Closer

di Dark_Blame
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Prologo ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***



Capitolo 1
*** 1 - Prologo ***


Il sole estivo del pomeriggio non era nemmeno troppo molesto, nell’ombra del parco. Li sfiorava appena da sotto strati di foglie e aghi di pino, come un ricordo lontano del caldo da spaccare le pietre che c’era sulla strada. Il pezzo di prato su cui si erano stesi era quasi – addirittura – comodo, un leggero vento rinfrescava l’aria e, ciliegina sulla torta, da qualche parte qualcuno stava suonando, troppo lontano per distinguere la melodia. In pratica era la situazione perfetta. Ma col tempo si sarebbe dimenticato di tutti quei dettagli. Non era un grande osservatore, e per quanto potesse essere bello o piacevole l’ambiente attorno a lui, sarebbe stato difficile mantenerlo nella memoria. Sarebbe stato molto più semplice ricordarsi il motivo principale per cui stava così bene.

Dopotutto a Nikolaj, in una situazione normale, dei Giardini Reali di Torino non gliene sarebbe fregato un cazzo. Non sarebbe stato nemmeno capace di sdraiarsi in un posto e stare immobile, così, senza far nulla per tutto quel tempo – non aveva importanza quanto si potesse star bene.

E lei? Bhé, lei era un altro discorso. Lei era la principale differenza tra una situazione normale e quella giornata. Gael sembrò intercettare il flusso dei suoi pensieri, e si rannicchiò un po’ di più sopra il suo petto, il viso nascosto nell’incavo del suo collo. Le accarezzò lentamente la schiena, chiedendosi se si era addormentata. Come riusciva a farlo? Ci voleva una buona dose di fiducia per addormentarsi nel bel mezzo del nulla. O peggio, in un parco frequentatissimo nel pieno pomeriggio. Ogni tanto un suono attirava la sua attenzione, e girava la testa,  oppure, qualche movimento catturava la sua visione periferica. Insomma, stava attento che nessuno si avvicinasse a disturbare la pace. Vero, se fosse stato solo non gli sarebbe importato dei passanti – ma se fosse stato solo non avrebbe avuto motivo di stendersi sull’erba, tanto per iniziare – e comunque non si sarebbe addormentato.

Insomma, stava facendo quello che ogni animale con un briciolo di istinto predatorio fa, ogni tanto. La guardia. A confermare il fatto, lanciò un’occhiata torva a un paio di stronzetti che bazzicavano lì intorno. Fastidiosi figli di puttana. Conosceva alla perfezione che tipo di comportamento poteva avere un branco di idioti di quel genere. E non gli piaceva affatto il pensiero. Se le cose si fossero messe …

Gael mosse il braccio, e iniziò a carezzargli il torace con lenti movimenti circolari. Allora era sveglia. Si permise di inclinare la testa all’indietro un attimo, e socchiuse gli occhi. Doveva tenere il suo odio naturale per gli esseri umani a bada, quel giorno. Aveva di meglio su cui concentrarsi. Oltretutto, si sentiva benissimo. Con lei tra le braccia, quel posto anonimo sembrava esattamente il posto dove lui doveva essere. Come se qualche antica divinità maya avesse deciso di posticipare la fine del mondo per permettergli di stare lì, sopra una piccola coperta stesa sul prato, abbracciato a Gael.

Espirò, e la pancia gli si svuotò di cattivi pensieri. L’odore di lei gli arrivava dalla matassa dei suoi capelli. Buono.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Solo dopo mezz’ora di viaggio si accorse che qualcosa non andava, sul treno. Iniziò a guardarsi intorno. Il lettore mp3 funzionava a dovere, anche se le cuffiette stavano iniziando a rompersi. I sedili erano della solita, squallida qualità da treno, e del solito colore blu scuro finta pelle. Il gruppetto seduto sui quattro sedili di fronte a lui era esattamente lo stesso di quando era entrato: tre signori e una donna elegante, con l’aria di persone importanti, vestiti griffati, e discorsi stupidi. Guardò incerto nel suo riflesso nel vetro, che gli restituì un’espressione enigmatica – per quanto sembrasse stranamente più giovane e riposato del solito. Forse era una storia simile al dilemma filosofico del rosso. Magari quella sensazione di stranezza era qualcosa di elaborato dalla sua mente – il treno, in realtà, era lo stesso: era lui a vederlo diverso. Un po’ come ognuno vede le sfumature di colore a modo suo. Il passeggero di fronte a lui raccolse una rivista di Trenitalia dal tavolino, e solo allora si accorse che a posto della mano aveva un mucchietto di ossa bianche.

Nikolaj alzò gli occhi. La Morte ricambiò dal fondo delle orbite scure, dove due piccole monete d’oro restavano sospese nel buio e ruotavano placidamente.

«Mi piacciono le nuove promozioni sui biglietti» disse la Morte, dando al suo tono un’aria molto naturale. «Invogliano la gente a viaggiare, il che è bene»

«…d-davvero,» disse. Improvvisamente, tutta la saliva che fino a poco prima riempiva la sua bocca aveva deciso di emigrare. In un posto lontano, magari l’Honduras. La sua lingua si ritrovò a muoversi in un deserto.

«Certo. Prezzi più bassi implicano una maggiore affluenza, e stimolano gli utenti a comprare i biglietti, invece che salire senza. Ma tu dovresti saperlo. »

Merda, pensò Nikolaj avrò fregato Trenitalia salendo sui regionali senza biglietto si e no tre volte in tutta la mia vita, e la Morte lo sa. Per qualche assurda ragione, quel pensiero gli sembrò più pauroso dello scheletro in cappa nera che aveva davanti. Forse il suo cervello ancora non aveva recepito.

Forse aveva un tumore. «No, » commentò lei – se si poteva chiamare lei. Non era chiaro se stesse negando l’ipotesi della malattia o stesse esprimendo disappunto per un articolo sugli eventi estivi da vedere in Liguria. Forse non le piacevano le serate all’aperto. Lanciò un’occhiata sulla fila di sedili davanti a lui. Il quartetto di persone eleganti continuava a ciarlare allegramente. Qualcosa sul desiderio di avere un’amante da scoparsi in gran segreto e una moglie che ti prepara la cena quando torni. Passò un po’ di tempo. La Morte sembrava aver perso la parola, e sfogliava con l’ossuto indice le pagine del giornaletto.

Una sensazione di ansia gli si piazzò nel petto. Stava per crepare in un treno anonimo. Nessuno avrebbe raccolto i suoi ultimi pensieri. Sarebbe morto senza la possibilità di dire quelle poche, semplici parole che gli servivano. Se moriva lì, nessuno avrebbe spiegato a Gael cosa gli era successo.

«Dovresti lasciarla, sai.» Silenzio. Certo che l’avrebbe lasciata. Non gli risultava che si potesse rimanere fidanzati in quel modo – lui in una bara, lei viva? Era una storia d’amore paragonabile solo a Twilight. «Questa situazione» continuò la Morte, che probabilmente si divertiva a prenderlo in giro «non farà bene a nessuno dei due.»

Nikolaj cercò di raccogliere un po’ di saliva e di forza. L’ansia gli stava schiacciando un punto imprecisato sotto lo sterno. Da qualche parte fuori dal finestrino scorreva una città anonima, immersa nel buio. Piccole crepe di brina si stavano formando sul vetro, nonostante fosse luglio.

«Perché,» riuscì a dire, il tono della domanda che si perse in una secca affermazione. La Morte abbassò la rivista promozionale di Trenitalia. «Voi umani,» commentò «col tempo ho notato che avete una straordinaria predilezione per quell’esatta domanda. Non ho mai capito cosa ve la rende così affascinante. Forse, qualcosa nel vostro DNA.»

«Perché, » cercò di riprendere «dovrei lasciarla?»

«Mostrami il braccio sinistro.» il tono perentorio della mietitrice non ammetteva repliche. Nikolaj obbedì, e subito la mano scheletrica della Morte si chiuse sul suo polso come una morsa di ghiaccio. Digrignò i denti di dolore e cercò di ritrarsi, ma non accadde nulla. Il freddo gli mangiava la pelle. Era finita.

Guardò in faccia la sua assassina. I due zecchini dorati che aveva a posto degli occhi giravano calmi, placidi, due specchi che brillavano di luce propria. Il treno era sparito.

 

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Capitolo 3
*** 3 ***


«Sono all’Inferno? »

«Per favore, sei più intelligente di così.» La voce suonava un po’ seccata. Strano, visto che non aveva una vera e propria intonazione. Strano. Visto che tecnicamente la figura scheletrica non aveva nemmeno le corde vocali. La sua improbabile compagna di viaggio volteggiava a mezz’aria, il mantello nero che svolazzava tutt’intorno come un’aura. La stretta gelida che gli aveva serrato il polso non aveva lasciato tracce. In aggiunta, non si sentiva per nulla cadavere.

Nikolaj si guardò intorno. Era all’entrata di un corridoio; dietro di lui le pareti bianche sfumavano in due grossi buchi rettangolari e neri, che non erano altro che porte aperte su stanze immerse nell’ombra. Davanti, invece, le piastrelle del pavimento si facevano via via più sporche di impronte di scarpe e residui di cibo, l’ambiente si allargava in un grande spazio comune. Istintivamente, capì: cucina e salotto. Gli era chiaro solo perché anche nella vecchia casa dei suoi genitori, dove era cresciuto, i due spazi erano sempre stati collegati. Per il resto, a parte i mobili, avrebbe anche potuto fare confusione. Il disordine era arrivato a un livello abbastanza elevato, tale da meritare l’appellativo di caos. Quella alla sua destra doveva essere una cucina. Il piano cottura era coperto di scatole vuote, qua e là, campeggiavano dei piatti incrostati. Qualcuno doveva aver provato a pulire i fornelli, perché brillavano sotto una patina di sporcizia più sottile rispetto a tutto il resto. Nel lavandino, i resti di un pasto recente. Una donna magra era seduta al tavolo della cucina, le braccia bianche abbandonate sulla superfice di legno e la testa china su di esse.

Sulla sinistra, un insieme di vestiti ammassati e sacchi dava vita al divano. La polvere formava delle piccole palle da tennis che rotolavano sul pavimento. Direttamente al suo fianco c’era il profilo piatto di un televisore al plasma, che riempiva la stanza con un ronzio soffuso. Chiacchere, qualche musica allegra ogni tanto. Di fronte ad esso, incagliato in una fossa nel divano, un uomo grasso in canottiera sedeva sbracato e guardava fisso lo schermo, anche se l’aria apatica nelle sue pupille sembrava non vederlo affatto. In quel preciso istante, il telecomando gli scivolò dalle dita e cadde a terra, sbattendo contro una lattina di birra vuota.

Nikolaj fece due passi incerti nella sala. Nessuno di quelle due persone gli fece caso; la donna continuava a restare immobile, abbandonata sulla superfice del tavolo, e l’uomo era troppo preso dal suo programma. Si fermò a guardare la televisione. I colori vivacissimi gli ferivano quasi gli occhi, in confronto al grigio squallore della casa. Ma la casa era vera – quello dentro la tv, come al solito, falso. Il canale era Rai 1, e il programma un qualche quiz a premi, ma non riconosceva né il conduttore né gli sembrava di averne mai sentito parlare. L’uomo – che comunque somigliava più a un animale – ruttò sonoramente. In faccia aveva delle occhiaie viola, molto profonde.

Si girò verso la Morte e alzò le spalle.

«Cos’è questo posto?»

«Un appartamento,» la risposta suonò alquanto ovvia. Fece ancora due passi e si concentrò sulla donna. Per fortuna la sua schiena si muoveva – anche se impercettibilmente. Stava respirando. «la casa di due persone»

«Lo vedo» Quello che gli sfuggiva era perché si trovassero lì. Che la Morte si fosse data alla violazione di domicilio e al furto era fuori questione. Oltretutto non sembrava che quei due avessero da rubare, tanto per iniziare. Allungò il braccio verso lo schermo, che continuava a blaterare, surreale. Non appena le sue dita lo sfiorarono, si sentì il leggero crepitare elettromagnetico della polvere rimasta attaccata al televisore. Sembrava reale. Con uno scatto, Nikolaj raggiunse il pulsante rosso e spense l’apparecchio.

Passarono alcuni secondi.

«… televisore di merda,» biascicò l’uomo. Fece il gesto di cambiare canale e si accorse che il telecomando era a terra. Allora abbandonò il braccio sudato sul divano e continuò a fissare il vuoto. I suoi occhi castani erano iniettati di sangue ai bordi. Sembrava che non potessero vederlo – né lui né la Morte che fluttuava a mezz’aria nel loro corridoio – ma poteva ancora interagire con l’ambiente circostante.

«Quindi sono un fantasma,» disse, cercando di sopportare la stupidità di quelle parole. Non credeva ai fantasmi. Così come non credeva all’Inferno. Ma fino a qualche tempo prima nemmeno aveva creduto che l’espressione “guardare la morte in faccia” potesse essere usata in senso letterale.

«Lo sei, in un certo senso.» La mietitrice abbassò il suo teschio levigato, con un inaspettato cenno di assenso. «Una specie particolare di fantasma, magari. Sicuro di non conoscere questi due?»

Nikolaj guardò negli occhi lucenti della sua interlocutrice, interdetto. Perché doveva conoscerli? 

Qualcosa iniziò a muoversi nella sua testa. Qualcosa iniziò a strisciare lungo la sua spina dorsale, gli entrò sotto le costole, e formò una piccola sfera nera all’interno del suo stomaco. Era una sensazione di disagio, sottile come l’umidità prima della pioggia, qualcosa che ti si infilava sotto i vestiti e cercava solo di arrivarti alle ossa. Strinse gli occhi come per mettere a fuoco. La faccia sfatta dell’uomo aveva qualcosa di familiare, in effetti. I capelli erano untissimi, ma era un taglio che forse – da pulito – gli avrebbe aiutato a capire chi era.

Ma quel corpo era troppo grasso. Non conosceva nessuno di così. Era più grasso di suo padre quando ancora non gli era venuto il diabete di tipo B. La palla nera nel suo stomaco iniziò a pensare come sarebbe apparso quell’uomo senza i chili aggiuntivi. Tolse la pancia sotto la canottiera, tolse la cellulite dalle gambe, tolse il doppio mento e cercò di seguire i tratti del viso. E quelle occhiaie. Quegli occhi. La forma degli zigomi, la forma delle sopracciglia.

La nausea gli salì in gola. Distolse lo sguardo. Se quell’uomo era … allora la donna abbandonata sul tavolo …

La piccola sfera nera nel suo stomaco esplose, si appoggiò con una mano al muro, e piegandosi cercò di vomitare. La Morte lo guardò, inespressiva, mentre dalla sua bocca riusciva ad espellere solo sputo.

«Hai capito? » chiese, inclemente.

Nikolaj alzò la faccia, si asciugò le labbra con una mano anche se erano diventate di nuovo secche, e per la terza volta fissò dritto nei due zecchini d’oro dentro le orbite scure del teschio parlante. Non se ne era reso conto, ma due lacrime gli stavano rigando il viso.

«Sono io.» disse. «E l’altra è Gael.»

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Capitolo 4
*** 4 ***


La casa aveva un piccolo terrazzo. Minuscolo sarebbe stato il termine adatto. Di quei balconi che mettono nei grandi condomini, larghi a malapena due metri quadri. Una misera scusa di balcone. Oltre la ringhiera rugginosa l’abisso della strada, di sotto, le luci e i rumori delle macchine.

Nikolaj era seduto per terra, con le ginocchia raccolte sul petto e la schiena contro la lavatrice. La Morte sembrava divertirsi invece a volteggiare nel vuoto, guardandolo. Voleva ancora vomitare; la nausea rifiutava di rassegnarsi al suo stomaco vuoto. L’aria fresca, anche se puzzolente di smog, lo aiutava un pochino. Passando dal bagno per andare in quello sputo di terrazzo, aveva visto più scatole di medicine di quante fosse disposto a contare.

«Siamo nel » iniziò lo scheletro, fissandosi il polso ossuto come se dovesse controllare un orologio inesistente. Forse la Morte lo stava prendendo in giro. «Settembre 2030. Un mercoledì, il terzo giorno del mese. Le sette e cinque di sera.»

«Vuoi dirmi anche quanti cazzo di secondi sono passati?» Nikolaj sembrò un cane in procinto di azzannare, con quella risposta. L’area del suo cervello preposta a ricordarsi che stava parlando con la dannata Morte era troppo occupata a combattere il vomito e lo schifo che aveva visto in salotto, per ricordargli che in teoria avrebbe dovuto essere ancora terrorizzato.

«Trentadue,» rispose lei, nient’affatto impressionata. «E ti dirò di più.»

«Due mesi, due giorni, un’ora, quarantacinque minuti e altri trentadue secondi. Questo è quando morirai. Ti darei anche i nanosecondi, ma so che non riuscite a scandirli mentalmente.» aggiunse, a mo’ di scusa.

Sembrava una frase ispirata a Donnie Darko, ma dubitava seriamente che la Morte avesse visto il film. Chissà. Si guardò le mani: qualche reazione nervosa gli aveva reso i palmi rossi di sangue, e non gli sembrava di riconoscerli. Mosse le dita lentamente, e le guardò stupito, come fossero le appendici di qualche schifoso insetto.

«Morirai per avvelenamento,» Nikolaj si sforzò di immaginarsi i fasci di muscoli, il sistema di fibre e tendini che partivano dalla base del gomito e terminavano alla punta delle dita. La complicata meccanica che gli permetteva di muovere quelle mani lunghe. «Gael correggerà la tua birra con varichina e altri prodotti da bagno, e questo ti ucciderà.»

Il motore di un camion di trasporti rombò da qualche parte nella strada. Un ubriaco urlò qualcosa dal marciapiede. Parzialmente consapevole di quello che stava facendo, Nikolaj rispose ululando sillabe sconnesse.

«Poi,» continuò la Morte inclemente «Berrà anche lei.»

Quanto tempo era passato? Tra una parola e l’altra sembravano intercorrere delle ore. Perché non era ancora sorto, il sole? Affondò la faccia in quelle mani estranee che si ritrovava attaccato ai polsi, le dita che gli scorrevano in testa, strisciavano tra i capelli, cercavano, graffiavano. Non aveva pensato abbastanza all’ipotesi di essere matto. O al tumore al cervello.

«Ci metteranno molto tempo a trovare i vostri corpi: avevate pochi contatti col mondo esterno. Vi ritroveranno vicini, sul divano.»

Non poteva essere reale, si convinse, perché più la Morte parlava, più riusciva ad aggiungere dettagli ancora peggiori alla situazione già merdosa. Poi si fermò. Come ubriaco si alzò dalla sua posizione rannicchiata, sbattendo più volte contro la lavatrice.

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Capitolo 5
*** 5 ***


Nikolaj era seduto al tavolo. Aveva ventidue anni e aveva smesso di fumare a venti. Afferrò una Philiph Morris dal pacchetto alla sua destra e la Morte, gentilmente, la accese. La donna pallida davanti a lui, la Gael del futuro, lentamente iniziò a raccogliersi e ad alzarsi. Si trascinò spalle basse verso il piano della cucina e iniziò a mettere l’acqua per il thé. La mano che teneva la sigaretta tremò impercettibilmente.

Il ragazzo immaginò se stesso in una landa gelida, un deserto di ghiaccio. Via via che l’immagine si stabilizzava nella sua testa, il suo ritmo cardiaco tornava ad abbassarsi, la nausea veniva ricacciata nello stomaco, e una specie di fredda razionalità gli anestetizzava il cervello. Volute di fumo riempirono la cucina. A guardarlo bene, un osservatore esterno avrebbe potuto vedere lentamente la luce nei suoi occhi spegnersi a poco a poco, i muscoli della mascella indurirsi, mentre l’acqua iniziava a bollire.

Quando finalmente la Gael del futuro riempì una tazza di thé al gelsomino e tornò a sedersi, scaldando le mani attorno alla ceramica calda, l’espressione di Nikolaj era quella di una statua di marmo.

«Credi ancora di avere un tumore?» chiese la Morte, che ancora volteggiava leziosa.

«No.» buttò fuori un po’ di fumo dal naso, bruciandosi le narici. Come un drago.

La donna non poteva vederlo, ma lui aveva tutto il tempo di guardarla in ogni minimo particolare. Tutto il tempo di annotare, con minuzia chirurgica, ogni crepa. Ogni segno del tempo e degli eventi. A soffermarsi su tutte le tacce visibili che la vita aveva lasciato sul volto della ragazza che aveva conosciuto, deturpandone il volto. Tutto il tempo per lasciare che quei dettagli gli entrassero dentro, più nocive della nicotina che aspirava.

A pochi metri da lui, alla sua destra, ancora sedeva come in un incubo l’uomo che sarebbe diventato.

«Perché mi mostri questo?»

«Ho immaginato,» rispose la nera mietitrice «che avresti voluto conoscere la conseguenza delle tue azioni. Chi non vorrebbe conoscere il futuro?»

«No,» ripeté Nikolaj «ti ho chiesto perché. Se non sto per morire, che cosa dovrebbe importarti delle mie scelte? Sul treno, hai detto che dovrei lasciarla. Prima di questo.»

«Forse, sono solo annoiata,» priva di tatto come al solito – sia dal punto di vista figurativo, che letterale, visto che non aveva la pelle -  la Morte rispose. «o forse, dovresti mostrarmi il braccio sinistro.» Il ragazzo sollevò gli occhi, ma l’altra prevenne la sua obiezione:

«Stavolta non ti toccherò, giuro.»

Cautamente, spostò la sigaretta da una mano all’altra e allungò il braccio prescelto sul tavolo. Non c’era niente di nuovo. Pensò che se l’avesse teso ancora un po’ avrebbe potuto sfiorare le dita di Gael, ma non era sicuro di cosa sarebbe successo se l’avesse fatto. Lo scheletro rimase silenzioso, le monete nei suoi occhi che sembravano indugiare sul profilo dell’arto. Seguì quello sguardo, che sembrava fissare l’area sotto il polso. In quel punto, la sua pelle olivastra era più chiara a tratti, in delle linee bianche orizzontali e imprecise. Piccole cicatrici.

«Io ti ho osservato per molto tempo, fin quando, da bambino, quando attraversavi il vicolo vicino a casa tua e una macchina lo attraversava con te, ti fermavi a pensare cosa sarebbe successo …» Pausa. Gael-del-futuro prese un sorso di thé, guardando fuori dalla finestra «se tu ti fossi buttato sotto le sue ruote.»

«Cosa avrebbero pensato i tuoi compagni di scuola? La tua famiglia? Il mondo? Certamente, per l’ultimo non sarebbe cambiato granché. Ma spesso non comprendevi che cosa la tua perdita avrebbe causato ai tuoi familiari, o forse, semplicemente, non ne apprezzavi il peso.»

Nikolaj sapeva benissimo come poteva continuare quel discorso. Era stato un bambino abbastanza oscuro. Aveva iniziato a pensare alla morte molto presto, con un misto di sincero terrore e fascino morboso. Non è che avesse mai desiderato morire. Non veramente. Da adolescente, per un certo periodo, si era tagliato; la maggior parte delle volte sul braccio sinistro, che ne portava le cicatrici. Non aveva mai raggiunto una vena, un po’ per paura, un po’ per il dolore, un po’ semplicemente perché  non desiderava morire. Le sue tendenze masochiste esaurirono relativamente presto la fase dei tagli sul braccio, esplorarono per un po’ i territori più convenzionali dell’alcol e del fumo, e poi lo lasciarono. A quanto vedeva da come si era ridotta il sacco di carne ed ossa seduto sul divano in salotto, non l’avevano lasciato per sempre.

«Ho guardato anche Gael per molto tempo,» aggiunse. «forse, il mio interesse su di voi è solo naturale. Non siete certo i primi a destarlo, né gli ultimi, né i più importanti. Lo stesso, lo fate.»

Non credeva nemmeno nella sfortuna, ma sapere che la Morte aveva vegliato sulle loro vite era quanto di più simile a un cattivo presagio conoscesse. Guardò fisso negli occhi di Gael, che per quanto stanchi, e vitrei, erano sempre gli occhi di quella Gael, della “sua” Gael.

Della Gael a cui aveva evidentemente rovinato la vita.

La immaginò mentre avvelenava la birra, gliela serviva, e beveva con lui.

«Dio,» disse, anche se, in quella faccenda, nessun personaggio immaginario poteva aiutarlo.

 «…che cosa ho fatto.»

Note

     Dopo quattro capitoli è anche il caso di farsi sentire. Se siete arrivati a leggere qui, vuol dire che state seguendo le disavventure del povero Nikolaj : grazie per la pazienza. Non ho molto da dire in verità: magari però vi state chiedendo da cosa deriva il titolo del racconto breve: originariamente era "a little closer", invece che "closer"; in entrambi casi sta per più vicino. Più vicino a cosa? Come è spiegato in questo capitolo, Nikolaj e Gael sono stati entrambi "vittime" di atteggiamenti masochisti. In un certo senso, quindi, sono più vicini alla Morte, in quanto hanno attirato la sua attenzione. Non è detto che abbia senso, ovviamente.  

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Capitolo 6
*** 6 ***


Il suo cellulare era una pietra fredda, con uno schermo liscio e luminoso.

La Morte l’aveva riportato a casa, nel giusto anno, ancora lontano dal 2030. Aveva pensato per un po’, e aveva deciso che il mezzo migliore era un SMS. Come ferire meglio una persona? Un conciso, impersonale, messaggio tramite telefono. Qualcosa che non lasciasse scampo, che non ammettesse ripensamenti.

Gli bastava inviare quel messaggio e rifiutarsi di rispondere ad altre richieste. Inviare e sparire per sempre. Inviare – e diventare un fantasma, piuttosto che un mostro. In genere era molto bravo a trovare le parole adatte, ma quel giorno esse si rifiutavano di assecondarlo. Era faticoso. In un modo o nell’altro, riuscì infine a mettere insieme i pezzi di quello che doveva essere il più efficace sms mai scritto; il messaggio che avrebbe rotto ogni legame tra lui e Gael.

Appoggiò il telefono sulla scrivania e si gettò contro lo schienale della sedia. La luce del sole di Luglio lo colpiva inclemente. In un periodo di tempo breve, lo sapeva, avrebbe dovuto premere il tasto verde dell’invio. Non poteva aspettare la notte. La notte era sempre troppo carica di significati per compiere azioni a mente lucida. La notte era il momento di cambiare idea.

Passarono i minuti. Il suo mp3 gli vomitò una canzone nelle orecchie, e poi un’altra. Sapeva benissimo che cosa stava succedendo – più il tempo scorreva e più aumentavano le possibilità che lei lo contattasse. Considerando che non si era fatto vivo per due giorni, era probabile. Guardava il cellulare come fosse stato l’Unico Anello del libro di Tolkien. L’oggetto del potere. E come quel bamboccione di Frodo, lui era lì a fissarlo invece di fare la cosa giusta.

Nel Signore degli Anelli di Tolkien, il protagonista arriva a dover distruggere una piccola fede dorata, che contiene in sé tutto il male possibile e immaginabile, ed esita, perché la lusinga del potere cerca di farlo deviare dalla retta via. Aveva odiato l’espressione ebete dell’attore che recitava Frodo, nel film. Eppure in quello stesso momento stava indugiando, quando poteva semplicemente inviare quel fottuto messaggio.

Certo avrebbe fatto male, a lui e a lei. Ma non quanto spingere lei a commettere un omicidio-suicidio. Da qualunque lato la guardava, quella era l’unica scelta disponibile.

Testa, disse il suo cervello, o croce.

Si alzò e andò in bagno, guardandosi nello specchio. Aveva bisogno di farsi la barba.

Bianco, disse il suo riflesso, o nero.

Il colore del suo viso non appariva del tutto naturale, oltretutto. Continuò a fissare nel pozzo dei suoi occhi castani, senza distogliere lo sguardo. Probabilmente aveva anche un serio bisogno di una doccia. Biascicò, con in bocca ancora il sapore della birra della sera prima.

«Vita,» disse Nikolaj, «o …»

Qualcosa nei suoi occhi cambiò. Non era stata quella una delle prime lezioni che aveva imparato, nella sua crescita? Perché si era sempre scontrato con la realtà? Appoggiò le mani sul lavandino, sporgendosi contro lo specchio. Perché aveva sempre fatto a botte con gli eventi, e perché, in genere, le aveva prese?

Sapeva troppo bene la risposta a quella domanda.

Nikolaj aveva sempre avuto un’idea abbastanza precisa di come le cose dovessero funzionare, nel mondo. Bianco, o nero. Anno dopo anno la realtà aveva fatto di tutto per maciullare i suoi ideali – frantumandoli, uno per uno.  Insegnandogli coi fatti che il mondo non è perfetto e non è giusto, ma nemmeno la sua presunzione di poterlo giudicare, e classificare come “buono” o “cattivo” lo era. Facendogli conoscere che c’erano più sfumature di grigio che il suo occhio potesse percepire. La vita era stata chiara – Nikolaj non era Dio, non era un giudice, non era un paladino – e più volte l’aveva costretto a infrangere i suoi stessi principi. La vita aveva trasformato un bambino cresciuto con tante belle favole in un adulto complicato.

Ma nonostante tutto, Nikolaj aveva ancora gli occhi buoni. Oh, si, era un’ipocrita, e si nascondeva dietro maschere, talvolta si approfittava del suo prossimo, talvolta rideva amichevole assieme a persone che detestava. Talvolta, semplicemente, detestava tutti indistintamente. In quel momento non aveva importanza. In quel momento, riusciva ancora ad apprendere da i suoi errori.

Non era stata la prima lezione che aveva imparato?

«Non esistono il bianco e il nero.» confidò profetico, allo specchio. «Da soli, non significano una merda.»

La verità stava nelle sfumature. Come lo Ying e lo Yang. Se tutto fosse stato diviso in due, bene e male, il mondo sarebbe stato così facile – stupidamente facile. Era difficile accettarlo, ma, cristo, aveva senso! Nonostante la valanga di luoghi comuni che affollava la sua testa, spalancò gli occhi.

Testa o croce? Vita o morte? Prendere … o lasciare?

Quello era un gioco da bambini! E per poco ci era rimasto fregato.

«Morte,» sussurrò Nikolaj, e visto che niente accadeva, andò ad afferrare un coltellino svizzero dalla sua borsa.

«Morte,» ripeté, a denti stretti e con la lama che gli incideva, dolorosamente, il braccio.

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Capitolo 7
*** 7 ***


 

«Sei sicuro di questo?» gli chiese la nera mietitrice.

Annuì, massaggiandosi il polso. Una piccola linea di sangue gli usciva da dove aveva tagliato col coltello. La ferita, proprio come ai vecchi tempi, era piccola e abbastanza superficiale. A volte gli sembrava che la sua pelle fosse resistentissima. Almeno era stata abbastanza per attirare l’attenzione dello scheletro parlante su di sé – altrimenti, e deglutì al pensiero, avrebbe dovuto farsi molto più male.

«Facciamo come ho detto.»

Ancora una volta l’altra lo strinse con le dita gelide. Rabbrividì, mentre la sua pelle perdeva sensibilità. Ma dopo poco, era di nuovo nell’appartamento – di nuovo, nel futuro.

Nikolaj allargò le gambe e si piazzò di fronte al televisore. Nella stanza, in quel momento, c’era solo lui. Lui e l’altro se stesso. Uno schioccare di dita, e finalmente, gli occhi del grasso Nikolaj del futuro si staccarono dallo schermo e lo videro per la prima volta.

Il tempo sembrò fermarsi. L’adulto aprì la bocca, chiuse e riaprì gli occhi.

«…tu?»

«Io,» rispose tranquillo il giovane. Nonostante il caldo estivo della sua camera, aveva cercato i suoi scarponi pesanti. Marrone scuro, modello classico della Timberland. Con un gesto improvviso alzò la gamba sinistra come aveva fatto un centinaio di volte nelle lezioni di kung fu, e piazzò la suola della scarpa dritta nello stomaco di se stesso.

L’altro non ebbe nemmeno il tempo di contorcersi dal dolore, che Nikolaj l’aveva preso per il collo, aveva spostato il suo peso considerevole e l’aveva gettato a terra. Il giovane lo colpì, o per meglio dire, si colpì, nelle costole, e poi si piegò sopra il suo stesso corpo ansimante, stringendo le mani a pugno e spaccandosi il naso con un unico, preciso, diretto.

«…ma perché?» pianse la sua controparte.

Si fermò. L’odore del sudore e il contatto con quel corpo lo stava facendo sentire male, nonostante l’adrenalina che gli scorreva dentro. «PERCHE’?» urlò.  La morte volteggiava in un angolo. Avrebbe potuto giurare che c’era interesse nel suo sguardo.

«Perché mi fai schifo.» sputò Nikolaj. «Perché hai preso tutto quello che avevo,»

«e l’hai rovinato.»

Con entrambe le mani prese la testa del sé futuro, e la fece rimbalzare con il pavimento. Le sue mani si staccarono dal cranio sudato con lentezza voluta, i muscoli delle braccia che assaporavano la dolce sensazione della violenza e del potere, mentre lui era seduto sopra il suo nemico come un antico eroe epico. Si rialzò, mentre l’altro era stordito e mugolava nel dolore. Prendendosi tutto il tempo che ci voleva, Nikolaj si abbassò i pantaloni, e pisciò in faccia all’essere che odiava.

Quando ebbe finito, poteva quando sentire il suono della pipì che bruciava nei tagli e nelle ferite, nel naso rotto e negli occhi del grasso. Si ricompose. Guardò l’uomo piegato a terra, senza provare più alcun sentimento: né pena, né schifo, né rabbia.

«Mi scuso,» disse alla Morte «ma non seguirò il tuo consiglio.»

«Ah no. … e rischierai questo?»

«Mi hai detto di lasciare Gael, se non volevo che finissimo così.»

«L’ho fatto.»

«Vuol dire che tutto questo» allargò le braccia «si può evitare. Vuol dire che non sta scritto da nessuna parte che debba succedere. Mi hai mostrato il futuro, Morte. Ma io non lascerò mai che accada. Spero tu ti sia divertita a vedermi soffrire come un cane, ma non mi freghi.»

La realtà iniziò a sfaldarsi, a partire dalle pareti, che svanirono nel nulla. La cucina, lo sporco, il televisore ultrapiatto al plasma. Il naso rotto del se stesso del futuro, e infine, tutto quel Nikolaj. Rimasero infine solo lui e la Morte, sospesi in un mare bianco di nebbia.

«Ricorda le mie parole» disse il ragazzo «Io sono meglio di così.»

Note

Sono arrivato alla fine del mio raccontino, semplice e senza pretese in verità. Mi piaceva al limite scrivere e introdurre un paio di concetti, poi magari un giorno li approfondirò meglio xD Grazie se siete arrivati a leggere fin qui e a sopportarmi. Se volete, commenti e recensioni son più che graditi.

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