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Hermione Jane
Granger era tutta voce. Scioglieva
come zucchero in una camomilla ambrata, sé stessa dentro le parole che amava
cullare nella gola, per poi farle fiorire sulle labbra, sfuggendo la barriera
dei denti.
Hermione Jane
Granger era nulla di più che una voce
nei suoi ricordi, un ronzio che non sentiva mai davvero, come un aggeggio babbano
che ha sentito chiamare radio. E lui
manco si chiede come faccia quella voce a viaggiare lontana per lo spazio, fino
a ferire le sue orecchie, come lo stridio di un’unghia su una lavagna.
Lo irrita, lo
infastidisce e tanto basta. Tanto basta.
Tra l’altro, è una
cosa babbana, quindi le domande non se la fa nemmeno. La guerra e la pace, come
due patetici attori che si alternano sul proscenio della sua vita relegandolo a
comparsa, hanno imposto che lui non pensi più gli insulti, ma da qui a mettersi
a fare anche domande, ne passa di acqua sotto i ponti.
Crede, poi, di non
aver nemmeno il diritto di fare domande. Non glielo hanno dato, lui non l’ha
chiesto e tanto basta. Tanto basta.
E poi, quella cosa,
quella radio, un giorno, smette di brusire.
E il silenzio
continua a ronzare. Eco, ricordo, fischio? Non ha diritto di fare domande.
Hermione Jane
Granger non parlava, ma guardava.
Uno sguardo di agata
dura, screziato di schegge. Le ciglia lunghe, nere, un po’ umide a causa del
sudore di quella calda mattina di settembre, restavano arcuate attorno al
bianco degli occhi fissi davanti a sé. Non si era mossa di un millimetro, era
rimasta seduta sul letto sfatto dell’infermeria abbracciandosi le ginocchia,
come quando lui era entrato. Se si fosse messa a spingersi con la schiena,
Draco l’avrebbe scambiata per una di quelle ridicole bambole, relegate per
sempre su una sedia a dondolo ad imitare divertimenti finti e fasulli.
Invece, lei aveva
appoggiato il mento su un ginocchio, piegato la testa di lato, mentre i capelli
le scivolavano su una sola spalla. Crespi, spettinati, opachi, erano malamente
legati da un nastro beige.
Hermione Jane
Granger non parlava, ma guardava. Era lui
che guardava.
Lo esaminava con
goffa attenzione e negletta diligenza, senza nemmeno sbattere le palpebre, come
se le si fossero pietrificati i bulbi oculari. Solo un raggio di sole fendé
come un giavellotto la quiete ambrata dei suoi occhi, costringendoli a
chiudersi di scatto, infastiditi. Perse quasi l’equilibrio, si aggrappò con una
mano al lenzuolo, stringendolo forte tra le dita. Il maglione traforato le
coprì le mani, sembrava ballarci dentro.
Quando riaprì gli
occhi, Draco era uscito dall’infermeria, sistemandosi meglio le bende attorno alla
fronte.
Il corpo è una magia.
Draco sapeva
perfettamente che i tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno;
la pelle si tendeva prima, pulsava e sanguinava, poi avrebbe vomitato una
crosta ruvida come carta vetrata che avrebbe difeso l’epidermide neonata che
andava formandosi. Un’epidermide neonata, ma decrepita, che portava già il colore necrotico del stillicidio suicida
che si stava autoimponendo. Si mise a giocherellare nel buio con le sue ferite,
sperando come un bambino sciocco che la pelle, sotto la crosta, fosse liscia,
pura, intonsa. Nella semioscurità dei sotterranei di Serpeverde, gli parve che
il braccio venisse quasi inghiottito da quel buco nero come un pozzo, dalle
fogge di un teschio che vomitava un serpente.
Draco sapeva che i
tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno. Era quasi un
contrappasso: quello che lui faceva per sé stesso, non lasciava mai alcuna
traccia. Allo stesso modo sapeva che i lividi invece sembravano non assorbirsi
mai. Diventano violacei prima, poi quasi neri, ed infine scoloriscono, macchie
di un giallastro malato.
E spariscono, ma non
scompaiono. Spesso Draco, urtando qualcosa, sentiva ancora male. Al ginocchio,
sulla spalla, sullo sterno. Una costellazione di segni neri, sul suo corpo
bianco, cielo al contrario.
Il corpo è una magia.
La bestia braccata
imparava ritmi ed orari e li convertiva in respiro, in strette alla bocca dello
stomaco, in capogiri e nausee. Come la lepre odorava l’erba e sentiva la volpe,
Draco sapeva che l’orario giusto per uscire dalla sua camera ed andarsene in
giro era tra le venti e le ventuno.
L’orario della cena
nella gremita Sala Grande.
Poteva passeggiare
da solo per i corridoi vuoti, raggiungere i cortili interni bagnati dalla luce
della luna, sostare nelle aule deserte senza incontrare nessuno; dopo, un elfo
compiacente gli avrebbe fatto trovare degli avanzi nella sua camera. Li avrebbe
divorati, senza fame, solo per sopravvivenza, e sarebbe andato a letto.
Quella sera, uscì
dalla sua stanza nei sotterranei, il passo lieve come una nebbia di vento;
nessuna pietra o asse scricchiolava al suo passaggio. Ad ogni eco di voce che
veniva catturato e rifratto dalle pareti, Draco si acquattava contro il muro,
le scapole magre che ansimavano al contatto con la pietra fredda, nonostante
portasse una camicia ed un maglione. Riconoscendo primini, altri Serpeverde,
qualche Tassorosso, una decina di Corvonero e nessun Grifondoro, Draco
respirava di sollievo e continuava a camminare; passato cautamente davanti alla
Sala Grande, proseguiva per l’androne interno, ritrovandosi finalmente
all’esterno.
Si sedeva per terra
sotto il porticato di colonne, ed osservava le foglie morte che turbinavano nel
vento, creando invisibili rivoli di polvere tra i lastroni di cemento. Non
pensava, difficilmente lo faceva.
Era diventato
istinto, puro, semplice, primordiale. E bastava una voce a farlo appiattire
contro una colonna, la bacchetta inutile in pugno. Bastava una voce.
Ma di lei, ovviamente, non si accorse fino a
quando non si era già seduto al suo solito posto. L’impressione di non essere
solo, quello scomodo fastidio che non andasse tutto come sempre, lo aveva
spinto a guardarsi attorno ed oltre la colonna accanto a lui, una chioma cespugliosa
era mollemente appoggiata allo stipite di pietra bianca. Non guardava come lui
il cortile, la Granger. Guardava fisso davanti a lei, persino di spalle Draco
distingueva il mento sollevato e i capelli che ricadevano flosci sulla schiena,
sollevandosi ad ogni ritmo del suo respiro. Affrettato, sembrava respirare a
fatica.
Il primo pensiero
che lo colpì, subdolo come un calcio sotto la cintura, fu che l’Ottavo anno di
Hogwarts era popolato da derelitti. Era
così disabituato a pensare da sbuffare con un pasticciato sospiro di fastidio
che riecheggiò nell’atrio deserto, amplificandosi infinite volte. La Granger
contrasse le spalle, ma non si mosse.
L’Ottavo anno di
Hogwarts era l’anno dei diciottenni che avevano saltato l’ultimo anno a causa
della guerra.
Erano pochi,
ovviamente, e non perché quell’anno tutti fossero stati diligenti ed
impeccabili frequentatori della scuola. Erano pochi perché ovviamente quasi
nessuno era tornato.
Potter e Weasley
avevano ottenuto di entrare nel corso per Auror, per quanto ne poteva sapere,
che ovviamente era poco. Pansy non era più voluta tornare dalla morte di sua
madre, Blaise si era trasferito a Durmstrang, Theodore si era messo ad aiutare
il padre, Goyle stava ad Azkaban, Tiger era morto.
Tiger
è morto.
I diciottenni parevano una razza strana,
amorfa ed acefala in quella scuola, come se portassero sulla fronte un segno
luminoso che li distingueva ad occhio nudo. Sembravano più alti,
tendenzialmente più cupi… ed erano dei derelitti. Ecco, come lui e la Granger. Me e la Granger.
O meglio, si disse
onestamente Draco, riassestandosi e mettendosi dritto, nessuno dei diciottenni
vinceva il titolo di derelitto meglio della Granger. La guardò di sottecchi,
non aveva mosso un muscolo da quando era arrivato. Restava immobile, dandogli
le spalle, a malapena respirava. Solo la nuca era scivolata indietro,
appoggiandosi alla colonna, mentre lei alzava lo sguardo verso l’alto.
Questi movimenti,
Draco non li aveva nemmeno sentiti. Per quello, sopportava la sua presenza. La
Granger, oramai, era una pianta ornamentale, di pessimo gusto, ma sempre tale.
Alla fine uno si abitua ad averla davanti agli occhi, o meglio uno alla fine ci
passa davanti e nemmeno se ne accorge.
Hermione Granger
aveva ormai moltissimo in comune con una pianta ornamentale.
Un
simbolo muto.
Era un simbolo che
richiamasse coraggio e speranza, era stata fotografata davanti all’Espresso di
Hogwarts il 1° settembre, un sorriso cancellato ed una crocchia severa ad
imprigionarle i capelli crespi. Anche lei era tornata a scuola, e se poteva
farlo lei, eroina e martire, potevano farlo tutti. Tutti potevano ostentare lo
slogan del mese, dell’anno e dell’intera storia umana: normalità. Un pessimo cerone con cui ci si truccava il viso di
fronte all’ennesima lacrima, all’ennesima assenza, all’ennesima cosa fuori
posto.
Ma Hermione Granger versione derelitto non
aveva nulla di normale, e Draco aveva
aborrito l’idea di usarla per quello scopo. Anzi, più che aborrito, l’aveva
trovata un’idea idiota.
Hermione Granger era
monito della guerra ed anatema della pace. La sua foto sulla Gazzetta del
Profeta era uno scomodo imbarazzo, da nascondere con borghese puritanesimo
sotto un letto di buone intenzioni, per nulla adatta ad infondere la nozione
del nuovo inizio aperto per tutti. Certo, Hogwarts aveva riaperto il 1°
settembre come sempre, ma il treno rosso era parso un insulto. E per la prima
volta, non soltanto agli occhi blasfemi di un Serpeverde, o di un ex
Mangiamorte, o di un cinico esteta annoiato.
Agli occhi di tutti.
Il
corpo è una magia,
però, e gli occhi comandarono alle labbra di restare sigillate in asettici e normali sorrisi.
C’era poca gente al
binario 9 e ¾ , ingombranti vuoti nella folla, assordanti silenzi in vagoni
deserti. Nel timore di fare qualcosa che non suonasse come normale, gli stessi
ragazzi sembravano camminare in punta di piedi, salutandosi quietamente e
sorridendo parcamente. Draco si era scelto un vagone, beandosi della silenziosa
compagnia di quattro primini che ancora non lo conoscevano.
Ancora.
Fu il primo anno che
Serpeverde non ebbe alcun studente nuovo. La preside McGranitt aveva cercato di
ovviare a quell’impaccio, abolendo le quattro lunghe tavolate della Sala Grande
e creandone una sola che girava attorno alla sala, segmentandosi in un quadrato.
Pessima scelta.
Draco aveva capito
dalla prima cena post Smistamento che era meglio non sedersi a tavola.
La
pianta Granger,
invece, doveva averlo capito di recente. Aveva sempre sentito quell’incredibile
e fastidioso vociare, quando lei arrivava in Sala Grande, sostenuta dalla
Piattola Weasley. Sapeva perfettamente Draco dal suo nascondiglio che, appena
varcava la soglia, il vociare cessava per cinque secondi, poi riprendeva
all’improvviso, sommergendo la ragazza di domande e di richieste mielose.
Perché era popolare
la Granger come pianta ornamentale.
E tutti avevano una
domanda per lei, a cui ovviamente non avrebbe risposto.
Tutti, tranne lui,
ovviamente. Non sa fare domande, non
vuole farne e non ne ha nemmeno diritto.
Hermione Granger improvvisamente
si alzò in piedi di scatto, repentinamente, come se avesse preso la scossa.
Ruppe la quiete della notte, calata a grandi stelle su di loro, con pochi gesti
e qualche passo, tutti estremamente rumorosi. Draco li sentì ripetersi circa
duecento volte nel suo cervello.
Non si voltò
naturalmente, quando la sentì camminare alle sue spalle e nemmeno quando la
sentì fermarsi. Poteva ignorare tranquillamente i suoi passi poco aggraziati,
senza timore alcuno di avere rimostranze. Non gliene poteva fare, pure se le
fosse saltato in mente di farle. In mente, appunto, non alle labbra.
Gli venne quasi da
ridere in modo sardonicamente divertito.
Lei, però, restava
alle sue spalle e continuava a guardare,
la sua nuca, la sua schiena, i capelli. La sentiva curiosare dappertutto. Gli
ribollì il sangue dal nervoso, come la mattina in infermeria.
Si voltò
innervosito, la Granger se ne stava in piedi, la bocca dischiusa, in attesa. Lo
sguardo era di nuovo pietra dorata, fisso, incastonato su di lui. Draco respirò
a fondo, prima di erompere: “Che diamine vuoi?!”.
Hermione sbatté le
palpebre, riscuotendosi, la solita patina indifferente le calò sul viso. I suoi
occhi, però, ritornarono su di lui, concentrandosi foschi sulla manica del suo
maglione. Draco, irato, seguì il suo sguardo, restringendo le pupille alla
vista del sangue che, superato il cotone della benda e quello della camicia,
aveva impiastricciato la grana del maglione verde che indossava. Draco tornò a
guardarla, raggiungendo con una mano la bacchetta, pronto a scagliarle
qualsiasi maledizione se quel suo viso avesse mostrato un qualsiasi sentimento:
fosse stato divertimento, ilarità o persino comprensione, pianta o non pianta,
l’avrebbe uccisa.
Lei restò
indifferente, immobile, cera scolpita.
Chiuse gli occhi e
sospirò.
“Saint Suliac…”.
Draco sussultò,
certo di aver solo sentito il vento, e continuò ad interrogare memoria ed
udito, fino a quando lei sparì, lasciandolo solo. L’aria tintinnava di un
ricordo netto e preciso, infrantosi nel presente silenzioso.
Silenzioso, fino a quel momento.
Perché Hermione
Granger, vittima di una guerra che sembrava averle cancellato la voce, aveva
appena parlato di nuovo. E a Draco Malfoy.
La voce di Hermione
Granger era evaporata come rugiada sotto il violento soffio rovente della
guerra. Esattamente alla fine della battaglia di Hogwarts.
Contando i morti,
curando i feriti, enumerando i dispersi, ad Hermione Granger fu
superficialmente chiesto da una Medimaga annoiata, che si guardava le unghie
scrostate di rosso, se stesse bene. Era una domanda di circostanza, Hermione
era una di quelle che stavano bene. Tagli superficiali, una ferita al ventre,
escoriazioni.
Ed invece Hermione a
quella domanda non rispose. A nessuna domanda, Hermione rispose.
Semplicemente,
guardava chi la interrogava e, al massimo, scrollava le spalle. Spesso le sue
stesse palpebre sembravano pesarle sugli occhi come veli di cemento e, alle
domande ossessive di amici, conoscenti, sconosciuti ed estranei, rispondeva
chiudendo gli occhi. Sparivano annegate nel bianco le iridi castane, morendo
nel buio.
Mistero buffo, la
storia di Hermione Granger aveva riempito i giornali di tutta l’estate di
festeggiamenti dell’epoca post Voldemort; perché Hermione non aveva danni
neurologici, ogni esame babbano e magico era stato negativo. Nessuna fattura,
nessun incantesimo, nessuna pozione.
Ma non parlava più,
restava silenziosa testimone di tempi immemori.
Draco aveva letto la
notizia quando era ancoraa casa sua,
agli arresti domiciliari, ed era dovuto scappare in camera per scoppiare a
ridere impunemente, senza che gli Auror potessero accorgersene e prendere
provvedimenti. L’aveva vista come una manifestazione assolutamente tardiva
della legge del karma, finalmente qualcosa era tornato indietro anche ai
cosiddetti eroi. Il suo sorriso era lievemente scomparso quando il loro
avvocato aveva informato lui e i suoi che, per ovvi motivi, Hermione Granger
non poteva testimoniare in suo favore con Potter e Weasley al processo per la
morte di Tiger.
Il karma gli si era
ritorto contro.
Era una novità?
Ovvio che no, per lui la ruota mica girava mai.
Hermione Granger,
comunque, aveva stilato con precisione una dettagliata deposizione, dove lo
scagionava completamente dall’accusa di aver ucciso Tiger. Non lo aveva fatto
per lui, ovviamente, ma solo per il suo senso del dovere che le impediva di
mandare in carcere un innocente, fosse anche uno che si era macchiato di altri
crimini, anche se, per fortuna, non di omicidio. Ovviamente tutto questo lo
aveva abbondantemente scritto.
Quindi
è solo muta, non anche deficiente…
aveva pensato Draco con fastidio, digrignando i denti.
Che però Hermione
Granger non fosse diventata deficiente, era chiaro a tutti molto più di quanto
Draco potesse ammettere. Era tornata ad Hogwarts per dirne una, e continuava ad
eccellere nei test, la sola differenza è che ormai ad ogni domanda dei
professori, non c’era più una mano affusolata a scattare imperiosa in aria,
formulando risposte, ma un silenzio imbarazzato ed un paio di occhi nocciola
ostinatamente rivolti fuori dalla finestra. Si era concluso che Hermione avesse
subito qualche tipo di trauma psicologico, nell’ignoranza di risposte
inesistenti si decretò con sufficienza che forse si sarebbe risolto tutto da
solo. Potter e Weasley andarono al corso per Auror, parcheggiandola ad Hogwarts
come un pacco postale dal contenuto incerto e probabilmente pericoloso; la
Weasley si era erta a sua assolutamente inopportuna ventriloqua, mentre la
scortava per le aule e per il castello, e i brusii piano si erano zittiti,
considerando ormai Hermione Granger al pari di un fantasma.
Ti incuriosisce la
prima volta, gli fai domande la seconda, la terza e la quarta volta, e alla
quinta ti accorgi a malapena che ci sia.
Ma Hermione Granger
non solo non era deficiente, ma non era neanche muta.
Ma questo lo sapeva
solo Draco Lucius Malfoy.
Tutti potevano
immaginarlo, certo, ma lui solo ne aveva la prova. Mai come in quel momento,
Draco sentì la mancanza del professor Piton, se lui fosse stato ancora vivo ed
ancora in quella scuola, ne avrebbe parlato con lui. Ogni altra persona, al
pensiero che Hermione Granger stesse solo fingendo di non avere più la voce, lo
avrebbe messo sotto torchio, facendogli raccontare tutto l’episodio e probabilmente
imponendogli di fare in modo che la ragazza parlasse ancora. A quanto ne poteva
sapere Draco, il mutismo di Hermione era stato assoluto fino al momento in cui
gli aveva rivolto quelle due parole. Piton invece l’avrebbe smascherata ed
avrebbe rivelato il sordido tentativo della Granger di essere sempre al centro
dell’attenzione, senza coinvolgere Draco.
Ma Piton non c’era. Piton è morto. Piton è morto, accanto a
Potter. E io, Piton, non lo vedevo da settimane.
I suoi genitori
erano esclusi, ovviamente; la lettera li sarebbe arrivata solo dopo tre
settimane in America, dove adesso vivevano, e ce ne avrebbe messe altrettante
per la risposta, ammesso che gli rispondessero subito. Lo avrebbero fatto,
certo, ma probabilmente ignorando la Granger. Spesso, Draco aveva l’impressione
dalle loro lettere transoceaniche che Narcissa e Lucius stessero semplicemente
cercando di non ripensare alla vecchia vita.
Lui era il solo
legame rimasto.
E se non la
rinnegavano, inghiottendo bocconi acri di risentimento, era solo per lui.
E Draco non li
deludeva, come sempre. Scriveva poco, parlava del tempo atmosferico in
Inghilterra, si inventata aneddoti divertenti con amici che non erano mai
tornati ad Hogwarts, si scusava del poco tempo libero per scrivere, mentre
cercava invece ossessivamente qualcosa da fare.
Non erano finiti ad
Azkaban né lui, né i suoi, avevano goduto di uno stato simile a quello dei
pentiti, considerando la bugia di Narcissa al Signore Oscuro sulla morte di
Potter.
Ma, in fondo, li
avevano puniti lo stesso e ben più duramente. Separandoli.
Draco, con il
segreto della voce della Granger dentro, assaporò con maggiore disgustosa
nettezza quanto in realtà fosse solo.
Non era una solitudine aurea da isola al centro di un mare placido e
indifferente, lui non affondava le radici nel nucleo della terra. Lui annaspava
come una barchetta, una vela strappata come motore ed una stella nascosta dalla
nebbia come guida.
Non si inferse un
solo e singolo taglio in quei giorni. Aveva tratto piacere da quella malsana
pratica non appena era stata pronunciata l’assoluzione a suo carico per la
morte di Tiger. Era successo per caso, un giorno, mentre tagliava della carne.
Il coltello era sfuggito, aveva incontrato la pelle del dorso della mano, aveva
grattato via un po’ di sangue. Puro, intonso, macchiato da generazioni senza
nome di Malfoy immacolati. Il lieve pizzicore era stato come acqua santa sul
capo del catecumeno, come se aveva dato al suo sangue ogni compito e missione
di purificarlo da sé stesso. E da lì, aveva sempre avuto un coltello in tasca e
del sangue coagulato sotto le unghie delle dita.
Poi, basta.
Hermione Granger
parlava, non aveva mai smesso, diceva cose che non erano nemmeno parole ma solo
suoni inarticolati di infante pigra, e non si era tagliato più, liberando pinte
di pensiero liquido nella sua testa. E il segreto di Hermione Granger, senza
nulla a fargli ostacolo nella sua mente vuota, continuò ad echeggiare per
giorni. Rimbalzava come le onde sonore dei pipistrelli, non aveva schermo né
argine alcuno. Non ricordava, Draco, le parole che lei gli avesse detto, ma
solo la voce. La solita voce di Hermione Granger.
Nulla era cambiato,
lei non era cambiata. Era la solita voce pastosa, vagamente argentina, tonda
sulle parole ad accarezzarle e a cullarle. Non sembrava nemmeno arrugginita per
scarso utilizzo. Forse parlava da sola come una pazza, aveva solo smesso di
farlo con qualsiasi persona vivente. Tranne
che con lui.
L’aria si era
raffreddata in quei giorni, il cielo era scolorito come una tela bagnata di acquaragia
ed ottobre era entrato prepotentemente nel calendario, artigliandosi sui giorni
sempre uguali. Nel vento che penetrava nelle crepe del sotterraneo dei
Serpeverde, gelando il sangue aggrumato, Draco sentiva la voce della Granger
come l’eco delle conchiglie. Una nota flebile, lieve, leggera, come un respiro.
Per quanto, però, fingesse di sforzarsi, non c’era traccia delle parole che le
aveva sentito pronunciare. Doveva esserselo sognato. E quel respiro che
penetrava come un spiffero dalle crepe era solo il vento.
La sua vita attuale
gli aveva insegnato una cosa importante: categorizza i pensieri, chiudili in
scatole e conserva quelli importanti. Quelli vitali. Quelli che ti faranno
sopravvivere. Il resto non serve. Tutto
non serve.
L’aveva fatto la
mente, il corpo no. La magia di un corpo che scopriva reazioni irrichieste.
Niente più cortile
interno durante la cena in Sala Grande, ma una poltrona in Sala Comune con la
sempre asettica scusa che non aveva voglia di mangiare. Niente più ultimo banco
durante le lezioni con i Grifondoro, così da controllare ogni movimento ed
essere sempre all’erta, ma il primo, così da non inquadrare nessuno e non
incrociare nessun sguardo.
Passi veloci nei
corridoi, come sempre. Passi febbrili, quando vedeva una chioma cespugliosa tra
l’altra gente.
Minimo
le salta di nuovo in testa di parlare con me e qualcuno se ne accorge…
Durante una di
quelle manovre diversive che non avrebbe mai ammesso e che chiamava “l’aria di questo castello è asfissiante,
esco fuori, vado a fare una passeggiata, tanto chi vuoi che incontri…”,
soprappensiero raggiunse il campo da Quidditch. Non sapeva chi si stesse
allenando, non era in squadra da una vita. Il cielo si era fatto plumbeo come
una coperta stesa a forza sulla terra, qualche goccia d’acqua cadde a terra,
precisa come un proiettile. Draco riparò sotto le gradinate degli spalti,
piegandosi qualche secondo sulle ginocchia per pulire le scarpe sporche d’erba.
Era passato il tempo dei vestiti messi una volta e poi gettati. Questi, se tutto
va bene, dovevano durargli fino all’anno prossimo, quando avrebbe avuto il
permesso di vedere i suoi.
Non vide il primo
colpo, come sempre lo colpì sul fianco destro, facendolo gemere e ricadere
bocconi sull’erba. Il livido già presente prese a pulsare, ma Draco lo ignorò,
schivando il secondo colpo.
Perché c’era sempre
il secondo colpo, ma lì la mente era già tornata reattiva, immettendo
adrenalina nel sangue e dando scariche elettriche ai muscoli. E il secondo
colpo lui lo evitava sempre, come lo evitò anche quel giorno, rotolando di lato.
Poi ci sarebbe stato
il terzo, il quarto, il quinto, e Draco sapeva che poteva solo evitarli, non
darsi da fare per colpire. Quello mai. Li avrebbe indispettiti di più con una
sua reazione. Lo aveva imparato, e non come una lezioncina recitata da un professore
annoiato e ricopiata con negligenza su un quadernetto.
L’aveva imparato a
sangue e lividi, ad insulti e gemiti.
Il coraggio del
serpente, di fronte alla grandezza del grifone, è solo appiattirsi nelle
viscere della terra, masticando le litanie contro il suo sangue puro, che
adesso insudicia la pelle sotto il suo maglione strappato.
Dal numero di colpi
che riceve, tra quelli che non riesce ad evitare e quelli che invece schiva,
capisce a tratti, come fiotti di luce da un faro, che deve essere capitato
proprio durante l’allenamento dei Grifondoro.
Sembrano troppi,
troppe risate, troppo scherno, troppa ingordigia a non lasciare nemmeno un
pezzo del suo corpo intonso. Si maledice per la sua disattenzione, mentre si
copre il volto con le braccia, prima che con un calcio, lo pieghino, facendolo
cadere riverso per terra. Non perderà i sensi, questo lo sa, era successo una
sola volta e poi si erano dati tutti da fare per non essere mai più così
misericordiosi. O così codardi,
chissà: i Grifondoro non colpirebbero mai chi è incosciente e non può
difendersi o sentire i loro insulti colmi di lutto represso.
Vogliono che lui
senta, vogliono che capisca, vorrebbero persino che lui rispondesse.
Ma Draco tace, ha
sempre taciuto, ha soltanto afferrato il coltello che aveva in tasca e ha
proseguito il loro lavoro sulla mano, stringendo forte la lama. Perché loro
sono degli idioti, e non lo puniranno
mai quanto lui potrebbe punire sé stesso: quindi fa da solo, così che possa
strappare loro l’aura sacra dei castigatori di peccatori, godendo del sangue
che versa senza che loro se ne accorgano e senza che possano preconizzare
quanto dolore potrebbe ancora provare, senza perdere i sensi.
Sta aspettando
l’ultimo colpo, stringendo quella lama che un altro Serpeverde avrebbe già
scagliato a cercare sangue meno puro del suo. Mastica la polvere, inspira la
calma, digrigna il livore.
Ma non successe
nulla. Tutto si fermò come il rantolo malato di una bestia ferita: si arrischiò
a sollevare gli occhi, uno non riuscì ad aprirlo, era pesto, questo non era
riuscito ad impedirlo.
Non c’era più
nessuno, non sentiva più nulla, nessuna voce.
Nessun insulto calibrato alla sua famiglia, alla sua razza, al suo onore, alla
sua persona, al suo sangue, alla sua esistenza stessa. Nulla.
Si sollevò, sputò
del sangue, si voltò su sé stesso, meditando di sgattaiolare in infermeria
all’ora di cena per rubare delle garze e della pozione medicatrice, così da non
mendicare attenzioni da Madama Chips, incespicandosi in annoiate scuse marce.
Trasalì, barcollò,
come se a scoppio ritardato qualcuno lo avesse colpito in testa. E,
ricordiamolo, la sua testa era sacra: non doveva mai perdere i sensi.
I sensi, adesso,
invece gli stava perdendo tutti assieme. Odore di pioggia e sangue, ticchettio
mesto d’acqua smunta, tocco asfittico di polvere lercia, trappola masticata di
pietrisco sotto il labbro. Sparì tutto.
Solo la vista
resistette come un vessillo di resa su un castello abbandonato.
La schiena di
Hermione Granger che si allontanava sotto la pioggia, coperta lievemente dal
rosso accecante di una camicia zuppa. La pelle tra le scapole creava un fosso
nel tessuto, come un buco dove il cacciatore aveva l’ingresso privilegiato nel
cuore. I capelli pendevano come fronde d’albero secco, dimentichi di cura femminile,
sciolti, crespi, sterpaglie bruciate e poi annegate per dare l’illusione di
qualcosa di ancora vivo. I passi erano lenti, rumorosi, insicuri. Ad ogni
movimento, sembrava concentrarsi per non cadere.
“Che cosa diamine
volevi l’altra volta, Granger?! Hai imparato a vaneggiare adesso?! Che vuol
dire, Saint Suliac?!”. Una freccia,
dalla punta avvelenata, dritta nel buco tra le scapole. La vide persino
tremare, prima di fermarsi. Distinse la pelle d’oca sotto la camicia bagnata,
come se adesso scoprisse freddo, acqua, tenebra.
Draco sentì la sua
voce estranea a sé stesso, era acuta, stridula, incomparabilmente irritata. La
vista della sua schiena gli aveva fatto sovvenire il ricordo delle sue parole,
quel tono fresco di voce non usata. Aveva persino ricordato le parole precise,
che non erano un gorgheggio, ma un nome preciso, francese. Aveva persino
ripetuto l’accento di lei sull’ultima sillaba, la troncatura delle finali, la
piega leziosa sul dittongo.
Ed aveva ignorato,
come lei voleva, la bacchetta che le pendeva dalla mano destra e che aveva
fermato i suoi assalitori. Molle, piegata, quasi le scivolava dalle dita: un
Incantesimo muto e l’ultimo colpo che Draco aveva aspettato, non era arrivato. L’aveva
ignorata la sua bacchetta, ed aveva mollato un po’ la stretta sul coltello
stretto ancora nella mano. Lei non voleva che se ne accorgesse. Lui non voleva
che la ringraziasse.
E, per la prima e
non ultima volta, si incontrarono nella penombra confortevole del desiderio
altrui.
Accettato,
consumato, ma mai esplicitato.
Quando lei si voltò
troppo velocemente su sé stessa, si tradì come Giuda all’ultima cena. Aveva gli
occhi troppo vivi, troppo accesi. Troppo rossore sulle guance, troppa foga
nelle labbra serrate, troppa impazienza nel respiro.
La pelle del collo
si tese sotto le sue vene, che pompavano il sangue alla sua testa così da
consentirle di consumare avida il tradimento del silenzio. E le sopracciglia
aggrottate, le ciglia frementi, lo sbuffo delle labbra annoiate furono una
conferma non richiesta. Non se ne accorse, se non pochi secondi dopo.
Non si accorse che
si era incarnata in sé stessa, di nuovo, se non pochi secondi dopo.
Una sé stessa
autentica, non una pianta ornamentale: quella che odorava di carta di riso,
quella che rispondeva a voce alta, quella che scriveva con foga, quella che
adorava il grattare della penna sulla pergamena, quella che era viva e che non
voleva essere null’altro che viva. E quella che, di fronte alle domande spicce,
avrebbe sempre risposto irritata, come se la stupidità umana fosse un personale
torto a sé stessa.
Hermione Granger
spalancò gli occhi, pochi secondi dopo, mentre ancora finiva la frase con tono
sarcastico. E lo sapeva ancora usare benissimo quel tono troppo da persona
viva, al punto che Draco Malfoy se ne sentì quasi offeso. Quasi, però.
Perché mentre
metabolizzava quel suo: “Ma ci vai qualche volta in biblioteca o pensi che sia
una sala decorativa?!”, già aveva intuito che sarebbe corsa via tre secondi
dopo, punendosi con un passo affannato che non sollevasse nemmeno uno schizzo
d’acqua e che non producesse nemmeno l’ombra di un suono qualunque.
E già sapeva che il
coltello nella sua mano, ormai vicino a cadere fuori dalla sua presa, avrebbe
affondato nella carne, punendo nel sangue quell’ascolto non richiesto.
In biblioteca ci era
andato perché si annoiava.
Era uno di quei
pomeriggi da cartolina mediocre, con il cielo fermo, il lago immobile, l’aria
stagnante e tutti gli studenti riversati nel Parco. Ottobre aveva ancora la
fragranza dorata di un Settembre ritardato che non ne voleva sapere di girare i
tacchi ed andarsene dal calendario. I professori si erano messi d’accordo per
dare pochi compiti agli studenti, o perlomeno così sembrava a Draco Malfoy:
forse, dal loro punto di vista, avevano ripiegato sulla magnanimità così da lasciare
ai superstiti della guerra l’occasione di godersi un pomeriggio di sole
inaspettato. Peccato che i veri superstiti della guerra, invece, scegliessero
l’esilio in quelle occasioni luminose: e lui, sollevato, aveva trovato la
biblioteca vuota e si era rintanato in un angolo buio, gli occhi fissi davanti
ad un libro chiuso.
Poi quella vecchia
megera della bibliotecaria si era avvicinata, fingendo di mettere a posto
rumorosamente dei tomi polverosi e dandosi da fare per tossicchiare in modo
quanto più molesto possibile, così che lui capisse che non poteva stare lì
senza far nulla. Con un profondo sospiro, Draco aveva quindi aperto con nervoso
il libro, mormorando lamentele a mezza bocca.
La pagina recava in
bella vista un atlante della Francia.
Hermione Granger era
una dannata mosca molesta che si attaccava al suo cervello: un messaggio
subliminale, che a malapena raggiungeva la sua coscienza, e poi esplodeva come
un petardo nei gesti più comuni. Gli occhi, sebbene la mente ancora ordinasse
di stare fermi e di fingere la concentrazione prettamente necessaria a non
essere disturbato dalla bibliotecaria, corsero rapidi a cercare Saint Suliac. E
rapido, implacabile, lesse la dicitura della piccola cittadina sul mare della
Bretagna. Uno dei borghi più belli della Francia, centro marittimo, meno di
1000 abitanti, case di pietra scura, vele bianche pompose, babbani che ci
andavano in vacanza d’estate.
E un’Accademia
Magica, nascosta da un Incantesimo protettivo tra i più potenti.
Draco si portò una
mano stanca ed incredula tra i capelli biondi, che strinse con la stessa foga
con cui tormentava la sua pelle con la punta fredda del coltellino che adesso
non si portava più dietro. Lesse con rabbia sempre maggiore la descrizione che
l’autore faceva dell’Accademia di Saint Suliac.
L’Accademia
delle Scienze Alchemiche di Saint Suliac è la più vecchia istituzione
scolastica della Francia, probabilmente più antica persino di Beauxbatons. Nota
per essere il luogo dove vengono ideate le più grandi innovazioni pozionistiche
della Storia della Magia, è tuttavia poco conosciuta a causa della grande
selettività a cui vengono sottoposti gli aspiranti frequentatori dell’Accademia
stessa. Dopo un ciclo di studi ordinari, difatti, possono essere ammessi
all’Accademia tutti coloro che riportino la media dell’Eccellente in tutte le
materie curriculari e che superino il delicato test inziale. Esso consiste nel proporre alla Commissione esaminatrice una
Pozione medica inedita entro il 30 maggio di ogni anno. Il corso di studi dura
cinque anni, al termine del quale i diplomati più meritevoli vengono ammessi
nell’area sperimentale dell’Accademia stessa, dove continuano con le ricerche.
Per coloro che concentrano i loro sforzi accademici nell’area biomedica,
giungendo a pregevoli risultati, è prevista la grazia da ogni reato commesso
precedentemente per sé e per la propria famiglia; in ogni caso, coloro che
studiano in tale Accademia godono di una elevatissima reputazione in seno al
Mondo della Magia.
Benzina sul fuoco:
ogni parola di quella raffinata spiegazione cartacea fu benzina sul fuoco.
Draco si trovò in mano dei capelli strappati senza che nemmeno avesse provato
un po’ di dolore. Il sangue era fluito tutto al viso, alle gote arrossate, agli
occhi accecati di furia, poco prima che poi si dirigesse venefico alle gambe,
comandandolo di scattare in piedi e di correre fuori. Nei corridoi deserti, non
prestò attenzione a nulla, a nessuno, ad una qualsivoglia cosa a cui avrebbe
dovuto prestare attenzione: persino la paura di incontrare qualcuno che lo
picchiasse come al solito diventò una stupida preoccupazione vana che cedeva il
passo ad un’impellenza maggiore. Repressione.
Soffocamento. Annegamento. Ci sguazzava in quel clima di vittima perenne,
ci godeva enormemente ad appiattirsi nel senso di colpevolezza fosco e
nell’ingorda lacerazione dell’impotenza. Non aveva bisogno di speranza, di una
risorsa, della possibilità che tutto andasse bene. Non aveva bisogno di una
fede malriposta: soprattutto non aveva bisogno della fiducia assolutamente
malriposta di Hermione Granger.
I Grifoni hanno le
ali per andare dappertutto: dovunque
è il luogo fisico che naturalmente li si addice. I Serpenti, dalla loro, hanno
solo l’istinto per trovare comodi nascondigli e hanno solo il veleno nei denti
per difenderli come se fossero lussuose dimore cercate con sollecitudine, e non
sopportate con sussiego.
E lui era sempre
stato un Serpente, non ne voleva nemmeno sapere di chiedersi come fosse il
mondo fuori dalla crepa ospitale che era la sua vita.
Dalla fine della
guerra, gli era sempre bastata quella feritoia scavata nel tempo rubato.
La rabbia di Draco
Malfoy era tale che, quando finalmente trovò Hermione Granger, per un attimo
nemmeno la vide. Superò l’incavo nella roccia tra un’armatura ed una colonna,
senza accorgersi di lei. Il Grifone e la
crepa, che curioso controsenso. Poi bastò un respiro forte, estremamente
rumoroso, tanto da riecheggiare nel corridoio deserto e si voltò su sé stesso.
Passava
nelle vite degli altri come un pulviscolo di vento, senza nemmeno osare
respirare. E poi urlava sempre nella sua di vita.
Era seduta, per
terra, le ginocchia al petto, come una bambina spaventata da un temporale. Draco
non vide il suo viso, era nascosto tra le braccia, i cui gomiti erano poggiati
sulle ginocchia. Distingueva solo la sua fronte. La pelle era bianca, livida,
sudata: solo a quel punto, respirando a fatica, notò le mani premute contro le
orecchie, forte, al punto che il dorso delle mani stesse si era fatto
trasparente. Distingueva la trama delle vene e il tragitto del suo sangue - sporco -che fluiva verso i polsi sottili, assecondando il movimento convulso
del collo che continuava a muoversi a destra e a sinistra. La testa era come un ammasso di stracci sporchi,
i capelli una sterpaglia confusa che le copriva in modo misericordioso il
volto: negava febbrilmente qualcosa, come se qualcuno le stesse raccontando una
storia terribile alle orecchie e lei cercasse di tenerla fuori dalla sua testa.
La divisa era impolverata, strappata sull’orlo, e sporca di un fango che non
sapeva dove aveva trovato in quella giornata piena di sole. Respirava a
malapena, rantolava come un malato terminale e continuava a negare come una
povera bambina pazza.
Le urlò di tutto:
insulti vecchi e nuovi, litanie inventate al momento, balzane imputazioni di
colpe non sue, retaggi medioevali del sangue ed esagerazioni di difetti che
nemmeno sapeva che lei avesse. Nel corridoio deserto non passò nessuno, mentre
lui urlava, mentre le pietre rifrangevano le sue parole, mentre il respiro di
lei nemmeno accelerava e restava stasi mobile di un tormento segreto. Non si
mosse nemmeno per un momento, nemmeno diede segno di averlo sentito: non
franarono le spalle, non piansero le guance, non sollevò il viso.
Continuò a negare e
basta, come prima che parlasse, come se lo condannasse al mutismo per le sue
orecchie, quello che lei aveva elargito a tutti gli altri. Tranne che a lui, a
cui però adesso donava lo stesso respiro affannoso che avrebbe dedicato ad ogni
individuo al mondo.
Smise di urlarle
contro Draco, quando capì che lei non avrebbe risposto, non avrebbe parlato,
non avrebbe rotto di nuovo l’Incantesimo apposta per lui. Se ne andò, le
ginocchia che gli tremavano, voltandole le spalle.
Due ore dopo, dopo
che ebbe mangiato, dopo che ebbe dormito, dopo che ebbe fatto i compiti di
Trasfigurazione, dopo che ebbe guardato dodici volte la clessidra, dopo che
ebbe seguito la traiettoria del sole che si tuffava nella culla rocciosa delle
montagne… lei sarebbe stata ancora lì. Nella stessa posizione di prima, con le
ginocchia strette al torace, il respiro come se avesse corso per chilometri, i
capelli spettinati, la testa impegnata nella sua opera di negazione. Di lei era
cambiato solo il colore, prima la luce del pomeriggio la ritagliava di stelle
moleste nei riflessi lucidi dei capelli, adesso il buio se l’inghiottiva pronta
a masticarla.
Draco si chinò alla
sua altezza, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei. Le prese i polsi tra
le mani, facendola fermare. La pelle dei suoi polsi era così calda che Draco
pensò che avesse la febbre: ma aveva il viso livido, emaciato. Due profonde
occhiaie viola le macchiavano lo sguardo, che sollevò indolente verso di lui.
Aveva le pupille così piccole da sembrare due capocchie di spillo: lo guardava
con disprezzo, il mondo filtrava nelle sue orecchie e sembrava non riuscire
nemmeno a sopportarlo. Le tremarono le spalle, le tremò il labbro, gli occhi
stessi tremarono come fondamenta di una casa sotto ad un sisma.
Draco lasciò i suoi
polsi, ebbe l’impressione quasi di scottarsi ed Hermione lo guardò tra la
gratitudine e lo sconforto, mentre come un elastico rilasciato, le mani
tornarono a cercare i suoi capelli, pronta a riprendere il movimento febbrile
di poco prima.
“Granger… mi puoi
aiutare?”.
Hermione si fermò,
lo guardò sorpresa, spalancando gli occhi castani. Le labbra si dischiusero
come se stesse trattenendo il fiato e le mani le scivolarono in grembo,
chiudendosi su sé stesse. Aggrottò le sopracciglia guardandolo, le pupille che
tornavano normali, il respiro che si scioglieva. Inclinò la testa di lato,
studiandolo curiosamente, come se fosse la prima volta che lo vedesse. Draco
seguiva la vena del suo collo che pulsava sotto la pelle bianca, non riusciva a
sollevare il viso e non poteva nemmeno pensare di tornare a guardarla negli
occhi.
Lei non parlò
ancora. Non disse nulla, chiuse le labbra in un moto di difesa, irrigidendo la
postura.
Draco sentì l’aria
cambiare, distinse il calore allo stomaco, prima ancora di spiare il viso di
lei.
Di percepire la
piega ilare degli occhi, la pelle adesso rosea delle guance, le spalle distese.
Prima di vedere il
collo che ancora si piegava nella risposta che la sua gola, adesso, non
riusciva a dare.
Il mondo lo lasciava
ancora fuori, Hermione Granger: le mani fremevano dalla voglia di negare
ancora.
Ma Draco Malfoy,
lei, lo lasciava entrare nella sua crepa: dicendo un sì muto, che valeva mille
parole.
L’uragano
ha il sapore del cedro e l’odore della vaniglia.
Anni dopo, Draco
Malfoy, padre di famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un
caminetto spento in una calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un
cane accoccolato ai suoi piedi, la finestra aperta sul mare.
Ed una figlia,
bellissima, intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un
baule pieno di vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono
ai giochi di una decenne annoiata.
Avrebbe sorriso ed
avrebbe annuito, e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio
di anni passati, avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza
da quarantenne, il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e
vaniglia. Il sapore e l’odore dell’uragano.
Aveva vissuto
nell’occhio del ciclone per nove mesi: attorniato dal vento che ronzava, si era
solo beato di restare in vita. Il naufrago non si chiede da dove spunti
l’isoletta salvatrice dove riposerà le membra, il minatore non si chiede da
dove provenga la luce benefica che lo porterà in superficie, il terremotato non
si chiede di chi sia la mano che lo tira fuori dalle macerie: la afferra e
basta.
Lui, Draco Malfoy,
il Purosangue, il Nobile, il Re di Serpeverde, aveva afferrato la mano piccola
e tremante di Hermione Granger, la Mezzosangue, la stracciona, la Principessa
di Grifondoro.
Era stata
sopravvivenza, si sarebbe detto per settimane, iniziando questo ritornello la
sera stessa in cui, in un corridoio deserto, lei gli aveva sorriso con gli
occhi dopo che si era trovato a chiederle aiuto. Sopravvivenza, ecco, che fa
l’uomo ladro e il Purosangue traditore di sé stesso: aveva una sola occasione
di poter vivere una vita decente ed era Saint Suliac, inutile negarlo. Si
sarebbe trasferito in Francia, lontano dalle voci continue sulla sua famiglia,
avrebbe studiato Pozionistica in un ambiente ovattato
e protetto, probabilmente ci sarebbe rimasto tutta la vita, avrebbe avuto il
perdono giudiziale da ogni peccato, i suoi genitori avrebbe concluso l’esilio e
magari sarebbero venuti a vivere in Francia anche loro. La strada era così
evidentemente tracciata nel buio di tutto il resto che non seguirla sarebbe
stato da idioti e da pazzi suicidi.
E la sua unica
occasione era Hermione Granger. Non lo preoccupava l’Eccellente in tutte le
materie, la sua media era notevolmente salita da quando non aveva alcuna
distrazione da sé stesso se non studiare.
Ma lo preoccupava la
pozione medica, sicuramente la Granger sapeva meglio di lui che cosa poteva
fare buona impressione sulla commissione e sicuramente sapeva molte più cose di
lui su quell’Accademia. Sapeva della sua esistenza, Hermione Granger, quando
lui invece nemmeno sapeva che esistesse.
Quindi, pregno del
suo egoismo, si era affidato a quella piccola povera pazza che chissà come e
chissà perché, adesso, si dava pena di volerlo aiutare: non si era fatto
domande Draco, non era un tipo riflessivo e non era nemmeno un tipo da scrupoli
morali. Guardava Hermione Granger come si guardano i poveri derelitti dalla
mente devastata, e non si era fatto alcuna domanda di alcun tipo nell’accettare,
anzi nel chiederle aiuto.
L’orgoglio era una
zavorra della gente che aveva la vita ricca e piena: lui, dal basso della sua
mancanza assoluta di tutto, bè… ci poteva benissimo fare a meno. L’uragano
berciava fuori di lui, pronto a spazzarlo via, e lui aveva solo scelto l’oasi
che gli dava la maggiore calma e stabilità al momento.
Dopo mesi, non seppe
nemmeno lui quanti, riconobbe a sé stesso che non aveva accettato l’aiuto di
una persona qualunque, ma di Hermione Granger: non era stato che, con l’acqua
alla gola, si era affidato alla prima mano vagamente meno ostile delle altre
per trarne forza. No, aveva scelto Hermione Granger perché era Hermione
Granger. Poteva chiedere aiuto ad un professore, poteva parlarne con i suoi,
poteva scrivere ad un vecchio amico.
Non era così solo
come amava definirsi e comunque ne aveva di voci diverse nell’esistenza da
quella morta della Granger. Ma aveva scelto lei, perché di lei ci si fidava
anche da nemici. Lei non tradiva, ingannava, mentiva mai.
Era una specie di
ricovero dall’uragano, il più sicuro e il più adatto: lei si era fidata che lui
entrasse a Saint Suliac al punto di suggerirgli quella soluzione e lui si era
fidato che lei lo aiutasse, come se negli anni, negli scontri, nella guerra e
nella pace, ogni schermaglia ed ogni silenzio fosse stato solo il sedimento per
arrivare a quella fiducia strana e goffa tra due ruderi che, per tenersi in
piedi, avevano solo che da reggersi alle macerie dell’altro.
Andava bene
chiunque, poi andava bene Hermione Granger: ma Draco si chiese troppo tardi,
nel freddo silenzio del suo egoismo ormai dissolto, perché andasse bene a lei.
Perché lei parlasse
con lui, e solo con lui, perché lo aiutasse, perché persino si illuminasse
insegnandogli.
Draco Malfoy era
l’espiazione di Hermione Granger, ed era al contempo la cura per tornare sé
stessa.
Draco lo avrebbe
capito tardi, troppo: ed avrebbe capito che l’uragano non era la vita fuori, il
terrore, la paura, il futuro rombante di promesse cupe ed incertezze
annunciate.
L’uragano era lei,
Hermione Granger, cedro e vaniglia da non dimenticarsi mai più.
Hermione Granger si
annunciava prima con il suo odore: cedro e vaniglia. Prima arrivava una nota di
testa aspra e pungente, come se richiamasse intimamente l’attenzione su sé
stessa, poi arrivava la nota di cuore, fonda come un sospiro, dove lei sembrava
chiedere scusa per aver troppo disturbato con la sua presenza.
Difficilmente, poi,
a ciò seguiva un suono qualunque. Draco aveva imparato a sobbalzi e a sussulti
quanto lei fosse diventata silenziosa: non faceva nemmeno rumore nel muoversi,
persino i passi sembravano non sollevare polvere, scivolava come una
pattinatrice sul ghiaccio e respirava di quiete come un fiore.
Non smetteva mai di
muoversi, però: appena si sedeva nella stanza che aveva preparato per lei e per
Draco, continuava ad attorcigliare un dito attorno ad una ciocca di capelli, o
a muovere il piede con fretta sotto il tavolo, o a girare nervosamente le
pagine alla ricerca di qualcosa.
Draco, spesso, la
rimproverava borbottandole che non riusciva a concentrarsi: era come un rito,
lei entrava, si sedeva ed iniziava ad agitarsi come una tarantolata. Lui
sentiva il nervosismo crescergli nel fondo dello stomaco mentre leggeva e
perdeva la concentrazione, che si disperdeva nel silenzio dell’aula deserta ed
abbandonata.
Senza esitazione
alcuna, sollevava lo sguardo, la guardava severamente ed ingiungeva: “La
smetti, Granger?! Hai la compostezza di una bambina di cinque anni…”: questo se
era di ottimo umore. Altrimenti paragonava il suo contegno a quello delle più
immonde bestie sulla faccia della Terra che potevano venirgli in mente.
Hermione, nella
maggior parte dei casi, inarcava un sopracciglio, metteva un broncio dispettoso
e faceva ancora più chiasso, costringendolo a massaggiarsi nervosamente le
tempie mentre malediceva il suo spirito martire e masochista. Notandolo,
allora, Hermione si stringeva colpevolmente le spalle, metteva su un sorrisetto
timido e si acquietava: voleva dire che era di buon umore. Se era poi di ottimo
umore, e questo coincideva con le giornate di pioggia o di cattivo tempo,
diceva anche qualche parola. Monosillabi, perlopiù, frasi mozzicate che
sussurrava con voce greve. Uno scusami soffuso,
un perdonami soffice, un mi dispiace quasi tenero.
Se era quasi felice,
e se lui non l’aveva definita in modo diverso da bambina, lei motteggiava
persino un Quante storie! in tono ironicamente scherzoso: erano i giorni
in cui, invece che indicargli sommariamente con l’indice i punti del libro di
Pozioni che gli consigliava di memorizzare, si azzardava a dirglielo a voce.
Faceva uno sforzo continuo per parlare, Draco se ne rendeva presto conto, anche
se di solito prestava poca attenzione agli altri.
Ma con lei era
difficile non accorgersi di qualcosa, figuriamoci: per questo vedeva le parole
affollarle la gola, le vedeva premere come punte di lancia sotto la sua pelle,
le vedeva mescolarsi al sangue e smaniare per uscire. Ma lei rimaneva parca
rispetto ad esse, sembrava contarle in bocca e limitarle al minimo, le reprimeva
dentro e le faceva uscire solo se andava bene effettivamente dire qualcosa, o
lo trovava necessario ed utile.
Quando, poi, finiva
di parlare, tendenzialmente faceva un sospiro profondo, come se si fosse
stancata, come se ciò l’avesse lasciata esausta. A cena, poi, Draco l’avrebbe
vista guardare il contenuto del piatto senza particolare attenzione, l’avrebbe
vista fissare gli altri senza interesse, gli occhi spenti e l’espressione
persa.
Nei giorni meno
buoni, Hermione Granger non parlava affatto, non rispondeva, non faceva il
benché minimo rumore e non si muoveva per nulla: accadeva spesso quando c’era
il sole, o se faceva caldo, e soprattutto all’approssimarsi della notte.
Diventava una statua di sale, la mano sotto il mento e lo sguardo congelato.
Tentava spesso anche di ripetere il siparietto della negazione febbrile con la
testa, ma Draco la fermava sempre, specie da quando aveva scoperto che, in quei
momenti, tendeva anche a farsi male con le unghie della mano, graffiandosi il
viso. Sangue come cura ed espiazione.
Le separava i polsi, glieli tratteneva tra le mani e la rimproverava duramente.
“Smettila Granger…
lo sappiamo tutti e due che non sei pazza… quindi non credere di darmela a bere
che non attacca…”. Se lei continuava, spesso si alzava e se ne andava. Le prime
volte, lei era rimasta lì, seduta sulla sedia, le mani nei capelli. Dopo, nelle
settimane successive, aveva preso a rincorrerlo nel corridoio.
“Scusami…”
sussurrava mesta, guardandosi le mani che si torceva “Mi dispiace, per favore,
non te ne andare…”.
La prima volta in
cui lei lo aveva seguito, l’aveva lasciata lì adirato ed offeso dal suo
comportamento sconsiderato, come se ancora si ostinasse a difendere il sangue
che nelle sue vene rimbrottava di una purezza che era diventata, oggi, solo
peccato e colpa. La seconda volta, l’aveva sorpassata nervosamente, tornando
nella aula del quinto piano dove si incontravano ormai un pomeriggio sì ed uno
no. La terza volta, l’aveva guardata di sfuggita negli occhi bassi, si era
beato del rossore vergognoso sulle guance e si era sentito potente, in grado di
costringerla a chiedergli scusa. E la quarta volta, invece, una finestra
dispettosa si aprì, riversando la luce del sole morente sulla pelle del viso di
lei: Hermione strizzò gli occhi, gli stropicciò piano come se si fosse appena
svegliata e non riuscì a nascondere quel tremulo accenno di pianto che sapeva
sempre reprimere nel fondo dei suoi occhi, nei giorni di sole.
Fu come la luce di
un riflettore, che la ritagliò dallo spazio bianco dove Draco l’aveva sempre
relegata.
Ebbe colore, foggia,
peso: fu di nuovo Hermione Granger, non la pazza ragazzina che stava solo
sfruttando in mancanza di alternative. Fu una rivelazione da perderci il capo e
il senno: improvvisamente, come se tutto adesso fosse diventato
incommensurabilmente pesante, la vide davvero e di nuovo.
L’amica di Potter,
la fidanzata di Weasley, quella che entrava in Sala Grande scortata dalla
Piattola che la teneva sempre un braccio, come se fosse invalida e non
riuscisse a camminare. Quella che si sedeva a tavola con quelli che
regolarmente lo braccavano, quelli che oramai non lo picchiavano più perché lei
sapeva, ma comunque gli rendevano la vita un inferno non toccandolo neppure.
L’eroina del Mondo Magico, la strega più brillante della sua generazione, la
Mezzosangue zannuta. La Granger. Hermione Granger.
Si stropicciava gli
occhi Hermione, ed un braccialetto d’argento tintinnò al suo polso. Draco lo
fissò spaesato, come se fosse la cosa più importante del mondo, una vertigine
che gli annebbiava i sensi.
Una catenina
sottile, a maglie larghe, un ciondolo smaltato di rosso. Un cuore, due lettere.
H… R.
Due immagini si
sovrapposero su di lei: quella del nome e quella del viso. Il nome che lei
continuava ad avere, il destino che continuava ad avere, le parole che
continuava ad indossare, parole altrui d’accordo, ma parole che non potevano
nemmeno avere traccia impercettibile nel suo vocabolario. E poi l’immagine del
viso.
Gli occhi sgranati,
spaventati, dolcissimi, marroni come i pomeriggi d’autunno. I capelli
scarmigliati, annodati, legati, ma mai quando stava con lui, perché aveva
bisogno di qualcosa su cui distrarsi mentre li tormentava con le dita. Le
spalle magre, ossute, spesso piegate, e che in quel momento tremavano. Il corpo
esile, leggero, come quello di una farfalla dalla vita giornaliera. Le mani
intrecciate, sporche di inchiostro. La bocca rotonda, con le labbra serrate ed
un sospiro sfuggito sempre per caso.
La vide per la prima
volta, la rivide finalmente, o forse tutto assieme: ebbe coscienza, di nuovo,
di chi era, comprendendo finalmente che non la conosceva affatto. Si era
affidato a lei, perché era lei, non perché fosse una tra le tante. Ne ebbe
terrore, enorme, smisurato, al punto di voler fuggire e non tornare mai più indietro.
Ed invece fece solo
un passo, o così gli parve, ed invece forse ne fece due, perché lei era più
vicina, o forse ne fece troppi, perché lei improvvisamente era davanti a lui,
piccola, sottile, pronta a spezzarsi in mille pezzi.
Ad un respiro da lui,
Hermione si mordicchiò il pollice, i denti affondavano nella carne cercando di
aprire un varco per il sangue. Draco chiuse la sua mano tra le sue, la strinse
forte. Hermione, tremante, poggiò la fronte sulle loro mani intrecciate, chiuse
gli occhi, respirò come se le mancasse l’aria.
“Perché sono qui,
adesso?” chiese Draco sgomento, guardando la massa informe dei suoi capelli
“Perché mi aiuti? E perché fingi con tutti di non poter più parlare… mentre
invece lo fai ancora?”.
Attese forse ore,
forse minuti, forse secoli ed anni. La luce si spense, il sole tramontò e la
luna ricomparve nel cielo, ammantando di diamante le pietre bianche del
corridoio.
Senza nemmeno
muoversi, senza mai lasciare le sue mani, Hermione sussurrò a fatica: “Tutti
sono sempre pieni di domande. Mi fanno ammattire. Vogliono risposte, vogliono
che io parli, vogliono che io mi spieghi… ed io non voglio”. La voce della Granger era un rantolo confuso,
le sue mani tremavano in quelle di Draco come se la scuotesse il vento e lei
non fosse null’altro che un ramoscello secco.
“Non parli più… solo
perché non vuoi rispondere alle domande?” chiese Draco scettico, guardandola
dall’alto in basso, il calore delle mani di lei che ancora gli dava
l’impressione di scottarsi. Strizzò gli occhi per metterla a fuoco in quel
corridoio buio e deserto, non c’erano luci di nessun tipo, né fiaccole. Avevano
scelto quell’aula per quel motivo, era un’ala del castello abbandonata dalla
guerra, c’erano stati dei crolli e non ci si era dati ancora da fare per la
ricostruzione. Nessuno li avrebbe cercati lì. Adesso, Draco quasi voleva che li
cercassero, quasi voleva che lo strappassero da lì, quasi voleva che ci fossero
migliaia di voci a nascondere quella di lei.
Dal basso, risuonò
un suono gutturale, sordo, animalesco: lei che soffocava una risata triste.
“Deve essere più
complicato di così, no?” disse lei argentina, eppure così maledettamente triste
che Draco poteva contare ogni lacrima repressa nella sua voce. Finalmente lei
sollevò lo sguardo, lasciando le sue mani. Nel buio, Draco non la vedeva più,
non ne distingueva il minimo tratto, era come sparita. Lasciò cadere le braccia
lungo i fianchi, la punta delle dita che bruciava ancora era la sola cosa che
gli faceva credere che lei c’era stata e forse c’era ancora, lì, davanti a lui.
Hermione respirò a
lungo, come se fosse appena riemersa dall’acqua, prima di aggiungere incolore:
“Tu non mi hai mai chiesto nulla… per questo parlo con te… non ti interessa
farmi domande e non sei convinto di potermi aggiustare… non te ne frega nulla
di me, non mi vuoi bene, non mi apprezzi, né mi stimi. E io non ho bisogno di
altra gente che mi ami e mi voglia bene: ho bisogno solo di non pensare a
nulla. E tu mi consenti di farlo…”. Prese ancora fiato, prima di concludere con
un filo di voce: “Sei una distrazione. Punto. Non sono altruista, forse non lo
sono mai stata, sono egoista come te: a te non interessa chi ti aiuti, fosse
anche che sia io? Bene, per me è lo stesso. A me basta non pensare a me stessa.
Nessuno me lo lascia fare perché sono convinti che sia io ad avere bisogno di
aiuto… a te non interessa aiutarmi, interessa solo che io aiuti te. E ciò mi fa
sentire… uguale a prima.”.
Non la volle vedere
per giorni, dopo quella confessione. Negli occhi annebbiati, che pure non
l’avevano vista in volto nel buio di quel corridoio, era rimasta indelebile
come se fosse scavata l’immagine di Hermione Granger.
Uguale a prima:
Draco non si ricordava come era prima.
Certo, ne aveva
ricordo, ma era un ricordo sbiadito, annacquato, sporco, che era convinto che
non fosse reale. Pochi particolari gli ridavano la dimensione di quella che lei
era davvero prima, particolari minuscoli che ritagliava a forza dall’immagine
sbagliata che preservava di lei.
Si ricordava il
sorriso acceso che aveva quando qualcuno le chiedeva spiegazioni, si ricordava
come arricciava il naso quando qualcuno sbagliava una risposta, si ricordava
che una volta aveva detto che voleva fare l’insegnante.
Sezionava quei
particolari con la perizia di uno che fa un’autopsia su un cadavere, gettava
pezzi morti di lei altrove così da capire che cosa davvero lei cercasse di sé
stessa, stando con lui.
Non cercava la
presunzione spiccia di chi è sempre dalla parte giusta, non cercava l’orgoglio
smisurato che le dava la sua Casa, non cercava il coraggio spavaldo di chi si
crede padrone del mondo, non cercava nemmeno l’idealismo sfrontato dell’eroina
di guerra. Cercava altro, cercava la sua stessa più piccola, più misera, più
nascosta. Quella che aiutava, senza pretendere nulla in cambio, e quella che
sapeva insegnare, e che magari cercava così di costruire il suo futuro. Cercava
il solo filo rosso intonso che l’avrebbe legata alla sua sé stessa futura,
all’unica che adesso volesse essere: quella che, con la guerra, non c’entrava
niente, quella che, con la magia, non c’entrava niente.
Quella che forse
c’era sempre stata, ma che adesso voleva disperatamente tornare ad essere.
Quel prima di cui
lei parlava, Draco, lo capì subito. Non era prima della guerra, prima della
morte, prima della voce cancellata. Era un prima ancora più ancestrale, ancora
più vecchio, ancora più antico.
Si riferiva a prima
di sé stessa, si riferiva a prima di Hogwarts stessa, si riferiva a prima della
magia stessa.
Quando era solo una
babbana, ignara di tutto.
Draco capì
improvvisamente molte cose, tutte assieme, come una nebbia confusa che adesso
si diradava.
Stavano cercando la
stessa cosa, la stessa identica cosa: l’assoluzione. Che passava dallo smettere
di essere sé stessi. Lui sarebbe andato in un posto dove nessuno lo conosceva e
dove avrebbe potuto ricominciare. Lei cercava di dimenticare ogni traccia che
quegli anni le avevano lasciato, inseguendo e ricordando il sogno che aveva da
bambina, prima della magia, prima di tutto: fare l’insegnante.
Se lo consentivano a
vicenda, l’uno implorava l’altra di dimenticarsi chi erano prima. E funzionava.
Incomprensibilmente,
funzionava.
Per questo, lei con
lui parlava, nonostante fosse Draco Malfoy.
Per questo, lui si
faceva aiutare, nonostante fosse Hermione Granger.
Perché, quando erano
assieme, non avevano più alcun nome.
Solo tempo, respiro
ed innocenza di persone innominate.
La chiarezza sarebbe
arrivata dopo, senza di lei, così come la comprensione e la certezza. Avrebbe
avuto il profumo di un’estate fresca, dal sapore acerbo e sconosciuto, gravida
di promesse e estranea alle minacce. Avrebbe avuto il colore dei suoi
diciannove anni, un’età in cui tutto ancora era concesso e perdonato, anche a
lui, ma avrebbe avuto ancora dentro di sé lo strazio della perdita, il
rimpianto della mancanza e la dissoluzione sfilacciata della speranza: ma tutto
quello era mitigato dal miscuglio dolceamaro di pienezza nel sapere di aver
fatto la cosa giusta. Non sarebbe stata una sensazione immediatamente comprensibile,
visto che Draco non credeva mai di fare la cosa giusta, quanto piuttosto quella
sbagliata, o quella obbligata, o quella facile, o tutte e tre le cose assieme.
Presto, però, ne avrebbe assaporato il sollievo friabile, che, anche quando ti
sbrana il cuore che non sapevi di avere, almeno ti dà la consolazione di
ergerti ad eroe immacolato e pulito.
Allora, Draco
avrebbe riguardato indietro a quel suo ultimo anno ad Hogwarts ed avrebbe visto
ogni giorno che si lasciava alle spalle: e solo allora, lontano dalla sua
scuola e lontano persino da una parte di sé, sepolta a viva forza dentro il
castello, avrebbe capito la dimensione di quello che era accaduto.
Perché, tutto in
quell’ultimo anno, mentre lo aveva vissuto, gli era parso solamente un sogno. Aveva
la stessa consistenza lanosa e stopposa, la stessa sensazione immobilizzante di
sabbia mobile, la stessa inconsistenza eterea così che lui credesse che niente
fosse reale. E solo allora, avrebbe trovato le etichette e le parole per
descrivere quanto era avvenuto: solo quando fosse stato lontano da Hermione
Granger, che aveva ammantato la sua stessa mente della mancanza di qualsiasi
segno intellegibile. Aveva privato sé stessa delle parole ed allo stesso modo,
aveva fatto con lui, costringendoli a nutrirsi solo di respiri, di sguardi, di
tocchi, di sorrisi, ma mai di parole.
Tutto poteva essere,
e niente poteva essere allo stesso tempo, e questo dava modo di considerare
sopportabile starsi accanto se non avevano bisogno di mettere in chiaro niente,
di definire niente, di trovare parole per niente.
Solo, quindi, mesi
dopo, Draco avrebbe preso ogni giorno di quei mesi, trasformandolo in una
parola.
All’inizio era stata
la sopravvivenza, più o meno da
ottobre a fine novembre: lui voleva entrare a Saint Suliac, lei sembrava
disposta ad aiutarlo e Draco non aveva badato a nulla di diverso da questo. Era
come un bambino che mangia: bastava trovare la pappa pronta e lui non avrebbe
fiatato. La Granger aveva trovato un’aula disabitata al quinto piano, aveva
sistemato un lungo tavolo di frassino, aveva portato due sedie, aveva iniziato
ad ammonticchiare ad un lato del tavolo libri su libri, aveva scritto su una
pergamena i punti che lui avrebbe dovuto memorizzare a menadito. Si ricordava
con difficoltà il volto di lei, era come una meteora scintillante, prodiga di
attenzioni a cui lui non badava; di quel mese e mezzo ricordava solo l’odore
della carta e dell’inchiostro, la frustrazione di un concetto incomprensibile,
il trionfo di un’improvvisa risoluzione, la speranza che cresceva.
Avrebbe detto che
Hermione Granger era lì solo per il suo profumo, cedro e vaniglia; per il fatto che si muoveva troppo, se era di
buonumore; per il fatto che era silenziosa come una morta, se era di pessimo
umore; per il fatto che prendeva ad avere crisi di negazione, se stava male.
Solo in quel caso, e solo perché lo disturbava, badava davvero a lei: la
rimproverava, se ne andava, lei lo seguiva nel corridoio e diceva qualche
parola.
Ma tutto, tutto, era così misero nella sua testa
egoisticamente ingolfata da lasciare tracce di polvere lieve.
Poi era arrivata la
fine di novembre, il raggio di sole dalla finestra e lei che torna ad essere
Hermione Granger, e che al contempo gli appare così diversa da non sembrargli
simile ad alcun volto visto sulla terra da quando era nato.
Lì, aveva ricordato
che c’era. O lo aveva notato, o lo aveva finalmente appreso.
Lì, si era chiesto
che cosa ci guadagnasse lei, che cosa volesse lei, che cosa cercasse lei.
Lì, per la prima
volta, le aveva dato il fulgore dell’esistenza nella sua mente, solo questo.
Lei che voleva
diventare insegnante e, stando con lui, se lo ricordava; lei che parlava con
lui perché era il solo che non le faceva domande; lei che stava con lui perché
non le voleva bene e non tentava di aggiustarla…
… tutto quello
sarebbe venuto dopo, nell’estate dei suoi diciannove anni senza di lei.
In quel momento,
capì solo che Hermione Granger esisteva e, per qualche strano caso, esisteva
accanto a lui.
Già solamente
quello, per Draco Malfoy, fu l’inizio del mulinello di vento che sarebbe
diventato uragano.
Già solamente
quello, solo la scoperta di quello, lo separò da lei fino quasi alla fine di dicembre.
Le feste di Natale
furono veramente bastarde.
Che pochi sarebbero
tornati a casa, era un’ovvietà. Tra quelli che avevano metà famiglia al
cimitero e quelli che avevano metà famiglia ad Azkaban, già si potevano
riempire due quarti della Sala Grande. Se poi ci si aggiungeva chi semmai non
voleva tornare a casa perché aveva dei parenti vivi e presenti con il corpo, ma
lontanissimi con la mente, oppure chi a casa comunque non ci tornava mai, o chi
non aveva casa a cui tornare… bè, non fu ovviamente una sorpresa che a prendere
il treno del ritorno furono solo pochi primini e una ventina di ragazzi più
grandi. Tutti, intimamente, volevano scordarsi che era Natale, era una festa da
lente d’ingrandimento perché ingigantiva ogni macchiolina miserrima che poteva
esistere in un’anima, in una casa, in una famiglia. Ma, naturalmente, ai
professori, alla neo-preside McGranitt, persino a Gazza, sembrava assurdo non
festeggiare.
Gli adulti, i
grandi, i saggi, avevano raggiunto la composta gratitudine di essere ancora
vivi; i ragazzi, contrariamente a loro, conoscevano ancora la rabbia del lutto
impotente e la tristezza esasperante del voler lasciare tutto immoto ed
intonso. Perciò, ad ogni decorazione appesa, ad ogni canto intonato, ad ogni
luccichio sospeso, ad ogni albero addobbato, gli adolescenti rispondevano con
sbuffi di fastidio, se non addirittura con distruzioni gratuite. La Preside fu
costretta persino a porre sugli addobbi degli Incantesimi Auto-riparanti.
La tristezza era
come un miasma gelatinoso che annegava tutti, confondendosi nei piatti
opulenti, nei dipinti lucidi, nelle luci sfavillanti, nel soffitto nevoso, nel
cielo terso: non la si poteva ignorare e basta.
Draco Malfoy si
accorse immediatamente della tensione che saliva nel castello: non era un buon
segno. Tendenzialmente se la tristezza, il rammarico o il ricordo crescevano
d’intensità, avrebbero trovato uno sfogo fin troppo semplice ed immediato. Lui. Saint Suliac sembrava sempre di più
l’oasi nel deserto, dove inseguire finalmente la pace tanto agognata. Cercava
solo di pensare a studiare, non guardava nessuno nei corridoi, a lezione si sedeva
sempre in fondo, cercava sempre di andare in giro accompagnato almeno da
qualcuno.
Aveva però enormi
buchi di concentrazione, fittissimi; improvvisamente la sua mente diventava
nera e lui non riusciva a pensare a nulla, lambiccandosi per ore sui particolari
più cretini. Aveva appreso più o meno a memoria tutte le pozioni mediche più
conosciute, si stava avventurando con quelle più complesse, ma sapeva che
doveva elaborare quanto prima quello che aveva appreso per creare qualcosa di
completamente originale.
E non sapeva se ne
era in grado, da anni passavano l’esame quelli che creavano pozioni per
squilibri mentali oppure per patologie cardiache, e sicuramente si trattava
delle pozioni dai maggiori effetti collaterali e dalla più alta instabilità
nella preparazione. E lui non ci aveva ancora minimamente messo mano in quelle
già esistenti, figuriamoci se poteva crearne una propria. Trascorreva ormai le
ore nell’aula deserta al quinto piano, una mano tra i capelli e tomi sparsi
aperti davanti a lui, di cui non riusciva a ricostruire nemmeno un ordine
logico da cui iniziare. Doveva passare dalla teoria alla pratica, adesso. E non
aveva la minima idea di come fare.
I giorni passavano
leziosi e pigri, senza che lui riuscisse a fare nulla. Incapace di trovare una
soluzione qualunque, era vittima degli scatti più improvvisi e delle volizioni
più immediate ed incomprensibili. Era seduto in classe e, repentinamente, aveva
voglia di giocare a Quidditch ed aveva l’impressione che se non avesse
immediatamente preso una scopa, sarebbe morto. Poi la voglia passava, e
sprofondava ancora nell’apatia.
Si ritrovava a
camminare per il parco o per Hogsmeade alle ore più disparate, i passi
strascicati e lenti, e poi improvvisamente veloci, sfreccianti, incalzanti se
veniva colto dalla voglia di tornare al chiuso.
Fu per quello che si
ritrovò al binario della stazione di Hogsmeade la sera del 15 dicembre, nel
momento in cui coloro che decidevano di tornare a casa per le vacanze
prendevano il treno. L’aria era fredda e stagnante, lui si era dimenticato la
sciarpa e il cappello, eppure non ne voleva sapere di tornarsene indietro. Si
era lasciato cadere su una panchina vicino al binario, malamente illuminata da
una luce tremula. Guardava un cespuglio davanti a lui dalle foglie rade e
secche, con l’improvvisa tentazione di appiccargli fuoco. Ogni tanto, senza
premeditarlo, la sua testa si sollevava e guardava distrattamente la folla di
ragazzi che partivano, seguendo abbracci e spiando carichi di bagagli. Sbuffava
nel guardarli, poi tornava al suo cespuglio, il respiro affannato.
“Ed allora mi
consentirai di dirti che te l’avevo detto!” una voce argentina, acuta,
insopportabile, gli ferì le orecchie, costringendolo ad una piccola e buffa
capriola per restare seduto. Si appiattì maggiormente sulla panchina, tentato
dal pensiero di alzarsi e di allontanarsi, l’aria della notte che si chiudeva
attorno a lui. Ma invece riuscì solamente a ruotare di poco il viso, guardando
le ultime due figure che avanzavano sotto la pensilina del binario, muovendosi
velocemente. La prima catturò tutta la luce del lampione mezzo fulminato,
rilucendo come una fiamma d’autunno, mentre camminava a passo sostenuto e si
trascinava un grosso baule.
Draco non la guardò
neppure per un secondo, voltò quasi il viso infastidito.
Poi, ancora, tornò
indietro con gli occhi, osservando con lentezza la seconda figura che avanzava
piano, non facendo il benché minimo rumore, come se nemmeno respirasse. Se non
fosse stata per la nuvola di vapore acqueo che sfuggiva dalle labbra rosse e
screpolate, l’avrebbe detta un fantasma senza riposo.
Un cappello dalla
buffa forma di fagiolo calato sul capo, in lana cotta color prugna, i capelli
seminascosti ed arricciati in onde disordinate sul panno del cappotto nero,
l’andatura annoiata e stanca, il corpo dimagrito.
E gli occhi nascosti
dai capelli, mentre si portava le mani alla bocca, soffiandoci sopra per
riscaldarsi.
Draco si tirò
bruscamente su a sedere, come se fosse stato punto da una vespa. Gli occhi
annotarono senza precisa intenzione che Hermione Granger non aveva alcuna
valigia accanto a sé, nessun baule. Niente di niente.
Non aveva l’aria
affannata e contenta di chi sta tornando a casa dal proprio amichetto del cuore
e dal suo fidanzatino straccione: aveva un’espressione rassegnata, sollevata
quasi, le occhiaie che le circondavano gli occhi.
E
si è dimenticata i guanti, adesso avrà le mani fredde. O forse lei le ha sempre
calde, caldissime, come se avesse la febbre?
La Weasley, arrivata
davanti al treno e spinto dentro il baule, l’abbracciò di slancio circondandola
con le braccia. Hermione fece un sorriso strano, storto, sghembo che soffocò
dentro i capelli della sua amica, limitandosi a poggiarle fraternamente una
mano sulla spalla. Draco fu sicuro di aver visto dentro i suoi occhi un
luccichio quasi di impazienza, come se volesse solo correre via.
“Sei sicura che non
vuoi venire, allora? Che ci farai qui tutta sola…” commentò la Weasley con tono
fioco, come se avesse ripetuto la cosa mille volte. Per un attimo lo sguardo
della rossa si eclissò, cercò qualcosa nel volto della Granger come se fosse
alla ricerca di un pezzo stonato, di una macchia, di una ruga rivelatrice.
Hermione sospirò e
basta, non fece altro, e Draco stupidamente si chiese se non fosse arrabbiata,
se non avesse semplicemente litigato con la Weasley e non le parlasse più. Poi,
come un fulmine, ricordò.
Se la rivide di
nuovo davanti, dorata, illuminata dal sole, che si stropicciava gli occhi. Il
calore di quel ricordo d’autunno gli penetrò nelle ossa, facendolo sentire
accaldato nel mezzo della notte più gelida dell’inverno inglese.
Tu non mi hai mai chiesto nulla…
per questo parlo con te…
Con la Weasley non
parlava, con nessuno parlava. Se ne era dimenticato, abituato com’era e come
negava di essere a sentire la sua voce nel cervello quindici volte al giorno. E
come aveva scoperto solo in quell’istante, solo quando la Weasley partì
abbracciandola ancora, solo quando la Granger si accorse di lui e lo guardò per
un attimo, immobile, gli occhi spalancati, le mani chiuse a pugno e il volto
livido, come se gli avesse appena tirato uno schiaffo. Draco le restituì uno
sguardo stanco, incomparabilmente colmo di tristezza pigra, di acredine
dissimulata, di confusione sconvolta, di malinconia stantia.
Si preparò a sentirla
parlare, si preparò a vedere le parole premere contro la sua gola, si preparò a
che lei lo facesse sentire speciale ed unico al mondo, pure nel suo inutile,
pazzo e goffo modo.
Si preparò
inutilmente.
Quando ebbe il
coraggio di riaprire gli occhi ed alzare lo sguardo, Hermione Granger era già
andata via.
Se lo sarebbe dovuto
aspettare, ma invece non l’aveva fatto.
Quando aveva varcato
il portone d’ingresso, avrebbe dovuto rendersi conto che non c’era nessuno
nell’androne, che Gazza era disperso e che le porte scricchiolavano come in un
pessimo film dell’orrore. Avrebbe dovuto notare l’aria infinitamente più gelida
che all’esterno, avrebbe dovuto collegare la partenza dei pochi fortunati per
le vacanze all’aumentare dell’angoscia per chi restava, avrebbe dovuto capire
che lui sarebbe stato il perfetto sfogo rapido e potenzialmente indolore. Ma
Draco Malfoy, invece, non si accorse di nulla, entrò nel castello a testa
bassa, occhi sulle mattonelle grigie e nere. Nelle crepe del pavimento,
baluginavano continui ed intermittenti riflessi oro di pomeriggio d’autunno e
nelle orecchie avvertiva l’eco malsano di parole che non riusciva ad intendere.
Non si accorse nemmeno del dolore, di primo acchito si rese solo conto che le
mattonelle erano sporche. Rosso. Rosso sangue. Rosse del suo sangue.
Avvertì solo allora
la prepotenza lacerante del colpo subito: alla testa, alla nuca, alle spalle,
come non si addiceva ai suoi nobili aggressori. Ergo, non erano Grifondoro.
Ergo, non erano Tassorosso o Corvonero.
La vista che veniva
meno, una mano stupida a constatare l’entità del danno, il sangue che schiumava
tra le sue dita, capì che quel giorno la tristezza era trasversale. Colpiva
anche chi, di solito, era lontano miglia di presunzione da essa. Ed anche un
Serpeverde poteva odiarlo come lo odiavano tutti gli altri.
Perché i suoi
genitori erano in esilio, e non morti, catturati, torturati, imprigionati.
Perché erano sempre
stati una mattonella grigia, in un mondo dalla pavimentazione bianca e nera.
Una cortina scura calò
sulle sue iridi, mentre sentiva altri colpi ferirlo alle gambe, alle braccia,
al busto, sulla schiena. Rinunciò preventivamente alla difesa, sapendo che
sarebbe durata poco.
Ad un Serpeverde non
sarebbe interessato nulla di preservarlo presente a sé stesso.
Finalmente, almeno
per una volta, avrebbe perso i sensi.
Da quando aveva
smesso di farsi male da solo, le ferite altrui facevano infinitamente più male.
Gli sembrava di essere avvolto da un unico e potente rogo, che lo stava ardendo
come il frammento di una corteccia di un albero. Non riusciva a localizzare il
dolore, a capire da dove provenisse, sembrava nascere dall’interno di sé stesso
e trovare sfogo su ogni centimetro quadrato della sua pelle. Si sarebbe
staccato gli arti a morsi, pur di farlo smettere: ogni refolo d’aria, ogni
soffio di vento bruciava il sangue come sale sulle ferite. Sotto la sua schiena
martoriata il pavimento era duro come la lapide di una tomba vergine, cercava
di muoversi ma non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Sentì delle voci,
ovviamente, ma passavano oltre, lontane, non curandosi di lui. Gemeva,
implorava, ma probabilmente lo avevano lasciato in un posto dove nessuno lo
avrebbe trovato. Invocò l’incoscienza che non arrivava, maledisse la tempra del
corpo che lo manteneva vigile al dolore, imprecò contro sé stesso, il suo
sangue ed il suo nome. E non l’aveva mai fatto.
Vite dopo, anni
dopo, secoli dopo, avvertì improvvisamente un respiro fresco accanto a lui.
Trafelato, affannato, persino singhiozzante. Pensò che stava finalmente per
perdere coscienza e che, in regalo, stesse avendo uno scatto d’immaginazione,
una visione dolce come un Caronte onirico improvvisato che gli rendesse tutto
quasi leggero.
Sentì il calore di
una mano sottile sul viso, era una mano tiepida che però lo rinfrescava come
acqua sorgiva, poi ancora udì l’eco spezzato di un singhiozzo ed un accenno di
pianto. Una sola parola.
“Draco…”.
Il suo nome:
aveva una voce lieve, da passero, da donna, da principessa delle fiabe; una
voce, però, incommensurabilmente triste, da vecchia, da morta, da vittima
murata viva.
Sentì il tocco di
una bacchetta sulla fronte, la sensazione quieta del dolore che si calmava,
quella mano sempre sul suo viso come l’ancora di salvezza mentre annegava
nell’oblio.
La nozione di sé
stesso sparì un attimo prima di respirare a pieni polmoni l’odore del suo
salvatore.
Cedro
e vaniglia.
Troppo rosso: fu la
prima sensazione che provò al risveglio. E a lui il rosso faceva venire
l’emicrania. Specie quel rosso. Il
rosso dei Grifondoro, il rosso dei Weasley, il rosso del sangue maledetto che
sgorgava dalle ferite.
Draco credette
subito di essere diventato daltonico, a causa di un trauma cranico subito. Il
baldacchino del suo letto sembrò infatti rosso, da verde quale era sempre stato.
Non se ne preoccupò, richiuse gli occhi grigi stanchi e cercò di riprendere
sonno. Ma i sensi si erano risvegliati, tutti, uno dopo l’altro. E se la vista
la poteva ingannare, gli altri non erano dello stesso avviso.
Il sapore del
sangue, in bocca, riecheggiava come l’eco sordo di un passato non troppo
lontano. Sapeva di ferro, di metallo, dell’ennesima umiliazione subita e non
ancora, non mai, lavata via. Ad esso, si accompagnava un senso generale di
spossatezza, ma nessun dolore, solo fastidio.
Il tocco di cotone
sulla pelle, nei punti dove aveva sentito più male: attorno alla testa, al
ginocchio, sulla schiena. Fresco come un vento di primavera, gli dava la
sensazione di pulito, di casa, di cura sollecita e materna che non sapeva
nemmeno riconoscere. Sotto le sue mani, stese pigramente, sentiva la superficie
morbida di un copriletto caldo, di lana, soffice, che gli dava ancora una
sensazione di calma e di pace.
Il gusto e il tatto
furono ospiti graditi e poco molesti: poi venne l’udito ed infine l’olfatto, e
quelli se ne fregavano di lui e di quello che poteva sopportare.
L’udito… sentì
improvvisamente un respiro, quieto, dolce, spezzato. Una persona addormentata.
Accanto a lui.
L’olfatto fu come un
colpo sordo di cannone dentro il petto. Cedro
e vaniglia.
Riaprì gli occhi
quel tanto che bastava per trovare Hermione Granger vicina, troppo vicina, più
vicina di quanto non fosse mai stata in tutta la sua esistenza. Voltando il
viso verso sinistra, la vide distesa, la testa poggiata su un cuscino accanto
al suo. La sensazione di calore al cervello fu così devastante ed immediata da
fargli venire le vertigini, nonostante fosse disteso: era nella sua stanza,
nella stanza della Granger, sul letto dove lei dormiva ogni notte. Il profumo
di cedro e vaniglia gli apparve così intenso da soffocarlo.
Era distesa lì,
addormentata, ad un respiro da lui. Non avrebbe potuto arrivare a distendere il
braccio senza toccarla, erano solo una quarantina di centimetri. In posizione
fetale, non portava il pigiama ma un maglione rosso ed un paio di jeans; era
rannicchiata in sé stessa, un braccio piegato sotto il capo, un libro aperto
accanto a lei. Il viso era sereno, quieto, tranquillo, i capelli ne coprivano
una buona metà.
Draco avvertiva
improvvisamente il dolore delle mille ferite che gli martoriavano il corpo.
Bruciavano come se ci fossero conficcati degli spilli, che gli impedivano di
muoversi e lo tenevano ancorato a quel letto come un insetto infilzato e posto
in esposizione. Lei lo aveva trovato, lei lo aveva curato, lei si era
addormentata accanto a lui.
Gli occhi saettarono
in ogni direzione, terrorizzati, cercando di evitarne la vista, e si saturarono
dei particolari della vita nascosta di Hermione Granger. Una quantità abnorme
di libri, sparsi dappertutto ai piedi del letto. Una sciarpa azzurra, poggiata
su una sedia. Fotografie incorniciate sul comodino, con Weasley maschio e
femmina, e con Potter. Stava per vomitare, se ne doveva andare immediatamente.
Fece forza sulle
braccia per tirarsi faticosamente a sedere, riuscendoci con sforzo. Lei non si
mosse. Poggiò i piedi per terra, si alzò in piedi e calcolò quanta distanza lo
separava dalla porta e quanto potesse muoversi senza fare rumore e senza
svegliarla. I cardini della porta erano vecchi, avrebbero cigolato, ma magari
lei comunque non si sarebbe svegliata, magari era stanca. Doveva esserlo per forza, chissà come lo aveva portato fin lì.
Fece un passo lento,
silenzioso, assorbito dalle pietre delle pareti, sospirò di sollievo nonostante
il dolore sordo agli arti inferiori, ma poteva arrivare alla porta, poteva
tornare ai sotterranei, poteva lasciare la stanza senza badare alle bende, alla
bacinella con la pozione Guaritrice sul comodino, alle occhiaie violacee sul
viso di Hermione, alla sua voce lieve che nella sua testa continuava a dire il
suo nome come quando lo aveva trovato.
Aveva la mano sulla
maniglia, aveva il cuore già al sicuro nel suo scantinato confortevole, aveva
già il respiro sciolto di uno che era al sicuro. E poi lei fece un singolo, solitario,
minuscolo verso. Di gola, profondo, gutturale, come se stesse annaspando, a cui
seguì un singhiozzo, forse qualche lacrima.
Draco smise di
respirare quando si accorse che, in una botta di annebbiamento, era tornato
indietro. Veloce, rapido, come se nemmeno avesse bisogno di dare impulso alle
gambe e di accorgersi di qualcosa.
Ed era di nuovo
steso accanto a lei, vicino a lei, sul cuscino accanto a suo, nell’alone di
cedro e vaniglia che lei si lasciava alle spalle. Avrebbe detto che era stanco
e voleva riposare ancora un po’, ma non era riuscito a mentire.
Non aveva potuto.
Perché anche la sua
mano destra era scattata da sola e se ne era accorto solo per il dolore sordo,
lancinante, che aveva provato al fianco sinistro, mentre si voltava verso di
lei e faceva leva su un livido bluastro.
La mano destra era
scattata come un elastico rilasciato, senza il benché minimo controllo, ed era
corsa al viso della Granger. Draco, terrorizzato, si era visto accarezzarle
piano i capelli con il pollice, mentre la mano restava ferma sulla sua nuca.
Non poteva farne a meno, non poteva nemmeno pensare di non stare lì a calmarla,
a vedere il respiro di lei che piano tornava normale, a poggiarsi su quel
fianco maciullato che lo faceva gemere ad ogni fiato. Le dita continuavano
piano ad accarezzarla, Hermione dormiva ancora e lui si ricordava di quanto, da
bambino, i suoi amici lo sfidavano a “tocca il babbano” e perdeva sempre.
Adesso lo dovevano
sfidare a “non toccare la babbana” per farlo perdere.
Hermione, piano,
aprì gli occhi e lo trovò lì, di fianco a lei, gli occhi grigi sgranati e la
mano intenta in quella carezza lenta, calda, dolcissima. Lesse il suo
imbarazzo, lesse l’impaccio, lesse quello che lui voleva dirle e lesse quello
che non avrebbe mai detto. Una spina sorda la colpì al petto, costringendola a
chiudere gli occhi.
“Puoi andartene
quando vuoi…” sussurrò Hermione con un gemito sordo, non sentiva la sua voce da
quando gli aveva parlato l’ultima volta e stranamente non la riconosceva “Non
devi stare qui, per forza…”.
La mano di Draco si
fermò, si staccò da lei e riposò fredda lungo il fianco.
Un attimo dopo, lui
era nei sotterranei, nel suo letto verde, nell’asettico odore di silenzio,
nell’asfittica sensazione di vuoto e di spento. Aveva solo un compagno, un solo
pensiero, un solo singolo movimento dei ragionamenti sotto le palpebre chiuse. Hermione Granger è un derelitto, una pianta
ornamentale, un’isterica Mezzosangue pazza.
E
mi salva sempre.
Dalla
prigione, dalla disperazione di non avere un futuro, dai pestaggi. Persino da
me stesso, se improvvisamente mi accorgo di lei al punto tale da non riuscire a
fingere di ignorarla.
Hermione Granger lo
salvava sempre.
E non aveva ancora
finito.
Il giorno di Natale
ad Hogwarts erano due le storie che si ripetevano di bocca in bocca.
Ben più dei regali
ricevuti, degli auguri mancati, dei baci scambiati.
Una, la prima,
sconcertava solo per il numero.
La Preside McGranitt
aveva sospeso ben cinquanta studenti, senza che emergesse un ben preciso
disegno nella punizione. Erano Grifondoro e Serpeverde, studenti all’ultimo
anno come al secondo, terzo, quarto e così via.
Un treno apposito li
riportò a casa, livorosi, incattiviti, increduli.
Nessuno seppe il
perché e nessuno lo chiese loro, ma ognuno di quelle facce recava il segno
della consapevolezza di cosa li portava a quelle vacanze forzate.
L’altra, la seconda,
sconcertava e basta.
Hermione Granger, la
muta, la pianta ornamentale, il derelitto per eccellenza, aveva parlato.
Si sapeva solo che
aveva parlato con la McGranitt, non si sapeva di che cosa avesse parlato, non
si sapeva altro. Arrivarono lettere su lettere a lei dei suoi amici, la gente
nei corridoi la interrogava selvaggiamente, i professori facevano a gara per fermare
il placcaggio sulla ragazza, mentre tutti concludevano che il voto del silenzio
era imposto, non era collegato a nulla di fisico.
I due canti di
Natale di Hogwarts rimbalzarono come biglie impazzite nelle orecchie di tutti
fino a Capodanno.
Solo Draco Malfoy,
vedendo chi era che partiva dopo essere stato sospeso, aggrappandosi ad una
colonna della stazione, comprese il collegamento tra le due storie.
Aveva appena
ricevuto il suo regalo di Natale da parte di Hermione Granger.
Provava nelle
viscere un formicolio diffuso, come se fosse immerso nelle sabbie mobili, ma
con la coscienza incommensurabilmente lieta che niente lo trascinasse verso il
basso e che nulla lo tirasse fuori. Restava immerso in quella poltiglia fangosa
accompagnandosi al pallido incubo che, se si fosse mosso, sarebbe franato.
Senza volerlo, senza
premeditarlo, senza nemmeno averlo annotato, imparò di nuovo a respirare:
camminava nei corridoi con il vuoto attorno, con la gente che lo scansava, con
i ragazzi che lo additavano.
Ma nessuno lo
toccava, l’aria era tersa del nitore della sua sola presenza. E non avrebbe mai
concepito che questo adesso fosse possibile, non avrebbe mai concepito di non
sentirsi impregnato della nausea di sentirsi continuamente accerchiato. Si
sentiva più simile al sé stesso di un tempo, nobile e magniloquentemente
distante da tutti; era semplicissimo trasformare nella testa il distacco di
tutto il mondo da una condizione imposta ad una ricercata modalità di vita.
Che poi, effettivamente,
tutto poi era diverso , quella era un’altra questione, tutta da spartirsi con la
piega incerta del suo respiro, che poi qualificò come un vero e proprio
formicolio d’ansia.
Ansia al pensiero
che doveva fare qualcosa per Hermione Granger.
Punirla, per aver
fatto la spia e per essersi impicciata in fatti che non erano i suoi.
Ringraziarla, per
aver fatto la spia e per essersi impicciata in fatti che non erano i suoi.
Per una settimana
più o meno, godette solo del piacere ferino di poter girare nel castello senza
che nessuno lo toccasse: solo, riscopriva il rumore dei suoi passi, la quiete
bagnata del sole del primo pomeriggio, il tenue fiato del vento nel Parco,
l’oceano cangiante di smeraldo del campo da Quidditch. Si spingeva in posti
dove gli era ormai proibito andare, camminava con la consapevolezza spavalda
della sicurezza, chiudeva gli occhi con l’abbandono estatico della tranquillità,
attorno gli sguardi seri e sfuggenti che erano meraviglioso corollario di tutta
quella pace.
Poi il formicolio
crebbe, divenne tremore, scossa di terremoto, improvviso scuotimento, apparentemente
in concomitanza con la fine del calendario. Man mano che i giorni passavano,
decretando l’agonia di quell’orribile anno, la sua ansia cresceva come il
borbottio di un temporale lontano.
La fine dell’anno,
forse, è anche peggio di Natale: getta ombre lunghe sui tuoi giorni, ti pone di
fronte alla resa dei conti, ti costringe inevitabilmente a fare promesse da
cambiamenti epocali e fioretti da penitenti.
Poi non cambia
niente lo stesso, ma intanto per una notte ti dibatti nell’ansia che tutto sia
a posto, che ogni cosa stonata sia sistemata, che ogni fardello sia chiuso e
depositato nella pelle vecchia dell’anno passato.
Come una bastardata,
la notte di San Silvestro arrivò prima del previsto, la gente radunata in Sala
Grande a contare i minuti e a guardare il cielo, probabilmente chiedendosi se
l’anno nuovo avrebbe davvero portato l’amnistia dal dolore e dalla rabbia mai
del tutto sopite. E Draco che in mezzo alla gente non voleva stare ed adesso
poteva concedersi il miracolo della solitudine, guardava le luci di Hogsmeade
dalla Torre d’Astronomia, la brezza fredda che soffiava sulle ferite asciutte e
richiuse. La terra pareva essa stessa sospesa, in stasi, come una donna dalle
labbra dischiuse che aspetta la tenerezza improvvisa di un bacio. Seduto sul
davanzale di una finestra, gli occhi acclimatati al buio, avvertiva solo il
movimento spasmodico del piede in perenne movimento, preda dell’inquietudine che
lo attanagliava.
Il piede si gelò
solo quando la porta dell’Aula si aprì di scatto, sbattendo contro il muro ed
echeggiando nel silenzio sordo della notte appesa. Si voltò su sé stesso ed
annegò nel buio misericordioso della notte senza luna il sorriso sbieco che gli
era saltato fuori all’improvviso nel vederla. Affannata, trafelata, con il
fiatone, chiamata da un biglietto tra il minaccioso e l’implorante che aveva
scribacchiato con nervosismo qualche secondo prima.
Il vento gli sbuffò
in faccia l’odore della vaniglia e del cedro, mentre Hermione Granger gli
veniva incontro piano, le sopracciglia aggrottate, le braccia conserte e gli
occhi vigili. Aveva un maglione bianco ed una gonna scozzese, le gote erano
rosse come se avesse corso come un’ossessa ed aveva le mani strette a pugno
lungo i fianchi. Ancora, Draco dovette reprimere quel sorriso storto.
Poi,
improvvisamente, al protrarsi del silenzio, quello stesso sorriso si sedò sul
suo volto, mentre assumeva un cipiglio severo. Digrignò i denti come un animale
in gabbia, Hermione Granger se ne stava lì, immobile, ferma, a respirare a
fatica, a guardarlo senza capire, a ritagliarlo nella tenebra pur di vederlo.
Ma non parlava, se ne stava con le parole in gola e la curiosità stretta a sé
come un ostaggio molesto.
Repentinamente, fuoco
liquido negli arti, seppe che fare.
Doveva punirla,
altro che ringraziarla, altro che tutto il resto.
Fu un attimo, in cui
ebbe la meglio l’annebbiamento foriero di ragione che lo coglieva spesso,
quando si trattava di lei. Prese la bacchetta, pronunciò un banale incantesimo
di appello e richiamò dal campo di Quidditch poco distante una scopa che aveva
visto abbandonata ma funzionante, qualche ora prima.
Hermione la vide
arrivare fluttuando ad occhi sbarrati, senza capire, senza fare domande, senza
muoversi ancora. Guardò la sua schiena con le labbra serrate, eppure non si
mosse, eppure nulla di lei si spostò da quella posizione. Non emise un fiato
nemmeno quando Draco la prese per un polso, trascinandola vicina a lui,
sobbalzò e basta. I piedi, però, volarono verso di lui, non opponendo la benché
minima resistenza, fu come se lei stessa spiccasse il volo poggiandosi sulle punte.
Draco non si accorse, però, di questo, nemmeno del suono metallico del
braccialetto di Hermione Granger con le iniziali di Weasley che si sganciava e
cadeva al suolo. Con rabbia, la caricò senza sforzo davanti a lui sulla scopa
che partì sfrecciando, attraversando la finestra.
Il contraccolpo con
l’aria fredda dell’esterno fu tale che Draco stesso rabbrividì, ma Hermione
invece non tremava per il freddo. Era terrorizzata, livida, spaventata, mentre la
scopa prendeva quota ed il mondo diventava piccolissimo sotto di loro. Eppure rimaneva
in silenzio, sgomenta, paralizzata, facendosi indietro con la schiena fino ad
incontrare il torace di Draco. La notte era fredda, ghiacciata, ma serena,
quieta, incomparabilmente pulita: il cielo tinteggiava di nero ed argento la
valle ed il castello, rendendo gemme fulgide le luci dei paesini montani e
trasformando in manto lucido la superficie piatta del lago. Draco, collerico,
innervosito, assolutamente furente, prese ancora velocità, puntando verso
l’alto la punta della scopa che reagì quasi impennandosi: Hermione chiuse gli
occhi, strinse le mani bianche attorno al manico, piegò il collo e voltò il
capo, poggiando la guancia bagnata di piccole lacrime di paura sulla clavicola
del ragazzo.
Draco si fermò
all’improvviso, suscitando in lei un ulteriore sobbalzo. Nel buio, nel freddo
del vento, Hermione sollevò il viso verso di lui, trovando ad attenderla gli
occhi grigi della luna assente del ragazzo. Nascosta nel suo collo, i piedi che
galleggiavano, il mondo polverizzatosi in basso, si aggrappò alla calamita del
suo sguardo come se fosse la sola gravità in grado di ancorarla ancora.
Impercettibilmente, piano, gli occhi sempre in quelli di lei, le mani di Draco,
senza che lo avesse minimamente preventivato, si mossero sul manico della scopa
rinsaldando la presa. Le sue braccia si chiusero maggiormente attorno ai
fianchi di Hermione, che sospirò, chiuse gli occhi e poggiò la guancia di nuovo
sul suo petto, tremando.
“Urla…” le ingiunse
Draco, la voce dura e stentorea come quella di un generale. Hermione aprì di
scatto gli occhi, lo guardò più terrorizzata di quando era partito bruscamente
facendole rivoltare lo stomaco.
“Hai paura…” le
sussurrò ancora, lo sguardo fisso sulle sue labbra ancora chiuse “Sei
terrorizzata… e io non sono tuo amico, Granger, potrei lasciarti cadere da un
momento all’altro… e quindi grida, urla, strepita, agitati… urla, dannazione…”.
Hermione tremò nelle spalle, gli occhi inghiottiti nel bianco, negò con il
capo, si ingobbì e strinse più forte la presa sulla scopa. Qualcosa nel candore
terso del suo viso suggeriva a Draco che, nonostante il terrore atavico del
volo, lei non aveva davvero paura. Era di
lui che non aveva paura: era convinta che non l’avrebbe mai lasciata
cadere, non le avrebbe mai fatto del male.
Gli andò di nuovo il
sangue al cervello: rapido, come quando anni prima intravedeva da lontano un
boccino, puntò la punta della scopa verso il basso. Iniziò a scendere in
picchiata a grandissima velocità, come se stessero precipitando; il vento
ronzava nelle orecchie facendoli sbandare, mentre il suolo, le luci, il
castello, il mondo, la vita e la morte stessa si avvicinavano a grandi passi.
Hermione gemette, chiuse ancora gli occhi, prese a singhiozzare sommessamente,
mentre Draco continuava ad urlarle tra i capelli: “Io non ho paura, Granger… ma
tu sì, urla, maledizione! O ti giuro che questo sarà l’ultimo Capodanno che
vedi…!”.
Hermione toccava già
le cime degli alberi con la punta della scarpa quando, finalmente, la voce
graffiata, il pianto in gola, prese ad urlare più forte di quanto avesse mai
fatto nella vita. Si confuse quell’urlo inarticolato con il rumore sordo dei
primi fuochi d’artificio che scoppiavano nel cielo, rendendolo porpora, oro,
verde, azzurro.
Hermione urlava e
piangeva e gridava e gemeva, anche quando Draco, piano, fece riacquistare alla
scopa la sua velocità normale, inchiodando e risalendo lentamente, fino a che
furono di nuovo alti nel cielo, sospesi tra i fiori di fuoco. Smise di urlare
come se si fosse spenta, solo quando lui con dolcezza se la strinse contro il
petto, facendo scivolare di nuovo le mani lungo il manico della scopa, stavolta
in modo più deciso e rapido, così che la schiena di lei usasse il suo torace
come sostegno. Hermione, respirando a fatica, piangendo, il labbro che le
tremava, reclinò la testa all’indietro, poggiando la nuca sulla sua spalla,
restando ad occhi chiusi, le labbra socchiuse.
Draco, nel fragore
dei fuochi pirotecnici, spiava i riflessi di arcobaleno che le si tingevano
sulla pelle terrea, preoccupato, incerto, teso, improvvisamente convinto che
forse aveva voluto davvero ucciderla e si era pentito solo un attimo prima di
portare al termine l’impresa che agognava da secoli.
Ma quando lei riaprì
gli occhi ed aveva una luce accesa dentro che non vedeva forse da anni, o forse
da secoli, o magari non era mai esistita, capì solo che aveva voluto
ringraziarla a suo modo. E lei, clamorosamente, come sempre aveva capito. Le
sorrise, incerto, imbarazzato, ed abbassò lo sguardo, pregando le mani sudate
di non lasciare adesso la presa della scopa. Il peso della sua testa sulla sua
spalla e il rumore del suo respiro che si scioglieva furono le sole cose che lo
lasciarono cosciente di sé stesso, mentre la luce dei fuochi si spegneva e il
mondo salutava il nuovo anno.
“Potremmo tornare
giù, per favore?” gli sorrise lei, dolcemente, piano, una piega impervia negli
occhi che battevano del ritmo del cuore. L’assecondò subito, scendendo con
delicatezza e ritornando all’aula di Astronomia. Quando scese dalla scopa, Draco
si accorse che forse aveva le gambe più molli di quelle di Hermione, che era
franata al suolo, fingendo di sedersi sotto la finestra. La imitò e subito
lasciò che lei si accoccolasse contro il suo fianco, gli occhi chiusi, la testa
poggiata in grembo, il respiro finalmente calmo e la mano chiusa su quella che
lui le teneva poggiata sul ventre.
Fu la prima notte
che passarono assieme, tutta, aspettando il sole che sorgeva. E fu anche
l’ultima volta che dovette implorare Hermione Granger di parlare con lui.
Il voto del
silenzio, per mesi, lei non lo avrebbe mai sciolto con gli altri.
Ma con lui, da quel
giorno, Hermione Granger non avrebbe mai più smesso di parlare.
“Vai prima tu, ok?”.
L’anno nuovo aveva
portato come regalo ad Hermione Granger una voce appena nata, modellata ad uso
e costume della frequentazione con Draco Malfoy. L’urlo della notte di
Capodanno aveva rotto un guscio stantio dove si nascondeva imberbe un folto
bosco di suoni e parole che lei non aveva mai usato, ingentilito da un tono
melodioso che Draco non aveva mai sentito in lei. La ricordava la voce che
aveva anni prima: ronzante, quasi nasale, pedante, cantilenante, da emicrania.
Quando era scomparsa, aveva goduto della mancanza della fonte primaria dell’inquinamento
acustico mondiale.
Poi, da quella notte
folle dove ancora non capiva che cosa aveva voluto e cercato da lei, era
sbocciata quella voce sottile, lieve, cinguettante e morbida come il fruscio
delle foglie al soffio del vento. La usava con dimestichezza navigata ormai,
come se quella voce fosse sempre esistita in lei e non l’avesse creata apposta
per parlare con lui.
Perché così doveva
essere, pensava Draco: non era mai esistita quella voce prima che Hermione
parlasse con lui. Non parlava così con Weasley, non parlava così con Potter,
non parlava così con nessuno: anzi, lei non parlava proprio. Perché, ancora, lei
non parlava con nessun altro. Solo con lui.
L’aula del quinto
piano era come contornata da altissime mura insormontabili, era come una
fortezza inespugnabile: fuori, lei indossava l’armatura del silenzio. Dentro,
con lui, tornava sé stessa.
Senza vergogna,
senza remore, senza esitazione.
Bastava varcare la
soglia e lei faceva un respiro profondo, greve, intenso, come se finalmente
potesse concedersi di aspirare ossigeno, dopo essere stata in apnea. E
affastellava parole su parole, frasi su frasi, discorsi su discorsi, su tutto,
mentre lo aiutava a studiare.
Era inutile, Draco
lo poteva pure negare, ma con lei si studiava meglio, si studiava di più, si
capiva tutto. E in poco tempo, recuperò tutto quello che non aveva studiato,
capì quello che non aveva capito, iniziò ad elaborare pozioni che non credeva
nemmeno che esistessero.
Con lei, che non
smetteva un secondo di parlare. Ed invece che mandarlo ai pazzi, distrarlo,
farlo ammattire… gli accendeva una fiammella tremula nel ventre. Alla quale
reagiva sempre con stizza, biascicando: “Granger, cinque secondi di silenzio
potresti anche concedermeli?!”. E solo allora lei se ne stava in silenzio,
zitta, muta, facendogli battere il cuore d’angoscia.
Ed allora Draco,
riluttante, alzava lo sguardo, tremava, ne spiava il viso. E lei sorrideva con
quell’aria beata di chi gli avrebbe negato per sempre quel privilegio, che
elargiva a piene mani fuori da quella stanza.
E, per quanto
cercasse di trattenersi, Draco Malfoy, quando tornava a leggere, infantilmente
metteva su un sorriso piccolo e sottile, che gli durava tutto il pomeriggio.
Quello stesso
sorriso moriva putrefatto, quando, iniziato a tramontare il sole, Hermione
iniziava a riporre le sue cose come se avesse un maledetto orologio mentale.
Qualche minuto ed avrebbe detto stoica: “Vai prima tu, ok?”. Draco tornava a
guardarla e lei aveva il labbro inferiore che le tremava, gli occhi che tentava
di mantenere puliti, la pelle del collo tesa di una che sta per tornare
sott’acqua.
E la voce smetteva
il tono cantato, per indossarne uno dimesso, cupo, improvvisamente triste.
Le prime volte,
innervosito, le voleva urlare addosso che, se stava così male al pensiero di
tapparsi la bocca fuori da lì, poteva anche smetterla con questa recita della
pianta ornamentale.
Poteva anche donare
quella voce a chiunque altro, non solo a lui.
E finirla lì.
Stringeva i pugni,
se ne andava senza salutarla e sbatteva la porta dietro di sé, immaginandosela
dietro quella porta che si rimetteva a fatica sul viso quella maschera falsa di
vittima sacrificale.
Finiva per odiarla
in quel momento, mentre restava fuori da quella stanza a fissare quella porta
chiusa. Poi si ricordava che lui la odiava sempre
e se ne andava, quasi soddisfatto di sé stesso, ghiaccio sul fondo di sé.
Il gennaio più
freddo degli ultimi anni finì in una giornata, invece, di sole luccicante sul
lago, dove tutti gli studenti ciondolarono pigri e dove Draco ed Hermione si
chiusero nella loro ovatta di studio. Non si erano visti per qualche giorno, a
causa di una mole spropositata di compiti, Hermione aveva avuto il raffreddore,
aveva ancora il naso arrossato e gli occhi lucidi. Lo accolse nell’aula con un
sorriso strabordante ed una sciarpa rossa attorno al collo, un fazzoletto di
carta in mano e l’aria malaticcia.
Lo irritò come non
mai il modo smodato con cui nemmeno gli fece chiudere la porta che iniziò a
ciarlare come un’ossessa, in crisi d’astinenza. Era diventato la valvola di
sfogo alla psicosi cretina di una muta per finta. Non la ascoltava mentre
parlava, gli dava così fastidio improvvisamente che quando lei disse: “Vai
prima tu ok?” non la sentì nemmeno. Solo alzando lo sguardo, si rese conto che
le torce si erano accese ed oramai era buio.
Il fatto di non
capire per quale motivo fosse così disgustosamente innervosito, era come
appiccare un incendio ad una sterpaglia. In questo, vedere di nuovo quella sua
espressione dimessa mentre si preparava di nuovo a chiudersi la bocca, lo fece
capitolare.
“Vai prima tu,
invece, stavolta, Granger…” le ingiunse velenoso, voglioso di restare da solo.
Lei silenziosamente
gli obbedì, si alzò, raccolse le sue cose e si richiuse la porta alle spalle.
Trascorso qualche
minuto, durante il quale Draco era rimasto con il viso sul libro a rileggere la
stessa parola quattordicimila volte, quando giudicò di essersi calmato
abbastanza, si alzò dalla sedia, spense meccanicamente le luci e si diresse
verso la porta. A testa bassa, ad un passo dalla soglia, distinse nel buio la
punta di un paio di scarpe nere. Sollevò il viso imbambolato, Hermione era
ancora lì, la schiena contro la porta, il naso rosso, gli occhi incupiti ed
accesi di una determinazione da fargli girare la testa. Era buio, non la vedeva
bene, spariva nel fondo di quella serata fredda e non la sentiva quasi
respirare. Eppure, era lei, era sempre cedro e vaniglia, era sempre silenzio
soffuso, era sempre la guerriera di terracotta che sembrava comunque non piegarsi
mai.
“Non te ne vai
ancora?” biascicò velocemente, burbero, voltando il viso dall’altra parte
“Fammi passare…”.
“Stasera no…”
sussurrò decisa, dura, categorica, per poi bisbigliare più piano: “Stasera non
posso sopportarlo di uscire da qui e non parlarti più…”. Gli esplose tutto in
faccia, addosso, dentro, fuori.
Non sopportava ogni
sera di non parlargli più fino al giorno dopo, non di non poter parlare con gli
altri.
Il solito
annebbiamento sparì e lo fece tornare lucido, solo quando sentì la fronte di
lei sotto il suo mento, mentre la chiudeva tra sé e la porta. A tratti, foschi
come nebbia, tornava e veniva in sé stesso.
Seppe solo di essere
pienamente in sé, senza poter chiamare in causa alcuna distrazione, quando, il
viso di lei tra le mani, le sussurrò qualche parola lieve, prima che lei
sorridesse, annuisse, nascondesse il volto nella sua camicia. Nessun errore,
nessun inganno, nessun annebbiamento, nessuna possibilità di scampo.
Quando le aveva
detto: “E allora non andartene stanotte…”, lo aveva desiderato con ogni fibra
del suo corpo.
La notte è una mamma
amorevole, dalla pelle di stelle e dal sorriso di luna: perdona gli errori,
cancella le marachelle, ha il manto liscio e misericordioso che nasconde ogni
azione.
Il giorno è un padre
padrone, dallo sguardo di fuoco e dalle mani roventi: picchia in testa, urla e
scalcia, illumina tutto ciò che hai fatto, come se fossi su un palcoscenico.
Fin quando era
notte, Draco Malfoy poteva ragionevolmente illudersi che la ragazza di cui
sentiva solo la voce, non fosse Hermione Granger, la Mezzosangue, la
Grifondoro, la fidanzata di Weasley, l’amica di Potter. Era solo una piccola
voce sottile, sparsa nel buio, che proveniva da un punto imprecisato accanto a
lui: come stare in chiesa ed essere circondati dalle note dell’organo e non
capire da dove il suono provenga, ed essere comunque lieti, felici, in pace,
improvvisamente vicini a Dio e a tutto quello che ci sta attorno. L’organo
magari è suonato dal diavolo in persona, ma fin quando non lo vedi, non lo sai
che ti sta per fracassare al suolo, facendoti aprire il cranio in due.
Per tutta la notte,
Draco Malfoy aveva gli occhi fissi all’unica fonte di luce della stanza: la
lama di luna che filtrava dalla finestra accostata, ma era un riflesso condizionato.
Gli occhi, quelli veri, quelli che non avevano pupille e ciglia, erano nelle
parole che faceva fiorire la ragazza accanto a lui.
Che poteva anche
avere la stessa inflessione cantata di Hermione Granger, poteva anche avere la
stessa pronuncia marcata sulle lettere gutturali, poteva anche avere la sua
stessa risata impressa in ogni sillaba… ma poteva anche non essere lei, tanto
il buio gliela nascondeva, ed allora che importava se aveva la testa sulla sua
spalla, che importava se teneva le dita strette nella sua, che importava se gli
sfiorava il collo ad ogni respiro.
Del resto, quella
ragazza parlò per una notte intera, ma parlava senza nomi, senza persone, senza
luoghi, senza tempi, senza niente che la facesse identificare come qualcosa di
diverso da una voce di fata avulsa alla vita e sospesa nell’eterno. Parlava di
sé, ma raccontava cose che erano accadute prima di Hogwarts, e non usava nulla,
niente, che inchiodasse un ricordo o un aneddoto a qualcosa che li separasse,
ma a tutto che li unisse. Se raccontava di un parco giochi dove il sole rendeva
le foglie al tramonto rosse ed oro, e lei da bambina si convinceva che fosse il
sangue di chi non c’era più, non usava nomi di persone che avesse perso, non
diceva il nome del parco o non usava locazioni temporali e spaziali, così che
lui davvero pensasse alla possibilità che chi morisse, nell’eterno, sanguinasse
ancora, piuttosto che ricordarsi quanto di lei gli fosse estraneo e
potenzialmente nemico.
Nel nero,
nell’oscuro, nel nascosto, rise con lei e di lei: delle sue mille nevrosi, dei
suoi ricordi assurdi, delle bambinate e delle marachelle che l’avevano svezzata
intelligente e curiosa. La guancia sui suoi capelli, ne sentiva la morbidezza
scarmigliata e ne aspirava l’odore tranquillo di chi passa inosservata alla
vita stessa.
E poi iniziò lei a
fare domande, a chiedere, ad interrogarlo, e le rispose copiosamente, perché tanto
forse lei era spirito e non era carne, e la mano nella sua era miraggio
antipatico di chi si sentiva solo.
Le rispose, finché
ebbe domande. Poi lei non parlò più e rimasero così, seduti per terra, la
schiena contro un vecchio divano stinto. Quando la sentì piegare il collo su di
un lato, come un fiore caduco, la scosse leggermente e la invitò a stendersi.
Annuì, fece un verso buffo, sbadigliò e si distese dietro di lui.
Era ancora così
vicina che gli respirava sulla nuca, un soffio caldo di scirocco nel centro
esatto dell’inverno. Lo faceva tremare, poi addormentare, poi svegliare di
soprassalto e poi spingere ad una commozione simile al pianto, che però del
pianto non aveva nulla, perché il cuore quando piangi, si restringe di volume, diventa
una noce rugosa e cattiva, invece lui adesso se lo sentiva mancare quel muscolo
vitale perché era diventato così sconfinato e lontano da dargli la percezione
che non riuscisse nemmeno a sentirselo più dentro.
Fu una notte da
appisolarsi e mai da dormire, da concedersi la tregua degli occhi chiusi e da
trasalire non appena la stanchezza minacciava di portarlo via da lì. Se dietro
le palpebre, la luce accennava ad aumentare, Draco si svegliava come punto da
un insetto. Il respiro di Hermione lo addormentava daccapo.
Ma il sole, alla
fine, lo sorprese ugualmente: assopito a braccia conserte, guardia silente di
una principessa addormentata che niente aveva di regale e niente mai avrebbe
avuto di nobile ai suoi occhi, si svegliò di soprassalto, un sentimento confuso
di lacerazione dentro. La luce dorata, fragrante, testarda, tastò la stanza, si
mangiò i mobili e tinse di sgradevole banalità le mura, dove ancora riposavano
addormentati i segreti di quella notte di parentesi dal mondo tutto.
Si voltò piano,
spaventato, la voce che lo aveva accompagnato quella notte ormai era un corpo,
aveva una contingenza fisica, aveva un nome, possedeva una vita, si incespicava
in un passato e si avventurava in un futuro, e niente, nulla, lo legava a lei.
Delle ripetizioni di Pozioni, che poteva dargli chiunque altro? Il segreto di
una voce, che prima o poi qualcuno avrebbe scoperto? Il velluto di una notte,
da riempire parlando di cose da lasciare senza pronomi ed aggettivi che li
unissero davvero? Non era niente, nella luce tornavano ad essere Draco Malfoy
ed Hermione Granger, due derelitti che non avevano di meglio da fare che starsi
accanto a comparare quanto l’altro fosse più rudere di sé stesso.
Lei, come sempre,
aveva capito tutto prima di lui, era sempre stato così e così sarebbe stato
sempre.
Quando Draco si
voltò, infatti, Hermione gli dava le spalle, raggomitolata su sé stessa, le
ginocchia al petto, la testa china e gli occhi fissi come quelli di una statua
di sale sullo schienale del divano.
Increduli entrambi,
non parlarono per un’ora buona, finché il vento spalancò la finestra e la luce
beffarda entrò come un assassino, bruciando le loro pupille ancora ebbre della
notte ed aperte le une verso le altre.
“Domani torno a
Londra… devo sistemare delle cose. Tornerò tra un paio di giorni…”.
Non seppe mai Draco,
se non anni dopo, perché in quel momento avvertì la stessa sensazione di
soffocamento che prova un condannato a morte, quando si preparano a fucilarlo.
Sentiva la canna di una pistola che fredda gli si puntava alla schiena, e
sapeva perfettamente che stava rischiando di crepare, e sarebbe bastata una
sola domanda, una sola singola domanda, e il suo ultimo desiderio lo avrebbe
salvato.
Bastava chiederle
perché andava a Londra, e lei gli avrebbe risposto.
E, rispondendogli,
avrebbe perso senso quella partenza.
E la poteva chiudere
davvero in quella stanza al buio, senza farla uscire mai più.
Ma era giorno,
adesso, e il giorno è nemico delle domande.
Disse solo con un
filo di voce alla sua schiena: “Vedi di tornare presto… che di quelle pozioni
autorigeneranti non ci capisco niente…”. Hermione incassò, chiuse gli occhi e
finse che il tremore tra le scapole fosse una risata. “Figuriamoci… sei la
solita capra, Malfoy…”.
Non aveva nessun
tono ilare la sua voce, era solo buttata fuori, sputata, maltrattata e
violentata.
Draco si voltò di
nuovo su sé stesso, di nuovo perso nell’intreccio di puntini che la retina
descriveva ai suoi occhi per la troppa luce di quella domenica malaticcia di
febbraio; dentro una poltiglia nauseante che gli bloccava il respiro e a cui si
rispondeva solo, indulgenti, che lei tornava tra due giorni.
Ma Hermione non
tornò tra due giorni.
Ne passarono
quindici.
L’abitudine è una
meretrice sdentata, che si mastica il tuo tempo e ti sputa addosso venefica la
nostalgia, scambiandola per amore. Se qualcuno diventa abitudine, c’è chi urla
alla fine del mondo e all’inizio della parabola discendente verso il ghiaccio
della passione e la tomba del sentimento.
Draco Malfoy, che di
persone da elevare ad abitudini aveva avuto solo i suoi genitori, scopriva
invece che non c’è niente di peggio che incastrare qualcuno in te, al punto da
diventare un rito quotidiano: quando manca, con tutti i suoi colori, odori,
rumori, manchi pure tu e manca tutto il tempo che diventa perso, scomodo,
ingestibile, sgusciante come una biscia di fiume infida e maleodorante.
Hermione Granger era
diventata un’abitudine: un orario, un appuntamento, un’attesa di qualche
minuto, un rumore di passi in un corridoio, un saluto affrettato, una sequenza
di scuse sommesse, una risposta motteggiata in fretta, uno sguardo da bambina
arrabbiata, un rimprovero da maestrina saccente.
Le dita di Draco
Malfoy avevano preso la scomoda tendenza a formicolare toccando qualsiasi cosa.
Una piuma, la superficie di un libro, un banco, un pezzo di pane. Ad ogni tocco
con ogni cosa tangibile, la pelle si ricordava che lei mancava, ed allora si
accartocciava sconfitta, rigettando ogni altro contatto.
Stessa cosa facevano
gli occhi, la bocca, le orecchie: ed il cervello, già, pure la sua testa, che,
se doveva assorbire un concetto da un libro, martellava e martellava, chiedendo
solo perché non ci fosse lei a spiegarlo, a srotolarlo semplice ed innocuo.
Il corpo era in
rivolta, e Draco malediceva prima lui stesso, e poi Hermione Granger, la
sobillatrice di tutto.
Scoprì facilmente
che il solo modo per stare tranquillo e non impazzire, era sedere per terra
nell’aula del quinto piano, poggiare la schiena contro il divano e chiudere gli
occhi.
Quando il sole
andava via, quando la luce diventava solo una lama dentro gli scuri accostati,
giungeva la pace. Aveva l’odore del cedro e della vaniglia che aveva impregnato
il tessuto del divano, ed aveva l’illusione di un respiro caldo sulla nuca.
Allora, e solo allora, per qualche attimo, poteva studiare qualcosa.
Ma Hermione non
tornava, mancava e non tornava, non tornava e mancava da più di due giorni,
ormai.
E scoprire dentro
che si pentiva di non avere niente che la legasse a sé, rendeva Draco più pazzo
di quanto già non si sentisse. Non aveva un indirizzo dove scriverle ed
ordinarle di tornare, non aveva un nome da poter interrogare con ira repressa,
non aveva un ricordo a cui appellarsi per capire che diamine stesse facendo,
non aveva un’abitudine diversa da lei che lo distraesse e gli facesse dire con
convinzione che se ne fregava di lei e che poteva anche non tornare mai più.
La gioia malcelata
di Ginny Weasley, nei corridoi, rifiorita come una rosellina all’approssimarsi dell’estate, lo faceva innervosire ancora di
più: quella piattola sapeva, sapeva dov’era, sapeva perché non tornava e ne era
felice. All’inizio, era convinto che fosse perché ce l’aveva sullo stomaco la
Granger, era stanca di farle da nutrice e da badante e che quindi si godeva il
riposo. Rise persino mentalmente, quella sciocca manco gli amici si sa
scegliere, deve ringraziare che io mi degno di stare dove sta lei, si disse
compito e convinto.
Poi la Granger non
tornava, e la Weasley rideva, ed una volta la sentì dire: “Scommetto che lei e
Ron stanno recuperando il tempo perduto… in fondo non c’è bisogno di parlare in
quelle pratiche, no?”.
La trovò così
rivoltante quella sottospecie di femmina, da desiderare di ucciderla davvero.
Si ricordò, come se
non l’avesse mai saputo, che la Granger stava con Weasley, che per starci
assieme forse doveva baciarlo, e che per baciarlo forse ne doveva essere
innamorata: Weasley era un’abitudine per la Granger come lei lo era diventata
per lui. E sentirsi degradato al livello di quello straccione lo faceva
diventare ancora più matto di quanto già non si sentisse.
Ogni minuto in cui
lei non c’era, era un minuto da farle pagare con astio, al punto che quando
captò per caso dalla voce improvvisamente sconfitta e sfilacciata di malinconia
di Ginny Weasley, che stava tornando, avvertii solo l’acido del risentimento
corrodergli la gola.
Andò comunque alla
stazione, i passi pesanti, gli occhi risentiti, le spalle curve, pronto a
nascondersi ad ogni cenno di vita di qualcun altro e pronto a urlarle contro,
non appena l’avesse vista.
Nessuno, però, andò
a prenderla: Hermione scese dal treno sola, camminando a testa bassa su un
binario deserto, un borsone pesante sulla spalla destra.
Il risentimento di
Draco, mentre la vedeva camminare da lontano ingobbita e piccola, miserevole e
miserabile, persa e perduta, divenne la puntura di uno spillo nel petto,
fastidiosa quanto la si voleva, ma minuscola ed infinitesimale al punto che, a
darci peso, sarebbe sembrato in vena di lagne infantili.
Nella nebbia di
quella sera di fine inverno, Hermione non guardava nulla davanti a sé,
camminava con gli occhi ipnotizzati dalle crepe del pavimento, i suoi passi
erano sospiri inudibili. Sebbene facesse già più caldo, portava un voluminoso
cappotto bianco con un cappello dello stesso colore, i capelli erano legati in
una treccia sfatta e, ad ogni passo, ad ogni respiro, dava l’impressione di
cadere a pezzi.
Gli arrivò davanti,
e nemmeno se ne accorse, lo evitò senza accorgersi di lui, scansandolo in modo
meccanico.
Non avvertì Draco
l’offesa e l’urto all’orgoglio mentre lei lo ignorava: avvertì la cecità di uno
sguardo perso altrove, di una voce soffocata di nuovo nel petto, di una crepa
aperta dentro e che non smetteva di farle male.
La chiamò piano, la
richiamò indietro, ed aveva una voce dolce, lieve, gentile, soffice, da
fratello, da padre, da amico, da chi si era scavato quella ragazza dentro come
un’abitudine dannosa, ma a cui ormai non poteva rinunciare più. Per mesi non lo
ricordò, non ci badò, non lo considerò, ma la chiamò per nome per la prima
volta, in quel preciso momento. Non dopo, non prima. Disse: “Hermione…” come
avrebbe chiamato casa la sua abitazione, con la stessa naturalezza, con la
stessa improvvisa consapevolezza che lei era lei e lui era lui, e niente poteva
cambiare tutto questo, ed anzi non voleva cambiare nulla di tutto questo.
Poi l’avrebbe
rinnegato, ovvio, per poi ripensarci mesi dopo e capire che era stato allora la
fine e l’inizio, e maledirsi e al contempo ringraziarsi.
Perché Hermione
finalmente si era voltata su sé stessa, gli occhi lucidi, persi, le guance
rosse, il cuore che le sembrava battere sotto il tessuto e rendersi evidente.
Le era scivolato dal
braccio il borsone, era caduto a terra con un tonfo secco, la nebbia era
diventata meno pesante e più simile ad una nuvola passeggera.
Gli era volata tra
le braccia prima ancora che se ne rendesse conto, se le era stretta addosso
prima ancora di rendersene conto, l’aveva cullata come una bambina prima ancora
di rendersene conto.
Non gli disse che le
era accaduto, si fece stringere e basta per ore.
Mesi dopo, Draco
avrebbe scoperto che, per certe pratiche, effettivamente non c’era bisogno di
parlare, specie quando non si è avuto per mesi nulla da dire.
Hermione aveva
appena lasciato Ron Weasley.
Quando, nella mite
mattina del 1° aprile di dieci anni dopo, nacque sua figlia Haylee, Draco per
un attimo pensò che era uno scherzo di cattivo gusto che non faceva ridere
nessuno.
Il termine dei nove
mesi scadeva il 20 marzo, ma la bambina si era presa ben undici giorni per
nascere, sembrava che prendesse tempo come se, effettivamente, avesse deciso di
venire al mondo proprio in quella giornata. Era arrabbiato, furibondo con sua
figlia per questo, prima ancora di vederla.
Ovviamente durò ben
poco: non appena se la vide in braccio così piccola, così bionda, così
meravigliosamente perfetta, le perdonò tutto come avrebbe sempre fatto da lì a
quel momento.
La vita ha la
straordinaria dote di cucire con paziente solerzia le piaghe che essa stessa
provoca: il primo aprile era sempre stato per Draco Malfoy, un giorno dai
contorni incerti, foschi, cupi, da vertigine.
Non gli metteva
tristezza, né malinconia, né ansia: ma nemmeno lo rendeva felice, allegro,
gioioso.
Era uno di quei
giorni, che quando lo vedi approssimarsi nel calendario, speri solo che passi
quanto prima possibile, perché porta con sé un tale carico confuso di
sensazioni da volere solo che passino. Non tutte negative, non tutte positive,
perché comunque erano nella maggior parte sensazioni riflesse, non nascevano da
lui in prima persona, ma erano state così intense e destabilizzanti che, ad
ogni 1°aprile, dovunque egli fosse, qualsiasi cosa accadesse, per dieci anni
Draco non aveva fatto altro che ridurre al minimo il suo contatto con la vita stessa.
Era come un anniversario da scandire con religiosa devozione, dedicandosi con
spasmodica attenzione al digiuno da ogni forma eccessiva di sentimento umano.
Quella parentesi di
avversione durò dieci anni giusti; prima del suo Ottavo anno ad Hogwarts, il 1°
aprile era solo una data da stupidi scherzi. Dieci anni dopo, divenne il giorno
del compleanno di sua figlia Haylee.
Il 1° aprile del suo
Ottavo Anno ad Hogwarts, in una Torre di Hogwarts, nel tramonto mesto di una
giornata dolente e cupa, Draco Malfoy morì bambino e nacque uomo.
Accaddero tre cose
in rapida successione, consequenziali, legate a doppio filo l’una all’altra.
Seppe perché
Hermione Granger si era troncata volontariamente la voce in gola.
Seppe immediatamente
quale tipo di Pozione realizzare per cercare di entrare a Saint Suliac.
E seppe anche una
cosa che era impossibile da concepire anni prima, quando il 1° aprile era solo
il giorno da dedicare a folleggi infantili, e che era impossibile da ignorare
anni dopo, quando il 1° aprile divenne per sempre un giorno da ricordare ed
evitare assieme.
Si era innamorato di
Hermione Granger.
Marzo aveva molto in
comune con Hermione Granger.
Bonariamente si
poteva dire che facevano i capricci tutti e due, ma Draco Malfoy con maggiore
pragmatismo, avrebbe detto che erano pazzi e basta, senza alcun volo dialettico
di giustificazione.
All’approssimarsi
del terzo mese dell’anno, quella che, non senza eccessive smorfie mentali,
oramai apostrofava come “una specie di conoscenza amichevole” e che chiamava
per nome con sforzi sempre minori, iniziò una specie di mutazione,
un’involuzione innaturale. Quando tutte le altre bestie si svegliavano dal
letargo, Hermione Granger invece decideva in modo arbitrario di farsi un bel
bozzolo e di barricarsi dentro.
In poche manciate di
giorni, divenne una creatura fredda ed inaccessibile, chiusa e scostante,
scorbutica ed acida: questo, se si poteva definire una giornata buona. Perché
tutto sommato Draco, con una Hermione che scocciava e lo rimproverava anche se spostava
la sedia, poteva convivere.
Una rispostaccia,
un’alzata di sopracciglio, un insulto soffocato tra i denti, e tendenzialmente
lei la smetteva. E se anche continuava, in fondo non è che ci perdesse il sonno
se ci bisticciava e poi se ne andava sbattendo la porta. Poteva persino dire
che gli piacesse. Non che gli
piacesse lei, intendeva dirsi mentalmente che era comunque sopportabile
litigarci e trovarsela lì, il giorno dopo, seduta composta sulla sedia che
spiava ogni suo movimento stizzito con il fiato sospeso. Gli avrebbe chiesto
scusa con voce ovvia, quasi facendolo sentire scemo, e lui avrebbe detto che
figuriamoci se stava ancora a pensare a lei e alle sue idiozie.
E quando l’avrebbe
guardata con le labbra rosse arricciate in una smorfia nervosa, vogliosa di
rispondergli di nuovo male ma trattenuta dal desiderio di fare pace, avrebbe
trattenuto una risata con tutta la forza che aveva in corpo. Ed avrebbe
trattenuto anche il corpo che, chissà per quale istinto imbecille, aveva preso l’imbarazzante
ed ormai consolidata abitudine a reagire davanti a lei.
Era successo in modo
imprevisto, uno stramaledetto pomeriggio, che alla Granger era saltato in testa
di ripetere tutte le Pozioni mediche fatte fino a quel momento, con una specie
di mini esame. Era particolarmente allegra quel giorno, era ancora febbraio,
non era ancora iniziato il marzo del bipolarismo.
Draco aveva borbottato
per due ore e mezzo, mentre faceva il compito che, ad onor
del vero, gli era venuto fuori perfetto al punto da meravigliarla sul serio.
Quando lo aveva corretto, era arrossita in modo inspiegabile, fiera di sé
stessa. Solo due mesi prima, lui non sapeva nulla di tutto quel marasma di
pozioni.
Aveva sorriso in un
modo così aperto e sincero che improvvisamente Draco se l’era immaginata come
una maestra in un modo così nitido e preciso che aveva tutto della
premonizione.
Rapida, veloce,
fulminea, come mai era accaduto di giorno ma solo di notte, quando gli occhi si
sfuggivano e le loro stesse essenze si mescevano nel buio, Hermione aveva
stretto le braccia attorno alle sue spalle, lo aveva abbracciato forte ed aveva
chiuso gli occhi, senza una parola. Non aveva replicato all’abbraccio, aveva
solo guardato ad occhi sbarrati la parete vuota davanti a sé, qualcosa che si
muoveva dentro di lui. Era stata più vicina di quella volta, molto più vicina,
eppure quella volta aveva fatto effetto: un effetto devastante.
Da gettarsi sotto
una doccia fredda.
Per giorni, più
niente: poi ancora, era bastata una smorfia sulle labbra per farlo vergognare
di sé stesso. Poi la curva della schiena, mentre si alzava in piedi. Un
ricciolo che le sfiorava la pelle del collo. Un’unghia mordicchiata. Le pieghe
della camicia bianca. Le gambe incrociate sul divano.
Non sapeva
qualificare quella sensazione, il corpo era un pezzo avanti a lui, la mente si
vergognava e basta, il cuore se ne stava zitto. Quindi, adesso, cercava di
evitarne quanto più possibile la vista e il contatto.
Se l’era stretta
addosso decine di volte, sempre vittima di un annebbiamento che lo manipolava,
eppure adesso era convinto di non poterla toccare più, non così, non di nuovo,
non da quella sera in stazione dove lei, chissà perché, aveva cambiato sguardo,
aveva cambiato occhi. Erano più sinceri, più innocenti, meno colpevoli. E
scavavano dentro i suoi come trivelle alla ricerca dell’acqua.
Fino a marzo,
appunto: perché dopo Draco non ebbe tante occasioni di tenersi a freno.
La compagna di studi
che lo rimbrottava, era ancora una tentazione a cui purtroppo la pubertà
adolescenziale scoperta in ritardo, ancora rispondeva: ma ella era una compagnia
ben poco presente.
Hermione, piano,
lentamente, dismise l’acidità dopo la prima decade di marzo, indossando le
fogge meste di un uccellino strappato dal nido.
Iniziò con
l’abbigliamento: sempre più disordinato, sempre meno attento. I capelli
tornarono la massa incolta dell’inizio dell’anno scolastico, li legava sempre
in una crocchia severa sul capo, assunsero un colorito spento e triste come se
si fossero scuriti. Non portò più fermagli, cerchietti, elastici come le era
tipico negli ultimi mesi. La divisa era lisa, a volte persino sporca, e se lui
glielo faceva notare, Hermione borbottava mortificata, ma perdeva subito
contatto con sé stessa, richiudendosi nel suo guscio ostile. Con il passare dei
giorni, iniziò a modificarsi la sua postura: meno eretta, piegata, curva,
gravata da un peso netto al centro esatto della schiena che sembrava volerla
schiacciare come una formica imprudente. Poi venne l’insonnia e l’inappetenza:
niente più spuntini consumati di fretta nel pomeriggio, prima sostituì i
biscotti con gli acini d’uva, poi improvvisamente niente più. A cena, al suo
tavolo da Grifone, erano più le volte che non c’era. E se c’era, era come con
lui: assonnata, stanca, segnata da profonde occhiaie sotto gli occhi.Attorno al 18 di marzo, Draco notò che stava
dimagrendo, ma non disse nulla, non ancora. La spiò di sottecchi e basta,
mentre si appisolava sul palmo della mano. Aveva le unghie della mano completamente
masticate, alcune grondavano sangue. Respirava a fatica, ansimava spesso,
sudava come una vittima braccata.
Il 25 marzo, nel
mezzo di una spiegazione, si fermò a disagio, confusa, disorientata, come se
avesse perso il filo del mondo stesso: iniziò a piangere da sola, sforzandosi
di parlare ancora, mentre lui la guardava ancora, sconvolto, incerto,
assolutamente terrorizzato da quello che le stava accadendo.
Hermione scappò via,
prima che glielo potesse impedire.
Il 27 marzo mimò con
le mani cheera senza voce: niente
faringite o altro. Niente. Di nuovo. La voce se ne era andata. Ma stavolta
anche con lui. Tornò assente, fredda, scostante, lontana: di nuovo una pianta
ornamentale. I primi pomeriggi veniva comunque, si sedeva accanto a lui, non
muovendo nemmeno l’aria.
Poi il 30 marzo, non
ci venne più. Senza avvisare, senza dire nulla, senza fare altro. Come se in
quell’aula del quinto piano lei non ci fosse mai venuta, non fosse mai
esistita, non fosse mai comparsa, avara di straziargli la vita e di
sconvolgergli i sensi.
E il corpo di Draco
reagì, ancora, a lei: ma stavolta in un modo inedito, che non conosceva ancora,
che avrebbe imparato da quel momento, che si chiamava con un nome pesante e
leggero assieme e che accomunava migliaia di persone al mondo che in parte si
definivano fortunate ed in parte si definivano sciagurate. E, proprio perché
era così comune e così raro assieme, si estrometteva dalla visione di Draco
Malfoy come un miraggio nel buio. Quella reazione non è che tanto lui non se la
immaginasse per Hermione Granger: lui non se l’immaginava proprio per nessuna
al mondo. Nemmeno per sua madre.
Era cresciuto così
egocentrico ed egoista, che spostare l’asse da sé avrebbe significato
probabilmente fargli perdere l’orbita e l’equilibrio. E difatti quello
significò in quel pomeriggio del 1° aprile, quando Hermione Granger ancora non
si presentò al loro silente appuntamento e lui provò una sensazione simile ad
un attacco di panico. Soffocamento, ansia, torace compresso, respiro
accelerato, sudore freddo, fantasie macabre e preoccupazioni spicce, dolenti
previsioni e ricordi agrodolci, rimorsi stantii e rimpianti acerbi.
Era tutto
semplicemente troppo: troppo nel suo
cuore piccolo, striminzito, schiacciato dalla considerazione di sé e
dall’accecamento di tutti gli altri. Era troppo.
Corse fuori da
quella stanza, senza sapere dove andare, correva e basta, feroce come una fiera
a cui hanno portato via il piccolo, ed erra pazza, folle, eppure lucida, eppure
non ancora straziata dal dolore, eppure ancora caparbiamente convinta di poter
ancora salvare il proprio sangue. E poco importava che Hermione Granger, con
lui, non condividesse nulla, nemmeno una goccia di quel sangue e che anzi lo
profanasse con la sua stessa esistenza. Il sangue, ormai, era un liquido chiuso
nel corpo, sigillato. Quando usciva, quando fiottava, quando d’improvviso
palesava la sua esistenza becera, era solo per fare male. Che gli importava di
difenderlo? Non aveva più senso difendere quella che quel male lo aveva messo a
tacere, nascondendolo, sedandolo, chiudendo le ferite e resuscitando il calore?
Non aveva più senso?
Ovvio che non ce
l’aveva, ovvio che sua madre gli avrebbe detto che non ce l’aveva, ovvio che
suo padre gli avrebbe detto che non ce l’aveva, ovvio che tutti, lui compreso,
avrebbero detto che non aveva senso, e non aveva nemmeno ragione, ed aveva solo
schifo e vergogna nell’esistere: ma, improvvisamente, o forse da mesi prima, il
senso era così forte che, se lo negava, era solo per consuetudine introversa di
non lasciarsi del tutto alle spalle, geloso com’ era sempre stato di sé stesso
e di quello che era.
E poi, d’improvviso,
si era reso conto che comunque lui ormai non esisteva più, non almeno nel modo
in cui aveva sempre creduto, così totalizzante e completo.
Viveva solo nei
buchi e nelle crepe che Hermione Granger si degnava di lasciargli per esistere.
Non aveva disegno in
mente, mentre correva nei corridoi di Hogwarts: non c’era nessuno in giro, a
quanto pare c’era una specie di commemorazione in Sala Grande in onore di
qualcuno morto che magari valeva qualcosa. Attutite dalle porte chiuse,
giungevano voci di ricordi e canti di strazio.
Il sole stava
annegando nel lago argenteo quando si rese conto che si era fermato davanti al
quadro della Signora Grassa, davanti alla Torre di Grifondoro. Ansimava,
respirava con fatica, eppure mormorò velocemente la parola d’ordine: il quadro,
sgomento, osservando i colori della sua divisa, fu costretto però ad aprirsi
rivelando l’ingresso. Draco rise beffardo alla dama dipinta, la Granger ogni
settimana gli dava la parola d’ordine, lo faceva per abitudine nel caso in cui
non si fossero potuti trovare nell’aula del Quinto piano oppure avessero delle
comunicazioni urgenti. Non aveva mai approfittato di quella dimostrazione,
l’ennesima, di fiducia, ma adesso ovviamente risultò più che provvidenziale.
Draco, superando
l’ingresso, non aveva pensato alla possibilità di incontrare qualcuno, ma a
quanto pare tutti erano alla commemorazione ufficiale, come i Grifoni erano
tipici fare; restare fedeli alle loro tradizioni e ai sorrisi incartapecoriti
da esibire in pubblico così che tutti li lodassero e stimassero, come sempre e
da sempre era avvenuto. Eppure Draco era certo, convinto, sicuro che Hermione
non fosse lì.
Incantò le scale del
dormitorio femminile, trovò la camera che ancora occupava singolarmente,
sebbene non avesse più alcuna carica né da Prefetto né da Caposcuola. La aprì
con livore ansioso, ma la stanza era perfettamente in ordine, pulita, non
consumata, vuota. Morta.
Si sedette sul
letto, le mani nei capelli, chiedendosi dove potesse essere ancora: ogni
respiro in cui non la sapeva se non vicina a lui, almeno tranquilla, lo portava
lentamente all’agonia. Lo sentiva, dentro, fuori, ovunque, che non era normale
non trovarla, che era meno normale del solito, che quel logoramento fisico che
stava avendo poteva ucciderla, che nessuno davvero se ne sarebbe accorto, che
lui solo avrebbe scorto la differenza. Lui solo, lui soltanto, lui solamente,
lui per sempre, la poteva salvare.
E se non se l’era
detto fino ad allora, era solo perché uno non si dice nella testa che l’acqua è
bagnata.
Era scontato.
Non appena ammise
quello, non appena capì quello, non appena intuì quello, udì qualcosa di
stonato. Uno scroscio, continuo, d’acqua. Dalla stanza accanto. Dal bagno.
Senza pensare a
nulla, senza capire nulla, spalancò la porta con un tonfo.
Era lì, immersa
nella vasca da bagno, completamente vestita, completamente zuppa, la nuca
reclinata indietro, i capelli bagnati, le labbra viola, gli occhi spalancati al
cielo come una supplice defunta. Le braccia erano aperte all’indietro, come se
fosse in croce, sanguinava dai polsi. Unghiate le macchiavano anche la pelle
del collo, la gola: come se avesse cercato di strapparsi via qualcosa. Non
qualcosa: la voce.
Immaginò che fosse
morta, pensò che se ne fosse andata, fantasticò della vita senza di lei.
E fu come morire
assieme a lei: gelido, pallido, svuotato di ogni cosa dentro come se lo
avessero aperto con il coltello. Rapido il petto sussurrò il nome delle
reazioni a lei e a tutto quello che faceva lei.
Rapido,
singhiozzando dentro e restando immoto fuori, si disse che l’amava come non
aveva amato mai niente e nessuno nella vita. Con quel nome, con quei capelli,
con quella buffa piega del volto, con quel sorriso scemo, con quella voce da
pettirosso, con quei motteggi da bambina e quei silenzi da donna.
L’amava persino in
quella posa, l’amava di più persino adesso che se n’era andata e lo aveva
lasciato indietro.
Si avvicinò cauto,
mordendosi la pelle del palmo: improvvisamente i passi di mesi lo riportavano
al punto di partenza. A sanguinare, a punirsi, a smettere di sperare, ad
illudersi di voler morire e a non trovare il coraggio per farlo. Quel coraggio
che lei aveva avuto, pensò, accarezzandole il viso freddo.
Hermione voltò gli
occhi pigramente, guardandolo, non reagendo, non facendo altro, solo
guardandolo. Una lacrima singola le rigò la guancia, morì sulle ferite nel
collo, bruciò di sale e si spense di dolore sordo.
Tornò tutto:
speranza, rabbia, terrore, ansia, angoscia, preoccupazione, rimorso, rimpianto,
ricordo. E venne assieme con prepotenza, con astio, con conflitto, con
rassegnazione, l’ospite inatteso ormai accettato.
Venne l’amore.
Era viva, stava
bene: la poteva salvare ancora.
Controllò approssimativamente
l’entità delle ferite: nulla di grave, solo escoriazioni superficiali. La prese
in braccio, la sollevò dalla vasca da bagno, la portò in camera da letto. Lei
non oppose resistenza, era come un corpo morto. La distese sul letto, lei
rimase come una bambola, le labbra socchiuse e gli occhi spalancati, guardando
il soffitto. Grondava acqua sul copriletto. Puntò la bacchetta contro i suoi
vestiti, li asciugò velocemente. Con delicatezza, prese un asciugamano e le
frizionò piano i capelli.
E chi l’avrebbe mai
detto che sapeva fare tutte quelle cose.
La sentì starnutire,
le mise una coperta sulle spalle. Si stese sul letto accanto a lei, restando
nel suo campo visivo cieco, dopo che l’aveva voltata su un fianco. Non fece
nulla per ore.
Poi, vennero le
lacrime, lente prima, silenziose, quasi impercettibili. Nemmeno cambiava
espressione.
Dopo singhiozzò, e
le lacrime divennero più forti, implacabili, da rigare il viso. Restava
immobile a guardarla, senza toccarla ancora. Nel cuore della notte, il pianto
divenne un urlo continuo, un ululato di bestia, una voce spezzata, un rantolo
da moribonda. Draco si alzò per spegnere le luci, sperando che dormisse, ma
appena fece per muoversi, lei lo fermò trattenendolo dalla manica della
camicia, stringendo forte, gemendo, singhiozzando. E la voce tornò tutt’un
tratto.
“Draco, l’ho
ammazzato io… è colpa mia se è morto…”.
Gli cadde addosso,
si chiuse sul suo torace, prese a pugni il suo petto, urlando senza ritegno.
Trattenne il suo
impeto, la strinse tra le braccia, non disse nulla, ebbe per tutta la notte un
solo pensiero.
Non poteva perderla
ancora, non poteva perderla mai.
La pozione per Saint
Suliac sarebbe stata una pozione per cancellarle la memoria.
Era l’alba quando
iniziò a parlare, il sole rendeva cristalli aggrumati i suoi occhi, scoprendone
scintille agata. All’inizio, nel rantolio che era diventato il suo respiro, non
distinse le sue parole, pensava fosse un mormorio confuso ed annegato nel suo
petto. Poi capì che stava parlando, sentì la voce di una che parla adesso ma
che tacerà per sempre, dopo. Non avrebbe mai più parlato di quello che le era
accaduto, mai più, ma a Draco sarebbe bastato per pensare di spezzare il mondo,
per provare a sentirsi giusto, per rinnegare carne e sangue.
Sarebbe bastato
persino ad illuderlo che Hermione Granger, nel segreto che gli rivelava, la
guancia contro il suo petto, ci mettesse persino amore. Non l’amore che lui
aveva per lei, ma quello che aveva per ogni cosa, ma che, in un punto qualsiasi
del suo tempo, aveva deciso di dare anche a lui.
Un amore stupido e
qualsiasi, che se dato a lui, diventava unico al mondo.
Una corrispondenza
d’amore fu quella mattina, l’avrebbe chiamata così, anni dopo.
Lei che si svuotava
il cuore dal suo segreto e lui che già immaginava di cancellarglielo dal tempo
quel segreto.
Qualche giorno prima della
battaglia ad Hogwarts, avevo scritto a Ginny.
È stupido, odioso e assolutamente
imbecille se ci ripenso, ma le avevo scritto per parlarle delle cose idiote di
cui parlavamo quando tutto era normale, tranquillo, sereno. Le cose di cui
parlano le ragazze, quelle che non devono affrontare la guerra, quelle che non
se ne vanno in giro a distruggere gli Horcrux, quelle che non devono
preoccuparsi di morire ogni giorno, o di vedere morire chi amano e poi di
morire esse stesse. Era stato un impulso assurdo, da ragazzina viziata e
frivola, ma spesso era così forte il desiderio di fare cose… scontate…
naturali… mentre il mondo ci marciva in mano, mentre non avevano nessuna
certezza che… non cerco giustificazioni, ma non so… ora… adesso…pensare che non mi lasciavo mai andare a cose
così, e poi improvvisamente allora… non so, forse avevo iniziato ad impazzire
allora e nemmeno lo sapevo.
Ero a Villa Conchiglia, dopo la
fuga da casa tua, e continuavo a pensare che dovevo risolvere la cosa con Ron,
che dovevo confessargli che ero innamorata di lui, che il tempo sembrava così
sfuggente e ci mancava così tanto dalle mani da farmi temere che sarei morta
prima di dirgli la verità, prima di fargli sapere che lo amavo. Eppure, volevo
un consiglio da Ginny. Volevo sentirla, parlarle, chiederle aiuto come fanno
tutte le diciassettenni della mia età, fu un annebbiamento, ecco.
Scrissi la lettera come
un’ossessa, chiedendole consiglio, fregandomene persino che ci potessero
rintracciare, avevo negli occhi la felicità da cartolina strappata di Bill e Fleur, avrei dato di tutto per essere felice anche io,
così, anche se per pochi giorni, anche se tutto il mondo sarebbe franato
nell’inferno per colpa di Voldemort. Mi sarebbero bastati pochi giorni. Era
appena morto Dobby, la sua fine mi aveva sconvolto come non so nemmeno io che
cosa. Mi sentivo accerchiata dalla morte. Scrissi la lettera in tre minuti, la
spedii senza pensare, quando mi ripresi dal lutto nemmeno me ne ricordai,
sperai solo per giorni che non l’avessero rintracciata dei Mangiamorte, che
potessero capire la nostra posizione.
La lettera giunse a destinazione,
miracolo, ma nella mia follia, nella mia pazzia da insensata, avevo mandato la
lettera alla Tana, non ad Hogwarts, dove c’era Ginny. E lei non la lesse mai.
La lesse Fred, suo fratello.
Poteva anche lasciarla su un
tavolo, non rispondere, aspettare che Ginny tornasse, mandarla a lei.
Ed invece lui mi rispose,
dicendomi che per caso aveva letto la lettera, che sembravo distrutta, che
forse, anche se lui non era Ginny, poteva darmi aiuto, che ero una sua amica,
che non voleva che stessi male, che dovevo stare lucida in quel momento per
affrontare quello che stavamo affrontando.
Aveva un tono serio che non gli
apparteneva in quelle parole scribacchiate in fretta.
Mi disse che mi avrebbe dato un
consiglio non richiesto, che probabilmente non avrei accettato. Ma me l’avrebbe
dato comunque.
Scrisse: Hermione, non
incaponirti su questa idea di te e lui assieme. L’amore è un’altra cosa.
Scrisse proprio così, Draco,
scrisse così, e io non capivo che volesse dire, rilessi quelle parole dieci
volte, e non capivo, anche se lui dopo si spiegava, anche se cercava di farmi
capire, anche se argomentava, si scusava quasi. Ma restava fedele a quello che
diceva, ed io leggevo e non capivo. Diceva che ovviamente, come tutti, mi
avrebbe voluto in famiglia, diceva che ovviamente credeva ed era convinto che
tra me e Ron c’era un grande affetto ed un forte sentimento, ma diceva anche
che non dovevo iniziare una storia con lui solo per paura di perderlo, che il
terrore non è mai la base di niente, anche e soprattutto di una storia d’amore.
Mi diceva di prendermi tempo, anche se mi sembrava di non averne, perché solo
con il tempo avrei capito che non ci amavamo affatto, che era solo affetto, che
era solo la gente che ci aveva convinto di questo, che eravamo fratelli e, che
per quanto ci sforzassimo, passavamo la vita a volerci cambiare.
L’amore è un’altra cosa, ripeteva.
E poi mi scrisse solo: esci da
questa guerra, libera la mente dalla paura, vivi davvero assaporando ogni
giorno. E solo allora chiediti se è Ron quello che vuoi, non far soffrire mio
fratello. Io lo vedo negli occhi, nei tuoi, che è paura quella che ti lega a
lui ed abitudine dell’immagine che hai di voi. Ancora, l’amore è un’altra cosa.
E io mi arrabbiai comenon mai, leggendo quella lettera. La strappai
in mille pezzi. Che diamine gli saltava in mente di rispondermi, di dirmi, alla
vigilia della battaglia finale? E che ne sapeva lui, che ne capiva lui, che ne
poteva sapere lui, egocentrico com’era, non si era innamorato mai, la vita era
tutto uno scherzo per lui. Ma non lo era per me, ed io ero sicura di me, sicura
di Ron, sicura di tutto, staremmo stati assieme per sempre, se fossimo rimasti
in vita e sconfitto Voldemort, la vita sarebbe andata bene e me ne fregavo di
Fred Weasley, che mi diceva che l’amore è un’altra cosa e che mi diceva che, in
tema di “fare la cosa giusta in tempo” lui voleva dirmi questo da tanto ed
adesso ce l’aveva fatta, prima che magari gli accadesse qualcosa. Un calcio
negli stinchi gli sarebbe capitato, non appena l’avessi visto, quello pensavo, aveva
aperto la mia posta… una sgridata da Ginny, e dalla signora Weasley, e da tutti
e da Ron stesso. Quello gli sarebbe successo.
Ed invece, Draco, aveva ragione su
tutto, su tutto, e chissà magari uno che è vicino a morire, è già un po’ più
lontano e sa le cose che gli altri non sanno, e vede quello che gli altri non
vedono, e sente quello che gli altri non sentono. Ha avuto ragione su tutto, su
tutto, che era l’ultima volta che poteva parlarmi e che io… e poi… ed io
strappai quella lettera, adesso la vorrei rileggere ancora, e forse scoprirei
altro… perché non l’ho mai conosciuto bene, perché era una cosa sola con
George, perché creavano disastri e mi mettevano in imbarazzo, e creavano
disordine e cosa pagherei adesso per quel disordine, Draco, è tutto in ordine
nella mia vita, tutto così liscio e lineare che mi viene da vomitare, tutto
così piano e perfetto alla Tana che volevo spaccare qualcosa, ed invece manco
riesco a parlare, manco riesco a consolare Ron, manco riesco a fare niente, da
quella maledetta notte della battaglia di Hogwarts.
Il momento dello scontro finale ci
piombò tra capo e collo, prima ancora che ce ne rendessimo conto, fu come
trovarsi immersi nell’oceano e non sapere quando si è naufragati, quando la
nave è affondata, quando si è persa la scialuppa. Ho sprazzi di quella notte,
sprazzi continui. E…ci sei anche tu. La stanza delle Necessità, l’Ardemonio,
Tiger che muore, le scope, il diadema di Corvonero, quel liquido nero che vi si
addensava. Ci sei anche tu, che sparisci, riappari e che ti salviamo, e al
contempo non sei tu, al contempo sei diverso… e sembra quasi un’altra vita,
un’altra me, un altro te, un altro mondo. Perché, dentro, in fondo ero pure
felice. Ci credi? Poi uno non dice che dovevo essere già impazzita… avevo
baciato Ron, forse stavamo assieme, forse fuori da quell’inferno, c’era tutta
la vita che mi ero aspettata di volere e forse Fred aveva torto, e forse ce la
potevamo fare. E sebbene fossi circondata dalla morte, dall’odio, galleggiavo,
Draco, galleggiavo.
Forse per quello capii tutto così
poco, così tardi.
Accadde in un attimo, pochi
secondi, il tempo si fermò, eravamo fuori dalla Stanza delle Necessità. Tu eri
fuggito, c’erano degli scontri, Fred e Percy
combattevano. E io li guardavo, ed improvvisamente il mondo tutto galleggiava,
fluttuavo, ed ero felice, non avevo controllo dei miei arti e delle mie parole,
ma andava bene, ero tutto così caldo, dolce, tiepido, soffice. Tutto era fermo,
non si muoveva affatto, il mio respiro durava secoli interi. Avevo sentito una
puntura di spillo alla schiena, un contraccolpo nel petto, la perdita quasi di coscienza.
Eppure, io che tutti mi chiamano la strega più brillante della mia generazione,
pensai solo ad una botta di stanchezza, ad un momento di distrazione mentale,
alla felicità assaporata che ormai di Horcrux ne mancava solo uno.
Ed invece era solo un Imperius, dritto nella schiena.
Augustus
Rookwood.
Lo avevo visto una volta al
Ministero, mi aveva guardato in modo strano, non ci avevo fatto caso. Riconobbi
la sua voce nella mia testa, mi apostrofava nella peggiore delle maniere,
parlava di una donna, diceva che era morta per colpa nostra, diceva che l’Oscuro
signore l’avrebbe vendicata. Non capii nulla. Sentivo solo il suo tono, freddo
come una lama ghiacciata.
Capii solo una cosa, la domanda.
La domanda.
La stramaledetta domanda, e la mia
voce doveva morire allora, dovevo essere davvero muta,non parlare mai più, vincere l’Imperius, strapparmi la laringe.
Il mondo fluttuava, fuori erano
passati solo tre secondi e Augustus Rookwood mi
chiese di salvarne solo uno.
Mi disse, di salvarne uno.
Tra Percy
e Fred.
Li avrebbe uccisi entrambi se non
avessi risposto, mi disse salvane uno, quello che alla madre mancherebbe di
più, riprese a parlare di una donna, Christinine. A lei tutti i figli le hanno
tolto. Io ti lascio sceglierne uno. Scegline uno, puttana mezzosangue.
Il mondo galleggiava, io pensavo
di sognare e la mia voce disse il nome di Percy, in
silenzio.
Dissi il suo nome, Draco, dissi il
suo nome, perché credevo che era la mia mente, credevo che la voce fosse solo
fumo nelle orecchie, credevo di sognare, e non capivo, ed ero così stanca, così
a pezzi, ed era piacevole non pensare, starmene lì in quella gelatina a
galleggiare, a non sentire il mio cervello macinare.
Un secondo dopo, intuii tutto. Un
secondo dopo. Solo un maledetto secondo troppo tardi.
Ruppi l’Imperius.
Ma l’urlo inutile che mi uscii
dalla gola coincise con l’esplosione che ammazzò Fred.
Nessuno mi sentì. Nessuno. Nessuno,
Draco.
Il sussurro, Rookwood, l’aveva
sentito. L’urlo, Fred, non l’aveva sentito.
Piansi, mi disperai, come tutti:
mi convinsi disperatamente che non era stato nulla, forse una premonizione
mentale, forse un effetto della stanchezza, forse uno scherzo della mia mente
che era stata lucida fin troppo.
Non avevo visto chi aveva lanciato
l’esplosione. Doveva essere un sogno. Rookwood manco c’era, in battaglia.
Voldemort fu sconfitto, la guerra
finì, Harry vinse, contammo i morti e vivi, curammo i feriti.
Mi feci curare a mia volta, mi
disinfettavano le ferite, mentre piangevo ancora per Fred, ancora sentivo le
parole della sua lettera nella testa. Ci vedevo solo l’affetto, adesso, nulla
di quel rimprovero presuntuoso che ci avevo visto in un primo momento.
Poi gettai uno sguardo alla parte
di tenda occupata dai Mangiamorte catturati.
E nella tenda del pronto soccorso,
Rookwood c’era. Rideva, sguaiato, guardandomi.
Mi disse: “Come si vive sapendo
che hai scelto? Come si vive sapendo che hai la voce sporca di sangue?”.
Lo presero per pazzo, tutti, mi
raccontarono che era diventato Mangiamorte il giorno in cui sua moglie
Christinine si era uccisa, dopo che i loro figli erano morti ad Azkaban.
Lo presero per pazzo.
Volli pensare anche io che fosse
pazzo, ma non lo era.
Quando capii esattamente che io
avevo ucciso Fred, io con la mia voce, io con la mia scelta da innamorata
saccente, io che ce l’avevo con lui, io che non mi ero opposta all’Imperius, io che avevo pronunciato quel nome…
…quando capii questo…
Io non fui più in grado di aprire
bocca.
Fino a quando non sei arrivato tu,
a farmi sentire miserabile assieme a te, con te.
E a convincermi che tu, tu solo al
mondo, in tutto il mondo, tu il codardo, l’assassino mancato, il reietto…
Tu solo fossi in grado di
perdonarmi.
Fu inutile tutto, a
quel punto.
Inutile fu lui,
inutile fu lei, inutile fu parlare, inutile fu offendersi, inutile fu
dispiacersi, inutile fu piangere, inutile fu consolarla, inutile fu tutto.
Inutile.
Dopo quelle parole,
oneste, dure, taglienti, Hermione come svuotatasi, cadde in un sonno profondo e
febbricitante. Respirava a fatica, la guancia sulla sua clavicola, la fronte
bollente. Biascicava lamentandosi, piangeva sommessamente. Se la teneva stretta
addosso, asciugandole le lacrime meccanicamente con il dorso della mano. Per
ore, finché il sole non salì alto nel cielo, concentrò tutta la sua mente sulla
possibilità di cancellarle quel ricordo, non voleva e non poteva pensare ad
altro.
Ripeteva le formule
delle pozioni nella testa, ricordava quanto l’Oblivion in faccende come queste
fosse inaffidabile, perché i ricordi potevano tornare, o non cancellarsi del
tutto, o poteva restare un residuo del trauma che si ripercuotesse in gesti,
azioni, intenzioni, desideri. E ripetere troppo a lungo l’Oblivion avrebbe
comportato seri danni cerebrali. Pensa
solo a questo, Draco. Ci voleva una Pozione, potente ma selettiva, che
eliminasse completamente quel ricordo, la connessione con la voce, il senso di
colpa, ogni memoria connessa. Ha la
febbre e piange ancora, brucia la mia pelle come se fosse fuoco. E se ce
l’avesse fatta, avrebbe avuto Saint Suliac ad un passo, premiavano quelle
pozioni e sapeva che non esisteva nulla ancora del genere, ce l’avrebbe fatta. La perdo, si ammazza, se fallisco, non
sopravvivrà a lungo con questo segreto dentro. Calendula, doveva essere la
base, e poi che altro? Assenzio o loto? Ambra grigia, forse? La perdo, sì, la prossima volta la trovo
morta, la prossima volta non si salva, la prossima volta se ne va all’altro
mondo e si perdona le sue colpe. Forse doveva sobbollire per un ciclo
lunare… o magari catalizzare la luce del sole, chissà quale delle due fonti è
più potente, a lei non poteva chiederlo, non poteva saperlo che sarebbe stata
la sua cavia. Se non ci riesco mi muore
tra le braccia la prossima volta. O magari basta solo la luce dell’alba,
non vuole che rischi di rovinarle la mente. Non
voglio che rischi più nulla, mai più nella vita. Non vuole che rischi più
nulla nella vita.
E d’improvviso,
strinse i pugni, esplose la rabbia, la tenne sotto controllo il peso di lei tra
le braccia.
Voleva uccidere
Rookwood, voleva ammazzare Potter e Weasley che non si erano accorti di nulla,
voleva assassinare quel suo sé stesso che le diede le spalle ed andò via.
Per rimandare
indietro quel solo istante, avrebbe volentieri sacrificato tutto, compreso sé
stesso; avrebbe ucciso lui Fred Weasley per liberare lei da quel peso crudele.
Lo sconvolse che,
per la prima volta, davvero, era convinto che avesse perso la guerra quella che
era la parte che avrebbe dovuto perderla: prima di lei, se ne fregava.
Prima di lei, non
ricordava chi era alla battaglia di Hogwarts, ricordava paura e sudore, Tiger
che muore e sua madre che lo stringe. Si ricordava spavaldo come una tigre e
sfuggente come un serpente, non debole come il gattino che aveva dipinto lei
nei suoi ricordi, sincera, fiera, non preoccupata di toccarlo e ferirlo. Ed
adesso era chiaro perché stava con lui: si sentiva sporcata, lercia, indegna.
Solo uno come lei, poteva accettarla.
Per quello parlava
con lui, per quello stava con lui, per quello aveva detto tutto a lui.
Ed andava bene, lui
era egoista, andava bene averla anche in quel modo… ma non l’avrebbe avuta
ancora per molto, ne era certo. Sicuro, convinto, impagabilmente consapevole.
Lei non era come
lui, anche se fingeva di esserlo: ne sarebbe morta.
E se la sua memoria
era l’arma, la pistola puntata alla sua gola… Draco gliela avrebbe cancellata
pezzo per pezzo. Le mani che la stringevano, tremarono, chiudendosi sulla sua
vita.
A
costo di cancellare anche me stesso dalla sua memoria.
La Granger, dopo il
1° aprile, la data del compleanno di Fred Weasley, per cui c’era stata una
commemorazione solenne in Sala Grande, ebbe una lunghissima influenza che durò
ben tre settimane.
La febbre non
accennava mai a scendere, restava sempre sopra i 38 gradi, nonostante tutte le
cure del caso e l’assunzione delle più varie delle Pozioni: molti Medimaghi,
ormai, se sentivano parlare di quella ragazzina o venivano ad essere convocati
e consultati, provavano l’amaro calice della frustrazione dato che Hermione
Granger sembrava immune a qualsiasi genere di rimedio scientifico e medico.
La cosa era iniziata
con la voce, ed adesso proseguiva con qualsiasi genere di disturbo potesse
accusare.
Ad Hogwarts vennero
anche i suoi genitori, vogliosi di ricoverarla in ospedale, ma fu sconsigliato
di spostarla da lì per evitare che la febbre salisse ancora: nonostante tutto,
Hermione restava comunque vigile, attenta, gli occhi sgranati e lucidi,
chiedendo di essere aggiornata sui compiti ed ammettendo frequenti visite alla
sua stanza. Ginny Weasley fu la prima ad accorgersi che Hermione, quando veniva
aperta la porta della sua stanza, sobbalzava, si voltava bruscamente, cercava
con affanno qualcuno e puntualmente si afflosciava come un ramo appassito,
quando constatava di chi si trattava. Dopo qualche secondo di smarrimento,
ovviamente, riassumeva un cipiglio normale, ostentando un sorriso che non le
arrivava agli occhi e ringraziando il visitatore con occhi dolci e tristi.
Ginny, il 25 di
aprile, stava per chiederle nervosamente chi diamine aspettasse, augurandosi
che lei mimasse il nome di suo fratello Ron: reggendo una scatola di cupcakes,
entrò nella stanza pronta a formulare la domanda che non aveva voluto farle
fino ad allora, dato l’impermeabilità che lei aveva sviluppato ad ogni tipo di
quesito. Hermione, però, quel giorno, la accolse con un sorriso diverso,
aperto, chiaro, quasi simile a quello che aveva una vita fa. Gli occhi erano
più vivi del solito, il colorito era meno terreo e le labbra erano rosse di
salute. Deglutendo pesantemente, sforzandosi, chiudendo gli occhi, biascicò
anche un incerto: “Ciao Ginny”.
Erano le prime
parole che le rivolgeva dalla fine della guerra. Ginny pianse, lasciò cadere a
terra la scatola dei cupcakes e corse ad abbracciarla, constatando nell’abbraccio
che lei le restituì un calore che non aveva nulla a che fare con la febbre.
Hermione non disse altro per l’intera mattina, ma a Ginny quel saluto goffo
parve già il sole nel cuore per mille anni.
La felicità rende
ciechi, sordi, muti e stupidi.
Ginny Weasley non si
chiese e non chiese che cosa fosse cambiato quella mattina, che cosa era
accaduto ad Hermione se la sera prima era invece la solita parodia della morte
incarnata, non chiese che cosa le era successo. Probabilmente comunque non
avrebbe avuto risposta, ma non ci pensò neanche a chiederlo.
Draco Malfoy era successo.
La notte prima, dopo
ventiquattro giorni in cui non si era fatto vedere, era sgattaiolato di
nascosto nella sua camera, trovandola sveglia come se lo stesse aspettando. Draco
era impallidito nel vederla, sebbene la stanza fosse al buio ad eccezione della
piccola luce sul comodino: era così magra, la sua pelle ormai era trasparente e
respirava a fatica. I suoi capelli erano opachi e le sue palpebre erano
violacee. Ma comunque, nonostante tutto, Hermione gli aveva sorriso, si era
tirata bruscamente su a sedere ed aveva allungato le braccia come una bambina
che voleva essere presa in braccio. La forza, tutta quella che sembrava
evaporata dal suo viso, le era tornata mentre gli era quasi saltata addosso,
stringendolo tra le braccia. La voce, quella che nessuno conosceva più, aveva
asserito convinta: “Pensavo di non vederti mai più…”.
Draco aveva chiuso
gli occhi, restando con le mani poggiate sui suoi fianchi senza approfondire
l’abbraccio, senza concentrarsi sul profumo smorto che la febbre sembrava
portarle via, senza badare al peso piuma che era diventata e senza focalizzarsi
sul suo tono di voce, meno argentino del solito. Con sicurezza, aveva
biascicato severamente: “E meno male che ti avevo detto che non potevo venire
che avevo molto da studiare…”. Hermione non se la prese, rise invece, si staccò
da lui studiando il suo viso come una madre che esamina il figlio, dopo una
lunga separazione: negli occhi attenti di lei, Draco vide subito che si sarebbe
accorta di tutto, avrebbe visto perché effettivamente le era stato lontano per
tanto tempo, avrebbe letto nelle occhiaie profonde le nottate passate ad
elaborare la pozione, avrebbe visto nella trama ramificata delle vene la soddisfazione
acre del successo, avrebbe colto nelle rughe dell’espressione il dolore
lacerante di capire che la pozione avrebbe cancellato ogni ricordo che lei
aveva di lui, avrebbe scorto nel tremore delle palpebre l’impossibilità di
trovare un’altra strada dato che la loro frequentazione si collegava
direttamente alla perdita della voce, a sua volta legata a doppio filo alla
morte di Fred Weasley e al ruolo di lei nella vicenda.
Quello che, però,
Draco temeva più di tutto è che lei leggesse nella pelle pulsante del collo il
battere convulso del cuore: non aveva bisogno di ulteriori motivi per esitare,
non aveva bisogno che si accorgesse di quanto fosse diventata scevra
dall’essergli indifferente, non aveva necessità che lei capisse che, sebbene
tutto nel corpo andasse contro quella decisione, aveva già deciso di sfidare la
memoria che Hermione aveva di lui.
Mi
conosci e ricordi come codardo, vile, egoista, doppiogiochista, assassino
mancato?
Mi
sei stata vicina per mesi solo per questo, godendo del mio essere bieco e
giocando a trasformarmi come una fatina delle fiabe?
Ebbene
Hermione Granger, ti dimostrerò che non sono questo, dannata mocciosa saccente:
ti darò quella pozione, ti cancellerò la memoria e rinuncerò a te come il più
imbecille dei Weasley e il più nobile dei Potter.
Tu
non lo saprai… ma io sì. E farà tutta la differenza del mondo, la prossima
volta che mi guarderai e finalmente, senza che nulla tremi in te, o
scricchioli, o ti faccia sentire sporca, ti sentirò insultarmi o dire agli
altri di ignorarmi.
Sarà
la tua voce, di nuovo, pulita, senza ombra di colpa: parlerai come ami farlo,
senza che niente da dentro ti punisca per essere viva o per aver scelto,
costretta.
Sarai
di nuovo tu, quella che mi odia convinta e non mi amerà mai consapevole.
Ora
non sei tu, questa non sei tu: questa creatura dolcissima che esita, che mi
abbraccia, che mi parla, che ha le ossa di vetro, il cuore di carta, il respiro
di nuvola e la voce di passero. Questa non sei tu. Non sei mai stata tu.E se tra me e te c’è un assassino, quella non
sei tu… sono io, che ammazzerò questa donna che mi fa perdere il sonno, facendo
tornare quella che me lo toglierà solo con la somiglianza con quella che amo. E
finirà tutto, questo dolore dentro, questa rabbia dentro, questa vergogna
dentro, questo rimorso dentro, e questo amore dentro.
Perché
tu non sarai più questa che mi scruta negli occhi e che vado a trovare di
notte, temendo di abbracciare per il terrore di non poterla lasciare più. Ed io
non sarò più quello che aspetti sveglia, dicendo che temevi di non vedere più.
Non
siamo mai stati noi…
Questi
non siamo noi: siamo solo due miseri relitti che ci diamo alle dicerie
negligenti di quello che siamo davvero.
Abbiamo
solo trenta giorni, per vivere vestiti di questi panni non nostri: trenta
giorni, e la pozione sarà pronta.
Trenta
giorni di vita strappata, al tempo vero ed autentico.
Trenta
giorni di esistenza senza nome, per poi voltarci indietro e non saperci più
riconoscere.
Trenta
giorni per arrivare tra trent’anni a salutarci con un cenno del capo, un sorriso nervoso e nessuna altra parola.
Trenta giorni per
dimenticarci entrambi chi siamo adesso.
Tu dimenticherai
con una pozione.
Io dimenticherò
circondandomi di voci che parlano in francese, a Saint Suliac, e che mai mi
ricorderanno te.
Mai nessuno al
mondo mi ricorderà te.
In tre mesi,
l’effetto della pozione poteva sparire: nei suoi studi, a soli cinque giorni,
dal completamento della pozione, Draco notò con sgomento che in tre mesi, i
ricordi potevano tornare.
Un ruggito di
egoismo sconquassò il suo ventre, ma nella sua testa e nel suo cuore Draco
trovò facilmente la soluzione. L’opale, la pietra magica più potente tra tutte,
racchiude il potere di tutti gli elementi e le loro rispettive caratteristiche:
l’energia e la forza delFuoco;
la prosperità, la pace e il benessere dellaTerra; l’intuizione, le emozioni e la sensibilità dell’Acqua; la comunicazione e la
creatività dell’Aria.
Era spesso usata
come sigillo di incantesimi e pozioni dagli effetti durevoli.
Bastava imporre alla
Granger di indossarlo per un paio di mesi, così che l’effetto fosse permanente:
fece arrivare da casa sua un anello con un opale latteo rotondo che sua madre
indossava quando era ragazza e che per fortuna non era stato confiscato dal
Ministero. Lo incantò, affinché non si sfilasse per un tempo corrispondente a
cento giorni, e pianificò di collegare la pozione alla falsa memoria che
Hermione avesse ricevuto quell’anello come regalo da qualcuno, che le aveva
pregato di tenerlo come portafortuna.
Nelle settimane,
Hermione si era ripresa, la febbre era finalmente passata ed aveva ripreso a
mangiare e a dormire regolarmente: all’inizio di maggio tornò a lezione e
riprese a studiare come un’ossessa in vista degli esami. Ovviamente anche da
pseudo-muta, Hermione doveva pretendere da tutti il massimo dell’impegno
possibile nello studio, anche se era meno efficace non parlando; questo la
portava invariabilmente a sfogare tutte le sue tensioni da maestrina repressa
su Draco Malfoy, visto anche che doveva prendere il massimo dei voti per essere
ammesso a Saint Suliac. Lui bofonchiava molto più del solito, studiando
pigramente e senza volontà, aveva già una media alta, l’ammissione era
scontata.
Hermione notò che
era diventato ancora più chiuso, taciturno e tendente alla risposta acida, ma
ovviamente credeva che fosse la preoccupazione per Saint Suliac, considerando
anche che inopportunamente aveva scoperto orgoglio e presunzione nei giorni
passati, sostenendo che aveva già creato la pozione per l’ammissione, che non
c’era bisogno che la vedesse, che era quasi pronta e funzionava perfettamente.
E se Hermione si
azzardava a chiedere: “E che cosa cura?”,lui roteava gli occhi e blaterava che era seccante.
Draco aveva deciso
di vivere quei giorni con leggerezza, distacco e rassegnazione: ma non era
possibile. Scopriva troppo di lei e troppo poco ancora sapeva. C’era sempre una
sfumatura nuova degli occhi, un sorriso associato ad un particolare sentimento
e che adesso riconosceva, un ricordo inedito che lei condivideva, un’abitudine
assurda alimentare che gli faceva storcere il naso, un sogno nuovo che le
fioriva in viso, un tremore appena accennato che lei inventava adesso: ed al
contempo c’era sempre il silenzio autoimposto al di fuori di quella stanza, le
spalle incassate quando in classe si parlava della guerra, le lacrime sbocciate
in un momento qualunque per una qualunque associazione d’idee, le urla quando
provava a convincerla che non era stata colpa sua la morte di Fred, gli episodi
comunque frequenti di graffi autoinflitti e di ferite autoinferte, i momenti in
cui si svuotava di forze ed energie ed assomigliava ad un cadavere.
E in quei momenti
Draco lottava con tutte le sue forze contro la voglia di trattenerla accanto a
sé, e ricordava quando l’aveva trovata in quella vasca da bagno: un altro
episodio, più forte, e sarebbe morta, ne era certo.
La battaglia dentro
di lui, si esaurì il giorno prima dell’inizio degli esami: il 25 di maggio, la
pozione fu pronta, l’opale era stato incantato ed Hermione Granger qualche ora
prima aveva ripreso a negare febbrilmente come qualche mese prima, la testa tra
le braccia, proprio qualche istante dopo che Draco avesse seriamente vacillato
nella sua convinzione, decidendo di parlare con la Mc Granitt per chiedere
consiglio.
E se era arrivato a
quel punto, vuol dire che era seriamente disperato: però poi l’aveva
incontrata, l’aveva vista in quello stato, la paura di perderla gli aveva di
nuovo soffocato il cervello ed aveva deciso infine di terminare quello che
aveva iniziato.
Aveva staccato le
mani dai capelli di Hermione, l’aveva stretta per i polsi e le aveva
sussurrato: “Ci vieni stasera in un posto assieme a me?”. Il volto sudato, i
capelli attaccati al collo, Hermione sospirò un sì.
Sarebbe stata
l’ultima sera in cui avrebbe ricordato Draco Malfoy.
Venne
all’appuntamento vestita di bianco, come una sposa.
Gli mancò il fiato
guardandola, mentre camminava piano nella sua direzione, improvvisamente donna,
improvvisamente bellissima, improvvisamente somma di tutto quello che aveva
sempre desiderato e mai avuto. Non aveva organizzato nulla di speciale, le
aveva solo detto di venire alla Torre d’Astronomia, avrebbero volato un po’ e
poi si sarebbero fermati da qualche parte, dove le avrebbe dato in qualche modo
la pozione. Non era preparato a quello, si era vestito normalmente, senza
particolare cura: una camicia azzurra che gli stava anche un po’ stretta, ed un
paio di jeans. Aveva i capelli biondi persino un po’ bagnati dalla doccia che
gli davano l’aria di un pulcino sperso: non era assolutamente predisposto per
quello.
Sebbene avesse
ammesso a sé stesso di essere innamorato di quella ragazza, non aveva
contemplato le fasi normali di un corteggiamento e di una relazione ordinaria
con una coetanea: era stato tutto curva, galleria, dosso in una strada sterrata
e senza direzione precostituita. Quindi, nessun appuntamento, nessun
complimento, nessun tentativo imbranato di prenderla per mano… niente. E poi
del resto manco stavano assieme, e manco forse una parte di lui ci voleva stare
davvero: il bello di quella situazione, di quella sera da condanna a morte, era
che tutto sarebbe annegato nel mare del “poteva essere e non fu”. Non avrebbe
dovuto dirle nulla, aspettarsi una risposta, seppellire l’orgoglio ed
affrontare un rifiuto, o affrontare anche un sì, che forse sarebbe stato
peggio. Non era lui quello per lei. Non era lei quello per lui.
Però Hermione
Granger, quella sera, ruppe ogni regola non scritta tra lei e lui: chissà a che
ha pensato, si chiedeva Draco vedendola camminare al rallentatore nella sua
testa, la salivazione annientata e il cuore in gola. Chissà cosa ci aveva visto
in quella serata, in quell’invito: magari solo una delle ultime occasioni per
stare con un amico imprevisto, cosa che doveva essere festeggiata. In fondo,
mancava poco al diploma, lui sarebbe andato a Saint Suliac e lei altrove,
probabilmente non si sarebbero rivisti mai più.
Magari era questo… o
magari, e Draco lo capiva ad ogni passo, Hermione Granger era una perfida
strega ammaliatrice, che oggi gli donava sé stessa, ammonendolo che non la
poteva avere.
Perché d’improvviso,
Draco ne scopriva malizia ed accortezza femminile da maldestra ammaliatrice. Il
vestito ne fasciava il corpo nei punti giusti, stringendo sotto il seno ed
allargandosi sui fianchi, e lui ne immaginava ogni ombra e luce con una
chiarezza mai raggiunta prima: perché sì, ok, se ne era innamorato, ma se ne
era innamorato in quella maniera quasi asessuata dei bambini. La adorava,
adorava tutto di lei, come si adora una giornata di sole d’inverno, in modo
fideistico ed asettico: e d’accordo, aveva quelle pulsioni fisiche vedendole,
ma erano diventate rare, scomode, evitabili, considerando che la vedeva sempre
come una bambola di velluto da non pensare nemmeno di immaginare di toccare.
Adesso scopriva il
sangue di quell’amore marcio: ed era un sangue di fiamma, di tormento, di
possesso, di fantasia incomparabilmente guasta di pensarla con un altro domani,
oggi, ieri. Sudava freddo, e lei camminava ancora, leggiadra come una piuma,
come mai era stata: ed immaginava in rapida successione lui che le toglieva
quel vestito, un altro che le toglieva quel vestito, e poi ancora lui, e di
nuovo un altro senza nome, e poi Weasley, e poi ancora lui. Ed aveva bisogno di
saperla sua, di saperla per sempre sua, di averla almeno quella notte per sé,
tutta per sé, perché era la sera dell’addio e lei a suo modo lo sapeva, perché
si era anche truccata e il marrone sulle palpebre esaltava l’oro delle iridi,
perché aveva steso un rossetto rosa sulle labbra e le dischiudeva appena
salutandolo, perché le tremava la voce e si stringeva nelle spalle, perché il
cedro e la vaniglia erano aria e vento e lui ci respirava dentro, e ci
respirava in mezzo, e non poteva fare altro.
Tanto
domani tu non ti ricorderai niente di tutto questo. Io sì, io per sempre… ma
quello sarà un problema solo mio, e sarà un problema solo domani. Non stasera,
non adesso, non ora.
La prese per mano
con l’improvvisa consapevolezza che poteva essere l’ultima volta, e ne saggiò
sotto i polpastrelli ogni insenatura, ogni incastro, ogni piega che rendeva la
sua mano in quel modo piuttosto che in un altro. Hermione si accorse subito
della differenza, tremò e rabbrividì piano, intrecciò le dita con le sue.
Lei salì sulla
scopa, mettendosi davanti a lui, mentre Draco con un movimento sicuro sfrecciò
in volo nella notte che profumava di magnolia e di gelsomino. Abbandonata, nel
chiarore della luna nascente, Hermione poggiò la testa contro il suo petto: nel
vento che li avvolgeva freschi entrambi Draco poggiò il mento sulla sua spalla,
lasciando che Hermione sorridesse e se ne stesse con la guancia premuta sulla
sua. Il silenzio, che era sempre stato un ospite scomodo da evitare ad ogni
costo e da riempire dal pensiero che tra loro fosse diverso, divenne una
coperta morbida e calda sulle spalle: dentro quel tacere c’erano centinaia di
parole soffuse e sussurrate, che nessuno dei due poteva dire. Le luci a
grappolo dei paesi di montagna li salutavano divertiti, mentre il castello si
allontanava e le stelle si avvicinavano: Hermione si ritrovò prima di
accorgersene ad allungare la mano, quasi come illusa che fossero vicine sul
serio, poi scosse la testa imbarazzata e sussurrò: “Che stupida…”.
“Sei tante cose
Hermione Granger… tantissime… ma non sei stupida…”.
Sorrise lei felice e
sussurrò solo: “Grazie…”, restando però immobile, ferma, improvvisamente
vigile. Se avesse voltato la testa anche solo di un centimetro, avrebbe urtato
contro il viso di Draco, lo sguardo perso e sconvolto fisso sul suo volto. In
ogni sillaba di quel ringraziamento, lei ci aveva messo tutto quello che
pensava e sentiva, Draco se ne era accorto, le guance le erano diventate rosse
e calde, era arrossita.
Rimase rossa in viso
mentre sussurrava: “Se vieni ammesso a Saint Suliac… e credimi, lo spero con
tutta me stessa… tornerai mai in Inghilterra?”. La sorpresa di Draco fu tale
che la scopa gli vibrò tra le mani, Hermione sobbalzò e si spaventò leggermente
finché non tornò dritta. La gola di Draco si chiuse dandogli la sensazione di
annaspare, mentre pensava seriamente a che cosa rispondere a quella domanda.
Poteva mentire, certo, tanto chi se ne fregava, lei avrebbe scordato tutto il
giorno dopo. O poteva essere sincero, rispondere a quella che adesso gli stava
tra le braccia e che aveva le ore contate, ma che adesso era ancora lì.
Essere al contempo
onesto e bugiardo comportò solo che confuse nel vento sibilante un frettoloso e
sussurrato: “Non lo so…”. Hermione si staccò dalla sua guancia, lo guardò
confusa, improvvisamente distante. Negli occhi, nebbiosi e vitrei, Draco
distinse subito la vera domanda che aveva in serbo. Torneresti per me?
Ed era a quella che
Draco non sapeva che rispondere: onestamente l’Inghilterra da madre ed amica,
era diventata matrigna e megera. Non aveva alcun legame che lo tenesse lì e
quei pochi che ancora esistevano, si sarebbero allentati alla partenza per
Saint Suliac, qualora tutto fosse andato bene. E se poi tutto fosse andato
male, avrebbe probabilmente chiesto al Ministero di andarsene in America dai
suoi. O da qualche altra parte.
Hermione era il solo
legame: la sola, l’unica ancora che lo tenesse attraccato a quel paese.
Ma era un legame di
farina e nebbia, comunque la si vedesse: ammesso che non ci fosse la
risoluzione di cemento di cancellarle la memoria ed ammesso anche che non le
fosse accaduto quello che le era successo e che attentava costantemente alla
sua esistenza, ammesso anche che lei accettasse di restargli amica… come sarebbe
continuata? Non sarebbe continuata, ecco. Vallo a spiegare al resto del mondo
che erano amici, non ti azzardare nemmeno a raccontare che te ne sei
innamorato, vai ad immaginare il sabato sera con Potter e Weasley che lo
guardano inaciditi, vai poi a chiederti davvero se sta ancora con Ronald e
perché non lo nomina mai, ma sicuramente non è fuori dalla sua vita. Mettiamo
anche che non esista la questione della voce e tutto il resto, immaginala senza
alcun trauma, senza alcun problema, felice e libera, ma amica sua.
Cosa sarebbe
diventato tutto quello? Un paio di chiamate all’anno, una lettera dove
annunciava che aveva trovato lavoro, un invito scritto di fretta per quando si
sarebbe sposata, un tavolo in fondo alla sala con cugine che non conosceva, un
saluto al binario nove e tre quarti mentre due mocciosi con i capelli rossi e i
suoi occhi la chiamano mamma. E Draco, in quell’estasi capovolta di innamorarsi
altruista, voleva persino tutto quello per lei, tutto, tranne forse i figli con
i capelli rossi… ma solo, non voleva starci lì a subirsi e sorbirsi tutto
quello, pure nel fango melenso di volerla semplicemente vedere. Diamine, non è
che fosse diventato un rincoglionito mentale: se la sarebbe scordata in qualche
modo, non avrebbe vissuto lo stillicidio di vederla e non averla, parlarle e
non sentirla, sfiorarla e non toccarla.
E poi… ancora… il
problema non si poneva: tra poche ore, Hermione Granger non avrebbe nemmeno
saputo che aveva desiderato che tornasse per lei. Quindi, essere sincero ed
essere bugiardo era dire solo: “Non lo so”.
Hermione, a quella
risposta, però, si irrigidì, divenne una statua di sale, iniziò a guardare con
ansia crescente il suolo, i piedi che smaniavano per correre via: restava
seduta come una principessa a cavallo, con la schiena dritta, le braccia
rigide, gli occhi fissi davanti a sé. Ammantò il suo respiro di silenzio per
una mezz’ora buona, prima di borbottare sconfitta: “Puoi scendere a terra
adesso?”.
L’orologio di quella
fiaba aveva iniziato a rintoccare prima di quanto si aspettasse: Draco scese di
quota sospirando ed atterrò sul tetto quadrangolare di un edificio abbandonato
alla periferia di Hogsmeade. Era una vecchia serra, ormai non più utilizzata, i
rovi coprivano gran parte della facciata. Tra le spine, inossidabili,
spuntavano minuscoli fiori color glicine dalla corolla aperta. Avevano un
profumo struggente da estate appena iniziata.
Hermione scese dalla
scopa con un balzo, fece qualche passo dandogli le spalle e restò immobile
contro l’orizzonte a guardare il cielo che, d’improvviso, si era addensato di
nubi pesanti e fitte. Lontano, risuonò l’eco sordo di un tuono che la fece
rabbrividire, mentre si strofinava le mani sulle braccia per riscaldarsi. Draco
lasciò cadere la scopa sulle tegole rosse della serra e, stanchissimo, si
sedette a gambe incrociate, le braccia distese dietro di sé e l’espressione
scavata come se avesse dodicimila anni. Il temporale si avvicinò rapido, le
nuvole iniziarono a rombare sorde e la pioggia iniziò a cadere a scrosci
pesanti.
Nessuno dei due
diede segno di essersene accorto: era la notte dell’addio, in un modo netto
ormai lo sapeva anche lei. Si tirava indietro i capelli con la mano, zuppi le
aderivano sulla schiena e sul collo, piangeva in silenzio senza farsene
accorgere e non faceva un passo per paura di rompere qualcosa che per miracolo
stava ancora in piedi. Draco si ritrovò a guardare la sua schiena tremare e a
pensare che se, d’improvviso, faceva così male stare dentro quell’istante, se
faceva così male anche a lei… magari doveva lasciar perdere. Magari doveva
lasciar cadere la boccetta di quella pozione che aveva in mano e lasciare che
il destino si compisse da solo. Magari doveva avere fede in lei, fiducia in sé,
magari doveva solo stringerla e basta, baciarla e basta, amarla e basta… si
alzò in piedi, i pugni chiusi, affranto, distrutto, sconquassato. L’acqua
scivolava lungo il suo collo e non sapeva se aveva freddo per quello, o per il
contrasto con il calore sordo che gli esplodeva a fiotti regolari dentro lo
stomaco. La boccetta della pozione si reggeva alla sua mano bagnata e sudata
con un istinto di conservazione che era l’ultimo vessillo della decisione di
incantarla e che Draco preservava nel suo cuore: un vessillo di un esercito
sconfitto, perché era troppo bella lei, era troppo vicina lei, era troppo già
lontana lei, ed era troppo anche solo immaginare che nell’oceano del male che
provava, il distacco da lui fosse solo anche solo una goccia di rugiada. Fece
un passo, deciso, sicuro, pronto a gettare via la pozione.
E poi lei, sempre
terrorizzata dal silenzio, desiderosa solo di romperlo, stanca di rifugiarsi in
esso, aprì la bocca con un sorriso, dandogli le spalle. E disse la cosa
sbagliata.
“Almeno quando te ne
andrai, nessuno mi rimprovererà più perché parlo
troppo…”.
Gelò come se
affogasse, si aggrappò alla sola cosa tangibile: la boccetta della pozione.
Hermione l’aveva detto con una risata in gola, ma una risata amara e cieca, di
quelle ineluttabili di chi accetta un copione già scritto.
Se ne sarebbe andato
lui… e lei non avrebbe parlato più. Sarebbe rimasta per sempre nel miasma del
silenzio, non aveva intenzione di fare nulla, assolutamente niente, per
cambiare tutto questo. Ed anche se lui fosse rimasto, anche se fosse restato,
anche se non se ne fosse andato… si sarebbe accontentata di parlare con lui e
basta. Ed allora, pensò Draco stringendo i pugni e la pozione, chi se ne frega
se mi ama o meno, chi se ne frega se la ho una notte o meno, chi se ne frega se
resta solo mia amica o meno, chi se ne frega di tutto, se sarà per sempre
questa ombra pronta a scomparire da un momento all’altro? Chi se ne frega di
tutto, se non vuole lottare mai più? Chi se ne frega di questa pavida bambina
sterile, che vivrà per sempre nei suoi fantasmi?
La rabbia crebbe
come un fuoco d’artificio, rombò nel cielo e scoppiò tutt’attorno, mentre Draco
Malfoy si accorgeva con un livore inedito da selvaggio, che la voleva uccidere
questa Hermione Granger.
Voleva indietro la
vecchia Hermione Granger, quella con la voce da falco, lo spirito da guerriera
e la battuta pronta: e sebbene la odiasse, sebbene avesse sempre detto di
odiare quella ed amare questa… improvvisamente capiva che erano la stessa
faccia della stessa persona. E le amava ed odiava entrambe.
La vecchia Granger,
ogni tanto, era filtrata e l’aveva scorta e vista: nelle risposte ironiche, nei
motteggi silenziosi, nella saccenza presuntuosa, nella curiosità attenta… ma
ben presto lei l’avrebbe lasciata morire.
Ed allora chi se ne
fregava averla accanto, se la vera sé stessa se ne era andata all’altro mondo?
Era questa sé stessa che doveva crepare, adesso… e chi se ne fregava se l’altra
non l’avrebbe voluto mai, chi se ne fregava.
Bastava che
tornasse. Bastava solo che tornasse.
Rapido, incollerito,
furioso come il cielo che continuava a rovesciare pioggia su di loro, calcolò
mentalmente che la pozione era venuta su così potente, che sarebbero bastate
poche gocce. E trovò il modo perfetto per dargliela, così da assecondare anche
sé stesso, per una volta, in quella stramaledetta storia.
Se ne bagnò le
labbra, si avvicinò e la costrinse a voltarsi, afferrandola per una spalla.
Hermione si ribellò leggermente ma restò immobile quando Draco, tenendola per
la nuca, la obbligò a baciarlo. Sebbene la rabbia e il livore, non poté fare a
meno di concentrarsi sul calore morbido della sua bocca, sul sapore dolce che
aveva, solo leggermente contaminato dall’acre della pozione che le stava
scivolando in gola. La mano la teneva stretta possessivamente, giocando con i
riccioli dei suoi capelli, mentre premeva e basta sulla sua bocca, non
concedendo né a sé stesso, né a lei, una qualsivoglia tipologia di reazione,
come se la volesse soffocare. Hermione era vinta dalla violenza dolcissima di
quel bacio, restava ferma, immobile, un braccio sollevato ed incerto, sospeso
tra il desiderio di attirarlo più vicinoe la voglia di scacciarlo lontano.
La pioggia cadeva
forte su di loro, la notte era diventata pesante come un macigno: quando negli
occhi aperti di lei, spalancati come quelli di un cucciolo, Draco distinse
un’ombreggiatura color argento, sintomo che la pozione le era entrata nel
corpo, si staccò da lei bruscamente e la guardò incattivito, gli occhi grigi
due lame appuntite, mentre la tratteneva per le braccia. Hermione, rossa in
viso, aprì bocca per travolgerlo con un fiume di parole, ma non riuscì a
proseguire.
Draco la interruppe
e con astio, le rivolse quelle che voleva che fossero le sue ultime parole:
Hermione le ascoltò sgomenta, atterrita, terrorizzata e spaventata assieme, poi
grata, riconoscente, dimentica del resto, infine emozionata, sconfitta e vinta.
Draco avrebbe voluto che le restassero dentro per sempre, anche se sapeva che
non era possibile, anche se sapeva che la pozione avrebbe cancellato anche
quegli ultimi tre minuti. Bastarono solo tre minuti: ed Hermione Granger gli
cadde tra le braccia, addormentata, un sospiro doloroso negli occhi ed un opale
incastrato al dito.
Quella notte, nel
suo letto, avrebbe sognato una voce che le parlava arrabbiata, ma che le
sembrava dolce come miele in quella rabbia: avrebbe sognato delle parole nette
e precise, che al risveglio non avrebbe ricordato. Avrebbe sognato Draco
Malfoy, ma non l’avrebbe ricordato.
Tra tre minuti, tra tre
stramaledettissimi minuti, tu non ti ricorderai più niente di tutto questo,
Hermione Granger.
Non ti ricorderai di me, di
quest’anno malato, di Fred Weasley e della punizione che hai inflitto alla tua
voce per averlo condannato. Non ti ricorderai più di niente di tutto questo. E
cerca anche di vomitare, di rimettere, di fare quello che vuoi, se lo vuoi, ma
sai meglio di me che era la sola strada, la sola via, il solo modo per farti
tornare te stessa. Che cosa diamine dovevo fare io, Granger? Aspettare di
trovarti morta? Aspettare che non parlassi più? Aspettare che parlassi per
sempre e solo con me, ed aspettare il giorno in cui nemmeno un germe di quella
che eri potesse emergere? No, dimmelo tu che cosa dovrei fare, adesso, dimmelo
tu, maledetta strega, dimmelo, perché sei tu l’eroina, sei tu la buona, sei tu
la dea, la vittima, l’agnello sacrificale, e io sono il serpente, il male, il
codardo, l’assassino. Dimmelo, dai, dimmelo adesso che cosa dovevo fare.
Io, quella Granger che eri, la
odio: sempre presuntuosa, sempre sul tetto del mondo, sempre convinta di avere
ragione, sempre ad una spanna da me e dal mondo tutto. Ma è quella che sei
davvero. È la tua anima e tutto quello che ci sta attorno. E sai cosa, forse in
quest’anno, ho persino capito che non la odio davvero: della te stessa
instabile e fragile che sei diventata ho adorato che la potessi proteggere, che
io solo la potessi salvare, che mi concedesse respiro ed asilo, che mi stesse
accanto, che fosse dolce come un frutto che non mi è mai stato dato di
cogliere… ma quella non sei tu, o almeno non sei solo tu. Tu sei anche l’altra,
quella che odio… ma che forse non ho odiato mai, che forse aspettavo solo di
avere accanto agli occhi per innamorarmene come mi sono innamorato di te. Ed è
inutile che fai quella faccia, ed è inutile persino che pensi a come reagire, è
inutile persino che provi a dissimulare quello che senti davvero… non mi
interessa Granger, mettitelo in testa. Se ti amo, è un problema mio, e non tuo.
Se ti amo tutta, se amo pure quella dannata rompipalle che sei… anche quello è
un problema mio. Se ho scoperto, oggi, adesso, in quest’istante, che la tua te
stessa che è un derelitto mi ha permesso di avvicinarmi a te senza sconti e
pregiudizi, ma che è l’altra che amo davvero, che amo di più , che amo odiare e
che odio amare… questo è un problema mio. Tu non ricorderai nulla domani.
Ma io sì, io domani me lo
ricorderò tutto questo momento. Ed adesso in questa mia follia da essere
altruista, concedimi ancora due minuti per essere egoista e sputartelo in
faccia quello che penso di te.
Weasley non è morto per colpa tua,
sarebbe morto comunque, perché io i Mangiamorte li conosco Granger e non hanno
alcun genere di morale confusa che avete voi, i buoni, i santi. Se Rookwood
voleva uccidere qualcuno, lo avrebbe fatto, indipendentemente da che cosa rispondessi
tu, dannata stupida. Se non avessi risposto, avrebbe ucciso te e tu magari,
idiota come sei, te lo saresti anche augurato, no? E certamente te ne saresti
fregata che non sarebbe cambiato nulla, avresti ammazzato ugualmente di dolore
i tuoi babbei di amici, i tuoi genitori e tutto il resto. Qualsiasi risposta
avessi dato, avresti ucciso qualcuno. E tu non hai scelto Granger: scegliere
impone volontà. E l’Imperius non è volontà, credimi
lo so. Potevi scegliere l’altro Weasley perché aveva un colore addosso che ti
feriva gli occhi, e sarebbe stato lo stesso. Non è volontà quella, è solo
istinto dello stomaco che non potevi tenere a freno, nessuno poteva, nemmeno
tu, pure se sei così convinta di essere il non plus ultra della razza umana.
Non potevi fare altro. Ed anche se ne soffri, anche se ti uccide dentro,
renditi conto che la vita non è tutta scelta, non è tutta volontà, non è tutta
arbitrio: è anche destino, caso, variabile imperfetta di una fragilità che
siamo noi stessi incarnati. Io non ho scelto di essere quello che sono, ho
scelto poco nella mia vita e mi sono abbandonato più di te al destino e al
fato, ed è sbagliato, ma è sbagliato anche credere di avere il potere di fare
tutto, Granger. Non se ne esce se si pensa così. Accetta con serenità ciò che
puoi cambiare ed accetta con eguale serenità ciò che non puoi cambiare, è la
vita, Granger, siamo pulci e giganti e siamo sospesi esattamente nel mezzo tra
avere il potere di cambiare il mondo ed avere solo l’obbligo di subirlo.
Ma mettiamo che tu abbia ragione,
mettiamo che sia vero quello che dici, che è morto perché tu hai scelto… se non
parlassi più, tornerebbe qui? Se muori tu, resuscita lui? Credimi non va così,
Granger: per mesi che io desiderassi barattare me stesso per Silente, non è mai
accaduto, Granger. La sola cosa che abbiamo è andare avanti, con la coscienza
che siamo vivi e che qualcuno ci ha voluto vivi: e con la coscienza che ad
assolverti, basterà sempre che quell’Incantesimo non l’hai pronunciato tu, che
l’assassina non sei tu, che il sangue non scorre sulle tue di mani. E credimi,
in questo mondo dove il bianco e il nero sono solo becere illusioni bigotte da
borghesi annoiati e dove tutto in realtà è solo un infinito spettro di grigi,
fa tutta la differenza del mondo. E se mantiene me in vita questo pensiero, non
vedo perché non dovrebbe andare bene anche per te, anche se ti credi migliore
al punto da dover morire o da dover vivere mutilata per espiare le tue finte
colpe.
Io non mi fido di te al punto tale
da lasciarti andare via stanotte, affidandoti ad un Dio lontano perché tu
decida di reagire.
E non mi fido di me al punto tale
da restare qui stanotte, promettendoti la mia spalla affinché così ti regga in
piedi.
E rivoglio troppo indietro quella
che sei, per non farti questo: quello che tu irrazionalmente faresti, ma che
intimamente non accetteresti mai perché, ancora, ti toglierebbe la scelta.
E sono egoista al punto tale da
rivolerti indietro, anche se ti imporrò tutto questo e non ti farò decidere
nulla. Io non sono il buono, non sono il puro, il principe: e quindi domani
dimenticherai tutto, sarai di nuovo tu, avrai un ricordo fantasma di un anello
di opale da non togliere mai, avrai la percezione di non aver parlato solo
perché anatomicamente non ci riuscivi, ed adesso invece ci riesci.
Io voglio che tu abbia una vita
urlata, gridata: che se sussurri, o biascichi, o mormori, sia solo perché parli
ad un bambino, o fai l’amore con un uomo, o confidi un segreto. Non voglio in
te la vergogna, la paura, il rimorso e il dolore che ti segano la voce in
petto. Voglio che tu abbia un termine giusto per ogni cosa, da usare con
precisione certosina: che quando il sole è alto nel cielo, tu sappia descrivere
quella luce, che quando inizia a tramontare tu abbia un’altra parola, che
quando sparisca tu ne sappia usare un’altra. Voglio che tu abbia una vita piena
di parole da inventare e da gridare, di parole per accarezzare i cani, di
parole per mangiare un gelato, di parole per baciare un uomo… anche se
quell’uomo non sarò io.
E voglio che tu insegni quelle
parole ad un bambino tuo, anzi ad una bambina tua, che tu sei nata per avere
una figlia, così da perpetuare nel mondo l’esistenza di quella che sei e
rendere felice un altro uomo, che potrà innamorarsi di un altro tuo riflesso.
E fosse anche una bambina con i
capelli rossi… va bene così, Granger, basta che le parli, basta che tu le urli
contro se corre.
Voglio che se tu abbia paura, o
abbia bisogno di aiuto, chiami.
E voglio che la tua voce sia la
prima cosa di te che si annunci in una stanza, mentre saluti la vita stessa.
Non sarò qui, a rendermi conto che
questo accada davvero.
Non ci sarò, perché sono egoista e
non voglio stare qui se non ti posso avere.
Ma vivi una vita urlata, Granger:
non sei nata per il silenzio, sei una parola incarnata con dentro centinaia di
milioni di altre parole. Ne conosco solo una manciata e già mi hanno fatto
perdere la testa per te, come un idiota.
Questo, almeno, se puoi, non te lo
dimenticare mai… Hermione.
“Weasley se magari
ti degnassi di spostare quel tuo testone rosso, potrei vedere anche io i voti
finali…”.
“Come se non lo
sapessi, Malfoy, che cosa hai avuto… ti sarai comprato tutti gli Eccellente…!”.
E
con quali soldi, razza di idiota: mi hanno confiscato i beni.
Certo
che i Weasley sono la famiglia peggiore di Maghi.
E
dicessero ora che sono razzista… questo è semplice spirito di osservazione.
Spostatasi
finalmente quella piattola della Weasley, Draco si avvicinò al pannello che
esponeva i voti dei M.a.g.o. fino a che non trovò il suo nome: sospirò di
sollievo nel constatare che la sua riga recava una lunga fila di E, la sua
media era rimasta alta come sperava. Saint Suliac ormai era raggiunta, aveva
spedito la pozione una settimana prima e gli avevano già fatto sapere che
funzionava perfettamente e che era stata già testata su diversi soggetti
problematici, che avevano risposto bene al trattamento. C’era solo da risolvere
la questione dell’opale obbligatoriamente indossato, ma era una quisquilia.
Contiamo
che a settembre lei possa proseguire con le ricerche in modo da ovviare a
questo problema, signor Malfoy.
Era già
un’ammissione ufficiosa, servivano solo i voti dei M.a.g.o. ed, una volta resi
noti, avrebbero spedito la lettera formale. I suoi genitori erano stati avvisati
qualche giorno prima e gli avevano risposto in un modo entusiasta che lo aveva
sorpreso.
Sorpreso sì, perché
i suoi, ormai, avevano una vita loro in America. Difficile da dire e difficile
da negare, ma Draco si era scoperto contento, anzi felice di questo. Avevano
comprato una casa bianca di legno sulla spiaggia a Martha’s Vineyard ed avevano
fatto amicizia con una coppia di giovani maghi che vivevano lì vicino e che li
aiutavano ad ambientarsi. Ma non era quella la notizia.
La vera novità era
che sua madre, Narcissa, era rimasta incinta.
A gennaio sarebbe
nata sua sorella, per cui già avevano scelto il nome Maia, una stella della
costellazione del Toro: quella novità lo riempì di un senso di tenerezza e
pienezza che non aveva a che vedere ormai più nulla con l’egocentrismo smodato
dell’unigenito che era stato. Lucius e Narcissa, nelle loro lettere, sembravano
riconciliati con la vita e Maia ne sarebbe stata il segno; e lui Draco, ormai
non più bambino, provava la sensazione che si prova alla fine dell’estate,
quando le foglie cadono e l’aria diventa fredda, e tu rimpiangi il sole rovente
ma al contempo pregusti le mattine meno invadenti di luce. Lasci il posto ad
altro, sapendo che non sarebbe stato migliore, ma solo diverso. Aveva ottenuto
il permesso di passare quell’estate con i suoi, l’ultima da figlio unico.
L’estate prossima, ci sarebbe stata Maia e Draco già se l’immaginava: bionda
come lui, magari con gli occhi azzurri di sua madre, che gorgheggiava alle onde
del mare con un accento diverso dal suo. Se l’immaginava portata naturalmente a
fidarsi, dopo essere cresciuta in un bene meno nevrotico del suo. La vedeva
attaccata ai suoi genitori ma più libera e più vogliosa di esplorare, perché i
vecchi errori non si ripetono e Maia non avrebbe avuto dentro la zavorra di un
cordone ombelicale, che lui aveva rescisso solo da poco. E Draco già l’adorava,
in un modo ancestrale che si poteva chiamare solo sangue, quella sorellina, che
avrebbe avuto sempre diciotto anni meno di lui. Era già tangibile, visibile, reale,
stagliata nel suo orizzonte con la compiutezza del riscatto.
Mentre guardava
ancora il pannello dei voti finali, Draco pensò che Maia non sarebbe mai venuta
ad Hogwarts: sarebbe sicuramente andata alla St. Elizabeth, l’accademia magica
americana. Non avrebbe mai conosciuto quella Sala, quel parco… e non avrebbe
nemmeno mai conosciuto i colori delle Case.
In America i
liberali le avevano abolite da un pezzo.
Non avrebbe
conosciuto niente di tutto quello, forse neanche di Voldemort e della parte che
aveva avuto la sua famiglia in quella storia. E Maia, quindi, non avrebbe mai
capito la storia di Hermione Granger, quando avrebbe provato a raccontargliela,
per spiegarle perché ha tante amiche da portarsi a letto, ma mai nessuna
fidanzata. Ma d’altronde, pensava
Draco, chissà se avrò mai la voglia di
raccontarla davvero questa storia a qualcuno… si voltò sospirando, inseguendo una voce alle
sue spalle. Lo scuoteva come un terremoto, ma presto non l’avrebbe udita più,
quindi andava bene anche sprofondare ed annegare e crollare e morire sconfitti,
se sarebbe durata poco.
Hermione era seduta
al suo tavolo da Grifone, circondata da una massa informe di persone che Draco
non vedeva davvero. Aveva i capelli legati in una coda alta sul capo, gli occhi
sereni e puliti, l’aspetto sano di una persona che aveva ripreso a mangiare e
dormire regolarmente, le sopracciglia aggrottate di quando sentiva una
sciocchezza ed essa era arrivata in quell’occasione da Dean Thomas, stravaccato
accanto a lei.
Faceva sempre
impressione a tutti, figuriamoci a lui, vederla aprire con normalità la bocca e
parlare come se nulla fosse accaduto: la sua voce era tornata quella di sempre,
limpida, cristallina, mai incerta, dai toni rotondi e fieri. Nessuno aveva
capito come mai le fosse sparita e tornata all’improvviso, e nemmeno lei aveva
spiegazioni, ma alla fine nessuno le aveva chieste. Era tornata e tanto
bastava.
Rideva Hermione,
gesticolando in modo acceso, mentre la Weasley le parlava sopra e lei, per
nulla intimorita, continuava la sua filippica con un tono che non ammetteva
repliche. Si mise nervosamente i capelli dietro le orecchie e Draco sospirò con
tranquillità, l’opale era al suo posto, doveva essersi bevuta il ricordo che le
aveva indotto e che le suggeriva di non toglierselo.
Anche quella
visione, per Draco, ebbe il sapore della riconciliazione, ma contrariamente a
quanto era avvenuto per la notizia di Maia, era un sapore arcigno ed aspro:
certo, aveva fatto la cosa giusta, lo sapeva, ma era difficile comunicare a
tutte le parti di sé quella idea e quel pensiero. Il cervello lo aveva capito,
il cuore lo aveva accettato chiudendosi in sé e il sangue continuava a
ribollire, vedendola ormai libera di volarsene tra le braccia di un altro. Seguì
da lontano la linea delle labbra che continuavano ad aprirsi, soffiando fuori
le parole che le fiorivano in gola: il ricordo del loro sapore bagnato lo
spinse a voltare la testa dall’altra parte, allontanandosi finalmente dal
pannello dei voti.
Tra qualche ora,
l’espresso per Londra sarebbe partito, portandosi via per sempre il ricordo di
quell’anno di bronzo acceso dagli occhi di Hermione Granger: l’avrebbe vista
abbracciare alla stazione Harry Potter ed esitare un po’ alla vista di Ron
Weasley. Poi l’avrebbe ugualmente abbracciato e l’avrebbe spiata mentre
chiudeva gli occhi, una piccola lacrima spersa sul viso. Avrebbe accettato
l’aiuto di Weasley padre per portare il suo baule, avrebbe messo un braccio
attorno alle spalle di Ginny Weasley ed avrebbe continuato a ciarlare per ore
su che cosa doveva fare quell’estate.
Draco, armeggiando
con le sue cose in un binario privo di persone che lo aspettavano, l’avrebbe
vista superarlo e l’avrebbe sentita dire accorata, con la sua voce ovvia: “Ma
certo che devo studiare, ci mancherebbe anche che mi dimentico tutto quello che
so!”. Potter e Weasley avrebbero risposto in modo ironico, mentre lei sbuffava,
e tutti sarebbero scoppiati a ridere nell’ansia grata di riaverla lì.
Quando sarebbe stato
certo che lei era lontana, Draco si sarebbe girato spiando la sua schiena per
l’ultima volta, salutando una parte di sé che ancora non sapeva di che
dimensioni fosse, ma che se ne andava via per sempre. Vivitela tutta, Hermione Granger, questa vita urlata. Fa che ne sia valsa
la pena di tutto questo.
Addio...
Hermione.
Avrebbe indugiato
ancora un po’ sulla schiena di lei che era scossa dalle risate, sulla treccia
che le ballava armonicamente alle spalle, sui passi adesso distesi ed ampi, sul
suono della sua voce che echeggiava come campanelle: e poi con un sospiro, si
sarebbe smaterializzato alla Passaporta internazionale, mentre la risata di
Hermione Granger si attenuava nelle sue orecchie.
Nel binario nove e
tre quarti, ormai deserto, Hermione Granger aspettava il suo turno per
attraversare il passaggio del muro: quando rimase sola, si voltò su sé stessa
con un sorriso, salutando una parte di sé che se ne andava via per sempre e che
non sapeva ancora di che dimensioni fosse. Iniziava una nuova vita, non peggiore,
non migliore, solo diversa: sarebbe stato il riscatto e la riconciliazione per
la guerra.
Sorrise ancora,
aperta, fiduciosa e grata, ancora una nebbia di lacrime commosse negli occhi. Se
le asciugò con il dorso della mano, l’opale alla luce del sole le rimandò un
riflesso iridescente negli occhi castani. Lo guardò con attenzione studiandolo,
ricordandosi di averlo avuto in guerra da una strega che le aveva detto che le
avrebbe portato fortuna e di non toglierlo mai. E lei, che scaramantica non lo
era mai stata, ci aveva creduto: lo portava quando avevano vinto la guerra,
doveva essere anche merito suo se era andato tutto bene.
Anche
se… Hermione con
un brivido ricordò le parole della strega: alcune, ossia le prime in cui le
parlava dell’anello, erano chiare e nette; le ultime erano confuse e strane,
sembrava persino che avesse cambiato voce.
Le aveva detto: Vivi una vita urlata, Granger: non sei
nata per il silenzio, sei una parola incarnata con dentro centinaia di milioni
di altre parole. Poi non ricordava che cosa altro avesse detto, fino al suo
saluto, disperato, accorato… questo, almeno, se puoi, non te lo dimenticare
mai… Hermione.
Non se le era
dimenticato: sognava quella voce ogni notte.
Quella voce le
diceva parole che non ricordava e che tentava sempre di afferrare, ma che
sfuggivano come acqua tra le dita. Ogni notte intuiva che quella voce non poteva
essere quella della strega, ma ogni mattina il ritorno alla coscienza la convinceva
che doveva essere per forza così.
Ogni notte, ogni
singola notte, Hermione Granger ricordava quella voce, pur senza sentire le
parole che diceva. Ed ogni notte, ogni singola notte, quella voce si faceva più
distinta.
Una mattina
qualunque, il risveglio le portò una convinzione ormai non più sradicabile.
Quella non era la voce della strega.
Era un’altra voce,
da ragazzo, che gli sembrava di conoscere ma non che ricordava dove l’avesse
udita.
Ricordava solo che
lei, di quella voce, si era perdutamente innamorata.
Sai cosa, Ginny, non è che io
possa dire di stare male… sono felice, contenta, rinata. Ho voglia di fare un
sacco di cose, sento come se mi fossi addormentata e mi fossi svegliata
solamente adesso. Come se la mia vita abbia iniziato ad appartenermi soltanto
da questo momento… quando non riuscivo a parlare… io ricordo di essermi persa,
di non essere esistita. E adesso io esisto davvero, esisto sul serio, mi
riconosco nei passi, nei gesti, nelle parole, anzi soprattutto nelle parole…
perché io stessa sono una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di
altre parole.
Ma Ginny, dentro, in fondo a me,
nascosto, quasi invisibile, c’è un buco.
Un vuoto che risucchia tutto il
resto.
È una mancanza continua, di
qualcosa che non riesco nemmeno a capire che cosa sia.
Ci sono momenti, momenti qualunque
dove succede la cosa più stupida e io scoppierei a piangere di nostalgia.
I fuochi d’artificio… mi fanno
piangere. Mi danno la sensazione di un vuoto d’aria nello stomaco e poi il
sollievo come quando ti metti ad urlare… e poi l’odore della carta, Ginny,
l’odore della carta è uno strazio continuo, che tipo vado a pezzi ogni secondo,
e mi volto in giro e non so nemmeno io che sto cercando, ma ogni cosa che
faccio, ogni cosa che leggo, mi punge dentro di questa mancanza. E la pozione
guaritrice, mi mette ansia, terrore, tutt’ad un tratto… e in guerra io non l’ho
mai usata…perché ne ho paura, adesso, come
se mi ricordasse che stavo per perdere qualcuno? E poi ci sono dei fiori…
piccoli con la corolla rotonda, violacei… e se li vedo, mi si stringe qualcosa
dentro. Proprio stringere, strizzare, come se mi dovessero sputare fuori. E la
pioggia, Ginny, la pioggia… mi fa arrossire. Mi incendia come una foglia secca.
Ci credi, Ginny? Ci credi?La pioggia,
che fa fresco… a me la pioggia fa sentire caldo, e mi bagno, e ad ogni goccia
che filtra sul collo, è come… non so come spiegarlo… è come essere baciata. Già
baciata, ecco, Dio… è come essere baciata dalla persona che ami di più al
mondo, e che te la vuoi tenere vicina per sempre, e che se si allontana tu
improvvisamente cessi di esistere, e non sai nemmeno come fare a tornare
indietro.
Il buco dentro si risucchia quella
che sono, e sputa fuori tutto questo.
Tu dici che è normale, che forse è
una reazione alla guerra, alla mancanza della voce, alla separazione da Ron… e
magari è così, magari hai ragione. Forse sono diventata ipersensibile e voglio
solo ricominciare disperatamente a vivere.
Però Ginny, spiegami… perché se è
vero tutto questo, perché se in fondo è una cosa bella, perché se è una cosa
normale, sana, meravigliosa, perché se voglio solo continuare a vivere, perché
se in realtà non mi manca niente, perché se è tutto questo, Ginny… … perché
allora non smette un secondo di fare male?
Draco Malfoy,
nell’estate dei suoi diciannove anni, si concesse il lusso di possedere
qualcosa di babbano.
Sembrava ormai
anacronistico mostrarsi disgustati verso qualsiasi cosa non fosse approvato da
generazioni di maghi, e sarebbe bastato semplicemente inarcare un sopracciglio
scettici per non essere scambiati per improvvisi babbanofili convinti. Del
resto, era la vita stessa ad andare in quella direzione.
A Martha’s Vineyard,
di babbani c’erano a grappoli: ricchi, biondi, alti, con occhi azzurro-grigi e
lineamenti affilati, inaspettatamente più simili ai suoi genitori di quanto
fossero stati i purosangue inglesi. E i vicini di casa con cui Narcissa e
Lucius avevano stretto amicizia erano mezzosangue. Anch’essi ricchi, biondi, ma
indiscutibilmente mezzosangue. C’erano ancora momenti in cui, in particolari
discorsi, si scontravano aspramente, ma i Malfoy avevano imparato nei mesi
dell’esilio una maggiore tolleranza e predisposizione all’accettazione.
Intimamente, erano convinti ancora della differenza tra le razze dei maghi, ma
il mondo era andato talmente a scatafascio con Voldemort, minando alla serenità
della loro famiglia, che ormai erano solo idee stantie e vecchie, che
abbandonarle era impossibile, ma rigettarle era almeno auspicabile.
Se si voleva che
tutto restasse com’era, tutto doveva cambiare: e per guadagnarsi la loro
nicchia di agi, i Malfoy pragmaticamente avevano intuito che, in America,
l’aria era diversa. Nessuno nemmeno proponeva una distinzione tra maghi,
addirittura molti babbani erano informati del mondo della Magia.
Per sopravvivere,
quindi, avevano dovuto adattarsi in fretta, avendo peraltro in questo
un’eccellente insegnante: Andromeda Black, la sorella di Narcissa, riaccolta e
perdonata dopo le sciagure presenti, soprattutto dopo la morte di Bellatrix Lestrange
ed assurta ai ranghi di più idonea insegnante del mondo nuovo, che era appena
nato. Andromeda era a Martha’s Vineyard una settimana sì e l’altra no, divisa
dalla gestante sorellina solo dai suoi doveri di nonna dello scapestrato ed
orfano nipotino, Teddy, affidato a Molly Weasley nei periodi in cui la nonna
non c’era. Era stata Andromeda ad insegnare a sorella e cognato come muoversi
in quel mondo estraneo e potenzialmente nemico, a trarne nei mesi persino
piacere, ad inserirsi con cautela, finché le sue visite si erano fatte solo di
cortesia, quando Narcissa aveva scoperto di aspettare Maia.
Ad inizio luglio,
quando andò ad accogliere il nipote Draco alla Passaporta, Andromeda sospirava
per il caldo e la fatica che gli sarebbe spettata con il giovane Malfoy:
ricordava un ragazzetto razzista, pavido, pallido come un morto, dai capelli
biondi slavati e dallo sguardo viziato e presuntuoso. Voleva sinceramente bene
a sua sorella, era contenta che finalmente le cose stessero andando meglio, ma
temeva fortemente che non sarebbe riuscita a sradicare dalla testa di Draco
tutti i pregiudizi che diciannove anni di vita gli avevano inculcato,
rinvigoriti dall’avere sempre avuto vita facile e capricci esauditi.
Ma alla Passaporta,
arrivò un giovane uomo alto, bello, dalla postura eretta e dal passo sicuro.
Aveva un colorito ben più roseo del solito, capelli rilucenti al sole e un
fisico solo più magro, sotto la polo azzurra. Gli occhi di Draco ad Andromeda
parvero subito spenti, tristi, cupi, piegati da un velo che il nipote
egocentrico che aveva conosciuto in modo casuale, non aveva mai avuto. Per
tutti i tre mesi in America, non perse mai quello sguardo, ed esso diventava
fondo come l’inferno quando Andromeda si ritrovava a parlare di Teddy e delle
sue avventure alla Tana. Lì, Draco le pareva attento, curioso, seduto quasi
sull’orlo delle sedie, in tensione: interrogato, però, negava, diceva solo che
voleva conoscere il figlio di sua cugina. Un giorno, però, per caso, accadde
che Andromeda nominasse “quella graziosa ragazza nata babbana che è tanto amica
di Harry Potter e che credo che sia la fidanzata di Ronald”: Draco si alzò
bruscamente dalla sedia, che ricadde indietro con un tonfo sordo, e disse che
aveva bisogno di farsi una doccia, lasciando la stanza.
Ad Andromeda questo
comportamento parve persino più strano di quando lo aveva visto armeggiare
confuso con un cellulare, chiedendo numi alla zia: non lo usava mai in sua
presenza, eppure si era fatto erudire su ogni aspetto del suo funzionamento,
dalle chiamate internazionali a quelle anonime, a come interrompere bruscamente
una telefonata, alla possibilità che si capisse da dove la telefonata
giungesse.
Interrogata Cissy,
Andromeda non ebbe delucidazioni: la sorella, preoccupata, disse solo che
doveva aver trascorso un anno difficile e solitario ad Hogwarts e che, sebbene
nelle lettere non ne avesse volutamente fatto parola, questo l’aveva cambiato
profondamente. Tutti erano cambiati profondamente, pensò Andromeda con un filo
di comprensione frammista alla sofferenza per il ricordo della sua bambina
persa in guerra: era contenta che questo fosse avvenuto anche a Draco. In fondo,
era decisamente diventato una persona migliore. Se ne chiedeva solo il prezzo,
ma, non avendone spiegazioni, ben presto abbandonò l’osservazione maniacale del
ragazzo, curandosi solo di essere presente nei momenti in cui Draco voleva la
sua compagnia.
Che non erano molti:
Draco adorava passare le giornate in spiaggia, da solo, in una caletta dove
veniva pochissima gente. Si alzava all’alba, correva lungo il bagnasciuga per
un paio di ore e poi nuotava fino a mezzogiorno. Stava con la sua famiglia solo
il pomeriggio, intervallando spesso tale frequentazione con lo studio per Saint
Suliac. Di sera usciva e nessuno sapeva dove andasse, lasciando Lucius,
Narcissa ed Andromeda ad interrogarsi senza però il coraggio di porre domande a
quel nuovo ragazzo chiuso, eppure gentile e maturo, che era arrivato
dall’Inghilterra e che dopo i primi abbracci e saluti, sembrava vivere in un
mondo suo, da cui non voleva essere distolto e disturbato. Non era facile per i
suoi genitori avere a che fare con questo nuovo Draco, ma non ne erano
eccessivamente impensieriti: sembrava semplicemente cresciuto, anche se a
prezzo di sofferenza e dolore ben scavati negli occhi grigi. Ogni genitore
sarebbe stato fiero di un figlio che cresce e che trova la sua strada, vista
l’ammissione a Saint Suliac: ben presto Maia, con ancora un’età da verdeggiare
davanti, avrebbe coperto le crepe di affetto e di calore che Draco, non più
bambino, rifiutava con decisione educata e dolce. Narcissa e Lucius,
osservandolo uscire dalla terrazza della loro casa di legno bianco, si
auguravano solo che andasse da altri ragazzi, da un’amica, da un amore speciale
che colmasse le sue ferite. Ma, dopo un sospiro ed uno sbadiglio, come ogni
genitore, affidavano il figlio ad un mondo friabile e che può fare del male, con
la fiducia che bisogna sempre dare al sangue del tuo sangue.
Ma non potevano
concretamente sapere che cosa Draco facesse e che cosa si agitasse nel suo
animo.
Draco Malfoy,
semplicemente, tornava alla caletta seminascosta ogni notte.
Protetta da una
scogliera, il golfo era frequentato solo da amanti smaniosi di pace, che
comunque rifuggivano il ragazzo biondo seduto sulla sabbia che passava il tempo
a scrutare il mare argenteo di luna.Solo qualche volta, vi si spingevano piccoli capannelli di ragazzi che
accendevano un fuoco, passando il tempo suonando la chitarra. Ma neanche loro
degnavano eccessivamente di attenzione Draco, che era sempre lì, ogni notte
indipendentemente da come stesse o da come si sentisse. Cambiavano solo le sue
abitudini.
Se era triste, e
Draco era avvezzo da anni alla tristezza, se ne stava semplicemente immobile a
guardare la luna muoversi nel cielo: la conosceva bene la tristezza, era una
fidanzata petulante e gelosa che reclamava attenzioni piagnucolando. Ed allora
la dovevi convincere che eri il suo solo pensiero. Guai a provare a distrarti,
guai ad ignorarla, guai a fare finta che non esistesse. Trovava una strada
peggiore per farti male.
Ma se la giornata
non era stata cattiva come le altre, Draco alla sera era un’anima in pena.
Raggiungeva la spiaggia quasi correndo, si gettava sulla sabbia come se avesse
perso l’equilibrio, restava disteso a guardare il cielo con l’ansia che gli
formicolava nelle ossa. Bastava poco per renderlo anche solo sereno, la
felicità era qualcosa che ormai considerava rinviata a data da destinarsi: ma
se aveva notato la curva della pancia di sua madre crescere sotto un vestito a
fiori, se aveva visto suo padre ridere dopo anni in cui non lo faceva, se aveva
sentito sua zia parlare di sua figlia senza piangere, se aveva notato che il
mare aveva lo stesso odore di quello inglese, se un passante lo aveva
ringraziato per strada, se una ragazza gli aveva sorriso, se un cane gli era
corso incontro scambiandolo per il suo padrone, se da Saint Suliac gli
scrivevano appunti su cosa portare ad ottobre… bè, la sensazione di sollievo e
benessere durava solo poche ore. La serenità era una moglie attenta, mai
invadente, che ti lascia libero di andare, anche se teme che tu la tradisca; e
magari tu lo fai, ma poi torni da lei, sempre, il petto pieno di spilli di
vergognosa colpa. Ecco, come si sentiva. In colpa.
Quando la malinconia
tentava di scolorire e sparire, Draco si ricordava perché era malinconico,
triste, arrabbiato, sconvolto, chiuso. Era il solo segno rimasto a dimostrargli
che Hermione Granger era esistita, c’era stata, aveva avuto le braccia attorno
alle sue spalle, le labbra sulle sue, il respiro accanto a lui. Ed allora
correva alla caletta, prendeva il cellulare tra le mani e componeva senza
nemmeno pensare un numero di telefono, la cui sequenza lo avrebbe portato
dall’altra parte del mare e del cielo, nel pomeriggio dolce di luce della
campagna londinese. Mentre sentiva lo squillo familiare, sapeva già che
probabilmente lei non avrebbe risposto, aveva solo il numero della Tana, era
quello che chiamava. Se anche ci fosse stata, le probabilità che rispondesse
lei erano basse, in quella casa piena di gente zotica. Ma la speranza mai
moriva, mai cessava. Bastava sperare che rispondesse, sperare che ci fosse,
sperare che parlasse vicino al ricevitore, facendo rotolare una parola fino
alle sue orecchie, così da ricordargli che era esistita e da rassicurarlo che
stesse bene.
La voce, in fondo,
era il segnale che la pozione continuava a funzionare.
Diceva di farlo solo per controllare che la pozione
funzionasse.
Hermione, però, non
rispondeva mai a quel telefono, non parlava nelle vicinanze del telefono e a
Draco spettava sorbirsi la voce annoiata e scocciata di Ginny Weasley, o della
madre, o del padre, cosa che suonava ulteriormente come una beffa. A volte
sentiva il pianto di Teddy Lupin, ma nulla più di questo.
A quel punto,
rassegnato, annegava nella sua apatia, si chiudeva nella fiducia smorta per la
sua pozione e ritornava a guardare il mare. In ognuna di quelle onde, si
nascondeva una piega di Hermione Granger, lontana, vicina, d’argento e d’acqua,
resa un po’ più reale dal ricordo che era esistita.
Stava meglio, la
serenità era scomparsa, sostituita da un’annacquata sensazione di giustizia
dolorosa. Giustizia sì, verso quel sentimento mai morto che non aveva ancora
bisogno di stingere e a cui si aggrappava come se fosse il solo appiglio
rimasto nel mondo… e giustizia anche intrinseca, di sapere sempre e comunque,
nonostante il dolore e nonostante tutto, che aveva fatto la cosa giusta. A quel
punto, intimamente, ringraziava che lei non avesse risposto perché non aveva bisogno
di ricordare la sua voce, sapendola rivolta ormai a tutti, e non più solo a lui.
Più calmo, si chiudeva di nuovo nel suo silenzio quieto.
L’estate passò più
velocemente di quanto si aspettasse: ben presto, la terra si tinse di ruggine
ed oro e fu tempo di partire per la Francia. Abbracciò sua madre con la
coscienza che, quando l’avrebbe rivista, non avrebbe avuto più quella pancia a
dividersi da lui, ma ci sarebbe stata Maia tra le sue braccia; salutò suo padre
con il sollievo di averlo visto libero dai suoi fantasmi ed ormai pacificato
con la vita stessa; si congedò da sua zia Andromeda, affidando al suo corpo
esile la rivoluzione copernicana della famiglia Malfoy/Black.
Lo studio lo
travolse quasi subito, non appena iniziò a frequentare le lezioni e a
trascorrere le ore nei laboratori sotterranei a mescere pozioni: sebbene fu
indirizzato da subito al perfezionamento della pozione che aveva usato su
Hermione, Draco riusciva a convivere pacificamente con il suo ricordo, stremato
dalla stanchezza e dal lavoro. Nei momenti liberi, annegava nello sconforto, ma
essi erano davvero pochi fortunatamente: Saint Suliac sembrava un’oasi in mezzo
ad un deserto. L’accademia sorgeva in una piana, seminascosta dalle montagne e
da un villaggio di case colorate: aveva un parco grande di betulle ed aceri, il
clima era mite ma spesso uggioso, gli abitanti erano severi e distanti.
Sembrava di essere
tornati alla caletta a Martha’s Vineyard, con la consolazione di avere molto di
più da fare.
E sebbene Draco
sentisse che l’animo e il cuore, pian piano, si anestetizzavano e sotto
imputridivano, condannandolo ad un futuro di sempre maggiore solitudine e
distacco, al momento non se ne preoccupava.
Poteva illudersi di
stare andando avanti, quando invece aveva solo scavato una fossa, gettandosi
dentro.
Sarebbe rimasto
sepolto vivo, marcendo e decomponendosi piano, senza nemmeno rendersene conto,
convincendosi che era sereno ed illudendosi di essere vivo per il fatto che
mangiava, dormiva e respirava. E se anni dopo, da vecchio, avrebbe concluso che
invece era morto da secoli e non se n’era accorto, sarebbe stato tardi per
dolersene troppo. Avrebbe detto misantropo, guardando l’altra gente, che non
era nato per essere padre, avere figli, amare una donna ed essere riamato: era
nato per la pozionistica e tanto bastava.
Hermione Granger
sarebbe stata cedro e vaniglia soffusi, soffocati in un tessuto estivo.
Tutto sarebbe andato
così, senza sforzo.
Se non fosse stato
per quel 18 ottobre, piombatogli tra capo e collo prima ancora di morire del
tutto.
L’alba del diciotto
ottobre iniziò nella maniera più consueta per Draco Malfoy. Era una domenica,
cosa che significava nessuna lezione e aule e laboratori deserti. C’era anche
una festa in un paese vicino, con giostre e bancarelle, e molti studenti si
erano alzati di buon mattino per fare una gita. Brigitte, la compagna di
progetto di Draco, lo aveva invitato ad unirsi a lei, ma lui aveva declinato
gentilmente l’invito.
Era una di quelle
giornate che adorava: il vento era freddo, spirava tra le montagne e portava la
promessa della neve lontana. Il sole, però, era comunque incastonato nel cielo,
aveva una luce bianca ed accecante, rinvigorito dal vento che aveva spazzato
tutte le nubi. Aveva piovuto per cinque giorni consecutivi ed adesso il parco
respirava di rugiada, brina e calore sottile e lieve.
Draco, dopo
colazione, si affacciò ad una finestra e respirò l’aria buona del parco, colma
di resina e pioggia che evaporava piano. Chiudendo gli occhi, decise
impulsivamente che avrebbe studiato all’aperto le statistiche degli ultimi
esperimenti sul biancospino in grani: di solito, evitava la luce e il parco
peggio di un vampiro, costringendo Brigitte a lavorare al chiuso. La ragazza
sbuffava e lo rimproverava spesso, ma più gente c’era, più era improbabile che
Draco si convincesse. Ma con quella gita inattesa e quella domenica calma,
nessuno si era avventurato nel parco, quindi Draco con un sospiro si concesse
di sedersi sotto una quercia, vicino ad un laghetto coperto di ninfee, la
schiena appoggiata al tronco di un albero, le gambe piegate e le carte sparse
malamente davanti a lui ed incantate per non volare via. Il tempo trascorse
velocemente senza che Draco se ne rendesse conto, finché, il sole già alto nel
cielo, si appisolò con la nuca poggiata alla corteccia, gli occhi socchiusi,
vinto dalle mille differenze dei fiori di biancospino da quelli di bucaneve.
Sotto le palpebre chiuse, scivolarono impressioni e frammenti di sensazioni
lontane, che si avvitavano tutte attorno ad un profumo ormai dimenticato: cedro
e vaniglia. Era tutto impalpabile, lieve, soffuso, al punto che non riviveva
davvero nulla. Non riusciva nemmeno ad avere quel sollievo agrodolce, la sua
mente aveva ormai talmente censurato quei ricordi, da concedergli solo il vezzo
della sterile rivisitazione senza contorni precisi. In ogni caso, erano ormai
settimane che Draco non sognava più Hermione, l’ultima volta era accaduta la
sera prima di partire da Martha’s Vineyard. Non ci era decisamente più abituato
e la cosa lo fece risvegliare di soprassalto, madido di sudore, ansimante.
Il parco era ancora
il quadro ad acquarelli di poco prima, eppure Draco, asciugandosi la fronte con
una mano, sentiva, percepiva, avvertiva che era tutto diverso adesso. Il sogno
era stato così reale che ancora adesso gli pareva di sentire l’odore di Hermione.
Persino i colori parevano distorti, più vividi, intensi, da bruciare la retina.
Forse era stanco ed aveva bisogno di dormire, si disse Draco ansiosamente,
alzandosi in piedi e preparandosi a tornare all’interno dell’accademia così da
riposarsi un po’. Il progetto si stava succhiando via tutte le sue energie e la
sua referente, la professoressa Haylee Mandrake, pretendeva sempre il massimo.
Questo,
evidentemente, lo stava portando all’esaurimento. Scuotendo il capo, ancora
scosso, Draco raccolse le sue cose, si tolse dei fili d’erba dai pantaloni e
ruotò su sé stesso.
“Malfoy?”.
Una voce, una sola
singola voce lo fece fermare, congelato.
Non era possibile,
doveva essere ancora l’effetto di quel maledetto sogno. Voce da bambola, voce da usignolo, voce scomparsa e rinata, lieve come
un petalo di seta eppure forte, stoica, decisa, come roccia e lava fusa.
Proveniva da un punto imprecisato alle sue spalle, un punto troppo vicino,
ormai prossimo, come se fosse dietro di lui. Ma non era possibile, adesso il
vento si sarebbe catturato giocondo quel refolo rassomigliante alla voce di
Hermione Granger, il cuore si sarebbe acquietato sconfitto nel petto e si
sarebbe maledetto ancora e per sempre di essersi innamorato di quella donna, di
averla lasciata andare, di non averla lasciare andare prima, di amarla ancora,
sempre, domani e ieri, oggi e comunque. Si voltò di scatto, terreo, spaventato,
convinto di doversi piegare ad una crudele fantasia.
Ed invece Hermione
Granger era lì sul serio, ad un passo da lui: la sorpresa fu tale che non
riuscì a dissimulare tutto quello che gli esplose sul viso repentinamente ed
arrossì in modo furioso.
Non poteva essere
lei, non così, non adesso, non in quel modo: era diversa, enormemente, dalla
ragazzina che aveva lasciato ad Hogwarts e dalla fanciulla spaurita che aveva
tenuto tra le braccia così tante volte. Era come se fossero passati mille anni
e mille secoli, era bellissima sempre e comunque, ma di più, perché sembrava
felice, serena, rilassata, come si era sempre augurato per lei. Aveva i capelli
più lunghi e più chiari, colmi di riflessi color oro brunito, ma erano lisci,
ordinati, lucidi. Un ciuffo le copriva lateralmente parte del viso… e già aveva
voglia di spostarglielo con la mano, di sentire sotto le dita la grana morbida
della pelle, di scoprire gli occhi che intravedeva solamente, perché non
bastava, dovevano essere nei suoi, caldi, marroni, liquidi. Era abbronzata,
sembrava appena tornata da una lunga vacanza, ed era vestita con un semplice
paio di jeans ed una maglietta rossa. Il corpo aveva recuperato forme e fogge
di un tempo, più sane, più floride. Lo sguardo sembrava pulito e sereno,
normale, solo le sopracciglia erano aggrottate dalla sorpresa di trovarlo lì.
Draco, il cuore in
gola, il respiro assente, la voce annullata, ebbe solo la forza di guardarle la
mano sinistra, dove ancora splendeva la luce iridescente dell’opale. Si sgonfiò
tutt’un tratto, ricacciando desiderio ed amore, angoscia e speranza, felicità e
sconfitta, nel fondo dello stomaco. Era un caso, amaro e maledetto, che fosse
lì: non si ricordava di lui, non aveva memoria di niente. Ed andava bene così,
ovviamente.
Va
bene così… che ti amo, è sempre stato un problema mio.
Che
ti cancellerei quel broncio sulle labbra baciandoti con tutta la forza che ci
so mettere, è un problema mio.
Che
ti rovescerei su quest’erba e ti spoglierei lentamente, lasciandoti tutto il
tempo di dirmi di no ma pregandoti, implorandoti di non farlo, è un problema
mio.
Che se non ti avessi vista adesso, avrei
pensato che tu non fossi mai stata così bella come il giorno che ti ho baciato
ed invece lo sei diecimila volte di più adesso, è un problema mio.
Che
adesso so e credo e temo e mi auguro che non ti dimenticherò mai e ti amerò
sempre, è un problema mio.
Che
mi sei mancata più di quanto sia umanamente possibile sentire la mancanza di
qualcuno, è un problema mio.
Che
dopo questo mi mancherai ancora di più, è un problema mio.
…
è tutto, sempre, solo un problema mio.
Parla
adesso, sogno stupido della mia mente idiota.
Dimmi
che sei tu, dimmi che sei sempre tu, dimmi che sei rimasta tu… ed ancora, a
costo di sangue e lacrime, andrà bene così.
Basta
che resti sempre un problema mio… e mai tuo.
“Granger… che
diamine ci fai qui?” commentò Draco asciutto, recuperando l’autocontrollo,
ancora poco convinto che lei non fosse uno scherzo della sua mente. Ma Hermione
ebbe una reazione troppo naturale per pensare che il suo cervello si fosse
fatto così accurato e Draco dovette concludere che era reale, chiedendo
silenziosamente al Dio che mancava sempre nelle sue preghiere, di quale colpa
arcana si fosse macchiato per incorrere anche in questo, specie se, per la
prima volta nella vita, aveva fatto qualcosa da buono, e non da bastardo
codardo doppiogiochista quale era sempre stato.
Hermione fece una
smorfia buffa, mostrando quanto fosse incredula che lui fosse lì, e bofonchiò:
“Sto facendo una ricerca… devo incontrare una professoressa di qui… ma tu,
invece… studi qui?”. Il suo tono scettico gli fece più male che farlo
arrabbiare, era lì grazie a lei. Trattenne il tonfo sordo nel petto,
socchiudendo gli occhi, Hermione lo guardò curiosamente, piegando la testa di
lato.
“Già… che tu ci
creda o no, qui gli insegnanti non hanno i loro paladini da preferire a
discapito di quelli realmente capaci…” la sua voce stridette nelle sue orecchie
così tanto da dargli la nausea, al punto che dovette sedersi per combattere
l’istinto di vomitare. Mettere su quella maschera, quelle vestigia di passato
ormai consunto era troppo… ma quello era il solo Draco Malfoy che Hermione
Granger conosceva, era il solo che si aspettasse. Non poteva fare altro, non
poteva fare null’altro. Sperava solo
che se ne andasse via quanto prima, gli mancava il fiato ed aveva una paralisi
alla mascella a furia di mantenere quell’espressione. Ma, ancora, quel Dio
dell’alto dei cieli che si dice buono, ma con lui giocava al gatto e al topo,
non era di quell’avviso. Hermione, infatti, sorrise cautamente e si sedette
accanto a lui, abbracciandosi le ginocchia prima di commentare piatta, senza
partecipazione: “Ma guarda un po’… la vita è sempre piena di sorprese…”, lo
guardò con aria compita prima di sussurrare, sforzandosi di essere gentile: “Complimenti
allora, so che questa è un’accademia molto prestigiosa…”.
“Così si dice…”
biascicò Draco in risposta, stringendo tra le mani un ciuffo d’erba e
trattenendosi dall’estirparlo con rabbia e sconfitta dolente. Hermione seguì il
suo movimento in silenzio, trattenendo con una mano i capelli smossi dal vento,
poi sorridendo un pochino di più, mormorò: “Ti direi che sono contenta per te,
ma tu probabilmente non ci crederesti, vero?”.
Draco sospirò, era
come essere intrappolati in un pessimo film, costretti a recitare una parte
dalle battute scadenti e dai cliché gratuiti: “Penserei che hai preso una botta
in testa, sì…”.
“Ed allora non ti
dico niente…” sorrise ancora lei, abbracciandosi le ginocchia e poggiando il
mento su di esse. Lo guardava in modo attento, curioso, gli occhi screziati
pieni di lucciole. Lo faceva sentire a disagio quello sguardo, certo, lei nei mesi lo aveva abituato ad
essere guardato così, ma questa ragazza che piombava in una mattina qualunque
nella sua vita, aveva solo il suo aspetto, non le sue memorie. Era una
sconosciuta in fondo. In lei, era evidente l’interesse accademico consueto che
la contraddistingueva, la voglia di fargli domande, il desiderio di capire. Era
sempre stato il suo punto debole, lo sapeva. E adesso, infatti, ne era scossa
dall’interno: quello sguardo acceso, quelle guance rosse, quelle labbra morse
per trattenersi dal parlare erano solo per quello. Ma, ovviamente, a lui non
andava di parlare con lei, di inseguire negli occhi una lei che non esisteva
più. Stava già per alzarsi ed andare via, quando Hermione ruppe gli indugi e
gli chiese, la voce affrettata ed un po’ imbarazzata: “Stai facendo delle
ricerche in particolare?”.
Avvertiva dentro un
vuoto d’aria, la sensazione scomoda che gli succhiassero il respiro dai
polmoni. Non ce la faceva più, davvero. Blaterò sconfitto, con voce acida: “Come
mai tutto questo impeto di conversazione civile, Granger?”. Hermione, per un
attimo, gli parve spaurita, persa, abbandonata a sé stessa, infinitamente
piccola e fragile. Si chiuse nelle spalle ed accusò il colpo. Poi, ovviamente,
si riprese, lo guardò fissa e mormorò: “La professoressa è in ritardo e mi
annoio… e poi andiamo, che siamo rimasti ai tempi della scuola? Non penso
nemmeno che tu creda ancora alle chiacchiere dei Mezzosangue che ti appestano
se ci parli…”.
Ti
appestano se parlano solo con te per nove mesi, se li baci, se li sogni, se ti
fai contaminare l’anima da loro al punto che adesso vorresti essere morto, pur
di stare ancora qui, a parlare con un miraggio di paradiso di una donna che non
c’è più.
So
che stai bene, so che sei felice, so tutto: non potresti adesso lasciarmi in
pace? Non puoi farlo? Ancora, avida, mi vuoi per te?
Ti
sei già presa tutto, dannata strega: questo, già, non sono più io.
Ti
ho restituito a te stessa e in cambio, ho perso me stesso.
Un
me stesso inutile, sciocco, becero, codardo…ma ero sempre io.
Adesso
sono nebbia e brace di un sogno estinto. Per favore, lasciami in pace.
Dovette sforzarsi
Draco di rispondere in modo tranquillo, facendo anche ironia: “Tecnicamente ti
appestano se li tocchi, non se ci parli…”, poi si rese conto ancora che questa
Granger era solo un’ombra, non era la sua. Questa era quella che non era mai
stata nemmeno per un secondo sua. Doveva solo far finta di niente. Prima lo
faceva, prima sarebbe finita: “… comunque sì, sto lavorando su una pozione
sulla memoria…”.
“Una cosa complicata…
ma interessante se ti riesce!” biascicò lei sinceramente colpita, e per un
attimo Draco fu anche contento di averla lì. Come se fosse fiera di lui. Hermione
socchiuse gli occhi, guardandolo di sbieco, prima di concludere: “Non pensavo
che fossi a questo livello avanzato…!”.
“Dicono che la vita
è piena di sorprese…” sorrise lui, amaro.
“L’ho sentito dire
anche io…” sorrise Hermione di rimando, un fulmine le passò negli occhi ma si
spense subito, mentre lo incalzava: “Dai racconta, Malfoy! Recupero della
memoria, quindi?”.
“No… perdita di
ricordi… d-di ricordi traumatici…” mormorò lui, sembrava uno scherzo dirlo
proprio a lei, ma se la vita si era presa questa giornata storta, tanto valeva
assecondarla. Anzi doveva assecondarla, non è che ci fossero alternative.
Proseguì disteso: “Prendi un soggetto che ha avuto una brutta esperienza e fai
sì che gli si cancelli la memoria in modo settoriale, solo in riferimento
all’esperienza negativa. Così si può procedere ad una piena riabilitazione…”.
“Ed ovvi agli
effetti collaterali dell’Oblivion, certo…” commentò meditabonda lei,
grattandosi una guancia in modo pensoso “E funziona?”. Ancora, un fulmine negli
occhi, veloce, rapido, dalla vita corta. Stavolta Draco se ne accorse, sospirò,
doveva pensare che stesse esagerando volutamente le sue doti.
Ribatté stanco,
fingendo un risentimento lontano anni luce: “Certo che funziona, Granger…non mi farebbero stare qui, altrimenti…”.
“L’ho capito… non ti
volevo offendere…”.
“Mi volevi
offendere, ma non è una novità…”.
Siamo
davvero alla pessima commedia, adesso.
“Non volevo
offenderti, o almeno non adesso…” concesse lei alla fine, e gli parve anche lei
stanca, sfibrata, demotivata tutt’un tratto “Dico solo che un pozionista
mediocre non riuscirebbe davvero a cancellare compiutamente la memoria di una
persona, c’è troppo in ballo… insomma, fino a quando si parla di fatti o di
eventi, è un conto… ma le sensazioni sono ben altra cosa, si radicano dentro ed
è difficile estirparle, no?”.
Ce l’aveva davanti
l’esempio che tutto si cancella, tutto, e niente viene risparmiato. Si
trattenne dall’urlarle conto e disse annoiato: “Mah… le sensazioni sono sempre
legate ai fatti, cancella i secondi e cancelli anche le prime…”. Quanto era
idiota, stupido, inutile stare bloccati in quella conversazione sterile, a
fingere che? Di essere amici, di conoscersi, di essersi stimati? Tutto questo,
per lei, non era mai esistito… e per lui comunque tutto faceva schifo
ugualmente. Non era questo che c’era stato.
Improvvisamente a
Draco parve che lo capisse anche lei: si alzò in piedi, velocemente, come punta
da un insetto, e gli diede le spalle, guardando verso l’accademia. Aveva le
spalle piegate, il respiro accelerato e parlava con voce sottile ed acuta: “No,
non è così, Malfoy… pensaci…”. Ancora, voleva ribatterle urlando, ma lei lo
precedette proseguendo: “Immagina un ricordo legato, che ne so… alla pioggia, ecco”. Draco sussultò,
guardando la sua schiena, di tanti esempi che stavano proprio quello doveva
prendere? Ma aveva già concluso che era una giornata da vendetta divina, quindi
non si preoccupò, ascoltava le sue parole con disinteresse. Il tono, però, di
Hermione, rapido, gli scivolò nel sangue: era accorato, colpito, coinvolto.
Lentamente più vivido, più scolpito, più tremante. Ad ogni parola,
d’improvviso, gli tremava il cuore.
Hermione, non
guardandolo ancora, proseguì, cercando di mantenere un tono piatto: “Un ricordo
che ti viene portato via, che ti viene cancellato, che ti viene estirpato, che
ti viene estorto perché magari è collegato ad un altro, infelice, amaro,
triste. E quel ricordo, però, ti ha reso felice, completo… quella sensazione si
attaccherà per sempre al suono della pioggia, al suo odore. E non ricorderai il
perché, ma sarai sempre felice nei giorni di pioggia…”, la ragazza fece una
pausa e sussurrò quasi a sé stessa: “Come se fossi amata”.
Draco si alzò in
piedi velocemente, il viso in fiamme, la mente narcotizzata, mentre lei proseguiva
con voce più flebile, quasi disperata: “E non è una bella sensazione, Malfoy,
camminare per strada con il vuoto dentro, scavato, con una mancanza così letale
di una cosa che non sai e che ti fa impazzire, e che si nutre di frammenti di
sensazioni. Ti senti condannato a vivere a metà, per sempre in un limbo dove non
sei mai triste e mai felice”. Draco strinse i pugni, mentre Hermione si voltò,
e già sembrava un’altra, già era diversa, già gli occhi erano più dolci,
tristi, meno liquidi, già adesso tutto sembrava una farsa, una finta, già
adesso notava meglio i movimenti delle dita che tremavano, già adesso
distingueva il luccichio sinistro degli occhi, già adesso distingueva quanto la
voce gli sembrasse acuta perché era tesa come una corda a fingere anche lei.
Si asciugò in
silenzio, quasi con rabbia, una lacrima che le aveva velato il viso, prima di
aggiungere incolore: “Credimi, un pozionista in gamba non dovrebbe mai
tralasciare le sensazioni”.
Draco seguì la linea
tracciata da quella lacrima, ne seguì il tragitto sulle labbra, trattenne il
sollievo e fece rinascere la paura. Un sospiro di fiato, e mormorò, stringendo
i pugni: “Tu… tu ti ricordi tutto, non è così?”.
La sua voce gli
sembrò quella di un bambino, che vede qualcosa che ha sentito raccontare nelle
fiabe diventare tangibile davanti ai suoi occhi, eppure non ci crede lo stesso.
Fu uno e trino, in un istante.
C’era, da una parte,
lo scienziato, il pozionista, il saggio: presuntuoso, sicuro, non ingannabile,
imbottito di cifre e calcoli. Quello che aveva studiato quella pozione per mesi
e che ne sapeva ogni effetto collaterale, e che sapeva che non lasciava scampo
alcuno. Il paziente non ritornava mai alla memoria, mai, specie con l’opale
indosso. E la Granger lo indossava ancora, era ben visibile sulle mani livide e
chiuse a pugno.
Dall’altra parte,
c’era l’amante, l’altruista, l’innamorato: sconfitto, vinto, votato al
sacrificio e prostrato dal fallimento. Quello che, pur lottando contro tutto sé
stesso, le aveva dato quella pozione, convinto di donarle una vita migliore, e
che ora doveva bere il calice di constatare che non ci era riuscito, che i
ricordi erano tornati, che lei probabilmente adesso stava peggio di prima e
solo per colpa sua.
E poi c’era Draco,
creatura ritagliata nello spazio lasciato dalle altre: che si sentiva felice
perché quella donna, adesso, ricordava tutto; che riscopriva l’egoismo di
amarla perché tanto la vita stessa gli si era ritorta contro, perché non era
colpa sua se lei adesso ricordava tutto, perché forse era destino non lasciarla
andare. Ma, al contempo, Draco era terrorizzato: perché la donna che era
tornata, non sapeva ancora chi fosse.
Una e trina anche
lei.
Non era la ragazzina
fragile di cui si era innamorato dapprima, quella che non avrebbe avuto quella
forza da uragano negli occhi, non avrebbe stretto così forte i pugni, non
avrebbe usato la voce con tanta facilità, non avrebbe avuto la forza
sufficiente a mostrarsi come appariva: furibonda, furiosa, furente. Specie non
con lui.
Ma non era nemmeno
quella che negli anni con lui si sarebbe arrabbiata spesso, se solo lo avesse
voluto, ma che non l’aveva mai voluto, relegandolo a fumo e vapore. Quella
Granger, salvatrice del mondo, dea della giustizia, eroina magica e strega
brillante, Grifondoro fino al midollo. Quella che era convinto di aver fatto
tornare, quella che amava allo stesso modo dell’altra, ma quella che non
avrebbe mai perso tempo con lui, non avrebbe mai avuto uno scatto emotivo tale
da arrabbiarsi con lui.
E se anche lo avesse
voluto, sarebbe stata furia e basta, come quella volta in cui lo aveva
schiaffeggiato.
Questa Granger
nuova, forte, bellissima… era un’altra… che, della prima, preservava la
dolcezza umida degli occhi, il tremore delle labbra, le spalle piegate, la
piega inconsulta e gentile dell’espressione… ma che dalla seconda, aveva
ereditato la durezza dello sguardo, la posa militaresca, l’orgoglio del viso,
l’ironia nella voce.
Era un ibrido tra le
due… un miracolo, a guardarla bene.
Perché Draco Malfoy,
in lei, guardandola, dissolveva dissidio e mistero.
Amava pure questa
Granger, anche questa: anzi, era la somma di tutto quello che amava delle prime
due. E non sapeva come si fosse meritato di avere la sua esistenza. Forse,
commentò mentalmente, non era una giornata da vendetta divina… ma da giustizia
divina.
Perché questa
Hermione… chissà come e chissà perché… vinceva scienziato ed amante, ed
inventava Draco.
Questa Hermione si
ricordava tutto.
Sprezzante, gli
occhi accesi di furia, Hermione rispose alla sua domanda, spostandosi nervosamente
un ciuffo di capelli ribelle: “Ah bé… se intendi se mi ricordo che l’opale è
una pietra di sigillo di molti incantesimi e pozioni… sì, quello me lo
ricordo…”. Con un sorriso sadico quasi, si sfilò l’anello dal dito e, con un
solo scatto nervoso della mano, lo lanciò lontano, respirando a fatica, rossa
in viso. Draco seguì sconvolto l’ellisse descritta dal cerchio di metallo, che
atterrò dritto nel laghetto alle loro spalle, alzando uno schizzo d’acqua
palustre. Tornò a lei, mentre diceva sarcastica: “Scusami, valeva parecchio?
Non avevo pianificato di gettarlo via… in fondo ci tenevi così tanto che lo
indossassi, al punto da incantarlo… ma quando mi ci metto, sono veramente
teatrale…”.
Ma chi diamine era
questa? Draco la guardò, aggrottando le sopracciglia, mentre Hermione se ne
stava di fronte con le braccia conserte, lo sguardo di sfida acceso. Un’ondata
di rabbia lieve gli bruciò lo stomaco, facendogli desiderare Hermione più di
qualsiasi altro momento della sua vita. Gli venne persino da sorridere, la
mente gliela dipinse moglie e madre che rimproverava un marito che sbuffava, ed
era naturale e bellissimo immaginarla così adesso che del derelitto non aveva
più nulla. Poi si ricordò che questa Hermione sembrava bramare decisamente la
sua testa su un piatto, quindi incrociò le braccia nervosamente e biascicò
severo: “Quando hai recuperato la memoria? Ti ho lasciato che…”.
“Che non ricordavo
nulla, certo,la pozione ha funzionato…”
questa Granger smaniava pure dalla voglia di parlare, lo interruppe
nervosamente non facendolo continuare. Ad ogni pausa del discorso, la furia
sembrava crescerle in petto: “Tutto è evaporato come se non fosse mai esistito.
Mesi e mesi della mia vita che tu ti sei permesso di cancellarmi dalla testa,
come se niente fosse… ma va bene, in fondo ho dimenticato davvero tutto, e
stavo bene, ero felice, ho fatto tante cose, sono andata a mare, a cavallo, in
montagna. Ho studiato, conosciuto gente. Ho scelto di frequentare una scuola
per imparare ad insegnare e mi sono ripresa in mano tutto, tutto. Ed indovina
un po’?”. Hermione glielo chiese davvero, con quell’aria sempre più stravolta,
i capelli spettinati, come se non avesse parlato e basta, ma avesse corso,
lottato, incespicato.
Draco rimase a
braccia conserte, mentre Hermione, tirando su con il naso, sussurrava: “Facevo
una cosa… ed avevo sempre la scomoda sensazione di volerla mostrare a qualcuno.
Mi accadeva qualcosa, e non mi rendeva felice raccontarla ad Harry, a Ron, a
Ginny. Le cose più stupide mi facevano piangere, sentire persa, sentire a
disagio… ed al contempo sentirmi felice, senza motivo. Sentivo sempre un buco
dentro, come quando fori la ruota di una bicicletta, e magari continui a
camminare pure, ma senti quell’insopportabile fruscio che ti distrae dalla
visione del tramonto, del mare, della campagna o di che diamine vuoi… ed allora
sei costretto a fermarti, a guardare, a capire da dove venga quel rumore, che
magari alla prossima curva sbandi e finisci fuori strada…”. Alle sue parole, le
braccia di Draco si erano sciolte, cadendo lungo i fianchi. Il cuore gli
batteva forte in petto, Hermione non lo guardava, sembrava rapita dal laghetto
alle loro spalle. La sua voce aveva deposto livore ed acredine, ed adesso appariva
solo triste: “La notte del 31 luglio, il giorno del compleanno di Harry, quel
buco si è fatto più forte, è diventata una voragine pronta ad inglobarmi. È
successa una cosa scema, stupida, idiota. Eravamo brilli, George ha corretto il
punch alla frutta di nascosto da sua madre, eravamo sul tetto a guardare le
stelle… e loro hanno insistito per volare con le scope, fino ad un paese
vicino, c’era un belvedere con vista sul mare o sulle montagne, non mi ricordo…
e io non ci volevo andare, dicevo che eravamo quasi ubriachi, e tutti mi
prendevano in giro dicendo che io invece ho solo paura di volare. Sbuffando,
offesa, mi sono seduta a cavalcioni su una scopa, già tremando, già temendo,
già preparandomi a dissimulare… ed invece non avevo paura. Affatto. Per nulla.
Di niente. Mi sono gettata a velocità stratosferica, sfiorando le cime degli
alberi, mentre mi urlavano dietro, chiamandomi. E lì è successo. Ginny mi ha
solo detto: “Puoi scendere a terra,
adesso?”. E io ho sentito la mia stessa voce nella testa dirlo una vita fa,
a qualcuno. È stato un ricordo più netto, meno stupido di quelle sensazioni
confuse… e non lo potevo ignorare. Sono scesa a terra, sono corsa via, ancora
sconvolta. Ho capito che era successo qualcosa quando mi sono ricordata della
funzione dell’opale, ho pensato che quella strega che mi hai fatto fintamente
ricordare, mi avesse incantato… e ne ho avuto la conferma quando l’anello non
si sfilava. Distrutta, in preda alla rabbia… ho fatto la sola cosa che mi è
saltata in mente”. Draco l’ascoltò in silenzio, guardandola. Hermione rimise
addosso quello sguardo di sfida silente, tornando ai suoi occhi grigi, prima di
bofonchiare ovvia: “Mi sono tagliata via il dito”.
“C-che cos-sa?”
Draco divenne bianco, osservando Hermione che, con tutta la calma del mondo,
gli mostrava la cicatrice che girava tutt’attorno all’anulare destro. Si era
tagliata via il dito… il 31 luglio… un mese prima che l’effetto della pozione
diventasse permanente. Ecco che era successo. Ecco come ricordava tutto.
“I ricordi sono tornati
tutti assieme…” proseguì piatta Hermione, spostando il peso da una gamba
all’altra, esitante mentre aggiungeva: “Fred, Rookwood, la sua morte, la
troncatura della mia voce… e tu che mi dai la pozione… stavo rischiando di
diventare pazza. Sul serio. Peggio di tutte le altre volte. Se avessi indossato
daccapo l’opale, probabilmente la pozione avrebbe ripreso effetto, ci ho
pensato su non più di cinque secondi. Il dolore mi stava uccidendo… eppure non
ho avuto dubbi…”.
“Su cosa?” ancora
Draco l’osservò atterrito, questa Hermione sapeva anche parlare di Fred
Weasley, ricordarlo, senza perdere la testa. Se non era la pozione… che cosa le
era successo in questi mesi?
“Ho indossato
l’opale di nuovo questa mattina, quando ero certa che la pozione non avrebbe più
avuto effetto…” la voce di Hermione era una lama stoica, dura, aveva il volto
scavato nel ghiaccio “Tu hai fatto tutto da solo, senza badare a me, senza
fidarti di me, senza rispettare me al punto da lasciarmi decidere. Hai giocato
con la mia mente, con i miei ricordi… chi diamine te ne ha dato il diritto, eh,
dimmelo, Malfoy?!. Gli si accapponò la pelle a sentirla parlare così, non aveva
bisogno di urlare o di alzare la voce, se ne stava con i pugni chiusi, a
fissarlo sconvolta, tradita e delusa. E Draco sentiva la propria testa
rovesciarsi come se si fossero messi a scuoterla. Non aveva mai dubitato di
aver fatto la cosa giusta, mai, nemmeno per un istante. Anzi era stato quello a
tenerlo in piedi, a farlo andare avanti. Adesso aveva la beffa di aver fallito,
ma anche che lei vistosamente lo odiasse. Quegli occhi… Draco non se li sarebbe
scordati mai più.
Improvvisamente fu
tutto chiaro ed evidente come se avessero acceso la luce.
Non era stato
altruista come aveva creduto, come si era gloriato di essere. L’egoismo era,
invece, stato decidere al posto suo. Toglierle il diritto di decidere, non
permetterle di scegliere che cosa fare e come essere. In un certo senso, si era
liberato di lei come se fosse una zavorra, come se fosse un peso, come se fosse
diventata troppo da sopportare. E adesso sì, che l’aveva persa sul serio. Draco
raggelò a quel pensiero, fu improvvisamente inverno e notte, sebbene fuori
ancora splendesse il sole e lei fosse ancora davanti a lui, che mormorava,
piangendo: “Questo, io non credo che te lo perdonerò mai, non dovevi farlo… non
a me… ”. Draco si lasciò cadere al suolo, le ginocchia piegate. Si mise una
mano tra i capelli, improvvisamente disperato. Il putrido cadavere che stava
diventando, aveva ragione. Lui non era fatto per amare, era come un re Mida al
contrario: tutto quello che toccava, marciva. E se lo amava, peggio.
Abbattuto, biascicò
solo, con un filo di voce: “Volevo solo… che tu… tornassi quella che sei…”.
Continuò a guardare
in basso l’erba resa danzante dal vento, mentre sentiva Hermione sospirare,
fare qualche passo e poi sedersi accanto a lui. Ne spiò il viso, di nascosto,
lei guardava ancora lontano, gli occhi tremavano lucidi, ma non piangeva più.
Aveva un respiro più calmo, adesso, il volto più roseo e la voce meno stridula
mentre aggiungeva: “C’era un’altra strada. C’è sempre un’altra strada… che è
più difficile, ma proprio perché lo è, vuol dire che è quella giusta. Tu avevi
ragione, Draco, nel tuo goffo modo da bambino viziato. Io ho permesso a me
stessa di lasciarmi andare, di incamminarmi a grandi passi verso la morte, di
non reagire, di bloccarmi nel sollievo di non dover cambiare… e questo non è da
me. E’ stato da te, ad un certo punto… per questo, assieme, è stato così, siamo
riusciti a sorreggerci per tanti mesi… ma non è da me. E adesso non è nemmeno
da te… sei andato avanti anche tu, a tuo modo. Sei venuto qui, stai studiando,
hai scelto un’altra strada. E la cosa più brutta, in tutto questo, è stata
questa… Draco… sapere che avevi deciso di lasciarmi indietro, di liberarti di
me come se fossi un problema, di mettermi sgraziatamente a posto così da non
avermi sulla coscienza…”. Draco, sconvolto, la vide piangere di nuovo,
asciugarsi le lacrime e rifiutare la mano che lui aveva già fatto correre nella
sua direzione, per stringere la sua. Non era questo, dannazione, non era stato
questo… stava andando tutto a puttane con una velocità tale che il piano
inclinato era una bazzecola.
Hermione tornò
velocemente a guardarlo negli occhi, decisa, determinata, sebbene piangesse
ancora, mormorando: “Non è facile, per me, parlare, aprire bocca, usare la mia
voce, andare avanti ugualmente, lo stesso, affastellando sogni e speranze e
rimuovendo dolore e rabbia… ma ce la sto facendo, piano piano. Ci ho messo due
mesi, ma adesso riesco a parlare con tutti. Quasi… non mi capita più di farmi
del male. E gli incubi… li controllo, quasi ce la faccio. E non è facile, non
lo è ancora adesso… ho ancora tanto da fare su me stessa per perdonarmi, per
accettarmi, per volermi bene di nuovo…non sono qui, per caso. La professoressa del tuo progetto, Haylee… è lei
che mi sta aiutando da quando ho rotto l’effetto della pozione, faccio terapia
con lei due volte alla settimana… mi avrebbe preparato la pozione in due
secondi se avessi voluto, stavolta nemmeno l’opale avrei avuto… ma le ho detto
che non la voglio, che il prezzo è troppo alto…quella pozione mi rende felice, ma non mi rende vera, autentica. E mi
apre dentro, peggio di una mela…”, quelle sue parole, dette con quegli occhi,
lo fecero ammattire, gli fecero risorgere amore e desiderio, assopiti nella
colpa di averla incantata. La sentì con una parte remota della sua mente
continuare a dire: “Grazie a lei sono riuscita a fare grandi progressi, di Fred
adesso sanno tutto Harry e Ginny. Chissà se un giorno lo riuscirò a dire anche
a Ron… e poi un giorno, molto probabilmente, se…”.
“Quale è il prezzo
che è troppo alto, Granger?” le chiese, interrompendola, senza preamboli,
stringendola per un polso. Hermione si voltò verso di lui con aria incredula,
meravigliata, incomparabilmente stupita.
Lo disse come se
stesse parlando con un bambino. Lo disse come se stesse spiegando perché il
giorno cede il passo alla notte. Lo disse come se non fosse stato scontato dal
primo momento, che aveva iniziato a parlare.
Lo disse con un
sorriso piccolo, minuscolo, come se stesse valutando la possibilità di
perdonarlo davvero.
Lo disse con il sole
che le feriva le iridi, come quel giorno in infermeria, a settembre dell’anno
prima.
Lo disse,
deridendolo come uno sciocco e ferendolo come un idiota… ma improvvisamente
rendendolo completo, per la prima volta nella sua vita.
“Il prezzo che non
posso permettermi di pagare, sei tu… sei sempre stato tu… posso accettare
persino di ricordare che ho causato la morte di Fred… ma non posso accettare di
dimenticare anche una sola cosa che riguardi te…”.
E Draco, che era
sempre stato egoista, capriccioso, violento persino, si comportò per l’ultima
volta male con lei, con Hermione Granger, con la donna di cui era innamorato.
Le mise una mano dietro la nuca, al contatto con i suoi capelli serici e
lunghi. Hermione strinse le spalle, quasi si impuntò sui piedi, ma quando Draco
l’attrasse più vicina, scontrandosi quasi con il suo viso in un impeto dolce,
abbandonò ogni resistenza, accogliendo la sua bocca sulla sua. Accettò Hermione
quel bacio non chiesto, imposto, comandato, sapendo che era l’ultima volta e
perdonandolo nelle lacrime che versarono assieme, l’uno sul viso dell’altra.
Draco la baciava con ansia febbrile, piangendo, singhiozzando, figlio che
chiede perdono e uomo che lo ottiene, saggiava la sua bocca con morbida
esperienza, scoprendone ogni particolare che adesso strappava al passato di
chiunque l’avesse toccata e baciata, per sigillarselo nel futuro. Giocava con
la sua lingua senza fretta, e d’improvviso tutto si riconciliava, saldandosi di
fuoco dentro di lui: ogni cosa andava a posto, ogni cosa trovava il suo posto e
tutto, tutto, sembrava essere nato per baciarsi così. Hermione chiuse le sue
spalle con le braccia, piangeva e mormorava il suo nome, e lo confondeva alle
promesse d’amore, e giurava l’amore ricambiato, e scivolava al suolo sotto di
lui, e intrecciava le dita con le sue, e lasciava che l’erba catturasse i
capelli, e concedeva a Draco il profilo di un seno da seguire con le labbra, e
gli si apriva dolce, e non conosceva vergogna e pudore, e gemeva piano sudata,
respirando sulla sua spalla, chiamando il suo nome, spalancando gli occhi alla
luce del sole, e poi chiudendoli di scatto, nel bacio che lui le dava
nell’estasi del corpo e nel riposo della mente. Se la strinse addosso per ore,
in quel parco deserto, coprendola con il suo mantello e baciandole la fronte.
Hermione non faceva nulla se non restare ad occhi chiusi, sorridere ogni tanto
ed appisolarsi, per poi disegnare cerchi sulla pelle del braccio scoperto di
lui. L’alba gli sorprese assieme, rendendo il cielo una collezione di nastri
multicolore, nessuno li aveva cercati e loro nessuno avevano cercato, ebbri
della presenza l’uno dell’altra.
Mentre un raggio di
sole le colorava il viso, Hermione fece una smorfia infastidita da bambina,
Draco le baciò la punta del naso e lei parve quasi ricordarsi una cosa
importante, alzando la testa verso di lui e guardandolo fisso negli occhi.
Sussurrò, una lacrima dispettosa negli occhi cervoni: “Se non l’avessi capito…
ti ho perdonato… ma non farmi mai più una cosa del genere, per favore… in tutto
questo… caos… di una sola cosa sono
sicura: te. Sono maledettamente e stupidamente innamorata di te…”.
Le sorrise,
baciandola ancora, senza parlare, senza dirle nient’altro. Un germe di lei,
incerto come una primavera confusa, era sempre esistito ed adesso si preparava
a fruttificare e a mettere foglie nuove.
Non c’era bisogno
che lo dicesse, che gli dicesse di amarlo.
Stava tornando
logorroica e verbosa come sempre era stata, come sempre aveva adorato che
fosse. Ma, tra loro, non ce ne era bisogno. Non ce n’era mai stato.
Gli aveva confessato
di amarlo, gridando il suo nome, soffocandolo sulla sua spalla, mentre facevano
l’amore.
Le aveva augurato
una vita urlata…
… senza sapere che
sarebbe stato con lui che l’avrebbe vissuta.
La vita, quando è
vera e non artefatta, non è mai semplice.
Per dieci anni
Hermione Granger dovette lottare contro i fantasmi nella sua mente: nonostante
la terapia due volte alla settimana a Saint Suliac, continuò ad avere ricadute,
passava giornate di malinconia estrema, piangeva in modo febbrile e non era mai
compiutamente a posto con sé stessa.
Per dieci anni,
evitò il primo aprile, chiudendosi in una stanza al buio, senza vedere nessuno
eccetto Draco.
Ma, come quando si
impara a camminare, Hermione Granger a piccoli passi si riprese sé stessa:
divenne un insegnante, raccontò tutta la verità ai suoi amici e a Ron, si
impose ogni giorno di combattere e vivere.
Per l’uomo che aveva
accanto, Draco Malfoy, che, nonostante sapeva che con una pozione, ogni sua
ombra sarebbe scomparsa, non ci pensò mai più. Amava di lei luce ed ombra, sole
e luna, stelle e nebbia.
E di ogni suo sforzo
ed impegno, ci vedeva amore per lui e riconoscenza per Dio.
Dovette ad un certo
punto dividere quell’amore, e fu come se esso raddoppiasse, ed alla fine ne
avesse la stessa parte di prima: lo dovette dividere con una bimba bionda,
dagli occhi castani, che si chiamava come la dottoressa di Hermione e la
professoressa del suo progetto.
Haylee Serena
Malfoy.
Fu sua figlia Haylee
a guarire Hermione davvero: perché se la vita ti dona una figlia nel giorno del
compleanno della persona che hai condannato innocente, allora forse sei stata
perdonata.
Ed allora sei tu
stessa a perdonarti.
Anni dopo, Draco Malfoy, padre di
famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un caminetto spento in una
calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un cane accoccolato ai suoi
piedi, la finestra aperta sul mare.
Ed una figlia, bellissima,
intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un baule pieno di
vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono ai giochi di
una decenne annoiata.
Avrebbe sorriso ed avrebbe annuito,
e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio di anni passati,
avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza da quarantenne,
il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e vaniglia. Il
sapore e l’odore dell’uragano.
Haylee avrebbe
spiato l’espressione di suo padre ed avrebbe chiesto spensierata: “Perché
sorridi, papà?”.
Prima ancora di
rispondere, Hermione sarebbe spuntata dalla cucina, una pila di compiti da
correggere e un paio di occhiali calati sul naso a darle l’aria di un gufo
buffo, appena svegliatosi. Avrebbe guardato quella camicia, la stessa che
indossava tanti anni prima, ed avrebbe sorriso anche lei. Haylee non avrebbe
capito il motivo di quei sorrisi, avrebbe sbuffato annoiata, reclamando
attenzione.
“Niente, tesoro… a
papà ricorda l’unico periodo della sua vita in cui la mamma non si dava pena di
rispondergli male, se la faceva arrabbiare… da quel momento in poi, non ha
avuto più quell’onore…”.
Haylee avrebbe
guardato i suoi genitori, senza capire, riprendendo a giocare con il suo
cagnolino.
Un giorno, lontano,
avrebbe capito che, se si scherza sul dolore, il male viene sconfitto.
Sua madre finalmente
era libera, sorrideva alla fronte aggrottata del marito, che la guardava
storto.
Concedendole di non
risponderle piccato per una volta.
Da domani, come
sempre, non avrebbe più avuto quell’onore.