Sull'importante vita di Arthur Pendragon e su quella meno importante di Merlino, il bambino dalle orecchie a sventola

di M4RT1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One question, two child. Two different aswers ***
Capitolo 2: *** About a new sister and an old game ***



Capitolo 1
*** One question, two child. Two different aswers ***


― Padre, dov’è la mamma?
Arthur Pendragon aveva quattro anni quando, per la prima volta, si rese conto di essere solo.
 
                                                          ― Mamma, dov’è papà?
                                                          Merlino aveva tre anni quando, per la prima volta, capì di essere un orfano.
 
Il principino si dondolò, spostando il peso del suo corpo da un piede all’altro, aspettando una risposta che tardava ad arrivare. Il visino paffuto, la fronte coperta da sottili capelli biondi un po’ corrucciata, gli occhietti celesti socchiusi nella sua espressione capricciosa preferita.
 
                                                           Il bambino restò immobile, lo sguardo fisso in quello di sua madre, in attesa di quella risposta che non giunse mai alle sue grosse orecchie. Zigomi troppo pronunciati, capelli neri tagliati male, occhi chiari troppo seri per essere quelli di un bambino che raggiungeva a stento il metro di altezza.
 
Il re, Uther Pendragon, aveva sperato di non dover mai dare quella spiegazione al bambino. Consapevole di quanto fosse una speranza vana, aveva continuato a ignorare quella domanda che, periodicamente, suo figlio gli poneva. Non poteva più farlo, lo sapeva. Ma non poteva nemmeno dirgli la verità.
 
                                                            La donna sospirò profondamente, torcendosi la veste sgualcita e cercando di mantenere un sorriso incoraggiante. Sapeva che quel momento sarebbe giunto, ma non credeva che sarebbe arrivato così in fretta. Aveva solo tre anni, dannazione! Non era pronto a conoscere la verità.
 
― La mamma è morta, Arthur ― rispose l’uomo, il tono secco di qualcuno che è abituato a rispondere a domande in maniera meccanica. Gli occhi del piccolo si riempirono di lacrime e capì di aver sbagliato, ancora una volta. Sbagliava sempre con lui, con suo figlio. Aveva compreso da tempo che poteva essere il miglior re dell’universo, ma non sarebbe mai stato un buon padre.
― So che la mamma è morta, ma ora dov’è? ― ripeté il piccolo, ostinato.
― Non lo so, Arthur. Ma l’ha fatto per te, lo sai ― lo rincuorò il padre, dandogli una pacca sulla spalla. Distratto, come sempre. Troppo impegnato per pensare davvero a suo figlio.
― Non l’ha fatto per me ― mormorò il bambino, le lacrime che scendevano lente, lasciando scie sulle sue guance pallide ― L’ha fatto perché con me non voleva starci, vero? Altrimenti non sarebbe morta!
 
                                                                 ― Tuo padre non è qui Merlino ― rispose la madre, prendendo una delle manine del bimbo tra le sue.
― E’ morto? ― chiese il piccolo, serio. Non pianse, non lo faceva mai.
La donna scosse il capo, le lacrime che premevano per uscire dai suoi occhi da adulta.
― E allora dov’è?
― Non lo so, Merlino. Ma stai sicuro che ti vuole bene.
Il bambino spinse in fuori il labbro inferiore, un gesto quotidiano che indicava che stava pensando a qualcosa.
― Lo so che mi vuole bene ― disse, infine ― Perché mi ha lasciato con te. Tu sei la mamma migliore del mondo!
 
Uther Pendragon non era fatto per il contatto fisico. Lasciò che suo figlio – il bambino per cui Igraine aveva dato la vita – scappasse via, il piccolo mantello rosso che svolazzava nell’aria. Aveva quattro anni, si disse, era arrivato il momento che se la cavasse da solo.
 
La donna accarezzò la guancia al figlio, poi si voltò per asciugarsi le lacrime. Quando tornò a rivolgersi al piccolo, il bambino era già uscito in cortile a giocare con quel suo amichetto. Gli stivaletti inzuppati, la giacchetta appena rammendata dalle mani di lei.

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Capitolo 2
*** About a new sister and an old game ***


― In guardia, sir Precival!
 ― Percival, Arthur. Si legge Percival.
― Sono io il principe! Decido io come ti chiami!
Il bambino batté i piedi per terra, furioso. Aveva cinque anni, un nuovo mantello rosso e un rametto spezzato tra le mani. Era la sua spada. Di fronte a lui, un ragazzino di poco più grande brandiva un ramoscello simile, ma leggermente più lungo.
― Non mi interessa, Arthur. Se vuoi giocare con me, voglio che impari il mio nome come si deve ― insistette l’altro, incrociando le braccia.
Dalla finestra della sala del trono, Uther osservava la scena, sorridendo: Percival era il figlio di uno dei suoi più valorosi cavalieri, forse secondo soltanto a Gorlois, ed era l’unico bambino in tutta Camelot a riuscire a tener testa al piccolo principe.
― Voglio? L’erba voglio cresce solamente nel giardino del re ― stava controbattendo Arthur ― E dato che il re è mio padre, solo io posso dire “voglio”, hai capito?
Il suo visino paffuto era rosso per lo sforzo, ma non era nulla in confronto alla comicità dei suoi piedini che battevano ritmicamente sul terreno. La faccia dell’altro, però, rimase impassibile.
― Ti farò arrestare, impiccare e poi uccidere! ― strillò allora il biondino, avvicinandosi all’amico.
― Se mi impicchi mi uccidi ― replicò quello, piatto.
― Ma io sono il principe e posso ucciderti due volte!
Scenette simili erano all’ordine del giorno da quando, alla precoce età di un anno e tre mesi, Arthur aveva cominciato a parlare. La sua prima parola era stata: “Ettetta”. C’erano volute quasi due settimane per capire cosa significasse, ma alla fine era stata associata alla spada di Uther. “Stecchetta”, probabilmente.
― Quando compirò sei anni e avrò una spada vera, allora verrò a cercarti e ti taglierò il naso ― minacciò Arthur. Era a un palmo dall’altro bambino, ma l’effetto restava comico: il figlio del cavaliere troneggiava sul principe senza alcuno sforzo, complici i dieci centimetri in più e i chili in meno.
― Nessuno ha una spada a sei anni ― ribatté, sbuffando.
Fu proprio mentre il pugnetto del figlio del re si alzava, avvicinandosi pericolosamente al viso dell’amico, che due guardie in mantello rosso e cotta di maglia fecero il loro ingresso nella stanza di Uther, impedendogli di assistere all’ennesima rissa dalla quale Arthur sarebbe uscito distrutto.
― Mio signore, abbiamo cattive notizie dal fronte ― annunciò proprio il padre di Percival. Sembrava ferito, di sicuro era molto stanco.
― Dite.
― L’esercito sta cedendo, il nemico avanza, e… ― si bloccò.
― Continua.
― Gorlois è stato ferito mortalmente.
La notizia dette un brivido al re, che cercò a tentoni una sedia.
― Dov’è, adesso?
― Nelle stanze di Gaius. Ha chiesto di voi.
 
Quando vide il padre avanzare a grandi passi verso di lui, Arthur capì che l’aveva fatta grossa. Non ne capiva bene il motivo, ma a quanto pareva essere il figlio del re non lo autorizzava a picchiare gli altri bambini, soprattutto quelli che avevano un cavaliere per padre.
― Padre, non gli ho fatto niente ― si giustificò subito, correndo dall’uomo. Dietro di lui, Percival si puliva il sangue che sgorgava a fiotti dal naso con la manica della veste stracciata.
― Di questo parleremo più tardi ― lo liquidò l’uomo, battendo una mano sulla spalla dell’altro ragazzino, che chinò leggermente il capo e corse via, probabilmente da Gaius.
― Arthur, dobbiamo parlare ― esordì allora il re, camminando lentamente. Il bambino saltellava dietro di lui.
― Di cosa, padre? Della mia spada? Perché Percival ha detto che non posso avere una spada a sei anni, ma lui non è il re e non può decidere, quindi credo che la spada la avrò lo stesso, giusto? Altrimenti voglio un poni, però deve essere marrone e con i puntini bianchi, perché Percival ha detto…
― Arthur, ascoltami ― lo interruppe bruscamente il re. Il bambino si fermò, la bocca spalancata, le manine nel gesto di descrivere chissà cosa. ― Io devo parlarti di una cosa molto importante.
― D’accordo.
― Ricordi Gorlois?
Il bimbo strizzò gli occhietti in un vano tentativo di ricordare l’uomo. Vagamente conosceva il suo aspetto – baffoni neri, la cotta di maglia, le sopracciglia che lo facevano sembrare sempre triste – ma non conosceva nient’altro di quel cavaliere che suo padre frequentava tanto spesso.
― Sì ― rispose comunque.
― Lui è… lui… ― il re si bloccò, gli occhi rossi. ― Lui non c’è più, Arthur.
Il bambino annuì, piano. Gli dispiaceva, ma dopotutto aveva imparato che la cosa migliore che potesse accadere a un cavaliere era sacrificarsi per il proprio regno, quindi Gorlois doveva senz’altro essersi sentito molto felice mentre qualcuno gli infilzava una spada nella pancia.
― D’accordo ― rispose il bimbo, lo sguardo basso. Aveva imparato anche che non bisogna fissare i grandi che piangono negli occhi.
― Lui non aveva più la moglie, lo sai ― proseguì il re, riprendendo la passeggiata. Erano giunti alle mura ovest, così tornarono indietro.
― Meglio, no? Così non è triste ― sussurrò il piccolo. Il suo mantello sporco di fango gli si era appiccicato contro gli stivali, così sembrava stesse camminando nelle sabbie mobili, per quanta fatica faceva.
― Ma aveva una figlia.
La notizia non toccò minimamente il principino, che si limitò a stringersi nelle spalle e annuire, serio.
― Dovrà essere molto triste, vero?
― Molto, molto triste ― gli confermò il padre, prima di fermarsi nuovamente. Si accovacciò fino a raggiungere pressappoco l’altezza del figlio e gli poggiò le mani sulle spalle.
― Lei è sola, adesso, e suo padre mi ha chiesto di occuparmi di lei.
Arthur rifletté: avevano tanti soldi, siccome lui era il re, e non sarebbe stato un sacrificio darle i suoi vestiti vecchi, come faceva quando la sua balia lo portava in chiesa.
―Mi aiuterai a farlo? ― gli domandò il padre. Arthur annuì:
― Io ti aiuto, ma non credo che vuole i miei vestiti ― lo avvisò, incerto.
― Non si tratta di vestiti. Verrà a vivere con noi. Avrai una sorella.

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