The Weak Link

di GreedFan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voli Pindarici ***
Capitolo 2: *** Nybras ***
Capitolo 3: *** Tempo Troppo Veloce ***
Capitolo 4: *** Untori ***
Capitolo 5: *** Anello Debole ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Voli Pindarici ***


The Weak Link


Feelin' like a freak on a leash (You wanna see the light)

Feelin' like I have no release (So do I)

How many times have I felt disease? (You wanna see the light)

Nothing in my life is free... is free

Korn, "Freak on a Leash"


Father into your hands

I commend my spirit

Father into your hands

Why have you forsaken me?

System Of A Down, "Chop Suey!"



I. Voli Pindarici



Pindar abbandona la testa sul bancone ‒ le dita che tentano, senza successo, di artigliare l'ultimo boccale di birra della serata. Il vomito pizzica sul fondo della gola e ogni cosa nell'ampio salone dell'Horny Nipples − nome di squisita raffinatezza: nell'Antica Lingua Corrente significa qualcosa come "il dormitorio degli spiriti" − gira su se stessa come una turbina in procinto di esplodere, e di sicuro c'è qualcosa di profondamente sbagliato nel trascorrere così il proprio trentasettesimo compleanno.

O forse è il trentottesimo.

Non si lava i capelli da una settimana e mezza, e una massa oleosa e biondiccia copre parzialmente la visuale sulla scollatura generosa della barista di ritorno − nulla per cui angustiarsi, visto il seno prorompente di Keyli − e ciocche unte gli finiscono in bocca ogni volta che cerca di parlare. Prova ad articolare una richiesta di soccorso, perché il semplice gesto di avvicinare le dita alla testa e gettare all'indietro la zazzera incolta sembra al momento piuttosto complesso, ma tutto quello che esce dalle sue labbra è una sequela di versi inarticolati.

«Auuo...» biascica «... heili 'asso 'euamehi daha faha...»

Si chiede dove sia Liliane. Lei compare sempre in questi frangenti, si materializza accanto a lui e lo aiuta come può − del resto, per qualcosa che non è corporeo e nemmeno visibile al resto del mondo non deve essere facile dare manforte ad un quarantenne ubriaco. Solleva la testa, inarcando il collo quel poco che basta per parlare meglio senza vomitare tutto il contenuto del suo stomaco, e per un attimo cerca i capelli biondi di Liliane nella folla eterogenea che popola l'Horny Nipples.

A parte una ragazza alta e magra con il viso coperto da tatuaggi che cambiano continuamente colore, non c'è nessuno che le somigli anche solo lontanamente.

«Ehi... Keyli...»

Alza un po' il volume e finalmente, interrompendo l'asciugatura di un bicchiere sudicio, la barista posa i suoi enormi occhi verdi su di lui e arriccia il naso in un'espressione di puro disgusto.

«Oh, ma guarda tu che cazzo di roba. Pindar, 'rcaputtana, quanta roba ti sei scolato?!».

Apre per bene le dita della mano destra e le agita un po', giusto per rimarcare il concetto: cinque. Cinque birre corrette con una damigiana di alcool etilico puro, fedeli alla consuetudine ben poco elitaria dell'Horny Nipples.

«Finirai per ammazzarti, imbecille. Ma dove cazzo è Calypso?».

Pindar cerca di trarsi in salvo con un mugolio affranto − Calypso e le sue infinite tiritere moraliste sono l'ultima cosa di cui ha bisogno per raggiungere casa incolume ‒ prima che una mano insolitamente gentile si posi sulla sua spalla destra e un viso maschile, bello pur nella visuale sfocata dell'ubriacatura, gli si piazzi davanti.

«Posso aiutarlo io, se non è un problema». Ha i capelli castani, riccioli grossolani che gli sfiorano appena i lobi delle orecchie, e occhi marroni screziati di verde; indossa una palandrana nera abbottonata fino al collo e guanti dello stesso colore ‒ per quello che Pindar riesce a vedere, eccetto viso e gola non ha lasciato un singolo centimetro di pelle scoperta. Si irrigidisce, allontanandosi un po' dal ragazzo con un'imprecazione biascicata. Non lo conosce, non sembra affidabile e soprattutto non ha un bel paio di tette su cui spalmarsi in attesa che passi la sbornia.

«E tu chi cazzo sei, scusa?». Keyli squadra il nuovo arrivato dall'alto in basso, le mani piantate sui fianchi generosi «Non mi pare di averti mai visto in sua compagnia, e io questo stronzo qui lo conosco molto bene».

«Nybras Berglund». Il ragazzo si inchina con aria compita «Volevo semplicemente dare una mano, ho davvero un'aria così losca?».

Keyli inarca un sopracciglio e attorciglia una ciocca di capelli neri sull'indice, pensierosa.

«Io sono Keylianna Moreau e sì, hai davvero un'aria così losca. Non ti ho mai visto da queste parti... non sarai mica del primo anello, eh?». Nella domanda di Keyli è palpabile la minaccia, ma Nybras non dà il minimo segno di cedimento: solleva entrambe le mani, sulla difensiva, e scuote la testa.

«Senza offesa per questa meraviglia di locale, ma non mi ritroverei in un posto del genere se avessi i crediti di uno che vive del primo anello».

«Ah, ma senti un po'. Be', per quanto mi riguarda puoi anche andartene affancul‒»

«Keyli, cara, non mi sembrano modi da rivolgere ad uno sconosciuto che ha detto la pura e semplice verità sul locale». Una voce alta, acuta in modo forzato, spezza il momento di tensione prima che una quarta persona si sieda con disinvoltura accanto a Pindar «E comunque ti avevo chiesto di andarci piano con le ordinazioni di 'sto qua, sai che esagera sempre».

Keyli sbuffa con aria contrariata, Nybras strabuzza gli occhi e Pindar emette un gemito disperato.

«Ha... lypso».

«Tesoro, se non riesci nemmeno a pronunciare il mio nome sei messo davvero male. Adesso ti riaccompagno a casa, non preoccuparti. Comunque, Berglund, checché ne dica il nostro comune amico, io sono Calypso».

L'individuo di nome Calypso si fa notare non solo per la statura ‒ supera di tutta la testa qualsiasi altro avventore del locale ‒ ma anche per il vestiario piuttosto peculiare di cui fa sfoggio: indossa un abitino striminzito di pailette che cangiano dal verde al viola a seconda della luce, un paio di stivali di vernice azzurra e una cascata di bigiotteria multicolore, di tutte le sfumature comprese tra il giallo e il blu. Calze a rete di un arancione così carico da sembrare fosforescente accarezzano gambe lunghe, atletiche e abbronzate; i capelli, una massa di boccoli rosa shocking molto curati, sono intrecciati a tutta una serie di pendagli e nastri dalle forme più inconsuete.

Nybras Berglund impiega qualche secondo a recuperare la propria compostezza quando si rende conto di trovarsi di fronte ad un uomo − i tratti marcati e spigolosi del viso di Calypso lasciano poco spazio a congetture, così come le sue mani grandi e nodose e la totale assenza di seno. Sotto il falsetto aggraziato che ammanta le sue parole può sentire senza nessuno sforzo il timbro basso e carezzevole di una voce maschile, per quanto sapientemente nascosta.

«Salve... io−»

«Non disturbarti, Berglund. Sarei deliziata di trascorrere del tempo con te, ma Pindar sembra sul punto di vomitare anche l'anima e casa sua è lontana. Scusami».

Calypso afferra Pindar come se fosse un sacco vuoto e se lo carica in spalla, attirando gli sguardi scioccati di parecchi avventori; prima di andarsene si avvicina a Nybras − socchiude gli occhi, di un verde cupo che scintilla nella penombra − e sussurra: «Non so cosa volessi dal mio amico, ma la prossima volta farai meglio ad avvicinarlo quando è sobrio o quando io non sono nei paraggi. Altrimenti ti spezzo le gambe».

Il ragazzo fa istintivamente un passo indietro, mentre sul viso di Calypso affiora un sorriso melenso.

«Ci si vede, pasticcino».



Il profumo di caffè appena fatto è la miglior accoglienza possibile per chi si prepara ad affrontare un dopo sbronza. Pindar lo sa bene e si avvoltola pigramente nelle lenzuola fresche di bucato mentre, al di là delle palpebre serrate e di un paio di porte mezze rotte, Calypso si affaccenda in cucina tra il tintinnio delle tazzine e la vibrazione cupa di un frigorifero ormai da buttare.

Qualche ricordo si riaffaccia nella mente in subbuglio, le dita fresche di Calypso sulla fronte, a scostare i capelli, il bruciore del vomito in gola e il contatto piacevole con la pietra gelata del bagno. Non è la prima volta che lo riaccompagna a casa in condizioni pietose, e Pindar si chiede davvero perché lo faccia − non si considera un tipo simpatico, affabile, o comunque qualcuno con cui valga la pena trascorrere del tempo. Se potesse, lui stesso eviterebbe la propria compagnia.

«Le fogne hanno tracimato di nuovo». All'annuncio di Calypso seguono un paio di imprecazioni e un lungo lamento «Andiamo, non dirmi che ti dispiace avere una scusa per rimanere chiuso in casa come fai tutti i giorni».

Pindar si tira a sedere con uno sbuffo e appoggia la schiena alla testiera del letto − un bancale rivestito con gli stracci che ha raccattato in giro per il quartiere − prendendosi qualche secondo per osservare il caos in cui è immersa la sua stanza. Il pavimento − una distesa di anonime piastrelle grigiognole sbeccate e coperte di crepe − è nascosto da una coltre di panni sporchi irrigiditi dal tempo e confezioni di cibo take-away buttate un po' ovunque; agli angoli del soffitto prosperano colonie di ragni che Pindar non ha né la voglia né la crudeltà di eliminare, e sulle pareti spoglie fanno bella mostra di sé chiazze fangose di origine non ben precisata. Non c'è niente che indichi la presenza di una persona, eccetto la sporcizia.

Calypso entra nella stanza brandendo un vassoio di peltro su cui ha ammonticchiato vari biscotti e una tazza di caffè fumante, si siede sulla sponda del letto e sorride a Pindar in un modo che promette allo stesso modo cure e tenerezze e tremende rappresaglie. La tuta giallo limone che indossa crea un contrasto stranamente allegro con l'arredamento squallido, e Pindar si scopre a pensare che è per merito di Calypso se in casa sua, ogni tanto, c'è un po' di colore.

«Allora, come ti senti?».

«Mah, non ho nemmeno troppo mal di testa. Non è stata la serata peggiore della mia vita».

«Oh, no. Stavolta sei riuscito a non molestare nessuno e a non procurarti qualche livido prima di tornare a casa». Ha sempre odiato il sarcasmo corrosivo di quella che, in fin dei conti, è la sua unica amica «A proposito. Hai una vaga idea di chi fosse il tipo che rompeva i coglioni? Quello vestito di nero dalla testa ai piedi».

Pindar butta giù un sorso di caffè rigenerante e scuote la testa, pesca un paio di biscotti punteggiati di cioccolato e li sgranocchia, affamato.

«Probabilmente un creditore, ma non mi ricordo bene la sua faccia. Come ha detto di chiamarsi?».

«Nybras Berglund. Nessuna delle mie conoscenze ha mai sentito parlare di lui, e questo è piuttosto bizzarro». Calypso intrattiene rapporti mercantili e/o amichevoli con mezza città, sempre pronta ad invischiarsi in ogni genere di affari loschi, e può vantare una tale quantità di fonti di informazioni che la mancata identificazione di Berglund suona, effettivamente, sospetta.

«Se davvero, come penso, gli devo dei crediti... be', in quel caso sarà lui a presentarsi di nuovo. Chi ti presta la grana non dimentica mai di riprendersela».

«Siamo tutti abituati ai pazzi furiosi con cui ti indebiti, Slumboy». Calypso sa che detesta quel soprannome, e proprio in virtù di questo lo usa tutte le volte che può «Ma questo aveva qualcosa di strano. Non sembrava più pericoloso di quel vecchio tossico che il mese scorso per poco non ti ha accoltellato, ma i suoi vestiti erano...» arriccia il naso «... puliti. E con "puliti" intendo dire che non puzzavano di fogna come quelli di chi vive qui da sempre».

Pindar smette di sorseggiare il caffè e inarca un sopracciglio, cercando di raccogliere un po' di concentrazione nella palude dolorante che è il suo cervello.

«Stai dicendo che potrebbe essere del primo anello?». È un opzione assurda persino per lui, che si imbarca spesso in speculazioni del tutto prive di senso, ma lo fa rabbrividire comunque dal disgusto «Cazzo, mi ha pure toccato. Che dici, per te mi ha passato qualcosa?».

Calypso fa spallucce.

«Quelle sulle epidemie che sono scoppiate lassù potrebbero essere soltanto voci. Anche perché nel primo settore riescono a curare tutte le malattie senza sforzo... dicono che sia perché usano gli Elelu, no?».

Negli occhi azzurri di Pindar passa un'ombra, le dita si stringono impercettibilmente attorno alla tazza bollente.

«Così dicono. Com'è la situazione, là fuori?».

«Puoi affacciarti e rendertene conto da solo».

Ci vuole qualche secondo perché l'uomo, appesantito da un intorpidimento diffuso e sgradevole, riesca a liberarsi dal viluppo di lenzuola e scenda dal letto, barcollando. L'unica finestra della stanza è un quadrato di cinquanta centimetri di lato tappato alla meno peggio con pezzi di vetro rimediati chissà dove e rimasugli di cartone pesante, infradiciato dalla pioggia, ma offre una visuale notevole del corso principale del secondo anello. Spazza via la condensa con una mano rattrappita, Pindar, e appoggia la fronte al muro scrostato.

«Cazzo, è un bel bordello».

Molnavje, la strada più grande e frequentata del secondo anello della città di Ecbàtana, è un caos di fango e carcasse di piccoli animali che scivolano sul selciato e si ammucchiano nei canali di scolo otturati, di motociclette abbandonate su un fianco e autobus sventrati e deformati dall'impatto con le pareti rocciose della montagna. Succede ogni volta che piove: le fogne, da troppi anni abbandonate a sé stesse, si colmano di acqua e rifiuti e smettono di funzionare; i tombini saltano, geyser di fango e detriti marcescenti invadono le corsie pedonali, i negozi sbarrano le entrate e le case al pian terreno vengono travolte da un'inondazione di liquami. Il fetore è così forte che chi abita in una delle tane affacciate sulla strada mura le finestre o le copre con qualsiasi cosa abbia a disposizione, perché quel lezzo, che si incolla alle pareti e impregna i capelli e i tessuti, nemmeno dopo la morte andrà più via.

La fiumana scende verso il basso senza apparente interruzione, diretta verso gli slum del terzo anello − dove, probabilmente, ristagnerà per settimane prima che l'amministrazione riesca a pomparla via. Accarezza pigramente le basi dei pinnacoli rocciosi in cui la gente di Ecbàtana ha scavato le proprie case, si infiltra nelle cantine e sommerge qualcuno dei ponticelli tesi tra una guglia e l'altra, strappando via le funi marce che li assicurano a robusti chiodi conficcati nella pietra. Più vicine alla cima della montagna, una rete di grigio che ne avvolge i fianchi e i crinali come un sudario funebre, le strade del primo anello non sembrano in condizioni migliori − non fosse per le enormi muraglie di calcestruzzo che separano i tre settori, i rifiuti si accumulerebbero soltanto in basso, sulle pendici del monte, e invece ristagnano equamente in ogni angolo della città. Il lato positivo è che anche i ricchi sono costretti a godersi l'olezzo delle proprie miserie.

«Mi chiedo perché l'amministrazione cittadina non spenda un po' di soldi per sistemare le fogne. Guarda che schifo... e io che mi consideravo un privilegiato quando mi hanno rifilato questo buco con vista su Molnavje».

«Puoi effettivamente considerarti un privilegiato,» celia Calypso, frugando pensosamente tra i biscotti «hai sia un magnifico panorama sul cuore pulsante del secondo anello che una fantastica vista fiume». Ridacchia «E la puzza qui non è molto peggiore che da me, credimi».

«La tua simpatia mi uccide».

«Non più di quanto faccia l'alcool, Slumboy».

Pindar sbuffa e lancia la tazza su un mucchio di vestiti, poi si sfila la maglietta e i pantaloni come se Calypso non fosse nemmeno lì. Uno dei lati positivi dell'essere mentalmente disturbati, secondo Pindar, è il fatto che le persone non si offendono se le ignori o se ti comporti in maniera strana davanti a loro: fanno finta di non vedere o, come nel caso di Calypso, partecipano lietamente della tua stessa follia.

Il bagno, un bugigattolo di un paio di metri quadri scavati nel granito rossastro della montagna, comprende una grata che sostituisce il pavimento e un tubo di ferro arrugginito che sbuca dalla parete e vomita costantemente una cascatella di acqua mista a terra. Una nicchia nella parete ospita grossi pezzi di sapone fatto a mano, simile a burro grigiastro e puzzolente di cenere, e Pindar se ne strofina uno sulla testa, a lungo, nel tentativo di rendersi presentabile. Sente la cute bruciare, irritata, ma non se ne cura: dopo tanti anni nel secondo anello si è abituato ad una vita spartana, probabilmente le essenze fruttate dei detergenti del primo settore finirebbero per disgustarlo.

«Devi buttare giù un po' di pancia». Calypso, nel frattempo, sta facendo piazza pulita dei biscotti «Keyli non ti verrà mai dietro, se continui così».

«Keyli ha ventidue anni e io sono brutto, Cal». Non c'è amarezza nelle parole di Pindar, solo una vuota constatazione «Chi vuoi che mi guardi?».

Percepisce un sospiro, ma il rumore dell'acqua che gocciola nelle orecchie è troppo forte perché ne sia certo.

«Liliane ti ha più parlato?». La voce di Calypso è modulata, incerta, e chi la conosce sa quanto una circostanza del genere sia rara. Pindar si volta verso di lei e sorride, senza smettere di strofinare la schiuma grigia sui capelli, poi inclina la testa da una parte e si appoggia al muro come se improvvisamente gli mancassero le forze. Sospira.

«Lei mi parla sempre, Cal. Lei è sempre con me, tutto il tempo». Negli occhi di Pindar risplende una felicità così intensa che Calypso non se la sente di contraddirlo, ma non può impedirsi di indietreggiare leggermente «A volte, quando la puzza di putrefazione è meno forte, riesco addirittura a sentire il suo profumo».

Calypso non può esserne sicura, non con la testa di Pindar sotto il getto dell'acqua, ma le sembra che i suoi occhi si siano fatti rossi e lucidi, prossimi al pianto. «Sei proprio un vecchio pazzo,» mormora «matto da rinchiudere».

Nonostante tutto c'è qualcosa in lui che la affascina, forse il totale abbandono del suo sguardo o la lentezza studiata e metodica dei gesti, o la voce roca che a tratti sembra ruvida come il granito e poi, d'improvviso, diventa carezzevole come l'eco montana. Il viso di Pindar, che molti non esiterebbero a definire "brutto", è in realtà un collage di tratti spigolosi e curve morbide, di ombre decise e porzioni quasi amorfe, nell'insieme poco armoniose ma decisamente affascinanti.

È una bellezza che necessita di numerosi presupposti per essere compresa, e lo stesso Pindar fatica a capire le lodi che la sua amica spesso gli rivolge.

«Sono felicemente pazzo». Ridacchia; quando esce dal bagno, nudo e gocciolante, Calypso pesca a caso dei vestiti e glieli lancia «È uno status solo mio, no? A te queste cose di solito piacciono».

«A me importa solo che non ti succeda niente, Slumboy. Per il resto puoi vedere quello che vuoi».

Con la testa infilata in una felpa marrone e un braccio incastrato nel tentativo di raggiungere la manica, la risposta di Pindar viene quasi soffocata dalla stoffa.

«Se smettessi di vederla, Cal, mi ammazzerei. Per ora è l'unica cosa che mi tiene in vita».
















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So che gli habitué della sezione Fantasy dovranno trattenersi dal lanciarmi appresso tutto quello che si trovano a portata di mano, ma questa storia partecipa al contest "A Strange Fantasy" ed è, perciò, particolare sotto molti punti di vista. L'ho ambientata in un mondo fantastico che ricalca approssimativamente le caratteristiche della nostra epoca moderna, più qualche aggiunta per rendere il tutto più frizzante; Ecbàtana, la città in cui la storia è ambientata, prende il nome da quella roccaforte persiana circondata da sette cerchie di mura che fu conquistata da Alessandro Il Grande (yeah, scarsa fantasia per i nomi).

Pindar è un protagonista piuttosto atipico per un fantasy, lo so, ma sentivo il bisogno di creare un personaggio del genere. Mi auguro che il primo capitolo vi sia piaciuto e che i successivi (ne mancano altri quattro, già scritti, più un breve epilogo) continuino a divertirvi.

See you soon,

GreedFan


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Capitolo 2
*** Nybras ***


II. Nybras



La zattera scivola sulle acque nere con una delicatezza impeccabile, senza tremare o inclinarsi sotto la spinta della corrente. Seduto al centro della piattaforma di legno incatramato, un'incerata a ripararlo dalla pioggerellina che continua a cadere ininterrottamente da ore, Pindar scruta pensosamente le vie del secondo anello alla ricerca di qualcuno che richieda i suoi servigi.

Non ha bisogno di remi o timone, perché la zattera risponde con sollecitudine ai suoi pensieri; non è nemmeno una vera e propria zattera, a dirla tutta: la parte inferiore non sfiora l'acqua, fluttua a pochi centimetri dalle onde e brilla di una luce dorata che chiunque, in città, sarebbe in grado di additare come "il Flusso".

Il Flusso è in ciascuno di noi, dicono gli anziani ai bambini che cominciano a fare domande sul mondo, il Flusso è il motore della città e la ragione per cui viviamo e respiriamo. Il Flusso è la sostanza prima e il fine ultimo, è il Sole caldo e la Luna che tinge d'argento le montagne.

Il Flusso, gli Elelu.

Pindar non crede a tutte le cazzate religiose che i vecchi mormorano nei loro circoli da rimbambiti, non ha mai visitato un Santuario in quasi quarant'anni di vita ed è globalmente disinteressato alle implicazioni etiche e morali dell'utilizzo del Flusso; per lui, come del resto per molti abitanti di Ecbàtana, non si tratta che dell'unica fonte di energia disponibile a poco prezzo in qualsiasi parte della città. Finché la zattera funziona, i dilemmi morali sullo sfruttamento ambientale lo ripugnano.

Schiva con facilità la carcassa di un mulo, ribaltato sulla schiena con il ventre gonfio come una botte, e per poco non impatta contro una cassapanca spezzata che beccheggia nella corrente. Le aperture buie delle case, mezzo sommerse dall'acqua, sembrano bocche spalancate di demoni − partorite dagli incubi, le mostruosità destinate a chi non ha crediti sufficienti per pagare l'affitto di un cubicolo ai piani superiori. Ogni tanto un volto bianco come il gesso compare tra i flutti, una mano smagrita urta contro i rifiuti trasportati dall'acqua e poi sparisce di nuovo, nascondendo le spoglie di un profugo che ha accettato di confinarsi in quelle caverne disumane e vi trascorrerà, probabilmente, l'eternità. Nessuno sa quanto a fondo si spingano, giù nel ventre della montagna − certo è che, ad ogni inondazione, qualche scheletro scarnificato dagli anni vede nuovamente la luce.

Un movimento repentino attira l’attenzione di Pindar. Si sporge leggermente dalla zattera, aguzzando la vista nel caos di rifiuti galleggianti, ed ecco che, a pochi metri di distanza, distingue chiaramente una figura umana aggrappata ai resti di un tavolo: è una donna, con la pelle scura della gente del Sud e una matassa di riccioli neri che le aderiscono al viso ogni volta che riemerge dall’acqua putrida e si afferra meglio alle assi. Ha gli occhi scuri, grandi di paura, e annaspa mentre gli ampi vestiti inzuppati la trascinano a fondo.

Pindar è indeciso se aiutarla o meno. Solitamente offre un servizio di sgombero rifiuti a pagamento, non va in giro a ripescare ragazzine bisognose d’aiuto e soprattutto indigenti.

La donna sprofonda sotto il pelo dell’acqua emettendo un grido strozzato, poi tira fuori la testa e ‒ per un’infausta combinazione del destino ‒ si gira verso di lui. Lo vede. Comincia ad agitarsi freneticamente, scuotendo un braccio mentre con l’altro si aggrappa a tutto quello che le capita a tiro, e nel frattempo inghiotte acqua e strilla a perdifiato.

«Aiuto! Aiutami, ti prego!». La corrente, riflette Pindar, non è così forte da uccidere qualcuno che sappia anche solo tenersi a galla; evidentemente la donna viene dalle nazioni dell’estremo Sud, dove non ci sono fiumi e l’unica acqua potabile viene estratta dagli alberi. È stata piuttosto sciocca ad insediarsi in un antro senza prevederne le conseguenze.

Forse è più giusto lasciare che se la cavi da sola.

«Tu che ne pensi, Liliane?».

Stesa sulla zattera con i capelli biondi sparsi attorno al viso come una pozza d’oro colato, lei è ancora più bella del solito. Socchiude gli occhi scuri ed emette un sospiro graziosamente seccato, mentre Pindar si sente invadere da una felicità così perfetta e totalizzante da fargli dimenticare tutto il resto. Gli tiene spesso compagnia durante le inondazioni, seduta a pochi centimetri dall’acqua putrida come un giglio sbocciato in una palude, e Pindar ama osservare il suo viso delicato e le mani da bambola, intrecciate in grembo oppure occupate a giocare con qualche scheggia trasportata dalla corrente. Lei è completamente sua, una visione fragile e stupenda che non si è mai concessa a nessun altro ‒ soltanto i folli, gli ha detto una volta, soltanto loro possono ambire a posare lo sguardo sul suo bel volto.

«Lasciala dov’è, amore mio». Sussurra, la voce come tanti campanelli d’argento «Che te ne fai della gratitudine di una donna come quella? Sprecheresti soltanto il tuo tempo».

«E noi sappiamo che il tempo è prezioso, tesoro». Replica Pindar in un mormorio sommesso «Soprattutto quello che sembra passare troppo in fretta».

La zattera scivola in un vicolo buio, secondario, e la donna del Sud scompare sotto la superficie dell'acqua in un turbinio di schiuma biancastra.



Al tramonto, quando ormai gran parte dell'acqua è defluita e la fascia alta del secondo anello è nuovamente percorribile senza l'aiuto di imbarcazioni, Pindar ripone la zattera nel garage comune a tutto il suo blocco abitativo − una palafitta di cemento armato che sorge tra un pinnacolo roccioso e l'altro, tanto brutta quanto pratica − e prende la motocicletta.

Le moto sono un lusso per gli abitanti del secondo settore: un mezzo usato, purché funzioni, può costare più di un appartamento ben arredato sulla cima di un crinale, e le flussoplacche che servono per avviare il motore costituiscono il principale oggetto di un fiorente commercio di contrabbando. Una placca è una riserva di energia che può durare anche diversi mesi se non è mai stata sfruttata prima, ma nel secondo anello circolano quasi esclusivamente quelle ricaricate − che smettono di funzionare in tempi brevi e, spesso, senza nessun preavviso; Pindar conserva le sue in una cassetta nascosta sotto il letto, e il solo motivo per cui si presta al compito ingrato di sgomberare le strade invase dai detriti è che gli occorrono parecchi crediti per mantenere la scorta a livelli accettabili.

Fischiettando il motivetto allegro di una vecchia ballata da osteria, afferra il telo che copre la moto e lo ripiega con cura, prima di riporlo nell'angolo più asciutto della rimessa − c'è un tale caos di oggetti abbandonati, accatasti alla rinfusa dappertutto, che fatica persino a racimolare qualche centimetro di spazio. Le mani sui fianchi, Pindar osserva per qualche secondo quella che non esita a definire la sua bambina e poi comincia a lucidarla vigorosamente; le cromature delle marmitte luccicano come stelle fredde alla luce grigiastra del cielo rannuvolato, e la carena, pur se intaccata da innumerevoli graffi e abrasioni, è di un verde uniforme ed estremamente acceso, quasi fluorescente. Nel complesso la moto ha una sagoma affusolata, aerodinamica, con la sella sagomata e leggermente inclinata verso l'alto − non si tratta di un modello particolarmente comodo per viaggi lunghi, ma è agile e veloce quanto basta per spostarsi nell'intrico di tunnel e vicoli di Ecbàtana.

Sulla piastra superiore della forcella fa bella mostra di sé una fessura orizzontale lunga poco più di una decina di centimetri e alta una manciata di millimetri. Pindar fruga per qualche secondo nella tasca della felpa, tira fuori una tessera metallica che brilla di una tenue luce dorata e la inserisce delicatamente nell'apertura finché non sporge che di pochissimo, quanto basta per estrarla di nuovo all'occorrenza.

Il motore saluta l'energia della flussoplacca con un rombo cupo, e una nuvola di fumo acre riempie la rimessa.

«Ah, non vedevo l'ora che sparisse quell'acqua del cazzo». Borbotta Pindar, accomodandosi sulla sella sdrucita. Lega i capelli in una coda arruffata per impedire che gli diano fastidio durante il viaggio, poi ingrana la prima e scivola rumorosamente sulla rampa d'ingresso della palafitta, puntando senza indugi all'Horny Nipples.

Adora guidare la motocicletta − è una delle poche cose che lo fa sentire libero, giovane, che lo distrae. Distrarsi è uno degli imperativi a cui si attiene con maggiore ortodossia, perché sa che conservare la piena consapevolezza della miseria in cui vive lo porterebbe in poco tempo all'infelicità; così come la presenza lieve di Liliane, le sue braccia sottili strette attorno ai fianchi per evitare di cadere dal veicolo in corsa, l'alcool e la velocità migliorano la sua vita pur senza introdurre nessun vero cambiamento.

L'aria fresca della seria gli sferza il viso mentre percorre le strade ancora bagnate, dove si percepisce già un lezzo denso e penetrante di putrefazione. Più volte è costretto a curve brusche e pericolose per aggirare carcasse abbandonate sul selciato, in un paio di occasioni si rendono necessari dei cambi di percorso a causa di intere vie ostruite da muraglie di immondizia; un viaggio per cui solitamente impiegherebbe una decina di minuti dura più di mezz'ora, e non si sente affatto sorpreso quando, entrato nel parcheggio antistante il locale, lo trova praticamente vuoto.

Non che ci sia nulla di cui lamentarsi − alla penuria di veicoli corrisponde una scarsità ancora peggiore di posteggi, e Pindar sarebbe quasi tentato di gridare al miracolo di fronte ad un intero piazzale tutto per lui. Spera solo che il locale non sia un mortorio, dopo una giornata tanto noiosa ha voglia di divertirsi.

La porta dell’Horny Nipples, sormontata da un’insegna lampeggiante che raffigura una donna procace sdraiata su un fianco, si spalanca con un cigolio sotto il suo tocco. L’interno è così sporco e privo di attrattive da costituire un’ode muta allo squallore, fatta di tavoli recuperati nei cassonetti dell’immondizia e sedie costruite con i materiali più disparati, di boccali spaiati che hanno visto tempi migliori e di una clientela che riflette appieno la sciatteria dell’arredamento. Quello che attira gli avventori è il prezzo abbordabile delle bevande, non il comfort: non esiste nemmeno un impianto di riscaldamento, e d’inverno l’Horny Nipples si trasforma in una cella frigorifera in cui solo i peggiori alcolizzati di Ecbàtana si arrischiano a mettere piede.

Pindar, cliente abituale, ha addirittura un posto riservato al bancone.

«Ehi, Keyli!». Saluta, nel tentativo di strappare un sorriso alla barista «Stasera sei più bella del solito».

«Non fare il coglione, Slumboy, ormai non ci credo più alle tue cazzate».

Non alza nemmeno lo sguardo, Keyli, e qualcuno degli altri avventori ‒ una nebulosa indistinta di giacche di lana infeltrita, capelli arruffati e barbe di una settimana ‒ ridacchia sonoramente; Pindar cerca Calypso con lo sguardo e la trova quasi subito, intenta a conversare con un ragazzo che avrà suppergiù dieci anni in meno di lei e sembra l’articolo migliore di tutto il locale.

Peccato che a fine serata lei ti avrà fottuto il portafogli, amico”.

Il ragazzo, felicemente inconsapevole, le ha già poggiato una mano sul ginocchio e la fissa, adorante, come un cagnolino che scodinzola per il padrone. Pindar sorride, un ghigno mellifluo che sa di divertimento e vaga cospirazione, poi occupa la sua postazione abituale e batte una mano sul bancone. Si sente su di giri, come ogni volta che sta per cominciare un bel giro di bevute.

«Portami una birra corretta, Key. E che sia bella piena, fino all’orlo, e senza troppa schiuma».

«Parli come se ti fregassi. Roba che ti faccio pagare la metà di quello che dovresti…» la barista, borbottando, riempie un boccale di vetro con una birra densa e torbida che sembra quasi fango giallognolo.

«Troiate. L’ultima volta era mezza schiuma e mezza birra, una cosa indecente».

«Ma se eri così ubriaco che nemmeno ti ricordavi il tuo nome! E poi l’ultima volta era ieri sera, genio».

«E allora?». Il boccale atterra davanti a Pindar con un tonfo sordo, rovesciando qualche goccia del contenuto sul bancone unto «Proprio perché era ieri me lo ricordo bene».

Keyli sospira sonoramente e si appoggia ad uno scaffale ricolmo di bottiglie di liquore, incrociando le braccia.

«Povero Calypso,» sbuffa «è un santo a starti dietro così, senza prendersi in cambio nemmeno un credito».

«Forse mi sta dietro proprio perché sono una delle poche persone di questa città ad aver capito che non vuole che ci si rivolga a lei come ad un uomo, Key». Butta giù un sorso di birra fresca e si sente rinascere, quasi avesse inghiottito una bottiglia di Flusso liquido «A differenza tua, per dire».

«Sei uno stronzo».

«Forse». Pindar fa spallucce e torna a dedicarsi alla birra; si distrae, concentrato sulle gocce di condensa che imperlano i fianchi del boccale, e quasi sobbalza quando la voce conosciuta di Nybras Berglund lo riporta alla realtà.

«Salve. Tu devi essere Pindar, giusto?».

Si è seduto accanto a lui senza fare nessun rumore, nemmeno un lieve fruscio, nonostante i vestiti ingombranti che indossa. Gli rivolge un sorriso affabile e misurato, né freddo né completamente familiare, e Pindar reagisce all'intrusione allacciando le braccia attorno al busto e squadrandolo dall'alto in basso con un cipiglio diffidente.

«Tu sei quello di ieri sera». Mugugna «Okay, forza, dimmi quanto ti devo e risolviamo la questione in fretta».

Berglund, che senza il filtro alcoolico della notte precedente sembra decisamente un ragazzino imberbe, sbarra gli occhi e socchiude la bocca nel perfetto paradigma dell'espressione da pesce lesso. Che ci sia qualcosa che gli sfugge è evidente.

«Aspetta un attimo, non ti devo dei crediti?». Pindar, più confuso di lui, abbandona l'atteggiamento difensivo e appoggia un gomito al bancone. «Cioè,» ridacchia «a momenti mi cago sotto dalla paura e tu non sei nemmeno un creditore?».

«A quanto pare no». Nybras sorride e si riavvia i capelli con un gesto nervoso − porta dei guanti di pelle spessa, leggermente consumati, coperti di disegni intricati sul dorso e sul palmo − poi si sporge leggermente verso Pindar e sussurra: «In realtà, io sono qui per proporti un lavoro».

C'è un piccolo momento di impasse, silenzio pieno di stupore e, perché no, un certo turbamento, prima che Pindar scuota la testa con aria scoraggiata e risponda: «No. Tu stai scherzando».

«Non hai ancora ascoltato la mia offerta».

«Senti, ragazzino. Io ho quasi quarant'anni, nessuna qualifica particolare e una fedina penale che pullula di denunce per disturbo alla quiete pubblica e ubriachezza molesta. Il mio sussidio di disoccupazione ammonta all'incredibile cifra di quaranta crediti mensili, che è un po' quello che spende la gente normale per una spesa di media entità, quindi sono costretto ad arrotondare trascinando via cadaveri putrefatti dai canali di scolo. Questa è la mia unica occupazione fissa. A meno che tu non voglia propormi di contrabbandare flussoplacche − e non lo farò, tranquillo − ci sono innumerevoli persone più adatte e bendisposte di me per qualsiasi esigenza tu abbia».

Berglund, niente affatto scoraggiato dal tono caustico della risposta, allarga le braccia in un gesto conciliante e replica: «Comprendo la situazione, ma ti prego almeno di ascoltarmi prima di rifiutare la mia offerta».

Pindar si agita sullo sgabello e sbuffa, chiaramente a disagio. Le possibilità che la vita ti offre, nella sua personale visione del mondo, sono solo il preludio all'ennesima presa per il culo.

«Sentiamo».

Nybras inspira profondamente e intreccia le dita sotto il mento. Ha degli occhi strani, caldi a livello cromatico ma dall'espressività fredda e affilata, pietre chiazzate di melma sul fondo di uno stagno gelato. Pindar percepisce una scarica lieve di adrenalina, il battito cardiaco che accelera senza nessuna ragione apparente, e le successive parole del ragazzo lo lasciano semplicemente senza fiato.

«Sappiamo chi sei, Pindar Van Hasen. E non sei stato molto gentile con te stesso, affermando che non possiedi "nessuna qualifica particolare"». Le labbra di Berglund si tendono in un sorriso che trasuda veleno, il ghigno ferino di una serpe. Sembra un'altra persona. «Secondo le mie fonti è da quasi cinque anni che vivi qui... strano che non ti abbiano ancora trovato, vero?».

"Non ci credo. È passato così tanto tempo..."

La sensazione di panico che gli stritola le viscere è così opprimente e improvvisa che Pindar si sente soffocare. Si guarda intorno freneticamente, cercando il viso di Liliane, il conforto dei suoi occhi scuri, ma lei − per qualche ragione che non riesce a spiegarsi − improvvisamente è sparita. Non è lì con lui nel momento del bisogno, e alla paura si aggiunge l'ombra venefica del tradimento.

"Maledetta puttana".

«Che fai, cerchi una via di fuga?».

«Smettila». Il corpo del quarantenne si tende come la corda di un arco, i pugni serrati e tremanti sulle ginocchia − d'un tratto l'espressione bonaria e perennemente vacua di Slumboy è sparita, sostituita da una maschera di rabbia feroce e appena trattenuta che lo fa assomigliare ad un cane rabbioso; coglie con la coda dell'occhio uno sguardo sorpreso di Keyli, e afferra Nybras Berglund per un braccio prima che ricominci a parlare «Non qui. Non so chi cazzo sei o chi ti ha mandato, ma questo non è il posto per−»

«Questa topaia di terz'ordine è semivuota, Van Hasen. Ci sono almeno una decina di posti in cui, se non ti metti a urlare, potremo parlare senza problemi». Nybras si alza in piedi, e il mantello per un momento si apre a rivelare un'uniforme militare di panno nero con uno strano simbolo ricamato sul petto «Vuoi seguirmi o preferisci continuare qui?».

Pindar vorrebbe urlare e riempire Berglund di calci, ma si costringe ad obbedire. Il senso di umiliazione cocente che prova quando scende dallo sgabello e si avvia verso uno dei tavoli più appartati viene appena mitigato da un'occhiata di Calypso, che lo fissa dall'altra parte della sala. "Tutto a posto?" sembra chiedere, e Pindar risponde con un cenno rilassato della mano − controllare il tremito è particolarmente difficile − e un occhiolino. Spera solo che lei non si alzi e non decida di impicciarsi.

«Chi è quello... o quella?». Dice Nybras, una volta che si sono seduti. Accompagna la domanda con una smorfia divertita − è evidente che considera Calypso alla stregua di un fenomeno da baraccone, ed è un atteggiamento che Pindar trova parecchio irritante.

«È la persona che mi riaccompagna a casa quando sono troppo sbronzo per farlo da solo». Sospira, puntando lo sguardo sulle venature irregolari del tavolo di legno «Il che, al momento, costituisce l'interazione sociale più complessa di cui sono capace».

«Interazione sociale...» Berglund si appoggia allo schienale scheggiato di una vecchia sedia impagliata e affonda una mano tra i riccioli castani, un gesto che dev'essere una specie di tic nervoso «... parli così anche con i tuoi amici? Se la risposta è sì, mi chiedo come faccia la maggior parte di loro a capire quello che dici».

«Io non ho amici, ragazzino». Pindar si rende conto che un'affermazione del genere può suonare ridicola, pregna del nichilismo degno di un quindicenne, ma allo stesso tempo sa che si tratta di verità pura e incontrovertibile. D'altra parte non pretende che un individuo mellifluo e arrogante come quello che gli sta di fronte prenda certe cose sul serio.

«Credo che poche persone al mondo possano vantare di possedere un autentico amico fidato». Nybras snocciola con disinvoltura verità formulate da qualcun altro, ma Van Hasen non si azzarda nemmeno a chiedergli di andare dritto al punto. Semplicemente, nemmeno lui vuole sapere che cosa lo aspetta. «Tuttavia, se non in veste di amico, io sono qui come tuo sostenitore, Pindar. Io credo davvero che tu stia sprecando una grande opportunità, seppellendoti nel secondo anello come un reietto qualsiasi».

«I reietti sono quelli che vivono negli slum del terzo anello, credimi. Esperienza personale».

«So anche questo. Dopo la tua miracolosa fuga hai passato due anni negli slum e poi sei scappato di nuovo per trasferirti in una zona più sicura... abbiamo seguito le tue tracce molto a lungo prima di riuscire a stabilire un contatto, sai?».

"Stronzetto supponente". La saccenza di Nybras lo fa imbestialire quasi più del suo perenne sorrisetto arrogante.

«"Abbiamo"... di chi stai parlando?».

«Permettimi di presentarmi». China la testa in avanti con una certa grazia teatrale, poggia la mano inguantata sul cuore e mormora: «Nybras Dušan Berglund, cancelliere della Confraternita degli Untori».

Pindar aggrotta le sopracciglia e si accarezza il mento con una mano, pensoso, cercando di richiamare eventuali ricordi legati a questi "Untori". Non conosce nemmeno il significato del termine, ed è un dubbio che si affretta a manifestare.

«Scoprirai chi siamo e cosa facciamo se accetterai di collaborare con noi. È una spiegazione lunga e ci troviamo davanti ad una di quelle occasioni in cui la realtà supera di gran lunga la fantasia... se non ti mostrassi i fatti temo che non mi crederesti. Posso dirti questo: siamo un gruppo numeroso che lotta per il bene di questa città, e la nostra guerra contro i signori del primo anello potrebbe raggiungere un punto di svolta grazie a te».

«Guerra?». Pindar inarca un sopracciglio, mentre in lui si fa strada il dubbio di trovarsi davanti all'esponente di una qualche setta di esaltati «Non sarete uno di quei movimenti politici di poveri scemi che puntano al raggiungimento di uno status quo per tutti gli abitanti di Ecbàtana, vero?».

«Dubito che un simile movimento avrebbe accesso agli archivi che ci hanno permesso di trovarti, Van Hasen. Non trattarci da sciocchi». L'avvertimento vibra come la coda di un serpente a sonagli nella voce di Nybras «Piuttosto, dovremmo parlare del Flusso».

«Credo che ogni bambino al di sopra dei cinque anni sappia cos'è il Flusso, ragazzino». Scherza Pindar, senza nessuna allegria.

«Non mi riferisco all'energia in sé, quanto alla sua fonte. Viste le tue origini, immagino tu sappia da dove si estrae il Flusso... o forse l'hai dimenticato, in tutti questi anni?».

Pindar scuote la testa, poi sussurra: «Gli Elelu. Sono i guardiani del Flusso, ed è da loro che gli Affini estraggono l'energia. Dieci anni fa conoscevo persino qualche Affine... mi sono sempre chiesto come facciano a dominare il Flusso, e perché soltanto loro ci riescano».

«È uno dei misteri irrisolti che circondano questa città. Gli Affini sono capaci di dominare l'energia come io e te sappiamo parlare o camminare, sin dalla più tenera età. Sai quali sono le sorgenti energetiche vere e proprie? Scommetto che non hai mai visto niente del genere». Nybras infila una mano sotto il mantello, e quando la tira fuori stringe qualcosa tra le dita; le dischiude di poco, appena qualche millimetro, e Pindar scorge una pietruzza tonda di un giallo caldo e vivace che brilla come se fosse incandescente, come una fiamma viva. Emette la stessa luce dorata e rassicurante delle flussoplacche, solo più intensa.

«Che diavolo...»

«Questo è un uovo. Un uovo di Elelu». Gli occhi di Pindar si spalancano dallo stupore «Gli Affini possono estrarre l'enorme energia latente che si trova qui dentro e trasferirla ai generatori, alle flussoplacche e a tutti i macchinari che servono perché Ecbàtana continui ad esistere». Berglund, circospetto, nasconde nuovamente l'uovo «Sai come fanno, quelli della città alta, a procurarsi la quantità enorme di uova di cui hanno bisogno?».

Pindar scuote la testa, la gola un po' secca. Gli sembra assurdo non aver mai sentito parlare di una cosa del genere.

«Le raccolgono nelle profondità dei laghi sotterranei in cui vivono gli Elelu. Prima che i primi uomini costruissero le loro abitazioni in superficie, nelle viscere della montagna prosperavano a milioni, nascosti nelle grotte... ma dopo, quando abbiamo imparato a sfruttarli a nostro piacimento e ne abbiamo scoperto il valore, il loro numero ha cominciato lentamente a diminuire. Ci sono stati persino dei tentativi di allevamento, ma gli Elelu si rifiutano di vivere in un ambiente intaccato dalla mano umana».

Van Hasen, poco convinto, fa spallucce: «E allora? Dovrei preoccuparmi dell'estinzione di quegli spiritelli? Scusami, ma a stento riesco ad essere empatico nei confronti delle altre persone... figurati quanto mi importa delle creature non umane».

A parte Liliane. Lei è l'unica eccezione.

«La scomparsa degli Elelu si ripercuote anche su di noi». Sibila, Berglund, sbattendo il pugno sul tavolo in un moto di rabbia «Prova a pensarci, vecchio. Quante alluvioni si verificavano dieci anni fa, eh? Una, due all'anno al massimo. Adesso siamo fortunati se le fogne non straripano ogni mese».

«Mi stai dicendo che gli spiriti della montagna non hanno niente di meglio da fare che sabotare la rete fognaria?». Pindar non si aspetta che Berglund rida alla sua battuta, ma l'occhiata omicida che gli regala è del tutto inattesa.

«Oh, naturalmente questo è il minimo. Sono stati generati dall'acqua all'alba dei tempi, Van Hasen, e possono farne quello che vogliono». Ha lo sguardo acceso, la voce accalorata «Possono avvelenarla, ed è esattamente quello che stanno facendo. Conosci qualcuno che lavora all'ospedale distrettuale del secondo anello?». Pindar scuote la testa «Lo immaginavo. Altrimenti sapresti che da un po' di tempo è sempre più raro che i bambini nascano sani. Ho visto le malformazioni più mostruose, laggiù, così orrende che è difficile pensare che si siano generate spontaneamente...»

«Al punto che pensi siano la vendetta maligna di qualche spirito?». Pindar scuote la testa «Ho già sentito questi discorsi, anche se mi mancava la storia delle uova. E sono solo cazzate, ragazzino. I bambini nascono deformi perché nel secondo anello più della metà della popolazione è costantemente strafatta con roba che la avvelena da dentro. Creazioni umane, puoi starne certo».

«Stai mentendo a te stesso, e lo sai. L'hai provato sulla tua pelle, no?». La voce di Nybras è affilata come un rasoio. Pindar impallidisce bruscamente e contrae le labbra in una linea dritta e sottile come un tratto di matita «Sto parlando di tua moglie, di Lil−»

«Non pronunciare il suo nome, bastardo succhiacazzi». Van Hasen abbassa il tono di parecchie ottave, e quello che esce dalle sue labbra è più un ringhio bellicoso che una risposta vera e propria «Tu non sai niente di Liliane, lei non era malata...»

«Lo era, Van Hasen. Lo era, e sono stati gli Elelu».

«E allora che cosa vuoi da me?!» Si alza in piedi bruscamente, gridando, la sedia si rovescia con un tonfo «Vuoi che ti aiuti a salvare quelli che l'hanno maledetta?».

«Gli spiriti non agiscono per il bene o per il male, non seguono le logiche umane». Anche con la mente offuscata dalla rabbia, il quarantenne non può fare a meno di notare che Berglund sembra allarmato, la sua voce divenuta più incerta. Ghigna. «Gli Elelu stanno cercando di difendere la loro razza come farebbe chiunque altro nella stessa situazione, perciò non puoi addossare a loro la colpa».

«Quindi? Che soluzione proponi?». Beffardo, Pindar raccoglie la sedia e si accomoda di nuovo «Per che cosa esattamente ti serve il mio aiuto?».

«Nel primo anello si trovano tutti gli impianti di estrazione delle uova e le abitazioni degli Affini. Allevano anche loro, come se fossero bestie». Una smorfia di ribrezzo attraversa il viso di Nybras «Tu puoi aiutarci a superare le barriere».

«Come fai a sapere che posso? Sono passati otto anni».

«Suppongo di non dover ribadire che abbiamo condotto delle ricerche su di te, Van Hasen. Sappiamo quello che puoi fare e quello che non puoi fare». Pindar ridacchia, un suono secco e sgraziato che assomiglia al verso delle cornacchie «Sarà sufficiente che ci aiuti a superare i cancelli e le guardie che li proteggono, noi ci occuperemo del resto».

«Mi stai chiedendo un favore che non ti concederò mai, ragazzino».

«Non mi aspetto che tu dica subito di sì». Poggia una sorta di strana collana sul tavolo, una cordicella ruvida con un pendaglio che raffigura la testa di un volatile dal lungo becco appuntito «Pensaci, Pindar. Pensa al bene che potresti fare e alla memoria di tua moglie. Quando deciderai di prendere parte alla nostra causa, indossa questa: se le tue intenzioni saranno buone, ti porterà da noi». Nybras si alza con una grazia fluida ed elastica a cui Pindar si è disabituato, dopo tanti anni nel secondo anello; con ogni probabilità ha ricevuto una qualche specie di addestramento militare, e deve avere molti più anni di quanti non suggerisca il suo aspetto giovanile.

«E se non accetto?».

«Perderai per sempre la possibilità di punire i veri colpevoli di quello che è successo a tua moglie». Berglund sorride, avviandosi verso l'uscita «E una soffiata indesiderata potrebbe arrivare all'Alto Ufficio Amministrativo. Non tutti si sono dimenticati di te, Custode Emerito del Primo Cancello».


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Capitolo 3
*** Tempo Troppo Veloce ***


IV. Tempo Troppo Veloce



Il Tempo Troppo Veloce cominciò quando Liliane gli disse di essere incinta.

Improvvisamente la sua casetta a ridosso della prima barriera gli sembrò troppo piccola, troppo spoglia per una famiglia in procinto di crescere. Il mondo intero era troppo piccolo per contenere tutta la sua gioia e il tempo, il tempo improvvisamente troppo veloce, scivolava dalle sue mani come sabbia tra le mani di un bambino.

Erano sposati da due anni, lui e Liliane. Lei aveva accettato a sua proposta dopo un corteggiamento che era riuscito a scontentare sia suo padre − Supremo Officiante al Santuario degli Elelu − che quello di Pindar, precedente Custode del Primo Cancello ormai in pensione. Nel primo anello tutti pensavano che fossero troppo diversi, quel ragazzo dall'aspetto mediocre con un lavoro regalatogli dal padre e quella giovane donna così bella che persino le stelle sembravano impallidire al suo confronto. Liliane era un'Affine, una creatura a cui la montagna aveva concesso il dono di comunicare con gli spiriti e dominare il flusso, mentre Pindar a malapena sapeva svolgere il lavoro, tutto sommato semplice, di Custode.

Dopo il matrimonio si trasferirono nella casa di lui, un appartamento modesto nella zona meno lussuosa del primo anello. A Liliane non interessavano minimamente i tappeti e le tende ricamate della sua casa paterna, e tantomeno desiderava vestiti eleganti da poter sfoggiare quand'era in compagnia delle sue amiche. L'unica cosa che voleva, gli confessò in una notte d'estate, era un figlio.

«Avrà i tuoi occhi e i miei capelli». Aveva già deciso, e glielo comunicò con una smorfia adorabilmente risoluta «Non mi importa se sarà maschio o femmina, ma sarà così».

Pindar, in cuor suo, sperava soltanto che ereditasse la bellezza della madre. A poco a poco assorbì quel desiderio, lasciò che diventasse una sua piccola ossessione, e ogni volta che Liliane gli comunicava − un'ombra di delusione negli occhi scuri − che non si sarebbe dovuto aspettare niente per i mesi a venire rabbrividiva fin nel profondo, spaventato dall'eventualità di non poterle dare quello che voleva. Perciò, quando lei lo informò che un giorno sarebbero diventati genitori, Pindar appese una ghirlanda di fiori montani alla porta − così voleva la consuetudine di Ecbàtana − e distribuì dolci a tutti i condomini, raggiante.

Il ventre di Liliane cominciò lentamente ad ingrossarsi, e Pindar prese l'abitudine di accostare l'orecchio per riuscire a carpire qualche suono della nuova vita che stava crescendo; non sentì mai nulla, ma non se ne preoccupava: in fondo era ancora presto, il feto forse era piccolo e delicato come la madre.

Ci pensò il medico di quartiere, il dottor Valtteri, a far sfumare ogni cosa in un limbo di profonda infelicità.

La tradizione voleva che si ricorresse ad un medico, dottore di corpi, solo a mali estremi e solo dopo aver consultato un dottore delle anime; Liliane, poi, che era cresciuta in un ambiente di estrema ortodossia religiosa, aveva inizialmente rifiutato di mettere il bambino nelle mani di Valtteri.

«A che serve?». Sosteneva «I bambini nascono da millenni senza l'aiuto di quei macellai. Se mi sentirò un po' giù chiederò a papà di officiare un rito in onore degli Elelu».

Dopo un po', però, le nausee mattutine si erano fatte persistenti, così come le emicranie e il senso di spossatezza. Per quanto si sforzasse di mangiare, Liliane era dimagrita in maniera allarmante per una donna incinta, e Pindar l'aveva quasi costretta a seguirlo dal dottore − aveva paura per lei, per il bambino, ma soprattutto per se stesso: la prospettiva di vivere senza Liliane lo terrorizzava più di ogni altra cosa al mondo.

Valtteri esaminò la pancia rigonfia di sua moglie con uno stetoscopio e aggrottò le folte sopracciglia scure. Aveva occhi acuti, intelligenti, e Pindar si accorse immediatamente che c'era qualcosa che non andava.

Liliane si sottopose senza protestare ad una lunga serie di esami, analisi del sangue ed ecografie il cui risultato Valtteri si guardò bene dal mostrare ai coniugi. «La macchina che stampa i responsi è guasta». Mentiva, aggiustandosi gli occhiali sul naso senza guardare in faccia nessuno dei due «Comunque non c'è nulla di cui preoccuparsi, tranquilli».

Un giorno, mentre passeggiava per il centro alla ricerca di un infuso che potesse aiutare Liliane a dormire un po', Pindar si imbatté proprio nel dottore; Valtteri gli afferrò un braccio, guardandolo in un modo che gli mise addosso un'inquietudine indicibile, e sussurrò: «Dobbiamo parlare, Van Hasen. Ma non qui».

Si sedettero sui tavolini all'aperto di un caffè poco frequentato, Pindar con il suo completo liso e Valtteri sgargiante in un abito di alta sartoria. Ordinarono due tazze di the soltanto per evitare che il proprietario li cacciasse, e appena il cameriere ebbe consegnato le ordinazioni il medico si appoggiò allo schienale e tirò un lungo sospiro stanco, rassegnato.

«Dottore, che succede?». Pindar non l'aveva mai visto così. Era sempre stato un uomo attivo, compiaciuto del proprio cinismo e apparentemente incapace di provare rassegnazione o malinconia; affilata come una lama, la sua lingua non perdeva mai mordente, e il fatto che non riuscisse a riempire un silenzio era un avvenimento più unico che raro. «Se c'è qualcosa che posso fare per lei, io...»

«Non preoccuparti per me, figliolo». Valtteri sembrava più pallido del solito «Sono qui per parlare di tua moglie, Van Hasen».

Pindar si sentì come se la terra gli fosse scivolata via da sotto i piedi. Afferrò i bordi del tavolo, il battito cardiaco che rombava nelle orecchie e sembrava coprire ogni altro suono.

«Che... che cosa è successo a Liliane?». La sua voce era strozzata, filiforme. Non aveva nemmeno il coraggio di immaginare cosa si celasse dietro l'espressione infelice del dottore.

«Liliane non è incinta». Valtteri corrugò le sopracciglia e il suo intero viso parve adombrarsi «Non sapevo come dirtelo, Van Hasen. A volte succede, gli dèi della montagna sono incostanti nel distribuire le proprie grazie e...»

«Che cos'ha?». Afono, Pindar abbandonò le braccia lungo i fianchi e tentò, senza successo, di non abbandonarsi alla baraonda che sentiva in procinto di scoppiare nei recessi della sua mente. Sussurrò, poi: «Si può curare, vero?». Era certo che si potesse curare. Nel primo settore le malattie non erano più un problema, non dopo che le proprietà guaritrici del Flusso erano state scoperte; Liliane, poi, era un'Affine... gli Elelu l'avrebbero salvata.

«Liliane... sono abbastanza sicuro che il rigonfiamento nel suo addome sia un tumore maligno».

Non doveva piangere davanti Valtteri. Pindar trattenne il respiro per un po', il viso paonazzo. Quando parlò le parole scivolarono fuori strappate, accartocciate, umide di lacrime.

«Ma... non... com'è possibile?». Poi, di nuovo: «La curerai?».

Si sentiva come se qualcuno gli avesse artigliato il cuore e cercasse di estrarlo dalla cassa toracica − faceva così male da ottundere qualsiasi altra percezione, persino quella delle lacrime umide sulle guance e del respiro incastrato dolorosamente nella gola.

Valtteri stette a lungo in silenzio, la fronte bassa e piena di grinze, prima di rispondere.

«Non è la prima volta che mi trovo davanti ad un caso simile, Van Hasen. Naturalmente possiamo tentare numerose terapie, ma è mio dovere professionale avvisarti che...» deglutì «... che si tratta di trattamenti estremamente dolorosi e negli altri casi non hanno portato a nulla».

Pindar sprofondò. Ogni volta che cercava di appigliarsi da qualche parte per non scivolare nel pozzo di una paura senza fine gli appoggi si sgretolavano come se fossero fatti di argilla cruda.

«Ma gli Elelu... Liliane è un'Affine. Loro possono...»

«È proprio questo il punto». Valtteri gli strinse una spalla in una morsa che voleva essere confortante, ma che sembrava soltanto il monito soffocante di una condanna a morte «Tutte le altre donne che hanno sviluppato lo stesso tipo di malattia erano Affini. Sono portato a pensare che il loro legame con gli Elelu c'entri qualcosa. Forse possiamo creare una nuova cura basandoci su questo, se Liliane è d'accordo potremmo−»

«No». Si scrollò la sua mano di dosso e scattò in piedi, il respiro accelerato «Tu menti. Stai dicendo solo cazzate». Ringhiò, inframmezzando singhiozzi alle parole spezzate «Liliane è incinta del nostro primo bambino. Non c'è nessuno schifoso tumore dentro di lei».

«Pindar, so che è difficile. Ma devi avere la forza di−»

Non lo lasciò finire. Diede una spinta al tavolo, rovesciò il fragile piano di legno e le tazze di porcellana e la tovaglia di lino, poi si voltò e corse via tra le occhiate sconcertate degli altri clienti. Il cuore pompava così forte che pensava sarebbe esploso. La testa gli faceva male, gli occhi bruciavano, ma il dolore più grande lo avvertiva in un luogo indefinibile dentro di sé, un angolo nascosto della sua anima che sanguinava e si dibatteva in agonia. Gridò, si sbucciò le nocche contro un muro di mattoni di cui, poi, a stento avrebbe conservato il ricordo.

Cadde in ginocchio e pianse finché la voce e le forze non scivolarono via dal suo corpo come pioggia. Cercò disperatamente una fiammella di speranza, qualcosa che gli permettesse di pensare al viso dolce di Liliane senza farsi sopraffare dal dolore, ma non c'era rimasto più niente; si era sempre arreso facilmente, Pindar. I problemi lo spaventavano.

"Era la cosa che desideravi di più al mondo". Sussurrò, insolente, un'ombra scura dietro i suoi occhi "Sembra proprio che gli Elelu si siano presi gioco di te".

Scosse la testa, poi appoggiò la fronte contro il muro.

«Liliane sta bene». Affermò, controllando il tremito della voce «Liliane sta bene. Non c'è nessun tumore. Valtteri è un bastardo. Mente».

Fu come afferrare il dolore e spingerlo, confinarlo in un angolo da cui non sarebbe potuto più scappare. Si sentì leggermente rincuorato, Pindar, e infuse tutte le proprie energie in quelle parole. Cercò con tutte le forze di credere.

Dopo un paio d'ore perse la voce, poi la capacità di pensare lucidamente.

A poco a poco, affogando nel ritmo cadenzato della cantilena, Pindar trasformò in verità la sua stessa bugia.



Liliane dimagrì così tanto che la luce sembrava passare attraverso i suoi polsi, attraversare quella carne trasparente e sottile come un velo. Gli occhi le divennero grandi, immensi pozzi di tenebra nel viso incavato, le spalle appuntite e fragili, cuspidi di vetro.

Aveva perso la lucidità molto prima di ridursi così, per fortuna di Pindar.

Valtteri non si era più fatto vedere, lui e le sue profezie da uccello del malaugurio, e Van Hasen si era premurato di spiegare a vicini e parenti che la gravidanza di Liliane stava dando qualche problema e lei doveva necessariamente rimanere bloccata a letto, per il bene del bambino. All'inizio era stata contenta.

«Avevi ragione tu, amore». Aveva sussurrato, Pindar, accarezzandole la testa «Andare da quel dottore è stato completamente inutile».

«Gli Elelu hanno detto a mio padre che sto bene. Sono solo un po' stanca».

Passava le giornate a leggere, a pregare silenziosamente i suoi spiriti e a sonnecchiare sul copriletto imbottito; mangiava quanto le ordinava il marito, si pettinava i capelli e si truccava per apparire bella nonostante il viso sempre più smunto, e lentamente i suoi gesti avevano cominciato a farsi più meccanici, tremanti, gli suoi occhi accesi da una luce che prima non c'era mai stata.

Pindar capiva e non capiva, seduto su una sedia davanti all'unica finestra della camera da letto. Guardava Liliane, il suo ventre ormai impossibile da nascondere, e non riusciva a riconoscerla − si stava trasformando in qualcosa che lui non avrebbe mai compreso, mai potuto amare.

Se le chiedeva che giorno era lei rispondeva correttamente, un sorriso misterioso aleggiava sulle labbra appena incurvate, ma a volte, guardandolo come una bambina, domandava: «Perché dimagrisco così tanto, amore? Chi è che mi sta succhiando via la vita?».

Pindar non sentiva più nulla. Dolore, gioia, amore, affanno o disperazione, qualsiasi cosa scorresse nel suo petto sembrava esattamente uguale nello stato di semicoscienza in cui trascorse quei mesi. Inclinava la testa da un lato, chiudeva gli occhi. «È il nostro bambino, Lily». Sembrava che gliel'avessero strappato via dalle labbra, quel sospiro.

Sempre più raramente veniva colta da momenti di lucidità. Quando lo faceva si guardava intorno, sgomenta, e gli chiedeva ansiosamente di consultare Valtteri o qualsiasi altro medico del primo anello per sapere che cosa stesse succedendo.

«Mi sento debole. Mi sento come se stessi morendo».

«Non sei mai morta, Liliane». Il tono di Pindar era monocorde, asettico, come se in tutta quella situazione ci fosse anche solo il minimo barlume di logica «Non puoi sapere come ci si sente».

Poi le faceva bere qualche infuso comprato in farmacia, e lei cadeva tra le braccia di un sonno pesante e comatoso, un tormento per il suo corpo stremato e per la coscienza martoriata di Pindar. Al risveglio, tornava la magnifica statua incosciente che era per la maggior parte del tempo.

All'ottavo mese le tagliò i capelli, lunghi fino alle ginocchia, e li bruciò. Nell'appartamento si diffuse un odore nauseabondo, soffocante, che non andò più via. Eppure gli riusciva più facile così, guardare quella donna dal viso scarno e giallastro che non era la sua Liliane e accettare che stesse morendo a poco a poco, senza che lui potesse evitarlo. A volte si scopriva ad aspettare con trepidazione la nascita del bambino, il parto, a volte persino lui capiva che non c'era più niente da fare.

Valtteri aveva diffuso la verità già dal quinto mese di gravidanza, ed erano pochi i parenti che osavano bussare alla porta di Pindar per fare visita a sua moglie. Nella comunità religiosa di cui Liliane faceva parte quella malattia veniva considerata una vera e propria maledizione, un marchio d'infamia che contaminava chiunque ne venisse a contatto.

Il Dono degli Elelu, lo chiamavano.

Un giorno, quando il bambino sarebbe dovuto nascere già da tempo, Pindar rincasò leggermente più tardi del solito, ubriaco. Aveva preso l'abitudine di bere un goccio prima di tornare a casa, per far sì che la realtà si mostrasse meno spietata di quello che era, e da alticcio Liliane, pur con i capelli poco più lunghi dei suoi e uno strato sottile di pelle a coprire lo scheletro, pareva quasi quella di sempre. Con lei sembrava stessero andando in malora tutti i suoi progetti − sul lavoro era distratto, approssimativo, gli altri Custodi si lamentavano di lui spesso e volentieri perché non prestava più attenzione al proprio aspetto. Malvestito, la barba sfatta, assomigliava ad un profugo degli slum.

Il mondo non meritava più il suo impegno.

Così, quando aprì la porta della stanza di Liliane non vide subito lo spirito accoccolato sul davanzale della finestra. Il mondo tremava, barcollava insieme a lui su gambe malferme, i colori danzavano in un vortice sfasato.

Liliane sussurrava parole strane, una preghiera bassa e dolce che somigliava allo scorrere quieto di un fiume, le mani intrecciate sullo stomaco grottescamente deformato, e fu allora che lo vide.

L'Elelu somigliava vagamente ad un insetto. Aveva un corpo sottile e affusolato, semitrasparente, segmentato come quello di una mantide religiosa; aveva anche una testa, con grandi occhi bui che sporgevano in fuori, e antenne simili a nastri che si avviluppavano nell'aria immobile della stanza sotto la spinta di un vento invisibile; le zampe, così numerose che Pindar non avrebbe saputo contarle, sfioravano appena il davanzale, mentre le ali ondeggiavano attorno al corpicino dello spirito come la gonna vaporosa di una giovane dama. La sua figuretta conteneva allo stesso tempo tutti i colori, fulgidi e brillanti in uno splendore incredibile, Flusso allo stato puro.

Era così bello che Pindar esitò un momento prima di odiarlo.

Spinse Liliane da un lato, irruento, e lei cadde sul letto interrompendo la preghiera. L'Elelu scivolò indietro e si dissolse un attimo prima che il suo pugno lo colpisse, infiammandolo con una rabbia che non aveva mai sentito prima.

«Che cosa stavi facendo?!». Gridò, fuori di sé, scuotendo Liliane per le spalle «Non capisci che è colpa di quei mostri se soffri così tanto?!».

Lei lo fissò per un attimo lunghissimo, in silenzio. Dai suoi occhi era sparita ogni traccia di follia.

«Tu mi hai mentito». Bastarono quelle cinque parole a scuotere Pindar come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Impallidì bruscamente e cominciò a tremare, animato da una paura che non aveva nome e che sgorgava come acqua gelida dalle sorgive nere degli occhi di lei. «E io lo so. Me lo hanno detto gli spiriti». Il volto di Liliane si contrasse in una smorfia di dolore «Non c'è niente se non morte dentro di me».

«Non è vero!». Urlò così forte che lei trasalì e si mise a piangere, nascondendo il viso tra le mani.

A lui non importava più niente delle sue lacrime.

Liliane indossava una camicia da notte di cotone, chiusa da una graziosa fila di bottoni di perle. Pindar la lacerò con un unico gesto delle dita contratte, mettendo a nudo il suo ventre rigonfio e di un colorito malsano, quasi violaceo. Scottava, febbricitante.

«Ti dimostrerò che non è vero». Sussurrò «Io non ti mentirei mai, amore mio».


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Capitolo 4
*** Untori ***


III. Untori



Quella sera Pindar si ubriaca così tanto che per la prima volta Calypso teme davvero per la sua vita. È costretta a farsi aiutare da Bohrja, il ragazzo che ha conosciuto al locale, per riportare a casa sia lui che la moto, e quando arriva a casa Pindar vomita per quasi un'ora di fila. Non ha mangiato niente, e tutto quello che esce dal suo stomaco è un liquido verdastro che somiglia spaventosamente alla bile e puzza di acido e alcool in un modo quasi insopportabile.

Gli tira indietro i capelli, Calypso, dandosi della stupida per non essersi intromessa quando ha cominciato a litigare con quel tizio strano, Nybras. Avrebbe dovuto mandare qualcuno dei suoi amici buttafuori a pestarlo per bene, ma sembra che il ragazzo misterioso sia sparito nel nulla.

Quando i conati si fermano e Pindar, stremato, si abbandona con la fronte contro una delle pareti del bagno, se lo carica in spalla e lo butta sul letto. Le ha sempre fatto una pena infinita, Slumboy, con quell'aria da persona invecchiata prima del tempo e l'abbandono totale e autodistruttivo al vizio, ma non c'è niente che possa fare per aiutarlo. Semplicemente, lui non vuole essere salvato.

«Mi dispiace così tanto, vecchio». Sussurra, richiudendosi la porta dell'appartamento alle spalle. La scala a chiocciola che collega i lotti abitativi all'interno del pinnacolo è buia e dissestata, come se fosse abbandonata da anni. Calypso, con un sorriso storto, non riesce a non cogliere la sottile analogia.



Si sveglia con le dita di Liliane tra i capelli, con i suoi occhi ardenti che lo guardano attraverso lo schermo delle ciglia bionde e la sua voce da usignolo che ripete in continuazione la stessa frase.

«Perdonami, amore. Perdonami. Scusami, tesoro mio».

Il mal di testa è così intenso che non riesce nemmeno a parlare, una lama arroventata che gli trapassa il cranio e non gli lascia un momento di quiete; ascolta le voce dolce di Liliane e cerca di immergersi negli accenti delicati delle parole, nel modo che ha lei di arrotondare le sillabe come se stesse cantando una canzone, e lentamente il dolore viene confinato in un angolo della sua mente e si annichilisce come qualsiasi altra cosa al cospetto di lei.

Passano ore. La pioggia picchietta contro le finestre e qualche passante grida, in strada, ma nessun suono riesce a interrompere gli attimi di quiete perfetta che l’uomo assapora come se non dovessero finire mai. Liliane continua a scusarsi finché Pindar non le prende il polso tra due dita ‒ è così delicata, lei, una specie di uccellino dalle piume dorate ‒ e chiede: «Perché? Tu non mi hai fatto de male, amore. È stato quel bastardo».

«Non ero con te, a proteggerti». Dagli occhi arrossati di Liliane scendono lacrime che sembrano scavare solchi profondi nel cuore di Pindar. Le asciuga con la mano, le sue grosse dita sgraziate a contatto con le guance di velluto di lei, e scuote la testa.

«Tu sei sempre con me. Sempre».

«Ma hai pensato male di me». Pindar si sente raggelare, il senso di colpa lo invade come veleno «Tu lo sai che non posso stare nello stesso posto di quelli che conoscono il Tempo Troppo Veloce. Ho tanta paura di loro».

La stringe tra le braccia, accarezzandole la testa con dolcezza. A volte si ritrova a pensare che la Liliane del Tempo Troppo Veloce e la Liliane che vive nella sua mente sono molto diverse, che ha soltanto inventato una brutta copia della donna che un tempo amava. È per cancellare idee come questa che beve fino a stordirsi, perché non potrebbe vivere sapendo di non amare più la vera Liliane, ma soltanto una sua ombra malriuscita.

«Io ti proteggerò. Tu sei l’unica cosa che conta, per me…» le bacia i capelli, avverte la fragranza lieve del profumo al gelsomino che le ha regalato per il loro primo anniversario «… non dimenticarlo mai, capito?». Come può non essere reale? La sua pelle è soffice sotto le dita, il respiro caldo; il suo cuore batte, maledettamente tangibile, contro quello di Pindar.

«Li aiuterai, Pindar?».

«Non lo so. Tu vorresti che lo facessi?».

Liliane posa la guancia contro il petto di Pindar e socchiude gli occhi, aggrappandosi alla stoffa dei vestiti di lui come se non volesse lasciarlo andare mai più. Annuisce piano, si raggomitola tra le sue gambe.

«Tu puoi farlo, amore mio. Tu puoi punire quelli che hanno distrutto il nostro Tempo Troppo Veloce».

Pindar annuisce, come ipnotizzato. Fa scivolare giù le spalline dell’abito a fiori che le copre il corpo minuto e la stringe a sé, affondando il naso nella carne tenera tra il collo e la clavicola, là dove il battito del cuore accelera e il calore si fa sempre più intenso.

«Solo per te, Liliane. Dimmi che ami soltanto me».

«Amo solo te».



Il Reggente della Confraternita siede su uno scranno di legno, le gambe a cavalcioni di un bracciolo, voltando svogliatamente le pagine di un libro. Ha quasi cinquant'anni, ma il tempo, pur conferendogli un'autorevolezza che molti invidiano, non gli ha portato via né l'amore per i passatempi oziosi, né lo sprezzo assoluto per le formalità e l'etichetta.

«Quindi...» commenta, la voce nasale pregna di noia «... sei riuscito a stabilire un contatto. Bravo».

Nybras accoglie la lode con un cenno rispettoso e si appoggia ad uno scaffale − nella stanza non ci sono pareti libere, ma soltanto librerie che occupano ogni centimetro disponibile e teche piene di oggetti dalle forme strane, alambicchi e astrolabi e utensili alchemici di metallo brunito; il Reggente lo fissa con i suoi occhi neri, considerevolmente rimpiccioliti dalle lenti degli occhiali, e si siede con più compostezza.

«Sei stato coraggioso».

«Pindar Van Hasen è molto... diverso da come lo descrivono i rapporti». Nybras scrolla le spalle «Non mi è occorso nessun particolare coraggio».

Il Reggente sembra contrariato dalla risposta; corruga le sopracciglia e storce la bocca in una smorfia dubbiosa, prima di parlare.

«È un pazzo psicopatico, Cancelliere. Latitante da otto anni, condannato a morte, ricercato».

«Lo so. Ho usato e userò prudenza, ma l'impressione di Pindar Van Hasen che ho potuto ricavare è quella di un uomo debole e inoffensivo, consumato dalla follia. Non è diverso dai disadattati che frequenta».

«Secondo te accetterà di collaborare?».

«Sì. Vive qui da cinque anni, non manderà tutto a monte per una questione di puntiglio».

Il Reggente si alza in piedi, stiracchiandosi, e ripone il libro in uno scaffale già strapieno.

«Scendere a patti con individui di quella risma mi disgusta profondamente, Cancelliere, eppure siamo costretti a farlo per il bene di questa città».

«Un obiettivo importante si raggiunge soltanto attraverso il sacrificio». La forza della Confraternita, riflette Nybras, si basa proprio sulla capacità dei singoli membri di mettere da parte i sentimenti personali pur di conseguire la vittoria «Che si tratti del mio onore, della mia morale o di vite umane, io non mi tirerò indietro».



Il pendaglio di metallo pesa più di quanto si aspettasse.

Sembra il minuscolo cranio di un corvo o di una cicogna, scolpito così finemente che nelle rughe appena al di sopra delle orbite vuote Pindar coglie un accenno di espressività vagamente antropomorfa. Se lo rigira tra le mani a lungo, prima di decidersi a metterlo − ha quasi paura che, come in una delle favole che gli raccontava sua madre da bambino, il laccio si stringa attorno al collo fino a soffocarlo − e quando lo infila la pressione della cordicella sulla nuca è davvero sgradevole.

«Ma di che diavolo è fatto?». Borbotta, nascondendolo nello scollo della maglietta «Pesa come il piombo».

«Stai attento». Liliane passeggia sui vestiti gettati per terra, i piedi come conchiglie bianche «Non sappiamo quanto possiamo fidarci».

«Non ho paura di loro. Solo, mi chiedo come possano sperare di sconfiggere la Guardia Cittadina».

Lei fa spallucce, solleva una maglietta e la esamina con aria critica. «Sai,» commenta «si vede che non ci sono più io a farti il bucato, amore. Quante volte lavi i panni in un anno?».

«Mai». È la risposta, laconica, prima che il rumore di colpi alla porta lo faccia sobbalzare.

«Pindar? Pindar?! Sbrigati ad aprire, cazzo, che ho fretta!». Anche soffocato dalla porta, il falsetto di Calypso è inconfondibile. C'è stato un tempo, ricorda Pindar, in cui non poteva sentir bussare qualcuno senza sudare freddo, in cui gli sembrava impensabile aprire la porta senza portarsi appresso un coltello sguainato. Adesso abbassa la maniglia quasi con trepidazione, e scoppia in una risata sonora quando nota l'abbigliamento di Calypso − del resto, non notarlo sarebbe praticamente impossibile.

«Scusa, ma...» singhiozza «un vecchio come me non è abituato a questo genere di cose».

Gli verrebbe quasi spontaneo chiederle dove ha comprato la minigonna di pailette − più mini che gonna, a dirla tutta, visto che le arriva tre dita sotto l'inguine − e la giacca di pitone verde menta, con un paio di spalline così imponenti da sfidare impunemente ogni buonsenso.

«Ricordami quando mai ti ho chiesto pareri sul mio abbigliamento». Risponde, altezzosa, aggiustandosi una sciarpa di piume purpuree sul collo «Comunque sono passata giusto per salutare, stasera ho l'agenda piena di impegni. Volevo chiederti se pensi di incontrare altre volte quel Nybras Berglund, tanto per capire quanti infarti mi farai prendere nelle prossime quarantotto ore».

«Io−»

«A proposito, che voleva?».

Raccontare a Calypso la verità è fuori discussione: per quanto gli voglia bene non potrebbe mai accettare i fatti in tutta la loro completezza, ed è l'unica persona alla quale Pindar può rivolgersi quando ha bisogno d'aiuto. Non vuole perderla.

«Era un creditore». Asciutto, forse un po' troppo. Calypso capisce che c'è qualcosa che non va, lo vede dal lampo preoccupato che passa come un'ombra nei suoi occhi verdi, ma non fa altre domande. Non è una stupida, sa che non le risponderebbe.

«E... hai risolto tutto? Mi sembrava che la situazione si fosse scaldata un bel po'».

Stavolta controlla meglio la voce e riesce persino a prodursi in un sorrisetto sghembo.

«Tutto a posto. Adesso io e Berglund andiamo d'amore e d'accordo».

«E lo rivedrai?».

«Dipende. Probabilmente sì».

Calypso sbuffa teatralmente, schiocca due baci veloci sulle guance di Pindar e poi si avvia ancheggiando giù per la scala a chiocciola. «Non metterti nei casini, amico». Esclama, un momento prima di svanire nel cono d'ombra «O sarò costretta a compiere un omicidio per vendicarti».

Pindar aspetta una decina di minuti prima di seguirla giù per le scale, fino al garage comune. Non sa cosa aspettarsi mentre ingrana la prima e comincia a muoversi a casaccio nelle stradicciole intorno alla sua tana, sollevando nuvole di vapore acqueo sul selciato fradicio, e l'impazienza ha ben presto il sopravvento: dal ciondolo non proviene nessun segnale particolare, niente che possa fargli capire che direzione prendere. Prova a guardarlo meglio, cercando magari una minuscola mappa incisa sul retro o un qualche altro segno, ma la superficie di metallo è liscia e perfettamente integra.

Poi, un movimento brusco ai margini del campo visivo e un verso stridulo attirano la sua attenzione.

Quando alza gli occhi, Pindar trova una cornacchia.

Le cornacchie non sono uno spettacolo raro a Ecbàtana, dove proliferano grazie alle discariche a cielo aperto e alle carogne lasciate in secca dalle alluvioni, ma è abbastanza sicuro di non averne mai vista nessuna con gli occhi dorati. Occhi che brillano, per essere più precisi, e ricordano in maniera inquietante un paio di minuscole uova di Elelu.

«Non ci credo». Sussurra, mentre il volatile si dondola con ben poca grazia sul bordo di un cartello stradale «Ehi!». Grida, sventolando una mano nel tentativo di spaventarla «Ehi, bestiaccia! Tu saresti la mia guida, per caso?».

Quella lo fissa per qualche secondo, immobile, poi si piega sulle zampe sottili e spicca il volo, dritta in un vicolo buio.

«Ma porca di quella putt−» snocciolando una sequela di imprecazioni che scandalizzerebbero anche il più scafato ubriacone di Ecbàtana, Pindar dà gas e cerca di seguire la cornacchia come può. Nel buio il suo corpo scuro e affusolato quasi scompare, ma gli occhi brillano di una luce così intensa da illuminare il selciato lucido, quando il volatile plana a poca distanza dal terreno.

Si avvicinano alla barriera del terzo anello, dove le case lasciano il passo ad un ammasso di baracche costruite con lamiere e assi marcite; la strada è coperta da uno strato di fanghiglia putrida alto appena un centimetro, ma sufficiente perché Pindar si infradici fino alla vita e aggiunga mentalmente un altro capo di vestiario alla lista di quelli da buttare. La cornacchia svolta in un vicolo cieco, una lunga strada semibuia su cui si aprono le bocche sdentate delle caverne, poi vira bruscamente a sinistra e si tuffa in uno degli altri.

Pindar si avvicina all'apertura e frena bruscamente, prima di affacciarsi nella cavità.

«Ah,» esclama, sgomento «avrei dovuto immaginarlo».

Gradini di pietra consumata dall'uso scendono verso una porta seminascosta dall'oscurità; al principio di quel rozzo tentativo di scala, seduto con grazia accanto ad una delle pareti di roccia, Nybras accarezza delicatamente il dorso della cornacchia e le sussurra qualcosa in una lingua che Pindar non ha mai sentito prima. I fregi sui suoi guanti brillano, irrorati dal Flusso.

«Quindi tu saresti un Affine, mh?». Spegne la moto e infila le flussoplacche in una tasca interna della giacca, sperando che non ci siano ladri nelle immediate vicinanze − aspirazione vana, visto che il termine potrebbe raccogliere tutti gli abitanti di Ecbàtana sotto un'unica bandiera.

«La Confraternita aveva bisogno di qualcuno che potesse manipolare il Flusso, per i suoi scopi». Le sottili linee dorate sui guanti di Nybras si smorzano bruscamente, e la cornacchia, con gli occhi nuovamente neri, schizza fuori dalla caverna e si allontana nel cielo plumbeo «Sfortunatamente, il mio potere non è potente come quello degli Affini che vivono nel primo settore».

«Quelli riescono a controllare anche le persone, per caso?». Nella voce di Pindar l'inquietudine è palpabile; Nybras sorride come se la cosa lo intrigasse profondamente.

«La legge lo vieta. Per il controllo degli esseri umani è previsto l'ergastolo». Si alza in piedi, tira fuori una grossa chiave argentata dalle pieghe del mantello e comincia ad armeggiare con la porta «Tuttavia, mi risulta difficile credere che un Affine capace di piegare la volontà di un uomo resista alla tentazione di esercitare il suo potere. Ciò che rimane tra le mura domestiche, in fondo, non arriva alle orecchie tese dell'Alto Ufficio Amministrativo».

La porta si schiude con un cigolio sinistro, Pindar percepisce un refolo di aria calda e profumata di spezie. Improvvisamente un pensiero lo colpisce.

«Non dirmi che c'è un po' di Flusso anche nel ciondolo che mi hai dato».

Nybras annuisce, spalancando la porta. «Adesso seguimi. Comunque sì, il minuscolo nucleo di Flusso che si trova all'interno del ciondolo percepisce le variazioni di quello che scorre all'interno del tuo corpo e le comunica direttamente a me. Ecco perché ti avevo raccomandato di venire soltanto se animato da buone intenzioni. E io posso comandare gli animali di piccola taglia come se fossero burattini nelle mie mani». Batte le mani, in un gesto che ricorda vagamente le movenze di un illusionista circense «Ecco come funziona il mio piccolo gioco di prestigio».



La sede della Confraternita degli Untori è un dedalo di corridoi scavati nella roccia nuda, gli intestini di una bestia sotterranea che sembra aver inghiottito almeno un paio di isolati. All'inizio pare che non debbano portare da nessuna parte, con le loro svolte improvvise e prive di logica che conducono a porticine incassate nella pietra grezza, appena sbozzata; il soffitto è basso, claustrofobico, le pareti appena illuminate da alcune torce che spuntano dai muri come se fosse possibile conficcare il legno nel granito.

Nonostante tutto, però, la temperatura è piacevolmente alta e l'aria ha un buon odore.

«Che cos'è questo profumo?».

Nybras sembra una qualche figura misteriosa partorita da un libro di fiabe, con il mantello che si allarga in pieghe ampie attorno alla sua figura sottile e scivola sul pavimento come una macchia di olio nero. Fa un cenno distratto con la mano, e quando risponde nella sua voce è in agguato un sorriso.

«Per i nostri scopi alleviamo numerose erbe straniere. Tra poco capirai cosa intendo».

Pindar comincia ad avere paura. Non gli sono mai piaciute le situazioni in cui si è costretti ad affidarsi a qualcuno che a malapena si conosce, e le risposte schive di Nybras non contribuiscono a metterlo a suo agio; tuttavia, la posta in gioco è troppo alta perché possa rifiutarsi di collaborare.

Deve farcela da solo, anche senza l'aiuto di Liliane.

Si fermano davanti ad una porta considerevolmente più lucida e imponente delle altre; dall'architrave pende una maschera di metallo con le esatte fattezze del ciondolo, di un nero striato d'argento, e per qualche motivo vederla scatena una profonda inquietudine nell'animo di Pindar. È come se ci fosse qualcosa di funesto, una maledizione appena sussurrata che aleggia attorno a quel becco appuntito.

«Questa è la maschera di Aarto Teleborian». Il sussurro di Nybras, in risposta ad una domanda mai formulata, abbatte il silenzio come un colpo di frusta «Il fondatore della Confraternita. È stato giustiziato due anni fa per aver tentato di abbattere i cancelli della prima barriera durante una rivolta armata».

Berglund bussa delicatamente alla porta e dall'interno si sente quasi subito il suono stridulo di una serratura arrugginita.

Il legno gira sui cardini, e sotto gli occhi stupefatti di Pindar compare una lunga sala rettangolare illuminata a giorno. Il soffitto è più alto, stavolta, persino intonacato; una serie di lampadine pendono nude su lunghi bancali da lavoro tirati a lucido, e le pareti sono tappezzate da una quantità inverosimile di librerie stracolme. In un angolo, protette da una cupola di vetro appannato, ci sono delle piante verdi e dei vasi che sembrano pieni soltanto di muffa, ammassi di mucillagine dai colori sgargianti, in un altro qualcuno ha diligentemente esposto provette e alambicchi di tutte le fogge e dimensioni. Ci sono pagine fitte di appunti sparse sul pavimento e fiale rotte gettate sotto ogni tavolo, crani giallognoli allineati su una mensola e una serie di barattoli etichettati il cui contenuto sfugge alla comprensione, ma quello che colpisce Pindar − più del disordine, più dell'accozzaglia di oggetti bizzarri − è la figura alta e imponente che se ne sta appoggiata ad un banco qualche metro davanti a lui.

Indossa la stessa uniforme di Nybras e una maschera bianca, identica a quella sull'architrave della porta, cela le fattezze del suo viso; gli unici dettagli visibili sono gli occhi, neri come la pece, e i capelli grigi pettinati con cura.

«Mi fa piacere che tu abbia accettato il nostro invito, Pindar Van Hasen». Ha una voce profonda e nasale, l'inflessione strascicata dei popoli del Sud «Io sono il Reggente della Confraternita degli Untori».

Davanti all'espressione confusa di Pindar, Nybras si affretta a spiegare: «Quella di Reggente è la carica di massima importanza all'interno della Confraternita».

«Ah. Be', salve anche a lei. Adesso potreste dirmi a che cosa vi servo?».

 Grinze sottili circondano gli occhi del Reggente − sorridere nei momenti meno opportuni dev'essere una caratteristica comune a tutti i membri della Confraternita − e Pindar sposta il peso da un piede all'altro, a disagio, in attesa di una risposta.

«Sai cos'è un Untore?».

«No».

«Bene, allora direi di cominciare con questo. Come sicuramente già sai, la nostra città è sempre stata soggetta allo scoppio di epidemie molto violente... vuoi per il sovraffollamento, vuoi per le condizioni igieniche precarie di gran parte dei quartieri. Molti secoli fa si diffuse nel primo e nel secondo settore un morbo aggressivo, incurabile, che gettò Ecbàtana nel caos». Mentre parla cammina tra i tavoli e sfiora gli oggetti con una dolcezza quasi religiosa; non si preoccupa nemmeno che Pindar lo stia ascoltando «Le Cronache raccontano che quando si veniva contagiati, il primo sintomo era un senso di spossatezza che impediva di dedicarsi a qualsiasi attività, un'apatia sia mentale che fisica. Poi, entro tre giorni dalla comparsa di questa sorta di depressione, dalle orecchie, dagli occhi e dalla bocca cominciavano a scorrere fiumi di sangue. Una febbre altissima ardeva nei corpi degli ammalati e li consumava dall'interno, riducendo in poltiglia gli organi vitali. Naturalmente non esisteva una cura, e ben presto i cittadini cominciarono a pensare che la Piaga, così si chiamava, avesse un'origina diversa, celeste. Accusarono le loro antiche divinità, offrirono loro sacrifici, ma non vennero ascoltati».

Pindar non fatica ad immaginare lo scenario: strade allagate, cadaveri coperti di sangue che si avvoltolano nel fango, il terrore schiacciante della morte a divorare l'anima della gente, pezzo per pezzo. Il climax di una paura che diventa prima ossessione, poi furia e infine odio, ingiustificato e incontrollabile.

«Ma gli dèi erano fin troppo incorporei perché la gente potesse scaricare su di loro la rabbia. Incolparono gli stranieri, i profughi, coloro che vivevano rintanati nelle caverne, isolati, e per qualche oscuro motivo sembravano resistere meglio degli altri alla Piaga. Dissero che esistevano degli individui che, nottetempo, ungevano le maniglie delle porte e le cornici delle finestre con un cataplasma venefico, portatore del male. Chiamarono questi individui Untori». Pindar trattiene istintivamente il fiato, e il Reggente, come se se ne fosse accorto, gli scocca un'occhiata penetrante e smette di parlare.

«Quindi, voi...» Pindar si accorge di avere la pelle d'oca «... diffondete le malattie? La storia era vera?».

Di tutta risposta, il Reggente scoppia a ridere.

«La storia era un falso creato dalla superstizione e dall'ignoranza, Van Hasen. All'epoca non esisteva ancora una cognizione corretta del Flusso, non c'erano esseri umani in grado di creare un simile unguento mortifero e la rete fognaria aveva diverse falle che contribuivano ad avvelenare le falde acquifere, uniche foriere della Piaga. Tuttavia, quando Aarto Teleborian, il fondatore della Confraternita degli Untori, decise di creare un movimento di opposizione contro l'Alto Ufficio Amministrativo, comprese che si poteva sopperire allo svantaggio numerico con un solo stratagemma...» la voce del Reggente si abbassa fino a diventare carezzevole come velluto «... le armi biologiche. Dopo vent'anni di attività siamo riusciti a sviluppare un'arma che ci permetterà di abbattere il potere dell'Alto Ufficio e mettere fine all'eccidio degli Elelu, salvando anche il nostro popolo da morte certa. So che Nybras ti ha spiegato cosa c'è alla base del nostro agire».

Pindar è così sconvolto da non riuscire a rispondere. Il suo sguardo corre dal Reggente a Berglund, alternativamente, nella speranza di trovare una falla, un accenno di ilarità nella posa rigida degli Untori. Non possono essere seri... non possono volere un eccidio di massa nel primo anello e non possono aver organizzato il tutto con tanta tranquillità. E l'hanno coinvolto.

Non ci sono scappatoie, stavolta. Non può nascondersi alle proprie colpe e fare finta che non sia successo nulla.

«Voi... voi pensate di risolvere il problema sterminando la popolazione del primo anello?». La voce gli trema, incontrollabile «È una cosa da matti. Non servirà a un cazzo».

«Non abbiamo mai parlato di popolazione». È Nybras, stavolta, a replicare «Grazie al Flusso mi è stato possibile manipolare un ceppo di muffe tossiche, modificandone la struttura e le potenzialità secondo il mio gusto. Ho ottenuto una spora estremamente letale, capace di colonizzare l'organismo umano in tempi relativamente brevi... e, quel che è meglio, si tratta di un'arma selettiva».

«Che vuol dire?».

«La mia spora attacca soltanto gli Affini». Le parole di Nybras sono così secche e definitive che Pindar può avvertire fisicamente il peso della condanna che contengono. E, quando ne capisce appieno il significato, non riesce a crederci.

«Ma tu sei un Affine, dannazione!». Sbraita «Che cazzo di senso ha? E come fai a sapere che funziona? Non l'avrai mica provata su qualcun−» si interrompe di botto. Certo che l'ha provata su cavie umane, altrimenti come farebbe a parlare con tanta sicurezza? Probabilmente nel secondo anello vivono centinaia di Affini che non sanno nemmeno di esserlo.

«Ho creato il veleno, naturalmente sono in possesso dell'antidoto». Berglund incrocia le braccia, tronfio «E non dirmi che le perdite umane ti creano problemi, Van Hasen. Sei l'ultima persona a poter dire una cosa del genere».

«Nybras...» è la voce del Reggente, venata da un accenno di fastidio.

Pindar contrae il viso come se qualcuno gli avesse appena sferrato un pugno nello stomaco e indietreggia, scuotendo la testa.

«Io l'ho fatto per lei...» mormora, senza alzare lo sguardo da terra «... per lei, perché−»

«Sappiamo quello che hai fatto». Il Reggente lo interrompe con un gesto sprezzante, disgustato «E perché, presumibilmente, l'hai fatto. Conosci le nostre condizioni, adesso ascolta: c'è un modo per attraversare la prima barriera? I cancelli principali vengono aperti solo per far passare i dignitari, ma le guardie che smontano dalla guardia e tornano all'interno del primo anello passano da qualche altra parte. Dove?».

«Non potete seguirle e scoprirlo da soli?».

«Sono corpi scelti e molto ben addestrati. Hanno uniformi modificate con il Flusso che li rendono invisibili per chiunque, persino per noi... ci serve uno stratagemma, qualcosa che li distragga».

«Qualcosa come un pericoloso criminale ricercato che si fa trovare improvvisamente e che dispone di un gingillo che io posso tracciare grazie al Flusso. Mantello dell'invisibilità o meno». Conclude Berglund «Quando e se si accorgeranno del ciondolo, sarà troppo tardi».

«E perché dovete entrare nel primo anello per diffondere questa spora?».

«Sfortunatamente non si tratta di una bomba ad alto potenziale. Se non trova un organismo in cui attecchire, muore nello spazio di un'ora... altrimenti si riproduce ad un ritmo incredibile. Libereremo le spore in una delle centrali di produzione dell'energia che si trovano al centro del primo anello, e una volta che tutti gli Affini saranno morti non ci sarà più nessuno in città sufficientemente potente per utilizzare le uova di Elelu. In altre parole, il business subirà un arresto piuttosto brusco».

«Mi state chiedendo di farvi da esca».

Il Reggente si appoggia ad un tavolo, intreccia le mani sul ventre e risponde: «Ti stiamo dando la possibilità di scegliere, Van Hasen. Puoi essere la nostra esca o la nostra vittima».

«Datemi un giorno per decidere». Pindar sa che supplicare non servirà a niente, ma a questo punto il rischio si è fatto talmente elevato che persino la sua reputazione non sembra poi così importante «Domani sera vi dirò cos'ho scelto».

«Accordato. Domani sera Nybras prenderà nuovamente contatto con te».

Pindar annuisce. La sensazione è quella di un cappio stretto attorno alla gola la cui pressione aumenta gradatamente, inesorabile. Presto lo soffocherà.

"Lo faccio solo per te, Liliane, amore mio..."


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Capitolo 5
*** Anello Debole ***


V. Anello Debole



Calypso spalanca la porta del locale con una manata e indirizza un ampio sorriso d'intesa a Keyli, impegnata a ripulire i tavoli in fondo al locale. Incespica quando i tacchi si piantano per un paio di centimetri buoni nello zerbino umido e consunto che recita ancora uno sbiadito "Fottiti e Porta Via il Tuo Culo Moscio da Qui", poi, come se non bastassero le scarpe scomode a scatenare il suo malumore, scorge il mantello nero di Nybras Berglund accanto al bancone, a pochi passi dal posto abituale di Pindar.

Posto che, stranamente, alle nove e mezza di sera è ancora vuoto.

"Potrebbe essere un segno del destino", pensa, rassettando i pantaloni a zampa d'elefante che, inutile negarlo, le fanno proprio un bel culo. Si avvicina ticchettando al profilo affilato di Berglund, getta all'indietro le spalle nel tentativo di effettuare un'entrata in scena quanto più possibile cool e spavalda.

«Salve». Lo saluta, il tono morbido come carta vetrata «Stai per caso aspettando il mio amico?».

«Quanto acume, donna mancata». Placido, Berglund smonta tutte le sue pretese di gloria mentre sorseggia un cocktail color miele «Ho rispettato tutte le tue direttive, sai? L'ho incontrato solo quando era sobrio... il che, ammetterai, non è così semplice con un tipo come quello».

Calypso, con gli anni, ha imparato a trattenere le rispostacce inviperite dietro un muro di candida cortesia.

«Non so cosa vuoi da lui, ma le mie direttive potrebbero anche cambiare». Si siede, incrociando lentamente le gambe «Gli stai facendo del male. Pensi che non me ne sia accorta?».

«Dovrei spaventarmi? Posso tenere testa ad una donna mancata».

Il sorriso di Calypso gronda zucchero e miele.

«Ma io non mi sporcherei mai le mani per te, pasticcino. Invece Mitch, per esempio,» accenna ad un uomo corpulento, con le braccia coperte di tatuaggi, che sta giocando a carte insieme ad un tipo ancora più grosso di lui «è un mio caro amico. E gli amici si aiutano tra loro, nel secondo anello. Sai, Mitch ha rischiato l'ergastolo per aver spaccato il cranio ad un ladro che ha tentato di fregargli la moto... e l'ha fatto a mani nude».

«Questa topaia viene frequentata da parecchi tipi interessanti». Celia Berglund, ma Calypso si accorge che è impallidito.

«Oh, non puoi immaginare quanti».

«Mi riferisco anche al tuo amico, sai? Quanto puoi dire di conoscerlo?». Di norma Calypso attribuirebbe una frase del genere alla paura e ad un timido desiderio di rivalsa, ma c'è qualcosa nello sguardo di Berglund che le fa drizzare le orecchie.

«Che domanda è?».

«Tanto per cominciare, conosci il suo cognome?».

Il travestito ridacchia, sbilanciandosi sullo sgabello.

«Cognome? Non so nemmeno se Pindar sia il nome vero o un soprannome... ma quanta importanza può avere?».

«Parecchia. Si chiama Pindar Van Hasen, in realtà. Non dirmi che non ti ricorda qualcosa».

Il volume della risata di Calypso aumenta sensibilmente.

«Oh, andiamo. I cognomi con il "Van" davanti sono per i ricchi. Sono i cognomi di quelli che vivono nel primo anello, e Pindar non mi sembra proprio il tipo. È arrivato qui dagli slum».

«Certo. Era scappato nel terzo anello per evitare la condanna a morte». Nybras giocherella con i cubetti di ghiaccio nel bicchiere, muove la cannucce in spirali indolenti che irritano terribilmente Calypso «Aveva una moglie quando viveva nel primo anello. Liliane, si chiamava... forse te ne ha parlato».

Calypso smette improvvisamente di sorridere e sbarra gli occhi, attonita. Solo in quel momento la colpisce il pensiero che potrebbe esserci un fondo di verità in quanto quella serpe di Berglund sta per dirle.

«E tu come...»

«Come faccio a saperlo? Vai all'ufficio dell'Archivio cittadino, per un bizzarro scherzo del caso è molto ben fornito. Cerca il nome "Van Hasen" e troverai dei dossier perfettamente accessibili che raccontano come un onesto e apparentemente ineccepibile cittadino del primo anello abbia barbaramente ucciso sua moglie, circa otto anni fa».

«Non è possibile». Calypso si porta una mano alla bocca, incredula. Pindar è completamente pazzo, questo lo sa lei come ogni cittadino del secondo anello, ma non può credere che abbia fatto una cosa del genere. Quando parla di Liliane nei suoi occhi non c'è niente se non amore, l'amore denso e struggente del protagonista di un romanzo cavalleresco.

E poi le avrebbe detto qualcosa... non può venire sul serio dal primo anello.

«Non pretendo che tu mi creda sulla parola... scava, all'Archivio, ed è questo quello che troverai. Liliane Van Hyck, coniugata Van Hasen, era un'Affine appartenente ad una delle cerchie più modeste della società del primo anello. Si ammalò di quello che alcuni chiamano "il Dono degli Elelu", un tumore maligno provocato dalla malevolenza degli spiriti, e rimase chiusa in casa per diversi mesi. Pindar Van Hasen, che a quel tempo era il Custode del Primo Cancello, diede da subito segni di squilibrio, ma nessuno pensò bene di denunciarlo all'Alto Ufficio... un bel giorno i suoi colleghi si accorsero che non andava al lavoro da diversi giorni e, temendo per la sua salute e per quella della moglie, chiamarono le Guardie Cittadine. Sai cosa trovarono nell'appartamento di Pindar Van Hasen?»

Calypso scuote la testa, catturata da quello che le sembra un racconto troppo inverosimile per essere vero. O, forse, troppo inverosimile per essere falso.

«Trovarono la moglie, Liliane, con il ventre squarciato da parte a parte. L'aveva aperta in due come un pesce, quasi un centinaio di coltellate. Pare che il tumore si fosse sviluppato proprio nello stomaco, e furono fatte numerose ipotesi sulle motivazioni di un gesto così brutale. Sfortunatamente non fu possibile chiederlo al diretto interessato, perché era già scappato dal primo anello». Nybras osservò con un sorriso compiaciuto l'espressione impietrita di Calypso «Era il Custode, aveva un pass che gli permetteva di superare le barriere a sua discrezione. Sparì negli slum prima che il mandato di cattura fosse diffuso nei tre anelli, dopo un anno di ricerche l'Alto Ufficio rinunciò all'idea di scovarlo e i suoi identikit furono staccati dalle pareti degli uffici. Tutti pensavano che fosse morto».

«E invece era... qui? Come pretendi che ti creda?».

«Non lo faccio. Saranno le dieci a dir tanto, l'Archivio rimane aperto fino a mezzanotte grazie alle direttive dell'Assessore ai Beni Culturali... probabilmente speravano di trasformare questa merda in un club letterario, bah. Se vai adesso lo trovi ancora aperto».

Senza nemmeno rispondergli, Calypso si tira frettolosamente in piedi e corre fuori dalla porta mezzo scardinata dell'Horny Nipples.



Pindar fa il suo ingresso dopo un'ora di logorante attesa.

Nybras non ama aspettare, men che meno se la sua posta silenziosa culminerà con la cattura di una preda tanto scontata; Van Hasen è leggermente alticcio, lo sguardo azzurro e vacuo, i capelli arruffati.

«Sperare che non venissi era un po' troppo, evidentemente».

«Ci sono in ballo questioni più importanti del tuo quieto vivere». Il suo sussurro è quasi inudibile, visto che Keyli, sistemati i tavoli, si sta avvicinando con il suo consueto passo baldanzoso «Allora, che cosa rispondi?».

«Lo farò». Non è convinto, la voce trema un po' «Sai, è buffo. L'Alto Ufficio Amministrativo gestisce Ecbàtana da secoli senza mollare la presa, e proprio io devo essere l'anello debole che farà crollare tutto».

«La Storia ha bisogno che nelle catene da cui è avvinta si creino degli anelli deboli. Se così non fosse, nulla cambierebbe».

Nybras non si sente in colpa per aver rotto il patto con Van Hasen. Nutre pochissima compassione per quello che considera poco meno di un rifiuto umano come tanti,  e da quel poco che ha visto la donna mancata ci tiene troppo a lui per fregarlo. Probabilmente non vorrà mai più vederlo, ma non lo denuncerà alle guardie cittadine.

«Chiedi agli Affini che ucciderai se la pensano come te».

«Provare empatia per il nemico non è una buona tattica, se si vuole vincere la guerra. Fatti trovare tra due giorni vicino alla fontana della Piazza di Molnavje, alle quattro di mattina. Sai dov'è, no?».

Pindar annuisce, mentre Nybras scivola via dal suo fianco e sparisce senza rumore nella notte.



Il cielo rannuvolato si riflette nell'acqua torbida della fontana. Ogni tanto qualche goccia di pioggia increspa la superficie, onde alte appena qualche millimetro si infrangono contro gli enormi cadaveri galleggianti di lattine abbandonate e confezioni di patatine. I pacchettini accartocciati che beccheggiano sotto la spinta di un vento appena percettibile somigliano a cigni, origami realizzati dalla mano distratta di qualche rozzo artigiano ubriaco.

Pindar non sa se Liliane abbia mai creato un origami mentre era ancora in vita, ma la guarda con amore mentre affida una gru di carta alla vasca sporca e sbreccata che orna il centro della piazza esagonale di Molnavje. Uno spruzzo d'acqua moribondo e singhiozzante le accarezza la pelle eburnea delle gambe, si lancia fuori da un bocchettone arrugginito e poi si spegne per qualche secondo; ogni volta Pindar pensa che l'acqua non sgorgherà mai più, ma quella, puntualmente, zampilla di nuovo.

Liliane indossa la sua camicia da notte di cotone con i bottoni di perle. Non era mai successo prima.

«Sei bellissima». Sussurra Pindar, e lei inclina la testa di lato e lascia che lui rimiri l'arco bianchissimo del collo flessuoso. L'unico motivo per cui il futuro lo intimorisce è perché sa che non potrà averla con sé − non finché Berglund rimarrà nei paraggi.

«Mi mancherai così tanto». Pigola, sdraiandosi sul bordo della fontana «Promettimi che tornerai».

«Lo farò di sicuro. Non ci vorrà molto, vedrai». E lo spera davvero: gli tremano già le ginocchia.

Avrebbe voluto parlare un po' con Calypso prima del giorno fatidico, ma pare che nessuno l'abbia più vista in giro; probabilmente, riflette, è impegnata in qualche traffico di flussoplacche sull'altro versante della montagna e non ha avuto tempo di andarlo a trovare − non sarebbe la prima volta, visti tutti i misteriosi commerci in cui ama invischiarsi.

Sa che è ora di andare quando Liliane si dissolve nella nebbia del primo mattino e un vago chiarore si fa strada dietro i palazzi, all'orizzonte; le albe a Ecbàtana sono tristi, grigiastre, ma ogni volta che Pindar assiste al sorgere del Sole si sente afferrare da un profondo senso di commozione.

Senso di commozione che sparisce, sostituito da una rabbia cieca e irrazionale, quando Nybras Berglund sbuca da un vicolo e striscia nella piazza insieme ad un gruppo di dieci o venti persone, tutte incappucciate; non indossa più l'uniforme − forse si è reso conto di quanto dia nell'occhio − e l'ha sostituita con dei jeans macchiati di grasso e una felpa ampia e un po' stinta, vestiti comuni nel secondo anello.

«Hai preso il ciondolo?».

«Buongiorno anche a te, Berglund».

«Rispondi».

Pindar fa scivolare una mano sotto il colletto della polo ed espone per qualche secondo il pendaglio luccicante. Lo sguardo di Nybras si distende leggermente e l'Untore gli fa persino un cenno di saluto con la mano, per quanto ironico e poco sentito.

«Salve, Van Hasen. Sento che sarà una splendida mattinata».

«Mi auguro che tu sia dotato di buone capacità precognitive, perché in caso contrario finiremo entrambi sulla forca».

Il gruppo si avvia al seguito di Nybras, scivolando silenziosamente nell'intrico di viuzze e pinnacoli di roccia che rappresenta la parte più benestante del secondo settore; alle quattro del mattino le strade sono deserte, fatta eccezione per qualche vecchio ubriaco riverso sui gradini di un portone insieme al cane e per i ratti che sfrecciano nei tombini scoperchiati appena avvertono un rumore un po' troppo forte. La prima barriera si avvicina sempre di più, un immenso muro di cemento liscio alto due volte il più imponente degli edifici.

Quando giungono in vista del Primo Cancello, una fenditura alta e stretta celata da battenti di acciaio nero e pattugliata continuamente da uno sparuto drappello di guardie armate, Nybras fa cenno alla compagnia di fermarsi in un vicolo particolarmente buio e angusto.

«Immagino tu abbia capito qual è il tuo compito».

«Devo far sì che mi catturino e che cerchino di portarmi dall'altra parte, giusto?».

«Sì. Attaccheremo quando sapremo dov'è l'entrata».

«Solo una domanda...» Pindar inarca un sopracciglio «... queste sono tutte le truppe di cui disponi? Venti persone contro l'intera Guardia Cittadina di Ecbàtana?».

«La nostra confraternita conta quasi settemila adepti, Van Hasen». Pindar trattiene a stento un'esclamazione di sorpresa «E sono tutti qui, anche se non puoi vederli. Armati. Perciò ti conviene svolgere bene il tuo compito».

Annuisce, uscendo con riluttanza dal vicolo. Non riceve nessun segno d'incoraggiamento, nemmeno una pacca sulle spalle, e anche se ammetterlo sembra vergognoso avrebbe gradito un "buona fortuna". Pensa al sorriso splendente di Liliane e si sente un po' rinfrancato mentre si avvicina alle guardie.

Indossano l'uniforme d'ordinanza, giacca infeltrita verde scuro su pantaloni di cotone grigio; passeggiano avanti e indietro davanti al portone, imbracciando fucili a canne mozze e mitragliatrici pesanti, gli anfibi chiodati fanno un rumore d'inferno sul selciato. Sono in tutto nove.

Quando notano Pindar, che all'inizio scambiano per l'ennesimo tossicomane a cui è saltato il grillo di sconfinare, si limitano a puntargli contro le armi e chiedergli con gentilezza di togliersi di mezzo.

«Su, amico». Fa il più vicino, che sul bavero della giacca ha appuntate le stelle di caporale «Lèvati dai coglioni, dai. Non ti facciamo niente se te ne vai subito».

«Per me non capisce quello che gli stai dicendo, Bauer».

Bauer non si arrende e, senza smettere di sorridere bonariamente, si avvicina a Pindar quel tanto che basta per guardarlo negli occhi e parlargli con un tono di voce normale.

«Che ti è successo, eh?». Lo tratta come un bambino che non trova più i genitori «Riesci a tornare a casa da solo?». Non ha più di venticinque anni, il caporale Bauer, e probabilmente non ha mai visto la sua foto sui giornali; fortunatamente ci sono un paio di guardie che dimostrano ben più di cinquant'anni e devono ricordarlo per forza − non l'hanno riconosciuto soltanto perché ritrovarsi davanti un assassino che si offre spontaneamente alla giustizia dev'essere una specie di utopia, troppo infantile persino per le reclute.

«Mi chiamo Pindar Van Hasen». Quasi grida, contrae i muscoli delle cosce per controllare le gambe tremanti «Otto anni fa ho... ho...» il cuore batte all'impazzata, la voce gli muore in gola «Mi sono macchiato dell'omicidio di una persona. Sono qui per consegnarmi spontaneamente alla Guardia Cittadina».

Bauer lo fissa con un misto di curiosità e imbarazzo, qualcuno dei commilitoni scherza: «Puttana ladra, l'ennesimo mitomane. Si svegliano sempre più presto, eh?».

Uno dei più vecchi però, un uomo alto e smilzo che avrà suppergiù una sessantina d'anni, sporge la testa in avanti e, socchiudendo gli occhi, esclama: «Bauer, che sia maledetta quella cagna di mia madre, tienilo sotto tiro!». Bauer si affretta ad eseguire, e il militare smilzo si avvicina a Pindar scrutandolo con attenzione.

«Allora, Gavriil? È o non è chi dice di essere?».

«Che mi prenda un colpo». Il viso di Gavriil ha assunto uno strano colorito cinereo «Se non è lui ci assomiglia spaventosamente. Per me dobbiamo portarlo immediatamente in centrale, Bauer».

Il caporale annuisce, poi ordina: «Ammanettalo».

Il sudore scende lungo la schiena di Pindar in lenti rivoli ghiacciati. Si avvicina il momento cruciale.

Le manette scattano attorno ai suoi polsi, e improvvisamente si ritrova a dipendere completamente dall'aiuto di Nybras Berglund; se dovesse decidere di tradirlo, se non fosse in grado di salvarlo, Pindar verrà giustiziato sulla forca. È più vicino alla morte di quanto lo sia mai stato prima, e questa consapevolezza lo atterrisce. Vorrebbe che Liliane fosse lì con lui.

Quattro delle nove guardie di ronda si infilano delle cappe pesanti, di un colore simile al bitume, e ne drappeggiano una anche attorno al corpo infreddolito di Pindar; scende fino a terra in pieghe larghe, voluminose, e lo opprime come un macigno sulle spalle tremanti.

«Mai capitato in trentasei anni di servizio, cazzo. Il prossimo miracolo mi auguro sia la pensione».

Bauer ridacchia alla battuta, poi si fa di colpo serio; chiude gli occhi, concentrato, e sussurra qualcosa che Pindar non riesce a cogliere. I militari scompaiono in un battito di ciglia.

«Puoi stare tranquillo, cane balordo». La voce di Gavriil, da un punto indefinito alla sua sinistra, è soffocata dalla cappa «Ci siamo ancora. Misure di sicurezza, sai com'è. E adesso lascia che ti scortiamo».

Lo trascinano di malagrazia, facendolo incespicare più volte e stringendogli dolorosamente le braccia; percorrono qualche centinaio di metri a ridosso del muro nel più completo silenzio, ma Pindar si chiede perché non l'abbiano imbavagliato: volendo, se si mettesse a gridare svelerebbe la loro posizione. Evidentemente la tempra delle guardie non è più quella di una volta.

In ogni caso, lui non ha nessuna intenzione di rischiare la vita in un modo tanto avventato.

Si fermano dopo quasi venti minuti di camminata, in un punto nascosto dall'ombra di due immensi caseggiati che hanno l'aria di ospitare stabilimenti industriali. Bauer mormora di nuovo una sequela di parole strane, incomprensibili, e sotto gli occhi stupefatti di Pindar il selciato si spalanca e lascia intravedere un'apertura tonda e una scaletta di metallo che sprofonda nelle viscere della terra. C'è un sottopassaggio.

Lo spingono in avanti, intimandogli di scendere, e la sua vista si annebbia. Potrebbe svenire da un momento all'altro.

Lo sparo lo riscuote dal torpore.

Risuona lontano, ma con una tale potenza che Pindar sobbalza e per poco non cade nell'apertura. Si rende conto solo in un secondo momento che i militari della guardia sono tornati visibili, e che il corpo steso a terra con un buco grosso come un pompelmo al centro della schiena è Bauer. Bauer, agonizzante ma decisamente vivo, cerca di parlare e vomita una fontana di sangue sulle pietre squadrate. Tolto di mezzo l'Affine del gruppo, il sottopassaggio rimarrà aperto.

"Nybras Berglund, sei un bastardo fortunato".

Si scrolla di dosso la cappa, Pindar, e fa un paio di passi indietro prima che una raffica di mitragliatrice si abbatta sul gruppetto di militari; non appena Bauer, la faccia affondata in una pozza di sangue non più soltanto suo, tira l'ultimo respiro le manette si sganciano con un "click" e cadono a terra, inerti. Van Hasen scappa via con una velocità che non credeva possibile per le sue vecchie gambe fuori allenamento, i bronchi in fiamme e una serie di colpi di tosse che lo costringono a fermarsi e ad appoggiarsi ad un muro dopo una cinquantina di metri.

Gli Untori, nel frattempo, danno il via all'avanzata. Li vede sbucare dai vicoli, dalle finestre a pianterreno, calarsi dai tetti con l'agilità delle scimmie; sono tanti, innumerevoli formiche vestite di stracci che si lanciano correndo verso il sottopassaggio e vi si gettano senza nemmeno sapere quello che troveranno dall'altra parte. Uomini e donne, è indifferente: non riesce nemmeno a distinguerli, come se portassero tutti la stessa maschera a celare i lineamenti del viso. Una maschera inquietante, semiumana, con le orbite spalancate e un lungo becco affilato.




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Capitolo 6
*** Epilogo ***


VI. Epilogo


Ha intrecciato le dita a quelle di Liliane e si è seduto nella penombra confortevole della camera da letto, mentre fuori infuriavano le esplosioni. Le voci della rivolta sono arrivate fino alla sua porta, si sono infiltrate sotto lo stipite consumato e hanno accarezzato le sue orecchie, seducenti, ma Pindar si è rifiutato di ascoltarle. Ha chiuso gli occhi, respirando piano.

«Andate via. Io stavo bene anche prima».

Le lenzuola sono intrise di sangue scuro, un sangue che, per quanto il tempo passi, non accenna a seccarsi. E non c'è nessuno che venga a salvarlo dalla sua follia: Calypso è sparita, lei e la sua piacevole allegria posticcia, persino Berglund non si è fatto più vedere. Ha paura di mettere il naso fuori dalla porta e scoprire che il vecchio, amato secondo anello non è più quello di una volta.

Ha paura che, vista la recente penuria di inondazioni, qualcuno scenda nelle caverne e trovi il cadavere della donna del Sud che Liliane gli ha detto di non aiutare. E capiranno, tutti capiranno e sapranno chi è davvero. Sapranno che ha ucciso anche lei, e innumerevoli altre prima di lei.

Si stringe al corpo sottile di Liliane e piange come un bambino. Nella notte senza fine, gli ha detto lei prima che il suo ventre si squarciasse come per un'inesorabile forza interna e le viscere ne fuoriuscissero come quel giorno, presto gli Elelu verranno a rapire il suo spirito.

Gli Elelu avranno la loro rivalsa sul piccolo Anello Debole.

«Staremo insieme per sempre, vero?». Liliane appoggia la testa contro la sua spalla e strofina il naso sulla stoffa della maglietta, sorridendo «Ti proteggerò dagli spiriti, Pindar. Loro mi ascolteranno».

«Combatterò anche contro di loro se servirà. Non ti lascerò mai».



Calypso rigira tra le mani la foto segnaletica che ha strappato da uno dei registri dell'Archivio, indugiando con le dita su un viso che conosce dolorosamente bene. Lo sguardo di Pindar, stampato in bianco e nero su carta bianca e un po' ruvida, è vuoto, scialbo e impersonale: niente a che vedere con il placido fuoco azzurro che per tanti anni ha visto ardere nei suoi occhi e che, volente o nolente, ha imparato ad amare. L'uomo ritratto nella fotografia è Pindar, e allo stesso tempo non lo è.

Semplicemente, ha capito che dietro il quarantenne svampito e un po' matto che riaccompagnava a casa tutti i sabati sera c'è una persona di cui lei non ha mai sospettato l'esistenza. Non sa cosa provare al riguardo, se una fascinazione profonda mitigata dallo scorno o un orrore tanto viscerale da sconvolgerla. Non conosce mezzi termini, Calypso.

Sospira, piega la foto in quattro parti e la infila in tasca. Brucia come se fosse incandescente, una piastra di metallo appena tirata fuori dal fuoco.

"Devi denunciarlo. Sai chi è e che cosa ha fatto. Proteggerlo ucciderà quella povera donna un'altra volta".

Cielo... pensare che lui le parli e la veda, persino, le fa venire i brividi. Posa la mano sulla cornetta del telefono, un cordless arancione squillante che ha acquistato nella speranza di aggiungere un tocco di colore all'appartamento e che adesso le ricorda un pulsante rosso da premere per attivare l'autodistruzione della sua vita. La coscienza punge, insistente.

Però, nonostante tutto, non riesce ad odiarlo. Gli ha voluto bene per troppo tempo, e quel sentimento ha messo radici in lei come un'erbaccia infestante.

«Ah, vaffanculo!».

Con una manata getta il telefono per terra, la base di legno si spacca e una manciata di minuscole flussoplacche in procinto di scaricarsi si spargono per tutto il pavimento della stanza. Poco male, le rivenderà a qualcuno.

E non comprerà mai più un telefono.


Fine














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EDIT 02/09/2013: La storia si è classificata prima al contest a cui era iscritta! Vorrei lanciarmi in folli esclamazioni di gioia, ma eviterò di stressarvi e mi limiterò a postare il giudizio e i bannerini (ah, Pindar ha vinto anche il premio speciale come “Miglior Personaggio Originale”):


[IMG]http://i.imgur.com/5RKpSIN.jpg[/IMG][IMG]http://i.imgur.com/mtwRbxa.jpg[/IMG]


PRIMA CLASSIFICATA e VINCITRICE DEL PREMIO “MIGLIOR PERSONAGGIO ORIGINALE”: The Weak Link di GreedFan


Grammatica e sintassi: 5/5

Stile: 4/5

Caratterizzazione personaggi: 10/10

Descrizione delle ambientazioni: 8/10

Trama: svolgimento e contenuto: (10/10, 9/10) 9.5/10

Originalità: 8.5/10


Totale: 45/50


Niente da dire su grammatica e sintassi. Per quanto riguarda lo stile ho avuto qualche problema con gli incisi (spesso prolissi) e le virgole prima della coniugazione“e”. Cose del tutto plausibili, certo, ma che non incontrano il mio gusto. I lunghi incisi finiscono con l’essere dispersivi e l’introduzione di ulteriori segni grafici (oltre alle solite virgolette/trattini per i discorsi diretti) sembra violare il flusso delle parole. Mentre le virgole prima della coniugazione “e” appesantiscono non di poco la frase, introducendo una sommatoria di pause di per sé inutile.

La caratterizzazione dei personaggi è magistrale. Sia il protagonista che i personaggi più secondari sono resi con un’attenzione tale da creare una perfetta visione a tuttotondo. Le sfaccettature di cui li hai dotati li rendono perfettamente realistici e per questo, forse, così toccanti. Hai saputo sviscerare profondi legami d’amicizia e d’amore con una sobrietà disarmante. Hai saputo creare e soprattutto “gestire” un protagonista che -credo di poterlo dire- ha dello straordinario. Pindar, infatti, è l’apoteosi dei tuoi personaggi. Ti sei districata tra il suo dolore, la sua follia e il suo amore, mantenendoti su equilibri sottili. Gli hai dato voce con misura, calando il lettore nel suo dramma senza fretta, perché è solo alla fine che -come Pindar- ci si accorge di esserne completamente travolti. A lui, quindi, va il premio di miglior personaggio originale e a te tutto il merito.

Buone le ambientazioni, soprattutto il modo in cui hai descritto l’allagamento delle strade, ma rispetto alla caratterizzazione dei personaggi ho notato meno incisività. Spesso ne dai un’idea generica, senza soffermarti sui dettagli.

La storia si svolge in maniera davvero intelligente; le visioni che Pindar ha di Liliane ci aprono le porte della sua follia, ma tutto viene svelato nei giusti tempi. La certezza che la trama porti ad una svolta, in Pindar stesso così come nel mondo in cui vive, si rivela un mera illusione solo nel finale. Perché il cardine portante di questa storia non è altro che il dramma di Pindar, tutto il resto gli fa solo da contorno. E questo è il motivo per cui ho amato il finale. I temi che la tua storia racchiude, oltre a essere di per loro complessi, vengono affrontati o anche semplicemente “toccati” con un particolare rispetto. Racconti le cose come stanno, senza emettere sentenze, lasciandole sotto gli occhi del lettore nella loro dignitosa nudità, affinché sia lui stesso a trarre le conclusioni dovute.

Oltre ai personaggi, anche il mondo che crei è sicuramente originale, ricco sia di spunti fantastici che crudamente realistici.


P.S. All’inizio, il verso tratto da Chop Suey! è stata una bellissima sorpresa.


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