L'amore è libero, l'amore è gratis di aoirghe (/viewuser.php?uid=39649)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***
Capitolo 10: *** Dieci ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Uno ***
Capitolo Uno
Mingherlino.
Imberbe. Vagamente
saccente.
Per
quanto si sforzasse – sempre
mai troppo, comunque – Seeley Booth non riusciva a prenderlo
su serio.
Lance
Sweets abbozzò un sorriso
sghembo: - Lei cosa ne pensa, agente Booth?-.
Seeley
abbandonò bruscamente i
suoi pensieri: il ragazzino, quella specie di strizzacervelli di otto
anni, gli
aveva appena fatto una domanda.
-
Come?- borbottò.
-
Cosa ne pensa del punto di
vista della dottoressa Brennan?- disse Sweets, senza smettere di
sorridere.
Booth
capì di essersi perso
qualcosa. Forse un po’ più di qualcosa.
Lanciò un’occhiata supplice a lei, che se ne stava
seduta poco lontana.
Lei,
Temperance Brennan, gli
lanciò un’occhiataccia e non aprì
bocca. Nessun suggerimento, quindi. Booth
sospirò, e tornò a concentrarsi sul viso insulso
di Sweets:
-
Temo di aver perso un … pezzo
della conversazione-.
-
La sua partner sostiene che la
superiorità del sesso femminile arriverà a un
punto tale da rendere inutile
l’accoppiamento tra sessi-.
-
Non … non credo di aver capito
bene-.
-
Sostiene che la riproduzione
umana sarà esclusivamente nelle mani delle donne, Booth.
Nessun bisogno di
maschi. Nessun bisogno di sperma, di accoppiamento-.
Seeley
lanciò un’occhiata
sbalordita a Bones.
Lei
fece le spallucce: - E’ mera
speculazione antropologica, Booth. Ipotesi. Azzardi di previsioni sulla
base di
fatti empirici-.
Lui
scosse la testa, cercando di
non ridere: - E’ ridicolo-.
-
E’ scientificamente ipotizzabile-
replicò lei, sostenendo il suo sguardo.
-
Ridicolo. Come puoi dire cose
simili? Non è possibile, non funziona così-.
-
Non ora, lo so anch’io. Però
potrebbe essere una possibilità. Evoluzione, Booth. Gli
esseri umani sono
cambiati in modi assolutamente imprevedibili, nella corso della loro
storia
evolutiva-.
-
E immagino sia un teoria che ti
affascina, vero, Bones?-.
-
Bè, direi di sì-.
-
Certo, normale che ti
affascini. Zero sesso. Zero coinvolgimenti psicologici. Il maschio
destinato
all’estinzione!-.
-
Non ho detto questo, Booth, e
non c’è alcun bisogno di essere sarcastici-.
-
Non sono sarcastico, dico solo
che è assurdo-.
-
E’ sarcasmo. Hai detto che mi affascina
l’assenza di sesso e di maschi-.
-
Non proprio-.
-
Hai detto così. Ha detto così,
vero, Sweets?-.
-
Adesso non facciamo come a
scuola, per favore …- sbuffò Seeley.
-
D’accordo, basta!-.
La
voce di Sweets sovrastò le
loro.
Silenzio.
Lo
psichiatra li fissò per
qualche istante, la mano alzata in segno di pausa. Booth si
lasciò andare
contro lo schienale, cercando d’ignorare lo sguardo scocciato
di Bones. Lanciò
un’occhiata pigra all’orologio: tra poco avrebbero
potuto sloggiare,
finalmente.
Sweets
prese a battere le mani,
annuendo compiaciuto: - Ottimo, bravi. Avete tirato fuori tutta la
tensione!-.
Temperance
non sorrideva: - E le
sembra molto … molto terapeutico?-.
-Ma
certo!-.
Booth
sbuffò ancora.
Gli
occhi di Sweets si fecero
meditabondi e si fissarono sul suo viso: - Problemi, agente Booth?-.
Lui
sollevò le mani e fece segno
di no.
Non
aveva voglia di discutere:
dopotutto, ancora dieci minuti e sarebbero stati fuori dallo studio di
quel
ragazzino.
Lei
era bella, molto bella.
Seeley
Booth si ricordava di
averlo sempre pensato, fin dal loro primo incontro.
Zigomi
alti, occhi chiari, labbra
scolpite: era bella, Temperance Brennan, e lui non aveva potuto non
notarlo. E
adesso, adesso che dopo la storia del vischio si era fatto tutto
più
complicato, la percezione della vicinanza di lei si era fatta
più acuta,
pulsante: Booth la sentiva a pochi centrimenti, e quelle manciate
d’aria che
separavano i loro corpi – imbrigliati nelle cinture di
sicurezza – erano
niente.
Booth
strinse forte le mani sul
volante e tentò di concentrarsi sulla strada di fronte.
-
Abbiamo bisticciato, prima?-
mormorò Bones, guardandolo con la coda dell’occhio.
Aveva
un gomito appoggiato alla
portiera, un berretto grigio calcato sulla testa, l’aria
pensierosa.
Bella
come sempre.
-
Un bisticcio antropologico,
direi. Quindi non un vero bisticcio- replicò Booth.
Lei
sembrò esitare: - Sai,
nonostante quello che hai detto prima … A me mancarebbe il
sesso. E molto-.
Fissa la strada, fissa la strada.
Seeley
si costrinse a non
guardare Bones. Che cosa avrebbe dovuto risponderle?
Borbottò un banalissimo
“bene”.
Ma
Temperance non sembrava aver
intenzione di esaurire lì il discorso:
-
… il sesso è sesso, e per
quanto le mie ipotesi siano almeno lontanamente presumibili mi
dispiacerebbe
molto non poterlo fare più-.
-
Ho capito, Bones-.
-
Ti dà fastidio che parliamo di
sesso?-.
-
Tu stai parlando di sesso. Io guido
e guardo la strada-.
-
Allora potresti dire qualcosa
anche tu e guardare me, ogni tanto-.
Guardare me.
Booth
strinse ancora il volante:
- Non ho niente da dire-.
-
Booth, non puoi non avere
niente da dire!-.
-
E invece sì, va bene?-.
Temperance
tacque e si girò verso
il finestrino.
Lo
odiava, quando faceva così.
Quando
non faceva lo spiritoso,
il malizioso, il rompiscatole.
Non
l’avrebbe mai ammesso, ma era
quello il Booth che preferiva. Non quello pensieroso e zitto, non
quello che
era diventato dopo il bacio sotto il vischio: scostante, lontano.
Temperance
Brennan gli lanciò un’occhiata veloce, e
d’un tratto fu per l’ennesima volta
consapevole che senza di lui non ce l’avrebbe mai fatta.
L’imbarazzo era
diventato palpabile, tra loro, dopo quello stupido bacio sotto il
vischio, e
questo le faceva un’immensa paura.
Così
come la terrorizzava il
martellante ricordo del calore delle labbra di lui: un ricordo che non
avrebbe
dovuto esserci.
Non
così chiaro, almeno.
Non
così intenso.
Rimasero
in silenzio per un po’.
Le
strade di Washington erano ancora
ingombre di neve, e quei primi giorni di gennaio erano stati davvero
rigidi.
Booth guidava veloce, incurante del ghiaccio che copriva
l’asfalto, gli occhi
fissi davanti a sé e la mente persa nei suoi pensieri.
Pensava a Bones, a
quello che avrebbe dovuto provare, a quello che non
avrebbe dovuto provare. Al fatto che Sweets, più che
sciogliere
la tensione, sembrava stringere sempre di più i nodi che li
legavano e allo
stesso tempo li dividevano.
Sesso,
religione, scienza: Booth
sapeva di essere lontano mille anni luce da Bones su mille cose, ma
conosceva
la donna che divideva con lui le sue giornate quasi meglio di se stesso.
E
mentre Seeley Booth rimuginava
per conto suo, Temperance Brennan lo studiava dall’altro lato
della macchina,
seguendo il suo profilo scolpito, le spalle larghe, gli occhi
pensierosi.
Cos’era Booth, per lei? Non un fratello. Un amico, forse. Non
un semplice
collega.
Un
amico, allora, ma il ricordo
del calore delle sue labbra c’era ancora, vivido e pulsante.
Poi
accadde tutto molto
rapidamente.
Nessuno
dei due ebbe il tempo di
pensare, di accorgersi di nulla.
Un
fuoristrada nero piombò
addosso alla macchina, speronandola dal lato del guidatore.
Seeley
Booth cercò di rimanere
aggrappato al volante, mentre Bones urlava qualcosa, qualcosa che non
riusciva
a capire, e il fuoristrada gli arrivò addosso di nuovo, e il
fragore fu forte,
il muro troppo vicino per essere evitato, i riflessi lenti, il dolore
al fianco
sinistro intollerabile.
Uno
schianto, poi nulla.
Quando
Temperance Brennan riaprì
gli occhi, non era più seduta sul sedile della macchina, ma
sdraiata
sull’asfalto.
Cercò
di rialzarsi, a fatica, vedendo
a pochi passi di distanza l’auto accartocciata.
Non
ebbe il tempo di fare nulla,
di pensare a nulla.
Una
voce risuonò alle sue spalle:
-
Non si muova, cara dottoressa,
o il nostro Booth si ritroverà con una pallottola piantata
nel cervello-.
Brennan
si voltò lentamente e
vide Booth in piedi, una maschera di sangue al posto del viso e una
pistola
puntata alla tempia.
Gli
occhi di lui, affogati nel
dolore, le dissero di non fare niente.
Poi
la dottoressa Temperance
Brennan vide chi aveva parlato, chi stringeva il calcio della pistola.
E
non volle crederci.
Poi
qualcuno la tramortì.
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Capitolo 2 *** Due ***
Capitolo Due
-
Non riesco a trovare Brennan-.
Il
volto teso di Angela
Montenegro spuntò oltre la sua scrivania. Hodgins
sollevò la testa dal microscopio
e la guardò: - Come?-.
-
Non trovo Brennan-.
-
E’ fuori con Booth, no?-.
Angela
si morse un labbro: -
Dovevano essere qui un’ora fa-.
Hodgins
alzò le spalle: - Saranno
un po’ in ritardo, tesor …-.
-
Brennan ha il cellulare
staccato. E anche Booth- lo interruppe lei, i grandi occhi pieni di
tensione.
Lui
annuì, poi le prese una mano:
- Sono sicuro che arriveranno a momenti, okay? Stai tranquilla, non
c’è ragione
di agitarsi-.
Angela
rispose alla stretta
confortante del suo uomo, facendo un debole cenno del capo.
Non
era convinta, ma Hodge aveva
ragione: forse era solo un po’ di ritardo.
Erano
chiusi lì dentro da un
pezzo, ormai.
Il
buio pesto era attenuato da un
debole fascio di luce, che entrava da una finestrella rettangolare a
ridosso
del soffitto. Una finestra sbarrata, ovviamente.
C’era
molta umidità e faceva un
freddo intollerabile: le mani di Temperance Brennan non avevano ancora
smesso
di tremare. Dov’erano rinchiusi? Sembrava una specie di
bunker, ma non si
trovavano sottoterra, e c’era puzza di fogna e vomito. Quando
lei aveva
riaperto gli occhi, stavano viaggiando a tutta velocità su
quello che,
dall’interno, sembrava essere un furgone: il furgone che
aveva visto accanto al
fuoristrada nero, appena dopo lo schianto, in quel breve minuto di
coscienza.
Ma
negli occhi di Temperance
Brennan c’era un’altra immagine che sarebbe rimasta
lì per sempre, vivida e
insopportabile.
La
pistola contro la tempia di
Booth.
E
la mano di Lance Sweets attorno
alla pistola.
Lance.
Sweets.
Un
gemito la strappò da
quell’immagine scioccante.
Booth:
si era svegliato.
Quando
Temperance aveva riaperto
gli occhi a bordo del furgone, i polsi legati stretti dietro la
schiena,
l’aveva visto accanto sé, privo di sensi.
Li
avevano gettati in quella
specie di bunker senza troppi complimenti, liberando loro i polsi,
mentre Booth
era caduto a terra a peso morto. Lo schianto in macchina li aveva
lasciati
tutti interi, ma Booth era quello conciato peggio.
-
Ehi- mormorò lei, sollevandogli
appena la testa.
-
Ehi- mormorò lui, aprendo gli
occhi lentamente.
Iniziò
a pulirgli il viso con una
manica della camicia, cercando di non fargli troppo male. Aveva un
lungo taglio
sulla fronte.
-
Grazie-.
-
Di niente- mormorò Temperance,
e si accorse di avere le lacrime agli occhi.
Cercò
di ingoiare il nodo che le
si era piantato in mezzo alla gola: - Ti aiuto a metterti seduto-.
Lo
trascinò fino al muro, poi si
lasciò cadere accanto a lui.
Rimasero
in silenzio per qualche
istante.
-
Stai bene?- chiese lui,
socchiudendo gli occhi.
-
Direi … direi di sì. Ho solo
qualche livido-.
Booth
annuì, ma quel semplice
gesto sembrò costargli una fatica insopportabile.
Temperance
lo fissò per qualche
secondo, le parole che si rifiutavano di uscire.
Poi
Seeley si girò lentamente
verso di lei, cercando i suoi occhi: - Bones, era …-.
-
… Sweets, sì-.
-
Figlio di puttana-.
Cosa
può, l’uomo, contro i nodi
dei giorni che si susseguono?
Contro
le concomitanze, gli scontri
e gli incontri, le somiglianze, le voragini?
Questo
si chiedeva l’uomo seduto
su un gradino scheggiato di quella che pareva una fattoria, questo si
chiedeva
Lance Sweets, giocherellando con una manciata di terra ghiacciata. La
campagna
appena fuori Washington era stretta nella morsa del freddo, lo sentiva
salire
dal suolo, su per l’aria, lungo il suo respiro.
Poi
Lance Sweets si alzò e guardò
il cielo.
Era
ora di andare.
-
Facciamo un gioco?-.
-
Un gioco?-. Temperance guardò a
bocca aperta Booth: forse non aveva sentito bene.
-
Sì, un gioco-.
-
Come puoi pensare di fare un
gioco, Booth? Ti sei dimenticato dove siamo? Ti sei dimenticato di
quello che è
successo?-.
La
voce le tremava.
Seeley
abbozzò un sorriso stanco,
dolorante. Teneva il braccio destro adagiato su una gamba: aveva una
piega
strana, e lei avrebbe giurato che si fosse rotto.
-
Certo che so dove siamo. Un
gioco, Bones. Un gioco per provare a capire-.
-
Per provare a capire cosa?-.
-
Ad esempio perché ci troviamo
qui. E perché c’era Lance Sweets a puntarmi una
pistola alla testa-.
-
Non ne ho idea. È …-.
Temperance cercò la parola giusta: - … assurdo-.
-
Già. Hai visto quanti erano? Se
uno ti ha colpito, Sweets ha di sicuro un complice- mormorò
Booth, pensieroso.
-
E avevano fuoristrada e furgone.
Forse sono almeno in tre-.
-
O di più-.
Tacquero.
Seeley
pensò che erano davvero in
una brutta situazione. Lanciò un’occhiata veloce a
Bones, e la vista del suo
volto pallido e graffiato gli strinse il cuore.
Fragile
come un libellula,
vulnerabile, con il pianto a grattarle la gola: avrebbe voluto
prenderla tra le
braccia, dirle una qualunque sciocchezza, farla ridere, litigarci.
Seeley
strinse i denti e provò ad
allungare il braccio ferito, il viso contratto in una smorfia di
dolore. Non ci
riuscì.
-
Forse dovresti farmi dare
un’occhiata, Booth- mormorò Temperance,
sfiorandogli una spalla.
-
Lascia stare, non importa-.
-
Potrebbe essere rotto, potrei …
-.
-
Lascia stare, Bones. Dobbiamo
prima di tutto pensare a come uscire da qui-.
-
Booth, non c’è mo …-.
Lui
la interruppe: - Pensaci. Dobbiamo pensarci-.
Lei
annuì, poco convinta. Si
guardò attorno, e sentì il cuore sprofondare: non
c’era via di fuga possibile,
in quella specie di bunker.
Si
girò verso Booth, per
ripeterglielo, e vide che lui aveva socchiuso gli occhi.
Capì,
allora, che non c’era
niente a cui pensare, perché lì erano chiusi e
lì sarebbero rimasti, e Booth lo
sapeva bene, l’aveva detto solo per lei, per darle qualcosa
su cui riflettere,
a cui aggrapparsi. Le lacrime tornarono a pungerle gli occhi, e questa
volta
non fece nulla per fermarle.
-
Non inventarti cose da farmi
fare, Booth- sussurrò, mentre una lacrima le scivolava lungo
una guancia.
Booth
riaprì gli occhi e la
guardò.
La
guardò e basta.
Poi
allungò il braccio sano e le
fiorò il viso con la punta delle dita: - Non l’ho
fatto-.
-
E invece sì-.
-
Okay, l’ho fatto-.
-
Non farlo più-.
-
D’accordo-.
-
Non c’è bisogno-.
-
D’accordo-.
Le
dita di Booth rimasero sulla
sua guancia, mentre Temperance chiudeva gli occhi, nel vano tentativo
di
bloccare le lacrime.
-
E sto piangendo solo per
l’accumulo di tensione. Sfogo fisiologico da post-trauma-.
-
Non mi devi dire perché stai
piangendo, Bones-.
Lei
riaprì gli occhi, lui tolse
piano la mano, a malincuore.
Temperance
fece un respiro profondo:
- Adesso fammi vedere quel braccio-.
-
Ti ho detto che non …-.
-
Non fare il bambino, Booth-.
Seeley
tacque e non oppose
resistenza.
Rimase
zitto, mentre le dita
agili di lei gli correvano lungo il braccio dolorante. Ogni tocco era
fitta e
calore al tempo stesso.
Assurdo,
totalmente assurdo.
Appoggiò
la testa contro la
parete gelida, cercando di non svenire per una delle due cose.
La
notizia della macchina
schiantata di Booth si era sparsa rapidamente all’interno del
Jeffersonian.
Hodgins
teneva abbracciata
Angela, mentre la sala riunioni si riempiva a poco a poco. Le aveva
detto di
stare tranquilla, e adesso Angela nascondeva il volto
nell’incavo del suo
collo. Le aveva detto che si preoccupava per niente, e ora Booth e
Brennan
erano chissà dove, nelle mani di chissà chi.
La
voce salda di Caroline risuonò
nella sala: - Molto bene. Siete stati tutti aggiornati circa la
situazione?-.
Ci
fu un coro di sì.
Angela
si liberò dalla stretta di
Hodgins e si voltò verso Caroline, asciugandosi le lacrime.
-
Bene. Dobbiamo muoverci in
fretta. Abbiamo solo la macchina dell’agente Booth e la scena
dello schianto.
Nessuna telefonata, nessuna rivendicazione –
proseguì Caroline in tono pratico.
Nessuno
parlava. Cam teneva le
braccia incrociate, Zac aveva gli occhi bassi e tesi.
Poi
un polizotto entrò nella sala
e si affiancò a Caroline, sussurrandole qualcosa
all’orecchio. La donna annuì e
gli fece segno di andare.
In
quel momento la porta a vetri
si spalancò.
Caroline
annuì in direzione del
nuovo venuto:
-
Per l’appunto … Sappiate che
l’FBI e il Jeffersionan potranno godere del prezioso aiuto
del … -.
-
… dottor Lance Sweets- finì
l’uomo che era appena entrato.
Si
aggiustò la cravatta e alzò
una mano in segno di saluto.
Angela
strinse la mano di
Hodgins, Cam abbozzò un sorriso.
Lance
Sweets annuì con aria
grave: - Li troveremo-.
Sorrise
appena, ma nessuno lo
vide.
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Capitolo 3 *** Tre ***
Capitolo Tre
E
alla fine ce l’avevano davanti.
Sorridente,
tranquillo,
rilassato: come sempre, come se fosse stata una normalissima seduta.
Si
era fatto portare un sedia nel
bunker e ora stava loro di fronte, appoggiato allo schienale, in
silenzio.
Uno
dei suoi uomini era ritto
accanto a loro, le mani dietro la schiena, una pistola infilata nei
jeans.
-
Molto bene, vi vedo tranquilli
– mormorò Lance Sweets, senza smettere di
sorridere.
Un’espressione
feroce passò sul
volto di Booth: - Figlio di puttana, appena saremo fuori di qui e si
verrà a sa
…-.
-
E quando, agente Booth? Come?-.
-
Non ci ha nemmeno legati,
Sweets. Non pensa che Booth potrebbe saltarle addosso?- intervenne
Temperance
Brennan.
Lance
Sweets non rispose subito,
ma si diede il tempo di osservarli: appoggiati al muro gelato, pesti e
doloranti, avevano l’aria stanca e furiosa di chi si sente
tradito e in
trappola.
-
Non c’è bisogno di legarvi,
dottoressa – disse, facendo un cenno all’uomo in
piedi.
-
È piuttosto semplice: adesso il
mio amico qui le punterà alla testa una pistola per tutto il
tempo del nostro incontro,
e l’agente Booth, se solo muoverà un dito, si
ritroverà diretto reponsabile
della sua rapida, quanto poco pulita, morte, dottoressa Brennan-
proseguì,
mentre l’uomo estraeva una pistola e la avvicinava alla
tempia di Temperance.
Booth
ebbe un sussulto: - Potrei
anche disarmarlo e ammazzarti qui seduta stante, sai, razza di ba
…-.
-
Con un braccio rotto e quel bel
taglio sulla fronte? Ne dubito fortemente, agente Booth. Ne dubito
– sospirò
Sweets, regalandogli uno dei suoi sorrisi più ampi.
La
pistola rimase puntata verso
la tempia di Temperance: lei sfiorò piano il braccio di
Seeley.
Stai calmo, avrebbe voluto dirgli.
Finchè ti ho vicino non ho mai troppa
paura.
-
Perché non glielo dice,
dottoressa?-.
Temperance
alzò gli occhi su
Sweets, sorpresa: - Come?-.
-
Perché non gli dice cosa ha
appena pensato? Gli ha toccato il braccio e ha pensato qualcosa. Glielo
dica,
no? È questo, in questi mesi, che ho cercato di rendervi
facile e spontaneo: la
comunicazione immediata di ogni pensiero, paura, sentimento-.
Lei
lo fissò sbalordita e
confusa. Cos’era, una delle sue sedute? Li aveva rapiti e ora
giocava a fare
ancora lo psichiatra?
Fu
Booth a dare voce ai suoi
pensieri.
-
Cos’è, uno scherzo? Ci rapisci
e ci rinchiudi per continuare la terapia?- sbottò,
sarcastico.
Sweets
annuì: - Più o meno, sì-.
-
Psicopatico-.
-
Grazie, agente Booth. Sempre
gentile e aperto. Comunque sì: questa è una
seduta, signori-.
Temperance
e Seeley si
guardarono, confusi: la rabbia di lui era sempre più forte,
più pulsante, ma
sapeva di doverla dominare.
O
tutto sarebbe peggiorato al
tempo di un grilletto premuto.
-
Sono consapevole che i metodi
da me usati siano stati poco … poco ortodossi …-.
-
Poco ortodossi?!- sbottò
Temperance.
-
… ma era necessario per dare
forma al mio progetto. E adesso pretendo da voi la massima
collaborazione-.
Gli
occhi di Booth lo fissarono
pieni di rabbia, l’espressione della dottoressa Brennan era
stanca e incredula.
Lance
Sweets si rilassò contro lo
schienale e cominciò a parlare.
Dì quello che lui vuole sentire.
Inventa, parla, parla e basta.
Temperance
Brennan aprì la bocca,
esitante.
La
“seduta” di Sweets durava da
più di mezz’ora, e cominciava a sentirsi sfinita:
troppe assurdità, troppa
confusione, e la percezione insistente di quella pistola a pochi
centimentri. E
poi gli occhi di Booth, sempre più lucidi e svuotati, quei
brandelli di dolore
fisico che lui cercava di ingoiare per non affibiarle altra
preoccupazione.
Come avevano potuto non accorgersene? Come era stato possibile finire
nelle
mani di un pazzo come Lance Sweets senza dubitare di nulla?
Ora
dovevano stare al suo gioco,
come se fossero stati sul divano del suo studio: una normale seduta, un
normale
scambio di opinioni.
Temperance
si costrinse a
soffocare la frustrazione e si concentrò sul viso pesto di
Booth, cercando di
trovare le parole per rispondere a ciò che Sweets le aveva
chiesto.
Cosa provi, a vederlo in questo stato?
Fissò
gli occhi di Booth.
Paura?
Abbastanza. Odio? Certo,
per Sweets e quelli che l’avevano conciato così.
Amore?
E che tipo, di amore?
Perché
non era affetto, affetto
non voleva dire nulla, la dottoressa Brennan l’aveva
scientificamente
sperimentato. L’affetto si provava per un criceto o per uno
zio incrociato una
sola volta nella vita, ma tra persone che condividevano giornate e
caffè il
legame era più intenso e vitale.
Amore
per chi? Un fratello, un
collega, un amico?
Non
lo sapeva, non riusciva a
capirlo.
C’era
solo quella voglia
bruciante di abbracciarlo, di stringerlo così forte da
soffocare ogni suo
dolore, di chiudergli occhi con le mani.
Decise
di dirlo, senza inventare.
-
Vorrei abbracciarlo-.
Sweets
annuì, in silenzio.
Lo vorrei fare davvero, Booth, per me e anche per
te.
-
Ottimo, dottoressa, ottimo.
Perché è questo che voglio vedere adesso, qui,
con voi. Voglio vedere le
evoluzioni dei rapporti in condizioni di massima estremizzazione.
Condizioni al
di fuori della quotidianità, al di fuori degli schemi- disse
lo psichiatra.
Seeley
appoggiò la testa al muro,
socchiudendo gli occhi: - Sei completamente pazzo-.
-
Ancora grazie per i complimenti
e la
disponibilità, agente Booth. Allora
arriviamo a lei, che ne dice?-.
Lui
non rispose.
-
Mi dica lei cosa prova, ora.
Cosa prova a vedere la dottoressa in questo stato-.
Nessuna
risposta.
Temperance
sentì lo scatto della
sicura della pistola: non riuscì a non rabbividire.
Ma
anche Booth lo sentì, e
spalancò gli occhi.
-
Questo è già di per sé
interessante, agente. Basta un rumore simile, per riportarla tra noi
– mormorò
Sweets, compiaciuto.
-
Cosa pensi di cavarne, Sweets?
È forse una novità, che io non voglia la morte di
Bones?-.
-
Risponda a quello che le ho
chiesto-.
Cosa provo?
Sono terrorizzato, completamente terrorizzato.
Perché lei è qui con me,
in mezzo a questo buio, e vorrei che fosse lontana chilometri.
Perché un proiettile potrebbe portarla
via per sempre, e perché lei è
stanca, ha paura, e io non posso fare assolutamente niente. Provo
impotenza, e
vorrei abbracciarla, toccarle i capelli e mentirle come so fare,
dicendole che
il braccio non mi fa male, che sto bene e so come uscirne.
Mentirle sapendo che lei conosce le mie bugie, ma
me le lascia dire
perché fa coraggio.
Fa coraggio a lei. A me.
Altro
scatto della sicura.
-
Booth …- sussurrò Bones, il
volto bianco e teso. Il suo nome supplicato.
Booth.
-
Io … vorrei toccarle i capelli-
momorò Seeley, quasi a bassa voce.
Lance
Sweets sorrise, alle quelle
parole: si gustò l’immagine dell’agente
Seeley Booth stanco e vulnerabile,
senza l’aria da spaccone, senza forza nel fiato.
Poi
guardò anche lei, e capì che
avrebbe voluto toccarlo, ma sarebbe stato un gesto troppo intimo,
troppo intenso
per poterlo fare davanti all’uomo che li teneva prigionieri.
Questo, di
Temperance Brennan e Seeley Booth, aveva sempre affascinato Lance
Sweets: la
forza di ciò che avrebbero voluto dirsi o fare, e la forza -
allo stesso tempo -
che ci mettevano per soffocare quegli istinti. Come ora, ora che erano
a un
centimetro dal baratro.
Vorrei toccarle i capelli. Patetico. Verissimo
E Sweets mi fissa come guarderebbe la cavia di un
esperimento.
Booth
deglutì, cercando gli occhi
di Bones: lei non glieli rifiutò. Per un attimo ebbe
l’instinto di prenderla
tra le braccia, lì, davanti a quel pazzo.
-
Si ricorda di cosa abbiamo
parlato l’ultima volta, agente Booth? Prima
dell’incidente, questa mattina-
disse Sweets.
Prima dell’incidente. Bastardo figlio di
puttana.
Seeley
annuì, senza smettere di
guardare Temperance.
-
Bene. Si trattava
dell’interessante teoria evolutiva della dottoressa circa il
sesso e la
riproduzione, giusto?-.
-
Sì-.
-
Ottimo, agente Booth. Lei ha
aggredito verbalmente la dottoressa, questa mattina-.
-
Io non ho aggredito verbalmente la
dottoressa-.
-
Ma lei si è sentita così, non è
vero? – mormorò Sweets, guardando Temperance.
Booth: vorrebbe toccarmi i capelli. Io vorrei
abbracciarlo.
-
Ho solo detto che … che non
c’era bisogno di essere sarcastici –
sussurrò lei, fulminando Sweets.
Lo
psichiatra sorrise: - E lei
sarebbe ancora sarcastico, agente Booth? Se riprendessimo
l’argomento ora,
qui-.
-
No-.
-
E perché?-.
-
Non si è divertito abbastanza?
Il gioco non è finito?- urlò Temperance, sentendo
la rabbia farsi
insopportabile.
Lance
Sweets tacque per qualche
istante, fissandola.
Poi
fece un cenno all’uomo con la
pistola e si alzò: - Bene, per adesso ci aggiorniamo,
signori-.
-
Ci troveranno, Sweets! Ci
troveranno presto! E allora sarò il primo a metterle le
manette ai polsi! –
ringhiò Seeley.
Lo
psichiatra afferrò la sedia e
sorrise ancora:
-
Certo, agente Booth. Intanto,
buona continuazione di permanenza a tutti due-.
Usciti
Sweets e lo scagnozzo, non
aveva parlato più per qualche istante.
Seeley
era rimasto accoccolato
contro il muro, gli occhi chiusi e il respiro stanco. Temperance
l’aveva
guardato di sottecchi per un po’, infreddolita e pensierosa.
Aveva lasciato
vagare lo sguardo sul profilo familiare di lui, i capelli scompigliati,
il
braccio ferito, lottando contro la tentazione di prenderlo tra le
braccia.
Poi
lui aveva riaperto gli occhi,
grandi e sfiniti:
-
Hai freddo, Bones?-.
-
Un po’, sì-.
Altro
silenzio.
Poi
Seeley, a fatica, si era
trascinato accanto a lei e le aveva preso le mani, nascondendole sotto
la sua
giacca.
-
Booth … - aveva mormorato
Temperance, mentre il calore del corpo di lui le passava tra le dita,
sulla
pelle.
-
Che c’è?-.
-
Hai ... hai mentito a Sweets,
prima?-.
-
Su cosa?-.
-
Su quello che provavi-.
Ecco,
l’aveva detto. Aveva avuto
la tentazione di sfilare le mani da sotto la giacca di lui, ma Seeley
gliele aveva
tenute ferme.
-
No. E tu?- aveva sussurrato lui,
quasi sottovoce.
-
No-.
Booth
aveva annuito: - Le mani?
Vanno meglio?-.
-
Un po’, grazie. Sei un’ottima
stufa umana-.
L’ombra
di un sorriso si era
disegnato sul viso stanco di Seeley.
Adesso
lei dormiva tra le sue
braccia, le mani sotto la giacca di lui e il viso nascosto
nell’incavo della
suo collo.
Dormiva,
e Booth fissava il
vuoto, sveglio, accarezzandole piano i capelli.
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Capitolo 4 *** Quattro ***
Capitolo Quattro
Quando
la notte era scesa, Lance
Sweets stava finendo di scrivere.
Il
suo appartamento, nel pieno
centro di Washington, era immerso nel buio: l’unica luce era
quella della
scrivania dov’era seduto, penna tra le dita e gli occhi
pensosi. Non avrebbe
potuto durare ancora a lungo, Lance lo sapeva benissimo: forse li
avrebbe
lasciati andare quella notte stessa.
Ora
che annotava le osservazioni
fatte durante quell’unico incontro nel bunker, Sweets sentiva
di aver perso un
po’ quell’interesse che l’aveva guidato
fino a quel momento. Benchè fosse stato
affascinante ascoltare Seeley Booth e Temperance Brennan intrappolati
nel
groviglio delle loro tensioni e del loro dolore, non aveva cavato fuori
ragno
dal buco: nessuna novità, nessun fenomeno particolare.
E
l’agente Booth, poi, aveva
c’entrato in pieno la questione, con quella frase.
È forse una novità, che io
non voglia la morte di Bones?
Preso
in pieno. Booth aveva
ragione: non c’era niente di nuovo.
E
l’eccitazione di Lance,
lentamente, era svanita.
Chiuse
il blocco degli appunti e
si abbandonò contro lo schienale della sedia: davanti a lui,
un’enorme vetrata
gli mostrava la città addormentata, irrigidita dal buio e
dagli ultimi
rimasugli di neve. La decisione era presa: li avrebbe lasciati andare
quella
notte stessa.
Non
li avrebbero trovati mai,
Lance ne era certo: e lui avrebbe contribuito a depistare le indagini.
Poi
non sarebbero durati molto,
nel gelo e senza cibo: soprattutto quel tronfio arrogante di Seeley
Booth.
Sweets
afferrò il cellulare e
chiamò.
Lei
dormiva ancora tra le sue
braccia, quando vennero a prenderli.
Per
un folle istante, Seeley
Booth pensò che forse era finita, che qualcuno li avesse
trovati. Ma
l’illusione durò poco.
Li
caricarono su un furgone nero
e allora Booth capì che sarebbe cambiata solo la loro
prigione. Bones era di
fronte a lui, polsi legati e viso pallidissimo: Seeley si rese conto
che non
avrebbe potuto mentirle, perché lei aveva già
compreso.
Viaggiarono
nella notte per più
di un’ora, mentre la testa tornava a pulsargli e Temperance
tremava dal freddo.
Poi
fermarono il furgone e li
fecero scendere.
Li
slegarono. Uno degli uomini
rise.
Booth
fece fatica a rimanere in
piedi. Bones lo sostenne con delicatezza.
Faceva
freddo, un freddo che
bucava lo stomaco.
Guardandosi
attorno, capirono di
trovarsi in un bosco.
Il
furgone ripartì, lasciandoli
in mezzo al nulla.
Temperance
Brennan, allora, pensò
che forse sarebbero morti.
Cercò
di sorridere a Booth,
mentre lo faceva sedere a terra.
-
Una segnalazione. Ci hanno
indicato una fattoria appena fuori città – disse
Camille, infilandosi il
cappotto.
Nel
bel mezzo della notte, il
Jeffersonian era sveglio e attivo: avevano avuto una soffiata. Durante
la corsa
in macchina, Angela tenne stretta la mano di Jack: nessuno parlava, la
tensione
immobilizzava ogni parola. La telefonata era piombata poco dopo la
mezzanotte,
ed era stata breve e agghiacciante: Brennan, Booth, Becchino, fattoria.
Mentre
accarezzava le dita di Angela, Jack pregava solo di trovarli ancora
vivi:
malconci, seppelliti, ma ancora vivi.
Lance
Sweets taceva, gli occhi
persi fuori dal finestrino.
Giunsero
alla fattoria con le
altre macchine dell’FBI.
Non
trovarono nessuno: solo un
vecchio bunker abbandonato.
Angela
e Cam si abbracciarono,
mentre Jack Hodgins dava un calcio alla terra ghiacciata. Sweets gli
appoggiò
una mano sulla spalla, l’espressione grave.
I
lampeggianti delle automobili
dell’FBI scalfirono l’oscurità ancora
per qualche ora, poi la notte tornò
silenziosa.
-
È una situazione divertente-.
Temperance
fissò Seeley, senza
sorridere: - Come puoi dire una cosa simile, Booth?-.
-
Ma sì … il ragazzino che ci
rinchiude, poi butta la chiave, poi ci tira fuori e ci abbandona in
questo
bosco. È divertente, Bones, perché non ci ha
fottuto nessuno psicopatico di
ovvia pericolosità. Ci ha fottuto Lance
Sweets-.
Parlava
un po’ a fatica, le
labbra irrigidite dal freddo. Temperance l’aveva aiutato a
camminare fino a un
tronco orizzintole, poi l’aveva fatto sdraiare, poggiandogli
la testa sul
legno. Il taglio sulla fronte non sanguinava più,
fortunatamente, ma i suoi
occhi si facevano sempre più lucidi.
-
Non è divertente comunque -
mormorò lei, nascondendo le mani nelle maniche. Era seduta
accanto a lui, con
le gambe incrociate.
Booth
la fissò per qualche
istante, in silenzio. Non sorrideva più.
-
Lo so, Bones-.
-
Allora non dirlo-.
Seeley
la guardò: stava vicino a
lui, attenta e infreddolita, gli occhi pieni di paura. Sapeva che buona
parte
di quella paura era per lui: faceva fatica a stare in piedi, a parlare,
e
iniziava a non sentire più il braccio ferito. Sarebbe morto
in quel bosco,
sopra quella terra ghiacciata, sdraiato contro un tronco
d’albero.
-
Non pensarci nemmeno-.
La
voce di Temperance, decisa, lo
strappò dai suoi pensieri.
-
Come?- mormorò, sorpreso.
Lei
lo fissò: c’era disperazione,
nel suo sguardo. E supplica:
-
So quello che stai pensando,
Booth. Se c’è una cosa che ho imparato da Sweets
è capire meglio cosa ti passa
per la testa. Ho visto la tua espressione. Non pensarci nemmeno-.
-
Non devo pensarci nemmeno a cosa,
Bones?-.
-
A morire, stupido-.
La
voce le tremò appena, ma
rimase salda. Booth pensò che avrebbe potuto mentirle,
sfoderare un sorriso
stanco e borbottarle che no, lui non ci pensava proprio a togliere il
disturbo.
Bones avrebbe disprezzato la sua bugia, e forse non avrebbe detto
più niente.
Però
Seeley decise di non farlo.
Invece allungò piano una mano, cercando il suo ginocchio. Lo
trovò e si fermò
lì.
Temperance
lo guardava con gli
occhi spalancati, i capelli arruffati e le braccia incrociate: e allora
Booth
salì con la mano, a trovare una manica, ad insinuare le dita
dentro, a contatto
con la sua pelle. Trovò la sua, di mano, e la strinse.
-
Okay- mormorò.
-
Okay cosa?-.
-
Non muoio. O almeno ci provo-.
Lei
annuì:
-
Dovresti cercare di dormire un
po’. Non parlare, risparmiare le forze-.
-
Non ti lascio qui da sola-.
-
Non mi lasci qui da sola,
Booth. Chiudi soltanto gli occhi e cerchi di riposarti-.
-
Okay: allora diciamo che non ti
lascio a disperarti da sola, Bones-.
Temperance
abbozzò un sorriso: -
Carino da parte tua-.
Rimasero
per qualche istante in
silenzio.
Il
gelo saliva dalla terra,
martellando la pelle: Brennan sapeva che, se non li avessero trovati in
fretta,
sarebbero presto morti assiderati.
Si
chiese perché Lance Sweets li
avesse lasciati andare così, abbandonandoli a una morte
quasi certa.
Si
chiese perché il freddo
facesse così male.
Si
chiese perché non aveva mai
chiesto a Booth di uscire a prendere un caffè, senza omicidi
di mezzo.
Si
chiese perché, durante quel
bacio sotto il vischio, non lo avesse tenuto fermo per qualche istante
in più,
stringendogli la giacca.
-
A cosa pensi?-.
Lui:
che la fissava dal basso, i
capelli umidi e scompigliati, gli occhi lucidissimi.
Perché
mentire? Perché inventare?
Era scientificamente insensato, Temperance Brennan lo sapeva. Socchiuse
gli
occhi:
-
Penso che avrei voluto baciarti
per più tempo, sotto il vischio-.
Penso che.
Avrei voluto baciarti.
Baciarti per più tempo.
Sotto il vischio.
Le
dita di Booth si irrigidirono
appena, attorno alla sua mano: Temperance avvertì il
cambiamento, e strinse i
denti, riaprendo gli occhi.
Seeley
assorbì ancora una volta
quelle parole, soppesandole una ad una, assaporandone il tono, il
significato.
Avrei voluti baciarti.
Per più tempo.
Sapeva
cosa avrebbe voluto
risponderle: anche io, anche adesso, anche quando il solo pensiero ti
avrebbe
fatto indietreggiare.
E
invece disse: - Credevo che …
che avesse rovinato quel qualcosa che c’è tra noi-.
-
Non … non per me- sussurrò lei.
Silenzio.
Era
sconvolto? Turbato?
Infuriato?
Sentii
le dita lui tornare a
distendersi: presero ad accarezzarle il dorso della mano. E Booth,
intanto,
decise che sarebbe stato meglio non parlare più, e rivide
attorno a sé la notte
densa e gelida, lo sguardo folle di Sweets, il dolore fisico, la morte
acquattata in un angolo.
Basta.
-
Fa freddo, Bones. Se ci
stringiamo un po’, staremo meglio- mormorò,
sfilando la mano dalla manica di
lei.
Temperance
lo fissò per qualche
istante.
Booth
accennò un mezzo sorriso: -
È scientifico. Calore corporeo sommato-.
-
Già. Scientifico-.
Si
sdraiò accanto a lui,
incastrando le gambe tra le sue.
Fronte
contro fronte, respiro
contro respiro.
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Capitolo 5 *** Cinque ***
Capitolo Cinque
Erano
passate due, forse tre ore.
La
notte ormai avvolgeva ogni
cosa, il buio scalfito solo da qualche stella e dai rumori del bosco.
Avevano
dormito, per quanto possibile.
Soprattutto
lui, aveva dormito.
Il calore dei loro corpi vicini era stato d’aiuto, e Booth
era finalmente
riuscito a chiudere gli occhi, le braccia strette attorno a lei.
Temperance
Brennan l’aveva guardato dormire, per un po’, la
fronte contro la sua,
percependo il suo respiro farsi lentamente più regolare,
più lieve, e poi gli
occhi grandi di Booth si erano arresi alla stanchezza e al dolore.
Non
l’aveva lasciato, non l’aveva
lasciato neanche per un attimo.
Lo
sentiva addosso a lei, il
corpo forte e sfinito, le mani appoggiate piano attorno alla sua vita:
così
protettivo e bisognoso di protezione.
Erano rimasti così per un pezzo, e Temperance aveva dormito
a sprazzi, svegliandosi
a ogni rumore.
Poi
gli occhi di Booth erano
tornati a spalancarsi:
-
Pensi che ne usciremo, Bones?-.
Lei
si morse le labbra: - Non lo
so-.
Booth
sospirò. Temperance sentì
un nodo piantarsi in mezzo alla gola: sapeva bene chi di loro due era
messo
peggio. Chi sarebbe stato il primo ad andarsene.
Cercò
di non pensarci.
-
Dobbiamo … dobbiamo farci
venire in mente qualcosa- borbottò.
Seeley
la fissò con un mezzo
sorriso: un sorriso insopportabilmente triste:
-
Bones, siamo in mezzo al
nulla-.
-
Lo so, ma …-.
-
Non abbiamo cellulari, non
abbiamo niente … Dobbiamo essere razionali …-.
-
Perché non posso mai fare
quella irrazionale?!- sbottò lei.
-
Perché non lo sei, Bones. E
farlo non cambierebbe nulla-.
Temperance
tacque. Lo guardò
negli occhi, cercando un po’ di calore. Non si erano spostati
di un millimetro:
la bocca di Booth era sempe lì, a pochissimi centimetri
dalla sua.
Ma
aveva senso pensare a una cosa
del genere in un momento così, in una situazione tale? Non
era stupido? Era
stupido, certo che era stupido. Di cattivo gusto, poi.
O
forse no.
Forse
no, antropologicamente
parlando: il pericolo e il sentore di morte acuivano gli istinti,
spazzavano le
inibizioni, i dubbi.
Perciò.
Booth
era lì, tra le sue braccia.
Ferito, quasi congelato.
E
ormai gli aveva detto quelle
cose.
Avrei voluto baciarti per più tempo.
Se
si fossero addormentati
un’altra volta per non svegliarsi mai più,
Temperance Brennan non avrebbe avuto
rimpianti: perché le sue labbra sarebbero state su quelle
dell’uomo che le
aveva vissuto accanto per tutto quel tempo, e che ora le moriva,
accanto.
Stava
per farlo. Lo avrebbe
fatto.
Ma
una luce violenta l’investì.
Grida
confuse, rumore di passi
veloci, la terra gelata a scricchiolare.
Ebbe
appena il tempo di vedere un
sollievo confuso negli occhi di Booth.
Poi
lui chiuse gli occhi.
E
Angela Montenegro le piombò
addosso, bagnandola di lacrime e gioia.
Bianco.
Tutt’intorno.
Bianco, pulito,
silenzioso.
La
dottoressa Temperance Brennan
se ne stava accoccolata su una piccola poltrona verde, in un angolo
della
stanza. Teneva le ginocchia strette al petto, un maglione chiaro a
collo alto
che le copriva completamente le mani, i capelli legati in una coda di
cavallo.
Si
guardava attorno, dando le
spalle a una piccola finestra: fuori, il cielo era grigio, gonfio di
pioggia.
La stanchezza le segnava il viso pallido: un paio di lividi su una
guancia
spiccavano sul candore della sua pelle, gli occhi fissi davanti a
sé.
Guardava
tutto quel bianco,
Temperance Brennan.
E
guardava lui.
-
Tesoro …-.
Una
voce gentile la riportò alla
realtà: Temperance sorrise ad Angela.
-
Ehi …-.
-
Sei ancora qui? Non sei andata
a dormire?-.
Angela
appoggiò con cautela il
cappotto sullo schienale della poltrona, poi tornò a
scrutare l’amica.
Temperance scosse la testa:
-
No, io … io voglio esserci,
quando si sveglierà-.
-
Non sarà da solo, posso
rimanere io, non c’è problema …-.
-
No, Angela, davvero. Voglio …
voglio stare qui-.
Angela
tacque.
Guardò
l’amica: Temperance era
stanca, in quei due giorni non aveva praticamente chiuso occhio. Dopo i
controlli medici, le domande, una corsa a casa e una doccia calda, si
era
stabilita all’ospedale, e nessuno era riuscito a schiodarla
da quella stanza.
-
Novità?- mormorò d’un tratto.
Angela
sospirò:
-
Lo stanno cercando. A casa sua
non hanno trovato niente di utile, sembra davvero … sparito
nel nulla-.
-
Sweets non è uno stupido-.
-
No, certo che no-.
Temperance
abbassò per un istante
gli occhi, e Angela trattenne il respiro.
Si
sarebbe finalmente lasciata
andare? La corazza si sarebbe sciolta? In quei due giorni non aveva mai
versato
una lacrima, non aveva cercato un abbraccio di troppo. Ma non poteva
durare in
eterno.
-
Vuoi venire a bere un caffè?-
sussurrò Angela, appoggiandole una mano sulla spalla.
-
No, ti ringrazio. Preferisco
restare qui-.
-
Tesoro, solo un caffè, poi ti
riporto subito …-.
-
Angela, potrebbe svegliarsi da
un momento all’altro, hanno smesso di somministrargli i
sonniferi-.
-
Sì, ma …-.
-
Voglio esserci, capisci? Quando
si sveglia-.
Temperance
la fissò negli occhi:
-
Io voglio esserci-.
Angela
annuì.
Si
chinò a darle un bacio sulla
fronte:
-
D’accordo. Ti chiamo se ci sono
novità-.
-
Grazie-.
La
dottoressa Temperance Brennan
seguì con gli occhi Angela uscire dalla stanza e chiudere la
porta alle sue
spalle. Il bianco tornò a circondarla, e
l’angoscia si fece più soffocante.
Chinò
il capo e cercò di
respirare a fondo. Poi rialzò la testa e tornò a
fissare l’uomo che riposava
nel letto di fronte a lei, il petto che si alzava a intervalli regolari.
Sotto
di lei, nel cortile
dell’ospedale, salivano i rumori discreti di chiacchiere e
passeggiate.
La
pioggia cominciò a
tambureggiare sui vetri della finestra. Temperance
appoggiò il mento sulle ginocchia: solo
quarant’otto ore prima era certa che sarebbe morta, che
sarebbero morti tutti e
due. Solo quarant’otto ore prima l’insieme
grondante dei suoi sentimenti e
delle sue paure – sempre tanto aggrovigliato e confuso
– le era parso
improvvisamente di una semplicità devastante.
Devastante
perché le aveva mostrato,
per la prima volta, l’ombra aguzza del rimpianto.
E
il sapore amaro del non detto,
del soffocato, del nascosto.
Quell’ombra
spuntata le premeva
ancora addosso, e Temperance Brennan sapeva di averla evitata, almeno
per ora:
ma solo perché qualcuno era arrivato a strapparli dalla fine.
Dalla
fine di ogni cosa.
L’antropologia
era una scienza
esatta eppure, in quella stanza d’ospedale, la dottoressa
Temperance Brennnan
pensava che non c’era niente, di esatto, nella
complessità voluta.
E
nella semplice e lontana
possibilità di rimpiangere qualcosa.
Rimase
a contemplare Seeley Booth
per un tempo che le parve infinito, accoccolata su una poltrona,
contandogli i
respiri, soffocando la bruciante tentazione di sdraiarsi accanto a lui
e
aspettare così il suo risveglio, vicina al suo odore, vicina
al suo calore.
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Capitolo 6 *** Sei ***
Capitolo Sei
Jeffersonian.
Mezzogiorno.
Un
tiepido sole invernale
scaldava i vetri di quello che era l’ufficio della dottoressa
Temperance
Brennan. Sul divano Jack Hodgins abbracciava Angela Montenegro.
-
A cosa pensi?- mormorò,
carezzandole piano una guancia.
Angela
socchiuse gli occhi:
-
Al fatto che sono molto
sollevata-.
-
Come hai trovato Brennan, prima?-.
-
Sfinita, direi. E un po’
pensierosa-.
Jack
fece scivolare la mano tra i
suoi capelli:
-
Con quello che ha passato è più
che normale-.
-
Già-.
Un
lieve sorriso si dipinse sul
viso dell’uomo:
-
Ma …-.
-
Ma cosa?-.
-
Hai detto un già che
presupponeva un ma, Angie
…-.
La
donna si divincolò dal suo
abbraccio e si voltò a fissarlo, l’espressione
seria:
-
Non so, è che … ho visto come
lo guardava-.
-
Come guardava chi?-.
-
Come Brennan guardava Booth-.
-
E come?-.
Angela
si morse un labbro:
-
Non l’ho mai vista così, Jack.
Lo guardava in un modo che non ho mai …-.
Jack
le prese una mano e se la
portò alle labbra, interrompendola:
-
Tesoro, Booth ha rischiato di
morire. E’ normale che lei sia ancora tesa e preoccupata-.
-
Già, immagino che tu abbia
ragione- sospirò lei.
-
Ha rischiato di perdere un
amico, no? Qualcosa in più di un collega-.
Angela
fissò Hodgins negli occhi:
-
Qualcosa in più di un amico,
Jack-.
Il
sole entrava piano nella
stanza, disegnando sagome di luce sulle pareti bianche.
Lui
dormiva ancora, il respiro
regolare, i capelli spettinati.
Non
molto, e si sarebbe
svegliato.
Temperance,
da quando Angela
l’aveva lasciata sola, non si era mossa dalla poltrona.
Una
miriade di pensieri le
affollava la mente, tanto che aveva l’impressione di non
riuscire a riflettere
lucidamente su niente.
Erano
quasi morti, lei e Booth.
Per
colpa di Lance Sweets.
C’erano
molte domande cui
Temperance non riusciva dare una risposta, non ultimo il
perché lo psichiatra
avesse fatto quella telefonata al Jeffersonian, dicendo in tutta
tranquillità
dove si trovavano lei e Booth e consentendo loro di essere salvati in
tempo.
Perché
Sweets non avesse fatto
nulla per nascondere quello che era successo: quella telefonata era
equivalsa a
una confessione firmata.
E
ora l’FBI gli dava la caccia,
ancora senza risultato.
Tuttavia,
in quelle ore, rabbia, paura
e macchinazioni avevano lasciato il posto ad altri pensieri.
Ad
altre sensazioni.
Ad
altre paure.
Un
colpo di tosse la riportò alla
realtà.
O
forse no, forse era stato un
gemito.
Temperance
scattò in piedi, il
cuore che le batteva forte nelle orecchie.
-
Ehi …-.
Ehi.
La
sua voce.
La
voce di lui.
Tre
lettere.
Ehi.
Temperance
non sapeva esattamente
come fosse arrivata al letto, ma c’era arrivata. E Booth era
lì, a pochi
centimetri, sdraiato, che la fissava con un sorriso da bambino.
Vivo.
Sveglio.
-
Ehi - mormorò Temperance, la
voce quasi un sussurro.
Pensò
che avrebbe voluto
toccarlo, sfiorargli una mano, la fronte, i capelli.
Ma
non lo fece.
Rimase
inchiodata ai suoi occhi:
-
Come … come ti senti?-.
Booth
si passò una mano sul viso:
-
Benone, non … non sento niente.
Nemmeno il mio corpo-.
-
Sono i sedativi. Hai dormito
per più di ventiquattr’ore-.
-
Per più di ventiquattr’ore?-.
Temperance
annuì. Sentiva un nodo
alla gola. Uno stupidissimo nodo alla gola.
Ma
non c’era motivo di piangere,
tutto era andato bene.
Non
doveva piangere.
Booth
sospirò, appoggiandosi una
mano sul petto nudo:
-
E quel bastardo?-.
-
Lo stanno ancora
cercando-.
-
E tu stai bene?-.
Lei
inghiottì il nodo alla gola:
-
Sì, sto bene-.
-
Bene-.
-
Bene-.
Si
fissarono per qualche istante,
in silenzio.
Poi
Temperance gli raccontò della
telefonata di Sweets e di come li avessero e trovati, e mentre lei
parlava
nella testa di Booth si affollava una tempesta di pensieri. Alcuni
prevedibili,
altri più inappropriati. Pensava a quel figlio di puttana di
Sweets, alla notte
del bosco. Pensava alla morte.
Pensava
a Bones.
Pensava
soprattutto a Bones.
Quando
lei tacque, Booth vide che
aveva gli occhi lucidi. Le cercò la mano e la strinse.
A
quel contatto improvviso,
Temperance sussultò.
-
Hai le mani gelate- mormorò Seeley,
fissandola negli occhi.
Lei
annuì, distogliendo lo
sguardo.
-
Dove sei stata in queste
ventiquattr’ore? Ti sei riposata un po’?-
domandò lui.
-
Sì, certo-.
Non
lo guardava nemmeno ora.
Le
strinse la mano con più forza,
e lei sollevò gli occhi su di lui.
-
È finita, Bones. È finita-
sussurrò Seeley.
-
Certo, lo so, è solo che …-.
La
voce le mancò. Le lacrime,
invece, persero i freni.
Temperance
non faceva mai rumore,
quando piangeva. E Booth sentì il suo cuore perdere un
battito, a vederla con
il viso rigato di pianto, silenziosa e discreta, aggrappata alla sua
mano.
-
Mi dispiace- mormorò lei.
-
Non è un problema-.
-
Sto piangendo solo per
l’accumulo di tensione. Sfogo fisiologico da post-trauma-.
-
Non mi devi dire perché stai
piangendo, Bones. Te l’ho già detto-.
-
È che
sto piangendo un po’ troppe volte,
ultimamente-.
Booth
abbozzò un sorriso:
-
È solo la seconda volta, in
fondo-.
Temperance
annuì, sorridendo di
rimando. Non parlarono per un po’, e lui le lasciò
la mano.
Aveva
dormito per più di un
giorno, eppure si sentiva sfinito.
Quando
Temperance se ne andò,
rimase a fissare il soffitto.
Erano
vivi, Sweets sarebbe stato
preso a breve, tutto era finito per il verso giusto.
Tutto
bene, certo.
Ma
non riusciva a dimenticare
cosa si erano detti lui e Bones, in quelle ore.
I
ricordi erano tutti lì,
aggrappati saldamente alla memoria: li ripercorse di continuo, godendo
del
calore che gli trasmettevano.
Pensieri
inappropriati, forse.
Ma
era troppo stanco per rimproverarsi
e sentirsi in colpa in una qualche maniera.
-
È bello vederti con un’espressione
umana e non da pesce lesso!-.
Booth
sorrise:
-
Grazie, Hodgins-.
-
Di niente - ribattè Jack.
Appena
Temperance se ne era
andata, Seeley aveva avuto ben poco tempo per rimuginare sui suoi
pensieri. La porta
della stanza si era aperta ed erano comparsi i visi sorridenti di Jack
Hodgins
e Angela Montenegro. Cam e Zach, gli avevano spiegato, sarebbero venuti
nel
tardo pomeriggio.
Angela
lo aggiornò circa la
questione di Sweets, e Booth ascoltò ogni parola con
interesse misurato.
Se
ne andarono dopo una
quarantina di minuti.
Hodgins
era già uscito e Angela
era sull’uscio, quando la donna si voltò verso di
lui.
Si
fissarono per qualche istante.
Lei
prese un bel respiro e fece
dietrofront, tornando accanto al letto:
-
Booth …-.
-
Che c’è?-.
Angela
lo fissò negli occhi,
torturando con la mano destra una sponda del letto:
-
Booth, lei è rimasta tutto il
tempo qui-.
-
Cosa?-.
-
Brennan. È rimasta qui sempre.
Lì, sul quella poltrona. A guardarti. Sempre-.
A guardarti.
Sempre.
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Capitolo 7 *** Sette ***
Capitolo Sette
Era
bello camminare, sentire
l’aria fredda sulla faccia.
Era
bello arrancare sull’asfalto,
il passo ancora un po’ incerto, sotto il sole tiepido
dell’una del pomeriggio:
a pochi metri dal Diner, ormai, in una Washington viva e che non aveva
nulla,
del biancore soffocante dell’ospedale.
Bello
era camminare con Bones. Di
nuovo. Insieme.
Seeley
Booth e Temperance Brennan
entrarono a passo lento nel locale.
Lei
gli stava vicino, adeguando
la propria andatura a quella di lui: gli aprì la porta e lo
fece passare, lui
le rivolse un sorriso divertito ma ubbidì, senza fare
commenti.
Si
sedettero al solito tavolo,
uno di fronte all’altra.
Mentre
davano un’occhiata ai
menù, Temperance sbirciò Booth:
l’avevano dimesso la sera prima e aveva
decisamente un aspetto migliore. Era tuttavia ancora un po’
debole ma, benchè
lei ci avesse provato con tutte le sue forze, non era riuscita ad
obbligarlo a
rimanere a casa. Il riposo forzato non faceva per Booth, esattamente
come non
faceva per lei: e poi le aveva scaldato il cuore, vederlo sul suo
pianerottolo
mezz’ora prima, armato di sorriso e invito a pranzo.
-
Hai scelto?-.
La
voce di lui la distolse dai
suoi pensieri.
-
Oh, certo-.
-
Perfetto, allora ordiniamo: sto
morendo di fame-.
Aspettarono
in silenzio che la
cameriera arrivasse e prendesse le ordinazioni. Quando se ne fu andata,
Booth
se ne stava appoggiato allo schienale, occhi socchiusi e braccia
conserte.
-
Sei stanco? - domandò
Temperance, richiudendo i menù.
-
No, non particolarmente. Mi sto
solo godendo il fatto di essere qui, di nuovo-.
Lei
annuì:
-
Già-.
Booth
riaprì gli occhi e la
guardò:
-
Con te-.
Sbam.
Il
menù era caduto.
Temperance
si affrettò a
raccoglierlo, maledicendo il suo gomito e quella stupida reazione.
Non
era più a liceo, non aveva
sedici anni da un bel pezzo: eppure, due semplice parole le avevano
fatto
scattare il braccio e ora, mentre la sua testa tornava a fare capolino
sopra il
tavolo, si sentiva le gote in fiamme. Booth la guardava con espressione
divertita:
-
Tutto bene?-.
Temperance
annuì, abbassando gli
occhi:
-
Certo, certo-.
Silenzio.
Ancora.
Perché
ce n’era così tanto,
di silenzio?
Temperance
guardò di sottecchi
Booth: se ne stava sempre a braccia conserte, pensieroso.
Lo
sguardo perso al di là delle
vetrate.
La
dottoressa Brennan decise che
la situazione andava ripresa in mano.
-
Le … le ricerche di Sweets
sembrano arrivate a un punto morto, ho paura che … -
attaccò lei, ma Booth
sollevò appena una mano e la interruppe.
-
Non voglio parlare di Sweets,
Bones- mormorò, fissandola negli occhi.
Lei
ricambiò lo sguardo, confusa:
-
No? Pensavo … insomma, ora stai
meglio, dovremmo cominciare a occuparci totalmente di questa storia,
Sweets
potr …-.
-
No. Non voglio parlare di lui-.
Temperance
tacque.
Incrociò
le braccia: si fissarono
così per qualche istante, seduti nelle stesse posizioni.
-
E di cosa vorresti parlare,
allora?-.
Booth
si sporse verso il tavolo
che li divideva:
-
Lo sai-.
Un
ronzio nelle orecchie.
-
No, non lo so-.
-
Sì che lo sai-.
-
No, Booth-.
Lo
sguardo che lui le lanciò fu
come una freccia: la trapassò da parte a parte.
Uno
sguardo pieno, esasperato,
lucido.
-
Di quello che ci siamo detti
laggiù, Bones - sussurrò Seeley.
Cambiò
posizione, appoggiando le
braccia sul tavolo.
-
Laggiù? – mormorò Temperance.
Era
quello il gioco: ripetere le
ultime parole di lui, fingendo di non capire ciò che invece
capiva
perfettamente.
-
Laggiù, Bones: in quella specie
di cella, nella foresta - disse Booth, la voce roca.
-
Non capisco cosa vuoi dire-.
Un’ombra
d’impazienza passò negli
occhi di lui:
-
Sì che capisci, invece. Ci
siamo detti delle cose. Cose che
non
ho dimenticato-.
Lei
non rispose.
Si
limitò a sostenere il sguardo,
con fatica.
Un
tocco caldo le avvolse una
mano.
Abbassò
gli occhi sulle dita di
Booth, che le accarezzavano il palmo sinistro con delicatezza.
-
Cosa … cosa stai facendo?-
borbottò, sentendo lo stomaco fare una capriola.
-
Ti sto accarezzando una mano-.
-
Smetti di farlo-.
-
Perché?-.
-
Perché di sì-.
Ma
Booth non smise.
La
fissava dritta negli occhi.
-
Sei stata accanto al mio letto
sempre, in questi giorni – mormorò lui.
-
Certo, io …-.
-
Ci siamo detti delle cose, Bones, e
io le ho tutte qui,
in mente. E credo anche tu-.
-
Togli quella mano, Booth-.
-
Non ho nessuna intenzione di
farlo, Bones-.
-
Se non togli quella mano,
potrei tirarti un calcio sotto il tavolo. Mandare a quel paese i tuoi
attributi
da Maschio Alpha una volta per tutte-.
-
Non svicolare-.
-
Non sto svicolando, è una
minaccia, Booth-.
-
Non funziona, allora, perché
non sono affatto intimorito-.
Temperance
sfilò di scatto la
mano da sotto le dita di Seeley.
Era
arrabbiata. E spaventata. E …
altro, altro di confuso, grondante, potente.
Altro
che non riusciva a
spiegarsi.
Fece
un respiro profondo:
-
Cosa vuoi da me, Booth?-.
L’espressione
di lui si fece
ancora più intensa:
-
Voglio solo parlare. Parlare davvero-.
Silenzio.
Poi
Booth si sporse verso di lei:
i loro volti si trovarono a pochi centimetri.
-
Avrei voluto baciarti per più
tempo – sussurrò piano.
Temperance
sentì il suo cuore
perdere un battito.
O
forse no, forse riguadagnarne
un centinaio in un colpo solo:
-
Cosa … cosa stai dicendo?-.
-
Non sono parole mie, Bones-.
Lei
distolse lo sguardò: cercò
con gli occhi la strada, la gente, le automobili.
Qualcosa.
Booth
si fece ancora più vicino:
lei poteva sentire il profumo agrodolce del dopobarba, il calore del
suo fiato,
l’odore pulito dei capelli spettinati.
Le
sfiorò il mento con l’indice e
il pollice:
-
Non sono parole mie, ma non
vuol dire che non le condivida appieno-.
Temperance
Brennan, a quel punto, fece l’enorme errore di incontrare i
suoi occhi.
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Capitolo 8 *** Otto ***
Capitolo Otto
Grazie a tutti per le recensioni! Se siete arrivati
fino qui, spero che
continuerete a seguire la storia … Ormai non manca molto,
tenete duro! Buona
lettura!
Enorme. Gigantesco.
Immane errore.
- Devo … devo andare in bagno, scusami - balbettò
Temperance, alzandosi di
soprassalto.
Booth la fissò a bocca aperta:
- Cosa?-.
- In bagno … scusami … devo andare-
sussurrò lei, scivolando oltre la panca e
allontanandosi a passi nervosi. Lui non ebbe il tempo per ribattere
nulla: la
guardò finchè non scomparve dietro la porta scura
della toilette. L’agente
speciale Seeley Booth si lasciò andare contro lo schienale,
sospirando.
Fissò il posto vuoto di fronte a sé:
cercò di ricostruire quelle sensazioni,
quelle percezioni spazzate via tanto all’improvviso.
Impossibile.
Finì con il socchiudere gli occhi, le dita che
tambureggiavano nervose sul
tavolo.
Era ridicolo.
Assolutamente ridicolo.
La dottoressa Temperance Brennan fissava l’immagine riflessa
nello specchio di
fronte, le mani appoggiate al lavadino, il respiro leggermente
affannoso. Aveva
aperto i rubinetti e un getto di acqua fresca scorreva ininterrotto da
ormai
quasi cinque minuti. Esattamente: erano quasi cinque minuti che era
chiusa in
quel bagno, e non aveva nessuna intenzione di uscirne.
Non in quello stato, non con quell’uomo a quel tavolo. Non
con quei discorsi.
Eppure era assurdo: dopotutto era una donna matura, una scienziata, una
persona
affermata e sicura. Non c’era nulla di cui avere paura. O
forse sì.
O forse non era neppure paura, ma qualcosa di molto più
complesso.
Qualcosa che, con sgomento, si era scoperta incapace di affrontare.
Tuttavia, a qualche metro da lei, solo a un tavolo, non c’era
uno sconosciuto:
si trattava di Booth, del suo Booth. O era proprio quello il problema?
Rapidissime, nella sua mente, scorsero le immagini del bacio sotto il
vischio,
degli abbracci dopo il rapimento, Seeley a occhi chiusi nel letto
bianco, le
dita di lui lunghe e calde, incapaci di rimanere immobili, avanti e
indietro
sul suo palmo. Temperance si aggrappò al lavandino e chiuse
gli occhi.
Doveva smetterla. Doveva ritrovare la calma.
Calma e lucidità.
Toc.
Spalancò immediatamente gli occhi.
L’aveva sentito davvero?
Toc.
- Bones?-.
Temperance si volse alla porta, il cuore che batteva a mille.
- Chi … chi è?- mormorò, avvicinandosi
a passi lenti.
Uno sbuffo:
- Chi vuoi che sia, Bones? Sono io. Volevo sapere se va tutto bene-.
Lei era quasi arrivata alla porta: la chiave nella toppa era a pochi
centimetri.
- Tutto … tutto bene, certo – disse, allungando
una mano.
- È che … insomma, sei qui dentro da
più di cinque minuti e …-.
Le dita di Temperance artigliarono la chiave: la girò con un
gesto secco e aprì
la porta. Booth la guardava, le braccia lungo i fianchi.
Lei annuì:
- Tutto bene, visto?-.
- Bene, allora … Torniamo al tavolo?-.
- Certo-.
- Bene-.
Lo seguì a passi lenti.
Basta: doveva razionalizzare. Doveva farlo.
Riportare la situazione agli standard consueti. Ristabilire le
posizioni, i
rapporti, il tenore delle conversazioni. Riappropriarsi di ogni cosa.
Si risiedettero al tavolo, il Diner che si rimpieva sempre di
più.
Lo sguardo di Temperance vagò su una coppia appoggiata al
bancone: lei
sorridente, i lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo, lui con
un ghigno
divertito, una mano che sfiorava un fianco di lei.
Quella, da un mero punto di vista antropologico, era chiaramente una
relazione
sessuale riuscita.
Ed era questo, quello che Booth cercava di dirle?
Che voleva una relazione sessuale riuscita?
Non si accorse di averlo detto ad alta voce.
O meglio, se ne rese conto quando un’occhiata di Booth la
infilzò, penetrante e
intensa:
- Io non sono già arrivato a quel punto-.
Già.
Quindi aveva intenzione di arrivarci.
Booth si sporse verso di lei:
- Bones, cercavo soltanto di affrontare la situazione. Soltanto di
parlare. E
tu sei scappata in bagno-.
- Questo non è vero - sbuffò lei.
- Sì, invece-.
Temperance avvicinò il viso a quello di lui, allungandosi
attraverso il tavolo:
- Booth, riportiamo il contesto antropologico e lavorativo a un livello
standard, d’accordo?-.
Lui la fissò, corrugando la fronte:
- E questo cosa vorrebbe dire?-.
- Significa tornare indietro, cancellare tutti i refusi che si sono
scatenati
dopo l’esperienza traumatica che abbiamo vissuto. Ogni cosa,
Booth: sensazioni,
impulsi-.
- Stai dicendo che … che tutto quello che …-.
- Booth, il trauma scatena negli esseri viventi reazioni fuori dagli
standard
consueti, e questo accade soprattutto tra gli esseri umani, pertanto
ritengo
…-.
Seeley sollevò una mano, interrompendola.
La guardava con durezza. Durezza mista a qualcos’altro.
- Non voglio sentire altro, Bones-.
Lei inspirò profondamente:
- Concordi, allora?-.
- Niente affatto-.
- Cosa significa?-.
- Significa che penso tu abbia detto un mucchio di sciocchezze-.
Si fronteggiarono per qualche istante, i visi a pochi centimetri.
Booth le prese una mano, con un gesto deciso.
Lei lo fulminò con lo sguardo:
- Cosa fai?-.
- Quello che facevo prima che tu andassi in bagno. Ti accarezzo una
mano-.
- Booth, ti ho fatto un discorso scientificamente impeccabile, prima e
…-.
- … e non m’interessa niente. Perchè tu
non ci credi davvero-.
Temperance sentì la sua sicurezza vacillare:
- Non credo davvero a cosa?-.
- A quelle tue teorie. Lo so che non ci credi. Lo so perché
c’ero anch’io,
durante il cosiddetto trauma-.
- Tu non sai proprio niente, Booth-.
- So che hai paura, per esempio-.
- Non ho paura-.
- Invece sì. E anche io-.
- Io non ho paura-.
- Cosa faresti se ti baciassi, Bones?-.
Tum.
Temperance lo fissò negli occhi, scotendo la testa, il cuore
nelle orecchie:
- Non lo faresti-.
- E se lo facessi, Bones? Se ti baciassi qui, adesso?-.
Seeley aveva alzato la voce, per sovrastare il brusio nel Diner.
Qualcuno si voltò a guardarli.
- Tu non mi bacerai, Booth. Tu non vuoi baciarmi-.
- Voglio, invece-.
- Ah sì? In tal caso, potrei anche darti un pugno-.
Negli occhi lucidi di Booth passò un lampo di divertimento:
- Un pugno?-.
Temperance sostenne il suo sguardo, sentendo la rabbia crescere, e
insieme alla
rabbia qualcos’altro, altro che non avrebbe saputo definire.
Cercò, con uno
strattone, di liberare la mano dalle dita di lui: ma Booth non la
lasciò
andare.
I loro visi erano vicinissimi.
Sentiva il suo respiro. Il suo calore. Il suo odore.
Si aggrappò all’ultimo rabbioso rimasuglio di
lucidità:
- Tu … non … mi … bacerai-.
E fu un attimo.
La rabbia, all’improvviso, montò di nuovo, e lei
sentì il fuoco e una paura
indistinta salirle su per lo stomaco, risalire la gola, arrivare alle
labbra, e
allora la bocca di Booth fu vicina alla sua, vicinissima, e lei non
potè far
altro che cercare il respiro di lui, il suo lieve ansimare.
Il bacio iniziò furioso, profondo, le mani di Booth che le
sfiorarono le
guance, le tempie, e lei si perse nel suo odore, e il Diner implose in
un
scoppio di sensazioni, confusione, eccitazione.
Svanirono la folla, i rumori, il tavolo che li separava, e il bacio si
addolcì
a poco a poco, le labbra che si staccarono appena, continuando a
cercarsi, a
sfiorarsi.
La dottoressa Temperance Brennan aprì piano gli occhi, ad
incontrare quelli di
lui.
E un’indignazione confusa le salì alle mani,
perché questo non sarebbe dovuto
succedere, non era razionale né sensato né
antropologicamente necessario, e
Booth l’aveva fatto sfidandola, lì, a quel tavolo,
e lei era stata costretta a
… A cedere e …
Ed era soltanto colpa di quell’uomo.
Un pugno violentissimo si abbattè sul viso di Seeley Booth.
La dottoressa Brennan lo guardò – il braccio
ancora sollevato - portarsi le
mani al volto, mentre il sangue iniziava a fluire copioso.
Udì qualcuno urlare,
un rumore confuso di passi che si dirigevano al loro tavolo, il brusio
che
cresceva, il Diner che si animava.
- Che diavolo è successo qui?-.
- Ma siete diventati pazzi?-.
- È stata la donna, l’ho vista!-.
Temperance non riusciva a muovere un muscolo.
Capì cosa aveva fatto davvero quando lui sollevò
il volto insaguinato.
Booth la fissò in silenzio, le mani abbandonate lungo i
fianchi, il naso
spaccato.
- Mio Dio- balbettò Temperance. Aveva la gola secca.
Attorno al loro tavolo si era formato un capannello di persone.
Temperance si alzò in piedi:
- Io … noi … non è successo niente
…-.
Una voce roca la interruppe: Booth.
- Gente, siamo dell’FBI, va tutto bene, nessuno problema. Ora
… ora riprendete
a mangiare, fate le vostre cose, ce ne … ce ne andremo
immediatamente -
mormorò, cercando di alzarsi, una mano sul naso.
La folla cominciò a scemare, i borbottii che non si
affievolivano.
Temperance aggirò il tavolo: s’infilò
sotto un braccio di Booth, offrendogli la
spalla.
Il sangue continuava a fluire, e lui era sempre più pallido.
- Booth, mio Dio, mi dispiace così tanto-
sussurrò, mentre lo aiutava a uscire
dall’incastro tra il tavolo e la panca.
Lui annuì con fatica:
- Credo che … credo sia meglio che tu mi dia uno strappo al
Pronto Soccorso-.
- Certo … Booth, davvero, io non …-.
Un lampo divertito passò negli occhi di Seeley:
- Non volevi?-.
Temperance aprì la bocca per ribattere, poi
rinunciò.
Uscirono dal Diner, in silenzio, sotto decine di sguardi curiosi.
Arrivarono alla macchina e, prima di mettere in moto, il cellulare di
Temperance squillò.
Era Angela.
Temperance rimase un istante in silenzio, ascoltando la voce
dall’altra parte
del ricevitore.
Poi deglutì:
- Angela, no, non possiamo venire subito, è che
…-.
S’interruppe e lanciò un’occhiata
costernata a Booth, accasciato sul sedile, un
fazzoletto arrossato premuto contro il naso. Lui ricambiò
l’occhiata.
Temperance sospirò:
- Angela, io e Booth stiamo andando al Pronto Soccorso. Io …
io gli ho appena
rotto il naso, credo-.
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Capitolo 9 *** Nove ***
Capitolo 9
-
Brennan, si può sapere cosa ti
è saltato in mente?-.
Angela
le stringeva una spalla,
offrendole un caffè bollente.
Il
corridoio era un continuo
viavai di medici, infermieri, pazienti.
Appoggiata
a una parete, gli
occhi socchiusi e la testa pesante, la dottoressa Temperance Brennan
cercava di
fare ordine e pulizia tra i suoi pensieri.
Pensieri
aggrovigliati,
appannati.
-
Io … gli ho dato un pugno-
sussurrò.
Angela
fece una smorfia:
-
Questo l’ho visto, tesoro,
quell’uomo è seduto di là con il naso
spaccato!-.
Temperance
afferrò il bicchiere
di plastica che l’amica le porgeva.
Sorseggiò
il caffè, lasciando che
la bevanda bollente le ustionasse la lingua e la gola.
Angela
strinse più forte la
spalla:
-
Tesoro … perché l’hai fatto?-.
Temperance
alzò lo sguardo e
sospirò:
-
Perché mi ha baciata, Angela-.
La
mano della giovane si staccò
dalla sua spalla.
Angela
si portò le mani sui
fianchi, l’espressione indecifrabile:
-
Ti ha … baciata?-.
-
Sì-.
-
E tu gli hai dato un pugno-.
-
No, prima ho … risposto. Dopo,
gli ho dato un pugno-.
-
Hai risposto? Al bacio, vuoi
dire?-.
-
Sì-.
-
E poi gli hai dato un pugno-.
-
Poi gli ho dato un pugno, sì-.
Angela
annuì, le labbra strette.
Quando
alzò gli occhi su di lei,
Temperance ebbe la sensazione che Angela tentasse di trattenere un
sorriso.
-
È molto logico, certo …-
borbottò.
-
Angela, ti sembra il caso di
fare dello spirito?-.
-
No, bè, è solo che …-.
-
Che cosa?-.
Angela
le sfilò dalle mani il
bicchiere vuoto e sorrise:
-
Concordi con me sul fatto di
avere avuto una reazione un po’ eccessiva, vero?-.
-
Sì, ma … Gliel’avevo detto, che
l’avrei fatto. Che avrei reagito in questo modo, che
…-.
-
Tesoro …-.
Temperance
tacque: sapeva che, in
fondo, Angela aveva ragione.
Per
quanto, ad ogni modo, avesse
voluto fare davvero del male a Booth, a quel tavolo, non si era
immaginata di
arrivare a un punto simile.
A
un punto tanto irrazionale.
E
irrazionale era stato il pugno.
E
irrazionale, non ultimo, il
bacio.
Forse.
S’impedì
di continuare a
pensarci:
-
Al telefono avevi detto che
dovevamo venire perché c’erano novità
su Sweets, no?-.
Il
repentino cambio di argomento
sembrò disorientare per un attimo Angela.
-
Sweets? Ah, certo, sì- mormorò
d’un tratto, frugando nella borsa a tracolla.
Temperance
attese che l’amica le
porgesse quello che cercava.
-
Tieni. È arrivata qualche ora
fa. Portata da un ragazzetto che però non ha saputo dirci
niente. È … è
indirizzata a te e a Booth- disse Angela, allungando una mano.
Lei
prese la lettera, con un vago
senso di nausea.
-
Sono riuscita a convincere
l’FBI a non toccarla prima di te e Booth -
sussurrò Angela.
-
C’è … si è messo come
mittente-.
-
Già: Lance Sweets-.
Temperance
rigirò per qualche
istante la busta, lo stomaco stretto.
Che
pausa pranzo assurda.
Seeley
Booth s’infilò con cautela
la maglietta pulita che un’infermiera gli aveva gentilmente
procurato. La sua,
di maglietta, era appallottolata in un sacchetto di plastica: un
ammasso bianco
e rosso. L’avrebbe cestinata, una volta a casa.
E
poi si sarebbe buttato sul
divano, con la seria intenzione di non alzarsi per un bel pezzo.
Alzò
il braccio malandato per
infilarlo nella manica del giubbotto, e il movimento gli
costò una certa
fatica: la testa, per attimo, tornò a girargli, e dovette
appoggiarsi alla
sponda del lettino.
Il
piccolo specchio appeso di
fronte gli restituì la propria immagine malconcia: il naso,
fortunatamente,
sarebbe tornato a posto, ma un bendaggio quasi grottesco troneggiava
sul suo
viso.
Borbottò
un grazie Bones mentre
finiva di infilarsi il giubbotto.
Era
pazzesco pensare che lei
l’avesse fatto davvero: che l’avesse picchiato sul
serio.
Le
sensazioni rimaste ancorate
alla memoria e alla pelle di Seeley Booth erano contrastanti e
mescolate: il
calore e la furiosa dolcezza del bacio, il dolore del naso spaccato, la
rabbia
di Bones ma anche le sue labbra dischiuse in risposta, lisce, umide,
calde e …
-
Booth-.
Ed
eccola lì.
Incorniciata
dalla porta, una
mano in tasca, l’altra stretta attorno a una busta, le labbra
corrugate: lì.
Temperance
mosse un passo verso
di lui:
-
Come stai?-.
Come
stai.
Booth
alzò le spalle:
-
Oh, bè, direi benone-.
Lei
si morse un labbro.
Seeley
la fissò: si sentiva in
colpa. Finalmente si sentiva in colpa.
-
Mi dispiace così tanto, Booth,
non era mia intenzione …-.
-
Non era tua intenzione?!-.
Temperance
gli si avvicinò:
-
Fammi dare un’occhiata, almeno
per …-.
Booth
sollevò una mano,
bloccandola:
-
Mi hanno già medicato, Bones.
Ed è meglio che tu mi stia a distanza di sicurezza-.
Ci
fu qualche attimo di silenzio.
-
Sei arrabbiato- mormorò
Temperance.
Sei
arrabbiato.
Non
era una domanda.
Booth
non disse nulla: era
arrabbiato? Era arrabbiato davvero? Oppure, al di là del
dolore fisico, era
qualcos’altro a fargli male, a farlo sentire tanto ferito?
Guardò Bones e
sentì, sì, rabbia.
Ma
una rabbia molto più
complicata di quanto lei e, in fondo, lui stesso potessero immaginare.
-
Ti ripeto che mi dispiace
moltissimo, Booth- mormorò Temperance, rigida.
Seeley
annuì, e il naso gli pulsò
dolorosamente.
-
Ho soltanto una … giustificazione
parziale, tuttavia questo non toglie che …-.
-
Cosa? Una giustificazione
parziale?-.
Rabbia:
Booth deglutì, fissandola
negli occhi.
Bones
sostenne il suo sguardo,
indietreggiando leggermente:
-
Bè, Booth, obiettivamente, ti
avevo detto cosa avrei fatto se tu … E tu l’hai
fatto comunque, ignorando la
mia concreta intimazione, pertanto …-.
-
Pertanto cosa? Mi stai dicendo
che me la sono cercata?-.
Seeley
fece un passo in avanti, e
lei indietreggiò ancora, senza però abbassare lo
sguardo.
Uno
di fronte all’altra.
La
tensione era quasi
insopportabile.
Poi
Temperance, all’improvviso,
gli allungò la busta:
-
Ad ogni modo … volevo farti
avere questa-.
Booth
la prese, senza guardarla
negli occhi:
-
Che cos’è?-.
-
È una lettera di Sweets-.
-
Sweets?-.
-
È arrivata al Jeffersonian
qualche ora fa, mentre noi eravamo … mentre eravamo a
pranzo-.
Booth
fissò la busta per qualche
istante.
Sweets.
Di nuovo. Una fastidiosa
sensazione di nausea gli salì dallo stomaco.
-
È indirizzata anche a te,
Bones- borbottò, alzando gli occhi su Temperance.
-
Lo so-.
-
L’hai già letta?-.
-
Sì-.
Booth
indietreggiò fino al letto
e si sedette.
Guardò
la lettera per un po’, in
silenzio, il cuore che gli batteva furiosamente nel petto.
Un
colpo di tosse:
-
Bene, allora … allora io vado
al Jeffersonian, ti accompagnerà a casa Hodgins, ti aspetta
qui sotto-
Booth
sollevò di scatto la testa.
Improvvisamente,
l’idea che Bones
se ne andasse in giro da sola gli parve intollerabile: Sweets aveva
scritto
quella cosa, Sweets era in circolazione ed evidentemente non aveva
smesso di
occuparsi di loro, anche soltanto con qualche riga in calce.
Si
alzò in piedi, ignorando il
pulsare del naso:
-
Bones, non puoi andartene in
giro da sola, Sweets …-.
Lei
scosse la testa e incrociò le
braccia, un sorriso stanco dipinto in volto:
-
Booth, non credo che abbia
intenzione di farci ancora del male. Leggi la lettera-.
-
Non dire sciocchezze, Sweets è
uno psicopatico, come puoi essere sicu … -.
-
No, Booth-.
Lui
tacque.
Temperance
lo guardò per qualche
istante con una strana espressione.
-
Leggi la lettera, Booth -
ripetè con dolcezza.
Lo
lasciò, lì, in quella stanza,
la busta tra le mani e un uragano di pensieri nella testa.
Hodgins
lo accompagnò a casa,
cercando di non ironizzare troppo sul naso spaccato.
Un
volta sul suo divano, Booth
fissò a lungo il soffitto, cercando di calmare il tumulto
che gli scuoteva la
mente.
Lesse
la lettera in silenzio,
mentre i ricordi - quasi abbacinanti - del rapimento, dei pestaggi, del
freddo
nella foresta e delle lacrime tentennanti di Bones facevano irruzione,
prive
freni.
Lesse
la lettera una volta, due
volte, tre.
Rivide
se stesso sdraiato a
terra, Bones china su di lui, le gambe allacciate tra loro per
ritrovare un po’
di calore, quelle parole smozzicate, le mani gelate di lei, il buio
denso della
foresta.
Rimase
sul divano tutto il
pomeriggio, fino a sera, sveglio, lo sguardo che andava dalle parole di
Sweets
al soffitto del suo soggiorno.
Non
aveva nessuna intenzione di
chiudere gli occhi.
Quando
venne la notte, si
addormentò senza volerlo, sfinito, la lettera aperta
appoggiata sul petto.
Lo
specchio la rifletteva tutta
intera.
Si
contemplò per qualche istante,
le mani infilate nelle tasche e i capelli stretti in una coda di
cavallo.
L’indecisione durò ancora un paio di minuti, poi
spense la luce dell’abat-jour,
s’infilò il cappotto e usci
dall’appartamento.
Lo
avrebbe fatto, punto e basta.
Ci
sarebbe andata.
Temperance
Brennan s’inoltrò
nella notte umida di Washington, le parole di Sweets che le ronzavano
nella
testa e una sola, unica certezza, nel bene e nel male.
La
certezza che non avrebbe
lasciato Booth da solo, quella notte.
|
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Capitolo 10 *** Dieci ***
Capitolo Dieci
Nel
sogno c’era Sweets.
Sweets
che rideva, addentava un
hot-dog e parlava di psicanalisi applicata al football.
Poi,
d’un tratto, estraeva dalla
tasca un campanello e lo faceva suonare, picchiettando con un dito.
Una
volta. Due.
All’improvviso,
Seeley Booth aprì
gli occhi: il soffitto gli roteò davanti per qualche
istante, e la luce che
aveva lasciato accesa lo abbagliò, costringendolo a
stringere le palpebre. Era
sveglio, ora. Completamente. E il campanello, però,
suonò una terza volta.
Il
campanello della porta.
Si
alzò lentamente, gettando una
rapida occhiata all’orologio sulla parete della sala:
l’una di notte. Non
s’infilò la maglietta, ma la mano corse subito
alla pistola appoggiata sul
tavolo.
Il
campanello suonò una quarta
volta.
Booth
appoggiò una mano alla
porta, senza fare rumore, e con la mano libera sollevò la
lamina che copriva lo
spioncino. Vide l’ultima persona che si aspettava di vedere:
Temperance
Brennan.
Spalancò
l’uscio con un sospiro:
-
Hai idea di che ore sono?-.
Lei
si strinse le spalle, le mani
infilate nella tasca del cappotto: era pallida, sotto la luce tiepida
del
corridoio. Entrò, appoggiandogli una mano sul petto nudo e
spingendolo di lato.
-
Circa l’una, credo- replicò,
mentre lui chiudeva la porta.
-
Appunto-.
-
Perché stai impugnando la
pistola?-.
-
Precauzioni-.
-
E contro chi?-.
Booth
la fissò per qualche
istante, rimise la sicura alla pistola e la appoggiò sul
tavolo:
-
Secondo te?-.
Temperance
scosse la testa,
sorridendo e abbassando lo sguardo.
-
Cosa voleva dire quella faccia,
Bones?- borbottò Seeley.
-
Niente-.
Ci
fu qualche secondo di
silenzio.
Improvvisamente,
Booth fu
consapevole del proprio torso nudo, dei pantaloni di flanella e dei
calzini a
righe rosse e blu. La maglietta. Dove diavolo l’aveva
lasciata? Si guardò
attorno.
-
Stavi dormendo?- domandò lei.
-
Sì-.
-
Mi dispiace averti svegliato-.
Niente
maglietta.
Booth
tornò a guardare
Temperance:
-
Cosa sei venuta a fare, Bones?
È successo qualcosa?-.
-
Posso togliermi il capotto,
Booth?-.
Lui
la fissò per qualche attimo,
confuso:
-
Oh, bè, certo-.
-
Grazie-.
Temperance
rimase in jeans e
maglione, un abbigliamento che lo fece sentire ancora più
provvisorio e
ridicolo. Doveva avere un aspetto orribile, conciato in quel modo,
mezzo
svestito e con il bendaggio sul naso. La maglietta: sentì,
di nuovo, la
necessità di trovare qualcosa con cui coprirsi.
-
Come va il tuo naso?- mormorò
lei, lasciandosi cadere sul divano dove, fino a poco tempo prima, lui
aveva
dormito un sonno sfinito e a sprazzi pieno di sogni. O erano stati
incubi?
Seeley
si schiarì la gola:
-
Meglio, grazie. Senti, Bones,
vado … vado a cercare qualcosa da mettermi, okay?-.
Lei
annuì.
Mentre
Booth si allontava,
Temperance lo seguì con gli occhi, e non potè
fare a meno di guardagli la
schiena nuda, le spalle tese, la linea salda dei muscoli che saliva
fino al
collo.
Deglutì,
Temperance Brennan.
Deglutì
e respirò a fondo.
Una
maglietta scura, un po’
d’acqua fredda sulla faccia e Booth si era sentito
decisamente meglio.
Si
lasciò cadere accanto a Bones,
sul divano. Lei aveva tra le mani un foglio.
Quel foglio.
La
lettera di Sweets.
Temperance
sollevò gli occhi:
-
L’hai letta, Booth?-.
-
Certo-.
Lei
sospirò. Erano vicini, così
vicini che Booth potè vedere che non era truccata e gli
occhi verdi, alla luce
calda della lampada da tavolo, brillavano come non mai.
Solo
allora si ricordò del bacio,
se ne ricordò per davvero: non che se ne fosse dimenticato,
ma in quel momento
ebbe per la prima volta la vivida percezione di stare accanto a una
donna di
cui aveva conosciuto il sapore delle labbra.
E
quella donna era Bones.
La
sua Bones.
Si
costrinse a smettere di
guardarle la bocca.
-
Booth, io … io non so
esattamente perché sono venuta qui- sussurrò lei,
sfiorando con la punta
dell’indice la lettera di Sweets. Si raddrizzò
all’improvviso e lo fissò negli
occhi:
-
Io non … non riuscivo a
smettere di pensare alle sue parole, a quello che ha scritto-.
Vi scrivo perché poggiate pistole e
rabbia, e non abbiate più timore
della strada.
Non ci rivedremo, benchè la prospettiva
di non avere più il piacere di
incontrarvi, nelle nostre scoppiettanti sedute, mi dispiace un
po’.
Tuttavia ritengo sia arrivato il momento di
sparire, e spero mi
comprenderete.
Le
dita della mano destra di
Temperance si agitavano, convulse, graffiandosi, e Booth lo fece, lo
fece e
basta, senza pensarci. Mise la propria mano su quella di lei, e le
distese il
palmo.
Lei
non oppose resistenza:
-
Credo che Sweets sia pazzo,
Booth-.
-
Di questo eravamo già convinti,
no?-.
-
Già-.
-
Bene-.
-
Bene-.
Le mie azioni sono scaturite dalla più
razionale delle riflessioni e
dall’istinto più naturale: studiare per capire,
evolvere e infine giungere a
conclusioni compiute. Il dolore che avete ricevuto è stato
solo lo strumento
con cui ho indagato: non c’erano doppi fini, o barbari
desideri di violenza.
Rappresentavate e rappresentate tuttora, per i miei studi, il caso
più
interessante e complesso, e ormai le nostre sedute non erano
più sufficienti.
Lui
le teneva la mano ferma, il
palmo caldo contro il suo: Temperance Brennan conosceva già
quella sensazione,
la sensazione della mano di Booth sulla propria, conosceva il calore
della sua
pelle, delle sue labbra, del suo respiro. E mai niente, in tutta la
vita, le
aveva fatto più paura.
-
Hai … hai voglia di parlarne?-
disse Seeley, fissandola negli occhi.
-
Parlare di cosa?-.
-
Di quello a cui non riesci a
smettere di pensare-.
-
Non sono brava, lo sai-.
-
Non bisogna essere bravi,
Bones-.
Costretti, imprigionati, sofferenti, isolati,
impauriti: vi ho
osservati mentre eravate in balia di eventi che non potevate
controllare né
comprendere, vi ho osservati cercando la traccia di ciò che
indagavo e
supponevo. Nella sofferenza fisica dell’agente Booth si
riversava quella
psicologica e mentale della dottoressa Brennan: specchio
l’uno dell’altra,
anche in una cella, anche nel gelo di un bosco. Voi rappresentate
l’essenza
stessa dei miei studi: il rapportarsi umano che si sviluppa al di
là delle
volontà razionali, soffocato tuttavia da doveri sociali,
convenzioni, equilibri
personali, antropologici e autoconservativi.
Il mio lavoro è stato soddisfacente
oltre ogni aspettativa: ho
dimostrato come situazioni forzate possano rompere le costrizioni
imposte dagli
schemi razionali e da società come la nostra.
La morte non è arrivata, per voi: oserei
anzi dire che forse oggi siete
più vivi di ieri.
Le
sfiorò una guancia, un gesto
spontaneo, il desiderio di farle capire che lui era lì, che
l’avrebbe
ascoltata, e non importava del bacio e nemmeno del pugno, e nemmeno che
era l’una
passata di notte e, sì, l’aveva svegliato.
Temperance socchiuse gli occhi, lasciandolo
fare.
Quando
li riaprì, lo guardò a
lungo, in silenzio.
Booth
scese, piano, sul suo
collo. L’accarezzò con un gesto lieve.
Lei
inclinò leggermente la testa,
senza smettere di guardarlo negli occhi:
-
Non riesco a togliermi dalle
testa le parole di Sweets perché …
perché sono così … così
…-.
Completarono
la frase insieme,
con la stessa parola:
-
… vere-.
Vere.
Verissime.
Temperance
Brennan guardò il viso
dell’uomo che le stava di fronte, i capelli scompigliati, il
naso bendato, gli
occhi lucidi e scuri, la fronte che conosceva tanto bene.
Sentì
il collo scottare, dove le
dita di Booth passavano.
Non penso possiate comprendere il valore reale di
queste conclusioni, e
l’importanza del vostro contributo. Rifarei tutto, dal
principio alla fine.
Questa lettera vi sarà recapitata presso
il Jeffersonian, e sarà
l’ultimo contatto che avremo.
Per quanto sappia dell’impellente
desiderio dell’agente Booth di
piantarmi una pallottola in corpo, temo che farò di tutto
per non assecondarlo.
A livello fisico vi riprenderete presto, a livello
psicologico ognuno
di voi avrà tempi diversi.
Posso solo immaginare la sua rabbia repressa,
agente Booth.
E il suo
controllato turbamento,
dottoressa Brennan.
Lentamente,
Seeley avvicinò il
viso a quello di lei: ora le loro labbra erano a pochi centimetri.
-
Non … non mi mi picchiare,
Bones - sussurrò, con voce roca, sfiorandole la bocca con la
sua.
-
Non lo farò - rispose
Temperance con un filo di voce, dischiudendo le labbra.
Ritengo indubbiamente saldo il vostro legame.
Vi compensate come solo nelle alchimie umane
può accadere.
Il
bacio fu lento, profondo,
interminabile.
Temperance
infilò le mani sotto
la maglietta di Booth, e risalì lungo i fianchi, la schiena,
la scapole.
Era
Booth.
Il
suo Booth.
Non
fece resistenza quando lui la
fece sdraiare, passandole le dita tra i capelli.
Lo
aiutò a sfilarsi la maglietta.
Poi fecero lo stesso con il suo maglione.
Le prospettive di fine acuiscono gli istinti, e la
sincerità diventa il
più insopprimibile dei bisogni.
Per quanto lei, dottoressa Brennan, possa giudicare
la psicologia una
scimmiottatura delle scienze esatte, io l’ho studiato per
anni sui libri e l’ho
osservato per strade, nel mio studio, sui volti di chi mi passava
davanti. Non
c’è niente di meno spicciolo di quello che vi ho
detto.
L’amore, o qualunque cosa sia, o in
qualunque modo lo si chiami, impara
l’urgenza.
E non si paga, mai. Perché è
libero. Perché è gratis.
Ringrazio Thia, Yelle, Lelly87 e Lights per aver
seguito la storia e
per le puntuali recensioni. Ormai siamo quasi agli sgoccioli
…
Tenete duro! ;-)
|
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Capitolo 11 *** Epilogo ***
Epilogo
Insieme.
Lasciò
che le labbra di lui
scendessero lungo il suo collo, giù sul petto, fino
all’ombelico, per tornare
sulla sua bocca, a cominciare un altro bacio, lento e profondo.
Lasciò
che lui la chiamasse, la
toccasse, la respirasse.
Si
strinse a Seeley in ogni
movimento, aggrappata alle sue spalle larghe, mentre le mani di lui
correvano
su ogni centimetro della sua pelle, calde, urgenti, tanto familiari.
E
poi ogni gesto divenne gesto e
basta: le loro gambe allacciate, le dita dei lei tra i suoi capelli, a
sfiorare
il naso ferito, lungo le sue palpebre, giù verso il ventre,
e la bocca di lui
aperta su quella di lei, mentre qualcuno, nella notte di fuori, suonava
clacson, camminava sui marciapiedi, chiacchierava, nella stessa
Washington,
nello stesso identico mondo.
Fecero
l’amore con tutta la furia
e la dolcezza di cui erano capaci: stretti disperatamente
l’uno all’altra su un
divano, nella penombra densa della stanza, i vestiti ammucchiati per
terra.
Fecero
l’amore, Seeley Booth e
Temperance Brennan: e quando si addormentarono abbracciati, per quel
che
restava della notte, lei sapeva che erano ancora Seeley Booth e
Temperance
Brennan, e che erano nudi, sfiniti, sereni.
Svegli.
Lasciò,
quando gli occhi sgranati
di lei gli sorrisero, che gli prendesse tra le labbra un lobo, e che
poi
respirasse contro il suo collo, mentre le mani correvano a
massaggiargli la
nuca, i capelli.
Lasciò
che Temperance gli
baciasse le spalle, e poi appena a destra del cuore, e poi il ventre
teso, e
ancora più giù. Si concesse di chiudere gli occhi
e non sentire più nulla:
voleva sentire lei, solo lei, e loro,
adesso che c’era un loro.
La
coprì con tutto il corpo,
spinse, cercò la sua fronte, il naso, il collo morbido.
Seeley
la chiamò una volta, due
volte, appena sottovoce, e lei si strinse forte al suo petto.
I
movimenti stavolta furono solo
lenti e soppesati, e Seeley Booth non pensò a nulla e
sorrise contro la guancia
di lei, annusando la sua pelle, il profumo dei capelli lavati forse
solo poche
ore prima. Fu dentro di lei e solo in lei, ancora, e le
sfiorò le labbra
arrossate e dischiuse con la punta dell’indice.
Fecero
l’amore per la seconda
volta, mentre la luce di un alba appena iniziata pioveva dai vetri,
disegnando
ombre tenui sui muri bianchi.
Mattina.
Lo
guardò tornare nella sala,
fresco di doccia, con indosso solo un paio di pantaloni neri.
Pensò,
Temperance Brennan, che
era davvero bellissimo.
-
Mi stai mangiando con gli
occhi?-.
Ora
la guardava con un sorriso
sfrontato, infilandosi la cintura.
Temperance,
sdraiata sul divano,
si sollevò su un gomito e sostenne il suo sguardo divertito:
-
Certo che sì, vanitoso-.
-
Questa non è vanità, Bones: è
consapevolezza-.
Lei
rise.
Booth
si avvicinò al divano e la
guardò a lungo, in silenzio.
-
Cosa c’è?- mormorò lei,
fissandolo dal basso, soffocando un’ultima risata.
-
Niente. Ti sto solo guardando-.
Le
si sedette accanto, passandole
una mano su una guancia. Temperance gli baciò il palmo:
-
Noi … credo dovremmo andare al
lavoro-.
Booth
fece un gran sospiro:
-
Già-.
-
E io devo ancora fare la
doccia-.
Temperance
si mise seduta,
coprendosi con una coperta. Gli diede un bacio veloce:
-
È meglio che mi alzi-.
Booth
scattò in piedi:
-
Doccia, hai detto?-.
-
Sì, per …-.
Lui
le sorrise e la interruppe,
sollevando una mano. Cominciò a sfilarsi la cintura,
fissandola con uno sguardo
dei suoi: uno di quelli che le facevano scottare guance, fronte, ventre.
-
Che fai?- sussurrò Temperance,
alzandosi dal divano.
Booth
si chinò e la baciò il
collo:
-
Vengo a fare la doccia con te,
è chiaro-.
Lei
aprì la bocca per azzardare
una flebile protesta, ma le labbra di Booth si spostarono sulle
proprie.
E
tanto bastò per zittirla
definitivamente.
Angela
Montenegro tamburellava
con le dita sul tavolo da lavoro, pensosa.
Non
riusciva, ad ogni modo, a non
sorridere.
Accavallò
le gambe e si appoggiò
allo schienale della sedia, contemplando in pace ciò che
vedeva a pochi metri
dalla sua postazione, nell’ufficio di fronte.
Stavano
in piedi, uno di fronte
all’altra, senza toccarsi: Booth aveva le mani infilate nelle
tasche e
ascoltava, mentre Brennan parlava intensamente, gesticolando a tratti,
la testa
abbassata.
Non
c’era molto spazio, tra i
loro corpi: Angela poteva immaginare qualche pugno d’aria,
pochi centimetri, e
pensò che un’assenza completa di distanza, tra i
quei due, sarebbe stata
figurativamente perfetta.
Non
per niente, Angela Montenegro
era un’esteta.
E
poi Booth fece quello che
Angela si aspettava, nell’armonia di quella scena: mentre il
sole scaldava le
vetrate, illuminando l’ufficio, Seeley Booth
allungò una mano e sfiorò
delicatamente il mento di Brennan, costringendola ad alzare la testa.
E
fu in quel momento che Angela,
a malincuore, decise di tornare al proprio lavoro.
Le
era bastato un niente, per
capirlo: un conto era osservare un quadro vivente, un conto una coppia
d’amanti, che avevano appena scoperto di esserlo.
-
Allora siamo d’accordo, no?-.
Booth
l’aveva costretta a
sollevare gli occhi, e con le dita le carezzava piano il mento.
Lo
fissò:
-
Sì-.
Rimasero
per qualche istante in
silenzio, guardandosi negli occhi.
Seeley
sentì il cuore pulsargli
contro lo sterno, e lasciò le sue dita si spostassero sulla
bocca di lei. Le
sfiorò il labbro inferiore, leggermente dischiuso.
Temperance
lo lasciò fare, la
testa che ronzava e una strana sensazione di calore nel petto: per un
attimo,
desiderò essere a casa propria, sul letto, a fare
l’amore con l’uomo che aveva
di fronte.
-
Un cassetto dove te ne potrai
dimenticare andrà benissimo- mormorò lui, con un
sospiro.
-
Dovremmo dimenticarcene,
dici?-.
-
La lettera è pur sempre di uno
psicopatico, Bones-.
La
guardò con gli occhi pieni di
qualcosa che, lì per lì, Temperance non
riuscì a definire:
-
Saremmo quello che siamo
comunque. Con o senza quella lettera-.
Lei
annuì:
-
Va bene-.
Il
pollice di Seeley le dischiuse
le labbra con dolcezza:
-
Tanto tu non hai mai creduto
nella psicologia, no?-.
-
No, infatti-.
Ancora
quella cosa nello sguardo
di Booth: si sentì mozzare il respiro, vi si perse dentro.
Cos’era?
Calore,
spazi scuri, voglia di
urlare e sussurrare insieme.
A
Temperance Brennan non era mai
piaciuto avere a che fare con cose che non riusciva a definire. La
disorientavano, la spaventavano con quella loro assenza di chiarezza e
confini.
E
quando Booth si chinò a
baciarla lo accolse col cuore in gola, una sensazione di gioia e paura
ed
eccitazione insieme, senza sapere che sarebbe bastato chiederla a lui,
quella
definizione, che sarebbe bastato solo domandare, e Booth avrebbe avuto
la
risposta.
Non
sapeva nemmeno che Angela non
ce l’aveva fatta a trattenersi, e alla fine era rimasta a
ossevarli al di là
delle vetrate, mentre si baciavano e le mani di Temperance correvano
dietro la
nuca di Booth.
Seeley,
invece, aveva percepito
quella domanda nella pelle di lei, non appena le loro fronti si erano
sfiorate:
aveva sentito i suoi timori, e avrebbe voluto dirle che erano anche i
suoi, ma
che in fondo non importava. Perché c’era una
definizione, per ciò che Seeley
Booth teneva chiuso negli occhi.
Lo
conosceva bene, e ora più che
mai.
Ci
sarebbe stato tutto il tempo,
per spiegarlo a Bones.
Per
dirle, magari coprendo il
corpo di lei con il suo, in mezzo a una notte di quiete e lenzuola e
luci
spente a ingannare l’arrivo inevitabile del giorno, che si
chiamava amore.
Amore
e basta.
Libero.
Gratis.
Fine
Grazie a tutti voi che avete avuto la pazienza di
leggere fino a qui e,
soprattutto, di recensire.
Spero tanto che la storia vi sia piaciuta,
così come è piaciuto a me
scriverla. ;-)
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