A way to suffocate me

di lady vasshappenin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A come Andare in bagno. ***
Capitolo 2: *** B come Baccano di una Bimbetta. ***



Capitolo 1
*** A come Andare in bagno. ***


A way to suffocate me.



1° capitolo.
A come Andare in bagno.

 
SPLASH!
Un getto d’acqua fredda mi bagnò il viso e poi tutto il corpo, scorrendo incessante e riempiendo tutta la vasca. Amavo fare il bagno di mattina presto, quando ancora tutti in casa dormivano e non c’era un corri corri generale verso il bagno.
A casa mia, essendoci solo un gabinetto, prima e dopo i pasti, si scatena una vera e propria guerra tra me, i miei genitori e i miei fratelli! Io penso che la soluzione migliore sarebbe quella di prendere un numeretto davanti alla porta del bagno, creando una fila ordinata come quella che si forma in salumeria e iniziando ad avere, così, una parvenza di persone civili.
Ma si sa, quando scappa, scappa e non si possono trattenere certe urgenze, quindi l’idea dei numeretti ad ogni modo sarebbe inutile. Finiremo solo per creare ancora più confusione di quella che normalmente possiede il nostro appartamento.
Avere una famiglia composta da sette componenti è abbastanza problematico, specie la mattina prima di andare a scuola, quando non puoi entrare in bagno perché è occupato dalla tua sorella maggiore che parla con il suo fidanzato, o dal tuo fratello più grande che si fa la barba, o dalla tua sorellina di otto anni che si improvvisa truccatrice professionista o dai tuoi genitori sempre di fretta, che si lavano i denti mentre parlano al telefono in inglese di trattative con qualche strana società asiatica dal nome impronunciabile.
Fortunatamente Emilio, il mio fratellino più piccolo, porta il pannolino e non concorre ancora alla lotta giornaliera per il possesso dei gloriosi cinque minuti di meritato relax sul “trono”.
Giocherellai un po’ con i piedi, schizzando un po’ d’acqua saponata ai bordi della vasca. Penso che il bagno sia la mia stanza preferita. E’ vero, bisogna vincere una gara di velocità per entrarvi, ma è l’unico posto in cui posso avere un po’ di pace.
Nelle altre stanze c’è sempre qualcuno che grida, parla, chiacchiera o litiga: nemmeno la mia cameretta è un luogo tranquillo, visto che sono obbligata a condividerla con quella rompiscatole di mia sorella Melissa, convinta che il mondo le ruoti attorno solo perché mezzo liceo la venera come se fosse una dea greca, e con la piccola di casa, Chiara, la bambina più viziata e capricciosa che abbia mai conosciuto in vita mia.
Penso che la mia stanza sia perlopiù il luogo in cui sono costretta a dormire, non ci trascorro molto tempo, non mi va di fare la candela mentre mia sorella esplora le cavità orali del ragazzo oggetto di turno oppure di vedere come tutte le mie vecchie bambole, che ho sempre trattato con cura, perdano la testa, gli arti o gli occhi per opera di quella piccola peste.
Le altre zone della casa sono quasi peggio di camera mia, pensandoci: la cucina è continuamente affollata, soprattutto durante i pasti, la camera dei miei genitori funge anche da studio quindi, se non si vuole assistere alle loro manifestazioni d’ira per averli interrotti in un momento cruciale nell’organizzare ed ultimare il lavoro portatosi a casa, è raccomandabile non varcare la soglia di quella porta e la camera di Emilio è il posto meno indicato per rilassarsi, visto che i bambini piccoli hanno la cattiva abitudine di piagnucolare continuamente. La camera di mio fratello Giacomo, il maggiore di casa, invece, è proibita a tutte le donne di casa. Sulla sua porta c’è un cartello uguale al divieto d’accesso con scritto su ‘NO WOMEN HERE’.
Quando ero piccola pensavo che nascondesse chissà quale segreto misterioso sotto il letto, qualcosa di magico come uno scrigno pieno di tesori o la lampada di un potente genio.
Crescendo, però, ho capito che si trattava solo di una questione di privacy, visto che in casa nostra è un concetto sconosciuto. Probabilmente non voleva che la mamma frugasse tra i suoi cassetti o che Chiara si divertisse a strappare i suoi amati poster e gli davo perfettamente ragione: se avessi avuto una camera tutta per me, avrei messo una decina di lucchetti alla serratura per allontanare i curiosi e gli impiccioni, due categorie a cui tutti i miei familiari appartengono. Non ho mai avuto il desiderio di curiosare in camera di mio fratello: se esige un po’ di rispetto per la sua vita privata, mi sono detta, chi sono io per violare la sua privacy? Ma, come sempre, Melissa, qualche mese fa, mi ha fatto cambiare idea.
Eravamo in camera nostra, ognuna sdraiata sul proprio livello del letto a castello. Il piano più in basso era vuoto perché Chiara era alla festa di compleanno di qualche suo amichetto petulante e odioso, mentre il letto a metà altezza era occupato da una Melissa intenta a passare lo smalto rosso su quei cerchietti pieni di pellicine alla fine delle sue dita che lei ha l’ardire di chiamare unghie.
Io dormo nel letto più alto. Da piccola mi piaceva salire la scaletta di metallo e guardare tutta la camera dall’alto, ma adesso sono cresciuta e la scelta del letto più alto non è stato un vantaggio, anzi: ormai riesco a toccare il soffitto alzando una gamba e la cosa inizia a darmi un forte senso di occlusione, soprattutto nelle nottate più calde, quando mi manca l’aria a causa dell’afa.
Quel giorno avevo il cellulare in mano ed ero intenta a messaggiare con una delle mie migliori amiche, Alice, che mi stava raccontando le novità riguardanti il nuovo tour di Demi Lovato, quando ho avvertito un colpo sferrato al mio materasso. Mi sono affacciata dal letto e ho detto a Melissa «Sei una belva, perché mi hai dato un calcio?».
Lei, soffiando sulle unghie appena smaltate, mi ha risposto, ghignando «Mi scocciavo a chiamarti e pensavo che, con un calcio, ti saresti degnata di rispondermi.»
Che ragionamento è?! Non penso esistano persone così idiote e detestabili su questo pianeta, mia sorella è un diavolo dalla lingua biforcuta che ama torturarmi e penso che dovrebbe esistere la pena capitale per chi si diverte ad infastidire le proprie sorelle minori, dovremmo essere tutelate come una specie in via d’estinzione da qualche associazione come il WWF.
«Melissa, sinceramente, vaffanculo!» e, detto questo, ritornai alla mia posizione iniziale, ovvero stesa sul letto con il cuscino tra le gambe e il cellulare tra le mani. Dopo nemmeno due secondi mi arrivò un secondo calcio, ancora più forte del primo.
Mi sono sporta nuovamente dal letto, stavolta molto più arrabbiata di prima. So di avere una soglia di sopportazione molto bassa, ma con una sorella come Melissa questo è il massimo che riesco a tollerare.
«Che diavolo vuoi?» le sbuffai contro.
«Mi chiedevo …» e sospese la frase, aspettando che io le chiedessi di continuare. Ormai sono abituata a stare ai giochetti di mia sorella; se non facessi così, penso che la mia vita sarebbe ancora più infernale di quanto già non sia.
Sforzandomi di compiacerla, le chiesi «Ti chiedevi?».
Avendole dato l’input, la mia “adorata” sorella maggiore mi regalò uno dei suoi sorrisi accattivanti e continuò a parlare.
«Beh, mi chiedevo che ne pensassi di Giacomo.»
Per un attimo credetti di aver capito male. Mi sembrava strano che la reginetta del quartiere mi chiedesse cosa ne pensassi di un essere umano, visto che l’unico parere che contava, alla fine, era sempre e solo il suo, sia a scuola, che a casa, che in qualsiasi altro luogo.
E poi era noto a tutto il paese che tra Melissa e Giacomo non corresse buon sangue. Pur essendo quasi coetanei e avendo lo stesso dna, vivevano in due mondi opposti. Melissa era la stella della scuola, con la sua luce eclissava chiunque nel raggio di chilometri. Melissa aveva avuto una vita amorosa più intensa di quella di una star del cinema hollywoodiano, aveva decine di rubriche piene di numeri telefonici affiancati da nomi maschili che andavano dalla A alla Z, comprendendo le lettere straniere. Melissa suonava il basso nella band pop-rock più famosa dei dintorni ed era diventata la più popolare del gruppo, la sua fama batteva anche quella della solista. Era abituata a stare al centro del mondo da anni, forse da sempre.
Giacomo, invece, viveva di libri e sui libri passava i suoi pomeriggi. Giacomo era il primo della classe, un vero e proprio genio che, però, non si vantava della sua strabiliante intelligenza e degli ottimi voti che costellavano le sue pagelle. Giacomo trascorreva i suoi sabati assieme ai suoi amici nerd a giocare ad Assassin’s Creed 3 alla playstation oppure chiuso in camera sua, da solo, a creare non si sa cosa con il suo computer. Giacomo era invisibile, oscurato anche lui dalla luce abbagliante ma inconsistente della propria sorella.
Se avessero fatto parte di qualche compagnia teatrale, Melissa sarebbe stata  la fortunata incompetente che, sfoggiando unicamente il suo sorriso perfetto, avrebbe ottenuto il ruolo della protagonista, diventando la beniamina del pubblico, mentre Giacomo sarebbe stato lo scenografo geniale rimasto dietro il sipario, senza prendersi il merito di quello che, con estrema pazienza e bravura, aveva creato.
Sì, era un paragone azzeccato, ma suonava comunque strano. Era assurdo che due personaggi del genere potessero coesistere nello stesso mondo, anche nella vita reale. Riflettendoci, infatti, veniva difficile credere che sullo stesso pianeta potessero vivere persone come Melissa e allo stesso tempo gente come Giacomo.
Fu mia sorella a riportarmi alla nostra discussione. E, come sempre, fu molto gentile nel farlo.
«Pronto? Sei entrata in coma? O sei alla ricerca dell’unico neurone funzionante che ti rimane?».
Oh, ma quanto può essere dolce quella sottospecie di cercopiteco strabico con cui sono costretta a vivere?
«Scusa, stavo pensando, un’attività celebrale forse a te sconosciuta a quanto pare.»
«Sì sì, blatera pure. Io ti avevo fatto una domanda e tu ancora non mi hai dato una risposta.»
«Beh, sinceramente non so che dirti. E’ mio fratello, gli voglio bene e penso che sia un ragazzo apposto. Forse esageratamente fissato con quei difficilissimi giochi di ruolo che solo lui e un’altra decina di persone riescono a completare, ma è apposto.»
Pensavo di aver risposto in modo esauriente, ma probabilmente non era quello che Melissa si aspettava di sentire. Così, lanciandomi un dei suoi sguardi diabolici, mi disse «Ne sei proprio sicura?».
«Beh, sì. Cavolo, se Giacomo non è un bravo ragazzo, chi altri lo è?»
E poi mia sorella fece una smorfia che detesto, quella con la quale vuole sottolineare quanto mi sia superiore e quanto io sia ingenua.
«Ah povera piccola Giulietta, davvero credi ancora che la gente sia come si mostra agli altri?»
Perché doveva sempre trovare il modo per biasimarmi, per ribadire per l’ennesima volta la mia scarsa acutezza e il fatto che mi fido troppo delle apparenze? Amava sminuirmi e trasformarmi in una bambinetta con qualche anno in più di Chiara  solo utilizzando quell’odiosissimo diminutivo del mio nome.
Lei non è mai stata chiamata Melissina o Melissuccia in vita sua, non può capire che tremenda sofferenza sia essere chiamate con un nomignolo così melenso.
Odio quando mi chiamano Giulietta. Ho quindici anni, è assurdo che ancora i miei parenti mi chiamino così. Quando andiamo a trovare le zie di mio padre raggiungo il culmine dell’umiliazione.
Zia Maria e zia Angela sono due vecchiette novantenni consacrate al Movimento dei Focolari che vivono in una casetta pericolante in mezzo alla campagna. Sono due gemelle e, come tali, sembrano due pezzi complementari dello stesso puzzle: una è esageratamente magra e l’altra avrebbe sicuramente bisogno di dimagrire, una è mezza cieca e l’altra è mezza sorda, una ama cucire e l’altra cucinare. Spesso l’una completava le frasi dell’altra e bastava un semplice sguardo d’intesa per capire che stavano pensando alla stessa cosa.
Ho sempre invidiato il loro rapporto, Melissa e io riusciamo a stento a non litigare per più di un quarto d’ora, non è mai esistita alcuna intesa tra noi. Forse è un fattore presente solo nei gemelli o, più probabilmente, è un legame causato dal carattere simile.
Anche se spesso le zie litigano a causa di idee e pensieri divergenti, le loro liti sono brevi e superficiali; insomma, appena finita la burrasca, torna la pace tra di loro.
Tra me e Melissa la situazione è completamente diversa: non essendoci mai stato tra noi un bel rapporto di sorellanza, i nostri frequenti litigi sono seguiti da silenzi pesanti che si prolungano anche per giorni o settimane. Non abbiamo mai avuto molte cose in comune, condividiamo solo la casa, la camera e i familiari.
Le zie, invece, hanno molte passioni comuni, tra le quali l’amore nell’umiliarmi. Non lo fanno intenzionalmente, anzi, sono fin troppo affettuose, ma mi fanno sentire  stupida.
Appena mi vedono, prima mi strangolano con i loro abbracci a dir poco calorosi, poi mi lavano la faccia inondandomi di baci e, infine, fanno qualche passo indietro, prendono gli occhiali per mettere a fuoco la mia persona e iniziano a cinguettare “Oddio, quanto è cresciuta Giuliettina”, “Sei diventata un signorina Giuliettuccia, dobbiamo fare un discorsetto”, “Sei troppo magra bambina, ti va se ti prepariamo i biscotti che ti piacevano tanto quando avevi quattro anni?”.
Ecco, infatti, mi piacevano quando avevo quattro anni, sono passati più di dieci anni da allora. E in realtà non mi piacevano nemmeno, li mangiavo per educazione.
Con Melissa si comportano diversamente, la salutano con distacco, sono gentili, ma non affettuose. Ho sempre pensato che mia sorella incuta loro paura: la ritengono la prova che il nuovo millennio stia rovinando le ragazze, rendendole sempre più simili a delle sgualdrine svestite e senza il minimo segno di pudore.
Melissa è sempre stata abbastanza sveglia per la sua età, questo è anche vero, ma penso che la loro convinzione sia completamente errata. Mia sorella non è stupida, può essere ignorante e svogliata, ma sa gestire sempre le situazioni in cui si caccia, anche le peggiori. Se la vita amorosa di mia sorella fosse una frase, potrei farne una rapida analisi logica: i suoi spasimanti sono tutti complementi indiretti, non indispensabili al completamento della frase, il complemento oggetto non esiste, lei è il verbo passivo, senza di cui la frase non sarebbe potuta esistere, ed è anche il soggetto, visto che su di lei ricadono tutte le azioni, le attenzioni e i gesti affettuosi. E’ fin troppo furba, non è una cosiddetta ragazza facile.
Non è di sicuro un’adolescente pudica, ma non risponde nemmeno all’idea che si sono fatte di lei le zie. Probabilmente in lei vedono come Satana possa influire nella vita della gioventù del duemila e forse è proprio per questo che con me si comportano diversamente. In me vedono una luce che mi potrebbe condurre in salvezza, per questo, ogni santa volta che andiamo a trovarle, mi obbligano a trascorrere il pomeriggio a recitare il rosario in loro compagnia in una cappella che hanno creato nella stanza più buia della casa.
E’ illuminata da sole candele, ovunque ci sono quadri e immaginette della Madonna, di Gesù e dei santi e al centro della stanzetta c’è un leggio su cui è posta la Bibbia.
Ogni volta che entrano in quel luogo di culto creato da loro, profumano il libro sacro abbondando con l’incenso. In una specie di cella dove imposte sono sempre chiuse, l’unica luce è quella prodotta da centinaia di cerini e si respira più incenso che ossigeno, la morte sembra più che altro un sollievo.
Nei sogni di quelle due vecchie vestali c’è forse quello di spedirmi in un convento di clausura e di farmi prendere i voti? Loro hanno scelto una forma di clausura che io ritengo decisamente peggiore di stare in convento: si sono estraniate dal mondo vivendo lontano da tutto e tutti, cibandosi di ciò che il loro orto produce o delle galline che accudiscono. Hanno scelto un tipo di vita che io non avrei mai scelto e che mai sceglierò.
Mi accorsi, però, di aver ricominciato a pensare troppo, estraniandomi di nuovo dalla conversazione con Melissa.
«Beh, allora illuminami,» le risposi, prima che mi attaccasse con qualche altra stupida battuta,  «dimmi cosa ne pensi di nostro fratello.»
«Per prima cosa penso che non sia un santo, anzi. Per me ci nasconde molti aspetti del suo carattere. In realtà è tutto l’opposto di quel bravo ragazzo che sembra.»
«Melissa, perché dici questo? Perché vuoi vedere del marcio ovunque?»
«Io sto dicendo solo quello che penso. Ti sei mai chiesta perché nostro fratello ci proibisce di entrare nella sua camera da letto?»
«Forse vuole solo un po’ di privacy.»
«Questo lo penso anche io. Ma perché vuole tutta questa privacy? Perché ha qualcosa da tenere nascosto. Qualcosa che possa screditarlo agli occhi di tutta la famiglia, qualcosa di cui si vergogna.»
Iniziavo ad intuire cosa volesse insinuare, ma continuai ad essere vaga e a chiedere spiegazioni.
Speravo di sbagliarmi.
«In che senso?» le chiesi timidamente.
«Nel senso che secondo me Giacomo passa i pomeriggi davanti al computer a vedere alcuni video d’argomento equivoco. E non vado oltre, non voglio sentirmi in colpa per averti bloccato la crescita.»
No, non mi sbagliavo, avevo capito dove mia sorella voleva andare a parare. All’inizio mi venne da ridere, mi sembrò una storia troppo assurda per essere vera. L’assurdità, piano piano, però, mi sembrò sempre più realistica, seguendo quella tesi tutto combaciava.
«Da quanto lo pensi?» le chiesi.
«Beh, ormai saranno cinque o sei mesi. Vorrei averne la conferma però …»
«Hai intenzione di entrare in camera sua?!» esclamai alzando il tono di voce.
Mia sorella mi zittì con un sonoro “shh” e, con voce piuttosto bassa, rispose «Certo che sì, non c’è altro modo.»
Sapevo che mia sorella avrebbe varcato la soglia di quella camera senza alcuno scrupolo e che non si sarebbe limitata a curiosare sulla cronologia del pc. Sapevo, inoltre, che se avesse scoperto qualcos’altro di altrettanto ghiotto, lo avrebbe tenuto per sé, senza farne parola con nessuno, men che meno con me.
Scesi dal letto e uscii dalla camera con la scusa di voler sgranocchiare qualcosa, ma in realtà mi fermai davanti alla porta della stanza di Giacomo: mio fratello non sarebbe rientrato prima delle sei, ora in cui terminava il corso d’inglese che frequentava tre volte a settimana per prepararsi a conseguire l’esame FIRST, quindi avevo campo libero. Diedi una veloce controllata intorno prima di afferrare la maniglia della porta, ma, sfortunatamente, la trovai chiusa a chiave.
Mi sentii improvvisamente osservata, così mi girai di scatto e ai miei piedi ritrovai Emilio che gattonava nella mia direzione. Dall’espressione soddisfatta stampata sul suo viso immaginai che fosse riuscito dopo diversi tentativi ad evadere dal suo box.
Lo presi in braccio e lui scoppiò in una sonora risata. In un altro momento quel suono mi avrebbe deliziato e mi sarei imbambolata davanti al mio dolcissimo fratellino, ma in quel frangente la sua risatina avrebbe potuto smascherare il mio piano, così, presa dal panico, gli feci segno di fare silenzio.
Forse, fraintendendomi, aveva capito che gli stessi proponendo qualche strano gioco del silenzio perché, sorridendo, ripeté il mio stesso gesto. Ho sempre detto che l’unica persona normale che vive in questa casa oltre me è questo piccolo genietto!
Mi mossi verso la mia camera da letto cercando di non fare alcun rumore e, rasentando il muro, mi affacciai dalla porta per vedere se Melissa avesse sentito qualcosa.
La trovai seduta sulla poltroncina davanti alla scrivania con due gigantesche cuffie nelle orecchie e, da come simulava di suonare una chitarra, si poteva ipotizzare che il volume fosse al massimo e che, di conseguenza, non avesse sentito nulla. Pericolo scampato!
Mi diressi in cucina e presi un biscotto per Emilio, nel caso in cui avessi avuto il bisogno di tenerlo impegnato per farlo tacere.
Nel frattempo guardai l’orario dal grosso orologio giallo con i limoni che mia madre aveva fatto appendere sopra la cappa del forno. Segnava le 17.13, avevo poco meno di un’ora prima che mio fratello tornasse a casa. Svicolai in corridoio e mi ripresentai davanti alla porta chiusa a chiave. Poggiando Emilio sul pavimento, cercai di forzare la porta con le mani, senza riuscirci.
In quel momento rimpiansi di non utilizzare le forcine per capelli, ho visto così tanti film in cui le adolescenti riuscivano in meno di un minuto a scassinare qualsiasi tipo di serratura utilizzandone una e in quel momento sarebbe stata l’ideale.
Quando avevo raggiunto il picco dell’esaurimento e stavo valutando l’idea di buttare la porta giù a pedate, mi sentii tirare il piede: era Emilio che, essendosi accorto del biscotto che tenevo in mano, esigeva la sua merenda. Sconfortata e insoddisfatta, mi chinai alla sua altezza e gli diedi distrattamente lo snack. Poi tornai a guardarlo con più attenzione e mi resi conto che teneva in mano un portachiavi rosso a forma di G da cui pendeva una piccola chiave ramata.
I miei occhi tornarono a brillare e la speranza di soddisfare la mia curiosità ricomparve nella mia testa.
Utilizzando il tono più dolce che conoscessi e cercando di scandire le parole e di gesticolare per rendermi il più comprensibile possibile, chiesi ad Emilio «Emi, dove hai trovato quella chiave? LA-CHIAVE. C-H-I-A-V-E.»
Dopo diversi tentativi, il bambino sembrò recepire il messaggio e, balbettando monosillabi senza alcun nesso logico, indicò lo zerbino ai piedi della porta.
Ma come non c’ero arrivata? Era più che normale che fosse lì.
Forse sopravvaluto troppo Giacomo a volte e penso che le soluzioni troppo comuni non siano le sue predilette. Ovviamente mi sbaglio, come sempre d’altronde.
Mi godetti immensamente il cigolio che fece la porta quando finalmente si aprì. Presi in braccio il mio fratellino e mi tuffai in quel rifugio buio.
Accendendo la luce, mi stupii dell’ordine che regnava in quella stanza: non un libro era in disordine, il letto era perfettamente sistemato, la scrivania era stata recentemente spolverata e i vestiti non ricoprivano il pavimento, bensì erano piegati nei loro cassetti.
Troppo ordine per un ragazzo. Troppo ordine per me. Mi bruciavano gli occhi davanti a tutte quelle cose sistemate al loro posto, a quella pulizia maniacale. Era anormale, sembrava una di quelle camere modello che si trova nei negozi di mobili.
Cercando di non toccare nulla e di non lasciare traccia del mio ingresso in quel mausoleo dell’ordine, mi avvicinai al computer di mio fratello.
Fortunatamente lo trovai acceso e non fui costretta a dovermi scervellare per indovinare una possibile password d’accesso al sistema.
La prima cosa che mi stranì fu lo sfondo del pc: era una foto di mio fratello con una moretta occhialuta che mi ricordava tantissimo Edna Mode degli Incredibili che non avevo mai visto prima.
Che io sapessi, mio fratello non aveva amiche femmine. Che si fosse fidanzato?
No, che assurdità! Mio fratello poteva anche navigare su siti poco raccomandabili, ma che avesse una ragazza era surreale. Lui era convolato a nozze anni prima con la Playstation, quello sì che era il suo primo vero ed unico amore.
Smisi di gingillarmi e aprii internet, accedendo alla cronologia.
Trovai lo stesso link ripetuto più e più volte. Cliccai nel più recente e mi apparve una pagina di log in della Mondadori Giovani. Mi chiesi immediatamente cosa servisse a mio fratello un account su un sito editoriale e per un attimo mi dimenticai di ciò che mi aveva detto Melissa.
Serviva un nickname e una password per accedere al sito e, conoscendo quello smemorato di Giacomo, avrei trovato entrambi i dati appuntati in un post-it sulla scrivania.
Fu difficile trovare il suddetto fogliettino e ancora più difficile fu mantenere l’ordine mentre lo cercavo. Lo trovai attaccato alla copertina del suo libro di letteratura greca e, dopo aver digitato i dati al pc e aver cliccato il tasto “invio”, mi spuntò un’ulteriore pagina.
Mi salutava con caloroso “Ciao Giacomo Leonardi, ci sono novità per te!” e subito sotto, in grassetto, c’era un gigantesco “Clicca qui per saperne di più!”.
Mi apparve una lettera da parte della Mondadori Autori che comunicava a mio fratello che il suo manoscritto aveva vinto un fantomatico concorso editoriale, che, con le opportune revisioni, sarebbe stato pubblicato entro la fine dell’anno e che attendevano al più presto una risposta.
La rilessi un paio di volte prima di capire che mio fratello avrebbe pubblicato un suo libro.
Poi mi spuntò un interrogativo nella testa: ma da quando mio fratello scriveva? E cosa mai scriveva?
Scesi più giù con il cursore e trovai il manoscritto revisionato. La curiosità mi mangiava viva, cliccai il pulsante per stampare il brano e la stampante iniziò a sputare un centinaio di fogli.
Riuniti tutti in un fascicolo e lasciando la pagina della Mondadori aperta, curiosai ancora tra la cronologia.
Non trovai praticamente nulla di sconcio e, dopo la recente scoperta del talento nascosto di Giacomo, l’idea che trascorresse i suoi pomeriggi a guardare zozzerie varie ritornava ad essere un’idiozia.
Non so quanto tempo esattamente fosse passato, ma sentii lo sbattere della porta d’ingresso. Il cuore mi salì in gola: doveva essere Giacomo.
Non ebbi il tempo di chiudere internet, presi velocemente in braccio Emilio, afferrai con la mano libera il fascicolo di fogli, uscii dalla stanza, chiusi la porta e rimisi la chiave al suo posto.
Appena posata la chiave, mi girai e vidi Giacomo che mi fissava.
«Cosa stai facendo?»
Sembrava abbastanza irritato, se non quasi spaventato e ormai sapevo il perché. Aveva paura di non riuscirci, ecco perché non ne aveva fatto parola con nessuno. Buttava sangue su un foglio Word ogni pomeriggio solo per sentirsi qualcuno, per uscire dall’anonimato, per non essere invisibile anche questa volta.
Mi sentii colpevole, sia per aver pensato male di lui che per aver violato la sua privacy. Cercai, però, di sembrare il più innocente possibile.
«Ciao Giacomo, finito di già il corso d’inglese?»
«Direi, sono quasi le sei e mezza! Ma non cambiare discorso, che ci fai davanti alla mia camera?»
«Ma niente, tranquillo, ehm, devi sapere che stavo portando Emi in cucina. Lui però si è messo a giocare … Con il mio bracciale, ecco, quello con il segno dell’infinito che mi ha regalato mamma per il compleanno, ti ricordi? Lo ha rotto ed è volato non si sa dove. Lo stavo per l'appunto cercando per terra … Sono disperata!»
Inizialmente studiò il mio volto, come per capire se dicessi o no la verità, allora accentuai la mia espressione triste. Dopo un po’ rilassò i suoi tratti, probabilmente aveva deciso che non stessi mentendo.
«Oh, okay. In caso, vuoi una mano?»
Fingendo di sentirmi improvvisamente sollevata, gli sorrisi e gli dissi con tono melenso «Mi faresti un enorme favore, guarda! Tu controlla qui, io vedo un po’ in camera mia e nel mentre poso questo mucchio di fotocopie che mi ha portato una mia compagna di classe. Sai, la mia professoressa di scienze è pazza, ci ha assegnato un centinaio di pagine da studiare per la prossima verifica e, per giunta, non sono nemmeno pagine del nostro libro di testo!  Non ne parliamo o inizio ad innervosirmi!» e con un gesto veloce lo liquidai.
Non sono mai stata una brava bugiarda, ma Giacomo è peggio di un bambino, crede a tutto e a tutti. Probabilmente crede ancora in Babbo Natale anche se ha quasi 18 anni.
Dopo un po’ Giacomo uscì di camera sua furente e corse rabbiosamente verso la mia stanza.
La mia fine sarebbe stata lenta e dolorosa, ne ero cosciente. Mi preparavo ad una sfuriata e anche a qualche schiaffone quando vidi mio fratello accanto alla porta: era livido dalla rabbia.
Ma non venne dalla mia parte, anzi, si diresse verso la poltrona su cui era spaparanzata Melissa. Le tolse bruscamente le cuffie e gli urlò a squarciagola «COME TI SEI PERMESSA AD ENTRARE IN CAMERA MIA E A CURIOSARE TRA LE MIE COSE SUL COMPUTER?!»
Le gridò contro per circa mezz’ora, urlando frasi sconnesse piene di rabbia e di imbarazzo. Mia sorella lo riteneva evidentemente matto, lo guardava con sguardo spaventato ed si vedeva chiaramente che non avesse capito una sola parola di quello di cui blaterava a tutto volume Giacomo.
Mio fratello aveva sbagliato nell’individuare la colpevole, era ovviamente più probabile che la colpa fosse di una ragazza malefica come Melissa che di una sciocca ingenua come la suddetta. Mi ricordo ancora che per un paio di settimane Melissa guardò con vergogna e paura Giacomo, impaurita dal fatto che qualche suo amico avesse potuto scoprire che lei era imparentata con un malato di mente che aveva attacchi di rabbia improvvisi e non prevedibili.
Fino ad oggi non ho mai detto a Melissa della mia irruzione in camera di nostro fratello, come ancora Giacomo non ha reso pubblico in famiglia il suo ingresso nel mondo degli scrittori e sono passati già diversi mesi, tra cui un’intera estate in mezzo.
Ho letto il manoscritto di Giacomo e, appena sono arrivata alla conclusione, sono scoppiata in lacrime. Piango spesso dopo aver letto qualcosa che mi appassiona tanto, ma la sua storia mi a toccato particolarmente.
Ha scritto di un ragazzo che si sente solo anche in mezzo alla gente, di un adolescente che il sabato sera, invece di ballare fino alle tre di notte o di fumare uno spinello in gruppo, preferisce diversificarsi dalla massa, con le dovute conseguenze. La conseguenza peggiore è quella di sentirsi continuamente eclissato, invisibile davanti a qualsiasi altra persona, relegato nel gruppo degli sfigati pur non sentendosi tale. Come un uccello con le ali tarpate, non può prendere il volo per colpa di una società che lo confinava in un abisso buio. La faccenda peggiora quando anche i suoi parenti si dimenticano di lui, fanno finta che non esista e sminuiscono i suoi successi, sia piccoli che grandi, dando tutto per scontato. Questo ragazzo inizia quindi a pensare di mettere fine a tutto, vuole fuggire, andare in un posto da cui non avrebbe fatto più ritorno.
Ma poi arriva LEI e lo salva. Nel manoscritto era chiamata come “l’angelo custode”, una figura angelica perfetta con le sue imperfezioni, un angelo fuori da ogni convenzione che viene allontanato dagli altri angeli per il suo carattere e i suoi pensieri diversi dalla massa. Appare al ragazzo in sogno, prima che sia troppo tardi, e gli racconta la sua storia, una storia triste tanto quanto quella del ragazzo.
Da allora lei gli apparirà ogni sera in sogno, lo convincerà ad andare avanti fregandosene delle critiche altrui e lo aiuterà a diventare più forte. Anche se tutto questo accade solo nella sua mente, il ragazzo inizia ad innamorarsi di questa figura angelica, prova un senso di devozione nei suoi confronti.
Una sera, in uno dei tanti sogni, lui le dichiara il suo amore e lei gli confessa che ricambia i suoi sentimenti. Ma, purtroppo, il loro è un amore irrealizzabile, agli angeli non è concesso innamorarsi. Quella sarà l’ultima volta che si vedranno, è lei che decide di mettere un punto a quella lunga catena di incontri, non vuole vederlo soffrire per un sentimento che non può esistere tra loro.
Il sogno finisce con i due che si scambiano un bacio a stampo, un’azione che costerà all’angelo più di quanto potesse pensare.
Il ragazzo torna alla sua vita, scrive un libro e riesce a farsi conoscere da tutti per com’è davvero. Anche se non è più invisibile, però, conserva nel suo cuore il ricordo del suo angelo custode, sperando sempre di poterla rivedere.
Nel frattempo, l’angelo, per aver disubbidito alle leggi divine, viene giudicato da una corte suprema che la reputa indegna di meritare l’immortalità e la confina sulla Terra a vivere la vita di una qualsiasi adolescente mortale. Se, però, si fosse comportata bene durante la sua vita mortale, come tutti gli altri uomini, avrebbe potuto ambire ad un posto in paradiso, ma mai più avrebbe avuto il privilegio di appartenere alla sfera angelica.
Agli altri angeli questa sembrava una punizione esemplare. A lei no, a lei sembrava un premio.
Il romanzo si conclude con la ragazza che, ormai priva di ali, cade sulla terra con un pensiero fisso: trovare il ragazzo che le aveva rubato il cuore.
Non so cosa mio fratello avesse inventato di quella storia, ma sapevo che c’era una parte di lui in quel romanzo, una parte concreta, reale e non solo un pezzo della sua anima. Inizialmente mi vergognai di averlo letto, era come se lo avessi messo a nudo, scoprendo tutto ciò che provava.
Poi mi resi conto che Giacomo aveva scritto quel testo proprio per farsi conoscere, per togliersi dalla coscienza un peso che lo opprimeva ormai e per uscire da una vita che non lo rispecchiava in pieno. Da quando ho finito di leggere il manoscritto, ho più stima nei confronti di mio fratello.
Anche io mi sento spesso eclissata, lui ha avuto il coraggio di provare a brillare di luce propria e, anche se il barlume è ancora fievole, ci sta riuscendo. Vorrei avere la stessa forza per riuscire a sbarazzarmi di un passato di cui non vado fierissima.
E, mentre pensavo a tutte queste cose e mi infilavo l’accappatoio, sentii la sveglia che suonava. Erano di già le 7.00, di li a poco sarebbe scoppiata la guerra per andare in bagno. Mi guardai allo specchio con aria amareggiata: anche quel giorno mi sarebbe toccato andare a scuola con i capelli bagnati!
 
Spazio dell’autore
 
Ciao gente! Sono lady vasshappenin, aka Let it Be_ (ho cambiato nickname). Il mio vero nome è Roberta, ho 15 anni e frequento il liceo classico. Scrivo spesso e ho messo tempo fa altre fan-fiction su questo profilo, ma, visto che sono cambiata molto in questo ultimo periodo sia negli interessi che nello stile, penso che verranno presto rimosse. Avevo infatti scritto della storie sui One Direction, ma ultimamente sto odiando le fan-fiction riguardanti persone reali, mi sembrano stupide, non so esattamente il perché. Ho iniziato a scribacchiare questa fan-fiction di mia invenzione qualche settimana fa, appena conclusasi la scuola.
La mia protagonista è Giulia Leonardi, una ragazza italiana di 15 anni diversa dalle altre. In questo capitolo non la si conosce molto, più che altro si parla della sua famiglia, dei suoi fratelli e della lotta per raggiungere il bagno la mattina, ma ho già in mente il suo carattere e ve lo farò conoscere molto presto.
Pensavo che questo capitolo si sarebbe sviluppato diversamente, ma poi ho deciso di puntare l’attenzione sulle persone con cui convive Giulia. L’ambiente in cui si cresce, d’altronde, è decisivo per la formazione del carattere di una persona.
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, so che è abbastanza lungo, ma non sono riuscita a mettere un freno alla mia immaginazione. Se volete contattarmi, mandatemi un messaggio privato oppure cercatemi su Tumblr, nella mia presentazione ho lasciato per l’appunto il link del mio blog.
Accetto sia critiche che consigli, so di non essere una vera e propria scrittrice quindi qualsiasi recensione negativa sarà costruttiva.
Se vi è piaciuto questo capitolo, ci vediamo al prossimo capitolo e se non vi è piaciuto, beh, cercherò di migliorare.
 
Baci xx.

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Capitolo 2
*** B come Baccano di una Bimbetta. ***


A way to suffocate me.



2° capitolo.

B come Baccano di una Bimbetta.

 
Accucciandomi nell’accappatoio, uscii dal bagno: il silenzio che fino a pochi minuti prima regnava sulla casa si stava rompendo, i miei familiari si stavano svegliando e con loro il chiasso e la confusione.
Mi diressi verso camera mia, strofinando i capelli bagnati contro la morbida spugna che odorava di pulito nella speranza che si asciugassero – un augurio infondato, erano troppo bagnati -. La luce era ancora spenta, ma sapevo che di lì a poco mamma sarebbe arrivata, sgolandosi nel tentativo di far svegliare Melissa e Chiara.
Mi incamminai in quella stanza buia tastando qualunque cosa intorno a me, alla ricerca dell’armadio. Lo trovai andandoci a sbattere contro con il gomito e, massaggiandomi la parte dolorante, aprii un’anta: la piccola lampadina interna al mobile illuminò leggermente lo spazio nei dintorni e mi permise di vedere i vestiti.
Persi qualche secondo a contemplare la mia immagine riflessa sullo specchio incastonato all’interno dello sportello che avevo spalancato: una ragazza non troppo alta ricambiava il mio sguardo.
Purtroppo, come ormai la stragrande delle adolescenti del mio secolo fa, non amo il mio corpo: non sono per niente alta, raggiungo a stento il metro e sessanta, e ho una corporatura robusta, con una conseguente dose di ciccetta sulle cosce e sulla pancia. Non sono una di quelle ragazze che può definirsi grossa e non posso nemmeno comportarmi come se lo fossi, mancherei di rispetto a chi ha davvero questo problema, ma non ho un fisico da modella, i fianchi che madre natura mi ha donato non sono proprio i miei amici più cari e le mie cosce andrebbero snellite. L’unica cosa piacevole del mio fisico da matrona romana è il seno, sodo e abbastanza abbondante per la mia età, che, però, mi è rigorosamente vietato valorizzare con una scollatura leggermente più ampia e profonda. Mia madre e mio padre, infatti, sono due persone molto all’antica e hanno cercato di educare noi figli con metodi simili a quelli usati precedentemente dai loro genitori.
Ergo, in casa nostra le regole sono più numerose e rigide di quelle che vigono in un riformatorio.
Siamo continuamente vincolati da limiti, doveri e scadenze. Sì, sembra di vivere in un orologio svizzero: c’è un orario per alzarsi nei giorni di vacanza, un orario per andare a dormire durante il periodo scolastico, un orario per spegnere il telefonino, un orario per rincasare, un orario per andare dagli amici. Tra un po’ avremo anche l’orario adatto per respirare.
Per non parlare delle regole a cui dobbiamo attenerci. Se si dovesse stilare un elenco contenente tutte le norme disciplinari che i miei hanno inventato, ci vorrebbe un’intera equipe editoriale disponibile a lavorare per una decina d’anni. Ne uscirebbe un libro con più pagine della Bibbia, diviso in numerosissimi capitoli, paragrafi, paragrafetti e sottoparagrafi. In casa ne esistono anche vincolanti al vestiario, al comportamento, allo studio, sulla pulizia, sull’ordine, sul rumore, sulla musica e su un altro miliardo di cose.
Cacciando questi tristi pensieri dalla mia mente, mi tuffai alla distratta ricerca di qualcosa da indossare per andare a scuola. Uscii dal guardaroba velocemente una maglia a maniche corte blu a righe bianche, un paio di comodi blue jeans e tirai fuori dalla scarpiera le vecchie Superga azzurre di Melissa, ormai bianche dopo i numerosi bagni al mare.
Contemporaneamente mia madre fece irruzione in camera mia, tirando su la tapparella e spalancando la finestra.
«Sveglia, bambine, sono 7.10! FORZA, IN PIEDI!» urlò e, non accorgendosi del fatto che io fossi già alzata con l’accappatoio addosso e i vestiti tra le mani, oltrepassò rapida la porta.
Girando la testa verso i letti, mi accorsi che il sonno profondo di quei ghiri delle mie sorelle era stato interrotto dalle urla mattutine della mamma: Melissa si agitava tra le lenzuola e, con la testa sotto il cuscino, farfugliava qualcosa che assomigliava tanto a “C’ho sonno, non voglio andare a scuola”, mentre Chiara era carponi sul letto e si stropicciava gli occhi con le manine paffute, ancora incapace di definire se stesse sognando o no.
Dopo aver indossato la maglietta, infilato i pantaloni e allacciato le scarpe, mi resi conto che il risveglio di Melissa e Chiara non era ancora completo, anzi erano ancora alla posizione iniziale.
Il che era un bene alla fine, avrei evitato la solita confusione che regnava a colazione se mi fossi data una mossa.
Mi avvicinai alla scrivania e inforcai gli occhiali: tutto magicamente mi era più nitido.
Sì, sono una quattrocchi, purtroppo. Ho gli occhiali da quando sono piccola, inizialmente l’oculista aveva prescritto delle lenti riposanti, ma poi è apparsa anche la miopia e sono diventata cieca come una vecchia talpa con la cataratta.
Fortunatamente non sono l’unica costretta a portarli in famiglia: anche Giacomo e papà sono stati scalognati come me.
La mamma invece è uscita dal club familiare degli occhialuti, l’anno scorso ha fatto un’operazione agli occhi ed adesso non ha bisogno di nulla. Non vedo l’ora di essere abbastanza grande per eliminare questo problema dalla mia vita. Ho quindici anni ormai, vado in secondo liceo da un mesetto e potrei mettere tranquillamente le lenti a contatto qualche volta, come fanno molti miei compagni.
E invece no. I miei genitori, supportati dall’oculista e dall’ottico di famiglia, sono contrari al loro utilizzo prima della maggiore età. Se non le fanno usare nemmeno a Giacomo, quasi diciottenne ormai, io non ho la minima speranza.
Come sempre, la fortuna ha baciato le mie due insopportabili sorelle, evitando loro di osservare la vita attraverso un paio di stramaledettissime lenti di vetro graduate.
Con le mani tra i capelli, nella speranza che si asciugassero come per magia da un momento all’altro, mi diressi in cucina abbandonando Chiara e Melissa al loro lentissimo risveglio dal mondo dei sogni.
Non fui molto sorpresa nel trovare papà seduto a tavola a trangugiare un toast imburrato mentre studiava una cartella piena di tabelle e diagrammi, mamma che annuiva al telefono da dietro una tazza di caffè e Giacomo che versava del succo di ananas nel proprio bicchiere mentre parlottava tra  sé, probabilmente ripetendo concetti appartenenti  all’ennesima lezione di filosofia studiata.
L’unica cosa strana era che, al posto della consueta confusione, quel giorno aleggiava sulla cucina un silenzio quasi totale, smorzato unicamente dai rumori d’assenso che venivano dal caffè della mamma e dai borbottii di mio fratello. Papà, invece, era muto come un pesce quella mattina e così occupato a contemplare la sua cartellina zeppa di dati e numeri da potersi anche dimenticare di respirare ogni tanto.
Mossi la mano in segno di saluto e feci per articolare un semplice “Buongiorno”, ma fui immediatamente zittita da mio padre che, rianimandosi, mi fece segno di rimanere in silenzio e subito dopo indicò la mamma, facendomi capire che la sua era sicuramente un’importante discussione di lavoro.
Imbronciata, mi scaraventai sulla sedia, afferrai un pancarré da ricoprire interamente di Nutella e versai il caffè ancora caldo nella mia tazza.
Nel tentativo di renderlo più dolce, dimezzai il contenuto della zuccheriera. Odio il caffè amaro, sono abbastanza amara di mio la mattina, ho bisogno di qualcosa che renda le mie occhiaie meno pesanti e il mio ingresso a scuola più leggero e lo zucchero, talvolta, può essere utile.
Nel frattempo, papà era rientrato in coma con gli occhi fissi sui fogli che teneva in mano e Giacomo aveva messo a lavare le sue cose ed era uscito dalla cucina meditabondo, borbottando sottovoce per tutto il tempo.
La discussione  telefonica della mamma, che sembrava essere molto importante, era costituita unicamente dai suoi numerosi “sì sì, ho capito” e da pause lunghissime in cui le sue sopracciglia si aggrottavano e si rilassavano in continuazione, segno evidente di agitazione e nervosismo.
Quando stavo per posare dentro il lavabo la tazza sporca e le posate unte della deliziosa crema alla nocciola, entrò in cucina un’assonnata Melissa.
Ricorda moltissimo  nostra madre: stesso viso dolce a forma di cuore, stessa bocca sottile, stesso naso all’insù. Gli occhi di quest’ultima sono, però, di un bel verde acqua, mentre quelli della mamma sono tendenti al grigio.
In famiglia li abbiamo tutti chiari: papà ha i più belli di tutti, due zirconi luminosi che non sono stati ereditati da nessuno in famiglia. Il colore che più gli assomiglia è quello dello sguardo di Giacomo, un celeste chiarissimo, mentre la mia iride e quella di Chiara hanno lo stesso pigmento, un verde edera che al buio cambia in un verde bosco. Emilio è ancora piccolo e, come tutti i bambini, i suoi occhi devono ancora trovare la colorazione definitiva, ma per adesso ha due oceani in mezzo alle pupille.
Trascinandosi sul pavimento, mia sorella si buttò di peso sulla sedia che avevo appena liberato e con voce impastata disse «’Giorno mamma, come va?».
Io, imitando mio padre, le feci segno di zittirsi e le indicai la mamma. Nel girarmi, la vidi, però, riagganciare la cornetta con aria soddisfatta e dire a Melissa con tono non curante «Ciao tesoro, oggi tutto va meravigliosamente! Parla pure, ho finito con il telefono.»
E’ assurdo come mia sorella sia così sfacciatamente fortunata anche in queste piccole sciocchezze! Quando ho tentato di proferire parola io, mio padre mi ha intimato di tacere bruscamente, mentre, appena arriva Melissa, il tizio al cellulare con la mamma decide magicamente di mettere fine alla discussione. Perché tutto l’universo ama così palesemente mia sorella e disprezza me in tutti i miei aspetti e comportamenti?
Come se non bastasse, mia madre, scorrendo con lo sguardo per la cucina, mi squadrò fulminea da testa a piedi ed esclamò sbuffando «Per l’amor di Dio, Giulia, perché hai i capelli tutti bagnati? Lo sai che ti prenderai un febbrone da cavallo se esci di casa così, vero?! Vatti ad asciugare la testa immediatamente!»
«Mamma, uffa, oggi c’è caldo, se esco con i capelli un po’ umidi non rischio mica una polmonite! E poi … » ma non mi fu permesso completare la frase poiché le mie parole furono sovrastate dalla voce perentoria di quella donna seduta a tavola che mi osservava con occhi infuocati.
«UN PO’ UMIDI?» trillò lei, aumentando il volume della propria voce ad ogni sillaba, «UN PO’ UMIDI?! STAI SCHERZANDO, SPERO! SONO ZUPPI! E GUARDA LA MAGLIETTA, E’ TUTTA BAGNATA ALL’ALTEZZA DELLE SPALLE! VAI A CAMBIARTI IMMEDIATAMENTE E TROVA IL MODO PER ASCIUGARE QUEI CAPELLI IN FRETTA, NON VOGLIO CHE PER COLPA TUA TUTTI DEBBANO ARRIVARE IN RITARDO A SCUOLA! CI SIAMO CAPITE, SIGNORINELLA
Quando finì di sbraitare la sua voce aveva raggiunto sicuramente le orecchie degli Australiani, attraversando l’oceano e privando centinaia di persone dell’udito. Il suo viso non sembrava più tanto dolce, anzi, era diventato d’un tratto molto simile ad un grosso mattone color porpora e sembrava che un po’ di fumo stesse per uscire da quei due grossi buchi dilatati per il nervosismo che dovevano essere state, fino a poco tempo prima, le sue narici.
Tentai di articolare anche un minimo pensiero in mio favore, ma gli occhi di mia madre, che in quel momento tendevano verso una strana sfumatura rossastra, mi comunicavano un chiaro messaggio: era meglio fare ciò che mi aveva chiesto o sarebbe passata alle punizioni e ai castighi.
Così, intristita, mi diressi mogiamente verso il bagno, mentre già l’aria in cucina si alleggeriva e la mamma si ricomponeva, tornando quella donna in carriera perfetta, gentile e composta che tutti conoscono.
Forse sono io ad esagerare o può darsi che la mia immaginazione navighi un po’ troppo, ma quando mia madre si arrabbia, specialmente con me, subisce una metamorfosi fisica e caratteriale che la rende una specie di troll irascibile e pronto a sferrare colpi letali con la sua clava fatta di roccia vulcanica.
Con Melissa, naturalmente, non si arrabbia quasi mai. “Come sono orgogliosa di Melissa, è una ragazza d’oro” ripete spesso mia madre alle sue amiche, con l’aria tronfia di chi mostra una medaglia vinta ad una faticosa e difficile competizione.
Io non ho mai visto in lei questo tesoro inestimabile, anzi, io penso che sia proprio banale come persona. Non ha nulla di speciale. E’ bella e anche molto, questo è innegabile. Ma è un pregio ereditario, un fattore puramente genetico: non ha mai fatto nulla per essere carina, è nata così. Le si può riconoscere solo il fatto di aver affinato una tecnica per ammaliare e conquistare i ragazzi, ma con il suo aspetto fisico partiva già avvantaggiata.
Non ha mai avuto un rendimento scolastico eccezionale, è pigra, disordinata quanto me e le uniche doti che le si possono riconoscere sono quelle di avere una grande resistenza all’alcol e di essere una delle ragazze più astute e manipolatrici che il nostro liceo abbia mai conosciuto.
Ma è sempre e comunque un tesoro di ragazza. Mentre io sono la figlia che è continuamente e indiscutibilmente sbagliata.
Non sono vittimista, per carità, odio il vittimismo in tutte le sue svariate forme e misure. Sto solo riportando i fatti per come stanno, senza modificarli. Sono una ragazza leggermente sfortunata e sottovaluta, e questo lo capisco perfettamente.
Faccio un esempio che può essere stupido, ma rende l’idea della situazione in cui mi trovo.
Se Melissa girovagasse per casa praticamente mezza nuda nessuno le direbbe granché, Giacomo arrossirebbe per l’imbarazzo e si rifugerebbe tempo tre secondi in camera sua, la mamma le darebbe pigramente il consiglio di mettersi qualcosa di più coprente addosso e papà … Beh, forse papà le farebbe una mini-scenata, ma dopo poco più di un quarto d’ora si dimenticherebbe dell’arrabbiatura e tutto tornerebbe come prima.
Ovviamente se fossi io quella quasi del tutto svestita la storia prenderebbe una piega molto diversa. Innanzitutto la mamma non starebbe in silenzio, anzi, ingaggerebbe una lotta con mio padre per chi debba sgridarmi con più impeto e rabbia. Mio padre trapanerebbe i muri con il suo vocione e in breve tempo tutta la regione Sicilia saprebbe che sono una svergognata, un disastro e un fallimento. Giacomo non si nasconderebbe nella propria camera, non l’ho mai messo in soggezione, non mi atteggio come Melissa. Probabilmente mi guarderebbe con sguardo severo, disconoscendomi come sua sorella minore e domandandosi che genere di sgualdrine e spacciatori frequenti il sabato sera.
E poi avrebbe fatto ingresso nella discussione lei, l’unica ed inimitabile Melissa che, con fare teatrale, sarebbe scoppiata in lacrime, chiedendosi, tra singhiozzi e sussulti, come una tempesta ormonale possa trasformare una dolce bambina in una teppista dall’oggi al domani.
Sì, sarebbe all’incirca così. Forse si aggiungerebbero anche Chiara con il suo famoso sorrisetto troppo malizioso per la sua tenera età, Emilio in un’agitata crisi di pianto e le zie di mio padre che, attraverso non so quale razzo interspaziale ultra veloce, sarebbero giunte a casa nostra e, assistendo alla scena orripilate, avrebbero pregato Dio affinché mi liberasse dal Male demoniaco che mi possiede.
E la cosa non sarebbe finita lì, sarebbe continuata per settimane con punizioni così rigide e pesanti da far invidia alle dieci piaghe d’Egitto. Il tutto si sarebbe concluso al compimento dei miei trentatré anni e, giunto il momento della mia scarcerazione, i miei familiari si sarebbero accorti che sdraiato sul letto, al posto del mio corpo vivo e vegeto, c’era un cadavere già avanti nella decomposizione e sulla mia lapide avrebbero scritto “Povera ragazza morta di noia, solitudine e depressione rinchiusa per decenni in una stanza buia e puzzolente. In vita era stata un esempio per i suoi coetanei.”.
Sì, alla fine da morta sarei stata ricordata come una giovane giudiziosa, matura e via dicendo.
Ma, ehi, io sono ancora viva! Non riesco a impormi su queste digressioni chilometriche che la mia mente elabora, la mia fantasia percorre stradine impervie, scala cime altissime e attraversa a nuoto oceani interi senza fermarsi mai.
Avrò qualche disturbo psichico, qualcosa causato forse dalla disfunzione di qualche ormone che pone un limite a certi pensieri di prendere piede e di allargarsi a macchia d’olio dentro la mia testolina.
Mi ritrovai davanti alla porta del bagno e, trovandola chiusa, bussai sonoramente.
«E’ occupato» rispose la voce soffocata di Giacomo, sicuramente occupato in qualche sforzo sovrumano.
«Devi starci molto?» chiesi io implorante, conoscendo già la risposta.
«Secondo te?» rispose con un tono esasperato.
Ancora più esasperata di lui, chiesi supplice «Non puoi nemmeno passarmi il phon?».
In preda a quello che pareva uno sforzo immane, mio fratello urlò uno straziante “NOOOOOOOOO!” così lungo e sonoro che mi perforò i timpani. Arrendendomi all’evidenza, mi trascinai in camera, cercando di pensare ad un modo per asciugare in fretta la mia chioma.
Passandomi una mano sulla testa, però, mi accorsi che la cute era ormai asciutta, come anche alcuni ciuffi, ma la maggior parte delle punte erano ancora bagnate. Non sapevo come asciugare i miei ricci in tempo.
Sì, sono riccia. E anche castana. Conclusione? Odio i miei capelli. Sono una matassa ispida indomabile e impossibile da asciugare in fretta.
Irritata com’ero, non mi accorsi immediatamente che quello che stavo calpestando non era il tappeto, bensì una miriade di vestiti buttati alla rinfusa sul pavimento. L’artefice di tutto era Chiara, intenta a svaligiare l’armadio e a scartare insoddisfatta tutti gli indumenti che non rispecchiavano il suo gusto. La rabbia crebbe dentro di me ed eruttò violentemente: come un demone iniziò ad urlare, a sbavare selvaggiamente, a distruggere tutto ciò che trovava senza avere nemmeno un briciolo di rimorso. Quella tappetta aveva svuotato tutto l’armadio, scombinando anche i miei vestiti alla ricerca di un non-so-cosa che la rendesse figa e popolare.
Mi avvicinai e, non curandomi di trattenere l’ira che mi bruciava in petto, le strinsi i piccoli polsi intenti ancora a rovistare in un armadio quasi del tutto vuoto.
«Cosa vuoi? AHI, MI FAI MALE, AHI, AHI, SMETTILA, SMETTILA!».
Non volevo sentire scuse, dovevo sfogarmi in qualche modo. Quella mattinata era iniziata per il verso sbagliato ed ero assolutamente sicura che la giornata sarebbe potuto solo peggiorare, ma almeno, se dovevano sgridarmi per forza, lo avrebbero fatto con una persona pienamente colpevole. Colpevole e felice di esserlo.
Potrei sembrare una sorella maggiore tremenda, molto peggiore di quanto Melissa possa mai essere. Forse è anche vero. No, anzi, non è assolutamente vero. Non vado spesso in escandescenza, prima di dare di matto cerco sempre di contare fino a dieci, respirando profondamente e provando a radunare tutta la calma a mia disposizione. Non sono vendicativa né pianificatrice, faccio spesso finta di non badare alle cattiverie di Chiara nei miei confronti e talvolta ho anche provato a giocare con lei.
Poi, ovviamente, il mio tentativo di creare un gioco divertente ed istruttivo va in fumo quando la mia sorellina inizia a fare la capetta e a decretare ordini a tutta forza. Potrebbe essere una perfetta dittatrice, è terribile e, con le sue trovate diaboliche, incute anche paura.
Io alla sua età credevo al Topo dei Denti … Sicuramente sono stata adottata, nessuno mi assomiglia in questa gabbia di matti!
Stringendole ancora di più il polso e avvertendo un cospicuo affluimento di sangue alla testa e di adrenalina nelle vene, le sussurrai, riempiendo le mie parole di rancore, «No che non la smetto. Devi smetterla tu  a rompere sempre, a rendere la mia vita un inferno. Come hai osato? Come cavolo ti è venuto in mente di gettare in quel modo tutti quei vestiti? Ho passato un’intera giornata a riordinarli e sai - oh sì, lo sai benissimo,- quanto odio dover sistemare l’armadio. Ora li riprendi e li rimetti dentro ordinatamente e non mi interessa quanto tempo ci metterai, lo farai. E non mi interessa nemmeno se non troverai i vestiti che cerchi, sei solo una piccola vanitosa …».
L’ingresso di Melissa in camera non mi permise di completare la frase. Assistendo alla scena, corse verso di noi e, spintonandomi, avvolse Chiara in un abbraccio che non era da lei.
La piccoletta, coprendosi la faccia con le mani, scoppiò in un pianto esagerato, pieno di singhiozzi e mugolii. Mia sorella maggiore si voltò e mi trafisse con un’occhiata piena di delusione e seccatura.
Cosa voleva da me? Lei, che era stata sempre la più crudele e perfida ragazzina del quartiere, osava impartirmi una lezione di carattere morale? Di sicuro avrebbe iniziato da un momento all’altro a recitare il ruolo di sorellona apprensiva e giudiziosa, una parte che non le sia addice. I suoi occhi, però, non sembravano velati dalla finzione con cui pronuncia spesso le battute di un copione improvvisato per salvarsi le penne o per eclissare ancora di più la plebe che la circonda. Sembravano stranamente sinceri. Sicuramente turbati.
Il mio sguardo assente cadde sui polsi di mia sorella: erano rossi dove avevo serrato la presa e leggermente scuri intorno. D’un tratto la mia rabbia si alzò dal suo trono fatto di rancore e impulsività e, con un sorriso ghignante, si congedò, lasciando il posto alla vergogna e al rimorso. Mi cadde come il mondo addosso, mi sentii nuda e inutile. Ero troppo stata impulsiva, come avevo potuto sfogarmi così esageratamente con una bambina innocente?
No, disse una vocina ragionevole nella mia testa, non è del tutto innocente, pensa ai tuoi vestiti.
Sì, hai ragione, ma l’ho incolpata anche di una rabbia che non aveva scatenato lei.
Questo è vero, proseguì quella vocina che poteva appartenere solo al grillo parlante che risiede nella mia coscienza, ma non le hai fatto niente di ché dopo tutto. Ricordi cosa faceva Melissa con te quando eravate piccole?
Oh sì, certo che me lo ricordo. Come potrei dimenticare la causa principale delle mie cicatrici?  Melissa è stata per anni campionessa di scazzottamento e soffocamento in casa nostra. E io ero la sua vittima designata, come sempre. Appena la irritavo, anche leggermente, scatenava l’inferno. Non si possono nemmeno provare a contare tutte le volte in cui mi ha tirato i capelli, morso i polpacci o graffiato le braccia. Ricordo chiaramente un episodio, svoltosi quando io avevo più o meno sei anni: con una sberla, Melissa mi ha fatto cadere un canino. Era un semplice dentino da latte, ma, ogni volta che ripenso a quella giornata, è come se un leggero dolore si risvegliasse nelle mie gengive.
Queste prepotenze avevano luogo quando eravamo entrambe molto più piccole. Non che il trattamento che riserva nei miei confronti adesso sia più gradevole, ma almeno mi sono risparmiata un paio di ematomi.
Io sono parecchio più grande di Chiara e dovrei saper gestire la mia impulsività.
La vocina non ebbe niente da aggiungere, condividendo il mio ultimo pensiero. Cercai di svegliarmi dallo stato di catalessi in cui ero caduta e mi avvicinai esitante a Chiara e a Melissa.
«Le vuoi fare ancora male?» disse la maggiore delle due con fare deciso «Non hai visto che segnacci le hai lasciato sui polsi? Dovresti vergognarti!».
«Ma io … I vestiti … Lei …» balbettai io, incapace di trovare argomentazioni valide.
«Sta zitta, Giulia! Non hai scusanti, hai la bellezza di quindici anni e non puoi permetterti di comportarti come una bimbetta!».
I miei nervi non ressero e riacquistai magicamente la forza e la decisione necessaria per rispondere.
«Modera i termini, idiota! Non penso che tu abbia l’autorità per dirmi cosa possa  o non possa fare. Vorrei ricordarti che sei più grande di me solo di un anno e qualche mese!».
«Sarà pure così, ma non ho mai alzato le mani a Chiara, io.»
«Non avrai picchiato Chiara, okay, sarai anche diventata una brava ragazza agli occhi di mamma e papà, ma non me la dai a bere, sappilo, ti conosco. Non mi dimentico di quante cattiverie hai fatto a me! E vanno tutte oltre un polso un po’ arrossato! Non ho mai perso la pazienza con nessuno in questa casa, ma se lo faccio una volta, tutti  subito iniziano a guardarmi male. Siete tremendi, vi detesto!».
Non permettendole di rispondere, marciai verso il mucchio di roba scaraventata sul pavimento  e presi a caso una maglia ed un basco: avevo la certezza ormai che non sarei arrivata ad asciugarmi i capelli con il phon quella mattina, quindi l’unica cosa che mi restava era nasconderli alla furia della mamma.
Tornai velocemente indietro per prendere il cellulare, ancora sotto carica, e notai che, dietro le sue manine, Chiara non stava piangendo. Non era rossa in viso, né bagnata, non aveva gli occhi umidi e arrossati e nemmeno un po’ di moccio che usciva dal naso. Era solo una piccola attrice. Una piccola odiosa attrice che gioiva delle sofferenze altrui.
Melissa era immobile accanto a lei e teneva gli occhi fissi sul mio volto, come in attesa di sapere cosa avrei combinato da un momento all’altro. Staccai con impeto il caricabatteria dalla presa e, stringendo il cellulare tanto da farmi male, lanciai occhiate infuocate a quei due esseri orrendi con cui ero costretta a convinvere e galoppai verso la porta.
Uscendo dal “luogo del delitto”, vidi che il bagno era magicamente libero e mi ci catapultai dentro. Dopo essermi lavata i denti e il viso, un po’ dello stress accumulato quella mattina finì nello scarico con l’acqua saponata. Essendo più lucida e tranquilla, mi dedicai ad osservare cosa avevo pescato da quel marasma: la maglietta che avevo afferrato pochi minuti prima era larga e di un rosa sbiadito, con sopra stampato il logo scolorito dei KISS e il cappello era il mio basco in jeans preferito.
Quella maglietta era veramente orrenda, ma non avevo né il tempo né la voglia di rientrare in camera mia. Così mi cambiai rapidamente e, cercando minuziosamente di far entrare tutti i capelli nel berretto, lasciai la postazione a mio padre, bisognoso, più che di una rasatura, di una vera tosatura.
Con lo sguardo basso attraversai il corridoio e presi il cellulare, l’unica mia fonte di salvezza. Presi a scorrere i contatti della rubrica finché non trovai quello che stavo cercando e, alla velocità della luce, digitai sulla tastiera touch-screen “Aiuto”. Stavo pregando al Signore, sperando che avesse già acceso il telefono, quando la vibrazione mi avvisò di un nuovo messaggio.
“Gravità problema?”.
Senza pensarci, risposi “Massima”. Non ricevetti alcuna risposta per una decida di minuti, tempo durante cui rimasi seduta sul divano del salotto con in grembo lo zaino preparato la sera precedente osservando il via vai dei miei familiari che correvano per la casa ansimanti e visibilmente stressati. Lo stress è il pane quotidiano della famiglia Leonardi. Ce lo fanno assaggiare insieme al latte e ai biscotti nel biberon quando siamo appena dei poppanti e ne diventiamo praticamente dipendenti. Se non fossimo costantemente stressati, forse non potremmo essere felici.
Guardai l’orario dal telefonino e, facendo un rapido conto, capii che, se avessi aspettato un passaggio dai miei genitori, sarei arrivata sicuramente in ritardo a scuola. Ma, d’altro canto, il liceo che frequento è troppo distante da casa mia per andarci a piedi. Avevo fatto il grosso errore di ritornare a casa camminando un giorno dell’anno precedente in cui le lezioni finivano in anticipo causa assemblea sindacale: tornai a casa distrutta quasi un’ora dopo, le gambe non mi tenevano più in piedi e il sudore mi scorreva dalla nuca sul viso in stile cascate del Niagara - e tutto ciò è successo a metà febbraio. Non sono una tipa atletica, anzi, sono un’imbranata di prima categoria. Odio qualsiasi genere di sport, tranne il nuoto. In acqua me la cavo abbastanza bene, mentre sulla terra ferma … Per dirla in maniera garbata, un elefante è più agile di me e una lumaca mi batterebbe in una gara di velocità.
Stavo per rassegnarmi alla ramanzina che mi avrebbe di sicuro rifilato il professor Benedetti per il terzo ritardo in una settimana, quando mi arrivò l’sms che aspettavo.
Diceva “Esci che sono fuori”. Con un improvviso moto di contentezza, mi drizzai in piedi, misi lo zaino in spalla e urlai alla casa «Io vado, D mi accompagna a scuola, okay?». In risposta sentii qualche “sì sì, okay” di mio padre e un “va bene” da parte di mia madre.
Mi sbattei la porta d’ingresso alle spalle e, scendendo velocemente le scale del condominio, per poco non rischiai di cadere, slogandomi una caviglia. Aprendo il cancelletto d’ingresso e superando a passo spedito il parcheggio numerato dove i condomini posteggiavano i propri veicoli, la vidi.
Diana Ponti, per gli amici D, mi aspettava appoggiata al suo motorino, un aggeggio di seconda mano risalente ai tempi del cretacico che, durante l’estate, era stato accuratamente riverniciato dalla proprietaria e dalla sue migliori amiche (tra cui io). Adesso quello che era un anonimo veicolo bianco panna, era stato trasformato in un arcobaleno di macchie e schizzi colorati. Se, inizialmente, poteva sembrare pacchiano o di cattivo gusto, nell’insieme era davvero delizioso!
Quel giorno aveva deciso di riempire ogni singolo buco che aveva nel lobo destro con piccoli punti luce, che erano così tanti da poter formare una nuova galassia, e di indossare un paio di skinny jeans neri leggermente borchiati, una T-shirt rossa con lo scollo a V e le sue più vecchie e usate scarpe da tennis. Diana è una ragazza molto originale, non segue la moda, lei ne crea una propria. Talvolta riesce a formare qualcosa di veramente originale, altre volte però ne esce solo un’accozzaglia di stranezze che suscitano parecchie chiacchiere. Lei se ne frega del parere altrui e va per la sua strada, dice che parlano solo per invidia e che pagherebbero oro pur di avere un briciolo del suo stile. Questo è uno dei pregi che le invidio, la sicurezza in sé stessi o si ha o non si ha. Lei ha una grande autostima, così grande da poterla dividere in due parti,  regalarmene una metà per Natale e averne ancora più della maggior parte degli adolescenti che conosciamo.
Mi soffermai sul suo viso che si apriva in un dolce sorriso alla mia vista. I capelli cortissimi ispirati allo stile di Emma Watson in Noi Siamo Infinito le allargavano il viso smilzo e abbronzato, mettendo ancora più in evidenza il suo naso importante.
A volte può essere un peso avere un naso tanto grosso, ma lei lo ha sempre mostrato  come un vanto. Lo esibisce alla gente come segno del suo evidente carattere forte e sminuisce quei nasini piccoli ed insignificanti tanto quanto i loro padroni. La paragono spesso a Lea Michele, sia per la bellezza prorompente di entrambe, sia per il naso aquilino che condividono, sia per la forza interiore che le accomuna. Non solo la star di Glee era stata soggetta ad una grave perdita.
«’Giorno lady G, presto che se no arriviamo in ritardo a scuola!» e, mentre mi diceva queste parole, mi passò rapidamente uno dei suoi due caschi.
«Buongiorno pure a te. Posso affermare che tu mi abbia salvato, davvero.» le confessai, riconoscente, mentre mi allacciavo il casco.
«Ne sono onorata. Cosa servono le migliori amiche se non danno una mano nel momento del bisogno? Allora chi ti opprimeva stavolta? I tuoi perfidi genitori, le sorellastre cattive o i maschietti di casa?» mi chiese in sella al motorino.
Salendo a mia volta  e stringendo le braccia attorno alla sua vita sottile, risposi alla sua domanda.
«Tutti. Tutti tranne Emilio, che è troppo piccolo per farsi odiare. Ed è colpa anche mia. Detesto la mia famiglia e detesto anche una parte del mio carattere, uffa! Tutto fa schifo!».
«Dai, sei la solita esagerata! Comunque la tua maglietta è favolosa, non sapevo ti piacessero i KISS! Uno di questi giorni me la presti? Avrei un paio di anfibi porpora da abbinarci …» e iniziò a elencare tutti i suoi vestiti più strani e i suoi accessori più improbabili.
Scuotendo la testa e sorridendo, ringraziai il cielo di avermi donato un concertato di forza, allegria e grinta come migliore amica e, accompagnate dalle chiacchiere di Diana e dall’eccessivo fumo che fuoriusciva dal tubo di scarico, ronzammo a tutta birra verso il nostro liceo, sperando di essere più puntuali del solito.
 
Spazio dell’autore.
 
Salve cari lettori, come va? Spero bene. Da me il caldo è soffocante e non so con quali forze io abbia potuto scrivere questo capitolo. Ma l’ho scritto.
So benissimo che vi avevo promesso un capitolo più breve, ma il mio cervello ha partorito questo malloppone che avete appena letto dopo un’intera settimana di travaglio, quindi siate buoni e capitemi quando vi dico che ho cercato di essere più sintetica.
Io non sono una persona sintetica, non so fare i riassunti nemmeno a scuola, figurarsi quando scrivo per hobby.
Spero vivamente che questo capitolo non vi abbia annoiato. Bene, facciamo il punto della situazione.
La mattina a casa Leonardi è una specie di campo da guerra pieno di mine, in cui bisogna stare attenti a dove mettere i piedi per non saltare in aria.
In questo capitolo mi sono soffermata di più sul personaggio di Giulia, sia fisicamente che caratterialmente. Tre parole che la rappresentano? Goffa, stressata e insoddisfatta.
O pensate che siano altre le sue tre parole chiave? Scrivetemele nella recensione (sempre se vogliate lasciarmene una). Sono anche entrati in scena i genitori di Giulia, Chiara e Diana, quattro personaggi molto diversi sia per il suolo che rivestono che per il loro carattere.
Se avete letto con attenzione, Giulia dice che ha più di una migliore amica. Chi sarà l’altra ragazza che accompagnerà la nostra protagonista durante la sua storia? Giulia arriverà puntuale a scuola oppure verrà sgridata? Cosa succederà dopo?
Lo sapremo nel prossimo capitolo che, spero, mi venga in mente il più presto possibile.
Ringrazio chi mi ha lasciato una recensione nel capitolo passato e chi me ne lascerà una qui sotto. Ringrazio anche chi non ha un account su EFP, ma ha letto la mia storia. Se volete contattarmi privatamente, potete trovarmi sia su Twitter (@hermjoned) che su Tumblr (ladyvasshappenin).
Mi auguro di vedervi in tanti tra le recensioni di questo capitolo.
Ripeto: accetto sia consigli che critiche, se sono costruttive e fondate.
 
Baci xx.
 

Capitolo revisionato da   ninaown  .

 

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