Pet's Tales

di DeiDeiDei
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo_ Il Cane ***
Capitolo 2: *** Corvo ***
Capitolo 3: *** Topo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo_ Il Cane ***














Pet’s Tales





 

CAPITOLO SECONDO:Cane.










 

 
Charles si strinse nelle  braccia, tentando di non far troppo notare il suo movimento all’altro ragazzo. C’era freddo. Un po’ troppo freddo per andarsene in giro soltanto in camicia e questo lui lo sapeva benissimo. Anche Mattew doveva esserne consapevole, considerando che indossava un lupetto bianco e un pesante giaccone con l’interno in folta pelliccia di coniglio, ma evidentemente non considerava importante tenere al caldo anche ciò che era una sua proprietà. Dopotutto, pensò Charles, un mutante per quel ragazzino valeva l’altro. Era quello ciò che era diventato: un mutante qualsiasi, sacrificabile, non più importante per il proprio padrone come era stato in quegli anni al servizio dei Grayson. Non era più nemmeno un paggio. Non aveva idea di cosa gli sarebbe toccato fare, in quel posto, ad essere sinceri. Sperava vivamente che lo tenessero lontano dai lavori manuali, perché non avrebbero potuto trovare nulla di più inadatto a chi era sopravvissuto fino a quel momento leggendo la mente altrui e, in alcuni rari e difficoltosi casi, manipolandola. Quello per lui era un lavoro da sinapsi, non da muscoli, di certo. Se anche avessero sbagliato, se ne sarebbero accorti molto in fretta e gli avrebbero affidato qualche compito più consono, sicuramente.

Continuò a seguire il giovane padrone di casa passo dopo passo, limitandosi ad annuire quando il bambino si girava verso di lui alla ricerca di una risposta affermativa a qualche retorica domanda riguardante la bellezza del giardino innevato o la straordinaria quantità di cavalli nelle stalle, di giocattoli nelle stanze e di stanze stesse all’interno della villa. Gli aveva mostrato tutti e tre i piani dell’abitazione, sincerandosi di sottolineare dove un essere senza diritti come lui non poteva assolutamente mettere piede e, dove, invece, sarebbe stato compito di un qualche mutante pulire, mettere in ordine e rassettare. Aveva anche elencato un sacco di regole assurde che, alla fin fine, si potevano ritenere tutte riassumibili in una soltanto e cioè “ciò che Mattew dice è legge per tutti, tranne che per i suoi genitori”. Non che i genitori non facessero ogni cosa lui chiedesse poco elegantemente di fare, la presenza di Charles in quella casa ne era la dimostrazione più lampante, ma perlomeno non dovevano inchinarsi davanti a lui o chiamarlo Signore.  Entrando nella piccola magione sfatta che faceva da alloggio della servitù di casa Bolsky, poté assistere alla scena per l’ennesima volta: due servette di non più di quindici anni ed un uomo sulla trentina impegnati a piegare un grande lenzuolo si fermarono di colpo e chinarono la testa davanti al giovane tedesco, ringraziando il signorino per aver loro degnato di una sua visita. Charles quasi scoppiò a ridere davanti alla smorfia che la più minuta delle due ragazze fece non appena il suo padrone le diede le spalle e camminò oltre. Si trattenne solo per educazione. E per non essere rimproverato o punito successivamente.

Continuarono ad avanzare lungo l’ampio corridoio. Mattew ignorò del tutto sia le porte alla sua sinistra, sia le tende sgualcite che coprivano i varchi sul muro alla sua destra, per almeno tutta la prima ventina di metri di percorso.  Quel posto era enorme ed anche piuttosto inquietante, con tutti quegli usci di legno chiusi e le lampade ad olio sui piccoli tavoli a tre gambe allineati lungo il camminamento centrale. Sembrava quasi di trovarsi in un mondo totalmente differente da quello della villa della famiglia russa. O, perlomeno, di essere tornati indietro nel tempo di mezzo secolo. Almeno la catapecchia pareva decentemente riscaldata, perciò Charles azzardò la mossa lenta di spostare le braccia dalla loro postazione stretta attorno al busto e le lasciò ricadere lungo i fianchi. L’altro non taceva un attimo e non voleva saperne di tenere le mani ferme per più di tre secondi. Era irritante in ogni suo movimento ed ogni sua parola, ma il mutante era troppo educato per dirgli di starsene zitto ed indicargli il suo alloggio una volta per tutte. Sembrava, però, che il signorino avesse intenzione di continuare il suo tour e di mostrargli ancora qualche cosa.  Come se non bastasse, la sua indecisione sul da farsi divenne quasi assordante attraverso i suoi pensieri. Charles non poteva fare a meno di ascoltarlo: tutto ciò che diceva gli entrava nella testa senza che lo volesse e, per quanto cercasse di concentrarsi su altro, non era in alcun modo capace di tenersi distaccato abbastanza da non sentire perlomeno un fastidioso brusio.  Quando Mattew si fermò, quindi, per il telepate non fu una sorpresa. Se solo la mente dell’altro non fosse stata così confusa, avrebbe anche potuto sapere che cosa avrebbe dovuto osservare con finta ammirazione quella volta. Erano davanti all’ottava porta, sulla sinistra, del tutto identica alle altre, apparentemente. Eppure il corpo del russo fremeva d’eccitazione ed aspettativa sotto il giaccone.

-Ti presento il tuo vicino di stanza!- Annunciò mostrandogli un ampio sorriso ed aprendo la porta davanti a lui –E’ il mio cane preferito.- Commentò ridendo e facendogli spazio. Charles si affacciò nella stanza e gli occhi gli caddero subito sulla figura di un giovane seduto su una branda sfatta, accostata al muro. Il suo sguardo venne intercettato subito da due iridi severe e stanche. Sussultò. Niente nel corpo del ragazzo si era mosso, a parte gli occhi i quali si spostarono ancora, andando ad osservarlo dalla testa ai piedi, per tornare infine al viso. Lo stava esaminando. Charles deglutì il più silenziosamente possibile. Sembrò passare un’eternità prima che riuscisse a muovere lo sguardo a sua volta, sganciandolo da quello ora di sfida dell’altro, spostandolo sul corpo dello sconosciuto. La prima cosa che notò fu la museruola allacciata attorno alla sua faccia. Un brivido gli salì lungo la schiena. La seconda fu il collare. Un semplice collare di cuoio scolorito che gli circondava il collo, cadendo appena un po’ largo. Un milione di domande si susseguirono nel retro della sua calotta cranica, tra le quali perché diavolo un ragazzo dovesse avere addosso un collare. Quindi fu il turno dei suoi pensieri che gli assalirono, letteralmente, la testa, accanendosi contro le sue tempie. Cosa vuole? Chi è? Un fottuto ragazzino viziato, sicuramente, come quella merda di Mattew. Un altro. Muori! No, un altro no. Due non posso reggerli. Tornatene da dove sei venuto! Comunista di merda, muori! Stai lontano da noi mutanti! Sparisci. Che volete da me? Che ci fai qui? Vattene, non sono un animale in uno zoo. Non guardarmi. Vi ammazzerò, tutti voi comunisti del cazzo. Sono un mutante, posso farlo senza problemi. Sono…

Mattew lo afferrò per un braccio, quasi provvidenzialmente, strattonandolo in malo modo ed incitandolo a seguirlo altrove, già intento a parlare animosamente della loro prossima meta. La testa gli doleva terribilmente e quasi non si accorse del signorino che lo trasportava fuori dalla stanza. Era stato invasivo. Estremamente invasivo ed anche piuttosto doloroso. Si massaggiò le tempie con l’indice ed il medio, tentando disperatamente di alleviare il pulsare insistente sottopelle. I pensieri del ragazzo in museruola continuavano a riversarglisi nella mente, sempre più fiochi ad ogni metro che il telepate metteva tra loro, ma comunque terribilmente aggressivi. Lo aveva preso per un altro piccolo pargolo abbiente, questo lo aveva capito fin troppo bene. Ma odiarlo a quel modo senza nemmeno conoscere il suo nome? Mattew stava chiocciando, mostrandogli le altalene in giardino, coperte dalla neve. Charles aveva di nuovo freddo ma, pensò, il tour non poteva durare ancora molto. Se lo ripeté per i successivi trenta minuti, poi iniziò vistosamente a tremare. Le dita che, praticamente, artigliavano la camicia chiara. Il russo ci mise un po’ ad accorgersene, ma quando lo fece trasformò la propria espressione in una smorfia di disappunto. Dalla sua mente si poteva capire bene che aveva ancora intenzione di mostrare la biblioteca al mutante e vantarsi dei tomi preziosi in essa custoditi, ma suo padre gli aveva ordinato di non far stare male il suo nuovo cucciolo. Mise il broncio ed indicò al telepate il casolare dal quale erano usciti poco prima, congedandolo acidamente e voltandogli le spalle prima di dirigersi a grandi passi in direzione della villa. Charles ringraziò mentalmente qualsiasi Dio sedesse in cielo. Invece di starsene lì, immobile, con la neve alle ginocchia, si voltò a sua volta e corse fino agli alloggi della servitù. Una donna lo guardò accigliata quando fece il suo frettoloso ingresso e chinò il capo per salutarla educatamente: non doveva succedere tanto spesso che qualcuno mostrasse comportamenti tanto rispettosi nei confronti di una cameriera.

La sua stanza era la nona dal fondo, ma quasi inconsciamente si ritrovò a temporeggiare davanti a quella affianco, l’ottava. Spostò il peso da un piede all’altro indeciso sul da farsi e confuso su cosa veramente lo avesse portato a quella porta. Il ragazzo già lo odiava, ma lo faceva per un semplice fraintendimento. Voleva solo chiarire la sua posizione e magari scoprire perché gli avesse mostrato immediatamente così tanta rabbia. Bussò piano, timoroso, battendo le nocche pallide sul legno freddo. Nessuna risposta, se non si consideravano i pensieri irritati del mutante all’interno. Lanciò uno sguardo titubante alla propria porta: avrebbe fatto ancora in tempo a tornarsene sui suoi passi e rinchiudersi nel suo piccolo alloggio.  Ma in quel modo avrebbe ottenuto soltanto di sedersi ascoltando i pensieri dell’altro attraverso un muro. Sospirò e bussò un’altra volta. Aspettò qualche secondo, perdendosi nelle bestemmie mentali altrui, poi ci fu un clangore metallico e la porta si spalancò. Rimase interdetto a fissare l’uscio per un attimo, poi mosse due passi nella stanza. La porta si richiuse da sola dietro di lui nello stesso momento nel quale i pensieri del mutante si abbatterono sulla sua mente. Provò a non sembrare troppo terrorizzato dal fatto di essere evidentemente chiuso in una stanza minuscola assieme ad un ragazzo che non faceva altro che pensare a come ucciderlo.  Alcune delle fulminee immaginazioni dell’altro erano piuttosto agghiaccianti. Charles deglutì ancora e si azzardò a fare un altro passo avanti. Dovette impegnarsi con tutto se stesso per farlo e non tentare invece la fuga. L’altro, improvvisamente, smise di cercare tra le proprie fantasie quella giusta da usare e ne scelse una, provocando lo sgomento del telepate quando vide la chiara immagine di se stesso scuoiato vivo con la lima che, grazie ai ragionamenti altrui, teneva sotto il vaso da notte vuoto. Il ragazzo ghignò e si lanciò contro l’oggetto. Charles si buttò sul vaso nello stesso momento e, mandandolo in frantumi contro il muro, afferrò la lima con la mancina. Non ebbe bisogno di leggere la sua mente per percepire lo sconcerto del giovane. Indietreggiò alzandosi in piedi il più in fretta possibile, sapendo che avrebbe cercato di agguantarlo.

-C-come ti chiami?- Domandò immediatamente facendo bloccare per un attimo le movenze del più grande. Ignorò l’offesa che ebbe come risposta e si accontentò dell’Erik Lehnsherr sussurrato dalla sua mente –Bene, Erik, ascoltami- Continuò tremante. Lui si congelò sul posto, ancora pronto a saltargli addosso. Sospetto. Paura. La sua mente iniziò a mandare segnali d’allarme. Non ci sarebbe stato bisogno di altre parole. Charles sorrise, soddisfatto, e chiuse la bocca. Io sono Charles. Piacere di conoscerti Erik Lehnsherr. Lo stupore del più grande dei due fu ben visibile sul suo viso quando si rese conto che lo sconosciuto non aveva mosso nemmeno un muscolo per parlare. Come era possibile? La mente, Erik, funziona meglio delle parole, in questi casi. Ho avuto tempo per appurarlo. Charles sorrise ancora quando percepì un principio di comprensione nella mente altrui. Non sono un amico di Mattew, come potrei? Pensa di me esattamente ciò che pensa di te. Bhè, forse non mi considera ancora un cane… ma pensa già a me come ad un giocattolo da usare a suo piacimento. Sono come te, un mutante, e questo è il mio potere: leggo la mente e faccio… faccio questo.

-Telepatia?- Domandò Erik con un pronunciato accento straniero nel parlare russo, raddrizzandosi ed osservando l’altro ora più incuriosito che spaventato. Lui annuì, un po’ imbarazzato dall’improvviso interessamento. Può leggere la mente? Se è un telepate può farlo. Ma lo fa sempre? No, forse sente ciò che pensi solo se lo vuole. Oppure sta sentendo anche ora. Sta sentendo? I due si osservarono per qualche secondo, il maggiore ragionandoci sopra e l’altro cercando di non risultare troppo invasivo. Stai sentendo? Domandò quindi mentalmente, fissandolo più intensamente, quasi pensasse ci fosse bisogno del contatto visivo per comunicare a quel modo. Charles annuì di nuovo. E sulla faccia di Erik sorse spontaneo un sorriso divertito e radioso, oscurato dalla museruola, lasciandolo letteralmente di stucco –Oh, signore, sei seriamente un telepate. Straordinario. E pensare che ti avevo preso per un qualche nobile e volevo…- Si bloccò di colpo e nella sua testa comparve quella che sarebbe stata definibile vergogna. Lanciò uno sguardo allarmato alla lima stretta tra le mani tremanti dell’altro, concretizzando i propri pensieri in una smorfia quando si rese conto che, sì, il telepate aveva visto cosa aveva avuto intenzione di fargli ed il che non doveva essere stato particolarmente piacevole. –Scusa. Per, bhè…-

-Per aver pensato fosse un’ottima idea coprirmi la bocca con una mano per non farmi urlare e scuoiarmi lentamente da sveglio e cosciente con questa lama sporca?- Completò al suo posto Charles, ancora abbastanza terrorizzato ed inquietato dall’idea. Erik accentuò la smorfia sul proprio viso. Senso di colpa? Soprattutto disgusto di se stesso. -devo dire che hai un gusto del macabro particolarmente spiccato!- Commentò quindi forzatamente ironico il più giovane dei due. L’altro azzardò un sorriso imbarazzato e tornò a sedersi sulla branda, spostando per un paio di volte lo sguardo su e giù lungo il profilo del bambino.

-Hai paura di me?- Charles pensava di essere riuscito a nasconderlo piuttosto bene, ma evidentemente tornare a pensare a se stesso scuoiato vivo doveva aver fatto riaffiorare la cosa. Si guardò le mani con occhio critico: effettivamente tremavano un poco. –Puoi stare tranquillo. Non faccio del male agli altri mutanti- Era evidente che voleva tranquillizzarlo, ma, più che le sue parole, furono le immagini trasmesse dalla sua mente a rasserenarlo. Era dispiaciuto e preoccupato. Ci fu un attimo di silenzio pesante che calò tra i due, nel quale il telepate continuò  rastrellare i pensieri dell’altro cercando di comprenderne le intenzioni. Non era più tanto rabbioso. Certo, non si fidava del tutto di lui, in quanto sconosciuto arrivato di punto in bianco dal nulla, ma era tentato soprattutto di sottoporlo ad un interrogatorio civile sulle sue capacità, la sua vita in quel momento, il motivo per il quale si trovava alla villa dei Bolsky. Davvero. Davvero, fidati, non voglio farti del male. Puoi sentirmi, vero? Non riesco a capire quando puoi sentirmi e quando invece no… diavolo, magari sto parlando da solo mentalmente e lui non mi sente. Sarebbe piuttosto imbarazzante. Dio, fa che mi senta. Oh, ha sorriso! Mi sente? Deve sentirmi, se no perché riderebbe? Se mi senti, credimi. Mi spiace aver pensato quelle cose, prima. Sono pessimo, lo so. Signore, ho pensato davvero di scuoiarlo vivo? Basta guardarlo per capire che è solo un bambino. È sicuramente più piccolo di me e io volevo scuoiarlo? Devo averlo terrorizzato… eppure non ha cercato di scappare. È coraggioso. O stupido. Forse coraggioso e stupido. Oh, maledizione, lo sto pensando davvero! Eppure lo so che è un telepate. Mi ha appena sentito dargli dello stupido, vero? Come per confermare la sua supposizione, Charles scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con le mani, ignorando il più possibile le imprecazioni mentali dell’altro mutante. Sono un perfetto idiota. Ecco, però, adesso mi credi? Che non voglio farti del male, intendo. Charles annuì una volta, smettendo di ridere, ed osservò la mano del giovane sbattere due volte sulla superficie del materasso accanto a se. Non ci fu bisogno che il tedesco facesse la domanda ad alta voce: il telepate  sapeva perfettamente cosa gli stesse proponendo. Conosceva interiormente tutte le buone intenzioni del maggiore, ma la minaccia di qualche minuto prima continuava irrimediabilmente a ronzargli in testa. Contemplò la possibilità di rifiutare ed andarsene in camera propria, dopotutto il malinteso era oramai stato chiarito. Eppure gli sarebbe dispiaciuto mostrarsi scortese in quel modo senza alcun apparente motivo, perciò si convinse che accettare fosse la cosa giusta da fare. Mosse qualche passo titubante verso la branda e ci mise quasi sei interi secondi di meditazione prima di lasciarsi cadere su di essa con più grazia ed attenzione possibile. Lo sguardo di Erik, che lo aveva seguito in ogni suo minimo movimento, si mise di nuovo a scansionarlo. Cosa che, forse, sarebbe passata inosservata ad una persona normale, ma che, nel caso di chi poteva leggere la mente, diventava piuttosto invasiva ed ovvia. Ed anche abbastanza imbarazzante. Dopotutto, per chi non lo sarebbe sentire una persona fare considerazioni su di se? Charles distolse lo sguardo e cercò disperatamente di spostare l’attenzione altrui altrove.

-Tu che capacità hai?- Domandò quindi riportando la conversazione su piano vocale ed udibile.

-Controllo il metallo.- Rispose il maggiore, quasi colto di sprovvista dal cambio repentino d’argomento e, probabilmente, anche un po’ dal sentire nuovamente la voce del telepate giungergli in modo normale. Metallo? Gli arrivò poi come domanda mentale. Non fu necessario che formulasse una risposta, perché subito gli si affollarono nella mente mille e mille ricordi dell’utilizzo del suo potere. Charles rimase accigliato e si decise una volta per tutte ad osservarlo meglio, soffermandosi sulla museruola. E questa a cosa serve, allora? Domandò istintivamente, quasi senza volerlo, e trattenendo il respiro quando Erik si voltò dall’altra parte. Lo aveva per caso offeso? Non aveva avuto nessuna intenzione di offenderlo. –Diciamo che ho cercato un paio di volte di mordere Mattew…- Rispose invece dopo poco il mutante ed il telepate il tutto sembrò immediatamente dannatamente divertente. E, davvero, non avrebbe voluto scoppiare di nuovo a ridere, ma non ne poté fare a meno in alcun modo. Erik lo guardò basito per un secondo buono –Che hai da ridere così?-

-Oh, signore, hai cercato di morderlo? Di morderlo?- Pianse quasi tra le risate il bambino, chinandosi su se stesso e lasciando ricadere i capelli mossi davanti agli occhi  –Ti dimostri capace di idee sempre più strane- Spiegò poi vedendolo imbronciato –Avrei voluto vederti morderlo! Oh, mio Dio, sarebbe stato esilarante… non lo conosco da molto, ma posso facilmente immaginarmelo mentre piange disperato correndo da una parte all’altra. Morderlo! Ma come ti è venuto in mente?- Poi si fermò di colpo, adocchiando sospettosamente la faccia di Erik alla ricerca di qualche cenno di offesa o rabbia. Grazie al cielo sembrava averla presa bene, come un complimento. Ma a lui, a dirla tutta, interessava di più un’altra cosa –Non riesci a toglierla?- Domandò quindi, curioso, indicandola.

-No.- Ammise il maggiore dei due, dopo un momento. –L’ingranaggio non è metallico. È legno. E se anche riuscissi a muovere la serratura non riuscirei ad aprirla se non dopo ore: bisogna vedere quando tutti e quattro gli spazi sono neri e sganciarla affianco. Peccato che la mia mutazione non mi abbia fatto avere due occhi in più anche dietro alla testa. In quel caso potrei liberarmene almeno fino a quando Mattew non richiederà la mia presenza.- Fece una smorfia.

-Ma io ne ho due di occhi che possono vedere dietro la tua testa e ho due mani per sganciare la serratura!- Intervenne subito Charles, azzardandosi finalmente a lasciar andare la lima metallica, facendola cadere sul materasso, arrampicandosi poi sulla branda senza aspettare una risposta affermativa da parte dell’altro. Poteva facilmente sentire la confusione e l’indecisione nella sua testa e non aveva intenzione di perdere tempo attendendo che si schiarisse le idee: parlare con una persona mascherata a quel modo gli tornava inquietante ed, inoltre, non gli sarebbe per nulla dispiaciuto poterlo vedere in viso. Si posizionò alle spalle di Erik e, prima che lui potesse voltarsi per protestare in qualche modo, impiegò le proprie piccole pallide dita da bambino girando le rotelle di legno, una alla volta, fino a quando il marchingegno non produsse un “click” secco. Sganciò quindi le due parti della serratura, con l’altro che se ne stava congelato nella sua posizione, e sfilò la museruola da dietro le orecchie del giovane, facendola ricadere sulle sue ginocchia sul davanti. Ci fu nuovamente un attimo di silenzio pesante. Poteva sentire chiaramente l’imbarazzo del maggiore per essersi fatto aiutare da un perfetto sconosciuto in una cosa del genere. Charles sorrise tra se e se e strisciò lontano dalla schiena altrui, tornando a sedersi al suo fianco, sul bordo del materasso. Troppo curioso per trattenersi, mentre Erik si stava massaggiando la mandibola, si sospinse in avanti e sbirciò il suo viso per intero. Era un giovane di bell’aspetto, constatò pensoso, ma si rovinava con l’espressione seria e le sopracciglia aggrottate. Una persona troppo distaccata dal resto del mondo, forse, ma che irradiava comunque il fascino giovanile dell’adolescenza. Ripensando a se stesso, minuto e bambinesco, si chiese se sarebbe mai diventato anche solo simile al metalbender. Lui, dal canto suo, si girò dopo qualche secondo e rimase ad osservarlo indeciso sul come esprimersi. –Prego.- Anticipò quindi Charles, facendo spallucce e cambiando subito discorso per risparmiargli il compito di ringraziarlo a parole. –Quanti anni hai? Più di dieci, vero?_ azzardò curioso, ottenendo un annuire deciso da parte dell’altro.

-Tredici compiuti da poco. E tu?- Rispose altrettanto interessato a conoscere qualcosa di più su quel ragazzino che si era appena intrufolato nella sua monotona vita alla villa liberandolo dalla museruola. Charles guardò altrove: tredici erano un bel numero in più dei suoi, sarebbe sicuramente sembrato un infante a quello che era evidentemente un adolescente a tutti gli effetti.Ne ho otto. Sussurrò mentalmente, sperando che per un qualche miracolo l’altro non afferrasse il numero. Purtroppo, invece, lo fece e, dopo trenta buoni secondi di silenzio nei quali il telepate fu costretto a sottoporsi all’ascolto dei suoi pensieri increduli, sul suo viso si aprì un sorriso appuntito tutt’altro che normale. –Oh, signore, ma sei un bambino!- Quasi gridò, ghignando. –Pensavo fossi solo basso, che avessi sui dieci anni. Ma otto… mio Dio, sei piccolo, eh?- Charles arrossì fino alla punta del naso. Cercò di nasconderlo abbassando il viso, ma la sua carnagione chiara non aiutò affatto, tradendolo, anzi, immediatamente.  –Sei tra i più piccoli qui, sai? Anzi, solo Anna è più piccola di te!- Sghignazzò effettivamente molto divertito dalla sua reazione. Guardalo, si nasconde! È proprio un bambino. Ed è pure uno timido, eh? Arrossisce per così poco. Se continuerà a reagire così finirà per essere sempre più divertente. Il tipo timido qui ancor non ce lo abbiamo. Aspetta, un telepate timido? La cosa non torna. Il più giovane, a modo suo indignato dai ragionamenti altrui, si ritirò su di un fianco, allontanandosi un poco dal maggiore. Lui, dal canto suo, non stava affatto ridendo come ci si sarebbe aspettati, solo ghignando, mostrando due file di denti bianchissimi dall’aspetto quasi animale. È un bambino interessante. Charles strinse la stoffa dei pantaloni tra le dita, arricciandola. Non sono un bambino. Ringhiò mentalmente, frustrato. –Oh, certo che lo sei.- Ribatté Erik alzando le spalle senza perdere il sorriso –Ma non devi prendertela così: essere piccoli, qui, ha i suoi vantaggi. Ti fanno lavorare meno, per esempio, e le donne si daranno alla pazza gioia quando sapranno che hai solo otto anni e sei appena arrivato, tutto solo. Vorranno coccolarti a non finire, ritieniti fortunato.-

-Signore, no.- Gemette il minore, orripilato anche solo all’idea di essere trattato come un pargolo dalla componente femminile della servitù della villa. Sarebbe stato a dir poco dilapidante.  –Non è colpa mia se ho solo otto anni. Ma ne compierò nove a febbraio! Manca poco più di un anno perché io ne abbia dieci. Non sono così piccolo!- L’altro gli batté una mano sulla spalla, come a volerlo consolare, senza smettere un attimo di ghignare.

-Benvenuto dai Bolsky, comunque. Vedrai che, quando Mattew non deciderà di renderti la vita un inferno, riuscirai a sentirti a tuo agio.- Charles cercò di sembrare entusiasta almeno un poco, ma nemmeno quella promessa riusciva minimamente a fargli dimenticare lo shock di essere stato donato a Mattew Bolsky come regalo di compleanno, come un oggetto qualsiasi. Gli era mancato solo il pacchetto per essere pronto da infilare sotto l’albero. Si era fidato nel profondo di Lord Grayson fin da quando aveva memoria. Lo aveva seguito ovunque e aveva letto per lui la mente degli altri, amici e rivali, facendo in modo che non facesse mai la scelta sbagliata. Eppure, quando Ivan Bolsky gli aveva detto che era passato da soli tre giorni il compleanno di suo figlio e che, in quanto suo nuovo socio in affari, sarebbe stato dovuto fargli almeno un regalo, aveva rinunciato a lui senza troppi rimpianti. Il bimbo russo lo aveva indicato ed aveva detto a gran voce di volerlo per se, nemmeno fosse stato un giocattolo in vetrina, e quello che da sempre era stato il suo padrone lo aveva con relativa indifferenza. –Su, dai, non fare quella faccia mogia.- Lo rimproverò Erik, non potendo sapere a cosa stesse pensando in quel momento, per poi soffermarsi ad osservarlo con occhio critico. –Hai freddo.- Non era una domanda, ma un’affermazione e, concentrandosi un attimo, Charles si rese conto di quanto avesse ragione. Rasentava i brividi e tremava leggermente. Si accigliò a sua volta, più stupito che altro, perché, davvero, sapeva quanto freddo ci fosse, ma non si era accorto per nulla di quanto lo stesse soffrendo sotto la sua sottile camicia e i pantaloni di lino spessi. La cosa preoccupante era il fatto che non fosse la prima volta che si dimenticava di tenere sotto controllo le proprie funzioni vitali, ma effettivamente sarebbe tornato complicato a chiunque concentrarsi su se stessi e ciò che si prova, quando la tua testa viene invasa dalle sensazioni di qualcun altro. Erik scosse la testa e si alzò dal letto con una spinta decisa del bacino. Era alto. Dio se era alto, quando lo si guardava da seduti come fece Charles in quel momento. Non ebbe comunque troppo tempo per stare a pensarci, visto che il maggiore gli tese una mano, col chiaro intento di farlo alzare. Il telepate, al contrario delle volte precedenti, non stette molto a pensarci ed accettò quasi immediatamente l’aiuto dell’altro mutante, tirandosi in piedi a sua volta. Lasciò la sua mano esattamente mentre il metalbender iniziò a pensare cosa fosse più giusto fare. –Ovviamente Mattew non ti ha fatto vedere il focolare di questo stabile. Bhè, ne abbiamo uno, perciò penso sarebbe una buona idea andare lì. Inoltre, Raven e Angel dovrebbero aver fatto il bucato questa mattina: con un po’ di fortuna troveremo qualcosa di giusto da metterti addosso.- Lo valutò per l’ennesima volta con lo sguardo color ghiaccio –Forse le camicie pesanti ti staranno un po’ larghe…- Constatò infine, facendolo sbuffare, e sorridendo divertito dall’alzata d’occhi del più piccolo.

La porta si aprì da sola non appena Erik si voltò verso di essa e si richiuse giusto giusto dietro la schiena di Charles. Probabilmente quel gesto non avrebbe mai smesso di inquietarlo, ma, perlomeno, non c’erano altre lime nascoste in giro che il mutante avesse intenzione di utilizzare contro di lui. Un ragazzino li salutò, portando in spalla un sacco di juta stracolmo di pezze di tessuti variopinti, e lanciò al telepate uno sguardo incuriosito. In un modo o nell’altro, si disse il ragazzino, se la sarebbe dovuto cavare. Certo, era un luogo nuovo, abitato da gente nuova e strana, ma era per quello che era nato, no? Dopotutto la mutazione serviva per adattarsi, per sopravvivere al nuovo, al diverso. Se lo ripeté per tutta la camminata e, finalmente con le mani davanti alle fiamme di un vero falò, decise che sarebbe riuscito ad andare avanti.













Angolo dell'Autrice: 
Salve a tutti!

Ho rieditato tutto questo capitolo ed ora dovrebbe essere di molto più comprensibile, considerato che non è in grossetto.
Specifico: amo la preslash e le fic con l'ageReverse, perciò questo è il mio tipo di fic ideale. Questo non fa di certo in modo che sia anche il vosto, perciò comunicatemi pure qualsiasi errore, scorrettezza, frase insensata, stranezza...

grazie ed arrivederci,
Eva













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Capitolo 2
*** Corvo ***



















CAPITOLO SECONDO: CORVO




 
 
 
 
 
 
 
Quando il sole sorse, solo gli animali nelle stalle sembrarono rendersene conto. I cavalli nitrirono ed uno dei galli, l’unico libero di uscire nel cortile innevato, cantò stonato sullo steccato di legno. La servitù di villa Bolsky iniziò ad alzarsi poco a poco ed a adempire ai propri doveri, spostandosi dal casolare alla casa patronale, dal lago ai cortile, dalle stalle ai magazzini. Coi movimenti e i primi rumori arrivarono anche i pensieri. Per quanto intontiti e confusi, affluirono senza alcun timore alla mente di Charles che, sdraiato sulla sua branda sfatta, mugugnò infastidito, rigirandosi su di un fianco. Ricevere le proiezioni oniriche incoscienti di tutta quella gente era stato faticoso: non c’era niente di impegnativo in ciò che non era intenzionale. Quando si passava ai pensieri, tanti pensieri coscienti provenienti da un numero considerevole di persone,  diventava tutto di colpo terribilmente complicato. L’onda di ragionamenti si abbatté all’interno della sua calotta cranica con prepotenza. Ci mise un attimo a realizzare perché ci fossero così tante menti attive vicino alla sua tanto presto: non era più a casa sua. O comunque quella che aveva sempre considerato tale. In Inghilterra, nella magione dei Grayson, dormiva in una stanza discreta ma accogliente al primo piano,  in quanto paggio del capofamiglia, e i domestici al piano di sotto erano al massimo una dozzina.
 
In quel momento invece, arrotolato nel lenzuolo di lana ruvida della branda metallica, le menti che toccavano la sua erano più di quaranta ed erano mostruosamente vicine. I muri sottili non attutivano per niente le loro “voci”. Il fastidio era una sensazione ronzante e a Charles sembrò che uno sciame d’api avesse appena deciso d’api avesse appena deciso di scavare il proprio nido nella sua testa. Non prometteva nulla di buono.
 
-Ma come ancora a letto, piccolo?- Rise fintamente stupita una voce, per i suoi gusti, troppo attiva nel suo accento tedesco. Il telepate gemette infastidito e si strinse nella coperta. Erik rise di gusto –Me lo sarei dovuto immaginare. Dopotutto i bambini hanno bisogno di dormire a lungo, no?- Lo punzecchiò avanzando di un passo nella stanza. Charles grugnì irritato dalla presa in giro e decise di prendere il fastidio come segnale di doversi alzare, almeno per non farsi canzonare dal mutante. Con una fatica immane si voltò sul materasso fino a dare il viso alla porta e si tirò a sedere di colpo, puntellandosi con le mani ai lati del bacino. Sono sveglio. Ringhiò lanciando l’occhiata più nera della quale fosse capace al maggiore. E non sono un bambino. Erik rise ancora e si appoggiò allo stipite della porta. –Sul fatto che tu sia sveglio ha i miei dubbi, ma con il tuo attuale spetto potresti persino convincermi di non essere un bambino.- Il più piccolo sbirciò a fondo nella sua mente per poter vedere con gli occhi dell’altro: la sua stessa figura, scarsamente illuminata dalla luce che entrava dalla porta, era piccola e storta, con le gambe ancora sotto le lenzuola ed i capelli mossi sparati in tutte le direzioni in un nido scomposto che in penombra sembrava quasi nero. Il viso, grazie a Dio, era in ombra, ma era piuttosto conscio di avere una smorfia non indifferente e, probabilmente, due belle occhiaie. Mugugnò il suo disappunto e si lasciò ricadere di peso sulla branda. Un’altra risata scrosciò dall’ingresso, ma lui non si disturbò nemmeno ad alzare gli occhi, chiudendoli, invece, e tentando con tutto se stesso di farsi inglobare dal materasso –Su, riprenditi, fra dieci minuti c’è l colazione per noi e fra quaranta la villa dovrà essere pronta per accogliere i signori appena svegli. Datti una pettinata e vieni dove ieri sera c’era il falò.- Spiegò salutando con un cenno della testa e uscendo dalla stanza. Il silenzio lasciò a Charles il tempo di ascoltare con più attenzione i pensieri sempre più attivi della servitù e di rendersi nuovamente e di quanto, senza coperte, fosse freddo. Si tirò nuovamente a sedere e tastò sotto il cuscino fino a trovare la camicia di lana che gli era stata data la sera prima. Se la infilò in tutta fretta e si legò al collo il fazzoletto di cotone. Calzò le scarpe e si costrinse ad andare alla pota, cercando in qualche modo di appiattire i capelli sulla testa senza avere a disposizione uno specchio. Uscito dalla stanza, fu investito da una folata di vento freddo. Si guardò attorno e individuò i due portoni, alle estremità del corridoio, aperti del tutto. Dalle due ante entrava persino un po’ di neve in fiocchi grassi quanto il suo naso. Si trattenne a stento dall’urlare esasperato. Perché diavolo lasciare le porte aperte con quel freddo? 
 
Era ufficiale: odiava la Russia.
 
Quando fece il suo ingresso nella sala comune, tremante ma nettamente più sveglio, non ebbe bisogno di cercare l’altro mutante, né con gli occhi, né con la mente, perché la suo odiosa risata era ben udibile fin dalla porta. Charles seguì il suono senza troppi problemi, fino ad avvicinarsi al tavolo nel quale il Metalbender stava mangiando. A quel punto si fermò incerto: cosa avrebbe dovuto fare? Non poteva di certo intromettersi come se nulla fosse in un gruppo di sconosciuti. Posso sedermi qui con voi? Chiese quindi titubante l ragazzo, sfiorando appena i suoi pensieri. L’altro sobbalzò sulla panca e si voltò verso di lui annuendo –Sì, sì, vieni pure- Gli fece spazio a sedere, tra lo stupore collettivo dei suoi compagni: come aveva fatto ad accorgersi dell’arrivo di qualcuno quando nemmeno uno di loro ci aveva fatto caso? Il telepate andò a sedersi accanto a lui a testa bassa. Grazie. Sussurrò solo alla sua testa. Erik ghignò. Ah, oh, imbarazzato di nuovo? Allora avevo ragione: è un timido. Più di chiunque altro, eh? Charles alzò la testa verso di lui fulminandolo con lo sguardo. Il ragazzo di fianco a lui chiese chi fosse in un russo perfetto ed il maggiore sorrise prima  lui e poi al telepate –Lui è Charles. È uno nuovo, un mutante come noi, anche se è pic…- Non farlo! Gridò mentalmente il riccio, ma era troppo tardi. -… piccolo.- Ghignò divertito in faccia al minore. Ghigno che perse non appena Charles decise di giocare sporco a sua volta, proiettandogli nella mente i ricordi del giorno prima, il suo comportamento, l’aiuto che gli aveva dato. –Ma è anche piuttosto infido.- Aggiunse dandogli una pacca sulla spalla e tornando a voltarsi verso il tavolo.
 
-Salve.- Salutò il telepate, il più educatamente possibile, alzando timidamente la testa. Praticamente tutti i ragazzini presenti stavano pensando a che domande fargli e, grazie al cielo, nessuno si stava dimostrando troppo sospettoso nei suoi confronti. Alcuni li aveva incontrati anche la sera precedente davanti al falò, ma né lui né loro avevano trovato le energie per porsi domande. Lo osservarono curiosi, salutando a loro volta, poi iniziando a decidersi su cosa domandargli.
 
-Quale è il tuo potere?- Domandò una ragazza dai fluenti capelli biondi seduta davanti a lui. Piuttosto ovvia come domanda, prevedibile che qualcuno la ponesse tra le prime, considerando che l’avevano mentalmente formulata tutti. Optò per una risposta ugualmente diretta, la quale non ammettesse repliche.  Telepatia. Comunicò a tutti i mutanti contemporaneamente, in modo da dimostrare loro quanto non mentisse. La comunicazione mentale fece sussultare i più, lasciandoli basiti. Evidentemente nessuno di loro aveva mai avuto a che fare con un potere di tipo psicotrasmittivo. Un’esplosione di meraviglia, stupore e curiosità si scontrò sulle sue tempie, dandogli un attimo buono di confusione. Niente di doloroso, però. Ma ciò che lo colpì fu un’ombra di fastidio nella mente della bionda. La osservò con la coda dell’occhio: era seria, al contrario degli altri, ma non guardava lui, concentrando invece il suo sguardo su Erik, accanto a lui. Un telepate, eh? Sarà felice ora. Ha sempre voluto averne uno a disposizione. Ha sempre mostrato interesse per i poteri di tipo psichico. Sarà al settimo cielo: un piccolo telepate da plasmare a proprio piacere. Devo ringraziare Dio che ne abbia mandato uno maschio, ci sarebbe mancato solo che se ne innamorasse. Già sarà innamorato del suo potere. Stupido Erik! Eppure devo calmarmi. Quel bambino è una manna dl cielo qui. È ciò di cui abbiamo bisogno e poi è così carino, così piccolo… Charles si costrinse a spostare la propria concentrazione sulla mente di qualcun altro, un po’ perché non voleva farsi gli affari altrui, un po’ perché aveva paura di sapere quali commenti la ragazzina potesse fare su di lui. Si mise a rispondere alle altre domande. Cosa poteva fare con la mente? Quante persone poteva sentire contemporaneamente? A quale distanza?
 
-Da dove vieni?- chiese quindi una ragazza dagli occhi scuri come la notte.
 
-Inghilterra. Vengo dall’Inghilterra, Londra.- Rispose lui a voce, avvertendo l’ombra nera sparire di colpo, sostituita da interesse ed euforia. Inghilterra? È inglese? Come me! Oh, Dio, qualcuno che potrà capire i miei riferimenti alla letteratura, a Shakespeare! Sempre che ne sappia qualcosa, dopotutto ha solo otto anni, io l’ho iniziato a leggere con Clarence a dieci. Charles rimase a bocca aperta. Tutto, infatti, si sarebbe aspettato, tranne di trovare un’altra inglese lì nelle campagne russe, tantomeno come lavoratrice mutante in una villa come quella. Una strana euforia lo prese: forse non era proprio finito tra gli sconosciuti, forse avrebbe ancora potuto parlare inglese con qualcuno.-Sì che lo conosco, Shakespeare. Ho letto Machbert, Riccardo III, Hamlet e Sogno di una notte di mezza estate.- Esclamò quindi in sua direzione, annuendo convinto. Gli occhi di lei parvero illuminarsi e luccicare quando udì i nomi dei drammi d’autore uscire dalla bocca del ragazzino. Lui sorrise a sua volta, divertito dall’espressione dell’altra e felice di essersi, evidentemente, appena guadagnato una nuova amicizia. Mi ha sentita parlare, pensare? Meraviglioso! Può sapere ciò che penso e può parlare inglese, il signore mi ha mandato un dono prezioso. Forse posso parlargli anche così, senza usare la voce. Chissà se posso raggiungerlo senza che sia lui ad iniziare la conversazione. Ehm, come inizio… Ciao. Cioè, ciao, Charles. Io sono Raven e sono una mutaforma che sta in questa villa da quasi due anni. É… È un piacere fare la tua conoscenza. Il telepate non smise di sorridere un attimo, ascoltando il suo tentativo, ed allungò la mano sopra il tavolo –Il piacere è mio, Raven.- Dichiarò allegro, sollevando altro stupore e meraviglia nella mente degli altri commensali. La giovane, in compenso, allungò a sua volta il braccio e gli strinse la mano. Erik ghignò soddisfatto: apparentemente, si rese conto Charles scansionando i suoi pensieri, due dei mutanti che considerava possibili alleati per il futuro stavano andando fin da subito piuttosto d’accordo.
 
Non comprese bene quali fossero per certo i suoi piani, ma di sicuro erano ambiziosi. Il telepate perse un attimo a domandarsi cosa lo avrebbe aspettato, lì alla villa dei Bolsky, poi venne riportato alla realtà dal Metalbender che, con la grazia tipica di un adolescente distratto seduto tra gli amici, gli pose davanti una ciotola di pane e acqua con due crocchette di cereali. Mangia che sei minuscolo. Gli sussurrò mentalmente il maggiore, suscitando nuovamente la sua irritazione per averlo etichettato per l’ennesima volta come un bambino piccolo. E non fare quella faccia, Charles, è inutile che insisti: sei ancora un bambino e devi crescere. Aggiunse incrociando le braccia al petto per dare più enfasi alla frase. Charles alzò gli occhi al cielo, esasperato e si attentò a tirare a se la ciotola e le crocchette. Prese uno dei due pezzi duri e lo osservò, curioso: non aveva mai mangiato qualcosa di simile, tantomeno accompagnata al latte. In Inghilterra era solito ciò che James Grayson e cioè un po’ di uova, a volte, o pane tostato e la mezza tazza di tè che veniva lasciata lì dal signore dopo averci intinto precisamente quattro biscotti di grano e burro. Erik, accanto a lui, lo osservava senza sosta con un sopracciglio alzato, non capendo cosa l’altro stesse aspettando. Charles portò la crocchetta alla bocca e la addentò. Era dura e secca, niente  che vedere con i biscotti inglesi, e non sapeva praticamente di nulla. Il maggiore si mise a ridere in silenzio, attirando la sua attenzione anche se, grazie al cielo, non quella degli altri ragazzi seduti attorno al tavolo. Che cosa c’è? Domandò lui seccato, alzando la testa e voltandosi verso il tredicenne. Erik continuò a singhiozzare sul posto per ancora qualche secondo. Mio Dio, l’ha morsa! Vuole davvero mangiarsela secca? Si romperà i denti. Pensò tra se e se, prima di decidersi a rispondere alla domanda mentale dell’altro in modo chiaro. Quelle crocchette non le devi sgranocchiare così. Spiegò indicando quella che Charles teneva ancora in mano, vanno messe nel latte: ce le tieni un poco e poi le mangi, come dei biscotti, quando sono diventa morbide e hanno preso il sapore del latte. Concluse quindi con un sorriso compiaciuto e ancora divertito dal comportamento del più piccolo. Lui, dal canto suo, arrossì fino alle orecchie e distolse lo sguardo, inzuppando direttamente l’agglomerato di cerali nel latte biancastro della tazza e concentrandosi con tutto se stesso affinché la sua mente potesse sembrare interessata alle onde sottili che, col movimento della mano, stava provocando sulla superficie del liquido.
 
-Non ho mai mangiato queste cose.-  Spiegò imbarazzato, rimestando la tazza con quella strana sottospecie di creker ricoperto di semini. Non era una scusa, era la pura e semplice verità, ed Erik, in qualche modo dovette capirlo, perché si avvicinò a lui con la propria tazza e la determinazione silenziosa di chi vuole insegnare o dimostrare qualcosa. Prese l’altra crocchetta, quella che il ragazzino non aveva ancora nemmeno toccato, e ne staccò un pezzetto, intingendolo nei rimasugli del proprio latte. Mosse il tocco un paio di volte su e giù e gli fece fare qualche giro del recipiente, prima di estrarlo e staccarne un morso. Charles lo osservò senza fiatare, quasi divertito della serietà con la quale l’altro stava prendendo la cosa, quindi lo imitò, staccando con un morso netto metà della propria crocchetta ed ingollandola quasi subito. Era diventata molliccia e sapeva di latte, più che di proprio. Il telepate osservò per un attimo ciò che gli era rimasto in mano, indeciso se quella colazione gli piacesse o meno,  nella sua semplicità. Alla fine scelse di fare a meno di una risposta vera e propria e si accontentò di bagnare anche l’altra metà e mangiarsela in due morsi veloci.
 
Terminarono la colazione in una decina di minuti con Charles che seguiva con la massima attenzione  tutto ciò che gli altri dicevano. Voleva capirli, dopotutto, capirli tutti, anche se in particolare la ragazza dai capelli biondi e il suo vicino di stanza. Seguì la massa fino nel cortile, dove due o tre gruppetti di persone di età differenti si stavano affollando nella neve. Appena uscito venne investito da un’ondata di freddo che sembrò perforargli la pelle e penetrare fino al midollo della ossa. Tremò sul posto e si strofinò le mani sulle braccia per cercare di riscaldarle con la frizione. Anche le dita dei piedi e la punta del naso si stavano velocemente congelando. Grazie al cielo non c’era vento, o sarebbe diventato una statua di ghiaccio seduta stante. Perché, per grazia divina, in Russia doveva esserci tutto quel freddo? Il telepate rimpianse, per quella che fu forse la centomillesima volta i suoi otto anni passati in Inghilterra, fra pioggia costante e nebbia mattutina. La neva, ne era sicuro, era la punizione divina per non aver mai espresso il proprio giudizio, forse, o per essere rimasto così passivo davanti agli eventi o per via dell’essersi impicciato troppo degli affari altrui. Non erano cose che gli piacesse fare, ma era il suo carattere, il suo potere, la sua mutazione.
 
Come se non bastasse, la coltre bianca a terra gli entrava nelle scarpe e nei pantaloni, gelandogli le gambe. Imprecò sottovoce e maledisse mentalmente tutti i presenti che, immobili come manichini, sembravano davvero non soffrire per niente il freddo. Possibile che la forza dell’abitudine li avesse resi immuni alla bassa temperatura? Oppure erano semplici robot incapaci di soffrire. Oppure, si disse Charles, la loro mutazione, nel tempo,  aveva fatto in modo di farli sentire a loro agio comunque. Era un vero peccato che la sua non stesse facendo altrettanto.
 
Una donna sulla cinquantina uscì sul portico della villa. Indossava abiti da cameriera, ma aveva capelli ben acconciati, un sottile filo di pietre dure al collo e un giaccone dall’aspetto piuttosto caldo a coprirle le spalle. Il che era piuttosto stano, ma Charles ci fece caso appena, concentrandosi piuttosto sul suo sguardo scuro che vagava su di loro severo e non ebbe bisogno di desiderarlo, per venire a sapere cosa le passasse per la testa. Mi stupisco ogni giorno di quanti sono. Almeno sono silenziosi oggi. Buona cosa, che se ne stiano in silenzio. Non ho voglia di perdere tempo cercando di dire loro cosa fare mentre non mi ascoltano. Come l’atro giorno. Odio perdere tempo! Già mi devo svegliare presto, troppo presto. Ci mancherebbe solo che io debba rimanere qui fuori al freddo troppo a lungo. Non sono cose per me, sono cose per loro! Per quei dementi ed i mutanti. Io mi merito di stare dentro, al caldo, magari con il signor Ivan, se non sarà occupato con un contratto… E lì Charles cercò in tutti i modi di concentrasi sui pensieri dei due ragazzi dietro di se perché, in tutta franchezza, le immagini di corpi nudi che affollavano la mente della donna non le voleva vedere per niente.
 
Fece una smorfia, percependo comunque l’eco di quei pensieri e, quando voltandosi vide l’espressione interrogativa che Raven gli stava rivolgendo, azzardò una scrollata di spalle. La donna sulle scale del portico sta facendo… cercò il modo giusto di esprimere la cosa, ma decise che qualsiasi parola avrebbe usato non sarebbe stata adatta. Stava facendo dei… pensieri, sul Signor Bolsky. Pensieri, ecco, non proprio consoni ai quali assistere per me e, bhè, credo anche chiunque altro. la giovane rimase a bocca aperta per un attimo, realizzando cosa le stesse venendo detto, poi si lasciò andare a su volta in una smorfia. Spintonando altre due giovani donne, al bionda lo raggiunse in qualche secondo, mettendogli una mano sulla spalla e mandandogli subito proiezioni mentalmente di qualsiasi cosa le venisse in mente. O, meglio, pensò un po’ a tutto nella speranza che lui leggesse ciò che aveva in testa e venisse preso da quello, piuttosto che dalle immagini della governante e del padrone di casa in atteggiamenti fisici, cose che un bambino non avrebbe dovuto vedere. Non così piccolo, perlomeno.
 
Che ne dici, un po’ meglio? Domandò con un sorriso e Charles annuì sollevato. Stava funzionando: i pensieri di Raven, anche se casuali e confusi, gli stavano invadendo la mente a ripetizione, tenendolo impegnato e ben lontano di sentire quelli dell’altra donna. Straordinario! Mi stanno arrivando le tue sensazioni e le tue impressioni ad ogni mio ricordo! Trillò la mutante, pensando subito ad altro, all’Inghilterra, all’orfanatrofio nel quale era stata allevata fin da piccola. Charles non poté fare a meno di considerare ciò che lei stava facendo e di complimentarsene mentalmente. Dopotutto quella giovane era sveglia, intelligente, svelta di comprendonio.  Hai già capito come funziona il mio potere. È fantastico. Lo hai capito subito, tu. Sei la prima, sai?  Nessuno lo capisce così in fretta, di solito. Dichiarò timidamente, ma evidentemente felice per quel suo risultato. Erik, per esempio, ci ha messo un po’ a capirci qualcosa. Ancora adesso, dopo un giorno che gli parlo in questo modo, non capisce quando lo sento o meno. Lei scoppiò a ridere silenziosamente. Poi un colpo di tosse palesemente finto attirò al loro attenzione.
 
-I vostri ruoli per questa settimana, rimarranno invariati. Alissa e Yackte sono state richieste in cucina. Richard, Mall e Kate, il signor Blosky ha bisogno di voi, a quanto pare: fra cinque minuti nel suo alloggio al primo piano.-  Le persone chiamate per nome annuirono freddamente,  ma pensarono praticamente soltanto a che insulti  indirizzare al loro padrone ed alla donna impettita sugli scalini del portico., con le mani nelle tasche del cappotto nero e gli occhi contratti per il freddo, o, forse, per il sonno. –Millyedore e Charles…- Si fermò un attimo a controllare di aver letto bene il nome sul foglio, probabilmente perché nessuno l’aveva avvertita del nuovo arrivo. –Devono presentarsi al Signorino Mattew, al terzo piano. Ora andate!- Concluse, alzando le spalle e voltandosi per ripercorrere i propri passi per tornarsene dentro.
 
Charles rimase paralizzato. Che cosa voleva da lui Mattew nel suo primo giorno di lavoro lì alla villa? Che volesse finire di vantarsi, visto che il giorno prima non c’era del tutto riuscito? Forse si stava preoccupando per niente. Eppure non era l’unico che si era allarmato alla notizia. Raven, per esempio, accanto a lui, aveva la fronte aggrottata a formare due piccole rughette appena sopra l’attaccatura del naso e, dalla sua mente, il telepate poté accorgersi anche dell’arrivo del Metalbender. Si girò e lo vide farsi strada tra la servitù intenta a dirigersi alle proprie postazioni di lavoro.
 
-Fai attenzione a ciò che ti chiederà Mattew. È un bambino capriccioso ed egoista, potrebbe domandarti di fare qualsiasi cosa. Per quanto ti è possibile, accontentalo, se non vuoi che ti punisca.- Lo avvisò il tedesco. Aveva la mandibola contratta e, anche senza leggergli il pensiero, Charles capì che era preoccupato. In una qualche parte del suo cuore si accese qualcosa di luminoso e pulsante. Perché era forse la prima volta che qualcuno si preoccupava per lui in quel modo, senza conoscerlo quasi per niente, senza avere legami di alcun tipo con lui. Per un bambino come il telepate, un bimbo di otto anni senza famiglia che è appena stato abbandonato dal proprio padrone in una tundra innevata, gentilezze simili sono rare quanto l’oro in Inghilterra. Si limitò ad annuire ad Erik, tentando di mantenere sul viso la sua espressione più sicura, quindi salutò Raven e salì sul portico. Una ragazza coi lunghi capelli neri lo seguì con lo sguardo e rimase immobile davanti alla porta fino a quando lui non le arrivo ad un metro appena di distanza. A quel punto si presentò come Millyedore, l’altra persona chiamata a rapporto dal giovane padrone di casa. Charles le sorrise, sondando discretamente la sua mente. Pur sorridendo, era scontenta del suo compito di quella giornata ed era scontenta di doverlo portare a termine assieme al ragazzino nuovo piuttosto che con una qualche sua amica. Nemmeno lei aveva idea di cosa Mattew volesse da loro due, ma i suoi ricordi rivelarono al telepate che chiamate simili, da parte dell’erede dei Bolsky, avvenivano spesso, quasi quotidianamente e che, solitamente, le sue richieste trattavano di intrattenimento.  Charles sperò che non gli facesse fare nulla di troppo strano o troppo faticoso a livello fisico e mentale. Odiava le sorprese, dopotutto, e anche Millyedore sembrava nutrire la stessa antipatia per le cose improvvise, compreso il suo arrivo.
 
Salendo le scale fino al terzo piano della villa, il bambino si prese un po’ di tempo per osservare la sua compagna. Era nettamente più grande di lui, sui sedici anni forse. Non se ne stupì troppo, visto che Erik gli aveva anticipato il fatto che solo una bambina del gruppo dei Mutanti fosse più piccola di lui. Quella che aveva accanto a lui, invece, era praticamente una donna, coi capelli lucidi e lisci lunghi quasi fino a metà della schiena e lunghe ciglia scure ad incorniciarle gli occhi. Aveva curve tonde e precise, piatte sul ventre e generose sul petto. Era bella, anche lei, in un modo totalmente diverso da quello di Raven, ma comunque considerevole.  Non ne aveva ancora viste, a dirla tutta, di ragazze brutte tra le Mutanti della servitù. Non che fosse particolarmente interessato a cose simili, comunque.
 
Giunsero davanti alla porta degli alloggi di Mattew abbastanza in fretta.  Charles se ne rese conto principalmente perché la sua mente venne investita da quella iperattiva e fastidiosa dell’altro ragazzino. A bussare ci pensò Millyedore, con due colpi decisi e delicati al tempo stesso dati contro la porta. Era elegante, constatò il più piccolo, ma non aveva un’eleganza da salotto e nelle sue azioni non c’era niente di coinvolgente.  Non per un bambino di otto anni, perlomeno. Quando tornò a concentrarsi sull’uscio, lo vide aprirsi lentamente.
 
-Entrate! Su, entrate!- Ordinò la voce conosciuta di Mattew  -Venite dentro e sedetevi.- Continuò poi, mettendosi comodo sul suo divano ed indicando davanti a se. Charles seguì la direzione del suo dito alzato in aria ed individuò due sedie di vecchio e freddo legno. Dovette di nuovo impegnarsi per trattenere una risata amara: nella stanza erano in bella vista quattro comode poltrone, per non parlare dei due posti liberi sul sofà, ma quel piccolo sadico del Signorino li faceva sedere sulle sedie scartate da quelle scelte per gli alloggi della servitù del Bolsky. La cosa aveva del comico e, indiscutibilmente, del raccapricciante. Come era possibile volere così tanto risultare odioso davanti a chi poi avrebbe dovuto prepararti la cena? Il bambino proprio non capiva il senso di azioni simili, trovava molto più ragionevole il comportamento dei Grayson, i quali bistrattavano il meno possibile i domestici, in modo da guadagnarsi poi la loro fedeltà. Mattew invece sorrise, quando li vide sedersi su quelle seggiole scricchiolanti, e si allungò a prendere da una ciotola sul comodino accanto a lui uno cioccolatino, scartandolo e mettendoselo in bocca con gusto. Ovviamente a loro non offrì niente e non aveva nessuna intenzione di farlo più tardi. Charles si guardò attorno. Quello nel quale erano era soltanto uno dei salotti che componevano gli appartamenti del russo, eppure lo riempivano tanti oggetti che il telepate non si sarebbe nemmeno mai sognato di possedere in una vita intera. Tutto era straordinariamente ampio, compreso lo spazio vuoto al centro della stanza. Ampio ed inutile, si disse il bambino, reprimendo una smorfia. Millyedore, seduta sulla sedia di sinistra, sorrise al padrone di casa che le rispose allegro, battendo poi le mani assieme davanti al viso. Le porte vennero chiuse da una cameriera piuttosto anziana e i tre rimasero soli nella sala. –Bene, Millyedore, voglio che tu balli per me. Qualcosa di lento e silenzioso; ho mal di testa.-  Bugiardo! Pensò Charles sfiorandogli appena la mente. Mattew si voltò verso di lui, confuso, incapace di riconoscere quel sussurro come una comunicazione mentale. Il telepate finse di seguire le movenze della ragazza, la quale si alzò senza una parola e si mise a danzare al centro del tappeto, ed alla fine il nobile si convinse di essersi inventato quell’unica parola o che fosse stata la propria coscienza a rimproverarlo, per una volta. –Tu, Charles, dovrai farmi vedere come funziona il tuo potere.- Dichiarò scrollando le spalle  -Mio padre ha detto che devo imparare cosa potete fare, per controllarvi.-
 
Come già sapete, Signorino Mattew, sono un telepate. Rispose lui mantenendo sul viso la sua espressione più disponibile ed obbediente. Perciò possiamo dire che utilizzo la Telepatia: parlo nella mente degli altri e la leggo, se necessario. Pensieri, soprattutto, ma anche sogni la notte e qualche ricordo, se l’interessato lo porta a galla. Concluse ignorando il salto che il padroncino di casa fece sul divano e l’espressione basita che gli rivolse, presto trasformata in un ghigno. Lo sapevo che facevo bene a farmelo regalare! Ha un potere interessante ed ora è mio e posso usarlo per fare quello che mi pare. Posso fargli leggere nella mente delle cameriere o di mio padre e posso farli passare messaggi. Tutto quello che voglio sapere ora lo saprò. Forte! Questo nuovo Mutante è interessante ed è anche piccolo: non avrò problemi a controllarlo, eh. Chissà se è intelligente, se sa scrivere e se può farmi i compiti. Odio quei precettori: me ne danno troppi. Se li potrà fare lui, sarà tutto molto più divertente! Questa volta la smorfia Charles la fece, approfittando del fatto che l’attenzione di Mattew fosse interamente posta sul secondo cioccolatino che si stava rigirando tra le dita.
 
-Sai leggere?- Chiese di colpo il bambino russo, alzando lo sguardo su di lui. Charles annuì, sapendo di avere addosso anche l’attenzione di Millyedore, anche se lei non aveva smesso un attimo di ballare. Il nobile parve soddisfatto. –E scrivere?- Il telepate annuì ancora. Mattew si accigliò: non gli credeva. E perché mai avrebbe dovuto, dopotutto? Solitamente la servitù non era particolarmente istruita e di certo non lo era all’età di otto anni. –Mostrami…-  Ordinò allungandogli uno dei fogli da lettera posti sul comodino e la stilografica sopra di essi. Il piccolo non se lo fece ripetere, ricordando le parole di Erik su quanto gli convenisse accontentare il giovane padrone in tutto. Prese quindi subito la penna ed iniziò a scrivere sul foglio il proprio nome nella sua calligrafia minuta ed ordinata, un corsivo preciso, inclinato leggermente verso destra. Si fermò dopo nome, età e provenienza e lanciò uno sguardo veloce a Mattew, il quale annuì tra se e se e partì a porgli altre domande. –Sai fare i calcoli?- Chiese interessato  –E analizzare le poesie?- Charles si mosse agitato sulla sedia.
 
-Per i calcoli semplici non dovrebbero esserci problemi. Per l’aritmetica, intendo.- Rispose un po’ agitato da quelle richieste continue. Di quel passo avrebbe dovuto passare gli anni successivi a compilare quaderni e libri al posto del Signorino.  –In quanto alle poesie, non saprei.- Ammise sincero, dopotutto era piuttosto piccolo ancora ed aveva imparato il russo solo tre mesi prima. Sulla faccia di Mattew comparve una smorfia scontenta e schioccò la lingua sul palato. Era scocciato dalla scoperta e già aveva iniziato ad irritarsi per la presenza del Mutante che, in tutta la sua innocenza, aveva infranto le sue aspettative. Lui poteva capirlo facilmente, dai pensieri che vagavano nella stanza. –Nel senso che avrò bisogno di un po’ di tempo!- Aggiunse quindi allarmato, cercando di spiegarsi in un qualche modo. –Un mesetto, forse, per apprendere qualcosa di più sulla sua lingua: non conosco ancora le forme classiche del russo, perciò rischierei di sbagliare degli esercizi.-  Gli occhi del padrone di casa si rischiararono e la ballerina riprese a muoversi con più tranquillità, per quanto nessuno degli altri due avesse notato il suo tendersi ed osservarli con attenzione.
 
-Un mese, eh? Bhè, per un mese credo di poter aspettare, ma non di più.- Ragionò ad alta voce in quella che voleva essere chiaramente una minaccia  -Dovrai studiare.- Continuò senza notare la bella ragazza alzare gli occhi al cielo per la constatazione ovvia. –Dirò al bibliotecario di lasciarti pure prendere i libri dei quali avrai bisogno.-  Si stava già immaginando tutti i compiti che non avrebbe più dovuto fare da quel momento in poi. Charles, invece, stava pensando alla quantità di regole grammaticali e stilistiche che avrebbe dovuto memorizzare in un mese. Grazie al cielo era uno studente dall’apprendimento veloce, altrimenti sarebbe finita molto male, quella storia della poesia. –Da oggi tu sarai addetto al mio studio. Né mio padre, né i precettori dovranno saperne nulla. Se ti dovessero chiedere che ruolo ti ho affidato, dovrai dire loro che sei uno dei miei animaletti da compagnia.- Il telepate sentì un brivido percorrergli tutto il corpo. Quella definizione non gli piaceva affatto.  –Non ho ancora deciso il tuo nome, in effetti, ma ne troverò uno molto presto.- E dicendo così congedò il ragazzino. Charles fu solo felice di andarsene. Si inchinò brevemente e uscì dalla stanza in silenzio, lanciando un ultimo sguardo a Millyedore che danzava sinuosa davanti al caminetto. Mattew non gli rivolse nemmeno uno sguardo, tanto era preso dallo spettacolo. Quando si richiuse la porta alle spalle, il piccolo telepate si fermò contro il muro e si prese un attimo per se, abbandonando la schiena alla solidità della parete e ripensando a quella storia dei nomi. Si ricordò di Erik e di come glielo avesse presentato il russo il giorno prima: il suo “cane”, aveva detto. Che fossero di quel tipo i nomi che dava? Animali? O oggetti, forse? Un altro brivido si fece strada sulla pelle del bambino. Sarebbe stato additato anche lui da quello scarto di essere umano con un qualche nomignolo sminuente. Lo aveva fatto con tutti, quindi? Con Raven, con Millyedore e con la piccola mutante bambina? Quel posto gli piaceva sempre meno. Scosse la testa tra se e se e si decise a scendere le scale ed uscire sul portico. Era deserto, a quel punto, e scoprì con stupore dai ragionamenti di una domestica nell’ingresso che era passata un’ora dalla riunione della servitù. Si chiese dove fossero gli altri giovani Mutanti: la governante aveva detto solo  di continuare coi loro compiti, ma non aveva specificato quali fossero. Perciò Charles decise di tirare a caso e si diresse come prima tappa agli alloggi dei servitori. Dopotutto, se non ci si fosse recato e poi, alla fine, avesse scoperto che erano proprio lì dentro, sarebbe stato ridicolo. Percorse tutta la lunghezza del corridoio interno, gettando sguardi nelle porte aperte ed attraverso le tende scostate, ma non vi trovò nessuno con il quale avesse parlato di persona.
 
Passò quindi a controllare il cortile sul retro del casolare e le stalle lì accanto. Nemmeno in quei luoghi trovò ombra dei coetanei, se non per la presenza di un paio di ragazzini sui dieci anni, totalmente umani, a giudicare dal contenuto della loro testa, e fierissimi di esserlo. Apparentemente, si rese conto Charles, alla servitù umana Mattew non dava nomi strani. Per un attimo desiderò poterne fare a meno anche lui, essere umano, poi si ricordò quanto gli sarebbe tornato difficile vivere senza poter sentire la mente delle persone attorno a lui.
 
La tappa successiva, fortunatamente, si dimostrò essere quella giusta. Non appena il telepate mise piede nella serra, il più trasandato degli edifici che il giorno prima aveva attraversato nel tour, i pensieri dei presenti si fecero chiari nella sua testa e, tra tutti, riconobbe subito quelli dei due mutanti che stava cercando. In qualche secondo rintracciò la loro posizione tra i corridoi pieni di piante, quindi si diresse verso di loro, facendosi strada tra vasetti grandi come i suoi piedi e piante alte quanto lui. Il Signorino gli aveva detto che in quei locali erano accudite più di trecento specie di piante e che, per quanto all’esterno l’edificio apparisse sporco e consunto, all’interno un complicato (e costoso, aveva aggiunto) sistema di riscaldamento manteneva in ogni stanza la temperatura giusta per il tipo di piante in essa contenute. Aveva anche detto che la sua famiglia possedeva delle grandi piante carnivore e, per quanto leggendo i suoi ricordi presenti non ne avesse trovato traccia, non gli era parso che mentisse, perciò cercò di toccare foglie strane il meno possibile. Ciò lo rallentò un poco ma gli permise di arrivare incolume alla stanza dalla quale provenivano ormai chiare le voci dei suoi target. Entrò dalla porta bianca, ma dovesse tenersi allo stipite e bloccarsi di colpo per non inciampare. A soltanto un metro scarso di distanza dall’ingresso, infatti, c’era un lago. Rimase per un attimo ad osservarne una sponda, accigliato, prima di rialzare lo sguardo sul resto della pavimentazione. Laghi, si corresse col plurale quando si rese conto che a terra c’erano cinque grandi pozze melmose nelle quali si potevano facilmente vedere nuotare pesci neri, rossi e bianchi, alcuni dei quali sinceramente troppo grandi. Si accorse che il terreno era fittizio, torba probabilmente, e da quello si alzavano alte colonne di metallo e pietra. Charles ne seguì una con lo sguardo fino a vederla diramarsi in uno stretto ponticello sopraelevato che andava a collegarla con un’altra. Sui pilastri intravide anche una scala a pioli di legno, seminascosta dalla sua posizione. Probabilmente si usavano quei passaggi aerei per ovviare alla scomodità dei camminamenti a terra. Le strisce percorribili, infatti, erano strette e compresse tra le pozze, rendendo l’avanzare di una persona non particolarmente confortevole. Le voci dei due Mutanti provenivano dall’alto, su quello non c’era dubbio, ma dei ragazzi non vedeva traccia.  Il telepate girò una o due volte sul posto, quindi decise per una soluzione rapida. Erik! Erik, sono Charles. Dove siete? Sono qui nella stanza piena di stagni, ma non so dove siete e quindi quale scala prendere per raggiungervi, sempre che possa raggiungervi. Per un qualche secondo nella stanza regnò il più totale silenzio. Uno di quelli inquietanti, se hai accanto una pozza melmosa sciabordante. Poi da una delle colonne fece capolino una testa.
 
-Oh, eccoti!- Esclamò Erik ghignandogli e sporgendosi dalla balaustra. –Vieni su da questa scala.- Aggiunse indicando sotto di se  -Stiamo riparando l’impianto idraulico, perciò c’è un po’ di acqua in giro. Spero non ti dispiaccia bagnarti.- E detto ciò rimase a guardarlo. Charles, dal canto suo, stette il più attento possibile a dove stava mettendo i piedi e si accostò alla colonna, la aggirò per un quarto, si aggrappò saldamente alle corde laterali ed iniziò ad arrampicarsi su per la scaletta, gradino tondeggiante dopo gradino tondeggiante. Ogni volta che appoggiava i piedi li sentiva scivolare leggermente ed il che non aiutava la sua già precaria sicurezza. Inoltre l’altezza non gli piaceva. Non era proprio uno che soffrisse di vertigini, ma di certo non adorava nemmeno starsene sugli alberi o sui tetti, come invece sembravano fare molti bambini. Comunque neanche quello gli impedì di salire la scala fino in cima, più o meno a quattro metri d’altezza. A quel punto poggiò i palmi sulla pavimentazione dell’incavo che si apriva nella colonna, per aiutarsi a sollevare il proprio peso oltre lo scalino. Ma non ne ebbe mai tempo ne bisogno, poiché due mani gli calarono addosso, senza troppi complimenti lo strinsero sotto le braccia e lo alzarono oltre il dislivello ignorando totalmente le sue lamentele. Ferme e forti. –E non ti dimenare così!-  Lo sgridò Erik, vedendolo agitare braccia e gambe nel tentativo di liberarsi. –O finirai per cadere di sotto.- Charles, suo malgrado, smise di scalciare, ma non tolse le mani dalle braccia dell’altro, un po’ per protesta ed un po’ per paura di precipitare veramente. Il  metalbender lo teneva staccato da terra di una decina di centimetri, apparentemente senza nessuna fatica.
 
Lasciami. Sibilò stringendo di più le dita sulla sua camicia.  Puntò lo sguardo su Erik e tentò di far suonare quell’unica parola come un ordine. L’altro lo guardò prima accigliato, poi divertito, quindi scoppiò a ridere. Oh, no. No che non ti lascio. E cosa era quello? Voleva essere un ordine? Sembrava un ordine. Da quando dai pure ordini? Sei così piccolo eppure così velenoso, eh. Probabilmente mordi anche, oltre a tentare di dare ordini ai più grandi, o graffi. Ti ci vedo a graffiare. Sei troppo educato per mordere. Lo derise alzandolo ancora di qualche centimetro e sorridendogli in faccia. Lasciami!  Ringhiò, quella seconda volta, il telepate, scatenando ulteriori risate da parte del più grande. Ma guardati: sei feroce! Sei stato da Mattew, giusto? Te lo ha già dato un nome? Cosa sei, eh, un gatto? Oh! Io sono il cane e tu il gatto. Sarebbe esilarante… uno scricciolo? Sei così piccolino, ti mancano solo le ali. Continuò a scherzare, con Charles che si sentiva sempre più a disagio nella sua posizione inusuale e, dal suo punto di vista, ridicola. Mettimi giù o ti si stancheranno le mani e mi lascerai cadere di sotto e, purtroppo, non ho ali. Provò più ragionevole il piccolo, indignandosi poi quando Erik se lo immaginò davvero con le ali. Tranquillo, sei talmente leggero che potrei tenerti sollevato per un’ora senza che mi tremino le braccia. Sei leggero persino per essere un bambino.  Cos’è, non ti davano da mangiare i tuoi padroni in Inghilterra? Sei più minuto di alcune delle ragazze! Piccolo scricciolo, non è che sei una femmina? Scherzò assumendo una falsa aria incuriosita. Charles sentì il collo e le guance bruciargli per l’imbarazzo, non appena i pensieri del Mutante si arenarono nelle sue tempie. Scosse la testa con veemenza e lasciò che tutte le offese delle quali avesse memoria si riversassero fuori da quella, dritte alla mente del più grande dei due. Erik rimase a bocca aperta sul momento e, quando si riprese, scoppiò nuovamente a ridere.
 
-Oh, signore! Ne conosci di parole, eh, scricciolo? Non ho mai incontrato un esserino tanto innocente fuori e tanto grintoso dentro.- Ridacchiò divertito. Il telepate si agitò nella presa, stringendo ancora le dita, senza perdere per niente il rossore sulle guance. Oh, ti prego, mettimi giù! Lasciami. È così imbarazzante. Non ti basta prendermi in giro quando sono coi piedi per terra? Chiese mentalmente, abbassando lo sguardo, sempre più imbarazzato, con Erik che si compiaceva interiormente per averlo ridotto alle suppliche.
 
-Che gli stai facendo?-  La voce di Raven fece sussultare tutti e due, ma la stretta di Erik non vacillò nemmeno per un istante, non lasciandolo cadere di sotto. Per un attimo Charles si chiese se non fosse vera quella sua affermazione di prima, quella riguardo il poter resistere un’ora intera tenendolo sollevato. –Mettilo giù, poverino.- Sbuffò la bionda calandosi giù da una scaletta a pioli appesa all’interno della colonna, sopra la loro testa. –Ti diverti così tanto a torturarlo? Mettilo giù e falla finita. Guardalo: l’hai fatto arrossire, povero piccolo! Non ti stupire se poi non vorrà più avere nulla a che vedere con te.- Sgridò il maggiore, lasciandosi cadere agilmente ed atterrando accanto a loro. Il metalbender alzò gli occhi al cielo, sbuffò e lo rimise a terra, sfilando le mani da sotto le sue braccia. Raven prese subito il suo posto, poggiando la destra sulla spalla di Charles  –Quindi, come è andata da Mattew? Ti ha già dato uno dei suoi nomi di cattivo gusto? Che compiti ti ha affidato?-  Domandò la giovane sorridendogli incoraggiante.
 
-Nessun nome per adesso, ma mi ha dato accesso alla biblioteca della villa per studiare in modo che io possa svolgere al posto suo le consegne che gli danno da fare i precettori.- Rispose lui spostandosi da un piede all’altro per riprendere per bene l’equilibrio. Raven fischiò ammirata. Effettivamente gli era toccato un buon ruolo, ma, a giudicare dai ragionamenti di Erik, sarebbe stato solo l’inizio dei suoi lavori da svolgere nella villa dei Bolsky: Mattew avrebbe trovato un modo di servirsi anche della sua mutazione. Possibilmente uno imbarazzante e spiacevole in un qualche modo. Decise che non era il momento di pensarci, non subito, perlomeno. Si voltò invece verso gli altri due, guardandoli in faccia. –Allora, tu sei il “Cane”. Perché porti una museruola, di soluto. E la porti perché hai provato più volte a mordere il nostro adorabile padroncino.-  Azzardò, indicando il tedesco, il quale di tutta risposta ghignò soddisfatto della descrizione data alla sua spiacevole condizione. Così quasi mi fai piacere il nome.  –Ma tu? Non hai niente di strano in apparenza, no?-  Domandò quindi rivolgendosi alla ragazza. Lei fece una smorfia e portò la mano, che prima era sulla sua spalla, a torturare  una riccia ciocca bionda. Ci mise qualche secondo a rispondergli e, quando lo fece, la risposta titubante gli giunse mentalmente. Corvo. Quell’unica parola lo confuse, essendo stata detta in russo e non facendo parte della lista di vocaboli che era riuscito ad apprendere nei mesi precedenti. Fino a quando non fu proprio la giovane stessa a spiegargli cosa significasse. Raven: corvo. Corvo: raven. È la stessa parola in due lingue diverse. Per quanto suoni male, perlomeno è pur sempre il mio nome  e non un qualche nomignolo malvagio come Cane, Donnola o Ghiro. Charles annuì, totalmente d’accordo con quel suo pensiero. Si rammaricò persino di non avere già anche lui un nome inglese con significato animale, per non rischiare troppo con il battesimo di Mattew. Ad interrompere il lungo momento di apparente silenzio fu Erik, dando a lui una pacca sulle spalle ed alla bionda una stretta al braccio destro.
 
-Cooooomunque, ragazzi, l’impianto idraulico non si ripara da solo e, no, anche coi miei poteri senza di te e dei tuoi schemi non posso farcela, Raven.- Esclamò iniziando a spostarsi verso la scaletta a pioli e salendola velocemente, senza aspettare di vedere la ragazza seguirlo e salire dietro di lui per andarlo ad aiutare. Lei, dal canto suo, lo fece e fece anche cenno a Charles  di andare con loro. La salita proseguì per circa altri cinque metri e li portò in uno spazio angusto come quello nel quale si erano fermati a parlare precedentemente. Il telepate aveva il fiatone e gli girava la testa al semplice pensiero di quanto in alto ormai dovesse trovarsi. Una seconda pacca poderosa al centro della schiena lo costrinse a concentrarsi su ciò che stava accadendo accanto a lui.  –Eh, sì, ti ci vedrei davvero bene, con due belle ali piumate, caro il mio scricciolo!- Rise Erik, prima di scomparire alla vista su uno dei camminamenti aerei.
 
-Pensavo che non te lo avessero ancora dato il nome…- Ragionò confusa Raven, lì vicino. Charles grugnì mentalmente ed alzò gli occhi al cielo. Infatti. Rispose irritato. Non me ne hanno dato proprio nessuno.














Angolo dell'autrice:
Salve a tutti!
So che questo Fandom è poco frequentato e che, probabilmente, saranno in pochi quelli che decideranno di leggere una storia come la mia. Ma voi che l'avete letto e che state ora passando gli occhi quì sappiate che il fatto che venga apprezzata mi fa un piacere incredibile.

Charles deve iniziare ad ambientarsi nella villa dei Bolsky. Raven trova adorabile il piccolo inglese. Mattew è odioso come suo solito e Erik non riesce proprio a resistere alle novità.

Alla prossima,
Eva















 

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Capitolo 3
*** Topo ***














CAPITOLO TERZO: TOPO










-Bene. Ora sparisci.- Sputò velenoso Mattew indicando rabbiosamente la porta dei propri alloggi al piccolo mutante. Charles sobbalzò dal posto davanti a quello del signorino, nel quale era seduto e dal quale stava dando ripetizioni di letteratura al padrone. Alzò lo sguardo ed incontrò quello furioso ed indignato dell’altro ragazzino, ritraendosi di colpo per paura che il braccio ancora sollevato si muovesse e gli schiaffeggiasse la guancia. I pensieri del Bolsky erano, se possibile, ancora più malevoli e diretti della lingua, perciò il telepate deglutì e, annuendo veementemente un paio di volte, si affrettò a raccogliere dal tavolo di mogano i tre libri che aveva prelevato quella mattina dalla biblioteca e le sue carte. Si mise tutto sotto braccio e prese congedo, sgusciando velocemente fuori dalla porta e percorrendo quasi di corsa il corridoio. Scese le scale e fece la sua consueta deviazione alla sala di lettura, nella quale aveva impilato da ormai una settimana una decina di libri che riteneva piuttosto interessanti e che portava giornalmente al dormitorio, così che lui o, più spesso, Raven, potessero leggerli agli altri per passare la serata. Ovviamente era tutta narrativa, classici soprattutto. Poggiò sul banco che aveva scelto come proprio i testi da studio e raccolse il primo tomo che gli capitò in mano, ricoprendolo subito con la carta da lettere che aveva imparato a nascondere nel cassetto, in modo da farlo sembrare un anonimo grosso blocco, o quaderno.  Prese quest’ultimo con se e svicolò di nuovo giù per le scale della villa russa, lasciandosi alle spalle il quasi mezzo piano occupato dalla biblioteca di famiglia. Non ne aveva mai vista un’altra simile in vita sua, ma era sicuro che le sue dimensioni fossero notevoli almeno quanto la varietà dei libri in essa contenuti. Era un sogno ad occhi aperti, per uno come lui, ma passato il tempo dello studio intensivo in preparazione alle sue mansioni, aveva il permesso di fare visita alle sale centrali soltanto il Sabato e soltanto dopo aver chiesto il permesso al suo padrone, ovvero lo stesso che lo aveva appena malamente cacciato dal terzo piano per essere stato, a suo dire, umiliato davanti al proprio padre. Charles non aveva fatto proprio niente, di questo ne era totalmente sicuro, se non ubbidire agli ordini di Mattew, ma apparentemente il signorino voleva scaricare addosso a lui la colpa della sua punizione per il fatto che il padre lo avesse scoperto a farsi compilare i compiti da un servetto più piccolo di lui. Più che arrabbiato il signor Bolsky era sembrato divertito, ma questo il mutante non si era azzardato a dirlo.

La cameriera in fondo alle scale lo osservò stupita per un attimo, vedendolo scendere prima del solito, ma quando le passò davanti gli sorrise e lo salutò allegra. Buongiorno a lei, signorina Francisca. E annuì divertita dalla sua risposta mentale, prima di scuotere la testa e rimettersi a spazzare il parquet del salone, senza chiedergli nulla e senza sgridaro per essere passato dove, molto probabilmente, aveva appena finito di passare lo straccio. Il ragazzino si fece l’appunto mentale di scusarsi con lei quella sera ai dormitori, per quanto era abbastanza sicuro che la giovane donna non sarebbe mai andata a rinfacciargli niente.

Uscendo dalla porta principale attraversò il cortile e si diresse senza esitazioni alle serre, dove aveva ormai imparato a trovare quelli che considerava i suoi migliori amici, impegnati quasi ogni giorno nella manutenzione delle tubature e degli impianti di areazione. Sorpassò una decina di mutanti intenti a portare a termine le loro mansioni tra piante e fiori e li salutò uno per uno sfiorando la loro mente con un composto “salve”, senza rallentare ed, anzi, mettendosi praticamente a correre non appena fu in una zona un poco più spaziosa di quella principale all’ingresso. Espanse i limiti del proprio potere psichico, carezzando la coscienza di tutti i presenti nei locali alla ricerca di Erik e Raven. Ventisette anime: diciotto umani, nove mutanti, quindici uomini, dodici donne, tre anziani, sei bambini sotto i tredici anni, diciotto adulti. Non si prese il disturbo di conteggiare oltre e si concentrò sulla luminosità dei sei ragazzini, dei quali solo quattro erano mutanti e solo una era femmina. Aveva trovato la bionda e dove c’era lei c’era anche il metalbender. Svoltò alla prima curva sulla destra ed entrò nella seconda porta a sinistra, rallentò ed avanzò con calma, lasciando che i limiti elastici della propria dimensione psichica tornassero normali ed affidandosi sull’udito naturale, come ogni volta. Trovò dopo qualche secondo i due mutanti, sdraiati a pancia in su sotto un tavolo metallico piuttosto massiccio, intenti a discutere su quale dei tubi fosse meglio sostituire per primo e su chi avrebbe dovuto mettere le mani in quell’intrigo sporco di muschio e muffa.

-Ti dico che non è questione di quanto mi faccia schifo, Raven, è che proprio la mia mano lì non ci passa.- Grugnì il presunto maschio alpha della situazione, facendo sbuffare la giovane come una locomotiva. Charles era abbastanza sicuro di aver sentito una qualche offesa sull’incompetenza dell’altro mascherata tra i suoi versi assurdi. Deve essere un lavoro davvero impegnativo se non vi permette di accorgervi che una persona si è avvicinata tanto da potersi sedere su di voi. Scherzò costringendosi a non ridere quando tutti e due si alzarono di scatto ed il più alto, il ragazzo, andò a sbattere la testa rumorosamente contro il metallo della parte inferiore del piano.  La riccia non parve avere lo stesso interesse e, voltandosi verso il compagno, scoppiò a ridere fragorosamente. Oh, maledizione! Fa un male assurdo. Questa volta mi sono spaccato la testa davvero. Smettila di ridere, maledetta corvaccia! Erik era profondamente intento ad imprecare mentalmente, tanto da non reagire fisicamente se non coprendosi la fronte con entrambe le mani. Il più giovane, preoccupato, si abbassò allora sui talloni, inarcando un sopracciglio, indeciso tra l’apprensivo ed il divertito. Tutto bene? Fammi vedere, togli la mano. Il maggiore imprecò un altro paio di volte, quindi ringhiò tra se e se e tolse le mani. Una striscia rossa e definita gli solcava la fronte da parte a parte, ma non sembrava niente di troppo grave. Sei vivo. Niente di rotto. Concluse Charles con una scrollata di spalle, alzando gli occhi al cielo quando Raven scoppiò nuovamente a ridere.

Dopo un mese di permanenza alla villa aveva oramai imparato come relazionarsi a grandi linee con molti dei mutanti e buona parte dei servitori umani, in particolare con quei due. Non andavano perennemente d’accordo, ma si sopportavano piuttosto bene e stavano instaurando un rapporto di collaborazione e reciproca disponibilità in caso di bisogno di aiuto o compagnia. Era piacevole se non considerava le continue bisticciate con il più grande per qualsiasi cosa o le inquietanti proiezioni mentali che a volte sfuggivano involontariamente alla mutante. Erano quelli che meglio di tutti l’avevano accettato nel gruppo e che continuavano a fare il possibile per farlo sentire a casa. Il primo era persino il suo vicino di stanza e andavano tutte le mattine a fare colazione assieme, per quanto fosse stato per lui piuttosto traumatico abituarsi ad essere svegliato dall’altro ogni giorno con un urlo diverso. Come del resto era stato difficile smettere di coprirsi fino al mento con le lenzuola ogni benedetta volta che la seconda faceva irruzione in camera sua mentre si cambiava, si sedeva sul letto, e gli poneva ogni genere di domande assurde. Erano cose alle quali avrebbe fatto l’abitudine, piuttosto di tenersi stretti due amici dei quali potersi anche solo minimamente fidare e con i quali poter passare liberamente il tempo libero.

-Senti, Charles, hai mai fatto manutenzione a qualcosa?- Domandò improvvisamente Raven, uscendo da sotto il tavolo e tenendo fisso lo sguardo su di lui. Il ragazzino si alzò a sua volta e fece un passo in dietro, confuso. Manutenzione? Cosa centrava lui con la manutenzione? Si allungò verso i pensieri della giovane e ne venne investito quasi con dolcezza, con calma. Ringraziò per l’ennesima volta l’ordine della testa di Raven e si mise a leggere con attenzione. Mani. Ha due mani piccole e sottili. Più delle mie, maledizione! Come possono essere più sottili delle mie? Sono quasi gelosa. Ah, già, lavori di tipo mentale. Ha svolto sempre tutte le sue mansioni con la testa. Niente lavori fisici. Non si è mai rovinato le mani per questo. Che invidia, sono così delicate. Il telepate , se possibile, ne uscì più confuso di prima. Le sue mani? Abbassò lo sguardo ed, effettivamente, si rese conto che la ragazza stava osservando proprio le sue dita intrecciate attorno al libro. Le contrasse un poco, a disagio. Cosa avevano che non andava le sue mani? Ops, hai sentito i miei pensieri di poco fa? Chiese la riccia sorridendo quasi imbarazzata –Volevo chiederti di aiutarci. Ci servirebbe, letteralmente una mano, piccola e sottile, che possa passare tra i due tubi e che possa attaccare un pezzo come si deve.- Spiegò sbrigativa e speranzosa, lasciando poi scorrere nella propria mente l’immagine esplicativa di ciò che lui avrebbe dovuto fare, basilarmente. Attaccare un tubicino che si era staccato in una presa di plastica che dava in un buchino sulla superficie del tavolo. Non sembrava una cosa così complicata da non poter essere fatta persino da un ragazzino inesperto ed inadatto ai lavori manuali, perciò sorrise timido e poggiò il tomo in uno spazio libero sul tavolo dietro di se, prima di rivolgersi alla bionda ed annuirle. Va bene, cosa devo fare? Lo sguardo della mutante si accese come il sole all’alba e Charles si ritrovò ad essere preso per le braccia ed essere sospinto forzatamente a sdraiarsi sotto il tavolo, mentre Erik, alla sua destra ridacchiava massaggiandosi la fronte e tornava a distendersi a sua volta, prendendogli poi il polso più vicino nella sinistra ed alzandolo davanti a loro in modo da esaminare l’arto del piccolo.

-Signore! Scricciolo hai davvero due manine minuscole, eh? Potrebbero fare sul serio al caso nostro.- Il tedesco stava ridendo e lui ritrasse il braccio con un gesto di stizza, portandolo poi verso l’anfratto tra le due tubature di vetro (perche qualcuno doveva aver voluto fare delle tubature di vetro, sarebbe rimasto in eterno un mistero per tutti loro). Non mi chiamo Scricciolo e smettila di prendermi in giro per qualsiasi cosa. Ringhiò alle tempie del metalbender, rimanendo tuttavia del tutto impassibile in quanto ad espressione mostrata al mondo esterno. L’altro mutante gli trasmise per quanto fosse capace le sue scuse, non proprio del tutto sincere, e rimase zitto, avvicinando un poco la testa per osservare meglio le dita dell’inglese passare tra i due ostacoli trasparenti e dirigersi senza intoppi fino al tubicino di spessa gomma bianca. Non avendo molto spazio di manovra lo strinse delicatamente tra l’indice e il medio, spostandolo poi verso destra fino a raggiungere la pompetta  opaca. Spinse piano ed iniziò ad incastrare i due oggetti l’uno dentro l’altro, rallegrandosi di non aver trovato ostacoli o di non essersi incastrato. L’avere due persone che lo fissavano non lo metteva propriamente e proprio agio, ma decise di rompere il ghiaccio facendo conversazione, se non altro per non chiedere loro sgarbatamente di guardare altrove. Com’è che non hai usato i tuoi poteri? Chiese ad Erik dando un’ultima spinta un poco più energica al tubicino ed accertandosi che fosse immobile nella sua posizione. Non proprio il mio elemento. Ironizzò l’altro sollevando le spalle e lasciandole ricadere con noncuranza, senza staccare lo sguardo dalla mano del minore che usciva con precisione quasi robotica dall’anfratto tra le due pareti di vetro. Ma grazie al cielo abbiamo il nostro piccolo damerino che è uscito da lavoro appena in tempo per prestarci le sue piccole mani lisce da bambino viziato. Scherzò quindi, spingendosi in tutta fretta via da sotto il tavolo per schivare la gomitata del telepate. Raven lo guardò esasperata e Charles sbuffò sonoramente, sollevandosi qualche secondo dopo ed allargando le braccia in un inchino da teatro che fece sogghignare la ragazza, la quale gli riproponè il gesto con una riverenza. La stranezza del gesto gli fece tornare in mente il libro di favole che si era procurato.

-Ah! Ho preso questo dalla biblioteca oggi. È abbastanza lungo da durare due o tre giorni, sperando che sia abbastanza leggero e che non abbia troppe figure al posto delle lettere.- Annunciò superandosi ed afferrando il tomo. La bionda lo prese subito in mano e lo aprì alla prima pagina.

-Favole tedesche. Ottima scelta, Topo!- Sorrise soddisfatta, chiamandolo col nome animale che da qualche settimana lo rappresentava e che, a dire della giovane, era adatto e terribilmente carino. Charles fece  una piccola smorfia, ma aveva già rinunciato da tempo a chiederle di non fare a quel modo, perciò sorrise a sua volta e si avviò con loro fuori dalla serra, accodandosi ad una decina di altri lavoratori e dirigendosi alla mensa.­ La piccola folla andò infoltendosi fino a quando non arrivarono alla porta del casolare che fungeva da abitazione per la servitù. A quel punto molti si scostarono dalla massa e si diressero alle proprie stanze. I rimanenti, tra i quali anche i tre piccoli mutanti, continuarono lungo il corridoio fino alla sala comune che per qualche ora sarebbe rimasta adibita a mensa in modo che chiunque potesse usufruirne tra una mansione e l’altra senza dover lasciare un lavoro a metà. I ragazzini di Villa Bolsky erano soliti andare subito a mangiare e prendersi solo successivamente un momento per riposare seriamente, cambiarsi e medicarsi. Gli adulti continuavano a ripetere che avrebbero smesso di sprecare energie a quel modo non appena avessero avuto sulle spalle il peso di qualche anno in più di lavori per la famiglia russa ed avrebbero imparato ad apprezzare il sano riposo a discapito delle voglie e della fame. Per il momento, però, agli adolescenti non poteva interessare nulla più di uno stomaco pieno con qualcosa di caldo e qualche panca attorno ad un confortevole tavolo al quale potersi sedere con gli amici. Perciò fu proprio quello che fecero, come tutti i giorni, chiacchierando animatamente e scambiandosi notizie ed informazioni raccolte sul proprio posto di lavoro.

Karl raccontò loro della cameriera quindicenne alla quale stava spudoratamente facendo la corte ed Hank ed Havock finirono involontariamente per intrattenere l’intera tavolata con una delle loro consuete bisticciate quotidiane per un nonnulla. Quella volta toccò alla povera panca essere soggetto del loro battibecco, siccome tutti e due volevano sedersi nello stesso posto. Charles rise all’ennesima offesa sputata, scandagliando le menti dei due e leggendovi le sciocchezze più assurde sull’uno e sull’altro, o le risposte e le frasi fatte che ognuno stava pensando di usare. Quella coppia assurda che li portava alle risa era stravagante anche a vedersi, composta come era da due ragazzi lunghi e slanciati, uno pallido ed occhialuto, coi capelli neri ed il viso da bambino, e l’altro con una zazzera bionda disordinata, muscoli ben piazzati ed una lingua tagliente come poche. Hank era timido e riservato, ma aveva la mente più brillante che il telepate avesse mai visto, straordinariamente portata per la logica e la matematica di natura e con capacità mnemoniche ampliate fin quasi agli eccessi dalla sua mutazione. Charles aveva iniziato a passare con lui un qualche momento libero di tanto in tanto parlando di scienze, biologia e genetica soprattutto, e lo trovava di grande compagnia ed un piacevole conversatore. Purtroppo non poteva dire lo stesso di Havock: era un ragazzo sveglio, ma tutta la sua personalità era deviata, fissa sul fisico agile e forte. Era scostante ed irrequieto, offendeva spesso ed amava litigare e fare rissa, chiudendosi poi nella stanza per ore. Si era dimostrato un giovane problematico, non cattivo ma complessato e diffidente. Come i due avessero legato così tanto era per molti un vero mistero, ma ad un’analisi attenta ci si poteva rendere conto che tutti quei loro bisticci erano una farsa, un modo come un altro che Havock utilizzava per attirare l’attenzione di Hank. Quel ragazzo avrebbe fatto qualsiasi cosa per ottenerla, era disperato, distrutto nell’anima e solo il genietto suo coetaneo sembrava aver voglia di stargli accanto e tendergli una mano amica, seppure tra un litigio insulso e l’altro, senza scappare o allontanarsi per paura del suo caratteraccio e dei suoi poteri fuori controllo. Charles era felice che si fossero trovati e non trovava affatto giusto tenere a distanza un individuo ed estraniarlo soltanto perché non è ancora capace di gestire come si deve la propria mutazione.

-Tu hai finito?- La voce di Erik fece irruzione nei suoi pensieri, riportandolo alla realtà del tavolo. Il maggiore si sporse in avanti ed afferrò la caraffa, rubandola letteralmente dalle mani di Karl e versando l’acqua nel suo bicchiere e in quello del telepate prima di poggiare il recipiente altrove  -Se hai fatto qui possiamo andare a cambiarci.- Chiarì prendendo il proprio bicchiere e voltandosi per osservarlo in attesa di una risposta alla sua domanda. Charles bevve a sua volta l’acqua in due grandi sorsi, quindi annuì al compagno e fece cenno con la testa verso l’ingresso della mensa. Girando su sé stesso portò le gambe dall’altro lato della panca di legno e si tirò in piedi, mentre il metalbender faceva lo stesso, dopodiché fece strada fuori dalla sala intavolata e si diresse verso la propria camera sapendo anche senza guardarsi alle spalle di essere seguito. Il corridoio era deserto ad eccezione della presenza di due bambini che giocavano con un mazzo di carte e della vecchietta che li teneva d’occhio, perciò il percorso si rivelò piuttosto breve e nessuno li fermò per parlare, come invece accadeva di solito. Era strano per Charles portare qualcuno in camera appena dopo pranzo, invece che puntare al cortile, ma tutti e due avevano bisogno di mettersi addosso qualcos’altro in previsione del lavoro pomeridiano e Raven aveva detto chiaramente che per tutta la settimana avrebbe continuato a lasciare il bucato appena fatto nella stanza del più piccolo, siccome al contrario della maggior parte degli altri mutanti adolescenti lui non aveva sollevato particolari lamentele per il fatto che la gente entrasse a prendere i propri vestiti. La ragazza era nuova nel campo, ma aveva abbracciato il mestiere della lavandaia senza remore, pur di poter passare del tempo a spettegolare con le amiche mentre strofinavano gli indumenti sporchi. Non la più nobile delle motivazioni, ma tanto bastava a far tenere chiuse le bocche ai maschietti se questo significava non dover più fare il bucato da soli.

Erik fece in modo che la porta si aprisse davanti a loro e la fece richiudere una volta che furono passati. Sul letto erano impilate una ventina di camicie ed altrettanti pantaloni in ordine quasi maniacale: tipico della bionda. Il minore si avvicinò alla montagnola delle prime e ne sfilò una delle proprie camicie, segnate dalla sigla “CX” sul retro del colletto, Erik si spogliò e fece lo stesso coi propri pantaloni. Quindi si diedero il cambio ed invertirono le posizioni. Cambiarsi dopo il pranzo, da quando era iniziato il lavoro al magazzino, era diventata una routine, per quanto solitamente ognuno lo facesse nei propri alloggi. Il maggiore indossò un paio di braghe nere ed una camicia bianca, Charles invece cambiò i pantaloni con un paio marrone e meno aderente e  si svestì della camicia, sedendosi sul letto e sostituendo le scarpe buone (quelle smesse da Mattew semplicemente perché non si abbinavano alla nuova giacca che gli aveva comperato suo padre), che usava ogni giorno per dare lezione al signorino in modo da apparire presentabile nel suo intero, con l’unico altro paio in suo possesso, molto più malmesso.

-WooHo!- Esclamò Erik di colpo, additandolo. Quando il ragazzino alzò lo sguardo l’altro lo stava fissando ad occhi e bocca aperti quasi come se fosse in trance o, più semplicemente, nel più pieno stato di cieco stupore. Decisamente era stupore, visto che il telepate era abbastanza sicuro di non avere attivato i propri poteri per indurre in un qualche stato di trance la testa del compagno. Lentamente si voltò per guardare alle proprie spalle ed individuare cosa avesse attirato l’attenzione dell’undicenne, ma trovò solo il grigio muro, perciò si arrese all’evidenza che l’altro stesse fissando lui. Tornò a voltarsi e lo fulminò con lo sguardo. Non sarebbe rimasto ad ascoltare un’altra presa in giro sulla sua particolarmente assente massa muscolare o sul suo pallore, non da parte del proprio migliore amico e non dopo una mattinata nella quale era stato cacciato dal posto di lavoro senza nessun buon motivo. Ne aveva abbastanza di quelle beffe: solo perché non era abituato a sollevare pesi e correre tutto il giorno, non significava che fosse un debole. Aprì per bene il canale mentale tra se stesso ed  il metalbender per ribadire il concetto una volta per tutte, ma le sue tempie vennero immediatamente bersagliate da una miriade di pensieri che gli assicurarono che l’attenzione del mutante non era stata attirata dal suo fisico poco atletico, ma dal suo costato. Lato sinistro della gabbia toracica, per la precisione. Un tatuaggio? Forse effettivamente il suo stupore era un poco comprensibile. Sul viso del tedesco comparve un ghigno. Un tatuaggio. A otto anni. Woo… è così piccolo ed ha già un tatuaggio. Sulle costole. Ed è pure inglese. Non lo avevo mai visto. Ma sulle costole non fa male? Sulle ossa fa male. Deve avergliene fatto.  Dopotutto chi mai si sarebbe mantenuto composto ad una scoperta simile? Charles, probabilmente. Ma sapeva di essere un caso a parte. È bello. Strano, ma bello. Chissà cosa c’è scritto. È una scritta. Cosa vuole dire? Se glielo chiedo forse me lo dirà. Come può avere un tatuaggio uno come lui? A otto anni. Ma Charles non andò avanti ad ascoltare, si fermò immobile ed incredulo. Quello era il punto in cui toccava a lui rimanere a bocca poco elegantemente spalancata.

-Tu non sai leggere?- Chiese ad alta voce, facendo irrigidire di colpo Erik, dal viso del quale scivolò via velocemente il sorriso. Il ragazzino rimase a guardare esterrefatto l’amico distogliere lo sguardo imbarazzato e le sue guance imporporarsi un poco. Non c’era alcun bisogno di conferme vocali per comprendere la risposta, ma il minore rimase comunque in silenzio sperando che ne arrivasse una. Purtroppo gli rispose soltanto ulteriore silenzio e l’altro insistette prepotentemente nel tenere le labbra strette l’una sull’altra per non farsi scappare una sola parola di bocca, puntando le iridi grigie altrove per non dovere incontrare quelle dell’altro. era vistosamente a disagio nella stanza, tanto che i suoi pensieri dardeggiavano, come i suoi occhi, da una parte all’altra e, per un attimo, considerò l’idea di alzarsi ed andarsene fuori dal casolare in generale per non dover parlare dell’argomento. Erik, no! Gli sussurrò con attenzione direttamente nella mente, premurandosi di non spaventarlo od irritarlo prendendolo di sorpresa. No, ti prego, non te ne andare da qui. Non per quello che ti ho chiesto. Mi dispiace. Davvero, mi spiace. Bisbigliò lasciando poi cadere il silenzio più assoluto e chiudendo ogni canale mentale. Non voleva certo farsi ancora gli affari altrui non permettendogli privacy nemmeno in quell’ultima scelta. Un brivido salì lungo la schiena di Charles quando lanciò nuovamente uno sguardo fugace alla porta. Sarebbe scappato e, se lo avesse fatto, lui non se lo sarebbe mai perdonato, perché non voleva in alcun modo averlo offeso. Ovviamente era ferito, ma andava davvero bene qualsiasi cosa tranne l’offesa. Considerò la possibilità di scusarsi ancora, ma poi Erik sospirò.

-No. No, non so leggere.- Ammise lasciando cadere le spalle con aria di rassegnazione e permettendo al telepate di respirare nuovamente. A dire il vero non si era nemmeno reso conto di stare trattenendo l’aria nei polmoni fino a quel momento, ma fu ugualmente molto sollevato sentendosela scivolare lungo il palato e la gola.  –Vorrei saperlo fare. Sia leggere che scrivere, mi piacerebbe, ma nessuno mi ha mai insegnato come si faccia.-  Spiegò il tedesco con un’altra scrollata di spalle. Il minore annuì comprensivo, in particolar modo dopo l’ultima affermazione del compagno. Dopotutto non era un mistero per nessuno che più della metà dei mutanti e della servitù in generale fosse analfabeta. Nel più dei casi i padroni preferivano avere servi obbedienti ed ignoranti, in modo da non poter in alcun modo essere da loro messi in discussione. Altri semplicemente se ne lavavano le mani, disinteressandosi delle sorti dei propri sottoposti, purché lavorassero. Non cera proprio niente di poi così sconvolgente nel venire a sapere che un adolescente mutante non era capace di leggere, ma Charles non aveva potuto comunque trattenersi. Era stata una specie di shock scoprire che proprio Erik, il forte ed influente metalbender che così spesso guidava il gruppo giovanile,  non sapesse fare qualcosa. Qualcosa nel quale lui, invece, era pienamente preparato da anni. Probabilmente era proprio la persona del telepate a mettere così a disagio il maggiore, a farlo sentire così insicuro ed a fargli emettere un sentimento di inadeguatezza tale da sembrare colasse da ogni poro del suo corpo, come se lo trasudasse: non doveva essere semplice una lacuna, soprattutto in presenza di un ragazzino che, pur essendo più piccolo di lui, la colmava senza fatica. Quasi si sentì in colpa, il minore, per avere sollevato l’argomento in quel modo. Doveva fare qualcosa per fargli capire che non aveva nessuna intenzione di deriderlo o rendere nota la cosa ad altrui.

-Se vuoi posso insegnarti io.-  Sussurrò quindi tutto d’un fiato, abbassando subito la testa e sbrigandosi ad aggiungere, prima che l’altro potesse rispondergli o fraintenderlo  -Te lo devo. Mi farebbe piacere poterti aiutare, insegnarti a leggere e scrivere, visto che so farlo. E sento il bisogno di fare qualcosa, perché tu mi hai aiutato molto e mi hai subito accettato nel tuo gruppo e poi scrivere a volte è davvero comodo, quando non si può utilizzare la mente o la voce per comunicare.-  Probabilmente stava parlando a vanvera, troppo in fretta, confusamente, ma ciò che diceva lo stava pensando davvero.  –Sono in debito con te per non avermi scuoiato il primo giorno.-  Aggiunse con un sorrisetto  stentato, alzando lo sguardo e ritrovandoselo immediatamente incatenato  con quello metallico del compagno. Erik, a sorpresa, rise e tutto il suo corpo si rilassò vistosamente. Non gli importava che ridesse di lui, del suo monologo o dell’idea che gli era venuta, l’importante era che riuscisse a farlo senza apparire minimamente arrabbiato con lui.  Charles si fece quasi travolgere dalla sensazione di calore quando dall’undicenne sgorgò un fiume di gratitudine involontario nei suoi confronti. Avrebbe davvero dovuto imparare ad estraniarsi dalle emozioni altrui o una di quelle volte avrebbe fatto qualche brutta figura. Grazie. Bisbigliò il metalbender con un sorriso stampato in volto.  Era più di qualsiasi cosa il minore avrebbe potuto chiedere.

-Che ne dici se iniziamo da quello?-  Domandò dopo qualche secondo il tedesco, indicando il corpo dell’altro. il ragazzino abbassò di nuovo lo sguardo su di sé, quella seconda volta già sapendo casa stesse additando il compagno. Il tatuaggio era lungo più o meno sei centimetri, copriva una piccola porzione  di pelle sulla parte sinistra del suo costato, appena sopra il fianco relativo. Era una scritta, una semplice parola in un corsivo elegante ma secco, senza troppe grazie o svolazzi che ne rendessero difficile la lettura. Bello, lo aveva definito Erik, ed effettivamente l’inchiostro nero come la pece ed i caratteri ben definiti risultavano piuttosto gradevoli alla vista sulla pelle pallida da bambino del mutante.  –Che c’è scritto?-  Chiese ancora il maggiore, andando a sedersi a sua volta sul letto accanto a lui, dal lato del tatuaggio. Il telepate non ci faceva ormai caso da molto tempo, essendosi abituato a vederlo ed avendo iniziato a considerarlo una parte integrante di sé, come i suoi capelli ricci o la cicatrice che gli copriva metà del ginocchio destro e che risaliva a quella volta, sei anni fa, nella quale era caduto sugli scogli. Era un semplice tatuaggio che gli era stato fatto a quattro anni e col quale conviveva da allora. Niente di così interessante. Charles. Rispose con un’alzata di spalle. È il mio nome. Da qualche anno in Inghilterra i Proprietari hanno preso l’abitudine di tatuare il nome sui mutanti bambini cosicché si possa seguire il loro spostamento da un padrone all’altro dopo la vendita o li si possa ritrovare in caso di fuga. I due ragazzi condivisero una smorfia. Alcune volte i padroni di servi, soprattutto se mutanti, consideravano adeguato un trattamento da animale o oggetto nei loro confronti. Il fatto che Mattew desse loro nomignoli, mettesse il collare ad Erik e dasse ogni tanto dei pezzetti di formaggio a Charles ne era la conferma. Ormai ci avevano tutti fatto l’abitudine, anche se non si erano arresi completamente alla cosa. In quel momento, inoltre, c’erano cose più importanti delle quali parlare. Non era particolarmente adatto, ma era un inizio come un altro, si disse il minore spostando il braccio in modo da rendere ben accessibile la porzione di pelle tatuata. Quindi iniziò a spiegare al ragazzo l’importanza di imparare a riconoscere le lettere una alla volta, prima i grafemi, poi i fonemi, leggerle una attaccata all’altra e ricordare ad orecchio come si pronunciassero e cosa significassero le singole parole e frasi. Solo in seguito, gli disse, si sarebbe passati a memorizzare i movimenti necessari a riprodurre l’alfabeto (e gli dovette spiegare la differenza tra il corsivo e lo stampato e l’esistenza di molteplici alfabeti al mondo) finendo quindi con l’imparare a copiare e, di conseguenza, a scrivere. Assicurò inoltre che la calligrafia sarebbe sopraggiunta in seguito come naturale tentativo di rendersi più comprensibili agli altri. Il maggiore lo ascoltò attento, annuendo ogni tanto, e seguì con gli occhi le sue dita quando il ragazzino iniziò a passare l’indice della mano destra su ogni segno del suo tatuaggio, ricalcando lentamente le lettere una ad una, più volte, ripetendole ad alta voce ed elencando un paio di parole che iniziassero allo stesso modo e fossero al contempo facili da ricordare.

Così la prima lettera che Erik imparò a leggere fu la “C”, la prima parola risultò il nome del suo migliore amico e la loro prima lezione di lettura li portò ad arrivare in ritardo alle loro mansioni lavorative pomeridiane. Perciò quando entrarono di corsa nel magazzino, trafelati e vestiti in tutta fretta, si guadagnarono un buon numero di occhiatacce da parte degli altri lavoratori ed una decina di sguardi curiosi dai loro amici. Alle loro domande confuse il ragazzino rispose che avevano bisticciato come al solito in camera e nella confusione avevano fatto cadere le pile di vestiti lavati, perciò erano stati costretti a raccogliere e ripiegare tutto prima che si sporcasse in modo da non incorrere nell’ira della lavandaia.  Lo fece soltanto perché il metalbender gli aveva chiesto di non fare parola con nessuno del loro progetto di istruzione privato e di non condividere la scoperta della sua incapacità, ma parve comunque che gli altri gli stessero credendo.  Raven riservò loro un’occhiata di rimprovero puro, a braccia incrociate, quindi fece cenno a Charles di salire sul palchetto di legno sul quale era in piedi e sostituirla, scese e, avvicinatasi ad Erik, lo prese per un orecchio e lo trascinò via in direzione di una scaffalatura ancora da riempire di casse, senza preoccuparsi di tenere bassa la voce nel redarguirlo per aver rovinato il suo bucato perfetto.  Il più piccolo rise tra sé e salì al posto fino a poco prima occupato dalla ragazza, girò su sé stesso guardandosi attorno ed espanse la mente in modo da fare come si deve i suoi calcoli. Gli altri attesero pazientemente che si facesse un’idea precisa della situazione e che iniziasse a dare i suoi ordini. Perché era quello che faceva da quando, appena tre settimane dopo il suo arrivo alla Villa, aveva offerto il suo aiuto alla governante passando telepaticamente alla servitù una comunicazione importante, per farle guadagnare tempo. In pratica era stato deciso all’istante che, in caso di mansioni nelle quali fosse necessaria molta manodopera ed un buon ordine, lui avrebbe dovuto coordinare i lavoratori, sorvegliare la zona, indirizzare ogni individuo alla sua postazione ed organizzare i ruoli. Grazie alla sua mutazione faceva tutto telepaticamente ed in tempo reale, rendendo più efficienti le operazioni. D’altra parte, mantenere attivi così tanti canali di comunicazione contemporaneamente lo portava ad avere delle terribili emicranie la sera, quando tornava in camera, che a volte si prolungavano anche oltre le ore della cena e gli disturbavano il sonno. Ma in fondo quello ed altro per rendersi utile.

-Questo qui dove lo metto, Charles?-  Trillò una voce appena sotto il palchetto. Il telepate si poggiò alla balaustra di legno col ventre, ponderando le dimensioni del cesto pieno di lenzuola tra le braccia di Millyedore. Sul fondo. C’è ne è uno praticamente identico sul secondo ripiano del quarto scaffale dalla destra. Se non ci sta torna qui. La ragazza annuì leggiadra e si diresse nella direzione indicata ancheggiando e sospirando già annoiata.

-Hei, Topo!-  Quella volta la chiamata risuonò dietro di lui, costringendolo a girarsi totalmente per guardare il viso sorridente ed allegro come non mai di Havock, evidentemente su di giri per via dell’adrenalina data dal lavorare di forza o qualcosa del genere.  –Abbiamo finito con le tende. Ora dove ci mandi?-  Affianco a lui c’era anche Hank, molto meno solare e molto più affaticato. Charles tenne per sé sia una smorfia che la considerazione  sulle capacità fisiche del ragazzo, calcolate le quali non gli sarebbero dovute essere affidate mansioni simili. Si guardò attorno e puntò infine gli occhi su Darwin. Allora, Hank, ho bisogno che tu vada da quella pila di sacchi di juta. Quella appena dietro le casse di legumi. La vedi? Bene. Devi aprire ogni sacco ed assicurarti che dentro ci sia farina. Nel caso non ci sia o sia muffita, mettila da parte. Altrimenti ripara gli eventuali strappi e dai tutto agli altri. Quindi, tu, Havock, devi impilarli come si deve. Chiaro? Tutti  e due annuirono, ripercorsero il camminamento tra le scaffalature e si defilarono, raggiungendo il compagno e mettendosi a lavorare appena in tempo per permettere al coordinatore di rispondere alle domande di un’altra lavoratrice. Ciò che continuava a stupirlo era che nessuno mettesse in dubbio o si opponesse alle sue indicazioni. I suoi ordini non erano praticamente mai argomento di una discussione. Avevano imparato a rispettare molto in fretta le sue decisioni. Scrutando nelle menti della servitù, Charles si era reso conto che una buona parte, più della metà, delle persone lo considerava un bambino intelligente e coscienzioso del quale ci si poteva fidare senza problemi, una persona seria e piacevole. Pochi erano gli indifferenti e, purtroppo, i restanti avevano di lui una considerazione opposta a quella della prima categoria: non si fidavano di lui. Un po’ per il suo essere telepate e quindi idealmente farsi sempre gli affari altrui, un po’ per il suo essere inglese visto come simbolo di snobismo.  Non comprendeva appieno quel sospetto e quella paura che alcuni gli riservavano, ma aveva deciso di tenere la bocca chiusa ed accontentarsi, magari cercando di rendersi più sopportabile. Quindi, per esempio, quando il bracciante successivo, uno di quelli che erano inquietati dalla sua natura, gli chiese cosa dovesse fare, rispose a voce mettendolo almeno un poco a suo agio. L’uomo, anche se in minima parte, gliene fu inconsciamente grato e questo lo fece sorridere tra sé e sé.

-Io ho finito la mia parte, Topo. Non mi muovo più.-  Dichiarò seria quasi mezz’ora dopo una ragazza dai folti riccioli biondi arrampicandosi sul palchetto e lasciandosi cadere seduta al suo fianco. Era sudata e stanca, ma irradiava soddisfazione ed era una dei pochi che aveva lavorato anche quella mattina al progetto, perciò Charles si limitò a farle un cenno d’assenso ed a rimanere in attesa. Pian piano, infatti, tutti i lavoratori iniziarono a terminare le loro mansioni e li raggiunsero, alcuni posizionandosi assieme a loro nella zona sopraelevata, quelli per i quali non rimaneva spazio accomodandosi a terra. Non appena anche Hank gli si affiancò i due si misero a comunicare mentalmente ed iniziarono a compilare su una cartelletta l’inventario dell’intero magazzino. Raven e Millyedore percorrevano il locale per tutta la sua lunghezza, la prima arrampicandosi sulle pile di casse e sulle scaffalature, la seconda volando poco sotto il soffitto. Controllavano numero e stato di ogni bene di prima necessità mentre i due ragazzi compilavano i fogli e facevano i conti. Una volta siglato il plico, dopo circa altri quindici minuti,  il telepate dichiarò finito il lavoro nella sua totalità e spense ogni affaticante canale mentale supplementare. Una serie di esclamazioni di esultanza si alzò dalla folla, seguita da risa generali e dai borbottii ed i lamenti degli adulti stanchi. Di certo Charles non poteva dare loro torto, visto che appena mise piede sul primo dei cinque scalini un capogiro lo portò a doversi premere le tempie. Sembrava che la testa stesse per esplodere, doleva come se un uomo l’avesse percossa ripetutamente con una sbarra di metallo. Non che gli fosse mai successo prima, ma dava l’idea di essere ugualmente doloroso.  Si costrinse comunque a scendere la breve scalinata, sostenendosi in modo apparentemente casuale ogniqualvolta uno dei compagni gli si appoggiava per salutarlo. Non cadere. Gli intimò ad un certo punto Erik, raggiungendolo da dietro ed affiancandoglisi per tutto il tragitto verso i dormitori. Il metalbender gli fece da guardia del corpo fino all’ingresso, pronto a sollevarlo nel caso fosse caduto. Di nuovo il mal di testa. Niente di strano. Tentò di tranquillizzarlo scrollandosi la sua mano dalla spalla, ma da come l’altro lo squadrò, l’espressione sul suo viso doveva star dicendo altrimenti. Il maggiore grugnì e lo prese per un braccio, trascinandolo verso la sua stanza, evidentemente per niente convinto dalla sua stentata rassicurazione. Al suo tentativo di divincolarsi si limitò ad alzare gli occhi al cielo in una muta preghiera esasperata.

-Devi riposarti, scricciolo pazzo. Stai cercando di ucciderti di lavoro e ti sta venendo dannatamente bene.-  Lo sgridò il mutante una volta entrati nella camera, incrociando le braccia davanti al petto ed accennando col mento al letto  -Ma tu qui ci servi, perciò mettiti a riposo. E non cercare di usare la scusa del cibo: ti porterò qualcosa io e lo mangerai quando avrai ripreso le forze e non rischierai  di crollare a terra da un momento all’altro.-  Charles, che aveva provato ad aprire la bocca per sollevare una qualche protesta, la richiuse lentamente rendendosi conto che l’undicenne gli aveva letteralmente tarpato le ali per quella sera. Non che gli dispiacesse potersi rilassare e lasciare magari che l’emicrania scemasse, ma non aveva intenzione di lasciare che Erik lo accudisse come un neonato portandogli persino il cibo in camera. Sarebbe stato terribilmente imbarazzante, per non parlare del fatto che era loro proibito portare via qualcosa dalla mensa della servitù. Scosse la testa con veemenza. Non ce n’è alcun bisogno. Non ho fame. Rispose mettendosi infine seduto sul letto ed arrendendosi alle premure prepotenti del più grande. Il tedesco lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e la sua testa comunicava chiaramente al minore disapprovazione per la sua scelta di saltare la cena per orgoglio, ma non lo disse ad alta voce sapendo che insistere non avrebbe comunque convinto il ragazzino ad ascoltarlo anche su quel punto. Era troppo testardo. Lo sguardo del metalbender si scurì per un momento, pensoso, quindi fece un passo avanti e si mise seduto sul pavimento.  Charles lo squadrò incuriosito. Che cosa stai facendo? Si preparava a rimanere di guardia?  -Se te ne rimarrai qui buono buono ti racconterò una storia che sono sicuro ti interesserà.-  Propose, apparendo però incerto e leggermente a disagio.

-Che genere di storia?-  Chiese il telepate, sapendo suo malgrado di avere gli occhi illuminati dalla curiosità. Si costrinse a non sbirciare nella mente del maggiore, perlomeno per non rovinarsi l’unica ricompensa che gli stava venendo offerta. Osservò attento come un falco il proprio migliore amico distendere il braccio sinistro ed arrotolare la relativa manica della camicia, fino a scoprire l’avambraccio che sembre aveva visto tenergli bendato. Per nascondere una cicatrice, aveva precedentemente ipotizzato chiedendosi il motivo delle fasce. Quindi Erik ne prese un lembo, iniziando a srotolare centimetro per centimetro con una lentezza volutamente straziante e teatrale e, uno alla volta, andò a scoprire sette scuri numeri impressi a sangue nella pelle. 214782.

-Una storia piuttosto lunga, scricciolo.-













Angolo dell'autrice:

Lo so, questa storia viene aggiornata una volta ogni morte di papa, ma dopotutto nessuno la legge e nessuno legge di certo le note dell'autrice infondo, quindi ho come l'impressione che non interesserà proprio a nessuno xD
Detto ciò, non ho intenzione di lasciarla nel dimenticatoio. 
Pet's Tales andrà avanti.

Eva












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