Ti dedico tutto

di Aqua24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cor-Cordis ***
Capitolo 2: *** Tempo per riposare ***
Capitolo 3: *** Clichè ***
Capitolo 4: *** Muore tutto, no? ***
Capitolo 5: *** Cervo e cacciatore ***
Capitolo 6: *** Piangi ***



Capitolo 1
*** Cor-Cordis ***


Noemi.

1.

Sono sempre stata una ragazza debole, considerata forte dalle persone con cui mi relazionavo.
Ero considerata forte soltanto perché di fronte agli altri non piangevo, e perché nonostante tutto avevo sempre un grande sorrisone sulle labbra.
In verità potevo crollare in mille pezzi per ogni piccola cosa. Quasi tutto mi feriva, e nessuno se ne accorgeva.
Avevo pochi amici e tanti conoscenti, una relazione finita male alle spalle e una in corso altrettanto stressante e dolorosa.
Lui, Lorenzo, era un tipo mezzo schizzato dal vaffanculo facile, fumava, beveva e dio solo sa quante canne tirava al giorno.
Era poco più grande di me e mi portava, il sabato, in giro con la sua "banda".
Da lì presi il brutto vizio del fumo... E di tutto il resto.

Nacquero in me due personalità molto diverse, in forte conflitto fra loro.
Una che mi diceva di fare la "cattiva ragazza", di farmi rispettare. L'altra che mi diceva di frenare, di smetterla perché ferivo lei.
Lei, Marilisa, il mio angelo custode. Vivevo i giorni in perenne stress dato da questa confusione infernale, e cominciavo a trattar male un po' tutti quelli che mi capitavano sotto tiro.
E Marilisa era sempre lì.
Paziente, dolce, comprensiva.
Come quel giorno vicino alle vacanze di natale.

Eravamo nella sua camera, io intenta già ad andarmene.
"Mi dici cosa ti ha detto, per favore?" chiese ancora lei.
Parlavamo di un nuovo litigio tra me e Lorenzo.
"Si è semplicemente incazzato perché non voglio andare a letto con lui."
"Ti sembra una cosa normale?"
"No. Non lo è."
"E allora cosa hai intenzione di fare?"
Rimasi in silenzio, guardando il vuoto, appoggiata con la schiena alla sua porta.
Mi lasciai scivolare a terra.
"Noemi?"
Mi richiamò, ma non sapevo cosa dire.
Sentivo la voce rotta, bloccata in gola, i pensieri diventare un cumulo di parole senza senso, e non riuscivo a rimetterle insieme per creare una frase di senso compiuto.
Cosa avevo intenzione di fare?
Non lo sapevo neanche io, per quello rimasi in uno stato di trance finché non vidi il volto mezzo preoccupato di Marilisa a pochi centimetri dal mio.
Mi veniva da piangere, ma ricacciai indietro le lacrime e la guardai negli occhi.
"Ti senti bene? Vuoi un po' di acqua e zucchero? Ti gira la testa?"
Sorrisi delle sue premure.
Lei era così, ed era quello di cui più avevo bisogno.
"Sto bene." mormorai alzandomi e dandole un bacio sulla guancia. "Però adesso vado."
"Si sta facendo buio, vuoi che ti accompagni?"
"No. A domani." Le diedi le spalle e me ne andai.

Non fumavo da circa una settimana, l'effetto si sentiva.
Il freddo mi pungeva le guance mentre, a passo svelto, tornavo verso casa.
Trattare in quel modo le persone poco mi piaceva, specialmente trattare in quel modo Marilisa.
Con quella freddezza strana che ogni tanto mi prendeva, come se fossi incazzata con il mondo intero.
Non lo ero, non lo ero affatto.
Ero incazzata con me stessa, con quel mio essere stupida, con quel mio bloccarmi a metà e non sapere dove andare.
Avanti o indietro?
Destra o sinistra?
Nei momenti di sconforto cercavo le braccia di Marilisa e mi ci immergevo, restandoci anche per delle ore.
Erano il mio porto sicuro, ed io mi comportavo come se valessero merda.
Che rabbia, cazzo, che rabbia.
Il cellulare mi vibrò nella tasca mentre entravo in un tabaccaio, ed io lo lasciai vibrare bellamente.
Uscii con le Camel in mano e ne fumai immediatamente una.
Il cassiere non aveva fatto storie, dietro i capelli folti e la barba nascondeva due occhi azzurri e stanchi.
Chissà se odiava la vita monotona che faceva, o se odiava se stesso tanto quanto io odiavo me.
Sentii il fumo scendere e riempirmi i polmoni, era quasi magico come potevano tranquillizzarmi così velocemente.
Presi il telefono e vidi la chiamata persa: Mari.
Le scrissi un messaggio, poi tornai a casa, a testa bassa, il cuore dolente e il respiro appesantito.
Non avevo mai sentito così tanto freddo in vita mia.

"Scusami. Ci vediamo domani.. Ti voglio bene"


Marilisa.

1.

Latino. Cor-Cordis. Nome neutro della terza declinazione. Significa cuore.
E le persone ce l'hanno un cuore?
Mia madre più o meno - potrebbe mangiarmi se solo le chiedessi di frequentare chi non le garba. Mio padre forse - ci sono periodi in cui può gridare per giornate intere senza riuscire a concludere un discorso di senso compiuto.
Il mio ex-fidanzato sicuramente l'aveva, quando me ne sono innamorata, perché mi prendeva la mano sull'autobus durante una gita.
Ora invece penso l'abbia perso, quando mi saluta con un cenno del capo.
Noemi sì, il cuore l'ha, e anche grande. Solo che vorrebbe non averlo, quando io invece la ringrazio sempre per ogni battito.
Io non so se ce l'ho.
A volte mi sembra di sì, quando mi commuovo per i film che principalmente non hanno nulla di commovente; quando guardo le coppiette smielate che si sbaciucchiano nei vicoli e arrossisco e sorrido automaticamente; quando mi metto seduta sul balcone e me ne sto giornate intere col naso dentro al cielo.
Altre volte invece non so nemmeno cosa sia, il cuore.
 Come quando mi sale la rabbia e grido così tanto da far spaventare mia nonna malata di cuore o mento per sentirmi migliore e giusta agli occhi degli altri o semplicemente vedendo una coccinella mi ingegno per ucciderla in modo più fantasioso che la solita scarpa sul capo.
E allora mi faccio paura.

Mi sono fatta paura la sera stessa in cui Noemi mi aveva raccontato del settantaduesimo litigio col suo pseudo-fidanzato.
Lorenzo. Che io chiamavo Tramaglino per l'omonimia col famoso personaggio del romanzo di Manzoni - è questo ciò che studio ed è di questo che vivo, di personaggi immaginari e caratteri platonici.

Sentii rabbia quando appresi che l'unica cosa che voleva fare quella sottorazza di drogato era portarsela a letto. Portarsi a letto la mia Noe.
Portarsi a letto la mia Noe, far vagare le mani sul suo corpo, farla propria con brutalità e sicuramente senza la dolcezza di cui avrebbe avuto bisogno.
"E allora cos'hai intenzione di fare?" Probabilmente queste parole le ringhiai come un cane cui hanno tolto la ciotola del cibo, perché Noemi cedette alla mia rabbia e si accasciò alla porta.
Dopo la rabbia, lo so, viene il rimorso. Ma Noemi del mio rimorso non se ne fece nulla perché io fui lenta a porgerglielo. Lei andò via prima ancora che io potessi anche solo dirle "mi dispiace, non ci ho visto più" o, in alternativa, "ti schiaccerei la testa tra due coperchi per pentole".
Prima che io potessi allungare la mano per sentire cosa volesse veramente lei.

In quell'istante avrei voluto buttare giù qualcuna delle rare porcellane che aleggiano in casa mia. Stupirmi del rumore cristallino di quando toccano terra, tagliarmi i polpastrelli coi cocci nel raccoglierli.
Invece la chiamai.
Dopo tre squilli chiusi. Uno, due, tre trilli gutturali bastano per capire che non sei desiderata, soprattutto a causa della probabile menata che le avrei fatto.

"Va tutto bene. Domani mattina vado a cercare dizionari di greco. Fatti sentire. Ti voglio bene."


NA (Nota Autrice)
Ciao caro lettore/cara lettrice!
Innanzitutto voglio porgerti un enorme grazie per aver letto questo primo capitolo di una storia a cui tengo molto, anche se appena nata.
Mi piacerebbe sapere anche cosa ne pensi, quindi se saresti così gentile di lasciare una recensione te ne sarei doppiamente grata.
Grazie in anticipo, spero di aver catturato la tua attenzione.
:)

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Capitolo 2
*** Tempo per riposare ***


Noemi.

2.

Ho un ricordo, di quand'ero bambina, che mi ha sempre fatto un certo effetto.
Un ricordo molto vago, di mia madre alla finestra a guardare i fuochi, mentre io stavo sdraiata nel lettino dell'ospedale.
Mia madre.
Era sempre stata una figura presente nella mia vita, dalla prima ferita sul ginocchio alla più recente ferita sul cuore.
Mi amava, come nessun altro può fare, come io neanche potessi immaginare.
Ma allora perché, negli ultimi tempi, era così spenta?
Con la testa bassa, i capelli neri dalle prime sfumature bianche che le coprivano il volto.
Non c'era più dialogo, nè uno sguardo, nè un abbraccio.
Non avevo mai afferrato il motivo di quell'improvvisa freddezza, ma mi aveva travolta come un'onda inaspettata mentre stai facendo il bagno: una botta secca, ed ero preda della corrente che mi lasciava senza fiato.
E mio padre.
Mio padre era passivo in tutto quello che facevo, erano rari i momenti in cui si comportava realmente da padre.
Mi guardava, mi scrutava, una muta accondiscendenza della quale avevo preso il callo.
Vedevo i miei coetanei lamentarsi di quanto i loro genitori gli stessero troppo addosso, con le loro stupide attenzioni e inutili coccole.
E mi veniva una rabbia così grande che mi faceva paura.
Ma loro non avevano idea di quanto fosse disarmante uno sguardo vuoto di una madre, di quanto fosse distruttiva l'assenza perenne di un padre, di quanto una ragazza appena quindicenne cresca a metà con il rifiuto dei propri genitori di darle il calore di una famiglia vera.
E di quanto fosse ancora forse più straziante non capire il motivo di quel silenzio.
Avevo forse sbagliato?
A volte, avevo voglia di sbattere i pugni sul tavolo della cucina e di dire tutto quello che provavo, di quanto fosse difficile non sentire più l'amore che c'era prima, di quanto l'atmosfera natalizia si fosse dissolta in una foschia di spaventosa insensibilità, di quanto quell'albero pieno di lucine sembrava invece spento ed inutile.
Persino la gatta poteva sentire quello che succedeva, e se ne stava dormiente nel suo angolo del letto, senza intralciare.

Il dolore che sentivo al petto ogni volta che litigavo con Lorenzo non era neanche lontanamente paragonabile al dolore che provavo nel vedere mia madre salutarmi con un cenno del capo.

Quando quei pensieri mi offuscavano la mente e la vista, avevo solo voglia di sentire Mari, l'unica vera ancora di salvezza.
La chiamai in tarda mattinata, in una crisi di pianto spaventosa.
Quasi le gridai contro di venire da me, non regolavo i singhiozzi che mi spezzavano le parole, ne la velocità con il quale le facevo uscire, ne tanto meno l'intensità.
E sì, forse uscirono con un impeto un po' troppo esagerato, ma la casa era vuota ed io mi sentivo sola.
La cosa che più volevo era un abbraccio, mi avrebbe tranquillizzata ancora meglio di un calmante.
Forse la spaventai, perché la sua voce tremò dall'altro capo del telefono, ma fatto sta che in quindici minuti il citofono suonò e lei corse da me.

Fu una specie di visione, qualcosa di assolutamente piacevole, un fascio di luce nell'oscurità.
Come quando ti svegli di soprassalto, credendo che siano le sette e devi prepararti, invece scopri che sono le quattro di mattina e hai ancora tempo per riposare: era quello Marilisa.
Tempo per riposare, per calmarmi, per stare in silenzio e far stare in silenzio anche i mille pensieri che, nella mia testa, si mandavano a fanculo a vicenda.
Era quasi magnifico accasciarmi sul pavimento congelato tra le sue braccia, dapprima piangendo a dirotto, e poi ritrovando la regolarità del respiro, dei singhiozzi, dei pensieri.
Allora tutto tornava a girare normale e mi stupivo ogni volta. Mi ritrovavo a ridacchiare nella sua stretta e lei rideva con me, dicendomi: "Ma ridi o piangi fammi capire?" 

I momenti belli delle giornate con lei erano quelli.
Quando, dopo esserci sfogate, ridevamo a crepapelle.
Scendemmo per strada e la accompagnai a cercare i dizionari di greco.
Ogni volta, uscivo dal suo abbraccio rinata, un po' frastornata e stanca, ma mediamente felice.
Mi chiedevo se glielo mostravo mai quanto realmente tenessi a lei, e speravo di sì. Speravo che lei riuscisse a capirlo quando la sorprendevo sotto casa la mattina con un sorriso e dei cornetti, quando l'andavo a prendere sotto scuola, quando le offrivo il pranzo, quando la guardavo e sorridevo.
Anche quando facevo la stupida, e dopo un buffetto rideva e si metteva a fare la stupida con me.

Non potevo credere che un'amicizia potesse arrivare a quei livelli: quando senti il cuore pieno di felicità se lei è felice, quando ti senti distrutta se la vedi piangere, quando scoppi d'affetto se ti abbraccia.
Ringraziavo sempre per averla accanto, perché senza sarei caduta in mille pezzi, e nessuno mi avrebbe mai sentita. 


NA
Salve!
Innanzitutto benvenuto in questo secondo capitolo.
Che dire? È decisamente molto introspettivo, ho deciso di presentare subito il carattere un po' debole di Noemi e di mostrare la sua situazione familiare, molto importante nella storia.
Il prossimo capitolo sarà unicamente di Marilisa, così, per disegnarle un pochino meglio.
Dovrebbe essere pubblicato in giornata, ma non so.
Beh, lettore/lettrice, spero di vederti tra le recensioni.
Fa sempre piacere sapere i pareri altrui. >w<
Ciaaaaau~

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Capitolo 3
*** Clichè ***


Marilisa.

3.

Si chiama Tommaso. Ha diciotto anni, io solo quindici.
Non è un ragazzo bellissimo, non somiglia ad un principe Disney dalla calzamaglia azzurra e i sentimenti puri, ma nemmeno al bullo trasgressivo e testa di cazzo che piace tanto alle ragazze di Geordie Shore.
Ha gli occhi scuri e i capelli disordinati, le guanciotte piene ricoperte da una sottile barbetta sporadica e il sorriso facile.
Non che mi scatenasse in testa chissà quali pensieri sconci tipo me e lui come famiglia con due bambini, tre gatti, quattro cani, cinque giraffe, sei elefanti e sette bollette da pagare al mese.
Però era simpatico. Come si dice adesso, "mi interessava".
Soprattutto perché l'avevo conosciuto in un contesto strano: io con una gamba rotta, sei mesi fa, e lui della Protezione Civile, giovane ma disponibile e senza pretese, che m'aiutava a salire le scale di casa mia, la prima volta con le stampelle, e l'ultima, quando ormai camminavo abbastanza bene, mano nella mano.

"Mari, domani non ho impegni. Neanche dopodomani. Tu- sei libera? Voglio dire, vuoi uscire? Niente di che, magari andiamo al cinema, ti piace Star Trek?"
Avrei voluto avere una polaroid al collo e scattare l'istantanea del suo viso, rosso ma deciso, come se si fosse gasato con tre bottiglie di Sprite.
Avrei voluto dire che sì, non avevo mai un cazzo da fare, che ero libera, domani, dopodomani, tra una settimana, un mese, un anno.

"Devo- posso pensarci un attimo? Ti telefono al più presto.
...Mi piace Star Trek."

Non me la tiravo. Per nulla, anzi.
Non ho mai pensato di essere interessante, né per gli amici, figuriamoci per i ragazzi. Non ho mai creduto di poter essere invitata ad uscire per un appuntamento.
Fondamentalmente, credevo che la mia vita amorosa si sarebbe svolta come un film di bassa categoria: alla festa del diploma bevo troppo, vado a letto con un perfetto sconosciuto, rimango irrimediabilmente incinta e lui deve sposarmi per forza, così rovino la vita di entrambi, e vissero infelici e scontenti.
Oppure avrei sposato una donna e saremmo vissute in un loft a Madrid. Non è un segreto che io sia bisex.
Non per me, almeno; per i miei genitori sì, altrettanto per i miei amici. E credevo di potermi trovare bene solo con una donna, a dire la verità.

E invece Tommaso mi ha rivoltata come un calzino sporco.
Non sono abituata -non lo sono mai stata- alle attenzioni, soprattutto a quelle di un ragazzo.
Alle medie ricordo che se il mio fidanzato di allora mi mandava un messaggio dove chiedeva i compiti del lunedì, io arrossivo. Perché aveva dato fiducia a me anziché ai suoi molteplici amici. Perché mi aveva scelta.
Alla fine, con lui feci una cosa che non mi aspettavo nemmeno io: lo lasciai dolcemente, per non farlo rimanere male.
Scoprii dopo che a lui non fregava una minchia.
E che io invece soffrivo. Non tanto per la sua perdita, ma perché non avevo più quel punto di riferimento che il mio cuore chiedeva.

Non ho mai capito a fondo l'amore - ma cosa avrei potuto capire, dopotutto, dopo soli quindici miseri anni di vita?
Non riuscivo ad essere abbastanza sincera con me stessa e con le mie emozioni- c'è sempre stato troppo casino, dentro di me, da non riuscire nemmeno più ad ascoltarmi.

Noemi invece mi ascoltava come io non facevo e non avrei fatto mai. Con attenzione. Con empatia.
Se capitava che durante un discorso io mi lasciassi andare e piangessi, lei capitolava a ruota, cercando di calmarmi; e solo quando poi io ritornavo a stirare le labbra all'insù, lei smetteva di avere gli occhi lucidi e le guance bagnate.
Le ho raccontato tutto, o quasi, di me.
Anche il marcio. L'ho ammonita molte volte.
"Noe, io non sono l'amica che tutti desidererebbero. Ti deluderò, no, ascolta, ti deluderò molte volte, non farò le scelte giuste che salveranno entrambe, abbasserò gli occhi quando tu vorrai incontrare i miei, mi fermerò quando tu correrai. Però migliorerò.
Te lo prometto."

E lei è voluta rimanere. Lì, al mio fianco. Quando spezzavo le matita per la rabbia, quando le stringevo i polsi con possessività, quando avevo il naso rosso dal pianto e quando vomitavo per l'ansia.
Non avrei mai saputo dirle grazie abbastanza, perché lei riusciva ad amarmi anche quando io non lo facevo.

E Tommaso era una decisione troppo importante per la mia povera testa leggera. Ci voleva Noe, la sua cioccolata calda del bar, i suoi capelli colorati, le sue dita che spiegavano il concetto all'aria.
I suoi occhi generosi. Il suo sorriso sincero.
/Mi/ ci voleva Noe.
Più di quanto mi sarebbe potuto servire l'ossigeno.

Lei era un cliché. Lei era il mio ossigeno.

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Capitolo 4
*** Muore tutto, no? ***


Noemi.

4.

Non avevo mai visto né sentito i miei litigare.
Erano sempre stati il simbolo di coppia ideale per me.
Qualcosa che mi sussurrava: "Credici che l'amore esiste".
Infatti non me l'aspettavo.
Il rumore che sentii quella mattina mi fece congelare il sangue nelle vene.

Mi svegliai al tintinnare di cocci caduti.
Quando poi andai a controllare, non vidi altro che la porta principale chiudersi e mia madre svanire in camera da letto.
Ecco, ora: fondamentalmente la prima frase non è del tutto falsa.
I miei genitori non hanno mai litigato gridandosi brutte parole, né hanno mai nascosto il loro affetto dai miei occhi.
Quindi fu tutto molto strano.

Il piatto stava in frantumi sul pavimento.

La vigilia di Natale ormai era alle porte, e la mia famiglia si stava sgretolando sotto i miei occhi.
Come quel dannatissimo piatto.
Ancora mi chiedevo: "E' colpa mia?" e nessuno rispondeva.

Ripulii accuratamente il pavimento di tutti i pezzi taglienti e non, poi raggiunsi la stanza di mia madre.
Mi accostai alla porta, aprendola piano piano.
La stanza era buia e silenziosa.
Sentii mia madre muoversi sul letto, tirando su col naso.

Avrei voluto chiederle se papà la stesse lasciando.
Avrei voluto chiederle se fosse stata colpa mia.
Avrei voluto chiederle tante cose, se quell'anno il natale lo avremmo passato dalla nonna, o con gli zii, oppure non ci sarebbe stato nessun festeggiamento.

Silenziosa richiusi la porta e andai nella mia stanza.

Non avevo la forza di fare nulla, nemmeno di piangere.
Spensi il cellulare e guardai il soffitto per delle ore.
Chissà se si sistemerà tutto, mi dicevo, o se si separeranno.
Chissà se si siano stufati l'uno dell'altra.
Mamma sicuramente no.
Mamma lo amava ancora, papà. Perché se non l'avesse amato ancora non avrebbe pianto.

Mi ritrovai a chiedermi perché.
Perché dovevano separarsi?
Erano una coppia così bella.
Allora decisi di parlarne, e la sera stessa li riunii in salone.

Mamma aveva il viso stanco, segnato dalle rughe, gli occhi rossi e ancora umidi, i capelli neri e scompigliati.
Papà era una lastra di ghiaccio, con le sue guance piene e pallide, nascoste da una leggera barbetta, le labbra piccole con gli angoli all'ingiù, gli occhi verde scuro che scappavano dai miei, senza ombra di sentimenti.

"Volete separarvi?"

Domandai.
Subito quelle parole parvero tagliare in due lo stomaco di mia madre, che si contorse sul divano e chiuse gli occhi, sospirando.
Papà rimase impassibile.
E allora ancora.

"Volete separarvi?"

Con più decisione, più carattere e più voce.
Esisto, gridai dentro me stessa, esisto che vi piaccia o no.
Mia madre scosse la testa e richiuse il viso nelle mani.

"Nonna sta morendo."

Annunciò papà, e il tono di voce tradì la sua espressione distante. Era ad un passo dalle lacrime, e forse lo ero anch'io.

"E comunque non lo sappiamo, ancora."

Aggiunse, in risposta alla domanda precedente.
Mamma se ne andò, così anche papà.
Si alzarono silenziosi come due fantasmi e scomparvero in qualche angolo della casa.
Non li seguii con lo sguardo, mi rannicchiai sulla poltrona e guardai un punto lontano.
Mentre tutto mi cadeva davanti.

Nonna moriva, in quell'istante, e un po' morivo anch'io, insieme all'amore dei miei.
I fiori accanto alla tv appassirono, e la luce del sole si spense all'orizzonte.
Allora muore tutto, no?
Muore tutto.

E Marilisa?
Morirà anche lei?
Non intendo di vecchiaia.
Morirà il nostro affetto?

E Lorenzo?
Lorenzo per me era già morto da tempo.

E Mila?
La gattina, che ora si strofinava contro i miei piedi, lascerà morire il legame che abbiamo stretto in cinque anni?

Qualcosa mi si strinse forte nel petto, e mi costrinse a singhiozzare.
Ancora, e ancora, e ancora.

Se muore tutto, che vivi a fare?

Quando andai a dormire, decisi di non parlarne con nessuno.
Neanche Marilisa avrebbe saputo che tutto muore, e che la mia famiglia fosse ad un passo dal baratro.
Decisi in qualche modo di sotterrare il dolore per quando ero con lei.

Ma in qualche modo il dolore riemerge.
Sempre. Sempre.
In qualsiasi modo.
Sotto qualsiasi forma.

Con me riemerse in maniera molto strana.
Mi riemerse addosso.
Che maniera stupida di riemergere.
A poco a poco.
Uno in più ogni sera.

Se qualcuno mi avesse chiesto "Perché?" non avrei saputo rispondere.
Non c'era un perché, era un modo per il mio dolore di non lasciarmi mai.

Forse esageravo.
Ma finché lo nascondevo, e lasciavo che facesse male solo a me, non importava.
Finché passavo le giornate con un grande e falso sorriso, non importava.
Finché sentivo ancora il calore negli abbracci di Mari, non importava.

Non importava finché qualcuno non mi avesse chiesto di mostrare le braccia.

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Capitolo 5
*** Cervo e cacciatore ***


Marilisa.

5.

La neve ad Enna in periodo invernale era sempre stata cosa più unica che rara.
E quella mattina, quando mia madre mi svegliò dicendo "Marilì, talé com'è bianco il balcone!", io seppi, in cuor mio, che qualcosa sarebbe cambiato. In meglio o in peggio, poco m'importava; almeno sarei sfuggita dalla vita solita con qualcosa d'insolito, e mi sarei messa per l'ennesima volta alla prova, sgomitando per uscirne vincitrice, perlomeno con una medaglia di bronzo.
È come quando tu hai un presentimento, una sorta di premonizione che ti fa somigliare più ad una veggente che ad una quindicenne infreddolita- sai che qualcosa accadrà, e aspetti solamente che ti si pari davanti per sorridere e mandarlo allegramente affanculo.

"Noe, mamma mia, hai visto? Copriti bene e vieni da me, dai- domani è il ventitré, magari usciamo e ci lanciamo qualche palla, ma oggi arricampati.
Ti aspetto. Oh, tutto a posto? Va bene. A dopo."

Approfittai del fatto che i miei genitori fossero usciti a comprare qualche copertone per le ruote che resistesse bene al gelo, e in meno di venti minuti Noemi era già alla mia porta, con un paio di guanti da bambina e una sciarpa colorata al collo.
Al telefono l'avevo sentita con una voce grave e quasi preoccupata -come da un paio di giorni a questa parte-, ma appena la vidi sorridermi, si sciolsero tutti i miei dubbi come, appunto, neve al sole.
Avrei dato oro, argento e mirra, la mangiatoia con compresi il bue e l'asinello per vederla felice- anche se, col senno di poi , i suoi sorrisi continui e ampi mi parsero schifosamente finti.
Lo capii dalle sue labbra rosa e chiare dal vento e dal freddo che si tesero all'insù per l'ennesima volta, mentre i suoi occhi marroni non fecero lo stesso.
Rimasero lì, paurosi, fermi, quasi vacui, immobili e rassegnati- e a questo non ero pronta.
Non era lo stesso sorriso che mi rivolgeva quando, dopo scuola, si presentava davanti al portone con una scatola di dolciumi vari e, vaffanculo alla dieta, due bottiglie di coca-cola come pranzo; non era certamente lo stesso sorriso che le spuntava fuori all'improvviso quando guardavamo fino allo sfinimento le puntate di Sherlock sulla BBC, per giunta in inglese, senza capirci un'acca; non somigliava per nulla al sorriso che le rimaneva in viso per un'intera giornata se prendeva un buon voto in latino, se Lorenzo le inviava un messaggio dolce, se vinceva una partita a Ruzzle contro di me, se le riusciva un pezzo alla pianola senza errori, se la sua gatta le si strusciava contro facendo le fusa.
Non era il sorriso che mi ero abituata a vederle tra le labbra praticamente ogni giorno, mentre mi prendeva la mano e mi portava in giro chissà dove, e i suoi occhi si allargavano e s'illuminavano come le lampadine nuove dopo un black-out, scorrendo veloci sul cielo terso.

Mi lasciai ingannare, in un primo tempo, dalla sua aria tranquilla e allegra, e per questo non indagai quanto avrei dovuto.
Le proposi di fare i biscotti, come tempo fa, da accompagnare alla cioccolata calda.
L'anno scorso li facemmo a Febbraio, mentre ancora c'era così tanta nebbia da non sapere dove poggiare il piede: la frolla riuscì molla e debole, che in forno quasi bruciò, e alla fine mangiammo le brioche kinder- sicuramente meno casalinghe o salutari, ma almeno di un colore decente che non in un nerastro translucido e, soprattutto, vagamente digeribili.

Stavolta tutto sembrò andare piuttosto bene - le giuste dosi di latte, farina, lievito, era semplice e pareva una formula matematica -, e noi scherzavamo sull'idea di aprire un canale di cucina sul digitale terrestre, fare un paio di puntate, incassare i soldi e poi girare il mondo alla ricerca dei migliori ristoranti del mondo, per rapire gli chef e costringerli a cucinare per noi.
Era un progetto abbastanza buono, a dire la verità.

Noemi non si alzò le maniche della maglia pesante e grigia che portava quando cominciammo a rompere le uova, né quando le chiesi di maneggiare la farina, col rischio che la sporcasse.
Aggrottai la fronte e glielo consigliai.
"È un peccato se te la macchi! Quest'impasto è peggio dell'olio, sai?"
"Sto bene così, sento un po' freddo."

La neve fuori cadeva copiosa, ma in casa il caldo dei termosifoni accesi prontamente si poteva tagliare con un coltello, e, anzi, era addirittura soffocante!
La cosa non mi convinse ancora di più quando la maglia rimase sulle sue braccia anche mentre stendeva la frolla con il mattarello.

E qui feci una cosa di cui mi vergogno ancora ora- se fossi stata ferma, se non avessi avuto quella idea geniale, se mi fossi accontentata delle sue parole, probabilmente non avrei sofferto così tanto insieme a lei, e magari si sarebbe risolto tutto in più poco tempo.

Mi avvicinai a lei e, velocemente, le presi un braccio, alzandole la manica fino al gomito, con un'aria soddisfatta.

"Oh, vedi, non è megl-"

La frase mi si spezzò in gola, come se qualcuno mi avesse appena affondato un taglierino sul collo.

Le sue braccia erano rosse. Rosse dai tagli sottili e precisi che spiccavano sulla sua pelle, leggermente in rilievo, e secchi di.. sangue?
Le sue braccia erano rosse e le mie, invece, erano pallide e chiare come quelle di un malato.
Le sue braccia erano rosse e lei soffriva, lei provava dolore, lei piangeva e io invece stavo bene, ero felice, ridevo.
Le sue braccia erano rosse ma lei rideva, le mie braccia erano bianche e io piangevo.

La guardai col terrore negli occhi, stringendole il polso per non farla scappare.
Come un cervo che ha appena visto il cacciatore.
Perché, le chiesi, con un filo di voce, e lei non mi rispose.
Glielo chiesi di nuovo, a voce più alta, gridando.
Perché. Perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché.

"Perché tanto tutto muore."

E in quel momento morii dentro un po' anch'io.

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Capitolo 6
*** Piangi ***


 
Noemi.
 
6.
 
Non ero pronta per quello.
Marilisa stringeva forte il mio polso, come per reggersi e non cadere.
Cazzo, cazzo, cazzo.
Perché le avevo risposto in quel modo?
Non lo so.
 
Cazzo.
 
Aveva scelto il braccio sbagliato da scoprire.
Guardai timidamente Mari, mentre cercava di articolare le parole, perdendo fiato e perdendo il tempo, boccheggiando, con le guance rigate di lacrime che in quell'istante mi parvero dense, come lacrime di sangue.
Continuava a chiedermi perché, a dire se faceva male, diceva che serviva del disinfettante e delle garze, si guardava intorno freneticamente.
Mi lasciò il polso e si allontanò, aprendo quelli che sembravano mille armadietti, cercando solo lei sapeva cosa.
 
Le orecchie mi fischiarono mentre intorno il mondo abbassava il volume.
Mi sembrava di stare in una bolla.
Non lo negherò, ero triste. La mia copertura era saltata miseramente nel giro di pochi giorni.
Il sorriso non serviva più, perché avevo tradito la promessa fatta a me stessa.
Ora Marilisa sapeva il mio segreto e le mie idee, quando invece non doveva andare così.
Per quello mi rinchiusi nella mia bolla, chiudendo il mondo fuori.
 
Marilisa era più piccola di me.
Anche se solo di qualche mese, io l'avevo sempre vista come una bambina.
Avevo giurato a me stessa, tempo fa, di proteggerla da qualsiasi male avesse potuto infliggerla.
Avevo giurato che mai le avrei fatto del male io stessa.
 
E avevo fallito, ancora, miseramente.

Le avevo addossato per mesi e mesi i miei dolori, senza pensare ai suoi, senza pensare al meglio per lei.
Le avevo addossato responsabilità enormi, che lei non doveva avere sulle spalle.
Mi diceva sempre che potevo contare su di lei, ma non era così.
Io, quasi sedicenne, mi vedevo passar via la vita di fronte agli occhi.
Crescevo troppo velocemente, non mi godevo i miei anni, pensavo al peggio, odiavo un po' tutto e un po' tutti.
Lei no, lei non doveva.
Lei non avrebbe dovuto crescere in fretta.
Lei avrebbe dovuto godersi i suoi pieni quindici anni, avrebbe dovuto assaporare felicemente un gelato in estate senza pensare di ingrassare e diventare brutta, avrebbe dovuto guardarsi allo specchio e sorridere, avrebbe dovuto non piangere mai.
 
E io. Io avrei dovuto solo tenerle la mano, accantonare il dolore, le menzogne, il buio.
Invece ce la tiravo dentro con forza, mentre lei cercava di tirarmici fuori.
 
In quel momento, lo vidi: risucchiate insieme nel buio più totale.
Avevo fallito.
 
Fallito.
Fallita.
Fallimento.
Egoista.
Incompetente.
Stupida.
Immatura.
Non andrai da nessuna parte.
Rovini la vita alle persone.
Rovina la tua.
Fatti del male.
Piangi.
E' quello che ti meriti.
 
Crollai a terra, con le parole che mi echeggiavano nella testa, avrei voluto gridare fino a farmi andare via la voce.
Invece rimase in ginocchio, con la testa fra le mani.
Piansi, Dio quanto piansi, mentre Marilisa cercava disperatamente di tirarmi su, di stringermi a lei.
 
La spinsi via, trascinandomi in un angolo della cucina.
Non volevo più nessuno accanto, non sapevo prendermi cura delle persone. Non sapevo prendermi cura neanche di me stessa.
 
"Noe..."
 
Mormorò lei.
Alzai il viso, con i capelli attaccati alla fronte per il sudore, alle guance per le lacrime, e alle labbra appena socchiuse.
La guardai con gli occhi che speravo le raccontassero tutta la storia per me, ma lei ammutolita mi guardava dall'alto senza capire.
 
Aveva il viso rosso, gli occhi da bambina spaventata ancora pieni di lacrime che scendevano lente, le labbra che tremavano come tutto il resto del suo corpo.
Principalmente era lei la ragione per cui ancora lottavo, per il suo viso rotondo, e gli occhi neri che parlavano da soli.
Ma non avrei mai sopportato vederla star male come era stata male in quel momento.
 
Mi alzai in piedi, leggermente rintronata.
Gli occhi bruciavano come se qualcuno ci avesse infilato due fiammiferi accesi.
Mi abbassai la manica del maglioncino e guardai la cucina. 
La farina, la pastafrolla e il mattarello erano a terra, come decine e decine di medicinali.
Una boccetta di vetro si era rotta, e il liquido marroncino si disperdeva per le mattonelle.
 
Sembrava che un uragano avesse appena attraversato la cucina, e invece eravamo state noi in un attacco di panico.
Lei, più che me. Io ero... io... non lo so.
 
"Che fai?"
 
Mi chiese con un filo di voce quando mi rimisi addosso il cappotto, la sciarpa e il cappello.
Non riuscii a risponderle.
Sentivo la voce morta impiccata fra le corde vocali.
 
Una visione un po' lugubre.
 
Mari mi fermò, prendendomi un lembo del cappotto mentre facevo per uscire.
 
"Forse..." Cominciai con la voce rauca.
 
Non so poi cosa successe esattamente, ma lei mollò la presa, senza staccare gli occhi dai miei.
La mollò lentamente, come se qualcuno l'avesse messa in slow motion.
 
Chiunque stesse giocando con le nostre vite, rallentandole e accellerandole, rovinandole, ricostruendole e rovinandole nuovamente, era solo un sadico di merda.
Ma quale Dio, quale Gesù, quale religione.
Quando due quindicenni cadono in un baratro senza apparente ritorno, in chi bisogna credere?
Ma anche quando un bambino muore di tumore, un padre di famiglia muore sul lavoro, una nonna piena di energie se ne va...
 
Corsi giù per le scale, senza salutarla.
Scesi in strada mentre la neve cadeva ancora copiosamente e la nebbia ricopriva l'orizzonte.
Non so precisamente perché stavo correndo, né dove stavo andando.
Volevo solo fuggire un po', quanto bastasse per riordinare i pensieri che ancora vorticavano vertiginosamente nella mia testa.
Mi gettai a terra qualche isolato più lontano da casa di Marilisa.
 
Nella tasca del cappotto avevo ancora un pacchetto di sigarette, con mia sfortuna solo tre all'interno.
Le fumai una dietro l'altra, dovendo poi fare i conti con un forte mal di testa e respiro pesante.
 
Arrivata a casa mi buttai sul letto, senza salutare nessuno, con ancora addosso il cappotto pieno di neve. 
Sentii il cellulare vibrare, ma non avevo la forza di prenderlo. Non avevo la forza di fare niente.
Squillò per circa mezz'ora, quando decisi di rispondere.
 
"Noemi, dannazione, perché non hai risposto?" La voce di mio padre traboccava di rabbia e dolore.
"Scusa." Mormorai.
"Scusa un cazzo." Rimasi in silenzio, ascoltando per quelli che sembrarono secoli le grida arrabbiate di papà, che preferisco non riportare. Poi il silenzio, che si ruppe in un suo sospiro. "Nonna se ne è andata, io e mamma torniamo tardi. Buonanotte."
Agganciò.
 
Tremante mi alzai a sedere, appoggiando il telefono sul comodino. Scossi velocemente la testa mentre le lacrime riprendevano a scendere di nuovo.
In quel momento, mentre nella mia mente continuavo a ripetermi che fosse tutto un brutto sogno, che non era possibile che nonna se ne fosse andata, mi accorsi di quanto silenziosa fosse la mia casa.
Mi accorsi che l'unico rumore erano gli spifferi del vento che trapassava le finestre mezze rotte del salone.
Continuai a piangere, pentendomi di non aver fatto visita a mia nonna prima, a quell'anziana donna che era stata come una seconda madre, che non si smentiva mai, che aveva ancora la forza per portare tre buste della spesa per tre piani.
Mi sdraiai sul letto, cercando di non pensarci, cercando di guardare il lato positivo. Non soffriva più, almeno lei, non soffriva più.
 
Avrei voluto non soffrire più nemmeno io.
Avrei voluto gettarmi giù dalla finestra in quel preciso istante.
Poi ricordai il viso di Marilisa, e avrei avuto voglia di picchiarmi da sola per le scemenze che andavo pensando.
 
Decisi di chiamarla, ma lei non rispose, così le lasciai un messaggio in segreteria, sperando che prima o poi l'avesse sentito:
 
"Scusami..."

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