The Fallout

di Doineann Liath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Slania ***
Capitolo 2: *** Gemelle ***
Capitolo 3: *** Do you remember? ***



Capitolo 1
*** Slania ***


Era tutto così strano. Sembrava che nessuno mi riconoscesse. Mi sentivo quasi un'intrusa, nel bel mezzo della strada, le macchine non mi colpivano, si spostavano di poco, giusto per farmi sentire lo spostamento d'aria per farmi capire che mi dovevo levare di mezzo, ma per qualche strana ragione non lo feci, ero incantata. Era metà Giugno, ma faceva freddo. Ero l'unica vestita con un abbigliamento quasi autunnale, con il solito chiodo nero, che stava sopra una maglia bianca con un corvo morto: In Flames. I jeans strappati dal colore che oscillava tra il blu scuro e il grigio. Gli stivali neri sporchi di fango. Il berretto di lana nero che portavo sempre in inverno, con il ciuffo ribelle che mi riparava l'occhio sinistro, pieno di dolore. Solitudine. Cosa stava succedendo? Pioveva leggermente. Perché nessuno si rendeva conto di me? Mi avvicinai a due ragazze che ricordavo come ricordavo il mio nome. No, aspetta. Non ricordavo nemmeno quello. Mi avvicinai a loro, se ne stavano all'angolo di una pasticceria. Mangiavano meringhe e paste appena sfornate. Le fissavo con gli occhi vuoti. ".. Che hai da guardare?" mi chiese secca la ragazza con il ciuffo rosso. "Non hai di meglio da fare?" la ragazza con i capelli ricci e neri. Uscii. Camminai con le mani in tasca verso una meta che non conoscevo, ma volevo allontanarmi, scoprire. ... Scomparire. Tutti gli occhi erano su di me. Sentii un fastidio al polso sinistro, alzai la manica della giacca di pelle. Un braccialetto in acciaio, che cercava di coprire qualche vecchia cicatrice. Vi era un'incisione sopra, magari era il mio nome. Slania.

Quella città aveva un che di strano. La gente camminava svogliatamente, con un'espressione in volto che non riuscivo a decifrare. Mi sembrava morta, loro mi sembravano morti. Sfiancati dalla solitudine e dalla depressione, cercavano conforto nel camminare in quella città in cui l'aria traboccava di smog. Ma magari era solo una mia malata impressione, ne ho avute tante. Il mio sguardo si fermò su una madre e sua figlia. Erano in gelateria e la figlia stava mangiando un cono allegramente. La madre la guardava sorridente, mentre beveva un caffè. Non sapevo se quella scena mi desse il voltastomaco o semplicemente mi faceva tenerezza, sapevo solamente che guardarla mi stava facendo del male. La madre baciò la figlia sulla fronte. Mi venne una fitta al cuore. Ah no aspetta. Ma io non ho un cuore. Ripresi a camminare, inghiottendo lo smog, mordendomi le labbra. Era il mio vizio. Vidi un lento, semplice giovane in una strada trafficata con un piattino per la carità nella sua mano tremante. Provò a sorridere ma soffre infinitamente. Nessuno lo nota. Io sì, ma vado via. Poi, ne vidi un'altro, era un vecchio, steso male, a dormire. C'era un cane a tenergli compagnia. Anch'esso dormiva. Notai una bottiglia di Whiskey mezza piena o mezza vuota accanto a lui. Gliela rubai e bevvi. Mi sentivo in colpa, in colpa per tutto. In colpa per non aver risposto a quelle due ragazze, in colpa per non aver offerto nemmeno un nichelino a quel ragazzo, in colpa per aver rubato dell'alcol a chi ne aveva più bisogno di me. Bevvi e bevvi ancora, senza nessun rimpianto. Non riuscivo ad andare avanti senza quel goccio che mi bruciava la gola.

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Capitolo 2
*** Gemelle ***


Poi, notai due figure. Erano due donne, ad occhio mi parvero sorelle gemelle. Si potevano distinguere solo per la maglietta che portavano: una viola, l'altra rosa. Erano ben in carne, avevano i capelli neri e gli occhi del medesimo colore, come due pozzi. Se ne stavano sedute su delle sedia con le mani incrociate, a parlare del più e del meno. Una di loro, stava fumando, come se non ci fosse già abbastanza fumo. Sentivo le loro voci da lontano, erano qualcosa di molto profondo per due donne. Finalmente mi notarono anche loro, sbarrarono gli occhi. La donna con la maglietta viola si portò una mano sul petto e quasi urlò 'Santo cielo! Cosa ci fa questa bela burdela tutta sola? ... Ridotta in quel modo? E con dell'alcol in mano?!' mi prese per un braccio e mi tirò dentro casa, senza darmi il tempo nemmeno di ribellarmi. Aveva una forza sovrumana. 'Sei magrissima..' «Di, se mi metti in confronto con te per forza che sono anoressica» pensai tra me e me senza cambiare la mia espressione vuota, non riuscivo a cambiare faccia. Ero quasi traumatizzata per non so cosa. Come ci ero finita qui? Cosa era successo prima? L'altra donna, la tipa con la maglia rosa, mi squadrò dalla testa ai piedi. 'Oh cielo.. Ma dove sei stata per ridurti in questo modo?' mi chiese preoccupata. '...' non le risposi, guardavo per terra, la punta dei miei stivali. Mi spostò il ciuffo dal viso, fece uno sbalzo indietro: mi mancava un'occhio. Tutto quello che vi era la mia palpebra chiusa e una cicatrice che l'attraversava verticalmente, partendo da sopra il sopracciglio per poi finire all'inizio della guancia. Vi era pure una piccola macchia di sangue ormai secco. Sorrisi, sempre con quell'espressione morta, con l'occhio vuoto e impassibile. Mi riportai il ciuffo al suo posto. 'Diavolo tesoro..' sussurrò la donna dalla maglia viola. Non avevo voglia di chieder loro come si chiamavano, decisi di chiamarle Violetta e Rose. .. Violetta. Quel nome mi risuonava in testa senza darmi pace. Rose mi tolse il chiodo di dosso, lo appoggiò su una sedia e mi invitò a sedere a tavola. Mi sedetti e le due sorelle mi guardarono le braccia. 'Sei stata violentata?'. Violentata? Perché? Solo in quel momento mi guardai le braccia, senza cambiare l'espressione del mio volto. '.. Si.' risposi '.. Da un branco di lupi' era la scusa migliore che mi venne in mente, sperai mi credessero. In effetti, ero ridotta parecchio male. Le mie braccia erano rivestite da grosse cicatrici e tagli profondi che si rincorrevano lungo tutta la pelle, non provavo molto dolore. Magari ci ero abituata. Mi offrirono da mangiare.

'Come ti chiami?' mi chiese Violetta sedendosi sulla sedia davanti alla mia. Intanto Rose era andata a prepararmi del cibo. Riflettei un attimo prima di rispondere '.. Slania' non ne ero del tutto sicura, ma quel nome mi garbava assai. La donna mi sorrise carinamente, sullo sfondo di intravedeva Rose con un vassoio in mano, con un piatto, un bicchiere e un pezzo di pane, delle posate. Vi era una zuppa calda, il bicchiere era pieno di acqua. Era tutto pronto, come appena cotto. Era come se sapessero del mio arrivo. '.. Grazie. Siete veramente gentili. Non dovevate' le ringraziai prendendo il cucchiaio in mano e iniziando a mangiare quella zuppa di farro. Era buonissima, e aveva un sapore familiare. Lontano, ma comunque familiare. Mi fissavano con il sorriso mentre mi sfamavo. Presi il bicchiere in mano, bevvi il liquido. Aveva un sapore orribile. Feci un smorfia di disgusto cercando di non farlo notare alle padrone ci casa, ma sembrava non importasse. Anzi, se la stavano ridendo mentre cominciai a sentire il nulla. Le guardai con l'espressione quasi arrabbiata, un misto di rabbia e paura mi oltrepassò il corpo. Cercai di alzarmi di scatto e correre verso la porta, ma appena in piedi caddi a terra, le mie gambe non si muovevano. Respiravo a fatica, cosa diavolo c'era in quel bicchiere?! Non riuscivo nemmeno a parlare, tutto intorno a me stava prendendo il colore della pece e io non potevo fare nulla per scappare. Mi presi la testa forte tra le mani, mi stava andando quasi a fuoco. Tentai invano di urlare, la voce venne bloccata da un conato di vomito che mi costrinse e sputare il mio stesso sangue. E poi vidi il nulla. Avevo appena iniziato a piangere, lacrime da un occhio, sangue dall'altro.

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Capitolo 3
*** Do you remember? ***


“Che intendi dire con questo?”
“Intendo dire che tutto questo è successo per colpa tua. Sei solamente una sporca puttana.”
Si sentiva potente si, a dirmi quelle cose in faccia, con il tono di voce di una persona sia tranquilla che sicura di se. La stavo cominciando ad odiare. Guardavo il crepuscolo all’orizzonte, sull’orlo di pietra di quel monte. Era inverno, la neve veniva calpestata dolcemente dai miei stivali, scricchiolava con un suono veramente dolce e pure. La neve era il bianco, il contrario del nero, il colore dei miei giorni. Neri.
“Mi dici così solamente perché non riesci a trovare un motivo logico” mi girai un po’ per guardarla con uno sguardo penetrante, volevo congelarla con il colore dei miei occhi.
“Tu non capisci proprio niente” le urlai contro. Eco.
Se ne rimase zitta, si limitò a sghignazzare sotto i baffi. Provava un gusto incredibile, nel vedermi distrutta e senza nessuna speranza. Lei, ha costruito i giorni più belli della mia vita, ma bastava sempre un mattone fuori posto, del cemento fatto male, un colpo, per far crollare tutto sulle mie spalle. Il suo sadismo ricordava quello di un demone.
“Sei proprio una stupida illusa” cominciò a parlare, avanzò di qualche passo per avvicinarsi a me. Quando me la ritrovai davanti protese il braccio verso la mia spalla, lo appoggiò e si avvicinò con il volto.
“Sei andata dietro ad altre persone perché eri sola. Non sei capace di amare. Da quando io non sono più con te hai cominciato a cercare gente che perfino odiavi. Sei così carina quando sei disperata lo sai?” sorrise quasi appiccicata al mio volto, un sorriso sadico, carico di stronzaggine.
“Loro non ti hanno mai amata come ho fatto io. Ne tanto meno quella ragazza. Come si chiamava? Isara?”.
Quel nome non poteva essere pronunciato da delle labbra sporche di menzogne e odio come le sue. Non poteva.
“.. Statti zitta”
“E perché mai? Sai benissimo che ho ragione” mi sorrise di nuovo, mi sfiorò le labbra un attimo con le sue “Non hai idea di cosa provassi per te”.
“BALLE!” la spinsi via con forza in avanti. Cadde a terra ma non si fece niente, si rialzò subito, corse contro di me.
Cercai di indietreggiare per tenermela lontana, ma quando con il piede sentì il bordo della pietra e con le orecchie i sassi che si sgretolarono, capì l’orribile situazione in cui mi trovavo.
Mi saltò poi addosso, stringendo le sue mani intorno al mio collo, forte, troppo.
Si avventò contro di me. Cademmo. Sembrava quasi che mi stesse abbracciando mentre mi conduceva in quell’abisso che era la mia morte, o la nostra. Qualcosa mi trapassò la carne della schiena. Quella bestia teneva un coltello nascosto nella manica della giacca. Tentai di non urlare, soffocai quel grido nella trachea, strappò con forza la lama dalla mia carne, del sangue le finì sulla guancia.
“Era tutto così fottutamente perfetto per finire bene vero?” quel suo sguardo non l’avevo mai visto, sembrava per davvero un demone. Gli occhi parevano sgorgare lacrime di odio, stava piangendo, non mi pareva vero. Lei non piange per me. Non ha mai pianto davanti ai miei occhi.
“NON MI HAI MAI MERITATA!” mi gridò davanti al viso, pugnalandomi di nuovo, al petto.
Finì con il gridare, quella discesa sembrava non dovesse finire mai. Quella persona, che si definiva la mia Salvatrice, si stava rivelando tutt’altro. Mi stava uccidendo, voleva liberarsi di me…
Così tutti i suoi problemi sarebbero scomparsi per sempre. Caricò di nuovo il braccio, la lama di quel coltello si conficcò nel mio occhio sinistro. Andò molto in profondità, poteva quasi sgretolarmi le ossa. Premette poi con tutte le forze che aveva, con la mano tremante e le lacrime che continuavano a rigarle le guance. Non la riconoscevo più, non era più lei stessa. Che le era successo?
L’oggetto affilato venne allontanato dal mio volto. Mi portai le mani sulla palpebra che stava sgorgando un lago di sangue che si liberava poi nell’aria fredda di quel giorno autunnale. Gridai di nuovo. In quell’urlo che traboccava di odio, rabbia, dolore e profonda tristezza. Tornai a guardarla per quel poco che ci vedevo ancora, la mia visuale era leggermente sfocata dalla nebbia.
La attaccai, mordendole violentemente il collo, vicino alla spalla. Avevo il suo sangue dal sapore divino in bocca, si espandeva bene sulla lingua in modo che potessi cogliere ogni minimo gusto e densità. Gridò anche lei, finalmente la sua voce straziata rimbombava nell’aria, faceva quasi paura, pure a me. Quel sangue era dannatamente dolce..
“Ti ricordi cosa eravamo? Ti ricordi?”

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