L'inganno, sua eccellenza

di laragazzachescrivestorie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lona, era solo l'inizio ***
Capitolo 2: *** Il senso perduto della libertà di scelta ***
Capitolo 3: *** KIPC? ***



Capitolo 1
*** Lona, era solo l'inizio ***


Lona

Mi avevano trovata.

Sapevo che sarebbe stata una pessima idea tornare in città per parlare con Il Mentore del libro, ma la mia cocciutaggine mi aveva riportata in quell’inferno, quasi senza che me ne accorgessi. Come un piccione viaggiatore che torna sempre a casa.
Non ne potevo più di scappare in quel modo, come se fossi una clandestina. Effettivamente lo ero, ma prima io, ero una cittadina, avevo degli amici. Avevo una famiglia: mamma, papà, fratello. Sono tre nomi che non pronunciavo da un bel po’ e mi mancavano tantissimo.
Mi ricordo che mi facevano tanto male le gambe, sia per la corsa senza sosta nell’erba alta, sia perché quella maledetta, aveva deciso di investirmi proprio quel giorno.
Era da un po’ che succedevano cose strane. Sia a me che in città in generale. All’inizio, gli abitanti di Ganche si limitavano a non rivolgermi la parola e non posso biasimarli per l’odio profondo che devono provare verso di me, dopo tutto quello che ho fatto. Ma dopo alcune settimane, la mia pacifica città, che ancora consideravo come “casa”, cominciò ad inquietarmi.
L’atmosfera era completamente cambiata. Quando camminavo per strada avevo la continua sensazione che qualcuno mi stesse fissando, o peggio, seguendo. Mi sentivo osservata, insomma. Mi seguivano. Ma chi? I poliziotti? No, sapevo bene che quando arrivano si fanno sentire. C’era qualcuno… ma chi maledizione?
Mentre nella mia testa frullavano ragionamenti di ogni sorta, in un vorticoso mare di parole e frasi senza senso, bastarono pochi secondi perché a ogni battito del cuore mi tornasse in mente sempre più forte, il ticchettio della penna del mentore sulla sua nuova scrivania di mogano.
 
Tre  ore  prima
 
“A volte penso che vorrei essere cieco per vedere ciò che della tua voce mi sfugge, vorrei essere muto per dirti solo con le carezze che ti amo e vorrei essere sordo, per poter percepire i tuoi sentimenti guardandoti negli occhi o addirittura solo pensandoti intensamente come faccio tutti i giorni.”
Erano le ultime righe, del primo paragrafo che Il Mentore leggeva e rileggeva ad alta voce, come un mantra, scrutando ogni parola con i suoi minuscoli occhietti blu.
In realtà, non ero molto interessata alla sua attività.
Dato che conoscevo bene il libro di mia madre, la sua voce, era poco più un sottofondo musicale nella mia esplorazione del dell’ufficio appena riarredato.
Stavo vagando nella stanza come un fantasma e, in nessun modo, riuscivo a spiegarmi dove e come avesse trovato i soldi per l’elegante scrivania e le librerie, un tempo di metallo, ora, anch’esse in mogano.
Non solo. La vernice da quattro soldi giallo piscio, era completamente oscurata da una raffinatissima carta da parati che al tatto sembrava il mantello di una mucca, che, per chi non lo sapesse, sono morbidissime.
L’intera struttura degli uffici aveva subito miglioramenti, tutto sembrava nuovo e anche troppo schic, per un ufficio dove si trovavano genitori temporanei agli orfani.
Non ero lì per quel motivo, almeno quella volta, ero solo venuta per parlare con Il Mentore.
Forse l’ultimo amico rimasto.
Tutto d’un tratto, ecco miss. Jakline che con molta “eleganza” si precipitò sbattendo la porta e annunciando come l’arcangelo si annunciò a Maria: “Signore! In riunione aspettano solo lei ormai!”
Non potei trattenerlo dentro di me: “Hei roscietta, qui stiamo lavorando!”
Tutte le volte la stessa storia! Non ne potevo più di essere calpestata dalla prepotenza di una che aveva appena un paio d’anni più di me, solo perché lei era maggiorenne e io no.
“Segretaria, o, miss. Jakline, preferisco” quel suo stupido faccino da volpe! Quella scollatura inadeguata, ad una “che preferisce essere chiamata segretaria” che lavora in quel posto, tutto odiavo di quella donna.
Ad ogni modo, Il mentore voleva bene a lei quasi più di quanto ne volesse a me, e appena sentiva la sua voce, eseguiva qualunque comando lei gli impartisse.
Così, anche quella volta, lasciò cadere la penna, e, in molosso assai goffo, grasso com’era, cercò di scastrarsi velocemente dalla sedia di pelle nuova. Allora accadde che mi venne impartito il primo segnale. Se solo lo avessi notato… ora le cose sarebbero diverse…
Sempre avvolto da un bozzolo di goffaggine, diede una gomitata ad una delle carte che custodiva gelosamente presso di lui, e la lasciò cadere a terra. Recitava così bene, che non avrei mai intuito fosse fatto apposta.
Da quei fogli, infatti, ne sfuggi uno con la sigla: KIPC.
Dove avevo già visto quella sigla?
Sentivo che era importante, molto importante, molto vicino a me.
“Accidenti, che sbadato”
Rapidamente il Mentore raccolse i fogli, e mi risvegliò, insieme al rumore dei tacchi della cosiddetta segretaria, dalla trans momentanea in cui ero caduta.
Non ricordo bene i dettagli di quello che accadde dopo, ero concentrata su quel logo, distratta da tutti i rumori, lontana da quello che mi era vicino.
Mi risvegliai una seconda volta quando fui investita da un’auto guidata da una pazza che andava a tutta birra in un centro abitato.
Mi girava la testa.
La bionda proprietaria dell’auto era al telefono.
Era accanto a me che giacevo a terra, ma non sentivo la sua voce, era come se nelle mie orecchie ci fossero dei batuffoli di cotone.
Intuii troppo tardi che stava parlando con la polizia.
Le sirene. Sono chiassose.
Volevo farle smettere. Ogni volta che le sento, mi ricordo di come ho sprecato la mia vita. Di come stavo disperatamente cercando di rincollare i pezzi. Di come avevo ucciso la mia famiglia, senza volerlo.
No! Non potevo lasciare che mi trovassero, dovevo scappare, andare a est verso i campi e poi sul primo treno alla stazione, come facevo sempre, quando litigavo con i miei per andare a rifuggiarmi nel mio posto speciale.
Il resto, lo conoscete già.
Purtroppo, il mio deja-vù, mi costò caro. Inciampai e mi dovetti fermare.
Mi avevano quasi raggiunta, il treno stava per accendere gli elettromagneti e partire.
Cosa fare, cosa fare?
Nel panico, mi sembrò di avvertire la stessa presenza che credevo osservarmi in città, ma di solito non succedeva mai vicino alla stazione.
Da una parte la polizia, dall’altra il mio sconosciuto inseguitore.
Stavo per mettermi a piangere, ci capivo ancora meno di quando ero stata investita.
Credevo di essere impazzita, ma da qualche perte intorno a me, sentivo una voce che diceva:“vieni con me!” non ci volle molto perché m i convinsi ad afferrare la mano che si protendeva verso di me dall’erba alta.
Mentre mi rialzavo e continuavo a correre un po’ impacciata, realizzai che a quella mano doveva essere collegato un braccio e poi una persona, ma nel momento del bisogno, non mi ero soffermata a riflettere su chi fose quest’ultima.
Pensai che forse, poteva nascondermi dalla polizia: era un requisito più che sufficiente.
Corremmo ancora così, per un centinaio di metri. Giusto il tempo di osservare che quella mano aveva una stretta forte come quella di mio padre, forse anche per questo mi fidavo.
Una volta terminato il campo,  sbucammo alla luce della luna, dove per la prima volta intravidi i suoi capelli folti neri e lucidi,  le sue spalle, e poco più del mio misterioso salvatore.
MI attirò a sé, e, insieme saltammo sul treno merci poco prima che si sollevasse.
Ricordo di essere caduta in un sonno profondo, dopo essermi sforzata, invano, di pronunciare un “grazie”, davanti a questo sconosciuto a cui ero tanto grata. Prima di chiudere gli occhi, intravidi appena il suo profilo, illuminato dalla fioca luce blu della luna. La stessa, sotto la quale sarei altrimenti stata catturata.
 

 
 
 

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Capitolo 2
*** Il senso perduto della libertà di scelta ***


Nanroh
 
“Ma che diavolo…”
Vedevo la polizia rincorrere il niente nell’erba alta.
Insomma, forse era un cane, oppure… No, non poteva essere un cane.
Dopo qualche secondo mi resi conto che davano la caccia ad una ragzza. Non potevo credere ai miei occhi. Era lei.
 
Un’ora prima
 
“scordatelo!”
“Nanroh, ti prego, per una volta nella vita, smettila di fare il bambino viziato e comportati da adulto!”
Odio quando il mio manager mette tre t nelle parole e le fa uscire sputacchiando.
Odio quando la mia truccatrice mi mette quegli stupidi pennelli negli occhi e soprattutto, odio avere tutta questa gente intorno nel MIO camerino.
Gettai a terra tutto quello che si trovava su tavolo e uscii.
Questi erano i miei pensieri di quella mattina. Avevo ancora addosso tutto lo stress dell’uscita del mio nuovo album.
Mia madre diceva che partecipare a questo programma avrebbe aumentato la mia popolarità in modo esponenziale, e avremmo venduto di più. Non che io sapessi cosa significasse esponenziale, ecco. Solo, mi scocciava dover partecipare ad un altro reality show come quelli dell’anno scorso.
L’obbiettivo è recitare, per convincere quelli dall’altra parte dello schermo che mi sto divertendo.
Certo, questo è un po’… particolare.
Sinceramente non sapevo cosa Aspettarmi.
Forse è per questo che ero così spaventato all’idea di partecipare.
La mia vita era sempre stata coma una partita di carte truccata: sapevo sempre che mossa fare e potevo sbirciare a mio piacimento, le carte del mio avversario.
Sono sempre stato ubbidiente, fo sempre fatto quello che mi veniva ordinato.
Ho lasciato che manipolassero la mia immagine e il mio talento come se fossi un burattino in questa partita che è lo show bisness.
Avevo percorso una serie di lunghi corridoi, qualche cameraman di passaggio aveva tentato di fermarmi, ma non gli avevo dato retta. Ero quasi alla porta dell’uscita di emergenza,mancavano pochi metri.
“Nanroh!”
Era mia madre dannazione. “Che ci fai qui, non ho bisogno di te!”
“Invece io necessito che torni immediatamente in camerino”.
I suoi capelli biondi e fintocci ricadevano in una treccia spettinata sulla sua spalla sinistra. A volte mi chiedevo se fosse mia madre, dato che non ci assomigliamo per  niente.
“Vattene!”
“Devi smetterla di comportarti come…”
“Come un bambino!?” Adesso ero davvero arrabbiato. “secondate è una cosa da bambini voler prendere in mano la propria vita?”
“si nel tuo caso, Nanroh, tu non sei una persona qualunque”
Il dialogo si interruppe .
 
Quel giorno avevo visto una foto della ragzza che ora era inseguita.
Dove l’avevo vista? Credevo nel mio camerino, ma non poteva essere lei! Non poteva essere la ragazza con cui avrei girato il reality!
Istintivamente, feci le scale per scendere dal tetto della stazione, uscii ed iniziai a correre verso di lei… circa. Era tutto buio, ormai era sorta la luna e non sapevo bene in  che direzione andare.
Decisi che se dovevo trovarla, lo avrebbe scelto il caso per una volta, e non mia madre o il mio manager.
La sentivo lamentarsi per il dolore a pochi metri da me.
 Lei alzò la testa di scatto quando sporsi una mano tra l’erba e le dissi di venire con me. Sempre ammesso che fosse una lei. Poteva essere anche un uomo con dei capelli lunghi e un kilt.
Mentre correvo stringeva sempre più forte la mia mano. Non era un uomo, aveva delle mani troppo belle, per esserlo.
Improvvisamente, quando sbucammo alla luce della luna, fu come se il tempo si fermasse. Il mio cuore si arrestò quando mi misi a pensare, che l’ultima volta che avevo corso mano nella mano con qualcuno era stato all’asilo.
Il treno stava per partire, dovevamo muoverci.
Saltai su, e la tirai con forza, ma ne sarebbe bastata di meno, dal momento che era piuttosto leggera. Ci accasciamo nel vagone semivuoto del treno merci accanto ad una finestrella. Non riuscivo a vederla bene, ma sapevo che era ridotta uno schifo, vedevo il dangue e le cicatrici. Distinguevo anche un principio di bernoccolo.
La prima cosa che avrei fatto, sarebbe stata portarla in ospedale.

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Capitolo 3
*** KIPC? ***


Lona
 
Mi risvegliai nel letto di mia zia, la stessa zia che era l’unica parente oltre al nonno ad essere in vita e la stessa alla quale sarei stata presto strappata dalla polizia perché faceva frequentemente uso di sostanze allucinanti.
Come diavolo ero finita lì?
 I miei vestiti erano molto ordinatamente riposti sulla seduta della poltrona verdognola della camera, il che creava un contrasto con il resto.
Oltre a quella poltrona, ad arredare la minuscola stanza c’erano solo un vecchio comò mezzo mangiato dai tarli, con una zampa rosicchiata dai topi (una volta, coinquilini di mia zia).
Sembrava che dovesse cadere da un momento all’altro. Sopra c’era persino un  sasso disposto come se fosse un contrappeso. Questa regola dei sassi-contrappeso valeva per un po’ tutta la casa, a meno che non consideriate i sassi come elementi decorativi al pari di vasi di fiori. Almeno la casa sarebbe stata profumata.
Non lo era.
Mi precipitai fuori dopo essermi rivestita, in cerca della zia.
Stava rientrando sul vialetto (o meglio, dove un tempo non c’era il muschio) sorridendo come una che aveva fatto il pieno.
“Zia?” lei mi guardò, mi fissò e disse: “Questa stupida era moderna…faffyu… lo appiai!”
La guardai con il massimo della perplessità, andandole in contro e cercando di farla arrivare almeno fina alla soglia di casa.
Da lì anche in completo stato di ebrezza avrebbe saputo che fare: raggiungere il letto.
“Potresti ripetere quello che hai detto prima, zia?”
 Ero molto incuriosita da quel farfugliare, volevo sapere cosa aveva da dire.
Speravo che da vicino avrei capito meglio.
“In questa stupida era moderna…” si interruppe per  prendere fiato. ”quelli della KIPC credono che possono fare quello che vogliono della mia bambina!” Il resto fu di nuovo un farfuglio confuso, ma avevo sentito dire KIPC, quindi mi ebbi un brutto presentimento.
 
 

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