Voice.

di Jules_Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Letters from somewhere. ***
Capitolo 2: *** What we used to be. ***
Capitolo 3: *** Backgrounds. ***
Capitolo 4: *** Where were you? ***



Capitolo 1
*** Letters from somewhere. ***


Voice.
Capitolo uno: “Letters from somewhere.”

 

When you see my face, hope it gives you hell,
hope it gives you hell.
When you walk my way, hope it gives you hell,
hope it gives you hell.
[The All-American Rejects, Gives you Hell]

 
 

Bzzzz.
“Buongiorno, Ottawa. Anche oggi,
direttamente dalla sede centrale della
Radio Voice, sono pronto a rallegrare
il vostro altrimenti noioso lunedì mattina.
Chi è che parla? Duncan Rogers, naturalmente.
E sono pronto per darvi la carica con un bran-…”
 
Courtney Adair spense la radio, sbuffando pesantemente. Non aveva ancora imparato a evitare il frequenza 133.2, là dove Radio Voice permetteva a quello stupido di Duncan di condurre un programma radiofonico tutto suo, ogni singola mattina della sua triste vita. E lei – lei che ancora stentava nel trovare un lavoro alla sua altezza – era costretta a osservare, impotente, la sua crescente popolarità, con quel brutto muso che spiccava a ogni angolo, complice la campagna pubblicitaria di Radio Voice. Quello sguardo azzurro slavato la fissava quando era in coda alla casa del supermercato, quanto sostava in attesa che il semaforo divenisse verde, quando si recava nella sede amministrativa della società legale per cui lavorava. Era ovunque.
E ciò che le arrecava maggior fastidio era il fatto che i direttori pubblicitari della Radio Voice avevano deciso persino di tappezzare le strade con il suo brutto muso da scimmione, essendo Duncan la star radiofonica del momento.
Non c’era persona a Ottawa che non seguisse con affetto e devozione le sue due trasmissioni radiofoniche, quella delle otto e quella delle ventidue. In particolar, le fan – donne, ovvio – più accanite amavano il momento della “Duncan’s lovable midnight”, un siparietto notturno in cui l’anima profondamente esibizionista del ragazzo emergeva: leggeva una poesia d’amore per la fan del giorno, che egli appositamente sceglieva tra tutte quelle che gli inviano mail, messaggi, video e foto.
Courtney guardò con astio la radio, sospirando rumorosamente. Non c’era giorno in cui, quando ancora aveva la bocca impastata e gli occhi gonfi, a salutarla per primo non fosse lui. Resistette alla tentazione di rovesciare il caffè lungo direttamente sull’apparecchio radiofonico e con astio crescente si diresse verso la cabina armadio, dove una serie di completi rigorosamente beige mostravano al mondo quanto la sua esistenza fosse triste e grigiastra. Ne prese uno a caso e si chiuse in bagno, sperando che il nervosismo sparisse dopo una doccia fresca. Un’assurda seduta in tribunale l’aspettava e ancora non aveva ben capito chi dovesse esattamente difendere.
***
– Adair, a rapporto!
Il suo capo la chiamò, strillando come un ossesso. La sventurata Courtney si alzò dalla sua scrivania ingombra e straripante e si diresse verso l’ufficio di Mr. Holmes, un vecchio bacucco inglese che sfoggiava vari titoli nobiliari.
– Cosa succede, Mr. Holmes? – sospirò la giovane, avvicinandosi alla scrivania del capo.
– Succede che sei una scellerata… Hai preparato le carte per il processo di oggi?
– Una per una, in doppia copia.
– L’orario della seduta?
– Le sedici, signore.
– Linea di difesa?
– Il nostro cliente è completamente all’oscuro dei danni arrecati al signor Smith dalla sua popolarità.
In verità, Courtney non aveva nemmeno controllato il nome del cliente: la sua segretaria le aveva riferito che si trattava di una specie di celebrità e che il caso era dei più semplici: il vicino di casa si lamentava semplicemente del rumore che le performances sessuali della star generavano. Il povero signor Smith era costretto a dormire con i tappi per le orecchie.
­– Bene, signorina Adair, molto bene – replicò Mr. Holmes, giungendo le mani sotto al mento e squadrandola da capo a piedi. Courtney arrossì vagamente.
– E per questo – proseguì il vecchio con tono pomposo – potrei iniziare a valutare la sua promozione.
Courtney per poco non svenne dallo spavento. La parola “promozione” in bocca a Mr. Holmes assumeva un significato ancora più profondo di quello originale: nessuno era mai stato “promosso” da Mr. Holmes, se non Matt Jones, l’affascinante avvocato che lavorava nell’ufficio accanto.
– Credo che tu e il signor Jones potreste essere una bella squadra… Senza contare che io sto malamente invecchiando e ho bisogno di lasciare a questa società dei degni eredi.
Gli occhi di Courtney lanciavano fiamme; strinse i pugni per contenere l’eccitazione.
– Mr. Holmes, è un’opportunità incredibile – boccheggiò la donna.
– Dice bene, signorina Adair… Dice bene! Ora la prego, pensi al processo di questo pomeriggio. Avremmo tempo per concordare tutti i dettagli – la congedò l’uomo, con un sorriso benevolo. Courtney lo ringraziò di nuovo. Mentre chiudeva la porta, una vampata di calore la investì in pieno. Lavorare al fianco di Matt Jones in qualità di amministratore della società. Aveva un che di epico.
– Court, ci sei?
La sua segretaria, Amanda, le stava – da circa trentotto secondi, poi – sventolando una mano davanti al naso. Courtney si ridestò con un sobbalzo.
– Uh, Amanda. Dimmi!
– Sono arrivate due lettere per te – le spiegò, porgendole due buste, la prima ricoperta di timbri, la seconda completamente bianca.
– Uhm, saranno ulteriori documenti per il processo di oggi! – ipotizzò la donna, sedendosi alla sua scrivania. Strappò l’involucro della prima. Lesse poche righe e poi la posò.
– Allora? – domandò, avida, Amanda.
– Nulla, solo non so che richiesta del signor Smith… Vuole denunciare il tizio per atti osceni in luogo pubblico. Peccato che la star ha avuto la decenza di darsi da fare in casa sua.
– La seconda?
Courtney prese la seconda busta e la aprì. All’interno, solo un biglietto. Lo prese, con uno strano presentimento.

 

“Se, per baciarti, dovessi andare all’inferno, lo farei.”

 
Courtney rimase sconcertata. Non c’era una firma, non c’era un indirizzo, un qualsivoglia tipo di recapito. Solo quella frase battuta al computer, una frase di Shakespeare, tra l’altro. Alzò gli occhi dal misterioso biglietto e trovò solo il viso di Amanda, eccitato, a guardarla.
­–  Che roba è? – le chiese la pettegola segretaria, pronta a strappare dalle sue mani il rettangolo di carta.
– Un… Promemoria – rispose sbrigativamente Courtney, atteggiamento che fece insospettire ancora di più la donna.
– Uhm, io torno di là.  Se hai bisogno di qualcosa, chiama. Ti vedo pallida.
Così dicendo, la donna sparì oltre la porta.
***
 C’era qualcosa di surreale nell’aria e Courtney Adair riusciva a percepirlo chiaramente mentre guidava verso il terzo dipartimento del tribunale. Aveva ignorato bellamente il viale tappezzato dalle foto di Duncan e ora si godeva la brezza primaverile che, filtrando dal finestrino, le scompigliava appena i capelli. Per la prima volta in tutta la sua vita si sentiva “calma”. In pace con se stessa e con il mondo, in pace con ogni essere che respirasse. In pace persino con Gwen. C’era qualcosa di mistico nella maniera in cui il karma aveva deciso di attivarsi e mettere fine a una serie di sfortunate giornate: la promozione imminente, il bigliettino d’amore, la prospettiva di vincere sicuramente il processo che tra poco sarebbe iniziato.
Con un gesto genuino si ravvivò i capelli e sospirò, contenta. Forse avrebbe persino iniziato un corso di yoga. A dimostrazione della perfezione sublime della giornata, vi fu il reperimento quasi istantaneo di un posto dove parcheggiare l’automobile costosa. Entrò nell’edificio che ospitava il tribunale con una certa fierezza e un con uno scintillio quasi perverso che le accendeva lo sguardo. Scarpe costose e abito che, seppur beige, valeva più di due stipendi. Sorriso luminoso. Capelli setosi. La sua pelle esprimeva da tutti i pori una sola parola: “vittoria”. Si passò la punta della lingua sulle labbra e si avvicinò alla porta della sala d’attesa, là dove avrebbe incontrato il suo cliente.
Aprì la porta, carica di aspettativa. Se il mondo aveva davvero deciso di farle un favore, avrebbe trovato ad aspettarla un ricco produttore televisivo incredibilmente bello, con muscoli da urlo e occhi che l’avrebbero spogliata non appena avesse messo piede lì dentro. Con le viscere che le ribollivano di aspettativa, aprì la porta.
E, in quell’unico, odioso, malefico istante, tutte le sue aspettative si sbriciolarono.
Ad aspettarla, con un sorrisetto ironico e uno sguardo divertito – l’aveva davvero spogliata con gli occhi! – c’era Duncan Rogers.
– Come sempre sei in perfetto orario, Principessa.
***
Se avesse in quel momento avuto un infarto o un possente aneurisma cerebrale, certo non sarebbero stati pari allo shock provato quando si dipinse davanti ai suoi occhi il volto serafico di Duncan – per non parlare del “Principessa” con cui l’aveva salutata e che aveva, per un millisecondo, fatto riemergere vecchie (e piacevoli, per quanto detestasse l’idea di ammetterlo) sensazioni.
Boccheggiò.
– S-sei tu la star che devo… D-difendere?
– Vuoi dire il toro da monta che ha danneggiato l’apparato uditivo del signor Smith?
– Datti tutti gli appellativi che vuoi, troglodita.
Duncan ridacchiò e poi le fece cenno di sedersi accanto a lui, sul divano di pelle bianca.
–  Nemmeno morta. Il mio completo Chanel potrebbe risentire della tua vicinanza – sibilò, a denti stretti, con l’istinto che le diceva di fuggire via a gambe levate e di scappare da quella stanzetta profumata.
–  Il tuo completo Chanel farebbe meglio a disintegrarsi – sussurrò lui, perverso e quasi eccitante; Courtney rimase ferma, immobile, tratteneva persino il respiro.
Perché una parte del suo cervello, quella razionale, quella ancora non appannata, le diceva di correre via a gambe levate.
Ma l’altra – e quello era il vero problema – le diceva solamente di spogliarsi e gettarsi tra le braccia dell’uomo che per anni aveva continuato a ferirla e che, dopo tre anni, ricompariva nella sua vita, proprio quando tutto stava andando per il verso giusto.
Con un fremito, deglutì.
–  Le tue proposte indecenti mi danno la nausea – sibilò, con voce metallica e concitata. Duncan sorrise, sardonico.
–  La verità, Principessa, è che sei diventata talmente algida che difficilmente ti farei anche una sola proposta indecente – rispose lui, sprezzante, con un tono che non ammetteva repliche.
Courtney strinse le palpebre e non reagì.
–  E poi, parliamoci chiaro… Posso avere tutte le donne che desidero. Dovrei accontentarmi di un avvocato scialbo e frigido?
–  Il problema è che stai facendo i conti senza calcolatrice, mio caro. Io non acconsentirei mai ad avere un qualsiasi rapporto con te, di qualunque tipo. La nostra stentata “collaborazione” finirà alle diciassette in punto, quando io avrò vinto il processo e tu sarai libero di proseguire nella tua attività di inseminatore di star rifatte.
–  Stai morendo dalla voglia di baciarmi da quando sei entrata, Principessa.
Courtney per poco non scoppiò a ridere nervosamente.
–  Tu lo stai facendo, caro.
Il battibecco venne interrotto dall’arrivo di un ospite inatteso. Matt Jones fece capolino e osservò la strana scena con una sorta di astio e curiosità evidenti.
–  Interrompo qualcosa?
–  No, Matt – si affrettò a rispondere Courtney, allontanandosi da Duncan (quando si erano avvicinati così tanto, poi?).
–  Comunque il processo sta per iniziare, Court. E, comunque, grande bel completo. Chanel?
Courtney annuì, soddisfatta. Matt Jones era una sottospecie di icona di stile, con i suoi completi creati su misura e il sorriso affascinante e il filo di barba tanto virile. Duncan mormorò qualcosa di troppo villico in sottofondo.
– È questo… L’accusato? – domandò Matt, osservando con una sorta di disgusto il crestino verde e la maglia bucherellata di Duncan. Il suo sguardo scivolò poi sulle scarpe da basket rosse.
– Intendi dire il porco che non sa nemmeno moderarsi durante un atto sessuale? – sbottò Courtney, riservando a Duncan un’occhiata di puro disgusto.
– Andateci piano con i complimenti. Potrei arrossire – replicò il suddetto “porco” con un tono di puro sarcasmo. Courtney gli riservò un’altra occhiata gelida.
– Come mai il signor Holmes ha deciso di prendere sotto la sua ala questa sottospecie di star radiofonica? – domandò a bassa voce Matt alla donna che gli stava accanto. Courtney fece spallucce, come a voler far capire che lei fosse totalmente estranea alla deplorevole vicenda.
– E poi – proseguì Matt, tutto infervorato – noi non difendiamo solo clienti con il portafoglio come minimo strabordante?
Courtney fu costretta a sospirare in maniera piuttosto evidente per poi proseguire la spiegazione a bassa voce.
– Lo so che la maglietta fa molto “barbone”, tuttavia, e non sai quanto mi costa ammetterlo, il tipo guadagna più di noi due insieme – spiegò, come se stesse rivelando la dinamica del delitto perfetto. Matt boccheggiò qualcosa di inconsulto, prima di scuotere ampiamente la testa e lasciare la stanza che nel mentre sembrava essere divenuta soffocante.
– Il tuo amico ha qualche problema di autostima, Principessa? – mormorò Duncan, non appena Matt fu uscito.
– Sta’ zitto, miserabile – replicò lei, guardando l’orologio con una certa ansia. Duncan approfittò del fatto che fosse momentaneamente distratta per avvicinarsi a lei.
– Allontanati.
– Non hai un briciolo di autocontrollo quando sono nei paraggi, Principessa – soffiò Duncan sul suo collo, facendole venire brividi a fior di pelle. Courtney si allontanò di scatto.
– Per favore. Eliditi.
– Principessa? – la chiamò lui, con un sorriso sornione e malizioso – Non sarebbe bello se questa sera festeggiassimo la tua ennesima vittoria in aula… Alla vecchia maniera?
– Taci.
Duncan si avvicinò ancora di più, pericolosamente.
– Ciò che rimane di noi è solo questo? Astio, paura, pericolo? Disprezzo, veleno? – sussurrò Duncan, ipnotico. Era talmente vicino che Courtney poteva sentire l’odore del suo alito, così caldo e avvolgente. Quasi inebriata, si sporse automaticamente verso di lui. Poteva immaginare il sapore del suo bacio, la sensazione delle labbra di Duncan che si muovevano in sincrono sulle sue, e le sue mani che l’avrebbero sfiorata e poi spogliata e sarebbe stato il Paradiso, il Nirvana, o qualsiasi altro posto di estasi mistica.
– Vuoi baciarmi? – sibilò lui, e si passò la lingua sulle labbra. Tornarono a galla, nella mente di Courtney, immagini e sensazioni così vecchie che forse non credeva nemmeno di poter ricordare ancora. L’eccitazione, la ferocia con cui Duncan la voleva e poi il sinuoso appagamento, sempre lento e indescrivibilmente tenero. I contatti casuali, i litigi, i baci che le avevano scavato un solco nel petto e le lacrime che invece le avevano inciso la carne, a fondo.
Gwen.
– Stai aspettando il mio bacio, Principessa?
– A che serve aspettare qualcosa che non vuoi che arrivi?
Courtney si allontanò e uscì dalla stanza.
***
­– Dichiaro l’imputato non colpevole.
Il martelletto sancì la fine del processo. Courtney emanò un sospiro liberatorio, riassettandosi la toga nera con una certa eleganza. Sbrigate le ultime formalità burocratiche, sarebbe potuta tornare a casa per godersi una serata in tutto relax. Una bella cena take-away e un film rinomato l’avrebbero sicuramente aiutata a togliersi dalla testa Duncan.
– Abbiamo fatto una bella figura, no?
La voce di Matt si insinuò tra i suoi pensieri, risvegliandola.
(Come sarebbe andata a finire se prima l’avesse baciato? Perché lei voleva baciarlo, voleva davvero.)
– Ottima figura, direi io – asserì Courtney, rivolgendo all’affascinante avvocato un sorriso piuttosto luminoso. Matt le diede una pacca leggera sulla spalla, in segno di stima e di affetto.
– Che ne dici, stasera festeggiamo? – proseguì lui, carismatico. Courtney sgranò gli occhi.
– F-festeggiare?
– Una bella cenetta in un ristorante a cinque stelle, suvvia. Abbiamo vinto un processo, Mr. Holmes sta per lasciarci una fortuna… Non credi sia il caso di festeggiare?
Courtney tremò impercettibilmente. Non poteva di certo nascondere a se stessa che Matt fosse un gran bel pezzo di uomo, il sogno erotico di diverse donne che erano passate dagli uffici di Mr. Holmes. Tuttavia, l’idea di passare una serata da sola con lui per poi finire, inevitabilmente… Represse un altro brivido.
– Ecco, io… Avevo già progettato… - balbettò, nervosa.
– Esci con Rogers? – tagliò corto Matt, con uno sbuffo di impazienza.
– Nemmeno per sogno! – replicò la donna, a voce piuttosto alta. Matt allora si calmò e le sorrise, benevolo.
– Sei sprecata per quel buzzurro – le rivelò, come se tutta la saggezza del mondo fosse racchiusa in quelle poche parole.
***
Salì in auto, piuttosto nervosa. Non riusciva a capire per quale assurdo motivo Matt Jones volesse uscire con lei. Matt Jones sembrava essere geloso di Duncan. Matt Jones. Mise in moto e di sfuggita notò il proprio volto riflesso nello specchietto retrovisore. Guance arrossate e occhi lucidi. Sembrava una dodicenne vittima di scombussolamenti ormonali. Quando abbassò lo sguardo, notò un bigliettino piegato con cura sul sedile del passeggero. Il suo cuore perse un paio di battiti e, con mani tremanti, lo aprì.
 

“È perciò saggia, bella e sincera com'è, e avrà sempre un posto costante nel mio cuore.”
 

Courtney rabbrividì. Di nuovo Shakespeare. C’era qualcosa di dolce e di inusuale in quei messaggi. Qualcosa che faceva pensare a un cavaliere d’altri tempi. Qualcosa che lei, puah!, riteneva profondamente stucchevole. Evidentemente aveva fatto centro nel cuore di un maniaco. Appallottolò il biglietto e lo scaraventò fuori dall’auto. Odiava essere presa in giro in quel modo.
***
Bzzzz.
“E come sempre, buonanotte Ottawa.
Dorcas è stata la fortunata per questa
notte. Domani potrebbe toccare a voi!
Ora vado a godermi un buon meritato
riposo in compagnia di…? Non posso
rivelarvi il nome della donna che mi appresto
a trastullare, ma ricordate… Un giorno
potreste essere voi, care ascoltatrici!
Un bacio… Caliente!”
 
– Porco matricolato – sussurrò Courtney, prima di spegnere la radio e scacciare una fastidiosa lacrima che tentava di uscire.

 

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Capitolo 2
*** What we used to be. ***


Voice.
Capitolo due: “What we used to be.”
 

I never felt nothing in the world like this before;
now I'm missing you and I'm wishing
 you would come back through my door.
Why did you have to go?
[…]
Been a long time since you called me…
How could you forget about me?
[Elliot Yamin, Wait for you]

 
 
Bzzzz.
“Buongiorno, Ottawa. Mmm, oggi è già
venerdì. Ho una terribile notizia da darvi:
questa notte, graziose fanciulle, non sarò
con voi. Ho un appuntamento con una tipa
da sballo e ho chiesto al tizio delle previsioni
del tempo di sostituirmi. Già sento i vostri
lamenti, graziose pulzelle. Purtroppo i miei
doveri di uomo chiamano e io ho ass-…”
 
– Buongiorno anche a te, Duncan – mormorò, ancora assonnata, Courtney. Dal giorno del processo (erano già passati quattro giorni?) il tizio non si era fatto più sentire. L’assegno con diversi zeri era arrivato puntuale sulla sua scrivania e lei aveva preso silenziosamente atto del fatto che si era davvero tratta di una “collaborazione” forzata e temporanea. E, in verità, Courtney non aveva voluto altro – o almeno, era di questo che stava ancora cercando di convincersi. Mescolò in caffè rimasto sul fondo della tazza con una certa stizza: odiava il fatto di sentirsi ancora legata a Duncan in una qualche misura.
Per tre anni – non otto settimane, non dieci mesi – Duncan Rogers era sparito dalla sua vita. Cancellato, svanito, perso in chissà qualche meandro o quale dimensione. Poi era riapparso, con quella faccia di bronzo, ed era diventato il nuovo idolo delle donne di Ottawa. Non pago, era riapparso anche nella sua triste vita, così, un pomeriggio, denunciato per disturbo della quiete pubblico. Courtney si morse il labbro inferiore quasi con ferocia: era sempre stato il suo modo di fare l’amore, quello. Dolce sì, ma anche – incredibilmente, favolosamente, assurdamente – spettacolare.
Il palmare di Courtney emise un suono flebile che la ridestò da quei pensieri nefasti. Le era arrivato un messaggio da un numero sconosciuto e irrintracciabile.
 

“Dubita che la verità sia mentitrice, ma non dubitare mai del mio amore.”

 
La donna alzò gli occhi al cielo. Il maniaco le inviava puntualmente due messaggi al giorno: che fossero scritti su un bigliettino bianco, via e-mail, via messaggio, non aveva importanza. Ne arrivavano puntualmente due. Courtney era stata sfiorata dall’idea di mettere tutto nelle mani della polizia e di sporgere denuncia contro ignoti, ma c’era qualcosa di affascinante in quelle dichiarazioni d’amore.
Sognava un uomo colto e timido, impacciato ma dolce, delicato ed elegante. Un uomo che sapeva rendere perfino le opere di Shakespeare interessanti, pure l’“Amleto”. La parte razionale, dopo quei pensieri da fata turchina, prendeva il sopravvento: era uno schifoso maniaco che era riuscito a reperire tutti i suoi contatti in maniera astuta e subdola. La seguiva più o meno ovunque e dimostrava di conoscere le sue abitudini.
­– Una storia d’amore normale no, eh? – sbuffò Courtney, all’indirizzo della lavatrice, persa nei dubbi esistenziali che sembravano oramai seguirla ovunque. Non riusciva proprio a scrollarsi di dosso le sensazioni che la vicinanza di Duncan le aveva fatto provare. Emozione, desiderio, ma anche rabbia, disgusto. Il palmare squillò di nuovo, questa volta per segnalare una chiamata in arrivo.
– Parla l’avvocato Courtney Adair, chi c’è in linea? – domandò, come di consueto. Il respiro affannoso proveniente dal microfono del telefono le fece pensare di nuovo al maniaco.
– Uhm, ehm… Courtney? Sono Matt!
La donna sospirò di sollievo: evidentemente il maniaco ancora non aveva deciso di proseguire la sua persecuzione con quei metodi sessualmente inaccettabili.
– Buongiorno, Matt! C’è qualche problema? – rispose, gioviale, Courtney, del tutto sorpresa dalla chiamata del collega. Matt era quel genere di persona che non amava avere contatti con i propri collaboratori al di fuori dell’ambiente lavorativo.
– Temevo di averti svegliata... Manca ancora un’ora e mezza all’appello di Mr. Holmes! – mormorò lui, quasi per scusarsi.
– Sono sveglia da un po’… Comunque, hai bisogno di aiuto?
– In realtà volevo, ehm, chiederti se ti andasse di fare colazione con me prima di affrontare l’ennesima giornata lavorativa!
Courtney rimase di stucco. Matt Jones ci stava evidentemente provando con lei!
– Ehm, va bene… Insomma, ci sto! – esclamò lei in risposta. Se Matt Jones era davvero interessato a lei, perché respingerlo? Era più o meno l’uomo perfetto, a parte qualche lieve tendenza megalomane, qualche picco di presunzione e la tendenza a essere estremamente permaloso.
– Fantastico! Sei ancora a casa? Ti passo a prendere, ecco…
– Bene, a tra poco!
Courtney chiuse la comunicazione con un crescente batticuore. Matt Jones voleva uscire davvero con lei.
***
Stralunata e sconvolta. Courtney non poteva sentirsi diversamente, rientrando a casa, quella sera. Dire che l’appuntamento con Matt fosse stato in gigantesco flop era un eufemismo. Non aveva smesso di parlare, parlare, parlare… Dell’andamento in borsa della società, dei suoi piani per il futuro, del colore della pittura con cui avrebbe voluto ritinteggiare le pareti del suo ufficio, della malattia del suo cane (“Un raffreddore canino, hai presente? Ha starnutito persino sul mio completo di Scervino!”), dei pettegolezzi su Mr. Holmes e i suoi titoli nobiliari comprati su Ebay. Non c’era nulla – nulla, nemmeno un pezzettino microscopico – in Matt Jones che a Courtney potesse lontanamente piacere. Per di più il maniaco si era sbizzarrito quel pomeriggio: davanti alla porta del suo appartamento, la giovane donna aveva trovato una copia in edizione limitata di “Romeo e Giulietta”, di quelle antiche e sicuramente costose. E accanto, una rosa dal fastidiosissimo color sangue.
– Follie – mormorò, gettando a terra i cuscini del divano e sdraiandosi su di esso, esausta. Non riusciva proprio a comprendere per quale nefasto motivo Matt Jones si fosse rivelato così deludente. Era un pallone gonfiato, pieno di sé sino all’inverosimile, riottoso quando si mettevano in dubbio la sua professionalità e magnificenza.
Matt Jones era così poco… Duncan.
Il pensiero la colpì come un fulmine a ciel sereno: Matt Jones poteva essere tutto e poteva avere tutto, ma non sarebbe mai stato Duncan. Non avrebbe avuto nessuna inclinazione verso la trasgressione delle regole e non avrebbe rinunciato mai a uno spruzzo di deodorante; non l’avrebbe baciata in maniera quasi rude né mai l’avrebbe fatta sentire insopportabile e odiosa e nevrotica e schizofrenica.
Courtney – lei lo realizzò poco dopo – sarebbe sempre stata perfetta agli occhi di Matt Jones, seconda in perfezione solo a Matt stesso.
E tutta questa perfezione aveva il sapore di patetismo gratuito.
***
Bussarono alla porta del suo appartamento poco dopo. Courtney, che aveva quasi preso sonno sul divano, si alzò di scatto, temendo che il maniaco fosse giunto finalmente a pretendere il pagamento per la costosa copia dell’opera di Shakespeare. Si avvicinò alla porta, conscia del fatto che la finestra della cucina si apriva direttamente sul pianerottolo della scala antincendio. Sbirciò dallo spioncino, sicura del fatto che si sarebbe trovata davanti la faccia di uno sconosciuto armato di ascia. Invece, ad aspettare sbuffando, c’era solo Duncan.
– Tu, qui? – riuscì a dire la donna, quando aprì la porta e si ritrovò davanti l’uomo che detestava. Duncan rispose con un sorrisetto che la diceva lunga. Sembrava vagamente brillo.
– Andiamo, Principessa. Sono venuto per parlare – rispose lui, quasi indignato dalla mancanza di fiducia della donna.
– E di cosa, di grazia?
– Mah, di follie vecchie quanto il mondo – rispose, alquanto evasivo, l’uomo; si addentrò nell’appartamento di Courtney e si guardò intorno.
– Le n-nostre… Le nostre fotografie? – balbettò, imbarazzato, quando si accorse che tutte le vecchie istantanee con cui Courtney aveva decorato la stanza era sparite.
– Buttate. Stracciate. Fatte a pezzi. Volevo che mi somigliassero.
– Non iniziare a fare la tragica, bambolina.
– Perché sei venuto? – mormorò lei, quasi sconvolta dalla sua apparizione.
– Per ricordare un po’ i vecchi tempi… Ammetto che rivederti, lunedì, mi ha fatto un certo effetto – rispose Duncan, imbarazzato. Andò a sedersi sul divano di pelle bianca e le fece segno di accomodarsi accanto a lui.
– Beh, potevi evitare di darmi della “frigida”, Mister Maleducazione – sibilò la donna, andando a sedersi accanto a lui. Duncan sospirò.
– Non ne combino mai una giusta, vero? – domandò, retorico, con gli occhi rivolti verso il soffitto.
– Sei sparito per la bellezza di tre anni. Non mi sembra esattamente un comportamento normale – sbuffò lei, passandosi una mano tra i capelli castani.
– Beh, tre anni fa la nostra storia sembrava essere divenuta così…
– Seria, Duncan. Seria. Eri l’uomo con cui avrei passato volentieri il resto della mia vita – gli ricordò Courtney, incrociando le braccia al petto.
– Beh, eravamo quello che tu credevi fossimo destinati a essere – puntualizzò Duncan, guardandola quasi con astio. Courtney alzò gli angoli della bocca in una pessima imitazione di un sorriso ironico.
Eravamo, appunto. Duncan Rogers, per la prima volta in vita tua, hai saputo coniugare un verbo decentemente. Eravamo. Imperfetto indicativo, azione continuativa, terminata nel passato.
– Sei di una perfidia unica – mormorò Duncan, sprofondando sul divano, improvvisamente quasi triste.
– E tu? Tu non sei stato perfido? Tu non mi hai mollata per tornare da Gwen proprio quando la nostra relazione era diventata quantomeno stabile? – lo incalzò Courtney, sporgendosi verso di lui.
– Ero spaventato dall’eventualità di ess-…
– Va’ a quel paese, Duncan. Sai qual è il punto? Che nel mio cervello il nostro amore è rimasto fermo al condizionale, a quello che saremmo potuti essere.
– Non è una lezione di grammatica, questa – sbottò l’uomo, alzando gli occhi al cielo. Courtney ridacchiò.
– Non sei mai stato bravo con la grammatica – mormorò lei, con le labbra incurvate in un sorriso. Duncan le sorride di rimando.
– C’eri sempre tu pronta a correggermi. Non avevo certo bisogno di lezioni private – rispose lui, rilassandosi. Courtney lo guardò, fissando i suoi occhi azzurri e in quel momento sereni. E avvertì che non c’era nulla di sbagliato nel fatto che le loro mani si erano ritrovate all’improvviso intrecciate e che le loro bocche erano a pochi centimetri di distanza.
Gwen.
Courtney sciolse la stretta che legava le loro mani e si allontanò di scatto. Duncan sgranò per un secondo gli occhi, poi si ricompose.
– Non va proprio, vero? – mormorò l’uomo, sorridendole quasi a forza. Courtney abbassò lo sguardo e poi iniziò a strillare, a un passo dall’isteria.
– Sei fuggito con Gwen. Te la sarai trombata in ogni singola camera d’albergo di ogni singola città europea che avete visitato. Continui a dare ripassate a qualunque donna abbia le gambe spalancate dalla nascita. E pretendi che io mi lasci abbindolare da qualche bella parola – urlò la donna, dopo essersi alzata in piedi. Duncan la ascoltò con espressione neutra. Nel bel mezzo del rimprovero si alzò e si diresse verso la porta. Prima di chiudersela alle spalle, mormorò a Courtney poche parole.
– Se ti stai ancora chiedendo perché sono scappato tre anni fa, hai appena trovato la risposta, Principessa.
***
Courtney, dopo aver ascoltato quella velata dichiarazione che Duncan le aveva fatto su Radio Voice, non riusciva decisamente a dormire. Mezzanotte era passata da un bel pezzo e l'alba di una nuova giornata faceva capolino.
Un sabato come quelli che aveva passato per tre anni, se si escludeva che Duncan era tornato, che Duncan sembrava ragionevolmente essere attratto da lei e che un maniaco la tampinava senza un motivo ben preciso, a meno che nel suo volto non avesse rivisto l'infantile beltà di Giulietta.
Tuttavia, quella notte, Courtney si sentiva tutto meno che bella e infantile, con le occhiaie gonfie sotto gli occhi castani e la totale incapacità di articolare pensieri diversi da quello di lei e Duncan su quel divano (se qualche ora prima lo avesse baciato, certo.) Un moto di sconforto sembrò pervaderla quando, qualche minuto o forse qualche ora dopo, l'ovvietà della situazione in cui si era ritrovata le apparve dinanzi, chiara e velenosa: Duncan voleva soltanto scoparsela.
Con stizza crescente, si avvicinò al lavabo per afferrare una tazza pulita e vi versò dentro una ragionevole quantità di caffè lungo e freddo, per berlo poi rapidamente. Che non volesse dormire, lo testimoniavano anche i suoi occhi: le pupille nere si confondevano con l'iride scura, il bianco della cornea aveva acquisito una strana sfumatura rossastra su cui risaltava qualche capillare.
E, forse per rendere quella regale visione ancora più terribile, Courtney decise che era proprio giunto il momento di scaricare la nuova posta elettronica.
Solitamente le inviavano quelle mail inutili in cui si pubblicizzava di tutto: dai vibratori al sapore di violetta a sale da cucina aromatizzato al bergamotto. Avrebbe messo a ferro e fuoco il mondo pur di non dormire, per non ritrovarsi la faccia da schiaffi di Duncan ad aleggiare nei suoi sogni, per non ritrovarsi a immaginare il sapore dei suoi baci onirici.
Fortunatamente, a interrompere le sue malevole fantasie, ci fu il segnale sonoro che testimoniava come la sua connessione alla rete fosse perfettamente attiva e funzionante, pronta per essere utilizzata. Digitò rapidamente un indirizzo di un server di posta elettronica, digitò altrettanto rapidamente username e password e si ritrovò a scorrere una lista di settantanove nuove mail.
Se avesse dato retta soltanto alla metà di quello che le era arrivato, doveva considerarsi la persona più fortunata a questo mondo: vincite di fantomatiche lotterie, benedizioni direttamente dall'Altissimo, super sconti solo per lei...
Poi, in tutto quel ciarpame da cestinare, scorse una mail inviata da uno strano indirizzo: romeo_s_still_alive@gmail.com.
Con mani tremanti, cliccò due volte sulla mail che, come oggetto, aveva un semplicissimo "Tu". Un secondo dopo apparve il messaggio in essa contenuto. Courtney si apprestò a leggere le prime righe, rabbrividendo visibilmente.
 
"Cara Courtney,
finalmente mi decido ad abbandonare i voli pindarici del compianto William nonché le sue parole che mi scaldano la voce come pura poesia, per scriverti di mia mano. Come ben sai, l'antica arte del corteggiamento prevede rose, regali, sillabe sussurrate all'orecchio del futuro amante, presagio delle dolcezze dell'amore carnale e della beatitudine della vita coniugale.
So che potresti avere timore di me, ma sono un uomo che saprà difenderti dalle inside della vita. Se me lo permetterai, ti darò in dono ricchezze senza tempo e ti supplicherò di fuggire con me, alla volta delle mie dimore centenarie, chiamate dalla maggior parte con il volgare nome di "castelli".
Assaggeremo i nostri frutti su tappeti di Persia e d'Oriente, tra le favolose stoffe dell'antica Venezia, risorta dai mari come monito di ricchezza, su lussuosi cuscini di seta pregiata.


La mandibola di Courtney si abbassò di qualche centimetro.

Accarezzerò i tuoi capelli luminosi e ti osserverò ridere come facevi questa mattina, circondata da volgari gerani, all'indirizzo di un baldo giovane che - non temere, amor mio - presto non sarà più d'ostacolo per il nostro amore.
 
– Merda, Matt – sussurrò, d'istinto, Courtney.
 
Accarezzerò le tue mani scure, ornate da quel semplice anello che oggi portavi, per riempirle di diamanti, splendenti e perfetti, immortali e lussuosi, come te.

Gli occhi di Courtney si abbassarono sulla sua mano sinistra, là dove un semplice tris di ametiste risplendeva. Strinse il pugno, con forza.
 
Navigheremo mari sconosciuti e tu ne sarai la regina, amore. Tu, che hai rapito il mio cuore e hai buttato la chiave. Tu, che hai silenziosamente cambiato il mio concetto di gravità: sei tu, amor mio, che mi tieni ancora legato a questa terra mortale. Tu, con il tuo candore e la tua bellezza da Madonna. Permettimi di amarti.
                                                                                                                                                                                                                               Sinceramente tuo,
                                                                                                                                                                                                                                                 Romeo" 

                                                                                                                   
Una rabbia accecante si impossessò di Courtney, la quale, con uno scatto fulmineo, si alzò dalla sedia e iniziò a chiudere ogni singola fessura potesse esserci in quella casa. Per un secondo pensò bene di andare a recuperare la pistola con cui, qualche anno fa, si allenava al poligono, ma ciò significava scendere nelle cantine del palazzo, esponendosi a rischi inutili. Avrebbe denunciato il maniaco, decisamente.
Prese un coltellaccio da cucina e si appostò dietro la porta, pronta a passare lì quel che restava della notte, se fosse stato necessario.
***
Il sabato passò senza particolari intoppi. Courtney decise finalmente di andare a riposare, perché proprio non ce la faceva a stare in piedi un secondo di più. Quando si risvegliò, ed era davvero molto tardi, decise, per il suo bene, di uscire.
Certo, ormai era un avvocato navigato che stava per ereditare una società legale fruttifera, e certo, andare in un volgare pub o in una discoteca non era alla sua altezza, ma sentiva il bisogno quasi primitivo di uscire a fare baldoria per sfogare nella maniera meno elegante del mondo la rabbia, il terrore, la frustrazione che gli ultimi avvenimenti avevano causato. Indecisa se chiamare Matt per farsi accompagnare, decise infine che avere al suo fianco un uomo forte e muscoloso come lui avrebbe sicuramente fatto vacillare i propositi del maniaco, che lei immaginava come rachitico, nervoso e anche povero.
Matt, come di consueto, rispose al secondo squillo e fu ben felice di accettare l'invito della donna. La situazione, tra loro, stava prendendo una sorta di piega inaspettata, si disse Courtney mentre si infilava un tubino nero.
C'era come una sorta di dipendenza reciproca: Courtney, e questa consapevolezza la lasciò basita, non era stata nemmeno sfiorata dalla possibilità di chiamare Duncan. Matt era stata la prima persona che le aveva ispirato quel senso di protezione a cui tanto anelava.
Passò a prenderla alle venti un punto, bello ed elegante come sempre. Strabuzzò per un attimo gli occhi davanti alla figura esile di Courtney, fasciata da quel tubino nero e saldamente ancorata a un paio di sandali dorati che le regalavano molti centimetri. I capelli, per una volta raccolti, ricadevano in onde morbide ai lati del viso.
– Sei... Stupenda – balbettò Matt, squadrandola da capo a piedi. Courtney si sentì arrossire e fece appena un cenno come ringraziamento.
Mangiarono in un ristorante di lusso con vista sul Parlamento canadese, chiacchierando del più e del meno. Matt, notò Courtney, sembrava molto più rilassato rispetto a quella mattina, e molto più appetibile.
Con l'aiuto di una qualche divinità, probabilmente avrebbero finito per rotolarsi su quello stesso divano su cui lei aveva deciso di rotolarsi con Duncan.
E quando ripresero l'auto e Matt la sospinse gentilmente verso il posto del passeggero, indugiando con la mano calda sul suo fianco, Courtney seppe che quello scenario paradisiaco non doveva essere poi così lontano.
– Vogliamo bere qualcosa? – domandò l'uomo, osservando con un certo compiacimento le loro mani intrecciate sulla leva del cambio. Courtney alzò gli occhi e gli sorrise.
– Certo, per me va bene – rispose con semplicità, osservando di sottecchi quell'intreccio spettacolare e godendosi la sensazione della pelle di Matt sulla sua. Stava fantasticando già da un bel pezzo ed era già arrivata a una parte piuttosto eccitante, quando Matt parcheggiò l'automobile e la invitò a scendere. Courtney, risvegliatasi da quelle fantasie e lievemente frastornata, fu ben lieta di appoggiarsi al suo braccio per essere sostenuta mentre entravano in un locale chic.
Courtney si sentì straordinariamente bene, almeno fino a quando non riuscì a scorgere, nella penombra del locale, due figure molto familiari.
Duncan e Gwen.
Non avrebbe potuto giurare che fossero esattamente loro, ma un senso di malessere la pervase. Quasi le mancava l'aria.
– Andiamo via, ti prego – sussurrò a Matt, ma non gli diede nemmeno il tempo di rispondere. Era già fuggita via.

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Capitolo 3
*** Backgrounds. ***


Voice.
Capitolo tre: “Backgrounds.”

 

Although it hurts, I’ll be the first to say
that I was wrong.
Oh, I know I’m probably much too late
to try and apologize for my mistakes.
But I just want you to know…
I hope he buys you flowers,
I hope he hold your hands,
give you all his hours
when he has the chance.
[Bruno Mars, When I was your man]

 

Bzzzz.
“… E come sempre, care ascoltatrici,
vi ricordo che il sottoscritto vi adora
e vi venera. Quando vorrete passare
dal mio letto, basterà farmi uno squillo,
perché mi troverete già pront-…”
 
– Spengi quello schifo!
La voce irata di Courtney Adair risuonò per tutto il settimo piano della compagnia legale di Mr. Holmes, tanto che perfino qualche segretaria dei piani sottostanti venne ad assicurarsi del fatto che tutti stessero bene. Courtney la mandò galantemente al diavolo, prima di ricadere sulla sedia, con uno schianto secco. Odiava – odiava – che perfino la sua cara segretaria stravedesse per Duncan e che lei fosse costretta a sentire la sua voce ogni secondo, perfino quando stava beatamente cercando di lavorare. Amanda, da mirabile segretaria quale era, si scusò con un’espressione piuttosto contrita, ma non seppe trattenere un sorrisetto di pura consapevolezza. Le segreterie possedevano un sesto senso per gli affari altrui che Courtney riusciva soltanto a detestare.
– Dio, Dio! Ma che schifo è questo? Perché l’unico pensiero che qui dentro si possiede è come sarebbe farsi sbattere da Duncan Rogers? Amanda, sei un’incompetente –  trillò di nuovo Courtney, sfogliando con furia le carte che aveva davanti. Amanda comparve sulla soglia del suo studio e Courtney la fulminò con lo sguardo.
– Dio buono, Amanda! David Rogers si è costituito parte civile! D–A–V–I–D! Posso sapere per quale motivo hai invece scritto, su ogni singolo foglio di questa cartella, “Duncan”? – strillò la donna, come un’ossessa, rivolta alla sua segretaria, che ora tremava sulla soglia.
– Mi scusi… Ero, ehm, distratta – bofonchiò la povera Amanda, abbassando la testa in segno di scuse. Courtney rispose con un urlo belluino.
– Possibile, ripeto, possibile che qui dentro basti sentire la sua voce per dare di matto, eh? – continuò Courtney, alzandosi e sbattendo i fascicoli errati tra le braccia di Amanda – Li voglio correnti entro un’ora! – sbraitò, spingendola via in malo modo. Amanda non seppe ribellarsi.
– E non mi interessa cos’altro hai da fare – continuò, tornando a sedersi al suo posto – Per me può scendere anche qualche divinità, ma entro un’ora voglio quei fascicoli qui, sulla mia scrivania. Corretti. E se ti becco ad ascoltare di nuovo quella stupida trasmissione radiofonica o, più semplicemente, Radio Voice, ti licenzio!
Amanda tremò di terrore, tanto che due secondi dopo aveva già lasciato l’ufficio di Courtney per andare a svolgere il lavoro che le era stato assegnato.
Dentro il suo ufficio, un’affranta Courtney Adair sospirò. “Farsi sbattere da Duncan Rogers”, ecco quale era il motto nefasto che vigeva in quella gabbia di bertucce: avrebbe voluto gridare a gran voce che farsi sbattere da Duncan Rogers era fantastico, ma non sarebbe stato di certo appropriato. Così, sempre più affranta, decise, per il suo bene, di scaricare la posta elettronica prima di dedicarsi alla revisione di alcuni verbali.
Senza essere capace di trattenere un brivido di pura angoscia, notò che il mittente della mail amorosa era tornato all’attacco: accanto all’indirizzo romeo_s_still_alive lampeggiava una nuova mail. Courtney l’aprì, per nulla tranquilla.
 

“La dodicesima notte si avvicina, e tu sarai mia.”
 

Nove parole. Secche e decise. Perfino inquietanti. Courtney, all’improvviso, non riuscì a provare null’altro che rabbia.
– Perverso, schifoso maniaco! Lurido figlio di puttana! Se ti avessi tra le mani adesso… Oh, quanto sangue! Quanto sangue!
Quella mattina molti avvocati della compagnia legale del signor Holmes dovettero spaventarsi parecchio. Il loro futuro capo Courtney Adair sembrava davvero essere impazzita. Sbraitava e strillava con una forza tale che la maggior parte degli occupanti del palazzo chiese febbrilmente spiegazioni.
­– Ah, se avessi la mia pistola! Ti farei un buco sulla fronte, cretino! Ti farei in cinquanta pezzi differenti! Cinquanta sacchi per cadavere diversi! Buzzurro e inetto – continuò a strillare la donna, puntando un indice accusatore contro lo schermo del computer. Non riuscendo a resistere al richiamo di quelle urla così signorili, Matt Jones entrò nella stanza.
– Tutto bene? – domandò, affacciandosi appena, quasi temendo che Courtney potesse scagliargli addosso la scrivania. Lei lo guardò, smettendo all’improvviso di urlare. Poi, come animata da una sorta di perversa rabbia, si avvicinò all’uomo con passo marziale.
– Tu – sbottò, puntandogli un indice contro il petto – hai conoscenze nella Polizia, lo so. Ora, se non vuoi che ti stacchi quell’affare che hai in mezzo le gambe per farci il brodo di Natale, fai una telefonata e risolvi questo problema.
Matt Jones la guardò, impotente. Alzò le mani, poi si decise a bloccarle i polsi. Courtney rimase ferma, anche se la sua espressione fermamente contrariata tradiva l’agitazione che aveva dentro.
– Adesso respiri e mi spieghi cosa succede – la redarguì Matt, accompagnandola verso la scrivania – Poi farò qualsiasi telefonata tu voglia.
Courtney si sedette e incrociò le braccia al petto. Fece un gran respiro e poi lo guardò dritto negli occhi.
– Matt, un maniaco mi perseguita – esordì, senza peli sulla lingua. Poi si prese la testa tra le mani e con voce rotta iniziò a raccontargli tutta la storia.
***
Matt Jones poteva dirsi davvero un uomo fortunato se era riuscito davvero a placare l’indomabile Courtney. Con molta galanteria e senso di partecipazione, aveva ascoltato il suo racconto, annotando i punti salienti e poi facendo quella famosa telefonata. E ora, mentre un pallido sole cercava di intiepidire l’aria, si stava recando a casa di Courtney, per riferirle quanto aveva appreso.
– Irrintracciabile – esordì, quando la ragazza aprì la porta di casa facendogli spazio per entrare. Courtney studiò la sua espressione e poi scrollò le spalle, del tutto indifferente.
– Non mi interessa – sibilò, laconica, facendolo accomodare sul divano. Matt strabuzzò gli occhi, lasciandosi cadere tra i cuscini. Courtney si sedette accanto a lui.
– Non ho più intenzione di farmi condizionare la vita da un tipo così idiota – sbottò la donna, passandosi una mano tra i capelli. Matt sorrise, dolcemente.
– Ottima scelta – sussurrò Matt, riservandole un altro sorriso. Courtney fece spallucce.
– Faccia ciò che vuole. Prima o poi dovrà capitolare – proseguì la mora, alzandosi di scatto – Vuoi qualcosa da bere?
Matt annuì, sorridendole di nuovo. Courtney scomparve dentro la cucina e l’uomo non riuscì a non trattenere una risata allegra. Quando la donna rientrò, portando sul vassoio due bibite, seppe che era il momento di attaccare.
­­– Posso sapere perché sei fuggita, sabato sera? – domandò, innocentemente, lui. Courtney sospirò.
– Ti devo una spiegazione, vero?
Matt annuì, piuttosto serio.
– Mi era sembrato di vedere due persone che non volevo incontrare – spiegò, in imbarazzo. Matt le rivolse uno sguardo interrogativo.
– Il mio ex ragazzo e la ragazza per cui mi ha lasciato, anzi, con cui mi ha tradito – spiegò, la voce divenuta più tagliente. Un barlume di comprensione attraversò il viso di Matt.
– Uno stronzo, insomma – sintetizzò lui, passandole un braccio intorno alle spalle. Courtney si adagiò contro il suo petto, sospirando rumorosamente. La vicinanza con Matt la imbarazzava non poco, ma tentò comunque di rilassarsi.
– Va tutto bene – la tranquillizzò Matt, passandole una mano tra i capelli, accarezzandola come se volesse calmarla. Courtney si adagiò di più contro il suo petto, arpionandogli la camicia con una mano.
– Ehi, – scherzò lui, prendendole il viso tra le mani – se vuoi spogliarmi, avrei un’idea migliore…
Courtney sorrise, ma Matt era davvero troppo vicino e lei poteva sentire il suo odore.
Dopobarba.
Un centimetro guadagnato nella corsa delle loro labbra.
Pelle.
Un sospiro estatico, preludio del momento perfetto.
Matt.
Perché non riusciva a percepire altro che lui, il suo avambraccio sotto la mano e le sue dita che la stringevano appena sotto il mento. E i suoi occhi che la fissavano, che le dicevano che andava tutto, che sarebbe andato tutto bene.
Che avrebbero potuto essere ciò che lei e Duncan non erano stati, ciò che Duncan non aveva voluto che fossero
– Va tutto bene – ripeté Matt, prolungando quel momento estatico e sentendo Courtney tremare addosso a lui.
– Andrà tutto bene – soffiò, a un passo dalle sue labbra, Courtney, stringendo di più la presa sul suo avambraccio, pregando che il tremore non la fermasse. Matt piegò la testa verso di lei, avvicinando ancora di più le sue labbra. Sfiorò quelle della donna, saggiandone appena la morbidezza, prima di catturarle nelle sue. Courtney sentì il suo cuore perdere un battito.
Non sapeva baciare.
Non era Duncan.
E’ lo spinse via, lontano da sé, lontano da tutto quel dolore.
***
Si sentiva uno straccio. Martoriata, indifesa, tremendamente impaurita. Il fantasma di Duncan sembrava perseguitarla. Sembrava essere sempre con lei. Aveva respinto Matt, cacciandolo malamente dalla sua casa, anzi, sbattendolo decisamente fuori. Lui non aveva protestato, avendo probabilmente intuito ciò che si agitava nella mente di Courtney e poi era scomparso. Niente messaggi, niente chiamate, niente mail.
Sparito, insieme al maniaco.
La dodicesima notte si stava oltretutto avvicinando, ma Courtney aveva iniziato a temere che nessun Orsino sarebbe mai arrivato a chiederla in sposa dopo miliardi di peripezie.
Nessun Duncan.
La sera stava calando su Ottawa, silenziosa e ostile. Ombre e giochi di luci si alternavano sul soffitto della sua camera, mentre tentava disperatamente di non pensare a quanto Duncan, così lontano, così irrimediabilmente stronzo, stesse ancora condizionando la sua vita. Venne trafitta da un unico e solitario pensiero.
Lei lo amava.
Lo amava ancora, a dispetto della distanza e a dispetto delle circostanze. Del suo modo di essere e del suo modo di fare, del suo modo di rapportarsi.
A dispetto di Gwen.
Un rumore secco e un latrato quasi animalesco la risvegliarono dalle sue riflessioni. A quei suoni indistinti seguì un chiaro colpo contro la porta. Courtney si alzò per aprire, temendo anche questa volta il peggio. Poteva essere il momento della resa dei conti, il maniaco poteva essere arrivato per chiedere il pagamento del debito che, volente o nolente, aveva contratto con lui.
– Duncan!
L’esclamazione di sorpresa che seguì a quella rivelazione la aiutò a ristabilire i confini della realtà. Davanti alla sua porta c’era Duncan. Duncan che l’aveva presa per i polsi e l’aveva attirata contro di sé.
– Principessa – continuava a blaterare, come se fosse una sorta di mantra. Courtney si lasciò cullare dal suo abbraccio, ma un forte odore di alcool la insospettì non poco. Si staccò, di fretta, quasi volesse evitare il prolungarsi di quel contatto.
– Tu sei completamente ubriaco! – esclamò, notando come Duncan a stento si reggesse in piedi e come barcollasse, tentando di aggrapparsi alla maniglia. Aveva gli occhi lucidi e le labbra troppo rosse, sragionava.
– Non sono ubriaco, sono abbastanza certo di volere te! – strillò Duncan, come un ossesso, facendo qualche rapido passo verso di lei.
– Sei una bestia, allontanati – sbuffò lei, arretrando verso l’interno della casa. Duncan si fermò di colpo, come trafitto dalle sue parole.
– Sappi che ti voglio – sussurrò, con uno sguardo diabolico negli occhi. Courtney scosse la testa.
– Sei solo ubriaco fradicio – gli fece presente, indicandogli la porta con la mano. L’uomo rimase fermo e blaterò qualcosa di inconsulto prima di alzare di nuovo gli occhi verso il viso della donna.
– Ti ho sempre amata, Courtney – proferì, con un tono di voce che non ammetteva repliche. Lei scoppiò a ridere, in maniera quasi macabra.
– Non dire cazzate – sibilò, avvicinandosi e posandogli una mano sul petto per spingerlo via. Duncan le prese il polso e strinse forte.
– Mi fai male – sbuffò la donna, tra i denti, tentando in tutti i modi di staccarsi, ma l’uomo non le permise di muoversi di un centimetro.
­– Ti ho sempre amata – ripeté lui, scandendo bene le parole. Courtney tentò di muovere il polso, che lui teneva ancora imprigionato.
– Mi stai facendo male – sbuffò di nuovo, dato che sicuramente la stretta di Duncan le avrebbe lasciato un segno evidente. L’uomo le mollo il polso.
– Scusa – borbottò tra i denti, prima di gettarsi letteralmente addosso a lei – Abbracciami.
Abbracciami.
Le sue mani contro la schiena.
Abbracciami.
I capelli sfiorati dalle sue labbra.
Abbracciami.
Il suo calore contro il petto che la disfaceva in un punto indefinito all’altezza del cuore.
Le mille strade che avevano percorso e che li avevano condotti lì, a quel momento.
Le altri mille ancora da percorrere che li avrebbero portati chissà dove.
Strade ferme al condizionale, come il loro amore.
Strade che forse non avrebbero mai percorso o che forse avrebbero corso insieme.
Gwen.
– Gwen!
Courtney quasi sobbalzò. Nella foga del momento non si era accorta di aver lasciato la porta di casa aperta. Spalancata. E ora, con l’aria di chi ha ricevuto una forte padellata in testa, sulla soglia, c’era proprio Gwen. La vide boccheggiare, poi bestemmiare contro qualche santo albanese e poi riprendere a non capire. Comprensione, rabbia, invidia, furono tutte le emozioni che attraversarono il suo viso in un istante. Gelosia.
– Cosa diavolo stai facendo con quella? – strillò, senza nemmeno chiedere il permesso per entrare. Si fiondò su Duncan e lo strappò dalla presa di Courtney.
– E tu, stronza che non sei altro, hai deciso di approfittare di un uomo ubriaco, vero? – sbottò la Gotica, all’indirizzo della donna che era rimasta a bocca aperta. Duncan, ora in uno stato quasi comatoso, osservava entrambe senza proferir parola.
– Cosa ci facevi qui? – sibilò Gwen, strattonando il suo ragazzo. Quello rispose con un mugugnare indistinto.
– Cosa ci facevi qui? – ripeté, strattonandolo con violenza. Duncan, di nuovo, rimase in silenzio. Courtney osservò quello scambio di battute con un certo astio prima di accorgersi dell’ingombrante presenza di Gwen nel suo salotto.
– Violazione di domicilio – sibilò, metodica, gli occhi accesi da un lampo di vittoria. Gwen alzò gli occhi verso di lei, senza comprendere.
– Si chiama “violazione di domicilio”. Il fatto di essere entrata in casa mia senza essere stata invitata – le spiegò sommariamente Courtney, con un sorrisetto mellifluo.
– Guarda, Principessa, che sono venuta a riprendermi questo buzzurro. Era ubriaco ed è fuggito da casa mia. L’ho inseguito e ho trovato la sua auto giusto qui – spiegò, con calma. Courtney alzò educatamente un sopracciglio.
– Violazione di domicilio – ripeté, come se quelle tre parole potessero infonderle una forza sovraumana – Il che vuol dire che o uscite tutti e due molto in fretta da qui oppure chiamo la polizia.
***
Bzzzz.
“… Per questa mattina non ho molto
da dire, care ascoltatrici. Avete presente
quando combinate un guaio molto, molto
grosso e perdete una persona a cui tenete?
Una persona che amate?
In quel caso, vi consiglio soltanto una cosa:
prendete una corda e impiccatevi.”

 
 
 

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Capitolo 4
*** Where were you? ***


Voice.
Capitolo quattro: “Where were you?”

 
Lost and insecure, you found me. You found me.
Lying on the floor, surrounded, surrounded.
Why’d you have to wait? Where were you?
Where were you?
Just a little late, you found me. You found me. 
[The Fray, You found me
]
 
Bzzzz.
“I presentatori di Radio Voice vi annunciano
con estremo rammarico la sparizione di Duncan
Rogers. Il noto conduttore è scomparso da più
di quarantotto ore; le ricerche vengono portate
avanti in tutta la città, anche se la nostra amata
star non sembra aver lasciato indizi che potrebbero
facilitarne il ritrovamento.”
 
Courtney si prese la testa tra le mani, dopo aver spento la radio che ancora gracchiava. Non riusciva nemmeno a immaginare perché Duncan avesse deciso di svanire, di evaporare, di non lasciare traccia.
Come se non fosse mai esistito.
Scossa da un moto di rabbia, picchiò il pugno sul tavolo, pregando qualche divinità che quel cretino si facesse vivo, in un modo o nell’altro.
Vivo.
“Torna, ti prego, torna.”
Un altro pungo sbattuto sul tavolo della cucina fece traballare la tazza di caffè che la donna aveva davanti. Una miriade di fotografie giaceva in una pila disordinata proprio accanto alla tazza.
Fotografie. Fantasmi del passato catturati sulla carta lucida da obiettivi opachi. Silenzi immobili in cui Duncan sorrideva e la stringeva a sé; momenti immortalati entro i bordi di un foglio, incancellabili.
Non riusciva a capire perché fosse sparito: l’aveva persino chiamato, facendo recuperare il numero a un’affranta e piagnucolante Amanda. Tutto quello che aveva ricavato era stato l’ascoltare la metallica voce del nastro registrato della segreteria telefonica.
“Salve, sono Duncan Rogers, la prego di lasciare un messaggio vocale dopo il segnale acustico.”
Piatto, vuoto.
Eppure aveva richiamato, poi di nuovo e un’altra volta ancora; perché non riusciva a stare lontana dalla sua voce, non riusciva far funzionar la sua vita senza di lui.
Ci aveva provato, eccome se ci aveva provato: un giorno di fine novembre aveva giurato a se stessa che lei, con Duncan Rogers, aveva chiuso per sempre. Eppure doveva saperlo, doveva aver ormai capito che il “per sempre” nell’amore non è contemplato.
Un avverbio di frequenza troppo banale, troppo cristallizzato, per funzionare.
Così ogni tanto si concedeva di pensare a lui: magari durante una commedia romantica, che guardava da sola con una confezione di gelato ipocalorico tra le mani. Magari appena sveglia, quando si voltava e accanto a sé non trovava nessuno.
Si concedeva spesso di pensare a lui, doveva ammetterlo; più del dovuto e del razionale, dell’auspicabile e del necessario, più di quanto avrebbe perfino ammesso.
La verità le saltò agli occhi inevitabile e definitiva, mentre osservava nuvole scure addensarsi nel cielo: lei non aveva mai smesso di amare Duncan.
E proprio quel mai, quell’avverbio così forte e definitivo, che per lo più significava “addio”, aveva deciso di assumere la sfumatura di significato più pericolosa: l’impossibilità di fare qualcosa, qualcosa di essenziale, come smettere di pensare a lui.
***
– Amanda, oggi non vengo in ufficio – sussurrò, stanca e demotivata nella cornetta. Dall’altro capo del telefono le giunse un sospiro affranto.
– Miss Adair, sono Mr. Holmes; temo abbia digitato erroneamente il numero dell’interno.
Courtney trattenne a stento un’imprecazione, poi si costrinse a rispondere con garbo e con educazione.
– Mi scusi, Mr. Holmes; ero sicurissima di aver premuto il tasto giusto – ammise, alzando gli occhi al cielo e ringraziando qualche divinità per il fatto che Mr. Holmes non potesse vederla.
– La trovo piuttosto… Tra le nuvole, ultimamente – proseguì l’uomo, con la sua voce flebile ma estremamente dura.
– Ho avuto qualche problema di natura personale – spiegò, brevemente, la donna, senza soffermarsi sui particolari.
– Il signor Jones ha provveduto a informarmi del suo lieve esaurimento nervoso – replicò lui, adesso quasi comprensivo. Courtney strabuzzò gli occhi.
– Esaurimento? – domandò, incredula. Poté sentire Mr. Holmes sospirare nella cornetta.
– So che è difficile ammettere di essere mentalmente instabili, ma credo che lei debba prendersi un bel periodo di vacanza. E per quanto riguarda quella promozione… Per il momento lascerò tutto nelle mani del signor Jones; provvederà lui a reinserirti a tempo debito.
Il tono di Mr. Holmes, seppur pacato, non ammetteva possibilità di replica. Courtney boccheggiò qualche parola indistinta, prima di prendere bruscamente fiato.
– Mi sta licenziando? – domandò, tagliente, con le mani che le tremavano incessantemente.
– La prenda come una vacanza momentanea; non è necessario che venga a firmare le sue dimissioni: il signor Jones provvederà. La saluto.
Mr. Holmes aveva riattaccato. Courtney si guardò intorno, spaesata, senza avere coscienza di se stessa né dell’ambiente che la circondava. Si sentiva… Svuotata. Assolutamente priva di qualsiasi recettore sensoriale che la mantenesse inserita nel modo.
Galleggiava, ecco.
Per un nanosecondo si chiese se per caso non fosse morta, se un infarto fulminante non l’avesse appena colta e si trovasse oramai a galleggiare nel più puro Nirvana, da creatura benefattrice quale era.
La sua vita stava letteralmente andando a rotoli.
Sentì lo spettro di una risata gorgogliarle nella gola, poi scoppiò a ridere, istericamente. Doveva essere tutto un stupidissimo scherzo. Tra poco Mr. Holmes sarebbe venuto fuori da dietro le tende con una telecamera e il mondo sarebbe tornato al suo posto, tassello dopo tassello, attimo dopo attimo. Invece nulla si mosse nella sua cucina asettina.
Non un alito di vento, non lo squillo di un telefono né il ronzare rassicurante di una telecamera e di un microfono.
Doveva essere davvero morta, perché l’ultima cosa che sentì oltre alla propria disperazione, fu il marmo del pavimento contro il palmo delle mani e poi contro il viso; era tutto così gelido.
***
Courtney Adair era sempre stata una guerriera: avrebbe potuto confermarlo Chris McLean o i suoi ex compagni di squadra; avrebbe potuto confermalo Daisy Sweetlife (*), la cicciottella che sedeva accanto a lei al corso di biochimica al liceo, con cui intraprendeva lunghe discussioni logorroiche pur di farle ammettere di aver torto; avrebbe potuto confermarlo l’intero corpo docenti della Harvard Law School; avrebbero potuto confermarlo tutti, ma non Duncan.
Perché lei, per lui, non aveva combattuto abbastanza.
Indecisa, spezzata, si era chiusa in casa da due giorni ormai; Matt Jones sembrava essere sparito dalla sua vita e Duncan era ancora dato per disperso. Con un moto di crescente agitazione, riprese il telefono e compose il numero dell’uomo, ormai imparato a memoria.
Squillava.
Qualcuno rispose al quarto squillo.
– Pronto?
Una voce roca di donna, impastata di alcool e fumo probabilmente. Courtney rimase per un secondo paralizzata, prima di ritrovare la voce.
– Duncan? – domandò, piuttosto tremebonda, quasi temesse la risposta. La donna senza volto respirò rumorosamente nella cornetta.
– Sta dormendo – rispose, piatta, atona; Courtney rimase per qualche istante in silenzio.
– Dove… Dove si trova? – chiese, sperando con tutte le sue forze che Duncan stesse almeno bene.
– Ragazzina, non è affar tuo – sibilò la donna; Courtney strillò qualche parola rabbiosa, ma si rese conto troppo tardi che la sconosciuta doveva aver riattaccato da un pezzo. Con un moto di pura stizza, buttò all’aria i giornali e le riviste che aveva posato sul tavolino del salotto. Aveva in mente l’immagine di uno squallido motel, con Duncan avvolto nelle spire di quella puttana sconosciuta, una di quelle sgualdrine con il rossetto rosso sbavato e gli occhi dalle palpebre pesanti. Per un secondo, un dolore sordo le divampò nel petto. Si sentì mozzare il respiro.
Riprese a poco a poco il controllo di se stessa, mentre lacrime irrazionali le rigavano le guance e una rabbia folle verso se stessa si prendeva gioco di lei.
Lei, che negli ultimi tre giorni aveva a stento mangiato. Lei, che era stata persino licenziata perché troppo presa da una storia fatta a pezzi. Lei, che l’aveva amato e che forse non aveva mai smesso di farlo.
E lui, quel lurido porco, non aveva fatto altro che sparire per rifugiarsi da una squallida puttana da quattro soldi, chissà, forse nel Vermont per quanto ne sapeva lei. Si diresse verso la cucina, del tutto incapace di proferire la minima parola. La sua vita era appena finita nel dimenticatoio e, per quanto si fosse aggrappata al baratro, non sarebbe mai riuscita a risalire a galla.
***
Bzzzz.
“Duncan Rogers sembra essere definitivamente
scomparso dalla faccia della terra. Non sembrano
esserci nuovi indizi, anche se gli investigatori
stanno battendo nuove piste. Per il momento si
esclude l’ipotesi dell’omicidio o del suicidio,
anche se sembra attendibile l’ipotesi
di una sparizione volontaria dell’uomo.
Ultimamente, la vita dell’uomo non sembrava
essere molto regolare…”
 
Ottawa brillava in quella calda e rassicurante aria di fine settembre. A ogni angolo di strada, dove prima il suo sorriso svettava, c’era una foto in bianco e nero di Duncan, sormontata da una scritta poco rassicurante: “scomparso”. Courtney guidava con una sorta di vaga rassegnazione, senza prestare molta attenzione al volto della ragazzo; si sentiva osservata, anche se quelle foto a due colori non rendevano giustizia ai suoi occhi acquamarina. Strinse il volante tra le mani con maggiore forza, prima di svoltare bruscamente a destra, immettendosi in uno dei viali più trafficati della città. Aveva bisogno di un nuovo lavoro e dato che ormai l’avvocatessa Adair aveva un certo fascino negli ambiente giuridici della città, si era finalmente decisa a fare il grande passo: mettersi in proprio. Aveva guadagnato abbastanza per permettersi un modesto ufficio nella City di Ottawa, qualcosa di non troppo appariscente, ma di estremamente professionale. L’agente immobiliare l’aspettava, anche se l’orologio segnava ormai le diciotto.
– Buonasera – lo salutò Courtney, dopo aver speso ben otto minuti e diciannove secondi a cercare di ritrovare l’appartamento lungo la via. L’agente immobiliare, un tipo magro e alto e persino giallognolo, la salutò con un cenno secco del capo.
– La puntualità – sbottò, riservandole un’occhiata risentita. Courtney lo fulminò con lo sguardo.
– L’educazione – sibilò in risposta, ticchettando con le sue Louboutin sino alla finestra, dalla quale la strada più trafficata di Ottawa era ben visibile.
– Le piace l’appartamento? – proseguì il tizio, scuro in volto, con un tono di voce piuttosto tagliente. Courtney annuì, continuando a guardare fuori dall’ampia finestra.
– Come vede, l’appartamento è centralissimo e molto grazioso, nonché ben illuminato. Se vuole seguirmi, le mostro la stanza principale.
La donna lo seguì osservando l’ottima dinamica di tutto l’appartamento: ingresso ampio e spazioso, una bella finestra che dava luce, faretti che illuminavano la stanza in maniera soffusa, ben incastrati nella cornice del soffitto.
– Tra l’altro, l’accesso è molto confortevole, con tanto di meraviglioso cortile interno – le fece notare l’uomo, accennando a una finestra che si apriva sul cortile del palazzo, i cui muri erano interamente ricoperti di edera rampicante.
– Piuttosto grazioso – mormorò Courtney – sporgendosi appena. L’agente immobiliare le sorrise, benevolo.
– Il prezzo è vantaggiosissimo! Il vecchio proprietario è estremamente ansioso di venderlo – le rispose il tizio, porgendole dei documenti che la donna scorse; a mano a mano che procedeva nella lettura, sentiva una rabbia indecente nascerle nel petto.
L’appartamento apparteneva a Duncan.
Duncan.
– Come mai il vecchio proprietario ha ansia di vendere un gioiellino come questo? – domandò Courtney, cercando di non far trasparire il suo immenso interessamento.
– Signorina, quanto si diventa una star, secondo lei ha molta importanza un appartamento stipato tra una banca e un consolato?
***
Courtney uscì dall’appartamento vagamente frastornata: che Duncan avesse numerose proprietà immobiliari era risaputo. Di certo non era così stupido da vendere un appartamento così lussuoso a un prezzo tanto basso. Ci doveva essere qualcosa sotto, qualcosa che a Courtney era sfuggito: un legame, un dettaglio capace di far luce su tutta la vicenda.
Duncan aveva bisogno di soldi liquidi; all’acquirente era richiesto il pagamento quasi immediato. Eppure non doveva di certo essere troppo disperato: la cifra non era troppo esosa; tuttavia aveva una certa fretta di concludere l’affare, a qualsiasi costo.
Vagamente irritata da quei pensieri, Courtney si diresse verso il posto dove aveva lasciato l’automobile; un passo dopo l’altro si rese conto che evidentemente doveva aver sbagliato strada, perché non era quello il luogo da cui era venuta. Oltretutto la strada era quasi deserta, dato che l’orario di chiusura di tutti gli uffici non superava quasi mai le diciotto e trenta. Particolarmente stizzita, fece marcia indietro, badando bene ad affrettare il passo. Non era nemmeno sicura che quella fosse la direzione giusta, dato che non riconosceva gli edifici ai lati della strada. Si fermò e inspirò rumorosamente. Certo non poteva essersi allontanata troppo, anche perché le case che la circondavano ostentavano ancora un lusso sfarzoso e le auto parcheggiate lungo il marciapiede erano perlopiù costose berline. Individuò infine un negozio di lusso che aveva notato mentre guidava: in vetrina vi erano esposti articoli di pelletteria troppo graziosi per non essere ammirati. Da ciò dedusse che le sarebbe bastato svoltare a sinistra e poi proseguire per qualche decina di metri prima di mettere di nuovo le mani sul volante. Rapidamente, iniziò a camminare verso quella direzione.
A un certo punto si sentì strattonare verso il basso.
In trappola.
Cadde con un tonfo sorso sul marciapiede, compressa da qualcuno che si agitava sopra di lei, tentando di tenerla ferma. Riusciva soltanto a sentire la forte puzza di alcool che quel corpo premuto contro di lei emanava; l’uomo la prese per i polsi, mentre lei cercava di divincolarsi.
Voleva Duncan.
L’urlo atterrito di qualche passante dovette spaventarlo, perché quello subito si rialzò e scappò via, senza tuttavia essere inseguito. Courtney riuscì a rialzarsi e solo allora si rese conto che dalle sue labbra ancora sfuggiva un grido sommesso: “Duncan, salvami.”
– Principessa, sono qui.
***
Non appena lo vide, Courtney si gettò letteralmente tra le sue braccia.
Non riusciva a sentire, a provare, nient’altro che non fosse Duncan.
Il suo odore, la sua mano che la premeva contro il suo petto, il suo respiro che le scompigliava i capelli. Le sue labbra premute sulle guance, inondate di lacrime; eppure lei non si era resa conto di star piangendo, almeno fino a quando Duncan non le aveva accarezzato il viso.
– Duncan – ripeté la donna per l’ennesima volta, seppellendo il viso terrorizzato contro il petto dell’uomo che la stringeva. Non riusciva a smettere di tremare; una parte del suo cervello stava tentando disperatamente di farle ricordare che lei era lì, tra le braccia dell’uomo che amava. L’altra parte riusciva a soltanto a visualizzare nella testa la sequenza di lei scaraventata a terra, con quel porco addosso. Un nuovo gemito sgorgò dalla gola di Courtney. Duncan la strinse più forte contro di sé.
– Va tutto bene – le ripeteva con voce carezzevole, una dolce cantilena contro cui Courtney si adagiò fino a calmarsi definitivamente. Una discreta folla di persone si era oltretutto accalcata intorno a loro, chi per timore, chi per curiosità. A un certo punto Duncan la scostò dal suo petto.
– Non sei ferita, vero? – le domandò, premuroso. Lei indicò le abrasioni che la caduta le aveva provocato, stringendosi nelle spalle.
– Nulla di grave. Solo qualche graffio – rispose infine, incapace di staccare le mani dalle spalle dell’uomo.
– Volete che chiami l’ambulanza? – domandò un passante, ma Courtney scosse ampiamente la testa.
– Sto bene – rispose, anche se aveva la voce rotta e l’aspetto stralunato. Duncan le sorrise, comprensivo.
– Adesso andiamo a casa, okey? – le domandò; Courtney annuì, grata. Si rimise in piedi; nel farlo, notò che un biglietto le era scivolato dal grembo. Duncan fu più veloce di lei e lo afferrò.
– “Sarai mia” – lesse ad alta voce, guardando poi la donna con aria indagatrice. Per tutta risposta, un nuovo fiotto di lacrime inondò il viso di Courtney.
– Il maniaco – riuscì a dire, tra un singhiozzo e l’altro, prima di gettarsi nuovamente tra le braccia di Duncan.
Perché lì si sentiva a casa.
– Maniaco? – domandò lui, allarmato, senza smettere di stringerla. Lei annuì appena.
– Ti prego, – sussurrò con voce rotta – andiamo a casa.
– Sì, Principessa – rispose lui, sciogliendo con delicatezza l’abbraccio. La prese per mano.
– Non andare via questa notte.
– Te lo prometto.
 
 
 
 
  
(*) Un omaggio a “Margherita Dolcevita”, l’opera di Stefano Benni che credo di amare, letteralmente.

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