Adopt my love [INTERROTTA]

di nevertrustaduck
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Welcome to my life ***
Capitolo 3: *** Here's my number, so call me maybe! ***
Capitolo 4: *** Never stop dreaming ***
Capitolo 5: *** Don't leave me like this ***
Capitolo 6: *** The final blow hits you ***
Capitolo 7: *** Why are you doing your best to avoid me? ***
Capitolo 8: *** I will never be with you ***
Capitolo 9: *** If you're broke, I'll mend you ***
Capitolo 10: *** That thrill that I feel when you look at me ***
Capitolo 11: *** Out on your corner in the pouring rain ***
Capitolo 12: *** "I'm faithful and worthy of you" ***
Capitolo 13: *** Sparks fly ***
Capitolo 14: *** It's too late ***
Capitolo 15: *** I know fear is what it really was ***
Capitolo 16: *** I'll be your warrior of care, your first warden ***
Capitolo 17: *** The lingering question kept me up ***
Capitolo 18: *** We're dead if they knew ***
Capitolo 19: *** Captive ***
Capitolo 20: *** Together ***
Capitolo 21: *** The Great Escape ***
Capitolo 22: *** Consequences ***
Capitolo 23: *** (not) Gone ***
Capitolo 24: *** Weakness ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


-Prologo
 


Aprii gli occhi, tutto intorno a me era confuso e caotico tanto da non farmi capire dove fossi. Mi alzai a fatica da quello che doveva essere un pavimento. Una superficie liscia e terribilmente fredda, tanto da riuscire a chiudermi lo stomaco in una morsa amara.
All’improvviso una figura dall’altra parte di quella specie di stanza catturò la mia attenzione: mio padre.
Stava dritto in piedi , proprio come me, e tendeva una mano verso la mia guancia. Cominciò ad avanzare ondeggiando paurosamente come un lenzuolo steso ad asciugare.
Istintivamente cercai di allontanarmi. Non che avessi paura che potesse farmi del male, non mi aveva mai toccata, solo che non ero ancora pronta per quel contatto.
Cominciai a correre, cercando l’uscita di quella stanza, ma dovunque andassi trovavo solo una parete liscia e compatta che mi costringeva a cambiare direzione.
Ogni volta che guardavo indietro trovavo sempre mio padre ondeggiante e pronto a raggiungermi, portandosi dietro il solito odore forte dell’alcool.
Cominciai a essere stanca di correre, stanca di cercare qualcosa che sapevo non sarei mai riuscita a trovare. Per assurdo ero anche stanca di respirare. Sentii le forze abbandonarmi, le palpebre farsi pesanti, le ginocchia piegarsi sotto il mio peso. Mi accasciai di nuovo sul pavimento, gelido come prima, e lasciai che i sensi mi abbandonassero del tutto.
«Jess» una voce mi giunse da lontano.
Rimasi molto tempo in attesa di un altro richiamo, ma non arrivò, così pensai di averlo immaginato.
«Jess» mi chiamò di nuovo la voce.
Allora non ero svenuta completamente.
Volevo alzarmi e cercare chi mi stesse chiamando, ma piccole scosse me lo impedirono, costringendomi a terra.
Chissà, forse era arrivata la fine.
Le scosse aumentarono d’intensità, costringendomi ad aprire gli occhi.
La stanza buia e fredda sparì, portando con sé anche mio padre, lasciando il posto ai grandi occhi azzurri di Tess che mi guardavano perplessi.
«Era ora, Jess! È da mezz’ora che ti chiamo»
Adoravo i suoi modi particolari di augurarmi il buon giorno.
Per tutta risposta mi stropicciai gli occhi e mi misi lentamente seduta sul letto.
Tess mi schiaffò in mano un bicchiere di quello che sembrava succo d’arancia.
«Come hai fatto?» chiesi alludendo al succo e riprendendo in fretta le mie capacità connettive.
«C’era Jeremy al controllo della mensa, sono riuscita a passarlo facilmente» mi disse ammiccando.
«Ora però sbrigati a berlo, o qualcuno se ne accorgerà» mi avvertì sedendosi sul letto accanto al mio e legando i ricci biondi in una coda di cavallo.
«Tutto bene? Ti agitavi nel sonno prima» mi chiese ritrovando il tono premuroso che mi riservava sempre.
«Sì Tess, tutto a posto. Il solito brutto sogno» le risposi liquidando la cosa con un gesto della mano, dopodiché mi affrettai a bere il mio succo.
Mi sorrise, poi si fece di nuovo seria.
«Jess, volevo chiederti… potresti coprire il mio turno oggi, sai è giorno di visite e sono due anni che… »
«Certo Tess, stai tranquilla, nessun problema» le dissi alzandomi e andando a prendere dall’armadio la divisa che usavamo nel negozio di abbigliamento.
Indossai la gonna a tubino nera, la camicetta bianca a mezze maniche e annodai il foulard di seta verde al collo. Appuntai sul davanti il cartellino con il mio nome e presi dalla scarpiera le ballerine in vernice. Presi la spazzola che avevo sul comodino, cercando invano di domare i miei capelli perennemente impicciati.
«Da qua leoncina, ci penso io» disse Tess arrivandomi alle spalle e provvedendo a pettinarmi i capelli in una treccia meravigliosamente morbida che lasciò ricadere tra le mie scapole.
«Grazie» le dissi portando una mano dietro la schiena a toccare il suo operato.
«Grazie a te Jess» mi disse abbracciandomi.
Ebbi appena il tempo di essere avvolta dal suo profumo caramellato e di sussurrare un piccolo “non c’è di che” prima che sciogliesse l’abbraccio e corresse via.
la capivo infondo. Erano due anni che per problemi vari non riusciva a vedere sua madre, ora finalmente ne aveva l’occasione e per me non c’era cosa più gratificante che renderla felice. Si era presa cura di me come una sorella maggiore da quando ero arrivata in orfanotrofio, anche se aveva soltanto due anni più di me.
Già, non l’avevo ancora detto: vivo in un orfanotrofio. Mi ci trovo da quando ho cinque anni, quando mia madre morì e mio padre fu reputato inopportuno per crescermi dato il suo stretto rapporto con l’alcool. Non ricordo molte cose precedenti il mio arrivo, così Tess oltre a essere la mia migliore amica è stata la mia famiglia.
Mi diedi un’ultima occhiata nel piccolo specchio che avevamo appeso alla parete e scesi di sotto, pronta a cominciare il mio turno di lavoro.
L’orfanotrofio era proprio sopra il negozio, così non dovetti far altro che scendere e presentare il mio tesserino all’entrata.
«Sono Jessica Switcherson, copro il turno di Tess Somerset» dissi aiutando l’inserviente che non trovava il mio nome nel quadro con turni del giorno. Scribacchiò qualcosa sul foglio che aveva davanti e mi restituì il tesserino, indicandomi il bancone con il registratore di cassa.
Lavoro abbastanza facile: niente clienti isteriche, nessun consiglio da dispensare, solo passare gli acquisti davanti al lettore e comunicare il totale.
Era lunedì, non sapevo quanto sarebbe stato affollato il negozio, dato che di solito coprivo turni del sabato e della domenica per non saltare giorni di scuola.
Tess si era diplomata il giugno passato, così ora lavorava indistintamente qualsiasi giorno della settimana. Io invece avevo appena iniziato il quarto anno, e sinceramente preferivo servire clienti isteriche al negozio che indossare quel’orrenda divisa marrone da orfanella per andare a scuola ed essere sempre derisa da tutti per quello che non avevo: una vera casa, una famiglia. Ormai neanche mi presentavo più i giorni delle adozioni. Chi avrebbe voluto in casa sua una ragazza diciassettenne, una perfetta sconosciuta, etichettata da tutti come “ragazza difficile”. Prova a crescere tu nello Universal Rainbow Institute, poi vediamo quanto sei facile.
Poi non capisco il dare questi nomi pieni di gioia e felicità. I ragazzi che stanno in un orfanotrofio non hanno una famiglia, un posto sicuro dove stare, sono stati abbandonati o non hanno altra scelta che vivere la. Queste cose hanno gioia e felicità pari a zero.
Mi ci volle poco tempo per capire che il deserto dei Tartari sarebbe stato sicuramente più affollato del negozio quella mattina, così aiutai le altre ragazze a mettere a posto alcuni capi sugli scaffali.
Era quasi mezzogiorno quando entrò una signora elegante. Troppo elegante per un negozio come il nostro.
Il suo tailleur era molto raffinato, ma qualcosa nella sua espressione la differenziava dalle solite riccone spocchiose. I suoi occhi erano dolci, buoni, sembravano accarezzare tutto, ovunque si posassero.
Stavo per tornare alla mia postazione dietro la cassa, ma un tocco leggero sulla spalla mi fece voltare.
«Scusi» disse cortesemente la signora richiamando la mia attenzione.
«Potrei chiederle un consiglio?» mi chiese dirigendosi verso uno degli scaffali che avevo appena finito di sistemare.
Feci cenno di sì con la testa e la seguii. Ancora non mi era chiaro il perché l’avesse chiesto proprio a me, dato che c’erano molte altre ragazze nel negozio che, si vedeva, di moda ne capivano molto più di me.
«Pensavo a questa blusa come qualcosa di informale, da mettere sotto qualche giacca leggera, ma non riesco a scegliere il colore» mi spiegò indicando con il dito prima una blusa beige e poi una verde.
Cercai di fare mente locale su quello che diceva Tess quando dava dei consigli alle clienti. “Il beige è un classico, sta bene con tutto”.
«Il beige è un classico, sta bene con tutto» ripetei. Poi però accostai la blusa verde al suo viso, notando come spiccava qual colore con i suoi capelli castani.
«Però penso che il verde dia più personalità, perché è… diverso dal classico» dissi cercando di far capire che ero assolutamente consapevole di ciò che stavo dicendo. Cosa assolutamente falsa dato che mi stavo arrampicando sugli specchi.
«Credo che abbia ragione, il verde è più allegro» disse la donna sorridendo.
Sorrisi a mia volta mentre portavo il capo alla cassa. Qualcuno aveva seguito un mio consiglio, ero abbastanza fiera di me.
Iniziai a digitare l’importo, ma un forte giramento di testa mi costrinse ad appoggiarmi al bancone. Solo allora realizzai di essere a stomaco vuoto dal giorno prima, dato che ero stata costretta a saltare la cena perché avevo dimenticato il mio turno di pulizia dei bagni.
«Tutto bene cara?» chiese la signora premurosamente.
Accennai un mezzo sorriso, ma la stanza non ne voleva sapere di smettere di girare attorno a me.
«Scusi, giusto un attimo e… » iniziai a dire.
«Tra quanto finisce il tuo turno?» mi chiese.
Mi sforzai al massimo per far fermare l’orologio e per guardare l’ora che indicava.
«Cinque minuti fa» risposi flebilmente vedendo che era mezzogiorno e cinque.
«Allora vieni con me» disse con un tono che non ammetteva repliche.
«Non posso… lei neanche mi conosce» mi sforzai di replicare.
«Sei una ragazza che ha bisogno di aiuto e questo mi basta. Parlerò io con il tuo capo, se è questo che ti preoccupa, ora andiamo a mangiare prima che tu svenga» disse la donna premurosamente posando venti dollari sul bancone della cassa.
«Ma la sua blusa non costa così tanto!» cercai di protestare mentre mi prendeva sottobraccio.
«Il resto è per il tuo consiglio e anche per te. Adesso muoviamoci, sei piuttosto pallida» disse mantenendo lo stesso tono, accompagnandomi fuori dal negozio.
Non ebbi la forza di replicare di nuovo, mi lasciai guidare da quella donna in un ristorante.
Sapevo benissimo che non avrei dovuto seguirla, anche perché era una perfetta sconosciuta, ma qualcosa nei suoi occhi mi diceva che potevo fidarmi, che sarebbe andato tutto bene.
Forse l’unica cosa che impediva al sorriso di sparire dal mio volto era che qualcuno si stesse preoccupando per me, si volesse assicurare che stessi bene.
Ero finalmente nei pensieri di qualcuno, per una volta.




Salve a tutti!
Grazie per avermi dato fiducia leggendo questa storia! Spero solo che vi sia piaciuto come inizio e che vogliate saperne di più!
Che dire...ci vediamo presto con il prossimo capitolo!
Un bacione meraviglie ❤
Miki

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Capitolo 2
*** Welcome to my life ***


-Welcome to my life




Cercai di non mangiare ai quattro palmenti come ordinava il mio stomaco, non volevo pesare troppo su quella donna.
Mi osservò per tutta la durata del pranzo con i suoi dolci occhi castani, erano così buoni. Continuava a sorridermi, incoraggiandomi a prendere un’altra porzione di tutte le portate, cosa che come ho già detto non feci.
«Grazie mille signora… » solo in quel momento realizzai che non sapessi ancora come si chiamasse.
«Denise, chiamami soltanto Denise, cara. E dammi del tu per favore» mi chiese senza abbandonare il suo sorriso gentile.
«D’accordo. Perché sta… stai facendo questo per me?» le chiesi, dato che non ero ancora riuscita a trovare una risposta per quell’interrogativo.
Abbassò lo sguardo e si poggiò comodamente allo schienale della sedia prima di rispondermi.
«Quando stamattina sono entrata in quel negozio e ti ho vista, qualcosa nei tuoi occhi mi ha fatto capire che eri una ragazza speciale. So che le ragazze di quel negozio provengono tutte dall’orfanotrofio ed era da un po’ di tempo che volevo aiutarne una. Non ti dirò che ti capisco o, peggio ancora, che ti compatisco perché mentirei ma… mi farebbe piacere essere un volto amico per qualcuno che abita lì dentro» mi disse con il suo solito sorriso sincero.
Caspita, aveva fatto centro.
Le sue parole mi resero molto felice. Qualcuno voleva essere mio amico. Non importava se Denise fosse molto più grande di me, a me importava solo il fatto che volesse essere mia amica.
Aveva detto di aver trovato qualcosa di speciale dentro di me. L’aveva detto giudicando i miei occhi.
Questa sì che era una sorpresa, dato che era una parte del mio corpo dove io non mi soffermavo più di tanto.
Li avevo sempre considerati come due fondi di una bottiglia di Heineken vuota. Stesso colore, stessa capacità. Vuoti.
Era sorprendente che attirassero l’attenzione di qualcuno, e lo era ancora di più che questo qualcuno li usasse per capire che ero una ragazza speciale.
Uscii dai miei pensieri, riflettendo sul fatto che Denise volesse essere per me un volto amico, ma che non sapesse ancora chi fossi.
«Anche a me piacerebbe avere un’amica al di fuori dello Universal Rainbow. Comunque io sono Jessica Switcherson» dissi presentandomi, finalmente.
Rimase un attimo in silenzio facendo accordare alcuni pensieri nella sua testa. Parvero piacerle perché ritrovò il suo proverbiale sorriso poco dopo.
«È un bellissimo nome» si complimentò.
«Anche Denise lo è» dissi a mia volta.
«È da tanto che sei lì, Jessica?» mi chiese gentilmente, impedendo categoricamente alla mia testa di associare la voce “invadenza” a quella domanda, come avrei fatto di solito.
«Da dodici anni» risposi con tranquillità.
Continuavo a crederlo sempre di più, quella donna era la fiducia fatta persona.
«Mio padre è ancora vivo ma… non posso stare con lui. E nessuno mi ha mai adottata in tutti questi anni, mi mancava sempre qualcosa. Non penso che qualcuno lo faccia ora, ormai è tardi» dissi giocando con l’ultimo goccio d’acqua che era rimasto sul fondo del mio bicchiere.
«Mai abbandonare la speranza» mi disse Denise posandomi una mano su una spalla.
«Ricordati che il verde me l’hai consigliato tu, ed è il colore della speranza. Non puoi perderla» continuò accompagnando la prima frase con una leggera risata.
Sorrisi a mia volta, evitando però di promettere qualcosa che non avrei fatto. Non sarebbe più arrivato nessuno per me. Avrei aspettato i diciotto anni e poi sarei andata via dall’orfanotrofio insieme a Tess. Saremo state libere, felici per una volta.
Vidi Denise guardare l’orologio che aveva al polso e sbiancare di colpo.
«Scusami cara, sono veramente in ritardo, devo andare a prendere mio figlio a scuola» disse alzandosi.
«Non preoccuparti, vai pure hai fatto anche troppo per me oggi» la congedai con un sorriso.
«Denise posso farti solo una domanda?» le chiesi fermandola, realizzando che, a parte il nome, non sapevo veramente nulla di lei.
«Me la stai già facendo» rispose lei dolcemente.
Non me ne ero resa conto. Ero leggermente imbarazzata per quella risposta, a volte non sapevo proprio gestire le parole.
«Hai dei figli?» le domandai nuovamente.
«Sì, ne ho quattro, sto andando dal più piccolo. Sono la mia gioia» disse con gli occhi che le brillavano.
«Devi esserne molto fiera» osservai vedendo amore ed orgoglio farsi largo sul suo volto.
«Adesso vai, non vorrei che aspettassero per colpa mia» le dissi invitandola ad andare.
«D’accordo Jessica, ci vediamo presto» mi disse allontanandosi.
«Certo, presto» dissi sottovoce, riflettendo sul fatto che sarebbe stata già una grande cosa riuscire a rivederla. Con la ferrea disciplina dell’orfanotrofio la vedevo difficile riuscire ad avere di nuovo una libera uscita a breve termine.
Quello che non potevo immaginare era la verità che si nascondeva in quelle parole. Contro ogni aspettativa avrei rivisto Denise prima di quanto potessi immaginare.
***

Tess aveva saltato la cena quella sera e si era fatta assegnare il turno notturno di pulizie. Questo significava solo una cosa: l’incontro con sua madre non era stato dei migliori e aveva voglia di stare da sola. Non parlava neanche con me a volte, preferiva chiudersi a riccio in se stessa per non permettere a nessuno di scoprire le sue emozioni o, peggio ancora, di aiutarla. Era fatta così. Bisognava conoscerla per capire quanto fosse speciale in realtà. Solo, aveva bisogno dei suoi tempi.
Infatti quella mattina la sentii uscire molto presto per andare al lavoro, stava ancora metabolizzando il colloquio.
Io spensi la sveglia alla solita ora, indossai di malavoglia la divisa di quel marrone meraviglioso e andai al refettorio a fare colazione. Oggi non ci sarebbe stata nessuna Denise a colmare i miei cali di zuccheri, mi conveniva riempirmi lo stomaco per quello che potevo.
Finii di togliere le briciole dalle pieghe della mia gonna in tartan e tornai a prendere i libri nella mia camera. Non capivo perché dovessimo avere la divisa di un colore differente dagli altri. Era il tuo biglietto da visita, in questo modo tutti sapevano cosa eri.
Era un po’ come dire “Ehilà, sono un orfano. I miei vestiti sono differenti dai tuoi perché non potrò mai essere come te”. Grazie mille questo sì che è confortante. Alla faccia della non-discriminazione.
Mi avviai a scuola insieme agli altri “in marrone”. Sì, è così che ci chiamavano a volte quei figli di papà. Meglio risparmiarvi gli altri che sentivo sussurrare di sfuggita al nostro passaggio.
Le lezioni si svolsero in fretta per fortuna, e non mi capitò di trovarmi nello stesso corso con “i blu” peggiori, ringraziando il cielo.
Ma Denise aveva ragione: mai perdere la speranza. C’è sempre qualcuno pronto a farti qualche sorpresa. Quando ti prefiggi un obiettivo prendi sempre in considerazione l’idea che la vita ha già in mente di scombinarti le carte in tavola, mandandoti da un’altra parte.
Ma io quest’altra parte non avrei voluto conoscerla. Mai.
Ero seduta ad un tavolo della mensa ed ero sola, tu guarda che novità. Stavo mangiando quella che avrebbe dovuto essere pizza, ma che in realtà assomigliava molto a gomma farcita, così non mi accorsi che qualcuno si stava avvicinando.
«Potresti toglierti? Stai occupando il mio posto» disse qualcuno.
Mi ci volle un po’ per realizzare che ce l’avesse con me.
«Scusa?» chiesi sollevando gli occhi dal piatto, volendo guardare in faccia quel campione di gentilezza.
«Quello dove sei seduta è il mio posto. Dovresti alzarti» continuò imperterrito.
A parlare era un ragazzo che stava in piedi, dall’altra parte del tavolo, e che portava un vassoio in mano. Dalla sua divisa era chiaro che apparteneva all’elite, ma questo avrei potuto capirlo anche senza guardarlo. Aveva capelli castani e ricci e occhi color cioccolato che contrastavano decisamente con i suoi modi di fare.
«Non credo proprio. Quando sono arrivata non c’era nessuna riservazione e non cederò di certo il mio posto al prepotente di turno. Ce ne sono tanti liberi: ne cerchi un altro come tutti» risposi tranquillamente.
«Quindi io sarei il prepotente di turno» proseguì posando il vassoio su un tavolo vicino.
«Risposte come “sì” in questi casi sono troppo banali?» chiesi ironicamente.
«Ma io non sono prepotente! Sto solo reclamando il mio posto, quindi adesso per cortesia và da un’altra parte» ebbe il coraggio di replicare.
Povero ingenuo, non sa con chi ha a che fare.
«No, tu stai parlando in maniera sgarbata con una persona, e questo oltre che fare di te un prepotente, ti rende anche un gran maleducato» risposi lasciando definitivamente perdere il mio pranzo.
«Chi sei tu per dirmi queste cose?» mi chiese tagliente.
«Sono una persona! E come tale merito un po’ del tuo rispetto» dissi alzandomi in piedi.
«Sei solo un’orfana. Puoi tenerlo il posto, mi fai pena»
Ora aveva passato il limite. Io non facevo pena a nessuno. E tecnicamente non ero neanche un’orfana.
«Se l’alternativa è essere una prepotente, presuntuosa, ricca, viziata figlia di papà come te preferisco essere me e fare pena tutta la vita» gli dissi glaciale.
«Come ti permetti di giudicarmi?»
«Come ti permetti di farlo tu. Il colore di una divisa non ti rende migliore di me. Potresti esserci benissimo tu al mio posto ora» dissi chiaramente.
«Già ma non ci sto. Peccato, dev’essere bello essere come te, senza-famiglia» disse canzonandomi.
Non riuscii più a controllarmi. La mia mano scattò da sola per raggiungere la sua guancia, lasciando l’impronta delle cinque dita in rosso.
«Chiamami un’altra volta così e ti uccido, è chiaro?» dissi senza pensare minimamente allo scherzo.
«Tremo dalla paura. Cosa potrebbe farmi una come te?» mi disse mentre in volto gli si dipingeva un sorrisetto beffardo.
«Meglio non chiederselo. Un giorno potresti venirne a conoscenza e ti rovineresti l’effetto-sorpresa» dissi lanciando la mia ultima battuta prima di abbandonare il campo di battaglia. Dovevo essere la prima, ovviamente.
Ma altrettanto ovviamente uno dei responsabili dell’istituto era scattato verso di noi non appena avevo alzato le mani su quel ragazzo, mandando in fumo la mia uscita di scena.
«Cosa succede qui?» chiese rivolgendosi più al ragazzo che a me.
Cominciammo a parlare simultaneamente. Ognuno cercava di far pendere dalla sua parte l’ago della bilancia, ma il risultato fu solo un gran baccano che costrinse il responsabile a zittire entrambi con un cenno.
«Chi è stato il primo ad alzare le mani?» chiese poco dopo.
«La prima e l’unica: lei» disse il ragazzo senza esitazione, indicandomi con un gesto della mano.
Era inutile negare, tanto valeva spiegare e farla finita.
«È vero, ma…»
«Niente “ma” signorina» mi interruppe il responsabile.
«Avevo i miei buoni motivi, non mi diverto a dare schiaffi a destra e a manca secondo come mi alzo la mattina!» tentai di replicare.
«Ah no?» mi chiese il ragazzo.
Quant’era simpatico. Quell’ironia nella sua voce davvero mi faceva morire dalle risate. Se avessi potuto in quel momento mi sarei impegnata a disegnargli la stessa fantasia anche sull’altra guancia.
«Non ne dubito signorina. Ma la violenza fisica, a differenza di quella verbale, necessita di una punizione» riprese il responsabile scrivendo qualcosa su un foglietto che non esitò a consegnarmi immediatamente.
«Cinque turni di servizio in cucina?» chiesi strabuzzando gli occhi, leggendo ad alta voce.
«Da coprire entro il termine di venerdì pomeriggio» puntualizzò, girando poi sui tacchi e tornando da dove era venuto.
«Cinque tesoro, come le dita di una mano» disse il ragazzo indicandosi la guancia.
«Chiamami tesoro un’altra volta e giuro che te la faccio mangiare, la mano» risposi tagliente.
«Meglio per te che vada, non vorrai passare il resto della tua vita nelle cucine?» mi chiese con un sorriso vittorioso in viso, avvicinandosi.
«Ne varrebbe la pena» dissi avvicinandomi a mia volta prima di uscire di scena, questa volta definitivamente.
Riguardai sconsolata il foglietto che stringevo tra le mani. Oltre al danno pure la beffa.
Non so, la frase “la legge è uguale per tutti” è forse una frase di circostanza come quelle che si trovano nei cioccolatini, o come i “per sempre” e i “non ti lascerò mai”?
Sì, date le circostanze.
Odiavo quel ragazzo arrogante, sputa-sentenze e quel suo dannatissimo alone di superiorità che si portava dietro.
Aveva vinto, per questa volta.
Ma si era messo contro la ragazza sbagliata.




Cciao meraviglie ❤
Volevo solo ringraziarvi :') sei recensioni come esordio è qualcosa di fantastico!
E ringrazio anche le due fantastiche ragazze che l'hanno inserita tra le preferite! Grazie per la fiducia! :D
Bene, questo è il nuovo capitolo, spero di non deludere le vostre aspettative! :P
xx
Miki

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Capitolo 3
*** Here's my number, so call me maybe! ***


- Here's my number, so call me maybe!
 


Ero sdraiata sul letto, intenta a contemplare una ragnatela che scendeva dal soffitto.
Tess portava avanti il suo discorso non so da quanto, camminando freneticamente su e giù per la stanza. Ad un certo punto le mie orecchie avevano iniziato a rifiutare qualsiasi parola che suonasse come una ramanzina.
«Cinque turni in cucina! Cinque! Non ci posso credere Jess»
«Beh, ti conviene iniziare a farlo dato che li dovrò coprire entro venerdì» dissi in tono piatto.
«Per violenza fisica, poi! Sei diventata matta?» mi chiese arrestando per un attimo la sua corsa frenetica.
«Detto così sembra che ho picchiato a sangue qualcuno! È stato solo uno schiaffo» minimizzai.
«Solo uno schiaffo, certo. Sai che questo impatterà sulla tua condotta scolastica? Al prossimo richiamo potresti ricevere un drastico provvedimento disciplinare, e allora sì che potresti dire addio ai crediti per il college» disse Tess riprendendo a camminare.
«Smettila di preoccuparti delle conseguenze! Perché a nessuno interessa cosa mi ha fatto compiere quel gesto? Perché nessuno si è soffermato sul fatto che quel ragazzo avrebbe potuto dire qualcosa che mi ha ferita? Non ho bisogno di sentire un’altra volta che quello che ho fatto è sbagliato, lo so da sola e ci hanno già pensato il preside e la direttrice a farmelo notare. Ho bisogno che tu sia solo mia amica in questo momento. Ho bisogno di un tuo abbraccio e di una parola di conforto, non voglio comportamenti materni da parte tua, non adesso» dissi d’un fiato mettendomi seduta di scatto.
Tess si fermò per un attimo a guardarmi con la bocca leggermente aperta, come se non trovasse le parole per ribattere, poi però la richiuse con un sospiro.
«Scusami, hai ragione» disse venendosi a sedere al mio fianco.
«Scusami, scusami tanto» ripeté abbracciandomi.
Sorrisi sprofondando nei suoi capelli. Le passai una mano sulla schiena, come a voler dire che non importava.
«Allora chi è questo deficiente che è riuscito a farti arrabbiare?» mi chiese poi sciogliendo l’abbraccio e prendendomi le mani tra le sue.
«Non lo so, so solo che non lo sopporto. Un tipo che sosteneva che dovessi cambiare posto alla mensa perché stavo occupando il suo. Poi quando mi sono alzata e ha visto che venivo da qui ha pensato bene di dirmi che potevo tenere il posto perché gli facevo pena. Ti rendi conto di che razza di gente circola al giorno d’oggi?» dissi infastidita dal pensiero di quel ragazzo.
«E tu hai pensato che uno schiaffo potesse risolvere la questione per il meglio» osservò ironicamente Tess.
«Veramente non ho pensato. È scattato in automatico» ammisi.
Tess mi lanciò un’ennesima occhiata di rimprovero.
«Dovevi vederlo: lui doveva avere il posto, lui non era il prepotente di turno, lui poteva permettersi di giudicare gli altri ma nessuno doveva muovere un dito contro di lui… ma per favore!» dissi elencando i punti con una smorfia schifata.
«Jess»
«Che c’è?»
«Rimane il fatto che non si risolvono così le questioni, la prossima volta…» iniziò a dire Tess.
«La prossima volta ci penserà su prima di dirmi qualcosa di cattivo e poi starà zitto se non si vuole ritrovare steso a terra da una mossa micidiale di tai-chi» la interruppi mimando il gesto con le braccia.
Fece per dire qualcosa, ma poi cambiò idea. «Tu non sai fare tai-chi» mi disse.
«Posso sempre imparare» risposi illuminandomi con un sorriso.
Scosse la testa, alzando gli occhi al cielo.
«La prossima volta rincarerà la dose, visto che è riuscito a farla franca facendo dare a te la punizione. Conosco i tipi come lui, portano solo guai. E tu dai guai devi stare lontana, se ci riesci» disse Tess riprendendo da dove l’avevo interrotta.
«Ma io non mi metto nei guai, sono loro che coinvolgono me» dissi come se la cosa non risultasse abbastanza ovvia.
Tess mi scompigliò affettuosamente i capelli.
«Non devi rispondere in questo modo alle provocazioni, simpaticona. Limitati ad usare la tua arma più potente» mi disse assumendo un’aria tremendamente saggia.
«Così dici che con un’onda energetica me lo tolgo definitivamente di torno?» chiesi passandomi una mano sul mento, pensierosa.
Rise divertita. «Scema! Con l’intelligenza e la parola risolverai tutti i tuoi problemi» disse mantenendo l’aria di prima.
«Signore e signori attenzione, in diretta per voi la massima di Tess Somerset delle 21.42!» annunciai solennemente guardando l’orologio.
Rise di nuovo e mi lanciò una cuscinata.
«Smettila di prendermi in giro!» protestò fingendosi offesa.
«Non se tu continuerai ad offrirmi l’occasione su un piatto d’argento» dissi rispedendole il cuscino, ridendo a mia volta.
Continuammo a prenderci a cuscinate per un po’, finché la voce del sorvegliante non ci giunse dall’altro lato della porta per avvertirci che dovevamo smetterla e andare a letto.
Portammo entrambe un dito alla bocca per indicare all’altra di fare silenzio, ma poi scoppiammo di nuovo a ridere.
Cercavamo di bisbigliare e di parlare piano, ma non appena una delle due richiamava il silenzio, erano di nuovo risate assicurate.
Alla fine andai a letto con i muscoli della pancia che mi facevano male per quanto avevo riso.
In fondo era bello concludere così quella che era stata una giornata di merda.
***

Letteratura era una materia che mi era sempre piaciuta. Intendiamoci, quando si parlava di bei romanzi con storie coinvolgenti. Nel primo semestre avremmo trattato quella inglese. Un ritorno alle origini.
Sorrisi tra me. L’Inghilterra in fondo non l’avevo mai conosciuta.
Mi aveva ospitata quando ero venuta al mondo, ma prima che avessi il tempo di valutare in che razza di mondo mi trovassi e di tornare al calduccio nel pancione di mia madre Los Angeles mi aveva dato il benvenuto.
Alla fine non conoscevo neanche L.A. In orfanotrofio avevano organizzato decisamente troppe gite turistiche per la città e mio padre nei cinque anni precedenti non mi aveva di certo fatto da guida.
Accantonai il pensiero, non volendo rovinarmi una delle ore di studio che reputavo piacevoli.
Sentii il professore parlare di Shakespeare e questo contribuì ad associare quel giudizio alle sue lezioni.
Avevo trovato posto in uno degli ultimi banchi e mi ero assicurata che nessuno di indesiderato venisse ad occupare quello accanto al mio posando la borsa sulla sedia vicina.
Perché ancora mi illudevo di riuscire a passare una giornata in santa pace?
Ero impegnata a tirar fuori i libri dalla borsa, così quasi non mi accorsi che il professore si era rivolto ad un ritardatario dicendo: «Per questa volta ci passerò sopra. Vada pure a sedersi accanto alla signorina Switcherson.»
Sbuffai liberando la sedia dalla borsa. Non che non mi piacesse avere rapporti con il genere umano, ma preferivo stare da sola a volte. Ok, spesso. Soprattutto durante le lezioni. Metti che ti capita il tipo al quale non importa un emerito fico secco di tutto quello che si sta dicendo e ti attacca a chiacchierare. Che fai?
Se lo zittisci o non rispondi vieni bollata come secchiona fino alla maturità, se lo fai inizi a chiacchierare e ti perdi parte di qualcosa che magari ti interessava. Ecco perché prendo sempre appunti, dopo un paio di tentativi stroncano il presunto “chiacchierone”: ti lascia scrivere in pace e tanti saluti.
Lo sentii letteralmente buttarsi sulla sedia accanto alla mia, senza accennare a prendere alcun libro. Wow, avevo inquadrato subito il tipo senza neanche guardarlo.
Continuai ad ignorarlo, dedicando la mia attenzione agli appunti dato che il professore aveva già raggiunto la lavagna e aveva iniziato a spiegare.
Reputavo quella lezione interessante, ma il meglio doveva ancora venire.
Verso la fine dell’ora sentii dire al mio vicino: «Sei rimasta in silenzio per tutta la lezione»
Però, che udito sopraffino.
«Sbaglio o è quello che hai fatto anche tu? Ah, per la cronaca ti sarei grata se continuassi a farlo. Il prof. non ha ancora finito» dissi senza distogliere lo sguardo dal mio blocco.
«Gentile come l’altro giorno, eh?» disse sarcasticamente.
Mi voltai a guardarlo: lo stesso per il quale mi ero beccata i turni in cucina. Io l’avevo detto che sono i guai che coinvolgono me e non il contrario.
«Beh, hai perso la lingua ora?» mi chiese, sottolineando il mio silenzio.
No, non voglio parlare con te”. Decisamente troppo sgarbata anche per me una risposta del genere.
«Ti chiederei se hai perso il cervello, ma sfortunatamente mi accorgo che manca la materia prima» risposi con una smorfia di disappunto.
«Perché ce l’hai tanto con me?» mi chiese.
«Mah, non so. Chiedilo a te stesso» risposi tornando ai miei appunti.
«Possiamo mettere un attimo da parte queste angherie?» mi chiese usando il tono più gentile che aveva.
«Angherie? Non mi sembri il tipo che è solito usare termini così raffinati. L’hai sentito adesso oppure l’hai trovato ieri sul vocabolario mentre preparavi il tuo bel discorso?» chiesi con un sorriso più falso di una Gioconda dipinta da un futurista.
Lo vidi contrarre leggermente la mascella prima di fare un respiro profondo.
«Senti, non mi interrompere. Sono qui con le intenzioni più nobili» disse leggermente seccato.
«Veramente sei qui per il corso di letteratura» sottolineai.
Sentivo la sua seccatura crescere ad ogni parola che dicevo. Io ero calmissima, lo stavo smontando con le parole, proprio come aveva detto Tess.
«D’accordo, ricominciamo: ciao, io sono Nick» disse con un sorriso smagliante dopo aver respirato profondamente un’altra volta.
Io lo guardai perplessa scuotendo leggermente la testa.
«Dovrebbe essere il tuo turno ora» continuò senza abbandonare il sorriso.
«Perché dovrei presentarmi a qualcuno che non ho minimamente voglia di conoscere?» gli chiesi.
«Mammamia come siamo acide! Hai bisogno di divertirti un po’ tesoro»
«Ti torco le budella e le do in pasto ad un T-Rex se mi chiami ancora così» lo minacciai.
«Appunto, sei acida» disse prendendo fulmineo una penna e il mio blocco. Ci scribacchiò qualcosa su e poi me lo restituì.
«Questo è il mio numero. Se nei tempi morti o quando senti tornare a galla questo acidume vuoi divertirti» si interruppe con una risata «non esitare a chiamarmi» mi disse mentre suonava la campanella. Rimasi a guardare quelle cifre per qualche secondo, tra lo stupito e lo schifato.
«Scusa» lo richiamai quando ormai stava uscendo dall’aula. «Punto primo: come ti permetti di scarabocchiare i miei appunti? Punto secondo: non ti chiamerei neanche se fossi in punto di morte e tu fossi l’unico medico in grado di salvarmi» gli dissi recuperando le mie cose.
«Certo, come no. Tu mi chiamerai invece, perché non vedi l’ora di uscire con me» disse malizioso.
«Questa si che è buona» sbuffai fingendo una risata. «Io non uscirei con te neanche se fossi un cane con l’impellente urgenza di fare i bisogni e tu l’unica persona in grado di portarmi a fare una passeggiata» gli dissi avvicinandomi guardandolo dritto negli occhi. In qualche modo potevano sembrarmi familiari?
«Muori dalla voglia» mi disse avvicinandosi a sua volta, scandendo le parole.
«Ti piacerebbe» risposi dandogli una piccola spinta e uscendo dalla classe.
Non feci in tempo ad allontanarmi formulando mentalmente ogni tipo di insulti per quello lì che mi arrivò nuovamente la sua voce alle orecchie.
«Switcherson?»
Mi voltai assumendo un’espressione esasperata.
«Fai dei bei paragoni» disse prima di sparire nei corridoi.
Non dissi nulla, lasciandogli segnare qual punto a suo favore.
Ricorda ragazzo: il vincere una battaglia non significa vincere la guerra.





Sciao belishime ❤
Grazie di seguire numerose questa storia, non sapete quanto mi fate felice!
Per le ragazze che recensiscono: ditemi voi se volete che continuo ad avvisarvi o meno, ho sempre paura di disturbarvi!
Io non parto, non migro da nessuna parte fino a settembre soooo preparatevi per un nuovo capitolo al più presto!
xx
Miki

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Capitolo 4
*** Never stop dreaming ***


-Never stop dreaming
 




Cercavo di lavar via dalle pentole che avevo tra le mani anche la faccia del mio “datore di lavoro”.
Per quanto mi ostinassi a grattar forte con la spugnetta era sempre lì, sorridente e beffardo.
Cosa ti ridi? Avrei voluto chiedergli. Poi pensai che mettersi a parlare con pentole e padelle non doveva essere una gran trovata, così tenni quella domanda per me.
Facendomi due calcoli trovai anche la mia risposta.
“Jessica lasciagli il punto”, “Jessica fallo vincere questa volta”. Jessica svegliati! Due volte che vi siete parlati e due volte che lui ha avuto la meglio su di te. E sa anche il mio cognome grazie al professore di letteratura! Però su quel versante siamo pari, dato che io so il suo nome. Se lo possiamo contare come un punto a favore…
«Ragazzi non crederete mai a quello che sto per dirvi!» disse Patty interrompendo le mie visioni, grazie al cielo.
Patty era una ragazza dello Universal Rainbow come me, solo di due anni più piccola. Aveva i capelli biondi raccolti in una coda alta che le solleticava il collo e una folta frangia che le riempiva la fronte. Il suo non era un biondo dorato come quello di Tess, bensì un biondo cenere con qualche ciocca tendente perlopiù al castano.
I suoi occhi verdi, già grandi di natura, ora lo erano ancora di più a causa dell’annuncio che doveva darci.
«Avanti, spara» disse qualcun altro vicino ai fornelli.
«Ho sentito dire che qualcuno è venuto per ottenere l’affidamento di un ragazzo!» disse sorridente.
Le sorrisi a mia volta, non potevo fare niente di più.
Non speravo più ormai da tanto tempo di essere quella ragazza, ma allo stesso tempo non volevo disilludere Patty e rovinare la sua felicità. In fondo i ragazzi di quindici anni qualche probabilità ancora ce l’avevano.
«Non prenderanno mai noi» disse scoraggiata la ragazza dei fornelli, facendo partire un coro di voci affrante.
«Siamo troppo grandi»
«Non abbastanza carini»
«Siamo indisciplinati, dato che siamo in questa cucina come punizione»
«Il nostro tempo è scaduto»
«Non abbiamo… »
«BASTA!» urlai stanca di tutto quel piagnucolare.
«Basta, vi prego» dissi diminuendo il tono.
Il viso di Patty che prima era illuminato dalla gioia, ora era soltanto dipinto con la smorfia amara della consapevolezza della verità che si nascondeva dietro quelle parole.
«Cosa c’è, credi ancora che a diciassette anni venga qualcuno ad offrirti una casa? Scusa se ho infranto i tuoi sogni!» mi disse la ragazza che stava accanto ai fornelli.
«No, non lo credo ormai da un po’. Però non voglio credere nelle considerazioni che avete appena fatto. Qui c’è gente che magari ha ancora una possibilità ed io non gliela manderò in fumo con le mie paranoie. Patty ha parlato di “ragazzo”, vuol dire che chi è venuto ha intenzione di adottare proprio uno di noi. Non un bambino, ma un ragazzo con il suo bel carattere già formato. Quindi adesso, quando suonerà la campana della fine del turno, ci andremo a preparare e ci faremo più carini che mai, almeno per ringraziarli» dissi chiaramente.
Mi voltai verso Patty e la vidi accennare un sorriso.
«Per ringraziarli di cosa? Di aver scelto qualcun altro al posto nostro? Ho sentito dire che un’idea già ce l’hanno» disse Madison, una ragazza di colore che aveva appena finito di pulire il forno.
«Li ringrazieremo per aver pensato a noi, per averci fatto sperare, per aver regalato una casa ad uno di noi, chiunque esso sia» dissi posando lo sguardo su ogni ragazzo che in quel momento abitava la cucina.
C’era Josh, un ragazzo basso e mingherlino, indaffarato a rimettere a posto le posate; Madison ancora accovacciata accanto al forno; Kurt, alto, biondo e mascella imponente, impegnato a lavare per terra; la ragazza che puliva i fornelli, Karen, con una lunga treccia nera che le cadeva lungo la schiena; Patty, sulla porta, ancora indecisa se tornare a sorridere del tutto oppure rassegnarsi allo sconforto generale; e poi c’ero io, Jess, intenta a levare faccia-di-macaco dal retro delle pentole.
Non so, per un momento il giorno prima aveva assunto un’espressione incredibilmente somigliante alla scimmia, e così adesso lo soprannominavo così.
«Non dobbiamo mai smettere di sognare, ragazzi. Questo per qualunque cosa» conclusi qualche istante prima che la campana che annunciava il termine del nostro lavoro nelle cucine suonasse.
Se ne andarono tutti poco dopo, lanciandomi occhiate dubbiose a mano a mano che uscivano.
Alla fine rimanemmo solo io e Patty.
«Grazie comunque Jess» mi disse con un sorriso prima di lasciare anche lei la cucina.
Perfetto, avevo davvero ottenuto l’effetto che desideravo con il mio grande discorso.
Perché nei film funzionava sempre?
Infondo volevo solo salvarmi dall’essere l’artefice della tristezza di qualcun altro.
Posai le pentole sul lavello, mi tolsi il grembiule e mi soffermai a guardare l’immagine che rifletteva il fondo di una di quelle.
Adesso anche quel ragazzo che prima rideva tanto scuoteva la testa riprovevole.
«Ma cosa vuoi ancora?» gli chiesi questa volta ad alta voce. Chiusi il grembiule nel cassetto con le altre divise e marciai fuori della cucina, decisa a mettere fine a quella follia delle visioni.
***

Diversamente da quello che avevo proposto di fare agli altri, andai al corso di letteratura quel pomeriggio. Le probabilità che scegliessero me erano bassissime e in cuor mio speravo vivamente che quella coppia di futuri genitori facesse ricadere la propria scelta su qualcuno al quale brillavano ancora gli occhi dalla speranza quando sentiva parlare di adozioni. Qualcuno come Patty, ad esempio.
Era l’unica lezione pomeridiana che seguivo, dopodiché sarei ritornata in istituto e avrei controllato chi fosse stato il fortunato.
Mi abbandonai sulla solita sedia in fondo all’aula. In fondo provavo un senso di riconoscenza verso i miei compagni che mi lasciavano sempre quel posto a disposizione. Dopo poco però arrivò anche il mio vicino. In orario, questa volta.
«Ciao» mi disse con un sorriso.
«Ciao» risposi senza entusiasmo, aprendo il libro di testo alla pagina del giorno.
«Hai passato una bella giornata?» mi chiese cogliendomi di sorpresa.
Come mai era passato dal ferirmi brutalmente a tutto questo interesse?
«Non lo chiederei a chi ha appena finito di lavorare in cucina» risposi prendendo un evidenziatore dalla borsa, iniziando a sottolineare le parti più importanti del paragrafo che avevo appena letto.
«Ah» lo sentii dire sommessamente, come se all’improvviso si sentisse in colpa.
«Allora mi avrai pensato almeno un po’» disse ritrovando il suo spirito da latin lover.
«Avrei dovuto farlo?» chiesi scettica.
Lo vidi passarsi distrattamente una mano tra i capelli, non sapendo dare una risposta precisa alla mia domanda.
Eccolo il tuo famoso punto, cara Jessica.
Il professore entrò in classe con un sorriso talmente ampio che poteva benissimo prestare il volto ad una pubblicità di dentifrici sbiancanti.
Si sedette alla cattedra e disse con fare eccitato che aveva avuto una bellissima idea per i lavori di ricerca su Shakespeare. Sembrava un bambino impaziente di provare il suo nuovo giocattolo, aveva lo stesso luccichio negli occhi, così senza tanti giri di parole ci disse che ci avrebbe diviso in coppie e che ci avrebbe assegnato un’opera da approfondire.
Beh, non capivo proprio dove fosse la genialità della cosa. Era un progetto che avevano fatto come minimo miliardi di persone in tutto il mondo prima di noi.
«Vi starete forse chiedendo cosa ci sia di speciale in questo progetto» disse poco dopo, leggendomi nel pensiero.
«Dato che molti di voi frequentano il Drama Club ho pensato che, alla fine del trimestre, potreste recitare un pezzo noto tratto dall’opera che vi sarà assegnata. Dareste la vostra impronta personale al dramma, dandone una visione diversa a tutti noi» spiegò concitato.
Mhh. C’era qualcosa che non mi piaceva in quel progetto, ma non ero ancora riuscita a capire cosa fosse. Sentivo come se ci fosse una sorta di tranello sotto.
«Per facilitare le cose farete coppia con il vostro compagno di banco» disse il professore indicando le singole coppie.
Ecco qual’era la parte che non mi piaceva. La fregatura non aveva tardato ad arrivare.
«Scusi, veramente preferirei… » dissi alzando la mano, cercando di protestare.
Io quello lì non lo volevo. E soprattutto non volevo starci gomito a gomito più del dovuto.
«Stia tranquilla signorina Switcherson, sarà un’occasione per socializzare. E in più sarete voi gli artefici del vostro destino» disse il professore interrompendomi e arrivando da me con un sacchettino.
«Avanti, peschi la sua opera» disse facendo saltare i pezzetti di carta che erano all’interno.
Infilai titubante la mano nel sacchetto.
Concentrati Jessica, almeno non prendere Romeo e Giulietta. Ci sono tantissimi foglietti, devi soltanto prenderne un altro.
Respirai profondamente e tirai fuori un bigliettino, porgendolo al professore.
Non Romeo e Giulietta. Non Romeo e Giulietta, ti prego.
«Oh, magnifica scelta! Sarà un piacere vedervi nei panni di Romeo e Giulietta, mi aspetto un gran lavoro da voi due» disse soddisfatto porgendomi il foglietto e dirigendosi da un’altra coppia.
Grandioso, riuscivo anche a incartarmi con le mie mani. Fantastico, davvero.
«E così da adesso facciamo coppia» disse in un sussurro il mio vicino.
«Ti proibisco di usare quella parola alludendo al nostro gruppo di lavoro» dissi categorica appallottolando il foglietto e stringendolo nella mano.
«Avanti, due persone non si possono chiamare gruppo» insistette.
«E noi faremo la storia essendo il primo gruppo da due persone, contento?» dissi in tono che non ammetteva repliche.
Lo sentii ridere sommessamente. La domanda di qualche ora prima adesso calzava a pennello.
«Cos’hai da ridere?» gli chiesi infastidita dal suo comportamento.
Sembrò volermi dare una risposta, ma poi scacciò via il pensiero con un cenno della mano.
Mi appoggiai allo schienale della sedia e attesi la fine dell’ora senza prendere appunti e senza rivolgergli più la parola.
Quando la campanella suonò misi in fretta il libro nella borsa e mi precipitai in orfanotrofio. Questa volta non entrai dalla solita entrata sul retro riservata ai ragazzi, ma scelsi quella principale, per vedere finalmente chi era stato chiesto in affidamento.
Passai per due saloni così orrendamente gialli da essere notati anche nella notte più profonda. Era così diversa la parte pubblica da quella riservata ai ragazzi. Molto più… accogliente. Scacciai il pensiero. Quella parola accostata allo Universal Rainbow avrebbe sempre stonato.
Arrivai finalmente nella sala dove erano affisse tutte le comunicazioni importanti, come per esempio gli ultimi affidamenti.
Vidi alcuni ragazzi uscire dalla sala lanciandomi occhiate a dir poco furenti. In fondo con il mio discorso non gli avevo promesso mica mari e monti, l’avevo fatto unicamente per non far perdere la speranza ai più piccoli, tutto qua.
Si aprì magicamente un corridoio tra me e la bacheca di vetro. Mano a mano cominciarono ad uscire tutti, vedendomi lì.
Grazie tante. Avevo fatto un discorso, non avevo diffuso la peste.
Mi avvicinai incuriosita alla bacheca. Sul foglio bianco spiccava una calligrafia sottile ed ordinata a riempire le varie voci del modulo di richiesta di affidamento.
Lessi i nomi dei richiedenti: Paul e Denise Jonas.
Denise, come la signora che avevo conosciuto al negozio, che coincidenza.
Il mio sguardo fu attirato dal grosso timbro rosso che copriva i nomi: accettata.
“Menomale” pensai con un sorriso, felice per chiunque fosse stato il ragazzo.
Mi soffermai sui suoi dati anagrafici.

Portsmouth, Gran Bretagna, 23 Marzo 1993.
Residente a Los Angeles, Stati Uniti, Universal Rainbow Institute.


Decisamente su quel foglio cominciavano ad esserci un po’ troppe coincidenze. Iniziai a tormentarmi il ciondolo della catenina che avevo al collo.
IO ero nata a Portsmouth, in Gran Bretagna, il ventitré marzo. Anche io, mi corressi immediatamente.
Presi un bel respiro e mi decisi a leggere il nome di quel ragazzo.
Ma quell’ultima coppia di dati non lasciò più spazio ai miei dubbi.

Switcherson Jessica Anne.

Ero stata adottata.




Ssalve dolcissime ❤
Ho pubblicato non appena ho finito! A dire la verità è pronto da ieri, ma non so voi, io devo ancora riprendermi da quei dieci secondi di Meet you in Paris, quando l'ho sentita ho cominciato a saltare per casa come una pazza! Poi ieri ci si mette pure Taylor che annuncia l'uscita del nuovo album, decidendo così di farmi morire una volta per tutte :P
Vaabè by the way continuerò a ringraziarvi all'infinito per inserire la storia tra le seguite/preferite e per le bellishime recensioni che lasciate *w*
Alla prossima meraviglie!
xx
Miki

P.s: per la data ho fatto in modo che si accordasse con quelle dei Jonas e non con quella attuale ;)

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Capitolo 5
*** Don't leave me like this ***


- Don't leave me like this



Rimasi per qualche minuto ad osservare in silenzio quel foglio, incapace di fare altro che sbattere ripetutamente le palpebre. Respirai profondamente chiudendole a lungo, poi le riaprii, perfettamente consapevole che non sarebbe cambiata una virgola scritta su quel pezzo di carta.
A quel pensiero si fece largo una strana sensazione, una sorta di sollievo.
In fondo volevo che non cambiasse nulla, che fosse tutto vero. Trovai finalmente il coraggio di sorridere apertamente, portando una mano verso la bacheca come se volessi accarezzare l’idea che qualcuno mi avesse scelta. Qualcuno aveva messo in programma di farmi entrare nella sua vita.
Aveva messo in conto di volermi bene.
Sorrisi ancora di più, se possibile. Mi avviai felice verso la parte superiore dell’edificio, dov’erano le camere, incurante delle facce perplesse che incontravo.
Sì ok, poteva anche dispiacermi che non avessero adottato qualcuno che lo desiderasse di più, ma non riuscivo a fare a meno di essere egoista in quel momento. Ero felice per me, ero felice che la scelta di quelle persone fosse ricaduta su di me e non riuscivo a pensare ad altro.
Forse sarebbe stato strano il contrario.
Respirai profondamente davanti alla porta della mia stanza, questa volta per calmarmi un po’.
Aprii la porta raggiante, ma quello che vidi spense la mia euforia in una manciata di secondi.
La mia borsa era praticamente ai miei piedi, sull’uscio, e tutta la mia roba era sparsa lì vicino, come se qualcuno l’avesse scaraventata furiosamente a terra.
Mi bastò un’occhiata di Tess per capire che quello non era solo un presentimento.
Era in piedi, davanti a me. Gambe divaricate, braccia conserte. Avrebbe potuto incenerire qualsiasi cosa soltanto guardandola.
«Cos’è successo?» le chiesi facendole notare con un gesto le condizioni della mia roba.
«Cos’è successo?» ripeté lei, marcando ogni parola.
«Jessica tu vieni a chiedere a me cosa è successo?» mi chiese ancora allargando le braccia di scatto e avvicinandosi a me.
«Non l’ho voluto io Tess, è capitato» le risposi chinandomi e cercando di dare un senso a quelle cose sparse in terra.
«Certo, è capitato dopo dodici anni. È capitato che ti lasciassi sfuggire con quella signora che eri di qui. È capitato che lei si muovesse a compassione e scegliesse proprio te. Dai Jessica, non sono arrivata ieri qui dentro!» disse accompagnandosi con movimenti bruschi del capo.
«Ma è la verità!» protestai alzandomi in piedi.
«La verità è che ti sei dimenticata di me!» continuò lei.
«Ti sei dimenticata di tutte le volte che ci sono stata per te! Di tutti i problemi che abbiamo condiviso! Hai dimenticato che io avrei potuto andarmene via di qui già da tempo, ma non l’ho mai fatto. E sai perché? Per te, Jess! Per starti accanto! Per non abbandonarti come tu stai facendo con me»
Le sue parole arrivarono come milioni di aghi. Si insinuarono da ogni parte, non lasciando scampo al dolore.
«Non è vero Tess, non ti sto abbandonando» cercai di dire mentre un groppo mi stringeva la gola.
«No, certo. Stai solo andando via da qui, fregandotene altamente di me! Non mi hai neanche chiesto come fosse andata con mia madre» disse guardandomi negli occhi.
Quell’azzurro ora era così freddo, distaccato. Faceva venire i brividi.
«Come è…?»
«Una merda! È venuta per dirmi che non posso stare con lei. Non è ancora pronta, dice. Non può dirmi questo dopo tutto questo tempo» sbottò. Sentii la sua voce sicura incrinarsi e prima che distogliesse lo sguardo feci in tempo a vedere i suoi occhi luccicare.
Mi diede le spalle, passandosi velocemente una mano sul viso.
Ad un tratto la porta si aprì di colpo.
«Switcherson, ti aspettano di sotto. Stai andando via» disse una delle solite sorveglianti con felicità pari a meno di zero nella voce.
Annuii, dando segno che avevo capito.
La porta si richiuse e tutto tornò come prima. O meglio, non proprio tutto dato che la mia migliore amica aveva deciso di sfogare tutta la sua rabbia su di me.
«Beh, non vai? Sorridevi come un’ebete quando sei entrata» disse sprezzante.
«Tess se sono felice non puoi darmene la colpa, lo saresti stata anche tu se fosse capitato a te!»
«Già, ma non è andata così, vero? Io non ti avrei mai lasciata» tornò a insistere. Mi ostinai a cacciare indietro quelle lacrime che premevano al bordo degli occhi. Volevano uscire, ma non potevo piangere. Non ora.
«Tu… tu sei soltanto gelosa perché a te non è mai capitato. Cerchi di farmi sentire in colpa per qualcosa che non dipende da me. Invidi il fatto che io abbia qualcun altro che pensi a me. La persona giusta per farmi la predica, non trovi?»
«Zitta!» mi urlò raggiungendo la porta.
«No. Anche tu sai che questa è la verità, Tess» le dissi cercando di non far tremare la voce.
«Va dalla tua famiglia, Jessica! Non ti voglio più vedere!» disse sputandomi quelle parole con tutto la rabbia che aveva in corpo.
«Credi veramente che… »
«VATTENE!» mi urlò contro rimanendo sulla porta, respirando rabbiosamente.
Sarei scoppiata a piangere, ma non lo feci. Sostenni il suo sguardo per un po’ e poi mi affrettai a raccogliere tutte le mie cose e a metterle nella borsa. Mi alzai da terra e la raggiunsi lentamente. Notai lo stesso luccichio di prima nei suoi occhi che ora riservavano per me solo cattiveria.
«Non l’ho scelto io, non ti sto lasciando veramente. Sai che è così» dissi prima di uscire. Chiuse gli occhi con forza, contraendo la mascella. Una lacrima corse veloce sulla sua guancia.
Fu l’ultima cosa che vidi prima di sentir sbattere violentemente la porta alle mie spalle.
A quel punto scoppiai anche io. Mi appoggiai alla parete, scossa dai singhiozzi, sentendo quelli di Tess farmi compagnia dall’interno.
Non poteva ritenermi… responsabile di quello che era successo. Erano quelle persone ad aver scelto me, non il contrario. Non poteva vietarmi di essere felice, non ora che il mio sogno si realizzava. Non ora che contavo qualcosa per qualcun altro che non fosse lei… forse era proprio questo il problema. Aveva paura che potessi sostituirla.
Quant’era stupida. Come poteva solo pensare una cosa del genere? Lei mi aveva praticamente cresciuta, facendomi da… tutto. Era giunto il momento per lei di diventare solo mia amica. E non riusciva a sopportarlo.
Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano.
Forse lei non era pronta per vedermi vivere un nuovo capitolo della mia vita, ma io sì. Dovevo esserlo.
Mi alzai, respirando profondamente tre o quattro volte prima di avviarmi alle scale. La mia famiglia mi stava aspettando.
***

Sganciai la cintura di sicurezza, eravamo arrivati a casa. Non ero stata molto loquace per tutto il viaggio, mi ero limitata a rispondere alle domande che mi avevano posto Paul e Denise. Cioè che non ero vegetariana, non credevo in qualche religione strana, non ero allergica ai cani e neanche ai bambini. No, un momento. Che mi piacevano i bambini.
Scesi dalla macchina e l’unica parola che riuscii a dire alla vista di quella casa fu «Wow!»
Trovai riduttivo assegnargli il nome di “casa”: quella era una villa. Una Signora villa, volendo essere precisi. Era semplicemente meravigliosa con la sua facciata bianca, il tetto scuro, l’immensa veranda e il giardino di dimensioni ancora più grandi. Era uno scherzo. O uno dei miei sogni, forse.
«Ti piace?» mi chiese Denise raggiungendomi.
«E’ fantastica» dissi lasciandomi scappare una lacrima di commozione.
Denise mi sorrise affettuosamente. «Vieni, ti mostro la casa» disse precedendomi sulla veranda.
Durante il tragitto non potei fare a meno di sollevare la testa verso l’alto, per continuare ad osservare la casa in tutta la sua grandezza.
Il signor Jonas suonò alla porta e ci venne ad aprire un ragazzo dai capelli ricci con dolcissimi occhi verdi.
«Ciao» ci salutò allegro.
«Kevin, lei è Jessica, la ragazza che abbiamo preso in affidamento» spiegò Denise mentre entravamo in casa.
«Ciao Jessica, io sono Kevin» ripeté presentandosi il ragazzo, stringendomi energicamente la mano.
«Potresti mostrarle la casa mentre noi prepariamo la cena? Pensavo di fare una bella grigliata in giardino. A voi va bene?» ci chiese Paul.
«Certo»
«Va benissimo» rispondemmo quasi all’unisono.
I signori Jonas sparirono in quella che doveva essere la cucina, lasciandomi sola con Kevin.
«Allora Jessica, cominciamo dalla tua camera così posiamo questa roba?» mi chiese prendendomi di mano il borsone.
Non penso si aspettasse veramente una risposta perché dopo poco lasciò il salone facendomi segno di seguirlo su per le scale. Salì fino al secondo piano, lasciandomi costantemente nel dubbio di essere finita sul set fotografico di una rivista di arredamento. Quella casa era così perfetta nella sua semplicità… era semplicemente perfetta.
All’ultimo piano c’erano meno stanze, ma era il più carino secondo me, perché era mansardato, seguendo la forma del tetto. C’erano due porte chiare, poste quasi una di fronte all’altra. Kevin aprì quella che avevamo sulla destra.
Un’enorme stanza tinteggiata di un rilassante azzurro cielo comparve davanti ai miei occhi. Aveva il pavimento in legno e il soffitto spiovente man mano che ci si avvicinava alle finestre, poste sulla parete opposta alla porta.
Sorrisi: era bellissima.
Kevin posò la mia borsa sul letto (che era come minimo ad una piazza e mezza) e mi chiese se volevo fermarmi per mettere a posto o se volevo continuare il “tour”.
Optai per il tour, la mia roba potevo sistemarla quando volevo.
Lo seguii fuori dalla camera e vedendo che scendeva nuovamente al piano di sotto gli chiesi: «Kevin cosa c’è davanti a me?»
«Oh, quella» disse con noncuranza indicando la porta di fronte alla mia.
«È soltanto la camera di Nicholas. Spero non ti crei problemi»
«Perché dovrebbe farlo?» chiesi affrettandomi a seguirlo giù per le scale.
«Aspetta a conoscerlo e poi ne riparliamo» mi rispose facendomi ridere.
Al piano di sotto mi indicò la stanza di Joe, mi mostrò la sua e mi fece entrare in una camera dove stava giocando quello che dedussi essere il più piccolo dei fratelli.
«Frankie, lei è Jessica» gli disse, presentandomi.
«È la tua ragazza?» chiese innocentemente il piccolo facendomi sorridere.
«No, è la nostra ragazza dato che da oggi è nostra sorella» rispose Kevin.
Rimasi colpita dalla naturalezza con il quale lo disse, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Non poté fare a meno di aiutarmi a scacciare le brutte sensazioni portate dal litigio con Tess.
«Sei brava ai videogiochi?» mi chiese Frankie.
«In realtà… proprio no» ammisi con un sorriso.
«Perfetto! Sarai un’ottima compagna di giochi» disse raggiante.
«Sarà per un’altra volta impiastro, adesso preparati che tra poco è pronta la cena» gli disse Kevin scompigliandogli affettuosamente i capelli.
Sorrisi tornando al pian terreno: ero in quella famiglia da appena un’ora e già mi piaceva un sacco.
Stavamo per visitare le stanze di quel piano quando ci sorprese la porta di casa. Entrò un ragazzo che a occhio e croce aveva qualche anno più di me, pur non essendo troppo alto. Aveva folti capelli neri e occhi castani con quell’inconfondibile aria dolce e intensa al tempo stesso. Ormai l’avevo capito: era una caratteristica di famiglia avere degli occhi speciali.
«Ciao! Tu devi essere… » disse amichevole socchiudendoli leggermente in cerca del nome.
«Jessica» lo aiutai.
«Io sono Joe, il secondo fratello Jonas. Il più bello come avrai potuto constatare guardandoti un po’ in giro» continuò lui.
«Sicuramente il più modesto» ribattei con un sorriso.
«Jess, sarà un vero piacere averti per casa se continuerai a far crollare così le convinzioni di Joe» mi disse Kevin poggiandomi una mano sulla spalla.
Joe scosse la testa, ma ridemmo tutti e tre.
«Nicholas?» chiese Kevin al fratello che stava salendo di sopra.
«Cena con i suoi compagni di football» rispose lui dalle scale.
Kevin alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa. Poi mi fece strada in giardino.
«Lo conoscerai un’altra volta. Per ora dovrai accontentarti dei ¾ dei fratelli Jonas» mi disse sollevando le braccia in segno di scuse.
«Beh, è comunque ottimo come inizio» dissi sorridente, aiutando a sistemare le ultime cose sul tavolo che Denise aveva apparecchiato in giardino.
Niente triste grigiore del refettorio comune, ma allegri colori di una tavola imbandita.
Nessun odore di qualcosa di cucinato, ma profumo di carne che finiva di cuocersi sulla griglia.
Nessun’atmosfera tesa, soltanto l’eco di qualche risata.
Come poteva quello non essere un ottimo inizio?




Salve dolci donzelle ❤
Arriverò a ringraziarvi in turco un giorno, siete fantastiche :3
Sia perchè seguite questa storia sia perchè lasciate delle recensioni iauhfiwuoaid93njds *-*
La cosa positiva è che a scrivere questa storia ci metto pochissimo, fa tutto da sola (?) quuuindi tornerò presto a rompervi le scatole con un altro capitolo, abbiate pazienza u.u
Sağol! (Grazie in turco)
xx
Miki

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Capitolo 6
*** The final blow hits you ***


- The final blow hits you
 


Mi rigiravo nel letto: per quanto fosse settembre inoltrato il caldo ancora non si era deciso ad abbandonare Los Angeles.
Sprimacciai il cuscino, cercando di dargli una forma diversa dalla precedente. Mi liberai del lenzuolo, divaricando braccia e gambe sul materasso in cerca di un po’ di fresco.
Chiusi gli occhi e respirai lentamente, cercando di riaddormentarmi.
Era assurdo svegliarsi nel cuore della notte e non vedere Tess al mio fianco con la sua faccia assorta e la bocca leggermente aperta. Soffrivo la sua assenza soprattutto per il modo in cui ci eravamo salutate.

“Va dalla tua famiglia, Jessica. Non ti voglio più vedere!”

Quella frase continuava a ripetersi nella mia testa con la stessa rabbia con la quale era stata pronunciata, senza darmi tregua.
Mi alzai, convinta che un bicchiere di latte avrebbe migliorato le cose.
Passai silenziosamente davanti alla camera di Nicholas, accorgendomi solo più tardi, grazie alla porta socchiusa, che era vuota.
Chissà che tipo era il Jonas mancante.
Forse era uno di quei secchioni leggermente gobbi, che non esitavano a farti la doccia quando ti parlavano e che si colorivano come pomodori non appena qualcuno li degnava di un saluto.
No, impossibile. Un tipo così che cena con la squadra di football e rincasa tardi? Non esiste, non su questo mondo.
Forse era più un elegantone con la puzza sotto il naso, giustificato dal posto in cui viveva, ma a giudicare dal resto della famiglia non credevo proprio che fosse così.
Allontanai il pensiero, sperando vivamente che non fosse come quel caaro ragazzo con il quale dovevo fare il lavoro di letteratura. Romeo e Giulietta. Avrei voluto picchiarmi per la scelta che avevo fatto. Frenai l’impulso di prendermi a schiaffi e scesi silenziosamente fino in cucina.
Aggirai l’isola che si trovava al centro della stanza e, aperto il frigo, mi versai un bicchiere di latte. Avevo appena poggiato le labbra sul bicchiere quando sentii degli strani rumori provenire dal salone.
Ecco, ci mancavano solo i ladri la prima sera che dormivo in quella casa.
Posai il latte sul bancone della cucina e sgusciai in salotto. Mi fermai all’inizio delle scale, incerta se tornare su e fare finta di niente oppure armarmi di qualcosa e cercare di difendermi. I rumori provenivano chiaramente dalla porta e non accennavano a smettere.
Sentivo il mio cuore accelerare sempre di più, non ero mai stata una gran coraggiosa.
Non riuscivo a convincermi che l’impulso di correre di sopra e chiudermi in camera fosse buonsenso anziché vigliaccheria, così agguantai una mazza da baseball che trovai nel portaombrelli e rimasi in attesa, pronta a scattare al telefono per chiamare aiuto.
La porta finalmente si aprì e io sollevai la mazza sopra la testa, stringendola ancora di più.
Entrò qualcuno di spalle, non sembrava un ladro professionista dato che era da solo e non era vestito di scuro. Poco importava.
Mi preparai ad assestargli una bella botta in testa, quando si girò improvvisamente.
Non era vero.
Era sicuramente il caldo che mi faceva fare sogni contorti.
Avanti, il Nick con cui dovevo lavorare non poteva essere lo stesso con cui dovevo dividere casa, sarebbe stato uno shock per i miei nervi.
«Cosa ci fai qui?» mi chiese con un sussulto, indietreggiando di qualche passo.
«Cosa ci fai TU qui» lo corressi. Doveva esserci per forza una spiegazione a tutto quello.
No, non doveva essere necessariamente la più scontata.
«Questa è casa mia!» disse chiudendosi la porta alle spalle.
Stava scherzando, ci avevo quasi creduto.
«No, è casa mia» ribattei abbassando la mazza da baseball.
Si guardò intorno allibito, come per volersi assicurare di essere nel posto giusto.
«E da quando, scusa?» mi chiese sconcertato.
«Più o meno cinque ore» dissi dando una rapida occhiata all’orologio.
Una Denise assonnata spuntò dal corridoio, unendosi al nostro bizzarro teatrino.
«Ragazzi cosa succede? Ho sentito delle voci e mi sono preoccupata» disse in un sussurro.
«Jessica cosa ci fai con una mazza da baseball in mano?» mi chiese poco dopo.
Improvvisamente mi sentii stupida. Molto stupida, dato che la tenevo ancora a mezz’aria quando non c’era alcun pericolo.
«Dimmi che non l’hai presa dal portaombrelli» disse Nick preoccupato.
La rimisi dove l’avevo trovata, incurante dei suoi timori. «Sì, perché?» chiesi facendo spallucce.
«Quella era la mazza con cui i Dodgers hanno segnato il punto finale nella partita dell’88! È originale!» disse avvicinandosi al portaombrelli e analizzandola con cura.
«Non gli è successo niente, volevo solo dartela in testa» dissi esasperata dal suo comportamento apprensivo nei confronti di quella cosa.
«Perché?» chiese sgranando gli occhi.
«Pensavo fossi un ladro. Usare una poltrona sarebbe stato un po’ scomodo, non ti pare?» dissi fingendo un sorriso.
Mi fece una smorfia. Che comportamento da ragazzo maturo.
«Vi prego, adesso andate a letto. Avrete tutto il tempo per litigare» disse dolcemente Denise.
«Perché?» chiedemmo all’unisono.
«Vivendo sotto lo stesso tetto non mancheranno le occasioni» disse come se non fosse abbastanza ovvio.
«Avete adottato lei?» chiese Nick sconcertato.
«Lui è Nicholas, il Jonas mancante?» chiesi altrettanto disturbata.
«Ho come la sensazione che voi due vi siate già conosciuti» disse Denise perplessa.
«Purtroppo sì» borbottai.
«Purtroppo?» chiese la donna.
«È una lunga storia» liquidò Nick.
Lo incenerii con lo sguardo. Non osava prendersi responsabilità, che galantuomo.
«Andiamo, che è meglio» lo incoraggiai amareggiata facendogli segno di salire.
«Posso tornare a dormire? Non c’è il rischio che vi facciate male mentre raggiungete le camere, vero?» chiese Denise facendo suonare quella domanda meno assurda di quanto in realtà fosse.
«Tranquilla, ci penserò io» le assicurai.
«Proprio per questo si dovrebbe preoccupare, dato che mi hai… » cominciò a borbottare Nick, ma gli tirai prontamente una gomitata nelle costole, impedendogli di finire la frase.
«Va pure» disse senza fiato.
La guardammo sparire nell’oscurità del corridoio prima di salire e riprendere a parlare. «Sei manesca» mi accusò quando ormai eravamo al primo piano, massaggiandosi il punto dove l’avevo colpito.
«E tu sei una femminuccia se crolli con uno schiaffo e con una gomitata» ribattei tranquillamente. Potei quasi sentirlo digrignare i denti, cosa che mi rese non poco felice.
«Non ti fermi qui?» mi chiese vedendo che proseguivo la salita verso il piano superiore.
«No, sono dei piani alti» risposi assumendo un’aria di superiorità.
«Sei la mia vicina di stanza?» mi domandò stupito.
«Non me lo ricordare» dissi tristemente mentre raggiungevo la porta della mia camera.
«La cosa potrebbe essere interessante» disse ritrovando il suo tono suadente, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Molto interessante dato che da oggi sono la tua sorellastra» risposi melliflua avvicinandomi alla porta.
«Non me lo ricordare» disse leggermente irritato girando sui tacchi e raggiungendo la porta che avevo di fronte.
«Buona notte» augurai con un sorriso vittorioso.
«Sogni d’oro» disse risentitamente prima di chiudersi la porta alle spalle. Feci altrettanto prima di sdraiarmi di nuovo sul letto. Se non altro con la mia assenza si era rinfrescato un po’.
Sapevo già che sarei riuscita a riaddormentarmi a stento dopo la presunta irruzione dei ladri e dopo la rivelazione che ne era scaturita. Ero allibita, certo, ma in qualche modo non riuscivo ad essere veramente arrabbiata. Era piuttosto come se fossi di buon umore.

Jessica, hai appena scoperto che il ragazzo che ti siede accanto al corso di letteratura (che tra parentesi non sopporti) non solo da oggi vivrà con te, ma sarà anche il tuo vicino di stanza nonché fratellastro, e tu che fai? Sei di buon umore?

Era inutile cercare di ragionare, ero contenta perché l’avevo fatto arrabbiare. E perché la sua famiglia era meravigliosa. Sapere che da quel momento in poi sarebbe stata anche un po’ mia mi faceva toccare il cielo con un dito.
Erano tutti fantastici. Paul era un signore simpatico e alla mano con cui sapevi di poter parlare di tutto, Denise emanava quell’aura di fiducia e sicurezza con la quale sarebbe riuscita a convincerti di essere al sicuro anche appesa a testa in giù su un dirupo del K2. Frankie era fortissimo, un ragazzino sorprendentemente sveglio con il quale sapevo già sarei andata molto d’accordo. Con Joe avevo scambiato subito qualche battuta e mi era sembrato molto simpatico, magari un po’ eccentrico, ma simpatico. Kevin mi sembrava di conoscerlo da sempre. Mi avevano colpita la sua semplicità nel parlare, o come a volte la pensasse esattamente come me e la sua gentilezza. Senza dubbio identico a Nicholas!
Alzai gli occhi al cielo: in tutte le famiglie c’era una sorta di “pecora nera”.
Sapevo già che lui avrebbe reso difficile quella convivenza che, escludendolo, diventava perfetta.
Mi accoccolai su un fianco maledicendolo in più lingue possibili, dato che mi faceva anche rimanere sveglia.
Lo detestavo.
Lo detestavo.
Lo detestavo.
***

Un raggio di sole penetrò dalla finestra che avevo lasciata aperta la sera prima e provvide a svegliarmi.
Allungai lentamente le braccia sopra la testa, stirando la schiena e portai una mano alla bocca per coprire uno sbadiglio prima di guardare l’orologio. Le sette e mezza.
Le sette e mezza? Come ero riuscita a fare così tardi?
Schizzai fuori dal letto e andai in bagno. Ne avevo uno personale, dove potevo accedere direttamente dalla mia camera. Una cosa in meno che dovevo dividere con quello lì.
Mi feci una doccia veloce prima di tornare nuovamente in camera per cercare la mia divisa nella cabina armadio.
Sì, avevo anche una cabina armadio, che Denise si era preoccupata di riempire prima del mio arrivo con cose che rientravano perfettamente nel mio stile. Agguantai una stampella morbida che ospitava una giacca blu e dal reparto delle gonne presi quella a pieghe in tessuto scozzese. Mi vestii rapida e quando ebbi finito mi guardai allo specchio.
Avevo cambiato colore, ora ero una di loro. Non che ne andassi fiera, dato il loro comportamento, ma non potevo farci nulla. Il colore degli abiti che indossavo non cambiava veramente me, ero la Jessica del giorno prima, e sarebbe sempre stato così.
Mi convinsi di questo prima di prendere la borsa con i libri e volare in cucina per la colazione.
Stavo per entrare, quando sentii delle voci che mi fecero fermare.
«Avevi detto che andava bene anche a te quando mamma e papà ci hanno detto che volevano adottare un figlio»
A parlare era Joe, non mi fu difficile riconoscere anche il suo interlocutore.
«Pensavo che intendessero un bambino, non lei»
Nick. Riconobbi il modo in cui distorse quella parola riferendosi a me.
«Mi sembra una brava ragazza, non ha tre occhi, due nasi e cinque braccia, quindi non vedo come la cosa possa crearti problemi»
Soffocai una risata al pensiero di vedermi come Joe mi aveva descritta.
Dall’intervallo di tempo che seguì immaginai che Nick avesse sbuffato scuotendo la testa.
«Di problemi me ne crea, invece! Anche tanti» rispose poco dopo.
Sorrisi compiaciuta prima di schiarirmi la voce, segnalando la mia presenza. Non era carino origliare, e io avevo sentito già abbastanza.
Entrai in cucina cercando di assumere un espressione neutrale, che non tradisse la soddisfazione per quello che avevo appena sentito. Augurai un sorridente ‘buongiorno’ a Joe e mi andai a sedere a tavola.
Versai un po’ di cereali nella mia ciotola e li annaffiai con del latte freddo. Mangiai con calma, nonostante fossi in ritardo, sollevando lo sguardo di tanto in tanto per osservare meglio i due fratelli.
Joe era appoggiato al piano cottura, già vestito di tutto punto. Teneva le braccia incrociate e le sopracciglia cespugliose erano ravvicinate, sottolineando lo sguardo interrogativo che rivolgeva ancora al fratello.
Nick era seduto alla mia sinistra, nel posto più lontano. Era ancora in pigiama e aveva i ricci spettinati. Aveva un espressione indignata sul volto e sentii il suo sguardo su di me più volte, prima che lo guardassi. Quando accadde girò di scatto la testa e finì il suo caffè in un sorso, poi si alzò e usci frettolosamente dicendo che era in ritardo.
In effetti lo ero anche io, così mi sbrigai a ingoiare le ultime cucchiaiate di cereali e ad alzarmi.
«Ti serve un passaggio?» mi chiese Joe tirando fuori dalla tasca dei pantaloni le chiavi della macchina. «Nick passerà i prossimi dieci minuti a prepararsi, non ti conviene aspettarlo» continuò dando una rapida occhiata all’orologio.
«Non intendo aspettarlo, anche perché non credo che sarebbe felice di darmi un passaggio» dissi facendo intendere che accettavo.
«Un giorno mi spiegherete perché vi detestate così tanto» disse inarcando le sopracciglia, precedendomi fuori di casa.
«Anche subito se vuoi»
Io non avevo la coscienza sporca come un certo qualcuno.
Un’espressione meravigliata si allargò sul suo volto, mentre azionava a distanza la portiera del garage grazie al telecomando.
Presi posto sul sedile del passeggero della sua Volvo metallizzata e quando ebbe acceso il motore e raggiunto la strada, cominciai a raccontargli tutto prestando la massima cura ad ogni particolare.





Saaaaalve meraviglie♥
Scusate se mi sono fatta aspettare più del solito, ma sono rimasta leggermente scioccata dalla camicia che Giuseppino aveva durante la live :P Ovviamente io scherza
(a proposito, li avete visti? *w* sono stati kjcqnqeoucseouseocaw come sempre, del resto!)
Ok, ora tutti sanno della presenza di tutti (?) lascio a voi le previsioni sugli eventuali sviluppi eheh
Un grazie enorme va come sempre a tutte voi lettrici, che mi seguite e commentate dicendo cose jscsjeiwuchkjjsamweh (capito, no?) *--*
Alla prossima mie care ♥
Un bacione
Miki

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Capitolo 7
*** Why are you doing your best to avoid me? ***


- Why are you doing your best to avoid me?
 



Tenevo la borsa sulla pancia, la stingevo a me come se servisse a ripararmi dai contraccolpi che sarebbero scaturiti da quello che stavo per dire. Giocherellavo con la chiusura-lampo, indecisa se vuotare subito il sacco con Joe o meno.
Mi voltai a guardarlo: un sottile strato di gel divideva le ciocche dei capelli corvini, accarezzava il volante con due dita, tenendo un gomito poggiato al finestrino e indossava una camicia a maniche corte con delle strane fantasie rosse. La sua espressione era tranquilla, rilassata, non accennava neanche a volermi spingere a raccontare. Mi guardava pacifico, di tanto in tanto, ma nei suoi occhi riuscii comunque a leggere una vivida scintilla di curiosità.
Presi un bel respiro e lasciai andare la borsa.
«È cominciato tutto martedì, durante la pausa pranzo» cominciai, in tono sicuro.
Mi rivolse un sorriso incoraggiante, quasi mi fosse grato che avessi iniziato a parlare.
«Io, come dire… la gente non fa propriamente a botte per sedersi accanto a me, così ho cercato un tavolo libero dove poter stare da sola» spiegai cercando le parole più adatte.
Mi lisciai le pieghe della gonna, per temporeggiare, arrivando a tamburellare le dita tre o quattro volte sulle ginocchia. Alzai lo sguardo sulla strada prima di riprendere a parlare.
«Stavo mangiando tranquilla la mia gomma da masticare molto simile ad una pizza»
Joe si lasciò scappare una risata, borbottando qualcosa come “cibo delle mense”.
«Così non mi sono accorta di occupare il posto riservato di qualcuno» continuai scuotendo leggermente la testa.
«Posto riservato?» mi chiese Joe inarcando le sopracciglia.
Annuii tristemente.
«E non è tutto, il meglio deve ancora venire»
Le fusa del motore che ci avevano accompagnato fino al cancello di scuola tacquero all’improvviso. Stavo per prendere la borsa e scendere dalla macchina per tuffarmi in quel labirinto di pregiudizi, ma mi sentivo in dovere di terminare il racconto.
«Ha cercato di reclamarlo con le… buone? Ma con me i tipi che non vedono più in là del loro naso non fanno molta strada» dissi con un sorriso amaro.
Ravvivai il ciuffo di capelli che mi ricadeva sulla fronte con una mano.
«Allora ha pensato bene di lasciar perdere, di fare il signore misericordioso che lascia il suo posto a sedere a un’orfanella. Ha creduto che insultarmi davanti a tutti fosse la cosa migliore per nascondere la sua dipartita» dissi sollevando le mani di tanto in tanto, per poi tornare a tormentarle incrociandole in grembo.
Incollai gli occhi ai tappetini della Volvo, cercando di ripetere quella parola che, anche se ormai priva di valore, continuava a bruciare nel petto ogni volta che dovevo ricordare il momento in cui era stata pronunciata con tanta durezza.
«Mi ha chiamata senza-famiglia. Dopo dodici anni si dovrebbe essere abituati, ma… »
il resto della frase non raggiunse mai le labbra, morì in gola, andandomi di traverso.
«Non ci si abitua mai alle sciocchezze. Tu hai noi, adesso» disse Joe parlando seriamente per la prima volta da quando l’avevo conosciuto. Continuai a guardare un punto indistinto tra i tappetini e le mie scarpe, finché non sentii la sua mano poggiarsi sulla mia spalla.
Alzai lo sguardo e sorrisi, rassicurata dalla sua espressione.
«Non credere che abbia lasciato la scena con la coda tra le gambe! Mi sono alzata e gli ho dato uno schiaffo» dissi riprendendo sicurezza, ancora fiera del mio gesto.
«Così si fa ragazza!» disse allegro alzando una mano, chiedendo un “cinque”.
Battei la mia mano contro la sua con una risata.
«Si ma così ho beccato solo io la punizione in cucina per “violenza fisica”» dissi scuotendo la testa.
«Beh, devo ammettere che molte volte eravamo abbastanza privilegiati. Magari essere la nostra “quasi sorella” ti semplificherà qualche cosa» disse coprendo un leggero imbarazzo con un sorrisetto.
«Le semplificherà a me, ma non a lui. Quando si è reso conto che le arie di superiorità non funzionavano ha pensato bene di provarci con me» dissi arricciando il naso.
La cosa non lo sorprese più di tanto, le ragazze dovevano essere un habitué con suo fratello.
«E…?»
« “E” cosa?» gli chiesi sgranando gli occhi. Per chi mi aveva preso?
«Tu cosa hai fatto?» mi chiese mantenendo il suo tono tranquillo, portando gli occhiali da sole sulla testa.
«Gli ho risposto per le rime come avevo sempre fatto» dissi come se non fosse abbastanza ovvio. Cominciavo a stancarmi di parlare di lui, tra poco meno di dieci minuti me lo sarei ritrovato appollaiato accanto a me come un avvoltoio durante l’ora di letteratura e questo bastava e avanzava.
Sembrò come se avessi dato a Joe la risposta sbagliata, perché scosse impercettibilmente la testa.
Buttai uno sguardo all’orologio sul cruscotto: due minuti alle otto. Avevo recuperato il ritardo, ma rischiavo ancora di arrivare sul filo del rasoio.
«Sarà meglio che vada o farò tardi. Grazie mille per il passaggio» dissi aprendo la portiera, snocciolando uno dei miei sorrisi migliori.
«Se dopo non hai impegni potrei anche venire a riprenderti» mi propose allungandosi sul sedile, per riuscire a parlarmi dal finestrino del passeggero.
«Ok, ti aspetto alle tre allora» dissi allegra. Partì dopo aver inforcato nuovamente gli occhiali da sole, agitando la mano fuori dal finestrino.
Ricambiai il saluto e mi avviai velocemente a scuola. In fondo mi era piaciuto parlare con Joe, anche se l’argomento non era stato dei migliori. Magari potevamo rifarci quel pomeriggio, non dico che sembrava di stare con un amico ma… quasi. Un buon conoscente, ecco.
Feci una breve sosta al mio armadietto, giusto il tempo di prendere i libri di letteratura, e poi mi fiondai in classe.
Occupai come al solito il mio posto in ultima fila, cercando di mimetizzarmi con la poltroncina prima che arrivasse il professore, per attirare meno sguardi possibili su di me e sull’improvviso cambio di colore della mia divisa.
Il professor Brooke entrò in classe un attimo dopo il mio arrivo, blaterando qualcosa contro il ritardo degli autobus.
Benedetti autobus.
Fece rapidamente l’appello e solo quando nessuno rispose al nome di “Jonas” mi accorsi che il posto accanto al mio era rimasto vuoto.
Poteva in qualche modo… dispiacermi? In fondo se non c’era lui a chi avrei potuto tirare le mie frecciatine acide?
Ma forse era meglio così, una sana ora da sottrarre alla sua compagnia.
Una ragazza passò tra i banchi, distribuendo dei plichi di fogli che identificai come i copioni con i nostri “pezzi celebri” da mandare a memoria.
Sì, era decisamente meglio che non fosse venuto. Almeno non avrei dovuto prolungarmi in inutili sviolinate di prova.
Sentii lo stomaco ribollirmi al solo pensiero.
Tirai fuori il mio amato blocco per gli appunti, dove ancora era impresso il suo numero con un inchiostro nero, sottolineato da una bella riga che lo esaltava.
Mi affrettai a cambiare pagina, come se avessi appena visto uno spettacolo osceno disegnato sul foglio precedente.
Mi abbandonai sullo schienale della poltroncina e mi persi nei meandri di una densa spiegazione generale di tutte le opere che avremo trattato nelle nostre ricerche.
Alla fine della lezione la campanella trillò nelle mie orecchie, riportandomi alla realtà. Prima che potessi dileguarmi nei corridoi con gli altri il professore mi affidò il copione di Nick, chiedendomi di consegnarglielo dato che ero la sua compagna di ricerca.
Perché mi aveva dovuto ricordare che quella di non averlo visto per tutta la mattina fosse solo una stupida illusione di non vederlo mai più, dato avrei dovuto rivederlo comunque abitandoci insieme? I professori e le loro contorte malattie mentali.
Accettai controvoglia e mi confusi nella folla del cambio dell’ora che popolava i corridoi.
Avevo quasi raggiunto l’aula di chimica, sicura di riuscire a far saltare in aria tutta la classe considerato il mio umore, quando vidi un paio di occhi castani fin troppo familiari.
Erano inaspettatamente malinconici, spenti, privi del loro guizzo superbo.
Nick non accennava a muoversi, si limitava a fissarmi dall’altra parte del corridoio senza tenere un libro in mano, come sempre. La campanella sarebbe suonata nel giro di qualche minuto, così decisi di raggiungerlo.
«Salta le lezioni, mi raccomando» gli dissi sarcasticamente quando gli fui vicina.
«Volevi dirmi qualcosa?» mi chiese in tono distaccato. Non aveva accennato a nessuna delle sue solite reazioni: né il viziato arrogante, né il playboy. Dovevo forse cominciare a preoccuparmi?
«No… cioè, in realtà sì» mi corressi rapidamente, spiazzata dalla sua reazione fredda.
Sembrò distrarsi con il passaggio di alcune ragazze di quinto dirette in palestra, ma poi tornò a fissarmi con quegli occhi paurosamente vuoti. «Sì o no?» mi domandò corrugando la fronte.
«Sì, il professor Brooke mi ha dato il tuo copione con la parte di Romeo ma l’ho lasciato nel mio armadietto, non pensavo di incontrarti» dissi aggrottando la fronte a mia volta.
Deglutì, inspirando in maniera leggermente più accentuata, facendo sollevare il bavero della giacca blu per qualche istante.
«C’è altro?» mi chiese guardando altrove, la voce sempre più bassa.
«No» risposi perplessa. Sembrava quasi un soldato al quale erano stati dati troppi ordini da eseguire, con il viso contratto e le labbra serrate.
«Bene» disse prima di girare sui tacchi.
Non so perché mi sporsi in avanti e lo afferrai per un braccio prima di chiedergli: «va tutto bene?»
Ripeto, forse ero solo preoccupata da questa novità nel suo comportamento. Gli altri almeno erano quasi divertenti.
Voltandosi i suoi occhi ebbero un guizzo, ma durò un istante, giusto il tempo di essere ripresi dalla campanella.
«Devo andare» borbottò sciogliendo la mia presa dal suo braccio.
«Nicholas… »
«Jessica devi starmi lontana! Qui a scuola, in giro… ovunque!» sbottò improvvisamente, facendomi saltare il cuore in gola.
«Perché?» chiesi debolmente. Non che mi dispiacesse, ovvio, ma almeno volevo delle buone motivazioni a spiegare quella frase.
«Perché… » sembrò tentennare per un momento, incerto della risposta.
«Meno gente possibile deve sapere di noi, non devono vederci insieme» disse poi riacquistando sicurezza.
Ero sempre più perplessa. «Noi? Non stiamo mica insieme! Siamo solo quasi fratelli» dissi con una risata nervosa, non volendo pensare all’idea raccapricciante che avevo creato.
«Secondo te è la prima cosa che penserà la gente?» mi chiese tornando a scrutarmi dentro con i suoi occhi color cioccolato.
Rimasi un attimo interdetta, non riuscendo a formulare una risposta. Spostai lo sguardo sul corridoio alle sue spalle, ormai deserto.
«È così importante ciò che pensa la gente?» chiesi amareggiata.
«È fondamentale» disse facendo suonare quell’appunto quasi come un rimprovero.
«Tanto da condizionare le tue azioni e quelle di chi ti sta attorno?»
Alzò gli occhi al cielo, evidentemente stufo di quella conversazione che stava facendo ritardare entrambi.
«Tu non capisci. Voglio che tu mi stia lontana, ok? Non ci sono né come né perché, è una cosa che ti chiedo» disse cercando di marcare la voce con durezza.
Strano, negli occhi gli lessi quasi una supplica.
Stavo per rispondere quando una porta si aprì alle mie spalle.
«Dobbiamo attenderla ancora per molto, signorina?» disse la voce della professoressa Hatkinson. Ero di spalle, ma avrei giurato che lo stesse dicendo guardandomi da sopra gli occhialetti bordati di fucsia, con un sopracciglio alzato completamente disegnato da una matita  troppo arancione.
Sbuffai impercettibilmente.
«Devi andare. Noi non abbiamo mai parlato» mi disse Nick con un cenno d’intesa.
«Certo. “Tu non hai visto niente”» dissi teatralmente, imitando la battuta di un film.
«Switcherson, allora?» mi richiamò la professoressa.
Nick fece per andarsene, ma lo vidi sorridere sommessamente.
«Ci vediamo a casa!» gli dissi prima di entrare in classe. Per tutta risposta si girò e mi fulminò con un’occhiataccia.
«Jonas, fili subito in classe!» disse la Hatkinson bacchettando anche Nicholas.
In circostanze normali sarei stata io quella a sorridere in quel momento, ma quello che aveva detto Nick me lo impediva. Mi aveva fatto congelare le emozioni, costringendole dietro una maschera di indifferenza, la stessa che si ostinava a portare lui. Ancora dovevo capire veramente il perché di ciò.
Entrai in classe sotto l’occhio severo della professoressa che chiuse la porta alle mie spalle accompagnandosi con un bel: «grazie per averci finalmente onorati della sua presenza, signorina Switcherson»
Quanto sarcasmo tutto nella stessa lezione, se continuava così avrebbe rischiato di far scoppiare dalle risate il laboratorio.
«Come dicevo prima del suo arrivo, oggi faremo lezione assieme a una classe dell’ultimo anno» disse congiungendo le mani ossute sul piano della cattedra, fissandomi severa da sopra gli occhiali. Poi con un gesto della mano mi indicò il tavolo dove avrei dovuto lavorare.
L’unico posto libero, ovviamente. Arrivando in ritardo non avevo avuto il privilegio di scegliere il ben nascosto ultimo banco come al corso di letteratura. Ed ecco che partiva la prima maledizione del giorno verso Nicholas.
Feci cadere rumorosamente i libri accanto a quelli della mia compagna.
La sua nuvola di boccoli si voltò verso di me, rivolgendomi un sorriso smagliante.
La sua visione per un attimo mi fece pensare a qualcosa di assurdo.
Tess?

 

I used to think one day we’d tell the story of us,
How we met
And the sparks flew instantly
[…] See me nervously pulling at my clothes and trying to look busy
And you’re doing your best to avoid me
[Taylor Swift – The story of us]

Pensavo che un giorno avremmo raccontato la nostra storia
Come ci eravamo incontrati
Ed erano immediatamente volate scintille
[…] Guardami, mi sto tirando nervosamente i vestiti e sto cercando di sembrare occupata
E tu stai facendo del tuo meglio per evitarmi

 



Salve a tutte, che ora bizzarra :P
Scusate se ci ho messo tanto, ma l'ho dovuto riscrivere da capo! L'altro non mi convinceva per nulla per nulla. Sono una precisina perfezionista, sì lo so.
Mi sono lasciata ispirare dal bellissimo world tour di questa sera, così ci è scappata anche la canzone :)
Ritiro tutto sul fatto che non migro da nessuna parte, dato che domani devo svegliarmi all'alba per andare in Sardegna. Sooo una settimana senza di me. Gioite donzelle.
Come sempre rimetto a voi il giudizio ;) Un bacione <3
Miki

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Capitolo 8
*** I will never be with you ***


- I will never be with you
 


Sbattei  più volte gli occhi prima di realizzare che quella che avevo davanti non era Tess.
Era molto diversa, in effetti. Aveva i capelli più ricci, una folta chioma color rame, gli occhi erano chiari ma erano grigi, non azzurri. Condivideva con lei soltanto il candore della pelle, con l’aggiunta di qualche lentiggine sulle guance.
Era stato il sorriso a farmi confondere, insieme a quella luce che emanava dagli occhi.
«Ciao, io sono Chelsea» mi disse continuando a mostrare quel sorriso perfetto.
«J-Jessica» balbettai ancora sotto l’effetto della visione.
Sistemò i suoi libri sul tavolo per farmi posto con la grazia di chi ha tra le mani bicchieri di cristallo. Mi sedetti al suo fianco, non riuscendole a staccare gli occhi di dosso. Tornò ad appoggiarsi allo schienale dello sgabello, conservando un portamento quasi regale.
A guardarla meglio sembrava fosse appena uscita dalla copertina di Vogue per quanto aveva classe, con tutti quegli accessori che si sposavano perfettamente con il suo comportamento.
Avevo un livello di autostima abbastanza alto, ma in sua presenza scese di molto sotto lo zero.
«Pronta  a far esplodere qualcosa?» mi chiese strizzandomi l’occhio.
«Sì se intendi la Hatkinson» dissi rivolgendole un ampio sorriso.
Cercò di soffocare la risata che scaturì da quella risposta con un colpo di tosse.
Mi appoggiai al tavolo del laboratorio con entrambi i gomiti, cercando di appollaiarmi nella maniera più comoda sullo sgabello.
«A quanto ho sentito sei anche tu una delle sue preferite» mi disse sarcasticamente, abbassandosi dietro un microscopio.
«Anche?» le chiesi inarcando le sopracciglia.
«Andiamo molto d’accordo da quando ho fuso una stanghetta dei suoi occhiali al secondo anno. Li aveva lasciati accanto al mio fornello e io me ne sono accorta soltanto quando mi sono ritrovata con un quattro che faceva piangere la media» mi disse alzando gli occhi al cielo.
«Benvenuta nel club, allora! Questo corso mi appassiona veramente molto dato che capisco la metà del tempo cosa sto facendo. Ecco perché sono quasi sempre in ritardo» dissi contenta di aver trovato una compagna di sventure.
Si lasciò sfuggire un’altra risata prima di sistemare in ordine decrescente i baker sul tavolo.
«A proposito di ritardo, per caso il Jonas che la Hatkinson si è premurata di mandare in classe era Nicholas?» mi chiese con noncuranza.
Per caso, sì. Considerando che gli altri due non frequentavano più la nostra scuola mi sembrava un po’ retorica come domanda.
«Sì» risposi comunque, senza sbilanciarmi non capendo cosa volesse sapere.
«Allora è vero che abitate insieme» disse vittoriosa mulinando le dita alla ricerca di una pipetta nel cassetto sotto il tavolo.
Perché usavano queste frasi? Facevano un effetto disastroso. Era come se implicassero qualcosa che non esisteva minimamente.
«Sì» risposi di nuovo, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, ritirando lo slancio nella conversazione che avevo avuto poco prima.
«Non fraintendermi, non voglio sembrare invadente. Volevo solo farti sapere che io sono dalla tua parte, considerando quello che è successo» disse portandosi una mano al petto, spalancando i grandi occhi grigi.
La guardai sorpresa, ancora più perplessa di prima. Come faceva a sapere che abitavo dai Jonas? Ma soprattutto non credevo che questo fosse così catastrofico.
Insomma, se sorvolavo sul fatto che la notizia di stare tutti i giorni gomito a gomito con Nick mi aveva fatto prendere un colpo, non c’era niente di trascendentale. Fare idealmente parte di quella famiglia era una delle poche cose che mi rendeva felice in quel momento, come poteva essere successo qualcosa di brutto con il mio arrivo? Non riuscivo veramente a capire.
Scossi la testa, unendo le sopracciglia, lasciando il mio disappunto privo di parole.
«Da quello che ho capito in pochi hanno preso bene il tuo trasferimento» mi disse continuando a guardarmi con quegli occhi sinceri.
«I ragazzi dello Universal Rainbow si sentono un po’ presi in giro, non ho capito bene il perché, e sono dispiaciuti di non essere nei tuoi panni, ovviamente. Tutti gli altri continuano a vederti come la ragazza di prima, che ora si è intrufolata nel loro mondo» spiegò sinteticamente Chelsea.
Perfetto, questa sì che era una bella notizia.
Capivo i miei compagni, ormai ex. Ero stata io a incoraggiarli, a dirgli di non perdere la speranza prima dell’arrivo dei signori Jonas all’orfanotrofio. Potevo capire come si sentissero dato che la persona che apparentemente meno lo desiderava aveva preso il loro posto. Se avessero saputo quante volte era capitato a me. Se avessero saputo quanto avevo desiderato che una faccia amica mi portasse via di lì, lontano da quel mondo, da colui che mi aveva abbandonata. Probabilmente adesso starebbero un po’ meglio.
Non capivo tutti gli altri. Infondo a loro cosa cambiava? Non avevano mai prestato un minimo di attenzione a me, non vedevo la ragione per cui dovessero iniziare a farlo ora.
Ma d’altronde mi ero rassegnata da un pezzo a capire i pensieri dell’elite. Vivevo bene lo stesso con o senza la loro approvazione. Magari con il loro giudizio un po’ meno.
«Ah» dissi flebilmente. «Grazie» dissi sforzandomi di rivolgerle un bel sorriso.
Mi fece l’occhiolino, dando una scossa ai suoi voluminosi capelli color rame.
«Switcherson la pianti di parlare! Ha già un ritardo a carico, ricorda?»
La Hatkinson e la sua foce stridula non poterono fare a meno di raggiungere le mie orecchie.
Storsi il naso. No, di certo non mi ricordavo di qualcosa accaduto appena una manciata di minuti prima, c’era da chiederlo?
«È colpa mia professoressa, la stavo mettendo al corrente riguardo ad una determinata cosa» mi sorprese Chelsea alzandosi di scatto per prendere le mie parti.
«Ryan, l’unica cosa di cui dovrebbe mettere al corrente la signorina Switcherson è su come tenere la bocca chiusa dopo aver fatto ritardare una lezione. Se non le dispiace può tornare a sedersi» disse seccamente la professoressa.
Chelsea si sedette con uno sbuffo, facendo scontrare rumorosamente i ciondoli appesi al braccialetto contro il tavolo.
«Mi dispiace. Ci ho provato» disse dispiaciuta alzando le spalle.
«Grazie, nessuno si era mai schierato dalla mia parte qui» le dissi con un sorriso, sincero questa volta.
Ricambiò, illuminandosi nuovamente.
Ero sicura di averla già vista, ma non riuscivo a ricordare il contesto.
La guardai scrivere distrattamente una formula su un foglio. Avrei potuto allungare la lista di cose che mi rendevano felice con il suo nome, un giorno?
***


Nick’s POV

Stupido. Stupido. Stupido.
Battei un’altra volta il pugno contro il muro degli spogliatoi, cercando di far scemare quella rabbia che sentivo crescere verso me stesso.
Credevo davvero di aver fatto la cosa migliore? Farla allontanare così sarebbe servito a qualcosa? Impedirle di parlarmi avrebbe davvero risolto le cose?
L’avevo di sicuro portata ad odiarmi ancora più di quanto non facesse prima. Avrei dovuto esserne contento.
Colpii il muro con più forza. L’avevo sicuramente ferita. Stupido.
Appoggiai le spalle al muro e mi lasciai cadere giù, lasciando che il fresco delle piastrelle di marmo si irradiasse sotto la camicia.
Ormai erano le uniche cose che ero capace di fare: ferire le persone, respingerle e cadere in basso. Sempre di più.
Perché? Perché proprio lei? Di ragazzi all’orfanotrofio ce n’erano tanti, perché i miei genitori avevano deciso di rendere tutto più difficile?
Mi passai una mano sul volto, cercando di trovare una risposta per quelle domande.
Per un attimo riuscii a vederla davanti a me. I capelli che ricadevano morbidi sulle spalle, gli occhi grandi, di un verde intenso, le sopracciglia sottili piegate in una smorfia compiaciuta.
Lei era così diversa dalla massa che mi seguiva. Mi respingeva, non si faceva problemi a dirmi le cose in faccia e aveva un brillante senso dell’umorismo. Tutte cose che in qualche modo creavano una sorta di dipendenza verso di lei.
Era assurdo! Io non avrei dovuto sopportarla, come all’inizio. Se avessi potuto tralasciare il fatto che ora non era così sarebbe andato tutto a meraviglia.
Ma in fondo l’opinione principale non doveva essere la mia. Era importante che la sua continuasse ad essere negativa nei miei confronti, alla mia potevo badare.
Le luci cominciarono a spegnersi, invitandomi ad uscire, dato che l’allenamento era finito.
Mi alzai di malavoglia e portai la borsa su una spalla prima di uscire dagli spogliatoi.
Mi diressi sicuro verso il parcheggio, giocherellando con le chiavi dell’auto nella tasca della mia giacca. Per poco non mi caddero di mano quando li vidi sfrecciare a pochi passi da me nella direzione opposta alla mia.
Joe e Jessica avevano appena lasciato il parcheggio con l’auto di Joe, lasciandomi di sasso.
O meglio, tutto il mio corpo rimase di sasso tranne lo stomaco che improvvisò un salto carpiato. Esibizionista.
Non aveva motivo di fare così, Joe era nella mia stessa situazione.
Aprii lo sportello della mia Mustang e buttai la borsa sul sedile del passeggero, per poi accomodarmi a quello di guida.
Lanciai un’ultima occhiata al parcheggio dallo specchietto retrovisore prima di abbandonarlo, tornando a casa.
Non ero più uscito con nessuna ragazza da quando l’avevo conosciuta. Avrei dovuto ricominciare a farlo se volevo togliermela dalla testa. Certo, che abitasse la stanza di fronte alla mia e fosse la mia compagna in un dramma amoroso non aiutava.

Ma dovevo riuscirci. In fondo non sarebbe mai potuta stare con me.

You're beautiful, it's true.
I saw your face in a crowded place,
And I don't know what to do,
'Cause I'll never be with you.Sei bella, è vero.

Ho visto la tua faccia in un posto affollato,
E non so cosa fare,
perchè non starò mai con te.

[You're beautiful - James Blunt]



Ok, se siete riusciti ad arrivare fin qui vi meritate un applauso *parte la clac*
E' il capitolo di passaggio peggiore del secolo, ne sono a conoscenza, ma vi imploro in ginocchio di avere pazienza! La storia vera e propria deve ancora partire! :3
Oggi è stato il primo giorno di scuola per me. Sto già contando i giorni che mancano a Natale. Io sono quel tipo che va bene, senza problemi. Rendetevi conto D:
Voi sicuramente avrete già cominciato i vostri corsi/scuole/lavori, spero siano partiti per il meglio! :D
Ok, oltre a scusarmi per il ritardo mostruoso avviso tutti coloro che leggono anche l'altra FF che mi sono bloccata su un collegamento del 27, ma ho già pronti il 28 e buona parte dell'epilogo ;)
Vi ringrazio immensamente per il supporto che mi date ogni volta. Grazie davvero :) siete speciali meraviglie, dalla prima all'ultima *-*
Un bacione
Miki


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Capitolo 9
*** If you're broke, I'll mend you ***


- If you are broke, I'll mend you



Stavo passeggiando con Joe per il parco. Mi era venuto a prendere, come aveva detto, e aveva insistito per offrirmi anche un gelato. Purtroppo non ero mai stata un granché a nascondere le cose, mi si doveva leggere in faccia che non avevo passato una giornata delle migliori, ma in fondo ero contenta che qualcuno fosse finalmente premuroso con me.
Con me che di premure non ne avevo mai ricevute.
Mi lasciai cadere su una panchina.
Non riuscivo a non pensare a come mi considerassero i miei compagni, a come avessero interpretato male il cambiamento. Era frustrante. E stancante, da un certo punto di vista.
«Giuro che se mio fratello ha detto qualcos’altro per ferirti lo uccido, anche se gli voglio bene» disse Joe sedendosi al mio fianco.
«No, lui non c’entra» dissi distrattamente.
«Davvero?» mi chiese quasi sorpreso.
Davvero?
In fondo anche lui aveva fatto la sua parte con il suo “non-rivolgermi-la-parola-in-pubblico”, però in confronto agli altri era minima come cosa.
Annuii sicura.
«Sono le considerazioni dei miei vecchi compagni che… »
Le parole mi morirono in gola.
Mi morsi un labbro, inspirando profondamente.
«Sono invidiosi che sia capitato a me. Sono invidiosi che io sia felice» dissi dopo un po’, cercando di non far tremare la voce.
«Io sono felice se tu sei felice, anche perché noi siamo felici di averti in famiglia» disse sicuro Joe. Corrugò la fronte, impegnato a districarsi da quella frase contorta.
La sua espressione mi fece ridere, sciogliendo la tensione che avevo accumulato a scuola.
«La gente parla, sembra che sia la cosa che riesce a fare meglio. Trova negli altri quello che vorrebbe trovare in sé e si preoccupa di distruggerlo perché non può averlo. Può essere cattiva e ingiusta, molto ingiusta, ma non tutti sono uguali per fortuna. Alcuni si limitano a gioire per le felicità di chi amano e a sostenere questi ultimi nei tempi difficili. Non sono molti, purtroppo, ma ci danno la forza di passare sopra alle critiche» disse poi facendosi serio.
Gli sorrisi rincuorata. Onestamente il giorno prima non avrei pensato che fosse il tipo da discorsi seri, ma in quel momento fui felicissima di essermi sbagliata.
Mi sorrise a sua volta, capendo di aver colto nel segno.
«È colato» disse poi indicando la mia mano.
Oh, il gelato. Me ne ero dimenticata.
Mi affrettai a leccare il bordo del cono, per evitare di fare altri danni.
Joe infilò prontamente la mano nella sua giacca e tirò fuori un fazzoletto dalla tasca interna. Me lo offrì e mi pulii la mano dalle scie appiccicose lasciate dal gelato.
«Ci credo che lo lasci colare! Con quale coraggio fai stare sullo stesso cono fragola e cioccolato?» mi chiese inarcando le sopracciglia cespugliose.
«Rispetto per il mio gelato, è quello che prendo fin da bambina» dissi con aria solenne. «Tu invece signor kiwi e caramello, hai qualcosa da dire a tua discolpa?» gli chiesi lanciando un’occhiata dubbiosa al suo cono.
«È un gelato normale!» protestò.
«Talmente normale che non lo prende nessuno!» ribattei con una risata.
«È una scelta che solo pochi eletti possono comprendere» disse sollevando la testa, con aria di superiorità.
«Immagino» dissi con un occhiata eloquente.
Tornai al mio cono, dando un’ampia leccata ad entrambi i gusti.
«Ti va un gioco?» gli chiesi poi fissando la strada all’orizzonte. Le macchine sfrecciavano rapide oltre il guard-rail: erano ipnotiche.
«Spara» disse allungandosi sulla panchina.
«È il gioco delle venti domande. Ognuno ne ha a disposizione dieci, ma dobbiamo rispondere entrambi a tutte» dissi spiegando brevemente le regole.
Non so da dove era nata quella proposta, non ero il tipo. Però se volevo conoscere meglio la mia nuova famiglia da qualche parte dovevo pur cominciare.
E poi volevo anche distrarmi un po’, a dirla tutta.
«Andata! Cominciano le donne, per cavalleria» disse fingendo un inchino.
«Nome completo» dissi arricciando le labbra in un sorriso.
«Joseph Adam» rispose senza troppo entusiasmo. Forse era troppo banale, ma non potevo mica cominciare con il chiedergli se conservava tutti i suoi denti da latte in un vasetto della marmellata.
«È il tuo turno» disse voltandosi verso di me.
«Jessica Anne» risposi con altrettanta scarsità d’entusiasmo. Anne era un nome che non mi apparteneva, mi sembrava di chiamare un’altra persona quando dovevo recitare tutta quella pappardella.
«Abbiamo le stesse iniziali» mi fece notare illuminandosi con un sorriso.
«È vero. Tocca a te!» dissi facendo altrettanto.
«Colore preferito» affermò sicuro.
Ci pensai un attimo.
Avrei risposto blu, come gli occhi di Tess, se non fosse stato legato a quell’idiozia delle divise di scuola.
Poi pensai al verde, a Denise e a quello che aveva fatto per me. Ai prati in primavera, alla concessione dei semafori e agli occhi di mia madre. Che verde meraviglioso, non avrei mai potuto dimenticarlo.
«Verde» decretai infine.
Mi guardò sorpreso. «Anche il mio» disse allegro.
Tornai per un attimo al mio gelato, per evitare che succedesse l’incidente di prima.
«Hai animali?» chiesi con la bocca non del tutto vuota.
«Intendi oltre a Kevin, Nick e Frankie?»
Scoppiai in una fragorosa risata. «Sul serio!» protestai.
«Ti assicuro, tra qualche mese sarai dello stesso parere. Comunque ho un salsicciotto di nome Winston, non so se l’hai visto gironzolare ieri» disse addentando la cialda del cono.
«Ho visto un cane, penso anche di stargli simpatica, ma non lo definirei proprio un salsicciotto» dissi pensando al Golden Retriever color miele che aveva implorato con occhi irresistibili la metà dei miei hamburger la sera prima.
«Oh, deve essere Elvis allora, il cane di Nick» disse arrivando quasi alla parte finale del cono con un solo morso.
«Io all’orfanotrofio non potevo tenerli, ma i cani mi piacciono molto» dissi assaggiando ormai solo la fragola, che era scesa in profondità.
«Quando questo mondo ha avuto il piacere di vederti per la prima volta?» disse Joe pulendosi le mani dalle briciole.
Mi grattai un attimo la testa, stupita. Nessuno mi aveva mai chiesto la mia data di nascita in maniera così teatrale.
«Il 23 marzo» dissi affrettandomi a finire il cono. «E tu?» gli chiesi con il solito sorriso.
«15 agosto» rispose alzandosi, vedendo che avevo finito di mangiare.
Buttò i tovaglioli in un secchio vicino e poi infilò le mani nelle tasche del suo giubbotto di pelle, affiancandomi mentre tornavamo alla macchina.
Lo sentii giocherellare con le chiavi, consapevole che fosse il mio turno per le domande.
«Stagione preferita?» domandai andando dalla parte del passeggero, girando dietro alla macchina.
«Estate» rispose lui inforcando gli occhiali da sole che conservava in una tasca interna.
Mise in moto e io aprii il finestrino, lasciando che il vento e il sole caldo della California giocassero sul mio viso.
«Primavera» dissi a mia volta, dopo aver chiuso gli occhi.
Sentii la sua mano scattare verso l’autoradio. Presto nella macchina si diffusero delle note bellissime, che catturarono completamente la mia attenzione.
Una voce incredibilmente dolce mi cullava, avrei rischiato di addormentarmi se tenevo ancora gli occhi chiusi.

“She hates the sun
'Cause it proves she's not alone
And the world doesn't revolve around her soul
No
She loves the sky
Said it validates her pride”

Joe cambiò stazione.
Aprii gli occhi di scatto, sollevandomi velocemente dal poggiatesta. «Puoi rimetterla, per favore?» chiesi dolcemente, con il tono che sapevo essere vincente per le richieste.
«D’accordo» disse con un sorriso, esaudendomi.

And the black keys
never looks so beautiful
and a perfect rainbow never seems so dull”

Ormai ondeggiavo a tempo, completamente presa da quella canzone.
«Ti piace?» chiese felice Joe.
«Molto» dissi senza smettere di seguire la musica con la testa.
Era vero, mi piaceva molto quella canzone. Sia per il testo, sia per la musica, sia per quelle bellissime voci.
In orfanotrofio non avevo avuto molte occasioni per ascoltare gli ultimi artisti del momento, ma quei ragazzi erano molto bravi.
«Li conosci?» chiesi a Joe indicando la radio.
«Sì» disse distrattamente, concentrato sulla strada.
«Sono bravi» affermai con un sorriso.
«Se a te piacciono» disse dedicandomi un’occhiata veloce.
Mi limitai ad annuire, facendo inspiegabilmente allargare il sorriso sul suo volto.
«Lavori?» chiesi poco dopo, tornando ad appoggiarmi al poggiatesta.
«Era il mio turno per le domande!» protestò Joe voltandosi velocemente.
«Sei autorizzato a farmene due di seguito dopo» mi giustificai.
«Sì, lavoro con i miei fratelli» rispose arrendendosi.
«Forte! Di cosa vi occupate?» chiesi non riuscendo a tenere a freno la curiosità.
«Una domanda per volta» mi fece notare, sollevando il dito indice dal volante.
Mi morsi un labbro, sapendo che aveva ragione. Toccava a me rispondere.
Dissi di no, che ora non lavoravo più. Finché ero in istituto dovevo coprire dei turni in un negozio di abbigliamento, ma ora che ero fuori quel compito non mi spettava più.
Mi fece altre domande, continuando il mio gioco, senza mai rispondere però a quella che gli avevo posto precedentemete. Anche se ero molto curiosa al riguardo non tornai ad insistere, magari non voleva parlarmene, in fondo non ci conoscevamo da così tanto tempo per raccontarci tutta-la-nostra-vita-e-ogni-singolo-pensiero.
Mi trovai a domandare e a rispondere delle cose più svariate: se mi ero mai rotta qualcosa, se ero stata ricoverata in ospedale, qual’era il mio cibo preferito e quello che invece odiavo. Parlammo di sport, di partite e di squadre di baseball, ma Joe fu costretto ad abbandonare l’argomento perché non ero molto ferrata in materia.
Mi stava facendo passare un pomeriggio bellissimo, non penso di averlo mai ringraziato abbastanza per questo. Lo vidi sorridere mentre entravamo nel vialetto di casa, rallentando gradualmente.
Mi aveva liberata dai pensieri e mi aveva fatta ridere. Forse ci si sentiva così quando si trascorreva del tempo con il proprio miglior amico. Sperai davvero che un giorno io e Joe potessimo diventarlo.
«Tocca a me» dissi quando stavamo ormai parcheggiando.
«Le tre cose che porteresti su un’isola deserta» dissi sganciando la cintura di sicurezza, ponendogli l’ultima domanda che mi spettava.
«Non andrò mai su un’isola deserta!» disse strabuzzando gli occhi.
«Joe!» protestai ridendo.
«E va bene! Allora… Winston, una chitarra e una zattera gonfiabile» disse sfilando le chiavi dal quadro, mettendo a tacere il motore.
«E come la gonfieresti, scusa?» chiesi inarcando un sopracciglio.
«Ho dei polmoni molto buoni» disse inspirando fortemente.
«E se si buca?»
Scosse la testa esasperato, venendo ad aprirmi la portiera.
«Sentiamo, tu cosa porteresti?» mi chiese una volta fuori dal garage.
«Un iPod, il suo caricatore ad energia solare e un manuale di sopravvivenza che fornisce istruzioni dettagliate per costruire zattere che non possono bucarsi» dissi enfatizzando l’ultimo punto con superiorità.
«Ammettilo, sono più furba di te» continuai dandogli un leggero colpetto sul braccio.
«Non lo so. Quoziente intellettivo?» mi chiese precedendomi sulla veranda.
«Io ho parlato di furbizia» gli feci notare.
«Fa lo stesso. Quoziente intellettivo?» ripeté.
«Sicuramente più alto del tuo» dissi facendogli la linguaccia, spingendo la porta di casa che aveva appena aperto.
«Ma sentila! “sicuramente più alto del tuo”» disse scimmiottandomi. Mi arrivò di sorpresa alle spalle, cominciando a farmi il solletico.
Risi d’impulso, anche se ai fianchi non lo soffrivo veramente.
«È inutile Joe, tanto non lo soffro» dissi però senza smettere di ridere.
«Come no, e io sono Mago Merlino» disse passando al collo.
«Oh, ciao Mago! No, il collo no! Non vale!» protestai cercando di piegare la testa.
«Ah ah! Lo sapevo! Bastava trovare il punto debole» esclamò vittorioso senza smettere di farmi contorcere.
Per fortuna arrivò a salvarmi la suoneria del suo iPhone.
Continuò a ridere anche dopo aver risposto al telefono, poi si fece d’un tratto serio. «Oddio, Dani e Mikey» disse battendosi una mano sulla fronte.
«Scusa Kev, hai ragione! Vi raggiungo subito!» disse chiudendo la telefonata in quattro e quattr’otto.
«Ti reclamano?» dissi intuitiva.
«Così pare. Mamma e papà hanno accompagnato Frankie a una partita di basket, non saranno qui prima delle dieci e mezza» mi spiegò brevemente, lasciando che indovinassi da sola con chi avrei dovuto passare la serata.
È simpatico? No.
Dovrà recitare Shakespeare con me? Sì.
Vorrei prenderlo a padellate in fronte? No, molto peggio.
Non era invitante come partita di Indovina Chi? , ma era l’unico gioco a disposizione.
«Per favore, non toccate i coltelli. Unicamente perché sono in ceramica, si rompono se mancano il bersaglio» si raccomandò Joe tornando sui propri passi, verso la porta.
«Naa, tranquillo. Gli schizzi di sangue mi hanno sempre infastidita» lo rassicurai con un sorriso affabile.
«Fammi stare tranquillo» disse accompagnandosi con un indice.
«Certo. Puoi fidarti di me»
Sembrò soddisfatto della risposta, perché fece dietro-front e finalmente uscì.
Ora la domanda era: dopo aver rassicurato tanto Joe, ero davvero sicura di potermi fidare di me?



Hello everybody!
Scusate per il ritardo colossale, ma con la scuola, l'altra FF e non so più neanche cosa, sono riuscita a pubblicare solo oggi :)
Cooomunque mie care, devo dirvi più spesso che i miei capitoli non mi piacciono :P al precedente c'è stato un picco di 7 recensioni! *ww*
Non so più come fare a farvi capire che siete fantastiche! Dai, se questo lo fate arrivare a otto pubblico prima di sabato, promesso! ;)
Detto ciò vi auguro una buona settimana e vi mando un grandissimo bacio ♥
A presto!
Miki

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Capitolo 10
*** That thrill that I feel when you look at me ***


- That thrill that I feel when you look at me
 



“Aggiungere una presa di zucchero e impastare il tutto con delicatezza”

Ok, dovevo esserci.
Avevo seguito la ricetta in tutti i suoi punti, non sarebbe dovuto venir fuori qualcosa di improponibile.
Era uno di quei pomeriggi lunghi. Non ci sono parole più specifiche per descriverli, non passano mai. Che tu vada a scalare l’Everest o a ballare la pizzica su un piede solo in mezzo al deserto, quando torni a controllare l’orologio segna puntualmente solo cinque minuti in più.
Così avevo deciso di darmi alla cucina: non avremo mangiato le solite schifezze da fast-food e in più avrei trovato un modo per occupare il tempo.
Continuavo a rimestare l’impasto, così non mi accorsi di Nick che mi guardava silenzioso dalla porta della cucina.
«Ti serve qualcosa?» gli chiesi tralasciando grossolanamente la gentilezza.
Non rispose e venne ad appoggiarsi alla penisola dove stavo cucinando senza smettere di guardare me, o meglio, le mie mani.
A dire la verità mi metteva un po’ a disagio con quello sguardo, mi sentivo quasi sotto esame. Se a questo aggiungiamo il fatto che lo faceva in un modo terribilmente sexy era un bel guaio.
Terribilmente sexy? Ma cosa andavo a pensare?
Mi passai una mano sul viso ricordandomi solo più tardi che era la stessa con la quale avevo appena impastato uova e farina.
Merda. Io sì chesapevo come rendermi terribilmente sexy.
«Lo stai facendo nel modo sbagliato» mi disse sorridendo, come se mi avesse letto nel pensiero.
Era un sorriso spontaneo, completamente diverso da quello arrogante che era solito indossare. Gli stava decisamente meglio.
«Da quando io e te riparliamo?» gli chiesi perplessa, ricordandogli il suo bel discorso.
«Beh, da quando impasti una torta rustica nel modo sbagliato» disse conservando quel sorriso di prima.
Ah, quindi a questo alludeva. Mi lasciai sfuggire un piccolo sospiro liberatorio.
«Non lo sto facendo nel modo sbagliato. Sto seguendo passo a passo la ricetta» dissi leggermente accigliata, lasciando perdere la torta e indicando il libro di cucina.
«Appunto» commentò avvicinandosi.
«Ci vuole un pizzico d’improvvisazione per migliorare le cose» continuò rubando un pezzettino della pasta che avevo appena creato.
Nel dire il tutto aveva continuato a tenermi gli occhi addosso.
Era assurdo: non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Avevo come paura che potesse leggere nei miei occhi le insolite considerazioni su di lui che mi stavano sfuggendo in quel momento.
Lo detesto.
Lo detesto.
Lo detesto.
Bastava essere convinta di questo.
«Fallo tu, visto che sei tanto bravo» dissi per metterlo alla prova, pulendomi le mani sul grembiule già innevato di farina.
«Con più dolcezza» disse prendendo il mio posto, cominciando a impastare per me.
Chissà perché credei che non si riferisse soltanto alla torta.
«Prova tu» mi invitò dopo un po’ che le sue mani accarezzavano saggiamente la pasta.
Tornai all’opera titubante, cercando di imitare le sue mosse, anche se non avevo propriamente osservato le sue mani per tutto il tempo. Ero stata distratta da quella sua espressione concentrata, per non parlare dei muscoli che si muovevano sinuosi sotto la maglietta.
Mi imposi un respiro profondo.
Dovevo star massacrando quella povera pasta, perché Nick mi arrivò alle spalle, coprì le mie mani con le sue e disse: «delicatezza ma decisione» correggendo il movimento.
Era strano. Sentii come un brivido corrermi lungo la schiena. Quel tocco leggero che guidava le mie mani non sembrava appartenere minimamente al ragazzo che mi aveva imposto di cambiare posto alla mensa la prima volta che l’avevo incontrato.
Era diverso, ma non riuscivo comunque a sopportare l’idea che mi facesse un effetto strano.
«Il ripieno»
Dovetti ripetere più volte la frase perché la mia voce non si decideva ad uscire.
Ma che… ?
Feci per prendere la ciotola con gli spinaci tritati e la ricotta, ma Nicholas fu più veloce di me e l’assaggiò con un cucchiaio.
«È buono» constatò.
Gli rivolsi un’espressione sarcastica.
Cosa si aspettava che fosse? Frullato di Hulk?
«È buono perché hai aggiunto qualcosa che non era nella ricetta» aggiunse assaggiando nuovamente la crema.
«Grazie mille, sono lusingata dai tuoi complimenti» dissi ironicamente.
Sembrò non prestarmi attenzione, impegnato com’era nel ruolo di grande chef.
«Burro» affermò sicuro.
Scossi la testa, insoddisfatta della risposta.
«Basilico» provò ancora assaggiando un’altra volta.
Negai nuovamente.
«Broccolo?» chiese tuffando il cucchiaio nella crema verde per l’ennesima volta.
«Cambiare lettera?» proposi imitandolo.
Ridemmo entrambi e Nicholas si lasciò tentare da un’altra cucchiaiata.
«Basta assaggiare, o non mi lascerai niente da mettere qui dentro!» esclamai togliendogli la ciotola dalle mani e cominciando a riempire la torta.
«C’è una piccola presa di zucchero. Basilico, pft» commentai con uno sbuffo.
Richiusi con cura la pasta sopra il ripieno di spinaci e poi mi avvicinai al forno con la teglia in mano.
«Lascia, lo programmo io il forno» disse lui abbassandosi davanti all’elettrodomestico.
«Guarda che sono capace anche io» risposi raggiungendolo e aprendo lo sportello per adagiare la teglia con la mia torta sulle griglie. Lo richiusi accompagnandolo e in contemporanea Nick si allungò a ruotare la manopola del timer. In questo modo me lo ritrovai a pochi centimetri di distanza dal mio viso.
«Ci vuole un po’ di forza, non è molto morbida» disse improvvisamente più piano, sfiorandomi la pelle con il respiro.
D’un tratto sentii mancarmi l’aria, per quanto la cucina potesse essere grande, in quel momento per me aveva le dimensioni dello stanzino delle scope.
Continuava a guardarmi come aveva fatto per tutto il pomeriggio, ma quando passò a studiare le mie labbra non riuscii più a trattenermi.
«Si può sapere che cosa hai intenzione di fare?» sbottai alzandomi in piedi.
«Intenzione di fare?» ripeté perplesso.
«Beh, sì. Un giorno mi insulti, quello dopo ci provi, un altro ancora mi dici che non devo parlarti e adesso… questo. Qualunque sia il tuo piano, sappi che con me non funziona. Quindi puoi anche smetterla di guardarmi in… quel modo» dissi d’un fiato bloccandomi solo per descrivere il suo sguardo.
«Piano?» chiese divertito alzandosi a sua volta.
«Cosa c’è, l’eco? Ti faccio presente che non ero io quella che si divertiva a giocare a Ghost con l’impasto, poco fa» dissi incrociando le braccia al petto.
Inarcò un sopracciglio, mentre un sorriso tra il perplesso e il divertito gli si dipingeva in viso.
«Quindi se non ti dispiace ora vado a darmi una ripulita prima che qualcuno possa vedermi in questo stato» conclusi indicando accigliata la mia faccia.
«Comunque… » disse afferrandomi per un braccio mentre uscivo dalla cucina.
«Stai benissimo anche così» continuò con un sorriso. No, non quello spontaneo di prima, uno da degno provolone che non era altro.
«Smet-ti-la» sillabai liberandomi dalla presa e allontanandomi il più velocemente possibile dalla stanza.
Mi rifugiai nel mio bagno, tuffandomi i una vasca piena di schiuma profumata alla vaniglia.
Appoggiai la testa al bordo e scivolai un po’ più in basso con il sedere.
Quello doveva essere un classico atteggiamento che adottava con tutte le ragazze: per un po’ se la tirava, facendo il figo e poi come un prestigiatore tirava fuori dal cilindro degli aspetti nascosti di sé.
Mago dei miei stivali, io non ci casco. Ripeto, non sono tutte, con me non funziona.
“Balle” sussurrò una vocina nella mia testa.
Ecco, sì, ci mancava solo un altro fronte sul quale lottare.
“Sai che ho ragione” insistette.
Sprofondai sott’acqua, sperando che annegasse, augurandole nel frattempo di trovarsi in un luogo molto lontano e brutto chiamato Quel Paese.
Mi asciugai velocemente, trascurando i capelli come sempre quando faceva ancora caldo: rischiavo di sudare e di rendere vana la mia lunga immersione.
Scesi furtivamente ai piani inferiori, sperando il più vivamente possibile di non dover rincontrare quello sguardo.
Mi avvicinai alla cucina. Lì per lì non ci feci caso, ma cominciava a disperdersi per il salone un odore forte, che ricordava molto… puzza di bruciato! Corsi a vedere cosa stava succedendo alla mia torta, ma purtroppo mi aspettavano poche sorprese: un bel dischetto nero era adagiato nel forno e un denso fumo grigio lo circondava.
«Nick!» esclamai esasperata. Aveva vanificato il mio lavoro di un intero pomeriggio!
Ero impegnata a lanciargli le migliori imprecazioni dell’aramaico antico quando mi sorprese alle spalle chiedendo con fare preoccupato: «che cosa è successo?».
«Spostati» mi limitai a dirgli mentre mi spostavo al lato del forno per aprirlo e lasciar uscire tutto il fumo. Seguì qualche colpo di tosse prima che mi chinassi a recuperare i resti carbonizzati della mia torta.
« “Lascia, lo programmo io il forno”. Beh, complimenti» dissi imitandolo.
«Ho solo girato la manopola, pensavo controllassi tu la temperatura» si difese.
«Certo. Intanto questo è il risultato» dissi buttando nel secchio i resti carbonizzati della nostra cena.
«Beh, cerchiamo di trovare una soluzione invece di rimpiangere quello che è andato perso» disse quasi rimproverandomi.
«Ce l’avremmo una soluzione se qualcuno fosse stato più attento!»
«Ti ricordo che neanche tu eri qui mentre la tua grandissima opera di alta cucina si carbonizzava» mi disse con una smorfia.
«Non puoi sapere come fosse in realtà! Non l’hai neanche assaggiata!» dissi a difesa del mio lavoro.
«Vedi come sei? Cambi argomento pur di ritrovarti su un fronte dove puoi avere solo che ragione» disse riducendo gli occhi castani a due fessure, sporgendosi in avanti.
«Tu invece? Sei il perfetto essere umano sempre pronto a sputare la sua sentenza su tutto e tutti, correggimi se sbaglio» dissi avanzando a mia volta, battendo ripetutamente un indice sul suo petto.
Sollevai di poco la testa, per guardarlo bene negli occhi, furente. La rabbia mi fece un effetto diverso dal solito: invece che prendere a respirare con più frequenza, mi ritrovai per qualche istante a trattenere il fiato.
Nei suoi occhi color cioccolato scorsi un velo d’ira che sparì del tutto quando incontrarono i miei.
Le altre dita si distesero meccanicamente, andando a far compagnia all’indice accusatorio che avevo puntato contro il petto di Nick. Ecco di nuovo la piccola scarica di prima tornare a scorrere tra di noi.
«Fast food?» propose a bassa voce.
Aggrottai la fronte, non avendo afferrato appieno il concetto di quella domanda.
«Per la cena, dico… »
Mi riscossi. «No» risposi brusca, allontanandomi.
«Perché devi rispondere sempre in maniera negativa?» mi domandò alzando le braccia.
«Perché sono arrabbiata! Cosa ti aspettavi che facessi? Che rispondessi “sì Nicholas, mio eroe, la tua idea ci salverà” e andassi a distribuire fiori e caramelle agli angoli delle strade? Beh, mi dispiace ma non lo farò» dissi agitando convulsamente le mani. Feci per andarmene, ma lui mi richiamò.
«E per la cena?» mi chiese dopo che ebbe evidentemente lasciato scontrare alcuni pensieri nella sua testa.
«Arrangiati. A me è passata la fame»
Detto questo salii in camera e mi rannicchiai sul letto.
Non riuscivo più ad essere coerente nei miei pensieri come lo ero nelle azioni. E per questo ero arrabbiata anche con me stessa.
Rotolai su un fianco, richiamando le ginocchia al petto, mordicchiandomi un pollice, come da sempre facevo quando non riuscivo a capire qualcosa.
Questa volta non riuscivo a spiegarmi quel pomeriggio, quello che era successo, quello che avevo sperato che succedesse.
Immediatamente le mie unghie scattarono a conficcarsi nel palmo, per autopunirmi di quel pensiero. La cosa andò avanti per molto, non so di preciso per quanto. Sciocchezza/unghiata sciocchezza/unghiata.
Chiusi gli occhi ancora più confusa e arrabbiata di prima, con l’aggiunta di un palmo dolorante.
Ho sempre attribuito al sogno il momento in cui qualcuno venne a tirar su le mie coperte, lasciandomi una piccola carezza.
Uno scodinzolio e una porta che si chiudeva, poi null’altro.
Avevo solo sognato, ne sono sempre stata convinta.
Solo sognato.


Eeeee salve!
Eccoci di nuovo *-* ero indecisa tra due finali, ma alla fine mi ha ispirato più questo :) fatemi sapere se ho scelto bene ;)
Che dire? Come al solito non mi lapidate se pubblico una volta ogni morte di papa ve ne sarei immensamente grata :')
Indovinate un pò? Ringrazio come sempre tutte voi splendide recensitrici, le new entries per quanto riguarda il seguire/preferire e tuuuutti tuutti tutti i lettori silenziosi *-*
Per l'altra sto cercando di scrivere un finale come Dio comanda :) dopo tanto tempo non vi posso mica lasciare con un capitolo-cacchetta di piccione!
Se mi seguite almeno da un pò saprete che quando qualcosa riguarda me non mi accontento MAI.
Detto ciò vi saluto meraviglie (lo so che vi mancava questo soprannome :3)
Un bacione♥
Miki


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Capitolo 11
*** Out on your corner in the pouring rain ***



- Out on your corner in the pouring rain
 


La prima settimana di ottobre aveva portato con sé le prime nuvole su Los Angeles e aveva fatto scendere di qualche grado le temperature.
Non era cattiva come giornata, faceva fresco al punto giusto e mi permetteva di stare fuori in giardino infagottata in una felpa.
Ho detto giardino? Scusate, parco mi sembra più appropriata come parola. Infatti avevo appena scoperto un nuovo albero dalle dimensioni enormi. Cioè, per me era nuovo, chissà invece da quanto tempo era lì…
La luce filtrava grigiastra tra le foglie illuminando le pagine del libro che stavo leggendo, ferme sotto la pressione delle mie dita, in modo da impedire che il vento leggesse al mio posto. Ogni tanto vedevo scendere dolcemente qualche foglia dorata per venire a farmi compagnia in terra e le mie scarpe ne facevano scrocchiare delle altre ogni qual volta decidevo di cambiare posizione.
Era un’atmosfera che mi rilassava profondamente, sarei potuta rimanere lì per moltissimo tempo, almeno finché Paul e Denise non si fossero decisi a sguinzagliare l’FBI per cercarmi.
Guardai distrattamente l’orologio che avevo al polso: le sei in punto.
Non potevo aspettare oltre.
Chiusi il libro, premurandomi di mettere un segno alla pagina dove ero arrivata e poi mi alzai in piedi pulendomi i pantaloni, in modo da assicurarmi che le foglie non mi facessero compagnia anche per strada.
Imboccai il cancello, ignorando il fatto che il cielo mi stesse gridando a gran voce che portare un ombrello con me sarebbe stata una saggia decisione.
Poco importava, non ci avrei messo molto.
Affondai le mani nelle tasche cercando di percorrere il tragitto che separava casa Jonas dal negozio nel minor tempo possibile. Tenevo lo sguardo basso, pensando a cosa avrei dovuto dire, preparandomi già ad ogni possibile reazione di Tess.
Avevo appena iniziato a prendere in considerazione un secondo rifiuto quando mi trovai di fronte alla porta a vetri del negozio. L’insegna era rimasta la stessa: una scritta in corsivo sul vetro, di un grigio fumo. Si intonava perfettamente al meteo di quel giorno.
Tess era dietro al bancone della cassa, con i capelli biondi legati in una coda e le labbra rosse colorate dal rossetto. Gli occhi erano sempre due meravigliosi oceani azzurri, ma erano spenti.
Da quando abitavo a casa Jonas gli occhi non avevano più segreti per me. Loro riuscivano a capire cosa provavo con un solo sguardo, e mi ero dovuta adattare di conseguenza.
Seguì la cliente che stava servendo fino all’uscita con un sorriso e le aprì cordialmente la porta. Le si congelò il volto quando mi vide lì.
Ma non mi sbatté la porta in faccia, tornando al suo lavoro, come avevo previsto.
No, si limitò a serrare le dita sulla maniglia, facendo assumere alle nocche già bianche un pallore quasi cadaverico. Il suo sguardo severo mi studiò attentamente, pronto a scorgere ogni minimo cambiamento in me.
«Ciao» esordii banalmente.
«Come mai sei qui?» mi chiese bruscamente.
Tirai le maniche della felpa fino a chiuderle nei palmi delle mani.
«Beh, considerata l’ultima volta, volevo provare a… ad aggiustare le cose» dissi senza far comparire la tensione che era nell’aria anche nella mia voce.
«Aggiustare le cose» la sentii sussurrare mentre accennava una risata nervosa.
«Lo so, probabilmente non posso, però ci tenevo a dirtelo. Volevo che tu sapessi che non ti ho abbandonato come pensi, che voglio impegnarmi al massimo e mettere tutta la mia buona volontà nello starti accanto anche se non passo più ventiquattrore su ventiquattro con te. E soprattutto volevo dirti che… »
«Basta Jessie, non… » si interruppe con un sospiro.
«COSA?» sbottai.
Non voleva sentire la cosa più importante e, soprattutto, non doveva chiamarmi così. E lo sapeva.
«Sai che non sarà così» mi disse, facendo intendere che fosse scontato.
«Perché?» le chiesi, sentendo la mia voce farsi acuta.
Fece spallucce, scuotendo contemporaneamente la testa con aria rassegnata.
«Mi dispiace che tu non capisca. Mi dispiace veramente tanto» disse facendo per rientrare.
«Tess!» la richiamai allungandomi in avanti, infilandomi tra lei e la porta.
Mi rivolse un’espressione esasperata.
«Dimmi almeno che non stai più in quello schifo di posto! Che hai trovato da sistemarti» dissi quasi implorando.
«Jeremy mi ha affittato una stanza da lui» disse priva dell’entusiasmo che aveva un tempo quando parlava con me.
«Ah» commentai senza sapere bene cosa dire. Non avevo mai capito se Jeremy fosse suo amico o meno, o addirittura qualcosa di più.
«Devo andare a lavorare, non ho tempo per le fantasie, Jess» mi disse duramente facendomi uscire.
«Ma non hai sentito… »
«È tardi» scandì chiudendomi fuori dal negozio.
“ …quanto mi manchi, stupida testona” completai la frase nella mia testa, vedendola tornare al suo posto mentre si aggiustava la gonna in vita.
Posai una mano sul vetro, ma ecco subito pronta un’occhiataccia ad intimarmi di andar via.
Ultimamente era quello che mi dicevano di fare tutti: di andare via.
Lasciai ricadere la mano lungo il fianco, tornando a coprirla con la felpa.
Voltai le spalle al negozio, ritornando in strada.
Qualcosa mi colpì esattamente dove la riga che divideva i capelli lasciava scoperta la testa. Acqua.
Alzai lo sguardo verso un cielo denso di nuvoloni neri. Rivolsi il palmo della mano verso l’alto, per avere conferma di ciò che avevo sentito. Le gocce cominciarono a cadere con maggiore intensità.
Guardai nuovamente il cielo. Sembrava quasi dirmi “io ti avevo avvertito”.
E grazie tante.
Tirai su il cappuccio e lasciai che soltanto le dita uscissero fuori dalle maniche della felpa.
Cominciai a camminare a testa bassa, come prima, senza badare troppo a dove andavo.
Ciac ciac. Il bacio che le suole gommose delle mie scarpe lasciavano all’asfalto teneva compagnia ai miei pensieri, cercando di cullarli.
Mi sentivo completamente sbagliata. Ero sempre nel posto sbagliato, al momento sbagliato, a dire la cosa sbagliata.
Lasciai che un sospiro di frustrazione lo sottolineasse.
Nessuno era disposto ad accettare la mia nuova condizione, nessuno voleva avermi vicino, a nessuno interessava quello che avevo da dire.
“Hai una bella famiglia felice, potreste andare su una scatola di biscotti. Cosa vuoi di più dalla vita?”
No, la risposta non era ‘un Lucano’.
Era che a volte mi sentivo più sola di prima. Quando ero in orfanotrofio bene o male c’era una sorta di alleanza con gli altri ragazzi, addirittura una fratellanza con Tess.
Ora se toglievo l’affetto di Paul e Denise cosa rimaneva? Un mucchio di gente dalla quale più stavo alla larga, meglio era. Strinsi le braccia al petto, incurante della crescente intensità della pioggia. Ormai ero bagnata, una goccia in più o in meno non poteva fare la differenza.
Sentivo i pantaloni aderire alle gambe, farsi pesanti formando pieghe all’altezza delle caviglie. La felpa era zuppa, l’acqua continuava a grondare dai lati del cappuccio e le spalle erano curve sotto il peso dell’indumento carico di pioggia. I capelli erano attaccati al viso, e non volevo immaginare quali fossero lei mie condizioni in quel momento.
Tra fuori e dentro c’era da mettersi le mani tra i capelli.
Mi sentii finalmente libera di poter lasciar cadere qualche lacrima, nessuno le avrebbe riconosciute nella pioggia.
Piangevo perché non ce la facevo più, perché non mi sentivo in grado di fare altro.
Piangevo per tutte le volte in cui ero stata derisa, evitata, umiliata soltanto per quello che ero. O meglio, per quello che non avevo.
Piangevo per tutte le occhiate ostili, i falsi sorrisi e le pugnalate alle spalle.
Piangevo per tutte le promesse infrante, per tutte le volte che mio padre aveva mancato i nostri appuntamenti.
Piangevo per tutte quelle volte che non lo avevo fatto per dimostrare a qualcuno quanto ero forte.
Ma in realtà, forte lo ero davvero?
Non riuscendo a trovare una risposta per quella domanda alzai lo sguardo.
Ero arrivata nei quartieri alti senza accorgermene.
Appunto, ero un’altra volta nel posto sbagliato.
Un clacson suonò lì vicino.
Ripresi il mio cammino a testa bassa, non curandomene.
Il rumore si ripeté. Lo ignorai ancora.
Mi lasciò fare qualche altro passo prima di ripetersi in maniera prolungata.
Alzai lo sguardo infastidita. Possibile che neanche sotto un acquazzone uno potesse trovare un po’ di tranquillità e piangere in santa pace?
La testa ricciuta che comparve dal finestrino di una RangeRover tirata a lucido non mi era sconosciuta.
«Jessica! Cosa stai facendo? Ti prenderai un malanno!»
Sorrisi. Forse qualcuno che teneva a me almeno un pochino c’era.
«Sentiamo, da quanto tempo sei in giro?» mi chiese Chelsea in tono di rimprovero.
Guardai l’orologio, bagnato come tutto il resto.
«Da un’oretta» buttai lì.
«Sei completamente ammattita o cosa? Salta su, forza! Ci asciugheremo in un attimo a casa» disse facendomi segno di raggiungerla in auto.
«Chelsea grazie, ma non posso venire da te in queste condizioni!» replicai facendole notare i miei vestiti zuppi.
«E allora vorrà dire che ti porterò a casa tua! Avanti, basta che sali» disse in tono che non ammetteva repliche.
Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi e raggiunsi l’auto. Feci per aprire lo sportello, ma alla vista dei suoi bellissimi sedili scamosciati mi sentii piangere il cuore.
«Avanti Chels, non posso! Combinerò un casino qua dietro» dissi richiudendo la portiera.
«Quale ignota ragione ti porta a paragonarti a dei sedili? Se proprio non puoi fare a meno di sentirti in colpa ci sono delle buste di plastica nel vano portaoggetti, puoi metterle sui sedili prima di sederti» disse quasi spazientita, battendo una mano sul volante.
Aprii lo sportello e trovai le buste dove aveva detto Chelsea, coprii la pelle scamosciata e presi posto in auto.
Levai il cappuccio e cercai di dare una sistemata ai capelli mentre Chelsea ripartiva.
«È la settima dalla spiaggia» le comunicai.
Ammiccò dallo specchietto retrovisore, senza aggiungere altro.
Guardai le ville di lusso scorrere veloci fuori dal finestrino, accoccolandomi tra il vetro e il poggiatesta. Incrociai le braccia, tentando invano di riscaldarmi. Ora che l’acqua non batteva più sul mio corpo il freddo cominciava a farsi sentire. Richiamai le gambe al petto, assicurata dalle buste che non avrei fatto danni.
Cercai di scacciare la sensazione che mi teneva legata al gobbo di Notre Dame, con le spalle così curve e il peso del cappuccio sulla schiena.
Chiusi gli occhi, consapevole che non sarei riuscita a formulare molti altri pensieri prima di scivolare nel mondo dei sogni.
Qualcuno non mi aveva respinta, abbandonandomi al mio destino.
Qualcuno, forse, era ancora disposto a volermi bene.


Jessica aspetta, è in una stanzetta con gli altri bambini, in quella che chiamano “sala dei ricevimenti”. Le hanno fatto mettere un vestitino rosa, come a tutte le altre bambine. A lei non piace, ma non le importa. Sta per rivedere il suo papà, e questo basta per tutto il resto.
La porta si apre per la prima volta, Jessica può tastare l’entusiasmo con le dita. Chiamano un bambino dai capelli biondi, l’entusiasmo si appiana.
Jessica gioca con le treccine che le hanno fatto per l’occasione, sperando di essere la prossima. Ma così non accade. E non è neanche la terza, la quarta e neppure la settima.
Rimane lì da sola, in attesa.
Finalmente la porta si apre.
«Switcherson»
Il suo cuore ha un sussulto.
«Puoi tornare di sopra, abbiamo finito per oggi»
È uno scherzo. Quanto è burlone suo padre, adesso spunterà da dietro la porta facendo una smorfia e chiedendo “dov’è la mia piccola Jessie?”.
Ma il papà tarda a fare la sua comparsa.
«Puoi andare, abbiamo finito le visite» le intima di nuovo la voce dell’inserviente.
Jessica sente il mondo crollarle addosso. Non è venuto. Non è venuto neanche questa volta.
Neanche oggi è potuto venire a sentirla cantare la canzone che lui le ha insegnato, neanche oggi è venuto a portarla via dal regno cattivo per portarla nel loro castello dove vivranno felici e contenti.
Forse capisce tutto mentre sale le scale, mentre torna dalla sua amica del cuore per farsi confortare.
Non è vero che non è potuto venire, semplicemente  non ha voluto.
E ci sono favole che non finiscono con “e vissero felici e contenti”, la sua probabilmente è una di quelle.



Eeeee salve!
Ecco un altro bel (?) capitoluccio.
Comincia a far freddino, mi si stanno congelando tutte le dita D:
Oggi quindi (per la vostra giuoia) sarò di poche parole :3
Fatemi solo ringraziare tutte le meraviglie che leggono/preferiscono/seguono/ricordano e recensiscono *ww*
I LOVE U
Fatemi sapere che ne pensate :) secondo voi ho fatto bene a mettere il flash-back alla fine? :)
Un bacione  ♥
Miki

P.s: E' USCITO REEEEED!!! *---*  Scusate, sono troppo contenta, dovevo dirlo u.u

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Capitolo 12
*** "I'm faithful and worthy of you" ***


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Tentai di girarmi, ma la schiena me lo impedì: faceva un male assurdo.
«No, l’ho portata da me» sentii dire da una voce familiare.
«Sì, sta bene. Per ora almeno. Ha detto che era in giro da un’oretta, quando l’ho trovata» continuò.
Aprii a forza gli occhi, lasciando che una luce intensa mi abbagliasse.
Chelsea mi dava le spalle e parlava al telefono, rivolta verso la finestra.
Indossava una vestaglia rosa salmone e aveva lasciato i ricci ricaderle morbidi sulle spalle.
Stava ancora piovendo a dirotto là fuori.
«Non lo so, Nick. Sta dormendo. È crollata in macchina mentre venivamo qui»
Riuscii lentamente a mettermi supina, puntellandomi contro lo schienale del divano.
«Sì» disse. Dal suo tono di voce sembrava che la telefonata stesse giungendo al termine.
«A più tardi» concluse confermando le mie ipotesi.
«Oh, ben svegliata! Come ti senti?» mi chiese raggiante, avvicinandosi a me.
«Se parlo forte, bene» dissi massaggiandomi la testa mentre cercavo di alzarmi.
Quanta acqua avevo preso?
«Fidati, stai bene se sei in vena di fare certe battute» disse con una smorfia.
Sorrisi sommessamente.
«Tieni, bevi un po’. Ti aiuterà a sentirti meglio» mi disse allungandomi una tazza fumante di qualcosa.
«Mia madre pensa che ci sia un tè per ogni circostanza: sei triste? Prendi un tè. Hai rotto con il tuo ragazzo? C’è il tè dell’amore futuro pronto per te. Litighi con un’amica? Bevete insieme il tè della pace. Sei stata più di un ora sotto l’acqua scrosciante? Prendi un tè che male non ti fa» mi spiegò con un sorriso dopo avermi aiutata a tirarmi su.
Ricambiai prima di bere una lunga sorsata. Era buono, scendeva giù come lava. Lo sentivo in gola, irradiare calore nel petto, scendere rapido verso lo stomaco. Aveva anche un vago profumo di frutti di bosco, annusandolo bene.
In effetti Chelsea e sua madre avevano ragione: dava la sensazione di stare un po’ meglio.
«Buono?» mi domandò.
Annuii stringendo le mani attorno alla tazza fumante, per riscaldarle un po’.
«Allora, vuoi raccontarmi cosa ci facevi lì fuori?» disse sedendosi sulla trapunta a fiori di quello che immaginai fosse il suo letto.
Presi tempo soffiando sulla tazza. Raccontare del mio incontro con Tess avrebbe voluto dire parlare di un’altra parte della mia storia, e non ero del tutto sicura che mi andasse di farlo.
Per fortuna squillò il telefono e Chelsea si precipitò a rispondere.
Sentii qualcuno parlare con fare concitato dall’altra parte della cornetta.
«Sì Liz, una persona in più non cambia praticamente nulla» disse scuotendo la testa.
«E tu dì a quelli del catering che telefoni da parte mia» continuò accompagnandosi con un gesto che sottolineava l’ovvietà della cosa.
«Sì, grazie tesoro, a dopo» concluse buttando giù la cornetta.
Scosse nuovamente la chioma ricciuta tornando a sedersi sul letto. Scommetto che stesse per chiedermi nuovamente cosa ci facessi sotto la pioggia, ma un’altra fortunata coincidenza arrivò in mio aiuto.
Una signora paffuta con abiti scuri, grembiule bianco e crestina si affacciò dalla porta.
«Signorina Chelsea, siete in ritardo» le fece notare.
Chelsea guardò distrattamente l’orologio collocato proprio sopra la mia testa e per poco non cadde dal letto.
«Noi non siamo in ritardo Bess, siamo in anticipo per la festa dell’anno prossimo» disse alla signora scomparendo dietro la porta di quella che mi pensai fosse la sua cabina-armadio.
La signora Bess mi guardò sconsolata e io per tutta risposta mi limitai a fare spallucce, dopodiché scomparve richiudendosi la porta della camera alle spalle.
«Jessica, tu a occhio e croce porti una 42, vero?» chiese la voce di Chelsea attutita dalle pareti della cabina.
«Sì» risposi a voce bassa, non potendo fare a meno di trovare il collegamento con Tess, quando indovinava in meno di trenta secondi le taglie delle clienti che venivano in negozio.
Sentii i passi di Chelsea di nuovo nella stanza e mi riscossi, non riuscendo però a capire dove volesse andare a parare con quella domanda.
«Allora questo dovrebbe fare al caso tuo» disse allungandomi una busta con una firma svolazzante impressa sui lati.
La presi titubante e ne esaminai il contenuto.
A prima vista sembrava una sciarpa rossa, ma non capivo a questo punto cosa c’entrasse la taglia.
Mi decisi a tirarla fuori dalla busta e mi ci volle poco per realizzare che in realtà quello che avevo in mano non era una sciarpa, ma bensì un vestito.
Oddio, come lunghezza non mi ero sbagliata più di tanto.
«Beh, non lo provi?» mi chiese Chelsea alle prese con la cerniera di un abito dorato.
Abbozzai un sorriso e ripiegai con cura i miei abiti sul divano, man mano che li toglievo.
Indossai il vestito, che scivolò sinuoso fino a metà coscia.
Stringeva il mio corpo in morbide fasce di raso e lasciava il posto ad un tulle leggero dove iniziava la gonna: era meraviglioso.
Chelsea mi fece posto davanti allo specchio e andai a rimirarmi da più angolature.
«E dove dovrei andarci con questo coso secondo te?» le chiesi ancora perplessa.
«Alla mia festa, per esempio» disse inarcando le sopracciglia, raggiante.
Mi lasciò di stucco. Io non ero mai andata ad una festa, non avevo idea di cosa si facesse o di quello che era più opportuno indossare per non farsi ridere dietro dalla metà degli invitati.
Beh, per il secondo punto non mi sembrava ci fossero molti problemi.
«Ma non posso venire. E soprattutto non posso accettare questo vestito: è tuo» dissi portando nuovamente le mani alla schiena per aprire la cerniera.
«Punto primo: tu non puoi venire, ma devi. Punto secondo, il vestito per me è largo e quando dico che lo devi accettare non si discute: la festeggiata oggi detta legge. Poi… tra amiche si fa, no?» concluse Chelsea ammiccando.
Tra amiche… non potei fare a meno di sorridere.
«Ma Denise non sa nulla, io…»
«Denise sa già tutto dato che Nick è sulla lista degli invitati» continuò smontando anche questo punto.
La saliva mi andò di traverso, provocandomi un forte attacco di tosse.
«Tutto bene Jess?» mi chiese Chelsea vedendo che ero diventata l’equivalente di un pomodoro ambulante con gli occhi lucidi.
Annuii respirando profondamente, cercando di ricompormi.
«Bene, allora andiamo» disse decisa.
E prima che potessi muovere anche solo un’altra piccola accusa, mi trascinò fuori dalla stanza per portarmi alla sala trucco.


***


Rimasi senza fiato. Il salone era enorme, traboccante di lusso ad ogni angolo. Un’ampia scalinata di marmo conduceva al piano inferiore e immensi lampadari di cristallo scendevano dal soffitto, dipingendo nella sala mille arcobaleni creati dai raggi di luce che si infrangevano nei suoi piccoli prismi. Lunghissimi tavoli del buffet si stendevano ai lati e la musica dal vivo completava il tutto. Chelsea non aveva proprio badato a spese, ma d’altronde i diciott’anni capitano una volta sola nella vita. Abbassai lo sguardo e trovai solo quello di gente che mi fissava incredula.
Cercai di tirare un po’ più giù il vestito. Avere quello indosso ed essere nuda mi dava praticamente la stessa sensazione.
Posai la mano sinistra sul corrimano e, a piccoli passi, cominciai la mia discesa. Il marmo era incredibilmente gelido, la mia pelle al suo contatto quasi sfrigolava. Ero diventata inspiegabilmente calda da quel pomeriggio e in più sentivo le tempie pulsare a dismisura. Nonostante ciò continuai a sorridere a tutti come mi aveva raccomandato Chelsea, raggiungendo finalmente il salone. Tutti erano ritornati alle loro conversazioni delusi, forse, che non fossi la festeggiata. Tutti tranne uno, di cui da lontano riuscii a notare solo un particolare: un bocciolo bianco appuntato al bavero della giacca.
“Sono fedele e degno di te” questo dice la rosa bianca.
Cercai di farmi largo tra la folla, curiosa di guardare in faccia chi sfoggiava un così bel messaggio.
Immaginate la mia sorpresa quando mi ritrovai faccia a faccia con il mio osservatore.
Nelle ultime ore l’avevo immaginato più volte con un vestito elegante indosso, ma mai mi aspettavo potesse essere uno spettacolo del genere. Capelli ordinati da un velo di gel, camicia bianca, completo scuro e cravatta sottile in tinta. La rosa bianca era lì, a sinistra, dove l’avevo notata da lontano. Mi sorrise, illuminando gli occhi castani.
Mi costava ammetterlo, ma era veramente bellissimo.
Il suo sguardo mi aveva accompagnato durante tutta la discesa.
Perché diamine doveva farmi quell’effetto?
Il fatto che fosse terribilmente elegante con quella rosa appuntata alla giacca e quel vestito molto “sono appena sceso da una passerella delle più grandi griffe” non mi dava una motivazione valida per continuare a tenere la bocca socchiusa, assomigliando a un’ebete.
E adesso che stava facendo?
Abbassava lo sguardo… ma non mi guardare le tette! Altrimenti sai dove te lo ficco quel maledetto sorrisetto?
I ragazzi, sono tutti uguali. Cambia l’involucro, ma il contenuto è sempre lo stesso.
Che nervi.
Se è vero che ognuno di noi ha un talento particolare, il suo era quello di farmi perdere le staffe.
E il mio quello di disprezzarlo con tutta me stessa.
E di mentire spudoratamente.
Così quando mi salutò con un galante baciamano, non riuscii a mandarlo al diavolo come avevo programmato, ma riuscii a malapena ad accostare quattro piccole letterine per rispondere al saluto.
«Ciao» dissi imponendomi di chiudere la bocca e di smetterla di fissarlo come un’ebete.
«Come mai da queste parti?» mi chiese Nick studiando i miei capelli, l’unica cosa che Chelsea mi aveva permesso di lasciare naturale.
«Mi ha invitato la festeggiata» dissi riassumendo in modo banale i fatti accaduti quel pomeriggio.
Sentii partire un applauso scrosciante e immaginai che Chelsea avesse fatto la sua entrata in grande stile. Nick però non si voltò a guardarla, continuò a sorridermi, posando più volte i suoi occhi su tutta la mia figura, come per memorizzarmi.
«Mi concede questo ballo?» mi chiese infine, quando partì un’altra canzone.
Eccolo, il brivido lungo la schiena che non veniva a trovarmi da tanto.
«Se qualcuno me lo chiederà, potrò vantarmi di aver ballato con la più bella della festa, stasera» spiegò porgendomi la mano.
Sorrisi a quel complimento insolito da parte sua e afferrai d’istinto la sua mano, prima che la ragione mi potesse suggerire che era meglio tagliarla.
Mi condusse al centro della pista e fui costretta ad accorciare le distanze dalla mano che sentii in vita. Posai la mia sulla sua spalla e iniziammo a ballare. Ora potevo distinguere bene il suo profumo da quello della rosa e notare la particolare disposizione a rombo di quattro nei sulla sua guancia destra.
Avevo come l’impressione che gli occhi degli invitati fossero puntati tutti su di noi, così mi affacciai alla sua spalla, e vidi che, effettivamente, per quelli più vicini era così.
Alzò il braccio, invitandomi a girare. Volteggiai lasciando scivolare le mie dita contro le sue, tutta la sala si confuse.
Quando tornai ad appoggiarmi alla sua spalla sentivo la testa girarmi forte.
“È la piroetta” pensai.
“È soltanto la piroetta.”

E saalve❤
No,quel soave coro di Alleluja che sentite non è dovuto all'anticipazione delle vacenze di Natale, ma alla pubblicazione di questo capitolo.
Io non devo scriverli prima, perchè poi li rileggo, mi fanno accapponare la pelle, li cancello e li riscrivo da capo. Dopodichè ricomincia il ciclo.
Beeene, ringraziate le vostre faccine supplichevoli (?) che mi hanno convinta a interromperlo :)
Come mi piace interromperli così, come la pubblicità del giallo che arriva proprio nell'attimo in cui stanno per rivelare il nome del serial killer di turno #amatemi
Comunque sono in un periodo di crisi... non riesco più a leggere le storie, a recensire, a scrivere... sto diventando analfabeta.
Aiutatemi voi meraviglie :) con il vostro sostegno non immaginate cosa mi fate ^--^ e vi ringrazio per questo❤
Beeene, detto ciò emigro in Uganda per un altro mesetto a rivedere il prossimo capitolo :P

Ah, e se proprio non vi ho ancora rotto ben bene le ccatoline posso continuare a farlo qui:
https://twitter.com/_AlwaysStronger
Baci baci❤
Miki vi vuole tanto bene

P.s: ho aggiunto il banner, così vi fate un idea di Jess. E' meglio/peggio di quello che vi aspettavate? E' orrida in generale? Let me know :3 i miei ochietti sono disposti a leggere tutto.
Beh oddio, se vi venga da pensare "mioddiocheschifoèadattaaunforumdell'horror" in quel caso vi prego di astenervi dal giudizio :3 Graaaaazie

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Capitolo 13
*** Sparks fly ***


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 "I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore "
I ragazzi che si amano - Jaques Prévert



La musica era finita, ma lui era rimasto fermo immobile di fronte a me.
Gli invitati, la sala, la festa continuavano a  vivere nel loro ritmo frenetico, girandoci attorno, creando una sorta di buffo carosello.
Noi no.
Partecipavamo ad una festa tutta nostra, che aveva sguardi al posto delle chiacchiere e sorrisi al posto dei balli sfrenati.
Lasciò andare la mia mano, cha lasciai cadere goffamente lungo il fianco, non prestando molta attenzione a quello che facevo.
Nick tolse la rosa dal bavero della suo giacca e l’andò ad appuntare al mio vestito. Il suo profumo mi invase le narici e andai a sfiorarne i petali candidi con le dita.
Era tutto così diverso.
Così bello.
«Nicholas!»cantilenò qualcuno interrompendo quell’atmosfera quasi magica.
Liz. Quel tesoro di amica di Chelsea.
«Ci stavamo chiedendo tutte dove ti fossi cacciato»continuò melensa aggiustandosi i capelli di tanto in tanto.
“Se ci tenete tanto, la prossima volta comprate un cercapersone” pensai arricciando il naso in una smorfia.
«Stavo solo ballando con Jessica»rispose Nick con un sorriso.
Già, lui stava solo ballando con me.
Che stupida.
Come avevo potuto pensare che qualcosa fosse cambiato?
«Sarei arrivato a momenti»continuò con il suo immancabile charme.
Come volevasi dimostrare.
Liz lo prese sottobraccio per portarlo chissà dove.
«Grazie, preferisco rimanere qui»dissi ironicamente rivolta a nessuno, ormai.
Per quanto mi riguardava potevano anche rimanerci chissà dove.
Serrai i pugni e uscii a passo di carica in terrazza. Un vento freddo mi frustò le spalle scoperte, facendomi rabbrividire. Indubbiamente il vestito che mi aveva prestato Chelsea era molto bello e di gran lusso, ma le grandi firme non servono a coprirti quando hai freddo.
Mi appoggiai alla ringhiera del balcone, serrando le braccia al petto.
La luna era alta nel cielo, coperta da qualche nuvola e le stelle brillavano a migliaia pronte ad ascoltarmi, qualsiasi cosa avessi voluto dire loro.
Sfilai la rosa dal bordo del vestito.
Rigirai per un po’ il gambo privo di spine tra le mani, annusandola di tanto in tanto.
Mi ero stufata di quel giochetto alla “dr Jekyll e mr Hyde”. Quando pensavo di essere riuscita a capire un suo pensiero o un suo comportamento, ecco lì che cambiava del tutto atteggiamento, portandomi di nuovo fuori strada. Non mi dava il tempo di farmi un’idea precisa di lui, lasciando confusa anche me. In questo modo non riuscivo a capire come chiamare quella cosa che provavo per lui: odio, rabbia, allergia, a…
«Jessica!»
Chelsea arrivò ad arginare il mio fiume in piena di pensieri.
«Ti ho vista uscire, non dovresti stare qui fuori! Fa un freddo cane e ti prenderai un malanno considerando tutta l’acqua che hai preso oggi!» disse stringendo le braccia al petto.
Sorrisi. Quella ragazza era una forza della natura, riusciva a farti sorridere anche mentre ti rimproverava.
«Stavo rientrando. Anzi, in realtà stavo andando via, non mi sento un gran ché. Complimenti per la festa: è bellissima. E ancora tanti auguri» le dissi dandole due baci sulle guance.
Rientrai in sala prima che potesse aggiungere altro e conquistai decisa l’ascensore. Mi lasciai andare contro la parete. Guardai l’immagine che lo specchio mi rimandava, riflettendo la pulsantiera. Un bel faccino, un bel vestitino, dei trampoli che assicurano gratis figure meschine. Barbie Prom, in due parole.
Quella non ero io, anche perché non avevo una casa rosa shoking, un motoscafo, un camper dotato di un mini frigorifero e 27 mini damigelle per i miei altrettanti matrimoni.
No. E quella sala sbrilluccicante non era il posto per me.
Mi andava stretto, per assurdo.
Mi nauseavano le persone che erano lì stile “oh tesoro, sei per-fet-ta. Gioia ma come fai ad essere sempre così al top? Dio solo sa quanto vorrei essere come te” pronte a smerdarti nei commenti del dopo-festa.
Avessero almeno la decenza di tener chiuse quelle maledette boccacce.
Sì, me ne stavo andando per loro.
Quella dello star male era una balla, avrò avuto si e no un po’ di alterazione, tutto qui.
Un trillo mi avvisò che era arrivato il momento di scendere.
Uscii nel parcheggio, salutai il custode con un cenno e mi avviai verso casa, stringendo le braccia al petto. Non sapevo neanche da che parte fosse casa mia rispetto a quella di Chelsea. Sapevo solo che volevo andarmene, in qualche modo poi avrei fatto.
Percorsi qualche metro prima di sentire il rombo di un motore avvicinarsi.
«Si può sapere dove te ne stai andando?»
Nick.
Dio santo, due secondi di affari suoi no?
Menomale.
Mi voltai, seccata, a guardarlo che si sporgeva dal finestrino, tenendo una mano sul volante.
«A casa» risposi bruscamente senza smettere di camminare.
«Se non sai neanche dov’è» disse continuando a seguirmi.
«Certo che lo so» mentii facendo spallucce.
Ridacchiò. «Non lo sai» affermò.
«Ti dico di sì» ribadii.
«Hai appena fatto spallucce. È una cosa che fai sempre quando non sai che pesci prendere»
Scoperta. Ma come faceva a saperlo?
«Tu» dissi avvicinandomi alla macchina, puntandogli un indice contro.
La macchina si fermò di colpo, in attesa del resto del mio discorso.
«La devi smettere con questo giochetto alla Edward Cullen “leggo nei tuoi occhi, studio i tuoi gesti e non provare a nascondermi un singolo pensiero”. Te l’ho detto: non fun-zio-na» dissi serrando le mani al bordo del finestrino.
«Ti sembro veramente così pallido?» mi chiese passandosi una mano sul viso.
«Non mi va di giocare, ok?» chiarii.
«Neanche a me»
«Bene» conclusi staccandomi di poco dalla macchina.
«Vuoi salire?»mi chiese.
«Okay, ma solo perché si gela» dissi sbuffando.
Feci il giro dell’auto e presi posto sul sedile del passeggero.
Mi lasciò qualche centinaio di metri in pace prima di tornare alla carica.
«Perché te ne sei andata?» mi chiese con tono più basso.
«C’era… odore di chiuso» buttai lì.
Distolse un attimo lo sguardo dalla strada per guardarmi in modo interrogativo.
«Mi stava venendo la nausea a stare lì dentro, va bene? Se volevi potevi anche restare, non ho bisogno della balia» sbottai incrociando le braccia.
«Per lasciarti vagare da sola, di notte, per Los Angeles? Scusa se ho avuto la malsana idea di riaccompagnarti a casa, ma sai, sento delle responsabilità verso la mia co-inquilina/quasi…»
«Non lo dire!» lo bloccai.
«Ti proibisco di usare quella parola per noi» lo ammonii.
«Noi?» chiese con un sorriso malizioso.
«Guarda la strada, idiota» dissi indicandola con la mano.
«Non ho bisogno del navigatore, so tornare a casa da solo, grazie»
«Certo, allora è per questo che passiamo per la terza volta davanti allo stesso cartello» gli feci notare abbassando il finestrino.
«Non è vero. Sono i cartelli di Los Angeles che si assomigliano tutti» borbottò.
«Guarda che non ci rimetti la faccia ad ammettere che ci siamo persi»
«Ma noi non ci siamo persi! Se solo tu non sparassi delle evidenti balle… »
«Questo cosa c’entra adesso?» domandai interrompendolo.
«Per dar retta a te non leggo i cartelli. Mi fai distrarre» disse battendo una mano sul volante.
«Adesso sarebbe colpa mia, quindi»
«Se tu non fossi scappata a gambe levate dalla festa per motivi che Dio solo sa, adesso non saremmo in questa situazione»
«Guarda che è tutta colpa tua» mi lasciai scappare.
Il vero motivo per il quale me ne ero andata era per non vederlo appiccicato a Liz o alle sue compagne di squadra. Ecco, l’avevo detto.
Rise nervosamente. «Sai fare qualche altra cosa oltre che addossarmi sempre la colpa di tutto?»
«Sì, anche insultarti mi viene bene. E da anche soddisfazione» dissi prima che l’imbarazzo potesse frenarmi la lingua.
«Sei insopportabile» mi disse furente.
«Oh, il guinness lo detieni tu, tranquillo» dissi con noncuranza.
«Bene. Preferisci scendere?» disse accostando.
«Con piacere, guarda!» dissi aprendo la portiera e uscendo in strada.
«Sei un maleducato incivile» dissi poi sbattendola violentemente.
«Bene, c’è altro?» mi chiese.
«Sì, ti odio»dissi con gli occhi ridotti a due fessure.
«Almeno un punto sul quale siamo d’accordo» disse prima di ripartire.
Gli augurai di andarsi a schiantare contro un albero, prima di tante altre cose poco signorili.
Lo odiavo. Lo detestavo. Mi piaceva da impazzire.
Scacciai una lacrima di frustrazione che scendeva solitaria per la guancia.
Se solo avessi saputo tenere a freno quella maledetta linguaccia.
La famosa massima “conta fino a dieci e poi stai zitta” era un optional per me.
Così come “prima pensa, poi parla, perché parole poco pensate possono portare pena” che andava a braccetto con “chi è causa del suo mal pianga se stesso”.
Amen.
Accelerai il passo. La strada era buia, neanche l’ombra di una macchina. Se fosse stato giorno avrei scommesso che una balla di sterpi rotolava in lontananza.
In quel momento potevo solo sperare di non rotolare nelle grinfie di uno stupratore.
O di un assassino.
O di un maniaco.
O di qualcuno che mi scambiasse per qualcosa che non ero.
Rabbrividii solo al pensiero.
Improvvisamente vidi la luce di due fari allungarsi nella notte.
Ecco il mio carnefice. È arrivata la mia ora e non sono riuscita a concludere niente di quello che avrei voluto fare.
L’autista, ovviamente, era più veloce di me, e in poco mi raggiunse.
“Calma, stai calma. Adesso ti sorpassa ed è tutto finito”
No, non era la notte di San Lorenzo, quindi esprimere desideri serviva a poco.
Sentii l’auto inchiodare di botto.
“È stato un piacere, dite a tutti quelli che ho conosciuto che gli ho voluto bene. Sì, anche a Nick. Soprattutto a lui. Addio”
«Senti» disse qualcuno interrompendo i miei pensieri.
Qualcosa al’altezza dello stomaco si alleggerì, riconoscendo quella voce come quella di Nick. Mi concessi un sorriso prima di voltarmi, rifilandogli la stessa espressione di sempre.
«Non voglio averti sulla coscienza e sono pienamente consapevole del fatto che nessuno dei due si scuserà mai per quello che ha detto» disse uscendo dalla macchina e appoggiandosi al tettuccio.  «Quindi ho pensato… »
«Così adesso pensi pure?» domandai interrompendolo.
«Ci metto due secondi a ripartire» mi minacciò.
«No, ti prego» dissi più supplichevole di quanto avrei veramente voluto.
«Lasciami finire di parlare, allora. Che ne dici se adesso vieni qui, contiamo dieci passi, diciamo insieme “scusa” e ci mettiamo una pietra sopra?»
Mi avvicinai, come richiesto.
«Sa molto di duello western» dissi inarcando le sopracciglia.
«Hai una pistola con te?»
«No, ne ho due, per spararti meglio caro»
«Hai sbagliato favola» mi disse.
«Nelle favole non si spara!» gli feci notare.
«E il cacciatore dove lo metti?»
«Dai, forza!» dissi esasperata dandogli le spalle. «Dieci passi e diciamo scusa?» continuai impaziente.
«Sì, partiamo al “tre”» mi rispose facendo altrettanto. «Uno» iniziò.
«Due» continuai.
Quello che accadde poi fu molto rapido, ma ne ricordo precisamente la dinamica.
Mi prese per un braccio, costringendomi a voltarmi, facendomi fare i conti con le sue labbra a pochi centimetri dalle mie.
«Scusa» sussurrò accarezzandomi la pelle, scostandomi i capelli dal viso, dando il via al solito brivido che non aspettava altro per corrermi di nuovo lungo la schiena.
Mi attirò a sé, azzerando quella piccola distanza che si era creata. Le sue labbra premevano sulle mie, erano calde, morbide, meravigliose. Riuscivano a far accendere in me il desiderio di portare avanti quel bacio fino all’eternità.
Poi lo sentii allontanarsi, decidendo di far finire il tutto, mentre mi guardava con quegli occhi carichi di emozioni.
Gli tirai uno schiaffo. No, non uno schiaffone come il primo che gli avevo dato. Un buffetto deciso, ecco.
«Non farlo mai più» dissi.
Sospirò e aprì bocca per replicare, ma non gliene diedi il tempo. «Non scusarti mai più per qualcosa che avrei dovuto fare io già da un po’»
Si illuminò in un sorriso, riprendendomi il viso tra le mani. Questa volta fui io a baciarlo, afferrandolo per la camicia e trascinandolo con me sul fianco dell’auto. Con una mano liberai i suoi capelli dal gel, mentre con l’altra lo strinsi a me come per paura che ora potesse andare via, che potesse sparire come neve al sole, come il sapore di un bel sogno due ore dopo che ci si è svegliati.
Quante volte avevo messo a tacere quella scintilla che mi aveva acceso dentro? Quante volte avevo sperato di spegnerla? Troppe, e adesso chiamare i pompieri era troppo tardi.
Gli concessi il bacio più lungo che i miei diciassette anni ricordano. Era come iniziare a respirare dopo una vita di apnea.
Adesso non avrei più potuto fare a meno dei suoi baci, delle sue labbra, delle sue mani sui miei fianchi.
In cuor mio sapevo che non avrei più potuto fare a meno di lui.
E questo era terribilmente sbagliato.

Saaalve c:
Visto come sono buona? Sono tornata in fretta dall'Uganda, ho trovato un lastminute e non ho saputo resistere (?)
Lasciatemi delirare :')
Beeene... indovinate? Questo capitolo l'ho scritto una volta sola *w* *gioite insieme a me*
Basta, oggi mi sento una brava utente di EFP, ci tengo a farvelo sapere
Ecco, stiamo lavorando sul prossimo. Non vorrei avervi viziate con questa "rapidità"
Scherzo, mi impegnerò e farò del mio meglio :')
Siete tutte bellissime, non sapete la soddisfazione che mi date :) Ogni volta che leggo le vostre recensioni o i vostri messaggi privati comincio a sorridere e non la smetto più!
GRAZIE.
Io sono sempre qua:
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Se volete anche solo dirmi "ei" potete farlo, siete le bene accette c:
Un bbbeso ❤
Miki




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Capitolo 14
*** It's too late ***


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«Switcherson si può sapere cosa ti prende? Hai recitato la tua parte da cani»
L’ennesimo rimprovero del professor Brooke non aiutò di certo il mio umore di quella giornata.
Sbuffai, appoggiandomi stancamente sui gomiti.
Non era colpa mia. Proprio non riuscivo a dirle quelle cose a Nicholas.
Potevo pensare che fosse Romeo, chiunque altro, ma era sempre lui a starmi davanti. Lui al quale non avevo più rivolto la parola da quella sera incriminata.
Ero stata un’incosciente, perché avevo agito in quella maniera? Io non avrei mai dovuto baciarlo! Dovevo fermarmi allo schiaffo post-bacio punto e stop.
Certo, pensare che quando era inavvertitamente arrivata una chiamata di Joe ad interromperci la metà dei bottoni della camicia di Nick era slacciata, non facilitava le cose.
Ma chi volevo prendere in giro, se ogni volta che mi guardava dovevo pregare me stessa in ginocchio per non saltargli addosso?
Dovrei aggiungere il “complicarmi la vita” tra i miei talenti speciali.
«Possiamo riprovarla più tardi?» chiese Nicholas al professore.
«Penso che sia la cosa migliore per te e per la tua compagna» disse sbuffando.
«Dewey, Skins tocca a voi» disse poi invitandoci a scendere dal palco.
«Va tutto bene?» mi chiese Nick una volta sistemati di nuovo tra il pubblico.
Mi chiedeva se andava tutto bene?
Avrei potuto ridere amaramente di gusto per tutta risposta.
La mia migliore amica non mi voleva più vedere né parlare, a scuola mi consideravano comunque una povera rabbiosa da evitare e, fatta eccezione per Chelsea, nessuno faceva a gare per essermi amico.
In più se a questo aggiungiamo il fatto che, ciliegina sulla torta, mi stavo innamorando del figlio della famiglia che mi aveva adottata, completiamo un quadro a dir poco disastroso in maniera fantastica.
Datemi una pietra, un ponte e abbandonatemi al fiume.
«Jessica?» mi chiamò scuotendomi per una spalla.
«Sì, va tutto bene. Sono solo un po’ stanca»
La bugia del secolo. Un classico.
«Lo sappiamo tutti e due che è una bugia bella e buona. Mi eviti da tre giorni» disse a bassa voce, mentre i nostri compagni iniziavano a recitare.
«Ma non è una bugia, e io non ti sto evitando» dissi senza guardarlo negli occhi.
No. Che stupida.
Avevo fatto di nuovo spallucce. E probabilmente gli era bastato solo uno sguardo per scoprirmi.
«Sicura?» tornò infatti ad insistere poco dopo.
«Se ti dico che non ho niente, è perché non ho niente» risposi fingendo di prestare attenzione ai miei compagni sul palco.
«Era solo una domanda, non c’è bisogno di scaldarsi» replicò tranquillamente chiudendomi una mano tra le sue.
Un piccolo tremito. Ne avevo bisogno. Di scaldarmi, intendo.
Ero sempre così costantemente fredda… purtroppo non solo come temperatura.
Lui arrivava a scaldarmi, a farmi sapere che mi era vicino, inaspettatamente premuroso, e io? Io ero solo capace di rovinare tutto con quello che stavo per fare, un po’ come l’iceberg del Titanic.
Sottrassi la mano alla sua debole carezza per riportarla in grembo.
“Non farlo” mi ammonì la solita vocina rompiscatole.
Intanto se non le avessi dato ascolto non sarei in questa situazione.
Quindi decisi di ignorarla, almeno per una volta, e proseguire nel mio intento.
«Nick… » cominciai insicura.
Si voltò a guardarmi, inclinando la testa da un lato, sorridendomi leggermente.
Jessica non lo guardare, non lo guardare, non lo guardare. Altrimenti è la fine”
Inspirai profondamente, concentrandomi sulle pieghe della gonna e su quello che dovevo dire.
«Converrai con me che quello dell’altra sera è stato…  »
Alzai la testa, incrociando il suo sguardo. “Bello” dissero i nostri occhi all’unisono.
No, così non ce la potevo fare.
Presi un altro respiro profondo prima di continuare.
«Un incidente» dissi abbassando lo sguardo. «Solo un incidente» confermai giocando nervosamente con l’orlo della gonna.
Sentii un peso posarsi al livello dello sterno, accompagnato dalla consapevolezza che potevo solo aggravarlo portando avanti quel discorso.
«Un incidente?» mi chiese.
Annuii debolmente, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalle mie ginocchia.
«Un incidente… » sbuffò tra sé con un sorriso amaro.
«Professore, noi andiamo un momento fuori per ripassare la scena. Sa, non vorremmo disturbare… » disse da premuroso studente modello che non era mai stato fino a quel momento.
Brooke ci rivolse un segno d’assenso e Nick si alzò, invitandomi a fare lo stesso. Cercò di nuovo la mia mano e mi trascinò, quasi correndo, fuori dal teatro.
Mi bloccò contro la porta, mi prese il viso tra le mani e mi baciò, incurante del fatto che qualcuno potesse vederci.
Di nuovo quel respiro a stuzzicarmi la pelle, di nuovo quelle labbra perfette che premevano sulle mie, con più foga stavolta.
Nel mio stomaco nel frattempo gli ippopotami in tutù rosa di Fantasia avevano dato il via alle danze, altro che farfalle.
Lo allontanai, spingendo debolmente una mano sul suo petto.
«Anche questo era un – come l’hai chiamato? – incidente?» mi domandò con una smorfia.
Sbuffai, arrendendomi alla realtà.
«No, però è… sbagliato, capisci?» dissi congiungendo le mani, come a pregarlo di seguire il filo del mio ragionamento.
«Non per forza»disse avvicinandosi nuovamente, cercando di farmi una carezza.
Scostai il viso, fingendo di trovare interessante il nulla a passeggio sul pavimento.
«Non capisco come possa essere sbagliato qualcosa di bello che fa stare così bene»
Eh no, qui si sbagliava.
«È questo il punto! Io non sto bene… » mi interruppi per lasciar andare un sospiro. «Penso che… essere solo amici mi farebbe stare meglio» conclusi scuotendo leggermente la testa.
Mi scostai i capelli dal viso, non volevo nascondermi dopo aver generato quella pesantezza che ora gravava come una cappa sopra di noi, volevo essere responsabile.
«Noi non siamo mai stati amici» mi fece notare Nicholas.
«Allora torniamo semplicemente ad essere quello che eravamo» dissi accennando un sorriso.
Certo Jessica, i pesci son morti ma possiamo tenere l’acquario. Mi accorgevo da sola che non poteva essere possibile.
«Vuoi dire due quasi fratelli che si fanno il favore di sopportarsi per il quieto vivere?» chiese, richiamando alla memoria la nostra situazione.
«S – sì»  balbettai strozzando le parole in gola.
«Non odiarmi, ti prego» dissi guardandolo negli occhi un’ultima volta, prima di correre via.
Trascorsi l’ora successiva chiusa in bagno a fare i conti con le lacrime e con la mia coscienza. Non riuscivo a calmarmi, ogni volta che ripensavo a quello che avevo mandato alle ortiche un nuovo sussulto mi scuoteva da capo a piedi. La verità era solo una: avevo una terribile p…
Driiin!
La campanella mi riscosse dai pensieri. Mi asciugai per l’ennesima volta le guance con il dorso della mano e uscii dal bagno per andare a lezione di chimica, non ebbi neanche il coraggio di guardare allo specchio in che condizioni andavo in giro.
Occupai il posto vuoto al fianco di Chelsea e mi limitai ad emettere un debole suono quando chiamarono il mio nome durante l’appello, per rappresentare la mia presenza.
«Beh?» mi chiese Chelsea dopo un po’.
« “Beh” cosa?» domandai a mia volta.
«Andiamo Jess! È da sabato che non ti fai vedere e adesso ti presenti con una faccia da funerale e due occhiaie da far invidia alle Fosse delle Marianne! Che cosa è successo?» mi chiese apprensiva.
Portai istintivamente le mani al bordo degli occhi, come a voler controllare con mano la situazione, poi mi lasciai cadere sullo sgabello.
«Che è un affare di cuore ci arrivo da sola, dimmi almeno chi è! L’hai conosciuto alla mia festa?» domandò entusiasta all’idea di rivestire i panni di ipotetico cupido.
«No no, che affare di cuore! Io? Ma figuriamoci!» risposi troppo velocemente per risultare credibile. Mi morsi la lingua, storcendo il naso.
«Fuori il nome» disse in tono perentorio.
Ecco, prendiamoci un momento per farci una bella risata.
“Sai Chelsea, hai presente Nicholas? Quello che dovrei considerare come un fratello? Bene, credo di essermi innamorata di lui.” Sì, una cosuccia da niente in effetti.
«Mah, sì l’ho conosciuto bene alla tua festa… » dissi girando intorno alla questione.
«Dimmi almeno com’è» disse inarcando le sopracciglia.
«È un ragazzo Chels! Che vuoi che ti dica? Due braccia, due gambe, due occhi in mezzo alla faccia… » dissi in preda al panico più totale.
«Menomale! Se ce li aveva ai lati era un cavallo» commentò sarcastica.
«Però è sbagliato» continuai ignorando il suo appunto.
«Sbagliato?» mi chiese tornando seria.
Annuii tristemente.
«Oh piccola, cosa è successo?» chiese abbracciandomi.
Venni catapultata nella sua soffice chioma ramata, che rese ovattato tutto il mio discorso.
Profumava di albicocca, avvelenata con un po’ di ginger. Avrei potuto scommettere che uno dei tanti tè di sua mamma aveva la stessa fragranza.
«C’era un problema con la nostra situazione, e io ho troncato la cosa» spiegai sintetica.
Si lasciò scappare un sospiro, battendomi due colpetti sulla schiena.
«E tu i problemi li tagli? Non cerchi una soluzione?» mi chiese dolcemente.
«Io i problemi cerco di evitarli» borbottai sottovoce.
«Beh, se evitarli ti fa stare così ti conviene scegliere un’altra soluzione!» disse poggiandomi le mani sulle spalle, rivolgendomi di nuovo il migliore dei suoi sguardi apprensivi.
«Allora che devo fare?» le domandai abbassando la testa.
«Risolvi il problema che ti sei creata da sola: ovvero parlagli e “incolla” di nuovo tutto» disse ammiccando.
«Ma la situazione rimarrà sempre sbagliata… » mi lagnai.
«Jess, tu sei innamorata di lui?»
La guardai per un attimo stringendo le sopracciglia, poi abbassai lo sguardo annuendo con un piccolo sorriso.
«E allora non esistono ma, però, cose giuste o cose sbagliate. Va da lui e rimedia al tuo errore!» disse alzando di poco il tono.
Sorrisi, più o meno rincuorata.
La campanella suonò e noi riuscimmo a prendere un B- per il rotto della cuffia. Due secchioni al banco affianco al nostro ci avevano aiutato a portare a termine l’esperimento prima che la Hatkinson potesse accorgersi del nostro piccolo salotto e mandarci di filato in presidenza con due note attaccate in fronte con il sangue.
Ora dovevo solo trovare Nicholas e fare un passo indietro, cercando di rimediare alle mie idiozie.
Lo trovai nel parcheggio, con una sciarpa rossa avvolta attorno al collo, il motore già avviato e un paio di Ray-Ban sul naso. Mi affrettai a raggiungerlo: non volevo che se ne andasse senza aver prima ascoltato cosa avevo da dirgli.
Gli bussai al finestrino, stringendomi nel cappotto.
«Ehi» lo salutai con un sorriso quando ebbe tirato giù il vetro.
Non rispose. Il mio “non odiarmi” non aveva avuto molti esiti positivi, a quanto pareva.
«Senti, mi dispiace, non so cosa mi abbia preso prima, ma non penso che dobbiamo tornare ad essere quello che eravamo. Voglio provarci e… non voglio stare peggio» dissi a bassa voce, aggrappandomi di tanto in tanto al bordo del finestrino.
Mi guardò quasi con compassione da sopra gli occhiali.
«Sai Jess, non sempre si ha a disposizione una gomma per cancellare i nostri errori, dobbiamo stare attenti. E adesso è tardi» disse accompagnandosi con un sorriso amaro, mentre ripartiva, lasciandomi nel parcheggio ad urlare appresso alla sua macchina, pregandolo di ascoltare un altro po’.
L’avevo ferito, e il mio discorso da oscar non aveva migliorato le cose.
Strinsi la mano in un pugno e la portai alla bocca, fingendo di addentarla.
«Se quando l’hai finita hai ancora fame, ti posso prestare una delle mie» una voce familiare mi fece voltare di scatto.
Kevin.
Gli sorrisi andandogli incontro, salutandolo calorosamente.
Era arrivato il mio consulente, tutti i problemi avrebbero avuto vita breve.
Questo almeno era quello che speravo.

Saaalve c:
Siate pazienti esco da una settimana meeeeravigliosa, ma oggi sono stata a casa e mi sono dedicata a voi, contente? :)
NON UCCIDETEMI. Per il capitolo, intendo. Ho cambiato idea su come strutturarlo 5616984 volte e ognuna mi lasciava sempre un pò così... fatemi sapere voi se ho combinato disastri o cose varie :P
Questo è un periodo un po così (sì, anche lui, come il capitolo) menomale che ci siete voi c: siete fantastiche, dico sul serio. Con le vostre visite e i vostri commenti mi fate sentire speciale e capace di fare qualcosa :')
A proposito record recensioni al capitolo scorso :') let me commuov myself :P
Viii saluto che mi fanno male tutte le mani (magari fossero solo quelle!). Ieri sono andata a pattinare sul ghiaccio per la prima volta e sono caduta solo 16 volte c': in sostanza per come sto messa, mia nonna di 83 anni ballerebbe Gangam Style meglio di me uu
Sciao meraviglie♥
Miki


P.s: a quanto mi avete detto avere come guest star nel capitolo Edward Cullen fa ridere a crepapelle :') lo contatterò per farlo tenere disponibile in seguito!
Un beso!



 

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Capitolo 15
*** I know fear is what it really was ***



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Non pensavo potesse essere così difficile prendere un caffè.
Non che avessi particolari problemi, solo che al momento non vedevo niente di più complicato di stare seduta su quei divanetti rossi a spiegare a Kevin la mia situazione.
Ovviamente senza spiegargliela del tutto. Ed era questa la cosa più difficile! Perdersi in complicati discorsi che coinvolgevano cugini di parenti di amici per nascondere la verità. Mi sentivo quasi in colpa mentre gli raccontavo quelle evidenti balle. Ma lui continuava impassibile a seguire il mio discorso, sorseggiando di tanto in tanto il suo caffè, facendomi illudere di star credendo ad ogni singola parola che usciva dalla mia bocca.
«Hai solo fatto un’enorme stupidaggine. Sai perché?» mi chiese passando un dito sul bordo della tazza.
«P-perché?» chiesi portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, timorosa di conoscere già la risposta.
«Perché hai paura» disse sporgendosi in avanti, poggiando i gomiti sul tavolo.
«Hai paura che qualcosa possa andare male in questa “relazione-che-non-dovrebbe-esistere” e pensavi che lasciando stare avresti potuto facilitare le cose»
«Ma mi sbagliavo» conclusi.
Aveva fatto centro. Fino a quel momento non ero riuscita ad ammettere il semplice fatto che avevo paura.
Avevo pensato subito al peggio, al fatto che qualcuno potesse scoprirci e che la cosa potesse finire sfasciando più cose di quante ne aveva aggiustate. In fondo, prima di allora, la vita non mi aveva offerto molti esempi di cose belle che erano andate a buon fine. Avevo imboccato la solita strada senza domandarmi come fosse provare quella nuova, e adesso non vedevo l’ora che arrivasse la prima curva per poter girare e tornare indietro.
Bevvi una lunga sorsata, inspirando profondamente l’aroma del caffè che continuava a salire dalla tazza. Mi pulii la bocca con un tovagliolo e feci il giro del tavolo, andandomi a sedere vicino a Kevin.
«Sai, se ne avessi avuto uno, mi sarebbe piaciuto avere te come fratello» dissi abbracciandolo.
«Solo me, però» mi parve di sentirgli dire.
Mi si gelò il sangue nelle vene. «Cosa?» chiesi facendo improvvisamente alzare il tono della voce.
Possibile che avesse capito tutto?
Rimasi in agonia per quei pochi secondi che precedettero la sua risposta.
«Ho detto anche a me. Una sorella come te, intendo. Mi sarebbe piaciuta» disse con un sorriso.
Cominciai a recuperare la facoltà di respirare.
Gli rivolsi un sorriso sincero.
«Dai, andiamo. Ci aspettano a casa»



 

*   *   *

 


Un lampo balenò dalla finestra e il tuono che lo seguì mi fece rabbrividire mentre mi rannicchiavo nella poltrona.
Mi sentivo scema a stare al buio, di notte, nel bel mezzo di un temporale seduta su una poltrona della sua camera aspettando che Nick rincasasse. Ma era l’unico modo che mi era venuto in mente per potergli parlare e spiegare tutto con calma. Lì non mi avrebbe potuta evitare e io avrei tentato di riparare le cose, ci saremmo baciati, sposati, avremmo avuto cinque figli e tre cani e una casa in campagna, senza nani da giardino che si vengono a lamentare dell’odore della fossa biologica.
No, forse era troppo. Una cosa per volta, i nani potevano aspettare, io invece non ce la facevo più con il temporale che incalzava.
Dei passi affrettati sulle scale mi fecero tornare alla realtà. Era arrivato, finalmente.
Mi sistemai sulla poltroncina e aspettai che varcasse la porta.
Entrò, senza accendere la luce, buttando giacca e sciarpa da una parte. Quando iniziò a spogliarsi, qualcosa mi disse che dovevo manifestare in qualche modo la mia presenza. Dannata razionalità.
«Ciao» dissi, non pensando che detto al buio, di notte, durante un temporale con i fiocchi, in un posto dove non ci dovrebbe essere nessuno, poteva far prendere un leggero infarto.
Ci andai vicino.
Lo sentii urtare qualcosa mentre andava a spiaccicarsi contro il muro per accendere la luce. Se ci andava bene, forse i vicini non li aveva svegliati.
«Sei impazzita per caso?» mi chiese strabuzzando gli occhi, con la maglietta a metà strada.
«No, lo so che è insolita come maniera…»
«Insolita?» mi chiese interrompendomi.
«Ok, scusa, non ho pensato alle conseguenze. Non mi è venuto altro in mente per riuscire a parlarti! Sicuramente mi avresti evitato» dissi girando gli occhi.
«E allora hai pensato che tendermi un agguato fosse la soluzione migliore per…»
«Senti, non sono qui per litigare di nuovo. Non questa volta. Ti chiedo solo di starmi a sentire. Siediti, fai quello che vuoi, ma ascoltami per quei cinque/dieci minuti che saranno» dissi spazientita indicandogli il letto con la mano.
«Per favore?» aggiunsi vedendo che rimaneva contro la porta a braccia conserte.
Lasciò andare le braccia e si sedette ai piedi del letto, non troppo convinto.
«Va bene, ti ascolto» disse appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
«Ho paura» dissi prima che potessi ripensarci. Quanta verità poteva nascondersi in due piccole parole.
«No, non solo di questo maledetto temporale che…» un tuono mi scosse da capo a piedi «che sembra preannunciare la fine del mondo» continuai stringendo le braccia al petto, guardando verso la finestra. Un tenero sorriso gli increspò le labbra.
«Ho paura delle cose belle. E non è una paura stupida, credimi» dissi prima che potesse farlo lui. «Non voglio fare la vittima da compatire, ma… non ne ho avute molte. E quelle poche che avevo si sono rotte irrimediabilmente, o sono scappate lontano, dove non possono più essere ritrovate» dissi tenendo lo sguardo fisso sul tappeto, cercando di non pensare a quali erano state quelle cose. «E io non voglio che tu ti rompa o finisca dove non puoi essere ritrovato perché…» mi fermai un attimo, per guardare i suoi occhi. Un guizzo improvviso che vi balenò mi spinse a continuare, mi fece credere che potevo ancora rimediare. Respirai profondamente, prima di tornare a fissare il pavimento.«Tu per me sei una cosa bella, Nicholas e… so di aver sbagliato, ma non penso veramente che io possa stare meglio senza di te. O essendoti “amica”» dissi sottolineando l’ultima parola con un accenno di risata. «Io mi sono innamorata di te, e non mi importa quanto questo possa essere sbagliato, insensato o folle, so solo…» mi bloccai un attimo, per guardarlo nuovamente negli occhi. «So solo che mi fa stare bene. Maledettamente bene. E che farei di tutto pur di non doverci rinunciare» dissi liberando tutto quello che sentivo. Rimasi un attimo in silenzio, indecisa su come continuare, poi aggiunsi un flebile «non sono molto brava con le parole. Scusami» dopodiché mi accasciai ai piedi della poltrona, incapace di incassare un altro rifiuto.
Si alzò e con passi lenti si inginocchiò di fronte a me.
Mi scostò una ciocca di capelli che mi nascondeva parte del viso, portandomela dietro l’orecchio.
«Scusami» disse a sua volta.
Sollevai lo sguardo, dubbiosa.
Si avvicinò di più al mio viso, ipnotizzandomi per l’ennesima volta con quei suoi occhi meravigliosi.
«Neanche io sono molto bravo con le parole»
Le sue parole arrivarono ad accarezzare le mie labbra e il mio cuore pese un battito.
Reclinai leggermente la testa, pronta ad accogliere di nuovo un suo bacio, ma le mie speranze erano andate troppo in là, visto che qualcuno sbucò sulla porta.
«Nick cosa è succ… Jessica? Cosa ci fate lì per terra?»
La voce di Joe mi fece sudare freddo. Ti prego, fa che abbia troppo sonno per capire.
«Joe! Tutto appostissimo! Stavamo solo… » mi guardò in cerca di aiuto.
Non potevo dir di no a quell’aria da cucciolo.
Già, cucciolo! Che idea mi aveva dato!
«Cercando il mio orecchino. Sai l’ho perso, sono sicura che stia qui a casa e mi chiedevo se magari non l’avesse preso Elvis per giocarci»
Verosimile? Naaah.
«E perché avrebbe dovuto portarlo sotto la poltrona?» ci chiese.
«Perché… perché è lì che porta qualcosa quando la trova» disse Nick con un sorrisetto.
«E perché cercarlo all’una e mezza di notte?» ci chiese ancora aggrottando le sopracciglia.
Un po’ troppo curioso per uno che si è appena svegliato.
«Perché… beh, avevo paura che se lo potesse mangiare e… lui è tornato adesso, non potevo venire prima. Se mi avesse trovato qui gli avrei fatto prendere un colpo» dissi facendola sembrare la cosa più ovvia di questo mondo, assecondata da qualche “già” e “infatti” di Nick.
«Va bene, controllerò nella cuccia di Winson se ha trovato qualcosa. Avevo sentito dei botti e sono venuto a controllare, ma visto che è tutto a posto torno a dormire» disse sbadigliando.
«Buonanotte» augurai con il sorriso più sincero che mi riuscì.
Quando richiuse la porta tirammo entrambi un sospiro di sollievo. Poi ci guardammo e scoppiammo a ridere all’unisono.
«Com’è la storia di Elvis versione gazza ladra che porta i tuoi orecchini sotto la mia poltrona?» mi chiese tenendosi la pancia dal ridere.
«Ti dovevi vedere “sì, è vero li porta sempre lì”» dissi scimmiottandolo ridendo fino alle lacrime.
«E la storia del “sì, l’ho aspettato perché se mi facessi trovare in camera gli farei prendere un colpo” è puramente di fantasia, vero?» disse sarcastico.
«Beh, se preferivi potevo rispondergli: “Scusa Joe, te ne potresti andare? Hai interrotto un momento importante, sai, ci stavamo per baciare” » dissi prima di ripensare effettivamente a quello che Joe aveva interrotto e di far colorare le mie guancie di un delicato fuxia.
Smettemmo di ridere e di parlare. Personalmente, io anche di respirare. Per qualche interminabile secondo l’unico rumore fu il martellante pulsare del mio cuore alle tempie. Ringraziai che l’illuminazione non fosse delle migliori, perché ormai dovevo sembrare la parente stretta di un pomodoro pachino.
«Promettimi che non mi farai più uno scherzo del genere» disse rompendo il silenzio.
Annuii sorridendo, quasi delusa che non avessimo riavvolto il nastro e premuto “play” dove ci avevano interrotti.
«E tu?» gli chiesi. «Cosa prometti?»
«Beh, io… » disse avvicinandosi. «Prometto di non rompermi irrimediabilmente o scappare dove non posso più essere ritrovato» continuò passando un braccio attorno alla mia vita.
In quel momento un lampo squarciò la notte, seguito da un rombo terrificante che mi fece sobbalzare. Mi appoggiai alla sua spalla, cercando di sentirmi in qualche modo protetta.
«Sembra quasi una sparatoria» dissi tristemente.
E mentre qualcuno lassù si faceva la guerra, non potevo fare a meno di pensare a quella sparatoria e al perché avessi così tanta paura dei temporali.



Saaaalve c: come andiamo?
Siano santificate le vacanze! Le ultime due settimane non so se sono stata più impegnata a preparare i tre saggi, a studiare per le ultime interrogazioni o a cercare i regali di Natale gli ultimi due giorni! Help!
Poi tra cenoni e tombole la situazione non è migliorata, mi sono ritrovata a segnare il 90 all'annuncio dell'uscita de "la febbre" (37) ... traete un pò voi le conclusioni! Ahahah
Lo so, non sono motivazioni valide, ma alla fine sono qui c:
Già mi sento pessima per non avervi fatto gli auguri di Natale, non potevo non farvi neanche quelli di buon 2013, visto che siamo tutti sopravvissuti al tremendo 21-12-12!
Che altro dire? Vi ringrazio come sempre ( ♥) e vi informo che tra i miei buoni propositi ho aggiunto l'essere più puntuale nel pubblicare :3
Ci si sente l'anno prossimo meraviglie. (Oddio, detta così sembra un'eternità :o)
Un bacio enorme!  ♥
Miki

P.s: è da un pò che voglio chiedervelo ma mi dimentico sempre >.< i capitoli sono troppo lunghi? Dovrei cambiare qualcosa? Più descrizioni, dialoghi più curati, ecc... Insomma, libero sfogo a critiche e consigli!

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Capitolo 16
*** I'll be your warrior of care, your first warden ***


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La mattina dopo scesi di buon’ora a far colazione, nonostante fosse domenica e potessi dormire fino a tardi.
Avevo passato la notte da Nick, considerando il fatto che a ogni tuono non riuscivo a trovare un motivo valido per allontanarmi dalle sue braccia e ritirarmi in solitaria in camera mia.
Devono pur servire a qualche cosa i temporali, no?
Arrivai in cucina e trovai Denise e Kevin che stavano già facendo colazione.
«Buongiorno!» li salutai allegra.
«Buongiorno cara, già in piedi?» mi chiese Denise andando a prendere la caffettiera che fischiava, implorante di essere tolta dal fuoco.
«Sì, finito il sonno» dissi sedendomi di fronte a Kevin, sgranocchiando un biscotto.
«Caffè?» mi chiese con la caffettiera in mano.
«Sì, grazie» risposi allungandole la tazza che avevo davanti.
«Buongiorno» biascicò una quarta voce, annunciando la sua presenza in cucina.
«A te fratellino. Separazione non consenziente dal letto?» disse Kevin lanciandomi un’occhiataccia per paura che potessi finire i suoi biscotti.
Scappò a tutti una risata. Sarebbe scappata anche a voi se solo aveste visto le condizioni dei capelli di Joe.
«Papà?» chiese in tono un po’ meno addormentato alla madre.
«Ti aspetta in garage» rispose lei sedendosi con la sua tazza di caffè fumante.
Joe sgranocchiò concentrato una fetta di pane imburrato, poi si illuminò guardandomi, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa.
«Ah, Jess Winston non ce l’ha il tuo orecchino» mi disse ancora a bocca piena.
«Orecchino?» domandai perplessa.
Poi mi ricordai tutto.
«A-ah sì, l’orecchino… certo. Beh, non poteva avercelo perché alla fine l’abbiamo trovato» dissi annuendo, sorridendo nervosamente.
«Avete?» chiese Kevin.
«Oh sì, lei e Nicholas. Lo stavano cercando ieri sera, quando Nick è rientrato. Ho sentito dei rumori e mi sono preoccupato»
«Per niente» lo interruppi. «Voglio dire, non è successo niente» dissi con una risata nervosa.
«Certo, pensavo solo che fossero dei ladri» disse Joe tranquillo.
«Oh… certo, i ladri. Che altro se no?» dissi facendo scrocchiare le dita, imbarazzata per la mia gaffe.
«È per questo che hai la sua felpa» commentò Denise.
«La sua felpa?» domandai rischiando di rovesciarmi il resto del caffè addosso.
Oddio, me l’ero dimenticata! Me l’aveva data perché avevo freddo con il mio pigiamino leggero e mi ero scordata di restituirgliela prima di andare a colazione!
«No, non è… cioè sì, ovvio che è la sua felpa» respirai profondamente.
Respira Jessica, libera il cervello o rischi di fare una cavolata.
«Stamattina al bagno» riuscii a dire.
«Stamattina al bagno?» ripeté Kevin.
«Sì, avevo freddo e… l’ho trovata nella cesta del bucato. Non ho fatto caso che non fosse mia» dissi scuotendo la testa.
«Pensavo fosse chiaro l’ultimo che avevo fatto» disse Denise, riflettendo quasi tra sé.
Guardai la felpa: bordeaux.
«Sarà stato quello prima» dissi con un sorrisetto, lisciando le gambe con le mani.
Per un attimo rimasero tutti a guardarmi.
«Che sete» dissi per rompere il silenzio finendo il caffè, mandandomene di traverso la metà.
«Jessica sei sicura di star bene?» mi chiese Denise preoccupata.
«Sì, a meraviglia» risposi quando ebbi finito di tossire, andando a portare la mia tazza sul lavello.
«Tu guarda com’è tardi! Devo scappare» dissi fingendo di guardare l’orologio.
«Dove?» mi chiese Joe.
«Alle nove e tre quarti di domenica mattina?» rincarò Kevin.
«Sicura che non ci sia niente sotto?» continuò Joe.
«Basta ragazzi, un po’ di privacy! Siete fratelli, non agenti della CIA» disse Denise venendomi a posare le mani sulle spalle.
«Và pure cara, ci penso io a questi due impiccioni» mi disse poi, strizzandomi l’occhio.
Le sorrisi grata e uscii dalla cucina, seguita dagli sguardi indagatori di Joe e Kevin. Salvata in corner.
Risalii velocemente le scale e per poco non travolsi Nicholas nella fretta di trovare un po’ di tranquillità in camera mia.
«Attento, lì di sotto c’è il terzo grado. Spero solo non ti mettano del veritaserum nel caffè, io mi sono salvata per un pelo» dissi praticamente tutto d’un fiato.
«Verita-cosa?» mi domandò grattandosi la testa.
«Niente, non ti preoccupare. Stavo scherzando. Credo» dissi pensando che non tutti potevano cogliere il senso del sarcasmo potteriano di prima mattina.
«Comunque buongiorno» mi disse.
Risi, rendendomi conto che l’avevo travolto con un fiume di parole prim’ancora di salutarlo.
«Buongiorno» dissi con un sorrisetto.
Mi prese per i fianchi e si avvicinò per baciarmi.
«Ma sei matto? Ci potrebbero vedere» dissi guardandomi intorno aspettando che qualcuno scendesse magicamente dalle travi del soffitto.
«Cosa cerchi?» mi chiese perplesso.
«Telecamere» risposi seria, continuando a guardarmi intorno.
Rise di gusto prima di rispondermi. «Non so se te ne sei accorta ma questa è una casa, non una banca.»
Risi anche io. «Va bene, ma non si è mai troppo prudenti» dissi intrecciando le dita dietro il suo collo.
Azzerò quella poca distanza tra di noi con un bacio.
Ditemi, una giornata iniziata così poteva non essere fantastica?
«Hai visto non è successo niente, non siamo ancora saltati in aria» mi disse poi facendomi una carezza.
«Divertente» replicai con una smorfia.
«Dormito bene?» mi chiese ignorando il mio commento.
Annuii sorridendo.
«Anzi, a proposito. Riprenditi le prove» dissi levandomi la sua felpa sentendo un’ultima volta il suo profumo.
«E creati un alibi. Là di sotto non scherzano» dissi scuotendo la testa.
Rise e si riprese la felpa.
«Agli ordini, signorina» disse poi scendendo le scale. Gli feci la linguaccia prima che potesse sparire nel tornante del primo piano.
Scossi la testa sorridendo e andai in camera.
Ma perché dovevo essere il bersaglio preferito delle situazioni complicate?
 
***
Qualche giorno più tardi

JOE’S POV
Strackfail Lane non era mai stato uno dei miei posti preferiti, ma proprio lì si era andato a infilare Jeremy e per andarlo a trovare non potevo fare a meno che passare di lì.
Era peggiorato dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Era sempre stato il più… strano della compagnia.
No, non strano perché finiva sempre con il farsi di qualcosa di pesante e mettersi sulle spalle la testa di un'altra persona, ma perché era sempre così incostante nel suo comportamento. Così sfuggente. E adesso non viveva decisamente in un bel posto.
Mi aveva chiesto aiuto, chissà in quale guaio si era andato a cacciare, ma quando arrivai lo trovai buttato su una poltrona color senape, mezza sfondata, ed era evidente che delle birre e non so cos’altro gli avevano fatto compagnia prima di me.
«Tess, zuccherino, portamene un’altra» disse con la voce stridula, di chi ha già il cervello appannato.
A quanto ne sapevo Tess era la sua ragazza. L’aveva conosciuta dove lavorava, luogo che io non ricordavo assolutamente dati i suoi repentini licenziamenti.
Sta di fatto che non conoscevo Tess, e lei non arrivò.
«Tess, ti ho detto di portarmi una birra» disse Jeremy marcando le parole con ira.
«Dai Jerry, lascia stare. Te la porto io» dissi alzandomi dal divano, sfondato anch’esso,  dello stesso color senape.
«NO. Ho chiesto a lei e deve venire» replicò allungando un braccio e costringendomi a sedere.
«Tess! Ti decidi a muovere quel tuo culetto da puttanella e portarmi una fottutissima birra?!» sbraitò furioso alzandosi.
«Jerry non mi sembra il caso…»
«Sta zitto Joe. A Tess piacciono le maniere forti. Non è vero zucchero?» disse poi ad una ragazza che fece timidamente il suo ingresso sulla soglia.
Le sfiorò i ricci biondi con le dita e le scrutò per un po’ il viso, con il suo sguardo incattivito.
La ragazza gli porse la lattina quasi tremando.
«Brava piccola. Dì un po’ al nostro amico quanto ti piaccio» disse poi indicandomi con un cenno del capo.
La ragazza non alzava lo sguardo dal tappeto. Aveva un’aria trasandata, i capelli in disordine e tremava dalla testa ai piedi. Ad un certo punto la scosse un singhiozzo.
«Beh, che fai non parli?» disse Jeremy afferrandola per un braccio.
«Jerry…» tentai.
«Non sei tu che devi parlare» mi zittì un’altra volta. «È lei!» continuò strattonando la ragazza per un braccio.
Tess singhiozzò ancora, cercando di liberarsi dalla presa e finalmente riuscì a guardarmi.
Il suo sguardo mi colpì, lasciandomi senza parole. Era uno sguardo stanco, pieno di sofferenza. Uno sguardo di chi non sa più cosa fare per uscire dalla situazione in cui si trova e migliorarsi.
Gli occhi erano azzurri, allungati, arrossati e gonfi di lacrime. Sottili e sbiadite scie nere le rigavano le guance un poco incavate, contrastando con il candore della sua pelle. Aveva un labbro gonfio, segnato da un taglio e un livido si allargava sullo zigomo sinistro.
Conservava ormai una bellezza stropicciata, che quel ragazzo le stava portando via.
«Avanti stupida idiota!» continuò Jeremy dandole uno schiaffo.
«Fermati!» dissi troppo tardi per bloccarlo.
«Sei capace solo a frignare! Se non fosse stato per me a quest’ora saresti ancora in quel postaccio di merda a piagnucolare per la tua amichetta. Lei ti ha abbandonata, io no. E l’unica cosa che continui a fare è piangere e lamentarti della mia generosità?» continuò gridandole, afferrandola per la maglietta. «Sei davvero un ingrata, Tess. Cosa dovrei farti?» disse sputacchiando, costringendola a voltarsi. «Eh?» chiese ancora più carico di rabbia.
«Jeremy lasciala stare!» dissi cercando di liberare la ragazza dalla sua presa.
«Non dirmi cosa devo fare Joe! Tantomeno a lei!» replicò spingendo via con forza le mie mani.
Jeremy spintonò Tess, che cadde sul tappeto bruciacchiato, e fece per darmi un pugno, ma fortunatamente avevo previsto la cosa e fui più rapido di lui.
Barcollò e finì steso sul divano, l’alcool che aveva in corpo mi aveva certamente aiutato nel metterlo a tappeto.
Trattenni il fiato in quell’attimo di tranquillità, osservando lo squallore di quella casa. La carta da parati verde scuro era scostata dal muro e chiazzata d’umido, il soffitto si stava man mano sgretolando e i tappeti erano tutti bucati, usati come spegni-sigarette.
«Tu sei pazzo» mi disse Tess alzando piano la testa.
«Sarei pazzo se ti lasciassi qui» dissi a mia volta aiutandola a rialzarsi.
«Ma è tutta impressione, Jeremy mi vuole bene e…» cominciò a replicare, ma il pianto le ruppe la voce. Altre due lacrime segnarono il loro corso lungo le guance.
«E…» incalzai.
Aprì la bocca per rispondere, ma in quel momento Jeremy si mosse sul divano.
«Scappa!» gridò spingendomi verso la porta.
«Scappa» ripetè una volta che mi ebbe confinato fuori la porta di casa.
«Non posso lasciarti con lui!» dissi prendendola per un polso, delicatamente, per non farla sentire ancora più legata di quanto fosse.
«Invece devi. Tu non sai com’è diventato. È pericoloso stargli intorno, ma io devo restare, almeno finchè gli servo… o sarà peggio per tutti» disse supplicandomi con gli occhi.
Ci pensai un attimo, stringendo le labbra.
Era folle pensare che continuasse a stare con quel matto. Ma da solo potevo fare poco, purtroppo. Sarei tornato con qualcun altro, il più presto possibile.
«Va bene, ma tornerò ad aiutarti» promisi.
«Non farlo, ti prego» mi supplicò ancora.
«Tess!» chiamò Jeremy dall’interno.
La ragazza tremò. «Và via! Scappa, tu che puoi!» disse chiudendomi praticamente la porta in faccia.
Rimasi con l’ultima supplica ancora sulle labbra, fissando avvilito la porta bianca scrostata.
Uscii dal vicolo, mettendo le mani in tasca, supplicando tutti i santi del Paradiso di dare la forza necessaria per resistere a Tess.
Spero il suo non fosse stato un consiglio.
Io non do mai retta ai consigli.
E sarei tornato a liberarla.

 

 

Now, no more smiling mid-crestfall.
No more managing unmanageable.
No more holding still in the hailstorm.
Now enter your watch(wo)man.

Ora, non sorridi più, sei mezza avvilita.
Non gestisci più l'ingestibile.
Non hai più la presa ferma sotto la grandine.
Ora fai entrare colui(lei) che si prenderà cura di te.
[Guardian (adattata) – Alanis Morissette]


Egoci c:
Vi prego di rimettere i pomodori nelle cassette, anche se avreste tutto il diritto di tirarmeli D:
E' un periodo terribile, succede tutto tutto insieme.
E' anche tempo di pagelle. Per coloro che vanno a scuola e l'hanno ricevuta, com'è andata? A me bene c:
Comunque oggi non potevo lascarvi all'asciutto (siamo in tema dato che oggi da me ha diluviato LOL).
Perchè? Perchè oggi è il mio EFPversario! Cioè è un anno che sono iscritta a questo bellissimo sito che mi ha permesso di coltivare una passione come la scrittura e mi ha permesso di conoscere persone fantastiche come voi ragazze :3
Lo so, a qualcuno potrà sembrare una cosa stupida, ma io ci tenevo a "festeggiare". Anzi avrei voluto pubblicare l'epilogo dell'altra FF per l'occasione, ma non ho avuto il tempo materiale per esaudire i miei (e i vostri) desideri ç.ç
Ieri sera avrei potuto farlo, ma ero presa da un libro che avevo finalmente trovato dopo tanto tempo (l'ho dovuto ordinare, perchè è del 2009 e nelle librerie non si trovava più ç.ç) così ho finito il secondo volume e sono pronta per il terzo *-*
Ma il tutto a voi interessa? NO. Quindi mi spiccio.
Un'altra cosa... ah, sì! Non mi piace far essere così bruschi i personaggi, ma per Jeremy ho dovuto .__.
I'm sooorry.
Spero che vi sia piaciuto il capitolo!
Finisco con il ringraziare come sempre tutti voi meravigliosi miei supporter *--* (lettori/recensori/seguaci[?]) e lasciatemi dire che VI ADORO. Siete davvero molto importanti per me. Tutti.
Sì, anche tu che stai leggendo le mie idee pazze per la prima volta.
Detto ciò torno alla mia presentazione di spagnolo e lascio a voi l'ardua sentenza di giudicare codesto operato di scrittura creativa :P
Un bacione puchi
Miki


P.s: cosa significhi "puchi" ve lo spiego la prossima volta, se no scrivo un capitolo nel capitolo ;) sappiate solo che è bellissimo!

 

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Capitolo 17
*** The lingering question kept me up ***


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Era strano.
Uscire separatamente e ricongiungersi per strada per gli appuntamenti, andare in posti che non frequentavamo di solito per non essere visti e poter stare in santa pace, rifugiarsi nell’androne di un palazzo perché uno strano signore ci rincorreva per una foto.
Era stato lì che me l’aveva detto, con il respiro ancora un po’ affannato dalla corsa, tra le cassette della posta e il retro della portineria.
Mi aveva detto chi era, insieme ai suoi fratelli, per tutto il mondo.
Ecco il perché delle foto.
E quando gli avevo chiesto perché non mi avessero detto nulla mi aveva risposto con un “non volevo complicare ulteriormente le cose. Volevo risparmiarti il più a lungo le maldicenze, le curiosità e tutto quello che inaspettatamente salta fuori quando sei accanto a una celebrità, ma non dev’essere una delle mie specialità.”
In fondo, non mi aveva veramente mentito. Era stata solo omissione di verità.
E io dovevo ancora metabolizzare che ci fosse un altro ostacolo sulla nostra strada.
Emisi un piccolo sospiro, poggiando il mento sul palmo della mano.
«Jessica?» mi riprese Chelsea.
Mi riscossi. «Sì?» dissi cercando di drizzarmi sulla sedia.
«Allora?» mi chiese.
«Allora cosa?» domandai a mia volta.
Questa volta fu lei a sbuffare, aspirando una boccata dalla sigaretta che teneva tra le dita. «Non hai sentito niente di quello che ho appena detto, vero?» mi chiese soffiando piccole nuvolette di fumo.
Il mio silenzio imbarazzato le fornì la risposta.
Aspirò un’ultima boccata dalla sigaretta e la spense con decisione nel posacenere.
«Si può sapere cos’hai ultimamente? Sei sempre assente, proiettata verso il mondo dei sogni o chissà cosa… sicura di stare bene?» mi chiese preoccupata, stringendomi una mano.
Abbozzai un sorriso. «Sì, sto bene, tranquilla. È solo che… »
NO. Fuori discussione. Non potevo parlarne con Chelsea. Era, sì, mia amica, ma era allo stesso tempo capitano delle Cheerleader e non potevo contare sulle “voci da spogliatoio”. Alle sue compagne avrebbe anche fatto piacere mettermi nei guai.
No, decisamente no.
«Hai… una malattia grave?» chiese con gli occhi lucidi.
«No» risposi, sorridendo della sua melodrammaticità.
«Sei… vittima di qualche stalker?» domandò ancora, non contenta.
«No!» risposi nuovamente, sgranando gli occhi, sorpresa dalla sua fantasia.
«Sei incinta?» chiese sgranando gli occhi a sua volta.
«CHELSEA!» la richiamai, arginando il suo fiume in piena di domande. «Va tutto bene! Sono in salute, il tè è ancora caldo e non c’è una nuvola in cielo. Sono solo un po’ preoccupata per l’esito che avrà il nostro progetto di letteratura, al quale ho deciso di apportare qualche modifica dall’ordinario per personalizzarlo un po’. Tutto qui» dissi d’un fiato.
Rimase ancora incerta per qualche secondo, socchiudendo appena gli occhi grigi.
«Sul serio» aggiunsi.
Ritornò ad appoggiarsi allo schienale della seggiolina del bar, mantenendo comunque un terzo dei suoi dubbi.
«Mi hai fatta preoccupare» disse soffiando sul suo tè verde.
«Mi dispiace» le dissi bevendo un sorso del mio. «E a te come va?» chiesi, cambiando argomento.
«Ti dicevo, credo di non aver dimenticato il mio ex» disse soffermandosi sulle ultime parole, mordendosi appena il labbro senza però rovinare quel velo color pesca che vi era stato applicato con sapienza.
«Oh» dissi leggermente sorpresa. Non mi sembrava che Stephen (o forse era Luke?) fosse un tipo di cui si potesse sentir così tanto la mancanza.
«Mi dispiace. Ma non eravate la coppia più bella del liceo con Stephen?» dissi assaggiando un biscotto ai cereali.
Aveva un leggero retrogusto di cartone, provai ad intingerlo nel tè. Si sciolse in mille briciole, come tanti coriandoli che celebravano il carnevale in anticipo nella mia tazza. Provai a raccoglierli uno per uno con il cucchiaino, ma mi ci volle poco per capire che sarei diventata vecchia a forza di ripescarli tutti, così lasciai perdere.
Perché non eravamo andate alla pasticceria danese all’angolo? Quelli sì che erano Biscotti.
Chelsea e la sua fissa delle calorie pensai scuotendo appena la testa.
Intanto lei si era sciolta in una fragorosa risata. «Stephen?» mi chiese con le lacrime agli occhi.
Dovevo aver fatto una battuta eclatante senza essermene resa conto.
«No, non lui. Ma è grazie a lui che sono arrivata a questa conclusione» disse fornendo, per lei, la più chiara delle spiegazioni.
«Scusa Chels, ma non ti seguo» confessai poggiando la tazza sul tavolino.
Fu allora che si scostò dalla sedia, poggiò i gomiti sul tavolo, si guardò rapidamente attorno e mi disse in un sussurro, con fare cospiratorio: “sono ancora innamorata di Nicholas.”
 
***

Ero sul letto con le cuffie nelle orecchie, il cuore e la testa che si rimbalzavano i pensieri.
Insomma il mio Nicholas non poteva essere anche il suo. Non era qualcosa di condivisibile, soprattutto se lei lo voleva ancora.
Ma come scoraggiarla dal suo intento?
E perché, ancora una volta, nessuno mi aveva detto niente?
Mi rigirai su un fianco, incrociando le braccia.
La riproduzione casuale mi suggerì una scarica di chitarra elettrica. Cambiai. Non ero dell’umore adatto per ascoltare qualcosa di diverso dal sound triste-desprimente che mi trascinava ancora di più nel mood “allegro” della giornata.
Mi voltai dall’altra parte, chiudendo gli occhi, cercando di scacciare i brutti pensieri con il sonno.
Contai le pecore, i pastori e tutta la fattoria, ma non riuscivo a concentrarmi su qualcosa che non riguardasse Chelsea e Nicholas. Li vedevo passeggiare mano nella mano, sentivo la risata cristallina di lei, li vedevo uno tra le braccia dell’altro mentre si baciavano. Magari appassionatamente.
Mi misi a sedere, invasa da una sgradevole sensazione che si irradiava dalla bocca dello stomaco, che mi stringeva le viscere in una morsa.
Cominciai a tamburellare nervosamente le dita sul copriletto, avvolgendo le cuffie attorno all’iPod.
Mi tormentai le mani per qualche minuto, pensando sul da farsi.
Alla fine conclusi che rimanere lì ad aspettare che arrivasse la manna dal cielo era l’ultima delle scelte da fare.
Sciolsi le gambe e scesi dal letto in punta di piedi, assicurata dal morbido scendiletto che attutiva ogni rumore.
Presi la felpa che avevo indossato quella mattina dalla pila di vestiti che sormontava la sedia. Mi ripromisi per l’ennesima volta che il giorno seguente ogni cosa avrebbe riacquisito il suo posto. Inutile dire che non sarebbe stato così.
Misi cautamente il naso fuori dalla porta per controllare di avere la via libera per oltrepassare il corridoio.
Si sentiva solo un borbottio soffocato proveniente probabilmente da un televisore del piano di sotto, segno che o Kevin o Joe era ancora sveglio.
Mossi quei pochi passi che mi separavano dall’altra porta e mi accostai ad essa. Attraverso uno spiraglio riuscii a intravedere Nicholas comodamente disteso sul letto, con il volto illuminato dalla flebile luce che emanava il laptop che teneva sulle gambe.
Mi concessi ancora un attimo di esitazione.
Poi il macigno che avevo all’altezza del petto e il freddo che dal pavimento si irradiava a piccoli cerchi fin dentro le ossa mi spinse a tamburellare leggermente con le dita sullo stipite.
Alzò lo sguardo, scrutando nel buio con difficoltà. Accese il piccolo abat-jour che riposava sul comodino e magicamente apparsi ai suoi occhi.
Mi sorrise, facendomi segno di entrare, indicandomi il posto accanto al suo.
Mi avvicinai lentamente, stringendomi nella felpa.
«Tutto bene?» mi chiese.
«Mmmh» mugolai non troppo convinta.
Doveva essere la giornata mondiale del “chiedi anche tu a Jessica se va tutto bene”, non era il primo che mi faceva quella domanda.
«E allora perché sei sveglia?» mi chiese digitando rapido qualcosa sulla tastiera.
«Non avevo sonno» dissi semplicemente.
Chiuse con un gesto deciso il portatile e batté con la mano sulle coperte, facendo segno di avvicinarmi.
Mi andai a sedere al suo fianco, mantenendo le debite distanze.
«Perché non mi hai detto che Chelsea è la tua ex?» chiesi rompendo il silenzio.
Penso che lo colsi di sorpresa con quella domanda, perché mi domandò un “cosa?” a voce più alta di quanto avrebbe dovuto.
«Hai capito benissimo» dissi incrociando le braccia.
Soffocò una risata, sedendosi meglio.
«Francamente non lo trovo così divertente» dissi acida.
«Sai, la prima cosa che si dice a una ragazza non è propriamente il resoconto delle ex» disse inclinando la testa da un lato.
«No, ma dopo quattro mesi… magari lasciando perdere i primi, che era già tanto se non ci tiravamo una sedia… insomma… doveva saltar fuori, no?» dissi allargando le braccia.
«Soprattutto se si tratta di quella ex. Insomma, siamo diventate anche amiche e se poi mi fa delle confidenze che… oh, ma perché proprio a me?» continuai imperterrita, senza badare alla sua reazione, prendendomi la testa tra le mani.
«Ma se è la mia ex  e non la mia ragazza attuale un motivo ci sarà, non ti pare?» disse accarezzandomi piano la schiena.
Sbuffai impercettibilmente, cercando di non lasciare troppo spazio a quel sorriso vittorioso che si voleva allargare sul mio volto.
«Ma lei è…»
«Non mi importa cosa sia, so cosa sei tu. E so che a volte vorrei che il mondo intero sapesse di noi. Forse così le cose sarebbero più facili…»
«O forse no» dissi.
«O forse no. Ma è difficile tenere sempre tutto segreto» disse piegando tristemente la bocca.
«Ce la faremo» dissi fiduciosa, strizzandogli l’occhio.
«Anche se…» continuai.
«Anche se?» incalzò Nick cercando il mio sguardo.
«E’ questo non-sapere che le da la speranza» ammisi mestamente.
Mi buttai sui cuscini, gonfiando le guance. Strinsi nuovamente le braccia al petto, sentendo tornare quella morsa gelida alla bocca dello stomaco.
Chiusi gli occhi cercando di concentrarmi sul silenzio ovattato della notte. Non si sentiva più nulla ora, fatta eccezione per i nostri respiri leggeri.
Riaprii di nuovo gli occhi, incontrando quelli di Nick che mi fissavano curiosi.
Da quello sguardo caldo, che alla lucina flebile dell’abat-jour sembrava ancora più intenso, trassi la forza per confessare ciò che sapevo: «E’ ancora innamorata di te.»
 
***

TELLER’S POV
Jeremy aveva abbandonato il telefono sul piccolo mobiletto scrostato accanto al divano.
In una notte come le altre era sbracato sul divano, che tracannava birra intervallando una lattina e l’altra con qualcosa di più forte. Quando l’apparecchio squillò, vibrando rumorosamente sul mobile, urlò maleducatamente a Tess di farselo portare.
La ragazza fece ciò che gli era stato chiesto e tornò ad accoccolarsi sulla poltrona, pregando di sparire nella fodera scolorita. Niente era andato come aveva voluto e ora eccola là a vivere quella vita che le imponeva ogni giorno di rimanere appesa a quel filo di coraggio che le era rimasto, per non farsi trascinare nel baratro in cui viveva il ragazzo.
Reclinò il capo, lasciando correre l’ennesima lacrima sulla sua guancia.
Jeremy si alzò di scatto dal divano. La paura la invase, costringendola a farsi più piccola che poteva.
Ma le attenzioni del ragazzo non erano per lei.
Era impegnato in una telefonata importante, con qualcuno ai vertici del giro in cui era coinvolto. E il suo interlocutore non era dei più sereni.
«Sei un idiota! Un buono a nulla!» sbraitò qualcuno dall’altra parte dell’apparecchio.
«M-ma signore io le avevo portato…» cercò di ribattere Jeremy.
Vederlo così sottomesso era un evento per Tess, così prestò più attenzione alla conversazione.
«Della tua amichetta non me ne frega un cazzo! Quante volte ti devo ripetere che non è lei che stiamo cercando?» urlò un vocione maschile.
«E’ l’altra che ha visto. L’altra sa» disse calmandosi un poco.
Jeremy le gettò un’occhiata fugace.
Tess tornò ad abbracciarsi le gambe, senza più osare guardarlo, continuando a tenere le orecchie tese.
«Fino a quando addossavano la colpa al padre potevamo stare tranquilli, ma ora che è cresciuta potrebbe ricordare. Meglio non correre rischi» gracchiò ancora la voce.
Il ragazzo annuì debolmente, come se l’uomo con cui stava parlando potesse vederlo.
«Trovala e portala a me»
«Non la deluderò» disse Jeremy.
«Sarà meglio per te» concluse l’uomo riagganciando bruscamente.
Jeremy attaccò e lanciò il telefono sul divano. Sbuffò, guardando a terra.
Poi alzò lo sguardo, acceso da una scintilla sinistra, e lo puntò su Tess.
«Adesso mi dici dove si è nascosta.»


*Si prepara a ricevere pomodori tra 3...2...1*
Okay, sono tornata, sono mortificata per l'immensa attesa ç.ç
Scusateeeeeeeeeeeeeee

Non ve lo meritate affatto ç.ç
Ma andateci a parlare voi con i miei professori che se ne escono con tre compiti a sorpresa lo stesso giorno. Per non parlare di quelli programmati. D:
Vabè, questo non è un blog sugli imprevisti della mia vita quindi taglio corto :P
Una mia lettrice mi ha pregato di non essere troppo cattiva con i nostri personaggi, ma la verità è che non ce la faccio u.u sono malefica
Scheeerzo farò il possibile c:
Domandina da un milione di dollari... erano un pò noiosetti questi capitoli?
Tanto per sapere, perchè mi servivano da collegamento per ciò che succederà dopo...
Fatemi sapere e non sparite prendendo esempio da me, che io tengo a ogni singola parolina delle mie lettrici :3
A presto! (Questa volta per davvero, su)
Un bacione♥
Miki

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Capitolo 18
*** We're dead if they knew ***


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Avete presente quella stretta allo stomaco che toglie il respiro quando sogni di essere ucciso o di stare cadendo?
Ecco, in quel momento provai la stessa sensazione. Quella fitta di vuoto. Di aver perso a un tratto qualcosa di estremamente fondamentale.
Cercai di rialzarmi, nonostante il dolore pressante che sentivo attorno alle costole.
Vidi che lo strappo sui jeans all’altezza del ginocchio si era allargato, lasciando scoperto un brutto taglio. Mi sarei medicata più tardi, adesso le mie condizioni non erano importanti.
Volevo solo trovare LEI.
Cominciai a chiamarla, ma lei non rispose.
Mi alzai da terra e la chiamai più forte, per quanto la mia voce permettesse, arrivando a urlare, ma non ci fu nessuna risposta ugualmente.
Cominciai ad andare in preda all’agitazione, sentendo il respiro e il battito cardiaco crescere improvvisamente.
Camminai, forse corsi, per quella strada sconnessa, dimenticata dal mondo, dove le cose potevano accadere senza che nessuno ne prendesse nota.
Dimenticai il dolore fisico, prestando attenzione solo a quello crescente causato dal martellare ansioso del mio cuore nel petto.
Finalmente vidi qualcuno in lontananza, riverso sul marciapiedi.
Le lacrime mi salirono agli occhi, chiudendomi la gola, dandomi la forza per compiere quell’ultimo sprint per raggiungerla.
Mi inginocchiai al suo fianco e cominciai di nuovo a urlare il suo nome, scuotendola per le spalle.
La girai sulla schiena, notando quanto il suo corpo, divenuto più esile che mai, fosse interamente coperto di lividi violacei. I suoi vestiti erano quasi ridotti a brandelli. I capelli in cui amavo tuffarmi per ricevere un po’ di sicurezza adesso erano sporchi, rovinati, di un colore triste e spento.
Era più pallida che mai, le sue labbra sottili erano contratte in una smorfia di dolore così come le sopracciglia, e respirava a fatica, emettendo piccoli fiotti per volta.
Le strinsi la mano, supplicandola di resistere, di essere forte, incapace di fermare le lacrime che ormai scendevano copiose sul mio viso.
Le promisi che ora che eravamo insieme sarebbe andato tutto bene, ogni cosa si sarebbe aggiustata.
Poi mi chinai, appena in tempo per sentire il suo sussurro: “grazie per essere tornata.”
Le dissi che non me ne ero mai andata, stringendo con più vigore la sua mano, ma la sua presa stava diminuendo, e adesso era lei che mi stava lasciando.
La supplicai un’ultima volta, con un filo di voce, prima che le mie lacrime arrivassero a toccare le sue guance, facendola piangere di un pianto involontario.
Quando realizzai ciò che era successo urlai con tutta la forza che mi era rimasta, mentre in lontananza sentivo due spari…

«NO! TESS!» urlai, senza rendermene conto, mettendomi a sedere di scatto sul divano.
Mi guardai rapidamente attorno: il sole era sceso di poco, facendo allungare le ombre degli oggetti accanto alla finestra. La TV era ancora accesa ed era ancora in onda il film cominciato prima che mi addormentassi.
Tutto era al proprio posto, l’unica a sentirsi strana ero io.
Nicholas mi guardò sbigottito ed iniziai a piangere, per davvero questa volta.
Cominciai anche a parlare a raffica, spiegando e spizzichi e bocconi tutto quello che mi ricordavo del sogno o, per meglio dire, dell’incubo.
Era stato tutto così reale che in quel momento avrei voluto avere Tess al mio fianco, per assicurarmi che era stato tutto frutto della mia immaginazione.
Si sarebbe fatta una bella risata, e mi avrebbe presa in giro perché avevo creduto davvero che qualcuno potesse ridurla così.
Ma lei non c’era.
Non c’erano i suoi capelli con il loro profumo rassicurante.
Non c’era la sua risata.
Era rimasto solo quel senso di vuoto, di caduta libera con il paracadute fallato.
Ormai non faceva più parte della mia vita, almeno non fisicamente, e purtroppo io non avevo avuto voce in capitolo.
Nicholas mi strinse tra le braccia, accarezzandomi i capelli e cercando di rassicurarmi dicendomi che era stato solo un brutto sogno.
Ma non riuscivo a stare tranquilla, era come se qualcosa mi dicesse il contrario.
«Sai che ho sentito Chelsea l’altro giorno?» mi disse lasciandomi un bacio sui capelli.
«E allora?» borbottai.
«Mi ha chiesto se mi andava di uscire»
O-oh. C’era anche quell’altra faccenda che richiedeva la mia attenzione. Me ne ero momentaneamente dimenticata.
«E tu cosa hai risposto?» dissi infervorata, allontanandomi di scatto.
«Beh, non me la sono sentita di rifiutare era così…»
Non lo lasciai finire la frase, potevo sentire le orecchie fumare per la rabbia.
«Nicholas Jerry Jonas ti è andato di volta il cervello o cosa?!? Non mi interessa quanto possa essere stata giù di morale, afflitta, turbata da non so cosa, tu con lei non esci, è chiaro? Fidati, le tue parole, per quanto belle, non potranno mai consolarla come… oh, lo so io quello che vuole! Ha un secondo fine, io te l’ho anche detto e tu che fai? Fai l’agnellino innocente che accetta l’invito a cena del lupo non capendo che in realtà…»
Questa volta toccò a me lasciare la frase in sospeso. Era stato più veloce di me.
Con una mano mi aveva catturato il viso e mi aveva baciata.
Sentii quel senso di vuoto con il quale mi ero svegliata colmarsi un poco. Poi capii.
«Chelsea non ti ha mai detto niente, vero?» dissi quando le sue labbra ebbero lasciato le mie.
«No» rispose semplicemente.
«E hai detto tutto per…» mi interruppi, lasciando cadere la frase.
«Per farti arrabbiare. Non immagini quanto diventi sexy» mi disse sorridendo.
Sorrisi anche io. Ma il mio era più un sorriso interno, di gratitudine per avermi fatto distrarre. Per non avermi fatto pensare.
E in parte ci era riuscito.
Mi sedetti sulle sue gambe e portai entrambe le mani dietro al suo collo, disegnando piccoli cerchi. Poi gli scostai un ricciolo dalla fronte e gli accarezzai il viso, scendendo lungo i quattro nei che aveva sulla guancia.
Mi avvicinai al suo orecchio e vi sussurrai piano un “grazie.” Poi mi persi nelle sue iridi castane, prima di poggiare le mie labbra sulle sue. Iniziai a giocare, dandogli baci leggeri sapendo che ne voleva di più intensi, fingendo di ritrarmi quando ne chiedeva ancora. Mi lasciai scappare una risatina mentre ero ancora contro le sue labbra, affondando una mano nei suoi ricci.
«Ti diverti, Switcherson?» mi chiese.
Per tutta risposta risi un po’ più forte.
«Bene» continuò con un sorrisetto.
Con un’agilità felina mi fece scivolare sotto di se, facendomi sdraiare sul divano. Si puntellò sugli avambracci, trovando spazio accanto alla mia testa.
«Vediamo se adesso hai ancora voglia di scappare» disse piano.
Chiusi gli occhi e mi avvicinai al suo volto, quando, improvvisamente sentii dei rumori provenienti dalla porta.
Non feci in tempo a realizzare cosa stesse succedendo che Kevin e la sua fidanzata, Danielle, erano già nel bel mezzo del salotto.
Cercai di spingere via Nicholas, nell’imbarazzo più totale, ma lui non mosse un muscolo e mi intimò di chiudere nuovamente gli occhi. Obbedii, sperando che avesse un’idea a dir poco geniale per toglierci da quella situazione che urlava la verità sul nostro rapporto in tutte le lingue del mondo.
Si schiarì impercettibilmente la voce e mi sfiorò il viso con una mano.
«Occhi, guardatela un'ultima volta, braccia, stringetela nell'ultimo abbraccio, o labbra, voi, porta del respiro, con un bacio puro suggellate un patto senza tempo con la morte che porta via ogni cosa»disse con sentimento, recitando la sua parte alla perfezione, prima di lasciarmi un lungo bacio sulle labbra.
«Oh, non pensavo di aver interrotto una scena teatrale» disse Danielle sorpresa.
Nick finalmente si decise ad alzarsi, permettendomi di tornare seduta. Mi sistemai nervosamente il maglione sulle gambe, togliendo qualche pelucco qua e la, mentre l’atmosfera stessa non sapeva che piega prendere.
«Ho pensato che alla fine voi…» continuò allusiva Danielle.
«Chi? Noi?» scattai subito. «No, assolutamente no! Come… o mio Dio, è assurdo! Voglio dire… Nick, ci pensi? Me e te insieme!» dissi dandogli un colpetto sul braccio, scoppiando a ridere. Lui mi imitò, lanciandomi un’impercettibile occhiata d’intesa.
«Mi sembrava strano. Però…» disse Kevin sorridendo, lasciando che la frase si perdesse tra le battute di uno spot che elogiava i vantaggi di cambiare operatore telefonico. Scosse la testa e prese la sua ragazza sottobraccio, ma prima che potessero sparire in cucina Danielle ci mimò con le labbra un “a me sareste piaciuti tanto.”
Appena furono andati via, un sospiro di sollievo si liberò dai nostri cuori. E iniziammo a ridere, scaricando ogni tensione.


***


«Mi spieghi cosa ci facciamo qui?»
«È stato Joe ad insistere, si comporta come un matto nelle ultime settimane, hai notato?»
Mi lasciai scivolare più in basso sul divanetto, afferrando un menu.
«È per questo che mi preoccupo» sussurrai.
Conoscevo lo Skin’s e soprattutto conoscevo il tipo di gente che lo frequentava. Gente che ero stata ben felice di togliermi di torno.
Joe non poteva aver a che fare con loro.
In che guai si era andato a cacciare?
«Dov’è andato? Chiesi lasciando trapelare un poco la mia preoccupazione.
«A prendere da bere, penso» disse Nick alzando le spalle. «Stai tranquilla, è tutto okay. È soltanto un posto un po’ diverso dal solito» continuò poi passandomi un braccio attorno alle spalle. Annuii, ma non riuscì a tranquillizzarmi stavolta.
Non mi piaceva avere di nuovo a che fare con quel luogo, e volevo andarmene prima che fosse stato troppo tardi. Era tutto così buio, così opprimente. Nuvole di fumo aleggiavano sovrane, facendo impregnare la stoffa dei divanetti rosa antico del loro odore. Sulle facce dei clienti erano disegnati dei ghigni, e sembravano tutti impegnati a svolgere qualcosa di losco. Ma nessun’altro, evidentemente, provava le mie sensazioni. Era come se immaginassi tutto nella mia testa, con la differenza che purtroppo era tutto maledettamente reale.
Di nuovo quel bruttissimo presentimento si impadronì di me.
«Vado in bagno» dissi a un tratto.
«Cerca di non farmi svenire troppe cameriere nel frattempo» dissi alzandomi, strizzandogli l’occhio.
Nick mi sorrise e lasciò che mi allontanassi. Pazzo.
Riuscii a farmi strada fino alla toilette, cercando di non finire a pelle di leone sul pavimento in legno disassato.
Notai che poco distante dalla mia postazione c’era un salottino privato dalla porta socchiusa.
Fila via Jess, non è il posto né il momento adatto per farti gli affari degli altri.
Parole sprecate se vengono dette a una piccola bertuccia molto sviluppata.
Mi guardai intorno, cercando qualcuno da cui scappare, ma non vidi nessuno.
Mi accostai piano alla porta, riuscendo a sbirciare a malapena all’interno.
La luce era fioca e si intravedevano degli uomini seduti ad un tavolo. Qualcuno indossava un cappello nero che gli copriva in parte gli occhi, altri si nascondevano dietro occhiali scuri, e poi…
«Joe»
Me lo lasciai scappare, senza pensare alle circostanze.
Lui era lì, in mezzo a loro, nella sua semplicità di sempre. Parlava con un altro ragazzo, non vidi bene chi fosse, non c’era abbastanza luce ed erano troppo lontani.
Mi portai una mano alla bocca. Cosa stava facendo lì dentro? Cosa ce lo aveva spinto?
Oh, ma perché non gli eravamo stati più accanto nell’ultimo periodo?
Feci per tornare indietro, per andare a riferire a Nicholas quello che avevo visto e per decidere sul da farsi, ma le mie spalle urtarono qualcosa.
O meglio qualcuno.
Mi voltai lentamente.
«Cerca qualcosa, signorina?» mi chiese un omone che vestito di scuro, di notte, da lontano, non avrei faticato a scambiare per un armadio.
Deglutii a fatica, cominciando a sudare freddo.
«N-no. In realtà… c-credo di essermi persa. Stavo cercando il bagno e…»
Mi afferrò per un braccio senza darmi la possibilità di finire la frase.
«Ecco, allora è il caso che vi ritorni» disse in tono perentorio.
Annuii rapidamente e tornai in fretta sui miei passi, per quanto le mie gambe tremanti me lo permettessero, decisa a scappare da quell’orribile situazione il prima possibile.
Colsi un sussurro alle mie spalle, ma non riuscii ad identificarne le parole.
So solo che un attimo dopo mi furono di nuovo addosso, pronti a trascinarmi da qualche parte contro la mia volontà.

Salve c:
Lo so che non mi sono comportata bene, che scrivere un FF vuol dire prendersi un impegno e che io nell'ultimo periodo ho trascurato la cosa, ma è stato un momentaccio.
Non mi sono mai capitate tante cose brutte tutte insieme.
E' stato un periodo difficile per me, una mia amica dice delle cose preoccupanti che mi mettono solo in agitazione e sabato ho perso un mio amico.
Perdonatemi, ma non ho proprio avuto la testa adatta, era diventato tutto così piatto, così incolore, come se fosse tutto uguale.
Non mi abbandonate anche voi per favoooore :'c ho tanto bisogno del vostro sostegno.
Mi sto rimettendo in carreggiata e non appena finisco di pubblicare correrò dal prossimo capitolo, promesso!
Okay, basta parlare di cose tristi! Ne ho abbastanza.
Allora, che ve ne pare? Che cosa ci starà combinando Joe?
Sapete che mi piace lasciarvi con mille punti interrogativi dentro le vostre testoline :3
Vi ringrazio, non immaginate cosa voglia dire per me avere delle sostenitrici come voi <3
Mi farò perdonare, chissà magari potrebbe saltar fuori un capitolo alla fine della settimana, ma chissà... dipende da come va questo c:
A presto meraviglie, vi voglio bene.
Un bacio grande <3
Miki

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Capitolo 19
*** Captive ***


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«Lasciatemi andare!» gridai.
Cercai di divincolarmi dalla presa che i due uomini esercitavano sulle mie braccia, ma ottenni scarsi risultati.
Mi stavano spingendo verso il fondo del locale, potevo vedere chiaramente il segnale luminoso dell’uscita di sicurezza a pochi metri da noi.
«NICHOLAS, AIUTO!» urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. La presa attorno ai miei polsi venne serrata.
«Aiut…»
«Sta’ un po’ zitta, bellezza» disse uno dei due coprendomi la bocca con una delle sue mani. O meglio, avrei potuto dire pale visto che la differenza era praticamente nulla.
Rabbrividii, ma continuai a divincolarmi e finii con l’assestare un poderoso morso alla mano del mio carceriere.
Subito mi lasciò andare con un gemito di dolore, e io ne approfittai per ripercorrere quei pochi passi che mi separavano dall’interno del locale.
Riuscivo a intravedere il mio tavolo, Nick era ancora lì e si guardava intorno con aria torva. Tesi una mano verso di lui.
«Nick!» riuscii a chiamarlo prima che quei due mi potessero portare via di nuovo.
Lo vidi alzarsi di scatto, venendomi incontro.
In un attimo mi furono addosso, uno dei due mi caricò in spalla.
«Mettetemi giù!» urlai colpendo furiosamente la schiena dell’uomo. Cercai di sferrargli anche qualche calcio, ma era come essere imprigionate nel marmo.
Nicholas rasentava la corsa per tenere il passo di quei due. Lo vedevo raggiungerci a stento.
«Non hai sentito cosa ha detto? Metti giù la mia ragazza» mi fece eco afferrando l’uomo per un braccio, serrando a pugno l’altra mano.
I suoi occhi erano di un castano scuro, ridotti a due fessure, il suo respiro si era fatto corto, e le sue nocche cominciavano a diventare bianche per l’eccessiva stretta che esercitava sulla mano.
L’uomo rivolse un cenno d’intesa al suo compagno che si occupò di Nick assestandogli un pugno nello stomaco.
Mi scappò un urlo disperato.
«Lasciatelo in pace! Avete capito? Dovete lasciarlo stare!» protestai furiosa colpendo con più vigore la schiena dell’uomo.
«Te l’ho già detto bellezza, tu parli troppo» disse quello senza fare una piega, coprendomi la bocca con una mano. Questa volta aveva anche un fazzoletto, però.
E profumava. Oh, sì aveva un buon profumo.
Di quelli che salgono su per le narici e sembrano pian piano irretirti i sensi.
Il pavimento cominciò a salire, scivolando al posto del soffitto. Quest’ultimo, trovandosi senza un posto fu costretto a slittare verso il basso e i due cominciarono a rincorrersi furiosamente, quasi a creare un vortice. Era una visione troppo confusa e caotica per la mia testa, così chiusi gli occhi e mi abbandonai all’oblio.

***

La testa… martellava ininterrottamente.
E girava furiosamente se solo provavo a muovermi.
Provai ad aprire gli occhi, piano.
Ne aprii prima uno per controllare la situazione. Il posto era buio, mi serviva anche l’aiuto dell’altro. E così feci.
Riuscivo a vedere un sottile fascio di luce farsi strada nella camera buia da sotto la porta e qualcosa alle mie spalle, probabilmente una finestrella, faceva filtrare uno squarcio di luce lunare.
C’era un tavolo alla mia destra, dove sopra ondeggiava scricchiolando un vecchio lampadario e il posto in cui ero seduta assomigliava per forma e comodità alla brandina di un carcerato.
Ogni tanto si allungavano delle ombre da sotto la porta, accompagnate da dei passi pesanti e affrettati nel corridoio che mi facevano mancare il respiro, ma poi fortunatamente proseguivano sempre oltre.
Mi studiai attentamente i polsi, avvicinati a forza da dello scotch da pacchi. Mi dava fastidio stare in quella posizione, mi faceva sentire incapace e impotente. Cercai di liberarmi, inutile dire che non servì a nulla se non ad accrescere il pizzicore della pelle attorno ai polsi. Sbuffai frustrata e mi arrampicai sulla brandina per studiare il paesaggio fuori dalla minuscola finestrella. Una viottola scura e silenziosa, dove l’unico rumore era il costante gocciolare delle grondaie sui tombini e lo zampettare di qualche topo.
Feci una smorfia di disgusto e tornai a sedermi.
Chissà cosa ne era stato di Joe e Nicholas. Il mio ultimo ricordo di loro risaliva in quel postaccio. Chissà se avevano visto dove mi avevano portata. Mi augurai caldamente di sì, altrimenti ero dispersa il un posto sconosciuto senza sapere cosa fare e a chi chiedere aiuto.
Ma cosa volevano da me? Non potevano avermi rapita solo perché avevo spiato una loro conversazione.
Spiato poi, che parolona. Avevo avuto appena il tempo di preoccuparmi di aver visto Joe là dentro che quei tizi mi avevano presa.
Stavo cercando di assumere una posizione comoda, quando la porta si spalancò improvvisamente.
Le sagome di due uomini apparvero in controluce in tutta la loro autorevolezza.
Ma in che guaio mi ero andata a cacciare?

***

Se prima avevo pensato che le cose andassero malissimo, in quel momento dovetti ricredermi per forza. Il tutto peggiorava un minuto dopo l’altro, precipitando in qualcosa che mi faceva preoccupare sempre di più.
«Te lo chiederò un’altra volta dolcezza, ma sarà una sola. Cosa ricordi di quella notte?»
A chiedermelo fu un tizio stempiato, con una corta coda di cavallo. Indossava dei jeans sdruciti e un giubbotto scuro con delle tasche sul davanti. Aveva la mascella importante e i due incisivi superiori formavano un buffo sipario per gli altri denti per come erano storti.
Voleva sapere cosa ricordassi della sera in cui mia madre era morta.
Inutile dire che per lo shock avevo rimosso tutto.
«Ve l’ho detto, è successo quattordici anni fa! Io… io non mi ricordo niente» dissi cercando di sporgermi dalla sedia sulla quale ero seduta.
«Tu eri lì e hai visto tutto in diretta. È impossibile che quello che affermi sia la verità» continuò mettendomi sotto torchio.
Lo stomaco cominciò a stringersi, facendosi piccolo piccolo, la testa si rifiutava di rimandare quelle immagini e gli occhi si cedettero sul punto di scoppiare, per quanta sofferenza stavano trattenendo.
Inspirai profondamente, tornando indietro nel tempo…

Domenica. Il giorno in cui tutta la famiglia sta insieme. Specialmente poi se è un anniversario particolare.
La tavola è piena di colori, per la cucina aleggia ancora l’odore dei manicaretti appena sfornati e tutti sono contenti di passare finalmente un po’ di tempo insieme dopo un’estenuante settimana di lavoro.
Il signor Switcherson comincia raccontando alle sue donne quanto sia fiero dei suoi alunni. Insegna musica alla scuola elementare, e per Natale pensa di mettere su un bel saggio. Sta anche insegnando a suonare il piano alla sua piccola Jessie e il sorriso e l’amore innato per la musica della figlia non fanno che contribuire al suo pieno di buon umore.
Le fa una carezza affettuosa, raccomandandole di finire la sua porzione di verdure. È ciò che le dice anche sua madre alzandosi da tavola.
Sorride, ma il suo cuore piange. I suoi vivaci occhi verdi sono velati da una tristezza che assume ad ogni ora un peso maggiore. Non li ha trovati quei soldi, non avrebbe potuto in così poco tempo.
Si volta impercettibilmente verso la sua famiglia. Ha una figlia adesso e un uomo che la ama senza indagare o dare peso al suo passato.
Non permetterà a nessuno che le venga tolta di nuovo la felicità. Non si prenderanno mai il meglio della sua vita.
Sospira e getta un’occhiata all’orologio. Mezz’ora, questo è il tempo che le rimane.
Prende il coraggio a due mani, saluta suo marito e stampa un bacio sulla fronte della figlia prima di uscire, dicendo di andare a comprare il dolce che ha dimenticato di fare la sera prima.
Ma nulla di dolce attende lei o le persone che la circondano.
Ha iniziato a piovere e tempo qualche decina di minuti e verrà giù un vero e proprio temporale.
Si affretta a raggiungere il luogo dell’appuntamento, sperando che il tutto si concluda ormai il prima possibile. Non accetta compromessi, tantomeno scambi.
Non vuole che le persone che ama di più al mondo facciano la sua stessa fine.
Sa a cosa va incontro e rivolge a loro i suoi ultimi pensieri pieni di amore.
Ma non sa che quelle persone sono scese in strada e hanno visto tutto.
Il suo desiderio morirà con lei, devastando per sempre le vite di Jessica e di suo padre.

Le lacrime cominciarono a scendermi con prepotenza sul viso.
«Pioveva, e qualcuno ha sparato» dissi con la voce rotta.
«Chi?» mi chiese l’uomo.
«Non lo so! NON-LO-SO!» gridai esasperata alzandomi in piedi. Le mie guance ormai erano completamente bagnate e violenti singhiozzi mi scuotevano il petto.
Fui subito rimessa a sedere con così poca grazia che mi feci quasi male.
Fissai intensamente il lume che pendeva sul tavolo. Dopo pochi secondi gli occhi smisero di lacrimare. Trassi un respiro profondo.
«Ero una bambina di tre anni, non un giovane membro della polizia scientifica. Mi ricordo soltanto che quello fu il giorno più brutto della mia vita, che cambiò tutto quanto. Basta. Buio totale. Fine della storia» dissi più duramente, riacquistando un po’ di sicurezza.
«E allora come mai…» ripiombò su di me lo stempiato.
«Craig, è sufficiente» disse un altro di loro afferrandolo per un braccio.
Vedi un po’ se è sufficiente, saranno tre o quattr’ore che va avanti questa solfa!
Craig si allontanò scettico, continuando a fissarmi come se fossi un cane rabbioso da eliminare.
L’altro uomo mi invitò ad alzarmi e mi condusse finalmente fuori dalla stanza.
Potevo vedere il mio alter-ego saltare al rallentatore con l’inno alla gioia di sottofondo.
Ma dovevo aspettare prima di liberare tanta felicità.
Mi condusse in uno dei corridoi del palazzo, illuminato da un solo neon lungo e stretto e, dopo aver rischiato l’osso del collo su delle rampe di scale strette e ripide, aprì una porticina verniciata di verde.
«Resta qui» mi disse prima di chiudere la porta. Poi però parve ripensarci, perché la riaprì e, dopo aver dato una rapida occhiata al corridoio, mi liberò i polsi dallo scotch.
«G-grazie» balbettai sorpresa.
Per tutta risposta l’uomo si raccomandò portando un dito alle labbra e chiuse definitivamente la porta dietro di sé.
Diedi le spalle alla porta, facendo vagare lo sguardo per la stanza.
C’era una luce soffusa che proveniva da una lampada accostata in un angolo. Traballava, sembrava costantemente sul punto di spegnersi.
Una libreria semivuota correva lungo il lato destro, e al centro della stanza erano sistemati la televisione e un sofà color carta da zucchero. L’apparecchio era acceso, e questo mi preoccupò perché significava che qualcuno lo stava guardando.
Mi avvicinai cauta, deglutendo a fatica, cercando di non far scricchiolare il linoleum consunto sotto i miei piedi.
Come richiamata dai miei pensieri, una testa spuntò dai cuscini del divano.
«Chi c’è?» chiese una voce stanca.
Il respiro si bloccò nel petto.
Stanca, affaticata, debole, impetuosa, dolce o irata, avrei riconosciuto quella voce tra mille.
La testa cominciò a girarmi, mentre sul volto si disegnava un sorriso a trentadue denti.
Di nuovo insieme, finalmente.

Ehilà salve c:
Ho-decisamente-mangiato-troppo. Oddio mi sento un uovo con tutta la sorpresa per quanto sono tonda e piena lol mettiamoci un fiocco in testa e sono a posto.
Allora, se ve lo stavate chiedendo mentre controllavate la lista delle storie seguite, questo non è un pesce d'aprile! lol
Aprile... che bel mesetto :3
Tra venti giorni (tra poco 19) è il mio compleanno ** e DOMANI dico DOMANI uscirà una certa Pom Poms che mi farà sclerare tutto il giorno! Awwwwwww
Oddio non ci posso pensare :'D sono troppo contenta, squittisco che sembro un topo.
Comunque, tornando a noi, ringrazio le meraviglie pazienti che mi continuano a seguire e ad incoraggiare sempre :3 e spero come al solito che l'indecenza qua sopra vi sia piaciuta c:
Ma chi avrà ritrovato Jess?
DAN DAN DAN DAAAAAAAN *musichetta d'atmosfera*
-Arriva George Clooney-
"Immagina, puoi" c;
Ookay, dopo questa me ne vado.
A presto❤
Un bacione,
Miki

Ah, se volete continuare  seguirmi o volete parlare conmigo io sono qui:

https://twitter.com/jonasloger_


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Capitolo 20
*** Together ***


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Questo è per alice195 e paneenutella che oggi compiono gli anni **
 


Arrivai spedita fino al divano. Mi fermai un attimo ad osservare la sua figura illuminata solo dalla luce intermittente del televisore acceso.
Era voltata dalla parte opposta a quella dove mi trovavo, la luce azzurrognola delineava una treccia sulla sua spalla sinistra e sottolineava il pallore della sua pelle. Sembrava molto più magra dall’ultima volta in cui l’avevo vista. Sembrava scivolata per sbaglio nella sua felpa grigia, e i pantaloni aderenti le fasciavano delle gambe diventate fin troppo esili.
Mossi esitante qualche passo, girando attorno al divano.
Il linoleum scricchiolò sotto i miei piedi, e questo bastò per farla voltare di scatto, un poco allarmata.
«Tu?» chiese con la voce ridotta a un sussurro.
«Io» confermai facendomi avanti, entrando nel fascio di luce della TV.
Sembrò colta di sorpresa, quasi spiazzata.
Si sistemò meglio sul divano, mettendosi a sedere.
«C-cosa ci fai qui?» mi chiese.
«Potrei farti la stessa domanda, non credi?» le dissi accennando un sorriso.
Le sopracciglia le si congiunsero in segno di disappunto, richiamando anche le labbra che si serrarono.
Conoscevo fin troppo bene quell’espressione, ma non era mai stata contornata da quelle guance così scavate.
Sentii qualcosa stringersi all’altezza del petto, la stessa cosa che batteva perché quella ragazza non si trasformasse nella Tess del mio sogno.
«Stai bene?» le chiesi, ma la voce mi si incrinò a metà strada per l’emozione.
Iniziò ad annuire, ma le lacrime cominciarono a rigarle le guance.
«Io non capisco… non gli ho detto niente… eppure…» disse portandosi le mani al viso, asciugandosi gli occhi.
Andai a sedermi al suo fianco, l’avevo sempre e solo sentita piangere. Tess non si sarebbe mai fatta vedere in quello stato da me, la situazione doveva essere più grave di quanto sembrasse.
Si fermò un attimo a guardarmi, gli occhi azzurri sporgenti e arrossati.
Il respiro le tremava nel petto, facendo tremare la sua esile figura.
Mi buttò le braccia al collo di slancio, e mi tenne stretta a sé ricominciando a singhiozzare.
Io la imitai, accarezzandole la schiena. Il suo profumo caramellato era diminuito, ma ne trovai comunque abbastanza per impregnarne a fondo le narici e trarne quella solita sicurezza che ne derivava sempre.
«Stai bene?» mi chiese sciogliendo di colpo l’abbraccio e prendendomi il viso tra le mani.
Annuii mentre continuava a sentirmi la fronte e a osservarmi per controllare forse che fossi tutta intera.
Sorrisi. Il suo incontrollabile istinto di protezione.
«Che ti hanno fatto?» le chiesi stringendole le mani.
La guardai negli occhi, vidi calarvi un pesante velo di dolore. Li richiuse e inspirò profondamente.
«Non è importante» disse senza aprire gli occhi, chinando la testa.
«Certo, se credi che ridurre la mia migliore amica a un fantasma ambulante non lo sia… » dissi portandole una mano sotto al mento.
Le sorrisi, inclinando la testa di lato, incoraggiandola a parlare.
Mi guardò esitante per qualche secondo, poi trasse un bel respiro e sistemò le mani in grembo.
«Da quando ti hanno adottata non ho avuto più ragioni per rimanere in orfanotrofio, così sono andata a stare da Jeremy. Sapevo che mi era sempre venuto dietro e pensavo che avrei potuto farmelo piacere anche io. Per i primi tempi è andato tutto bene, a parte l’ambiente, quello è sempre stato malridotto, ma poi… »
Si fermò per lasciare che una smorfia amara si facesse largo sul suo viso. Scosse la testa.
«Poi ha cominciato a rivelarsi per quello che era veramente. Passava delle interminabili giornate su quel divano a bere, fumare e darmi ordini, come se fossi la sua serva. Diventava cattivo e se non facevo esattamente quello che voleva mi picchiava.»
Cominciò ad accarezzarsi le braccia, come nel tentativo di difendersi, con il terrore che le balenava negli occhi per il solo ricordo.
Deglutì a fatica e tornò a raccontare.
«Usava tutte le scorte solo per sé. Mi sono dovuta ridurre a mangiare di nascosto, poco alla volta per evitare che mi scoprisse. Ogni giorno mi domandavo cosa avessi fatto di tanto sbagliato per meritare tutto ciò, mi chiedevo se non ci fosse stato già abbastanza dolore nella mia vita. Cominciavo a pensare che non avrei potuto più vedere la luce, incatenata a quella specie di vita dalla quale non riuscivo a trovare vie di fuga. Sono arrivata a credere che l’unico modo fosse… »
Le lacrime le appannarono di nuovo gli occhi e un sonoro singhiozzo la scosse. Cercò di contenersi, ma i ricordi erano segnati indelebilmente nella sua memoria e cercava in tutti i modi di farli scorrere via insieme alle lacrime che stava piangendo.
Quando si fu un po’ calmata si asciugò le guance con i palmi delle mani e proseguì la sua terribile storia con voce tremante.
«Venivano sempre dei brutti ceffi, e quando non c’erano Jeremy riceveva delle strane telefonate. Poi un giorno è venuto un ragazzo. Non era come loro, i suoi occhi erano pieni di bontà»
Il suo sguardo si perse nel buio della stanza, mentre un sorriso comparve nel ricordare quel momento di speranza. Poi abbassò il capo e riprese a raccontare.
«Era venuto a prestargli dei soldi, credo, ma Jeremy era fuori come sempre. Era arrivato da poco quando Jeremy mi disse di portar loro da bere. Ma evidentemente non fui abbastanza veloce. Non appena arrivai mi diede uno schiaffo e questo bastò per far intervenire il ragazzo. Gli disse che doveva lasciarmi stare, Jeremy rispose che non erano affari suoi e fece per colpirlo, ma il ragazzo fu più rapido»
Rialzò la testa e mi guardò negli occhi.
«Nessuno aveva mai preso le mie difese prima di allora» disse con un sorriso sommesso. «Voleva persino portarmi via, si preoccupava che rimanessi in quel posto con una persona del genere» continuò. «Si preoccupava, capisci? Per me» disse ribadendo il concetto, che a lei sembrava così assurdo, portandosi le mani al petto.
Sorrise un’ultima volta e poi proseguì.
«Ovviamente pagai io le spese di quella visita, ma non è tutto. Il giorno seguente Jeremy ricevette una telefonata più strana del solito, sembrava quasi intimorito. Me lo ricordo perché era strano vederlo così, e quando attaccò mi fece una domanda: mi chiese dove trovarti»
Rabbrividii. «Cosa?» chiesi, incapace di dire altro.
«Lo voleva sapere a tutti i costi, diceva che si sarebbe messa male per lui se non gliel’avessi detto. Ma non lo feci. Non potevo farlo, Jess. E così mi sono guadagnata questo» disse mostrandomi la guancia destra, dove risaltava un rettangolo rosa vivo, reduce probabilmente da una bruciatura.
«Ha messo la fibbia della cinta sul fuoco» aggiunse con voce tremante.
Questa volta ero io ad avere le lacrime agli occhi. «Non dovevi Tess» dissi sfiorandole appena la guancia.
Mi sorrise, scuotendo la testa.
«Lo vennero a prendere degli uomini e ci portarono qui. Da quel giorno non l’ho più visto e sono rimasta sempre in questa stanza. So che non è un gran che, ma almeno mangio tutti i giorni e non mi tocca più nessuno. Rob finge di essere come tutti gli altri, ma in realtà cerca sempre di farmi stare bene»
«Chi è Rob?» le chiesi interrompendola.
«Diciamo il mio sorvegliante» disse accennando alla porta con la testa.
«Jessica, tu non dovresti essere qui. Non ti lasceranno andare ora che ti hanno trovata» continuò facendosi seria. Si alzò e cominciò a camminare attorno al divano, arrivandomi alle spalle. «Ma mentre da me non vogliono niente, da te pretenderanno tutto.»
Penso che il cuore cessò di battere, mentre i brividi mi correvano da capo a piedi. Deglutii lentamente e mi voltai a guardarla.
«Perché?» chiesi, non riuscendo a far formulare una domanda più complessa alla mia voce tremula.
Non mi rispose subito. Rimase immobile a fissarmi per qualche secondo, come se la paura che avevo addosso non fosse abbastanza.
«Tu li hai visti uccidere tua madre quattordici anni fa.»
 



Mi ci volle un po’ per riprendermi da quella rivelazione scioccante.
Cominciavo a sentirmi improvvisamente chiusa in gabbia, incapace di scappare dalla realtà che mi stava proponendo Tess. Era come se fosse già arrivata la fine e io non avessi concluso niente di quello che volevo fare.
Ecco il perché di quell’interrogatorio, non volevano testimoni. E questo significava che per me le cose si mettevano male. Molto male.
Ma non ero stata la sola ad assistere a quella terribile scena così tanti anni prima.
«E mio padre Tess? A lui cosa faranno?» chiesi angosciata.
«Lui è stato ricoverato al Blue Horizons, e per quello che ne so non ne è ancora uscito. È letteralmente impazzito per la morte di tua madre e ha cominciato a bere»
«Questa parte di storia già la conosco, grazie» la interruppi alzandomi e incrociando le braccia al petto.
«Ha preferito perdere tutto, il lavoro, la dignità, la sua famiglia… piuttosto che avere me» dissi scacciando una lacrima solitaria che si era azzardata a correre giù per la mia guancia.
«Almeno sai perché non è mai venuto… » disse Tess con voce sommessa.
«Perché era in una clinica, dove lo curavano, neanche fosse uno psicopatico. Beh sì Tess, sono grandi consolazioni!» dissi cominciando a camminare nervosamente avanti e indietro davanti alla televisione ancora accesa.
«Finché non ne uscirà sarà al sicuro» continuò mantenendo lo stesso tono di voce.
Mi bloccai di colpo.
«Almeno lui» sospirai.
Mi voltai con occhi tristi verso Tess che mi fece segno di tornare a sedermi accanto a lei sul divano.
Coprii quella piccola distanza e mi lasciai abbracciare. Mi cullò un po’ tra le sue braccia, come faceva quando ero piccola e avevo gli incubi.
«Andrà tutto bene» mi disse dolcemente, come allora.
Annuii e la strinsi più forte.
«Mi sei mancata Tess» dissi oltre la sua spalla.
«Anche tu mi sei mancata» disse accarezzandomi i capelli.
«Troveremo un modo per uscire da qui, te lo prometto» dissi sciogliendo l’abbraccio, prendendole le mani.
Mi fece un sorriso, non troppo convinta.
La potevo sentir dire “non promettere cose che non puoi mantenere, Jessica.” Mi scappò quasi da ridere.
Improvvisamente si aprì la porta. In controluce apparve la sagoma di un uomo, che riconobbi come quello che mi aveva scortata fino alla stanza.
Ci alzammo entrambe in piedi, preparandoci al peggio. Rimanemmo immobili, incapaci di dire o fare niente, bloccate dalla paura.
Finalmente l’uomo parlò e disse l’inaspettato.
«Forza sbrigatevi, uscite!»

Salve salvino salvuccio(?) come state? :3
Lasciatemi fare una cosa prima di tutto.
*all together now* TANTI AUGURI A VOI TANTI AUGURI A VOI, TANTI AUGURI PANEENUTELLA & ALICE195, TANTI AUGURI A VOOOOOI!!! :3
Okay, questo capitolo lo dedico a loro, dato che mi sono scapicollata per postarlo il giorno del loro compleanno, visto che non potevo far loro altro regalo c:
AUGURI BELLE! **
Lo so, questo capitolo non è il massimo della vita per un compleanno, ma accettate il pensiero su :P
Tra una settimana è il mio, forse approderò al mondo delle OS per l'occasione, ma chissà...
Beeeene, spero che vi sia piaciuto lo sgorbietto qua sopra c:
A presto bellissime, grazie per il vostro sostegno mi fate felicissima ogni volta **
Okay, scappo a studiare la parte che altrimenti l'avvocatessa domani la fanno fare a qualcun'altra! lol
Loge you all♥
Miki

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Capitolo 21
*** The Great Escape ***


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Ecco, è arrivata la fine.
Tess ed io ci facemmo forza e ci avvicinammo alla porta. Rimanemmo a fissare l’uomo per qualche secondo, quando alla fine questo parlò.
«Su forza, muovetevi! O qualcuno si accorgerà che state scappando!» ci esortò.
Guardai Tess allibita.
«Noi stiamo scappando?» chiesi incredula indicandoci con il dito.
«Oh» sbuffò Tess prendendomi per mano. «Grazie Rob, ti siamo debitrici» disse poi rivolgendosi all’uomo.
Questo in risposta le fece il saluto militare, portandosi quattro dita alla tempia.
«Adesso andate però!» continuò incitandoci.
Tess annuì prontamente e mi trascinò dalla parte opposta rispetto a quella da dove ero arrivata. Le porte continuavano ed essere tutte uguali, e in cuor mio speravo ardentemente che Tess sapesse orientarsi un po’ meglio di me là dentro. Però c’era anche da dire che era stata sempre chiusa nella sua stanza, quindi…
Tess ci spinse contro la maniglia antipanico di un’altra porta grigia e finalmente la sentii.
Aria. Fresca, sul mio viso. Sapeva incredibilmente di libertà. Lasciai che i polmoni si liberassero dell’odore di chiuso del quale erano stati impregnati fino a quel momento e mi concessi un sorriso.
«Fantastico. E adesso come lo superiamo questo?» chiese Tess sbuffando, facendomi rendere conto che avevamo la strada sbarrata da un muretto difficile da scavalcare a mani nude.
Davanti a noi un edificio uguale a quello che ci eravamo appena lasciate alle spalle.
«Cerchiamo qualcosa» dissi senza perdermi d’animo.
«Cosa?» chiese Tess senza le stesse intenzioni.
«Qualsiasi cosa che ci possa sorreggere» le risposi cominciando a ispezionare a fondo i lati del vicolo.
Erbacce, un tombino, un topo, una bottiglia vuota.
Una scatola! Di cartone. Non ci avrebbe mai sostenute.
Tornai verso il punto di partenza, scoraggiata.
«Cercavate questa?»
La voce ci fece sobbalzare. Proveniva dall’altro edificio ed era maschile.
Ci ritrovammo entrambe a guardare in quella direzione.
Appena vidi chi ci stava indicando la strada da prendere rivolgendoci un sorriso, non potei fare a meno di fare altrettanto.
«Nick!» esclamai.
«Tutto bene Jess?» mi chiese.
Feci per rispondere ma Tess mi bloccò.
«Ma sì, continuate a urlare. Vi ricordo che stiamo solo cercando di scappare senza essere visti!» disse bisbigliando.
Trattenni una risata e le feci segno di raggiungere la porta che Nick continuava a tenere aperta. Lui lasciò che entrambe entrassimo e poi la richiuse alle nostre spalle.
«Dove arriva?» chiese Tess indicando il corridoio a sinistra con un cenno del capo.
«Dritto dritto al parcheggio» rispose Nick.
«Bene, andiamo allora» dissi esortando il piccolo gruppo.
Tess si incamminò per prima, ma io non la seguii subito. Abbracciai Nick di slancio, stringendomi forte a lui.
«Tutto bene?» mi chiese ancora, accarezzandomi la schiena.
Mi limitai ad annuire vigorosamente, mentre mi lasciavo confortare un po’ dalle sue carezze e dal suo profumo.
«Sarà meglio seguirla, o ci farà diventare delle sottospecie di polpette una volta tornata in forze» dissi alludendo a Tess, sciogliendo controvoglia l’abbraccio.
Lui trattenne una risata.
«Guarda che non sta scherzando» la voce di Tess ci raggiunse dal corridoio di sinistra, così ci affrettammo a seguirla.

***


Continuammo a seguire Nick per quel corridoio fino ad arrivare davanti all’ennesima porta grigia dotata di maniglia antipanico.
«Era ora! Pensavo non finisse più questo palazzo» sentii borbottare a Tess.
Ci inoltrammo in uno spiazzo semideserto, dove erano parcheggiate tre o quattro macchine. La luce tendente all’arancio dei lampioni illuminava le molteplici colate di cemento che rendevano il terreno un cumulo di valloncelli impervi, dove qua e là era riuscito a farsi strada un filo d’erba sottile.
Non c’era modo di arrivare a quella che riconobbi come la macchina di Kevin senza esporci troppo. Numerose finestre davano su quel versante della strada, e l’area era completamente illuminata.
Improvvisamente ebbi la strana concezione di noi tre come un reperto da museo, in bella vista sotto gli occhi di tutti, con luci potenti puntate addosso in modo che possano vederti meglio. L’unica differenza era che non c’era alcun tipo di vetro infrangibile a proteggerci da eventuali ditate esterne, anche se nel nostro caso parlare di ditate mi sembrava alquanto riduttivo.
Costeggiammo il muro fino alla scala esterna e ci fermammo a decidere sul da farsi.
«Okay tu vai per prima, Nick ti segue e io vi copro le spalle» disse Tess con estrema risolutezza.
«Come no. Casomai sei tu quella che va per prima Tess» dissi spingendola leggermente in avanti. «È quella grigia sulla destra» le suggerii poi indicandole la macchina che doveva raggiungere.
«Non hai niente da aggiungere?» chiese lei rivolgendosi a Nick.
«Prima le signore» disse lui invitando entrambe ad andare.
«Perché dite così solo quando c’è qualcosa di terribile o di pericoloso in ballo?» protestò lei.
Stavamo per incamminarci e dare inizio alla nostra dipartita, quando sentimmo dei rumori provenire dalla scala antincendio. Qualcuno stava scendendo.
«Correte!»  disse Nick prendendomi per mano, in modo che potessi stare al suo passo.
Avevamo fatto appena qualche metro quando mi voltai e vidi Tess che arrancava dietro di noi. Per quanto fingesse di stare bene e di essere quella di sempre era parecchio debilitata.
Due uomini arrivarono alla fine delle scale e iniziarono ad inseguirci.
Non ci avrebbero messo tanto a raggiungere Tess.
Lei tossì, mentre l’aria faticava ad entrare e uscire così velocemente dai suoi polmoni.
Si fermò e si inginocchiò a terra.
Capii che non ce l’avrebbe mai fatta. «Scusa» dissi a Nick mentre lasciavo la sua mano e mi precipitavo indietro a soccorrere Tess.
Si era portata una mano al petto, scossa da piccoli tremiti, mentre il suo respiro si faceva più frenetico.
«Va tutto bene» le dissi raggiungendola. «Jess perché sei tornata indietro?» piagnucolò con un filo di voce.
«Senza di te non vado più da nessuna parte» dissi facendole passare un braccio attorno al mio collo. Si alzò e riuscimmo a proseguire al ritmo di una specie di camminata veloce.
«Non ce la faremo mai» disse in preda alla disperazione, girandosi convulsamente all’indietro.
Come darle torto, ci avevano praticamente raggiunte.
«Tess, ascoltami: insieme possiamo fare qualsiasi cosa» le dissi ricordandole uno dei motti più frequenti che usavamo quando eravamo bambine.
L’ombra di un sorriso le attraversò il volto prima che i due uomini ci arrivassero alle spalle e ci dividessero con forza.
Io riuscii a rimanere in piedi, scansandomi di lato, ma Tess fini rovinosamente a terra, colpita da un altro violento spintone.
Vidi Joe e Nick correre nella nostra direzione, e io feci altrettanto, cercando di portarmi dietro almeno uno dei due scimmioni.
Cominciai a vagare senza meta per il parcheggio, strisciando e facendomi scudo con quelle quattro macchine che sostavano lì, mentre il più grosso dei due continuava a inseguirmi.
Beh, questa sì che era fortuna.
Mi buttai in un altro percorso tortuoso, mettendo a tacere la milza che si lamentava di essere sottoposta a quello sforzo improvviso, contraendosi come una pallina di carta in un pugno ben serrato. Strinsi i denti e continuai a correre.
Improvvisamente vidi che Tess non giaceva più sull’asfalto sconnesso, ma si stava dirigendo verso la macchina tra le braccia di Joe.
Accelerai il passo, portandomi al mio limite personale di velocità.
Mentre cercavo disperatamente di arrivare alla macchina prima che il mio inseguitore arrivasse a me vidi il suo compagno a terra. In qualche modo Joe e Nick dovevano averlo messo al tappeto.
Ancora pochi metri e sarei stata salva.
Nick mi aprì lo sportello dall’interno dell’auto e qualcuno accese il motore.
Feci per buttarmi sul sedile, pronta per sparire a razzo da quel posto, ma l’uomo che mi inseguiva riuscì a prendermi per un braccio.
Più mi divincolavo e cercavo di allentare la sua morsa d’acciaio, più questa diventava solida.
«Lasciami andare!» sbottai ancora a metà tra il sedile e la strada.
Come se bastasse incoraggiarlo vocalmente per convincerlo a restituirmi il braccio.
«Non hai sentito quello che ha detto?» mi fece eco Nick spuntando dall’interno con un ombrello.
Cominciò a colpirlo con la punta in ogni parte che riusciva a raggiungere.
Certo, non era un coltellaccio stile spada di Sandokan e neanche un revolver, ma come arma fece la sua parte.
Infatti, dopo qualche colpo ben assestato, sentii la presa che aveva sul mio braccio allentarsi. Me lo scrollai di dosso senza esitazione e mi fiondai in macchina mentre Nick e l’ombrello battevano in ritirata e Kevin partiva letteralmente sgommando.
Percorremmo lo sterrato stradone di campagna che conduceva a quel posto, sicuri che nel giro di qualche minuto saremmo stati circondati da una cinquantina di quegli uomini pronti a non farci tornare a casa.
Non avevo la concezione di dove si trovasse quel posto dato che quando ci ero arrivata ero priva di sensi, ma doveva trovarsi una decina di chilometri fuori città.
Non appena cominciai a rivedere le insegne luminose di Los Angeles che contrastavano contro il buio più totale che ci stavamo lasciando alle spalle mi sentii un po’ più tranquilla.
Guardai sul sedile accanto a me.
Tess giaceva tra me e Nicholas, la pelle bianca più pallida che mai, i capelli biondi impastati con qualcosa di scuro che riconobbi essere sangue.
Lui le sorreggeva la testa e le tamponava la ferita che aveva sul retro con una felpa.
«Non ha dato segni di ripresa, non è vero?» chiesi. Sentii la mia voce spezzarsi mentre lo facevo.
Nick in risposta scosse la testa e la guardò, come se si aspettasse che potesse cambiare qualcosa da un momento all’altro.
«Dobbiamo andare subito al St George» dissi preoccupata sporgendomi tra i due sedili anteriori.
«È proprio lì che stiamo andando» mi rispose Kevin senza perdere di vista la strada.
«Poi un giorno mi spiegherete come avete fatto tutti e tre a trovarci» dissi tornando ad accasciarmi sul sedile posteriore.
«Si è trattato solo di essere nel posto sbagliato al momento giusto» mi disse Kevin strizzandomi l’occhio dallo specchietto retrovisore.
«Farò finta di crederci».
 
 


Tu guarda chi ritorna c:
Salve meraviglie, come state? (era da tanto che non vi chiamavo così, vi mancava?)
Non so in che modo ringraziarvi. Voi signore che cliccate il tastino "preferite" e voi altre signore che cliccate il tastino "seguite", state raggiungendo numerelli che mi fanno scappare una lacrimuccia c':
E anche voi signore che leggete e basta.
Mi fate sentire importante c': *la convinzione*
Sì, so che avevo detto quella cosa della OS per il mio compleanno, ma a quanto pare non ci sono riuscita.
P-I-G-R-I-Z-I-A. 8 verticale, ovvero mancanza di volontà in quello sputo di tempo libero che mi rimane per scrivere.
E incapacità di concludere le cose in una volta sola. Sapete che io sono quella che se non trova dieci problemi a personaggio non è contenta, no? c;
Tornando a noi, spero di non aver deluso le vostre aspettative e mi rimetto ai vostri giudizi.
Vi voglio bene, davvero, anche se non conosco la maggior parte di voi.
Perchè con voi sto condividendo un piccolo sogno, vi sto facendo conoscere una parte di me che molta gente non conoscerà mai perchè non avrà pazienza a sufficienza per fermarsi a capirmi.
Ditelo, lo so che vi sentite lusingate dopo questa strabiliante perla di saggezza.
Fuggo prima che finiscano le ostriche.
Un bacione
Miki

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Capitolo 22
*** Consequences ***


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Erano due ore che non vedevo altro che pareti azzurrognole illuminate da una triste luce al neon.
Tendevo l’orecchio ad ogni rumore e ogni qual volta una persona in camice bianco attraversava il corridoio dove ero seduta saltavo in piedi per riempirla di domande, neanche fossi una giornalista d’assalto.
 Nick era lì al mio fianco, e aveva avuto tutto il tempo per spiegarmi la loro piccola missione di salvataggio.
A quanto pare Kevin era venuto a cercarci al locale, ma vedendo che due tizi che non si potevano propriamente spacciare per miei amici mi portavano via, aveva deciso di seguirli.
 I due l’avevano condotto a quell’edificio (che secondo me ha proprio le fattezze di un ufficio in disuso), dopodiché era tornato indietro a recuperare i fratelli e li aveva condotti lì.
 Un’infermiera bassina e rotonda, con degli zoccoli in plastica colorati ai piedi ciabattò alla nostra sinistra. Delle forcine le tenevano la cuffietta legata ai corti capelli castani, e aveva un’espressione alquanto annoiata in volto.
«Scusi»
Il mio istinto fu più forte di me, scattai in piedi come una molla.
Per tutta risposta la donna mi guardò quasi fosse scocciata.
«Tess Somerset» dissi soltanto.
Buttò un’occhiata stanca alla sua cartellina rosa pallido, sbuffando impercettibilmente.
«E allora?» disse deliziandomi con il suo tono tutt’altro che cortese.
«Vorrei sue notizie. Vorrei sapere come sta, se ci sono miglioramenti, quando potrà ricevere visite… »
«Di visite non se ne parla, gioia. Almeno fino a domani. Sei una parente?» mi chiese interrompendo il mio fiume in piena di domande.
«Sì. Cioè, non proprio. Però praticamente è come se lo fossi, la conosco meglio di chiunque altro» incespicai.
L’infermiera fece una smorfia, scosse la testa segnalando il suo evidente disappunto e fece per andarsene.
«Aspetti» la bloccai afferrandole un braccio. Lei guardò la mia mano allibita e poi mi piazzò i suoi occhi stanchi in volto.
«Mi dica almeno come sta» la pregai.
Cercai di far trasparire tutta la mia preoccupazione, di riversare sulla mia faccia ogni sentimento provato in quella notte sperando che potesse muoversi a compassione ed esaudirmi.
«Stiamo facendo degli accertamenti, la prognosi è riservata» disse liquidandomi.
«E ora, se non ti dispiace potresti lasciarmi il braccio? Ho un turno da portare a termine, e non lo posso di certo passare a fare conversazione» disse mentre la lasciavo andare.
Certo che ti lascio andare, và anche via in fretta.
Nick mi arrivò alle spalle mentre osservavo Miss Disponibilità svoltare dietro l’angolo in fondo al corridoio. Mi concessi di tornare bambina per un attimo e farle una smorfia.
«Jessica» mi rimproverò Nick.
Io sbuffai, voltandomi a guardarlo mentre rideva. La sua risata risuonò per il corridoio e portò un raggio di luce in quel luogo triste e ormai deserto.
«Shh» gli intimai portandomi un dito alle labbra.
«Non vorrai mica farla tornare per sentirti dire che “non può certo sprecare il suo turno preoccupandosi di schiamazzi notturni”» dissi scimmiottando l’infermiera, con l’unico risultato di farlo ridere ancora di più.
«Vieni qui» disse una volta che ebbe smesso, aprendo le braccia.
Io mi avvicinai, fino a posare la testa tra la clavicola e l’incavo del suo collo.
Mi abbracciò, facendomi oscillare dolcemente.
«Pensi che stia bene?» chiesi dopo un po’, alludendo a Tess.
«Mmh» mugugnò in risposta, continuando a tenere la testa poggiata sopra la mia.
«È una tipa tosta, troverà il modo di cavarsela» proseguì.
«Era» lo corressi amareggiata. Avvicinai il braccio al petto, chiudendo il polsino della felpa nel palmo della mano.
«Tornerà ad esserlo, vedrai» disse lui cercando di rassicurarmi.
Mi limitai ad annuire e mi lasciai cullare un altro po’.
«Nick»
«Sì?»
«Non voglio perderla di nuovo» dissi sollevando la testa. La voce era incrinata mentre pronunciavo quelle parole.
«Ehi» disse prendendomi il viso tra le mani.
«Non succederà, okay?» continuò asciugandomi una lacrima ribelle con il pollice.
«Non posso prometterti qualcosa che non dipende da me, ma posso aiutarti a sperare» disse con il tono più dolce e rassicurante che aveva. Poi fissò i suoi occhi color cioccolato nei miei e mi trasmise tutte quelle emozioni che la descrizione a parole può solo che rovinare.
Annuii e accennai un sorriso.
«Okay» dissi a mia volta.
Poi avvicinò le sue labbra alle mie e mi baciò. Mi lasciai trasportare in una dimensione parallela, dove non ero in ospedale a tormentarmi l’anima per la sorte di Tess, dove non avevo appena trascorso una delle nottate peggiori della mia vita, ma ero serena e una delle poche cose di cui mi preoccupavo era di noi due.
Sì, una dimensione un po’ egoistica, ma ideale per evadere ogni tanto.
Mi appoggiai alla sua spalla. «Quegli uomini hanno a che fare con la mia famiglia, non mi lasceranno andare» dissi in un sussurro, più a me stessa che a lui.
«Cosa ti fa pensare che noi lo faremo?» mi chiese in tono serio.
Scossi la testa.
«Non voglio mettervi ancora nei guai. E adesso che so cosa li lega alla mia vita, ho come il sospetto che quei tizi non tarderanno a tornare» dissi andando a sedermi su una delle seggioline si plastica bianca che costeggiavano il corridoio.
Nick si accomodò al mio fianco e io ne approfittai per sdraiarmi posando la testa sulle sue gambe.
«E allora noi li aspetteremo e li affronteremo con le dovute precauzioni. Insieme» disse mentre faceva passare una mano tra i miei capelli, portandomeli dietro l’orecchio.
«Essere una famiglia vuol dire anche questo, non solo ingozzarsi di leccornie ad ogni festività» continuò chinandosi a sfiorarmi la guancia con un bacio.
Sorrisi d’impulso. L’aveva detto davvero: eravamo una famiglia.
IO ero in una famiglia, e non ero più sola come credevo.
Avevo appena ritrovato Tess e giorno dopo giorno imparavo che la famiglia Jonas mi avrebbe insegnato a camminare mentre curava le mie ali spezzate, per farmi tornare a volare, un giorno.
«Cerca di riposare, adesso. Sarai stravolta» sussurrò Nick al mio orecchio.
Chiusi gli occhi sulla mia vista che si faceva appannata e un’altra lacrima mi scese lungo la guancia, ma questa volta avevo le labbra increspate in un sorriso.
Sentivo il cuore battere forte nel petto e dovetti prendere due o tre respiri profondi prima che lo sentissi rallentare un po’.
Quelle poche, apparentemente semplici, parole avevano avuto l’effetto di una scarica elettrica su di me, iniettandomi una felicità nuova che mi permise di riposare, allontanando avvenimenti e conseguenze di quella sera che altrimenti mi avrebbero fatto impazzire.
Ma le sentii comunque.
Eccole lì, che spingevano sulle labbra per uscire prima che scivolassi nel mondo dei sogni.
Due piccole, semplici parole che racchiudevano in loro tutto ciò che avevo dentro e che sentivo crescere ogni giorno di più, radicandosi nella mia anima come una sorta di edera, che cresceva rigogliosa e si spingeva sempre più in alto, non lasciando posto ad altro.
«Ti amo» sussurrai impercettibilmente prima che Morfeo mi catturasse tra le sue braccia.

***

Le luci cominciavano a riaccendersi nel buio, una dopo l’altra, segnalando che la città stava cominciando a risvegliarsi insieme ai suoi abitanti. Il profilo che i palazzi disegnavano sul cielo cominciava a farsi più nitido e i colori cominciavano a diventare contrastanti, uscendo dall’uniformità della notte. Il signor De La Rosa non si perdeva mai uno spettacolo del genere, lo aiutava a riflettere, diceva. Cominciò a spostarsi a passi cadenzati avanti e indietro lungo l’immensa finestra di vetro che lo separava dal mondo esterno. L’osservare quelle vite che tornavano all’opera, alle loro mansioni quotidiane, il controllare le loro azioni senza ricevere la minima attenzione gli dava un senso di potenza.
Incurvò un angolo della bocca verso l’alto, come per simulare un sorriso. Tamburellò le dita affusolate sul vetro, poi vi ci picchiettò due volte e tornò a dedicare la sua attenzione allo studio.
Girò attorno alla scrivania di legno pregiato, facendo scivolare indietro la sedia girevole imbottita. Sollevò con calma alcuni fogli dal tavolo, li impilò e li pareggiò per lunghezza. Poi, fulmineo, andò alla porta e si chiuse a chiave nello studio. Tornò alla scrivania e con le dita cercò un intaglio nel legno. Apparentemente era un ricciolo come gli altri, ma quando lo premette questo fece scattare qualcosa.
Tlack tlack.
Un meccanismo si innescò e fece aprire un cassetto da sotto al tavolo.
Il signor De La Rosa estrasse da lì una cartellina di cartone giallo e vi fece scivolare all’interno i documenti appena ordinati. Poi rimise tutto a posto, accompagnando il cassetto segreto nella chiusura.
L’ombra di un sorriso soddisfatto gli increspò le labbra e si lisciò la barba, compiaciuto. Raggiunse lo specchio in pochi passi, spinto dal bisogno di controllare il suo corpo.
Spazzolò la giacca del completo che fasciava il suo fisico asciutto e tenuto sapientemente tonico da un esercizio continuo. Passò nuovamente le dita sul mento, a controllare che la sua barba fosse tagliata sempre alla stessa lunghezza. Sorrise nuovamente, soddisfatto del risultato. I suoi occhi scuri si mossero rapidamente sul viso del suo riflesso, studiandone gli zigomi sporgenti e le sopracciglia folte e scure, che donavano al volto un’espressione austera. Tutti avrebbero rispettato quel volto, un giorno.
Qualcuno bussò alla porta, facendolo distrarre dalla sua contemplazione.
«Sì?» rispose in tono seccato.
«Sono Roland, signore. Ho notizie sulle prigioniere» disse una voce fuori dalla porta. De La Rosa andò a sbloccare la serratura e tornò alla finestra, dicendo all’uomo di farsi avanti.
«Ebbene?» incalzò congiungendo le dita, una volta che l’uomo lo ebbe raggiunto mantenendo sempre la distanza che imponeva la sottomissione.
«Le ragazze non si trovano più nell’edificio, signore» disse l’uomo rimanendo in piedi, le braccia rigide lungo i fianchi.
«Mi auguro che questo implichi il loro trasferimento in un luogo più consono» suppose con calma De La Rosa, sedendo sulla sedia e voltandosi verso la finestra.
«No, signore. In realtà loro sono… scappate» disse l’uomo temendo la reazione del suo capo all’accaduto.
«Scappate» ripeté De La Rosa quasi divertito. «Confido nel buon senso dei miei uomini nel non aver rivelato loro alcun dato riguardo i nostri affari» proseguì, tornando a mostrare la faccia al suo interlocutore. Questo rabbrividì.
«Jessica Switcherson è stata interrogata per vedere cosa ricordava dell’omicidio avvenuto dodici anni fa» disse l’uomo.
De La Rosa trasse un respiro profondo, come se cercasse di trattenere la rabbia, ma quando parlò la sua voce continuò ad essere calma. «Chi si è fatto carico di una decisione così importante privo del mio consenso?» domandò.
«Nielsen, Craig Nielsen signore» rispose l’uomo senza esitazione.
«Bene» disse De La Rosa con un sorriso affabile. «Roland, dì a Craig che l0 aspetto qui. Come sai è norma nella nostra comunità premiare le azioni degne di lode» continuò.
Roland annuì convulsamente e, dopo aver salutato rispettosamente, uscì dalla stanza per adempiere al suo compito.
«Bene» ripeté De La Rosa. Qualcuno aveva dato la conferma a quella ragazzina di qualcosa che non avrebbe neanche potuto immaginare. E adesso quella ragazzina non era sotto il loro controllo, e quelle informazioni potevano raggiungere orecchie indesiderate.
Bene.
Aprì un cassetto alla sua sinistra e fece roteare le dita per scegliere l’oggetto più appropriato. Avvolse la mano attorno al metallo chiaro e posò l’oggetto sulla scrivania, mentre prendeva tutto il necessario.
Avvitò con calma il cilindro del silenziatore alla fine della pistola e inserì un colpo in canna, abbassandone il cane.
In quel momento bussarono alla porta.
«Bene».

Salvee! Quattro parole: CE L'HO FATTA.
Sì, finalmente è finita la scuola (manca un giorno, però è come se fosse già finita!) e io finalmente potrò dedicarmi a voi a tempo pieno, senza lasciarvi in attesa per periodi interminabili! c:
So che siete contente almeno quanto me per questa notizia *w*
Il "ce l'ho fatta" è riferito anche ad un'altra cosa. SONO RIUSCITA A VEDERE DAL VIVO DEMI LOVATO. Mio Dio, ancora non ci credo.
So che non dovrei parlarne perchè molta gente non ne ha avuto l'occasione, ma è più forte di me, scusate. Non ne parlerò più poi, promesso!
E' VERA, vi rendete conto? Non è un personaggio frutto della mia immaginazione che vive nel mio pc, ma è ancora più bella e fantastica di quello che sembra e ci ama. Tutti.
Va bene, non mi dilungo altrimenti vado fuori dal contesto, ma per aventuali approfondimenti potete contattarmi tramite messaggio privato c:
Grazie per essere rimasti, spero che qualcuno stia ancora seguendo questa storia c':
Vi voglio bene, grazie davvero per essere dei lettori fantastici ❤
Un bacione,
Miki

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Capitolo 23
*** (not) Gone ***


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Erano passati tre giorni, e io non l’avevo abbandonata.
Avevano spostato Tess in un altro reparto, e dato che le sue condizioni erano migliorate potevamo farle visita. Ma io non l’avevo ancora vista sveglia.
Arrivai ormai con sicurezza al corridoio del suo reparto, ma mi bloccai con la mano sulla maniglia della sua stanza. Faceva sempre male vederla così. Lei, la mia forza, il mio punto di riferimento, ridotto a un mucchietto d’ossa tenuto in vita fino a poco tempo prima da dei macchinari.
Presi un respiro profondo ed entrai.
L’odore di disinfettante che già aleggiava per il corridoio si fece più intenso, pizzicandomi le narici. Mossi cautamente qualche passo per non disturbarla, nel caso dormisse.
«Chi è?» mi sorprese.
La sua voce non era stanca o malata. Era più che altro addormentata.
«Sono io» risposi contenta di sentirla così.
Mugolò, accettando la mia presenza. Mi avvicinai al letto e mi andai a sedere dal lato della finestra, proiettando un’ombra grigia sulla sua coperta bianca. Era avvolta da quel colore, lo aveva tutto intorno a sé, fluttuando in una nuvola di candore che si estendeva alle braccia esili, lasciate scoperte dalla camicia che indossava, e al viso, che stava perdendo il pallore del disagio e della malattia. I capelli biondi sembravano sottili raggi di sole, così disposti ordinatamente sul cuscino, e le ciglia chiuse a solleticare le guance mandavano lievi bagliori dorati quando incontravano la luce che veniva dalle mie spalle. Sembrava così dolce e vulnerabile mentre riposava, quando in realtà sapevo che da sveglia poteva essere dolce e vulnerabile quanto poteva esserlo un caterpillar.  
Se gli angeli riposavano di tanto in tanto, secondo me non dovevano essere tanto diversi da Tess in quel momento. Sempre che fossero senza ali. E magari un po’ sottotono.
Lei, ignara dei miei ragionamenti, continuava a tenere gli occhi chiusi, ma il suo respiro non era abbastanza lento e regolare per essere quello di qualcuno che dorme.
«Come ti senti?» le chiesi piano, per paura di disturbarla.
«Per favore almeno tu risparmiami questo teatrino» biascicò continuando a tenere gli occhi chiusi.
«Immagino che questo stia per “bene”» dedussi.
«Immagini bene» confermò lei. «Però per favore non chiedermi altro che ho la bocca tutta impastata, non riesco a parlare decentemente» disse in effetti in modo strano. Se avesse potuto avrebbe sbuffato, lo so. Un angelo un po’ impaziente, il mio.
Sorrisi. «Va bene, allora ti racconto io qualcosa» dissi aiutandola a sollevarsi un po’.
«Nessuno in tua assenza è venuto a minacciarci, picchiarci o ucciderci; non sono andata a scuola; Kevin e Danielle hanno posticipato la festa di fidanzamento di una settimana in modo che tu possa venire; e ho imparato che pranzare con i tramezzini del bar qui sotto è un’idea pessima, perché sono terribili» dissi elencando le varie novità sulla punta delle dita.
«Davvero?» mi chiese sorpresa.
«Sì, fanno una maionese troppo pesante» dissi disgustata.
«Intendevo la festa di fidanzamento. Davvero l’hanno posticipata per me?» mi domandò strascicando un po’ le parole.
«Oh, sì. Ci tenevano che fossimo tutti presenti» le risposi sorridendo.
«Sarà bello, vedrai» continuai accarezzandole un braccio con delicatezza.
Lei accennò ad annuire, senza scuotere eccessivamente la testa.
«Sono delle persone fantastiche, ti accoglieranno come hanno fatto con me» le dissi non tanto per rassicurarla, ma perché ero certa che sarebbe stato così.
In quel momento bussarono alla porta.
«Si può?» chiese Joe.
Tess si risvegliò improvvisamente e scosse la testa. «Non voglio che mi veda così» mi bisbigliò, affrettandosi ad allisciare i capelli sulla testa.
«Guarda che ti ha visto in condizioni peggiori. Non ti ha lasciata un momento da quando ti ha trovata» le dissi con un sorriso, lasciandola interdetta.
«Dai!» la incitai sistemandole un ricciolo biondo dietro l’orecchio. Per tutta risposta ridusse le labbra a una fessura, e cominciò a giocherellare con le dita, come faceva sempre quando era nervosa.
«Okay» si arrese infine.
Joe entrò richiudendosi la porta alle spalle, facendola cigolare sui cardini. Aveva una giacca rosso scuro, che posò sulla spalliera della sedia dove, fino a pochi istanti prima, ero seduta io.
«Va meglio?» le chiese con dolcezza.
Tess annuì lievemente, come prima, e lo ringraziò cercando di far assumere alla sua voce un tono normale.
Improvvisamente mi sentii di troppo, lì ai piedi del letto mentre loro si interrogavano sulle rispettive saluti e si sorridevano.
Rimasi ancora qualche secondo a godermi quella ritrovata luce negli occhi della mia migliore amica, con il cuore che mi esplodeva di gioia, prima di esordire con un: «si è fatto tardi, sarà meglio che vada».
Aveva parlato qualcuno? Sembrava di no.
Mi schiarii la voce e riprovai. «È tardi, dovrei…» indicai la porta, ma mi interruppi, accorgendomi di parlare di nuovo con il vuoto.
No, dai. Forse i fiori sulla cassettiera mi stavano seguendo.
«Okay» sussurrai sorridendo, avviandomi verso l’uscita.
Mi fermai sullo stipite della porta, riservando loro un’altra occhiata.
Joe le aveva preso una mano e gliela stava accarezzando dolcemente con il pollice, evitando accuratamente di sfiorare il punto in cui l’ago della flebo era inserito nella pelle. Mi voltai e uscii, chiudendomi la porta alle spalle, lasciandoli soli.

***
TELLER’S POV

Il Blue Horizons si trovava nella periferia della città, vicino a un vecchio deposito di auto usate. Era quella la veduta della maggior parte delle camere dell’istituto.
Il palazzo non era dei più nuovi, ed era stato ristrutturato da poco impiegando una manodopera piuttosto scadente, così il giallo che ne rivestiva la facciata stava già cominciando a creparsi. Tutte le finestre erano ornate da tendine a manovella di un bianco ormai sporco, con qualche evidente macchia di ruggine sui bordi superiori. Le inferriate erano scure, tutte uguali dal primo all’ultimo piano, e sembravano non avere serratura, come fossero sbarre. L’insegna blu a lettere corsive troneggiava sull’ingresso, segnalato da una tenda più grande e dalle porte di vetro che si aprivano a spinta.
Una signora era appollaiata dietro il bancone della hall, aspettando inutilmente qualcuno che venisse a fare visita ai pazienti. “Perché qualcuno dovrebbe voler avere ancora a che fare con questa marmaglia?” pensava rigirando le perline verdi della catenella degli occhiali tra le dita nodose. Passava così le sue giornate, nell’eterna attesa di qualcosa che non sarebbe accaduto.
Ma quel giorno il fato, chiamiamolo pure così, decise di dare una scossa alla sua routine.
Il campanello attaccato poco sopra la porta d’ingresso tintinnò poco dopo mezzogiorno, avvisando l’anziana donna dell’arrivo di qualcuno.
Un uomo sulla quarantina, con i capelli biondi e un improponibile golf a rombi verdi, entrò nella hall e si diresse al bancone.
«Salve, come posso esserle utile?» gli chiese la signora, sorpresa dall’arrivo di qualcuno.
«Salve, sono venuto per un vostro paziente» rispose cortesemente l’uomo.
La signora scosse il mouse e lo schermo nero del computer riprese vita.
«Mi dica» disse accomodante.
«Cerco David Switcherson, è stato un vostro paziente, e  per quanto mi risulta dovrebbe essere ancora in cura da voi… » disse l’uomo cercando di sbirciare sul monitor.
La donna si voltò e lo guardò da sopra gli occhiali.
«Mi scusi, non mi è permesso rilasciare informazioni private riguardo…»
«Oh, giusto. Sono suo cognato. Non mi meraviglio se non vi ha mai parlato di me, penso abbia voluto non scavare troppo a fondo sulla parte riguardante sua moglie» la interruppe l’uomo mostrandole un documento.
«Scusi, sa era solo la prassi» si giustificò la donna, dando una rapida occhiata al documento, che l’uomo si affrettò a far sparire nella tasca interna della giacca.
«Si figuri» rispose lui con un’alzata di spalle.
La donna picchiettò sulla tastiera, mentre il ronzio basso del computer riempiva l’aria della hall.
«David Switcherson è uscito una settimana fa, aveva finito la cura» disse lasciando perdere l’apparecchio e rivolgendosi nuovamente all’uomo.
Questi sbiancò appena.
«COSA?» disse a voce un po’ troppo alta. «Voglio dire… non ha nessun altro a parte me, mi dispiace che sia uscito da solo» continuò riprendendosi.
«Oh, non si preoccupi, in molti lo fanno. Dopo tutti questi anni pensano che nessuno si ricordi più di loro, così se ne vanno» disse placidamente la donna.
«E non ha lasciato detto dove sarebbe andato?» chiese l’uomo preoccupato.
La signora scosse la testa. «Non ha indicato nessuno nella categoria riservata ai parenti, così non abbiamo preso ulteriori informazioni. Però in molti si sistemano in un piccolo ostello in fondo alla strada. Quelli che hanno ancora qualche soldo da parte» disse con un’alzata di spalle.
«La ringrazio, è stata molto gentile» disse l’uomo con un sorriso cortese prima di uscire.
Non appena ebbe portato il suo maglione a quadri fuori dall’edificio, pescò il cellulare dalla tasca interna della giacca. Compose un numero e si limitò ad aspettare qualche squillo prima che rispondessero dall’altro capo.
«Sono io» dichiarò.
«Switcherson è uscito, e non si sa dove sia andato» disse amaramente.
«Mi hanno indicato un posto, sto andando a controllare» continuò dopo che il suo interlocutore ebbe detto qualcosa.
«Le assicuro che a breve non sarà più un problema» disse piegando un angolo della bocca, con un certo luccichio malvagio negli occhi.
«E poi le porterò la ragazza» promise in risposta ad alcune parole dette dall’altro capo del filo.
Concluse la telefonata con un “d’accordo” e ripose nuovamente il cellulare nella giacca. Si avviò con passo cadenzato verso una macchina parcheggiata nello spiazzo davanti all’istituto, e sì buttò sul sedile del passeggero. Fece segno all’uomo che stava alla guida di partire, e tirò fuori il documento dalla tasca della giacca.
«Andiamo» disse facendo scattare il cappuccio del suo accendino siglato. Girò la rotellina e una piccola fiammella prese vita nell’abitacolo. La portò alla’altezza del viso, piegando le braccia in maniera innaturale. «È giunta l’ora di mettere la parola “fine” a questa storia» disse poi in modo sinistro, avvicinando l’accendino al documento. Non appena questo prese fuoco lo lasciò cadere dal finestrino.
A quel punto si allontanò in macchina, lasciando la carta a contorcersi straziata sul ciglio del marciapiede, tra erbacce e tombini in rilievo, condannata a quel piccolo rogo che la consumò fino all’ultima fibra.


ANGOLO AUTRICE:
Salve, è qualcosa come più di una settimana che è pronto il capitolo, ma litigavo con l'editor e alla fine ho dovuto scaricare NVU. Se ho fatto casotti mi dispiace, ma ci devo prendere la mano u.u
Allora AVETE SENTITO LA NOTIZIAA?!? *-* UN PICCOLO (O UNA PICCOLA) JONAS E' IN ARRIVO! ** akbciqoqenoeunheqo appena leggo qualcosa a riguardo continuo a commuovermi, ormai giro per casa con una scatola di Kleenex attaccata al collo per ogni evenienza, modello San Bernardo c':
E la nuove canzoni!
Non vogliono farci uscire vive da questa settimana, credo sia ufficiale.
Gioite, ho pronti i prossimi tre capitoli! Incredibile ma vero, lo so, ultimamente non sono stata quella che si dice un'autrice modello lasciandovi appese per così tanto tempo e mi dispiace non immaginate quanto.
Cercherò di farmi perdonare con i prossimi capitoli (entro la fine dell'anno, sì) e chissà, MAGARI con qualche colpo di scena.
A VOI che avete aspettato e siete ancora con me, GRAZIE.
Un bacione <3
Miki

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Capitolo 24
*** Weakness ***


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TELLER’S POV

Il sole si stagliava alto nel cielo, preannunciando l’ennesima estate bollente. I raggi si insinuavano in ogni fibra e in ogni fessura, intrecciandosi e andando a formare disegni complicati sulle pareti delle case che lasciavano le imposte aperte. Rincorrevano quella piccola afa che stava cominciando a calare nei vicoli della città come un coperchio su una pentola che bolle, divertendosi a scommettere su chi avrebbe raggiunto per primo l’esasperazione  degli uomini.

Era difficile correre sotto quel sole, soprattutto se non lo si aveva fatto per mesi, e quell’afa dispettosa che si divertiva a schiaffeggiarti il collo con il suo fiato umido non rendeva di certo le cose più facili. Ma lui doveva farlo, doveva allontanarsi da quel posto il più in fretta possibile, prima che riuscissero a trovarlo. Cosa che non sarebbe successa poi così tardi se continuava a correre come avrebbe potuto fare un orso costretto su due zampe. Si maledisse mentalmente e continuò ad arrancare tra le stradine secondarie, cercando un po’ di riparo nell’ombra creata da qualche angolo di tanto in tanto. Si passò una mano sulla fronte, portandosela poi alla bocca mentre si appoggiava al fianco di un edificio per riprendere fiato. La vecchia camicia di flanella era arrotolata sopra gli avambracci, e si attaccava alla schiena laddove correvano a ritmo frenetico delle gocce di sudore.

Estrasse un foglio stropicciato dalla tasca dei jeans, si guardò un attimo intorno e poi rimise il foglio al suo posto, ripartendo a passo di carica.
L’aveva stampato la scorsa notte, in un web-café semideserto dove era riuscito a passare inosservato. E adesso ecco che la sua ricerca ricominciava alla luce del sole. Tagliò per una strada laterale sulla destra, che lo immise finalmente dove si riusciva a trovare qualche Boulevard.

Voleva solo trovare l’istituto, vederla da lontano, appurarsi che stava bene. Dopo tutto questo tempo… avrebbe pensato le cose peggiori nei suoi riguardi e lui di certo non poteva biasimarla. Se solo un giorno avesse potuto parlarle di nuovo, raccontarle la sua storia… Nei suoi ricordi Jessica era ancora una bambina con due codini che le spazzolavano le spalle e le stringhe delle scarpe che si intrecciavano tra i piedi, rischiando di farla cadere perché non sapeva ancora annodarle per bene. Sorrise, ripensando a come saltava giù dalla sedia e gli correva incontro quando rincasava dal lavoro. Si attaccava alle sue gambe con quelle braccine esili ma dalla stretta d’acciaio, e vi rimaneva attaccata come una patella allo scoglio fino a quando lui non si decideva a darle la solita, affettuosa arruffata ai capelli.
Il suo sorriso si fece triste, ripensando a quante cose aveva perso che non gli sarebbero mai state restituite.

Controllò l’indirizzo sul foglio che aveva in tasca e voltò l’angolo, ritrovandosi di fronte a un edificio marroncino protetto da un cancellata di ferro battuto. Una targa dorata riportava a chiare lettere Universal Rainbow – orfanotrofio.
È questo il posto
, disse tra sé spingendo il cancello, che lo accompagnò nel cortiletto di ghiaia con un cigolio metallico. I sassolini emisero il loro solito scrocchio di benvenuto, al quale davano il via non appena incontravano i piedi di qualcuno. Il signor Switcherson si ritrovò in poco tempo a premere la mano sul pesante portone in legno, ornato soltanto da una maniglia dorata. Non si fermò a ristorarsi nell’ombra dell’ingresso e nella corrente fresca che provocò aprendo la porta. Come mosso da una scarica di energia si proiettò all’interno dell’istituto, e attraversò il giallo salone dei ricevimenti, senza notare minimamente la sua tonalità sfavillante che tanto infastidiva i suoi inquilini.

Il cuore gli martellava nelle orecchie, facendo scendere l’istituto nel silenzio più ovattato. Si diresse con sicurezza verso il bancone dell’accoglienza, asciugandosi le mani sudate sui pantaloni, e si rimise alla disponibilità della hostess che lo guardava con un misto di compassione e rimprovero da dietro gli occhialetti squadrati bordati di rosso.

«Come ha detto che si chiama la ragazza?» chiese la signorina dopo alcune domande di routine.
«Jessica» disse l’uomo mentre lei picchiettava con le unghie laccate sulla tastiera. «Jessica Switcherson» ripeté serrando le mani attorno al bordo del bancone, cercando di fermare il tremito che le scuoteva. Sentì il cuore pulsare nelle tempie ad un ritmo così veloce da sembrare quasi inumano. I polmoni gli bruciavano, come se stesse sostenendo quella piccola conversazione in apnea, addirittura in una stanza sottovuoto, e una grossa mano invisibile gli si chiudeva attorno alla gola, stringendo la presa minuto dopo minuto.
Cercò di prendere un respiro profondo, tornando ad asciugarsi le mani sui pantaloni.

«Signor Switcherson?» disse la hostess, richiamandolo alla realtà.
Lui alzò di scatto la testa, che fino a qual momento aveva tenuta chinata per tenere lo sguardo fisso sulle mani ancorate al bancone.
«Sua figlia è stata adottata».

***

Il sole era calato, ora tingeva di un arancione dorato ogni cosa che finisse sotto il proprio sguardo. L’afa aveva rallentato la sua discesa frenetica, e dell’aria calda della mattina non era rimasto che qualche tiepido refolino. Ma l’afa o l’estate imminente non erano certo i discorsi che aleggiavano da un po’ di tempo in uno stabile appena fuori città. Numerose finestre si affacciavano su quel tramonto che si stava consumando senza ricevere la minima attenzione. E così il sole, pian piano, fece scivolare i suoi raggi sui vetri in un silenzioso pianto dorato, buttandosi aldilà dell’orizzonte, lasciando che l’oscurità ingoiasse anche il suo più piccolo, ultimo bagliore.

Sembrava che l’edificio fosse costantemente avvolto dall’assenza di rumore, dove gli unici suoni che spiccavano di tanto in tanto erano il ticchettio di una tastiera o dei passi affrettati. Le stanze, ora semideserte, sembravano così ampie da rendere superflui tutti quei condizionatori disposti in fila lungo le pareti, dalle ventole che gracchiavano ogni volta che si chiedeva loro di uscire dal letargo. “Nuovo” non era di certo l’aggettivo ideale per descrivere quel posto, eppure un piccolo rettangolo all’ultimo piano era riuscito ad ottenere la sua buona porzione di modernità.

Le tende color cremisi erano tirate sull’immensa vetrata che si stagliava alle spalle di una sofisticata scrivania in legno dove giaceva una cartellina gialla appena tirata fuori dal doppiofondo di un cassetto. Ad un tratto qualcuno bussò alla porta di quella stanza. Due piccoli colpi secchi, decisi, che preannunciarono l’arrivo di un uomo dai capelli biondi che indossava ancora il maglione a rombi verdi del giorno precedente. In mano aveva un CD, stretto gelosamente tra le dita massicce e sul viso si era allargato un compiaciuto sorriso soddisfatto. Avanzò a grandi passi verso la scrivania e porse il CD al suo capo, che lo guardò di rimando alzando un folto sopracciglio bruno.

«Sono le registrazioni delle telecamere di sicurezza di quell’istituto dov’è stata la Switcherson negli ultimi anni, e a quanto pare questa mattina hanno ricevuto una visita d’eccezione» disse l’uomo.
Alejandro De La Rosa inserì pigramente il CD nel computer a schermo piatto che troneggiava sulla scrivania e avviò uno dei filmati che conteneva.

«Guarda chi si rivede» disse ad un certo punto, condividendo finalmente il sorriso soddisfatto del suo dipendente. «Il suo sentimentalismo renderà tutto più semplice, Roland» disse in tutta sicurezza all’uomo, massaggiandosi leggermente il mento. «Ci sono altre novità?» chiese poi, lasciando perdere lo schermo del computer.

«Hanno dimesso l’altra ragazza dall’ospedale, penso che rimarrà per qualche tempo con quella famiglia, i Jonas. E la Switcherson dovrà partecipare ad una rappresentazione entro pochi giorni, l’evento sarà aperto al pubblico» riferì l’uomo biondo portando le braccia dietro la schiena.
«Fantastico» disse De La Rosa prima di voltarsi verso l’ampia finestra oscurata dalla cortina di tende, congiungendo le dita affusolate. «Amo le rimpatriate, mi rattristava l’idea di non celebrarne presto una» aggiunse con una punta di malinconia nella voce. Si lasciò scappare una risata poco dopo.

Fece girare la poltrona su se stessa per ritrovarsi di nuovo faccia a faccia con il suo tirapiedi. «Con il trasferimento come siamo messi?» gli chiese tornando serio. «Siamo a buon punto, signore» rispose Roland accennando un sorriso che avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene a chiunque. A tutti, fatta eccezione per De La Rosa ovviamente, il quale ricambiò il sorriso come con il cuore scaldato da quel gesto. «Preparati Roland» disse alzandosi. L’altro, quasi intuendo le sue intenzioni volò all’attaccapanni e tolse dalla gruccia il trench color avorio che il suo capo amava indossare. Poi glielo porse con un gesto rispettoso, aiutandolo a scivolare sulle spalle larghe dell’uomo. «Andiamo a teatro» concluse De La Rosa con un’espressione soddisfatta dipinta sul volto. Roland assentì in silenzio andando ad aprire la porta, facendo strada all’uomo.

Quando i due furono usciti, un refolo di vento si azzardò ad entrare da una finestra della grande vetrata dimenticata aperta. Accarezzò l’attaccapanni dove, fino a poco prima, riposava l’elegante impermeabile del signor De La Rosa, si posò cauto sulla scrivania possente e finì con l’accarezzare la cartellina gialla, dimenticata incustodita sul tavolo. Ne sollevò curioso la copertina, lasciando scoperto il primo foglio, dove spiccava una foto cerchiata da un pennarello rosso. Voluminosi, ramati capelli ricci contornavano un ovale dalla carnagione perfetta e luminescente. Ne seguivano fitte e dettagliate righe che raccontavano la sua storia, descrivevano la sua personalità ed evidenziavano le sue debolezze. L’unica presente sulla scheda sembrava la stessa inclusa tra quelle di un’altra ragazza, in una scheda successiva. Capelli scuri, occhi verdi, labbra rosate. Jessica Switcherson, così diceva il nome scritto in stampatello sulla testata del foglio.

La cosa, o meglio, la persona che accomunava le due ragazze si chiamava Nicholas Jonas, e qualcuno sapeva come usarla contro di loro.



ANGOLO AUTRICE:
Salve bellissime, come andiamo?
Avete visto quello spettacolo di video che è FIRST TIME? **
Razza di domande che faccio, l'avrete visto di sicuro! E di sicuro avrete pensato che sia fantastico, come ho fatto io.
Come ho fatto io dopo aver urlato come una pazza da manicomio, aver pianto come una fontana, essere morta, sepolta e aver continuato a urlare fangirlando nella tomba. *okay, ha del macabro tutto ciò*
Per quanto riguarda il capitolo, se siete arrivate fin qui avrete capito che era uno di raccordo, per dare un disegno delle trame che altrimenti non spiegate farebbero diventare la storia piena di personaggi ignoti che compiono azioni che non vi sapete spiegare.
Dispiace anche a me non averci messo i nostri amati carciofi principali, ma c'est la vie c:
Tornando a noi, domani parto e sto via una settimanella (mini tour dell'Andalusia) peeerò ho già pronto il prossimo capitolo che pubblicherò quando torno. E in viaggio scriverò, già lo so.
Va bene, adesso vado c:
Ultima, ma non ultima cosa vorrei ringraziare tutte le new entries tra preferiti/seguiti e tra i lettori (che questa settimana sono un bel numerello c':)
Adios <3
Miki

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