Memorie teatrali

di Rosso Veneziano
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In finibus Africae ***
Capitolo 2: *** Convivium & Rosa pristina nomine ***
Capitolo 3: *** Labor limae ***
Capitolo 4: *** Fulsere quondam tibi candidi soles ***
Capitolo 5: *** Fato profugus ***
Capitolo 6: *** Haud mollia iussa ***



Capitolo 1
*** In finibus Africae ***


In finibus Africae

Le filatrici dei nostri destini, chiamate Parche, non solo fanno, avvolgono e tagliano il filo della nostra vita ma spesso si trovano a sovrapporlo ed annodarlo in modo tale che nascano le cosiddette coincidenze.
E infatti mi accingo a vergare le memorie di alcuni fatti che avvennero nell’arco di questi ultimi mesi. Il 22 dello scorso dicembre, giorno gelido nella gelida Feltre (si dice a tal proposito del distico che Cesare in persona avrebbe coniato: “Feltria perpetuo nivium damnata rigori non adeunda vale”, o Feltri  - traduceva il Bembo – dannata al perpetuo rigore delle nevi e del giasso, per non più ti riveder forsi ti lasso) gironzolavo per comperare un libro con alcuni compagni di classe.
Ricevuta per consegna la lettura della commedia di Terenzio denominata “I Fratelli” avevamo deciso di recarci insieme in libreria per acquistare il volumetto. Autore di grandissimo genio l’africano Terenzio compose opere divertenti e moraleggianti che nulla avevano a che vedere con quei guitti di Aristofane (come disse Voltaire) o di Plauto.
E proprio quel giorno mi ritrovai a parlare con una delle attrici della compagnia teatrale, la subdola S. che recitava nei panni di Lady Bracknell, nella commedia “L’importanza di essere Franco” di Wilde, opera deliziosissima e doviziosa di facezie  e “responsa spiritualiter salsa” e fu la prima volta in cui s’affrontava il complesso tema delle recite della compagnia teatrale.
Letto il libro partecipammo in classe ad una rappresentazione delle prime scene dell’atto secondo in cui entrano in scena la nutrice della giovane violata, Panfila, di nome Cantara, la madre, Sostrata, lo schiavo, Geta. S. recitava nel ruolo di Sostrata, la sagace Serena nel ruolo di Cantara, lo scrivente in quello di Geta. La scena, per quanto fosse ahimè dozzinale la recitazione ottenne il generale plauso degli astanti. Dopo aver calcato le scene venni chiamato alla cattedra onde udire una proposta che, ahimè si sarebbe rivelata presto travagliata e sofferta. Mi fu offerto dall’insegnante di rappresentare nella commedia di Wilde, essendosi liberato un posto, il ruolo del reverendo Chasuble. Già mi era stato chiesto ma con cortesia avevo declinato. In quel momento, forse onusto delle vanaglorie della farsa le cui scene avevo così miseramente calcato, non seppi rifiutare. E fu forse, se mi è concesso il paragone, come Gertrude che, credendo per le blandizie paterne che la sua scelta avrebbe cagionato dolori nella sua famiglia, accettò la monacazione e di venir salutata quale novella sposa di Cristo. Non per imbrogli ma bensì per scrupolo e rispettosa osservanza della latrice della proposta accettai, udendo proferire parole che suonavano quale convocazione alle successive prove.
Ma dura fu a digerirsi la scelta. Durante la confusa lettura del testo rimembrai quello che mi fu detto con tanta urbanità da Serena, ubertosa di cortesie: recitava nel ruolo del protagonista per il cast a cui ero stato iscritto una persona il cui nome era, nell’istituto, di fama chiarissima, e quando se ne udiva parlare pareva quasi di udire da qualsiasi fanciulla le parole che Sulammita riservava all’amato nel Cantico dei Cantici, come fosse egli tra i giovani quale un melo tra gli alberi di bosco. E, richiamato alla memoria il fatto rimuginai su come avrei mai potuto sostenere lo sguardo di questa persona e di molt’altre, sentendomi d’un tratto come la pietra scartata dal costruttore ed ora richiamata a stare indegnamente accanto alle testate d'angolo.

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Capitolo 2
*** Convivium & Rosa pristina nomine ***


Convivium & Rosa pristina nomine


“E che non puote amor?” recita il motto di Casa de’ Medici. Proprio questo tema pareva risonare nei ridicolosi orpelli della commedia di Wilde. Proprio in nome di un vagheggiato amore si compivano tutti quegli arabeschi di trame. Fu così, mentre vi pensavo, che mi trovai d’un tratto a pranzare con le mie compagne di classe Serena, vivace, S., che all’occasione s’attenne all’indole del lupo che, intendendo le prossime contumelie "leva il muso odorando il vento infido". E tacque, lasciando parlare altri. Quel giorno m’intrattenni a discutere su quale fosse la migliore delle posizioni politiche con Simonetta, loquace, ed Elena, che più tardi si aggiunse, acuta, alla conversazione. E non fu poi molto diverso dal convito di Trimalcione. Discutemmo anche della liceità del selezionare le amicizie secondo le proprie convenienze.
Alla fine del nostro convivio s’aggiunse alle nostre dotte inquisizioni morali un altro attore, di moro viso, di nome Matteo. Amabile nel parlare, anch’egli loquace, simpatico e di brillante spirito ci divertì molto colle sue facezie. Recatici quindi ad assistere alle scene ed alle prove ci ammassammo in una classe. Al mio fianco stavano S., tacita, Hind, cortese, e, d’un posto a lato d’Hind, Stefania, allegra ed intenta a ripassare il copione. Presentatomi a queste due ultime tacqui e mi misi ad osservare la recitazione. S’era venuta ad aggiungere ad un punto Aurora, altra mia compagna di classe. L’iscrizione al suo cast mi portava a recitare il ruolo del suo amante: due caratteri di dubbia moralità per quanto benpensanti. Si misero allora a recitare Shoji, amico d’Aurora, di enigmatica indole (solo più tardi l’avrei conosciuto per intero), Matteo, Luca (già ricordavo il suo nome e il suo cognome, già sentito, già udito, già letto, ma non rimembravo dove), Margherita: quest’ultima in particolare mi colpì per la sua recitazione. Era ardita, coraggiosa, ricercata nel suo interpretare, eppure seria. E questa è forse la più grande contraddizione e gloria del teatro comico: il porsi nei caratteri ridicoli e sciocchi con estrema serietà ed impegno facendo sì ridere ma anche riflettere, pensare, meditare, ammirare la capacità, l’arte, la tecnica. Scorsi (ma con timidezza, quasi avendo paura nel guardare, nel cercare) i volti in quella sala affollata. E d’un tratto comparve quel personaggio magnificato che portava il nome di Andrea. Pensai che certo doveva essere un gran privilegio quello di dover condividere l’onore delle scene (superiore forse, per pathos, all’onore degli altari a cui sono tenuti i santi) con persone di così nota e chiara fama. E un poco ancora sorridevo tra me e me, ridendo di come dalla polvere fossi stato tratto a recitare a fianco di loro.
Le prove terminarono. Tornato a casa mi misi a cercare alcuni vecchi numeri del Metis, giornalino del liceo. Ne trovai alcuni in cui rilessi quel nome: Luca. Poi ancora Andrea. E presi il libro più vicino che trovai. Lo aprii alle ultime pagine, certo di trovare quell’esametro: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Quei nomi (e quel nome, in particolare: Luca, grafico del Metis) erano vuoti gusci. Eppure ora ricordavo. E la rosa rifiorì nel chiuso giardino nella mia  mente. Quanto grande era l’onore delle scene che avrei dovuto condividere con queste persone onorabilissime.

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Capitolo 3
*** Labor limae ***


Labor limae

Il pio Enea non sarebbe stato pio se non avesse dovuto patire molto per terra, per mare. Così lo scrittore non può essere capace se non rilegge e non corregge il suo manoscritto, così l’attore non può essere abile se non si impegna, con temperanza a modificare l’interpretazione: altrimenti la catarsi sarà imperfetta, anzi, non sortirà effetto.
Passati i consueti sette giorni d’intervallo ci trovammo a recitare. S., volubile, scomparve da allora e per sempre dal nostro convito, segnacolo ormai che le sue affezioni, i suoi equilibri stavano mutando. Non le pareva gradevole la mia presenza. Simonetta, costretta, aveva lasciato le scene la settimana precedente, per dedicarsi allo studio dell’aritmetica. Elena, sola, forse, senza Simonetta, non ci seguì. Da allora e per moltissime altre volte restammo Serena ed io al tavolo a conversare, a ridere. Quel pomeriggio dovetti per la prima volta recitare. Lentamente gennaio cadeva, digradando verso febbraio. Ancora non sapevo le battute. Recitai con Aurora ma la mia recitazione, giustamente, non ottenne consensi nell’insegnante che ci stava dirigendo. Mi corresse. Mi disse come il personaggio doveva agire, o meglio me lo propose. Avevo già visto un'altra persona, Alberto, che aveva un anno in meno di me, recitare nei panni di Chasuble. E lo faceva rendendolo zoppo. Non mi aggradò questa recitazione e me ne costruii una mia e personale, leggendo i Promessi Sposi e rimembrandomi di Don Abbondio, impacciato, goffo, vile, malvagio, nella propria ridicolosa protervia.
Serena ed Aurora recitavano già in modo mirabile. Ma passati altri sette giorni ebbi l’occasione di veder recitare proprio Andrea. Ed era perfetto nella sua interpretazione. Piacevole nel ridere e nel conversare (ma non ardii parlare, intimorito) ma serio nel suo impegno. Mi ricordò il suo modus vivendi (che ebbi poi opportunità di osservare anche in altre prove) quella descrizione che faceva di Luigi XIV il memorialista Saint Simon. Un’eucrasia (prendendo in prestito il mirabile verbo da Galeno e da Ippocrate) di sentimenti, di passioni, di riflessioni. Un carattere né troppo sanguigno, flemmatico, collerico o melanconico ma di perfetto equilibrio, specchio di virtù.
Notai forse solo allora per la prima volta la personalità di Denise. E d’un tratto ebbi quasi una visione. La visione di alcuni versi: “Chi è costei, bella come la luna, fulgida come il Sole?”. Risplendeva nel suo carattere ogni qualcosa buona, positiva, assente di nequizie che lo Stagirita avrebbe potuto enumerare nella sua Etica a Nicomaco. Sfavillava di gravitas, di serietà ma non con esagerazione: infatti sorrideva, onusta d’ironia ed allegria.
Rideva, giocondo, inoltre, Riccardo, alle facezie che Andrea favellava. Anche il suo nome risonava già noto. Scriveva nello stesso Metis, realizzando vignette e fumetti. Ricordo del suo viso in particolare lo sguardo. Così come le nebule nella Tempesta di Giorgione incutono alla madre l’istinto di proteggere il proprio figliuolo dalle intemperie e dagli oltraggi delle stille, così lo sguardo di Riccardo spingeva il suo interlocutore a declinare il proprio capo quasi a volersi ritirare dall’imbarazzo. Da quegli occhi, azzurri, non traspariva uno sguardo odioso od imperioso che ebbi modo di vedere in altre persone. Ma uno sguardo fiero, nobile, forse l’espressione perfetta del concetto di magnificenza, intesa nel senso più antico del termine: libero.
Ed ancora mi sentii come Titone che nel suo croceo letto ospitava la graziosa Aurora, ma era solo una povera cicala, che stormiva. E mi ritrovavo anch’io a frinire tra tanti maestosi caratteri, come cicala tra i nardeti, che s’empiva col respiro del profumo di quegli aromi, pensando di essere certo fortunato a godere di tanta grazia. Non mancavano alcuni rovi, ma erano pochi. E tutti costoro di cui ho narrato erano come rose tra i cardi, come gigli nella pianura di Saron.

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Capitolo 4
*** Fulsere quondam tibi candidi soles ***


Fulsere quondam tibi candidi soles

Ci fu un momento abbastanza preciso, ossia febbraio, nel quale la meraviglia e la sorpresa dei primi giorni cedettero il passo alla coscienza dell’impegno e della costanza colla quale ci si doveva dedicare alla recitazione, o meglio, usando un verbo francese, consacrer (perché infatti il teatro è una consacrazione, un rito sacrificale, come diceva Racine). Ricordo che quel febbraio fu piovoso.
Tuttavia mi rammento di un venerdì di sole in cui non piovve e veramente quel giorno pareva splendere un sole diverso dal solito. Quel giorno oltre a Serena ed Aurora ci accompagnò a pranzo Luca, di cui già avevo accennato. Ricordo che in quel giorno non parlò molto (almeno non con me). D’indole differente da quella di Andrea era infatti ancor più animato dalla cortesia e da quel genio che solamente gli artisti possono esprimere.
E come lo si doveva poi celebrare se non come un artista? Nella recitazione come ebbi modo di osservare (si assentò infatti quel giorno Andrea) e di ricordare dalla prima volta in cui, settimane prima, lo avevo visto, si esprimeva con naturalezza. Credo fosse adattissimo al personaggio di Jack. Non seppi cosa vi fosse in lui di specifico ma qualcosa mi fece tornare alla mente cose già lette. Le nostre vite non sono che libri vissuti e i libri non parlano che di altri libri. Ma quale virtù lo caratterizzava, cosa lo elevava, mentre interloquiva colla sua voce argentina? Non riuscivo a rammentarmene.
Nel frattempo ebbi occasione pure di parlare con Chiara, loquace, che raccontava di fatti, episodi. Su di lei non seppi esprimere lì per lì un parere come lo seppi attribuire agli altri. Nel frattempo però si delineava nella mia mente la personalità di S., persona puntigliosissima nel recitare, ricercata, e forse anche nella vita reale molto attenta a tante cose, a tanti fatti. Forse era un po’ come donna Prassede: di idee ne aveva poche: la precisione, la correttezza, e le ricercava, le idolatrava, si industriava per realizzarle, talvolta forse con ossessione. E come il medico non si ferma dinnanzi alle grida di dolore del paziente (al contrario del nemico pietoso) così questo attore insisteva, tuttavia sempre animato da un benevolo disio a gravare con molte parole sui suoi compagni.
Lentamente passavano i giorni, trascorreva febbraio, succeduto da marzo, entrambi un poco piovosi. Così come cade dalla clessidra la sabbia e così come s’ infrangono sugli scogli le maree e le onde, rombando e sconquassando, e togliendo ad ogni urto nuova sabbia e nuove pletore di pietre e di polveri, riducendo lentamente rocce e faraglioni nelle dimensioni così scorrevano i giorni e le prove teatrali correggendo i difetti nella recitazione di ognuno. E correggendo anche i miei difetti d’ indole e carattere. La catarsi avvenne quindi anche negli attori e non solo nel pubblico, non per opera della commedia ma degli altri compagni di scena. Ma allora ero troppo intento nel recitare per accorgermene infatti “videmus vertitatem per speculum et in aenigmate”.

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Capitolo 5
*** Fato profugus ***


Fato profugus

Mentre mi dilettavo con teatro mi impegnavo anche a rileggere alcune pagine dell’Eneide. Nel proemio si dice che il pio Enea era “fato profugus”, fuggiasco per volere del fato. E il 25 aprile accadde a me quello che accadde ad Enea. Ci trovammo a recitare a casa di una nostra insegnante.
Quel giorno Riccardo e Serena conversarono amabilmente con me sull’importanza della lettura della Bibbia, convenimmo tutti alla comune conclusione che l’opera, per quanto intrisa talvolta di pedanti richiami e regole religiose rimaneva un interessante testimonianza letteraria di altissimo livello. Ed infatti dove se non nella Bibbia rintracciamo figure eroiche migliori dei celebri personaggi della mitologia greca? Ester, astuta e clemente, Giuditta, perfetta oltremodo in ogni sua azione, perché timorata di Dio (e non era forse questa la virtù di Luca? Ma come si chiamava? Qual era il nome?), Debora, scaltra e prudente, Davide e Salomone, saggi e munifici erano solo alcuni esempi. E in quella disquisizione sia Riccardo che Serena, involontariamente, manifestarono segnacoli di cultura.
Le persone colte sono (e non è forse colta una persona che, pur sconfessando la fede cattolica riconosce il valore del testo sacro in laica obiettività?) come colombe che portano nel proprio becco un fiore. Adagiandosi presso le fonti di acqua cristallina lasciano cadere il fiore nella terra e mentre si refrigerano, dal seme che hanno sparso sorgono nuove piante.
Radunati quel giorno a calcare le scene eravamo come i Troiani nelle sponde italiche, che, intenti a mangiare le mense non pensavano ad altro che al raggiungere la profetata patria. Così noi allestivamo le scene, nel comune intento di arrivare alla meta della rappresentazione pubblica, con gioia, ma forse, proprio come i Teucri, senza accorgerci che il tempo ormai era poco. E l’asserzione delle insegnanti che invitarono al prepararsi al meglio per la rappresentazione fu come l’ingenua ma salvifica favella di Iulo, che, monitore dei Dardani, rammentava il compiersi della profezia di Celeno, arpia infausta, eppure sibilla di glorie. E non è forse il tempo un’arpia che, aggirandosi, volatore infame, scorre, talvolta angustiando come con insostenibili urla, creando travagli e dolori perché passano i lieti frangenti, permangono i tristi episodi e scemano le opportunità di compiere le proprie opere, permette tuttavia alla Verità e alla Giustizia di trionfare, dopo che lo ha annunziato all’inizio della propria operosa barbarie mentre come quei demoniaci volatili ammorbavano i banchetti con i propri escrementi egli rattristava gli animi e le attese?
Tornò allora Febo all’Olimpo seco portando il sole. E sorse Aurora dal croceo letto di Titone. L’indomani era proprio un venerdì, ormai divenuto giorno d’attese, di divertimenti, di chimere. L’attore che recitava nel ruolo di Chasuble nel cast di Luca se n’era andato. Mi fu proposto dalle insegnanti e dal regista di prendere il posto di costui. Così come Gertrude per due volte tacque, non volendo ed in parte volendo la sua monacazione e l’inganno per il rapimento di Lucia, così ripetei la precedente mia scelta: fu il secondo no che non dissi.

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Capitolo 6
*** Haud mollia iussa ***


Haud mollia iussa

Affatto lievi furono quelle imposizioni che mi costrinsero a recitare anche nel cast di Luca. Un pomeriggio ci trovammo quindi a recitare. Ormai era maggio, l’inverno passato, la primavera sorta, fiorita, sbocciata.
Grande era tuttavia il mio imbarazzo, ancora. Quel senso di riverenza, di tacita e muta ammirazione, di inadeguatezza, di timore. La causa principale era sicuramente quel tormento, quella preoccupazione, l’affannosa ricerca della definizione della virtù che animava lo spirito di Luca. Qualcosa mi spingeva ancora a cercarla. Temevo tuttavia di fare la tragica fine degli Argonauti morti nel cercare il Vello d’Oro: non di soccombere ma di divenire preda di ossessione e di frenesia.
Mi sedetti mentre gli altri attori celiavano. Ridevo anch’io, ma non scherzavo. Tuttavia ero riuscito a parlare con Margherita e con P., riguardo la quale ero finalmente riuscito ad esprimere un giudizio definitivo. Leziosa e civettuola, un po’ altezzosa, manifestava un certo modo di fare che, secondo me, si adattava perfettamente al personaggio che interpretava. Credo di poter dire che finì per recitare nei panni di se stessa. Pertanto era anche molesta, talvolta simpatica, ma di indole così singolarmente e pedantescamente onusta di certezze positive sulla sua persona da risultare ricettacolo di proposizioni che suonavano in una conversazione come veri e propri solecismi pedestri del galateo, della morale comune e del rispetto dell’altrui sensibilità. E mi rimisi ad osservare le scene. Stava recitando Luca.
Mi sovvenne allora la lettura di una pagina del Pratum Spirituale di Giovanni Mosco in cui si celebrava la magnitudo animi come la prima e fondamentale virtù: la coscienza di essere giusti, di fare il giusto, senza vanagloria, senza pompe, nella certezza e nel desiderio di voler continuare nella propria retta strada: ossia nella temperanza e nell’ottemperanza di quanto ci chiedono gli umani valori. La perfetta virtù. Senza la quale non esistono le altre, colla quale esistono tutte le altre, anzi, sgorgano, come dalla fonte Castalia del Parnaso sorgevano le arti, predilette di Apollo.
Mi trovai allora a cadere in uno stato di ammirazione di quel carattere, quello di Luca, così ricco di virtù pur possedendone una sola. Come in una visione compresi che dopotutto la nostra vita è una perpetua ricerca della felicità anche attraverso la perfezione e la modificazione della nostra indole. Se quel cammino ancor oggi per me è distante dall’essere concluso lo era già per lui. Cammino che, forse, era circolare e richiudeva uno spazio recintato, un giardino. Un hortus conclusus.
Fu allora che, come spinto dalla certezza di aver scoperto una verità ineffabile abbandonai i miei languori, le mie angustie. In qualche minuto persi le reticenze, le paure, i dubbi di cinque mesi. Quasi centocinquanta giorni per comprendere una verità che riuscii ad afferrare in quindici secondi.
Confortato dalla mia scoperta lasciai le antiche remore. Parlai amabilmente con gli altri, convinto che si era risolta l’ansia che mi aveva permeato.

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