The Weak Link di GreedFan (/viewuser.php?uid=68718)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voli Pindarici ***
Capitolo 2: *** Nybras ***
Capitolo 3: *** Tempo Troppo Veloce ***
Capitolo 4: *** Untori ***
Capitolo 5: *** Anello Debole ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Voli Pindarici ***
The
Weak Link
Feelin'
like a
freak on a leash (You wanna see the light)
Feelin'
like I
have no release (So do I)
How
many times
have I felt disease? (You wanna see the light)
Nothing
in my
life is free... is free
Korn,
"Freak on
a Leash"
Father
into your
hands
I
commend my
spirit
Father
into your
hands
Why
have you
forsaken me?
System
Of A Down,
"Chop Suey!"
I.
Voli Pindarici
Pindar
abbandona la testa sul bancone ‒ le dita che tentano, senza
successo, di artigliare l'ultimo boccale di birra della serata. Il
vomito pizzica sul fondo della gola e ogni cosa nell'ampio salone
dell'Horny Nipples − nome di squisita raffinatezza:
nell'Antica
Lingua Corrente significa qualcosa come "il dormitorio degli
spiriti" − gira su se stessa come una turbina in procinto di
esplodere, e di sicuro c'è qualcosa di profondamente
sbagliato nel
trascorrere così il proprio trentasettesimo compleanno.
O
forse è il trentottesimo.
Non
si lava i capelli da una settimana e mezza, e una massa oleosa e
biondiccia copre parzialmente la visuale sulla scollatura generosa
della barista di ritorno − nulla per cui angustiarsi, visto
il seno
prorompente di Keyli − e ciocche unte gli finiscono in bocca
ogni
volta che cerca di parlare. Prova ad articolare una richiesta di
soccorso, perché il semplice gesto di avvicinare le dita
alla testa
e gettare all'indietro la zazzera incolta sembra al momento piuttosto
complesso, ma tutto quello che esce dalle sue labbra è una
sequela
di versi inarticolati.
«Auuo...»
biascica «... heili 'asso 'euamehi daha faha...»
Si
chiede dove sia Liliane. Lei compare sempre in questi frangenti, si
materializza accanto a lui e lo aiuta come può −
del resto, per
qualcosa che non è corporeo e nemmeno visibile al resto del
mondo
non deve essere facile dare manforte ad un quarantenne ubriaco.
Solleva la testa, inarcando il collo quel poco che basta per parlare
meglio senza vomitare tutto il contenuto del suo stomaco, e per un
attimo cerca i capelli biondi di Liliane nella folla eterogenea che
popola l'Horny Nipples.
A
parte una ragazza alta e magra con il viso coperto da tatuaggi che
cambiano continuamente colore, non c'è nessuno che le
somigli anche
solo lontanamente.
«Ehi...
Keyli...»
Alza
un po' il volume e finalmente, interrompendo l'asciugatura di un
bicchiere sudicio, la barista posa i suoi enormi occhi verdi su di
lui e arriccia il naso in un'espressione di puro disgusto.
«Oh,
ma guarda tu che cazzo di roba. Pindar, 'rcaputtana, quanta roba ti
sei scolato?!».
Apre
per bene le dita della mano destra e le agita un po', giusto per
rimarcare il concetto: cinque. Cinque birre corrette con una
damigiana di alcool etilico puro, fedeli alla consuetudine ben poco
elitaria dell'Horny Nipples.
«Finirai
per ammazzarti, imbecille. Ma dove cazzo è
Calypso?».
Pindar
cerca di trarsi in salvo con un mugolio affranto − Calypso e
le sue
infinite tiritere moraliste sono l'ultima cosa di cui ha bisogno per
raggiungere casa incolume ‒ prima che una mano insolitamente
gentile si posi sulla sua spalla destra e un viso maschile, bello pur
nella visuale sfocata dell'ubriacatura, gli si piazzi davanti.
«Posso
aiutarlo io, se non è un problema». Ha i capelli
castani, riccioli
grossolani che gli sfiorano appena i lobi delle orecchie, e occhi
marroni screziati di verde; indossa una palandrana nera abbottonata
fino al collo e guanti dello stesso colore ‒ per quello che Pindar
riesce a vedere, eccetto viso e gola non ha lasciato un singolo
centimetro di pelle scoperta. Si irrigidisce, allontanandosi un po'
dal ragazzo con un'imprecazione biascicata. Non lo conosce, non
sembra affidabile e soprattutto non ha un bel paio di tette su cui
spalmarsi in attesa che passi la sbornia.
«E
tu chi cazzo sei, scusa?». Keyli squadra il nuovo arrivato
dall'alto
in basso, le mani piantate sui fianchi generosi «Non mi pare
di
averti mai visto in sua compagnia, e io questo stronzo qui lo conosco
molto bene».
«Nybras
Berglund». Il ragazzo si inchina con aria compita
«Volevo
semplicemente dare una mano, ho davvero un'aria così
losca?».
Keyli
inarca un sopracciglio e attorciglia una ciocca di capelli neri
sull'indice, pensierosa.
«Io
sono Keylianna Moreau e sì, hai davvero un'aria
così losca. Non ti
ho mai visto da queste parti... non sarai mica del primo anello,
eh?». Nella domanda di Keyli è palpabile la
minaccia, ma Nybras non
dà il minimo segno di cedimento: solleva entrambe le mani,
sulla
difensiva, e scuote la testa.
«Senza
offesa per questa meraviglia di locale, ma non mi
ritroverei
in un posto del genere se avessi i crediti di uno che vive del primo
anello».
«Ah,
ma senti un po'. Be', per quanto mi riguarda puoi anche andartene
affancul‒»
«Keyli,
cara, non mi sembrano modi da rivolgere ad uno sconosciuto che ha
detto la pura e semplice verità sul locale». Una
voce alta, acuta
in modo forzato, spezza il momento di tensione prima che una quarta
persona si sieda con disinvoltura accanto a Pindar «E
comunque ti
avevo chiesto di andarci piano con le ordinazioni di 'sto qua, sai
che esagera sempre».
Keyli
sbuffa con aria contrariata, Nybras strabuzza gli occhi e Pindar
emette un gemito disperato.
«Ha...
lypso».
«Tesoro,
se non riesci nemmeno a pronunciare il mio nome sei messo davvero
male. Adesso ti riaccompagno a casa, non preoccuparti. Comunque,
Berglund, checché ne dica il nostro comune amico, io sono
Calypso».
L'individuo
di nome Calypso si fa notare non solo per la statura ‒ supera di
tutta la testa qualsiasi altro avventore del locale ‒ ma anche per
il vestiario piuttosto peculiare di cui fa sfoggio: indossa un
abitino striminzito di pailette che cangiano dal verde al viola a
seconda della luce, un paio di stivali di vernice azzurra e una
cascata di bigiotteria multicolore, di tutte le sfumature comprese
tra il giallo e il blu. Calze a rete di un arancione così
carico da
sembrare fosforescente accarezzano gambe lunghe, atletiche e
abbronzate; i capelli, una massa di boccoli rosa shocking molto
curati, sono intrecciati a tutta una serie di pendagli e nastri dalle
forme più inconsuete.
Nybras
Berglund impiega qualche secondo a recuperare la propria compostezza
quando si rende conto di trovarsi di fronte ad un uomo − i
tratti
marcati e spigolosi del viso di Calypso lasciano poco spazio a
congetture, così come le sue mani grandi e nodose e la
totale
assenza di seno. Sotto il falsetto aggraziato che ammanta le sue
parole può sentire senza nessuno sforzo il timbro basso e
carezzevole di una voce maschile, per quanto sapientemente nascosta.
«Salve...
io−»
«Non
disturbarti, Berglund. Sarei deliziata di trascorrere del tempo con
te, ma Pindar sembra sul punto di vomitare anche l'anima e casa sua
è
lontana. Scusami».
Calypso
afferra Pindar come se fosse un sacco vuoto e se lo carica in spalla,
attirando gli sguardi scioccati di parecchi avventori; prima di
andarsene si avvicina a Nybras − socchiude gli occhi, di un
verde
cupo che scintilla nella penombra − e sussurra:
«Non so cosa
volessi dal mio amico, ma la prossima volta farai meglio ad
avvicinarlo quando è sobrio o quando io non sono nei
paraggi.
Altrimenti ti spezzo le gambe».
Il
ragazzo fa istintivamente un passo indietro, mentre sul viso di
Calypso affiora un sorriso melenso.
«Ci
si vede, pasticcino».
ᵜ
Il
profumo di caffè appena fatto è la miglior
accoglienza possibile
per chi si prepara ad affrontare un dopo sbronza. Pindar lo sa bene e
si avvoltola pigramente nelle lenzuola fresche di bucato mentre, al
di là delle palpebre serrate e di un paio di porte mezze
rotte,
Calypso si affaccenda in cucina tra il tintinnio delle tazzine e la
vibrazione cupa di un frigorifero ormai da buttare.
Qualche
ricordo si riaffaccia nella mente in subbuglio, le dita fresche di
Calypso sulla fronte, a scostare i capelli, il bruciore del vomito in
gola e il contatto piacevole con la pietra gelata del bagno. Non
è
la prima volta che lo riaccompagna a casa in condizioni pietose, e
Pindar si chiede davvero perché lo faccia − non si
considera un
tipo simpatico, affabile, o comunque qualcuno con cui valga la pena
trascorrere del tempo. Se potesse, lui stesso eviterebbe la propria
compagnia.
«Le
fogne hanno tracimato di nuovo». All'annuncio di Calypso
seguono un
paio di imprecazioni e un lungo lamento «Andiamo, non dirmi
che ti
dispiace avere una scusa per rimanere chiuso in casa come fai tutti
i giorni».
Pindar
si tira a sedere con uno sbuffo e appoggia la schiena alla testiera
del letto − un bancale rivestito con gli stracci che ha
raccattato
in giro per il quartiere − prendendosi qualche secondo per
osservare il caos in cui è immersa la sua stanza. Il
pavimento −
una distesa di anonime piastrelle grigiognole sbeccate e coperte di
crepe − è nascosto da una coltre di panni sporchi
irrigiditi dal
tempo e confezioni di cibo take-away buttate un po' ovunque; agli
angoli del soffitto prosperano colonie di ragni che Pindar non ha
né
la voglia né la crudeltà di eliminare, e sulle
pareti spoglie fanno
bella mostra di sé chiazze fangose di origine non ben
precisata. Non
c'è niente che indichi la presenza di una persona, eccetto
la
sporcizia.
Calypso
entra nella stanza brandendo un vassoio di peltro su cui ha
ammonticchiato vari biscotti e una tazza di caffè fumante,
si siede
sulla sponda del letto e sorride a Pindar in un modo che promette
allo stesso modo cure e tenerezze e tremende rappresaglie. La tuta
giallo limone che indossa crea un contrasto stranamente allegro con
l'arredamento squallido, e Pindar si scopre a pensare che è
per
merito di Calypso se in casa sua, ogni tanto, c'è un po' di
colore.
«Allora,
come ti senti?».
«Mah,
non ho nemmeno troppo mal di testa. Non è stata la serata
peggiore
della mia vita».
«Oh,
no. Stavolta sei riuscito a non molestare nessuno e a non procurarti
qualche livido prima di tornare a casa». Ha sempre odiato il
sarcasmo corrosivo di quella che, in fin dei conti, è la sua
unica
amica «A proposito. Hai una vaga idea di chi fosse il tipo
che
rompeva i coglioni? Quello vestito di nero dalla testa ai
piedi».
Pindar
butta giù un sorso di caffè rigenerante e scuote
la testa, pesca un
paio di biscotti punteggiati di cioccolato e li sgranocchia,
affamato.
«Probabilmente
un creditore, ma non mi ricordo bene la sua faccia. Come ha detto di
chiamarsi?».
«Nybras
Berglund. Nessuna delle mie conoscenze ha mai sentito parlare di lui,
e questo è piuttosto bizzarro».
Calypso intrattiene rapporti
mercantili e/o amichevoli con mezza città, sempre pronta ad
invischiarsi in ogni genere di affari loschi, e può vantare
una tale
quantità di fonti di informazioni che la mancata
identificazione di
Berglund suona, effettivamente, sospetta.
«Se
davvero, come penso, gli devo dei crediti... be', in quel caso
sarà
lui a presentarsi di nuovo. Chi ti presta la grana non dimentica mai
di riprendersela».
«Siamo
tutti abituati ai pazzi furiosi con cui ti indebiti, Slumboy».
Calypso sa che detesta quel soprannome, e proprio in virtù
di questo
lo usa tutte le volte che può «Ma questo aveva
qualcosa di strano.
Non sembrava più pericoloso di quel vecchio tossico che il
mese
scorso per poco non ti ha accoltellato, ma i suoi vestiti
erano...»
arriccia il naso «... puliti. E con "puliti" intendo dire
che non puzzavano di fogna come quelli di chi vive qui da
sempre».
Pindar
smette di sorseggiare il caffè e inarca un sopracciglio,
cercando di
raccogliere un po' di concentrazione nella palude dolorante che
è il
suo cervello.
«Stai
dicendo che potrebbe essere del primo anello?». È
un opzione
assurda persino per lui, che si imbarca spesso in speculazioni del
tutto prive di senso, ma lo fa rabbrividire comunque dal disgusto
«Cazzo, mi ha pure toccato. Che dici, per te mi ha passato
qualcosa?».
Calypso
fa spallucce.
«Quelle
sulle epidemie che sono scoppiate lassù potrebbero essere
soltanto
voci. Anche perché nel primo settore riescono a curare tutte
le
malattie senza sforzo... dicono che sia perché usano gli
Elelu,
no?».
Negli
occhi azzurri di Pindar passa un'ombra, le dita si stringono
impercettibilmente attorno alla tazza bollente.
«Così
dicono. Com'è la situazione, là fuori?».
«Puoi
affacciarti e rendertene conto da solo».
Ci
vuole qualche secondo perché l'uomo, appesantito da un
intorpidimento diffuso e sgradevole, riesca a liberarsi dal viluppo
di lenzuola e scenda dal letto, barcollando. L'unica finestra della
stanza è un quadrato di cinquanta centimetri di lato tappato
alla
meno peggio con pezzi di vetro rimediati chissà dove e
rimasugli di
cartone pesante, infradiciato dalla pioggia, ma offre una visuale
notevole del corso principale del secondo anello. Spazza via la
condensa con una mano rattrappita, Pindar, e appoggia la fronte al
muro scrostato.
«Cazzo,
è un bel bordello».
Molnavje,
la strada più grande e frequentata del secondo anello della
città
di Ecbàtana, è un caos di fango e carcasse di
piccoli animali che
scivolano sul selciato e si ammucchiano nei canali di scolo otturati,
di motociclette abbandonate su un fianco e autobus sventrati e
deformati dall'impatto con le pareti rocciose della montagna. Succede
ogni volta che piove: le fogne, da troppi anni abbandonate a
sé
stesse, si colmano di acqua e rifiuti e smettono di funzionare; i
tombini saltano, geyser di fango e detriti marcescenti invadono le
corsie pedonali, i negozi sbarrano le entrate e le case al pian
terreno vengono travolte da un'inondazione di liquami. Il fetore
è
così forte che chi abita in una delle tane affacciate sulla
strada
mura le finestre o le copre con qualsiasi cosa abbia a disposizione,
perché quel lezzo, che si incolla alle pareti e impregna i
capelli e
i tessuti, nemmeno dopo la morte andrà più via.
La
fiumana scende verso il basso senza apparente interruzione, diretta
verso gli slum del terzo anello − dove, probabilmente,
ristagnerà
per settimane prima che l'amministrazione riesca a pomparla via.
Accarezza pigramente le basi dei pinnacoli rocciosi in cui la gente
di Ecbàtana ha scavato le proprie case, si infiltra nelle
cantine e
sommerge qualcuno dei ponticelli tesi tra una guglia e l'altra,
strappando via le funi marce che li assicurano a robusti chiodi
conficcati nella pietra. Più vicine alla cima della
montagna, una
rete di grigio che ne avvolge i fianchi e i crinali come un sudario
funebre, le strade del primo anello non sembrano in condizioni
migliori − non fosse per le enormi muraglie di calcestruzzo
che
separano i tre settori, i rifiuti si accumulerebbero soltanto in
basso, sulle pendici del monte, e invece ristagnano equamente in ogni
angolo della città. Il lato positivo è che anche
i ricchi sono
costretti a godersi l'olezzo delle proprie miserie.
«Mi
chiedo perché l'amministrazione cittadina non spenda un po'
di soldi
per sistemare le fogne. Guarda che schifo... e io che mi consideravo
un privilegiato quando mi hanno rifilato questo buco con vista su
Molnavje».
«Puoi
effettivamente considerarti un privilegiato,» celia Calypso,
frugando pensosamente tra i biscotti «hai sia un magnifico
panorama
sul cuore pulsante del secondo anello che una fantastica vista
fiume». Ridacchia «E la puzza qui non
è molto peggiore che da
me, credimi».
«La
tua simpatia mi uccide».
«Non
più di quanto faccia l'alcool, Slumboy».
Pindar
sbuffa e lancia la tazza su un mucchio di vestiti, poi si sfila la
maglietta e i pantaloni come se Calypso non fosse nemmeno
lì. Uno
dei lati positivi dell'essere mentalmente disturbati, secondo Pindar,
è il fatto che le persone non si offendono se le ignori o se
ti
comporti in maniera strana davanti a loro: fanno finta di non vedere
o, come nel caso di Calypso, partecipano lietamente della tua stessa
follia.
Il
bagno, un bugigattolo di un paio di metri quadri scavati nel granito
rossastro della montagna, comprende una grata che sostituisce il
pavimento e un tubo di ferro arrugginito che sbuca dalla parete e
vomita costantemente una cascatella di acqua mista a terra. Una
nicchia nella parete ospita grossi pezzi di sapone fatto a mano,
simile a burro grigiastro e puzzolente di cenere, e Pindar se ne
strofina uno sulla testa, a lungo, nel tentativo di rendersi
presentabile. Sente la cute bruciare, irritata, ma non se ne cura:
dopo tanti anni nel secondo anello si è abituato ad una vita
spartana, probabilmente le essenze fruttate dei detergenti del primo
settore finirebbero per disgustarlo.
«Devi
buttare giù un po' di pancia». Calypso, nel
frattempo, sta facendo
piazza pulita dei biscotti «Keyli non ti verrà mai
dietro, se
continui così».
«Keyli
ha ventidue anni e io sono brutto, Cal». Non c'è
amarezza nelle
parole di Pindar, solo una vuota constatazione «Chi vuoi che
mi
guardi?».
Percepisce
un sospiro, ma il rumore dell'acqua che gocciola nelle orecchie
è
troppo forte perché ne sia certo.
«Liliane
ti ha più parlato?». La voce di Calypso
è modulata, incerta, e chi
la conosce sa quanto una circostanza del genere sia rara. Pindar si
volta verso di lei e sorride, senza smettere di strofinare la schiuma
grigia sui capelli, poi inclina la testa da una parte e si appoggia
al muro come se improvvisamente gli mancassero le forze. Sospira.
«Lei
mi parla sempre, Cal. Lei è sempre con me, tutto il
tempo». Negli
occhi di Pindar risplende una felicità così
intensa che Calypso non
se la sente di contraddirlo, ma non può impedirsi di
indietreggiare
leggermente «A volte, quando la puzza di putrefazione
è meno forte,
riesco addirittura a sentire il suo profumo».
Calypso
non può esserne sicura, non con la testa di Pindar sotto il
getto
dell'acqua, ma le sembra che i suoi occhi si siano fatti rossi e
lucidi, prossimi al pianto. «Sei proprio un vecchio
pazzo,» mormora
«matto da rinchiudere».
Nonostante
tutto c'è qualcosa in lui che la affascina, forse il totale
abbandono del suo sguardo o la lentezza studiata e metodica dei
gesti, o la voce roca che a tratti sembra ruvida come il granito e
poi, d'improvviso, diventa carezzevole come l'eco montana. Il viso di
Pindar, che molti non esiterebbero a definire "brutto", è
in realtà un collage di tratti spigolosi e curve morbide, di
ombre
decise e porzioni quasi amorfe, nell'insieme poco armoniose ma
decisamente affascinanti.
È
una bellezza che necessita di numerosi presupposti per essere
compresa, e lo stesso Pindar fatica a capire le lodi che la sua amica
spesso gli rivolge.
«Sono
felicemente pazzo». Ridacchia; quando esce dal bagno, nudo e
gocciolante, Calypso pesca a caso dei vestiti e glieli lancia
«È
uno status solo mio, no? A te queste cose di solito
piacciono».
«A
me importa solo che non ti succeda niente, Slumboy. Per il resto puoi
vedere quello che vuoi».
Con
la testa infilata in una felpa marrone e un braccio incastrato nel
tentativo di raggiungere la manica, la risposta di Pindar viene quasi
soffocata dalla stoffa.
«Se
smettessi di vederla, Cal, mi ammazzerei. Per ora è l'unica
cosa che
mi tiene in vita».
_________________________
_ _ _
So
che gli habitué della sezione Fantasy dovranno trattenersi
dal
lanciarmi appresso tutto quello che si trovano a portata di mano, ma
questa storia partecipa al contest "A
Strange Fantasy" ed
è, perciò, particolare sotto
molti punti di vista. L'ho
ambientata in un mondo fantastico che ricalca approssimativamente le
caratteristiche della nostra epoca moderna, più qualche
aggiunta per
rendere il tutto più frizzante; Ecbàtana, la
città in cui la
storia è ambientata, prende il nome da quella roccaforte
persiana
circondata da sette cerchie di mura che fu conquistata da Alessandro
Il Grande (yeah, scarsa fantasia per i nomi).
Pindar
è un protagonista piuttosto atipico per un fantasy, lo so,
ma
sentivo il bisogno di creare un personaggio del genere. Mi auguro che
il primo capitolo vi sia piaciuto e che i successivi (ne mancano
altri quattro, già scritti, più un breve epilogo)
continuino a
divertirvi.
See
you soon,
GreedFan
|
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Capitolo 2 *** Nybras ***
II.
Nybras
La
zattera scivola sulle acque nere con una delicatezza impeccabile,
senza tremare o inclinarsi sotto la spinta della corrente. Seduto al
centro della piattaforma di legno incatramato, un'incerata a
ripararlo dalla pioggerellina che continua a cadere ininterrottamente
da ore, Pindar scruta pensosamente le vie del secondo anello alla
ricerca di qualcuno che richieda i suoi servigi.
Non
ha bisogno di remi o timone, perché la zattera risponde con
sollecitudine ai suoi pensieri; non è nemmeno una vera e
propria
zattera, a dirla tutta: la parte inferiore non sfiora l'acqua,
fluttua a pochi centimetri dalle onde e brilla di una luce dorata che
chiunque, in città, sarebbe in grado di additare come "il
Flusso".
Il
Flusso è in ciascuno di noi, dicono gli anziani ai bambini
che
cominciano a fare domande sul mondo, il Flusso è il motore
della
città e la ragione per cui viviamo e respiriamo. Il Flusso
è la
sostanza prima e il fine ultimo, è il Sole caldo e la Luna
che tinge
d'argento le montagne.
Il
Flusso, gli Elelu.
Pindar
non crede a tutte le cazzate religiose che i vecchi mormorano nei
loro circoli da rimbambiti, non ha mai visitato un Santuario in quasi
quarant'anni di vita ed è globalmente disinteressato alle
implicazioni etiche e morali dell'utilizzo del Flusso; per lui, come
del resto per molti abitanti di Ecbàtana, non si tratta che
dell'unica fonte di energia disponibile a poco prezzo in qualsiasi
parte della città. Finché la zattera funziona, i
dilemmi morali
sullo sfruttamento ambientale lo ripugnano.
Schiva
con facilità la carcassa di un mulo, ribaltato sulla schiena
con il
ventre gonfio come una botte, e per poco non impatta contro una
cassapanca spezzata che beccheggia nella corrente. Le aperture buie
delle case, mezzo sommerse dall'acqua, sembrano bocche spalancate di
demoni − partorite dagli incubi, le mostruosità
destinate a chi
non ha crediti sufficienti per pagare l'affitto di un cubicolo ai
piani superiori. Ogni tanto un volto bianco come il gesso compare tra
i flutti, una mano smagrita urta contro i rifiuti trasportati
dall'acqua e poi sparisce di nuovo, nascondendo le spoglie di un
profugo che ha accettato di confinarsi in quelle caverne disumane e
vi trascorrerà, probabilmente, l'eternità.
Nessuno sa quanto a
fondo si spingano, giù nel ventre della montagna −
certo è che,
ad ogni inondazione, qualche scheletro scarnificato dagli anni vede
nuovamente la luce.
Un
movimento repentino attira l’attenzione di Pindar. Si sporge
leggermente dalla zattera, aguzzando la vista nel caos di rifiuti
galleggianti, ed ecco che, a pochi metri di distanza, distingue
chiaramente una figura umana aggrappata ai resti di un tavolo:
è una
donna, con la pelle scura della gente del Sud e una matassa di
riccioli neri che le aderiscono al viso ogni volta che riemerge
dall’acqua putrida e si afferra meglio alle assi. Ha gli
occhi
scuri, grandi di paura, e annaspa mentre gli ampi vestiti inzuppati
la trascinano a fondo.
Pindar
è indeciso se aiutarla o meno. Solitamente offre un servizio
di
sgombero rifiuti a pagamento, non va in giro a ripescare ragazzine
bisognose d’aiuto e soprattutto indigenti.
La
donna sprofonda sotto il pelo dell’acqua emettendo un grido
strozzato, poi tira fuori la testa e ‒ per un’infausta
combinazione del destino ‒ si gira verso di lui. Lo vede. Comincia
ad agitarsi freneticamente, scuotendo un braccio mentre con
l’altro
si aggrappa a tutto quello che le capita a tiro, e nel frattempo
inghiotte acqua e strilla a perdifiato.
«Aiuto!
Aiutami, ti prego!». La corrente, riflette Pindar,
non è così
forte da uccidere qualcuno che sappia anche solo tenersi a galla;
evidentemente la donna viene dalle nazioni dell’estremo Sud,
dove
non ci sono fiumi e l’unica acqua potabile viene estratta
dagli
alberi. È stata piuttosto sciocca ad insediarsi in un antro
senza
prevederne le conseguenze.
Forse
è più giusto lasciare che se la cavi da sola.
«Tu
che ne pensi, Liliane?».
Stesa
sulla zattera con i capelli biondi sparsi attorno al viso come una
pozza d’oro colato, lei è ancora più
bella del solito. Socchiude
gli occhi scuri ed emette un sospiro graziosamente seccato, mentre
Pindar si sente invadere da una felicità così
perfetta e
totalizzante da fargli dimenticare tutto il resto. Gli tiene spesso
compagnia durante le inondazioni, seduta a pochi centimetri
dall’acqua putrida come un giglio sbocciato in una palude, e
Pindar
ama osservare il suo viso delicato e le mani da bambola, intrecciate
in grembo oppure occupate a giocare con qualche scheggia trasportata
dalla corrente. Lei è completamente sua, una visione fragile
e
stupenda che non si è mai concessa a nessun altro ‒ soltanto
i
folli, gli ha detto una volta, soltanto loro possono ambire a posare
lo sguardo sul suo bel volto.
«Lasciala
dov’è, amore mio». Sussurra, la voce
come tanti campanelli
d’argento «Che te ne fai della gratitudine di una
donna come
quella? Sprecheresti soltanto il tuo tempo».
«E
noi sappiamo che il tempo è prezioso, tesoro».
Replica Pindar in un
mormorio sommesso «Soprattutto quello che sembra passare
troppo in
fretta».
La
zattera scivola in un vicolo buio, secondario, e la donna del Sud
scompare sotto la superficie dell'acqua in un turbinio di schiuma
biancastra.
ᵜ
Al
tramonto, quando ormai gran parte dell'acqua è defluita e la
fascia
alta del secondo anello è nuovamente percorribile senza
l'aiuto di
imbarcazioni, Pindar ripone la zattera nel garage comune a tutto il
suo blocco abitativo − una palafitta di cemento armato che
sorge
tra un pinnacolo roccioso e l'altro, tanto brutta quanto pratica
−
e prende la motocicletta.
Le
moto sono un lusso per gli abitanti del secondo settore: un mezzo
usato, purché funzioni, può costare
più di un appartamento ben
arredato sulla cima di un crinale, e le flussoplacche
che
servono per avviare il motore costituiscono il principale oggetto di
un fiorente commercio di contrabbando. Una placca è una
riserva di
energia che può durare anche diversi mesi se non
è mai stata
sfruttata prima, ma nel secondo anello circolano quasi esclusivamente
quelle ricaricate − che smettono di funzionare in tempi brevi
e,
spesso, senza nessun preavviso; Pindar conserva le sue in una
cassetta nascosta sotto il letto, e il solo motivo per cui si presta
al compito ingrato di sgomberare le strade invase dai detriti
è che
gli occorrono parecchi crediti per mantenere la scorta a livelli
accettabili.
Fischiettando
il motivetto allegro di una vecchia ballata da osteria, afferra il
telo che copre la moto e lo ripiega con cura, prima di riporlo
nell'angolo più asciutto della rimessa −
c'è un tale caos di
oggetti abbandonati, accatasti alla rinfusa dappertutto, che fatica
persino a racimolare qualche centimetro di spazio. Le mani sui
fianchi, Pindar osserva per qualche secondo quella che non esita a
definire la sua bambina e poi comincia a lucidarla
vigorosamente; le cromature delle marmitte luccicano come stelle
fredde alla luce grigiastra del cielo rannuvolato, e la carena, pur
se intaccata da innumerevoli graffi e abrasioni, è di un
verde
uniforme ed estremamente acceso, quasi fluorescente. Nel complesso la
moto ha una sagoma affusolata, aerodinamica, con la sella sagomata e
leggermente inclinata verso l'alto − non si tratta di un
modello
particolarmente comodo per viaggi lunghi, ma è agile e
veloce quanto
basta per spostarsi nell'intrico di tunnel e vicoli di
Ecbàtana.
Sulla
piastra superiore della forcella fa bella mostra di sé una
fessura
orizzontale lunga poco più di una decina di centimetri e
alta una
manciata di millimetri. Pindar fruga per qualche secondo nella tasca
della felpa, tira fuori una tessera metallica che brilla di una tenue
luce dorata e la inserisce delicatamente nell'apertura
finché non
sporge che di pochissimo, quanto basta per estrarla di nuovo
all'occorrenza.
Il
motore saluta l'energia della flussoplacca con un rombo cupo, e una
nuvola di fumo acre riempie la rimessa.
«Ah,
non vedevo l'ora che sparisse quell'acqua del cazzo».
Borbotta
Pindar, accomodandosi sulla sella sdrucita. Lega i capelli in una
coda arruffata per impedire che gli diano fastidio durante il
viaggio, poi ingrana la prima e scivola rumorosamente sulla rampa
d'ingresso della palafitta, puntando senza indugi all'Horny Nipples.
Adora
guidare la motocicletta − è una delle poche cose
che lo fa sentire
libero, giovane, che lo distrae. Distrarsi è uno degli
imperativi a
cui si attiene con maggiore ortodossia, perché sa che
conservare la
piena consapevolezza della miseria in cui vive lo porterebbe in poco
tempo all'infelicità; così come la presenza lieve
di Liliane, le
sue braccia sottili strette attorno ai fianchi per evitare di cadere
dal veicolo in corsa, l'alcool e la velocità migliorano la
sua vita
pur senza introdurre nessun vero cambiamento.
L'aria
fresca della seria gli sferza il viso mentre percorre le strade
ancora bagnate, dove si percepisce già un lezzo denso e
penetrante
di putrefazione. Più volte è costretto a curve
brusche e pericolose
per aggirare carcasse abbandonate sul selciato, in un paio di
occasioni si rendono necessari dei cambi di percorso a causa di
intere vie ostruite da muraglie di immondizia; un viaggio per cui
solitamente impiegherebbe una decina di minuti dura più di
mezz'ora,
e non si sente affatto sorpreso quando, entrato nel parcheggio
antistante il locale, lo trova praticamente vuoto.
Non
che ci sia nulla di cui lamentarsi − alla penuria di veicoli
corrisponde una scarsità ancora peggiore di posteggi, e
Pindar
sarebbe quasi tentato di gridare al miracolo di fronte ad un intero
piazzale tutto per lui. Spera solo che il locale non sia un mortorio,
dopo una giornata tanto noiosa ha voglia di divertirsi.
La
porta dell’Horny Nipples, sormontata da un’insegna
lampeggiante
che raffigura una donna procace sdraiata su un fianco, si spalanca
con un cigolio sotto il suo tocco. L’interno è
così sporco e
privo di attrattive da costituire un’ode muta allo squallore,
fatta
di tavoli recuperati nei cassonetti dell’immondizia e sedie
costruite con i materiali più disparati, di boccali spaiati
che
hanno visto tempi migliori e di una clientela che riflette appieno la
sciatteria dell’arredamento. Quello che attira gli avventori
è il
prezzo abbordabile delle bevande, non il comfort: non esiste nemmeno
un impianto di riscaldamento, e d’inverno l’Horny
Nipples si
trasforma in una cella frigorifera in cui solo i peggiori alcolizzati
di Ecbàtana si arrischiano a mettere piede.
Pindar,
cliente abituale, ha addirittura un posto riservato al bancone.
«Ehi,
Keyli!». Saluta, nel tentativo di strappare un sorriso alla
barista
«Stasera sei più bella del solito».
«Non
fare il coglione, Slumboy, ormai non ci credo più alle tue
cazzate».
Non
alza nemmeno lo sguardo, Keyli, e qualcuno degli altri avventori ‒
una nebulosa indistinta di giacche di lana infeltrita, capelli
arruffati e barbe di una settimana ‒ ridacchia sonoramente; Pindar
cerca Calypso con lo sguardo e la trova quasi subito, intenta a
conversare con un ragazzo che avrà suppergiù
dieci anni in meno di
lei e sembra l’articolo migliore di tutto il locale.
“Peccato
che a fine serata lei ti avrà fottuto il portafogli,
amico”.
Il
ragazzo, felicemente inconsapevole, le ha già poggiato una
mano sul
ginocchio e la fissa, adorante, come un cagnolino che scodinzola per
il padrone. Pindar sorride, un ghigno mellifluo che sa di
divertimento e vaga cospirazione, poi occupa la sua postazione
abituale e batte una mano sul bancone. Si sente su di giri, come ogni
volta che sta per cominciare un bel giro di bevute.
«Portami
una birra corretta, Key. E che sia bella piena, fino
all’orlo, e
senza troppa schiuma».
«Parli
come se ti fregassi. Roba che ti faccio pagare la metà di
quello che
dovresti…» la barista, borbottando, riempie un
boccale di vetro
con una birra densa e torbida che sembra quasi fango giallognolo.
«Troiate.
L’ultima volta era mezza schiuma e mezza birra, una cosa
indecente».
«Ma
se eri così ubriaco che nemmeno ti ricordavi il tuo nome! E
poi
l’ultima volta era ieri sera, genio».
«E
allora?». Il boccale atterra davanti a Pindar con un tonfo
sordo,
rovesciando qualche goccia del contenuto sul bancone unto
«Proprio
perché era ieri me lo ricordo bene».
Keyli
sospira sonoramente e si appoggia ad uno scaffale ricolmo di
bottiglie di liquore, incrociando le braccia.
«Povero
Calypso,» sbuffa «è un santo a starti
dietro così, senza
prendersi in cambio nemmeno un credito».
«Forse
mi sta dietro proprio perché sono una delle poche persone di
questa
città ad aver capito che non vuole che ci si rivolga a lei
come ad un uomo, Key». Butta giù un sorso di birra
fresca e si
sente rinascere, quasi avesse inghiottito una bottiglia di Flusso
liquido «A differenza tua, per dire».
«Sei
uno stronzo».
«Forse».
Pindar fa spallucce e torna a dedicarsi alla birra; si distrae,
concentrato sulle gocce di condensa che imperlano i fianchi del
boccale, e quasi sobbalza quando la voce conosciuta di Nybras
Berglund lo riporta alla realtà.
«Salve.
Tu devi essere Pindar, giusto?».
Si
è seduto accanto a lui senza fare nessun rumore, nemmeno un
lieve
fruscio, nonostante i vestiti ingombranti che indossa. Gli rivolge un
sorriso affabile e misurato, né freddo né
completamente familiare,
e Pindar reagisce all'intrusione allacciando le braccia attorno al
busto e squadrandolo dall'alto in basso con un cipiglio diffidente.
«Tu
sei quello di ieri sera». Mugugna «Okay, forza,
dimmi quanto ti
devo e risolviamo la questione in fretta».
Berglund,
che senza il filtro alcoolico della notte precedente sembra
decisamente un ragazzino imberbe, sbarra gli occhi e socchiude la
bocca nel perfetto paradigma dell'espressione da pesce lesso. Che ci
sia qualcosa che gli sfugge è evidente.
«Aspetta
un attimo, non ti devo dei crediti?». Pindar, più
confuso di lui,
abbandona l'atteggiamento difensivo e appoggia un gomito al bancone.
«Cioè,» ridacchia «a momenti
mi cago sotto dalla paura e tu non
sei nemmeno un creditore?».
«A
quanto pare no». Nybras sorride e si riavvia i capelli con un
gesto
nervoso − porta dei guanti di pelle spessa, leggermente
consumati,
coperti di disegni intricati sul dorso e sul palmo − poi si
sporge
leggermente verso Pindar e sussurra: «In realtà,
io sono qui per
proporti un lavoro».
C'è
un piccolo momento di impasse, silenzio pieno di stupore e,
perché
no, un certo turbamento, prima che Pindar scuota la testa con aria
scoraggiata e risponda: «No. Tu stai scherzando».
«Non
hai ancora ascoltato la mia offerta».
«Senti,
ragazzino. Io ho quasi quarant'anni, nessuna qualifica particolare e
una fedina penale che pullula di denunce per disturbo alla quiete
pubblica e ubriachezza molesta. Il mio sussidio di disoccupazione
ammonta all'incredibile cifra di quaranta crediti mensili, che
è un
po' quello che spende la gente normale per una spesa di media
entità,
quindi sono costretto ad arrotondare trascinando via cadaveri
putrefatti dai canali di scolo. Questa è la mia unica
occupazione
fissa. A meno che tu non voglia propormi di contrabbandare
flussoplacche − e non lo farò, tranquillo
− ci sono innumerevoli
persone più adatte e bendisposte di me per qualsiasi
esigenza tu
abbia».
Berglund,
niente affatto scoraggiato dal tono caustico della risposta, allarga
le braccia in un gesto conciliante e replica: «Comprendo la
situazione, ma ti prego almeno di ascoltarmi prima di rifiutare la
mia offerta».
Pindar
si agita sullo sgabello e sbuffa, chiaramente a disagio. Le
possibilità che la vita ti offre, nella sua personale
visione del
mondo, sono solo il preludio all'ennesima presa per il culo.
«Sentiamo».
Nybras
inspira profondamente e intreccia le dita sotto il mento. Ha degli
occhi strani, caldi a livello cromatico ma dall'espressività
fredda
e affilata, pietre chiazzate di melma sul fondo di uno stagno gelato.
Pindar percepisce una scarica lieve di adrenalina, il battito
cardiaco che accelera senza nessuna ragione apparente, e le
successive parole del ragazzo lo lasciano semplicemente senza fiato.
«Sappiamo
chi sei, Pindar Van Hasen. E
non sei stato molto
gentile con te stesso, affermando che non possiedi "nessuna
qualifica particolare"». Le labbra di Berglund si tendono in
un
sorriso che trasuda veleno, il ghigno ferino di una serpe. Sembra
un'altra persona. «Secondo le mie fonti è da quasi
cinque anni che
vivi qui... strano che non ti abbiano ancora trovato, vero?».
"Non
ci credo. È passato così tanto tempo..."
La
sensazione di panico che gli stritola le viscere è
così opprimente
e improvvisa che Pindar si sente soffocare. Si guarda intorno
freneticamente, cercando il viso di Liliane, il conforto dei suoi
occhi scuri, ma lei − per qualche ragione che non riesce a
spiegarsi − improvvisamente è sparita. Non
è lì con lui nel
momento del bisogno, e alla paura si aggiunge l'ombra venefica del
tradimento.
"Maledetta
puttana".
«Che
fai, cerchi una via di fuga?».
«Smettila».
Il corpo del quarantenne si tende come la corda di un arco, i pugni
serrati e tremanti sulle ginocchia − d'un tratto
l'espressione
bonaria e perennemente vacua di Slumboy è sparita,
sostituita da una
maschera di rabbia feroce e appena trattenuta che lo fa assomigliare
ad un cane rabbioso; coglie con la coda dell'occhio uno sguardo
sorpreso di Keyli, e afferra Nybras Berglund per un braccio prima che
ricominci a parlare «Non qui. Non so chi cazzo sei o chi ti
ha
mandato, ma questo non è il posto per−»
«Questa
topaia di terz'ordine è semivuota, Van Hasen. Ci sono almeno
una
decina di posti in cui, se non ti metti a urlare, potremo parlare
senza problemi». Nybras si alza in piedi, e il mantello per
un
momento si apre a rivelare un'uniforme militare di panno nero con uno
strano simbolo ricamato sul petto «Vuoi seguirmi o preferisci
continuare qui?».
Pindar
vorrebbe urlare e riempire Berglund di calci, ma si costringe ad
obbedire. Il senso di umiliazione cocente che prova quando scende
dallo sgabello e si avvia verso uno dei tavoli più appartati
viene
appena mitigato da un'occhiata di Calypso, che lo fissa dall'altra
parte della sala. "Tutto a posto?" sembra chiedere,
e Pindar risponde con un cenno rilassato della mano −
controllare
il tremito è particolarmente difficile − e un
occhiolino. Spera
solo che lei non si alzi e non decida di impicciarsi.
«Chi
è quello... o quella?». Dice Nybras, una volta che
si sono seduti.
Accompagna la domanda con una smorfia divertita −
è evidente che
considera Calypso alla stregua di un fenomeno da baraccone, ed
è un
atteggiamento che Pindar trova parecchio irritante.
«È
la persona che mi riaccompagna a casa quando sono troppo sbronzo per
farlo da solo». Sospira, puntando lo sguardo sulle venature
irregolari del tavolo di legno «Il che, al momento,
costituisce
l'interazione sociale più complessa di cui sono
capace».
«Interazione
sociale...» Berglund si appoggia allo schienale
scheggiato di
una vecchia sedia impagliata e affonda una mano tra i riccioli
castani, un gesto che dev'essere una specie di tic nervoso
«...
parli così anche con i tuoi amici? Se la risposta
è sì, mi chiedo
come faccia la maggior parte di loro a capire quello che
dici».
«Io
non ho amici, ragazzino». Pindar si rende conto che
un'affermazione
del genere può suonare ridicola, pregna del nichilismo degno
di un
quindicenne, ma allo stesso tempo sa che si tratta di verità
pura e
incontrovertibile. D'altra parte non pretende che un individuo
mellifluo e arrogante come quello che gli sta di fronte prenda certe
cose sul serio.
«Credo
che poche persone al mondo possano vantare di possedere un autentico
amico fidato». Nybras snocciola con disinvoltura
verità formulate
da qualcun altro, ma Van Hasen non si azzarda nemmeno a chiedergli di
andare dritto al punto. Semplicemente, nemmeno lui vuole sapere che
cosa lo aspetta. «Tuttavia, se non in veste di amico, io sono
qui
come tuo sostenitore, Pindar. Io credo davvero che
tu stia
sprecando una grande opportunità, seppellendoti nel secondo
anello
come un reietto qualsiasi».
«I
reietti sono quelli che vivono negli slum del terzo anello, credimi.
Esperienza personale».
«So
anche questo. Dopo la tua miracolosa fuga hai passato due anni negli
slum e poi sei scappato di nuovo per trasferirti in una zona
più
sicura... abbiamo seguito le tue tracce molto a lungo prima di
riuscire a stabilire un contatto, sai?».
"Stronzetto
supponente". La
saccenza di Nybras lo fa imbestialire quasi più del suo
perenne
sorrisetto arrogante.
«"Abbiamo"...
di chi stai parlando?».
«Permettimi
di presentarmi». China la testa in avanti con una certa
grazia
teatrale, poggia la mano inguantata sul cuore e mormora:
«Nybras
Dušan Berglund, cancelliere della Confraternita degli
Untori».
Pindar
aggrotta le sopracciglia e si accarezza il mento con una mano,
pensoso, cercando di richiamare eventuali ricordi legati a questi
"Untori". Non conosce nemmeno il significato del termine,
ed è un dubbio che si affretta a manifestare.
«Scoprirai
chi siamo e cosa facciamo se accetterai di collaborare con noi.
È
una spiegazione lunga e ci troviamo davanti ad una di quelle
occasioni in cui la realtà supera di gran lunga la
fantasia... se
non ti mostrassi i fatti temo che non mi crederesti. Posso dirti
questo: siamo un gruppo numeroso che lotta per il bene di questa
città, e la nostra guerra contro i signori del primo anello
potrebbe
raggiungere un punto di svolta grazie a te».
«Guerra?».
Pindar inarca un sopracciglio, mentre in lui si fa strada il dubbio
di trovarsi davanti all'esponente di una qualche setta di esaltati
«Non sarete uno di quei movimenti politici di poveri scemi
che
puntano al raggiungimento di uno status quo per tutti gli abitanti di
Ecbàtana, vero?».
«Dubito
che un simile movimento avrebbe accesso agli archivi che ci hanno
permesso di trovarti, Van Hasen. Non trattarci da sciocchi».
L'avvertimento vibra come la coda di un serpente a sonagli nella voce
di Nybras «Piuttosto, dovremmo parlare del Flusso».
«Credo
che ogni bambino al di sopra dei cinque anni sappia cos'è il
Flusso,
ragazzino». Scherza Pindar, senza nessuna allegria.
«Non
mi riferisco all'energia in sé, quanto alla sua fonte. Viste
le tue
origini, immagino tu sappia da dove si estrae il Flusso... o forse
l'hai dimenticato, in tutti questi anni?».
Pindar
scuote la testa, poi sussurra: «Gli Elelu. Sono i guardiani
del
Flusso, ed è da loro che gli Affini estraggono l'energia.
Dieci anni
fa conoscevo persino qualche Affine... mi sono sempre chiesto come
facciano a dominare il Flusso, e perché soltanto loro ci
riescano».
«È
uno dei misteri irrisolti che circondano questa città. Gli
Affini
sono capaci di dominare l'energia come io e te sappiamo parlare o
camminare, sin dalla più tenera età. Sai quali
sono le sorgenti
energetiche vere e proprie? Scommetto che non hai mai visto niente
del genere». Nybras infila una mano sotto il mantello, e
quando la
tira fuori stringe qualcosa tra le dita; le dischiude di poco, appena
qualche millimetro, e Pindar scorge una pietruzza tonda di un giallo
caldo e vivace che brilla come se fosse incandescente, come una
fiamma viva. Emette la stessa luce dorata e rassicurante delle
flussoplacche, solo più intensa.
«Che
diavolo...»
«Questo
è un uovo. Un uovo di Elelu». Gli occhi di Pindar
si spalancano
dallo stupore «Gli Affini possono estrarre l'enorme energia
latente
che si trova qui dentro e trasferirla ai generatori, alle
flussoplacche e a tutti i macchinari che servono perché
Ecbàtana
continui ad esistere». Berglund, circospetto, nasconde
nuovamente
l'uovo «Sai come fanno, quelli della città alta, a
procurarsi la
quantità enorme di uova di cui hanno bisogno?».
Pindar
scuote la testa, la gola un po' secca. Gli sembra assurdo non aver
mai sentito parlare di una cosa del genere.
«Le
raccolgono nelle profondità dei laghi sotterranei in cui
vivono gli
Elelu. Prima che i primi uomini costruissero le loro abitazioni in
superficie, nelle viscere della montagna prosperavano a milioni,
nascosti nelle grotte... ma dopo, quando abbiamo imparato a
sfruttarli a nostro piacimento e ne abbiamo scoperto il valore, il
loro numero ha cominciato lentamente a diminuire. Ci sono stati
persino dei tentativi di allevamento, ma gli Elelu si rifiutano di
vivere in un ambiente intaccato dalla mano umana».
Van
Hasen, poco convinto, fa spallucce: «E allora? Dovrei
preoccuparmi
dell'estinzione di quegli spiritelli? Scusami, ma a stento riesco ad
essere empatico nei confronti delle altre persone... figurati quanto
mi importa delle creature non umane».
A
parte Liliane. Lei è l'unica eccezione.
«La
scomparsa degli Elelu si ripercuote anche su di noi». Sibila,
Berglund, sbattendo il pugno sul tavolo in un moto di rabbia
«Prova
a pensarci, vecchio. Quante alluvioni si verificavano dieci anni fa,
eh? Una, due all'anno al massimo. Adesso siamo fortunati se le fogne
non straripano ogni mese».
«Mi
stai dicendo che gli spiriti della montagna non hanno niente di
meglio da fare che sabotare la rete fognaria?». Pindar non si
aspetta che Berglund rida alla sua battuta, ma l'occhiata omicida che
gli regala è del tutto inattesa.
«Oh,
naturalmente questo è il minimo. Sono stati generati
dall'acqua
all'alba dei tempi, Van Hasen, e possono farne quello che
vogliono».
Ha lo sguardo acceso, la voce accalorata «Possono avvelenarla,
ed è esattamente quello che stanno facendo. Conosci qualcuno
che
lavora all'ospedale distrettuale del secondo anello?». Pindar
scuote
la testa «Lo immaginavo. Altrimenti sapresti che da un po' di
tempo
è sempre più raro che i bambini nascano sani. Ho
visto le
malformazioni più mostruose, laggiù,
così orrende che è difficile
pensare che si siano generate spontaneamente...»
«Al
punto che pensi siano la vendetta maligna di qualche
spirito?».
Pindar scuote la testa «Ho già sentito questi
discorsi, anche se mi
mancava la storia delle uova. E sono solo cazzate, ragazzino. I
bambini nascono deformi perché nel secondo anello
più della metà
della popolazione è costantemente strafatta con roba che la
avvelena
da dentro. Creazioni umane, puoi starne certo».
«Stai
mentendo a te stesso, e lo sai. L'hai provato sulla tua pelle,
no?».
La voce di Nybras è affilata come un rasoio. Pindar
impallidisce
bruscamente e contrae le labbra in una linea dritta e sottile come un
tratto di matita «Sto parlando di tua moglie, di
Lil−»
«Non
pronunciare il suo nome, bastardo succhiacazzi».
Van Hasen
abbassa il tono di parecchie ottave, e quello che esce dalle sue
labbra è più un ringhio bellicoso che una
risposta vera e propria
«Tu non sai niente di Liliane, lei non era
malata...»
«Lo
era, Van Hasen. Lo era, e sono stati gli Elelu».
«E
allora che cosa vuoi da me?!» Si alza in piedi bruscamente,
gridando, la sedia si rovescia con un tonfo «Vuoi che ti
aiuti a
salvare quelli che l'hanno maledetta?».
«Gli
spiriti non agiscono per il bene o per il male, non seguono le
logiche umane». Anche con la mente offuscata dalla rabbia, il
quarantenne non può fare a meno di notare che Berglund
sembra
allarmato, la sua voce divenuta più incerta. Ghigna.
«Gli Elelu
stanno cercando di difendere la loro razza come farebbe chiunque
altro nella stessa situazione, perciò non puoi addossare a
loro la
colpa».
«Quindi?
Che soluzione proponi?». Beffardo, Pindar raccoglie la sedia
e si
accomoda di nuovo «Per che cosa esattamente ti serve il mio
aiuto?».
«Nel
primo anello si trovano tutti gli impianti di estrazione delle uova e
le abitazioni degli Affini. Allevano anche loro, come se fossero
bestie». Una smorfia di ribrezzo attraversa il viso di Nybras
«Tu
puoi aiutarci a superare le barriere».
«Come
fai a sapere che posso? Sono passati otto anni».
«Suppongo
di non dover ribadire che abbiamo condotto delle ricerche su di te,
Van Hasen. Sappiamo quello che puoi fare e quello che non puoi
fare».
Pindar ridacchia, un suono secco e sgraziato che assomiglia al verso
delle cornacchie «Sarà sufficiente che ci aiuti a
superare i
cancelli e le guardie che li proteggono, noi ci occuperemo del
resto».
«Mi
stai chiedendo un favore che non ti concederò mai,
ragazzino».
«Non
mi aspetto che tu dica subito di sì». Poggia una
sorta di strana
collana sul tavolo, una cordicella ruvida con un pendaglio che
raffigura la testa di un volatile dal lungo becco appuntito
«Pensaci,
Pindar. Pensa al bene che potresti fare e alla memoria di tua moglie.
Quando deciderai di prendere parte alla nostra causa, indossa questa:
se le tue intenzioni saranno buone, ti porterà da
noi». Nybras si
alza con una grazia fluida ed elastica a cui Pindar si è
disabituato, dopo tanti anni nel secondo anello; con ogni
probabilità
ha ricevuto una qualche specie di addestramento militare, e deve
avere molti più anni di quanti non suggerisca il suo aspetto
giovanile.
«E
se non accetto?».
«Perderai
per sempre la possibilità di punire i veri colpevoli di
quello che è
successo a tua moglie». Berglund sorride, avviandosi verso
l'uscita
«E una soffiata indesiderata potrebbe arrivare all'Alto
Ufficio Amministrativo. Non tutti si sono dimenticati di te, Custode
Emerito del Primo Cancello».
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Capitolo 3 *** Tempo Troppo Veloce ***
IV.
Tempo Troppo Veloce
Il
Tempo Troppo Veloce cominciò quando Liliane gli disse di
essere
incinta.
Improvvisamente
la sua casetta a ridosso della prima barriera gli sembrò
troppo
piccola, troppo spoglia per una famiglia in procinto di crescere. Il
mondo intero era troppo piccolo per contenere tutta la sua gioia e il
tempo, il tempo improvvisamente troppo veloce, scivolava dalle sue
mani come sabbia tra le mani di un bambino.
Erano
sposati da due anni, lui e Liliane. Lei aveva accettato a sua
proposta dopo un corteggiamento che era riuscito a scontentare sia
suo padre − Supremo Officiante al Santuario degli Elelu
− che
quello di Pindar, precedente Custode del Primo Cancello ormai in
pensione. Nel primo anello tutti pensavano che fossero troppo
diversi, quel ragazzo dall'aspetto mediocre con un lavoro regalatogli
dal padre e quella giovane donna così bella che persino le
stelle
sembravano impallidire al suo confronto. Liliane era un'Affine, una
creatura a cui la montagna aveva concesso il dono di comunicare con
gli spiriti e dominare il flusso, mentre Pindar a malapena sapeva
svolgere il lavoro, tutto sommato semplice, di Custode.
Dopo
il matrimonio si trasferirono nella casa di lui, un appartamento
modesto nella zona meno lussuosa del primo anello. A Liliane non
interessavano minimamente i tappeti e le tende ricamate della sua
casa paterna, e tantomeno desiderava vestiti eleganti da poter
sfoggiare quand'era in compagnia delle sue amiche. L'unica cosa che
voleva, gli confessò in una notte d'estate, era un figlio.
«Avrà
i tuoi occhi e i miei capelli». Aveva già deciso,
e glielo comunicò
con una smorfia adorabilmente risoluta «Non mi importa se
sarà
maschio o femmina, ma sarà così».
Pindar,
in cuor suo, sperava soltanto che ereditasse la bellezza della madre.
A poco a poco assorbì quel desiderio, lasciò che
diventasse una sua
piccola ossessione, e ogni volta che Liliane gli comunicava −
un'ombra di delusione negli occhi scuri − che non si sarebbe
dovuto
aspettare niente per i mesi a venire rabbrividiva fin nel profondo,
spaventato dall'eventualità di non poterle dare quello che
voleva.
Perciò, quando lei lo informò che un giorno
sarebbero diventati
genitori, Pindar appese una ghirlanda di fiori montani alla porta
−
così voleva la consuetudine di Ecbàtana
− e distribuì dolci a
tutti i condomini, raggiante.
Il
ventre di Liliane cominciò lentamente ad ingrossarsi, e
Pindar prese
l'abitudine di accostare l'orecchio per riuscire a carpire qualche
suono della nuova vita che stava crescendo; non sentì mai
nulla, ma
non se ne preoccupava: in fondo era ancora presto, il feto forse era
piccolo e delicato come la madre.
Ci
pensò il medico di quartiere, il dottor Valtteri, a far
sfumare ogni
cosa in un limbo di profonda infelicità.
La
tradizione voleva che si ricorresse ad un medico, dottore di corpi,
solo a mali estremi e solo dopo aver consultato un dottore delle
anime; Liliane, poi, che era cresciuta in un ambiente di estrema
ortodossia religiosa, aveva inizialmente rifiutato di mettere il
bambino nelle mani di Valtteri.
«A
che serve?». Sosteneva «I bambini nascono da
millenni senza l'aiuto
di quei macellai. Se mi sentirò un po' giù
chiederò a papà di
officiare un rito in onore degli Elelu».
Dopo
un po', però, le nausee mattutine si erano fatte
persistenti, così
come le emicranie e il senso di spossatezza. Per quanto si sforzasse
di mangiare, Liliane era dimagrita in maniera allarmante per una
donna incinta, e Pindar l'aveva quasi costretta a seguirlo dal
dottore − aveva paura per lei, per il bambino, ma soprattutto
per
se stesso: la prospettiva di vivere senza Liliane lo terrorizzava
più
di ogni altra cosa al mondo.
Valtteri
esaminò la pancia rigonfia di sua moglie con uno stetoscopio
e
aggrottò le folte sopracciglia scure. Aveva occhi acuti,
intelligenti, e Pindar si accorse immediatamente che c'era qualcosa
che non andava.
Liliane
si sottopose senza protestare ad una lunga serie di esami, analisi
del sangue ed ecografie il cui risultato Valtteri si guardò
bene dal
mostrare ai coniugi. «La macchina che stampa i responsi
è guasta».
Mentiva, aggiustandosi gli occhiali sul naso senza guardare in faccia
nessuno dei due «Comunque non c'è nulla di cui
preoccuparsi,
tranquilli».
Un
giorno, mentre passeggiava per il centro alla ricerca di un infuso
che potesse aiutare Liliane a dormire un po', Pindar si
imbatté
proprio nel dottore; Valtteri gli afferrò un braccio,
guardandolo in
un modo che gli mise addosso un'inquietudine indicibile, e
sussurrò:
«Dobbiamo parlare, Van Hasen. Ma non qui».
Si
sedettero sui tavolini all'aperto di un caffè poco
frequentato,
Pindar con il suo completo liso e Valtteri sgargiante in un abito di
alta sartoria. Ordinarono due tazze di the soltanto per evitare che
il proprietario li cacciasse, e appena il cameriere ebbe consegnato
le ordinazioni il medico si appoggiò allo schienale e
tirò un lungo
sospiro stanco, rassegnato.
«Dottore,
che succede?». Pindar non l'aveva mai visto così.
Era sempre stato
un uomo attivo, compiaciuto del proprio cinismo e apparentemente
incapace di provare rassegnazione o malinconia; affilata come una
lama, la sua lingua non perdeva mai mordente, e il fatto che non
riuscisse a riempire un silenzio era un avvenimento più
unico che
raro. «Se c'è qualcosa che posso fare per lei,
io...»
«Non
preoccuparti per me, figliolo». Valtteri sembrava
più pallido del
solito «Sono qui per parlare di tua moglie, Van
Hasen».
Pindar
si sentì come se la terra gli fosse scivolata via da sotto i
piedi.
Afferrò i bordi del tavolo, il battito cardiaco che rombava
nelle
orecchie e sembrava coprire ogni altro suono.
«Che...
che cosa è successo a Liliane?». La sua voce era
strozzata,
filiforme. Non aveva nemmeno il coraggio di immaginare
cosa si
celasse dietro l'espressione infelice del dottore.
«Liliane
non è incinta». Valtteri corrugò le
sopracciglia e il suo intero
viso parve adombrarsi «Non sapevo come dirtelo, Van Hasen. A
volte
succede, gli dèi della montagna sono incostanti nel
distribuire le
proprie grazie e...»
«Che
cos'ha?». Afono, Pindar abbandonò le braccia lungo
i fianchi e
tentò, senza successo, di non abbandonarsi alla baraonda che
sentiva
in procinto di scoppiare nei recessi della sua mente.
Sussurrò, poi:
«Si può curare, vero?». Era certo che si
potesse curare. Nel primo
settore le malattie non erano più un problema, non dopo che
le
proprietà guaritrici del Flusso erano state scoperte;
Liliane, poi,
era un'Affine... gli Elelu l'avrebbero salvata.
«Liliane...
sono abbastanza sicuro che il rigonfiamento nel suo addome sia un
tumore maligno».
Non
doveva piangere davanti Valtteri. Pindar trattenne il respiro per un
po', il viso paonazzo. Quando parlò le parole scivolarono
fuori
strappate, accartocciate, umide di lacrime.
«Ma...
non... com'è possibile?». Poi, di nuovo:
«La curerai?».
Si
sentiva come se qualcuno gli avesse artigliato il cuore e cercasse di
estrarlo dalla cassa toracica − faceva così male
da ottundere
qualsiasi altra percezione, persino quella delle lacrime umide sulle
guance e del respiro incastrato dolorosamente nella gola.
Valtteri
stette a lungo in silenzio, la fronte bassa e piena di grinze, prima
di rispondere.
«Non
è la prima volta che mi trovo davanti ad un caso simile, Van
Hasen.
Naturalmente possiamo tentare numerose terapie, ma è mio
dovere
professionale avvisarti che...» deglutì
«... che si tratta di
trattamenti estremamente dolorosi e negli altri casi non hanno
portato a nulla».
Pindar
sprofondò. Ogni volta che cercava di appigliarsi da qualche
parte
per non scivolare nel pozzo di una paura senza fine gli appoggi si
sgretolavano come se fossero fatti di argilla cruda.
«Ma
gli Elelu... Liliane è un'Affine. Loro possono...»
«È
proprio questo il punto». Valtteri gli strinse una spalla in
una
morsa che voleva essere confortante, ma che sembrava soltanto il
monito soffocante di una condanna a morte «Tutte le altre
donne che
hanno sviluppato lo stesso tipo di malattia erano Affini. Sono
portato a pensare che il loro legame con gli Elelu c'entri qualcosa.
Forse possiamo creare una nuova cura basandoci su questo, se Liliane
è d'accordo potremmo−»
«No».
Si scrollò la sua mano di dosso e scattò in
piedi, il respiro
accelerato «Tu menti. Stai dicendo solo cazzate».
Ringhiò,
inframmezzando singhiozzi alle parole spezzate «Liliane
è incinta
del nostro primo bambino. Non c'è nessuno schifoso tumore
dentro di
lei».
«Pindar,
so che è difficile. Ma devi avere la forza
di−»
Non
lo lasciò finire. Diede una spinta al tavolo,
rovesciò il fragile
piano di legno e le tazze di porcellana e la tovaglia di lino, poi si
voltò e corse via tra le occhiate sconcertate degli altri
clienti.
Il cuore pompava così forte che pensava sarebbe esploso. La
testa
gli faceva male, gli occhi bruciavano, ma il dolore più
grande lo
avvertiva in un luogo indefinibile dentro di sé, un angolo
nascosto
della sua anima che sanguinava e si dibatteva in agonia.
Gridò, si
sbucciò le nocche contro un muro di mattoni di cui, poi, a
stento
avrebbe conservato il ricordo.
Cadde
in ginocchio e pianse finché la voce e le forze non
scivolarono via
dal suo corpo come pioggia. Cercò disperatamente una
fiammella di
speranza, qualcosa che gli permettesse di pensare al viso dolce di
Liliane senza farsi sopraffare dal dolore, ma non c'era rimasto
più
niente; si era sempre arreso facilmente, Pindar. I problemi lo
spaventavano.
"Era
la cosa che desideravi di più al mondo".
Sussurrò,
insolente, un'ombra scura dietro i suoi occhi "Sembra
proprio che gli Elelu si siano presi gioco di te".
Scosse
la testa, poi appoggiò la fronte contro il muro.
«Liliane
sta bene». Affermò, controllando il tremito della
voce «Liliane
sta bene. Non c'è nessun tumore. Valtteri è un
bastardo. Mente».
Fu
come afferrare il dolore e spingerlo, confinarlo in un angolo da cui
non sarebbe potuto più scappare. Si sentì
leggermente rincuorato,
Pindar, e infuse tutte le proprie energie in quelle parole.
Cercò
con tutte le forze di credere.
Dopo
un paio d'ore perse la voce, poi la capacità di pensare
lucidamente.
A
poco a poco, affogando nel ritmo cadenzato della cantilena, Pindar
trasformò in verità la sua stessa bugia.
ᵜ
Liliane
dimagrì così tanto che la luce sembrava passare
attraverso i suoi
polsi, attraversare quella carne trasparente e sottile come un velo.
Gli occhi le divennero grandi, immensi pozzi di tenebra nel viso
incavato, le spalle appuntite e fragili, cuspidi di vetro.
Aveva
perso la lucidità molto prima di ridursi così,
per fortuna di
Pindar.
Valtteri
non si era più fatto vedere, lui e le sue profezie da
uccello del
malaugurio, e Van Hasen si era premurato di spiegare a vicini e
parenti che la gravidanza di Liliane stava dando qualche problema e
lei doveva necessariamente rimanere bloccata a letto, per il bene del
bambino. All'inizio era stata contenta.
«Avevi
ragione tu, amore». Aveva sussurrato, Pindar, accarezzandole
la
testa «Andare da quel dottore è stato
completamente inutile».
«Gli
Elelu hanno detto a mio padre che sto bene. Sono solo un po'
stanca».
Passava
le giornate a leggere, a pregare silenziosamente i suoi spiriti e a
sonnecchiare sul copriletto imbottito; mangiava quanto le ordinava il
marito, si pettinava i capelli e si truccava per apparire bella
nonostante il viso sempre più smunto, e lentamente i suoi
gesti
avevano cominciato a farsi più meccanici, tremanti, gli suoi
occhi
accesi da una luce che prima non c'era mai stata.
Pindar
capiva e non capiva, seduto su una sedia davanti all'unica finestra
della camera da letto. Guardava Liliane, il suo ventre ormai
impossibile da nascondere, e non riusciva a riconoscerla − si
stava
trasformando in qualcosa che lui non avrebbe mai compreso, mai potuto
amare.
Se
le chiedeva che giorno era lei rispondeva correttamente, un sorriso
misterioso aleggiava sulle labbra appena incurvate, ma a volte,
guardandolo come una bambina, domandava: «Perché
dimagrisco così
tanto, amore? Chi è che mi sta succhiando via la
vita?».
Pindar
non sentiva più nulla. Dolore, gioia, amore, affanno o
disperazione,
qualsiasi cosa scorresse nel suo petto sembrava esattamente uguale
nello stato di semicoscienza in cui trascorse quei mesi. Inclinava la
testa da un lato, chiudeva gli occhi. «È il nostro
bambino, Lily».
Sembrava che gliel'avessero strappato via dalle labbra, quel sospiro.
Sempre
più raramente veniva colta da momenti di
lucidità. Quando lo faceva
si guardava intorno, sgomenta, e gli chiedeva ansiosamente di
consultare Valtteri o qualsiasi altro medico del primo anello per
sapere che cosa stesse succedendo.
«Mi
sento debole. Mi sento come se stessi morendo».
«Non
sei mai morta, Liliane». Il tono di Pindar era monocorde,
asettico,
come se in tutta quella situazione ci fosse anche solo il minimo
barlume di logica «Non puoi sapere come ci si
sente».
Poi
le faceva bere qualche infuso comprato in farmacia, e lei cadeva tra
le braccia di un sonno pesante e comatoso, un tormento per il suo
corpo stremato e per la coscienza martoriata di Pindar. Al risveglio,
tornava la magnifica statua incosciente che era per la maggior parte
del tempo.
All'ottavo
mese le tagliò i capelli, lunghi fino alle ginocchia, e li
bruciò.
Nell'appartamento si diffuse un odore nauseabondo, soffocante, che
non andò più via. Eppure gli riusciva
più facile così, guardare
quella donna dal viso scarno e giallastro che non
era la sua
Liliane e accettare che stesse morendo a poco a poco, senza che lui
potesse evitarlo. A volte si scopriva ad aspettare con trepidazione
la nascita del bambino, il parto, a volte persino lui capiva che non
c'era più niente da fare.
Valtteri
aveva diffuso la verità già dal quinto mese di gravidanza,
ed erano pochi i parenti che osavano bussare alla porta di Pindar per
fare visita a sua moglie. Nella comunità religiosa di cui
Liliane
faceva parte quella malattia veniva considerata una vera e propria
maledizione, un marchio d'infamia che contaminava chiunque ne venisse
a contatto.
Il
Dono degli Elelu, lo chiamavano.
Un
giorno, quando il bambino sarebbe dovuto nascere già da
tempo,
Pindar rincasò leggermente più tardi del solito,
ubriaco. Aveva
preso l'abitudine di bere un goccio prima di tornare a casa, per far
sì che la realtà si mostrasse meno spietata di
quello che era, e da
alticcio Liliane, pur con i capelli poco più lunghi dei suoi
e uno
strato sottile di pelle a coprire lo scheletro, pareva quasi quella
di sempre. Con lei sembrava stessero andando in malora tutti i suoi
progetti − sul lavoro era distratto, approssimativo, gli
altri
Custodi si lamentavano di lui spesso e volentieri perché non
prestava più attenzione al proprio aspetto. Malvestito, la
barba
sfatta, assomigliava ad un profugo degli slum.
Il
mondo non meritava più il suo impegno.
Così,
quando aprì la porta della stanza di Liliane non vide subito
lo
spirito accoccolato sul davanzale della finestra. Il mondo tremava,
barcollava insieme a lui su gambe malferme, i colori danzavano in un
vortice sfasato.
Liliane
sussurrava parole strane, una preghiera bassa e dolce che somigliava
allo scorrere quieto di un fiume, le mani intrecciate sullo stomaco
grottescamente deformato, e fu allora che lo vide.
L'Elelu
somigliava vagamente ad un insetto. Aveva un corpo sottile e
affusolato, semitrasparente, segmentato come quello di una mantide
religiosa; aveva anche una testa, con grandi occhi bui che sporgevano
in fuori, e antenne simili a nastri che si avviluppavano nell'aria
immobile della stanza sotto la spinta di un vento invisibile; le
zampe, così numerose che Pindar non avrebbe saputo contarle,
sfioravano appena il davanzale, mentre le ali ondeggiavano attorno al
corpicino dello spirito come la gonna vaporosa di una giovane dama.
La sua figuretta conteneva allo stesso tempo tutti i colori, fulgidi
e brillanti in uno splendore incredibile, Flusso allo stato puro.
Era
così bello che Pindar esitò un momento prima di
odiarlo.
Spinse
Liliane da un lato, irruento, e lei cadde sul letto interrompendo la
preghiera. L'Elelu scivolò indietro e si dissolse un attimo
prima
che il suo pugno lo colpisse, infiammandolo con una rabbia che non
aveva mai sentito prima.
«Che
cosa stavi facendo?!». Gridò, fuori di
sé, scuotendo Liliane per
le spalle «Non capisci che è colpa di quei mostri
se soffri così
tanto?!».
Lei
lo fissò per un attimo lunghissimo, in silenzio. Dai suoi
occhi era
sparita ogni traccia di follia.
«Tu
mi hai mentito». Bastarono quelle cinque parole a scuotere
Pindar
come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Impallidì
bruscamente e cominciò a tremare, animato da una paura che
non aveva
nome e che sgorgava come acqua gelida dalle sorgive nere degli occhi
di lei. «E io lo so. Me lo hanno detto gli
spiriti». Il volto di
Liliane si contrasse in una smorfia di dolore «Non
c'è niente se
non morte dentro di me».
«Non
è vero!». Urlò
così forte che lei trasalì e si mise a
piangere, nascondendo il viso tra le mani.
A
lui non importava più niente delle sue lacrime.
Liliane
indossava una camicia da notte di cotone, chiusa da una graziosa fila
di bottoni di perle. Pindar la lacerò con un unico gesto
delle dita
contratte, mettendo a nudo il suo ventre rigonfio e di un colorito
malsano, quasi violaceo. Scottava, febbricitante.
«Ti
dimostrerò che non è vero».
Sussurrò «Io non ti mentirei mai,
amore mio».
|
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Capitolo 4 *** Untori ***
III.
Untori
Quella
sera Pindar si ubriaca così tanto che per la prima volta
Calypso
teme davvero per la sua vita. È costretta a farsi aiutare da
Bohrja,
il ragazzo che ha conosciuto al locale, per riportare a casa sia lui
che la moto, e quando arriva a casa Pindar vomita per quasi un'ora di
fila. Non ha mangiato niente, e tutto quello che esce dal suo stomaco
è un liquido verdastro che somiglia spaventosamente alla
bile e
puzza di acido e alcool in un modo quasi insopportabile.
Gli
tira indietro i capelli, Calypso, dandosi della stupida per non
essersi intromessa quando ha cominciato a litigare con quel tizio
strano, Nybras. Avrebbe dovuto mandare qualcuno dei suoi amici
buttafuori a pestarlo per bene, ma sembra che il ragazzo misterioso
sia sparito nel nulla.
Quando
i conati si fermano e Pindar, stremato, si abbandona con la fronte
contro una delle pareti del bagno, se lo carica in spalla e lo butta
sul letto. Le ha sempre fatto una pena infinita, Slumboy, con
quell'aria da persona invecchiata prima del tempo e l'abbandono
totale e autodistruttivo al vizio, ma non c'è niente che
possa fare
per aiutarlo. Semplicemente, lui non vuole essere salvato.
«Mi
dispiace così tanto, vecchio». Sussurra,
richiudendosi la porta
dell'appartamento alle spalle. La scala a chiocciola che collega i
lotti abitativi all'interno del pinnacolo è buia e
dissestata, come
se fosse abbandonata da anni. Calypso, con un sorriso storto, non
riesce a non cogliere la sottile analogia.
ᵜ
Si
sveglia con le dita di Liliane tra i capelli, con i suoi occhi
ardenti che lo guardano attraverso lo schermo delle ciglia bionde e
la sua voce da usignolo che ripete in continuazione la stessa frase.
«Perdonami,
amore. Perdonami. Scusami, tesoro mio».
Il
mal di testa è così intenso che non riesce
nemmeno a parlare, una
lama arroventata che gli trapassa il cranio e non gli lascia un
momento di quiete; ascolta le voce dolce di Liliane e cerca di
immergersi negli accenti delicati delle parole, nel modo che ha lei
di arrotondare le sillabe come se stesse cantando una canzone, e
lentamente il dolore viene confinato in un angolo della sua mente e
si annichilisce come qualsiasi altra cosa al cospetto di lei.
Passano
ore. La pioggia picchietta contro le finestre e qualche passante
grida, in strada, ma nessun suono riesce a interrompere gli attimi di
quiete perfetta che l’uomo assapora come se non dovessero
finire
mai. Liliane continua a scusarsi finché Pindar non le prende
il
polso tra due dita ‒ è così delicata, lei, una
specie di
uccellino dalle piume dorate ‒ e chiede: «Perché?
Tu non mi hai
fatto de male, amore. È stato quel bastardo».
«Non
ero con te, a proteggerti». Dagli occhi arrossati di Liliane
scendono lacrime che sembrano scavare solchi profondi nel cuore di
Pindar. Le asciuga con la mano, le sue grosse dita sgraziate a
contatto con le guance di velluto di lei, e scuote la testa.
«Tu
sei sempre con me. Sempre».
«Ma
hai pensato male di me». Pindar si sente raggelare, il senso
di
colpa lo invade come veleno «Tu lo sai che non posso stare
nello
stesso posto di quelli che conoscono il Tempo Troppo Veloce. Ho tanta
paura di loro».
La
stringe tra le braccia, accarezzandole la testa con dolcezza. A volte
si ritrova a pensare che la Liliane del Tempo Troppo Veloce e la
Liliane che vive nella sua mente sono molto diverse, che ha soltanto
inventato una brutta copia della donna che un tempo
amava. È
per cancellare idee come questa che beve fino a stordirsi,
perché
non potrebbe vivere sapendo di non amare più la vera
Liliane, ma
soltanto una sua ombra malriuscita.
«Io
ti proteggerò. Tu sei l’unica cosa che conta, per
me…» le bacia
i capelli, avverte la fragranza lieve del profumo al gelsomino che le
ha regalato per il loro primo anniversario «… non
dimenticarlo
mai, capito?». Come può non essere reale? La sua
pelle è soffice
sotto le dita, il respiro caldo; il suo cuore batte, maledettamente
tangibile, contro quello di Pindar.
«Li
aiuterai, Pindar?».
«Non
lo so. Tu vorresti che lo facessi?».
Liliane
posa la guancia contro il petto di Pindar e socchiude gli occhi,
aggrappandosi alla stoffa dei vestiti di lui come se non volesse
lasciarlo andare mai più. Annuisce piano, si raggomitola tra
le sue
gambe.
«Tu
puoi farlo, amore mio. Tu puoi punire quelli che hanno distrutto il
nostro Tempo Troppo Veloce».
Pindar
annuisce, come ipnotizzato. Fa scivolare giù le spalline
dell’abito
a fiori che le copre il corpo minuto e la stringe a sé,
affondando
il naso nella carne tenera tra il collo e la clavicola, là
dove il
battito del cuore accelera e il calore si fa sempre più
intenso.
«Solo
per te, Liliane. Dimmi che ami soltanto me».
«Amo
solo te».
ᵜ
Il
Reggente della Confraternita siede su uno scranno di legno, le gambe
a cavalcioni di un bracciolo, voltando svogliatamente le pagine di un
libro. Ha quasi cinquant'anni, ma il tempo, pur conferendogli
un'autorevolezza che molti invidiano, non gli ha portato via
né
l'amore per i passatempi oziosi, né lo sprezzo assoluto per
le
formalità e l'etichetta.
«Quindi...»
commenta, la voce nasale pregna di noia «... sei riuscito a
stabilire un contatto. Bravo».
Nybras
accoglie la lode con un cenno rispettoso e si appoggia ad uno
scaffale − nella stanza non ci sono pareti libere, ma
soltanto
librerie che occupano ogni centimetro disponibile e teche piene di
oggetti dalle forme strane, alambicchi e astrolabi e utensili
alchemici di metallo brunito; il Reggente lo fissa con i suoi occhi
neri, considerevolmente rimpiccioliti dalle lenti degli occhiali, e
si siede con più compostezza.
«Sei
stato coraggioso».
«Pindar
Van Hasen è molto... diverso da come lo
descrivono i
rapporti». Nybras scrolla le spalle «Non mi
è occorso nessun
particolare coraggio».
Il
Reggente sembra contrariato dalla risposta; corruga le sopracciglia e
storce la bocca in una smorfia dubbiosa, prima di parlare.
«È
un pazzo psicopatico, Cancelliere. Latitante da otto anni, condannato
a morte, ricercato».
«Lo
so. Ho usato e userò prudenza, ma l'impressione di Pindar
Van Hasen
che ho potuto ricavare è quella di un uomo debole e
inoffensivo,
consumato dalla follia. Non è diverso dai disadattati che
frequenta».
«Secondo
te accetterà di collaborare?».
«Sì.
Vive qui da cinque anni, non manderà tutto a monte per una
questione
di puntiglio».
Il
Reggente si alza in piedi, stiracchiandosi, e ripone il libro in uno
scaffale già strapieno.
«Scendere
a patti con individui di quella risma mi disgusta profondamente,
Cancelliere, eppure siamo costretti a farlo per il bene di questa
città».
«Un
obiettivo importante si raggiunge soltanto attraverso il
sacrificio».
La forza della Confraternita, riflette Nybras, si basa proprio sulla
capacità dei singoli membri di mettere da parte i sentimenti
personali pur di conseguire la vittoria «Che si tratti del
mio
onore, della mia morale o di vite umane, io non mi tirerò
indietro».
ᵜ
Il
pendaglio di metallo pesa più di quanto si aspettasse.
Sembra
il minuscolo cranio di un corvo o di una cicogna, scolpito
così
finemente che nelle rughe appena al di sopra delle orbite vuote
Pindar coglie un accenno di espressività vagamente
antropomorfa. Se
lo rigira tra le mani a lungo, prima di decidersi a metterlo
− ha
quasi paura che, come in una delle favole che gli raccontava sua
madre da bambino, il laccio si stringa attorno al collo fino a
soffocarlo − e quando lo infila la pressione della cordicella
sulla
nuca è davvero sgradevole.
«Ma
di che diavolo è fatto?». Borbotta, nascondendolo
nello scollo
della maglietta «Pesa come il piombo».
«Stai
attento». Liliane passeggia sui vestiti gettati per terra, i
piedi
come conchiglie bianche «Non sappiamo quanto possiamo
fidarci».
«Non
ho paura di loro. Solo, mi chiedo come possano sperare di sconfiggere
la Guardia Cittadina».
Lei
fa spallucce, solleva una maglietta e la esamina con aria critica.
«Sai,» commenta «si vede che non ci sono
più io a farti il
bucato, amore. Quante volte lavi i panni in un anno?».
«Mai».
È la risposta, laconica, prima che il rumore di colpi alla
porta lo
faccia sobbalzare.
«Pindar?
Pindar?! Sbrigati ad aprire, cazzo, che ho
fretta!». Anche
soffocato dalla porta, il falsetto di Calypso è
inconfondibile. C'è
stato un tempo, ricorda Pindar, in cui non poteva sentir bussare
qualcuno senza sudare freddo, in cui gli sembrava impensabile aprire
la porta senza portarsi appresso un coltello sguainato. Adesso
abbassa la maniglia quasi con trepidazione, e scoppia in una risata
sonora quando nota l'abbigliamento di Calypso − del resto, non
notarlo sarebbe praticamente impossibile.
«Scusa,
ma...» singhiozza «un vecchio come me non
è abituato a questo
genere di cose».
Gli
verrebbe quasi spontaneo chiederle dove ha comprato la minigonna di
pailette − più mini che gonna,
a dirla tutta, visto che le
arriva tre dita sotto l'inguine − e la giacca di pitone verde
menta, con un paio di spalline così imponenti da sfidare
impunemente
ogni buonsenso.
«Ricordami
quando mai ti ho chiesto pareri sul mio abbigliamento».
Risponde,
altezzosa, aggiustandosi una sciarpa di piume purpuree sul collo
«Comunque sono passata giusto per salutare, stasera ho
l'agenda
piena di impegni. Volevo chiederti se pensi di
incontrare
altre volte quel Nybras Berglund, tanto per capire quanti infarti mi
farai prendere nelle prossime quarantotto ore».
«Io−»
«A
proposito, che voleva?».
Raccontare
a Calypso la verità è fuori discussione: per
quanto gli voglia bene
non potrebbe mai accettare i fatti in tutta la loro completezza, ed
è
l'unica persona alla quale Pindar può rivolgersi quando ha
bisogno
d'aiuto. Non vuole perderla.
«Era
un creditore». Asciutto, forse un po' troppo. Calypso capisce
che
c'è qualcosa che non va, lo vede dal lampo preoccupato che
passa
come un'ombra nei suoi occhi verdi, ma non fa altre domande. Non
è
una stupida, sa che non le risponderebbe.
«E...
hai risolto tutto? Mi sembrava che la situazione si fosse scaldata un
bel po'».
Stavolta
controlla meglio la voce e riesce persino a prodursi in un sorrisetto
sghembo.
«Tutto
a posto. Adesso io e Berglund andiamo d'amore e d'accordo».
«E
lo rivedrai?».
«Dipende.
Probabilmente sì».
Calypso
sbuffa teatralmente, schiocca due baci veloci sulle guance di Pindar
e poi si avvia ancheggiando giù per la scala a chiocciola.
«Non
metterti nei casini, amico». Esclama, un momento prima di
svanire
nel cono d'ombra «O sarò costretta a compiere un
omicidio per
vendicarti».
Pindar
aspetta una decina di minuti prima di seguirla giù per le
scale,
fino al garage comune. Non sa cosa aspettarsi mentre ingrana la prima
e comincia a muoversi a casaccio nelle stradicciole intorno alla sua
tana, sollevando nuvole di vapore acqueo sul selciato fradicio, e
l'impazienza ha ben presto il sopravvento: dal ciondolo non proviene
nessun segnale particolare, niente che possa fargli capire che
direzione prendere. Prova a guardarlo meglio, cercando magari una
minuscola mappa incisa sul retro o un qualche altro segno, ma la
superficie di metallo è liscia e perfettamente integra.
Poi,
un movimento brusco ai margini del campo visivo e un verso stridulo
attirano la sua attenzione.
Quando
alza gli occhi, Pindar trova una cornacchia.
Le
cornacchie non sono uno spettacolo raro a Ecbàtana, dove
proliferano
grazie alle discariche a cielo aperto e alle carogne lasciate in
secca dalle alluvioni, ma è abbastanza sicuro di non averne
mai
vista nessuna con gli occhi dorati. Occhi che brillano,
per
essere più precisi, e ricordano in maniera inquietante un
paio di
minuscole uova di Elelu.
«Non
ci credo». Sussurra, mentre il volatile si dondola con ben
poca
grazia sul bordo di un cartello stradale «Ehi!».
Grida, sventolando
una mano nel tentativo di spaventarla «Ehi, bestiaccia! Tu
saresti
la mia guida, per caso?».
Quella
lo fissa per qualche secondo, immobile, poi si piega sulle zampe
sottili e spicca il volo, dritta in un vicolo buio.
«Ma
porca di quella putt−» snocciolando una sequela di
imprecazioni
che scandalizzerebbero anche il più scafato ubriacone di
Ecbàtana,
Pindar dà gas e cerca di seguire la cornacchia come
può. Nel buio
il suo corpo scuro e affusolato quasi scompare, ma gli occhi brillano
di una luce così intensa da illuminare il selciato lucido,
quando il
volatile plana a poca distanza dal terreno.
Si
avvicinano alla barriera del terzo anello, dove le case lasciano il
passo ad un ammasso di baracche costruite con lamiere e assi marcite;
la strada è coperta da uno strato di fanghiglia putrida alto
appena
un centimetro, ma sufficiente perché Pindar si infradici
fino alla
vita e aggiunga mentalmente un altro capo di vestiario alla lista di
quelli da buttare. La cornacchia svolta in un vicolo cieco, una lunga
strada semibuia su cui si aprono le bocche sdentate delle caverne,
poi vira bruscamente a sinistra e si tuffa in uno degli altri.
Pindar
si avvicina all'apertura e frena bruscamente, prima di affacciarsi
nella cavità.
«Ah,»
esclama, sgomento «avrei dovuto immaginarlo».
Gradini
di pietra consumata dall'uso scendono verso una porta seminascosta
dall'oscurità; al principio di quel rozzo tentativo di
scala, seduto
con grazia accanto ad una delle pareti di roccia, Nybras accarezza
delicatamente il dorso della cornacchia e le sussurra qualcosa in una
lingua che Pindar non ha mai sentito prima. I fregi sui suoi guanti
brillano, irrorati dal Flusso.
«Quindi
tu saresti un Affine, mh?». Spegne la moto e infila le
flussoplacche
in una tasca interna della giacca, sperando che non ci siano ladri
nelle immediate vicinanze − aspirazione vana, visto che il
termine
potrebbe raccogliere tutti gli abitanti di Ecbàtana sotto
un'unica
bandiera.
«La
Confraternita aveva bisogno di qualcuno che potesse manipolare il
Flusso, per i suoi scopi». Le sottili linee dorate sui guanti
di
Nybras si smorzano bruscamente, e la cornacchia, con gli occhi
nuovamente neri, schizza fuori dalla caverna e si allontana nel cielo
plumbeo «Sfortunatamente, il mio potere non è
potente come quello
degli Affini che vivono nel primo settore».
«Quelli
riescono a controllare anche le persone, per caso?». Nella
voce di
Pindar l'inquietudine è palpabile; Nybras sorride come se la
cosa lo
intrigasse profondamente.
«La
legge lo vieta. Per il controllo degli esseri umani è
previsto
l'ergastolo». Si alza in piedi, tira fuori una grossa chiave
argentata dalle pieghe del mantello e comincia ad armeggiare con la
porta «Tuttavia, mi risulta difficile credere che un Affine
capace
di piegare la volontà di un uomo resista alla tentazione di
esercitare il suo potere. Ciò che rimane tra le mura
domestiche, in
fondo, non arriva alle orecchie tese dell'Alto Ufficio
Amministrativo».
La
porta si schiude con un cigolio sinistro, Pindar percepisce un refolo
di aria calda e profumata di spezie. Improvvisamente un pensiero lo
colpisce.
«Non
dirmi che c'è un po' di Flusso anche nel ciondolo che mi hai
dato».
Nybras
annuisce, spalancando la porta. «Adesso seguimi. Comunque
sì, il
minuscolo nucleo di Flusso che si trova all'interno del ciondolo
percepisce le variazioni di quello che scorre all'interno del tuo
corpo e le comunica direttamente a me. Ecco perché ti avevo
raccomandato di venire soltanto se animato da buone intenzioni. E io
posso comandare gli animali di piccola taglia come se fossero
burattini nelle mie mani». Batte le mani, in un gesto che
ricorda
vagamente le movenze di un illusionista circense «Ecco come
funziona
il mio piccolo gioco di prestigio».
ᵜ
La
sede della Confraternita degli Untori è un dedalo di
corridoi
scavati nella roccia nuda, gli intestini di una bestia sotterranea
che sembra aver inghiottito almeno un paio di isolati. All'inizio
pare che non debbano portare da nessuna parte, con le loro svolte
improvvise e prive di logica che conducono a porticine incassate
nella pietra grezza, appena sbozzata; il soffitto è basso,
claustrofobico, le pareti appena illuminate da alcune torce che
spuntano dai muri come se fosse possibile conficcare il legno nel
granito.
Nonostante
tutto, però, la temperatura è piacevolmente alta
e l'aria ha un
buon odore.
«Che
cos'è questo profumo?».
Nybras
sembra una qualche figura misteriosa partorita da un libro di fiabe,
con il mantello che si allarga in pieghe ampie attorno alla sua
figura sottile e scivola sul pavimento come una macchia di olio nero.
Fa un cenno distratto con la mano, e quando risponde nella sua voce
è
in agguato un sorriso.
«Per
i nostri scopi alleviamo numerose erbe straniere. Tra poco capirai
cosa intendo».
Pindar
comincia ad avere paura. Non gli sono mai piaciute le situazioni in
cui si è costretti ad affidarsi a qualcuno che a malapena si
conosce, e le risposte schive di Nybras non contribuiscono a metterlo
a suo agio; tuttavia, la posta in gioco è troppo alta
perché possa
rifiutarsi di collaborare.
Deve
farcela da solo, anche senza l'aiuto di Liliane.
Si
fermano davanti ad una porta considerevolmente più lucida e
imponente delle altre; dall'architrave pende una maschera di metallo
con le esatte fattezze del ciondolo, di un nero striato d'argento, e
per qualche motivo vederla scatena una profonda inquietudine
nell'animo di Pindar. È come se ci fosse qualcosa di
funesto, una
maledizione appena sussurrata che aleggia attorno a quel becco
appuntito.
«Questa
è la maschera di Aarto Teleborian». Il sussurro di
Nybras, in
risposta ad una domanda mai formulata, abbatte il silenzio come un
colpo di frusta «Il fondatore della Confraternita.
È stato
giustiziato due anni fa per aver tentato di abbattere i cancelli
della prima barriera durante una rivolta armata».
Berglund
bussa delicatamente alla porta e dall'interno si sente quasi subito
il suono stridulo di una serratura arrugginita.
Il
legno gira sui cardini, e sotto gli occhi stupefatti di Pindar
compare una lunga sala rettangolare illuminata a giorno. Il soffitto
è più alto, stavolta, persino intonacato; una
serie di lampadine
pendono nude su lunghi bancali da lavoro tirati a lucido, e le pareti
sono tappezzate da una quantità inverosimile di librerie
stracolme.
In un angolo, protette da una cupola di vetro appannato, ci sono
delle piante verdi e dei vasi che sembrano pieni soltanto di muffa,
ammassi di mucillagine dai colori sgargianti, in un altro qualcuno ha
diligentemente esposto provette e alambicchi di tutte le fogge e
dimensioni. Ci sono pagine fitte di appunti sparse sul pavimento e
fiale rotte gettate sotto ogni tavolo, crani giallognoli allineati su
una mensola e una serie di barattoli etichettati il cui contenuto
sfugge alla comprensione, ma quello che colpisce Pindar −
più del
disordine, più dell'accozzaglia di oggetti bizzarri
− è la figura
alta e imponente che se ne sta appoggiata ad un banco qualche metro
davanti a lui.
Indossa
la stessa uniforme di Nybras e una maschera bianca, identica a quella
sull'architrave della porta, cela le fattezze del suo viso; gli unici
dettagli visibili sono gli occhi, neri come la pece, e i capelli
grigi pettinati con cura.
«Mi
fa piacere che tu abbia accettato il nostro invito, Pindar Van
Hasen». Ha una voce profonda e nasale, l'inflessione
strascicata dei
popoli del Sud «Io sono il Reggente della Confraternita degli
Untori».
Davanti
all'espressione confusa di Pindar, Nybras si affretta a spiegare:
«Quella di Reggente è la carica di massima
importanza all'interno
della Confraternita».
«Ah.
Be', salve anche a lei. Adesso potreste dirmi a che cosa vi
servo?».
Grinze
sottili circondano gli occhi del Reggente − sorridere nei
momenti
meno opportuni dev'essere una caratteristica comune a tutti i membri
della Confraternita − e Pindar sposta il peso da un piede
all'altro, a disagio, in attesa di una risposta.
«Sai
cos'è un Untore?».
«No».
«Bene,
allora direi di cominciare con questo. Come sicuramente già
sai, la
nostra città è sempre stata soggetta allo scoppio
di epidemie molto
violente... vuoi per il sovraffollamento, vuoi per le condizioni
igieniche precarie di gran parte dei quartieri. Molti secoli fa si
diffuse nel primo e nel secondo settore un morbo aggressivo,
incurabile, che gettò Ecbàtana nel
caos». Mentre parla cammina tra
i tavoli e sfiora gli oggetti con una dolcezza quasi religiosa; non
si preoccupa nemmeno che Pindar lo stia ascoltando «Le
Cronache
raccontano che quando si veniva contagiati, il primo sintomo era un
senso di spossatezza che impediva di dedicarsi a qualsiasi
attività,
un'apatia sia mentale che fisica. Poi, entro tre giorni dalla
comparsa di questa sorta di depressione, dalle orecchie, dagli occhi
e dalla bocca cominciavano a scorrere fiumi di sangue. Una febbre
altissima ardeva nei corpi degli ammalati e li consumava
dall'interno, riducendo in poltiglia gli organi vitali. Naturalmente
non esisteva una cura, e ben presto i cittadini cominciarono a
pensare che la Piaga, così si chiamava, avesse un'origina
diversa,
celeste. Accusarono le loro antiche divinità, offrirono loro
sacrifici, ma non vennero ascoltati».
Pindar
non fatica ad immaginare lo scenario: strade allagate, cadaveri
coperti di sangue che si avvoltolano nel fango, il terrore
schiacciante della morte a divorare l'anima della gente, pezzo per
pezzo. Il climax di una paura che diventa prima ossessione, poi furia
e infine odio, ingiustificato e incontrollabile.
«Ma
gli dèi erano fin troppo incorporei perché la
gente potesse
scaricare su di loro la rabbia. Incolparono gli stranieri, i
profughi, coloro che vivevano rintanati nelle caverne, isolati, e per
qualche oscuro motivo sembravano resistere meglio degli altri alla
Piaga. Dissero che esistevano degli individui che, nottetempo,
ungevano le maniglie delle porte e le cornici delle finestre con un
cataplasma venefico, portatore del male. Chiamarono questi individui
Untori». Pindar trattiene istintivamente
il fiato, e il
Reggente, come se se ne fosse accorto, gli scocca un'occhiata
penetrante e smette di parlare.
«Quindi,
voi...» Pindar si accorge di avere la pelle d'oca
«... diffondete
le malattie? La storia era vera?».
Di
tutta risposta, il Reggente scoppia a ridere.
«La
storia era un falso creato dalla superstizione e dall'ignoranza, Van
Hasen. All'epoca non esisteva ancora una cognizione corretta del
Flusso, non c'erano esseri umani in grado di creare un simile
unguento mortifero e la rete fognaria aveva diverse falle che
contribuivano ad avvelenare le falde acquifere, uniche foriere della
Piaga. Tuttavia, quando Aarto Teleborian, il fondatore della
Confraternita degli Untori, decise di creare un movimento di
opposizione contro l'Alto Ufficio Amministrativo, comprese che si
poteva sopperire allo svantaggio numerico con un solo
stratagemma...»
la voce del Reggente si abbassa fino a diventare carezzevole come
velluto «... le armi biologiche. Dopo vent'anni di
attività siamo
riusciti a sviluppare un'arma che ci permetterà di abbattere
il
potere dell'Alto Ufficio e mettere fine all'eccidio degli Elelu,
salvando anche il nostro popolo da morte certa. So che Nybras ti ha
spiegato cosa c'è alla base del nostro agire».
Pindar
è così sconvolto da non riuscire a rispondere. Il
suo sguardo corre
dal Reggente a Berglund, alternativamente, nella speranza di trovare
una falla, un accenno di ilarità nella posa rigida degli
Untori. Non
possono essere seri... non possono volere un eccidio di massa nel
primo anello e non possono aver organizzato il tutto con tanta
tranquillità. E l'hanno coinvolto.
Non
ci sono scappatoie, stavolta. Non può nascondersi alle
proprie colpe
e fare finta che non sia successo nulla.
«Voi...
voi pensate di risolvere il problema sterminando la popolazione del
primo anello?». La voce gli trema, incontrollabile
«È una cosa da
matti. Non servirà a un cazzo».
«Non
abbiamo mai parlato di popolazione».
È Nybras, stavolta, a
replicare «Grazie al Flusso mi è stato possibile
manipolare un
ceppo di muffe tossiche, modificandone la struttura e le
potenzialità
secondo il mio gusto. Ho ottenuto una spora estremamente letale,
capace di colonizzare l'organismo umano in tempi relativamente
brevi... e, quel che è meglio, si tratta di un'arma selettiva».
«Che
vuol dire?».
«La
mia spora attacca soltanto gli Affini». Le parole di Nybras
sono
così secche e definitive che Pindar può avvertire
fisicamente il
peso della condanna che contengono. E, quando ne capisce appieno il
significato, non riesce a crederci.
«Ma
tu sei un Affine, dannazione!». Sbraita «Che cazzo
di senso ha? E
come fai a sapere che funziona? Non l'avrai mica provata su
qualcun−»
si interrompe di botto. Certo che l'ha provata su
cavie umane,
altrimenti come farebbe a parlare con tanta sicurezza? Probabilmente
nel secondo anello vivono centinaia di Affini che non sanno nemmeno
di esserlo.
«Ho
creato il veleno, naturalmente sono in possesso
dell'antidoto».
Berglund incrocia le braccia, tronfio «E non dirmi che le
perdite
umane ti creano problemi, Van Hasen. Sei l'ultima persona a poter
dire una cosa del genere».
«Nybras...»
è la voce del Reggente, venata da un accenno di fastidio.
Pindar
contrae il viso come se qualcuno gli avesse appena sferrato un pugno
nello stomaco e indietreggia, scuotendo la testa.
«Io
l'ho fatto per lei...» mormora, senza alzare lo sguardo da
terra
«... per lei, perché−»
«Sappiamo
quello che hai fatto». Il Reggente lo interrompe con un gesto
sprezzante, disgustato «E perché,
presumibilmente, l'hai
fatto. Conosci le nostre condizioni, adesso ascolta: c'è un
modo per
attraversare la prima barriera? I cancelli principali vengono aperti
solo per far passare i dignitari, ma le guardie che smontano dalla
guardia e tornano all'interno del primo anello passano da qualche
altra parte. Dove?».
«Non
potete seguirle e scoprirlo da soli?».
«Sono
corpi scelti e molto ben addestrati. Hanno uniformi modificate con il
Flusso che li rendono invisibili per chiunque, persino per noi... ci
serve uno stratagemma, qualcosa che li distragga».
«Qualcosa
come un pericoloso criminale ricercato che si fa trovare
improvvisamente e che dispone di un gingillo che io posso tracciare
grazie al Flusso. Mantello dell'invisibilità o
meno». Conclude
Berglund «Quando e se si accorgeranno del ciondolo,
sarà troppo
tardi».
«E
perché dovete entrare nel primo anello per diffondere questa
spora?».
«Sfortunatamente
non si tratta di una bomba ad alto potenziale. Se non trova un
organismo in cui attecchire, muore nello spazio di un'ora...
altrimenti si riproduce ad un ritmo incredibile. Libereremo le spore
in una delle centrali di produzione dell'energia che si trovano al
centro del primo anello, e una volta che tutti gli Affini saranno
morti non ci sarà più nessuno in città
sufficientemente potente
per utilizzare le uova di Elelu. In altre parole, il business
subirà
un arresto piuttosto brusco».
«Mi
state chiedendo di farvi da esca».
Il
Reggente si appoggia ad un tavolo, intreccia le mani sul ventre e
risponde: «Ti stiamo dando la possibilità di
scegliere, Van Hasen.
Puoi essere la nostra esca o la nostra vittima».
«Datemi
un giorno per decidere». Pindar sa che supplicare non
servirà a
niente, ma a questo punto il rischio si è fatto talmente
elevato che
persino la sua reputazione non sembra poi così importante
«Domani
sera vi dirò cos'ho scelto».
«Accordato.
Domani sera Nybras prenderà nuovamente contatto con
te».
Pindar
annuisce. La sensazione è quella di un cappio stretto
attorno alla
gola la cui pressione aumenta gradatamente, inesorabile. Presto lo
soffocherà.
"Lo
faccio solo per te, Liliane, amore mio..."
|
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Capitolo 5 *** Anello Debole ***
V.
Anello Debole
Calypso
spalanca la porta del locale con una manata e indirizza un ampio
sorriso d'intesa a Keyli, impegnata a ripulire i tavoli in fondo al
locale. Incespica quando i tacchi si piantano per un paio di
centimetri buoni nello zerbino umido e consunto che recita ancora uno
sbiadito "Fottiti e Porta Via il Tuo Culo Moscio da Qui",
poi, come se non bastassero le scarpe scomode a scatenare il suo
malumore, scorge il mantello nero di Nybras Berglund accanto al
bancone, a pochi passi dal posto abituale di Pindar.
Posto
che, stranamente, alle nove e mezza di sera è ancora vuoto.
"Potrebbe
essere un segno del destino", pensa,
rassettando i pantaloni a zampa d'elefante che, inutile negarlo, le
fanno proprio un bel culo. Si avvicina ticchettando al profilo
affilato di Berglund, getta all'indietro le spalle nel tentativo di
effettuare un'entrata in scena quanto più possibile cool
e spavalda.
«Salve».
Lo saluta, il tono morbido come carta vetrata «Stai per caso
aspettando il mio amico?».
«Quanto
acume, donna mancata». Placido, Berglund smonta tutte le sue
pretese
di gloria mentre sorseggia un cocktail color miele «Ho
rispettato
tutte le tue direttive, sai? L'ho incontrato solo quando era
sobrio... il che, ammetterai, non è così semplice
con un tipo come
quello».
Calypso,
con gli anni, ha imparato a trattenere le rispostacce inviperite
dietro un muro di candida cortesia.
«Non
so cosa vuoi da lui, ma le mie direttive potrebbero
anche
cambiare». Si siede, incrociando lentamente le gambe
«Gli stai
facendo del male. Pensi che non me ne sia accorta?».
«Dovrei
spaventarmi? Posso tenere testa ad una donna mancata».
Il
sorriso di Calypso gronda zucchero e miele.
«Ma
io non mi sporcherei mai le mani per te, pasticcino. Invece Mitch,
per esempio,» accenna ad un uomo corpulento, con le braccia
coperte
di tatuaggi, che sta giocando a carte insieme ad un tipo ancora
più
grosso di lui «è un mio caro amico. E gli amici si
aiutano tra
loro, nel secondo anello. Sai, Mitch ha rischiato l'ergastolo per
aver spaccato il cranio ad un ladro che ha tentato di fregargli la
moto... e l'ha fatto a mani nude».
«Questa
topaia viene frequentata da parecchi tipi interessanti».
Celia
Berglund, ma Calypso si accorge che è impallidito.
«Oh,
non puoi immaginare quanti».
«Mi
riferisco anche al tuo amico, sai? Quanto puoi dire di
conoscerlo?».
Di norma Calypso attribuirebbe una frase del genere alla paura e ad
un timido desiderio di rivalsa, ma c'è qualcosa nello
sguardo di
Berglund che le fa drizzare le orecchie.
«Che
domanda è?».
«Tanto
per cominciare, conosci il suo cognome?».
Il
travestito ridacchia, sbilanciandosi sullo sgabello.
«Cognome?
Non so nemmeno se Pindar sia il nome vero o un soprannome... ma
quanta importanza può avere?».
«Parecchia.
Si chiama Pindar Van Hasen, in realtà. Non dirmi che non ti
ricorda
qualcosa».
Il
volume della risata di Calypso aumenta sensibilmente.
«Oh,
andiamo. I cognomi con il "Van" davanti sono per i ricchi.
Sono i cognomi di quelli che vivono nel primo anello, e Pindar non mi
sembra proprio il tipo. È arrivato qui dagli slum».
«Certo.
Era scappato nel terzo anello per evitare la condanna a
morte».
Nybras giocherella con i cubetti di ghiaccio nel bicchiere, muove la
cannucce in spirali indolenti che irritano terribilmente Calypso
«Aveva una moglie quando viveva nel primo anello. Liliane, si
chiamava... forse te ne ha parlato».
Calypso
smette improvvisamente di sorridere e sbarra gli occhi, attonita.
Solo in quel momento la colpisce il pensiero che potrebbe
esserci un fondo di verità in quanto quella serpe di
Berglund sta
per dirle.
«E
tu come...»
«Come
faccio a saperlo? Vai all'ufficio dell'Archivio cittadino, per un
bizzarro scherzo del caso è molto ben fornito. Cerca il nome
"Van
Hasen" e troverai dei dossier perfettamente accessibili che
raccontano come un onesto e apparentemente ineccepibile cittadino del
primo anello abbia barbaramente ucciso sua moglie, circa otto anni
fa».
«Non
è possibile». Calypso si porta una mano alla
bocca, incredula.
Pindar è completamente pazzo, questo lo sa lei come ogni
cittadino
del secondo anello, ma non può credere che abbia fatto una
cosa del
genere. Quando parla di Liliane nei suoi occhi non c'è
niente se non
amore, l'amore denso e struggente del protagonista di un romanzo
cavalleresco.
E
poi le avrebbe detto qualcosa... non può venire sul serio
dal primo
anello.
«Non
pretendo che tu mi creda sulla parola... scava, all'Archivio, ed
è
questo quello che troverai. Liliane Van Hyck, coniugata Van Hasen,
era un'Affine appartenente ad una delle cerchie più modeste
della
società del primo anello. Si ammalò di quello che
alcuni chiamano
"il Dono degli Elelu", un tumore maligno provocato dalla
malevolenza degli spiriti, e rimase chiusa in casa per diversi mesi.
Pindar Van Hasen, che a quel tempo era il Custode del Primo Cancello,
diede da subito segni di squilibrio, ma nessuno pensò bene
di
denunciarlo all'Alto Ufficio... un bel giorno i suoi colleghi si
accorsero che non andava al lavoro da diversi giorni e, temendo per
la sua salute e per quella della moglie, chiamarono le Guardie
Cittadine. Sai cosa trovarono nell'appartamento di Pindar Van
Hasen?»
Calypso
scuote la testa, catturata da quello che le sembra un racconto troppo
inverosimile per essere vero. O, forse, troppo inverosimile per
essere falso.
«Trovarono
la moglie, Liliane, con il ventre squarciato da parte a parte.
L'aveva aperta in due come un pesce, quasi un centinaio di
coltellate. Pare che il tumore si fosse sviluppato proprio nello
stomaco, e furono fatte numerose ipotesi sulle motivazioni di un
gesto così brutale. Sfortunatamente non fu possibile
chiederlo al
diretto interessato, perché era già scappato dal
primo anello».
Nybras osservò con un sorriso compiaciuto l'espressione
impietrita
di Calypso «Era il Custode, aveva un pass che gli permetteva
di
superare le barriere a sua discrezione. Sparì negli slum
prima che
il mandato di cattura fosse diffuso nei tre anelli, dopo un anno di
ricerche l'Alto Ufficio rinunciò all'idea di scovarlo e i
suoi
identikit furono staccati dalle pareti degli uffici. Tutti pensavano
che fosse morto».
«E
invece era... qui? Come pretendi che ti creda?».
«Non
lo faccio. Saranno le dieci a dir tanto, l'Archivio rimane aperto
fino a mezzanotte grazie alle direttive dell'Assessore ai Beni
Culturali... probabilmente speravano di trasformare questa merda in
un club letterario, bah. Se vai adesso lo trovi ancora
aperto».
Senza
nemmeno rispondergli, Calypso si tira frettolosamente in piedi e
corre fuori dalla porta mezzo scardinata dell'Horny Nipples.
ᵜ
Pindar
fa il suo ingresso dopo un'ora di logorante attesa.
Nybras
non ama aspettare, men che meno se la sua posta silenziosa
culminerà
con la cattura di una preda tanto scontata; Van Hasen è
leggermente
alticcio, lo sguardo azzurro e vacuo, i capelli arruffati.
«Sperare
che non venissi era un po' troppo, evidentemente».
«Ci
sono in ballo questioni più importanti del tuo quieto
vivere». Il
suo sussurro è quasi inudibile, visto che Keyli, sistemati i
tavoli,
si sta avvicinando con il suo consueto passo baldanzoso
«Allora, che
cosa rispondi?».
«Lo
farò». Non è convinto, la voce trema un
po' «Sai, è buffo.
L'Alto Ufficio Amministrativo gestisce Ecbàtana da secoli
senza
mollare la presa, e proprio io devo essere l'anello debole che
farà
crollare tutto».
«La
Storia ha bisogno che nelle catene da cui è avvinta si
creino degli
anelli deboli. Se così non fosse, nulla
cambierebbe».
Nybras
non si sente in colpa per aver rotto il patto con Van Hasen. Nutre
pochissima compassione per quello che considera poco meno di un
rifiuto umano come tanti, e da quel poco che ha visto la
donna
mancata ci tiene troppo a lui per fregarlo. Probabilmente non
vorrà
mai più vederlo, ma non lo denuncerà alle guardie
cittadine.
«Chiedi
agli Affini che ucciderai se la pensano come te».
«Provare
empatia per il nemico non è una buona tattica, se si vuole
vincere
la guerra. Fatti trovare tra due giorni vicino alla fontana della
Piazza di Molnavje, alle quattro di mattina. Sai dov'è,
no?».
Pindar
annuisce, mentre Nybras scivola via dal suo fianco e sparisce senza
rumore nella notte.
ᵜ
Il
cielo rannuvolato si riflette nell'acqua torbida della fontana. Ogni
tanto qualche goccia di pioggia increspa la superficie, onde alte
appena qualche millimetro si infrangono contro gli enormi cadaveri
galleggianti di lattine abbandonate e confezioni di patatine. I
pacchettini accartocciati che beccheggiano sotto la spinta di un
vento appena percettibile somigliano a cigni, origami realizzati
dalla mano distratta di qualche rozzo artigiano ubriaco.
Pindar
non sa se Liliane abbia mai creato un origami mentre era ancora in
vita, ma la guarda con amore mentre affida una gru di carta alla
vasca sporca e sbreccata che orna il centro della piazza esagonale di
Molnavje. Uno spruzzo d'acqua moribondo e singhiozzante le accarezza
la pelle eburnea delle gambe, si lancia fuori da un bocchettone
arrugginito e poi si spegne per qualche secondo; ogni volta Pindar
pensa che l'acqua non sgorgherà mai più, ma
quella, puntualmente,
zampilla di nuovo.
Liliane
indossa la sua camicia da notte di cotone con i bottoni di perle. Non
era mai successo prima.
«Sei
bellissima». Sussurra Pindar, e lei inclina la testa di lato
e
lascia che lui rimiri l'arco bianchissimo del collo flessuoso.
L'unico motivo per cui il futuro lo intimorisce è
perché sa che non
potrà averla con sé − non
finché Berglund rimarrà nei paraggi.
«Mi
mancherai così tanto». Pigola, sdraiandosi sul
bordo della fontana
«Promettimi che tornerai».
«Lo
farò di sicuro. Non ci vorrà molto,
vedrai». E lo spera davvero:
gli tremano già le ginocchia.
Avrebbe
voluto parlare un po' con Calypso prima del giorno fatidico, ma pare
che nessuno l'abbia più vista in giro; probabilmente,
riflette, è
impegnata in qualche traffico di flussoplacche sull'altro versante
della montagna e non ha avuto tempo di andarlo a trovare −
non
sarebbe la prima volta, visti tutti i misteriosi commerci in cui ama
invischiarsi.
Sa
che è ora di andare quando Liliane si dissolve nella nebbia
del
primo mattino e un vago chiarore si fa strada dietro i palazzi,
all'orizzonte; le albe a Ecbàtana sono tristi, grigiastre,
ma ogni
volta che Pindar assiste al sorgere del Sole si sente afferrare da un
profondo senso di commozione.
Senso
di commozione che sparisce, sostituito da una rabbia cieca e
irrazionale, quando Nybras Berglund sbuca da un vicolo e striscia
nella piazza insieme ad un gruppo di dieci o venti persone, tutte
incappucciate; non indossa più l'uniforme − forse
si è reso conto
di quanto dia nell'occhio − e l'ha sostituita con dei jeans
macchiati di grasso e una felpa ampia e un po' stinta, vestiti comuni
nel secondo anello.
«Hai
preso il ciondolo?».
«Buongiorno
anche a te, Berglund».
«Rispondi».
Pindar
fa scivolare una mano sotto il colletto della polo ed espone per
qualche secondo il pendaglio luccicante. Lo sguardo di Nybras si
distende leggermente e l'Untore gli fa persino un cenno di saluto con
la mano, per quanto ironico e poco sentito.
«Salve,
Van Hasen. Sento che sarà una splendida mattinata».
«Mi
auguro che tu sia dotato di buone capacità precognitive,
perché in
caso contrario finiremo entrambi sulla forca».
Il
gruppo si avvia al seguito di Nybras, scivolando silenziosamente
nell'intrico di viuzze e pinnacoli di roccia che rappresenta la parte
più benestante del secondo settore; alle quattro del mattino
le
strade sono deserte, fatta eccezione per qualche vecchio ubriaco
riverso sui gradini di un portone insieme al cane e per i ratti che
sfrecciano nei tombini scoperchiati appena avvertono un rumore un po'
troppo forte. La prima barriera si avvicina sempre di più,
un
immenso muro di cemento liscio alto due volte il più
imponente degli
edifici.
Quando
giungono in vista del Primo Cancello, una fenditura alta e stretta
celata da battenti di acciaio nero e pattugliata continuamente da uno
sparuto drappello di guardie armate, Nybras fa cenno alla compagnia
di fermarsi in un vicolo particolarmente buio e angusto.
«Immagino
tu abbia capito qual è il tuo compito».
«Devo
far sì che mi catturino e che cerchino di portarmi
dall'altra parte,
giusto?».
«Sì.
Attaccheremo quando sapremo dov'è l'entrata».
«Solo
una domanda...» Pindar inarca un sopracciglio «...
queste sono
tutte le truppe di cui disponi? Venti persone contro l'intera Guardia
Cittadina di Ecbàtana?».
«La
nostra confraternita conta quasi settemila adepti,
Van Hasen».
Pindar trattiene a stento un'esclamazione di sorpresa «E sono
tutti
qui, anche se non puoi vederli. Armati. Perciò ti conviene
svolgere
bene il tuo compito».
Annuisce,
uscendo con riluttanza dal vicolo. Non riceve nessun segno
d'incoraggiamento, nemmeno una pacca sulle spalle, e anche se
ammetterlo sembra vergognoso avrebbe gradito un "buona
fortuna". Pensa al sorriso splendente di Liliane e si sente
un po' rinfrancato mentre si avvicina alle guardie.
Indossano
l'uniforme d'ordinanza, giacca infeltrita verde scuro su pantaloni di
cotone grigio; passeggiano avanti e indietro davanti al portone,
imbracciando fucili a canne mozze e mitragliatrici pesanti, gli
anfibi chiodati fanno un rumore d'inferno sul selciato. Sono in tutto
nove.
Quando
notano Pindar, che all'inizio scambiano per l'ennesimo tossicomane a
cui è saltato il grillo di sconfinare, si limitano a
puntargli
contro le armi e chiedergli con gentilezza di togliersi di mezzo.
«Su,
amico». Fa il più vicino, che sul bavero della
giacca ha appuntate
le stelle di caporale «Lèvati dai coglioni, dai.
Non ti facciamo
niente se te ne vai subito».
«Per
me non capisce quello che gli stai dicendo, Bauer».
Bauer
non si arrende e, senza smettere di sorridere bonariamente, si
avvicina a Pindar quel tanto che basta per guardarlo negli occhi e
parlargli con un tono di voce normale.
«Che
ti è successo, eh?». Lo tratta come un bambino che
non trova più i
genitori «Riesci a tornare a casa da solo?». Non ha
più di
venticinque anni, il caporale Bauer, e probabilmente non ha mai visto
la sua foto sui giornali; fortunatamente ci sono un paio di guardie
che dimostrano ben più di cinquant'anni e devono ricordarlo
per
forza − non l'hanno riconosciuto soltanto perché
ritrovarsi
davanti un assassino che si offre spontaneamente alla giustizia
dev'essere una specie di utopia, troppo infantile persino per le
reclute.
«Mi
chiamo Pindar Van Hasen». Quasi grida, contrae i muscoli
delle cosce
per controllare le gambe tremanti «Otto anni fa ho...
ho...» il
cuore batte all'impazzata, la voce gli muore in gola «Mi sono
macchiato dell'omicidio di una persona. Sono qui per consegnarmi
spontaneamente alla Guardia Cittadina».
Bauer
lo fissa con un misto di curiosità e imbarazzo, qualcuno dei
commilitoni scherza: «Puttana ladra, l'ennesimo mitomane. Si
svegliano sempre più presto, eh?».
Uno
dei più vecchi però, un uomo alto e smilzo che
avrà suppergiù una
sessantina d'anni, sporge la testa in avanti e, socchiudendo gli
occhi, esclama: «Bauer, che sia maledetta quella cagna di mia
madre,
tienilo sotto tiro!». Bauer si affretta ad eseguire, e il
militare
smilzo si avvicina a Pindar scrutandolo con attenzione.
«Allora,
Gavriil? È o non è chi dice di essere?».
«Che
mi prenda un colpo». Il viso di Gavriil ha assunto uno strano
colorito cinereo «Se non è lui ci assomiglia
spaventosamente. Per
me dobbiamo portarlo immediatamente in centrale, Bauer».
Il
caporale annuisce, poi ordina: «Ammanettalo».
Il
sudore scende lungo la schiena di Pindar in lenti rivoli ghiacciati.
Si avvicina il momento cruciale.
Le
manette scattano attorno ai suoi polsi, e improvvisamente si ritrova
a dipendere completamente dall'aiuto di Nybras Berglund; se dovesse
decidere di tradirlo, se non fosse in grado di salvarlo, Pindar
verrà
giustiziato sulla forca. È più vicino alla morte
di quanto lo sia
mai stato prima, e questa consapevolezza lo atterrisce. Vorrebbe che
Liliane fosse lì con lui.
Quattro
delle nove guardie di ronda si infilano delle cappe pesanti, di un
colore simile al bitume, e ne drappeggiano una anche attorno al corpo
infreddolito di Pindar; scende fino a terra in pieghe larghe,
voluminose, e lo opprime come un macigno sulle spalle tremanti.
«Mai
capitato in trentasei anni di servizio, cazzo. Il prossimo miracolo
mi auguro sia la pensione».
Bauer
ridacchia alla battuta, poi si fa di colpo serio; chiude gli occhi,
concentrato, e sussurra qualcosa che Pindar non riesce a cogliere. I
militari scompaiono in un battito di ciglia.
«Puoi
stare tranquillo, cane balordo». La voce di Gavriil, da un
punto
indefinito alla sua sinistra, è soffocata dalla cappa
«Ci siamo
ancora. Misure di sicurezza, sai com'è. E adesso lascia che
ti
scortiamo».
Lo
trascinano di malagrazia, facendolo incespicare più volte e
stringendogli dolorosamente le braccia; percorrono qualche centinaio
di metri a ridosso del muro nel più completo silenzio, ma
Pindar si
chiede perché non l'abbiano imbavagliato: volendo, se si
mettesse a
gridare svelerebbe la loro posizione. Evidentemente la tempra delle
guardie non è più quella di una volta.
In
ogni caso, lui non ha nessuna intenzione di rischiare la vita in un
modo tanto avventato.
Si
fermano dopo quasi venti minuti di camminata, in un punto nascosto
dall'ombra di due immensi caseggiati che hanno l'aria di ospitare
stabilimenti industriali. Bauer mormora di nuovo una sequela di
parole strane, incomprensibili, e sotto gli occhi stupefatti di
Pindar il selciato si spalanca e lascia intravedere un'apertura tonda
e una scaletta di metallo che sprofonda nelle viscere della terra.
C'è un sottopassaggio.
Lo
spingono in avanti, intimandogli di scendere, e la sua vista si
annebbia. Potrebbe svenire da un momento all'altro.
Lo
sparo lo riscuote dal torpore.
Risuona
lontano, ma con una tale potenza che Pindar sobbalza e per poco non
cade nell'apertura. Si rende conto solo in un secondo momento che i
militari della guardia sono tornati visibili, e che il corpo steso a
terra con un buco grosso come un pompelmo al centro della schiena
è
Bauer. Bauer, agonizzante ma decisamente vivo, cerca di parlare e
vomita una fontana di sangue sulle pietre squadrate. Tolto di mezzo
l'Affine del gruppo, il sottopassaggio rimarrà aperto.
"Nybras
Berglund, sei un bastardo fortunato".
Si
scrolla di dosso la cappa, Pindar, e fa un paio di passi indietro
prima che una raffica di mitragliatrice si abbatta sul gruppetto di
militari; non appena Bauer, la faccia affondata in una pozza di
sangue non più soltanto suo, tira l'ultimo respiro le
manette si
sganciano con un "click" e cadono a terra, inerti. Van
Hasen scappa via con una velocità che non credeva possibile
per le
sue vecchie gambe fuori allenamento, i bronchi in fiamme e una serie
di colpi di tosse che lo costringono a fermarsi e ad appoggiarsi ad
un muro dopo una cinquantina di metri.
Gli
Untori, nel frattempo, danno il via all'avanzata. Li vede sbucare dai
vicoli, dalle finestre a pianterreno, calarsi dai tetti con
l'agilità
delle scimmie; sono tanti, innumerevoli formiche vestite di stracci
che si lanciano correndo verso il sottopassaggio e vi si gettano
senza nemmeno sapere quello che troveranno dall'altra parte. Uomini e
donne, è indifferente: non riesce nemmeno a distinguerli,
come se
portassero tutti la stessa maschera a celare i lineamenti del viso.
Una maschera inquietante, semiumana, con le orbite spalancate e un
lungo becco affilato.
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Capitolo 6 *** Epilogo ***
VI.
Epilogo
Ha
intrecciato le dita a quelle di Liliane e si è seduto nella
penombra
confortevole della camera da letto, mentre fuori infuriavano le
esplosioni. Le voci della rivolta sono arrivate fino alla sua porta,
si sono infiltrate sotto lo stipite consumato e hanno accarezzato le
sue orecchie, seducenti, ma Pindar si è rifiutato di
ascoltarle. Ha
chiuso gli occhi, respirando piano.
«Andate
via. Io stavo bene anche prima».
Le
lenzuola sono intrise di sangue scuro, un sangue che, per quanto il
tempo passi, non accenna a seccarsi. E non c'è nessuno che
venga a
salvarlo dalla sua follia: Calypso è sparita, lei e la sua
piacevole
allegria posticcia, persino Berglund non si è fatto
più vedere. Ha
paura di mettere il naso fuori dalla porta e scoprire che il vecchio,
amato secondo anello non è più quello di una
volta.
Ha
paura che, vista la recente penuria di inondazioni, qualcuno scenda
nelle caverne e trovi il cadavere della donna del Sud che Liliane gli
ha detto di non aiutare. E capiranno, tutti capiranno e sapranno chi
è davvero. Sapranno che ha ucciso anche lei, e innumerevoli
altre
prima di lei.
Si
stringe al corpo sottile di Liliane e piange come un bambino. Nella
notte senza fine, gli ha detto lei prima che il suo ventre si
squarciasse come per un'inesorabile forza interna e le viscere ne
fuoriuscissero come quel giorno, presto gli Elelu
verranno a
rapire il suo spirito.
Gli
Elelu avranno la loro rivalsa sul piccolo Anello Debole.
«Staremo
insieme per sempre, vero?». Liliane appoggia la testa contro
la sua
spalla e strofina il naso sulla stoffa della maglietta, sorridendo
«Ti proteggerò dagli spiriti, Pindar. Loro mi
ascolteranno».
«Combatterò
anche contro di loro se servirà. Non ti lascerò
mai».
ᵜ
Calypso
rigira tra le mani la foto segnaletica che ha strappato da uno dei
registri dell'Archivio, indugiando con le dita su un viso che conosce
dolorosamente bene. Lo sguardo di Pindar, stampato in bianco e nero
su carta bianca e un po' ruvida, è vuoto, scialbo e
impersonale:
niente a che vedere con il placido fuoco azzurro che per tanti anni
ha visto ardere nei suoi occhi e che, volente o nolente, ha imparato
ad amare. L'uomo ritratto nella fotografia è Pindar, e allo
stesso
tempo non lo è.
Semplicemente,
ha capito che dietro il quarantenne svampito e un po' matto che
riaccompagnava a casa tutti i sabati sera c'è una persona di
cui lei
non ha mai sospettato l'esistenza. Non sa cosa provare al riguardo,
se una fascinazione profonda mitigata dallo scorno o un orrore tanto
viscerale da sconvolgerla. Non conosce mezzi termini, Calypso.
Sospira,
piega la foto in quattro parti e la infila in tasca. Brucia come se
fosse incandescente, una piastra di metallo appena tirata fuori dal
fuoco.
"Devi
denunciarlo. Sai chi è e che cosa ha fatto. Proteggerlo
ucciderà
quella povera donna un'altra volta".
Cielo...
pensare che lui le parli e la veda, persino, le fa venire i brividi.
Posa la mano sulla cornetta del telefono, un cordless arancione
squillante che ha acquistato nella speranza di aggiungere un tocco di
colore all'appartamento e che adesso le ricorda un pulsante rosso da
premere per attivare l'autodistruzione della sua vita. La coscienza
punge, insistente.
Però,
nonostante tutto, non riesce ad odiarlo. Gli ha voluto bene per
troppo tempo, e quel sentimento ha messo radici in lei come
un'erbaccia infestante.
«Ah,
vaffanculo!».
Con
una manata getta il telefono per terra, la base di legno si spacca e
una manciata di minuscole flussoplacche in procinto di scaricarsi si
spargono per tutto il pavimento della stanza. Poco male, le
rivenderà
a qualcuno.
E
non comprerà mai più un telefono.
Fine
________________________
_ _ _
EDIT
02/09/2013: La
storia si è classificata prima al contest a cui era
iscritta! Vorrei
lanciarmi in folli esclamazioni di gioia, ma eviterò di
stressarvi e
mi limiterò a postare il giudizio e i bannerini (ah, Pindar
ha vinto
anche il premio speciale come “Miglior Personaggio
Originale”):
PRIMA
CLASSIFICATA e
VINCITRICE DEL PREMIO “MIGLIOR PERSONAGGIO
ORIGINALE”: The Weak
Link di GreedFan
Grammatica
e
sintassi: 5/5
Stile:
4/5
Caratterizzazione
personaggi: 10/10
Descrizione
delle
ambientazioni: 8/10
Trama:
svolgimento e
contenuto: (10/10, 9/10) 9.5/10
Originalità:
8.5/10
Totale:
45/50
Niente
da dire su
grammatica e sintassi. Per quanto riguarda lo stile ho avuto qualche
problema con gli incisi (spesso prolissi) e le virgole prima della
coniugazione“e”. Cose del tutto plausibili, certo,
ma che non
incontrano il mio gusto. I lunghi incisi finiscono con
l’essere
dispersivi e l’introduzione di ulteriori segni grafici (oltre
alle
solite virgolette/trattini per i discorsi diretti) sembra violare il
flusso delle parole. Mentre le virgole prima della coniugazione
“e”
appesantiscono non di poco la frase, introducendo una sommatoria di
pause di per sé inutile.
La
caratterizzazione
dei personaggi è magistrale. Sia il protagonista che i
personaggi
più secondari sono resi con un’attenzione tale da
creare una
perfetta visione a tuttotondo. Le sfaccettature di cui li hai dotati
li rendono perfettamente realistici e per questo, forse,
così
toccanti. Hai saputo sviscerare profondi legami d’amicizia e
d’amore con una sobrietà disarmante. Hai saputo
creare e
soprattutto “gestire” un protagonista che -credo di
poterlo dire-
ha dello straordinario. Pindar, infatti, è
l’apoteosi dei tuoi
personaggi. Ti sei districata tra il suo dolore, la sua follia e il
suo amore, mantenendoti su equilibri sottili. Gli hai dato voce con
misura, calando il lettore nel suo dramma senza fretta,
perché è
solo alla fine che -come Pindar- ci si accorge di esserne
completamente travolti. A lui, quindi, va il premio di miglior
personaggio originale e a te tutto il merito.
Buone
le
ambientazioni, soprattutto il modo in cui hai descritto
l’allagamento
delle strade, ma rispetto alla caratterizzazione dei personaggi ho
notato meno incisività. Spesso ne dai un’idea
generica, senza
soffermarti sui dettagli.
La
storia si svolge
in maniera davvero intelligente; le visioni che Pindar ha di Liliane
ci aprono le porte della sua follia, ma tutto viene svelato nei
giusti tempi. La certezza che la trama porti ad una svolta, in Pindar
stesso così come nel mondo in cui vive, si rivela un mera
illusione
solo nel finale. Perché il cardine portante di questa storia
non è
altro che il dramma di Pindar, tutto il resto gli fa solo da
contorno. E questo è il motivo per cui ho amato il finale. I
temi
che la tua storia racchiude, oltre a essere di per loro complessi,
vengono affrontati o anche semplicemente “toccati”
con un
particolare rispetto. Racconti le cose come stanno, senza emettere
sentenze, lasciandole sotto gli occhi del lettore nella loro
dignitosa nudità, affinché sia lui stesso a
trarre le conclusioni
dovute.
Oltre
ai personaggi,
anche il mondo che crei è sicuramente originale, ricco sia
di spunti
fantastici che crudamente realistici.
P.S.
All’inizio,
il verso tratto da Chop Suey! è stata una bellissima
sorpresa.
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