Via del Campo.

di giulina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Via del campo- ***
Capitolo 3: *** Un matto. ***
Capitolo 4: *** Amore che vieni, amore che vai. ***
Capitolo 5: *** Gli uomini. ***
Capitolo 6: *** Il fannullone. ***
Capitolo 7: *** L'amore perduto. ***
Capitolo 8: *** Un malato di cuore. ***
Capitolo 9: *** Il cantico dei drogati. ***
Capitolo 10: *** E fu la notte. ***
Capitolo 11: *** Per i tuoi larghi occhi. ***
Capitolo 12: *** Dolcenera ***
Capitolo 13: *** La canzone di Agata. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


 

 

                     Via del Campo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


"..non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole
le tue labbra così frenate nelle fantasie dell'amore
dopo l'amore così sicure a rifugiarsi nei "sempre"
nell'ipocrisia dei "mai"..." 

-Verranno a chiederti del nostro amore, Fabrizio De' Andre-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Del fumo si sta alzando lentamente dal fondo di una tazza di ceramica rossa sbeccata sul bordo vicino al manico e con ancora il prezzo attaccato sopra.
Accanto alla tazza, su quel tavolo di acero o di pino –non è mai stato bravo a distinguere i vari tipi di legno- c’è un pacchetto di sigarette Marlboro con ancora la pellicola e un accendino antivento blu vicino. Ci sono dei fogli scarabocchiati da lui e delle dita grassocce –all’anulare c’è una fede d’oro bianco- che tamburellano su un foglio di alluminio sporco di maionese e pomodoro, dove qualche minuto prima c’era un panino al prosciutto cotto.
- Posso? -
- Prego - risponde l’uomo in divisa, facendo strusciare il pacchetto di sigarette vicino alla mano del ragazzo seduto davanti a lui. Ha una lettera in corsivo tatuata sul dito medio. Non riesce a capire di che lettera si tratta.
Il ragazzo tiene in mano per qualche secondo la sigaretta fine e poi se l’accende senza ripensamenti. Fa il primo tiro, poi il secondo e al terzo incomincia a tossire senza riuscire a fermarsi.
L’agente in divisa chiama a gran voce il brigadiere Sandro Pucceddu che sta osservando la scena da dietro il vetro della porta socchiusa. Ha qualche lentiggine sul naso, troppo grosso per quel viso quasi da bambino, e la cravatta allacciata alla perfezione. Probabilmente il nodo glielo ha fatto sua madre quella mattina.
- Pucceddu -
- Comandi, signore! -
- Portami un po’ d’acqua. -
- Naturale, frizzante, gassata? Temperatura ambiente o fresca? Magari con un po’ di ghiaccio? -
- Pucceddu, siamo per caso al Ritz? -
- No, signore ma… -
- Acqua. -
Pucceddu se ne va con le guance chiazzate di rosso mentre il ragazzo seduto sulla sedia di plastica nera cerca di placare la sua gola in fiamme. Ha una lacrima al bordo dell’occhio destro.
Si mette a ridere quando vede lo sguardo preoccupato dall’uomo e le rughe sulla sua fronte sudaticcia.
- Era la prima volta che fumavo - confessa, spegnendo la sigaretta sul foglio bianco scarabocchiato da lui. Della cenere gli rimane sul pollice e lui lo inizia a strusciare con l’indice, lasciando che l’odore del fumo gli rimanga tra le dita, nella pelle.
Guarda la sigaretta spegnersi lentamente come un amore, come un pensiero, come la speranza. Parla mentre continua a fissare il filtro scuro e umido della sua saliva.
- Io non avevo mai fumato prima, ma lei, lei fumava tanto, invece. Non mi ha mai detto quando ha iniziato a fumare ma io penso che appena uscita dall’utero di sua madre avesse una sigaretta in mano. Ogni volta che la vedevo in giro per casa con una sigaretta tra le labbra mi veniva in mente questa scena buffa e irreale. Ce la vedevo con il pannolino e la sigaretta che invece di giocare con i pupazzi si faceva un Chinotto con suo padre... se mai avesse un padre. Non mi ha mai detto nemmeno questo. -
- Non la conosceva bene, questa ragazza? - Chiede Roberto, pulendosi le dita sporche di salsa su un tovagliolo che tiene nella tasca dei pantaloni neri troppo stretti per il caldo che c’è in quella stanza piccola, con il ventilatore in un angolo che non riesce a rinfrescare nessuno.
Il ragazzo sorride ed incrocia le braccia al petto.

Indossa una camicia a quadri sopra una maglietta a maniche corte bianca sporca di terra, probabilmente. Ha dei begli occhi, pensa l’uomo. Forse sono grigi o forse azzurri. Ci sono anche delle pagliuzze verdi vicino alla pupilla, se ci si fa particolarmente caso.
- Sì, la conoscevo bene, per quanto si possa conoscere bene una come lei. Era la classica persona che voleva sapere tutto di te –non facendolo notare apertamente- ma che non diceva niente di sé. Lo sa che non mi ha mai detto quando era il suo compleanno? Ho cercato i suoi documenti per anni... poi c’ho rinunciato. Decisi che il suo compleanno sarebbe stato il 6 febbraio –come quello di Axl Rose, non so se ha presente- e ogni anno le facevo una torta che sapevo non avrebbe mangiato. -
Roberto arriccia il naso e corruga un’altra volta la fronte. Il brigadiere Pucceddu intanto è entrato silenziosamente nella stanza e ha appoggiato sul tavolo un bicchiere di acqua insieme ad un tovagliolo di carta leggermente stropicciato.
Ha ascoltato in silenzio le parole di quel ragazzo, provando una punta d’invidia per non sa nemmeno lui cosa.
- Pucceddu! -
- Comandi! -
- Questa è acqua tonica! -
- Crimonisi ha finito quella naturale, dice che per la sua nuova dieta deve bere almeno tre litri di acqua al giorno. C’era solo questa nel frigorifero… -
Il comandante Roberto Simi lo caccia dalla stanza e si pulisce stizzosamente la bocca. Incrocia le braccia, scoperte dalla camicia, sul tavolo e guarda negli occhi il ragazzo, sospirando.
- Aveva un nome, questa ragazza? -
- Sì, ma io non la chiamavo mai per nome. -
- E come la chiamava? -
- La Grandissima Stronza. -
- Ed è per questa... signorina, che ieri ha fatto quel che ha fatto?-
- Forse. -
- Sarà una storia lunga da ascoltare? -
Il ragazzo sorride toccandosi lo zigomo destro ancora arrossato e dolorante.


Forse.







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Capitolo 2
*** Via del campo- ***







ATTENZIONE: prima di questo capitolo c'e' un prologo che non viene visualizzato subito perche' stato aggiunto in seguito. Controllate di leggere prima quello.




                                           



                                          Via del Campo.

 

 

 


Ama e ridi se amor risponde 
piangi forte se non ti sente 
dai diamanti non nasce niente 
dal letame nascono i fior 
dai diamanti non nasce niente 
dal letame nascono i fior. 



-Via del Campo, Fabrizio De Andrè-

 

 

 

 

 

 

 

 

Accanto alla sua mano destra stava passando una formica. Una di quelle nere con la testa rossa e le antenne lunghe. Sua nonna diceva fossero le formiche del diavolo, ma lei non ci aveva mai creduto.
Portava sulle sue minuscole spalle una mollica di pane che aveva trovato sul davanzale di quella finestra di periferia dai vetri sporchi e le persiane blu. Solo per un attimo, Agata aveva pensato cosa ci potesse fare una mollica di pane sulla finestra, poi il pensiero era stato velocemente cancellato.
La formica aveva sfiorato il suo dito medio e a passo svelto era sparita lungo il muro bianco, ridipinto qualche anno prima, e poi dietro il termosifone acceso.
Lei si era piegata lentamente sulle gambe e aveva strizzato gli occhi scuri per vedere al di là della ceramica bianca del calorifero.
La formica era scomparsa.
-Piove-
-Ho notato-
-Piove da giorni-
-Ho notato anche questo-
-Ma non hai notato che mi sono tagliato i capelli-
-Certo che l'ho notato, ma volevo evitare di dirti quanto in questo momento tu sembri affetto dall'alopecia-
Lui si era passato veloce una mano vicino all'attaccatura dei capelli, cercando di abituarsi all'assenza dei riccioli che ogni tanto si impigliavano tra le sue lunghe dita sudate quando era nervoso.
Se li era tagliati solo qualche giorno prima, probabilmente in un momento di noia o di pazzia. Aveva preso le forbici per tagliare il pollo che teneva in bagno, vicino allo spazzolino da denti, e davanti allo specchio rotondo nell'ingresso, aveva iniziato a tagliare.
Un ricciolo alla volta. Lentamente.
-Sono bello lo stesso-
-Sei bello anche pelato-
-E se mi facessi allungare la barba? Così la gente capirebbe che non ho l'alopecia-
-Però sembreresti buddista-
-Perché, i buddisti hanno la barba?-
-Forse. Guarda, sono arrivate-
Leo, così si chiamava quel ragazzo dalle ciglia lunghissime e un minuscolo tatuaggio sul dito medio, spalancò la finestra, incurante della fine pioggerellina che gli bagnava la pelle e la manica sinistra della felpa. Entrambi si appoggiarono con i gomiti sul davanzale di marmo, osservando con gli occhi leggermente socchiusi una finestra spalancata al terzo piano del palazzo giallo di fronte al loro.
Due donne -una alta e formosa, dai lunghi riccioli neri e l'altra bassa con i capelli biondi legati in una treccia laterale- entrarono nell'appartamento e dopo pochi minuti si affacciarono alla finestra che i due ragazzi stavano osservando da un po', accendendosi una sigaretta.
La mora aveva tirato fuori dalla tasca dei jeans un accendino rosso e l'aveva passato alla donna affianco a sé senza una parola.
Avevano fatto qualche tiro, si erano guardate negli occhi per qualche secondo e poi si erano baciate. Un bacio semplice, a fior di labbra.

Di quelli che si danno ad occhi aperti, spalancati, fissandosi nelle pupille come se queste potessero parlare.
Di quelli che ti fanno venire voglia di ridere.
Quando il bacio era finito, avevano sorriso timide, forse imbarazzate.
E venti euro erano volati nelle tasche bucate del ragazzo.
-Vaffanculo-
-Non essere volgare-
-Non voglio sapere come lo hai capito-
-Cosa? Che fossero amanti?-
Una formica -pancia nera e testa rossa: le formiche del diavolo!- stava risalendo lentamente il vetro bagnato, portandosi sulle spalle una briciola di pane. Agata osservò i suoi movimenti attentamente, cercando di non sbattere le ciglia allungate con del mascara comprato in saldo al supermercato. Gli occhi le iniziarono a pizzicare per lo sforzo.
-L'ho capito da come si guardavano qualche giorno fa-
-E come si guardavano?-
Domanda prevedibile.
Leo aveva alzato una mano e l'aveva sbattuta con violenza contro il marmo freddo e umido. 
La formica era scomparsa, un'altra volta.
-Come io guardo te-
Questa volta per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Note dell'autrice:




Io non sono una persona normale, con idee chiare, ispirazione sempre presente e voglia di scrivere.
Sono una persona la cui ispirazione molte volte se ne va in vacanza alle Bahamas -dove vorrei essere io- che ha le idee confuse, tanto ma tanto confuse, e soprattutto non sa nemmeno lei cosa vuole scrivere e cosa le piace.
Questa storia non avrà molti capitoli (o forse ne avrà tanto, chi lo sa!) ma per ora mi piace, parecchio. Non saranno dei personaggi semplici da manovrare e soprattutto, non saranno solamente due i protagonisti di questa nuova follia. Ce ne saranno di matti, non vi preoccupate.
Spero che questo piccolo piccolo prologo vi sia piaciuto, io intanto sto già scrivendo il primo capitolo.
Un bacio grandissimo..anzi, più di uno!
Giulia.


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Capitolo 3
*** Un matto. ***



                                       

Questo capitolo è puro delirio, vi avverto!

Ringrazio con tutto il mio cuoricino le persone che hanno letto, commentato, hanno inserito tra i preferiti e i seguiti e mi hanno fatta emozionare tanto. Siete delle persone meravigliose, magari ce ne fossero di più come voi <3

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Un grazie speciale va a Triggola che ha fatto quest'immagine e che già ama Leo.

Grazie, noce di cocco.

Tuo, budino.

 

 

 

 

 

 

                                            

 

 

 







Le mie ossa regalano ancora alla vita: 
le regalano ancora erba fiorita. 
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina 
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina; 
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia 
"Una morte pietosa lo strappò alla pazzia". 


-Un matto, Fabrizio De Andrè-

 

 

 



Si stava tagliando le unghie dei piedi.
Seduto scomodamente sulla sedia di plastica rossa nel cucinotto, Leo, tagliaunghie alla mano sinistra, stava osservando il suo piede con una particolare attenzione: aveva le dita più brutte di tutto il mondo.
Sua nonna Paola, quando era bambino, gli raccontava spesso che suo zio Fabrizio aveva i piedi talmente brutti che non si levava i mocassini nemmeno al mare.
Quel difetto lo aveva ereditato da suo zio, Leo ne era certo.
Sul fornello dietro di lui, a fiamma bassa, stava cuocendo il coniglio alla cacciatora che aveva preparato accuratamente qualche ora prima. Ascoltava distrattamente con un orecchio il rumore del sugo al pomodoro che bolliva sul fondo della pentola e con l'altro, il telegiornale di mezzogiorno trasmesso dalla televisione in salotto.
Qualcuno era stato ucciso, qualche vecchietta derubata, un'azienda era fallita e la vip del momento si era presa la sifilide.
-Ti ci vuoi mettere anche un po' di smalto?-
-Ce l'hai rosso vermiglio?-
-Non sarebbe meglio rosso veneziano?-
-Che ne dici di un cremisi?-
-Terra cotta?-
-Mhm non so, stonerebbe con il colore dei peli sulle mie gambe- E così dicendo, aveva allungato una gamba in direzione della ragazza e si era alzato il pantalone del pigiama a righe fino al ginocchio.
I suoi lunghi e biondi peli erano un qualcosa di tremendo. Così antiestetici!
Agata fece una faccia disgustata arricciando il naso arrossato alla punta.
Leo si era alzato per andare a controllare il coniglio sul fuoco ed aveva lanciato un'occhiata distratta fuori dalla finestra dietro l'acquaio, colmo di piatti sporchi e bicchieri usati con il segno di un rossetto rosso sul bordo.
Stava piovendo, di nuovo.
In quel momento, una formica -pancia nera e testa rossa, sempre loro!- camminò a passo svelto vicino alla sua mano, cercando di passare inosservata e arrivare sana e salva dall'altra parte del bancone dove, probabilmente, la stavano aspettando le sue compagne.
-Ma tutte queste cazzo di formiche da dove diavolo vengono?-
Ed era sparita sotto il suo palmo. Pace all'anima sua.
-Se la tua casa è un porcile non è colpa mia-
-Ti va di venire a vivere qui?-
Agata gli aveva lanciato un'occhiata significativa e si era portata un chicco d'uva verde alle labbra screpolate.
-No-
-Dai, ti pago se vuoi. Mi pulisci casa e facciamo l'amore tutto il giorno. Non ti sembra un ottimo compromesso?-
Agata non gli aveva risposto ed era uscita dalla cucina con due grappoli d'uva, una mela e due banane tra le braccia.
-Fammi almeno la lavatrice, lo sai che non la so fare!-
Il volume della televisione si era alzato sovrastando la sua voce alla fine della frase.
Leo, sorridendo, si era rimesso ai fornelli e aveva infilato un dito nella pentola per assaggiare il sugo.
Buonissimo.
Aveva preparato due piatti e si era spostato in salotto, seduto sul divano di pelle blu vicino a lei.
La televisione trasmetteva un cartone animato giapponese. Non era male.
Avevano finito di mangiare in silenzio e il ragazzo aveva riportato i piatti in cucina, non pensando minimamente di darli una sciacquata.
Si era seduto sul divano mentre Agata sbucciava una mela con un coltello seghettato che se non ci stavi attento potevi rimetterci qualche dito.
Lui l'anno scorso si era quasi tagliato il mignolo.
-Facciamo l'amore?- Chiese con la voce quasi annoiata, appoggiando il capo sulla spalliera.
Lei l'aveva guardato per qualche secondo, interrompendo il suo preciso lavoro di sbucciatura, e gli aveva risposto: -No-
-Dai! Non so cosa fare!-
-Pulisci-
-Puliamo nudi?-
-Ho il raffreddore-
-Se vuoi lo facciamo sui fornelli. Ogni tanto li accendiamo così ci scaldiamo!-
Agata si era alzata dal divano lentamente, aveva raccolto la buccia della mela nelle sue mani e, guardandolo negli occhi tristi gli aveva risposto: -No-
Leo si era allungato sul divano e aveva incominciato ad agitare mani e piedi come un bambine capriccioso, affondando il viso nel cuscino di piume d'oca costato un occhio della testa, biascicando parole a mezza voce.
-Ecco perché non voglio venire a vivere con te: sei pazzo-
Leo aveva sorriso. Era vero, era davvero pazzo.






Si conoscevano da ormai due anni quando Leo aveva deciso improvvisamente di trasferirsi. Era passato un anno e otto mesi dal loro primo bacio, un anno e cinque mesi dalla prima volta che si erano visti nudi e un anno e qualche giorno da quando Agata aveva capito di aver a che fare con un matto.
E che anche lui non aveva di certo fatto un grande affare mettendosi con lei.
Era un pomeriggio di ottobre, o forse dicembre, e Leo le aveva chiesto di andare a vedere insieme un appartamento in città -un affare con i fiocchi e contro fiocchi!-, le aveva detto emozionato al telefono.
Si era stancato di vivere nella casa che le aveva lasciato il suo defunto nonno. Voleva una casa che sapesse di pulito e avesse le pareti dipinte con colori sgargianti, un giardino dove potesse piantarci il bonsai che aveva vinto alla fiera del paese l'anno prima e una sedia a dondolo da mettere sul balcone.
Leo aveva sempre desiderato una sedia a dondolo, affermava che quando ci si sedeva sopra, si sentisse molto più saggio.
Quel pomeriggio visitarono l'appartamento al terzo piano di un palazzo rosso insieme ad una donna sulla cinquantina che li aveva affibbiato l'agenzia immobiliare a cui si era rivolto il ragazzo.
Si chiamava Pamela. Nome da puttana. E forse, un po' puttana lo era pure.
-Allora, che ne pensate?- Li aveva chiesto sorridendo, allargando le braccia come se potesse abbracciare la casa. In quel modo, Leo aveva notato le enormi gore di sudore sotto le ascelle della donna. Era rimasto leggermente disgustato.
-Cosa ne pensi?- Aveva chiesto alla ragazza accanto a sé.
-Non so..carina-
-Carina?-
-Sì, carina. Colorata-
-Non è magnifica? Fantasmagorica? Magasuperwow?-
-Non inventarti le parole- Lo aveva ripreso Agata, accendendosi una sigaretta vicino all'ingresso deserto.
-A me piace da impazzire. Mi tromberei il frigorifero! L'hai visto com'è bello?!-
-Non essere volgare- Aveva risposto la ragazza, lasciandosi trascinare per un braccio in cucina.
In quel periodo Agata non era la Agata che Leo avrebbe conosciuto qualche tempo dopo. Era una ragazza che non sapeva sorridere.
Il frigorifero giallo era bello, questo lo doveva ammettere. Bello era anche il modo in cui Leo si muoveva tra quelle pareti che cadevano a pezzi sorridendo e ridendo come un matto.
Perché matto lo era davvero.
-Allora? La prendo?-
-Non so, fai te. È casa tua-
-Se vuoi...-
-Se voglio?-
-Se vuoi...può essere anche tua. Cioè, lo so che anche te vorresti trombarti il tostapane- Le aveva detto a voce bassa, sedendosi con un saltello sul bancone vicino all'acquaio. Non la guardava negli occhi e si tormentava la suola delle infradito nere che portava ai piedi.
Infradito a ottobre, o forse dicembre. Solo lui.
-Scusa, penso di non aver capito-
Leo aveva sbuffato e, furioso, aveva lasciato la stanza. Agata gli era corsa dietro con la bocca spalancata.
-Non capisco cosa è successo nell'arco di tre minuti..-
-Non capisci mai un cazzo!-
-Un cazzo?!-
-Scusa, hai ragione, non devo essere volgare. Non capisci mai una sega!-
-Ti esprimi come un idiota!-
-E forse lo sono, per aver solo pensato che tu volessi venire a vivere con me! E dire che ho cercato di chiedertelo anche in modo romantico...-
Agata era rimasta in silenzio per qualche secondo e poi era scoppiata a ridere. Non era una risata felice.
-Affermando che mi sarei voluta trombare il tostapane?!-
-Ho cercato di essere originale!-


La casa Leo l'aveva comprata lo stesso -Pamela la forse donna di facili costumi gli aveva fatto un buon prezzo- anche se Agata gli aveva detto chiaro e tonto che non intendeva andare a vivere sotto lo stesso tetto di un matto con la fissa per le sedie a dondolo.

Non ce l'avrebbe fatta.
Leo le aveva risposto che il tostapane se lo sarebbe trombato lui, insieme al frigorifero.

Era un uomo che non si sapeva accontentare.







 -Facciamo l'amore?-

 -No-

 -Ti prego?-

 -No-

 -Stasera ti faccio le linguine allo scoglio?-

 -Spogliati, veloce-

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Amore che vieni, amore che vai. ***


Buon pomeriggio, anche se per me non è tanto buon.

Sono nervosa come un rinnoceronte e spero che nel pubblicare, un poco della mia rabbia e nervosismo vadano via.

Questo capitolo è metà angst e metà no-sense! Spero comunque che vi piaccia.

Un abbraccio grande grandissimo,

Giulia.


Ah, grazie :)


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Mentre lui le insegnava a fare l'amore lei gli insegnava ad amare.

 

 

 

 -Fabrizio De Andrè-













Spesso, quando Leo e Agata facevano l'amore, lei si metteva a piangere.
Un pianto silenzioso fatto di guance bagnate, occhi rossi e dita che tremavano sulla pelle dell'altro.
All'inizio il ragazzo pensava che piangesse perché non riusciva a raggiungere l'orgasmo. Aveva addirittura pensato di parlarne con un medico. Magari con uno strizzacervelli. Chissà, forse gli avrebbe dato la risposta che tanto cercava.
Intanto, però, Agata continuava a piangere e a lui non rimaneva che asciugare quelle scie salate con le labbra e stringerle forte la mano iniziando a tremare anche lui.
Ad un certo punto, avevano smesso di fare l'amore.
Era stata una settimana terribile, la loro. Litigi e urla ogni santissimo giorno, con porte che sbattevano e cellulari staccati per non sentire la voce dell'altro, per non mettersi a pregare in silenzio o a pronunciare bestemmie.
Un giovedì Agata era andata a casa di Leo per prendere lo spazzolino che aveva lasciato nel suo bagno -vicino alle forbici trinciapollo, naturalmente- e avevano litigato un'altra volta, fino quasi a perdere la voce e a dire cose che non si direbbero mai.


-Vai, vattene! Vattene, stronza! E sai dove puoi ficcartelo quello spazzolino?! Lo sai?!-
-Smettila di fare il bambino, per favore-
-Già, perché io sono il bambino e te l'adulta responsabile che non dice parolacce. Stronza! E lo sai dove devi andare?-
-Leo, sei infantile-
-Devi andartene a fanculo, hai capito?! A fanculo! Te e il tuo spazzolino del cazzo!-
-Sei solo un'idiota, un essere schifoso con il linguaggio di un animale-
-Stai zitta, stronza! Sei Piero Angela?! Lo sei? No! Io parlo come mi pare!-
-Sei una merda..-


Quel giorno di aprile -no, forse era febbraio. Sì, sì, febbraio!- Leo aveva sentito per la prima volta Agata pronunciare una parolaccia.

Per di più merda, la sua parolaccia preferita.
L'aveva baciata di slancio e l'aveva continuata a baciare attaccata alla parete azzurra che avevano dipinto insieme qualche mese prima, quando avevano le mani piene di tinta e le bocche sporche di loro.
Si erano spogliati sul divano blu troppo scomodo e piccolo per fare l'amore, togliendosi a malapena i pantaloni, non riuscendo a staccare per un solo attimo le loro labbra rosse, come il rossetto che ogni tanto la ragazza si metteva quando uscivano insieme. A lei non l'aveva mai detto, ma a Leo piaceva tanto quel rossetto.
Quando era entrato finalmente dentro di lei, Agata aveva iniziato a piangere. E a parlare.
-Sei così bello, bello, bello.. Non mi lasciare, non mi lasciare mai mai mai. Leo, Leo, Leo...-
Ed entrambi si erano ritrovati a piangere e a sorridere mentre i loro petti sussultavano e le gambe si intrecciavano; mentre stavano per cadere dal divano perché un cuscino sotto di loro si era staccato; o mentre era partito l'allarme di casa all'improvviso.
E allora, e allora Leo aveva capito.
Non era un problema di orgasmo, ma solo la paura di rimanere sola.
Leo le promise che l'avrebbe sopportata per sempre e anche oltre, se gli fosse stato possibile, che l'avrebbe tormentata di notte e di giorno, divenendo un po' il suo incubo, sperando che nei suoi incubi sarebbe stato un po' più figo e magari con tanti capelli sulla testa.









-Secondo te un giorno ci sposeremo?-
-Lo dubito fortemente-
-Perché? Io sono un uomo da sposare!-
-Forse se vivessimo in un manicomio. A quel punto, ti direi di sì-
Leo si era alzato dal tappeto della camera da letto completamente nudo e si era rifugiato in bagno.
Agata l'aveva ritrovato una mezz'ora dopo, dentro alla vasca con un barattolo di gelato alla stracciatella tra le mani e un giornale scandalistico posato sulle ginocchia fuori dall'acqua calda.
Agata si era seduta sul water, coperta dal lenzuolo a fiori hawaiani che aveva portato via dal letto.
-Leo..-
-Io sono da sposare. Lo sai cosa mi ha detto l'altro giorno Carletta del banco frutta al supermercato? Che mi vorrebbe presentare alla nipote dodicenne! Ha detto che staremmo molto bene insieme-
-Non penso intendesse farti un complimento..-
-E Giancarlo che vive al pianterreno? Ha detto che la sua badante slovacca, Ludmilla, mi ha notato e gli ha detto che ho un bel naso!-
-Il tuo naso con la gobba?-
-Patrizio! Si dice patrizio!-
Agata si era seduta sul bordo della vasca e gli aveva incominciato ad accarezzare la testa, fermandosi vicino alla tempie, massaggiandole con movimenti circolari. Qualche secondo dopo Leo aveva chiuso gli occhi e si era lasciato coccolare.
-Scusami- Aveva detto con voce pigra -Sono in quel periodo del mese-
La ragazza era scoppiata a ridere e gli aveva spinto il viso nel barattolo di gelato alla stracciatella.
Ne diceva di cazzate.






A cena, era andata a trovarli una loro vicina di casa che abitava al secondo piano, al civico 88.
Si chiamava Bogdana e veniva dalla Russia. Si era trasferita nel 1998 da Borzja per cercare lavoro come badante o babysitter ed era finita a fare la prostituta a Milano, poi a Trapani e infine era arrivata nella loro città. All'inizio del 2000 lavorava come cassiera alla Conad di periferia e aveva cambiato cinque volte colore di capelli, si era fatta due mastoplastiche, aveva avuto tre mariti e fatto due figli -una bambina di colore, Rabah, e un maschio che sembrava mezzo giapponese, Eze-
Quella sera era entrata in casa loro che era da poco uscita dal parrucchiere e mostrava fiera il nuovo rosso acceso sopra la sua testa.
Aveva preparato le tschi -una minestra di cavolo che Leo aveva vomitato in bagno- e poi si era messa a raccontare della sua nuova estetista, delle elezioni in Russia, dell'amministratore del palazzo e delle exstension di Paris Hilton. Non necessariamente in quest'ordine.
Leo nel mentre giocava a ramino insieme a Rabah e teneva sulle spalle Eze, che si divertita ad offenderlo in russo per il suo nuovo taglio di capelli.
Agata osservava la scena indifferente, mentre fumava una sigaretta al tavolo della cucina insieme a Bogdana.
-..finte come mie tette, giuro su Jugoslavia!-
-Che non esiste più-
-Come?!-
-Mi dicevi del nuovo colore di capelli. A chi ti sei ispirata?-
-Uh giusto! Tu piccola palla di peli stavi per farmi scordare!-
-Peli?-
-...a Natalia Hugovzenco! Una pornostar russa molto chic!-
Agata aveva sorriso ed era andata a spegnere la sigaretta sotto il rubinetto che perdeva da ormai qualche mese.
Bagdala la osservava pensierosa da sotto le sua ciglia finte comprate a cinque euro al supermercato.
-Anatroccolo, perché tua faccia così seria? Oddio, tu sorridi poco ma oggi più depressa del solito-
-Voglio smettere di fumare-
-Essere tu incinta?-
Agata aveva fatto le corna e aveva toccato ferro per ben due volte. La donna aveva sorriso e le si era avvicinata stringendola in un grande abbraccio.
-Ti vedo come mamma. Saresti mamma seria ma buona-
-Non mi piacciono i bambini-
Entrambe si erano girate contemporaneamente a guardare quello che stava succedendo in salotto.
Avevano sorriso, mentre il caffè bolliva sul fornello.
-Forse meglio essere che non vi riproduciate-



-Mi fai male, brutto pezzettino di ciccia!-
-Vymyach sala! *-
-Non ti azzardare a tirarmi i capelli, moccioso!-
-budu lysym v techenie dvukh let**-
-Aiha! I capelli! Satana! Agata! Aiutoo-

-Vasha podruga ochenʹ lyubit menya , svolochʹ!-

 

 

 

 

 

 

* Sei una palla di lardo!

** Resterai pelato tra due anni!

***La tua fidanzata ama me, bastardo!

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Gli uomini. ***


Anche dall' Irlanda riesco ad aggiornare e solo perche' vi amo immensamente <3

Un bacio enormissimo,

Giulia.


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Ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero

attraverso l'amore affidando ad un gioco la gioia e il dolore.


-Fabrizio De Andre'-






Quando Leo la vide per la prima volta, Agata era sdraiata sul marciapiede davanti alla farmacia “Dr. Misul&Cocchi” con la testa appoggiata alla saracinesca tirata giù, i capelli legati in una coda bassa, una fascia blu stretta al polso, che vomitava sulla sua camicia rossa a quadri leggermente aperta sul davanti. Leo se la ricorda bene, quella camicia, perché Bogdana ne aveva una simile rosa.
Erano le undici di sera e per la strada non c'era praticamente nessuno, se si esclude il cane lupo con la coda mozzata seduto davanti all'entrata del pub “Le tre Grazie” e un ragazzo di colore che passò di fianco a loro correndo a piedi nudi con il cerchione di una macchina in mano.

Stava ridendo da solo.
Leo aveva tra le mani una busta di plastica bianca con dentro due involtini primavera e il riso alla cantonese che aveva preso poco prima al ristorante cinese nel corso principale.

Gli era venuto un certo languorino verso le 22.30, mentre guardava Scarface alla televisione per l'ennesima volta e, contemporaneamente, ascoltava i novelli sposi turchi del piano di sotto che si stavano offendendo in una lingua a lui sconosciuta, ma che gli sarebbe piaciuto molto imparare.
In quel momento, aveva avuto un'improvvisa voglia di cibo cinese caldo, croccante e che ti sazia.Per questo Leo non si era ancora avvicinato a quella ragazza che stava vomitando pure l'anima sulla sua camicia a quadri.
Lui aveva del cibo cinese caldo, croccante e che ti sazia in quella busta di plastica. 
Con un verso esasperato appoggiò delicatamente la busta per terra e ciabattò con le sue infradito nere -era settembre ed aveva appena piovuto- fino a dove si trovava la ragazza; le si mise alle spalle e le raccolse i capelli con le mani, anche se alcuni ciuffi erano sporchi di vomito. La aiutò a mettersi in ginocchio sull'asfalto bagnato, mentre alcune lacrime scendevano involontariamente sulle sue guance rosse e si schiantavano sulle sue mani dalle dita secche e lunghe.
Leo controllò che respirasse ancora e gettò un'occhiata ai residui della cena della ragazza, sparsi su quel marciapiede logoro. Fece un fischio di approvazione.
-Oh! Anche te hai mangiato riso alla cantonese, noto! Com'era?-
Agata gli fece il dito medio.
Aveva una lettera in corsivo tatuata sopra. Leo se la tatuò identica qualche anno dopo.

 








Leo ripensava a quel momento ogni volta che, per cena o colazione –lui non era il tipo da cappuccino e brioche- ordinava del cibo cinese al ristorante nel corso principale che durante gli anni si era modernizzato e addirittura aveva ampliato il menu’ con ventidue diversi tipi di riso.
Leo era rimasto entusiasta di quella decisione!

-E quindi vuole il divorzio-
-Sarai felice, ne sono certo-
-Un corno! Io la amo Lauretta-
-Si chiama Costanza, tua moglie- 
Leo si appoggiò al divano alle sue spalle e si pulì le dita unte con la salsa alla yogurt sopra il copridivano a fiori. Successivamente le tuffò nella salsa piccante e ci immerse anche una nuvola di drago. I suoi occhi esprimevano tutta la gioia che stava provando in quel momento.
Il signore anziano davanti a lui, tale Aldo di San Giminiano, osservava il ragazzo con il suo unico occhio buono –l’altro l’aveva perso durante la prima Guerra Mondiale, a suo dire, anche se tutti sapevano fosse nato nel 1938- mentre masticava tra i denti piccoli e neri una mentina, nascondendola sotto alla lingua e sul palato, tamburellando le dita grassocce sul tavolo di legno davanti a lui.
-Ma ne sei sicuro?-
-Il pesce fa bene alla memoria. Ti devo cucinare un po’ di merluzzo?-

-Comunque io la amo, anche se mi ha detto che sono vecchio. E che non posso capirla. E che addirittura sto perdendo colpi! Dice che non mi ricordo la data del suo compleanno ma quella di Mina sì. Ma non è ve..-

-Quando è nata Mina?-
-25 marzo 1940 a Busto Arsizio. Se telefonandoo io volessi dirti addio.. ti chiamereeei! Se io rivedendoti fossi certa che non soffri ti rivedreiiii-
Leo sorrise e immerse un’altra nuvola di drago dentro la salsa allo yogurt. Il copridivano era diventato improvvisamente pieno di macchie ai bordi e con un buco enorme su un bracciolo. Era praticamente da buttare, ma Leo c’era ormai affezionato.

Quasi fosse un amico con cui aveva passato giorni e notti insieme, esperienze memorabili e sentimenti mai provati. Era parte di lui. Amava quel copridivano quasi più del frigorifero giallo.



Quando il telefonò squillò Aldo si era già alzato dalla sua sdraio azzurra e aveva ricominciato a cantare quella famosa canzone di Mina dall’inizio. Era proprio amore, il suo.
-Sono minorenne, i miei genitori sono morti, non sono Testimone di Geova, non faccio parte degli Scout e sa dove può ficcarsela la promozione che mi vuole vendere?-
-Ciao-
-Ma ciao caramellina! Credevo che fosse quella Emily di Sky che mi chiedeva di attivare il pacchetto ‘Ti faccio vedere anche tua nonna sotto la doccia’-
-Come se tu non l’ avessi mai fatta la doccia con tua nonna-
-E pure con nonno. Threesome is the way!-
-Porco-
-Cosa stai facendo?-

-Io e Bogdana siamo in pausa, oggi la Conad è vuota, c’è crisi. Lo sai che in Russia oggi c’era la maratona dei 5 Km tutti nudi?-

-Attenti al mal di gola!-
-Aldo è ancora con te?-
-Aldo l’abbiamo perso, carotina. Penso sia sul balcone, sulla mia personalissima sedia a dondolo, che canta Bella senz’anima con la tua crema solare in mano-
Agata riattaccò che ancora sorrideva e Leo percepiva quel sorriso attraverso la cornetta.







Aldo -l’uomo senza cognome- era nato il 12 aprile 1938 a San Giminiano, in Toscana, tra campi verdi, vacche e fiorentini dalla risata facile. Venticinque anni dopo, per puro caso, si era ritrovato in quel paese di poche anime dove avrebbe trascorso tutta la sua vita. Chi ce lo avesse portato non si sa -forse il fato o semplicemente quel camionista di Viareggio che si stava dirigendo a Napoli con una prostituta dai capelli rosso fuoco caricata a bordo- fatto sta che lì, aveva incontrato il suo grande, primo amore. No, non Costanza, la donna che due anni dopo avrebbe sposato. In quel paese dimenticato da Dio, seduto sopra la poltroncina di pelle nera del barbiere, con l’odore del dopobarba alla menta fin dentro alle narici, sentì per la prima volta la voce di Mina.
Quella voce non veniva dalla radio del ’47 posata sopra il mobile di acero, no, quella voce veniva dal cielo.
Da quel giorno, la vita di Aldo cambiò totalmente. 
Sposò Costanza Cucciaro nel ’65 soltanto perché ormai si era rassegnato all’idea che Mina non sarebbe mai stata sua e anche perché cucinava il cacciucco che era una meraviglia. Andarono ad abitare in Via del Campo numero 32 e in quell’appartamento -le cui pareti erano coperte di foto in bianco e nero dell’amata cantante-, concepirono due figli: Anna e Minuccia.
Quando Leo comprò l’appartamento sul piano prima del loro, Costanza voleva chiedere il divorzio perché stava cercando di convincere la figlia ormai trentenne a chiamare il figlio come il fratello deceduto di Mina.
Il suo era davvero vero amore.



-Tu pensi che dovremmo..-
-No, ora gli passa. E’ un momento di nostalgia-
-Dura da due ore, questo momento di nostalgia-
-Che ci vuoi fare, il primo amore non si scorda mai! Tu, mio carciofino, non ti scorderai mai di me!- Disse Leo, mentre si attorcigliava al dito medio una ciocca scura dei capelli della ragazza seduta al suo fianco con una tazza di tè in mano.
-Spero mi venga l’Alzheimer-
Leo si alzò dalla sua sdraio azzurra –quella che un paio di ore prima aveva portato in salotto per Aldo e che aveva leggermente sfondato- e si rinchiuse in bagno.
Agata lo andò a cercare qualche minuto dopo e lo trovò nella vasca che faceva galleggiare un sacchetto di plastica di patatine rustiche con la sua cuffia rossa di cotone in testa.
-Amore...-
-Il cobraaaa non è un serpente, ma un pensiero frequente che diventa indecente quando vedo te, quando vedo teee!-

-Quella è Donatella Rettore-
-Vaffanculo!-
-Quella è di Masini. Tesoro, bisogna rivedere la tua cultura musicale-

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Il fannullone. ***



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"Io dedico questa canzone 
ad ogni donna pensata come amore 
in un attimo di libertà 
a quella conosciuta appena 
non c'era tempo e valeva la pena 
di perderci un secolo in più..."

-Le passanti, Fabrizio De Andre'-






La seconda volta che Leo vide Agata era ottobre, precisamente il 31 –la sera di Halloween- e lui aveva da qualche ora perso il lavoro alla ferramenta Cristiani per aver quasi tentato di strozzare il proprietario con un pezzo di fil di ferro. Per la seconda volta.
Al ragazzo era preso un improvviso attacco di fame –come gli capitava spesso, d’altronde- intorno alle dieci di sera, mentre era per strada con le mani nelle tasche dei jeans bucati e un fastidioso prurito vicino al polso a cui teneva legato un elastico nero che gli fermava la circolazione del sangue.
Bambini di tutte le età, di tutte le nazionalità, con decine di costumi diversi, correvano per la via urlando a gran voce : “Dolcetto o scherzetto?”

A Leo non piaceva molto Halloween, gli faceva salire una strana malinconia addosso; gli ricordava come sua nonna Paola, quel giorno di tanti anni prima, si fosse rotta due dita della mano e la gamba sinistra travolta sotto casa da un’orda di bambini travestiti da mummie, che necessitavano di zucchero nelle vene e di cioccolato con cui sporcare i loro denti ancora da latte.
(Da quel momento, nonna Paola divenne necrofobica, non riuscendo più a guardare un rotolo di carta igienica senza provare un moto di disgusto e terrore.)
Nonostante non amasse quella festa, quella sera il ragazzo aveva deciso di fare una pazzia, e indossava soddisfatto la maschera rappresentante il volto sorridente di Barack Obama, mentre camminava per le strade affollate e qualche ragazzino gli passava affianco piagnucolando fastidiosamente con il suo cestino vuoto tra le mani.
La crisi, si ripeteva mentalmente Leo.
Fu passando davanti alla pasticceria del pluricornuto Signor Montanelli che Leo vide Agata.
Lei aveva i capelli leggermente più scuri dell’ultima volta che l’aveva vista –ovvero morente vicino ad una saracinesca chiusa- e stava raschiando con una palettina verde fosforescente il fondo di una coppetta di plastica.
La vide sorridere per la prima volta e si innamorò della fossetta che le si era formata sulla guancia sinistra.
Se ne stava sul marciapiede con le gambe incrociate, un paio di calzettoni grigi tirati su fino alle ginocchia e una giacchetta verde militare senza cerniera. Accanto a lei c’era un bambino dai capelli biondi, biondissimi con il moccio al naso e un cappello da strega in testa; aveva la bocca sporca di gelato al cioccolato.
-Toh chi si rivede!- Disse a voce alta quando le si avvicinò. Agata lo guardò con indifferenza, non riuscendo a capire perché quell’idiota con la faccia di Obama le stesse rivolgendo la parola.
Agata non gli rispose e Leo si tolse la maschera. Il ragazzo sorrise.
- Mi riconosci? -
- No. -
- Io penso di sì. Se ti nomino riso alla cantonese? -
- Ti vomito sulle infradito. -
- Giusto! La parola ‘vomito’ è la parola chiave del nostro primo incontro! -
- Avrei detto ‘involtini primavera’ visto che quella sera mi hai parlato per mezz’ora del tuo desiderio di mangiartene una vagonata. -
Leo continuò a sorriderle mentre si passava una mano sulla testa riccioluta. Il bambino accanto alla ragazza era scomparso e lui non se ne era minimamente accorto.
- Li amo, non ci posso fare niente. Che ne dici di fare un salto al ristorante cinese del Corso? -
- Odio il cinese. -
- Allora andiamo al giapponese, così te ti ubriachi con il saké e io posso provare il sushi! -
Agata lo mandò a quel paese –lei non diceva le parolacce, assolutamente no- e poi gli sorrise mostrandogli quella fossetta sulla guancia sinistra.
Alla fine gli rispose un ‘Yes, we can’ –come avrebbe detto Obama- e si incamminarono per il Corso.
Leo avrebbe voluto chiederle chi era quel bambino che era seduto vicino a lei quella sera, ma non riuscì mai a domandarglielo.




Aldo aveva cantato parte della discografia di Mina per esattamente due ore e dodici minuti, dopodichè, minacciato dal Signor Paoletti del civico 30, era tornato a casa con poca voce e gli occhi leggermente lucidi.
Le urla di sua moglie erano risuonate per tutto il palazzo signorile, rimbombando sulle pareti giallo canarino e infiltrandosi tra crepe piuttosto evidenti che un terremoto, qualche anno prima, aveva provocato.
Lui aveva proposto di cantarle ‘Questione di feeling’ per farsi perdonare e lei lo aveva chiuso fuori di casa, lanciandogli sul pianerottolo dalle mattonelle di cotto, un pigiama a righe e lo spazzolino.
Aldo aveva chiesto asilo a Manik, un ragazzo indiano che viveva al civico 34 insieme a Davide, il suo nuovo compagno, e che studiava ingegneria all’università. Gli avevano preparato un pollo al curry che era stata una gioia per il palato dell’uomo.

Leo quella sera era andato a letto con una tazza di latte caldo e miele, per curare il mal di gola in procinto di nascere, e il dvd della quinta stagione di Friends da inserire nel lettore davanti al letto da una piazza e mezzo e dal materasso troppo morbido.
Aveva ricevuto una chiamata proprio mentre Ross era sull’altare insieme a Emily e stava per pronunciare il famoso sì. Odiava quella scena.
Al telefono era Agata che gli annunciava di avergli appena trovato un lavoro.
- Dovresti farle compagnia dalle 7 alle 12.30. È una vecchietta simpatica e pare ci sia tutta con la testa, mi ha detto Luigi. Basta che le fai vincere due o tre partite a briscola e le prepari qualcosa per pranzo. Mi sono inventata che hai lavorato per tre anni nella cucina di Alessandro Borghese. -
- Alessandro Borghese fa schifo come cuoco, potevi sceglierne uno che sa fare delle semplici lasagne come si deve! Comunque, chi è questo Luigi? Ci vai a letto insieme? -
- Sì, certi orgasmi che non ti puoi nemmeno immaginare. -
- Sadomaso? -
- Lavora con me alla Conad, al banco frutta e verdura... -
- Immagino dove te lo ficchi l’ananas. -
- ...e l’altro giorno sentivo che parlava con Gianni del reparto Macelleria di sua madre, che da quando ha avuto un mezzo ictus ha paura a rimanere a casa da sola la mattina quando lui è a lavoro. A quel punto mi sei venuto in mente te. -
- Amore, lo sai quante rumene, ucraine, polacche, russe, hawaiane stiano cercando lavoro come badanti di questi tempi? Se lo vengono a sapere mi fanno fuori in un attimo! -
- Gli ho detto che puoi iniziare domani mattina. Alle sette in Via Paoli 130. Per favore, non mi far fare brutte figure. -
- Io non bisogno di un lavoro! -
- Tua nonna non ti passerà mezza pensione per tutta la vita. -
- Infatti! Quando schiatterà me la passerà tutta! -
Leo aprì il frigorifero e prese il barattolo di maionese scaduto due giorni prima insieme a due fette di pane integrale. Ci aggiunse qualche pezzo di pecorino tagliato male e si sedette sulla sdraio posizionata sul terrazzo, ancora contrariato per quello che gli aveva detto Agata.
- Per favore, domani alle sette. Non mi far sfigurare con Luigi, voglio continuare a fare sesso con lui. -
- Spero ti metta incinta! Ciao carotina, ci sentiamo domani. -




Luciana Grazioli aveva settantadue anni e dei capelli bianchi lunghi fino a metà schiena così lisci e lucenti che Leo li avrebbe voluti accarezzare per tutta la vita.
Si era innamorato, perdutamente innamorato appena l’aveva vista sull’uscio di casa, così simile a lui che si era detto di aver finalmente trovato la sua anima gemella. Un po’ stagionata, certo, ma a lui andava bene lo stesso.
La donna indossava una camicia da notte di lana rosa, con sopra una vestaglia blu notte che doveva essere stata del suo defunto marito visto che, mentre si lavava le mani ossute nel lavandino della minuscola cucina dalle pareti ingiallite, doveva arrotolarsi le maniche fino al gomito, per non bagnarla.
- Come ti chiami? -
- Leo, signora. -
- Leonardo.. -
- No, signora, soltanto Leo. -
- Senti, Nardo, io non ne voglio di ficcanaso in casa mia. Sto benissimo da sola, non ho bisogno di balie, badanti e vari rompimenti di palle. So ancora camminare, ci vedo benissimo, so pulire un cazzo di piatto e sono ancora in grado di capire quando me la sto facendo sotto. Ci siamo intesi? -
La donna lo fissava severa dal suo misero metro e cinquatratre, con la mano destra tremolante e quelle caviglie sottili coperte da un paio di consunti calzini grigi. In quella stanza vissuta, sembrava minuscola.
- So fare un pesce spada con le verdure cotte che è la fine del mondo. -
Luciana l’aveva guardato negli occhi per cinque secondi buoni –tanto per dare un po’ di pathos alla scena- e poi gli aveva voltato le spalle e a brevi passi aveva raggiunto il corridoio buio.
- Le pentole sono nello scomparto a destra vicino al frigorifero. Le carote lesse mi fanno cagare. -

Forse avrebbe dovuto avvertire Agata che adesso aveva una rivale in amore.





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Capitolo 7
*** L'amore perduto. ***


 

Alle pecore, al vino bianco, alla mia città.

A voi, un grazie infinito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Venuto dal sole o da spiagge gelate

venuto in novembre o col vento d'estate

io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai

amore che vieni, amore che vai.

 

-Amore che vieni amore che vai, F, De Andrè-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sin dal primo sguardo che si era scambiato con quella donna dai lunghi capelli bianchi, Leo aveva capito che Luciana era un osso duro.

Un osso che tra l’altro non parlava molto e preferiva esprimersi a gesti. Il suo preferito era il dito medio, neanche a dirlo.

Era così terribilmente volgare e interessante anche senza aprire bocca che Leo non poteva smettere di osservarla nemmeno mentre se ne stava sprofondata nella poltrona nel salotto buio e con i mobili ricoperti di polvere, zitta e immobile a guardare le televendite in televisione.

Il volume al massimo, perché era anche un po’ sorda. Lui naturalmente parlava, parlava e parlava senza nemmeno prendere fiato. In quel momento, mentre la donna fingeva di ascoltare l’oroscopo della settimana, Leo le raccontava il suo primo bacio al sapore di caramello e di quella volta che aveva visto Lorella Cuccarini al supermercato con delle infradito identiche alle sue.

Alla donna, non poteva fregare di meno.

Aveva aperto bocca dopo ore di silenzio a tavola, dopo aver assaggiato il pesce spada del ragazzo.

-Ma questo è rosmarino? Mi fa cagare il rosmarino.-

-L’ho usato per insaporire.-

-Fa cagare lo stesso.- 

-E intanto si è fatta fuori tre etti di pesce. Tanto schifo non le deve fare.-

-Sto cercando solo di fare la persona educata, stronzo.-

Leo aveva sorriso trionfante per quell’insulto gratuito e si era messo a scrivere la lista della spesa su un foglio di carta igienica, non avendo trovato niente di meglio in giro. La casa della donna non era molto grande ed era poco luminosa, con le finestre tappate dalle serrande arrugginite o con le tende tirate per non fare entrare un filo di luce.

C’era polvere un po’ ovunque e giornali di mesi prima lasciati a marcire sul tavolo di vetro nell’ingresso, insieme a delle bottiglie di birra e tre scatole vuote di biscotti al cioccolato. Stranamente, non c’era odore di chiuso ma profumo di lavanda in tutte le stanze.

Si percepiva maggiormente nel corridoio dove si trovava la camera da letto della donna. Naturalmente, a Leo era stato categoricamente vietato di entrare. E lui, ovviamente, non vedeva l’ora di oltrepassare la soglia di quella stanza.

C’erano tanti quadri appesi alle pareti bianche ammuffite agli angoli: erano l’unico punto di colore e luce tra quelle mura. C’erano anche delle fotografie in bianco e nero che raffiguravano campagne, un pozzo, un lago di montagna e un bambino sorridente sulla neve, che si stava infilando ad un piede uno sci.

-Che shampoo usa?-

-Che cazzo te ne frega?-

-A cuccia, Luciana! Solo per curiosità, ha dei capelli bellissimi. Glieli posso toccare?-

-Giuro che ti infilo questa forchetta su per lo sfintere.-

-Era un no?- Dito medio nella sua direzione. Forse quella donna e Agata avevano qualcosa in comune.

-Tra poco me ne vado. Domani torno alla solita ora con la spesa. Spaghetti allo scoglio per pranzo!-

-Niente...-

-...Rosmarino, ho capito. Senta, ma non posso nemmeno sfiorarle una ciocca?-

 

 

 

 

 

 

Leo aveva passato l’intero pomeriggio a casa di sua nonna Paola a giocare a canasta e a mangiare pistacchi seduto in veranda a piedi nudi e con la vista del mare davanti a sé.

In quei momenti gli ritornava sempre alla mente qualche pezzo della sua infanzia passata a pescare girini nel botro o a giocare con la pasta di sale insieme ai suoi cugini dai capelli rossi e l’accento napoletano.

Adorava sentirli offendersi tra di loro quando si arrabbiavano!

Tornato a casa fischiettando una canzone sottovoce, aveva trovato Agata che fumava in salotto, con una sua bottiglia di vino stappata in mano e una gonnella nera elegante che copriva le sue gambe poco abbronzate.  

-Ulalà! Si fa sesso stasera?-

-No, esco. Sono venuta a metterti i panni in lavatrice e a dare a Bogdana un maglioncino che mi ha prestato qualche giorno fa. Domani ricordati di pagare il telefono, lo dovevi fare una settimana fa.-

Leo rimase in silenzio a guardarla uscire dalla porta con il rumore dei suoi anfibi sul pavimento di cotto.

Nell’aria rimase il suo profumo e sul bicchiere che aveva usato per bere del vino, c’erano tracce del suo rossetto rosso; Leo appoggiò le labbra dove c’era il segno delle sua bocca.

Si preparò un tramezzino al tonno e si sedette sul divano senza accendere la televisione. La finestra del balcone era aperta e dall’appartamento di Aldo proveniva la voce disperata di Mina. Anche lui, in quel momento, si sentiva un disperato.

Con la coda dell’occhio vide una formica nera con la testa rossa camminare sul bracciolo del divano; la lasciò nascondersi sotto il tappeto giallo ai suoi piedi.

Poco dopo, mentre stava guardando un vecchio film Western su un canale sconosciuto, Aldo attraversò silenzioso il salotto, con il suo passo leggermente ciondolante, e si sedette accanto a lui sul divano.

Non si sentiva più la voce di Mina provenire dal suo appartamento.

-Buttato fuori di casa un’altra volta?-

-Già. Manik e Davide sono a cena fuori.-

-Per cui stasera stai da me, ho capito. Mi domando quando ti deciderai a divorziare.- Leo diede un morso al suo tramezzino e appoggiò i piedi nudi sul basso tavolino di vetro leggermente incrinato ad un angolo.

Aldo si accarezzava la rada barba bianca sul suo mento, guardando di fronte a sé. Aveva un livido bluastro sul polso. Forse Costanza l’aveva preso a mestolate con il cucchiaio di legno come era già successo in passato.

-Non posso divorziare. Non riuscirei mai a svegliarmi la mattina senza il profumo del pancarré che sta facendo abbrustolire in forno o il suo canticchiare a bassa voce per non farsi sentire da me. Non potrei stare senza i suoi piedi freddi la notte e gli occhi azzurri che non vedo felici da tempo.- Leo sorrise. Come sapeva essere poetico delle volte.

-È bello.-

-Che cosa?-

-Il vostro amore.-

-Si...è bello e anche un po’ violento, se bisogna essere sinceri. Che ne dici se ora ti canto ‘Con o senza te’ ?-

-A bassa voce e prima vai da Giancarlo al pianterreno a prendere una bottiglia di vino.- Aldo annuì e ciabattò con le sue pantofole bianche da donna fino all’ingresso.

-Agata dov’è?- -

-Fuori.-

-Ah...che ne dici se ne prendo due, di bottiglie?- -

Mi sa che ci vogliono.- L’uomo aprì la porta e fece qualche passo all’esterno.

Rientrò subito dopo correndo e con l’occhio sano spalancato dal terrore. -C’è Costanza sul pianerottolo con la scopa in mano. Ci vado dopo da Giancarlo.-

Si misero entrambi a sedere sul divano a guardare la pubblicità di un acquario poco fuori Roma, aperto da poco, dove l’orca assassina era l’attrazione principale.

Leo si mise a ridere piano e nella sua mente riaffiorò il ricordo del suo primo appuntamento con Agata.

Una strana malinconia lo assalì ma cercò di nasconderla a se stesso, continuando a sorridere e finendo il suo tramezzino.

D’altronde stare con lei era ogni volta un piacere e un dolore, un sorriso e una lacrima.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quella sera c’erano due gradi centigradi nell’aria e il gelo aveva ricoperto ogni superficie possibile, comprese le strade e le autostrade, per cui muoversi dalla propria abitazione era un problema.

La gente se ne stava rintanata in casa con i termosifoni al massimo e alcuni con il camino acceso, anche se il pensiero di uscire all’aria fredda per prendere la legna era una sofferenza; le televisioni erano quasi tutte sintonizzate su un film d’azione che era uscito quasi un anno prima al cinema; i bambini se ne stavano con il naso rosso per il raffreddore, appiccicati ai vetri ghiacciati delle finestre, sperando di veder comparire la prima neve dell’anno.

Leo e Agata, quella sera di novembre, erano insieme. Stranamente. I

l loro lo si poteva definire un appuntamento, anche se la faccia seria e quasi terrorizzata della ragazza non esprimevano in pieno il sentimento che si dovrebbe provare al primo appuntamento con il ragazzo che ci piace.

-Tu sei...-

-Un genio? Lo so!-

-Un idiota, un completo idiota.- -

È...un complimento dalle tue parti?-

-Lo sai cosa succede se ci beccano qui?-

-Sinceramente no, ma vale la pena rischiare per assistere a questo spettacolo!- -

Guarda che l’acquario è aperto anche di giorno.-

-Lo so, però pensavo che violando la legge ti sarei piaciuto di più. Il bello, bastardo e fuorilegge, capito?-

-E cosa hai fatto di bastardo per ora?-

Leo si guardò intorno preso alla sprovvista e tirò fuori dalla tasca destra del suo cappotto una penna rossa. Ciabattò con le sue infradito fino alla parete dove era attaccato un volantino per l’apertura di un nuovo fast food in centro, e disegnò due lunghi baffi e un dente nero, al bambino sorridente che c’era sopra.

Sorrise entusiasta ad Agata.

-Ed ora cosa mi dici?-

-Sei pazzo.-  

Il ragazzo tirò fuori dallo zaino nero ai suoi piedi un lenzuolo con la stampa di due cuccioli di Labrador, giustificandosi con un: –La tovaglia era sporca- e lo stese per terra. S

i misero seduti a mangiare il riso allo zafferano che aveva preparato Leo qualche ora prima a casa, bevendoci sopra un vino rosso di pessima qualità.

Davanti a loro c’era l’immensa vasca del delfino Holly, che in quel momento faceva geniali acrobazie fuori dall’acqua.

-Sei pazzo davvero- Disse a bassa voce Agata, allungando le gambe davanti a sé, con il piatto caldo sopra le sue cosce.

Sorrideva a mezza bocca. Leo osservò per tutto il tempo la fossetta sulla sua guancia sinistra.

Fuori, aveva iniziato a nevicare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Un malato di cuore. ***



A Roberta, tanti auguri a te, anche se un pò in ritardo.

Al vero Leo e alla sua pazzia.

A questa storia che scava sempre di più dentro di me e in cui metto me stessa, a nudo.

Grazie a tutte voi.

Giulia.







Eppure un sorriso io l'ho regalato 
e ancora ritorna in ogni sua estate 
quando io la guidai o fui forse guidato 
a contarle i capelli con le mani sudate. 

 

 

-Un malato di cuore, Fabrizio De Andrè-










- Lei si è mai innamorata? -
- Pensi che siano cazzi tuoi? -
Leo non si scompose più di tanto per la risposta sgarbata della donna e continuò a pelare la patata che aveva tra le mani con un coltello seghettato dal manico arancione, cercando di non starnutire. In quella casa c'era qualcosa a cui era allergico, ne era sicuro.
Luciana si accese una sigaretta al fornello, stando attenta a non bruciarsi i ciuffi bianchi sulla fronte -come spesso le era capitato in passato-, poi si mise di nuovo a sedere vicino al tavolo della cucina, sulla sedia di paglia che le irritava le gambe lasciate leggermente scoperte dalla camicia da notte di lana violetta -quella volta della sua taglia- a cui mancavano dei bottoni vicino al colletto che erano stati sostituiti con delle spille da balia.

Intanto il suo sguardo era puntato sulla figura di Leo: il ragazzo se ne stava con la schiena ricurva a pelare patate da ormai mezz'ora. 
Non aveva parlato più di tanto, quella mattina. Aveva suonato il campanello fuori dalla porta alle sette e mezza precise ed era entrato in casa completamente bagnato, con un ombrello giallo fluorescente senza manico e le infradito nere ai piedi. 
La donna gli aveva fatto asciugare i capelli in bagno con il suo phon personale, mentre lei se ne stava seduta sul bordo della vasca di ceramica controllando che non ficcanasasse troppo in giro.
Aveva spazzato in salotto e poi pulito i vetri della veranda con dei pezzi del quotidiano della settimana prima, che aveva trovato nella cassetta della posta del vicino di casa, e il Vetril che aveva rubato alla donna che puliva il condominio e che aveva incrociato nell'atrio del palazzo mentre toglieva delle foglie secche ad una pianta ormai morta.
Mentre puliva con uno strofinaccio vecchio un mobile in salotto le aveva raccontato di come aveva passato la sua serata: con un uomo vecchio e fuori di testa, probabilmente con dei problemi di incontinenza, bevendo come un turco quattro bottiglie di vino rosso per poi vomitare anche l'anima alle quattro di notte vicino al lavello in cucina.
A Luciana era venuto a gola il cappuccino che aveva bevuto per colazione e dopo averlo mandato -come nella norma - a fanculo, lo aveva spedito in cucina a pelare patate.

- Perché vuoi sapere se sono mai stata innamorata, Nardo? -

- Perché secondo me lo è stata. Innamorata, dico. Un amore passionale, di quello che non ti fa dormire la notte. Magari è stato anche l'unico. -
Luciana era rimasta in silenzio, osservando la cenere cadere dalla sigaretta che lentamente si stava spegnendo senza essere stata fumata a sufficienza.
- Sono lesbica. -
- Non è vero Luciana! Lo vedo come sbavi su Fabrizio Frizzi mentre guardi quel suo programma sulla Rai! -
La donna alzò il dito medio, come al suo solito, e spense la sigaretta sul tavolo coperto da una tovaglia di plastica verde.
- Luciana! -
- Che cazzo vuoi? -
- Ma ti sembra il modo? Pulisci! -
Leo la vide alzarsi e camminare instabile fino al corridoio, sparendo dietro la porta della sua camera che venne subito dopo chiusa a chiave.
Il ragazzo finì di pelare la patata che aveva in mano, cercando di ricordarsi il titolo di una canzone che aveva sentito quella mattina alla radio con un mezzo sorriso sulle labbra. 
Sì, Luciana era stata innamorata.







- Davvero è allergica alle castagne? -
- Sì. -
- Non ci credo. -
- E non ci credere, stronzo. -
- Cioè, lei non ha mai mangiato una castagna? -
- Sì, e sono quasi andata in shock anafilattico. -
- Davvero? E… è stato bello? Cioè, come si sentiva? -
- Come cazzo vuoi che mi sentissi? Di merda! -
- Quanti anni aveva? -
- Quindici, forse sedici. -
- E lei a quindici anni non aveva mai mangiato una castagna? -
- Sì, va bene?! Problemi? -
- Cioè, nessuna gita in montagna a raccogliere funghi e castagne con mamma, papà e i nonni? Non ci credo. -
- Ma secondo te nel '50 i miei genitori pensavano a portarmi a fare una gita del cazzo in montagna?-
- Ci doveva andare da sola! Io a quattordici anni mi sono trasferito per due mesi in Val D'Aosta, da un mio zio alla lontana, solo per andare ogni giorno nel bosco a fare funghi e a cacciare fagiani! -
- Mi fanno cagare i fagiani. -
- E i piccioni? So fare un piccione con il sughetto di pomodoro e basilico da shock anafilattico! -
- Quindi di merda. -
- Macchè! Da paradiso in due secondi! -
Luciana l'aveva guardato con gli occhi spalancati e si era accesa, senza pensarci due volte, un'altra sigaretta. Stare con quel ragazzo le faceva necessitare la nicotina. E anche un Moment ogni tanto.
Si era accomodata meglio nel suo divano leggermente troppo duro per i suoi gusti, fissando la televisione accesa davanti a sé.
Lo schermo trasmetteva un concerto di musica classica a Berlino. A lei era sempre piaciuta la musica classica, aveva sempre desiderato prendere delle lezioni di pianoforte quando era una bambina. Peccato che fosse figlia di una contadina e di un operaio che avevano altri cinque figli da sfamare e assicurar loro un tetto sopra le loro teste.
- Te, invece? -
- Io cosa? -
- Ti sei mai innamorato, Nardo? -
Leo era scoppiato a ridere e aveva allungato le gambe davanti a sé, stiracchiandosi sulla spalliera del divano.
- Tante volte. Forse troppe. -
- Sei un puttaniere via. -
- Un puttaniere che ama, però! -
- Sempre puttaniere rimani. E il tuo amore più grande? -
- Sicuramente per Sofia Loren. Le ho raccontato di quella volta che la vidi a Cinecittà e le stavo quasi per finire addosso con il mitico motorino Ciao? -







Leo arrivò a casa che erano le otto di sera passate -visto che aveva passato il pomeriggio da Aldo a giocare a briscola- e si mise seduto nella sua sedia a dondolo sul terrazzo, a mangiare un cornetto al cioccolato che aveva trovato nel freezer. 
Aveva smesso di piovere da qualche ora ormai, ma il cielo era ancora coperto da qualche nuvola grigia che lo costringeva a socchiudere gli occhi e a osservare le finestre aperte del palazzo davanti al suo.
C'erano due bambini fuori da un balcone al primo piano, che giocavano a carte seduti sul pavimento con una scatola marrone che faceva loro da tavolino improvvisato: la bambina con un caschetto di capelli biondi tentava di fare una magia e il bambino davanti a lei, se ne stava con le braccia piccole incrociate sul petto, impaziente di poter provare anche lui a fare un gioco di prestigio che sicuramente non gli sarebbe riuscito e per cui avrebbe dato la colpa alla sorella e alle sue stupide carte.
Al terzo piano, invece, camminavano nel salotto del loro appartamento le due donne che il ragazzo e Agata avevano visto baciarsi qualche settimana prima. Sembravano nervose, camminavano senza sosta sul pavimento, con le mani nei capelli e le unghie che venivano torturate da dei denti macchiati da un rossetto rosso.
Anche Leo, per un momento, si sentì come loro.
La ragazza mora camminò verso l'altra ragazza e l'abbracciò, stretta stretta. Forse fino a toglierle il respiro. Forse fino a farla piangere.
Il fiato mancò anche al ragazzo, per un attimo.
Si domandò cosa potesse essere successo, perché avessero dei volti così seri, senza un sorriso, senza il sapore l'una dell'altra sulle labbra, se il loro amore stesse finendo.
Non riuscì a dare una risposta a nessuna di quelle domande perché la porta di casa si aprì, scoprendo la figura di Agata.
Leo si alzò velocemente dalla sedia a dondolo e rientrò nella cucina dal terrazzo, andandole incontro, con la necessità di stringerla addosso.
Lei si stava togliendo le Converse nell'ingresso, mentre appoggiava le chiavi di casa sul tavolo e si toglieva il cappotto e il cappello rosso di lana che le aveva regalato lui lo scorso Natale.
La vide portarsi le mani intorno al busto perché aveva freddo -quella casa era sempre troppo fredda per i suoi gusti- e avvicinarsi alla ciotola a forma di scimmia che conteneva la posta del giorno. La osservò mentre leggeva attentamente il mittente di ognuna di quelle buste bianche anonime e ne apriva una strappandola con le mani.
Senza alzare gli occhi dal foglio, iniziò a chiamarlo a voce alta.
- Leo! -
- Dimmi, trottolino amoroso. -
- 534, 60 euro di gas da pagare entro due settimane. - Lo disse in modo così serio che il ragazzo sbuffò infastidito. E lui non sbuffava mai davanti a lei, sapendo quanto potesse innervosirla. Infatti, la ragazza gli tirò la bolletta addosso e se ne andò in cucina a passo di marcia, lasciando le impronte dei suoi calzini sudati sul pavimento.
- Hai detto bene, due settimane! Ci penserò fra un po'! Ora vieni qui e fatti abbracciare. -
Agata aprì la bottiglia di vino che aveva trovato già mezza vuota vicino al frigorifero, utilizzando un vecchio cavatappi che nonna Paola aveva regalato al nipote quando era andata in viaggio in Grecia. 
Si incamminò verso il salotto e si sedette sul divano accendendo la televisione: era arrabbiata, terribilmente arrabbiata, visto che non l'aveva ancora guardato negli occhi da quando era entrata.
- Ho detto che la pagherò, ora che vado da Luciana posso anche mettermi qualche soldo da parte... -
- Qualcosa che spenderai in DVD idioti, il giorno dopo magari? Oppure in confezioni maxi di patatine o in un nuovo microonde blu?! Magari in qualche videogioco o per un paio di infradito che hai visto su Ebay?! In quale cazzata li spenderai quei miseri soldi, eh Leo? -
Leo rimase in silenzio ad osservare il suo sfogo, fermo nel mezzo della stanza che gli sembrava tutto a un tratto enorme, senza accennare a muoversi. Non aveva voglia di litigare, quella sera. No.

Avrebbe voluto starsene insieme ad Agata seduto sul divano a guardare una nuova puntata dei Simpson, magari facendole assaggiare la frittata di patate che aveva cucinato a Luciana per pranzo e che era avanzata.
Magari avrebbero fatto anche l'amore una o due volte, il bagno caldo insieme e le avrebbe anche chiesto di rimanere a dormire insieme a lui; a voce bassa, quasi sussurrandoglielo nell'orecchio mentre le avrebbe lavato i capelli con il suo shampoo alle more. Perché Leo ne era certo: quella notte, se Agata non sarebbe rimasta con lui, non sarebbe riuscito a dormire.
Quella sera, sentiva il bisogno di avere Agata il più vicino possibile, toccarla, annusarla, sentirla parlare. Forse a causa della scena che aveva visto prima alla finestra, forse per quella nostalgia che sentiva da un po' di giorni.
Lei, invece, sembrava voler trovare uno stupido pretesto per litigare, per rovinare un momento insieme, per rinfacciargli ogni cosa che faceva o diceva e che non andava mai bene.
Era difficile amare Agata e farsi amare da lei.


- Siamo stati invitati a cena da Aldo e sua moglie. Ci sono anche Bogdana, Manik e Davide. Se mi vuoi, mi trovi lì. -
E uscì di casa come molte volte era uscita di casa lei, quelle volte in cui aveva sbattuto la porta e urlato bestemmie mentre piangeva e il rossetto rosso le macchiava le guance e la pelle.
Lui se ne andò in silenzio, perché di bestemmiare non ne aveva nemmeno la forza.

Le gli risucchiava tutto, anche le parole che a lui non erano mai mancate.
















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Capitolo 9
*** Il cantico dei drogati. ***


 


Quando scadrà l'affitto 
di questo corpo idiota 
allora avrò il mio premio 
come una buona nota. 

 
-Cantico dei drogati, Fabrizio De Andrè-








Agata aveva fumato la sua prima sigaretta, offertale da un'amica di scuola, a dodici anni.
Troppo presto perché le labbra screpolate di una ragazzina conoscessero il sapore del fumo.
Era successo nel campo di pallacanestro dietro la scuola, quello delimitato da delle linee tracciate con dei gessetti rossi e il muro coperto da frasi di canzoni italiane, scritte con degli Uniposca dai colori fluorescenti; Viola fumava già da qualche settimana, quando convinse Agata a fare quel tiro, sedute sulla panchina di legno al limitare del campo da cui ogni tanto seguivano i compagni di classe che giocavano.
Si ricorda che aveva le dita che tremavano appena e le unghie smaltate con uno smalto lucido. Con il primo tiro aspirò quasi mezza sigaretta ma si costrinse a non tossire, nonostante la sua gola stesse andando a fuoco e quel sapore amaro non fosse così irresistibile come molti dicevano.
Dopo quel tiro, ce ne furono altri, con persone diverse, in luoghi differenti fino ad arrivare al primo pacchetto di Winston blu comprate al tabacchino sotto casa all'età di tredici anni. Troppo piccola, ancora troppo bambina nonostante il seno sviluppato che si intravedeva sotto il maglioncino rosso e gli occhi che esprimevano una maturità che forse ancora non aveva.
La prima canna rollata da un amico di un amico a quindici anni, fumata di nascosto nel bagno della discoteca in cui era andata per la prima volta con sua cugina. Quanto rise, quella sera.
Da quel momento in poi, l'esagerazione prese il sopravvento sulla vita di Agata. Smise anche di ridere.





Leo la ritrovò un venerdì sera -qualche settimana dopo il loro appuntamento- sdraiata sul prato, umido per la neve sciolta, di un parco che lui non aveva mai visto prima. Saranno state le due o le tre di notte e il freddo congelava le ossa sotto i piumoni pesanti chiusi fino alla bocca da cui spiravano nuvole dense di aria gelata che si disperdeva lentamente davanti agli occhi. Lei indossava un paio di calze di lana nere e un giacchetto di jeans a maniche lunghe che le scopriva il polso destro coperto da braccialetti; aveva la treccia sfatta da una parte e il trucco nero sotto gli occhi che era colato fino alle labbra prive di rossetto.
Si ricorda questo, Leo, di quella sera.
Si ricorda anche di averla chiamata parecchie volte prima che lei aprisse gli occhi e focalizzasse la sua figura. Quando lo vide, si mise a ridere; rimase sdraiata sulla terra fredda e alzò le braccia verso il cielo nero come i suoi occhi in quel momento.
- Il cielo stellato sopra di me, la morale che è in me. -
- Sei talmente ubriaca da citare Kant? -
Agata sorrise e si appoggiò sulle ginocchia sporcando le calze di fango, per cercare di alzarsi in piedi.
- Che ci fai qui? -
- Sono appena uscito dal cinema. -
- Alle quattro di notte? - Agata non seppe trattenere il suo stupore e scoppiò a ridere traballando sulle gambe che sembravano fini come degli stuzzicadenti. Si sarebbero potute rompere da un momento all'latro.
- Sono le tre e il cinema Parioli non chiude mai. Stanotte davano Il Padrino, non potevo perdermelo! -
Agata si resse in piedi appoggiandosi con una mano alla sua spalla; si affidò completamente a lui, nonostante l'avesse colta per l'ennesima volta in un suo momento debole.
- Un giorno mi ci porterai? - I suoi occhi erano rossi come se avesse appena pianto mille lacrime che però non avevano lasciato altra traccia su di lei. Erano di un marrone chiaro.
Prima che potesse risponderle Agata si era inginocchiata e aveva iniziato a vomitare sulle sue infradito nere.
La risata di Leo era talmente contagiosa che se avesse potuto, avrebbe riso anche lei insieme a lui.





Leo se ne era andato di casa da qualche minuto, quando Agata si accese una sigaretta, la prima della serata.
Era ancora seduta sul divano dove l'aveva lasciata, con quel senso di rabbia che albergava ancora dentro di sé e negli occhi il terrore puro di quando l'aveva visto sbattersi la porta alle spalle, come avrebbe dovuto fare anche molte altre volte prima. Andò a spegnere la sigaretta fumata nemmeno per metà nel posacenere fuori sul terrazzo e si appoggiò alla balaustra di ferro a cui era attaccato un vaso contenente due piantine di quadrifoglio; glieli aveva regalati una cliente di fiducia che andava ogni giorno alla Conad, dopo essere stata due settimane in Irlanda.
Leo fu talmente entusiasta di quei sei semi quasi invisibili che era corso a una libreria nel Corso principale a comprare un libro sul giardinaggio e uno sulla storia dell'Irlanda. La sera stessa, ne aveva già piantati due in un vaso di terracotta rubato dal terrazzo di Aldo, e aveva passato la notte sulla sedia a dondolo con una coperta di lana, osservando senza sosta quel piccolo vaso, sperando in un minimo cambiamento che non sarebbe avvenuto.
Bastava poco per far felice Leo.
Agata rientrò nel soggiorno e corse fuori sul pianerottolo buio del palazzo, salendo a passi svelti le scale e arrivando davanti al portone dell'appartamento di Aldo dove quella sera era stata organizzata la cena del giovedì. Capitava spesso, che il giovedì
si riunissero tutti in una casa per mangiare e bere insieme, passare qualche ora in compagnia tra di loro, ridendo di tanto in tanto con il brusio della televisione datata 1999, che trasmetteva una fiction italiana e l'odore delle sue sigarette che intossicava l'aria.
Bogdana le aprì e le sorrise gentile, appoggiandole una mano al centro della schiena per sospingerla nell'ingresso riscaldato.
La ragazza entrò silenziosamente in cucina e si mise lentamente a sedere a capotavola, sulla sedia di paglia che le irritava le gambe coperte da un paio di calze sottili: davanti a lei c'era già un piatto di lasagne fumanti con poca besciamella, come piacevano a lei. Il bicchiere era stato riempito fino all'orlo di un vino di buona qualità, da Aldo, seduto alla sua destra, che le sorrideva con affetto. Guardando quel sorriso sincero, ad Agata le si chiuse la gola in una morsa secca. Si sentì improvvisamente a disagio, come se gli occhi di tutti i presenti fossero puntati su di lei cercando di ritrovare le tracce delle lacrime che avrebbe dovuto versare seduta sul pavimento del bagno.
Agata invece non aveva pianto ma, in quel momento, avevo un disperato bisogno di sfogarsi attraverso gocce di acqua salata. Si sentiva sopraffare da esse.
- Tesoro, tu volere patate arrosto o patate fritte? - Bogdana le parlava voltata di spalle, mentre cercava dentro ad un cassetto qualcosa per togliere la teglia rovente dal forno ancora acceso. I suoi capelli erano più rossi di quella mattina, quando l'aveva incontrata alla Conad seduta alla cassa numero tre che litigava con una cliente.
- Arrosto, grazie. - Rispose con un filo di voce, sistemandosi il tovagliolo di carta rosa sopra le gambe che tremavano leggermente.
All'altra estremità del tavolo, Davide e Manik parlavano del viaggio in Spagna che progettavano da mesi, ormai. Un'idea nata per caso nella mente di uno che era stata confessata quasi con timore all'altro, magari seduti nel balcone mentre si passavano una birra ghiacciata e le loro mani rimanevano a sfiorarsi impercettibilmente.
- Io direi di passare da Cadice. Quella è una tappa fondamentale. -
- Ma se andiamo a Cadice allora non possiamo andare a Barcellona. Il viaggio verrebbe a costare troppo. -
- Barcellona bella, bellissima. Io essere stata in 1992 con scuola russa. Un caldo che sudavo come maiale in forno! -
- Ha ragione la straniera, Malaga è bella davvero! -
- Parlavano di Barcellona, Aldo. -
- Davvero? -
- Sì, non ascolti mai. -
- Non è vero, Costanza! Io ascolto sempre, mi ero distratto un attimo! Comunque, avete saputo cosa è successo a Giancarlo? -
- Giancarlo chi? Turco che abita in appartamento sotto appartamento mio e tromba giorno e sera? -
- No, Giancarlo del pianterreno! Ma il turco tromba? Non è gay? -
- Perché, secondo te Aldo, noi omosessuali non facciamo l'amore? -
- Chi volere patate arrosto? Buone, buonissime! -
Manik, Agata e Costanza alzarono il loro piatto di plastica in direzione di Bogdana che, canticchiando a bassa voce, li riempì poco alla volta, scegliendo accuratamente la patate venute bene da quelle troppo bruciate.
Davide intanto, stava litigando a bassa voce con Aldo, quasi imbarazzato dalla domanda di poco prima.
Leo non aveva mai parlato da quando era arrivata Agata. Se ne stava seduto a capotavola con le mani incrociate sotto al mento e osservava il suo piatto vuoto e la forchetta sporca di pomodoro. Lui, dalla battuta sempre pronta, con le parole che fuoriuscivano dalle sue labbra senza freni, se ne stava in silenzio, respirando piano. Cercava anche di non guardare nella direzione della ragazza. La sua sola vista, lo faceva innervosire.
Il loro era stato un litigio come un altro, ma le sue parole, quella sera, erano pregne di un veleno che Leo non le aveva mai sentito pronunciare.
Era un veleno che gli era entrato sin dentro le ossa, che lo paralizzava, che lo aveva distrutto. La sua allegria quella sera era scomparsa, era stata cacciata via da sé a forza. Il suo sorriso era stato cancellato.
- Bogdana, hai mai pensato di frequentare un corso di cucina? Queste melanzane alla parmigiana sono ottime! -
- Grazie, coniglietto. Tu essere troppo buono con me. A me fanno cagare corsi, troppo noiosi. Preferire imparare a fare extension! -
- Quindi vorresti fare la parrucchiera? -
- Sì, io avere diploma di centro estetico in Russia. Qui non valere un cazzo. -
- Bogdana, il linguaggio..-
- Scusa, Alduccio. Comunque, chi sapere riparare lavatrice di voi uomini? -
- Non chiedere a Leo, sarebbe inutile. -
Tutti erano rimasti in silenzio, dopo la frase sussurrata a bassa voce da Agata, che giocava con delle molliche di pane sulla tovaglia a quadri blu.
Leo aveva alzato gli occhi chiari verso di lei, guardandola per la prima volta con un fastidio tale che sembrava impossibile che quelli fossero i suoi occhi e che stessero guardando proprio lei, Agata.
Sorprendentemente, il ragazzo sorrise a mezza bocca e si stirò la schiena allungandosi leggermente all'indietro sullo schiena della sua sedia di legno. Di sottofondo, proveniente da una finestra del quarto piano, c'erano le urla di alcuni bambini.
- Ha ragione. Non so riparare una lavatrice. Anzi, non so nemmeno come si faccia una lavatrice. Ah, e non so nemmeno come si utilizza un tritatutto. Quando ho tentato di sturare il lavandino in bagno ho allegata tre stanze e mi scordo sempre di pagare la bolletta del telefono. -
- E di’ loro come spendi i tuoi soldi, in cazzate, come nel tuo conto in banca non ci sia un centesimo. -
- Sì, sono un uomo di merda. Ma preferisco spendere i miei soldi in cazzate, che in una dose per una pista di cocaina. -
L'aria si era fatta irrespirabile. Dov'era andato il profumo delle lasagne bruciate ai bordi, dello shampoo di Bogdana, delle mentine di Aldo e del maglione di lana di Giovanni che aveva tirato fuori quel pomeriggio dall'armadio?
Dove s'era andata l'aria di spensieratezza che si poteva leggere negli sguardi di quegli amici di vecchia data senza nessun segreto o parole cattive sotto alla lingua?
Agata appoggiò le mani sulla tavola traballante e si alzò in piedi, lo sguardo sempre puntato in quello di Leo che la guardava improvvisamente consapevole di quello che aveva detto.
Era uscita a testa bassa dalla stanza, quasi inciampando sulle stringhe consunte delle sue scarpe di tela comprate in saldo, appoggiandosi con tutto il suo peso alla porta che non si voleva aprire, per colpa di quella maniglia difettosa. Sentiva qualche lacrima bagnarle le labbra e confondersi con la sua saliva, mentre usciva respirando affannosamente sul pianerottolo e poi giù per le scale buie, al freddo che rendeva gli scalini scivolosi.
Corse fuori dal palazzo senza capotto né sciarpa di lana, non sentendo né freddo né caldo, come se dopo quelle parole non sentisse più niente.
Era stata scoperta. Scoperta davanti a tutti. Lui, proprio lui tra tutti.
Camminava sul marciapiede ghiacciato, passandosi senza sosta le mani fredde sopra la maglia a manica lunga, con le labbra che tremavano e il pensiero di non riuscire più a tornare tra quelle mura.
Sentì dei passi veloci dietro di sé e le lacrime le offuscarono completamente la vista, facendola quasi cadere su uno scalino che non aveva visto.
- Va’ via! - Aveva urlato con tutta la voce che aveva nel corpo. Conosceva quei passi, quella mano calda sopra la sua spalla e quel profumo che si portava dietro ogni volta che si muoveva. Quel profumo che aveva sentito la prima volta che si erano visti e che non se n'era più andato dalla sua pelle, quasi fosse diventato un po' anche il suo, di profumo.
- Mi dispiace. -
- No! Non ti deve dispiace! No! Hai ragione te! -
- Agata.. -
- Sono una drogata! Una drogata del cazzo! -
Quella parola si infranse nell'aria tra loro due, con quella consapevolezza che entrava nella pelle come l'inchiostro di un tatuaggio fatto di nascosto.
Lo sapeva lui, lo sapeva lei. Lo sapevano tutti, probabilmente.
Leo rimase in silenzio, guardandola piangere, disperarsi con le braccia aperte all'aria della notte, guardando il cielo acquoso che sembrava sformarsi e cadere sotto i suoi occhi.
- Perché stai facendo così?-
- Perché sono una drogata! Una drogata senza niente. -
- Io, sono qualcuno. -
- Ti faccio solo pena e ora farò pena anche a loro, a tutti loro! Come hai potuto?! -
- Mi dispiace.. -
- Non basta! Voglio andare via, via, via. -
Leo cercò di avvicinarsi a lei, prendendola per i gomiti e facendo in modo di incontrare i suoi occhi.
- Torniamo a casa. -
- No, non ce la faccio a vedere i loro sguardi. Non ce la faccio! Sei un bastardo! Proprio tu.. -
Leo la prese tra le braccia strappandole l'abbraccio che quella sera, quando l'aveva vista, non le aveva voluto dare. Un abbraccio disperato di unghie che si conficcavano nella pelle lasciando segni rossi come punture.
- Sono una drogata...- Sembrava rendersi conto solo in quel momento, di quello che era diventata con il tempo. Gli occhi erano spalancati e i denti tremavano per il freddo e per la paura.
- Non ti lascio, non ti lascio. - Le ripeteva a bassa voce Leo nell'orecchio, sentendosi quasi stupido a doverglielo dire. Lui non poteva lasciarla. Sarebbe stato davvero il niente, senza di lei.


Agata invece lo lasciò andare, divincolandosi dalle sue braccia e correndo verso la sua macchina, che aveva lasciato sotto casa.
Se ne andò, mentre lui sentiva ancora il peso di lei addosso a sé, insieme alle sue paure e a quella verità che l'aveva sconvolta.
Quella sera, Agata non tornò da Leo, non tornò nemmeno a casa.
Forse vagò a piedi per le strade con le mani gelate in tasca oppure guidò tra le campagne rese invisibili dalla nebbia fino al mattino, con una canzone inglese che veniva dall'autoradio e le lacrime che bagnavano il volante freddo.
Leo rimase sveglio fino all'alba, seduto sulla sedia a dondolo sul terrazzo a respirare l'aria impregnata delle tracce del suo profumo.





 

 

 

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Capitolo 10
*** E fu la notte. ***




                                                            





E fu la notte 

la notte per noi
notte profonda sul nostro amore. 
 
 
-Fabrizio De Andrè, E fu la notte.-






Flashback.




Quando Agata aprì gli occhi dopo intere ore di buio, capì subito di non trovarsi più in quel parco dove si era rifugiata la sera prima -o forse solo qualche ora prima-. Il freddo che le aveva ghiacciato i pensieri e le ossa era scomparso, come le calze bagnate a causa dell'erba su cui si era sdraiata e le lacrime ferme agli angoli degli occhi.
In quel momento, sentiva solo tanto calore e un buon odore di borotalco provenire dal lenzuolo celeste su cui si trovava, rannicchiata su se stessa come aveva sempre dormito da quando ne aveva memoria.
Si alzò a fatica a sedere su quel letto da una mezza piazza dalla rete cigolante, portandosi entrambe le mani sul viso sporco di trucco, sentendosi un terribile sapore in bocca e la testa potersi staccare da un momento all'altro dalle sue spalle fragili come non mai. Chiuse gli occhi vedendo ombre scure dietro le sue palpebre e quando li aprì di nuovo, si guardò intorno per la prima volta.
La stanza aveva le pareti dipinte di un bianco come nuovo, pulitissimo, che sembrava illuminare la penombra in cui si trovava a causa della finestra sigillata dalle persiane.
Davanti al letto c'era una piccola scrivania di vetro su cui erano stati accatastati quelli che sembravano dei fumetti -ed erano tantissimi, uno sopra l'altro- e una piccola televisione portatile posata lì di fianco, con l'antenna che pendeva leggermente a destra.
Nella libreria di legno, vicino alla finestra, c'erano dei modellini di dinosauro e delle videocassette con delle etichette. Da una scatola bianca sotto la scrivania spuntava un pallone da calcio di cuoio bianco. Sembrava la camera di un adolescente.
Agata si alzò lentamente in piedi, sgusciando fuori dal piumone a quadri che sembrava essersi appiccicato come una seconda pelle addosso a lei.
Non indossava più i suoi anfibi e le calze, ma aveva ancora indosso il maglione blu della sera prima che le arrivava quasi alle ginocchia arrossate probabilmente per una caduta.
Aprì la porta -anch'essa bianca, come le pareti- che era leggermente socchiusa e si sporse nel piccolo corridoio i cui muri erano coperti da alcune fotografie in bianco e nero e da una tappezzeria a fiori rosa. Nell'aria, c'era odore di caffé e pane abbrustolito.
In punta di piedi, aggrappandosi con le unghie rovinate alla parete, si avvicinò alla stanza da cui proveniva un leggero brusio di sottofondo e il rumore di un rubinetto aperto.
Quando si affacciò alla porta della cucina, Agata vide una signora anziana lavare delle tazze in un lavabo di ceramica bianca, simile a quello che sua nonna aveva nella casa di campagna dove, quando era una bambina, passava l'intero mese di agosto. Stava giornate intere a raccogliere more con cui si sporcava mani e bocca e la sera, quando tornava a casa, si ripuliva in quel lavandino troppo alto per lei, strofinando la pelle con il sapone nero dall'odore che riusciva ancora a ricordare.
Sul fornello acceso c'era una macchinetta del caffé che ogni tanto sputava qualche goccia di liquido scuro che finiva sulle piastrelle bianche della parete, insieme ad una pentola di acciaio in cui stava soffriggendo del sugo.
La donna aveva i capelli grigi legati in una coda bassa e un maglioncino rosso da cui spuntava una camicia celeste. Ai piedi indossava un paio di zoccoli bianchi, di quelli che usano le infermiere negli ospedali e producono un rumore infernale, e muoveva ritmicamente il piede destro sul pavimento dalle piastrelle grigie, quasi fosse un tic.
Quando si accorse della presenza di Agata, lasciò cadere un bicchiere del lavandino e le si avvicinò, zoppicando leggermente sulla gamba sinistra fasciata da una calza color carne.
La sospinse delicatamente verso una sedia posizionata intorno al tavolo di legno, sorreggendola per un polso quasi potesse cadere, lei, all'improvviso.
Agata le sorrise in imbarazzo, cercando di allungare il più possibile il maglione fin sotto le ginocchia. Si sedette impacciata sulla sedia che la donna le aveva spostato e si schiarì la voce guardandosi attorno. Dove era finita? Forse l'avevano rinchiusa in un centro di riabilitazione per dei poveracci senza soldi come lei. Forse stava ancora dormendo. Nessuno l'aveva salvata ed era ancora in quel parco a morire da sola come un cane?
La donna le sorrise asciugandosi le mani a uno strofinaccio logoro. Aveva quel sorriso dolce che ti fa chiudere lo stomaco e sorridere di rimando; che ti imbarazza, che ti fa quasi commuovere e si focalizza nella tua memoria. Un sorriso che abbraccia e conforta. Forse qualcuno, la sera prima, non l'aveva lasciata morire.
- Come stai, tesoro? - La donna aveva gli occhi di un verde che le sembrava di aver già visto. Occhi verdi con ciglia lunghissime.
- Bene, grazie. - Rispose a voce bassa la ragazza, sistemandosi meccanicamente una ciocca arruffata di capelli dietro l'orecchio.
- Sei un'amichetta del mio Leo, tesoro? -
- Leo? -
- È una mia amica, nonna. Un'amica un po' stronza, se devo essere sincero. -
Fecero la loro comparsa nella stanza un paio di capelli biondi scompigliati e una maglia di un concerto dei Metallica, con tanto di boxer a quadri e infradito blu ai piedi.
Agata guardò Leo senza riuscire a connettere il perché della sua presenza in quella casa, se di casa si trattava.
- Stronza? Mi sembra una ragazzina molto gentile ed educata, tesoro. -
- Ti assicuro che è una grandissima stronza. -
- Ma è carina, tesoro. -
Il ragazzo mise a fuoco la figura della ragazza e si aprì in un pigro sorriso mentre inzuppava il primo biscotto al cioccolato dentro la sua tazza di tè caldo.
- È molto bella, sì. -
Ad Agata le fu posata una tazza verde davanti agli occhi insieme ad una zuccheriera di ceramica.
Il telefono squillò in un'altra stanza e la donna anziana uscì a piccoli passi dalla porta, pronunciando delle scuse a bassa voce, mentre aveva ancora il sorriso sulle labbra per quello che aveva detto il nipote.
La ragazza guardò Leo immergere due biscotti insieme nella tazza che poi masticò energicamente a bocca piena con una smorfia di piacere. Agata si portò una mano sugli occhi per evitare quello spettacolo poco gradito, cercando di reprimere la risata che le stava risalendo la gola che bruciava.
- Perché sono a casa di tua nonna? -
- Perché io vivo con lei che fa i migliori biscotti al cioccolato di tutta la città con cui mi piace fare colazione ogni mattina. Se non li mangio almeno una volta al giorno, divento una bestia. -
Leo tirò in aria l'ennesimo biscotto e lo fece finire direttamente nella bocca aperta, sorridendo alla ragazza che continuava a girare lo zucchero nel suo tè ormai freddo. Non resistette più e gli sorrise apertamente. Con quel ragazzo era tutto un mostrare sorrisi storti e denti bianchi, un ridere fino a sentire male allo stomaco.
- Mi piace. -
- Il mio riuscire a centrare la bocca con il biscotto? Lo sai che riesco a mangiarmi anche l'unghia del pollice mentre sono al telefono? -
Agata rise di nuovo e Leo le si avvicinò, toccandole delicatamente con l'indice la fossetta appena accennata sulla guancia sinistra.
- Mi sono innamorato. -
- Di me? -
- Macchè, parlavo di quella fossetta lì. Sì, proprio quella lì. Non è che la puoi regalare? -
Agata continuò a sorridere mentre Leo le percorreva con il dito la pelle del viso e la guardava con quegli occhi dalle ciglia lunghissime, che le facevano sentire la necessità di abbassare lo sguardo. Non meritava che qualcuno la guardasse con quegli occhi.
Quando lo guardò di nuovo, Leo si era avvicinato quanto bastava per notare che aveva due nei sul mento e una cicatrice sulla tempia destra.
Quando la baciò, la sua lingua sapeva di tè ai mirtilli e biscotti al cioccolato e sentiva sulla sua pelle, quasi come un soffio leggero, i riccioli chiari che l'accarezzavano come stava facendo la sua bocca.
Leo riusciva a sorridere anche mentre baciava e a lei, improvvisamente, venne voglia di mangiarsi due o tre di quei biscotti al cioccolato di nonna Paola, per sapere se fossero così buoni come aveva percepito dalla sua bocca.






Agata era sparita nel nulla e non era certo che lei avrebbe voluto essere ritrovata.
Leo non la sentiva da quella volta che, per la strada buia, si era lasciato bagnare la pelle dalle sue lacrime disperate ed era scappata con la sua macchina senza un minimo di esitazione.
Il ragazzo continuava a condurre la vita di tutti giorni come se nulla fosse successo, come se Agata si fosse presa una breve vacanza dal mondo, sapendo che, prima o poi, sarebbe tornata, trovando la porta dell'appartamento in Via del Campo spalancata.
D'altronde, non era la prima volta che lei se ne andava per un certo periodo e poi tornava, con una nuova cicatrice, con un nuovo colore di capelli o un sorriso forzato. Leo non sapeva dove se ne andasse, dove si nascondesse dal mondo in quei periodi. Sapeva soltanto che non doveva fare domande e, bene o male, l'aveva accettato.
Sentire il suo odore sulla pelle quando l'abbracciava dopo intere settimane di lontananza era la ricompensa al suo non chiedere niente, a rispettarla in un certo senso.
La sera che Agata se ne era andata, Leo aveva dormito a casa di Aldo, nel letto della figlia maggiore che era andata a convivere con il fidanzato da ormai cinque anni.
Costanza gli aveva parlato una tazza di latte e miele e gli aveva rimboccato le coperte verso la mezzanotte, tirandogliele fin sopra al mento in modo che non prendesse freddo. Aveva anche alzato il riscaldamento per lui, sapendo quanto fosse freddoloso. Gli aveva accarezzato i capelli per qualche minuto, in silenzio, prima che il marito la invitasse ad uscire dalla camera per lasciarlo dormire tranquillamente.
Leo quella notte non dormì, ma riuscì a sorridere la mattina dopo, assistendo al bacio del buongiorno che Aldo diede alla moglie. Secondo Costanza, era dal 1998 che non gliene dava uno.
Andò regolarmente ogni mattina da Luciana come avevano concordato. Un martedì, alle sette e cinquanta era già davanti al portone di legno scuro, con in mano delle buste della spesa di plastica bianca contenenti cinque ananas e del pesce da cucinare per il pranzo.
- Cosa dovrei farci con questi cazzo di ananas, eh? -
- Mangiarli? -
- Vuoi vedere se te li ficco uno per uno su per il naso? -
- Avrei detto che saresti stata più volgare. Stai migliorando, Luciana! -
- Zitto, coglione. Perché hai comprato cinque ananas? -
- Perché fanno bene alla diuresi e sciolgono i grassi. -
- Mi stai dando della grassona? -
- No, ma ho notato che la tua vestaglia non si allaccia più come un tempo. -
- Ma senti questo stronzo! -
- Luciana, sei ingrassata e lo sai anche tu. Il pomeriggio ti sedimenti su quella poltrona sfondata a guardarti le repliche di C'è posta per te! Sei come una cozza con lo scoglio. -
- Ah, ora mi stai dando anche della cessa? -
- Ma no, Lucianina! Con i tuoi capelli come potrei dirti che sei brutta? -
- Comunque io non le farò delle cazzo di camminate per dimagrire. -
- Anche il Dottor Andreotti ti dice che devi fare del movimento. Da domani, una mezz'oretta al giorno ci facciamo un passeggiatina al parco della stazione. Ci sono anche tutte quelle belle paperelle da vedere nel laghetto di fronte alla fermata degli autobus. -
- Io ti ci affogo nel laghetto di merda. -
- E ora ti mangi anche due rondelle di ananas che male non ti fanno. Ti ho raccontato di quando mia nonna Paola riuscì a dimagrire 25 kg mangiando per un mese solo ananas? -
- E che cazzo me ne frega? -
- Io lo so che te vuoi un uomo. -
- Un cazzo voglio! -
- Esattamente di quello che stavo parlando! -
- Figlio di… -
- Senti, te la faccio una bella sogliola per pranzo? Guarda come è fresca! I suoi occhietti si muovono ancora! -






Leo rimase a casa di Luciana fino alle sei del pomeriggio.
Pranzarono insieme, fecero tre partite a canasta finché la donna non tagliò cinque carte con le forbici dopo aver perso l'ennesima partita e guardarono insieme Forrest Gump alla Paytv. Il ragazzo fu quasi sicuro di aver visto una lacrima all'angolo dell'occhio destro della donna. Quando glielo fece presente, Luciana si chiuse in bagno per quarantatre minuti.
- Domani ci guardiamo Arancia Meccanica. È di Stanley Kubrick, mai sentito? -
- Quello del cubo? -
- Ma no, Luciana! Quello è Rubik! -
- Sempre nomi del cazzo sono. -
- Se me lo ricordo ti porto anche la bottiglia di Limoncello che il mio vicino di casa mi ha regalato l'altro giorno. È fatto con il latte di capra. In due minuti sei ubriaca fradicia! -
- Ti vuoi approfittare di me? - Luciana iniziò a ridere di gola, mentre si alzava lentamente dalla poltrona di pelle del salotto e, zoppicando sul suo bastone, si avvicinava alla portafinestra che dava sul piccolo terrazzo dove c'erano i vasi con le begonie, che quel pomeriggio era per metà oscurata dalla serranda.
Leo si era accorto che alla donna piaceva guardare il tramonto prima che il cielo si scurisse.
Si posizionava sempre davanti al vetro freddo verso quell'ora e osservava l'arancione sfumato che sembrava coprire i tetti del palazzi in lontananza come un mantello.
Una volta, l'aveva scoperta mentre sorrideva a quei colori accesi. Era un sorriso di malinconia.
- Luciana, lo sai che ho un debole per i tuoi capelli per cui se a te va bene possiamo anche darci da fare. -
- Ma se sei accasato, mi hai detto! -
- Beh sì, ma io sono per un rapporto aperto. -
- Rapporto aperto o no, che mi dici di quella sciacquetta con cui stai? -
- Cosa le dovrei dire? - Leo la raggiunse davanti alla portafinestra, osservando anche lui le nuvole di zucchero filato rosa perdersi all'orizzonte in quella giornata fredda che stava giungendo al termine.
- Che cazzo ne so! Il colore dei capelli, il suo nome, se è fuori di testa come te… cose così. Non voglio sapere se ha mai avuto le emorroidi! -
Leo chiuse per un attimo gli occhi e dietro le palpebre disegnò la figura minuta di Agata, con i suoi sorrisi freddi e i maglioni troppo grandi; con gli anfibi rovinati ai piedi piccoli e le sue labbra rosse come il fuoco; Agata dai pochi abbracci e dai baci che gli lasciava sempre dietro l'orecchio.
- La stai immaginando nuda? -
Leo sorrise apertamente e si appoggiò con la fronte al vetro, soffiando il suo fiato freddo sulla superficie. Con l'indice scrisse il nome della ragazza in una calligrafia poco precisa.
Luciana gli si avvicinò e si mise gli occhiali che teneva nella tasca della vestaglia per leggere cosa avesse tracciato.
- Ma come cazzo scrivi? Cosa c'è scritto? -
- Agata. -
- È il suo nome? -
Leo annuì brevemente e Luciana sorrise come non l'aveva mai vista sorridere. Si allontanò dalla stanza, chiusa su se stessa, e con la mano che tremava sul manico del bastone. Sulla soglia della porta sussurrò a bassa voce: - Un giorno un uomo pronunciò il mio nome nello stesso modo in cui oggi tu hai pronunciato il suo. -
Il ragazzo rimase immobile davanti al vetro, lasciando la donna sola con i suoi ricordi che in quel momento potevano essere percepiti attraverso i suoi occhi chiari.
Leo continuò a pronunciare il nome di Agata a bassa voce, nel silenzio della stanza.





All'angolo di Via del Campo, proprio accanto al panifico del Signor Giuliano Pasolini, che qualcuno diceva fosse parente del famoso regista, c'era una piccola pasticceria aperta qualche mese prima che lui si trasferisse nel suo appartamento.

La proprietaria era una giovane ragazza francese di nome Laetitia che faceva la migliore meringata di tutto il paese. E lui, quando era triste, necessitava di una meringata fatta come si deve.
Aveva i capelli biondi che le arrivavano fino alla vita, che teneva sempre legati in una coda, degli occhi verdi così belli che non li truccava mai e pronunciava il suo nome con talmente tanta dolcezza che Leo, ogni volta che entrava in quel negozio, glielo faceva pronunciare per almeno sei o sette volte di fila.
Quella sera di aprile la pasticceria era vuota e Leo, ghiacciato dal vento che aveva iniziato a tirare appena era uscito dall'appartamento di Luciana, si era sentito subito riscaldato dal sorriso sincero della ragazza dalla R moscia.
- Leò! -
- Dillo ancora. -
- Leò, entra dentro prima che ti venga un malanno per colpa de moi. -
- Potrebbe venirmi la broncostroncopolmonite per quanto mi riguarda, sentire il mio nome uscire dalle tue labbra mi riempie di gioia e gaudio. -
La ragazza si mise a ridere e si pulì le mani sporche di farina bianca sul grembiule legato ai suoi fianchi stretti.
- Cosa posso fare per te, Leò? -
- Facciamo dei figli insieme. -
- Smettila, sciocco! Davvero, in cosa posso esserti utile? -
- Una meringata da portare via, per favore. -
- Ma... la tua fiancè ne ha comprata una prima. -
- La mia cosa? -
Laetitia si avvicinò al bancone e sorrise gentile mentre due clienti entravano nel negozio.
- La tua ragazza, quella dagli occhi belli. -
Leo rimase in silenzio, osservando il volto sorridente della ragazza, cercando di metabolizzare le sue parole.
Dopo qualche secondo le sorrise ed uscì correndo dal negozio, poi per la strada schivando un impiegata in sella a una bicicletta rossa e due ragazzini che si baciavano in mezzo alla strada. Salì le scale del palazzo di corsa, con il fiatone e le mani che stringevano le chiavi che tremavano appena.
La vide subito appena mise piede sul pianerottolo.
Agata era seduta davanti al portone di casa, con le ginocchia strette al petto, il viso nascosto da una sciarpa rossa e una scatola contenente la sua meringata vicino ai piedi. I capelli sembravano dello stesso colore dell'ultima volta che l'aveva vista.
Quando alzò lo sguardo su di Leo, il ragazzo si accorse che al naso arrossato per il freddo portava un piccolo cerchietto d'argento. I suoi occhi erano socchiusi ma lo guardavano dolcemente.
Leo si mise a ridere forte e si sedette sul tappetino logoro insieme a lei, le ginocchia vicine e le braccia che si sfioravano.
- Ma non è che durante la notte ti metti a muggire, vero? -
Agata sorrise apertamente con le labbra secche e rosse per la tramontana. Il suo viso era lo stesso e identiche erano anche la labbra che lo baciarono appena lui le prese la testa tra le mani che continuavano a tremare.
Si baciarono finché non sentirono il sedere ghiacciarsi e le loro mani perdere la sensibilità.
- Hai comprato la meringata per festeggiare il tuo nuovo piercing? -
- No, per il mio ritorno a casa. - E la parola casa, sulle sue labbra rosse, era la parola più bella che avesse potuto dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** Per i tuoi larghi occhi. ***


In questa storia ci sto mettendo tutta me stessa. Ritrovo piccoli frammenti di me in ogni singolo capitolo.

Devo dire grazie ad Agata e Leo per rendermi così facile scrivere questa storia, per essere dei bravi personaggi nelle mie mani, e un grazie speciale a voi, che siete le lettrici che tutti desiderebbero avere.

Grazie di cuore.

Buona lettura,

vostra Giulia.


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I tuoi larghi occhi

che restavan lontani
anche quando io sognavo,
anche mentre ti amavo.

 
-Per i tuoi larghi occhi, Fabrizio De Andrè-










Ogni volta che Agata ritornava dalle sue innumerevoli fughe dal mondo, Leo si preoccupava di raccontarle dettagliatamente cosa era successo durante la sua assenza. Lo faceva per farla sentire sempre parte di quella famiglia che erano loro due da soli, di quella famiglia di cui facevano parte tutti gli abitanti di Via del Campo; per tranquillizzarla, per farle capire che niente era cambiato da quando lei se ne era andata. Tutto era rimasto esattamente come lo aveva lasciato, nemmeno la disposizione di qualche oggetto per la casa era cambiata.
Quella sera, dopo che Leo aveva ritrovato Agata seduta sul tappetino lercio davanti il portone di casa, il ragazzo aveva passato l'intera notte a raccontarle della litigata tra Manik e Aldo a proposito di chi fosse il vincitore dei Mondiali di calcio del 1982; di come Bogdana si fosse fatta bionda platino con due extension blu dopo aver visto una foto di Lady Gaga su internet; di quando Costanza aveva tirato un piatto di ceramica in testa ad Aldo ed erano dovuti correre al Pronto Soccorso alle due di notte. L'uomo se l'era cavata con cinque punti e una torta di mele quando era tornato a casa.
Leo le raccontava tutto muovendosi per la cucina, saltellando quasi a piedi nudi, mentre teneva tra le mani una tazza di latte caldo e miele e divorava una fetta di meringata che aveva comprato la ragazza. Parlava, parlava e parlava senza quasi prendere fiato e sembrava così felice che Agata non riusciva a fare altro che sorridergli di rimando in silenzio, con un nodo stretto alla gola e le mani incrociate che tremavano senza sosta sopra al tavolo di legno.
Quando le aveva detto che una sera si era sentito talmente solo in quella casa che era dovuto andare a dormire nell'appartamento insieme a Bogdana e i suoi figli, Agata aveva iniziato a piangere.
Si era alzata dalla sedia in cui era rimasta seduta fino a quel momento ed era andata ad abbracciare Leo. Lo aveva abbracciato così forte che gli aveva tolto il fiato per qualche secondo. Lei tremava tutta e le lacrime continuavano a bagnarle il volto e la felpa del ragazzo. Era un'Agata talmente fragile quella che aveva davanti, che con un soffio Leo l'avrebbe potuta distruggere e niente avrebbe potuto rimettere insieme i suoi pezzi.

Lui le aveva accarezzato i capelli giocando con le punte rovinate dalle tinte e si era offerto di prepararle un tè caldo in cui avrebbe potuto inzuppare qualche biscotto di nonna Paola. L'aveva allontanata da sé ed aveva messo l'acqua a bollire iniziando a parlare di un film che aveva visto un mercoledì sera insieme a Manik e Davide, senza guardarla negli occhi.

Agata si era appoggiata al bancone della cucina, mentre qualche lacrima continuava a scenderle dagli occhi. Non riusciva a smettere e quello faceva paura a lei come faceva paura a Leo che parlava per non mettersi a piangere anche lui. Quella che aveva davanti era un'Agata quasi senza forze e piena d'angoscia. Un'Agata disperata.
Si sedettero sul divano e le fece bere il tè caldo, tenendole la tazza quando lei si alzava per andare a prendere altri biscotti in cucina.
La prima risata che le uscì dalle labbra, Leo la sentì quando fece l'imitazione di Aldo mentre cantava Minuetto, famosissima canzone di Mina, mentre era sotto la doccia di casa sua, quando la sua caldaia era andata in blocco.
Si era addormentata verso le quattro di notte sul divano, mentre Leo guardava un vecchio episodio dei Simpson e continuava ad accarezzarle le mani tiepide.
L'aveva portata nel suo letto e si era sdraiato accanto a lei, sotto quel piumone da temperature artiche, tenendola vicino a lui con una mano sulla sua pancia coperta da una sua maglia larga.
La teneva vicino a sé nonostante sapesse che Agata se ne sarebbe andata di nuovo, probabilmente quella volta per sempre.
Avrebbe lasciato solo una traccia del suo rossetto rosso sullo specchio dell'ingresso, dove c'era appiccicata con del nastro adesivo una loro foto scattata a casa di lui un pomeriggio di novembre, insieme a due biglietti del cinema all'aperto di Piazza Dante. Il ricordo di quel giorno passato a mangiare pop corn bruciacchiati e a litigare per chi dovesse avere l'ultimo sorso d'acqua frizzante.
Leo lo sapeva che per quanto la potesse tenere stretta fino a sentire l'ombra delle sue costole sul cuore, la morbidezza della pelle lentigginosa della spalla sulle labbra, lei sarebbe riuscita a districarsi dal suo abbraccio. Lei se ne sarebbe andata e a lui sarebbe rimasto solo l'impronta della sua mano sul vetro del terrazzo, che avrebbe rivisto in una sera d'inverno, per caso. Lui l'avrebbe cancellata subito dopo, con lo straccio vecchio che avrebbe trovato sotto al lavabo.
Per ricordarsi di Agata lui non aveva bisogno di un suo segno sbiadito; Agata era tutta, tutta nella sua mente.





Quando la mattina dopo Leo si alzò, erano le otto del mattino ed Agata non era più al suo fianco.
Scese dal letto indossando una felpa e le infradito giallo canarino -regalo di Bogdana dello scorso Natale- senza farsi prendere dal panico per la sua assenza e accese immediatamente il riscaldamento.
Quando entrò in cucina, canticchiando la strofa di una canzone di Jovanotti, Agata era ai fornelli che preparava le crepes. Lei era la maga delle crepes.
- Se mi dici che hai fatto anche il caffè, domani ci sposiamo!
- È dentro il forno a microonde. Comunque no grazie, posso fare a meno di sposarti.
- Non ti preoccupare, non ho bisogno di una moglie. Ho già nonna Paola che mi cucina, mi stira i vestiti, mi fa i biscotti e mi rimbocca le coperte prima di andare a letto.
- E l'amore con chi lo fai?
- Con la ragazza della pasticceria! Te l'ho detto che quando dice il mio nome vengo pervaso da un milione di brividini?
- Me lo dici ogni volta che esci dal suo negozio. A me Bogdana mi ha detto che è lesbica e l'ha vista baciarsi con Anna, la proprietaria della cartoleria vicino al panificio Pasolini.
- Stai scherzando? La pasticcera è mia!
- A me non piace. Ha gli incisivi separati e le gambe storte.
- Io ho una passione per gli incisivi separati. Come Vanessa Paradis.
- Chi?
- Una gnocca assurda, amore. Dopo ti faccio vedere una sua foto su Cosmopolitan.
- Da quando leggi Cosmopolitan?
- Da quando scrivono gli articoli su come diventare una star in cinque semplici mosse. E anche su come portare all'orgasmo in dieci secondi.
- Non ci credo.
- Stanotte proviamo, va bene?
- Dio, sei più porco del solito. Ah, a proposito di porci, prima ha chiamato la donna per cui lavori.
- Lucianina? Cosa ti ha detto?
- Che sei un porco perchè ieri sera ti sei scordato di buttare la spazzatura e che oggi pomeriggio ti aspetta a casa sua alle quattro per andare a fare una passeggiata al parco.
- Allora le coccole bisogna farcele ora perchè poi dopo devo preparare la pasta all'arrabbiata da portare ad Aldo. Ha detto che sua moglie non gli cucina più niente.
- Ma di che coccole parli?
- Di quelle che necessito! L'altro giorno ho visto Babe, maialino alla riscossa e non avevo nessuna spalla su cui piangere e farmi confortare. Mi devi due ore di coccole!
- Fattele fare dalla pasticcera, stronzo.
- Una frase carica di gelosia con una parolaccia del mezzo. Niente coccole, ora facciamo sesso selvaggio! Sono già eccitato.
Leo se la caricò in spalle e la scaraventò sul letto mentre Agata non riusciva a smettere di ridere e dal piano di sopra, partiva una canzone del nuovo cd di Vasco Rossi.
Agata era tornata quella di sempre, la poteva riconoscere dal sorriso e la sua fossetta sulla guancia sinistra.
Quella era la sua Agata.






Fecero l'amore più bello del mondo, migliore di un orgasmo in dieci secondi.
Era l'amore del ritrovarsi dopo tanto tempo e del riscoprire un neo sulla pancia, nel sospiro quando si tocca un determinato punto, di una risata quando viene accarezzata la pelle sotto il ginocchio.
Era l'amore lento che piaceva tanto ad entrambi, quello che è tutto un sorriso e un annusarsi per trovare quel lembo di carne dove si sente di più l'odore dell'altro. Era quasi un amore che ti fa piangere perchè quello che provi è amplificato a mille e sai che quel momento rimarrà per sempre nella memoria. Un momento che ti farà attorcigliare le budella e chiudere gli occhi per non mostrare a nessuno quello a cui stai pensando.
Si sfiorarono, si accarezzarono, si morsero, si baciarono per minuti interi senza prendere fiato, si rotolarono su quelle coperte calde in cui avevano dormito abbracciati, e scherzarono anche mentre erano una cosa sola, così appiccicati che, solo per un attimo, il pensiero di non riuscire più a staccarsi attraversò la mente di entrambi.
Non ci fu un solo millimetro di pelle del corpo che non fu toccato, baciato con labbra screpolate e che sapevano dell'altro.
Quello era l'amore che si fa ad occhi aperti per registrare tutto, ogni minimo dettaglio che non andrà perduto. Quello che ti fa capire che quella persona riesce a respirare solo se il respiro lo ruba dalle tue labbra.
Un amore che fai poche volte nella vita.
Leo ed Agata non avrebbero voluto fare altro per i seguenti cent'anni.






- Cos'hai da sorridere come un cretino?
- Io? Niente, Luciana! Sorrido come sempre. Guarda che belle quelle paperelle! - Leo camminò a passo svelto calpestando la terra bagnata dalla pioggia che era caduta verso l'ora di pranzo, e raggiunse il laghetto dove stavano nuotando alcune papere e due tartarughe della dimensione della sua mano. Si appoggiò alla balaustra arrugginita ed aspettò che la donna lo raggiungesse lentamente.
- Non mi raccontare cazzate. Hai un sorriso che ti prende tutto il viso. Dai quasi fastidio.
- Sei soltanto gelosa perchè vorresti avere un sorriso come il mio! Goditi questa bella giornata di sole…
- Ma se sta per piovere di nuovo!
- ... E non ti lamentare sempre come una vecchia pentola a pressione acciaio inox 18/10!
- Vaffanculo. Senti, ma secondo te li si può dare da mangiare a queste bestie?
- Certo! Ti sei portata il pane grattugiato che è avanzato oggi?
- Sì, ho buona memoria io.
- Pure io! Infatti mi ricordo benissimo che tra una settimana è il tuo compleanno e compi novantacinque anni!
- Tua zia, pezzo di merda! Ne faccio settantatré.
- Siamo alla frutta, Luciana. A chi la lasci l'eredità?
- Non di certo a te, idiota che non sei altro.
- Io vorrei i tuoi capelli per ricordo. Puoi scrivere di farti rasare prima di passare a miglior vita?
- Senti coglioncello dei miei stivali, te me la stai gufando. Dimmi perchè sorridi così e smettila con questi discorsi.
Luciana si avvicinò alla balaustra dove stava il ragazzo e tirò fuori dalla tasca del suo giaccone nero una bustina di plastica con delle molliche che aveva tolto dal pane mentre Leo lavava i piatti cantando una canzone di Baglioni.
Si allungò un po' verso l'acqua del lago e, con le mani secche e tremanti, iniziò a lanciare a poco alla volta il contenuto del sacchettino. Rise per qualche secondo quando una papera nuotò veloce per raggiungere il pezzo di pane che la donna le aveva lanciato.
Leo sorrideva, con le mani in tasca e un cappello di lana calato in testa a coprire i suoi riccioli biondi che stavano piano piano ricrescendo.
- È tornata.
- La tua morosa?
- Sì.
- E avete fatto le porcate.
- Luciana! Si dice fare l'amore. Come sei volgare certe volte.
- Il succo è quello.
- Sei davvero poetica.
- Sicché è per quello che sorridi come un allocco da due ore.
Leo si limitò a ridere a voce alta, facendo girare sorpresi alcuni ragazzi che stavano facendo jogging al limitare del parco vicino alla Stazione dei treni dove si trovavano.
- Mi era mancata.
- Rischio di commuovermi se dici così.
- Luciana, invece di prendermi in giro, raccontami la prima volta che hai fatto l'amore!
- Sono passati almeno cinquant'anni.
- Vecchia.
- Stronzo! Comunque, lui era un militare che abitava vicino casa dei miei genitori. Io avevo diciotto anni e lui invece ventitré. Aveva dei capelli neri così lunghi e belli che...






Dopo che Leo aveva baciato Agata, quella mattina a casa di sua nonna, ci fu un altro bacio davanti al ristorante cinese dove si erano dati appuntamento il giorno seguente. Aveva pagato la ragazza, per sdebitarsi per l'ospitalità del giorno prima a casa della nonna, e Leo aveva ordinato di tutto e di più, felice come poche volte l'aveva visto. 

Si baciarono appoggiati alla saracinesca di un negozio di scarpe, con ancora il sapore del pollo alle mandorle nelle loro bocche. Era un bacio passionale, completamente diverso da quello che si erano scambiati, quasi timidi, nella cucina di nonna Paola. Quello era un bacio che riempiva e svuotava e che ti faceva venire voglia di toccare la pelle dell'altro e di immergere le mani nei suoi capelli per non farlo allontanare nemmeno di un centimetro. Quando si staccarono per riprendere fiato, Leo notò il tatuaggio di Agata sul dito medio della mano che era ancorata al suo giacchetto pesante.
- Cos'hai tatuato sul dito?
- Una lettera.
- Che lettera?
- Una F. Lo sei che sei proprio cieco?
- Però ci sento bene! La F di...?
- Fabrizio De Andrè.
- Ah...un tuo amico emo come te?
- Tuo nonno. E poi io non sono emo.
- No, nonno sono sicuro si chiamasse Albino Rosicati.
- Era albino davvero?
- Macchè, pelle scura come quella di un marocchino perche' sua madre, in viaggio di nozze a Marrakesh, si era data da fare con il fattorino dell'hotel dove alloggiavano! In famiglia siamo tutti un po' puttane.
Leo le fece un sorriso smagliante e Agata alzò il dito medio nella sua direzione.
Quella F tatuata gli piaceva proprio tanto. Forse, un giorno, se la sarebbe fatta tatuare identica.










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Capitolo 12
*** Dolcenera ***


Sinceramente non so cosa dire, sembrano passati secoli dall'ultima volta che ho aggiornato (ed è effettivamente così) tanto che non mi ricordavo più come si facesse ad inserire l'HTML!

Io sono un caso più unico che raro, questo c'è da dirlo.

Bando alle ciance spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e non mi troviate così arrugginita come penso di essere visto che era un pò che io e la scrittura non ci incontravamo. L'ispirazione è tornata e cercherò di utilizzarla anche per le altre mie storie in corso.

Non vi abbandono, state tranquille.


Buona lettura!












..ha avuto in un giorno la certezza di aversi 
acqua che ha fatto sera che adesso si ritira 
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c'entra niente 
fredda come un dolore Dolcenera senza cuore..


-Dolcenera, Fabrizio De Andrè-









Leo avrebbe voluto tanto farsi allungare la barba. Non rasarsela per due o tre mesi e farsi crescere anche due lunghi baffi biondi, tendenti al rossiccio alle estremità, che avrebbe accarezzato con aria pensosa durante i suoi momenti filosofici.
Sosteneva che seduto sulla sua sedia a dondolo sul terrazzo insieme alla sua nuova barba avrebbe raggiunto il livello massimo di saggezza. Sarebbe stato come un Marx del ventunesimo secolo.
Ad Agata però non piaceva la barba e men che meno i baffi. Diceva che lo facevano sembrare un vecchio maniaco a cui bastava soltanto un impermeabile nero e una pipa per andare a spaventare giovani ragazzine al parco.
Leo sulla pipa di legno ci aveva fatto un pensierino, se bisogna essere sinceri.
Ogni sabato lo costringeva quindi a radersi e spesso, quando lo faceva, lei se ne stava seduta sul tavolo in cucina insieme a lui.
In bagno, Leo si spalmava la schiuma al mentolo che gli portava Agata dalla Conad, specchiandosi per minuti interi allo specchio rotondo, costantemente appannato nell'angolo destro, intrattenendo spesso e volentieri dei monologhi a voce alta con se stesso.
A radersi però andava in cucina; si posizionava davanti al lavello, dove c'erano sempre piatti sporchi e bicchieri dai manici sboccati da lavare, e con il rasoio nella mano destra iniziava a radersi specchiandosi sul fondo di una pentola di acciaio attaccata alla parete arancione dove c'era il portaposate che conteneva soltanto cucchiaini da caffè.
Mentre si radeva chiacchierava con Agata oppure parlava alla sua figura riflessa, elencando le innumerevoli qualità che possedeva il suo viso. Agata lo interrompeva sempre quando definiva i suoi occhi di un “blu ceruleo chiarissimo con dei riflessi di grigio quasi argento vicino alla pupilla”. I suoi occhi erano verdi, delle volte giallognoli. Stop. Leo tendeva sempre ad esagerare ed era narciso come pochi.
Gli piaceva anche un sacco descrivere il neo che aveva vicino al labbro inferiore, quel neo che sapeva benissimo piacere ad Agata. Una volta, mentre facevano il bagno insieme, lei gli aveva addirittura confessato di essersene disegnata uno identico nello stesso punto con la matita nera degli occhi, quando non si conoscevano ancora molto bene.
Naturalmente Leo quella confessione non se la sarebbe mai dimenticata.
Quel sabato mattina il ragazzo si stava facendo la barba ma non con il suo abituale rasoio, il che lo disturbava non poco. In quel momento, il suo personalissimo rasoio che nonna Paola gli aveva comprato il mese prima, era tra le mani di Agata che lo stava usando per radersi le gambe, seduta sul bordo della vasca di ceramica in bagno, mentre cantava una canzone in inglese a bassa voce, calcando sugli acuti.
- Spero tu lo sciacqui quando finisci.
- Certo, non sono mica un’incivile come te.
- Io sono civilissimo!
- Ma se non ti cambi i calzini da cinque giorni!
- Bugiarda! Soltanto tre giorni e solo perché tu non mi hai ancora fatto la lavatrice e quella di nonna è rotta.
- Vai in una lavanderia a gettoni. Ne hanno aperto una in Viale Boccaccio qualche settimana fa.
- Ma sei matta? Vuoi mandarmi in quel covo di pazzi che ti guardano come se avessi quattro occhi solo perché giri per la strada con il pigiama e le ciabatte?!
- Leo, sei di nuovo uscito di casa in pigiama?
- Solo per andare a comprare il latte alla Coop! Giuro che avevo sia la giacca che i pantaloni!
- Fai schifo. Mi passi quella crema?
Leo scese dal tappo del water dove si era appollaiato per osservare meglio Agata seduta sulla vasca e si avvicinò allo scompartimento sopra il lavandino dove ci stavano le medicine, alcuni trucchi che Agata lasciava a casa sua in caso di emergenza, le pillole per la memoria che Leo prendeva ogni mattina, una confezione di tè deteinato e il menù di un ristorante cinese.
Il ragazzo prese la vaschetta di una crema rassodante e la passò alla ragazza che aspettava che l'acqua diventasse tiepida per lavare il rasoio che teneva ancora tra le mani.
- Nocciolina, perché c'è il menù di un cinese nell' armadietto dei medicinali?
- La scorsa settimana in frigo ho trovato la tua pompetta per l'asma e ti lamenti di questo?
- Sì perché ero sicuro di averlo messo dentro al forno a microonde. Lì perlomeno sono sicuro di trovarlo.
- Cambiando discorso cosa hai intenzione di portare al picnic di domani?
Leo saltellò accanto ad Agata con un sorriso che gli arrivava da orecchio ad orecchio e che mostrava quasi i denti del giudizio. La ragazza, oltre al neo, gli invidiava anche quel sorrisone aperto e perfetto. Quel sorriso che la faceva sentire tanto leggera.
- Amore ho avuto un'ideona stanotte, mentre guardavo le repliche dei Griffin che danno alle due di notte!
- Spara.
- Ho pensato di preparare le lasagne di mare che mi riescono tanto bene, un’insalatina fresca fresca per secondo, insieme a dei totani fritti che oggi andiamo a prendere alla pescheria vicino al Corso e pure il tiramisù al caffè se mi ci s’incastra. Lo sai che stasera ci sono i nuovi episodi di Dr.House e non posso perdermeli.
- Io porto il termos con il caffè.
- E Aldo la Sambuca. Secondo me finiremo a giocare a Strip Canasta come l'ultima volta che abbiamo fatto un picnic tutti insieme.
- Guarda di non farti venire il raffreddore che non ho voglia da farti da infermiera.
- Ma dai! Avevo già in mente il costume pornissimo da farti indossare!




La sera prima si erano riuniti tutti a casa di Manik e Giovanni per guardarsi il dvd dell'Esorcista che Leo aveva preso in noleggio la mattina stessa.
Si erano sistemati nel salotto dalle pareti dai colori caldi e i tappeti egiziani morbidissimi, dove c'era sempre un forte aroma di incenso; Leo si era spaparanzato sul divano insieme ad Aldo e Bogdana che quella sera aveva parlato ininterrottamente per un'ora della presunta omosessualità del calzolaio di Via del Campo che si era da poco separato dalla moglie. Agata se ne stava in piedi vicino alla finestra aperta, accendendosi una sigaretta ogni cinque minuti affermando che fosse a corto di ossigeno.
In realtà, se ne stava leggermente in disparte perché si sentiva ancora in imbarazzo con quella che considerava a tutti gli effetti la sua famiglia.
La confessione urlata a denti stretti da Leo qualche settimana prima sembrava ancora aleggiare sulle teste dei presenti come una presenza impalpabile, ma che pesava come cemento sullo stomaco e nella memoria di Agata. Nessuno però, la trattava in modo diverso o la guardava negli occhi con pietà o addirittura repulsione.
Tutti, quando quella sera l'avevano vista entrare nella stanza al fianco di un Leo più ciarlone del solito, le avevano sorriso con affetto, tantissimo affetto. Manik l'aveva abbracciata con discrezione, gentile come al solito, e Costanza le aveva offerto una fetta del dolce allo yogurt che aveva preparato quel pomeriggio, bruciacchiato ai bordi.
Nessuno la trattava come una drogata e lei aveva scordato di esserlo per delle intere ore.
Quando il film era finito, e Aldo era ancora in bagno dove si era rinchiuso dopo la prima scena di paura, avevano iniziato a ideare il piano per un pomeriggio da passare tutti insieme fuori casa, fuori da Via del Campo, fuori dalla quotidianità che prima o poi avrebbe soffocato qualcuno. Magari in campagna, sul mare o in collina.
Avevano concordato per un picnic fuori città per la domenica seguente, visto che era festa e nessuno doveva andare a lavoro.
Aldo, quando era riuscito ad uscire dal bagno cantando Mina quasi per farsi coraggio ed allontanare dalla sua mente i brutti pensieri, aveva detto che avrebbe portato la Sambuca soltanto se avessero bruciato il dvd di quel film definito “di merda” davanti ai suoi occhi.




Quel sabato pomeriggio Agata e Leo camminavano in silenzio fianco a fianco per la via del Corso. Erano usciti di casa per andare a comprare i totani che avrebbero cucinato fritti la mattina dopo e già che c'era, il ragazzo aveva deciso di fare la spesa settimanale alla sua Luciana che avrebbe visto la sera del giorno dopo.
Intorno a loro c'era un via vai di persone indaffarate che uscivano ed entravano dai negozi, alcuni a cavallo di una bicicletta rossa che sembrava quasi sfiorare il marciapiedi occupato completamente da passanti in corsa; motorini che suonavano il clacson per minuti interi a causa di un autobus che intasava la via e un vecchietto che per poco non era stato arrotato sulle strisce pedonali da un auto al cui volante c'era una ragazza che si stava truccando allo specchietto retrovisore; bambini che senza freni si buttavano in mezzo alla strada facendo su e giù dal marciapiede e madri che li sgridavano a voce talmente alta da superare il rumore dei clacson impazziti e di quel mendicante all'angolo della strada che stava suonando una chitarra accordata male.
Leo ed Agata osservavano tutta quella vita come se fossero stati al cinema. Loro se ne stavano immobili e in silenzio mentre delle scene confuse e delle volte terrificanti passavano davanti ai loro occhi ad una velocità esorbitante. Il ragazzo era davvero spaventato e continuava a ripetere a voce alta di rinchiudersi nel primo ristorante giapponese che avrebbero trovato per la strada. Nei suoi occhi c'era la paura per quella realtà a cui non era abituato. In Via del Campo nessuno correva, tutti sorridevano e le poche parolacce che si sentivano provenivano dalla sua bocca. E, soprattutto, c'era odore di pane appena sfornato su ogni muro, in ogni crepa e persiana aperta.
- Agata…
- Mhm?
- Ho paura, tesoro. Ho seriamente paura di queste… come si chiamano?
- Persone?
- No, mostri! Oddio, guarda quello, sta parlando con il suo cane. Guardalo.
- Tu parli al frigorifero giallo, non so chi sia messo peggio.
- No, ci sono pure gli adolescenti allupati attaccati a quel muro, li vedi? Era da anni che non ne vedevo uno.
- Smettila di fissarli.
- Ma guarda quel porcone dove ha la mano!
- Guarda se trovi un tabaccaio, ho finito le sigarette.
- Oh mio Dio quella bambina ha appena sputato della roba verde dalla bocca!
Trovarono un tabaccaio a qualche metro di distanza dalla bambina impossessata. Quando entrarono dentro il negozio dall'insegna illuminata di rosa, i loro occhi si posarono sulla figura della ragazza seduta alla piccola alla cassa che stava leggendo un libro di non molte pagine. Aveva dei lunghi capelli scuri legati in tante piccole treccine elaborate, le labbra di un forte rosso e i polsi pieni di braccialetti tintinnanti. Era magrissima.
Quando si accorse di Leo ed Agata sorrise loro gentilmente, come se fossero stati due clienti abituali, ma quel sorriso sparì nel momento in cui i suoi occhi chiari -quasi grigi alla luce forte della stanza- si posarono sulla figura della ragazza appena entrata. Abbassò per un attimo lo sguardo e quando rialzò di nuovo gli occhi, rivolse un sorriso nuovo soltanto ad Agata che non si era mossa dalla sua posizione vicino alla porta d'entrata ancora aperta.
I suoi occhi sembravano due pozzi di acqua chiarissima. Leo quasi non si rese conto di quando quella piccolissima ragazza si alzò dallo sgabello dove era seduta e corse ad abbracciare Agata che la strinse a sua volta, aggrappandosi a lei, ai suoi vestiti con le braccia e forse anche con le unghie. Sul polso destro, aveva due lettere maiuscole tatuate.
Avevano entrambe gli occhi chiusi, ma il ragazzo poté giurare che quelli della sua ragazza, sotto le palpebre che tremavano appena, fossero emozionati come poche volte li aveva visti. Quando slegarono il loro intreccio, nonostante le loro braccia fossero ancora vicine, si sorrisero con talmente tanto affetto che Leo si sentì quasi geloso.
Agata si schiarì la voce e si girò verso di lui con le sue labbra rosse socchiuse. Quando gli chiese se poteva lasciarle sole, anche solo per un attimo, le sue labbra tremavano e la voce era solo un debole e fioco sussurro.
Leo uscì dal negozio, camminò sul marciapiede di quella via ancora trafficata in silenzio, sentendosi spingere da una parte all'altra da gente con poco rispetto. In quella bolgia, senza Agata che in quel momento stava probabilmente piangendo insieme a quella sconosciuta di cui sapeva solo il colore degli occhi, si sentì ancora più terrorizzato.
Era sicuro che Agata non avrebbe risposto a nessuna delle domande che le avrebbe posto quando fosse uscita da quella porta chiusa. Sarebbero rimasti degli interrogativi di parole vuote.
Delle volte -e Leo l'aveva imparato dopo tanto tempo- con lei era meglio non chiedere e limitarsi al silenzio, quel silenzio in cui anche la ragazza viveva.
Agata era un silenzio che solo lui poteva riempire di parole.





Quella domenica di fine aprile, gli abitanti di quel palazzo dai muri gialli di Via del Campo, si ritrovarono alle otto in punto davanti alla panetteria Pasolini, chiusa durante quel giorno feriale. Bogdana, in piedi accanto al negozio con il cellulare in mano, indossava un cappellino rosa con la visiera e una tuta dello stesso colore che attirava l'attenzione di tutti i passanti mattinieri che passeggiavano lentamente per la via e si ritrovavano gli occhi catturati dal colore dei suoi indumenti.

I suoi due figli, Eze e Rabah, correvano senza sosta intorno a lei con i loro cestini da picnic in mano, offendendosi in russo e tirandosi i capelli. Qualche ciocca scura dei capelli di Rabah rimase nelle mani del fratello sorridente e la bambina si attaccò disperata alle gambe della madre.
Aldo stava caricando alcune borse e due teli da mare nel bagagliaio della sua macchina, un vecchia Ford blu scuro, che qualche mese dopo sarebbe stata rottamata. Costanza era già seduta in macchina, sul sedile anteriore, che ascoltava Radio Maria a volume basso.
Manik e Davide, con Leo accanto che cercava di aprire il termos del caffè caldo e zuccherato, controllavano la strada che avrebbero dovuto fare per raggiungere una collinetta fuori città, abbastanza conosciuta da tutti, che nel 2005 aveva ospitato il loro ultimo picnic.
Agata uscì dal portone del loro palazzo mentre si stava legando i capelli lunghi in una coda alta. Sulle spalle teneva un grande zaino da viaggio al cui interno c'era tutto quello che aveva cucinato Leo quella mattina, che per l'occasione si era alzato alle sei del mattino e si era cambiato i calzini. Il ragazzo indossava un paio di pantaloni con le bretelle e una maglietta a maniche corte dei Nirvana che Aldo sosteneva aver visto ad un concerto nel paese di Santa Luce, in Toscana, nel 2005.
Leo ed Agata salirono in macchina insieme a Manik e Davide mentre Bogdana e i suoi figli nella macchina di Aldo che aveva già inserito il cd con tutti i successi di Mina nel lettore cd, nonostante il brontolare di dissenso di sua moglie.
Nella macchina in cui c'era Leo, Manik decise di accendere la radio mentre stava trasmettendo una canzone famosa degli anni '80 di un cantante inglese.
I due ragazzi seduti sui sedili anteriori, che tenevano le mani intrecciate sul cambio, iniziarono a cantarla a bassa voce, sorridendo senza volersi far notare.
- Sono i Duran Duran? - Chiese Leo ricevendo un'occhiataccia da parte di Agata, seduta scompostamente accanto a lui, che osservava il panorama fuori dal finestrino un poco abbassato.
- Leo, vergognati.
- Sono i Led Zeppelin. - Gli rispose Davide, alzando il volume della radio.
- Questa è la canzone mia e di Manik. Ci siamo incontrati grazie a lei.
Anche Leo ed Agata avevano una loro canzone. Chissà se la ragazza seduta al suo fianco se la ricordava ancora…





Erano dentro un ristorante giapponese quando Leo la sentì per la prima volta.
Entrambi si chiesero il perché di quella canzone italiana, quando fino a qualche momento prima avevano ascoltato solo litanie straniere, cantate in una lingua sconosciuta e impossibile da decifrare.
Leo stava mangiando un gambero alla piastra quando Agata si era messa a cantarla a voce bassa, come spesso l'aveva sentita cantare.
D'altronde, la voce del cantautore che si stava diffondendo in tutto il locale completamente vuoto, vista l'ora tarda, era la voce dell'uomo di cui aveva l’iniziale del nome tatuata sul dito medio.
Leo si ricorda che forse, per la prima volta, l'aveva vista emozionata davvero. No, forse quella era la seconda volta. Quando si erano baciati nella cucina di sua nonna Paola, Agata aveva sulle labbra un sorriso dolcissimo. Impossibile da dimenticare.
- Ma questo Fabrizio, come lo hai conosciuto?
- Me lo fece ascoltare la mia migliore amica in prima superiore. Per lei era come un padre, gli voleva bene come un padre. Quando morì Fabrizio De Andrè morì anche un pezzo di lei. Lei era così carina, così piccola e quando ti parlava di lui si illuminava tutta. Me lo fece amare anche a me. Anche lei ha un tatuaggio in suo onore: ha una F e una D sul polso destro. Ce lo facemmo insieme quando compimmo diciotto anni.
Leo le sorrise, mentre le note di Dolcenera risuonavano tra di loro.











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Capitolo 13
*** La canzone di Agata. ***


Note dell'autrice: 


è da marzo che non aggiorno e non potete capire quanto mi dispiaccia non avervi più dato notizie di me e della storia. Purtroppo sono stata impegnata con la faticosissima e impegnativa maturità per cui non mi passava nemmeno per la testa l'idea di mettermi al pc per scrivere qualcosa che non fossero appunti di letteratura, scienze, filosofia o la tesina. Poi negli ultimi giorni sono venuta anche a sapere di un plagio a danno di una mia OS, "L'odore delle ciliegie" e del prologo di questa storia, di Via del Campo, adattato come semplice OS che "l'autrice" aveva modificato tagliando pezzi e dialoghi a caso. 

Dopo questo brutto fatto però, sono riuscita finalmente a completare questo capitolo che avevo iniziato a maggio ma di cui avevo scritto solo poche righe. Non potete immaginare quanto mi sia mancato raccontare le vicende e le vite di Agata e Leo. Spero vi siano mancati anche a voi.

Un abbraccio,

Giulia.


Se volete contattarmi questo è il link del mio gruppo facebook: https://www.facebook.com/groups/262965880410553/






E intanto lei gioca all'amore 
scherzando con gli occhi ed il cuore 
di chi forse la odierà.


-La canzone di Barbara, Fabrizio De Andrè-







Flashback


Leo presentò ufficialmente Agata come sua fidanzata a sua nonna il 20 febbraio 2007.

Per quell'occasione, il nipote aveva comprato all'anziana un maglioncino di cashmere rosa al nuovo centro commerciale fuori città e lui si era addirittura messo una camicia azzurra, anche se ai suoi piedi figuravano sempre le immancabili infradito verde mela. Nonna Paola aveva legato i capelli in una lunga treccia e si era passata sulle labbra raggrinzite dal tempo un rossetto rosso che non usava dalla comunione di Leo, avvenuta nel 1996. Aveva cucinato lasagne al ragù, carbonara e linguine allo scoglio; pollo arrosto con patatine fritte, insalata russa e sogliola con rosmarino e limone accompagna da delle carote tagliate alla julienne.

Agata arrivò a casa della donna che erano le otto passate con una bottiglia di limoncello in una mano e un pacchetto di cantuccini al cioccolato nell'altra.

- Non sapevo cosa portare. - Si era giustificata con il ragazzo, arrossendo leggermente quando Leo le aveva tolto l'eskimo pesante dalle spalle rivelando un semplice vestito nero, lungo fino ai piedi, che lo aveva fatto impazzire.

- Avrei apprezzato un po' di più della cannabis di qualche tuo amico drogatello, ma anche i cantuccini vanno bene.

- Idiota.

- Guarda che pure nonna si è fatta le canne quando era giovane!

- Non è vero.

- No, infatti. Però si è fumata qualche foglia di salvia alle superiori. Questo è vero, lo giuro!

- Mi piace di già.

- E a me piaci tu. E mi piacerai ancora di più se mi dici che sotto questo delizioso vestitino non indossi biancheria intima!

Agata scappò in cucina rossa in viso per la rabbia, con le mani che tremavano e un sorriso sulle labbra che non riusciva a contenere. Quando nonna Paola l'aveva vista sulla soglia della porta, ferma e rigida e così carina, per poco non aveva fatto cadere sul pavimento la teglia contenente il pesce cotto per correre ad abbracciarla.

- Tesoro, non sai quanto sono felice che tu sia qui! Tesoro, non lo puoi proprio immaginare. Quando il mio Leo mi ha detto che vi eravate fidanzati ero fuori di me dalla gioia, tesoro! Lui è così un tesoro, non è vero tesoro?

- Noi… cioè non stiamo proprio insie... -

- Sei così carina! Adoro i tuoi capelli, tesoro, lo sai? Anch'io quando ero giovane li avevo così lunghi e scuri... il nonno di Leo li amava da impazzire! E a Leo fai impazzire tu, tesoro. Siete una coppia bellissima!

Leo era entrato in quel momento nella stanza e aveva acceso la radio sopra il televisore, mentre osservava sua nonna apparecchiare velocemente la tavola e Agata tagliare il pane con un lungo coltello mentre ascoltava in silenzio le chiacchiere distratte della donna. Seduti tutti e tre al tavolo di legno, con le linguine allo scoglio calde nei loro piatti di ceramica del servizio buono che nonna Paola usava per le occasioni speciali, Leo non poteva fare a meno di guardare la ragazza di fronte a sé. Era la ragazza più bella che avesse mai visto. E quelle fossette sulle guance arrossate erano un qualcosa di stupendo.

- Ti piace la pasta, tesoro? L'ho preparata velocemente ed ho paura che sia un po' sciocca.

- È buonissima, signora.

- Ma com'è che ti chiami, tesoro? Il mio Leo me l'ha detto ma me lo sono scordata in due secondi! Non sono brava con i nomi. Proprio no.

- Agata, signora.

- Bello, bellissimo nome. Orientale, quasi! Leo a te piace il suo nome?

- Un sacco.

- E poi? Cosa ti piace di lei, tesoro?

- Un po' tutto, nonnina.

- Lo sai Anna...

- Agata.

- Lo sai, Amanda, quando Leo mi ha raccontato come è avvenuto il vostro primo bacio mi sono quasi messa a piangere. Mi sono commossa, tesoro. Mi piacciono un sacco le storie d'amore, soprattutto quando nascono sotto i miei occhi.

Agata non aveva risposto e in imbarazzo aveva buttato giù tutto d'un sorso un bicchiere di vino bianco mentre il ragazzo rideva apertamente. A fine cena, la ragazza aveva sparecchiato la tavola mentre nonna Paola era scappata in salotto, piazzandosi davanti al televisore acceso per riguardarsi le repliche della quinta stagione di Don Matteo che davano ogni giovedì.

Verso mezzanotte, Leo l'aveva portata in camera sua e si erano distesi entrambi sul suo letto troppo stretto. Il ragazzo infatti teneva un piede sul pavimento per non rischiare di cadere rovinosamente a terra. Stavano in silenzio, ascoltando l'uno il respiro dell'altra e il vociare lontano della televisione ancora accesa in salotto, che nonna Paola non guardava ormai più perché profondamente addormentata sul divano. Sulle sue labbra socchiuse c'erano probabilmente ancora delle tracce di rossetto. Ad un certo punto, Agata aveva fatto strisciare la sua mano sul copriletto di cotone verde e aveva stretto la mano di Leo al suo fianco, continuando a puntare lo sguardo sul soffitto bianco sopra di loro. Il biondo aveva sorriso mostrando tutti i denti presenti nella sua bocca e aveva intrecciato le sue dita con quelle di quella mano piccola e fredda, dal colorito chiarissimo tanto che si potevano notare due vene viola sulla superficie del dorso.

- Agata?

- Dimmi.

- Stiamo per fare l'amore?

La ragazza si era alzata di scatto a sedere sul materasso e l'aveva guardato scandalizzata e con la bocca leggermente spalancata.

- Cos..? No!

- Oddio, menomale! Non ho indossato le mutande pulite.

- Fai schifo.

Aveva tentato di alzarsi dal letto, ma non ce l'aveva fatta, bloccata dal corpo di Leo che si era letteralmente buttato su di lei e l'aveva iniziata a baciare senza lasciarle possibilità di scappare dalle sue labbra e dalla sua lingua che nascondeva ancora il sapore del mascarpone del dolce preparato da nonna Paola. L'aveva baciata per cinque o cinquanta minuti e poi si era alzato in piedi con un saltello, avvicinandosi al piccolo scaffale vicino alla scrivania.

- Ora ci guardiamo una cassetta di “Esplorando il corpo umano”. Sai, mi concilia il sonno quel cartone.

- Posso andarmene a casa?

- No, certo che no! Ora tu resti qui, ti metti comoda mentre io vado a prendere i cantuccini e il Limoncello, e poi ci guardiamo la puntata sul... sì, sul cervello!

- Quello che tu non hai più?

- Cerchiamolo insieme, ti va?





Erano le undici passate quando quei nove, strambi abitanti di Via del Campo raggiunsero il grandissimo parco in cui avevano deciso di svolgere il loro picnic domenicale d'aprile. Si trovava esattamente sopra una piccola collinetta che aveva ai suoi piedi tutta la città. Intorno c'erano vigneti, uliveti e un lunghissimo viale contornato ai due lati da altissimi pini che creavano immensi spazi d'ombra nei prati circostanti, dove le persone amavano rilassarsi e prendersi una pausa dalla città frenetica, dalla vita. Manik e Davide avevano piazzato i loro teli da mare coordinati nel punto più alto della collina, dove affermavano sarebbe stato possibile assistere ad un magnifico tramonto.

Bogdana e i suoi figli -che erano già caduti due volte nell'erba e si erano sbucciati mani e ginocchia- si misero accanto a loro, sopra il loro piumone da letto matrimoniale di un blu acceso. Aldo si era subito messo all'opera e aveva piazzato il piccolo barbecue lontano da tutti, all'ombra di un albero da frutto nato per caso in mezzo al grande prato. Aveva tirato fuori salsicce e bistecche e il suo grembiule bianco e rosso che aveva utilizzato nel '72 quando aveva lavorato per un anno alla macelleria “Fanucchi&figli”.

Leo era sceso dall'auto per primo e da quando aveva messo piede sul prato non aveva smesso di correre e saltellare, come se avesse delle molle sotto le infradito. Rideva a più non posso, con il cestino contenente le bibite e l'apparecchiatura per mangiare tra le mani, e aveva già spaventato due o tre bambini che giocavano a palla non molto lontano da lui.

- È bellissimo qui! Mi sento così libero!

- Esserti fatto canna prima di partire?

- No, Bogdana. Sono solo felice di essere a contatto con la natura!

- Ho capito, ti sei fumato salvia di giardino condominiale.

Agata si guardava intorno e sorrideva. Non era mai stata su quella collina e le dispiaceva non averla scoperta prima. Leo aveva ragione: in quel punto, con la città sotto di loro e degli spazi verdi, aperti e quasi senza fine intorno, ci si poteva sentire veramente liberi. C'era anche un leggero venticello che scompigliava i capelli, asciugava il leggero velo di sudore sul collo e trasportava l'odore della carne cotta da Aldo per tutto il prato, che faceva brontolare lo stomaco.

Pranzarono alle dodici e quarantacinque precise, sdraiati sul grande piumone di Bogdana, che si era già riempito di briciole di pane e una macchina di olio compariva sul bordo decorato.

- Chi ha fatto le patate arrosto?

- Io!

- Sono ottime, Costanza. Davvero ottime.

- Grazie, Davide, sei sempre così gentile e caro e il tuo arrosto è ottimo.

- Costà, ma ci stai a provare con Davide?

- Stai zitto, Aldo!

- Ottimi anche i peperoni ripieni, Bogdana.

- Oh Agata quelli non li avere fatti io! Figurati se io cucinare questa mattina. Avevo pedicure e manicure da mia amica molto bella, quella lesbica con piercing.

- Ah, ho capito! Quella che sta alla cassa dieci alla Conad.

- Esatto, proprio lei!

- Cazzo, ma questa salsiccia è fenomenale!

- Leo...

- Grazie, picciotto, mi ci sono impegnato nel cuocerle alla perfezione.

Mangiarono la cassata che Leo aveva comprato alla pasticceria della ragazza francese in Via del Campo mentre canticchiavano “I migliori anni della nostra vita” e Rabah piangeva nascosta nel grembo della madre perché il fratello le aveva tagliato delle ciocche dei capelli con le forbici trinciapollo di Aldo. Mentre tutti si riposavano all'ombra, giocavano a ramino perdendo miseramente o ascoltavano buona musica, Leo e Agata se ne stavano sdraiati vicini lontano da tutti, mano nella mano come in quella lontana sera in cui fu presentata come fidanzata a nonna Paola. Guardavano il cielo di un azzurro chiarissimo sopra di loro con gli occhi socchiusi per il fastidio della luce troppo forte e con la sensazione dell'erba che pizzicava sulle gambe e le braccia scoperte, non avendo nessun telo sotto di loro.

Quella era una delle giornate che la ragazza amava definire: “grazie al cielo ho incontrato Leo”. Si sentiva piena, felice, rilassata e con una voglia matta di sorridere. La paura, l'angoscia che aveva provato le settimane passate lontane da lui erano completamente sparite come soffiate via dal vento che li solleticava la pelle e faceva incrociare i loro capelli così diversi. Forse l'aveva soffiate via Leo con il suo alito caldo che sapeva di menta fresca e liquirizia.

Aveva fatto una delle sue solite magie.

- Voglio comprarmi una barca a vela.

- Ma tu odi il mare.

- Già, ma in questo momento mi sembrava più giusto dire che mi voglio comprare una barca a vela che un monopattino per percorrere il viale alberato a una velocità esorbitante quando torneremo su questa collina.

- Il monopattino è carino.

- Sul serio?

- Sì, ne avevo uno quando avevo dodici anni. Poi me lo ruppe un mio cugino.

- Non ti sei vendicata?

- Certo, gli ho rotto il polso l'anno dopo.

Leo l'abbracciò stretta, stretta e le baciò la testa con tutta la forza che possedeva. Ad Agata riaffiorò in testa, all'improvviso, un ricordo di tanti anni prima, evocato forse dalle parole che aveva detto poco prima al ragazzo. Si ricordava che l'ultimo picnic a cui aveva partecipato risaliva a quello organizzato dalla sua famiglia in vacanza sul lago di Como, un lontano agosto afoso di tanti anni prima. Era l'estate del 1999, lei aveva da poco compiuto dodici anni e possedeva un Labrador di nome Arnold che sarebbe morto avvelenato due anni dopo. Quel giorno indossava un paio di sandali bianchi con il laccetto che si legava alla caviglia e una gonnella di jeans che le arrivava sotto il ginocchio. Gliela aveva regalata sua zia, quella gonnella. La zia presente quella mattina, che aveva preparato la zuppa inglese troppo salata e che accarezzava troppo spesso i capelli di Agata. I suoi capelli erano di un naturale castano scuro, lunghi fino a metà schiena che a quindici anni se le sarebbe tinti di blu. Agata di quella mattina ricordava soltanto come era ridicolmente vestita e la zuppa inglese salata di sua zia. Nella sua memoria però, c'era anche l'immagine sfuocata di lei che immergeva i piedi nell'acqua fredda del lago e si chiedeva quanto fosse profondo. C'era sua madre che le urlava con la sua voce dal tono sempre alto che le salsicce erano pronte, mentre lei avanzava di qualche passo nell'acqua che aveva raggiunto i polpacci.

Per un solo attimo, Agata si era chiesta che cosa sarebbe successo se si fosse buttata. Vestita, con ancora i sandali ai piedi e gli occhi spalancati. Forse sua madre le avrebbe tirato un schiaffo e rimproverato davanti a tutti i loro parenti; oppure suo zio le avrebbe detto che ormai era una signorina e questi colpi di testa non erano adatti ad una ragazzina della sua età e l'avrebbe guardata con quello sguardo che spesso le aveva fatto ribrezzo: forse, se si fosse buttata, non sarebbe più risalita in superficie.

Riemerse dai suoi ricordi quando si sentì chiamare da Leo che si era messo a sedere sull'erba, leggermente distante da lei. Agata assunse la sua stessa posizione, aprendo di nuovo gli occhi che bruciavano appena.

- Lo sai cosa mi sto immaginando in questo momento?

- Ti prego, non dirmi che nella tua mente ci sono io nuda.

- No, sciocca. Sono serio.

- Illuminami sui tuoi pensieri profondi, allora.

- Mi sto immaginando me e te come se fossimo degli attori di un film in bianco e nero. Di una pellicola talmente sciupata da bloccarsi di tanto in tanto e sfuocata ai lati. Immagino una musica strappalacrime di sottofondo mentre stiamo osservando questo tramonto, che io vedo anche male perché sono un po' miope e un ciuffo di capelli mi copre mezza visuale. Il regista che ci sta riprendendo in questo momento metterebbe a fuoco i tuoi occhi perché sono talmente belli che è giusto catturane ogni sfumatura. Subito dopo punterebbe la telecamera sul mio sorriso perché, effettivamente, ho un sorriso meraviglioso. Poi magari ci riprenderebbe da dietro, lasciandoci diventare solo due figure scure senza contorni su questo sfondo rosso. Io e te, vicini senza toccarci, sopra questo prato umido che ci sta bagnando i vestiti e il vento fresco d'aprile che ti scompiglia i capelli. La canzone strappalacrime c'è sempre, sia chiaro. Ora forse c'è l'acuto della cantante, cioè mi sembra perfetto per questo momento. Proprio ora che ti ho preso la mano e ho intrecciato le dita con le tue.

- E ora il regista cosa metterebbe a fuoco?

- Le tue lacrime, perché sei bella anche mentre piangi.






E il vento la sera la invita 
a sfogliare la sua margherita 
per ogni amore che se ne va,lei lo sa 
un'altro petalo fiorirà




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