Un fiore per coltello.

di tabula rasa elettrificata
(/viewuser.php?uid=463792)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One. ***
Capitolo 2: *** Two. ***



Capitolo 1
*** One. ***




Quattro ciocche biondastre e sformate sopra la testa.

Due occhi dal colore ignoto nascosti sotto le palpebre perennemente abbassate.

Il labbro inferiore talmente sottile che sembra scomparire sotto la carne e miriadi di lentiggini irregolari stesi sugli zigomi e sulla punta del naso aquilino.

Un viso né bello né brutto.

Di quelli che scompaiono dietro i banchi di scuola addossati all'angolo dell'aula.

Di quelli che si nascondono dietro le folate di fumo delle sigarette.

 

Se Clod non avesse scoperto il suo cognome dalla targhetta della sua cartella probabilmente si sarebbe già scordato della sua esistenza. Se lei fosse una Charlotte chiunque probabilmente l'avrebbe sorpassata e tutto sarebbe finito lì. Si sarebbe dimenticato delle sue gambe magre e pallide e della sua camminata sgraziata. Forse non si ritroverebbe a camminare dietro di lei con la schiena curva, tentennando in punta di piedi e trattenendo il respiro. E con le orecchie paonazze per la vergogna.

Se lei non fosse Charlotte Di Gregori la sua memoria avrebbe cancellato l'immagine dei suoi capelli biondo cenere malamente raccolti in un battibaleno.

 

Fin da quando ero piccola l’odore del sangue non mi era mai piaciuto.
Il puzzo rancido e salato inglobato in quel liquido tetro e denso mi aveva sempre fatto accapponare la pelle. Sia che fossero ferite gravi o leggere il solo vedere il minimo rivolo di sangue mi aveva sempre fatto scoppiare in lacrime, nonostante non provassi più di tanto dolore.

Era il suo continuo flusso a farmi inorridire e quel buio e spesso rosso.

 

Un lavandino esangue e le maniche rimboccate di un maglioncino blu.

Il soffocante odore di disinfettante che alleggia nell’aria.

Piccole tracce circolari a segnare il passaggio della lama tagliente; linee sconnesse l’una all’altra scavate nella tenera e pallida carne, il polso che sanguina ininterrottamente.

Premo con delicatezza la prima volta, con leggera eccitazione la seconda, con folle ardore la terza, il bruciante dolore intrappolato in una lametta da barba.


 

Charlotte Di Gregori è la secondogenita del celeberrimo imprenditore Fabiano Di Gregori, sposato con la signora Althea De Leo, in arte Altheà, famosa stilista di haute couture.

Agata Di Gregori, più grande di pochi mesi, è una di quelle bellezze difficili da descrivere. Porta occhi color ciliegie e labbra polpose celate dal biancore della pelle. Il suo viso è macchiato dalle stesse lentiggini di Charlotte, che si stendono placidamente sulla tenera carne in modo tenue e poco pronunciato. Il nasino alla francese si ripiega leggermente su se stesso ad ogni risata ed i lisci e lunghi capelli biondi le scivolano delicatamente sugli gli occhi.

Una bellezza vergognosa, sfolgorata dallo sguardo fintamente malinconico mascherato dalle lunghe ciglia castane.

Una bellezza che commuove e che non fa rumore. Ed è questo che succede con Agata: non appena si prendono carta e penna per elencarne le fascinosità si rimane spiazzati e con le lacrime agli occhi. E con un un soffocante nodo alla gola.

 

Charlotte compare nelle foto di famiglia assieme alla sorella Agata nelle riviste di gossip.

Quando erano più piccole si sedevano sempre l'una accanto all'altra tenendosi per mano ridacchiando stupidamente ai complimenti dei fotografi. Charlotte si atteggiava sempre più di Agata che era invece più quieta ed introversa. Charlotte rideva tenendosi le mani paffute sulla pancia e sbattendo i piedi a terra. Quando sorrideva i denti le allargavano talmente la bocca che sembrava quasi le estremità di essa volessero abbracciare gli zigomi, che si restringevano e si schiacciavano oppressi dallo sforzo dei muscoli facciali, spiccando fuori di modo grossolano. Gli occhi le si restringevano formando delle grinze fastidiose sulla fronte ed uno strato di carne molle in eccesso sotto il mento.
Uno spettacolo
indicibilmente pacchiano.

 

Basta fare due ritocchi qua e là.. Non avete quella cosa che si chiama.. Photoshop?”

Potrei modificarla quanto vuole, signora Althea, potrei anche farle spuntare magicamente delle ali dorate e tingerli i capelli color arcobaleno.. ma si noterebbe troppo!”

Senta, io la pago anche per questo!”

Signora Althea.. Sua figlia.. Charlotte non è come lei. Alla signora basta la luce giusta o al massimo due ritocchini al viso. Ed Agata.. nulla da dire è.. perfetta..Lei è perfetta.

Charlotte.. però..”

 

 

Charlotte si ritrova incastrata nei però altrui da circa una vita.

Il però della madre che la incita a mangiar di meno.

Il però del padre, perché Charlotte potrebbe perdere ancora di più.

Il però della sorella, che si scusa di non farla uscire con il suo giro di amici.

Il però del fotografo di famiglia che le dice “sei molto carina Charlotte, però un ritocchino non guasta mai” ad ogni ricorrenza familiare.

I però di tutte le sue cotte fulminee che però non possono ricambiarla o, peggio ancora, preferiscono un altro tipo di stampo Di Gregori.

Preferiscono l'altra.

Charlotte legge negli occhi degli altri un fastidioso senso di pudore ed imbarazzo ogniqualvolta il suo nome e quello della sorella vengono messi nella stessa frase. Un'esasperata esitazione ed un'insicurezza repentina nell'interlocutore che vorrebbe quasi scusarsi di aver commesso un affronto tale, di aver messo sullo stesso piano fisico, estetico, morale, di funzionalitàesistenziale le due sorelle, anche solo per un istante.

 

Clod osservava l'esile corpo di Charlotte e le scapole appuntite che si muovevano avanti e indietro, fuoriuscendo dalla camicetta di feltro grigia. Mostrava una magrezza innaturale, sfatta, quasi malata. Persino i capelli biondi sembravano affetti dallo stesso scarno morbo. Le sue gambe scheletriche si muovevano con passo lento e strascicato, non come quelle di Agata, che si trasportavano con fare seducente e pudico assieme.

Agata. Agata. Agata. Agata.

Se non fosse stato per quel Di Gregori sulla targhetta della cartella, per quell'unico particolare, quell'unico seccante, irrevocabile, quasi oltreggioso dettaglio, Clod non si ritroverebbe appiattito contro la muretta di una villetta residenziale sconosciuta. Non scavalcherebbe i cespugli con fare furtivo. E le punte delle sue orecchie non pulserebbero di rosso ad ogni occhiataccia scettica dei passanti.

Le mani gli si agitavano nervosamente nelle tasche del giubbotto, si strappava le morbide pellicine con le unghie, scarneficando i pollici. E l'improvvisa corrente aria  gli pizzicava le dita già stremate per l'estenuante performance con la chitarra del giorno prima e gli metteva un po' di malinconia in corpo.

Ma finché fosse stato per Agata..

Per Agata. Agata. Agata.

Oh, Agata.

I capelli biondi di Charlotte gli ricordavano quelli fluenti e corposi di Agata ed un fiotto di calore gli pervase il petto. Clod non avrebbe di certo detto che si somigliavano, Charlotte era un viso comune.

Mentre Agata, beh.. Agata.

Agata è bella quando respira.

 

 

 

La mia prepotente indole da riottosa intrappolata in un corpo smorto e ricoperto di cicatrici.

Era un soleggiato giorno d’estate dei miei undici anni, il giorno in cui decisi di crescere. Il giorno in cui gettai dietro alle mie spalle il sorriso che mi si era cucito addosso in quelle patetiche sessioni fotografiche. Il giorno in cui mi vestii di silenzio ed accondiscendenza.

Il giorno in cui quel flusso continuo di liquido rosso divenne il mio fedele compagno di vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Two. ***




Vincenzo dice: Fino a qui tutto bene.

 

Vincenzo si sveglia ogni mattina scacciando via con le mani la voglia di mettersi a studiare per la maturità e poggia le natiche opulente di fronte al computer. Con le creche ancora nei contorni delle palpebre, affonda gli occhi nello schermo illuminato affogando nel caos cibernetico.

Aggiorna il suo profilo inserendo un immagine di una ragazza in posa provocante, con folti capelli rossi, occhi verdi ed il volto tempestato di lentiggini.

 

Vincenzo ha i capelli lunghi e scuri rovinati dalle poche passate di pettine e tediosi e minuscoli occhi azzurro cielo. Digita freneticamente con le dita ringraziamenti ad ogni complimento sotto le foto di quell'album che porta il suo nome al femminile ma non il suo volto.

Vincenzo raccoglie i libri di filosofia da terra in preda ai sensi di colpa, scrivendo in una pagina bianca di Word quattro stronzate su Hegel per due ore buone, non capendoci molto ma fingendo il contrario. Con le secrezioni lacrimali ancora addossate sulle ciglia, sfoglia poi l'antologia di italiano scambiando parole affettuose in chat con cinque ragazzi diversi. Sulla home compare una citazione di Bertolt Brecht seguita dal nome della sua cotta secolare.

 

Vincenzo si sente in preda ad una piressia improvvisa ogni volta che si imbatte in quella S.

 

Il papà di Vincenzo torna a casa ma lui non gli parla, la sua voce discute da sola. Gli urla contro l'orecchio e le sue labbra secche si schiaffeggiano l'una contro l'altra ed il puzzo rancido d'alcool gli ferisce le narici.

 

Fino a qui tutto bene, dice.

 

Vincenzo mangia per fame, mangia per non fame ed a volte ci scappa il dito in gola, ma poco, solo una volta o due circa. Si lega i capelli color pece a mò di chignon e con i Gorilla Biscuits ad alto volume elimina le parti di sé che meno lo aggradano. Si guarda svuotarsi poco a poco nel riflesso dell'acqua del water.

 

Vincenzo cena da solo chiuso in camera mentre i suoi genitori stanno ognuno nei poli opposti di casa, ma dice: Fino a qui tutto bene e sorride allo specchio lavandosi i denti.

 

Vincenzo esce fuori con gli amici. Con gli “amici”.

Con gli amici?

E li guarda e lo stancano e si allontana e gli mancano. E li guarda e lo innervosiscono ed indietreggia di due passi e si sente inutile.

E vede la figura della sua cotta secolare girovagare in bicicletta con la chitarra in spalla sentendosi marcire dentro.

Alle orecchie gli ronzano i soliti discorsi vuoti: ragazze fottibili, ragazze fottute, ragazze da fottere già in lista. Pasticche provate, le anfe più buone, quelle da scartare, quelle accettabili.

E le solite musichette grindcore da quattro soldi a fare da sottofondo.

 

Vincé, fammeno er depresso!”

Almeno ste facce da cane bastonato usale per abbordare una ragazza che dopo l'incidente con Ivana non c'hai più preso nessuna figa!”

Sssh.. ma ti sembrano cose da dire?”

E che cazzo, saran passati mesi, cazzo vuoi gliene inculi a Vincenzo, eh? Vero, Vincé?”

 

Finché ci sono gli amici.

Tutto bene.

 

E torna a casa e sua mamma e suo papà non si parlano. Un silenzio tombale impregna ogni crepa scoperta dell'appartamento.

Vincenzo si chiude in bagno e guardandosi allo specchio piange disperatamente, nascondendosi il viso con l'asciugamano per non vedere riflessa la parte più squallida di sé. Vincenzo porta ancora le cuffiette alle orecchie e dà un'occhiata indecisa verso la finestra semi-aperta del bagno. E si mette in piedi sopra al water e guarda giù ma i balconi fanno squick squeck e si sente che la finestra è aperta e la porta non è chiusa a chiave.

Vincenzo potrebbe far rumore... I suoi potrebbero sentirlo.. Ed i vicini potrebbero vederlo..

Vincenzo chiude gli occhi con l'insicurezza in corpo rivolgendo a se stesso le solite scuse.

Le solite inutili scuse.

Però in riproduzione casuale parte quella canzone a salvare Vincenzo.

 

I heard you crying loud,
all the way across town


 

Le solite giustificazioni, le solite inutili giustificazioni.

 

 

Ci sarà un giorno però in cui Vincenzo si sveglierà la mattina e non si siederà per finire quell'interminabile tesina. Mangerà come un morto di fame e vomiterà l'anima e si sentirà in colpa, suo papà lo rimprovererà, parlerà di lui, di loro, della sua generazione del cazzo.
Mangerà di nuovo e vomiterà l'anima. Ci scapperà il dito due volte al giorno o poco più. Non uscirà ed i sui amici gli dedicheranno le peggio cose. Li sentirà urlare dalla finestra Vincenzo er fesso, come facevano sempre alle elementari, quando lui preferiva starsene seduto a guardare i giochi tranquilli e pacifici delle bambine che gettarsi nella ressa di bambini scalmanati. Non gli dirà che sta male, oppure lo vedranno o non lo vorranno vedere. S'incazzeranno comunque incolpandolo dicendo che è un depresso der cazzo e che è per colpa di Ivana se si ritrova a girovagare per i corridoi scolastici come un fantoccio usato.

I ragazzi su facebook a cui cercherà di spiegare il suo malessere cacceranno una di quelle loro riflessioni di vita palesemente scopiazzate da paginette di basso livello su Facebook con lo solo scopo di colpirlo. O meglio, colpire “Vincenza”, la ragazza dai capelli ramati ed occhi verdi.

Diranno, con fare aulico e riflessivo: "Nella vita le cose che riteniamo importanti ora e che ci creano problemi poi col tempo passano e svaniscono."

 

Fra un po' le cose che ritengo importanti ora e che mi creano problemi svaniranno, i miei “amici” e la mia famiglia svaniranno.

Fra un po' scomparirò.

 

Vincenzo dice: Vale la pena di aspettare?

 

I genitori di Vincenzo litigheranno urlando al telefono. Sua mamma passerà la serata fuori casa mentre il papà s'incazzerà perchè Vincenzo non esercita il suo francese ammuffito in vista degli esami, per fare bella figura di fronte alla commissione.

Gli mollerà un ceffone, uno dei suoi, diretto sulla guancia lasciandolo solo seduto sul pavimento della camera, sbattendo la porta d'ingresso.

Vincenzo cercherà per la stanza il telefono alla ricerca di canzoni di conforto e lo troverà scarico e spento. Le lacrime lo travolgeranno come un fiume in piena mentre papà e mamma se ne staranno incazzati e fuori casa.

I suoi amici saranno incazzati uguali e parleranno male di lui chiamandolo Vincenzo er fesso frocietto der cazzo.

 

Vincenzo chiuderà la porta del bagno a chiave, piangerà fino a che gli occhi non gli diventeranno delle biglie umidicce sanguinose. Piangerà e piangerà anche la sua anima.. e non avrà la musica alle orecchie, non saranno quelle parole a salvarlo.

Quelle parole saggiate da lontano al “3 Notes”, quel club di periferia, dove lo aveva visto per la prima volta accordare la sua chiarrina acustica malandata e strimpellare quelle parole che lo avevano salvato miriadi di volte.

Piangerà ancor di più al pensiero di quella S sinuosa e suadente del suo nome, che gli fa perdere il totale controllo delle funzioni vitali.

Sarà tutto così stupido ed inutile e poggerà entrambi i piedi sopra il water e guarderà fuori dalla finestra aperta.

Il squick squeck dei balconi taglierà il silenzio, ma poco importerà perché sarà solo.

Solo.

Metterà i due piedi sopra il terrazzo di pietra fredda e dirà Adieu, in francese come suo papà ha sempre voluto.

 

E non ci saranno scuse né inutili giustificazioni.

E salterà.

 

Ed andrà tutto bene, allora?

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1999570