An heart full of love

di TheHeartIsALonelyHunter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** At the end of the day ***
Capitolo 2: *** Look down ***
Capitolo 3: *** In my life ***



Capitolo 1
*** At the end of the day ***


Ha sempre creduto che, con pazienza e lavorando alacremente per un obbiettivo, si possa creare qualcosa di meraviglioso e stupendo della propria vita.
Ha sempre pensato che con dedizione e con la giusta dose di umiltà, qualsiasi progetto, seppure paia, al primo sguardo, irrealizzabile, diventa assolutamente possibile.
Ha sempre creduto che la vita riserva mille sorprese, e che credere che un giorno qualcosa cambierà è già un modo per cambiare la propria vita.
Ha sempre cercato di non lamentarti, perché pensava, SAPEVA che presto (o forse tardi), qualcosa si sarebbe mosso nella tua vita.
Ci sperava.
Veramente.
Le notti insonni a piangere sul cuscino, e il giorno dopo veloce a lavorare, spazzando veloce con quella scopa talmente sfilacciata da parere, il secchio dell’acqua che era tanto più grande e tanto più pesante di lei, i soldi di sua madre che passavano per le mani lerce di quei miserabili Thenardier…
Ricordi rimasti impressi per sempre nella sua mente.
Ma qualcosa è cambiato, effettivamente.
Da poco (o forse da molto tempo), non è più sola.
Non deve più lavorare.
E i soldi che a malapena poteva vedere, ora le scorrono tra le dita quando e come suo padre (suo PADRE) ritiene giusto.
Ma prima ne ha dovuta fare di strada.

Possibile che lei non abbia mai perso la speranza in cinque anni?

An heart full of love

1-At the End of the Day

Quando sua madre l’aveva portato in quella locanda (una piccola locanda a Montfermeil con scritto sull’insegna “Al sergente di Waterlooo”), Cosette si reggeva a malapena in piedi e riusciva a malapena a camminare con quelle esili gambette che facevano sembrare tutto il corpo più grande.
Già all’epoca, per sua madre lei eri una “cosetta” tanto era piccolina e minuta. E già allora, ignorando il nome che lei stessa le aveva dato, la chiamava Cosette.
Quando erano arrivate alla locanda, se lo ricorda bene, seppure fosse così piccola, subito erano state accolte con referenza e con una strana e untuosa gentilezza da parte di quelle persone che dovevano essere i padroni.
La coppia Thenardier, sin da subito si era dimostrata viscida e ipocrita.
Madame l’aveva riempita di carezze e baci di fronte allo sguardo timido e leggermente rassicurato di Fantine, toccandola con quelle sue manacce grosse e rosse che sembravano parte del corpo di un uomo con la stessa delicatezza di un serpente che strangola la preda.
Da parte sua, Monsieur Thenardier si era dimostrato ancora più viscido e untuoso: aveva fatto accomodare Fantine e lei su sedie di vimini (“Avrete fatto un lunghissimo viaggio!”), aveva fatto servire, da sua figlia maggiore Eponine, delle piccole paste alle “gradite ospiti” e, per finire, aveva esclamato felice un “Ma certo, sarà trattata come fosse nostra!” alla richiesta di Fantine di tenere con loro la bambina.
Sua madre aveva continuato a snocciolare, per dieci minuti buoni, il perché di questa scelta, le sue motivazioni, come un modo per scusarsi con i locandieri e, in primis, con Cosette stessa. Sembrava non volesse staccarsi più dalla piccola che ora, timida e leggermente impaurita, stava in piedi tra le braccia grosse di Monsieur e Madame Thenardier.
Per convincerla ad andarsene, i due avevano dovuto prometterle cento, mille volte che la bambina sarebbe stata bene, che non le sarebbe mancato nulla, e ad ascoltare, ripetute freneticamente, mille “Mi dispiace per il disturbo” e “Non posso tenerla con me”.
Quando se ne era andata, sua madre le aveva fatto due promesse. Le aveva promesso, con un gran sorriso sul volto, che un giorno sarebbe tornata a prendersela e, ora con una smorfia di tristezza impressa sul viso, aveva sussurrato:
“Sono sicura che passerai molte giornate felici in questo posto, principessa”.
Nessuna delle due previsioni si erano avverate: Fantine non era più venuta a prenderla, e, per il resto della sua permanenza lì, i Thenardier l’avrebbero chiamata, sprezzanti e con disprezzo, “principessa”.
Appena sua madre, finalmente rassicurata della bontà d’animo di coloro a cui affidava la sua bambina, se ne era andata, e Monsieur ebbe chiuso, velocemente, la porta di legno, Cosette era stata trascinata nello sgabuzzino delle scope in fondo al corridoio, e vi era stata gettata dentro come un sacco di patate.
“Questa è la tua stanza”, le disse la signora Thenardier prima di socchiudere la porta.
L’ultima cosa che Cosette sentì fu la voce di Eponine, sardonica, che le diceva:
“Dubito fortemente che trascorrerai molte giornate felici in questo posto”.
E poi la porta si era chiusa.
E Cosette era rimasta al buio.
L’incredulità che all’inizio l’aveva presa nel sentirsi strattonare e farsi gridare “Cammina, stupida!” dalle persone che poco prima le avevano servito bignè e l’avevano accarezzata, fu presto rimpiazzata da una orrenda e totale paura.
Con i piccoli pugni, Cosette aveva cominciato a battere sulla porta di legno, con insistenza, urlando come poteva con la sua piccola voce: aveva tremendamente paura del buio.
Quando, dopo poco, aveva sentito mancare le forze, non aveva potuto fare altro che accasciarsi sul pavimento e addormentarsi, cercando di ignorare la sensazione di terrore allo stomaco e le ombre delle scope che le ridevano contro.
Il giorno dopo, la Thenardier le aveva messo secchio e scopa in mano.
Voleva che scopasse il locale.
 
E così era iniziato il suo primo anno alla locanda "Al sergente di Waterloo".
Subito, Cosette si era resa conto della meschinità d’animo del locandiere e di tutte le persone che ruotavano intorno a lui.
La moglie, ora decisamente più dura, con lei, dopo la partenza di sua madre, la costringeva, ogni giorno, a correre avanti e indietro col secchio in mano, che a malapena sosteneva perché era molto pesante, e la faceva correre quando lei a malapena camminava. Se per caso, durante la corsa, cadeva o inciampava, con rabbia la Thenardier la prendeva per i capelli e la schiaffeggiava furiosamente.
Nei casi più gravi, in cui aveva rotto, per errore dei piatti che dovevano andare ai clienti, con un orribile schiaffo che le staccava quasi i candidi dentini, Madame la buttava nel ripostiglio, che ormai era la sua camera e il suo rifugio.
Eponine, la figlia maggiore, faceva di tutto per impartirle sofferenze: da subito si dimostrò viziata e piena di sé, e la costrinse anche lei a svolgere delle mansioni che la facevano piegare in due per lo sforzo.
Spesso l’aveva vista sollazzarsi con delle bambole tanto belle e ricche di dettagli, che le lacrime le erano salite agli occhi. Solo dopo avrebbe pensato che Eponine si metteva in mostra solo per farle dispetto.
Azelma, l’ultima figlia, era di poco più grande di lei, eppure aveva già anche lei l’aria superba e cattiva della sorella, sebbene non le avesse mai ordinato nulla.
Spesso le faceva lo sgambetto mentre portava le ordinazioni ai clienti, oppure la incolpava di piccoli incidenti e distrazioni che erano state invece sue.
Madame Thenardier era sempre straordinariamente gentile con le figlie, e comprava loro tutto ciò di cui necessitavano e anche di più: le viziava con tutto il suo essere e con tutta la sua forza. A Cosette, venne poi in mente che le accontentasse in tutto ciò che volevano solo per far sentire lei inferiore.
Dopo solo una settimana, la piccola bambina bionda e dagli angelici occhi azzurri che Fantine aveva portato alla locanda era diventata (se era possibile) più magra e i capelli erano completamente spettinati.
Dopo un mese, Cosette aveva il viso smunto e pallido. Il mento era diventato più affilato, e sulle gambe e le braccia contava innumerevoli graffi e sbucciature.
Dopo due mesi, alla piccola venne una terribile febbre che agli occhi di Thenardier non fu abbastanza per impedirle di lavorare.
Giorno dopo giorno, la piccola capiva sempre di più con che genere di persone aveva a che fare, e di quanto il loro cuore fosse irrimediabilmente nero e corrotto.
Nelle notti, si interrogava spesso sul perché quei due si fossero dimostrati così gentili con lei e poi, improvvisamente, senza motivo, fossero diventati due mostri.
E intanto i giorni passavano, e Cosette non ne ricordava neanche uno felice.
Aveva paura che la promessa di sua madre non si sarebbe avverata, che lei non sarebbe tornata, e che neanche per un giorno, per il resto della sua permanenza lì, sarebbe stata felice.
Sperava, SAPEVA con certezza che sua madre sarebbe tornata e ogni notte, quando andava a coricarsi, un nuovo graffio sul braccio o sulla gamba, si aggrappava intensamente a quella speranza che sapeva tanto di felicità.
Domani verrà, lo so. Domani verrà…
Domani sarà un giorno felice.
Domani sarò felice.
E così si coricava tranquilla e riusciva, la mattina dopo, ad alzarsi con un lieve sorriso sulle labbra, che però spariva non appena capiva che no, neanche quel giorno sua madre sarebbe venuta.
Spesso Monsieur le affidò il compito di pulire la vetrata. Era un compito che, dopotutto, non le dispiaceva e, anzi, forse era l’unico lavoro che non le riusciva difficile. Bisognava solo passare con il panno bianco il vetro, e togliere tutta la sporcizia che vi era accumulata.
Quando le capitava di dover fare quel lavoro, il suo sguardo andava alle strade e alle case davanti alla locanda con feroce speranza: cercava, con lo sguardo, sua madre tra la folla.
Un giorno, mentre era intenta in quel lavoro, Cosette si ritrovò a fissare, ancora più intensamente, una signora che stava passando in quel momento, girata di spalle, e di cui intravedeva solo i lunghi capelli castani.
Mentre era distratta, Eponine le rovesciò sulla testa uno strano composto nero che la fece rimanere senza fiato e che la fece urlare per il dolore: era pece bollente.
La bambina si allontanò ridendo come una pazza, e a Cosette non era rimasto altro che correre, più veloce che poteva, verso lo sgabuzzino e a chiudersi dentro, piangendo silenziosamente.
No, davvero non sarebbe passato giorno felice in quel luogo.
Eppure ogni giorno sperava, voleva, DESIDERAVA essere felice in quell’Inferno di pentole e scope e secchi.
E le sarebbe piaciuto così tanto vedere la sua mamma…
Sarebbe tornata, lo sapeva.
DOVEVA tornare.
Sì, assolutamente.
Sarebbe tornata, e il giorno del suo addio sarebbe stato il più felice di tutti.
 
Il terzo mese alla locanda fu forse il più difficile.
La febbre, che già l’aveva colta durante il secondo, si andò aggravando, tanto da impedirle alcune mansioni che, ormai, riusciva a svolgere abbastanza bene per la forza di abitudine.
Quando, mentre scopava, la bambina era improvvisamente crollata a terra preda della stanchezza, la Thenardier, con insulti e con invettive orrendi, l’aveva costretta a rialzarsi.
Ma Cosette, ormai, non si teneva più in piedi. Sentiva tutta la faccia in fiamme e vedeva a malapena le sue dita minuscole e magre.
Non riusciva più neanche a sentire, chiaramente, le parole e le ingiurie dei locandieri. I rumori e le voci le arrivavano da lontano, come ovattati, e lei riusciva a percepirne a malapena il suono. Il senso le sfuggiva.
Al quarto mese, finalmente, Madame dovette prendere atto della malattia della piccola, e anche Mounsier decise che era ora di farla visitare, non tanto perché si preoccupava per lei, ma perché ormai le sue distrazioni gli stavano facendo perdere molti clienti.
Il dottore che solitamente visitava anche Azelma e Eponine fu chiamato, e subito la sua diagnosi fu una e una sola: riposo assoluto. Di questo aveva bisogno la piccola Cosette.
 
Del mese che passò, lentamente, la piccola non sentì quasi nulla.
Si svegliava spesso ma per pochi minuti, per poi richiudere le palpebre e ripiombare nel suo mondo di sogni.
I pochi attimi che si svegliava erano più che altro attimi di follia in cui, con sua grande sorpresa e gioia, Cosette vedeva Fantine vicino a lei baciarle il viso e rassicurarla dolcemente con la sua voce d’angelo.
“Dubito fortemente che tu abbia trascorso qualche giornata felice in questo posto.” le sussurrava. Lei scuoteva la testa in su e in giù, con le lacrime agli occhi, e guardava la sua mamma vicino a lei.
“Tranquilla, tesoro, ce ne andiamo via di qui…”
Nei momenti di assoluta pazzia, Cosette credette anche di aver visto sua madre andarsene via e, quando tornava in sé, chiedeva piangendo della sua mamma.
Sebbene la Thenardier si attenne al divieto del lavoro imposto dal dottore, non le risparmiò certo le sue maniere rudi. La scuoteva nel sonno quando le sue urla rimbombavano nella casa, e la schiaffeggiava appena era sveglia, la riempiva di insulti quando le chiedeva di sua madre e parlava male di Fantine davanti a lei.
In un attimo di follia, in cui Madame si era azzardata a chiamare sua madre “sgualdrina”, Cosette le aveva sputato con tutta la forza che aveva in faccia.
Madame non aveva potuto chiuderla nello scantinato.
E i giorni passavano, e Cosette era a letto infelice, pensando, nel suo delirio, di essere finalmente felice, lì, con sua madre vicino al suo letto, e la promessa della loro partenza imminente.
E invece Fantine non era al capezzale della figlia, i Thenardier non la avvertirono mai, e non passò un giorno felice durante la sua malattia.
 
Cosette potette (dovette, più che altro) tornare al lavoro durante il suo sesto mese di permanenza nella locanda.
Appena il dottore la dichiarò guarita, la piccola tornò a sfacchinare con secchi, piatti e boccali da lavare, ora più debole che mai.
La febbre l’aveva destabilizzata completamente, e ora Cosette si muoveva ancora più traballante di prima sulle gambette. Questo non impediva certo a Mounsier e a Madame di essere crudeli con lei. Al contrario, ora che la piccola causava ancora più danni, i due avevano più motivi per trattarla in malo modo.
Ai due sembrava non importare nulla che lei fosse stata male, e che quella malattia l’aveva resa più debole fisicamente e, anzi, continuavano a punirla, sia con le parole che con i fatti, per quella mancanza, come se ammalarsi fosse stato un suo volontario gesto.
Eponine, se possibile, era ancora più maligna con lei. Le sventolava le bambole in faccia ogni qualvolta poteva, e riusciva ad accusarla di mille piccoli incidentucci accaduti a lei e Azelma.
“Il vetro della finestra è rotto!”, strillava la maggiore disperata. Naturalmente era stata Cosette.
“è caduta un’anta al mobile in bagno!”, aggiungeva la minore, nello stesso tono. Ancora, Cosette.
“Il nostro locale va male!”, si arrabbiava Thenardier. E di chi era la colpa?
Spesso, la bambina si chiedeva come i due coniugi potessero anche solo pensare che fosse stata lei.
Si guardava, con circospezione, le braccia e le mani, cercando di capire se quei minuti ossicini, ricoperti solo da un filo di carne, potessero davvero tendere l’elastico di una fionda, rompere un’anta e mandare in malora un locale con la loro incapacità.
Si chiedeva, spesso, come la Thenardier e il Thenardier si fossero ridotti in quello stato: essere felici solo causando infelicità agli altri.
Cosette giunse alla conclusione che probabilmente neanche loro avevano mai passato dei giorni felici lì.
 
Al settimo mese, era ormai Dicembre.
Cosette, nel suo straccetto grigio senza maniche, rabbrividiva tristemente mentre guardava Eponine ricevere un nuovo cappotto di ermellino dai Thenardier.
In seguito, la ragazza si sarebbe chiesta come quei due si fossero permessi una tale meraviglia se il locale andava davvero male come dicevano. Giunse infine alla conclusione che probabilmente Monsieur l’aveva rubato.
Quell’inverno, il Natale sembrava non dovesse arrivare mai.
I giorni scorrevano lenti e sempre uguali, per la povera Cosette.
Ogni mattina la Thenardier la mandava a piedi nudi al pozzo, e lei rabbrividiva al contatto con la neve sotto le palme. Trascinava alla bell’e meglio l’acqua, cercando di non inciampare nella strada, e poi, arrivata alla locanda, si fermava un attimo a fissare la vetrina di giocattoli davanti a essa. Gli piaceva fantasticare che sua madre sarebbe tornata e le avrebbe comprato subito la bambola che era in vetrina: una stupenda ragazza coi riccioli neri e con gli occhi azzurri che le sorrideva dolcemente.
Ormai, la bimba era sicura che Monsieur e Madame non le avrebbero regalato assolutamente nulla per Natale, anzi, che avrebbero fatto di tutto per sbattergli in faccia quella mancanza. Così si preparava al grande giorno non con gaia allegria né con gioia: aspettava con angoscia il giorno che l’avrebbe vista sola, ancora, nello suo sgabuzzino con le scope.
E così fu.
Madame e Monsieur la rinchiusero dentro la sera verso le 8, chiudendo, per sicurezza, la porta col chiavistello.
Le avevano parlato, controvoglia, di una cena a cui avrebbero partecipato tutti i loro amici, e in cui avrebbero mangiato come dei maiali.
Madame, con quella sua squisita viscidità, le aveva descritto approfonditamente tutte le pietanze del banchetto, includendo nella spiegazione anche gli ingredienti usati per quella o quell’altra portata. Lo stomaco di Cosette aveva preso a ringhiare furiosamente.
E così, la notte di Natale la bimba la passò sola e senza nessuno.
Dalla sala sentiva giungere le voci allegre e cordiali dei Thenardier, e si ritrovò a pensare che erano davvero dei bugiardi a fare i perfetti padroni di casa.
D’un tratto, da fuori un odorino stuzzicante le arrivò al naso: pollo arrosto.
Cosette si scaraventò sulla porta e cominciò a battere furiosamente il pugno, urlando a squarciagola che aveva fame, e che non era giusto che lei fosse rinchiusa lì.
Il giorno dopo, Madame la sculacciò pesantemente davanti a Eponine.
Con le lacrime agli occhi, Cosette notò la bambola con gli occhi azzurri tra le braccia della bambina.
 
L’ottavo mese, Cosette ebbe particolarmente da fare.
I clienti alla locanda sembravano essersi moltiplicati, forse perché in cerca di un luogo in cui ripararsi dal freddo pungente di Gennaio.
Monsieur sorrideva a ogni nuovo arrivo, e faceva gli onori di casa come un vero e proprio gentiluomo.
Cosette fu leggermente confusa dall’atteggiamento cordiale che il signore tenne con lei in quel particolare mese. Sembrava difenderla da qualsiasi ingiustizia, e non erano poche le volte in cui la aiutava nei lavori.
“Da qua, Colette, faccio io…”, diceva, togliendole i piatti sporchi dalle mani.
Lo diceva con lo stesso tono viscido e ipocrita con cui aveva accolto lei e sua madre lì. E a Cosette dava abbastanza fastidio che ancora non conoscesse il suo nome.
Il motivo di tanta gentilezza fu subito chiarito quando, una mattina fredda, Thenardier uscì con lei fuori dalla locanda (Il freddo le tormentava le braccia) e cominciò a dire, cantinelando:
“Venite nella mia locanda! Offrite un po’ di soldi alla mia figlioletta malata!”
Cosette all’inizio non capiva.
E neanche Madame parve capire quell’idea.
“Non potevi provarci con ‘Ponine?” gli chiese tutta arrabbiata la sera.
Lui rispose con un’alzata di spalle e un secco:
“Colette sembra molto più patita di ‘Ponine”.
 
Il nono mese lo passò fuori col signor Thenardier, a raccogliere soldi per “la figlioletta malata” che era poi lei.
Quello stesso mese, notò Cosette, c’era il suo compleanno.
Madame e Monsieur però non sembravano ricordarlo, anzi, parvero totalmente ignorarla in quel mese.
Sebbene ora Monsieur fosse più soddisfatto di lei e della fortuna che gli era fruttata da quella piccola truffa, continuava ancora a dare ordini e a insultare, sebbene meno di prima, per ingraziarsela e convincerla a continuare l’ “attività”.
Madame continuò a chiamarla “principessa” con disprezzo, e Eponine le lanciava occhiate di fuoco perché era Cosette protagonista della truffa e non lei.
Il giorno del suo compleanno, la bambina andò nel suo sgabuzzino con le mani intirizzite dal freddo preso fuori e con il desiderio assurdo di mandare Eponine nella neve al posto suo.
Pensò che quel giorno, quello speciale giorno, poteva passarlo felice con la sua mamma. Certo, lei non le avrebbe regalato nulla, di sicuro, ma sarebbe sempre stato bello averla vicina e sentirsi coccolare dal suo canto mentre si addormentava.
Chiudendo gli occhi, Cosette desiderò intensamente che il giorno dopo venisse a prenderla, e poi si addormentò dubitando che sarebbero mai venuti giorni felici finché fosse stata lì.
 
Il decimo e l’undicesimo mese la truffa andò avanti fino a quando un cliente venuto pochi mesi prima alla locanda, riconobbe in Cosette la cameriera che aveva visto servire al suo tavolo.
Allora Monsieur si convinse, anche sotto consiglio di sua moglie, di usare, finalmente, Eponine.
La gioia della bambina per quel ruolo fu tanto grande quanto grande fu la sua delusione quando si ritrovò ferma all’ingresso della locanda con la mano tesa al passante.
A Cosette scappò da ridere paragonandola a una mendicante, ma Madame la mandò subito a prendere altra acqua.
 
E così passò un anno in quella locanda.
Un orribile anno in cui si sentì più sola che mai e più debole che mai.
Quando se ne andò a dormire, quella sera, si accorse improvvisamente che era passato veramente moltissimo tempo.
E cominciò a dubitare che sua madre sarebbe venuta davvero.
Un sordo terrore le penetrò nell’anima, e un brivido freddo le percorse tutta la spina dorsale.
Un anno.
365 giorni.
E, si rese conto Cosette, non ne era passato uno felice.

Note d'autrice:
La prima parte voleva solo essere un'introduzione.
Allora...
Ho scritto... "questo" tutto d'un fiato. 
Forse si pottrebbe considerare più una raccolta che una long, ma mi ci sono messa molto, davvero.
E... 
Tutti i titoli verranno presi dal musical "Les Miserables" che semplicemente VENERO.
Vi avviso che ci saranno 5 capitoli in tutto, per le condizioni del contest. Ogni volta Fanny Rimes mi invia due pacchetti con dei prompt e io devo scieglierne uno.
Per questo ho scelto una frase:
Dubito fortemente che trascorrerò molte giornate felici in questo posto.
Che dite, ci stava?

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Capitolo 2
*** Look down ***


Prompt usato:http://imageshack.us/photos/Mano/14/erina0570.jpg/ 
2-Look down
 
Il suo secondo anno alla locanda si aprì con un bel calcio nel sedere e un’imprecazione di Monsieur non ignorabile dovuta a un cliente che nella notte era riuscito a svignarsela senza pagare.
Fu con grande sorpresa che Cosette notò che era ormai iniziata la primavera, e che la neve cominciava a sciogliersi dolcemente e a lasciare spazio a piccoli sprazzi di verde e morbida erba.
Per la bambina questo era certo un vantaggio, considerato che ormai non doveva più soffrire il freddo con quel vestitino tutto rattoppato che si ritrovava indosso, ma sapeva anche, con una consapevolezza dolorosa, che il freddo sarebbe tornato e altri inverni sarebbero seguiti a quello precedente.
Nonostante ciò, era contenta che lo sferzante vento non la bloccasse nel bel mezzo della foresta nera quando andava al pozzo, e che finalmente al posto della sensazione di gelo totale che sentiva la sera mentre si coricava nel magazzino, c’era solo un lieve tremito che la scuoteva e che poteva facilmente cancellare sfregando i piedi insieme.
Il primo compito che le fu assegnato in quel nuovo anno, fu quello di servire a un uomo che era arrivato alla locanda da almeno una settimana.
Dal suo aspetto e dai suoi modi cortesi, Cosette si era fatto l’idea che egli fosse un lord inglese o qualcosa del genere.
Il gentiluomo era circa sulla sessantina, e indossava un paio di occhialetti con le lenti a cerchio, piccolissime, e una tuba nera che ancora Mounsier non era riuscito a rubare. Da quanto ricordava, era la prima persona a cui i Thenardier non avevano potuto spillare nulla più del convenuto o da cui non erano riusciti a rubare nulla.
I locandieri lo chiamavano, dispregiativamente, il “Signorotto” quando erano da soli nelle cucine o all’ingresso a discutere.
Ma di fronte a lui, i “padroni di casa” esibivano il loro miglior sorriso, usavano molti convenevoli e lo chiamavano, gentilmente “Milord”: tutte piccole attenzioni che non parevano né turbare né sorprendere particolarmente il signore, che annuiva semplicemente alle loro richieste, rimaneva zitto ai loro falsi sorrisi e quasi ridacchiava tra sé e sé quando quel nomignolo assurdo gli veniva appioppato.
Cosette si chiedeva, quasi costantemente dal primo istante che l’aveva visto, cosa facesse un simile signore (perché questo era lui: un signore) in una tale locanda maledetta, e che cosa l’avesse spinto fin lì.
La risposa le sarebbe arrivata proprio quel giorno, quando aveva servito all’uomo una sottospecie di minestra di cui Cosette non riusciva a distinguere gli ingredienti.
La bambina si era avvicinata lentamente, col piatto poggiato su entrambe le mani, e aveva fatto colare un buon terzo della sbobba a terra. Il signore, però, non si era affatto arrabbiato, anzi: aveva sorriso a quella scenetta e i Thenardier non avevano avuto una scusa per punirla.
Quando Cosette si era avvicinata abbastanza al suo tavolo per poggiare il piatto con un fievole “Prego”, e dopo aver controllato che Mounsier e Madame si fossero girati, Milord si chinò su di lei e le sussurrò all’orecchio:
“Tu sei Cosette?”
La bambina rabbrividì lievemente.
Da quando era lì, nessuno si era mai preoccupata di chi fosse lei o di quale fosse il suo nome.
Certo, qualcuno aveva cominciato a fare domande sulla piccola “Croquette” (questo il nuovo nomignolo di Mounsier), su come vivesse, e se i locandieri la trattassero bene come una bambina della sua età meritava.
Agli occhi dei clienti, Cosette doveva sembrare malnutrita e maltrattata. Solitamente, tali caratteristiche, al tempo, si riscontravano in quasi tutte le donne lavoratrici, e ormai la gente faceva poco caso o non aveva la briga di accorgersi del malessere di tali donne. Ma il fatto che fosse una bambina a servirli (Cosette aveva appena quattro anni ma ne dimostrava anche di meno a causa della sua corporatura gracile e del suo visino scavato che faceva sembrare gli occhi più grandi) metteva seriamente a disagio alcuni dei clienti meno ubriachi.
Madame aveva messo a tacere le loro chiacchiere dando, un giorno di ottobre, un bel bacio sulla guancia della bambina di fronte a tutti.
Da allora nessuno aveva più avuto da ridire su “Croquette” e sull’affetto che i Thenardier provavano per lei.
Ora quel signore la avvicinava, con fare confidenziale, e sembrava conoscere anche il suo nome?
“S…Sì.” Sussurrò lievemente la bambina.
Sul viso del signore apparve un sorriso che Cosette prese come di soddisfazione.
Con la mano ruvida e rozza, l’uomo le accarezzò la testa (quella mano era almeno il doppio del suo capo!) e la congedò non appena i Thenardier la richiamarono con aggressività.
Alla bambina scese un brivido lungo la schiena al pensiero di quella carezza (la prima dopo un anno) che ancora sentiva sulla sua testolina bionda.
Quando Mounsier le chiese, sgarbatamente, che cosa quell’uomo le avesse chiesto, Cosette rispose, con la massima sicurezza che poteva mostrare “Nulla”.
Eponine, dietro di lei, la squadrava sospettosa.
 
Con il progredire della primavera, l’aria si faceva sempre più dolce e il vento, che prima la sferzava con malignità, ora le accarezzava i capelli biondi con delicatezza, quasi a voler svolgere il ruolo di madre per lei.
Le lettere di Fantine passavano tra le mani dei Thenardier e finivano nel camino ancora prima che Cosette potesse dire “no”.
I soldi che arrivavano erano sempre di meno, o almeno questa era l’impressione che la bambina aveva dagli animati discorsi che i locandieri tenevano.
E anche nel locale erano sempre di meno i clienti che si fermavano per più di una notte.
Il caldo sembrava chiamare, con un suo richiamo particolare, gli avventori della locanda che solitamente trascorrevano l’intera estate ubriacandosi e trovandosi qualche puttanella, e l’umore di Mounsier andava peggiorando di giorno in giorno.
Naturalmente tale umore si riversava sulla piccola Cosette che, nonostante non molti fossero i clienti, aveva sempre qualche faccenda da sbrigare (e se non ne aveva Mounsier se le inventava di sana pianta), ritrovandosi a correre, ora più che mai, sui suoi piedini minuti da un angolo all’altro della locanda.
Ogni sera, nel locale principale, c’erano almeno dodici o tredici persone, e ogni sera i Thenardier gioivano.
Ma quando, la mattina, dieci di quelle persone scendevano dalle camere del piano di sopra pronti a partire, i due coniugi, naturalmente non di fronte ai “gentili” clienti, bestemmiavano e dicevano tante di quelle parolacce che a Cosette venivano i brividi.
L’unico che, per lunghe settimane, si era fermato lì, era il vecchio Milord che aveva dimostrato un minimo di umanità nei suoi confronti. E sebbene quello potesse sembrare una cosa buona nei primi tempi, dopo poco i Thenardier si accorsero che non conveniva affatto avere qualcuno così a lungo nella loro locanda.
Mounsier e Madame si facevano ogni giorno più sospettosi verso quel vecchietto che passava le giornate fermo a un tavolo con un bicchiere sempre pieno davanti a sé: ordinava sempre una qualche bevanda non appena la giornata iniziava, per poi dimenticare (o forse ignorare) il liquido versato nel bicchiere.
Milord rimaneva anche giornate intere seduto al solito tavolo (quello da cui si poteva scorgere il panorama dalla vetrata), fermo con gli occhi vitrei, imperscrutabili, attento eppure stranamente assente, scrutando ogni singolo dettaglio e ogni piccola azione dei locandieri.
I due erano così terrorizzati da quello sguardo e così intimiditi dal pensiero che quell’uomo fosse un gendarme sotto copertura, che decisero di sospendere, almeno per un po’ di tempo, la razzia nei riguardi dei clienti.
Cosa che mandò, almeno secondo il pensiero di Mounsier, “in malora” gli affari della locanda.
“Tanto, prima o poi, il vecchio dovrà andarsene” diceva Madame per rassicurare il suo sposo quando si prendeva la testa tra le mani desolato.
“O se non volesse andarsene di sua volontà, lo faremo andare noi via.”
 
Circa due mesetti dopo l’arrivo di Milord, Cosette si era finalmente abituata al tram tram della sua vita: le speranze che Fantine tornassero erano una su un milione, e lo sapevano benissimo lei e i Thenardier, e oramai la bambina era rassegnata alla vita di schiavitù che le si prospettava davanti.
Sapeva che i soldi della mamma non erano tanti, e che lei lavorava molto (ricordava quando si svegliava la mattina e lei era già uscita in cerca di un qualche lavoretto per cui essere pagata), ma probabilmente mai avrebbe raccolto tanti soldi da poterla portare via da quell’Inferno.
Era giugno quando il Lord le rivolse per la seconda volta la parola: la bambina gli aveva portato un bicchiere di rum che lui aveva ordinato (probabilmente con l’intenzione di non vuotarlo) e poi l’aveva avvicinata posandole una mano sulla testa, nel tentativo di coprirla dalla vista dei Thenardier.
Cosette non rabbrividì come era accaduto la prima volta che l’aveva accarezzata, ma fu comunque stupita di sentire quel contatto: non si sarebbe mai aspettata un nuovo tentativo di essere avvicinata.
Con voce melliflua e controllandosi le spalle, il Milord sussurrò nell’orecchio della bambina poche parole che la lasciarono stupefatta per alcuni istanti:
“Questo è da parte di tua madre”.
Cosette quasi rabbrividì di emozione.
All’epoca, ormai, aveva quattro anni, e ne aveva passate già talmente tante che non credeva di poter più avere notizie di Fantine.
E invece, ecco lì un signore, che neanche conosceva, avvicinarla e ripetergli quel nome tanto caro, che nella notte aveva ripetuto tra i singhiozzi, prima con speranza e poi con la rassegnazione dei miserabili.
Il signore, con discrezione, le porse un bel pacchettino avvolto in carta rossa, e con un fiocco giallo sopra.
Allo sguardo stupefatto della bambina, Milord sorrise.
“Qualche mese fa hai fatto il compleanno, giusto?”
Cosette non si azzardò neanche a dirgli che era stato più di due mesi prima: si scaraventò sul pacchettino gioiosa, con la foga di un avvoltoio che si scaraventa sulla preda.
La carta rossa le scivolava tra le mani, e Cosette se la ripassava più e più volte tra le dita, dicendosi che per molto altro tempo non avrebbe sentito più quella sensazione di appagamento.
Si rigirava il fiocco giallo, ancora intatto, tra le mani, con delicatezza e devozione.
E infine, aprì la piccola scatoletta nera che conteneva il prezioso regalo della sua mamma.
Che poi tanto prezioso non era (un semplice anellino giallo così piccolo da sembrare quello di una bambola) ma Cosette se lo mise all’anulare tremando tutta, e ammirando il luccichio (così tenue...) che produceva sulla sua pelle.
Il gentiluomo accennò un sorriso, alla vista della bambina che, davanti a lui, sembrava non avere parole, o che forse non riusciva a trovarne per poter descrivere i suoi sentimenti.
Poi, alzandosi dal tavolo con l’eleganza di un vero gentiluomo, lo sguardo di Cosette ancora fisso sul suo volto seraficamente soddisfatto, Milord la salutò con un cenno della mano a cui la bambina rispose lievemente, ancora shoccata.
La sera stessa, Cosette avrebbe sentito i Thenardier e Milord discutere animatamente nel retro della locanda.
Non aveva capito chiaramente molto, tranne alcune bestemmie di Mounsier che erano state anche fin troppo esplicite, ma le era sembrato di aver udito le parole “andare via” uscire dalla bocca del gentiluomo.
 
In realtà, avrebbe scoperto Cosette più tardi, il signore non era affatto inglese, ma era nato in Italia e lì era cresciuto.
Ai locandieri il signore non avrebbe mai raccontato i suoi trascorsi di patriota, e successivamente di garibaldino, solo pochi anni prima, certamente sicuro che i due avrebbero cominciato a guardarlo con disprezzo e con una malcelata malignità.
“Che cosa le può importare di cosa pensano i Thenardier, Milord?” gli aveva chiesto una volta Cosette, gli occhi sgranati mentre l’uomo le raccontava del mitico Sbarco dei Mille.
Lui aveva sorriso bonario e aveva risposto, molto semplicemente:
“Non mi importa, ma è più divertente vederli strisciare ai miei piedi” e, con un buffetto tenero al naso, aveva aggiunto:
“E, ti prego Cosette, chiamami Mario”.
La bambina poteva rimanere ore e ore seduta vicino al tavolo dove il signore (o meglio, dove Mario) sedeva, incantata davanti alle strabilianti meraviglie che aveva da raccontarle.
Si era formato come un tacito accordo tra loro: ogni mattina, dopo aver lavato i piatti e dato una passata di straccio in cucina (e dopo aver, naturalmente, portato all’anziano un bicchiere), Cosette si sedeva sul pavimento davanti al Milord, con le gambe incrociate, e lo fissava mentre, con calma e pazienza, l’uomo consumava la sua colazione, in un modo così solenne da fare sembrare quella colazione un banchetto.
La bambina non gliel’aveva mai detto, ma sperava sempre che lui finisse più in fretta possibile e che cominciasse subito a narrare, mentre l’anziano si dilungava asciugandosi i lembi delle labbra con il fazzoletto quasi immacolato, e brandendo le posate come fossero cimeli di un museo.
Non negava di essere affascinata da quella sorta di rituale che ogni giorno si svolgeva (la magia dei suoi gesti, così aggraziati per un combattente…), ma ciò che più l’attirava era il racconto delle sue gesta, il ricordo di cavalli nella mischia e di urla di soldati esaltati.
Rimaneva incantata nel sentire con quanti dettagli egli ricamava le storie, come un menestrello, rendendo le storie così vere e credibili che a Cosette sembrava di vedere DAVVERO Garibaldi guidare i Mille nella conquista della libertà.
Alle domande curiose della bambina (“Eravate davvero Mille soldati?”, “Com’era Garibaldi?”) Mario rispondeva con pazienza, senza stancarsi mai e senza perdere mai la luce che illuminava i suoi occhi parlando di tali gesta, a volte anche sfatando miti che per Cosette erano ormai consolidati (i Mille non erano davvero mille e Garibaldi era zoppo da una gamba).
Madame la richiamava spesso dalla sua postazione, a volte anche tentando di rialzarla dal pavimento con violenza, ma Milord diceva sempre, con gentilezza:
“Oh, si figuri Madame, mi fa piacere avere la bambina qui con me!”
Poi, ammiccando alla donna aggiungeva sommesso:
“E non vorrei raccontare a sua madre il modo in cui la trattate…”
A quelle argomentazioni, la Thenardier sbiancava in viso, punta nell’orgoglio e piena di rabbia, ma ogni volta si voltava e raggiungeva suo marito sussurrando qualche bestemmia.
Fu quello il periodo più bello che Cosette passò alla locanda, se non il più bello della sua vita: Mario la trattava bene, e la rendeva sicura sapere di avere un rifugio sicuro a cui tornare ogni giorno.
Sapeva che lui l’avrebbe difesa dai pericoli, e ne era ancora più sicura ora che aveva saputo di tutte le sue avventure.
Un giorno che Eponine aveva provato a strapparle di mano una piccola bambola fatta di stracci (L’unico regalo che sua madre le avesse fatto, a parte l’anello) Cosette l’aveva bloccata dicendo, ferma come non mai:
“Guarda che lo dico a Mario”.
Eponine, come la madre, era sbiancata e poi diventata rossa di rabbia, ma aveva dovuto rassegnarsi al riconsegnarle la bambola, come se quella minaccia fosse stata più potente di un “Guarda che lo dico a mamma”.
Ora non c’era più nulla che potesse toccarla in quella locanda, nessun rimprovero che le bruciava, nessuno schiaffo per la piccola Cosette: Mario la osservava costantemente dal tavolo vicino alla vetrata, anche nei giorni in cui era impossibilitata a sentire i suoi racconti, e le sorrideva dolcemente. Cosette sapeva che il giorno dopo le avrebbe narrato di qualche altro evento, e fremeva al pensiero.
Ogni mattina si svegliava così di fretta che non aveva neanche il tempo di accorgersi dello stomaco che brontolava, o dei piedi nudi sul freddo pavimento della locanda.
Esistevano solo lui e Mario quando raccontava, quando la lasciava senza fiato per un qualche improvviso colpo di scena.
Esistevano solo le sue storie, le storie che la facevano volare con la mente lontano, a un futuro migliore, a un futuro più giusto, a un futuro più LIBERO.
Più di una volta Eponine l’aveva sentita canticchiare in uno stentato italiano parole che non aveva capito ma che sentiva profondamente ostili. Per ripicca, quando Cosette si accorgeva della presenza della bambina, cominciava a cantare più forte, con la sicurezza di una vera patriota. Ogni volta Eponine se ne andava via, e un sorriso appariva sul viso di Cosette.
Mario era sempre gentile e disponibile con lei, e più di una volta la difese dai rimproveri dei Thenardier, sussurrando loro all’orecchio alcune parole che Cosette non aveva mai potuto cogliere.
Qualche anno dopo avrebbe capito che quell’uomo era stato mandato da sua madre per ripagare tutti i suoi debiti e per portarla da lei. Come Fantine avesse convinto quel “Milord” ad aiutarla, Cosette non l’avrebbe mai saputo.
All’epoca, comunque, l’unica cosa che la bambina sapeva per certo era che presto quell’uomo l’avrebbe portata via di lì.
Dove, non ne aveva idea: probabilmente sua madre non si ricordava più neanche il suo nome.
Forse sarebbero andati insieme in Italia, anche se Mario disprezzava fortemente l’idea, dicendo che mai e mai più sarebbe tornato in quel “covo di serpi”.
“Non capisco, se avete lottato tanto per renderla migliore, perché l’avete abbandonata?” aveva chiesto una volta Cosette.
Lui aveva ridacchiato divertito e aveva risposto, ancora ridendo:
“Non ne ho la minima idea, tesoro”.
A Cosette l’idea di andare in Italia non sarebbe dispiaciuta affatto: da come Milord gliene aveva parlato, sembrava un luogo stupendo, ricco di cultura e di opere d’arte immense e immortali, un vero e proprio modello artistico, un paese libero (o almeno era libero in confronto alla povera Francia) ed un popolo libero.
Un luogo perfetto per vivere con Mario in pace, all’ombra del Colosseo con intorno il David e la Gioconda (bisogna far conto che Cosette aveva allora quattro anni e spesso mescolava luoghi e opere diverse nella sua mente).
Sapeva, lo sentiva, che Mario sarebbe diventato il suo papà. Era anzi già il suo papà, il suo nuovo papà che amava con tutto il cuore.
Si ritrovava spesso la sera, dopo una giornata passata ad ascoltare le sue storie, a immaginare un futuro insieme al “Milord”, solo loro due, in giro per l’Italia in vestiti eleganti. Mentre queste visioni passavano per la sua mente, Cosette osservava l’anello che portava al dito e stringeva a sé la carta rossa del regalo, che ancora conservava con sé.
L’unico regalo VERO che qualcuno le avesse mai fatto.
 
L’idillio durò un paio di mesi: una mattina di fine agosto, Cosette si diresse come suo solito nel locale a consegnare alcuni piatti e si accorse che Mario non era seduto al suo solito tavolo.
All’inizio aveva ipotizzato che l’uomo avesse fatto semplicemente tardi e che conveniva aspettarlo come era suo solito.
Così, non appena aveva finito alcune faccende che Madame le aveva assegnato, Cosette si era seduta sul pavimento a gambe incrociate, in attesa del suo cantastorie.
Non passarono che pochi minuti, però, quando Mounsier la chiamò gracchiando sarcastico:
“Che fai qui, principessa? I pavimenti non si puliscono da soli”.
Lei aveva alzato la testa e affermato, fieramente:
“Aspetto Mario”.
Mounsier era subito scoppiato in una risata isterica, che Cosette non aveva compreso.
Tante erano le risa, che a un certo punto l’uomo dovette anche asciugarsi una lacrima che era colata dall’occhio.
“Oh…” ridacchiava ancora lui. “Oh, la piccola principessa aspetta il suo principe azzurro!” aveva esclamato acuendo la voce.
Cosette fece tanto d’occhi: non capiva cosa stesse succedendo.
“Mi dispiace, tesoro…” disse Thenardier, scimmiottando Milord dicendo la parola “tesoro”.
“Il tuo caro e beneamato salvatore non c’è più”.
Cosette  rimase a bocca aperta.
“È morto ieri notte per infarto, e NON mi dispiace affatto.”
 
E così, Cosette era tornata a spazzare i pavimenti della locanda “Al sergente di Waterloo” , a trasportare piatti più grandi delle sue mani e a camminare nella neve coi piedi nudi, mentre il gelo dell’inverno avanzava lentamente e inesorabile.
La fatica tornò più pesante che mai, le sue membra urlavano ogni minuto di dolore, e il suo animo era a pezzi come mai era stato prima: Mario gli aveva fatto ritrovare un po’ di luce in fondo al tunnel, l’aveva fatta sperare in qualcosa che ora le era stato tolto e l’aveva illusa crudelmente che qualcosa potesse cambiare.
Perché darle tante false speranze quando non era riuscito a mantenere una sola promessa?
Perché farle ritrovare un po’ di sole per poi oscurarlo?
Perché essere così crudele da andarsene quando ne aveva VERAMENTE bisogno?
I primi mesi Cosette non riuscì a proferire parola: si richiuse nel mutismo del suo dolore, nella tristezza e nell’angoscia costante.
Si svegliava spesso nella notte piangendo, e stringeva spasmodicamente a sé la carta da regali, urlando disperata “Torna qui! Torna qui!”
Madame, a quegli scatti di pura follia, andava nel magazzino e la scuoteva urlando a sua volta, mentre le lacrime continuavano a rigare il suo viso.
Spesso piangeva anche quando doveva portare bicchieri o piatti a quel tavolo vicino alla vetrata, il tavolo che aveva aperto la sua mente e l’aveva fatta sognare di camicie rosse e bandiere tricolori alzate al vento, e che ora era occupato, come per tradimento, da altre persone che non sapevano, che non vedevano il suo dolore.
L’anello era ancora lì, Madame non l’aveva neanche notato tanto era piccolo, e Cosette non l’aveva e non l’avrebbe più tolto.
La carta da regali rimase per lunghe notti vicino al suo letto, fino a quando, una mattina, la bambina si svegliò e non la trovò.
Al piano di sopra, Madame le sorrideva crudele.
Qualche mese dopo, poche settimane prima dell’inizio del terzo anno alla locanda, Eponine sentì Cosette intonare, la voce flebile e rotta dal pianto, un inno in una stentata lingua che non capiva e non parlava.
Si era avvicinata a lei e si era seduta ad ascoltarla, fino a che, con un ultimo “Sì!” la bambina aveva concluso la canzone.
Ponine aveva sorriso.
E Cosette aveva abbozzato il primo sorriso dopo mesi.

Note d'autrice:
ECCOMI!!
Scusate l'attesa, ma purtroppo nessuno dei prompt mi ispirava.
Poi ieri sera mi sono messa a scrivere e...
è uscito questo.
Spero vi piaccia!
(Spoiler: Il quarto capitolo dovrebbe essere incentrato su Fantine, per la gioia di i love penguin)

 

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Capitolo 3
*** In my life ***


Prompt usato: per la prima volta
 
3-In my life
 
 
Per Cosette quello fu probabilmente il più difficile periodo che passò alla locanda.
Certo, tante altre volte aveva avuto motivo di essere triste e abbattuta, e tanti momenti terribili costellavano la sua permanenza lì (primi tra tutti, i ricordi dei giorni della malattia erano ancora ben impressi nella sua mente), ma probabilmente i più difficili furono quei giorni preludio del suo terzo anno nella locanda.
Madame e Mounsier le urlavano dietro per qualsiasi cosa, e la obbligavano a correre da un capo all’altro della locanda con le scuse più inusuali e stupide, forse con l’intento di farle “recuperare” le settimane perse trascorse con Mario.
Non che le importasse poi così tanto di cosa Mounsier e Madame le ordinassero, era abituata, ma dopo tanti giorni in cui il lavoro era diminuito sensibilmente il suo corpicino, già fragile, era diventato ancora più debole, tanto che, col suo viso scavato, gli occhi sporgenti e il sorriso ormai rivolto all’ingiù, la piccola Cosette pareva proprio malaticcia ai clienti della locanda.
Una volta un uomo (evidentemente meno sbronzo degli altri) aveva chiesto a Mounsier, con velata curiosità:
“Quanti anni ha quella bambina?”
Thenardier non aveva risposto, e se n’era andato lasciando il cliente a bocca asciutta da solo nell’atrio.
Il pensiero dell’anziano Mario, il suo carissimo e amato Mario, non l’aveva più lasciata da quel fatidico giorno in cui la Morte se l’era portato via con la sua mano oscura.
Non era passato giorno in cui Cosette non avesse, almeno per alcuni istanti, dato un’occhiata di sfuggita al tavolo vicino alla vetrata, prima luogo di ritrovo culturale, ora tempio dissacrato da ubriachi e volgari omaccioni rubicondi.
Naturalmente Madame non si era fatto scrupolo, sin dal giorno successivo alla morte dell’uomo, a far occupare il tavolo ad altri clienti, senza pensare affatto (come suo solito) a quanto la bambina era legata a quel particolare tavolo, o forse pensandoci e assegnandolo appositamente per farle dispiacere ad altri uomini.
Del gentiluomo era vietato dire anche il nome, come fosse stata una parolaccia, un’ imprecazione orrenda.
E in fondo nessuno rimembrava più del Lord che lì aveva passato così tanto tempo: nessun cliente era mai rimasto tanto a lungo da vedere l’uomo arrivare e “partire” dalla locanda. Gli unici che sembravano (giustamente) ricordarlo erano i coniugi Thenardier (che non esitavano a pronunciare il suo nome per lanciare sonore e volgari bestemmie), la piccola Eponine, che della sua morte era rimasta molto shoccata e, naturalmente, la nostra Cosette.
A lei i due locandieri intimavano più che alla figlia di non nominare mai e poi mai il vecchio, e le impedirono anche di  svolgere qualsivoglia attività che lo riguardasse, direttamente o indirettamente: Mounsier non gli aveva permesso di partecipare al suo funerale (che comunque Eponine aveva definito “noiosissimo”) e tantomeno gli aveva permesso di parlare di ciò che lui gli aveva insegnato, con Ponine prima di tutto (avevano paura che potesse “contaminarla” con la sua dissacrante conoscenza) e con i clienti, ovviamente.
“Di quel vecchiaccio non voglio più sentire parlare, Cochette!” gli aveva intimato quando si era azzardata a fare il suo nome di fronte a lui il locandiere.
Lei aveva fatto una smorfia e aveva borbottato, guardandolo assassina:
“Mi chiamo Cosette”.
Per quella sua “impertinenza” era stata costretta a rimanere chiusa tutto il giorno nello sgabuzzino, ma in fondo a lei non importava più nulla: quel luogo di tenebre non la spaventava più.
Aveva imparato a convivere col buio che da più di due anni la circondava.
I giorni passavano sempre più lenti alla locanda, e quando Cosette andava a dormire, la sera, rannicchiata in un cantuccio dello sgabuzzino, non le sembrava vero di essere arrivata viva a un altro orrenda giorno.
Poi si ritrovava a pensare che ci sarebbe stata un’altra alba in seguito a quella, e poi un’altra, un’altra, e un’altra. E allora desiderava ardentemente solo che il mondo si fermasse, lasciandola sola col suo dolore e i suoi pensieri.
Unico sostegno in quel periodo orrendo fu la presenza di Eponine, ora più rassicurante e amichevole.
Dopo quello scambio di sorrisi avvenuto pochi giorni prima, la bambina si era avvicinata molto di più alla piccola Cosette: probabilmente conscia, per la prima volta, di quanto la vita per la bambina fosse difficile, la figlia dei locandieri stava tentando, con qualche tentativo scarso e imbranato, di instaurare un, se non saldo, almeno buon rapporto con Cosette.
Spesso l0a osservava spazzare il pavimento con un sorriso, e ogni tanto impugnava anche una spazzola con l’intenzione di aiutarla (lei sussurrava sempre “No, no!” ancora timorosa di quella strana amicizia), la aspettava in cucina alla fine della giornata per provare a parlarle, le si avvicinava mentre lavorava e la incoraggiava con parole ferme e sicure.
Certo, di quei rapporti seppure minimi, tra le due bambine i locandieri non erano affatto sicuri, preoccupati che la loro figlioletta potesse diventare una semplice “ragazzina di strada” come Cosette anche solo avvicinandosi a lei.
A tale proposito, Azelma stessa aveva parlato alla sorella minore, cercando di convincerla ad allontanarsi dalla piccola vagabonda, ma Eponine non aveva demorso, sicura di poter, un giorno, chiamarla “amica mia”.
Per la prima volta, si era ritrovata ad avvicinarsi, con delicatezza e piccoli passi, alla bambina che aveva visto sempre come “la cameriera”.
Pareva essersi accorta che anche Cosette fosse un essere umano come lei, con dei desideri e dei sentimenti, e con, soprattutto, tanto dolore nell’anima, ed aveva provato a sanare le ferite che aveva, con delicatezza e abilità, come una vera dottoressa, ma sempre tenendosi più lontana possibile, forse memore dei suoi dispetti e delle sue cattiverie verso la bambina.
Tentava spesso un approccio gentile, schietto con lei, ma Cosette la rifiutava spesso, con i suoi silenzi e il suo dolore schivo: dopo la morte di Mario, la bambina pareva essersi costruita una barriera intorno che non accennava a cadere (che forse non voleva cadere) sotto i colpi inferti da Eponine.
Certo, la bambina rimaneva molto delusa dal comportamento di Cosette, ma non demordeva, sicura che presto avrebbe deciso di diventarle amica. Capiva benissimo il suo dolore, e capiva benissimo quanto doveva essere stato duro cosa avesse passato.
Non si perdonava di averla trattata male alla stregua dei suoi genitori, ma sperava seriamente di poter rimediare mostrandole anche un poco d’affetto, l’affetto che le era mancata più o meno da sempre.
 
Alla fine di febbraio, il freddo era ancora pungente, e Cosette cominciò a manifestare seri problemi ai piedi, che spesso si congelavano sotto lo sferzante vento e il suolo ghiacciato, e che perdevano quasi sempre la sensibilità.
La sera, quando si rinchiudeva nello sgabuzzino, Cosette faceva fatica a credere che fossero ancora lì, attaccati alle sue gambe: li sentiva freddi e congelati, come due blocchi di cemento, come assenti, come parti separate dal suo corpo.
Le ferite che riportava sulle piante erano assolutamente orrende, i graffi che si era fatta durante i tre anni passati alla locanda si riarginavano in lunghissimo tempo.
Capitava dunque che una caduta su una roccia, una piccola escoriazione, anche minima, divenisse una ferita difficilmente rimarginabile che alle volte si infettava anche gravemente.
I Thenardier, naturalmente, non avevano voluto pagare nuovamente il medico di famiglia, dopo la sua lunga malattia: avevano tenuto quei problemi della bambina nel silenzio, come un segreto di famiglia imbarazzante, come un’informazione preziosa, col fare discreto di una donna che cerca di evitare i pettegolezzi.
Cosette era dunque costretta a subire in silenzio, il volto rivolto in basso e le guance rigate di lacrime.
Ponine aveva cercato in mille modi di convincere la madre a chiamare il medico per “la povera Cosette”, ma la bambina e la Thenardier non avevano voluto sentire ragioni.
Quei mesi di sofferenza silenziosa, Cosette li avrebbe pagati per sempre nel suo futuro: i suoi piedi non sarebbero mai più stati gli stessi negli anni che seguirono.
Ricoperti di cicatrici e graffi, gonfi di vecchi ematomi e di vecchie ferite mai totalmente rimarginate, i suoi piedi erano diventati così orrendi alla vista che i Thenardier le avrebbero appioppato, oltre al soprannome “principessa”, l’epiteto dispregiativo di “Piedi di Porco”.
 
Fortunatamente marzo arrivò a prendere la bambina col suo abbraccio rassicurante e protettivo con lo stesso amore di una madre: l’aria si riscaldò decisamente dalla prima metà del mese, tra la gioia di Cosette e di Eponine.
I Thenardier invece storcevano la bocca, al pensiero dei clienti che non sarebbero venuti, attirati dalla bella aria primaverile e da qualche bordello particolarmente attirante.
Il lavoro era relativamente poco, e Cosette riuscì a ritagliarsi qualche ora al giorno per restare da sola nella locanda.
Solitamente rimaneva semplicemente seduta sul pavimento, vicino al tavolo accanto alla vetrata, gli occhi rivolti verso la sedia con gli occhi spalancati, come se la presenza di Mario fosse ancora lì, a raccontarle col suo tono di voce ipnotico della bella Italia e delle battaglie furiose.
Era come un rito per lei, ormai, fermarsi lì anche solo per qualche minuto al giorno, anche solo per qualche istante, solo per poter avere l’illusione che lui non fosse morto, che lui fosse ancora lì con lei, e che presto l’avrebbe portata via da lì.
La sua scomparsa era stata una perdita così improvvisa e ingiusta che ancora non l’aveva compresa a fondo. Ma poi, come poteva capire una bambina di sei anni misteri che i più illustri scienziati non erano neanche riusciti ad affrontare?
Quando non era nel locale, la bambina si rifugiava nel suo sgabuzzino sola con le scope, nel buio che ormai le era così familiare e amico.
I suoi rapporti con altre persone che non fossero i Thenardier erano praticamente inesistenti: i clienti si fermavano troppo poco per poter stringere amicizia (come se lei avesse avuto voglia di stringere amicizia con degli ubriaconi…) e Eponine le appariva ancora un pianeta troppo distante. Ricordava ancora il dicembre che lei aveva passato tremante e che la bambina aveva trascorso avvolta in una pelliccia d’ermellino.
Con un pezzo di spago che aveva trovato in un angolo della locanda, Cosette si costruì una bomboletta che le portò via sei ore di lavoro e che la bambina non avrebbe più abbandonato per tutta la vita.
La bomboletta, che lei ribattezzò Fantine, fu l’unico ricordo che della taverna lei decise di mantenere: tutto il resto finì in un angolo remoto della sua mente e in un cassetto lontano.
Eponine tentò ancora per lungo tempo di avvicinarsi alla bambina, di stabilire un qualche contatto, di iniziare un rapporto che non fosse solo di muta indifferenza, ma Cosette la respinse sempre, per lungo tempo, con lunghi silenzi e muri di protezione.
Voleva solo restare sola, la bambina.
Strano che proprio la solitudine la spaventasse più di qualsiasi altra cosa al mondo.
 
Con l’arrivo di aprile, l’aria si scaldò decisamente, ma non così lo spirito di Cosette: la bambina era ancora sotto shock dopo la morte di Mario, anche se il dolore stava lentamente scivolando via dalla sua pelle.
Ciò che più la stordiva di quel triste avvenimento era la rapidità di quell’addio, quanto inaspettato fosse stato quell’evento, quanto improvvisa era stata la morte dell’uomo.
Ricordava ancora bene il giorno prima, le ore passate incantata sul pavimento sudicio, ad ascoltare dell’incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano e della riunione dell’Italia, a immaginare quel glorioso evento e a ricamarlo di strani ghirigori nella sua fervida mente.
Per la prima volta Cosette aveva avuto la possibilità di sognare veramente, e di sognare in grande, non solo a limitarsi a quello che lo stipendio di sua madre poteva permettere o al soffocante ambiente della locanda. Aveva avuto la possibilità di immaginare cavalli imbizzarriti e caduti nella polvere, schieramenti contrapposti e agguerriti, vie tappezzate di pietre e musei ricolme di immortali opere d’arte, un paese lontano e misterioso, riunito sotto un'unica bandiera e sotto un unico inno.
Per Cosette l’incontro con Mario era stato importantissimo, quasi quanto lo era stato l’arrivo alla locanda dei Thenardier (il primo però era stato un lieto evento, il secondo la rovina della sua vita), perché per la prima, PRIMISSIMA VOLTA qualcuno si era preso cura di lei, come neanche sua madre se ne era mai presa cura.
Certamente, oramai il dolore si era attutito, seppellito dal tempo e dalla sua leggera forza, ma non poteva sparire, oh no, non era possibile dimenticare.
Cosette non dimenticava.
Cosette non dimenticava mai.
 
Una sera di maggio la locanda si riempì straordinariamente.
I tavoli al piano di sopra erano già tutti occupati, e anche quelli al piano di sotto scarseggiavano sempre di più.
I Thenardier si sfregavano le mani, soddisfatti come non mai, come se già sentissero i soldi passargli tra le dita. Erano così sicuri che quella serata gli avrebbe fruttato tanti di quei soldi che avevano addirittura assoldato Eponine e Azelma come cameriere.
Le due bambine si affannavano da un angolo all’altro della locanda, passando da un uomo ubriaco all’altro, incitati dagli stessi genitori con imprecazioni e urli sempre più alti.
Anche per Cosette però la serata si prospettava lunghissima: i Thenarder le avevano ordinato per la prima volta di preparare la birra, e più di una volta la bambina era certa di aver visto una mosca galleggiare sulla superficie del liquido, e più di una volta aveva avuto la paura di dare di stomaco.
Almeno lei era avvantaggiata rispetto alle due bambine: Madame e Mounsier l’avevano abituata a insulti e ordini, e riusciva a correre molto più veloce di Ponine o Azelma.
Ogni sera era comunque e sempre una sofferenza: gli uomini volevano sempre più birra, le donne ci provavano sfrontatamente sventolando le tette, e dopo poche ore tutta la locanda puzzava di uomo.
I corpi ammassati in un angolo, sistemati come una pila di cadaveri, emanavano un fetore orrendo. Gli uomini in quel groviglio sembravano non accorgersi di essere appoggiati a qualche coscia femminile o a qualche spalla maschile: erano così brilli che anche fossero stati in una latrina non si sarebbero lamentati.
Delle puttane che se ne stavano in agguato davanti alla porta non si poteva neanche parlare: tutto il profumo che si erano spruzzate provocava quasi un giramento di testa a Cosette, che era costretta a evitare l’ingesso per non essere investita da tutti quegli odori.
Fino alle undici della sera la bambina aveva dovuto correre da un angolo all’altro della locanda, rispondendo agli ordini più svariati e agli uomini più ubriachi.
Al tavolo di Mario si erano appartati una prostituta sui venti anni e un cinquantenne straordinariamente pasciuto e straordinariamente brillo che la palpava da circa un’ora.
Più di una volta a Cosette erano salite le lacrime agli occhi avvicinandosi a quello specifico tavolo.
Eponine l’aveva incrociata un paio di volte mentre servivano tra i tavoli, e le aveva rivolto alcuni sorrisi incoraggianti, conscia di quanto difficile fosse per lei vedere il luogo in cui la sua fantasia era volata sulle ali del vento in un certo senso deturpato da tali “barbari”.
Cosette aveva risposto anche lei con sorrisi forzati, tirati e leggermente imbarazzati: non era ancora completamente abituata all’idea che qualcuno le fosse amico, dopo tanto, tanto tempo passato a fare la sottomessa, ma forse qualcosa poteva nascere, in fondo…
Forse, per la prima volta, poteva avere un’amica.
Una VERA amica, un’amica che l’avrebbe capita e sostenuta qualunque cosa fosse accaduta.
Un’amica sempre disposta a dargli una mano, sempre disposta a starle accanto, a non lasciarla cadere nei momenti di difficoltà.
Certo, c’era stato Mario.
Ma Mario era stato come un padre per lui.
Ponine invece…
Poteva essere un’amica, sì…
La sua prima amica.


Note d'autrice:
Sì, so che fa orrendamente schifo, ma in un modo o nell'altro dovevo pure aggiornare no?
Bè, il prossimo capitolo sarà dedicato a Fantine e alla Fantine\Jean, mentre nell'ultimo si tornerà su Cosette e sul momento in cui jean la viene a prendere.
Parlerò anche dell'amicizia che si formerà tra Cosette e Eponine, ma credo di non potere fare molto come mi ero ripromessa.
Scusatemi il capitolo assolutamente orrendo, davvero.

 

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