Jazzies'

di RitaWhitlock99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Jazzies’

 

My life closed twice before its close--
It yet remains to see
If Immortality unveil
A third event to me

So huge, so hopeless to conceive
As these that twice befell.
Parting is all we know of heaven,
And all we need of hell.

 









Pov Bella- Capitolo 1
 
Quando Forks cominciò ad imbiancarsi, uscendo dalla coltre di nubi grigie che la soffocavano (seppur a nostro beneficio) per tutto l’anno, Natale era ormai alle porte. La neve era scesa dal cielo compatto ed uniforme per una settimana di seguito, incessante quasi fosse pioggia di novembre ma tagliente come coltelli sui visi arrossati degli umani. Il tempo non era qualcosa che condizionava la vita apatica e, a volte, quasi vuota degli abitanti di una piovosissima cittadina di provincia: eppure, ora che la neve si  era manifestata in tutta la sua potenza, la gente passeggiava sonnacchiosa, i negozi chiudevano prima e i pescatori del luogo, tra cui mio padre, rinunciavano al “brivido” di prendere un pesce mezzo intontito dalla fredda corrente del fiume. Era così che si presentava Forks: chiusa e priva di novità. Nonostante tutto, però, non mi ero mai sentita così felice da un sacco di tempo. Si, okay: le feste, il cenone, i regali cose normalissime nella vita di chiunque ma io non avevo affatto voglia di rimpinzarmi di tacchino (anzi.. Un solo pezzo mi avrebbe fatto vomitare fino ad allagare la casa). Ero felice perché eravamo riusciti a rimanere una famiglia: i Volturi erano stati sconfitti  e si poteva dire (finalmente!) che tutto era perfetto nella mia vita di vampira Cullen. Era giusto, infatti, che ci godessimo una meritata vittoria per un bel po’ di tempo: avremmo festeggiato il primo anniversario della nostra fortuna facendo le cose “alla Alice” con tutte le conseguenze che un simile azzardo comportava. Comunque, per una volta, nessuno si lamentò di fare un minimo di sei ore al giorno di shopping con il mostric… cioè… con la mia adorata cognata o di sbattersi la testa contro il muro per la disperazione, nel tentativo di rivoluzionare l’arredamento: be’, del resto, nessuno avrebbe mai sofferto il mal di schiena (quando si dice essere ottimisti..). A divertirsi particolarmente in quella situazione era Renesmee che, ignara dei pericoli che correva, passava giorni interi a fare la cavia di sua zia.  In quanto ad Edward stava ripassando a quattro mani con Rosalie le solite canzoncine di Natale. I due non facevano altro che litigare perché non riuscivano, nelle reciproche sofisticatezze musicali (Dio quanto rompevano a volte..,), a mettersi d’accordo: addirittura Ed si era preso in testa l’intera pedaliera del pianoforte, il tutto con somma soddisfazione di Rose che, giustamente, glielo aveva suonato sulla zucca e i piagnucolii di quel martirizzato di mio marito, consolato quella notte stessa dalla sottoscritta. Si, si: è risaputo che in casa Cullen la libertà è sacra ma… Emmett dove lo mettiamo? L’unico che non stava facendo assolutamente niente qualcosa in realtà per passare il tempo ce l’aveva: le sue mille e una battutine deficienti, sconce e vecchie quanto il mondo.  «Ah ah ah, Bella! Scommetto che Edward è così pignolo quando lo fate che gli devi presentare domanda scritta, carta d’identità, codice fiscale e i punti fedeltà della benzina!»  Mi disse il giorno dopo. Poverino.. Dopo qualche ora le sue urla spaccarono le vetrine del salone: «CHI- HA- DA-TO FUO-CO AL-LA MIA MAC-CHI-NA?!» Forse gliel’avrei ricomprata.. Della Giochi Preziosi. A parte le scaramucce familiari, il vero guaio, per me, era scrivere i biglietti d’auguri: la testa mi pulsava da morire quando dovevo farlo, perché non sapevo imbastire nemmeno in quattro ore una frase carina, invece delle solite “Auguri” o “Buon Natale”. Esme e Carlisle erano quelli che lavoravano di più: chi a lucidare la casa chi in ospedale alle prese con i doppi turni e con gente debosciata che, incapace di aspettare fino al 31, si faceva scoppiare i palloni di Maradona tra le mani. Insomma, facevamo tutti del nostro meglio, tranne Jasper. Infatti, sembrava che Jazz scomparisse letteralmente dalla circolazione quando non era occupato nella sua mansione di portapacchi e buste di Alice. Come al solito, inoltre, nessuno sembrava curarsene tra cui, a sorpresa, neanche lei. Una volta, quando la curiosità mi stava rodendo troppo il cervello per fare domande al diretto interessato , la presi in disparte nello sgabuzzino e le estorsi, o meglio, cercai di estorcerle alcune informazioni. Ma lei si fece ancora più ermetica. E sospettosa: «Oddio Bella! Non preoccuparti per Jazz: sta molto più che bene.» A quel punto replicai sarcastica: «Oh, si: adesso che so questo mi sento molto meglio. Posso lasciarlo tra le tue mani in tutta sicurezza.. Alice! Non fare la facilona: e se sta attraversando una delle sue fasi depressive acute?! » Alice rise, divertita e stizzita allo stesso momento: «Bella, sono anni che ci conosciamo ma non hai ancora capito tre cose: 1) Le mie mani sono più che sicure; 2)se Jasper è in crisi depressiva acuta e sta progettando l’Apocalisse basta controllare i giornali; 3) mai disturbarmi mentre mi dedico alla meravigliosa arte di addobbare l’albero di Natale.» Detto questo mi mise una ramazza in mano e scomparve: «Preparati per la Befana che è meglio!»  Ero furibonda: perché con Alice non si poteva parlare? La mia apprensione per mio fratello non era qualcosa di compulsivo ma per lo più… Di curiosità smodata per quel ragazzo così chiuso e taciturno ma che aveva un cuore forte e sensibile allo stesso tempo come pochi. La mia osservazione del suo comportamento era continuata e, due sere fa, lo avevo visto rientrare nella casa deserta (erano andati tutti a caccia mentre la sottoscritta era appostata su un albero) con fare guardingo. Nella certezza che non vi fosse stato nessuno, era scivolato di soppiatto nel soggiorno, si era seduto sul seggiolino del pianoforte nuovo di zecca e aveva cominciato a suonare accordi spezzati, come quando i musicisti ripassano i propri brani senza svelarne l’essenza. La cosa mi aveva lasciata stupefatta: Jasper suonava?! La mia perplessità era cresciuta il giorno dopo quando Alice aveva annunciato una specie di competizione tra i musicisti Cullen, la vigilia di Natale. Edward mi spiegò che era un appuntamento annuale, una trovata di Alice (ma va’) che mi ero sempre persa per motivi più o meno gravi ma “ogni volta” aggiunse con un sorriso smagliante “ho vinto io, grazie ai pieni voti della giuria”. Successivamente scoprii che per partecipare bisognava suonare due pezzi: uno già “noto” e l’altro di “composizione propria”. Io non ci pensai nemmeno ad entrare nella gara: Edward mi aveva insegnato i primi rudimenti e non brillavo di certo per tecnica e determinazione.
Be’, insomma, tra regali, incombenze, sedute interminabili di shopping, gli scherzi idioti di Renesmee e Alice che mi facevano saltare i nervi, la riparazione definitiva del pianoforte, arrivò la vigilia di Natale. La mattinata passò tranquilla e noiosa soprattutto perché avevo portato Renesmee da Charlie e quindi la casa era una tomba (N.B. Autrice: E ce credo! Siete tutti vampiri! XD). Alice e Jasper erano spariti dalla circolazione e ciò non insospettiva soltanto me (Alice sarebbe dovuta essere stata in bagno già dalle sei) ma anche Edward. Il “poveretto” era così nervoso che non riusciva a farsi il nodo alla cravatta. Alle mie parole che si avrebbe dovuto calmarsi, rispose in un borbottio sommesso: «Il tipico casino… Me la pagherà! Ho perso la cantante! Ma non si rende conto di quanto sia stronza? Uhm… Forse è normale essere così patriottici ma… Cacchio! » Feci orecchie da mercante e lo lasciai alle sue elucubrazioni. Alice faceva la misteriosa, eh?! Ce l’avrebbe pagata cara…
 
Pov Jasper
 
Gli alberi, per la maggior parte abeti rossi, si stagliavano intorno alla radura, alti e minacciosi, per nulla mitigati dall’effetto sognate della neve di quei giorni, lasciando solo quello spazio vuoto , coperto di erba ghiacciata. Quel luogo era la personificazione della solitudine, qualcosa che, in un certo senso, gli avevo dato io in anni e anni di presenze: ogni volta che andavo lì,  era per istinto, quando ero in vena di odiare il mondo. Semplicemente correvo, correvo, correvo e poi mi arrestavo sempre nello stesso punto imprecisato della foresta. Lo ritrovavo solo quando desideravo il soprannaturale, quello degli spiriti benefici della natura: perdevo in quel momento ogni stoicismo, ogni voglia di parlare di uomini o di pensieri e roba che mi ricordava Nietzsche. Il “superuomo” mi aveva sempre disgustato: gli umani, in certe teorie, rivelano la propria sete di potere in maniera così violenta da far star male di stomaco anche un dannato che, per fortuna, si è laureato a Syracuse per uscire dal guscio del male, l’immortalità. Nella radura restavo seduto e basta. Ascoltavo le emozioni primordiali degli animali e il gorgogliare del fiume per reprimere le mie: a volte, si ha bisogno di istinti selvaggi per estinguere i propri, brutali, violenti e ciechi. Alice mi definiva “un’emozione concreta” e quando mai non aveva ragione! Stavolta, però, mi aveva violentato, nel senso più metaforico del termine. Per discutere di quella stramaledetta gara mi aveva trascinato a forza nel mio “gabinetto di meditazione” (completamente diverso da uno massonico) facendomi sentire a disagio, nel luogo tangibile di pensieri vietati. «Alice? Non c’era un altro misero angolino di foresta dove parlare?» Lei mi rise in faccia: «Oddio Jazz! Mi sembri un adolescente innamorato che nasconde il diario sotto il cuscino. Credi che io non sappia che vieni qui quando, invece, dovresti provare ad affrontare i tuoi limiti di petto? » A quel punto ci rimasi male: «Ma che diamine… Mi insegui? Tra poco mi pedinerai anche in bagno e… io.. d-d-dovrò… Ecco..» Feci un gesto eloquente. Lei alzò gli occhi al cielo, come per invocare la pazienza: «Jasper sei un vampiro e non vai in bagno. Poi io non ho bisogno di seguirti: ho il mio impianto di sicurezza  a circuito chiuso» Che scemo… Come dimenticarsi del suo “impianto”? «Be’, signorina, meglio lasciar correre. Allora.. Per quale motivo mi ha portato qui? Per quale conciliabolo oscuro e contorto?» Stette subito al gioco: «Maggiore Whitlock, le assicuro, giurando sul mio onore di donna, che le mie intenzioni sono in buona fede. Volevo chiederle, esimio maestro, se mi concede l’onore di provare i nostri pezzi.»  
«Ma come facciamo senza un pianoforte, signorina?»
«Jazz tu porti il tempo e io canto»
«E io?»
«Come sarebbe?»
«Cioè.. Io non canto?»
«Non si preoccupi maggiore mi segua e basta. Nell’eternità»
«Non ero io che portavo il tempo delle ore, dei secoli e dell’amore?»
«Se non cominci..»
Le sorrisi, facendo un inchino educato: «Uno. Due. Tre. Quattro..» A quel punto la radura perse ciò che era con me, perché era con noi. Insieme.




Eccoci arrivati alla fine del primo Capitolo della prima FF che pubblico su efp! Vi è piaciuto? Recensite in tanti: criticoni, "positivisti" e neutrali sono tutti accettati! Purchè... Abbiate un pizzico di pietà per me e per questo piccolo sclero! ^^

Rita Whitlock <3

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


                         Jazzies’

 


Pov Bella- Capitolo 2
 
Finii di mordermi convulsamente il labbro e di avere un’espressione assassina, quando sentii aprirsi piano la porta sul retro: erano Alice e Jasper che canticchiavano ridendo come due ubriachi. Ero tentata di acchiappare Alice e cantagliene quattro (visto che eravamo in tema di canzoni) ma poi lasciai perdere: avrei scoperto ogni cosa a breve. Infatti, eravamo tutti in salotto, vestiti come se avessimo dovuto debuttare in qualche importante teatro europeo. Mentre io avevo scelto un abito semplice, blu scuro (che, modestamente, mi donava un sacco), Rosalie sfoggiava un vestito di uno spettacolare rosso fuoco, lungo fino a terra e aperto sulla schiena che avrebbe fatto impallidire anche una tela rinascimentale. Esme era molto carina nel suo abito svasato mentre Carlisle, Edward e Emmett (il quale aveva portato anche due pon-pon da cheerleader per il tifo) erano abbigliati con lo smoking di circostanza. Poco dopo si unirono a noi Renesmee e Jacob: lei, una bambola di porcellana di qualche facoltosa bambina, lui tutto scarmigliato, jeans e camicia bianca. Jake era madido di sudore: «Diamine Bella! Credo che dovremmo aggiungere la camomilla nella dieta di Nessie: da Charlie non abbiamo fatto altro che correre su e giù per le scale per giocare a nascondino.» Renesmee si ribellò: «Non è vero Jake! A nascondino c’abbiamo giocato solo un po’!!! » Risi: «Mi sa proprio, lupo gigante, che dovrai cambiare i tuoi ritmi per star dietro a mia figlia!» Lei di rimando si illuminò come il sole: «Visto Jake?! La mamma mi ha dato ragione: sei un buono a nulla cagnaccio pelandrone!» «Davvero? Vuoi vedere come ti mangio in un boccone?» E cominciò ad ululare. “Chissà quale tra i due è il vero bambino” pensai scuotendo la testa. Comunque, in meno di mezz’ora, ci eravamo tutti accomodati nelle poltrone o sui divani del salotto, disposti intorno al pianoforte in modo da creare un “anfiteatro”. Finalmente Alice e Jasper si fecero vivi: lei semplicemente stupenda nel suo vestito di strass e pailettes nero che richiamava la moda anni 20’, lui, invece, sfoggiava uno smoking con giacca bianca, papillon e pantaloni neri (oltre ai capelli lustri di brillantina). Alice non stava più nella pelle: «Come organizzatrice di questa.. ehm.. Figata (N. B. Autrice: o.O) dichiaro aperta la serata: che vinca il migliore, come si dice in queste situazioni!» Quando scese lo scalino, si avvicinò ad Edward e sussurrò: «Stavolta sei fregato.» Lui si alzò con nonchalance verso il pianoforte, un sorriso angelico stampato sulle labbra: «Alice ti ammazzo: è una promessa.»
«Voglio vedere come fai»
«Non preoccuparti: ci riuscirò. Anche con l’aiuto di Satana in persona.»
«Oh oh.. Andiamo sull’esoterico, eh?»
Si sedette al mio fianco, al posto di mio marito mentre lui faceva un inchino educato nella nostra direzione. «Alice che hai combinato? Ed stamattina sbuffava come una locomotiva.» Dissi. Lei sorrise: «Semplicemente non sono in squadra con lui. In questi anni abbiamo partecipato sempre insieme: lui suonava ed io cantavo. Be’, stasera ho cambiato partito: sono passata al comunismo che propaganda il libero amore.» Le diedi una gomitata: «Stronza, non si abbandonano le persone così.»  Rispose solo: «Shhh! Sta cominciando!» In effetti, l’aria si stava echeggiava del “Requiem- Lacrimosa” di Mozart, in una versione completamente arrangiata da Edward al pianoforte da quella originale (http://www.youtube.com/watch?v=p3nSJF7VV_M ). Era incredibile anche solo guardarlo : le lunghe dita sottili non toccavano i tasti ma li sfioravano di eleganza, la melodia era ricca, complessa ma essenzialmente semplice, aggiunta ad un romanticismo struggente e delicato; e poi la sua fronte liscia e perfetta, libera da qualsiasi sforzo, che partecipava con tutta la sua anima ad un intimo rapimento. Poi, senza che nemmeno ce ne accorgessimo, passò al secondo brano: era la mia ninna nanna (http://www.youtube.com/watch?v=Od-3oxpFWB0). Come resistere a quella musica? Era la sua stessa anima ad essere un ricordo di ore, giorni, mesi, anni passati con lui. Se avessi potuto avrei pianto. Quando smise di suonare ci fu un applauso scrosciante… «Ed dovevi scegliere proprio quella? Lo sai che effetto mi fa.» Gli dissi commossa. Mi baciò e sussurrò sul mio collo: «Bella, io ti amo: niente, nemmeno la canzone più bella del mondo ha un senso senza che tu esista. Esisti e sei al centro di tutti i miei pensieri, di tutte le melodie e di ogni singola nota del pianoforte, del mio pianoforte.» Non seppi cosa rispondere: le sue parole erano lì, gravi e intoccabili, quindi rimasi sulla sua spalla in uno spensierato: «Ti amo anch’io.» Ero talmente assorbita dal momento che non mi accorsi che Rose si era appena seduta sul seggiolino tra il tifo da stadio di Emmett versione cheerleader e i “BUUUU!!!” di Edward. Quello di Rosalie era tutto un altro stile: il suo valzer di Chopin (http://www.youtube.com/watch?v=CyhB3QTzXtM) era elegante, perfetto e sfarzoso come un vestito ricamato d’altri tempi, chiuso in una sala da ballo dove le ragazze volteggiavano e… Alice mi diede una gomitata giocosa per ridestarmi dalle mie fantasie: per un attimo la guardai con occhi vacui, lontani, completamente immersi nell’atmosfera creata da mia sorella e scorsi un risolino vago sulle sue labbra. Mentre mi sembrava di volare, Rose lentamente cambiò accordi e nacque qualcosa di diverso, più introspettivo e malinconico: Alice disse che si chiamava “Time”. “Time” (http://www.youtube.com/watch?v=eTSQKFMwOS4)
 fu un’esperienza ancora più sconvolgente del valzer: in un attimo capii che cosa voleva dire essere strappati a forza dalla propria vita da chi si credeva di amare, di  non poter costruire più né un passato né un futuro e, intanto, egoista, il tempo continuava a scorrere. Quando Rosalie fece il suo inchino era molto più triste, sull’orlo delle lacrime: Emmett le corse incontro e le diede uno spettacolare bacio trai i fischi di ammirazione di Jake. “La bionda” –come la chiamava il mio miglior amico- sembrò dimentica della propria malinconia e gli ringhiò contro dicendo: «Sai come fa un cane a mangiare con i denti rotti?» Il sorriso rimase sul volto di Jacob: «Mi freghi le battute adesso? Comunque devo ammettere che non lo so.» Rose rise maligna: «Può solo usare la lingua.» «Be’, è una cosa normale.» «Tra poco sarà normale anche vedere te costretto a leccare i tuoi denti e il tuo sangue sul pavimento.» Jake era diventato rosso mattone per la rabbia e fece per alzarsi ma una nuvola di tranquillità e pace avvolse la stanza. Rosalie mise il broncio: «Jazz, uffa! Mi hai rovinato il divertimento: se si azzardava ad alzare le mani.. Oops… Le zampe, l’avrei ammazzato…» Jasper la interruppe, sorridendo sardonico: «Oh, sorellina, ma se ce l’hai davanti tutti i giorni! Potresti avvelenargli la pappa quando, a dispetto della sua natura, si ingozza come un maiale. Dico bene Em?» Emmett si scrocchiò le nocche: «Ma poi Nessie chi la sente? Meglio fare le cose tradizionalmente.» Meno male che a quel punto intervenne Alice, ricordando a tutti che si stava svolgendo una gara di musica e non una di pugilato. Dopo quella piccola interruzione, durante la quale Edward cominciò letteralmente a fare i capricci (fu abbastanza curioso vedere Renesmee che lo consolava), la situazione tornò stabile per quanto lo possa essere in una casa di vampiri. Alice e Jasper salirono sul palco, facendo il consueto inchino e strizzando l’occhio ad un Edward schiumante di rabbia ed invidia. Lei si sedette sulla coda del pianoforte come quando ascoltava mio marito suonare: ma stavolta sul seggiolino c’era Jazz, con un sorriso furbo sul viso, gli occhi dall’iride solida, per niente liquida, un infinito, accesi di una strana luce che non gli avevo mai visto. Il silenzio era totale, teso, perché non sapevamo cosa aspettarci da loro: d’un tratto, però, Jasper appoggiò le dita sulla testiera. Il brano era un jazz anni 30’, ritmato, sottile ed ironico che identificai dall’introduzione come “Blue Moon” di Billie Holiday (http://www.youtube.com/watch?v=9LOB_I7sgoI): ma l’emozione più grande la sentii quando Alice attaccò a cantare. Dio, era indescrivibile la voce: acuta, soft, leggera e con un pizzico di un distratto R&B che faceva accapponare la pelle e sentire il cuore nel petto. Il jazz spensierato e romantico sembrava prendere vita in Jasper che suonava senza guardare i tasti, gli in occhi in quelli di Alice: a quel punto vidi l’intensità e toccai con l’anima l’amore. Nella parte in cui avrebbe dovuto esserci il sax, lei si materializzò sul seggiolino e suonarono a quattro mani: note acute e gravi in un solo cuore. Era fantastico tanto che Edward aveva dimenticato il suo broncio e aveva una faccia da ebete e aveva una faccia da ebete mentre Renesmee smise di tormentare Jake e sorrise, sorrise, sorrise. Quando Blue Moon terminò, l’atmosfera cambiò improvvisamente: il jazz si trasformò in quattro accordi tristi, cadenzati. Il brano, disse Edward, si chiamava “Never Was You” e lui non aveva mai visto Alice e Jasper suonarlo (http://www.youtube.com/watch?v=DjYPwg1GXhY). Era una specie di discussione fra loro, un punto interrogativo del loro primo incontro. Le strofe iniziali le cantò, lei, Alice in dolorosa accusa:
 
What do you see behind this smile?
All the lonely tears that I've never shed
I closed my eyes to dream of someday
All my dreams saw was your face
All my dreams saw was your face
 
Ain't it hopeless, ain't it a shame such an empty world to live in today
I'm just no one to everyone, a face in the crowd who don't matter at all
I've built my world around a distant dream
That never came true
And I never had you
 
Poi, dopo una parte strumentale, attaccò Jasper, morbido e profondo, che rispondeva sulla difensiva:
 
I may be lost but I won't cry
Cause I don't need a hand to hold
My dreams keep me warm when I'm cold
So don't you think I'm alone
Don't you think I'm alone
 
Ain't it hopeless, ain't it a shame such an empty world so I'm taking this next train
I'm just no one to everyone, a stranger in town who don't matter at all
I've built my world around a distant dream
That never came true
And I never had you
I've built my world around a distant dream
That never came true
Cause there never was you
 
La conclusione, come l’inizio, fu inaspettata con quei quattro accordi incrociati in maniera diversa, nella continua evoluzione di combinazioni che si era intrecciata e susseguita nel corso della canzone. Tutti applaudimmo estasiati, rapiti, compreso Edward a suo malgrado stupito. Be’, lo stupore divenne di dominio pubblico quando vedemmo Alice e Jasper lasciarsi andare ad un lungo bacio, dolce, intenso, velato di passione in maniera sottile ed elegante, quasi timida. Il silenzio era assoluto e io mi schiarii la voce precedendo una battuta di Emmett: «Ehi! Comunista!» Alice rise con i suoi toni argentini, mentre Mio fratello la guardava accigliato: «Be’ sempre meglio che essere la moglie del dittatore di Forks» Sorrisi, fingendo incredulità: «Chi? Lui?» Dissi indicando Edward. Annuì: «Si il caudillo americano di Chicago.» Lui saltò sulla sedia: «Ma tu sei sposata?»
«Si.»
«E allora dove l’hai celebrato il matrimonio, atea, in uno sgabuzzino del più sperduto comune russo?!»
A sorpresa ribatté Jasper: «Si da il caso che sia meglio sposarsi in uno sgabuzzino da soli che davanti a un Dio in cui non credi e che continui a prendere per il culo con la tua esistenza di dannato.» A mio marito montò subito il sangue alla testa per la vergogna e cercò di alzarsi per picchiare Jasper. Gli inchiodai i piedi al pavimento con i tacchi: «Calma caudillo: non hai ancora sciolto i partiti quindi non roderti il fegato.» Finalmente, dopo quest’episodio sconcertante, Alice e Jazz vennero a sedersi vicino a noi.: a sorpresa Renesmee saltò in braccio allo zio. Era molto strano: infatti, la mia bambina era raramente in compagnia di Jasper ma ogni volta doveva accadere qualcosa di importante che si sarebbe profondamente inciso nel suo piccolo cuore. Così si avvicinò all’orecchio di Jasper e sussurrò: «Zio, come nasce una canzone?» Lui scoppiò a ridere: «Oddio, Nessie: tuo padre non te l’ha mai spiegato?»
«Certo ma delle sue canzoni: è troppo poco, no? Io voglio sapere di tutte!»
«Ok Nes, ma mi sa che vuoi troppo.»
«Perché?»
«Perché una canzone è semplicemente poesia e la poesia non è sempre uguale ma dipende dal vissuto di un momento, di un istante che ha lasciato il segno: per esempio, secondo te, un brano della zia Rose è uguale ad un uno di papà?»
«Be’, sicuramente no, visto che quelli di papà fanno venire la bolla al naso.» Ridemmo tutti in coro, tranne Ed che si rabbuiò per l’ennesima volta. Jazz continuò, cauto e persuasivo: «La diversità è dovuta proprio al fatto che le canzoni sono state scritte in momenti differenti e da cuori altrettanto estranei l’uno dall’altro: Credimi, Nes, quando parlo del cuore della gente.»
«E la tua canzone, zio, quando è nata?» Stavolta fu Alice a rispondere: «Be’, tesoro, mi sa che questa è una storia lunga: addirittura bisognerebbe svelare l’origine del nome “Jazz”.» Jasper s’infastidì, punto sul vivo: «Alice, non ti sembra di esagerare? Quella storia è…» All’improvvisò Emmett piombò sul divano, passando un braccio possente dietro la testa del fratello: «Dai ragazzo: cosa aspetti a raccontare una delle tue tragedie shakespeariane?» Lui sbuffò: «Em non lo so…» Per farla breve, dopo cinque minuti tutti si erano dimenticati della gara e supplicavano Jasper che alla fine acconsentì: «Oh al diavolo! Mettetevi comodi…» Emmett rispose impaziente: «Si si grazie: sto comodo anche a testa in giù Jazz, che squallore.» «Em ma che caz…» Alice gli pestò un piede. «Oh giusto… Nessie… Ok! Cominciamo e basta. Philadelphia, 30 ottobre 1948…»

 
 
 
 
 
 


E giusto sul più bello chiudo il secondo capitolo!!! XD Perdonate ancora una volta la mia ostinazione a voler cimentarmi (o cementarmi) nella prosa e abbiate clemenza per questa FF. Recensite in tanti: criticoni, “positivisti” e neutrali sono tutti ben accetti! L’opinione è il profumo della vita: se leggete, recensite anche un righino piccolo piccolo…
 
A presto,
Rita Whitlock <3 <3

 

 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


          Jazzies’
 





Pov Jasper- Capitolo 3

 


 


LA STRAGE DI PROSTITUTE E SENZA TETTO:
lo squartatore è tornato

 

Philadelphia- Non siamo a Londra tra i vicoli pullulanti di bar degli anni 20’, quando il brutale assassino Jacklo squartatore faceva strage delle donne di malaffare che incontrava, ma proprio a Philadelphia, la nostra città che ha dato i natali a grandi dello sport e del pugilato che adesso si ritrova ad affrontare un’emergenza senza precedenti. Infatti, da due settimane, lontano dall’ordine della City Hall, sta andando avanti un massacro di prostitute e senzatetto che ha molte analogie con il caso di Londra ma presenta anche alcune diversità: le vittime vengono ritrovate nei bidoni della spazzatura, nascoste tra i cespugli o semplicemente abbandonate in strada. Sono disoccupati, barboni alcolizzati, ladri, prostitute, tutti morti per una grave perdita di sangue: i corpi sono irriconoscibili a causa della gola squarciata e dei numerosi tagli presenti in varie parti del corpo. Ieri il numero di casi accertati è salito a venti: Jason Blade, Nettie Blouson, Ronald Geoffrey, Francis R. Broken, Gerald Cutter, Andrew Youngest, Charlotte Ashby e altri ancora non identificati.
La polizia brancola nel buio ma, secondo alcune indiscrezioni, l’ipotesi più accreditata sarebbe quella di un regolamento di conti tra bande per mano di uno spietato ed imprevedibile sicario che agisce sempre nell’ombra, di notte. Comunque, la paura di un nuovo e più temibile Squartatore che ricompone alla meglio i corpi delle sue vittime, è alle stelle: Philadelphia non è al sicuro, questo è l’unico dato certo.

 

                                                                                               R.M. Hawkins

 

 
“Che schifo” pensai. Non c’erano altre parole per descrivere tutto quanto stava accadendo:con “tutto” intendo un sacco di cose, personali ovviamente, e non di certo la qualità dell’articolo che era veramente pessima. The Philadelphia Inquirer non li valeva proprio quei 50 cent, soprattutto perché il suo tono era quello di un pettegolezzo di paese, un tono di falso panico e stupida retorica: in Texas li facevano meglio i giornali. Buttai il quotidiano in uno stracolmo cestino del parco e mi lasciai cadere sulla panchina: ero esausto di quella vita, delle righe che qualcuno iniziava a scrivere appena mi azzardavo a restare in una città per più di una settimana. Ma alla fine ero stanco soltanto di me stesso, solo che non volevo ammetterlo: lo stomaco che si contorce, il veleno in bocca, un urlo, il riso dei miei demoni che mi riempiva la mente mentre soffrivano, si contorcevano e poi… «Ehi, maggiore Jay! Per che cazzo hai buttata quel giornale? C’avrei rifatto il cuscino, sprecone: si vede che il grado te l’hanno regalato!» Risi, finalmente riscosso dalle mie macabre fantasie: «Fred, non fa niente: scommetto che questa bottiglia di scotch ti tirerà un po’ su!» Fred era un barbone. Punto. Il classico senzatetto sporco, lacero, perennemente ubriaco e sulla sessantina, in ogni caso l’unico amico che avevo qui a Philadelphia. Avevo lasciato Peter e Charlotte nell’Illinois, pensando di poter fare a meno del sangue umano, di uccidere e di farmi schifo: ma quel maledetto titolo di giornale mi metteva di fronte al fatto di essere un mostro in preda ad istinti troppo violenti per essere repressi. Certe volte mi meravigliavo (o meglio, il vampiro che era in me si meravigliava) di non aver ancora ammazzato Fred: comunque, in maniera debole e sottile, la mia parte umana (ne avevo mai avuta una?) piangendo pregava un po’ di affetto, un briciolo di speranza. Be’, io e quel barbone eravamo sulla stessa barca e ci facevamo compagnia come i compagni di cella: lui aveva perso il lavoro, per colpa di quella della suocera (non aveva mai digerito il suo matrimonio e poi era lei che orchestrava l’azienda), così l’aveva uccisa a coltellate, beccandosi trent’anni. Quando era uscito, poi, si era ritrovato al verde perché “quella zoccola” della moglie si era risposata e non aveva alcuna intenzione di riprenderselo in casa. A Fred, di rimando, raccontavo “in codice”, per così dire, la mia trasformazione, il mio stato di fuggiasco dalle battaglie: non conosceva il mio nome, particolare importante se hai la polizia in giro come le mosche, e per lui ero soltanto “il maggiore Jay”.
«Oh, Jay, ma dove diavolo hai preso questo scotch? Costa un occhio della testa, avrai dovuto ammazzare qualcuno per averlo.» Mi sentii una fitta allo stomaco: indigestione o rimorso? «Più o meno, Fred.» Mi limitai a rispondere. Rise e, sorso dopo sorso, dopo un po’ divenne completamente brillo: com’era fragile la natura umana e ogni suo singolo istante di vita. Stetti lì ad osservarlo mentre scivolava dolcemente nell’incoscienza, quasi un bambino cullato dalla madre, i solchi sul suo viso distesi, la bocca semiaperta: la pesante bottiglia gli cadde di mano, il petto cominciò ad alzarsi ed ad abbassarsi con regolarità e il suo cuore pompava, lento e regolare, il sangue nella giugulare scoperta. Era una visione malinconica, strana, in un certo senso, che mi ricordava la mia infanzia ad Houston. Ogni sera mio padre si faceva un bicchierino, si sedeva sulla seggiola traballante della cucina e mi parlava a quattrocchi, le sue appoggiate sulle mie esili spalle: «Jasper Whitlock, tu avrai un grande futuro: sei un animo nobile e coraggioso e hai carisma. Abbi sempre il senso della giustizia, figliolo, ma quando incontrerai un maledetto nordista non esitare a sparargli in fronte sulla zucca: uccidere il nemico, chi fa il male, è emanazione diretta della giustizia.»  Sorrisi al ricordo: un sorriso amaro come fiele. Quante volte avevo ucciso un nordista? Mai, nonostante la guerra. E degli innocenti? Sempre. Sospirai perché non sapevo il senso del giusto, non sapevo cos’ero diventato, non sapevo niente. Una campana in lontananza suonò le dieci di sera: si era risvegliato l’istinto, la bestia e le viscere si contrassero. No: per quella sera non avrei ucciso: era ormai troppo sordida la mia coscienza, non poteva sopportare altro, o almeno, altri “peccata mortali”. Così la notte e i tre giorni seguenti passarono a non far niente: far finta di dormire, comprare il giornale, darlo a Fred, parlare con lui del nonsenso della vita, andare in giro per la City Hall e riflettere, soprattutto, guardando il riflesso rosso del mio sguardo nei vetri rotti del quartiere. Cominciai a preoccuparmi quando il cremisi divenne pece: in questo modo nessuno mi avrebbe guardato storto e consigliato colliri per la congiuntivite ma significava anche che il bisogno si era fatto emergenza e non ero tranquillo. Non ci tornai proprio da Fred, al parco abbandonato: la paura di perdere il controllo attanagliava la mia parte umana ed eccitava a morte il mio lato oscuro. Continuai, quindi, a girovagare per i bassifondi di Philadelphia fino a quando non cominciò a piovere: non sarebbe stato per niente normale vedere un uomo camminare sotto la pioggia senza che facesse una piega. Mi sfuggì un’imprecazione e mi infilai in una bettola semideserta, dall’insegna chiamata “Jazzies’”. Appena entrato mi colpì un odore dolce, piacevole e soprattutto inumano che avevo imparato a riconoscere in decenni di combattimenti: in quella stanza c’era un vampiro, magari pronto a saltarmi addosso senza alcun preavviso. M’irrigidii, cercando di capire chi fosse per anticipare l’attacco: il mio sguardo si fermò su una ragazzina minuta, magrissima, la cui pelle diafana contrastava apertamente con lo scarlatto delle sue labbra sottili e con i capelli nerissimi, corti e sparati. Faceva finta di sorseggiare un cocktail e poi, senza farsi vedere dal barista di colore sulla sinistra, lo versava a poco a poco nel vaso di una pianta rattrappita. Furba ma anche divertente. Non sapevo come interpretare tutto questo, così feci qualche passo verso di lei. La sconosciuta si voltò verso di me, la sua voce un concerto di argenti: «Mi hai fatto aspettare parecchio.» Tutti i miei pensieri, i ricordi, la violenza, la notte, Maria, Charlotte, Peter, la morte, il destino, ogni cosa si frantumò sotto un unico eterno suono di una voce. Cenere. Fuoco e cenere, nient’altro senza consistenza specifica di essenze. Solo quelle poche parole: finalmente qualcuno, nell’inferno, aveva parlato e c’era qualcosa che mi bastava, non volevo altro che le ottave squillanti della sua voce. Ormai ero umano. No, no: di più. Non sentivo più la carne, la materia ma, all’improvviso, il mio odio per la condizione di assassino divenne più forte che mai e in un attimo ero solamente spirito. Guardavo la scena dall’altro, con cinica indifferenza: cosa mi aveva fatto quella ragazza, qual era il suo potere?! A giudicare dai risultati era una forza della natura, forse, positiva: non poteva essere così, impossibile! Un vampiro è condannato a marcire nelle cerchie più sperdute della profondità, non conta il suo aspetto o… Jasper, riprenditi: sei un animo nobile e hai carisma, allora controllati! Non avevo mai provato a manipolare le mie emozioni ed infatti non funzionò: basta! Qualunque mostro tu sia vai a quel paese! Non ti permetterò di distruggere questa pace fittizia che mi sono creato! Pensai. Ma poi il fuoco si spense e mi sentii addirittura in colpa per aver desiderato che quella creatura se ne andasse: non poteva farmi del male, lo sentivo. Avevo questa certezza dal profondo del cuore, perché, ad un tratto, mi ero reso conto che quel peso che avevo nel petto poteva essere qualcosa di molto simile ad un cuore: comunque, in quell’istante, una pena e un dolore fortissimi squarciavano la mia coscienza. Non sopportavo quello sguardo limpido, grande e quegli occhi… Un momento: erano dorati, liquidi ed enormi. Ma che diavolo… E la curiosità mi liberò dalla sofferenza: «Mi dispiace signorina.» Dissi, inchinandomi per riflesso.Sentii una mano piccola e liscia sfiorarmi la guancia sinistra, passando proprio su una spaventosa cicatrice: alzai lo sguardo, sorpreso ed interrogativo, verso la ragazza misteriosa. La creatura sorrise mai suoi occhi gialli erano belli e forti come il fuoco: «Non preoccuparti: sei perdonato, Jasper.» E mi offrì la mano. Io non respiravo più: tutto questo era accaduto in meno di dieci secondi, senza nessuna turbolenza d’animo apparente, troppo velocemente per me che avevo vissuto quasi un secolo. “Jasper”… Allora, questo era il suono delle lettere di una parola così torbida, così sudicia, così… Quell’accento lieve ma di una certa timbrica del Mississippi, poteva mai pronunciare le asprezze del Texas? Non lo sapevo ma afferrai quella mano e ricominciai a respirare: mi sentivo il volto rovente tuttavia, ricominciai a vedere seriamente. Tutto era libero dalla sofferenza, o almeno, ebbi la consapevolezza che poteva esserlo in futuro: sentii nascere la speranza. Cos’era la speranza? Il fuoco. Cos’era il fuoco? Il suo sguardo. Cos’era il suo sguardo? La mia unica ancora in un mare di sangue. Cos’era ogni cosa? Era lei. «Mai del tutto.» Risposi con una cadenza malinconica, abbassando gli occhi.
All’improvviso, lei scoppiò a ridere, una risata argentina, fine, di una dolcezza insostenibile, simile a quella di un’armonica a bicchieri. Per la prima volta la guardai, incatenai i miei occhi nei suoi, alla pari per la prima volta, due forze inestinguibili l’una dentro l’altra. Ritornò seria, il profilo sbarazzino ad un tratto fiero, quasi duro ma allo stesso tempo quel nasino all’insù troppo piccolo, come quello di un folletto: era un’armonia di eccessi quella ragazza, un equilibrio ilare che mi fece sorridere con spontaneità, stavo addirittura trattenendo una risata, la prima dal 1863. «Quando ridi sei bellissimo.» Buttò lei in mezzo senza alcun preavviso. Mi alzai dal mio inchino, presi la sua manina piccola e liscia e la sfiorai con le labbra: «Non quanto lei.» Lei la strinse nella mia e si alzò quasi danzando dallo sgabello, con grazia, il corpicino esile e magro (sicuramente letale) che emanava un’aura di vita, di forza di volontà straordinaria. «Se permette, signorina, lei è davvero incantevole quando mi guarda.» Dissi d’istinto. “Jasper! Ah scemo! Le buone maniere! Mai approfittare della confidenza di una donna, soprattutto se è una perfetta sconosciuta! Cosa… Cioè… Come potrà giudicarti?!” Pensai, angosciato. Scacciai subito quest’ultima affermazione: la ragazza non era una sconosciuta. Era una parte di me, me lo sentivo dal profondo del mio cuore ritrovato: lei… Lei mi apparteneva e io appartenevo a lei, era stato già scritto.
D’un tratto le mie fantasie furono interrotte da una porta che sbatteva: io e la creatura ci voltammo all’unisono, ancora mano nella mano. Nella stanza, da un ingresso sul retro, stava entrando una giovano donna di colore, sulla trentina: era alta, slanciata e anche piuttosto avvenente, come se fosse una ballerina. E a giudicare dalla nuvola d’aria calda ed eccitante, la signorina era furiosa: ormai mi stavo riempiendo di rabbia non mia. Conseguenza negativa del mio potere: immagazzinare emozioni e poi scoppiare al posto degli altri come un camion di benzina. «ALICE! Stramaledetta! Dove diavolo hai buttato i testi delle canzoni e la mia chitarra?! Non sai che stasera abbiamo (anzi, avevamo, visto che adesso è andato a puttane…)lo show qui al Jazzies’? È la prima volta che abbiamo un contratto decente dopo quelli da fame di New Orleans e Memphis e tu…» L’altra, ancora tenendomi la mano, le rispose vivace e persuasiva: «Si, si, Shug: okay, devo smetterla di giocare con la chitarra tanto sono una frana. Be’, mi sembra di averla lasciata con i testi nel camerino di Al: vai a vedere. Io adesso esco. » Shug si calmò da sola, senza bisogno del mio aiuto: «Senti, sorella: lo sai che ti voglio un bene dell’anima ma sai anche che i miei nervi non reggono più tanto bene.» La ragazza al mio fianco si fece piccola piccola, dolce: «Ehm… Shug! Ascolta: a proposito di nervi, oggi pomeriggio ho ordinato un po’ di… Ecco… Sherry, bourbon e non è che potresti…?» Intervenne il barista dal fondo della stanza: «Si, piccola: non è che potresti scucire circa 76 dollari e 37 cent?» La giovane di colore impallidì ma prese di malavoglia una mazzetta di banconote dalla tasca interna del vestito e si diresse verso il bancone.
«Anche i 37 cent?»
«Certo: non faccio sconti. “Per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”»
«Stronzo…»
Ritornata indietro, sussurrò all’orecchio della signorina Alice: «Come se non lo sapessi che innaffi la pianta tutti i giorni… Almeno ordina una tanica d’acqua, altrimenti quella poverina sarà completamente ubriaca..» Poi alzò lo sguardo e si accorse della mia presenza: «Ehi, pupo! Tu chi sei? Alice quante volte ti ho detto di stare alla larga dai pugili di Philadelphia? È brutta gente e devi stare attenta: già questo che è un peso medio abbondante con uno schiaffo ti distrugge… E poi per difenderti alla fine ammazzi qualcuno, no? Allora, ragazzo: sei un pugile, non è vero? E di quelli che vincono…» Abbozzai un sorriso: «No, signorina: non sono me ne intendo di sport. Ho sempre fatto il soldato: di quelli che vincono e perdono coscienza.» Shug mi guardò con sospetto: «Sei un dritto, fratello. Mi puzzi ma sembri un gentiluomo… Del Sud?» Annuii: «Texas.» «Ah, l’avevo capito dall’accento, sai? Scommetto che laggiù in Texas con la tua pelle imbiancavano le pareti: comunque tu Alice avete lo stesso colorito. “Dio li fa e il diavolo li accoppia”: be’, trattala bene ragazzo.» E se ne andò sbattendo la porta per la seconda volta. La ragazza scosse la testa: «Oggi non sta molto a posto con il sistema nervoso, Shug:  giornataccia…» «Perché?» Domandai incuriosito. «Oh, un sacco di cose… Dai, usciamo: qui è pieno di spioni.» Si voltò di scatto e disse soave al barista: «Mike! Almeno passa ad asciugare un altro bicchiere: ormai lo hanno capito anche i muri che stai appollaiato lì dietro per farti i cazzi degli altri.» Mike cambiò bicchiere, imbarazzato: «Grazie, sorella.» «Di niente fratello: piccoli trucchi d’esperienza. Ci vediamo.» Ed uscimmo. Aveva smesso di piovere ma la coltre di nubi era ancora nera e spessa: unico lato positivo, ci proteggeva dal sole del tardo pomeriggio. Mi schiarii la voce: «Sa, non credo che una signorina come lei debba esprimersi con certe parole.»
«Quali parole?» Domandò, accigliata.
«”Cazzi”»
«Sei proprio un perfetto gentiluomo! Be’, in fondo hai ragione. Qui la vita è dura, vero, ma mai come quella che hai vissuto tu negli ultimi dieci anni: ogni parola obbrobriosa sarebbe da perdonare a te ma non a me. Hai ragione, ripeto: scusami.» Disse sincera.     
 




Mi scuso anticipatamente per il ritardo nel postare il capitolo ma il fatto è che i miei tempi di scrittura al computer sono ere geologiche '-.- Un ringraziamento speciale va a chi segue la mia storia, cioè a
chacot, jbone_mery, vampilly, nothanks e Scannawine : mi ha fatto molto piacere vedere che a qualcuno interessi la mio prosa noiosa e scontata, il mio gioco preferito per perdere un po' di tempo! Recensite in tanti: criticoni, "positivisti" e neutrali sono tutti ben accetti! Se leggete recensite! A presto,

RitaWhitlock <3


 P.S. Vi lascio con questo manga! *.*



 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Jazzies’

 




Pov Jasper- Capitolo 4
 
“Qui la vita è dura, vero, ma mai come quella che hai vissuto tu negli ultimi dieci anni: ogni parola obbrobriosa sarebbe da perdonare a te ma non a me.” Quell’allusione al passato, al mio passato, mi colpì e mi scosse anche se non del tutto: infatti, non sapendo per l’ennesima volta, quel giorno, il perché di ogni singolo evento, la consapevolezza che quella creatura, l’essere che mi stava di fronte scrutandomi con i suoi occhi enormi e liquidi, fosse in possesso di un mucchio di informazioni si era impadronita di me. Be’, in una semplice espressione, avevo capito che la sapeva molto lunga, la ragazza. Così, le risposi con cautela, sfoderando una delle mie migliori facce da poker: sentivo dal profondo che potevo fidarmi di lei ma il mistero aveva suscitato in me, fin dall’infanzia, prima di tutto diffidenza. «Mi perdoni la mancanza di tatto ma… Che altro sa del mio passato?» Chiesi, forse eccessivamente sospettoso. Si voltò di scatto, puntando il mare del suo sguardo (fino ad un momento prima assorto nella contemplazione di un punto indefinito tra i palazzi) nel mio: «Mi stai per caso accusando di qualche crimine con quel tono?» Disse, indispettita: era la prima volta che vedevo l’ombra dell’ira sfiorarle i bei lineamenti da quando… Ehm… Per così dire… Eravamo insieme. La rabbia dispettosa di un folletto… Difficile non sottovalutarla. «No, no: le chiedo umilmente perdono, signorina, se l’offesa. Il punto è che non capisco, o meglio, la mia razionalità si rifiuta di capire: il cuore (e mi scusi ancora per questo affronto) mi dice che noi siamo l’incarnazione del destino, insomma, c’è qualcosa di immenso dietro di noi e non puramente legato alla casualità, non crede? E poi lei è così… Sicura di ciò che dice: sa il mio nome, quello che ho passato in dieci anni e probabilmente ogni fatto della mia esistenza mentre io sono all’oscuro di tutto. Non le pare un po’ ingiusto? Cioè il sapere di se stessi e della vita degli altri?» Dissi tutto d’un fiato: avevo esagerato e ne ero conscio. Avevo tirato fuori tutta l’indecisione e quel tormento inespresso che mi attanagliava e allo stesso tempo avevo riversato all’esterno tutte le poche certezze in mio possesso sul suo conto. Ma me ne pentii subito: la ragazza s’incupì, il volto d’un tratto scavato, violaceo, quasi nero, sembrava morta per la seconda volta. «Non so niente della mia vita.» Rispose in un sussurro. Il clima emotivo era cambiato radicalmente: c’era una tristezza incombente, un muro di nebbia che uccideva ogni ottimismo, ogni raggio di sole. Mi sentivo male, mi vergognavo di essere stato così stupido ma decisi di intervenire e l’atmosfera migliorò quanto bastava per permettermi di chiedere: «Perché?» Lei rise, una risata amara che faceva accapponare la pelle per la totale assenza di ironia, la risata della morte: «Mi chiamo Alice Mary Brandon. E basta. “Dove vivevo? Chi erano i miei genitori? Quando sono nata? Chi sono? Per quale motivo sono ciò che sono? Che senso ha la vita? E qualcuno mi ha, forse, mai amata?!” Pensi che io la sappia, Jasper? Pensi che io abbia delle risposte? No, no: io non ricordo niente. Il vuoto totale. Una mattina (era inverno, credo) mi svegliai: la notte era passata stranamente senza incubi (chissà come avevo la consapevolezza di averne sognati tanti per anni…), un sonno profondo e tranquillo, quasi come la morte. Ero sdraiata su un letto, o meglio, un materasso senza coperte, senza  cuscino, senza la coscienza d’essere un maledetto materasso, lacero e sporco si un liquido rosso- marrone. Le sbarre erano, in realtà, quelle che mi circondavano: c’erano alcune arrugginite, coperte di sudiciume e polvere che odoravano di chimica, e altre più spesse, intrecciate alle ragnatele davanti ad un buco di finestra, da cui filtrava la pallida luce malata    del mattino. Mi alzai e toccai con il palmo della mano le pareti grezze e grigie, poi la cassettiera di legno, squallida e sola in quel buco di stanza, ed infine le sbarre della porta. Un silenzio mortale. Niente. Pensandoci bene, la mia vita è come quelle quattro mura: un buco senza tempo. Sul piano del mobile, un biglietto candido ma orrendamente profanato dallo stesso liquido di prima: vergato in eleganti caratteri “Perdonami, Alice Mary Brandon. G.L.” (sapevo leggere?! Si…) Seppi inconsciamente che era il mio nome ma non ricordavo perché mi chiamassi così, perché mi trovassi lì e che cosa fosse quel posto. C’era puzza di bruciato ed infatti l’inferriata alla porta era annerita come il muro di fronte. Forse un incendio. La gola mi bruciava, le vene secche e aride come corde che mi tagliavano i polsi: rivoltai la stanza da cima a fondo per trovare dell’acqua ma l’istinto mi diceva che dovevo bere il liquido rossastro. Sangue. Ma ci arrivai dopo due giorni. Urlavo ma nessuno accorreva. Battevo i pugni sul muro, ma nessuno sentiva. Cercai di piangere ma le lacrime non arrivavano.» Ero inorridito. Punto. Completamente svuotato. Alice si interruppe, gli occhi lucidi e lo sguardo in trance come se non fosse accanto a me. «È terribile…» aggiunse poi «… Non provare dolore, essere all’oscuro di tutto e rimanere indifferenti. Come vorrei scavare all’indietro, buttare la libertà che mi ritrovo per stringere tra le mani un affetto, la maniglia della porta di casa, un lenzuolo candido stirato con amore da mia madre e dormire, sognare una volta per tutte un mondo diverso da questo schifo.» Dio… Alice Mary Brandon tu, così piccola, così fragile, così di bell’aspetto come avevi potuto nascondere fino ad allora un simile orrore? Mi sentii stordito, raccapricciato: delle ingiustizie che io avevo incontrato lei non ne era mai stata sfiorata, di quelle a me ignote, invece, ne era rimasta ferita e vinta. Ero completamente inadeguato (come sempre, del resto…), stupido, cretino, un arrogante che aveva saputo prima guardare in fondo al cuore di chi aveva di fronte e poi si era lasciato cullare dall’apparenza, dall’evidente semplicità di restare in superficie. Egoista o egotista? La scelta era più che difficile ma ormai non aveva senso: l’uno o l’altro si erano comportati in maniera riprovevole, se non bestiale. «Mi dispiace, signorina Brandon: sono stato cinico, disgustosamente curioso di ciò che pensava, pur conoscendo le sue emozioni. Ma mi permetta di dire una cosa: chiunque abbia permesso che un’innocente come lei si trasformasse in un’estranea senza la percezione di se stessa, dovrà scontare le pene dell’inferno o per volere del Fato (perché di Dio non ho il diritto di parlare nella mia condizione) o per mano mia. Le do la mia parola che lei sarà vendicata, che la sua vita sarà riscattata: lo giuro sul mio onore.» Dissi con voce rotta, tremante di rabbia e repulsione. Nel mezzo dello sconforto che solcava i suoi lineamenti, le sue labbra si illuminarono di un sorriso mesto, dolce e caldo come l’aria d’estate: «Maggiore Whitlock, non ho bisogno di vendetta e lei non ne ha di altro sangue da versare inutilmente. Jasper, io…» La interruppi con un dito ammonitore a pochi millimetri dal suo profilo: «Shhh… Non mi ricordi i miei peccati nel momento in cui vorrei compierne degli altri: magari, per rimediare alla malvagità altrui con nobiltà e giustizia.» «La giustizia non è morte.» Mi rimbeccò lei. Aveva ragione: gli ideali sopravvivono anche se le civiltà crollano sotto il peso dei secoli. Nel bene e nel male. La ignorai e ripresi: «E non mi ricordi il sangue, soprattutto, perché potrei diventare cattivo: anzi, per punizione le chiedo il permesso di darle del “tu”. Posso?» Stavolta, il timido sorriso divenne un pozzo di felicità e forza d’animo, l’ombra nera che aveva attraversato il suo viso si dileguò come se non fosse mai esistita: «Mi stupisce Maggiore: non sapevo che i gentiluomini fossero in grado di scherzare e lei ne è capace in maniera così sottile e delicata da sembrare un inglese nonostante i suoi modi molto americani. No! Darmi del tu potrebbe ledere questo rarissimo miscuglio. E poi… Potresti scoppiare a piangere o staccarti le braccia a morsi per avermi “mancato di rispetto”, vero?» Be’, almeno ero riuscito a girare il clima emotivo come una frittata: chissenefregava del resto (comprese le mie maniere)? Meglio stare al gioco… «Oh, ma lei mi calpesta signorina Brandon, lei mi distrugge! E io ti saluto Alice!» E allungai il passo verso la direzione opposta. Sentii all’istante la sua manina ficcarsi nella carne e tirare il braccio con foga: «Jasper! Maledetto scemo! Potevi chiamarmi per nome da quando hai chinato la testa: non farne un caso capitale!» Capii dal suo sguardo spaventato che ci era cascata e aveva paura. Paura che rimanesse sola: i miei sensi, cioè, il mio dono mi diceva che quel timore folle l’avrebbe trafitta, dilaniata e uccisa del tutto dopo che l’avevo fatta aspettare parecchio. Tranquillizzai l’ambiente e decisi di rimanere sullo scherzo: «Che dici, sono bravo come attore?» Rimase di sasso e con gli occhi ridotti a fessure disse: «Diciamo che non sei niente male ma io ho l’esclusiva della sorpresa. È incontrovertibile.» Si mosse con grazia, quasi danzando e me la ritrovai alla mia destra: velocissima, non c’era che dire, ma in queste cose il maestro (purtroppo) ero io. Ci trovavamo in uno dei tanti vicoli della periferia, stretto, raccolto e abbastanza lacero e sporco da non insospettire nessuno. «Ti piace ballare, Alice?» Domandai, retorico, senza impedire a me stesso di indugiare sul quel nome abbastanza nuovo alle mie labbra, dolce, sottile, delicato che mi esasperava e mi piaceva alla follia. Alice… «Secondo te?»
«Molto.»
«Allora prendimi, Whitlock.»
E cominciò a danzarmi intorno: in realtà correva, velocissima, ma quando cercavo di cingerla per la vita, afferrarla in qualche modo, mi lasciava stringere il nulla. Lei rideva e io mi irritavo sempre di più: avevo ucciso centinaia di vampiri, chi in ore chi in un secondo, utilizzando l’elemento sorpresa e ora non riuscivo nemmeno a sfiorare una così esile ragazzina (pur sempre un essere soprannaturale, intendiamoci)! Non so per quanto tempo continuammo con la nostra coreografia: poi Alice saltò su una scala d’emergenza mezza arrugginita e, in punta di piedi, fece l’equilibrista sul corrimano. Nonostante sapessi che era impossibile che si facesse male e, ancor prima, che cadesse per la prima volta lo sbalordimento, la confusione, l’estasi e la felicità ce avevo provato fino ad allora svanirono in un buco senza fondo. Mi sentivo perso, come quando una doccia gelida penetra così all’interno della pelle da sentirla scorrere nelle vene e nelle ossa: il mio cervello era estraneo a questa situazione. Che mi succedeva? Poi mi ritornò alla memoria l’immagine del canyon di notte e di tre donne sfiorate dalla luce della luna… Avevo paura, per la seconda volta in centocinque anni, avevo paura. Ma era diverso stavolta: non volevo perdere Alice, allora, perché… Ormai tenevo a lei  come il marinaio all’ancora durante la tempesta, come il poeta alla notte, come il vagabondo alla luce, come la vita alla nascita. Con uno scatto feci un salto di una decina di metri, la cinsi al volo e con lei tra le mie braccia, piccola e leggera, atterrai sull’asfalto. «Non farlo mai più.» Dissi in un sussurro. Lei mi fissava serissima e io di rimando: c’era corrente elettrica tra i nostri sguardi, un’aria di torva sfida. Poi Alice scosse la testa e mi rise in faccia: «Sciocco, come puoi pensare che io possa morire? Sei proprio tonto… Ahahahahahah…» «Non fare la bambina: io… Ho… Paura, credo. Si, cioè… Non voglio che per motivi  così stupidi, senza che ce ne sia una vera ragione, io possa perderti. Preferirei che adesso qualcuno mi fulmini o mi inondi d’acqua, invece di pensare al dolore che proverei se tu non ci fossi.» Dissi, ferito. A volte le parole influenzano la volontà altrui e la materia circostante, allora… PLAFSH! E ci buscammo tutti e due una cascata di acqua sudicia e schiumante di detersivo in testa: alzammo entrambi gli occhi al cielo, lei ancora tra le mie braccia, ma non vedemmo nessuno. Solo le urla sguaiate di una ragazza: «BRUTTO BASTARDO! MI HAI ROTTO LE SCATOLE CON LE TUE BUGIE! QUA DENTRO NON CI RITORNI, HAI CAPITO? VAI A FARE IN CULO TU E LE TUE PUTTANE!!!» E di rimando una voce flebile e implorante la supplicava. Complessivamente dal quinto piano volarono tre secchi d’acqua, due scolpaste, un telefono e quattro valigie. Noi, sotto, schivavamo i colpi e ridevamo come due deficienti, inzuppati dalla testa ai piedi. Ad un certo punto decidemmo di andarcene, anche perché stava per piovere e la nostra situazione sembrava quella di due pesci appena pescati. Rimisi giù Alice: «Senti, che ne dici di venire con me al Jazzies’? Tanto ormai è sera e lo spettacolo inizia tra due ore…» Propose lei. Ci pensai su per qualche istante: non mi sarebbe dispiaciuto restare in compagnia di Alice per un po’ di tempo (anzi…) in quanto poteva essere una buona occasione per dirci tutto ciò che era nascosto dietro i reciproci muri e poi avevo troppa sete per tornare da Fred. Ma questa era anche una valida necessità per non seguire assolutamente il suo invito. «Quanta gente ci sarà?» Chiesi. Lei si fece pensosa: «Sinceramente non lo so di preciso: quando io e Shug andiamo da qualche parte di solito è tutto esaurito ma conoscendo le dimensioni del locale non credo che possano entrarci decine e decine di persone, quindi non preoccuparti.» Feci un sorriso malinconico: «Alice non scherzare: non so per quanto tempo riuscirò a trattenermi su una sedia, schiacciato da un sacco di gente ai lati.» «E chi l’ha detto che devi essere uno spettatore?» Buttò lei in mezzo. Panico da esibizione, ansia e tachicardia figurata. “Cazzo, Jasper, sei nei guai.” «Sul palco?» Azzardai. «Forse.» Mi rispose con un’espressione angelica stampata sul volto. La guardai sconsolato, supplicandola mentalmente di lasciar perdere quell’idea pericolosa. Mi porse la sua candida mano: «Fidati.» E nei suoi occhi, nel fuoco e nella bellezza che emanava, capii che potevo fidarmi davvero. Quando la strinsi eravamo già nel vento.   
  









Ok, ok: lo so. Questo capitolo è abbastanza inutile  ma era troppo lungo per essere attaccato al quinto e poi... Be',un momentino di solitudine tra Alice e Jasper ci voleva, no? ;) Si, va bene, chiudo questa boccaccia una volta per tutte e mi dileguo. Prima, però, un ringraziamento a chi ha messo la storia tra le seguite cioè chacot, jbone_mery, vampilly, nothanks e Scannawine: mi farebbe molto piacere avere una vostra recensione, tanto per capire le impressioni che questo sclero vi ha lasciato. Un bacio e un abbraccio va a Cara_mason Cullen che ha incoraggiato la stesura del capitolo, oltre ai miei più calorosi complimenti per le sue divertentissime storie.  SE LEGGETE RECENSITE!!! Criticoni, "positivisti" e neutrali sono tutti ben accetti! L'opinione è il profumo della vita!!! Oops, dimenticavo... I miei più sinceri ringraziamenti vanno anche a twilight1999, alicetta hale e emanuelapezzella che hanno inserito la storia tra le preferite e a Endless Twilight che l'ha annoverata tra le ricordate! Ragazze, la mia porta è sempre aperta: un commentino piccino mi farebbe molto felice! ^^

RitaWhitlock <3

 

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Capitolo 5
*** AVVISO ***


AVVISO

Avendo preso visione del regolamento del sito, in cui è esplicitamente vietato aggiungere un capitolo fittizio alla storia, ho rimandato la stesura di questo avviso di giorno in giorno. Tuttavia, dopo oltre un mese dall'assenza di pubblicazioni mi trovo costretta a scrivere qualcosa di abbastanza "doloroso" per me ma soprattutto per chi mi segue, recensisce e ancor di più per coloro che hanno inserito la storia tra le ricordate e le preferite: il quarto capitolo di Jazzies' è pronto nella sua versione cartacea (io continuerò sempre e scrivere, eh! ù.ù) ma a causa di impegni odiosamente scolastici (tra cui la traduzione di milioni di frasi dementi come "Lydia puella est" -.-) non ho il tempo materiale per passarlo a computer e cominciare il capitolo 5. La cosa mi fa molto, molto male ma "c'est la vie"! Un abbraccio e un invito a resistere ad oltranza alle fantastiche twilighter che ho incontrato: non cito nessuno in particolare perchè qualcuno potrebbe pensare che io faccia preferenze (quindi le preferenze me le tengo in testa :3) ma a tutte mando un bacione e i miei ringraziamenti! <3 Spoiler? Jasperuccio farà il cattivo ed Alice rivelerà di essere cattiva... Enigmatico? Più o meno ;) Ci rivediamo tra qualche mese, ragazze :'(


L'autrice




P.S. Chiedo venia ad Erika per questa trasgressione ma l'ho ritenuta necessaria come atto di serietà. Saluti.

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