Avventure alla luce di mezzanotte

di Chi no Yuuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disavventure Parte I ***
Capitolo 2: *** Disavventure Parte II ***
Capitolo 3: *** Sogno ***
Capitolo 4: *** novità ***
Capitolo 5: *** Problemi ***
Capitolo 6: *** uomini del re ***



Capitolo 1
*** Disavventure Parte I ***


Il cielo grigio fuori dalla finestra prometteva pioggia. Mi rintanai sorridente sotto la coperta pesante, sapendo che avrei passato la giornata al coperto in quelle quattro mura grigie, e rimasi a guardare il cielo.

Ero nata lì, abbandonata da una madre irresponsabile e forse troppo giovane, ad una gruppo di sacerdotesse della Dea votato al servizio della vita in tutte le sue forme. Avevo studiato per anni presso di loro con altre orfane come me e alcune apprendiste. Ora, terminati gli studi basilari dovevo decidere del mio futuro.

Le sacerdotesse hanno due scelte, una volta giunte a questo punto: rimanere nubili a vita, o trovare un compagno tra i guerrieri.

Solo per essere precise, i guerrieri, sono i nostri aitanti vicini di casa; fanno parte di un ordine sacerdotale, esclusivamente maschile che provvede alla difesa delle sacerdotesse della Dea, e, a dirla tutta, anche a fare i lavori pesanti.

Fortunatamente  noi orfane siamo più libere, non abbiamo fatto alcun giuramento, né alcuna scelta sacerdotale, quindi abbiamo la possibilità di vivere con e come le sacerdotesse, purché prestiamo servizio un paio di volte a settimana, senza però vivere il nubilato o il matrimonio obbligato.

Quando mi vide sveglia, Mariae, un cucciolo di gatto che avevo salvato dalla strada tempo prima, saltò sul letto e s’infilo sotto le coperte insieme a me, facendo le fusa. Era un piccolo, tenero ammasso di pelo, e adoravo averla attorno. Se una delle sacerdotesse ci avesse viste così, ancora in pigiama e pigramente distese, si sarebbe certamente arrabbiata: “La pigrizia non è nei valori delle sacerdotesse. Il riposo è per le ore notturne, dall’alba al tramonto bisogna lavorare”, avrebbe detto.

La campana della sveglia suonò, precisa come ogni mattina.

Mi alzai, preparandomi per le ore di apprendistato e lavoro in giro per i laboratori delle sacerdotesse. Indossai la divisa delle Accolite, così erano chiamate le ragazze nella mia medesima condizione.

Vestii l’abito lungo, il corsetto e il giacchino; indossai le scarpe e legai i capelli secondo le regole.

Quando fui pronta uscii ed andai a mensa. Strada facendo incontrai un gruppetto di Accolite che seguivano il mio stesso percorso. Riconobbi immediatamente quelle che potrei definire le mie sorelle adottive, due ragazze molto diverse tra loro.

Cassandra e Ashley erano le mie compagne da sempre, eravamo cresciute insieme, fidandoci sempre l’una delle altre.

Le guardai. Cassandra aveva corti capelli biondo scuro, quasi castani, da cui spuntava un unico codino lungo sino a metà schiena. Era una ragazza di buon cuore, ma istintiva ed imprevedibile.

Ashley era tutt’altra cosa: bionda, occhi chiari e un carattere non facile. Da quasi un anno era la compagna del mio fratello naturale, Daniel.

Arrivammo in sala mensa, e prendemmo come al solito posto accanto alle finestre a ovest. La colazione era già stata servita dalle inservienti: latte freddo, cereali, miele burro e fette di pane scuro.

Cominciammo a mangiare, vivendo nella convinzione che quella giornata sarebbe stata come le altre, ma dovemmo cambiare idea.

All’improvviso, mentre eravamo tutte radunate lì, ridendo, scherzando e preparandoci ad una giornata di lavoro, la terra tremò e si udì un rumore così forte che i vetri andarono in frantumi. Sembrava il rombo di un tuono. Ma quale fenomeno naturale poteva aver causato simili danni? Quella non era la natura che le sacerdotesse amavano e proteggevano. Quello era molto di più.

≈ ≈ ≈

Il soffitto crollò. Nessuno si era aspettato un attacco, né tantomeno uno di quella portata. Mi guardai attorno, Cassandra e Ashley erano sotto il robusto tavolo di legno lì con me. Il terrore che una vera e propria guerra fosse in atto serpeggiò tra noi che invano cercavamo di darci coraggio.

Ben presto arrivò qualcun altro sotto il tavolo. Era Daniel.

- dovete andarvene, non resisteremo ancora allungo. I gruppi sacerdotali si divideranno e andranno a dare man forte alle sedi di confine. Voi andrete a Nord-Ovest, appena sarà possibile vi raggiungerò. -

Lo guardammo come se venisse da un altro pianeta.

- cosa diamine ti salta in mente! -  gli urlai contro mentre mio fratello mi spingeva fuori dal nascondiglio.

- avete meno di venti minuti per raccogliere tutte le vostre cose. All’uscita Nord vi aspetta un mezzo sicuro per il viaggio, dovrei essere lì per pilotarlo. Se non dovessi arrivare entro dieci minuti, partite: ho inserito il pilota automatico . - continuò lui come se non avesse udito null’altro.

Eravamo ormai nel corridoio del dormitorio quando un urlo agghiacciante ci bloccò.

Daniel estrasse la spada dal fodero, preparandosi ad affrontare qualsiasi creatura fosse spuntata da dietro l’angolo; ci spinse dietro di sé, incitandoci ad andare.

Corremmo lungo il corridoio verso le rispettive camere.

Non appena fui rientrata nella mia piccola e caotica tana presi una grande sacca di cuoio infilandoci dentro abiti ed oggetti fondamentali per un lungo viaggio. Riempii poi un piccolo cesto di vimini con cibo e acqua. Indossai un mantello spesso e impermeabile; sulla spalla nascosi Mariae e nella mano libera strinsi uno stiletto.

Corsi fuori dalla mia stanza attraversai i corridoi guadagnando lentamente l’uscita. Ad ogni rumore mi nascondevo dietro una colonna o dietro la mobilia; ogni ombra era un mostro, ogni movimento una corsa contro il tempo e contro il fato. Davanti a me, dopo il percorso a ostacoli nei corridoi, si stendeva lo spiazzo verde antistante l’edificio, l’ostacolo più difficile da superare. La mia meta era lo Skyran fermo a motori spenti proprio al centro dello spiazzo. Pregai con tutto il cuore di passare inosservata agli occhi dei miei nemici.

Nemici? Quali nemici? Non avevo idea di chi o di cosa stessimo combattendo. Diamine, non sapevo nemmeno se  ci fosse un combattimento in atto o se la nostra sarebbe stata solo un’inutile fuga da qualcosa che non potevamo controllare.

Dall’esterno lo Skyran somigliava ad una grossa punta di freccia: nella parte anteriore era posta la cabina di pilotaggio. Da quel punto in poi la forma andava allargandosi, all’interno, in corrispondenza delle piccole finestrelle appena visibili da dove mi trovavo, erano poste quattro camere; una minuscola sala macchine al centro e un serbatoio per il carburante ben protetto nel ventre del veicolo.

Raggiunsi il mio mezzo di salvezza e vi salii senza esitare un secondo di più. Mi accolse la domanda più frequente nella mia vita, non che la più fastidiosa: - dov’è Daniel? - tutti cercavano sempre mio fratello, ma io non ero, non sono e non sarò mai il radar in grado di trovarlo ovunque egli sia! Cassandra, insensibile alle preoccupazioni di Ashley e ai miei monologhi interiori, avviò i motori.

 Il mio tanto sospirato ed eroico fratello entrò un secondo prima che il veicolo staccasse il carrello da terra e fosse pronto al decollo. Un fulmine attraversò teatralmente il celo plumbeo. Perché i momenti drammatici devono sempre essere accompagnati da un temporale in grande stile?

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Capitolo 2
*** Disavventure Parte II ***


Il veicolo partì, sorvolò silenziosamente quell’ammasso di macerie fumanti che era stata la nostra casa per una vita intera, sebbene non avessimo vissuto ancora molto. Degli assalitori non restava alcuna traccia. Possibile che non avessero subito alcuna perdita? Come erano arrivati lì, se non c’erano segni dell’ atterraggio di alcun mezzo?
Ci allontanammo da quelle immagini dolorose, sorvolando i boschi. Tutto era un mare di verde, pacifico, sereno, alberi e prati si rincorrevano lungo la via, lasciando che la tristezza ci scivolasse addosso così che potessimo ammirare i prodigi di Natura.
Trascorremmo dei giorni di viaggio silenziosi tra le piccole mura dello Skyran, e solo dopo che le nostre menti cominciarono ad urlare per la monotonia quotidiana, decidemmo di scendere a terra e fermarci qualche giorno prima di ripartire.
-scendiamo qui- propose Cassandra scegliendo una splendida radura circondata da alberi. Il verde dell’erba era così brillante, il profumo di terra bagnata penetrante al punto giusto, la temperatura perfetta e c’era persino un raggio di sole ad illuminare il tutto: l’unico su chilometri e chilometri di verde. Sembrava il paradiso, e invece era la porta dell’inferno, o del destino, chissà, la luce sulla testa della rana pescatrice. Non sapevamo cosa avremmo dovuto affrontare e così volevamo fare il pieno di energie in quell’oasi per essere pronti ad ogni evenienza.
Quanto ci sbagliavamo: quella era solo la prima delle nostre disavventure.
-quanto manca alla meta?- chiesi oziosamente distesa.
-due o tre giorni di viaggio credo- mi rispose Daniel dall’altro lato della radura, sbadigliando.
-non ne posso più, vediamo di arrivare in fretta a poggiare definitivamente i piedi per terra, non sopporto quell’aggeggio malefico che ci porta a spasso nel cielo!- sentenziò Cassandra sbuffando rumorosamente. Ridemmo di gusto, la nostra coraggiosissima Cass odiava volare, aveva quasi il terrore dello Skyran, che definiva infernale e inaffidabile.
Mi ero appena appisolata quando un grido acuto ruppe il silenzio ovattato del luogo. Ci voltammo in direzione di chi aveva osato interrompere il nostro riposo e vedemmo Ashley avvolta da una grossa liana appesa ad un albero. Sotto i nostri occhi inorriditi il tronco si aprì, rivelando un ventre buio e cavo, e inghiottì la nostra amica. La trappola era scattata.
Possibile che fosse sempre colpa sua? Per tutta l’infanzia ogni singolo guaio in cui ci eravamo cacciati aveva sempre a che fare con lei!
Altre liane spuntarono da ogni dove, altri tronchi rivelarono le loro avide cavità, la radici si spostarono con sinistri scricchiolii. Non avemmo il tempo di reagire, prima di poterci organizzare fummo catturati. Degli aghi iniettarono qualcosa dentro di noi, e il mondo divenne nero.
≈ ≈ ≈
 
Il mio mondo era freddo, umido, odorava di chiuso e di erbe; qualcosa mi stringeva come se fossi una crisalide nel suo bozzolo, solo che non mi sentivo ‘a casa’, e la stretta aumentava dolorosamente ad ogni accenno di movimento. Mi guardai attorno per quanto possibile, ricordavo la radura, l’urlo, le liane, il dolore e poi nulla più. Daniel sembrava l’unico oltre a me ad essere già sveglio; si muoveva in modo strano, proprio come un grosso bruco infelice. Mi guardò, e sorrise. Quando tentai ancora di muovermi fece segno di ‘no’ con la testa, vigorosamente, poi sibilò: -muoviti lentamente e solo se strettamente necessario; non fare gesti superflui e non parlare ad al alta voce.- io annuii. Le sue labbra mimarono nel buio: ‘armi’ ed io capii con un sorriso complice che non eravamo disarmati. Il tacito piano tra noi era di afferrare le armi, muovendoci con cautela, e di liberarci delle liane, poi fuggire. Ero curiosa e spaventata all’idea di incontrare faccia a faccia le creature che ci avevano fatto prigionieri: per poter vivere in quel buio e umido posto, dovevano essersi indubbiamente adattati, ma come? Era quella la questione che più mi tormentava; cosa mi sarei trovata davanti?
Quasi un’ora dopo, eravamo tutti e tre svegli. Tre, poiché non sapevamo dove fosse finita Ashley. La visibilità pressoché nulla all’interno di quel posto rendeva le cose complicate. D’un tratto si accesero quattro luci, accecandoci.
 Quando ci fummo abituati, notammo che non erano simili né a fiamme né a raggi solari, quanto piuttosto a fuochi fatui; e quella non era l’unica stranezza del posto.
Tutt’attorno a noi erano disposte tecnologie di vario genere, ma dalla funzione, per noi, ignota. A pochi passi, stesa su una corteccia ricurva, cosciente ma legata, c’era la nostra amica; uno strano luccichio le illuminava gli occhi, ma probabilmente ci feci caso solo io, e non senza motivo. Infatti ad attirare l’attenzione dei miei compagni erano le creature deformi che uscivano, proprio in quel momento, da un foro nella parete di terra e radici. Le loro forme erano indubbiamente umane, ma i loro corpi, dai movimenti rigidi, sembravano fatti di muschio, corteccia, su quello che doveva essere il cranio non avevano altro che una lanugine giallo-verdognola, e gli occhi erano due fessure giallo scuro senza iride né pupilla.
Inorridii, pensando a cosa dovevano essere state quelle creature in altri tempi, e cosa saremmo potuti diventare tutti noi se fossimo rimasti lì un secondo di più. Quegli esseri, in altro modo non saprei definirli, mutarono le estremità superiori del loro corpo, ciò che avevano di più simile a delle mani, in lame.
Un brivido gelido mi corse lungo la schiena.
Daniel fu il primo a reagire, liberandosi con un taglio netto, del bozzolo in cui era avvolto, e lanciandosi a liberare Ashley. Io e Cassandra facemmo lo stesso, recuperando poi le armi. Nessuna di quelle creature si aspettava una reazione, ecco perché, forse, non ci avevano spogliati nemmeno delle luxcreatae, utilissimi cristalli che se sfregati tra loro prendono fuoco. Ne lanciai un paio appena prima che sopra le nostre teste si aprisse un varco e nella sala entrasse un largo fascio di luce solare, che ci fece ben sperare.
Avevo, ancora una volta, parlato troppo presto.
Da quel varco ci furono gettati addosso centinaia di insetti la cui specie però, come tutto in quel posto, ci era sconosciuta: viscide creaturine lunghe un palmo di colore brunastro che fu difficile scrollarsi di dosso.
 Le luxcreatae tennero lontano gli uomini-pianta mentre noi quattro ci lanciavamo fuori da quel luogo orribile.
Fuori la situazione non era molto diversa da quella nel cunicolo. Altri uomini-pianta, a decine, facevano di tutto per tenerci in prossimità del buco dal quale eravamo usciti, facevano di tutto per spingerci di nuovo dentro. Fortunatamente per noi non sembravano creature troppo furbe. Più volte riuscimmo ad aprirci un varco nel muro di corteccia e muschio che avevano formato. Lasciavano che le luxcreatae gli arrivassero addosso e incendiassero il muschio che li ricopriva, sfrigolando e fumando a causa dell’umidità. Si lasciavano accecare dal sole; era evidente che non erano stati creati per combattere. Il problema stava però nel loro numero: all’inizio erano solo un paio di decine, ma ogni volta che ne riuscivamo ad aprirci un varco, ne spuntavano altri dai tronchi e dal terreno come funghi a rimpiazzare i caduti.
Ci mettemmo parecchio ad aprirci un varco che durasse più di qualche secondo. Sul terreno i corpi senza vita degli uomini-pianta coprivano l’erba verde che ci aveva adescati laggiù. La scena era decisamente strana: i loro corpi non davano l’idea di cadaveri, era come se morendo si fossero ricongiunti col terreno. Tutto sembrava coperto di tronchi e muschio, come se un fulmine avesse abbattuto in un sol colpo una piccola cerchia di alberi.
 Salimmo a bordo dello Skyran senza esitazione, mettendo in moto il prima possibile; puntammo il pilota automatico verso la sede del corpo di guardia del nord ovest, poi decidemmo di dare un’occhiata alla nostra preoccupante situazione.
Sembravamo quattro giovani con un disperato bisogno di aiuto, e molto probabilmente lo eravamo davvero: coperti di fango e linfa, con gli abiti laceri, feriti e storditi, non eravamo altro che dei fuggiaschi. A turno, senza parlare ci lavammo nell’unico, piccolo, bagno del mezzo, barcollammo sino alle brande e ci addormentammo.
 
≈ ≈ ≈
 
Il giorno seguente intravedemmo dalla cabina di pilotaggio un torrente, e decidemmo di fermarci. Atterrammo su un piccolo spazio erboso. I nervi a fior di pelle non ci permisero di godere del paesaggio sereno né del bel tempo che ci faceva visita dopo essersi fatto tanto desiderare. Per la prima volta ci guardammo in volto, e prendemmo coscienza dell’accaduto. Eravamo spaventati, tesi e pronti a scattare al minimo segnale di pericolo; il non sapere cosa ci aveva catturati e l’incertezza del futuro ci stavano lentamente logorando.
Il senso pratico di guerriero di mio fratello ebbe il sopravvento e certamente ci salvò da una lenta agonia.
-dobbiamo controllare le ferite, e ripartire quanto prima, più ci fermiamo più sarà facile per loro localizzarci.- disse, e si sfilò la casacca per dare l’esempio. Tutte noi facemmo lo stesso, rimanendo con indosso solo il corpetto di pelle ed un paio di sottili calzoni. Senza alcun imbarazzo, poiché ci conoscevamo sin da bambini, controllammo l’uno i corpi degli altri.
Nessuno di noi sembrava avere ferite, eppure ricordavamo bene il combattimento, i graffi e soprattutto i morsi di quegli strani insetti e i fori lasciati dalle spine presenti sulle liane con cui ci avevano legati.
A nessuno di noi sembrava possibile una guarigione tanto precoce, eppure non sapevamo dare spiegazioni logiche a quel fenomeno.
Una spiegazione in effetti c’era, ma non volevamo prenderne atto. Quelle creature avevano cambiato qualcosa nel nostro organismo, non solo Ashley, infatti, aveva qualcosa di strano.
La paura serpeggiò tra noi, e un fruscio ci fece scattare come delle molle. Ci lavammo quanto più velocemente possibile nell’acqua gelida del torrente, ci rivestimmo, riempiemmo le borracce con acqua fresca e ripartimmo a tutta velocità. Vedere il paesaggio che sfrecciava sotto di noi ci faceva credere di poterci allontanare alla stessa velocità dalle nostre paure; ma alle proprie paure non si sfugge mai, l’unica soluzione è affrontarle.
-rallenta! Rallenta! Dannazione Daniel rallenta i motori, qualcosa non va!- urlai contro mio fratello che ridusse la velocità tanto repentinamente che Cassandra finì per terra con un imprecazione degna di un uomo di taverna.
-Cassandra!- la bacchettò l’altra mia amica, e lei le ringhiò contro un altro improperio; era proprio nervosa. Risi, beccandomi un’occhiataccia da entrambe.
-Allora? Cosa c’è che non va?- mi chiese, il pratico e sempre presente a sè stesso, Daniel.
-guarda la mappa, segnala colline coltivate e villaggi, ma sotto di noi…- non terminai la frase. Avevo notato che il paesaggio non era quello segnalato dalla mappa, ma non mi ero presa la briga di guardare quanto fosse differente!
Sotto di noi si estendeva una foresta di strani alberi dalla foglie palmate con bordi seghettati di colore grigio o viola a seconda degli alberi. Queste piante mai viste sembravano seguire i nostri movimenti tendendo le foglie verso lo Skyran.
-Accelera! Accelera! Dannazione Daniel Accelera!- gli urlai ancora, contraddicendomi. Non volevo avere a che fare con altre piante in movimento, ne avevo già avuto abbastanza.
Decidemmo di tacito accordo di far finta di nulla e di andare a riposare a turno. Ero talmente scossa da quella visione che mi lanciai verso la mia brandina e mi addormentai raggomitolata attorno a Mariae che non sapevo bene come, ma sembrava essersi messa in salvo prima della nostra disavventura. Sognai.

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Capitolo 3
*** Sogno ***


-Elinor… Elinor- qualcuno mi chiamava. Mi guardai intorno, alla ricerca del proprietario di quella voce che però sembrava provenire semplicemente dall’ambiente circostante. Mi accorsi solo in quel momento di essere appollaiata su un grosso ramo; tutt’attorno a me c’erano alberi, buio e nebbia. Ero spaventata, sentivo che qualcosa strisciava nell’ombra attorno a me, che mi osservava, che mi voleva e avevo una dannatissima, gelida, paura. Un paio di occhi grandi e gialli mi comparvero davanti, accanto ad essi, come se nascessero dalla nebbia che celava il resto dei loro corpi, ne comparvero un paio verdi,  ed un paio grigi. Terrorizzata e fuori controllo cominciai a strisciare lungo il ramo, finchè non si ruppe ed io caddi giù.
Atterrai senza alcun dolore su un tappeto di erba morbida e umida e credetti, nell’illusione di un secondo, di essere salva, ma le tre paia di occhi ricomparvero. Lentamente come se fossero fatti di nebbia, i corpi di quelle creature emersero dal buio e cominciarono a girarmi attorno: squali attorno alla preda. La nebbia vischiosa, densa, avvolgeva ogni cosa, staccandosi dai corpi e fluttuandovi attorno in un’atmosfera da racconto dell’orrore. Ero bagnata, immersa in quella foschia bianchiccia da cui pensavo che non sarei mai più uscita.
Dal nulla, all’improvviso, quella voce parlò ancora. il timbro non mi era più estraneo come all’inizio, cominciavo a ricordare dove avevo già sentito quel suono.
La creatura strascicava un po’ la ‘s’ e la ‘r’ rendendo il modo di parlare simile ad un costante frusciare di foglie, piacevole e inquietante allo stesso tempo.
Guardai le tre figure sinuose che mi si ponevano davanti, ravvicinando i loro corpi asciutti e muscolosi a quelli di animali che già conoscevo, sebbene questo non mi desse la sicurezza sperata. Di fronte a me stavano, finalmente sedute e ferme, tre femmine di felino. Come sapevo che erano femmine? Lo sentivo, se loro erano realmente parte di me, quello era il momento giusto per averne una prova.
Erano tre creature magnifiche, grandi quanto dei robusti pony da tiro, con il mantello lucido, gli occhi vispi e attenti e le zampe poderose. Una delle tre, la leonessa bianca dagli occhi gialli mi fissava, doveva appartenere a lei quella voce. mi disse, ed io allora cominciai a capire qualcosa in più.
Studiai dapprima la leonessa. Negli occhi giallo dorati fluttuavano pagliuzze color onice e raggi arancio partivano dalla pupilla per diffondersi nell’iride. Il mantello appariva particolarmente morbido, ma non era bianco come mi era parso di vedere, bensì color panna con sfumature d’oro puro ad illuminarlo. Era indubbiamente bellissima, ma non riuscii a sceglierla; non capivo cosa in lei mi preoccupasse, finchè non tornai a guardarla negli occhi. Sebbene il loro colore fosse caldo e rassicurante, l’espressione era gelida, calcolatrice e crudele. In quegli occhi mi rividi pugnalare al petto, senza rimorso e col sorriso il mio primo nemico. Amavo combattere, lo avevo sempre amato, e la crudeltà faceva parte di me. La leonessa faceva parte di me.
Spaventata da me stessa spostai lo sguardo sulla seconda figura, sperando di trovarvi qualcosa di migliore, una parte migliore di me. Aveva gli occhi grigi, come il cielo quando è ancora indeciso, quando ancora le nuvole non sono scure, ma non sono nemmeno più bianche ormai. Piccoli diamanti candidi e brillanti punteggiavano quel grigio, rendendolo magnetico ed attraente. Spostai lo sguardo sul mantello e le mie labbra disegnarono una piccola “o” di stupore. Era nero, non come la notte punteggiata di stelle, non come un abisso nel quale la luce riesce a penetrare, no; quel mantello era nerocome il buio. Assorbiva la luce voracemente, quasi avesse fame di essa. Era una gioia per gli occhi vederla, di lei ci si sarebbe innamorati, e lei lo sapeva. Vanitosamente si sollevò a quattro zampe, fece un giro su se stessa, mostrandomi quanto potesse risultare bella, arricciò la coda, mosse i fianchi sinuosi e tornò al suo posto. Anche quell’immagine richiamava alla mente vecchi episodi della mia vita. Mi rividi, qualche anno prima, a pavoneggiarmi davanti agli amici di  mio fratello, attraendoli per poi rifiutarli ad uno ad uno. Crudeltà e vanità.
Sconsolata mi voltai ancora. La terza e ultima figura era una tigre. Sentivo il suo sguardo puntato addosso, come se già sapesse che ero destinata a scegliere lei.
I sogni non sbagliano mai.
ille sfumature di verde si muovevano in quei grandi occhi rotondi. Il mantello era una fusione dei due precedenti, fondo bianco e strisce nere che sembravano nutrirsi l’uno delle altre. Il nero profondo catturava la luce del bianco, che, punteggiato di piccoli diamanti, sembrava emanare luce propria. Aveva indubbiamente la bellezza. La muscolatura era possente, le zampe grandi quanto la mia mano. Nei suoi occhi si leggeva la determinazione, la voglia di vivere e di combattere. Aveva la forza.
Nei suoi occhi vidi ciò che volevo essere.
Rimanemmo sole, io e lei, a fissarci per qualche secondo.
D’improvviso caricò sulle zampe posteriori e con un ruggito, il più possente che avessi mai sentito, mi si avventò addosso. Non sentii alcun impatto, ma i miei occhi videro finalmente, dopo la penombra del sogno, la luce.

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Capitolo 4
*** novità ***


-Elinor sveglia!-
Qualcuno mi stava scrollando con una certa violenza.
 Mugugnai qualcosa, forse un improperio per essere stata svegliata. Non mi sentivo affatto riposata come avrei dovuto. Avevo dolore un po’ ovunque, come se mi fossero passati addosso con dei sassi. Aprii un occhio e fu arduo mettere a fuoco quello che stavo vedendo e collegarlo con quello che la mia mente credeva di conoscere.
Ricordavo il sogno in maniera vivida, tanto vivida che avevo l’impressione che qualcosa di molto simile ad un animale stesse parlando con la voce della mia amica Cassandra.
-oh natura divina!- strillò lei quando aprii entrambi gli occhi e la luce, filtrando dalla finestra della mia camera, illuminò il mio viso.
-non strillare!- sibilai. La luce mi faceva male agli occhi, la voce sembrava troppo alta, o forse le mie orecchie erano diventate troppo sensibili.
Cassandra mi porse uno specchio, perche io vedessi cosa l’aveva spaventata.
Riflessa, davanti a me, non c’ero io, ma qualcuno con una vaga somiglianza con me.
La mia pelle già chiara era diafana, i capelli avevano quella tonalità di nero che somigliava al buio e gli occhi erano quelli della tigre. Un momento … la tigre?
Non poteva essere possibile.
-ho fatto un sogno stranissimo sta notte Cass …- esordii, ma lei mi interruppe immediatamente.
-lo abbiamo fatto tutti, nessuno escluso … guardami, ti sembro la solita Cass?- mi chiese retorica, ed io la guardai meglio, facendo in modo che la mia memoria di lei non si sovrapponesse con l’immagine reale.
-Ashley è sveglia, e né lei né tuo fratello sono stati risparmiati da questo cambiamento. Lei sa cos’è stato a farci fare quel sogno: è il veleno di quella specie di insetti che ci siamo ritrovati addosso, cambia le persone, avvicinando la loro strutture fisica a quella dell’animale che più le rappresenta.-
Ritornai a guardare la mia amica, annotandone a mente i cambiamenti. Quello più vistoso era al colore degli occhi e dei capelli: il castano del suo particolare taglio era divenuto rosso cupo, ed il marrone profondo dei suoi occhi ora era giallo. Anche la forma di questi ultimi era cambiata divenendo più allungata ed orientaleggiante. Fece un giro su se stessa, sebbene non fosse mai stata vanitosa.
-non mi sono mai sentita a mio agio come in queste nuove vesti Elinor, anche se sento che il mio nome non mi sta più bene. In fondo non sono più la stessa!- si limitò ad esclamare prima di andar via.
Dal corridoio mi giunsero le sue ultime parole -siamo arrivati, sbrigati a scendere o la zuppa la finisco io!- poi una risata.
Raccolsi saltellando felice le mie cose, e più volte chiamai Mariae, ma senza successo. Doveva venir fuori, e alla svelta! Lo Skyran sarebbe presto diventato un modellino delle dimensioni di un palmo, e lei non sarebbe sopravvissuta se non fosse uscita di lì immediatamente. All’ennesimo richiamo, un’ombra si mosse in un angolo, facendomi venire la pelle d’oca dalla paura. Ero pietrificata, non avevo né forze né voglia per lottare, e sapere che avevo dormito con una creatura a me sconosciuta nella stanza, completamente alla sua mercé mi fece rabbrividire ancora di più. Un lampo bianco e nero attraversò il mio campo visivo e mi atterrò in braccio gettandomi a terra. Ecco spiegato il mistero! Mariae era diventata un grosso e muscoloso cucciolo di tigre.
Scioccata dagli ultimi eventi mi trascinai fuori.
Ero l’ultima della nostra piccola carovana ed ebbi modo di studiare il luogo durante la discesa dal mezzo. Ci trovavamo sul fondo di un profondo cratere, circondato dalle montagne disposte ad anello a fare da muraglia. Attorno a noi si aprivano decine di fessure: le porte delle case dei guardiani del luogo.
Ci condussero in una grande sala tonda, con quattro letti, quattro separé posti contro le pareti, un grande tavolo imbandito al centro e un paio di finestre protette da grate.
Io ed i miei compagni vi entrammo, e sistemammo le nostre cose sui rispettivi letti. Un uomo abbigliato da soldato ci disse con un sorriso mesto ma cordiale:
Stanchi e affamati, ci gettammo sul cibo, più voraci di uno sciame di locuste. A fine pasto ci fissammo senza dire una parola. Vidi per la prima volta da quella memorabile notte mio fratello e le sua compagna. Daniel aveva mantenuto i suoi splendidi capelli neri lunghi fin abbondantemente sotto la nuca, ma i suoi occhi erano diventati color delle nuvole nel cielo d’autunno con lampi gialli fluttuanti in quel mare delineato da un orizzonte nero attorno all’iride. Ashley era passata da un biondo grano ad un biondo cenere dalle mille sfumature di grigio e di giallo oro; i suoi occhi chiari di erano tinti di un azzurro intenso e brillante, con pennellate di blu e raggi candidi. Non avevamo bisogno di parole per capire, avevamo affrontato la stessa esperienza che aveva lasciato su di noi segni ben più evidenti delle cicatrici. Notai solo a quel punto che ognuno di noi, sebbene alla partenza solo io avessi un animale, era accompagnato da un cucciolo: quei piccoli rappresentavano l’animale cui eravamo legati. Una tigre, una volpe dagli occhi gialli, una leonessa dal manto chiarissimo ed un lupo nero dagli occhi tondi e grigi.
Dopo esserci raccontati, con poca voce ed un imbarazzo che tra noi compariva per la prima volta, quest’ultima esperienza, superammo la cosa, ed andammo a dormire come se non fosse successo nulla.

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Capitolo 5
*** Problemi ***


Ma si sa, quando le cose sembrano andare finalmente per il verso giusto, qualcosa va storto.
Fummo svegliati da quattro inservienti in uniforme completa, armate di asciugamani e sali da bagno. Dissero che era stato ordinato loro di riservarci un’accoglienza in grande stile, e che alle terme del rifugio ci attendeva una mattinata di ozio e acqua calda. Le seguimmo, in vestaglia, storditi e ancora addormentati. Non ricordo molto di quello che seguì, solo la sensazione dell’acqua calda che avvolgeva il mio corpo, ed i mille profumi che permeavano l’aria.
Sistemai quelle poche cose che avevo portato con me dalla nostra vecchia casa, e qualche lacrima si fece strada sul mio viso. Davanti ai miei occhi scorrevano le immagini della mia infanzia in quel posto, era sempre stata una casa per me, ed ora avevo perso tutto. Non sapevo dove fossero le persone con cui avevo condiviso tante splendide esperienze, le mie insegnanti e le mie compagne di studi. Eravamo rimasti solo noi quattro. Il mio piccolo mondo si era sgretolato e il vento aveva sparso i cocci, rimescolandoli in quell’insolita avventura. Spessissimo mi chiedevo come sarebbe andata a finire, e non avere delle certezze mi spaventava e mi eccitava allo stesso tempo.
Sorrisi quando la zampa di Mariae comparve sulla mia gamba, cercava attenzioni e sicurezza. Mi accovacciai e presi ad accarezzarla, e quel movimento ritmico mi regalò la calma che cercavo. Rientrarono ben presto tutti gli altri, e ci fu servita la colazione, condita da qualche notizia sul mondo esterno e dal programma della giornata.
Fuori continuava a piovere e il cielo rimaneva grigio, la temperatura era bassa ed un vento freddo spazzava la zona. Durante quel primo giorno avremmo fatto rapporto al comandante della guarnigione del posto e  ci sarebbero stati assegnati dei compiti che avremmo svolto fino a nuovi ordini.
Cominciammo subito con il presentarci davanti al comandante  Xion; un uomo alto e robusto dai modi schietti e sbrigativi. Gli raccontammo tutta la storia, o meglio, fu Daniel a raccontargliela, perché oltre ad essere schietto il comandante era anche profondamente maschilista e non conce piva l’idea che delle donne potessero aver preso parte ad un’impresa eroica, e non ne sopportava neanche la presenza.
- Siete creature inutili, un peso morto per i compagni di viaggio e uno sfogo per i soldati.- sentenziò, lasciandoci tutti a bocca aperta.
Stavo per spiegargli alcune cose che sembrava non aver abbastanza chiare, ma fortunatamente Cassandra mi fermò e mi trascinò via. I compiti riservati alle donne, una presenza rara e schiva in quel posto, erano pulire, cucinare e medicare i “prodi guerrieri di sua altezza il capitano”. Ero così sconcertata dal suo comportamento.
Com’era possibile che in seno ad un gruppo così pacifico come quello sacerdotale cui appartenevamo, fossero cresciute simili creature?
In silenzio ci avviammo verso una donna minuta e silenziosa che ci era stata indicata come colei che ci avrebbe assegnato il lavoro da fare.
<-on voglio fannulloni!- aveva subito messo in chiaro il suo puto di vista -se volete mangiare dovrete guadagnarvi il pane!- e nessuno aveva osato fiatare.
Mi fu detto di andare in cucina, dove un gruppo di sorridenti ragazzine stava cominciando a preparare il pranzo.
-ciao! Tu sei Elinor vero? Coraggio vieni con noi, io sono Fleur!- una bimba saltellante dai capelli rosso fuoco mi trascinò nelle cucine e mi presentò a tutte le altre.
-Ti spiacerebbe preparare la zuppa?- mi chiese e io non potei che sorriderle di rimando tanta era l’allegria che nonostante il lavoro e la condizione precaria delle donne in quel posto sprizzava dal suo volto.
Cominciai a darmi subito da fare: scelsi le verdure tra quelle che una donna robusta aveva portato poco tempo prima; accesi il fuoco con un acciarino dell’età della pietra, riuscendo solo al terzo tentativo ad ottenere una fiamma decente che durasse sulla legna umida; poi cominciai a preparare. Misi a bollire le verdure tagliate a pezzetti, ci aggiunsi una buona dose di legumi e qualche spezia, poi, mentre la zuppa cuoceva, borbottando di tanto in tanto per ricordarmi di girarla, diedi una mano a tutte quelle piccole creature. Sentivo che c’era qualcosa di strano laggiù, come se ci fosse qualcosa di sbagliato. Come mai i gruppi sacerdotali maggiori non avevano fornito dei normali e moderni utensili da cucina  quella guarnigione? Da quando erano gli uomini a comandare sulle Figlie di Natura?
Udii un rumore di passi, ritmici, un piccolo gruppo di uomini si stava avvicinando alle cucine, marciando ordinatamente.
Non feci in tempo a pormi delle domande.
Undici uomini abbigliati di nero entrarono con un sorriso trionfante sul volto. Le bambine urlarono e cercarono di disperdersi, ma la cucina era piccola, e l’unica via di fuga era quella da cui i soldati erano entrati.
Ero disarmata, e lontana da Mariae e dai miei amici, cominciai a pensare ad una strategia quando la voce del comandante mi intimò imperiosa: -non muoverti, limitati a seguire gli uomini del re.-
Uomini del re? Non c’era mai stato un re! Da sempre tutta la regione era formata da protettorati dei gruppi sacerdotali che facevano le veci di governanti, mantenendo l’ordine e amministrando la giustizia.
L’unico re di cui io avessi mai sentito parlare era un uomo entrato in scena poco prima della mia nascita, un uomo senza scrupoli che aveva viaggiato ovunque, conquistando al proprio trono interi pianeti, sterminando e sottomettendo. Poteva esserci lui sotto i colpi inferti ai gruppi sacerdotali? La risposta era semplice: sì, non era altri che lui il mostro che aveva raso al suolo casa mia.
Tentai di combattere, ma avevano preso le bambine, e sapevo che non avrebbero avuto problemi a far loro del male.
-richiama il tuo felino ragazzina, o la biondina fa una brutta fine!- tra gli uomini si aprì un corridoio e mi fu mostrata una scena.
Mariae stava cercando di liberare Ashley che era tenuta legata da un nerboruto uomo in nero. Una lama faceva pressione sulla sua gola.
-basta!- mormorai e la tigre si fermò. Avevano i miei amici, i loro animali, le bambine e mio fratello. Mi consegnai.

 

// Ringrazio tutti coloro che mi stanno leggendo, e tutti coloro che vorranno continuare a seguirmi in questa 'avventura'. E' la prima volta che scrivo e mi piacerebbe sapere cosa ne pensate :D //

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Capitolo 6
*** uomini del re ***


Ma si sa, quando le cose sembrano andare finalmente per il verso giusto, qualcosa va storto.
Fummo svegliati da quattro inservienti in uniforme completa, armate di asciugamani e sali da bagno. Dissero che era stato ordinato loro di riservarci un’accoglienza in grande stile, e che alle terme del rifugio ci attendeva una mattinata di ozio e acqua calda. Le seguimmo, in vestaglia, storditi e ancora addormentati. Non ricordo molto di quello che seguì, solo la sensazione dell’acqua calda che avvolgeva il mio corpo, ed i mille profumi che permeavano l’aria.
Sistemai quelle poche cose che avevo portato con me dalla nostra vecchia casa, e qualche lacrima si fece strada sul mio viso. Davanti ai miei occhi scorrevano le immagini della mia infanzia in quel posto, era sempre stata una casa per me, ed ora avevo perso tutto. Non sapevo dove fossero le persone con cui avevo condiviso tante splendide esperienze, le mie insegnanti e le mie compagne di studi. Eravamo rimasti solo noi quattro. Il mio piccolo mondo si era sgretolato e il vento aveva sparso i cocci, rimescolandoli in quell’insolita avventura. Spessissimo mi chiedevo come sarebbe andata a finire, e non avere delle certezze mi spaventava e mi eccitava allo stesso tempo.
Sorrisi quando la zampa di Mariae comparve sulla mia gamba, cercava attenzioni e sicurezza. Mi accovacciai e presi ad accarezzarla, e quel movimento ritmico mi regalò la calma che cercavo. Rientrarono ben presto tutti gli altri, e ci fu servita la colazione, condita da qualche notizia sul mondo esterno e dal programma della giornata.
Fuori continuava a piovere e il cielo rimaneva grigio, la temperatura era bassa ed un vento freddo spazzava la zona. Durante quel primo giorno avremmo fatto rapporto al comandante della guarnigione del posto e  ci sarebbero stati assegnati dei compiti che avremmo svolto fino a nuovi ordini.
Cominciammo subito con il presentarci davanti al comandante  Xion; un uomo alto e robusto dai modi schietti e sbrigativi. Gli raccontammo tutta la storia, o meglio, fu Daniel a raccontargliela, perché oltre ad essere schietto il comandante era anche profondamente maschilista e non conce piva l’idea che delle donne potessero aver preso parte ad un’impresa eroica, e non ne sopportava neanche la presenza.
- Siete creature inutili, un peso morto per i compagni di viaggio e uno sfogo per i soldati.- sentenziò, lasciandoci tutti a bocca aperta.
Stavo per spiegargli alcune cose che sembrava non aver abbastanza chiare, ma fortunatamente Cassandra mi fermò e mi trascinò via. I compiti riservati alle donne, una presenza rara e schiva in quel posto, erano pulire, cucinare e medicare i “prodi guerrieri di sua altezza il capitano”. Ero così sconcertata dal suo comportamento.
Com’era possibile che in seno ad un gruppo così pacifico come quello sacerdotale cui appartenevamo, fossero cresciute simili creature?
In silenzio ci avviammo verso una donna minuta e silenziosa che ci era stata indicata come colei che ci avrebbe assegnato il lavoro da fare.
-non voglio fannulloni!- aveva subito messo in chiaro il suo puto di vista -se volete mangiare dovrete guadagnarvi il pane!- e nessuno aveva osato fiatare.
Mi fu detto di andare in cucina, dove un gruppo di sorridenti ragazzine stava cominciando a preparare il pranzo.
-ciao! Tu sei Elinor vero? Coraggio vieni con noi, io sono Fleur!- una bimba saltellante dai capelli rosso fuoco mi trascinò nelle cucine e mi presentò a tutte le altre.
-Ti spiacerebbe preparare la zuppa?- mi chiese e io non potei che sorriderle di rimando tanta era l’allegria che nonostante il lavoro e la condizione precaria delle donne in quel posto sprizzava dal suo volto.
Cominciai a darmi subito da fare: scelsi le verdure tra quelle che una donna robusta aveva portato poco tempo prima; accesi il fuoco con un acciarino dell’età della pietra, riuscendo solo al terzo tentativo ad ottenere una fiamma decente che durasse sulla legna umida; poi cominciai a preparare. Misi a bollire le verdure tagliate a pezzetti, ci aggiunsi una buona dose di legumi e qualche spezia, poi, mentre la zuppa cuoceva, borbottando di tanto in tanto per ricordarmi di girarla, diedi una mano a tutte quelle piccole creature. Sentivo che c’era qualcosa di strano laggiù, come se ci fosse qualcosa di sbagliato. Come mai i gruppi sacerdotali maggiori non avevano fornito dei normali e moderni utensili da cucina  quella guarnigione? Da quando erano gli uomini a comandare sulle Figlie di Natura?
Udii un rumore di passi, ritmici, un piccolo gruppo di uomini si stava avvicinando alle cucine, marciando ordinatamente.
Non feci in tempo a pormi delle domande.
Undici uomini abbigliati di nero entrarono con un sorriso trionfante sul volto. Le bambine urlarono e cercarono di disperdersi, ma la cucina era piccola, e l’unica via di fuga era quella da cui i soldati erano entrati.
Ero disarmata, e lontana da Mariae e dai miei amici, cominciai a pensare ad una strategia quando la voce del comandante mi intimò imperiosa: -non muoverti, limitati a seguire gli uomini del re.-
Uomini del re? Non c’era mai stato un re! Da sempre tutta la regione era formata da protettorati dei gruppi sacerdotali che facevano le veci di governanti, mantenendo l’ordine e amministrando la giustizia.
L’unico re di cui io avessi mai sentito parlare era un uomo entrato in scena poco prima della mia nascita, un uomo senza scrupoli che aveva viaggiato ovunque, conquistando al proprio trono interi pianeti, sterminando e sottomettendo. Poteva esserci lui sotto i colpi inferti ai gruppi sacerdotali? La risposta era semplice: sì, non era altri che lui il mostro che aveva raso al suolo casa mia.
Tentai di combattere, ma avevano preso le bambine, e sapevo che non avrebbero avuto problemi a far loro del male.
-richiama il tuo felino ragazzina, o la biondina fa una brutta fine!- tra gli uomini si aprì un corridoio e mi fu mostrata una scena.
Mariae stava cercando di liberare Ashley che era tenuta legata da un nerboruto uomo in nero. Una lama faceva pressione sulla sua gola.
-basta!- mormorai e la tigre si fermò. Avevano i miei amici, i loro animali, le bambine e mio fratello. Mi consegnai.
A suon di urla e spintoni ci fecero salire su un mezzo che non conoscevo, probabilmente proveniva da una altro pianeta. Con mia profonda gioia la bambine furono restituite alle loro madri; loro volevano noi, ed io avevo anche un’idea del perché.
Ricostruii le nostre avventure, collegando a quegli uomini gli uomini-albero che ci avevano catturati.
-dove ci portate? Cosa volete da noi?- urlai per l’intero tragitto verso una lurida celletta infondo ad un grosso mezzo volante che non avevo mai visto.
-sta zitta!- fu l’unica risposta, accompagnata da un paio di manrovesci piuttosto forti.
Mi lasciarono lontana dalla mia tigre e dai miei compagni, in un buco fetido e buio, senza finestre e con una spessa grata. Dopo alcuni minuti una giovane recluta ebbe il buon cuore di spiegarmi cosa stava accadendo.
-ci dirigiamo verso la capitale del regno del Drago, il re e suo figlio vogliono che voi mezzi uomini siate al loro servizio; siete forti e capaci più di un uomo normale e vi userà per combattere o per mandare avanti il castello. Obbedisci al capitano e non avrai grossi problemi.- mi consigliò, lasciandomi comunque perplessa.
Sentii il familiare vuoto allo stomaco quando il mezzo di alzò in volo, e restai sola. 

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