A new beginning - Un'irlandese e Sydney

di Evelyn Doyle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il viaggio ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Prologo - Il viaggio ***


Note autrice:

Eccomi con una nuova storia, lo so che ne ho altre due da continuare, ma proprio non ce la facevo a non pubblicarla, per cui ECCOMI QUA.

Vorrei intanto precisare che, come ho già scritto, questo genere di storia si è già sentito molte volte, direi, un po’ come le classiche storie dei due che si odiano e poi improvvisamente si attraggono inconsciamente, ovviamente questa non è esattamente una di quelle... o forse sì? xD

E so che quindi leggendo l’introduzione iniziale avrete pensato: “Ma non ha proprio fantasia, questa?” e in realtà non posso darvi così torto, il titolo è piuttosto banale, lo so, però posso solo dirvi che cercherò di svilupparla al meglio, perché ho già deciso che a questa storia ci tengo moltissimo e anche se ne esistono già centinaia con lo schema iniziale di “nuova nazione, nuovo inizio” ecc. spero comunque che qualcuno la legga.

Comunque, sebbene lo schema iniziale sia il solito (che io, ormai l’avrete capito, chiamo “nuova nazione, nuovo inizio” xD), in sé la vera storia non è poi quella... ma è ciò che accade DOPO il trasferimento, non il trasferimento in sé, mi spiego?

Comunque io voglio raccontare anche quello, di come la protagonista viaggia, di tutti gli scali e le ore che è costretta a sopportarsi.
Detto questo, credo di aver chiarito tutti i punti che ritenevo dovessi chiarire.

Ah, in questa storia ci tengo anche a fare ampie descrizioni del paesaggio oltre che dei personaggi, perciò mi documenterò quasi ossessivamente (?) sull’Australia e in particolare su Sydney.

Spero davvero che apprezzerete, io ce la metto tutta.
Adesso credo proprio sia il momento di lasciarvi, scusate queste note iniziali leggermente lunghe (?).
Buona lettura!

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Prologo


Non riuscivo a crederci quando i miei genitori mi dissero testuali parole:

«Brooke, ci hanno offerto un contratto in Australia. Dobbiamo trasferirci»

Insomma, in Australia?! Dall’altra parte del mondo dovevano offrirgli un contratto di lavoro?
Non potevamo starcene qui, in Irlanda, tranquilli e buoni?
Okay, l’Australia è fantastica, ovviamente.
Quante volte ho guardato su Internet le foto della particolarissima Opera House oppure di quei giganteschi parchi cittadini di Sydney? O vogliamo parlare di quegli animali fantastici che esistono solo lì?
Canguri, koala, ornitorinchi, echidne e altri di cui ignoro i nomi...
Ma ormai è inutile rammaricarsi, partiamo domani e basta.
Ancora non riesco ad accettare l’idea di lasciare l’Irlanda, io ci sono nata qui, ci vivo da quindici anni!
Okay, non ancora quindici anni perché li compio fra tre mesi, però è pur sempre tanto tempo!
Non posso lasciare quest’isoletta per andare in quell’isola a dir poco gigantesca, non posso...
Qui ho Doreen, Candace, Hattie, Lauren e altri... Irlandesi quanto me fino alla punta dei capelli.
Qui posso parlare l’irlandese, lì dovrò parlare sempre e solo inglese doc.
Qui le campagne sono verdeggianti e floride.
Qui non ci sono le onde bazzicanti di surfisti ogni giorno dell’anno, il mare è freddo e le coste alte e rocciose.
In ogni caso, dovrò abituarmi all’idea.
Dovrò abituarmi all’idea di dire: “Io abito a Sydney, la conosci?” e non “Io abito in Irlanda, sono irlandese, non vedi?”
Ormai non posso fare nulla, però.
Partiremo domani e dovrò anche sorbirmi un numero troppo alto di ore in aereo.

Non ricordo quante siano, ma sono di certo fin troppe per me. Solo ricordare quel numero mi fa passare la voglia di salire sull’aereo.
I bagagli li ho già fatti, o meglio, mia madre me li ha fatti senza che nemmeno me ne accorgessi.
La valigia blu cobalto giace vicino al letto, la casa è praticamente vuota, spoglia da tutti i mobili che prima la rendevano un po’ più viva e colorata.
Doreen stava quasi per piangere, lei la conosco da sempre praticamente.
Mi ha regalato un piccolo album fotografico con le foto di tutte loro.
«Per non dimenticarci» mi ha detto.
Mi sembrava una frase da funerale, ma è quasi come se morissi e rinascessi da un’altra parte.
Sembrerà esagerato, forse lo è, però io adoro l’Irlanda!
Forse è meglio che la finisco con questi stupidi pensieri melodrammatici, però.
Domani parto. Punto e stop.
Sono le dieci e mezza, devo andare a dormire... domani mi aspetta un risveglio orribile: alle quattro devo alzarmi dal mio amato letto e per le sei e mezza dobbiamo stare al Aerfort Bhaile Átha Cliath, ovvero il “Dublin Airport”, come lo chiamano gli inglesi.

* * *

«Brooke, sono le quattro e cinque minuti! Svegliati o non arriveremo in tempo!» cosa? È già mattino? Mi sembra che siano passati cinque minuti da quando mi sono addormentata!

Mi alzo a malavoglia, scendo in cucina e mangio i miei adorati pancake con la mia adorata tazza di latte.

«Non ti preoccupare, Brooke. Vedrai che Sydney ti piacerà da matti» mi dice mia madre intenta a portare giù le valigie per poterle caricare sul Taxi che ci porterà all’aeroporto.

Faccio una breve doccia in bagno e poi corro a vestirmi con gli unici vestiti rimasti fuori dalla valigia.
Una maglia leggera a maniche corte e dei jeans scuri.
È strano pensare che lì, a Sydney, sia primavera mentre io sono abituata all’autunno appena iniziato dell’Irlanda.
Sono le cinque meno un quarto e ci dirigiamo verso il Taxi, appena arrivato.
Mentre salgo guardo i giardini, le casette, i negozietti e tutto ciò che ho intorno.
Domani mi risveglierò in un posto completamente diverso da questo.
Lunedì dovrò anche iniziare la scuola, lì, in Australia. Fortunatamente è ancora giovedì.
Non so ancora come si chiama la scuola in cui andrò, nonostante mia madre mi abbia già iscritto.
Chissà come sarà la divisa, come saranno i miei compagni di classe, i professori, il preside...

I miei pensieri vengono interrotti dalla vista di un immensa struttura, piena di gente che va e viene: il Dublin Airport è il più importante dell’Irlanda e quindi il più affollato.
Scendiamo dal Taxi.
Prendo il mio bagaglio, ci dirigiamo dentro l’aeroporto.
Il volo non sarà diretto, ovviamente: faremo scalo prima ad Atene e poi a Singapore. Fortunatamente dovremo aspettare soltanto un’oretta ogni scalo, ma il viaggio durerà più di ventiquattro ore.
Mi viene l’ansia a pensarci, ma so che con me avrò un bel PC con cui smanettare.
Dopo un’interminabile coda, finalmente facciamo il check-in e ci dirigiamo verso il gate.
Non posso ancora capacitarmi che questo sarà un biglietto di sola andata, non una vacanza leggera di un paio di settimane.
Io andrò in Australia e non tornerò.
Non tornerò.
Arriva il fatidico momento: l’imbarco.
Una gentile assistente di volo controlla i biglietti e fa imbarcare i passeggeri: l’aereo è immenso, molto più di quel che pensassi.
Appena troviamo i nostri posti ci sediamo comodamente e attendiamo che diano istruzioni.
Muovo il piede incessantemente, come se fossi nervosa.
In effetti, lo sono.
Passano circa dieci minuti, dopodiché bisogna allacciare le cinture di sicurezza: si parte.
Si parte, per non ritornare.

Dopo un quarto d’ora circa fluttuiamo ancora nel cielo irlandese, anche se per poco, dato che tra non molto saremo sopra l’Inghilterra.

Aspetto pazientemente qualche oretta, ormai non controllo nemmeno il tempo che passa, stiamo viaggiando attraverso i fusi orari e sarebbe inutile.
Dopo ancora tre ore - estenuanti - arriviamo ad Atene, precisamente all’Aeroporto Internazionale di Atene.
Siamo già al primo scalo!
Aspettiamo nella sala d’attesa dell’aeroporto, dopotutto dobbiamo attendere soltanto un’oretta, per poi prendere un altro aereo... adesso dovrò aspettare più o meno dieci ore, anzi, credo addirittura dodici, prima di arrivare al prossimo scalo: Singapore, nel cuore del sud-est asiatico.

* * *

Le ore in aereo sono estenuanti, non sono mai stata rinchiusa in un posto per così tante ore.
Sono passate ben dodici ore da quando siamo partiti da Dublino.
Accidenti, ma perché caspita hanno dovuto cercare lavoro in Australia i miei? L’Irlanda non era abbastanza grande per trovarlo?
Mi viene da sospirare, se non da imprecare, ma cerco di aspettare ancora e ancora... mi stupisco della mia pazienza.
Dovrebbe essere sera, perché il cielo è buio.
Osservo fuori dal finestrino: vedo candide nuvole, che sembrano quasi cotone, morbide e bianchissime; sopra di esse il cielo è scuro e qualche stella appare qua e là.

Non mi accorgo di essermi addormentata, subito dopo la cena servita ieri sera.
«Brooke, dobbiamo scendere» siamo a Singapore? Non posso crederci, finalmente!
Cioè, non proprio... ancora un numero non definito di ore e poi saremo veramente arrivati in Australia.
Scendiamo, nuovamente. Siamo nel grande aeroporto di Singapore Changi.
Aspettiamo, nuovamente.
«Sappiamo che tutte queste ore di aereo non sono eccezionali... ma vedrai, quando arriveremo a Sydney ti piacerà moltissimo, soprattutto la casa che abbiamo comprato: si vede il mare» mi dice mia madre, sorridente.
Certo, come se io adorassi il mare.
Forse non amo andarci perché la mia pelle al solo pensiero del sole si cuoce come carne sul fuoco, sensazione che non amo assolutamente provare.

Arriva il momento di salire sull’ultimo aereo.
Dai, Brooke, ancora qualche ora e sarai in Australia.
Facile da dire, ma non a farsi.
Guardo ancora fuori dal finestrino: siamo appena partiti e vedo Singapore: è piena di grattacieli.
Sono altissimi, si vede chiaramente anche da quassù.
Smanetto poi per qualche oretta con il PC, dopodiché viene servito il pranzo su quel bell’aereo dove siamo saliti.
E’ molto grande, probabilmente (anzi, sicuramente) è pensato apposta per questi viaggi estenuanti in giro per il mondo.
Probabilmente, se qualcuno mi avesse detto l’anno scorso che l’anno successivo sarei andata ad abitare in Australia, gli avrei riso bellamente in faccia.
Probabile, già.
In realtà nemmeno ora me ne capacito, insomma, io, una quasi-quindicenne irlandese fino alla punta dei capelli, che va nella solare Australia, precisamente a Sydney, piena di belle spiagge, surfisti che cavalcano le onde ad ogni ora del giorno, ogni giorno dell’anno.
Non mi rendo nemmeno conto che, con tutti questi pensieri, il tempo scorre e scorre... finché...

«I signori passeggeri sono pregati di allacciare le cinture e di spegnere ogni apparecchio elettronico per l’atterraggio»

Non me lo faccio ripetere due volte e allaccio la cintura.
Appena scendiamo, recuperiamo tutti i bagagli e le valigie e ci rechiamo fuori dal grande, immenso Aeroporto Internazionale Kingsford Smith.
Un taxi si ferma e ci porta all’indirizzo dettato da mio padre.
Mentre viaggiamo guardo la città, siamo vicini al centro finanziario di Sydney: vedo grattacieli, ma anche spazi verdi pieni d’alberi e il mio occhio si posa su una struttura, una struttura che ho già visto...
la celebre Opera House, certo!
È inconfondibile, con il suo design così particolare... e io la sto vedendo con i miei occhi!
C’è anche il mare, azzurro limpido, come il cielo oggi.
Non sono abituata a tutto questo sole, in Irlanda sì e no d’estate faceva così nei giorni che io consideravo torridi.
Arriviamo poi nella parte urbana della città: case e casette, alcune vicine al mare, altre quasi sulla sabbia, altre invece vicino a grandi cortili e giardini.
Chissà se le spiagge bazzicano di surfisti, intenti a cavalcare le onde... non ne ho mai visti, se non nei film, ma quelle onde devono essere veramente alte.

Il taxi si ferma: siamo arrivati.
Siamo arrivati in quella che sarà la mia nuova casa, dove abiterò da oggi.
Fuori è di un colore simile al giallo, molto più chiaro però.
Entriamo, con le valigie in mano.
Ha due piani, come quella che avevamo in Irlanda.
Però, a differenza di quella, è spoglia e senza vita.
I muri sono monotoni, così come le stanze, in cui rimbombano i nostri passi decisi.
Poggio la via valigia vicino a quello che dovrebbe essere un letto.
Il mio letto, precisamente.
Non è brutto, per carità, è solo... nuovo.
Tutto è nuovo, per me.
Ogni singolo centimetro di quella casa è nuovo, per me.
Guardo l’orologio, ma poi mi do della stupida da sola: segna ancora l’ora di Dublino, l’ora della mia Irlanda.
Sarà pomeriggio o giù di lì, comunque, qua.
Ed è venerdì.
Un tiepido venerdì autunnale... aspetta, non è autunno qua! Qui è primavera... ecco perché fa abbastanza caldo e c’è questo sole accecante!
Non sono ancora abituata all’idea di avere le stagioni ribaltate, dopotutto sono nell’emisfero australe, non più in quello boreale!

Credo proprio che ci metterò un po’ ad abituarmi a tutto questo.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo 1.



Lunedì è arrivato.
Un caldo lunedì primaverile, a Sydney.
E con lunedì, inizia anche la scuola.
Certo, arrivare a metà anno scolastico non è la cosa migliore che si possa fare, ma pazienza.
Dopo aver fatto colazione e doccia, mi dirigo in quella che ormai è la mia camera e trovo la divisa scolastica sul letto.
Anche in Irlanda avevo una divisa scolastica, per cui sono abituata ad indossarla; questa è composta da una camicetta bianca a maniche corte, uno scamiciato blu scuro con lo stemma della scuola da indossarci sopra e quello che sembra un foulard, probabilmente da legare intorno al colletto della camicia.
Per quanto riguarda le scarpe, ci sono istruzioni ben precise: le scarpe sportive solo per l’ora di educazione fisica, per il resto solo mocassini o scarpe Oxford.
Metto la divisa, legando il foulard con un nodo semplice, prendo lo zaino e mia madre mi accompagna, ma solo per oggi, così arrivo in tempo almeno il primo giorno.
Quando scendo dall’auto, mi ritrovo davanti ad una grande struttura: la East Coast High School.
Un nome un po’ banale, direi.
Attraverso quel breve cortile che separa il cancello principale dall’entrata e guardo sul foglio del mio orario che materia alla prima ora: inglese.
Ottimo, sul serio: mi chiedo come farò a trovare l’aula di inglese, dopotutto è una struttura talmente enorme e, conoscendo il mio senso dell’orientamento, mi perderò in men che non si dica.
Ci sono solo corridoi su corridoi, aule, laboratori di ogni tipo... ma nessuna aula di inglese in vista.


Mi sto per rassegnare all’idea di diventare “quella che è arrivata in ritardo il primo giorno”, ma senza nemmeno accorgermene vengo letteralmente travolta da qualcosa.
Anzi, da qualcuno.
«Scusami, non ti ho visto!» è una voce femminile piuttosto dispiaciuta a parlare, appartiene ad una ragazza poco più alta di me, capelli biondo miele mossi e occhi di un colore non ben definito tra l’azzurro e il grigio.
«Non ti preoccupare, non è successo niente» mi alzo e sistemo la divisa leggermente sgualcita per la lieve caduta.
«Sei al secondo anno anche tu, dico bene?»
«Sì, avrei inglese adesso... l’unico problema è che non ho idea di dove sia l’aula» rispondo, sperando che quella ragazza possa indicarmi dove sia la classe di inglese.
«Non posso crederci! Anche io ho inglese adesso! Vieni, ti accompagno» così dicendo, la seguo per qualche corridoio, finché non arriviamo in quella che dovrebbe essere l’aula di inglese.
Appena entro, sentendo gli sguardi dei miei compagni di classe fissi su di me.
Mi sembrano degli apparecchi per i raggi x.
Forse è la sfortuna di arrivare a metà anno, chissà...
Fortunatamente, trovo un posto libero e mi siedo.
Arriva anche l’insegnante: è una donna sulla quarantina, almeno credo, vestita di tutto punto.
«Vedo che abbiamo un nuovo arrivo: Brooke Doyle, giusto?» mi chiede controllando quello che sembra un registro di classe.
«E sei irlandese, dico bene?» annuisco sempre, vedendo praticamente tutta la classe voltata verso di me.
Non ho mai ricevuto tutte queste attenzioni in una volta sola.


Ad un tratto noto le divise delle altre ragazze, precisamente noto il loro foulard e poi guardo il mio: qui c’è qualcosa che non quadra...
Il loro è legato a mo’ di fiocco, impeccabile e lindo.
Il mio, invece?
Oh, sì, il mio è legato stile scout: un semplice nodo, tra l’altro fatto piuttosto male e di fretta.
Bene! Figuraccia numero uno: fatta, direi.
L’avrà notato tutta la classe e anche l’insegnante, adesso possono etichettarmi come “quella che non sa annodare il foulard”!
Quando la lezione finisce, esco dall’aula e guardo che ora ho adesso: storia.
Ad un certo punto, la ragazza bionda di prima mi viene incontro.
«Così ti chiami Brooke? Piacere, io sono Dawn» mi porge la mano, molto sorridente e composta.
«Piacere, Dawn» stringo la sua mano, felice di aver trovato una sorta di amica già dal primo giorno.
«Lo avevo notato che non eri di queste parti! Hai uno strano accento...» meraviglioso, adesso possono anche etichettarmi come “quella dallo strano accento”.
In effetti, tutti quegli anni a parlare spesso e volentieri irlandese mi hanno conferito l’inconfondibile accento.
Purtroppo per me, il cambio d’ora passa e sono costretta ad entrare nell’aula di storia.


*  *  *


Dopo l’ora di storia, la campanella che segna la fine della lezione e l’inizio della pausa intervallo suona.
A ricreazione si va fuori, nel cortile dove sono passata prima.
È molto spazioso, soleggiato e tutto è così diverso rispetto all’Irlanda... beh, che posso farci?
Devo soltanto abituarmi, non posso tornare indietro.
«Sei tu quella irlandese, giusto?» mi volto di scatto, sentendo una voce maschile alle mie spalle.
Ma, un attimo: da quando si parla di me?
E, soprattutto, chi è questo individuo?
Sono in realtà due ragazzi, entrambi biondi, ma parecchio diversi: quello che ha parlato ha i capelli stile “pettinati dal vento” (?), morbidi sul viso, ma che non coprono troppo quegli occhi blu oceano che si ritrova.
L’altro è anch’esso biondo, ma il taglio è più a spazzola direi, con due occhi verde smeraldo.
Entrambi, oserei dire che siano anche palestrati, certo, non eccessivamente.
Sono sicura che siano quei ragazzi particolarmente popolari, stronzi e belli di cui si sente tanto parlare nei libri o nei telefilm.
Cosa ci facciano a parlare con la sottoscritta, poi, è un altro di quegli arcani che mi pongo.
Fisso prima uno e poi l’altro, come se fossi stordita e, in effetti, lo sono: da quando la gente parla di me in giro?
Poi, due ragazzi come questi, soprattutto?
«Sì...» rispondo un po’ incerta, non che sia incerta della mia nazionalità, sia chiaro, ma solo non capisco perché due ragazzi del genere mi vengano a chiedere se io sia “quella irlandese” o meno...
«Te l’avevo detto che era lei quella irlandese» si rivolge a quello con gli occhi verdi, poi torna a guardare me.
«Allora, come si sta in Irlanda? Coltivavi quadrifogli?» cosa? Quadrifogli? Che caspita vuole questo...?
Probabilmente, matematicamente parlando, la sua cultura generale è inversamente proporzionale alla sua arroganza.
«Dai, Nat, non fare l’idiota» lo richiama quello con gli occhi verdi, che, per carità, nemmeno è tanto brutto e sembra anche meno rincretinito del suo amico.
«Veramente il simbolo dell’Irlanda sarebbero i trifogli e, no, non li coltivavo» rispondo stizzita storcendo il naso.
«Oh, scusa tanto, non mi intendo di botanica» scrolla le spalle l’altro, con tono fintamente dispiaciuto.
Ma, insomma, non c’è bisogno di essere dei botanici esperti per conoscere la differenza fra il trifoglio e il quadrifoglio!
No, okay, è ora di mettere fine a questa farsa.
«Che sei venuto a fare? Mi stai facendo perdere l’intervallo» chiedo in seconda persona singolare, riferendomi al tizio dagli occhi blu.
«Prima di tutto a dirti che esattamente quello non è un fiocco» dice quello, “Nat”, come lo ha chiamato l’altro, indicando il mio nodo, che avevo completamente scordato.
Faccio per parlare, ma mi blocco e sobbalzo, cercando di nascondere il mio imbarazzo, quando vedo che mi si avvicina e si abbassa un po’ arrivando alla mia altezza.
Che caspita vuole fare?
Faccio per allontanarmi, ma porta le mani al nodo del mio foulard e lo scioglie delicatamente.
Cioè, fatemi capire: non lo conosco nemmeno e si permette di toccarmi?
«Vedi? Si fa così» mi dice, mentre mi annoda il foulard, facendo un bel fiocco.
Okay, ora sono ufficialmente sconvolta.
«Dovresti vedere la tua faccia, sei rossa più dei tuoi capelli» mi schernisce, prendendo una ciocca dei miei capelli – che, come si sarà già capito, sono rossi, tipico colore irlandese, no? – e li guarda per qualche secondo.
«A proposito, mi piacciono i tuoi capelli» lascia andare poi la ciocca, mentre lo guardo allibita e molto imbarazzata.
Ghigna alla mia reazione e scrolla le spalle, per poi andarsene come se nulla fosse.
Insomma, chi è questo?
Cosa vuole da una povera anima disorientata come me?


«Scusalo, è un idiota, non ce l’ha con l’Irlanda, è solo un deficiente» mi dice quello con gli occhi verdi, dopo che l’altro se n’è andato.
«Almeno mi ha fatto un fiocco come si deve» rispondo ancora un po’ sconcertata.
«Sono Drew Jones, comunque» si presenta.
«Io sono Brooke Doyle, piacere» spero seriamente di non incontrare nuovamente quell’altro... okay, dire che è carino è dire poco, insomma non nego la realtà... però è troppo sfacciato per i miei gusti.
Chissà quanti anni ha, mi è sembrato più grande di me.
Beh, almeno non lo potrò incontrare a lezione, fortunatamente!
Il primo giorno non è stato esattamente come lo immaginavo, insomma.
Guardo i miei capelli: davvero sono così belli?
Cioè, l’avrà detto tanto per dire o perché lo pensa veramente?
Che razza di pensieri hai, Brooke? Riprenditi!
Ha ragione la coscienza, questa volta: meglio non pensarci e rientrare in classe, dato che la campanella è, per mia sfortuna suonata, e di conseguenza devo andare a lezione di chimica.

Spero solo di riuscire a sopravvivere, qui.



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Note autrice:

Ecco il primo capitolo :)

Abbiamo incontrato nuovi personaggi, tra cui la simpatica Dawn (non dimenticatela, perché ci sarà anche nei prossimi capitoli), il biondo Drew e l’altro biondo dal nome

sconosciuto e dall’atteggiamento ambiguo, che Drew ha chiamato “Nat”...

Ovviamente, nei prossimi capitoli introdurrò anche altri personaggi.

Fatemi sapere cosa ne pensate, mi farebbe davvero piacere :D

Annie

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo 2.

Dopo altre due ore di biologia, sono qui, in mensa, con il panino al salame e formaggio preparato amorevolmente da mia madre.

Tengo il cestino del pranzo in mano, mentre mi diletto a cercare uno straccio di posto libero in questa immensa mensa, piena di tavoli e di alunni intenti a mangiare e chiacchierare.

Ad un tratto, quando ormai ho perso ogni speranza di poter trovare un posticino in un tavolo, sento qualcuno chiamarmi.
«Brooke, vieni pure qua!» è una voce femminile già sentita, questa... mi volto nella direzione da cui proviene: è Dawn, l’unica che si è dimostrata molto simpatica e affabile nei miei confronti, fino ad ora.
Mi dirigo allora nel tavolo dov’è seduta e prendo posto.
«Non preoccuparti, è sempre così incasinata la mensa» mi informa dopo aver bevuto un sorso d’acqua.
«Per questo odio le mense scolastiche» scrollo le spalle, tirando fuori il mio panino.
«Non dirlo a me! Ah, ecco Sum!» dice, mentre una ragazza dai lunghi capelli castani mossi, occhi nocciola e poco più bassa di Dawn, si siede di fianco alla bionda.
«Sum, lei è Brooke. È irlandese» la informa, mentre io guardo la scenetta con aria interrogativa.
«Ah, tu sei quella irlandese, eh? Io sono Summer, piacere» mi sorride, mentre tira fuori dal suo cestino... un’insalata?
Sì, è proprio un’insalata.
«Summer è vegetariana» bisbiglia Dawn, vedendo la mia espressione interrogativa, mentre Summer guarda con un’altrettanta strana espressione il mio panino.
«Oh, poveri suini!» indica poi il mio panino al salame con una faccia tra il ribrezzo e il dispiacere.
«Non farle caso, fa sempre così» mi informa Dawn mentre addenta il suo panino.
All’improvviso un pensiero si fa spazio nella mia mente: sbaglio o Summer mi ha chiamato anche lei “quella irlandese”?
Non è la prima a farlo, anche quei due ragazzi biondi che ho “incontrato casualmente” all’intervallo hanno detto così... insomma, da quando si parla di me in giro?!
«Uhm, ora che ci penso io ti ho visto a ricreazione... ma certo! Oddio, Dawn, conosce Nathan Harris! Cioè, è solo il suo primo giorno e già lo conosce!» non so, sarà la sfortuna di arrivare a metà anno, ma qui io ci sto capendo ben poco...
Chi accidenti è questo Nathan Harris?!
Come faccio io a conoscerlo?
Dawn tossicchia, poi si rivolge a Summer: «Non dire cazzate, Sum, come fa a conoscerlo?»
«L’ho vista parlarci» scrolla le spalle Summer.
«Ti sarai confusa, allora» risponde Dawn alzando un sopracciglio.
«Suvvia, Dawn, non dire idiozie!» dopo questo piccolo battibecco di cui la sottoscritta ha capito poco o niente, finalmente si rivolgono a me, forse vedendo la mia faccia stranita e interrogativa.
«Allora, vediamo se è vero... a ricreazione stavi parlando con Nathan Harris?» mi chiede Dawn.
«Oddio, non so nemmeno chi sia questo Nathan Harris!» sbotto, dando voce ai miei pensieri.
«Uhm... alto, palestrato, biondo, occhi tremendamente blu...?» la breve e vaga descrizione di Summer mi fa tornare alla mente qualcosa... o, meglio, qualcuno... ma certo! Il tipo strano, “Nat”! Ora capisco perché Drew lo ha chiamato così.
«In realtà non sapevo nemmeno il suo nome...» alzo le spalle.
«In condizioni normali ti direi di stargli alla larga il più possibile, ma ormai...» anche Dawn scrolla le spalle, mentre io non capisco assolutamente nulla.
«Perché mai?» in realtà non è che voglia nuovamente averci a che fare, solo non capisco perché Dawn dica così.
«Tsk, frequenta compagnie che non sono esattamente sinonimo di “affidabilità”, ma nonostante questo le ragazze gli corrono dietro assiduamente... meglio starci alla larga» risponde con un tono alquanto stizzito.
Annuisco, mentre termino il panino.
Da quanto ho capito, Dawn è una molto ben informata sugli studenti della East Coast High School, mentre Summer è una di quelle ragazze che si iscrive nelle più svariate squadre sportive, difatti fa parte di quella di atletica, nuoto, karate e direi altre due che non ricordo.

Dopo aver terminato del tutto il panino, vado a prendere una bottiglietta d’acqua al bancone dove c’è il cibo, per chi non lo vuole portare da casa.
Prendo la bottiglia e la apro all’istante, dato che quel panino mi ha fatto venire una sete tremenda, ma proprio mentre porto alla bocca la bottiglietta, qualcuno ha la brillante idea di venirmi contro, facendomi perdere per due secondi netti l’equilibrio.
Già, ma due secondi sono più che sufficienti per far rovesciare buona parte del contenuto della bottiglia sulla mia divisa.
«Idiota, sta’ più attento. Vorrei vederti io con la divisa gocciolante!» sbotto piuttosto irritata.
Mi volto così per vedere in faccia l’autore di quel misfatto: è un ragazzo dai capelli corvini spettinati e gli occhi scuri, non molto alto, non palestrato.
«Oddio, scusami, non ti avevo visto» le sue inutili scuse vengono però interrotte da un secondo ragazzo.
«Tom, quanto ci stai mettendo a...? » si interrompe, vedendo il disastro causato dal suo amico.
In un primo momento non faccio molto caso al secondo ragazzo, ma poi riconosco quegli occhi tremendamente blu, quei capelli biondi, quel viso... è “Nat”, o, meglio, Nathan Harris.
«Ehi, guarda un po’: la rossa irlandese» dice «Il mare è da quella parte, comunque» aggiunge con quello che sembra un ghigno divertito.
«Divertente, molto divertente. Il tuo amico mi ha fatto una bella doccia fredda con la mia bottiglietta d’acqua» lo informo piuttosto acida.
«Mi sono già scusato...» scrolla le spalle come se nulla fosse.
«E sai cosa me ne faccio delle tue scuse?!» gli punto il dito contro.
Okay, avrò io qualche complesso strano in testa, ma se c’è una cosa che detesto categoricamente è essere bagnata in questo modo.
«Ehi, calma, piccoletta, ti ha solo bagnato» sono certa che mi sta prendendo per i fondelli, con quel suo tono beffardo e quel ghigno perennemente stampato in faccia.
«Solo bagnato? Come pensi che faccia ora? Certo, ovvio, vado in classe con la divisa fradicia. Perché non ci ho pensato?» dico con sarcastica amarezza.
«Tom, l’hai fatta grossa eh. Ora questa verrà a maledirti la notte» bisbiglia al moretto, che mi guarda alquanto allarmato.
«Maledirò entrambi, se non la finisci! E non credere che non ti senta» me ne vado al tavolo, senza bottiglietta.

Quando torno al tavolo, Dawn e Summer mi guardano con aria interrogativa.
«Che è successo?» mi chiede Summer.
Inizio così a raccontare della mia spiacevole disavventura con la bottiglietta e dell’intervento di “Superman Nat”, che non ha migliorato la situazione.
«Non ti preoccupare! La prudenza non è mai troppa, per me. Per questo tengo sempre nell’armadietto una seconda divisa di ricambio! Se vuoi te la presto, anche se forse ti starà un tantino grande» propone Summer.
Acconsento, così quando finiamo di pranzare, va a prendere la sua divisa di ricambio e me la porge.
Dopo essermi cambiata in bagno, metto la divisa bagnata in una busta di plastica che tengo nello zaino (non si sa mai, potrebbe servire sempre).
In realtà Dawn aveva ragione: mi sta un pochino larga ai fianchi e sulla vita, non che Dawn sia grassa, anzi, è piuttosto magra, ma io ho una corporatura più minuta della sua.
«Dai, non si nota così tanto che non è della tua misura» commenta Summer.
Alzo le spalle rassegnata e andiamo in classe.

* * *

Alla fine delle lezioni, è ora di tornare a casa.
Nonostante avessimo in comune queste due ore, non ho ancora visto Summer uscire.
Peccato, vorrà dire che andrò a casa da sola.
A piedi, già.
Mio padre stamattina, prima che andasse a lavorare, ha detto che dato che la scuola è abbastanza vicina, muovere le gambe non mi farà di certo male.
Mia madre inizialmente si è opposta, poi a malincuore ha acconsentito.
Quindi, ora, mi ritrovo qua, poco fuori dal cancello principale, per tornare a casa.
«Eccola, è lei» alzo lo sguardo e mi ritrovo tutt’un tratto quattro ragazzi davanti.
Ma chi è che ha parlato?
«Scusate, dovrei passare» dico, notando che uno dei quattro ragazzi è il signorino dagli occhi blu.
«Attenti, ragazzi, questa ci maledice la notte, eh» ancora questa storia della maledizione? Ma cos’ha di sbagliato?
«Non sforzarti, non sei divertente. Punto e stop» roteo gli occhi incrociando le braccia per mostrare loro che sono piuttosto scocciata.
Noto che uno dei quattro sta fumando.
Anzi, no, una sigaretta ce l’hanno in mano tutti, ma sembrano consumate.
Ciò che mi da più fastidio è l’orribile odore di fumo proveniente da esse.
«Simpatica e carina come ci avevi detto» dice uno a “Nat”, sempre abbastanza palestrato, capelli scuri con ciuffo all’insù e occhi di un verde poco definibile.
Un attimo, però... ho sentito bene? Ha detto “come ci avevi detto”?
Ciò vuol dire che il signorino occhi blu ha parlato di me alla sua cricca “non esattamente sinonimo di affidabilità”?
«Ehi, Cole, vacci piano. Avrà sì e no dodici anni» lo schernisce Nathan ridendo.
Cosa? Dodici anni? Forse non hanno ben chiaro che è una scuola superiore...
«Mi spiace deluderti, ma avrei un paio di accorgimenti per una povera mentecatta come te. Punto primo: ho quasi quindici anni. Punto secondo: sveglia! Siamo in una scuola superiore e non potrei avere dodici anni, dovresti saperlo. C’est clair?» rispondo con tono beffardo.
Quelli che dovrebbero essere i suoi amici ridono alla mia affermazione, nonostante non mi sembri una battuta così divertente.
«Molto divertente, rossa. Davvero molto divertente» risponde, con un tono piuttosto irritato, probabilmente dal momentaneo “tradimento” dei suoi compari.
«Nat, finiscila di rompere le palle alla nuova arrivata, è il suo primo giorno e già ti fai detestare» entra in scena Drew, sbucato da chissà dove.
«Oh, ma guarda chi abbiamo, il salvatore degli innocenti. Superman, ottimo tempismo» lo schernisce Nathan.
«Finiscila di sparare cazzate, Nathan Harris. Perché non vai a divertirti con le tue amiche, invece?» a quella domanda, Nathan scoppia in una lauta risata, tanto che la sigaretta ormai consumata gli cade dalle dita.
«Senti senti chi parla di “amiche”... ti prego, Drew, non spararle te le cazzate» lo canzona l’altro biondo.
«Finiscila Nat, sei detestabile a volte – poi si rivolge a me – Come ti ho già detto, Brooke, è solo un deficiente, fa sempre così con i nuovi arrivati» dice Drew.
«Brooke? Bel nome...» commenta Nathan con il solito ghigno «Io sono Nathan, ma l’avrai già capito, dato che questo individuo – indica Drew – ha fatto la spia prima del dovuto»
Annuisco, per poi prendere ed andarmene alla prima occasione disponibile.

Guardo l’orologio: accidenti! Sono le quattro!
Ho perso mezz’ora buona a “chiacchierare allegramente” con Nathan e la sua combriccola di fumati.
Bene, il primo giorno è andato.
Diciamo che mi aspettavo esattamente qualcos’altro, che so, gente accogliente e premurosa... non chiedo un banchetto, per carità.
Beh, chissà come se la passano Doreen e Hattie in Irlanda.
Meglio di me, sicuramente.


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Note autrice:

Eccomi qua con il nuovo capitolo.
Come avrete sicuramente capito, serve ad introdurre per lo più nuovi personaggi come Summer o Tom.
Vi siete già dimenticati di Tom?
Spero di no, perché non avrà un ruolo così marginale più avanti.
Bene, ringrazio innanzitutto chi ha messo la storia nelle preferite e seguite, mi fa davvero piacere :)
Aspetto qualche recensioncina, per sapere cosa ne pensate ;)
Per qualunque tipo di domanda sulle mie storie o altro, ho un profilo interamente dedicato alle mie storie di EFP su Facebook (http://m.facebook.com/poppy.annieefp?refid=18).

Ho anche aggiunto il banner, vi piace?
Sono sicura che l'avrete capito, ma la ragazza in mezzo è Brooke, il ragazzo alla sua destra è Drew, mentre quello a sinistra (quello a "testa in giù" diciamo xD) è Nathan.
Ringrazio Krystal Darlend per averlo realizzato *-*
Ecco il link della sua pagina Facebook dedicata alla creazione di banner, dateci un'occhiata ;)
> Peerless graphic <
(Cliccate sul nome e vi si aprirà la pagina)

Detto questo, spero continuerete a seguire la storia :)


Annie.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo 3.


Ore 7.45: mi dirigo con passo più svelto che mai a scuola, sperando seriamente di non essere in ritardo.
Insomma, è ancora la mia prima settimana e se arrivassi in ritardo potrei farmi la reputazione di “quella che arriva sempre in ritardo” e ciò non sarebbe per niente piacevole, insomma.
Arrivo finalmente davanti al grande edificio ed entro, sospirando di sollievo per non essere arrivata tardi.
Appena entro in classe, noto con piacere che l’insegnante di storia non c’è ancora e così cerco un posto dove sedermi... allora, prima fila: occupata interamente...
Seconda fila: mmh, quel posto è libero? No, aspetta, sono tutti occupati anche qui...
Terza fila: occupata anche questa... com’è possibile?
Le cose peggiori sono che quest’ora non la ho in comune né con Dawn, né con Summer e che ho gli occhi di tutti puntati addosso, come il primo giorno.
Ad un tratto, scorgo in penultima fila un posto vuoto, a fianco di un moretto a prima vista non altissimo né palestrato.
Aspetta, aspetta... ho l’impressione di averlo già visto, ma forse mi sbaglio.
Essendo l’unico posto libero, non ho molta scelta, così mi siedo, proprio due secondi prima che entri l’insegnante.
«Buongiorno, ragazzi. Prendete il libro di storia a pagina 238...» sentenzia l’insegnante, appena entrata.
«Ma certo!» improvvisamente ricordo dove ho già visto questo ragazzo che ho a fianco: è quel demente che mi ha urtato, facendomi bagnare la divisa!
«Signorina Doyle, vuole dire qualcosa a proposito della guerra di secessione americana?» mi chiede l’insegnante, una donna sulla cinquantina abbondante, dai capelli ancora castani (con qualche ciocca biancastra che probabilmente crede non si veda) gli occhi scuri vigili e attenti con un paio di occhialetti pince-nez e un tailleur grigiastro, notando la mia esclamazione involontaria.
«Ehm, no, mi scusi... stavo pensando ad alta voce» rispondo, accorgendomi di essermi appena resa ridicola davanti a tutti.
La cosa buffa è che sarebbe la seconda volta che quel moretto mi procura guai.
«Grazie ancora, “Tom” o come accidenti ti chiami» borbotto a bassa voce.
«Thomas Woodson, veramente» si presenta quello, sentendomi.
«Beh, “Thomas Woodson”, ti ringrazio nuovamente per avermi aiutato a rendermi ridicola davanti a tutti» ripeto, seccata.
«Beh, davvero non so di cosa tu stia parlando» dice, con aria interrogativa.
«Semplicemente quando sono entrata e ti ho scorto mi ricordavo di averti già visto da qualche parte... poi ho capito dove e ho esclamato inconsapevolmente “ma certo!” e mi sono resa ridicola. Tutto per colpa tua» rispondo tutto d’un fiato sottolineando bene l’ultima frase, mentre mi guarda divertito.
«Ho capito, ho capito... ti ho chiesto già scusa per la storia della bottiglietta, però» si giustifica.
«Beh, con ciò che vorresti dire? Certo, cosa importa se io, appena arrivata a metà anno per giunta, mi faccio già da subito la reputazione di “quella strana”?» rispondo io, sarcastica.
«Ma tu sei “strana”, almeno per la mentalità di Nat... me l’hanno detto che bello spettacolino hai fatto l’altro giorno, sai?» mima le virgolette con le dita alla parola “strana” e il suo tono è quasi beffardo... poi, di quale spettacolino starebbe parlando?
«Che spettacolino, scusa?» chiedo, alzando le sopracciglia.
«Uhm, quando hai risposto per le rime a Nat... Cole e gli altri hanno riso di gusto, credo che Nat non l’abbia dimenticato, però» scrolla le spalle.
Una piccola domanda mi sorge: perché finisco sempre per cacciarmi nei guai, qualunque cosa io faccia? Insomma, non mi pare di aver avuto mai così tanta sfortuna in una volta sola!
«Tu sei, diciamo, amico di Nat?» gli chiedo d’un tratto, giusto per capire cos’ha a che fare lui con il biondino.
«Beh, sì... diciamo che all’inizio mi considerava un ragazzino da sfruttare e basta, insomma sono più giovane dei suoi tirapiedi e non sono praticamente nessuno a scuola... per farmi una reputazione volevo entrare nelle loro grazie e quindi...» risponde, un po’ titubante.
«Insomma, in breve: sei il loro “schiavetto” tuttofare» concludo la frase per lui, in tono asciutto e senza sfumature.
«Detta così sembra un po’ crudele, ma... credo tu abbia ragione» ammette, abbassando gli occhi scuri.
Per questo ragazzo c’è una sola parola per descriverlo: debole.
Insomma, lasciarsi sfruttare solo per entrare nella combriccola di ragazzi più chiacchierata della East Coast High School mi pare un po’ esagerato... saranno anche così conosciuti come dice, ma insomma, la dignità dov’è finita?!
Scuoto la testa, incredula.
La campanella suona e mi accorgo di non aver seguito per niente la lezione di storia, avendo chiacchierato con lo schiavetto di Nathan e la sua cricca.
Sembra crudele detta così, aveva ragione Thomas... ma, dopotutto è la pura verità, no?
L’ora successiva c’è educazione fisica.
È la prima volta che la faccio alla scuola nuova, spero non faccia sgobbare troppo.
Arriva l’insegnante: è un uomo, sui trent’anni, almeno credo, con tanto di tuta blu scuro con righe sui lati.
Andiamo in palestra, dove ci si cambia per la lezione.
Ovviamente, la tuta è fornita dalla scuola a pagamento, proprio come la divisa: consiste in una maglia bianca con qualche riga blu e lo stemma della scuola cucito sopra e dei pantaloni che riprendono il colore delle righe sulla maglia, con anche qui lo stemma cucito.
Le scarpe sono ovviamente sportive.
Quando tutti siamo cambiati, finalmente usciamo dagli spogliatoi per andare in palestra.
La palestra è davvero molto grande, ha ben due campi che possono essere usati per giocare a vari sport: il primo per giocare a calcio o pallavolo (date le due porticine per fare goal e la rete montabile), mentre il secondo per il basket, dato che vi sono due canestri.
Proprio nel campo di basket, c’è infatti la squadra della scuola che si sta allenando.
«I ragazzi della squadra di basket si stanno allenando, per cui utilizzeremo l’altro campo. Vedo che ci siete tutti, quindi iniziate a correre lungo il perimetro del campo, per riscaldarvi» sentenzia il professore.
Iniziamo così a correre lungo il campo, mentre la squadra di basket si allena nell’altro campo simulando una partita.
Mi accorgo d’un tratto che, proprio tra i ragazzi della squadra di basket ce n’è qualcuno che mi è abbastanza familiare... sì, è lui di sicuro: i capelli sono quelli, la struttura fisica anche per cui non c’è dubbio: è Drew Jones, quello “a posto”.
Mi giro davanti, però, per vedere dove sto correndo, altrimenti potrei urtare qualcuno e fare l’ennesima figuraccia.
Prima che possa rendermene conto, però, qualcosa mi arriva in testa e mi fa letteralmente cadere.
«Ahi!» con una mano tasto la parte colpita in testa, notando che vi è un piccolo rigonfiamento.
A terra, accanto a me, vi è una palla da basket.
Perfetto, sono stata colpita da una palla da basket, vorrei tanto sapere chi è quell’idiota che l’ha lanciata proprio dalla mia parte.
«Nat, guarda che cos’hai fatto! » grida una voce, che si sta avvicinando.
Aspetta un secondo... ho capito bene o sto diventando pian piano sorda?
Ha detto “Nat”?!
Cioè, quel “Nat”?
No, sarà un altro, suvvia... dopotutto non è l’unico di questa Terra a chiamarsi Nathan.
Sì, certo, Brooke, aspetta e spera... aspetta e spera.
«Brooke! Ti sei fatta male?» mi chiede poi Superman, il salvatore degli innocenti, meglio conosciuto come Drew Jones, interrompendo il filo dei miei pensieri e della voce della mia coscienza.
«No, solo un lieve bernoccolo» indico il punto interessato, mentre mi alzo.
«Te l’avevo detto che non s’era fatta nulla, tante storie per niente...» sbotta un’altra voce, questa volta appartenente all’altra faccia della medaglia – rispetto a Superman – meglio conosciuto come Nathan Harris.
«Suppongo sia tua» dico asciutta, lanciando a quell’individuo la palla da basket.
«Supponi bene, rossa» borbotta prendendola.
«Credo che tu debba delle scuse a Brooke» lo rimprovera Superman-Drew.
« “Credo che tu debba delle scuse a Brooke” – dice imitando esageratamente la voce di Drew, rendendola quasi effeminata – insomma, chi sei? Superman? Ma non farmi ridere, Drew» lo schernisce Nathan.
«Beh, scusalo, è nato così purtroppo, che ci vuoi fare?» scrolla le spalle guardando male Nathan, mentre sento qualche risolino provenire dalla squadra di basket e dalla mia classe intenta a correre, ma lascio perdere.
«Doyle, Harris, Jones, che è successo?» il professore arriva, con lieve ritardo, ma arriva... com’è che si dice? Già, meglio tardi che mai.
«Harris si è lasciato per sbaglio sfuggire la palla che ha colpito la studentessa Doyle, ma è tutto a posto, adesso, professor Gray» spiega Drew, mentre il professore annuisce alle sue affermazioni.
«Se è tutto a posto, può tornare a correre, Doyle e voi potete tornare ad allenarvi con la squadra» risponde infine.
Torno così a correre, sotto gli sguardi inconsueti e curiosi dei miei compagni di classe, in particolare delle mie compagne di classe...
«Ehi, non credevo avessimo anche quest’ora in comune» una voce vagamente già sentita mi arriva da dietro.
«Oh – sbuffo – Thomas»
«Secondo me Nat non l’ha fatto così per caso... » borbotta fra sé, mentre corre.
«Che intendi?» chiedo stranita.
«Oh, nulla... potrebbe semplicemente avertela tirata di proposito... sai, se c’è una cosa che sanno bene tutti di Nathan Harris è che deve sempre averla vinta lui» lo dice come se fosse la cosa più giusta di questo mondo, come se fosse un dogma che per nulla al mondo dovrebbe essere infranto.
«Sei ridicolo» sbotto improvvisamente, dando voce ai miei pensieri.
Thomas increspa lievemente le labbra, con fare interrogativo.
«Perché lo fai? Lui non ha mai fatto nulla per te, o sbaglio?» inaspettatamente il mio senso della giustizia per gli altri, dormiente da quasi quindici anni, si sveglia di soprassalto chiedendo venia per tutte le sue assenze.
No, vabbè, non voglio fare la “paladina della giustizia” o come caspita si chiamano, soltanto voglio capire e comprendere il motivo di tanta dedizione a voler diventare uno di quelli.
«Non importa. Ma dimmi... tu sei veramente irlandese come dicono, giusto?» cambia argomento, forse perché nemmeno lui è tanto convinto di dover qualcosa a Nathan, ma evidentemente ammetterlo davanti ad una che hai conosciuto oggi (ma che avevi bagnato qualche giorno prima) non è il massimo, già.
«Sì, certo» rispondo, non capendo minimamente cosa possa importargli.
Dopo qualche domanda buttata giù di sana pianta sulla mia bella nazione, la lezione di educazione fisica passa anch’essa in fretta e, stranamente, mi pare che ora quell’individuo che pochi giorni fa mi ha infradiciato in modo imperdonabile, non sia poi così antipatico... solo un po’ debole, ecco.

* * *


Dopo un’altra ora, precisamente di astronomia, finalmente ecco l’intervallo.
«Brooke, eccoti! È tipo un giorno che non ti vediamo... accidenti a questi orari!» una voce femminile mi distrae dai pensieri che occupano la mia mente in questo momento.
Sono Dawn e Summer, sorridenti come al solito.
«Allora... per la scuola corre voce che tu abbia avuto un piccolo incidente con Nathan...» ammicca Dawn, in cerca di spiegazioni plausibili dalla sottoscritta, mentre Summer scuote la testa.
«Cosa? Corre voce? E da chi?» tutto quello che riesco a dire è questo, incredula.
Insomma, un’altra volta di me si parla?
Ma, poi, com’è possibile? Sono qui da qualche giorno soltanto , accidenti! Non credo di aver fatto mai nulla di “compromettente” per la mia reputazione da “assoluta anonima” quale ero.
Sì, Brooke, ti piacerebbe.
La mia coscienza mi schernisce sarcastica, ricordandomi i vari “incidentelli” (se mi permettete di storpiare una parola a mio piacimento) dei giorni scorsi: il battibecco del primo giorno, molto allegro direi. Senza contare il mio fiocco “perfetto e ordinato”, anch’esso del primo giorno.
Poi? Ah, ovvio: la bottiglietta d’acqua, sempre del primo fatidico giorno.
E oggi si è aggiunto anche “l’incidente della palla da basket”.
Dovrei scriverci un libro su questo argomento: “Figuracce per tutte le occasioni – il volume completo” di Brooke Doyle.
Avrebbe successo, me lo sento.
Dopo questa “mandria” (letteralmente!) di pensieri, pensati nel lasso di tempo nel quale ho risposto, con una serie di domande, tra l’altro, a Dawn e la sua altrettanta soddisfacente risposta (una buona alzata di spalle, per intenderci), spiego per bene cos’è successo, in modo da dare la vera versione dei fatti, cosicché se qualcuno mai sentisse (o se Dawn avesse la brillante idea di fare la brava pettegola) e avesse la tentazione di spiattellare ai quattro venti le mie parole, almeno racconterebbe la vera, la mia, versione dei fatti... nemmeno fosse una notizia così eclatante da far girare la Terra nel senso opposto, accidenti, è semplicemente stato un incidente (anche se, rammentando le parole di Thomas, forse non è stato poi così incidentale...) di poco conto, ecco tutto.
«Capisco, capisco... beh, non ti crucciare, Brooke, semplicemente che, quando c’è di mezzo Nathan Harris, tutti, o meglio, tutte vogliono sapere ogni particolare...» mi spiega Dawn con aria risoluta.
«... e tra quel “tutte” ovviamente ci sei anche tu» commenta Summer, con tono di scherno.
Summer mi guarda in modo eloquente, ed evidentemente capisce che avevo le sue stesse parole sulla punta della lingua, pronte per uscire perché, si sarà capito, ma il sarcasmo è una delle mie materie preferite.
«Ma che dici, Summer? Io agisco nel più sincero interesse verso il giornalismo e l’informazione, lo sai» risponde Dawn, con aria di sedicente superiorità.
Summer fa una smorfia, scettica, ma non ribatte.
Eh, sì, ora capisco perché Dawn è così informata sugli studenti della East Coast High School: è una di quelle ragazze amanti del giornalismo, gossip e vari.
Non è così pettegola come pensavo, anche se a volte forse farebbe meglio a cucirsi la bocca per bene, ma nonostante ciò è molto affabile e ascolta volentieri.
Summer è, direi, anche lei curiosa, nonostante non lo ammetta pubblicamente, perché ho notato che spesso intima Dawn a chiudere la bocca, ma alla fine è lì ad ascoltare vagamente curiosa; in compenso è una piuttosto sportiva, come già avevo capito, perché oltre che praticare la miriade di sport scolastici, spesso fa anche surf, e neanche male, almeno detto da lei.
Dopo un altro piccolo battibecco tra le due, che discutono sull’utilità o meno del “giornalismo fatto in casa” di Dawn (come lo ha definito seccamente Summer), chiedo loro se conoscono nientemeno che Thomas Woodson.
«Thomas Woodson, dici? Uhm... sì, sì, è quello un po’ più basso dei suoi compari, capelli e occhi scuri, giusto?» Summer sembra specializzata in “descrizioni vaghe, ma comprensibili”, a quanto vedo.
Annuisco, mentre Dawn mette la mano sotto il mento, mentre probabilmente sta riflettendo.
«Ma certo, ma certo! Diciamo che lo utilizzano più come... uhm, come potrei definirlo...?» mentre pensa alla parola più adatta, le vengo in aiuto: «Schiavetto tuttofare?» il mio tono è talmente sprezzante, che Dawn mi guarda in modo interrogativo.
«Sì, dai, ci ho fatto quattro chiacchiere oggi, contenta?» ammetto, sapendo che è effettivamente ciò che Dawn aveva intuito, ma, stranamente, non aveva chiesto esplicitamente.
«Beh, mi hanno detto che non è il massimo della simpatia... più che altro è poco obiettivo nel giudicare i suoi “amichetti del cuore” » mi spiega Dawn, mimando le virgolette con le dita.
«E chi te l’avrebbe detto, tanto per sapere?» chiede ironica Summer, guadagnandosi una bella occhiataccia dalla bionda.
«Le mie fonti sono al cento per cento attendibili, mia cara “miss-non-mangio-carne”» le risponde Dawn stizzita.
Insomma, dopo questa risposta, come è facile immaginare, ecco che inizia una nuova discussione dal tema altamente intellettuale, ovvero sull’essere o meno vegetariani, o “erbivori”, come dice Dawn per schernire l’amica.
Mi ricordano un po’ Lauren e Hattie.
E’ molto che non penso a loro e all’Irlanda, ma chissà cosa fanno.
Probabilmente le stesse cose di prima, no?
Ecco, nuovamente la mia coscienza viene a “dire” cose talmente ovvie da far quasi sospirare.
Lì, in Irlanda, la scuola che frequentavo non era così piccola come magari qualcuno immagina, ma certamente non ero “sotto i riflettori” solo perché parlavo con una certa persona e più o meno quasi tutti ci conoscevamo, ovviamente chi approfonditamente e chi in modo superficiale e solo “di vista”.
Come ho detto, non era poi così piccola, ma non per questo si ignorava la presenza di mezza scuola, ecco.
Lauren adorava il giornalismo, un po’ come Dawn, anche se il suo genere erano le ultime novità in fatto di moda, più che i gossip di Dawn.
Hattie invece, no, non era vegetariana , però era un po’ come la controparte di Lauren: lei preferiva le cose semplici e “naturali”, abitava in un paesino di campagna vicino Dublino ed era costretta a fare un bel viaggetto ogni giorno per andare alla St. James West Dublin High School, ma non ne soffriva, anzi, diceva spesso che il paesaggio che da verdeggiante campagna piena di campi coltivati di ogni tipo di verdura, diventava pian piano un’asfaltata stradina di città era quasi suggestivo.
Ovviamente preferiva il paesaggio di campagna, ma anche la “metropoli” non le dispiaceva così tanto.
Insomma, alla fin fine mi sto quasi abituando a questo posto soleggiato.
Notare bene: ho detto quasi, ecco, perché sicuramente qui le strade non bazzicano di pub tipici, anche se io non ci entravo quasi mai, ma rendevano lo sfondo cittadino caratteristico, ecco tutto.
La campanella che segna la fine della pausa ricreazione suona, interrompendo i miei pensieri e i miei ricordi.
Ecco, per fortuna ho un’ora in comune con Dawn, biologia, precisamente, mentre Summer ha inglese.
Dopo biologia, invece, ho educazione artistica.
Sfortunatamente Summer e Dawn hanno ore che non coincidono sempre con le mie, già, e spesso non coincidono nemmeno tra loro.
Finalmente anche la campanella che segna l’inizio della pausa pranzo suona ed io mi dirigo in mensa, con un nuovo panino (questa volta con prosciutto, però) preparato da mia madre.
A differenza della prima volta, in mensa oggi tutto fila liscio e tranquillamente, tra le chiacchiere sui vari studenti di cui ignoro l’esistenza e il ribrezzo di Summer verso il mio sandwich.
Insomma, come al solito il tempo vola, oserei dire, e io mi dirigo nuovamente a lezione con Summer (dato che condividiamo quest’ora di algebra, mentre la prossima, inglese, la condivido con Dawn).


* * *


Due orette passano in fretta tra chiacchiere e teoria, così mi ritrovo fuori dal cancello principale della scuola.
Da sola, esatto.
Sì, perché Dawn è sparita misteriosamente prima che potessi chiederle qualunque cosa.
Strano, chissà dov’è andata... di solito(più o meno) mi aspetta all’uscita con Summer.
Improvvisamente rammento di nuovo le parole di Thomas sul “piccolo incidente” durante la lezione di educazione fisica... già, chissà se l’avrà o meno fatto apposta.
Non lo conosco ancora bene, ma so quel che basta per sospettare... insomma, è talmente ovvio: lui ha la palla in mano, poi sbaglia apposta la direzione in cui la lancia (mirando appunto al punto in cui stavo correndo io), giustificandosi con un semplice: “Mi è scappata di mano”, poi la palla mi finisce in testa e io cado.
Semplice, no?

I miei pensieri vengono però interrotti da qualcosa... qualcosa di strano, una figura dai capelli chiari e lunghi, dietro una grande pianta.
Mi avvicino lentamente, a passi leggeri, per non farmi vedere e, finalmente, riesco a vedere cosa c’è effettivamente dietro alla pianta... sì, avevo ragione, è una ragazza dai capelli biondi e mossi, ma è voltata e non riesco a vederle il viso... eppure io quei capelli li ho già visti, ne sono certa.
C’è anche qualcun altro davanti a quella ragazza... mi sposto leggermente, per poter vedere meglio, ma sempre stando attenta a non calpestare qualche ramo che segnali la mia presenza.
Finalmente riesco a vedere chi ha davanti la ragazza... è un ragazzo, anch’esso dai capelli biondi, con un taglio che mi è piuttosto familiare...
È una visione un po’ strana, sì, considerando che sono alla prima settimana potrei aspettarmi di tutto adesso.
Ma la cosa più incoerente è decisamente cosa stanno facendo, considerando chi sono i due in questione.

Improvvisamente tutti i miei preconcetti vanno rivistati.

 
Nathan Harris e Dawn Johnson si stanno baciando.

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Note autrice

Ehi, non sono scomparsa, no, ero partita per due settimane per la Sicilia, senza Internet e sono tornata proprio oggi, ma per farmi perdonare ho fatto un capitolo un pochino più lungo... allora, che dite?
Il colpo di scena ha fatto effetto o devo rassegnarmi? xD
A parte gli scherzi, cosa farà ora Brooke?
Adesso, tutto si è scombussolato per lei.
Ah, come avevo detto in precedenza Tom non avrà un ruolo così marginale, in questo capitolo lo abbiamo conosciuto meglio infatti.

Un grazie speciale a Holy Ros che ha realizzato un fantastico trailer per la storia :)
Eccolo:

www.youtube.com/watch?v=8lbXvAWZffo

Nel video c'è qualche spoiler, non dico dove ovviamente u.u
Un buon occhio vigile potrebbe notare qualcosa... anche se a rendere le cose più difficili c'è il fatto che il video è quasi tutto in bianco e nero :)
Ah, un'altra cosuccia: il mio carissimo PC mi ha abbandona
to, di conseguenza
non so quanto ci metterò a scrivere il prossimo capitolo.
Alla prossima, comunque!


Annie.

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