Closer di Dark_Blame (/viewuser.php?uid=109676)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Prologo ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 1 *** 1 - Prologo ***
Il sole estivo del pomeriggio non era
nemmeno troppo
molesto, nell’ombra del parco. Li sfiorava appena da sotto
strati di foglie e
aghi di pino, come un ricordo lontano del caldo da spaccare le pietre
che c’era
sulla strada. Il pezzo di prato su cui si erano stesi era quasi
– addirittura –
comodo, un leggero vento rinfrescava l’aria e, ciliegina
sulla torta, da
qualche parte qualcuno stava suonando, troppo lontano per distinguere
la
melodia. In pratica era la situazione perfetta. Ma col tempo si sarebbe
dimenticato di tutti quei dettagli. Non era un grande osservatore, e
per quanto
potesse essere bello o piacevole l’ambiente attorno a lui,
sarebbe stato
difficile mantenerlo nella memoria. Sarebbe stato molto più
semplice ricordarsi
il motivo principale per cui stava così bene.
Dopotutto a Nikolaj, in una
situazione normale, dei Giardini
Reali di Torino non gliene sarebbe fregato un cazzo. Non sarebbe stato
nemmeno
capace di sdraiarsi in un posto e stare immobile, così,
senza far nulla per
tutto quel tempo – non aveva importanza quanto si
potesse star bene.
E lei? Bhé, lei
era
un altro discorso. Lei era la
principale differenza tra una situazione normale e quella giornata.
Gael sembrò
intercettare il flusso dei suoi pensieri, e si rannicchiò un
po’ di più sopra
il suo petto, il viso nascosto nell’incavo del suo collo. Le
accarezzò
lentamente la schiena, chiedendosi se si era addormentata. Come
riusciva a
farlo? Ci voleva una buona dose di fiducia per addormentarsi nel bel
mezzo del
nulla. O peggio, in un parco frequentatissimo nel pieno pomeriggio.
Ogni tanto
un suono attirava la sua attenzione, e girava la testa,
oppure, qualche movimento catturava la sua
visione periferica. Insomma, stava attento che nessuno si avvicinasse a
disturbare la pace. Vero, se fosse stato solo non gli sarebbe importato
dei
passanti – ma se fosse stato solo non avrebbe avuto motivo di
stendersi
sull’erba, tanto per iniziare – e comunque non si
sarebbe addormentato.
Insomma, stava facendo quello che
ogni animale con un
briciolo di istinto predatorio fa, ogni tanto. La guardia. A confermare
il
fatto, lanciò un’occhiata torva a un paio di
stronzetti che bazzicavano lì
intorno. Fastidiosi figli di puttana. Conosceva alla perfezione che
tipo di
comportamento poteva avere un branco di idioti di quel genere. E non
gli
piaceva affatto il pensiero. Se le cose si fossero messe …
Gael mosse il braccio, e
iniziò a carezzargli il torace con
lenti movimenti circolari. Allora era sveglia. Si permise di inclinare
la testa
all’indietro un attimo, e socchiuse gli occhi. Doveva tenere
il suo odio
naturale per gli esseri umani a bada, quel giorno. Aveva di meglio su
cui
concentrarsi. Oltretutto, si sentiva benissimo. Con lei tra le braccia,
quel
posto anonimo sembrava esattamente il posto dove lui doveva
essere. Come se qualche antica divinità maya avesse deciso
di posticipare la fine del mondo per permettergli di stare
lì, sopra una
piccola coperta stesa sul prato, abbracciato a Gael.
Espirò, e la pancia gli si
svuotò di cattivi pensieri.
L’odore di lei gli arrivava dalla matassa dei suoi capelli.
Buono.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 2 ***
Solo dopo mezz’ora di
viaggio si accorse che qualcosa non
andava, sul treno. Iniziò a guardarsi intorno. Il lettore
mp3 funzionava a
dovere, anche se le cuffiette stavano iniziando a rompersi. I sedili
erano
della solita, squallida qualità da treno, e del solito
colore blu scuro finta
pelle. Il gruppetto seduto sui quattro sedili di fronte a lui era
esattamente
lo stesso di quando era entrato: tre signori e una donna elegante, con
l’aria
di persone importanti, vestiti griffati, e discorsi stupidi.
Guardò incerto nel
suo riflesso nel vetro, che gli restituì
un’espressione enigmatica – per quanto
sembrasse stranamente più giovane e riposato del solito.
Forse era una storia
simile al dilemma filosofico del rosso. Magari quella sensazione di
stranezza
era qualcosa di elaborato dalla sua mente – il treno, in
realtà, era lo stesso:
era lui a vederlo diverso. Un po’ come ognuno vede le
sfumature di colore a
modo suo. Il passeggero di fronte a lui raccolse una rivista di
Trenitalia dal
tavolino, e solo allora si accorse che a posto della mano aveva un
mucchietto
di ossa bianche.
Nikolaj alzò gli occhi. La
Morte ricambiò dal fondo delle
orbite scure, dove due piccole monete d’oro restavano sospese
nel buio e
ruotavano placidamente.
«Mi piacciono le nuove
promozioni sui biglietti» disse la
Morte, dando al suo tono un’aria molto naturale.
«Invogliano la gente a
viaggiare, il che è bene»
«…d-davvero,»
disse. Improvvisamente, tutta la saliva che
fino a poco prima riempiva la sua bocca aveva deciso di emigrare. In un
posto
lontano, magari l’Honduras. La sua lingua si
ritrovò a muoversi in un deserto.
«Certo. Prezzi
più bassi implicano una maggiore affluenza, e
stimolano gli utenti a comprare i
biglietti, invece che salire senza. Ma tu dovresti saperlo. »
Merda,
pensò
Nikolaj avrò fregato Trenitalia
salendo
sui regionali senza biglietto si e no tre volte in tutta la mia vita, e
la
Morte lo sa. Per qualche assurda
ragione, quel pensiero gli sembrò
più pauroso dello scheletro in cappa nera che aveva davanti.
Forse il suo
cervello ancora non aveva recepito.
Forse aveva un tumore. «No,
» commentò lei – se si poteva
chiamare lei. Non era chiaro se stesse negando l’ipotesi
della malattia o
stesse esprimendo disappunto per un articolo sugli eventi estivi da
vedere in
Liguria. Forse non le piacevano le serate all’aperto.
Lanciò un’occhiata sulla
fila di sedili davanti a lui. Il quartetto di persone eleganti
continuava a
ciarlare allegramente. Qualcosa sul desiderio di avere
un’amante da scoparsi in
gran segreto e una moglie che ti prepara la cena quando torni.
Passò un po’ di
tempo. La Morte sembrava aver perso la parola, e sfogliava con
l’ossuto indice
le pagine del giornaletto.
Una sensazione di ansia gli si
piazzò nel petto. Stava per
crepare in un treno anonimo. Nessuno avrebbe raccolto i suoi ultimi
pensieri.
Sarebbe morto senza la possibilità di dire quelle poche,
semplici parole che
gli servivano. Se moriva lì, nessuno avrebbe spiegato a Gael
cosa gli era
successo.
«Dovresti lasciarla,
sai.» Silenzio. Certo che l’avrebbe
lasciata. Non gli risultava che si potesse rimanere fidanzati in quel
modo –
lui in una bara, lei viva? Era una storia d’amore
paragonabile solo a Twilight.
«Questa situazione» continuò la Morte,
che probabilmente si divertiva a
prenderlo in giro «non farà bene a nessuno dei
due.»
Nikolaj cercò di
raccogliere un po’ di saliva e di forza.
L’ansia gli stava schiacciando un punto imprecisato sotto lo
sterno. Da qualche
parte fuori dal finestrino scorreva una città anonima,
immersa nel buio.
Piccole crepe di brina si stavano formando sul vetro, nonostante fosse
luglio.
«Perché,»
riuscì a dire, il tono della domanda che si perse
in una secca affermazione. La Morte abbassò la rivista
promozionale di
Trenitalia. «Voi umani,» commentò
«col tempo ho notato che avete una
straordinaria predilezione per quell’esatta domanda. Non ho
mai capito cosa ve
la rende così affascinante. Forse, qualcosa nel vostro
DNA.»
«Perché,
» cercò di riprendere «dovrei
lasciarla?»
«Mostrami il braccio
sinistro.» il tono perentorio della
mietitrice non ammetteva repliche. Nikolaj obbedì, e subito
la mano scheletrica
della Morte si chiuse sul suo polso come una morsa di ghiaccio.
Digrignò i
denti di dolore e cercò di ritrarsi, ma non accadde nulla.
Il freddo gli
mangiava la pelle. Era finita.
Guardò in faccia la sua
assassina. I due zecchini dorati che
aveva a posto degli occhi giravano calmi, placidi, due specchi che
brillavano
di luce propria. Il treno era sparito.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 3 ***
«Sono
all’Inferno? »
«Per favore, sei
più intelligente di così.» La voce
suonava
un po’ seccata. Strano, visto che non aveva una vera e
propria intonazione.
Strano. Visto che tecnicamente la figura scheletrica non aveva nemmeno
le corde
vocali. La sua improbabile compagna di viaggio volteggiava a
mezz’aria, il
mantello nero che svolazzava tutt’intorno come
un’aura. La stretta gelida che
gli aveva serrato il polso non aveva lasciato tracce. In aggiunta, non
si
sentiva per nulla cadavere.
Nikolaj si guardò intorno.
Era all’entrata di un corridoio;
dietro di lui le pareti bianche sfumavano in due grossi buchi
rettangolari e
neri, che non erano altro che porte aperte su stanze immerse
nell’ombra.
Davanti, invece, le piastrelle del pavimento si facevano via via
più sporche di
impronte di scarpe e residui di cibo, l’ambiente si allargava
in un grande
spazio comune. Istintivamente, capì: cucina e salotto. Gli
era chiaro solo
perché anche nella vecchia casa dei suoi genitori, dove era
cresciuto, i due
spazi erano sempre stati collegati. Per il resto, a parte i mobili,
avrebbe
anche potuto fare confusione. Il disordine era arrivato a un livello
abbastanza
elevato, tale da meritare l’appellativo di caos. Quella alla
sua destra doveva
essere una cucina. Il piano cottura era coperto di scatole vuote, qua e
là,
campeggiavano dei piatti incrostati. Qualcuno doveva aver provato a
pulire i
fornelli, perché brillavano sotto una patina di sporcizia
più sottile rispetto
a tutto il resto. Nel lavandino, i resti di un pasto recente. Una donna
magra
era seduta al tavolo della cucina, le braccia bianche abbandonate sulla
superfice di legno e la testa china su di esse.
Sulla sinistra, un insieme di vestiti
ammassati e sacchi
dava vita al divano. La polvere formava delle piccole palle da tennis
che
rotolavano sul pavimento. Direttamente al suo fianco c’era il
profilo piatto di
un televisore al plasma, che riempiva la stanza con un ronzio soffuso.
Chiacchere, qualche musica allegra ogni tanto. Di fronte ad esso,
incagliato in
una fossa nel divano, un uomo grasso in canottiera sedeva sbracato e
guardava
fisso lo schermo, anche se l’aria apatica nelle sue pupille
sembrava non
vederlo affatto. In quel preciso istante, il telecomando gli
scivolò dalle dita
e cadde a terra, sbattendo contro una lattina di birra vuota.
Nikolaj fece due passi incerti nella
sala. Nessuno di quelle
due persone gli fece caso; la donna continuava a restare immobile,
abbandonata
sulla superfice del tavolo, e l’uomo era troppo preso dal suo
programma. Si
fermò a guardare la televisione. I colori vivacissimi gli
ferivano quasi gli
occhi, in confronto al grigio squallore della casa. Ma la casa era vera
–
quello dentro la tv, come al solito, falso. Il canale era Rai 1, e il
programma
un qualche quiz a premi, ma non riconosceva né il conduttore
né gli sembrava di
averne mai sentito parlare. L’uomo – che comunque
somigliava più a un animale –
ruttò sonoramente. In faccia aveva delle occhiaie viola,
molto profonde.
Si girò verso la Morte e
alzò le spalle.
«Cos’è
questo posto?»
«Un
appartamento,» la risposta suonò alquanto ovvia.
Fece
ancora due passi e si concentrò sulla donna. Per fortuna la
sua schiena si
muoveva – anche se impercettibilmente. Stava respirando.
«la casa di due
persone»
«Lo vedo» Quello
che gli sfuggiva era perché si trovassero
lì. Che la Morte si fosse data alla violazione di domicilio
e al furto era
fuori questione. Oltretutto non sembrava che quei due avessero da
rubare, tanto
per iniziare. Allungò il braccio verso lo schermo, che
continuava a blaterare,
surreale. Non appena le sue dita lo sfiorarono, si sentì il
leggero crepitare
elettromagnetico della polvere rimasta attaccata al televisore.
Sembrava reale.
Con uno scatto, Nikolaj raggiunse il pulsante rosso e spense
l’apparecchio.
Passarono alcuni secondi.
«… televisore di
merda,» biascicò l’uomo. Fece il gesto
di
cambiare canale e si accorse che il telecomando era a terra. Allora
abbandonò
il braccio sudato sul divano e continuò a fissare il vuoto.
I suoi occhi
castani erano iniettati di sangue ai bordi. Sembrava che non potessero
vederlo
– né lui né la Morte che fluttuava a
mezz’aria nel loro corridoio – ma poteva
ancora interagire con l’ambiente circostante.
«Quindi sono un
fantasma,» disse, cercando di sopportare la
stupidità di quelle parole. Non credeva ai fantasmi.
Così come non credeva
all’Inferno. Ma fino a qualche tempo prima nemmeno aveva
creduto che
l’espressione “guardare la morte in
faccia” potesse essere usata in senso
letterale.
«Lo sei, in un certo
senso.» La mietitrice abbassò il suo
teschio levigato, con un inaspettato cenno di assenso. «Una
specie particolare
di fantasma, magari. Sicuro di non conoscere questi due?»
Nikolaj guardò negli occhi
lucenti della sua interlocutrice,
interdetto. Perché doveva conoscerli?
Qualcosa iniziò a muoversi
nella sua testa. Qualcosa iniziò
a strisciare lungo la sua spina dorsale, gli entrò sotto le
costole, e formò
una piccola sfera nera all’interno del suo stomaco. Era una
sensazione di
disagio, sottile come l’umidità prima della
pioggia, qualcosa che ti si
infilava sotto i vestiti e cercava solo di arrivarti alle ossa. Strinse
gli
occhi come per mettere a fuoco. La faccia sfatta dell’uomo
aveva qualcosa di
familiare, in effetti. I capelli erano untissimi, ma era un taglio che
forse –
da pulito – gli avrebbe aiutato a capire chi era.
Ma quel corpo era troppo grasso. Non
conosceva nessuno di
così. Era più grasso di suo padre quando ancora
non gli era venuto il diabete
di tipo B. La palla nera nel suo stomaco iniziò a pensare
come sarebbe apparso
quell’uomo senza i chili aggiuntivi. Tolse la pancia sotto la
canottiera, tolse
la cellulite dalle gambe, tolse il doppio mento e cercò di
seguire i tratti del
viso. E quelle occhiaie. Quegli occhi. La forma degli zigomi, la forma
delle
sopracciglia.
La nausea gli salì in
gola. Distolse lo sguardo. Se
quell’uomo era … allora la donna abbandonata sul
tavolo …
La piccola sfera nera nel suo stomaco
esplose, si appoggiò
con una mano al muro, e piegandosi cercò di vomitare. La
Morte lo guardò,
inespressiva, mentre dalla sua bocca riusciva ad espellere solo sputo.
«Hai capito? »
chiese, inclemente.
Nikolaj alzò la faccia, si
asciugò le labbra con una mano
anche se erano diventate di nuovo secche, e per la terza volta
fissò dritto nei
due zecchini d’oro dentro le orbite scure del teschio
parlante. Non se ne era
reso conto, ma due lacrime gli stavano rigando il viso.
«Sono io.» disse.
«E l’altra è Gael.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 4 ***
La casa aveva un piccolo terrazzo.
Minuscolo sarebbe stato
il termine adatto. Di quei balconi che mettono nei grandi condomini,
larghi a
malapena due metri quadri. Una misera scusa di balcone. Oltre la
ringhiera
rugginosa l’abisso della strada, di sotto, le luci e i rumori
delle macchine.
Nikolaj era seduto per terra, con le
ginocchia raccolte sul
petto e la schiena contro la lavatrice. La Morte sembrava divertirsi
invece a
volteggiare nel vuoto, guardandolo. Voleva ancora vomitare; la nausea
rifiutava
di rassegnarsi al suo stomaco vuoto. L’aria fresca, anche se
puzzolente di
smog, lo aiutava un pochino. Passando dal bagno per andare in quello
sputo di
terrazzo, aveva visto più scatole di medicine di quante
fosse disposto a
contare.
«Siamo nel »
iniziò lo scheletro, fissandosi il polso ossuto
come se dovesse controllare un orologio inesistente. Forse la Morte lo
stava
prendendo in giro. «Settembre 2030. Un mercoledì,
il terzo giorno del mese. Le
sette e cinque di sera.»
«Vuoi dirmi anche quanti
cazzo di secondi sono passati?»
Nikolaj sembrò un cane in procinto di azzannare, con quella
risposta. L’area
del suo cervello preposta a ricordarsi che stava parlando con la
dannata Morte
era troppo occupata a combattere il vomito e lo schifo che aveva visto
in
salotto, per ricordargli che in teoria avrebbe dovuto essere ancora
terrorizzato.
«Trentadue,»
rispose lei, nient’affatto impressionata. «E ti
dirò di più.»
«Due mesi, due giorni,
un’ora, quarantacinque minuti e altri
trentadue secondi. Questo è quando morirai. Ti darei anche i
nanosecondi, ma so
che non riuscite a scandirli mentalmente.» aggiunse, a
mo’ di scusa.
Sembrava una frase ispirata a Donnie Darko, ma dubitava seriamente che
la Morte avesse visto il
film. Chissà. Si guardò le mani: qualche reazione
nervosa gli aveva reso i
palmi rossi di sangue, e non gli sembrava di riconoscerli. Mosse le
dita
lentamente, e le guardò stupito, come fossero le appendici
di qualche schifoso
insetto.
«Morirai per
avvelenamento,» Nikolaj si sforzò di
immaginarsi i fasci di muscoli, il sistema di fibre e tendini che
partivano
dalla base del gomito e terminavano alla punta delle dita. La
complicata
meccanica che gli permetteva di muovere quelle mani lunghe.
«Gael correggerà la
tua birra con varichina e altri prodotti da bagno, e questo ti
ucciderà.»
Il motore di un camion di trasporti
rombò da qualche parte
nella strada. Un ubriaco urlò qualcosa dal marciapiede.
Parzialmente
consapevole di quello che stava facendo, Nikolaj rispose ululando
sillabe
sconnesse.
«Poi,»
continuò la Morte inclemente «Berrà
anche lei.»
Quanto tempo era passato? Tra una
parola e l’altra
sembravano intercorrere delle ore. Perché non era ancora
sorto, il sole?
Affondò la faccia in quelle mani estranee che si ritrovava
attaccato ai polsi,
le dita che gli scorrevano in testa, strisciavano tra i capelli,
cercavano,
graffiavano. Non aveva pensato abbastanza all’ipotesi di
essere matto. O al
tumore al cervello.
«Ci metteranno molto tempo
a trovare i vostri corpi: avevate
pochi contatti col mondo esterno. Vi ritroveranno vicini, sul
divano.»
Non poteva essere reale, si convinse,
perché più la Morte
parlava, più riusciva ad aggiungere dettagli ancora peggiori
alla situazione
già merdosa. Poi si fermò. Come ubriaco si
alzò dalla sua posizione
rannicchiata, sbattendo più volte contro la lavatrice.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 5 ***
Nikolaj era seduto al tavolo. Aveva
ventidue anni e aveva
smesso di fumare a venti. Afferrò una Philiph Morris dal
pacchetto alla sua
destra e la Morte, gentilmente, la accese. La donna pallida davanti a
lui, la Gael
del futuro, lentamente iniziò a raccogliersi e ad alzarsi.
Si trascinò spalle
basse verso il piano della cucina e iniziò a mettere
l’acqua per il thé. La
mano che teneva la sigaretta tremò impercettibilmente.
Il ragazzo immaginò se
stesso in una landa gelida, un
deserto di ghiaccio. Via via che l’immagine si stabilizzava
nella sua testa, il
suo ritmo cardiaco tornava ad abbassarsi, la nausea veniva ricacciata
nello
stomaco, e una specie di fredda razionalità gli
anestetizzava il cervello.
Volute di fumo riempirono la cucina. A guardarlo bene, un osservatore
esterno
avrebbe potuto vedere lentamente la luce nei suoi occhi spegnersi a
poco a
poco, i muscoli della mascella indurirsi, mentre l’acqua
iniziava a bollire.
Quando finalmente la Gael del futuro
riempì una tazza di thé
al gelsomino e tornò a sedersi, scaldando le mani attorno
alla ceramica calda,
l’espressione di Nikolaj era quella di una statua di marmo.
«Credi ancora di avere un
tumore?» chiese la Morte, che
ancora volteggiava leziosa.
«No.»
buttò fuori un po’ di fumo dal naso, bruciandosi
le
narici. Come un drago.
La donna non poteva vederlo, ma lui
aveva tutto il tempo di guardarla
in ogni minimo particolare. Tutto il tempo di annotare, con minuzia
chirurgica,
ogni crepa. Ogni segno del tempo e degli eventi. A soffermarsi su tutte
le
tacce visibili che la vita aveva lasciato sul volto della ragazza che
aveva
conosciuto, deturpandone il volto. Tutto il tempo per lasciare che quei
dettagli gli entrassero dentro, più nocive della nicotina
che aspirava.
A pochi metri da lui, alla sua
destra, ancora sedeva come in
un incubo l’uomo che sarebbe diventato.
«Perché mi
mostri questo?»
«Ho immaginato,»
rispose la nera mietitrice «che avresti
voluto conoscere la conseguenza delle tue azioni. Chi non vorrebbe
conoscere il
futuro?»
«No,»
ripeté Nikolaj «ti ho chiesto perché.
Se non sto per morire, che cosa dovrebbe importarti delle
mie scelte? Sul treno, hai detto che dovrei lasciarla. Prima di
questo.»
«Forse, sono solo
annoiata,» priva di tatto come al solito –
sia dal punto di vista figurativo, che letterale, visto che non aveva
la pelle
- la Morte rispose.
«o forse, dovresti
mostrarmi il braccio sinistro.» Il ragazzo sollevò
gli occhi, ma l’altra prevenne
la sua obiezione:
«Stavolta non ti
toccherò, giuro.»
Cautamente, spostò la
sigaretta da una mano all’altra e
allungò il braccio prescelto sul tavolo. Non c’era
niente di nuovo. Pensò che
se l’avesse teso ancora un po’ avrebbe potuto
sfiorare le dita di Gael, ma non
era sicuro di cosa sarebbe successo se l’avesse fatto. Lo
scheletro rimase
silenzioso, le monete nei suoi occhi che sembravano indugiare sul
profilo
dell’arto. Seguì quello sguardo, che sembrava
fissare l’area sotto il polso. In
quel punto, la sua pelle olivastra era più chiara a tratti,
in delle linee
bianche orizzontali e imprecise. Piccole cicatrici.
«Io ti ho osservato per
molto tempo, fin quando, da bambino,
quando attraversavi il vicolo vicino a casa tua e una macchina lo
attraversava
con te, ti fermavi a pensare cosa sarebbe successo
…» Pausa. Gael-del-futuro
prese un sorso di thé, guardando fuori dalla finestra
«se tu ti fossi buttato
sotto le sue ruote.»
«Cosa avrebbero pensato i
tuoi compagni di scuola? La tua
famiglia? Il mondo? Certamente, per l’ultimo non sarebbe
cambiato granché. Ma
spesso non comprendevi che cosa la tua perdita avrebbe causato ai tuoi
familiari, o forse, semplicemente, non ne apprezzavi il peso.»
Nikolaj sapeva benissimo come poteva
continuare quel
discorso. Era stato un bambino abbastanza oscuro. Aveva iniziato a
pensare alla
morte molto presto, con un misto di sincero terrore e fascino morboso.
Non è
che avesse mai desiderato morire. Non veramente. Da adolescente, per un
certo
periodo, si era tagliato; la maggior parte delle volte sul braccio
sinistro,
che ne portava le cicatrici. Non aveva mai raggiunto una vena, un
po’ per
paura, un po’ per il dolore, un po’ semplicemente
perché non
desiderava morire. Le sue tendenze
masochiste esaurirono relativamente presto la fase dei tagli sul
braccio, esplorarono
per un po’ i territori più convenzionali
dell’alcol e del fumo, e poi lo
lasciarono. A quanto vedeva da come si era ridotta il sacco di carne ed
ossa
seduto sul divano in salotto, non l’avevano lasciato per
sempre.
«Ho guardato anche Gael per
molto tempo,» aggiunse. «forse,
il mio interesse su di voi è solo naturale. Non siete certo
i primi a destarlo,
né gli ultimi, né i più importanti. Lo
stesso, lo fate.»
Non credeva nemmeno nella sfortuna,
ma sapere che la Morte
aveva vegliato sulle loro vite era quanto di più simile a un
cattivo presagio
conoscesse. Guardò fisso negli occhi di Gael, che per quanto
stanchi, e vitrei,
erano sempre gli occhi di quella Gael, della “sua”
Gael.
Della Gael a cui aveva evidentemente
rovinato la vita.
La immaginò mentre
avvelenava la birra, gliela serviva, e
beveva con lui.
«Dio,» disse,
anche se, in quella faccenda, nessun
personaggio immaginario poteva aiutarlo.
«…che
cosa ho fatto.»
Note
Dopo quattro capitoli è anche il caso di farsi sentire. Se
siete arrivati a leggere qui, vuol dire che state seguendo le
disavventure del povero Nikolaj : grazie per la pazienza. Non ho molto
da dire in verità: magari però vi state chiedendo
da cosa deriva il titolo del racconto breve: originariamente era "a
little closer", invece che "closer"; in entrambi casi sta per
più vicino. Più vicino a cosa? Come è
spiegato in questo capitolo, Nikolaj e Gael sono stati entrambi
"vittime" di atteggiamenti masochisti. In un certo senso, quindi, sono
più vicini alla Morte, in quanto hanno attirato la sua
attenzione. Non è detto che abbia senso, ovviamente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 6 ***
Il suo cellulare era una pietra
fredda, con uno schermo
liscio e luminoso.
La
Morte l’aveva riportato a casa, nel giusto anno, ancora
lontano dal 2030. Aveva
pensato per un po’, e aveva deciso che il mezzo migliore era
un SMS. Come
ferire meglio una persona? Un conciso, impersonale, messaggio tramite
telefono.
Qualcosa che non lasciasse scampo, che non ammettesse ripensamenti.
Gli
bastava inviare quel messaggio e rifiutarsi di rispondere ad altre
richieste.
Inviare e sparire per sempre. Inviare – e diventare un
fantasma, piuttosto che
un mostro. In genere era molto bravo a trovare le parole adatte, ma
quel giorno
esse si rifiutavano di assecondarlo. Era faticoso. In un modo o
nell’altro,
riuscì infine a mettere insieme i pezzi di quello che doveva
essere il più
efficace sms mai scritto; il messaggio che avrebbe rotto ogni legame
tra lui e
Gael.
Appoggiò il telefono sulla
scrivania e si gettò contro lo
schienale della sedia. La luce del sole di Luglio lo colpiva
inclemente. In un
periodo di tempo breve, lo sapeva, avrebbe dovuto premere il tasto
verde
dell’invio. Non poteva aspettare la notte. La notte era
sempre troppo carica di
significati per compiere azioni a mente lucida. La notte era il momento
di
cambiare idea.
Passarono i minuti. Il suo mp3 gli
vomitò una canzone nelle
orecchie, e poi un’altra. Sapeva benissimo che cosa stava
succedendo – più il
tempo scorreva e più aumentavano le possibilità
che lei lo contattasse.
Considerando che non si era fatto vivo per due giorni, era probabile.
Guardava
il cellulare come fosse stato l’Unico Anello del libro di
Tolkien. L’oggetto
del potere. E come quel bamboccione di Frodo, lui era lì a
fissarlo invece di
fare la cosa giusta.
Nel Signore
degli
Anelli di Tolkien, il protagonista arriva a dover distruggere
una piccola
fede dorata, che contiene in sé tutto il male possibile e
immaginabile, ed
esita, perché la lusinga del potere cerca di farlo deviare
dalla retta via.
Aveva odiato l’espressione ebete dell’attore che
recitava Frodo, nel film.
Eppure in quello stesso momento stava indugiando, quando poteva
semplicemente
inviare quel fottuto messaggio.
Certo avrebbe fatto male, a lui e a
lei. Ma non quanto
spingere lei a commettere un omicidio-suicidio. Da qualunque lato la
guardava,
quella era l’unica scelta disponibile.
Testa, disse il suo cervello, o
croce.
Si alzò e andò
in bagno, guardandosi nello specchio. Aveva
bisogno di farsi la barba.
Bianco, disse il suo riflesso, o nero.
Il colore del suo viso non appariva
del tutto naturale,
oltretutto. Continuò a fissare nel pozzo dei suoi occhi
castani, senza
distogliere lo sguardo. Probabilmente aveva anche un serio bisogno di
una
doccia. Biascicò, con in bocca ancora il sapore della birra
della sera prima.
«Vita,» disse
Nikolaj, «o …»
Qualcosa nei suoi occhi
cambiò. Non era stata quella una
delle prime lezioni che aveva imparato, nella sua crescita?
Perché si era
sempre scontrato con la realtà? Appoggiò le mani
sul lavandino, sporgendosi
contro lo specchio. Perché aveva sempre fatto a botte con
gli eventi, e perché,
in genere, le aveva prese?
Sapeva troppo bene la risposta a
quella domanda.
Nikolaj aveva sempre avuto
un’idea abbastanza precisa di
come le cose dovessero funzionare, nel mondo. Bianco, o nero. Anno dopo
anno la
realtà aveva fatto di tutto per maciullare i suoi ideali
– frantumandoli, uno
per uno. Insegnandogli
coi fatti che il
mondo non è perfetto e non è giusto, ma nemmeno
la sua presunzione di poterlo
giudicare, e classificare come “buono” o
“cattivo” lo era. Facendogli conoscere
che c’erano più sfumature di grigio che il suo
occhio potesse percepire. La
vita era stata chiara – Nikolaj non era Dio, non era un
giudice, non era un paladino
– e più volte l’aveva costretto a
infrangere i suoi stessi principi. La vita
aveva trasformato un bambino cresciuto con tante belle favole in un
adulto
complicato.
Ma nonostante tutto, Nikolaj aveva
ancora gli occhi buoni.
Oh, si, era un’ipocrita, e si nascondeva dietro maschere,
talvolta si
approfittava del suo prossimo, talvolta rideva amichevole assieme a
persone che
detestava. Talvolta, semplicemente, detestava tutti indistintamente. In
quel
momento non aveva importanza. In quel momento, riusciva ancora ad
apprendere da
i suoi errori.
Non era stata la prima lezione che
aveva imparato?
«Non esistono il bianco e
il nero.» confidò profetico, allo
specchio. «Da soli, non significano una merda.»
La verità stava nelle
sfumature. Come lo Ying e lo Yang. Se
tutto fosse stato diviso in due, bene e male, il mondo sarebbe stato
così
facile – stupidamente facile. Era difficile accettarlo, ma,
cristo, aveva
senso! Nonostante la valanga di luoghi comuni che affollava la sua
testa,
spalancò gli occhi.
Testa o croce? Vita o morte? Prendere
… o lasciare?
Quello era un gioco da bambini! E per
poco ci era rimasto
fregato.
«Morte,»
sussurrò Nikolaj, e visto che niente accadeva,
andò
ad afferrare un coltellino svizzero dalla sua borsa.
«Morte,»
ripeté, a denti stretti e con la lama che gli
incideva, dolorosamente, il braccio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 7 ***
«Sei sicuro di
questo?» gli chiese la nera mietitrice.
Annuì, massaggiandosi il
polso. Una piccola linea di sangue
gli usciva da dove aveva tagliato col coltello. La ferita, proprio come
ai
vecchi tempi, era piccola e abbastanza superficiale. A volte gli
sembrava che
la sua pelle fosse resistentissima. Almeno era stata abbastanza per
attirare
l’attenzione dello scheletro parlante su di sé
– altrimenti, e deglutì al
pensiero, avrebbe dovuto farsi molto più male.
«Facciamo come ho
detto.»
Ancora una volta l’altra lo
strinse con le dita gelide.
Rabbrividì, mentre la sua pelle perdeva
sensibilità. Ma dopo poco, era di nuovo
nell’appartamento – di nuovo, nel futuro.
Nikolaj allargò le gambe e
si piazzò di fronte al
televisore. Nella stanza, in quel momento, c’era solo lui.
Lui e l’altro se
stesso. Uno schioccare di dita, e finalmente, gli occhi del grasso
Nikolaj del
futuro si staccarono dallo schermo e lo videro per la prima volta.
Il tempo sembrò fermarsi.
L’adulto aprì la bocca, chiuse e
riaprì gli occhi.
«…tu?»
«Io,» rispose
tranquillo il giovane. Nonostante il caldo
estivo della sua camera, aveva cercato i suoi scarponi pesanti. Marrone
scuro,
modello classico della Timberland. Con un gesto improvviso
alzò la gamba
sinistra come aveva fatto un centinaio di volte nelle lezioni di kung
fu, e
piazzò la suola della scarpa dritta nello stomaco di se
stesso.
L’altro non ebbe nemmeno il
tempo di contorcersi dal dolore,
che Nikolaj l’aveva preso per il collo, aveva spostato il suo
peso
considerevole e l’aveva gettato a terra. Il giovane lo
colpì, o per meglio
dire, si colpì, nelle costole, e poi si piegò
sopra il suo stesso corpo
ansimante, stringendo le mani a pugno e spaccandosi il naso con un
unico,
preciso, diretto.
«…ma
perché?» pianse la sua controparte.
Si fermò.
L’odore del sudore e il contatto con quel corpo lo
stava facendo sentire male, nonostante l’adrenalina che gli
scorreva dentro.
«PERCHE’?» urlò. La morte volteggiava in
un angolo. Avrebbe potuto giurare che c’era interesse nel suo
sguardo.
«Perché mi fai
schifo.» sputò Nikolaj.
«Perché hai preso
tutto quello che avevo,»
«e l’hai
rovinato.»
Con entrambe le mani prese la testa
del sé futuro, e la fece
rimbalzare con il pavimento. Le sue mani si staccarono dal cranio
sudato con
lentezza voluta, i muscoli delle braccia che assaporavano la dolce
sensazione
della violenza e del potere, mentre lui era seduto sopra il suo nemico
come un
antico eroe epico. Si rialzò, mentre l’altro era
stordito e mugolava nel
dolore. Prendendosi tutto il tempo che ci voleva, Nikolaj si
abbassò i
pantaloni, e pisciò in faccia all’essere che
odiava.
Quando ebbe finito, poteva quando
sentire il suono della pipì
che bruciava nei tagli e nelle ferite, nel naso rotto e negli occhi del
grasso.
Si ricompose. Guardò l’uomo piegato a terra, senza
provare più alcun
sentimento: né pena, né schifo, né
rabbia.
«Mi scuso,» disse
alla Morte «ma non seguirò il tuo
consiglio.»
«Ah no. … e
rischierai questo?»
«Mi hai detto di lasciare
Gael, se non volevo che finissimo
così.»
«L’ho
fatto.»
«Vuol dire che tutto
questo» allargò le braccia «si
può
evitare. Vuol dire che non sta scritto da nessuna parte che debba
succedere. Mi
hai mostrato il futuro, Morte. Ma io non lascerò mai che
accada. Spero tu ti
sia divertita a vedermi soffrire come un cane, ma non mi
freghi.»
La realtà
iniziò a sfaldarsi, a partire dalle pareti, che
svanirono nel nulla. La cucina, lo sporco, il televisore ultrapiatto al
plasma.
Il naso rotto del se stesso del futuro, e infine, tutto quel Nikolaj.
Rimasero
infine solo lui e la Morte, sospesi in un mare bianco di nebbia.
«Ricorda le mie
parole» disse il ragazzo «Io sono meglio di
così.»
Note
Sono
arrivato alla fine del mio raccontino, semplice e senza pretese in
verità. Mi piaceva al limite scrivere e introdurre un paio
di concetti, poi magari un giorno li approfondirò meglio xD
Grazie se siete arrivati a leggere fin qui e a sopportarmi. Se volete,
commenti e recensioni son più che graditi.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2009946
|