The little hurricane

di R e v a m
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'arrivo dell'uragano ***
Capitolo 2: *** E l'inizio della...guerra ***
Capitolo 3: *** E la fine, di già. ***
Capitolo 4: *** Tutta colpa dei gessetti ***



Capitolo 1
*** L'arrivo dell'uragano ***


 Samuel varcò la soglia di quell’istituto con la faccia di chi, di lì a poco, sarebbe stato sbattuto dentro le sbarre per un crimine che non ha commesso. Non aveva davvero voglia di rivedere le solite facce che l’avrebbero guardato con sospetto e diffidenza come da due anni a questa parte. Quell’estate aveva lavorato a tempo pieno nel ristorante di suo zio, e ci sarebbe rimasto volentieri anche per la stagione invernale se sua madre non l’avesse pregato quasi in ginocchio per farlo tornare a scuola. Come se servisse a qualcosa, alla fine. La sua vita sarebbe continuata in quello stupido paesino e una volta finito il liceo sarebbe stato assunto come dipendente fisso al ristorante. Perché non iniziare subito, allora?
Domanda stupida: perché tutti quelli che mollavano la scuola prima di averla finita sarebbero diventati delinquenti come suo fratello, a detta di sua madre. E lui avrebbe dovuto essere il figlio perfetto che Alessandro non era stato.
Peccato che di perfetto non avesse proprio un bel niente, Samuel.
Si poggiò ad un albero nel cortile davanti all’edificio e si accese una sigaretta, mentre guardava i gruppetti di studenti raggrupparsi pian piano. Lui difficilmente arrivava in anticipo, ma il caldo soffocante d’inizio Settembre non gli permetteva di dormire per tutta la notte, e invece di stare in casa ad ammazzare le mosche come passatempo aveva deciso di fare uno sforzo e di mettersi addosso qualcosa di decente per andare a scuola. Come se volesse fare bella impressione sugli altri.
Gli spuntò un sorrisetto amaro sulle labbra. Che cazzata.
Pian piano qualcuno iniziò a notarlo. In effetti, tutto solo poggiato ad un albero a fissare le persone, poteva sembrare un maniaco o un pervertito, ma ben presto lo riconobbero e, come ogni anno, le voci iniziarono.

Ma è tornato a scuola?
Non era stato bocciato già due volte?
Sta ancora con quei tipi dell’Old West?
Fra poco raggiungerà il suo fratellino!
Meglio stare alla larga dai tipi come lui.

Già, meglio che quei bambocci figli di papà stessero alla larga da un tipo che aveva il fratello in carcere, che viveva in quella che per loro era una catapecchia e che frequentava gentaccia e locali della parte brutta della città. Peccato, era davvero un peccato che non vestisse ogni giorno con abiti firmati e che non avesse voti eccellenti per entrare in una delle migliori università d’Italia. Peccato che non avesse i soldi che gli uscissero dal culo e che la sua famiglia non fosse perfetta come quelle di quei bambocci che da soli non avrebbero saputo neanche allacciarsi le stringhe delle scarpe.
Ma almeno non aveva la puzza sotto il naso come loro.
Appena suonò la campanella buttò la sigaretta per terra e la spiaccicò col tacco della scarpa, poi corse dentro spintonando di tanto in tanto con la spalla qualcuno che gli passava troppo vicino. Se proprio doveva essere detestato, che almeno avessero un buon motivo.
Purtroppo si ritrovò a vagare sconsolato in cerca della sua classe, senza trovarla. Avrebbe chiesto volentieri ad un bidello se ce ne fosse stato uno, ma non se ne vedeva l’ombra neanche da lontano.
<< Possibile che ti perdi ogni anno? >> Quella voce e una pacca sulla spalla lo fecero voltare di scatto, già pronto ad una possibile rissa, ma si fermò con piacere alla vita di quel cespuglio di capelli che lui chiamava amico.
<< Ma guarda chi si rivede, il genio è tornato! Degni ancora noi comuni mortali della tua presenza? >> Gli sorrise e gli mise un braccio sulle spalle, continuando a camminare.
<< Vi faccio solo del bene, credimi. >>
Samuel, ridacchiando, si accorse che Luca era diventato più alto in quei tre mesi. E forse anche il suo cespuglio di capelli era diventato più folto. Avrebbe dovuto raparlo, prima o poi. Pensava ogni anno ad un modo per tagliargli quei capelli, ma chiunque sapeva che il cespuglio di Luca era sacro e che non si sarebbe fatto mettere un dito addosso per nessuna ragione al mondo. Nei due anni trascorsi come suo unico amico, in quella scuola, aveva capito che quella era l’unica cosa a cui tenesse sul serio. Una volta aveva persino portato il genietto all’Old West, e i ragazzi avevano tentato di tagliargli qualche ciocca di capelli. Luca aveva dato un pugno a Michael dicendo di ficcarsele in culo, quelle mani. Da quel momento era stato etichettato come “cespuglio tutto pugno”, ma a Luca sembrava piacere.
<< Sai in che cazzo di classe siamo finiti? >>
<< 3°B. Dovrebbe essere al secondo piano. Allora, dove te la sei fatta quella cicatrice? >>
Samuel si sfiorò la cicatrice sulla guancia destra, poco distante dall’occhio.
<< Mio zio mi ha preso mentre gesticolava con il coltello in mano. E lui sarebbe quello che dovrebbe insegnarmi le sue doti culinarie, eh! >>
<< Sembri ancora più cattivo. >> Poi si voltò, ridacchiando sotto i baffi. << Prova a fare un sorriso? >>
Samuel lo guardò torvo, ma alzò gli angoli della bocca cercando di risultare il più simpatico possibile.
Subito dopo vide Luca scoppiare a ridere e sventolargli una mano davanti al viso.
<< Lasciamo perdere! >>
Samuel gli dette una spintarella e salirono al secondo piano, mentre gli altri studenti si affrettavano ad entrare nelle loro classi e qualcuno di tanto in tanto gli lanciava un’occhiataccia o si scansava per farli passare, intimorito. Non era proprio cambiato niente.
Se ne sarebbe tornato a casa volentieri. Non è che si sentisse a disagio o triste perché i suoi compagni di scuola lo evitavano reputandolo un cattivo elemento. Non aveva più cinque anni. Solo che gli rodeva portarsi addosso le colpe di suo fratello e una reputazione che non si era guadagnato.
Mentre vedeva le faccette truccate delle ragazzine appena quindicenni che gli passavano accanto sculettando come papere e i ragazzi che stringevano le chiappe per non farsi uscire i soldi da ogni buco del corpo non desiderava altro che stare seduto ad un tavolo dell’Old West, a giocare a briscola con i ragazzi bevendo un po’ di birra. Ciò che faceva da quando aveva l’età per uscire da solo, alla fine.
Okey, doveva solo sedersi in classe, far finta di leggere e stare attento e quelle sei ore sarebbero volate in un batter d’occhio, sarebbe tornato a casa a farsi un sonnellino e poi dritto all’Old West, e dopo cena al ristorante. Cosa c’era di più facile?
<< Attenta, Becca! >>
Un tonfo. Samuel sentì un tonfo quando il suo sedere si spiaccicò per terra e la sua pancia venne colpita da qualcosa di duro che, abbassando lo sguardo, si accorse essere una testa. Un po’ spaesato cercò di scrollarsela di dosso, ma la testa stava lì, ciondoloni sopra la sua pancia, mentre il resto del corpo di quella che sembrava essere una ragazzina era fra le sue gambe. In quella posizione, in mezzo al corridoio, con la gente che si era fermata per guardare che cavolo stessero facendo. Che bella situazione.
<< E-ehi…? >>
La testa si alzò di colpo, facendolo sobbalzare. Era indemoniata?!
E dietro i capelli lunghi e neri vide che si nascondeva un visino carino, con due grandi occhi scuri che lo scrutarono aggrottando le sopracciglia.
Poi, come se si fosse accorta solo in quell’istante di essere seduta in mezzo alle gambe di un ragazzo, si staccò dandogli una spinta sul petto e indietreggiando, per poi alzarsi in tutta fretta, non rivolgendogli neanche una parola.
Samuel, ignorando quel “ehi, si sono già scontrati!” che sentì provenire da qualcuno in mezzo alla piccola folla di gente che si era creta intorno a loro, si alzò a sua volta mettendosi difronte alla ragazzina, che constatò arrivargli a mala pena al petto.
<< Non usa più chiedere scusa? >>
Non ebbe neanche il tempo di dire un’altra parola o di fare un respiro in più, che la mano di quella nana da giardino si spiaccicò sulla sua guancia con tutta la forza che poteva possedere una bimbetta che non arrivava nemmeno al metro e sessanta. Staccò le cinque dita lasciandogli una stampa rossa bruciargli sulla pelle del viso. Sentì qualcuno emettere qualche verso sorpreso, altri ridacchiare.
Lui, quando si rese conto di ciò che era appena successo, voltò il viso e digrignò i denti.
<< Ma che cazzo stai- >> Gridò incazzato come una belva, prima che le parole gli morissero in gola quando vide quei grandi occhi scuri ricolmi di lacrime.
Rimase con la bocca mezza aperta e la voce che non voleva uscirgli dalla gola. Solo per delle stupide lacrime.
La ragazzina dopo qualche secondo iniziò a correre dall’altra parte del corridoio, per poi entrare nel bagno delle femmine, seguita da un’altra ragazza un po’ più alta di lei.
La folla iniziò a diradarsi e Samuel si riscosse dai suoi pensieri quando Luca si appoggiò a lui, costringendolo a spostare lo sguardo dal bagno.


<< Hai appena conosciuto il piccolo uragano della scuola: Rebecca Nieri. >>



 
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.Sproloquiando.

Ehilà! :) Dopo vari tentativi di pubblicare una storia decente e che piacesse sul serio anche a me –e che soprattutto non mi venisse a noia-, credo di aver trovato quella giusta. Questa volta sono davvero decisa a continuarla e a finirla. Questa mi appassiona, m’intriga, e questo primo capitoletto non è solo il frutto dell’ispirazione di un momento –spero.
Insomma, non è che abbia molte cose da dire…spero che come inizio vi abbia incuriosito!
 
 
 

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Capitolo 2
*** E l'inizio della...guerra ***


Greta continuava a sbattere il palmo della mano alla porta, spazientita. Quel bagno puzzava di pipì e Rebecca era là dentro da un quarto d’ora buono. Non ce la faceva davvero più.
<< Lo sai che siamo in ritardissimo, vero? >>
Nessuna risposta. Ma che diavolo le era preso?!
<< Smettila di fare la bambina, Becca!  >>
<< Ma che vuoi?! Lasciami sola! >>
Greta dovette trattenersi dall’aprire la porta con la forza e prenderla per i capelli per trascinarla in classe. Avrebbe dovuto farlo veramente, ma voleva che la sua vita da perfetta liceale continuasse e non poteva di certo permettersi che i nuovi professori si facessero una cattiva opinione di lei già dal primo giorno di scuola.
Fece un sospiro profondo e  poggiò la fronte al legno duro e freddo della porta. Chiuse gli occhi. C’era un silenzio rilassante. Da fuori si sentiva il vociferare e il rumore di passi di chi correva per raggiungere abbastanza velocemente la propria classe, ma riuscì comunque ad avvertire il singolare suono di un singhiozzo. Non c’era nessuno in quel bagno. E lei non stava di certo piangendo.
<< Becca…mi vuoi dire che succede? >> Chiese con dolcezza, e finalmente la ragazza rimosse il blocco che teneva chiusa la porta. Greta l’aprì lentamente, e abbassando lo sguardo notò la figura di Becca, poggiata al muro con le ginocchia al petto. S’inginocchiò davanti a lei e le prese le mani nelle sue, levandogliele dagli occhi ormai rossi e gonfi.
<< Non voglio entrare in classe con questa faccia. Tu vai, non voglio farti arrivare tardi. >> Nonostante avesse appena finito di piangere riusciva a parlare senza far trasparire il minimo segno di tristezza. Era sempre la solita.
<< Non fare la stupida. Lo sai che non ti mollerò un attimo finché non mi dirai che ti è successo. >>
Becca affondò lo sguardo nei suoi occhi, sorridendo teneramente. Delle volte si chiedeva che bisogno avesse dell’affetto dei suoi genitori, quando aveva Greta al suo fianco. L’unica persona che le era stata accanto per tutta la vita, prendendosi cura di lei come mai nessuno aveva fatto. E l’unica a cui riusciva ad esprimere tutto il suo affetto.
<< Il solito. Stavo solo cercando di contenere la rabbia. Lo sai che quando sono nervosa le lacrime scendono da sole. >>
Greta tirò fuori dallo zaino un fazzoletto e cominciò ad asciugarle gli occhi. << Tuo padre? >>
Becca annuì. << Non si farà vedere neanche per il compleanno di Sofia. Capisci quanto è stronzo? E io che dico a quella bambina? Erano mesi che non faceva altro che pensare a quanto sarebbe stato bello passare il compleanno con il suo papà. >> Strinse i pugni e lasciò che i muscoli del corpo si rilassassero, poggiandosi con tutta la schiena alle piastrelle del muro di quel bagno sporco e puzzolente.
Non sarebbe stato facile dirlo a Sofia. Sicuramente sua madre avrebbe lasciato il compito a lei, e quindi sarebbe toccato a lei anche vederla piangere e sbraitare come l’anno prima. L’unica cosa che davvero non avrebbe mai voluto, era vederla star male proprio il giorno del suo decimo compleanno. Lei non aveva un bel ricordo di quando aveva quell’età, dato che i suoi si erano lasciati proprio quando aveva appena compiuto dieci anni. Ma ormai poteva dire di essersi abituata a quel senso di solitudine e mancanza di attenzioni che quella separazione ingiusta e frettolosa le aveva fatto provare.
Per questo, delle volte, avrebbe voluto essere al posto di sua sorella: Sofia non aveva alcun ricordo di quando la loro era ancora una bella famigliola felice, ergo non poteva capire come fosse ritrovarsi all’improvviso fra avvocati e assistenti sociali, fra litigi e trasferimenti improvvisi. La figura di sua madre era stata sostituita da una balia finché non aveva raggiunto l’età per poter stare da sola e quella di suo padre era sparita a Milano. Con la sua nuova famiglia. Sofia era troppo piccola, a quel tempo, per potersi ricordare tutto questo.
Eppure, erano riusciti a farla piangere lo stesso. E in quel momento quella era la cosa che più la faceva incazzare.
Tanto da mettersi a schiaffeggiare la prima persona che le capitava a tiro.
<< Già, quel ragazzo… >> farfugliò, facendo bloccare Greta dal pulirle la faccia.
<< Eh? >>
<< Quello di poco prima. Sembrava arrabbiato. >>
Greta scoppiò in un’autentica risata, facendo aggrottare le sopracciglia di Becca. << Prima l’hai fatto cadere e poi l’hai schiaffeggiato, ci credo che era arrabbiato! >>
Rebecca sbuffò, incrociando le braccia al petto e arricciando le labbra. << Se fosse stato più attento non sarebbe successo niente. >>
<< Uragano… >>
<< Smetti di chiamarmi così, Grè. >>
<< Va bene, va bene. >> Trattenne un’altra risatina e Becca le dette un buffetto sulla fronte, alzandosi e scrocchiandosi le dita delle mani.
<< Dovresti chiedergli scusa. >>
La moretta, una volta che Greta si fu alzata, si mise sulle punte per raggiungere –a mala pena- la sua altezza e fissò gli occhi a due fessure. Greta le mise una mano sulla testa e la spinse giù, facendola tornare con i piedi per terra.
<< Dovresti davvero, uragano. O la gente ricomincerà a chiamarti così. >>
<< Che facciano quello che vogliono. >>
In risposta, Rebecca si beccò uno scappellotto degno di nota.
 
 
 
<< Uragano? >>
A Samuel non era proprio andato giù ciò che era successo quella mattina. Quando lui e Luca erano entrati in classe l’unica cosa che aveva visto era stata gente che parlottava guardandolo di sfuggita, come se lui fosse così stupido da non accorgersene neanche. Sapeva che l’argomento del giorno non era perché fosse ancora in quella scuola di ricconi o come mai non l’avessero ancora buttato fuori, ma che il delinquente della scuola era stato schiaffeggiato da una nana in gonnella. Che branco di cretini.
Si accese un’altra sigaretta, sedendosi sul terzo scalino delle scale anti-incendio. Luca lo imitò.
Fortunatamente almeno la prima ora era passata. Ne mancavano solo altre cinque. E pensare che i bimbetti di prima e seconda sarebbero rimasti solo la metà del tempo.
<< Davvero non ne hai mai sentito parlare? Quella che l’anno scorso fece un occhio nero alla Ceresi. >>
Jessica Ceresi era tutto ciò di sbagliato ci potesse essere al mondo. Era una tipa della 3°A che la dava via come il pane e che si atteggiava a ragazza dolce e gentile solo per fare la stronza alle spalle delle persone. Doveva ammettere che anche lui, il primo anno, ne era stato attratto -come ogni ragazzo l’avesse vista, dopotutto. Ma dopo averla baciata ad una festa ed aver scoperto poco dopo che lei l’aveva fatto solo per infilarlo nella sua lista di ragazzi –etichettato come “il poveraccio” -, era stato felice di vederla, l’anno prima, portare gli occhiali da sole anche in pieno inverno per nascondere il suo occhio nero.
<< È stata quel bassotto? >> Non credeva davvero possibile che quello scricciolo potesse essere riuscita a pestare la Ceresi, ma doveva ammettere che aveva una mano potente.
<< Non si sa perché, giravano tante voci. >>
<< E per questo viene chiamata uragano? >>
Luca rise. << Viene chiamata così perché il giorno dopo aver picchiato la Ceresi, venne chiamata nell’ufficio del preside perché i genitori di Jessica erano andati a lamentarsi, e sai cosa fece? >>
Samuel rimase in silenzio, in attesa di un continuo. Non che gliene fregasse molto degli attacchi d’ira di una ragazzina, ma…voleva sapere con chi aveva a che fare.
<< Ruppe la finestra tirandoci una scarpa sopra ed iniziò a lanciare per terra ogni cosa le capitasse sotto mano, urlando come una pazza. La dovettero portare via di forza, mentre scalciava per aria gridando che questa scuola fa schifo e che avrebbe voluto spazzarla via. Proprio come un uragano. >>
Samuel alzò un sopracciglio, buttando fuori il fumo dalla bocca. E lui sarebbe il delinquente da cui stare alla larga?
<< Forse ti ha preso di mira. >>
<< E che diavolo le avrei fatto?! >>
<< Non chiederlo a me. >> Rispose la testa a cespuglio, guardandolo con un sorrisino divertito sulla faccia.
Samuel chiuse gli occhi, poggiandosi alla ringhiera della scale. << Perché sento che la situazione ti diverte?  >>
Luca rise nuovamente, prendendolo per un braccio e tirandolo su. << Spegni quel coso, dobbiamo andare. >>
Samuel gettò la sigaretta a terra ed iniziò a camminare. Comunque, forse non l’avrebbe neanche mai più rivista e questo non poteva che rallegrarlo. Ne aveva già tanti di problemi, sia lì dentro che fuori, non gli serviva una rompiscatole isterica e dallo schiaffo facile fra i piedi.
Sbadigliò, portandosi una mano alla bocca, mentre la campanella che segnava l’inizio della seconda ora iniziava a suonare torturandogli le orecchie. Luca, oltre ad essere un genietto –sotto tutti quei capelli doveva avere un bel cervello- era sempre in tempo su tutto, come se fosse una specie di veggente o potesse prevedere le cose.
Per questo, quando all’entrata della sua classe vide quel che vide, lo maledisse nella sua testa per non aver predetto una cosa del genere.
Per non avergli detto che l’uragano si sarebbe ripresentato.
Si avvicinarono entrambi all’aula e Luca entrò alla svelta, lasciandolo solo davanti a quelle due ragazze che lo fissavano, una sorridente e l’altra…un po’ meno.
Stronzo, dopo ti ammazzo.
<< Dai, diglielo. >> La ragazza più alta, che si accorse essere quella che aveva seguito la nana nel bagno poco prima, sussurrò queste parole all’orecchio della sua amica, incitandola a dirgli qualcosa.
Che diavolo voleva dirgli?
Poi la spinse un po’ più vicina a lui, così Samuel dovette abbassare lo sguardo per guardarla meglio e l’uragano lanciò un’occhiataccia alla sua amichetta che non lasciava intendere nulla di buono, prima che quest’ultima sparisse dentro la classe.
Forse qualcosa in comune ce l’avevano: degli amici stronzi.
Poi bisbigliò qualcosa. Mosse appena le labbra, ma disse qualcosa. Solo che lo fece così piano che lui non riuscì a capire un cazzo. Ma sapeva parlare o era solo buona ad alzare le mani?
<< Che hai detto? >>
Lei lo guardò con astio, alzando la faccia e puntando gli occhi scuri in quelli blu di Samuel.
<< Ho detto scusa. >> Sputò, come se glielo avessero tolto dalla bocca con le pinze.
Wow.
Erano le scusa più false che avesse mai sentito in vita sua.
Non si sarebbe dovuta neanche sforzare a venirglielo a dire se poi aveva intenzione di farlo con quella faccia. Lui poteva vivere benissimo lo stesso.
<< Tsk. >> Riuscì solo a dire, alzando gli occhi al cielo.
Becca rimase interdetta, fissandolo e aspettando che le dicesse almeno un “Okey, non fa niente.” Ma quel ragazzo rimase in silenzio, come se si aspettasse qualcosa in più, con un’espressione arrogante sul viso che la sorprese non poco. Ma si sorprese ancora di più quando si rese conto di aver già visto quel tipo e di conoscerlo. Di fama, ovviamente. E capì che forse aveva schiaffeggiato la persona sbagliata.
<< Che c’è? >> Gli chiese, questa volta con un briciolo di sicurezza in meno nella voce. Non aveva paura di lui, ma quella faccia non la metteva propriamente a suo agio. E sapeva di essere dalla parte del torto, anche se ammetterlo le faceva una fatica enorme.
<< Potevi risparmiartelo, ragazzina. >>
Rebecca aprì un poco la bocca, credendo di aver capito male. << Ragazzina? >>
<< Ah, non sei solo una ragazzina che si atteggia a ribelle quando in realtà senza i soldi di papà non sa fare un bel niente? >>
Samuel per poco non si morse la lingua. Perché diavolo non se n’era stato zitto? Le parole erano uscite senza neanche che lui lo volesse, e adesso aveva davvero paura di prendersi un altro schiaffo. Sperava non nella stessa guancia, almeno. Ma non fu proprio capace di trattenersi, perché alla fine quello era ciò che pensava davvero. Lei era come tutti gli altri bambocci di quella scuola. Solo che voleva fare l’alternativa per sentirsi al centro dell’attenzione.
<< Non mi faccio dire certe cose da un delinquente come te. >>
Come volevasi dimostrare. Era proprio come tutti gli altri.
Le avrebbe risposto a tono se la professoressa Sannito non si fosse parata davanti a loro in tutta la sua grandezza di donna sulla cinquantina e non li avesse separati con un “ Che ci fate ancora qui?! Andate in classe!” che non ammetteva proprio repliche.
Becca, colma di rabbia, entrò nella 3°B pestando i piedi a terra e non guardando in faccia nessuno, per poi sedersi accanto alla sua amica. Proprio davanti al suo banco.
Samuel rimase lì, sulla soglia della porta, a bocca aperta.
No. Cosa ci faceva lei in quella che per tre anni era stata la sua classe?
<< Muoviti Lucchesi, cosa fai lì imbambolato?! >>
Samuel tornò in sé, infilandosi le mani in tasca e camminando veloce verso il suo banco.
Luca lo guardò, sembrava sorpreso quanto lui, quindi dedusse che non sapeva niente del perché quelle due intruse avessero invaso la sua classe.
Sospirò, vedendo come i suoi compagni, di tanto in tanto, lanciassero sia all’uragano che a lui occhiatacce indagatorie. Cos'è? Volevano una rissa? Qualcos’altro di cui sparlare?
Cazzo, lui non aveva tempo e neanche voglia per certe cose. Quindi sarebbe stato meglio se la nana non gli avesse più rivolto nemmeno la parola.
Così poggiò la testa sul banco, ignorando la Sannito che faceva l’appello come se l’ultima cosa che voleva fare fosse stare in quella scuola e con quelle persone. La capiva, la capiva sul serio.
Dopo che Rebecca Nieri ebbe pronunciato il solito “presente” ed essersi giustificata per essere entrata alla seconda ora, Samuel si sentì colpire da qualcosa di appuntito sul lato destro del braccio. Alzò lo sguardo e vi trovò un bigliettino piegato in quattro, che aprì incuriosito ma con uno strano senso d’inquietudine.
 
“Questa è guerra!”
 
 
…guerra?
 




 

 
.Sproloquiando.
 
Ed ecco pronto anche il secondo capitolo! Wow, solitamente non sono per niente così veloce, ma in questi ultimi giorni l’ispirazione per scrivere mi prende sempre a quest’ora tarda di notte, forse perché il caldo soffocante adesso si sente un po’ di meno. Pubblico il capitolo ora perché so’ che domani, a mente più lucida, troverei sicuramente qualcosa che non va e chissà quando lo posterei prima di esserne davvero soddisfatta.
Per adesso mi piace abbastanza. E a voi? Insomma, una recensione è sempre ben gradita! :)
Ovviamente ringrazio chi ha già inserito la storia fra le seguite e chi ha solamente letto. Spero di pubblicare in fretta anche il prossimo capitolo…magari ad un’ora un po’ più decente.
Goodnight! 

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Capitolo 3
*** E la fine, di già. ***


Quando Samuel tornò a casa sua madre non c’era. Gli aveva lasciato un bigliettino sul tavolo della cucina, in cui c’era scritto che fino alla sera non sarebbe tornata. Evidentemente il vecchietto a cui faceva la badante l’avrebbe trattenuta per tutto il giorno. Delle volte era arrivato a pensare che quello fosse un vecchio maniaco che si approfittava della gentilezza di sua madre per altri scopi. Ma un giorno l’aveva visto, e si era reso conto che non avrebbe in alcun modo potuto dar noia a nessuno visto e considerato che era paralizzato a letto e che aveva bisogno di aiuto anche per pisciare. Si sentiva un po’ stronzo a dirlo, ma non ne era affatto dispiaciuto.
Si fece una doccia veloce e si buttò sul letto, non preoccupandosi neanche di vestirsi.
Nonostante fosse già Settembre, non riusciva a sopportare il caldo soffocante che ancora impregnava l’aria. Non vedeva l’ora di andarsene all’Old West, lì almeno c’era un ventilatore. Era mezzo rotto e funzionava una volta si e tre no, ma c’era un cavolo di ventilatore.
Si girò più volte fra le coperte prima di trovare una parte di letto fresca e confortevole, e poi lo vide.
Lì, per terra, caduto dalla tasca dei pantaloni bellamente mollati sul pavimento.
La dichiarazione di guerra di quella stupida mocciosa.                              
Sbuffò, girandosi di nuovo dalla parte opposta del letto.
 
 
 
<< E questo che cavolo è? >>
Sul banco di Rebecca si spiaccicò una mano, che subito dopo si rialzò mostrando il foglietto che lei stessa aveva scritto.
<< Non sai neanche leggere? >>
Samuel dovette far richiamo a tutto quel poco autocontrollo di cui disponeva e sospirò, guardandola negli occhi. Lei ricambiava il suo sguardo, sicura, decisa. Si accorse che nessuno lo guardava in quel modo, in quel posto. C’erano persone che evitavano il suo sguardo e persone che lo sfottevano e parlavano male di lui alle sue spalle, o chi semplicemente lo reputava così insignificante da non rivolgergliene neanche uno, di sguardo.
Ma nessuno si era mai messo contro di lui. E, soprattutto, senza un valido motivo. Possibile che quella mocciosetta facesse tutto da sola e di testa sua? Sì, lui non le aveva rivolto delle belle parole qualche ora prima, ma se l’era decisamente meritato. Avrebbe dovuto solamente accusare il colpo e starsene zitta.
Ma quando mai le cose andavano nel modo in cui voleva lui, nella sua stupida vita?
<< Questa è guerra! >> Lesse ad alta voce Luca, spuntando dalla schiena di Samuel e prendendo il biglietto fra le mani.
<< Wow, figo! >>
Samuel gli lanciò l’ennesima occhiataccia, ma Luca non si scompose e sorrise compiaciuto. Lo sapeva, lo sapeva benissimo che si stava divertendo un mondo a vederlo in situazioni come quella.
<< E in cosa consisterebbe queste “guerra”? >> Chiese, rivoltando lo sguardo verso una Rebecca che, nel frattempo, si era alzata e aveva preparato il suo bello zainetto firmato per tornarsene nella sua casa da ricconi. Bleah.
<< Nel distruggerti. >> Aveva detto, sorridendogli complice per poi sorpassarlo, trascinando dietro di lei la sua fidata amica che non esitò a chiederle cosa diavolo volesse dire con quella frase.
Ma Samuel non riuscì a sentire la risposta e, semplicemente, accartocciò quello stupido foglio e se lo rimise in tasca.
 
 
 
Bene, voleva la guerra? E la guerra avrebbe avuto.
Avrebbe dovuto dire una cosa del genere in questa situazione, ma lui era Samuel Lucchesi. Si lamentava parecchio della sua vita –come, appunto, stava facendo in quel momento-, ma vivere nel suo mondo infondo non gli dispiaceva per niente. La sua giornata tipo era abbastanza regolare: scuola, amici, lavoretto part-time. E sì, avrebbe voluto cambiare molte cose di quella vita. Ma di certo non l’ordine quotidiano che era riuscito a crearsi. Per questo andare a scuola per fare la cosiddetta guerra con una ragazzina annoiata dalla sua vita perfetta e che non aveva altri modi per divertirsi non era un pensiero che lo allettava particolarmente. Ma poi…che tipo di guerra? Si sarebbero tirati i pezzi di gomma fra i capelli durante le lezioni? Cazzo, non aveva più l’età per fare cose simili!
 
 
 
Rebecca poggiò il peso del suo corpo sulla gamba sinistra, facendo un po’ riposare quella destra. Era già da un po’ che le fischiavano le orecchie. Forse era per il baccano che tutte quelle mamme facevano quando parlavano dei propri figli esaltandone le capacità e le doti. Eh certo, perché per fare una divisione a due cifre ci vuole una grande intelligenza.
Sbuffò, guardando l’orario sul suo telefono. Ma non li facevano più uscire quei poveri bambini? Già dovevano trascorrere otto ore della loro giornata chiusi in quelle quattro mura, che almeno li facessero uscire in orario.
Come se qualcuno avesse voluto accontentare il suo desiderio di andarsene presto da quel posto, il portone della scuola elementare Santa Lucia si spalancò, dando il via alle file e file di grembiulini blu che correvano in direzione delle loro mamme.
Si sporse un po’ oltre qualche testa e finalmente vide anche Sofia , che stava facendo cenno alla maestra indicando proprio lei. Sicuramente le stava dicendo che anche quel giorno era venuta a prenderla a scuola sua sorella maggiore. Come sempre, d’altronde.
<< Allora, com’è andata oggi? >>
Sofia, dopo averla presa per mano ed averle dato il suo zaino, sbuffò in modo teatrale.
<< Lo sai che ha fatto Marina? >>
Per quanto ne sapeva Becca, Marina era la migliore amica di Sofia sin dalla prima elementare. Inseparabili proprio come lei e Greta.
Rimase in silenzio, aspettando un continuo.
<< Mi ha detto che vuole fare un club! Hai visto lo Sleepover Club? >>
Rebecca annuì. Eh si, forse la tenera Sofia non se ne rendeva conto, ma aveva sempre lei il pieno controllo della televisione quando tornava a casa, quindi era ovvio che Becca conoscesse qualsiasi tipo di programma per bambini potesse esistere.
<< Ecco, un club come quello. E sai chi ha invitato? Chiara! Lei era la prima che se n’era andata da quello vecchio! Poi si mette sempre a piangere quando litighiamo e le maestre danno sempre ragione a lei, l’altro giorno erano tutti dalla sua parte e c’era solo Marina con me! >>
<< Perché avevate litigato, tu e Chiara? >> Chiese, ridacchiando sotto i baffi. La tranquillità non doveva essere una dote di famiglia.
<< Boh, non me lo ricordo. Però abbiamo iniziato a disegnarci a vicenda e quando ha visto che l’avevo fatta bruttissima perché ce l’avevo con lei si è messa a piangere. >>
<< Sofia! >> Becca rise, dando uno scappellotto alla sorella. << Ma poverina!  >>
<< Comunque voglio un gelato. >> Interruppe il discorso l’altra, trascinandola verso la gelateria.
Becca aveva a mala pena due euro nel portafoglio, e si sarebbe tanto voluta prendere una bottiglietta d’acqua per rinfrescarsi dal caldo, fino a qualche secondo prima.
<< Chiedilo per bene. >> La ammonì, facendo spuntare un sorriso sul viso della bambina e facendosi stritolare in un abbraccio che lei ricambiò accarezzandole i capelli. Sofia ormai aveva quasi dieci anni. Le arrivava su per giù quasi alle spalle. Neanche lei sarebbe venuta molto alta da grande, ma non doveva preoccuparsi,  sarebbe stata in compagnia.
<< Per favore. >> Aggiunse poi, facendo una smorfia divertita.
<< Okey, okey. Aspettami all’altalena. >>
 
 
Quando Becca tornò con il suo cono a due gusti –rigorosamente panna e cioccolato- trovò Sofia sdraiata sulla panchina del parco difronte alla gelateria. Era proprio una pigrona.
Ci aveva un po’ rimuginato sopra, ma era venuto il momento di dirle che il simpaticone del loro paparino non si sarebbe fatto vedere neanche per il suo compleanno. Per impegni di lavoro, così aveva detto.
O per impegni con le sue segretarie? Un traditore rimane sempre un traditore. Come aveva tradito sua madre avrebbe potuto benissimo tradire anche Paola, la sua seconda moglie. Lei non le stava antipatica, anzi, un po’ le faceva anche pena. Era stata solo sfortunata ad innamorarsi di un uomo come lui.
<< Svegliati, il gelato ti aspetta! >>
Senza farselo ripetere due volte Sofia si alzò prendendo il cono fra le mani e facendo spazio a sua sorella, che la guardava intenerita.
Sofia era la cosa a cui Becca teneva di più al mondo. Era ovvio che le volesse bene, erano sorelle. Ma lei non le voleva solo bene. Il loro rapporto era particolare: Becca era più una mamma che una sorella per Sofia, dopotutto. Non perché sua madre non fosse in grado di svolgere il suo ruolo di genitore, ma solo perché era troppo impegnata con il lavoro da quando c’era stato il divorzio. Ovviamente aveva dovuto aumentare i turni all’ospedale per far tornare più soldi in fondo al mese, dato che il mantenimento di suo padre veniva versato ma non poteva di certo bastare per mantenerle tutt’e tre.
Ma questo aveva voluto dire anche dimezzare il tempo che aveva per stare con le sue due figlie.
Sapeva che non era colpa sua. Nonostante non le piacesse quella situazione, sapeva che sua madre non poteva fare altro. Ma anche lei non poteva far altro che essere un po’ arrabbiata. Con nessuno in particolare, arrabbiata e basta.
<< Senti, Sofi...stamani papà ha chiamato mamma. >>
Sofia alzò la testa dal gelato e la fissò con gli occhi brillanti.
Quanto odiò suo padre, in quel momento.
<< Ha detto che non pensa che ce la farà a venire Sabato prossimo. >> Prese un lungo respiro, carezzandole i capelli. << Gli dispiace tanto. >>
Quando l’anno prima le aveva detto la stessa identica cosa Sofia aveva iniziato a piangere e a dire di volere il suo papà con una tristezza che fece stringere il cuore a Becca.
Per questo era già pronta a subire la rabbia che sarebbe esplosa in sua sorella dopo aver sentito ciò che aveva da dire. Rabbia, comunque, giustificata.
Ma Sofia non fiatò. Sospirò e si rimise a mangiare il suo gelato, guardando fissa davanti a sé un cagnolino che si rotolava sull’erba.
<< Tutto apposto? >>
Sofia annuì, con un’alzata di spalle. << Lo sapevo. Fa sempre così. >>
Rebecca strinse i pugni. Se avesse avuto le unghie un po’ più lunghe si sarebbe perfino sgraffiata i palmi delle mani.
Sofia pian piano stava diventando proprio come lei. Aveva imparato ad accettare le cose. Ad essere più consapevole. Ma quella consapevolezza portava con sé anche il senso di vuoto ed eliminava la speranza.
Rebecca non sperava più che suo padre tornasse ad essere quello di un tempo. Che la sua famiglia tornasse ad essere quella di un tempo, e che finalmente avrebbe potuto smettere di essere così arrabbiata con il mondo intero.
E adesso neanche Sofia sperava in tutto questo.
Rebecca le prese il gelato dalle mani e gli dette un leccata, facendo irritare e sbuffare contrariata la sua sorellina.
 
 
 
Samuel non si sarebbe mai aspettato…quello. Guardò Luca con un ghigno schifato sul viso, mentre l’altro sobbalzò e si alzò dalla sedia facendo voltare gli occhi indiscreti dei loro compagni di classe.
<< Che schifo, toglilo da lì! >> Il grido a donnicciola di Luca fece squittire una Rebecca Nieri a dir poco divertita seduta difronte a loro, che di rimando si beccò un’occhiata scioccata dal povero malcapitato che si era ritrovato un ragno abnorme sul banco. Morto.
Cos’era, una minaccia stile “Il Padrino?”
Dio, che schifezza.
<< Io non lo tocco quel coso. >> Rispose Samuel convinto, tirando Luca per la maglietta per farlo avvicinare mentre l’altro continuava ad insistere cercando di buttarlo a terra soffiandogli sopra.
Rebecca rise di nuovo, e Greta l’ammonì guardandola rassegnata. << Come diavolo hai fatto a portare quel coso disgustoso sul loro banco? >>
Prima che Rebecca potesse anche solo fiatare, vide pararsi difronte a lei un Samuel Lucchesi decisamente poco felice, vista l’espressione che aveva sul viso.
<< Ora tu levi quel coso dal mio banco. >> Si espresse minaccioso, mentre Luca gli intimava di correre da lui e di non lasciarlo solo. Nel frattempo si era anche messo a girare per la classe chiedendo a chiunque di liberare il suo banco da quello schifo, ovviamente con scarsi risultati di successo.
<< Non sono stata io. >> La noncuranza di Rebecca fece sì che Samuel trattenesse il respiro per qualche secondo, prima di chiudere gli occhi e sospirare teatralmente.
<< Sai, nana, anche se può sembrare non hai più cinque anni! >>
Rebecca nel sentire una frase del genere avrebbe risposto per le rime con la lingua tagliente che si ritrovava, ma in quel momento si limitò a fare un sorrisetto compiaciuto.
<< Cos’è, Samuel Lucchesi ha paura di un ragnetto? >>
Samuel ci mise un po’ a rispondere:
1- perché si vedeva lontano un miglio che era solo una provocazione e lui voleva essere superiore a certe cretinate.
2- Perché sì, i ragni non gli erano molto simpatici. Soprattutto quelli morti e spiaccicati sul suo banco.
3- Rebecca Nieri l’aveva chiamato per nome. Ora, non che ci fosse qualcosa di strano, ma questo voleva dire che aveva preso la cosa molto seriamente visto che si era ricordata perfino come si chiamava.
<< Se non levi quel coso dal nostro banco giuro che cambio posto! >> Gli urlò un Luca disperato che aveva leggermente mandato a farsi fottere l’autocontrollo e la tranquillità che solitamente lo distinguevano.
Samuel guardò con astio gli occhi scuri di Rebecca per un ultima volta e poi si allontanò, pronto a fare l’eroe e a salvare il mondo dal cadavere di quel povero ragno. Prese un libro e, pian piano, cercò di buttarlo in terra spingendolo prepotentemente, ma qualcosa lo anticipò.
La mano dell’amica di Becca, una certa Greta a quanto aveva capito, armata di fazzoletto prese il ragno e, con nonchalance, si alzò e lo buttò nel cestino della spazzatura, sotto gli sguardi basiti delle due vittime e dell’assassino –ossia il povero Luca, l’irritato Samuel e la trionfante Rebecca.
La quale, però, guardò Greta riavvicinarsi al suo banco con la bocca spalancata e un’aria tradita.
<< Hai aiutato il nemico. >> Le disse con tono fintamente affranto, mentre l’altra si risiedeva nel posto accanto al suo.
<< La storia della guerra mi ha già stufato. Perché entrambi non vi comportate da persone sane di mente e vi date una bella stretta di mano? Non dovete essere amici, solo smetterla di comportarvi da bambini. >>
Il tono pacato di Greta ricordò a Samuel quello di sua madre quando da piccolo lo sgridava perché dava noia a Billo, il gattino che Alessandro aveva portato a casa quando l’aveva trovato abbandonato per strada. L’amica di Rebecca era sicuramente più piccola di lui, visto che Samuel era stato bocciato due anni prima ed era un anno più grande rispetto ai suoi compagni di classe, ma le sue parole lo fecero sentire comunque in soggezione e piccolo piccolo.
Nonostante sapesse che era stata tutta opera di quella nana da giardino, doveva ammettere che lui le aveva dato corda sia il giorno prima che questa volta. Sia per il suo carattere scontroso, sia perché, alla fine...anche lui si stava annoiando a morte.
Guardò Rebecca, che a sua volta lo fissò sospirando.
Rebecca Nieri, che a casa era una specie di mamma tuttofare, si era messa a fare scherzi da bambini dell’asilo cercando di dar noia ad una persona che non conosceva neanche.
Si diede della stupida idiota. Greta lo capì, per cui sorridendole sorniona le prese la mano e l’avvicinò a quella di Samuel.
<< Su, da bravi. >>
Luca trattenne una risatina quando Samuel, con la faccia di uno che avrebbe voluto morire, strinse la mano della piccola Rebecca Nieri, la quale dopo pochi secondi ritrasse subito la sua senza dire una parola e si rigirò nel suo posto dandogli le spalle.
Così si risedette anche lui, quando vide il professor Melucci entrare in classe agitato e affannato per il ritardo.
Samuel vide Luca iniziare a prendere appunti da bravo studente diligente qual era e si disse che avrebbe dovuto riprenderlo con una telecamera quando aveva buttato via la maschera dell’essere perfetto per dar sfogo alla sua paura gridando come una donnetta con le mestruazioni.
In fondo a qualcosa era servito quello scherzo.
Anche se era una stupida ragazzina, doveva ammettere che Rebecca Nieri l’aveva fatto divertire.
Solo un pochino.
 
 


 
.Sproloquiando.
Si, si, I know. Ci ho messo parecchio ad aggiornare questo capitolo: non avevo ispirazione. Volevo approfondire un po’ di più i personaggi e quindi ho parlato molto di Rebecca e della sua situazione familiare –facendo comparire la piccola Sofia che sarà fondamentale per il proseguirsi della storia-, ma, boh…questo capitolo non mi convince per niente. I primi due mi piacevano abbastanza, mentre questo…insomma, è una ciofeca.
Però, vabbè, spero che a voi non abbia fatto così schifo. Se sì, tranquilli, potete dirmelo e vi darò pienamente ragione.
Però posso dirvi una cosa: io adoro il quartetto di personaggi protagonisti, per come me li sono immaginati, quindi spero che anche a voi stiano almeno un po’ simpatici. Ovviamente se ne aggiungeranno anche altri e verranno descritti tutti molto meglio, però li adoro. In particolar modo Luca, non so, lui e il suo cesto di capelli sono fenomenali <3
Insomma, spero che qualcuno mi dia una sua opinione su come gli è parsa la storia per adesso, anche se siamo solamente all’inizio :D
A presto…spero.

 
 
 

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Capitolo 4
*** Tutta colpa dei gessetti ***


Luca Cartiani, se ne avesse avuto il coraggio, si sarebbe probabilmente buttato dalla finestra in quel preciso istante. Dopotutto non sarebbe morto, ma cadendo dal secondo piano non si sarebbe fatto neanche molto bene.
Ma…niente sarebbe stato peggio di quella tortura che era Samuel Lucchesi.
Primo compito di latino dell’anno per far riprendere gli studenti dall’ozio estivo.
Prime ripetizioni per Samuel.
Primo esaurimento nervoso per  Luca.
Tornava, no?
<< Davvero non noti proprio niente di strano in questa frase? Se tu la traducessi letteralmente cosa ne verrebbe fuori? >>
<< I…frutti? >>
<< Uhm. >>
<< …erano alle matrone? >>
<< Esatto! Questa frase torna in italiano, secondo te? >>
Samuel sembrò rifletterci su. E trasse le sue intelligenti conclusioni: << Ovvio che no. È latino, non italiano. >>
E Luca riguardò agognante la finestra di quella piccola biblioteca. Era davvero carina. Si ripeté che farci un tuffo dentro non sarebbe stato tanto male. Per niente.
<< Samu…le frasi, quando vengono tradotte, devono tornare sempre. Che ti ho detto prima? Che quando una frase tradotta non torna può darsi che sia per colpa del dativo di possesso. Ossia, quando accade che quello che nella frase latina è il dativo, nella traduzione dovrà essere espresso come soggetto, e quello che è il soggetto dovrà essere espresso come complemento oggetto. In base a questo ovviamente cambia anche il verbo, che da essere deve diventare per forza avere. In questo caso, quindi, non è “ I frutti erano alle matrone”, ma “Le matrone avevano i frutti”. Dove cazzo eri quando la prof diceva queste cose? >>
A Luca piaceva parlare e delle volte sapeva che i suoi discorsi finivano per diventare sproloqui senza capo né coda, ma di solito Samuel lo stava sempre ad ascoltare. Si conoscevano da più di tre anni e quindi Lucchesi, però, era anche capace di far finta di ascoltare, per poi uscirsene con una frase classica per abbandonare il discorso.
Quello era uno di quei casi.
<< Uhm, hai ragione genietto. Ora andiamo a mangiare? Ho voglia di pizza oggi. >>
Luca si alzò e rimise i libri nella borsa, atterrito. Continuare a torturare Samuel e quindi a torturare le sue povere orecchie, che erano costrette a risentire le stesse cose in continuazione, non era per niente un’idea allettante. Ma neanche far prendere un tre a Samuel nel primo compito dell’anno sarebbe stata una gran cosa.
Per questo ci aveva provato davvero, Luca, a far entrare qualcosa in quella zucca vuota. Sapeva che Samuel non era un deficiente. Beh, un po’ lo era in effetti…un po’ tanto. Ma non tanto da non capire delle stronzate del genere.
È solo che non aveva voglia di fare niente. Ormai aveva già deciso che la sua vita sarebbe continuata in quella stupida città e che avrebbe lavorato fino alla morte nel ristorante di suo zio, quindi a che scopo studiare il latino o le altre materie in generale? Luca sapeva che Samuel la vedeva in questo modo.
E non poteva fare a meno d’incazzarsi a morte, quando ci pensava.
Lui, che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa volesse, che avrebbe potuto scegliere in che modo vivere la sua vita, aveva deciso di buttarla via così. Superficiale. Stupido e superficiale.
Se almeno lui avesse avuto un minimo delle possibilità di scelta che aveva Samuel…
<< Fai come ti pare. >> Disse sospirando, mentre lo vedeva poggiargli un braccio sopra le spalle.
<< Lù, prometto che domani studierò. Giuro che mi impegnerò a fondo per farla contento, Sensei. >> Rispose Samuel con tono serio e quasi convincente, facendo spuntare un sorrisino amareggiato sul volto del compare.
<< Sembri una donna mentre dice che “domani” si metterà a dieta. >> Fece, alzando le mani e mimando le virgolette alla parola domani.
<< Giuro solennemente. E se vuoi comprarmi un pezzo di pizza come premio anticipato per il mio impegno fa pure, non ti fermo. >>
E Luca rise, una risata sarcastica e malefica, spingendo un po’ più avanti l’imbranato che era il suo migliore amico.
<< Forse “domani”! >>
 
 
 
Greta Baldini non si sarebbe mai aspettata che la sua prima volta sarebbe avvenuta così. Fra le mura della sala da ballo della sua scuola di danza, mentre aveva un aspetto a dir poco orribile, tutta sudata e affannata vista la lezione di classico finita qualche minuto prima e con la paura persistente che qualcuno potesse vederli. Che una delle ragazze sarebbe entrata all’improvviso essendosi dimenticata qualcosa e che li avrebbe visti, lì, avvinghiati l’uno all’altra a baciarsi con passione contro la sbarra.
Lei e il suo insegnante di danza classica.
Non si ricordava nemmeno come c’erano finiti così. Sapeva solo che dopo che tutte se n’erano andate lei si era avvicinata a Francesco per chiedergli delle cose riguardo alla prossima esibizione che avrebbero dovuto tenere e che poi era successo.
Si erano avvicinati, piano piano, facendo aderire i loro corpi e combaciare i loro volti lentamente, come se fosse un gioco a chi cedeva per primo.
Ed ora erano lì, le mani di lui sul suo sedere che la spingevano contro il proprio corpo, in un modo che Greta non aveva mai provato in vita sua.
Aveva già avuto qualche ragazzo ma non era mai arrivata fino in fondo con nessuno. Il suo massimo erano stati i baci passionali e qualche sfioramento ingenuo ma nel frattempo curioso.
Non si sarebbe mai aspettata una cosa simile. L’avrebbe davvero fatto lì? Avrebbe davvero perso la sua verginità con un uomo di quindici anni più grande di lei? Così…in quel modo?
Dal gonfiore che sentiva nei pantaloni di Francesco si poteva presupporre questo.
Ma lei lo voleva veramente?
D’improvviso, come se qualcuno avesse voluto rispondere alla sua domanda, Francesco staccò le sue labbra bruscamente, facendola sussultare.
Lei rimase zitta, continuando a fissare le sua espressione indecifrabile.
Si sentì strana. Come se le fosse stato portato via qualcosa.
<< Scusa. Davvero, scusa. Oddio…che diavolo ho fatto? >>  Francesco la prese per le spalle e l’allontanò da sé, sospirando e portandosi le mani a massaggiarsi le tempie.
Che avrebbe potuto dire in quel momento, lei? Sapeva che era stato un gesto totalmente sbagliato e fuori luogo. E sapeva anche che avrebbe dovuto prendere le sue belle gambine e uscire da quella situazione il più in fretta possibile.
Eppure continuava a rimanere immobile e zitta come un’inutile babbea.
<< Greta, davvero…non so cosa mi sia preso. Io…non volevo. >>
Oh. Già.
Che stupida. Come aveva potuto pensare solo per un attimo che davvero un uomo come Francesco avrebbe voluto fare sesso con lei?
Era ancora una bambina. Non sapeva se sentirsi felice o delusa da questo.
<< Senti… >>
<< Tranquillo. >> Disse tutto d’un fiato, spostando lo sguardo allo specchio davanti a lei e vedendo quanto stava risultando patetica. << Non è colpa tua. >>
Prese l’asciugamano cadutole per terra e uscì dalla stanza velocemente, senza rivolgergli neanche uno sguardo sfuggente.
Prima di entrare nello spogliatoio si assicurò che non ci fosse più nessuno, e quando dalla piccola finestrina in cima alla porta vide che era completamente deserto ci si fiondò chiudendosi violentemente la porta alle spalle.
Aveva bisogno di farsi una doccia. Aveva davvero bisogno di farsi una doccia ghiacciata e di congelarsi quello stupido, inutilissimo cervello! A cosa serviva averne uno se poi non sapeva usarlo?!
Greta si sfilò velocemente il body nero e lo lasciò cadere a terra insieme alle calze, prima di avvicinarsi alle docce.
Si guardò allo specchio difronte a lei, e prima che l’acqua iniziasse a bagnarla scorse qualcosa, proprio sulla sua guancia. Cattiva, crudele.
Una patetica e stupida lacrima.
 
 
 
<< E quindi…ti prego, aiutami a studiare! >> Rebecca chiuse le mani come se stesse pregando e abbassò la testa in segno di rispetto, ma Greta non rispose.
Già, sapeva che non sarebbe stato facile convincerla, ma dai, il suo discorso in cui ammetteva che era una povera disgraziata e che solo una persona dotata di grande intelligenza come la sua dolce e cara amica avrebbe potuto aiutarla, sembrava essere stato convincente.
Ma si accorse solo quando rialzò la testa che Greta stava guardando fuori dalla finestra accanto al loro banco, non considerandola neanche.
Si sporse un po’ più a destra per vedere se ci fosse qualcosa di interessante da osservare, ma c’erano solo palazzi e altri edifici.
Le poggiò una mano sulla spalla, strattonandola piano.
<< Terra chiama Greta! >>
<< Eh?! >> La diretta interessata sobbalzò e sembrò riscuotersi solo in quel momento dai suoi pensieri.
Rebecca la guardò con un sopracciglio alzato. << Non hai ascoltato nemmeno una parola di quel che ti ho detto finora, vero? >>
Vide Greta fare un sospiro e farle un sorrisino forzato.
<< Mi vuoi dire che hai in questi giorni? Sei strana, davvero. >>
Ma Greta non ebbe neanche il tempo di risponderle che Luca Cartiani e il suo cesto di capelli si pararono davanti a loro con un’aria di chi stava per dire qualcosa di dannatamente stupido.
<< Ho sentito che hai dei problemi con lo studio, uragano. >>
Il sopracitato uragano lo guardò interdetta, aggrottando le sopracciglia. Cos’era tutta quella confidenza?
<< E quindi, capellone? >> Non era il massimo dell’originalità come soprannome, ma Luca fece lo stesso una smorfia.
Forse non era il caso di chiedere all’uragano di unirsi al gruppo di studio che aveva creato insieme ad altri compagni di classe, ma un po’ gli dispiaceva vederla sempre così sola insieme alla compagnia della Baldini, che a quanto pareva era la sua unica amica.
Erano un po’ come lui e Samuel.
Già, Samuel. Se solo avesse saputo che aveva invitato altre persone Domenica per studiare per il compito di latino, ovviamente non sarebbe venuto neanche sotto tortura.
Sapeva quanto odiasse la gente di quella scuola. Così come sapeva che quelle stesse persone lo evitavano per la sua brutta reputazione.
Per questo aveva avuto la geniale idea di cercare di farlo adattare il più possibile e di far cadere i muri che lui stesso si era creato per separarsi dal resto del mondo.
Ma, in quel momento, vedendo la faccia dell’uragano, se ne stava un po’ pentendo.
Forse Samuel sarebbe riuscito a simpatizzare con qualcuno, ma con lei…
Ah, poco importava.
<< Che ne dite, voi due, di venire a casa mia questa Domenica? Io e altri abbiamo deciso di studiare un po’ per il compito. >> Chiese frettolosamente, posizionando lo sguardo sulla Baldini, che sorrise vittoriosa.
<< Perfetto, ci saremo! >>
<< Eh? >> Rebecca, dal canto suo, le lanciò un’occhiata stupita.
<< Non avevi detto che eri disperata? È l’occasione perfetta per studiare e per uscire dal guscio e conoscere un po’ di gente. >>
Rebecca sembrò rifletterci su. L’idea non la entusiasmava particolarmente, ma…in effetti non aveva molti amici, in quella scuola. Insomma…non ne aveva nessuno.
Tutta colpa di quella Cericcola –unione fra Ceresi e zoccola. L’unione perfetta.
E poi aveva davvero bisogno di qualcuno che l’aiutasse a capirci qualcosa di tutto quel casino di declinazioni, coniugazioni e stronzate varie.
Guardò lo sguardo incoraggiante di Greta. Lei era quella che sapeva sempre cosa fare in qualsiasi situazione. Se si fosse trovata a disagio o avesse combinato qualche pasticcio dei suoi almeno sapeva su chi contare.
<< Okey. >> Sussurrò con un’alzata di spalle, voltando lo sguardo verso Luca Cartiani. Che, a sua volta, lanciò uno sguardo complice a Greta.
Sembravano andare d’accordo, quei due. Come se avessero fatto un tacito accordo che non lasciava presagire niente di buono.
 
 
 
Dove diavolo aveva detto che erano quei gessetti?
Che cavolo, perché i custodi non sapevano fare il loro lavoro doveva essere lui a fare certe cose? Sapeva bene di non  avere di certo un’aria da studente affidabile, quindi perché era già la seconda volta che lo stempiato del Meluzzi gli dava delle commissioni da svolgere?
Okey, forse si stava lamentando un po’ troppo. Alla fine gli aveva solo chiesto di andargli a prendere dei gessi.
Solo che quella dannata scuola era così bene organizzata che le bidelle non si trovavano mai, qualche giorno prima ne aveva vista una di sfuggita fumare nel cortile della scuola durante l’orario di lavoro e in quel momento si era accorto che c’erano sul serio e che la loro esistenza non era una leggenda metropolitana.
Peccato che fossero totalmente inutili.
Meluzzi lo sapeva e quindi gli aveva detto di andare nello stanzino del terzo piano, che lì poteva trovare di tutto e di più.
Ma non quei fottutissimi gessetti, ovviamente.
Continuò a guardare nei cassetti del vecchio armadio, dietro la carta igienica, fra scope, spazzoloni, detergenti e altre stronzate.
Quant’era che era lì? In classe avrebbero pensato che finalmente si erano liberati di lui.
<< Ehi, allora sei ancora vivo! >>
Samuel per poco non morì di crepacuore quando quella voce lo chiamò di punto in bianco, facendolo saltare e sbattere la testa contro il soffitto troppo basso del piccolo stanzino.
Rebecca, com’era prevedibile, rise di gusto nel vedere quella scena e si pentì come non mai di non avere avuto un telefono per registrarla!
L’altro sbuffò, guardandola scocciato e massaggiandosi la parte dolorante della testa.
<< Avresti preferito il contrario? >> Chiese iniziando di nuovo la sua ricerca disperata. Che era venuta a fare lei lì dentro?
Becca ignorò totalmente la sua domanda/frecciatina e rispose con una delle sue: << Ma stai ancora cercando? Cavolo, difficile trovare dei gessi, eh? >>
<< Uffa, ma che vuoi? Se sei venuta qui per rompere puoi anche andartene. >>
Le parole serie e un po’ irritate di Samuel le fecero arricciare il naso, ma si trattenne dal rispondergli in malo modo solo per evitare altre discussioni. Non poteva rispondere con un’altra frecciatina anche lui invece di comportarsi da donna mestruata? Diavolo, di certo non era andata lì a cercarlo perché non aveva niente da fare! Dormicchiare sul banco le piaceva e anche tanto, ma al Meluzzi a quanto pareva no.
<< Mammamia, quanto siamo simpatici… >>
Samuel sbuffò nuovamente. << Beh, già che sei qui aiutami visto che sei così brava. >>
La moretta, allora, si chiuse la porta alle spalle e la luce che Samuel credeva non esistesse neanche in quello stanzino abbandonato si accese.
La guardò incuriosito e lei sorrise beffarda.
<< È automatica, si accende solo quando viene chiusa la porta. Ci credo che non trovavi i gessi, cosa cavolo vedevi al buio? >>
Samuel alzò un sopracciglio, un po’ spiazzato. L’aria da so tutto io di quella nanetta lo stava irritando come non mai e non avrebbe mai ammesso che, effettivamente, forse, solo un po’…aveva ragione.
<< Oh, eccoli! >>
Becca sorrise e, senza aspettare che lui capisse di che stava parlando, gli si parò difronte e si alzò sulle punte. E in quel momento, mentre si sporgeva in avanti per prendere qualcosa dietro di lui, i loro visi si avvicinarono più di quanto si sarebbe aspettato e rimase così, leggermente frastornato, a guardare quel piccolo volto allontanarsi dal suo in un paio di secondi.
Si accorse solo quando ormai Becca era ritornata alla sua normale statura che stava trattenendo il respiro.
<< I gessi. >> Disse semplicemente lei, notando come quel ragazzo fosse rimasto a fissarla senza che ci fosse un motivo logico.
Samuel in quel momento sembrò risvegliarsi e sbatté le palpebre più volte, deglutendo.
Si sentiva soffocare. Quella stanza era dannatamente piccola!
Così si affrettò ad andare alla porta, prendendo la maniglia per aprirla.
Ma non lo fece. Non perché non lo volesse, ma perché…non poteva.
<< Che diavolo..? >>
<< Che c’è? >> Rebecca spuntò di nuovo da dietro di lui, che con più forza provò a tirare la porta, ma senza ottenere alcun risultato.
<< Non me lo dire… >>
<< È bloccata. >>
<< Tsk. >> Possibile che non fosse in grado di fare un tubo quel ragazzo? Si atteggiava a duro per intimorire la gente e poi si andava a perdere in un bicchier d’acqua!
Samuel venne spinto con ben poca delicatezza da un agitato uragano e godette fino all’inverosimile quando la vide imprecare contro la porta che neanche lei riusciva ad aprire.
<< Menomale che ci sei tu. >> Le disse sarcastico, beccandosi la peggior occhiataccia della storia da parte della nana. Non che non gliene avesse lanciate abbastanza, ma quella era davvero micidiale, se fosse stato un pugnale l’avrebbe colpito dritto al cuore.
E non in modo piacevole come potrebbero pensare i romanticoni.
<< E ora? >> Chiese lei, con un pizzico di sconforto nella voce.
<< E ora niente, aspettiamo. >>
Becca lo guardò per un po’, preoccupata. Non aveva né il cellulare né qualcosa con cui avvertire Greta, le bidelle non passavano mai per il corridoio e al terzo piano non ci stavano molte classi, oltretutto quello stanzino era in un angolo un po’ sperduto, se avessero urlato qualcuno li avrebbe sentiti?
<< Ehi! C’è qualcuno?? >>
Silenzio.
<< Ehi!!! >> Gridò ancora più forte, sbattendo prepotentemente la mano alla porta.
Samuel ridacchiò, vedendola agitarsi in quel modo incomprensibile. Okey che trascorrere del tempo insieme a lui sicuramente non le avrebbe fatto piacere, ma che aveva da starnazzare in quel modo? La cosa era reciproca!
<< E smettila, fra poco qualcuno verrà. >> Fece, sedendosi su uno scatolone chiuso e per niente morbido. Ma che c’era lì dentro? Gli si sarebbero appiattite le chiappe sicuramente, ma meglio che stare in piedi.
Becca appoggiò la fronte al legno freddo della porta. Non aveva neanche sentito ciò che aveva detto quello stupido, l’unica cosa che sperava davvero era che non…ricapitasse.
Ma la testa la girava già terribilmente.
Provò a mettersi a sedere per terra, cercando di respirare regolarmente e massaggiandosi le tempie. Se avesse aperto gli occhi sarebbe stata la fine.
Samuel la guardò stralunato, ma vedeva solo la sua schiena e inizialmente pensò che avesse trovato un insetto per terra e che lo stesse guardando, tutta accovacciata com’era, quindi richiuse gli occhi e tornò a cercare di dormicchiare.
Ma quando sentì dei respiri affannati provenire dalla figura davanti alla porta, li riaprì all’istante.
<< Ehi, che ti succede?! >>
Rebecca non parlò, sarebbe stato impossibile farlo. Perché aveva aperto gli occhi. E l’ansia aveva prevalso sul suo autocontrollo.
Non riusciva a restare calma e a focalizzare bene la situazione, la sua vista si era un po’ offuscata e le mancava il respiro. Quando capitavano situazioni simili, solitamente sua madre o Greta riuscivano a tranquillizzarla, ma adesso chi c’era per lei?
La sua vista si appannò ancora di più, ma questa volta era per le lacrime che pian piano iniziarono ad uscirle dagli occhi.
Samuel si alzò frettolosamente e le si avvicinò, accovacciandosi e prendendola per le spalle per girarla verso di lui.
E la vide, con le guance bagnate dalle lacrime, mentre cercava di prendere l’aria che non riusciva a respirare, mentre si affannava cercando disperatamente di calmarsi senza riuscirci.
<< Rebecca, ferma! Oddio… >> Samuel si ritrovò impreparato e impaurito, che diavolo poteva fare?! Becca gli si aggrappò improvvisamente alla maglietta, come se gli stesse chiedendo di darle supporto e di aiutarla, ma lui era come stordito, così tanto che non riusciva a muovere un dito.
<< Ti prego, calmati… >> La sua voce tremava e il respiro di Becca divenne sempre più affannato, le sue piccole mani ancora più strette intorno al cotone della sua maglia, gli occhi sempre più colmi di lacrime.
Samuel spalancò gli occhi, trovando il coraggio di alzare le braccia e di posarle intorno alle spalle della ragazza lentamente, iniziando ad accarezzarle i capelli con una delicatezza che scoprì di possedere solo in quell’istante. Come se avesse paura di farle del male se l’avesse toccata con fare un po’ più deciso, come se avesse la sensazione che si sarebbe rotta in mille pezzettini fra le sue braccia.
Becca sentì qualcosa di caldo aderire al suo volto, e mentre cercava di prendere più aria che poteva le arrivò alle narici un odore sconosciuto, ma piacevole.
<< Ehi, va tutto bene...ci sono io. >> Dicendo ciò la strinse un po’ di più, poggiando la guancia sui suoi capelli e continuando ad accarezzarla dolcemente, mentre sperava con tutto su stesso che la porta accanto a loro si spalancasse.
Sentiva la spalla su cui era poggiata la faccia di Becca leggermente inumidita, se avesse continuato a piangere in quel modo non sarebbe mai riuscita a tornare a respirare regolarmente.
Così l’allontanò di poco per prendere il suo piccolo viso fra le mani ed asciugarle le lacrime, continuando a rassicurarla.
<< Non sei sola, ci sono io. Fra poco verrà qualcuno e usciremo da qui, Becca. >>
La vide chiudere gli occhi. E pian piano, dopo qualche minuto in cui la rinchiuse nuovamente in quell’abbraccio che avrebbe voluto proteggerla da ogni sua paura, sentì il suo respiro farsi sempre meno frenetico. I singhiozzi diminuirono e la stretta sulla sua maglia si allentò.
In quel silenzio assordante, Samuel continuò comunque a tenerla vicina a sé, ascoltando solamente i suoi respiri, aspettando finché non fossero tornati perfettamente normali.
Non sapeva dove trovare il coraggio per guardarla, voleva solamente che lei continuasse a respirare sul suo petto. Solo in quel modo si sarebbe sentito tranquillo.
Quando la vista di Becca tornò completamente e cominciò nuovamente a respirare in modo più regolare, se ne rese finalmente conto.
Che era aggrappata a Samuel Lucchesi, in ginocchio fra le sue braccia. Che lui le stava accarezzando la testa con fare dolce e le stava sussurrando all’orecchio che era lì, insieme a lei.
Non si seppe spiegare il perché, ma aveva paura di muoversi, di lasciare quella posizione e quel calore che era stato in grado di farla calmare. Sentiva che se avesse mosso anche solo un muscolo, si sarebbe sentita persa di nuovo.
In quello stanzino faceva caldo, se ne resero conto entrambi. Stavano sudando. Nessun rumore arrivava alle loro orecchie, il silenzio e l’aria impregnata dei loro respiri facevano sembrare come se, in quel mondo, ci fossero solamente loro due.
 
<< Ragazzi, siete qui dentro? >>
Samuel sembrò come risvegliarsi da un lungo sogno. Sentì qualcuno battere violentemente sul legno della porta, ma non riuscì a parlare.
<< Ehi! >>
Rebecca si allontanò lentamente da lui, che però non mollò la presa sulla sua schiena. Si distanziarono quel poco che bastò per guardarsi negli occhi, entrambi incapaci di proferire parola.
La porta si aprì bruscamente e i due sobbalzarono, alla vista del professor Meluzzi difronte a loro e della bidella –forse l’unica della scuola- che li fissava armata di cacciavite.
<< Perché non rispondevate? Alzatevi, forza! >>
Samuel lasciò improvvisamente la presa su Becca, che a sua volta deglutì e si alzò, barcollando.
<< Che è successo qui? La custode ha sentito qualcuno urlare. >> Chiese l’uomo, notando il particolare rossore degli occhi di Rebecca.
<< Allora, Nieri? >>
Ma lei non disse niente, ancora parecchio scossa visto l’accaduto, e quando il professore aprì la bocca per continuare a fare domande alquanto impertinenti, Samuel parlò.
<< È stata colpa mia, le ho detto delle cose cattive e questa scema si è messa a piangere. Che bambina! >>
Mise su il suo sorrisetto sbruffone e guardò il professore con aria di sfida, incrociando la braccia.
Quest’ultimo sospirò. << Mi sa che dovrai fare un’altra visita alla preside più tardi, Lucchesi.  Su, torniamo in classe. >>
Samuel sbuffò con finta irritazione, seguendo il professore e facendo cenno a Becca con la mano di camminare, ma senza guardarla.
Lei, ancora un po’ spaesata, mosse le gambe, guardando i passi di lui davanti ai suoi, cercando di imitarli per non inciampare da qualche parte, mentre il professore, un po’ più davanti a loro, discorreva con la custode di come dovrebbero essere aggiustate le porte e le finestre di quella scuola che costava più di quanto in realtà valesse, dato che stava letteralmente diventando una trappola per gli studenti.
Ma Becca non riusciva a seguire il discorso. Riuscì a parlare solo per dire l’unica parola che le stava rimbombando nella mente senza darle pace.
<< Grazie. >>
 

 
 
 
.Sproloquiando.
Okey…intanto ciao! :D Già, sarà due mesi che non aggiorno, ma fra l’inizio della scuola e altre cose ho perso un po’ di vista la fic e…mi dispiace D:
Fra l’altro la prima parte del capitolo l’ho scritta tipo un mese e mezzo fa e oggi l’ho finito. Quindi può darsi che il “modo” di scrivere sia un po’ diverso, diciamo…ma ho controllato bene e non dovrebbero esserci errori, credo sia abbastanza corretto nell’insieme.
Cooomunque accadono un bel po’ di cose in questo capitolo, è venuto anche parecchio lungo ma non potevo fare altrimenti. Il mio dubbio maggiore è di non essere riuscita a trattare bene la parte del malessere di Becca :S Mah, se c’è qualcuno che legge per favore datemi un po’ d’incoraggiamento e fatemi sapere che ne pensate :)
Baci <3

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