I difetti della memoria

di Nadie
(/viewuser.php?uid=464853)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***



Capitolo 1
*** I ***


I difetti della memoria
 

C’è troppa gente.
Decisamente troppa gente.
Credo proprio che la stazione della metropolitana di Dublino non sia mai stata più piena prima d’ora.
Tante persone compresse in una calca unica che sgomitano per riuscire a sedersi.
La gente non presta mai attenzione alle metropolitane.
Le vedono tutti come semplici laccetti che collegano un punto ad un altro, ma non è così.
Le metropolitane sono come luoghi di transizione e tra una fermata e l’altra, tutto può cambiare.
Nelle metropolitane non ci sono mai vie di mezzo. La metropolitana o arriva o non arriva più, dentro o c’è un rumore assordante o c’è completo silenzio.
Nelle metropolitane milioni di culture si fondono e le persone di tutto il mondo si incontrano, certo, per pochi attimi, ma si incontrano.
Già, perché in una metropolitana puoi incontrare chiunque.
«Dovrebbe arrivare tra pochi secondi…»
«Muoviti a prendere i posti, non fare il rincitrullito come al solito!»
Sento lingue diverse mischiarsi.
Sento alle mie spalle delle ragazze ridere e parlare velocemente. Sono cinesi… o forse giapponesi, non riesco a capire, di fianco c’è un gruppo di ragazzi inglesi che borbotta qualcosa riguardo ad un concerto.
Infilo gli auricolari nelle orecchie e le loro voci scompaiono.
E poi lo sento, il solito venticello che scuote i capelli, e la luce in fondo che si avvicina a poco a poco, ed arriva subito.
Le porte si aprono e le persone escono velocemente.
Tante persone.
Le guardo, le studio, le seguo attentamente con gli occhi.
Escono in fretta, qualcuno si saluta con un sorriso, qualcun altro si spinge.
E poi vedo uscire un ragazzo con i capelli scuri, spettinati, e gli occhi neri. Si guarda intorno, ha lo sguardo stanco, fa qualche passo avanti poi alza il capo e legge le scritte sui cartelli, si gira e si accorge che lo sto fissando.
E resta lì, immobile.
Gli occhi nei miei.
E mentre ci guardiamo, sento la gente scomparire attorno a me, sento il buio cadermi addosso e i giorni tornare indietro, sempre più indietro, sempre più indietro.
Indietro.
Indietro fino alla notte del 16 Dicembre di otto anni fa. Proprio in quella stazione.




Faceva freddo quella notte, molto freddo.
L’aria penetrava la carne e gelava le ossa.
La stazione della metropolitana di Dublino era deserta, deserta e meravigliosamente silenziosa, e le panchine vuote.
Incrociai le gambe e girai un’altra pagina del libro.
Non riuscivo proprio a leggere quella notte.
Tutte quelle parole che passavano per la mia testa non avevano alcun significato, le dimenticavo l’istante dopo averle lette.
Chiusi gli occhi.
Faceva così dannatamente freddo!
Sfregai le mani sulle braccia e mi guardai intorno.
C’era un ragazzo, piuttosto alto, che guardava confuso le rotaie, si voltò e si avvicinò alla mappa della metropolitana appesa al muro.
Seguiva con l'indice una linea verde.
Sospirò.
«E’ guasta.» dissi ad un tratto, con una nota di dispiacere nella voce.
Già, perché a dirla tutta mi faceva un po’ pena, quel ragazzo.
Sicuramente non era di Dublino, e sicuramente si era perso.
«Come?»
«E’ guasta, la metro intendo. La linea verde si ferma a Sandyford, da Central Park a Cherrywood non funziona, c’è stato un guasto.» sospirò.
«Perfetto! Perfettissimo, la perfetta conclusione di una perfetta serata del cavolo!» sembrava più disperato che arrabbiato.
Girai un’altra pagina del libro, fingendo di leggere.
«Una serata del cavolo!»
«Puoi prendere un autobus… credo, non lo so, dovresti provare a chiedere…»
Sbuffò e alzò le spalle.
«Non importa… grazie, comunque.» accennò un sorriso e gli feci l’occhiolino.
«Tu, tu che ci fai qui a quest’ora, se la metro è guasta?»
«Aspetto.»
Increspò le sopracciglia e mi guardò perplesso.
«Aspetti… cosa?»
«Aspetto. Qualcosa, qualcuno, non lo so. Io aspetto, prima o poi succederà qualcosa, no?» mi studiò attentamente, aveva gli occhi davvero scuri, i più scuri che avessi mai visto.
«Per curiosità, da quant’è che aspetti accada qualcosa, o arrivi qualcuno?»
«Da un bel po’, a dirla tutta.»
«E non è ancora successo nulla?» scossi la testa.
«Capisco. Be’, allora forse vuol dire che qualcosa o qualcuno sta aspettando te.»
«Forse» concordai.
Annuì, poi voltò lo sguardo verso le rotaie.
Le guardava distrattamente, e intanto pensava, non so bene a che cosa, però doveva essere qualcosa che lo turbava, lo si capiva dal modo in cui si mordeva il labbro e da come tamburellava con le dita sulla gamba destra.
Spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e ripresi a fingere di leggere.
«Non ho la più pallida idea di come riuscirò a tornare a casa stanotte, per cui, ti dispiace se mi metto ad aspettare assieme a te?» lo fissai per un attimo, con uno sguardo tra lo stupito e il divertito.
«No… no, figurati» si avvicinò e si mise seduto di fianco a me.
La gente, di solito, preferiva evitarmi.
Mi guardava con occhiate di scherno, pensando fossi una teppistella di qualche sobborgo malfamato, e mi stava ben alla larga.
E a me andava benissimo così.
Non avevo mai cercato di farmi capire da qualcuno, non avevo mai elemosinato la compagnia di qualcuno, speravo solo, un giorno, di poter trovare qualcosa di diverso, qualcosa che gli altri non avrebbero mai visto nel modo in cui la vedevo io, e speravo di trovare una persona che l’avrebbe guardata insieme a me, una persona che mi somigliasse un poco.
Oppure presto avrei preso un treno anch’io e sarei sparita per sempre.
Ma quel ragazzo era diverso.
C’era, nei suoi occhi, qualcosa di diverso.
«Vieni qui spesso?»
«Tutte le volte che posso.» risposi, e chiusi il libro.
«Non hai una… una casa?»
«Dipende da cosa intendi tu per ‘casa’. Vivo in uno sputo di appartamento con mio fratello e mia madre. Ma non è ‘casa’ per me. E’ soltanto un tetto sopra la testa, ecco.»
«Dov’è tuo padre?»
«Non c’è. Non c’è più» annuì triste, e tornò a guardare le rotaie.
Sembrava uno che era appena stato deluso in modo imperdonabile.
Sembrava uno stanco, che non ne poteva più.
«E tu? Come mai sei qua?»
«Oh, io non sono di qua, vengo da Londra. Cercavo un po’ di pace da tutto il trambusto che c’è lì, sai.»
«Da Londra a Dublino? E perché?» si lasciò sfuggire una risatina. Ma non sembrava né divertito né felice, tutt’altro.
«Sono un attore da quattro soldi che sta cercando di diventare qualcuno. E ho appena mandato a fanculo la mia compagnia teatrale per fare un provino che già so di non aver passato.»
Mi morsi il labbro e abbassai lo sguardo sulle mie mani.
Sbuffai.
«Ma come fai a sapere già che non l’hai passato?» mi guardò basito.
«Non lo so. E’ una sensazione.»
«Caspita, sei un tipo ottimista tu, eh?!» rise. E stavolta era una risata sincera, così sincera che cominciai a ridere anch’io.
«Già» confermò.
Guardai le lancette dell’ enorme orologio appeso alla parete. Segnavano le tre e dodici minuti.
«Direi che non ho più bisogno di aspettare» mi alzai dalla panchina e mi misi la borsa a tracolla.
«Che significa? E’ successo quello che volevi succedesse?» annuii.
«E come fai a saperlo?»
«Non lo so. E’ una sensazione» sorrise e si alzò anche lui.
«Torno sotto… sotto il mio tetto.»
«Già, be’, io credo dovrò restare a dormire qui»
«Te l’ho detto, ci sono gli autobus che sostituiscono le fermate della metro, devi solo chiedere a che ora.»
«Sì, ora vado. Be’, allora, ci rivediamo magari, eh?!»
«Lo spero.»
E in fondo, lo speravo davvero.
 
 
 
 
 
Ebbene sì, l'ho fatto, ho inquinato il fandom di BinBons con la mia cagoserrima long, ed ora è troppo tardi per tornare indietro, quindi spero a Barnes non diaspiaccia.
No, okay, chiudendo la parentesi demenza, dico subito che non mi soddisfa assai, però confido in qualche saggio consiglio, magari.
Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di Ben Barnes, né offenderlo in alcun modo.
Grazie millissime ai lettori, silenziosi e non, mi eclisso.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


II
 

Nonostante l’orario, le strade di Dublino non erano affatto deserte, i pub ai lati della strada grondavano di gente, e la puzza di alcol si faceva strada violenta nelle narici.
Sistemai la sciarpa sopra al naso e salii sul marciapiede, un ragazzo riccioluto con un grosso bicchiere in mano ammiccò nella mia direzione. Voltai lo sguardo.
Alcune macchine sfrecciavano sulla strada, ben oltre il limite di velocità consentito.
Svoltai a destra ed andai dritto e poco dopo mi ritrovai di fronte ad un enorme palazzo con i muri tinteggiati di un bianco ormai ammuffito.
Tirai fuori le chiavi dalla tracolla ed aprii il portone.
L’ascensore verdognolo era guasto da anni e nessuno si era mai dato la pena di rimetterlo in funzione, così, ogni volta, ero costretta a farmi la bellezza di settantacinque scalini per arrivare al quinto piano.
Le gambe mi facevano davvero male, ogni scalino era un supplizio.
Ad un tratto sentii qualcosa muoversi sulla mia scarpa, aveva una consistenza morbida e si stava strusciando convulsamente emettendo uno strano suono.
Le luci, come l'ascensore, non funzionavano più, così presi l'accendino dalla borsa e illuminai gli scalini.
Un gatto tutto grigio stava comodamente appollaiato sulla mia scarpa.
«Dorothea! Ma che diamine ci fai qui, aspetta che la signora Dubois lo scopra!»
Dorothea miagolò e stirò le zampe.
Sospirai.
Mi abbassai e la spostai, lasciandole una lieve carezza sul muso.
Ripresi a salire gli scalini, finché non sentii il solito odore di vecchio e marcio che ristagnava nell'aria del quinto piano.
Girai piano la chiave nella serratura della porta ammaccata e sgusciai dentro casa, la luce in cucina era accesa.
Mi avvicinai all’uscio.
Mia madre era china su vecchie foto di famiglia e piangeva. Sul tavolo c’era una bottiglia di Whisky aperta.
«Mamma, ma che fai?»
«Va’ via» grugnì con voce stanca e girò un’altra pagina di un album ingiallito.
Aveva una mano sulla fronte e continuava a tirar su con il naso, girò un’alta pagina ancora. C’era la foto di un uomo di bell’aspetto, biondo, con due grandi occhi celesti, indossava uno smoking scuro e sorrideva allegro all’obbiettivo.
Mia madre scoppiò a piangere.
Mi avvicinai.
«Dai mamma, vieni a dormire… » tentai di prendere l’album ma mi schiaffeggiò il braccio.
«Vattene via!» strillò.
Sospirai e andai in camera mia.
Il mio fratellino di sette anni era seduto a gambe incrociate sul mio letto e tormentava con le dita i lacci del pantalone del pigiama.
«Jude! Non dovresti essere a letto già da un pezzo?!»
Posò i grandi occhi blu su di me.
«La mamma piange. Perché la mamma piange?»
Gli sorrisi debolmente e mi sedetti di fianco a lui.
Gli spettinai i capelli chiari e gli diedi un bacio sulla fronte.
«La mamma piange perché è stanca.»
«Stanca di cosa?» domandò stropicciandosi gli occhi.
«Stanca della vita.»
«E quando uno è stanco della vita piange?»
«Non sempre. Può anche arrabbiarsi, oppure far finta di nulla, dipende» si grattò il mento e mi fissò confuso.
«Ma perché alcuni si stancano della vita?»
«Perché a volte capitano brutte cose che non si riescono a dimenticare e se ci si sente soli e non si ha nessuno con cui condividerle o con cui parlarne be’, a quel punto va a finire che bisogna tenersele dentro e andare avanti, ma è difficile, ci vuole tantissima forza, e dopo un po’ ci si stanca.»
Fece una piccola smorfia.
«A te sono successe brutte cose?» annuii.
«E sei stanca della vita anche tu?»
«No, per niente» sorrisi.
Fissò per qualche istante il pavimento della stanza, poi i suoi occhi ritornarono sul mio viso.
«Prudence, possiamo aiutare la mamma?» non risposi subito, restai per un momento a guardarlo, a studiare quel volto delicato, quelle labbra lucide e purpuree e quegli enormi occhi blu.
«Forse, forse possiamo. Ma adesso fila a letto, è tardissimo!»
Si sistemò sotto le coperte del mio letto.
Indossai in fretta il pigiama e mi stesi accanto a lui.
«Prudence, ti voglio bene.»
«Ti voglio bene anche io, Jude. Dormi.»
Chiuse gli occhi e si addormentò subito.




Okay, sono in ritardo, lo so, chiedo venia :c
Capitolo corto e senza Ben, ma utile per capire un po' in che situazione vive la mia Prudence.
Ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III ***


III
 

Quella mattina pioveva forte, goccioline d’acqua si schiantavano con violenza al suolo e l’aria sapeva di asfalto bagnato.
Mi piaceva.
I giorni di pioggia mi piacevano da morire.
Il cielo sembrava così vicino e il rumore dell’acqua che cadeva entrava impetuoso nella testa, si faceva strada fra i pensieri peggiori e li metteva tutti a tacere.
Mi piaceva, mi piaceva da matti.
La pioggia rendeva sempre tutto un po’ più bello: i colori erano più intensi, e gli odori penetravano in modo insistente e allo stesso tempo impercettibile nel naso.
Avevo due auricolari infilati nelle orecchie ed ero sopra un altro pianeta.
Musica e pioggia erano sempre state una combinazione infallibile, due forze della natura estremamente delicate ma capaci di fare grandi cose.
Quella mattina la strada era piuttosto trafficata e una pozzanghera enorme si estendeva sulla superficie del marciapiede, l’acqua era sporca e scura.
Ci saltai dentro e sui jeans, già abbondantemente bagnati, comparvero delle grosse chiazze scure.
Scrollai le spalle, non mi importava granché.
Scorsi la solita, grossa, elle rossa in lontananza e camminai a passo svelto per raggiungerla.
Gli anfibi emettevano uno strano cigolio.
Una signora anziana mi passò accanto e gettò un’occhiata di rimprovero sui miei jeans, poi sospirò e bofonchiò qualcosa del tipo ‘Ah! I giovani d’oggi.. tutti matti!’
Portai una mano alla bocca e risi sommessamente.
La elle rossa era sempre più vicino.
Non avevo mai capito perché la gente giustificasse ogni cosa con un frivolo ‘è matto!’
Cosa significava?
Ogni qualvolta qualcosa non andasse nel modo prestabilito dall’ordine delle cose, c’era sempre qualcuno pronto a borbottare ‘è matto!’
No, non c’era nulla di folle, invece, c’era solo un po’ di caos.
La gente non era mai stata capace di affrontare il caos.
Quando c’era il caos, la gente diventava matta, ma matta sul serio!
La mia testa era completamente invasa dal caos, e a me andava bene così, ma per gli altri ero matta, matta da legare.
Raggiunsi la grossa elle rossa e sprofondai nel sottosuolo, alla fermata della metro.
Era pieno di gente.
Dei ragazzi stavano accasciati sulle panchine, e dei signori con valigette da lavoro sbuffavano spazientiti, osservando a ritmi regolari l’orologio.
Li studiai divertita, avevano dipinto sul volto uno sguardo spazientito e preoccupato, sembrava dovessero salvare il mondo da un momento all’altro.
Ma erano in ritardo, in un terribile ritardo.
Percepii il solito venticello che preannunciava l’arrivo della metro.
Era un qualcosa di speciale.
Mi metteva addosso una sensazione di libertà inspiegabile, mi sembrava di poter prendere e spiccare il volo da un momento all’altro.
Era magnifico.
Le porte mi si aprirono davanti al naso, saltai su e mi aggrappai ad un palo grigio. I posti erano già tutti occupati.
C’era silenzio là dentro.
Alzai il volume dell’iPod al massimo e chiusi gli occhi.
Avevo sempre pensato che Mick Jagger avesse una voce orgasmica.
Anche la parola più stupida, detta da lui, diventava poesia, con quella voce roca raccontava le storie migliori, elevava l’animo al cielo.
Era capace di farti attorcigliare le budella anche solo sussurrando la più idiota delle frasi.
E poi, aveva un accompagnamento musicale degno di nota.
Ad un tratto sentii un auricolare sfilarsi di scatto dal mio orecchio.
Aprii gli occhi e mi voltai.
Due occhi neri mi fissavano con uno sguardo tra il curioso e il divertito.
«Tu sei la ragazza della panchina, giusto?»
Spensi l’iPod.
«Ti, ti ricordi di me, vero?» gli sorrisi.
«Certo che mi ricordo! Sei il tizio di Londra che si era perso. Alla fine hai dormito alla fermata?»
«No, no, ho preso uno di quegli autobus che mi avevi consigliato. Certo che è stato strano.»
«Strano? Perché strano?»
«Be’, sai, ad un certo punto un tizio sui sessanta si è seduto accanto a me, l’autobus è partito, lui si è girato e mi ha detto ‘hey, ragazzo, e se questo autobus si schiantasse contro un camion enorme proprio in questo momento, tu che faresti?’ e io gli ho risposto ‘creperei’, naturale, no? Lui ha scosso la testa e mi ha detto ‘be’, certo che creperesti, ma io intendevo: avresti già fatto tutto quello che volevi fare prima di morire?’» tutto d’un tratto ammutolì.
«E tu che gli hai risposto?»
«Nulla. Non gli ho risposto nulla, non sapevo proprio cosa dirgli, insomma io non ci avevo mai pensato alla morte.»
Lo guardai stupita.
«Perché, di solito a cosa pensi?»
«Alla vita!» rispose in modo naturale, come se la sua risposta fosse stata la cosa più ovvia al mondo.
«Uno non può mica pensare alla vita senza pensare anche alla morte!»
«E perché mai?»
Scossi la testa.
«Be’ perché, che tu lo voglia o meno, prima o poi la mazzata finale arriva! E uno non può mica passare il tempo a trastullarsi e a rimandare sempre ogni cosa perché ‘oh, ho ancora tutta la vita per farla!’, no, non funziona così! Bisogna sbrigarsi a fare tutto quello che si vuole fare nel momento esatto in cui si ha voglia di farlo, insomma carpe diem, hic et nunc! Altrimenti quando verrai scaraventato nell’aldilà resterai in levitazione su una nuvola a chiederti ‘ e se…’ e te ne pentirai amaramente, quindi, finché sei in tempo, cogli l’attimo!»
Mi guardò, con gli occhi sgranati, e poi si girò ad annuì.
«Lo sai che hai ragione? E io che non ci avevo mai pensato! Però c’è anche da dire che certi rimpianti dovremo tenerceli lo stesso, una volta scaraventati nell’aldilà.»
«Per esempio?»
«Per esempio a me sarebbe sempre piaciuto andare ad un concerto di George Harrison, ma sai che c’è? C’è che George Harrison è morto e quindi, puff, addio concerto! Adesso chi glielo dice a George, eh?»
Scoppiai a ridere, era forse la risposta più esilarante che le mie orecchie avessero mai udito.
«Non c’è proprio nulla da ridere, anzi, è una tragedia!»
Purtroppo non riuscivo più a smettere di ridere, stavo facendo una pessima, pessimissima figura.
«Scusa, scusami tanto, non volevo riderti in faccia!»
«Oh, no, non preoccuparti, fai pure!» rispose sarcastico, ma con una punta di divertimento nella voce.
«E tu? Tu hai già fatto tutto quello che volevi fare prima di morire?»
«Assolutamente no.»
Mi fissò attonito, come se gli avessi appena tirato uno schiaffo.
«Ma scusa, e tutta quella roba sul ‘cogli l’attimo’, stare in levitazione su una nuvola a chiedersi ‘e se…’, la mazzata finale… hai blaterato tutto il tempo, quando alla fine sei nella mia stessa situazione?!»
«Io non sono affatto nella tua stessa situazione! Io so perfettamente cosa voglio e devo fare prima di morire, il problema è che non ho la possibilità di farlo.»
«Perché?»
Scossi la testa.
«Tanto non capiresti.»
«Non sono mica stupido! Dai, perché?»
Lo fissai per un attimo. Aveva proprio un bel viso, la pelle era davvero chiara, i lineamenti erano delicati, e una fossetta marcata sul mento era visibile anche sotto il filo di barba scura.
E gli occhi erano dannatamente neri.
I più neri che avessi mai visto.
Sospirai.
«Ho… problemi a casa. Vorrei davvero prendere un aereo, volare ad Amsterdam e passare il resto dei miei giorni in mezzo alla pioggia e ai mulini, ma ho un fratello a casa che ha bisogno di qualcuno che lo curi, e non può fare affidamento né su sua madre né tanto meno sul padre che ormai se n’è andato.»
Deglutì e annuì.
«Mi spiace. Quanti anni ha?»
«Sette. Ne ha sette, ma è molto più intelligente e sensibile di qualsiasi altro bambino della sua età, e ha solo me, ormai.»
«Come si chiama?»
«Jude» e subito mi tornò in mente il suo bel volto delicato e i suoi enormi occhi blu.
«E invece tu come ti chiami?»
«Prudence.»
«Piacere Prudence, Benjamin.»
Gli strinsi la mano e gli sorrisi.
«Anche il cane della mia vicina si chiama Benjamin, sai?»
Scoppiò a ridere e strinse la mia mano ancora più forte.
«Cavolo, è inquietante!»


Di ritorno dal mio mini-viaggio on the road con un nuovo capitolo :)
Dopo il mattone dell'ultima volta ho voluto un po' alleggerire l'atmosfera.
Ringrazio dal profondo del cuore tutte le meravigliose personcine che spendono un po' del loro tempo per leggere la mia... 'storiella'
E approfitto un attimino di questo 'angoletto autrice' per 'presentarvi' Prue, salutatemela per bene, eh...
La prestavolto è quella meraviglia indiscussa di Àstrid Bergès-Frisbey *.*



No, non è umana, non può essere umana. E' una sirena, ecco, una bellissima sirena.
C.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV ***


                                                                       IV


Smise di piovere, ma il cielo restò scuro, riempito di nuvole grigie che sembravano non voler andare più via.
Camminai per un quarto d’ora buono e poi raggiunsi una via piena di bar con ridicole luci al neon che non funzionavano più, sui marciapiedi c’era gente sbronza che rideva e gente sobria che beveva, avevano tutti il volto segnato dal tempo, tempo passato troppo in fretta, tempo che aveva portato via ogni cosa.
Era curioso, guardare quelle persone.
Era curioso, sapere che in ogni bottiglia di birra abbandonata sul marciapiede c’era un piccolo dispiacere affogato.
Entrai in un bar squallido e meleodorante, l’ennesimo bar squallido e maleodarante di Dublino.
«Uh! La Gallagher ha deciso di tornare dall’oltretomba, che piacere!»
Angie mi sorrise, poi un tizio l’apostrofò con uno spiacevole epiteto e lei ondeggiò nella sua direzione con una bottiglia di Vodka tra le mani.
Avevo sempre ammirato Angie, con i suoi lunghi capelli rossi, le labbra carnose e un paio di occhi scuri che raccontavano un storia triste.
Era bella, Angie.
«Gallagher! Qui! Subito!»
Dal bancone del bar Enoch si agitò e puntò un dito sulla mia figura, risi e mi avvicinai.
«Sparita, scomparsa, per settimane e settimane! Io ed Angie non siamo riusciti a buttar giù una riga per colpa tua!» sibilò.
«Mi spiace, Enoch, ma c’è un esserino di sette anni a casa mia che non si cura da solo.»
Sospirò e scosse la testa e alcuni rasta biondi si mossero sulla sua nuca.
«Perché non ce lo affidi?»
«Affidarti chi?» chiesi e lui sbuffò.
«Jude, no? Secondo me si divertirebbe con me e Angie, diventerebbe davvero figo!»
«Enoch, tieni da parte il tuo spirito materno, per l’amor del cielo.»
Fece spallucce e poi passò uno strofinaccio sporco sulla superficie del bancone.
«Gli stronzi della Domenica mattina, li prenderei tutti a calci!» disse Angie a bassa voce, rovesciando dei bicchieri nel lavandino.
«Gallagher! Enoch non ti ha ancora picchiata? Peccato, te lo meriteresti.»
«Lo so che non avete scritto nulla, però oggi mi è venuta un’idea.»
«Spero sia buona o ti costringerò a sgrassare ogni centimetro di questo stupido bancone con le unghie!»
Angie ed Enoch puntarono gli occhi su di me.
Noi tre avevamo fondato un mini giornale, di tanto in tanto scrivevamo un articolo e lo diffondevamo in giro per Dublino, ci sembrava di aver abbracciato un'importante missione che doveva essere portata per forza a termine, e quando ci ritrovavamo per scrivere ci montava nel petto la sensazione di essere degli eroi, gli eroi del nostro nulla.
«State a sentire, e se scrivessimo qualcosa su ciò che la gente vorrebbe fare prima di morire?»
Angie fissò Enoch aggrottando le sopracciglia e lui ricambiò con uno sguardo perplesso.
«Come mai questa idea?» chiese Angie.
«Oh, nessun motivo in particolare, mi è venuto in mente durante il tragitto. Non vi piace?»
«Beh, è lugubre»
«E inquietante»
«E malinconica»
«E triste»
«E tetra»
«E.. lugubre l’ho già detto? Lugubre!»
«In sostanza, mi piace molto!» disse Enoch, con un grosso sorriso dipinto sulle labbra.
«Anche a me» concordò Angie.
«Quindi? Vado alla Chiave e butto giù qualcosa?»
«E’ il minimo che puoi fare dopo la tua latitanza, muovi quel culetto e scrivi qualcosa di sensazionale!» strillò Enoch.
Lo salutai e uscii fuori dal bar in volata per andare alla Chiave.
La Chiave era sostanzialmente una vecchia catapecchia, situata non molto lontano dal bar in cui lavoravano Angie ed Enoch, stava di fronte ad una biblioteca, la più deserta biblioteca che esistesse al mondo, non ricordavo di averci mai visto entrare qualcuno, ed era un peccato, la bibliotecaria aveva buon gusto in fatto di libri.
Era stato proprio grazie a lei che avevo cominciato ad interessarmi ai libri, ed era stato grazie ai libri che era nato quel bel casino che abitava la mia mente da anni e anni.
Camminai ancora per qualche metro, e poi mi ritrovai di fronte al solito muro giallo sbiadito e alla solita porta nera, la aprii con un calcio e mi presi qualche momento per dare una rapida occhiata alla stanza.
C’erano una mucchio di fogli sparsi sul pavimento e il grosso tavolo di legno sporco di inchiostro e sommerso di penne, come sempre.
Lo spazio era più angusto di quanto ricordassi, eppure l'affitto non era così misero.
Io, Angie ed Enoch eravamo costretti, ogni fine mese, a mettere insieme i nostri risparmi e pagare per mantenere quel postaccio.
Probabilmente eravamo degli idioti, ma quella vecchia catapecchia maleodorante ci serviva per scrivere, pensavamo di cambiare il mondo, volevamo cambiare il mondo, non eravamo solo degli idioti, se fossimo stati solo degli idioti sarebbe stato tutto più facile, eravamo degli idioti illusi, e questo ci aveva sempre complicato la vita.
Scossi la testa per scacciare i troppi pensieri che mi ofuscavano la mente, poi raccolsi un foglio da terra, presi una penna e cominciai a scrivere:
‘Avete già fatto tutto ciò che volevate prima di morire o non avete colto l’attimo al momento giusto e quando starete in levitazione su una nuvoletta penserete a quel concerto di George Harrison a cui avete sempre voluto andare ma che ora vi tocca solo immaginare?’


 

Okay, dopo le numerose peripezie che si è trovato ad affrontare, il mio computerino è tornato da mamma ed io ho dovuto aggiornare immediatamentissimamente(?)
Il capitolo è un po' cortino, lo so, ma mi rifarò con il prossimo ;)
Approfitto di questo spazietto per scusarmi con Joy_10 e Clairy93, che seguono questa storiella con tanto entusiasmo ed hanno dovuto aspettare così a lungo per un aggiornamento da parte della sottoscritta, perdonatemi! 
E per il resto.. niente, auguro a tutti una buona lettura e mi eclisso!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V ***


V


Il soffitto della Chiave era più sporco di quanto ricordassi, agli angoli della muffa aveva completamente rovinato l’intonaco e delle ragnatele pendevano e arrivavano quasi a toccare il pavimento.
Mi ricordava tanto il soffitto dello sgabuzzino di casa mia, c’ero entrata una sola volta, da piccola, e quella sola volta mi era bastata.
Era un posto buio e pieno di polvere, occupato da grossi scatoloni.
Allora pensavo che dentro quelli scatoloni si celasse qualcosa di speciale, così ne aprii uno, il più grande di tutti, ma dentro non vi trovai né gioielli, né soldi, né diamanti o cose simili, solo foto, tantissime foto.
Cominciai a guardarle, una per una, non erano male, le studiai con attenzione e una mi catturò particolarmente.
Era la foto di una grossa onda che si abbatteva su una spiaggia.
La tenni in mano a lungo e, con gli occhi chiusi, immaginai di essere su quella spiaggia, proprio in quel momento, mentre la grossa onda si avvicinava, poi all’improvviso tutto diventava scuro e io sentivo l’acqua salata riempirmi la gola.
Mi spaventai molto e ributtai la foto nello scatolone, lo richiusi e scappai via, non rimisi mai più piede in quello sgabuzzino da allora.
Più tardi scoprii che tutte quelle foto le aveva scattate mia madre.
Le foto erano tutto ciò che aveva sempre amato, più di tutto e di tutti, aveva girato il mondo e fotografato ogni cosa, ogni luogo, ogni paesaggio che le era passato davanti agli occhi, aveva viaggiato dall’Irlanda alla Cina, e dalla Cina all’America, imprigionando ogni attimo con la sua macchina fotografica, senza mai fermarsi un istante, finché non aveva incontrato un uomo con un sorriso irresistibile e due grandi occhi blu in cui era affogata.
Si era innamorata, della persona sbagliata ovviamente, ma era comunque innamorata e neanche la fotografia riuscì a tirarla fuori dal gran casino in cui era capitata.
Lui si chiamava Finbar, Finbar Gallagher, era irlandese come lei, lo aveva incontrato la vigilia di Natale, a New York, ascoltare il suo accento mentre parlava l’aveva fatta sentire a casa, le aveva fatto sentire la mancanza di Dublino, la città da cui aveva sempre cercato di fuggire, l’aveva incuriosita, quella sensazione, incuriosita a tal punto che, quando Finbar l’aveva portata sotto l’enorme albero di Natale del Rockfeller Center e aveva premuto le labbra sulle sue, lei non si era affatto tirata indietro. 
Poco tempo dopo era tornata a Dublino, incinta.
‘Ora tu diventerai grande, andrai a scuola e ti riempiranno di parole vuote e poesie sull’amore, e incontrerai un sacco di gente che si metterà in bocca quella stupida parola, ‘amore’, ma la verità è che nessuno ci ha mai capito un tubo!’
Mi aveva detto mia madre una sera, un po’ sbronza, dopo avermi raccontato la sua storia, poi mi aveva dato un rapido bacio sulla fronte ed era andata a dormire.
-Gallagher! A che punto sei? Spero tu abbia finito, sei stata rinchiusa qui dentro tutto il giorno!- la voce di Enoch irruppe tra i miei pensieri, mi voltai lentamente e gli lanciai un’occhiataccia.
-Finito- sospirai, lui sorrise soddisfatto.
Mi alzai dalla panca e gli consegnai il foglio che avevo scritto, lui si affrettò a leggerlo.
-Guarda che ora devo andare- gli dissi, mentre prendevo la mia tracolla, lui annuì senza staccare gli occhi dal foglio.
-Salutami Angie- annuì di nuovo, sorrisi ed uscii fuori.
Dublino era fredda e scura, stropicciata dal vento come un pezzetto di carta, portai la sciarpa fin sopra al naso e camminai frettolosamente su un marciapiede fatiscente.
Per strada c'erano un sacco di turisti.
Chissà da dove venivano.
Mi domandai come guardavano Dublino, cosa ci vedevano in quella città maltrattata da tutti e da tutto, mi domandai se riuscivano a scorgere tutte le ferite che l’avevano lacerata.
Una donna con un grosso zaino mi passò affianco, sorridendo.
Mi ricordò mia madre.
Mi ricordò mia madre la volta in cui, seduta a tavola, senza cibo nel piatto, mi aveva raccontato di un suo viaggio in Spagna, a Barcellona.
Mi aveva detto che aveva dormito in una spiaggia, vicino alla riva, e poi aveva fatto l’autostop finché una vecchia macchina non si era fermata, e allora aveva viaggiato e viaggiato a lungo, ascoltando vecchie canzoni spagnole che passavano alla radio nazionale.
‘Non riuscivo a capire cosa dicessero, anzi, non ne avevo la minima idea, ma doveva essere qualcosa di bello, ne sono sicura’
Mi aveva detto, poi aveva sorriso ed era tornata in cucina, probabilmente a bere altro Whisky.
Scossi leggermente la testa per scacciare ogni pensiero e accelerai il passo, fino a sprofondare scalino dopo scalino alla fermata della metro. 
Quella per Raheny, la mia, era già arrivata e allora corsi e mi intrufolai all’interno, un istante prima che le porte si richiudessero.
Nel mio stesso vagone c’era una coppia sui 30 che litigava, in modo piuttosto acceso. Tutti fecero finta di nulla.
Guardando quei due mi ritornò in mente il rumore dei piatti che si sgretolavano in mille pezzi al contatto violento contro il pavimento.
E delle voci, le voci di uomo e una donna.
‘Sadie, ricorda che se riesci a mettere ancora qualcosa sotto i denti è solo grazie al sottoscritto’
‘Fanculo, Finbar, noi non abbiamo bisogno di te. Io non ho bisogno di te’

E poi piatti, ancora piatti e forse anche qualche bicchiere.
E vetri.
Vetri sul pavimento, vetri sotto al tavolo, vetri sotto i piedi. Vetri dappertutto.
La metro arrivò a destinazione e quando frenò, in modo brusco, andai a sbattere contro uno dei pali grigi, massaggiai per poco il fianco destro e scesi, andando verso la mia panchina.
Era occupata.
-Benjamin?!- lui alzò lo sguardo, un po’ intontito, fece un cenno con la testa e bevve un sorso di birra dalla bottiglia che teneva in mano.
-Lo sapevo che venivi. Qui. 
-Be’ è la mia panchina.
-Pardon- sospirai e mi misi accanto a lui.
-Che ci fai qui, Benjamin?
-Ben.
-Come?
-Ben. Chiamami Ben, non mi piace Benjamin, è troppo lungo e troppo serio per uno come me. Senti che suono… ‘Benjamin’, sembro uno di quei reali francesi che compaiono in quei filmacci scaduti che trasmettono la Domenica sera in televisione. Benjamin. No, meglio Ben. Chiamami Ben.
Bevve un altro sorso dalla bottiglia. Sembrava un po’ sbronzo.
-Okay: che ci fai qui, Ben?
-Cercavo.
-Cosa?
-Bella domanda. La mia pace interiore? Cazzo, ero venuto a Dublino per scappare da tutto il caos che c’è a casa mia, ma, senza offesa, siete più incasinati che a Londra.
Scoppiai a ridere.
-Se la pensi così significa che hai visto solo la Dublino delle strade piene di pub e affollate di gente con litri e litri di Guinness in corpo.
-Perché conosci posti diversi, qui?- si voltò verso di me.
-Puoi dirlo forte!
-Tipo?- chiese, in tono di sfida.
Mi alzai di scatto e lo tirai su per un braccio.
-Ora te la faccio trovare io, la pace interiore!
Lo trascinai su per le scale, fino in strada e corsi noncurante delle macchine che sfrecciavano.
Rischiammo di essere investiti da ben tre automobilisti.
E poi scorsi la solita fermata colma di bus arancioni scoloriti.
Feci scivolare la mano giù dal braccio di Ben, intrecciai le mie dita alle sue, e salii sul bus che portava a Portrane, vicino alla spiaggia.
Ben mi seguiva, inconsapevole del viaggio e della meta, ma non protestava, anzi, sembrava parecchio incuriosito.
Occupammo gli ultimi posti.
-Mi spieghi dove cavolo…- lo zittii all’istante.
-Ce la fai a stare zitto per quindici minuti e guardare fuori dal finestrino?- sorrise, bevve un altro sorso di birra e girò il capo, studiando con attenzione la strada e gli alberi che restava indietro, mentre noi andavamo avanti.
Sui sedili al lato opposto del bus c’erano una donna e una bambina, la donna indicava fuori dal finestrino e la bambina seguiva attenta il suo dito.
Mi ricordò mia madre, quando mi portò ad Amsterdam.
‘Ora che hai gli occhi pieni di Amsterdam, tienili ben chiusi, Prue, tienili ben chiusi, o si svuoteranno in un baleno’
Il bus si fermò e tutti scesero.
Presi di nuovo Ben per mano e lo portai in un posto lì vicino.
Era una sorta di spiaggia, piccola, dove erba e sabbia si fondevano.
Il mare era così scuro, e così profondo.
Tirava un brutta aria e le onde si agitavano in preda al vento.
-Allora? Ora non ti senti pieno come un campo di fiori? E infinito come l’acqua?
-Tu ti senti così, quando vieni qui?- chiese.
-Sì. 
Annuì e spostò lo sguardo verso il mare, mi misi seduta su pezzo di terreno erboso e lui si sedette accanto a me.
Gli presi la bottiglia di birra dalle mani e la svuotai.
Lui restò a fissarmi, un po’ contrariato.
-Non mi piace l’alcol, e le bottiglie con dentro l’alcol e le persone con dentro l’alcol- spiegai.
-Già, però quella l’avevo pagata, sai?
-Peggio per te- scosse la testa, sbuffando, poi prese una sigaretta e un accendino dalla tasca dei jeans e cominciò a fumare.
E si mise a guardare il mare, attento.
-Se continui a fumare morirai, lo sai?- si girò a fissarmi, con quegli occhi difficili da decifrare, con quegli occhi pieni, pieni di storie e pensieri nascosti in un turbine scuro.
Avvicinò il viso al mio e schiuse le labbra.
Del fumo bianco accarezzò il mio viso, e un odore forte mi rubò il fiato per qualche attimo.
-Davvero?- chiese.
-Sì- sorrise, poi alzò il viso verso il cielo.
Restai per un po’ a fissarlo, era così interessante, avevo cercato più volte di abbassare lo sguardo, ma era quasi impossibile.
Guardava il cielo come fanno pochi, sembrava cercasse disperatamente qualcosa, qualcosa di importante.
-Vuoi morire insieme a me?- chiese ad un tratto, e sembrava quasi serio.
-Non abbiamo ancora fatto tutto ciò che vogliamo fare, ricordi?
-Oh, giusto- annuì, buttò via la sigaretta e restò in silenzio.
L’unico suono percepibile era quello del mare, così forte e così delicato allo stesso tempo.
-Sei triste, Prudence.
-No.
-Non era una domanda- non mi guardava, i sui occhi studiavano con attenzione il moto violento delle onde, agitate dal vento.
-Sei molto triste, anche se lo nascondi, si legge nei tuoi occhi e nei tuoi gesti e in tutto quello che dici. Sei triste. Perché?
-Forse sono semplicemente fatta così, fa parte di me. Ci sono le persone creative, quelle intelligenti, quelle simpatiche e quelle tristi. Forse io sono triste, triste e basta, non c’è un motivo. 
Strappò un filo d’erba e se lo rigirò fra le dita
-Tu cosa sei, invece?- rise sommessamente.
-Cosa sono io? A parte un idiota, intendi? Ah, non lo so, ogni tanto me lo chiedo anche io che cosa sono, ma ci sono troppe risposte, è un quesito troppo grande per me, e per te, e per tutti. Io non lo so cosa sono, e tu? Secondo te io cosa sono?
-E’ un quesito troppo grande, l’hai detto anche tu, no? Sai, secondo me le persone, tutte le persone, non sono davvero chi sembrano. Secondo me dentro ognuno di noi c’è un ‘io’ che non può essere cambiato da nulla, non ci sono esperienze, libri, o teorie che tengano, è li, un pezzetto di noi che niente e nessuno può modificare, è all’interno, più in fondo della carne, resta lì, indisturbato, senza far troppo rumore, e sta a guardare chi scegliamo di diventare, sta a guardare cosa ne facciamo della vita che abbiamo. Non so, non ho la minima idea di cosa tu o io possiamo essere, e credo non lo sapremo mai- si girò e mi studiò pensieroso.
-Credi che questo fatidico ‘io’ non possa essere toccato da nulla, nemmeno da un’esperienza o un’emozione forte?
-No. Da nulla- voltò di nuovo lo sguardo verso il mare e annuì.
-E credi che noi non potremo mai davvero conoscere questo ‘io’ che abbiamo dentro?
-Credo che noi non vogliamo davvero conoscere questo ‘io’ che abbiamo dentro.
-Perché?
-Perché abbiamo paura. La gente ha paura, paura di tutto: della verità, delle amicizie, dei ritardi, dell’amore, di Dio, della solitudine, dei luoghi affollati, dell’altra gente, e di ciò che ha dentro.  
-E tu hai paura, Prudence?
-No. Tu?
Girò lentamente il capo verso di me e sorrise.
-Per niente.



Della serie: 'a volte ritornano', ecco il nuovo capitolo. Sì, sì, mi merito le botte, ma voi non avete idea del lavoro che c'è dietro questo capitolo! Dunque, per farla breve, il mio PC sta praticamente collassando(PC con dentro tutte, tutte le mie storie) ma era passato troppo tempo, dovevo aggiornare obbligatoriamente, allora mi sono armata di quadernino magico e ho cominciato a riscrivere tutto sul cartaceo(quindi ho anche stravolto un po' le cose) oggi, subito dopo pranzo, mi sono intrufolata in biblio, ho preso in ostaggio un computer ed ho riscritto il capitolo nuovo su Word(molto di fretta, quindi probabilmente ci saranno errori, voi segnalatemi se li trovate) e poi, dopo un lungo combattimento contro l'editor di EFP, sono riuscita ad aggiornare! 
Spero sia venuto perlomeno accettabile, o tutta questa fatica sarà stata vana!
Detto ciò, rinnovo le mie scuse a quelle due meraviglie di Joy_10 e Clairy93, che ne avranno abbastanza dei miei ignobili ritardi immagino, poi ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non, e torno a Catullo e alla sue sfighe d'amore con quella sciagurata di Lesbia(che donna crudele, tradire uno come Caty, bah!)
Hasta luego,
C.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI ***


VI


«Secondo te dove vanno a finire i ricordi, l’amore, i respiri, gli attimi felici e quelli tristi di una vita intera, dopo che si è morti?»
«Nell’aria.» Ben girò il capo e mi guardò confuso.
«Nell’aria?» annuii.
«L’aria non è inconsistente. E’ semplicemente fatta di milioni di cose inconsistenti. Quelli che stai respirando adesso potrebbero essere i ricordi di guerra di un soldato, sai? E guarda qui…» allungai la mano e la strinsi a pugno, cercando di catturare qualcosa di invisibile.
«Forse ora ho in mano tutta la storia d’amore di due anziani signori, morti insieme una cinquantina d’anni fa, o magari sto stringendo tutto il dolore di qualcuno che ora non c’è più. Lo vedi? E’ tutto nell’aria. L’aria assorbe ogni cosa, si prende tutto e fonde tutto con tutto, e allora le vite si mischiano e si stringono insieme nel vento» Ben annuì, voltando lo sguardo verso il mare agitato, osservando attento il moto violento delle onde. I suoi occhi si riempivano dell’acqua, e l’acqua si riempiva dei suoi occhi.
«Forse hai ragione. Ma io ho sempre pensato che finisse tutto nell’acqua.»
«Nell’acqua?»
«Già. Tempo fa lessi un libro e l'autrice scrisse che l’acqua si prende tutto da tutti e sigilla ogni cosa in bolle invisibili, si prende le vite vissute e consumate di qualcuno per completare quelle ancora giovani e candide di qualcun altro. Mette la felicità di una vita nel dolore di un’altra, e continua a scambiare i pezzi, prende nomi, date, visi e li beve, sì, l’acqua beve le vite degli altri. Io la penso così.» immaginai anime e anime ammassate su un fondale, le loro coscienze disperse nell’acqua, immaginai corpi inconsistenti nuotare e cercare il loro ‘io’ fra le onde.
«Be’, un giorno, prima o poi, scopriremo dove andremo a finire: se nell’aria o nell’acqua.»
«Io spero nell’acqua. Mi piace l’acqua.» Ben sorrise, e poi si alzò e si avvicinò velocemente alla riva, mosse qualche passo incerto ed andò avanti, finché l’acqua non gli arrivò alle ginocchia.
Lo raggiunsi di corsa, lo presi per mano e lo strattonai.
«Ben, non fare il matto, per favore!»  L’acqua era tremendamente fredda, già dopo pochi secondi cominciai a perdere la percezione dei miei piedi, sentivo che c’era qualcosa nel mio corpo che non funzionava, che mancava, e rabbrividii, sbattendo i denti.
«Ma io sono matto, Prudence!»
«Ben, ti prego, quando ho detto: ‘prima o poi scopriremo dove andremo a finire’, intendevo poi, molto poi!» lui scoppiò a ridere.
«Prudence, guarda che non ho mica intenzione di uccidermi!»
«Bene, perché io non verrei sicuramente a salvarti, finiremmo all’altro mondo entrambi e direi che non è proprio il caso, Benjamin!»  lui smise di ridere e indicò il fondale. Abbassai lo sguardo, non riuscivo bene a vedere cosa ci fosse oltre quella scura e gelida superficie, sentivo soltanto la sabbia sotto le scarpe e il freddo che si insinuava oltre i vestiti, scavando la carne fino a raggiungere le ossa.
«Forse ora stiamo calpestando una storia d’amore, Prudence.»
«Già, allora è meglio se usciamo, non trovi?» forzai la presa sulla sua mano e lo trascinai fuori. Lui non oppose resistenza ed una volta fuori dall’acqua si voltò e restò a guardarla per qualche minuto.
«Un giorno, quando farà più caldo, verremo a farci il bagno qui, me lo prometti Prudence?»
«Quando farà più caldo» annuii, pur sapendo che persino a Luglio l’acqua di Dublino sarebbe stata gelida.
«Ben è tardi, forse dovremmo…»
«Vuoi venire a vedere il mio ‘tetto sopra la testa’ in affitto?» chiese ad un tratto, voltandosi. Gli occhi scuri gli brillavano, era felice, si percepiva nell’aria attorno a lui che era felice, felice davvero.
«D’accordo.»
Camminando in silenzio, raggiungemmo nuovamente la stazione degli autobus. Quello per Dublino era vuoto, in sottofondo si sentivano soltanto le note di una canzone francese.
Mostrai all’autista due biglietti già timbrati, ma lui non disse nulla e fece cenno con la testa di andarci a sedere.
Ben prese posto vicino al finestrino.
«Capisci?»  chiese, indicando con una mano il soffitto dell’autobus.
«Cosa?»
«Le parole della canzone. Le capisci?»
«No, tu?»
Scosse la testa e si voltò, guardando fuori dal finestrino.
Fissai con attenzione il sedile davanti a me, era rosso porpora con delle fantasie vivaci, dei ghirigori gialli, posai l’indice su quei piccoli disegni strani e ne seguii i contorni, ad occhi chiusi.
Improvvisamente vidi una donna e una bambina salire in fretta e furia su un autobus.
‘Mamma, dove andiamo?’
‘In un bel posto, Prudence, andiamo in un bel posto’

Aprii gli occhi e sorpresi Ben che mi fissava pensieroso.
«Perché lo fai?» lui curvò le sopracciglia, perplesso.
«Che cosa?»
«Questa cosa»  dissi e lo indicai «ogni tanto ti… incanti e cominci a guardare fisso qualcosa o qualcuno. Perché lo fai?»
«Io, io non ne ho idea, sinceramente. Vedrò di non fissarti più, scusa» tornò a guardare il cielo fuori dal finestrino.
«A volte preferirei morire per non avere più nulla, a volte preferirei morire per non vederti mai più. Non ti amo più, amore mio. Non ti amo più tutti i giorni.»
«Cosa?» Ben si voltò repentinamente e mi osservò confuso.
«Sono le parole della canzone. Je ne t’aime plus, mon amour. Je ne t’aime plus, tous les jours.»
«Avevi detto che non le capivi».
«Non è vero, non l’ho mai detto, ti ricordi male.» lui sorrise.
L’autobus frenò delicatamente, feci cenno a Ben di alzarsi, salutai l’autista e scesi.
«Allora, da che parte si trova il tuo tetto sopra la testa in affitto?»
«Più o meno in centro. Vicino Merrion Square» annuii.
Le strade del centro erano sempre le più trafficate, a qualsiasi ora, giorno e notte. Persone, una miriade di persone intente a correre per la strada, e aria invasa dal rumore di clacson. Pensai a come dovesse essere buffo osservare tutto il centro di Dublino dall’alto. Probabilmente avrei visto una massa di formiche fare su e giù per i marciapiedi, e allora mi sarei sentita grande, grandissima.
Un gruppo di ragazzini passò affianco a Ben e lo spintonò.
«Devi perdonarli. Gli irlandesi sono molto vivaci, soprattutto i più giovani» lui sorrise.
«Nessun problema.» fece spallucce.
Continuai a camminare a fianco a Ben per altri dieci minuti buoni, poi lui si fermò davanti ad un condominio enorme con i muri tinti d’arancione.
Tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca e aprì il portone.
Salì due rampe di scale e poi si fermò al secondo piano e andò ad aprire una porta scura.
«Prego» disse e mi invitò ad entrare.
Dentro profumava di pulito, c’era una piccola cucina con un tavolo e delle sedie dai colori piuttosto sgargianti, ed un salottino con un divano bianco e un tappetto.
«Bagno e camera da letto sono di là» indicò due porte vicine alla cucina «non è niente di speciale, me l’ha affittato un amico, giusto per qualche settimana.»
«E’ carino.»
«Sì, sì è carino. Vuoi da bere?» chiese e si avvicinò al frigo.
«Ti manca Londra, Ben?» gli chiesi e si fermò a metà strada, voltandosi verso di me.
«Certo… certo che mi manca Londra.»
«E allora perché sei qui? Davvero: perché sei qui?» abbassò lo sguardo, tenendo gli occhi incollati al pavimento.
«Io non ne ho idea, Prudence, non ne ho idea. Sono qui perché sono stanco, davvero molto stanco, sono qui perché ho passato gli ultimi venticinque anni a giocare a fare l’attore emergente pur avendo una fottuta laurea in tasca, e sono andato avanti a rifiutare ogni proposta di un lavoro serio, sono qui perché ho mandato affanculo la mia compagnia teatrale per fare uno stupido, stupidissimo provino per un film enorme, e a Londra ovunque mi giri vedo uno dei miei fallimenti. Certo, Prudence, mi manca Londra, non immagini quanto, ma sono qui perché qui sono nessuno, e se sei nessuno la vita è molto più facile.» sputò fuori quelle parole con rabbia, poi scosse la testa e andò a sedersi sul divano.
Mi avvicinai in silenzio e poi mi misi seduta di fronte a lui, sul tappeto.
«Mi spiace, Benjamin» sorrise.
«Già. E invece tu? Tu perché sei ancora qui e non ad Amsterdam?»
«Te l’ho già detto, mi sembra.»
«Non mi hai detto tutto, però.»
«Okay, allora, sono ancora qui perché ho un fratello di sette anni, un padre che ha deciso di lasciarci quando la sua ragazza era appena rimasta incinta per la seconda volta e una madre che non fa altro che piangere guardando vecchie foto e bevendo Whisky. Sono ancora qui perché ogni settimana mi devo trovare un nuovo lavoro oppure ci staccano la corrente o ci cacciano via. A volte non ci riesco e restiamo al buio, sai? Allora mia madre smette di piangere e accende candele, tantissime candele. E si comporta come se niente fosse. ‘Le candele sono così belle, di cosa ti lamenti, Prudence?’ mi dice sempre. Sai, Ben, anch’io vorrei essere nessuno, vorrei essere come l’acqua o come l’aria, ma non si può. Non possiamo essere nessuno.» Ben annuì.
«Mi spiace, Prudence, davvero» feci spallucce.
«Non preoccuparti. Ora però devo proprio andare» gli dissi alzandomi e avvicinandomi alla porta, Ben mi raggiunse con pochi passi.
«Aspetta, ti spiace se ti accompagno fino in metro?» scossi la testa.
Fuori aveva ricominciato a piovere, meno del giorno prima, allora accelerammo il passo, restando sempre in silenzio, solo il rumore dell’acqua e le voci dei passanti.
La solita elle rossa ricomparve in lontananza, dissi a Ben di tornare indietro, stava per arrivare un temporale.
«A me tanto piacciono i temporali.»
A quell’ora la metropolitana di Dublino era sempre piena.
Gente che tornava dopo una giornata di lavoro, e chi invece andava via, per passare la notte lontano.
«Allora dove ci rivediamo?»
«Dove vuole il destino, no?» sorrisi.
«Sul serio.»
«Dico anch’io sul serio!» la metro per Raheny arrivò spaccando il minuto.
«Devo andare, Ben.»
Mossi qualche passo tra la folla, ma poi sentii Ben chiamarmi e tirarmi per la manica del giubbotto.
«Sì? Che c’è?»
«Proprio niente» rispose lui e poi mi baciò, all’improvviso.
Molti dicevano che i baci non avevano alcun significato, erano solo labbra di corpi diversi che si incontravano, mani che si intrecciavano e corpi vicini, tremendamente vicini.
Ma i baci, pensavo, erano gli spazi vuoti delle parole, erano tutto ciò che le parole non avrebbero mai detto, mai potuto dire, perché i baci avevano uno spessore infinito, i baci riempivano d’infinito ciò che le parole non avrebbero mai saputo e potuto riempire.
Ben mi lasciò andare piano, delicatamente, poi mi guardò e sorrise e allora io corsi, corsi dentro la metro facendomi strada tra la folla, e cercai di capire cosa quel bacio volesse dire.


Eilà.
Sono in ritardo come sempre, lo so, anche se meno rispetto ai miei soliti standard D:
Rinnovo come sempre le scuse a quelle due meraviglie di Joy_10 e Clairy93, e auguro a tutti buon anno.
Buona lettura e grazie, grazie mille a tutti i lettori, silenziosi e non.
Hasta luego,
C.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII ***


VII


Le luci, tutte le luci, erano spente e la stanza puzzava di fumo.
Qualcuno, nel buio, stava fumando in silenzio.
«Mamma?» chiamai e prima che rispondesse passò qualche minuto, qualche boccata in più.
«Sono finite le candele. E anche le luci.»
«Le luci non sono finite, noi non abbiamo pagato e ce le hanno tolte, per l’ennesima volta.» sbuffò sonoramente, come una bambina infastidita.
«Però tu ti sei pagata le sigarette, a quanto pare.»
«Le sigarette fanno stare meglio, l’elettricità invece non ha mai aiutato nessuno.» rispose in tono ovvio, perché lei - e ormai lo sapevo - viveva delle sue assurde convinzioni che nessuno, nessuno al mondo, avrebbe mai potuto smontare.
Per lei i soldi, l’elettricità, il lavoro, io e Jude, non eravamo un problema, andava tutto bene, nella sua testa andava tutto bene, eravamo tutti appesi ad un filo che ci teneva al sicuro, in una dimensione ordinata dove non dovevamo preoccuparci di nulla, lei invece soffriva e nessuno la capiva, nessuno l’aiutava, nessuno le dava un filo sicuro a cui aggrapparsi.
E se la luce non c’era, cosa poteva importarle?
Cosa poteva fare la luce per aiutarla?
Le sigarette invece - così diceva spesso - riempivano i suoi vuoti.
Per quanto ne sapevo io, il fumo non aveva mai riempito un bel nulla.
«Hai ragione, mamma. L’elettricità non ha mai aiutato nessuno, e sai chi altro non ha mai aiutato nessuno? Mio padre. Lui ha aiutato solo se stesso e ci scommetto che ora che la sua vita è una pacchia, certo, la sua ex con due figli non gli ha mai chiesto nulla per paura di disturbarlo troppo, di rovinargli la vita, non si rovina la vita all’uomo che si ama, giusto? E allora quali preoccupazioni potrebbe mai avere? Nessuna.» lei restò in silenzio per alcuni istanti e poi rise.
«Tu non sai niente, Prudence, niente. E non venire a farmi la predica quando di questa storia conosci solo i margini, non permetterti di parlare di Lui e di me con questo tono di superiorità, mi hai capita? Non ti permettere!» soffiò e poi fece un altro tiro.
Scossi la testa e mi allontanai, cercando, a tentoni, di raggiungere la mia camera.
Appena aprii la porta qualcuno mi corse in contro e si aggrappò alla mia gamba.
«Jude!»
«Prudence, Prudence, piove! Senti come piove! Tuona, li senti i tuoni? Viene giù il cielo! Senti come piove!» lo presi in braccio e lui nascose il viso nell’incavo del mio collo.
Mi avvicinai alla finestra e scostai la tendina.
«Hey, guarda!» indicai la strada con un dito e lui lo seguì con i suoi occhi blu illuminati dalla luce della via.
«Le vedi le goccioline sotto quel lampione? Tutte insieme sono pioggia. E sai che cos’è la pioggia? Acqua, semplicemente acqua. Non devi spaventarti, non avrai mica paura dell’acqua?»
«Che cosa c’è dentro l’acqua?» chiese voltando il capo verso di me.
«Dentro l’acqua c’è solo altra acqua, l’acqua è fatta di acqua, Jude.» lui si stropicciò gli occhi con una mano e sul suo viso prese forma un’espressione confusa.
«Ascolta, Jude, non c’è niente in quelle goccioline, sono fatte di acqua che è fatta di niente e appena toccano l’asfalto muoiono. Non lo vedi come sono fragili? Non devi aver paura della pioggia… è solo pioggia.»
«Non viene giù il cielo allora?» scossi la testa sorridendo e lui tirò un gran sospiro di sollievo.
Restò per qualche minuto in silenzio, osservando con i suoi occhi blu la pioggia che moriva sull’asfalto e poi parlò, con voce dispiaciuta.
«Prudence, mi hai detto una bugia.» sgranai gli occhi e lui si affrettò a finire «Non è vero che possiamo aiutare la mamma. Non è vero, vero? E non dire bugie.» scavai nella mente in cerca di una risposta adatta ad un bambino di sette anni, ma cosa potevo dirgli?
Le bugie, potevo raccontargli solo bugie, potevo ma non volevo, e lui non voleva.
«No, non possiamo, Jude. Almeno non noi.»
«Papà?» al sentirgli pronunciare quella parola il mio cuore perse un battito.
«Jude, ascoltami: papà non c’è e noi non possiamo aiutare la mamma, ma ti prometto, te lo prometto davvero, che un giorno, prestissimo, ti porterò in un posto bellissimo pieno zeppo di fiori. A te piacciono tanto i fiori, giusto?» lui annuì «ecco, lì ci sono solo fiori ed anche i mulini, dei bellissimi mulini e tanta gente che va in bicicletta. È un posto bellissimo, e giuro che presto ci andremo, solo io e te, e staremo benissimo. Lo prometto, ti fidi?» lui sorrise ed annuì.
«Presto presto?» chiese, con gli occhi blu felici.
«Prestissimo.» mi allontanai dalla finestra e posai Jude sul letto.
La stanza era completamente nascosta dal buio, io e Jude eravamo completamente nascosti dal buio.
Lo sentii spostare le coperte e sistemare il cuscino e poi battere con la mano sul letto, per chiedermi di raggiungerlo.
Tolsi la giacca e pensai che al buio le persone erano sempre sincere e attente alle piccole cose che la luce oscurava.
Forse la luce, in fondo, era più buia del buio.
«Prue?»
«Arrivo, arrivo.» mi infilai sotto le coperte ed abbracciai Jude, che si addormentò poco dopo.
Io invece non riuscivo proprio a dormire.
C’era un pensiero, fino ad allora rimasto nascosto in un lato remoto della mente, che si faceva avanti insistente.
Ben e il bacio di prima.
Benjamin.
Pensai che di lui sapevo molto poco. Il cognome, ad esempio.
Qual era il suo cognome?
Aveva fratelli o sorelle?
Quanto sarebbe rimasto a Dublino?

Oppure le cose più stupide che di una persona si potevano sapere, quelle ridicole e poco importanti.
Qual era la sua band preferita?
Il suo libro preferito?
Aveva paura di qualcosa?

Era, sostanzialmente, un estraneo, ed io ero lo stesso per lui.
Scossi la testa cercando di scacciare il pensiero di lui, ma non ci riuscii, restai con gli occhi chiusi ad ascoltare il battito del cuore di Jude fino alla cinque di mattina, poi mi alzai e mi rivestii lentamente, cercando di infilarmi i vestiti per il verso giusto, svegliai Jude e lo portai dalla signora che abitava accanto a noi.
«Tu dove vai?» chiese sbadigliando prima che suonassi il campanello.
«Devo andare in un posto a… a pensare un po’, ma prometto che oggi pomeriggio ti porto in giro, ci stai?» lui annuì e poco dopo la porta della vicina si aprì.
La vicina,  che si chiamava Abigail, aveva una trentina d’anni e faceva l’insegnante, ma in realtà aveva sempre voluto diventare una poetessa ed ogni mattina si svegliava alle quattro, preparava un te e si metteva a scrivere poesie.
Abigail era una bella donna con i capelli corvini ed il viso gentile, era sposata ma il marito lavorava all’estero e lei era perennemente sola con il figlio di sette anni.
«Guarda un po’ chi è arrivato…» disse sorridendo a Jude e poi alzando lo sguardo su di me.
«Può stare qui con te? Passo a prenderlo dopo.» lei mi fece l’occhiolino ed invitò Jude ad entrare, lui mi lasciò la mano e varcò la soglia della casa di Abigail.
«Ci sono ancora i biscotti con le macchiette al cioccolato dell’altra volta?» le chiese, timido e lei gli spettinò i capelli.
«Certamente!» salutai Jude con la mano, ringraziai Abigail ed uscii per strada, dritta verso la metro.
Uscivo spesso al mattino presto.
A quell’ora il blu del cielo in transizione ingoiava le strade, e sui marciapiedi c’era solo gente interessante.
Ad esempio le persone che camminavano sole e senza meta, che si ritrovavano per strada a quell’ora solo perché quella stessa strada assomigliava terribilmente a loro, era vuota e buia.
Oppure c’erano gli ubriachi, ma quelli ubriachi davvero e non per gioco, che la strada su cui passare la notte se la sceglievano e se la facevano amica.
La gente interessante.
Ecco, la gente interessante usciva di casa sola e la trovavi a zonzo per strada di notte o alla mattina presto, al pomeriggio facevi più fatica ad incontrarla, c’era bisogno di più attenzione.
Scesi in fretta gli scalini della metro e sentii il vento scompigliarmi i capelli.
Arrivata al binario vidi Ben seduto sulla mia panchina.
«Lo sapevo che ti trovavo. Qui.» lui alzò lentamente il capo e sembrò confuso.
«Hai dormito qui?» chiesi sedendomi vicino a lui.
«Non ho dormito.»
«Nemmeno io.»
Per un po’ non parlò nessuno, Ben teneva gli occhi fissi sulla linea gialla tratteggiata a terra.
«Pensavo che non ti avrei rivista più.»
«Perché l’hai fatto?» gli chiesi, riferendomi al bacio e lui, improvvisamente, cominciò a ridere.
«Volevo…» tentò poi, dopo essersi calmato «volevo cogliere l’attimo.»
«Credo di aver avuto una brutta influenza su di te, Benjamin.» lui scosse la testa.
«Perché tu invece sei… fiu… corsa via?»
«Perché non me l’aspettavo e non capivo perché… perché era successo.» lui annuì, ma sembrava che le mie spiegazioni non fossero state abbastanza soddisfacenti.
«Ascolta, Prudence, tu sei… diversa ed è una cosa che mi piace parecchio ed è strano, strano forte, perché, dannazione, ti conosco da forse meno di quarantotto ore, ma… se ti dico che mi hai stravolto?»
«Stravolto?»
«Stravolto.» ripeté annuendo «Stravolto, sconvolto, ribaltato, capovolto, io… non lo so, è strano. Magari pensi che io sia matto, anzi, sicuramente pensi che io sia matto, però ascoltami: non credo all’amore, okay? Senti che suono maledettamente ridicolo che ha questa parola, amore, mi sento idiota solo a pronunciarla! Per me è un'idiozia, come Babbo Natale o la fatina dei denti, o forse, che ne so, amore esiste e non è mai passato dalle mie parti, non lo so, so solo che… che sono solo e resterò solo, mi va bene così, però ho bisogno… ho bisogno di stare solo insieme a qualcuno, quindi… non è che per caso vuoi stare sola insieme a me? Senza impegno, eh.» lo guardai sorpresa ed accennai un sorriso.
«Mi piacerebbe molto stare sola insieme a te ma…»
«Ma?»
«Ma prima prendiamo la prossima metro, andiamo in un bel posto a fare colazione e intanto ci raccontiamo la storia della nostra vita, dobbiamo raccontarci proprio tutto, anche le cose più stupide ed imbarazzanti.» lui rise e mi prese la mano.
«Allora comincio io, ho un bel po’ di roba da raccontare…»



Salve, sì, sì, non aggiorno da un mese e passa, ho raggiunto l'apice dello squallore, lo so, lo so, ma al momento sto portando avanti anche un'altra long un po' strana e contorta, che in questo ultimo periodo mi sta aiutando un sacco, quindi le ho un po' dato la precedenza, ma Ben e Prue erano sempre nella mia testolina.
Mi spiace essere così in ritardo, mi scuso come sempre con quelle due meraviglie di Joy e Clairy, che mi supportano e sOpportano come poche.
E niente, spero non sia vomitevole(?), vi auguro buona lettura e ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non.
Boh, qualcuno shippa questi due quindi beccateveli:

 
Creds: mychemicalangel (tumblr)
besos,
C.

 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII ***


VIII


La pioggia, dopo una breve tregua, aveva ricominciato a bagnare senza sosta Dublino.
Il verde parco di Merrion Square era completamente in balìa di quella pioggia, pioggia che, per la violenza con cui si abbatteva al suolo, sembrava terribilmente e irrimediabilmente arrabbiata.
«Vieni!» presi Ben per mano e lo portai sotto uno degli alberi più grandi del parco, una vecchia catalpa.
Lasciai la presa sulla sua mano e mi misi seduta a terra, lui mi fissò perplesso ma poi scosse la testa e si sistemò accanto a me.
«Bello vero?» gli chiesi indicando l’enorme parco attorno a noi, parco un po’ maltrattato dall’indifferenza di molti, ma capace di togliere qualsiasi parola di bocca.
«È stravolgente quasi quanto te.»
«Lo prendo per un complimento, Benjamin…»
«Barnes, Benjamin Thomas Barnes, anche se lo pronunciano tutti sbagliato.»
«Io Gallagher, Prudence Gallagher, come gli Oasis.» lui strinse la mia mano e annuì.
«Non è che mi racconteresti…»
«Nato e vissuto a Londra da venticinque noiosissimi anni, padre psichiatra e madre psicoterapeuta, che fra parentesi cucina certi arrosti da dio. Ho un fratello di tre anni più piccolo di nome Jack. Segni particolari: nessuno, doti particolari: nessuna. Ho paura delle farfalle, non solo quelle notturne, qualsiasi farfalla, una volta, da bambino, mio padre tentò di aiutarmi: mi costrinse a passare un pomeriggio intero in giardino, era primavera ed era pieno zeppo di farfalle… credo di aver pianto tutto il tempo.» mentre parlava fissava con sguardo serio la mia mano ancora stretta alla sua, poi alzò piano gli occhi sul mio viso e sorrise debolmente.
«Farfalle?»
«Farfalle.» ripeté, poi poggiò la testa sul tronco della catalpa e chiuse gli occhi.
«Sono degli insetti così graziosi, perché ti fanno paura?»
«Non lo so, le paure non ce le si spiega, esistono e basta, ci si convive senza farsi troppe domande. Non lo so, ho paura delle farfalle, o forse, forse non è paura ma invidia.» un violento tuono gli fece riaprire improvvisamente gli occhi.
«Il cielo è un po’ arrabbiato oggi. Tornando a te: perché dovresti invidiare le farfalle?»
«Perché hanno quelle ridicole ali colorate e vanno dove vogliono, hanno una vita così breve ma riescono a fare qualsiasi cosa vogliano, volare dovunque, un posto non va bene per loro? Perfetto, sbattono le ali e sono altrove e quando muoiono, nella loro minuscola coscienza sanno di aver fatto proprio tutto. Non credi sarebbe più semplice fare la vita da farfalla, Prudence?» mi guardò con i suoi occhi neri e stanchi e sospirò.
«Allora mi hai mentito in metro, la seconda volta che ci siamo incontrati. Non è vero che non hai mai pensato alla morte, in realtà ci pensi tanto quanto me.»
«Come fai a non pensarci? Insomma, questo dannato mondo è così pieno di incertezze, vorrei fare tutto ciò che voglio prima che arrivi la mazzata finale, ma sai che c’è? Non ho la più pallida idea di cosa sia tutto ciò che voglio. Invece, invece guarda le farfalle, loro possono vivere fino in fondo, possono volare, possono andare lontano, possono non seguire le regole, possono… possono tutto! Ecco, forse è per questo che mi fanno paura, perché fanno una vita migliore, dei vermi con le ali fanno la vita migliore di tutto il mondo.» scosse la testa, lasciò la mia mano e voltò il capo verso destra, fissando gli occhi su un punto vuoto tra gli alberi lontani.
«Hai ragione. Ma sai, c’è una cosa che le farfalle non potranno mai fare.»
«E sarebbe?» chiese distante.
Mi avvicinai di più a lui, poi gli presi il viso tra le mani, costringendolo a voltare il capo, e lo baciai come lui aveva fatto solo poco tempo prima.
Sembrò sorpreso, ma subito ricambiò, stavolta più lentamente e delicatamente dell’ultima.
Mi allontanai piano e lui sorrise.
«Lo hai fatto per pareggiare i conti?»
«Esatto.»
«Credo che ora tocchi a te raccontarmi qualcosa.»
«Sono nata qui e ci vivo ormai da ventun altrettanto noiosissimi anni, ho un fratellino di sette anni di nome Jude, una madre assurdamente innamorata di un uomo che l’ha lasciata mentre era ancora incinta del secondo figlio e una vita abbastanza complicata, ma cos’è la vita senza qualche problema? Per il resto non credo ci sia molto da sapere, mi piace scrivere e spero, molto presto, di andare ad Amsterdam e restare lì tutto il resto della mia vita.» Ben mi abbracciò forte e mi baciò la fronte.
«Ti ci poterò io, lo giuro.» sussurrò al mio orecchio.
«No, non ci riuscirai. E allora non giurare se poi non puoi mantenere le promesse che fai.»
Si allontanò ma prese la mia mano e intrecciò le sue dita alle mie.
«Sai, una volta un tizio con una ridicola calzamaglia verde ha preso una ragazzina di nome Wendy e l’ha portata in un posto sperduto, così sperduto che si chiamava Isola Che Non C’è. Ora, se questo tizio ridicolo ha fatto una cosa simile, perché mai io non potrei portarti ad Amsterdam?»
«Credo questo tizio avesse della polvere di fata che gli permetteva di volare, come una farfalla.»
«Già, ma nel frattempo hanno inventato gli aerei.» cominciai a ridere e lui fece altrettanto.
La pioggia continuava a cadere copiosa e le foglie della catalpa, strappate via dai rami a causa del vento, scivolavano sulle nostre teste.
«Porteremo anche Jude con noi.» disse Ben e allora ricordai di averlo lasciato dalla signora Abigail e di avergli promesso che sarei andata a prenderlo e saremmo andati in giro.
Mi alzai velocemente da terra, il fango che sporcava i jeans.
Ben mi imitò e sembrò confuso.
«Che fai?»
«Jude! Devo correre a prenderlo, scusa, ho promesso!» lo baciai velocemente e corsi.
«Hey! Ma noi dove ci rivediamo?!»
«Al solito posto!» urlai e mi avvicinai all’uscita del parco.
 
 
 
In ritardo come mio solito, eh! Chiedo venia, non sono proprio in grado di portare avanti una long in modo puntuale.
Chiedo come sempre scusa e ringrazio Clairy e Joy che sono gentili e disponibili come poche.
Ah, tengo a precisare che Ben in realtà non ha paura delle farfalle, almeno, non l'ha mai detto, me lo sono inventato, poi se è vero boh, bisognerebbe chiederlo a lui, ma non avendo avuto la fortuna di conoscerlo non ho potuto... ma perché sto sproloquiando in questo modo?!
Buona lettura e grazie, grazie a tutti i lettori, silenziosi e non.
C.


Ah, siccome questi due abbelliscono un sacco questa pagina, sbam, li rimetto:

 Creds: mychemicalangel(tumblr)
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX ***


IX


«Dove andiamo, Prue?»
«Dalla pioggia.»
Jude puntò i suoi occhi grandi e blu su di me e scosse la testa, spaventato.
«Non la voglio vedere, Prue, per favore.» tentò di allontanarsi ma lo fermai e lo presi in braccio, anche se era già diventato grande.
Ma ormai ogni volta che Jude era spaventato, lo prendevo in braccio e lui nascondeva il viso nell’incavo del mio collo.
‘Questo qui è il mio posto, solo il mio’  mi aveva detto una volta, prima di addormentarsi.
«Facciamo così: ti porto dalla pioggia, la guardi, la tocchi e poi mi dici se ti piace o meno, se non ti piace prometto che ti riporto a casa.» lui annuì e io aprii il portone del condominio e lo rimisi a terra, tenendolo per mano.
Lui alzò il viso e la pioggia baciò la sua pelle chiara e scivolò sul suo corpo.
Lui rise.                     
«Fa il solletico.»
Una volta a Dublino invece della pioggia era piovuto giù ghiaccio, mia madre era uscita con Jude e lui era tornato a casa con gli occhi gonfi e lucidi.
‘Il cielo è cattivo’ aveva detto e da allora, quando pioveva, Jude cercava di restare in casa, ma a Dublino pioveva sempre e, prima o poi, avrebbe dovuto far amicizia con la pioggia.
Uscii per strada, andai verso la metro, pensai che a Ben sarebbe piaciuto conoscere Jude, e d’altra parte Jude avrebbe adorato uno come Ben.
Il cielo, pian piano, si stava aprendo, Jude alzò il capo ed osservò le nuvole muoversi in alto, andò a sbattere contro la gamba di una signora con un capello buffo che mi lanciò un’occhiataccia e poi proseguì per la sua strada.
«Sei mai stato sottoterra, Jude?» lui scosse la testa.
«Ti ci porto io, allora.»
Imboccai le scale che portavano alla metro e Jude sembrò confuso.
In sottofondo si sentiva una canzone degli U2, il cantante era stanco della città e della gente e voleva portare la sua ragazza via e amarla in un posto lontano dal mondo.
Un vento fresco spettinò i capelli sia a me che a Jude ed una voce familiare mi chiamò.
«Ho fatto una corsa! Alla fermata vicino a Merrion Square era pieno di gente!»
Ben mi venne incontro, poi vide Jude e si fermò di colpo.
«Lui è…» annuii.
Jude incurvò le sopracciglia, perplesso e Ben gli si avvicinò, poi si mise seduto sui talloni e gli tese la mano.
«Molto piacere Jude, devi sapere che qui a Dublino sei famosissimo e che tua sorella parla sempre di te. Io sono Benjamin, ma puoi chiamarmi Ben.»
«Devi chiamarlo Ben, perché Benjamin non gli piace.» aggiunsi, Jude cominciò a ridere e diede la sua piccola mano a Ben.
«Perché non ti piace?»
«Andiamo, a te piace?» Jude ci pensò un attimo su ma poi scosse la testa facendo una smorfia.
«Piace solo a mia madre.»
«Jude, ti va di vedere dove vive Benjamin… momentaneamente?» Jude annuì energicamente e Ben alzò gli occhi su di me.
«Ho corso da Merrion Square fin qui per… per poi tornare a Merrion Square?» gli feci l’occhiolino e lui si alzò in piedi, sorridendo.
Una voce meccanica che arrivava dall’alto ci intimò di allontanarci dalla linea gialla perché la metro stava per arrivare.
«Sei altissimo!» Jude indicò Ben e lui si abbassò e lo prese in braccio.
«Allora, com’è il mondo da quassù?»
«Molto più basso, molto più basso.» Jude si teneva forte alle spalle di Ben e guardava attorno a lui con i suoi occhi grandi e blu, attonito.
Sapevo che Ben gli sarebbe piaciuto.
Jude conosceva poche persone e se qualcuno lo intimidiva tendeva a chiudersi e non parlare più, ma ora sembrava contento e spensierato, ed era un bene, perché di solito non sorrideva così.
La metro arrivò subito, era piena come di consueto.
Ben si appoggiò ad un palo grigio ed io restai compressa tra un tizio che puzzava di fumo ed una signora che parlava al telefono con la nipote ed indossava una pelliccia che sapeva di polvere.
Per tutto il tragitto osservai Ben e Jude parlare animatamente e sorrisi, continuarono così anche una volta scesi dalla metro e non smisero un secondo di ridere.
Arrivati davanti al palazzo con i muri arancioni, Ben tirò fuori dalla tasca dei jeans delle chiavi ed aprì il portone, salì le scale ed entrò nel suo appartamento con la porta scura.
«Scusa se ti abbiamo ignorata, Prudence… cose da uomini.» mise a terra Jude ed andò con lui a sedersi sul divano bianco.
«Metto un po’ di musica? Jude, ti piacciono i Rolling Stones?» Jude alzò le spalle.
«Chi sono?»
«Chi sono gli Stones? Allora, gli Stones sono dei tizi fichi, sono inglesi come me e negli anni sessanta hanno cominciato a fare… a fare musica tosta ed ora sono famosissimi, quasi quanto te.»
Jude annuì e sbadigliò.
«Poi li ascolto, ma ora ho sonno… Prudence… Prudence mi ha svegliato presto.» poggiò la testa su un cuscino, chiuse gli occhi e poco dopo si addormentò.
Ben gli mise addosso una coperta che stava sopra al divano e gli lasciò una carezza sui capelli, poi mi guardò e sorrise.
«Magari ha bisogno di un’altra coperta, fa un po’ freddo.» gli dissi e lui annuì.
«Certo, di qua.»
Fece cenno con la testa ad una porta ed io lo seguii.
Era la camera da letto e lo sentii ridere.
«Giuro che le coperte sono davvero tutte qui ed io non sono un maniaco!»
«Tranquillo, ci credo.» aprì un armadio e tirò fuori una coperta pesante dal colore scuro.
«Jude ti adora.» mi sorrise, avvicinandosi.
«Quando diventerà grande sarà bello quasi quanto te, è molto fortunato.»
«Non mi stai facendo un po’ troppi complimenti ultimamente, Benjamin?»
«Da chi hai preso gli occhi verdi?»
«Non ne ho idea.»
«A chiunque tu li abbia rubati, sappi che ti stanno da dio.»
Lasciò cadere a terra la coperta e mi baciò, molto meno delicato delle ultime volte.
«Cavolo! Ti avevo detto che non ero un maniaco!»
«Benjamin, questo è il momento perfetto in cui, invece di parlare, puoi utilizzare la tua splendida bocca per fare altro.»
«Che invito soave!»
Riprese a baciarmi e presto i vestiti caddero a terra, e insieme a loro finirono sul pavimento anche i problemi e le complicazioni, le incertezze e i brutti ricordi.
Non esisteva più nulla.
 
 
 

Faceva freddo, dannazione.
Quelle lenzuola non scaldavano abbastanza.
Ben fissò i suoi occhi su di me, come faceva spesso.
Ben aveva gli occhi neri e prima d’allora non li avevo mai visti così da vicino.
Gli occhi neri.
Neri.
Il nero.
Una volta mia madre era uscita a farsi un bicchierino al bar sotto casa, andai a prenderla e la trovai completamente sbronza, Finbar se n’era appena andato di casa e allora lei aveva tentato di affogarlo con un po’ di whisky.
La portai fuori dal bar, lei barcollava e si guardava intorno con gli occhi lucidi, era notte ed il cielo era nero, allora mi disse, con voce pastosa, che i colori sono come gli uomini, buoni o cattivi.
I colori buoni erano più o meno tutti, bianco, giallo, verde, rosa, arancione, viola e via dicendo.
Ma ne esisteva uno, l’unico, che era un colore cattivo: il nero.
Magia nera, gatto nero, umore nero, nero di rabbia, morte nera, peste nera, vedere nero, giornata nera.
Il nero era sempre stato un colore cattivo, nessuno aveva mai amato il nero, certi uomini erano arrivati anche a fare la guerra solo perché altri uomini uguali a loro avevano la pelle di quel colore.
Il nero.
Crescendo avevo ripensato alle parole di mia madre e riflettendo era venuto fuori che il nero era anche il colore dell’inchiostro e c’era chi viveva solo sporcando pagine bianche di inchiostro nero, e poi ancora il nero era il colore del carbone e del petrolio, e sicuramente il mondo senza carbone né petrolio non avrebbe mai campato così bene, e molti dei migliori sportivi al mondo avevano la pelle nera.
Il nero non era così male, non era un colore cattivo, anzi, forse era il più buono, il più buono di tutti.
E allora un giorno il nero si era stancato della gente ingrata che non lo sapeva apprezzare, aveva detto basta a tutto e a tutti e si era tuffato a capofitto negli occhi di Ben.
Eccolo, ecco dove stava il nero, tutto il nero.
Erano nati un paio d’occhi nuovi ancora tutti da colorare, azzurro e verde erano già in fila, ma nero aveva preso una bella scorciatoia e aveva abbracciato quegli occhi tutti nuovi.
Sono miei e solo miei, adesso sono miei.
E il nero, il buon nero, aveva salutato quelle due pupille nuove e buie, buie come lui e poi ci aveva anche fatto l’amore, ed ora restava ancora là dentro, dentro a quegli occhi neri, ed osservava il mondo vuoto e privo di nero, perché sopra quel mondo non c’era più un nero che fosse davvero nero, nero come quegli occhi neri.
«A cosa pensi?» mi chiese Ben, scostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Ho paura.»
«Di cosa?»
«Della fine.»
«Perché?»
«Perché finisce tutto e finiscono tutti. Finiscono i minuti e le ore e poi finiscono i giorni, le settimane, i mesi, gli anni. Finisce il tempo, finisce il mondo. Finiscono tutti. Finiamo anche noi.»
«Ma l’acqua.»
«L’acqua?»
«L’acqua non finisce.»
«E allora?»
«Allora saremo come l’acqua e non finiremo mai.»
«Te ne andrai?»
«L’acqua non può andare via dall’acqua.»





Non sono in ritardo!
Ragà, non sono in ritardo!
Boh, scoop!
Comunque, detto questo vorrei precisare che, primo: non sono in grado di descrivere scene passionali(?); secondo: sono anche un po' troppo(troppissimo) giovane per scrivere scene simili; terzo: non credo ce ne fosse bisogno, insomma, a me bastava far capire che i due hanno quagliato, ecco, quindi se non trovate descrizioni del quagliamento(?) è per queste ragioni..
Quindi nulla, spero ne sia venuta fuori una cosa decente e non so come mi è venuto in mete di scrivere un tale papiro su Benjamin Thomas Barnes ed i suoi occhi neri, davvero non ne ho idea.
Ringrazio come sempre Clairy e Joy, che mi sopportano costantemente non so come e non so perché.
E ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non.
C.

Non metto più la gif, vi ho rotto le scatole già troppo con Ben ed Astrid/Prudence ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X ***


X



Qui i ricordi si accavallano e vedo scuro, so che i giorni che vennero dopo quella notte furono felici perché c’è una macchia di luce nella mia testa e so che l’ha portata lì Ben ed io ho cercato di dimenticare tutto ma la memoria è strana ed ha cancellato poco di Lui, o forse ha cancellato tutto ed ora, ora che è qui di fronte a me dopo così tanto tempo, gli attimi passati accorrono insieme e i ricordi ritornano, all’inizio limpidi e chiari, perché l’inizio di tutto è ciò che c’è di più importante, e so, so che anche la fine sarà limpida e chiara come l’inizio, ma ciò che sta nel mezzo è sfocato e confuso.
Proverò a ricordare con più precisione, proverò a rivedere ciò che successe i giorni dopo, i mesi dopo.
 
 
 
 
 
 
 «Prudence e Jude. A tua madre piacciono un sacco i Beatles, eh?»
Sul parco di Merrion Square soffiava un vento gentile, era passato Dicembre ed era arrivato Gennaio, ma la neve non arrivò.
Una signora anziana e canuta con un vestito a fiori andò a sedersi su una panchina vuota vicina al nostro albero e puntò i suoi piccoli occhi azzurri su me e Ben.
«Li amava alla follia, ma ora non più, ha smesso di ascoltare qualsiasi tipo di musica.» Ben annuì, abbassando lo sguardo sul prato.
«Perché tuo padre se n’è andato?» restai sorpresa dalla sua domanda così esplicita e riordinai per bene le parole, tentando di dargli una spiegazione che non fosse troppo penosa.
«Era una storia troppo… traballante, non erano nemmeno sposati e c’erano i debiti da pagare e una figlia da crescere. Lui se n’è approfittato e ci ha mollati, lo sapeva che mia madre era di nuovo incinta, ma sapeva anche che se se ne fosse andato non sarebbe ricorsa ad avvocati o giudici per metterlo nei casini, era troppo innamorata per farlo. Una mattina mi sono svegliata e non c’era più.» Ben intrecciò le sue dita alla mie ed accennò un sorriso poco convinto.
«Mi spiace.»
«A me no. Tu lo vorresti un padre così? Non credo.»
La signora sulla panchina tossicchiò, senza abbassare lo sguardo e poi sorrise.
Ci osservava attenta, senza perdere un solo movimento dei nostri corpi, probabilmente ci stava ascoltando.
Mi chiesi cosa mai ci facesse su quella panchina tutta sola, suo marito? Chissà dov’era e perché lì con lei non c’era.
«E mia madre che ancora lo ama! L’amore è proprio strano.» sospirai, alzando le spalle.
«L’amore non esiste.»
«No?»
«No.»
«E allora cosa siamo noi?»
«Siamo l’oltre.»
«L’oltre?»
«Amore non esiste e se esiste, fidati, sarà seduto su una di quelle panchine a guardarci e ad invidiarci. E lo sai perché? Perché noi non abbiamo bisogno di lui, possiamo salutarlo da lontano con la mano e dirgli di restare dov’è, che tanto di lui non ci interessa nulla. Noi due siamo oltre, siamo l’oltre.»
Quelle parole restarono appese all’aria tra di noi, come altri miliardi di parole.
 Le parole, Ben aveva preso le parole più comuni al mondo, quelle sempre sulla bocca di tutti, le aveva messe insieme ed era nato un qualcosa in più, qualcosa di più.
Lui non sembrava rendersene conto, lasciò che quelle parole, Le parole, diventassero solo parole, altre parole.
Lo abbracciai forte e lui si irrigidì, ma poi posò le mani sulla mia schiena e si rilassò.
Sentii qualcuno tossire e allora sollevai il capo e vidi la signora con il vestito a fiori sorridermi, gli occhi piccoli pieni di luce.
«Scusate se mi intrometto, ma voi mi ricordate tanto me e mio marito da giovani, venivamo anche noi in questo parco, era molto meno maltrattato allora! Com’è che vi chiamate?»
Ben mi lanciò un’occhiata confusa, forse a Londra non erano così invadenti o forse sì, non lo sapevo, Ben non parlava mai di Londra e le poche volte che gli avevo chiesto di raccontarmi di casa sua lui mi aveva risposto con entusiasmo, una volta mi aveva detto che suo padre lo aveva portato ad un concerto di Paul McCartney, era piccolo, aveva solo dieci anni e stava imparando a suonare la batteria, allora aveva preso due cannucce e aveva cominciato a suonarle sulla testa delle persone davanti a lui.
‘I capelli di due tizi poi sapevano di coca-cola, mio padre si scusò all’infinito e mi rimproverò, ma tornati a casa cominciò a ridere, e come rideva!’ mi raccontò felice, ma poi smise di sorridere e pensai, cavolo! Deve sentirsi così vuoto!
Voltai il capo verso la signora con il vestito a fiori e le tesi la mano.
«Prudence, piacere di conoscerla.» la signora sorrise e poi i suoi occhi caddero sul viso di Ben.
«Benja.. Ben, molto piacere.» la mani piccole e ruvide della signora, al confronto con quelle di Ben, sembravano appartenere ad una bambina.
«Mio marito si chiamava John, era alto e moro come te, sai? Era bello, bellissimo! Lo incontrai una sera in un locale jazz, mi invitò a ballare, Louis Armstrong ovviamente, e se balli sulle note di Louis Armstrong prestando attenzione più al tuo accompagnatore che alla musica, fidatevi ragazzi miei, è amore!»
«Che bello!» commentai, mentre immaginavo i capelli della signora con il vestito a fiori riprendere colore, il corpo cambiare, diventare snello e slanciato e le sue gambe muoversi a ritmo di jazz.
«Bellissimo, tesoro, sai Duke Ellington diceva che il jazz è come il classico ragazzo con cui non vorresti mai che tua figlia uscisse. Ma alla fine noi ragazze facciamo così, no? Usciamo solo con i tipi jazz. Tu, ragazzo, dimmi: sei un tipo jazz?»
«Personalmente preferisco il rock.»
«È un tipo molto jazz.» intervenni, e la signora con il vestito a fiori mi lanciò un’occhiata di apprezzamento, mentre Ben scosse la testa divertito.
«Brava ragazza! Vi conoscete da molto?»
«No, non da moltissimo.»
«Poco importa, starete insieme per tutta la vita.»
«Lei dice?»
«Non lo dico io, lo dite voi.»
«Noi?»
«Ho sentito quello che hai detto prima sull’amore, ragazzo, non sono cose che si dicono tutti i giorni, e non a tutti quanti. Fidati, quando avrai la mia età sarai ancora sotto questo grosso albero insieme a questa ragazza.»
Ben mi guardò, palesemente in imbarazzo, ma poi si avvicinò piano e mi baciò la fronte.
«Credo sia ora di andare a prendere Jude.» Scattò in piedi e mi aiutò ad alzarmi.
«Ci scusi signora, ma dobbiamo proprio andare ora.»
«So che venite spesso qui, vi ho visti altre volte. Ci incontreremo ancora.» Ben annuì, poi mi prese per mano e sentii le sue dita stringere forte le mie.
«Proprio strana, la gente di Dublino.»




Buonsalve, amici!
In ritardo come sempre, ma meno del solito, dai! E poi, scusate, ma dovevo finire un'altra long e quindi avevo un attimino messo in pausa questi due.
Alors, mi sa che devo dire una cosa: nel caso non si sia capito tutta la storia raccontata da Prudence è un enorme flashback, nel primo capitolo si dovrebbe capire, rammentate? Lei, metropolitana, Ben, otto anni dopo... quindi il pezzetto all'inizio di questo capitolo è un ritorno al presente, da adesso in poi sarà una cosa con cui giocherò molto(così si capisce anche un pochetto il significato del titolo della storia), quindi spero di non creare confusione ;)
E niente, ringrazio come sempre Clairy e Joy, le mie supportatrici e sopportatrici(?) ufficiali, e ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non.
E smammo,
hasta luego,
C.

Ah, buon Principe Casp a chi staserà lo guarderà, a volte la Mediaset decide di avere finalmente un senso e ci stupisce tutti!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI ***


XI



L’aria di Dublino sapeva di strada bagnata e il cielo era grigio sporco.
Ben si fermò davanti ad un grosso edificio con i muri chiari e con grandi finestre prive di tende, che lasciavano intravedere muri tappezzati di cartine geografiche.
Davanti al cancello numerose persone parlavano animatamente tra di loro, chi rideva, chi gesticolava, chi ascoltava.
Ben si appoggiò con la spalla ad un lampione e puntò i suoi occhi bui sul cancello.
«Tua madre ti ha chiamato?» gli chiesi e lui voltò il capo verso di me, guardandomi accigliato.
«Sì.»
«Che ti ha detto?»
«Di tornare a casa.»
«E lo farai?»
«Io…» le parole, qualunque esse fossero, restarono sigillate nella sua bocca, interrotte dalle grida gioiose dei bambini appena usciti da scuola.
La gente per strada cominciò a muoversi impazzita, sembrava di vedere mosche in un barattolo che si scontravano fra di loro.
Osservai i bambini correre in braccio ai genitori e cercai con gli occhi Jude, ma non lo trovai.
Passarono una decina di minuti e la strada, a poco a poco, divenne deserta e allora vidi un bambino biondo seduto sul bordo del marciapiede, con la testa tra le mani.
«Jude!» chiamai e lui alzò il capo, aveva gli occhi rossi e lucidi di chi ha appena smesso di piangere ma sa che c’è ancora qualche lacrima da versare.
«Jude, che cosa è successo?» gli chiesi, sedendomi vicino a lui.
Ben restò in piedi, un’espressione inquieta sul volto.
«Oggi hanno chiesto di parlare dei nostri papà e quando era il mio turno ho detto che io non ho mai conosciuto il mio papà, allora hanno riso tutti.» mi morsi il labbro senza sapere bene cosa dire o cosa fare e quando non riuscivo a fare nulla per migliorare l’umore di Jude mi sentivo terribilmente inutile, perché lui, così piccolo e così fragile, non meritava nulla di tutto ciò che quella vita troppo dura gli regalava.
Jude aveva fatto parecchie assenze, non si trovava per niente bene a scuola e mia madre non aveva fatto nulla, lei non aveva alcun tipo di rapporto con lui, lo vedeva come la causa della sua rottura con Finbar e pertanto, finché poteva, lo evitava accuratamente.
Ero riuscita, con l’aiuto di Ben, a convincerlo a tornare a scuola senza troppi capricci, soprattutto per non attirare l’attenzione di qualcuno, ma dopo quella giornata probabilmente non avrebbe mai più voluto mettere piede in quel posto.
«Hanno detto che era impossibile non conoscere il papà, ma lui se n’è andato quando io non ero ancora nato e loro mi hanno chiesto perché e io non lo sapevo. Prue, perché? Tu lo sai, vero? Me lo dici? È stata colpa mia?» scossi categoricamente la testa e tentai di parlare, ma Ben si mise seduto sui talloni, proprio di fronte a Jude, e parlò prima.
«Assolutamente no, Jude. Tu non c’entri nulla, non è andato via per colpa tua!»
«E perché allora?»
«Ascolta, anche se siamo tutti fratelli e sorelle, blablabla, le solite cose, amen, al mondo ci sono un bel po’ di persone, tutte diverse, tutte uniche a modo loro, ma alcuni con delle caratteristiche in comune. Tuo padre, ad esempio, è una delle persone comode.»
«Comode?»
«Comode, esattamente. Sai che fanno le persone comode? Le persone comode se vedono un problema, una complicazione o qualcosa che possa farli scomodare in qualche modo, ecco loro, invece di andare dritti come dovrebbero, prendono delle scorciatoie. Tua padre non voleva scomodarsi troppo con te e tua sorella e allora ha preso anche lui una bella scorciatoia e, puff, è andato via per restare comodo. Hey, ma sai che c’è? Molto meglio così, perché tu ora puoi imparare dal suo sbaglio e quando sarai grande e avrai dei figli, chiuderai ogni scorciatoia e andrai dritto per la tua bellissima strada, e alla fine dirai, hey papà, grazie di aver preso quella scorciatoia perché ora io so che hai sbagliato e non farò assolutamente ciò che hai fatto tu, io non sono una persona comoda e sono molto, molto più coraggioso e forte di te!»
Jude accennò un sorriso e Ben gli spettinò i capelli.
«Davvero secondo te sono forte e non sono una persona comoda?»
«Certamente! Anzi, sai che fai domani? Torni in classe, ti alzi in piedi e dici a tutti che sono solo persone comode e tu sei cento volte, mille volte meglio! Non lasciare che ti facciano credere il contrario, non sminuirti mai, per niente al mondo, Jude, perché tu sei unico ed irripetibile, capito?»
Jude annuì e lo abbracciò, poi Ben si alzò in piedi e lo prese per mano.
«Casa?» mi chiese ed io annuii, sorridendogli grata.
Ben procedeva silenzioso lungo la strada, Jude vicino a lui, la gente di Dublino ed i turisti rovesciati sui marciapiedi sembravano essere invisibili per lui, che teneva il capo chino e passo dopo passo percorreva quella strada che ora, dopo mesi in questa città, era entrata a forza nella sua testa.
Pensai a come dovesse essere stare mesi lontani da casa, senza stabilità, senza certezze né nulla e mi sentii tremendamente in colpa per Ben.
Arrivati dinnanzi al solito palazzo con i muri arancioni, Ben tirò fuori le chiavi e, dopo aver aperto il portone, Jude scivolò dentro e corse fino alla porta dell’appartamento di Ben, ansioso di entrare ed ascoltare gli Stones.
Ben sorrise e lo lasciò entrare.
«Sai già come si fa, vero?» gli disse, tirando fuori dalla tasca dei jeans un iPod e porgendoglielo.
Jude annuì ed infilò gli auricolari, vidi che i suoi occhi non erano più lucidi e sorrisi.
Ben si passò una mano tra i capelli e poi andò a sedersi sul divano, io lo imitai.
«Grazie per Jude.»
«Non ho fatto niente.»
«No, sul serio, grazie.» lui sorrise stancamente.
«Devi tornare a casa, vero?»
«Prudence, sono grande e vaccinato, non devo fare nulla.»
«No, ascolta, non devi restare qui per forza.»
«Infatti, lo faccio perché ho voglia.»
«Tu… hai… voglia? Hai davvero voglia di continuare a stare nell’appartamento del tuo amico, senza lavoro, senza… senza niente di niente? Tu non resti qui perché hai voglia, Ben, lo fai per colpa mia.» lui rise sardonicamente.
«Colpa? Tu la vedi in questo modo? Colpa? Allora vuol dire che non hai capito niente di me e di quello che penso, proprio niente!»
«Allora resterai qui in eterno?»
«Vuoi che me ne vada?»
«No! Ma non voglio che tu ti senta obbligato!»
«Obbligato? Sai qual è il tuo problema, Prudence? Tu, tu mi riempi la testa di giudizi universali, smonti le certezze, cambi tutto, mi stravolgi e poi, poi dopo non capisci quello che fai, quello che mi fai. Dannazione, non ti metti mai nei panni degli altri? Nei miei?»
«Ben, io…»
«No, basta. Vado a farmi una sigaretta, non ho più voglia di discutere.»
Uscì sbattendo la porta.





Eh, lo so, ho riversato la mia acidità anche su Ben e Prudence, sono una bruttissima persona, voi non avete idea di cosa ho combinato a questi due!
Non posso spoilerare quindi mi zittisco subitissimamente.
Che dirvi? Ringrazio come sempre Clairy e Joy e tutti i lettori silenziosi.
Besos,
C.




Vi lascio Astrid/Prudence che è la meraviglia e abbellisce un sacco la paginina(non ve lo metto quel barbone di Barnes perché troppo fa male)

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XII ***


XII



Per qualche giorno non vidi più Ben né andai a cercarlo dove sapevo sicuramente che lo avrei trovato, pensai che magari avrebbe riflettuto e poi sarebbe venuto da me e mi avrebbe detto: ‘hey, hai proprio ragione, forse è meglio se torno a casa mia’.
Nel frattempo mia madre aveva ricominciato ad uscire per passare la notte di bar in bar ed era andata di nuovo via la luce e non c’erano più candele da accendere.
Con i brutti tempi che correvano trovare un lavoro diventava sempre più difficile, per questo una mattina presi Jude per mano e lo portai con me davanti ad una bella villetta bianca nel centro di Dublino.
Il giardino era ben curato, pieno di alti alberi spogli a causa della brutta stagione.
Mi avvicinai tentennando alla porta e, trattenendo il fiato, suonai il campanello.
«Perché siamo qui, Prue?» abbassai gli occhi su Jude, senza sapere bene cosa dire.
«Siamo qui per… per fare un esperimento.» lui incurvò le sopracciglia in un’espressione confusa, ma non domandò altro.
Poco dopo fece capolino da dietro la porta il viso di una bambina con gli occhi blu.
«Sì?» chiese.
«Potrei parlare con Finbar?» la bambina aprì ulteriormente la porta e si allontanò chiamando il padre a gran voce.
«Chi è Finbar?»
«Nessuno di importante, Jude, fidati.»
Sentii dei passi avvicinarsi e poi un uomo alto e biondo comparve sulla soglia della porta.
Puntò i suoi occhi blu su di me e sembrò perplesso.
«Ci conosciamo?» la sua domanda entrò appuntita nel mio stomaco e mi tolse il fiato.
«Sono Prudence e lui è Jude.» sbiancò improvvisamente e per qualche minuto nessuno parlò più.
Finbar si passò una mano sulla fronte madida di sudore, poi fece un passo avanti e mi studiò attento.
«Prue… sei cresciuta, non ti vedo da un po’.»
«Da più di un po’, direi.»
«Come mi hai… trovato?»
«Ricerche. Sei diventato piuttosto famoso, si vede che te la passi bene.» lui sospirò.
«Io… Prue, mi dispiace, tesoro, davvero.» scossi la testa.
«Non ti dispiace nemmeno un pochetto, invece, ma forse un po’ ti vergogni altrimenti avresti almeno il coraggio di guardare Jude negli occhi. Ma comunque non è questo che mi importa.» sentii la mano di Jude lasciare la mia e d’istinto lo presi per le spalle e lo riportai vicino a me.
«Mia madre ha perso il lavoro dopo che sei… sparito. Ma non ha mai cercato di metterti nei casini, però ora cominciano ad esserci problemi seri e abbiamo bisogno di una mano.»
«E se rifiutassi?»
«Saresti così viscido da farlo?»
«Non è certo colpa mia se Sadie non è in grado di provvedere ai suoi figli!»
«Se rifiuti ci rivedremo in tribunale, non so se ricordi quanti anni ho, ma stai sicuro che non ho bisogno del permesso della mamma per rovinarti.»
La bambina che ci aveva aperto la porta comparve dietro la gamba del padre e gli tirò piano il pantalone.
«Vengo subito, tesoro.»
«Dobbiamo andare anche noi.» presi Jude per mano e feci un passo indietro.
«Tua figlia?» gli chiesi.
«Sì. Ne ho due, entrambe femmine.»
«Bella bambina.»
Mi voltai e mi allontanai a passo svelto con Jude al mio fianco.
«Jude, non dire a nessuno dove siamo andati, nemmeno alla mamma, capito?»
Lui annuì, poco convinto, forse aveva capito o almeno intuito qualcosa, ma preferii non chiedergli nulla per non complicare ulteriormente le cose.
Per strada, quel giorno, delle gente interessante non c’era nemmeno l’ombra, per questo camminai molto velocemente, impaziente di raggiungere la fermata della metro.
Arrivati agli scalini, sentii Jude chiedermi con il fiato corto di rallentare.
«Ma altrimenti la perdiamo!» Jude sbuffò e poi riprese a camminare tenendosi il fianco con la mano destra.
La metro era già arrivata, ma per fortuna, nonostante tutti i posti a sedere fossero occupati, si riusciva a stare civilmente in piedi senza essere schiacciati.
Quel giorno la metro era piuttosto silenziosa, nessuno si azzardava a parlare, c’era chi leggeva, chi si mandava messaggi con il telefono e chi guardava il buio fuori dal finestrino, perso in chissà quali pensieri.
«Prudence! Prudence!» sentii una voce familiare chiamarmi e mi guardai intorno.
«Prudence, ti ho aspettata così tanto in metro!» Ben mi corse incontro e sorrise a Jude.
«Ciao, nanetto!» Jude si mise a ridere.
«Prudence, mi dispiace, ti ho davvero trattata male l’altro giorno, scusa.»
«Non importa.»
«Sì che importa, invece! Ascolta, mi manca casa mia, davvero, ma preferisco restare con te, preferisco cento, mille volte restare con te.» guardai in basso, senza sapere bene come replicare.
«Adesso tu dovresti dire qualcosa come: ‘e allora dimostramelo!’ e io dovrei trovare dal nulla un mazzo di rose, dartele, tu dovresti appoggiarle da qualche parte non so dove, e poi dovremmo ballare abbracciati mentre io canto una canzone tipo quella di ‘Ghost’, con la base che parte dal nulla, e poi dovrei prendere da qualche parte un microfono e dire ‘ti amo’» alzai lo sguardo e scoppiai a ridere.
«Ma non farò nessuna di queste cose, se ti consola, perché so che non ti piacciono e non piacciono nemmeno a me, però posso fare questo.» si voltò e batté le mani e ogni singola persona si girò a guardarlo.
«Attenzione, prego! Volevo dire a tutti che non credo all’amore e alle altre cagate a cui credete voi, ma comunque, dato che non esiste un altro verbo abbastanza forte da poter usare, sappiate che amo alla follia Prudence Gallagher, capito? La amo!» si sentirono applausi e risa.
«Ben, sei ubriaco? Ti rendi conto di…» non mi lasciò finire perché mi baciò e allora qualcuno cominciò anche a fischiare, e sentii Jude vicino a noi ridere a crepapelle.
«Stanotte ti fermi da me?»
«Sì, stupido!»
 
 
 
 
 




Bella genteee!
Anche se mi sono beccata l’orzaiolo demmerda(perdonate il francesismo), mi sono dedicata lo stesso a Ben e Prue e sono riuscita ad aggiornare in tempi civili.
Ora, non so come commentare il cap., ma spero sia abbastanza equilibrato nelle due diversissime parti.
Che altro dirvi? Ringrazio come sempre Joy e Clairy per il costante appoggio e l’entusiasmo, e mille grazie anche a Jordy Klein.
E a tutti i lettori silenziosi, ovviamente!
Grazie e buona Pasqua a tutti, mangiate tutta la cioccolata che vi pare, tanto la ciccia se arriva arriva, è destino! E poi meglio cicciotti e felici, no?
Auguroni,
C.

 

A 'sto giro vi mollo un Barnes che scoppia proprio di felicità! :)


 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII ***


XIII


Gomiti, gomiti.
Gomiti sulla schiena, tra le costole, sui fianchi.
Dovrei levarmi dai piedi, la gente deve prendere la metro, ma c’è qualcosa che mi tiene incollata qui dove sono.
Forse sono gli occhi bui del ragazzo con gli occhi bui, mi guardano, li guardo, e la memoria vortica nella mia testa.
Devo avere la memoria difettosa, ci sono punti di luce sparsi nella mente, sono i ricordi che si vedono ancora, e poi macchie scure, ciò che non ricordo più.
Vedo l’inizio, ho visto tutto l’inizio di questa storia, e dopo l’inizio ci sono macchie scure, pochi ricordi rimasti a galla, mi avvicino alla fine, la fine è piena di luce, splende, ma c’è ancora qualche ricordo prima, qualche punto di luce.
Chiudo gli occhi e un altro punto di luce si espande nella testa.
 
 
 
 
Sabbia tra le dita e sotto la testa.
Sabbia nelle scarpe e sotto i vestiti.
Sulla spiaggia di Portrane pioveva a dirotto, tenevo gli occhi ben chiusi e sentivo l’acqua cadermi addosso, sentivo le dita di Ben intrecciate alla mie e una vecchia canzone degli Oasis in un orecchio.
Cantava anche Ben, rubava le parole di Liam e Noel Gallagher e ci metteva dentro la sua voce, diceva: ‘ci sono molte cose che mi piacerebbe dirti, ma non so come farlo, perché forse tu sarai la persona che mi salverà, e dopo tutto, sei la mia ancora di salvezza’ e io pensavo, ecco, questo è un momento perfetto.
La chitarra smise di suonare e la canzone si spense a poco a poco, tolsi l’auricolare dall’orecchio e riaprii gli occhi, il cielo era piuttosto scuro.
«Siamo fradici.» disse Ben mettendosi a sedere e scrollandosi la sabbia dai capelli.
«Siamo pieni.» risposi, poggiando il capo sulla sua spalla.
Ben era rimasto a Dublino mentre i mesi passavano, non era mai ritornato sul discorso ‘andare via’  e aveva sempre smorzato ogni mio tentativo di discuterne, una volta lo sentii litigare con qualcuno al telefono, gli chiesi spiegazioni ma si arrabbiò anche con me, poi prese una birra e passò la notte a bere guardando i tetti di Dublino fuori dalla sua finestra.
Ero sicura ci fosse qualcosa che non mi diceva, ma non avevo più fatto pressioni anche perché nemmeno io gli avevo mai detto che avevo rivisto mio padre o che la situazione a casa era peggiorata.
La pioggia cominciò a cadere con più violenza, ma noi restavamo seduti sulla sabbia bagnata.
«Ben, secondo te cos’è la verità?»
«Chiedi ad un attore cosa sia la verità?»
«Tu rispondimi e basta.»
«L’acqua.» alzai gli occhi e lo guardai perplessa, ma lui annuì convinto.
«L’acqua. Guarda l’acqua, è trasparente, riesci a vedere cosa c’è dentro di lei, cosa c’è sotto di lei, l’acqua dice sempre la verità, non si nasconde. La verità è l’acqua, e l’acqua è la verità.»
«E tu con me sei sempre come l’acqua?»
«Certo.» rispose, con tono un po’ irritato.
«Allora perché non mi hai detto che hai passato il provino?» deglutì e poi si strofinò la fronte bagnata con aria stanca.
La prima volta che c’eravamo incontrati, in metro, Ben sembrava parecchio turbato e mi aveva detto che stava così perché, per fare un provino per un grosso film, aveva mollato la sua compagnia teatrale anche se era certo che quel provino non lo avrebbe mai passato.
«Tu come lo sai, eh?»
«Tua madre.»
«Ovviamente.» disse sardonico.
«Quindi? Perché non me l’hai detto, Ben?»
«Perché non è assolutamente importante, tanto non ci andrò.» sbuffò, poi prese una sigaretta ed un accendino dalla tasca dei jeans e cominciò a fumare.
«Non ci andrai.»
«No, esatto.» gli tolsi di mano la sigaretta e la schiacciai contro la sabbia, spegnendola.
«Invece di fumare e usare quel tono con me, spiegami perché stai rinunciando ad una cosa simile e prova ad essere convincente!» mi guardò incredulo e scosse la testa.
«Perché dovrei andare in Nuova Zelanda, dall’altra fottuta metà del mondo, Prudence, e dovrei restare lì per mesi!»
«E qual è il problema?» lui non rispose ma mi guardò intensamente.
«Sono io il problema, giusto?» mi passò le braccia dietro la schiena e mi tirò vicino a lui.
«Prudence, non c’è nessun problema, ho semplicemente fatto una scelta.»
«Stai facendo la scelta sbagliata.»
«Di scelte sbagliate ne ho fatte un sacco e questa mi sembra la scelta sbagliata più giusta della mia vita.» mi spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorrise.
«E poi sai una cosa? In Nuova Zelanda c’è pieno di farfalle.» risi e gli diedi un bacio, poi un tuono mi fece sobbalzare.
«Sarà meglio andare.» dissi, lui annuì, poi raccolse da terra l’iPod, se lo rimise in tasca e si alzò.
Era completamente bagnato e la sabbia si era attaccata ai suoi vestiti e alla sua pelle, si guardò e fece una smorfia.
«Fortuna che piaci all’autista o credo non ci farebbe salire sul suo autobus conciati così.» disse mentre mi aiutava ad alzarmi.
«Conviene che ci sbrighiamo.» per strada, a quella tarda ora, non c’era nessuno, camminammo a passo svelto ed arrivammo alla fermata giusto in tempo, l’autobus stava già per partire.
L’autista ci squadrò, io abbozzai un sorriso e lui ci lasciò salire con uno sguardo rassegnato.
Mi misi seduta vicino al finestrino e poggiai la testa bagnata sul vetro, per tutta la durata del viaggio Ben non parlò, ma poggiò il capo sulla mia spalla e guardò fuori dal finestrino insieme a me.
Quando l’autobus si fermò a destinazione, salutai l’autista e lo ringraziai.
«Vieni da me?» chiese Ben.
«No, credo sia meglio se torno a casa, c’è Jude.» annuì.
«Ci vediamo domani allora?»
«A domani.» lo salutai con un bacio, poi andai alla metro e tornai a casa.
Tirai fuori la chiavi dalla tasca e le infilai nel portone, imprecando contro la serratura vecchia che non funzionava più correttamente.
«Ciao, Prudence.» sobbalzai al suono di quella voce, alzai lo sguardo e vidi Finbar sorridermi cordiale.
«Era da un po’ che non tornavo da queste parti.» asserì, guardandosi attorno.
«Che vuoi?»
«Ho pensato a quello che mi hai detto e voglio Jude.» sgranai gli occhi.
«Cosa?»
«Voglio l’affidamento di mio figlio.»
«Tu ci hai mollati quando Jude non era ancora nato, te ne sei fregato, ed ora vieni qui a rivendicare i tuoi diritti su di lui? Vuoi l’affidamento? Ti azzardi anche a chiamarlo ‘figlio’?» lui annuì.
«Sei tu che sei venuta da me. Sai, ho riflettuto e questa mi sembra la soluzione più giusta per tutti, Sadie non è in grado di badare a nessuno di voi e tu, per quanto possa sforzarti, non riuscirai a fare nulla di buono per lui. Se verrà con me starà molto meglio, pensaci, rifletti, Prudence, sei una ragazza intelligente.»
«No. Jude non verrà con te.»
«Molto bene, questo sarai più che disponibile a dirlo anche al giudice, allora. Per quanto mi riguarda, posso tornarmene anche a casa, adesso. Oh e Prudence, tu ti sarai anche fatta una brutta idea su di me, ma se le cose sono andate come sono andate, la colpa è solo di Sadie e lo sai anche a tu, tesoro.»
«Vattene.» aprì il suo ombrello e si allontanò.
Io ricordo che non feci nulla, tranne sedermi a terra, con la testa tra le ginocchia e restai così finché non arrivò il giorno.




Nonostante i chili di dolci ingurgitati a Pasqua, sono stata parecchio crudele(specialmente con Prue).
Allora, informo che alla fine manca pochissimo e che... no, niente, non dico più nulla.
Ringrazio come sempre Joy e Clairy per il loro costante appoggio, e un grazie anche a Lu! :)
A 'sto giro non metto nulla, dai.
besos,
C.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV ***


XIV


I giorni dopo quell’incontro furono i peggiori della mia vita.
C’erano un mare di idee che vorticavano confuse nella mia testa, fissavo Jude e pensavo: ‘cos’è meglio per lui?’
Un bambino di sette anni che viveva praticamente senza una madre, al buio, solo.
Questo non era di certo il meglio per lui.
‘Ho riflettuto e questa mi sembra la soluzione più giusta per tutti, Sadie non è in grado di badare a nessuno di voi e tu, per quanto possa sforzarti, non riuscirai a fare nulla di buono per lui. Se verrà con me starà molto meglio, pensaci, rifletti, Prudence, sei una ragazza intelligente’
Le parole di Finbar rimbombavano nella mia testa, si ripetevano all’infinito e restavano lì, nascoste, una presenza indesiderata ma che non poteva andare via.
Finbar si era rifatto una vita, aveva due bambine piccole, una bella casa, un po’ di soldi e magari anche una brava moglie, migliore di mia madre, ecco questo, questo era il meglio per Jude.
Dopo quasi tre settimane, un pomeriggio presi un grosso borsone dall’armadio e lo riempii con i vestiti di Jude, poi presi il mio fratellino per mano e lo portai di nuovo a casa di Finbar.
Una donna di bell’aspetto, con i capelli lunghi e biondi ci aprì la porta e ci studiò entrambi.
«Sei Prudence?» io annuii e lei mi porse la mano sorridendo.
«Piacere, Michelle. Vado a chiamare Finbar.» si allontanò velocemente, e mentre aspettavo che tornasse mi misi seduta sui talloni, di fronte a Jude e lo abbracciai, lui sembrò sorpreso ma poi posò le mani sulle mie spalle e nascose il viso nell’incavo del mio collo.
«Jude, ricorda che ti voglio bene, okay? Ricordatelo.»
«Perché me lo stai dicendo?»
«Ogni tanto si dice.»          
«Ti voglio bene anch’io, Prue.» mi separai piano da lui, poi alzai lo sguardo e vidi Finbar e Michelle sulla soglia della porta.
«Hai ragione, è la soluzione più giusta per tutti.» dissi rialzandomi in piedi.
«Finbar mi aveva raccontato tutto quando ci siamo incontrati. Ti prometto che lo tratterò proprio come un figlio.» Michelle mi sorrise, io annuii e le diedi il borsone.
«Jude, vuoi venire dentro a giocare con me?» gli chiese gentile, porgendogli la mano.
Jude alzò lo sguardo su di me e io gli feci cenno di entrare.
«Prue, dopo ritorno da te, ve bene? Tu aspettami.» entrò dentro casa con Michelle e scomparve dietro le spalle di Finbar.
«Prudence…»
«Gli piace il cioccolato, da morire. E i fumetti, ha letto tutti i vecchi fumetti che avevo, quelli dei supereroi gli piacciono particolarmente, Batman è il suo preferito. Disegna anche, quando avevamo i pastelli a cera lui li usava sempre per disegnare e poi mi chiedeva cosa ne pensavo. Ha paura della pioggia. Adora andare in giro, ma devi tenerlo per mano perché lui guarda sempre il cielo e poi va a sbattere contro le persone. È molto curioso e fa un sacco di domande su qualsiasi cosa e poi…»
Finbar mi strinse la mani e mi fermò.
«Stai facendo la cosa giusta.»
«Se ti azzardi a comportarti con lui nello stesso modo in cui ti sei comportato con me, giuro che non te la faccio passare liscia.»
«Non lo farò. Sono parecchio cambiato da allora, gli darò il meglio che ho, te lo prometto.»
«Devo andare.» lasciai le sua mani e corsi via.
Quel pomeriggio su Dublino splendeva il sole, il cielo appeso ai tetti delle case era limpido e privo di nuvole minacciose, e la gente per strada sembrava più felice.
Corsi in metro e andai a Merrion Square, da Ben.
Quando aprì la porta e mi vide sembrò sorpreso, ma presto si rabbuiò.
«Non ti vedo da settimane, sono andato in metro ogni singolo giorno e tu non c’eri. Che cavolo è successo?»
«Niente.» lo baciai con foga e cominciai a togliermi i vestiti.
«Aspetta… aspetta un attimo. Cosa sta succedendo, Prue?»
«Non mi fare domande, Ben, ti prego, niente domande.» lui mi fissò, senza sapere bene cosa fare o cosa dire, poi annuì poco convinto, premette la mani sulla mia schiena nuda e mi assecondò.
 
 
 
 
 
 

Ben dormiva profondamente, mi alzai dal letto cercando di fare meno rumore possibile e raccolsi i vestiti da terra.
Ben sospirò ma non sembrò essersi svegliato.
Mi rivestii in fretta e cercai una penna e un foglio per scrivergli una lettera, trovai un vecchio diario in un cassetto e strappai una pagina, poi presi una penna da un porta matite sopra la scrivania e mi accucciai a terra, cominciando a scrivere.
Gli scrissi di andare avanti con la sua vita, che la mia era troppo incasinata e gli avevo nascosto delle cose importanti, gli scrissi che non c’era posto per noi due sopra questo mondo instabile, che non valeva la pena mandare tutto all’aria per me e che doveva andare a girare quel film perché non aveva più tempo per fare scelte sbagliate.
Pensai a cosa avrebbe pensato di me leggendola, a quanto mi avrebbe odiata, così gli scrissi di dimenticarmi, di cancellarmi dalla sua memoria, ma prima, prima di scordarsi di me, gli scrissi di perdonarmi.
Ripiegai il foglio e lo lasciai dal mio lato del letto, e prima di andare via, prima di uscire definitivamente dalla sua vita, diedi un bacio sulla fronte a Ben, lui non sembrò muoversi, ma onestamente non sapevo se fosse ancora addormentato o stesse facendo finta, ad ogni modo feci attenzione a non fare rumore mentre uscivo di casa.
Quella notte era particolarmente buia.
E Dublino era sola.
Come me.
Mentre camminavo sulle strisce bianche in mezzo alla strada, ripensai al corpo caldo di Ben in mezzo alle lenzuola, al suo respiro regolare, al battito del suo cuore, calmo, tranquillo, che colmava tutti gli spazi che il silenzio aveva lasciato in quella stanza. La nostra stanza.
Ora, solo la sua stanza.
Me n’ero andata così in fretta.
E gli avevo lasciato così poco.
Di tutto quello che eravamo stati era rimasto solo uno straccio di lettera.
Di tutte le notti spese a guardare il mare sotto la pioggia erano rimaste solo parole.
E le parole non sarebbero mai bastate.
C’eravamo uniti in un modo spaventosamente magnifico.
Avevo versato così tanto di me in lui e viceversa.
Ed ora eravamo finiti.              
Più nulla da versare.
Finiti.
Mi sarebbe piaciuto chiamarlo in piena notte, svegliarlo, sentire la sua voce dall’altro capo del telefono, zittirlo all’istante e raccontargli tutto, tutto di me, senza filtrare nulla, raccontargli di Jude, di mio padre, di come mi ero sentita rivedendolo, dirgli tutto.
Mi sarebbe piaciuto, in un giorno di pioggia, prenderlo per mano e girare tutta Amsterdam con lui.
Mi sarebbe piaciuto rimanere.
Ma era rimasta solo una lettera.
Una lettera con dentro delle parole.
Ma le parole, le parole erano troppo finite per parlare di noi, di me e di lui.
Le parole non potevano parlare, le parole non potevano bastare a spiegargli.
Volevo tornare indietro di corsa, entrare in camera sua, stracciare quella stupida lettera e svegliarlo.
Dirgli che sarei rimasta.
Che non me ne andavo.
Che io restavo dov’ero.
Che saremmo andati a fare il bagno al mare, a Dublino, che insieme avremmo combattuto contro il gelo dell’acqua, perché noi, io e lui, eravamo più forti dell’acqua, più forti del gelo.
Dirgli che ero felice e solo grazie a lui.
Ma non lo feci, perché era giusto così, perché Ben era una giornata d’estate ed io un temporale che doveva andarsene al più presto o lui non avrebbe mai visto il sole.
Continuai a seguire attenta la linea bianca tratteggiata sull’asfalto.
E andavo avanti, sempre più avanti.
E più andavo avanti e più mi consumavo.
Finivo.
La mia essenza si sbriciolava e di me non restava nulla.
E finivo, finivo, finivo.
E pezzetti di me restavano indietro, tornavano indietro, verso quella stanza.
E cominciò a piovere.
E la pioggia mi finiva, la pioggia mi scioglieva.
E cominciai a capire.
Capii che ciò che avevo passato la vita ad aspettare in una metro di Dublino, era arrivato.
Capii che se fossi morta in quel momento, se me ne fossi andata in quel momento, sarei stata felice, perché avevo fatto finalmente tutto, tutto ciò che volevo fare.
E allora lo ringraziai.
Quella notte ringraziai Ben, piano, a bassa voce.
Lo ringraziai per essere arrivato, per essere entrato dentro le mie ossa e avermi resa infinita, per aver versato dentro me tutti i suoi istanti felici. Lo ringraziai per avermi riempita di fiori come un campo di Amsterdam e avermi resa senza tempo, senza spazio e senza limiti come l’acqua.
E lo ringraziai per non avermi fermata mentre uscivo dalla sua stanza, ma aver continuato a fingere di dormire. Per aver capito che dovevo andare via.
E forse una notte, davvero, mentre sarei stata ad Amsterdam tra la pioggia, lo avrei chiamato e gli avrei detto tutto.
E forse un giorno, dopo un po’ di anni, ci saremmo rivisti nella stessa metro in cui c’eravamo incontrati.
E forse un giorno avremmo sorriso, ricordandoci di noi.
 
 
 
 
 
....
Io non dico nulla, risparmio le mie boiate per il prossimo ed ultimo capitolo(che è un ufficiale ritorno al presente) che posterò Domenica.
Dico solo che mi spiace un sacco per questi due, ma non poteva andare diversamente(nella mia testa, almeno), per il resto.... a voi ogni genere di commento!
Ringrazio come sempre quelle due meraviglie di Joy e Clairy(che ora vorranno picchiarmi dibbbrutto) e tutti i lettori silenziosi,
ed ora smammo!
C.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** XV ***


XV


La gente corre, corre verso le porte della metro e mi calpesta.
Sento spallate nella schiena, ossa estranee tra le costole e la puzza di luogo affollato nel naso.
Levati di torno. Levati di torno.
Non ci riesco, ci sono quei due occhi bui del ragazzo con gli occhi bui che, dannazione, hanno legato le mie gambe a questo pavimento sporco.
Il ragazzo con gli occhi bui.
Non ho più niente di lui da ricordare, tutti i punti di luce, uno ad uno, sono esplosi, ho rivisto inizio e fine e poco di ciò che stava nel mezzo ed ora, ora non ho più nulla da ricordare.
Sono finiti i ricordi.
I ricordi.
Di cosa sono fatti i ricordi?
Vorrei potermeli tirare fuori dalla testa e tenerli in mano, maneggiarli, spezzarli e ricomporli come mi pare, uccidere quelli che non voglio più ricordare, e dare una spolverata ai più belli che mi restano, non scordarli mai.
Di cosa sono fatti i ricordi?
Di polvere, di polvere.
Sono leggeri e sottili come la polvere, e fragili, fragili e a volte fastidiosi come la polvere.
I ricordi son fatti di polvere.
La memoria è fatta di polvere.
La memoria è così subdola, conserva chi per un motivo o per un altro non c’è più, spinge a richiamare ciò che non tornerà più indietro, ma quando si smette di ricordare, quando si smette di nuotare nella polvere perché i ricordi sono finiti, si viene colpiti da una fredda corrente di realismo.
Il ragazzo con gli occhi bui alza una mano poco convinto, forse vorrebbe salutarmi, venirmi incontro, dirmi qualcosa, magari che mi odia, ma riabbassa la sua mano e scuote la testa.
Non è di saluti e di parole che abbiamo bisogno.
Noi due, io e il ragazzo con gli occhi bui, abbiamo bisogno di dimenticarci.
Di scomparire dalla memoria l’uno dell’altra.
Lo avevo detto, avevo detto al ragazzo con gli occhi bui di perdonarmi, se poteva, e poi di scordarsi di me, ma da come mi guarda con i suoi occhi bui credo non l’abbia fatto.
E nemmeno io.
Ci ho provato, però.
Ma la memoria ha dei bei difetti, non la si può controllare né comandare, la memoria amministra da sola ogni ricordo e di ciò che pensiamo noi se ne frega.
Spesso andavo a dormire e rivedevo quel paio di occhi bui e non c’era verso, non c’era verso di farli andare via.
Vorrei corrergli incontro e raccontargli tutto, colmare i vuoti che gli ho lasciato, dirgli che finirla con me è stato un bene perché ora non è nessuno, ora è chi voleva essere, esattamente chi voleva essere e sono così felice per lui.
Ma non mi muovo, non posso muovermi.
Guardo il ragazzo con gli occhi bui e penso che è cambiato molto dall’ultima volta.
Ha un fisico piuttosto atletico e barba e capelli sono cresciuti.
Ha un volto più maturo.
Ma gli occhi bui, i suoi occhi bui, sono sempre gli stessi, il buon nero è ancora sdraiato là dentro e fissa il mondo fuori che è rimasto senza di lui.
I suoi occhi bui.
Sembrano… lucidi.
Vorrei dirgli di non piangere, che non me le merito le sue lacrime, che la nostra storia non se le merita le sue lacrime.
Vorrei dirgli di sorridere, perché noi due, io e lui, siamo un bel ricordo.
Ecco, ecco cosa siamo noi.
Un bel ricordo fatto di polvere.
La vita è andata oltre, andrà oltre, e noi resteremo indietro e saremo un bel ricordo che ci farà sorridere.
Una ragazza alta e bionda si avvicina al ragazzo con gli occhi bui, a Benjamin, Ben, sembra contenta, gli dice qualcosa poi gli schiocca un bacio sulla guancia e lo trascina via sorridendo.
Lui continua a fissarmi con i suoi occhi bui mentre si allontana, lontano, sempre più lontano.
E poi non c’è più.
Scompare e io scompaio con lui.
 
E di noi resta un bel ricordo fatto di polvere.
 
 
 
 
 
 

Eccoci qui, alla fine.
Spero che Ben e Prue abbiano lasciato un bel ricordo anche a chi li ha letti e seguiti, ci sono parecchio legata perché mi hanno permesso di sfogarmi durante periodi difficili e sapere che anche qualcun altro ha seguito il loro viaggio mi rende immensamente felice e mi commuove.
L’ho fatto ad ogni capitolo, lo so, ma non posso non ringraziare nuovamente Joy e Clairy, mie lettrici in ogni avventura, che mi hanno incoraggiata, sostenuta e resa estremamente felice, senza loro forse non avrei mai condiviso ciò che scrivo, quindi grazie, ragazze, dal profondo del cuore.
E grazie a tutti, tutti i lettori che hanno letto questa storia fino a qui, alla fine.
E un grazie anche a quel grandissimo beota di Ben Barnes, che, anche se non lo sa, trova sempre il modo di tirare la sottoscritta su di morale quando è giù: grazie mille, bel barbone, sei fantastico!
GRAZIE A TUTTI,
C.


P.S: Mi è sembrato giusto dare voce anche a Ben, quindi Martedì, nel caso, chissà, Ben e Prue dovessero mancarvi, troverete la prima flash/os/missingmoment/nonsocomeaccipicchiadefinirla di una bella raccolta di sette capitoli su questa storia, scritta dal punto di vista di Barny.
 
 

Sì, mi sembra giusto rimollarvi la giffina, beccateveli un'ultima volta :)


 Creds: mychemicalangel (tumblr)
 

 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2030335