The Dictator.

di idkjdbsoul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. - 7 Aprile 2021. ***
Capitolo 2: *** Prison. ***
Capitolo 3: *** Secrets. ***
Capitolo 4: *** Revelations. ***



Capitolo 1
*** Prologue. - 7 Aprile 2021. ***


prologue.

Prendo il quaderno, cerco di scrivere qualcosa, giusto per ricordarmi chi sono, da dove vengo.


7 Aprile 2021
non so che ore siano.

Caro Diario,
mi chiamo Ella Evelyn Wayne e non so dove mi trovo.
Ieri degl'uomini mi hanno rapita, e oggi mi hanno dato un pezzo di pane, insieme ad un quaderno e una matita.
Mi hanno rinchiuso dentro questa cella fredda e grigia, e una piccola finestrella, a cui non arrivo, dall'alto illumina tutta la stanza con una luce fioca e biancastra.
Ho quattordici anni e ho paura di morire, davvero divertente.
Non so se sono ancora a Seattle, oppure se sono stata trasferita da qualche altra parte.
Non so neanche se sono ancora a Rauhl City.
Ma una cosa è certa: è stato il Dittatore a rapirmi; quell'uomo meschino e viscido mi ha rapita.

Chi è il Dittatore? in realtà non lo so. Nessuno lo ha mai visto in faccia, nessuno sà chi è.
Comanda Rauhl City, la più vasta città del pianeta terra. Ormai copre quasi tutti gli stati uniti d'america, anzi, gli ex stati uniti d'america.
Devi sapere, Diario, che è tutto successo tanto tempo fa.


Quando ero molto piccola, verso il 2013, tutto il mondo pativa fame e sofferenze: c'era la crisi economica mondiale.
Un giorno, verso la fine di ottobre, il popolo si oppose, e tutti i politici, gli uomini ricchi, i finanzieri, i bancari, i miliardari e gli uomini di potere vennero uccisi.
La rivolta durò due anni, e nel 2015 tutte le donne, i bambini, gli uomini, i vecchi e gli anziani potenti e ricchi vennero sterminati senza pietà: il popolo aveva avuto la giustizia che tanto desiderava.
Non si sà come, ma un giovane ragazzo, insieme alla sua fidanzata, fuggirono e non vennero uccisi. questo ragazzo era il figlio del presidente.
Nel 2017, dopo un anno di silenzi, questo ragazzo venne fuori come 'nuovo protettore della città', ma non si sapeva chi era, si sapeva solo che era l'unico in grado di governare, perchè aveva studiato legge e politica, sapeva come far quadrare i conti tra gli altri paesi, era buono e al popolo piaceva. Nessuno aveva mai sospettato fosse il figlio del presidente, nessuno ci aveva mai fatto caso.
Quando si scoprì, dopo due anni di bontà, che la sua amata fidanzata morì per un assalto al presidente, egli si chiuse in se stesso.
Divenne cattivo, meschino, tiranno. Creò una dittatura sotto il suo potere, e nessuno osava disobbidirgli. Era il 2019.
Durante il 2020 e fino ad oggi si vociferava di una prossima e nuova rivolta contro il Dittatore, ma lui mise a tacere quelle voci nel peggiore dei modi: rubando bambini e adolescenti.
Rubava le creature più giovani e forti che il popolo disponeva, per non far avvenire la rivolta. O così si pensava.
Queste sono solo voci, non si sà in realtà il vero motivo per cui queste persone, io, veniamo rapiti.
Si sa solo che muoiono tutti. Nessuno sopravvive, e una volta rapiti, non c'è speranza per te. Questo so; so che morirò.
Caro Diario, per quante ne abbia passate, ho paura. Ho paura della morte.
Spero soltanto che qualcuno, un giorno, quando tutto sarà finito, abbia la gustizia che merita.
Spero che qualcuno trovi questo diario, che legga cosa ho provato, e faccia in modo che a nessuno ricapiti più una cosa del genere.
Ho tanta paura. Ho fame e sete.
Non so cosa mi capiterà.
L'unica cosa che mi resta è la fede in Dio.
A domani, Diario.
Ti voglio bene.
Ella. x

Poggio il diario nell'angolo più buio della stanza.
Percorro gattonando il pavimento freddo, fino a portarmi nel punto in cui un debole raggio di sole si riflette sulla parete, e mi ci appoggio, sentendo il debole fuoco del sole sulla mia pelle.
Mi addormento cullata dalle grigie pareti di quella stanza e quel debole raggio di sole che mi illumina il viso.









buongiorno ragazze c:
no, non siamo nuove, siamo molto moooolto vecchie su questo sito OuO
siamo? già, siamo in due. lol
io sono vojceofanangel qui su efp, e mi firmerò -k.
la mia 'compagna d'avventure' invece è athazagorafobja su efp, e si firmerà -ale.
bhe, che dire, spero che il prologo vi abbia incuriosite haha OuO
e detto questo, vi salutiamo.
ADIOOOOOOOSSSS BEAUTIFUL. lalalala
-k. & -ale.

 

 
 

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Capitolo 2
*** Prison. ***




capitolo uno.



Prison.



Buio.
Allungo la mano nella parte fredda del letto. Vuota, come al solito.
E’ tutto completamente buio, la mia ricerca di calore umano non è andata a buon fine e non riesco a distinguere nulla. Stringo gli occhi a fessura cercando di mettere a fuoco, ma non ci riesco.
Il Dittatore ha mandato via la luce, di nuovo. Mia madre si sarà scordata di aprire la finestra per colpa dei doppi turni, permanenti, che fa all’ospedale. Il Dittatore ha alzato il costo della vita talmente in alto che mio padre è costretto a dormire nella miniera dove lavora e a tornare a casa solamente una sera a settimana.
I turni di mia madre sembrano non finire più, ogni sera è sempre più stanca di questo lavoro e mi tocca toglierle la sigaretta, con cui si addormenta ogni sera, della bocca.
Odio vederli soffrire così, i miei quattordici anni non portano da nessuna parte purtroppo, ed io devo continuare a vedere mia madre spenta tutti i giorni.
Le uniche volte in cui riesco a vederla finalmente felice sono le sere in cui torna mio padre. Torna con un iris blu in mano, per la mamma.
Le si illuminano gli occhi e sorride a William, suo marito. Il suo vecchio marito con le rughe sulle fronte, il carbone sotto le unghie e i denti giallognoli. Non ho mai visto un amore così forte. Probabilmente è questo che tiene unita la mia piccola famiglia composta da noi tre, in un piccolo appartamento ai margini di Rauhl City.
Appoggio i piedi sul pavimento. sembra così freddo rispetto a quello di casa mia. Percorro i pochi passi che mi dividono alla finestra e sbadigliando cerco di aprirla.
Non trovo la maniglia, sarà la sbadataggine oppure il sonno, però non riesco ad aprirla.
Inizio a sentire l’ansia montarmi addosso e mi impongo di mantenere la calma. Faccio scivolare le mani lungo tutta la parete in su e in giù ma non trovo nulla. Il Dittatore ha fatto murare la mia finestra durante il sonno? Non capisco come faccia a non trovarla.
Il familiare groppo dentro il petto cresce e mi occupa tutto il cuore.

«Mamma!»

Grido.

«Ti prego!»

Urlo.
Tutto mi torna istintivamente alla mente.
Tutto ciò che poco prima avevo rimosso.
Porto le ginocchia al petto ed espiro tutta l’aria che ho nei polmoni.
Chiudo gli occhi con forza e trattengo il respiro.

Ieri era la sera del ritorno di mio padre, avevo un sorriso che minacciava di uscire dalla faccia.
Gli occhi di mia madre.
Le unghie sporche che mamma si ostinava a volergli pulire.
Le risate, l’amore.

Devo pensare ad ogni possibile cosa che mi fa felice, ogni cosa che mi da quella tranquillità che mi serve. Eppure non ci riesco, il Dittatore mi ha rapita e mi ha rinchiusa.
Sto per morire. Sto per morire. Sto per morire.

Lo stridio delle gomme sull’asfalto e gli uomini che mi portavano via, ricordo tutto.
Il mio nome urlato per l’ultima volta da mia madre prima che la rinchiudessero in casa. Straziante, agonizzante ed in preda ad una della sue più grandi paure: perdermi.
E’ successo tutto ieri, era una giornata fiacca ed io stavo uscendo da scuola. Ero nel vialetto del palazzo quando mi hanno presa e sequestrata. Non scorderò mai la faccia mia madre quando mi vide per l’ultima volta, quando vide mentre mi portavano via.


“Fai la brava tesoro.”

L’ultima cosa che mi disse quella mattina prima di andare a scuola.

I miei genitori dovranno andare avanti senza me.
Si alzeranno la mattina presto, si baceranno dolcemente sulle labbra e si fionderanno sul lavoro per placare la mia assenza. Papà porterà a casa soldi come non ne aveva mai portati, arriverà a guardare le sue unghie sanguinare per riuscire a portarmi indietro.
Mamma inizierà ad amare in modo passionevole ed infinito i suoi pazienti, come figli suoi. Solamente per placare l’assenza di una figlia così tanto amata, ma perduta.

Sono stata preparata per metà della mia vita alla morte certa. Il Dittatore certi mesi alzava così tanto il costo della vita che ci toccava patire la fame, ci toccava dimagrire e contarci le costole ogni mattina. Ho imparato a rendere il mio viso impassibile ad ogni emozione. Fare pena alla gente era la mia preoccupazione più grande, non ho mai permesso a nessuno di pensare che fossi in difficoltà. Ho imparato ad essere forte per mamma e per papà, per tutti quelli che mi circondavano. Ma nessuno è stato mai forte per me.
Ora è tutto ricominciato da zero, ora ho paura.

C’è solo un letto, più che letto è un materasso al centro della stanza. Io sono rannicchiata qua accanto con la testa tra le ginocchia aspettando il momento in cui dovrò riuscire a farmi valere.

Probabilmente mi stanno monitorando ed io non posso far capire quanta paura realmente ho. le mie emozioni sono chiuse nella mia mente. Rinchiuse in un piccolo angolo.
Mantenendo la calma regolarizzo il respiro.
Il letto inizia ad abbassarsi fino a chiudersi dentro la terra, ora è una scatola bianca in tutto e per tutto. La testa mi gira, non mi riconosco e non capisco niente.
Il sangue mi scorre nelle vene e pulsa nelle tempie ad un ritmo disarmante.
Sento un rumore provenire dall’alto seguito da un getto improvviso, in poco tempo la stanza si riempie d’acqua. Sembrano essere le misure antincendio, ma non vedo nessuna fiamma, neanche fumo. Ne spuntano altri da tutte le parti sul soffitto.
Il livello dell’acqua sale sempre di più arrivando alle mie caviglie, sono bagnata fradicia, sto urlando.

«Papà!»

Dov’è in questo momento, perché non è qui con me?
Il livello sale ancora, l’acqua mi arriva ai polpacci. Non posso scappare, non mi posso nascondere.
Al centro del pavimento si apre un pannello e vedo che l’acqua si congiunge ed entra tutta là dentro.
Grido ancora e mi getto su quel pannello poco dopo che rientri nel pavimento. Non ho via di fuga, non ho niente ormai. L’acqua si mischia con le grida. Cosa ho da perdere ormai?
I miei pugni sul muro si fanno sempre più forti, sempre più accesi; non mi è rimasto niente, non ho più niente se non la mia forza.
Vedo il sangue scorrere sui palmi e i miei occhi si accendono di una luce sconosciuta, continuo imperterrita a gridare e a dare pugni; il pavimento si macchia di rosso e riesco a vedere tutto il male che mi sto facendo per colpa di loro, per colpa del Dittatore e le forze imperiali che non vogliono altro che usarmi.
Ma io non glielo permetterò.

Dovrei esserci abituata per tutte le volte che ci hanno minacciato di sfratto, per tutte le volte che ci costringevano a cacciarli via con le grida, per le volte che sono stata costretta a sentire mia madre piangere nel sonno.

Non avrò mai dei bambini. Non proverò mai l’emozione di un bacio, un vero bacio.
Non riuscirò mai a trovare l’amore, quello vero. Sono seduta ad osservare del sangue colare, sono seduta aspettando la mia morte perché non posso fare altrimenti.


L’ho sempre immaginata come una cosa senza confini, la morte.
Una cosa liberatoria che ti toglie il peso della vita, che ti libera di ciò che ti lega alla terra e che ti lascia finalmente volare via libera.
Non l'ho mai desiderata così tanto come ora.

Le porte si aprono in un colpo producendo un botto sordo.
Una ventina di uomini in tenuta nera entrano e mi circondano impedendomi di vedere intorno a me. I vestiti mi si stanno asciugando addosso, non so neanche quanto tempo sia passato, quanto tempo ho passato vedendo le mie mani sanguinare compulsivamente. E’ tutto finito, non ho più via di fuga.
Una pozza di sangue si allaga sotto di me, sento le mie gambe intorpidite e non riesco a pensare lucidamente. E’ come se non fossi più cosciente, non riesco a reagire e a capire ciò che mi sta succedendo. Non posso impormi come vorrei. Non ci riesco.

«Ha perso troppo sangue.»
«Il lavaggio non è andato a buon fine.»
«Ha tentato il suicidio.»


Ho perso troppo sangue, sto perdendo i sensi. Morirò come voglio io e non come vogliono loro.
Mi stanno trattando esattamente come un’animale in gabbia, devo stare per forza ai loro giochi per riuscire a cavarmela. Quante persone sono passate di qui? Sono l’unica che sta soffrendo in questo momento?
Qualcuno mi alza di peso, e chiudo gli occhi.
Buio.
Finalmente.

Quando riapro gli occhi non sono più dentro la scatola, ora sono sdraiata sopra una sedia.
Ho le mani fasciate, le bende sono intrise di sangue. Riesco ad alzare la testa solo di pochi centimetri per poi ricadere all’indietro, le mia fronte è stretta da una fascia sopra la mia testa, i miei polsi sono legati da delle corde sottili così come le mie caviglie. Cerco di alzare la caviglia sinistra ma la fascetta è ferma, la sento dentro la carne e mugugno di dolore. Una goccia di sangue scende e arriva fino al pavimento.

«Ella Evelyn Wayne.»

Non riconosco quella voce, un tizio sbuca sopra la mia testa con un paio di occhi neri e delle labbra sottili.
I capelli biondi acceso mi accecano. Tiene un mano un fascicolo pieno di fogli.

«Mi chiamo Evelyn.»

La voce non mi manca, userò quella come arma.
E' uno di quei tizi che al nostro quartiere chiamiamo "vuoti". Di sicuro non ha né moglie né figli. Vive da solo senza uno scopo e il lavoro è tutto ciò ha. Ci hanno sempre fatto pena le persone così.

«Figlia di Ruth Haynes e William Wayne, nata il 14 Febbraio del 2007, gruppo sanguigno AB negativo, capelli marroni, occhi marroni, altezza media, quattordicenne..»

Continua a leggere quella cartellina, ci sono io, c’è la mia vita. Ci sono scritte tutte e quattro le volte che mi sono procurata una frattura, quante volte sono andata a tagliarmi i capelli e da quanto non ci vado.
Cosa vogliono farne di me? Cos’ho di così speciale?

«Aah!»

Lancio un urlo di disperazione e il biondo smette di parlare, è un uomo con delle piccole rughe sulla fronte e mi ricorda vagamente mio padre.

«Chi sei? Cosa vuoi da me?»

Cerco di dirlo con voce più calma possibile, tradendomi con il tremore di tutto il mio corpo.
Il mio timbro di voce trapela paura. Indosso solamente un lenzuolo sotto il quale sono nuda, vorrei coprirmi con le mani ma non trovo nessuna via di fuga.
Devo pensare lucidamente. Devo pensare lucidamente. Devo pensare lucidamente.

«Sempre le solite domande, sempre le solite storie. Questo è il progresso piccola, cerca di imparare.»

La voce di una donna parla al posto del biondo, lui si allontana da me come se fosse spaventato.

«Progresso? Questo schifo lo chiamate progresso?»

Grido con più disprezzo possibile.
Rinchiudere le persone e trattarle come animali, uccidere delle vite per quello che chiamano ‘progresso’ non è la cosa giusta. Penso alla mia famiglia e d’improvviso un senso di nostalgia e di rabbia mi prende il sopravvento. Per questo mi hanno rapito? Volevano solamente questo da me?
La donna si avvicina di fianco a me liberandomi la testa. Una cascata di capelli rossicci mi preme sulla fronte.
Dovrebbe avere sui trent’anni, cosa possono volere da me?

«Sono cose troppo grandi per te, Ella.»

Sembra così giovane, dagli occhi oserei dire anche troppo buona.
Come può qualcuno ridurre un'altra persona a questo?

«Mi chiamo Evelyn.»

Inizio a gridare e a dimenarmi, i polsi e le caviglie chiedono pietà però a me non importa, non voglio capire quello che mi stanno dicendo, non sono cose troppo grandi per me perché io mi ostino a non capire. A me non interessa, voglio solo tornare a casa.

«Adesso ti inietto un siero e devi dirmi come ti sentirai.»

Ha cambiato discorso così in fretta che neanche ho prestato attenzione. La vedo tirare fuori una siringa ed inizio ad agitarmi.

«Stai ferma.»

Mi agito ancora di più, dovrei collaborare? Infondo a cosa servo io? Sono solamente un prodotto preso e servito, chiamandomi ‘progresso’ non mi fanno sentire meglio, non divento migliore.
L’ago entra dentro la mia pelle mentre io mi muovo ancora, non sento niente ma riesco a guardare. Entra dentro la mia pelle con una facilità tale che penso di essere fatta di gomma.
L’ambiente circostante è così asettico, così pulito. Ci sono molti macchinari a destra e a sinistra. Sono sicura che sto per sciogliermi, le mie ossa sono fatte di gelatina e la mia forza di volontà è stata rinchiusa.
Non sento più nulla.

«Come ti senti?»

Le mani e i miei piedi sono liberi ma riesco a malapena a muovermi. Osservo i palmi che sono pieni di sangue secco.

«Mi gira la testa.»

Non riesco a smettere di parlare, tutto questo tira fuori un nuovo lato di me, un lato sconosciuto.
Mi mancano i miei genitori, voglio scoppiare a piangere, voglio spaccare qualcosa, voglio urlare, voglio farmi male, voglio piangere.
Tutte queste emozioni contrastanti mi mandano su i nervi e mi prendo le mani tra i capelli.
E’ come se fosse tutto un mare intorno a me, non riesco a guardare nulla che sia fermo o stabile.
Le immagini tremolano e scompaiono per poi riapparire.

Ho solo quattordici anni, perché questo a me?
Ho solo quattordici anni, cos’ho di speciale?
Ho solo quattordici anni, voglio la mia mamma.

«Dimmi tutto.»

La rossa si siede davanti a me, cosa significa ‘dimmi tutto’? Di cosa vuole che parli?
Che cosa c’era dentro quel coso? Mi hanno resa docile con così poco, non ho neanche la forza di impormi che la mia bocca inizia a parlare senza freno.
Dico che mi manca tutto, che voglio tornare indietro. Mi manca Primula, la vecchia gatta con cui dividevo la mia colazione. Mi manca l’odore di carbone che portava mio padre e il profumo dell’iris che copriva tutto. Mi manca perfino la mia professoressa che mi metteva le note tutti i giorni solamente perché non smettevo di parlare. Mi mancano i miei compagni che mi prendevano in giro e mi guardavano il sedere. Cos’ho fatto di sbagliato per finire qui?
Non so da dove mi escono tutte queste cose, non ho mai desiderato parlare con nessuno tantomeno con questa tizia. E’ la prima volta che riesco ad aprirmi e non sono neanche sicura che sia io a farlo.
E’ quello che mi hanno dato, ne sono sicura.

«Bene Evelyn, io sono la dottoressa Warner. Questo è stato il tuo primo esperimento.»

Inizia ad annotare qualcosa su quel fascicolo che contiene tutta la mia vita. E’ così povero e spoglio, non ho fatto niente di così significativo da riempire un enorme fascicolo e mi sento inutile per questo.

«Benvenuta nelle forze imperiali.»

---
Caro Diario.
Dopo cento-ottantaquattro giorni, nove cambi di cella, duecento-ventuno esperimenti e trentasette tentativi di suicidio.. eccomi qua. Sono cresciuta dal mio primo esperimento, caro Diario, ho i capelli più lunghi e le spalle più forti, riesco a spostare le cose con la mente anche se di pochi centimetri però.
Mi hanno dato un piccolo potere, dicono che devono potenziarlo ancora di più e che ci metteranno degli anni per riuscire a farlo, ma quando ci riusciranno sarò la soluzione a tutti i problemi.
Io so che non è così, io li sento parlare, so che fine farò prima o poi, ma a loro servo.
Ho imparato a fare come dicono loro, ormai sono quattro mesi che non parlo, perché non ho niente da dire.
Tutte le parole le ho in testa, ma dal mio primo esperimento mi sono chiusa in me stessa. Ora non dico più nulla e sono tutti contenti, che senso ha? La dottoressa Warner a volte mi osserva, mi spinge a parlare raccontandomi tante cose. Sembra l’unica che si preoccupa veramente per me.
Mi racconta di sua figlia Céline, di come le manca tanto. Mi racconta delle trecce che gli faceva ogni mattina prima di andare a scuola e di quanto le assomiglio. Céline non c’è più per colpa del Dittatore, ma lei dice che lui ha fatto la scelta giusta.
Come si può arrivare a questo, Diario?
Come si fa, me lo spieghi, per favore? Addirittura a non soffrire per la morte della propria figlia, come si fa a credere di aver fatto la cosa giusta?
Io non le rispondo, non rispondo a nessuno, parlo solo con te, mi sei rimasto solo tu diario.
Ho duecento-ventuno cicatrici addosso. Una per ogni esperimento. Vogliono farlo apposta, vogliono che io sappia che sono una loro proprietà e che non succederà mai nulla che possa far cambiare ciò.
Ma io sono stufa, io non voglio essere di nessuno. Voglio diventare libera, indipendente e voglio correre. E’ da così tanto che non corro che a volte credo di non avere nemmeno le gambe, sai?
La mia stanza numero nove è piccola ed è un triangolo, al posto della prima che era un quadrato. Ho imparato a fare l’abitudine quando riempiono la stanza d’acqua. Una sorta di vasca per me. Ma a me non importa, sono sempre chiusa con me e rannicchiata nel letto cercando di far andare via questo incubo.
Il pasto mi viene servito una volta al giorno, è una strana sostanza imbottita di pillole che servono solamente per farmi sentire meglio, per darmi tutto ciò di cui ho bisogno, ma non per farmi mai sentire sazia.
Ho sempre fame Diario; di cibo, emozioni, sorrisi, felicità, amore.
Sono passati esattamente milleduecento-cinquantasei secondi da quando mi sono alzata Diario, tra ventitré secondi verranno a prendermi per un altro esperimento, sempre a quest’ora, ormai l’ho imparato.
A presto.
 
 

Evelyn.

 
 
Chiudo il diario e lo metto nel solito angolo della stanza, solo quello posso tenere, solo quello mi hanno dato di speciale. Posso comunicare solo così.
Da quel che ho capito al Dittatore piace leggerli per poter ridere della nostra sofferenza. Perché al mondo esiste gente così cattiva?

La porta si apre ed io rimango seduta dove sono, mi prendono per un braccio e mi tirano via. La stretta è forte e mi fa male, ma non posso farci nulla. Mi portano in una nuova stanza, questa è la stanza numero duecento-ventidue, la cambiano per ogni esperimento.
E’ enorme, le pareti sono tinte di un rosso acre, pungente. Non c’è neanche una finestra. Non posso vedere il mondo fuori. Non posso mai vederlo. Mi manca sentire l’aria che mi passa attraverso i capelli. Ma la cosa che mi manca di più è l’odore dei fiori. L’odore di una rosa o di una bella margherita. Non ci farò mai l’abitudine.

Al centro della stanza c’è un enorme gabbia fatta di plastica, di vetro o di qualsiasi altra cosa sia fatta. E’ un’altra scatola. Credo di doverci entrare dentro, ancora non lo so.
Ci sono degli uomini in tuta nera in ogni angolo e lungo tutti i muri.
Un colpo lungo la schiena d’improvviso mi fa finire con le ginocchia a terra e mi mozza il respiro. Non riuscirei a parlare neanche se volessi e d’improvviso tutto si fa più piccolo.

«Adesso testeremo i tuoi poteri, sei pronta?»

Una voce metallica mi sussurra all’orecchio tutte queste cose ed io non posso far altro che starmene zitta a patire, non ho idea di cosa abbiano in mente. Possono ricattarmi, farmi soffrire, ma non la penserò mai come loro. Il mio trentottesimo tentativo di suicidio è alle porte ed io non posso fare a meno di pensare al favore che farò a tutta l’America. Da quel che ho capito io sono importante ed unica, non possono perdermi. Per questo ho deciso di andarmene.
Una porta scorrevole dietro di me si apre. Ce ne sono una decina di porte così in una sola stanza, sono mimetizzate con l’ambiente ed io non le noto, nessuno le nota.

La dottoressa Warner è dall’altro lato della stanza che mi osserva, ha gli occhi spenti. Per la prima volta riesco a vederla preoccupata, in ansia, ha paura per cosa, per me? E’ da tanto tempo che nessuno si preoccupa per me. Non ricordo neanche l’ultima volta che qualcuno mi abbia mai fatto un sorriso. Ho bisogno di calore umano.

Dei mocassini marroni mi passano davanti e non ho la forza di alzare lo sguardo.
Sono sporchi di nero, ormai ho imparato a riconoscere il carbone.
Carbone?

«Papà.»

La mia prima parola dopo quattro mesi e mezzo.

«Piccina mia.»

Alzo lo sguardo e lo vedo entrare dentro quella gabbia con i fucili puntati sulla schiena.
Mi alzo corro verso di lui nel momento in cui chiudono quella gabbia.
Lui non sa perché è qui, lui non se l’aspetta.
Di sicuro gli hanno detto che avrebbe avuto l'opportunità di vedermi e gli ha creduto. Sta facendo tutto questo per me.

«Gli abbiamo detto che dopo potrà vederti, povero illuso.»

Una guardia dice quello e poi ride.
Sto gridando, tiro fuori ogni sorta di dolore che mi attanaglia perchè non riesco a trattenere tutto questo, io non posso farcela. Grido a voce talmente alta che vedo Warner che si copre le orecchie. Non riesco a smettere. Non possono prendere lui, lui no.
E’ tutto ciò che mi è rimasto, non possono portarmelo via.
Ormai le lacrime sgorgano fuori dai miei occhi come un fiume in piena ed io non posso fermarmi, appoggio i palmi delle mani sul vetro e vedo papà che fa lo stesso completando le mie mani.
Fa un sorriso sbieco dove posso vedere la felicità ed il dolore mischiati insieme.
D’ un tratto una lama sembra uscire dal soffitto e pende sopra la sua testa, non posso perderlo. L’ho già perso una volta e non permetterò di compiere lo stesso errore due volte.
Ho vissuto questi quattro mesi alla ricerca di calore, come la prima volta che mi sono svegliata qua dentro. Ora che finalmente posso riuscire ad ottenerlo, non lo perderò. Sono stufa di dormire sola la notte, sono stufa della mia vita.
Il calore che viene irradiato dal palmo della sua mano mi arriva dentro la carne e sale lungo la mia spina dorsale. Non riesco a distinguere i miei singhiozzi tra le parole che dice il capitano.
Appoggio la fronte contro quella parete e continuo a singhiozzare. Non riesco a fermarmi. Non posso. Non voglio.

«Ti prego papà, ti prego non lasciarmi.»

Sussurro in modo che mi senta solo lui.
Ho bisogno di lui più che mai.

«Puoi salvarlo, Evelyn, se vuoi puoi. Solo tu sai come.»

Io non so come, non so come fare. Vedo quella lama scendere poco più giù.
E’ colpa loro, solo colpa loro. Io non ho mai desiderato questo inutile potere, non posso usarlo perché non ci riesco.
Concentro la mia attenzione su quella lama, strizzo gli occhi per riuscire a concentrarmi.
La fronte mi fa male, i miei pensieri sono tutti concentrati su un’unica cosa: mandare dentro quella lama. E’ grande ed appuntita e riesco a vedere il mio riflesso sopra. Ho gli occhi scavati, e le labbra che ballano. Mi sto mentalmente imponendo di mantenere la calma.
Non posso lasciarlo accadere.
La lama scende ancora di più. I miei pensieri si bloccano all’istante. Ho smesso di pensare. Vedo mio padre che cerca di dirmi qualcosa, e lo capisco solo col labiale.

“Piccina.”

M’impongo con tutta la forza che ho, la mia mente ha un’unica pensiero fisso.
Se lui fosse qui mi direbbe di stare al sicuro, di andarmene, di stare tranquilla.
Mi direbbe che sono faccende da grandi e mi darebbe un bacio sulla fronte.
Non posso permettermi di distrarmi e di lasciarlo andare.
La lama aleggia sopra la sua testa, mancano pochi centimetri.
Cosa farà la mamma? Non riesco a non pensarci. Come andrà avanti la sua vita dopo aver perso le due persone che ha amato più di sé stessa?
Le distrazioni portano alla fine, la fine porta alla morte.

Sangue. Sangue. Sangue.
Non ho la forza di muovermi, uno spettacolo raccapricciante mi si muta davanti. Le pareti intrise di sangue. Smetto di respirare. Smetto di muovermi. Smetto di vivere.
Mi ha sussurrato un’ultima cosa, ha detto che sono la sua piccina. Il calore che mi ha regalato mi provoca un brivido lungo la spina dorsale e mi finisce dentro il cuore che smette di battere.
Sono morta.

Caro Diario.
Hai presente quella sensazione di vuoto? Quando senti che non hai fatto veramente abbastanza?
Ora ti dico, mi sento così. Mi sento come se fossi vuota, come se qualcuno mi fosse entrato dentro e mi avesse privata di tutto.
Dopo che hanno ucciso papà -non so neanche se posso permettermi di ricordarlo così- sono entrata in uno stato shock. Sono ancora sotto shock Diario. La dottoressa Warner poco dopo mi ha preso e mi ha portato nella mia stanza lasciandomi lì. Mi hanno dovuto prendere in braccio perché non riuscivo a muovermi.
Non mi muovo, non mangio, non parlo. Scrivo solamente a te, tutto il giorno.
Mi hanno presa, rinchiusa, soggiogata. Ora sono una loro vittima. Ho una nuova cicatrice sul collo (ora sono duecento-ventidue) a forma di piccolo teschio, quanta fantasia hanno eh? Mi manca tanto papà.
Mi chiedo cos’abbia pensato vedendomi. Che sono cresciuta? Che sono ancora la sua piccolina?
Mi ricordo quella volta, quando papà non faceva i doppi turni, in cui tornava la notte e non faceva altro che raccontarmi come si erano conosciuti lei e la mamma.
E’ successo tutto una sera d’Agosto, papà aveva vent’anni e la mamma diciotto.
La mamma lavorava come fioraia per pagarsi gli studi, così un giorno quando papà la vide iniziò a comprare fiori da lei tutti i giorni senza avere mai il coraggio di parlarle. Mi fa bene ripensare a tutto questo.
Questi fiori papà li chiudeva tutti dentro la sua stanza. Era così timido che andava lì tutti i giorni per mesi senza mai chiederle il numero.
Così un giorno, la seguì dopo il lavoro fino a casa scoprendo dove abitava e fece recapitare tutte i fiori che aveva comprato sul suo vialetto. Tu devi capire, Diario, che mia madre è sempre stata molto temeraria.
Infatti si scoprì poco dopo che dentro ogni mazzo la mamma gli aveva lasciato il suo numero di telefono. Ma lui era talmente innamorato che non se n’era mai accorto fino ad allora.
Il giorno del loro matrimonio la mamma era un angelo, così la descriveva sempre papà.
Al fatidico sì, entrambi si erano già preparati per una vita perfetta assieme, poi dopo sono arrivata io: la ciliegina sulla torta.
Amavo mio padre Diario. E lui mi guarda da lassù e guarda ogni cosa che faccio.
Non so neanche se Dio esiste, ma come fa ad esistere un Dio così? Un Dio che permette queste cose?
Non riesco a dormire perché la notte mi sveglio urlandogli di scappare.
A presto Diario.
 

Evelyn.

 
P.S. Ciao papà, se stai leggendo, ti prego perdonami. Non riesco a dormire la notte sapendo che è tutta colpa mia.


Chiudo il diario e rimango così, con le ginocchia al petto. Chiusa nel mio mondo.




BUONCIAAAAO.
Salve a tutti, io sono -ale. c:
Se avete letto le mie ff, sapete che scrivo sempre in terza persona quindi perdonatemi se magari è scritto un po' male, non ci sono abituata lol
Spero vi piaccia, stavolta sarò io a rispondere alle vostre recensioni OuO
Bene, dovevo dire qualcosa però mi sono dimenticata cosa, insomma sì, vai così alessandra!
Alla prossima dsfgfngf
-ale.

 

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Capitolo 3
*** Secrets. ***


capitolo due.



 Secrets.
 


anno 2025, vecchia Denver, capitale di Rauhl City. - justin's pov.

"non è possibile!" sbraitai, guardandomi i piedi e cercando di trattenere la rabbia.
quello stupido e inutile ragazzo mi aveva portato un'altra brutta notizia. non sopportavo le brutte notizie, a meno che non fossi io a darle, perchè voleva dire che erano buone per me, e cattive per gli altri.
"s-signore, n-non so come s-sia potuto s-succedere, ecco.." le parole gli morirono in gola non appena posai il mio sguardo infuriato sul suo viso.
non poteva essere morta, quella ragazzina mi serviva, era l'unica. non poteva essere morta, mi serviva. ma a mali estremi, estremi rimedi, catturerò qualcun'altro.
mi avvicinai a quello stupido, circunavigandolo e girandoci intorno, mantenendo il mio sguardo fisso sulla sua testa, guardandolo dall'alto al basso.
"ascolta.." dissi, con il mio tono di voce suadente, cattivo. "secondo te adesso cosa dovrei fare?" dissi pacato fermandomi dietro di lui.
tremava, lo sciocco. guardai i suoi folti capelli neri, avvicinandomi al suo orecchio destro. "rispondimi." dissi, sentendolo ansimare dalla paura, emettendo un gridolino appena posai la mia arma sulla sua testa. "rispondimi o ti faccio saltare in mille pezzi." dissi fermo, quasi ridacchiando nel pensiero. adoravo uccidere la gente, quindi non ci avrei messo molto.
"s-signore io penso che dovrebbe c-catturare qualcun'altro e-" non gli lasciai il tempo di finire che premetti il grilletto, guardando come il sangue schizzava sulla mia maglietta e colava lungo la sua.
il ragazzo si afflosciò a terra, creando una pozza di sangue sul pavimento. emisi un piccolo risolino guardando il suo corpo e toccandogli una spalla con un piede, per vedere se fosse ancora vivo. non lo era, perfetto.
"occhio per occhio, dente per dente, amico." dissi ritornando alla mia posizione sulla grossa poltrona nera in pelle affiancata alla scrivania, da dove potevo ammirare tutto il mio potere.
presi una maglia pulita da un piccolo cassettino e me la cambiai, buttando quella sporca di sangue in un angolo della stanza.
misi i piedi sulla scrivania e mi dondolai sulla poltrona, guardandomi intorno.
l'ufficio aveva una porta davanti a me, in vetro, con un corridoio in vetro sospeso più avanti, che faceva una strana curva e si univa ad un altro palazzo, in vetro anch'esso. metteva i brividi ogni volta che ci si passava, ma non mi spaventata più di tanto, dato che era il posto più sicuro di Rauhl City dopo il mio ufficio e casa mia.
il mio piano ospitava solo il mio ufficio, infatti era off-limits ai non autorizzati. c'erano sempre un paio di guardie dall'altra parte del palazzo per controllare l'ascensore, e un paio lungo il corridoio.
tutto il mio ufficio era circondato da pareti in vetro, molto spesse, anti proiettile. il 'quartier generale', chiamiamolo così, era situato a denver, e dal mio ufficio, collocato al piano 569, riuscivo a vedere benissimo Rauhl City, fino ai suoi margini più estesi, all'orizzonte.
subito il telefono mi distrasse, trillando. presi la cornetta e poggiai l'orecchio, pronto ad ascoltare.

'capo, abbiamo una sorta di problema.' disse un tizio dall'altro capo del telefono.
"che tipo di problema?" chiesi scocciato. non me ne fregava davvero niente. avrei aumentato le tasse.
'una ragazza.' disse soltanto. non riuscivo a capire cosa intendesse. dopo più di dieci secondi di silenzio, sbraitai.
"e che problema c'è?!" chiesi trattenendo la rabbia. non volevo sentir parlare di ragazzi, ragazze, catturati, fuggitivi, tasse, impegni e quant'altro.
prontamente dall'altro capo del telefono risposero. 'qualcosa che non ci saremmo mai aspettati, capo. deve venire lei stesso a verificare.' disse l'uomo.
sbuffai scocciato. "dove dovrei andare? non potete portarla qui?" dissi, ancora una volta in preda alla noia. 'non mi interessa un cazzo.' avrei voluto urlargli, ma mi trattenni per rispetto alla mia persona di Dittatore. non dovevo dare segni di cedimento, di debolezza. non dovevo far vedere che ero un ragazzo, come gli altri. non potevo, non lo ero.
'non credo sia possibile capo.' disse l'uomo dall'altra parte del telefono, un po' in soggezione.
"perchè?" risposi sbuffando, aspettando il suono metallico della sua voce.
'non riusciamo a prenderla. lei, ecco.. sappiamo dov'è, ma ogni volta arriviamo troppo tardi e-' non gli lasciai il tempo di continuare che intervenni, scocciato e infastidito da quel dialogo.
"spiegati meglio, cosa intendi con 'non riusciamo a prenderla'?" chiesi, un po' stufo dalla conversazione inconcludente. mi interessava ben altro in quel momento.
'capo, abbiamo trovato Il Potere.' disse lui, con un tono di voce onnipotente che mi infastidì parecchio. lasciai correre e risposi.
"intendi Il Potere che ho chiesto? quello che state cercando?" chiesi con una punta di curiosità nella voce, impaziente.
'esattamente.' rispose l'altro. ero al settimo cielo. finalmente avrei avuto il mondo ai miei piedi.
mi sarebbe dispiaciuto non poter più catturare persone, torturarle ed ucciderle, ma lo avrei fatto con la popolazione, una volta acquisita questa forza. nessuno poteva battermi.
"dove si trova la ragazza?" chesi alzandomi e girando intorno alla scrivania, sempre con l'orecchio ben incollato alla cornetta, per ricevere informazioni.
'ai confini di Rauhl City, nella vecchia Seattle.' disse lui fermo, aspettando una mia risposta.
"bene, sarò lì in tre ore circa." dissi, per poi chiudere la chiamata.

avanzai verso la porta a vetri, tenendo le mani davanti a me per poi sentire il freddo contatto con la trasparenza raggelarmi la mano. spinsi la porta in avanti, aprendola, per poi percorrere tutto il corridoio, ritrovandomi davanti le due guardie, che con un passo al loro fianco si spostarono, lasciandomi passare attraverso la porta, per poi iniziare a seguirmi.
arrivai all'ascensore, e due guardie mi si pararono davanti, con la schiena rivolta verso il mio viso, aspettando insieme a me l'ascensore.
tutte e quattro le guardie erano vestite di nero, coperte di un materiale pesante, solo gli occhi erano scoperti. erano ben armate, dopo tutto erano le mie guardie del corpo.
il 'tin' dell'ascensore arrivato al piano mi fece distrarre dai miei pensieri, mentre mi infilavo in quelle quattro mura d'accaio insieme a quelle quattro persone.
una volta dentro, mi avviai verso il telefono cordless appeso alla parete, mentre l'ascensore saliva vorticosamente tutti i 531 piani restanti.
presi la cornetta, pronunciando un 'sto venendo al piano 1000 . preparatemi un jet per Seattle in meno di cinque minuti.' riposai il cordless dov'era, neanche aspettando la risposta da parte di chiunque si trovasse al telefono.
dopo circa un minuto arrivammo al piano, le porte si aprirono e le guardie mi circondarono ai lati.
camminai fino a raggiungere una porta blindata, con codice. inserì le quattro cifre e la porta scomparve risucchiata dalla parete.
attraversai tutto il tetto dell'edificio, raggiungendo il mio jet e salendo la piccola scaletta, per poi sedermi comodamente all'interno di quello spazio beige e bianco, di lusso.
la porta dell'aereo si chiuse e subito spuntarono dalla cabina del bagno due ragazze.
una era bionda, con la pelle chiara e gli occhi verdi. aveva un piccolo reggiseno triangolare che gli copriva i capezzoli, azzurro.
indossava un tanga del medesimo colore, e un pareo bianco quasi trasparente a coprirle le perfette gambe snelle che aveva.
la scrutai leccandomi le labbra, per poi portare l'attenzione sulla ragazza al suo fianco.
capelli scuri e pelle mulatta, occhi color nocciola. aveva delle ciocche fuczia in contrasto con quelle marroni scuro che portava, sembrava un cioccolatino.
mi leccai le labbra osservando le sue curve: portava un reggiseno a triangolo molto piccolo, come la bionda, fuczia.
anch'essa portava un perizoma fuczia, ma le sue gambe erano coperte da un pantalone largo e cadente di una stoffa quasi trasparente colorata di verde e fuczia.
la prima si avvicinò, sedendosi al mio fianco sulla poltrona, mentre la mulatta si sedette sul mio bracciolo, con il sedere in bella mostra.
"come vi chiamate, ragazze?" chiesi leccandomi le labbra.
le due si guardarono fugaci, rispondendo. la prima mi disse di chiamarsi nicole, mentre l'altra maryssa.
"invece tu come ti chiami, dolcezza?" chiese lei, sbattendo gli occhi verdi con sguardo dolce e complice.
"non ve lo dirò. sarà più eccitante non sapere con chi state facendo sesso, non vi pare?" chiesi, prendendo il fianco di una e il sedere di un'altra, stringendoli.
le due mugugnarono qualcosa in risposta, mentre io continuavo a toccarle da tutte le parti.
mi guardai un secondo intorno, verificando se c'era la famosa porta. la trovai.
perfetto, avevo il jet giusto e le ragazze perfette, queste tre ore sarebbero passate in un lampo.

--

appena atterrai mi sistemai un po' i capelli, prima di vedere la porta aprirsi e le ragazze scendere fissandomi.
scesi anche io, dirigendomi verso l'elicottero che mi aspettava, scortato dalle mie guardie.
ero stato davvero il dio del sesso su quell'aereo, non potevo negarlo. le avevo fatte venire circa sette volte, erano delle porche e godevano come delle puttane.
salì sull'elicottero, e arrivai alla base sz-51 in meno di cinque minuti.
atterrammo, e guardai la piccola struttura, circondata da mura enormi e con buchi nel terreno, le finestre delle celle.
arrivai alla piccola porta e subito mi aprirono, non dovetti neanche suonare.
ad accogliermi fu la dottoressa Warner, una trentenne dai capelli rossici e dalle lentiggini sparse sul viso. troppo buona, ma anche troppo professionale da lasciarmi scappare.
"buongiorno, capo. com'è andato il volo?" chiese normalmente, non sospettando minimamente nulla.
"magnificamente." mi affrettai a rispondere raggiante. "non poteva andare meglio." aggiunsi.
la donna sorrise, per poi riportare lo sguardo sulla cartellina che non avevo notato avesse in mano.
"bene signore, se mi vuole seguire le facciamo vedere la paziente." disse professionalmente iniziando a camminare, cosa che anch'io feci, quasi perdendomi all'interno di tutti quei corridoi troppo bianchi.
arrivammo davanti ad un vetro spesso che occupava metà della parete, dagl'angoli circolari; l'interno della stanza era bianco latte e sembrava che la persona all'interno si fosse murata viva, sia per l'aspetto fisico, sia perchè non mi pareva di scorgere porte.
la ragazza alzò lo sguardo, guardandomi negl'occhi. a quel contatto un brivido mi percorse la schiena e una fitta alla testa mi fece traballare.
"capo, si sente bene?" chiese la Warner, cercando di intravedere il mio sguardo. mi stabilizzai e risposi con un cenno che faceva intendere di non preoccuparsi.
la ragazza continuava a fissarmi, come se fossi la merda in persona, ma anche se fossi l'unica persona che poteva salvarla. e aveva ragione, sulla seconda parte.
"bene capo, lei è Ella Evelyn Wayne, è qui nella base sz-51 da quattro anni." disse la donna continuando ad armeggiare con la cartellina.
un'altra fitta si impossessò del mio corpo, colpendomi la testa.
subito la dottoressa mi fissò, cercando di capire se stessi davvero bene. il suo sguardo mi infastidiva, ma mi serviva quella donna.
"bene, procediamo?" chiesi, cambiando argomento. 
la squadrai per bene. corpo mal nutrito, era pallida e aveva un cespuglio marroncino al posto dei capelli. non mi aspettavo molto da questa ragazza.
la dottoressa si avvicinò al vetro e premette un tasto che non notai prima, parlando in un tubicino.
"bene Ella, oggi proveremo ancora i tuoi poteri, d'accordo?" chiese lei, ricevendo un cenno del capo titubante e positivo da parte della ragazza.
la fissai alzarsi, aveva le gambe magre, piene di puntini rossi e di tagli. portava una tunica bianca che le arrivava alle ginocchia, a maniche lunghe.
dal soffitto cadde un pallone, che rimbalzò fino a fermarsi.
la ragazza era ferma, mi guardava con gli occhi socchiusi, il viso in una smorifa d'odio.

non capivo.
non capivo il perchè del pallone, il perchè di lei, vestita in quel modo, usata in quel modo.
potevano farle fare fine migliore che farla passare per una pazza sotto i miei occhi, ma questi non sono affari miei, anzi, quello spettacolo mi divertiva.
la ragazza si avvicinò al pallone, lo prese in mano e lo scrutò. sembrava una bambina piccola quando lo faceva.
un'altra fitta mi prese la testa, ma non ci pensai poi tanto, tornando con l'attenzione focalizzata verso la ragazza.
la dottoressa allora premette di nuovo il pulsante, parlandole. "Ella, qui c'è questo signore che vuole vedere cosa sai fare, okay? cerca di non perdere tempo." disse dolcemente.
odiavo tutta quella gentilezza verso quella ragazza. quell'essere troppo magro, troppo stupido e troppo insignificante per me per farmi perdere altro tempo.
subito mi girai, pronto ad andarmene, quando la dottoressa esclamò.
"ecco, capo!" mi rigirai, cercando di capire a cosa si riferisse.

il pallone era all'altezza della testa della ragazza, immobile, sollevato.
mi parve impossibile, e sbattei più volte le palpebre nel tentativo di non aver fatto un'assurdo sogno.
la ragazza iniziò a fissare il pallone, che da un secondo all'altro iniziò a palleggiare, accompagnato dal nulla. si muoveva da solo, quel pallone non aveva controlli fisici.
era lì, il mio potere. era tutto vero, finalmente. tutto racchiuso in quella ragazza.
"come farete a prenderle il potere?" chiesi istintivamente, con curiosità.
la dottoressa prontamente mi rispose. "abbiamo prelevato un campione di sangue intatto dalla ragazza, e un campione dopo ogni esperimento. ci basterà prendere il campione pulito e il campione di questo esperimento ed estrarre il materiale che non combacia con il suo dna pulito." disse raggiante.
le sorrisi. "ottimo lavoro, dottoressa Warner." fissai la ragazza, che sorrideva beffarda. "quanto tempo ci vorrà prima che si possa utilizzare?" chiesi, sempre sbalordito dal potere della ragazza.
"in un paio di giorni sarà pronto all'iniezione, ed entro due mesi controllerà il potere meglio di lei." disse accennando alla ragazza con il capo.
"perfetto, resterò qui questo paio di giorni necessari all'estrazione del materiale e al'iniezione, dopo di chè lei verrà con me, dottoressa Warner, per assicurarsi che tutto vada per il meglio." le dissi, ancora fissando la ragazza.
"d'accordo, capo. corro in laboratorio." disse, per poi girarsi. subito si interruppe. "oh, se mi vuole seguire, gentilmente, le mostro le sue stanze." mi disse sorridendo con la perfetta fila di denti bianchi.
la assecondai, camminando lungo i corridoi.
presimo vari ascensori, varie scale e girammo vari angoli, fino a ritrovarci davanti ad una porta color legno scuro.

"eccoci, capo, questa è il vostro mini-appartamento privato." disse aprendo la porta con una tessera, per poi porgerla a me, che prontamente l'afferrai.
"è come lo avete progettato, c'è tutto." continuò. "io, se non le dispiace, andrei in laboratorio." disse aspettando una risposta.
"vada vada." le risposi freddo e noncurante, entrando nella stanza.
come l'avevo progettata, perfetto. la vista era mozzafiato, potevo vedere tutta la distesa d'acqua fino ai suoi massimi confini.
il palazzo su cui mi trovavo si chiamava skyline, ora era il mio appartamento privato, uno dei tanti sparsi per gli ex stati uniti.
alla base della skyline si trovavano invece i laboratori e le celle.
mi sdraiai sul letto, continuando a pensare a quella ragazza.
mi addormentai con un sorriso stampato sulle labbra, dopo troppo tempo.


**

Ormai erano due mesi che avevo fatto l'iniezione, ma nessun segno di era presentato, nessun sintomo di quelli della ragazza.
iniziai a pensare ad un sabotaggio, o peggio, avvelenamento. chiunque fosse stato, ne pagherà le conseguenze. qualcuno doveva morire.
mi alzai dal letto, stavo per aprire la porta della mia camera da letto di Denver quando una fitta alla testa mi fece perdere l'equilibrio.
sbattei contro la libreria, che cadette, rovesciando tutti i libri a terra. cadetti anche io, facendo una brutta caduta di sedere su un libro.
mi alzai, guardando il casino per terra, mentre mi massaggiavo il sedere per la caduta.
decisi di andare a chiamare qualcuno, ma appena mi girai per aprire la porta il mio sguardo cadette sulla parete dove prima stava la libreria.
c'era un quadro, un quadro con un paesaggio strano, astratto quasi. che cazzo ci faceva un quadro dietro ad una libreria?
lasciai perdere quei pensieri, afferrando il quadro e guardandolo, per poi rigirarmelo tra le mani. che strano.
aprì il retro della cornice, per prendere il quadro, quando una foto cadde dal retro, finendo al contrario adagiata su un libro.
la presi, guardando la scritta in penna sul retro della foto. 'forever and always'.
girai la foto, rimanendo immobile.
cosa ci faceva lei abbracciata a me? perchè sorridevo? perchè lei aveva la stessa età ma io avevo diciannove anni in quella foto?
non capivo cosa stesse succedendo. tante fitte alla testa si impossessarono di me. continuavo a pensare, sempre più veloce.
perchè non la ricordo? perchè l'ho incontrata solo ora? perchè avevo 10 anni di meno in quella foto?
ma soprattutto: perché era la ragazza del potere quella nella foto?
sentivo ancora quella fitta alla testa, più forte. sprofondai sulle ginocchia chiudendo gli occhi.
il buio.







BUENOS DIAS MUCHACHE.
bien, allora, spero che il capitolo vi sia piaciuto c:
quanto sono perfida, vi lascio sul più bello e con justin che sviene lol
bene, allora, che ve ne pareee? dai ditemi che è bello pls. :c
allura, su richiesta di alcune lettrici, ho modificato la lunghezza (tesoro, scrivimi in recensione se va bene così o no) c:
beneeeeeeee io direi di andare, e già che ci sono mi faccio pubblicità u.u
ho aggiornato sia Splot Brothel che You're afraid to burn, per chi non avesse notato,
e a breve -credo proprio stasera o prima- posterò una os rossa su justin. fidatevi se vi dico che è peggio di un porno lol
dire che è giunto il momento di andare(?)
si, sto poco bene, non ricordatemelo lol
ADIOSSSSSSSSSSS :3
-k.

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Capitolo 4
*** Revelations. ***


 
 


Capitolo 3.


 

Revelations.
 





Justin’s p.o.v.

Sento il mio cuore battere nella vena lungo il collo. Il respiro è profondo. I rumori della città si fanno sempre più intensi e riesco a vedere uno squarcio di luce oltrepassare le mie palpebre.
Il pavimento è freddo e mi provoca dei brividi lungo tutto il corpo. Un sapore metallico mi invade la bocca e non riesco a capire cosa sia. Mi premo lentamente le tempie: sono io.
Non riesco neanche lontanamente ad immaginarmi l’ultima volta che ho sanguinato, sono anni che sono al potere e non mi sono mai permesso di far vedere un accenno della mia umanità perduta. Anche il sangue che scorre nelle mie vene è troppo.
Alzo la schiena e mi metto a sedere, la situazione non è migliorata per niente. Il sangue esce dalla mia fronte attraverso un piccolo taglio, però profondo. Provo una sensazione assurda, non l’ho mai provata prima. Oh almeno è da tanto che non la provo.
Un senso di vulnerabilità si impossessa di me, ecco cosa sento. Mi sento debole, mi sento fin troppo…umano. Sono vulnerabile come una qualunque persona dentro il mio mondo.
E’ un sensazione orribile.

L’ultima volta che ho provato questa sensazione è stato anni fa. Però non ricordo perché, è come se ci fosse un buco nella mia testa.
Mi guardo intorno e vedo l’oggetto della mia distrazione, quella fottutissima foto. I contorni sono color argento e riflettono la mia immagine. Ho gli occhi sbarrati e le labbra tremanti: faccio pena.
Non permetterei mai a nessuno di vedermi così. E’ imbarazzante e non mi sento sicuro di me come al solito.
Ho bisogno di risposte. Ci siamo noi due in quella foto, lei sembra proprio una bella ragazza, anche se dai miei trent’anni non riesco a giudicare bene una diciottenne, lei è diversa. I suoi occhi mi infondono una sicurezza innata che va a scontrarsi con la mia vulnerabilità. Mi sento più sicuro di quando sono al potere.
Questa è una bella sensazione.

In questa foto sono appena un diciannovenne, dovrei crederci? Come ha fatto quella sottospecie di bambina? Stanno cercando di sabotarmi per riuscire a farmi impazzire?
Tante, troppe domande mi girano in testa vorticosamente. Non ho neanche la forza di darmi una risposta, non la trovo. E’ così scontato il fatto che mi sento in trappola, come soggiogato da questo strano fatto.
In questa foto lei ha diciotto anni, ora ha diciotto anni.
Deve per forza saperne qualcosa.
Mi alzo in piedi, barcollo appena ma le mie gambe sono salde, dure. Per comandare un impero non si può barcollare. Bisogna essere fermi e duri. Questo sono sempre stato io. Ho resettato le emozioni tanto tempo fa.
Ho obbligato la Warner a venire a Denver con la ragazza, caso mai qualcosa andasse storto. L’ha fatta alloggiare in una nuova cella giusto per lei. Le pareti sono completamente trasparenti, possiamo vedere qualunque cose lei fa e lei può vedere ogni cosa che succede all’infuori del suo piccolo mondo. E’ così appagante vedere la gente star male per qualcosa che ho combinato io, mi da potere.

I corridoi sono larghi e ci cammino pacatamente, la sua cella è stata organizzata appena sotto il mio palazzo e posso controllarla come voglio. Non fa granché, la maggior parte del tempo si mette a scrivere sul suo diario ed io la osservo mentre impugna la matita con pollice e l’indice. E’ diventata quasi un’ossessione, devo dire. Penso che non capisca quando scende la notte perché va a dormire ad orari totalmente sballati tra loro. Se poi, quello si può chiamare dormire. Non ho trovato neanche una singola notte in cui lei non faccia incubi. La sento urlare, spesso, sempre. Non so neanche come facciano a sopportarla perché io non ce la faccio, mi da fastidio ed ho bisogno di dormire io.

Conta. Certe volte la sento contare, ad alta voce. Fa dei conti alla rovescia e puntualmente quando arriva alla zero gli portano da mangiare. Oppure la prendono fuori per un esperimento?
Io ho fatto questo? Sembra inquietante a vederlo. Ma se sono riuscito a manipolare talmente tanto la mente di una persona mi sento orgoglioso di me stesso. Una prima volta, per me.
Il flusso dei miei pensieri mi conduce lungo la cella, nessuna guardia si trova nei paraggi.
Mi fermo davanti al muro e la guardo. E’ rannicchiata sul letto con la testa appoggiata sulle ginocchia. Sembra una bambina per quanto è piccola, mi stupisco di come sia riuscito a sopravvivere anche solo una settimana qua dentro. E’ fragile, si vede subito. Appena un soffio e sembra cascare in mille pezzi, eppure dentro di sé ha una forza tale da prendere ogni giorno in mano una penna e scrivere.
Alza subito la testa appena mi vede, sembra sorpresa di vedermi in quello stato, sembra sorpresa di vedermi e basta. Anch’io sono sorpreso di vederla.
I capelli le arrivano fino al fondoschiena e ha gli occhi sbarrati. Le sue piccole labbra secche sono chiuse in una smorfia. Si alza e si avvicina a me, dall’altra parte di questo muro. E’ bassetta, le gambe magre e la vita stretta. La pelle color avorio ed i suoi occhi marroni scuro stonano. Sembra una bambolina di porcellana.
Rompo la cornice e la getto a terra. Appoggio la foto sul vetro e lei la osserva. All’inizio non sembra capire molto, appoggio il palmo della mano aperto sulla parete ed aspetto un suo movimento. Qualunque cosa che possa farla smuovere e farle capire. Sbarra gli occhi quando vede il suo viso e fa qualche passo indietro.

«Tu sai qualcosa.»

Dico, so che mi sente. Lei nega con la testa e si riavvicina a me. So che non dirà nulla perché sono quattro anni che non parla più. Dopo che ho richiesto l’uccisione di suo padre è stato tutto inutile, non ha più spiccicato parola, neanche una. Mi ricordo quella volta in cui le ho richiesto l’elettroshock: è morta per tre minuti. E’ stato divertente toglierle la vita, anche se non era la prima volta che lo facevo a qualcuno.
La cosa più divertente è stata ridarle la vita, un’altra prima volta per me.  

«Andiamo, parla. »

La incito ancora, deve sapere qualcosa per forza, altrimenti non sarei qui ad insistere.

“Fottiti idiota, non so un cazzo.”

Spalanco la bocca e la guardo, lei non ha neanche mosso le labbra. Avvicino ancora di più il viso al vetro e la guardo mentre inarca le sopracciglia. Lei non ha parlato, la fissavo tutto questo tempo.
Mi giro per vedere se c’è qualcuno dietro di me, però non vedo nessuno. Sono completamente solo, cosa che accresce ancora di più la mia curiosità.
Quando il mio sguardo si posa di nuovo su di lei, sta facendo qualcosa che non mi sarei mai aspettato. La sua mano è appoggiata sulla mia, lungo questa parete. Combaciano perfettamente, e, per un attimo, sono sicuro che siano state fatte apposta per stare insieme. Nei suoi occhi c’è paura, esitazione. Riesco a leggerla come un libro aperto. La mia bocca si spalanca e i miei occhi s’impiantano nelle sue iridi marroni, apro la bocca, più volte, per cercare di tirare fuori un pensiero logico, ma non ci riesco, è difficile. Sono soggiogato da lei e non posso far altro che respirare con la bocca. L'ultima volta che ho avuto un contatto umano quand'è stato? Sembra così difficile a dirlo perchè non lo ricordo. Non ho permesso a nessuno di toccarmi come lei non ha permesso a nessuno di ascoltarla.
Due anime sperdute da delle fobie che le attanagliano.
Questo è stato lo stesso gesto che ha fatto al padre prima che lui..

«Oh cazzo..»

Lei fa un sorriso malizioso mentre io inizio ad indietreggiare velocemente lasciando cadere la foto a terra. Allunga la mano destra verso di me la stringe a pugno, mi sento preso, lei mi ha preso. Mi gira di schiena e con un colpo secco sono di nuovo contro la parete. Respiro a malapena, colpa del botto contro i polmoni.
Tento di muovere una mano sono fermo, non riesco a muovermi, non riesco a far nulla. Vorrei gridare aiuto ma non ci riesco. Quella ragazzina ha un potere speciale, ed io non sarei morto stanotte.
Una presa sul collo mi toglie il fiato, non riesco neanche a pensare.

“Stai facendo un favore al mondo. Stai facendo un favore al mondo. Calmati. Fallo.”

Sento tutto ciò che dice, ma non con le orecchie. La sua voce.. è dentro la mia testa.
Parla a sé stessa, vuole uccidermi.
Non respiro più, la mia vista si offusca lentamente mentre il sangue mi va al cervello. E’ così che se ne andrà il più grande sovrano di tutti i tempi? Ucciso per colpa di una ragazzina che ha qualche segreto?
Non ci penso neanche.
Il mio viso va a fuoco, riesco a sentire gli occhi che per poco non mi escono dalle orbite. Un brivido mi sale lungo la schiena, è questo che si prova? E’ questa la paura?
L’ultima volta che l’ho sentita è stata quando credevo di aver perso tutto. La notte che hanno ucciso la mia famiglia durante la rivoluzione. Ero spaventato, annegavo nel mio stesso dolore.
Una fitta di rabbia mi fa digrignare i denti e mi agito sotto la sua presa.
Non può finire così, sono troppo potente per permettere ad una poppante che non sa usare i propri poteri di uccidermi. Alzo lentamente un braccio con tutta la forza che posso. Sto perdendo conoscenza, lo sento.
Devo oppormi con tutte le forze che ho, sono sicuro che lei non è abbastanza padrona dei suoi poteri per riuscire a sovrastarmi. Devo cavarmela da solo, o almeno resistere finché non torneranno le mie incompetenti guardie.
Lanciò un pugno lungo il muro vitreo con tutta la mia forza. Non riesco a vederla, ma sento che la forza è diminuita. Forse è tutta questione di concentrazione. Ne lancio un altro, due, tre.
Non posso creare crepe, il muro è a prova di proiettile. Ma posso distrarla, o almeno provarci.
Lancio un ultimo pugno, i miei occhi si chiudono. I miei polmoni si fermano, il mio cuore rallenta i battiti sempre di più. Ognuno di loro mi entra dentro, è come se riuscissi a vedere le mie costole e a volteggiarci intorno. Una sensazione talmente scollegata da ogni altra cosa che è quasi piacevole. Vedo il mio cuore smettere di battere e continuo a volteggiare sopra le mie vene.
Poi, smisi di volteggiare.

Le mie ginocchia toccano terra, il mio respiro si fa pesante, non sento più la mia testa, è come se fosse distaccata dal corpo. E se me l’avesse staccata davvero?
Riesco ad aprire lentamente le palpebre, sono a terra. Anche lei lo è e mi fissa. Siamo entrambi distesi con il petto sul pavimento ed una guancia che si sta raffreddando. Ci fissiamo, ci guardiamo, ci osserviamo.
Sento delle voci accanto a me, sopra di me, attorno a me, dentro di me.

“Che palle!”
“Dovevi tenere duro ragazzina.”
“Una volta che potevamo avere una speranza.”


E’ tutto dentro la mia testa, attorno a me ci sono delle voci preoccupate, o almeno che si fingono preoccupate. Percepisco solo il mio respiro pesante, il sangue che torna in circolo, il mio cuore che va in tachicardia. Il suo labbro inferiore trema, è spaventata, alla ricerca di un qualcosa di umano che possa salvarla. In cerca di qualcuno che la salvi come loro hanno salvato me.
Appoggio la mano sul vetro, lei la fa combaciare con la mia prima di chiudere gli occhi.
Raggiungendola, sento il calore della sua mano arrivare alla cassa toracica fino a rallentare il mio cuore.
Un’ultima frase raggiunge la mia mente.

“Dovevo almeno provare.”

Evelyn’s p.o.v

Se non fossero arrivati così di fretta, l’avrei ucciso nel giro di pochi secondi. Era una questione d’onore, più che di qualsiasi altra cosa. Lui doveva pagare.
Una nuova me rinasce, la sento montarmi dentro. Una me rivoluzionaria, cinica, egoista, vendicativa. Una me che crede nella speranza più di chiunque altro.
L’avrei fatto, ne avrei avuto il coraggio, ci sarei riuscita se non fosse stato per la Warner.
Ha mandato una scarica elettrica lungo tutta la stanza ed ho sentito un dolore assurdo, come se quelle cicatrici si fossero riaperte tutte insieme in un attimo rivangando ogni dolore. Ogni attimo, agonia su agonia.
Non la capisco la Warner, a volte sembra che mi vuole aiutare e altre volte sembra solamente che stia dalla parte del Dittatore. Non capisco come può avere due facce, come può permettere il dolore di tutta questa gente e perché mi ha fermata. Tutto il mondo avrebbe smesso di soffrire, almeno. Avrei avuto l’opportunità di dimostrare quando valgo, quelle cicatrici avrebbero avuto un senso, finalmente. Avrei passato le ultime ora della mia vita crogiolandomi negli allori, avrei salvato l’America.

Questi pensieri non fanno altro che farmi agitare e smuovere l’oceano che tengo in testa. Sono in alta marea, sono in balia dei rimorsi e della depressione che provo. Vorrei uscire di qui, rifarmi una vita. Dimenticare tutto quanto, anche se sembrerebbe impossibile.
Accetterebbero mai una ragazza come me? Mi rinchiuderei da qualche parte solamente per tenere la gente lontana da me. Non merito la compassione, non merito l’amore, non merito nulla.
I miei muscoli sono pronti all’azione e cerco di alzarmi di scatto. Un soffitto messo troppo in basso mi fa battere la testa ed impreco a bassa voce cercando un appiglio o un rifugio in cui nascondermi. C’è di nuovo buio. Un altro esperimento? Una nuova cicatrice? Dove sono? Allungo la mano nel buio e ci sta un’altra parete.
Non può essere, no.
Continuo a toccare e vedo che ci sono pareti dappertutto. Sono rinchiusa, sono un topo in gabbia, sono in una scatola. Non possono avermi rinchiusa, che scopo avrebbe tutto questo?
Penso che la mia morte sia vicina, esco da questo mondo nello stesso ed insulso modo in cui ci sono entrata.

L’ultima volta che ho visto qualcuno rinchiuso, non sono riuscita a salvarlo. Dovrei veramente salvare me stessa? Non ne sono capace. Il pensiero della gente e della felicità delle altre persone mi attanaglia, non penso mai a me. Non sono sicura che riuscirei a gestire un potere così grande non pensando agli altri.
Porto la ginocchia al petto e il mio viso si comprime contro esse. Respiro a fatica.
L’ultima volta, l’ultima volta, l’ultima volta.
Ho avuto così tanti incubi da quel giorno che sono arrivata a non dormire per notti di fila. Passavo tutta la notte a rileggere le pagine di diario. A rileggere le pagine in cui descrivevo i miei incubi e a ripensarci. Non merito neanche il sonno?

Inizio a gridare disperatamente, ho la voce rotta. La scatola mi opprime i sensi e non riesco a muovermi, è così che ci si sente ad essere vulnerabili, evidentemente. Ma io lo sono sempre stata, una pedina da gioco che potevano spaventare quanto volevano e a loro piacimento.
Ci sono state delle volte in cui, prima dell’avvenimento di mio padre, mi rinchiudevano nel sonno e mi mandavano incubi. Non riuscivo mai a sconfiggerli e mi sentivo così inutile anche nei sogni. Hanno sempre vinto loro, dopo quattro anni, dopo millesettecento-sessantanove esperimenti e la mia resa. La mia vita nelle loro mani. Loro mi hanno sempre battuto in tutto ed io sono stata una perdente.

Le mie grida si fanno sempre più dissolute, si suicidano contro le pareti di quella cella e rimbalzano l’una contro l’altra, vorrei poter morire subito, incontrollata. Per questo ho tentato così tanto volte il suicidio, per poter decidere io la mia morte, visto che non mi è stato permesso di scegliere la mia vita.
Non ho mai avuto scelte, e ora che la morte sembra così vicina non posso fare a meno di urlare per tirare fuori un dolore continuo di anni di reclusione e sfruttamento. Mi strofino più volte i palmi della mani lungo i polpacci. La mia pelle è ruvida, tartagliata. Le braccia, le gambe e lo stomaco sono pieni di tutto questo orrore. Se sapessi usare per bene il mio potere lo userei per sventrarmi ed appianare la mia pelle.
Le mie urla si fanno stancanti, quasi soffocate. Non ho saputo scegliere neanche a chi regalare i miei ultimi sorrisi.

«Evelyn?»

Sento un sussurro e vari toc-toc provenire da sopra la mia testa. Alzo il viso ed inizio a spingere contro quel soffitto con tutta la forza che posso.
Grido istericamente con la voce rotta dal pianto. Potrebbe essere chiunque, ma è molto meglio che morire qua dentro. Spingo con tutta la forza che posso. Tutte le mie speranze iniziano a scivolare via, solamente quello mi ha tenuta viva tutti questi quattro anni. Credo che sarebbe meglio per me se rimanessi qua dentro, ma una parte di me non vuole accettarlo. Non ho nulla da dare nella vita ma c’è questa parte di me che vuole vivere e che non si arrenderà facilmente, anzi credo che non lo farà mai.
Un botto proviene da sopra la mia testa e mi fa tornare a sedere. Il soffitto viene strappato via di scatto e un paio di braccia mi tirano su.

«Evelyn? Mi senti? Ti prego svegliati.»

Riconosco la voce. Non capisco cosa vuole da me. Ho fallito un altro esperimento? Io sono un fallimento che cammina, a malapena ormai. I miei occhi sono gonfi e quelle braccia mi sostengono in piedi mentre i miei occhi socchiusi cercando i abituarsi alla luce. Mi fa male la gola, tanto. Non riesco ad esprimere nessun gesto o pensiero logico senza che tutta la pioggia che ho in testa diventi un violento acquazzone.

Mi sento trasportata lungo tante sale, tanti corridoi, guardo tutto in silenzio e cerco di ascoltare inutilmente le loro conversazioni. Ovviamente sto per morire, ho cercato di assassinare il Dittatore ed ora lui ha quello che gli serve. Io non servo più a nulla, ora con il suo nuovo potere può riuscire a distruggere questa diceria sulla nuova rivoluzione. Lui non può lasciarlo permettere. Anche con il minimo segnale potrebbe far scatenare una guerra, ed io non sono riuscita ad evitarlo.

«Dannazione svegliati.»

Apro completamente gli occhi e mi ritrovo oppressa in quelli verdi della Warner che mi scrutano con attenzione. E’ un altro esperimento, evidentemente vogliono uccidermi, quelle iridi verdi mi squadrano con un tono beffardo e sono sicura di essere riuscita a vedere un accenno di sorriso dentro di lei.
Mi alzo da terra e mi massaggio la testa, non so neanche come ci sono finita a terra. I miei pensieri erano tutti concentrati sulle frasi epiche che posso dire al momento della morte.
Mi guardo intorno e realizzo che non so dove mi trovo. Ho passato quattro anni qua dentro e ancora non mi oriento. Un’altra cosa in cui faccio schifo, io non merito nulla.
L’ambiente è grande, lugubre, sembra di essere sottoterra. Osservo la Warner che mi guarda paonazza e studio le sue espressioni. Il mio corpo rimarrà qui, non hanno neanche voglia di seppellirmi, la mia vita non ha senso. Le lacrime mi pizzicano gli occhi ed indietreggio con le spalle al muro. Voglio che lei faccia in fretta. Non ho intenzione di ricominciare a parlare ora.
Il mio camice bianco è sempre lì, accompagnato dai miei lunghi capelli marroni ed i miei piedi nudi. Sento una risata nervosa provenire da lei, si può essere così tanto crudeli?
Mi guardo intorno con la vista offuscata dalle lacrime ed evitando il suo sguardo cerco di sembrare forte, sto costruendo un muro tutto attorno a me che mattone per mattone si sta rinsaldando e che non crollerà mai più. Ma ora quel muro è instabile, potrebbe crollare da un momento all’altro trascinandomi via e portandomi con sé in un luogo remoto. Dove forse starei meglio e riuscirei a sorridere. Sono quattro anni che la mia bocca è inflessibile. Non sorrido, non parlo, non faccio alcune genere di faccia. Ho imparato a sopportare e tenere duro, anche se ad ogni esperimento un pezzettino di me crollava piano piano. Si sono portati via la parte migliore di me per lasciarmi sola ed agonizzante con l’Evelyn spaventata, con l’Evelyn vulnerabile e difficile da gestire. Non ho mai conosciuto questa parte di me, e di certo non avrei voluto mai conoscerla. Allo scoperto vuole solo nascondersi e non posso biasimarla, se ha paura. Perché con quella paura ci ho dovuto convivere tutta la vita. E non se ne andrà mai del tutto.
Sento un tocco sulla guancia ed apro gli occhi, lei mi sta accarezzando il viso. Premo la mia guancia sul palmo della sua mano e delle lacrime continuano ad uscire dai miei occhi. Un’ultima carezza prima che io vada io?
Apro gli occhi e la guardo mentre mi sposta delle ciocche di capelli dietro le orecchie. Lei di sicuro deve sapere il perché di quella foto, anzi lo so. L’hanno fatta per ferirmi e per farmi del male. Volevano confondermi le idee, ma non mi avranno così facilmente.

«Apri gli occhi cara.»

Si allontana da me e preme un bottone sulla parete. Il muro alla mia sinistra si rivolta e vedo un centinaio di persone che mi fissano esitanti. Sono tutte ammucchiate come sardine in una scatoletta. Mi viene l’asma solo a guardarli.

«Benvenuta nella resistenza.»
 

E tutta la folla, si alza in un grido.


 

BUONPOMERIGGIO CENTE'S.

Salve, a tutti, eccomi qua askjcasj
Come lo trovate questo capitolo, ho reso l'idea? c:
Non so che dirvi AHAHAHAHAHAHAHA.
Grazie per seguire questa storia e recensire, siete la dolcezza siete.
Comunque, ho una domanda per voi lol
Chi segue la mia fanfiction sul mio account personale
(se me la chiedete nelle recensioni ve la linko, non mi va di fare pubblicità lol)
sa che io di solito scrivo in terza persona,
e che questa è la mia prima fanfiction in prima persona e col tempo al presente.
Secondo voi com'è meglio, in prima persona o in terza come nell'altra fic?
Mi servono consigli perchè dovrei iniziare una nuova fic e non so come narrarla çwç
Detto questo, la vostra ale vi ama tanto tanto.
Alla prossima bellezze.


-ale.



 

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