno.
“Io
ve lo avevo detto di andare a studiare a Villa Wakabayashi, ma voi non
avete
voluto! E poi con la retta che paghiamo…” fece una
pausa, osservandoli. “Ah
già, voi avete tutti la borsa di studio…
sarà mica per quello che abbiamo
l’appartamento più fatiscente?”
Ken
stava per gridare un “BASTA!” ultrasonico, ma il
suono del campanello
interruppe l’ameno scambio di opinioni fra coinquilini.
Si
guardarono con aria interrogativa e tutti scossero la testa: nessuno
aspettava
visite. Dato il caldo, poi, erano tutti poco presentabili: Yasu
indossava un
top e dei pantaloncini cortissimi, Kojiro era direttamente in boxer e
canottiera,
Ken aveva su solo dei bermuda. Per non parlare di Sorimachi che, finiti
i
compiti, si stava facendo la doccia.
Con
un sospiro, il portiere si rese conto di essere l’unico in
condizioni vagamente
decenti e si trascinò fino al portone. Passando, ebbe il
buon gusto di
accostare la porta del bagno.
“Sì?”
chiese un po’ scocciato, aprendo la porta.
Seguì
un silenzio strano. Yasu e Kojiro si guardarono perplessi.
“Ya
– Yasu” balbettò poi Ken,
dall’ingresso. “Hai hai…
visite”.
La
ragazza si alzò e si avviò a sua volta verso il
portone. “Chi…” la voce le
morì
in gola e il cuore le rimbalzò forte nel petto.
“Genzo!” gridò infine,
lanciandosi attraverso il corridoio fra le braccia del fratello.
Non
sapeva se piangere o ridere. Cioè, lo sapeva: avrebbe
pianto, ma non era sicura
se per la gioia di rivederlo, per la disperazione o per le tante,
troppe cose
da spiegare. Che suo fratello non avrebbe capito.
Nel
frattempo, Kojiro si era affacciato dall’uscio della cucina e
Kazuki da quello
del bagno, come si è detto, in mutande il primo, coperto
solo da un asciugamano
il secondo. I due giocatori accennarono un mezzo saluto al visitatore
ma Genzo
non rispose, intento com’era a passare in rassegna, con
sguardo torvo, le mise
dei quattro studenti.
“Scusa”
cercò di batterlo sul tempo Yasu, “stavamo
studiando e fa un caldo…”
“E
dove sono i loro vestiti?” la interruppe, puntando il dito
contro i ragazzi.
“Come
ti ho detto…” A Yasu sembrava di sentire le
proprie unghie stridere sugli
specchi su cui cercava di arrampicarsi. “Stavamo studiando e
pensa un po’,
avevamo del succo che è finito tutto addosso a Kazuki,
nonché sulla maglia di
Ken e sui pantaloni di Kojiro…”
Wakashimazu,
dietro le spalle di Genzo, si passò la mano sulla faccia,
scuotendo il capo. Sorimachi
soffocò a stento una risata, mentre Kojiro faceva sforzi
disumani per restare
impassibile.
“E
le tue compagne di appartamento? Non hanno problemi con questi mezzi
nudi in
giro per casa?”
“Ehhh
vabbè…” scherzò Yasu,
forzando una risata, “poteva andare loro
peggio…” insinuò
accennando agli addominali di Ken e ai bicipiti in bella mostra di
Kojiro. “E
poi come vedi non ci sono… ma che maleducata,”
tentò di sviare, “ti lascio lì
sulla porta, vieni, appoggia i bagagli in camera mia”.
Peccato
che, per arrivare alla stanza di Yasu, bisognasse passare di fronte a
quella di
Kojiro. La porta era ovviamente spalancata ed era abbastanza evidente
che non
si trattasse della stanza di una ragazza.
“Yasuko
Wakabayashi…” scandì lentamente Genzo.
La sorella fece per ribattere, ma lui la
anticipò: “Lo so che non ti piace sentirti
chiamare così…”
“Non
è quello… è che così mi
chiama solo mamma e… ehi, sai che con
quell’espressione
sembri proprio la mamma? E comunque…
sì non mi piace” raffazzonò
imbarazzata.
“A
me non piace essere preso per il culo, invece” disse,
guardandola fissa negli
occhi. “Vivi insieme a loro,
vero?”
Kojiro
e Ken trattennero il fiato e distolsero lo sguardo, imbarazzati, mentre
Yasu
annuiva, fissando il pavimento e mordendosi il labbro inferiore.
“Ehm”
si intromise Kazuki. “Visto che la cosa è chiarita
posso andare in camera mia a
vestirmi? Graaaazieeee” disse educato, insinuandosi fra i due
gemelli. Genzo si
scansò per farlo passare, quindi tornò a guardare
la sorella, braccia
incrociate e sopracciglio inarcato:
“Mi
sorprende che in una scuola tanto blasonata permettano certe
cose.
Spiegami come hai fatto”.
Yasu
sorrise, furba. “In effetti è una storia piuttosto
divertente! Accomodiamoci in
soggiorno”.
Genzo
e Yasu raggiunsero Ken e Kojiro che, intanto, avevano liberato il
tavolo dai
libri.
“Ma…”
si rese d’improvviso conto Genzo. “Dovete
studiare?”
“Non
ti preoccupare,” rispose Ken, aprendo bocca per la prima
volta, senza guardare
l’altro portiere negli occhi, “riprenderemo
più tardi.” Concluse sparendo oltre
la porta coi libri in mano.
“Qualcosa
da bere?” mugugnò Kojiro.
“Volentieri,
grazie” disse l’ospite. Un attimo dopo il
cannoniere gli mise davanti, senza
tante cerimonie, un bicchiere, una bottiglia di coca cola e del succo
di
frutta. Genzo si servì, accavallò le gambe e si
preparò ad ascoltare il
racconto della sorella. “Sentiamo” la
incoraggiò in tono sarcastico. “Voglio
proprio farmi due risate”.
“È
stata Nanny a iscrivermi a scuola,” spiegò la
ragazza, “e ha scritto solo
‘Yasu’ anziché
‘Yasuko’, così hanno creduto che fossi
un maschio… e, siccome ci
dividevano per cognome, mi sono ritrovata in appartamento con Ken. Poi
Takeshi,
Kojiro e Kazuki hanno fatto cambio con gli altri tre
e…”
“E
ancora nessuno se ne è accorto?” chiese Genzo,
sorpreso.
“Oh,
sì…”
“E
allora? Com’è che ti hanno lasciato qui?”
“Ehm”
cincischiò Yasu,
giocherellando con l’orlo dei
pantaloncini. “Sai com’è, ormai le
stanze erano stabilite…”
“Ma
se loro” alzò la voce, indicando Kazuki e Kojiro,
“hanno fatto cambio!”
“Sì,
ma gli alloggi femminili erano completi!”
“WAKABAYASHI
YASUKO NON PRENDERMI PER IL CULO!”
“Diciamo
che un po’ è vero” s’intromise
Sorimachi. “Sarebbe stato un bel casino
ricombinare tutto, almeno così dissero…”
“Ma?”
incalzò Genzo.
“Eddai,
Wakabaya- ehm, Yasu, diglielo e facciamola
finita” sbuffò Kojiro, poi si
rivolse a Genzo. “Diciamo che tua sorella ha…
spinto i tasti giusti …”
“Che…
che cosa vuol dire?” chiese l’SGGK. Non sapeva
davvero cosa pensare!
“Vuol
dire” si decise infine la ragazza, “che
ho… ehm… ricordato al
consiglio
scolastico che… ehm… papà è
uno dei maggiori investitori e…”
“Yasu”
sospirò Genzo, un misto di rabbia, disperazione e resa
totale, mentre si
portava le mani al volto.
“Non
lo dirai a mamma vero, fratellino mio?”
“Fratellino
mio? Se mi chiami di nuovo così, le telefono nel
giro di cinque minuti…”
“Andiamo,
Gen… per favore… loro sono…”
lo pregò, quasi con le lacrime agli occhi. “I
migliori amici che ho qui a scuola…”
confessò, sforzandosi di non guardare Ken.
L’SGGK
inarcò il sopracciglio, dando di nuovo uno sguardo a Hyuga,
che lo osservava
con aria di sufficienza, a cavalcioni della sedia, con indosso solo la
biancheria; a Wakashimazu che, tornato in soggiorno con indosso una
maglietta,
si era messo ad armeggiare alla cucina, senza mai guardarlo negli
occhi; e a
Sorimachi, che da mezz’ora era sulla soglia, tentando di
attirare la loro
attenzione per salutarli.
“Sta
bene, non lo dico alla mamma” biascicò infine.
“Ma non aspettarti che mi
complimenti con te per la scelta degli amici”. Concluse con
un risolino
sghembo.
Yasu
alzò preventivamente una mano per zittire Kojiro, poi, con
tono mielato,
ribatté: “È perché non li
conosci, vedrai che se resti un po’ qui, capirai
perché voglio loro tanto bene”.
Ken
sussultò impercettibilmente, poi uscì dalla
stanza mormorando delle scuse.
“A
proposito” riprese Yasu.
“Com’è che sei da queste parti? Quanto
ti fermi?”
“Solo
un paio di giorni… poi vado a Nankatsu… sempre se
non è un problema… anzi,
dovrei cercarmi un albergo…”
“Non
se ne parla” lo interruppe la ragazza, “tu dormi
qui. Kojiro ha un futon, lo
portiamo in camera mia…”
“Ma
la tua stanza è piccola!” replicò
Hyuga. “Perché non gliela lasci e tu non
dormi con-”
Lo
sguardo infuocato di Yasu e Kazuki gli fece morire le parole in bocca e
realizzare che Wakabayashi non solo non sapeva, almeno fino a pochi
istanti
prima, che loro erano i coinquilini della sorella ma, soprattutto, non
aveva la
minima idea dei rapporti di questa con Wakashimazu…
“Hyuga
intendeva dire” intervenne Kazuki, tempestivo come sempre,
“che metteremo il
futon nella sua stanza che è più grande e io o
Ken ci andremo a dormire,
lasciando all’ ospite una delle nostre stanze”.
“Non
voglio disturbare…” Fu l’educata
risposta di Genzo.
“Sì,
lasciamo perdere” disse Yasu, calcando
particolarmente le parole. “Siamo
stati nove mesi in un utero, possiamo ben stare due notti in una stanza
un po’
piccola, giusto Gen?” ridacchiò nervosa.
“Senza
dubbio” rispose atono il gemello, mentre Sorimachi rideva di
gusto, a bella
posta, per sviare ulteriormente l’attenzione del visitatore.
Yasu
si alzò e propose al fratello un giro per il campus, che
così i suoi compagni
potevano studiare – e calmarsi
– pensò, cercando con lo sguardo Ken. Con
la scusa di andare a cambiarsi, si avviò verso la propria
camera e, di
nascosto, raggiunse quella del suo ragazzo.
“Ken…”
“Quando
ti dicevo che dovevi raccontarglielo…”
“E
che posso farci… è andata
così” rispose stizzita, “e…
non hai mai pensato che
magari preferivo dirglielo di persona?” buttò
lì.
“E
che sarà mai, non credo sia la fine del
mondo…”
“Appunto,
allora cosa te ne frega se glielo dico ora!”
“Ma
che ne so… mi imbarazza un po’ cenare con lui
un’ora dopo che glielo hai detto,
ecco”.
“Stai
tranquillo” le sussurrò, avvicinandosi e
poggiandogli le mani sul petto. “Mi ha
sempre detto di stimarti… vedrai che sarà
contento”.
****
“CHE
COSA???” gridò Genzo, guardandola come se gli
avesse detto qualcosa di
terribile. Eppure lei l’aveva presa larga, molto larga:
avevano attraversato
tutto l’immenso campus dell’Istituto Toho: Yasu
aveva spiegato la funzione di
ogni singolo edificio, accompagnando la spiegazione con episodi
divertenti,
successi qua e là nel corso dell’anno, cercando di
veicolare l’idea di quanto
quei mesi fossero stati pieni e divertenti, e di quanto il merito di
tutto ciò
fosse da imputare ai suoi coinquilini. Cercò di mettere
particolarmente in
buona luce Ken, evitando tuttavia di non parlare solo di lui,
bensì anche di Takeshi,
Kojiro e Kazuki.
Infine,
erano arrivati al campo di calcio. Genzo espresse la sua approvazione:
per
essere una scuola giapponese aveva davvero un bell’impianto,
paragonabile a
quelli che usava in Germania. Yasu tirò fuori le chiavi e
gli fece visitare
anche gli spogliatoi e la palestra. Sbucarono nel campo vero e proprio.
Quasi
senza accorgersene, si diressero verso una delle porte.
E
inevitabilmente pensò a Ken. Era un segno, un segno evidente
che non si poteva
più procrastinare. Così, dopo aver parlato di
tutti i loro familiari e amici,
finalmente Yasu introdusse l’argomento.
“E
di te cosa mi racconti? Il fascino esotico funziona ancora con le
tedesche?”
Genzo
si arrestò un attimo, guardandola torvo, poi, vedendo il
sorriso sul volto
della sorella, si rilasso a sua volta e rispose divertito:
“Abbastanza,
grazie”.
Lo
guardò, birichina e curiosa.
“Uff,
sì sono uscito con un po’ di
ragazze…”
“Devo
guardare sulla tua agenda o te le ricordi?”
“Mah,
sì beh, Karin, Helena… ”
cominciò a elencare una serie di nomi che lasciarono
Yasu perplessa e forse un pochino gelosa, ma era anche contenta che il
fratello
si trovasse bene in Europa.
“E…
tu?” le chiese, prevedibilmente, a sua volta. Due paroline
troppo piccole per
capire cosa ci fosse dietro… cosa avrebbe voluto sentire suo
fratello, in
realtà?
“Beh,
non così tanti…” esitò,
suscitando l’ilarità del gemello.
“D’altra parte si sa
che quello bello sei tu…” lo schernì,
guardandolo di sottecchi.
“Ma
finiscila” borbottò l’altro, arrossendo.
“In
effetti molto pochi… o per dire la
verità… uno, ecco” balbettò,
controllando
poi la reazione del ragazzo.
“Ah”
fece lui. Poi si cacciò le mani in tasca e fece qualche
passo, come stesse
pensando. Riflettendo su se uno fosse meglio o
peggio di tanti.
Poi tentò: “C’è
uno… che ti piace?”
L’espressione
e il tono di Genzo continuavano a essere imperscrutabili. Yasu davvero
non
sapeva come mettere la cosa. Infine, decise di dirglielo e basta,
tanto, come
dire, cambiando l’ordine degli addendi…
A
forza di tentare di inculcare la matematica nella testa di Kojiro,
ormai,
parlavano tutti per teoremi… Il giorno prima, Kazuki aveva
espresso il suo
snervamento per quella situazione dicendo che la sua pazienza non
tendeva a
infinito…
Stava
divagando… lo sguardo ineffabile ma inquisitorio del
fratello la riportò al proprio
dovere. Prese fiato, deglutì e forzò un
sorrisetto.
“Certo
che mi piace… e immagino che la cosa sia corrisposta visto
che…” esitò, poi
socchiuse gli occhi e sparò: “visto che stiamo
insieme…”
La
cosa terribile è che quel “CHE COSA???”
era arrivato a questo punto. Prima che
venisse fuori il nome. Il che non era incoraggiante.
Poi
Genzo aveva preso un profondo respiro, si era passato le mani sul viso
e le
aveva congiunte, esalando: “Non è Hyuga,
vero?”
Yasu
lo osservò sbattendo le palpebre, non sapendo se sentirsi
sollevata, perché
almeno in quello non aveva disatteso le aspettative fraterne, o se
ridere per
quella sua preghiera accorata. Comunque si affrettò a
rassicurarlo: “Nooooo”
rispose agitando le mani in segno di diniego. “È
Wakashimazu!”
****************
“…e
menomale tu sei quello che dovrebbe capirmi più di
chiunque altro”
sbraitò Yasu, sottolineando le ultime parole con particolare
teatralità, mentre
rientravano nell’appartamento. Genzo alzò gli
occhi al cielo e lanciò uno
sguardo agli altri inquilini, sorprendendosi del fatto che nessuno
avesse fatto
una piega davanti a quella scenata.
La
ragazza proseguì come una furia verso la propria camera,
uscendone attimi dopo
con un accappatoio e altra roba in mano. “Vado a farmi una
doccia” sputò all’indirizzo
del fratello. “Attento che non ti buttino in pentola con le
verdure” ghignò,
entrando in bagno e sbattendo la porta.
“…e
tu vedi di darti una calmata” replicò Genzo,
rendendosi tuttavia conto di star
parlando all’uscio della toilette. Con un sospiro si sedette
in un angolino
della cucina, osservando Wakashimazu e Hyuga trafficare ai fornelli. Un
inevitabile sorrisino sghembo gli incurvò le labbra.
“Fa
sempre così” disse a un tratto
l’attaccante, senza alzare la testa “è
un po’
incazzosa-”
“Yasu
non è incazzosa” lo corresse
Ken, smettendo per un attimo di fare
qualsiasi cosa stesse facendo, serrando i pugni e girando di scatto il
viso
verso l’amico. “Che peraltro non vuol dire
niente…”
“Oh,
sì che lo è” insistette Kojiro.
“Ma è questione di qualche minuto
poi…”
“…
poi si calma, sì, lo so” sospirò di
nuovo Genzo.
“E
dopo è la persona più razionale e paziente del
mondo” sorrise Wakashimazu.
“Basta
lasciarla sbollire qualche minuto” dissero tutti e tre
praticamente
all’unisono. E nascondendo a stento un sorriso.
Poi
calò il silenzio e per un po’ si sentirono solo i
rumori prodotti dai due
“cuochi” all’opera e, in lontananza, lo
scrosciare della doccia.
Ken
si interruppe di nuovo e si voltò verso Kojiro. “E
se lo chiedessimo a lui?”
Genzo
li fissò, gli occhi ridotti a fessure. Ma che credevano di
essere soli? O che a
forza di stare in Germania, non capisse più la sua lingua?
Incrociò braccia e
gambe in una posa stizzita e inquisitoria. Voleva proprio sentire cosa
avessero
da chiedergli. Vide Ken voltarsi, appoggiando la schiena al bancone
della
cucina, socchiudere gli occhi e incrociare, a sua volta, le braccia sul
petto.
Niente di che, se non avesse avuto ancora in mano un coltellaccio con
cui,
evidentemente, stava sminuzzando qualcosa. Genzo fissò per
un attimo l’utensile
e l’altro portiere dovette accorgersene, perché,
svelto, lo mise via.
“Scusa”
mormorò. Poi riprese e nel suo tono c’era una
certa urgenza. “Senti… vorremmo
chiederti una cosa…”
“Tu
e chi?” chiese l’SGGK.
“Io
e beh… Hyuga, Sawada e Sorimachi” rispose,
perplesso.
“E
sarebbe?”
Guardò
verso il bagno. L’acqua che scorreva ancora gli
confermò che aveva ancora
tempo. Ma Hyuga, che fino a quel momento era rimasto di spalle, dovette
scambiare quella pausa per esitazione, perché si
voltò e prese la parola.
“Per
farla breve, Wakabayashi, il punto è questo. Ci dispiace che
tu l’abbia
scoperto così ma, ecco, ci teniamo a precisare che con Yasu
ci troviamo bene,
ci divertiamo e la... rispettiamo” disse, grattandosi la
testa, un po’ a
disagio. “Insomma... ci fa piacere che viva con noi solo
che... a volte abbiamo
paura che le manchino un po’ di quelle
cose…” fece una smorfia, come cercasse
la parola giusta. “Insomma, le cose… da
femmine”.
“Tipo?”
domandò ancora Genzo, sempre con un’espressione
impenetrabile.
“E
che ne so?” sbottò Hyuga. “Le cose che
fanno le femmine… ho anche io una
sorella e spesso invita le sue amiche a casa e parlottano e…
starnazzano per
ore e ore…”
Il
portiere dell’Amburgo aggrottò le sopracciglia,
come se riflettesse o cercasse
di ricordare. Alla fine scosse la testa.
“Yasu
no” sentenziò. “A quanto mi ricordo, ha
sempre preferito stare con me e i miei
amici, anzi fu proprio quando arrivò Sanae che iniziarono i
problemi. Con lei
litigava di continuo, cosa che prima non era mai accaduta con nessun
altro”.
“Te
l’avevo detto” sibilò Ken.
“Yasu non è come le altre…”
Genzo
fulminò con lo sguardo il collega. “Sì,
ho sentito dire che…” All’improvviso
gli mancarono le parole. Quella novità doveva ancora
metabolizzarla. Eppure
c’era una cosa che doveva dire. Inspirò ed
espirò pesantemente un paio di
volte, quindi puntò un dito in faccia all’altro.
“Non
me ne frega un cazzo se sei centesimo dan, se fai soffrire mia sorella,
il modo
di ammazzarti lo trovo”.
Ken
lo guardò con gli occhi spalancati, fissando per la prima
volta, direttamente,
quelli di Wakabayashi. Non
fu facile
sostenerne lo sguardo, così identico a quello della sua
ragazza. Ma poi
raddrizzò la schiena e, cercando di controllare la voce,
rispose molto serio:
“Mi sembra giusto”.
Genzo
indietreggiò appena, cercando con la mano la sedia, su cui
tornò a sedersi. Era
arrossito.
“Ma
non credo che si renderà necessario” aggiunse
Wakashimazu, accennando un
piccolo inchino. Poi fece un respiro profondo e tornò a
voltarsi.
L’SGGK
lo guardò e, malgrado tutto, pensò che era vero.
Hyuga
era stato lì lì per intervenire, giusto per
evitare che Ken si impelagasse in
robe tipo giuramenti d’onore o cose del genere, ma si accorse
che quella
sfida fra i due portieri era finita. Giusto in tempo, perché
l’oggetto del
contendere stava entrando nella stanza. Con in mano del cotone e una
siringa.
“Sorimachi?”
chiese. “Si nasconde come al solito? Tsk, grande e grosso e
ha paura di una
punturina”.
“Non
ho paura” precisò l’interessato,
sbucando dalla propria stanza, “è che stasera
abbiamo ospiti…”
“Non
mi risulta che farsi un’iniezione sia contro il
galateo… almeno che non appoggi
i gomiti sul tavolo e ti tiri giù le mutande in sala da
pranzo… ma devo fartela
sul braccio, quindi non si scandalizzerà nessuno, dai che te
ne mancano solo
due”.
“Andiamo
Sorimachi, fatti questa iniezione e finiamola” intervenne
brusco Kojiro. “Che
qui siamo pronti”.
Yasu
e Kazuki sparirono nella camera di quest’ultimo, incrociando
nel corridoio
Sawada. Il giovane centrocampista, si mostro piacevolmente colpito da
quella
presenza inattesa e salutò
Genzo con
calore. Scambiarono qualche parola e Takeshi gli spiegò
anche che un mesetto
prima Kazuki si era rotto un dito della mano, l’avevano
operato e doveva prendere
per un po’ delle iniezioni di calcio-eparina e che Yasu si
era offerta
gentilmente di fargliele.
Di
lì a poco Sorimachi e Yasu tornarono in soggiorno e si
sedettero al tavolo che,
intanto, Wakashimazu aveva apparecchiato.
Genzo
doveva ammetterlo: le sue due nemesi del Toho potevano non avere un
carattere a
lui congeniale, ma sulla loro bravura ai fornelli, come su quella in
campo, non
c’era niente da dire.
“Devi
ritenerti fortunato” lo informò Yasu.
“Il nostro capitano e il nostro portiere
hanno onorato la tua visita dando ognuno il meglio di
sé”. Poi passò a tessere
le lodi del “famoso donburi di
Kojiro”, della “gustosissima soba
di Ken”, della “ricetta segreta degli yakitori
della signora
Wakashimazu”. E nessuna lode era immeritata. Genzo fece una
scorpacciata di
cibo giapponese come non ne faceva da mesi. Tanto che, quando Yasu gli
presentò
gli usuama che aveva fatto la sera prima insieme a
Takeshi, riuscì
fisicamente a ingerirne solo due. Infine, anche Sorimachi volle dare il
suo
contributo alla cena e tirò fuori da un qualche recesso
della sua stanza una
bottiglietta di saké.
Gli
altri strabuzzarono gli occhi alla vista della bevanda alcolica, ma poi
tutti
favorirono. Per fortuna, la bottiglia era piccola e, divisa in sei, a
ognuno
toccò solo un bicchierino di saké. Ma fu
sufficiente per rendere l’atmosfera
più rilassata e risollevare gli spiriti. Collaborando e
scherzando fra loro, i
ragazzi del Toho sparecchiarono e sistemarono la cucina, Genzo li
osservò
divertito lanciarsi le cose e schizzarsi con la schiuma, aprire e
chiudere gli
sportelli usando rigorosamente i piedi. Soprattutto osservava sua
sorella: il
sorriso che le illuminava il volto, gli sguardi intensi che si
scambiava con
Wakashimazu, continuando a fare dispetti a Hyuga, rispondere per le
rime a
Sorimachi e chiacchierare amabilmente con Sawada.
Una
volta finito di rimettere a posto, Yasu lo guardò con un
sorrisetto sghembo,
“Hai un aspetto orrendo, Genzo, mi sa che stai morendo di
sonno. Vogliamo
andare a prepararti il letto?”.
“Grazie,
sorellina, non farmi troppi complimenti…
e comunque sì, ti ricordo che
sono venuto qui direttamente dalla Germania…”
“Lo
so” gli sussurrò dolcemente, tendendogli la mano.
“E non ti ho ancora detto
quanto sono felice che sei venuto”.
“Magari
avrei dovuto avvertire…”
“Naaah,
sennò che sorpresa è! E se avvertivi non sarebbe
stato altrettanto… come dire…
avvincente.”
Genzo
sghignazzò, afferrandole la mano e tirandosi su. Una volta
in piedi, le rivolse
un sorriso particolarmente aperto e tenero. “Vado da solo a
sistemare la
camera, rimani pure coi tuoi… amici”.
“Ma
no, loro li vedo sempre mentre te…”
esitò. “Sempre se ti fa piacere”.
“Certo”.
Percorsero il corridoio in silenzio poi, quando furono nella stanza,
Genzo
riprese: “Sono stato un po’ cafone,
prima…”
“A
cosa ti riferisci?” fece Yasu, intenta a sistemare il futon.
“Beh
sì, insomma quando ho biasimato il tuo gusto in fatto di
amici…”
La
ragazza dette un’alzata di spalle. “Neanche Karl e
Hermann sono mai stati il
mio ideale… per non parlare di Maria Schneider che ti guarda
come se fossi
fatto di Marshmallows…” concluse con una smorfia.
“Ma
che dici?” protestò il fratello, avvampando.
“E allora cosa dovrei dire degli
sguardi che vi scambiavate tu e Ken?”
“Io
e Ken stiamo insieme” disse, smettendo per un attimo di
rifare il letto e
guardandolo con un aria fra l’orgoglioso,
l’arrabbiato e lo sfottò.
“Uhhhh
dimenticavo… è una cosa
seria…” la canzonò.
Yasu
lo fronteggiò, accigliata. “Certo che lo
è”.
Il
portiere sbatté le palpebre, colpito
dall’espressione decisa che aveva davanti.
Un brivido lo percorse. “Yasu… tu…
voi… non…”
Era
di nuovo arrossito e la ragazza scoppiò a ridere.
“No, tua sorella non ha perso
la verginità prima di te, non ancor- ahia! Ma sei
scemo?” disse, massaggiandosi
il braccio su cui il fratello aveva appena assestato un pugno.
“Come vedi,
dormiamo anche in camere separate e sappi che è stato lui a
volerlo.”
“Ah,
beh, perché se era per te…”
“Ma
no, sono stata d’accordo… noi stiamo bene insieme
ma… siamo giovani e… abbiamo
tutto il tempo del mondo, no?” sorrise.
“Certo”
sussurrò dolcemente, abbracciandola.
Che
strano effetto gli faceva quella cosa. Da un lato, se fosse stato un
“amico
dello sposo”, pensò con un ghigno, lo avrebbe
preso per il culo, dandogli dello
sfigato, ma, dall’altro lato, in qualità di
“fratello della sposa” non poteva
che essere profondamente soddisfatto della situazione. Ma
c’era un
terzo aspetto della questione: Genzo
Wakabayashi era un po’ invidioso… non solo geloso
della sua “sorellina”… proprio
desideroso di provare, a sua volta, un sentimento del genere.
Preso
da questi pensieri, si rigirò nel futon e cercò,
nella penombra, quel volto
così simile al suo, accorgendosi così che sua
sorella dormiva girata verso di
lui, un braccio penzoloni a cercare un contatto, dopo che, per mesi,
stranamente, tanti chilometri li avevano divisi. Allungò la
mano per stringere
la sua.
Yasu,
così diversa, così uguale a lui. Yasu che ancora
una volta gli aveva dato la
risposta che cercava prima che lui formulasse, anche solo nei propri
pensieri,
la domanda.
Aveva
tutta la vita davanti, avrebbe trovato anche lui, prima o poi la
persona giusta.
Yasu diceva bene: avevano tutto il tempo del mondo.
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Capitolo 9 *** Quasi una sorella - Toho Story 11 ***
Ed eccoci a una nuova
sfolgorante TS! Yeeee!
Stavolta
siamo verso Settembre-Ottobre del secondo anno...
Vi avverto,
ci sono un po' tanti pg originali ma non manca qualche siparietto dei
nostri T-Boyz.
Buona lettura.
*******
Quasi una sorella
“Salve
a
tutti!” trillò Yasu, rincasando. Una rapida
occhiata al divano e alla cucina e
si rese subito conto che mancava qualcuno.
“Dov’è
Ken?”
“Ha
le sue
cose...” ridacchiò Sorimachi. Sawada gli
assestò una gomitata e lo rimproverò:
“Smettila! Ha detto-”
“Mugugnato”
precisò Kazuki.
“SMETTILA!
Ha
detto che aveva mal di testa e voleva restare da solo in camera
sua” continuò
poi, rivolto a Yasu. “Credo abbia discusso di nuovo con suo
padre.” Aggiunse a
mezza voce.
“Per
la storia
dell’esame?”
“Già”
indugiò Sawada.
“Se ho ben capito gli rimprovera di non allenarsi
abbastanza...”
Yasu
sospirò.
Nonostante tutti i buoni propositi, il signor Wakashimazu continuava a
interferire
nella vita del figlio: ma d’altronde era stato lo stesso Ken
a promettere di
non abbandonare del tutto il karate... e ora che c’era in
ballo quella storia
dell’esame, il papà non gli avrebbe dato pace.
Magari se avesse preso anche
quel cavolo di “terzo dan” o quello che era, per un
po’ il padre lo avrebbe
lasciato stare.
E
come sempre
Ken somatizzava: non era la prima volta che si chiudeva in camera sua
al buio,
senza cena, pregandoli di non disturbarlo e di fare meno rumore
possibile.
Le
altre volte,
Yasu si era limitata ad attenersi alle istruzioni.
Ma
adesso?
Sì,
insomma,
ora era la sua ragazza, ora, ormai
da qualche mese, stavano insieme.
Poteva entrare nella
stanza? Doveva vedere come stava?
“Beh?”
la richiamò Kojiro affacciandosi dalla cucina con un
bicchiere di coca in mano,
“ti sei imbambolata?”
Doveva
essere
rimasta ferma nel corridoio per un po’.
“Sì...”
balbettò, “appoggio lo zaino in camera e
arrivo”.
“Chiedigli
se
è sicuro di non voler niente, del tè o che so
io.” Borbottò il cannoniere.
Yasu
si bloccò
di nuovo. Hyuga dava per scontato che sarebbe andata da Ken. Allora
doveva?
Poteva? Dio, che casino. Avrebbe voluto che esistesse un manuale d’ istruzioni
su come fare
la ragazza di qualcuno.
Appoggiò
la
borsa in camera, mise la tuta che portava in casa e si diresse verso la
stanza
di Ken. Di fronte alla porta si
“imbambolò” di nuovo, come avrebbe detto
il
capitano.
Al
diavolo, al
massimo se non voleva vedere nessuno, le avrebbe detto di andarsene.
Dischiuse
con
cautela la porta, chiamandolo piano.
“Ya-chan
sei
tu?” la sua voce era flebile e roca, poco più di
un sussurro, come se parlare gli
costasse fatica.
“Sì,
amore,
come stai?”
“Non
molto
bene.”
Nella
penombra
lo vide alzare una mano e la ragazza si avvicinò al letto
per prenderla fra le
sue. “Vuoi qualcosa da mangiare o da bere?”
Mormorò.
“No,
non mi
va. Voglio cercare di dormire, poi mi passa, non vi
preoccupate.”
“Capisco,
se vuoi
riposare, me ne vado.”
“No!”
Lo pronunciò
a voce più alta del dovuto e trasalì, come se gli
avesse fatto male.
“Shhh”
disse lei
carezzandogli i capelli e il viso, dove indugiò, sentendolo
premere la guancia contro
il proprio palmo. “Ti va di parlare?”
“No,
voglio
solo stare in silenzio...”
“Se vuoi resto, ma
sai che non so starmene
zitta.” Gli sussurrò, in tono allegro.
“Sì,
ma resta
lo stesso... la tua voce, non so mi fa... bene” le
rivelò, stringendo la mano
che ancora toccava la sua e portandosela alle labbra per sfiorarla con
un
bacio.
Yasu
sorrise e
si sedette in terra vicino al letto, poggiò la testa contro
il fianco di Ken continuando
a tenergli la mano. Visto che, a quanto pareva, non gli andava di
parlare di
suo padre e dell’esame, cominciò a raccontargli
sottovoce la sua giornata.
A un certo punto
sentì le palpebre farsi
pesanti e che stava perdendo il filo del discorso, quando si rese conto
che Ken
si era addormentato. Allora piegò la testa di e
lasciò che il sonno
l’avesse vinta anche su di lei.
Si
svegliò
quando la mano, che stringeva ancora, si mosse, poi udì il
portiere cambiare
posizione. Sentì i suoi capelli sfiorarle il volto e poi le
labbra che
premevano sulla sua guancia. “Piccolina, ma hai dormito qui?
Dai, vieni sopra.”
Yasu
si tirò
su e s’infilo sotto le coperte, dove Ken le aveva fatto
spazio.
“Stai
meglio?”
gli chiese, una volta che si fu accomodata.
“Molto
meglio,
grazie.”
Si
chinò su di
lei, facendo aderire il proprio corpo al suo, e la baciò a
lungo sulle labbra e
poi sulle guance, e sul collo.
Yasu
mugolò
soddisfatta, abbracciandolo e ricambiando quelle coccole con entusiasmo.
“Ieri
sera
Takeshi mi ha detto-” cominciò a dire, ma fu
interrotta da uno strano rumore.“È
il mio stomaco” spiegò, imbarazzata.
“Ieri sera non ho cenato”.
Ken
la guardò sorridente.
“Nemmeno io e, se vuoi saperlo, muoio di fame. Spuntino
delle...” si allungò
per guardare la sveglia. “Due?”
“Ora
sto davvero bene”
disse Ken, fregandosi le mani, guardando
le tazze colme di latte caldo e il barattolo della nutella. Yasu era
seduta
sulle sue ginocchia, che spalmava fette biscottate a getto continuo.
“Fai
‘aaa’...”
fece, porgendogliene una perché la mordesse, infilandosi poi
in bocca il pezzo
rimasto.
“Cosa
volevi
dirmi prima, hai rammentato Takeshi -”
Ma
anche
stavolta furono interrotti: in quel momento, infatti, il portoncino
d’ingresso
si aprì facendoli sussultare. Kojiro, con un pallone sotto
braccio, entrò,
cercando di non fare rumore.
Quando
alzò la
testa sobbalzò a sua volta alla vista dei due,
perché proprio non si aspettava
di trovare qualcuno ancora in piedi. Sentendosi scoperto, da cannoniere
di
razza, rispose con l’attacco: “E voi che ci fate
qui?”
I
due,
sentendosi altrettanto colti in flagrante, balbettarono
all’unisono una
risposta, solo che uno disse “Cena” e
l’altra “Colazione”.
“E
tu invece?”
rinviò abilmente Yasu. “Passeggiata al chiaro di
luna col tuo migliore amico?”
chiese. E scoppiarono
tutti e tre a ridere, come sempre, di fronte alle citazioni di Tsubasa.
“Dai
siediti
con noi, Hyuga” intervenne Ken, mentre Yasu andava a prendere
un’altra tazza,
la riempiva di latte e la porgeva al nuovo arrivato.
Kojiro
la
ringraziò, ma preferì prendere della coca dal
frigo. Poi si rivolse a Ken: “Sono
contento di vedere che stai bene.”
Ken
annuì,
deglutendo in fretta per rispondere, ma l’altro
proseguì con un risolino. “Una
guarigione lampo, di solito hai la faccia da zombie fino al mattino
dopo...”
Il
portiere
sorrise imbarazzato, mentre Yasu sceglieva una fetta biscottata
particolarmente
carica di nutella, e la porgeva a Kojiro, tenendogliela di fronte alle
labbra.
“Non sai cosa non può fare, un po’ di
dolcezza” sussurrò.
Kojiro
guardò
la fetta arricciando il naso, quindi la strappò dalla mano
della ragazza
ficcandosela in bocca. Poi ne arraffò altre due
già pronte e le mangiò di
gusto. “Avevo fame” spiegò con
un’alzata di spalle, di fronte allo sguardo
divertito degli altri due.
Si
sistemò
sulla sedia, mangiando le fette che Yasu continuava a spalmare.
D’un
tratto si
bloccò e li guardò: “Non ho interrotto
qualcosa, vero?”
I
due scossero
la testa all’unisono, ridacchiando. Il capitano ancora non
sembrava aver ben
realizzato “cosa” fossero loro due. Ma infondo era
meglio così.
“Bene”
fece Hyuga
alzandosi e stiracchiandosi. “Andate pure a letto, sistemo
io...”. Si diresse
verso il lavello e aprì l’acqua.
Yasu,
a sua
volta, scese dalle ginocchia di Ken e allungò la schiena.
“Sì, ora ci vuole un
letto” disse, sbadigliando.
“Che
ne dici
del mio?” le sussurrò Ken contro
l’orecchio, abbracciandola. “Abbiamo un
discorso in sospeso...”
“Ma
non ti
faceva male la testa?” lo canzonò.
“Passato
completamente”
“Ma
va?” rise.
“Mi sa che è meglio se andiamo a letto, ognuno nel
proprio” precisò mentre le
mani di Ken la cercavano. “Volevo chiederti di tuo padre, ma
ne parliamo
domani...yawn!” sbadigliò di nuovo.
“Mio
padre”
sbuffò, lasciando cadere le braccia. “Se volevi
smontarmi, hai trovato il
modo...”
“Wakashimazu”
La voce del capitano li fece scattare entrambi sull’attenti,
come sempre. “Mi è
sembrato di capire che hai bisogno di alcune ore da dedicare al karate.
Ne ho
parlato con Nat-san”.
“Capitano,
non...”
“Non
abbiamo
partite per un po’, quindi se ti alleni a karate, ti
autorizziamo a saltare
l’allenamento in palestra e ad arrivare un poco dopo
l’inizio degli allenamenti.
Se qualche volta hai bisogno di saltare proprio, puoi accordarti col
portiere
delle medie o con Wakabayashi... nel senso di lei”
sbuffò, indicando Yasu.
“Grazie
capitano, ma non...”
“Ken”
disse,
asciugandosi una mano insaponata ai pantaloni per poggiarla sulla
spalla
dell’amico. “Ho bisogno che tu sia sereno, e so che
non lo sarai finché non avrai
saldato questo... debito d’onore
con
tuo padre. E so anche che sei bravo e che in fondo ti piace. Non
sprecare
neanche questo tuo talento. E poi... che portiere del karate sei se non
mi
diventi almeno terzo dan?”
“Grazie,
capitano” ripeté Ken, abbracciandolo. A Yasu venne
da sorridere, sentendo la
commozione nella sua voce.
“Sì,
sì... ti
voglio bene anche io, Wakashimazu” bofonchiò
Kojiro, divincolandosi. “Ma
andiamo tutti a letto, che è tardi”.
“Peccato
non
avere una macchina fotografica! Eravate così... kawaii!!!” disse Yasu, facendo
la vocetta stridula e congiungendo
le mani. “Con una foto così, ci potevo fare dei
bei soldi...”
“Eh
beh, ti
avrebbero fatto comodo...” l’apostrofò
Ken, allungandole una pacca sul sedere.
Yasu
rise e
scappò via, seguita dal portiere che la agguantò
sulla soglia della camera.
“Allora... Buonanotte?” le chiese, sperando di
farle cambiare idea circa il
letto in cui dormire.
“Buonanotte.”
Rispose lei con un sorriso di dolce rimprovero e un bacio leggero.
Quindi si
diresse verso la propria stanza.
****
Quando
la sera
successiva Yasu trillò “Salve a tutti!”,
si guardò intorno e chiese:
“Dov’è Ken?”,
un senso di deja-vu aleggiò nella casa.
“Fa le sue
cose...”ridacchiò Sormachi,
con una piccola variazione sul tema, ma ottenendo la solita gomitata da
Sawada.
“Non
avrà di
nuovo mal di testa?” si preoccupò la ragazza.
“No!”
rispose
Kazuki con un ghigno. “Sta meditando...”
“Meditando?”
chiese Yasu, strabuzzando gli occhi.
“Sììì!”
Proseguì l’attaccante, “sai tipo:
OOOOMMMM”. E così dicendo, si arruffò i
capelli, lasciando cadere un ciuffo sugli occhi, incrociò le
gambe, le mani
aperte poggiate sulle ginocchia, indice e pollice congiunti, occhi
chiusi. “Tu,
donna, partorirai con dolore...” salmodiò.
“Kazuki,
finiscila” sbuffò Takeshi.
“Tu,
invece,
ti sfarai di pugnetteeeee” proseguì, cantilenando.
Yasu
ridendo,
con le lacrime agli occhi, si avviò verso la sua stanza.
Ken
sospirò,
sfiduciato. Si era illuso di poter meditare almeno in camera, ma si era
arreso
all’evidenza che era impossibile.
Per
primo era
rientrato il capitano: come sempre si era scolato un po’ di
coca cola
(lasciando, per regola, il solito odioso goccio infondo alla bottiglia
che se
ti viene voglia di berne un po’ anche tu, lungi dal
soddisfarti, ti fa solo
incazzare), aveva emesso un rutto da tirannosaurus rex, infine era
andato in
camera e aveva acceso lo stereo. A dire il vero, aveva regolato il
volume
piuttosto basso, probabilmente proprio per rispetto nei suoi confronti,
ma le
pareti di cartapesta dell’appartamento non aiutavano. E per
quanto il death metal non gli
dispiacesse, non era
l’ideale per favorire il rilassamento e la concentrazione.
Poco
dopo
erano arrivati, praticamente insieme, Sawada e Sorimachi: se il primo
aveva
quella vocina sottile e discreta, l’altro non poteva esimersi
dall’urlare. E
sentire solo metà del dialogo che si svolgeva al di
là dell’altra parete di
cartapesta è quasi più frustrante che sentirlo
per intero.
Almeno
così
aveva pensato, finché non era arrivata anche Yasu. Voleva
bene alla sua
ragazza, davvero, forse anche qualcosa di più, ma,
veramente, darle un nome che
significa “pace” era proprio uno scherzo crudele. E
poi la sua voce gli faceva
l’effetto di quella dell’allenatore in campo, che
per quanto casino ci sia,
riesci a sentirla al di sopra di tutte, come una radio sintonizzata su
una
certa frequenza… e se per la maggior parte del tempo la
trovava una cosa
romantica e lo faceva star bene, come la sera prima, a volte era una
gran
seccatura, specie quando il tono delle conversazioni era tipo:
“SORIMACHI!!!
PASSI CHE TU NON ABBIA UNA MIRA INVIDIABILE, MA IN BASE A QUALE
FILOSOFIA O RADICATO
CREDO RELIGIOSO NON TIRI MAI LO SCIACQUONE?”
“Se
è gialla
resta a galla, se è marrone tiri lo sciacquone!”
“SORIMACHI
FAI
SCHIFO!”
Oppure:
“SORIMACHIIIIII!!!!!!
NON TI SARAI SBAFATO LA TORTINA CHE ERA IN FRIGO?????”
“Sì,
era
buonissima… insolitamente dolce per chiamarsi Yasu, come
diceva il foglietto
attaccato sopra…”
E
così via. Se
non avesse avuto l’esame da lì a pochi giorni,
avrebbe trovato i siparietti
piuttosto divertenti ma, in quella situazione, non facevano che
aumentare il
suo nervosismo.
Per
non
parlare delle visite alla sua stanza.
Non
ci entrava
praticamente mai nessuno, eppure in quei giorni sembrava che tutti
avessero
qualcosa da prendere\lasciare\sapere in camera sua… Kojiro
doveva restituire
dei vestiti che aveva preso per sbaglio, Sorimachi cercava un libro,
Takeshi
voleva essere aiutato con un tema di letteratura.
Infine,
Yasu
era entrata senza bussare e, dopo una riflessione di sì e no
trenta secondi,
prima gli aveva praticamente riso in faccia e
poi si era seduta sul letto vicino a lui…
Forte
del
fatto che la sera prima Ken aveva tanto voluto la sua compagnia, Yasu,
messa la
solita tuta, non aveva esitato un attimo a entrare in camera del
portiere per
salutarlo. Si era fermata sulla porta un po’ sorpresa nel
vederlo davvero nella
posa assunta da Sorimachi e non riuscì a impedirsi di
scoppiare a ridere
sguaiatamente, ripensando alla spassosissima e quanto mai fedele
imitazione.
Vedendo che Ken rimaneva immobile, a parte aver dischiuso appena gli
occhi, Yasu
gli si avvicinò, ma pur impegnandosi per non fare rumore,
urtò un paio di cose.
Infine, andò a sedersi in fondo al letto, perpendicolarmente
rispetto a Ken e
si mise a fissarne il profilo immobile.
Ken
le lanciò
un paio di sguardi in obliquo da sotto le palpebre socchiuse.
Inspirò
profondamente e, mettendocela tutta per non sbottare,
soffiò: “Yasu sei…
inquietante, finiscila di fissarmi così, mi
deconcentri!”
Lei
sbatté gli
occhi un paio di volte, confusa e un po’ offesa:
“Vuoi dire che ti do
fastidio?”
“Sì.”
Rispose,
brusco, alzandosi dal letto e poi aggiunse, come ad attenuare il
concetto, “un
po’…”. Si pentiva di quelle parole
già mentre le pronunciava, perché vedere gli
occhi color caramello di Yasu velarsi di tristezza era una cosa che non
sopportava… Ma era esasperato! Suo padre che gli faceva
pressioni, i suoi amici
che non capivano le sue esigenze…
“Va…
va bene”
mormorò la ragazza, confusa. Si alzò dal letto
quasi barcollando e si diresse
in camera sua.
“Fanculo”
sibilò Ken, sferrando un calcio all’armadio.
“Sei
proprio
deciso?” chiese ancora Hyuga.
“Sì,
è meglio
così, mio padre ha già avvisato la scuola e hanno
detto che basta mi tenga in
pari con i compiti a casa. In fondo, fra una settimana
torno… poi mi metterò un
po’ sotto. ci penso io qui” aggiunse, accennando
alla tavola apparecchiata per
la colazione. “Tanto mio padre viene a prendermi fra
un’oretta, voi andate a
lezione”.
Yasu
osservò
Hyuga, Sawada e Sorimachi lasciare la stanza.
“Scusa
per
ieri sera” dissero praticamente all’unisono, non
appena furono soli. Sorrisero.
“Quindi
vai a
casa per un po’…”
“Sì,
niente di
personale, lo sai. Mi mancherai ma… ho bisogno di
più…”
“…concentrazione.
La preparazione di un esame del genere richiede un’intensa
preparazione fisica
ma anche psicologica…” disse Yasu. Sembrava un
discorso imparato a mente, come
quando recitava una poesia che dovevano mandare a memoria. E quelle non
erano
parole sue sembrava più un discorso da…
“Hai
parlato a
tuo fratello di ieri sera?” Intuì. Per lo
più gli stava vagamente sulle palle
pensare che Wakabayashi sapesse praticamente tutto della sua vita, ma
doveva
ammettere che in certi casi si rivelava… illuminante.
Nessuno come lui era in
grado di far entrare un concetto nella testa della sorella.
“Sì”
ridacchiò
lei. “Scusa… la sera prima mi avevi voluta vicina
anche se stavi male e ho
pensato…”
“Piccola
mia…”
la chiamò, abbracciandola. “Mi mancherà
tutto di te… persino, anzi, soprattutto
la tua voce…”
“Ti
chiamo e
poi…” s’interruppe. “E poi
tornerai presto!”
Si
baciarono,
poi lei uscì di corsa, diretta a lezione, in ritardo come
sempre.
****
Ken
sarebbe
impazzito di gioia, se lo sentiva. Si chiedeva addirittura se non
sarebbe stato
meglio farsi vedere solo dopo l’esame: conoscendolo, non
voleva farlo
emozionare.
Intanto,
però,
a essere emozionata era lei: il cuore le rimbalzava nel petto come una
trottola
impazzita.
Non
era la
prima volta che andava a casa Wakashimazu, e aveva avvertito la mamma
di Ken
del suo arrivo, pregandola però di non dire niente al
figlio… era stata lei a
fornirle l’orario esatto dell’esame, che si sarebbe
tenuto da lì a qualche ora,
nel pomeriggio.
Quando
fu a
pochi metri dalla casa sentì, distintamente, la risata di
Ken. Di rado rideva
così, ma lo faceva in un modo che per Yasu era
inconfondibile.
Il
suo ragazzo
che rideva, a cuor leggero, a poche ore da un importante esame di
karate? Dopo
che per giorni era stato intrattabile e nervoso, quasi ostile, persino
con lei?
Intravedeva
la
testa di Ken oltre la siepe che circondava il giardino della casa e del
dojo.
Sembrava stesse combattendo, allenandosi con qualcuno. Qualcuno ben
più basso
di lui, che Yasu non riusciva a scorgere.
Si
guardò
intorno e, con un sorriso sghembo, individuò il suo punto
d’osservazione.
Rapida, si arrampicò su un albero del parco vicino e
guardò oltre la recinzione.
Osservò
Ken
lottare contro qualcuno di piccolo e minuto, lasciandosi atterrare e
ridendo.
Ora, lei di karate non ne capiva un gran che, ma era quasi certa che
non
contemplasse mosse del genere, per non parlare del rotolarsi per terra
ridendo
e facendo il solletico all’avversario. Yasu strinse gli occhi
per vedere meglio
e dovette tenersi forte al ramo su cui si era appollaiata, quando si
rese conto
che, in realtà, si trattava di un’avversaria. Una
ragazza si stava divertendo
un sacco col suo fidanzato, mettendogli le mani dappertutto,
aggrovigliata a
lui in modo strano. E quello rideva, tranquillo, sereno,
allegro… come non lo era
praticamente mai.
Tremando,
Yasu
scese con estrema cautela dall’albero e si avviò
verso la stazione da dove era
arrivata poco prima.
Aveva
ragione
Genzo: le sorprese fanno schifo e sono sempre una pessima idea.
Si
voltò
un’ultima volta verso la casa, le lacrime che le pizzicavano
gli occhi, le voci
divertite dei due combattenti che sembravano trapassarle la testa e il
cuore.
Aveva
voglia
di sbattere la testa contro il muro.
Invece,
andò a
sbattere in un maglione.
“Ehi,
guarda
dove vai!”
La
voce del
ragazzo, altissimo e robusto contro cui era andata a sbattere le
suonò
estremamente familiare. Quando alzò la testa, si
ritrovò davanti un volto noto:
una versione più giovane di Wakashimazu-sama, con gli occhi
dolci della madre e
l’espressione scocciata di Ken.
“Kyo”
balbettò
Yasu. Il fratello maggiore di Ken, noto alle cronache per essere molto
più
espansivo del fratello, ma assai più scarso a karate.
“Ci
conosciamo?”
“No,
sì, cioè
io… Wakabayashi Yasu” concluse con un inchino,
provvidenziale per nascondere
l’imbarazzo che le imporporò le guance.
“Ci siamo presentati qualche mese fa,
anche se un po’ di fretta”.
“Ma
certo!
Scusa se non ti ho riconosciuta subito, sono un disastro come
fisionomista” ridacchiò,
poi riprese, con un sorriso di trionfo sul viso: “Ah! La
fidanzatina di Ken!
Capiti a proposito…” si sfregò le mani
con aria soddisfatta, poi proseguì:
“Sei venuta a vedere l’esame del
nostro giovane campione? Ti eri persa? La casa è proprio
quella lì... vieni con
me, ci prenderemo una piccola rivincita” concluse facendo
l’occhiolino,
passandole un braccio attorno alle spalle e trascinandola con
sé.
Yasu
rimase
interdetta, impossibilitata a replicare di fronte a quel fiume di
parole, senza
peraltro aver capito bene cosa intendesse il ragazzo. Ma, volente o
nolente, si
ritrovò dentro casa Wakashimazu.
La
signora la
accolse col solito entusiasmo della mamma che da sempre vuole una
figlia
femmina: inondandola di domande, attenzioni e cose buone da mangiare.
Ancora
una
volta, Yasu si trovò incapace di reagire:
l’educazione le imponeva di
rispondere, ringraziare e accettare e, comunque, la signora era
talmente
solerte, che non avresti avuto cuore di fare diversamente.
“Dopo
l’esame
faremo un buffet... anzi,magari mi darai una mano, visto che Akiko
è
impegnata... ma ora mangia qualcosa e riposati, cara, sarai stanca per
il
viaggio. Dopo andiamo a vedere l’esame.”
Yasu
annuì e
s’infilò in bocca un paio di onigiri.
Poco
dopo, la
signora tornò con degli zori
con
decorazioni in verde e gli appositi tabi
bianchi da mettere sotto, porgendo il tutto a Yasu. “Ecco, li
avevo presi per
te, ti piacciono?”
“Molto”
sorrise la ragazza. “Mi spiace solo che magari non ho
l’abbigliamento adatto…”
disse, contemplando i jeans e la maglietta e si maledisse per non aver
pensato
a portare il furisode che Ken le
aveva comprato mesi prima.
“Mi
sono
permessa di prenderti anche questo” continuò la
donna, tirando fuori anche un
kimono con decori verdi intonati alle infradito.
“Grazie,
ma
non…” Yasu era decisamente imbarazzata.
“Non
è bello
come il furisode, è solo
un komon,
ma, d’altronde, è giusto una festicciola in
casa.Vallo a indossare, cara, ti ho
preso la stessa misura dell’altro, dovrebbe andarti
bene…”
Yasu
tornò di
lì a poco, dopo aver indossato l’abito alla
bell’e meglio, ma la signora parve
soddisfatta. Glielo drappeggiò addosso, quindi le dette in
mano un vassoio e la
guidò verso una stanzetta sul retro del dojo, arredata con
un grande tavolo e
alcuni tavolini apparecchiati. Da un lato erano già pronti
piatti, bicchieri e
bacchette.
Sistemarono
alcuni
vassoi coperti e dei termos col tè. Quindi, finalmente,
andarono in palestra.
L’esame,
ma a
Yasu venne in mente la parola “cerimonia”, era
già iniziato. La ragazza notò
che tutti gli allievi indossavano il karategi, ma anche il resto degli
astanti
era vestito in modo tradizionale. Ringraziò mentalmente la
mamma di Ken che,
con la sua solita delicatezza, le aveva evitato di sentirsi fuori posto.
Dietro un tavolo sedevano
tre signori compunti
e autorevoli, che osservavano gli allievi esibirsi.
Individuò subito Ken, in
piedi, all’altro lato della palestra: era serio e
concentrato, si girava
nervosamente le mani, lo sguardo fisso di fronte a sé.
Eppure sorrise quando la
ragazza vista in giardino gli passò accanto. E le
appoggiò una mano sulla
spalla. Yasu sentì come se un iceberg le scivolasse dentro
lo stomaco.
Venne
il turno
del portiere.
Ancora
una
volta Yasu si perse ammirando il modo in cui si muoveva:
l’agilità e la
precisione con cui le gambe scattavano, sia che dovessero raggiungere
il
pallone in campo, l’avversario
sul
tatami, oppure un punto ben preciso noto solo a lui quando si allenava
da solo.
L’eleganza che sprigionava da ogni gesto. Il modo in cui le
mani fendevano l’aria, poi,
le riportavano alla mente la sensazione di quelle dita forti sul suo
corpo...
arrossì pensando che, per quanto poco si intendesse di
karate, i movimenti di
Ken le sembravano sempre perfetti e sottilmente erotici... specie
quando
l’unica donna del suo mondo era lei, pensò con un
fremito.
Le
parve di
capire che mentre era persa in quei pensieri,
l’esame fosse finito e che tutto
fosse andato bene. Ken aveva finito, ansante, aveva fatto un inchino ai
tre
maestri, i quali avevano annuito e mormorato qualcosa. Poi tutti
avevano
applaudito. La signora Wakashimazu aveva battuto con grazia e
controllato
entusiasmo i palmi insieme, gli occhi trapunti sul
figlio prediletto.
Intanto
il
padre aveva salutato Ken con un cenno appena visibile, ma con uno
sguardo che
trasudava orgoglio anche a metri di distanza. Quindi Kyo aveva passato
un
braccio attorno alle spalle del fratello, traendolo verso di
sé per spettinarlo
con l’altra mano. Infine gli aveva sussurrato qualcosa e
aveva indicato nella
direzione di Yasu.
Ken
aveva
alzato la testa e si era letteralmente fiondato verso di lei.
“Hai
visto?” Le
aveva chiesto, emozionato e ansante, non appena l’aveva
raggiunta.
“Sì,
anche
se...” smozzicò Yasu.
“Non
ci credo
che sei venuta, mi hai reso felicissimo! E vestita in questo modo sei
così bella!” proseguì,
chiaramente su di giri, stringendosela contro il petto. Attraverso il karategi sottile e aperto sul petto, Yasu
sentì i suoi pettorali tonici, caldi e appena umidi. Si
perse in
quell’abbraccio che sapeva di lui, ma durò
pochissimo. “Oh, tocca ad Akiko!”
esclamò, scostandola.
Un
nuovo
brivido percorse il corpo di Yasu... tutti la conoscevano lì
e sembrava normale
che fosse in confidenza con chiunque. Ma chi era?
Ken
rivolse la
sua attenzione al tatami, osservando, col fiato sospeso, la prova della
ragazza.
Tutto
si
svolse più o meno come per Ken, solo che gli esaminatori
erano cambiati e le
mosse che la ragazza compiva, erano diverse da quelle eseguite poco
prima dal
portiere, ricordavano piuttosto, realizzò Yasu con una
smorfia, lo spettacolo
visto in giardino. Quando tutti applaudirono,
intuì che anche Akiko era passata.
Dopo
i saluti
composti ai maestri, compreso Wakashimazu-sama, la ragazza corse verso
di loro
e si gettò con slancio al collo di Kyo. Poi raggiunse Ken,
saltandogli praticamente
in braccio. Yasu abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro
inferiore.
“Grazie,
grazie, grazie, Ke-chan!” esclamò piena di
entusiasmo, stampandogli un bacio
sulla guancia.
“Un
po’ di
contegno” la sgridò bonariamente Ken, imbarazzato.
“Andiamo
ragazzi”
li incitò la signora Wakashimazu, “non ci sono
altri allievi, andiamo a
controllare che il rinfresco sia perfetto, per i sensei...”
Akiko
seguì la
signora, Ken appoggiò una mano sulla schiena di Yasu
sospingendola verso la
stanza sul retro. “Che bella sorpresa mi hai fatto”
le sussurrò di nuovo
all’orecchio, il fiato caldo e i lunghi capelli
che le sfiorarono il collo.
Di
lì a poco
anche Kyo li raggiunse, seguito dagli altri allievi ed esaminandi e dai
loro
accompagnatori. Quindi fecero il loro ingresso i sensei e
Wakashimazu-sama.
Una
sonora
pacca sulla schiena da parte di Kyo suggerì a Yasu, con un
istante di ritardo
rispetto a tutti gli altri astanti, di chinarsi, tossendo appena per la
botta.
“Adesso
puoi
anche tirarti su.” Le suggerì di lì a
poco lo stesso Kyo.
“Grazie”
mormorò Yasu, riconoscente.
“Ti
va del
succo di frutta? Se ben ricordo non ti piace molto il
tè…” proseguì il maggiore
dei fratelli Wakashimazu.
“Volentieri”
rispose la ragazza, seguendolo al banco dei rinfreschi, un
po’ stupita di tutte
quelle attenzioni. Kyo versò del succo e le porse il
bicchiere, cingendole la
spalla con un braccio.
“Piaciuta
la
pantomima?” chiese, storcendo la bocca.
“Affascinante...
anche se non ho capito un gran che...” ammise Yasu con un
sorrisetto imbarazzato,
rigida come un baccalà per quell’abbraccio. Con la
coda dell’occhio vide che
Ken parlava allegramente coi genitori e i sensei, una mano
poggiata sulla
spalla di Akiko.
“Capirci
qualcosa non rende la cosa più divertente”
proseguì Kyo a mezza voce, sempre
con la stessa smorfia. “Anzi, direi che dopo un tot perde
decisamente ogni
fascino... almeno per me...” Fece una breve pausa.
“Ken, per dire, ha sempre
quello sguardo trasognato, anche quando non è lui a
gareggiare.”
“Ama
molto il
karate.”
“E
non solo.”
“In
che
senso?” chiese Yasu, mentre il cuore le perdeva un battito.
“L’ultimo
che
hai visto praticato da Akiko era judo…”
spiegò, come se parlasse a un bambino
di tre anni.
“Ecco!
Mi pareva
facesse qualcosa di diverso!” esclamò
l’altra.
Kyo
scoppiò a
ridere. Dovette mettersi una mano di fronte alla bocca
perché tutti si erano
voltati verso di lui. “Finalmente qualcuno che ne capisce
meno di me…”
sghignazzò.
Yasu
aggrottò
le sopracciglia, vagamente risentita. “Lieta di essere
d’aiuto” sibilò.
“Scusami,
non
volevo offenderti... comunque sì, Akiko pratica il judo e,
se tutto va bene,
terrà dei corsi nei locali del nostro dojo...
papà ha voluto che fosse
esaminata da alcuni maestri suoi amici, prima di darle il
permesso” disse, con
aria fintamente pomposa come a sottolineare quanto ritenesse esagerata
la
pretesa del padre. “Akiko ha già insegnato in
diverse scuole prestigiose, farle
fare un esame è quasi oltraggioso”
rintuzzò.
“A
vederla non
sembrerebbe una ferita nell’orgoglio”
ribatté Yasu, un po’ acida.
“Ha
grande
rispetto di mio padre e anche di mio fratello, per non parlare di mia
madre...
insomma l’unico che tratta a pesci in faccia sono
io!” rise.
“Come
si sono
conosciuti?”
“Chi?”
“Lei
e Ken”.
“Uh,
l’abbiamo
conosciuta anni fa, quando anche io mi allenavo regolarmente. Prima di
dedicarsi al judo, Akiko ha praticato anche il karate. Ovviamente sia
lei che
Ken mi battevano sistematicamente...” sospirò,
senza perdere tuttavia il
sorriso. “A pensarci bene” riprese, dopo una breve
riflessione, “poi tutti abbiamo
preso strade diverse... Akiko il judo, io lo studio e Ken il
calcio...” fece
un’altra pausa, poi riattaccò, come preso dai suoi
pensieri. “La scelta di mio
fratello di giocare a calcio mi sorprese all’epoca e continua
a farlo...
chissà, forse ha bisogno di provare altro... anche solo per
convincersi su
quale sia la scelta giusta.”
“E
tu credi
che sia il karate?”
Kyo
ritrasse
il braccio e versò del succo anche per sé.
“Alla fine sì. Credo che in fondo lo
voglia, questo dojo.”
“E
tu? Non sei
tu il primogenito?”
Il
ragazzo
scrollò le spalle possenti. “Io non sono
adatto.” C’era una certa sofferenza
nelle sue parole. Per quanto nessuno glielo avesse mai fatto pesare,
era
evidente che Ken era molto più bravo nel karate. E che era
la gioia dei suoi
genitori. “Mi occupo dell’amministrazione. Quello
mi viene bene... E poi c’è
sempre Akiko. Si prenderanno buona cura del dojo, insieme.”
Yasu
si
appoggiò al tavolo e respirò a fondo, tentando di
afferrare il significato di
quelle parole. Davvero Ken pensava di abbandonare il calcio?
Perché non le
aveva detto niente? Che quei giorni al dojo gli avessero fatto cambiare
idea? E
questo cosa significava? Sarebbe rimasto al Toho? E fra loro cosa
sarebbe
successo? Ma soprattutto... che ruolo aveva quella Akiko in tutto
ciò?
“Stai
bene?”
le chiese Kyo. Probabilmente era impallidita.
“Sì,
sì… tutto
bene. Sarà un calo di zuccheri, meglio se mangio
qualcosa…”
“Vado
a
prender- Ah! Vedo che qualcuno previene i tuoi
desideri…”
Ken
si avvicinò
loro con un piatto colmo di roba.
“Stai
morendo
di fame e ti vergogni ad avvicinarti al buffet, dico bene?”
“Già”
mentì
Yasu. Anche se aveva lo stomaco chiuso, afferrò una cosa a
caso dal piatto e se
la ficcò in bocca.
“Usciamo
un
poco in giardino?” le sussurrò, prendendole la
mano.
Yasu
annuì appena,
convinta che Ken avrebbe confermato quanto detto da Kyo.
“Te
l’ho detto
che sei bellissima vestita così?”
Attaccò, una volta che furono lontani dalla
folla.
“Devi
ringraziare tua madre, mi ha comprato lei tutto”.
“Il
verde ti
sta bene” proseguì il portiere, sedendosi su uno
dei sassi che delimitavano il
piccolo, classico laghetto in cui si muovevano pigre delle enormi carpe
koi. Posò il piatto su un
altro sasso, e
invitò Yasu a sedersi. E lei lo fece, ma rimase in silenzio,
lo sguardo fisso
sui pesci che si muovevano lenti. Prese dal piatto qualche chicco di
riso e lo
gettò nell’acqua, sorridendo appena nel vedere le
carpe salire in superficie
spalancando la bocca.
“Sei
connessa,
Wakabayashi?” gli chiese Ken un po’ scocciato. Lo
era di sicuro, se la chiamava
per cognome.
“Mmm?
Sì, sì” rispose
Yasu, pescando a caso nel piatto e mangiando, ostentando soddisfazione.
“Non
mi
travolgere con il tuo entusiasmo” bofonchiò il
portiere, cupo. Aspettò un
attimo la reazione della ragazza guardandola di sottecchi. Quindi
sbottò,
allargando le braccia e sbattendo rumorosamente i palmi sulle cosce.
“Se questa
è la tua reazione, potevi restartene a scuola.
Credevo… ah, lascia perdere.
Tanto nessuno capisce quanto questa cosa conti per
me…”
“Più
del
calcio, vero?” sibilò lei, contraendo i pugni, gli
occhi fissi sul laghetto.
“Che
cavolo
dici?”
“Tuo
fratello…”
“Che
c’entra
Kyo? Cos’altro ha combinato, oltre a fare il cascamorto con
te?”
“LUI
ha fatto
il cascamorto con ME?”
“Tsk,
a volte
sei così ingenua… Il succo di frutta che ti piace
tanto, il braccio attorno
alle spalle, le chiacchiere fitte fitte…”
“E
tu con
Akiko, allora? Tutto quel rotolarsi a terra facendovi il
solletico…” sputò,
guardandolo con odio.
“Io
e Akiko?
Ci siamo allenati insieme e… no, aspetta, te l’ha
detto Kyo?”
“No,
vi ho
visti…”
“Quando?
E…
soprattutto come?”
“Stamattina…
io… ecco… mi sono arrampicata su
quell’albero” spiegò indicandolo al di
là della
siepe. “E poi Kyo mi ha detto quella cosa e io non sono
stupida…”
“Cosa
ti ha
detto Kyo?”
“Che
tu e lei gestirete
insieme il dojo” singhiozzò.
“Io
lo
ammazzo!” ringhiò Ken, portandosi una mano al
volto.
“Io
credevo”
continuò Yasu singhiozzando, “che nel tuo futuro
ci fossimo io e il calcio… ma
forse mi sono illusa.”
“Piccola,
ma
che cosa stai dicendo? Forse in questi giorni mi sono concentrato un
po’ troppo
sul karate, è una disciplina che amo e che fa parte di me,
lo sai. Ma nel mio
futuro tu ci sei di sicuro e anche il calcio, pure se ultimamente ho
trascurato
un po’ entrambi. Non nego che, probabilmente, prima o poi,
vorrò prendere le
redini del dojo, ma non credo che mio padre
cederà il posto, ancora per qualche
anno… E io ho tutto il tempo di
diventare il portiere migliore del Giappone…” si
pavoneggiò, facendole l’occhiolino.
“A proposito, appena questa gente se n’è
andata, che ne dici di fare due tiri e
poi un po’ di...” le soffiò in un
orecchio.
“Davvero?”
chiese lei a mezza voce, sentendosi improvvisamente leggera.
“Ma allora tu e
Akiko…”
Ken
sbuffò. “Credo
che ci sia un particolare su di lei che ti sfugge… forse
perché non si vede
dall’albero del parco di fronte…” la
canzonò “Vedi piccola, il fatto
è-”
“Eccovi
qua!”
esclamò una voce da lontano. I due si voltarono e videro
arrivare Akiko che si
trascinava dietro Kyo, tenendolo per mano. La ragazza si
avvicinò a Yasu, arrossata
in viso per la corsa e sorridente.
“Questi
due
cafoni non ci hanno nemmeno presentate… Yamazaki
Akiko” si dichiarò, facendo un
inchino. “Ma immagino tu sappia come sono gli
Wakashimazu…”
“Abbastanza”
balbettò Yasu un po’ confusa.
“Ken
mi ha
parlato molto di te” proseguì con entusiasmo.
“E credo che andremo molto
d’accordo… Possiamo uscire tutti insieme qualche
volta…”
Yasu
la guardò
perplessa: “Noi?”
“Sì,
certo! Io
e Kyo, tu e Ken…” spiegò indicandoli a
turno.
La
mascella di
Yasu cadde rimanendo penzoloni. “Tu e…”
disse indicando alternativamente la
ragazza e Kyo, mentre Ken rideva a crepapelle.
Tutti
i
tasselli andarono a posto nella mente di Yasu: la
“rivincita” di cui aveva
parlato Kyo, Akiko titolare del dojo… ovvio! In quanto
fidanzata e poi magari
moglie di Kyo…
“Che
stupida!”
esclamò Yasu.
“È
solo
un’idea…” disse Akiko, mortificata.
“Scusa!”
si
affrettò a correggersi Yasu, prendendo l’altra
ragazza per le spalle. “Non
parlavo di te, parlavo… lascia perdere! Mi piacerebbe molto
uscire tutti insieme…
e studiare un piano per difendersi da questi due”
sospirò, indicando i fratelli
Wakashimazu.
“Certo!”
sorrise lei, rincuorata, “in fondo, in un certo
senso… per me potresti essere
quasi una sorella!”
Perché
no?
pensò Yasu: infondo con tre fratelli e quattro coinquilini
tutti maschi...
Sorrise: “È quello che ho sempre
desiderato!”
**********
Un
doveroso ringraziamento, va alla betina Rel... è stata dura
ma ce l'abbiamo fatta... e l'accenno a Nat te lo sei meritato lol
Se volete qualche chiarimento sui *kimoni* ecco qua http://it.wikipedia.org/wiki/Kimono
Per chi conosce il mio Kyo di "Le cose che amo", nonostante il nome,
questo è un personaggio diverso, più alto e
più gioviale XD
Grazie, grazie, grazie
|
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Capitolo 10 *** Pasquetta in casa Toho - Toho Story 8 ***
Sì
sono un po' in ritardo, ma l'ho scritta proprio la mattina di Pasquetta
e poi fra betaggio (grazie rel) e pubblicazione i giorni passano...
Siamo
a marzo-aprile fra la fine del secondo anno e l'inizio del terzo. E'
appena passata Pasqua ma in Giappone non è festa...
Pasquetta in casa Toho
Anche se i
suoi coinquilini lo ignoravano, quella mattina era Pasquetta e pur
dovendo andare a scuola, Yasu non voleva rinunciare alla sua classica
colazione del Lunedì dell’Angelo.
“Dov’è
il mio uovo di Pasqua?” domandò ai ragazzi che,
seduti a tavola, finivano i loro caffè.
“Cos’è
un uovo di Pasqua?” chiese di rimando Kazuki.
“Un
uovo fatto di cioccolata con una sorpresa dentro”
spiegò Takeshi, senza alzare gli occhi dal libro su cui
stava ripassando per il compito di quella mattina.
Ken e Kazuki
si scambiarono uno sguardo fugace e tornarono a fissare con interesse
le proprie tazze.
“Esatto”
disse Yasu, appoggiandosi con la schiena alla cucina, a braccia
conserte. “Anche se, in realtà, siccome ieri
l’ho aperto per vedere la sorpresa, adesso somiglia
più a un mucchietto di pezzi di cioccolato un po’
ricurvi che avevo messo in un contenitore...”
“Uno
tipo questo?” chiese Kojiro, tirando fuori dalla
lavastoviglie un Tupperware da cui caddero due o tre sparuti pezzettini
di cioccolata. “L’abbiamo svuotato ieri sera,
quando siamo tornati dalla partita e tu dormivi
già” spiattellò, asciutto, con gli
altri che lo guardavano come fosse Giuda.
“Era
mio” piagnucolò Yasu. “Me
l’aveva fatto mio fratello...”
Kazuki aveva
l’aria contrita, ma sentendo le ultime parole, non
riuscì a trattenere un risolino: “E da quando in
qua Wakabayashi fa l’uovo?”
Tutti gli
altri, loro malgrado, ridacchiarono, Yasu compresa.
“Intendevo
dire che lo ha fatto fare per me, cretino, per regalo”
spiegò la ragazza, tirandogli un canovaccio.
“Ecco
sì, da buon galletto ha convinto qualche
pollastrella...” incalzò Kazuki.
“Finiscila”
intimò Yasu, volendo fare la sostenuta, ma faticando a
restare seria. Poi la bocca le si piegò in un sorrisetto
sghembo e un po’ beffardo. “Beh, volevo condividere
con voi la sorpresa, ma visto che vi siete presi la
cioccolata...”
“Cos’era
la sorpresa?” chiese Takeshi, serafico, dando voce alla
domanda che nessuno degli altri, a quel punto, voleva porre.
“Uh
niente... cinque biglietti VIP per la finale di Champions a Monaco di
Baviera (1) ...”
Lo sguardo
dei ragazzi si fece simile a quello di un branco di vampiri assetati di
sangue, mentre la ragazza sciorinava nomi di persone cui poteva dare ai
biglietti. “Magari Jun e Yayoi... o i vecchi compagni della
Shutetsu... scommetto che sarebbero felici di vedere Genzo, loro...”
disse, calcando l’ultima parola e guardando i compagni di
sottecchi.
“E
comunque come facevamo a venirci? Non potevamo permetterci i biglietti
aerei” disse Kojiro, in puro stile volpe e uva.
“Quello
non è un problema... con tutti i voli che facciamo io e mio
fratello abbiamo accumulato così tante miglia premio che a
momenti ci regalano un aereo... non ci vuole niente a trovare qualche
posto in turistica a prezzi ragionevoli. E comunque sareste stati
nostri ospiti, figuriamoci...”
“Ok”
dichiarò Kazuki alzandosi dal tavolo. Vado a mettermi un
dito in gola e te lo restituisco, il tuo uovo...”
“Ma
che schifo!” esclamarono gli altri storcendo la bocca.
“San
Valentino” esordì all’improvviso Ken.
I compagni
lo guardarono perplessi.
“A
San Valentino abbiamo diviso con te la cioccolata che ci hanno regalato
le ‘ammiratrici’” disse mimando le
virgolette con le mani. “Adesso siamo pari”.
Kazuki e
Kojiro guardarono il portiere con malcelata ammirazione. Quella
sì che era un’idea!
Yasu
fissò Ken con gli occhi ridotti a fessure. “Direi
che è un’obiezione sensata. Il cioccolato del
nemico...”
Le spalle
del portiere si sollevarono e la risata che gli saliva alle labbra fu
smorzata in uno sbuffo. “Esattamente”
scandì, alzando lo sguardo verso di lei.
“Così
non vale” balbettò Yasu trasalendo appena, persa
in quello sguardo tagliente.
“Ci
perdoni?” incalzò Ken, fissandola intensamente e
traendola a sé.
“Vabbè,
diciamo che l’avete fatto per evitarmi i brufoli”
capitolò, assecondando Ken e sedendosi sulle sue ginocchia.
Si abbandonò fra le sue braccia e si scambiarono un breve
bacio, consapevoli del pubblico che li guardava, con aria un
po’ schifata.
“E
poi” disse Yasu alzandosi dalle ginocchia di Ken e guardando
tutti, a braccia conserte, “come avrei potuto portarci
qualcun altro?”. Sparì per un attimo in camera,
poi tornò e gettò i famosi biglietti sul tavolo.
“Ci sono i vostri nomi sopra...”.
*****
(1)
Quest’anno (2012) la finale si svolgerà a Monaco
di Baviera, all’Allianz Arena, che nell’epoca (pur
vaga) in cui si svolgono le TS non esisteva. Tuttavia la finale della
Coppa dei CampioniChampions League fu giocata nel capoluogo bavarese
anche nel ’79, nel ’93 e nel ’97 nel
“vecchio” Olympiastadion... *si perde in ricordi di
pernottamenti abusivi nel parcheggio per l’Oktoberfest*
...a-ehm quindi, senza voler dare un’esatta collocazione
temporale alla fic, come ben si confà a CT, diciamo che la
cosa è quanto meno ragionevole...
|
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Capitolo 11 *** La genetica non è un'opinione - Toho Story 0 ***
Ho
scritto questa shottina mesi fa, a seguito diella rece di Kara
alla mia "Una vacanza diversa"... Era una scena che avevo in mente da
tempo e colsi l'occasione di buttarla giù. Era
già apparsa su ELF ma, sebbene non sia proprio una Toho
Story, il periodo è quello e nella raccolta non
sfigura... potrebbe essere nell'estate del terzo
anno.
PS: Essendo
nata prima, la chiamerò Toho Story 0.
La genetica non
è un'opinione...
Yasu
tirò un profondo respiro e, boccheggiando, si
appoggiò alla parete e allungò le gambe sul
pavimento del bagno degli ospiti di casa Wakashimazu.
“Che figura di merda” ansimò,
asciugandosi la bocca e guardando Ken, accovacciato lì
vicino.
La osservava serio e visibilmente preoccupato. Stiracchiò un
sorriso.
“Ma figurati” rispose. “Mica è
colpa tua se ti senti male”. Si alzò in piedi e le
porse un bicchiere con dell’acqua.
Lei prese un sorso e si sciacquò la bocca. Le poche gocce
che scivolarono in gola le fecero pensare, per un attimo, che avrebbe
rigettato ancora.
Falso allarme. Prese altro fiato e, a fatica, parlò di nuovo.
“Vabbè, ma la prima volta che i tuoi invitano me e
mio fratello… non è bello salutarli al mattino
vomitando l’anima, invece che con un
classico:‘Buongiorno’”.
Ken ridacchiò ma, poi, si rifece serio e continuò
a fissarla. “Yasu…” mormorò
dopo un po’, incerto.
“Sì?”
“Sei sicura di star… bene?”
La ragazza aggrottò la fronte. “Non
proprio… mi sembra… mmm…
evidente” rispose, cercando di alzarsi.
“Quello che voglio dire è che… sei
sicura che…?”
“Ken, per favore” sospirò, abbandonando
il tentativo. “Non sono in vena di
indovinelli…”
“Non sei incinta, vero?” disse, tutto d'un fiato.
Yasu spalancò gli occhi, incredula. “Ma certo che
no! Che ti viene in mente…”
“Non lo so, è che a volte siamo stati
-ehm-… incauti?”
“Vai tranquillo, Wakashimazu, ho fatto i miei…
conti” si sporse a prenderlo per le spalle, guardandolo fisso
negli occhi. “Ho preso le mie precauzioni, ci tengo alla mia
adolescenza… e alla tua carriera”.
Ken emise un lungo sospiro di sollievo, lasciando cadere la testa in
avanti.
Yasu sorrise, tossicchiando appena: “Sollevato?”
Il karate keeper rialzò di scatto il capo, fissandola
allarmato. “Non intendevo… avrei fatto
tutto-”
“Lo so” fece lei, carezzandogli la testa.
“… e un giorno, lo vorrò-”
continuò, col tono di chi sta quasi chiedendo scusa.
“So anche questo”. Gli prese il volto fra le mani e
lo zittì, appoggiandogli un dito sulle labbra.
Qualcuno bussò forte alla porta e la voce strozzata di Genzo
li chiamò.
“E’ tutto a posto” gli gridò
Ken, adesso usciamo… Tu come stai?” Poi, rivolto a
Yasu, spiegò che lo aveva sentito lamentarsi tutta la notte.
Al che la ragazza sfoderò il classico sorriso di chi la sa
lunga.
“Ragazzi, è
un’emergenza…” fu la risposta dal
corridoio. Senza che i due all’interno del bagno avessero
dato all’SGGK il permesso di entrare, la porta si
spalancò. Fecero appena in tempo a scansarsi, prima che
Genzo si avventasse sul water ripetendo la performance della sorella.
“Ecco la conferma” sghignazzò Yasu,
rivolta a Ken. “Nessun ‘girino’ solo-
ehm- cozze”.
“Cosa?” chiese il karate keeper confuso.
“C’erano…” ansimò
Genzo. “… le… cozze…
nella… zuppa… di… ieri…
sera?”
“Credo di sì” rifletté
Wakashimazu. “Perché?”.
“Siamo allergici” risposero all’unisono i
gemelli.
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Capitolo 12 *** Fidarsi è bene, non fidarsi... fa male! (Toho Story 5) ***
Ed
eccoci qua...
finalmente (ma anche no) una TS un po’ più lunga e
più corale, dedicata specialissimamente a sissi149, ma il
perché ve lo spiego alla fine:)
Stavolta facciamo un passo avanti nel tempo, siamo al campionato
nazionale del secondo anno delle superiori e Ken e Yasu stanno
già insieme.
Fidarsi è bene, non
fidarsi... fa male!
Ken
uscì dagli
spogliatoi tirando un lungo sospiro. Era talmente teso che aveva deciso
di farsi la doccia a casa, con calma, senza dover aspettare i comodi
dei compagni. Chiuse gli occhi, e, di nuovo, lentamente,
inspirò ed espirò. Che palle. Si teneva il
braccio sinistro con l’altra mano. Ma stavolta non era la
solita spalla a dargli fastidio, bensì la fascia di capitano
che indossava ancora. Era come se bruciasse attorno al bicipite. Non
che non avesse il carisma necessario: ormai da tanti anni aveva
imparato a dare indicazioni ai difensori e non solo, e tutta la squadra
riponeva fiducia in lui, ma quello, semplicemente, non era il suo
ruolo. Lui non era il capitano della Toho, e odiava esserlo. Anche
perché, quando quella cavolo di fascetta finiva a lui era
sempre perché Kojiro aveva combinato qualche casino. Appena
due anni prima era sparito, mentre adesso aveva
avuto la bella idea di prendere una serie di insufficienze che, secondo
le inflessibili regole della scuola, gli impedivano di partecipare alle
attività extrascolastiche.
Stavolta,
dunque, non sarebbe bastato prostrarsi
tutti davanti al
mister, la cosa andava oltre il suo potere. E se i prof di inglese e
letteratura si erano dichiarati disposti a chiudere un occhio, quello
di matematica non transigeva. Non avrebbe chiuso nessun occhio (anche
se, a onor del vero, considerando le performance matematiche di Kojiro,
il professor Sasaki avrebbe dovuto come minimo cavarseli entrambi, gli
occhi) e non si sarebbe mosso di una virgola se tutta la squadra o
persino tutta la scuola si fosse prostrata di fronte a lui. Forse
nemmeno se si incatenavano tutti al cancello dell’istituto.
Forse nemmeno se immolavano qualcuno…
La
serie di iperboli si concluse davanti al portone della palazzina
dove abitavano. Lanciò uno sguardo verso il loro
appartamento e vide che la luce in camera di Yasu era accesa. Strano
che non fosse venuta a vedere gli allenamenti.
“Bah”, pensò, “magari doveva
studiare”. Gongolò pensando che avrebbe potuto
parlarne un po’ con lei, della storia della fascia. Da quando
stavano insieme, aveva scoperto che discutere con Yasu dei propri
problemi, lo aiutava molto. E magari avrebbe anche millantato
l’ennesimo fastidio alla spalla, così le coccole
non sarebbero rimaste solo verbali…
Salì
le scale a due a due, col sorriso sulle labbra e
aprì la porta dell’alloggio. Stava per chiamare la
sua ragazza quando scorse la borsa di Kojiro nel corridoio.
Sentì le voci dei due provenire dalla stanza di Yasu.
“Sei…
sicura?” stava domandando Kojiro,
incerto.
“Non
ti preoccupare, mettici tutta la forza. Non aver paura
di farmi male” disse lei. La voce era diversa dal solito,
affannata, ma aveva chiaramente udito quelle parole, mentre la risposta
di Kojiro fu solo un mormorio confuso. Sentì un rumore
strano, seguito da un grido di Yasu.
Tremando
Ken si avvicinò alla porta chiusa e
l’aprì.
Ebbe
una rapida visione di della sua ragazza fra le braccia di Kojiro,
poi il capitano si alzò di scatto, allontanandosi dal letto
mentre la ragazza si tirava rapidamente addosso la coperta.
“Ken” balbettò, gli occhi spalancati.
“Cosa
sta succedendo qui?” ringhiò il
portiere, fremendo, in preda a un tumulto di emozioni.
“Te
l’avevo detto, Wakabayashi ,”
ruggì Kojiro, “che era inutile nascondersi. Credo
sia il caso di raccontargli tutto”.
******
Alcuni
giorni prima...
“Mi
dispiace, Hyuga, ma non è una cosa in mio
potere, lo sai” ripeté per l’ennesima
volta il mister Kitazume. Poi si avvicinò a Kojiro,
mettendogli una mano sulla spalla. “Lo so che così
ci rimettiamo tutti, ma devo ammettere che sono abbastanza
d’accordo col professor Sasaki. So che tu sei qui
perché sei la stella della squadra e tutto il resto, ma in
fin dei conti siamo sempre a scuola… e sono ancora convinto
che ai ragazzi non si debbano insegnare solo il calcio e la matematica,
ma anche ad affrontare le proprie responsabilità. E ad
accettare le conseguenze delle proprie azioni”.
Yasu
aveva osservato tutta la scena da dietro le spalle del mister
mordicchiandosi il labbro, tormentata. Capiva che
l’allenatore aveva ragione, ma l’espressione sul
volto di Kojiro le spezzava il cuore. “Mister Kitazume,
signore” s’intromise allora, timida,
“magari potrebbe almeno allenarsi, anche se non
giocare”.
Kojiro
alzò il viso, annuendo, pieno di speranza.
“Wakabayashi”
sospirò l’uomo,
“Avevo capito che fossi tu quella brava con le lingue. Sai
cosa significa ‘escluso da ogni attività
extrascolastica’ ?”
“Sì,
signore” rispose la ragazza
abbassando il capo.
“Allora
ti sei risposta da sola” concluse. E se ne
andò.
Hyuga
lasciò la stanza a sua volta, non prima di aver
rivolto a Yasu un mezzo sorriso del tipo “grazie per averci
provato” cui lei rispose con un’impercettibile
alzata di spalle.
Di
lì a poco, anche la ragazza abbandonò lo
studio dell’allenatore. Uscendo dall’impianto
sportivo, la sua attenzione fu attirata da Kojiro che
l’aspettava seminascosto dietro un albero.
“Troviamoci in cafeteria” le sillabò con
le labbra, poi si dileguò.
Yasu,
curiosa, si avviò verso il luogo dello strano
appuntamento.
Quando
arrivò, trovò Kojiro già seduto
a uno dei tavolini con davanti due bicchieri di cartone. Tè
per sé e mokaccino per Yasu.
“Vedo
che i miei gusti sono ormai patrimonio
dell’umanità” sorrise la ragazza alla
vista della bevanda.
“E’
quello che ti prende sempre Ken”
borbottò lui con una scrollata di spalle. “Beh, ti
siedi?”
“Gli
altri non ci sono?” chiese guardandosi intorno
perplessa.
“No,
volevo parlare solo con te. Anzi, mi devi promettere che
sarà un segreto”.
“Ok”
disse stupita, scrollando la testa, con un
mezzo sorriso.
“Prima
di tutto, grazie per poco fa, ho apprezzato molto che
tu abbia chiesto al mister di farmi almeno allenare” disse
d’un fiato.
“Figurati…
è che capisco la posizione
del signor Kitazume, ma so anche quanto è importante per te
il calcio… Se solo mettessi nello studio un po’
delle energie che profondi nello sport” lo
rimbrottò sorridendo e allungando una mano per carezzare
quella del cannoniere. Kojiro trasalì a quel
contatto, ma poi si rilassò.
“Ecco”
riprese lui, un po’ a disagio,
“io vorrei chiederti se…”
Yasu
lo guardò, incoraggiante.
“No,
lascia perdere, non puoi e basta…”
“Beh,
dimmelo e poi vediamo, no?” Ormai era troppo
curiosa.
Hyuga
prese un lungo respirò e poi parlò:
“Mi aiuteresti ad allenarmi?”
“Cosa????”
“Sì,
ho bisogno di allenarmi, ma da solo
è un casino. E non posso chiedere a Sawada e Wakashimazu di
fare allenamenti aggiuntivi, già hanno quelli ufficiali, le
partite, la scuola… e poi se il mister lo venisse
a sapere… li metterei nei casini… di nuovo
e… non voglio… Ma non voglio crearne neanche a te
quindi, dimenticati di tutto” concluse alzandosi e lasciando
in tutta fretta la cafeteria.
Quella
Yasu proprio non se la aspettava: Kojiro che le chiedeva di
aiutarlo ad allenarsi! Ovviamente lo avrebbe fatto volentieri. Certo,
avrebbe fatto più comodo a entrambi fare qualche esercizio
in più di matematica, senza contare che la cosa avrebbe
potuto crearle problemi col mister… ma infondo –
pensò- per lei vedere le partite dalla tribuna non avrebbe
fatto tanta differenza… non come la fa per un giocatore,
comunque. E poi dove stava scritto che non poteva allenarsi con
qualcuno? Aveva persino il permesso di usare le attrezzature!
Insomma
la decisione era presa.
Tornò
all’alloggio, dove Takeshi, Kazuki e Ken,
stravaccati sul divano, si godevano il meritato riposo post allenamento
e pre-cena. Peraltro sarebbe toccato a lei cucinare, ma ci avrebbe
pensato dopo.
“Salve
a tutti” salutò, soffermandosi
per dare un bacio a Ken. “Kojiro è in
casa?”
“In
camera sua, sì” rispose Takeshi.
“Te
lo ricordi, vero, Wakabayashi che oggi tocca a te a
cucinare, se così si può dire?” chiese
Sorimachi. “Hai già chiamato la
rosticceria?”
“C’è
del ramen in scatola, mangi quello
Sorimachi non rompere”, ribatté stizzita,
dirigendosi verso la camera di Hyuga.
“Ho
capito” sospirò Ken.
“Cucino di nuovo io”.
“Kojiro?”
chiamò Yasu bussando appena.
“Entra
pure” fu la risposta dall’interno.
La
ragazza scostò la porta, affacciandosi appena:
“Volevo solo dirti” scandì, a voce
abbastanza alta da farsi sentire dai coinquilini, “che sono
disposta a darti quelle ripetizioni, magari
mentre gli altri sono all’allenamento”.
Kojiro
si voltò per guardarla negli occhi. “Sei
sicura?”
“Sì”.
E
così fu. Nei giorni seguenti, non appena Ken, Takeshi e
Kazuki andavano all’allenamento, Yasu e Kojiro sgattaiolavano
fino a un boschetto nel parco della scuola. Avevano trovato una radura
nascosta che faceva esattamente al caso loro, dopo un’oretta,
Kojiro tornava a casa e Yasu andava a vedere, come al solito, la fine
degli allenamenti.
Chiedere
alla ragazza del suo migliore amico di aiutarlo ad allenarsi
di nascosto da tutti era stata un’idea che gli era venuta
così, su due piedi, preso dalla frenesia di giocare: in
qualche modo, ed era stata lei stessa, con quella proposta al mister, a
dargli l’ispirazione. Ma ogni volta che uscivano
dall’alloggio per andare a farlo, era tentato di dirle che
era meglio smetterla, con quella storia. Perché non voleva
metterla nei casini, né con l'allenatore, né con
Ken… insomma non gli sembrava giusto. Ma
l’entusiasmo della ragazza era coinvolgente e la sua voglia
di giocare quasi più forte di quella di Kojiro stesso.
Certo, non era come allenarsi con Ken, ovvio che non aveva la sua forza
e la sua bravura, e spesso il cannoniere doveva dosare la propria
potenza per paura di farle male, ma Yasu aveva un’energia
inesauribile e un’innegabile, naturale predisposizione.
Sembrava riunire in sé, seppur in tono minore, le doti del
fratello e del fidanzato, come avesse, per anni, assorbito tutti gli
insegnamenti impartiti più o meno direttamente, e
memorizzato i movimenti visti in centinaia di partite.
Tutto
filò liscio per diversi giorni, finché, una
volta, distratto da queste riflessioni, Kojiro non controllò
abbastanza la propria forza e sferrò all’indirizzo
della ragazza un tiro potentissimo e angolato. Se ne rese conto quasi
subito, ma i suoi avvertimenti furono inutili. Forse Yasu non lo
sentì nemmeno, concentrata come era sul pallone, o forse lo
ignorò bellamente: fatto sta che non pensò
neanche per un attimo di lasciar perdere, bensì
spiccò un balzo particolarmente difficile, seguito da una
brutta caduta.
“Tutto
a posto?” chiese Kojiro avvicinandosi, visto
che la ragazza era rimasta bocconi, anziché rialzarsi subito
come faceva di solito.
Yasu
rotolò lentamente sul fianco destro, fino a trovarsi a
pancia in su: si stringeva la spalla sinistra e una smorfia di dolore
le contorceva il viso.
“Credo”
mormorò fra i denti,
“che mi sia uscita la spalla”.
“Ti
porto in infermeria” esalò,
allarmato.
“No,
il mister e gli altri ci vedrebbero, andiamo a casa, ti
dirò quello che devi fare”.
“Porca
miseria” imprecò Hyuga mentre
riportava a casa Yasu, sostenendola, anzi, portandola quasi di peso:
aveva il volto terreo, la spalla doveva farle molto male. Insomma,
ormai conosceva la sua amica: non era certo tipo da lamentarsi per
niente. “Cazzo, cazzo, cazzo, mi dispiace”.
“Tranquillo,
Kojiro” rispose lei, a fatica.
“Non è colpa tua, mi sono buttata male”.
“Sì,
che è colpa mia, ho tirato troppo
forte e comunque non dovevo proprio coinvolgerti in questa cosa, punto
e basta… ora Ken ci ucciderà tutti e
due…”
“Non
deve scoprirlo per forza…”
“Credi
davvero di poter nascondere a quel paranoico del tuo
ragazzo di avere una spalla fuori uso? Ma se si mette in agitazione
anche solo se ti sente fare uno starnuto o ti vede un po’
più stanca! Lo sai, no?”.
Yasu
si soffermò un attimo: no, non lo sapeva. Certo, Ken
era un tipo premuroso e solerte, ma non le era mai sembrato che la
controllasse così tanto… credeva piuttosto di
essere lei quella che durante le partite osservava ogni suo minimo
gesto, nel timore che qualcosa non andasse…
La
scoperta, lo doveva ammettere, le scaldò il cuore. Per un
attimo persino il forte dolore che le pulsava nella spalla sinistra
sembrò scomparire.
“No,
certo ma quando me l’avrai rimessa in sede
starò meglio e gli diremo solo che sono
inciampata”.
Una
volta a casa, Yasu si sedette sul proprio letto, provata. Quindi,
con l’aiuto di Hyuga e non poche difficoltà, si
sfilò la maglietta e spiegò a Kojiro la manovra
che avrebbe dovuto fare. Il ragazzo annuì, cercando di non
far caso al fatto che la ragazza indossava solo il reggiseno sportivo.
“Sei…
sicura?” chiese. Lui non era per
niente sicuro di quello che stava per fare. E se non ci fosse riuscito?
E se le faceva ancora più male? Avrebbe preferito ci fosse
stato Ken, lui era più pratico ed era il suo
ragazzo… Ma Yasu non aveva voluto saperne: era determinata a
tenere nascosta al portiere la gravità del proprio
infortunio.
“Non
ti preoccupare, mettici tutta la forza. Non aver paura
di farmi male” lo incitò lei. Sorrideva
debolmente, ma dalla voce si capiva che soffriva e aveva paura.
“E
sia” sussurrò Kojiro. “Al
mio tre. Uno…”
Yasu
deglutì e chiuse gli occhi.
“…due…”
Yasu
inspirò profondamente e strinse i denti.
“…tre!”
Il
rumore fece rabbrividire entrambi e Yasu urlò: nonostante
l’immediata sensazione piacevole di sentire tornare tutto a
posto, la manovra le aveva fatto tanto male, che per un attimo tutto si
era fatto nero e si era accasciata fra le braccia di Kojiro.
Ma
si riprese subito, sentendo la porta aprirsi.
Vedere
comparire Ken fu uno shock per entrambi: Kojiro si
allontanò con uno scatto dal letto, mentre Yasu
usò il braccio buono per coprirsi alla bene e meglio con la
trapunta.
“Ken”
balbettò, poi, incredula.
“Cosa
sta succedendo qui?” ringhiò il
portiere.
“Te
l’avevo detto, Wakabayashi, che era inutile
nascondersi. Credo sia il caso di raccontargli tutto”.
Yasu
non sapeva da che parte cominciare. Tanto più che le
girava la testa e aveva la nausea: sia per il trauma appena subito, sia
per quello che avrebbe potuto pensare Ken.
Fu
Kojiro, dunque, a spiegare tutto e lo fece per filo e per segno,
ignorando lo sguardo della ragazza che lo pregava di minimizzare.
Ken
rimase fermo sulla porta, ascoltando in silenzio il racconto del
compagno, portandosi una mano al volto per massaggiarsi gli occhi e
l’attaccatura del naso.
“…
e allora siamo venuti qui e le ho…
risistemato la spalla, credo”.
“Guardandovi
bene dal passare dall’infermeria,
naturalmente” osservò rabbioso il portiere.
“Non
volevo che mi vedessi…”
spiegò Yasu, “che ti
preoccupassi…” aggiunse in tono dolce.
“E poi” riprese con piglio deciso, “so
cosa fare e-”
CIAF!
Ken
non ci mise nemmeno un decimo della sua forza, ma lo schiaffo che
colpì Yasu risuonò nelle orecchie e nel cervello
di tutti e tre come un colpo di cannone.
“Ma
sei scemo?” urlò Kojiro, afferrando
il braccio del compagno. “Si è fatta male e tu la
meni pure? Ma che modi sono?”
“Se
avessi colpito te” soffiò
Wakashimazu fra i denti, all’indirizzo del cannoniere,
“non sarei riuscito a controllarmi”.
“E
ti pare un buon motivo per mettere le mani addosso a una
ragazza? Alla tua ragazza? Che, per giunta, si
è pure fatta male?”
“E
me lo ha nascosto! E non solo quello! Mi ha nascosto che
vi vedevate, accampando quell’inutile scusa delle
ripetizioni!”
“Le
ho chiesto io di aiutarmi con gli allenamenti!”
ripeté Kojiro, stremato.
“Lo
so ma… io… quando sono
entrato” balbettò, arrossendo e distogliendo lo
sguardo dall’amico.
“Che
Kamisama ci aiuti, Ken, amico mio, nemmeno per un
momento devi dubitare…”
“Lo
so, lo so!” gridò Wakashimazu,
tenendosi la testa. “Ma è stato più
forte di me… proprio perché mi fido ciecamente di
voi due, il solo pensiero che voi… è stato
terribile”.
Yasu
era rimasta a fissarli, tenendosi la guancia offesa. Lo stupore e
la sorpresa per quel gesto, per lunghi attimi, l’avevano
avuta vinta sia sulla rabbia sia sulle lacrime che, lei stessa temeva,
potevano prorompere da un momento all’altro. Invece rimase in
silenzio, attonita, ad ascoltare il concitato scambio dei due ragazzi.
Fare
le cose di nascosto da Ken non era nel suo stile e il pensiero che
lui avesse potuto sospettare un tradimento, le diede una fitta al cuore
assai peggiore di quelle che le trapassavano la spalla. Allora
inspirò profondamente e, cercando di controllare la voce,
s’intromise: “Ok, mi fa piacere essere stata utile
come sfogo e forse lo schiaffo me lo sono pure un po’
meritato, ma ora basta, va bene? Calmiamoci. Tutti.”
“Scusa
Yasu non-” la pregò Ken con voce
spezzata. La rabbia e la paura, che lo avevano vinto, andavano
placandosi, e, adesso, era sinceramente dispiaciuto per quel gesto
impulsivo.
“Lo
so.” Lo bloccò la ragazza con
dolcezza. “Infatti non mi hai fatto male” lo
rassicurò allungando il braccio sano verso di lui. Il
movimento la fece comunque trasalire dal dolore.
“Piccolina
mia” Ken le si avvicinò,
stringendola piano fra le braccia.
“Perdonami
per averti tenuto nascosto degli
allenamenti… era per non mettere te e gli altri nei
casini” sussurrò Yasu, affondandogli la testa nel
petto. Quell’abbraccio, seppur cauto, anzi, forse proprio per
l’attenzione che il portiere vi profuse per non farle male,
la fece sentire amata e al sicuro e sciolse tutte le tensioni,
abbattendo ogni sua difesa. E inevitabilmente un paio di lacrime le
scesero silenziose lungo le guance, bagnando la maglietta di Ken.
“Certo,
l’ho capito…” la
blandì lui, carezzandole la testa e la schiena.
“Ma perché non mi hai detto che ti eri fatta
male?”
“Per
non farti preoccupare…”
mugolò lei. Si allontanò per guardarlo in faccia
e uno sguardo birichino le saettò negli occhi lucidi.
“Yasu,
Yasu…” la rimbrottò
scompigliandole con affetto i capelli. “Non ci siamo forse
promessi di prenderci cura l’uno dell’altra? E
quando arriva il mio turno di prendermi cura di te?”.
“Ah,
bastava dirlo… mica dovevi aspettare che mi
fracassassi qualcosa… Ora, se non vi dispiace,
però, vorrei un antidolorifico e un po’ di
riposo”.
“Signorasì”
fece Ken accennando un
saluto militare e uscì dalla stanza seguito da Kojiro che
borbottò qualcosa circa il rischio di morire di diabete se
si fosse trattenuto oltre in quella stanza.
Wakashimazu
tornò poco dopo, con una pastiglia e un bicchier
d’acqua. Li posò sul comodino e uscì di
nuovo, tornando subito con dei cuscini. Con delicatezza, li
sistemò dietro la schiena della ragazza.
“Dovresti
stare comoda così” disse un
po’ imbarazzato, gli occhi puntati sui cuscini.
“Almeno, io li mettevo così quando mi faceva male
la spalla. Ti dà molto fastidio?” chiese solerte,
porgendole l’acqua e la pastiglia.
"Un
po'... anche a te quella, vero?" domandò lei di rimando,
accennando alla fascia di capitano che ancora stringeva il braccio di
Ken.
"Uh,
quella... devo ancora toglierla..." balbettò lui,
ostentando un'aria di sufficienza. "A dire il vero devo ancora farmi la
doccia" aggiunse facendo il gesto di annusarsi e schifarsi,
ridacchiando. “Anzi vado, così ti
riposi”.
Yasu
rispose con uno sguardo che avrebbe fatto sciogliere
l’Antartide.
“Ho
capito” sospirò Ken, alzando le mani
in gesto di resa. “Sto qui finché non ti
addormenti”.
Socchiuse
le imposte per schermare gli ultimi raggi di sole, quindi si
sedette a terra vicino al letto. Yasu allungò la mano destra
a carezzargli i capelli, osservando attraverso le palpebre
semi-abbassate lo stupendo profilo del suo bel portiere, e sorrise
appena. Intanto l’antidolorifico cominciava a fare effetto e,
piano piano, il dolore le concesse un po’ di riposo. "Non ti
preoccupare, sarai all'altezza" biascicò, sfiorando la
fascetta con la mano. Poi si addormentò tranquilla.
A
svegliarla fu, un’oretta più tardi, la luce che
filtrò attraverso la porta che veniva aperta.
“Yasu”
sussurrò dalla penombra la voce
vellutata di Ken. “Vuoi mangiare qualcosa?”
La
ragazza sbatté un paio di volte le palpebre, poi il
tentativo di alzarsi le fornì un resoconto dettagliato,
rammentandole dolorosamente i fatti della
giornata. Lo stomaco poi, le ricordò anche che era
l’ora di cena.
“Sì,
grazie” rispose. “Un
attimo e arrivo”.
“Stai
ferma lì” la redarguì
Ken. “Te lo porto io”.
Scomparve
nel corridoio e tornò quasi subito con un piatto
colmo di riso, carne e verdure.
A
Yasu brillarono gli occhi. “Il…
coso…” esclamò estasiata.
“Il
Donburi, Yasu, si chiama così”
spiegò Ken, alzando gli occhi al cielo. “Ma tu sei
sicura di essere giapponese?” chiese sistemando una sedia
vicino al letto e sedendosi.
“Uff,
lo sai. Ho tre quarti di sangue giapponese e ho avuto
un’educazione occidentale” mugugnò.
“Dovremo sperare che per avere il beneplacito di tuo padre
faccia fede il passaporto…” ridacchiò.
“Tu
ci scherzi” sospirò Ken, mettendosi
il piatto sulle ginocchia e impugnando le bacchette.
La
ragazza lo guardò atterrita, tendendo la mano buona:
“Beh? Adesso che fai me lo mangi in faccia?”
Lo
sguardo che Ken le rivolse era ancora più atterrito del
suo. “Veramente” mormorò arrossendo e
abbassando lo sguardo, “volevo imboccarti”.
“Volev
-” Uno strano calore le si diffuse in tutto
il corpo e, i suoi occhi, immaginò, dovevano aver assunto la
forma di due cuoricini color nocciola. Avrebbe voluto buttare la cosa
sullo scherzo, come al suo solito, ma alle labbra non le
salì nessuna battuta ironica o cinica, solo una risatina
nervosa. E di fronte alle bacchette che le porgevano un bocconcino di
riso e carne, non le restò che capitolare e aprire la bocca.
“Ma
che idillio” gorgheggiò qualcuno
dalla porta.
“Fottiti
Sorimachi” chiosò Yasu a bocca
piena.
“Uh,
la contessina sta bene allora”
continuò divertito Kazuki, affacciandosi per rivolgerle un
sorriso gentile.
Un
secondo dopo, apparvero anche i capelli a spazzola di Sawada. La sua
testa non sembrava più una palletta, ma aveva ancora i suoi
occhioni rotondi, una specie di specchio che restituiva, pari pari, i
sentimenti del piccolo centrocampista. In quel momento vi si leggevano
la preoccupazione, che probabilmente la notizia
dell’incidente gli aveva dato, ma anche la gioia di vedere
che Yasu stava abbastanza bene.
“Ciao
Ya-chan” disse salutando. “Posso
entrare?” chiese guardando Ken e il sopraggiunto Kojiro come
per chiedere il permesso.
“Se
proprio non ce la fai a trattenerti” rispose il
capitano.
“Potresti
almeno aspettare che abbia
mangiato…” aggiunse Ken.
“Ah,
sì” pigolò il ragazzino,
con aria abbattuta.
“Ma
no, avvicinati pure” lo incitò Yasu.
Non riusciva a dire di no a Takeshi, proprio come una sorella maggiore
che non può fare a meno di viziare il fratellino.
Il
ragazzo entrò allora nella stanza, trascinando un orso
grosso quasi quanto lui.
“È
per te” specificò il
centrocampista. “così non ti senti sola quando
andiamo all’allenamento o a lezione”.
“E
soprattutto, quando riuscirai a sollevarlo col braccio
sinistro, sarai completamente guarita” sentenziò
Kojiro, suscitando una risata generale.
“Ragazzi”
sorrise Yasu, un po’ commossa.
“Vi ringrazio ma… beh, insomma, non sono in fin di
vita… potrò venire a seguire gli allenamenti come
al solito, e ovviamente a lezione…”.
“Piano,
piano, Wonder Woman” la redarguì
Ken, premendole l’indice sulla fronte. “Prima di
tutto, domani vai in infermeria e poi vediamo…”
Kazuki
e Takeshi la salutarono e tornarono in soggiorno, Kojiro dette
un’ultima occhiata alla coppia.
“Comunque”
disse con un mezzo sorriso,
“non dargli mai figli, Wakabayashi”.
“Perché?”
chiesero i due
all’unisono, un po’ indispettiti.
“Col
ritmo che ha per imboccare la gente, te li fa morire di
fame”.
“Scusa,
Hyuga, non tutti hanno fatto da balia ai propri
fratelli minori” sospirò Ken. Poi lo
guardò di traverso con un sorrisetto ironico. “E
poi lo so perché sei lì che tentenni…
vuoi che dica a Yasu che il Donburi l’hai fatto tu per
lei… il perché glielo dici tu?” chiese
sornione.
“Beh”
si schernì Kojiro, scrollando le
spalle e incrociando le braccia sul petto come per difendersi.
“Perché da piccoli, la mamma ce lo faceva sempre
quando stavamo male…”
“E…?”
lo incoraggiò Ken.
“…e
a Yasu invece davano solo brodaglie
europee…”
“E…?”
incalzò il portiere.
“E
midispiacechesisiafattamaleacausamia” disse
tutto d’un fiato.
“Ripeti
lentamente” scandì ancora Ken,
dispettoso.
“Mi
dispiace di che ti sei fatta male per colpa
mia”.
Yasu
scosse la testa. “Te l’ho detto, ho fatto
tutto da sola”.
“Quindi
mi perdoni?” chiese Kojiro, con aria un
po’ infantile.
“Ma
certo!” rispose Yasu allegra. “Non
voglio più ripetertelo… non
c’è nulla da perdonare.”
Il
cannoniere sorrise un po’ imbarazzato, fece un leggero
inchino e scomparve.
Ken
e Yasu si guardarono ridacchiando.
Poi
l’espressione di Yasu si fece seria. “E
tu?” chiese guardando Ken con gli occhi tristi. “Mi
perdoni? Io farei qualsiasi cosa per-”
“Esattamente
le parole che volevo sentire”
gongolò il portiere. “C’è una
cosa, sì.” Uscì e tornò dopo
un po’ con una pila di libri. “Io e Sorimachi
avevamo chiesto al professor Sasaki degli esercizi extra da far fare a
Kojiro… Eccoli qua. Visto che hai tanta voglia di
aiutarlo e comunque devi stare buona per un po’…
te ne occuperai tu.”
“IO????
Ma se ho appena la sufficienza a
matematica?”
“Appunto,
ti faranno bene degli esercizi
aggiuntivi…”
“Ma
non sono brava come te e Kazuki…”
“Noi
dovremo impegnarci per arrivare infondo al campionato
nazionale senza Hyuga e non avremo tempo per compiti extra. Il tuo
dovere, invece, sarà di restituirci il capitano per la
finale.”
“Ma
non so…”
“ARRANGIATI”.
****
Qualche
settimana dopo...
Ken
non credeva ai propri occhi quando il triplice fischio
dell’arbitro decretò il termine della finale del
campionato nazionale. Il terzo titolo della Toho era realtà.
Sì
ce l’avevano fatta: lui, Sorimachi, Sawada e
tutti gli altri avevano raggiunto la finale anche senza il capitano.
Yasu
era riuscita a ficcare nella testa di Hyuga numeri e teoremi
bastanti per raccogliere una sufficienza piena, giusto qualche giorno
prima della finale.
Hyuga,
da parte sua, era riuscito a dimostrare al professor Sasaki di
non essere buono solo a giocare a calcio. E la fascetta di capitano era
tornata, con grande sollievo da parte di Ken, al legittimo proprietario.
Come
sempre, il lavoro di squadra della Toho aveva trionfato.
Proprio
come due anni prima, anzi meglio perché, come
l’anno precedente, la Toho era l’unica vincitrice.
Proprio
come due anni prima, Hyuga era rientrato per la finale.
Proprio
come due anni prima, Ken era caduto malamente sulla vecchia
spalla infortunata, manco a farlo apposta.
Passata
l’adrenalina della partita e l’euforia
della vittoria aveva realizzato che gli faceva piuttosto male e Yasu
era riuscita, dopo lunghe insistenze, a portarlo in infermeria.
Ken
ne uscì dopo poco e sorrise nel trovare la propria
ragazza che lo aspettava davanti alla porta. Si squadrarono per un
attimo, entrambi col tutore alla spalla sinistra e scoppiarono a ridere.
“Ok,”
balbettò Yasu, riprendendo fiato,
“alla festa per la vittoria di stasera me lo tolgo io, tanto
ormai sto bene. Mica ci possiamo presentare così, non
riusciamo neanche tenerci per mano!”.
“Però
tutti vedranno come siamo… legati
dal destino” disse lui con finto trasporto, portandosi la
mano destra alla fronte.
“Che
scemo, piuttosto, che ti hanno detto?”
“Niente,
ho preso una brutta botta… la spalla
è infiammata e mi verrà un bel livido, ma
nient’altro”.
“Davvero?”
“Sì,
non sono io quello che nasconde le
cose.” rincarò la dose guardandola storto.
“Anzi, impara da me, il dottore ha detto che se non fossi
stato così bravo a cadere, avrei potuto infortunarmi
gravemente”.
Yasu
lo squadrò scettica. “Bravo a cadere? Mah,
diciamo che ti ho visto fare cadute più
plastiche…”
Ken
le dette una forte pacca sul sedere, strappandole un
“Ahia, scemo”.
“Lo
sai vero” riprese lui avviandosi lungo il
corridoio, mentre Yasu gli trotterellava dietro. “Che mi devi
restituire i cuscini e che da stasera tocca a te a
imboccarmi?”
“Cavoli
tuoi, se ti vuoi trovare il letto pieno di
riso…”
“Correrò
il rischio” rispose il portiere
guardandola di sottecchi.
“Ken?”
riprese lei, dopo un po’.
“Eh.”
“Ok,
i cuscini sono tuoi, ma Deuter l’orsacchiotto
posso tenerlo io, vero?”
Wakashimazu
rise forte, quindi si fermò e la
guardò negli occhi. Fece un passo avanti, poi le
passò una mano sotto al mento per alzare il suo viso verso
il proprio. Si chinò appena e le sfiorò le
labbra, si ritrasse un attimo e aspettò che lei, come
sempre, le dischiudesse per accoglierlo. La baciò a fondo, a
lungo, mentre ripensava a tutte le avventure delle ultime settimane: il
peso del ruolo di capitano, la paura quando aveva scoperto Yasu e
Kojiro insieme, l'infortunio della ragazza e il proprio e, infine, la
vittoria del campionato nazionale. E capì che tutto, le
difficoltà come le cose belle, nella buona e
nella cattiva sorte, parafrasò arrossendo
leggermente, tutto sembrava più facile e gioioso,
perché erano insieme. Perché c’era lei.
Ma
non glielo disse. Si limitò a scompigliarle i capelli e a
rassicurarla: “Certo, piccolina, l’orsacchiotto
Deuter è tutto tuo”.
Commenti finali:
E
dopo Cane Genzo... l'Orso Deuter!!! Evvivaaa la zoo-portierofilia
dilaaaaaga....
*si ricompone*
Eccoci alle doverose spiegazioni. Questa TS è una delle
primissime che ho scritto. In origine, e su suggerimento di sissi (che
mi ha dato anche l'idea dell'infortunio a Yasu), era ambientata durante
il campionato delle medie (anche se coi protagonisti un po’
più grandicelli) e si incastrava perfettamente con la
sparizione di Kojiro, il suo ritorno, il mister che inizialmente lo
tiene in panchina salvo poi farlo scendere in campo per la finale e
l’infortunio di Ken durante quella stessa partita. Tutto
tornava talmente bene che questa storia era uno dei motivi per cui ho
riflettuto a lungo sull’idea (invece suggerita da rel
–dio ma c’è qualcosa di mio in queste
storie??? Bah) di traslare il tutto agli ignoti anni delle superiori...
ma poi alla fine l’ho fatto e la storia l’ho
aggiustata come avete letto, perde un po’ ma spero vi sia
piaciuta comunque. Per creare un legame con la vecchia versione e la
nuova ho fatto fare il discorsetto a Ken... e ho lasciato il mister
Kitazume perchè lo adoro...
Alla prossima!
E grazie ad agatha per il betaggio e per... TUTTO.
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Capitolo 13 *** Piccoli problemi di cuore - Toho story 10 ***
Siamo
all'ultimo anno e ancora una volta nell'appartamento più
amato dopo Casa Vianello abbiamo una nuova guest star... ma chi
potrà essere mai? Mah, dal titolo proprio non si capisce...
Piccoli
problemi di cuore
Perché
dei giorni tu sei distante più che mai,
Poi mi prendi per mano e ancora te ne vai,
Perciò mi chiedo e mi richiedo se c'è un posticino
Nel tuo cuore per me.
Sono piccoli problemi di cuore
Nati da un'amicizia che profuma d'amore.
(Piccoli
problemi di cuore, di A. Valeri Manera – F. Fasano)
"Ma
ti insegnano anche la respirazione bocca a
bocca?" chiese Ken, osservando imbronciato Yasu che preparava la borsa
per
uscire.
"Credo di sì".
"Però tu la puoi fare solo a me" ribatté, in tono
lamentoso.
"Uhm" fece lei, fingendo di rifletterci su.
"Credo che il giuramento di Ippocrate non funzioni proprio
così..."
“E tu spiega loro che io senza te non respiro”.
Yasu alzò gli occhi al cielo e poggiò
pesantemente la borsa
sulla scrivania. “Ken” sospirò.
“Finiscila. Vado in centro a Tokyo a seguire
delle lezioni di primo soccorso, non parto per la guerra”.
“Ma perché devi andarci tu”.
“Mi serve per fare l’accompagnatrice della squadra
e mi fa
pure crediti per
l’università…”
“Ma non mi piace che te ne vai in giro per il centro da
sola, la notte…”
“Amore, le sette di sera non è l’ora dei
fantasmi e Tokyo
non è il Bronx. Quelli che attraverso sono tutti quartieri
tranquilli.”
“Mmm, comunque vorrei accompagnarti”.
“…ma hai l’allenamento.”
“Però potrei venire a prenderti… ce la
posso fare.”
“Non credo ci sia un modo per dissuaderti, vero?”
Ken scosse lentamente la testa, facendo ondeggiare i lunghi
capelli, i suoi stramaledetti occhi magnetici puntati su di lei.
“E sia” sospirò Yasu, con un pizzico di
orgoglio.
Il viaggio in metropolitana era piuttosto lungo e Yasu si
trovò a pensare che tornare in compagnia di Ken, in fondo,
sarebbe stato
piacevole. Tanto più che al corso sarebbe stata circondata
da estranei,
probabilmente gente più grande... insomma, sarebbe stata
ancora più sola che
adesso.
Invece si sbagliava.
Appena entrata nella stanza dove si teneva il corso, vide
qualcuno che la salutava. Lei sorrise e si accomodò
volentieri vicino a Jun
Misugi e Yayoi Aoba.
Il ragazzo la salutò con affetto e ricordò alla
sua compagna
chi fosse Yasu, dato che si erano incontrate poche volte.
“Vi conoscete piuttosto bene…”
osservò Yayoi, stiracchiando
un sorriso.
“Sì, ci siamo visti in occasione di alcuni ritiri
della
Nazionale…”
“Davvero? Ma allora non è vero che le ragazze non
possono -”
“Beh…” spiegò Jun, come a
giustificarsi. “Suo fratello viene
di rado in Giappone e se non venisse a trovarlo al ritiro non si
vedrebbero
mai…”
“E poi conosco bene Mikami” aggiunse ingenuamente
Yasu.
“Beh certo. Il nome Wakabayashi apre molte porte,
immagino”
sibilò Yayoi, quasi fra sé.
“Bello ritrovarsi qui, comunque” intervenne Jun per
smorzare
la tensione.
“Vero!” esclamò Yasu. “Che
bello che ci siete anche voi! Temevo di annoiarmi da
sola!”
“In realtà solo io” precisò
Jun. “Yayoi seguirà un corso specifico per Scienze
Infermieristiche”.
“Uh!” ribatté Yasu. “Hai le
idee chiare, Aoba. Io ho ancora dei dubbi…”
“Già” rispose Yayoi guardandoli un
po’ storto. “Mi sono già iscritta
all’Università. Io so bene cosa voglio”.
“Be- bene” borbottò Yasu, forzando un
sorriso. Le dispiaceva un po’ che Yayoi
fosse ostile nei suoi confronti. Le era sempre parsa più
simpatica delle altre
“manager”, ma era anche abituata
all’invidia della gente per la sua famiglia e
tutto il resto. Le sfuggì un mezzo sospiro di rassegnazione.
“Io vado” riprese Aoba. “Volevo solo
accompagnare Jun e
vedere dov’è il posto, devo tornarci domani da
sola…”
“Mi dispiace non poterti accompagnare, ma già oggi
mi tocca saltare gli
esercizi… e poi lo studio…”
“Non c’è problema” lo
liquidò.
“Non ti preoccupare” scherzò Yasu per
smorzare la tensione. “Ci penso io al tuo
fidanzato”.
Jun scoppiò a ridere mentre Yayoi non sembrò
apprezzare molto l’ironia e uscì
spedita dalla stanza.
Yasu e Jun si scambiarono uno sguardo fra lo stupito e
l’imbarazzato.
Poi l’insegnante fece il proprio ingresso e non parlarono
più dell’accaduto.
Finite le lezioni, si soffermarono sul portone dell’edificio
che ospitava il centro di formazione, a parlare un po’ del
più e del meno: Jun le
raccontò di aver intenzione di iscriversi a Medicina e Yasu
gli disse che anche
lei era interessata all’area sanitaria, probabilmente come
fisioterapista.
“Allora hai fatto bene a seguire questo corso”
soggiunse
Jun. “Uno dei docenti è il Prof. Fukawa, uno dei
migliori insegnanti del corso
di fisioterapia dell’Università di Tokyo e un
grandissimo esperto di Medicina
Riabilitativa... io stesso sono stato suo paziente e, se non vado
errato, anche
tuo fratello... magari lo hai pure visto, spesso viene ai ritiri della
Nazionale.”
“E’ possibile” rispose Yasu pensosa, poi
dette una scrollata
di spalle. “In realtà… non ho ancora le
idee molto chiare su cosa fare dopo la
scuola, spero che questo corso mi aiuti”.
“Perché no, un’infarinatura generale ti
aiuterà di sicuro a
capire cosa... oh! Credo che qualcuno ti stia aspettando”
sorrise Jun.
“Ken!” chiamò Yasu, salutandolo col
braccio.
Il ragazzo li raggiunse rapido, guardandoli con curiosità.
“Visto chi c’è?”
proseguì la ragazza, entusiasta. “Visto?
Credevo di annoiarmi al corso, invece non sono sola!”
Ken annuì appena, fissando Jun con aria accigliata. Quindi
accennò
un inchino mormorando: “Misugi...”
“Wakashimazu...” rispose il baronetto con un
sorriso. “Anche
io sono molto contento che ci sia Yasuko con me...”
Ken si morse le labbra.
“... sì insomma, Wakabayashi. A chiamarla per
cognome mi
sembra sempre di parlare di Genzo” spiegò ridendo.
“Non ti preoccupare, Jun, anzi, chiamami pure Yasu.”
“Benissimo, Yasu. Eri da queste parti,
Wakashimazu?”.
“No,” s’intromise la ragazza.
“Ha voluto a tutti i costi
venirmi incontro per riaccompagnarmi al dormitorio, io glielo ho detto
che non
c’è alcun pericolo ma lui non ha sentito ragioni,
anzi, diglielo anche tu,
Jun...”
“Assolutamente” rispose Misugi, poggiandole una
mano sulla
spalla. “Ha fatto bene a venire qui. Se tu fossi la mia
ragazza, non ti
lascerei mai tornare a casa da sola” concluse, carezzandole
il braccio e
fissandola con gli affascinanti occhi color nocciola.
Sia Yasu sia Ken spalancarono gli occhi, e abbassarono la
testa, mostrandosi improvvisamente attratti dal selciato. Ma prima che
uno dei
due dicesse qualcosa, il baronetto
incalzò: “Tuttavia, dalla prossima
volta non c’è alcun bisogno che tu
venga... Yasu la posso riaccompagnare io all’Istituto Toho,
tanto i miei vengono
a prendermi in macchina. É praticamente di
strada...”
“Grazie mille Jun! Mi fai un grandissimo favore, non
è vero
Ken?”
“Già” disse il portiere, poco convinto.
Una settimana dopo
Era passata una settimana e quel giorno Yasu avrebbe avuto
la seconda lezione, pensò Ken, rincasando per posare i libri
e prendere il
borsone per l’allenamento. Si stupì nel trovare la
ragazza ancora lì. Per un
attimo sperò che avesse deciso di non proseguire il corso.
“E tu che ci fai?”
chiese, in tono vago.
“Non vado in metropolitana, passa a prendermi
Jun…”
“Ah…” balbettò Ken,
rabbuiandosi, ma cercando di controllare
la voce. “E come mai?”
“Beh gli è di strada e poi
risparmio…”
“E da quando in qua ti mancano i soldi per
l’autobus?”
chiese, ironico.
Yasu lo guardò da sopra il libro che stava leggendo seduta
sul divano, gli occhi ridotti a fessure. “Risparmio tempo Wakashimazu, ce li ho i soldi per
l’autobus, grazie” ringhiò.
Il portiere girò i tacchi stizzito e si avviò
verso la
propria stanza.
Yasu sospirò, chiuse il libro, lo appoggiò sul
divano e seguì
Ken. Si fermò sulla soglia della stanza di lui e lo
osservò riporre
accuratamente i libri.
“Pensavo che saresti stato più tranquillo,
così…” sussurrò.
“Certo” ribatté lui senza guardarla e
cominciando a
togliersi la divisa scolastica per mettere la tuta.
“È… meglio
così…molto
meglio.”
Yasu si avvicinò piano, allungò le mani verso i
bottoni
della divisa, sostituendo le proprie a quelle del ragazzo e cominciando
a
slacciarli. “Certo… preferirei che mi
accompagnassi tu o magari che restassimo
qui…” sussurrò, infilando le mani sotto
la camicia per fargliela scivolare
lungo le spalle.
Ken la prese per la
vita stringendosela contro il petto nudo e abbassando la testa per
baciarla. Le
aveva appena sfiorato le labbra, quando qualcuno suonò al
campanello.
“Dev’essere Jun” esclamò lei,
staccandosi e correndo verso la
finestra. Aprì
le imposte, si affacciò
per salutarlo e dirgli che scendeva subito.
Passò davanti al portiere come un razzo, si fermò
a prendere
la borsa e il giubbotto in camera sua e uscì. Non si
affacciò a salutarlo, si
limitò a gridare un “ciao” prima di
chiudersi il portone alle spalle.
“Ciao” mormorò appena Ken, slacciandosi
la cintura con un
gesto di stizza.
Alcune settimane dopo
Ken rientrò in casa rabbrividendo, tossì e fece
un paio di
starnuti: si era alzato la mattina col naso chiuso e un po’
di mal di gola, e ora,
dopo un intero allenamento sotto la pioggia battente, probabilmente
aveva
persino la
febbre. Si
tolse i vestiti bagnati, fece una doccia calda e si infilò
il pigiama. Guardò
l’orologio: Yasu sarebbe rientrata a momenti dal corso, che
durava ormai già da
alcune settimane. Si mise vicino al calorifero, che casualmente stava
proprio
sotto la finestra, guardando distrattamente fuori, finché
non scorse un
ombrello giallo...
“Eccoci qua” disse Yasu allegra, staccandosi dal
braccio di
Jun, uscendo da sotto l’ombrello giallo e rifugiandosi sotto
la tettoia di
fronte al portone della palazzina. Veniva giù una specie di
nubifragio e lei,
al solito, non aveva l’ombrello. Così Jun, oltre
ad accompagnarla in auto fino
al cancello del Toho, l’aveva anche scortata fino al portone,
per ripararla col
proprio.
La ragazza aprì e fece cenno a Misugi di
entrare:“Vieni
dentro, che mi sembra stia aumentando...”
“Sì, magari aspetto un attimo, ma devo subito
andare che mia
madre mi aspetta...”
“Non sali un po’?”
“No, grazie...”
“Ma no, grazie a te, davvero, non era
necessario...” sorrise
la ragazza.
“Figuriamoci, ti saresti bagnata da capo a piedi con questo
temporale...”
“Ma va, ci sono abituata... e poi potevo cambiarmi
subito...”
“Ho promesso ai tuoi amici di riportarti ogni volta sana,
salva e... asciutta”.
Yasu rise poi si girò di scatto sentendo dei passi per le
scale. Spalancò gli occhi nel vedere Ken in pigiama. Jun lo
salutò con la mano.
“Beh, vieni su?” le chiese, senza tanti
convenevoli. Quindi
tossì appena.
Yasu lo guardò inarcando il sopracciglio. “Ciao Amore, sì, arrivo
subito” gli disse, un
po’ risentita. “Che
c’è?” fece poi, notando il viso un
po’ pallido e l’espressione
funerea.
“Ho il naso chiuso, il mal di gola e probabilmente qualche
linea di febbre...” mugugnò, la voce nasale per il
raffreddore e l’aria di chi
sta comunicando una diagnosi nefasta. “Stamattina
già non mi sentivo benissimo,
poi l’allenamento di oggi pomeriggio sotto la
pioggia...” Tossì, come ad
avvalorare la dichiarazione.
Yasu si avvicinò con un sospiro, allungando la mano per
toccargli la fronte. “Mmmh, certo che allora non dovresti
startene per le scale
in pigiama, dovresti metterti a letto...”
“Ti aspettavo” mugolò.
“Sono qua” le disse lei in tono dolce, baciandolo
su una
guancia. “Adesso vengo su a farti del latte caldo col miele,
ma poi fili a
letto, ok?”
Ken le sussurrò qualcosa all’orecchio, Yasu
ridacchiò e
rispose “Vedremo...”
Poi tornò
a
rivolgersi a Jun, che aveva seguito la scena tenendo lo sguardo basso.
“Sicuro
che non vuoi venire a prendere una tazza di latte caldo anche
tu?” gli propose
Yasu, facendogli l’occhiolino.
Il baronetto scosse la testa castana e i capelli un po’ umidi
caddero a incorniciargli lo splendido sorriso con cui
declinò l’invito. “Mia
madre mi aspetta” ripeté. Poi dette uno sguardo
fuori. “Ha rallentato. Ne
approfitto per tornare alla macchina. E voi salite su che qui fa
fresco. Ciao”.
Yasu lo salutò, dando una gomitata a Ken perché
facesse
altrettanto.
“Vieni, andiamo ad assicurarci che tu superi la
notte”
ridacchiò Yasu.
“Mi prendi in giro... io sto male e tu mi prendi in
giro...”
“Dai, non fare il tragico!”
Appena entrati in casa, Yasu si tolse le scarpe e le calze
bagnate e poi si mise ai fornelli.
“Gli altri?”
“Hanno fatto la doccia al campo perché poi hanno
tutti
lezione fino a tardi. E’ martedì, e di solito
approfittavamo di avere
l’appartamento tutto per noi... ricordi?”
Di lì a poco, suonò il citofono. Yasu
alzò il ricevitore,
chiese chi era e poi rispose “Certo, sali”. Qualche
attimo dopo, Jun Misugi
apparve sulla porta.
“Mia madre aveva un sacco di giri da fare sotto la pioggia e
a me non andava per niente... così mi sono chiesto se
l’offerta del latte caldo
fosse ancora valida...” si giustificò.
Yasu consegnò una tazza a Ken, avvisandolo che era bollente,
poi sorrise a Jun: “Certo, anzi, rilancio con della
cioccolata calda... ti va?”
Ken ebbe un sussulto e per poco non sputò tutto a terra.
Yasu lo guardò preoccupata: “Te l’avevo
detto che era
caldo... o forse non è buono?”
Il portiere scosse la testa e continuò a sorseggiare il suo
latte, fissandoli torvo.
Seguì con lo sguardo tutti i movimenti della sua ragazza,
mentre scioglieva con attenzione la cioccolata nel pentolino del latte.
L’odore
della bevanda gli stuzzicava le narici, ricordandogli molti momenti
piacevoli
della loro storia.
Vederla che la preparava con tutti i crismi e la porgeva a
Misugi avvisandolo che scottava, lo mandava in bestia.
Un paio di starnuti e un accesso di tosse completarono il
quadro.
Quando alzò gli occhi e vide lo sguardo preoccupato di Yasu,
tuttavia, si rincuorò. Fissandola, le porse la tazza vuota.
“Vorrei anche io un po’ di cioccolata”
pigolò.
“Ecco cos’era quella faccia” rise la
ragazza. “Hai la gola
infiammata, amore, ti fa male... vuoi altro latte?”
“No” rispose imbronciato.
“Allora fila a letto e misurati la febbre”.
“Tu non vieni?”
Yasu lo fulminò con lo sguardo... sembrava che quel
raffreddore gli avesse fatto dimenticare anche le norme basilari
dell’educazione. “Finisco la cioccolata con Jun e
poi arrivo, ok?” sibilò.
“Non badate a me, mi metto alla TV e aspetto che mia
madre…”
intervenne Misugi, imbarazzato.
“Ma figurati, Jun. Tu sei nostro ospite e lui… non
è un
bambino piccolo…” sussurrò Yasu, mentre
Ken ciabattava mogio verso la propria
camera.
Dopo qualche minuto tornò, con in mano un plaid e il
termometro e raggiunse gli altri due, che si erano accomodati in
salotto e
parlavano, a quanto pareva, di ristoranti. Misugi s’
interruppe non appena vide
sopraggiungere Ken e gli sorrise, cordiale come sempre.
“Dopo il latte mi sento meglio, sto un po’ qui con
voi”
dichiarò, sedendosi vicino a Yasu, in mezzo ai due.
“Hai proprio deciso di mischiarcela, l’influenza,
eh?” esclamò
Yasu, un po’ seccata da quello strano comportamento
così infantile.
“Non ho l’influenza, ho preso
freddo…” precisò.
Yasu allungò una mano per sentirgli la fronte. “Ti
sei
misurato la febbre?”
“No” rispose, guardandola con due occhioni lucidi
che
avrebbero sciolto una montagna e porgendole il termometro.
La ragazza alzò gli occhi al cielo, slacciò i
primi bottoni
del pigiama e sistemò con cura il termometro sotto
l’ascella, quindi prese il
braccio di Ken, glielo piegò sul ventre, gli
sistemò il plaid e infine vi pose
la propria mano, appoggiandosi appena contro la sua spalla.
“Di cosa stavate parlando?” chiese il portiere,
come fosse improvvisamente
in vena di conversazione.
“Niente di speciale” rispose Jun, pacato, ma a Ken
non
sfuggi lo sguardo che passò fra lui e Yasu.
In realtà non poteva sapere che Jun e Yasu stavano
organizzando un’uscita a quattro, ma per Ken e Yayoi sarebbe
dovuta essere una
sorpresa e lui era arrivato proprio mentre decidevano i dettagli.
La chiave girò nella toppa e Sorimachi e Sawada fecero il
loro ingresso nell’appartamento.
Rimasero un attimo confusi di fronte a quella scena: Ken
pallido e avvolto nel plaid, Yasu vicino a lui che lo guardava con
apprensione
e Jun Misugi seduto un metro più in là.
Kazuki osservò la scena e un sorriso beffardo gli
increspò
le labbra: “Cos’è, la succursale
dell’ospedale?”
Yasu e Takeshi gli lanciarono uno sguardo infuocato,
grattandosi la testa imbarazzati, cercando di fargli capire che non era
il caso
di fare certe battute in presenza di Misugi.
Ma, a sorpresa, fu proprio il baronetto a scoppiare a ridere
per primo, alzandosi per salutare i nuovi arrivati.
“Già,” esordì, continuando
a ridere. “E per una volta non sono io quello messo
peggio…”
Yasu sorrise a sua volta, guardando Jun con malcelata
ammirazione: sapeva uscire da ogni situazione con la stessa eleganza
con cui,
in campo, dribblava anche il difensore più tenace.
“Che
piacere vederti,
Jun” lo salutò Sawada, solare come sempre.
“E ancora di più vederti in forma”
aggiunse Sorimachi, con
un sorriso sincero.
“Il piacere è mio”.
“E tu, Ken? Come stai?” chiese poi Takeshi.
“Vediamo subito” rispose Yasu, andando recuperare
il
termometro. Lo guardò con aria seria:
“Amore…” sussurrò.
“Che c’è?”
“Hai oltre trentotto di febbre. FILA IN CAMERA.”
“Wakashimazu, ti prego, non preoccuparti di me,”
intervenne
Jun, pensando che il ragazzo rimanesse in salotto per dovere di
ospitalità. “Yasu
ha assolutamente ragione devi riguardarti… e credo anche che
dovrebbe
accompagnarti di là e starti vicina...” concluse,
appoggiando una mano sulla
spalla della ragazza e facendole l’occhiolino.
“Jun…” mormorò lei,
guardandolo, dispiaciuta.
“Starò benissimo qui con Sawada e
Sorimachi… Ha bisogno di
te…” sussurrò, accennando al portiere.
“Credo di sì…”
mormorò lei, abbassando lo sguardo. Quindi si
alzò in piedi e aiutò Ken a fare lo stesso. Il
portiere vacillò un po’ e Misugi
fu svelto a sostenerlo. “Hai bisogno di aiuto?”
chiese, serio.
“Ce la faccio” rispose Wakashimazu, brusco.
“Ken!” lo rimproverò Yasu.
“Vabbè che stai male ma non è un
buon motivo-”
La mano di Misugi le si posò di nuovo sul braccio:
“Va
benissimo…”
Sorimachi osservò con gli occhi ridotti a fessure le dita
del baronetto che scivolavano lungo il braccio di Yasu e il suo
sguardo, che
seguì brevemente la coppia mentre si allontanava lungo il
corridoio, per poi
abbassarsi e tornare a rivolgersi a lui e Sawada.
“Approfitto un po’ di casa vostra mentre mia madre
si dà
allo shopping nonostante il diluvio” sorrise Jun, come per
giustificare la sua
presenza.
“Figurati” rispose Kazuki in tono neutro, con
un’indolente
alzata di spalle. Ma continuò a osservare
l’ospite, mentre tutti e tre si riaccomodavano
sul divano.
“Come va il campionato?” proseguì
Misugi, con l’evidente
scopo di fare conversazione.
“Senza di te le eliminatorie provinciali sono una
passeggiata” sorrise Sawada.
Sorimachi continuava a osservare Jun. Per quanto fatta con
le migliori intenzioni e sicuramente meno diretta della sua gaffe di
poco
prima, l’uscita di Takeshi poteva non suonare troppo educata.
Come continuare a
girare il dito nella piaga. Ma Jun non perse la sua espressione
serafica e
rispose:
“Beh siete anche una gran bella squadra. Vi siete meritati
su tutta la linea di vincere il campionato nazionale, negli ultimi
anni…”
“Ma va, lo sappiamo che parteggi per la Nankatsu”
incalzò
Kazuki.
Jun sospirò. “Lo ammetto, in generale preferisco
il loro
tipo di gioco rispetto al vostro ma… visto che i campioni
siete voi
evidentemente ci sbagliamo” rise.
Takeshi si lasciò andare contro lo schienale del divano. Era
noto a tutti che lui ammirava molto lo stile di Misugi e Misaki. Si
morse le
labbra, guardandosi un po’ in giro, come ad assicurarsi che
Hyuga non fosse a
portata di voce e poi azzardò: “In effetti
è un peccato. La Nankatsu ha così
tanti ottimi elementi… ma manca un leader, quali potevano
essere Oozora o
Wakabayashi. Quello che sei… eri… tu per la
Musashi…” concluse, imbarazzato.
“Sono alchimie un po’
imprevedibili…” proseguì Misugi,
continuando a glissare sulla sua situazione.
“Insomma… Hyuga è un gran
giocatore, ma un capitano ben diverso da gente come me, Tsubasa,
Wakabayashi o
Matsuyama… Eppure il vostro gioco funziona. E come diceva il
mio allenatore,
chi fa goal ha sempre ragione…”
Fece una pausa e tutti e tre si scambiarono sguardi divertiti.
“Tuttavia” riprese il baronetto, con la voce che
vibrava di
emozione. “Non ho ancora rinunciato a far valere la mia idea
di calcio…” Si
interruppe come se avesse detto troppo, imbarazzato di fronte gli
sguardi
interrogativi dei due.“Diciamo che è…
una sorpresa, ecco” raffazzonò.
“Che sorpresa? Adoro le sorprese!”
trillò Yasu, sbucando dal
corridoio.
“Al contrario di tuo fratello!” esclamarono in coro
Sawada e
Sorimachi.
Jun li guardò divertito e Yasu sorrise a sua volta.
“Take-chan,
Kazu-chan, cioccolata?”
I due annuirono convinti e, dopo aver trafficato un po’ in
cucina la ragazza tornò con due tazze e un sacchetto di
biscotti.
“Hyuga?” chiese, sedendosi.
“Il prof di matematica lo ha trattenuto per fare qualche
esercizio extra” ridacchiò Kazuki.
“Sai che novità” ribatté la
ragazza, alzando gli occhi al
cielo, non riuscendo a sua volta a trattenere un sorrisetto sghembo.
“Uh, Yasu” esclamò
all’improvviso Takeshi. “Hai mica visto i
miei parastinchi?”
“Non chiedermi perché, ma sono in camera di
Ken… li ho visti
prima. Li recuperiamo dopo, ora è meglio lasciarlo
riposare... A proposito, ti
chiedo scusa per lui, Jun, quando è malato regredisce al
secondo anno di asilo”
sospirò, suscitando l’ilarità degli
altri.
Sorimachi aggiunse alla sua lista la familiarità con cui
Yasu e Misugi si chiamavano per nome.
“Ah, Kazuki” soggiunse poi la ragazza.
“L’hai fatta, vero,
la relazione per l’esperimento di chimica? È per
domani, ricordi?”.
Dal modo in cui il numero nove impallidì, fu chiaro che non
se n’era ricordato affatto. “Uff, finisco la
cioccolata e vado… ma… non è che
potresti darmi la tua?”
“Ce l’hai già sulla
scrivania… ma vedi di farti furbo a copiare,
o ci dividono il voto a metà come l’altra
volta…”
Jun rise di nuovo di gusto. “Non ci si annoia mai qui, eh? E
se non avessero te che fai loro da mammina mi sa che andrebbe tutto a
rotoli.
Non è che il merito delle vittorie al campionato nazionale
in fondo è tuo?”
“Ma no!” si schernì Yasu. “Al
massimo si presenterebbero in
campo senza qualche pezzo! Ma vincerebbero comunque!”
aggiunse, dando il cinque
a Takeshi.
Jun guardò l’orologio e poi dette
un’occhiata fuori dalla
finestra. “Mia madre dovrebbe arrivare a momenti…
e ha persino smesso di
piovere. Vado ad aspettarla al cancello” disse alzandosi dal
divano. “Grazie
della squisita ospitalità… e della squisitissima
cioccolata” aggiunse facendo
l’occhiolino a Yasu, che si era alzata a sua volta per
accompagnarlo alla
porta.
Sorimachi li osservò parlottare sulla soglia.
“Allora ci vediamo martedì prossimo, vengo a
prenderti come
sempre” sussurrò il baronetto, guardandola fissa
negli occhi. “Ah, ti ricordo
che giovedì non ci sono… quindi se magari vuoi
dirlo a Wakashimazu…”
“Vabbè, bisogna ancora vedere se facciamo
mercoledì o
giovedì… E comunque non importa. Non è
necessario che gli dica sempre tutto…”
rispose lei. “Ciao” aggiunse poi, in un sussurro
carezzandogli un braccio.
A Yasu piaceva il modo fisico che aveva Jun di rapportarsi
alle persone: era insolito per un giapponese, ma più vicino
all’educazione
occidentale che aveva ricevuto da piccola.
“Cosa devi fare giovedì?” le chiese a
bruciapelo Sorimachi,
non appena ebbe chiuso la porta.
“Ma perché non pensi a quello che devi fare tu
ora? Tipo la
relazione di chimica?” ribatté, stizzita.
“E comunque forse abbiamo delle
esercitazioni per il corso, ma non si sa ancora quale giorno”
aggiunse.
“Non è che mi importi di quello che fai con
Misugi” precisò
Sorimachi, ponendo l’accento su quel nome.
“È solo che giovedì prossimo abbiamo
quell’amichevole…”
Yasu si batté la fronte con la mano.
“Giusto!”
“A quanto pare ogni tanto ti scordi qualche pezzo anche tu, mammina” scandì,
passandole vicino e poi
dirigendosi nella propria stanza.
Una settimana dopo
“Oggi sei stato veramente grandioso Ken, sono contento che
ti sei ripreso dalla febbre” disse Kojiro, dando una poderosa
pacca sulla
spalla sinistra dell’amico. “Dopodomani sono sicuro
che non ti farai fare
neanche un goal!”
“Urgh, non se continui a darmi quelle
pacche, su quella
spalla, capitano. Eheh”.
“Ma Yasu c’è
all’amichevole?” s’intromise Sorimachi.
“Perché non dovrebbe esserci?” chiese il
portiere,
rabbuiandosi. Era già dispiaciuto che non lo avesse visto
all’opera oggi: gli
piaceva così tanto il modo in cui commentava le sue parate,
notava sempre dei
particolari che ai più sfuggivano.
“Non lo so, eh, ma la scorsa settimana l’ho sentita
che
fissava qualcosa con Jun Misugi…” buttò
lì, spiando la reazione di Wakashimazu,
la cui espressione si fece, prevedibilmente, ancora più
tetra.
“Forse hanno le
esercitazioni per il corso che seguono insieme” intervenne
Sawada. “Ha detto
così.”
“Non mi ha detto niente…”
balbettò Ken.
“Sì, beh, quando Misugi ha suggerito di
avvertirti, lei ha risposto
che non è necessario dirti sempre tutto...”
****
“Menomale che le esercitazioni sono domani, così
giovedì
posso… Jun? Ma mi stai ascoltando? Si può sapere
cosa c’hai oggi?” chiese Yasu,
ridacchiando. Il corso era appena finito e tutti i loro compagni
stavano
lasciando l’aula.
“Perché?”
“A parte che avrai ascoltato metà lezione, hai la
testa
altrove, sembri… euforico” lo guardò di
sottecchi. “Aspetta… hai detto che
dopodomani non puoi venire a lezione… Uhhh! Scommetto che
hai qualche
programmino interessante con Aoba…”
ghignò, dandogli dei colpetti col gomito.
“Ma cosa vai a pensare!” Jun arrossì
vistosamente. “È che-”
Pareva che stesse per vuotare il sacco, quando uno strano suono li
interruppe.
Yasu guardò perplessa Jun tirare fuori uno strano oggetto,
premere con le dita tremanti dei tasti e poi portarselo
all’orecchio, dicendo
“Pronto, Misugi Jun”. Era emozionato.
La ragazza intuì che fosse un telefono
cellulare*… gliene
aveva parlato Genzo.
“Ok, è confermato…” disse
Misugi con un mezzo sorriso. “Ma
non potrebbe dirmi... Certo, certo, capisco. Certo domani alle 14, no
va
bene, arrivederci.”
Ma dalla voce e dall’espressione di Jun, avresti giurato
che, qualunque cosa fosse, non andava per niente bene.
Senza neanche alzare la testa, Jun premette alcuni tasti.
“Ciao Yayoi. Sì, mi hanno chiamato ma…
l’appuntamento è
rimandato. No, non c’è nessun problema…
era per questo che oggi dovevano
chiamare, no? Per confermare… beh, non lo hanno fatto.
Sì, mi richiamano nei
prossimi giorni… No, Yayoi, non possiamo vederci lo stesso,
ne approfitto per
studiare. Sì, sono al corso. Sì,
c’è anche Wakabayashi” alzò
gli occhi, come
ricordandosi solo in quel momento di non essere solo,
“sì, certo, lei…
Sì, anche io, ciao”.
Per tutto il tempo della conversazione aveva mantenuto un
tono neutro e controllato, in chiaro contrasto con
l’espressione evidentemente preoccupata
che aveva in volto.
E, altrettanto evidentemente, aveva appena mentito alla sua
ragazza. Yasu distolse lo sguardo, mordendosi le labbra.
Jun infilò tremante il cellulare in tasca, si
appoggiò con
entrambe le mani sul banco, il respiro affannato.
“Kamisama, Jun, che hai? Stai male?”
Misugi si alzò lentamente e le mise le mani sulle spalle.
Poi, all’improvviso, la strinse fra le braccia.
“Oh, Yasu…
ho tanta paura”.
La ragazza si irrigidì un attimo, poi ricambiò
l’abbraccio,
carezzandogli la schiena, che si alzava e abbassava al ritmo del
respiro
affannato. Restarono così per un po’,
nell’aula vuota del centro di formazione.
“Scusa” balbettò lui, staccandosi di
colpo.
“Non è niente” rispose lei, con un mezzo
sorriso. “Ti va di
parlare? Vieni, c’è un bar qua di
fronte.”
Jun annuì appena e aggiunse che avrebbe detto alla madre di
venirli a prendere fra un’oretta.
Si sedettero e ordinarono.
Jun era pensieroso, come se cercasse di riordinare le idee.
Quando fu loro portato da bere, tirò fuori il portafoglio e
pagò per entrambi,
fermando Yasu con un gesto.
Appena la cameriera si fu allontanata, iniziò a parlare.
“Forse saprai che in questi anni in cui non ho giocato, mi
sono sottoposto a un rigoso programma riabilitativo, che sembrava
procedere per
il meglio…” sospirò. “Domani
ho un’importante visita, durante la quale mi
daranno i risultati di una serie di test e mi diranno, in buona
sostanza, se
posso o meno riprendere a giocare…”
Yasu trasalì e spalancò gli occhi:
“Sarebbe meraviglioso!
Era questa la sorpresa?”
“Sì… ero così
entusiasta… ero convinto che tutto sarebbe
andato per il meglio…”
Yasu aggrottò la fronte: dalla telefonata non le era parso
di capire che gli avessero già dato una risposta.
“Invece?” lo incoraggiò.
“Oggi dovevano chiamarmi per confermarmi la visita di
giovedì. Tsk, mi sono anche fatto dare il cellulare da mio
padre per essere
sicuro di rispondere…”.
“E cosa ti hanno detto?”
“Che la visita è confermata… solo che
quando ho chiesto
qualche informazione in più mi hanno detto che era meglio
parlarne di persona…
e il tizio sembrava molto titubante... come se, per qualche motivo, non
volesse
dirmi di più…”
Yasu si lasciò andare contro la spalliera della sedia, le
braccia incrociate e un’espressione un po’ ironica
stampata sul volto, che
ricordava tantissimo suo fratello. “Tutto qua?”
Jun rimase basito. Yasu era sempre così paziente e
comprensiva… quell’aria di sufficienza di fronte a
una cosa che per lui era
vitale lo offese. “Beh, sì” rispose un
po’ stizzito.
“Perdonami, Jun, ma mi sembra che ti stai perdendo in un
bicchier d’acqua. Non ti hanno detto nulla perché
magari per telefono non
possono. O quello che chiama è solo un impiegato che non ne
sa niente… forse è
stato un po’ troppo sibillino, ma credo che sia presto per
temere il peggio.”
La ragazza si allungò sul tavolo, appoggiando la propria
mano sulla sua. “Hai
avuto così tanta tenacia, non mollare ora,
capitano…” disse, guardandolo con
quei suoi intensi occhi color caramello. Se un attimo prima aveva
ragionato con
la fredda e inattaccabile lucidità tipica del suo gemello,
ora era di nuovo
lei: sorridente, con quell’espressione schietta che ispira
fiducia.
“Immagino tu abbia ragione… ma ora che sono a un
passo…”
“Lo capisco” disse, stringendogli appena le dita
fra le sue.
“Hai investito tutte le tue energie in questa cosa
e… Jun, vorrei tanto dirti
che andrà tutto bene, ma bisogna avere ancora un attimo di
pazienza”.
Ritirò la mano e prese qualche sorso di bibita.
“Quindi hai
mentito a Yayoi” disse, guardandolo dritto negli occhi.
“Male, ma le hai
mentito.”
Jun distolse rapido lo sguardo, annuendo.
“Lei ti è sempre stata vicino, non se lo
merita” rintuzzò
Yasu.
“Se la risposta fosse negativa… non vorrei che
fosse lì. Ha
già sofferto troppo per me.”
“Non la conosco benissimo, ma ci metto la mano sul fuoco che
in qualunque caso lei vorrebbe essere lì.”
“Allora diciamo che sarei io a non sopportare di vederla di
nuovo piangere per me. O forse non voglio che veda la mia
reazione…”.
Yasu sospirò. “E quindi andrai da solo?”
“Sì, anche ai miei lo dirò
dopo”.
Entrambi tacquero, sorseggiando in silenzio le loro bevute,
senza sentirne davvero il sapore.
“E perché lo stai dicendo a me?” chiese
Yasu all’improvviso.
Misugi scosse la testa e scrollò le spalle. “Non
so cosa mi
sia preso, di solito io non... probabilmente avevo bisogno di parlarne
con
qualcuno e tu ti sei trovata nel posto giusto al momento giusto, o
forse dovrei
dire sbagliato” sorrise,
amaro. “E
poi sei…”
“…una con cui si parla bene, sì lo
so… Forse dovrei fare la
psicologa invece che la fisioterapista, che dici?”
Jun rise. “Volevo dire che sei un’ottima amica,
ecco”.
“Comunque se proprio insisti, ok ti accompagno.”
“Che cosa?”
“Verrò con te alla visita dopodomani…
sennò che razza di
ottima amica sarei, scusa?”
“Ma no, figurati… il Toho ha la partita,
devi…”
“Se ho ben capito la visita è alle 14, mentre la
partita è
alle 18. Posso farcela.”
“Ti ringrazio, ma ti ho già detto che voglio
andarci da
solo”.
Yasu sorrise, svuotò il bicchiere che aveva davanti e poi
disse: “Se volevi davvero andare da solo, Jun Misugi, non mi
avresti raccontato
tutto.” Dette uno sguardo fuori. “Andiamo,
è arrivata tua madre.”
****
Yayoi Aoba rimase un attimo con la cornetta in mano, come se
quel tu-tu-tu dovesse ancora dirle qualcosa. “Forse tu-tu-tu
sei una stupida” soffiò
tra i denti, rimettendola giù con un gesto rabbioso.
Conosceva Jun da tanti
anni e sentiva che, stavolta, c’era qualcosa di diverso.
Jun, il suo Jun, sempre così gentile, trasparente e sincero
le stava nascondendo qualcosa.
E, guarda caso, c’era di mezzo lei.
Si fermò a contemplare la propria immagine nello specchio: i
lunghi capelli lisci e ramati, i grandi occhi scuri dal taglio
elegante, la
pelle color porcellana. Fece scorrere le mani ai lati del corpo, esile
ma con
le sue curvette al punto giusto.
Quella non era
meglio di lei. Sì, insomma… non era male, se ti
piace il tipo: alta, muscolosa
e con un fisico invidiabile ma… bah, de
gustibus: a lei non piaceva neppure il suo tanto decantato
fratello!
Solo che Yasu aveva quel modo di fare coi maschi che… Yayoi
non se lo sapeva spiegare. Lei stessa aveva sempre avuto un discreto
successo
coi ragazzi, in modo diverso… spesso la squadravano, le
facevano avances e
apprezzamenti. Invece con Yasu ridevano e si davano pacche sulle spalle.
Sentiva qualcosa attanagliarle le viscere al pensiero di Jun
che passava a prenderla e riportarla per quello stramaledettissimo
corso, di
loro due che parlavano e ridevano, dandosi quelle cavolo di pacche
sulle
spalle…
E poi continuava a ronzarle in testa quella frase che le aveva
detto il primo giorno del corso. “Ci
penso io al tuo fidanzato”. Una battuta,
certo… ma cosa ci si può aspettare
da una abituata ad avere tutto?
“Sei
proprio stupida”
ripeté, snervata, alla sua immagine riflessa.
Quello che pensava non aveva senso, non facevano niente di
male e, a quanto sapeva, anche Yasu era fidanzata.
Scrollò la testa come a volersi liberare di quei pensieri
illogici e, con un sospiro, tornò in camera propria a
studiare.
Giovedì.
“Come sarebbe a dire che non vieni in mensa?”
chiese Ken,
gli occhi ridotti a fessure, mentre, mano nella mano, uscivano da
lezione.
“Ho un impegno e devo andare anche dal preside a farmi
firmare il permesso per uscire”.
“Ancora? Certo solo a te fanno fare quello che vuoi. Ma
quanto paga tuo padre-”
“Smettila! È per il corso, la scuola mi ha
autorizzato a
farlo e quindi mi fanno uscire ogni volta che ne ho
bisogno…”
“Ma ce l’ hai anche oggi? Non doveva essere
mercoledì oppure
giovedì?”.
“Ieri non abbiamo finito.” Yasu odiava mentire,
soprattutto
a Ken, ma Jun le aveva chiesto di mantenere il segreto. Questione di
qualche
ora, poi si sarebbe liberata di quel peso.
“E a che ora torni?”
“In tempo per la partita, rilassati. Dobbiamo solo finire
delle cose, in cinque ore dovrei farcela, non ti pare?”
sbuffò.
“Ti accompagna Misugi?”
“Ma che cazzo è, Wakashimazu, un interrogatorio?
Ci manca
solo che mi pianti una luce in faccia.” Sospirò.
“Comunque no, lui oggi non c’è
e vado coi mezzi.”
“E ce la fai a tornare per le sei?”
“Kamisama, che ansia, Ken! Mica devo giocare!”
“Questo vuol dire che non credi di arrivare in
tempo…”
Yasu inspirò a fondo, passandosi una mano sul viso.
“Vuol
dire solo” scandì, controllando la voce,
“che nel remoto caso in cui arrivassi
con qualche minuto di ritardo nessuno se ne accorgerebbe.”
“Io sì. Sai che prima della
partita…”
Yasu si fermò e lo tirò per la mano che stringeva
nella sua,
costringendolo a voltarsi. Gli fece cenno di chinare la testa e, quando
Ken lo
fece, lei si alzò sulle punte dei piedi e lo
baciò. Sentì le braccia del portiere
stringerla e sollevarla appena, mentre il bacio si faceva
più profondo. Yasu
ricambiò volentieri, ma un po’ stupita: Ken non
era solito lasciarsi andare a
certe effusioni così, all’aperto, in mezzo al
campus. C’erano voluti mesi solo
per convincerlo che camminare tenendosi per mano non era poi
così disdicevole.
La abbracciava forte, come se non volesse lasciarla andare.
Yasu fece una leggera pressione sui suoi pettorali per scostarlo da
sé. “Può
valere come bacio pre-partita?” sussurrò,
cingendogli il collo con le braccia e
schioccandogli un altro bacio sulla guancia. “Sarai perfetto,
lo so. Loro sono
delle schiappe e tu sei il mio gattino, pronto, agilissimo... e
coccolone”
concluse allegra, carezzandogli il viso.
“Il tuo... per sempre?” chiese, guardandola con
aria seria.
“Certo Ken, io... per tutto il tempo che lo
vorremo” disse
con un brivido.
Ken era sempre tanto sicuro riguardo la loro storia. Lei
ne era strafelice , adorava il suo ragazzo,
ma si sentiva così giovane, sentiva che molte cose dovevano
ancora succedere,
e, sebbene lo sperasse con tutto il cuore, non le pareva giusto
promettere che
sarebbero stati insieme per sempre. Non le sembrava intellettualmente
onesto.
D’altra parte, Ken era sicuro di quello che voleva:
diventare un calciatore professionista, sposare Yasu e darle la
famiglia che
non aveva mai avuto e poi, un giorno, riprendere le redini del dojo.
Lei
sembrava sempre un po’ spaventata di fronte a tanta
sicurezza, ma, in generale,
Ken conosceva il suo punto di vista e lo capiva, e sapeva che i suoi
non erano
dubbi, solo paura che quei progetti potessero non realizzarsi.
In quel momento, però, quelle parole suonarono nella testa
del portiere come un altro campanello di allarme. Ormai era talmente
sicuro che
ci fosse qualcosa fra Yasu e Misugi, che nemmeno il dolcissimo
“Ti amo,
Ke-chan” con cui la ragazza lo salutò
riuscì a dissuaderlo.
Né da quel pensiero, né dall’idea che
gli era balenata in
testa.
Dopo aver chiesto il permesso ai legittimi proprietari e
averli rassicurati che sarebbe tornato in tempo per la partita, Ken
andò
nell’appartamento e prese una giacca di pelle di Hyuga, un
berretto di Kazuki e
gli occhiali da sole di Takeshi. Indossò la giacca in modo
che gli coprisse i
capelli e nascose il viso dietro gli occhiali e si calcò in
testa il cappello.
Uscì di nascosto dalla scuola attraverso un ben noto buco
nella recinzione e
aspettò di veder passare Yasu.
Quando la vide scendere le scale per prendere la metro,
iniziò a seguirla.
Per fortuna la ragazza, una volta sul treno, si mise a
leggere un libro senza guardarsi attorno. Non aveva il minimo sospetto
che
qualcuno potesse pedinarla ed era una fortuna perché, se lo
avesse fissato anche
solo per un attimo, di certo non avrebbe certo mancato di riconoscerlo:
se i
capelli e il volto erano nascosti, la sua figura era comunque
abbastanza
riconoscibile.
Ken rimaneva a distanza di sicurezza, cercando di stare un
po’ curvo per dissimulare la propria altezza, e di
mimetizzarsi tra gli altri
passeggeri che, grazie a Dio, a quell’ora erano abbastanza
numerosi, senza
tuttavia mai perdere di vista la sua ragazza.
Si sentiva un po’ stupido e in colpa per non fidarsi di lei,
ma la gelosia lo dilaniava e aveva bisogno di sapere. Ebbe un tuffo al
cuore
quando Yasu non scese alla stazione dove di solito cambiava per il
corso.
Proseguì per qualche altra fermata e poi cambiò
per una
linea che portava in tutt’altra zona della città,
verso dei quartieri
residenziali.
La seguì poi fuori dalla metro, prestando la massima
attenzione e pregando che lei non si voltasse.
Rimase impietrito quando la vide fermarsi di fronte a una
casa molto grande ed elegante. Si nascose nell’ombra di uno
degli alberi che
costeggiavano il viale e la osservò suonare, parlare
brevemente al citofono ed
entrare dentro.
Tremando, si avvicinò di alcuni passi, per poter leggere la
targhetta del campanello, rimanendo tuttavia nascosto.
Misugi lesse.
Fu come se un artiglio gli torcesse lo stomaco, e una
freccia lo colpisse dritto nel cuore. Stette immobile di fronte al
cancello per
qualche secondo, poi un rumore di passi lo costrinse a riprendersi e a
indietreggiare.
Una ragazza si avvicinò all’inferriata, ne
afferrò due
sbarre con le mani e, dopo aver seguito con lo sguardo la figura di
Yasu che
percorreva il sentiero fino al portone in cui poi entrò, vi
poggiò la fronte
contro.
Ken si avvicinò. L’aveva riconosciuta quasi subito.
“Aoba” la chiamò, sfiorandole una spalla.
“Chi è lei?” schizzò, la
ragazza, impaurita.
“Perdonami” disse Ken. Fosse stato
dell’umore, gli sarebbe
scappato da ridere: con quella lunga giacca nera, gli occhiali scuri e
il
cappello sugli occhi non doveva avere un’aria molto
raccomandabile. “Wakashimazu
Ken” si presentò, accennando un inchino.
“Wakashimazu-kun” sospirò lei portandosi
una mano al petto.
“Scusa ma ero soprappensiero” mormorò.
“Già, anche io” ribatté lui
lanciando uno sguardo sconsolato
verso la villetta di Misugi.
Mentre Yayoi rammentava che era lui il fidanzato di Yasu,
vide i due comparire sulla porta.
“Stanno uscendo!” esclamò, spalancando
gli occhi.
Ken la prese per un braccio e la portò nel suo nascondiglio,
dietro l’albero, stringendola a sé.
Yasu e Jun passarono a pochi metri da loro, diretti verso la
metro. Procedevano a passo svelto, in silenzio, senza sfiorarsi. Ken
ebbe
l’impressione che fossero piuttosto scuri in volto.
“Li seguiamo?” sussurrò,
all’orecchio di Yayoi.
Sentì la ragazza sussultare contro il proprio petto.
“E se
ci vedono?”
“Beh, finora io sono riuscito-”
“Prendono un taxi!”
“Oh, cazzo”
“Ne arriva un altro, andiamo!” disse la ragazza,
risoluta e
stavolta fu lei a tirare il portiere per un braccio. Fermò
l’auto con un cenno
della mano e si catapultò dentro, trascinandolo con
sé.
“Insegua quel taxi!” gridò al tassista,
non appena furono
saliti, indicando la vettura su cui viaggiavano Jun e Yasu, che, grazie
a un
provvidenziale semaforo rosso, non si era allontanata di molto.
Il tassista si girò lentamente e li guardò con
aria
interrogativa.
“Beh?” esclamò Yayoi scocciata.
“Cosa non è chiaro di
‘insegua QUEL taxi’?” ripeté,
indicando di nuovo la macchina.
Un sorriso soddisfatto si allargò sul volto
dell’uomo.
“Niente, signorina. È che è da quando
faccio questo lavoro che sogno di
ricevere una richiesta del genere!”
“Fantastico” commentò, sarcastica.
“Se vuole che il suo
sogno si realizzi davvero però PARTA!”
“Sissignora!” disse, infilandosi in strada con una
sgommata.
Fece un po’ di zigzag nel traffico e i due ragazzi furono
costretti ad arpionarsi ai seggiolini anteriori, quasi rimpiangendo la
richiesta avanzata. Ma quando si ritrovarono a seguire tranquillamente
l’altra
macchina su un grande viale, si scambiarono uno sguardo soddisfatto.
“Non è che state facendo qualcosa di male,
vero?” disse a un
tratto il tassista, guardandoli dallo specchietto. Lo sguardo
indugiò sulla
mise di Ken.
“Ma figuriamoci!” rispose lesto il karate keeper,
sfilandosi
occhiali e berretto e sfoderando un sorriso da copertina.
“È solo
che…”iniziò
incerto.
“Vogliamo fare una sorpresa a dei nostri amici” gli
venne in
aiuto Yayoi con un sorriso ancora più radioso. E che
probabilmente ebbe un
miglior effetto sul tassista.
Dentro di sé, Yayoi si sentì morire: era davvero
con
quell’intenzione che era uscita di casa: fare una sorpresa a
Jun che, da quel
che sapeva, doveva restare a casa a studiare. Invece a rimanere a bocca
aperta
era stata lei, insieme a Wakashimazu, a quanto pareva. Ma quando si
sarebbero
presentati davanti a loro, allora sì che avrebbero avuto una
bella sorpresa
“Capisco” commentò pensoso
l’uomo. Poi aggiunse: “Visto il
luogo, immagino farà loro particolarmente
piacere…”
I due ragazzi guardarono incuriositi fuori dal finestrino,
stupendosi non poco di trovarsi di fronte a una clinica.
****
Yasu camminava nervosamente su e giù per il corridoio. Da
tutto il giorno aveva una specie di peso sul petto che si era fatto
più
pressante col passare delle ore: andava a finire che ricoveravano lei,
pensò
con un sorriso sghembo. Era una di quelle situazioni in cui avrebbe
avuto
estremo bisogno dell’insindacabile giudizio di Genzo: lui
aveva il potere di
farle vedere le cose chiaramente e capire come affrontarle, anche senza
darle
consigli espliciti. Ma non se l’era sentita di parlargliene
durante la classica
telefonata serale, per paura che gli altri sentissero, né
aveva avuto modo di
chiamarlo in un altro momento.
Il corridoio si apriva a un tratto in una specie di slargo:
sulla parete di sinistra erano allineati una serie di distributori
automatici,
quella sul fondo era costituita da una fila di finestre, dalle quali
arrivava
una luce intensa. Si appoggiò alla parete opposta alle
macchinette, godendosi
il tepore e la luce, pensando a suo fratello.
Per prima cosa cercò di dare un nome a quel peso che le
premeva sul cuore.
Gliene vennero tre.
Ken, a
cui aveva mentito, con cui di recente
aveva avuto diverse discussioni, che ultimamente si comportava in modo
strano.
E con cui non faceva l’amore da tanto, troppo tempo.
Yayoi, che
conosceva a malapena, ma a cui sentiva di star usurpando qualcosa.
Jun, a cui aveva
promesso che tutto sarebbe andato bene… e se poi non era
così?
Prese alcuni respiri profondi.
Ripensò a quando aveva detto ai suoi di voler studiare in
Giappone. Quando raccontò a Genzo che la mamma si era messa
a piangere, lui,
serio, le aveva detto che prima o poi avrebbe capito.
“A volte si fa male a qualcuno a fin di bene.”
Aveva
aggiunto.
Era così. Se avevano mentito a Ken e Yayoi c’era
un motivo e
glielo avrebbero spiegato, appena finita quella visita.
Che, si ripeté Yasu, doveva
andare bene.
Sentì una porta aprirsi e delle voci venire dal corridoio.
Si affacciò e sgranò gli occhi di fronte a quella
strana scena.
Jun pensò che si fossero sbagliati alla grande.
Perché in
quel momento sentiva il suo cuore battere tanto forte da scoppiare.
Sentiva la
testa vuota e le orecchie che fischiavano.
Mentre nel cervello gli rimbombavano le parole del dottore.
Per i tre anni delle
superiori ti sei tenuto a riposo dedicandoti con impegno alla
riabilitazione,
al solo scopo di poter partecipare ai mondiali giovanili... il compito
di un
dottore è curare i propri pazienti, ma per guarire
è assolutamente necessaria
la collaborazione dei pazienti stessi.
Un aspirante dottore
come te dovrebbe saperlo**...
Con uno sforzo enorme balbettò un saluto, le mani gli
tremavano stringendo quella
del medico e
prendeva con sé tutte le scartoffie. Gli tremavano anche le
gambe mentre si
avvicinava alla porta e apriva la maniglia.
Invece quello che successe dopo fu così normale.
Aprire la porta.
Trovarsi davanti Yayoi che chiamava il suo nome.
Abbracciarla, ringraziarla e riferire d’un fiato quello che
gli avevano detto.
“Grazie Yayoi io tornerò...
tornerò di nuovo sul campo da
calcio**”.
La ragazza rimase un attimo rigida fra le braccia di Jun,
poi di fronte a quell’annuncio, che aspettavano da tre anni,
tutto scomparve e
lacrime di pura gioia le rigarono il volto, mentre mormorava:
“E’ una splendida
notizia...**”
Jun si staccò lentamente da lei, la prese per le spalle,
fissandola, quindi si guardò intorno, sbattendo le palpebre
un paio di volte.
“A- aspetta... tu... tu cosa ci fai qui?”
Altre lacrime bagnarono le guance di Yayoi, ma stavolta
erano di rabbia. Jun lo capì dal modo in cui lei
serrò i pugni e si scrollò le
sue mani di dosso.
“Perché mi hai detto che la visita era stata
rimandata?”
“Yayoi...”
“E perché c’è lei,
qui? Avrei dovuto esserci io...” esalò.
Jun si voltò nella direzione indicata da Yayoi e vide Yasu.
A qualche metro di distanza, stava immobile, a braccia conserte,
visibilmente a
disagio.
D’improvviso si avvicinò, con passo deciso.
“E’ colpa mia” dichiarò.
“Jun voleva venire da solo ma non
mi sembrava il caso e l’ho costretto a portarmi con
sé”.
“Dovevo esserci io” ringhiò Yayoi,
fronteggiando l’altra
ragazza.
“E’ quello che gli ho detto... ma lui...”
rispose Yasu.
“Io avevo il terrore che il risultato fosse negativo e te lo
volevo risparmiare” intervenne Jun, i pugni serrati.
“Jun... mi hai impedito di starti vicina, ed è
l’unica cosa
che voglio, lo sai...”
Yasu distolse lo sguardo dalla coppia e solo allora si
accorse che, pochi metri più in là, dalla parte
opposta rispetto a lei, c’era
Ken, che fino ad allora si era tenuto in disparte. Il cuore le
mancò un
battito.
Wakashimazu fissava a sua volta la scena, serio. Poi chiuse
gli occhi, prese un lungo respiro e si avvicinò.
“Io credo” esordì, facendo sussultare e
voltare di scatto
verso di lui tutti gli altri. “Che ognuno di noi abbia
qualcosa da chiarire,
spiegare e... farsi perdonare.”
“...insomma, mettetevi nei nostri panni... cosa avreste
pensato?” concluse Ken, mentre Yayoi annuiva con decisione.
Jun e Yasu si scambiarono uno sguardo imbarazzato e
divertito. “Non... saprei...” ammisero, facendo
ridere anche i due “aspiranti
Otello” come li aveva definiti Yasu. Quando venne fuori che
tutti quegli
accenni a date e ristoranti erano solo per fissare un’uscita
a quattro, Ken e
Yayoi ebbero voglia di sprofondare: quante ne avevano pensate! Come
avevano
fatto a dubitare di loro?
Il suono di un orologio riempì l’aria.
“Occazzo” esclamò Yasu, osservandone il
quadrante. “Sono le
cinque! Ken, la partita!”
“Merda!” le fece eco il portiere. “Dovrei
già essere lì!
Dobbiamo recuperare un taxi al più presto!”
“Fretta di andare a festeggiare?” una voce bonaria
li
sovrastò. Jun si voltò e riconobbe il suo dottore.
“In effetti no… il mio amico è in
ritardo per una partita…
insomma un’emergenza…” disse Jun,
nell’evidente tentativo di congedarsi.
“Beh, sono abbastanza esperto di emergenze… potrei
darvi un
passaggio” sorrise l’uomo. “Ho una
macchina piuttosto veloce e un pass per
usare le corsie di emergenza” concluse a mezza voce.
“E’ meraviglioso!” gridò Jun.
“Lei oggi non fa che darmi
buone notizie…”
“Ma no!” protestò Ken, “il
dottore avrà cose più importanti
da fare…”
“Non vi preoccupate, altrimenti non ve lo avrei proposto!
Beh, andiamo, non eravate in ritardo? A proposito…
dov’è che si va?”
Yasu tirò un sospiro di sollievo quando i suoi piedi
toccarono, tremanti, il marciapiedi di fronte al’Istituto
Toho. “Non so se era
un passaggio o un test per il cuore” commentò: il
dottore aveva sfrecciato per
le vie cittadine come fossero autostrade, bruciando semafori, usando
scorciatoie poco ortodosse e facendo il pelo a ciclisti e pedoni.
Ma ne era valsa la pena: alle 17.30 in punto erano di fronte
al campo. Ken salutò tutti velocemente e si
fiondò negli spogliatoi.
Yasu si voltò verso Jun e Yayoi.
“Grazie mille, Jun…” mormorò.
“Se non era per te…”
“Ma figurati… è stata pura
fortuna…”
“Sì” intervenne Yayoi seria,
“arrivare vivi…”. Fissò un
attimo le facce imbarazzate degli altri due. Poi sorrise:
“Però è stato
divertente! Quello è proprio un pazzo!”
“Già! Speriamo che s’intenda
più di medicina che di
sicurezza stradale” esclamò Jun. “O
dovrò chiedere un secondo parere!”.
Risero tutti, poi Yasu chiese agli altri se volevano
fermarsi a vedere la partita.
Jun trasalì e guardò la sua ragazza, imbarazzato.
“Mah, non
saprei forse… volevi andare da qualche parte… da
soli, eh, Yayoi?”
“Beh, abbiamo fatto tanto per portare qui Wakashimazu,
sarebbe un peccato non vedere se ne è valsa la
pena…” sorrise dolcemente.
“E comunque sarete abbastanza soli… io devo stare
in
panchina e non c’è esattamente il pubblico delle
grandi occasioni” ironizzò
Yasu, indicando gli spalti semideserti. “L’entrata
è là, ci vediamo dopo!”
concluse e si avviò rapida verso il campo, dove i giocatori
stavano già facendo
il loro ingresso, ma si fermò dopo alcuni metri. Si
voltò e tornò rapida verso
la coppia che già si stava avviando verso il cancello che
aveva loro indicato.
“Yayoi” chiamò.
“Sì?” rispose l’interpellata,
voltandosi.
Yasu la fronteggiò, guardandola dall’alto dei
quindici centimetri buoni che le
separavano. Sembrava nervosa, fissava il terreno, mordicchiandosi le
labbra.
“Io, ecco… scusa!” esclamò
infine, abbracciandola per un nanosecondo. “Devo
andare” aggiunse poi, prima di dileguarsi, lasciando Aoba di
stucco.
Jun la guardò, facendo spallucce come dire
“È così, che ci vuoi fare?”
poi le
prese la mano e si diressero verso gli spalti.
Misugi spiava di sottecchi il viso della ragazza. Sembrava
tranquilla e sorridente come sempre, forse un tantino pensierosa.
Si sedettero e guardarono in silenzio i giocatori finire il
riscaldamento.
La partita iniziò, ma Jun non riusciva a concentrarsi,
continuava a guardare di nascosto Yayoi, cercando di capire cosa
pensasse. Aveva
ancora quell’aria tranquilla, sorrideva appena, concentrata
sulla partita,
mormorando qualche commento di quando in quando.
“Yayoi” la chiamò, infine.
Lei si voltò: la luce aranciata della sera rendeva i
riflessi ramati dei suoi capelli ancora più splendenti e
l’incarnato del viso
così candido da sembrare luminoso.
Kamisama, quant’era bella!
“Sì?” ripeté e non una sola
volta, di fronte all’espressione
imbambolata del ragazzo.
“Yayoi, io…” Non sapeva davvero da che
parte cominciare.
Lei raddrizzò le spalle e gli poggiò una mano
sulla coscia.
“È tutto a posto, Jun. Ho capito perché
lo hai fatto ed è… tenero. Ma
promettimi che non mi terrai più all’oscuro di
qualcosa che ti riguarda. Io
voglio starti vicino, sempre. Non chiedo altro, ti prego,
concedimelo”.
Jun si sentì… una merda, non c’erano
altre definizioni
possibili. Lui le aveva mentito e lei gli rivolgeva quello sguardo
implorante?
“Io dovrei concederti qualcosa?”
esclamò, con un sorriso
amaro. “Sei troppo buona con me, Yayoi, dovrei essere io a
implorarti di
concedermi il tuo perdono… ti ho
mentito…”
“Forse. Ma ho capito che, per quanto maldestro, il tuo era
un tentativo di proteggermi… e non riesco a essere
arrabbiata...”confessò, tormentandosi
le mani. “E poi pure io…”
ridacchiò.
“Cosa?”
“Insomma, con Wakashimazu abbiamo fatto proprio la figura
degli stupidi... vi abbiamo pedinato, ti rendi conto?” rise,
portandosi
graziosamente una mano sulla bocca. “Lui si era pure vestito
per restare in
incognito…”. Proruppe in una risata che non
riusciva più a trattenere.
“Kamisama, quando l’ho visto l’ho
scambiato per un maniaco”.
“Ti giuro che non lo abbiamo fatto apposta... anzi... credo
che se io e Yasu abbiamo fatto qualche ingenuità, sia
proprio perché l’idea non
ci sfiorava minimamente... insomma abbiamo voi...” disse,
arrossendo appena.
“Tu gelosa di Yasu” aggiunse, scrollando la testa,
divertito.
“Già...” si rabbuiò appena
Yayoi. “So che le ochette
starnazzanti che ti ronzano intorno non ti interessano ma a lei... ci
tieni,
ecco... lo vedo da come ne parli... e da come le
parli.”
“Siamo amici, nient’altro, lo giuro. Te
l’ho detto, stavamo
addirittura organizzando un’uscita a quattro con te e
Ken!” esclamò, scuotendo
appena la testa. “ E poi, insomma…come potrei
desiderare qualcun’altra, avendo
te?” Terminò in un sussurro, avvicinando le
proprie labbra a quelle di lei.
Yayoi arrossì vistosamente e balbettò qualcosa.
“Come?” chiese Jun, la voce arrochita.
“Hyuga ha appena segnato” sorrise maliziosa,
evitando il
bacio. Beh, una piccola punizione se la meritava, no?
Il primo tempo era trascorso tranquillamente, con niente da
segnalare a parte i due goal della Toho, realizzati da Hyuga e
Sorimachi, un
cartellino giallo per il difensore Kawabi e un brutto fallo ai danni
del libero
Koiche.
“Sicuro di stare bene?” chiese Yasu a
quest’ultimo,
vedendolo dolorante.
“Sì, Wakabayashi, tranquilla, arrivo fino in
fondo. E poi
non abbiamo riserve. Di’ piuttosto a Kawabi di non fare
più interventi del
genere o lo buttano fuori...”
“Scusa se ho cercato di vendicarti” intervenne il
difensore.
“Niente vendette, Kawabi, continuiamo a giocare
così e vinceremo”
intervenne il mister. “So che è solo
un’amichevole, ma voglio il massimo
impegno”. Quindi prese da parte alcuni giocatori per dare
indicazioni
specifiche.
Sawada si avvicinò a Yasu e aspettò che
terminasse di
sistemare la fasciatura alla caviglia di Koiche, borbottando che
secondo lei
non doveva proseguire, mentre il libero la rassicurava che sarebbe
stato
attento.
Quando la ragazza si alzò in piedi, il piccolo
centrocampista la raggiunse. “Ken ci ha detto di Jun, che
splendida notizia”
disse tutto d’un fiato. “Ma è
qui?”
“Sì, lui e Yayoi sono sugli spalti.”
“Resteranno a cena da noi, dopo?”
“Beh non so... teoricamente sarebbe vietato...”
“E da quando in qua i divieti ti spaventano,
Wakabayashi?”
la apostrofò Kojiro.
“Lo dico per voi e le vostre borse di studio, capitano”
gli rispose Yasu, dando
un’inflessione ironica all’appellativo.
“Scherzi a parte, magari digli che ci aspetti, dopo la
doccia passeremo a salutarlo”.
“Volentieri”.
Il secondo tempo iniziò piuttosto male, con un goal subito
da parte del Toho. Verso la metà poi, Kawabi fece un altro
brutto fallo e prese
il cartellino rosso. Inoltre, Koiche zoppicava vistosamente.
Fu concesso un breve time out, in cui la Toho si riunì, per
discutere
sul da farsi.
“Posso continuare” protestò il libero
infortunato,
stringendo i denti, “Fammi una fasciatura più
rigida e posso continuare...”
“Koiche, io non credo che valga la pena rischiare un
infortunio grave per un’amichevole” rispose Yasu.
“Lei che dice mister?”
“Sono d’accordo, ma giocando in nove non possiamo
provare
nessuno dei nuovi schemi. Se almeno avessimo qualcuno da far
entrare...”
“Metta Wakashimazu in campo e Wakabayashi in porta,
mister”
suggerì Shimano.
“Non mi sembra una buona idea” commentò
Kawabi. “Yasu è
forte, ma questi hanno messo in difficoltà
Wakashimazu…”
“Diciamo che oggi il nostro portiere non è nella
sua forma
migliore” rispose il mister, non facendosi sfuggire la
preziosa occasione per
rimproverare Ken. “Forse se si degnasse di arrivare in
orario, riuscirebbe a
concentrarsi meglio. Tuttavia sono d’accordo, considerando
che sono anche
ragazzi più grandi…”
“Chiedo
scusa,
signore” rispose il portiere, toccato sul vivo da quelle
critiche. “Non
succederà più. Anche per questo le chiedo di
poter continuare a giocare in
porta, per riscattarmi…” aggiunse facendo un
profondo inchino. Non era solo
quello. Gli avversari giocavano pesante e non voleva che Yasu entrasse.
“Lo capisco, Wakashimazu, però non
so…” ponderò il mister
guardando Yasu, “in effetti è una buona soluzione,
per un quarto d’ora…”
Ken serrò i pugni e andò a sedersi. Non
voleva
mettere in discussione le capacità della sua ragazza,
ripetendo l’errore che
aveva fatto circa la sua fedeltà.
Ma a sorpresa fu lei a respingere l’offerta.
“Grazie della
fiducia, ma non credo sia il caso” disse con un sorriso,
rivolgendogli uno
sguardo fugace. Lo vide buttarsi seduto sulla panchina e chinarsi in
avanti, i
gomiti poggiati sulle cosce, lo sguardo fisso in un punto in mezzo alle
sue
scarpe. Non riusciva a scorgergli il volto dietro la cascata di capelli.
“Ken” sussurrò, sfiorandogli una spalla.
“Grazie, cioè, scusa. Io… non
volevo…” disse con un sospiro
che parve un singhiozzo.
“Ken” ripeté con voce ferma ma dolce,
accovacciandosi di
fronte a lui per cercare il suo sguardo. “Calmati, non
è successo assolutamente
niente… un goal…”
“Non è il goal” ringhiò.
“È quello che ho fatto a te, oggi
sono stato-”
“Shhh” sorrise poggiandogli un dito sulle labbra.
“Ne
parleremo dopo, con calma, concentrati sulla partita, ok? E comunque
sappi che per
me non è successo niente, che sei uno scemo impulsivo io lo
sapevo. Vuol dire
che ora lo sa anche Misugi…”
“Misugi?” esclamò Ken, drizzando di
scatto la schiena.
“Sì” balbettò Yasu.
“Non te la prendere, io sdrammat-”
“Sei un
genio, Wakab-
ehm, Yasu!” disse con una smorfia disgustata. Quindi le
stampò un bacio in
fronte e corse da Kojiro. Parlottarono un attimo poi Hyuga si
alzò in piedi.
“Mister” chiamò. Crede che sarebbe
possibile schierare Misugi?”
Tutti lo guardarono sorpresi. Poi l’allenatore sorrise,
compiaciuto. “Ottima , idea, Hyuga. In fondo è
un’amichevole... verifico con
l’arbitro e poi sentiamo se a lui va”.
Yasu osservò l’allenatore confabulare col
direttore di gara.
“Ma gli avete detto tutto?”
“Al mister? Sì” rispose Sawada.
“Ed è stato molto contento
della notizia. Detto fra noi, credo che abbia sempre desiderato
allenarlo...”
Il mister tornò dicendo che l’arbitro e
l’altra squadra
erano d’accordo. Yasu fu spedita sugli spalti a chiamare il
baronetto e la
partita riprese, con Koiche che sarebbe rimasto in campo
finché Jun non si
fosse scaldato.
Aoba e Misugi videro emergere Yasu dalle scale, trafelata.
“C’è qualche problema?” le
chiese subito Jun. Ovviamente
aveva notato lo stop al gioco.
“Già... oltre all’espulso abbiamo un
giocatore infortunato...
e niente riserve...”
“Ahhh, brutta storia...”
“Già, ehm... Jun?” chiese un
po’ imbarazzata. “Ecco noi ci
chiedevamo se tu... insomma, se te la sentiresti...”
“Cosa?” balbettò Jun, presagendo la
richiesta.
“Ecco se te la sentiresti di giocare questi ultimi minuti
con noi...”
Misugi rimase in silenzio, allibito. Le gambe gli
pizzicavano già per la voglia di correre e il cuore gli
rimbombava in petto.
Poi si voltò e incontrò lo sguardo incredulo di
Yayoi. Di sicuro, lei si
sarebbe preoccupata un sacco...
“Ecco... ma non ho né la divisa, né gli
scarpini...”
“Ne abbiamo della tua misura, credo...”
“E poi dovrei fare riscaldamento...”
“Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi...”
“...non sono allenato...”
“Jun” intervenne Yayoi. “Hai giocato un
sacco di volte
rischiando la vita e ora che sai di essere guarito fai tutte queste
storie?”
“Ma tu...”
“Io starò benissimo... te l’ho detto,
non devi proteggermi
da te. Mai.”
“Ma non sono pronto...”
“Jun” Yayoi si alzò in piedi, le mani
sui fianchi. “Sono tre
anni che ti prepari per questo momento. Non potresti essere
più pronto di così.
Vai!”. Lo spronò, dandogli un buffetto sulla
spalla.
“Vieni” sussurrò Yasu, allegra e
amichevole come sempre.
Yayoi represse un sorriso vedendola prendere per mano il suo
ragazzo e trascinarlo verso gli spogliatoi. Come aveva potuto dubitare
di una
persona tanto schietta e cameratesca? E quando aveva visto il modo in
cui
guardava Ken, non aveva avuto dubbi su a chi appartenesse il suo cuore.
E
adesso che ci pensava bene, anche gli sguardi che Jun riservava a
ognuna di
loro due erano così diversi…
Doveva ricordarsi di scusarsi a sua volta con Yasu.
Si sedette, tremante. Sarebbero stati, per l’ennesima volta,
i dieci minuti più lunghi della sua vita.
Yasu si fermò di fronte alla porta dello spogliatoio,
facendo
cenno a Jun di entrare. “Ci sono alcuni completi, vedi se
qualcuno ti va.”
“Questo è perfetto” disse Jun uscendo,
dopo pochi minuti,
con indosso quello col numero 24. “E anche gli
scarpini” aggiunse,
picchiettando i piedi a terra.
Yasu lo guardò con un sorrisetto sghembo: non si era mai
resa conto che la divisa della Toho potesse apparire così
elegante. Né che il
baronetto del calcio potesse assumere un’aria tanto da
“bad boy”… Si prese
qualche secondo per osservarlo. Poi disse: “Benissimo.
Vieni”
“Sai che quando sorridi a quel modo somigli a tuo fratello
in modo inquietante?”
“Ehehe, sì, me lo hanno detto più
volte… e tu sai che la
nostra divisa ti dona un sacco?” aggiunse maliziosa, mentre
lo guidava lungo il
corridoio, fino alla panchina.
Jun voleva ribattere, ma la vista del riverbero verdastro
delle luci sull’erba lo fece trasalire. Riconobbe l’odore della
panchina: molti troverebbero
sgradevole quel mix di fango, sudore e gomma, ma per lui era il profumo
più
buono del mondo. Perso in quei ricordi che, si ripeté, erano
di nuovo il suo
presente, sentì appena Yasu imprecare alla notizia che il
risultato era ora di
2 a 2.
“Wakashimazu
è stato bravo ma temo risenta del poco tempo avuto per
scaldarsi…” spiegò il
mister, poi scorse Misugi e lo salutò, con entusiasmo.
Jun,
imbarazzato,
accennò un inchino. L’allenatore
gli mise una mano sulla spalla, avviandosi verso il bordo campo e
parlando
fitto fitto, cercando, nel breve spazio del riscaldamento, di dare a
Misugi
qualche dritta sul gioco della Toho. Anche se il ragazzo sembrava
conoscerlo
piuttosto a fondo.
“Negli ultimi anni non ho giocato, ma ho studiato”
spiegò
con un’alzata di spalle. “Sono pronto”
dichiarò infine.
“Ah, spero non ti dispiaccia giocare come libero. Devo
ammettere che è un ruolo per cui ti ho sempre visto molto
portato…”.
“Farò del mio meglio” disse il
calciatore, entrando in
campo.
Evidentemente, o Jun Misugi è di parola o, è
proprio più
forte di lui: non può esimersi da fare il meglio.
In quei quindici minuti scarsi, dette un saggio della sua
bravura e la prova che tre anni di inattività poco avevano
potuto contro
un innegabile talento naturale.
Annullò diversi tentativi degli avversari, salvando persino
un tiro sulla linea di porta e guadagnandosi un sorriso di riconoscenza
da
Wakashimazu.
Poi tolse la palla a un difensore e volò. Zigzagando fra i
difensori, neanche fossero fermi, arrivò fino a centro campo
e lo superò.
Servì a Kojiro un assist che valeva mille goal.
E il capitano, da grandissimo attaccante, non si fece
sfuggire l’occasione di segnare.
La partita finì di lì a poco con un dignitoso 3 a
2.
Jun rimase per un po’ immobile, in mezzo al campo, godendosi
i profumi, i colori, le voci.
Ma di tutti gli occhi puntati su di lui, sentiva solo la carezza
di quelli scuri di Yayoi. Le rivolse un sorriso e poi gridò
di gioia.
Quel giorno aveva vinto davvero.
__________________
* Ho cercato di dare alle TS un’ambientazione un
po’ “Anni
Novanta” per cui i cellulari sono ancora una
rarità.
** Queste frasi sono riprese fedelmente dal vol. 40, cap.
12.
Note
di chiusura:
Notato
che capitolo lungo, eh?
Dedicatissimo
a sissi che lo ha aspettato non so per quanto... spero che il finale ti
sia piaciuto.
Ma
è stato un "parto" travagliato, una FF che mi è
cresciuta e si è pesantemente modificata di sua
volontà mentre la scrivevo... Ma devo dire che, alla fine,
sono soddisfatta del risultato.
Grazie
a releuse per il betaggio e ad agatha e sissi per le consulenze passo
passo.
PS:
Visto, picciottina75, non mollo mai ;)
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