Take my hand and lead me home

di Columbrina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #Secret ***
Capitolo 2: *** #Empty (part 1) ***



Capitolo 1
*** #Secret ***


 

#Secret

 

Cosa credi che rimanga dopo la tempesta?

Mezzanotte inoltrata da un pezzo e la luce soffusa di un lume poggiato sul comodino accanto al divano, che ospitava la snella figura di una donna intenta a leggere con lo sguardo assonnato, sebbene il sonno vero e proprio tardasse ad arrivare. Ogni tanto grugniva perché non poteva sostenere il vigore notturno; il silenzio di una casa solitamente così affollata era sfiancante perfino per lei, educata al contegno marziale e a lapidarie frasi pronunciate al momento giusto.

Fuori, il cielo borbottava, soffocato dalle nuvole grigiastre che si addensavano l’una sull’altra fino a formare una vera e propria coltre che abbracciava la città marittima addormentata, facendo ribollire le onde, il cui suono minaccioso si sentiva anche all’interno della viziosa aria di quella casa che, secondo Lightning, arrivava fin nelle narici.

Lightning era il nome di quella snella donna stesa su un fianco sul divano al centro del soggiorno; aveva un viso talmente levigato che la luce soffusa del lume si rifletteva sulla pelle perlacea come se fosse una macchia di colore, adagiandosi deliziosamente sul profilo della mascella e del mento; i capelli rosati erano raccolti in una coda più alta e disordinata del solito, ma gli ricadevano a ciuffi ribelli sulla fronte, sfiorando gli occhi che guardavano le pagine ingiallite di un libro che soleva leggere suo padre nel tempo libero e che le aveva dato il giorno del suo ottavo compleanno insieme a un portafogli e un coltellino, andato perso in una scampagnata in un boschetto insieme alla sorella minore; non ricorda di averlo mai letto con tanta attenzione, ma si sentiva in dovere di tener viva quella piccola fiammella che ardeva gli occhi di suo padre quanto leggeva quel libro.

I suoi occhi azzurri sfrecciarono dalle parole a carattere piccolissimo alle lancette dell’orologio che troneggiava sull’unica parete nuda della stanza: mezzanotte e tre minuti.

Tempo di trovare una posizione più comoda.

Questa volta si sedette dall’altro lato del divano, venendo accolta dalla sua fresca morbidezza, mentre il pantaloncino della sua divisa notturna – come la chiamava buffamente Serah – salì, denudando un lembo di entrambe le cosce, poco poco, giusto per scoprire quel necessario mai eccessivo; teneva un gomito appoggiato sul bracciolo, sul quale riversava tutto il peso, e l’altro libero che reggeva buona parte del libro dalla copertina logora per le usure del tempo – perfino il titolo, una volta rilegato a caratteri dorati, aveva assunto una connotazione sciupata, come per integrarsi a quel vecchiume che si portava dietro da tempo.

“Non ci siamo ancora…” si disse silenziosamente, sbuffando e cambiando nuovamente posizione. Faceva caldo e il corpo era attraversato un formicolio che le prudeva ovunque.

Intanto, di fuori, le narici del cielo erano oppresse dal sentore di umidità delle nuvole, al punto che starnutirono fulmini e pioggia; di nuovo, distolse lo sguardo dalla pagina ingiallita e lo rivolse al vetro della finestra che rifletteva l’oscurità della Bodhum addormentata, quella città marittima che non osava dar segno di vita nemmeno con il rombo delle onde che si mischiava in modo piacevole a quello del cielo, che, invece, si ravvivava a intermittenza. Si diede il tempo solo di finire il capitolo e andare ad aprire la finestra giusto per liberare quella sensazione di claustrofobia che attraversava il suo corpo e imperlava la sua fronte, le sue ascelle e le sue gambe di sudore. Sentiva perfino la pioggia bussare contro il vetro, per avvisarla della sua presenza e lei non si sentì improvvisamente più sola.

Quando liberò l’aria viziata dalla sua schiavitù, sentì un refolo di umidità schiaffeggiarle le guance e il naso, mentre un brivido di freddo le percorse tutto il corpo, facendole tirare un sospiro di sollievo; chiuse gli occhi mentre si beava della fredda umidità che le faceva assaporare, per la prima volta dopo un po’ di tempo, nuovi odori. Da quando era stata congedata dal servizio militare, aveva preso l’abitudine di stare a casa e uscire solo per una passeggiata di ricognizione, per assicurarsi che fosse tutto tranquillo nella monotona città di Bodhum, ma non la infastidiva più di tanto perché a casa era sempre da sola e poteva spartire con se stessa le piccolezze di cui si era sempre privata, senza che nessuno la guardasse; odiava l’estate perché le ricordava quando fossero, in realtà, pigri e inetti i suoi coinquilini forzati. Tra tutti, poteva giustificare solo Snow perché era il promesso sposo di sua sorella e, quantomeno, racimolava un bel po’ di soldi con piccole attività e lavoretti che gli fruttavano un buon guadagno e la stima dei suoi concittadini; altra che poteva giustificare, forse, era Lebreau, che aiutava Serah a cucinare e avrebbe presto contribuito con i proventi del bar. Ma gli altri erano una vera e propria palla al piede, soprattutto Gadot che – sebbene fosse più sopportabile di Snow – aveva un fare tronfio e, a volte, rozzo che le faceva storcere il naso in maniera non indifferente: le bastava pensare alle sere in cui lui e Snow si piazzavano sul divano, suo secondo posto preferito, per guardare le corse dei Chocobo ed esultare o inveire a seconda dei casi con fare rozzamente mascolino; altra cosa che non sopportava di Gadot era proprio la sua morbosa devozione a Snow e la disgustosa condizione di docilità in cui era relegato, tanto che era divenuto quasi come suo accessorio. Odiava i parassiti che si addossavano alle personalità degli altri, solo per compensare la loro completa mancanza di carattere.

Con questi pensieri, tornò al centro della stanza e si abbandonò nuovamente sul divano, meditando sull’idea di iniziare un nuovo capitolo e leggerlo solo a metà; guardò il libro come in cerca di una risposta, ma era chiuso e impolverato dal suo fastidioso vecchiume, non le dava alcuno stimolo, era solo una presenza silente nella sua nottata insonne, una mera comparsa.

Per lo meno, era passato un quarto d’ora dalla mezzanotte e l’oppressione della tediosità insonne non si faceva più sentire, grazie agli spifferi di vento portati dalle onde e dalla pioggia che le arrivavano fino alla nuca.

Prese il libro tra le mani, studiandolo attentamente, desiderando che si aprisse di scatto e non per sua iniziativa in modo da sentirsi moralmente obbligata a iniziare il settimo capitolo e le parole potessero appesantire i suoi occhi fino ad addormentarla, senza che lei se ne accorgesse.

Rimase così, nella tediosa contemplazione del libro, fino a quando non sentì la gola bruciarle dalla sete.

Tirò un silenzioso sospiro di sollievo – quel tira e molla con i suoi istinti basilari la stava sfiancando – e si alzò in piedi, dirigendosi in cucina che, fortunatamente, non era poi così distante dal salotto; c’era un piccolo arco, una specie di soglia senza porta a dividere le due stanze, alto abbastanza che se si fosse alzata in punta di piedi a stento l’avrebbe sfiorato con le dita. Il frigorifero si stagliava dinanzi a lei; lo aprì e una luce ronzante si accese, squarciando la penombra della stanza e dandole un po' fastidio agli occhi, abituati alla soffusa luce che proveniva dal lume ancora acceso sul comodino del soggiorno. Nel cercare la bottiglia d’acqua teneva le gambe rigide e il pantaloncino enfatizzava bene le rotondità femminili di cui disponeva, ma che aveva sempre nascosto sotto abiti militari e un atteggiamento ringhiante verso qualunque tipo di avance – e Snow lo sapeva meglio di chiunque altro – che non si confacevano per niente a un potenziale così grande come il suo: Claire Farron è sempre stata una ragazza piacevole a guardarsi, obiettivamente, ma lei ha vissuto come se questa bellezza fosse solo un accessorio impostole da Madre Natura; non che non ne fosse consapevole, ma non ci aveva mai dato molto peso, infatti apparire bella agli occhi degli altri era l’ultimo dei suoi problemi con una sorellina piccola da accudire e un fardello da portare avanti. Stava per mandare giù un sorso, ma la prontezza dei suoi istinti trafugò una presenza che la osservava con insistenza, che contemplava quel momento in cui la bellezza era emersa senza pudore, quel piccolo, infinitesimale istante in cui non aveva il pieno controllo di se stessa e desiderava solo placare la sete. Si girò prontamente, con sguardo arcigno, e un po’ si stupì nel vedere Snow appoggiato allo stipite dell’arco che separava il soggiorno e la cucina; ci entrava a malapena, quanto era alto. Fortunatamente, non girava a petto nudo come il resto dei giorni estivi, ma indossava dei semplici boxer e una maglietta abbastanza aderente da farle chiedere se avere tutti quei muscoli pesasse più del senso di colpa di non avere una materia grigia.

Lo guardò proprio come un bambino insolente fa quando sente la minaccia incombere verso di lui, ma non era il caso di svegliare tutti in casa per un possibile malinteso. La voglia di sferrargli un pugno su quel sorriso lievemente ombrato dall’accenno di barba, però, era tanta.

“Che ci fai in piedi?” si limitò a dirgli, con la bottiglia ancora in mano e il solito tono neutrale, tagliente al punto giusto “Non mi pare che tu sia sonnambulo”

“Potrei farti la stessa domanda se non sapessi che non vai mai a dormire prima dell’una” rispose prontamente lui, sempre poggiato allo stipite “Comunque, sono venuto per bere una sorsata d’acqua; sto morendo di sete. E poi, non ho tanto sonno”

Con un gesto spontaneo, Lightning gli porse la bottiglia d’acqua già aperta: alla luce ronzante del frigorifero – che creava una specie di gioco di ombre su di lei – si notava meglio quella venatura malinconica che attraversava il suo sguardo e che aveva notato sul suo volto poco fa, assente del solito ghigno sorridente che solitamente sfoggiava. Lui le fu silenziosamente grato e bevve a gran sorsate, arrivando a consumare quasi metà bottiglia.

Avrebbe voluto dirgli “Lasciane un po’ anche a me, eroe”, ma dalla malinconia che trapelava dal suo sguardo e dalla fretta con cui consumava la bottiglia, capì che era meglio non fare domande; qualunque cosa fosse, disarmava l’inguaribile ottimismo di Snow e ciò era preoccupante.

Snow finì di bere, sospirando rumorosamente e, sollevato dalla sensazione fresca che esplose nella sua bocca, porse di nuovo la bottiglia a Light.

“Grazie”

“Figurati” disse, telegrafica. Non sentiva il bisogno di andare oltre.

Stava per portarsi la bottiglia alla bocca, sentendo già a fior di labbra i rimasugli di saliva di Snow, quando egli stesso la fermò.

“Ehi, sorellina…”

“Ti ho detto mille volte di non chiamarmi così”

“Che c’è, Snow?”

“Cosa fai per passare il tempo la notte?”

Lightning elargì un mezzo sorriso.

“Hai intenzione di non dormire?”

“Serah si
sentirà sola”
avrebbe potuto dire, ma lei lo conosce da troppo da non capire che è Serah il motivo della sua improvvisa voglia di fare le ore piccole.

“Avevo intenzione di dormire sul divano. Con questo caldo, dormire in due è un po’ asfissiante”

“Mi pare non sia stato un grande problema finora” si lasciò sfuggire, irrigidendosi un po’. Si riprese solo perché voleva reprimere a se stessa quel senso di colpa che era nato alla bocca dello stomaco.

Snow, comunque, rise, iniziando a frizionare con la mano destra i capelli che ricadevano dietro la nuca, così simili a quelli che portava di giorno, dando l’impressione che non si pettinasse mai.

“Avere dei segreti fa bene. E io e te ne sappiamo qualcosa” disse lui, facendola irrigidire un po’ “Una coppia non può condividere tutto, tutte le notti e tutti i giorni. A volte, bisogna stare da soli per meditare su cose che non ti riuscirebbero bene se sentissi la presenza dell’altro accanto a te”

“Questo solo quando c’è qualche problema”

Touché in pieno cuore; a Snow riusciva difficile nascondere determinate cose, sebbene nessuno avrebbe mai capito davvero quelle piccolezze che balenavano nei suoi occhi in cui annacquava il più bell’azzurro che qualcuno avesse mai visto.

Si massaggiò il collo e sospirò, giusto per districare la tensione; il bisogno di parlare era tanto e l’orario non contribuiva al suo autocontrollo già precario.

“Mi sa che chiederò a Gadot di farmi spazio nel suo letto”

“Oppure potresti semplicemente parlarne. Snow, davvero, so riconoscere quando c’è qualcosa che non va; io e te siamo simili su questo punto di vista e preferiamo tenerci tutto dentro, non sapendo che i nostri comportamenti feriscono le persone che ci circondano. Se ne parli, potresti sentirti meglio e ciò gioverà sia a te che all’atteggiamento che avrai verso Serah”

“Che atteggiamento avrei, secondo te?”

“Nessuno. Te ne infischieresti di nulla, mentre lei potrebbe stare ancora a pensarci o, peggio, stare al tuo gioco. In questo modo, ne soffrireste entrambi e non mi piace vedere il volto di Serah scontento. A nessuna sorella piacerebbe. E io ti conosco abbastanza bene da pensare che basterebbero queste piccolezze a sfasciare il rapporto che avete costruito in questi anni e che ho maledettamente accettato, sebbene stenta ancora a credere che tu sia l’uomo giusto per lei”

“Grazie tante” disse lui, scherzandoci su come al solito.

 Lightning sapeva che lui – in fondo – cercava disperatamente solo la sua approvazione “Comunque, io e Serah abbiamo avuto una piccola discussione, ma ci siamo chiariti… Almeno credo. Poi questo tempaccio mi ha svegliato, ho guardato Serah per vedere se fosse sveglia anche lei, ma il suo volto addormentato e beato, invece di rassicurarmi, mi ha riportato a quando avevamo discusso e alle increspature della fronte di quando è un po’ arrabbiata, contrariata forse. Comunque, è successo tutto per un motivo stupido e mi viene da ridere solo a pensarci. Le ho detto – così, con molta calma – di aver invitato Noel a stare da noi per qualche giorno, credendo che ne sarebbe stata felice, ma…” si fermò.

“Ma cosa, Snow?” lo incalzò Light “Ha dato di matto?”

“No, no, cioè… Non all’inizio, almeno. Ha sorriso e ha detto che era contenta e io le ho creduto. Poi sono andato in bagno per… Sai, no?”

“Risparmia i dettagli”

“Sì, scusa, hai ragione. Comunque, ritorno dal bagno e la vedo seduta sul letto con lo sguardo perso nel vuoto e le chiedo cosa ci sia che non va. Lei ci mette un po’ a notarmi e a rispondermi e quando lo fa, mette su il suo splendido sorriso e dice che va tutto bene; non mi va di irritarla con le mie domande e faccio finta di niente. Le dico che sarei andato a fare una passeggiata, così esco dalla porta, ma la preoccupazione ha la meglio e rientro di nuovo; lei mi guarda come se avesse visto un fantasma e, senza che potesse dire nulla, le chiedo di nuovo cosa c’è che non andava. Allora, invece di sorridere, si incupisce e acciglia lo sguardo, stringendo i lembi del pantalone. Mi dice che non dovrei prendere certe decisioni senza prima consultarla e che agisco in modo sempre molto avventato, senza dar peso ai sentimenti degli altri”

Come darle torto,pensò Light.

“Le dico di calmarsi… Insomma, sai come sono, cerco di articolare un discorso sensato e mi escono solo monosillabi e stupidaggini; lei, giustamente, si arrabbia ancora di più, ma cerca di calmarsi subito. Respira un po’ e poi mi chiede entro quanti giorni sarebbe venuto Noel… E, allora…”

Snow, visibilmente a disagio, prese a grattare di nuovo i capelli che gli ricadevano disordinati sulla nuca; il piglio di Light che lo incalzava a sbrigarsi, non era certo un incentivo ottimista. Tergiversò un po’ troppo a lungo su quegli allora e solo dei grugniti sommessi di Light lo incalzarono a continuare.

“Le rispondo che sarebbe venuto tra due giorni, cioè dopodomani. Inutile dirti che è andata su tutte le furie. All’inizio ho cercato di calmarla, poi ho deciso di stare zitto e lasciarla sfogare”

“Era il minimo. Ma insomma… Come ti è venuta in mente una cosa del genere? Con quello che è successo tra loro, è normale che Serah reagisca così”

“Questo lo so anch’io, ecco perché non le ho detto nulla. Ma è da più di due mesi che va avanti così ed è da più di due mesi che Serah tenta di dissimulare una tranquillità interiore che non ha. Sappiamo tutti e due che è una ragazza molto fragile, dal cuore buono e non si sognerebbe mai di allontanare una delle persone più care a lei. Ma anche lei ha un suo orgoglio e non le piace essere sottovalutata, perciò si finge forte quando forte non è”

Lightning guardò quella venatura di malinconia espandersi a macchia d’olio nei suoi occhi, come se fosse consapevole di stare sbagliando tutto con lei nel proteggerla e non farla mai soffrire: avevano ripreso da poco il controllo della loro quotidianità e già aveva spezzato la promessa di non farle versare più una lacrima. Bella partenza, era il suo pensiero, forse.

“A me pare che sia stata forte, così tanto da provarci. Che sia riuscita o meno è un altro discorso”

Alle parole dure di Lightning, Snow abbassò lo sguardo come non aveva mai fatto: era la prima volta che i loro occhi non si incrociavano in modo così forzato. Lei strinse le mani intorno alla bottiglia, che scricchiolò con uno stridio graffiante.

“Però…” fu quella parola a ravvivargli di nuovo lo sguardo “Tu non sei da meno. Hai avuto il coraggio di fare tue iniziative che il suo orgoglio le impediva di prendere; hai avuto forza di perdonare lui e quello che c’è stato. Non me l’aspettavo, eroe

Snow tirò su col naso, assumendo l’espressione tronfia di chi aveva il successo nel sangue, la sicurezza di fare suoi i sentimenti degli altri e di custodirli gelosamente senza mai sciuparli. Si scambiarono un brevissimo sorriso prima che Lightning si portasse, finalmente, la bottiglia alla bocca, bevendo quel poco lasciato da Snow, sufficiente a dissetarsi; i rimasugli delle labbra di Snow erano ancora freschi: aveva scordato di pulire la bottiglia. Insieme all’acqua, sentì scendere quella sensazione di umido di quando ci si scambia un bacio. Chiuse il frigorifero e rimasero avvolti da una parziale penombra; la luce del lume in soggiorno era sufficiente a creare un gioco di ombre rossastre sui loro corpi e sui loro visi.

Di fuori aveva smesso di piovere da un pezzo, le chiacchiere avevano coperto lo scrosciare dell’acqua e gli occhi di Snow avevano preso a pulsare dal sonno, mentre quelli di Light erano solo leggermente appesantiti dall’oscurità drastica. Lui sbadigliò sonoramente, facendole roteare alcuni meccanismi intestinali, irritandola non poco.

“Ho di nuovo sonno ora. Mi ha fatto piacere parlare con te, sorellina”

Dalla sua bocca fuoriuscì un sospiro sordo e breve, che tirava fuori ogni volta che lei e Snow si trovavano sul punto di scoprirsi sempre più complici e familiari.

“Dovere”

Era sul punto di salire le scale, quando elargì un sorriso furbesco, che si confaceva di più alla sua faccia tosta.

“Spero manterrai il segreto”

Lei socchiuse lo sguardo e rise, arrendevole, senza scomporsi più di tanto.

“Ne sto già mantenendo due. Fai solo in modo che non diventi un’abitudine”

“Ah, ma non sei da sola. Stiamo mantenendo due segreti insieme”

Fu quando vide l’ombra riflessa sulla parete scomparire nella penombra del secondo piano, quando sentì i suoi passi farsi sempre più flebili che Light poté finalmente abbandonarsi alla rinnovata frescura del divano in soggiorno. La finestra era ancora aperta e quando uno spiffero le raggiunse la nuca, si toccò istintivamente il collo, come se qualcuno l’avesse sorpresa alle spalle.

 

 

 

 

Synthesis

 

Esordisco con una storia che sarà abbastanza lenta da costruire, specie considerando il fatto che le immagini di questi due personaggi in particolare – che tratterò con estrema cura – sono mutevoli quasi quanto il clima di Marzo.

Sin dai primi approcci con Final Fantasy XIII, sapevo che c’era qualcosa di speciale nel rapporto tra Snow e Light, nel tono confidenziale che lui usava quando la chiamava “sis”, nell’esitazione di lei di fronte al suo disarmante ottimismo e all’altrettanto disarmante somiglianza tra Snow e il padre di lei – un particolare aggiunto nell’Episode Zero – e hanno avuto il loro momento clou a Gran Pulse, quando lei dà sfogo a tutte le sue fragilità, piangendo e avvicinandosi al tanto agognato contatto definitivo.

Snow e Light custodiscono un segreto. O meglio, si sono appropriati di un segreto che era di Serah e Noel: la causa dei turbamenti interiori che scombussolano la casa.

Insieme, ne custodiscono un secondo, di ignota natura che – spero – di sviluppare più avanti attraverso flashback e ricordi vari perché non ho intenzione di ridurmi alla fine. Vorrei che i lettori scoprissero le nature di questi segreti progressivamente e non tutto in una volta: diciamo che questo è il mio personalissimo obiettivo.

 

Ad ogni modo, non posso non rivolgere ringraziamenti VIVYssimi alla mia compagna di pensieri Neve Fulminantosi – il nome con cui noi dell’Eyes On Me designiamo la coppia formata da Snow e Light – ovvero Vivy Lockheart.

E a colei che ha, con il suo personale apporto, incentivato la mia ispirazione con una storia bellissima, sempre su Final Fantasy XIII: la magnifica _alister.

 

 

Non ho altro da aggiungere, perciò spero di aver deliziato in minima parte la vostra serata, il vostro pomeriggio, la vostra mattinata o qualsiasi altra parte del giorno in cui oserete adagiare il vostro sguardo temerario su questa storia che si prospetta abbastanza tornita.

 

S.

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Capitolo 2
*** #Empty (part 1) ***


#Empty

Diviso in due parti per ragioni di lunghezza.

 

Un piccolo sospiro anticipò il suo risveglio e sentì come se un cordone ombelicale le stesse stringendo la gola, al punto che massaggiò più volte con le mani il punto in cui sentiva soffocare il nodulo che si era andato a creare con le urla della sera prima. Non aveva mai discusso così tanto con Snow e si era sentita così in colpa che era andata a dormire subito dopo cena, quindi molto presto, senza svegliarsi un attimo e senza alcun ricordo di ciò che avesse eventualmente sognato; una notte nera. Il fatto che il suo corpo, le gambe, la fronte e le labbra fossero impregnate di sudore suggerivano, però, una nottata non proprio tranquilla; aveva perfino i capelli più umidi del solito, che gli ricadevano a ciocche disordinate sul viso provato dalla frustrazione di non ricordare il sogno della notte; gli occhi – grigi, quella mattina – indugiavano sull’orologio digitale accanto al comodino che indicava le sei spaccate: non si stupì più di tanto, in fondo aveva fatto nove ore di sonno abbondanti e forse anche più.

A giudicare dal cielo dipinto oltre il vetro terso dell’unica, grande finestra della stanza, un sole rosato occhieggiava timidamente alla dormiveglia della città, immersa nel torpore notturno e nei pensieri che si affastellavano fino a far prendere completa coscienza della fine della tempesta; probabilmente, nel pomeriggio avrebbe piovuto perché cominciavano ad addensarsi dei piccoli sbuffi di vapore grigiastro.

Era inutile restare ancora a letto perché di sonno non ne aveva, quindi si alzò con cautela, tentando di non far stridere il materasso e facendo peso sulle mani che premevano forte, formando delle vere e proprie conche e attutendo i lamenti della ferraglia; fu inevitabile passare davanti allo specchio al centro della stanza senza notare la sua immagine: sebbene si trovasse a suo agio più con una camicia da notte che con i pantaloncini, con quei capelli che le ricadevano disordinatamente sul viso e dello stesso colore delle sue labbra rosee, per non parlare degli occhi chiarissimi, Serah somigliava più che mai a Lightning; tutti erano consapevoli della loro disarmante somiglianza, ma nessuno gliel’aveva mai detto perché, con quei caratteri, erano davvero troppo diverse. Succedeva anche quando erano più piccole e le due sorelle usavano questo come espediente per prendersi gioco degli altri bambini, dicendo che erano sorelle adottive, cugine, amiche del cuore e quant’altro, a volte si camuffavano anche dietro a nomi falsi; già allora, Lightning si nascondeva dietro un’altra identità e da lì Serah avrebbe dovuto capire che non sarebbe stata Claire per sempre. Nello specchio si rifletteva anche il letto che condivideva con Snow ed era strano il contrasto tra il suo lato sfatto e il corpo inerme di lui, che appariva così tranquillo; era sempre lei la prima a svegliarsi e ogni mattina, il suo primo gesto era guardare quegli ultimi istanti di quiete che avrebbero regnato sul suo viso, uno scatto automatico degli occhi e, guarda caso, quel giorno era venuto a mancare quel bisogno impellente di assicurarsi che fosse tutto bene, che il suo sonno fosse beato perché odiava vedere il volto di Snow senza alcuna espressività così come era successo nel litigio della sera prima.

Il tragitto fino al bagno fu costellato dal senso di colpa, rinfrescato solo dai getti freschi del rubinetto e dal sentore della menta che sfrigolava tra i denti; tornò in camera per vestirsi e mise una semplice camicetta, dei comodi pantaloncini e gli immancabili orecchini a forma di gatto; i capelli decise di lasciarli così disordinati.

Scese velocemente le scale, cercando di non svegliare gli altri in casa e arrivò in cucina per riempire la ciotola di latte che lasciava sempre fuori alla porta di casa per Snow, la gattina che il NORA aveva adottato e battezzato collettivamente come mascotte ufficiale; credeva che fosse l’unica sveglia in casa e si stupì di trovare Lebreau intenta a districarsi tra i fornelli ancor prima che il sole sorgesse del tutto e che i ragazzi iniziassero a reclamare cibo per riempire i loro stomachi. Quel giorno non avrebbe assistito al comico siparietto che lei e Gadot mettevano in scena: lui, seduto a tavola con il viso contrariato, che batteva malamente le mani sul tavolo dicendo “Vogliamo il cibo, donna!” e lei che ribatteva, prontamente “Per dove te lo devo infilare?” e lì sarebbero scoppiati tutti a ridere, tranne Lightning che preferiva saltare la colazione per un’escursione solitaria e Serah, a volte, pensava che era meglio così: non avrebbe compreso il fine umorismo che solo i membri del NORA potevano capire a fondo.

Lebreau le rivolse uno sguardo interrogativo, quello con il sorriso trasversale.

“Ti avevo quasi scambiata per Lightning… Se non sapessi che è uscita stamattina presto a fare le sue solite passeggiate”

Serah non seppe cosa rispondere, quindi si limitò a sorridere timidamente e posare lo sguardo sui manicaretti che stava preparando e incartando per i ragazzi. Fu in quell’istante che le venne in mente che il giorno dell’inaugurazione del bar di Nuova Bodhum era arrivato ed ecco spiegata l’improvvisa vena mattiniera di Lebreau: non l’aveva mai vista così solerte ai fornelli e alcune ciocche di capelli, inumidite dal sudore, le ricadevano lungo il profilo del viso e la fronte; ogni tanto ansimava anche, ma fermarsi non era affatto tra le sue priorità. Ora capiva perché tutti la definivano una gran lavoratrice.

“Hai bisogno di una mano, Lebreau?”

“Tranquilla, ho quasi finito. Sono per i ragazzi…” disse, senza che lei avesse chiesto nulla “Si sono offerti di aiutarmi con le ultime cose del bar. Non ti dispiace se prendo in prestito il tuo fidanzato per tutto il pomeriggio? Giuro che stasera sarà tutto tuo. Verrai alla festa di inaugurazione, vero?”

Al sorriso speranzoso che si accese sul volto prostrato dalla fatica di Lebreau, Serah non poté fare a meno di provare un moto di tenerezza verso quella persona che, in assenza di Light, era stata come una sorella maggiore per lei: nei primi tempi, quando tutto era più difficile, ricorda che le faceva trovare i pasti su un vassoio fuori la porta, le puliva la stanza e – di questo le era particolarmente grata – non faceva domande insistenti, se proponeva qualcosa e a Serah non stava bene, sorrideva e rimaneva in casa anche lei, senza che chiedesse nulla in cambio.

“Certo che verrò! Non me lo perderei per nulla al mondo… E cercherò di convincere anche Light”

“Sarebbe l’occasione giusta per trovarle un fidanzato”

Serah rise di gusto al pensiero dei tanti cocci di cuori che sarebbero stati trovati sul pavimento: non sarà sufficiente una notte, poi, per spazzarli via.

“Light non è il tipo da relazione stabile” rifletté lei, trasognata “Non mi pare sia uscita mai con qualcuno… O che qualcuno le sia interessato davvero. Penso sia proprio l’ultimo dei suoi pensieri”

Prese un pugno di frollini dalla biscottiera, trangugiandone uno con fare svogliato.

“Il che è strano… Voglio dire, non ha più bisogno di proteggerti ora che c’è Snow. State per sposarvi e tu non sarai più la sua priorità principale, lei non sarà più la colonna portante della tua vita. Insomma, dovrebbe svagarsi un po’ di più”

Alla prospettiva della sua futura vita coniugale, con le priorità rivoluzionate e anche solo al pensiero di sua sorella innamorata, a Serah si stringeva lo stomaco, al punto da farle passare l’appetito e costringerla e versare nuovamente i frollini nella biscottiera, mentre briciole inebrianti si depositavano negli incavi tra le dita e sui polpastrelli; ma era troppo immersa nei suoi pensieri per sentire il loro prurito quasi abrasivo: se sua sorella trovasse la persona giusta, nel giro di un anno si sistemerebbe in una nuova casa, forse altrove se ciò apportasse giovamento alla sua carriera; la verrebbe a trovare, certo, ma non condividerebbero la quotidianità di adesso e a cui era stata abituata per ventidue anni; poi i continui asti tra lei  e Snow, sebbene ci fossero stati dei miglioramenti rispetto ai primi tempi…

E Snow era un’altra nota che rischiava di stonare: non si erano ancora sposati e già la minima difficoltà li aveva messi in ginocchio – sebbene sentisse di avere una piccola parte di colpa – quindi non osava immaginare come avrebbero reagito agli insormontabili ostacolo a cui li avrebbe messi alla prova la vita.

Fu il rumore tintinnante delle stoviglie a distoglierla dai suoi pensieri e farle ricordare che doveva ancora riempire la ciotola alla gatta che, probabilmente, stava raschiando sulla porta e miagolando supplicante in attesa della colazione; quindi aprì frettolosamente il frigorifero e afferrò il cartone del latte, versandone il contenuto necessario per riempirne una ciotola. Il latte era quasi terminato quindi ci metteva un po’ a scendere e ciò non faceva altro che alimentare i pensieri di Serah, i cui occhi sembravano guardare oltre il muro divisorio tra la cucina e il soggiorno, oltre la dimensione della realtà in cui era proiettata: Light meritava di essere felice, anche senza di lei e si biasimava dell’essere così egoista; poi ripensava a quella sera in cui la sua inquietudine era iniziata, di un calore nuovo che aveva suggellato un vero e proprio patto con i suoi peccati una volta repressi, che aveva portato a sentire quasi sporche le sue labbra; la morsa allo stomaco si strinse al punto da salire fino alla gola e mozzarle il respiro, facendole uscire il bruciore che aveva sentito appena sveglia. I suoi occhi erano così appannati dalle lacrime che non si accorse che il latte iniziava a uscire dai bordi, creando un vero e proprio tappeto bianco sotto i suoi piedi.

“Oh no, Serah!” gridò improvvisamente Lebreau, risvegliandola dal suo stato catatonico. Il cartone era ormai vuoto e il latte strabordava dalla ciotola e alcune gocce si erano depositate sulle gambe di Serah, bagnandole un po’. Per un momento, tutto si susseguì in una maniera efferatamente veloce che non riuscì a distinguere le voci, i colori e lo strofinaccio con cui Lebreau stava ripulendo il pavimento.

“Scusa, scusa, scusa… Sono un disastro! Ero… Non lo so, non so cosa mi abbia preso”

Senza guardare Lebreau, mise la ciotola sul tavolo e prese ad agitare concitatamente le mani, portandosele ai capelli, alla fronte di nuovo sudata e poi alla bocca.

“Sono un disastro. Non so come sia potuto succedere… E ora Snow starà morendo di fame, quella povera micetta…”

“Serah, davvero non importa. Può succedere” disse Lebreau, rincuorante. Ma non c’era verso di calmarla: non era il latte a farla reagire così, a trasportarla così vicino a quell’inquietudine da cui non riusciva a trovare sollievo.

“Lo so, è che…”

“Serah…”

Lebreau afferrò saldamente il suo braccio, trovando finalmente un modo per incanalare i pochi rimasugli di autocontrollo rimasti in lei e guardarla abbandonarsi allo sgabello proprio davanti al bancone, su cui erano anche incartate le prelibatezze cucinate dalla stessa Lebreau.

Le diede anche un bicchiere d’acqua e si offrì di portare lei la colazione alla gatta Snow, ma Serah agitò la testa. Ancora una volta, si trovarono ad appigliarsi l’una all’altra; o meglio, era più Serah a vagare alla cieca e Lebreau le offriva solo il suo sostegno.

“Mi spieghi che cos’hai? E’ da ieri sera che sei strana; avrei dovuto capirlo dal fatto che sei andata a dormire subito dopo cena che c’era qualcosa che non andava. Avanti racconta, problemi con Snow?”

“Non è l’unico problema”

“Sì, ma se c’è qualcosa che non va con Snow, a me puoi dirlo, anche solo per sentirti meglio… Insomma lui ti ama…”

“E anch’io”

“Lo so, non metto in dubbio questo. Voglio dire che se c’è l’amore, nulla sarà insormontabile. Forse sei anche tu che la stai facendo troppo tragica”

E, probabilmente, non aveva tutti i torti. Serah abbassò lo sguardo sul piccolo lembo di sgabello lasciato scoperto dalle gambe, preparandosi ad ascoltarla.

“Senti, non voglio intromettermi nei vostri affari, ma Snow ci ha parlato di un… Problema che ha messo a repentaglio la vostra relazione…”

“Ti ha detto così?”  disse una Serah pacata, con lo sguardo ben impiantato nel suo, non come affronto o provocazione, ma come se cercasse quel sostegno di cui non avrebbe potuto fare a meno.

“Non in questi termini, ma io l’ho intesa così…”

“E ti ha detto altro?”

“No, non è sceso nei dettagli e mi è sembrato inopportuno insistere; anche gli altri non sanno niente, anche se Gadot l’ha pressato per una settimana abbondante”

Non lo disse, non se ne rese neanche conto all’inizio, ma Serah fu immensamente grata a Snow per aver mantenuto quel piccolo segreto dischiuso tra le sue labbra e lo spazio sufficiente ad avvicinarle ad altre.

“Già. D’altra parte, penso che il confronto sia essenziale. Io e Snow abbiamo fatto finta di niente per quasi due mesi e ha vanificato tutto il resto, tutte le difficoltà ancora più grandi che abbiamo già affrontato, uscendone più forti di prima. Sono arrivata a credere che l’amore non fosse abbastanza…”

“Ma non è così. L’amore conta, eccome”

“Lo so… Solo che non voglio vederlo fino a stasera; voglio testare la vera lontananza… Non solo fisica”

D’un tratto, Lebreau la vide così: ferma delle sue convinzioni, pienamente cosciente delle sue certezze e il bocciolo fragile che teneva tra le mani, si dischiuse con la stessa rapidità con cui ci avrebbe messo a fiorire; stava poi a lei, assicurarle una rigogliosa vita o una progressiva, agonizzante morte che l’avrebbe rinchiusa in quell’autismo per chissà quanto tempo, sciupando quella meravigliosa sfumatura grigiastra che quella mattina attraversava i suoi occhi.

“Tranquilla, lo terrò a bada io, il ragazzone”

Serah le rivolse un ampio sorriso, stringendole la mano.

“Lo so che lo farai. Sei tosta, tu!”

“Ho i miei momenti, lo ammetto”

Stavolta risero tutte e due, in modo sommesso, per non svegliare tutta la casa. Tutto aveva ripreso i colori di una solita mattina nella casa in cui avrebbe condiviso questo e altro; le piaceva così tanto che quasi dimenticò che forse c’era Snow ad attenderla, impaziente della sua colazione.

Lebreau, intanto, raccattò gli involtini di carta argentata in un angolo del bancone, per fare in modo che non occupassero troppo spazio.

“E questa è solo la colazione…” sospirò, più a se stessa che a Serah.

“E’ quasi crudele il modo in cui ti fanno sgobbare i ragazzi”

Serah rise e Lebreau mise su un broncio di convenienza.

“Mi trattano come Cenerentola. Anzi no… Altrimenti a quest’ora indosserei un bellissimo vestito di broccato e calzerei scarpette di puro cristallo”

“Le scarpette di cristallo a New Bodhum non sono esattamente comode”

“Sì, ma stasera voglio mettere qualcosa di più… Formale”

Formale nel gergo di Lebreau era sinonimo di succinto ed erano entrambe consapevoli quanto l’astuzia femminile facesse presa sugli uomini.

“Sì, ma pensa che devi servire i tavoli, parlare tutta la sera con i clienti, prenderti i loro complimenti, preparare i tuoi piatti deliziosi, facendo sembrare che tu non stia facendo alcuno sforzo”

“Ecco perché ci sono i ragazzi; secondo te, servono solo ad aiutarmi con le ultime cose del bar?”

Lebreau elargì un sorriso che sapeva della malizia femminile di cui Serah aveva tanto sentito parlare; a discapito delle parole, con cui aveva una certa dimestichezza, Serah non si era mai dimostrata eloquente – non esplicita – così come l’amica e risultare ugualmente disinvolta.

“La domanda è… Loro lo sanno?”

“Tra un paio d’ore, lo sapranno”

Risero nuovamente, spaccando il momento in cui la porta d’ingresso cigolò, anticipando un rumore deciso di passi; in uno slancio di follia, Serah pensò che fosse stata Snow, spinta dalla troppa fame, ad aprire di scatto la porta. Invece sullo stipite comparve la compassata figura di Lightning, per niente provata dalla passeggiata mattutina, anzi quelle infinitesimali gocce che imperlavano la fronte davano alla sua pelle un aspetto traslucido, come se fosse una creatura sovrannaturale; Serah le sorrise, con uno sguardo misto di adorazione e devozione.

“Sorellina!” la accolse Serah, senza essere troppo smaniosa.

Light le elargì il primo, bel sorriso della giornata.

“Come è stata la passeggiata?” soggiunse Lebreau, continuando a lucidare il bancone.

“Credevo che fossero già tutti svegli”

Fu Serah a rispondere al posto di Lebreau, un po’ contrariata per il tono duro di Lightning, anche se aveva imparato a conviverci.

“Prima delle sette, non sono mai in piedi”

“Ma dovremmo svegliarli. Un bar non si pulisce da solo”

Detto questo, Lebreau gettò in malo modo lo strofinaccio sul bancone e si passò una mano sulla fronte; sospirò e salì di sopra a svegliare i pelandroni. Lightning la scrutava in un modo che Serah trovava divertente: a occhio, poteva sembrare il suo solito sguardo spontaneamente guardingo, ma dalle sopracciglia leggermente inarcate verso il basso, si nascondeva una giustificazione ben più profonda dei suoi normali meccanismi di difesa. Era pienamente consapevole della poca simpatia che la legava ai membri del NORA, quindi l’amicizia con Lebreau, cementata da quella confidenza necessaria a renderle quasi sorelle, dava fastidio non poco alla protettiva sorella maggiore; d’altro lato, rideva dell’impellente necessità di Lebreau – come di tutti gli altri, Snow in primis – di accattivarsi le simpatie di Lightning, perdendo un po’ la spontaneità e il rifiuto delle convenzioni di cui la stimavano tanto i ragazzi.

Un borbottio di Lightning sfaldò il silenzio che era sceso su di loro, sebbene non fossero per niente a disagio l’una con l’altra.

“C’è quella gattina… Snow, giusto? Ecco, mi sembra ti stia aspettando”

“Snow! Me n’ero totalmente dimenticata…” esclamò un’allarmata Serah, scesa bruscamente dalle nuvole in cui le piaceva rifugiarsi. Solo che non erano grigie come quelle che incombevano nel cielo di Bodhum.

Lightning osservò la sorella prendere velocemente la ciotola, tremando quasi per la frenesia, e camminare a passi piccoli e veloci per non far strabordare il latte, gridando scuse in direzione della micetta; il tutto sotto il suo sguardo apparentemente divertito. Le sue sopracciglia non erano mai state così su.

 

***

 

Snow leccava lo specchio di latte con la sua piccola e rosea linguetta, sotto gli occhi premurosi di Serah che le carezzava dolcemente il retro peloso delle orecchie, che terminavano in una piccola punta. Somigliavano a delle piccole protuberanze triangolari.

Ogni tanto, la gattina miagolava per farle sapere che apprezzava il pasto e per ringraziarla di non essersi dimenticata della colazione nemmeno quella mattina.

Era passato un anno da quando Snow era diventata un membro del NORA a tutti gli effetti e Serah l’aveva vista crescere sotto i suoi occhi increduli: quel piccolo musetto che si alzava ogni tanto per scrutare timidamente i passanti aveva, ora, connotazioni più mature, quasi maliziosamente femminili e solo i baffi erano rimasti sottili e chiarissimi, attraversati solo da quel fascio di luce dorata; le piccole unghie erano cresciute di poco, ma anche se Snow era una gattina piuttosto vivace, era difficile che graffiasse qualcuno senza motivo; era anche assai vanitosa e ogni tanto, quando faceva le fusa a Serah o a Yuj, metteva in bella mostra la folta coda pezzata, assumendo un’espressione tronfia. Ciò che stupiva di più nella piccola Snow era, però, il suo manto maculato e i contrasti che venivano  a crearsi tra le macchie marroni e i loro contorni color caramello – come se fosse un caffè tostato – dipinti su una tela di pelo completamente bianco. Era una gattina eccezionale ed era amatissima dagli studenti di Serah, al punto che era divenuta una vera e propria compagna di giochi. L’unico con cui non andava d’accordo era, paradossalmente, Snow e Serah non era ancora riuscita a spiegarsi perché: in fondo, era stato lo stesso Snow a trovarla e portarla a casa.

Finita la colazione, la micetta prese a fare le fusa vicino alle gambe di Serah, facendole il solletico con la morbidezza del suo pelo e il suono gutturale che le usciva spontaneamente, anche senza aprire il muso; di contro, Serah rideva, divertita.

“Ma sei proprio una brava gattina…”

Fece scendere la carezza dalle orecchie, quelle piccole antenne triangolari  al centro del capo – la parte che le piaceva di più – per poi terminare lungo il piccolo collo rotondo. Snow chiuse gli occhi, beandosi delle coccole della sua padrona.

“E lui è solo un brutto orco cattivo”

Snow miagolò sonoramente: era una sorta di meccanismo spontaneo, innestato quando sentiva parlar male del suo omonimo; una sadica ripicca. E a Serah questo divertiva e non poco.

Frattanto, dietro le sue spalle, la porta si aprì all’improvviso ed ebbe l’impressione che fosse Snow, come se quella silente provocazione l’avesse portato da lei, ma represse il timore quando si stagliò la stoica figura di Lightning, compassata come sempre, che le rivolse un sorriso appena abbozzato.

“Ha finito di fare colazione?”

Il miagolio concitato della gattina fu una risposta più che eloquente. A quel punto, Light si chinò per accarezzarle un po’ le orecchie e riuscì a leggere la delusione nei suoi piccoli occhi screziati di giallo quando vide che il contatto fu così breve. A discapito delle aspettative, Lightning aveva una particolare intesa con la gatta, forse per il comune disprezzo verso Snow, sebbene fosse solo un’apparenza maldestramente celata.

Senza neanche anticiparle nulla con una qualche screziatura sospettosa nello sguardo, Light prese subito a tastare le note dolenti che hanno costellato il risveglio di Serah poiché la chiacchierata notturna con Snow era stata anche una sorta di incoraggiamento, una supplica o una sottile richiesta d’aiuto.

“Serah, ti va di fare due passi?”

Come se si sentisse di troppo, la gattina sgattaiolò via e si nascose all’ombra dei cespugli, probabilmente spaventata anche dal forte sentore di pioggia. Serah si alzò in piedi e, senza rispondere, prese a seguire la sorella e insieme presero a camminare lungo il bagnasciuga di un mare grigiastro, come impregnato della malinconia delle nuvole. In cuor suo, sperava che non piovesse altrimenti l’inaugurazione sarebbe stata rimandata per l’ennesima volta.

Per un po’ non parlarono affatto e tra di loro c’era solo il fragore delle onde che si infrangevano con rozzezza e divoravano i sassi, lo stesso rumore che era sceso su di loro nei primi tempi in cui rimasero sole e non era mai pesata così tanto la reciproca compagnia; questo fin quando Serah non prese, giustamente, l’iniziativa. Ancora una volta.

“Stasera c’è l’inaugurazione del bar di Lebreau. I ragazzi sono tutti indaffarati che penso non li vedremo nemmeno a pranzo. Ci verrai? A Lebreau farebbe piacere”

A Light si strinsero le parole tra mandibola e mascella: non riusciva a capire fino a che punto Serah volesse cercare di evitare l’argomento e quanti giri di parole avrebbe usato. Decise di stare ai suoi tempi, ancora una volta.

“Non mi conosce neanche e dice che le farebbe piacere”

Sapeva un po’ di ipocrisia, a detta di Lightning, che non aveva mai preso in simpatia quella ragazza e la sua cricca; poi si fregiava a sorella maggiore per Serah e ciò le dava ancora più fastidio: le era grata per essere stata una figura materna per lei in sua assenza, ma ora doveva farsi da parte perché non c’era il sangue a legare i loro cuori.

Serah, alle parole ciniche della sorella, roteò gli occhi.

“Andiamo, Light! Viviamo insieme e, se la memoria non mi inganna, una volta ti ha salvato”

“Quella volta era tutto sotto controllo. Stavo facendo il solito giro di ricognizione appena fuori Bodhum e lei e quel tizio con i capelli blu si sono intromessi, solo per aumentare il numero di mostri fatti fuori. Da lì, ho capito che non sono altro che irresponsabili”

“Però, poi, hai cambiato opinione su Snow, lavorando gomito a gomito con lui. Magari la convivenza forzata ti farà cambiare idea anche sugli altri, specie su Lebreau che tiene molto al tuo giudizio. E rispetta il tuo ruolo di sorella maggiore”

“Ironico”, stava per dire Lightning, trattenendosi appena in tempo e limitandosi a elargire uno dei suoi beffardi accenni di sorriso. Si limitò a dirle un compassato “Se lo dici tu” e Serah decise di non dare troppo peso alla sprezzante impassibilità di lei.

Camminarono per un po’ lungo il bagnasciuga, che non era mai stato così grigio, sebbene New Bodhum fosse rinomata per essere una città ridente: probabilmente, non riusciva a reggere i fardelli di una giornata grigia e dei disguidi familiari. Forse non era del tutto colpa della città, ma dell’indolenza dei suoi abitanti che, poco a poco, iniziavano ad affogare nella monotonia: la stessa Light iniziava ad avvertire il peso della nostalgia della sua vecchia quotidianità, fatta di ronde e imprevedibili scampagnate; la pensione non faceva per lei, non ci sarebbe mai andata, nemmeno da anziana. Perfino Lebreau e quegli scansafatiche del NORA, con il loro locale e i loro giochi da paladini della città, avevano una routine più intensa della sua; Serah, sebbene le vacanze fossero iniziate anche per i suoi studenti, passava il tempo ad accudire la sua gatta e aiutare Lebreau in cucina; Snow, per sua somma irritazione, era il più pimpante di tutti, pieno di iniziativa e ingegno, che stava a casa giusto il tempo necessario per mangiare, infastidirla e stare un po’ con la sua futura moglie. Anche se, dopo la sera prima, aveva iniziato a vederlo sotto la luce soffusa di una vulnerabilità che credeva inesistente, un sincero rammarico per essere così se stesso, cosa che lei gli rimproverava spesso. E mentre lui continuava a biasimarsi, lei si sentiva in colpa per essere stata sempre così franca ed eccessivamente sprezzante: Snow non avrebbe mai dovuto pentirsi di essere se stesso, altrimenti le sue giornate avrebbero perso quella nota irriverente che la salvavano dall’inerzia della sua squallida routine.

Serah, notando che sua sorella non diceva una parola sull’argomento, decise di usare un approccio più franco, fermandosi improvvisamente vicino al molo fatto di legno e che scricchiolava a ogni minima folata di vento.

“Sei più pensierosa del solito. Qualcosa non va?”

“Dovresti dirmelo tu, Serah” si lasciò sfuggire, senza provare alcun rimorso per la franchezza che aveva sostituito la compassata discrezione che soleva usare con la sorella minore, per timore di turbarla. Perfino Serah, per un momento, rimase sinceramente colpita dalla brusca sferzata che le arrivò prima alle orecchie, poi in faccia e poi al cuore.

Il vento si insinuava perfidamente tra le due, sibilando come se fosse una serpe e caricando sulle loro spalle tutta la tensione confutata fino a quel momento. Uno di quei sibili sommessi le faceva fischiare le orecchie, come se volesse suggerirle cosa dire.

“Per caso tu e Snow avete parlato ieri sera, quando sono andata a letto?”

“La faccia da cane bastonato non è proprio da Snow e nemmeno un tuo improvviso attacco di narcolessia. Era palese che c’era qualcosa che non andava”

“Se non aveste parlato, adesso saresti a dargliene di santa ragione”

“Ho già fatto i conti con Snow. Mi sembra giusto sentire anche la tua versione”

“Versione? Light, non c’è bisogno di colpevolizzare nessuno”

“Non si tratta di colpevolizzare, sto solo cercando di mettere in chiaro le cose”

Il silenzio si stagliò nuovamente tra di loro, come un muro invisibile che solo le parole potevano valicare. Era evidente che Lightning provava un qualcosa di non molto diverso dalla preoccupazione, se aveva deciso di prenderla da parte e cercare un chiarimento a questa discussione infruttuosa, che aveva assunto connotati davvero ridicoli. Non aveva senso rimuginare continuamente sul passato, altrimenti sarebbe tornata sempre al punto di partenza; eppure, qualcosa frenava Serah e né Light, né Snow, né lei stessa sapevano con cosa aveva a che fare.

Che quella situazione fosse ridicola, però, era assodato o Lightning non si sarebbe mai presa il disturbo di fare da paciere tra lei e Snow, lo stesso ragazzo che riteneva indegno di lei, con il quale – apparentemente – aveva condiviso, forse, più cose di quanto aveva fatto lei in questi anni di fidanzamento.

Stavolta, inaspettatamente, fu Light a prendere l’iniziativa per entrambe.

“Serah, lascia che ti dica questo. Tu ami Snow e su questo non ci piove. E, per quanto mi costi fatica ammetterlo, lui ama te e ci ho messo un bel po’ a capire quanto fosse forte il suo sentimento. L’ho sempre ritenuto colpevole della tua condanna a l’Cie, delle tue sofferenze e delle tue confusioni e ho avuto torto e ragione al tempo stesso. Ma, credimi, incrociarlo ieri in cucina, senza quella vena di ottimismo negli occhi e l’ombra di capelli sul viso… Mi ha fatto pensare che, forse, stavolta eri tu nel torto. Lui ti ha perdonato e ora mi chiedo… Perché non riesci a perdonare te stessa?”

Serah lasciò che il vento le disordinasse ancora di più i capelli, mettendo un freno alle differenze che le hanno sempre tenute distanti, non solo su piano emotivo e lanciò uno sguardo oltre la linea del cielo che rasentava il mare, di un colore indefinibile, simile a uno specchio sporco su cui si rifletteva il grigiore di cui erano sature le nubi.

“Fin quando non riuscirò a perdonare lui, credo che non riuscirò a farlo nemmeno con me stessa” rispose, tenendo gli occhi fissi sull’orizzonte e con voce sommessa.

Light sospirò.

“Sei più cocciuta di quanto immaginassi. Pensavo che fosse Snow quello testardo”

Lo disse con una nota d’umorismo che fece sorridere Serah.

“No… Lui deve sempre sopportare i miei sbalzi d’umore”

“E nonostante ciò, è ancora accanto a te”

“Ci sarà sempre. L’ho capito da quando mi è corso dietro, dopo avergli detto che sono una l’Cie. Nessun altro l’avrebbe mai fatto”

Nemmeno la stessa Light lo fece e si sentì stringere lo stomaco nel realizzarlo, dopo tre anni abbondanti.

“E allora smettila di fare così. Hai un fidanzato che ti ama più della sua stessa vita e, per quanto mi costa dirlo, è un bravo ragazzo e non essere così stupida e impiegare troppo tempo per realizzarlo. E smetti di colpevolizzare te stessa che sei fatta di carne e istinti; ogni tanto è anche sano abbandonarsi a essi”

“Non è stato istinto, Light… Piuttosto, un vero e proprio errore”

“E allora non ha senso rimuginarci troppo. Quel che è fatto, è fatto”

“Ma non dimenticato” disse Serah, sempre più mesta. Light aveva voglia di scrollarle le spalle e forzarla a reagire, ma sapeva che – come Snow – il suo cuore era fin troppo fragile e provato da emozioni che scombussolavano la sua stabilità. O meglio, la loro.

“Snow ci sta provando. Il minimo che tu possa fare, è ricambiare il favore”

Stavolta, riuscì finalmente a strapparle un sorriso che, per quanto triste, sortì un effetto migliore dell’insistenza masochista che non ci confaceva affatto al suo carattere così ottimista. Alzò le spalle come per dire “Ci proverò”.

Light sorrise a propria volta e la strinse, sussurrandole alcune, sporadiche parole di incoraggiamento, sperando che potessero arrivare anche a se stessa. Serah stava al gioco, beandosi degli slanci di tenerezza della sorella che gli erano mancati come non mai; un po’ decise di fidarsi dell’esperienza che gravava sulle spalle della sorella maggiore, il suo unico punto fermo, il suo esempio, e prendere quell’errore come una semplice prova a cui li aveva sottoposti il destino perché ci voleva altro per separare lei e Snow. Però Serah, come quel cielo, sentiva l’impellente bisogno di piangere.

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