Think Angst di Achernar (/viewuser.php?uid=431447)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1) Vento ***
Capitolo 2: *** 2) se piangessi dichiarerei la mia sconfitta, e la compassione non fa per me ***
Capitolo 3: *** 3) Quod vides perisse perditum ducas ***
Capitolo 4: *** 4) War ***
Capitolo 5: *** 5) tu saresti in grado di rappresentare il sole per qualcuno? ***
Capitolo 6: *** 6) buio ***
Capitolo 7: *** 7) My shadow is the only one that walks beside me ***
Capitolo 8: *** 8) Malinconia ***
Capitolo 9: *** 9) Vicolo ***
Capitolo 10: *** 10) Angoscia ***
Capitolo 1 *** 1) Vento ***
Think angst (challenge)
Autore:
Achernar
Fandom:
Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing:
Yuugi Mouto
Set
mix: prompt vento
Warnigs:
character’s death; AU (e forse lievemente
OOC)
Piccola introduzione: La
prima OS della sfida è venuta lunghetta e molto, molto,
molto triste, siete avvisati, lo
scenario e le dinamiche non sono ben precisate ma io l’ho
immaginato intorno
alla prima Guerra mondiale, in Europa però, ma poi vedete un
po’ voi, si presta
bene a qualunque scenario vogliate immaginare. Beh questo è
quanto, buona
lettura
<<
Prima un piede..poi.. l’altro
Prima..un
piede, poi.. l’altro >>
Un
singhiozzo troncò i suoi pensieri, lasciando sospese nel
nulla quelle frasi che
si stava ostinando a non giudicare inutili, non doveva distrarsi, continua a pensare di camminare, continua a
camminare, la sua già esile volontà
stava vacillando. No, continua, devi andare
avanti, si
ripeteva. Non poteva fermarsi. Mai
fermarsi. Lui non avrebbe voluto
<<
Sì. Così. Pr-prima uno, poi l’altro..
>>
Bravo,
si diceva, non fermarti, continua a
camminare, vai avanti.
Avanti.
Ma
come avrebbe fatto ad andare avanti adesso. Senza di Lui era
impossibile. Chi
voleva prendere in giro.
Dovette fermarsi quasi subito, la testa rivolta verso
il cielo: il viso non era più quello di un tempo, i
lineamenti morbidi e quasi
infantili erano scomparsi, divorati e cancellati dalla fame e dalla
fatica. Gli
occhi erano rimasti a lungo identici invece, quelle iridi viola acceso,
sempre
gentili e allegre, forse era quel briciolo di speranza che ancora
abitava il
suo cuore a mantenerle vive. Abitava. Ora se ne era andato, e temeva
per
sempre. Chi avesse guardato nei suoi occhi adesso li avrebbe trovati
sbiaditi,
consumati dal dolore e dal pianto, vuoti.
Il
cielo era cupo, incolore, un manto, una cappa densa e pesante che
sembrava
voler precipitare su di lui e soffocarlo. Sarebbe stato meglio? Non
avrebbe più
sofferto?
Aprì
bocca, nella sua mente apparve l’immagine di sé
stesso, si vedeva quando da lì
a poco avrebbe teatralmente urlato tutto il suo dolore al cielo, per
poi
infuriarsi, maledire il mondo, gridare una vendetta che ben sapeva non
avrebbe
mai avuto il coraggio di attuare, e poi sfinito dal parlare si vedeva
già
crollare a terra in ginocchio, la testa questa volta bassa, il mento
sul petto,
mentre fiumi di lacrime e singhiozzi gli impedivano di pronunciare
qualunque
altra inutile parola. Sarebbe stato tutto
inutile, prendersela col cielo, inveire, augurarsi la morte...ma almeno
si
sarebbe liberato, almeno un po’...
Eccolo
allora aprire di nuovo bocca, per rendere concreto ciò che
aveva appena immaginato,
ma non lo fece.
Freddo.
Cos’era?
Cos’era quella sensazione improvvisa? Qualcosa stava
interrompendo il suo sfogo
di dolore, già mentalmente pianificato e per quanto inutile,
ancora in
programma. Era freddo, veloce, fischiava e ululava, lo colpiva, ora una
carezza, ora uno schiaffo.
Vento.
Non
poteva più parlare ormai, il vento gli aveva portato via le
parole e quel poco
di volontà rimasta per pronunciarle. Si era levato
all’improvviso, così come
all’improvviso Lui se n’era andato. Per sempre.
Ora sì
che era solo, gli avevano portato via tutto, tutti i suoi affetti e ora
chi per
lui era quanto di più importante al mondo. E con Lui anche
metà di sé stesso,
della sua anima, era morta, andata via per sempre. Perché
Lui era l’altro sé
stesso, l’altra metà della sua anima. Del resto lo
dicevano tutti che due come
loro si completavano a vicenda, non funziona forse così con
i fratelli, con i
gemelli? Forse era per questo che si sentiva così nudo in
questo momento, così
inutile e solo, di fronte agli orrori di un mondo assassino e perfido,
così
insensibile da avergli portato via tutto ciò che era
rimasto nella sua vita.
A che
serviva gridare adesso? Il vento aveva portato via quelle poche parole
e non
sarebbero tornate neanche loro, non così presto, sulle sue
labbra. Si fermò
semplicemente, immobile, occhi chiusi, respiro lento, in ascolto.
Perché il
vento aveva una sua voce e cosa avrebbe mai potuto dire di
così terribile da
smuoverlo dopo ciò che gli era appena successo, qualunque
cosa avesse detto
sarebbe stata positiva.
Un
sussurro, flebile ma solenne, sembrava un lamento: il vento piangeva
con lui?
Voleva confortarlo? No, si concentrò di più,
forse sperava di distrarsi per un
po’.., erano voci, riusciva a distinguere delle voci, voci di
anime disperse,
disperate, chiamavano aiuto, dicevano vendetta, piangevano.
La
voce del vento lo portò indietro, al suo fratello di tanti
anni prima, Lui, il
coraggioso dei due, che lo sfidava sempre a vincere le sue paure.
Organizzava
dei giochi speciali, solo per lui, lo metteva alla prova, ed era
così fiero quando
vedeva che diventava poco a poco più sicuro di sé
e spavaldo; una notte lo
aveva portato addirittura in un cimitero e avevano passato il tempo a
raccontarsi leggende e storie terribili. Era stato così
contento di non averlo
deluso quella volta, non si era spaventato mai, neanche quando il vento
gelido
aveva spento il fuoco lasciandoli completamente al buio, la sinistra
sagoma
delle lapidi appena illuminata dalla sottile falce di luna e gli
ululati del
vento stesso che sembrava chiamare a sé le anime che
riposavano in quel luogo.
No, vicino a Lui non aveva paura.
Era
lo stesso vento, gelido messaggero, che ora gli parlava e gli sferzava
il volto.
Un flebile, timido sorriso, si fece spazio sul suo viso. Doveva molto a
suo
fratello. Era merito suo quello che era diventato, certo anche lui
aveva fatto
la sua parte, soprattutto nel placare quel temperamento così
focoso che non
ammetteva mai repliche. E ora... era successo tutto così
presto, non si sentiva
pronto, non poteva essere lasciato solo adesso, aveva così
tanto da imparare
ancora, Lui gli aveva promesso che avrebbero fatto qualunque cosa
insieme, non
lo avrebbe lasciato mai, che sarebbe sempre stato al suo fianco per
aiutarlo e
proteggerlo e la stessa cosa aveva giurato lui.
Perché?
Perchè
doveva andare così? Perché
Lui e non me?Perchè non
tutti e due, non poteva
vivere, andare avanti senza l’altro sé stesso.
“Ritorna,
ti prego”
sussurrò
mentre una lacrima calda trovava la sua strada verso le labbra, lungo
la
guancia impolverata.
Ma non arrivò mai alla bocca, il vento la portò
con
sé, insieme ad altre voci e alle parole appena
bisbigliate
da Yugi.
Vi avevo avvertito,
è triste.
Piccola
nota: credo sia abbastanza chiaro, ma il
fratello gemello sarebbe Atem (o Yami, è la stessa cosa);
quando scrivo “Lui”
mi riferisco ad Atem, “lui” invece è in
genere Yugi, ho preferito non dare loro
un nome fino alla fine. Non doveva proprio finire così,
volevo continuarla un po', ma poi rileggendola mi
sembrava che la fine col nome Yugi e il vento che asciuga la lacrima
cadesse a
pennello, speriamo..
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Capitolo 2 *** 2) se piangessi dichiarerei la mia sconfitta, e la compassione non fa per me ***
Autore:
Achernar
Fandom:
Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing:
Yuugi Mouto; Yami no Yuugi
Set
mix: prompt "Se io piangessi dichiarerei
la mia
sconfitta, e la compassione non fa per me.”
Meno
triste,
sempre una sorta di monologo interiore di Yugi, forse un tantino OOC
anche stavolta.
Yugi si
chiede come possa l’altro sé stesso essere
così insensibile (c’è anche il
solito riferimento al duello con Kaiba)
Come poteva,
come poteva condannare la gente senza battere ciglio. Essere sempre
così
imperturbabile. Quegli occhi erano rossi e vivi, crepitanti come il
fuoco ma il
suo cuore era di ghiaccio, nulla lo scalfiva, nulla lo toccava.
Eccolo lì, ancora
una volta pronto a fare del male. Occhio per occhio, dente per dente.
Era quella
la sua filosofia, una filosofia che se inizialmente lo aveva confortato
e fatto
sentire al sicuro, ora lo spaventava. Non aveva il coraggio di opporsi
però:
come poteva contraddire l’unica persona al mondo che si
preoccupava seriamente
per lui? E poi, aveva troppa paura di una sua reazione. Ma
più che paura ciò
che animava il ragazzo era stupore. Come faceva? Come faceva, diamine,
a essere
così freddo e spietato con tutti. Era almeno umano? Buffo,
chiedere a uno
spirito se fosse umano. Sì, magari lo era stato, ma ora non
più. Chissà se ai
suoi tempi era ugualmente così duro, perfino crudele. Non
era sicuro di volerlo
scoprire, più andava avanti e minore era la sua
volontà di scoprire chi fosse
quello spirito che si impossessava del suo corpo, senza neanche
chiedergli
permesso, e lo utilizzava per amministrare la sua presunta giustizia,
ormai, lo
aveva capito, fatta di violenza e superbia, egoismo e orgoglio. Non
poteva
giudicare gli altri in quel modo, mettere in gioco la loro vita come se
nulla
fosse, anche se lo faceva per proteggere il suo ospite, che aveva preso
a
chiamare affettuosamente Aibou, compagno. Ecco, in quel momento, quando
aveva
ricevuto quell’epiteto che lì per lì
gli era sembrato premuroso e amichevole, Yugi
aveva sperato che qualcosa potesse cambiare, che quel suo cuore di
ghiaccio si
stesse sciogliendo, ma era stata tutta un’illusione. Falso,
lo spirito era
falso e ipocrita, o forse no, era davvero così, convinto di
agire nel giusto e
di compiacerlo.
Come aveva
potuto chiamarlo Mou Hitori no Boku, lui non era insensibile e
impassibile, no,
ne era certo. Eppure avrebbe voluto, non voleva ammetterlo, ma in certi
momenti, quando si approfittavano di lui, lo bistrattavano, avrebbe
voluto. Così
che potesse scivolargli tutto via, che nessuno lo attaccasse
più.
Paura,
stupore, invidia. Ecco cosa gli suscitava la
vista dell’altro
sé stesso, e quanto ci aveva messo ad ammetterlo. Dopotutto
era vero, voleva
diventare come lui per non dover dipendere più da lui, non
sopportava di
sentirsi così debole. Ma provava anche rabbia.
Se solo lo avesse lasciato fare qualche volta, invece di prendere
subito il controllo
per agire secondo la sua presunta giustizia, se solo lo avesse lasciato
fare...
Ma se solo cosa? No, non sarebbe cambiato nulla, non poteva fare a meno
dell’altro
sé stesso, non più, non riusciva ad essere
spietato e impassibile, soprattutto
impassibile. Se ne vergognava ma spesso calde lacrime si accumulavano
nei suoi
occhi, offuscando quel viola così infantile. E poi,
lentamente ma
inesorabilmente, rivoli, fiumi di liquido salato rigavano le sue
guance. Lo
spirito no invece. Mai una lacrima, mai un velo di umidità
aveva offuscato quelle
iridi cremisi profondo: fuoco gelido. Neanche quella volta, la
più dura di
tutte, quando era riuscito, una sola volta, a impedirgli di compiere un
altro
dei suoi omicidi, quando lo spirito alla vita e alla sconfitta aveva
preferito
la morte e la vittoria. Era sconvolto, e credeva che anche
l’altro sé stesso lo
fosse, almeno un po’. Invece no, impassibile come sempre si
era limitato ad
andare avanti, guidato dal suo orgoglio e dalla sua presunzione.
Come faceva?
Come era riuscito a non piangere? Yugi non aveva resistito, e spinto
dalla
curiosità aveva dovuto domandarglielo. Una risposta
tagliente, se la aspettava
del resto, ma rimase comunque senza parole, e in quel momento
l’ammirazione
cedette il passo alla paura:
“Se
io piangessi dichiarerei la mia
sconfitta,
e
la compassione non fa per me.”
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Capitolo 3 *** 3) Quod vides perisse perditum ducas ***
Autore:
Achernar
Fandom:
Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing:
Yuugi Mouto; Atem
Set
mix: prompt "Quod vides
perisse perditum ducas"
A volte accadeva
così, ogni tanto
qualcosa riaffiorava, tornava a galla. Ricordi. Frammenti di una vita
passata e
terribilmente lontana. Come sapeva che era proprio lui la persona che
vedeva
continuamente in quei flash? Avrebbe potuto benissimo essere qualcuno
che gli
somigliava e basta. Lui non era più lui. Non quello di un
tempo. Non più. La
sua vita si era azzerata, la memoria era stata cancellata via, le
emozioni, i
sentimenti, le sensazioni... nulla, non provava più nulla.
Aveva dovuto
imparare poco a poco, attraverso il corpo di qualcun altro, era,
insomma,
vissuto due volte. Non aveva più nulla a che fare con il
sé stesso del passato,
quel misterioso re di tremila anni fa. Anzi, non lo amava neppure, era
a causa
sua che aveva sofferto e soffriva così tanto, e con lui chi
gli stava intorno,
sarebbe stato meglio essere morti e basta. Una mummia, vecchia di
millenni, e
basta così, nessuno spirito senza nome e identità
a tormentarsi in un maledetto
oggetto d’oro, fracassato in decine di pezzi, per secoli e
secoli. Eppure anche
quello che aveva trovato e imparato in questa seconda, breve, vita
accanto al
suo Mou Hitori no Ore non faceva che trascinarlo verso quella vecchia,
chissà
se anche allora agiva così? Chissà se provava le
stesse emozioni? Aveva degli
amici? Era come adesso? Si rendeva conto che la nuova
identità che aveva
ottenuto non andava bene, non era quella giusta. Non poteva separarsi
dal sé
stesso del passato e questo pensiero lo tormentava. Perché
non poteva
semplicemente lasciarsi tutto alle spalle, continuare la sua esistenza
di
adesso e lasciare tutti in pace, in primo luogo sé stesso.
Inseguire i suoi
ricordi era tempo sprecato, erano solo ricordi: passati.
Era un’illusione,
il sé stesso del
passato e le speranze che i frammenti di memoria riaffiorati ogni tanto
gli
davano, tutte chimere.
Stavolta però era
stato anche peggio,
era un ricordo così bello, così reale quello
appena riaffiorato.
Era lì, correva
per corridoi lunghissimi
e colonne imponenti e minacciose, con la gola secca e il fiatone, ma
continuava
a correre più veloce che poteva, verso un’enorme
porta. D’un tratto la luce lo
investì, si portò una manina sugli occhi
(chissà quanti anni aveva allora...) e
si fermò alla vista di un uomo a cavallo, di fronte a lui.
Aspetto regale,
figura solenne e fiera, non sapeva come ma era certo di conoscerlo. Il
piccolo
sé stesso riprese a correre, tendendo le mani verso
quell’uomo. Non poteva
vederne il volto, per quanto si sforzasse era ancora avvolto come in
una nebbia
scura.
Il bambino era arrivato alle
gambe
dell’uomo, intanto sceso da cavallo, che lo abbracciava
affettuosamente.
“Padre”
disse prima di affondare la
testolina nel petto di lui.
Rabbia,
rabbia e frustrazione. Era così atroce, non aveva una
famiglia, non aveva una
tomba su cui eventualmente piangere i suoi cari, non aveva nessun
ricordo di
loro, come se non fossero mai esistiti, e
l’unico, microscopico brandello di memoria di
suo padre non faceva che
farlo sentire ancora più solo, sconfortato e impotente. Era senza volto, lui era lì,
aveva potuto toccarlo, rivivere quel
momento, ma quell’uomo restava senza faccia, irriconoscibile,
perduto per
sempre nei meandri della sua amnesia, destinato a non avere mai
un’identità.
Neanche lui.
Perso, perso per sempre,
morto insieme a
anni e anni di vita, di esperienze e sentimenti smarriti in un passato
lontano,
che occasionalmente tornava a bussare alla sua mente già
abbastanza tormentata
e lo faceva soffrire, lo torturava, lo straziava con le sue false
speranza, lo
illudeva di poterlo raggiungere e riviverlo.
Ma era impossibile, quello
che è perso,
quello che è morto, non ritorna.
Quod vides perisse perditum ducas
è uno degli esametri più famosi di Catullo (quello che vedi morto\perso
giudicalo perso\tale), ho cercato di seguire un po' le
linee del carmen di cui fa parte, il primo verso infatti cita: Miser Catulle desines ineptire
ossia misero Catullo
smetti di tormentarti e infatti Atem non fa che
tormentarsi con la sua mente e i suoi ricordi...
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Capitolo 4 *** 4) War ***
Autore:
Achernar
Fandom:
Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing:
Yuugi Mouto; Atem
Set
mix: prompt war
Warnings: AU
Triste anche questa,
soprattutto se la
immaginate come antefatto di “vento”, come ho fatto
io, il che rende la prima
storia ancora più atroce per il povero Yugi...
“Shh..”
Un dito sulle labbra del
ragazzo, un
sorriso triste pur di tentare di consolarlo, una mano sulla sua spalla
per
fargli forza, ma anche per sorreggere sé stesso.
Singhiozzi. Il ragazzo era
in preda a
convulsioni, le lacrime bagnavano il viso, correvano giù
lungo le guance, fino
al mento, e da lì numerose gocce erano già cadute
in terra.
L’altro, identico
l’aspetto eppure più
composto nonostante il dolore, tentava di fargli forza
“Shh, Yugi. Ora
basta” disse piano, con
una dolcezza ammantata di tristezza, prima di stringerlo a
sé, il viso di
entrambi sulla spalla dell’altro, ora una lacrima aveva
cominciato la sua discesa
lungo il volto anche dell’altro ragazzo. Gemelli eppure
avevano sempre avuto un
modo diverso di esternare le proprie emozioni, lui tendeva a non
mostrarsi mai
debole, mai mosso da nulla. Ma questo era troppo anche per lui. Poco a
poco da
una lacrima divennero due, poi tre, infine anche lui, ancora stretto
nell’abbraccio
del fratello, strinse con più forza le braccia intorno alle
spalle di Yugi e
cominciò a piangere. Lentamente i due si accasciarono a
terra, in ginocchio. Piangevano,
il primo singhiozzava rumorosamente e continuava a mormorare frasi
rotte e
vuote, scuotendo la testa, il secondo silenziosamente, le sue lacrime
cadevano
senza quasi che se ne rendesse conto, lo sguardo perso davanti a
sé, le iridi
cremisi prive di un punto di riferimento.
Tanto, troppo tempo che
quella stupida,
orrenda guerra, aveva devastato le loro vite. Il villaggio in cui erano
cresciuti era irriconoscibile, ridotto ormai a un cumulo di macerie, il
bosco
dove giocavano da bambini era stato sfigurato dagli incendi, e la loro
casa ora
non era altro che detriti e se non fosse stato per il fumo che ancora
si
innalzava al di sopra di essi, avrebbe potuto essere scambiata per le
rovine di
una qualche antica civiltà.
Ormai non gli era rimasto
più nulla. Prima
i loro parenti, poi i loro amici, ora la loro madre. Soli. Adesso erano
davvero
soli davanti a quel mondo crudele e spietato che continuava a giocare
con le
loro vite e a rendere le loro esistenze sempre più
tormentate.
Il corpo esanime della donna
era ancora
in casa, nessuno dei due l’aveva tirato fuori. Yugi per paura
di vedere in che
stato fosse, dilaniato dalle fiamme e dalle pietre, e suo fratello Atem
per
paura di lasciare da solo Yugi anche soltanto per i pochi minuti
necessari a liberare
la spoglia dai resti di quella che era stata la loro casa. Erano
semplicemente
lì fuori, a piangere, fra i fumi di un incendio non ancora
del tutto domato, i
rumori assordanti e orribili dei cannoni e dei mitragliatori, il
pungente odore
di bruciato e zolfo e un senso assoluto di abbandono e sconforto.
Lentamente come si erano
accasciati, si
risollevarono, prima Atem, poi Yugi, che ancora non riusciva a
mantenere un
respiro regolare e cercava inutilmente di impedire alle lacrime di
bagnargli
ancora il viso pallido e smunto
“C-che faremo
adesso. Non c’è più ne-nessuno.
Nessuno “ disse fra i singhiozzi che a stento riusciva a
controllare
“Non è
vero. Ricorda che non saremo mai
soli” si sforzò di sorridergli Atem
“Mai,
soli?”
“Tu avrai sempre
me, e io avrò sempre
te. Non saremo mai soli” stavolta il sorriso era
più sincero, spontaneo, quelle
poche parole fecero affiorare un flebile barlume di speranza in entrambi
“Lo giuri?
Giuramelo.”
“Lo giuro, non ti
abbandonerò mai, Yugi”
“E io giuro di
starti sempre vicino. Sempre”
suo fratello aveva ragione, finché c’era lui non
sarebbe mai stato solo. Ora era
lui la sua famiglia, i suoi amici, la sua casa. Tutto ciò
che gli era rimasto
nella vita.
“Andiamo
ora” disse lentamente il ragazzo
dagli occhi cremisi
“Dove?”
“Non lo so,
lontano..”
“E...”
Yugi non ebbe la forza di finire
la frase: << E mamma ? >>, si
limitò a indicare con il dito il
cumulo di macerie annerite dal fuoco.
Atem si voltò,
era vero, non potevano
abbandonarla così, ma non poteva neanche lasciare suo
fratello da solo per quel
tempo che gli serviva a dare una sepoltura decente alla madre.
Mise una mano sulla spalla
di Yugi e si avvicinò
ai ruderi, il ragazzo lo seguiva titubante e visibilmente scosso. Atem
afferrò
con entrambe le mani un grosso pezzo di quello che un tempo era stato
un muro
per sollevarlo e cercare di liberare il corpo da sotto le macerie.
“Mi
aiuti?” disse sorridendo tristemente
prima di cominciare a smuovere la pietra.
Il ragazzo ebbe un attimo di
esitazione,
non voleva vedere cosa c’era là sotto, chi
c’era là sotto, e non tanto per
l’aspetto che poteva avere ma perché questo
avrebbe significato che era davvero morta, persa per sempre. Ma non
poteva
tirarsi indietro, grazie a suo fratello era sempre riuscito ad
affrontare le
sue paure e decise di farlo anche stavolta.
“Certo”
annuì cercando di mostrarsi il
più convinto possibile, e si avvicinò afferrando
un altro pezzo di mattone per
fare leva.
Era notte adesso. Avevano
ormai dato
fondo a tutte le lacrime che avevano in corpo e in un modo o
nell’altro erano
riusciti ad arrangiare una piccola tomba per la donna e ad adagiarvi
una croce
di assi di legno in quello che un tempo era il loro giardino. Essere in
piedi
di fronte a una lapide era un’esperienza diventata di triste
routine negli
ultimi anni. Quando tutto questo avrebbe avuto fine? Il pensiero
però che
fossero ancora insieme li confortava, finché
c’erano l’uno per l’altro
avrebbero resistito, nonostante i colpi spietati della sorte.
“Atem...”
“Si?”
“Ricorda che hai
promesso.” Disse Yugi,
aveva bisogno di sentirsi confortato, che qualcuno gli dicesse che non
era
solo, di avere fiducia, ora che tutte le sue certezze si erano dissolte
come i
sogni poco prima dell’alba
“Non potrei mai
dimenticarlo. Non ho
intenzione di lasciarti da solo, né ora ne mai. Tu piuttosto
hai giurato..”
“.. di starti
sempre vicino e lo farò. Sarò
la tua ombra” un timido sorriso sfiorò i volti dei
due
“E poi, sai, io e
te siamo come due metà della
stessa anima: l’una non
può esistere senza l’altra..”
aggiunse Atem, quell’idea della stessa anima
era di loro nonno e l’avevano sempre trovata perfetta per
descrivere il loro
rapporto
“.. e
viceversa. Finché saremo insieme saremo completi, nessuno
potrà abbatterci”concluse
la frase nel modo in cui era solito dirla l’anziano uomo,
tanti anni prima.
“Ben
detto” sospirò il ragazzo. E in per
quel breve momento, la nostalgia prese il posto della tristezza e del
dolore.
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Capitolo 5 *** 5) tu saresti in grado di rappresentare il sole per qualcuno? ***
think angst 5
Autore:
Achernar
Fandom:
Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing:
Atem
Set
mix: prompt "tu saresti in grado di rappresentare
il sole per qualcuno?"
Piccola nota: nel manga non si spiega
quando Atem salì
al trono, io ho immaginato nella pre-adolescenza, dodici, massimo
quattordici
anni
Guardò ancora
l’immagine riflessa nella
superficie liscia e perfettamente lucida. A chi poteva mentire? Di
certo non a
se stesso: quello che vedeva era come appariva realmente, la sua
essenza era
messa a nudo lì, adesso, sulla piastra metallica finemente
lavorata, e quello
che vedeva non poteva che fargli ancora più male.
Occhiaie, capelli ancora più indomati
del solito, persino pallore, nonostante il colorito bronzeo, tratto
distintivo
del suo popolo.
Ma quello non era il vero
problema:
presto i servi sarebbero entrati, lo avrebbero agghindato, vestito,
preparato,
nessuno sarebbe stato in grado a quel punto di accorgersi di tutte le
ore di
sonno che aveva perso nelle ultime settimane, dei pasti che aveva
saltato...
No, il vero problema era un altro. E lo
vedeva chiaramente, riflesso nell’oro.
Nonostante la vistosità della sua capigliatura,
era un altro il tratto che lo aveva sempre distinto maggiormente, che
colpiva
subito della sua persona: gli occhi.
Occhi magenta, tra il cremisi e il
viola, fieri, sicuri, profondi e forti. Occhi da sovrano.
Così gli era sempre stato
detto.
Ma non erano gli occhi di un sovrano che
vedeva riflessi ora nello specchio. Erano gli occhi di un bambino
spaurito, di un
figlio abbandonato, di un ragazzo impaurito
e profondamente solo.
Erano occhi spenti e timidi quasi, privi
di punti di riferimento, che sembravano aver perso la baldanza di un
tempo...inesorabilmente? Aveva voglia di piangere, di urlare di rabbia
e frustrazione,
sbattere i pugni su quel metallo impietoso che si prendeva gioco di
lui,
correre fuori, davanti alla folla e gridare che era tutta una messa in
scena. Chi
era lui in fondo? Solo un ragazzo, praticamente ancora un bambino, che
aveva
appena perduto la persona più cara al mondo e senza
possibilità di lamentarsi si
era ritrovato all’improvviso a dover portare sulle sue spalle, ancora esili, il
destino di un intero, immenso regno, di cui lui doveva essere il punto
di
riferimento, il faro, la luce, il sole. Già, il faraone
è l’incarnazione di Ra,
il dio sole... ma in questo momento la luce non gli dava alcun
conforto,
avrebbe preferito continuare a sprofondare nel suo dolore in privato,
al buio, logorarsi
l’anima come negli ultimi settanta giorni ripetendosi che era
tutto inadeguato,
prematuro, ingiusto, che se lui doveva essere il sole
dell’Egitto, la sua
guida, chi avrebbe guidato lui, poco più di un bambino, ora
che suo padre era
morto.
Eppure non aveva scelta, se c’era una
cosa che aveva imparato era che non bisogna mai arrendersi, continuare
ad
andare avanti e lottare, con tutte le proprie forze, fino
all’ultimo.
Guardò ancora la
su immagine nello
specchio d’oro appeso alla parete. Quegli occhi pietosi e
tristi ora gli
facevano pena, rabbia, schifo. Non poteva ridursi così,
eppure sentiva
semplicemente di non avere la forza di andare avanti, di chiudere il
capitolo
della sua vita da bambino, figlio, principe e aprire quello successivo,
scriverlo, impersonando il ruolo di adulto, guida, re.
Sospirò, cosa avrebbe dato per un
consiglio da suo padre, ma d’ora in poi sarebbe stato solo, e
non sapeva per
quanto. Dalla morte del padre sentiva come un vuoto intorno a lui, un
baratro fra lui e la gente, e questo baratro si sarebbe allargato
ulteriormente
da lì a poche ore e non poteva farci niente.
Fissò lo specchio di nuovo,
cercando di sfoderare il suo sguardo più
sicuro, fiero, intenso di tutti...all’improvviso
entrò qualcuno.
Atem si
girò, disse all’uomo, che vedendo il suo principe
si era prostrato, di alzarsi
e gli domandò cosa volesse. L’uomo rispose che era
tutto pronto, quando lo avesse
comandato lo avrebbero preparato celermente e la cerimonia avrebbe
potuto avere
inizio:
“E da domani sarai
il nostro nuovo sole,
Luce dell’Egitto” si inchinò nuovamente
e uscì a capo chino.
Atem
rimase immobile per qualche istante, riguardò la superficie
dorata e lucida e l’immagine
che essa offriva: il sé stesso spaurito e addolorato. Con
quell’immagine, lo
specchio sembrava lanciargli una sfida, a cambiare, a divenire il sole
del suo
stato. Ammiccò un sorriso, se si trattava di una sfida
allora, avrebbe
sicuramente vinto.
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Capitolo 6 *** 6) buio ***
Autore:
Achernar
Fandom:
Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing:
Yuugi Mutou
Set
mix: prompt buio
La stanza era ammantata dal
silenzio e la casa,
la via non facevano eccezione. Gli unici
suoni che ogni tanto, timidamente e con prudenza, spezzavano il
silenzio, erano
i suoi respiri cadenzati e quieti. Yugi
era
seduto sulla sua scrivania, lo sguardo perso al di là dei
vetri della sua
finestra, in una posa caratteristica dell’altro sé
stesso, considerato anche l’orario:
notte fonda. Un buio
totale avvolgeva la
sua camera, riusciva a malapena a vedere i propri pensieri in
quell’assoluta assenza
di luce, era come se quell’atmosfera lo soffocasse poco a
poco.
Tenebre, tenebre e
oscurità ovunque. Persino
fuori, in strada, non c’era una sola luce, neanche di
un’auto di passaggio,
forse era troppo tardi anche per gli automobilisti.
Questa volta era riuscito a
stare un po’
da solo, a pensare, aveva pregato il suo Mou Hitori no Boku di restare
nel
puzzle quella notte, di non vegliare su di lui come suo solito e lo
spirito,
nonostante molte riserve ed esitazioni, aveva acconsentito.
Tirò un sospiro di
sollievo al solo pensiero: quell’essere lo inquietava
profondamente con la sua
sola presenza, saperlo al suo fianco la notte non gli faceva affatto
dormire
sogni tranquilli, emanava come un’aura misteriosa,
pericolosa, buia, e lui
aveva sempre avuto paura del buio. Il buio dove non sai cosa stai
guardando, il
buio dove le parole restano soffocate in gola, il buio dove ogni
speranza
sembra svanire, divorata dalle tenebre. Eppure ormai avrebbe dovuto
sentirsi a
suo agio nelle tenebre, l’entità più
tenebrosa che avesse mai conosciuto era al
suo fianco, qualunque pericolo portato dal buio non sarebbe mai stato
potente
quanto colui che la gente chiamava Yami no Yuugi, Yugi delle Tenebre.
Al solo
pensiero però rabbrividiva, la paura si impossessava di lui
e cominciava a
tremare. Si era sempre odiato per essere così insicuro e
pauroso ma stavolta
non poteva biasimarsi, chiunque avrebbe avuto paura di un essere che
era la
personificazione stessa delle tenebre, e infatti tutti lo temevano,
temevano la
sua collera, la sua vendetta, i giochi delle tenebre e Yugi temeva
persino la
sua sola presenza, e le cose non miglioravano perchè lo
spirito si era
prefissato di proteggerlo da tutto e da tutti e quindi non lo lasciava
mai solo,
MAI . Aveva voglia di urlare, correre, si sentiva impazzire ogni
secondo di più
al pensiero che lui lo stesse osservando, perché era sicuro
di non essere solo
neanche in questo istante, un occhio magenta severo e indagatore, che
lo
scrutava continuamente, guardava dentro la sua anima anzi, ci viveva
dentro la
sua anima! E Yugi non aveva nulla in contrario, anzi. Era sempre
gentile con
tutti e si sentiva così solo che avere qualcuno con cui
condividere tutto,
anche la sua anima, non sarebbe stato un problema, ne sarebbe stato
contento. Ma
il suo Mou Hitori no Boku non era proprio un
“qualcuno” né un
“qualcosa”, lo stesso
spirito doveva ancora capire cosa fosse e Yugi aveva la sua idea in
proposito. Tenebre,
oscurità, buio. E lui aveva sempre avuto paura del buio.
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Capitolo 7 *** 7) My shadow is the only one that walks beside me ***
Autore:
Achernar
Fandom: Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing: Yuugi Mutou, Yami no Yuugi
Set mix: prompt “My
shadow is the
only one that walks beside me”
Nota:
questa storia viene raccontata da due punti di vista:
Yugi
Atem
ed
è una what if? perché si basa
sull’eventualità che anche dopo aver completato
il puzzle, Yugi resti senza amici.
Eccomi
qui,
di nuovo solo come.. come..non lo so neanche io come: neanche il
classico cane
sarebbe più solo di me, ne sono sicuro. Almeno avrebbe un
padrone, o altri cani
con cui litigare, abbaiare alla luna, magari persino fare amicizia...
forse è
per questo che sono solo? Perso a cose assurde come i cani che fanno
amicizia?
Ormai ho smesso di chiedermelo, sto cominciando ad accettare la
realtà, non è
facile, neanche bello, ma almeno aiuta. ‘Yugi: sei solo.
Accettalo, fattene una
ragione e continua a vivere, smettila di prenderti in giro ripetendoti
che non
vivi in completa solitudine..’ però in effetti
è vero: in effetti mi piace
lamentarmi e annegare nel mio stesso sconforto, piangermi addosso, e
così non
vedo quello che ho. Perché mi sento solo? Perché
non ho amici. Ma questo non
vuol dire essere proprio soli, giusto? C’è sempre
la mia famiglia. Certo, due
persone... meglio di niente. E poi c’è lui. Lui,
quello che mi sta guardando in
questo momento con uno strano sguardo, che fluttua accanto a me,
trasparente,
incapace di toccare ed essere toccato, e che non mi lascia mai, nemmeno
un
istante, certo, a meno che non glielo chieda, è piuttosto
educato devo dire,
almeno con me: forse perché si sente a disagio a dover
‘vivere’ così come un
parassita nel mio corpo. Ma a me non importa, può farci
quello che vuole col
mio corpo se gli va, magari avrà più fortuna di
me. Lui non merita tutta questa
solitudine a cui lo costringo, è l’unico con cui
io possa parlare, che mi
ascolta sempre, e sono sicuro che se potesse parlerebbe volentieri con
qualcun
altro per cambiare. Certo, se mi abbandonasse anche lui allora sarei
davvero
solo, ma non posso costringerlo a stare con uno come me. Andiamo: non
ho una
personalità così brillante, è stato
sfortunato, poteva capitare meglio e invece
gli sono toccato io che- perché ora mi fissa con quegli
occhi così penetranti?
Si sta avvicinando ancora di più, sembra preoccupato,
triste... e questa cos’è?
Una lacrima, una mia lacrima che è scesa dalla guancia,
tanto per cambiare, non
credevo di stare piangendo assorto com’ero nei miei pensieri.
Scusa Altro Me, perdonami
per essere così debole, meritavi di meglio di- e adesso? Io,
lo sento: sento
del calore! Mi- mi sta abbracciando...
Eccolo lì, di
nuovo assorto nei suoi pensieri, che si fa del
male pensando a quanto sia inutile, a quanto sia solo, a quanto sia
debole...
perché ti fai questo Yugi? Perché non apri gli
occhi? Lotta, combatti per la
tua felicità, hai più forza di quanto non
immagini e io lo so bene. Io, che
vivo dentro la tua anima, come un clandestino, che non so chi sono, chi
ero
forse, che cos’è la mia vita, se la posso chiamare
tale. Non ho risposte, gli
altri mi vedono come un pericolo, una minaccia, eppure tu non hai
esitato
neppure un istante ad accogliermi, a donarmi tutto quello che avevi, a
condividere con me ogni singolo momento. Non è coraggio
questo? Non è stato un
salto nel buio il nostro incontro? Eppure tu hai saltato, senza nessun
dubbio,
ti sei buttato nel vuoto, nell’oscurità
dov’ero io. E dalle ombre mi hai tirato
fuori, ecco, forse sono questo: un’ombra. Ma lascia che sia
la tua ombra, sei l’unica
persona di cui mi
curi, sei così buono, così- perché
quello sguardo triste compagno? Aibou,
perché all’improvviso hai messo via il rompicapo
con cui stavi giocando? Ti
conosco, abbassare lo sguardo per non incontrare il mio non ti
aiuterà: io so quello
che stai pensando, quello che
provi adesso. Ho visto quel lampo di colpevolezza nei tuoi occhi,
quell’istante
in cui hanno guardato i miei prima di voltarsi in terra. Di cosa ti
senti
colpevole Yugi? Nei miei confronti poi... chi dovrebbe essere in colpa
sono io,
è così ovvio. Sono piombato nella tua vita dal
nulla, ti ho reso le cose ancora
più difficili, certa gente pensa che tu sia pazzo quando
parli con me, ma a te
non importa perché fai di tutto per farmi sentire a mio
agio, per farmi sentire
una persona. Io ti devo così tanto, come puoi pensare di non
aver fatto
abbastanza per me- adesso stai piangendo, lo vedo bene. Non tutti hanno
il
coraggio di piangere; piangere non è una debolezza, anzi, le
lacrime portano
con sé il messaggio che tu tieni a quella cosa, a quella
persona. Sono quanto
di più sincero esista, sincere come te. Se solo potessi
toccarti, vorrei farti
sentire al sicuro, consolarti, ringraziarti. Non mi importa se non
sentirai,
non riesco a vederti piangere senza una spalla su cui appoggiarti.
“A-altro me: mi
stai abbracciando. Mi-mi
stai toccando davvero”. Lo spirito si ritrasse
all’istante, lo sguardo in
terra, desolato:
“Mi- mi dispiace
Aibou. Non dovevo. Ma non
riesco a vederti in quello stato, io-“
“Tu, mi stavi
toccando. Fallo di nuovo.
Per favore, dimmi che puoi farlo di nuovo”
“Non- non lo
so”
Lo spirito esitava, si
sentiva ancora in colpa per essersi preso
la libertà di abbracciare il ragazzo, così,
spinto dalla curiosità, Yugi sì
avvicinò e gli sfiorò la mano. Era solida, beh,
quasi. Una sensazione strana,
percepiva solidità, come in un campo magnetico. Ma era
più che sufficiente per
lui, sorrise. Poi abbassò il capo, tornò triste
come prima, forse credeva di
aver annoiato lo spirito con i suoi modi infantili. L’altro
se ne accorse e gli
si avvicinò di nuovo:
“Perché
pensi una cosa simile?”
“Cosa?”
“Lo sai, Yugi.
Sono io che dovrei sentirmi in colpa, non tu.”
“Io non sono
abbastanza. Mi dispiace, non ti è capitato un
compagno molto-“
“Non voglio
neanche sentire il resto della frase”. Yugi lo
guardò negli occhi, temeva di averlo irritato, invece non
era uno sguardo colmo
d’ira quello che gli rivolse l’altro sé
stesso:
“Sei la persona
più bella che abbia mai conosciuto, la più
coraggiosa, la più altruista, la più gentile. Io
posso dire quello che provo
per te solo con una parola, una sola, non è abbastanza ma
è meglio di niente: grazie.
Grazie per aver raccolto questa
ombra e averle dato un posto nella tua vita, grazie di preoccuparti
così tanto
per me, più di quanto dovresti e di quanto io
dovrei fare con te. Grazie, grazie infinite,
perché sei il mio unico amico.”
Avrebbe voluto abbracciarlo
di nuovo, ma non voleva sembrare
troppo invadente, per fortuna ci pensò Yugi, che gli
saltò quasi addosso, con
gli occhi lucidi.
Chi
l’ha detto?
Chi l’ha detto che sono solo. Come ho potuto essere
così stupido. Ho un amico
anch’io, ed è il migliore che abbia mai sognato di
avere. Dovrei essere io a
ringraziare:
“Grazie Mou Hitori
no Boku, grazie amico mio”.
Lo, so:
dopo
tanta tristezza ci ho inserito un quasi lieto fine. Assolutamente non
puzzleshipping: sono solo amici.
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Capitolo 8 *** 8) Malinconia ***
Autore:
Achernar
Fandom: Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing: Yuugi Mutou, Yami no Yuugi
Set mix: prompt malinconia
“La malinconia non è altro che un
ricordo
inconsapevole”
Sospirò.
Si
fermò. La punta
delle sue scarpe non era quanto di più interessante avesse
mai visto, ma
guardare verso il basso lo aveva sempre fatto sentire tranquillo, non
c’è nulla
lì in basso che possa farti del male, ci sei solo tu.
Guardando in alto invece,
avrebbe visto il cielo, e si sarebbe sentito a disagio
perché non era il suo
posto, non di lui; se guardava avanti a sé, avrebbe dovuto
affrontare le sue
paure, guardare alla vita e andare avanti, verso il futuro... restava
il
guardare indietro, ma sapeva già cosa avrebbe visto dietro
le sue spalle: il
passato, ricordi, emozioni, persone. Oh, in effetti tra la punta delle
sue
scarpe e le sue spalle preferiva queste ultime, cosa avrebbe dato per
tornare
indietro, rivivere tutto un’altra volta, altre cento, mille,
ma erano passati
tanti anni ormai. Il passato non ritorna. Mai più. In un
modo o nell’altro era
andato avanti, la vita continua e se ne era dovuta costruire una tutta
sua, con
le sue sole forze. Lui gli aveva
detto che era sicuro che fosse pronto per farcela, ecco
perché se n’era andato,
era tempo per entrambi di vivere la propria vita indipendentemente.
Beh, questo
non era proprio vero: Atem non aveva una terza vita da vivere, per lui
era
finita e basta, cosa poteva pretendere lui, Yugi? Meritava di riposare
in pace
finalmente, dopo tutto quello che aveva fatto per lui e tutto quello
che
avevano passato...
Sospirò
di nuovo.
Ecco,
ci stava
pensando ancora, stava di nuovo per tuffarsi nel mare dei ricordi,
delle
avventure, dei fasti del passato... perché era
così difficile? Persino quando
era morto suo nonno era riuscito ad accettarlo: era una persona anziana
dopotutto. È così che va il mondo: si nasce, si
vive, si muore. Punto. Aveva
vissuto la sua vita e semplicemente era giunto anche il suo momento di
andarsene. Certo, gli mancava anche lui, gli aveva voluto bene,
davvero, ma
riusciva a farsene una ragione, ad accettarlo. Perché con
Atem era diverso?
Perché, anche se era vecchio di tremila anni, sembrava un
ragazzo pressappoco
della sua età e quindi non riusciva a credere che avesse
vissuto la sua vita e
fosse giunto il suo momento? Sì, forse... sperava che col
passare degli anni
non avrebbe più dovuto porsi queste domande ma a volte, ogni
tanto, sentiva di
nuovo quel vuoto dentro di sé, quella parte di anima che non
c’era più. E
allora eccolo lì, riaffiorava come un ricordo mai sbiadito
nella sua mente, gli
occhi forti e decisi, quel sorriso particolare, di sfida, le sue parole
e
soprattutto quel giorno, il loro addio, quello non avrebbe mai potuto
dimenticarlo, lo sapeva. Glielo aveva promesso. E insieme a quel
ricordo
avrebbe sempre portato quella sensazione di vuoto, quella nostalgia e
quella
tristezza che ogni tanto riaffioravano con più forza e che
lo costringevano a
camminare, come ora, per la città, a notte fonda, alla
sciocca ricerca di altri
ricordi e alla ricerca, stavolta disperata, di qualche segno di lui.
Dell’altro
sé stesso.
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Capitolo 9 *** 9) Vicolo ***
Autore:
Achernar
Fandom: Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing: Yami no Yuugi
Set mix: prompt vicolo
Sorta di
diario interiore di Atem
durante la sua prigionia nel puzzle, l’ultimo ricordo
è un riferimento a Kuru
Elna
Sono qui. Perché
io sono,
vero? Non saprei dirlo, mi piace pensare che esisto davvero, ma non so
niente
né di me né di questo posto: da quando sono qui,
perché, né cosa sia realmente
questo luogo. Però so come
è: è
freddo, buio, inospitale, mi odia almeno quanto io odi lui. Ovunque mi
giri
vedo solo vicoli, corridoi interminabili, scale, porte,
l’opera d’arte di un
folle architetto che si è divertito a rendere questa mia
prigione un labirinto
dove orientarsi è impossibile, e questo mi fa rabbia. Mi fa
rabbia perché in
tutto questo tempo non ho fatto che vagare di stanza in stanza,
scendere e
salire milioni di gradini e aprire migliaia di porte e ogni volta che
pensavo
di trovare qualcosa dietro di esse, c’erano solo tenebre,
ombre, solitudine. Le
ombre ridono di me, le sento, le mie uniche compagne, è
divertente vedermi
vagare senza meta, perché io dopotutto non ho una meta: vago
e basta, per i
meandri di questo orribile posto, disperato e alla ricerca di qualcosa
che non
so neanche io. L’ho detto, è una ricerca senza
speranza, come farò a
riconoscerlo quando l’avrò trovato, se non so
cos’è che sto cercando? Però
continuo.
~∙∞∙
ж ∙∞∙Ж∙∞∙ ж ∙∞∙~
Ora ho qualche idea su cosa
sto cercando, non ne posso più di
sentire le tenebre che ridono di me, mi seguono ovunque, si prendono
gioco di
me perché non sono nessuno. È vero, non so cosa
sono, chi sono, perché sono qui,
da quanto... sembrano millenni... e allora ho deciso, voglio aprire
tutte le
porte perché spero di trovare le risposte alle mie infinite
domande dietro una
di esse. Non so quanto ci metterò, ma devo tentare.
~∙∞∙
ж ∙∞∙Ж∙∞∙ ж ∙∞∙~
Ho perso il conto delle
porte che ho aperto da allora,
tante, tantissime, eppure ce ne sono sempre di più, sembrano
moltiplicarsi, non
ce la farò mai... Non ho trovato nessuna risposta dietro di
esse, solo dolore.
Dolore, freddo, buio, a volte grida, minacce... mi sento soffocare, non
so se
siano le ombre che si divertono ancora con me o altri spiriti, ho
paura, ogni
volta che avvicino la mano a una maniglia sento un brivido dentro di
me, mi
manca il respiro, cosa troverò là dietro? mi
domando, e forse preferirei non
darmi una risposta se ripenso alla sofferenza che ho già
incontrato, ma devo
continuare.
~∙∞∙
ж ∙∞∙Ж∙∞∙ ж ∙∞∙~
Ho una strana sensazione da
un po’ di tempo, la percezione di
me, qualcosa dentro che mi dice che io sono un’anima. Ma
allora è qui che si
radunano le anime dopo la morte? perché io ho
dei ricordi di cosa sia la morte anche se non so
perché. Devo essere stato
un’anima davvero scellerata per meritare tutto questo,
nessuno è vicino a me a
condividere la mia pena, solo le ombre, ma loro non sono anime, ne sono
certo,
quindi solo io ho fatto qualcosa di tanto spaventoso da dover soffrire
questo
supplizio, nessun altra anima è qui con me dunque nessuno ha
peccato quanto ho
peccato io. Sono un essere orribile. Devo
aprire le porte, nascondono minacce e dolore, ma dietro di esse ci deve
essere
il ricordo della mia colpa, devo sapere cos’è.
~∙∞∙
ж ∙∞∙Ж∙∞∙ ж ∙∞∙~
Non voglio più
continuare. Non voglio più. Sono accucciato in un
vicolo della mia prigione, sento ancora le urla nella mia testa, mi fa
male, rimbombano.
Ho le mani sugli occhi ma vedo ancora sangue, sangue dappertutto. Sto
tremando.
Perché, perché? Stavo camminando di nuovo per i
cunicoli di questo carcere, a
ogni passo aprivo una porta, ormai sono abituato a trovarvi dietro
immagini
dolorose e sentimenti terribili, quindi non ho più paura.
Almeno credevo.
C’erano dei gradini davanti a me, li salgo, conducono a una
porta, me lo
aspettavo. Sento delle voci, mi volto ma non c’è
nulla dietro di me, solo buio,
eppure sapevo che non erano le ombre. La mia mano trema mentre si
avvicina
all’uscio, ma devo aprire. Non avrei mai creduto di trovare
una cosa simile lì
dietro. Fiamme, un incendio, un terribile odore di carne bruciata,
corpi,
decine, centinaia di corpi, si contorcevano dal dolore, dilaniati,
scorticati,
in fiamme, urlavano in modo straziante, grida così acute da
far tappare le
orecchie e correvano in ogni direzione, alcuni non potevano correre,
erano
senza gambe, sanguinavano, e si trascinavano per terra lottando per non
venire
avvolti dalle fiamme. Tanti bambini, che piangevano disperati attaccati
alle
loro madri o a quello che restava dei loro corpi martoriati. E poi
c’erano
soldati, brandivano spade che luccicavano alla luce delle fiamme, e
strappavano
via i bambini dalle braccia dei genitori con ferocia, gettando urla
disumane
mentre si avventavano su quei corpicini inermi e li facevano a pezzi. E
poi
sangue, sangue ovunque, schizzi di liquido rosso e caldo che zampillava
dalle
ferite di quella povera gente, che colava dalle armi di quegli uomini
senza
cuore, che si inebriavano alla sua vista e si accanivano con ancora
maggiore
crudeltà e violenza contro di loro. E io non riuscivo a
muovermi, non ho potuto
aiutare nessuno, quella gente che urlava disperata lanciandomi occhiate
imploranti e grida di soccorso, io ero immobile, incapace di muovere un
muscolo
e di aprire bocca, pietrificato anche quando un vecchio mi ha afferrato
la
gamba cercando aiuto e riparo dall’uomo che subito dopo lo
strappò da me e lo sgozzò
davanti hai miei occhi. Non
ho fatto
niente per fermarlo, ho assistito e basta senza battere ciglio,
finché anche
l’ultimo bambino non ha subito la sorte del vecchio e la sete
di sangue e morte
dei soldati si è saziata. Poi è svanito tutto,
lasciandomi solo fra il ribrezzo
e la nausea per quanto avevo appena visto.
Forse è questa la
mia colpa, sono un assassino, un’anima senza
cuore, senza pietà, e la cosa più terribile
è che mentre sono qui a tremare per
il freddo e la paura, c’è una voce dentro di me
che mi dice che quello che ho
appena visto è solo un ricordo di un evento vero,
tutt’altro che irreale.
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Capitolo 10 *** 10) Angoscia ***
Autore:
Achernar
Fandom:
Yu Gi Oh (manga)
Personaggio/Pairing:
Yami no Yuugi
Set mix:
prompt ‘angoscia’
Nota dell'autrice: la
storia racconta il momento in cui Yami si ritrova nel Puzzle del
Millennio, privato di tutti i suoi ricordi
Aprì gli occhi. Aveva degli
occhi? Cos’erano, oltretutto? Ricordava
vagamente:
occhi... una parola... servono per vedere. E vedere... che voleva dire?
Immagini... vedere le immagini intorno a te. Ma intorno a lui non c’era niente.
Era davvero sicuro di
aver aperto gli occhi? La sua mente non avrebbe saputo rispondere ma il
suo
istinto gli diceva di sì. Le
palpebre erano così
spalancate da fargli quasi male. Eppure non era cambiato niente. Chiusi
o
aperti la vista non cambiava. Tutto intorno a lui, qualunque cosa fosse
quel...
posto e qualunque cosa fosse lui, era nero. Completamente buio. Un
ricordo,
vago, impercettibile, lo folgorò.
Buio... il buio è
assenza di luce. La luce... una sensazione di tepore, una sensazione
dolce e
delicatissima gli attraversò la
mente, non avrebbe saputo spiegarlo, ma sapeva cos’era la luce. Sapeva che gli
piaceva, o che
gli era piaciuta, e che qui non ce n’era
traccia. E sapeva un’altra
cosa: gli mancava. Tantissimo.
Un’emozione nuova, non
ricordava di aver mai
provato emozioni, neanche di sapere cosa fossero, lo scosse. Rabbrividì. Cos’era
quest’ansia?
Quest’angoscia
e questo improvviso bisogno di luce, di stringersi intorno a sé, trovare un luogo sicuro,
restare immobile
e non muoversi? Paura... d’improvviso
lo pervase la paura. Nera come il luogo dove si trovava, e d’istinto si abbracciò il petto. Non riusciva a
vederlo però, non vedeva neanche le sue
braccia, né le gambe. Altri ricordi...
corpo. C’era ancora il suo corpo? Era
cambiato? Cos’era successo. Perché non riusciva a vederlo?
La paura divenne sempre
più potente, cominciò a tremare, lentamente si
accasciò, si lasciò cadere, toccò il suolo. Per un attimo si
sentì sollevato: c’era un pavimento, questo
spazio non era
infinito, il buio non era infinito.
Ma poi fu assalito da una nuova scarica di sentimenti ed emozioni,
sconosciuti,
eppure così
familiari: angoscia, solitudine, smarrimento, rabbia, freddo, dolore:
si
sentiva perso, abbandonato, terrorizzato. Chiuse gli occhi. Non c’era differenza tra il
tenerli aperti o
chiusi. Ma almeno tenendoli chiusi poteva negare la realtà al di là di loro, fare finta di
essersi sbagliato,
che lo spazio intorno a lui era mutato e che se li avesse riaperti
avrebbe
visto che l’oscurità era sparita. Una misera,
vana, lievissima
speranza. Un’illusione.
Tutto ciò che
gli restava.
Tempo. Cos’era il tempo? Non lo sapeva,
ma cominciò a pensare che doveva
esserne passato
tantissimo, o forse poco? Come faceva a dirlo? Non sapeva, non sapeva
niente. E
questa consapevolezza amara non faceva che aumentare la sua angoscia.
Domande.
Centinaia, migliaia di domande si affollavano in lui. Se ricordava la
luce,
allora la realtà che
lo circondava non era sempre stata così,
non era sempre stato tutto così
buio e freddo, così
vuoto. Tempo. E da quanto era così? E
perché?
Lui c’entrava
qualcosa? Poteva fare qualcosa? Forse doveva aspettare. Non sapeva
neanche cosa aspettare, tutto ciò che conosceva era una
sottile reminiscenza
della luce. Avrebbe aspettato quella, lì,
immobile, nel silenzio, nel vuoto, nel freddo, nel buio più assoluti. Ma sarebbe mai
venuta?
In quel momento un
concetto, terribile e remoto, riaffiorò
nella sua mente: eternità. La
sua neonata, flebile speranza svanì e
lasciò il
posto alla paura più
grande che potesse immaginarsi: sarebbe rimasto lì per sempre.
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