L'amore è libero, l'amore è gratis

di aoirghe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***
Capitolo 10: *** Dieci ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Capitolo Uno

 

Mingherlino. Imberbe. Vagamente saccente.

Per quanto si sforzasse – sempre mai troppo, comunque – Seeley Booth non riusciva a prenderlo su serio.

Lance Sweets abbozzò un sorriso sghembo: - Lei cosa ne pensa, agente Booth?-.

Seeley abbandonò bruscamente i suoi pensieri: il ragazzino, quella specie di strizzacervelli di otto anni, gli aveva appena fatto una domanda.

- Come?- borbottò.

- Cosa ne pensa del punto di vista della dottoressa Brennan?- disse Sweets, senza smettere di sorridere.

Booth capì di essersi perso qualcosa. Forse un po’ più di qualcosa. Lanciò un’occhiata supplice a lei, che se ne stava seduta poco lontana.

Lei, Temperance Brennan, gli lanciò un’occhiataccia e non aprì bocca. Nessun suggerimento, quindi. Booth sospirò, e tornò a concentrarsi sul viso insulso di Sweets:

- Temo di aver perso un … pezzo della conversazione-.

- La sua partner sostiene che la superiorità del sesso femminile arriverà a un punto tale da rendere inutile l’accoppiamento tra sessi-.

- Non … non credo di aver capito bene-.

- Sostiene che la riproduzione umana sarà esclusivamente nelle mani delle donne, Booth. Nessun bisogno di maschi. Nessun bisogno di sperma, di accoppiamento-.

Seeley lanciò un’occhiata sbalordita a Bones.

Lei fece le spallucce: - E’ mera speculazione antropologica, Booth. Ipotesi. Azzardi di previsioni sulla base di fatti empirici-.

Lui scosse la testa, cercando di non ridere: - E’ ridicolo-.

- E’ scientificamente ipotizzabile- replicò lei, sostenendo il suo sguardo.

- Ridicolo. Come puoi dire cose simili? Non è possibile, non funziona così-.

- Non ora, lo so anch’io. Però potrebbe essere una possibilità. Evoluzione, Booth. Gli esseri umani sono cambiati in modi assolutamente imprevedibili, nella corso della loro storia evolutiva-.

- E immagino sia un teoria che ti affascina, vero, Bones?-.

- Bè, direi di sì-.

- Certo, normale che ti affascini. Zero sesso. Zero coinvolgimenti psicologici. Il maschio destinato all’estinzione!-.

- Non ho detto questo, Booth, e non c’è alcun bisogno di essere sarcastici-.

- Non sono sarcastico, dico solo che è assurdo-.

- E’ sarcasmo. Hai detto che mi affascina l’assenza di sesso e di maschi-.

- Non proprio-.

- Hai detto così. Ha detto così, vero, Sweets?-.

- Adesso non facciamo come a scuola, per favore …- sbuffò Seeley.

- D’accordo, basta!-.

La voce di Sweets sovrastò le loro.

Silenzio.

Lo psichiatra li fissò per qualche istante, la mano alzata in segno di pausa. Booth si lasciò andare contro lo schienale, cercando d’ignorare lo sguardo scocciato di Bones. Lanciò un’occhiata pigra all’orologio: tra poco avrebbero potuto sloggiare, finalmente.

Sweets prese a battere le mani, annuendo compiaciuto: - Ottimo, bravi. Avete tirato fuori tutta la tensione!-.

Temperance non sorrideva: - E le sembra molto … molto terapeutico?-.

-Ma certo!-.

Booth sbuffò ancora.

Gli occhi di Sweets si fecero meditabondi e si fissarono sul suo viso: - Problemi, agente Booth?-.

Lui sollevò le mani e fece segno di no.

Non aveva voglia di discutere: dopotutto, ancora dieci minuti e sarebbero stati fuori dallo studio di quel ragazzino.

 

 

 

Lei era bella, molto bella.

Seeley Booth si ricordava di averlo sempre pensato, fin dal loro primo incontro.

Zigomi alti, occhi chiari, labbra scolpite: era bella, Temperance Brennan, e lui non aveva potuto non notarlo. E adesso, adesso che dopo la storia del vischio si era fatto tutto più complicato, la percezione della vicinanza di lei si era fatta più acuta, pulsante: Booth la sentiva a pochi centrimenti, e quelle manciate d’aria che separavano i loro corpi – imbrigliati nelle cinture di sicurezza – erano niente.

Booth strinse forte le mani sul volante e tentò di concentrarsi sulla strada di fronte.

- Abbiamo bisticciato, prima?- mormorò Bones, guardandolo con la coda dell’occhio.

Aveva un gomito appoggiato alla portiera, un berretto grigio calcato sulla testa, l’aria pensierosa.

Bella come sempre.

- Un bisticcio antropologico, direi. Quindi non un vero bisticcio- replicò Booth.

Lei sembrò esitare: - Sai, nonostante quello che hai detto prima … A me mancarebbe il sesso. E molto-.

Fissa la strada, fissa la strada.

Seeley si costrinse a non guardare Bones. Che cosa avrebbe dovuto risponderle? Borbottò un banalissimo “bene”.

Ma Temperance non sembrava aver intenzione di esaurire lì il discorso:

- … il sesso è sesso, e per quanto le mie ipotesi siano almeno lontanamente presumibili mi dispiacerebbe molto non poterlo fare più-.

- Ho capito, Bones-.

- Ti dà fastidio che parliamo di sesso?-.

- Tu stai parlando di sesso. Io guido e guardo la strada-.

- Allora potresti dire qualcosa anche tu e guardare me, ogni tanto-.

Guardare me.

Booth strinse ancora il volante: - Non ho niente da dire-.

- Booth, non puoi non avere niente da dire!-.

- E invece sì, va bene?-.

Temperance tacque e si girò verso il finestrino.

Lo odiava, quando faceva così.

Quando non faceva lo spiritoso, il malizioso, il rompiscatole.

Non l’avrebbe mai ammesso, ma era quello il Booth che preferiva. Non quello pensieroso e zitto, non quello che era diventato dopo il bacio sotto il vischio: scostante, lontano. Temperance Brennan gli lanciò un’occhiata veloce, e d’un tratto fu per l’ennesima volta consapevole che senza di lui non ce l’avrebbe mai fatta. L’imbarazzo era diventato palpabile, tra loro, dopo quello stupido bacio sotto il vischio, e questo le faceva un’immensa paura.

Così come la terrorizzava il martellante ricordo del calore delle labbra di lui: un ricordo che non avrebbe dovuto esserci.

Non così chiaro, almeno.

Non così intenso.

Rimasero in silenzio per un po’.

Le strade di Washington erano ancora ingombre di neve, e quei primi giorni di gennaio erano stati davvero rigidi. Booth guidava veloce, incurante del ghiaccio che copriva l’asfalto, gli occhi fissi davanti a sé e la mente persa nei suoi pensieri. Pensava a Bones, a quello che avrebbe dovuto provare, a quello che non avrebbe dovuto provare. Al fatto che Sweets, più che sciogliere la tensione, sembrava stringere sempre di più i nodi che li legavano e allo stesso tempo li dividevano.

Sesso, religione, scienza: Booth sapeva di essere lontano mille anni luce da Bones su mille cose, ma conosceva la donna che divideva con lui le sue giornate quasi meglio di se stesso.

E mentre Seeley Booth rimuginava per conto suo, Temperance Brennan lo studiava dall’altro lato della macchina, seguendo il suo profilo scolpito, le spalle larghe, gli occhi pensierosi. Cos’era Booth, per lei? Non un fratello. Un amico, forse. Non un semplice collega.

Un amico, allora, ma il ricordo del calore delle sue labbra c’era ancora, vivido e pulsante.

Poi accadde tutto molto rapidamente.

Nessuno dei due ebbe il tempo di pensare, di accorgersi di nulla.

Un fuoristrada nero piombò addosso alla macchina, speronandola dal lato del guidatore.

Seeley Booth cercò di rimanere aggrappato al volante, mentre Bones urlava qualcosa, qualcosa che non riusciva a capire, e il fuoristrada gli arrivò addosso di nuovo, e il fragore fu forte, il muro troppo vicino per essere evitato, i riflessi lenti, il dolore al fianco sinistro intollerabile.

Uno schianto, poi nulla.

 

 

Quando Temperance Brennan riaprì gli occhi, non era più seduta sul sedile della macchina, ma sdraiata sull’asfalto.

Cercò di rialzarsi, a fatica, vedendo a pochi passi di distanza l’auto accartocciata.

Non ebbe il tempo di fare nulla, di pensare a nulla.

Una voce risuonò alle sue spalle:

- Non si muova, cara dottoressa, o il nostro Booth si ritroverà con una pallottola piantata nel cervello-.

Brennan si voltò lentamente e vide Booth in piedi, una maschera di sangue al posto del viso e una pistola puntata alla tempia.

Gli occhi di lui, affogati nel dolore, le dissero di non fare niente.

Poi la dottoressa Temperance Brennan vide chi aveva parlato, chi stringeva il calcio della pistola.

E non volle crederci.

Poi qualcuno la tramortì.

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Capitolo 2
*** Due ***


Capitolo Due

 

- Non riesco a trovare Brennan-.

Il volto teso di Angela Montenegro spuntò oltre la sua scrivania. Hodgins sollevò la testa dal microscopio e la guardò: - Come?-.

- Non trovo Brennan-.

- E’ fuori con Booth, no?-.

Angela si morse un labbro: - Dovevano essere qui un’ora fa-.

Hodgins alzò le spalle: - Saranno un po’ in ritardo, tesor …-.

- Brennan ha il cellulare staccato. E anche Booth- lo interruppe lei, i grandi occhi pieni di tensione.

Lui annuì, poi le prese una mano: - Sono sicuro che arriveranno a momenti, okay? Stai tranquilla, non c’è ragione di agitarsi-.

Angela rispose alla stretta confortante del suo uomo, facendo un debole cenno del capo.

Non era convinta, ma Hodge aveva ragione: forse era solo un po’ di ritardo.

 

 

Erano chiusi lì dentro da un pezzo, ormai.

Il buio pesto era attenuato da un debole fascio di luce, che entrava da una finestrella rettangolare a ridosso del soffitto. Una finestra sbarrata, ovviamente.

C’era molta umidità e faceva un freddo intollerabile: le mani di Temperance Brennan non avevano ancora smesso di tremare. Dov’erano rinchiusi? Sembrava una specie di bunker, ma non si trovavano sottoterra, e c’era puzza di fogna e vomito. Quando lei aveva riaperto gli occhi, stavano viaggiando a tutta velocità su quello che, dall’interno, sembrava essere un furgone: il furgone che aveva visto accanto al fuoristrada nero, appena dopo lo schianto, in quel breve minuto di coscienza.

Ma negli occhi di Temperance Brennan c’era un’altra immagine che sarebbe rimasta lì per sempre, vivida e insopportabile.

La pistola contro la tempia di Booth.

E la mano di Lance Sweets attorno alla pistola.

Lance.

Sweets.

Un gemito la strappò da quell’immagine scioccante.

Booth: si era svegliato.

Quando Temperance aveva riaperto gli occhi a bordo del furgone, i polsi legati stretti dietro la schiena, l’aveva visto accanto sé, privo di sensi.

Li avevano gettati in quella specie di bunker senza troppi complimenti, liberando loro i polsi, mentre Booth era caduto a terra a peso morto. Lo schianto in macchina li aveva lasciati tutti interi, ma Booth era quello conciato peggio.

- Ehi- mormorò lei, sollevandogli appena la testa.

- Ehi- mormorò lui, aprendo gli occhi lentamente.

Iniziò a pulirgli il viso con una manica della camicia, cercando di non fargli troppo male. Aveva un lungo taglio sulla fronte.

- Grazie-.

- Di niente- mormorò Temperance, e si accorse di avere le lacrime agli occhi.

Cercò di ingoiare il nodo che le si era piantato in mezzo alla gola: - Ti aiuto a metterti seduto-.

Lo trascinò fino al muro, poi si lasciò cadere accanto a lui.

Rimasero in silenzio per qualche istante.

- Stai bene?- chiese lui, socchiudendo gli occhi.

- Direi … direi di sì. Ho solo qualche livido-.

Booth annuì, ma quel semplice gesto sembrò costargli una fatica insopportabile.

Temperance lo fissò per qualche secondo, le parole che si rifiutavano di uscire.

Poi Seeley si girò lentamente verso di lei, cercando i suoi occhi: - Bones, era …-.

- … Sweets, sì-.

- Figlio di puttana-.

 

 

Cosa può, l’uomo, contro i nodi dei giorni che si susseguono?

Contro le concomitanze, gli scontri e gli incontri, le somiglianze, le voragini?

Questo si chiedeva l’uomo seduto su un gradino scheggiato di quella che pareva una fattoria, questo si chiedeva Lance Sweets, giocherellando con una manciata di terra ghiacciata. La campagna appena fuori Washington era stretta nella morsa del freddo, lo sentiva salire dal suolo, su per l’aria, lungo il suo respiro.

Poi Lance Sweets si alzò e guardò il cielo.

Era ora di andare.

 

 

- Facciamo un gioco?-.

- Un gioco?-. Temperance guardò a bocca aperta Booth: forse non aveva sentito bene.

- Sì, un gioco-.

- Come puoi pensare di fare un gioco, Booth? Ti sei dimenticato dove siamo? Ti sei dimenticato di quello che è successo?-.

La voce le tremava.

Seeley abbozzò un sorriso stanco, dolorante. Teneva il braccio destro adagiato su una gamba: aveva una piega strana, e lei avrebbe giurato che si fosse rotto.

- Certo che so dove siamo. Un gioco, Bones. Un gioco per provare a capire-.

- Per provare a capire cosa?-.

- Ad esempio perché ci troviamo qui. E perché c’era Lance Sweets a puntarmi una pistola alla testa-.

- Non ne ho idea. È …-. Temperance cercò la parola giusta: - … assurdo-.

- Già. Hai visto quanti erano? Se uno ti ha colpito, Sweets ha di sicuro un complice- mormorò Booth, pensieroso.

- E avevano fuoristrada e furgone. Forse sono almeno in tre-.

- O di più-.

Tacquero.

Seeley pensò che erano davvero in una brutta situazione. Lanciò un’occhiata veloce a Bones, e la vista del suo volto pallido e graffiato gli strinse il cuore.

Fragile come un libellula, vulnerabile, con il pianto a grattarle la gola: avrebbe voluto prenderla tra le braccia, dirle una qualunque sciocchezza, farla ridere, litigarci.

Seeley strinse i denti e provò ad allungare il braccio ferito, il viso contratto in una smorfia di dolore. Non ci riuscì.

- Forse dovresti farmi dare un’occhiata, Booth- mormorò Temperance, sfiorandogli una spalla.

- Lascia stare, non importa-.

- Potrebbe essere rotto, potrei … -.

- Lascia stare, Bones. Dobbiamo prima di tutto pensare a come uscire da qui-.

- Booth, non c’è mo …-.

Lui la interruppe: - Pensaci. Dobbiamo pensarci-.

Lei annuì, poco convinta. Si guardò attorno, e sentì il cuore sprofondare: non c’era via di fuga possibile, in quella specie di bunker.

Si girò verso Booth, per ripeterglielo, e vide che lui aveva socchiuso gli occhi.

Capì, allora, che non c’era niente a cui pensare, perché lì erano chiusi e lì sarebbero rimasti, e Booth lo sapeva bene, l’aveva detto solo per lei, per darle qualcosa su cui riflettere, a cui aggrapparsi. Le lacrime tornarono a pungerle gli occhi, e questa volta non fece nulla per fermarle.

- Non inventarti cose da farmi fare, Booth- sussurrò, mentre una lacrima le scivolava lungo una guancia.

Booth riaprì gli occhi e la guardò.

La guardò e basta.

Poi allungò il braccio sano e le fiorò il viso con la punta delle dita: - Non l’ho fatto-.

- E invece sì-.

- Okay, l’ho fatto-.

- Non farlo più-.

- D’accordo-.

- Non c’è bisogno-.

- D’accordo-.

Le dita di Booth rimasero sulla sua guancia, mentre Temperance chiudeva gli occhi, nel vano tentativo di bloccare le lacrime.

- E sto piangendo solo per l’accumulo di tensione. Sfogo fisiologico da post-trauma-.

- Non mi devi dire perché stai piangendo, Bones-.

Lei riaprì gli occhi, lui tolse piano la mano, a malincuore.

Temperance fece un respiro profondo: - Adesso fammi vedere quel braccio-.

- Ti ho detto che non …-.

- Non fare il bambino, Booth-.

Seeley tacque e non oppose resistenza.

Rimase zitto, mentre le dita agili di lei gli correvano lungo il braccio dolorante. Ogni tocco era fitta e calore al tempo stesso.

Assurdo, totalmente assurdo.

Appoggiò la testa contro la parete gelida, cercando di non svenire per una delle due cose.

 

 

 

La notizia della macchina schiantata di Booth si era sparsa rapidamente all’interno del Jeffersonian.

Hodgins teneva abbracciata Angela, mentre la sala riunioni si riempiva a poco a poco. Le aveva detto di stare tranquilla, e adesso Angela nascondeva il volto nell’incavo del suo collo. Le aveva detto che si preoccupava per niente, e ora Booth e Brennan erano chissà dove, nelle mani di chissà chi.

La voce salda di Caroline risuonò nella sala: - Molto bene. Siete stati tutti aggiornati circa la situazione?-.

Ci fu un coro di sì.

Angela si liberò dalla stretta di Hodgins e si voltò verso Caroline, asciugandosi le lacrime.

- Bene. Dobbiamo muoverci in fretta. Abbiamo solo la macchina dell’agente Booth e la scena dello schianto. Nessuna telefonata, nessuna rivendicazione – proseguì Caroline in tono pratico.

Nessuno parlava. Cam teneva le braccia incrociate, Zac aveva gli occhi bassi e tesi.

Poi un polizotto entrò nella sala e si affiancò a Caroline, sussurrandole qualcosa all’orecchio. La donna annuì e gli fece segno di andare.

In quel momento la porta a vetri si spalancò.

Caroline annuì in direzione del nuovo venuto:

- Per l’appunto … Sappiate che l’FBI e il Jeffersionan potranno godere del prezioso aiuto del … -.

- … dottor Lance Sweets- finì l’uomo che era appena entrato.

Si aggiustò la cravatta e alzò una mano in segno di saluto.

Angela strinse la mano di Hodgins, Cam abbozzò un sorriso.

Lance Sweets annuì con aria grave: - Li troveremo-.

Sorrise appena, ma nessuno lo vide.

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Capitolo 3
*** Tre ***


Capitolo Tre

 

E alla fine ce l’avevano davanti.

Sorridente, tranquillo, rilassato: come sempre, come se fosse stata una normalissima seduta.

Si era fatto portare un sedia nel bunker e ora stava loro di fronte, appoggiato allo schienale, in silenzio.

Uno dei suoi uomini era ritto accanto a loro, le mani dietro la schiena, una pistola infilata nei jeans.

- Molto bene, vi vedo tranquilli – mormorò Lance Sweets, senza smettere di sorridere.

Un’espressione feroce passò sul volto di Booth: - Figlio di puttana, appena saremo fuori di qui e si verrà a sa …-.

- E quando, agente Booth? Come?-.

- Non ci ha nemmeno legati, Sweets. Non pensa che Booth potrebbe saltarle addosso?- intervenne Temperance Brennan.

Lance Sweets non rispose subito, ma si diede il tempo di osservarli: appoggiati al muro gelato, pesti e doloranti, avevano l’aria stanca e furiosa di chi si sente tradito e in trappola.

- Non c’è bisogno di legarvi, dottoressa – disse, facendo un cenno all’uomo in piedi.

- È piuttosto semplice: adesso il mio amico qui le punterà alla testa una pistola per tutto il tempo del nostro incontro, e l’agente Booth, se solo muoverà un dito, si ritroverà diretto reponsabile della sua rapida, quanto poco pulita, morte, dottoressa Brennan- proseguì, mentre l’uomo estraeva una pistola e la avvicinava alla tempia di Temperance.

Booth ebbe un sussulto: - Potrei anche disarmarlo e ammazzarti qui seduta stante, sai, razza di ba …-.

- Con un braccio rotto e quel bel taglio sulla fronte? Ne dubito fortemente, agente Booth. Ne dubito – sospirò Sweets, regalandogli uno dei suoi sorrisi più ampi.

La pistola rimase puntata verso la tempia di Temperance: lei sfiorò piano il braccio di Seeley.

Stai calmo, avrebbe voluto dirgli.

Finchè ti ho vicino non ho mai troppa paura.

- Perché non glielo dice, dottoressa?-.

Temperance alzò gli occhi su Sweets, sorpresa: - Come?-.

- Perché non gli dice cosa ha appena pensato? Gli ha toccato il braccio e ha pensato qualcosa. Glielo dica, no? È questo, in questi mesi, che ho cercato di rendervi facile e spontaneo: la comunicazione immediata di ogni pensiero, paura, sentimento-.

Lei lo fissò sbalordita e confusa. Cos’era, una delle sue sedute? Li aveva rapiti e ora giocava a fare ancora lo psichiatra?

Fu Booth a dare voce ai suoi pensieri.

- Cos’è, uno scherzo? Ci rapisci e ci rinchiudi per continuare la terapia?- sbottò, sarcastico.

Sweets annuì: - Più o meno, sì-.

- Psicopatico-.

- Grazie, agente Booth. Sempre gentile e aperto. Comunque sì: questa è una seduta, signori-.

Temperance e Seeley si guardarono, confusi: la rabbia di lui era sempre più forte, più pulsante, ma sapeva di doverla dominare.

O tutto sarebbe peggiorato al tempo di un grilletto premuto.

- Sono consapevole che i metodi da me usati siano stati poco … poco ortodossi …-.

- Poco ortodossi?!- sbottò Temperance.

- … ma era necessario per dare forma al mio progetto. E adesso pretendo da voi la massima collaborazione-.

Gli occhi di Booth lo fissarono pieni di rabbia, l’espressione della dottoressa Brennan era stanca e incredula.

Lance Sweets si rilassò contro lo schienale e cominciò a parlare.

 

 

Dì quello che lui vuole sentire.

Inventa, parla, parla e basta.

 

Temperance Brennan aprì la bocca, esitante.

La “seduta” di Sweets durava da più di mezz’ora, e cominciava a sentirsi sfinita: troppe assurdità, troppa confusione, e la percezione insistente di quella pistola a pochi centimentri. E poi gli occhi di Booth, sempre più lucidi e svuotati, quei brandelli di dolore fisico che lui cercava di ingoiare per non affibiarle altra preoccupazione. Come avevano potuto non accorgersene? Come era stato possibile finire nelle mani di un pazzo come Lance Sweets senza dubitare di nulla?

Ora dovevano stare al suo gioco, come se fossero stati sul divano del suo studio: una normale seduta, un normale scambio di opinioni.

Temperance si costrinse a soffocare la frustrazione e si concentrò sul viso pesto di Booth, cercando di trovare le parole per rispondere a ciò che Sweets le aveva chiesto.

 

Cosa provi, a vederlo in questo stato?

 

Fissò gli occhi di Booth.

Paura? Abbastanza. Odio? Certo, per Sweets e quelli che l’avevano conciato così.

Amore? E che tipo, di amore?

Perché non era affetto, affetto non voleva dire nulla, la dottoressa Brennan l’aveva scientificamente sperimentato. L’affetto si provava per un criceto o per uno zio incrociato una sola volta nella vita, ma tra persone che condividevano giornate e caffè il legame era più intenso e vitale.

Amore per chi? Un fratello, un collega, un amico?

Non lo sapeva, non riusciva a capirlo.

C’era solo quella voglia bruciante di abbracciarlo, di stringerlo così forte da soffocare ogni suo dolore, di chiudergli occhi con le mani.

Decise di dirlo, senza inventare.

- Vorrei abbracciarlo-.

Sweets annuì, in silenzio.

 

Lo vorrei fare davvero, Booth, per me e anche per te.

 

- Ottimo, dottoressa, ottimo. Perché è questo che voglio vedere adesso, qui, con voi. Voglio vedere le evoluzioni dei rapporti in condizioni di massima estremizzazione. Condizioni al di fuori della quotidianità, al di fuori degli schemi- disse lo psichiatra.

Seeley appoggiò la testa al muro, socchiudendo gli occhi: - Sei completamente pazzo-.

- Ancora grazie per i complimenti e  la disponibilità, agente Booth. Allora arriviamo a lei, che ne dice?-.

Lui non rispose.

- Mi dica lei cosa prova, ora. Cosa prova a vedere la dottoressa in questo stato-.

Nessuna risposta.

Temperance sentì lo scatto della sicura della pistola: non riuscì a non rabbividire.

Ma anche Booth lo sentì, e spalancò gli occhi.

- Questo è già di per sé interessante, agente. Basta un rumore simile, per riportarla tra noi – mormorò Sweets, compiaciuto.

- Cosa pensi di cavarne, Sweets? È forse una novità, che io non voglia la morte di Bones?-.

- Risponda a quello che le ho chiesto-.

 

Cosa provo?

Sono terrorizzato, completamente terrorizzato. Perché lei è qui con me, in mezzo a questo buio, e vorrei che fosse lontana chilometri.

Perché un proiettile potrebbe portarla via per sempre, e perché lei è stanca, ha paura, e io non posso fare assolutamente niente. Provo impotenza, e vorrei abbracciarla, toccarle i capelli e mentirle come so fare, dicendole che il braccio non mi fa male, che sto bene e so come uscirne.

Mentirle sapendo che lei conosce le mie bugie, ma me le lascia dire perché fa coraggio.

Fa coraggio a lei. A me.

 

Altro scatto della sicura.

- Booth …- sussurrò Bones, il volto bianco e teso. Il suo nome supplicato.

 

Booth.

 

- Io … vorrei toccarle i capelli- momorò Seeley, quasi a bassa voce.

Lance Sweets sorrise, alle quelle parole: si gustò l’immagine dell’agente Seeley Booth stanco e vulnerabile, senza l’aria da spaccone, senza forza nel fiato.

Poi guardò anche lei, e capì che avrebbe voluto toccarlo, ma sarebbe stato un gesto troppo intimo, troppo intenso per poterlo fare davanti all’uomo che li teneva prigionieri. Questo, di Temperance Brennan e Seeley Booth, aveva sempre affascinato Lance Sweets: la forza di ciò che avrebbero voluto dirsi o fare, e la forza - allo stesso tempo - che ci mettevano per soffocare quegli istinti. Come ora, ora che erano a un centimetro dal baratro.

 

Vorrei toccarle i capelli. Patetico. Verissimo

E Sweets mi fissa come guarderebbe la cavia di un esperimento.

 

Booth deglutì, cercando gli occhi di Bones: lei non glieli rifiutò. Per un attimo ebbe l’instinto di prenderla tra le braccia, lì, davanti a quel pazzo.

- Si ricorda di cosa abbiamo parlato l’ultima volta, agente Booth? Prima dell’incidente, questa mattina- disse Sweets.

 

Prima dell’incidente. Bastardo figlio di puttana.

 

Seeley annuì, senza smettere di guardare Temperance.

- Bene. Si trattava dell’interessante teoria evolutiva della dottoressa circa il sesso e la riproduzione, giusto?-.

- Sì-.

- Ottimo, agente Booth. Lei ha aggredito verbalmente la dottoressa, questa mattina-.

- Io non ho aggredito verbalmente la dottoressa-.

- Ma lei si è sentita così, non è vero? – mormorò Sweets, guardando Temperance.

 

Booth: vorrebbe toccarmi i capelli. Io vorrei abbracciarlo.

 

- Ho solo detto che … che non c’era bisogno di essere sarcastici – sussurrò lei, fulminando Sweets.

Lo psichiatra sorrise: - E lei sarebbe ancora sarcastico, agente Booth? Se riprendessimo l’argomento ora, qui-.

- No-.

- E perché?-.

- Non si è divertito abbastanza? Il gioco non è finito?- urlò Temperance, sentendo la rabbia farsi insopportabile.

Lance Sweets tacque per qualche istante, fissandola.

Poi fece un cenno all’uomo con la pistola e si alzò: - Bene, per adesso ci aggiorniamo, signori-.

- Ci troveranno, Sweets! Ci troveranno presto! E allora sarò il primo a metterle le manette ai polsi! – ringhiò Seeley.

Lo psichiatra afferrò la sedia e sorrise ancora:

- Certo, agente Booth. Intanto, buona continuazione di permanenza a tutti due-.

 

 

Usciti Sweets e lo scagnozzo, non aveva parlato più per qualche istante.

Seeley era rimasto accoccolato contro il muro, gli occhi chiusi e il respiro stanco. Temperance l’aveva guardato di sottecchi per un po’, infreddolita e pensierosa. Aveva lasciato vagare lo sguardo sul profilo familiare di lui, i capelli scompigliati, il braccio ferito, lottando contro la tentazione di prenderlo tra le braccia.

Poi lui aveva riaperto gli occhi, grandi e sfiniti:

- Hai freddo, Bones?-.

- Un po’, sì-.

Altro silenzio.

Poi Seeley, a fatica, si era trascinato accanto a lei e le aveva preso le mani, nascondendole sotto la sua giacca.

- Booth … - aveva mormorato Temperance, mentre il calore del corpo di lui le passava tra le dita, sulla pelle.

- Che c’è?-.

- Hai ... hai mentito a Sweets, prima?-.

- Su cosa?-.

- Su quello che provavi-.

Ecco, l’aveva detto. Aveva avuto la tentazione di sfilare le mani da sotto la giacca di lui, ma Seeley gliele aveva tenute ferme.

- No. E tu?- aveva sussurrato lui, quasi sottovoce.

- No-.

Booth aveva annuito: - Le mani? Vanno meglio?-.

- Un po’, grazie. Sei un’ottima stufa umana-.

L’ombra di un sorriso si era disegnato sul viso stanco di Seeley.

Adesso lei dormiva tra le sue braccia, le mani sotto la giacca di lui e il viso nascosto nell’incavo della suo collo.

Dormiva, e Booth fissava il vuoto, sveglio, accarezzandole piano i capelli.

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Capitolo 4
*** Quattro ***


Capitolo Quattro

 

Quando la notte era scesa, Lance Sweets stava finendo di scrivere.

Il suo appartamento, nel pieno centro di Washington, era immerso nel buio: l’unica luce era quella della scrivania dov’era seduto, penna tra le dita e gli occhi pensosi. Non avrebbe potuto durare ancora a lungo, Lance lo sapeva benissimo: forse li avrebbe lasciati andare quella notte stessa.

Ora che annotava le osservazioni fatte durante quell’unico incontro nel bunker, Sweets sentiva di aver perso un po’ quell’interesse che l’aveva guidato fino a quel momento. Benchè fosse stato affascinante ascoltare Seeley Booth e Temperance Brennan intrappolati nel groviglio delle loro tensioni e del loro dolore, non aveva cavato fuori ragno dal buco: nessuna novità, nessun fenomeno particolare.

E l’agente Booth, poi, aveva c’entrato in pieno la questione, con quella frase.

È forse una novità, che io non voglia la morte di Bones?

Preso in pieno. Booth aveva ragione: non c’era niente di nuovo.

E l’eccitazione di Lance, lentamente, era svanita.

Chiuse il blocco degli appunti e si abbandonò contro lo schienale della sedia: davanti a lui, un’enorme vetrata gli mostrava la città addormentata, irrigidita dal buio e dagli ultimi rimasugli di neve. La decisione era presa: li avrebbe lasciati andare quella notte stessa.

Non li avrebbero trovati mai, Lance ne era certo: e lui avrebbe contribuito a depistare le indagini.

Poi non sarebbero durati molto, nel gelo e senza cibo: soprattutto quel tronfio arrogante di Seeley Booth.

Sweets afferrò il cellulare e chiamò.

 

 

Lei dormiva ancora tra le sue braccia, quando vennero a prenderli.

Per un folle istante, Seeley Booth pensò che forse era finita, che qualcuno li avesse trovati. Ma l’illusione durò poco.

Li caricarono su un furgone nero e allora Booth capì che sarebbe cambiata solo la loro prigione. Bones era di fronte a lui, polsi legati e viso pallidissimo: Seeley si rese conto che non avrebbe potuto mentirle, perché lei aveva già compreso.

Viaggiarono nella notte per più di un’ora, mentre la testa tornava a pulsargli e Temperance tremava dal freddo.

Poi fermarono il furgone e li fecero scendere.

Li slegarono. Uno degli uomini rise.

Booth fece fatica a rimanere in piedi. Bones lo sostenne con delicatezza.

Faceva freddo, un freddo che bucava lo stomaco.

Guardandosi attorno, capirono di trovarsi in un bosco.

Il furgone ripartì, lasciandoli in mezzo al nulla.

Temperance Brennan, allora, pensò che forse sarebbero morti.

Cercò di sorridere a Booth, mentre lo faceva sedere a terra.

 

 

- Una segnalazione. Ci hanno indicato una fattoria appena fuori città – disse Camille, infilandosi il cappotto.

Nel bel mezzo della notte, il Jeffersonian era sveglio e attivo: avevano avuto una soffiata. Durante la corsa in macchina, Angela tenne stretta la mano di Jack: nessuno parlava, la tensione immobilizzava ogni parola. La telefonata era piombata poco dopo la mezzanotte, ed era stata breve e agghiacciante: Brennan, Booth, Becchino, fattoria. Mentre accarezzava le dita di Angela, Jack pregava solo di trovarli ancora vivi: malconci, seppelliti, ma ancora vivi.

Lance Sweets taceva, gli occhi persi fuori dal finestrino.

Giunsero alla fattoria con le altre macchine dell’FBI.

Non trovarono nessuno: solo un vecchio bunker abbandonato.

Angela e Cam si abbracciarono, mentre Jack Hodgins dava un calcio alla terra ghiacciata. Sweets gli appoggiò una mano sulla spalla, l’espressione grave.

I lampeggianti delle automobili dell’FBI scalfirono l’oscurità ancora per qualche ora, poi la notte tornò silenziosa.

 

 

- È una situazione divertente-.

Temperance fissò Seeley, senza sorridere: - Come puoi dire una cosa simile, Booth?-.

- Ma sì … il ragazzino che ci rinchiude, poi butta la chiave, poi ci tira fuori e ci abbandona in questo bosco. È divertente, Bones, perché non ci ha fottuto nessuno psicopatico di ovvia pericolosità. Ci ha fottuto Lance Sweets-.

Parlava un po’ a fatica, le labbra irrigidite dal freddo. Temperance l’aveva aiutato a camminare fino a un tronco orizzintole, poi l’aveva fatto sdraiare, poggiandogli la testa sul legno. Il taglio sulla fronte non sanguinava più, fortunatamente, ma i suoi occhi si facevano sempre più lucidi.

- Non è divertente comunque - mormorò lei, nascondendo le mani nelle maniche. Era seduta accanto a lui, con le gambe incrociate.

Booth la fissò per qualche istante, in silenzio. Non sorrideva più.

- Lo so, Bones-.

- Allora non dirlo-.

Seeley la guardò: stava vicino a lui, attenta e infreddolita, gli occhi pieni di paura. Sapeva che buona parte di quella paura era per lui: faceva fatica a stare in piedi, a parlare, e iniziava a non sentire più il braccio ferito. Sarebbe morto in quel bosco, sopra quella terra ghiacciata, sdraiato contro un tronco d’albero.

- Non pensarci nemmeno-.

La voce di Temperance, decisa, lo strappò dai suoi pensieri.

- Come?- mormorò, sorpreso.

Lei lo fissò: c’era disperazione, nel suo sguardo. E supplica:

- So quello che stai pensando, Booth. Se c’è una cosa che ho imparato da Sweets è capire meglio cosa ti passa per la testa. Ho visto la tua espressione. Non pensarci nemmeno-.

- Non devo pensarci nemmeno a cosa, Bones?-.

- A morire, stupido-.

La voce le tremò appena, ma rimase salda. Booth pensò che avrebbe potuto mentirle, sfoderare un sorriso stanco e borbottarle che no, lui non ci pensava proprio a togliere il disturbo. Bones avrebbe disprezzato la sua bugia, e forse non avrebbe detto più niente.

Però Seeley decise di non farlo. Invece allungò piano una mano, cercando il suo ginocchio. Lo trovò e si fermò lì.

Temperance lo guardava con gli occhi spalancati, i capelli arruffati e le braccia incrociate: e allora Booth salì con la mano, a trovare una manica, ad insinuare le dita dentro, a contatto con la sua pelle. Trovò la sua, di mano, e la strinse.

- Okay- mormorò.

- Okay cosa?-.

- Non muoio. O almeno ci provo-.

Lei annuì:

- Dovresti cercare di dormire un po’. Non parlare, risparmiare le forze-.

- Non ti lascio qui da sola-.

- Non mi lasci qui da sola, Booth. Chiudi soltanto gli occhi e cerchi di riposarti-.

- Okay: allora diciamo che non ti lascio a disperarti da sola, Bones-.

Temperance abbozzò un sorriso: - Carino da parte tua-.

Rimasero per qualche istante in silenzio.

Il gelo saliva dalla terra, martellando la pelle: Brennan sapeva che, se non li avessero trovati in fretta, sarebbero presto morti assiderati.

Si chiese perché Lance Sweets li avesse lasciati andare così, abbandonandoli a una morte quasi certa.

Si chiese perché il freddo facesse così male.

Si chiese perché non aveva mai chiesto a Booth di uscire a prendere un caffè, senza omicidi di mezzo.

Si chiese perché, durante quel bacio sotto il vischio, non lo avesse tenuto fermo per qualche istante in più, stringendogli la giacca.

- A cosa pensi?-.

Lui: che la fissava dal basso, i capelli umidi e scompigliati, gli occhi lucidissimi.

Perché mentire? Perché inventare? Era scientificamente insensato, Temperance Brennan lo sapeva. Socchiuse gli occhi:

- Penso che avrei voluto baciarti per più tempo, sotto il vischio-.

Penso che.

Avrei voluto baciarti.

Baciarti per più tempo.

Sotto il vischio.

Le dita di Booth si irrigidirono appena, attorno alla sua mano: Temperance avvertì il cambiamento, e strinse i denti, riaprendo gli occhi.

Seeley assorbì ancora una volta quelle parole, soppesandole una ad una, assaporandone il tono, il significato.

Avrei voluti baciarti.

Per più tempo.

Sapeva cosa avrebbe voluto risponderle: anche io, anche adesso, anche quando il solo pensiero ti avrebbe fatto indietreggiare.

E invece disse: - Credevo che … che avesse rovinato quel qualcosa che c’è tra noi-.

- Non … non per me- sussurrò lei.

Silenzio.

Era sconvolto? Turbato? Infuriato?

Sentii le dita lui tornare a distendersi: presero ad accarezzarle il dorso della mano. E Booth, intanto, decise che sarebbe stato meglio non parlare più, e rivide attorno a sé la notte densa e gelida, lo sguardo folle di Sweets, il dolore fisico, la morte acquattata in un angolo.

Basta.

- Fa freddo, Bones. Se ci stringiamo un po’, staremo meglio- mormorò, sfilando la mano dalla manica di lei.

Temperance lo fissò per qualche istante.

Booth accennò un mezzo sorriso: - È scientifico. Calore corporeo sommato-.

- Già. Scientifico-.

Si sdraiò accanto a lui, incastrando le gambe tra le sue.

Fronte contro fronte, respiro contro respiro.

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Capitolo 5
*** Cinque ***


Capitolo Cinque

 

Erano passate due, forse tre ore.

La notte ormai avvolgeva ogni cosa, il buio scalfito solo da qualche stella e dai rumori del bosco. Avevano dormito, per quanto possibile.

Soprattutto lui, aveva dormito. Il calore dei loro corpi vicini era stato d’aiuto, e Booth era finalmente riuscito a chiudere gli occhi, le braccia strette attorno a lei. Temperance Brennan l’aveva guardato dormire, per un po’, la fronte contro la sua, percependo il suo respiro farsi lentamente più regolare, più lieve, e poi gli occhi grandi di Booth si erano arresi alla stanchezza e al dolore.

Non l’aveva lasciato, non l’aveva lasciato neanche per un attimo.

Lo sentiva addosso a lei, il corpo forte e sfinito, le mani appoggiate piano attorno alla sua vita: così protettivo e bisognoso di protezione. Erano rimasti così per un pezzo, e Temperance aveva dormito a sprazzi, svegliandosi a ogni rumore.

Poi gli occhi di Booth erano tornati a spalancarsi:

- Pensi che ne usciremo, Bones?-.

Lei si morse le labbra: - Non lo so-.

Booth sospirò. Temperance sentì un nodo piantarsi in mezzo alla gola: sapeva bene chi di loro due era messo peggio. Chi sarebbe stato il primo ad andarsene.

Cercò di non pensarci.

- Dobbiamo … dobbiamo farci venire in mente qualcosa- borbottò.

Seeley la fissò con un mezzo sorriso: un sorriso insopportabilmente triste:

- Bones, siamo in mezzo al nulla-.

- Lo so, ma …-.

- Non abbiamo cellulari, non abbiamo niente … Dobbiamo essere razionali …-.

- Perché non posso mai fare quella irrazionale?!- sbottò lei.

- Perché non lo sei, Bones. E farlo non cambierebbe nulla-.

Temperance tacque. Lo guardò negli occhi, cercando un po’ di calore. Non si erano spostati di un millimetro: la bocca di Booth era sempe lì, a pochissimi centimetri dalla sua.

Ma aveva senso pensare a una cosa del genere in un momento così, in una situazione tale? Non era stupido? Era stupido, certo che era stupido. Di cattivo gusto, poi.

O forse no.

Forse no, antropologicamente parlando: il pericolo e il sentore di morte acuivano gli istinti, spazzavano le inibizioni, i dubbi.

Perciò.

Booth era lì, tra le sue braccia. Ferito, quasi congelato.

E ormai gli aveva detto quelle cose.

Avrei voluto baciarti per più tempo.

Se si fossero addormentati un’altra volta per non svegliarsi mai più, Temperance Brennan non avrebbe avuto rimpianti: perché le sue labbra sarebbero state su quelle dell’uomo che le aveva vissuto accanto per tutto quel tempo, e che ora le moriva, accanto.

Stava per farlo. Lo avrebbe fatto.

Ma una luce violenta l’investì.

Grida confuse, rumore di passi veloci, la terra gelata a scricchiolare.

Ebbe appena il tempo di vedere un sollievo confuso negli occhi di Booth.

Poi lui chiuse gli occhi.

E Angela Montenegro le piombò addosso, bagnandola di lacrime e gioia.

 

 

 

Bianco.

Tutt’intorno. Bianco, pulito, silenzioso.

La dottoressa Temperance Brennan se ne stava accoccolata su una piccola poltrona verde, in un angolo della stanza. Teneva le ginocchia strette al petto, un maglione chiaro a collo alto che le copriva completamente le mani, i capelli legati in una coda di cavallo.

Si guardava attorno, dando le spalle a una piccola finestra: fuori, il cielo era grigio, gonfio di pioggia. La stanchezza le segnava il viso pallido: un paio di lividi su una guancia spiccavano sul candore della sua pelle, gli occhi fissi davanti a sé.

Guardava tutto quel bianco, Temperance Brennan.

E guardava lui.

- Tesoro …-.

Una voce gentile la riportò alla realtà: Temperance sorrise ad Angela.

- Ehi …-.

- Sei ancora qui? Non sei andata a dormire?-.

Angela appoggiò con cautela il cappotto sullo schienale della poltrona, poi tornò a scrutare l’amica. Temperance scosse la testa:

- No, io … io voglio esserci, quando si sveglierà-.

- Non sarà da solo, posso rimanere io, non c’è problema …-.

- No, Angela, davvero. Voglio … voglio stare qui-.

Angela tacque.

Guardò l’amica: Temperance era stanca, in quei due giorni non aveva praticamente chiuso occhio. Dopo i controlli medici, le domande, una corsa a casa e una doccia calda, si era stabilita all’ospedale, e nessuno era riuscito a schiodarla da quella stanza.

- Novità?- mormorò d’un tratto.

Angela sospirò:

- Lo stanno cercando. A casa sua non hanno trovato niente di utile, sembra davvero … sparito nel nulla-.

- Sweets non è uno stupido-.

- No, certo che no-.

Temperance abbassò per un istante gli occhi, e Angela trattenne il respiro.

Si sarebbe finalmente lasciata andare? La corazza si sarebbe sciolta? In quei due giorni non aveva mai versato una lacrima, non aveva cercato un abbraccio di troppo. Ma non poteva durare in eterno.

- Vuoi venire a bere un caffè?- sussurrò Angela, appoggiandole una mano sulla spalla.

- No, ti ringrazio. Preferisco restare qui-.

- Tesoro, solo un caffè, poi ti riporto subito …-.

- Angela, potrebbe svegliarsi da un momento all’altro, hanno smesso di somministrargli i sonniferi-.

- Sì, ma …-.

- Voglio esserci, capisci? Quando si sveglia-.

Temperance la fissò negli occhi:

- Io voglio esserci-.

Angela annuì.

Si chinò a darle un bacio sulla fronte:

- D’accordo. Ti chiamo se ci sono novità-.

- Grazie-.

La dottoressa Temperance Brennan seguì con gli occhi Angela uscire dalla stanza e chiudere la porta alle sue spalle. Il bianco tornò a circondarla, e l’angoscia si fece più soffocante.

Chinò il capo e cercò di respirare a fondo. Poi rialzò la testa e tornò a fissare l’uomo che riposava nel letto di fronte a lei, il petto che si alzava a intervalli regolari.

Sotto di lei, nel cortile dell’ospedale, salivano i rumori discreti di chiacchiere e passeggiate.

La pioggia cominciò a tambureggiare sui vetri della finestra. Temperance  appoggiò il mento sulle ginocchia: solo quarant’otto ore prima era certa che sarebbe morta, che sarebbero morti tutti e due. Solo quarant’otto ore prima l’insieme grondante dei suoi sentimenti e delle sue paure – sempre tanto aggrovigliato e confuso – le era parso improvvisamente di una semplicità devastante.

Devastante perché le aveva mostrato, per la prima volta, l’ombra aguzza del rimpianto.

E il sapore amaro del non detto, del soffocato, del nascosto.

Quell’ombra spuntata le premeva ancora addosso, e Temperance Brennan sapeva di averla evitata, almeno per ora: ma solo perché qualcuno era arrivato a strapparli dalla fine.

Dalla fine di ogni cosa.

L’antropologia era una scienza esatta eppure, in quella stanza d’ospedale, la dottoressa Temperance Brennnan pensava che non c’era niente, di esatto, nella complessità voluta.

E nella semplice e lontana possibilità di rimpiangere qualcosa.

Rimase a contemplare Seeley Booth per un tempo che le parve infinito, accoccolata su una poltrona, contandogli i respiri, soffocando la bruciante tentazione di sdraiarsi accanto a lui e aspettare così il suo risveglio, vicina al suo odore, vicina al suo calore.

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Capitolo 6
*** Sei ***


Capitolo Sei

 

Jeffersonian. Mezzogiorno.

Un tiepido sole invernale scaldava i vetri di quello che era l’ufficio della dottoressa Temperance Brennan. Sul divano Jack Hodgins abbracciava Angela Montenegro.

- A cosa pensi?- mormorò, carezzandole piano una guancia.

Angela socchiuse gli occhi:

- Al fatto che sono molto sollevata-.

- Come hai trovato Brennan, prima?-.

- Sfinita, direi. E un po’ pensierosa-.

Jack fece scivolare la mano tra i suoi capelli:

- Con quello che ha passato è più che normale-.

- Già-.

Un lieve sorriso si dipinse sul viso dell’uomo:

- Ma …-.

- Ma cosa?-.

- Hai detto un già che presupponeva un ma, Angie …-.

La donna si divincolò dal suo abbraccio e si voltò a fissarlo, l’espressione seria:

- Non so, è che … ho visto come lo guardava-.

- Come guardava chi?-.

- Come Brennan guardava Booth-.

- E come?-.

Angela si morse un labbro:

- Non l’ho mai vista così, Jack. Lo guardava in un modo che non ho mai …-.

Jack le prese una mano e se la portò alle labbra, interrompendola:

- Tesoro, Booth ha rischiato di morire. E’ normale che lei sia ancora tesa e preoccupata-.

- Già, immagino che tu abbia ragione- sospirò lei.

- Ha rischiato di perdere un amico, no? Qualcosa in più di un collega-.

Angela fissò Hodgins negli occhi:

- Qualcosa in più di un amico, Jack-.

 

 

Il sole entrava piano nella stanza, disegnando sagome di luce sulle pareti bianche.

Lui dormiva ancora, il respiro regolare, i capelli spettinati.

Non molto, e si sarebbe svegliato.

Temperance, da quando Angela l’aveva lasciata sola, non si era mossa dalla poltrona.

Una miriade di pensieri le affollava la mente, tanto che aveva l’impressione di non riuscire a riflettere lucidamente su niente.

Erano quasi morti, lei e Booth.

Per colpa di Lance Sweets.

C’erano molte domande cui Temperance non riusciva dare una risposta, non ultimo il perché lo psichiatra avesse fatto quella telefonata al Jeffersonian, dicendo in tutta tranquillità dove si trovavano lei e Booth e consentendo loro di essere salvati in tempo.

Perché Sweets non avesse fatto nulla per nascondere quello che era successo: quella telefonata era equivalsa a una confessione firmata.

E ora l’FBI gli dava la caccia, ancora senza risultato.

Tuttavia, in quelle ore, rabbia, paura e macchinazioni avevano lasciato il posto ad altri pensieri.

Ad altre sensazioni.

Ad altre paure.

Un colpo di tosse la riportò alla realtà.

O forse no, forse era stato un gemito.

Temperance scattò in piedi, il cuore che le batteva forte nelle orecchie.

- Ehi …-.

 

Ehi.

 

La sua voce.

La voce di lui.

Tre lettere.

 

Ehi.

 

Temperance non sapeva esattamente come fosse arrivata al letto, ma c’era arrivata. E Booth era lì, a pochi centimetri, sdraiato, che la fissava con un sorriso da bambino.

Vivo.

Sveglio.

- Ehi - mormorò Temperance, la voce quasi un sussurro.

Pensò che avrebbe voluto toccarlo, sfiorargli una mano, la fronte, i capelli.

Ma non lo fece.

Rimase inchiodata ai suoi occhi:

- Come … come ti senti?-.

Booth si passò una mano sul viso:

- Benone, non … non sento niente. Nemmeno il mio corpo-.

- Sono i sedativi. Hai dormito per più di ventiquattr’ore-.

- Per più di ventiquattr’ore?-.

Temperance annuì. Sentiva un nodo alla gola. Uno stupidissimo nodo alla gola.

Ma non c’era motivo di piangere, tutto era andato bene.

Non doveva piangere.

Booth sospirò, appoggiandosi una mano sul petto nudo:

- E quel bastardo?-.

- Lo stanno  ancora cercando-.

- E tu stai bene?-.

Lei inghiottì il nodo alla gola:

- Sì, sto bene-.

- Bene-.

- Bene-.

Si fissarono per qualche istante, in silenzio.

Poi Temperance gli raccontò della telefonata di Sweets e di come li avessero e trovati, e mentre lei parlava nella testa di Booth si affollava una tempesta di pensieri. Alcuni prevedibili, altri più inappropriati. Pensava a quel figlio di puttana di Sweets, alla notte del bosco. Pensava alla morte.

Pensava a Bones.

Pensava soprattutto a Bones.

Quando lei tacque, Booth vide che aveva gli occhi lucidi. Le cercò la mano e la strinse.

A quel contatto improvviso, Temperance sussultò.

- Hai le mani gelate- mormorò Seeley, fissandola negli occhi.

Lei annuì, distogliendo lo sguardo.

- Dove sei stata in queste ventiquattr’ore? Ti sei riposata un po’?- domandò lui.

- Sì, certo-.

Non lo guardava nemmeno ora.

Le strinse la mano con più forza, e lei sollevò gli occhi su di lui.

- È finita, Bones. È finita- sussurrò Seeley.

- Certo, lo so, è solo che …-.

La voce le mancò. Le lacrime, invece, persero i freni.

Temperance non faceva mai rumore, quando piangeva. E Booth sentì il suo cuore perdere un battito, a vederla con il viso rigato di pianto, silenziosa e discreta, aggrappata alla sua mano.

- Mi dispiace- mormorò lei.

- Non è un problema-.

- Sto piangendo solo per l’accumulo di tensione. Sfogo fisiologico da post-trauma-.

- Non mi devi dire perché stai piangendo, Bones. Te l’ho già detto-.

- È  che sto piangendo un po’ troppe volte, ultimamente-.

Booth abbozzò un sorriso:

- È solo la seconda volta, in fondo-.

Temperance annuì, sorridendo di rimando. Non parlarono per un po’, e lui le lasciò la mano.

Aveva dormito per più di un giorno, eppure si sentiva sfinito.

Quando Temperance se ne andò, rimase a fissare il soffitto.

Erano vivi, Sweets sarebbe stato preso a breve, tutto era finito per il verso giusto.

Tutto bene, certo.

Ma non riusciva a dimenticare cosa si erano detti lui e Bones, in quelle ore.

I ricordi erano tutti lì, aggrappati saldamente alla memoria: li ripercorse di continuo, godendo del calore che gli trasmettevano.

Pensieri inappropriati, forse.

Ma era troppo stanco per rimproverarsi e sentirsi in colpa in una qualche maniera.

 

 

- È bello vederti con un’espressione umana e non da pesce lesso!-.

Booth sorrise:

- Grazie, Hodgins-.

- Di niente - ribattè Jack.

Appena Temperance se ne era andata, Seeley aveva avuto ben poco tempo per rimuginare sui suoi pensieri. La porta della stanza si era aperta ed erano comparsi i visi sorridenti di Jack Hodgins e Angela Montenegro. Cam e Zach, gli avevano spiegato, sarebbero venuti nel tardo pomeriggio.

Angela lo aggiornò circa la questione di Sweets, e Booth ascoltò ogni parola con interesse misurato.

Se ne andarono dopo una quarantina di minuti.

Hodgins era già uscito e Angela era sull’uscio, quando la donna si voltò verso di lui.

Si fissarono per qualche istante.

Lei prese un bel respiro e fece dietrofront, tornando accanto al letto:

- Booth …-.

- Che c’è?-.

Angela lo fissò negli occhi, torturando con la mano destra una sponda del letto:

- Booth, lei è rimasta tutto il tempo qui-.

- Cosa?-.

- Brennan. È rimasta qui sempre. Lì, sul quella poltrona. A guardarti. Sempre-.

 

A guardarti.

Sempre.

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Capitolo 7
*** Sette ***


Capitolo Sette

 

Era bello camminare, sentire l’aria fredda sulla faccia.

Era bello arrancare sull’asfalto, il passo ancora un po’ incerto, sotto il sole tiepido dell’una del pomeriggio: a pochi metri dal Diner, ormai, in una Washington viva e che non aveva nulla, del biancore soffocante dell’ospedale.

Bello era camminare con Bones. Di nuovo. Insieme.

Seeley Booth e Temperance Brennan entrarono a passo lento nel locale.

Lei gli stava vicino, adeguando la propria andatura a quella di lui: gli aprì la porta e lo fece passare, lui le rivolse un sorriso divertito ma ubbidì, senza fare commenti.

Si sedettero al solito tavolo, uno di fronte all’altra.

Mentre davano un’occhiata ai menù, Temperance sbirciò Booth: l’avevano dimesso la sera prima e aveva decisamente un aspetto migliore. Era tuttavia ancora un po’ debole ma, benchè lei ci avesse provato con tutte le sue forze, non era riuscita ad obbligarlo a rimanere a casa. Il riposo forzato non faceva per Booth, esattamente come non faceva per lei: e poi le aveva scaldato il cuore, vederlo sul suo pianerottolo mezz’ora prima, armato di sorriso e invito a pranzo.

- Hai scelto?-.

La voce di lui la distolse dai suoi pensieri.

- Oh, certo-.

- Perfetto, allora ordiniamo: sto morendo di fame-.

Aspettarono in silenzio che la cameriera arrivasse e prendesse le ordinazioni. Quando se ne fu andata, Booth se ne stava appoggiato allo schienale, occhi socchiusi e braccia conserte.

- Sei stanco? - domandò Temperance, richiudendo i menù.

- No, non particolarmente. Mi sto solo godendo il fatto di essere qui, di nuovo-.

Lei annuì:

- Già-.

Booth riaprì gli occhi e la guardò:

- Con te-.

Sbam.

Il menù era caduto.

Temperance si affrettò a raccoglierlo, maledicendo il suo gomito e quella stupida reazione.

Non era più a liceo, non aveva sedici anni da un bel pezzo: eppure, due semplice parole le avevano fatto scattare il braccio e ora, mentre la sua testa tornava a fare capolino sopra il tavolo, si sentiva le gote in fiamme. Booth la guardava con espressione divertita:

- Tutto bene?-.

Temperance annuì, abbassando gli occhi:

- Certo, certo-.

Silenzio.

Ancora.

Perché ce n’era così tanto, di silenzio?

Temperance guardò di sottecchi Booth: se ne stava sempre a braccia conserte, pensieroso.

Lo sguardo perso al di là delle vetrate.

La dottoressa Brennan decise che la situazione andava ripresa in mano.

- Le … le ricerche di Sweets sembrano arrivate a un punto morto, ho paura che … - attaccò lei, ma Booth sollevò appena una mano e la interruppe.

- Non voglio parlare di Sweets, Bones- mormorò, fissandola negli occhi.

Lei ricambiò lo sguardo, confusa:

- No? Pensavo … insomma, ora stai meglio, dovremmo cominciare a occuparci totalmente di questa storia, Sweets potr …-.

- No. Non voglio parlare di lui-.

Temperance tacque.

Incrociò le braccia: si fissarono così per qualche istante, seduti nelle stesse posizioni.

- E di cosa vorresti parlare, allora?-.

Booth si sporse verso il tavolo che li divideva:

- Lo sai-.

Un ronzio nelle orecchie.

- No, non lo so-.

- Sì che lo sai-.

- No, Booth-.

Lo sguardo che lui le lanciò fu come una freccia: la trapassò da parte a parte.

Uno sguardo pieno, esasperato, lucido.

- Di quello che ci siamo detti laggiù, Bones - sussurrò Seeley.

Cambiò posizione, appoggiando le braccia sul tavolo.

- Laggiù? – mormorò Temperance.

Era quello il gioco: ripetere le ultime parole di lui, fingendo di non capire ciò che invece capiva perfettamente.

- Laggiù, Bones: in quella specie di cella, nella foresta - disse Booth, la voce roca.

- Non capisco cosa vuoi dire-.

Un’ombra d’impazienza passò negli occhi di lui:

- Sì che capisci, invece. Ci siamo detti delle cose. Cose che non ho dimenticato-.

Lei non rispose.

Si limitò a sostenere il sguardo, con fatica.

Un tocco caldo le avvolse una mano.

Abbassò gli occhi sulle dita di Booth, che le accarezzavano il palmo sinistro con delicatezza.

- Cosa … cosa stai facendo?- borbottò, sentendo lo stomaco fare una capriola.

- Ti sto accarezzando una mano-.

- Smetti di farlo-.

- Perché?-.

- Perché di sì-.

Ma Booth non smise.

La fissava dritta negli occhi.

- Sei stata accanto al mio letto sempre, in questi giorni – mormorò lui.

- Certo, io …-.

- Ci siamo detti delle cose, Bones, e io le ho tutte qui, in mente. E credo anche tu-.

- Togli quella mano, Booth-.

- Non ho nessuna intenzione di farlo, Bones-.

- Se non togli quella mano, potrei tirarti un calcio sotto il tavolo. Mandare a quel paese i tuoi attributi da Maschio Alpha una volta per tutte-.

- Non svicolare-.

- Non sto svicolando, è una minaccia, Booth-.

- Non funziona, allora, perché non sono affatto intimorito-.

Temperance sfilò di scatto la mano da sotto le dita di Seeley.

Era arrabbiata. E spaventata. E … altro, altro di confuso, grondante, potente.

Altro che non riusciva a spiegarsi.

Fece un respiro profondo:

- Cosa vuoi da me, Booth?-.

L’espressione di lui si fece ancora più intensa:

- Voglio solo parlare. Parlare davvero-.

Silenzio.

Poi Booth si sporse verso di lei: i loro volti si trovarono a pochi centimetri.

- Avrei voluto baciarti per più tempo – sussurrò piano.

Temperance sentì il suo cuore perdere un battito.

O forse no, forse riguadagnarne un centinaio in un colpo solo:

- Cosa … cosa stai dicendo?-.

- Non sono parole mie, Bones-.

Lei distolse lo sguardò: cercò con gli occhi la strada, la gente, le automobili.

Qualcosa.

Booth si fece ancora più vicino: lei poteva sentire il profumo agrodolce del dopobarba, il calore del suo fiato, l’odore pulito dei capelli spettinati.

Le sfiorò il mento con l’indice e il pollice:

- Non sono parole mie, ma non vuol dire che non le condivida appieno-.

Temperance Brennan, a quel punto, fece l’enorme errore di incontrare i suoi occhi.

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Capitolo 8
*** Otto ***


Capitolo Otto

 

Grazie a tutti per le recensioni! Se siete arrivati fino qui, spero che continuerete a seguire la storia … Ormai non manca molto, tenete duro! Buona lettura!

 

Enorme. Gigantesco.
Immane errore.
- Devo … devo andare in bagno, scusami - balbettò Temperance, alzandosi di soprassalto.
Booth la fissò a bocca aperta:
- Cosa?-.
- In bagno … scusami … devo andare- sussurrò lei, scivolando oltre la panca e allontanandosi a passi nervosi. Lui non ebbe il tempo per ribattere nulla: la guardò finchè non scomparve dietro la porta scura della toilette. L’agente speciale Seeley Booth si lasciò andare contro lo schienale, sospirando.
Fissò il posto vuoto di fronte a sé: cercò di ricostruire quelle sensazioni, quelle percezioni spazzate via tanto all’improvviso.
Impossibile.
Finì con il socchiudere gli occhi, le dita che tambureggiavano nervose sul tavolo.

Era ridicolo.
Assolutamente ridicolo.
La dottoressa Temperance Brennan fissava l’immagine riflessa nello specchio di fronte, le mani appoggiate al lavadino, il respiro leggermente affannoso. Aveva aperto i rubinetti e un getto di acqua fresca scorreva ininterrotto da ormai quasi cinque minuti. Esattamente: erano quasi cinque minuti che era chiusa in quel bagno, e non aveva nessuna intenzione di uscirne.
Non in quello stato, non con quell’uomo a quel tavolo. Non con quei discorsi.
Eppure era assurdo: dopotutto era una donna matura, una scienziata, una persona affermata e sicura. Non c’era nulla di cui avere paura. O forse sì.
O forse non era neppure paura, ma qualcosa di molto più complesso.
Qualcosa che, con sgomento, si era scoperta incapace di affrontare.
Tuttavia, a qualche metro da lei, solo a un tavolo, non c’era uno sconosciuto: si trattava di Booth, del suo Booth. O era proprio quello il problema?
Rapidissime, nella sua mente, scorsero le immagini del bacio sotto il vischio, degli abbracci dopo il rapimento, Seeley a occhi chiusi nel letto bianco, le dita di lui lunghe e calde, incapaci di rimanere immobili, avanti e indietro sul suo palmo. Temperance si aggrappò al lavandino e chiuse gli occhi.
Doveva smetterla. Doveva ritrovare la calma.
Calma e lucidità.
Toc.
Spalancò immediatamente gli occhi.
L’aveva sentito davvero?
Toc.
- Bones?-.
Temperance si volse alla porta, il cuore che batteva a mille.
- Chi … chi è?- mormorò, avvicinandosi a passi lenti.
Uno sbuffo:
- Chi vuoi che sia, Bones? Sono io. Volevo sapere se va tutto bene-.
Lei era quasi arrivata alla porta: la chiave nella toppa era a pochi centimetri.
- Tutto … tutto bene, certo – disse, allungando una mano.
- È che … insomma, sei qui dentro da più di cinque minuti e …-.
Le dita di Temperance artigliarono la chiave: la girò con un gesto secco e aprì la porta. Booth la guardava, le braccia lungo i fianchi.
Lei annuì:
- Tutto bene, visto?-.
- Bene, allora … Torniamo al tavolo?-.
- Certo-.
- Bene-.
Lo seguì a passi lenti.
Basta: doveva razionalizzare. Doveva farlo.
Riportare la situazione agli standard consueti. Ristabilire le posizioni, i rapporti, il tenore delle conversazioni. Riappropriarsi di ogni cosa.
Si risiedettero al tavolo, il Diner che si rimpieva sempre di più.
Lo sguardo di Temperance vagò su una coppia appoggiata al bancone: lei sorridente, i lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo, lui con un ghigno divertito, una mano che sfiorava un fianco di lei.
Quella, da un mero punto di vista antropologico, era chiaramente una relazione sessuale riuscita.
Ed era questo, quello che Booth cercava di dirle?
Che voleva una relazione sessuale riuscita?
Non si accorse di averlo detto ad alta voce.
O meglio, se ne rese conto quando un’occhiata di Booth la infilzò, penetrante e intensa:
- Io non sono già arrivato a quel punto-.
Già.
Quindi aveva intenzione di arrivarci.
Booth si sporse verso di lei:
- Bones, cercavo soltanto di affrontare la situazione. Soltanto di parlare. E tu sei scappata in bagno-.
- Questo non è vero - sbuffò lei.
- Sì, invece-.
Temperance avvicinò il viso a quello di lui, allungandosi attraverso il tavolo:
- Booth, riportiamo il contesto antropologico e lavorativo a un livello standard, d’accordo?-.
Lui la fissò, corrugando la fronte:
- E questo cosa vorrebbe dire?-.
- Significa tornare indietro, cancellare tutti i refusi che si sono scatenati dopo l’esperienza traumatica che abbiamo vissuto. Ogni cosa, Booth: sensazioni, impulsi-.
- Stai dicendo che … che tutto quello che …-.
- Booth, il trauma scatena negli esseri viventi reazioni fuori dagli standard consueti, e questo accade soprattutto tra gli esseri umani, pertanto ritengo …-.
Seeley sollevò una mano, interrompendola.
La guardava con durezza. Durezza mista a qualcos’altro.
- Non voglio sentire altro, Bones-.
Lei inspirò profondamente:
- Concordi, allora?-.
- Niente affatto-.
- Cosa significa?-.
- Significa che penso tu abbia detto un mucchio di sciocchezze-.
Si fronteggiarono per qualche istante, i visi a pochi centimetri.
Booth le prese una mano, con un gesto deciso.
Lei lo fulminò con lo sguardo:
- Cosa fai?-.
- Quello che facevo prima che tu andassi in bagno. Ti accarezzo una mano-.
- Booth, ti ho fatto un discorso scientificamente impeccabile, prima e …-.
- … e non m’interessa niente. Perchè tu non ci credi davvero-.
Temperance sentì la sua sicurezza vacillare:
- Non credo davvero a cosa?-.
- A quelle tue teorie. Lo so che non ci credi. Lo so perché c’ero anch’io, durante il cosiddetto trauma-.
- Tu non sai proprio niente, Booth-.
- So che hai paura, per esempio-.
- Non ho paura-.
- Invece sì. E anche io-.
- Io non ho paura-.
- Cosa faresti se ti baciassi, Bones?-.
Tum.
Temperance lo fissò negli occhi, scotendo la testa, il cuore nelle orecchie:
- Non lo faresti-.
- E se lo facessi, Bones? Se ti baciassi qui, adesso?-.
Seeley aveva alzato la voce, per sovrastare il brusio nel Diner.
Qualcuno si voltò a guardarli.
- Tu non mi bacerai, Booth. Tu non vuoi baciarmi-.
- Voglio, invece-.
- Ah sì? In tal caso, potrei anche darti un pugno-.
Negli occhi lucidi di Booth passò un lampo di divertimento:
- Un pugno?-.
Temperance sostenne il suo sguardo, sentendo la rabbia crescere, e insieme alla rabbia qualcos’altro, altro che non avrebbe saputo definire. Cercò, con uno strattone, di liberare la mano dalle dita di lui: ma Booth non la lasciò andare.
I loro visi erano vicinissimi.
Sentiva il suo respiro. Il suo calore. Il suo odore.
Si aggrappò all’ultimo rabbioso rimasuglio di lucidità:
- Tu … non … mi … bacerai-.
E fu un attimo.
La rabbia, all’improvviso, montò di nuovo, e lei sentì il fuoco e una paura indistinta salirle su per lo stomaco, risalire la gola, arrivare alle labbra, e allora la bocca di Booth fu vicina alla sua, vicinissima, e lei non potè far altro che cercare il respiro di lui, il suo lieve ansimare.
Il bacio iniziò furioso, profondo, le mani di Booth che le sfiorarono le guance, le tempie, e lei si perse nel suo odore, e il Diner implose in un scoppio di sensazioni, confusione, eccitazione.
Svanirono la folla, i rumori, il tavolo che li separava, e il bacio si addolcì a poco a poco, le labbra che si staccarono appena, continuando a cercarsi, a sfiorarsi.
La dottoressa Temperance Brennan aprì piano gli occhi, ad incontrare quelli di lui.
E un’indignazione confusa le salì alle mani, perché questo non sarebbe dovuto succedere, non era razionale né sensato né antropologicamente necessario, e Booth l’aveva fatto sfidandola, lì, a quel tavolo, e lei era stata costretta a … A cedere e …
Ed era soltanto colpa di quell’uomo.
Un pugno violentissimo si abbattè sul viso di Seeley Booth.
La dottoressa Brennan lo guardò – il braccio ancora sollevato - portarsi le mani al volto, mentre il sangue iniziava a fluire copioso. Udì qualcuno urlare, un rumore confuso di passi che si dirigevano al loro tavolo, il brusio che cresceva, il Diner che si animava.
- Che diavolo è successo qui?-.
- Ma siete diventati pazzi?-.
- È stata la donna, l’ho vista!-.
Temperance non riusciva a muovere un muscolo.
Capì cosa aveva fatto davvero quando lui sollevò il volto insaguinato.
Booth la fissò in silenzio, le mani abbandonate lungo i fianchi, il naso spaccato.
- Mio Dio- balbettò Temperance. Aveva la gola secca.
Attorno al loro tavolo si era formato un capannello di persone.
Temperance si alzò in piedi:
- Io … noi … non è successo niente …-.
Una voce roca la interruppe: Booth.
- Gente, siamo dell’FBI, va tutto bene, nessuno problema. Ora … ora riprendete a mangiare, fate le vostre cose, ce ne … ce ne andremo immediatamente - mormorò, cercando di alzarsi, una mano sul naso.
La folla cominciò a scemare, i borbottii che non si affievolivano.
Temperance aggirò il tavolo: s’infilò sotto un braccio di Booth, offrendogli la spalla.
Il sangue continuava a fluire, e lui era sempre più pallido.
- Booth, mio Dio, mi dispiace così tanto- sussurrò, mentre lo aiutava a uscire dall’incastro tra il tavolo e la panca.
Lui annuì con fatica:
- Credo che … credo sia meglio che tu mi dia uno strappo al Pronto Soccorso-.
- Certo … Booth, davvero, io non …-.
Un lampo divertito passò negli occhi di Seeley:
- Non volevi?-.
Temperance aprì la bocca per ribattere, poi rinunciò.
Uscirono dal Diner, in silenzio, sotto decine di sguardi curiosi.
Arrivarono alla macchina e, prima di mettere in moto, il cellulare di Temperance squillò.
Era Angela.
Temperance rimase un istante in silenzio, ascoltando la voce dall’altra parte del ricevitore.
Poi deglutì:
- Angela, no, non possiamo venire subito, è che …-.
S’interruppe e lanciò un’occhiata costernata a Booth, accasciato sul sedile, un fazzoletto arrossato premuto contro il naso. Lui ricambiò l’occhiata.
Temperance sospirò:
- Angela, io e Booth stiamo andando al Pronto Soccorso. Io … io gli ho appena rotto il naso, credo-.

 

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Capitolo 9
*** Nove ***


Capitolo 9

 

- Brennan, si può sapere cosa ti è saltato in mente?-.

Angela le stringeva una spalla, offrendole un caffè bollente.

Il corridoio era un continuo viavai di medici, infermieri, pazienti.

Appoggiata a una parete, gli occhi socchiusi e la testa pesante, la dottoressa Temperance Brennan cercava di fare ordine e pulizia tra i suoi pensieri.

Pensieri aggrovigliati, appannati.

- Io … gli ho dato un pugno- sussurrò.

Angela fece una smorfia:

- Questo l’ho visto, tesoro, quell’uomo è seduto di là con il naso spaccato!-.

Temperance afferrò il bicchiere di plastica che l’amica le porgeva.

Sorseggiò il caffè, lasciando che la bevanda bollente le ustionasse la lingua e la gola.

Angela strinse più forte la spalla:

- Tesoro … perché l’hai fatto?-.

Temperance alzò lo sguardo e sospirò:

- Perché mi ha baciata, Angela-.

La mano della giovane si staccò dalla sua spalla.

Angela si portò le mani sui fianchi, l’espressione indecifrabile:

- Ti ha … baciata?-.

- Sì-.

- E tu gli hai dato un pugno-.

- No, prima ho … risposto. Dopo, gli ho dato un pugno-.

- Hai risposto? Al bacio, vuoi dire?-.

- Sì-.

- E poi gli hai dato un pugno-.

- Poi gli ho dato un pugno, sì-.

Angela annuì, le labbra strette.

Quando alzò gli occhi su di lei, Temperance ebbe la sensazione che Angela tentasse di trattenere un sorriso.

- È molto logico, certo …- borbottò.

- Angela, ti sembra il caso di fare dello spirito?-.

- No, bè, è solo che …-.

- Che cosa?-.

Angela le sfilò dalle mani il bicchiere vuoto e sorrise:

- Concordi con me sul fatto di avere avuto una reazione un po’ eccessiva, vero?-.

- Sì, ma … Gliel’avevo detto, che l’avrei fatto. Che avrei reagito in questo modo, che …-.

- Tesoro …-.

Temperance tacque: sapeva che, in fondo, Angela aveva ragione.

Per quanto, ad ogni modo, avesse voluto fare davvero del male a Booth, a quel tavolo, non si era immaginata di arrivare a un punto simile.

A un punto tanto irrazionale.

E irrazionale era stato il pugno.

E irrazionale, non ultimo, il bacio.

Forse.

S’impedì di continuare a pensarci:

- Al telefono avevi detto che dovevamo venire perché c’erano novità su Sweets, no?-.

Il repentino cambio di argomento sembrò disorientare per un attimo Angela.

- Sweets? Ah, certo, sì- mormorò d’un tratto, frugando nella borsa a tracolla.

Temperance attese che l’amica le porgesse quello che cercava.

- Tieni. È arrivata qualche ora fa. Portata da un ragazzetto che però non ha saputo dirci niente. È … è indirizzata a te e a Booth- disse Angela, allungando una mano.

Lei prese la lettera, con un vago senso di nausea.

- Sono riuscita a convincere l’FBI a non toccarla prima di te e Booth - sussurrò Angela.

- C’è … si è messo come mittente-.

- Già: Lance Sweets-.

Temperance rigirò per qualche istante la busta, lo stomaco stretto.

 

Che pausa pranzo assurda.

Seeley Booth s’infilò con cautela la maglietta pulita che un’infermiera gli aveva gentilmente procurato. La sua, di maglietta, era appallottolata in un sacchetto di plastica: un ammasso bianco e rosso. L’avrebbe cestinata, una volta a casa.

E poi si sarebbe buttato sul divano, con la seria intenzione di non alzarsi per un bel pezzo.

Alzò il braccio malandato per infilarlo nella manica del giubbotto, e il movimento gli costò una certa fatica: la testa, per attimo, tornò a girargli, e dovette appoggiarsi alla sponda del lettino.

Il piccolo specchio appeso di fronte gli restituì la propria immagine malconcia: il naso, fortunatamente, sarebbe tornato a posto, ma un bendaggio quasi grottesco troneggiava sul suo viso.

Borbottò un grazie Bones mentre finiva di infilarsi il giubbotto.

Era pazzesco pensare che lei l’avesse fatto davvero: che l’avesse picchiato sul serio.

Le sensazioni rimaste ancorate alla memoria e alla pelle di Seeley Booth erano contrastanti e mescolate: il calore e la furiosa dolcezza del bacio, il dolore del naso spaccato, la rabbia di Bones ma anche le sue labbra dischiuse in risposta, lisce, umide, calde e …

- Booth-.

Ed eccola lì.

Incorniciata dalla porta, una mano in tasca, l’altra stretta attorno a una busta, le labbra corrugate: lì.

Temperance mosse un passo verso di lui:

- Come stai?-.

Come stai.

Booth alzò le spalle:

- Oh, bè, direi benone-.

Lei si morse un labbro.

Seeley la fissò: si sentiva in colpa. Finalmente si sentiva in colpa.

- Mi dispiace così tanto, Booth, non era mia intenzione …-.

- Non era tua intenzione?!-.

Temperance gli si avvicinò:

- Fammi dare un’occhiata, almeno per …-.

Booth sollevò una mano, bloccandola:

- Mi hanno già medicato, Bones. Ed è meglio che tu mi stia a distanza di sicurezza-.

Ci fu qualche attimo di silenzio.

- Sei arrabbiato- mormorò Temperance.

Sei arrabbiato.

Non era una domanda.

Booth non disse nulla: era arrabbiato? Era arrabbiato davvero? Oppure, al di là del dolore fisico, era qualcos’altro a fargli male, a farlo sentire tanto ferito? Guardò Bones e sentì, sì, rabbia.

Ma una rabbia molto più complicata di quanto lei e, in fondo, lui stesso potessero immaginare.

- Ti ripeto che mi dispiace moltissimo, Booth- mormorò Temperance, rigida.

Seeley annuì, e il naso gli pulsò dolorosamente.

- Ho soltanto una … giustificazione parziale, tuttavia questo non toglie che …-.

- Cosa? Una giustificazione parziale?-.

Rabbia: Booth deglutì, fissandola negli occhi.

Bones sostenne il suo sguardo, indietreggiando leggermente:

- Bè, Booth, obiettivamente, ti avevo detto cosa avrei fatto se tu … E tu l’hai fatto comunque, ignorando la mia concreta intimazione, pertanto …-.

- Pertanto cosa? Mi stai dicendo che me la sono cercata?-.

Seeley fece un passo in avanti, e lei indietreggiò ancora, senza però abbassare lo sguardo.

Uno di fronte all’altra.

La tensione era quasi insopportabile.

Poi Temperance, all’improvviso, gli allungò la busta:

- Ad ogni modo … volevo farti avere questa-.

Booth la prese, senza guardarla negli occhi:

- Che cos’è?-.

- È una lettera di Sweets-.

- Sweets?-.

- È arrivata al Jeffersonian qualche ora fa, mentre noi eravamo … mentre eravamo a pranzo-.

Booth fissò la busta per qualche istante.

Sweets. Di nuovo. Una fastidiosa sensazione di nausea gli salì dallo stomaco.

- È indirizzata anche a te, Bones- borbottò, alzando gli occhi su Temperance.

- Lo so-.

- L’hai già letta?-.

- Sì-.

Booth indietreggiò fino al letto e si sedette.

Guardò la lettera per un po’, in silenzio, il cuore che gli batteva furiosamente nel petto.

Un colpo di tosse:

- Bene, allora … allora io vado al Jeffersonian, ti accompagnerà a casa Hodgins, ti aspetta qui sotto-

Booth sollevò di scatto la testa.

Improvvisamente, l’idea che Bones se ne andasse in giro da sola gli parve intollerabile: Sweets aveva scritto quella cosa, Sweets era in circolazione ed evidentemente non aveva smesso di occuparsi di loro, anche soltanto con qualche riga in calce.

Si alzò in piedi, ignorando il pulsare del naso:

- Bones, non puoi andartene in giro da sola, Sweets …-.

Lei scosse la testa e incrociò le braccia, un sorriso stanco dipinto in volto:

- Booth, non credo che abbia intenzione di farci ancora del male. Leggi la lettera-.

- Non dire sciocchezze, Sweets è uno psicopatico, come puoi essere sicu … -.

- No, Booth-.

Lui tacque.

Temperance lo guardò per qualche istante con una strana espressione.

- Leggi la lettera, Booth - ripetè con dolcezza.

Lo lasciò, lì, in quella stanza, la busta tra le mani e un uragano di pensieri nella testa.

Hodgins lo accompagnò a casa, cercando di non ironizzare troppo sul naso spaccato.

Un volta sul suo divano, Booth fissò a lungo il soffitto, cercando di calmare il tumulto che gli scuoteva la mente.

Lesse la lettera in silenzio, mentre i ricordi - quasi abbacinanti - del rapimento, dei pestaggi, del freddo nella foresta e delle lacrime tentennanti di Bones facevano irruzione, prive freni.

Lesse la lettera una volta, due volte, tre.

Rivide se stesso sdraiato a terra, Bones china su di lui, le gambe allacciate tra loro per ritrovare un po’ di calore, quelle parole smozzicate, le mani gelate di lei, il buio denso della foresta.

Rimase sul divano tutto il pomeriggio, fino a sera, sveglio, lo sguardo che andava dalle parole di Sweets al soffitto del suo soggiorno.

Non aveva nessuna intenzione di chiudere gli occhi.

Quando venne la notte, si addormentò senza volerlo, sfinito, la lettera aperta appoggiata sul petto.

 

Lo specchio la rifletteva tutta intera.

Si contemplò per qualche istante, le mani infilate nelle tasche e i capelli stretti in una coda di cavallo. L’indecisione durò ancora un paio di minuti, poi spense la luce dell’abat-jour, s’infilò il cappotto e usci dall’appartamento.

Lo avrebbe fatto, punto e basta.

Ci sarebbe andata.

Temperance Brennan s’inoltrò nella notte umida di Washington, le parole di Sweets che le ronzavano nella testa e una sola, unica certezza, nel bene e nel male.

La certezza che non avrebbe lasciato Booth da solo, quella notte.

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Capitolo 10
*** Dieci ***


Capitolo Dieci

 

Nel sogno c’era Sweets.

Sweets che rideva, addentava un hot-dog e parlava di psicanalisi applicata al football.

Poi, d’un tratto, estraeva dalla tasca un campanello e lo faceva suonare, picchiettando con un dito.

Una volta. Due.

 

All’improvviso, Seeley Booth aprì gli occhi: il soffitto gli roteò davanti per qualche istante, e la luce che aveva lasciato accesa lo abbagliò, costringendolo a stringere le palpebre. Era sveglio, ora. Completamente. E il campanello, però, suonò una terza volta.

Il campanello della porta.

Si alzò lentamente, gettando una rapida occhiata all’orologio sulla parete della sala: l’una di notte. Non s’infilò la maglietta, ma la mano corse subito alla pistola appoggiata sul tavolo.

Il campanello suonò una quarta volta.

Booth appoggiò una mano alla porta, senza fare rumore, e con la mano libera sollevò la lamina che copriva lo spioncino. Vide l’ultima persona che si aspettava di vedere: Temperance Brennan.

Spalancò l’uscio con un sospiro:

- Hai idea di che ore sono?-.

Lei si strinse le spalle, le mani infilate nella tasca del cappotto: era pallida, sotto la luce tiepida del corridoio. Entrò, appoggiandogli una mano sul petto nudo e spingendolo di lato.

- Circa l’una, credo- replicò, mentre lui chiudeva la porta.

- Appunto-.

- Perché stai impugnando la pistola?-.

- Precauzioni-.

- E contro chi?-.

Booth la fissò per qualche istante, rimise la sicura alla pistola e la appoggiò sul tavolo:

- Secondo te?-.

Temperance scosse la testa, sorridendo e abbassando lo sguardo.

- Cosa voleva dire quella faccia, Bones?- borbottò Seeley.

- Niente-.

Ci fu qualche secondo di silenzio.

Improvvisamente, Booth fu consapevole del proprio torso nudo, dei pantaloni di flanella e dei calzini a righe rosse e blu. La maglietta. Dove diavolo l’aveva lasciata? Si guardò attorno.

- Stavi dormendo?- domandò lei.

- Sì-.

- Mi dispiace averti svegliato-.

Niente maglietta.

Booth tornò a guardare Temperance:

- Cosa sei venuta a fare, Bones? È successo qualcosa?-.

- Posso togliermi il capotto, Booth?-.

Lui la fissò per qualche attimo, confuso:

- Oh, bè, certo-.

- Grazie-.

Temperance rimase in jeans e maglione, un abbigliamento che lo fece sentire ancora più provvisorio e ridicolo. Doveva avere un aspetto orribile, conciato in quel modo, mezzo svestito e con il bendaggio sul naso. La maglietta: sentì, di nuovo, la necessità di trovare qualcosa con cui coprirsi.

- Come va il tuo naso?- mormorò lei, lasciandosi cadere sul divano dove, fino a poco tempo prima, lui aveva dormito un sonno sfinito e a sprazzi pieno di sogni. O erano stati incubi?

Seeley si schiarì la gola:

- Meglio, grazie. Senti, Bones, vado … vado a cercare qualcosa da mettermi, okay?-.

Lei annuì.

Mentre Booth si allontava, Temperance lo seguì con gli occhi, e non potè fare a meno di guardagli la schiena nuda, le spalle tese, la linea salda dei muscoli che saliva fino al collo.

Deglutì, Temperance Brennan.

Deglutì e respirò a fondo.

 

 

Una maglietta scura, un po’ d’acqua fredda sulla faccia e Booth si era sentito decisamente meglio.

Si lasciò cadere accanto a Bones, sul divano. Lei aveva tra le mani un foglio.

Quel foglio.

La lettera di Sweets.

Temperance sollevò gli occhi:

- L’hai letta, Booth?-.

- Certo-.

Lei sospirò. Erano vicini, così vicini che Booth potè vedere che non era truccata e gli occhi verdi, alla luce calda della lampada da tavolo, brillavano come non mai.

Solo allora si ricordò del bacio, se ne ricordò per davvero: non che se ne fosse dimenticato, ma in quel momento ebbe per la prima volta la vivida percezione di stare accanto a una donna di cui aveva conosciuto il sapore delle labbra.

E quella donna era Bones.

La sua Bones.

Si costrinse a smettere di guardarle la bocca.

- Booth, io … io non so esattamente perché sono venuta qui- sussurrò lei, sfiorando con la punta dell’indice la lettera di Sweets. Si raddrizzò all’improvviso e lo fissò negli occhi:

- Io non … non riuscivo a smettere di pensare alle sue parole, a quello che ha scritto-.

 

Vi scrivo perché poggiate pistole e rabbia, e non abbiate più timore della strada.

Non ci rivedremo, benchè la prospettiva di non avere più il piacere di incontrarvi, nelle nostre scoppiettanti sedute, mi dispiace un po’.

Tuttavia ritengo sia arrivato il momento di sparire, e spero mi comprenderete.

 

Le dita della mano destra di Temperance si agitavano, convulse, graffiandosi, e Booth lo fece, lo fece e basta, senza pensarci. Mise la propria mano su quella di lei, e le distese il palmo.

Lei non oppose resistenza:

- Credo che Sweets sia pazzo, Booth-.

- Di questo eravamo già convinti, no?-.

- Già-.

- Bene-.

- Bene-.

 

Le mie azioni sono scaturite dalla più razionale delle riflessioni e dall’istinto più naturale: studiare per capire, evolvere e infine giungere a conclusioni compiute. Il dolore che avete ricevuto è stato solo lo strumento con cui ho indagato: non c’erano doppi fini, o barbari desideri di violenza. Rappresentavate e rappresentate tuttora, per i miei studi, il caso più interessante e complesso, e ormai le nostre sedute non erano più sufficienti.

 

Lui le teneva la mano ferma, il palmo caldo contro il suo: Temperance Brennan conosceva già quella sensazione, la sensazione della mano di Booth sulla propria, conosceva il calore della sua pelle, delle sue labbra, del suo respiro. E mai niente, in tutta la vita, le aveva fatto più paura.

- Hai … hai voglia di parlarne?- disse Seeley, fissandola negli occhi.

- Parlare di cosa?-.

- Di quello a cui non riesci a smettere di pensare-.

- Non sono brava, lo sai-.

- Non bisogna essere bravi, Bones-.

 

Costretti, imprigionati, sofferenti, isolati, impauriti: vi ho osservati mentre eravate in balia di eventi che non potevate controllare né comprendere, vi ho osservati cercando la traccia di ciò che indagavo e supponevo. Nella sofferenza fisica dell’agente Booth si riversava quella psicologica e mentale della dottoressa Brennan: specchio l’uno dell’altra, anche in una cella, anche nel gelo di un bosco. Voi rappresentate l’essenza stessa dei miei studi: il rapportarsi umano che si sviluppa al di là delle volontà razionali, soffocato tuttavia da doveri sociali, convenzioni, equilibri personali, antropologici e autoconservativi.

Il mio lavoro è stato soddisfacente oltre ogni aspettativa: ho dimostrato come situazioni forzate possano rompere le costrizioni imposte dagli schemi razionali e da società come la nostra.

La morte non è arrivata, per voi: oserei anzi dire che forse oggi siete più vivi di ieri.

 

Le sfiorò una guancia, un gesto spontaneo, il desiderio di farle capire che lui era lì, che l’avrebbe ascoltata, e non importava del bacio e nemmeno del pugno, e nemmeno che era l’una passata di notte e, sì, l’aveva svegliato. Temperance socchiuse gli occhi, lasciandolo fare.

Quando li riaprì, lo guardò a lungo, in silenzio.

Booth scese, piano, sul suo collo. L’accarezzò con un gesto lieve.

Lei inclinò leggermente la testa, senza smettere di guardarlo negli occhi:

- Non riesco a togliermi dalle testa le parole di Sweets perché … perché sono così … così …-.

Completarono la frase insieme, con la stessa parola:

- … vere-.

Vere.

Verissime.

Temperance Brennan guardò il viso dell’uomo che le stava di fronte, i capelli scompigliati, il naso bendato, gli occhi lucidi e scuri, la fronte che conosceva tanto bene.

Sentì il collo scottare, dove le dita di Booth passavano.

 

Non penso possiate comprendere il valore reale di queste conclusioni, e l’importanza del vostro contributo. Rifarei tutto, dal principio alla fine.

Questa lettera vi sarà recapitata presso il Jeffersonian, e sarà l’ultimo contatto che avremo.

Per quanto sappia dell’impellente desiderio dell’agente Booth di piantarmi una pallottola in corpo, temo che farò di tutto per non assecondarlo.

A livello fisico vi riprenderete presto, a livello psicologico ognuno di voi avrà tempi diversi.

Posso solo immaginare la sua rabbia repressa, agente Booth.

E il  suo controllato turbamento, dottoressa Brennan.

 

Lentamente, Seeley avvicinò il viso a quello di lei: ora le loro labbra erano a pochi centimetri.

- Non … non mi mi picchiare, Bones - sussurrò, con voce roca, sfiorandole la bocca con la sua.

- Non lo farò - rispose Temperance con un filo di voce, dischiudendo le labbra.

 

Ritengo indubbiamente saldo il vostro legame.

Vi compensate come solo nelle alchimie umane può accadere.

 

Il bacio fu lento, profondo, interminabile.

Temperance infilò le mani sotto la maglietta di Booth, e risalì lungo i fianchi, la schiena, la scapole.

Era Booth.

Il suo Booth.

Non fece resistenza quando lui la fece sdraiare, passandole le dita tra i capelli.

Lo aiutò a sfilarsi la maglietta. Poi fecero lo stesso con il suo maglione.

 

Le prospettive di fine acuiscono gli istinti, e la sincerità diventa il più insopprimibile dei bisogni.

Per quanto lei, dottoressa Brennan, possa giudicare la psicologia una scimmiottatura delle scienze esatte, io l’ho studiato per anni sui libri e l’ho osservato per strade, nel mio studio, sui volti di chi mi passava davanti. Non c’è niente di meno spicciolo di quello che vi ho detto.

L’amore, o qualunque cosa sia, o in qualunque modo lo si chiami, impara l’urgenza.

E non si paga, mai. Perché è libero. Perché è gratis.

 

Ringrazio Thia, Yelle, Lelly87 e Lights per aver seguito la storia e per le puntuali recensioni. Ormai siamo quasi agli sgoccioli …

Tenete duro! ;-)

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


Epilogo

 

Insieme.

Lasciò che le labbra di lui scendessero lungo il suo collo, giù sul petto, fino all’ombelico, per tornare sulla sua bocca, a cominciare un altro bacio, lento e profondo.

Lasciò che lui la chiamasse, la toccasse, la respirasse.

Si strinse a Seeley in ogni movimento, aggrappata alle sue spalle larghe, mentre le mani di lui correvano su ogni centimetro della sua pelle, calde, urgenti, tanto familiari.

E poi ogni gesto divenne gesto e basta: le loro gambe allacciate, le dita dei lei tra i suoi capelli, a sfiorare il naso ferito, lungo le sue palpebre, giù verso il ventre, e la bocca di lui aperta su quella di lei, mentre qualcuno, nella notte di fuori, suonava clacson, camminava sui marciapiedi, chiacchierava, nella stessa Washington, nello stesso identico mondo.

Fecero l’amore con tutta la furia e la dolcezza di cui erano capaci: stretti disperatamente l’uno all’altra su un divano, nella penombra densa della stanza, i vestiti ammucchiati per terra.

Fecero l’amore, Seeley Booth e Temperance Brennan: e quando si addormentarono abbracciati, per quel che restava della notte, lei sapeva che erano ancora Seeley Booth e Temperance Brennan, e che erano nudi, sfiniti, sereni.

 

Svegli.

Lasciò, quando gli occhi sgranati di lei gli sorrisero, che gli prendesse tra le labbra un lobo, e che poi respirasse contro il suo collo, mentre le mani correvano a massaggiargli la nuca, i capelli.

Lasciò che Temperance gli baciasse le spalle, e poi appena a destra del cuore, e poi il ventre teso, e ancora più giù. Si concesse di chiudere gli occhi e non sentire più nulla: voleva sentire lei, solo lei, e loro, adesso che c’era un loro.

La coprì con tutto il corpo, spinse, cercò la sua fronte, il naso, il collo morbido.

Seeley la chiamò una volta, due volte, appena sottovoce, e lei si strinse forte al suo petto.

I movimenti stavolta furono solo lenti e soppesati, e Seeley Booth non pensò a nulla e sorrise contro la guancia di lei, annusando la sua pelle, il profumo dei capelli lavati forse solo poche ore prima. Fu dentro di lei e solo in lei, ancora, e le sfiorò le labbra arrossate e dischiuse con la punta dell’indice.

Fecero l’amore per la seconda volta, mentre la luce di un alba appena iniziata pioveva dai vetri, disegnando ombre tenui sui muri bianchi.

 

Mattina.

Lo guardò tornare nella sala, fresco di doccia, con indosso solo un paio di pantaloni neri.

Pensò, Temperance Brennan, che era davvero bellissimo.

- Mi stai mangiando con gli occhi?-.

Ora la guardava con un sorriso sfrontato, infilandosi la cintura.

Temperance, sdraiata sul divano, si sollevò su un gomito e sostenne il suo sguardo divertito:

- Certo che sì, vanitoso-.

- Questa non è vanità, Bones: è consapevolezza-.

Lei rise.

Booth si avvicinò al divano e la guardò a lungo, in silenzio.

- Cosa c’è?- mormorò lei, fissandolo dal basso, soffocando un’ultima risata.

- Niente. Ti sto solo guardando-.

Le si sedette accanto, passandole una mano su una guancia. Temperance gli baciò il palmo:

- Noi … credo dovremmo andare al lavoro-.

Booth fece un gran sospiro:

- Già-.

- E io devo ancora fare la doccia-.

Temperance si mise seduta, coprendosi con una coperta. Gli diede un bacio veloce:

- È meglio che mi alzi-.

Booth scattò in piedi:

- Doccia, hai detto?-.

- Sì, per …-.

Lui le sorrise e la interruppe, sollevando una mano. Cominciò a sfilarsi la cintura, fissandola con uno sguardo dei suoi: uno di quelli che le facevano scottare guance, fronte, ventre.

- Che fai?- sussurrò Temperance, alzandosi dal divano.

Booth si chinò e la baciò il collo:

- Vengo a fare la doccia con te, è chiaro-.

Lei aprì la bocca per azzardare una flebile protesta, ma le labbra di Booth si spostarono sulle proprie.

E tanto bastò per zittirla definitivamente.

 

 

 

Angela Montenegro tamburellava con le dita sul tavolo da lavoro, pensosa.

Non riusciva, ad ogni modo, a non sorridere.

Accavallò le gambe e si appoggiò allo schienale della sedia, contemplando in pace ciò che vedeva a pochi metri dalla sua postazione, nell’ufficio di fronte.

Stavano in piedi, uno di fronte all’altra, senza toccarsi: Booth aveva le mani infilate nelle tasche e ascoltava, mentre Brennan parlava intensamente, gesticolando a tratti, la testa abbassata.

Non c’era molto spazio, tra i loro corpi: Angela poteva immaginare qualche pugno d’aria, pochi centimetri, e pensò che un’assenza completa di distanza, tra i quei due, sarebbe stata figurativamente perfetta.

Non per niente, Angela Montenegro era un’esteta.

E poi Booth fece quello che Angela si aspettava, nell’armonia di quella scena: mentre il sole scaldava le vetrate, illuminando l’ufficio, Seeley Booth allungò una mano e sfiorò delicatamente il mento di Brennan, costringendola ad alzare la testa.

E fu in quel momento che Angela, a malincuore, decise di tornare al proprio lavoro.

Le era bastato un niente, per capirlo: un conto era osservare un quadro vivente, un conto una coppia d’amanti, che avevano appena scoperto di esserlo.

 

 

- Allora siamo d’accordo, no?-.

Booth l’aveva costretta a sollevare gli occhi, e con le dita le carezzava piano il mento.

Lo fissò:

- Sì-.

Rimasero per qualche istante in silenzio, guardandosi negli occhi.

Seeley sentì il cuore pulsargli contro lo sterno, e lasciò le sue dita si spostassero sulla bocca di lei. Le sfiorò il labbro inferiore, leggermente dischiuso.

Temperance lo lasciò fare, la testa che ronzava e una strana sensazione di calore nel petto: per un attimo, desiderò essere a casa propria, sul letto, a fare l’amore con l’uomo che aveva di fronte.

- Un cassetto dove te ne potrai dimenticare andrà benissimo- mormorò lui, con un sospiro.

- Dovremmo dimenticarcene, dici?-.

- La lettera è pur sempre di uno psicopatico, Bones-.

La guardò con gli occhi pieni di qualcosa che, lì per lì, Temperance non riuscì a definire:

- Saremmo quello che siamo comunque. Con o senza quella lettera-.

Lei annuì:

- Va bene-.

Il pollice di Seeley le dischiuse le labbra con dolcezza:

- Tanto tu non hai mai creduto nella psicologia, no?-.

- No, infatti-.

Ancora quella cosa nello sguardo di Booth: si sentì mozzare il respiro, vi si perse dentro.

Cos’era?

Calore, spazi scuri, voglia di urlare e sussurrare insieme.

A Temperance Brennan non era mai piaciuto avere a che fare con cose che non riusciva a definire. La disorientavano, la spaventavano con quella loro assenza di chiarezza e confini.

E quando Booth si chinò a baciarla lo accolse col cuore in gola, una sensazione di gioia e paura ed eccitazione insieme, senza sapere che sarebbe bastato chiederla a lui, quella definizione, che sarebbe bastato solo domandare, e Booth avrebbe avuto la risposta.

Non sapeva nemmeno che Angela non ce l’aveva fatta a trattenersi, e alla fine era rimasta a ossevarli al di là delle vetrate, mentre si baciavano e le mani di Temperance correvano dietro la nuca di Booth.

Seeley, invece, aveva percepito quella domanda nella pelle di lei, non appena le loro fronti si erano sfiorate: aveva sentito i suoi timori, e avrebbe voluto dirle che erano anche i suoi, ma che in fondo non importava. Perché c’era una definizione, per ciò che Seeley Booth teneva chiuso negli occhi.

Lo conosceva bene, e ora più che mai.

Ci sarebbe stato tutto il tempo, per spiegarlo a Bones.

Per dirle, magari coprendo il corpo di lei con il suo, in mezzo a una notte di quiete e lenzuola e luci spente a ingannare l’arrivo inevitabile del giorno, che si chiamava amore.

Amore e basta.

Libero. Gratis.

 

Fine

 

Grazie a tutti voi che avete avuto la pazienza di leggere fino a qui e, soprattutto, di recensire.

Spero tanto che la storia vi sia piaciuta, così come è piaciuto a me scriverla. ;-)

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