Il riflesso delle lacrime di Loda (/viewuser.php?uid=80392)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Fuori tempo ***
Capitolo 3: *** Senza lacrime ***
Capitolo 4: *** La sete ***
Capitolo 5: *** Ideali di fantasma ***
Capitolo 6: *** L'eroe ***
Capitolo 7: *** Perdizione ***
Capitolo 8: *** Bestie ***
Capitolo 9: *** La realtà nello specchio ***
Capitolo 10: *** Segreto ***
Capitolo 11: *** Doppio ***
Capitolo 12: *** Regina ***
Capitolo 13: *** Maestri di polvere ***
Capitolo 14: *** Scegliere ***
Capitolo 15: *** La leggenda ***
Capitolo 16: *** Isteria ***
Capitolo 17: *** Vittima e oppressore ***
Capitolo 18: *** Assente ***
Capitolo 19: *** D'incanto e d'inganno ***
Capitolo 20: *** Fulgida stella ***
Capitolo 21: *** Dimenticare ***
Capitolo 22: *** Parole magnetiche ***
Capitolo 23: *** Didone ***
Capitolo 24: *** Luna ***
Capitolo 25: *** Catene ***
Capitolo 26: *** In pezzi ***
Capitolo 27: *** Il sole non cambia ***
Capitolo 28: *** All'origine ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
PROLOGO
Sentiva la pioggia scivolarle addosso, e
ogni goccia di pioggia sembrava qualcosa che le si spezzasse dal cuore e che fuggisse
via. Per quanto ancora avrebbe dovuto sentirlo battere quel cuore? Non ne aveva abbastanza? Il suo cuore non ne
voleva sapere di morire davvero, e sentire dentro di sé l’amore e il dolore era
la cosa più orribile. Perché se avesse potuto vivere duemila anni ancora, senza
il cuore, oh sì, l’avrebbe fatto. Ma allora da cosa stava scappando? Non
l’aveva sempre desiderata?
La vera morte…
Correva talmente veloce da non sentire il
terreno sotto i propri piedi, sorpassava alberi, fiumi, case isolate e andava
avanti. Non sarebbero mai riusciti a raggiungerla.
Non voleva dare loro quella soddisfazione,
far pensare loro che avessero vinto. Non voleva lasciare il mondo in mano al
caos più marcio, ma era quello che stava facendo. Stava fuggendo, e stava
lasciando il baratro dietro di sé. Stava fuggendo da lui? La vergogna, era sempre stata un’irresponsabile e lei,
nonostante fosse vecchia di quasi duemila anni, ancora non la conosceva la
saggezza.
Il suo sogno era quello di essere
accettata, un giorno, ma come era possibile essere accettata dopo tutto quello
che aveva fatto?
Il corpo di colui che avrebbero chiamato eroe era caduto a terra, sul caldo
cemento di sangue. E lei era di nuovo la cattiva.
Non era sempre stata lei l’oppressore?
Tutte le cose che aveva fatto… Aveva fatto
anche cose buone, sì, glielo dicevano in continuazione. Ma ora come ora
ricordava solo quelle brutte, quelle malvagie, quelle che la divoravano.
Uccidere
non è abbastanza, Jacque, non è abbastanza per definire quello che ho fatto.
Anche se erano talmente lontane da sembrare
le terribili cose di qualcun altro, era stata proprio lei a compierle.
Si fermò, stanca. Avrebbe dovuto nutrirsi,
altrimenti avrebbe rallentato e la distanza tra lei e loro sarebbe diminuita.
Si buttò per terra, sulle ginocchia.
Lei odiava mangiare.
La pioggia cadeva feroce sulla sua testa e
le impediva di pensare. Era terribile, sembrava che la sua testa potesse
scoppiare da un momento all’altro, come se fosse soprassatura, come se non ci
fosse più spazio per niente. Era tutto occupato, tutto colmo di amore, odio,
ricordi avvelenati che le squarciavano il cuore che si ricomponeva, un pezzo
alla volta, ogni volta, mentre le lacrime, quelle non sarebbero mai più venute
fuori e standosene all’interno di quell’inferno la consumavano, lentamente la
uccidevano.
Si portò una mano al petto mentre un’idea
che aveva sempre avuto ma che la spaventava troppo tornò a galla nel mare
tempestoso della sua mente. Sarebbe rimasta lì, sdraiata tra l’erba e il fango,
sotto la pioggia, che l’avrebbe rasserenata e fatta sentire parte della natura.
Si sarebbe ricordata le cose belle della vita, avrebbe pensato all’unico uomo
che aveva davvero amato e l’avrebbe stretto a sé e l’avrebbe scaldato nel gelo
dei suoi ricordi. Finché non fosse venuta l’alba.
E
lasci tutto così com’è…
Allora avrebbe guardato il sole come se lo
vedesse per la prima volta, avrebbe sentito il suo calore accarezzarle la
pelle, come il calore dell’amore che non voleva dimenticare.
E poi sarebbe bruciata, all’inferno.
Prologo
molto breve, lo so. Non mi aspetto particolari pareri ma spero di aver
dato un piccolo assaggio di quello che questa storia sarà, per
chi vuole proseguire nella lettura il primo capitolo arriverà a
breve :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Fuori tempo ***
Capitolo 1
CAPITOLO I
FUORI
TEMPO
“Hai la faccia di
chi vuole dimenticare qualcosa” scherzò lui, dopo un sorso di birra.
Lei si riscosse e
lo guardò. Non era solo bella, aveva un velo di tremendo e inquietante fascino
poggiato sul viso.
“Cosa?” domandò,
con l’esatta faccia di chi vuole nascondere
qualcosa. Del resto, le cose che nascondi, le vuoi dimenticare.
Eppure dimenticare
doveva essere una cosa da niente, per lei, così giovane.
“Non dimostri l’età
che hai, sai” proseguì lui.
“Mi dicono che
sembro più grande” ribatté la ragazza. Non sorrideva, sembrava stesse sulla
difensiva.
“Non è quello”
insistette l’altro “La tua espressione… è adulta”.
La giovane donna
sbatté le palpebre, come se fosse confusa. Ancora non c’era segno di sorriso o
divertimento sulle sue labbra, che pure dovevano saper flirtare bene, e ciò la
rendeva ancora più intrigante.
Ma lui doveva
pensare al suo dovere, prima di tutto.
“Troppo sofferta
per una ragazza” continuò. Bevve un altro sorso e tornò a fissarla. Oh, si
sarebbe perso in quei suoi meravigliosi e freddi occhi. “Perché non mi racconti
la tua storia, Emily?”.
Germania,
1939
È la tua natura, gli aveva detto. E ora lui
la guardava con gli occhi iniettati di sangue, così rossi e paradossalmente
gelidi, che non riflettevano più il ricordo della sua bambina, e mai più
l’avrebbero fatto.
“Fermati, ti prego” gli sussurrò le sue
braccia.
Una volta era lei a tenerlo così, per
proteggerlo o dannarlo, chissà.
Ma lui aveva quello sguardo cattivo e non
demordeva, e lei sentiva tutte le sue energie scorrerle via, velocemente, come
il sangue che colava da sempre e non si fermava…
“Ehi, Aci, svegliati… Svegliati!”.
Acilia aprì gli occhi nella confortante
oscurità del sotterraneo. Si sentiva tirare per un braccio.
Irritata si voltò e stringendo gli occhi
riuscì a vedere dei lineamenti da bambino.
“Che vuoi, Eike?” sbottò.
Il visetto di Eike si corrucciò. “Ho fame”.
Acilia si guardò intorno. Era stesa sul
pavimento ed era sola con Eike. Jacque non c’era.
Ma
quanto ho dormito?
Quel maledetto la stava trattenendo ancora
una volta nel sonno, la teneva prigioniera dei suoi stessi sogni…
Si ricordò che aveva Eike al suo fianco, e
che aveva fame.
Lo guardò arrabbiata. “Perché vieni a dire
a me che hai fame? Non sono mica tua madre, dov’è Jacque?”.
Jacque era un irresponsabile, non ce
l’avrebbe mai fatta ad allevare Eike da solo, e purtroppo ne era consapevole. E
Acilia si era ritrovata irrimediabilmente un moccioso in più tra i piedi.
“Ha detto che aspettava te per andare”
tentò di difendersi Eike.
L’altra alzò gli occhi al cielo. Sbuffando
si alzò, risalì in fretta la scaletta, aprì la botola e riemerse come ogni sera
dopo un lungo sonno di morte tra i tappeti impolverati di una casa vecchia
ormai da buttare.
Jacque era in piedi, davanti alla finestra
e Acilia lo raggiunse in un attimo.
“Perché non porti Eike a mangiare?” gli
chiese, alzando la testa e guardandolo dritto negli occhi.
Il ragazzo esitò per un momento. “È il suo
compleanno, volevo andassimo insieme”.
Acilia sgranò gli occhi.
Compleanno?
“Oh, Jacque, ma quanto sei stupido”.
L’altro non sembrò offendersi. Guardava al
di là delle spalle di Acilia e lei si voltò, riscontrandosi negli occhi azzurri
di Eike, quegli occhi fanciulleschi che le dicevano che lui ancora non aveva
accettato quello che era.
Acilia neanche ricordava il giorno del suo
– di lei – compleanno, non sapeva neanche quanti anni avesse. “Quanti anni
compi, Eike?”.
Non sapeva se fosse giusto che Eike tenesse
il conto. Jacque avrebbe dovuto impedirglielo, avrebbe dovuto dirgli che non esistevano
più compleanni.
Ma il bambino sorrise, quasi fosse
contento, e le sue guance lisce e morbide si distesero.
“Ventuno”.
Roma,
81
Acilia indossava per l’occasione una stola
ornata da una striscia di porpora sopra la tunica bianca. Mentre la serva la
aiutava a legare stretta la cintura intorno alla vita, provò un moto di stizza.
Poteva benissimo vestirsi da sola, ma quello era un giorno speciale e doveva
essere vestita bene.
“Quali gioielli volete indossare,
signorina?” chiese la serva, dopo aver finito. Si chiamava Decia, era nuova ma
era obbediente e servizievole.
Acilia amava i gioielli, ma non vedeva il
motivo per cui avrebbe dovuto indossarli quella sera. Quella sera Damiano non
ci sarebbe stato, come non ci sarebbe mai potuto essere.
Vedendo che la ragazza esitava a
rispondere, Decia si azzardò a prendere l’iniziativa e aprì il cofanetto dei
gioielli posto sul tavolo. “Questo vi donerebbe tantissimo” disse, estraendo un
nastro ornato di smeraldi “Risalterebbe i vostri occhi e darebbe luce a…”.
“Osi troppo” la zittì Acilia. Decia chinò
il capo mortificata.
Mi dispiace, pensò subito dopo la ragazza,
senza proferire parola. Non voleva comportarsi in maniera troppo molle con la
sua nuova serva. Col tempo poi, una volta che Decia avesse imparato a
rispettarla completamente, avrebbe potuto trattarla con più affetto e l’avrebbe
potuta rendere quasi un’amica.
Fece un passo verso di lei osservando il
nastro che teneva tra le mani.
Una volta l’aveva indossato per uscire con Damiano
e lui, vedendola coi capelli mori intrecciati a quel verde lucente che anche
era nei suoi occhi, era rimasto senza fiato. Al ricordo le venne da sorridere e
sentì il suo cuore farsi un po’ più leggero.
“Va bene” disse, rivolta a Decia, che la
guardò sbigottita “Acconciami i capelli con quel nastro, poi voglio una spilla
sulla stola, in prossimità della spalla, e l’anello con lo smeraldo”.
Mentre sentiva le mani della serva che,
obbedendo prontamente, le prendevano i capelli cercò di farsi forza. Dopotutto
si trattava di resistere ad un’ennesima festa in cui suo padre, suo fratello,
il suo promesso sposo e tutti gli altri uomini presenti avrebbero mangiato e
bevuto fino a scoppiare e a vomitare, mentre lei, la sorella più piccola e loro
madre avrebbero assistito alla scena con dignitosa pietà dando indicazioni agli
schiavi per la pulizia. Solo che quella era la festa per il suo compleanno, e
lei non si sarebbe divertita per niente.
Sentì dei passi veloci e sua sorella
apparve sulla soglia della camera.
“Sono già arrivati quasi tutti gli ospiti”
disse, trafelata.
Acilia alzò gli occhi al cielo. “Lia, non
devi correre per casa”.
“Ma…”.
“Non c’è fretta, Decia deve ancora
acconciarmi i capelli e truccarmi. Non ho intenzione di lasciare a metà
l’opera” disse Acilia, con fermezza. La verità era che voleva rimandare il più
possibile il momento in cui avrebbe incontrato Vito, il suo futuro sposo.
Sentì le mani di Decia smettere di lavorare
e capì che i capelli erano pronti. Senza neanche curarsi di guardarsi allo
specchio per osservare il risultato si voltò verso la serva con gli occhi
chiusi, pronta per il trucco. Sentì subito le mani della serva cospargerle sul
volto quella che sicuramente era biacca mentre Lia brontolava qualcosa sul
fatto che lei odiava quella roba.
Acilia trattenne il sorriso che le stava
nascendo sul volto per evitare di ostacolare le mani di Decia ma subito dopo
qualunque voglia di sorridere le scomparve dalla mente. Sua sorella, che aveva
appena dodici anni, poteva permettersi di fare la schizzinosa e di snobbare le
pratiche femminili ma ancora per poco. Presto la madre sarebbe stata più severa
e il padre le avrebbe trovato un fidanzato, allora lei sarebbe dovuta essere
sempre impeccabile. Un triste destino l’attendeva, ma ancora più triste forse
era quello di Acilia. Acilia sperava che la sorella più piccola non si
innamorasse mai, cosicché le sarebbe stato più facile piegarsi alla volontà del
padre. Lei era fidanzata a Numerio Aemilio Vito, della famiglia Aemilia, da
quando aveva undici anni ma lo conosceva appena e il suo cuore si era
inevitabilmente legato a qualcun altro, a quel Damiano che non avrebbe mai
potuto sposare.
Le mani di Decia si spostarono dalle labbra
e agli occhi e Acilia si sforzò di tenerli chiusi. Ancora qualche istante e
sentì la serva allontanarsi, e lei poté aprire gli occhi. Questa volta si
guardò allo specchio, più per fare un piacere a Decia che per rimirarsi
veramente. Una ragazza dalla carnagione bianchissima, gli occhi verdi cerchiati
di grigio, le gote colorite grazie alla feccia di vino rosso, labbra ridipinte
di ocra e i capelli raccolti su una pioggia di fili lisci, neri mischiati a
smeraldi ricambiava lo sguardo triste e assente che si sentiva pesare sul volto
ogni istante che passava in quella casa. La spilla d’argento si faceva ben
vedere sulla stola e lei capì che non poteva più indugiare.
Guardò Decia che la guardò con comprensione
e fece un inchino, poi si rivolse verso Lia e insieme uscirono dalla stanza
trovandosi nell’ampio porticato che si affacciava sul loro giardino ben curato.
Acilia fu presa per un momento dalla
tentazione di rifugiarsi lì, nel verde, come faceva da piccola, quando lei e il
fratello Spurio giocavano a rincorrersi e si nascondevano dietro le colonne e
le statue.
“Sono nel tablino?” chiese Acilia, riferendosi
agli ospiti.
“Sì” rispose Lia, mentre camminando faceva
attenzione a non pestare la tunica. Non era abituata a portare tuniche così
lunghe.
Si diressero verso l’atrio e scostarono le
tende che lo separavano dal tablino.
Il tablino era la sala dove di solito
ricevevano gli ospiti e difatti li trovò tutti lì, chi impegnato a parlare, chi
impegnato a guardare i dipinti dei loro antenati e gli oggetti di lusso.
Acilia pensava che con tutte le stanze
inutili che avevano era proprio assurdo non poter mai invitare a casa chi
voleva lei.
Fu il padre il primo ad accorgersi di loro.
“Oh!” esclamò, trionfante e ilare “Ecco Acilia Maior e Acilia Minor”.
Lia fece una smorfia, odiava l’appellativo minor, mentre Acilia si sforzava di
sorridere, ringraziando uno per uno gli ospiti che le venivano incontro per gli
auguri.
Il primo fu Spurio e Acilia, vedendolo così
alto e lo sguardo distaccato, provò una stretta al cuore. Ormai stava per
completare il suo percorso di studi alla scuola dei retori e ogni volta che
apriva bocca era peggio che ascoltare un sermone. Quel ragazzino con cui
giocava sempre ormai ostentava superiorità da tutti i pori, e le parlava solo
in rare occasioni. Dopotutto Acilia era una donna, e conversare con le donne
non era poi questo granché.
Dopo Spurio fu il turno del padre Senecio e
poi – Acilia avrebbe voluto sotterrarsi – di Vito accompagnato dai genitori. Si
scambiarono due parole formali, di pura cortesia mentre la signora, entusiasta,
non finiva più di dire di quanto si fosse fatta bella Acilia.
Poi c’erano gli zii, i cugini, altri amici
di Senecio, e ad Acilia già girava la testa. Fu quasi un sollievo quando il
padre propose di mettersi a tavola.
Tutti si avviarono verso l’uscita ed Acilia
rimase indietro con Lia e la madre. Quest’ultima le si avvicinò con sguardo
severo: “Vedi di comportarti bene con Vito e i suoi genitori, e cerca di
conoscerlo e rendertelo simpatico, adesso che ci siamo quasi”.
Acilia la guardò con gli occhi sgranati.
Non aveva fatto niente di male, avrebbe forse dovuto mettersi a civettare? Poi
si rese conto delle parole della madre. Adesso
che ci siamo quasi.
“Volete forse dire che il matrimonio è
vicino?”.
La madre sospirò. “Hai già diciotto anni,
penso tu sia l’unica ragazza di buona famiglia in tutta Roma nubile a diciotto
anni! Non so più cosa inventarmi con tuo padre per rimandare ancora le nozze”.
Acilia sentì il suo cuore sprofondare. La
festa in suo onore stava andando ancora peggio di come si era immaginata. Sua
madre l’aveva sempre coperta, aveva indotto suo padre a posticipare il
matrimonio dicendo che Acilia era interessata al canto, poi al disegno, poi
ancora alla danza. Ma le scuse erano finite e la condanna dei diciotto anni le
era sopra come una spada affilata pronta a calare su di lei.
La voce della madre continuò, crudele,
riducendosi ad un bisbiglio: “Quindi comincia a pensare di dire addio a chi
devi”.
Quelle parole furono come una pugnalata.
Acilia aveva già finito il tempo a disposizione che aveva per godersi la vita,
anzi, doveva essere grata che fosse finito così tardi.
Non riuscì a dire niente e si limitò a
seguire la madre fuori dal tablino, affianco a Lia, che la guardava
preoccupata.
Passarono ancora di fronte al giardino e
ancora Acilia, guardando quel pezzo di cielo sopra il verde, provò il desiderio
di fuggire via, verso un’altra vita. Ma entrarono nel triclino e l’oppressione
si impadronì ancora di lei. Tutti gli ospiti erano già seduti sui letti
disposti lungo la tavolata. Un posto era stato riservato a lei di fianco a
Vito. Acilia si diresse verso di lui con un macigno nel petto. Ricordò le
parole di sua madre: cerca di conoscerlo
e rendertelo simpatico. Si sedette e lo guardò. Non lo aveva mai
conosciuto, magari era un ragazzo simpatico, magari non sarebbe stato male
vivere con lui.
Ma lui non si voltava a guardarla,
impegnato com’era in una conversazione con Spurio sulle tecniche di retorica
più adatte. Ma certo, a lui non interessava niente di lei, come lei di lui,
magari anche lui aveva una fidanzata o un fidanzato segreto, con cui scivolava
dolcemente nella passione ed era costretto a rinunciare a tutto quello per
sposare un’altra persona. E chissà come doveva odiarla.
No, sicuramente non sarebbe stato bello
vivere con lui.
Acilia alzò lo sguardo sugli altri
presenti. Alla sua sinistra c’erano solo donne, alla sua destra solo uomini.
Sentiva le sue cugine parlare di argomenti frivoli, di trucco forse, di
matrimoni. Alla sua destra invece sentiva parlare di arte retorica, di
politica, dell’imperatore Tito gravemente malato.
Suo padre si era steso sul letto a
capotavola, con la pancia ingombrante rivolta verso il tavolo, mentre mangiava
un chicco d’uva dopo l’altro.
Acilia decise di fare uno sforzo con Vito,
dopo aver incrociato lo sguardo eloquente della madre. Tossicchiò, per cercare
di catturare l’attenzione del ragazzo.
Quello non si voltò allora lei decise di
parlare, sentendosi piena di rabbia, forse addirittura sbottò: “Allora, si
hanno notizie sulla salute dell’imperatore?”.
Vito si voltò con aria sorpresa.
“È grave” disse poi, parlando con un lieve
sdegno “Dicono che morirà”.
“Ma è terribile” fece Acilia, sincera. Era
turbata all’idea che un imperatore mite e generoso come Tito morisse per essere
rimpiazzato da chissà chi.
Vito annuì. “Gradirei che non mi
interrompeste più in tal modo” disse poi, voltandosi nuovamente verso Spurio.
La ragazza si sentì come se l’avesse
schiaffeggiata.
Voltò subito lo sguardo altrove e incrociò
quello della madre in cui le parve di vedere quasi una dolorosa rassegnazione e
in quel momento capì che sua madre davvero ci teneva che lei facesse amicizia
col suo futuro sposo.
Gli schiavi cominciarono a portare il cibo
in tavola ma ad Acilia si era chiuso lo stomaco in maniera terribile.
Cominciava a rendersi conto che avrebbe dovuto davvero dire addio a Damiano per
sposare quell’uomo dal naso adunco e pieno di sé. Sentiva un gran vociare, delle risate, i
primi sintomi del vino e le voci cinguettanti delle cugine che ancora parlavano
di matrimoni.
Come
fate a sopportare tutto questo?!
Nella confusione e tra un portata e l’altra
i discorsi degli uomini si fecero sempre più fuori luogo e volgari e quelli
delle donne sempre più timorosi. Il padre, rosso in faccia e sempre più ilare,
faceva commenti indecenti sul loro schiavo greco scatenando le risate generali.
Acilia guardò la madre e la vide a braccia conserte, labbra serrate, il piatto
vuoto proprio come il suo. Era quello il destino che l’attendeva, quello
l’inferno che avrebbe passato, guardare suo marito ubriacarsi, guardarlo
flirtare con gli schiavi, sentire di non valere niente, per tutta la vita.
*
Lo sfortunato uomo che avevano scelto li
stava guardando ammirato.
Era stato Jacque ad incantarlo, e ora
l’uomo era davanti a loro con quello sguardo di adulazione che ogni volta lo
incuteva. Guardò Eike incoraggiante. “Vai per primo” gli disse.
Il bambino si avvicinò alla preda che volse
lo sguardo verso di lui.
“Calmati, non ti agitare” fece Eike,
alzandosi in punta di piedi e costringendo l’uomo a piegarsi verso di lui.
Quello lo assecondò e gli mostrò il collo. Eike si piegò su di lui e lo morse.
L’uomo lanciò un urlo terribile ma dopo pochi istanti si mise a ridere, mentre
il colorito che aveva sul volto cominciava piano piano a sparire. “Basta così”
disse Acilia, dopo un po’, risoluta “Jacque, digli di smettere”.
Jacque obbedì. “Eike, fermati”.
Eike non si fermava e il ragazzo fu
costretto a prenderlo per il colletto della camicia.
“Quando ti dico di fermarti, ti devi
fermare”.
Il bambino si pulì la bocca sporca di
sangue senza replicare. Doveva ancora imparare a controllarsi, Jacque lo
capiva, ma sentiva su di sé lo sguardo severo di Acilia e voleva fare una buona
impressione su di lei, voleva che lei lo considerasse un buon creatore.
Continuò a guardare negli occhi – e ad
incantarlo – l’uomo che, incredulo, si tastava il collo ricoperto di grumi di
sangue con la mano.
Poi Jacque si piegò su di lui, prendendogli
il polso, il battito del cuore si sentiva ancora distintamente e lui si lasciò
andare serenamente all’attizzante odore del sangue che gli stava penetrando con
forza le narici. Un lieve dolore nell’arcata dei denti superiori, qualcosa che
spingeva, la prima volta che gli erano comparse le zanne aveva urlato e cercato
di piangere perché quei denti così lunghi, affilati e orribili non potevano
essere i suoi…
Cercò di colpire la pelle dell’uomo con le
zanne negli esatti punti colpiti da Eike. Non voleva sfigurare ancora
ulteriormente quel collo, non era cattivo, non voleva essere cattivo. Acilia
diceva che erano dannati, come se avessero un orribile marchio sulla pelle e
non potevano fare nulla per cambiare le cose.
Mentre l’uomo urlò di nuovo Jacque succhiò
avidamente e sentì il sangue scivolargli giù per la lingua e la gola. Da vivo
non avrebbe mai pensato che il sangue avesse un sapore così buono, non avrebbe
mai pensato neanche di assaggiarlo.
Sentì il corpo dell’uomo fremere per un
attimo e Jacque lo lasciò andare. Guardò Acilia, era il suo turno, ma lei
scosse la testa. “Morirebbe” disse solo, e sparì in un attimo, probabilmente
alla ricerca di qualcun altro.
Erano in un vicolo stretto, tra due
palazzi. La gente non si sarebbe mai avventurata in un posto simile, con le
storie che circolavano sui vampiri. Probabilmente quello era un ebreo che
cercava rifugio da una SS, aveva pensato Jacque. Avrebbe voluto succhiare il
sangue a quei tedeschi ignobili, l’avrebbe succhiato fino a prosciugarli, e li
avrebbe lasciati, morenti e vuoti, secchi, con l’espressione smunta,
terrorizzata e urlante di chi ha visto un vampiro. Ma Acilia diceva che se
avessero bevuto il sangue delle SS non sarebbero di certo passati inosservati.
Dovevano nascondersi e dovevano farlo bene. Bastava solo qualche prova e un po’
di coraggio dalle persone giuste e sarebbe stata rivolta anche contro di loro.
Eike si stava succhiando un dito su cui era
rimasto del sangue, mentre Jacque ancora teneva sotto controllo la psiche
dell’uomo che aveva offerto inconsapevolmente loro il suo sangue.
“Perché non lo beviamo tutto?” chiese Eike.
Jacque lo guardò sorpreso. “Vuoi
uccidere?”.
“Non è ciò che fanno i vampiri?”.
“Vuoi uccidere?”.
Eike lo guardò, ostinato. “Io non vorrei
neanche succhiare il sangue alle persone, ma ho fame, sempre fame”.
Jacque sospirò, senza sapere che dire.
Cercavano di limitare i danni, per quanto fosse brutto succhiare il sangue
delle persone, ucciderle sarebbe stato peggio, anche se a volte non ne era poi
così sicuro.
“Grazie” disse, rivolgendosi all’uomo “Ora
non ricorderai niente di quello che è successo”.
L’uomo annuì, con un sorriso da ebete e
Jacque continuò: “Quella che hai sul collo è una brutta ferita, faresti meglio
a coprirla quando vai in giro”.
Ancora l’altro annuì. Era sulla trentina,
forte e robusto. Si sarebbe presto ripreso. Li sceglievano sempre corpulenti e
giovani apposta.
“Andiamo a casa” disse Jacque, ancora
attento a non distogliere lo sguardo “prima che si svegli”.
Sparirono entrambi in un soffio, prima di
sentire gli affanni spaventati del giovane di cui si erano nutriti.
*
Acilia si faceva largo tra le persone, il
mantello che la copriva dalle spalle ai piedi. Sentiva i cocci del sentiero
sbattere contro i sandali, aveva voglia di correre e di urlare, ma cercò di
mantenere la calma che le era stata insegnata finché non si ritrovò davanti a
quello che sembrava un gigantesco magazzino. Era lì che abitava la famiglia di Damiano.
Spinse con delicatezza la porta centinata e
si ritrovò nella bottega. Si aspettava di vedere il padre di Damiano dietro il
lungo bancone di pietra invece trovò Damiano stesso, che appena la vide esplose
in un sorriso.
“Aci! Cosa ci fai qui? Non dovevamo vederci
domani?”.
Acilia si avvicinò al bancone. “Devo
parlarti” disse, sentendo un grosso peso sullo stomaco.
La porta si aprì di nuovo e altre persone
avvolte nei mantelli entrarono in uno scalpiccio di sandali.
Damiano assunse un’aria preoccupata. “Ora
non posso, devo occuparmi dei clienti”.
La ragazza sentiva di non poter aspettare
ancora neanche un secondo ma annuì. “Tuo padre?” chiese solo.
Damiano accennò alla scala di legno alla
sua sinistra. “È malato e si sta riposando”.
Una donna dai capelli grigi e il viso magro
si avvicinò al bancone ma Acilia chiese ancora, turbata: “È grave?”.
Il ragazzo scosse la testa frettolosamente
e si rivolse alla signora. “In cosa vi posso essere utile?”.
La donna disse di volere del pane e Damiano
scomparve nel retro.
Acilia si guardò intorno: dietro la donna
c’erano altre due persone. Il suo cuore non avrebbe retto a tant’attesa.
Damiano ricomparve con del pane nero
scaldato e Acilia pensò che era molto diverso dal pane bianco di farina
finissima che lei aveva in tavola tutti i giorni.
Attese pazientemente che il ragazzo servì
tutti i clienti presenti nella bottega. Quando l’ultimo uscì, sentì che stava
per scoppiare in lacrime e Damiano se ne accorse. “Che cosa succede?” chiese,
cauto, con lo sguardo di chi già immaginava.
“Si tratta del matrimonio” disse lei “Non
si può più aspettare”.
Capì che Damiano aveva immaginato bene
quando lo vide sospirare e abbassare lo sguardo. “E tu hai intenzione di
assecondarli, immagino”.
Acilia si sgranò gli occhi. Non si
aspettava una reazione del genere. “Che altro dovrei fare?” disse, sgomenta
“Sono i miei genitori!”.
“Quindi preferisci mollare me piuttosto che
mollare loro” disse l’altro, con lo sguardo duro.
La ragazza si sentì come se le mancasse
l’aria, quelle parole la ferivano profondamente. “Ma come ti permetti… Io non
preferisco affatto, io non ho scelta!”.
“Si ha sempre una scelta!” esclamò Damiano,
alzando la voce.
Acilia pensò improvvisamente a sua madre
come la vedeva a tavola, muta e col volto della rassegnazione, pensò a sua
sorella che ancora non sapeva cosa l’attendeva.
“Noi donne no!” esplose “Non abbiamo mai
una scelta!”.
Vide Damiano deglutire e si accorse che si
stava trattenendo dal piangere. Stava nascondendo il suo dolore dietro la
rabbia.
Ma Acilia non avrebbe sopportato di vederlo
piangere. “Non devi essere triste” disse, con la voce rotta dal pianto “Sono io
quella che soffrirà enormemente, con un uomo orribile accanto che non ho scelto
io, mentre tu potrai innamorarti di un’altra donna e…”.
Damiano la guardò coll’angoscia che
traboccava dagli occhi scuri. “Non mi innamorerò mai di un’altra donna”.
Acilia si portò una mano alla bocca, scossa
dai singhiozzi, mentre sentiva le lacrime percorrerle le guance. Erano le
parole più belle che una donna potesse sentirsi dire, eppure le stavano facendo
male, malissimo, sentiva il suo cuore lacerarsi. Avrebbe forse potuto
sopportare la sua stessa sofferenza, ma quella dell’uomo che amava no,
l’avrebbe uccisa.
“Ti sto chiedendo di fuggire, Aci” continuò
Damiano, con un luccichio tra le lacrime degli occhi “Vieni via con me”.
Acilia lo guardò, stranita.
Lui continuò: “Tuo padre non accetterebbe
mai il figlio di un bottegaio per sua figlia, non so neanche cosa sia la
grammatica” accennò ad un sorriso “L’unica mia possibilità di vittoria è che tu
gli volti le spalle e vieni via con me”.
Fu un attimo in cui Acilia pensò alla
rabbia che avrebbe provato il padre, il disprezzo di suo fratello, il dolore di
sua madre perché non l’avrebbe potuta vedere mai più. Non avrebbe più rivisto
neanche sua sorella.
La testa le girava e il peso allo stomaco
non si era allentano neanche un po’. Damiano aspettava una risposta e lei non
sapeva cosa dire. Non sapeva se ce l’avrebbe fatta, non aveva mai osato tanto
in tutta la sua vita.
La porta si aprì e Damiano volse la sua
attenzione a quel cliente che entrando non aveva idea di quello che aveva
interrotto.
*
Ormai sarebbe sopraggiunta l’alba ed Acilia
era seduta in veranda.
Tra poco sarebbe dovuta andare a stendersi
nel sotterraneo, ma non era stanca. Il vento le accarezzava la pelle e chiuse
gli occhi, consapevole del fatto che quella era la loro ultima notte in quel
posto.
Jacque era seduta accanto a lui, Eike già
era andato a riposare.
Doveva dirglielo.
“Domani ce ne andiamo” disse, senza
preamboli.
Jacque la guardò, visibilmente sorpreso.
“Perché?”.
Acilia continuò a tenere lo sguardo
sull’orizzonte, in attesa del sole.
“La Germania sta diventando un posto
pericoloso, te ne sarai accorto”.
“Sì”.
Ci fu qualche momento di silenzio, poi
Jacque aggiunse: “Qualsiasi posto è pericoloso, sta per scoppiare una guerra”.
Acilia si lasciò sfuggire una risata. “Le
guerre per noi non sono pericolose,
anzi, è per noi il periodo migliore. La gente non sta di certo a pensare
ai vampiri durante le guerre”.
Si rese conto dello sguardo di
disapprovazione di Jacque. Il ragazzo si sentiva ancora attaccato alla sua vita
d’umano, e sentire parlare bene delle guerre non doveva fargli piacere.
“Invece qui
ci sono le SS” continuò Acilia “e quelle scrutano in ogni angolo, sono
insopportabili”.
Jacque non replicò, ma neanche assentì. Una
volta lui le aveva confidato la voglia che aveva di proteggere la gente da
quello squinternato di Hitler. Avrebbe potuto raggiungerlo in un battibaleno,
avrebbe potuto conficcargli le zanne nel collo, ucciderlo in una frazione di
secondo…
Ma i vampiri non potevano interferire nelle
faccende umane, non era giusto e sarebbe stato oltremodo pericoloso. Avrebbero
salvato la vita a tantissime persone, ma, una volta venuti allo scoperto,
nessuno avrebbe risparmiato la loro di vita.
“E dove vorresti andare?” chiese Jacque,
riluttante.
Acilia aveva la risposta pronta.
“Inghilterra”.
Il ragazzo, da bravo francese, fece una
smorfia. “Perché proprio lì?”.
Lei scrollò le spalle. “Non ci sono ancora
stata”.
La verità era che confidava molto
nell’Inghilterra. Era un paese all’avanguardia, e forse un giorno gli inglesi
avrebbero cominciato a temere meno i vampiri e ad integrarli. Sapeva che era
impossibile quanto il sogno di Jacque di fermare i nazisti, ma non poteva fare
a meno di sognare. Se solo i vampiri avessero trovato un altro modo di
nutrirsi…
“Dovrò imparare anche l’inglese” disse
Jacque, sbuffando “Avevo appena cominciato a parlare decentemente il tedesco”.
Acilia rise. “Non è difficile imparare le
lingue, io ne ho imparate tantissime”.
Jacque la guardò scettico e lei continuò:
“Le grammatiche delle varie lingue sono molto simili tra loro, immagino che sia
perché abbiamo tutti lo stesso cervello”.
Il ragazzo era stralunato, ma disse solo:
“Non so neanche cosa sia la grammatica”.
Acilia sorrise, lasciandosi andare a
ricordi lontanissimi. Anche Damiano le diceva che non sapeva cosa fosse la
grammatica, però… il suo volto ormai neanche lo ricordava più.
Sperava stesse bene, lassù, nel cielo, dove
meritava di essere.
Sentì Jacque sbuffare ancora ed alzarsi,
dato che lei non rispondeva più. “Vado a dormire, buonanotte”.
Il cielo si stava colorando di rosa per le
prime luci dell’alba, e anche Acilia si alzò, rassegnata.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Senza lacrime ***
Capitolo 2
CAPITOLO II
SENZA
LACRIME
Jacque era uscito appena era calato il sole
ed aveva comprato il giornale.
Camminava nella via principale di Horfield,
rigido nel cappotto e attento a non urtare nessuno dei passanti che gli
venivano incontro. Ogni volta che incrociava qualcuno gli sembrava lo fissasse
talmente tanto da penetrargli la pelle, ma sapeva benissimo che non era vero.
Era una cosa stupida, nessuno avrebbe capito che era un vampiro solo passandogli
accanto su un marciapiede. Non aveva niente di strano, era uguale in tutto e
per tutto a tutte le persone, solo un po’ pallido, ma d’altronde tutti gli
inglesi lo erano, e chi lo era particolarmente non destava certo clamore.
Acilia diceva che era pericoloso e che era
meglio stare tra la gente il meno possibile, ma Jacque non ce la faceva a
vivere come un eremita, e d’altronde lei non era nemmeno coerente con quello
che diceva. Pretendeva di tenere lui sotto una campana di vetro, mentre di lei
stessa le importava sempre meno.
Jacque rallentò il passo. Si era accorto di
star andando un po’ troppo veloce.
Erano arrivati in Inghilterra settantatré
anni prima, e da allora avevano cambiato spesso città, cercando ogni volta una
casa fuori mano e diroccata.
Settantatré anni prima le cose erano
diverse. La gente credeva ai vampiri quanto ai fantasmi e agli alieni, e
nessuno si sarebbe mai sognato di andarli a cercare. Le persone che si
ritrovavano dei buchi sul collo senza aver nessuno ricordo al proposito sospettava
ma non osava credere, e nascondeva il collo dietro foulard o girocolli per non
essere guardate con occhi strani o interrogate. Negli anni ’80 invece avevano
cominciato a parlarne sui giornali e alla televisioni, c’era sempre più gente
che sosteneva di aver visto dei vampiri o addirittura di essere stata
attaccata, e, la cosa peggiore, venivano trovate persone morte e svuotate.
Jacque aveva seguito ogni cosa, i documentari, le discussioni, i consigli su
come tenerli lontani dalle proprie case, le pubblicità che raccomandavano di
non dare ascolto agli estranei e di non infilarsi in strade buie che negli
ultimi vent’anni avevano riempito ogni canale. Solo una decina d’anni prima
però si era creato un mini esercito della corona, persone che si allenavano
duramente, che venivano pagate fior di soldi, e che andavano a cercare nelle
zone dove c’erano stati degli avvistamenti. Tantissimi uomini valorosi, che
dopotutto Jacque ammirava, avevano perso la vita nel tentativo di scoprire
quale fosse il modo per eliminare i vampiri, immortali ma non invincibili. In
dieci anni solo due vampiri erano passati a miglior vita con un paletto di
legno nel cuore, mentre il conto degli umani che erano stati uccisi,
dissanguati o semplicemente che erano dispersi, Jacque l’aveva perso da tempo.
Lui non biasimava nessuno, gli umani
cercavano di salvare la propria specie, e i vampiri di salvarsi la pelle. Per
quanto aderisse, al contrario di chissà quanti vampiri, al partito di Acilia –
cacciare per vivere, non vivere per cacciare, e soprattutto non uccidere – se si fosse trovato
braccato da un cacciatore di vampiri avrebbe pensato a se stesso.
Tra le autorità dei vampiri non c’era una
voce comune, c’erano vari partiti, ma da circa trent’anni al governo c’era
quello che era stato fondato da Acilia stessa. Le cose erano migliorate, ma non
erano perfette. Del resto, anche se tutti
i vampiri del mondo avessero seguito quella linea non sarebbe certo
cambiato niente. Le persone avrebbero temuto lo stesso i vampiri, non avrebbero
voluto farsi succhiare il sangue, era comprensibile.
Bisognava che gli umani non li temessero
più, questo voleva Acilia, Jacque lo sapeva. Lei voleva che vampiri e umani
convivessero pacificamente, ma era una cosa assolutamente impossibile, lui
glielo diceva spesso e rimaneva basito nel vedere lo sguardo contrariato e
sorpreso di Acilia che gli chiedeva perché.
Perché
noi ci nutriamo di loro, Aci.
Acilia allora abbassava lo sguardo
sconsolato, come se solo in quel momento se lo fosse ricordato.
Jacque non aveva idea di come si sarebbe
potuto risolvere quella guerra tra umani e vampiri, probabilmente ci sarebbe
stata per sempre. Lui era troppo giovane per esprimere un’opinione al riguardo,
forse neanche ce l’aveva davvero.
Arrivato in un punto nascosto, fuori dal
centro del paese, si mise a correre, il giornale stretto sotto il braccio.
Sentiva il vento quasi entrargli in ogni poro della pelle, lo sentiva tra i
capelli castani scomposti, sentiva il profumo dell’erba, il rumore dell’aria
che gli veniva incontro, tutto amplificato.
Si fermò.
Tra gli alberi c’era una casa in mattoni,
come quella dell’ultimo porcellino più furbo che vinse il lupo.
I mattoni però erano anneriti, e nell’aria
c’era un odore di vecchio che forse solo lui riusciva a sentire.
Aprì la porta e trovò Acilia seduta su un
divano logoro, intenta a macchinare col suo cellulare in mano.
Si era decisa a comprare un cellulare solo
da qualche mese e ancora non capiva bene come funzionasse.
Jacque le sedette accanto senza una parola
e spiegò il giornale.
La prima cosa che lesse fu la data. Non
riusciva ad evitarlo: per quanto lo angosciasse, voleva vedere il tempo che
scorreva. Era una sorta di masochismo e fu con una stretta allo stomaco che
lesse 2 gennaio 2012.
Era passato un altro anno.
L’inglese ormai lo masticava bene da
parecchi anni, ma leggerlo era un’altra cosa. Al momento della sua morte, Jacque
era completamente analfabeta anche per quanto riguardava la sua lingua nativa
ed Acilia, nel corso degli anni, gli aveva pazientemente insegnato le lettere
dell’alfabeto, la grammatica, gli faceva leggere i giornali e scrivere dei
dettati. Jacque non capiva perché, ma Acilia mostrava un certo entusiasmo nel
vederlo apprendere. Ormai lui sapeva leggere il francese e anche scriverlo
abbastanza correttamente. Ad Acilia però non bastava, gli aveva fatto leggere
autori classici come Flaubert e Zola dicendo che la letteratura francese non
poteva non essere conosciuta, specie da un francese.
Jacque scorse i primi titoli scritti in
grande sul giornale.
L’inglese era molto più difficile. Non
aveva regole fonetiche precise e non riusciva ad associare in modo immediato
una grafia a un suono.
Più si invecchia più diventa difficile
imparare, gli diceva Acilia. E lui ne aveva più di cento, di anni.
“Leggi ad alta voce” disse Acilia di punto
in bianco, in inglese.
Jacque sospirò e lesse i titoli che aveva
prima assimilato nella mente e la ragazza non ebbe da obiettare.
Lui andò avanti, sfogliando le pagine.
C’era scritto qualcosa a riguardo della crisi, a cui Jacque non importava
molto, ma nella pagina affianco una scritta nera e grande attirò la sua
attenzione.
Capodanno
di sangue: vampire a Londra?
Jacque lesse frettolosamente l’articolo,
senza curarsi del fatto che Acilia gli diceva sempre di leggere ad alta voce.
“Hanno trovato sei morti a Londra la notte
di Capodanno” disse.
Acilia alzò lo sguardo verso di lui, con la
chiara espressione di chi temeva esattamente quello che avrebbe sentito.
Jacque andò avanti, confermando i suoi
sospetti: “Morsi e senza sangue”.
La ragazza sbuffò. “I vampiri hanno
approfittato dei festeggiamenti dei mortali. Migliaia di spuntini che si
aggiravano ubriachi per le strade nel
cuore della notte” disse, tagliente.
Parlava come se i vampiri fossero una
specie a parte, che non li riguardava.
Jacque non sapeva cosa dire.
“Dov’è Eike?” disse dopo un po’.
“È uscito”.
“E non hai fatto storie?” fece Jacque,
risentito. Dopotutto lei brontolava sempre quando lui si assentava da casa per
stare tra i mortali.
Acilia lo fulminò con lo sguardo. “Eike non
mi appartiene”.
Il ragazzo, a quelle parole, che
sottolineavano che alla sua creatrice apparteneva lui solo, si sentiva sempre
irretire, suo malgrado. Acilia era molto bella dopotutto, e lui era un uomo.
Lei si accorse del suo sguardo insistente e
fece una smorfia. “Che c’è?”.
Jacque scosse la testa e si alzò. Aveva
deciso molto tempo prima che avrebbe smesso di farsi trattare male da lei.
Percorse la sala a grandi passi, senza
sapere che dire. Sperava che Eike tornasse presto, non gli piaceva molto stare
da solo con Acilia. La sala era ampia, c’era un solo divano e vari quadri che
avevano chissà quanti anni. E soprattutto c’era un sacco di polvere.
La porta si aprì e Jacque sentì dei passi
trascinati.
Si girò e vide Eike, un rivolo di sangue che
gli usciva dall’angolo sinistro della bocca.
Jacque sgranò gli occhi. “Ma sei matto a
farti vedere così per strada? Pulisciti!”.
Eike lo guardò per un momento senza capire,
poi si strofinò via il sangue con la mano.
Acilia stava guardando la scena, col viso
duro, dal divano. “Spero avrai usato le giuste precauzioni”.
“Oh sì” rispose il ragazzino, gli occhi
grandi che scintillavano di malizia “L’ho morsa in un punto dove non batte il
sole”.
Jacque lo guardò perplesso, provando a
immaginare un ragazzino di dodici anni che rimorchiava una donna adulta. Poi si
rese conto che Eike doveva averla incantata.
“Era sotto incanto vero?” chiese.
“Certo” rispose l’altro.
Acilia si alzò dal divano con
un’espressione indecifrabile sul volto. Si mosse come una furia verso di loro e
Jacque capì che sguardo era, era disgusto e il ragazzo sapeva bene che tutto
quel veleno era per lui soltanto, lui che lei non aveva mai considerato
all’altezza di allevare un vampiro come si deve.
Acilia non aveva nessun diritto di fare
così, e Jacque rimase impassibile al suo sguardo crudele che s’infiltrava sotto
la sua pelle e gli arrivava fino al cuore, se ce l’aveva. Non sgridò Eike, non
mosse un muscolo, e Acilia se ne andò sconfitta.
*
Acilia stava camminando per strada. Era
sera inoltrata ormai, i piedi nei sandali le facevano male, ma lei non voleva
ancora tornare a casa, non finché non avesse preso una decisione definitiva. Se
fosse tornata a casa senza ancora sapere che fare i suoi genitori avrebbero
preso il sopravvento su di lei, lo sapeva bene. Avrebbe guardato sua sorella e
sua madre e non avrebbe avuto il cuore di separarsi da loro.
Ma come poteva ora separarsi da Damiano?
Il giorno prima lui le aveva chiesto di
scappare insieme. Ma che cosa avrebbero potuto fare insieme, loro due? Dove
sarebbero potuti andare?
Tentò di immaginare le due prospettive di
vita. Una insieme a Vito, in una casa bellissima, con bei vestiti, con dei
servi, con un futuro stabile davanti a sé. Una insieme a Damiano, e non sapeva
altro. La vita che avrebbe vissuto con Damiano era imprevedibile, sarebbe stata
fuori da ogni schema, ma solo una cosa contava, che lui e lei fossero insieme e
quando ci pensava le sembrava che il cuore le scoppiasse di gioia.
Aveva già vissuto diciotto anni della sua
vita soffocata dalle abitudini e dalle imposizioni, ma se avesse sposato Vito
sarebbe stato tutto dieci volte peggiore. Non avrebbe più avuto la sua casa, le
sue cose, sua sorella. Non avrebbe più avuto Damiano.
Le parve che il suo cuore le saltasse un
battito mentre rivedeva davanti a sé l’immagine di Damiano, coi suoi folti
capelli castano chiaro, lucenti, i suoi occhi scuri, i lineamenti marcati, le
spalle robuste, le mani forti di chi era abituato a lottare per ottenere
qualcosa. Lo vide mentre tendeva quella mano verso di lei, chiedendo anche a
lei, per una volta, di lottare.
Si dovette premere una mano sul petto
perché le mancava l’aria e in quel momento seppe che quella era la sua
decisione, quella che sentiva ribollire nello stomaco, quella che cercava di
risalire per la gola bloccandole il respiro.
Strinse i pugni. Sarebbe tornata a casa,
avrebbe chiesto a Decia di prepararle dei vestiti mentre lei prendeva in
disparte Lia per dirle addio…
Qualcosa le toccò la spalla.
Era talmente concentrata nei suoi pensieri
che quasi urlò per lo spavento e si voltò immediatamente. Un uomo era davanti a
lei e la stava squadrando.
Acilia si guardò intorno a disagio.
La strada era piena di gente, quell’uomo
non poteva avere cattive intenzioni.
“Cosa volete?” chiese lei, cauta.
“Seguimi” fece lui.
Aveva una voce melodiosa e Acilia si
accorse che era anche molto bello.
Portava una tunica bianca lacerata in più
punti, che lasciava vedere due braccia muscolose. Le pelle del viso era molto
chiara, quasi brillante, gli occhi neri e profondi erano come ipnotizzanti.
Acilia non poté fare a meno di seguirlo.
Dopotutto era quella la decisione che aveva preso.
Un momento, si disse, io devo scappare con Damiano,
e questo non è Damiano.
L’incanto si ruppe per un momento e Acilia
si rese conto che stava seguendo quello sconosciuto in una stradina angustia e
piena ai lati di mendicanti.
Si accorse che lui la stava tenendo per
mano.
Si fermò. “Che fate, che volete?” chiese,
tentando di controllare la voce e ritraendo la mano.
L’uomo si voltò a guardarla e di nuovo lei
si perse inspiegabilmente nel torpore dei suoi occhi, con quel caldo colore che
faceva a pugni con la trasparenza del suo volto.
“Come ti chiami?” chiese lui.
Acilia notò che quelli che pensava fossero
mendicanti si stavano avvicinando a loro.
“Acilia” disse, serenamente.
Gli altri stavano facendo qualcosa di
strano. Stavano ansimando, sembravano dei cani.
“Acilia” ripeté l’uomo che l’aveva condotta
in quel posto bagnandosi le labbra con la lingua e avvicinandosi a lei.
La ragazza sentì un tremito che le percorse
il corpo, ma era un brivido di piacere, e fece per avvicinare la sua bocca a
quella dell’uomo.
Ma lui non puntava alla sua bocca, no,
altrimenti non le avrebbe preso saldamente nella mano la mascella protesa e non
l’avrebbe fatta girare scoprendole il collo…
Acilia lo lasciò fare, divertita, ma ben
presto non lo fu più perché qualcosa di terribilmente pungente si infilò nella
sua carne e allora si mise ad urlare, per essere poi ancora più eccitata. Era
una sensazione strana, la testa le girava, sentiva qualcosa di liquido bagnarle
la gola e scendere giù sotto la veste, percorrerle il solco tra i seni. Lo
sentì arrivare all’ombelico e annaspò.
Provava un gran dolore e urlò di nuovo,
mentre sentiva di nuovo qualcosa di affilato tra le carni del suo collo, e
delle labbra, che succhiavano e succhiavano. Le stavano succhiando via l’anima,
e lei si sentiva sempre più debole.
Al suo urlo si unì l’urlo di qualcun altro.
“Camelio!”.
Il bell’uomo che la teneva tra le braccia
si fermò e si voltò verso destra, Acilia lo vedeva tra la nebbia. I suoi occhi
le stavano giocando un brutto scherzo, sembrava che non ci vedesse più… E poi
c’era quel dolore allucinante al collo…
“Marco” biascicò l’uomo chiamato, a denti
stretti. Acilia notò che quelli non potevano essere denti, erano lunghi, ed erano rossi.
“Così la ucciderai” disse Marco avanzando
verso di loro. I cani ora si erano messi a ringhiare.
“È la mia cena” rispose quell’altro “Non si
è mai sentito dire di una cena viva”.
“Sei un ingordo! Ti sei già sfamato
abbastanza, puoi lasciarla andare”.
Acilia si sentì cadere a terra e capì che Camelio
doveva averla mollata. La strada era fredda e dura, ma le parve così comoda che
non si alzò più. No, la verità era che non ci riusciva ad alzarsi.
Girò la testa e notò che delle facce erano
sopra di lei. Erano i cani che aveva sentito latrare e ringhiare, ma avevano
volti umani, bianchi e terribilmente inquietanti.
Si tastò il collo con la mano e sentì
ancora quel liquido appiccicoso. Si guardò la mano e capì che quello era il suo
sangue. Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre si rendeva conto che
faceva fatica a respirare e che, davvero, quella sarebbe stata la sua ora.
Faceva così male…
“State fermi” stava dicendo Marco alle
facce inquietanti “Dovete obbedirmi, compreso te, Camelio”.
Camelio fece una smorfia di disprezzo.
Acilia sentiva il suo cuore decelerare.
Forse lo spavento era passato, o forse semplicemente stava morendo.
Sentì dei passi rimbombare in modo
angustiante nelle sue orecchie, dei sandali entrarono nel suo campo visivo e
capì che qualcuno si stava chinando su di lei. Chiuse gli occhi, non le
importava più niente. Quegli strani esseri che l’avevano attaccata l’avrebbero
finita e lei sarebbe stata libera.
Damiano…
Il cuore riprese dolorosamente a battere,
come se si rifiutasse di spegnersi.
“Cosa vorresti fare?” esplose Camelio “Rubarmi
la cena?! Non ne hai il diritto!”.
Qualcosa, probabilmente due braccia, la
stavano sollevando da terra e poi Acilia sentì solo del gran vento sulla pelle,
i capelli appiccicarsi al viso. Aprì un occhio e non vide altro che cielo, e le
stelle dipinte su di esso si rincorrevano velocissimamente. Capì che era in
movimento, eppure non sentiva neanche il terreno sotto i piedi. Stava volando, sì, doveva essere così, stava
volando in cielo.
Ma poi non vide più nessuna stella e sentì
qualcosa di solido che la raggiungeva dietro la schiena.
Non era in cielo, era appoggiata sulla
terra. Aprì di nuovo gli occhi e vide un volto che non aveva mai visto davanti
a sé. Era un viso pallido dai lineamenti morbidi, che spiccava lì, intagliato
nella notte. Forse era il viso di Marco, l’uomo che l’aveva salvata.
Acilia sgranò gli occhi e prese a respirare
con avidità tutta l’aria che aveva intorno. Era viva, Marco l’aveva portata in
salvo. Però provava ancora un gran dolore e ancora non riusciva a muoversi,
mentre Marco la guardava con quegli occhi strani…
Poi vide spuntare dalla bocca di Marco dei
denti uguali a quelli di Camelio e, mentre sentiva, di nuovo, il suo collo
strapparsi in più punti e mentre riecheggiava, di nuovo, nelle sue orecchie il
suo stesso urlo agghiacciante, capì che per lei era davvero finita.
*
Per Eike il tempo si era fermato a dodici
anni.
Non conservava un ricordo nitido dei suoi genitori,
e neanche pensava a loro con nostalgia. Era stato strappato a loro così presto
e aveva vissuto troppo, troppo, tempo senza di loro per poterli rimpiangere.
Sapere della morte del loro figlio più
piccolo doveva averli distrutti, Eike sperava fossero riusciti ad andare avanti
ma poco importava. Loro dovevano essere morti già da tempo. La vita dei mortali
era breve, fulminea. Eike si sentiva potente al pensiero di essere immortale,
gli sembrava di avere il mondo ai propri piedi, gli sembrava che avrebbe avuto
il tempo per fare qualsiasi cosa. Poi
si ricordava di essere alto un metro e cinquanta, di avere un viso liscio e dai
lineamenti morbidi, si ricordava che non era un uomo.
Invidiava Jacque. A lui era stato dato più
tempo, gli era stato concesso di diventare adulto prima che il tempo si
bloccasse e lo incatenasse in quel corpo, quel corpo cresciuto che sarebbe
rimasto tale e quale per sempre, come prigioniero di un incantesimo di eterna
giovinezza. Invece Eike era prigioniero nella fanciullezza mentre all’interno
di lui niente si era fermato e i pensieri si erano fatti sempre più grandi,
sempre più instabili, sempre più vogliosi. Dentro ormai era un vecchio di oltre
novant’anni, eppure non sentiva stanchezza né saggezza. Non riusciva a capire
come funzionassero le cose all’interno del suo corpo, se pur rimanendo
all’apparenza un dodicenne aveva raggiungo la mentalità di un adolescente
perché ora non raggiungeva la mentalità di un vecchio? Ogni volta era un
tormento, si perdeva nella libidine dei sogni e nello sfogo di lacrime
inesistenti. Avrebbe voluto vedere Acilia nuda, avrebbe voluto toccarla,
stringerla e baciarla. I pensieri galoppavano e non si fermavano. Non avrebbe
mai avuto una ragazza che non fosse incantata e non avrebbe mai goduto davvero,
nel suo piccolo corpo.
Chiuse gli occhi e ripensò alla ragazza a
cui aveva succhiato il sangue poco prima. Si era dimenata e aveva strillato per
il piacere, ma ora non conservava alcun ricordo di lui e se mai se lo fosse
ricordata ne sarebbe rimasta disgustata. Chissà, forse avrebbe voluto anche…
innamorarsi?
Scrutò Jacque, che stava leggendo il
giornale accanto a lui. Acilia se n’era andata, e lui non l’aveva seguita.
“Ti sei mai innamorato, Jacque?” chiese
Eike.
Gli occhi bruni del ragazzo apparvero sopra
la pagina di giornale ed assunsero un’espressione sconcertata. “No” rispose,
secco.
“Intendo, quando eri umano”.
“Che differenza fa?”.
“Magari non te lo ricordi”.
Jacque piegò il giornale e lo buttò per
terra. “Quando ero umano no, non lo so”.
“Che cosa vuol dire non lo so?” insistette
Eike.
L’altro sospirò. “Qualunque storia abbia
avuto, con il passare degli anni ha perso tutta l’importanza che aveva”.
Eike non trovò da ribattere. Allora se lui
avesse avuto il tempo di innamorarsi quando era vivo, a quel punto non gliene
sarebbe importato più niente? Perché sarebbero passati tanti anni, o forse
perché loro stessi erano morti, e i morti non provano sentimenti.
“Perché questa domanda?” chiese Jacque.
Eike esitò. Poi disse: “Pensavo che… che mi
sarebbe piaciuto”.
Il suo creatore aveva uno sguardo
comprensivo, molto di più di quello di Acilia. “Non ti sei perso niente” disse.
Eike non rispose.
Non sapeva se quello che lo legava a Jacque
era affetto vero o solo rispetto impostatogli dal sangue che scorreva dentro di
lui ma sentiva di non averlo mai odiato neanche un secondo da quando l’aveva
morso procurandogli quell’esistenza a metà. Non aveva senso, era consapevole
che sarebbe stato meglio morire. Eppure gli era riconoscente e più guardava la
sua espressione triste più pensava che non era vero che loro non provavano
sentimenti. Dopotutto non erano mica morti, non del tutto. Erano solo
condannati a vivere per sempre, l’immortalità faceva sì che nulla avesse
importanza, e proibiva loro di essere felici o addolorati. Nessuno disse più
niente, finché Jacque non si alzò dichiarando di avere fame.
*
Qualcuno le aveva ordinato di bere ma lei
non aveva capito cosa dovesse bere.
Allora aveva sentito della pelle tra le
labbra e qualcosa infilarsi sulla sua lingua e lei aveva succhiato con avidità
tutto perché era buono e più ne beveva più si sentiva meglio. Non si era
fermata neanche quando aveva capito che era sangue.
Quel tale poi aveva ritratto il polso
tagliato e lei si era ritrovata col viso sporco di sangue a respirare
affannosamente.
Lo guardò, ancora spaventata, ritrovando a
poco a poco le forze. “Che cosa sei?”.
“Mi chiamo Marco”.
Il suo pallore spiccava nel buio, insieme
agli occhi rossi e i canini terribilmente lunghi, macchiati di sangue. Era una specie
di mostro, e con quelle zanne l’aveva morsa, Acilia se ne rendeva conto a
fatica. Era terrorizzata, sentiva tutto il suo corpo tremare.
“Hai capito cosa intendo” disse lei, con
voce fioca, soffocata dal terrore.
“Non so io stesso come definirmi, mi
spiace” rispose quell’altro.
Acilia cercò di capire quella risposta, ma
non ci riuscì. La stava prendendo in giro?
Si pulì la bocca con la mano, sentendo che
stava per vomitare.
Marco vide la sua espressione e disse: “Non
farlo, quel sangue che ti ho dato è la tua unica salvezza”.
Quel
sangue che ti ho dato…
“Mi hai dato da bere il tuo sangue?” disse
lei, allibita, con la nausea che cresceva.
Lui sembrò dispiacersi. “Era l’unico modo”.
Acilia si guardò intorno. Erano in un
vicolo scuro, e lei era in compagnia di un mostro.
Guardò di nuovo Marco ma la paura stava
diminuendo, così come la debolezza che aveva avvolto nel torpore la sua mente.
“L’unico modo per salvarmi?”.
L’altro annuì.
Acilia si rilassò, ma solo per un momento.
Il dolore al collo non si placava.
“Perché mi hanno fatto questo?”.
“Perché avevano fame”.
È la
mia cena. Quell’uomo
che aveva seguito, aveva detto così…
Ma quell’uomo aveva le zanne come Marco.
“Sei un mostro buono?” chiese Acilia, non
capendo. Non credeva all’esistenza dei mostri, forse stava solo sognando.
Eppure se fosse stato un sogno non avrebbe provato tutto quel dolore.
Marco sembrava sorpreso da quella domanda.
“Diciamo che sono meno cattivo di altri”.
Acilia tornò per un momento ad avere paura,
ma poi pensò che se quello strano essere avesse voluto ucciderla l’avrebbe già
fatto. Ad ogni modo voleva andarsene. Quello che aveva davanti era un mostro, e
avrebbe potuto cambiare idea.
“Quindi sono salva?” disse, con la nausea
che si placava e cercando di alzarsi in piedi.
Marco si alzò in un attimo e le tese la
mano per aiutarla.
Acilia esitò, poi gli prese la mano. Era
fredda come la morte.
“Più o meno” disse lui.
La ragazza lo fissò stralunata e per un
attimo pensò di essere ancora sul menù di Camelio, e che lui l’avrebbe cercata
ancora. Il suo cuore prese a batterle forte nel petto per la paura e il senso
di nausea tornò ad affliggerla. L’odore del sangue era forte e si insinuava con
ferocia nelle narici.
“Cosa vuoi dire?”.
Marco la guardava con una strana aria
solenne, ma sembrava esitare, o forse cercava le parole giuste. Acilia capì che
lui non aveva nessuna voglia di dirle quello che stava per dirle.
“La salvezza ha un prezzo”.
“Mio padre ti pagherà profumatamente per
avermi…”.
“Il prezzo è la dannazione”.
Il cuore della ragazza saltò un battito. Ma
lei non comprese, cosa poteva voler dire dannazione?
Marco non parlava e lei si sentiva
paralizzata ancora una volta dal terrore. Gli occhi di lui erano diventati
castani e la guardavano intensamente.
“Non farlo, ti prego” disse lei, sentendosi
vicina alle lacrime, senza neanche sapere a cosa si riferisse.
“L’ho già fatto” disse l’altro.
Acilia si premette una mano sulla bocca
mentre le lacrime presero a solcarle il viso e andavano a mescolarsi col
sangue. “Che cosa… che cosa mi hai fatto?”. Aveva sempre pensato di essere
condannata a un’esistenza infelice e piena di sacrifici, cosa poteva esserci
peggio di questo?
“Più il cuore non ti batterà, più lacrime
non avrai…” disse Marco, dopo qualche istante. Sembrava recitasse qualcosa di
imparato a memoria, e lo faceva con un’espressione addolorata, con la voce che
tremava. “La fame incalzerà e il sangue verserai…”.
Acilia lo fissava attonita. Vedeva i suoi
angoli della bocca incurvati, gli occhi quasi colmi di supplica.
Ma lui andava avanti, con la voce rotta da
un pianto che non usciva. “Sposa delle tenebre, nemica della luce, mai ti si
chiuderan le palpebre, mai fu più la vita truce…”.
“Basta…” biascicò Acilia, arretrando
“Basta, non è vero…”.
Ma Marco le si avvicinava, col viso pallido
sempre più deforme, che al chiaro di luna sembrava si stesse per sciogliere.
“Questa notte morirai” continuò, sforzandosi di alzare la voce. E mentre
avanzava alzò le braccia davanti a sé, come se volesse prendere la ragazza .
“Torna al tuo creatore, quando risorgerai!”.
Acilia urlò e senza pensarci un attimo si
voltò e corse. Era stupido, lo sapeva quanto lui era veloce, l’avrebbe
inseguita e ripresa ma lei continuò a correre, tenendo sollevate la veste per
non inciampare, con tutte le forze che aveva, con tutto il fiato che riuscì a
trovare. Non sapeva dove stesse andando, voleva soltanto andarsene da
quell’incubo e dirsi che non era vero niente, che quello era solo un pazzo
furioso.
Ma aveva quei denti…
Mi
hai dato da bere il tuo sangue?
Acilia rallentò il passo, fino a fermarsi e
prese fiato. Marco non l’avrebbe più raggiunta. Se avesse voluto farlo le
sarebbe già piombata addosso.
Mi
hai dato da bere il tuo sangue?
Aveva bevuto il suo sangue, aveva il suo
sangue all’interno, il sangue di quel mostro.
Era
l’unico modo.
Il suo cuore batteva forte e lei si mise
una mano sul petto. Sì, lo sentiva distintamente contro il palmo.
Più
il cuore non ti batterà…
Il cuore accelerò ancora di più il battito
e lei inspirò a fondo. Erano sciocchezze, non sarebbe certo potuta morire così,
all’improvviso, lei stava bene.
Ma si era imbattuta in dei mostri, era
stata morsa, morsa.
Più
il cuore non ti batterà…
Aveva ripreso a camminare senza neanche
rendersene conto. Se fosse stata ferma ancora un solo secondo di più ad
ascoltare il martellare del suo cuore sarebbe impazzita.
Più
il cuore non ti batterà, più il cuore non ti batterà, più il cuore non ti
batterà…
Acilia accelerò il passo sempre di più
mentre le parole di quel mostro senza definizione le percorrevano la mente e il
petto, le facevano salire il cuore in gola, lo facevano battere più forte, ma
non lo arrestavano. Il suo cuore non avrebbe cessato di battere.
Si fermò di nuovo, doveva capire dov’era.
Si guardò intorno nel buio e quasi rivide
davanti a sé il viso di Marco, quel bianco intagliato nella notte e quei denti
ancor più bianchi, e i rivoli di sangue… E il suo sguardo mentre diceva…
Basta,
basta, basta!
Acilia aveva le lacrime agli occhi. Si
strinse tra le braccia per proteggersi dal freddo e da una morte immaginaria
che non poteva arrivare. Continuò a
guardarsi intorno, cercando di concentrarsi.
Più
lacrime non avrai…
Le lacrime le percorrevano ormai feroci le
guance, come fiumi in piena che sgorgavano e annacquavano ogni cosa. Si asciugò
gli occhi, pregando.
“Giove onnipotente,
ti prego…”.
Torna
al tuo creatore quando risorgerai!
“Basta…”.
Alzò di nuovo lo sguardo un pelo più
asciutto e questa volta vide distintamente delle case, delle botteghe che
conosceva. Quella strada non le era nuova, era vicino a casa.
Quasi pianse di gioia. Le sembrava ovvio
pensare che una volta arrivata a casa sarebbe stata al sicuro da ogni pericolo.
Si mise in cammino, col cuore che le batteva ancora vivace nel petto, ma pieno
di speranza.
Marco forse aveva voluto solo spaventarla.
Ora era lontano, che rideva, rideva perché aveva recitato bene la sua parte.
Poi ripensò alla disperazione sul volto mentre le diceva quello che sembrava
non volerle dire…
C’è
riuscito eccome a spaventarmi.
Eppure se davvero era così angosciato e
costernato avrebbe versato almeno una lacrima.
Invece i suoi occhi erano lo specchio della serenità, secchi e asciutti come
panni stesi al sole.
I piedi le facevano male ma Acilia si
trascinò avanti, attenta a non pestare la tunica ormai tutta sporca. Pensò di
andare da Damiano e raccontargli quello che le era capitato ma ormai era tardi,
e i suoi genitori sicuramente erano in pensiero.
Se
però davvero stanotte muori…
Acilia prese a camminare più velocemente,
il cuore ancora più furioso, ignorando i piedi che pulsavano, come se volesse
correre via da quel pensiero.
Per Castore, lei quella notte non sarebbe
morta.
*
Qualcosa nello sguardo di quella ragazza
gli ricordava la notte in cui era stato creato. Gli occhi verdi, e rossi, affamati
di Acilia lo avevano ipnotizzato e lui si era abbandonato a lei. Forse era
tuttora vittima di quell’incantesimo, lo sentiva scorrere in ogni parte del suo
corpo, soprattutto quando lei lo guardava. Quella notte lei l’aveva morso
svuotandolo di ogni forza, poi gli aveva fatto bere il suo sangue e lui, come
un burattino ormai fatto a pezzi, aveva obbedito. Poi era fuggito, spaventato,
mentre lei gli gridava delle cose assurde, delle cose in rima e lui aveva tanta
paura ed eccitazione mescolate insieme…
“Che cosa vuoi?”.
Jacque si riscosse. Si ricordò di essere
davanti ad una preda e si rese conto anche di aver interrotto l’incanto. Gli
occhi della ragazza erano diversi da quelli di Acilia, erano più piccoli e più
scuri, dietro i larghi vetri di un paio d’occhiali dalla montatura nera.
Sembravano più profondi, dopotutto dietro avevano sicuramente un’anima,
quell’anima che in Acilia Jacque non aveva mai potuto vedere. Eppure qualcosa
nella sua espressione le aveva ricordato Acilia, forse l’espressione severa e
autoritaria.
“Che cosa vuoi?” chiese di nuovo la
ragazza, spazientita. Non sembrava spaventata, non si era accorta del pericolo
che correva.
Jacque si guardò intorno. Erano in una via
poco affollata ma qualche persona c’era, qualcuno passava guardandoli
circospetto. E lui non aveva più voglia di incantarla per farsi seguire in un
vicolo buio.
Però aveva fame.
“Scusami” disse, prudente “Ho sbagliato
persona”. Era consapevole di star parlando a denti stretti, consapevole che gli
occhi gli stavano diventando rossi, per la fame.
Forse ne era consapevole anche lei, perché
si era ritratta con uno sguardo angosciato.
“Lasciami andare, ti prego” disse, con la
voce che tremava appena.
Jacque imprecò dentro di sé. Se lei non
avesse detto niente e se ne fosse andata, lui l’avrebbe lasciata andare. Ma ora
si vedeva chiaramente quello che lei pensava, Jacque quasi riusciva ad
avvertire il turbine di pensieri terrorizzati che le girava nella testa, era
sempre quello il turbine della gente, quello che lui non sentiva dentro di sé
già da un pezzo, e ora non poteva più lasciarla andare. Non poteva lasciare
andare un essere umano che sapesse la sua natura, era la legge. Le prese un
braccio, pronto ad attaccare, l’avrebbe costretta a guardarlo negli occhi e a
piangere, mentre a lui non sarebbe scesa neanche una lacrima, e non perché era
felice di fare quello che stava per fare.
“Sono una giornalista” sussurrò lei
all’improvviso, lo sguardo piantato in terra.
Era profumata, Jacque non sapeva quanto
avrebbe potuto resistere ancora. Ma l’idea di ucciderla non gli piaceva, non
aveva mai ucciso una ragazza, bevuta sì, un po’, ma uccisa no.
“Sono una giornalista” ripeté lei.
Jacque capì improvvisamente cosa volevano
dire quelle parole. Fu allora che le prese il viso nella mano costringendola a
guardarlo.
“Seguimi”.
Lei annuì, docile. Era parecchio più bassa
di lui e aveva i lineamenti morbidi. Poteva avere venticinque anni come poteva
averne quindici, Jacque non era molto bravo a capire l’età. Acilia era il suo
unico mezzo di paragone, ma Acilia aveva diciotto anni da duemila anni e la sua
pelle non dichiarava più nessun’età.
La portò in un vicolo, vicino a dei bidoni
della spazzatura.
Jacque sentiva la puzza infiltrarsi in
maniera atroce su per il naso ma cercò di non farci caso. Interruppe l’incanto,
semplicemente distogliendo lo sguardo.
La ragazza respirò come se riemergesse
dall’acqua. Lo fissò stralunata per un attimo poi, all’improvviso, gli diede un
calcio in mezzo alle gambe e si diede alla fuga.
Jacque avvertì una lieve fitta di dolore ma
ormai qualunque tocco gli sembrava una piuma e si voltò in un lampo per
afferrare la ragazza. “Se sei una giornalista sei pericolosa sai” bisbigliò.
Lei tremava, Jacque sentiva il suo corpo
caldo tremare tra le sue braccia. E lui aveva fame…
“Fammi parlare un secondo, ti prego”
supplicò lei.
“Parla” disse lui, senza lasciarla andare.
Per un momento pensò di trasformarla. Non
voleva ucciderla, l’unica alternativa era farla diventare come lui. Erano
quelle le opzioni di un vampiro, uccidere o dannare.
Pensò di morderla, subito, in quel momento,
avrebbe bevuto quasi ogni goccia di sangue – la fame galoppava furiosa – e poi
le avrebbe dato da bere il suo di sangue e il loro sangue si sarebbe mescolato,
se ne sarebbe formato uno nuovo e lei sarebbe stata per sempre legata a lui.
Avrebbero potuto cacciare insieme, fare l’amore insieme, mordersi l’un l’altro,
col loro sangue che ancora, incessantemente, si mescolava…
“Io posso parlare bene di voi” stava
dicendo la ragazza.
Jacque sbatté le palpebre e mollò un po’ la
presa. Avrebbe fatto a lei quello che
Acilia aveva fatto a lui? Non si trattava solo di condannare e dannare, si
trattava di trasformare una persona in un burattino. Quella ragazza l’avrebbe
guardato come non aveva mai guardato nessun altro e lui avrebbe smesso di
sentirsi così insignificante, di sentirsi nelle mani di Acilia. Si sarebbe
sentito potente, e Acilia avrebbe smesso di tormentare i suoi pensieri. La cosa
lo allettava.
“Io non sono contro di voi, posso scrivere
articoli che vi mettano in buona luce”.
Jacque la fissò di nuovo e lei distolse
subito lo sguardo.
Nonostante il freddo la vedeva sudare.
Aveva le guance rosse, la sciarpa intorno al collo allentata per far passare un
po’ d’aria, gli occhi lucidi, li vedeva quasi vibrare, era la sua anima che
stava vibrando…
“Lo sai che qualunque persona nella tua
situazione direbbe la stessa cosa?” fece. Si risentì per un attimo. Come poteva
augurare ad una persona il suo stesso destino? Lei avrebbe finito per odiarlo,
lui lo sapeva bene. Quegli occhi marroni avrebbero riflesso solo gelo, morte,
odio. Proprio come i suoi, proprio come quelli di Acilia, non c’era amore in
nessuno di loro, era sangue, solo sangue, che urlava loro quello che dovevano
pensare, quello che dovevano provare.
La ragazza scoppiò a piangere. “Non so che
altro fare, ti giuro che non ti denuncerò, non ti darò la caccia, io…”.
“Non piangere” disse lui.
Lei lo ignorò, probabilmente non riusciva a
smettere.
“Non lo sopporto” insistette lui “Non
sopporto quando la gente piange”.
Lei si diede una calmata. Voleva
assecondarlo, sicuramente. Da qualunque cosa poteva dipendere la sua vita.
“Non lo sopporto perché io non piango più”
continuò Jacque “Non so più come si fa”.
La ragazza era attonita. Forse non credeva
che i vampiri potessero anche parlare,
oltre che mangiare, o forse non credeva davvero che i vampiri non piangessero.
“E hai voglia di piangere?” chiese.
Fu Jacque che si stupì questa volta. Certo,
nessuno gli aveva mai chiesto una cosa così strana, forse neanche quando era
vivo.
La guardò e di nuovo pensò che non voleva
ucciderla, né trasformarla. La fame però c’era, era quella che l’avrebbe fatto
piangere. “Sì” rispose.
“E se piangessi” continuò l’altra, parlando
piano, come se ponderasse ogni parola “cosa uscirebbe?”.
A Jacque sembrava ovvio, ma forse non lo
era. “Niente”.
Lei annuì, e non disse più nulla. Lui
sentiva ancora il turbine di pensieri che l’avvolgeva, quasi lo vedeva, era
fitto, terribilmente fitto, probabilmente non sapeva se restare, se scappare,
se gridare. Ricordò quando lui, piccolo e fragile umano, era di fronte ad
Acilia, col cuore che batteva furioso i suoi ultimi colpi.
“Lo scriverai davvero quell’articolo?”
chiese.
La ragazza spalancò gli occhi, poi annuì.
Ora o
mai più.
Jacque sapeva che non aveva avuto senso chiederglielo, non ci sarebbe stato
nessun articolo, forse lei neanche era una giornalista. Avrebbe dovuto
morderla. Poi avrebbe dovuto farle bere il suo sangue. Poi mormorare quelle
terribili parole di rito.
Più
lacrime non avrai…
Le avrebbe avute tutte lui quelle lacrime,
le avrebbe versate tutte per lei, per Acilia, per Eike e per chiunque altro.
“Vattene” disse.
“Cosa?”.
Poi lei avrebbe urlato e pianto, sarebbe
corsa a casa ripetendosi che non era successo niente.
“Vattene”.
Lui aveva fatto così la notte della sua
trasformazione, si era buttato sul letto di paglia di una locanda e aveva
cercato di prendere sonno tra le lacrime. Era stato tormentato dai sogni per
tutto il tempo, aveva sognato Acilia ma non solo, era come se la sentisse
dentro di sé e sentirla dentro di sé gli faceva un dannato male. Dopotutto
stava morendo, non poteva non fare male.
La ragazza si era voltata e se n’era andata
di corsa, lasciandolo solo.
Quella notte che ricordava era stata
l’ultima notte in cui aveva sognato, la sua ultima notte prima di svegliarsi
morto.
*
Una volta a casa Acilia si sentì più calma.
Sua madre era piombata furiosa su di lei
chiedendole dove fosse stata. Fu allora che Acilia si ricordò di essere tutta
sporca di sangue. Disse di aver avuto un incidente e sua madre chiamò Decia per
aiutarla a spogliarsi e a mettersi abiti puliti.
Poi Acilia vide Lia. Era nel peristilio,
seduta sotto una colonna. Era una bella serata e lei contava le stelle.
Il suo visetto allegro la rasserenò e contò
insieme a lei.
Era incredibile pensare che solo pochi
minuti prima credeva di morire.
Lia arrivò al numero quarantotto e Acilia
scoppiò a ridere.
“Perché ridi?” fece sua sorella.
La ragazza si strinse nelle spalle. “Perché
sono felice”.
Lia divenne perplessa. “Non devi più
sposare Vito?”
Acilia si sentì per un attimo sprofondare.
Ma quella sera lei aveva preso una decisione, aveva visto la morte in faccia e
l’ultima cosa che voleva era essere sopravvissuta per poter condurre una vita
orribile e degradante. Pensò di dirlo a Lia, ma poi forse si sarebbe messa a
piangere e non voleva rattristarla. Quindi si limitò a dire che non lo sapeva
ancora e a darle il bacio della buonanotte.
Quella notte si agitò nel letto. Aveva
caldo e si sentiva sudare dappertutto. Vedeva continuamente il volto di Marco
davanti a sé, non sapeva se era realmente lì con lei o se lo stava solo
sognando ma era tutto tremendamente reale. Sognò i suoi denti, sentì ancora una
volta male al collo, più sognava, più si agitava, più la ferita si riapriva e
faceva male, forse il sangue aveva anche ripreso a fuoriuscire, non lo sapeva.
Sognò Marco nudo, non sapeva bene perché, ad un certo punto pensò di averlo
nudo accanto a lei nel letto e la sensazione le piaceva. Lo avrebbe abbracciato
e baciato. Poi ripensò a Damiano, pensò che doveva scappare con lui e che non
vedeva l’ora. Ma il male aumentava, sempre di più, e allora tutto si fece
strano, tutto girava, la sua camera girava, il suo letto vagava e lei si doveva
tenere aggrappata per non cadere, perché sotto c’era il fuoco e quindi anche la
morte. Forse cadde perché ad un certo punto si sentì il petto in fiamme e il
caldo si stava facendo insopportabile. Scalciò e annaspò, aveva sete, parecchia
sete. Marco attraversava tutti i suoi pensieri e la sua voce si faceva sempre
più forte, sempre più insistente.
Più
il cuore non ti batterà…
Si pentì di non essere andata da Damiano
perché forse era l’ultima occasione che aveva di vederlo.
Più
il cuore non ti batterà…
Il cuore pulsava furioso, troppo furioso,
sembrava stesse per scoppiare. Forse si sarebbe fermato.
Più
il cuore non ti batterà.
Dopo un po’ sentì di non avere più le forze
e di voler dormire e basta.
Mai
ti si chiuderan le palpebre…
Eppure lei le aveva chiuse, sì, le sentiva
talmente pesanti che le aveva chiuse. Forse le avrebbe chiuse per sempre. Non
ha senso, non ha alcun senso morire ed avere gli occhi aperti, questo fu il suo
ultimo pensiero.
La mattina dopo la prima che entrò in
camera di Acilia ed urlò fu Decia.
Era il terzo giorno prima delle none di
settembre dello stesso anno in cui morì l’imperatore Tito, il giorno in cui
Acilia Maior, figlia di Flavio Acilio Senecio della famiglia Acilia, fu trovata
morta nel suo letto.
Stella Swan,
grazie mille per la tua recensione al prologo, spero tu andrai avanti a
leggere :) Sì nel prologo ci sono delle ripetizioni, hai
ragione, ma era una cosa fatta apposta per dare drammaticità..
ma magari non mi è riuscita XDXD
Nene_92, oh cara grazie mille, spero continuerai a leggere <3
Per
il terzo capitolo ci vorrà un po', sono molto impegnata T_T ma
chi mi segue abbia fede e, soprattutto, mi dia dei pareri :))
Alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** La sete ***
Capitolo 3
CAPITOLO III
LA
SETE
Giorno 1
Non mi
sono ancora capacitata bene di quello che è successo, ma penso di aver
incontrato un vampiro.
Era
davanti a me, aveva gli occhi rossi e uno sguardo strano. Non so perché ho
deciso di scrivere queste parole, suppongo che sia perché ho paura che mi venga
a cercare e che mi uccida. E allora voglio lasciare uno scritto, qualcosa che
testimoni quello che mi è successo.
Ho scritto
giorno 1 in cima al foglio perché è il giorno in cui l’ho incontrato, e il
giorno in cui lui non mi ha ucciso. Non so se mi faccia bene scrivere queste
cose o contare i giorni che lentamente e inesorabilmente trascorreranno da
questo maledetto giorno 1, ma scrivere è l’unica cosa che mi tranquillizza, è
la mia terapia. Riesco a scindermi in tutte le mie parti, il superio è in alto,
vigile, che controlla ciò che scrivo e io mi proietto dentro di lui, e non mi
sento più io.
Non so
perché Vampiro – non so come altro chiamarlo – non mi abbia uccisa, mi ha
lasciata andare e io non ci ho capito più niente. È una sensazione bellissima
quella di poter fuggire da morte certa. Ma ora ho paura, tanta paura.
Mi ha
detto che lui non piange, è stato strano. Sembrava umano mentre parlava. Non mi
voleva far del male, forse. Mi sembra di star scrivendo tanti pensieri alla
rinfusa, la mia mente vaga e non riesco più a tirarla indietro.
Lui aveva
i capelli castani, un po’ più scuri dei miei. Era alto e magro. Il volto era
pallido, dai lineamenti pungenti. Non aveva neanche un filo di barba, sembrava
così perfettamente lindo e pulito, quasi lucente. E non so se è per questo che
mi sembrava quasi un ragazzino, o se lo era davvero quando è morto. Gli occhi
erano grandi, marroni forse. Ma poi sono diventati rossi e io non lo volevo più
guardare, perché avevo capito.
Gli ho
detto che avrei scritto un articolo in favore dei vampiri, ma dubito che mi
abbia ascoltata, dubito che mi abbia lasciata andare per questo motivo. E
allora perché l’ha fatto?
Vorrei
tanto saperlo, forse mi piacerebbe parlargli di nuovo, chiederglielo, ma
rivederlo, risentire quei fanali rossi puntati addosso e risentire il mio cuore
che si accartoccia nel petto, è l’ultima cosa che voglio.
*
Per un momento pensò di essere stata
sott’acqua per tantissimo tempo. Fu così che si sentì quando riprese il
respiro, come se fosse riemersa dall’acqua, un’acqua torbida e gelata.
Intorno era tutto buio e ci mise un po’ a
ricordare cos’era successo quella notte. Era stata attaccata da dei mostri e
lei era stata maledetta. Ma ora era viva e neanche sentiva più dolore al collo.
E se
fosse stato tutto un sogno…
O forse era morta e ora si era svegliata
all’inferno.
Era scomoda. La sua schiena poggiava su
qualcosa di duro che non poteva essere il suo letto. Impiegò qualche secondo a
capire che tutto intorno aveva delle pareti.
Dove
cavolo…
Sentiva distintamente tutto, il legno sulle
sue mani, la puzza di chiuso, la terra che si muoveva sopra la sua testa, la
fame. Non poteva essere morta, eppure era chiusa in una bara, sepolta sotto
terra.
Quando si rese conto di dove era tantissime
immagini le percorsero la mente, Camelio che la mordeva, Marco che la dannava, Lia che
contava le stelle e quel senso di freddo bruciore che provava rigirandosi più
volte nel letto, quel tormento che sentiva dentro di sé e quel fuoco sotto di
lei, dove era caduta…
Urlò con tutto il fiato che aveva e
cominciò a battere furiosamente i pugni sulla porta della bara.
“Aiuto! Aiuto! Tiratemi fuori di qui!”.
Pianse e nel farlo sentì tutta le pelle
tirarsi e deformarsi. Gli occhi rimasero secchi mentre lei picchiava il legno
senza pietà per le sue mani.
Si fermò per un istante.
Più
lacrime non avrai…
Si passò una mano sugli occhi, non c’era
niente, non c’era una sola lacrima.
Come folgorata trascinò la mano dagli occhi
al petto e stette immobile, in attesa. Non sentiva niente ma non si diede per vinta.
Premette con più forza la mano sul suo corpo e si sforzò di non muovere nessun
muscolo. Niente, il suo cuore non batteva.
Annaspò. O credette di annaspare, in realtà
l’aria che c’era in quella bara le bastava, le bastava tutta.
Sono
morta?
Il suo corpo prese a tremare. Come poteva
essere morta, pensare e gridare contemporaneamente?
Non ha senso, si disse, non ha senso, è
solo un incubo, solo un incubo…
Mai
ti si chiuderan le palpebre…
“Non è possibile” fece, con un filo di voce
“Non è possibile!”.
Ritrovò la voce e urlò ancora e ancora,
continuando a picchiare ogni centimetro della sua bara, dove era stata sepolta
e dimenticata, in attesa della decomposizione e allora chissà se sarebbe morta
o avrebbe dovuto aspettare di essere mangiata dai vermi…
“Aiuto! AIUTO!”.
Non si era accorta che il legno che stava
colpendo si stava crepando finché non sentì pezzi di legno e terriccio che le
cadevano sul corpo. Fu veloce a chiudere gli occhi ma continuò a sgretolare
ogni pezzo della bara, come posseduta da un’incredibile forza accompagnata da
un’immensa speranza. Scavò nella terra che le stava sopra, mentre tutto le
cadeva addosso, il mondo le cadeva addosso, un pezzo alla volta, andava a
infilarsi tra i capelli, sulla bocca, le scivolava lungo il corpo ma lei
continuava, tutta sporca, sentendosi sempre più arrabbiata e feroce, come un
animale che tentava la fuga.
Sembrava un’impresa disperata, la terra
avrebbe finito col seppellirla nuovamente e allora ogni tentativo di uscirne
sarebbe stato inutile, eppure ce la stava facendo. La terra le si appiccicava
in faccia, le andava su per il naso, le si poggiava sulle labbra, quasi ne
sentiva il sapore, e sputava, e sputava ma sputando la bocca le si riempiva di
nuovo e allora riprovò a piangere, con gli occhi serrati, e muovendo le mani
frenetiche che sembravano, almeno loro, andare sempre più su. Dopo quelle che
sembravano ore riuscì a ergersi in piedi mentre tutta la terra che aveva smosso
le finiva ai piedi e riempiva la bara senza coperchio. La sentiva scivolare giù
per le gambe, fredda e fastidiosa. Le sue mani erano diventate pugni selvaggi
che colpivano e spingevano continuamente mentre le ginocchia stavano attente a
non vacillare, Acilia non voleva cadere, e ricominciare tutto da capo. A un
certo punto la sua mano toccò qualcosa di diverso che non era terra e la
ragazza si rese conto con gioia che doveva essere aria. La sentiva, così
piacevolmente fresca e pungente sulla pelle, e allora le braccia si mossero
ancora più convulsamente in cerca di quello sprazzo di aria e luce che tanto
agognava. Spinse su tutto il corpo e sentì il vento sulla fronte e tra i
capelli. Si decise ad aprire gli occhi ed era ancora tutto buio, ma questa
volte era notte e non terra. D’istinto respirò a pieni polmoni, poi uscì dal
suolo con l’addome, poggiò le mani per terra e si diede un’ultima spinta per
far uscire le gambe. Cadde a terra stremata e per un po’ rimase lì, godendosi
tutta l’aria che sentiva potentissima, la sentiva fischiare nelle orecchie.
Probabilmente si trovava al cimitero, quindi tornare a casa non sarebbe stato
difficile.
Tornare
a casa.
Acilia ci mise un po’ a capire cosa c’era
di strano. I suoi genitori, tutta la sua famiglia, la credevano morta.
Ma io
sono viva, saranno felici di rivedermi.
Immaginò la paura di vedere qualcuno che
era stato seppellito, e poi immaginò la gioia, quella doveva essere fortissima.
Poi si ricordò che il suo cuore non batteva
e che i suoi occhi non piangevano.
Si ricordò che i morti non potevano tornare
in vita, perché lei era morta. Sua
madre non l’avrebbe mai fatta seppellire se non ne fosse stata sicura.
E allora, lei cos’era?
Si alzò di scatto e si scrollò più terra
possibile dal corpo, poi si guardò. Si guardò le mani, le braccia, le gambe, si
toccò in ogni punto del corpo per capire cosa le era successo, cosa era
diventata, come poteva essere morta e viva allo stesso tempo. Più scrutava ogni
centimetro di lei stessa più si rendeva conto che lei ci vedeva, ci vedeva
abbastanza bene, nonostante fosse buio. Ricordò come aveva sentito bene il
vento sulla pelle, come ancora lo sentiva, come sentiva scricchiolare ogni
sasso e frusciare ogni foglia.
Presa da un vago capogiro si leccò un
braccio. La lingua a contatto con la sua stessa pelle quasi si congelò.
Non sapeva poi se era solo un effetto
giocato dalla luna che splendeva alta e piena sopra la sua testa o se davvero
la sua pelle era così mortalmente bianca. Era sempre stata piuttosto pallida,
come si addiceva a ogni ragazza di buona famiglia, ma ora lo era in maniera
angustiante. Beh, certo, era morta.
Si mise ancora una volta una mano sul
petto, ascoltando, quasi pregando ma di nuovo rimase delusa. Sì, era morta.
Emise un singhiozzo e capì che voleva
piangere.
Forse quello era il regno di Plutone, ma
allora qualcuno non sarebbe dovuto venirla a prendere? Scortarla nel mondo
degli inferi, dirle quale era il suo posto?
Eppure quella su cui era poggiata era
terra, quello era lo stesso cimitero dove erano sepolti i suoi nonni, quella
era la sua città.
“Come posso essere morta…” fiatò “Come
posso essere morta…” alzò la voce “Come posso essere morta!”. Batté i pugni sul
terreno e diede sfogo all’orrore che aveva dentro, che le stava lacerando il
cuore che più non aveva, che le stava percuotendo il cervello che
inspiegabilmente ancora funzionava, urlò, neanche pensava a quello che stava
urlando, neanche saprebbe dire che cosa effettivamente abbia urlato quella
notte. Smise quando la sua voce si incrinò in un pianto che non poteva uscire.
“Che cosa sono… che cosa sono…”.
Chiuse gli occhi e la sua mente fu
attraversata dalle parole di Marco.
Non
so io stesso come definirmi, mi spiace.
Lui le aveva dato da bere il suo sangue,
lui le aveva recitato quella strana formula che sicuramente era magica! Lui le
aveva fatto questo…
Acilia si premette una mano sulla bocca
mentre ricordava tutto quel sangue che aveva perso, tutto il sangue che aveva
bevuto, i denti che Marco aveva, così mostruosi e irreali…
Allora
io sono come lui…
La mano che aveva vicino alla bocca
tremante tastò i denti. Non c’era nulla di strano e lei provò un gran sollievo.
Forse sarebbe dovuta andare a cercare Marco
ma lui stesso e quello che avrebbe potuto dirle la spaventata un sacco. Avrebbe
tanto voluto andare a casa ma non le sembrava una buona idea. Se non poteva
vedere Lia perché l’avrebbe terrorizzata allora forse avrebbe potuto vedere
quella persona che più le mancava e che più avrebbe capito, che non sarebbe
fuggita di fronte al suo ritorno nel mondo dei vivi: Damiano. Al pensiero del
ragazzo che amava Acilia si sentì subito confortata e un coraggio che proveniva
da chissà dove le invase al corpo. Per un momento pensò che ora che tutti la
credevano morta la sua fuga con Damiano sarebbe stata più facile…
Si alzò in piedi e cominciò a camminare. Si
stupì nel constatare che le sue gambe non dolevano e andavano pure spedite. Era
stata chiusa in quella bara per del tempo, non sapeva quanto, e il suo corpo
stava bene.
Avvertiva però una gran fame, ma era del
tutto normale.
Continuò ad avanzare, sicura della strada
che l’avrebbe portata da Damiano. Si sentiva più leggera, davvero forse le cose
sarebbero potuto andare bene, c’era solo quella fame terribile, ma era qualcosa
di perfettamente rimediabile.
Magari Damiano
le avrebbe dato qualcosa da mangiare.
*
Dubris percorreva la sala a grandi passi
pensieroso senza dire niente ed era una cosa che Jacque non sopportava. Non
soffriva la sua stessa presenza in casa loro, come non sopportava il fatto che
Acilia si fosse vestita di tutto punto solo perché sarebbe arrivato
quell’individuo allampanato e rosso di capelli. Chissà, magari se lo portava a
letto, Jacque non ne sarebbe rimasto stupito.
“Secondo te cosa può voler dire?” chiese
Acilia, seduta sul divano.
Si riferiva all’articolo dell’ultima pagina
di un giornale che non leggeva quasi nessuno. L’autrice era una certa Emily
Dixon, una persona che aveva evidentemente deciso di esporsi a rischi enormi
scrivendo un articolo che parlasse bene dei vampiri.
“Rileggilo un po’” rispose Dubris.
Jacque sbuffò piano, senza farsi sentire.
Era un’ora che stavano rileggendo quell’articolo.
Acilia alzò lievemente il sopracciglio ma
obbedì.
“Sono
creature brutte, malvagie e spaventose, così parlano tutti dei vampiri. I
ragazzini li disegnano con una faccia enorme, le sopracciglia marcate, due
lunghe zanne che insieme alla lingua sbucano sotto il labbro superiore. Quei
denti servono per mordere, è così che nasce un vampiro, una persona, uno di
noi, può essere morsa ed ecco che
improvvisamente si trova catapultato oltre la linea di confine tra amici
e nemici senza potere fare nulla. Sembra un racconto di fantascienza ma è
questo che accade. Noi continuamente facciamo la guerra contro noi stessi,
contro i nostri morti. La differenza è che noi possiamo uscire al sole, loro
solo di notte, noi possiamo mangiare gli spaghetti e il gelato, noi possiamo
essere felici oppure piangere, loro possono solo uccidere ed essere tristi,
senza mai poter versare neanche una lacrima.”
Dubris accennò ad un sorriso. “Ha avuto del
coraggio la signora”.
“Non credi ci sia qualcosa sotto?” replicò
Acilia “È un articolo che non ha senso”.
“Potrebbe essere stata obbligata a
scriverlo, da un vampiro”.
“A che scopo?”.
“È buona pubblicità”.
Acilia non sembrava per niente convinta,
Jacque lo capiva.
Lui si chiedeva se quella Emily Dixon fosse
quella stessa ragazza che lui aveva incontrato, qualche giorno prima. Quante
probabilità c’erano che fosse solo una coincidenza?
Senza
mai poter versare neanche una lacrima.
Quello era un chiaro riferimento alla loro
conversazione. Emily voleva che lui
sapesse che quello era il suo articolo. Forse era da qualche parte spaventata e
credeva che con quell’articolo si fosse salvata.
Come
se me ne fregasse qualcosa di quell’articolo.
“O magari è davvero amica di un vampiro”
continuò Dubris.
Jacque non sapeva se dire loro quello che
sapeva. Si sarebbero arrabbiati?
“Se fosse amica di un vampiro” ribatté
Acilia “starebbe ben attenta a non attirare l’attenzione su di sé in questo
modo. La prima cosa che le avranno chiesto sicuramente sarà stata questa: ma
scusa, conosci un vampiro?”.
“Come sei esperta” commentò Dubris “hai
avuto un vampiro per amico da umana?”.
“Forse ho avuto un umano per amico” rispose
l’altra con una smorfia.
Attirare
l’attenzione…
Jacque si sentì per un momento
pietrificato.
“E quindi che dovremmo fare?” chiese,
lentamente. Una giornalista che scriveva pezzi in favore dei vampiri avrebbe
potuto essere considerata una squinternata certo, oppure avrebbe potuto essere interrogata…
Acilia lo guardò, sorpresa che lui avesse
parlato.
“Indagherò sulla faccenda” disse Dubris.
L’altra stava zitta ma continuava a
guardare Jacque con uno strano sguardo fisso e penetrante. Era raro che Jacque
prendesse la parola in conversazioni di quel tipo e Acilia doveva essersi
insospettita.
“Se è stata davvero obbligata da un vampiro
quel vampiro dovrà essere punito, ma sarà come cercare un ago in un pagliaio”
proseguì Dubris, sospirando.
“E se è amica di un vampiro?” chiese
Jacque, lo sguardo di Acilia come una lama sul collo.
“Se è amica di un vampiro, o di più
vampiri” rispose l’altro “dovremo darci da fare”.
“In che senso?”.
Anche Dubris cominciava ad essere sorpreso
dalla curiosità di Jacque. Educatamente rispose: “In quanto prefetto, è mio
compito proteggere tutti i vampiri della mia zona”.
“Quindi i vampiri che Emily Dixon conosce
sono in pericolo” disse il ragazzo, piano.
“Insomma, Jacque” sbottò Acilia “cosa
sai?”.
Jacque la guardò, ansioso. Si sarebbe
infuriata, forse anche preoccupata?
Lui pensava fosse meglio non parlarne ma a
quel punto aveva bisogno di protezione, e solo il vampiro prefetto
dell’Inghilterra poteva dargliela.
“Qualche giorno fa” disse “ho incantato una
ragazza perché mi dovevo nutrire… Solo che, non so cosa sia successo, mi sono
distratto, e lei ha capito cos’ero”.
Acilia si portò una mano alla bocca e
socchiuse gli occhi.
Dubris invece si sedette, ascoltando con
attenzione.
Jacque si fece coraggio e andò avanti. “Lei
ha cominciato a supplicarmi di lasciarla andare, ha detto che se non la
uccidevo lei non mi avrebbe denunciato e che avrebbe scritto un articolo a
favore dei vampiri”.
“E tu l’hai lasciata andare” completò
Acilia, con la voce che tremava appena.
Il ragazzo sentì un impeto di rabbia.
“Cos’altro avrei dovuto fare? Ucciderla? Non sei tu quella che predica la
non-violenza contro gli umani?!”.
Lei sembrò non ascoltarlo. “Come hai potuto
distrarti durante l’incanto?!”.
“Non avresti dovuto lasciarla andare” aggiunse
Dubris.
Jacque lo guardò incredulo, guardò
incredulo entrambi. “Voi dite sempre
di non uccidere!”.
Acilia aveva distolto lo sguardo, ma tornò
a parlare, calma e pensosa: “C’è pur sempre la trasformazione”.
Lui passò lo sguardo veloce su di lei, lo
stesso sguardo sempre più attonito. “E che differenza fa?” fece.
La sua creatrice si mordicchiò il labbro e
Jacque continuò a parlare, cercando una qualche approvazione: “Andiamo, i tempi
sono cambiati! Cosa volete che succeda se un umano oggi vede un vampiro? Sono
in tanti che lo dicono e magari neanche è vero, sono in tanti che…”.
“Se un umano oggi vede un vampiro” lo interruppe bruscamente Dubris “dice ai
cacciatori dove l’ha visto e fornisce loro una descrizione accurata”.
Jacque tacque.
“Io non voglio più creare nessuno” disse
poi a voce bassa.
“Come scusa?” fece Dubris.
L’altro alzò la voce. “Io non volevo trasformarla!”.
Dubris troneggiava sopra di lui, che era
seduto, con uno sguardo che non aveva nulla di compassionevole. “Preferisci
vivere per sempre fuggendo dai cacciatori piuttosto che creare un vampiro?”.
Jacque non sapeva che dire. Lo sapeva che
Dubris aveva ragione, ma lui non se la sentiva di dare vita ad un altro mostro
che avrebbe camminato morto sulla terra dei vivi.
“Preferisci uccidere decine di umani che ti
daranno la caccia piuttosto che creare un vampiro?” stava continuando Dubris
“Preferisci morire piuttosto che…?”.
“Ho capito!” ruggì Jacque, spazientito “Ma
ormai è troppo tardi”.
L’altro scosse la testa. “La troveremo, e
te la porteremo” disse, e a Jacque quasi pareva minaccioso.
Acilia si alzò in piedi di scatto. “Cosa
vuoi che le faccia?” chiese, ansiosamente.
“È ovvio” rispose Dubris, mentre Jacque si
sentiva svuotare dentro di ogni goccia di sangue “voglio che la trasformi”.
La ragazza tentennò, sembrava avere
un’altra espressione rispetto a qualche minuto prima. “Non lo può fare qualcun altro?
Qualcuno della corporazione?” provò.
“Sarà la corporazione che cercherà l’umana
perché non posso permettere che un vampiro semplice – Jacque – corra questo rischio” disse Dubris,
pomposamente “ma non posso chiedere loro di addossarsi la responsabilità di
allevare un vampiro infante per colpa di qualcun altro”.
“Quindi lo deve fare Jacque” concluse
Acilia, parlando lentamente.
“È bene che si assumi le sue
responsabilità”.
A Jacque sembrava di stare per impazzire.
Non aveva mai provato tanto odio per Dubris.
“Ma è solo un ragazzo” tentò di nuovo la
sua creatrice.
“È già diventato creatore mi pare” ribatté
il prefetto “è perfettamente in grado di darci un altro vampiro”.
Certo che sono in grado, pensò Jacque con
disprezzo, è che non voglio. Ripensò per un momento a quella Emily Dixon, a
quella ragazza terrorizzata che lo guardava supplicante, ripensò a quello che
aveva provato lui stesso mentre Acilia lo svuotava di tutto il suo sangue, a
quando si era trovato sotto terra, sepolto e abbandonato, senza più nessuno da
cui poter andare, ripensò a quanto aveva sofferto davanti ad Eike, quel bambino
dallo sguardo spento che per colpa sua non poteva più crescere. No, non avrebbe
sopportato un nuovo giro nel ciclo dell’orrore.
“E se mi rifiutassi di farlo?” disse, lo
sguardo abbassato.
“La uccideremo” rispose Dubris
semplicemente, mentre Acilia, al suo fianco, socchiudeva gli occhi sospirando.
“Bella campagna contro la violenza” scherzò
Jacque, senza l’ombra di un sorriso.
“Se te la portiamo e tu non la trasformi”
spiegò Dubris “avrà visto tutti noi, non potremo più farla tornare a casa”.
“Non fa una piega” disse l’altro alzandosi
e guardandolo negli occhi “quindi potete anche non prendervi il disturbo di
portarmela, non ti pare?”.
Sentì un lieve dolore all’interno della sua
bocca e capì che i suoi canini si erano allungati. Non l’aveva fatto apposta,
era la rabbia.
“Jacque!” lo ammonì immediatamente Acilia.
Dubris era scuro in volto come non mai.
“Ritira subito i denti”.
Jacque vide con la coda nell’occhio lo sguardo
esasperato di Acilia e fece uno sforzo. I denti gli tornarono normali, ma gli
occhi sperava sprigionassero lo stesso identico sentimento.
“Mi spieghi che ti importa? Sono io che
corro il rischio, se non lo voglio fare sono fatti miei” disse, giocando la sua
ultima carta.
“Se trovano te” rispose Dubris, a denti
stretti “trovano Acilia, trovano Eike, magari trovano anche me. È mio dovere proteggere tutti i vampiri”.
Jacque non trovò più niente da ribattere.
Non avrebbe mai voluto mettere in pericolo Acilia ed Eike, ma neanche voleva
porre fine alla vita di una donna innocente.
Aprì la bocca in modo stupido, senza sapere
cosa dire ma Dubris non dava segni di soddisfazione.
“Impara a portare rispetto per i tuoi
superiori, Jacque” disse “e ringrazia che ho a cuore la tua creatrice, se no
non so cosa ti avrei fatto” aggiunse a bassa voce avvicinandosi al suo
orecchio.
Ho a
cuore la tua creatrice.
Jacque trattenne l’impulso di prenderlo a
pugni e soprattutto bloccò con tutte le sue forze la fuoriuscita dei suoi
denti, già pronti all’attacco.
“Ora devo andare, ho molto da fare” si
congedò l’altro, ignorando l’espressione furiosa sullo sguardo del ragazzo.
Prese la mano di Acilia e la baciò, fece
un breve cenno di saluto a Jacque poi sparì in un lampo, come solo un vampiro
poteva fare, dietro il portone di casa.
Per qualche attimo nessuno parlò poi Acilia
sbottò, di nuovo col suo solito sguardo duro e autoritario: “Non ti permettere
mai più, Dubris è il prefetto!”.
Jacque ignorò la rabbia che gli saliva di
nuovo per la gola e arrivava alla bocca, spingendo dalle gengive e disse, con
calma: “Aci, cosa dovrei fare?”.
La ragazza esitò un momento, poi disse:
“Fare quello che ti è stato detto”.
“Ma prima mi hai difeso!”.
Acilia alzò gli occhi al cielo. “Ho provato
a chiedere che qualcun altro lo faccia al posto tuo”.
“Io vorrei proprio che non si facesse e
basta”.
Jacque si sentì squadrare dentro mentre lei
lo guardava sospettosa. “Perché ti interessa così tanto la vita di quella
ragazza?”.
Lui deglutì, intimorito dallo sguardo di
lei. Che diavolo voleva dire quell’insinuazione? “Non mi interessa la vita di quella ragazza” rispose, dopo un po’ “Mi
interessa la vita e basta”.
Non voleva che da lui dipendesse la vita di
qualcuno, non voleva interrompere il percorso di una ragazza che poteva farsi
una famiglia, che poteva vivere, proprio come aveva fatto con Eike. Non voleva
che le capitasse la stessa cosa era capitata a tutti loro, vivere per sempre
senza mai una lacrima o una risata, col cuore spento, accartocciato dal
terribile giorno che segue il momento della creazione
Acilia aveva qualcosa di morbido nel volto
quella sera, Jacque quasi la vedeva in una luce più umana e si sentì vicino a
lei, forse per un momento quasi felice. Sentiva la sua compassione e quasi non ci
credeva. Era contento di quello sguardo, anche se quello stesso sguardo voleva
dire che lei non poteva fare proprio niente per aiutarlo.
*
Acilia arrivò trafelata alla bottega di Damiano.
Aveva paura ad entrare, quasi il panico.
Cosa mai avrebbe potuto dirgli? Lui la credeva morta, o forse non sapeva
niente, di certo nessuno della sua famiglia si sarebbe preso la briga di
avvertirlo…
Se avesse avuto il cuore lo avrebbe sentito
in gola. Si sentiva sempre più strana, come vuota d’emozioni, eppure la paura e
l’ansia ce le aveva, non se lo sapeva spiegare. Forse era tutto nel cervello,
tutto lì, intricato ed ingarbugliato, perché il cervello c’era ancora, lo
sentiva pesante nella sua testa, con mille pensieri alla rinfusa…
Bussò al portone prendendo un gran respiro.
Nessuno le aprì né tantomeno le rispose,
allora lei provò a spingere e la porta si aprì. Entrò nel buio. Si orientava
bene, forse ricordava perfettamente ogni cosa dov’era o forse davvero ci
vedeva.
“C’è nessuno?” disse, alzando un po’ la voce
per farsi sentire. Non voleva svegliare tutti nella casa, ma Damiano, Damiano
sì…
Ancora qualche secondo interminabile e
sentì dei passi che scendevano giù dalle scale, e una voce, quella voce: “Chi
c’è?”. Sembrava intimorito.
“Damiano sono io, sono Aci!” lo rassicurò
subito lei. Passò un lungo attimo di silenzio prima che lei si rese conto di
averlo spaventato ancora di più.
“No, non è possibile…” lo sentì dire, con
una voce strana.
Acilia si fece coraggio. “Ti hanno detto
che… No, Damiano, sono viva, sono io!”.
“Se questo è uno scherzo non è divertente!
Ora vattene, chiunque tu sia!”.
La ragazza cercò di controllarsi. Le faceva
male sentirsi dire quelle parole, ma lui era spaventato, era normale, era tutto
così buio… Lei doveva solo farsi
vedere, e allora tutto sarebbe andato bene.
“Accendi una candela, per favore”.
“Vattene!”.
“Per favore!” supplicò Acilia, sentendo la
voce che le si incrinava “Damiano… Non riconosci la mia voce?”.
Per un po’ niente si mosse e nessuno parlò,
poi la ragazza vide una luce e un gran calore sulla pelle. Strano, era solo una
candela. Vicino ad essa comparve un volto galleggiante bello nitido, e poi due
spalle, un torace. Alla vista di quegli occhi color nocciola, che le sembravano
così meravigliosamente pieni di sfumature diverse in quel momento le venne
voglia di gridare e corrergli incontro per abbracciarlo.
Ma l’espressione che lui aveva in faccia la
fece desistere. Aveva la bocca spalancata e la mano che reggeva la candela
stava tremando.
“Cosa… cosa sei…” boccheggiò.
Acilia lo guardò implorante. “Sono io, non
mi riconosci?”.
Damiano sembrava tentato di fare qualcosa,
forse di sorridere. “Sei uno spirito?”.
“No!” gridò l’altra. Almeno, non credo…
Il ragazzo la scrutò, senza che la paura
l’avesse abbandonato. “Io ti ho vista d’accordo? Ho visto la tua bara che
veniva messa sotto terra e ricoperta…”.
“Sono uscita da lì” lo interruppe Acilia
“Sono… sono viva, non so perché mi abbiano messo in una bara!”.
Neanche lei credeva alle sue stesse parole,
eppure Damiano sembrava quasi convinto.
“Cosa?” fiatò “Come… come hanno potuto…
come sei sopravvissuta una settimana sotto terra?”.
Acilia sgranò gli occhi. Una settimana?
“U-una settimana?” balbettò.
Damiano assentì, con la paura che di nuovo
prendeva il posto di qualunque altra cosa sul suo viso. “Come hai fatto?!”
esclamò.
Acilia voleva tanto scoppiare in lacrime,
ma non poteva. La verità che aveva cercato di nascondere non solo a Damiano, ma
anche a se stessa, la invase completamente. Lei non era affatto viva.
“Non lo so!” gemette “Non lo so… Aiutami, Damiano,
ho tanta paura…”.
Si sentiva patetica, ma sperava con tutta
se stessa che Damiano non l’avrebbe abbandonata.
Lui esitò ancora un po’, poi poggiò la
candela sul bancone e corse verso di lei.
La prese tra le braccia e la strinse e
Acilia si sentì felicissima.
“L’ho sempre detto che eri speciale…”
bisbigliò lui, e stava piangendo, lei lo sentiva “Non riesco a crederci che tu
sia qui… Io… ero disperato…”.
Acilia lo abbracciò forte mentre sentiva
l’odore di lui perforarle le narici. Era un odore buonissimo. “Damiano, ho
paura…”.
Il
mio cuore non batte più.
“Andrà tutto bene, Aci, andrà tutto bene…”.
Sentiva un battito cardiaco, lo sentiva
distintamente. Non era il suo, era quello di Damiano, quasi le rimbombava nella
testa, mentre quel suo odore, così buono, persisteva nel suo naso.
“Ho fame…” biascicò.
Damiano si staccò da lei, continuando a
tenerle le mani sulle spalle. “Hai… ma certo! Ti do subito qualcosa da
mangiare!”.
“Grazie…”. Ma cosa stava succedendo? Acilia
sentiva quasi di non riuscire più a parlare. Forse invece era viva e se avesse
passato ancora un istante senza mangiare sarebbe morta…
Damiano fece per allontanarsi ma Acilia,
quasi senza rendersene conto, lo bloccò con le braccia, tenendolo fermo.
“Aci, devi
mangiare” disse lui, severo.
“Sì” esalò lei, sempre a fatica “Devo
mangiare…”.
“Ti prendo qualcosa, lasciami andare…”.
“Ho fame…”.
“Lasciami ho detto!”.
La fame la stava dominando e Acilia non
capiva perché ma non aveva voglia né di pane né di formaggio né di nient’altro.
Voleva solo Damiano, voleva baciarlo, voleva morderlo, voleva mangiarlo…
“Aci, lasciami!”.
Si riscosse. Come poteva volerlo mangiare?
Aveva un odore così buono, cos’era che stava emanando quel profumo?
I suoi occhi videro qualcosa sul collo di Damiano.
Era una vena, una vena grossa, la
vedeva quasi pulsare. Ma certo, si disse, è il suo sangue.
L’odore la stava inebriando e lei socchiuse
gli occhi, mentre Damiano non riusciva a liberarsi dalla sua presa. Buffo, non
sapeva di essere così forte.
“Aci” stava dicendo lui “che ti succede…”.
Acilia sentiva il cuore di lui che
aumentava il battito, e il sangue stava pulsando nella vena che aveva sul
collo, ne era sicura. La bocca cominciò a farle male, era come se qualcosa
stesse crescendo tra le gengive.
Lanciò un’esclamazione ma non lasciò andare
Damiano. Quel qualcosa che era cresciuto dall’arcata dei denti superiori aveva
raggiunto il labbro inferiore. Sentì un lieve dolore e il sangue che scorreva
sul suo stesso labbro la riempì d’eccitazione.
Sangue…
Aprì gli occhi e vide che Damiano aveva gli
occhi sbarrati, una goccia di sudore gli stava scendendo dalla fronte, le sue
labbra calde e morbide si stavano muovendo in un urlo terrorizzato. “Tu non sei
Aci!” gridava, dimenandosi.
Acilia gli prese il volto tra le mani. Lui
urlava ma con le sue urla non riusciva a ricoprire quel tamburellare furioso
del suo cuore.
“Cosa vuoi fare… Mostro! Cosa vuoi fare?!”.
Mostro…
Anche lei aveva definito Marco un mostro.
Damiano era sconvolto e atterrito, Acilia
non voleva che lui lo fosse, lei non era un mostro, lei aveva solo un po’ di
fame, gli avrebbe preso un po’ di sangue, solo un po’… Quella vena era
terribilmente invitante e quel bellissimo collo altro non aspettava che essere
morso.
Acilia gli si avventò contro, lo azzannò
proprio lì, dove il sangue era più appetitoso, e le urla del ragazzo
riecheggiarono dentro di lei, ovunque, erano come amplificate, e si mescolavano
al battito del suo cuore, tutto così dolorosamente forte. Ma nella sua testa –
di Acilia – non c’era più niente, non avvertiva più alcun pensiero, non capiva
più niente di quello che stava succedendo, mentre succhiava e succhiava senza
pietà. Allora forse stava finalmente morendo, insieme al ragazzo che amava. Sì,
perché lei lo amava, era per questo che voleva il suo sangue. Voleva che
fossero uniti, insieme, in un unico corpo, ma più di ogni altra cosa aveva fame
e mentre Damiano le urlava di fermarsi, forse insieme alla sua coscienza o
forse insieme al suo cuore che da morto piangeva, lei non ci riusciva e mandava
giù ogni millilitro di sangue, sentendolo sulla lingua, assaporandolo,
sentendolo giù per la gola, caldo e gustoso.
Ben presto le urla di Damiano si dissolsero
in un affannoso lamento, e poi si spensero. Poco dopo Acilia capì che succhiare
non serviva più a niente perché non c’era più neanche una goccia di sangue.
Mentre gli teneva sospesa la testa si staccò dal collo e lo guardò in viso. Damiano
non si lamentava più eppure lei gli leggeva tutto il suo dolore negli occhi,
quegli occhi ancora spalancati, confusi, atterriti che le chiedevano perché
l’aveva fatto.
“Damiano…?” fiatò lei, sentendosi d’un
tratto pesantissima, mentre il ragazzo che lei reggeva era così leggero.
Lasciò andare il corpo del ragazzo
all’improvviso come se bruciasse e quello cadde rovinosamente a terra, ai suoi
piedi.
La testa di lui era rivolta verso di lei,
il volto sconvolto bianco come la morte, la bocca semiaperta, gli occhi vitrei
e con una ferita mortale sporca di sangue sul collo.
Damiano…
Acilia si portò una mano alla bocca e sentì
sporca anche quella, ma soprattutto sentì i suoi canini lunghi e pungenti,
proprio come quelli di Marco, quelli che lei non voleva.
Nonostante la forza che sentiva in corpo,
crollò sulle ginocchia davanti a Damiano con qualcosa di simile alla nebbia
dentro alla testa. Il suo corpo prese a tremare e lo sentiva distintamente
stavolta il suo cuore morto, che non c’era, che non batteva ma che piangeva, e
si disperava, mentre lei non poteva farlo.
Tu
non sei Aci!
La cosa peggiore era che era proprio lei.
L’ultima espressione che Damiano aveva
avuto sul volto – quella che aveva tutt’ora – era di terrore, ed era stata
colpa sua.
Ancora quel dolore tra i denti e questa
volta le venne da gridare per il dolore. Portò veloce la mano alla bocca e
sentì che i canini erano tornati normale.
Poi, finalmente, urlò, urlò tantissimo,
fino a farsi del male alla gola, fino a farsi scoppiare la testa.
*
Giorno 8
Forse è
vero che i vampiri non sono così mostruosi. Nessuno è ancora venuto a cercarmi
e io sono più tranquilla. Davvero quel mediocre articolo che ho scritto ha
agito da calmante? Oppure Vampiro è sulle mie tracce come un segugio? La notte
per riuscire a dormire mi ripeto che se Vampiro avesse voluto uccidermi,
l’avrebbe fatto quella sera, invece mi ha lasciata andare.
A lavoro
mi hanno tutti preso per una folle. Il direttore non voleva farmi pubblicare un
tale articolo ma alla fine ha ceduto, inserendolo nelle ultime pagine. Tanto il
nostro giornale non lo legge mai nessuno, ha detto, forse questa storia
attirerà qualcuno che lo comprerà per uno sghiribizzo. Però mi ha anche
consigliato di farmi vedere da uno psicologo. Non ho intenzione di dire a
nessuno la verità, non voglio mettermi nei guai. La polizia ha letto il mio
articolo e mi ha chiesto se conosco dei vampiri. Ho detto loro di no, e questa
d’altronde è la verità, io non lo conosco Vampiro. Loro hanno detto che
probabilmente i cacciatori di vampiri verranno informati dell’articolo, e che
verranno a farmi qualche domanda. Beh, io sono pronta a non proferire parola.
Voglio protezione e loro di certo non me la saprebbero dare. Voglio uscire il
più in fretta possibile da questa storia. Credo che forse mi dispiacerebbe
anche un po’ se Vampiro venisse catturato. Lui è stato così gentile da lasciarmi
andare, perché io ora dovrei denunciarlo? Spero che la pensi così anche lui,
spero che capisca che io non voglio denunciarlo, è come se ci aiutassimo a
vicenda e ci difendessimo l’uno dall’altra.
Anche i
miei amici hanno pensato che mi fossi ammattita, per non parlare dei miei
genitori. Quando mi fanno delle domande in proposito scrollo le spalle con
indifferenza dicendo: “Volevo solo scrivere qualcosa di diverso”. Dopotutto di
giorno riesco a simulare benissimo noncuranza, è la notte che sono spaventata.
Quando
esco con gli amici mi guardo spesso intorno, cerco di non allontanarmi mai,
evito gli angoli bui. Nessuno ci fa caso perché da quando esistono i vampiri –
o forse è meglio dire da quando noi sappiamo della loro esistenza, perché
chissà da quant’è che esistono – molte persone prendono cautele su cautele.
Mi sono
documentata sui vampiri. Ho cercato su Internet informazioni su come vivano il
loro modo di nutrirsi, se è impossibile per loro trattenersi davanti a un
umano, se lo è solo quando hanno fame o se possono trattenersi quando vogliono.
E mentre leggo che per i vampiri il sangue non è come per noi il bacon o le
patatine, ma è una vera e propria droga, che dà dipendenza senza neanche averla
mai provata – il vampiro appena creato che non ha mai bevuto sangue dicono sia
il più pericoloso – mi chiedo perché Vampiro mi abbia lasciata andare e come
abbia fatto a trattenersi. Forse il mio sangue non ha un buon odore, forse lui
si era già nutrito e non aveva fame… Non lo so, non capisco e più non capisco
più è un’ossessione ma
contemporaneamente va a contraddire il mio desiderio di uscire da questa
storia. Non ne voglio sapere dei vampiri eppure mi documento su di loro, cerco
chiarimenti e motivazioni. Forse è perché ho paura. In ogni riga di ogni pagina
di Internet cerco rassicurazioni, cerco quella frase che mi dirà che Vampiro
non verrà a cercarmi.
*
Si era chiesta perché nessuno fosse accorso
con tutto quel rumore. Damiano aveva urlato, lei stessa aveva urlato poco
prima, sì, lo ricordava bene, per quello le faceva male la testa, però nessuno
aveva sceso le scale. La madre di Damiano era morta quando lui era molto
piccolo ma il padre dov’era? Acilia
si ricordò che era malato. Che fosse morto anche lui?
La cosa la confortò per un momento perché
pensò che ora la famiglia di Damiano era riunita. Sì, sarebbero stati felici.
Guardò il coltello che aveva in mano.
L’aveva trovato nel retrobottega.
Non sarebbe dovuta andare da Damiano,
avvolta com’era nella sua sciocca presunzione che sarebbero fuggiti insieme.
Come aveva potuto osare lei, morta, camminare nel mondo dei vivi?
Non sarebbe mai potuta tornare a casa, mai,
se era quello il destino di chi la incontrava. L’immagine di Lia morta e
ricoperta di sangue le attraversò la mente e lei si sentì mancare il respiro.
Stringeva occhi, pugni e bocca ma ciò che
otteneva erano solo urla di frustrazione. Non riusciva a piangere sopra quel
corpo puro del ragazzo che aveva voluto aiutarla.
“Non lo dimenticherò mai…” fece, con una
voce strana, bassa e impastata, forse neanche stava parlando, forse stava
pensando e basta “Non ti dimenticherò mai, Damiano…”.
Lui era morto e lo era anche lei. Allora
perché non erano insieme? Era tornata forse dal mondo dai morti per uccidere il
suo amore e portarlo via con sé?
“Allora perché…” gemette Acilia “Perché ti
vedo morto davanti a me?!?”. La sua voce si era alzata, forse aveva addirittura
strillato.
Doveva tornare subito nel regno dei morti,
da dov’era venuta. Lì l’avrebbe trovato, e chissà se lui l’avrebbe perdonata…
Come aveva potuto osare lei, morta,
camminare nel mondo dei vivi? Era ovvio che fosse stata punita per essere
uscita dalla sua tomba, doveva tornarci subito, subito!
Tenne più saldamente il coltello che aveva
in mano mentre tutto il suo corpo tremava. Con lo sguardo fisso su quello di Damiano
si costrinse a non avere paura. Lui non ne aveva avuta, lui aveva cercato di
aiutarla e ora lei avrebbe pagato per quello che aveva fatto. Con un urlo
premette la lama contro il petto e spinse. Spinse, spinse sempre più forte,
digrignando i denti e tenendo gli occhi spalancati su Damiano, che la guardava
e l’aspettava.
“Muori…” fece Acilia spingendo il coltello
dentro di sé senza pietà “Muori!”. La sua anima era morta ma il suo corpo no, e
ora sarebbe dovuto morire anche esso. Sentì la pelle come strapparsi e vide il
sangue uscirle dal petto. Sentiva un gran dolore ma non era nulla in confronto
a quello che aveva provato Damiano e continuò a spingere urlando tutte quelle
lacrime che non poteva piangere.
Immerse a fatica nella pelle il coltello
fino a metà poi, esausta, strisciò tra il sangue – chissà quale era il suo e
quale era di Damiano – fino al corpo dell’infelice ragazzo e lo abbracciò. Si
sentiva ancora tremare ma una strana calma la stava prendendo. Sarebbe morta
definitivamente lì, sopra al ragazzo che amava e che aveva ucciso. Come era
potuto accadere ancora non lo sapeva, lei era una morta, un mostro che non
avrebbe mai potuto stare con i vivi. E ora lei e Damiano sarebbero stati
insieme per sempre.
Si sdraiò con la testa sul suo torace e si
preparò dolorante a estrarre il coltello insanguinato dal suo corpo. Con un
grosso respiro cercò di ricordare tutte le cose belle della sua vita. Damiano
appariva nella maggior parte delle gocce di quella pioggia di ricordi e lei
quasi sorrise. Afferrò con una mano il coltello e cercò di ricordare i baci di Damiano.
Ripensò alle sue labbra sopra le sue, quasi le sentiva, ma subito dopo ebbe la
sensazione di avere sopra le labbra la pelle del suo collo, col sangue che
scivolava tra i denti e sulla lingua…
Cosa diavolo le aveva fatto perdere la
testa così?
Cosa
ho fatto?!
Al ricordo del sangue il suo corpo fu
percorso da un brivido di piacere e subito dopo lei si sentì disgustata,
nauseata da se stessa.
Tirò il coltello con un urlo agghiacciante
e fu subito percossa da fremiti e spasmi. La sua mano cercò la mano fredda di Damiano
e mentre urlava la strinse, fino a quasi inventarsene il calore.
Il sangue usciva ma dopo poco smise. Anche
il dolore si stava placando, stava quindi per morire davvero finalmente? Poi il
male si fece più forte e lei provò una stranissima sensazione. Lasciò andare la
mano di Damiano incapace di stare ferma e si contorse tra le grida.
Basta…
Perché non moriva? Perché continuava a
dimenarsi soffrendo sentendo quasi le fiamme tutto attorno, come quella notte,
l’ultima notte che ricordava sul suo letto…
Poi il dolore si attenuò fino a cessare.
Affannata Acilia capì che sarebbe riuscita a mettersi seduta. Lo fece e si
guardò il petto cosparso di sangue. Si tastò e tra il sangue cercò la
fuoriuscita, per capire cosa le era successo, perché non aveva più male…
Non c’era alcuna ferita.
Eppure
io ricordo di essermi colpita…
Il sangue c’era, il coltello insanguinato
c’era, non aveva alcun taglio sul petto.
Come si era risvegliata morta nella sua
tomba, ora il suo corpo aveva rimarginato la sua ferita mortale, proprio come
quella che aveva sul collo. Lei era morta e i morti non muoiono.
Quando si rese conto della verità in un
impeto di rabbia calciò il coltello che si avvicinò al corpo di Damiano e lei
lo guardò, ancora una volta, e questa volta capì sul serio che non avrebbe mai
più potuto vederlo perché lui era morto e lei era bloccata in una strana
esistenza che non era né vita né morte.
Piena di odio urlò per la collera e mentre
la testa le girava si alzò di scatto e corse fuori dalla bottega senza più
guardarsi indietro. Continuava a ripetersi che ci doveva pur essere un modo,
non poteva, non doveva vivere così,
con la consapevolezza di quello che aveva fatto, con quei denti che le facevano male e che facevano del male alla gente, che
avevano tolto la vita a Damiano…
Sarebbe tornata al cimitero e sarebbe
tornata nella sua tomba. Se non avesse più mangiato niente sarebbe pur morta
no? Altrimenti poteva gettarsi nel fiume più vicino e lasciare che la corrente
la portasse via.
Il pensiero la stava vagamente rincuorando
quando si sentì prendere per un braccio e la sua veloce e affannosa corsa fu
interrotta, e lei quasi precipitò a terra. Per un momento cielo e terra si
invertirono, poi riprese l’equilibrio.
Rimise subito a fuoco e vide davanti a sé
l’ombra di un uomo.
“Damiano?” fece, con la convinzione di
essere finalmente nel mondo dei morti e di averi rincontrato il suo amore.
Ma l’ombra si avvicinò e lei si vide
costretta a tornare alla realtà. Quell’uomo era Marco.
“Ti ho trovata finalmente” disse lui.
Lei sgranò gli occhi. “Tu” fece poi, la
voce ansante di collera “Tu! Sei stato tu!”.
Provò ancora quel dolore all’interno della
bocca e capì che le erano cresciuti di nuovo i canini. Sentiva un tale odio
dentro di sé che si sentiva pronta ad azzannare, di nuovo.
“Io ti ho salvata” disse Marco, pacatamente.
“Mi hai trasformata in un mostro!” gridò
Acilia “Dimmi come posso morire” aggiunse poi, a bassa voce.
Lui la ignorò allora lei ripeté a voce più
alta, disperata: “Dimmi come posso morire!”.
“Non si può” rispose finalmente Marco.
Acilia pensò di non aver capito bene. Non
sarebbe mai potuta morire? Avrebbe
dovuto vivere per sempre così?
“Non ti credo” sbottò.
“E’ così” ribatté Marco.
“Io non ti credo!” strillò lei, fuori di
sé.
“Io sono immortale!” gridò l’altro e Acilia
tacque. Lui continuò, ricalibrando il tono di voce: “E ora lo sei anche tu”.
La ragazza stava tremando. Non capiva, non
aveva senso…
“Avresti dovuto lasciarmi morire!” urlò
“Io… Io ho fatto…”. S’interruppe, incapace di proseguire. Non riusciva a dirlo
alla voce, non ce la faceva.
Marco mutò espressione. Sembrava
dispiaciuto.
“Avrei dovuto trovarti prima” disse in un
soffio.
Acilia fece per andarsene. Voleva solo
andarsene e starsene da sola, lo avrebbe trovato un modo, lo avrebbe trovato un
modo per togliersi la vita!
Ma Marco la bloccò per un braccio.
Acilia cercò di strattonarsi ma lui era più
forte. “Lasciami andare!” gridò.
Lui aumentò la stretta e lei si dimenò
furiosamente, disperata. “Lasciami! Lasciami ho detto!”. Continuò a urlare e si
trovò circondata da un braccio. Lei ripensò agli abbracci di Damiano e
grondante di frustrazione e avvilimento fermò la sua furia e si lasciò andare
ai ricordi. Sognava il calore del corpo di Damiano ma in realtà sentiva solo
freddo. Marco era freddo, come lei stessa, come tutto quella notte.
“Vorrei piangere” vagì “Vorrei tanto
piangere…”. Le lacrime non uscivano e lei sentiva tutto, tutto l’odio e tutto
il dolore intrappolati dentro di lei, che piano piano la uccidevano.
“Ti capisco” fece Marco “Ti capisco bene”.
Acilia urlò ancora. Non poteva piangere e
tutto quello che poteva emettere lo faceva uscire in grida. Era un incubo e lei
non sapeva come uscirne.
Marco la teneva ferma e parlò ancora:
“L’unica persona che può aiutarti sono io, pensaci bene. Io sono come te, solo
che lo sono da molto più tempo”.
Acilia si sentì per un momento più calma.
Aveva male alla bocca e capì che anche i suoi denti si dovevano essere calmati.
Alzò lo sguardo verso Marco.
“Quanti anni hai?” disse, con la voce che
vacillava un poco.
L’altro esitò. “Più di settecento” disse
infine.
Acilia si impressionò. “Non invecchierò
mai?” domandò.
L’altro scosse la testa.
Com’è
possibile…
“Ti mostrerò che è possibile vivere anche
per noi” continuò Marco.
Acilia non lo credeva affatto. Lei aveva
ucciso Damiano e questo l’avrebbe perseguitata per tutti gli anni a venire,
fossero stati pure mille.
Non
ha senso…
“Il sangue” biascicò “Io volevo il suo
sangue… Io… perché…”.
“Ci nutriamo di sangue umano” spiegò Marco
“Non devi incolparti di niente. Sei appena stata creata e non avevi esperienza,
sarebbe stato impossibile per te controllarti”.
“Controllarmi?”.
Acilia non ci aveva proprio pensato.
Avrebbe potuto controllarsi?
“Non sto dicendo che ti insegnerò a non
nutrirti di sangue umano. Ci ho provato, ma è impossibile. Puoi però imparare a
controllarti”.
“Ma che significa?” esclamò Acilia. Lei non
voleva nutrirsi di sangue umano, rabbrividiva alla sola idea… Eppure pensandoci
risentiva il sapore del sangue di Damiano. Era buono e lei era così
dannatamente sporca.
“Significa che potrai nutrirti senza
uccidere. Non è necessario svuotare una persona per sentirsi sazi” spiegò Marco.
Svuotare
una persona…
Acilia tremò, rivedendo davanti a sé il
volto secco di Damiano, con gli occhi spalancati, accusatori, proprio rivolti
verso di lei.
“Ma se noi non bevessimo neanche una goccia
di sangue” disse, tentando di mantenere la calma “non ci indeboliremmo talmente
tanto fino a morire?”.
“No” rispose mesto l’altro “Saremmo sempre
più deboli, e avremmo sempre più dolore… Ma saremmo sempre coscienti del nostro
male”.
Acilia capì da quelle parole che Marco
doveva averci provato e si sentì un po’ più vicina a lui.
Non diceva niente e Marco parlò ancora: “Non
possiamo esporci alla luce del sole”.
“Cosa?”.
“Tra poco sarà l’alba, dobbiamo rientrare”.
“Rientrare dove?!”.
“Starai nel mio nascondiglio”.
Acilia sbatté le palpebre più volte,
confusa.
Sposa
delle tenebre, nemica della luce…
“Non possiamo uscire di giorno? Perché?!”.
“Siamo creature della notte” rispose Marco
“Al sole bruceremmo”.
Bruciare? Acilia si spaventò per un momento
ma poi un’idea la colpì. “Allora hai mentito, un modo per morire c’è”.
“È molto, troppo doloroso” ribatté l’altro
“Soprattutto per te. Più un vampiro è giovane più tempo impiega prima di
bruciare completamente. Ci metteresti tantissimo tempo”.
“Non importa!” sbottò la ragazza, euforica.
La testa vuota, si sentiva proprio come impazzire… “L’importante è morire alla
fine”.
Marco scosse la testa. “Non ti lascerò
morire”.
Acilia lo guardò con odio. Non aveva
desiderato lui stesso morire? “Perché?”.
“Perché so come ti senti e voglio aiutarti,
non avrei mai voluto trasformare nessuno in quello che sono io ma mi ci sono
trovato costretto. E ora ho qualcuno da allevare, qualcuno che cresca secondo i
miei principi e che li diffonda”.
“Ma che stai dicendo? Che principi?”.
“Te l’ho spiegato prima” rispose Marco,
quasi infervorato, con una strana luce negli occhi “Nutrirsi senza uccidere. Ci
sono troppi come noi che uccidono e fanno cose orribili, io vorrei che
capissero che non è necessario comportarsi così… Potremmo vivere pacificamente
con gli umani se…”.
“Tu sei pazzo” lo interruppe bruscamente Acilia.
Non le importava nulla di quello che lui stava dicendo, lei voleva solo il
sole, disperatamente il sole, che l’avrebbe riportata da Damiano. “Noi siamo
morti e non dovremmo essere qui!”.
“Non è colpa nostra” sbottò l’altro “Non è
mai colpa nostra!”.
Acilia non si chiese in quel momento cosa
fosse successo al Marco umano, in quale circostanza fosse stato trasformato. Ci
pensò in seguito, quando ormai non avrebbe più potuto chiederglielo.
Dopotutto lei voleva solo morire.
“Non mi puoi impedire di starmene qui ad
aspettare il sole!” gridò.
“Sì che posso” fece Marco con un sorriso
“Perché io sono il tuo creatore. E tu mi appartieni”.
Acilia indietreggiò, spaventata. Voleva
fuggire, andarsene da quel pazzo che l’aveva trasformata, voleva correre finché
non fosse sorto il sole, e allora sarebbe successo quello che doveva succedere.
Ora però avrebbe tanto voluto poterlo
rivedere, Marco…
Ci ho messo un po' ma eccomi qui XD
RedTears!
Grazie per le tre recensioni! Dunque, il nome Acilia l'ho trovato in
una versione di latino mentre tutti gli altri prenomi nomi e cognomi li
ho creati grazie a Wikipedia (tranne per Marcus e Lucius perché
non ne avevo più voglia ._.) Ehm beh ecco riguardo alla tua
riflessione dell'ultima recensione "Chissà se Acilia
rivedrà mai Manlio.." sì, l'ha rivisto come vedi XD
L'articolo "Ho cavalcato Nessy!" è fantastico! Sì
beh, Jacque dubitava proprio che lei fosse una giornalista.. XD
Bene,
aspetto recensioni da quelle poche che avevano cominciato a seguirmi e,
perché no, anche da nuove persone ^^ E se sbaglio qualcosa a
livello storico non esitate a dirmelo, io tendo a documentarmi il
più possibile prima di scrivere ma non si sa mai XD
Alla prossima :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Ideali di fantasma ***
Capitolo 4
CAPITOLO IV
IDEALI
DI FANTASMA
Berlino,
1932
“Hindenburg… lo dicevo io, che non doveva
nominare cancelliere quello là!”.
“L’ha rovinata, ce l’ha rovinata la
Germania”.
“Come se non fosse rovinata già da tempo…”.
Fin da quando era nato Eike non aveva mai
sentito parlare bene della Germania. Non capiva perché, a lui piaceva molto.
Gli piacevano le strade affollate, gli edifici altissimi, andare con la mamma
per le botteghe, giocare con gli amici nel parco dopo la scuola.
Ma gli avevano spiegato che lui era nato
dopo la guerra, e dopo la guerra nessun posto è bello.
“Dovrebbe dare ascolto ad Hitler” stava
dicendo il padre, il signor Lehmann, portandosi alla bocca il bicchiere pieno
di vino.
Quella sera a cena c’era suo fratello – lo
zio di Eike – con cui parlava animatamente. La mamma si intrometteva
timidamente qualche volta, come se si sentisse in dovere di farlo.
“Vuole ancora della carne, signorino
Eike?”.
“Sì, Hilka, grazie!” farfugliò il ragazzino
a bocca piena.
La cameriera gli servì con un sorriso una
seconda porzione di carne nel piatto, per poi passare allo zio Serge.
“Diventerai un grassone”.
Eike alzò lo sguardo e vide sua sorella
Imma con un sorrisetto provocatorio. Si sentì arrossire mentre il suo sguardo
cadeva sul braccio paffutello.
La ragazzina gli si avvicinò e disse a
bassa voce: “Saresti proprio un buon spuntino per un vampiro”.
Tutto il corpo di Eike tremò e lui si sentì
le lacrime agli occhi.
Spavalda e crudele, Imma prese ad
attorcigliarsi una ciocca di capelli biondi intorno al dito ed Eike non toccò
più cibo. Guardava il bicchiere di suo padre, pieno di vino rosso. Pensò ai
suoi denti colorati dal vino, rossi, come se avessero appena succhiato del
sangue.
“Sei un fifone!” sibilò la sorella.
“Piantala” fece lui.
“Fifone fifone fifone fifone…”.
“Piantala!” gridò Eike.
La signora Lehmann fece scattare il suo
sguardo verso di loro, mentre i due uomini interruppero la conversazione.
“Cos’è questo trambusto?” sbottò, guardando feroce Eike “Non si urla a
tavola!”.
“È lei che mi parla dei vampiri!” esplose
lui. Si sentiva rosso paonazzo, col cuore in gola.
Lo zio Serge scoppiò a ridere. “I
comunisti, parla dei comunisti…”.
“I vampiri non esistono, Eike” fece la mamma, esasperata.
“Ma lui ha paura anche del buio” dichiarò
Imma, gongolante “Tiene pure una catenella d’argento sul comodino per…”.
“Zitta, sta zitta!” urlò Eike “O dico a
tutti quello che ti ho visto fare!”.
Imma tacque, con uno sguardo velenosissimo
ed Eike andò avanti, con la voce sempre più alta: “L’ho vista che si baciava
con Gunth…”.
“Non è vero! Non è vero!” strillò Imma.
“Adesso basta!” proruppe il signor Lehmann
alzandosi da tavola mentre la moglie era rimasta a bocca aperta. Imma aveva uno
sguardo fiero tradito mentre il padre si avvicinava pronto a schiaffeggiarla,
ed Eike si sentì mortalmente in colpa mentre il viso della sorella, contratto
dallo sforzo per non piangere, veniva colpito più volte.
“Ora andate a letto, tutti e due” disse il
padre, autoritario “E non voglio sentire una sola parola provenire dalle vostre
camere!”.
“Sì, papà” dissero entrambi a testa china.
Poi si alzarono lentamente e presero a
salire le scale, senza dirsi niente.
*
Jacque navigava ormai veloce tra le pagine
di Internet Explorer. Quel computer gli era stato generosamente regalato da un
commerciante incantato.
Sospirò. Aveva trovato ben poco di
interessante. Emily Dixon compariva nella pagina ufficiale del giornale, Il capriccio, per cui scriveva e in
poche altre pagine, dove il giornale veniva malamente insultato. Nulla che lo
aiutasse a capire dove trovarla.
Forse l’unica soluzione era andare proprio
sul posto di lavoro e cercarla.
Il sole era appena calato, Il capriccio doveva essere ancora
aperto, anche se, dato il nome assurdo del giornale e la scarsa considerazione
che avevano i lettori di esso, Jacque non era del tutto sicuro che là dentro
avessero molto da fare.
Con un click
tornò alla pagina ufficiale e una schermata gialla piena di scritte di tutti i
colori lo accolse. Non aveva ben capito che genere di articoli trattasse Il capriccio ma sicuramente non dovevano
essere cose troppo serie. Cercò con lo sguardo l’indirizzo della sede e una
volta letto lo ripeté un paio di volte per memorizzarlo. Se aveva ben presente
la via, doveva essere appena fuori Horfield. Con uno scatto si alzò dalla sedia
e fece per andarsene quando trovò Eike sulla sua strada.
“Quando sei arrivato?” esclamò.
“È vero che dovrai trasformare un’umana?”
fece l’altro.
“Non è detto” rispose Jacque.
“Cos’hai intenzione di fare?”.
“Non ti riguarda” disse risoluto Jacque.
Eike era debole, avrebbe detto ogni cosa ad Acilia.
“Stai andando da lei?”.
“Eike, piantala”.
“È bella?”.
“Ma che razza di domanda è?”.
Eike aveva una strana espressione in volto.
Scrollò le spalle. “Se è bella potresti trasformarla. Ce la spasseremmo”.
Jacque scosse la testa. “Non ho intenzione
di uccidere per spassarmela”.
“Oh andiamo Jacque” disse il ragazzino “da
quant’è che non lo fai?”.
“Che non faccio che cosa?”.
“Hai capito”.
Jacque era allibito. Non poteva essere
davvero lì, sul punto di andare a salvare una persona, bloccato a parlare di
esperienze sessuali con un ragazzino che dimostrava dodici anni.
“Non ho tempo per queste stronzate, Eike”.
“Pensaci” insistette Eike “questa è
un’occasione per avere una donna in casa, potrebbe non ricapitare mai più”.
Jacque aveva una dannata voglia di
schiantarlo per terra. “Abbiamo già Acilia in casa” disse con odio “Sfoga la
tua libido repressa con lei, non si farebbe problemi”.
L’altro fece una smorfia. “Tu mi
uccideresti”.
“Ti uccido ora, seduta stante, se non ti
levi immediatamente”.
Eike non mosse un solo muscolo. “E se la
trasformassi io questa Emily?”.
“Non mi sembri maturo abbastanza per
diventare creatore”.
“E se la trovassi prima io di te?”.
Jacque alzò un sopracciglio. Eike era
strano e lui non sapeva gestirlo. Forse Acilia aveva ragione quando diceva che
lui non era un buon creatore.
Eike lo stava guardando intensamente, anzi,
sembrava fissare un punto proprio dietro di lui. Poi uscì di corsa dalla
stanza, senza più dire una parola.
Jacque si voltò e vide il computer ancora
acceso, con la pagina ufficiale de Il
capriccio ancora aperta.
Imprecando partì all’inseguimento di Eike,
sulle tracce di Emily Dixon.
*
“Lui si sentì impietrire mentre quello si
avvicinava, con sguardo famelico… In un attimo capì che doveva correre, correre
subito, il più veloce possibile”.
Eike deglutì mentre la voce di Imma andava
avanti, alla luce sommessa di una candela.
“Corse. Ma in un attimo lui gli fu addosso, e allora sentì due
cose entrargli nella pelle del collo come due chiodi, il sangue usciva e veniva
trascinato via e…”.
“Basta” pigolò Eike, risentito.
“Basta? Non vuoi sentire il finale?”.
Il ragazzino scosse la testa. “È tardi, se
mamma scopre che sei ancora in camera mia s’arrabbia”.
Imma sbuffò. “Non come quella volta che le
hai detto che ho baciato un ragazzo”.
Eike abbassò il viso, contrito. “Beh, aveva
ragione, sono cose che non si fanno” disse, a mo’ di scusante.
La sorella lo guardò tagliente. “E perché sono cose che non si fanno?”.
Lui ci pensò un po’ su. “Non lo so” ammise
infine.
“Sei solo un burattino in mano alla
società” sibilò l’altra, velenosa “Diventerai come papà”.
Eike non capiva, ma il tono della sorella
lo feriva. “Che c’è di male nell’essere come papà?”.
Papà aveva forse paura dei vampiri? Era
questo che intendeva Imma?
Ma Imma inaspettatamente lo guardò con
dolcezza per un attimo. Poi disse: “Riprendiamo la storia?”.
Perché
mi fa questo?
Eike non si trattenne più. “Perché mi
racconti queste storie?”.
La ragazzina si alterò. “Perché voglio
farti crescere! Come farai ad affrontare la guerra se hai paura di cose che non
esistono?!”.
L’altro boccheggiò per un attimo. Ci mise
un po’ a intendere quelle parole. “Allora lo ammetti che non esistono” disse.
Imma si alzò dal letto con aria
imbronciata. “Sei uno stupido, certo che non esistono!”.
Eike, leso nell’orgoglio, sbottò: “E poi di
che guerra parli? Non ci sarà nessuna guerra!”.
La sorella strinse gli occhi fino a farli
diventare due fessure. “Tu dici?”.
Il ragazzino si sentì quasi stringere il
cuore, insieme a quegli occhi. Sentiva il vento ululare e sbattere contro le
finestre con violenza. Sentiva quasi gli spari. Lui era nato dopo la guerra, mica avrebbe dovuto
essercene un’altra no?
“Buonanotte” disse Imma. Soffiò sulla
candela accesa, quella si spense ed Eike al buio sentì i suoi passi
allontanarsi e la porta che veniva chiusa.
Rimase solo, nell’oscurità, sotto il suo
lenzuolo a sentire il vento bussare alla sua finestra. Il cuore gli batteva
forte, i vampiri potevano volare nel vento.
I
vampiri non esistono, non esistono…
Le orecchie gli si riempirono di urla di
combattimento, grida di dolore, nelle palpebre chiuse vedeva soldati cadere
rovinosamente, l’uno sopra l’altro.
Entrargli
nella pelle del collo come due chiodi…
Si portò una mano al collo. Smettila, si
disse severo, smettila di avere paura…
Si girò su un lato, stringendo a sé il
lenzuolo. Tutto il sangue si mescolava, la gente andava in guerra e moriva, i
vampiri svuotavano tutti del proprio sangue, non stavano dalla parte di
nessuno, non avevano nazionalità, loro mangiavano, mangiavano…
*
Jacque era arrivato davanti alla porta
della sede del giornale, ed aveva perso di vista Eike. Non aveva per niente
l’aspetto di una sede di una rivista. Sembrava un palazzo privato, con un solo
campanello. Poco convinto di quello che stava per fare, Jacque lo premette.
Gli arrivò in risposta una voce femminile e
istintivamente pensò fosse quella della Dixon. Ma bastò una parola per fargli
capire che non era lei. “Sì, chi è?”.
Jacque si schiarì la voce. “Devo vedere una
persona… Emily Dixon”.
“Ma chi è lei?”.
“Un… un amico”.
La voce si alterò. “Senta, qui si sta
lavorando, l’aspetti fuori la sua amica”.
Jacque non ci aveva pensato. “E tra quanto
sm…”.
“Arrivederla”.
Il ragazzo sbuffò. Cordiale, non c’è che dire.
Sentiva degli schiamazzi e delle risate
provenire dalla finestra del primo piano. Sì, beh, si stava lavorando.
Si sedette su un muretto di cemento, in
attesa.
Ed Eike? Dov’era finito? Che l’avessero
fatto entrare?
Il pensiero lo tormentò così tanto che
dovette alzarsi in piedi, e tenere le orecchie ben tese per sentire qualunque
suono o movimento strano.
Sospirò. Con Eike non aveva fatto un buon
lavoro. Se fosse stato un creatore degno di questo nome, sarebbe riuscito a
costringerlo a stare a casa. Forse dipendeva dal fatto che era diventato
creatore molto presto, o forse perché non aveva nessunissima voglia di farlo,
il creatore. Dopo tutti quegli anni, lui ancora si sentiva ipnotizzato dallo
sguardo di Acilia, come fosse un umano pronto a donare il suo sangue, e
dubitava fortemente che Eike provasse la stessa sensazione con lui. Forse
adesso era abbastanza maturo, e poi Emily era una ragazza. Forse davvero
sarebbe riuscito a fare a lei quello che a lui aveva fatto e continuava a fare
Acilia.
Se è
bella potresti trasformarla. Ce la spasseremmo.
Emily non lo aveva colpito particolarmente
per la bellezza. Era una ragazza come tante.
Oh
andiamo, Jacque, da quant’è che non lo fai?
Sentì quasi i denti premere per uscire allo
scoperto. Quella Emily sarebbe stata sua…
Poteva andare a casa, aspettare che la
corporazione gli portasse la ragazza.
Ma
che stai dicendo?
Lui era lì per salvarla, non per dannarla…
La porta si aprì e uscì un gruppetto di
persone che passò oltre tra il chiacchiericcio senza guardarlo.
Jacque si fece coraggio e si accostò a
loro. “Scusatemi” disse.
Loro – erano due donne e un uomo – si fermarono
per scrutarlo e lui chiese: “Emily Dixon sta uscendo?”.
I tre fecero una faccia strana, l’uomo
scoppiò addirittura a ridere.
“Sì, sta arrivando” gli rispose una delle
donne.
“Sei uno dei suoi amici vampiri?” fece
l’uomo, ilare, mentre l’altra ragazza gli dava una gomitata.
Jacque strabuzzò gli occhi. “No” disse,
stupidamente.
L’altro smise di ridere, pensando
evidentemente di non essere stato divertente. Tutti e tre si congedarono e lui
rimase di nuovo solo davanti alla porta.
Sei
uno dei suoi amici vampiri.
E se quando lei l’avrebbe visto si fosse
messa ad urlare? E se tutti gli altri che erano con lei avessero capito cos’era
lui?
La paura cominciò a dominarlo. Cos’avrebbe
detto Acilia se lui si fosse fatto catturare in quel modo? Consegnandosi
all’unica umana che sapeva la sua vera natura?
La porta si aprì di nuovo e uscì un altro
gruppetto di persone. Erano tutte ragazze e Jacque le scrutò una ad una. Ma se
lo ricordava bene com’era fatta Emily Dixon? Non era tanto alta, era magra… I
capelli, come ce li aveva i capelli? Castani forse, o biondi? Gli occhi invece
Jacque li ricordava bene. Li ricordava bene perché avevano lo stesso taglio
severo di Acilia. Ma erano più scuri, caldi e vitali, marroni come quelli che
lui stesso un tempo aveva. Jacque non capiva, quelle ragazze erano tutte
uguali, tutte alte, con pelle e capelli chiari, lui le scrutava e loro
affrettarono il passo, avvertendo il suo sguardo. Ma ce n’era una che stava in
disparte, a sguardo chino, che non si era accorta di lui. Era un po’ più bassa
delle altre ragazze, gli occhiali che si intravedevano sotto una graziosa
frangetta. È lei.
Aspettò che le altre ragazze fossero ancora
più lontane da lei e allora lui le si affiancò. “Emily?” sussurrò.
Quella sussultò e alzò lo sguardo. Sì, non
c’era dubbio, quelli erano i suoi occhi.
“Non voglio farti del male” disse subito
lui, mentre lei spalancava la bocca indietreggiando.
“Non voglio farti del male, ti prego
ascoltami!” insistette ancora Jacque ma lei si era voltata subito, con l’evidente
paura di essere incantata ed essere portata via.
E lo sguardo di lei, voltatosi, incrociò
quello di qualcun altro che era proprio dietro di lei, davanti a Jacque, e Jacque lo odiò, lo odiò profondamente.
“Emily” disse Eike, con un sorriso amabile
da bambino.
Lei era perplessa ma andò da lui, e Jacque
capì che l’altro vampiro doveva averla incantata.
“Eike, smettila” ringhiò il ragazzo.
Eike prese la mano di Emily e cominciò a
condurla via. “Vieni via, andiamo in un posto più sicuro”.
“Ti ordino di smetterla!” tentò di nuovo
l’altro.
Il ragazzino gli aveva dato le spalle, mano
nella mano con l’umana.
Perché
non riesci a importi?!
Jacque lo raggiunse e lo strattonò.
“Guardami in faccia!”.
“Ma che succede? Emily?”.
Tutti e tre si voltarono e Jacque si sentì
sprofondare in un mare di guai. Altre persone erano uscite dall’edificio, tra
le quali un uomo calvo, con gli occhiali, dallo sguardo inquisitorio.
“Emily? Va tutto bene?” disse, guardando
sospettoso Jacque.
Mantieni
l’incanto, Eike, ti prego…
“Io sono il cugino di Emily” disse Eike con
un gran sorriso, mentre Emily annuiva docilmente.
“Questo ragazzo le sta dando fastidio”
continuò lui, alzando la voce delicata proprio come un bambino.
L’uomo assunse un’espressione accigliata
mentre Emily diceva: “Sì… Io ho paura di lui…”.
Jacque capì che non poteva fare più niente,
alzò le mani in segno di resa e disse: “Non avevo alcuna cattiva intenzione”.
Poi se ne andò, sperando con tutto se stesso che nessuno gli facesse storie o
che Emily, nel delirio, aggiungesse che lui era un vampiro.
Uscì dal vicolo che conduceva al giornale e
si nascose dietro a delle automobili, senza sapere cosa fare. Eike non era un
vampiro cattivo, bastava solo farlo ragionare.
Perché
non riesci a importi?!
Non avrebbe sopportato di dover creare un
altro vampiro ma avrebbe sopportato ancor meno di vedere un vampiro creato da
Eike. Vedere una donna vampiro alle totali dipendenze di Eike. Forse perché, ed
era triste pensarlo, avrebbe provato invidia.
Vide Eike ed Emily passare e, tenendosi a
debita distanza, prese a seguirli pregando che la sua progenie non facesse
scherzi.
Entrarono dentro un parco, scuro e pieno di
alberi, dove non andava mai nessuno, per la paura di incontrare un vampiro
affamato.
Eike
ha veramente intenzione di…
Jacque si nascose dietro ad un albero,
aspettando il momento giusto per intervenire. Non voleva credere che Eike gli
disobbedisse così deliberatamente, non voleva credere che lui, che non era mai
potuto diventare uomo, volesse davvero trasformare un’altra persona in un
mostro.
Ma Eike stava guardando Emily, l’aveva
fatta chinare verso di lui, così basso.
Fece uscire i denti e Jacque, uscito in un
lampo dal suo nascondiglio, gli fu addosso e lo scaraventò a terra.
L’incanto si ruppe ed Emily urlò.
Lui si voltò verso di lei e lei urlò ancora
più forte, indietreggiando tremante e cadendo, inciampata nei propri piedi. Si
rese conto di avere i canini fuori dalle gengive, li ritirò subito e diede una
mano alla ragazza per aiutarla ad alzarsi. Per tutta risposta, quella urlò
ancora, cercando frettolosamente di alzarsi.
“Aspetta, ti prego! Non voglio farti del
male!” esclamò Jacque, disperato.
Eike, che si era rialzato da terra
noncurante, proruppe in una risata. “Sei patetico, davvero cerchi di stringere
amicizia con un’umana?”.
Sia Jacque sia Emily lo guardarono. Eike
aveva ancora le zanne bene in vista e la ragazza si mise a piangere, sentendosi
braccata.
“Dove mi avete portata…” biascicò “Dove…”.
Folle di paura, si alzò e si mise a correre senza guardarsi indietro. Ma trovò
ben presto la strada parata da Eike, che l’aveva superata.
“Vedi” stava dicendo tranquillamente,
mentre Emily urlava di nuovo e tra le lacrime chiedeva di essere lasciata in
pace “È inutile cercare di farsi ascoltare da loro, non sanno fare altro che
urlare e piangere quando ce li hai davanti”.
“Vaffanculo!” urlò Emily, rossa come il
sangue “Cosa volete da me?!”.
“Siamo i progressisti noi, tesoro” disse
Eike, docilmente “Siamo quelli buoni noi, entro certi limiti però”.
Con uno scatto le aveva preso la testa con
la mano e gliela premeva giù, giù, cosicché i suoi denti sarebbero riusciti ad
arrivare…
“EIKE, FINISCILA!” sbraitò Jacque.
Eike mollò la presa e guardò negli occhi il
suo creatore. Quello si sentiva euforico, finalmente aveva catturato
l’attenzione della sua progenie e non se la sarebbe fatta sfuggire. Ogni goccia
di sangue dentro di lui ribolliva, e, ne era sicuro, lo avvertiva anche Eike.
“Non avevi anche tu una folle paura dei
vampiri?” fece. Si sentiva la voce grossa, alterata. Probabilmente i suoi occhi
erano rossi.
Eike non rispose e lui andò avanti: “Ti ha
fatto piacere essere trasformato in quello che sei?!”.
“Ma senti chi lo dice…”.
Jacque lo ignorò. “Perché vorresti
dannarla? Che cosa ha fatto per meritarselo?!”.
“E noi?!” reagì Eike, violentemente “Che
cos’abbiamo fatto noi per meritarcelo?!”.
“Questo non c’entra niente! Non puoi
sfogare la tua frustrazione castigando gli altri per vederli soffrire come
te!”.
Eike socchiuse gli occhi, come per invocare
la calma. Poi, a denti stretti, disse: “Nessuno soffrirà mai come me”.
Jacque tacque. Non sapeva cosa dire, non
aveva mai saputo cosa dire a un vampiro bloccato all’età di dodici anni. Sentì
un fruscio di foglie, dei rami che si spezzavano, dei passi affannati.
Emily stava scappando e lui non poteva
permetterlo.
Eike gli stava lanciando un’occhiata di
sfida ma lui lo ammonì con lo sguardo e si precipitò nella direzione da cui
provenivano il rumore e il profumo dell’umana. Dopo poco la vide e in un lampo
le fu davanti.
Emily si bloccò, ancora una volta, e si
lasciò scappare l’ennesimo grido.
Jacque, infuriato con lei, con Eike, con
tutto quello che stava capitando e per come stavano andando le cose, le prese
il mento tra le dita e glielo strinse. “Smettila di cercare di scappare, non
puoi sfuggire ad un vampiro” ringhiò, più cattivo di quello che avrebbe voluto
essere.
Emily aveva gli occhi lucidi e le lacrime
che le rigavano il viso, ma quella volta non gridò.
“Avevi detto di non volermi fare del male”
disse, con voce spezzata.
Jacque la lasciò andare. “Ah, allora l’hai
sentito” sbottò.
Sentì dei passi che si avvicinavano: era
Eike. Aveva ritirato i denti e guardava la scena con interesse.
“Sei stata una cretina” proseguì Jacque.
Emily non diede segno di essere ferita.
“Hai scritto un articolo sui vampiri e hai
attirato l’attenzione su di te” continuò l’altro.
“Allora mi vuoi far del male”.
Jacque si sentì crescere i denti per la
rabbia. Non lo sapeva neanche lui cosa voleva fare.
Emily tremava vistosamente, ma il volto,
graffiato dalle lacrime, lo teneva alto.
“Sono venuto per metterti in guardia: sia
cacciatori sia vampiri ti daranno la caccia” disse il ragazzo.
“Cosa…”.
Jacque non la lasciò finire. “Io proteggo
te, e tu proteggi me. Tu non ci denunci e io non ti mangio… D’accordo?”.
Gli occhi della ragazza caddero sulle
zanne. Le lacrime continuavano ad uscire imperterrite.
“Se mi tiri uno scherzo” continuò lui,
crudele “giuro che ti ucciderò”.
Eike si avvicinò pensieroso. “Se però ti
denuncia e ti uccidono dubito che tu possa…”.
Jacque gli diede uno scappellotto, mentre
continuava a guardare intimidatorio l’umana. Incutere terrore era sempre il
mezzo più efficace per ottenere quello che si voleva dagli umani.
Emily fece passare il suo sguardo dall’uno
all’altro più volte, poi emise una risatina, sotto lo sguardo incredulo del
vampiro.
“Fate un po’ ridere, voi due” si giustificò
la ragazza, ricomposta.
“Guarda che non scherzo” fece Jacque “sei
in un grave pericolo, devi nasconderti!”.
“Dove… dove… dove mi posso nascondere!”
sbottò l’altra, stralunata.
“In effetti il tuo è un piano che fa un po’
cilecca, Jacque” intervenne Eike.
“L’unica cosa a cui possono risalire è
l’indirizzo del giornale a cui lavori” fece l’altro, con la mente che lavorava
febbrile “Devi startene rintanata in casa”.
“Non posso stare per sempre in casa! Ho un
lavoro!” esclamò Emily. Stava di nuovo per scoppiare a piangere.
“Prenditi un po’ di ferie… Non sarà per
sempre, devo avere il tempo di convincerli”.
“Convincere chi? Chi è che mi cerca?”.
Jacque sospirò. Non sarebbe stato facile,
eppure ci doveva essere un modo… Era successo che vampiri e umani fossero
legati da amicizia, forse però prima che nascessero la Rappresentanza, la corporazione
e tutte quelle altre cose…
“Troverò un modo, te lo prometto” disse,
guardando Emily negli occhi. I denti si erano ritirati, non li sentiva più
toccare la lingua mentre parlava. E la ragazza lo stava guardando così confusa…
“Perché fai questo? Perché mi vuoi
aiutare?”.
I suoi occhi spaventati cercavano delle
risposte. Sentiva su di sé gli occhi di Eike che gli rivolgevano la stessa
domanda, perché, perché la vuoi aiutare? Ricordava
le parole di Acilia: Perché ci tieni
tanto alla vita di quella ragazza?
Lui aveva risposto che ci teneva alla vita,
alla vita e basta.
“Perché è colpa mia” disse “È solo colpa
nostra, del fatto che facciamo così… paura…”.
Emily annuì e prese ad allontanarsi. “Io…
adesso vado a casa”.
“Corri” fece Jacque “corri e non guardare
in faccia nessuno”.
“L’hai detto tu” disse lei, con la voce incrinata
“Tu hai detto che non si può sfuggire ad un vampiro…”.
“Corri!”.
Emily esitò un momento, poi si voltò e
corse all’impazzata. Chissà, magari aveva ancora paura di lui, paura che le si
parasse davanti con quei denti famelici.
Volse lo sguardo su Eike. “Non una parola
con Acilia, chiaro?”.
Quello scrollò le spalle. “Sei tu il
creatore”.
Forse avrebbe dovuto sgridarlo, gridargli
contro “Te ne rendi conto adesso che sono io il creatore?!”, ma non ne aveva la
forza, non l’aveva mai avuta. Era per quello che era un creatore mediocre, ma
non ce la faceva. Eike aveva lo sguardo di un bambino che non poteva più
sognare, e Jacque si sentiva sempre più impotente.
Lasciagli
la morte, non dargli un’esistenza a metà, meglio la morte, la morte!
Acilia aveva ragione, aveva sempre ragione.
Ma Eike non mostrava mai collera per quello
che Jacque gli aveva fatto. Jacque invece aveva odiato Acilia, oh se l’aveva
odiata. L’aveva anche amata, oh se l’aveva amata.
Nell’aria c’era ancora l’odore di Emily,
era un odore buono, che pizzicava le narici e provocava un’insaziabile fame.
“Andiamo a mangiare?” fece.
Ancora Eike scrollò le spalle. “Potevamo un
po’ bercela la Dixon già che c’eravamo, solo un pochino”.
Jacque sorrise, suo malgrado, e insieme si
misero a correre, nell’ombra e nel buio, in cerca di prede.
*
Stava camminando in una stradina buia. Era
stato a scuola, sì, se lo ricordava. Ma si era perso, non trovava più la strada
di casa. Non vedeva l’ora di mangiare un po’ di stufato, faceva freddo in quel
periodo di inverno. In realtà non sentiva freddo, non sentiva neanche il rumore
dei propri piedi che calpestavano il cemento. C’erano dei muri intorno a lui, e
delle ombre erano intagliate su di esso.
Eike affrettò il passo, sentendo il cuore
che galoppava furioso. Dov’era la sua casa, dov’era?
Ma una di quelle ombre che aveva intorno
prese improvvisamente vita, sembrava fosse uscita dal muro.
Eike trattenne il fiato. Voleva urlare, ma
non ci riusciva.
Quell’ombra divenne un uomo, un uomo magro,
molto magro, chiaro di pelle e con capelli e sguardo scuri. Aveva la divisa da
militare.
Il ragazzino aprì la bocca per emettere un
qualche suono ma non ci riusciva. Non riusciva neanche a mettere bene a fuoco
la faccia del soldato, vedeva solo i suoi denti, lunghi e affilati, grondanti
di sangue.
Saresti
proprio un buono spuntino per un vampiro.
Quel vampiro era magrissimo, aveva fame,
aveva fame!
Eike voleva fuggire ma non si sentiva le
gambe. Aprì la bocca con decisione. L’apriva e la richiudeva, credendo di
urlare, sentendo un suono strano e frastagliato nelle sue stesse orecchie.
Allora stava urlando, ma se quella era la sua voce, perché era così roca e
discontinua?
Il vampiro gli si avvicinava, lento,
lentissimo e lui era paralizzato, la mente annebbiata da un terrore cieco.
Fu quello che lo svegliò. La paura gli fece
spalancare occhi e bocca, e urlò. La voce da irregolare e sporadica qual era
divenne un lungo e acutissimo strillo.
Poi si rese conto di essere sopra un
materasso morbido, circondato da lenzuola calde.
Era solo
un sogno…
La porta della camera si aprì di scatto ed
entrò una fioca luce di candela. Eike trasalì per un attimo ma subito si rese
conto che era sua madre.
“Cos’è successo?” la sentì dire, illuminata
pallidamente.
Eike strinse i denti. Non sapeva cosa
inventarsi. “Niente, mamma, era un incubo…”.
“Oh, Eike, quando impererai ad essere
uomo?”.
Il ragazzino si sentì mortificato. Aveva
paura di un maledettissimo vampiro nella sua testa, lo sarebbe mai diventato
uomo?
La signora Lehmann lo coprì dolcemente col
lenzuolo con la mano destra, mentre con la sinistra reggeva la candela. “Hai
sognato i vampiri?” disse poi, con una tona di disappunto nella voce.
Ancora Eike si sentì sprofondare. Poteva
dire di aver sognato qualsiasi altra cosa, ma disse solo “sì”.
Sarebbe stato punito, lo sapeva, la mamma
non ne poteva più di sentire parlare di vampiri.
Ma con sua grande sorpresa la sentì
sospirare e poi chiamare Imma a gran voce.
“Imma! Imma!”.
“Mamma, starà dormendo…” provò Eike,
titubante.
“IMMA!”.
Il ragazzino tacque immediatamente,
spaventato. E la sorella apparve trafelata sulla soglia della camera,
intimorita quasi quanto lui. “Cosa c’è?”.
“La devi smettere! Sei tu che racconti
sempre strampalate storie su questi vampiri
a tuo fratello, non è vero?!” sbottò la madre.
Imma guardò per un attimo in cagnesco Eike,
poi abbassò lo sguardo. “Non sapevo che gli facevano così paura” disse con voce
tremante.
Era la prima volta che Eike vedeva la
sorella in atteggiamento così umile. Forse aveva paura di venire picchiata
un’altra volta.
“Non so più cosa fare con te!” stava
continuando la signora Lehmann.
Eike aveva paura, paura per Imma.
Fa
che papà non si svegli, fa che papà non si svegli…
Ma non successe niente. La mamma disse ad
Imma di uscire e lei la seguì, dando prima un bacio ad Eike, che si sentiva un
verme, sempre spaventato, lì al sicuro tra le lenzuola, e sempre pronto a far
punire sua sorella. Tentò in tutti i modi di addormentarsi, ma non ci riusciva.
Si girò e rigirò più volte, sognava Imma che veniva picchiata, i vampiri
soldati che lo aggredivano, la mamma che si vergognava di lui.
Poi sognò Imma divenuta vampiro e la
mattina dopo la odiò, la odiò tantissimo.
*
Dubris era sulla soglia di casa e Acilia lo
fece entrare con una smorfia.
“Non posso offrirti da bere, mi dispiace”.
Il vampiro scrollò le spalle. “Dubito che
tu tenga scorte di sangue umano dentro al frigo”. Poi le si avvicinò e le
sussurrò a un orecchio: “Anche perché se tu le avessi, dovrei arrestarti”.
Acilia si allontanò delicatamente. “Hai
detto che avevi delle questioni di cui parlarmi”. Chiuse la porta di casa e,
nello stretto corridoio, si voltò a guardare Dubris. Lo vide sospirare. Le
bastò quel sospiro per capire.
“Dubris, no, non entrerò in politica,
smettila di chiedermelo” disse, sforzandosi di usare un tono il più educato
possibili. Erano amici, ma lui era pur sempre il prefetto dell’Inghilterra,
nominato direttamente dalla Rappresentanza Vampiresca.
Dubris non disse niente. Si sedette al
tavolo di quella stanza inutilizzabile che doveva essere la cucina. Acilia
rimase in piedi, in attesa che lui parlasse, perché prima o poi avrebbe dovuto
pur parlare.
“Sempre più vampiri della Rappresentanza
stanno passando all’ala massimalista” disse infatti dopo un po’.
“Mi pare che il presidente appartenga al
PPC” replicò Acilia, con noncuranza “altrimenti tu non saresti più prefetto”.
“Non sei divertente” sbottò Dubris,
socchiudendo gli occhi, come se fosse stanco.
Acilia non voleva essere divertente, ma
capiva anche il punto di vista del suo prefetto. Temeva una sommossa
all’interno della Rappresentanza, e sapeva bene anche da parte di chi la temeva.
“Sai chi è il nuovo segretario del PO?”
chiese Dubris.
Eccolo, il PO. Il PPC (Partito Per la
Convivenza) e il PO (Partito Oscuro) erano gli unici due partiti all’interno
della Rappresentanza con un minimo di credibilità. Avevano ideali completamente
opposti, erano nemici giurati.
“Sì, l’ho sentito dire. Si chiama Kaeso”
rispose lei. Dopotutto era anche per quello che non voleva entrare in politica.
Dubris annuì. “È molto sveglio” fece “e
molto spietato”.
Acilia assentì.
La Rappresentanza non esisteva da molto,
quasi da due secoli e mezzo. Prima che venisse creata esisteva il caos. C’erano
ideali, c’erano follie, credenze, ma nessuna certezza, nessuna regola, legge e
tutti i vampiri vivevano allo sbando. Acilia ricordava bene quel periodo. Poi i
vampiri avevano cominciato a creare gruppi, a combattersi l’uno contro l’altro.
Il presidente stava in carica un secolo,
quello era il loro terzo presidente. Il primo era stato un inetto, formalmente
apparteneva al PPC ma sembrava non sapere bene da che parte stare. Il secondo
apparteneva al PO (che un tempo era quel gruppo che si faceva chiamare VV, veri vampiri). Era stato un periodo di
morte e sangue. Ma era stato anche un secolo pregno di guerre e gli umani non
avevano certo paura dei vampiri. Finita la seconda guerra mondiale però, tutto
quel seminare il panico fece svegliare gli umani dalla loro patetica ingenuità.
E si accorsero che i vampiri esistevano, e che erano cattivi.
Il presidente entrato in carica nel 1984,
Lyuben Vladimir, aveva tremila anni, apparteneva al PPC da sempre ed era un
vero signor vampiro. Ma il disastro fatto dal presidente precedente era
irreparabile.
“Cosa vuoi da me, Dubris?” domandò Acilia,
dato che l’altro non parlava più.
“Tu saresti preziosa per il partito” fece
lui, in fretta, come se si fosse preparato il discorso “Sei intelligente e poi
tutto questo è cominciato con te, te lo sei dimenticata?”.
No, non se l’era dimenticata. Era assurdo
che lei non volesse entrare nel PPC quando l’avrebbero accolta a braccia
aperte, perché era stata lei, lei, a
fondare quel gruppo pacifista che credeva nella coesistenza di vampiri e umani.
Solo che, se n’era andata.
“Ti contraddici” stava continuando Dubris
“Sembrava te ne fregasse qualcosa qualche secolo fa”.
“Me ne frega ancora” ribatté Acilia.
“Sei stata tu a insegnare a centinaia di
vampiri come trattenersi dal prosciugare intere vite umane!” proseguì l’altro,
alzando la voce, senza ascoltarla “Perché ora te ne stai rintanata in questa
casa?!”. Si era addirittura alzato in piedi.
Acilia non lo sapeva bene. “Voglio una vita
tranquilla” disse, semplicemente. Forse non voleva immischiarsi, non voleva
avere grane. I vampiri politici rischiavano la vita tutti i giorni, qualche
pazzo estremista del PO ogni tanto faceva fuori qualcuno del PPC, e poi c’erano
Jacque, Eike… Non poteva mettere a repentaglio la loro vita. Allora sì, era
un’egoista. Ma dopotutto non era per se stessa che aveva cominciato quella
battaglia.
“Ti facevo una combattente, Acilia” disse
Dubris, a denti stretti “una che aveva un sogno”.
“Non servirebbe a niente entrare in
politica” sbottò lei in un soffio “sarei solo un soldato in più. Quello che ci
vuole qui è un’idea”.
“Ma di che parli?”.
“Il PPC cosa fa veramente?” esclamò Acilia,
sentendo la voce che si alzava e i denti che premevano per uscire “Stanno tutti
seduti su delle panche a parlare e parlare! Mentre là fuori c’è gente che muore
continuamente!”.
Dubris fece per aprire bocca, ma la
richiuse senza sapere che dire e la ragazza continuò, dicendo quello che
pensava veramente: “La convivenza di cui tanto parla il PPC, e di cui parlavo
tanto anch’io, è impossibile finché noi ci nutriamo degli umani! Bisognerebbe
convincere gli umani a farsi succhiare un
po’ il sangue, come fossimo zanzare, con la nostra parola d’onore che non
li uccideremo! Ma poi quanti li ucciderebbero, e allora in quanti si
fiderebbero di noi?!”.
Dubris abbassò lo sguardo.
Acilia andò avanti: “È Jacque che me lo
ripete fin dall’inizio… Come facciamo a convivere con gli umani se loro sono il
nostro cibo?”.
“Quindi l’idea di cui parlavi” disse
Dubris, lentamente “sarebbe trovare un altro modo per nutrirsi”.
“Che non esiste” concluse l’altra, annuendo.
“Non è una novità la rassegnazione” fece
l’altro, guardandola negli occhi “Dopotutto è la linea del PP, e anche quella
del PS. Noi invece dobbiamo combattere”.
Acilia era stanca di combattere, ma aveva
continuato a farlo, convinta che davvero ci fosse una soluzione, aveva
combattuto tutto quel tempo, per Marco. Aveva diffuso il suo pensiero in ogni
dove, aveva raccolto vampiri in ogni tempo sotto il suo ideale. Lui ne sarebbe
stato felice.
Ma Marco viveva in un’epoca in cui la
parola vampiro non esisteva neanche, e la coesistenza, restando ben nascosti,
forse sarebbe stata davvero possibile. Ora invece gli umani erano pieni di
odio, di paura e sapevano difendersi.
“È il tuo creatore che ti ha insegnato
tutto non è vero?” domandò Dubris ad un tratto.
Acilia, colta alla sprovvista, annuì.
“E tu l’hai tramandato alla tua progenie, e
ad altri chissà quanti vampiri, tra cui me” continuò lui, come se parlasse da
solo.
Acilia esitò per un momento, poi annuì di
nuovo.
“Beh” fece Dubris tristemente, con un mezzo
sorriso “Comunque vadano le cose, il tuo nome sarà per sempre ricordato”.
Giorno 15
Mi ha
trovata, lo sapevo che non potevo sperare di farla franca per sempre. Vampiro
mi ha trovata. Quando l’ho visto è stato come ripercorrere uno dei miei tanti
incubi. Lui ha la pelle così bianca, gli occhi così freddi, mi terrorizza. Con
lui c’era quello che sembrava un bambino. Era un vampiro anche lui, non credevo
che esistessero vampiri bambini. Com’è possibile essere così crudeli da
trasformare un bambino in un vampiro?
Cerco di
ricordarmi a mente fredda e lucida quello che Vampiro mi ha detto. Non voleva
farmi del male, voleva mettermi in guardia. Dice che i vampiri sono sulle mie
tracce. Ma perché, cosa ho fatto? Ha detto che sono stata una stupida, che è
stata colpa dell’articolo. Vorrei poter tornare indietro nel tempo e rifare
tutto da capo, vorrei non scrivere quello stupido articolo per cui i miei
colleghi mi ritengono una pazza e per cui ora i vampiri mi vogliono morta. Mi
sembra di impazzire. Domattina devo chiamare l’ufficio e dire che sto male. Ma
per quanto tempo starò male? Vorrei tanto parlarne con qualcuno, ma ho solo
questo pezzo di carta, non ho altro, non posso parlare, sarei ancora più in
pericolo o metterei in pericolo qualcun altro… Sento il cuore che batte così
forte, ha paura di fermarsi, ha paura di rimanere congelato in eterno in una
morte eterna. C’è una persona con cui potrei effettivamente parlarne, per
capire di più, ma questa persona è Vampiro. Mi ripeto che non devo avere paura
di lui, che lui voleva aiutarmi… Ma sarà poi vero? Se non è vero però, perché
mi ha lasciata andare per la seconda volta?
La verità
è che, per quanta paura io abbia, lo vorrei tanto rivedere per chiedergli
spiegazioni, per chiedergli cosa devo fare. Ha detto che avrebbe trovato un
modo per risolvere la questione, me l’ha promesso. Ma perché devo credere alle
promesse di un vampiro? Perché a Vampiro importa qualcosa di me? Le domande
sono tante e mi affollano il cervello fino a offuscarmi la vista. Forse è
meglio che io vada a dormire, anche se so già che non riuscirò. Chissà per
quanti notti non dormirò, proprio come se fossi un vampiro.
*
Il sole era calato da circa una mezz’ora ed
Eike stava tornando a casa, dopo essere stato al parco con alcuni amici.
Ormai per strada non girava tanta gente e
il ragazzino si sentì spronato ad accelerare il passo. La gente stava in casa
perché aveva paura, gli aveva detto Karline poco prima al parco. Era venuto suo
padre a prenderla, ed entrambi si erano avviati con passo frettoloso. Di cosa
aveva paura la gente? Dei vampiri? Ma tutti dicevano che non esistevano.
Continuò a camminare, attento a ogni
particolare per non sbagliare strada.
Poi sentì qualcuno urlare e lui si voltò
spaventato. In quella via si affacciavano solo botteghe e lui non capì da che
punto provenisse l’urlo. Al contrario le altre persone che come lui stavano
camminando affrettarono il passo senza voltarsi indietro. Eike decise di
imitarle, sentendosi il cuore in gola.
Svoltò a destra, pentendosene subito. Era
da lì che proveniva l’urlo.
Si nascose dietro delle botti di vino lì
vicino, col respiro affannoso. Poi alzò un pelo la testa, in modo che gli occhi
potessero vedere quello che stava succedendo.
La prima cosa che notò fu il corpo steso a
terra, con gli occhi spalancati, cosparso di sangue. Trattenne un urlo
rituffando la testa dietro il suo nascondiglio.
Quello
è morto…
Gli veniva da piangere per la paura ma
decise di stringere i denti, ricordando Imma che gli diceva di essere un uomo.
Di nuovo fece capolino con gli occhi e vide che c’era una donna, che gemeva
terribilmente, il corpo scosso dai singulti, in ginocchio. Aveva le mani unite,
come se stesse pregando. Eike capì subito perché. Quella donna aveva un fucile
puntato addosso e stava supplicando.
Un
fucile.
Ancora Eike si costrinse a non piangere e a
non urlare. Non doveva attirare l’attenzione.
L’uomo che aveva in mano il fucile aveva
un’aria divertita. Indossava una divisa marrone, sembrava una divisa
importante. Ce n’erano altri vestiti come lui, alcuni annoiati, alcuni che
ridevano.
Eike pensò che quelle dovevano essere le
famose Camicie Brune di cui parlava papà. Ma papà ne parlava bene, diceva che
mantenevano l’ordine. Se papà ne parlava bene non potevano essere cattive, Eike
avrebbe potuto benissimo uscire allo scoperto.
Ma lì c’erano un uomo morto e una donna che
piangeva pensando di fare la stessa fine. E quelle Camicie Brune ridevano, come
potevano essere buone?
Eike non capiva e questo non capire lo
tenne ancorato stretto al suo nascondiglio.
Diventerai
come papà.
Era la voce di Imma che si insinuava
fastidiosamente nella sua testa. Era questo che voleva dire Imma? Che papà e le
sue Camicie Brune erano cattivi? Ma lui che doveva fare per non diventare come
lui, per diventare uomo? Uscire dal nascondiglio, dirne quattro a quei soldati
e salvare la donna?
Stava sudando, nonostante facesse freddo.
Scivolò contro la botte e si sedette per terra, sentendosi tremare, e a ogni
singulto della donna tremava di più. Non gli restava altro da fare che
aspettare, pregare che se ne andassero lasciando in pace quella povera donna, e
che non vedessero lui.
“Perché non ti spogli?” disse una voce,
probabilmente uno di quegli arroganti rivolto alla donna.
Per tutta risposta quella pianse più forte.
Eike cominciò a sperare. Se lei si fosse
spogliata loro sarebbero stati contenti e l’avrebbero lasciata vivere? Credeva
di sì ma non sentiva più niente e il non capire quello che stava succedendo lo
avrebbe fatto impazzire. Decise, con coraggio per lui sovraumano, di buttare un
occhio al di là della botte.
Le Camicie Brune sembravano soddisfatte
mentre la donna piangendo stava cercando di sfilarsi la gonna con mani
tremanti. Ma il fucile era ancora ben puntato dritto alla sua testa.
Eike stava per ritirare di nuovo la testa
quando accadde qualcosa di strano. Sembrava quasi una folata di vento ma poi
capì che era una persona che aveva corso fino all’uomo col fucile. Era un
ragazzo, e gli aveva preso il fucile con una facilità incredibile e l’aveva
steso per terra un secondo dopo.
Non era possibile, non era possibile avere
tutta quella forza ed essere così veloce!
Eike si dimenticò di essere in pericolo e
rimase a guardare quello che poteva essere un supereroe buono dare strattoni
alle altre Camicie, tutte ugualmente confuse e arrabbiate.
Il ragazzo fortissimo urlò qualcosa di
incomprensibile alla donna per terra, agghiacciata. Eike non aveva capito
niente ma evidentemente lei sì – o forse l’aveva intuito – perché si alzò con
foga e prese a fuggire. Stava venendo proprio verso di lui.
Ma una delle Camicie si era allontanata
dalla rissa che aveva coinvolto tutte le altre e puntava il fucile verso la
donna che correva. Solo Eike l’aveva visto, doveva
fare qualcosa. Si sentì all’improvviso così pieno di coraggio alla vista di
quel ragazzo così forte che voleva salvare la donna che si alzò in piedi
uscendo dal suo nascondiglio e urlò a pieni polmoni: “A terra!”.
Poi accadde tutto in un attimo.
La donna si gettò a terra, il ragazzo eroe,
accortosi di quello che stava per succedere, diede una spinta alla Camicia che
stava per premere il grilletto.
E poi Eike sentì uno sparo, seguito da un
fischio e quello fu l’ultimo cosa che udì. Si sentì spinto da una forza
micidiale per terra e qualcosa che gli faceva male proprio nel petto o nella
pancia, non capiva. Chiuse gli occhi, con un’improvvisa voglia di dormire.
Che
sta succedendo…
Aveva un gran dolore e quello gli fece
riaprire gli occhi. Il ragazzo eroe troneggiava sopra di lui ed Eike si sentì
sollevato.
Lui
mi salverà…
Notò per la prima volta che anche lui aveva
una divisa da soldato, ma non era marrone, e questo lo rincuorò. Poi vide che
era molto magro, sciupato, pallido e aveva degli occhi strani. Costrinse le
palpebre a stare ancora aperte e capì che quello era proprio il soldato del suo
sogno.
Aveva anche i suoi stessi denti.
*
Se la faccenda di Emily sarebbe stata mai
risolta, Eike non lo sapeva. Aveva agito d’impulso, lo sapeva bene, ma Jacque
sembrava averlo già perdonato.
La verità era che creare una un vampiro donna
lo allettava incredibilmente.
Chissà come sarebbe andata se le SS non gli
avessero sparato, avrebbe continuato a vivere nella paura? Si sarebbe sposato?
Avrebbe avuto dei figli? Avrebbe fatto pace con Imma?
Jacque l’aveva dannato ma rimaneva pur sempre
il suo eroe. Non gli rimproverava niente, semmai aveva odiato suo padre, le SS,
tutta la Germania. Però gli veniva così difficile obbedirgli, aveva una rabbia
strana in corpo, quella rabbia adolescenziale da cui forse non era mai potuto
uscire.
Sospirò. Aveva detto ad Acilia e a Jacque
che si prendeva qualche giorno per rivedere la sua città natale.
La sua Berlino, la sua Berlina maledetta,
era lei che lo aveva dannato per sempre. E quando parlavano di Hilter, della
Seconda Guerra Mondiale e del Nazismo lui sapeva chi odiare.
Calciò un sassolino per strada. Era stata
punita, era stata povera, divisa, privata della sua identità ma ora eccola lì
che risplendeva come una grande città. Lui era stato punito perché era al posto
sbagliato nel momento sbagliato, e non sarebbe mai potuto ritornare a casa.
Guardò i grandi edifici, le strade
ampissime, le auto e i tram che ci sfrecciavano sopra. I piedi lo stavano
portando al cimitero. Era da tantissimo tempo che non andava a Berlino, non
poteva non fare un saluto.
A volte pensava che la vita di un vampiro
non fosse male. L’aveva pensato fin da subito, lui, piccolo dodicenne con le
zanne, che sarebbe stato fortissimo, che non avrebbe avuto più paura di niente,
neanche delle SS. Ma, col tempo che passava, si era reso conto che lui non
sarebbe mai cresciuto. E che avrebbe dovuto bere sangue per sempre, spaventare
la gente, lui era diventato tutto ciò che gli faceva una gran paura da umano.
Lo pensava ancora che la vita di un vampiro non fosse tutta una schifezza. Non
per Jacque, che avrebbe vissuto per sempre ventenne, che avrebbe potuto avere
tutte le donne che voleva.
Eike calciò un altro sasso, all’entrata del
cimitero. La sua tomba doveva essere ancora lì, da qualche parte, ma non era
quella che voleva vedere.
Camminò tra le tombe, chiedendosi quante di
quelle fossero vuote all’insaputa dei familiari, finché non la trovò. Non
credeva in Dio ma congiunse le mani lo stesso mentre leggeva quel nome.
Imma
Lehmann
1918
– 1989
La foto la rappresentava proprio come l’aveva
vista l’ultima volta. Rugosa, coi capelli bianchi, sembrava incredibile che per
lei fosse passato tutto quel tempo e per lui invece no.
Berlino
è divisa, Eike, non ho mai conosciuto la pace.
Eike sospirò tristemente, dato che non
poteva piangere. Imma non era neanche riuscita a vedere il muro cadere. Non
aveva visto Berlino prosperare, non aveva potuto sperare in niente, contando
solo i giorni bui che la separavano dalla fine.
C’erano dei fiori sulla tomba. Qualche
figlio o qualche nipote allora andava a farle visita. Il pensiero rincuorò per
un momento Eike, ma poi gli prese quasi una stretta allo stomaco, pensando che
gli sarebbe tanto piaciuto conoscerli, i figli e i nipoti di Imma.
Non
puoi Eike, non sarebbe giusto.
Era stata egoista Imma a proibirgli una
cosa del genere? No, probabilmente era stata solo ragionevole, come al solito.
Poi figli e nipoti, e anche i figli dei
nipoti, sarebbero morti. Eike si sentiva un vecchio, vecchissimo, nonno che
avrebbe sepolto tutti quanti, e sarebbe rimasto solo.
Ma del resto, solo lo era già.
Con la mano diede un bacio alla foto di
Imma, poi ritornò sui propri passi, evitando accuratamente di cercare la
propria tomba, per non sentirsi un fantasma di se stesso.
Dopo aver finalmente "finito" gli esami (in malo modo ma va beh) eccomi qui!
Direi che finalmente è stato dato il giusto spazio ad Eike ;)
RedTears,
unica recensitrice! XD Intanto grazie per l'entusiasmo mostrato per
l'ultimo capitolo (non avevo dubbi che ti sarebbe piaciuta la parte in
cui Acilia ammazza Manlio..)! Poi, il corpo sarà morto ma Acilia
si sente l'anima morta perché in quel momento si è vista
privata di se stessa, insomma, non può essere lei quella che ha
appena ucciso il suo ragazzo! --> Perlomeno questo è il
ragionamento che avviene nella sua testa, si sente cattiva e
senz'anima, poi che sia giusto o sbagliato è lo stesso XD Mi
dispiace ma come vedi non scoprirai molto presto (ma parliamone, lo
scoprirai? o_O) cos'è successo a Marcus! XD
Nene,
che mi manda messaggi misteriosi che si nascondono XD grazie mille,
sono contenta che ti piaccia! sì ci metto un bel po' ad
aggiornare, troppa roba da fare XD
Alla prossima e buone vacanze a tutti :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** L'eroe ***
Capitolo 5
CAPITOLO V
L’EROE
Era sempre stata una ragazza anonima, anzi,
totalmente ignorata dal resto della popolazione inglese. Un po’ più bassa
rispetto alle media, mingherlina, i capelli di un castano sbiadito, che lei aveva
sempre definito color topo, degli occhiali da vista troppo grandi per la sua
faccia.
Aveva sempre cercato di passare
inosservata, a scuola prendeva posto nell’ultimo banco, all’università molto
spesso neanche si presentava a lezione, usciva poco la sera. Coltivava in
silenzio la sua passione per la scrittura, ignorando i commenti di quelli che
la definivano “strana”, i compagni di scuola sapevano essere crudeli, ma i
colleghi di lavoro non erano da meno.
Ma perché lei, che aveva sempre fatto di
tutto per essere normale, era considerata strana? Perché dei vampiri erano sulle tracce di una
ragazza bassa e dai capelli color topo? I capelli color topo erano il sintomo
di un sangue non buono da bere, ne era sicura.
Emily Dixon non si dava pace. Andava avanti
e indietro nella sua piccola stanza.
Era così assurdo. Doveva pure mentire ai
suoi genitori per stare a casa, come se marinasse la scuola. Ma qui si trattava
di lavoro, le cose non potevano andare avanti così per sempre. Lei non ci
voleva vivere per sempre nella casa dei suoi genitori!
Era stata tutta colpa di quell’articolo. Se
lei si fosse messa il cuore in pace e avesse capito che Vampiro in ogni caso
non l’avrebbe cercata per ucciderla, lei non avrebbe scritto quelle stronzate.
Ripensandoci era ovvio che Vampiro
non la volesse uccidere, se no l’avrebbe già fatto, e senza difficoltà.
Non
puoi sfuggire ad un vampiro.
Così non andava. Avrebbe dovuto presentarsi
davanti ai vampiri, ecco cos’avrebbe dovuto fare, giurare di non avere
intenzione di denunciare nessuno di loro e… Le gambe le diventarono molli solo
al pensiero.
Oppure poteva andare dai cacciatori,
sputare loro in faccia ogni verità, chiedere loro protezione. Ma sarebbero
stati in grado di dargliela protezione? Senza contare che avrebbero chiesto una
descrizione dettagliata di Vampiro, e lei non avrebbe potuto negargliela.
Vampiro sarebbe stato trovato e torturato, e tutto perché non aveva voluto
ucciderla. No, sarebbe stato troppo ingiusto. Emily sapeva che era meglio
pensare a salvarsi la pelle invece di farsi problemi di morale ma… Vampiro
l’aveva messa in guardia, era stato gentile con lei.
I
vampiri gentili?!
Emily trattenne un singhiozzo. Era tutto un
gran caos, lo sentiva dentro la sua testa che martellava furioso. Aveva bisogno
di aria, ecco di cosa aveva bisogno! Vampiro le aveva raccomandato di stare in
casa ma ora era giorno. Diede un’occhiata all’orologio e poi un’altra
scrupolosa occhiata fuori dalla finestra. Il sole sarebbe tramontato tra una
mezz’oretta, forse anche di più. Aveva tutto il tempo di farsi un giretto.
Uscì da camera sua, si mise un giubbotto
addosso e si diresse verso il portone. I suoi genitori erano entrambi a lavoro
e Michael era all’allenamento di calcio. Sarebbe tornata prima che rientrassero
così non avrebbe dovuto spiegare perché lei, malatissima, non andava a lavoro
ma usciva per fare delle passeggiate.
Chiuse il portone dietro di sé e girò la
chiave dentro la serratura due volte.
Restò un attimo ferma sugli scalini per
assaporare l’aria fresca e frizzante sulla sua pelle. Ormai gennaio stava
volgendo al termine, il freddo era pungente ed Emily si chiuse bene il
giubbotto sentendosi la pelle d’oca. Un attimo dopo pensò che forse prendersi
un bel raffreddore e anche la febbre non sarebbe stata una cattiva idea. Non ne
poteva più di fingere. Fosse stata dieci anni più giovane sua madre se ne
sarebbe accorta subito che non esisteva nessuna malattia; Emily, ventisette
anni compiuti, se ne stava tranquillamente in camera sua, senza che sua madre
venisse a vedere come stava o si accertasse che avesse preso le medicine.
Prese a camminare, senza pensare a una
destinazione precisa. Avrebbe camminato un po’ e poi sarebbe tornata a casa,
prima che il sole tramontasse.
I pensieri le frullavano in testa in una
danza frenetica. Cercava di riacciuffare ogni ricordo della conversazione che
aveva avuto con Vampiro che le desse un po’ di speranza…
Troverò
un modo, te lo prometto…
Ma che modo avrebbe mai potuto trovare?
Ucciderla? Trasformarla?
Emily provò un brivido d’orrore ma poi
strani pensieri le vennero in mente. Se fosse stata un vampiro non sarebbe
stata più anonima e mediocre. Non sarebbe stata più canzonata, la gente
l’avrebbe temuta…
Scosse la testa come se davvero rispondesse
a qualcuno, infastidita. Ma che diavolo le saltava in mente? Vivere per sempre,
al buio, fuggendo, con la paura di essere denunciata? Nutrirsi delle persone?
Per un momento fu disgustata, e come se
volesse lasciarsi alle spalle i suoi folli pensieri prese a camminare più
veloce. Si ritrovò in un sentiero di campagna dove non era mai stata. Si guardò
intorno. Tornare a casa non sarebbe stato difficile, però… non le sembrava di
aver camminato così tanto…
Il cuore le saltò un battito mentre lei
alzava lo sguardo verso il cielo. Il sole stava tramontando.
A
casa, subito.
Si voltò e percorse il sentiero a ritroso.
Ma dopo poco si rese conto che tornare a casa non sarebbe stato così facile.
Probabilmente si era messa a camminare senza stare attenta a dove andava… Ma si
poteva essere più stupidi?!
C’era un albero lì sulla destra, sì, se lo
ricordava. Era vicino a quella che doveva essere una villa abbandonata. Okay,
sì, ricordava di esserci passata davanti. Doveva sorpassarla e poi sarebbe
dovuta ritrovarsi sulla strada principale.
Sentì un cigolio e vide che la porta della
villa si stava aprendo. Ma come, era abitata? Si voltò a guardarla. Era una
casa in mattoni, ma sembrava molto vecchia.
I
vampiri si nascondono nelle case disabitate…
Sulla soglia era apparsa una donna dai
lunghi capelli neri ed Emily ebbe un sussulto. Era una donna molto giovane, una
ragazza, e anche molto bella. Emily si sentì stupidamente vecchia e brutta in
confronto.
La ragazza stava inspirando con aria
trasognata. Sembrava non averla vista ed Emily rimase qualche secondo lì, come
ammirata.
Dopo un po’ la ragazza dai capelli neri
diede segno di essersi accorta di lei. Aveva uno sguardo strano, gli occhi di
un colore bizzarro, un’espressione che non aveva nulla di amichevole.
Emily sentì il suo cuore che batteva forte,
ma rimase lì, ferma, a sostenere il suo sguardo per qualche attimo. Poi la
ragazza distolse il volto e le diede le spalle. Tornò dentro casa, e la porta
si chiuse, e tutto tornò come prima, come se fosse solo apparso un fantasma.
Acilia era di nuovo in casa.
Jacque, seduto sul divano a esercitarsi
nella lettura inglese, la guardò.
“Non dovevi andare a mangiare?”.
“Ci vado più tardi” replicò l’altra con una
smorfia.
Il ragazzo chinò di nuovo lo sguardo sul
giornale, ma non lesse più niente. La sua mente lavora febbrile. Doveva
approfittarne in quel momento, ma come le poteva chiedere una cosa così
delicata?
Acilia aveva quasi duemila anni. Che in duemila
anni non avesse mai avuto un amico
umano? Però era solo da trecento anni che esisteva la Rappresentanza
Vampiresca, tutto prima poteva passare sotto silenzio…
Ma come poteva parlare senza che lei si
rendesse conto che lui parlava proprio della Dixon?
“Aci” tentò.
Lei lo guardò e lui alzò un pelo il capo.
Doveva smetterla di sentirsi in soggezione ogni volta che si guardavano.
“Tu credi in una possibile convivenza tra
vampiri e umani…” azzardò lui.
Acilia aveva uno sguardo imperscrutabile e
lui andò avanti: “Ma se non vogliamo che gli umani ci conoscano come sarebbe
possibile questo?”.
Jacque imprecò nel pensiero. Tanto valeva
fare nome e cognome di Emily.
“È ovvio che non è possibile, ora come ora”
rispose tagliente la ragazza.
Lui sgranò gli occhi. “Quindi credi ancora
che in futuro potrebbe essere possibile?”.
“Non lo so cosa credo, Jacque. Perché mi
fai queste domande?”.
Jacque deglutì. Decise di rischiare il
tutto per tutto. “Perché se ci credi davvero allora non permetteresti mai
che…”. La sua frase sfumò nell’aria, convinto che Acilia avesse afferrato. Lei
non rispondeva e Jacque capì di aver fatto centro. “Non hai mai avuto un amico
umano?”.
Acilia fu talmente veloce che Jacque neanche
si accorse subito che lei era lì, a un palmo dal suo naso. Il sangue prese
quasi a raggelargli, come al solito.
“Perché usi proprio questa parola? Amico?”.
“Cos’altro…”.
Acilia aveva un’espressione quasi cattiva, Jacque ne fu per un momento
spaventato.
“Non sarai mica amico della Dixon?”.
Lui scosse automaticamente la testa. No,
amico no, però cos’altro poteva essere se cercava in tutti i modi di
proteggerla? E poi, anche se fosse stato, sarebbe stato così tragico?
Acilia rilassò il volto. “Smettila di voler
fare l’eroe, ti prego”.
Jacque abbassò lo sguardo. L’aveva già
sentita quella frase.
“Si tratta di qualcosa per cui non puoi combattere” continuò la sua
creatrice.
Jacque rialzò il capo verso di lei. “Tu
combattevi per qualcosa di molto più grosso”.
Fu il turno di lei di abbassare lo sguardo.
Aveva un’aria vagamente sconfitta, la stessa che le vedeva sul volto ogni volta
che lui le diceva che degli umani loro si nutrivano.
“Ma come” fece, quasi in un pigolio “sei
stato proprio tu a dirmi che la coesistenza è pura utopia”.
Jacque ebbe l’improvvisa voglia di
rimangiarsi tutto, ogni parola e di abbracciarla. Ma non lo fece.
“Non puoi pretendere che le cose cambino da
un giorno all’altro, si comincia dalle piccole cose no?” disse.
Acilia riaffilò lo sguardo. “Come la
Dixon?”.
“Io non ci credo che in tre secoli non
abbiamo mai avuto un alleato umano” riprese Jacque “Ci dev’essere un modo per
tenerselo stretto ed essere sicuri che non vada a…”.
“Io non ne so niente, Jacque!” sbottò
l’altra “Sono fuori da quella roba!”.
“Tu ci eri dentro fino al collo!” gridò
Jacque, alzandosi in piedi “E anche ora che sei fuori dalla politica sei sempre
insieme a Dubris! Qualcosa saprai! Ah, scusa, forse non parlate… scopate e
basta…”.
La mano di Acilia partì veloce e prima che
potesse accorgersene Jacque sentì un bruciore alla guancia sinistra. Acilia era
davanti a lui, furiosa, con la mano alzata, i denti in fuori.
“Non c’è niente che tu debba sapere, ficcatelo in testa” ringhiò.
Jacque si massaggiò la guancia, pentendosi
di quello che aveva detto. Acilia non l’aveva mai messo al corrente di niente
che riguardasse la politica. Non si fidava di lui, lo sapeva bene. Ma non
voleva che addirittura lo odiasse. Pensò di scusarsi ma in quel momento la
porta di casa si aprì con uno scatto e una folata di vento li fece voltare
entrambi.
Eike era davanti a loro con un gran sorriso
e due foglietti di carta in mano. “Vi ho portato due cartoline da…”. Non finì
la frase, accorgendosi degli sguardi accesi dei suoi amici.
“Oh, me ne vado qualche giorno e qui non
cambia mai niente! Sempre dietro ai vostri dissidi sessuali!”.
*
“Lascialo morire!” gridò Acilia, da qualche
parte.
Jacque la ignorò e si precipitò sul bambino
morente. Aveva una ferita proprio in pancia, non ce l’avrebbe fatta. Lui ne
sapeva qualcosa di ferite da armi da fuoco.
Acilia invase prepotentemente il suo campo
visivo, come una furia. Per tutto il tempo era rimasta nascosta, disapprovando
quello che lui voleva fare. Ora però non c’era più nessuno – le Camicie brune,
la donna, tutti erano fuggiti dopo lo sparo inflitto a un bambino innocente – e
lei era saltata fuori selvaggiamente, ancora più arrabbiata. “Te l’avevo detto!
Te l’avevo detto di non immischiarti!” urlava.
Jacque si sentiva vuoto dentro. Ma non come
i primi tempi dopo la sua trasformazione, privato dell’anima, ora sentiva
proprio il nulla, e gli dava fastidio, lo logorava, terribilmente… Quello era
solo un ragazzino e sarebbe morto, per colpa sua, perché nel suo disperato
tentativo di salvare una donna innocente aveva sbagliato. Una vittima ci doveva
comunque essere.
Il ragazzino stava annaspando, gli occhi
spalancati, fissi su di lui.
Non poteva lasciarlo morire!
“Non lo fare, Jacque” disse Acilia. La sua
voce si era abbassata, sembrava più ferma, controllata, ma vibrava un poco. “So
cosa vuoi fare, non farlo!”.
“Ma è colpa mia!” esclamò Jacque,
guardandola disperato.
Quasi si aspettava che Acilia negasse, che
cercasse di consolarlo, che gli mostrasse affetto e compassione. Ma lei disse
solo: “Lo so, ma non peggiorare la situazione”.
Jacque sentì di odiarla. Perché lei, che
aveva trasformato lui senza alcun motivo, ora pretendeva che lui non
trasformasse un ragazzino che sarebbe morto!
Guardandola come mai aveva fatto estrasse i
denti, poi si voltò verso il bambino. Non sembrava spaventato, forse perché non
ci riusciva, forse perché aveva troppo male, forse perché stava morendo.
“Lasciagli la morte” supplicò Acilia,
cambiando tono “Lasciagli la morte…”.
La rabbia di Jacque crebbe. A lui lei
gliel’aveva donata la morte, quando avrebbe potuto essere ancora in vita. Non
gli aveva lasciato la vita, la vita! Ora lui voleva donare un’altra vita a qualcuno che di vita non ce
ne aveva più, cosa c’era di male in questo?
“È solo un bambino!” continuava Acilia.
“Appunto!” urlò Jacque, furioso.
“Non donargli un’esistenza a metà!” gridò
Acilia di rimando “Meglio la morte…”.
Jacque, odiandola, si avvicinò al collo del
ragazzino e affondò i denti nella carne. Lui non si dimenò ma urlò, e Jacque
sentì la paura nella sua voce. Gli dispiaceva, ma lo stava salvando, non lo
stava dannando, lo stava salvando…
“La morte…” continuava a dire Acilia, con
voce fioca. Ma Jacque continuava a succhiare e Acilia ritrovò la voce, e la sua
autorevolezza: “Jacque, io ti ordino di smetterla!”.
Non
me ne frega un cazzo di quello che mi ordini.
“Smettila di voler fare l’eroe!”.
L’eroe… Jacque non avrebbe dovuto
immischiarsi nelle faccende umane, cercare di fermare le Camicie brune era
pericoloso. E poi lui non era più umano.
Cominciò a sentire l’anima del bimbo che
veniva via insieme al sangue e si fermò. Si morse il polso e lo mise sopra la
bocca del ragazzo. Gocce di sangue gli colarono dal braccio che il ragazzino
accolse in bocca e mandò giù.
Sembrava si stesse riprendendo.
Acilia si era resa conto che era troppo
tardi, non diceva più niente.
Passò qualche minuto, il ragazzino prese a
tossicchiare, poi, con gli occhi colmi di terrore, si tastò la pancia. Non
c’era più alcuna ferita. Con uno scatto si mise seduto e la mano passò al
collo, dove c’erano due profondi buchi, e lui urlò. Jacque gli mise le mani
sulle spalle cercando di calmarlo ma lui continuava a dimenarsi e a urlare.
Gridava qualcosa in tedesco, Jacque non capiva, ancora non l’aveva imparato il
tedesco. Acilia invece sì – lei imparava tutto in fretta – e guardava il
ragazzino con sguardo duro. “Sta dicendo che i vampiri esistono” disse.
Le storie sui vampiri correvano. Jacque la
ignorò e prese tra le mani il volto del bambino, cercando di rassicurarlo.
“La formula, Jacque” disse la ragazza, lo
sguardo abbassato ma il tono duro.
“È proprio necessario?”. Jacque non voleva
spaventare ancora di più quel ragazzino dicendogli cose incomprensibili che
avrebbero potuto suonare come una stregoneria. Beh, che poi era qualcosa di
peggio.
“Sì”.
“Tanto non capisce!”.
“Hai voluto farlo” sbottò Acilia, a denti
stretti “Ora lo fai per bene!” urlò poi alzando la testa.
Il bambino stava lentamente
indietreggiando. Parlò di nuovo ma tanto Jacque non capiva.
Lo prese per il polso e scavò nella memoria.
Le terribili parole che gli aveva detto Acilia la notte in cui disgraziatamente
si erano conosciuti.
Aveva un senso di vomito, anche se il
vomito non lo poteva più avere. Si rese improvvisamente conto di quello che
stava per infliggere a un altro essere umano e, se avesse potuto tremare,
l’avrebbe fatto visibilmente.
“Più il cuore non ti batterà, più lacrime
non avrai…” cominciò, a bassa voce. “La fame incalzerà, e il sangue verserai…”.
Sentì qualcosa di freddo toccargli il braccio e capì che Acilia gli aveva preso
la mano. La stringeva, e, nonostante il freddo, ne immaginava il calore che lei
avrebbe voluto dargli.
Le strinse a sua volta la mano, per farle
capire che c’era e che non la odiava, che non la voleva mai lasciar andare, e
andò avanti: “Sposo delle tenebre, nemico della luce, mai ti si chiuderan le
palpebre, mai fu più la vita truce…”.
Il ragazzino parlava, confuso, urlava,
voleva andarsene, ma Jacque lo teneva stretto, preparandosi per l’ultima,
terribile, frase. Forse era meglio che non lo capisse, il francese.
“Questa notte morirai… torna al tuo
creatore… quando risorgerai…”. La voce gli si era spezzata, aveva voglia di
piangere?
Mollò la presa e il ragazzino, come da
copione, corse via terrorizzato.
“Il tuo creatore veglierà sempre su di te”
aggiunse Jacque in un sussurro, ma era certo che Acilia l’avesse sentito,
perché gli strinse non solo la mano, ma tutto il braccio.
Lui si voltò e lei lo baciò teneramente.
Anche lei aveva voglia di piangere.
*
“Fa domande, continua a fare domande sulla
Dixon”.
“In che senso?”.
“Su come potere tenerla nascosta”.
Eike si immobilizzò, sull’uscio di casa.
Quelle erano le voci di Acilia e Dubris, e provenivano da dietro la porta
chiusa della cucina.
Scrollò le spalle, avanzando un altro passo
verso il portone. Che Jacque si fosse fissato con la Dixon l’avevano capito
tutti. Ma non capiva che le due uniche alternative che aveva quella donna erano
la morte o la trasformazione? Non era una scelta difficile per Jacque, l’aveva
già compiuta in passato.
Si bloccò.
“Ma nelle ricerche come siete messi?”.
Forse era proprio perché aveva già compiuto
una scelta simile in passato, che non voleva compierla di nuovo.
“Siamo stati parecchie volte sul posto di
lavoro. Ma ogni volta ci dicono che la Dixon è malata”.
“Beh, sarà una malattia lunga, no?”.
Eike sbuffò. Acilia era tanto intelligente
ma spesso e volentieri dubitava che il suo cagnolino Jacque potesse fare
qualcosa contro di lei. Come la sua creazione… Jacque gli aveva raccontato che
Acilia non voleva che lui – Eike – venisse trasformato, piuttosto lei lo
avrebbe lasciato morire. Ma allora perché si faceva tanti scrupoli sulla Dixon?
“Come sei ingenua, Aci” stava dicendo
dolcemente la voce di Dubris “Non credi piuttosto che sia stata avvertita?”.
Momento di silenzio. Eike mandò al diavolo
la sua fame e si avvicinò con passo felpato alla porta. Jacque si sarebbe
chiesto dove diavolo era finito.
“Avvertita?” fece l’altra “E da chi? Da…
Jacque?”.
“Credi che non sarebbe in grado di farlo?”.
Un altro momento di silenzio ed Eike captò
la risposta muta di Acilia. Sì, Jacque, da eroe
quale voleva essere, ne sarebbe stato in grado ed Eike si rese
improvvisamente conto che Acilia non era né stupida né ingenua. Tentava solo di
difendere Jacque.
“Io… non saprei, mi sembra strano”.
“Ti sembra strano? Ti ricordi come si è
infervorato riguardo a questa faccenda?”.
“Jacque è uno che si infervora”.
“Per le cose a cui tiene”.
Eike sentì un respiro affannoso e per un
momento si chiese se Dubris e Acilia stessero solo parlando, lì chiusi in
cucina.
“Anche tu tieni molto a lui, non è vero?”
continuò la voce di Dubris.
“Si capisce, è la mia progenie”.
“Non gli dirai mai del patto del sangue,
giusto?”.
Eike si fece più vicino perché la voce di
Dubris stava diventando quasi un sussurro.
“No, certo che no…”.
“Lo sai che…”.
La voce di Dubris sfumò ed Eike imprecò
nella mente.
Deve
mettersi a fare la voce sensuale proprio ora!
“Quando è nato questo patto del sangue?”
fece la voce di Acilia dopo un po’ “Chi è che l’ha inventato?”.
“Lo scorso presidente” rispose pacatamente
Dubris “portava gli umani dinnanzi all’intera Rappresentanza Vampiresca dicendo
che avrebbero fatto un patto… Hai
presente il nostro penultimo presidente no? Beh, puoi immaginare”.
“Facevano un banchetto?”.
Eike rabbrividì. Cos’aveva a che fare
questo finto patto con la Dixon?
“Lyuben ha portato dignità a questo orrore
e quello che viene chiamato patto del sangue, oggi, come sai, è un vero patto”.
“Ma funziona?”.
I due secondi di silenzio che seguirono
furono snervanti per la fame di Eike ma il vampiro non riusciva a staccarsi
dalla porta.
“Uno dei membri più anziani della
Rappresentanza è fidanzato a una donna umana. Lei è stata la prima e unica ad
aver sperimentato il patto”.
In
cosa cavolo consiste questo patto?! Eike dubitava che uno dei due l’avrebbe
detto esplicitamente prima o poi. Si trattenne dal piombare in cucina e
chiederlo.
“Ed è andato tutto bene?”.
Dubris se ne uscì con una risatina. “Lei è
ancora in vita” disse, come se questo fosse sufficiente.
Eike sperava che Acilia facesse altre
domande ma la coppia di vampiri piombò di nuovo nel silenzio. Frustato, stava
per allontanarsi e dirigersi verso l’uscio quando la voce di Acilia lo fermò
ancora una volta.
“Se la Dixon facesse questo patto… sarebbe
irrimediabilmente legata a Jacque giusto?”. Era una voce strana, insicura,
tremante.
“Non necessariamente” replicò Dubris.
“Beh, conosco Jacque… E so che si
sentirebbe responsabile di ogni cosa… Sì, beh, sarebbe lui che si sentirebbe
legato a lei”.
Eike non capiva. Perché Acilia e Dubris volevano vietare a Jacque di salvare la
Dixon con quel patto del sangue? Se era un patto introdotto dal presidente, riconosciuto dalla
Rappresentanza, che male c’era?
“È per questo” continuò Acilia “che non gli
parlerò mai del patto del sangue”.
Possibile che Acilia fosse gelosa? Gelosa
di Jacque? Per via di una patetica umana che scriveva articoli stupidi e che
era pure brutta?
Dubris non diceva più niente e dei passi e
delle sedie che si muovevano suggerirono ad Eike di tagliare la corda. Se
Acilia si fosse accorta che lui non era uscito come aveva detto e che per di
più si era messo ad origliare non sarebbe stato piacevole. In un attimo fu
fuori casa e mentre camminava ripensò al patto del sangue. Del sangue… In che cosa avrebbe potuto consistere?
Ma, cosa ancora più importante, avrebbe
dovuto dirlo a Jacque?
Un sorrisino gli increspò le labbra mentre
vedeva davanti a sé Jacque che gli chiedeva dove fosse finito.
Avrebbe tenuto un po’ per sé quel segreto,
per un po’, o forse anche per sempre.
*
Acilia guardò con diffidenza la tomba che
Jacque stava fissando.
“Guarda che dovrebbe uscire da solo” gli
disse per l’ennesima volta.
“Che male c’è se tiriamo fuori la bara?
Sarebbe un piccolo aiuto” ribatté quell’altro.
Acilia alzò gli occhi al cielo, e l’altro
continuò: “Pensa a come ti sei sentita tu quando ti sei ritrovata sotto terra,
sepolta viva”.
Lei ci provò, ci provò davvero. “Non me lo
ricordo” ammise infine.
Era una notte molto ventilata. Acilia
sentiva l’aria fresca pungerle la pelle, le era sempre piaciuta quella
sensazione. La sua mano che veniva avvolta dal vento, riemersa da quella fossa
nel terreno… L’aria l’aveva fatta sentire viva. Era uscita da quella tomba ed
aveva pensato sono viva! Il vento la
ingannava. Lo sentiva sulla pelle, sentiva i suoi capelli danzarle intorno al
volto, li vedeva quei fili neri che le oscuravano la vista ma lei non era
affatto viva.
“Beh, prova a immaginare” stava dicendo
Jacque, irritato “un bambino si sveglia in una tomba sotto terra: morirebbe di
paura!”.
Acilia, suo malgrado, sorrise. “Non può
morire due volte”.
Era passata una settimana dallo scontro di
Jacque con le Camicie brune. Acilia gliel’aveva detto che non doveva
immischiarsi. I vampiri esistevano da sempre ma non potevano intralciare la
storia. Perché, le aveva chiesto Jacque. Era così ovvio. Gli umani prima o poi
si sarebbero resi conto che i vampiri non erano solo personaggi dell’orrore. E
l’avrebbero fatto presto, se il presidente non si fosse dato una calmata.
Jacque si era chinato a terra, e aveva
cominciato a scavare.
Acilia lo guardò, mentre si scostava i
capelli castani dalla fronte come per asciugare la fatica. Non se ne rendeva
conto, non ancora, che non sudava più.
Lei se n’era andata dal PPC poco dopo aver
creato Jacque. Aveva letto la delusione nel volto di Lyuben, la gelosia in
quello di Dubris, ma non sapeva se le due cose avessero un nesso. Certo, Jacque
le faceva uno strano effetto.
Anche lì, in quel momento, lei non riusciva
ad ordinargli di smetterla di scavare perché sapeva che quello che voleva lui
era una cosa giusta. Aveva una bontà
d’animo umana che lei aveva dimenticato, e non gliela voleva togliere, non
gliel’avrebbe mai tolta, non l’avrebbe fatto di nuovo…
Aveva creato Jacque, si era pentita e si
era maledetta, e non sapeva più in cosa credere. Poi c’era lui, che non la
odiava e le stava accanto, che la baciava e la teneva stretta, lei, che aveva
millenovecento anni più di lui. E le chiedeva perché lottasse tanto per la
coesistenza tra vampiri e umani…
Stava tirando fuori la bara, faceva fatica.
Era buio ma lo vedeva bene, nessun altro umano sarebbe riuscito a vedere
esattamente cosa stava succedendo. Lei era più vecchia, più forte, avrebbe
potuto aiutarlo. Ma non voleva che lui pensasse che lei approvasse quello che
stava facendo. Doveva sempre essere forte, autoritaria, irremovibile. O prima o
poi lui le si sarebbe ritorto contro.
Ci
credi davvero in quello che dice il PPC?
La bara era ferma e silenziosa. “Non si è
ancora svegliato” disse Jacque in un sussurro.
Lei non era andato a disseppellire lui –
Jacque – dopo averlo dannato.
Hai
ragione, Jacque, hai ragione… Non ha alcun senso…
Si inginocchiò accanto a lui. “Aspettiamo”
disse, solo.
Con lo sguardo cercò la lapide e lesse
l’iscrizione.
“Si chiama Eike” disse “ha dodici anni”.
Jacque annuì, nervoso. “Vorrei solo
riuscire a parlare la sua lingua”.
Acilia gli prese la mano. “Gli tradurrò
tutto ciò che vorrai” disse, sforzandosi di tenere la voce ferma. Lui la guardò
con quel volto bianco e freddo, proprio come il vento che le piaceva tanto.
Quando l’aveva conosciuto aveva la pelle più scura, lividi e tagli sul volto,
gli occhi vitali e marroni di…
Un busso, e poi un urlo soffocato. La bara
aveva preso ad agitarsi e Jacque si era subito avventato su di essa per
aprirla. “Fermo” lo richiamò Acilia “lascia che si renda conto della sua nuova
forza”.
Ancora qualche attimo di strilli e poi un
pugno bianco come il latte apparve al chiaro di luna dalla cassa crepata in più
punti. Subito dopo apparve anche l’altro braccio e poi dei capelli di un biondo
spento, color cenere, apparvero, seguiti da un visetto tondo, pallido e
stravolto dall’orrore.
Acilia si sentì per un momento
suggestionata. Anche lei aveva avuto quella faccia, millenovecento anni prima?
Eike, seduto nella sua bara, li guardava esterrefatto, aprendo e chiudendo
ripetutamente la bocca.
“Ciao Eike” fece Jacque, in tedesco,
avvicinandosi cautamente.
Gli tese la mano ed Eike, titubante, la
prese, per aiutarsi ad uscire dalla bara.
“Chi… siete?” farfugliò “Cosa mi avete
fatto?! Io… ricordo…”.
Jacque guardò in attesa Acilia ma lei si
rivolse direttamente al ragazzino. “Cosa ricordi, Eike?”.
“Lui… lui…”.
Eike puntò un dito tremante su Jacque, che ricambiò lo sguardo mortificato.
“Lui è un vampiro”.
Acilia ridacchiò. “Oh, non solo lui”.
Estrasse i denti ed Eike lanciò un ululato indietreggiando.
“Ssssst!” fece Jacque, guardando in
cagnesco la sua creatrice “O sveglieremo il guardiano del cimitero!”.
La ragazza annuì, tornando seria e
ritirando i denti. “Andiamo nei boschi”.
Fece per avviarsi ma Jacque la bloccò per
un braccio. “Digli che non deve avere paura, che si può fidare di me. Adesso
gli prenderò il braccio per guidarlo”.
Acilia tradusse parola per parola in
tedesco. Poi aggiunse: “E non tentare la fuga, tanto a casa non ci puoi
tornare. Tecnicamente sei morto”.
Eike annuì, attonito.
Poi si fece prendere la mano da Jacque e
tutti e tre partirono alla volta del bosco. Acilia sentiva i due ragazzi dietro
di sé tenere il passo e solo dopo qualche minuto, quando erano già tra gli
alberi, si fermò.
Si voltò verso gli altri due e vide che
Jacque stava fissando stralunato la sua progenie appena nata.
Eike aveva i denti di fuori, esibiti in un
sorriso sadico. Poi si mise a saltellare intorno a loro urlando qualcosa come:
“Sono un vampiro! Sono un vampiro! YUHUU!”.
Acilia guardò Jacque con occhi sgranati.
“Congratulazioni, sei un padre fortunato”.
*
C’era un odore nuovo nell’aria, eppure era
un odore noto.
Jacque inspirò a pieni polmoni. Era un
profumo buono di un qualche umano che probabilmente era passato da lì. Era
notte fonda e stava rincasando dopo aver mangiato. Gli dispiaceva ogni volta
guardare negli occhi le persone e dire loro quello che dovevano fare. Quello
che gli dispiaceva di più era che loro ogni volta obbedivano. D’altronde
sfuggire ad un vampiro era impossibile.
Non
puoi sfuggire ad un vampiro.
Ma certo, ecco dove aveva già sentito
quell’odore. Quello era l’odore di Emily! Era stata lì? Se c’era ancora il suo
odore non doveva essere passato troppo tempo. Forse quella notte stessa, o
forse il giorno prima…
Si rese conto che il profumo di Emily
creava una scia, che lui poteva seguire. Se qualcuno l’avesse sentita… Cosa
diavolo le era passato per la testa? Doveva avvertirla di non tornare più nei dintorni,
quella era una casa abitata da vampiri che diamine! Ad Eike potevano saltare in
mente idee strane, e poi Dubris era spesso da quelle parti… E Acilia… Di Acilia
non sapeva cosa pensare.
Così, su due piedi, decise di seguire il
profumo della ragazza. L’avrebbe trovata e l’avrebbe messa in guardia, di
nuovo. Stai in casa maledizione, stai in
casa!
Prese a camminare lungo un sentiero in cui
sentiva distintamente il suo odore. Possibile che facesse tutto questo solo per
salvare una vita umana? Cosa voleva dimostrare? Di essere migliore di Dubris e
di tutto il PPC? Ricordava lo sguardo terrorizzato di Emily. Ormai non era più
semplicemente una vita umana, era una
donna a cui Jacque aveva dato la sua parola.
Non
sarai mica amico della Dixon?
Ma che male c’era? Essere amico di Acilia
non gli riusciva, di Eike si sentiva troppo responsabile, di Dubris neanche a
parlarne… Se di un vampiro non riusciva ad essere amico, essere amico di un
essere umano era così tanto spregevole? Perché Acilia, fondatrice del partito
che predicava la convivenza tra umani
e vampiri, non voleva che lui avesse un umano amico?
Ma Acilia si era ritirata dalla politica e
ormai Jacque neanche riusciva a capire a cosa credesse. Era una donna
indecifrabile, e gli aveva fatto perdere la testa ma non sarebbe successo
ancora.
I passi che seguivano il suo naso lo
portarono davanti a una villetta. Era carina, semplice, alta due piani, con un
balcone. Tutte le finestre erano buie.
Ma certo, Emily stava dormendo, come
avrebbe fatto ad avvertirla?
Doveva capire quale fosse la finestra della
sua camera da letto. E se avesse condiviso la camera con qualcuno? Con un
fratello o una sorella? Come poteva saperlo, ai suoi tempi dormivano tutti
nella stessa stanza. Si guardò i piedi, impotente. Non sapeva volare, non aveva
mai voluto neanche provarci e solo in quel momento capì quanto poteva essergli
utile. Ma un albero alla sinistra della casa lo rincuorò. Non c’era nessuno in
giro, bastava solo un salto… Prese un sasso da terra e in un battibaleno fu sul
ramo più robusto dell’albero. Ora era più vicino alle finestre e annusò con
forza, sentendosi un segugio. La finestra dalla quale proveniva l’odore più
simile a quello di Emily era proprio quella alla destra del balcone. Con un
altro salto fu sul balcone. Inspirò a fondo, per calmarsi. Quello che stava
facendo era pericolosissimo. E per di più vietato dalla legislazione
vampiresca. Era reato introdursi nelle case degli umani, ma tecnicamente lui
neanche era entrato…
Pregò qualcuno a caso – perché i vampiri non
avevano un Dio – che non lo scoprissero e che quella fosse la finestra giusta,
poi lanciò l’unico sasso che aveva contro il vetro. Aspetto qualche minuto ma
non successe niente. Maledizione, solo un sasso doveva raccogliere? Fece per
tornare sull’albero quando l’odore di Emily nell’aria s’intensificò. Si voltò
di scatto verso la finestra prescelta e notò qualcosa oltre al vetro. Quella
era Emily, certo, solo che non poteva mica aprire la finestra così a caso, non
con il rischio che correva. Saldò le mani sulla ringhiera del balcone e allungò
il busto per esporre il volto il più possibile vicino alla finestra, per farsi
riconoscere. Ma Emily si spaventò soltanto di più e tirò le tende delle
finestra, e scomparve.
Cretina…
Ma poteva biasimarla? Che garanzie aveva
che lui fosse davvero buono? O magari
neanche l’aveva riconosciuto, dimenticava sempre che gli umani avevano una
vista molto ridotta.
“Emily!” si mise a bisbigliare furiosamente
“Emily! Sono io, sono…”. S’interruppe, ricordandosi che lei neanche sapeva il
suo nome. “Emily, per favore! Se non mi ascolti sarai nei guai!”. Quante
probabilità c’erano che al di là della finestra che dava sul balcone ci fosse
qualcun altro? E quante che si fosse svegliato? Jacque decise di non pensarci e
si concentrò solo sulla finestra di Emily.
Ti
prego ti prego…
Decise che se la ragazza non avesse aperto
la finestra entro cinque secondi se ne sarebbe andato.
Uno… Che diamine, lui
stava rischiando la vita lì! E tutto per una cretina che non voleva neanche
farsi aiutare!
Due…
Cinque secondi erano anche troppi, non
poteva andarsene e basta?
Tre…
Un rumore simile a qualcosa che colpiva il
vetro e poi la finestra si aprì. Il volto di Emily, bianco e spettinato, ma
terribilmente sveglio e allarmato, apparve. “Cosa vuoi?” fece, con voce
tremante.
“Mi fai entrare?”.
“No”.
Jacque sbuffò. Beh, non poteva certo
aspettarsi che un’umana facesse entrare in camera sua un vampiro così come se
niente fosse.
“Ti devo parlare” insistette, sempre
sussurrando “e qui è rischioso per me… Abiti con qualcuno?”.
“Con i miei genitori” disse quella, come se
fosse ovvio “e con mio fratello”.
Nonni
e zii no, eh?
Jacque si sentì sprofondare. “Ti prego, qui è molto
rischioso per me”.
Emily non si muoveva.
Lui, disperato, disse: “Sei stata a casa
mia di recente?”.
Lei assunse un’aria meravigliata. “Hai una
casa?”.
“Stai attenta a come ti muovi, non puoi
andare in giro a caso, se…”.
“Era giorno” ribatté Emily, ma Jacque capì
che non stava dicendo la verità. Sbatteva spesso le palpebre e quello che le
aveva detto l’aveva turbata, si vedeva.
Finalmente si spostò e Jacque, con un agile
salto, riuscì finalmente ad aggrapparsi al davanzale della finestra e poi ad
entrare. Emily era praticamente dall’altra parte della stanza. Aveva un pigiama
azzurro, con degli orsetti disegnati sopra. Era simpatico.
“Non ti faccio niente” l’assicurò lui.
“Il sole era tramontato” disse l’altra,
senza ascoltarlo, con la voce che tremava “ed è uscita una ragazza, sembrava
una ragazzina… Era un vampiro?”.
“Sì” rispose Jacque, certo che stesse
parlando di Acilia.
Emily annuì. Le mani le tremavano. “Quando
potrò tornare a lavoro?”.
Il ragazzo sospirò. Si rese conto che
l’unica cosa che voleva sapere quell’umana era l’unica cosa che non poteva
dirle. “Non lo so” ammise.
Emily si sedette sul letto. Non sembrava
disperata, aveva una vaga aria di rassegnazione sul volto.
“Come ti chiami?” chiese, inaspettatamente.
“Non hai più paura di me?” domandò a sua
volta Jacque, scrutandola. Chi si sedeva aveva meno paura di chi stava in
piedi, pronto a scappare.
“Perché dovrei?” fece l’altra, con una
risatina isterica “Sono relegata in casa, peggio di così non può andare…”.
C’è
di molto peggio.
“Mi chiamo Jacque” disse il vampiro.
Emily lo guardò incuriosita. “Sei
francese?”.
Jacque annuì, e lei gli fece un’altra
domanda. “Quanti anni hai?”.
Lui ci pensò. “I miei anni da vampiro sono
ottantaquattro”. Era abituato a ragionare in quei termini: quando sei vampiro,
contano solo gli anni da vampiro. Gli anni da umano, quelli ce li avevano
impressi nel corpo, eterni, eppure venivano dimenticati.
“Voi vampiri vivete tantissimo” disse
l’altra “dovreste essere saggi”.
Jacque rimase spiazzato e lei andò avanti:
“Allora perché mi vogliono uccidere solo perché so della tua esistenza? Non
possono credermi se dico loro che non denuncerò mai nessuno?”. Una lacrima le
uscì dall’occhio e le percorse la guancia. Jacque si sentì a disagio. Non
riusciva neanche lui a giustificare il comportamento della Rappresentanza. Però
una cosa andava detta…
“Non ti vogliono uccidere” disse in un
soffio.
“Come?”. Emily era allibita. “Mangiare? È questo il termine che usate
al posto di uccidere?”.
Jacque notò un tono di sarcasmo nella voce
della ragazza e non poté fare a meno di biasimarla per un momento. Non erano
mica dei barbari.
“Trasformare, ti vogliono trasformare”.
Si aspettava che lei dicesse, sempre con
quel tono sarcastico: “E che differenza c’è?”.
Invece aveva un’espressione strana.
Sembrava stesse riflettendo. “Mi dovresti trasformare tu?” domandò.
Jacque annuì, senza capire.
La voce di Emily tornò a tremare. “Allora
fallo”.
Il vampiro inarcò le sopracciglia, mentre
sentiva il sangue al suo interno che tumultuoso scorreva. “Cosa?”.
“Hai sentito bene, mettiamo fine a tutta
questa pagliacciata! Trasformami” ribatté Emily, lo sguardo deciso.
Jacque scosse la testa, incredulo. “Tu non
sai quello che dici”.
“Dovrebbe essere una cosa facile per te no?
Ti hanno semplicemente chiesto di trasformarmi! Fallo e saremo liberi tutti e
due!”.
Jacque sentiva il suo sangue ribollire.
Creare era un gesto naturale nei vampiri, come lo era per gli umani concepire.
Lui lo voleva…
Emily si scostò i capelli e mostrò il suo
collo.
Jacque vedeva la sua vena pulsare e
d’istinto i suoi denti si allungarono. E lui fece un passo verso la vittima.
Se l’avesse fatto avrebbe avuto Emily al
suo servizio, avrebbe potuto insegnarle tutto, cacciare con lei, baciarla…
Si sedette accanto a lei e le prese la
testa. Avvicinò i denti al collo mentre sentiva il respiro di Emily che si
faceva sempre più irregolare e il suo corpo caldo che tremava.
Quello che poteva immaginare in un futuro
per lui e per lei era già avvenuto con Acilia. Era una storia che si ripeteva e
tutti i momenti che aveva trascorso con Acilia gli attraversarono la mente. Li
cacciò sventolando una mano come se fossero davanti a lui. Poi vide di nuovo il
collo tremante di Emily. Alzò gli occhi fino a incontrare il suo volto e vide
che piangeva.
Ricordò l’euforia di Eike, seguita da una
terribile e atroce realtà.
Io
non cresco più, vero Jacque?
Il battito del cuore di Emily era
velocissimo, sentiva ogni colpo e ogni colpo era per lui una condanna.
Si staccò improvvisamente da lei come se
avesse preso la scossa.
Non
sono venuto qui per questo!
Guardò gli occhi di Emily mentre lei
ricambiava lo sguardo confuso.
Non
puoi volere questo…
“Emily! Sei sveglia?” disse una voce in
lontananza.
Emily sgranò gli occhi. “Si è svegliata mia
madre” fece, allontanandosi da Jacque con una traccia di paura negli occhi,
come se si fosse anche lei finalmente svegliata.
Jacque balzò vicino alla finestra, pronto a
fuggire, mentre sentiva dei passi avvicinarsi.
“Di notte si prendono decisioni stupide”
disse in un sussurro, senza sapere se stesse parlando di lei o di se stesso.
Emily annuì. “Vediamoci domani, appena
tramonta il sole, nel bosco” bisbigliò.
Jacque non fece in tempo a rispondere. I
passi della signora Dixon si avvicinavano e lui voleva solo uscire di lì. In un
attimo fu fuori dalla finestra e poi si mise a correre, ancora col sangue in
subbuglio, ancora coi canini a penzoloni dalle labbra, con strani, brutti,
pensieri in testa.
*
Gli avevano detto che non doveva farsi
vedere dagli umani.
Gli avevano detto che non doveva
assolutamente tornare a casa.
Ma lui aveva un conto in sospeso.
Estasiato, si muoveva velocissimo, al buio,
una creatura della notte, maestosa e che tutti avrebbero temuto. E lui non
avrebbe avuto più paura di niente.
Quando si era svegliato quella notte, la
sua seconda notte, Jacque ed Acilia stavano ancora dormendo – se così si poteva
definire quello stato in cui, immobili come statue di ghiaccio, giacevano. Era
sgattaiolato via dal loro rifugio sentendosi veloce e potente. La notte prima
era terrorizzato. Cos’era successo? Gli avevano sparato, quel vampiro – Jacque
– gli si era parato davanti, l’aveva curato in qualche modo, lui era tornato a
casa e quella stessa notte si era sentito morire. Aveva urlato, urlato
tantissimo, aveva sentito – o forse sognato – le voci di sua madre e di Imma e
poi più niente. Si era svegliato in quella bara accanto al suo nuovo genitore:
Jacque, l’eroe che aveva tentato di fermare la brutalità delle Camicie Brune. E
lui ora era come Jacque, non avrebbe più temuto qualcuno che gli potesse
succhiare via il sangue, era lui, lui,
che lo faceva. La notte prima si era nutrito. Aveva morso il collo di una
persona, e gli era piaciuto. La persona era in estasi, non si divincolava, non
aveva tentato di scappare. I vampiri avevano un grande potere. Jacque poi gli
aveva detto di fermarsi ad un certo punto, gli aveva spiegato che loro non
uccidevano. Erano come delle zanzare, dei parassiti, che si servivano delle
altre persone per vivere, ma non uccidevano.
Tutte quelle storie di Imma l’avevano
spaventato per niente, i vampiri non erano cattivi!
Eike accelerò il passo. Sentiva il vento
fortissimo ululare nelle sue orecchie e lui si sentiva il re del mondo.
Riconobbe la sagoma della sua casa e con un
balzo fu sul balcone della camera di sua sorella. L’oscurità era sua amica, e
lui batté forte il pugno sul vetro della finestra.
Batté più volte, stordito e preso
dall’euforia, finché non sentì una voce angosciata che chiedeva chi fosse.
Chi è
che ha paura ora, eh Imma?
“Imma!” bisbigliò “Sono Eike!”.
Un gridolino e la finestra si aprì. Due
occhi arrossati su un volto pallido, contornato di ricci biondi, apparvero nel
buio. Imma stava tremando. Si chiedeva se fosse un sogno o un fantasma?
Aprì la bocca e tentò di dire qualcosa, ma
ne uscì solo un suono sommesso. Allungò una mano tremolante verso di lui, per
toccarlo, per vedere se era reale?
Eike si avvicinò a lei esibendo un ghigno.
Poi lasciò che i suoi canini risplendessero al chiaro di luna ed esclamò,
raggiante: “Sono tornato!”.
Per quanto sia poco cagata questa storia, ringrazio tutti quelli che sono arrivati a questo punto :)
E ora, per le mie due belle lettrici:
RedTears,
ti manca Marcus per caso? XD Il bambinetto-vampiro è un po'
complicato sì e, come si vede in questo capitolo, soprattutto
alla fine, è fuori dai coppi..XD ma è un bimbo dai.. Un
po' di luce su ciò che c'è stato tra Aci e Jacque, ecco
che cominciamo! Più che fratello-sorella sarebbero madre e
figlio ma sì il loro rapporto non è vagamente simile
neanche a quello direi.. XD Ehhhh mannaggia mi hai scovato il PP e il
PS, e io che speravo di buttare sigle a caso per fare colpo! (scherzo!)
Pensandoci ho avuto un momento di vuoto..con PS mi veniva solo in mente
Partito Socialista..XD
Ecco,
come vedi, non hai dovuto aspettare troppo, peccato per il fatto che tu
sia.. in montagna! Proprio da due giorni! Quando si dice il tempismo
oh.. :P
Nene,
sì per lo scorso capitolo invece della recensione mi era
arrivato un messaggio privato XD eh sì il personaggio di Eike
è decisamente il più difficile di tutti..ma la psicologia
dei personaggi è la cosa più importante e cercherò
di sviscerarlo per bene! :P
Alla prossima!
Ahimè,
ho ripreso a studiare da una settimana, ma neanche questo esame grosso
come una casa mi distoglierà troppo da questa storia e prima o
poi aggiornerò!! :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Perdizione ***
Capitolo 6
CAPITOLO VI
PERDIZIONE
“Con quanti uomini sei stata, Acilia?”.
“Ho perso il conto”.
Dubris ridacchiò, giocherellando con una
ciocca di capelli di Acilia. Lei lo lasciò fare, raggomitolandosi contro il suo
petto nudo.
“Ma hai mai amato qualcuno di loro?”
domandò ancora lui.
Non erano discorsi che Acilia amava fare,
ma rispose comunque. “Come un vampiro può fare”.
Dubris la guardò incuriosita. Lentamente
prese un lembo del lenzuolo e cominciò a tirarlo, scoprendo il corpo della
ragazza. “Tu dici che noi vampiri non possiamo amare?”.
Acilia socchiuse gli occhi, facendosi
toccare dalle mani esperte del suo amico. Le sembrava di sentir parlare Jacque.
Ma quello non le sembrava il suo tocco, no, non avrebbe mai potuto confonderli.
“Oh, io credo che invece possiamo amare
molto più degli umani”.
Dubris era sorpreso. “Siamo noi quelli
senza cuore, sai. Letteralmente”
disse.
“Che il cuore sia la sede dei sentimenti è
una leggenda metropolitana” replicò Acilia con disinvoltura.
Con un balzo fu all’improvviso sopra
Dubris, il volto distante dal suo pochissimi centimetri. “Noi viviamo in
eterno, ci innamoriamo più volte, e amiamo per più tempo” disse in un sussurro.
“Quindi credi sia una questione di tempo”
bisbigliò Dubris. Subito dopo la baciò, sentendola agitarsi sopra di lui. “Noi
ci conosciamo da sei secoli, Aci”.
Acilia gli baciò il petto freddo e poco
ampio. “Se non mi sono mai innamorata di te in sei secoli, Dubris, dubito che
potrà mai accadere” disse, schietta, senza smettere di baciarlo.
L’altro si limitò a sorridere, mentre le
accarezzava le natiche. Poi disse: “Per un periodo stavi insieme a… Jacque”.
Acilia si fermò e alzò lo sguardo verso di
lui, senza sapere che espressione avesse in faccia. “Ti sbagli. Io non sto più
con nessuno da tantissimo tempo”.
“Ma lui lo amavi?”.
Basta, quel discorso stava prendendo una
brutta piega. Acilia si buttò di lato sul letto, accanto a Dubris, senza avere
l’intenzione di rispondere.
Lui si era girato su un fianco per
guardarla, con quegli occhi color rame, che a lei non piacevano neanche.
“Lo sai che non lo sopporto vero? È lui che
ti ha fatto uscire dalla politica”.
“Lui mi ha solo aperto gli occhi” scattò
Acilia.
“Un pivello appena nato?” rise l’altro.
Acilia inspirò a fondo, cercando di
mantenere la calma. Poi si avventò su Dubris e prese a baciarlo con foga.
Il messaggio era chiaro. Stai zitto.
Lui non si tirò indietro e in un attimo le
fu sopra. La baciò sulla bocca, sul mento, sul collo, sul petto. Andò giù,
sempre più giù, mentre Acilia cercava il più possibile di lasciarsi andare ma i
pensieri continuavano a percorrerle la mente e lei non riusciva a fermarli.
“Ti prego” sussurrò la voce di Dubris
“Torna, abbiamo bisogno di te”.
Acilia lanciò un sospiro di godimento.
Ci
credi davvero in quello che dice il PPC?
Prese tra le mani i capelli rossi di
Dubris, li sentiva tra le dita, gli spinse la testa più in fondo.
Jacque non l’avrebbe tormentata anche in
quel momento.
“Sì, continuate, continuate! Vi prego…”.
Eike e Jacque si guardarono perplessi.
“Non hai un po’ esagerato con l’incanto?”
chiese il primo.
L’altro sbuffò. “È Claire”.
Eike squadrò la giovane donna seduta sulla
sedia, le mani legate dietro la schiena, l’espressione vogliosa e con la bocca
aperta.
“Sai” disse “non hai per niente la faccia
da Claire…”.
Si inchinò e con la mano le sollevò la
gamba nuda sotto la gonna. Chiuse gli occhi, estasiato, inalando tutto l’odore
possibile.
“È così… strano” biascicò la ragazza “sembri un bambino… precoce”.
Eike la morse spingendo i denti in fondo,
con il preciso intento di farle male. Lei emise un suono sommesso.
Potrei
essere il tuo bisnonno, stronza.
“Claire è una simpatizzante” spiegò Jacque,
tranquillo “È venuta qui da noi anche due o tre anni fa, non ti ricordi?”.
Eike sollevò lo sguardo verso la donna.
Aveva capelli biondi lucenti scombussolati, i lineamenti del viso ben marcati,
il naso dritto e le labbra carnose. Gli occhi poi, cerchiati di matita nera,
erano enormi.
“Simpatizzante vuol dire troia?”.
“No”.
Claire agitò la gamba gemendo. “Dai, mordi
ancora…”.
Eike scrollò le spalle e, senza farselo
ripetere due volte, le morse di nuovo la coscia. Era gustosa, il sangue colava
giù per la gamba della vittima, sentiva ogni goccia cadere a terra e questo lo
rendeva sempre più affamato.
Riemerse dalla carne dopo pochi attimi e
guardò di nuovo Jacque. “Vuol dire masochista?”.
Jacque sorrise. “Più o meno”.
Eike si alzò in piedi. Guardò le gambe
sporche di sangue di Claire.
“Com’è possibile?” chiese.
“Ci sono degli umani che provano piacere a
farsi mordere dai vampiri” disse Jacque.
Eike contemplò ancora una volta Claire,
che, con la lingua di fuori, muoveva ancora le gambe, mentre le braccia erano
ben legate dietro la sedia.
“Perché l’abbiamo legata allora?” domandò,
continuando a guardarla.
Jacque scrollò le spalle. “A lei piace
così”.
Il ragazzino fece una smorfia, distogliendo
lo sguardo dalla donna. “Ma come sappiamo che questi umani non ci
denunceranno?”.
Claire scosse la testa, incredula. Aspirò a
fondo, come per riprendersi, poi disse: “Per chi mi hai presa? Io ho il
marchio!”.
Eike non capiva e guardò Jacque in cerca di
spiegazioni e lui scoprì la pancia di Claire, sollevandole la camicetta bianca
sporca di sangue. A sinistra dell’ombelico c’era un disegno nero, doveva essere
un tatuaggio. Eike si avvicinò e vide che non era nero. Era rosso sangue, ed
era un lungo canino.
“È fatto col sangue” andò avanti Claire,
passandosi la lingua sopra il labbro superiore.
“Se mai lei ci denuncerà, la Rappresentanza
lo saprà, e la ucciderà” terminò Jacque.
Eike inarcò le sopracciglia, mentre la sua
mente lavorava.
È
fatto col sangue.
Claire era un’umana, e la Rappresentanza
Vampiresca sapeva di lei.
Non
gli dirai del patto del sangue, vero?
“Fa parte del patto del sangue” disse
Claire, con un sorriso amabile, per nulla preoccupata.
Eike sgranò gli occhi.
“Ma, Jacque…” farfugliò, confuso “Per la
Dixon… Non si potrebbe…”.
“Lei non è una simpatizzante” disse Jacque.
“Ma ha scritto un articolo abbastanza simpatizzante…”.
“Cocco, simpatizzante vuol dire che doni il
tuo sangue di tua sponte” saltò su Claire.
Certo
che potevano scegliere un altro nome allora.
Eike si mordicchiò il labbro. C’era
qualcosa ancora che quadrava, era quello il patto del sangue?
“Quindi se la Dixon si sottoponesse a
questo patto” disse “lei sarebbe obbligata a farsi bere dai vampiri… Non si
potrebbe salvare in questo modo?”.
Jacque sospirò. “Ci avevo già pensato, ma
non tutti gli umani provano piacere a farsi mordere e succhiare via il sangue.
La Rappresentanza accoglie solo quelli… quelli a cui piace”.
Eike alzò un sopracciglio. “Perché?”.
Jacque fece spallucce. “Per questioni
morali… credo”.
“Avete un buon governo” sentenziò Claire,
deliziata.
Eike guardò Jacque e capì che lui nemmeno
era troppo convinto. C’era qualcosa che non tornava. Perché Dubris temeva che
Acilia parlasse a Jacque del patto del sangue se Jacque già sapeva tutto sulla
sua esistenza? Dubris e Acilia credevano davvero che questo patto potesse
essere la salvezza della Dixon, Jacque invece lo negava.
“Magari alla Dixon piace farsi… bere”
tentò.
Il suo creatore scosse la testa, pensoso. “È
per questo motivo… se esiste il patto del sangue per i simpatizzanti, io… ci
sarà pur qualcos’altro per umani
invece che sono… normali” fece “Ehm… con rispetto parlando, Claire” si affrettò
ad aggiungere.
Eike ponderò bene le sue parole.
Qualcos’altro.
Il ventre di Claire era ancora scoperto ed
Eike rimase fermo a fissare il marchio.
Per
chi mi hai presa? Io ho il marchio!
“Claire” esclamò, come folgorato “quante ce
ne sono, quante persone hanno il marchio? In quanti siete simpatizzanti?”.
La ragazza aveva gli occhi spalancati,
colpita da quella domanda. “Beh, non saprei, non siamo tanti, io ne conosco
un’altra…”.
“Ma siete comunque più di uno!”. Eike quasi
gridò.
Claire si ritrasse un pelo, spaventata.
“Eike, che diavolo…” cominciò Jacque.
“Hai ragione, Jacque, c’è qualcos’altro”
disse Eike, sentendosi quasi lampeggiare gli occhi “Dubris ha detto che il
patto del sangue è stato realizzato una sola volta, con una sola persona!
Dev’essere qualcos’altro!”.
“Ma che stai dicendo?”.
Eike ghignò. Solo la notte prima aveva
pensato di custodire la conversazione privata che aveva origliato tra Acilia e
Dubris per più tempo, per divertirsi vedendo come si sarebbero evoluti gli
eventi.
Ma in quel momento aveva capito che essere
utile per il suo creatore gli avrebbe dato molta più soddisfazione.
Spagna,
1394
Accarezzava con sguardo morbido le stoffe che lo
circondavano. Gliele sistemò tutte intorno, per dargli maggiore calore e
intimità.
Lui le prese la mano e lei se la fece stringere.
La sua pelle era ruvida, le vene e le rughe risaltavano nel suo biancore. Ma
era fresca, stava lentamente cedendo il calore che aveva.
Lei la sollevò e se la strofinò sul viso,
socchiudendo gli occhi. Oh, sì, era fresca.
Riaprì gli occhi e vide il volto del vecchio
piegato nelle rughe del sorriso, un sorriso dolce.
“Cara ragazza” disse lui, con voce tremolante
“come sei bella, fatti guardare”.
Lei strinse ancora con più vigore la mano,
sentendosi vicina al pianto.
“Non so perché tu ti prenda cura di me… ma…
grazie” continuò l’altro, a fatica.
La ragazza strinse le labbra, per non dire
nulla. Le parole non erano mai servite.
“Mi ricordi proprio…”. Il vecchio tossì. “Mi
ricordi proprio una ragazza di cui mi sono innamorato da fanciullo, hai i suoi
stessi occhi, incantevoli”.
Lei si lasciò andare in un enorme sorriso. “Allora
ti ricordi?”.
“Cosa dovrei ricordare?”.
Abbassò il volto, per nascondere la delusione.
Si portò una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio e rimase lì, in silenzio.
Non c’era più nessuno in quella casa, per quel vecchio. I suoi fratelli erano
morti, le sue sorelle erano state prese dalla pazzia del mondo, di figli,
scioccamente, non ne aveva voluti avere.
C’era solo lei, per lui.
Sotto le sopracciglia grigie e folte, i suoi
occhi marroni, un tempo dorati, si erano fatti piccoli, stanchi, circondati da
pieghe.
“Tu… non dovresti stare dietro a me, sai, un
vecchio che sta morendo…”.
Lei scosse la testa, mordendosi le labbra più
che mai. “Non stai morendo…”.
“Dovresti stare fuori, all’aria aperta, sotto il
sole…” proseguiva lui.
La giovane donna non poté trattenere un sorriso,
mesto e malinconico. “È notte”.
“Curioso” disse il vecchio, guardando un punto
imprecisato sul soffitto, con aria perplessa “È notte e sono sveglio… da
quant’è che non dormo di notte?”.
“Vuoi dormire?”.
A lei bastava anche solo guardarlo, guardarlo
mentre lentamente si assopiva, e sprofondava nel sonno. Un giorno dal sonno non
si sarebbe più svegliato, e lei sarebbe stata sola.
“No” biascicò l’altro “mi piace la tua
compagnia”.
Era contenta. Aveva ancora la mano intrecciata
nella sua.
“Dai, dormi… devi dormire”.
“No”.
“Perché?”.
Il vecchio chiuse gli occhi. Poi li riaprì
subito, li teneva spalancati, come era solito fare.
“Perché… quando poi mi sveglio, ho paura… di non
trovarti più”.
Lei chiuse gli occhi e la sua voce soffocata emise
un singhiozzo, sentendo al suo interno ogni parte di lei andare in frantumi,
compreso il suo cuore strozzato, e calpestato, spento.
*
Acilia era in casa quando Jacque rientrò.
Lui si strofinò la bocca sulla manica, come
sempre dopo aver mangiato, senza guardarla. Lei si sedette sul divano, in
attesa. Sapeva benissimo che lui aveva qualcosa da dirle. Lo capiva da come
esitava sulla soglia, ciondolante, con lo sguardo sul pavimento.
“Jacque” sospirò infine lei “devi dirmi
qual…”.
“Mi odi dunque a tal punto?” disse lui
interrompendola, sempre con lo sguardo basso. Non era lo sguardo di chi cercava
qualcosa da dire, era uno sguardo arrabbiato.
“Ma che vuoi dire?” fece lei.
Con uno scatto lui fu a un passo da lei. Le
troneggiava sopra, le sopracciglia aggrottate e una smorfia sul volto.
“Esiste un modo per salvare Emily e tu me
lo vuoi tenere nascosto”.
Acilia abbassò il volto, alla ricerca di
qualcosa da dire. Non le importava come lui fosse venuto a saperlo, i vampiri
non erano tanti e le voci circolavano.
“Guardami!” sbottò lui.
Lei, impotente, obbedì.
“Il patto del sangue” fece Jacque “Che
cos’è?”.
Non l’aveva mai guardata così e Acilia si
sentì ferita.
Tieni
ad Emily così tanto?
“Sai benissimo che cos’è”.
“Una parte, io ne conosco una parte”.
Acilia si alzò in piedi, sospirando.
Dopotutto era stato stupido cercare di tenerglielo nascosto.
“Per fare un patto coi vampiri ci vuole
coraggio” disse, con lo sguardo abbassato. Poi lo alzò e guardò la sua progenie
dritta negli occhi. “E soprattutto, ci vuole una buona motivazione”.
La maschera dura di Jacque stava svanendo.
Acilia era riuscita a fare centro, a farsi ascoltare, come sempre.
“Non puoi dire di conoscere Emily Dixon”
andò avanti lei “il legame tra il vampiro e l’umano che il vampiro vuole
proteggere col patto dev’essere un legame forte”.
“Emily è talmente spaventata che non andrà
mai da nessuno a dire che…” cominciò Jacque ma Acilia lo interruppe, parlando
ad alta voce e scandendo bene le parole: “La paura non è un legame, è il suo esatto contrario. La paura fa fare
cose stupide, non ci si può fidare di un’umana che ha paura!”. Finì la frase
quasi gridando. Il sangue nelle sue vene pulsava, proprio come avrebbe fatto il
suo cuore.
“E cosa intendi per legame?” sbottò Jacque
“Un legame d’amore? Io ed Emily
dovremmo fingerci innamorati?”.
Acilia non rispose e l’altro andò avanti,
crudele: “È questo che ti dà fastidio, Aci?”.
Non
hai capito niente.
“Non posso proibirti di fare ricorso al
patto del sangue” disse lei, dopo un po’ “ma dovrai fare attenzione, io non ti
posso aiutare, sarete voi e la Rappresentanza”.
“Beh” disse lui, ammorbiditosi un poco
“tanto vale provarci no?”.
Acilia lo guardò tristemente. “Sei un
vampiro migliore, Jacque… Migliore di molti altri”.
Jacque aveva definitivamente abbandonato il
suo sguardo feroce.
“Non certo di te”.
La ragazza piegò le labbra in un sorriso
stanco. Sapeva che lui lo pensava davvero. “Quante persone hai ucciso,
Jacque?”.
Lui inarcò le sopracciglia, perplesso. “Sai
benissimo che ne ho uccise tante” disse, un po’ rude.
Acilia annuì. Tante era un concetto molto relativo.
“Non devi” disse, con la voce che si
incrinava. Si sforzò di mantenerla ferma e autoritaria come al solito, ma
quando parlò di nuovo non capì se ci era riuscita. “Non devi salvare una vita
per ogni vita che hai ucciso, lo sai vero?”.
Vide che Jacque spalancava gli occhi. La
sua mente ora cercava un ricordo lontano.
“Ti metterai nei guai” continuò Acilia,
lasciando andare la voce sempre più giù, in un eco, in un sussurro.
Jacque aveva lo sguardo confuso. “Con la
Rappresentanza?”.
L’altra scosse la testa. “Con te stesso”.
Lui era ancora sconcertato e lei gli si
avvicinò. Gli sfiorò la guancia, rievocando nella mente ricordi che aveva
cercato più e più volte di fare a pezzi.
“Salvala ma, se puoi, salvala senza
affezionarti a lei”.
Jacque aveva lo sguardo impietrito. Acilia
conosceva bene quell’espressione, era l’effetto che gli faceva. Lo catturava e
lo imprigionava dentro di sé, e lui era docile, impotente, così buono. Così ingenuo…
Lui continuava a guardarla e ritrovò la
voce. “Non so se sono ancora in grado di affezionarmi
in quel senso”.
Acilia ritrasse la mano, sentendosi in
colpa. Lei aveva vissuto i suoi duemila anni. Aveva sbagliato e aveva imparato.
Non aveva il diritto di impossessarsi della vita di Jacque e di fargli fare
quello che voleva.
Aprì la bocca, in cerca di qualcos’altro da
dire, ma non le venne niente, nessuna parola. Duemila anni di vita, e ancora
non trovava le parole. Sconfortata, si allontanò, verso la botola, per andare a
dormire.
L’ennesima alba stava giungendo, e la
tentazione di correre incontro al sole era più forte che mai.
Giorno 23
Ieri sera
Vampiro è stato qui. Non so cosa mi sia preso, sono impazzita, gli ho chiesto
di trasformarmi.
Il cuore
mi batte ancora forte se ripenso a quell’istante in cui le sue… come posso
chiamarle, zanne? Erano a un solo centimetro dal mio collo. Gli ho chiesto se
ci potevamo rivedere, stasera, nel bosco. Forse in quel momento, con la mente
annebbiata, pensavo di farmi trasformare stasera. La verità è che quando mi ha
detto che ancora non ha trovato una soluzione non ci ho visto più. Non ce la
faccio più a vivere nella paura… Ma è una cosa stupida, anche se fossi un
vampiro, vivrei nella costante paura di essere cacciata e braccata. Diventerei
un essere repellente, che fa del male alle persone, diventerei un animale…
Vampiro
però non sembra un animale. A volte mi viene voglia di conoscerlo. So già
qualcosa in più su di lui. Si chiama Jacque, è francese. Beh, si chiamava
Jacque ed era francese. Ora è solo… Vampiro. Chissà se se la sente ancora
un’identità addosso. Ha detto di avere ottanquattro anni da vampiro, quindi
vive da più di cento anni, molti di più. Mi sembra così incredibile… Quel
bambino che quella sera dopo il lavoro era con lui… Chissà quanti anni ha lui.
Ho avuto tanta paura di quel bambino, ma cosa si prova ad essere in un corpo
che non potrà crescere mai più? Abbiamo più paura noi o hanno più paura loro?
Le domande
sono una furia nel mio cervello e il momento si sta avvicinando. Il sole sta
per calare e io non ho intenzione di mancare alla parola data. Non lo so, non
lo so cosa farò, quando sarò lì a pochi passi da Vampiro, se di nuovo il mio
cervello partirà e io vorrò diventare come lui. Vampiro ha detto che di notte si
prendono decisioni stupide. Io penso più che altro che di notte si fanno
pensieri strani, si prendono decisioni che non si prenderebbero di giorno. Le
cose di notte assumono una prospettiva diversa.
Forse è
semplicemente per questo che i vampiri ci sembrano così diversi da noi.
Era lì che lo aspettava.
La vedeva, timorosa, che si nascondeva
dietro ad un albero.
Cosa
sei venuto a fare?
Continuò a camminare, lentamente, un passo
alla volta.
La
vuoi trasformare?
C’era un po’ di vento e i capelli castani
di Emily si libravano oltre la corteccia. Lui si avvicinò ancora un po’ e lei
uscì allo scoperto, timidamente.
Non aveva un volto particolarmente
grazioso, ma era carinamente imbarazzata, e Jacque si sentì addolcire. Era
strano, gli sembrò per un momento di precipitare negli anni e nel passato, si
sentì un attimo solo come un umano, un ragazzo che usciva con una ragazza. E, a
giudicare dalle guance rosee di lei, era il loro primo appuntamento.
Si era voltato indietro parecchie volte
durante il cammino. Probabilmente Dubris l’aveva fatto mettere sotto
sorveglianza, ne sarebbe stato capace.
Emily ormai era vicina a lui e lui disse
con voce ferma: “Non ti trasformerò”.
Lei fece per aprire bocca ma Jacque fu più
veloce: “Lo sai cosa avrei voluto da giovane?”.
Emily non diceva niente così lui andò
avanti: “Sognavo di avere un lavoro, una famiglia, dei figli. Tutto ciò che ho
avuto è stato invece dover guardare i miei familiari morire uno ad uno, di
vecchiaia, di malattia, mentre io, sempre sano e sempre giovane, andavo avanti,
e vivevo la mia vita da parassita”.
L’umana non dava segno di voler parlare.
Jacque continuò: “Era questo che ero
diventato. Conservavo sempre lo stesso aspetto, nulla poteva scalfirmi, la
spagnola non mi avrebbe preso, avrebbe preso tutti tranne me. E questo perché
ero solo uno schifoso parassita”.
Emily incrociò le braccia sul petto, in
ascolto. Stringeva le labbra, forse aveva ancora paura, o forse stava solo
riflettendo. Jacque non si era fatto nessun discorso ma le parole non cessavano
di uscire dalla sua bocca: “Hai presente la storia di Dorian Gray?”.
“Certo” disse subito la ragazza,
sconcertata.
Jacque strinse i pugni. Non ricordava di
aver mai fatto discorsi del genere con nessuno, neppure con Acilia. “Lo
scorrere del tempo non produceva alcun effetto sulla sua pelle, sui suoi
capelli o sui suoi denti. Ma la sua anima era marcia, putrida, per le cose
terribili che aveva commesso…”.
“Non l’hai scelto tu” lo interruppe Emily
ad un tratto. Poi, ripensandoci aggiunse: “Dico bene?”.
“No” rispose lui, mesto “non l’ho scelto
io”.
“Non sono venuta qui perché mi
trasformassi” continuò lei, con la voce che tremava un poco “non lo sceglierò
neanch’io”.
Jacque quasi trasse un sospiro di sollievo.
I due si guardarono senza sapere che dire e dopo qualche attimo di imbarazzo
Emily, come se fosse la padrona di casa, si sedette sulle radici dell’albero,
invitando Jacque a fare altrettanto. Lui obbedì e appena si fu sistemato lei
parlò: “Devi odiare chi ti ha fatto questo”.
Acilia.
“No” rispose dopo un attimo di esitazione.
Non sarebbe bastata una parola per definire il misto di sensazioni che provava
per Acilia, ma neanche un intero libro probabilmente. Quindi non disse altro.
Emily era sconvolta. “Come è possibile?”.
Jacque rispose con un’altra domanda.
“Riusciresti mai ad odiare tua madre o tuo padre?”.
La ragazza aveva una faccia pensosa. Dopo
qualche secondo disse, a bassa voce, come se stesse parlando tra sé: “È per
questo che non vuoi trasformare nessuno”.
Jacque fu sorpreso. Quella donna non era
stupida come sembrava.
“Però” proseguì Emily, visibilmente curiosa
“quel bambino che era con te… era tuo,
non è vero?”.
Jacque sentì vagamente una nota d’accusa in
quel tuo. O forse era tutto frutto
della sua paranoica immaginazione, che gli si rivoltava sempre contro, con
l’arma del rimorso.
Annuì, aspettando la prossima domanda. Perché l’hai fatto?
Ma non arrivò. Ancora Emily non chiese, ma
dichiarò, di nuovo a bassa voce, come se non era sicura, come se volesse una
conferma. “Immagino tu non abbia avuto scelta”.
Lui, ancora sorpreso, annuì. “Il periodo di
Eike era un brutto periodo. L’hanno ucciso le SS, in realtà”.
“Tu l’hai salvato allora”.
A quelle parole, Jacque si scurì in volto.
“I vampiri non salvano mai, dannano, e basta”.
“Ma…”.
“Se ti avessi conosciuto settant’anni fa”
la interruppe lui, guardandola fisso “non avrei esitato neanche un secondo dal
trasformarti, se questo avesse potuto salvarti da morte certa”.
Emily assunse un’aria spaventata. Jacque
sentiva il suo cuore battere forte.
“Se non mi trasformi… mi uccideranno?”.
Lui non rispose e lei andò avanti, la voce
sempre più incrinata. “Tu non mi trasformeresti mai, ma mi lasceresti morire!”.
Jacque non lo sapeva cosa avrebbe fatto. Ma
aveva un piano, e per ora contava solo quello.
Le mise una mano sulla spalla, per
rassicurarla. “Forse c’è una soluzione, e non prevede né la morte né la
dannazione”.
Il cuore di Emily diminuì il suo battito,
tornando quasi alla normalità. “Forse?”.
“Si tratta di fare un patto… con i vampiri”
spiegò Jacque “ma devo ancora accertarmi su come funziona”.
L’umana era bianca in volto. Era ovvio che
fare un patto coi vampiri la terrorizzava.
“Con dei vampiri buoni” proseguì lui in
fretta, senza curarsi del fatto che vampiri esattamente buoni non esistessero.
“Come te” disse Emily, più tranquilla.
Jacque ricordò le parole di Acilia. Tu sei un vampiro migliore.
“In realtà” disse “si tratta più di vampiri
progressisti. Quelli che tu definiresti cattivi
invece sono i conservatori”.
Emily aveva la bocca aperta.
“Al potere adesso ci sono i vampiri
progressisti, più esattamente il Partito Per la Convivenza”.
“Voi… voi avete un sistema politico?!”.
Jacque accennò ad un sorriso. “Non siamo
del tutto animali”.
Emily era stralunata. “Partito per la
convivenza… Convivenza tra umani e vampiri? Noi… noi vi cacciamo e voi avete un
partito che predica la… convivenza?
Oh mio Dio… Siamo noi gli animali!”.
Jacque si mise a ridere, e fu strano. La
sua risata riecheggiava in maniera strana nelle sue orecchie. Non se la
ricordava più, la sua risata?
“Emily” disse, tornando serio “il PPC è
pura utopia”.
Ma lei rossa in volto, ancora frastornata,
non lo ascoltava. Dopotutto quella era una gran notizia, e lei era una
giornalista. “Il mondo deve sapere che esistono dei vampiri buoni pronti a…”.
S’interruppe, senza sapere come continuare.
“Pronti a cosa?” fece Jacque “Pronti a
morire di fame per proteggere gli umani?”.
Emily non disse niente, lo sguardo
abbassato.
“Non può esistere nessuna convivenza”
continuò lui, tristemente.
“Tu mangi” fece la ragazza di punto in
bianco, guardando Jacque spaventata “E ogni volta che mangi, uccidi”.
“Ho ucciso” assentì Jacque “ma ho imparato
a controllarmi. Il punto fondamentale su cui verte il PPC è questo: mangiare
per sopravvivere”.
“E cosa vorrebbe dire?”.
“Non ci serve svuotare un intero umano per
sentirci sazi. Non è necessario uccidere”.
“Ma c’è chi lo fa” disse Emily, pensosa “I
conservatori di cui parlavi prima, giusto? I cattivi”.
Jacque annuì gravemente.
“A voi ora sembra il caos” disse “ma se al
governo dei vampiri ora ci fosse il Partito Oscuro, per voi umani sarebbe la
fine”.
Emily aveva di nuovo un’aria terrorizzata.
Jacque si pentì di quello che aveva detto, non aveva intenzione di spaventarla.
Ma poi si rese conto che non erano le sue parole ad averla impaurita.
Voltò piano la testa e vide subito che loro
e l’albero erano circondati da almeno cinque ombre nere. Una di quelle si fece
avanti e Jacque riconobbe i capelli rossicci di Dubris.
“Abbiamo interrotto qualcosa?” disse il
prefetto, falsamente dispiaciuto.
Emily si era involontariamente spinta
contro l’albero, e tremava.
Jacque si alzò in piedi e le si parò
davanti, odiando Dubris più che mai.
Le parole di Acilia gli rimbombavano forti
nella testa.
Salvala,
ma, se puoi, salvala senza affezionarti a lei.
“Sei stupido come al solito, Jacque” disse
quello, tagliente “Credevi che non avessi capito che ti incontri regolarmente
con questa umana?”.
Con
tutto rispetto, prefetto, sei tu che non hai capito un cazzo.
Jacque non poté fare a meno di esibire un
sorrisino.
“Hai ragione, Dubris, mi incontro con Emily
regolarmente. Tutte le notti”.
Il prefetto aveva un’aria spaesata e,
dietro di sé, sentiva lo sguardo confuso e atterrito di Emily.
Jacque fece scorrere il suo sguardo su
tutti i vampiri presenti, prima di andare avanti.
Dubris, da sconcertato, qual era, assunse
uno sguardo furioso. Probabilmente aveva capito e Jacque si sentì fiero quando
disse: “È per questo che faccio appello al patto del sangue”.
*
Era buio e Acilia aveva ormai smarrito la
strada.
Cercava di stare nascosta nei boschi il più
possibile di solito, lei doveva vivere nell’ombra, nell’emarginazione, nel
costante timore di essere scoperta, dagli umani oppure dal sole.
Aveva appena mangiato, era sazia, e
viaggiava veloce.
Si sentiva sporca, avrebbe dovuto lavarsi
al fiume. Non aveva avuto ancora modo di trovare una sistemazione in quel paese
dove tutti parlavano di qualcosa che ancora vagamente ricordava il latino, ma
che latino non era. Raggiunse quello che doveva essere un villaggio, o una
piccola città.
Era deserto. Non era ancora notte, eppure
non c’era una sola persona in giro. Di case e botteghe ce n’erano, tutte
chiuse. Sentiva delle urla e si sentì inquietata. Ma non aveva nulla da temere,
anzi, avrebbe potuto aiutare qualcuno che era in difficoltà. Cercò di capire da
dove quelle voci provenivano. Girò su se stessa, confusa, guardando ovunque.
Quelle erano urla di dolore. Qualcuno stava forse morendo?
Corse in qua e là finché finalmente la
vide. Un’abbazia, lì in fondo, nascosta da alcune case. Era da lì che
provenivano le urla. Strizzò gli occhi e capì chi era che urlava. Fuori
dall’abbazia, affianco alle pareti, c’erano tantissimi corpi, gli uni sugli
altri. Quelle persone erano ferite! Erano state pugnalate o avvelenate, e ora
cercavano aiuto nell’abbazia. Ma perché nessuno apriva la porta?
Acilia corse da loro ma ben presto si rese
conto che nessuno di quelle persone si muoveva. Fu costretta a tapparsi il naso
e quasi urlò per l’odore nauseabondo che aleggiava in quel luogo. Quei corpi
erano marci, qualcuno era vestito, altri
erano nudi, ricoperti di bubboni neri. Erano morti, tutti morti e le urla
provenivano dall’interno dell’abbazia.
Acilia annaspò di fronte a quello
spettacolo raccapricciante. Indietreggiò e quasi inciampò nei propri piedi,
pateticamente.
“Ehi! Cosa fate qui?” gridò una voce
maschile, dietro di lei.
Si voltò intimorita e vide che poco lontano
da lei c’era un giovane, vestito di stoffe rattoppate, con le mani sporche e
robuste che tenevano saldamente un secchio.
Acilia non sapeva cosa dire. Lì c’erano dei
morti, ma era ovvio, quel ragazzo li doveva pur vedere!
“Venite via da lì” disse quello, con tono
autoritario “Venite via!”.
Lei gli obbedì e lo raggiunse con passo
affrettato.
Lui aveva il volto stanco e triste, i
capelli erano sporchi e gli occhi marroni privi di qualunque vitalità. Quegli
stessi occhi la perquisirono dalla testa ai piedi. Acilia si strinse nella sua
toga ormai grigia.
“Non troverete niente lì” disse il giovane
“hanno rubato già tutto quello che si poteva rubare”.
Acilia si sentì ferita nell’orgoglio. “Io
non rubo” disse solo.
“E allora cosa facevate in mezzo ai morti?”
ribatté l’altro, vuotando il secchio vicino ai piedi di lei.
Lei si ritrasse dall’acqua sporca, senza
trattenere una smorfia.
Lui la fissò. “Sembrate venire da altri
tempi”.
Acilia lo ignorò. “C’è qualcuno che urla
nell’abbazia” disse.
Il ragazzo scrollò le spalle. Aveva delle
belle spalle, larghe, possenti. “Urlano sempre”.
“Chi?”.
“I malati” disse lui, stupito.
Acilia non disse niente e dopo un po’ il
ragazzo si voltò, dandole le spalle. “Fareste meglio ad andarvene prima di
essere condannata” disse mentre si allontanava.
La via della perdizione Acilia l’aveva già
intrapresa da tempo. E paradossalmente l’avrebbe protetta.
“E voi?” gli urlò dietro.
Lui si fermò e si voltò di nuovo verso di
lei, infastidito. “Non posso abbandonare la mia famiglia”.
Lei lo raggiunse di nuovo. “C’è qualche
malato?” chiese.
“Tre dei miei fratelli, e mio padre” disse
l’altro, senza lasciare trapelare alcuna emozione “Dicono che prende solo le
anime dannate, ma è solo questione di tempo, e ci prenderà tutti”.
Di nuovo si girò e fece per incamminarsi.
Acilia lo lasciò andare, turbata. Il mondo
intero stava morendo? Cosa intendeva quel ragazzo quando diceva che prendeva le
anime dannate? Lei lo era, dannata. Lo sguardo le andò al cumulo dei morti
davanti all’abbazia.
Si voltò di nuovo e con sua sorpresa vide
che il giovane era ancora lì, e si era di nuovo voltata a guardarla.
“Voi da dove venite?” le domandò.
“Da lontano” rispose Acilia, vaga.
“La vostra famiglia?”.
Acilia esitò. “Sono tutti morti” disse dopo
un po’. Dopotutto non era una bugia.
Il ragazzo aveva qualcosa di simile a una
smorfia di dolore sul viso. Le si avvicinò. “Come vi chiamate?”.
“Acilia” rispose lei senza pensare.
Lui accennò a un vago sorriso. “Mi
dispiace, Acilia.”.
“E voi? Come vi chiamate?” chiese lei,
incantata da quegli occhi spenti. Sentiva il battito del suo cuore, fioco e
triste, lo sentiva vicino a lei.
Lui si grattò la testa, e della polvere
scura cadde dai suoi capelli.
“Il mio nome è Miguel. Piacere di
conoscervi”.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Bestie ***
Capitolo 7
CAPITOLO VII
BESTIE
Quel vampiro che li aveva trovati nel bosco
ora stava girando per la sala, a grandi passi, inquieto. Ad Emily faceva una
gran paura. Era seduta su un divano vecchissimo, accanto a lei Jacque era
l’unica cosa che la rassicurasse e le impedisse di piangere o urlare scappando
via. Sarebbe stata una cosa stupida, scappare. Non l’aveva dimenticato quello che
le aveva detto Jacque quel giorno nel bosco. Non puoi sfuggire ad un vampiro.
In piedi di fronte a loro, rigida e
immobile in maniera quasi disumana, stava la vampira mora che Emily aveva visto
solo due sere prima fuori da quella casa. Quella
era casa sua, e le metteva una tremenda soggezione.
“Il patto del sangue” stava dicendo il
vampiro che Jacque aveva chiamato Dubris “Jacque, cosa sai del patto del
sangue?”.
Emily non capiva se quel Dubris fosse dalla
loro parte.
“So che ci vuole una motivazione per
accedervi” rispose Jacque “so che bisogna andare davanti all’intera
Rappresentanza, e so che…”. S’interruppe, pensieroso.
“Sì?” lo incoraggiò Dubris, con tono
odioso. Sembrava avesse raggiunto il punto a cui voleva arrivare.
“Fanno un tatuaggio, all’umano” concluse
Jacque.
Un
tatuaggio?
Emily si voltò di scatto a guardarlo. Lei
gli odiava i tatuaggi! Erano privi di senso, dolorosi, e mancavano di gusto
estetico.
“Spero che la motivazione che ti spinge a
fare quest’appello sia forte tanto quanto il dolore che la tua umana proverà”
disse Dubris, velenoso.
Emily trattenne il respiro. Faceva così
male?
“Sempre meglio che la trasformazione”
sibilò Jacque.
Nessuno disse niente e lui andò avanti:
“Perché non mi avete detto niente? Perché non mi avete mai parlato di questa
possibilità?”.
“Lo sai perché ci vuole una buona
motivazione, Jacque?” ribatté Dubris.
Emily vide lo sguardo dell’interpellato
appoggiarsi per un momento sulla vampira. Non rispondeva.
L’altro andò avanti, privo di sorrisetti
provocatori: “Perché è pericoloso,
sia per te, sia per l’umana. Di te non ce ne frega poi molto, se vieni
denunciato sono poi affari tuoi”. Emily poté giurare che la vampira, nella sua
freddezza, avesse mosso le ciglia. E forse – non ne era però troppo sicura – le
labbra le erano tremate.
“Ma l’umana… l’unica sua colpa è di essersi
imbattuta in un imbecille che si è rivelato” continuò duramente Dubris “Perché
questa è l’unica motivazione che hai, non è vero?”.
“Che cosa ne sa la Rappresentanza?” replicò
Jacque “potremmo anche fingere di essere innamorati!”.
Emily sgranò gli occhi. Innamorata di un
vampiro? Lei? L’immagine di sua madre che si disperava perché non avrebbe
potuto far da mangiare al suo nuovo “fidanzato” le fece quasi scappare un
sorrisetto.
“Mentire alla Rappresentanza?” sbottò
Dubris, come se avesse sentito bestemmiare.
Emily non voleva che Jacque finisse nei
guai per colpa sua. E Dubris le incuteva timore. Avrebbe potuto trasformarla
lui stesso lì seduta stante, Emily quasi si chiese perché non lo facesse.
Se questo patto era davvero così
pericoloso…
Ma cosa c’era di pericoloso? Qualcuno della
Rappresentanza si sarebbe potuto alzare e gridare: “Ehi! Questa sembra avere
delle cosce succulenti! Al diavolo il patto, mangiamocela!”. Accidenti, lo
sapeva che avrebbe dovuto mettersi a dieta finché era in tempo. Incontrò per un
momento gli occhi glaciali della vampira, incastonati nel suo corpo perfetto e
pensò che la sua mente ormai era arrivata al delirio.
“Scusate” si costrinse a dire, con voce
fioca e intimidita. Dubris non sembrava averla sentita e lei insistette.
“Scusi, signor vampiro” disse, sentendosi più stupida che educata “Perché
sarebbe pericoloso… per me?”.
Dubris roteò la testa nella sua direzione
così velocemente che Emily si chiese se non gli fosse venuto il torcicollo.
“Lo sai come si fanno i tatuaggi, Emily?”
domandò, con il tono da non-lo-puoi-sapere-perché-se-no-saresti-morta-di-paura.
Di paura Emily ce l’aveva, ma il tatuaggio, in tutta sincerità, era la cosa
meno spaventosa di tutta la questione.
“Con… ago e inchiostro?” tentò, giusto per
non stare zitta.
Dubris parve stupito dalla risposta. Poi la
sua faccia si incattivì. “Ma tu credi che noi ci mettiamo a disegnare?”.
Emily si sentì sotto pressione. “Beh,
sarebbe discriminatorio da parte mia credere che voi non abbiate passatempi”
sparò. Sgranò gli occhi subito dopo, il delirio si stava impadronendo di lei.
“Diglielo tu Jacque cosa usiamo, al posto
dell’inchiostro” disse Dubris, ignorandola – fortunatamente –.
Jacque esitò un attimo. Poi parlò: “Il
sangue”.
Che
schifo.
“Di vampiro”.
Emily si voltò a guardarlo col cuore che
decelerava. Sangue di vampiro?!
“È grazie a quel sangue che loro…
sentiranno le tue emozioni” continuò Jacque “È così che sapranno se andrai dai
cacciatori”.
Le
mie emozioni?!
Emily non era sicura di aver capito bene, ma per ora la cosa che le premeva più
sapere era cosa volesse dire avere sangue di
vampiro nel corpo. Non poteva essere certo un toccasana. Guardò Dubris, in
attesa di spiegazioni. E lui non la deluse.
“I primi patti del sangue sono stati un
fallimento” disse “Non sapevamo come regolarci con le dosi, e iniettavamo
troppo sangue di vampiro nel corpo degli umani”.
La ragazza deglutì. Non era sicura di voler
sapere. “E cosa è successo loro?”.
“Il sangue di vampiro trasforma” rispose
l’altro, facendo una pausa d’effetto “ma, come potete benissimo immaginare,
nessuno della Rappresentanza vuole accollarsi un vampiro infante”.
“E quindi?” chiese Emily, ansiosa “Li
uccidevano?”.
Dubris scosse la testa. “Ogni cinquant’anni
ogni vampiro della Rappresentanza ha il dovere di versare una goccia del
proprio sangue nell’Ampolla del Patto. Il sangue che viene utilizzato per
questi tatuaggi non è il sangue di
nessuno, è una miscela di sangue di vampiro”.
Emily non capiva che differenza facesse. “E
allora?” chiese, nervosamente.
“E allora chi è stato creato non aveva
creatore” disse Jacque quasi in un sussurro.
La ragazza si voltò a guardarlo, ancora più
confusa. Cos’era, uno scioglilingua?
“Emily” disse Dubris, guardando Jacque
“Riesci a immaginare il dolore e la confusione di un bambino senza genitori?”.
“Beh, io…”.
“Immaginalo!” urlò il vampiro, portando lo
sguardo su di lei.
Emily spalancò gli occhi e si costrinse ad
immaginare qualunque cosa gli venisse in mente. Pensò a un bambino abbandonato
su un marciapiede, pensò agli orfanatrofi, cercò di figurarsi nella mente un
bambino che piangeva.
“Un vampiro senza creatore” continuò
Dubris, tornando a un tono di voce normale “sta cento volte peggio”.
L’immagine del bambino sparì e la mente di
Emily disegnò un ragazzo, con le zanne che gli spuntavano da sotto il labbro
superiore, che se le toccava urlando. Riusciva quasi a sentire le sue grida, a
vedere i suoi occhi, rossi iniettati di sangue, col suo corpo che si
trasformava, mentre lui non riusciva a capire.
“Che fine hanno fatto?” domandò la voce di
Jacque “Che fine hanno fatto questi umani che sono stati trasformati per
sbaglio?”.
“I loro amici vampiri che volevano fare il
patto hanno cercato di aiutarli. Ma loro ormai avevano perso la ragione. Mi
ricordo che uno di loro era diventato talmente pericoloso che l’hanno dovuto
uccidere”.
Emily deglutì. Certo che diventare un
vampiro non doveva essere molto piacevole.
Jacque aveva uno sguardo assorto, sembrava
stesse pensando ad altro.
Poi si riscosse. “Ma ora le dosi sono
giuste” fece, speranzoso “Pochissimo sangue di vampiro non fa niente, e ne
basta pochissimo, non è vero?”.
Dubris annuì, controvoglia. “In realtà
dipende dalla reazione che ciascun corpo umano ha. La maggior parte degli esseri
umani soffre atroci dolori quando ha il sangue di vampiro nel corpo, perché il
vostro stupido patetico sistema immunitario ovviamente reagisce, ma non muore,
né si trasforma”.
Emily lo stava guardando concentrata e
quasi sussultò quando Dubris avvicinò il suo volto malefico circondato da ricci
rossi al suo. “Naturalmente si tratta di statistiche, sono sicuro che una
giornalista comprende bene”.
Certo che dovevano dargli un premio in
oratoria a quello. Doveva essere uno importante, uno ai piani alti, per
riuscire a parlare così.
“Fai la tua scelta” disse una voce
femminile.
Emily sussultò. Si era quasi dimenticata
della presenza di quella vampira che sembrava una statua di ghiaccio. Si era
mossa e stava venendo verso di loro.
“È una scelta che spetta soltanto a te,
Jacque non ha nessuna voce in capitolo”.
La ragazza annuì. Cercò di mantenere la
mente fredda e di ragionare.
Aveva due opzioni. La prima era di essere
trasformata in un vampiro, da Jacque. Jacque sarebbe stato il suo creatore, se aveva capito bene cose
fosse un creatore, e lei non sarebbe impazzita. Ciò significava che la
Rappresentanza non sarebbe stata costretta ad ucciderla e lei avrebbe potuto
vivere per sempre la sua bella e felice vita da vampira. La seconda era di fare
un patto, che le avrebbe procurato un orrendo tatuaggio, con una discreta
quantità di sangue di vampiro nel corpo, che forse non l’avrebbe fatta ammattire o uccidere. C’era qualcosa di
così sbagliato in tutto quello che finì per maledirsi solamente, invece di
prendere una decisione.
“Emily? Allora?”.
Si voltò. Era Jacque che lo chiamava. Lui
non voleva essere il suo creatore, questo era chiaro. E lei neanche ci teneva
ad essere un vampiro. In realtà non le avrebbe fatto piacere neanche bersi
tutto il cervello per colpa di una miscela schifosa di sangue di vari vampiri.
Poi c’era il piccolo particolare che i suoi
genitori ormai a quest’ora si stavano sicuramente chiedendo dove cavolo era
finita, lei, gravemente malata.
Forse era lo sguardo di Jacque che la
irritava, forse quello di Dubris che la guardava con aria di sfida, o forse il
suo stomaco che brontolava, sta di fatto che rispose di getto, senza più
pensarci: “Scelgo il patto”.
Spagna,
1350
“Sete… Ho sete…”.
Acilia riempì per la decima volta la
ciotola d’acqua quella sera. L’accostò con attenzione alle labbra screpolate e
violacee della ragazza. Il contatto con la ciotola le fece mugugnare qualcosa e
socchiudendo gli occhi con aria avida, Ines bevve tutto. Acilia le accarezzò i
capelli color cenere con dolcezza, guardando il colorito sempre più spento del
suo volto.
“Miguel” chiamò, senza smettere di guardare
quella ragazzina che non poteva avere più di quindici anni “Miguel!”. Non
ottenne risposta e decise, a malincuore, di abbandonare Ines e uscire di casa.
Dopotutto doveva prendere altra acqua. Afferrò il secchio vuoto e mentre usciva
passò affianco a Leandro. Doveva essere stato un ragazzo robusto un tempo.
Dormiva e solo ogni tanto dava segno di soffrire. Acilia sperava che stesse
davvero migliorando.
Arrivata alla soglia fece per aprire la
porta quando sentì delle voci al di là di quella. Una apparteneva a Miguel,
l’altra a sua madre.
“Ma come potete voler mandarla via dopo
tutto quello che ha fatto?”.
“Che cosa avrebbe fatto? Li ha uccisi,
Miguel! Ha ucciso tuo padre, e anche Manuel!”.
Acilia strinse con più vigore il manico del
secchio. Sapeva bene che stavano parlando di lei. Sapeva bene che la madre di
Miguel non la vedeva di buon occhio, lei, una sconosciuta che veniva da chissà
dove, che poteva essere portatrice di peste, che si sistemava nella loro casa.
“Ogni notte li ha assistiti, per
permetterci di dormire! È la peste che li ha uccisi, madre!”.
“La notte! E di giorno, di giorno dove va?
Dove va ogni giorno? L’hai mai vista con la luce del sole? Chi vive di notte
è…”.
Colpi di tosse e lamenti distolsero Acilia
dalla conversazione. Si voltò e vide che Leandro si era svegliato. Sia lui che
la sorella imploravano per avere dell’acqua.
Acilia si decise ad uscire, ignorandone le
possibili conseguenze. Non provava alcun odio nei confronti della madre dei
ragazzi che stava accudendo, perché, dopotutto, faceva bene a diffidare di lei.
Aprì la porta e i due si voltarono di
scatto verso di lei.
Sentì lo sguardo inquisitorio della signora
dappertutto. Non aveva subito fatto caso a lei, a quegli occhi piccoli e
accusatori, all’inizio. Ma dopo la morte del marito si era fatta sempre più
pallida, sempre più rugosa e i suoi occhi non smettevano mai di guardarla.
“Hanno sete” spiegò in fretta Acilia “Vado
a prendere dell’acqua”.
Miguel si affrettò a prenderle di mano il
secchio. “Vado io”.
Sua madre, con un’espressione quasi di
disgusto, si allontanò e rientrò in casa, sbattendosi dietro la porta.
Acilia non voleva più rientrare in casa. E
poi Ines e Leandro non avrebbero avuto niente da temere con loro madre accanto.
“Vengo con voi” disse a Miguel.
Lo seguì tra la desolazione della città. La
situazione non era cambiata molto dalla sera del suo arrivo. Qualche altro
morto era stato buttato come un sacco di patate a marcire fuori dalla porta di
casa e qualcuno correva di tanto in tanto a invocare aiuto all’abbazia, e a
volte si vedevano delle suore col volto ricoperto da un retino che avanzavano
con passo deciso in tutte le direzioni. Ma erano spettacolo rari, il più delle
volte la gente non usciva di casa. Forse erano quasi tutti malati. I frati non
sapevano più cosa fare, prescrivevano dei salassi, continuamente, ma Acilia
dubitava avessero qualche effetto. E anche loro ormai erano sempre meno, e
sempre più spaventati. Alcuni erano fuggiti subito, all’inizio, le aveva
spiegato Miguel, nauseato. Gliel’aveva detto suo cugino, Javiero, che era
priore della città. Era un buon priore, Miguel era fiero di lui, ma neanche
lui, di fronte a tanta crudeltà, riusciva più a difendere Dio.
“Avete sentito tutto, non è vero?” domandò
il ragazzo d’un tratto.
Acilia si riscosse dai suoi pensieri.
Javiero che nella sua mente predicava di non avere paura dell’aldilà, che chi
era buono non aveva niente da temere, scomparse. E apparve la madre di Miguel
che urlava che lei, Acilia, non lo era, buona. “Ho sentito qualcosa”.
“Perdonatela. Ormai è folle di tristezza e
di paura”.
Non c’era bisogno di perdonare nessuno.
“Lo so” disse solo.
Al pozzo c’era quella che sembrava una fila
disordinata. In realtà le persone quasi facevano a botte per aver subito
dell’acqua. Miguel sospirò. “Stiamo tutti impazzendo”.
Acilia annuì, stordita. Non voleva
giudicare nessuno. Ognuno tentava di sopravvivere come poteva, l’aveva fatto
anche lei stessa. Forse era per quello che si ostinava a stare in quella città,
in quella casa ad aiutare quelle persone. Non era altruismo come pensava Miguel
da qualche settimana, era solo egoismo. Ogni giorno, subito dopo il tramonto,
viaggiava in cerca di altre città, per nutrirsi, per poi venire nella città di
Miguel, e per sentirsi umana, lasciandosi alle spalle tutta la sua schifezza,
per affrontare la condizione di miseria di qualcun altro. In ogni città, in
ogni villaggio, vedeva morte ovunque, ma la fame incalzava, non la lasciava
riposare. E poi, con quella maschera d’essere umano, andava da quelle persone
bisognose, si prendeva cura di loro, mentre altre le aveva uccise.
“Perché fate questo per noi?” domandò
Miguel d’un tratto, guardandola “Non avete paura del contagio? Dicono che sia
una malattia che si attacca”.
Acilia abbassò lo sguardo. Voleva
purificare la sua anima, sentirsi pulita, anche solo per un po’, pentirsi di
tutto il male che aveva compiuto e che continuava a compiere. Ma questo non
poteva certo dirlo.
“Non voglio che vi accada qualcosa”
continuò l’altro in un sussurro.
E io
non voglio che accada qualcosa a te. Acilia avrebbe voluto piangere.
La peste continuava a prendersi le persone
buone, aveva preso Manuel, il fratellino di Miguel. Era la stessa cosa che faceva
lei. Si prendeva le persone… Lei era come la peste…
Vicino al pozzo le persone continuavano a
dare di matto. Acilia aveva avuto l’impressione che stessero bisticciando per
avere l’acqua ma era qualcosa di diverso. In mezzo a loro c’era un frate, Acilia
riconosceva la tunica marrone, con una frustra in mano. Stava spronando ad alta
voce le altre persone a fare qualcosa e loro lo guardavano con gli occhi gonfi
di dolore.
“Che sta succedendo?” fece Acilia.
Miguel, il volto contratto per la
concentrazione, sembrava avere una vaga idea di quello che stava capitando. La
prese per un braccio e la tirò indietro, dietro di sé. Subito dopo la guardò
stranito.
“Avete freddo?”.
Acilia si ricordò di essere fredda come la
morte e come la peste. Ogni volta che qualcuno la toccava e le chiedeva se
aveva freddo, i brutti ricordi dilagavano come in un torrente. Scosse la testa
e riportò lo sguardo verso il frate con la frustra. Una ragazza piangente si
era spogliata e si era messa a chinino, pronta ad essere frustrata. Acilia non
capiva. Ci aveva messo molto, molto tempo a capire cosa la gente intendeva
quando diceva Dio, chi erano i frati,
i preti e chi era il papa. Ma l’aveva capito, pensava di averlo capito.
Guardò Miguel mentre il primo colpo
arrivava schietto e sonoro sulla schiena della giovane. “È questo il vostro
Dio?!”.
Lui indietreggiò. “Bisogna dirlo a Javiero”
disse in un soffio. Subito corse via prendendo Acilia per mano. Lei non si
ritrasse neanche, ormai lui l’aveva sentita quanto era fredda. Capì che le piaceva
il calore che lui la trasmetteva, quel sudore che era nella sua mano, e passava
nella sua, la faceva sentire umana.
Corsero fino all’abbazia ma la porta era
già aperta. E Javiero stava correndo fuori, chiamato da altri monaci.
“Javiero!” urlò Miguel.
Il priore si voltò verso di lui con aria
arrabbiata. “Si tratta di frate Nemesio, non è vero?”.
“Non l’ho visto, io…”.
Javiero si fece largo tra le persone, con
Miguel e Acilia alle calcagna.
“Cosa sta succedendo, Jav?”.
“Nemesio ha perso la testa” spiegò lui,
continuando a camminare “Dice che se ci puniamo da soli, Dio non avrà motivo di
punirci con la peste”.
Acilia sgranò gli occhi. “Come fa a pensare
una cosa del genere?” esclamò.
Il priore si soffermò a guardarla, incerto.
La ragazza per un momento si sentì intimorita. Javiero era un vero uomo di
Chiesa, un uomo nel giusto. Che potesse vedere che dietro ai suoi occhi non
c’era traccia di nessun Dio?
Ma dopo poco, le rispose: “Non è l’unico.
Ce ne sono tanti che lo pensano”.
Continuarono ad avanzare finché non
raggiunsero Nemesio. La ragazza fustigata aveva la schiena tutta rossa, ma non
c’era solo lei. Altre persone si erano spogliate e inginocchiate, in attesa
della loro punizione.
“Fermi!” tuonò la voce di Javiero.
Nemesio si fermò a guardarlo, con la
frustra in mano, levata per aria.
“Fratello Nemesio, ti ordino di rientrare”.
“Almeno io ce l’ho una spiegazione per
quanto sta accadendo” disse quell’altro, con tono velenoso “La peste è stata
mandata da Dio, per punirci! Perché siamo malvagi!”.
“Mio fratello Manuel aveva dieci anni!”
gridò Miguel, pieno di rabbia “Come poteva essere malvagio?”.
Acilia si accorse che la sua mano era
ancora all’interno di quella del ragazzo quando lui la strinse ancora di più,
mentre parlava. Lei non lasciò la presa.
“Siamo
tutti cattivi” replicò Nemesio
“L’umanità intera è cattiva, è marcia!
È per questo che Dio ci punirà tutti!”.
Acilia aveva voglia di ridere. Aveva
sentito dire che tutte le cose erano create da Dio, allora Dio non poteva
esistere, perché altrimenti, non avrebbe mai creato un essere immondo come lei.
La peste non era una punizione, proprio come non lo era lei, che mangiava solo
ed esclusivamente per assecondare i suoi desideri.
Javiero era corso ad alzare le persone che
stavano in ginocchio in attesa della fustigazione. “Sciocchi!” li rimproverava
“Credete davvero di aver capito cosa vuole Dio da voi? Non siate così
presuntuosi!”. Alzò lo sguardo su Nemesio, dopo aver aiutato l’ultimo uomo ad
alzarsi. “E anche tu, fratello, non peccare più di presunzione, o mi vedrò
costretto a cacciarti”.
Nemesio, sconfitto, se ne andò a grandi
passi verso l’abbazia e la folla cominciò a disperdersi.
Javiero rivolse invece i suoi passi verso
Miguel ed Acilia. “Come stanno?” domandò.
L’acqua.
Acilia lasciò la mano del ragazzo e gli
prese il secchio dall’altra in un lampo. Corse verso il pozzo mentre sentiva
Miguel che rispondeva: “Male”.
Mentre legava il secchio alla corda, sentì
i passi di Miguel dietro di sé. Si voltò. Lui prese la corda con le sue mani
forte, facendola allontanare.
“Per quanto male vadano le cose”
bisbigliava, calando il secchio giù nell’oscurità “non si può cedere così, non
possiamo diventare bestie”.
Acilia sgranò gli occhi, portandosi la mano
alla bocca.
Non
siamo bestie.
L’aveva sempre saputo, in angolo di lei
stessa, sepolto da tanto crudeltà, quell’insegnamento non se n’era mai andato.
Invece
l’hai dimenticato.
Guardò Miguel, mentre tirava la corda,
stringendo i denti, più per il dolore che per la fatica. Le sue mani ormai
erano tutte consunte, rovinate.
“Si aggrappano ad ogni piccola speranza”
fece Acilia. Lei sentiva di capirli, sentiva di capirli tutti.
Non
tutti sono forti come te.
“Miguel!” fecero delle voci.
Entrambi si voltarono. Due ragazze stavano
correndo nella loro direzione. Acilia le riconobbe, erano altre due sorelle di
Miguel, allontanate da casa per lasciarle al sicuro.
Il ragazzo estrasse il secchio, lo poggiò
per terra, poi corse ad abbracciarle.
La più piccola delle due scoppiò a
piangere. “Quando possiamo tornare a casa?”.
Miguel si chinò e la baciò sulla fronte.
“Non ancora, Lolita, non ancora”.
Acilia notò che le due sorelle si tenevano
per mano.
La più grande – doveva avere più o meno la
sua stessa età di un tempo – si accorse del suo sguardo e si stizzì. “Lei è ancora a casa nostra” disse, e non
sembrava una domanda.
Miguel fece per aprire bocca ma lei
continuò. “Perché lei può occuparsi dei miei fratelli e io no?” sbottò “Io volevo essere accanto a nostro padre
quando è morto!”. La sua voce si alzò e si incrinò, Miguel l’abbracciò mentre
lei scoppiava a piangere. Poi lui si staccò e guardò entrambe.
“Acilia è libera di correre i rischi che
vuole” disse, serio “Voi no, ve lo proibisco, è chiaro? Voi starete lontano
finché non sarà tutto finito!”.
Acilia incrociò le braccia, a disagio. Non
c’era nessun posto sicuro in realtà, quella di Miguel era tutta illusione.
“Vedrete che finirà” continuò il ragazzo
“Ve lo prometto… Finirà…”. La voce si stava spezzando anche a lui e Acilia si
voltò per non invadere quel quadretto familiare.
Ma la voce di Miguel era di nuovo ferma
quando parlò di nuovo. “Agnese, ti prego, continua a prenderti cura di Lolita…
E anche di te stessa”.
Le due ragazze lo abbracciarono di nuovo,
poi se ne andarono, in una scia di singhiozzi sommessi.
Acilia si avvicinò a Miguel. “Dove
stanno?”.
“C’è una nostra amica che le ospita” spiegò
lui “Vive da sola e non ha contratto le peste”.
“Come fanno a mangiare?”.
“Come facciamo noi, suppongo”. Passò
qualche attimo, poi Miguel scoppiò a piangere.
Acilia aveva voglia di abbracciarlo e
consolarlo, ma si sentiva inadeguata. Troppo fredda e troppo sbagliata. Lui
piangeva la morte delle persone a lui care. Chissà quante persone avevano
pianto a causa sua, di Acilia, persone che trovavano i loro cari, morti in
maniera strana, colpiti da una qualche malattia perversa, demoniaca, che ti
prosciugava tutto il sangue. Era questo che diceva la gente.
Miguel si asciugò gli occhi. “Lo sai che se
potessi, ti manderei a vivere da loro”.
Acilia sentì qualcosa di lei tremare,
qualcosa che non poteva essere il cuore. Le aveva dato del tu, e lei si sentì
infinitamente in colpa, per l’immagine che lui si era fatto di lei.
Il ragazzo socchiuse gli occhi, gli
tremavano le mani.
Non
siamo bestie.
Acilia lo urlava dentro di sé. Non doveva
più dimenticarselo, mai più, e forse così lei avrebbe potuto guardarlo negli
occhi senza sentirsi morire, di nuovo.
Poi Miguel starnutì.
Acilia si allarmò. “Miguel, state bene?”.
Lui era ancora più pallido e starnutì di
nuovo. “Sì, sono solo stanco”. Acilia poteva vedere le goccioline di sudore che
si formavano e scivolavano via dalla sua fronte. Si precipitò dal secchio pieno
d’acqua.
“Avete sete?” chiese, cercando di stare
calma.
“Sì”.
Lui era scivolato a terra, la testa tra le
mani.
Lei si inginocchiò di fronte a lui, il
secchio affianco alla sua gamba destra. Miguel guardava l’acqua con un vago
senso di desiderio, lei lo vedeva riflesso nell’acqua. Poi la sua espressione
divenne confusa, lui la stava guardando con occhi strani. “Non vedo il tuo
riflesso nell’acqua” disse, spaesato.
Acilia tuffò d’istinto le mani nel secchio
per cancellare ogni cosa che non c’era, le congiunse e raccolse un po’ d’acqua.
Avvicinò le mani alla bocca di Miguel e quello succhiò bramosamente. Ma non gli
bastava. Prese a leccarle le mani, le mani fredde come fossero cristallizzate
nel ghiaccio, dovevano dargli sollievo, mentre la febbre saliva.
Acilia lo lasciò fare, riprese l’acqua più
volte, lui la beveva, mentre piangeva. E l’acqua che aveva addosso, che gli colava
dalla bocca, si mescolava con le lacrime. Acilia gli prendeva le lacrime, gli
metteva le mani addosso, lo toccava e lo stringeva e lui gemeva, con le mani le
afferrava i polsi sul suo viso, per sentire fresco, per avere pace. Lei non
aveva più paura di essere considerata fredda, di essere scoperta morta.
Non
siamo bestie.
“Non lo dimenticherò” sussurrò, in quello
strano abbraccio con Miguel “Non lo dimenticherò…”.
La notte stava arrivando e lei si alzò in
piedi, sollevando il ragazzo senza alcuna fatica. Lui non diede segno di essere
sorpreso, o se lo era, non disse nulla. Acilia lo aiutò a camminare verso casa,
sforzandosi di non vacillare neanche un secondo, mentre malediceva quel Dio di
cui parlavano tutti, mentre pensava che le sarebbe piaciuto vivere ancora un
po’ di tempo con Miguel.
Dopotutto lei di tempo ne aveva tanto,
troppo.
*
Avrebbero agito quella notte.
Jacque non era mai stato davanti alla
Rappresentanza Vampiresca, e non era esattamente una di quelle cose che avrebbe
voluto fare a tutti i costi prima di morire.
Sia Emily che Dubris stavano trafficando in
salotto al telefono, l’una per avvertire a casa che sarebbe stata fuori tutta
la sera, l’altro per prenotare un appuntamento d’urgenza alla Sede.
Lui e Acilia erano in cucina, lei era a
braccia conserte proprio davanti a lui.
“Credi che stia sbagliando?” chiese lui ad
un tratto. Odiava quella parte di lui che doveva sempre essere rassicurata
dalla sua creatrice.
Lei lo guardò con un vago cipiglio. “Tu o
lei?”.
Jacque scrollò le spalle. “Non so, tutti e
due immagino”.
Acilia sospirò. “Le fa bene, cerca solo di
salvarsi”.
“Non è così rischioso, vero?”.
Jacque sperava che Dubris volesse solo
spaventarli, ma nel momento stesso in cui pose la domanda ad Acilia si rese
conto che nemmeno lei voleva che lui sapesse del sangue. Allora forse voleva
spaventarli anche lei.
“Non è una cosa che si fa spesso” rispose
la ragazza, alzando le spalle “Il patto coi simpatizzanti va bene da molti
anni… Però in loro si inietta ancora meno sangue”.
“Perché?” domandò l’altro, sorpreso.
“Suppongo che sia perché… i simpatizzanti,
li controllano meno. Chi entra in amicizia con un vampiro e vuole fare il patto
è visto come fosse più pericoloso. Sai, l’amicizia o l’amore… possono svanire”.
Acilia sembrava ponderasse ogni parola che
diceva, era strano. Di solito parlava sicura e sciolta.
Jacque annuì. “Invece la voglia di farsi
bere non può svanire” disse.
“Beh” fece l’altra con un sorriso “i
simpatizzanti non sono mica tanto normali”.
Per un po’ nessuno dei due parlò, poi
Jacque si fece coraggio. “E io?”.
“Cosa?”.
“E io sto facendo la cosa giusta?”.
Acilia non rispose subito. Abbassò lo
sguardo sui propri piedi. Sembrava cercasse di ricordare qualcosa.
“Il desiderio di creare dovrebbe essere una
cosa naturale, quasi una pulsione irrefrenabile” disse “se ti opponi è
progresso e il progresso non è sbagliato”.
Jacque non era sicuro di aver capito bene,
ma sembrava che gli stesse dicendo di sì.
“Non siamo bestie” continuò l’altra, sempre
assortita. Poi rivolse il suo sguardo a lui. “Stai evolvendo in fretta,
Jacque”.
Allora
perché me l’hai tenuto nascosto?
Perché non gli aveva mai parlato del patto,
se credeva fosse la cosa giusta? Era come diceva Dubris? Era perché era molto
pericoloso? Ma Acilia di pericoli ne aveva affrontati tanti nella sua vita… Non
era una che si tirava indietro, o forse ora lo era. Non era più in politica da
tantissimo tempo.
Voleva chiederle tante cose ma la domanda
che gli uscì dalla bocca fu un’altra.
“Quando ho trasformato Eike... Anche lì ho
fatto la cosa giusta?”.
Si rispondeva ogni santo giorno e si diceva
di no, no, che un ragazzino di dodici anni non doveva morire ma neanche vivere
in quel modo. Sapeva che lo pensava anche Acilia, ma lei, dopo quella notte di
settant’anni prima, non ne aveva più parlato.
Vedeva chiaramente che lei non sapeva cosa
rispondere.
Lui insistette. “Dubris ha detto che un
vampiro senza creatore impazzisce. È a questo che servono le parole del rito,
non è vero? Tu me le hai fatte pronunciare”.
Acilia sembrò sorpresa. “Non siamo streghe,
non pronunciamo incantesimi” disse con un sorriso “Io credo però che quelle
parole aiutino a far capire all’umano che è in punto di essere creato chi è il
suo creatore”.
Secondo Jacque quelle parole spaventavano e
basta.
“Quindi in un certo senso forse hai
ragione, chissà” proseguì lei.
L’altro fece spallucce. Forse quella
formula era solo una tradizione antica. “Ma chi le ha inventate?” chiese poi.
“Non lo so”.
In quel momento comparve Dubris.
“Ce l’ho fatta. L’elicottero sarà qui a
momenti” disse, pomposamente. Poi si guardò intorno. “Dov’è l’umana?”.
“Sta parlando al telefono con i suoi
genitori” rispose prontamente Jacque.
Dubris parve metterci qualche attimo a
capire e Jacque inarcò le sopracciglia. In effetti non sapeva quanti anni
avesse Dubris, ma pensava che lui, avesse anche collezionato migliaia di anni,
il concetto di genitore se lo sarebbe ricordato.
Sentì dei passi timorosi dietro di lui e si
voltò.
Emily, col cellulare in mano, li stava
guardando con un mezzo sorriso nervoso. “Sarei pronta”.
“Cosa dovevi dire ai tuoi genitori, Emily?” domandò Dubris.
Jacque lo guardò esterrefatto. Voleva
mettersi a fare conversazione?
“Beh, che non torno per cena” rispose
Emily, stupita altrettanto “E non è stato neanche molto divertente perché ho
dovuto spiegare che mi sentivo molto meglio, che domani torno a lavorare… Poi
ho dovuto inventarmi con chi uscivo a cena e…”.
Dubris sembrava essersi fermato solo al
primo pezzo. “Che non torni per cena? Non sei un po’ vecchia per vivere ancora
coi genitori?”.
Emily avvampò. “Lavoro da neanche un anno,
non ho i soldi per comprarmi una casa” si difese.
Jacque emise una risatina. Era buffa, tutta
rossa. Nessuno di loro ovviamente poteva più arrossire.
“Ah già” fece Dubris, con un gesto noncurante
della mano “Ai nostri tempi era molto più facile per voi, vero Aci? Mamma e
papà ti trovavano un marito ed eri già sistemata”.
Acilia non aveva esattamente l’espressione
di approvare ma assentì.
“Sei stata promessa a qualcuno?” domandò
Emily, le cui guance erano tornate di un colorito normale.
L’altra donna le rivolse uno sguardo
distaccato. “Con un cretino” rispose “ma fortunatamente sono morta prima che mi
potesse anche solo toccare”. Concluse con un sorriso serafico.
“Oh”. Emily sembrava non trovare altri
argomenti.
Un rumore fece sobbalzare Jacque e lui si
guardò intorno, così fece Emily.
“È arrivato l’elicottero” disse Dubris,
tranquillo, accingendosi ad uscire dalla cucina.
“Elicottero?” fece Emily, sgranando gli
occhi.
Dubris si voltò, scocciato. “Con che altro
mezzo pensavi di andare? Tu e Jacque non sapete volare, no?”.
“Ehm…”.
L’altro le diede di nuovo le spalle. “È
così seccante viaggiare con gente che non sa volare” lo sentì borbottare
Jacque.
Emily lanciò uno sguardo indeciso a Jacque
e lui annuì. Entrambi fecero per andare ma qualcosa trattenne il vampiro per il
braccio. Si girò e vide che ad Acilia era comparsa di nuovo l’espressione
preoccupata di prima. Aveva la bocca aperta ma non diceva niente.
Jacque fu colto da un dubbio. “Tu non
vieni?” chiese, spaesato.
“No” rispose lei.
“Perché?”.
“Non mi va… di vedere la Rappresentanza”.
Jacque si sentì deluso. Sperava di avere la
sua creatrice al suo fianco. “Guarda che non è che se ti vedono ti catturano
per farti rientrare in politica” tentò.
Acilia scosse la testa. “Devi cavartela da
solo”.
Emily lo stava aspettando e lui solamente
annuì, per andare da lei, lasciando la sua creatrice con quella strana,
insolita, espressione di apprensione.
*
Ines era morta da qualche giorno, Leandro
da appena due ore.
Miguel aveva le lacrime gli occhi e non
riusciva a trovare nessuna pace. Stringeva le stoffe del suo letto, scalciando
a intermittenza di qualche minuto. Non chiedeva spesso dell’acqua come facevano
Leandro e Ines. Forse voleva morire in fretta, per porre fine a quel tormento.
Acilia gli teneva le mani sulla fronte
bollente per cercare di raffreddarlo.
Non sapeva bene descrivere quale fosse il
suo stato d’animo. Di brutti momenti ne aveva passati tanti, non era quello il
momento più triste della sua vita. Era diventata più fredda, se un ragazzo che
le piaceva fosse morto non sarebbe cambiato molto, nella sua eterna vita. Ma il
mondo stava crollando a pezzi, con la peste che dilagava, e anche lei,
lentamente stava crollando a pezzi. Se non era quello il momento più triste
della sua vita, allora perché si sentiva così afflitta? Perché aveva di nuovo
quella matta voglia di urlare, quella voglia di buttarsi a capofitto sotto il
sole? Aveva ricominciato a chiedersi perché non l’aveva ancora fatto, dopo
tutti quei secoli, cosa la teneva ancora ancorata alla vita? Qualcosa, o
qualcuno, a cui teneva, c’era sempre, che le diceva di restare… Anche quando
era viva, sua madre e sua sorella la tenevano ancorata a quella vita di
sacrifici, quando avrebbe potuto fuggire con Damiano, se solo fosse stata un
po’ più coraggiosa. Di coraggio non ne aveva mai avuto, e non ce l’aveva
neanche ora che era un essere impuro e mezzo morto, non ce l’aveva il coraggio
di morire davvero. E raggiungere Damiano, che purtroppo non era altro che un
ricordo sbiadito che pulsava fiocamente.
Lo
amavi davvero?
Miguel tossì e Acilia si ritrovò le braccia
imbrattate di sangue. Automaticamente avvicinò il braccio alla bocca, sentendo
l’odore del sangue. Le narici le si erano dilatate, sentiva il dolore usuale
alle gengive, i canini che spingevano.
Prima di toccarlo con la lingua si rese
conto che quella era sangue malato, del ragazzo che stava tentando di
proteggere. Le gambe e le braccia le si erano irrigidite per il desiderio.
Puoi
azzannarlo, tanto sta morendo… Di certo quel sangue non ti avvelenerà…
Si leccò il braccio di scatto, avidamente.
Subito dopo cadde per terra, tenendosi stretta al pavimento, sforzandosi di non
attaccare.
Morirebbe
comunque…
“No” digrignò “No…”.
L’immagine di Damiano steso a terra,
rinsecchito, senza più neanche una goccia di sangue la invase completamente. Lo
vedeva ovunque. Lo vedeva lì accanto a lei. Alzò le mani per accarezzarlo ma
non toccò nulla. Le mani le caddero sul pavimento e lei si sentiva tremare. Non
c’era nessuno lì per terra. Solo lei, a lottare contro la sua più totale
follia.
Non
siamo bestie…
“Sete…” biasciò Miguel, da qualche parte.
Anch’io
ho sete.
Non mangiava da giorni. Appena tramontava
il sole lei si precipitava da Miguel, per vedere come stava, se era ancora
vivo, non riusciva a pensare ad altro.
E tu
lo vorresti uccidere?!
Un altro pensiero le si insinuò nella
mente, così, all’improvviso.
Non
lasciarlo morire, trasformalo.
Ci pensò davvero. Ma rimase lì, con le
unghie avvinghiate al pavimento. Trasformare era come uccidere, e non riusciva
a prendere una decisione.
Sentiva quanto soffriva, ed era
insopportabile.
Trasformalo!
Lei era stata trasformata perché se no
sarebbe morta. Era stata salvata o dannata? Avrebbe preferito morire? O le
andava bene quell’esistenza che conduceva? Non riusciva a trovare una risposta.
In realtà la risposta era lì accanto a lei, quel corpo di Damiano che ancora
vedeva quando chiudeva gli occhi, che le diceva che lei lo era davvero, una
bestia.
Rimase accovacciata contro il letto di
Miguel, sforzandosi di non guardarlo, per non farsi venire strane voglie.
Riprese a leccare lentamente il sangue che aveva sul braccio. Aveva un sapore
disgustoso, ma lei aveva sete, tanta sete.
“Sete…”.
Proprio come un’ammalata di peste.
In quel momento la porta di casa si aprì e
nell’unica stanza che c’era piombò una figura grassa che per un momento Acilia
riuscì ad identificare solo come cena.
Poi si accorse che era la madre di Miguel e
che la stava guardando con occhi e bocca spalancati, con un’espressione
terribile sul volto. “Mostro! Cosa stai facendo?!”.
Acilia aveva ancora la lingua a penzoloni.
Subito la ritrasse e si alzò in piedi.
“Strega! Sei una strega! Cosa stai
facendo?!” sbraitava la donna.
Acilia captò poco di quello che aveva
detto. Più una persona era arrabbiata, più urlava, più la vena del suo collo si
ingrossava. Non lo capiva la gente, che era davvero in pericolo quando si arrabbiava…
“Vuoi uccidermi anche lui!” continuò a
urlare l’altra, fuori di sé, le lacrime agli occhi.
Furono le lacrime a distogliere Acilia
dalla sua fame. Le lacrime sincere di una donna di mezza età che aveva perso
tutta la sua famiglia.
Non poteva ucciderla, non poteva, non lì,
davanti a Miguel moribondo, che non poteva fare nulla per salvarla. Vedeva
chiaramente il suo volto nella mente, furioso e deluso, mentre le urlava che la
peste gli aveva ucciso il padre e i fratelli, e lei, lei gli aveva ucciso la
madre…
“No…” pigolò la sua voce, squarciando quel
disegno che si era formato nella mente della ragazza “Non è vero… Acilia…
resta…”.
“FUORI DA CASA MIA!” strepitò la signora,
ignorandolo e piombando addosso ad Acilia. La lanciò via con una forza disumana.
“LONTANA DA MIO FIGLIO!”.
Acilia si lasciò strattonare e buttare
fuori di casa, senza opporre resistenza. Poi la porta di casa fu richiusa con
violenza e sentì al suo interno esplodere un pianto disperato.
Si alzò in piedi, scrollandosi di dosso
polvere e terra. Forse era vero che lei sarebbe stata un pericolo per Miguel,
ricordò come era stata sul punto di morderlo solo pochi attimi prima.
Rimase davanti alla soglia per un po’ di
tempo, sperando che si aprisse. Non riusciva a capacitarsi del fatto che non
avrebbe più rivisto Miguel, perché lui sarebbe morto. Morto davvero.
S’incamminò, pensando che avrebbe dovuto
trasformarlo. Poi avrebbero vissuto per sempre insieme, per sempre sani,
nell’eternità.
Ma era uno spettacolo che aveva già visto,
ed era un piano che faceva cilecca.
Non voleva creare un’altra bestia.
*
Stavano viaggiando da circa un’ora, e molto
veloci.
Forse i vampiri non si rendevano conto che
se si fossero schiantati, mentre loro non si sarebbero fatti niente, lei
sarebbe morta.
Il vampiro che era ai comandi guidava
l’elicottero fischiettando spensierato.
Emily si voltò a guardare i suoi compagni
di viaggio. Dubris aveva perso quella strana voglia che aveva di conversare e
si era chiuso in un silenzio stampa, Jacque invece sembrava piuttosto nervoso.
Beh, pensò mentre il fischiettare del
pilota le entrava nelle orecchie, almeno qualcuno di allegro c’era.
L’elicottero era nero, e anche il sedile su
cui era seduta. Nulla da ridire, dopotutto era un elicottero vampiresco che la
stava portando a una specie di congrega dei vampiri.
Però si chiedeva come fosse possibile che i
vampiri avessero un elicottero. E presumibilmente anche un palazzo in cui
tenere le loro riunioni super segrete.
“Ehm” fece, per iniziare “ma voi rubate?”.
Dubris e Jacque la guardarono sgomenti.
Okay, forse c’erano altri milioni di modi
per chiedere come si procurassero le loro cose.
“Insomma” disse Emily, nervosamente “come
fate ad avere un cellulare? Una casa? Un elicottero?”.
Se il governo avesse saputo di
quell’elicottero, ci sarebbe stato da ridere.
“Noi non rubiamo” disse Dubris, quasi indignato
“Noi incantiamo la gente per avere”.
“Che è un modo molto più figo per dire che
rubiamo” aggiunse Jacque.
Emily sorrise. Meglio ladri che assassini
dopotutto. Moriva dalla voglia di scrivere un articolo su tutta la faccenda, ma
sapeva bene che non avrebbe mai potuto farlo. Aveva imparato la lezione.
Forse però sentiva davvero il bisogno di un
pezzo di carta e di una penna, per scrivere. Quando scriveva sul suo diario
faceva molta più chiarezza dentro di sé e le parole impresse sulla carta
avevano tutto un altro effetto. Quello che invece ora aveva nella mente era
solo un groviglio confuso di pensieri, che andavano dal tatuaggio di sangue
alla congrega dei vampiri, da Dubris che era un oratore strano alla cena che
rimpiangeva mentre il suo stomaco brontolava. Quando scriveva le cose
assumevano tutta un’altra prospettiva, quasi quella di un romanzo serio e –
nelle ultime settimane – drammatico. Invece ora si sentiva solo delirante e
incapace di formulare una sola frase di senso compiuto.
Concentrati, si disse, prova a scrivere sul
tuo diario. Ma già inciampava perché non sapeva neppure che giorno fosse dal
fatidico incontro con Vampiro. Che non si chiamava più Vampiro, ma si chiamava
Jacque. Eh no, era tutto sbagliato! Non sapeva neanche dove fosse!
Spiaccicò la faccia contro il finestrino
per capire dove fosse ma, come era prevedibile, vedeva solo buio.
“Dove stiamo andando?” chiese.
“Ad Arcangelo” rispose pronto Dubris.
Emily strabuzzò gli occhi. Era così,
dunque, stavano volando sempre più in alto fino a raggiungere il Paradiso?
“Non per offendere ma… Vi vedevo più come
esseri… infernali?”.
Jacque scoppiò a ridere.
“Che conoscenze geografiche hai?” sbottò
l’altro vampiro “Arcangelo è una città della Russia d’Europa”.
Oh,
beh, certo.
“Avete scelto un luogo dal nome proprio
simpatico” commentò Emily “proprio… azzeccato”.
Non aveva il suo diario dietro, non vedeva
altro modo per uscire da lì se non fare un po’ d’ironia. Dare sfogo a tutti i
suoi pensieri aggrovigliati la rilassava un poco.
E poi Jacque sorrideva sempre. Almeno
riusciva a rilassare anche lui.
“È molto adatto per il clima” ribatté
Dubris “Il sole tramonta presto”.
Il nervosismo del vampiro stava aumentando
ed Emily pensò che avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa. Pensò a sua
madre che le dava dell’infantile, e al fatto che tutti i fidanzati che aveva
avuto non erano mai durati più di qualche mese.
“Cominciate a pensare a cosa dire davanti
alla Rappresentanza” disse Dubris.
Un
discorso?
“Ricordatevi” continuò “dovete fare gli
innamorati”.
Oh
cielo.
Emily si sentì diventare rossa mentre
Jacque la guardava. Quindi avrebbe dovuto parlare davanti ai vampiri. Che
cos’avrebbe potuto dire? Le attraversò la mente la fugace immagine di lei che
crollava sulle ginocchia e scongiurava pietà. In quel momento le ginocchia le
tremarono davvero.
Sta
calma, sta calma…
Aveva assolutamente bisogno di una penna.
Doveva scriverlo il discorso, se no non ce l’avrebbe mai fatta!
Guardò Jacque speranzosa ma, vedendo la sua
espressione, le passò la voglia di chiedergli se aveva una penna. Sembrava
perso in un suo mondo, concentratissimo, ma soprattutto, sembrava triste.
Beh, Emily capiva che fingere di essere il
suo fidanzato era una cosa che lo rattristava alquanto però non era il caso di
mettersi a piangere. Era lei che rischiava la pelle, lei avrebbe voluto
mettersi a piangere!
Calma,
calma…
Voleva una dannatissima penna!
Pure il pilota aveva smesso di
fischiettare. Senza quel motivetto sereno nelle orecchie Emily quasi credette
di esplodere. Poi si accorse perché il pilota non zufolava più. Era concentrato
nella manovra di atterraggio.
Erano arrivati! E lei non aveva pensato a
nessun discorso!
Si sentiva il vomito.
Mi
chiamo Emily Dixon, e sono disperatamente innamorata di questo vampiro, Jacque.
Quasi le venne da ridere.
Mi ha
stregata dal primo momento che l’ho visto, non lo denuncerei mai, mai. Non
denuncerei nessuno di voi. Ho scoperto il vostro mondo e ne sono affascinata.
Voi non siete cattivi, tentate solo di sopravvivere in un mondo di follia e dannazione,
in cui siete precipitati chissà quanto tempo fa.
Beh, mica male. Certo, poi c’erano dei
minuscoli dettagli, delle inezie proprio, come quello di cercare non
balbettare, di non avvampare come un focolaio e anche, perché no, di non
inciampare da qualche parte.
L’elicottero era atterrato nel più totale
buio.
Emily si sentì scuotere e capì che Jacque
le stava offrendo una coperta.
Una
coperta?!
Che dovevano fare, mettersi a dormire? Poi pensò che fuori doveva fare
parecchio freddo e capì che quella coperta la poteva salvare. La prese con
l’accenno di un sorriso.
Scese dall’elicottero subito dopo Jacque e
Dubris e si avvolse nella coperta. Era tutto buio, non vedeva luci, oltre a
quelle dell’elicottero e questo le fece pensare che erano in un campo.
In qualunque edificio dovessero andare,
sicuramente ci sarebbe stato un po’ da camminare. Bene, perlomeno aveva un
altro po’ di tempo per pensare al suo discorso.
Poi qualcosa la colpì alla testa e sentì la
sua voce lanciare un oh sommesso
mentre cadeva sulla sua stessa coperta che era scivolata a terra.
Sssssalve!
: D Ultimamente mi stupisco della mia velocità, con la rinuncia
alla palestra per questo mese, si studia e si scrive solo, è una
meraviglia XD
Nene,
grazie mille : D Però il caro Jacquolo è molto più
preso da Acilia, che da Emily, mi pare XD Ma chissà che tu non
abbia fatto previsioni per il futuro.. :P
Sara,
un'altra fan! Piaaaaceeere (va beh, lasciamo perdere i convenevoli
inutili, che non incantiamo nessuno XD) Eike ti inquieta? Ahahah
beh, inquieterebbe anche me.. Emily spero di averla resa un po'
più interessante di come era nei vari spezzoni del Diario, come
le persone scrivono e come vivono le situazioni.. cambiano tante cose!
Grazie mille per esserti addirittura registrata, ovviamente aspetto
un'altra recensionina u.u
REDTEARS, SEI IN RITARDOOOO XDXD
Baci a tutte ragazzuole <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** La realtà nello specchio ***
Capitolo 8
CAPITOLO VIII
LA
REALTA’ NELLO SPECCHIO
Fu come risvegliarsi da un tremendo incubo.
Aprì gli occhi e ci mise un po’ a focalizzare il soffitto. Storse il naso per
il cattivo odore ed emise un rantolo. La testa gli faceva male, si sentiva
sudato ovunque e un po’ stordito. Cercò di mettersi seduto e nel momento in cui
ci riuscì capì che era da molto tempo che non si metteva così, seduto.
Assomigliava vagamente ad un incubo sì, era tutto contornato da chiazze
sfuocate e chiazze scure nella sua mente. Chiazze
scure…
Miguel si scoprì dalle stoffe e si tirò su
la tunica, in cerca dei bubboni. Gli sembrava di averlo solo sognato di avere
la peste perché non c’era più nulla. Accompagnata da una fitta dolorosa alla
testa una pioggia di ricordi lo invase. Suo padre, Ines, Leandro, Manuel. Tutti
morti. Non l’aveva sognato, no.
E sua madre dov’era? E Lolita? E Agnese?
Cercò di farsi forza mentre tentava di
scendere dal letto e un altro ricordo lo colse di sorpresa. Ogni volta che
cercava di alzarsi da quel letto per fare i suoi bisogni faceva una gran
fatica, e c’era sempre un braccio che lo sosteneva…
“Madre” chiamò, con una voce talmente fioca
che neanche riconosceva come sua “Madre! Dove siete?”.
Riuscì ad alzarsi e si guardò in giro. I
letti erano completamente sgombri ma c’era parecchio sporco in giro. Beh,
ovviamente nessuno metteva più in ordine da… Quanto tempo era stato malato? Da
quanto tempo erano morti i suoi fratelli?
Che
giorno è?
Guardò fuori dalla finestra. Il sole era
alto, doveva essere tarda mattinata, o primo pomeriggio.
Ma cos’era successo? Lui era davvero guarito? Aveva paura ad uscire di casa,
aveva paura di cadere, o di contagiare qualcosa, o di scoprire che fuori da
quella casa erano tutti morti…
“Madre!” chiamò di nuovo con un vago senso
di panico nella voce, affrettandosi a prendere la sua cappa e ad uscire.
Aprì la porta e quasi stentò a riconoscere
la sua città. Qualche bancone era stato portato all’aperto. C’era una mensa, e
delle suore stavano distribuendo della zuppa e della birra. Alcuni bambini
giocavano a rincorrersi e c’era un gran chiacchiericcio.
Miguel uscì e chiuse la porta. La peste
dunque se n’era andata? Così, come era arrivata?
Faceva freddo. Stringendosi nella cappa
avanzò qualche passo tremante, strizzando gli occhi, infastidito dalla luce.
Una sagoma stava venendo verso di lui, con
una ciotola in mano.
“Miguel!”.
Era sua madre? Chi si era preso cura di lui
tutto quel tempo?
Acilia?
La sua mente elaborò con fatica quel nome
ma ad un tratto ricordò tutto di lei. La devozione con la quale aveva assistito
i suoi fratelli, rischiando il contagio, le sue mani fresche che tentavano di
dargli sollievo mentre lui, anche lui, era steso in quel letto di morte…
“Miguel!”.
La voce della donna lo riscosse e lui la
riconobbe.
“Neva!” esclamò, con un sorriso.
Lei lo guardava con occhi sbarrati. “Cosa
ci fai in piedi? Stai bene?!”. Senza aspettare una risposta gli ficcò la
ciotola piena di zuppa nelle mani e poi gli tasto la fronte. “La febbre è
scesa” disse, mentre le stavano venendo le lacrime agli occhi. “Già da giorni
stavi mostrando segni di miglioramento ma io non osavo crederci… Non osavo…”.
La voce le si ruppe. “Le tue sorelle saranno così felici!”.
Miguel aveva già trangugiato la zuppa,
famelico. “Stanno bene? Agnese e Lolita? Tutte e due?” domandò, vacillante.
Neva annuì con un sorriso. “Nessun sintomo,
e ormai è sempre meno la gente malata…”.
“E mia madre?” chiese l’altro, sperando di
essere di nuovo rassicurato “Dov’è mia madre?”.
Neva spalancò gli occhi e si portò una mano
alla bocca. “Oh… Non… Non te ne sei accorto… Tua madre è morta”.
Miguel inspirò a fondo. Doveva
aspettarselo. “Quando?” chiese.
“Pochi giorni fa”.
“Quanto tempo sono stato malato?”.
“Tre settimane, più o meno”.
“Gliel’ho attaccata io, vero?” chiese il
ragazzo, sentendosi in colpa. Sua madre aveva cercato di curare tutti i suoi
figli, per vederli morire uno ad uno, e poi morire anche lei.
“Beh” sospirò Neva “se la sono attaccati un
po’ tutti, no?”.
Miguel trattenne il groppo che aveva in
gola.
“E Acilia?” sputò fuori all’improvviso.
Sperava con tutto il cuore che non fosse morta, ma era così difficile… Era
morta così tanta gente… “È viva?”.
Neva aveva un’espressione mortificata. “Non
lo so, Miguel. Non l’ho più vista”.
Miguel strinse le labbra, sforzandosi di
non cadere in lacrime. Acilia era un angelo venuto da chissà dove per aiutarlo
a prendersi cura della sua famiglia, e il cielo ora se l’era ripreso. Sua madre
era stata ingiusta con lei. L’aveva cacciata, se lo ricordava, anche se non si
ricordava perché. Beh, bastava qualunque pretesto, lei l’aveva sempre odiata,
Acilia.
“Mi accompagni a casa tua?” chiese il
ragazzo “Vorrei rivedere le mie sorelle”.
Neva sorrise e si incamminarono.
Quando, aperta la porta di casa, Lolita e
Agnese corsero tra le sue braccia, Miguel quasi pianse di gioia.
“Neva ci proibiva di venirti a trovare”
pianse la più grande.
“Ha fatto bene” rispose lui, lanciando uno
sguardo riconoscente alla donna “senza di lei, ora non saremmo qui”.
Lolita piangeva a dirotto. “Pensavo ci
abbandonassi anche tu”.
Neva aveva uno sguardo soddisfatto. “Che vi
avevo detto, ragazze? Il vostro Miguel è forte”.
Miguel non sapeva come ringraziarla per
tutto quello che aveva fatto. Era una donna che viveva per conto suo, energica
e indipendente. Lui non sapeva se questo c’entrasse qualcosa ma se lo
aspettava, che la peste non l’avrebbe presa.
Ma ora doveva fare quella domanda che
spingeva sulla punta della lingua. Dopotutto il suo cuore non smetteva di
sperare. “Sapete qualcosa di Acilia?”.
Sentendo quel nome, Agnese storse il naso e
scrollò le spalle. Invece Lolita disse: “Io l’ho vista qualche volta. Mi veniva
a parlare”.
La sorella la guardò con la bocca aperta.
“Non me l’hai mai detto!”.
“Mi avresti picchiata” bofonchiò l’altra,
lugubre.
Miguel ignorò il loro battibecco, gli occhi
fissi sul viso magro, e contornato di folte ciocche rosse, della ragazzina.
“L’hai vista? Quando? E che ti diceva?”.
“Quasi ogni sera” spiegò Lolita “Quando
uscivo per i miei bisogni la vedevo. Dopo un po’ ho capito che si presentava
sempre circa allo stesso momento della giornata e mi facevo trovare. Mi
chiedeva come stavi”.
Miguel aveva il cuore che batteva forte.
C’era una probabilità che fosse viva…
“Quando è stata l’ultima volta che l’hai
vista?” domandò, pregando con tutte le sue forze.
La sorella esitò un po’. “È da una
settimana che non viene più” disse poi.
Il ragazzo si sentì sprofondare. Le
ginocchia gli vacillarono un momento e lui cercò di farsi forza. Era ovvio che
fosse morta, non doveva illudersi.
“Lo sai perché nostra madre l’ha cacciata?”
s’intromise Agnese, con una nota dura nella voce.
Miguel la fissò stralunato.
La sorella aveva uno sguardo appuntito,
fiero, e gli occhi gialli si erano fatti piccoli piccoli.
“Perché è una strega” decretò.
Il ragazzo non riuscì a trattenere la mano,
che colpì sonoramente la guancia della ragazza. Lei mutò la sua espressione e
lo guardò traboccante di indignazione.
Neva intanto aveva preso per il braccio
Lolita e l’aveva allontanata.
“Si è presa cura di nostro padre, dei
nostri fratelli!” sbottò Miguel, furioso “E voi… tu e nostra madre…”.
“Non dire niente contro la nostra povera
madre!” strillò l’altra, piangente.
Lui tacque. No, non avrebbe detto niente
contro loro madre. Era una donna coraggiosa, straordinaria, che aveva ceduto
alla disperazione, che aveva visto la sua famiglia che lentamente veniva fatta
a pezzi. E, pace all’anima sua, lui non l’avrebbe mai dimenticata.
Sospirò, trattenendo le lacrime al ricordo
di tutti i suoi familiari. La testa gli doleva ancora ma si sentiva un po’ più
in forze di quando si era alzato.
Fece un misero, mesto, cenno di saluto
prima di uscire di casa, lasciandosi alle spalle il pianto stizzito di Agnese. Vagò
inquieto per la città, sforzandosi di non pensare ad Acilia ma più si sforzava
di non farlo più ricordava i suoi capelli neri, il suo viso delicato, bianchissimo,
i suoi occhi grandi e brillanti. Voleva rivederla, voleva ringraziarla… Le mani
quasi gli fremettero per il desiderio. Avrebbe dovuto dichiararle i suoi
sentimenti subito, baciarla senza pensarci, anche se intorno a loro era tutto
morte, e credeva che non era il caso, credeva… Che cosa credeva? Che prima o
poi la peste sarebbe finita? Che entrambi sarebbero stati vivi e che avrebbero
potuto avere un futuro insieme?
I piedi l’avevano portato davanti
all’abbazia. Ma certo, pensò, chiederò a Javiero se l’ha vista… se…
Si odiò per un momento. Si odiò perché non
riusciva a smettere di pensare a lei.
Entrò di corsa nell’abbazia finché non
incontrò un giovane frate.
“Il priore” fiatò “Vorrei vedere Javiero”.
Il frate si crucciò. “Javiero non è più
priore”.
Miguel non capì subito. Com’era possibile
che Javiero non fosse più priore? Lui era il migliore, non potevano averlo
deposto dal suo incarico. “Come… chi…” balbettò.
“Nemesio è il nuovo priore” disse il frate,
senza nascondere una smorfia.
Perché?
L’espressione dispiaciuta del frate che
stava davanti a lui confermò i suoi sospetti.
“Javiero è… morto?” farfugliò, attonito.
L’altro annuì, con lo sguardo basso.
“Oh, beh… grazie”.
Miguel si voltò e corse fuori dall’abbazia.
Continuò a correre anche in mezzo alla città, finché non ne uscì e non si
ritrovò nei boschi. Solo allora si fermò.
Cosa
diavolo stai facendo?
Si era preoccupato di tutti. Si era chiesto
se fossero vive sua madre, le sue sorelle, Acilia… Ma non aveva pensato a
Javiero. Dava per scontato che lui sarebbe stato vivo, sempre. Lui era il
priore, che cosa avrebbero fatto senza di lui? Chi mai aveva consegnato la
città nelle mani di Nemesio? Quale folle? Quale sarebbe stato il loro destino…
“Miguel?”.
Miguel si voltò di scatto, in cerca della
voce che l’aveva chiamato. Si rese conto che era buio, perché non vedeva bene.
Il sole doveva essere già calato. Calava presto, in quella stagione invernale.
“Miguel siete voi! State bene! Siete
guarito!”.
Era una voce femminile, cristallina,
sprizzante di gioia.
Non
può essere vero…
La prima cosa che vide di lei furono gli
occhi, inconfondibili.
“Acilia!” esclamò, andando verso di lei.
Senza neanche pensarci un attimo, mentre
lei esitava, lui la abbracciò.
“Sei proprio tu… Sei viva…” biascicò,
sentendosi vicino alle lacrime. Era fredda, come sempre, ma non gli importava.
Anche se non aveva più la febbre e quell’insopportabile caldo, adorava la sua
freschezza, che si confondeva con tutto l’inverno che avevano intorno.
Si staccò e la guardò in viso. Non era
cambiata per niente.
“Miguel” cominciò lei, titubante
“ascoltate… Io…”.
Ma lui non la fece finire. Preso da un
momento di follia la baciò. Pose le labbra sulla sua bocca e quella si schiuse,
in un bacio mortalmente freddo.
Si staccò immediatamente. “Stai male?”
chiese, preoccupato “Perché sei così fredda… Perché?”.
Acilia aveva la bocca aperta ma sembrava
non riuscisse a parlare.
Poi Miguel improvvisamente capì. Lei non lo
voleva.
“Mi dispiace!” gridò, allontanandosi “Io…
non volevo offenderti”.
“Non mi avete offesa” disse subito Acilia.
Sembrava che lottasse contro se stessa per dire qualcosa, ma poi cedette. “Oh
Miguel…”. Si rituffò nelle sue braccia e le sue labbra cercarono la bocca di
lui e lui fu lieto di darle tutto il suo amore. Ma quel bacio era strano, lo
sentiva freddo, ruvido, che scivolava via, gli ricordava la morte, la peste.
Guardò la donna che aveva davanti,
stordito.
Lo
sai perché nostra madre l’ha cacciata?
“Miguel” fece lei, quasi supplichevole.
Sembrava aver capito a cosa lui stesse pensando.
Perché
è una strega.
Lui le sfiorò una guancia, fredda, e lei
gli prese la mano che aveva sul viso, socchiudendo gli occhi.
“Non mi importa” disse lui, continuando ad
accarezzarla “Ora che ti ho ritrovata, non mi importa di niente”.
Sentiva il suo cuore che batteva forte e lo
sapeva, lo vedeva riflesso negli occhi di Acilia, quasi gli occhi di
un’innamorata, lo sapeva che anche quello di lei stava battendo.
*
Qualcuno l’aveva scossa con bruschi modi e
lei aveva aperto gli occhi.
Davanti a lei era tutto grigio, un grigio
metallizzato. Capì che era sdraiata e quello che guardava era il soffitto. Girò
di scatto la testa, ricordandosi improvvisamente che qualcosa l’aveva colpita
appena scesa dall’elicottero. I cattivi li avevano rapito? I vampiri oscuri? I
pirati? Gli alieni?
Ma al suo fianco riconobbe Jacque.
Fece per aprire la bocca indignata ma lui
fu più veloce ed esclamò: “Si è svegliata finalmente!”.
Sentì dei passi e delle scarpe lucide nere
erano entrate nel suo campo visivo. “Voi umani siete proprio facili da
abbattere eh”. Era la voce canzonante e provocatoria di Dubris.
Cercò di mettersi seduta su quel freddo
pavimento e Jacque la aiutò.
“Dove siamo?” biascicò, portandosi la mano
alla testa dolorante.
“Alla Sede” rispose Dubris. Lei lo guardò.
Si era cambiato, indossava dei pantaloni neri, una camicia bianca, una giacca
nera e una cravatta a righe. Nessuno avrebbe mai detto che era un vampiro.
Emily socchiuse gli occhi, cercando di
afferrare il senso delle parole di Dubris. Lei doveva preparare un discorso.
“E si può sapere” sbottò, cominciando ad
avvertire un certo nervosismo “perché in questa sede ci sono arrivata svenuta? La botta in testa è una specie di
comitato di accoglienza?”.
“Sì” rispose Dubris, sistemandosi la
cravatta “Vado ad annunciarvi”. Dopodiché si allontanò così in fretta che Emily
non capì dove fosse andato. Poi capì che erano in una specie di sala di attesa,
che c’erano delle sedie, e delle persone sulle sedie. E che da un lato della
stanza c’era un portone enorme, rosso, che si era appena chiuso. Jacque la
aiutò ad alzarsi mentre spiegava: “Mi dispiace, è la procedura. Non possiamo
far vedere a nessuno dove si trova la Sede”.
“Oh” bofonchiò lei “certo, capisco, come in
un film poliziesco”.
Si guardò intorno, cercando di capire da
dove erano arrivati. L’unico passaggio oltre al portone rosso era una scalinata
a chiocciola che portava a un qualche piano superiore.
“Tra poco dovremo entrare” disse Jacque,
nervoso.
Emily quasi rischiò di cadere a terra di
nuovo. “E cosa dobbiamo dire? Chi parla? Io? Tu? E Dubris cosa fa?”.
Le gambe le tremavano un po’ ed aveva la
mente annebbiata. Ricordava di aver già provato una sensazione simile, quando
era ubriaca.
“Per primo parlerò io” la rassicurò lui
“Poi però anche tu dovrai dire le tue ragioni”.
Le
mie ragioni?
Emily cercò di sistemarsi un po’ i capelli
alla meglio. Chissà che aspetto aveva, dopo essere svenuta. Beh, poco
importava, tanto magari sarebbe morta. Ma se devi morire davanti a chissà
quanta gente, pensò istericamente, meglio essere un po’ decenti.
Prima che potesse avere il tempo di
svignarsela a gambe l’enorme porta rossa si aprì ed Emily si sentì prendere la
mano da Jacque. Si sentì stupidamente arrossire, come se fosse una ragazzina.
Poi si ricordò che dovevano fingere di essere innamorati e questo, invece di
rassicurarla su quella mano che Jacque le aveva preso, la fece agitare ancora
di più. Come faceva a fingere di amare? Non era neanche sicura di esserlo mai
stata, innamorata! Per di più, di un vampiro!
Varcata la soglia, Emily strabuzzò gli
occhi. Si aspettava un ambiente losco e tenebroso, magari con delle poltrone
rosse sulle quali i membri della Rappresentanza discutessero sul suo destino,
stando comodi. E poi si immaginava un bel trono alto, sul quale poteva stare il
capo… Beh, sicuramente c’era un capo. Il Gran Capo dei vampiri. Invece davanti
a lei c’erano solo file di banconi, che andavano sempre più in alto, su una
lunga scalinata. Ed erano tutte vuote. Si sentì per un momento sollevata, si
era aspettata un sacco di gente! Poi vide una figurina dritta davanti a lei,
proprio al centro della scalinata. Impiegò qualche secondo a capire che quella
figura era lei stessa. Trattenne il respiro per un attimo – più per la sorpresa
che per la presa coscienza di avere un aspetto stravolto – prima di rendersi
conto che quello che aveva davanti era uno specchio. Che ci faceva un enorme
specchio davanti al portone rosso? Non ci doveva essere un intero comitato di
vampiri? Ma la sua mano sinistra stringeva il nulla.
Emily roteò gli occhi di scatto alla sua
sinistra. Jacque era ancora lì, ma lo specchio non lo rifletteva.
Con orrore e lentamente, finalmente si
voltò, capendo all’improvviso.
Dietro di lei, sopra il portone rosso,
cominciava la scalinata e ogni fila era gremita di uomini e donne vestiti elegantemente,
che la fissavano.
Inavvertitamente strinse più forte la mano
di Jacque, mentre si sentiva andare a fuoco e sudare ovunque. Alla sua destra,
un po’ più avanti, c’era Dubris, alto e impettito nella sua giacca, ma non
molto meno nervoso di lei.
Qualcuno in un punto imprecisato si schiarì
la voce e subito dopo dalla fila centrale si eresse un uomo vestito di tutto
punto, come se dovesse andare a sposarsi. Non era vecchio, aveva un bel viso e
una cascata di capelli lisci biondi glielo incorniciavano.
“Benvenuti” disse con una voce talmente
soave da non sembrare neanche umana. Si rivolse ad Emily: “Non è l’unica, sa,
ad essere cascata nel tranello dello specchio. È come se fossimo nascosti, ci
fa sentire più protetti”.
Emily si sentì rincuorata dal sorriso di
quell’uomo. Neanche avrebbe detto che era un vampiro, se non l’avesse saputo.
“Mi presento: sono Lyuben Vladimir, terzo Presidente
della Rappresentanza Vampiresca, dal 1984” andò avanti l’altro.
Emily pensò che aveva davvero dei modi
cortesi. Effettivamente non sembrava neanche un politico.
“Il prefetto del vostro Paese mi stava
spiegando la vostra situazione” disse Lyuben, gentile, come se stesse parlando
di una situazione qualunque che non prevedesse tatuaggi di sangue.
Un altro dei vampiri ora, della sua stessa
fila, si alzò in piedi in maniera brusca. Sembrava un po’ più vecchio di
Lyuben, aveva il volto appuntito e i suoi piccoli occhi neri percorrevano
furiosamente il foglio che teneva in mano. Poi alzò lo sguardo e lo pose su
Jacque. “Giura solennemente di dire tutta la verità?” domandò, frettolosamente.
Lyuben non sembrava risentito per essere
stato interrotto. Si limitò a fare un cenno d’assenso e si rimise seduto. Emily
provò un fitta di angoscia mentre Jacque rispondeva, tranquillo: “Lo giuro”.
Avrebbe preferito parlare al presidente.
“Lei è” cominciò pomposamente l’altro
vampiro, con una vocetta squillante e antipatica “Jacque Fabre, originario di
Rennes, nato il 17 dicembre 1898 e morto il 22 novembre 1918?”.
“Sì”.
Emily non poté fare a meno di guardarlo.
Non si era sbagliata sul suo conto, era davvero poco più di un ragazzino.
“Da quanto tempo conosce la suddetta
umana?” continuò l’altro.
“Due mesi” rispose prontamente Jacque.
“Da quanto tempo nutre dei sentimenti per
la suddetta umana?”.
“Un mese”.
“E per tutto questo tempo lei si è fidato
ciecamente di un’umana che avrebbe potuto benissimo denunciarla?”.
Jacque sembrò vagamente agitarsi. “Dal
primo momento che l’ho vista” disse, scandendo bene le parole “mi sono fidato
di lei”.
Emily si chiese nervosamente se anche lei
avrebbe dovuto rispondere a delle domande. Beh, sempre meglio che fare un
discorso ma quel vampiro dalla faccia spigolosa sarebbe riuscito a metterla in
buca, ne era sicura.
“Mi risulta che lei sia già diventato
creatore. Non ha pensato di trasformarla?” domandò ancora l’interrogatore.
“Sì” rispose Jacque, deciso “ma ho deciso
che non voglio che il mio amore le rovini la vita”.
Ci furono vari mormorii ed Emily non riuscì
a capire se approvavano o disapprovavano quello che Jacque aveva appena detto.
“Molto bene” sbottò il vampiro per
sovrastare il chiacchiericcio. Spostò lo sguardo su Emily e lei si sentì le
gambe tremare.
Forza,
coraggio, e non dire niente di stupido!
“Giura solennemente di dire tutta la
verità?”.
“Sì” rispose Emily in fretta. Poi aggiunse,
sentendosi già diventare scarlatta: “Lo giuro”.
“Lei è Emily Dixon, originaria di Horfield,
nata il 6 febbraio 1985?”.
Come
diavolo fa a saperlo?!
Emily tenne le labbra ben incollate tra
loro, per non dare voce ai suoi deliranti pensieri. Poi disse: “Sì”.
“Come ha conosciuto il signor Fabre?”.
Come… Accidenti, proprio
a lei le domande più difficili? Che cosa doveva dire? Ma non poteva metterci
troppo tempo a rispondere, sarebbe risultato sospetto…
“Per strada” sparò all’improvviso.
Il vampiro si accigliò. “Per strada?”.
“Sì” disse debolmente la ragazza “sa com’è…
Io ero inciampata, sa, inciampo spesso… E lui era lì e… mi ha aiutata ad
alzarmi. Poi ci siamo presentati, tutto qua”. Non seppe dire se la voce le era
tremata molto ma di sicuro il suo viso era di un bel color pomodoro. Essere un
vampiro dopotutto aveva i suoi vantaggi, sempre pallidi, mai una figuraccia.
“E ha capito subito che il signor Fabre era
un vampiro?”.
Emily rifletté alla velocità della luce sul
perché erano lì. Perché lei sapeva che Jacque era un vampiro. E se avesse detto
di saperlo da sempre non sarebbe stato un ottimo biglietto da visita.
“No” disse, sicura.
“E ha cominciato a frequentarlo senza
sapere la sua vera natura?”.
“Sì” rispose subito lei. “Io… Lo trovavo
carino. Gli ho chiesto io se potevamo rivederci e siamo usciti qualche sera,
finché… finché non me l’ha detto”.
“E cosa ha provato quando lui le ha detto
chi era?”.
Mi piaceva comunque, pensò Emily, mi
piaceva comunque. Ma c’era qualcosa di poco realistico e lei si lasciò andare
ai ricordi delle sue pagine di diario.
“Paura. Avevo tanta paura”.
Per un po’ nessuno parlò, c’era un silenzio
quasi surreale nella sala. Poi il vampiro appuntì ulteriormente lo sguardo
mentre diceva: “Molto bene”.
Quindi avevano concluso così? No! Emily non
avrebbe dovuto dire qualcosa sul suo amore? Qualcosa sul fatto che giurava gli
giurava fedeltà e sdolcinatezze simili? Ma nessuno le faceva più alcuna domanda
e lei si sentì andare nel panico. I vampiri parlottavano tra loro, qualcuno
invece la guardava, con un ghigno, un ghigno malefico…
“Io” esplose la sua voce tremante e tutti
si zittirono “Io non lo denuncerei mai Jacque, e nemmeno voi… Prima di
conoscerlo io avevo una gran paura dei vampiri perché… Beh, potete immaginarlo
il perché. Ma dopo averlo conosciuto ho scoperto che ci sono vampiri buoni… Che
lottano per avere un posto al fianco
degli umani, non al di sopra… E lui è uno di quelli”. Prese un gran respiro
prima di concludere. “Lui ha risparmiato la mia vita, mi ha mostrato un intero
mondo che non conoscevo. Lui… mi piace, voi mi piacete, io…”. Il suo cervello
si stava arrovellando alla ricerca di una qualche frase significativa, una
frase carina che rimanesse loro impressa, ma alla fine non trovò niente di
originale, e finì per dire quella che credeva fosse la verità. “Io sto dalla
vostra parte”.
Sentendosi rossa come non mai, si zittì, ed
evitò accuratamente di guardare in faccia Jacque o Dubris. Non voleva vedere
nelle loro espressioni il suo fallimento. Il suo sguardo indugiò invece su
Lyuben, che aveva un’aria compiaciuta, e lei si sentì rassicurata.
Il vampiro spigoloso intanto si era seduto
e la donna mora che era al suo fianco si alzò in piedi. Aveva la pelle scura –
strano per un vampiro – e un viso dolce, ma al tempo stesso emenava un’aria autoritaria,
nel suo tailleur nero.
“Quanti sono a favore della trasformazione
della signorina Dixon?” domandò, con un forte accento spagnolo.
Trasformazione?!
Emily inspirò a fondo, cercando di stare
calma. Chiuse gli occhi incapace di guardare. Li riaprì un attimo dopo dandosi
della stupida e vide di sfuggita che non molte mani si erano alzate. Tra queste
vide la mano viscida del vampiro che li aveva interrogati. Il suo sguardo
volteggiò nei vampiri subito dietro di lui e la colpì particolarmente la vista di
un giovane molto bello, con uno sguardo glaciale fin dai suoi occhi blu, anche
lui con la mano alzata.
La vampira spagnola scrisse un appunto su
un foglio poi disse: “E quanti a favore del patto del sangue?”.
Subito alzò la mano lei stessa, poi l’alzarono
Lyuben e molti altri.
Emily trasse un sospiro di sollievo, erano
sicuramente più della metà!
Lyuben subito si alzò in piedi prima che la
donna riuscisse a finire di contare. “Bene” disse, gioviale “Signorina Dixon,
le verrà fatto, come penso che sappia, un tatuaggio e verrà usato il sangue di
vampiro. È a conoscenza di tutti i rischi a cui sta andando incontro?”.
“Sì” fiatò lei, debolmente.
“Ora, ho bisogno che lei giuri solennemente
che non denuncerà mai nessuno presente in questa stanza e, in generale, nessuno
che appartenga alla nostra razza. Se mancherà al giuramento, mi creda, lo
scopriremo subito”. Il tono di Lyben era sempre cortese ma Emily si sentì di
nuovo quell’agitazione tremenda che le faceva girare la testa.
“Lo giuro” biascicò.
Il presidente sorrise. “Potete accomodarvi
nella stanza del tatuaggio. Ramona, saresti così gentile da accompagnarli?”.
La donna che aveva annunciato il verdetto
si alzò, scese la scalinata e andò ad aprire il portone, tutto in una frazione
di secondo, sotto gli occhi sbalorditi di Emily. Lei si sentì prendere per il
braccio da un trafelato Dubris che trascinò sia lei sia Jacque fuori dalla
stanza.
“Siete andati bene” disse, senza
sbilanciarsi troppo.
Emily vide che Jacque era molto più agitato
di prima, davanti alla Rappresentanza. Cosa c’era da temere adesso? Era solo
lei che rischiava la pelle no?
Istintivamente gli riprese la mano, forse
più per sentirsi rassicurata che per rassicurare lui. Lui gliela strinse e lei
rimase aggrappata a quella specie di pezzo di ghiaccio, d’altronde era tutto
quello che aveva in quel momento.
“Da questa parte” disse subito Ramona.
Emily, Jacque e Dubris la seguirono su per
la scala a chiocciola. Era di ferro e pestandola non faceva un bel rumore ma
Emily non se ne curò. Si fermarono al piano successivo, mentre la scala
proseguiva ancora più in alto. La saletta era simile a quella del piano
inferiore, spoglia, priva di sedie, e con una sola porta, questa molto più
soft, grigia e di acciaio.
Il cuore di Emily si mise a tamburellare
selvaggiamente mentre la vampira apriva la porta.
Era una saletta piccola, con al centro un
lettino bianco. Vicino al lettino, una seggiola e un tavolo da lavoro su cui
stava appoggiato un uomo in camice bianco dall’aria annoiata. Avrebbe avuto
l’aria di un medico se non fosse stato per la testa rasata e un orecchino
penzolante all’orecchio.
L’uomo si era alzato in piedi. Dimostrava
una cinquantina d’anni, aveva il volto stanco, scavato da occhiaia. In effetti
Emily pensò che era strano, tutti i vampiri che aveva visto fin’ora erano
praticamente perfetti.
Lui e Ramona scambiarono due parole in una
lingua che Emily non capiva, in russo probabilmente. Lei emise una risata
pacata e priva di allegria, poi fece cenno ad Emily di stendersi sul lettino.
Poco convinta, la ragazza obbedì.
La donna si mise da parte e l’uomo cominciò
a trafficare con una macchinetta. “E così ti piacciono i vampiri eh?” fece in
inglese, ed Emily quasi non capì se stava parlando con la macchinetta o con
lei.
Prima che potesse pensare ad una risposta
che non fosse “No, che ti sei, bevuto il cervello?” Jacque disse: “E a te
perché piacciono?”.
Emily fu colta alla sprovvista. Perché a un
vampiro non dovrebbero piacere i vampiri? Certo, a lei in generale non piaceva
molto la gente, ma dire che non le piaceva l’essere umano le sembrava un po’ ridicolo.
L’uomo si era voltato a guardarlo. “Avete
occhio, voi vampiri” disse.
“Hai un orecchino d’argento” rispose
l’altro. Si rivolse a Ramona, eretta di fianco alla porta. “Non pensavo
permetteste a degli umani di lavorare qui” disse, con un lieve tono
accusatorio.
L’altra non si scompose. “Non credo che
stia a te decidere” rispose.
L’uomo intervenne allegramente. “Ragazzo,
qui c’è gente nata nell’età della ruota, credi davvero che siano esperti di tatuaggi? Io invece li faccio da una
vita”.
Emily trattenne il fiato mentre Jacque
rispondeva. “Anche se sono nato dopo l’età della ruota, credo che dovrei io chiamare te ragazzo”.
L’altro ridacchiò e tornò al suo lavoro.
“Chiamami Boyan e falla finita. Mi ha sempre interessato la vostra crescita,
non invecchiate esternamente ma internamente sì, credete che sia così, dico
bene? Ma secondo me non puoi sentirti vecchio davvero finché un bel giorno non
ti alzi e non vedi allo specchio la tua prima ruga”.
“Molto profondo, peccato che noi non ci
possiamo neanche guardare allo specchio”.
Emily non capiva l’ostilità di Jacque nei
confronti di Boyan. Ma non capiva neanche perché un umano volesse aiutare un
comitato di vampiri. “Perché lo fa?” domandò, senza riuscire a trattenersi.
Boyan si voltò a guardarla. “Mi pagano
molto bene”.
Con che soldi, avrebbe voluto chiedere
Emily ma poi pensò che non lo voleva davvero sapere.
Ma lui si era avvicinato, e lei, sdraiata,
si sentiva inerme, troppo. Anche se, doveva ammetterlo, il fatto che quel Boyan
fosse un umano, la rassicurava parecchio. Aveva un aggeggio scuro che
maneggiava con i guanti, attaccato a un filo da cui prendeva la corrente.
L’estremità della macchinetta era lunga, e terminava con un ago.
“Dove… dove…” biascicò lei.
“In un punto non molto visibile” disse
subito Boyan, con sguardo comprensivo.
Emily boccheggiò. Cosa?!
“Qua sul fianco andrà benissimo” si
affrettò ad aggiungere l’altro e lei annuì, cercando con gli occhi il volto di
Jacque. Si era sentita arrossire e si sentì arrossire ancora di più quando vide
che lui era lì, fermo, impalato, con quella sua faccia di ghiaccio. Jacque
sembrò capire, le si avvicinò e le prese la mano ed Emily non poté fare a meno
di chiedersi se lo faceva per mantenere la loro facciata davanti a Ramona o
perché voleva davvero esserle di conforto. Dopotutto lo era sempre, turbato per
lei…
Boyan li stava guardando, aspettando
pazientemente.
“Quando sei pronta, dimmelo”.
Emily socchiuse gli occhi e cercò di
ricordarsi una situazione, solo una, in cui aveva avuto più paura di quanta ne
aveva in quel momento. All’esame per la patente? A quell’esame terribile di
quel maledetto professor Stoner? Il suo primo giorno di lavoro? La sua era
davvero una vita qualunque, che ne sapeva lei della paura? Beh, in quel momento
ne aveva tanta. La fredda mano di Jacque non la faceva sentire meglio e le
venne in mente, le venne in mente che la prima volta che aveva visto lui, aveva avuto davvero paura. Strinse
ancora con più vigore la sua mano, ignorando il freddo, cercando di ricordare
che di lui aveva avuto paura a torto, perché era un essere buono, e anche Boyan
era buono, e faceva bene il suo lavoro…
“Sono pronta” disse in un soffio,
sentendosi tremare mentre lo diceva.
E se fosse veramente diventata un vampiro?
Ma non un vampiro come Jacque… Un vampiro pazzo, pericoloso, da sopprimere. Non
avrebbe più rivisto la sua famiglia. Non avrebbe più rivisto i suoi genitori,
Michael, i suoi amici… Perfino il suo capo le mancava in quel momento.
Gli occhi le si riempirono di lacrime
mentre Boyan avvicinava l’ago alla pelle. Deglutì forte, cercò di concentrarsi
su qualcosa, su qualunque altra cosa ma alla fine il dolore arrivò ed era
diverso da quello che aveva immaginato. Non era un dolore al fianco, era il male che veniva irradiato in ogni parte
nel suo corpo. Non riuscì a trattenere un urlo e riuscì a malapena a capire che
stava cercando di alzarsi dal lettino. Jacque la teneva ferma e lei in quel
momento lo odiò, lo odiò tantissimo, perché la stava uccidendo, sì, quello
doveva essere molto simile alla morte… Urlò ancora mentre sentiva un male
incontrollabile alla pancia, le sembrava di dover vomitare. Emise un conato ma
nulla uscì, allora sputò perché le faceva male la bocca, e anche la lingua, i
denti… Si contorse nel lettino, sentendo freddo, forse perché Jacque la stava
circondando o forse perché stava morendo o, peggio, si stava trasformando. Ci
stava provando, ci stava provando davvero a stare ferma o a non gridare, ma non
ci riusciva. Non si sentiva più lei, tutto il dolore che era nel corpo era
salito anche fino alla mente e la sua testa era percorsa da immagini strani, i
momenti più brutti della sua vita. Gente che la prendeva in giro, gente che
rideva, i suoi genitori delusi, il suo ex fidanzato che la tradiva e le diceva Non fai per me. Vedeva distintamente le
sue labbra muoversi e dire quelle parole, che le avevano spezzato il cuore,
forse il cuore le si stava spezzando anche in quel momento, forse lei non era
adatta a nessun ragazzo, a nessun essere umano, forse doveva essere un vampiro,
sì, doveva esserlo. Urlò più forte, qualcosa di spaventoso si dibatteva nel
petto, o forse nello stomaco e forse anche nella testa.
“Non lasciarlo vincere!” gridò qualcuno da
qualche parte.
Emily strizzò gli occhi. La luce, la luce
era potentissima… Qualcuno spenga la luce! Vedeva sangue, sangue ovunque, aveva
voglia di sangue? Intravedeva Boyan che la guardava, aveva già finito il suo
lavoro. E allora perché faceva così male?
Voleva mangiarselo, ecco cosa voleva fare,
si sarebbe bevuta tutto il suo sangue.
“Combattilo! Non vuoi esserlo! Non vuoi
esserlo!”.
La voce di Jacque fu coperta dalle sue urla
stridule. Si teneva con le mani la pancia, aveva paura che cadesse in
brandelli, che lei stessa cadesse in brandelli, in tanti piccoli pezzettini. E
la stanza? La stanza girava tutta, poteva cadere in frantumi? Dimenò le gambe,
doveva uscire di lì, era in pericolo, tutto era in pericolo, estremamente fragile.
Qualcuno la teneva, tante mani la tenevano ma lei si dimenava, non voleva
mangiare nessuno, allora non era lei ad essere in pericolo… Era pericolosa!
Ma
non ho neanche le zanne…
Fuori di sé, si lanciò a terra, voleva far
cessare quel dolore che le usciva dalla bocca, dalle orecchie. Forse era sangue
che le colava dagli occhi e dal naso, o forse veleno…
La sua testa batté contro qualcosa e il
bianco e il rosso presero a fondersi in una danza frenetica, e divennero nero,
e lei smise di urlare.
*
Ogni sera Acilia vedeva il volto di Miguel
illuminarsi, quando la vedeva arrivare. Quella volta invece l’accolse un po’
più freddo e lei si sentì triste. Sapeva che prima o poi sarebbe successo.
Perché
non vuoi venire a vivere con noi?
Noi voleva dire lui e
le sue sorelle, ma non era quello il problema. Agnese aveva preso a chiederle
che lavoro facesse, dove andasse durante il giorno, dove dormisse la notte.
Acilia aveva risposto vaga che lavorava nel
mercato di un’altra città, e che la notte trovava sempre un letto caldo. Agnese
non era convinta ma non aveva chiesto più nulla, con quella sua espressione
sospettosa. Lei si era messa a vendere la lana che acquistava dal monastero,
Miguel aveva trovato un impiego presso un artigiano e stava imparando a
fabbricare dei piccoli oggetti. La peste era finita da sei mesi ormai e le cose
stavano andando bene.
Lolita aveva compiuto tredici anni e Acilia
si era messa a insegnarle a scrivere, con un bastoncino, nel terriccio, alla
luce della luna, mentre aspettava che Miguel finisse di lavorare. Miguel era
arrivato e stava guardando con quella strana espressione il bastoncino nelle
mani di Acilia. Lei lo poggiò per terra e si alzò, cauta, mentre Lolita si
allontanava in fretta.
“Ciao” disse il ragazzo.
“Ciao” lo salutò lei, incerta.
Era stata una stupida, una maledetta
stupida, a credere di poter vivere una vita da umana, di poter avere una
relazione con un uomo.
“Andiamo a mangiare qualcosa?” chiese lui.
Era la solita ora di cena.
“Io ho già mangiato”.
Perché
non mangi mai con me?
“Lo so”.
Acilia gli si mise affianco e gli strinse
la mano mentre andavano verso la taverna di Filipa. Lui non reagiva più con
quel solito scatto quando lei lo toccava.
Perché
sei fredda?
Ne era certa, ne era certa che lui avrebbe
capito se si fossero toccati di più.
Perché
non vuoi fare l’amore con me?
Il loro rapporto già si stava logorando ma
era perché lei non era umana, lui andava benissimo, sarebbe andato benissimo
per qualsiasi altra ragazza. Doveva avere
un’altra ragazza, doveva vivere la sua di vita, perché era breve, era
maledettamente breve, doveva…
“Uno stufato e una birra” disse Miguel al
bancone. Si voltò verso Acilia. “Immagino che tu non voglia neanche bere”.
Lei scosse la testa. Aveva provato a bere
la birra un giorno, ma, in maniera del tutto inaspettata, l’aveva sputata. Non
era riuscita a mandarla giù, era come se il suo corpo la rifiutasse.
Si sedettero a un tavolo, in silenzio.
Lei lo guardò. Aveva i lineamenti che le
ricordavano Damiano. Gli occhi erano diversi, erano ambrati, e i riccioli scuri
erano morbidi, Acilia ne era ammaliata. Si sentiva così triste, con un peso
nello stomaco. Non sapeva se era perché avrebbe dovuto lasciarlo o se era
perché non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. Aveva Miguel, aveva
l’amicizia di Lolita ma si sentiva sempre sola, finché nessuno sapeva il suo
orribile segreto lei era sola. E odiava stare sola, dopotutto era per quello
che aveva… Il rimorso le strinse qualcosa dentro di lei, forse le viscere, non
voleva che accadesse di nuovo la stessa cosa. Quella notte, quando era sicura
che Miguel sarebbe morto, era riuscita a resistere alla tentazione si
trasformarlo. Ma sarebbe stato così per sempre? Sarebbe riuscita a stare sola
in eterno senza creare? E se invece
l’avesse trasformato? Non sarebbe stata più sola, in eterno con lui…
entrambi con lo stesso segreto…
Sai
già come andrebbe a finire.
Due occhi blu la stavano squadrando dal
tavolo di fianco a loro e lei trattenne il fiato.
Tornò a guardare Miguel, sentendosi sospesa
in una realtà fittizia. Lei lo era sempre, sospesa. Tra la vita e la morte, tra
l’amore e l’affetto, tra il bene e il male…
Lo stufato era arrivato e Miguel prese a
mangiare lentamente, quasi controvoglia.
Acilia esplose, anche se purtroppo non in
lacrime. “Avevi detto che non ti importava” fiatò, con voce rotta.
Era ovvio che non poteva essere così. A lui
doveva importare, ed era giusto così.
Lui alzò lo sguardo verso di lei. “Ho il
diritto di sapere” disse e Acilia socchiuse gli occhi, disperata. Come avrebbe
potuto dirlo? Cosa avrebbe potuto
dire?
“Se mi vuoi lasciare, lo capisco” disse,
gli occhi abbassati “ma ti prego, non…”.
“Dimmi cosa sei” sibilò lui.
“Tu mi vuoi lasciare!” esclamò Acilia, in
preda al panico. Era l’unica cosa che poteva fare, convincerlo a lasciarla e
non rivedersi mai più… Tutti i baci, tutte le carezze, finiti, tutto finito. Ma
cosa sarebbe stato mai per lei che aveva vissuto più di mille anni? Solo
un’altra pugnalata a quel cuore che non poteva più riceverne.
“Io non voglio…”.
“Sì che lo vuoi”.
Poteva incantarlo, manovrarlo, manipolarlo.
Poteva costringerlo a lasciarla, solo con lo sguardo. Era completamente inerte,
era uno sciocco umano, era nelle sue mani. Poteva ucciderlo come poteva
controllarlo. E poi lei sarebbe uscita dalla taverna e dalla sua vita, per
sempre.
“Io non voglio lasciarti!” gridò lui, con
le lacrime agli occhi “Io ti amo…”.
Acilia si sentì tremare e se avesse potuto
buttarsi a terra, in ginocchio, chiedergli perdono e piangere, dirgli che anche
lei lo amava, lo avrebbe fatto.
Le altre persone che c’erano intanto si
erano voltate verso di loro, incuriosite.
“Parliamone fuori” disse lei, alzandosi in
piedi.
Miguel finì di bere la birra e la imitò,
lasciano mezzo piatto pieno.
Qualcuno vagava ancora per la città e
Acilia si avvicinò al limitare del bosco, senza sapere cosa fare.
“È qui che lavori?” domandò Miguel.
Lei lo guardò senza capire.
“Nel bosco… Le streghe lavorano nei boschi,
sai, pozioni, incantesimi…” fece lui, la voce che cominciava ad alterarsi.
Poteva dirgli che era una strega. Non era
forse mille volte meglio che essere… che cosa poi. Che cosa era lei? Non c’era
una parola, non c’era una definizione. Un mostro?
Ma più guardava i suoi occhi grandi e
disperati più non riusciva a mentirgli.
“Le streghe… Le streghe non credo esistano,
Miguel” fece, a voce bassa.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Poi
scagliò un pugno per aria. “Allora dimmi cosa cazzo sei!” gridò.
Acilia si ritrasse come se il pugno fosse
rivolto a lei.
Quella sera nel bosco in cui lui l’aveva
ritrovata, l’aveva baciata e le aveva detto che non gli importava nulla
sembrava molto lontana. Lei aveva giocato a fare l’umana, aveva giocato con la
realtà, solo che non si poteva giocare coi sentimenti delle persone. Io non ho mai giocato, io sono innamorata di
lui!
Ma i morti non li provano i sentimenti. I
morti sono morti.
“È meglio che la finiamo qui” disse con
voce acuta “Io… io non posso…”.
Miguel aveva gli occhi feroci. “Se tu te ne
vai, io…”.
“Dopo che te l’avrò detto mi vorrai
lasciare comunque!” urlò Acilia, fuori di sé “Avrai paura di me! È questo che vuoi?!”.
“Ma cosa stai dicendo… cosa…”.
Acilia rivedeva Damiano davanti a sé, che
la guardava confuso, che non capiva cosa lei fosse, che moriva tra le sue
braccia, ucciso da lei… Gli occhi vitrei del suo volto esangue le apparvero
improvvisamente davanti e lei urlò, buttandosi a chinino per terra. Le facevano
male i denti, li sentì allungarsi, e con terrore – e con coraggio – rialzò lo sguardo verso Miguel che la fissava
preoccupato.
Lui gridò e indietreggiò.
Lei si alzò in piedi, sentendosi folle di
dolore. L’avrebbe perso, l’avrebbe perso per sempre.
“Sono morta milletrecento anni fa” disse
con voce tremante “sono risorta bianca come fossi morta, costretta a vivere
solo di notte… Sono un essere contro natura, il sole mi brucia, l’acqua non
mostra il mio riflesso… Sono costretta a nutrirmi solo di sangue umano…”.
A ogni parola Miguel assumeva
un’espressione sempre più indecifrabile.
“È uno scherzo?” fiatò infine.
“No”.
Lui non si era mosso. Non sembrava avesse
intenzione di fuggire. Piangeva.
“Come può essere… dimmi che… è uno
scherzo…”.
“Non è uno scherzo!” gridò Acilia,
arrabbiata “È la mia realtà da milletrecento anni, ciò che sono, e ciò che non
ho scelto”.
“Aveva ragione… mia… madre… aveva…”.
“Non ho fatto del male a nessuno della tua
famiglia!” gridò subito lei “Miguel, sono la stessa che li ha accuditi, la
stessa che…”.
“Tu sei… tu sei…”.
Acilia ritrasse i canini, disperata. “Non
lo so cosa sono, ma so chi sono. Sono Acilia e…”.
“Tu uccidi…”.
Miguel sembrava stesse perdendo la testa.
“No!” urlò lei “Io… io incanto le persone
perché mi diano un po’ del loro sangue ma non… non lo bevo tutto, non uccido!”.
Ma i piedi del ragazzo stavano
indietreggiando e lei non poteva fare niente per fermarlo.
Congiunse le mani abbassando lo sguardo. Se
avesse potuto piangere forse lui avrebbe percepito il suo dolore. Ma così…
così, no. Le cose non potevano andare diversamente.
“Lo so che non mi vorrai più vedere” fece
“ma ti prego… Non dirlo a nessuno, non berrò mai neanche una goccia di sangue
in questa città… Mai…”.
Miguel si era allontanato ancora e lei
parlò più forte.
“E ricordati che io ti amo davvero! Anche
se non posso piangere… per dimostrartelo… sappi che il dolore mi ha sempre
lacerato, perché non potevo dirti cosa io sono. E mi lacera tuttora, perché tu te
ne andrai, e io non ti rivedrò mai più”.
Il ragazzo si era immobilizzato e lei si
buttò per terra, senza poter reggere il suo sguardo. Si vergognava di tutte le
cose brutte che aveva fatto, si vergognava di fronte a Miguel, così puro.
Voleva così tanto piangere per buttare
fuori un po’ del suo dolore ma sentiva il pianto di qualcun altro, sopra di
lei. Alzò lo sguardo e vide che era Miguel. “Hai detto che… che incanti le
persone” disse lui.
Lei annuì e lui continuò: “Hai incantato
anche me?”.
“No!” esclamò subito Acilia, inorridita.
“E allora…” balbettò l’altro, con la voce
spezzata “Perché sono così attratto da te?”.
Lei si alzò ignorando le gambe che
vacillavano.
Lui levò piano un braccio, lo distese
davanti a lei e con le dita la sfiorò. Acilia lo sentiva respirare
affannosamente e sentiva il suo cuore che batteva fortissimo. Non riusciva a
districare la paura dall’amore, e probabilmente nemmeno lui poteva farlo.
Miguel continuava ad accarezzarla, il volto
rigato da lacrime poi la trasse a sé, in un abbraccio freddo e tremolante.
“Non puoi volerlo sul serio” sussurrò lei,
stordita.
Lui le fece segno di tacere mentre piangeva
e lei rimase aggrappata a quel forte corpo vacillante, ad ascoltarlo mentre
piangeva, mentre piangeva tutte le lacrime che gli venivano dal cuore, dal suo
amore.
*
“Ti fa ancora tanto male?”.
Emily aveva aperto gli occhi solo da
qualche minuto. Erano piccoli e stanchi, rossi, e vagavano inquieti per la
stanza. Stavano bene, senza occhiali.
“Emily?”.
Jacque era seduto sul bordo del suo letto.
L’avevano trasportata da Arcangelo fino a Horfield e lei non aveva dato segni
di vita. Poi lui, Jacque, l’aveva presa in braccio e l’aveva portata a casa
sua, nel suo letto, attraverso la finestra. Erano le quattro di mattina e la casa
era silenziosa.
Emily puntò lo sguardo su Jacque, poi si
mise a tremare.
“Sono io” disse lui, avvicinandosi.
Lei inspirò a fondo e lui chiese ancora:
“Fa ancora…”.
“Sta zitto” sbottò la ragazza, con gli
occhi socchiusi.
Jacque era rimasto a bocca aperta, con aria
stupida. “Okay ma abbassa la voce, non vorrei che i tuoi si svegliassero”
bisbigliò.
Emily lo guardò impietrita. “Sono a casa
mia?”.
“Sì”.
“Portami via da qui” sussurrò furiosa “Io
sono… Io sono…”.
“Tu…”.
“Ho qualcosa di terribile qua dentro, lo sento!”.
Emily singhiozzò e Jacque le prese la mano.
“Mi fa male…” proseguì lei, sgranando gli
occhi “Fa male dappertutto… ho… la vista strana”.
“Cosa vedi?”.
“Rosso”.
“Rosso?”.
Emily ritrasse la mano spazientita. Poi
girò la faccia e la premette contro il cuscino. “C’è una luce rossa… non
voglio… vedere…”. Stava piangendo.
Jacque sospirò e non la disturbò più. Non
voleva abbandonarla. Boyan aveva detto che era andato tutto liscio ma lui non
se la sentiva proprio. Era tutta colpa sua se lei si era dovuta sottoporre a
quella cosa orribile, forse sarebbe stato meglio trasformarla e basta… Se una
sola goccia di sangue di vampiro ti entra nel corpo le porte dell’inferno ti si
spalancano davanti. Ma se ne bevi tanto, quello prende possesso di tutto il
corpo in un baleno, niente lotta contro di lui, ti fa stare meglio, ti
rigenera, per poi ucciderti. E farti rinascere. Ci aveva pensato mentre la
guardava contorcersi su quel lettino come se fosse indemoniata. Era quello
l’effetto che aveva il sangue di vampiro. Era il sangue del demonio.
Passò qualche minuto prima che la voce
lamentosa della ragazza riemerse dal cuscino. “Jacque…”.
“Sono qui” rispose lui.
“Sono un vampiro?”.
Jacque sorrise. Ne era valsa la pena solo
per poter rispondere negativamente a quella domanda. “Perde colpi, dottoressa
Dixon, non sente che sta piangendo?” disse.
Emily si voltò verso di lui, gli occhi
lucidi e il viso rigato di lacrime.
Le cose non andavano così. Il sangue di
vampiro ti uccideva solo dopo qualche ora che era stato introdotto nel corpo.
Prima dovevi morire, e poi dopo una settimana risorgevi. Ma non era il caso che
Emily lo sapesse, che aspettasse con ansia di morire soffocata nel suo stesso
letto, quando le probabilità che questo accadesse erano decisamente scarse.
“Sono salva?” piagnucolò ancora Emily.
Jacque annuì con un sorriso incoraggiante.
“Non dovrai mai più pensare ai vampiri” aggiunse poi, prendendo gli occhiali
della ragazza dal comodino e porgendoglieli.
Lei scosse la testa. Aveva uno sguardo
sconsolato, probabilmente il dolore le impediva di festeggiare.
“Perché sei qui allora?” chiese.
Jacque fu preso in contropiede, gli
occhiali ancora in mano. “Io volevo… non volevo che ti svegliassi da sola”.
“Mi sono svegliata”.
“Vuoi che me ne vada?”.
“No”.
Ci fu un momento di silenzio poi Emily
bisbigliò ancora: “Dopo stanotte non ti rivedrò più?”. Sembrava triste.
E quello cosa significava?
Jacque aggrottò la fronte. Non pensava che…
non pensava che Emily potesse sentire la sua mancanza.
Salvala,
se puoi, senza affezionarti a lei.
“Non credo” disse, senza pensarci.
Lei annuì, mesta.
“Il mio tatuaggio” disse poi “che cos’è?”.
“Oh” fece l’altro “è… è una goccia”.
Emily emise una risatina spenta. “Una
goccia di sangue? Originale”.
Jacque poggiò gli occhiali sul comodino e avvicinò
le mani alla camicetta della ragazza. Sbottonò l’ultimo bottone e mentre lo
faceva sentì che Emily stava trattenendo il fiato, e che il suo cuore aveva
accelerato di un battito. Ignorandola, alzò la parte destra della camicia
mostrando una piccolissima goccia rossa dalla forma allungata, disegnata sulla
pelle bianca.
“Dovrebbe essere una lacrima” disse poi,
senza distogliere lo sguardo dalla goccia.
“U-una lacrima?”. La voce di Emily si era
fatta ancora più bassa.
“Sì, sai, le lacrime che tu dovresti avere
per me. Perché io non posso averle”. Jacque alzò lo sguardo e notò le lacrime
appese alla ciglia di Emily. Aveva le ciglia lunghe, i suoi occhi erano
graziosi.
Lei si asciugò gli occhi e in fretta si
ricoprì la pancia.
“Non potete piangere perché non avete acqua
dentro di voi?”.
“Una cosa del genere”.
“E perché gli specchi non vi riflettono?”.
Jacque inarcò le sopracciglia. Credeva
fosse ovvio. “Perché siamo morti”.
“Ma…”.
“Uno specchio non sbaglia mai, riflette la
realtà”.
“Ma tu sei reale”.
Jacque non poté fare a meno di sorridere,
vedendola così ostinata. “Non tutto ciò che vedono i nostri occhi è reale”.
Emily, a fatica, si era messa seduta. “Ma
quello che sentiamo sì”. Il rosso nei suoi occhi si stava ritirando, erano
dolci e malinconici come sempre. Se dietro agli occhi degli umani c’era davvero
un’anima, allora lui avrebbe potuto perdersi guardando per sempre negli occhi
di lei.
Il cuore della ragazza accelerò ancora di
più quando lei bisbigliò, avvicinandosi a lui: “Se ora ti baciassi non sarebbe
reale?”.
Jacque sgranò gli occhi e, istintivamente,
si allontanò.
“Non… non potrebbe esserlo” disse solo.
Emily abbassò gli occhi, senza dire più
nulla.
Jacque si alzò dal letto e lei non lo
fermò. Il sangue di vampiro, la notte, lo stare nel letto con un’altra persona…
agli umani dà alla testa.
“Tra un po’ sorgerà il sole” spiegò.
Emily aveva di nuovo il volto rigato di
lacrime e Jacque si sentì sciogliere.
“Tornerai a trovarmi?” chiese lei.
Lui non rispose subito e la ragazza
continuò, con la voce rotta un pelo più alta: “Non puoi chiedermi di continuare
a vivere la mia vita come se niente fosse ora”.
Jacque annuì. Lui aveva imparato a voltare
pagina tante volte, ma per gli umani era più difficile. Loro avevano poco
tempo. “Io… sì, tornerò”.
Il viso di Emily si rilassò. “Arrivederci,
Jacque”.
Lui sorrise, con la mano sul davanzale
della finestra.
“Au revoir”.
Acilia continuava a guardare al di là della
finestra. Dubris era andato via da poco, era passato solo per dirle che era
andato tutto bene e che ora Jacque si trovava con Emily.
Ci stava mettendo molto a tornare.
“Jacque non è un irresponsabile” disse Eike
alle sue spalle, facendola trasalire.
“Io invece credo che potrebbe finire a
letto con lei” rispose automaticamente Acilia.
Si voltò, accorgendosi di quello che aveva
detto, e vide un ghigno sul volto di Eike.
“Io intendevo che sarebbe tornato prima che
sorgesse il sole” disse lui, molto lentamente.
“Oh” borbottò Acilia “certo”.
Lanciò un’altra nervosa occhiata alla
finestra poi fece per allontanarsi ma Eike la fermò.
“Mi spieghi una cosa, Aci?”.
“Che cosa vuoi?”.
Quell’aria gongolante che il piccoletto
aveva sempre ad Acilia non era mai piaciuta.
“Perché volevi che Jacque trasformasse
Emily? Sarebbe stato un ovvio inizio di una storia d’amore, una storia d’amore
eterna” disse.
“Tu credi che io voglia che Jacque sia per
sempre legato a me” ribatté Acilia.
Eike non rispose allora lei aggiunse,
infervorandosi: “Beh, non è vero”.
Lui scrollò le spalle senza più dire niente
e lei si allontanò a gran passi, verso la botola. Non aveva mentito, avrebbe
accolto a braccia aperte il nuovo vampiro Emily. Ma Jacque aveva preferito
quello stupidissimo patto del sangue, che ti legava a un essere umano.
Si fermò, sapendo che Eike non si era mosso
e che era ancora dietro di lei.
“L’amore comunque non è eterno” disse,
senza voltarsi “L’amore eterno è un privilegio che hanno solo gli umani, ed è
solo perché non possono vivere, in
eterno”.
Se Jacque si fosse innamorato di una donna
vampiro, sarebbe stato felice. Poi l’avrebbe lasciata andare, oppure l’avrebbe
lasciato andare lei. Amare un essere umano invece l’avrebbe distrutto.
Sentì dietro di sé Eike che ridacchiava.
Senza chiedersi il perché e senza più dire
nulla, aprì la botola e scivolò giù sotto il pavimento.
Eccomi qui!!
RedTears,
AHAHAHAHA MI FAI MORIRE XD sono letteralmente esplosa quando ti
sei messa a fare i conti di quanti uomini può avere avuto Acilia
in tutta la sua vita.. XDXD E povera mamma di Miguel!!! D'accordo,
metterò Javi (che ne so io dei soprannomi spagnoli :P) e per la
cosa del film.. ahaahahah XD oh Acilia ha vissuto in tutte le
sacrosante epoche, ci si confonde con tutti sti salti nel tempo XD
comunque bravissima, hai recuperato in tempo record. Ed ecco, per
quando sarai tornata da Amsterdam un altro capitolo!
Sara, che bello che ti appassioni XD grazie per la recensione, continua pure a psicanalizzarmi i personaggi :DD
Vabbò gente alla prossima :)
Eeee non è tanto tenera la storia tra Acilia e Miguel? (Red, non vomitare XD)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Segreto ***
Capitolo 10
CAPITOLO IX
SEGRETO
Spagna,
1357
“S-e-c-r-e-t-u-m”
scandiva Lolita mentre scriveva. Poggiò la piuma sul foglio e rilesse quello
che aveva scritto. “Assomiglia a segreto!”
annunciò, soddisfatta.
Acilia sorrise. “È da lì che deriva”.
Lolita la stava guardando con gli occhi
quasi che luccicavano. “Ma tu come fai a sapere il latino? Solo i frati lo
sanno…”.
L’altra scrollò le spalle. “Ecastor, non c’è niente che non possiamo
imparare, Loli, ricordatelo. E i frati che non vogliono insegnare il latino
fanno solo i buffoni”.
Lolita scoppiò a ridere, scuotendo i
capelli rossi, un po’ arruffati. Ormai si era fatta donna. Presto avrebbe
compiuto diciannove anni e un mucchio di ragazzi della città le faceva la
corte.
Acilia lasciò cadere lo sguardo sulla
parola bruna scintillante secretum. La
lingua non era più la stessa. La lingua che si parlava ora a Roma era un’altra
ancora rispetto a quella che parlava lei stessa in Spagna. Era come se la
lingua si evolvesse e si frantumasse
in tanti idiomi diversi, lasciando il latino intatto solo per pochi eletti –
pochi eletti che lo parlavano anche male. Dopotutto erano passati milletrecento
anni, nonostante lei rimanesse sempre uguale. Fissò con ancora più intensità il
foglio di pergamena. Era quello il suo secretum.
“Oh!” esclamò Lolita, lo sguardo rivolto
verso la finestra e arrossendo tutto a un tratto “C’è Diego, devo andare…”.
Acilia si voltò di scatto verso la finestra
e vide che c’era un giovane alto e moro sulla strada di fronte alla casa. Con
un sorrisetto salutò Lolita che, rossa quasi quanto i suoi capelli, si fiondò
alla porta e quasi si scontrò con Miguel che invece stava entrando. Lui la
guardò sconcertato mentre lei correva fuori.
“Dove va così di fretta?” domandò ad
Acilia, ancora seduta al tavolo.
Lei gli fece cenno di guardare fuori dalla
finestra e lui si voltò. Lolita e Diego si stavano allontanando, mano nella
mano.
“E chi è quello?” sbottò.
“Non lo so, sarà il suo ragazzo”.
“Da quando ha un ragazzo?”.
“Ha molto successo con i ragazzi, lo sai,
no? Evidentemente ne ha scelto uno”.
Miguel borbottò qualcosa di vagamente
simile a “almeno può farmelo conoscere” e Acilia lo baciò sulla bocca. “Ciao
comunque” disse, ilare, strofinandogli la barba scura.
L’altro si rilassò e si sedette al tavolo.
L’occhio gli cadde sul foglio di pergamena. “E questo cos’è?”.
“Latino” rispose Acilia.
Miguel sgranò gli occhi, poi scoppiò a
ridere. “Non importa che Lolita sappia anche il latino!”.
“Beh, a lei piace imparare, ha una
mentalità aperta. È molto diversa da…”. Acilia esitò.
“Da Agnese, lo so” completò Miguel, con un
gesto noncurante della mano.
Acilia fece un sorrisino e si sedette di
fianco a lui.
I primi tempi non erano stati facili. Da
quando aveva scoperto il suo segreto, Miguel ci aveva messo del tempo prima di
riuscire a baciarla ancora. La guardava strano quando la vedeva parlare con
Lolita, la guardava strano quando lei si allontanava alle primissime luci
dell’alba. Ma non aveva mai lasciato andare la sua mano e Acilia gli era grata
per quello. Ma ora lo vedeva invecchiare. Aveva trent’anni mentre lei ancora ne
aveva diciotto. Lolita le aveva chiesto perché non si sposavano e Acilia non
sapeva cosa rispondere. Dopotutto lo sapeva ancora che dovevano lasciarsi,
prima o poi dovevano lasciarsi… Ma rimandava sempre, e il tempo trascorreva
veloce, velocissimo.
“Miguel” fece, contorcendosi le mani.
Lui alzò lo sguardo verso di lei.
“Non vuoi…” tentò lei. Aveva già iniziato
quel discorso tante volte. “Tu non vuoi sposarti? Avere dei figli?”.
Miguel strinse le labbra e si scurì in
volto, come tutte le volte che ne parlavano.
Acilia si fece coraggio. “Lo sai che io
non…”.
“Lo so benissimo” la interruppe lui “Non mi
importa. Non voglio figli, voglio te”.
Acilia li avrebbe voluti dei figli, se
fosse stata umana.
“Se Lolita sta con un ragazzo…” fece
Miguel, accennando a un sorriso “E se si sposa, se si sposa anche Agnese… Ne
avremo già abbastanza di marmocchi, no?”.
Acilia si mise a ridere, suo malgrado.
Lui si avvicinò piano e la baciò. Le loro
lingue si toccarono in un’esplosione di ghiaccio e fuoco, era questo che loro
erano sempre, ghiaccio e fuoco che si incontravano ma il fuoco scioglie il
ghiaccio e Acilia si ritrovava esausta tra le sue braccia, pervasa dal calore
umano.
Miguel cominciò a sfilarle delicatamente la
tunica e lei lo lasciò fare, presa del desiderio, tenendo i suoi denti sotto
controllo. La prima volta che avevano fatto l’amore, sei anni prima, i suoi
canini si erano allungati prima che lei potesse capire quello che stava
succedendo e Miguel si era alzato dal letto urlando.
Acilia quasi rideva al ricordo, e ridendo i
denti fremettero e uscirono dalle labbra. Lei si coprì la bocca con la mano,
mortificata, e lui scoppiò a ridere, le tolse la mano e continuò a baciarla
come se niente fosse. Acilia stava attenta a non ferirlo ma lui le chiese: “E
se mi mordessi?”. Lei lo guardò esterrefatta. “Non posso farlo!”. Miguel
sorrise, e gli occhi si strinsero, dolcemente. Aprì la bocca, con fare
provocatorio. “Allora lo farò io!”. Acilia scoppiò a ridere mentre lui la
mordeva sul collo. “Smettila… No, smettila! Ti prego… Mi fai il solletico!”.
Lui non demordeva allora lei, con uno scatto, si alzò in piedi e corse dietro
di lui. Lui rimase a stringere il vuoto, confuso, e lei lo gremì da dietro.
Lui si voltò col volto rasserenato. “Non mi
ci abituerò mai” disse solo poi riprese a baciarla e baciandola si alzò e le
mise le mani sui fianchi portando giù la tunica. Improvvisamente si staccò,
come se bruciasse, sì, Acilia lo sentiva bruciare, maledettamente bruciare. “La
finestra…” biascicò lui. Lei gli riprese la testa con le mani. “E chi se ne
frega!” disse, tutta nuda. Mentre lui la toccava lei spogliò lui e poi caddero
rovinosamente a terra con un tonfo, lui sopra di lei. “Scusa…” fiatò lui,
guardandola con occhi sgranati “Ti sei fatta…”.
Acilia scoppiò a ridere e lo baciò di
nuovo. “Non mi faccio niente, stupido”.
Miguel prese a muoversi sopra di lei e lei
spalancò le braccia, socchiudendo gli occhi mentre il piacere si impadroniva
del suo corpo freddo, che si scioglieva, si scioglieva…
Aprì un poco gli occhi e tra le ciglia
vedeva Miguel sudare, i ricci appiccicati alla faccia, la barba, le sue prime
rughe…
Invecchierà,
lo sai, vero?
Acilia gli accarezzò i capelli, gridò il
suo nome, disse che lo amava.
Non
puoi amarlo…
Per quanto? Per quanto ancora?!
Ci
lasceremo, ci lasceremo prima che invecchi…
Per quanto?
Quanto tempo aveva ancora?
Quando?!
Urlò ancora, per il piacere. E il terrore.
Lolita era contenta, forse per la prima volta,
da quando erano morti i suoi genitori e i suoi fratelli.
Stava baciando Diego dietro alle cassette
piene di frutta. Lui le torceva i ricci con le dita e lei ridacchiava. Forse
l’avrebbe sposato.
“Ti fai la ragazza del grano, Diego?”.
I due si staccarono e Lolita guardò
infastidita chi l’aveva apostrofata in quel modo. Era un ragazzo non molto
alto, i capelli color cenere appiccicati alla faccia e il naso grande dalle
narici dilatate. A braccetto teneva una ragazza con un abito stretto con una
tale smorfia sulla faccia che la faceva assomigliare a un castoro.
“Rodas” sbottò Lolita, senza la minima
traccia di paura.
Rodas era il figlio del falegname e le
aveva fatto una corte spietata solo fino a qualche settimana prima. Sentirsi
apostrofare da lui con disprezzo non poteva che farla ridere.
“Che cosa vuoi, Rodas?” fece Diego,
nervoso, cercando di imitare il tono spavaldo di Lolita.
“Andiamo via da questa gentaglia” sibilò la
ragazza-castoro al suo compagno.
“Lei è Eva” fece l’altro, indicandola “È la
figlia di Lorenzo, Lorenzo Martinez”. Sottolineò accuratamente il cognome.
Lorenzo Martinez era un ricco commerciante che viaggiava in continuazione,
Lolita lo sapeva.
“Impressionante” fece, fingendo un’aria
sorpresa. Cambiò espressione, guardando Rodas canzonatoria. “Non è che invece
ti rode perché ti ho rifiutato?”.
Fu il turno di Eva ora di aprire la bocca,
stupefatta. “Ma che modi! Che presuntuosa!”.
Rodas aveva uno sguardo furente e la
ragazza si voltò a guardarlo. “È vero? Rodas, è vero?!” esclamò con vocetta
stridula.
“Oh, sì, è vero” rispose Lolita, sbattendo
le ciglia amorevole, cosa che non era da lei, ma si divertiva troppo.
Sentì al suo fianco Diego che bisbigliava:
“Non esagerare”.
Lolita fece un gesto scocciato con la mano
ed Eva fece scivolare il suo sguardo dall’uno all’altra, gli occhi ridotti a
due fessure. “Cosa fai, incanti gli uomini?”.
“Già” intervenne Rodas, ripresosi, prima
che Lolita potesse ribattere “Dev’essere così, sai quello che si dice sulle
ragazze coi capelli rossi…”.
“Che sono delle puttane” ghignò Eva,
guardando Lolita dritto negli occhi.
“Ehi!” sbottò Diego.
Lolita si sentì tremare, furente. Perché
diavolo quel pallone gonfiato di Rodas con la sua nuova fiamma dovevano venire
a romperle le uova nel paniere?
“Andiamocene, Lolita” disse ancora Diego,
prendendo in mano la situazione “Questi non hanno niente di meglio da fare che
darci noia evidentemente”.
Le prese la mano e Lolita si lasciò
condurre via ma Rodas riuscì a parlarle ancora, velenoso. “E Federico? E
Gonzalo? Neron?”.
Lolita accelerò il passo, sentendosi
arrossire.
“Chi sono?” domandò Diego.
“Non ho mai fatto niente con loro!” esplose
lei, fermandosi e guardandolo.
“Ehi… ehi, calmati…”.
“No!” urlò ancora la ragazza, guardando gli
occhi scuri di Diego. Si sentiva accusata ingiustamente, accusata di fronte al
suo fidanzato. “Loro… Loro mi venivano dietro d’accordo? Non lo so perché, lo
facevano e basta! Ma io…”.
Diego le poggiò le mani sulle spalle.
“Tranquilla! Sarà perché sei bella, no?”.
Lolita inspirò a fondo, poi, suo malgrado,
sorrise.
“Rodas è un enorme pezzo di sterco”
continuò l’altro “Un enorme pezzo di sterco geloso”.
La ragazza scoppiò a ridere e si lasciò
abbracciare da Diego.
“Ma tu” riprese lui “Non fare così… Non
provocarli, potrebbero…”.
“Potrebbero cosa?” fece Lolita, sospettosa.
Diego esitò un momento, poi scrollò le
spalle. “Non lo so. Niente”.
Lolita prese la sua mano e s’incamminarono,
lei con la felicità di nuovo esplosa nel volto.
Acilia e Miguel erano stesi nel letto di
lui.
Doveva essere molto tardi.
“È ora di dormire” bisbigliò Acilia,
accarezzandogli la guancia.
Lui grugnì qualcosa e si voltò a guardarla.
“Non voglio dormire”.
“Ma è tardi. E domani devi lavorare”.
“Lolita è tornata?”.
“Sì, sta dormendo”.
Miguel si rasserenò. Poi ripeté: “Non
voglio dormire”. Ma aveva la voce impastata, grondante di sonno.
“Perché no?” chiese lei.
Lui chiuse gli occhi, si stava assopendo,
che lo volesse o no.
Ma ancora riuscì a rispondere: “Perché…
quando poi mi sveglio… ho paura di non trovarti più”.
Acilia sorrise e si accoccolò nel suo
petto. Lui lo diceva tutte le notti, lei all’alba doveva andarsene e lui non
riusciva mai a salutarla perché dormiva. Ci provava sempre a stare sveglio ma
finiva sempre coll’addormentarsi e Acilia gli si raggomitolava di fianco,
ascoltandolo respirare.
*
Giorno 64
Che mi
piaccia? È possibile che mi piaccia?
È solo
perché sono stata troppo tempo con lui, è solo perché nel momento in cui ho
avuto più paura lui era lì con me. Funziona così, no? Non può essere certo
perché ha gli occhi rossi, le zanne e una certa bramosia di sangue!
Non
scrivevo da moltissimo tempo su questo diario, l’ho fatto perché ho bisogno di
calmarmi. Chi l’avrebbe mai detto, che da quando ho scritto giorno 1 saremmo
arrivati a questo?
Perché gli
ho chiesto di tornare? Perché l’ho fatto?
Lui ha il
volto di un ragazzino, è esile, è… Non è nulla per cui…
Chiudo gli
occhi, sbatto la penna sulla scrivania, strappo una pagina di diario dietro
l’altra. Non so cosa scrivere, non so più cosa scrivere, nemmeno la penna
riesce a darmi sicurezza, porta solo altra confusione. Io non ho più paura, ma
ho una strana cosa dentro di me. Non sarà stato il sangue di vampiro? Sì, è
quello che mi ha fatto impazzire. Allora può ancora trasformarmi… No, non è
così. Sono già passati due giorni e io sono un essere umano. Vado a lavoro,
sotto il sole, mangio la pasta, la carne, sono pallida ma non più del solito.
Il sangue di vampiro può avermi fatto venire voglia di vampiro? Perché gli ho
chiesto di baciarmi? Perché diavolo…
Ho chiesto
a Vampiro se potevo baciarlo. Non ha più senso che io lo chiami Vampiro, lui ha
un nome, il suo nome è Jacque. È due notti che non lo vedo, ma lo vedo nei miei
sogni. Ho paura che sia l’effetto del sangue del vampiro. Il patto, quel patto,
potrebbe legarmi davvero a lui?
Il
tatuaggio che mi hanno fatto è una lacrima, una di quelle lacrime che io dovrei
avere per lui. Dovrei piangere per lui. Abbiamo detto davanti a tutta la
Rappresentanza che siamo innamorati. È questo il prezzo del patto del sangue?
Che la finzione diventi realtà? Si divertono? Chi c’è dietro a tutto questo,
chi c’è che…
Sono
passati più di due mesi da quando ho incontrato Jacque per la prima volta. Lui
mi ha fatto paura, l’ho odiato, l’ho odiato perché mi faceva paura. Poi l’ho
odiato perché è tornato, l’ho odiato perché è venuto a casa mia e mi ha messo
in testa la pazza idea di farmi trasformare…
Ma l’ho
mai veramente odiato?
Sì, è solo
che poi… quella sera nel bosco, in cui abbiamo parlato. Mi ha rassicurata, come
non ha mai fatto nessuno. E poi il patto, la sua mano, fredda, gelata, che
teneva la mia. Non l’ho mai veramente voluta ma era l’unica cosa che potesse
darmi conforto. I suoi occhi sono freddi, sono opachi, non ci vedo il mio
riflesso dentro, come lui non vede il suo da nessuna parte.
Sarà
meglio che vada a dormire, stanotte non verrà, non so neanche perché lo sto
aspettando. Non strapperò anche questa pagina, è inutile, non saprei più
cos’altro scrivere. Non mi è mai capitato di tenere una penna in mano e di non
avere l’ispirazione giusta.
Adesso,
beh, tanto per essere sinceri, lo odio ancora.
Lo odio
perché mi sta fottendo il cervello.
Eike si leccò il sangue sulle labbra.
“Secondo me Acilia cerca solo di tenerti
addomesticato come un cagnolino” disse.
Jacque rifletté: ne sarebbe stata capace
effettivamente. Mentre prendevano in prestito un po’ di sangue da Claire che,
estasiata, se ne stava sdraiata sul pavimento digrignando frasi
incomprensibili, Jacque aveva raccontato quanto era avvenuto ad Arcangelo e
anche in camera di Emily.
Gli aveva confessato anche che era
tormentato dalle parole di Acilia, che l’aveva ammonito di non affezionarsi ad
Emily.
“Salvala ma non affezionarti a lei!”
esclamò Eike con una voce profonda e sensuale, in un’imitazione di Acilia.
“Proprio il genere di cose che direbbe Aci…”.
“Ma tu hai parlato con lei?”.
Eike annuì giocherellando con la gamba
sospesa di Claire. Le morse la coscia e lasciò che il sangue colasse fino al
piede. “L’altra notte ne ha sparate un’altra delle sue. Com’è che era? Ah sì…
Che l’amore eterno è un privilegio solo degli umani”. Leccò la gamba della
ragazza seguendo scrupolosamente con la lingua il rigagnolo di sangue,
socchiudendo gli occhi. Poi disse: “A volte mi fa venire i brividi”.
Jacque lo stava guardando sconcertato. “A
me fai venire i brividi tu”.
Eike scrollò le spalle mentre Claire
ridacchiava. “Ti è piaciuto eh?” fece alla ragazza che ridacchiò più forte.
Jacque pensava che Claire non fosse tanto
sana di mente ma tornò a guardare Eike. “Cosa credi che volesse dire?”.
“Beh, mi sembra ovvio”.
“Ah sì?”.
“Che non ti ama”.
Jacque strabuzzò gli occhi. “Non ho mai
pensato che…”.
“Secondo lei solo gli umani amano” continuò
Eike “forse è per questo che non vuole che ti fai quella Emily…”.
“Ma allora sarebbe gelosa”.
“Sì, del suo cagnolino ammaestrato”.
Jacque sbuffò e appoggiò il braccio di
Claire. Gli era quasi passato l’appetito.
“O forse è schifata dall’idea che un
vampiro e un umano copulino insieme” disse.
Eike fece una faccia poco convinta. “Ti
ricordo che è la fondatrice del PPC”.
“E allora? Non… non è la stessa cosa”.
Nessuno dei due parlò e per qualche attimo
si sentirono solo gli affanni di Claire che chiedeva, delirante, di essere
prosciugata.
Eike sembrava intenzionato ad assecondarla
e Jacque lo fermò. “Fermo, i simpatizzanti sono protetti”.
“Da chi?” fece l’altro con una smorfia.
“Dai vampiri, idiota”.
“Ma siamo noi i vampiri”.
“Beh quando crescerai un po’ in altezza, i
capelli ti cresceranno fino alle spalle e ti chiamerai Lyben Vladimir il tuo
parere di vampiro conterà qualcosa” disse Jacque guardando il volto di Claire
deformato da smorfie di piacere.
Tornò a posare il suo sguardo su Eike.
“Secondo te Acilia non è mai stata con un umano vero?”.
“Secondo me Acilia si è fatta di tutto, non
mi sorprenderei se gli animali…”.
“Ehi” sbottò Jacque, interrompendolo,
sentendo un moto di stizza.
Eike sospirò. “Jacque, è inutile cercare di
capirla. Ha duemila anni”.
“Millenovecento e qualcosa” precisò lui.
“Sai quanti segreti può avere una persona
che ha duemila anni?” insistette
l’altro.
Jacque si zittì. Dimenticava sempre che lui
non era altro che una piccola, minuscola parte della vita di Acilia. Mentre lei
per lui invece era tutto, tutta la sua esistenza.
Ti
metterai nei guai. Con te stesso.
“Forse vuole solo proteggermi” disse, più a
se stesso, ricordando le parole di Acilia.
Ma Eike non gli risparmiò la sua battuta
tagliente. “Tipico ragionamento da cagnolino”.
Jacque non diceva niente e il ragazzino
andò avanti. “Senti, l’amore sarà eterno per gli umani, ma solo tra umano e
umano. Se ti mettessi con Emily non credo che vorrai stare con lei anche quando
avrà tette e polpacci flaccidi no?”.
Jacque lo fissò stordito. Non ci aveva
pensato.
“Che c’è?” continuò Eike “Non vorrai mica
farle da badante no? È già abbastanza avanti con…”.
“Ha ventisette anni!” esclamò l’altro,
incredulo.
“E tu centotredici” ribatté la sua
progenie, duramente “Il tempo vola, papà”.
Claire si stava rialzando a fatica,
borbottando qualcosa sul fatto che le loro chiacchiere l’avevano rintronata.
Jacque pensò di ribattere che farsi succhiare il sangue non doveva essere
proprio un toccasana ma tacque, pensando che gliel’aveva bevuto lui, il sangue.
“Cosa mi volevi dire?” chiese ad Eike
“Stavi dicendo… l’amore eterno solo tra umano e umano… Quindi?”.
Eike lo guardò sorpreso.
“Beh, quindi fattela” disse, come se fosse
ovvio “Cogli l’attimo… Carpe diem, in
omaggio ad Acilia e al suo latino. Tanto prima o poi schiatta, non rimarrai
incastrato”.
*
Le “lezioni” di latino proseguivano e a
Lolita piacevano tantissimo. Era una lingua complicata, ma le piaceva pensare
che sapeva qualcosa che tutti i suoi conoscenti ignoravano. Ogni tanto,
imitando Acilia, lanciava l’esclamazione Ecastor!,
sottovoce, perché non voleva attirare l’attenzione ma a volte qualcuno si
voltava stranito.
Afferrò un sacco di juta e lo porse al suo
acquirente, mormorando un prezzo e tendendo la mano.
Quello prese il sacco e poggiò delle pecete
sulla mano di Lolita, che salutò cortesemente e cercò con lo sguardo il suo
prossimo cliente. Riconobbe subito i denti da castoro e il naso all’insù di
Eva.
“Cosa ti porta dalla gentaglia?” sbottò
Lolita, senza riuscire a trattenersi.
Eva strinse gli occhi scuri. “Voglio tre
sacchi di grano”.
Lolita, di malavoglia, prese un sacco dopo
l’altro e li poggiò sul tavolo.
“Allora” fece l’altra, frugando in un
sacchetto di pelle pieno di monete “Qual è il tuo segreto?”.
“Il mio segreto?”.
“Come fai a piacere a tanti uomini?”.
“Forse perché non ho i denti da castoro”.
Subito Lolita sgranò gli occhi, sentendo le sue parole. Non l’aveva fatto
apposta, le parole le erano sfuggite di bocca!
Eva aveva la faccia di chi aveva appena
ricevuto uno schiaffo e Lolita cercò di rimediare. “Senti… A me Rodas non
interessa, io sto con Diego!” disse, con enfasi “Non voglio certo…”.
“No, non ti interessa” la interruppe Eva,
con sguardo cattivo “ma intanto l’hai stregato”.
Lolita ebbe un tuffo al cuore. Stregato?
Che significava? Perché Eva aveva usato proprio quella parola?
“Che cosa vorresti insinuare?” fece, con un
filo di voce.
Eva avvicinò la bocca all’orecchio della
ragazza e sussurrò: “Lo conosco il tuo segreto”.
Lolita sbarrò gli occhi e l’altra
ridacchiò.
Di
che diavolo parla?
Eva sembrava soddisfatta e lei la guardò
spaventata.
Non fare
così. Non provocarli, potrebbero…
Potrebbero cosa?!
“Metti via quei sacchi” disse poi Eva, con
tono melenso “Ci penserà il mio servitore a ritirarli, intanto pago”. Sbatté le
ciglia, amorevole, come qualche settimana prima aveva fatto Lolita con lei.
Mise le monete sul tavolo e fece per
allontanarsi.
Il
mio servitore.
Non poteva venire direttamente lui? No,
certo, Eva era venuta per sottolineare il fatto che lei era più ricca, più
potente. E per spaventarla. Lolita la odiò, la odiò perché da quando erano
morti i suoi genitori e i suoi fratelli finalmente aveva un momento di felicità
sua, un momento di pace, in cui le cose andavano bene. E quell’oca voleva
rovinarglielo. Ancora una volta le parole furono più veloci della sua mente.
“Stercorem
pro cerebro habes”.
Forse era perché offendere in latino le
dava più sicurezza, perché non la capivano, o perché dimostrava di essere
qualcosa in più di loro.
Eva l’aveva sentita e si era girata,
pallida e con neanche l’ombra del sorrisetto che aveva prima.
“Che cos’hai detto?”.
Lolita prese un sacco tra le braccia e lo
poggiò per terra.
“Chi? Io? Nulla”.
Sorrise, angelica, ma non si chiese perché
Eva avesse lo sguardo turbato.
Acilia camminava a passo lento tra gli
alberi. Il sole era appena calato e lei non aveva tutta quella fretta che aveva
di solito, di rivederlo. Gli anni passavano e la consapevolezza era sempre più
un macigno nel suo petto.
Non
puoi vivere da umana.
Accelerò il passo, ignorando i suoi
pensieri. Miguel era ancora giovane, non doveva pensarci adesso, non doveva…
Il rumore di un ramo spezzato la fece
voltare di scatto.
“Chi c’è?” domandò ad alta voce.
Ci mancava solo qualche brigante.
Vide un’ombra muoversi velocissimamente, a
destra e a sinistra, davanti e dietro gli alberi. In realtà quell’ombra credeva di essere veloce ma Acilia lo
vedeva, vedeva ogni suo movimento…
Un uomo le fu davanti all’improvviso ma lei
era preparata e subito fu dietro di lui, il braccio intorno al suo collo. Lui
digrignò i denti e lei gli bisbigliò all’orecchio: “Chi sei?”.
“Non mi puoi soffocare” disse l’altro con
una risatina.
Acilia gli prese la testa con la mano
libera. “Ma ti posso staccare la testa”.
Lui sbarrò gli occhi, spaventato, e lei lo
lasciò andare. Ma lui non fuggì, si voltò a guardarla e lei ricambiò il suo
sguardo. Era un giovane che dimostrava una trentina d’anni, forse qualcosa di
più, aveva i capelli rossicci e la carnagione molto bianca.
“Sei giovane” disse Acilia, avvicinandosi.
“Come, scusa?”.
“Non ti muovi tanto veloce”.
Lui inarcò le sopracciglia e strinse le
labbra. “Scusami. Non ti volevo attaccare, pensavo fossi un’umana”.
Acilia annuì e fece un cenno per indicare
le case che si intravedono tra gli alberi alla sua sinistra.
“Non andare a cacciare là”.
“Perché?” chiese l’altro, cercando di
imitare il suo tono spavaldo.
Acilia non distolse lo sguardo né sbatté le
palpebre. “Perché è la mia zona”.
Lui ci mise un po’ a rispondere. Sembrava
alla ricerca di qualcosa con cui ribattere ma poi disse solo: “Certo”.
“Sei solo?” domandò poi Acilia.
“No, ho una creata”.
“E dov’è?”.
L’altro rispose subito, e questo fece
pensare ad Acilia che fosse sincero. “Non lo so, noi cacciamo separati”.
Lei annuì. “Fate bene” disse poi in un
sussurro.
“Cosa?”.
Acilia lo ignorò. “Dì anche a questa tua creata di non cacciare nella mia zona” disse,
scandendo bene le parole.
Il vampiro si limitò a fare un cenno
d’assenso. “E tu?” chiese poi “Sei sola?”.
Lei annuì e l’altro insistette: “Ma se sei
tanto vecchia non hai mai…”.
“Forse” ribatté Acilia, dura “Ma che ti
importa?”.
Si pentì di essere stata sgradevole. Ma
doveva assicurarsi come prima cosa che quel vampiro non attaccasse i suoi
amici. Però… era da tanto tempo che non incontrava uno come lei.
Lui stava per andarsene e infatti lei parlò
di nuovo, per fermarlo.
“Non sembri di qui”.
L’altro si voltò, sorpreso. “No, infatti.
Dici che sono giovane, ma sono più di novecento anni che girovago”.
Acilia si sentì per un attimo trasportata
verso di lui. Anche lei aveva viaggiato tanto. Accarezzò per un attimo l’idea
di dire addio a Miguel e di vivere con i suoi simili. Molti lo facevano, si
riunivano in clan, obbedivano al più vecchio del gruppo, ognuno aveva la
propria zona.
“Sono vissuto in Inghilterra” continuò il
vampiro, dato che Acilia non diceva più niente “sotto l’Imperatore romano
Onorio”.
L’idea di dire addio a Miguel però era
insopportabile.
Già le mancava…
“Bene, Onorio” sentenziò Acilia, ignorando
lo sguardo perplesso dell’altro “ci rivedremo, forse”.
Gli voltò le spalle e camminò senza
fermarsi fino alla casa di Miguel. Forse anche Onorio voleva sapere qualcosa di
lei… Aveva vissuto nell’impero anche lui, avevano tanto in comune. Sicuramente
più di quanto avessero in comune lei e Miguel, o lei e Lolita.
Fa lo stesso, pensò, preferisco stare con
gli umani, ora, solo per un po’, solo per un altro po’…
Aprì la porta senza pensare di bussare e si
ritrovò davanti i visi angosciati di Miguel e Agnese, entrambi seduti.
Non
puoi vivere da umana.
La sentiva come un’accusa, tagliente e
bruciante.
Chiuse la porta dietro di sé. “Che
succede?” chiese poi.
Agnese si coprì il volto con le mani, stava
piangendo.
Miguel si alzò, scuro in volto, e Acilia
davvero temette il peggio.
“Miguel, cosa…”.
“È Lolita” disse lui “È stata denunciata”.
“Cosa?!”.
Miguel fece un respiro profondo. “Nemesio è
stato qui stamattina. Ieri… qualcuno ha denunciato Lolita”.
“Chi? Chi è stato?!”.
Agnese emerse dal suo pianto con una
risatina spenta.
“La domanda non è chi… Ma per cosa”.
Acilia la guardò confusa. Poi il suo
sguardo scivolò su Miguel. “Per cosa?” domandò, con un filo di voce. Miguel non
rispondeva e lei urlò: “Per cosa?!”.
Lui trasse un respiro profondo. “Per
stregoneria”.
Stregoneria?
Acilia aprì la bocca e la richiuse più
volte, senza sapere cosa dire.
“Ma com’è possibile? Non ha senso!”.
“Sì che ha senso!”. Agnese si alzò
piangendo, tremando da capo a piedi. Fu davanti a lei e la costrinse a guardare
il suo volto deformato dall’odio più profondo. “Sei stata tu! Le hai insegnato
qualche pratica magica?!” gridò.
Miguel la tirò per un braccio. “Agnese,
piantala!”.
“Lasciami!” urlò la sorella, disperata.
Puntò il suo sguardo annientato su di lui. “È lei la strega! È LEI! E tu non te
ne sei mai accorto!”.
Acilia si ritrasse. Non aveva mai visto…
non aveva mai…
Miguel cercava di tenerla ferma ma Agnese
si strattonò e tornò ad strillare: “Ha gli occhi del demonio! Da quando è
arrivata qua tutti hanno cominciato a morire! E Lolita…”. Si accasciò a terra
lentamente, mentre Miguel la sosteneva per un braccio. Piangeva, e Acilia non
sapeva cosa fare. Non aveva voglia di difendersi, perché tanto Agnese aveva
ragione, non era una strega ma il demonio… il demonio lei l’aveva dentro.
“Sette anni…” gemette ancora la donna per
terra, con voce fremente “Sette anni e non sei cambiata di un’unghia…”. Si voltò
con occhi folli verso Acilia. “Quanti anni hai? Da quanto tempo vivi?! Qual è
il tuo segreto?!?”. La sua pelle, così liscia e vellutata di solito, era
stirata in una miriade di rughe, i suoi occhi erano rossi di pianto e dalla
bocca le colava della saliva. Dopo quella che sembrava essere un’eternità
distolse lo sguardo e tornò a piangere sul pavimento. “Ha gli occhi del
demonio…”.
“Agnese” fiatò Miguel, scrollandole le
spalle “Agnese… guardami! Guardami!”.
Lei tirò su la testa e lui continuò: “Ce la
caveremo! Lolita è innocente… lo sai! Guardami!”.
Agnese aveva di nuovo abbassato lo sguardo
e Miguel la scrollò di nuovo. “Lolita non è una strega, lo sanno tutti! Si
salverà! Si salverà!”. Anche lui aveva le lacrime agli occhi.
Acilia si strinse tra le braccia, mentre la
sua mente lavorava febbrile.
Lolita accusata, ci sarebbe stato un
processo, dovevano procurarsi delle prove, dovevano…
Ha
gli occhi del demonio.
Mentre il suo uomo e la sorella piangevano,
lei non riusciva a versare neanche una lacrima per Lolita.
Gli occhi del demonio…
Chiuse gli occhi, sforzandosi di ragionare.
Dicevano che il demonio avesse gli occhi verdi, come le streghe… Lolita aveva
gli occhi identici a quelli di Miguel, ma i capelli, i capelli…
Quel vampiro, nel bosco, aveva i capelli
rossi, come quelli di Lolita.
Ha
gli occhi del demonio!
“Miguel” fece, avvicinandosi “Miguel… Di
cosa… Quali sono i… reati… di Lolita?”.
Miguel si alzò lentamente, mentre Agnese
ancora piangeva.
“Non mi ha detto chi l’ha denunciata. E
neanche quali sono i capi d’accusa”.
“Ma è folle!”.
Acilia si sentiva male ma si sentì ancora
peggio quando si rese conto che Miguel neanche riusciva a guardarla negli
occhi.
Gli
occhi del demonio!
“Ho detto a Nemesio… Ho provato a dirgli,
come fai a crederlo? Conosci Lolita da quando è nata… come puoi credere che è
una strega?!” mugolò Miguel “Lui… lui non mi ha ascoltato”.
“Il processo!” esclamò Acilia, cercando di
confortarlo “Ci sarà un processo! Quando?”.
“Tra tre giorni” rispose il ragazzo
“Abbiamo tempo tre giorni per scoprire chi può essere stato, elaborare un
piano, una difesa… Dobbiamo capire perché
qualcuno vorrebbe il male di Lolita…”.
Acilia annuì. Ce la potevano fare, ce la
dovevano fare!
“Dov’è Lolita ora? Dov’è?” chiese.
Agnese esplose in un pianto ancora più
rumoroso mentre Miguel rispondeva, con gli occhi ancora abbassati: “L’hanno
portata via”.
*
Era finita di fronte a casa sua,
maledizione.
Beh, era inutile convincersi di non averlo
fatto apposta. Si mise davanti al vialetto, poi diede un’occhiata all’orologio.
Erano le nove di sera, che probabilità c’erano che lui fosse in casa?
Sicuramente era in giro, a cacciare. Emily sbuffò e si sedette per terra, sul
marciapiede.
Ma che diavolo le prendeva?
Era davvero quel sangue ad averle fatto un
effetto simile? La verità era che più ci pensava più si convinceva che ora che
aveva scoperto una fetta di mondo in più, il suo mondo non le bastava più. Non
era che Jacque le piaceva, non più di tanto perlomeno, era il fatto di aver
scoperto qualcosa di…unico. Vampiri politici, un presidente vampiro con un gran
sorriso, vampiri buoni, gente umana che lavorava per i vampiri!
La sua curiosità era alle stelle, se solo
avesse potuto scrivere un articolo, se la verità fosse venuta a galla, e se
fosse stata lei ad espanderla il suo capo sarebbe stato felicissimo! Il capriccio avrebbe avuto un’impennata!
Ma aveva fatto un patto… E poi, se avesse
scritto un articolo anche senza fare nomi e descrizioni, l’avrebbero
considerata ancora più pazza. Già era additata come la folle amica dei vampiri,
ora lo era veramente. Ma se Jacque fosse sparito dalla sua vita non lo sarebbe
più stata… C’era qualcosa però che non le andava bene in tutto quello.
Sentì un rumore e si voltò. La porta si era
aperta e stava uscendo dalla casa una ragazza in minigonna e tacchi, tutta
impettita, con un sacco di trucco in faccia.
Si bloccò non appena vide lo sguardo
confuso di Emily, lì seduta per strada.
“Oh” fece, arcuando la bocca “Mi dispiace
di averti fatto aspettare, è il tuo turno”.
“Il mio… che cosa?”.
Ma la donna si era già allontanata
sculettando ed Emily la guardò mentre andava via, a bocca aperta.
“Oh, beh, questo sistema le cose, Jacque, è
lesbica”.
Emily si girò sentendo una vocetta
petulante che non le era nuova.
Sulla soglia c’erano Jacque e quel suo
amichetto, il vampiro formato mignon.
La ragazza doveva avere un’espressione
completamente attonita perché il bimbo si rivolse a lei: “Beh? Non stavi
guardando Claire?”.
“Sì ma…” cominciò lei “Perché lei aveva
detto…”. Tacque. Doveva pure giustificarsi con quello scemo adesso?
Jacque stava guardando Eike con la faccia
di uno che, se avesse potuto, sarebbe arrossito. “Eike, piantala”.
Eike scrollò le spalle e si avvicinò ad
Emily.
Lei non aveva paura. Ricordava vagamente
quella sera, fuori dal lavoro, in cui li aveva incontrati, tutti e due. Era
terrorizzata. Ma ora… non sentiva più alcuna minaccia.
Lui le tese una mano piccola. “Non ci siamo
presentati come si deve”.
No,
l’ultima volta volevi mangiarmi.
“Mi chiamo Eike Lehmann, tedesco, novantadue
anni”.
Emily gliela strinse, poco convinta.
“Ah complimenti per essere sopravvissuta al
patto del sangue” aggiunse il ragazzino.
Lei non riuscì a dire altro se non a
“Grazie”.
Lui aspirò l’aria. “Che buon profumo”.
Prima che Emily potesse rendersi conto di
quella frase, Eike ritirò la mano. “Vi lascio alle vostre… cose. Vado a fare
una passeggiata”. S’incamminò per strada, poi dopo poco si voltò di nuovo
indietro. “Jacque… Stai attento a non farti vedere da Aci!”.
Poi sparì nel buio.
Emily si voltò verso Jacque, sentendosi
rossa come un peperone.
“Cosa voleva dire?”.
Jacque sembrava avere un nodo in gola. “No,
lui… Boh, niente”.
Nessuno disse niente poi lui parlò di
nuovo: “Che ci fai tu qui?”.
Emily si sentì avvampare ancora di più.
“Io… Boh, niente”.
Ci fu qualche attimo di silenzio, poi
entrambi si misero a ridere.
“Facciamo un giro?” chiese Jacque.
“Sì, okay”.
Dopo qualche passo Emily non riuscì più a
trattenersi. “Chi era quella… Claire?”.
Jacque sorrise. “Curiosa come al solito?”.
“Beh, sì”. Per un folle attimo Emily aveva
pensato che avesse detto gelosa.
L’altro sembrò per un momento a disagio. “È…
una simpatizzante”.
“Era umana?”.
Emily sgranò gli occhi. Che ci faceva un’umana in una casa di vampiri?
“Sì” rispose Jacque “di quelli che… donano
di loro sponte il sangue, ai vampiri”.
Che?!
Okay, al mondo c’era davvero qualcuno più
fuori di testa di lei. Avrebbe tanto voluto dirlo al suo capo. O al suo ex
fidanzato. O a tutti e due.
“Ma…” cominciò, titubante “Potete davvero
approfittarvi di esseri umani psicologicamente instabili?”.
Jacque la guardò, in silenzio. Poi scoppiò
a ridere.
“Che c’è da ridere?” sbottò l’altra,
indignata.
“Non lo so” disse il ragazzo scuotendo la
testa.
Emily si mise una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, un po’ in imbarazzo. Sospirò e, prendendo coraggio, disse tutto
d’un fiato: “Non mi sei venuto più a trovare, mi dispiace di essere venuta,
magari non volevi più vedermi”.
Jacque fece per aprire bocca, poi scosse la
testa.
“No, io… non è questo, io volevo venire”.
Emily rimase spiazzata. Fermò i propri
piedi e lo guardò. Ebbe la sgradevole sensazione che quelle che stavano per
arrivare sarebbero state tutte scuse.
“Vedi, io…” cominciò Jacque “Aci…”.
“Aci?”.
“La mia creatrice”.
“Oh! Quella ragazza mora inquietante?”.
Jacque inarcò le sopracciglia ed Emily si
mise una mano davanti alla bocca. Ma che le saltava in mano, era la sua
creatrice, era come sua madre!
Ma il vampiro stava sorridendo. “Sì… A
volte è inquietante, comunque lei non vorrebbe che io…”. S’interruppe ed Emily
pensò a quello che aveva detto Eike, di non farsi beccare da Aci.
“Che tu sia amico di un’umana?” completò.
Jacque annuì.
Cavolo, pensò Emily, non posso uscire con te perché mia madre non vuole, un po’ da
bambini come scusa.
“Beh” fece l’altro “amico… sì. È che…
l’altra sera… tu…”.
Sembrava in imbarazzo. Emily cercò di
rimediare. “Scusa, io… Non so cosa mi sia saltato in mente!” farfugliò,
gesticolando con le mani “È che è… essere amica di un uomo, è sempre strano
no?”.
Jacque si rilassò. “Sì, anche tra vampiri”
disse con un sorriso.
“Perfetto!” trionfò l’altra, sentendo il
cuore che le martellava nel petto.
“Non pensare male di Acilia” disse poi
Jacque “È lei che ha fondato il PPC”.
“Strano modo di dimostrarlo” bofonchiò lei,
riprendendo a camminare.
Ma l’altro la prese per il braccio e la
costrinse a voltarsi.
Lei si ritrovò a pochissimi centimetri dal
volto di lui e per poco non le venne un coccolone.
“Io sono un morto, lo sai” disse il
ragazzo.
Tecnicamente
un non-morto.
“Baciarmi ti farebbe schifo” proseguì.
Emily fece passare il suo sguardo dagli
occhi nocciola, spenti, di Jacque fino alla sua bocca, alle labbra di un rosa
così chiaro, da sembrare bianco.
Non
credo…
“S-senti” balbettò, cercando di
allontanarsi “Non lo so perché… Io… non può essere il sangue di vampiro? Prima
mi facevi paura, e ora…”.
“È la novità” disse Jacque, con voce ferma,
senza più traccia di imbarazzo “Vuoi provare qualcosa di nuovo”.
Anche Emily si sentiva più sicura ora, come
se le carte fossero state messe in tavola. “Può darsi”.
Jacque si stava avvicinando ed Emily cercò
ancora disperatamente il proprio riflesso nei suoi occhi ma non lo trovava. Le
sue pupille erano nere come la pece, non c’era luce, non c’era niente, e lei,
lei cosa stava facendo?
“Voi umani siete prevedibili, non avete
alcun segreto” disse ancora Jacque.
Ma lui era un uomo, era un uomo anche lui,
era lì, in carne ed ossa, davanti a lei. E la doveva smettere di pensare di non
essere reale!
“Sarà perché sei anche tu un umano” ribatté
Emily “solo che lo sei da molto più tempo”.
Jacque sgranò appena appena gli occhi, un
momento di esitazione di cui la ragazza subito approfittò. Si lanciò sulla sua
bocca, subito la sentì fredda e viscida.
Baciarmi
ti farebbe schifo.
Ma non demorse, con la lingua trovò la sua,
con le mani gli prese la testa mentre sentiva quelle di lui circondarle la
vita. Era freddo, tutto freddo, ma sapeva che lei lo avrebbe riscaldato.
Solo per oggi, si diceva, solo per questa
notte…
*
Di accuse contro le streghe Miguel non ne aveva
mai sentito parlare. Di eretici sì ma… streghe? Il termine strega non era
nuovo, ma non era mai stata un’accusa. Sapeva che era un’inutile e vaga
speranza, l’accusa di strega comprendeva quella d’eresia, e ciò non prometteva
bene.
Teneva la mano tremante di Lolita nella
sua. Era fredda, quasi come quella di Acilia. Anche lui si sentiva freddo, si
sentiva freddo dentro, si sentiva una statua di ghiaccio pronta a esplodere in
miriade di pezzettini appuntiti che avrebbero trafitto tutto quello che trovavano.
Acilia voleva disperatamente venire ma era
giorno e non poteva. Voleva venire lo stesso, voleva coprirsi bene con una
cappa e venire, ma se fosse successo qualcosa… se qualcuno l’avesse vista…
Miguel si accorse che non era solo la mano
di Lolita a tremare. Tremava anche il suo braccio, tremava tutto il suo
corpo.
Vedeva Nemesio, invecchiato, in piedi
dritto affianco a una ragazza brutta e altezzosa.
Il giudice era seduto al banco più alto,
con dei fogli di pergamena in mano. Era vecchio e aveva uno sguardo arcigno, ma
Miguel sapeva, lo sapeva, che non
avrebbe mai condannato a morte una ragazza…
Agnese era seduta su una panca, le mani
incrociate, le labbra che si muovevano continuamente, a Miguel parve di
sentirla. Non la sentiva, certo, la sua voce era troppo bassa, però anche lui,
con lei, in quel momento nella sua mente stava pregando.
Aveva visto anche Diego, da qualche parte.
In piedi, visibilmente pallido, un luccichio negli occhi.
Finalmente girò la testa per osare guardare
chi più di tutti lo meritava. Lolita, di fianco a lui, aveva lo sguardo eretto
di chi sa di essere senza colpa, i capelli rossi lucenti e slegati senza
vergogna. Agnese aveva chiesto disperatamente di poterli tingere ma Lolita non
aveva voluto.
Intorno a loro c’erano tante altre persone
che parlottavano tra loro, da una parte i frati, da un’altra le suore, da
un’altra ancora il popolo. Al fianco del giudice, una piccola assemblea di
persone che doveva decidere del destino di Lolita.
Il giudice si alzò in piedi e il
chiacchiericcio scomparve. Miguel sentiva ancora le preghiere di Agnese.
“Lolita Delgado” disse, stancamente
“accusata di stregoneria”.
Si rivolse a Lolita e lei, da sicura che
era, divenne bianca come un cencio.
“Siete stata accusata di” proseguì il
giudice correndo con lo sguardo sul foglio “avere incantato molti ragazzi della
città. Negate di averlo fatto?”.
“Lo nego” disse Lolita, piano.
“Come?”.
“Lo nego!” fece la ragazza, più forte, con
la voce che tremava.
“Eppure abbiamo una testimonianza”.
“Sì” fece una voce cinguettante.
Miguel si voltò. Era la ragazza accanto a
Nemesio, Eva Martinez.
“Ha incantato il mio ragazzo” proseguì
quella strega con convinzione.
“Non è vero!” urlò Lolita.
“Silenzio!” sbottò il giudice.
Miguel si sentiva tremare di collera.
Perché ci doveva essere così tanta ingiustizia?
“Signore… Mi perdoni, signore” tentò.
Il giudice lo squadrò in silenzio e Miguel
andò avanti: “Quella donna è l’accusatrice, non è attendibile come fonte”.
“Come sarebbe a dire che non è
attendibile?”.
“Beh, è così, non è…”.
Ma il giudice l’aveva già congedato con un
gesto della mano, pronto a tornare al suo foglio di pergamena e Miguel si sentì
come se il suo cuore si fosse fermato.
“No!” urlò “Ascoltatemi! Dovrebbe essere il
ragazzo… Il ragazzo dovrebbe dirlo!”. Si voltò e prese a frugare con lo sguardo
tra i presenti. Poi lo sguardo gli si posò su Eva. “Dov’è? Dov’è il ragazzo?”.
“Non c’è” rispose Eva, velenosa “La strega
avrà fatto un incantesimo per cui lui è costretto a letto, cosicché non possa
venire a testimoniare”.
Miguel sentì Lolita vicino a sé fremere. Si
girò e vide che piangeva silenziosamente. Di certo non era così che pensava
andassero le cose.
Il giudice stava guardando arrabbiato
Miguel. “Posso continuare?” chiese, aspro.
“Certo” disse subito il ragazzo, sentendosi
sudare ovunque “Scusate” aggiunse, col tono più risentito che poté.
Il giudice tornò a guardare Lolita.
“Recentemente siete stata sentita mentre vi
vantavate dei vostri successi amorosi. Negate anche questo?”.
Lolita aveva la bocca aperta. “Beh, io…”.
“Lo negate o no?”.
“Lo nego!” strillò la ragazza “Io non mi
vantavo, io… C’era Diego con me!”.
Miguel guardò la sorella pieno di speranza.
Diego! Lo cercò con lo sguardo e lo trovò, più bianco che mai, mentre guardava
il giudice, in attesa.
Il giudice lo vide e gli fece cenno di
parlare.
“Ecco…” cominciò Diego, con delle
goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte “Eva e Rodas sono venuti a
importunarci, ci provocavano… A Rodas piaceva Lolita, ma lei l’aveva rifiutato…
Penso si volesse vendicare, lui e anche” gettò un’occhiata sprezzante a Eva
“lei”.
“A Rodas piaceva Lolita perché era stregato” puntualizzò Eva, stancamente.
“Ma insomma!” esclamò Miguel, senza
riuscire a trattenersi “Dov’è Rodas per poterlo dire? Dov’è?!”.
“L’ho detto, è ancora stregato, mi sembra
ovvio!” sbottò la ragazza.
“Da te semmai!” urlò lui, sentendo una
rabbia terribile ribollirgli nello stomaco “Stupida megera…”. S’interruppe
notando lo sguardo di fuoco del giudice. Cercò di calmarsi, ma sentiva affianco
Lolita che silenziosamente piangeva e non ce la faceva, non ce la faceva a
stare calmo…
Chiuse gli occhi e cercò di focalizzare il
viso di Acilia che gli diceva che sarebbe andato tutto bene. La sera prima gli
aveva promesso che tutto si sarebbe risolto, chissà, magari lei, nella sua stranezza, aveva anche poteri
divinatori...
“Andiamo avanti” biascicò il giudice “Una
settimana fa la signorina Eva si è recata al vostro posto di lavoro… E voi vi
siete vantata della vostra bellezza,
lo negate?”.
Ancora quell’orribile piglio sulla parola vantata.
Miguel guardò Lolita pregando ma lei non
sembrava più in grado di dire nulla.
“Allora?” insistette il giudice.
Nega,
Loli, nega…
“I-o” fece Lolita, spezzando la parola con
un singhiozzo “Io… ho solo detto…”.
No!
Devi negare!
“Lei mi ha chiesto quale fosse il mio
segreto con i ragazzi e io le ho solo detto che… non avevo i denti come i suoi…
per ironizzare!” pianse la ragazza.
Miguel lanciò uno sguardo terrorizzato al
giudice.
Quello aveva uno sguardo imperscrutabile,
ma li guardò per poco. Subito tornò a fissare il foglio che aveva in mano.
“Io dico la verità, Miguel” sussurrò
Lolita.
Miguel si voltò a guardarla e vide il suo
volto tremante fisso davanti alla platea, gli occhi ben aperti pieni di
lacrime, le guance bianchissime come porcellana.
“Dicendo la verità non si sbaglia mai”
continuò lei, sempre guardando dritto davanti a sé “Non è vero?”.
“Sì, è vero” rispose Miguel, anche se non
ne era convinto.
Lolita, tenendo il volto fermo, ruotò gli
occhi verso di lui e lui le vide la pupilla, piccolissima, dentro quel cerchio
dorato, più chiaro che mai. “Se deve finire male… Io dico la verità, io rimango
pura fino alla fine”. La sua voce era un po’ più ferma alla fine ma era
qualcosa dentro Miguel che si era spezzato. Non doveva finire male… Non doveva,
non doveva!
Trattenne le lacrime con ogni sforzo e
sorrise alla sorella. Le prese la mano. “Non finirà male”.
Ma il giudice stava per parlare ancora.
“E poi avete lanciato un incantesimo”.
Anche se il tono da lui usato era sempre lo stesso, la sua voce tuonò terribile
e minacciosa, come se avesse urlato.
Lolita sgranò gli occhi. “Io… cosa?”.
“La signorina Eva vi ha sentita mentre
lanciavate un incantesimo contro di lei. Lo negate?”.
“Sì!” strillò la ragazza “Non ho… Io non so
incantesimi! Che cosa… che magia avrei fatto?!” esplose tremante in sarcasmo.
“Signorina Eva? Volete rispondere?”.
Eva aveva mutato espressione. Non era più
provocatoria e gongolante. Aveva le lacrime agli occhi e guardava Lolita con
odio.
“Il giorno dopo non riuscivo più a muovere
la gamba. Ora cammino a fatica”.
L’espressione di Eva sembrava sincera e
Miguel si voltò istintivamente a guardare Lolita.
Lei era stupefatta.
“Sta mentendo…” fiatò “Sta mentendo… È in piedi! Non ha male alla gamba!”.
Miguel guardò Eva e notò qualcosa che prima
non aveva notato. Si appoggiava al braccio di Nemesio. Ma ci potevano essere
tantissimi motivi… Poteva essersi presa una storta, poteva essere caduta… Le
gambe non smettevano di funzionare, così, di punto in bianco!
“Che incantesimo avrei fatto? Che cosa ho
detto?” esclamava ancora Lolita, in preda alla disperazione.
Eva ancora la guardava con
quell’espressione infelice e vendicativa e lei sembrò ricordarsi qualcosa. Mise
la mano tremolante davanti alla bocca, con gli occhi spalancati.
“Non era un incantesimo, era…”.
“Hai sibilato qualcosa di incomprensibile!
In una lingua strana!”.
“Era latino!”.
Il silenzio piombò nella sala. Miguel sentì
il suo cuore saltare un battito, terribilmente.
Latino?
Il giudice aveva tutta l’aria di voler
concludere. Si rivolse all’assemblea, i cui membri parlottavano tra loro.
No!
No!
“Non era un incantesimo! Era un insulto!”
gridò Lolita, senza pensare di peggiorare le cose.
Ti
prego…
Dov’era il Dio che aveva pregato per tre
giorni quando il giudice arrotolò il foglio di pergamena? Dov’era quando si
alzò in piedi?
“Condanna al rogo”.
Dov’era quando i suoi genitori, i suoi
fratelli, uno ad uno erano tutti morti? Dov’era ora, mentre abbracciava Lolita
per non farla cadere?
Chiacchiere, infinte parole, parole vuote,
senza senso, gran rumore, tra le persone vide Diego che correva verso il giudice urlando.
Era quello il Dio di cui parlava Nemesio,
con parole insignificanti, mentre diceva che sua sorella era stata accusata, sua sorella, una strega, Lolita, una
strega, una cosa?!
Non lo farebbe Dio, non lo farebbe il tuo
Dio, Nemesio, non la farebbe una cosa del genere!
Dov’era il Dio che aveva pregato per tre
giorni mentre cadeva a terra accanto a Lolita che piangeva, mentre l’urlo di
Agnese era l’unica cosa che sentiva, lo stesso urlo del suo cuore?
Le lacrime gli sgorgavano dagli occhi e lui
non poteva trattenerle, il ghiaccio in tensione dentro di lui si era rotto,
spezzato, distrutto. Così semplice, così semplice vivere senza segreti, lui ne
aveva uno, il segreto di Acilia, che lo spaventata ogni giorno e ogni notte, ma
Lolita non aveva niente, niente… Anche
quando non hai segreti, se la gente crede che tu li abbia per te è finita.
*
Il fuoco, vedeva il fuoco. In realtà era
solo la sua mano che andava a fuoco, la sentiva bruciare, nonostante cercasse
di nasconderla il più possibile sotto il mantello. E la sua faccia? Com’era
ridotta la sua faccia? Le urla che sentiva sembravano provenire dalla sua pelle
bruciante, perché anche lei voleva urlare. I piedi li aveva coperti ma sembrava
che i sandali fossero roventi. Il naso le faceva male, forse si stava
sciogliendo. Ma lei non voleva urlare per il dolore fisico. Le fiamme che
vedeva, che stava guardando, non la stavano avvolgendo, le vedeva da lontano, rosso,
arancione, giallo, caldo, tanto caldo. I colori del sole, il sole che tanto la
odiava, il fuoco, quello che aveva voluto, che aveva desiderato. Qualcosa
brillava in quel bagliore, un rosso più spento, un rosso che si stava
annerendo. Erano i suoi capelli di
strega che venivano bruciati, mentre urlava a più non posso, mentre le fiamme,
come mani diaboliche, la prendevano e la trasfiguravano.
Acilia avrebbe voluto buttare il mantello a
terra, mettersi affianco a lei, bruciare insieme a lei, morire con lei. Lei si
sarebbe sentita meno sola, ne era sicura. La vedeva legata a quel palo, legata
dalle fiamme. Vedeva rosso, non sapeva se era perché era il fuoco che era
dappertutto, o perché i suoi occhi stavano bruciando. Nelle sue orecchie c’era
l’urlo di qualcun altro. Il suo udito le permetteva di distinguere le voci,
pure in quella confusione. Un’altra donna era inginocchiata sotto il corpo
incandescente di Lolita, sembrava impazzita, sembrava volerla salvare, metteva
le mani e subito le ritraeva, strillava, piangeva. Poco distante c’era un uomo
e Acilia sentì una forte stretta allo stomaco, come se non lo avesse più visto per tantissimo tempo. Miguel aveva il
viso sporco di fuliggine, le fiamme riflesse nei suoi occhi dorati, le mani
levate in alto, pietrificato in quella posizione, come se il tempo si fosse
fermato, per settecento anni...
Purtroppo l’uomo era stato crudele, e lo
sarebbe stato ancora per molto tempo, forse non avrebbe mai smesso di esserlo.
Acilia aveva sempre pensato che il vampiro fosse un essere immondo, malvagio,
demoniaco ma non aveva ancora capito che il vampiro deriva dall’uomo. Il
vampiro era più cattivo dell’uomo – forse – solo perché aveva i mezzi per
farlo, il cattivo. Non doveva rispondere a nessuno, non doveva pensare a una giustizia
che neanche c’era, aveva una scusa, una scusa! Poteva uccidere perché doveva
mangiare e l’arma l’aveva nella sua stessa bocca. Qual è il segno distintivo
dell’uomo, qual è? È la ragione, e la ragione può essere usata in maniera
giusta o sbagliata. E il vampiro l’ha ancora la ragione, ha la ragione, due
zanne, la sete di sangue e l’immortalità. L’uomo non ha le zanne né la sete di
sangue né può vivere in eterno, ed è solo
ed esclusivamente per queste tre mancanze che uccide di meno.
Uomo e vampiro erano uguali e Acilia
sentiva il disperato bisogno di dimostrare qualcosa. Voleva urlare contro quel
Dio di cui parlavano tutti, contro il suo Giove, e neanche sapeva più in cosa
credere. Voleva stare vicino a Lolita, che era stata definita strega, eretica,
in un vortice senza senso di fiamme ed Acilia le vedeva, le sentiva, il suo
corpo bruciava sempre di più ma no, non era un problema, lei voleva bruciare… Corse verso Lolita e
buttò per terra il mantello. Accolse a braccia aperte il sole mentre sentiva il
suo corpo urlare perché non poteva sopportare di vedere la luce, sentirla sulla
pelle. Era una luce così forte che Acilia chiuse gli occhi, ma ciò nonostante
il mondo era ancora giallo e arancione, i colori che da così tanto tempo non
vedeva, da millenovecento anni…
Il suo corpo si stava sciogliendo proprio
come quello di Lolita, ed entrambe gridavano, gridavano mentre correvano,
insieme, incontro alla morte e si sarebbero tenute per mano, e sarebbero state
sorelle, come un tempo lo erano state Acilia e la piccola Lia… Una donna e un
vampiro, entrambe arroventate, una dalla follia altrui e l’altra dalla propria follia, un essere puro e uno
ignobile, infiammate, dannate…
Sei
stata tu a farmi questo!
Uomo e vampiro erano uguali, ma, ma… Il
vampiro la può perdere la sua ragione?
Acilia urlò più forte, senza neanche
sentire la sua voce, mentre le fiamme si trasformavano in ricordi che la
divoravano, un pezzo di carne alla volta, e la carne cadeva, ma non la poteva
neanche vedere, perché i suoi occhi si erano liquefatti e colavano dalle
orbite…
Li aprì, perché riusciva ad aprirli. Si
accorse di avere le braccia legate al proprio corpo, come se si stesse
proteggendo. Era buio, nero, non c’era traccia di rosso. Respirò a fondo,
andando avanti nel tempo, portandosi in Inghilterra, nel 2012. Si alzò e vide
che Jacque ed Eike dormivano ancora. Dormire significava morire. I loro corpi
erano immobili, statue di ghiaccio di un colore quasi argenteo. Non si
agitavano, non potevano agitarsi, non si muovevano, come potevano farlo? Non
sognavano.
Acilia si diresse con passo lento verso la
botola. Lei sognava. Le capitava da anni. Per loro non esisteva il dormire,
loro, col sorgere del sole, appena si sdraiavano, morivano. Eppure lei sognava,
non sempre, solo qualche volta, o forse sognava sempre ma non si ricordava cosa
sognava. Forse era perché aveva avuto una vita più lunga, forse il suo cervello
non sopportava più quel peso di ricordi, forse doveva sfogarsi, almeno durante
il dì... Sì, il peso dei ricordi. Aprì la botola con uno scatto. I ricordi che
rintanava lì sotto cercavano di uscire, di riaffiorare, ma non erano solo
ricordi, erano anche segreti. Cercò con lo sguardo la finestra e vide che il
sole era già calato. Presto, prestissimo, si sarebbero svegliati dal loro sonno
mortuario anche Jacque ed Eike, e lei non aveva voglia di parlare con loro. Si
diresse verso la porta e l’aprì. I segreti di quasi duemila anni uscirono dalla
casa insieme a lei. Non importava quanto in profondità li aveva seppelliti,
loro sarebbero sempre stati dentro di lei, inscindibili dalla sua persona.
Spesso credeva di averli dimenticati, e poi arrivavano i sogni, i tormenti, che
nessuno avrebbe capito, neanche Jacque, neanche se gli avesse raccontato tutto,
per altri duemila anni.
Si ritrovò in strada. Avrebbe dovuto
mangiare, ormai non lo sopportava più, mangiare. Era strano. Era da sempre che
desiderava ardere. Non ci voleva molto, sarebbe bastato uscire, sotto il sole… Marco
le aveva detto che più sei giovane più soffri, più impieghi tempo a morire. Lei
era vecchia, basta, aveva avuto il suo tempo, il sole l’avrebbe accolta in un
baleno, con felicità. Ma dopo? Cosa ci sarebbe stato dopo? Un’altra eterna
punizione? Forse non avrebbe più ricordato nulla, i segreti se ne sarebbero
andati per sempre e lei sarebbe stata libera.
Vide un uomo in lontananza e trasalì quando
si accorse che lui la stava guardando, con occhi blu. Si avvicinò
inconsciamente e si avvicinò sempre di più finché non gli fu vicino e lo vide
bene.
Accarezzava ancora l’idea di farla finita,
di bruciare, di morire, ma ancora, ancora qualcosa la teneva ancorata alla sua
semivita…
Gli occhi dell’uomo non erano blu, erano
grigi, circondati da piccole rughe definite. Aveva i capelli castano scuro, un
naso grosso, un sorriso attraente e una sigaretta in mano.
“Ha bisogno di qualcosa?” domandò.
Acilia si accorse di essere a pochissima
distanza da lui.
“No, io… Scusi, credevo… L’avevo scambiata
per un altro”.
Lui aspirò e buttò per aria il fumo, con
tutta l’aria di uno che stava per provarci.
“Questo altro
dev’essere un uomo fortunato”.
Acilia, tra l’odore del fumo, distinse il
profumo del sangue.
Sorrise anche lei, angelica.
In
realtà, non troppo fortunato. Mi sta venendo fame.
Ehm,
so che la caccia alle streghe risale a un periodo un bel po' successivo
al 1357 però anche nel quattordicesimo secolo dovrebbero esserci
state condanne di questo tipo, credo XD per quel che riguarda il
processo non so se ci ho azzeccato, so che i processi c'erano, che
c'era un giudice, che c'era un'assemblea maa..boh, spero di averlo reso
VAGAMENTE realistico XD (è sottointeso che se avete correzioni
storiche, sono molto ben accette)
RedTears,
siiii dovrai aspettare ancora un po' per un sacco di cose XD non
preoccuparti, le tue domande hanno già tutte una risposta da
molto tempo.. Per la tua sorpresa (non avevo dubbi) al fatto che Aci e
Miguel non avessero mai fatto nulla in sei mesi..beh insomma, Aci di
solito non si fa tanti problemi peeerò..sarebbe stato un po'
strano se il giovine avesse sentito la sua "freschezza" in ogni punto
del corpo no? XD dopo, come puoi vedere, hanno ben recuperato.. Nei
film polizieschi bendano certo, ma i vampiri sono più..bruschi?
XD Ahahaha la storia della famiglia.. e per l'argento, boooooooooooooh,
io sapevo che dava fastidio a tutte le creature "dannate", se non
è così nella tradizione pazienza, qui è
così.. XD
Sara,
ahahaha certo Miguel è un vecchio volpone XD per quel che
riguarda il tuo dubbio, moolto bene, ti poni le domande giuste u.u
Emily sì dai è pacioccosa, e Jacque, il vampiro serio
tutto d'un pezzo, però ha resistito poco.. XD povera Acilia!
Aspetto i tuoi commenti sulla "simpatia" di Eike XD
Norine,
siiiii una nuova commentatrice, benvenuta *_* grazie mille per la
recensione! Sei la prima a cui piace molto Eike, credo, e mi fa davvero
piacere! Le tue interpretazioni sono molto interessanti, e mi aspetto
di sentirne altre! ;)
Nene, non sei ripetitiva, fa sempre piacere sentirselo dire XD Povera Acilia, sì, mette una gran tristezza T_T
Alla prossima ragazze :D
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Doppio ***
Capitolo 10
CAPITOLO X
DOPPIO
Erano passati dieci anni dalla morte di
Lolita.
In città se n’era parlato per un sacco di
tempo, a volte se ne parlava ancora.
Agnese aveva perso la testa, aveva provato
a salvarla gettandosi nelle fiamme e Miguel aveva avuto la lucidità di tirarla
via. Sapeva che Lolita avrebbe sofferto ancora di più nel vedere morire anche
la sorella.
Ma Agnese aveva le mani e una parte della
faccia bruciate, e la sua pelle non era mai tornata come prima. Quelle ferite,
quelle cicatrici, le bruciavano e le ricordavano tutto il dolore che aveva
provato, e il dolore l’aveva fatta impazzire. Vagava per la città di giorno e
di notte, con sempre gli stessi abiti, sempre più maleodoranti. Di giorno si
limitava a dare noia alle persone che le passavano affianco, quando arrivava la
notte invece urlava. Urlava che la notte apparteneva alle creature oscure,
creature dai denti lunghi, che facevano magie per incantare le persone. Aveva
paura della notte. Era passato appena un anno dalla morte di Lolita quando
Agnese, ritenuta pazza e pericolosa per le altre persone, venne impiccata.
Miguel aveva provato a salvarla, le diceva di stare in casa, che i tempi
stavano diventando strani e difficili. Sembrava che dopo la peste il peggio
fosse passato, e invece doveva ancora arrivare.
Dopo la morte di Lolita, Miguel faceva
fatica a guardare Acilia negli occhi. Si parlavano a malapena, non si erano
toccati per molto tempo. Il malessere che provava era forte, ma la
preoccupazione che nutriva nei confronti di Agnese l’aveva tenuto ancora in
vita, ancorato alla realtà. Da quando cessò di esserci anche quella, non fu più
lo stesso e Acilia sapeva che non lo sarebbe più stato. Aveva chiesto a Neva se
poteva occuparsi di lui durante il giorno, bastava dargli da mangiare, se no si
sarebbe lasciato morire di fame. La sera arrivava sempre subito, puntuale, e lo
trovava in casa, con uno sguardo assorto e spaventoso. Lei provava ad
accarezzarlo, abbracciarlo ma si sentiva sempre respingere.
Dopo degli anni che le cose andavano in
quel modo, lei aveva cominciato a gridargli addosso di reagire. Allora lui
aveva alzato lo sguardo verso di lei e l’aveva per la prima volta dopo tanti
anni guardata dritto negli occhi. E poi aveva bisbigliato quella frase, quella
frase che l’aveva uccisa e che la uccideva ogni volta che la ricordava. Se
avesse detto qualunque altra cosa, se l’avesse anche urlata, ci sarebbe stato
ancora qualcosa da fare. Ma quel sibilo che ancora le risuonava nelle orecchie
aveva distrutto ogni cosa.
È
colpa tua.
Acilia si era buttata per terra e aveva pianto
quello che non poteva piangere.
Ma andava a trovarlo ogni sera, e lui non
la cacciava mai di casa. Si limitava a mangiare il cibo che lei gli portava, e
poi andava a letto. Una volta assicuratasi che lui dormisse, lei gli si sedeva
affianco e gli accarezzava i capelli. Per giorni non aveva bevuto neanche una
goccia di sangue, e lei si sentiva molto debole. Ma non voleva cacciare, voleva
stare lì, sempre con lui. Aspettava che lui la guardasse, aspettava che le
parlasse, aspettava un perdono, che non sarebbe mai arrivato.
Dopo un po’ aveva capito che non poteva
andare avanti così. Se non avesse bevuto sangue, avrebbe finito coll’uccidere
Miguel. Prendeva del sangue da qualche povero sfortunato e poi andava da lui,
sempre.
Quella notte aprì la porta e lo trovò
disteso sul suo letto. Quella casa, che neanche più era la sua. Erano Neva e
Diego che pagavano l’affitto all’abbazia. Credevano che lui abitasse da solo e
non avesse più nessuno. Acilia non si faceva più vedere, non poteva, non con
quell’aspetto così giovane e immutato ma la sera e la notte spiava quella che
un tempo era stata anche la sua città. La città di Miguel, distrutta dalla
follia di Nemesio.
Diego si era sposato da due anni, e aveva
avuto una bambina. Amava sua moglie ma Acilia gli vedeva ancora il riflesso del
sorriso di Lolita negli occhi.
Rodas invece si era ucciso, un mese dopo la
condanna di Lolita. Non si era presentato al processo né alla condanna,
probabilmente schiacciato dal senso di colpa, quel senso di colpa che dopo poco
non gli aveva più permesso di vivere, e l’aveva portato alla morte. Eva era
distesa a letto da qualche anno. Progressivamente le gambe le avevano smesso di
funzionare e Acilia non poteva fare a meno di pensare che una sorta di
giustizia divina allora c’era.
Si avvicinò al letto di Miguel, come
sempre, e lo guardò. Lanciò un’esclamazione per la sorpresa quando gli vide gli
occhi aperti e spenti. Credeva dormisse.
Miguel la sentì e si girò a guardarla.
Aveva il volto stanco, piegato nelle piccole rughe dei suoi quarant’anni, gli
occhi da dorati erano diventati marroni, poi sempre più scuri, cupi, la pupilla
dilatata dall’oscurità della casa. Acilia non leggeva più amore nel suo sguardo
da molto tempo, ma quella sera, non gli vedeva neanche più l’accusa sul volto.
Trattenne il respiro, vedendo che le sue labbra si muovevano, pronte a parlare.
“Perché vieni qui ogni notte?” chiese, con
voce quasi innaturale.
Quella
non è la sua voce.
“Per stare con te” rispose subito Acilia,
chinandosi su di lui “Io non ti abbandono, io ti amo, ti amo ancora”. Subito
dopo si domandò se non avesse osato troppo, ma le parole l’avevano vinta.
Voleva assicurarsi che lui lo sapesse, che lui sapesse quanto amore lei aveva
per lui.
Ma Miguel non aveva uno sguardo arrabbiato,
sembrava solo perplesso
“Ma chi sei?”.
Acilia aprì la bocca, stordita, senza
sapere cosa rispondere. “Sono… sono Acilia! Miguel, sono sempre io! È da quasi
vent’anni che stiamo insieme…”.
“Io non sto insieme a nessuno, io non ti
conosco”.
Gli occhi confusi di Miguel la penetravano
come degli spilli e le sembrò di annegare in un mare di sangue, il suo stesso
sangue.
Si sedette per terra, lentamente,
sentendosi pietrificare.
“Non ti ricordi di me?”.
Com’è
possibile?!
Lui non rispose e lei andò avanti,
avvertendo il panico nella sua stessa voce.
“Di Lolita ti ricordi? Di Agnese?”.
Miguel fece una smorfia di dolore e
distolse lo sguardo.
“Mi fa male la testa…”.
Lei provò a sfiorarlo ma lui le cacciò via
la mano con un gesto infastidito. Si voltò dall’altra parte e Acilia rimase ai
piedi del suo letto, respirava affannosa, pervasa dalla paura e dalla
sofferenza, come se avesse corso per migliaia di chilometri, negli anni
dell’orrore.
*
“Se la Dixon è riuscita a fare il patto del
sangue, vuol dire che alla Rappresentanza la situazione è ancora sotto
controllo” disse Acilia, con noncuranza.
Dubris fece una faccia poco convinta.
“Siamo ancora la maggioranza, certo, ma
siamo diminuiti”.
Lei non rispose e lui sembrò alterarsi.
“Senti, io c’ero. Gente che faceva parte del PPC ha votato per la
trasformazione della ragazza!”.
“E tu cos’avresti votato, scusa?”. Acilia
evitava di guardarlo negli occhi. Stava cercando in tutti i modi di mostrarsi
sicura, non ne voleva sapere di cadere nella sua trappola.
“È diverso. Io, noi, sapevamo che tra Jacque ed Emily l’unica tipo di rapporto
esistente è il capriccio di Jacque di tenerla in vita”.
Acilia non poté fare a meno di lanciargli
un’occhiata seccata.
L’altro la ignorò. “E comunque non è vero,
alla fine non volevo che qualcosa andasse storto” disse.
Già,
quella ero io.
“Sta di fatto che…” stava continuando
Dubris.
“È successo qualcosa a Ramona? È passata
dall’altra parte?” lo interruppe Acilia.
“No” rispose subito Dubris, con un cenno di
fierezza “Non dubito certo di lei, sono altri che mi preoccupano”.
La ragazza non demorse. “Finché il capo
rimane Lyuben…”.
“È proprio lui che è preoccupato!”.
“Hai parlato con lui?”.
“Sì”.
Acilia fece una faccia falsamente sorpresa.
“Wow, hai avuto una conversazione privata col Presidente!”.
“Sai benissimo che siamo… Una volta eravamo una squadra noi tre!”
esclamò Dubris, con enfasi “Quattro, con Ramona”.
“Sì ma ora loro sono nella Rappresentanza,
e tu sei solo un prefetto”.
“Lo sai che l’ho scelto io questo
incarico!”. Dubris era esterrefatto, e vagamente risentito. “Ma che ti prende?
Perché ti comporti così?”.
“Non voglio tornare a far parte della
Rappresentanza, Dubris!” scattò Acilia.
L’altro sospirò. “Dammi solo un motivo”.
Lei non rispose e lui andò avanti. “Kaeso è
pericoloso, attrae la gente dalla sua
parte quasi solo con lo sguardo”.
“E io che cosa ci potrei fare?”.
“Vedendo te… Te, che ci credi ancora, te, che ritorni… Smuoveresti qualcosa
in tutti loro”.
Acilia si limitò a mordicchiarsi le labbra.
Sapeva che Dubris aveva ragione, aveva ragione su tutto, ma… Quando aveva preso la decisione di abbandonare la
politica non aveva escluso l’idea di tornarci, un giorno. Ma ora come ora, non
era più possibile. La sua scatola di ricordi chiusa a chiave stava scalpitando,
ciò che c’era dentro voleva uscire, prepotentemente, ma lei non l’avrebbe mai
permesso.
Poggiò le braccia sul tavolo, senza dire
niente per un po’. Dubris stava in silenzio, probabilmente acceso di speranza.
Sulla soglia della cucina uno spostamento
d’aria segnalò la presenza di Eike, che annunciò che andava a cacciare.
Acilia annuì distrattamente poi si voltò a
guardarlo. “Jacque non viene con te?”.
Eike sembrò nascondere un sorrisetto. “No”.
“E dov’è?”. L’aveva chiesto d’istinto.
“Oh” rispose l’altro “non vedevo l’ora che
me lo chiedessi. È dalla sua nuova ragazza”. Tutto pimpante, si precipitò fuori
ed Acilia non sentì altro che la porta di casa che veniva chiusa.
Lei si voltò di nuovo verso Dubris,
sentendo nella sua testa un’ombra scura che si impossessava dei suoi pensieri.
Jacque aveva una ragazza? Era Emily?
“Ho una definizione per quelli come lui”
stava dicendo Dubris, guardando la soglia dalla quale era appena scomparso Eike
“Vampiri evergreen, per sempre molto
giovani, per sempre rompipalle”.
Ma Acilia non lo stava ascoltando. Era di
nuovo sprofondata nella sua scatola di ricordi, cercando il coraggio di fare
quello che avrebbe dovuto fare.
“Non è sempre stato così, Eike”.
“In che senso?”.
Jacque cercò le parole giuste. Era seduto
su un panchina, quasi in penombra, alla luce di un solo lampione che emanava
una luce traballante, al fianco di Emily.
“Subito dopo che è diventato un vampiro,
lui era… euforico”.
Emily spalancò gli occhi, sgomenta.
“Non è così strano” continuò Jacque “Prova
a pensarci, sei un bambino di dodici anni, che vive in tempi orribili. La gente
muore per strada, e tu diventi improvvisamente la cosa, apparentemente, più
forte del mondo”.
“Beh” fece la ragazza “un po’ di euforia
gli è rimasta”.
Jacque scosse la testa con un mezzo
sorriso. “Il sangue gli piaceva molto. Io e Acilia ci abbiamo messo un po’ a
insegnargli a controllarsi. Mi ricordo bene com’ero, quando sono stato
trasformato. Avevo una voglia di sangue insaziabile, non capivo neanche il
perché, ero… mi sentivo… folle. Per Eike era ancora peggio”.
Emily ascoltava, sembrava vagamente
ipnotizzata dalle parole di Jacque.
Lui andò avanti: “Dopo pochi anni però ha
cominciato a rendersi conto di quello che faceva. Ha cominciato a capire cosa
era diventato veramente, contava i suoi compleanni, uno ad uno, cercando un
qualsiasi, anche piccolo, cambiamento nel suo corpo”.
Io
non cresco più, vero Jacque?
Jacque socchiuse gli occhi, chiudendo fuori
i sensi di colpa. “Lui disprezza la sua natura più di tutti noi. È diventato
così triste, e così arrabbiato…”.
“Con te?”.
“Purtroppo no. Se si arrabbiasse con me,
forse mi sentirei meglio”.
Emily gli toccò un braccio. “Ma non è colpa
tua! Tu gli hai salvato la vita! So che pensi di averlo dannato eccetera… però,
insomma… Hai agito a fin di bene no?”.
Lui la guardò e vide qualcosa zampillare
nei suoi occhi.
Gli piacevano tanto quegli occhi…
Annuì. Poi continuò a parlare: “Ora è come
se… si fosse creato una maschera, punzecchiante e ironica. È il suo modo di
reagire, credo, il modo di reagire di un bambino dopotutto”.
“Ma lui non è più un bambino”.
Jacque ripensò a quello che aveva detto
Boyan.
Non
invecchiate esternamente ma internamente sì, credete che sia così, dico bene?
Forse… forse aveva ragione lui.
“È bloccato” disse, pensando fosse la
definizione più indicata “Bloccato, come tutti noi”.
Emily stava riflettendo.
“Tu dici che nonostante i suoi modi bruschi
e provocatori lui è triste?”.
“Ne sono sicuro”. Ma non aveva mai capito
come poterlo aiutare.
“Di solito” cominciò la ragazza,
lentamente, come se riflettesse prima di dire ogni parola “Ci si sdoppia quando si rifiuta qualcosa, si
cerca di dimenticarla o nasconderla. E ti crei un’altra personalità”.
Jacque la guardò confuso.
Lei proseguì: “Eike vuole dimenticare che avrebbe potuto essere un uomo adulto.
Vive come se lo fosse”.
“E l’ha… dimenticato che non lo è, un uomo
adulto?”.
“In una delle due personalità, sì”.
Jacque aggrottò la fronte. Non era molto
convinto. “Ma così sembra una patologia”.
“Oh no, non parlo di patologie” disse
subito Emily “È una cosa molto comune in realtà, diventa patologia quando non
dimentichi, ma rimuovi completamente”.
Lui annuì, anche se non era del tutto certo
di aver capito.
“Forse anche tu vuoi dimenticare quello che
ti ha fatto Acilia” aggiunse sotto voce la ragazza.
“Come?”.
Forse Jacque, se non fosse stato tanto
legato ad Acilia, avrebbe compreso appieno quello che Emily gli stava
spiegando.
Emily parve risentita e lui pensò di aver
mutato l’espressione sul suo viso.
Lei tentò un’altra strada: “Abbiamo parlato
tanto di Eike, parlami di te… Della tua trasformazione”.
Parlare della sua trasformazione avrebbe
voluto dire parlare di Acilia e Jacque non ne aveva voglia.
“Parliamo sempre di me” disse “perché non
mi dici qualcosa di te? Non so molto, a parte che sei una giornalista avventata
e una psicologa in erba”.
Emily si mise a ridere.
“Non c’è molto da sapere… Tu hai roba da
dire molto più interessante!”.
Jacque sbuffò. “Guarda che per me sapere
della vita umana del ventunesimo secolo è interessante quanto per te sapere
della vita di un vampiro”. L’ultima parte della frase la bisbigliò, anche se
intorno a loro non c’era nessuno.
“Beh, se la metti su questo piano” fece la
ragazza, con un sospiro “Che ti posso dire? Lavoro in una rivista che è
considerata per matti, e quel che è peggio che i miei colleghi che ci
lavoravano considerano me un po’
matta… Ho un fratello di diciotto anni che si chiama Michael… Faccio palestra…
Ho pochi amici… Con una sono piuttosto legata, è mia amica dalle superiori, si
chiama Ly…”. S’interruppe, e Jacque notò che era diventata rossa. “Cavolo, ti
starò annoiando a morte!” esclamò, come se si fosse appena resa conto di quello
che stava dicendo.
“No” disse Jacque, sincero “No, dico sul
serio”.
Emily si guardò intorno a disagio. Poi
fissò il suo sguardo su di lui. “Tu non hai mai paura? Non hai paura di stare
qui, in giro? Non hai paura che qualcuno capisca cosa sei o di incontrare un
cacciatore?”.
“Se incontro un cacciatore, non dovrei
essere io ad avere paura” rispose lui.
Lei lo guardò stranita e lui sorrise. “Non
crederai mica che mi faccia scrupoli ad uccidere qualcuno che mi vuole morto?”
chiese. Aveva paura che Emily lo idealizzasse un po’ troppo.
Ma lei scosse energicamente la testa. “No,
certo che no… È che…”.
Jacque la interruppe, avvicinandosi un
poco. “E tu non ce l’hai paura? Se ti scoprissero qui con un vampiro, finiresti
in prigione”.
Emily abbassò lo sguardo. Sembrava nervosa.
“Io… Jacque, tu mi piaci. Non credo sia solo il gusto per la novità, io…”.
Jacque avvertì un’improvvisa esplosione
dentro di sé. “Cosa vorresti iniziare?” la interruppe, rude. Sentiva una strana
rabbia, era un discorso che voleva evitare, per codardia forse. “Che tipo di
rapporto vorresti iniziare? Non possiamo andare in giro sotto il sole, non
possiamo andare a mangiare fuori insieme! Vuoi scopare e basta?”.
Si accorse di essere stato troppo duro
quando vide gli occhi di lei abbassarsi ancora di più e una lacrima sfuggirle.
“No” mugolò la sua voce “Io… voglio solo…
abbracciarti”.
Alzò lo sguardo e Jacque vide altre lacrime
percorrerle il viso. Sentendo qualcosa di molto freddo dentro di lui che si era
cristallizzato da chissà quanto tempo sciogliersi, si avvicinò cauto e
l’abbracciò.
Lei gli si strinse addosso e scoppiò a
piangere.
“Vorresti davvero rinunciare ad avere un
ragazzo normale con cui puoi avere un futuro per stare nel buio insieme a me?”
le domandò lui all’orecchio, senza riuscire a togliere quel tono amaramente
brusco dalla voce. Lei non rispondeva e lui la prese per le spalle, guardandola
in faccia. “Guarda che tu di vita ne hai una sola”.
Emily aveva gli occhi arrossati ma uno
sguardo lievemente deciso . “La mia vita è lunga, Jacque, anche se sono
un’umana, e del futuro non possiamo sapere niente” disse, cercando di
mascherare i singhiozzi “Non possiamo limitarci a vivere il presente e basta?”.
Qualunque rapporto avessero deciso di
cominciare, sarebbe potuto durare poco, Jacque lo sapeva. E se lui aveva voglia
di baciarla lo poteva fare finché non sarebbe tutto finito, perché tanto, in un
modo nell’altro, doveva finire. L’aveva tra le braccia e sentiva il calore del
suo sangue che lo toccava. Gli sembrava di tornare umano, e anche se sarebbe
stato per una piccola fetta della sua lunga vita…
Le accarezzò il viso, e capì dai suoi occhi
che non c’era più bisogno di una risposta.
*
Da mesi Miguel non la riconosceva e Acilia
si stava lentamente lasciando andare alla disperazione. Non capiva come fosse
possibile, avere la mente e i ricordi offuscati. Sapeva che se qualcuno della
città l’avesse scoperto, avrebbe detto che era posseduto dal demonio, forse
l’avrebbe fatto uccidere. Ma lei sapeva che erano tutte fandonie, non credeva
in Dio e tutto quello che diceva Nemesio era puro delirio. La verità era che
era colpa sua. Con la morte di Lolita era successo qualcosa, qualcosa di
terribile, dentro la testa di Miguel.
Hai
insegnato il latino a Lolita.
Le aveva fatto intuire cos’era successo al
processo, ma non la guardava in faccia. E ora non sapeva neanche più chi fosse.
Tutto era progressivamente peggiorato e Acilia lo sapeva, lo sapeva che Miguel
le dava la colpa anche per quello che era successo ad Agnese.
Mostri!
Orrende creature delle notte coi denti lunghi come animali!
A volte si chiedeva perché non la faceva
finita. Aveva ucciso due ragazze giovani e innocenti, a cui era affezionata, e
aveva distrutto la vita di un uomo meraviglioso. Cos’aveva fatto di male
Miguel, povera creatura, per dover sopportare tutto questo? Perché l’aveva
incontrata? Perché?!
Cos’ha
fatto di male Damiano per morire così?
Nel bosco appena sveglia, a volte, si
metteva ad urlare, perché non voleva più svegliarsi, eppure si svegliava
sempre, sempre…
Non
mi puoi impedire di starmene qui ad aspettare il sole!
Marco non c’era più, non le poteva impedire
di bruciare, di farla finita una volta per tutte. E allora perché non lo
faceva?!
Miguel…
Non riusciva, non riusciva a dirgli addio.
Forse avrebbe aspettato che morisse, per poi morire anche lei, con lui.
Aprì la porta, con una ciotola piena di
carne tagliata a pezzi, senza alcuna speranza. Trovò Miguel seduto al tavolo,
che subito si voltò a guardarla.
“Aci, ci hai messo tanto oggi”.
Acilia poggiò la ciotola sul tavolo e si
sedette accanto a lui, con un mesto sorriso. A volte lui ricordava il suo nome,
e lei non poteva che provare un minuscolo pizzico di gioia ogni volta.
Lui cominciò a mangiare lentamente, poi
poggiò il cucchiaio sul tavolo.
“Sono sopravvissute alla peste” disse ad un
tratto, amaramente “Sono sopravvissute per cosa…”.
Acilia sbarrò gli occhi. “Cosa? Cosa hai
detto?”.
“Sai” continuò lui, contraendo il volto in
una smorfia per non piangere “Nonostante quello che ci hai fatto… Io… Penso di
amarti ancora”.
Acilia dovette controllarsi per non cadere
dal tavolo. Non poteva… Non poteva essere, mesi passati a sperare! Lui
ricordava! E non solo… Le parlava… Le aveva detto…
Subito gli prese le mani. “Mi dispiace,
Miguel!” esclamò “Io volevo un gran bene a Lolita… E anche ad Agnese… Non
sapevo che…”. Anni passati a pensare a come giustificarsi e ancora non aveva
trovato le parole.
Lui la guardò con gli occhi di un tempo e
le sfiorò la guancia. “Tu sei sempre così bella… e giovane… Io invece sto
invecchiando”.
“Non mi interessa… Io sono qui, sono sempre
stata qui per te!”.
Acilia si sentì nascere un sorriso così
vero, così sincero sulle labbra, che non ricordava neanche più di saper fare.
“Lo so”.
Lui si avvicinò, quasi timoroso, e la baciò
delicatamente sulle labbra. Lei non ci credeva, lo abbracciò avida, dopo aver
passato dieci anni a sognare quel momento, a desiderarlo, ora era lì, e non era
cambiato quasi niente, le cose forse
si potevano aggiustare… Miguel le inclinò il viso e aprì le labbra, si
baciarono, come un tempo, Acilia di nuovo sentì quel calore che invase tutto il
gelo di quegli anni…
Poteva davvero? Poteva davvero esserci
qualcosa da salvare?
“Credevo te ne fossi andato per sempre…”
fiatò, contro la sua bocca, traboccante di emozione “Cosa… Cosa ti era
successo…”.
Miguel stava piangendo. “Non farmi andare
via, Aci, non farmi andare via…”.
“Sei tu che devi rimanere con me, Miguel,
d’accordo?” domandò lei asciugandogli il viso. Gli sorrise. “Rimarrai con me,
vero?”.
Ma lui sembrava non capire. Si allontanò da
lei, con gli occhi di nuovo avvolti nel buio.
“Cosa vuoi da me? Chi sei?”.
Acilia aprì la bocca, allibita.
No…
“Mi… mi prendi in giro?”.
Non era possibile! Solo due secondi fa lui
era lì, lì con lei! Dov’era ora… Dov’era…
Miguel si era alzato in piedi. “Ti ho
chiesto chi sei!”.
Anche Acilia si alzò, congiungendo le mani
con fare di supplica. Se era uno scherzo, non era divertente.
“Non puoi fare così! Che ti sta
succedendo?!”.
Lui la guardava spaventato. Le diede le
spalle e si distese sul letto, senza più dire una parola.
“Miguel…” lo chiamò lei, piano, sentendo la
sua voce andare in pezzi, come tutto dentro di lei “Miguel, ti prego…”. Si
accasciò a terra, con un gran vuoto in testa, non era possibile che solo un
minuto prima era felicissima, e ora di nuovo sprofondata nell’abisso. “Ti
prego… Ti avevo detto di rimanere con me… Ti avevo detto…”. Sentì la sua stessa
voce sfumare in un pigolio sempre più tenue, finché non ebbe più la forza
neanche per aprire la bocca, e gli occhi le facevano male, pieni di troppe
lacrime che si erano accumulate nei secoli, e mai versate.
*
Mancava ancora un po’ all’alba ma Jacque
rientrò in casa. Dopotutto Emily doveva dormire, era un’umana, lei dormiva di
notte, non di giorno. Ecco cos’erano loro, il giorno e la notte. Come possono
stare insieme il sole e la luna che non possono mai incontrarsi? Emily diceva
di vivere il presente e di non pensarci. Ma Jacque odiava l’idea di metterla in
pericolo. Del resto però, l’aveva già fatto. L’elicottero, Arcangelo, il
sangue, quel bacio, quella notte… Acilia gli rimproverava di fare l’eroe. Beh,
lui non si sentiva affatto un eroe, gli sembrava solo di soddisfare i suoi
egoistici desideri, continuamente.
In casa la trovò accoccolata sul divano,
con addosso quella felpa il doppio più grande di lei che indossava per dormire.
La guardò e lei si accorse del suo sguardo. Si mise seduta con l’aria di chi ha
qualcosa da dire e Jacque si sentì come un ragazzino che stava per essere
sgridato. Senza avere colpe, voleva comunque fuggire, e disse: “Sono stanco,
vado a…”.
Acilia si alzò e gli fu davanti in un
attimo, impedendogli di andare verso la botola.
Jacque si sentì braccato, e la situazione
non gli piaceva. “Questo cosa vorrebbe dire?”.
Lei lo ignorò. “Con Emily stai andando
oltre?”. Non sembrava arrabbiata, solo preoccupata.
Lui fece un passo di lato per sorpassarla.
“Non sono affari tuoi” disse con una smorfia.
Acilia lo prese per un braccio. “Sì che lo
sono! Io sono la tua…”.
“La mia cosa?!” esplose Jacque, guardandola
in faccia. “Che cosa sei tu per me?”.
Lei sembrò ferita. Sembrava cercare le
parole giuste da dirgli, ma non le trovò. Disse solo stupidaggini. “Lei è un’umana! Cosa credi di fare?”.
Le stesse stupidaggini che dopotutto anche
lui pensava, ma che non sopportava di sentirsi dire.
“Non accetto consigli di questo genere da
colei che ha fondato il PPC e poi l’ha mollato!” sbottò, arrabbiato. Emily era
un’umana, d’accordo, non c’era alcun futuro per loro, ma godersi il presente
non andava bene? Che male c’era? Lui poteva essere turbato, Emily poteva essere
turbata… Ma Acilia, cosa voleva
Acilia?!
La sua creatrice aprì la bocca, incredula.
“Lo sai perché l’ho fatto!” gridò.
“No che non lo so!”.
Acilia aveva la delusione scritta nel
volto, ma Jacque non se ne curò. Lei non gli parlava mai delle sue cose, faceva tutto di testa sua, e pretendeva che lui
la capisse?!
Ricordò il termine che aveva usato Eike. Cagnolino. Lui non era il cagnolino di
nessuno, né tantomeno di Acilia.
“Che cosa pretendi?” proruppe, allargando
le braccia “Che cosa pretendi, Aci? Che io ti venga dietro in eterno?!”.
Lei spalancò gli occhi verdi, quegli occhi
che l’avevano fatto innamorare, ma erano occhi freddi, privi di emozione, occhi
che non avevano sofferto, mai, per lui…
“Tu… Cosa…”.
“Sì, Aci, sì! Mi piaci ancora, e non
fingere di non saperlo!” urlò lui, dando sfogo ai pensieri che si erano
accavallati gli uni sugli altri negli anni, in un enorme caos, un mare
tempestoso da cui non riusciva più a riemergere. “Ma è il sangue! Ho il tuo
sangue dentro, ho il tuo nome scritto dentro di me, e non sai cosa darei per
potermelo togliere, per poterti togliere dalla mia testa!”.
Acilia non sembrava in grado di parlare e
lui andò avanti, sentendosi cattivo, con le parole che incespicavano
violentemente le une sulle altre: “Ma ora c’è Emily! Tu mi hai tolto la vita,
mi hai tolto l’amore… Non mi toglierai anche lei!”.
Ecco, l’aveva distrutta. Sapeva benissimo
che dire una cosa del genere al proprio creatore aveva effetti devastanti. Se
Eike l’avesse detto a lui…
Tu mi
hai tolto la vita.
Ma era arrabbiato, furioso, non controllava
più il flusso dei pensieri, delle parole. Sentiva i canini che gli pungevano il
labbro inferiore, mentre lei aveva il volto cereo di chi viene preso a
schiaffi, inerme, davanti a lui, pieno di odio e di collera. Poi vide qualcosa
muoversi nei suoi occhi, ma non potevano essere lacrime, né potevano essere
altro. E lei se ne andò correndo verso la botola. Jacque rimase fermo e
impassibile per qualche minuto mentre rifletteva su quello che aveva detto.
Sentì i denti che si ritiravano, tornando alla loro dimensione usuale, mentre
la rabbia a poco a poco se ne andava. Ripensò a quello che Emily aveva detto su
Eike, che cercava di dimenticare che era un solo ragazzino, e frantumava così
in due esistenze la sua persona.
Forse
anche tu vuoi dimenticare quello che ti ha fatto Acilia.
Quello che voleva dimenticare forse era il
suo cuore morto che batteva per lei. E ora voleva vivere una seconda realtà,
affianco ad Emily, e dimenticare Acilia, rimuoverla.
Non
sai cosa darei per potermelo togliere, per poterti togliere dalla mia testa!
E allora chissà, chissà quanto gli piaceva
Emily.
Ma gli bastò pensare un momento ai suoi
occhi e la rabbia, quella poca che era rimasto, svanì in uno sbuffo.
Forse era già entrato nella sua seconda
realtà.
Spagna,
1394
In più di vent’anni, Miguel aveva mostrato
di ricordarsi di Acilia e, in generale, della sua vita solo altre tre volte.
Sembrava, inspiegabilmente, vivere una doppia vita, ma quella autentica, quella
tormentata dai ricordi, era così tenue da non concedere ad Acilia neanche un
filo di speranza, ma così incredibile da non concederle neanche di abbandonarlo
per sempre. Lui era vecchio, aveva sessant’anni, e le sue condizioni di salute
non erano un granché. Acilia lo accudiva e lui le era riconoscente. Le chiedeva
sempre chi fosse, perché lo facesse, era gentile. Ma non era abbastanza…
Quella sera, quando Acilia entrò, trovò la
casa silenziosa.
“Miguel” chiamò, cercando di tenere un tono
di voce allegro “Come stai oggi?”.
Non ottenne risposta e si diresse a passo
sicuro verso il letto. Miguel sembrava serenamente addormentato, sotto le
stoffe, e lei fece un piccolo sorriso. Era questo che intendevano quando
parlavano di amore eterno, quando nonostante gli anni, le rughe e i capelli
bianchi, senti di voler sempre, incondizionatamente, un gran bene alla persona
che hai di fronte.
Gli sfiorò la mano e subito la ritrasse con
un basso grido. Era fredda, come la sua.
“Miguel” chiamò “Miguel!”. Lo scosse ma lui
non apriva gli occhi.
Lo
sapevi che sarebbe successo.
“Miguel…”. Aveva
ogni ricordo davanti agli occhi, le risate, i baci e poi la fiamma che aveva
incendiato e distrutto ogni cosa togliendogli la vitalità dorata che aveva
negli occhi, e che ora non avrebbe più riaperto.
Non potevi vivere la vita di un’umana…
Era stata punita
per aver osato troppo. Era entrata nella vita di un uomo e l’aveva distrutta.
Per punizione lui ora era morto, senza il minimo ricordo di quello che aveva
passato con lei.
Si mise in
ginocchio di fianco al letto, tenendogli stretta la mano, che mai come in quel
momento era stata così uguale alla sua.
“Ora sei libero…”
gemette, tra i singulti “Sei libero da me… dalla crudeltà di questo mondo…
dalle tue sofferenze…”.
Lo guardò in faccia
con un mezzo sorriso, credendo che davvero lui potesse sentirla. “Ora potrai
rivedere i tuoi genitori, e Lolita, e Agnese… E Neva, Ines, Leandro, Manuel,
Javiero…”. La lista di persone che lei aveva seppellito sembrava infinita. “Ti
ricongiungerai alla tua famiglia... È bello sai… Io non l’ho mai potuto fare,
tutti i miei cari sono morti da così tanto tempo, ma io… Io no…”. Per un
momento lo invidiò. Lo invidiò perché i suoi tormenti erano finiti, mentre
quelli di lei non facevano altro che andarsene e tornare, e si ammassavano gli
uni sugli altri, continuamente, fino a che la sua testa non sarebbe esplosa…
Ora per che cosa
sarebbe andata avanti? Per che cosa al calar del sole ogni sera si sarebbe
alzata? Era davvero giunto il momento di andarsene. Aveva aspettato tanto.
Aveva aspettato che Miguel la perdonasse, e quello, in qualche modo, era
avvenuto, perché in un angolo recondito del suo essere, soppresso e lasciato
andare, lui l’aveva fatto. Aveva
aspettato che tornasse quello di un tempo, ma era un’attesa vana. Aveva
aspettato che non avesse più bisogno di lei, ed eccolo lì, dolcemente
addormentato nel sonno di morte così simile a quello quotidiano di Acilia.
Avrebbe passato la
notte accanto a lui, perché non lo voleva lasciare solo. Poi, la mattina,
avrebbe varcato la soglia con gioia, e sarebbe diventata cenere, proprio
davanti al luogo in cui aveva conosciuto, forse per la prima volta, la
felicità.
Sentì bussare alla
porta e si spaventò.
No, non stasera, non fatemi andare via stasera…
Era già successo
che qualcuno – Neva, quando era ancora in vita, o Diego – entrasse in casa e
lei era costretta a fuggire dalla finestra per non farsi vedere.
“Miguel, aprimi!”
sentì chiamare dall’esterno “Ti ho portato da mangiare!”.
Acilia riconobbe la
voce femminile. Era la figlia di Diego.
Aveva pochi attimi
prima che la ragazza si decidesse ad aprire la porta.
Si voltò come una
furia verso il corpo inerme di Miguel. Non voleva dirgli addio così in fretta,
non voleva ancora, non era pronta a separarsi da lui!
Lo dovevi fare già anni fa, non ti ricordi?
Avrebbe dovuto
lasciarlo andare quando era il momento. Non solo aveva distrutto lui, ma ogni
giorno, un pezzo alla volta, in quella casa, aveva distrutto se stessa. A ogni
sguardo mancante, a ogni accusa, a ogni “Chi sei?” lei veniva annientata.
La porta si stava
per aprire e Acilia si lanciò sul volto di Miguel, per dargli un ultimo bacio.
Addio, amore, riposa in pace.
Poi si precipitò
fuori dalla finestra e riuscì a sentire distintamente la voce della figlia di
Diego che lo chiamava più volte, finché non la sentì scoppiare a piangere.
Corse subito via nell’oscurità degli alberi. Non sopportava di sentirla
piangere quando lei non l’aveva potuto fare per nessuno, non per Lolita, non
per Miguel, non per Damiano, non per Marco.
Avrebbe dovuto
aspettare il sole da qualche altra parte. Perché l’avrebbe fatto, avrebbe
davvero posto fine a quell’inutile e ridicola vita da parassita.
Come avrebbe potuto
andare avanti se no? Come aveva fatto Marco? Lo ricordava così triste… Per
quale motivo si era trascinato avanti nei secoli?
Poi, poi l’aveva
fatto, l’aveva fatto, lasciandola sola, abbandonandola…
Ora ho qualcuno da allevare, qualcuno che
cresca secondo i miei principi e che li diffonda.
Era per
quello che andava avanti nella sua vita da mostro. Voleva insegnare agli altri a essere meno mostri. Forse aveva trovato una
luce in quel modo, un barlume di speranza, un modo di vivere… Era quello che
aveva cercato di spiegarle, milletrecento anni prima.
Sentì
dei passi frettolosi, parecchi rami che venivano spezzati e una voce.
“Ferma!
Non da quella parte!”.
Finalmente
due figure presero forma davanti a lei. Erano due esseri come lei. Erano un
uomo e una donna. Lui aveva i capelli rossi e un giovane viso noto, lei
sembrava un poco più vecchia, bassa e scura di pelle, con le labbra carnose
sporche di sangue.
Ci sono troppi come noi che uccidono e
fanno cose orribili, io vorrei che capissero che non è necessario comportarsi
così.
La
donna, vedendola, si ritrasse spaventata, l’altro no.
“Tranquilla,
è come noi” disse. Si rivolse ad Acilia. “È ancora la tua zona questa?”.
Acilia
ci mise qualche attimo a capire di cosa quell’uomo stesse parlando. Poi
ricordò. Le era successo più di trent’anni prima, di incontrare uno come lei.
Quando ancora non sapeva cosa sarebbe successo…
“Sì”
rispose, con una voce bassa e impastata di dolore.
L’altro
fece un cenno alla donna con lui. “Sentito? Andiamo via”.
I due
stavano per andarsene ma Acilia li fermò, sentendo un’improvvisa illuminazione
correrle dentro al corpo. Doveva fare qualcosa, qualcosa per rendere la sua
vita utile… Tante persone erano morte
per mano di quelle creature dai denti lunghi di cui parlava Agnese e le parole
di Marco ancora le rimbombavano nella testa, come se le avesse appena sentite.
Potremmo vivere pacificamente con gli
umani.
“Ehi, aspetta…
Onorio” disse, sentendosi un po’ stupida.
Entrambi si
voltarono e lei prese coraggio. “Non ho nessuno con cui stare, posso unirmi a
voi?” domandò, con un tremito nella voce. Miguel era appena morto e lei… Lei
stava facendo la cosa giusta?
La donna rimase
impassibile ma l’uomo sorrise.
“Per cominciare ad
andare d’accordo, smettila di chiamarmi Onorio” disse, facendo scintillare il
bianco perfetto dei suoi denti “Il mio nome è Dubris”.
*
Giorno 70
Non si
tratta di un fidanzamento, non credo neppure che si tratti di uno stare
insieme. Lo chiamavo Vampiro, ora è Jacque ma questo non cambia la sua natura.
Più ci penso più non riesco a capire perché io sia così attratta da lui.
Pensavo fosse il sangue nuovo che ho nel corpo, ma come sarebbe possibile una
cosa del genere? Non posso dire a nessuno quello che mi sta capitando. Ai miei
genitori posso dire che esco con i miei amici ogni sera. Ma a Lydia cosa
racconterò? Già da tempo è preoccupata per me, mi sente strana, dice. Sa che
sono stata malata, ma ora sono guarita e mi vedo con un uomo… Come posso tenerle
nascosta una cosa del genere? Glielo potrei presentare come mio ragazzo. E poi,
poi… Lei vedrebbe i suoi occhi diventare rossi, proprio come ho fatto io, la
sera in cui l’ho conosciuto. No, nessuno potrà conoscere il mio segreto,
nessuno mai potrà conoscere Jacque… Non li voglio mettere in pericolo, là fuori
c’è un intero comitato di vampiri pronto a fare pezzi chiunque li scopra!
Nessuno ripeterà mai l’esperienza che ho fatto io, andare fino là, guardare in
quello specchio, sentire l’ago e il sangue di qualcosa che non è umano
scivolarti dentro… Sentirti morire e risorgere allo stesso tempo, con tutti gli
episodi più brutti della tua vita che ti scorrono davanti agli occhi, con
quella cosa che sembra provenire dallo stomaco e sembra divorarti, tutta, un
organo alla volta.
So
benissimo che sarebbe meglio per me dire addio a questa storia di vampiri. È
pericolosa, e inoltre con Jacque non ho alcun futuro. Sono una donna adulta, ho
ventisette anni, non ne ho più diciotto. Ho detto a Jacque di vivere il presente
ma in realtà io non potrei prendere le cose così alla leggera. Ha ragione mia
madre, aveva ragione Harve… La mia testa non cresce, rimango attaccata a
stupidi sogni, a una stupida realtà che non può esistere. Quanto può durare la
mia storia con un vampiro? Quanto ci metterà lui a voler bere il mio sangue?
Quanto ci metterò io a stufarmi di stare con un essere carino ma freddo, che
non può fare passeggiate sotto il sole? E allora mi dico poco. Può durare poco,
durerà poco, quindi, davvero, devo solo vivere il presente e basta. Mi preparo
a vivere una doppia vita, la mia e quella di una povera cretina che ha deciso
di andare a letto con un vampiro.
Ogni volta che si
era sentita abbandonata da un uomo, Acilia aveva reagito dando una svolta alla
sua esistenza. Si credeva forte, tutti la credevano forte, ma alla fine non
faceva altro che dipendere da qualcuno.
Quello che aveva
detto Jacque l’aveva colpita proprio al centro del petto. Non sai cosa darei per poterti togliere dalla mia testa.
Evidentemente lei
era talmente sbagliata da dover essere dimenticata, da tutti. Un uomo chiamato
Miguel, che l’aveva amata dal profondo, ci era riuscito. Non sopportava l’idea
che la causa delle sue disgrazie fosse la donna che amava, e allora la sua
mente, il suo superio o qualunque altra cosa fosse, l’aveva rimossa. Poi
qualcosa dentro di lui si era pentito, e la memoria aveva cercato di tornare a
galla, ma ormai era troppo tardi. All’epoca Acilia non aveva capito, non
riusciva a capire. Non credeva a quelle sciocchezze sulle streghe e sul
demonio, ma non sapeva neanche che esistesse una psiche, che si può ammalare,
proprio come qualunque altra parte del corpo.
Per Jacque non
aveva mai provato quello che aveva provato per Miguel, forse perché non era
umano, o forse perché lei ormai era già diventata troppo vecchia e stanca, per
poter amare. L’unica cosa che voleva era che Jacque non soffrisse tutto quello
che aveva sofferto lei, ma doveva lasciar perdere. Non sopportava l’idea che
fosse per lui che ora lei avesse preso quell’importante decisione, proprio come
l’altra volta. Allora Jacque per lei significava tanto, e non era lui che
eliminava lei dalla sua mente, era lei, lei che lo faceva di continuo…
“Sei pronta?” le
chiese Dubris in un soffio.
Acilia annuì,
stringendosi nella sua elegante giacchetta nera. Qualunque turbamento, o
tormento, che avrebbe voluto dimenticare e lasciare per sempre nella sua
scatola chiusa di ricordi, avesse rievocato la
cosa che c’era al di là di quella porta, Acilia sarebbe stata più forte di
lei. Avrebbe dominato ogni emozione e sensazione.
La porta rosso
sangue si aprì e lei entrò, in un rumore di tacchi. Vide quelle file di panche
vuote che le davano l’illusione che in realtà fosse tutto a posto e tutto
dimenticato.
Insieme a Dubris diede
le spalle allo specchio e si voltò verso la Rappresentanza. Parecchi mormorii
eccitati l’accolsero e la maggior parte dei vampiri si alzò in piedi per andare
a stringerle la mano, manco fosse una celebrità.
Il primo fu Lyuben,
che le sorrise con una commozione viva negli occhi, che nessun altro vampiro
avrebbe potuto avere. Poi fu il turno di altre vecchie conoscenze, tra cui
Ramona, che, non volendo limitarsi a una stretta di mano, le appioppò un grosso
bacio sulla guancia. Dopo ci furono solo sorrisi di circostanza e dei cortesi
“bentornata” finché non arrivò, per ultimo, un giovane dai lineamenti perfetti,
con un filo di barba scura che non si addiceva a un vampiro e i capelli scuri.
Dubris le diede
un’improvvisa, goffa, gomitata e lei capì cosa significava. Quello che aveva
davanti era Kaeso, il segretario del Partito Oscuro, l’uomo che Lyuben e Dubris
tanto temevano. Aveva qualcosa di magnetico nei suoi occhi blu e se Acilia non
l’avesse saputo che era così cattivo,
quasi non ci avrebbe creduto.
Con un sorriso
educato e perfetto, Kaeso le tese la mano e lei gliela strinse, ignorando il
sangue che le si stava letteralmente raggelando.
Qualcosa scalpitava
dentro di lei ma Acilia era ben decisa a tenersi lontana da ogni crudele
reminiscenza. Tenne il volto impassibile mentre lui si avvicinava e le
sussurrava qualcosa all’orecchio, con voce lenta e suadente.
“Sarà divertente
lavorare insieme, Aci”.
Con
la morte di Miguel e l'entrata in scena di Kaeso, si potrebbe dire che
è conclusa la prima parte del libro. Con la seconda parte si
entrerà un po' più nel vivo :D
(ebbene
sì, sono a metà del percorso, ciò vuol dire che
mancano ALMENO altri dieci capitoli, mi spiace per voi XD)
In merito alla questione storica: Norine,
mi conforta sapere che anche prima del classico "periodo delle streghe"
c'è comunque questa ricerca del maligno e c'è stato
qualche processo :) Poi vedere questa affermazione contornata di
paroloni mi rassicura ancora di più, si vede proprio che
ne sai a pacchi :DD.
Nene,
il processo che mi hai descritto è tipico del periodo che
appunto mi hai indicato. So delle torture ma ho letto che nel Medioevo
non venivano ancora applicate.. E' tutto un po' un casino,
cercherò di documentarmi :S ma alla fine l'importante è
che tutta la cosa sia vagamente verosimile.. :S
Comunque, grazie ad entrambe per la recensione :) E grazie a Norine per
i complimenti, sì ho le idee abbastanza chiare, tutta la
storia è schematizzata su un quaderno (che ho perso -.- devo
mettermi a cercarlo) ed Eike.. mi fa piacere che venga fuori
divertente, è proprio nel mio intento XD
Sara,
bella recensione come al solito :D sì Acilia è un po'
sfigata, e l'epoca del Medioevo certo non ha aiutato.. XD ahahah Lolita
rosso malpelo e le reminiscenze plautine! La scena con Claire se
è grottesca allora ha raggiunto il suo scopo ;) due uomini che
discutono di cose normali come fossero al bar con una sotto
che..proprio così XD Emily e Jacque in azione sì, ma
veramente.. se faccio apparire un Freud vampiro che diagnostica il
complesso di Edipo a Jacque?? Ehhh mannaggia a "mamma Aci", ma il padre
che Jacque vuole uccidere chi è? Onorio/Dubris? XDXD Lino Banfi
invece non è un vampiro ma viaggia nel tempo all'indietro ahahah
XD
Redtears, sei in ritardo u.u
Al prossimo capitolo! :DD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Regina ***
Undicesimo capitolo
CAPITOLO XI
REGINA
“Avanti, prendi, finiscilo”.
Acilia afferrò per le braccia
l’uomo urlante e sanguinante che Dubris le aveva lanciato.
Aveva dei buchi sul collo, gli
occhi pieni di lacrime e le labbra che si muovevano agonizzate, chiedendo
pietà. Il sangue colava giù per il collo, la gola, imbrattando la tunica sporca
e Acilia sentì l’odore fortissimo, come una prima volta. Leccò, avida, poi
succhiò e, sentendo il sangue in bocca, che scivolava morbido sulla lingua,
sentiva le urla dell’umano aumentare, così come aumentava il suo battito
cardiaco. Velocissimo, paura, angoscia, cosa c’è nell’al di là? Si chiede il
cuore spaventato, e batte, batte forte. Non c’è niente, c’è la morte… Si
rassegna, batte piano, sempre più fioco…
Eccolo il punto.
Acilia si staccò e l’uomo ne
approfittò per metterle una mano in faccia. Urlava, scalpitava, tentava la
fuga. Acilia scacciò infastidita quella mano e lo tenne ben fermo.
“Che stai facendo?” chiese Dubris,
allarmato “Non si gioca col cibo”.
“Non sto giocando” ribatté Acilia.
Voleva insegnare a Dubris e alla sua creata, Ramona, la pietà ma doveva essere
cauta. Non voleva discutere, litigare, lottare. Non voleva rischiare di doverli
uccidere.
“Sono sazia” disse “Potrei
lasciarlo andare”.
“Cosa?” fece Ramona.
“Per sentirci sazi non importa
uccidere” spiegò Acilia, paziente, tentando di tenere fermo l’uomo che aveva
iniziato a scalciare. Seccata, gli assestò un pugno nelle costole. Quello
gemette.
Dubris alzò le sopracciglia e si
rivolse a Ramona. “Sta giocando col
cibo”.
“Non è cibo, è una persona!” sbottò
Acilia “E noi ci nutriamo del loro sangue, d’accordo, ma una persona ne
contiene tantissimo di sangue! Mangiare per vivere e non vivere per mangiare,
diceva Socrate”.
Forse aveva un po’ esagerato. Vide
Dubris e Ramona scambiarsi uno sguardo perplesso. Poi lui si rivolse a lei, con
uno sguardo che non prometteva niente di buono. “Perché ti sei unita a noi se
non hai intenzione di essere come
noi?”.
Acilia resse il suo sguardo.
“Forse posso insegnarvi a essere come me”.
L’umano che teneva tra le braccia
si era zittito. Doveva aver capito che era stata messa in gioco la sua stessa
vita.
“Possiamo… non uccidere?”
intervenne Ramona, con gli occhi spalancati.
Acilia diede una scrollata
all’umano.
“E’ ferito, si sente debole. Ma se
ci fermiamo ora, non morirebbe”.
Dubris la guardò, velenoso. “E’ ovvio. Ma non possiamo lasciarlo andare,
racconterebbe a tutta la Spagna di noi, e ci darebbero la caccia”.
L’uomo stava energicamente
scuotendo la testa. Aprì la bocca, nel tentativo disperato di parlare. “Non lo
farò! Non lo farò!” biascicò. L’immagine di Agnese che urlava per la città
dell’esistenza di strani mostri attraversò fugace la mente di Acilia. Dubris
fece una smorfia, dando le spalle all’umano. Aveva ragione, non potevano certo
fidarsi e lasciarlo andare così. Ma Acilia era soddisfatta, aveva introdotto la
sua idea e i suoi due compagni non sembravano averla presa troppo male. Ramona
aveva addirittura lo sguardo deluso e Acilia si rivolse a lei: “Gli umani si
possono incantare. Finché sono sotto l’incanto del nostro sguardo, possiamo
fare quello che vogliamo. E loro, una volta risvegliati dall’incanto, non
ricorderanno niente”.
Ramona sgranò gli occhi,
evidentemente non lo sapeva. Puntò uno sguardo accusatorio su Dubris, che si
difese subito: “E’ una tecnica che si impara col tempo”.
“Già” assentì Acilia, accarezzando
i capelli dell’umano, che di nuovo era terrorizzato. I suoi compagni la
guardavano, incerti. Lei non voleva dare l’impressione di voler comandare, non
voleva imporsi, voleva insegnare, voleva che la sentissero in gola, tra i
denti, nel sangue e nella carne che strappavano, la pietà. “Magari, per la
prossima volta” disse.
Sentiva l’uomo tremare
terribilmente, e il cuore aveva ripreso a battere forte, era quasi assordante,
per le sue orecchie. Il sudore gli imperlava tutto il volto e gli occhi
spalancati emanavano un’angoscia quasi palpabile.
Acilia lo guardò, non provava poi
così tanta pietà nei suoi confronti. Ma poi pensò che in quella situazione
potevano finire Diego o sua figlia, o un altro uomo fantastico come lo era
stato Miguel, e qualcosa dentro di lei vacillò.
“Mi dispiace” disse “Per te è
troppo tardi”.
“No…” fece l’umano, con un filo di
voce “No… No! NO!”.
Tornò di nuovo a dimenarsi tra
urla atroci. Acilia non voleva nemmeno chiedergli quale fosse il suo nome, se
aveva figli, se aveva dei peccati da confessare. Immerse di nuovo le zanne
nella carne, che si lacerò in un grido terribile e succhiò tutto, fino
all’ultima goccia.
Quando tra le mani non le rimase
altro che pelle secca di un corpo vuoto, si fermò e lo buttò via con
riluttanza.
E ora? Che avrebbero fatto ora?
Cosa facevano i vampiri insieme oltre a mangiare?
“Da quanto siete in Spagna?”
domandò, avvicinandosi ai compagni. Ramona aveva gli occhi fissi sul cadavere.
Doveva essere giovane. Non sapeva come incantare le persone, e fissava i morti.
Dopo un po’ lo smetti di fare, guardare i morti, diventa snervante.
“Non so” bofonchiò Dubris,
passandosi una mano tra i ricci “Un po’ meno di un secolo direi… Quando ho
creato Ramona ero qui da pochi anni”.
Acilia notò un fremito nelle
labbra della donna. Aveva voglia di chiedere a Dubris perché l’aveva fatto, ma
non le sembrava il caso.
“Non vi conviene stare nello
stesso posto per molto tempo”.
“La Spagna è grande” ribatté
l’altro “non siamo sempre nello stesso posto”.
Acilia non disse niente e Dubris
continuò: “E poi, scusa, chi sei tu per parlare? Non eri qui anche te
trent’anni fa?”.
Acilia si sentì spiazzata. Pensò
subito che il suo caso era diverso. Ma guardò negli occhi di Ramona. Anche lei
era una donna che aveva vissuto, che aveva amato, e tutto quanto le era stato
portato via. Era poi così diversa da lei? Da loro?
“Io… ho fatto degli errori” disse
solo. Non voleva certo mettersi a parlare di Miguel.
Nessuno disse niente per un po’,
poi Ramona parlò. “Davvero è possibile non uccidere come hai detto prima?”
chiese. Poi si rivolse a Dubris, senza aspettare una risposta. “Perché tu non
me l’hai mai detto?”.
Il suo creatore alzò gli occhi al
cielo. “Cos’è, Rami, vuoi forse vivere di stenti, come facevi da umana? Vuoi
continuare una vita remissiva e povera?”. Fece una piccola pausa, per poi
proseguire con enfasi. “Guardati intorno, tutto questo è nostro”. Allargò le
braccia.
“Certo, il mondo è nostro” replicò
Ramona, stizzita, come se avesse già sentito quella tiratela “Peccato però che
non possiamo farci vedere”.
Dubris esitò e Acilia subito partì
all’attacco. Glielo vedeva nello sguardo, glielo sentiva nelle parole che non
si era ancora del tutto lasciato andare alla sua vita da mostro. “Perché non ti
fai vedere? Perché non vai nelle città, non mostri i denti, non uccidi in
piazza?”.
“Beh” fece l’altro “potrebbero
prenderci no? Catturarci e…”.
“Catturarci?”. Acilia scoppiò in
una risata falsa e vuota. “Catturarci, Dubris? Come potrebbero catturarci? Noi
siamo più forti di loro! Perché non esci allo scoperto e conquisti tutto?”.
Dubris la guardò, un vago fastidio
negli occhi.
“E’ perché non vuoi” disse Acilia, dopo un po’ “Ti prendi qualche vita, per
mangiare, per divertirti anche, ma non
vuoi distruggere il mondo, perché una volta era anche il tuo”.
L’altro le si avvicinò, le zanne
in fuori.
“E’ da troppo tempo che vivo così,
non ho intenzione di cambiare solo perché una sconosciuta vuole giocare a fare
la creatrice”.
Acilia non ribatté e lui andò
avanti, crudele. “Se vuoi insegnare qualcosa a qualcuno, prendi un umano e
trasformalo”.
“Non voglio trasformare!” sbottò
lei, sentendo contorcere qualcosa dentro di sé. “Non avrebbe senso quello che
voglio insegnarvi se mi mettessi a trasformare!”.
Dubris ritirò le zanne. Sembrava
stesse riflettendo. Ramona era un po’ più distante da lei, con un’espressione
così viva negli occhi da sembrare ancora umana.
“Dov’è il tuo creatore?” chiese
Dubris, di punto in bianco.
“E questo cosa c’entra?”.
“Qualcuno ti avrà pur messo in
testa queste cose, e l’unico che può averlo fatto è il tuo creatore”.
Acilia aggrottò la fronte.
“Potrebbe essere stato qualcun altro”.
Dubris fece un sorriso storto.
“Nessuno ti mette le cose in testa come fa il tuo creatore, dicono”.
Acilia accettò la sconfitta.
Reggendo lo sguardo dell’altro disse: “E’ morto. E il tuo dov’è?”.
Sentì Ramona trattenere il
respiro, mentre il suo compagno esitava a rispondere. Poi, lentamente, disse:
“Non lo so. Non l’ho mai conosciuto”.
Acilia sgranò gli occhi,
sinceramente colpita.
“E come…” boccheggiò “Come hai
fatto a…”. Non riuscì a terminare la frase. Non riusciva nemmeno a immaginare
un essere così spietato da trasformare qualcuno e poi abbandonarlo…
Dubris aveva uno sguardo
impenetrabile e per la prima volta, agli occhi di Acilia, interessante. “Quindi
non giocare a fare la creatrice, Aci, con me non funziona” disse, duro.
Acilia non ribatté. Non si sarebbe
data per vinta. Dubris non era malvagio sul serio e, lui non lo sapeva, ma il fatto
che non avesse avuto un creatore lo rendeva di certo più vulnerabile.
“E ora andiamo” disse Dubris, lugubre,
facendo qualche passo avanti “Cerchiamo un bel posto in cui seppellirci”.
Emily bussò timidamente alla
porta. Non capiva quel suo stupido timore. Frequentava Jacque da una settimana,
che male c’era nell’andarlo a trovare a casa? Tanto era un vampiro e il sole
era appena calato, dove altro avrebbe dovuto essere?
Vampiro.
Si sorprendeva di come a volte
riuscisse a pensarlo in modo naturale. La porta si aprì d’un tratto, con uno
scatto ed Emily per un momento non vide altro che un’ombra. La casa doveva
essere molto buia.
Si trovò di fronte l’unica persona
che avrebbe preferito evitare.
Acilia la stava guardando con
un’espressione poco amichevole. Era talmente bella e talmente seria allo stesso
tempo, da far venire i brividi. Sembrava una regina.
“Ciao” gracchiò Emily, tentando un
sorriso. Le sarebbe piaciuto andare d’accordo con la creatrice di Jacque.
Quell’altra non rispose subito e lei ne approfittò per osservarla meglio. Era
tutto aggraziato e delicato nel suo volto, la pelle perfetta e lucida le dava
l’aspetto di una bambola di porcellana. Sembrava molto meno umana di Jacque. E
gli occhi… Gli occhi li ricordava verdi, due luci potentissime inquisitorie, ma
ora erano macchiati di un feroce rosso.
“Io cercavo… Jacque” disse Emily,
capendo che Acilia non era dell’idea di conversare.
La padrona di casa strinse le
labbra. Poi disse, lentamente: “Non ti conviene venire qui al tramonto. Quando
ci svegliamo, abbiamo fame”.
“Oh”.
Jacque non mi farebbe del male,
pensò istintivamente Emily. Ma forse Acilia sì. Avvertendo una tensione
macabra, rimpianse la maleducazione spensierata di Eike.
Sentì una folata di vento sul viso
e qualcosa prenderle il braccio. Si girò di scatto e vide una testa bionda
china sul suo avambraccio, che teneva tra le mani.
“Eike” disse stancamente Acilia,
rimanendo sulla soglia, impassibile.
Emily ritirò subito il braccio,
col cuore che martellava.
Come non detto, non mi mancava Eike!
Lui, rimasto con le piccole zanne
a penzoloni e le mani che stringevano il nulla, la guardò con la coda
nell’occhio. Subito si ricompose, tentando un sorriso conciliatorio.
“Oh, Emily, non sapevo fossi tu.
Avevo solo sentito un gran profumo di sangue”.
I suoi occhi erano due enormi cerchi
ripieni di rosso.
Emily annuì, un po’ intimorita.
“N-niente… Figurati…”.
Eike continuava a fissarla ed
Acilia gli diede uno spintone.
“Vai a mangiare, muoviti” gli
ordinò.
Quello sparì in un soffio.
Emily si voltò a guardare Acilia.
“Ho capito cosa intendi… Mi
dispiace, io…”.
“Emily?”.
Una voce familiare risuonò
all’interno della casa e al fianco di Acilia comparve Jacque, vestito con dei
pantaloni di una tuta e un maglioncino che andava di moda tipo vent’anni prima.
Emily trattenne un sorriso.
“Ciao” disse lui, sorpreso,
serrando appena la mascella. Gli occhi gli divennero rossi in un istante.
“Io… Io torno più tardi” disse
subito Emily.
Era assurdo, assurdo. Se Jacque era il ragazzo che frequentava, era tutto assurdo.
Non poteva essere vero, stava indietreggiando perché aveva paura della stessa
persona che aveva baciato e toccato!
C’era qualcosa di maledettamente
sbagliato, e lo sapevano tutti.
“No, entra” intervenne Acilia, con
tono autoritario. Si rivolse a Jacque, senza guardarlo però. “Jacque, vai a
caccia”.
Emily esitò. Avrebbe dovuto
aspettarlo? Stare in quella casa di vampiri senza di lui?
Anche Jacque non sembrava molto
dell’idea. Stava guardando Acilia con una strana ansia nello sguardo.
Lei però continuava a non
guardarlo. “Non le faccio niente”.
Jacque guardò Emily. “Torno
presto”.
E sparì allo stesso identico modo
in cui era sparito Eike.
Acilia si spostò per far passare
la ragazza e lei entrò, titubante. Non vedeva dove metteva i piedi e a un certo
punto andò addosso a qualcosa – o qualcosa andò addosso e lei.
“Ahi!”.
“Scusa” le arrivò la voce fredda e
pacata di Acilia “Non accendiamo mai le candele”.
Candele.
Emily stette ferma, mentre a poco
a poco la stanza veniva illuminata da dei candelabri posti sui mobili. Si
guardò intorno, affascinata.
Un lungo tavolo era al centro
della sala, mentre a lato c’era un solo divano dalle pelle marrone scuro e
logora. Davanti a lei vedeva delle mensole, sulle quali erano appoggiate libri,
giornali, cellulari e un computer portatile. Si guardò i piedi e vide che il
pavimento era composto di travi di legno.
Non riusciva a dare un’età a
quella casa.
“La casa è molto vecchia” disse
Acilia, come se le avesse letto nel pensiero, ed Emily sussultò. “I mobili un
po’ meno”.
Si voltò a guardarla.
Stava accendendo un altro
candelabro con un accendino.
“Questi li abbiamo trovati in un
negozio di antiquariato” spiegò, brandendo l’oggetto che aveva in mano.
Sembrava vagamente soddisfatta. “Finalmente abbiamo un motivo per usarli”.
Emily si chiese perché li avessero
presi se loro vedevano al buio, poi l’immagine di una fiumana di donne in
minigonna che entravano e uscivano da quella casa le attraversò la mente. E
ognuna diceva all’altra: “Ora è il tuo turno”. La faccia truccatissima di
Claire galleggiava nella sua testa.
Chissà cosa ha fatto Jacque con lei.
Scocciata, tornò alla realtà. Non
doveva essere gelosa. Non aveva senso essere gelosa di un vampiro, perché tanto
non sarebbe stato suo per sempre. Notò che, mentre la sua mente si faceva i
suoi viaggi, Acilia si era intanto seduta sul divano, sprofondata nella lettura
di un libro.
Emily non capiva. Eike e Jacque
erano dovuti correre a bere del sangue mentre lei… lei leggeva!
Oddio! E se fosse stata lei stessa
la cena di Acilia? Si immaginò il volto della vampira contorcersi in una
smorfia soddisfatta e dire: “Il cibo è arrivato da me! Non sono neanche dovuta
uscire di casa!”. Ma il viso di Acilia rimaneva immobile e perfetto, ben
piantato nel libro che teneva in mano.
Sì, le metteva alquanto
soggezione.
“Tu non vai a caccia?” domandò,
tutto d’un fiato. Temeva la risposta ma non poteva fare a meno di chiedere, di
sapere.
Acilia non alzò lo sguardo. “Ci
vado dopo”.
“Ma… avevi detto che appena
svegli… avete fame”.
“Sì, ma non mi va di lasciare un
ospite in casa da solo”.
Emily aggrottò la fronte. Allora
non era tanto scortese.
Però… quegli occhi rossi…
“Ma…”.
Acilia si voltò finalmente a
guardarla. Era sempre seria, ma c’era qualcosa di più velato nel suo sguardo
duro.
“Ho molto più autocontrollo di
Jacque ed Eike messi insieme”.
Emily annuì, e si avvicinò un
poco.
Acilia le fece cenno di sedersi.
Lei obbedì, avvertendo la metà del
suo corpo vicino alla vampira elettrizzarsi.
“E’ perché sei più vecchia?”.
“Sì”.
“Quanti anni hai?”.
“Non lo so. Tra i millenovecento e
i duemila”.
Emily si chiese se poteva osare di
più. La paura la stava lentamente abbandonando, mentre la curiosità procedeva
impetuosa. Pensò a una qualsiasi domanda da farle, che però non fosse
indiscreta, e alla fine le venne solo: “Cosa leggi?”. Era una domanda banale,
ma, davvero, non credeva che i vampiri nel tempo libero leggessero.
Acilia le mostrò il libro.
Era un libro consunto, dalla
copertina grossa. Era una vecchia edizione dei Canti Orfici.
“Dino Campana. Sai l’italiano”.
“So molte lingue”. Non suonava
come un’ostentazione ma Emily si sentì quasi sgridata. Poi, così, di punto in
bianco, senza alcun preavviso, Acilia sorrise. Aveva i denti luminosi. Così
seria, avrebbe potuto illuminare tutta la sala con quel sorriso. Sorrideva
guardando la copertina del suo libro. “Sono molto affezionata all’Italia”
spiegò “Anche se non era Italia a quell’epoca, è da lì che vengo”.
Emily si lasciò andare anche lei
in un sorriso. Era davvero contenta che la tensione si fosse ammortizzata.
Gli occhi di Acilia era meno rossi
di prima ed Emily si sentì di farle una domanda. Diceva che aveva molto
autocontrollo ma perché poco prima aveva detto quella cosa…
“Perché hai detto a Jacque che non
mi farai niente? Lui temeva… qualcosa?”.
Si pentì subito di quella domanda,
perché il sorriso di Acilia si allentò.
Pensò che evitasse la domanda, ma
la sorprese. “Abbiamo avuto una discussione”.
“Su di me?”.
Ricordava bene quello che le aveva
detto Jacque, circa due settimane prima.
Lei non vorrebbe.
“Cosa ti piace di Jacque?” chiese
Acilia a sua volta, ed Emily lo prese come un sì.
“Non lo so, io…”.
“Ti piace il pericolo? Ti piace
l’idea di avere una relazione segreta con un vampiro?”.
“No!” esclamò Emily, indignata.
Era la stessa domanda che si faceva lei, sempre, cosa le piaceva di un vampiro…
Acilia le puntava quegli occhi
verdi e rossi addosso e lei si sentiva così vulnerabile, non in pericolo di
vita, no, ma aveva come l’impressione che Acilia avrebbe potuto frugarle nella
testa in un secondo.
Nella penombra, il suo volto era
ancora più inquietante, in un gioco di chiaroscuro e contrasti, perfetti, come
lo era lei, come lo era quello che stava dicendo…
“Non è facile stare con un
vampiro”.
“Lo so”. Emily deglutì. Non era
per quello che voleva stare con Jacque, a lei di lui piaceva il suo lato umano,
per lei era umano…
Ancora una volta Acilia sembrò
leggerle nel pensiero.
“Non è un umano”.
Emily provò l’impulso di fuggire
da quella casa, da quello sguardo, da quelle candele tanto affascinanti quanto
angoscianti.
Non è umano.
In quell’esatto momento Jacque
stava succhiando il sangue dal collo di una persona. Succhiando il sangue! Con
quegli occhi rossi, quelli di chi ha fame, gli stessi che aveva quando ha
conosciuto lei… Lei, voleva bere il suo sangue no? L’aveva incantata. La voleva
ferire. Voleva il suo sangue. Se ci fosse stato qualcun altro al suo posto,
chiunque altro, le cose sarebbero andate allo stesso modo?
Sì.
Allora cosa voleva da lei? Cosa
volevano da lei?! Il marchio che aveva sul fianco le ricordava ogni giorno il
male che aveva passato, e lo strano affetto che le stava nascendo dentro, per
un vampiro, per un vampiro…
Prese fiato, cercando di calmarsi.
Acilia non aveva rabbia sul volto,
aprì di nuovo il libro ed Emily non poté fare a meno di chiederglielo.
“Hai amato un umano?”.
Subito la vampira si voltò verso
di lei, quasi con la potenza di un uragano. Non era possibile, non era davvero
possibile muovere il collo così in fretta!
“Scusa” disse subito Emily. Si era
ripromessa che non sarebbe stata indiscreta. Le sembrava che Acilia fosse
turbata. Stringeva forte il libro.
“E’ stato tanto tempo fa” disse
dopo un po’.
Emily voleva saperne di più. “E
come…”. S’interruppe, rendendosi conto che la domanda che stava per fare era davvero
stupida.
“Si è ammalato” disse infatti
subito Acilia “E’ invecchiato, ed è morto”.
Acilia l’aveva amato fino alla
fine? Lui invecchiava e lei rimaneva la stessa, lui l’aveva amata fino alla
fine?
Emily si sentì pervadere quasi dal
terrore. Lo sapeva che era per quello che la sua storia con Jacque non poteva
funzionare ma… quando sarebbe arrivato il momento, sarebbe riuscita a
lasciarlo?
“Ha sprecato tutta la sua vita per
una come me” continuò Acilia.
Avrebbe sprecato tutta la sua vita
con lui? Uno come lui?
Sarebbe diventata vecchia, curva,
piene di rughe e lui l’avrebbe lasciata di sicuro, e lei sarebbe stata sola,
fino alla morte. Non avrebbe avuto nessuno con cui invecchiare, nessun figlio,
nipote pronto ad assisterla.
E lui sarebbe andato avanti,
avrebbe incontrato un’altra come lei, un’altra a cui far fare il patto del
sangue… Per qualche motivo, non riusciva a sopportarlo. Come non sopportava che
in quell’esatto momento lui era fuori a nutrirsi del sangue di una persona,
mentre lei era lì, seduta, docile, che lo aspettava, lo aspettava perché
altrimenti lui l’avrebbe mangiata!
Il suo cuore batteva forte e
chissà quale espressione aveva dipinta sul viso. Dov’erano finite le sue
certezze? Il suo vivere giorno per giorno? Ricordava il volto di Jacque in una
nube di sangue, macchiato di orribili delitti, lui, già così giovane rispetto a
lei, e destinato a rimanere così per sempre…
Hai presente la storia di Dorian Gray?
Immaginò un vecchio dipinto di un
vecchio mostruoso, quella, quella era l’anima di Jacque…
La porta si aprì e lei sussultò.
Eike trotterellò dentro, la giacca
schizzata di rosso.
Acilia lo guardava impassibile.
“Cos’è, hai bisogno di un bavaglino per la prossima volta?”.
Emily si accorse di essere saltata
su in piedi. Fissava come transennata il sangue sulla giacca di Eike.
La porta si chiuse e comparve
anche Jacque. Le sorrise ma lei si sentiva incapace di rispondergli. Aveva i
muscoli della faccia come paralizzati. Jacque non aveva del sangue addosso,
neanche negli occhi, che erano tornati di un morbido color nocciola, ma lei lo
vedeva. Lo vedeva sui suoi capelli, sul volto perfetto che mai avrebbe visto
una ruga, sangue, solo sangue… Senza dire una parola, si precipitò verso la
porta e uscì. Le candele la soffocavano, distorcevano e offuscavano tutto.
Una volta che fu sul vialetto si
voltò. Ispirò a pieni polmoni l’aria fresca della sera. Jacque era sulla soglia
con un’aria sconcertata.
“Emily, che succede?”.
Le labbra intorpidite della
ragazza, al contatto col vento, presero a muoversi in maniera incontrollata.
“Quante persone hai ucciso?”.
“Cosa?”.
“Quante persone hai ucciso?”
domandò ancora Emily a voce più alta.
Jacque si scurì in volto.
“Quanto sangue hai versato? Quanti
anni vivrai ancora?!”.
Emily scoppiò in lacrime. Si sentiva
una stupida. Le aveva sempre sapute quelle cose, eppure aveva creduto di poter
vivere in una favola. Non voleva dirle quelle cose, ora Jacque la guardava
mortificato. Lui stesso si definiva mostro, parassita, e lei voleva
rassicurarlo, non condannarlo perché gli voleva bene, gli voleva davvero bene.
“Scusami, io…” fece, tra i
singhiozzi “Io… non ce la faccio”.
Jacque aveva un’espressione triste
ma non sorpresa. Si avvicinò a lei di qualche passo. Lei lo vedeva un po’
offuscato, tra le lacrime. Voleva trattenersi, ricordava bene quando lui le
aveva detto che odiava sentir piangere. Non voleva procurargli altri fastidi,
la doveva smettere di piangere! Lui era così vicino ora, con un dito le sfiorò
il viso, annientando una lacrime.
“Ti faccio sempre piangere”.
Emily pensò alla lacrima di sangue
che aveva sul fianco. Era quello il significato del disegno no? Che lei potesse
piangere le lacrime che lui non poteva avere. Ripensando a quella notte, pianse
più forte. I ricordi del tempo che aveva trascorso con Jacque erano così pochi,
ma così intensi, burrascosi, muovevano tutto dentro di lei.
“Avrei voluto incontrarti in
un’altra vita” disse lui “Nella mia vita umana”.
Emily gli prese la mano che lui le
teneva sul volto. Fu più forte di lei. Quella mano fredda, le rinfrescava il
volto, si sentiva paonazza, le lacrime era ghiaccio sciolto che si era formato
dentro di lei, aveva caldo. Voleva quella mano su di lei, ancora.
“Solo che sarebbe comunque durata
poco” stava continuando Jacque “Perché poi io… io sono morto”.
Le sue labbra di un rosa
chiarissimo si muovevano e lei non riusciva a focalizzare altro. Ma che le
stava capitando? Un’ennesima cotta per un ennesimo uomo sbagliato? Era sempre
così all’inizio. Non sembrano mai sbagliati all’inizio.
Eppure non ho mai imparato…
Si lanciò su di lui e lo
abbracciò, continuando a piangere come una ragazzina.
Sentì le braccia di lui che
l’avvolgevano. Sentiva l’odore del sangue.
Il sangue di qualcuno.
Un singulto le scosse tutto il
corpo, ma non riusciva a staccarsi.
Poco prima pensava che avrebbe
sprecato la sua vita con lui, lui di vita non ne aveva neanche avuta. A
diciannove anni era stato strappato al mondo. E ora lei veniva strappata alla
realtà, ma in un modo più dolce, molto più dolce.
“Scusa” ripeté tra i singhiozzi.
Alzò lo sguardo verso di lui e provò a fare un piccolo sorriso. “Non è facile
stare con un vampiro”. Erano le stesse parole di Acilia.
Jacque aveva un improvviso sorriso
radioso. Le diede un rapido bacio sulla bocca e poi disse: “Neanche con
un’umana, specie se è così lunatica”.
Lei fece una risatina ma smise
subito, sotto il suo sguardo così intenso.
“In qualunque momento tu senta di
non farcela più” disse lui “Lasciami… Lasciami senza problemi”.
Senza problemi era un’espressione
forte. Quando mai si facevano le cose senza
problemi? Ma un sorriso le sfuggì sul volto, perché quelle parole, così
strane, sembravano tanto voler dire che lui e lei stessero insieme.
“Fanno sempre la pace eh?” fece
Eike, gli occhi puntati sulla finestra.
Acilia, indifferente, lasciò il
libro aperto sul divano e si alzò.
Il ragazzino si voltò verso di
lei.
“Di cosa avete parlato voi due?” .
Acilia lo ignorò, si spogliò e in
intimo si spostò verso l’altra stanza.
“Sai, mi eccita un po’ pensare a
voi due nella stessa stanza” le urlò dietro Eike, con gli occhi a palla
“Figurarsi quanto può eccitare Jacque…” aggiunse, abbassando la voce.
Acilia prese da una sedia la gonna
nera e se la infilò. Chiuse la cerniera a lato e prese la camicetta bianca.
Continuando a ignorare Eike, la abbottonò tutta, prese in mano la scarpe e
camminò scalza fino al divano.
Eike fece un piccolo fischio
quando lei le passò di fronte.
“Vai a mangiarti qualcuno in un
posto di lusso?”.
Acilia si sedette e infilò i piedi
nei decolleté neri, lucidi.
“Mangio qualcosa e poi vado ad
Arcangelo” spiegò.
“Riunione speciale?”.
“Rimarrò lì qualche giorno”.
“Non hai paura di sporcarti?”.
Acilia gli guardò la giacca
macchiata di sangue. “Ci vuole tecnica, Eike, imparerai anche tu” disse,
amorevole.
Lui non rise. “Stai fuggendo da
Jacque?”.
Acilia lo guardò in volto. Era
serio, era strano vederlo serio.
“No” disse solo. Anche se
praticamente lei e Jacque non si parlavano più, in realtà sarebbe voluta
rimanere. Era da qualcun altro che voleva fuggire.
Si alzò in piedi e prese la borsa
che aveva già preparato da sotto il tavolo.
Si voltò per salutare Eike e lo
vide in piedi vicino al divano, con il libro di Dino Campana in una mano.
“O regina o regina adolescente ma per il tuo ignoto poema di voluttà e
di dolore musica fanciulle esangue, segnato di linea di sangue nel cerchio de
le labbra sinuose” recitò con un forte accento germanico.
Acilia rimase ferma ad ascoltare.
Poi tese la mano per farsi ridare il libro.
Il ragazzino stava scrutando il
testo. Sapeva qualche parola di italiano, forse stava cercando di tradurlo. Con
la faccia concentrata alzò lo sguardo verso Acilia. “Non è che si era
innamorato di una vampira questo Campana?” fece.
Il poeta pazzo, lo chiamavano.
Acilia scrollò le spalle e gli strappò
il libro di mano. “Forse. Sai, l’ho conosciuto”. Eike spalancò la bocca,
esterrefatto.
Lei ficcò il libro nella borsa e
si infilò la giacca nera.
Si diresse verso la porta e poi si
girò di nuovo.
Eike aveva ancora la bocca aperta.
Acilia fece un sorrisino. “Piano
con la fantasia, Eike, stavo scherzando”.
Eike chiuse la bocca, sbuffando, e
lei rimase ancora sulla soglia, a temporeggiare. Jacque aveva fatto la sua
scelta, anche Emily l’aveva fatta. Ne avrebbero affrontato le conseguenze, e
così doveva fare lei, pur se quella scelta che doveva ora fronteggiare l’aveva
compiuta milleottocento anni prima. “Ciao, Eike. Salutami anche Jacque” fece in
un sussurro.
Eike esibì il suo tipico sorriso,
quello di chi la sa più lunga, e lei uscì.
L’aria fresca di fine marzo le
pungeva la pelle ma non aveva freddo. La fame galoppava e lei aveva poco tempo.
Tra circa un’ora sarebbe arrivato l’elicottero che avrebbe portato lei e Dubris
ad Arcangelo. Forse avrebbe dovuto sistemarsi definitivamente nella città russa,
come tutti i membri della Rappresentanza, sarebbe stato più comodo. A Jacque
avrebbe fatto piacere, non voleva eliminarla per sempre dalla sua vita? Il
ricordo delle parole che lui aveva usato per ferirla le si insinuavano sotto la
pelle, taglienti. Quella che provava per Emily era solo una sciocca
infatuazione. Ma d’altronde non era una sciocca infatuazione anche quello che
lei aveva provato per Miguel?
No, quello era amore.
Un amore sbagliato, e allora che
differenza c’è?
Lei e Jacque non ne avevano più
parlato. Avrebbe potuto scusarsi, dirgli che lui doveva fare quello che voleva
nella sua vita. In un angolo di sé, dopotutto lo sapeva che Jacque non la
odiava veramente. Era proprio quello il problema, lui l’aveva amata tanto, e in
quell’amore, che pure poteva essere giusto, si era distrutto, perché era lei
quella sbagliata, lei che non era riuscito ad amarlo abbastanza… Eppure non se
la sentiva di trasferirsi ad Arcangelo e abbandonarlo, non se la sentiva di
stare lontano da lui. E non se la sentiva neanche di stare a così poca distanza
da Kaeso.
Un profumo delizioso le si insinuò
nelle narici e lei si guardò intorno. Un gruppo di umani erano nei pressi di un
negozio di scarpe. Portò alla mente le leggi dei vampiri. Dopotutto aveva
aiutato a stipularle lei stessa.
Numero undici: mai nutrirsi di un umano che è in compagnia.
Non potevi prenderne uno solo e
neanche si poteva incantarli tutti. Sbuffò, piano. Aveva il tempo contato,
doveva muoversi e trovare una preda. Era logorante, dopo tutto quel tempo, continuare
a stare nascosti e a cacciare. Se solo il PPC avrebbe avuto una, una sola,
possibilità di successo…
Di fianco al negozio di scarpe
c’era un piccolo bar al quale Acilia era passata spesso davanti. Si avvicinò,
poteva entrare, nei bar si trovavano sempre degli sfaccendati, con un
bicchierino come unico compagno.
“Ciao”.
Acilia si voltò di scatto
lanciando un’esclamazione. Alle sue spalle c’erano capelli neri e occhi, occhi
blu…
Lui…
“Si ricorda di me?”.
Acilia si riscosse. Non era lui,
era quello stupido umano che la voleva rimorchiare, e di cui si era nutrita…
quante settimane prima? Aveva gli occhi grigi profondi, macchiati di venature
bluastre. Il suo profumo era forte e la fame non perdonava.
Numero quattordici: mai nutrirsi di uno stesso umano per più di una
volta.
Acilia scosse la testa. “No, mi
dispiace”.
Lui chinò la testa in avanti, con
un sorriso. “Stava per entrare in questo bar. Posso farle compagnia?”.
“No” disse subito lei “Non stavo
entrando”.
“Mi ricorda qualcosa questo bar”
fece l’uomo, meditabondo.
Acilia deglutì. Quella notte lui
le aveva chiesto di bere qualcosa al bar, quel
bar, lei aveva acconsentito ma, una volta raggiunta l’insegna, l’aveva
incantato e portato via. Il suo sguardo indugiò sul braccio dell’uomo,
ricoperto dal cappotto grigio. Quante possibilità c’erano che quell’uomo avesse
collegato la ferita che improvvisamente gli era comparsa sul braccio a un
vampiro, o peggio, a lei?
Molto poche.
Di solito un umano, risvegliatosi
dall’incanto, fatica a ricordare anche i minuti precedenti all’incanto. I
vampiri non potevano cancellare i ricordi, ma era qualcosa che ci andava
vicino.
Acilia stava zitta e, ad un certo
punto, l’uomo fece un sorriso imbarazzato.
“Mi dispiace importunarla, non
sono un maniaco, mi creda…”.
Ancora lei non disse niente. Doveva
incantarlo e salutare l’intera faccenda, ma non ci riusciva, lui non la
guardava negli occhi… Maledetto, perché doveva essere così imbarazzato?!
“Quella sera… Non riesco a
ricordare perché alla fine non siamo entrati nel bar, non vorrei essere cafone
due volte, mi permetta di offrirle da bere”.
Oh sì che mi hai offerto da bere.
“Vengo davanti a questo bar
spesso, molte sere sono venuto nella speranza di rivederla”.
Non c’era bisogno di incantarlo, era solo uno
scocciatore. Però lei doveva darsela a gambe. Non aveva tempo da perdere, e i
suoi occhi sicuramente stavano diventando sempre più rossi. Ringraziò il fatto
che gli umani al buio ci vedevano poco, e distinguere i colori degli occhi non
doveva essere così facile.
“Quella sera non siamo entrati
perché io non avevo nessunissima intenzione di passare la serata con lei”
sbottò Acilia, cercando di essere il più scortese possibile “Ha perso il suo
tempo e, per la cronaca, mi sembra molto più
vecchio di me”.
Sottolineò accuratamente quel molto anche se non ne era per niente
convinta. Lui aveva qualche ruga appena e lei, dopotutto, vestita in quel modo
doveva dimostrare ben più di diciotto anni.
Girò i tacchi e se ne andò,
notando furtivamente l’espressione ferita nel volto dell’uomo. Meglio così, non
sarebbe più tornato da quelle parti a tormentarla.
Molte sere davanti a quel bar
nella speranza di rivederla! E poi diceva di non essere un maniaco, certo.
Trasse un respiro profondo. In
ogni caso, tra poco lei sarebbe partita. Lui avrebbe potuto cercarla di nuovo
ma non l’avrebbe trovata. Si sarebbe stufato, e scordato di lei.
“Dimmi della tua vita umana”.
“Beh” fece Acilia con una smorfia
“La mia famiglia era una delle più importanti e più ricche di Roma, e la mia
vita era piuttosto noiosa”.
Ramona la guardava, come in attesa
d’altro.
“E’ stata una vita breve. Non ho
molto da raccontare” sentenziò Acilia, desiderosa di cambiare argomento “E tu
invece?”.
Fu il turno di Ramona di
dipingersi una smorfia sul viso.
“Lavoravo in un bordello”.
“Oh”.
Acilia la squadrò. Ramona era più
bassa e più robusta di lei, ma quella carne che aveva in più era nei punti
giusti. Di sicuro non aveva problemi a trovare clienti.
“Credimi, non mi piaceva” continuò
“Ma dopo un po’ ci fai l’abitudine”.
Acilia non voleva certo mettersi a
discutere in fatto di eticità. Non le sembrava proprio il caso.
Fece un cenno verso la schiena di
Dubris, che camminava parecchio più avanti di loro.
“Come l’hai incontrato?”.
“Era venuto nel bordello” spiegò
Ramona “e ha cominciato a farmi delle domande… Se avevo un marito, dei figli, o
comunque qualcuno a cui tenevo e di cui mi occupavo”.
Acilia spalancò gli occhi,
riconoscendo il buon senso di Dubris.
“E tu cos’hai risposto?”.
“Che ero sola al mondo. Voglio
dire, a parte qualche cliente abituale e qualche amica che faceva il mio stesso
lavoro, non avevo molte persone di cui occuparmi…”.
Acilia guardò la nuca rossa di
Dubris. Era saggio dopotutto.
“Poi mi ha chiesto se la mia vita
mi piaceva” proseguiva Ramona “Se mi sarebbe piaciuto cambiarla, insomma… Lui
mi ha detto che avrei potuto smettere di fare la cortigiana”.
Lo sguardo di Acilia saettò da
Dubris a Ramona. “Non ti ha parlato del prezzo da pagare?”.
“Della morte?”.
“E del sangue”.
Ramona inarcò le sopracciglia, con
fare triste. “Ha parlato di dannazione eterna. Ma io gli sono saltata al collo,
pregandolo di portarmi via con sé… Abbiamo fatto l’amore ed era così… freddo.
Poi mi ha portata via, e ricordo solo sangue, e buio… Sono riemersa dalla terra
e lui era lì che mi aspettava”.
Acilia annuì, senza dire niente.
D’altronde non poteva permettersi di giudicare Dubris.
“Perché l’ha fatto?”.
Ramona scrollò le spalle.
“Suppongo cercasse compagnia”.
“Lo odi?”.
“Qualcosa di simile, ma odiarlo,
odiarlo non potrei mai… A volte credo addirittura di amarlo. E’ normale? Per il
tuo creatore provavi lo stesso?”.
Acilia sentì qualcosa premerle la
pancia e cercare di risalire in superficie.
“Non proprio” mentì.
Ramona non fece altre domande e
Acilia la ringraziò mentalmente.
“Non è cattivo” disse la spagnola
dopo un po’, sottovoce. Si riferiva evidentemente a Dubris.
Acilia lo sapeva bene. Cattivo era ben altro.
Ramona aveva accettato di buon
grado la linea di Acilia. I più giovani sono i più influenzabili, e sono quelli
che odiano di più uccidere. Dubris era
ancora diffidente ma anche lui aveva cominciato a incantare la gente e a
lasciarla andare. Non era facile. Sia lui che Ramona spesso sbagliavano. Negli
anni avevano lasciato una scia di vittime dietro i loro passi, ma Acilia era
rincuorata dall’idea che presto ce ne sarebbero state sempre meno. Bisognava
trovare il limite, il momento in cui fermarsi, smettere di succhiare e
bisognava avere la volontà. Bisognava
imparare a controllarsi. Ramona faticava a controllare la sua sete ma di
volontà ce ne metteva tanta ed Acilia era orgogliosa di lei.
“Dove siamo?” gridò a un certo
punto Ramona, in direzione di Dubris. Quello si fermò e si voltò. Tutti e tre
si guardarono in giro. Il loro panorama non cambiava mai. C’erano sempre arbusti,
qualche casa isolata, qualche monte.
“Abbiamo passato il confine con la
Francia” disse Dubris, pensieroso.
“E da un bel po’ aggiungerei”
disse una voce, in spagnolo ma con un accento molto poco latino.
Tutti e tre si avvicinarono gli
uni con gli altri e si guardarono intorno, in cerca di chi avesse parlato.
Da dietro un albero uscì un
individuo molto alto, giovane e dalla carnagione così chiara che pareva
brillasse.
Acilia notò la sorpresa nei volti
di Dubris e Ramona. Beh, in tutti quegli anni avevano girato tutta la Spagna, e
non avevano mai incontrato nessun altro come loro.
“Chi sei?” fece Dubris, senza
traccia di timore, avanzando un passo.
L’altro alzò le braccia.
“Tranquilli, non voglio lottare”.
Tranquilli?
Nel cosa lottassero erano tre contro
uno e lui diceva tranquilli?
Li squadrò uno ad uno,
meditabondo. “Vedo dai vostri lineamenti che venite tutti da posti diversi.
Cosa vi porta qui?”.
“Viaggiamo” rispose Dubris “alla
ricerca di altri come noi”.
Lo sconosciuto avanzò verso di
loro. “Volete formare un clan?”. Aveva un tono di voce molto tranquillo.
Qualcosa di simile.
“Tu sei solo?” domandò Acilia,
guardandosi intorno.
L’altro annuì. “Sono sempre stato
solo”. Non c’era alcuna traccia di malinconia nelle sue parole.
“Non vi conviene formare un clan
da queste parti” aggiunse.
“Perché?” fece Dubris, con un vago
tono di sfida.
“A Lucius non farebbe piacere. E’
la sua zona questa, ed è un po’… dispotico”.
Lucius.
Quel nome riaprì una breccia nel
corpo di Acilia, fu come una freccia che colpì una ferita rimarginata e ben curata con anni e secoli di
sofferenza. Sentiva di nuovo nelle orecchie quegli ansimi, quel latrati, e poi il dolore, il sangue, la
bara. Manlio steso per terra, privo di vita, e lei sporca, sporchissima, di
tutto il suo sangue…
La voce di Dubris le sembrò un eco
lontano.
“Chi è Lucius?”.
Non può essere lui, pensò Acilia,
ce ne saranno un sacco di Lucius.
“Un altro cavaliere della morte” rispose lo sconosciuto, sempre molto pacato
“Così ci chiama lui”.
“Cavalieri della morte?” farfugliò
Ramona, parlando per la prima volta “E’ questo che siamo?”.
L’altro sorrise, buttando con le
mani oltre le spalle i suoi lunghi capelli biondi.
“Non piace neanche a me, ma è
pratico avere un nome no?”.
Acilia avanzò verso di lui con uno
scatto. Cominciava non sopportare più la sua serenità.
“Chi è Lucius?!” sbottò “Com’è
fatto? Quanti anni ha?”.
“Non l’ho mai visto” rispose
l’altro con calma “Dicono però che sia molto vecchio, vecchio quasi quanto me”.
Vecchio significava potente,
Acilia lo sapeva. Ma non bastava.
Il biondo proseguì: “Prima era il
Superiore della penisola italica, ora anche del Regno di Francia”.
Acilia spalancò la bocca, poi la
richiuse, più volte.
Superiore della penisola italica?
“Come si diventa Superiori di una
zona?” domandò, con un lieve tremore nella voce.
Sentì su di sé gli sguardi
allibiti di Dubris e Ramona.
“Uccidendo il Superiore” rispose
il biondo, con una traccia di confusione negli occhi.
Acilia ispirò a fondo.
Come temevo.
“Aci! Che cos’hai in mente?” esclamò
Ramona.
Diventare Superiore forse
l’avrebbe aiutata nella sua causa. E poi, beh, la vendetta doveva avere un
sapore molto buono.
Dubris intervenne, ironico: “I
Superiori sono tutti maschi. Cosa vuoi fare, Aci? Diventare regina?”.
Acilia lo ignorò. Ma non era una
cattiva idea.
“Aiuterebbe a far trapelare il
messaggio” disse, seria, guardando Dubris.
“Che messaggio?” fece l’ultimo
arrivato, con un guizzo di curiosità.
Acilia si voltò a guardarlo. “Come
ti chiami?” chiese.
L’altro fece un sorriso, e poi un
piccolo inchino. “Perdonate questa mancanza. Mi chiamo Lyuben”.
Acilia non aveva voglia di
convenevoli. Quel tipo aveva detto di essere più vecchio di Lucius. Poteva
rivelarsi utile.
“Lyuben” disse “ti unisci a noi?”.
Lyuben sorrise, cortese. “Mi
rincresce ma, come ho già detto, io sto da solo. Non mi piace quello che fanno
i gruppi di cavalieri della morte –
oh, chiamiamoli così per convenienza. Spaventare, fare a pezzi, violentare,
mangiare bambini… No, grazie”. Tutto ciò detto col sorriso sulle labbra fece
quasi rabbrividire Acilia.
Dubris si avvicinò a Lyuben con
una mezza risata. Gli diede una pacca sulle spalle.
“Allora sei decisamente dei
nostri, amico! Però attento… Il dispotico Lucius è un agnellino in confronto
alla regina”.
La confusione durò poco e in un
attimo fu stabilito l’ordine. Lyuben aveva detto ad Acilia di sedersi nella
prima fila di panche e lei aveva obbedito. Fortunatamente al suo fianco c’era
Ramona. Dubris invece era nell’ala sinistra della sala, insieme a tutti gli
altri prefetti.
“Per che cosa è stata indetta
questa riunione?” bisbigliò Acilia alla sua compagna.
Quella sembrò esitare. “Il
segretario del PO vuole fare un… discorso”.
“Un discorso?”.
Ancora Ramona esitò. Sembrava sul
punto di dire qualcos’altro ma poi chiuse la bocca e tornò a guardare davanti a
sé.
Lo specchio mostrava una decina di
file di panche vuote, mostrava la loro reale consistenza, l’esistenza che non
avevano.
Ve ne state seduti a parlare e a parlare mentre là fuori c’è gente che
muore continuamente!
Non ci credeva più davvero nel
PPC, tutto aveva preso una piega che in qualche modo era ipocrita. Ma
riconosceva che la Rappresentanza fosse una cosa utile, avere delle leggi,
avere un capo buono e delle prigioni… Senza tutto quello, sarebbe stato il
caos, là fuori nel mondo. E già di caos ce n’era abbastanza.
Diede un’occhiata alla parte
destra della scalinata. Dubris aveva ragione, i membri del PO erano aumentati.
Con i loro sguardi arcigni, oppure semplicemente annoiati, occupavano i tre
settimi dell’aula. Voltò la testa, per guardare alla sua sinistra. Alla destra
dei prefetti c’erano i membri del PP. Erano sempre stati davvero pochi, ma ora
erano pochissimi. Acilia vagò con lo sguardo per parecchi secondi ma non ne
contò più di… cinque!
Che sta succedendo?
Il Partito per la Pace non aveva
mai avuto un grande seguito, predicava l’estinzione di massa dei vampiri,
troppo pericolosi per il mondo. Ma ora si era ridotto ulteriormente. Acilia non
aveva mai avuto una grande opinione di quel partito. Era il partito più
ipocrita, senza dubbio. Dire agli altri di andare a morire mentre loro stavano
comodamente su quelle panche! Il loro era un sacrificio, dicevano, quando non
ci sarebbero stati più vampiri a cui insegnare la morte, anche loro se ne
sarebbero andati.
Che gran sacrificio.
Alla destra di quei cinque c’era
il PS. A occhio, i suoi membri occupavano quasi due settimi dei posti a sedere.
Il Partito per la Sopravvivenza puntava sul vivere di nascosto, bere il sangue
solo strettamente necessario, e uccidere i cacciatori che rappresentassero un
pericolo per la propria incolumità. Era probabilmente il partito più realista,
era quello che dopotutto, nonostante dal 1984 al potere ci fosse il PPC,
facevano tutti, compresa Acilia stessa. La differenza era che al PS andava bene
così, il PPC invece sperava di poter
cambiare le cose, e teneva tra le mani uno sciocco ideale. Tra il PS e il PO i
posti erano assegnati al PPC, la grande maggioranza. Che però, osservò Acilia
nervosamente, non era più tanto grande.
Non era contenta di essere lì, nonostante tutti la guardassero con rispetto e
ammirazione. Non l’avevano ancora capito che era tutta utopia? Sospirò, e il
suo sguardo incrociò quello di Kaeso, anche lui in prima fila, dalla parte del
PO. Sorrideva amorevolmente e Acilia strinse i pugni, invocando la calma.
Meglio difendere a spada tratta il PPC, meglio persuadere tutti del loro
programma utopico e incerto, piuttosto che lasciare tutto quanto in mano
all’orrore. Poi forse il sogno, il mondo rosa che avevano creato, si sarebbe
rotto in mille pezzi, lasciando intravedere l’oscurità della loro realtà.
Acilia sperava solo accadesse il più tardi possibile. Ma Kaeso si stava alzando
e si stava dirigendo al centro della sala, davanti a tutti. Molto vecchio ma
moderno, pensò Acilia, vedendo che era vestito come se fossero a un concerto o
in discoteca. Al suo fianco sentì Ramona agitarsi. La carne è debole, pensò
amaramente Acilia. Certo, i jeans grigi attillati gli stavano bene, e anche la
giacca nera di pelle aperta. Ma nei suoi occhi, incastonati in un volto cortese
e affabile, nei suoi occhi c’era qualcosa di diabolico.
Si schiarì la voce con un sorriso.
Tutti già tacevano, c’era un tale silenzio che sembrava che lo specchio davanti
a loro riflettesse la vera realtà.
“Buonasera” disse Kaeso. Si
rivolse a Lyuben, seduto a qualche posto di distanza da Acilia. “Ringrazio il
Presidente per avermi concesso l’opportunità di parlare”. Lyuben, che era
sempre il ritratto dell’educazione e aveva un sorriso per tutti, ricambiò con
uno sguardo glaciale.
Kaeso sembrò non farci caso e fece
un piccolo inchino. Acilia ebbe l’impressione che fosse solo una presa per i
fondelli.
“Il motivo per cui ho chiesto la
parola” riprese il vampiro, prendendo a fare qualche passo a sinistra e a
destra “è perché volevo dare un meritato benvenuto, o meglio un bentornato…
alla Regina”. Si fermò e ancora
s’inchinò, con un enorme sorriso, questa volta ben orientato verso di lei,
Acilia.
Sentì tutte le teste muoversi e
capì che tutti la stavano guardando. Lei tenne il volto fermo, lo sguardo fisso
che sosteneva quello provocatorio di Kaeso. Fu lui a distoglierlo per primo,
per guardare di nuovo Lyuben, con aria dispiaciuta. “Oh, non prendertela
Lyuben, il capo sei tu, lo sappiamo, però era così che chiamavano Acilia vero?
La regina dei vampiri. E’ solo una
vaga reminiscenza, per ricordare i bei tempi andati”. Fece un pausa e di nuovo
camminò a destra e a sinistra, guardando tutti i presenti con aria divertita.
“Abbiamo idee diverse, cara regina. Tu… Sei stata come la sorella antipatica,
la sorella antipatica che va a fare la spia da mamma e papà quando combiniamo
qualche marachella. Oppure…” alzò la testa, come in cerca di un’ispirazione “La
secchiona della classe che ricorda al professore di assegnare i compiti, o la
polizia che irrompe in una festa dove tutti sono ubriachi e contenti”. Qualcuno ridacchiò e Kaeso
allargò il sorriso. Tornò a guardare Acilia e incurvò le sopracciglia, facendo
scomparire il sorriso. “Bere solo il necessario per vivere… Ci hai tolto il
divertimento, ci hai tolto il sangue… Lo sai che cos’è il sangue, Acilia? Lo
dice anche Pavese!” La sua espressione mutò da rattristata in sorpresa ed
esilarante nella frazione di un secondo. “Non so quanti di voi lo conoscano…
C’è qualche italiano qui?”. Fece vagare il suo sguardo su tutti i presenti.
“Gli italiani possono cortesemente alzare la mano? Oh benissimo, grazie”.
Acilia evitò accuratamente di
alzare la mano e neanche si voltò per vedere se qualcuno avesse obbedito ma
dall’espressione soddisfatta di Kaeso sembrava proprio di sì. Così carismatico
e sicuro di sé… la gente lo ascoltava! Anche lei lo ascoltava, sì, ma lo
odiava, profondamente.
“Pavese dice nel suo diario… Sì,
non è stata una grande idea pubblicarlo integralmente dopo il suo suicidio
vero? Ma dopo il 1990 credevano che chi l’avesse conosciuto o anche solo visto, fosse morto… Beh, non hanno pensato ai vampiri eh?”. Fece
un sorriso compiaciuto nel sentire qualcuno che rideva.
Divaga, divaga un sacco, si rende simpatico…
Acilia cercò Dubris con lo sguardo
e lo vide, imperscrutabile, nascosto da una maschera d’attenzione e di odio.
“Comunque” continuò allegramente
Kaeso “Pavese dice che i tre momenti dionisiaci della vita sono il sesso,
l’alcol e il sangue. Per gli umani! Avete visto?”. Una traccia di falsa
disperazione viaggiò fino ai suoi occhi mentre continuava a parlare: “Oh…
L’alcol non l’abbiamo più, non ci fa nessun effetto… Ne rimangono due, due su
tre! La regina ci vuole togliere anche il sangue… Il sesso, oh il sesso è
bello… Ti ricordi il sesso, Aci?”. I suoi occhi si strinsero in una smorfia
maliziosa e Acilia trasse un respiro profondo per non farsi inondare dalle
memorie.
“Ma io” proseguì Kaeso, arrabbiato
“Noi vogliamo anche il sangue!”.
“Perché Lyuben non lo fa tacere?”
bisbigliò Ramona all’orecchio di Acilia, furiosa. Lei si voltò a guardare il
Presidente. Era scuro in volto, ma attento e concentrato.
“Perché non dovremmo dire quello
che vogliamo?” fece Kaeso, a voce più alta, alzando le braccia, come per
raccogliere tutti in un abbraccio “Noi siamo più forti… Struggle for life and death! Darwin disse il più adatto sopravvive,
l’umano, l’essere umano era l’ultimo
scalino dell’evoluzione genetica! Se n’è aggiunto un altro, miei cari, e siamo
noi, diretti discendenti dell’umano, siamo noi il gradino più in alto! Disse
poi Spencer il più forte sopravvive!
C’è qualcosa forse di più azzeccato?”.
Ci furono qualche applauso e
qualche fischio. Ma Acilia sentì anche molti mormorii di disapprovazione,
soprattutto alla sua sinistra.
Kaeso fece un passo in avanti, col
bel volto quasi sfigurato dalla pazzia. “Ti faccio una domanda, regina. Quale convivenza può esistere
tra un vampiro e un umano? La stessa che c’è tra un umano e una mucca? Allora
sono d’accordo! Un umano e una mucca non hanno gli stessi diritti! Smettetela
di battervi per questi diritti, noi non possiamo avere gli stessi diritti degli
umani! Non li vogliamo perché noi
siamo più di loro, siamo la loro
evoluzione! Siamo i consumatori quaternari della catena alimentare! Sbaragliamo i cacciatori! Catturiamo gli umani,
mettiamoli in recinti, alleviamoli come carne da macello!”. Folle, aprì la
bocca e la richiuse più volte velocemente, come se stesse masticando qualcosa.
Poi il luccichio bramoso nei suoi occhi blu sparì, si passò una mano nei folti
capelli neri e sorrise, guardando Lyuben, che era letteralmente una statua di
ghiaccio. Intanto in molti acclamavano Kaeso sbattendo le mani sui banconi e
ridevano, ridevano di gusto… Acilia si sentì svuotare dentro e un’orribile sensazione
la invase, di quelle che non provava da molto tempo mentre Kaeso ancora diceva,
con un sorriso, riabbassando il tono di voce che tornò ad essere docile e
accattivante: “Lyuben, questa è fatta. Ti ringrazio per lo spazio concessomi,
lascio la parola a te per le altre questioni all’ordine del giorno”.
Non è un amore Kaeso? XD
Comunque mi scuso per i dettagli
contradditori, non so se lo notate perché da un capitolo
all'altro passa del tempo.. però ci sono cose che si
contraddicono (per esempio avevo detto in un capitolo che Lyuben aveva
mille anni, ma ora ho cambiato idea, come si legge in questo capitolo),
se le notate non vi preoccupate, lo so, devo correggere XD per quanto
pianifichi le cose, cambio spesso idea e dato che scrivo di getto ogni
capitolo è inevitabile.. Nella versione definitiva poi le cose
andranno a posto ;)
Nene,
grazie mille :) ahahaha mi fa ridere il ragionamento di Marcus XD e
anche "cattivo! la mamma non si tratta così!" eh Jacque
birbantello..u.u Emily poveretta, i dubbi non finiscono come vedi..
Sono contenta di affasssssssssscinarti cara <3
Sara,
eh sì Acilia è troppo "vecchia" forse per amare.. ti
ringrazio per il "magnificamente straziante" era proprio quello che
volevo (strano eh? mica mi piacciono i drammi..) daiiii Eike ti smuove
la lacrimuccia! In questo capitolo è stato abbastanza
"scapestrato", puoi non compatirlo più per ora XD vai tranquilla
bradipina, mettici tutto il tempo che vuoi, basta avere un bel
risultato alla fine ;)
Norine,
ahahaha ok se non ne sai a pacchi ne sai comunque molto più di
me XD grazie mille per la recensione :)) sì nei film si
innamorano tutti subito.. molto romantica come cosa ma sì,
davvero poco realistica XD
Alla prossima! :D
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Maestri di polvere ***
Dodicesimo capitolo
CAPITOLO XII
MAESTRI DI POLVERE
Jacque accarezzava la testa di
Emily in mezzo alle sue gambe. Attorcigliava intorno alla mano intere, grosse,
ciocche di capelli morbidi e lisci, le aggrovigliava e le tirava leggermente.
Sentiva Emily ansimare ma soprattutto sentiva la sua bocca avvolgerlo e
circondarlo di calore e la sua lingua che gli solleticava il piacere.
Stringendo con più vigore i capelli della ragazza, boccheggiò. Poi comparvero
gli occhi scuri di Emily che lo guardavano dal basso con un guizzo di
divertimento. Quegli occhi avanzarono verso di lui, lasciando l’altro crudelmente
duro come un sasso.
“Dai…” fiatò Jacque.
Lei rise e lo baciò. Poi lo spinse
giù per farlo sedere sul letto. Lo spinse ancora per farlo sdraiare e lei si
posizionò sopra di lui. Jacque l’assecondò ma appena lei cominciò a muoversi
lui le mise un dito davanti come per prendere la sua attenzione.
Così non va bene.
Le strinse i polsi e lei non fece
in tempo a dire niente che subito si trovò con la schiena contro il materasso,
con lui sopra di lei.
Emily aveva gli occhi spalancati.
“Mi gira la testa” disse con un filo di voce.
“Sei abituata a dirigere tu?” ribatté Jacque con un
sorriso.
Le guance della ragazza divennero
di un delizioso color porpora. Bofonchiò qualcosa sul fatto di sentirsi
ispirata ma lui la fece tacere con un bacio. Si sentiva confusamente eccitato
da tutto quel calore e quel rossore. Era una cosa nuova, o meglio, era una cosa
talmente vecchia da sembrare nuova.
Emily non gli era mai sembrata
così bella.
Lui cominciò a spingere
continuando a baciarla. La vedeva digrignare i denti e la sentiva ansimare.
Aveva paura di farle male. Non era come farlo con Acilia, Emily era fragile…
Sbatté le palpebre perché davanti
a lui era comparso il volto di Acilia che gli urlava di fare più forte.
Vai via…
Diminuì la forza delle spinte e ad
Emily si dipinse un bel sorriso sul volto rosso e pervaso di capelli
scarmigliati. Emanava un buonissimo profumo, quello si infilò con violenza su
per le narici e lui alzò un pelo la testa, cercando, sforzandosi in tutti i
modi di controllarsi…
Emily lanciò un’esclamazione e
Jacque capì che i canini non erano riusciti a trattenersi. Lui le sorrise per
farle capire che andava tutto bene.
L’odore era forte ma lui non le
avrebbe mai fatto del male. Si avvicinò piano al suo volto e lei gli sfiorò una
zanna con un dito. Poi, coraggiosa, lo baciò e Jacque raggiunse l’apice,
sentendo la sua forza che piacevolmente si sbriciolava in tremori e ansimi.
Si buttò sul letto accanto a
Emily. Anche lei ansimava e lui la guardò, nuda e bella, che rabbrividiva.
“E’ unicamente per questo che
tenete letti in casa eh?” fece la ragazza. Aveva scoperto che Jacque, Acilia ed
Eike dormivano in una stanza sotterranea, ma nella casa c’erano comunque due
camere provviste di letto.
Per tutta risposta, il ragazzo
scoppiò a ridere.
“E’ la prima volta” disse ancora
Emily “che lo faccio con un vampiro. E’ intenso”.
“E’ la prima volta che lo faccio
con un’umana, da vampiro” rispose lui sorridendo “Viva le prime volte”.
Lei si girò su un fianco e lo
guardò.
“Vuol dire che l’hai fatto con
delle ragazze vampire?” fece.
Jacque esitò. Emily aveva la
capacità di toccare gli argomenti meno piacevoli.
“Sì, un paio” rispose, vago.
“Non sono tante, per uno che ha
cento anni” osservò la ragazza, divertita “Ci stavi insieme?” aggiunse dopo un
po’.
“No” disse lui, secco.
Emily sembrava risentita. “Non ne
vuoi parlare? Io non avrei problemi a parlarti dei miei ex”.
Lei non avrebbe problemi.
Jacque ne aveva sempre, di
problemi, se si trattava di Acilia. Era una cosa che odiava. Era sempre lì,
presente, a rovinare tutto, era riuscita a rovinare pure quel bel momento…
Emily lo guardava in attesa, con
un vago cipiglio.
O forse era lui che rovinava
tutto.
“Non è che non ne voglio parlare,
è che non c’è molto da dire” mentì.
“Quanti ragazzi hai avuto?” si
affrettò ad aggiungere, per cambiare argomento.
“Quattro storie serie” sospirò
Emily “ma nessuno è resistito più di dieci mesi”.
“Resistito?” rise Jacque.
“Sì. Io, beh, sono strana,
infantile, irresponsabile… Queste sono le scuse che mi rifilavano”.
Lui ridacchiò. Emily era solo…
buffa, divertente e tremendamente curiosa. Però in quel momento era lì con lui,
e questo purtroppo faceva di lei la più grande irresponsabile del mondo.
“La mia amica Lydia è fidanzata da
cinque anni… Un’altra mia amica è già sposata, una ha addirittura un figlio!”
fece Emily, con voce incredula “E io…”.
“Tu sei a letto, nuda, con un
vampiro” completò Jacque, serio.
Emily aveva una faccia colpevole
ma lui scherzava e cercò di rimediare: “Ti ricordi quando ti ho detto che tu di
vita ne hai una sola? E di non sprecarla con me?”.
Lei, ancora più colpevole, annuì e
lui disse: “Beh, proprio perché è una sola sei libera di sprecarla come e con
chi vuoi. Non farti condizionare da quello che fanno gli altri, chiaro?”.
Emily strabuzzò gli occhi e poi
sorrise. “Non me l’aspettavo questo da te”.
“Non ho cambiato idea, puoi
lasciarmi quando vuoi” ribatté Jacque, accarezzandole una guancia “Solo che…
ormai mi sto affezionando a te”.
Lei arrossì un pelo. “Con tutte le
brutte cose che ti ho detto…” sussurrò.
“Come quando mi hai chiesto quante
persone ho ucciso?” domandò Jacque.
Si pentì di averne parlato perché
vide la ragazza sussultare e diventare ancora più rossa.
“Guarda che non me la sono presa”
disse subito.
Emily si strinse il lenzuolo
addosso, coprendosi. Aveva gli occhi rivolti verso il basso. “Mi dispiace… Io…
Non riuscirei a parlare di queste cose”.
Jacque si sentì dispiaciuto. Non
sapeva neanche il perché. Possibile che avesse voglia di condividere con
qualcuno le cose più brutte della sua vita?
“Non riusciresti più a chiedermi
quante persone ho ucciso?” insistette.
Emily inspirò a fondo. “No… Io…”.
Lo guardò finalmente in faccia. “Non sai quanto mi piacerebbe parlare con te
con naturalezza del tuo passato” fece in un soffio.
Però delle ragazze che ho avuto
voleva parlarne, pensò amaramente Jacque.
“E’ solo perché sono un vampiro”
disse, lentamente “Ma tu mi chiedi quante persone ho ucciso… E io non parlerei
solo del mio essere vampiro, ho ucciso molte persone anche quando ero umano”.
La ragazza parve sorpresa.
“Sono andato in guerra, Emily”
spiegò Jacque.
“Oh, già, tu sei di…”.
“Quel periodo lì, sì”.
Ancora una faccia colpevole si
dipinse sul volto di Emily. Ma recuperò in fretta. “Non conta… La guerra è la
guerra”.
Jacque alzò un sopracciglio. “Non
conta?”.
“Non volevo dire questo. Insomma,
non credo tu fossi un interventista” disse la ragazza in fretta.
“No, non lo ero”.
“E allora non avevi scelta! Era
lotta per la sopravvivenza!”.
Jacque sospirò e abbandonò la
testa sul cuscino. “Anche per un vampiro è lotta per la sopravvivenza, ogni
giorno. Almeno per quelli come me”.
Emily aveva un’espressione
spaventata. “Jacque, mi dispiace! Non volevo dire… Non ti considero un
assassino!”.
“Ma è quello che sono” fece lui,
quasi in un sussurro “E faresti meglio ad accettarlo anche tu”.
“Lo accetto se tu accetti il fatto
che non è stata una scelta tua” ribatté Emily.
Jacque le sorrise, riconoscente. Ma
quando gli sembrava che tutto quello che avesse fatto non fosse stata una
scelta sua gli veniva da pensare che la si ha sempre, una scelta.
“Tu sei un vampiro progressista no? Per non dire buono… Del
partito di Acilia” andò avanti Emily “Tu non mi vuoi dire niente della tua
trasformazione ma…” esitò un momento “credo che tu sia fortunato ad avere
Acilia come creatrice”.
Qualcosa in Jacque si irrigidì.
“Immagino che lei non abbia avuto
scelta” proseguì Emily “come te con Eike”.
“Qualcosa del genere” borbottò
lui.
“Lei… dev’essere una tosta. Tutti
gli anni che ha vissuto, quello che ha passato, quello che ha costruito…
L’ammiro” disse Emily.
Jacque avrebbe preferito che la
smettesse di parlare di Acilia, eppure non gli dava così fastidio. Lo sapeva
che Acilia, alla fine, era una persona – o meglio, un vampiro – da ammirare.
“Perché aveva mollato la
Rappresentanza?” chiese la ragazza.
La solita curiosa.
“Non lo so” rispose Jacque. Non
era del tutto vero. Lo sapeva che era qualcosa che aveva a che fare con lui,
con quello che lui le diceva, fin dall’inizio, ma non l’aveva mai capito cosa
le frullasse per la testa. Non capiva che potere avesse lui su di lei. Credeva
nessuno.
Lo sai perché l’ho fatto!
Credeva…
“E adesso è tornata dentro perché
il capo del PO è molto pericoloso” ricordò Emily, pensierosa.
Jacque si riscosse. Gli piacevano
tanto l’interesse e l’audacia che Emily dimostrava.
“Tu non vorresti entrare in
politica?” chiese lei.
Lui fece un sorrisino. “Non mi ci
vedo molto… E comunque per entrare nella Rappresentanza bisogna essere
Maggiori”.
“Maggiori?” domandò Emily, con la
bocca spalancata.
“Sì, cioè avere almeno cinquecento
anni” spiegò l’altro “E’ la legge numero uno: per entrare nella Rappresentanza
bisogna essere Maggiori; per essere un prefetto devi essere Anziano, cioè avere
almeno mille anni; per essere il capo di un partito devi essere Veterano, cioè
avere più di millecinquecento anni. Per entrare nella Corporazione per la
Sicurezza invece bisogna avere almeno settecento anni”.
“Corporazione per la Sicurezza?”.
“Sì, è la squadra di cui
ogni prefetto è capo. Una specie di polizia
vampiresca, puniscono i vampiri che infrangono la legge”.
Emily era a bocca aperta. “Wow. E il Presidente? Quanti anni ha il
presidente?”.
“Lyuben ne ha un sacco, molto più
di duemila credo” fece Jacque, pensoso “E’ un Superiore insomma. I presidenti
vengono eletti tra i Superiori, cioè tra quelli che hanno più di duemila anni”.
La ragazza annuì e lui continuò a
spiegare: “Una volta il Superiore era il vampiro capo di una certa zona… Una
specie di re. Con la rivoluzione il termine ha cambiato significato”. Un po’
gli piaceva il fatto che Emily pendesse dalle sue labbra.
“Rivoluzione?”. Il viso della
ragazza infatti era sempre più allibito.
“Beh, sì, non è che da un giorno
all’altro i vampiri hanno deciso di creare una Rappresentanza vampiresca! Hai
studiato storia, dovresti sapere come vanno queste cose” la stuzzicò Jacque,
pizzicandole un braccio. Ridacchiò, allo sguardo fantasticante di Emily.
“Acilia e Dubris l’hanno vissuta… L’hanno iniziata praticamente loro”.
La ragazza sgranò gli occhi. “Oh,
allora anche il simpaticone è uno tosto”.
Jacque fece una smorfia. “Così
pare”.
Lei si lasciò andare mollemente
sul letto, con un’aria trasognata negli occhi.
“Lo so che non posso farlo ma ti
giuro, muoio dalla voglia di scrivere
un articolo su questa roba! Ci scriverei anche un libro!”.
Francia, 1447
“Uccidere un cavaliere della morte
non è facile” stava spiegando Lyuben “Ci sono solo due possibilità: staccargli
la testa oppure piantargli un pezzo di legno nel cuore”.
“Una passeggiata insomma” borbottò
Mathias.
“Lucius avrà un sacco di mollaccioni ai suoi piedi. Siamo troppo
pochi” osservò Dubris, camminando avanti e indietro. Lo faceva sempre quando si
discuteva di qualcosa, ad Acilia faceva venire il mal di mare.
“Per quando arriveremo a Firenze
avremo reclutato qualcun altro” disse Ramona, sicura “Avevi detto Firenze,
giusto Fernand?”.
Fernand annuì. Era quello che
dimostrava più anni del gruppo, con la sua folta barba scura, ed era un tipo
piuttosto taciturno. Da umano viveva da solo, in una casa isolata, vicino ad
Arles. Il cavaliere della morte che l’aveva trasformato era terribile, a detta
sua, e gli era sfuggito, nella disperata ricerca di compagni migliori. Aveva
trovato Mathias, più vecchio di lui, sebbene col volto di un ragazzo, che aveva
perso i contatti col suo creatore da molto tempo, e che girovagava da solo. Era
stata una fortuna incontrarli. Fernand aveva offerto a tutti loro la sua casa,
dove potevano rifugiarsi durante il giorno e stare nascosti di notte per
progettare il loro piano. Inoltre aveva dato loro preziose informazioni su
Lucius: il loro bersaglio risiedeva a Firenze, e aveva milleseicento anni.
Ma Acilia non aveva dimenticato il
suo scopo principale. Ogni giorno insegnava a tutti loro come controllare la
loro sete di sangue. Lyuben era un apprendista modello, e anche Dubris se la
cavava. Ramona era molto migliorata, ma faceva fatica, non di meno dei due
nuovi arrivati. A volte ad Acilia sembrava un’impresa impossibile, si sentiva
spaventata e umiliata ogni volta che un umano moriva per un loro sbaglio. Ma lo
spirito le si risollevava sempre quando vedeva dei progressi. Quella stessa
sera Fernand era riuscito per la prima volta a incantare una persona, che aveva
poi lasciato andare. Quella stessa sera Acilia l’aveva visto sorridere per la
prima volta, e anche lei si sentiva più leggera.
“Non è solo il numero che conta”
disse Lyuben, paziente “E’ soprattutto l’età”. Fece vagare il suo sguardo su
tutti. “Ramona e Fernand non fanno neanche trecento anni insieme”.
“Io ne ho quasi cinquecento”
intervenne Mathias, con un velo di orgoglio.
Lyuben si limitò a sospirare.
“Quindi dovremmo trovare cavalieri
della morte vecchi” disse Acilia “E quelli più vecchi sono quelli più difficili
da corrompere”.
“Io ho millenovecento anni,
Acilia” disse l’altro, guardandola serio “Eppure mi hai conquistato subito”.
Acilia non ne sapeva il motivo ma
quelle parole dette da lui la
lusingarono molto.
“Quando si è vecchi e stufi, può
essere salvifico avere qualcosa in cui sperare ”. Lyuben continuava a guardarla
col suo volto gentile e Dubris sbottò, irritato senza apparente motivo: “Bene,
allora usciamo e mettiamoci a cercare dei vecchi”.
Il biondo spostò lo sguardo su di
lui, per nulla seccato. “Dovremo girare a lungo, e, se mi è permesso, vorrei
insegnarvi qualcosa per andare ancora più veloci”.
“Vuoi insegnarci a volare?”
scoppiò a ridere Ramona, sarcastica.
Lyuben la guardò sorridendo.
“Esattamente, Ramona”. Lei e gli altri tre avevano la bocca aperta. Acilia lo
sapeva che volare per loro era possibile, ma non ci aveva mai provato. L’idea
di spiattellarsi, rompersi qualcosa e stare a guardare il suo corpo mentre si rigenerava
non l’allettava.
“Fernand e Ramona sono troppo
giovani per poter imparare. Mathias ha qualche possibilità…” rifletté Lyuben.
Acilia lesse la delusione nei volti dei più giovani. Il biondo intanto si era
alzato in piedi e aveva aperto la porta. Si fece da parte e con un gesto
gentile invitò tutti ad uscire.
Uscirono nella notte fonda e si
misero in cerchio intorno al più vecchio.
“A cosa pensate quando incantate
un umano?” domandò quello.
“A niente” rispose Ramona,
perplessa.
“Benissimo, dovete liberare la mente e focalizzarvi solo ed
unicamente su quello che state facendo. Incantare qualcuno è più facile perché
avete un punto di riferimento: gli occhi dell’umano. Per volare non potete
concentrarvi su nulla se non sull’aria che sentite sulla pelle”.
Acilia inarcò le sopracciglia. Non
sembrava una cosa molto semplice.
Lyuben si stava librando in aria,
composto come sempre. Poi scomparve e riapparve proprio dietro di lei, sempre
in volo. Acilia sbarrò gli occhi mentre sentiva gli altri lanciare esclamazioni
entusiaste. Quando correvano loro andavano molto veloci, ma quello… quello era
ancora di più.
“Ma se voi tutti imparate a
volare” fece la voce di Ramona, un po’ intristita “Noi come faremo a stare al
vostro passo?”.
Lyuben subito si diresse verso di
lei e le tese la mano. “Mi permetti?”.
Ramona sbatté le palpebre,
confusa, poi gli prese la mano. Per un momento sembrò che il biondo
l’avvolgesse con le sue braccia ma poi divennero entrambi una macchia confusa e
i loro colori si mischiarono per poi scomparire. Acilia sentì un grido dal
cielo e alzò lo sguardo. Lyuben si era innalzato di almeno quindici braccia e
Ramona era tra le sue braccia.
Subito furono di nuovo a terra e
l’uomo fece scendere la donna a terra con delicatezza. Ramona era visibilmente
scossa ma dall’espressione del suo viso non era tanto per il volo.
Acilia non poté fare a meno di
rivolgere uno sguardo a Dubris e notò che lui era del tutto tranquillo, solo un
vago cipiglio che però lo faceva sembrare concentrato, non contrariato. Tornò a
fissare Lyuben.
Era tutto molto chiaro, volare per
essere più veloci e portare con sé chi non sapeva volare. Molto chiaro, in
teoria, e in pratica?
Si puntellò sulle punte, chiudendo
gli occhi.
Vola, pensò, sentendosi parecchio
stupida. I piedi erano ancora ben piantati al terreno. Ho la mente libera, si
disse, ho la mente libera. Si rese conto che non era affatto vero. Pensava a
Fernand con lo sguardo spento, a Ramona che guardava Lyuben quasi adulatoria, a
Lucius che le aveva tolto la vita, a Miguel, ancora a Miguel e a Marcus, che
non aveva potuto insegnarle a volare perché se n’era andato troppo presto…
Ramona a volte le chiedeva
qualcosa sul conto di Marcus. Perché l’avesse trasformata, che tipo fosse, come
se n’era andato. Acilia non l’aveva mai conosciuto fino in fondo. Troppo presa
dal suo tormento, non aveva mai visto il suo, e ora non avrebbe potuto
chiedergli più niente. Le sarebbe piaciuto che lui fosse lì, con loro. Sarebbe
stato orgoglioso di lei, l’avrebbe aiutata a insegnare a tutti come essere meno
mostri, lui e Lyuben insieme sarebbero stati fortissimi. Il suo sogno forse
poteva realizzarsi.
Ma lui se n’è andato.
Se lui ci fosse stato, lei non
avrebbe fatto quello che aveva fatto. Una bambina avrebbe potuto crescere
insieme a suo padre, un uomo dagli occhi dorati avrebbe avuto dei nipoti e
sarebbe morto felice, chissà quante persone non avrebbero vissuto nel terrore e
meno sangue, meno sangue dappertutto…
“Non stai liberando la mente” le
bisbigliò qualcuno all’orecchio sinistro.
Acilia volto la testa e vide
Dubris, molto vicino a lei. Alto e allampanato, non era bellissimo, ma neanche
brutto. Eppure lei vedeva Miguel, lo vedeva ancora dappertutto.
Libera la mente!
Lyuben faceva il creatore con
loro, era un insegnante, proprio come lei… Le ricordava Marcus, anche se Marcus
era diverso.
Libera la mente…
La polvere, la sentiva ancora la
dita.
Ti odio…
L’odio che tanto aveva alimentato
i suoi primi anni da non-morta si era sgonfiato ed esploso come una bolla di
sapone quando aveva incontrato la famiglia di Miguel. Nemesio teneva una
cinghia e frustrava le persone. Lolita bruciava nella crudeltà dell’uomo.
Agnese, attaccata a una corda, penzolava nel vuoto, Acilia le vedeva i piedi e
le caviglie sporche…
Non siamo bestie.
Marcus e Lyuben avrebbero potuto
insegnare un po’ di umanità agli umani stessi. Lei? Lei, lei no… Aveva capito
tutto in ritardo, era arrivata dopo, aveva pensato solo a se stessa. Ma il
vento ancora le accarezzava la pelle, gelido, come la notte in cui era venuta
alle tenebre.
Libera la mente.
Acilia inspirò a fondo e aprì gli
occhi. Intorno a lei vedeva della polvere viaggiare così piano. Lei poteva
vedere tutto. Al buio, distingueva i colori, vedeva, contava i granelli di
polvere. I suoi sandali non toccavano nulla. Voleva andare sempre più in alto,
andare sopra al mondo, sentire la musica perfetta dell’universo. Ma la polvere
dalla Terra l’avrebbe seguita e non l’avrebbe mai lasciata andare…
Voleva morire, ma finiva sempre per obbedirgli. Aveva uno strano
potere su di lei, non riusciva a dirgli di no. Era qualcosa che aveva a che
fare col sangue, ne era sicura. Aveva il suo sangue
dentro, era quello che la faceva parlare, che la faceva muovere, che la faceva
urlare.
“Marcus” disse, con voce bassa e roca. La sua voce si consumava, a
forza di urlare. Era l’unica cosa di lei che si consumava.
L’uomo che era seduto al suo fianco si voltò, e i suoi lunghi capelli
castano scuro ondeggiarono. Le puntò gli occhi addosso. Aveva i lineamenti
delicati, ma quegli occhi erano sempre così severi.
“Ti prego” disse Acilia, stringendo nella mano un lembo della sua
tunica “Voglio rivedere mia sorella”.
Marcus la fece fare, ma non mostrò pietà nel volto. “Tua sorella è
grande ormai”.
“Voglio rivederla prima che muoia”.
“Non puoi”.
Acilia socchiuse gli occhi cercando di ricordarsi la sua piccola Lia.
Il viso dolce, spensierato, i capelli mori uguali ai suoi. Aveva ancora tra le
dita la tunica di Marcus. Come una bambina molto piccola, che rimane attaccata
alla mano della madre o del padre, non lo voleva mai lasciare andare.
Quanto l’aveva odiato, quell’uomo. Quella notte di tanti anni prima,
la notte in cui era risorta lei e morto Manlio, rimaneva colorata della
disperazione più nera. Marcus le aveva detto che era possibile vivere anche per
loro, ma lei non voleva farlo, non voleva più vivere. Nessuno poteva darle la
felicità che neanche credeva di avere. Non lo sapeva, ma solo qualche anno
prima lei aveva tutto, perché aveva la vita. Poteva tutto, perché era viva.
Invece ora doveva stare nascosta da tutti, l’unica sua compagnia era
Marcus. Lui ogni tanto parlava con altri come loro, lo sentiva anche dare
ordini. Allora non dà ordini solo a me, aveva pensato lei. Ma lei non aveva
voglia di parlare con nessuno. Ombre che passavano e la guardavano, sentiva
Marcus che diceva: “E’ giovane, e spaventata”.
Davanti a loro in quel momento c’era il corpo esanime di un uomo di
circa quarant’anni. Acilia stringeva forte la tunica di Marcus, e teneva chiusi
gli occhi.
Aveva fallito ancora. Marcus le diceva che poteva farcela, a
controllare la sua sete. Aveva imparato a incantare le persone, non le piaceva
ma l’aveva imparato. Era la sete che era ingestibile.
Sentì qualcosa di liscio sulla sua mano. Marcus la stava accarezzando.
Acilia si sentì per un momento meno debole e aprì un occhio. Come poco
prima, gli occhi di Marcus erano severi. Erano marroni, con una strana
spruzzata di verde al centro. I colori li vedevano bene, loro.
Voltò la testa lentamente. Manlio ricambiava uno sguardo orribile, in
un volto incavato e vuoto.
Acilia urlò e le grida le riempirono immediatamente la testa. Urlare
le serviva a non pensare.
Due mani le presero il volto e Acilia non vide più Manlio. Il volto di
Marcus galleggiava davanti a lei. “Non è Manlio quello” disse, fermamente.
Non importava, era un uomo che lei aveva ucciso. E in tutti loro lei
vedeva Manlio.
“Acilia, smettila di urlare” disse ancora Marcus.
Stava ancora urlando? Non se n’era resa conto.
“Acilia, smettila!”.
Non ci riusciva, era così difficile da capire?
Poteva urlare fortissimo, e finché avesse voluto. I polmoni non
potevano scoppiarle.
“Smettila!”.
Un colpo la riscosse. Marcus le aveva dato uno schiaffo sul volto e
lei scivolò mollemente lungo la parete a cui era appoggiata. Era quella la loro
casa, vecchie macerie di un vecchio monumento.
Ritrovò la voce, ma non per gridare.
“Perché mi tratti così?” fece, fiocamente.
Marcus aveva un’espressione triste. “Non ti voglio ferire, ti voglio
bene”.
“Se mi vuoi bene allora uccidimi”.
“L’ho già fatto una volta e non lo farò di nuovo”.
Acilia a volte aveva provato a pensare a che vita avesse condotto
Marcus prima di incontrare lei. Ci pensava un po’, poi le veniva di nuovo
voglia di urlare e allora non pensava più. Non glielo chiedeva mai, non gli
chiedeva mai niente del suo passato. Avrebbe voluto, ma non ne trovava mai la
forza.
A volte nelle sue mani forti che la sorreggevano rivedeva quelle di
Manlio. Allora pensava che avrebbe potuto amare Marcus. A volte lo credeva
davvero. Sentiva un gran trasporto verso di lui. Ma poi arrivavano la sete, il
sangue che implorava, una nuova vittima, le urla.
“Potresti provarci di nuovo” disse Marcus.
“Cosa?”.
Non voleva provarci di nuovo, non voleva provarci più.
“Adesso hai sete?”.
“Poca”.
Aveva svuotato un uomo intero, per Castore! Avrebbe dovuto avere
ancora sete? Eppure un po’ ce l’aveva. Non se ne andava mai, non del tutto.
“Sei ha poca sete riuscirai a trattenerti di più. Vuoi provare?”. Il
suo tono di voce si era fatto dolce. Marcus aveva questa insopportabile
presunzione di dare per certo che se lei fosse riuscita a non uccidere, si
sarebbe sentita meglio. Beh, in realtà, forse aveva ragione.
“Perché lo fai?” chiese.
“Faccio cosa?”.
“Tu sei importante qui. Ti danno tutti ascolto? Nessuno uccide?”.
Marcus fece un sorriso triste. “Io sono il Superiore, però sono pochi
che mi danno ascolto”.
“Quanti?”.
“Due”.
“E quanti siamo in tutto?”.
“A Roma? Una ventina al massimo”.
Acilia annuì. Venti meno Marcus, lei e altri due. C’erano sedici
mostri assetati di sangue. Tra quei sedici c’era anche Lucius. Provò un moto di
stizza nel pensare a quel nome e si sentì un attimo più vitale. Marcus era
innocente, non era colpa sua. Lo odiava perché non l’aveva lasciata morire e
non la lasciava bruciare ma in un certo senso gli era anche grata di questo.
Quello che c’era dopo la morte la spaventava.
“Non li convincerai mai quei sedici” disse in un soffio.
Marcus la stava fissando intensamente. “Mi basta convincere te per
ora”.
Acilia sentì un brivido percorrerle la schiena. Era una sensazione
simile a quella che aveva provato con Manlio.
“Non siamo bestie” insistette Marcus.
“Non siamo tutti forti come te” replicò Acilia, stancamente.
L’altro le tese una mano, per aiutarla ad alzarsi. “Tra ottocento anni
sarai forte anche tu. Aiuterai quelli come noi, come io ora sto aiutando te e
sarai meravigliosa, fidati”.
Acilia vide il cielo ai suoi
piedi. Il mondo si era capovolto e lei stava precipitando. Una scossa e un
lieve dolore alla schiena l’avvertirono che era arrivata a terra.
“Aci! Stai bene?”.
Aprì gli occhi e a fatica si mise
seduta. Non sapeva quanto stesse volando in alto ma probabilmente si era rotta
qualcosa. Sentì dolorosamente le ossa che si ricomponevano e strinse i denti.
Dubris corse subito in suo aiuto e
le tese le mani. Lei le prese e si alzò, sentendo di nuovo la forza che le
scorreva nel corpo. Lui però non le lasciava le mani.
Dubris, piantala.
Sentì gli altri che accorrevano e
lei si liberò dalla presa del ragazzo. Lyuben la guardava con un piccolo
sorriso. “Sei stata su parecchio” disse, con disinvoltura.
“Per cadere poi come una pera da
un albero” sghignazzò Mathias.
“Come se tu fossi riuscito ad
alzarti di un piede” lo rimbeccò Ramona.
Acilia non si offese e si scrollò
la polvere e la terra che aveva sui vestiti.
“Non ho liberato la mente, per
niente” disse, guardando Lyuben, come se dovesse giustificarsi. Sentiva la
polvere tra le dita e si sentiva smuovere un mare di ricordi che davvero
l’avrebbero fatta piangere.
Tra ottocento anni.
Marcus aveva avuto torto. E quelle
sue parole suonavano tanto come un addio.
“Non possiamo non fare niente!”.
Dubris, con un’esasperazione ben
visibile in volto, camminava avanti e indietro, come al solito.
“Ha ragione Lyuben, Dubris”
intervenne Ramona “Abbiamo le mani legate”.
Acilia ascoltava con attenzione
ogni parola, nervosamente, seduta al tavolo tra Victoire e Ramona. Il discorso
di Kaeso di due giorni prima aveva alzato un gran polverone e Lyuben aveva
indetto una riunione segreta per discutere sul da farsi. Quella era la sua
dimora, sempre sottoterra come lo era la
Sede e tutte le stanze in cui alloggiavano i membri della Rappresentanza. Anche
Dubris ed Acilia ora ne avevano una, ma lei contava di fermarsi il meno
possibile. L’agitazione di Dubris era quasi palpabile anche di giorno, mentre
dormivano stesi sul pavimento l’uno accanto all’altra.
“Quello è un pazzo” disse Luca,
con enfasi “Non possiamo stare fermi a guardare mentre la gente cambia partito
solo perché fa ridere!”.
“Non è solo perché fa ridere”
replicò Victoire, con disappunto “E’ tremendamente abile. Con poche parole ha
smontato tutti i punti cardine del PPC, ha detto quello che tutti i vampiri,
più o meno inconsciamente, sanno e che purtroppo vogliono sentirsi dire”.
“Erano cose che volevi sentirti dire?”
fece Luca con una smorfia.
L’altra alzò gli occhi al cielo.
“Dico solo che non dobbiamo sottovalutarlo etichettandolo come pagliaccio,
Kaeso sa bene quello che fa e sa come farsi ascoltare”.
“Beh, non mi sembra di aver detto
che…”.
Dubris batté improvvisamente le
mani sul tavolo, di fronte a Lyuben, che teneva la testa tre le mani con
espressione afflitta, e la frase di Luca terminò con un sussulto.
“Lyuben” fece il prefetto, con
sguardo serissimo “Non crederai che quelle di Kaeso siano solo parole, sono
cose che lui davvero vuole fare, sono cose che lui fa già! E quando porterà dalla sua parte abbastanza gente per…”.
“Lo so, Dubris, lo so” disse il
presidente alzando la testa, leggermente scocciato “Lo so che Kaeso e qualche
suo amico fanno stragi di umani, e non sono gli unici. Ma finché non lo cogliamo
in flagrante non possiamo arrestarlo. Non sono solo parole ma quello che vediamo per ora è questo, solo parole! E
per le parole non si arresta, non più”.
Dubris serrò la mascella, senza
sapere cosa dire. Passò qualche istante prima che lui disse, con una luce
terribile negli occhi: “Uccidiamolo”.
Acilia ebbe un fremito. Fissò il
suo compagno rosso e pensò che era mosso da giustissimi ideali ma che così
mostrava solo la sua stupidità. Tutti erano rimasti zitti, persino Luca. Allora
Acilia prese la parola, rude: “Per fomentare una rivolta da parte del PO?”.
Dubris parve riflettere e Ramona
intanto le diede manforte: “Ha ragione Aci. Quelli non aspettano altro che
facciamo una mossa falsa per farci cadere e prendere in mano il governo!”.
“E’ vero” convenne Dubris “Ma…”.
Non sembrava essere in grado di trovare le parole. Acilia lo capiva, lui aveva
la sensazione che Kaeso potesse combinare qualcosa di terribile. Ma finché
c’erano lei e Lyuben, cosa avrebbe potuto fare… Ci pensava ma ci pensava poco,
forse non voleva trovare la risposta.
Lyuben si era alzato dalla sedia
senza l’ombra di un sorriso.
“Non passeremo dalla parte del
torto” dichiarò. Ramona gli sfiorò la mano, come per calmarlo. Come se ce ne
fosse bisogno, pensò Acilia trattenendo un sorriso, Lyuben è sempre stato un pacifista, e Ramona
d’altronde è sempre stata perdutamente innamorata di lui.
Lyuben era alto e massiccio, coi
capelli biondi lisci che gli arrivavano poco sopra alle spalle larghe. Coi suoi
modi da signore e la sua fermezza, forse anche Acilia avrebbe potuto
innamorarsi di lui. Sarebbe stata una storia d’amore perfetta, come lo era
quella di lui con Ramona. Ma all’epoca in cui l’aveva conosciuto, Acilia aveva
la mente invasa dai ricordi di Miguel e di quella calda umanità che avrebbe
voluto ancora sentire addosso.
Anche Dubris era molto alto e,
smilzo com’era, cercava di tenere testa al Presidente. “Abbiamo faticato tanto
per costruire tutto questo, non farlo andare in polvere”. Più che una sfida, il
suo tono celava quasi una supplica.
Ramona parve intenerirsi, con lo
sguardo che guizzava dal suo creatore e al suo uomo.
Intervenne Victoire, col suo tono
pratico: “Ecco cosa possiamo fare. Sorveglieremo Kaeso senza farci vedere.
Prima o poi farà qualcosa per cui potremo arrestarlo”.
Ramona si mordicchiò il labbro.
“Kaeso è più vecchio di molti di noi, potrebbe essere pericoloso” disse,
guardandosi intorno “Ve la sentite?”.
Acilia in realtà non se la sentiva
troppo, non che avesse paura. Ma poi ripensò al discorso che aveva dovuto
sentire, che Kaeso aveva rivolto esclusivamente a lei, per farle sentire la sua presenza, per ricordarle chi fosse,
per farla vacillare. Con quell’orazione aveva lentamente e violentemente
cominciato a fare pezzi tutto il loro operato, il sogno di Marcus, su cui lui,
viscido e brutale, non avrebbe mai potuto mettere i piedi, Acilia non l’avrebbe
permesso.
Marcus non sarebbe fiero, Aci…
Nessuno ebbe niente da ribattere
ma nessuno pareva davvero convinto.
Lyuben era ancora in piedi e
Acilia pensò di non averlo mai visto così preoccupato.
“D’accordo” disse il presidente
“Per oggi abbiamo finito”.
Era strano, il suo tono di voce
era strano. Ramona continuava a tenergli la mano ed Acilia capì che se Lyuben Vladimir era preoccupato, la
situazione era davvero grave.
Roma, 118
Gli occhi dell’umano erano piccoli
e scuri. La pupilla si era dilatata tantissimo ma Acilia non poteva vederci il
suo riflesso dentro.
“Vieni con me” disse, concentrata.
L’ometto, basso e un po’ tozzo,
annuì docilmente. La guardava come se fosse innamorato di lei.
Acilia lo condusse via dalla
strada e raggiunse un prato deserto. Sapeva che Marcus era dietro uno di quegli
alberi e la osservava. Gli aveva chiesto di intervenire. Se lei non ci fosse
ancora riuscita, lui sarebbe dovuto intervenire.
Toccò delicatamente la guancia
dell’uomo, sforzandosi di sorridere. Scappa, gli avrebbe voluto dire, fuggi da
me.
Aprì la bocca e i canini si
allungarono. Li sentiva pungere il suo labbro inferiore. Li odiava, ma il
sangue la stava inebriando e non sapeva più se sarebbe riuscita a controllarsi.
L’uomo aprì la bocca in una O,
lievemente sorpreso, e Acilia gli sussurrò all’orecchio: “Non sentirai niente”.
Poi azzannò il suo collo, lì dove vedeva la sua vena più grossa e il sangue
cominciò a scorrerle, delizioso, sulla lingua, mentre sentiva l’umano lanciare
basse esclamazioni moderate.
Tu non sei Aci!
Non era di Manlio, quello non era
il sangue di Manlio, non lo era…
Cosa vuoi fare… Mostro! Cosa vuoi fare?!
Non aveva il collo di Manlio tra
le mani, non era la sua pelle. Non era lui perché l’aveva già ucciso. Il suo
terribile volto cinereo la guardava sempre quando chiudeva gli occhi. La verità
era che lei non voleva morire per non
doverlo affrontare nel mondo dei morti, per non dover affrontare il suo sguardo
mortificato, la sua rabbia o la sua tristezza. La sua domanda: Perché l’hai fatto?
Perché l’ha fatto? Perché lo stava
facendo ancora e ancora?
Eppure la sua tristezza non si
trasformava in pietà ma in rabbia e succhiava tutto il sangue che riusciva a
trovarsi, voleva sentirsi sazia, trovare pace, voleva…
“Aci, ascolta il battito”.
Smettila, si disse avvertendo
Marcus vicino a sé, devi concentrarti.
Per chi? Per cosa?!
Non voglio più vedere Manlio…
Il battito dell’uomo era diminuito
parecchio. Suonava lento, come una triste canzone rassegnata.
“Lo senti?”.
Sì, era il momento, doveva
fermarsi.
“Aci, fermati”.
Doveva fermarsi!
Manlio la guardava con gli occhi
colmi d’orrore.
Si staccò dal collo dell’uomo quasi
annaspando. Sentiva il sangue colarle sul labbro e sul mento.
“Mantieni il contatto visivo”
diceva la voce di Marcus.
Acilia, trafelata, cercò gli occhi
dell’umano. Lui aveva ancora lo sguardo incantato, con una mano accarezzava i
due buchi sul collo.
Marcus, soddisfatto, le passò una
ciotola piena di vino e aceto e lei vi intinse un pezzo di tela. Respirando con
calma e continuando a rassicurare l’uomo con sguardo sicuro lavò la ferita che
lui aveva sul collo.
Guardava i suoi occhi. Ora doveva
lasciarlo andare. Era una strana sensazione non vederlo cadere morto ai suoi
piedi, come Manlio…
Aveva di nuovo voglia di urlare ma
quella volta si trattenne. Sentiva per la prima volta qualcosa di vagamente
bello dentro di sé. Marcus aveva ragione, imparare controllare la sua sete
l’avrebbe aiutata a non impazzire.
“Ti coprirai la ferita” disse lei
“Ora vai, e non voltarti indietro”.
L’uomo obbedì e si voltò. Prese a
camminare e non si girò mai indietro. Acilia e Marcus fuggirono in fretta,
tenendosi per mano, prima che l’uomo si svegliasse dall’incanto.
“Vuoi ancora del succo?”
“Sì, grazie”.
Lydia versò in due bicchieri del
succo d’arancia rossa e poggiò il cartoccio sul tavolo. Si sedette sullo
sgabello e portò il bicchiere alla bocca.
Bevve, poi puntò uno sguardo
curioso sulla sua amica.
Emily ricambiò con un’espressione
sconcertata. Bevve un sorso anche lei ma quando il succo raggiunse le sue
labbra ebbe un sussulto involontario. In quel momento aveva la bocca sporca di
liquido rosso. Si pulì velocemente con la lingua, col rosso vivido nella mente.
Jacque doveva averle spesso, le labbra sporche di rosso. La cosa di solito la
spaventava ma a volte inspiegabilmente la eccitava, e questo forse la
spaventava ancora di più.
Lydia aveva ancora quello sguardo
curiosa.
“Stai bene, Emi? Sei un po’ strana
ultimamente”.
“Io? Strana? Perché?”.
L’amica si mise a ridere. “C’entra
un uomo?”.
Emily si sentì arrossire.
Maledetto rosso!
“Macché, magari” disse, sperando
di apparire convincente “Un po’ di caos a lavoro”.
“Beh, almeno non hai più scritto
articoli provocatori” la punzecchiò Lydia.
Emily cercò di apparire disinvolta
ma aveva voglia di mandarla al diavolo.
“Ehi, lo sai che io ammiro sempre
chi va fuori dagli schemi” disse l’altra “Hai fatto una cosa interessante, hai adottato
un altro punto di vista”.
“Già” bofonchiò Emily nel
bicchiere.
Lydia era sua amica dai tempi
delle superiori e avevano frequentato lo stesso corso di studi all’università.
Amante dei libri – ancora più di Emily – Lydia era la più intelligente del loro
anno e il suo sogno era quello di fare l’insegnante di letteratura inglese. Non
avrebbe mai avuto il tipico aspetto da professoressa però, con la sua
corporatura snella e slanciata e i suoi biondi capelli ondosi. Emily sospirò
piano. E si chiedeva pure come facesse a essere fidanzata con lo stesso uomo da
cinque anni.
“E il tirocinio come va?” chiese,
per sviare il discorso vampiresco.
Lydia fece spallucce. “Ci sono
studenti terribili. Parlottano continuamente tra loro, e il bello è che la
professoressa non interviene per farli tacere! Credo che i professori in realtà
odino i tirocinanti, e dire che devono esserci passati anche loro” commentò,
lugubre.
Emily rise. “La gente dimentica,
tesoro. Sei stata anche tu studentessa ma non mi pare che tu ami gli
studenti!”.
L’amica sbuffò, con sguardo
divertito. “Tu non me la racconti giusta” disse poi, con un sorrisetto
preoccupante “Perché non mi vuoi dire che ti vedi con uno?”.
“Eh?”. Emily rimase spiazzata.
“Sam ti ha vista! A due isolati da
qua, con un ragazzo, su una panchina!”.
Maledetto Sam. E perché tutta quell’enfasi sulla parola “panchina”? La panchina è la
cosa più innocente che ci possa essere, cosa puoi fare su una panchina?
“Che cavolo vuol dire ‘su una panchina’?” sbottò Emily.
“Con gli amici si va al bar, si va
a ballare… su una panchina ci stai col fidanzato”.
“Ah sì?”.
Davvero, a volte si vedeva che
Lydia e Sam stessero insieme da cinque anni.
Ad ogni modo, Sam era un maledetto impiccione. Cavolo, era diventato più
pettegolo di una donna.
“Beh, era un amico… Jack” sparò
Emily.
Lydia incrociò le braccia. “Non
hai amici che si chiamano Jack” ribatté “E’ uno che hai conosciuto da poco? Vi
state frequentando?”.
Emily cominciava a sentirsi a
disagio. Non doveva succedere, non doveva succedere! Non avrebbe potuto dire
niente di Jacque!
“Beh… Più o meno…” pigolò “Ma che
ti ha detto Sam?”. Aveva notato il pallore? Gli occhi rossi? Uno schizzo di
sangue?
Accidenti, stava proprio andando
in paranoia.
“Niente” fece Lydia, scrollando le
spalle. “Beh” disse poi, esitando “ha detto che sembrava… molto giovane”.
Oh, se solo sapessi.
Emily avvampò. Faceva pure la
figura della pedofila.
“Sì, dimostra meno anni di quelli
che ha” disse subito.
Molti meno.
Lydia annuì ma sembrava in attesa
di altre spiegazioni. Emily decise di dargliene, dopotutto non poteva certo
destare sospetti. Se avesse saputo, Lydia non l’avrebbe mai denunciata – ne era
sicura – ma Emily non sopportava l’idea di metterla in pericolo. Le alternative
erano due dopotutto: o il carcere o un bel morsetto poco amichevole.
Cercò di apparire naturale. Doveva
smetterla di sentirsi a disagio, lo sapeva che avrebbe dovuto inventare bugie,
lo sapeva che, con Jacque al suo fianco, non sarebbe stata una cosa facile!
“Ha ventiquattro anni e l’ho
conosciuto… in un pub”.
Lydia sorrise. “Accidenti, Emi, ti
sei data a quelli più piccoli! Cosa fa?”.
Piccolissimi.
“Ehm… niente. Si è laureato da
poco e sta cercando lavoro”.
“In cosa?”.
“Lingue” sparò Emily, pensando che
Jacque/Jack conosceva bene il francese e il tedesco.
Lydia era poco convinta. “Non mi
sembra che ti vada di parlare di lui… C’è qualcosa che non va?”.
Emily sospirò. In realtà aveva una
gran voglia di confidarsi e di chiedere aiuto, solo che non poteva farlo.
“Ci stiamo solo frequentando… Non so
se funzionerà”.
Mezza bugia. Loro praticamente
stavano insieme, anche se non alla luce del giorno, ma che non avrebbe
funzionato era evidente. Si era ripromessa di vivere il presente, e così
avrebbe fatto.
Sembra… molto giovane.
Era un ragazzino e sarebbe rimasto
tale. Lei invece aveva quasi trent’anni, la differenza d’età sarebbe stata
sempre evidente. Le sarebbe piaciuto stare con un ventenne? Non cercava l’uomo
maturo?
Jacque è maturo eccome…
Non doveva pensarci, perché tanto
non sarebbero stati insieme a lungo. La cosa le dispiaceva e pensava che
avrebbe davvero voluto che Jacque, con la sua persona e il suo carattere, fosse
Jack, un ragazzo di ventiquattro anni laureato in lingue. Con Jack avrebbe
potuto lasciarsi andare a sogni e desideri. Avrebbe potuto pensare che era lui
l’uomo della sua vita.
Guardò Lydia che la stava fissando
dispiaciuta. Già conviveva con Sam, ancora un po’ e si sarebbero sposati.
Mentre lei andava dietro a un vampiro, senza alcun senso.
Proprio perché la vita è una sola sei libera di sprecarla come e con
chi vuoi. Non farti condizionare da quello che fanno gli altri, chiaro?
Emily si mordicchiò il labbro.
Jacque aveva ragione. Non stava scritto da nessuna parte che una ragazza di
ventisette anni dovesse essere già sistemata.
“Dai, non essere troppo
pessimista, non si può mai sapere!” disse Lydia interrompendo il flusso dei
suoi pensieri “Comunque… E’ su Facebook? Me lo fai vedere?”.
Emily sbarrò gli occhi. Facebook
era una maledizione, altroché una rivoluzione!
“Ehm… no, non c’è”.
Probabilmente Jacque neanche
sapeva cosa fosse, Facebook.
Una strana fitta al cuore la
svegliò.
Si ritrovò a gridare, senza sapere
perché. Come poteva il suo cuore provare dolore? Non era morto il suo cuore?
Provava una strana sensazione. Un
tremito, la consapevolezza che non avrebbe dovuto essere lì. Ma era giorno,
dove altro avrebbe dovuto essere?
Se chiudeva degli occhi vedeva
delle tombe.
Perché aveva addosso questa
sensazione di morte?
Perché sei morta, non giocare a fare la viva.
Vedeva bene una galleria davanti a
sé, un muro di tufo… Era tutto illuminato di quel giallo che ricordava essere
la luce del sole.
Non posso uscire, pensò. Sarebbe
bruciata, e non voleva abbandonare Marcus.
Marcus…
Il petto continuava a farle male,
ma dopo un po’ smise.
Dormi, si ordinò.
Chiuse gli occhi, nell’oscurità
della sua cassa di legno. Affianco alla sua, dentro la terra, c’era quella di
Marcus. Si strinse, sentendolo vicino al cuore.
Marcus…
Quel nome la pungeva, di nuovo il
petto le faceva male. Voleva uscire. Doveva andare all’entrata delle catacombe.
Perché?!
Senza capire, si assopì di nuovo
nel suo sonno di morte, ignorando il male che sembrava stranamente dipanarsi
nel suo corpo.
Il sole calò e lei si svegliò di
nuovo. Precipitosamente, senza neanche rendersene conto, si scagliò fuori dalla
sua bara e scavò nella terra fino a raggiungere la superficie. La notte era
sua, e finalmente era arrivata.
Il prato, la galleria, Marcus.
Guardò alla sua destra e vide il
terriccio perfetto, intatto, senza buche. Si guardò intorno, spaventata.
Possibile che Marcus non fosse andato sotto terra all’alba?
Catacombe.
I suoi piedi la spinsero fino al
posto in cui aveva preso coscienza della sua esistenza da mostro. Cominciava a
capire la sensazione che sentiva. Un presagio di morte? La consapevolezza che
Marcus fosse lì? Ma cosa, cosa ci faceva lì?!
La morte…
“Marcus!” chiamò, guardandosi
intorno. Il panico dentro di lei cresceva, mentre i sandali ciabattavano sul
terreno, violentemente, e la galleria delle catacombe si faceva più visibile. Dov’era
Marcus?
Girò la testa a destra e a manca
più volte, e finalmente lo vide. Il dolore al petto si allentò mentre lei si
avvicinava, e poi si inginocchiava, attonita, davanti a un mucchio di cenere.
Il suo cuore sapeva chi era quella
cenere. Forse era perché gli voleva davvero bene, dopo tutti quegli anni, o era
il sangue di lui, che le scorreva nelle vene, a dirglielo.
Alzò una mano tremante e coi
polpastrelli sfiorò la cenere.
“Marcus” fece, con voce
innaturalmente spezzata.
Ritirò la mano, con le dita
sporche di polvere. La sentiva, sporca e brutta, appiccicata alla mano. Le
faceva un male terribile.
“Perché l’hai fatto” fiatò, con lo
sguardo fisso sul suo maestro ridotto a polvere “Perché l’hai fatto!”.
L’aveva creata, addestrata, aveva
raggiunto il suo scopo? Ora, dopo averle detto che le voleva bene, dopo averle
detto che loro potevano vivere, se ne andava così? L’abbandonava?!
L’odio cominciò a scorrerle nelle
vene insieme al sangue che ribolliva. Buttò le mani sulla cenere e lanciò tutto
all’aria, digrignando i denti e gemendo. Tutto il residuo di Marcus le cadde
addosso e lei gridò, lasciandosi cadere a terra. Spalancò gli occhi e vide
dietro la sua testa l’entrata delle catacombe.
Perché sei morta, non giocare a fare la viva.
Morto, era tutto morto, davvero
morto. Era morta lei, era morto Manlio, era morto Marcus… Ma Marcus, solo
Marcus aveva avuto scelta! E l’aveva abbandonata...
La testa le doleva, il
cuore si stava accartocciando, il sangue zampava, i denti scalpitavano. Li
sentì crescere, lunghi e affilati, cercavano vendetta, vendetta per tutti
quegli insegnamenti che non valevano niente, che valevano polvere.
Non era previsto che Marcus
facesse la tanto attesa comparsa in questo capitolo quindi il capitolo
è un po' improvvisato.. XD e sono venuti tre livelli di tempo,
spero sia convincente lo stesso!
Sara,
le palle da discoteca che brillano al sole mi ha fatto troppo ridere XD
anche Dubris che la sa lunga XD vedo che è piaciuto molto in
generale il confronto Acilia-Emily, non poteva mancare effettivamente..
E Kaeso, speravo risultasse più carismatico però.. beh,
quello che dice lo rende un po' difficile XD
RedTears,
che , crudele, mi smonta la povera Emily XD e mi prende in giro anche
il "cucciolotto Dubris".. Almeno vedo una bella opinione per il Signor
Lyuben! E anche Kaeso vedo che nonostante tutto affascina! :D
Nene,
beh i nomi Marcus e Lucius si possono trovare anche nel Medioevo ma non
è questo il caso.. Sono entrambi del primo secolo e, se
ricordi, hanno avuto un ruolo importante nella trasformazione di Aci ;)
ahahaha Acilia mamma isterica XD no dai, non ha fatto scenate XD Per la
questione politica, no, non mi sono ispirata a niente.. A parte che
è PPC, comunque non c'entrano i comunisti XD E Kaeso.. al
massimo lo vedo vagamente come un Hitler..hai ragione, ci mancano solo
gli umani da compagnia XD
(alla tua recensione al prologo ho risposto con un messaggio!)
Norine,
bene bene vedo che piacciono Eike e Lyuben XD e anche la scena
Emily-Acilia.. certo che sei perdonabile, basta che commenti anche
questo capitolo ;)
Alcune di voi hanno pensato che,
dato che siamo in Francia, a breve ci sarà la storia di Jacque..
Beh, sì, siamo in Francia ma siamo ancora nel quindicesimo
secolo, aspetterete ancora un bel po' :P
Baci!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Scegliere ***
Tredicesimo capitolo
CAPITOLO XIII
SCEGLIERE
Firenze, 1487
Quella sera
pioveva e la loro vista, per quanto fosse perfetta, ne era infastidita.
Firenze era una grande città, la patria della cultura, della
letteratura e della pace. Un gran signore era al governo, dicevano, il
più buono e il più cattivo allo stesso tempo, una figura
ambigua, pacifica ma tremendamente vendicativa.
Le cose erano
cambiate nella sua terra, pensava Acilia. Dove una volta c’era
l’Impero c’erano stati i comuni e c’erano ora le
signorie. Le città erano vicine ma così abissalmente
lontane. La sua Roma, che Acilia sentiva più vicina che mai, era
sotto uno Stato che chiamavano Stato della Chiesa e lei non capiva che
differenza ci fosse con una signoria.
Le gocce d’acque le colpivano la pelle, erano gocce calde e correvano via, mescolandosi al sangue.
Dicevano che
Lucius si faceva chiamare Lucio e che risiedeva in un castello in cima
a un colle. I cavalieri della morte che avevano incontrato in quei
luoghi dicevano che Lucius avesse ucciso la famiglia dei baroni padroni
del castello, e anche tutti i servi, tranne una fanciulla, e nessuno
osava immaginare cosa ne facesse.
Acilia riemerse
dal braccio di un brav’uomo e si pulì la bocca. La pioggia
presto spazzò via il sangue e lei lasciò andare via
l’uomo nella foschia. Sentiva vicino a sé i suoi compagni
che si nutrivano. Dovevano essere in forze, per poter combattere
Lucius.
Un grido lamentoso
le arrivò alle orecchie e lei si voltò. Ramona teneva un
ragazzo cinereo tra le braccia, con sguardo mortificato.
“L’ho
ucciso” biascicò con voce vibrante, col sangue che ancora
aveva in bocca. La donna tremava e sembrava aver perso ogni spirito
combattivo. Era nervosa, ed essere nervosi non aiutava quando dovevano
cibarsi.
Dubris si affrettò ad andarle vicino per darle sostegno.
Un altro corpo morto cadde a terra in una pozza di pioggia e sangue, davanti al volto colpevole di Fernand.
“State
calmi” tuonò tranquilla la voce di Lyuben “Non
agitatevi. Se non ve la sentite di combattere, nessuno vi
obbligherà a farlo”.
Negli anni avevano
trovato altri cavalieri della morte. Alcuni di loro volevano unirsi
nella lotta contro Lucius perché volevano il potere, ma di
seguire la loro linea di sopravvivenza non ne avevano nessuna voglia,
allora, mentre Acilia li avrebbe volentieri usati per un po’ di
addestramento, Lyuben li aveva gentilmente congedati.
Quelli che invece avevano approvato il loro programma erano lì
con loro. Erano poco più di una decina, non erano molti, ma
contavano molto sul fattore sorpresa. E il più vecchio di loro
aveva pressappoco l’età di Lucius, mentre gli altri
avevano un’età compresa tra quella di Mathias e quella di
Acilia.
“Io non voglio che Ramona combatta” dichiarò Dubris “E’ troppo giovane”.
“Dubris, ne abbiamo già parlato”ribatté lei, con di nuovo una lieve vitalità nel volto.
L’altro però non dava l’impressione di voler cedere. “Sono il tuo creatore e mi devi obbedire”.
Ramona lo guardò con odio. “Non sei mica mio padre!” gridò.
Dubris parve
enormemente ferito e Acilia lo sapeva, per quanto fosse incredibile, lo
sapeva come ci si sentiva. Lui aprì la bocca più volte,
finché non recuperò l’uso della parola.
“Tutto questo per te vuol dire morte certa! Possibile che non lo
capisci?!”. La salvezza di Ramona, lui la considerava più
importante, del suo orgoglio ferito.
“Voglio essere utile!” gridò di rimando Ramona “E se devo morire Dio solo lo sa”.
“Anche se Dio esistesse, ti pare che abbia la più minima considerazione di noi?”.
“Oh insomma” intervenne Victoire, seccata “Lascia che sia lei a decidere no?”.
Dubris
guardò Lyuben, esasperato.“Qui tutti ascoltano solo
te!” sbottò, pieno di
disapprovazione“Impedisciglielo tu, per favore… Lo sai
anche tu che morirebbe!”.
Lyuben aveva
un’espressione comprensiva. “Non posso imporre niente a
nessuno, Dubris. Ramona farà quello che si sente”.
Guardò Dubris, che già era pronto a ribattere, dritto
negli occhi: “Ma ti prometto che cercherò in tutti i modi
di tenerla in vita”.
Ramona trasalì visibilmente e al suo creatore si dipinse in faccia un’espressione sorpresa.
“E’
improbabile che ci sia qualcuno di più vecchio e più
forte di me” continuò Lyuben, con tutta la modestia che
una frase del genere poteva avere “Cercherò di proteggere
tutti i più giovani”.
Nessuno ebbe da
ribattere e Acilia si chiese come facesse Lyuben ad essere così
sicuro di sé. Come faceva a sapere di essere il più
vecchio di tutti? Da dove veniva? Chi l’aveva creato?
Lui sembrava così distante e così diverso da loro, e lei non gli aveva mai chiesto niente.
Dubris aveva uno
sguardo assorto e poco felice e Acilia gli si avvicinò. Senza
che gli chiedesse niente, lui borbottò, pieno di rabbia:
“E’ mia figlia. Sono io che devo proteggerla, e non lo
farei certo mandandola a morire”.
Acilia gli prese un braccio e notò che lui aveva il volto fisso su Ramona, che non staccava gli occhi da Lyuben.
“Io non l’abbandonerei…”.
“Dubris”
fece Acilia, tirandogli il braccio “Non la stai abbandonando. Sei
un bravissimo creatore”. Aveva improvvisamente voglia di
piangere. Dubris non aveva avuto un creatore modello come Marcus, era
cresciuto da solo, senza aiuti. Eppure con Ramona non aveva mai
sbagliato nulla.
“Andiamo allora?” fece Mathias, lasciando trapelare una nota di irritazione che probabilmente era agitazione.
Dubris aveva ancora la mascella contratta ma non disse nulla.
“Andiamo” disse Lyuben.
Tutti si misero a
camminare in silenzio, sotto lo scrosciare della pioggia, come in una
sorta di marcia funebre. Solo che non stavano accompagnando nessun
morto, i morti erano loro.
La terra si stava inclinando e loro andavano sempre più in alto.
Fortunatamente,
con quel tempo, poca gente era in giro. Qualcuno si limitava ad
ignorarli, altri li guardavano straniti perché, dopotutto, erano
una bizzarra compagnia di persone pallide che non lavoravano, ma che
passeggiavano tra la pioggia, con le loro espressioni fredde e serie e
con paletti o bastoni di legno in mano.
Era tremendamente
noioso camminare come un essere umano, ad Acilia sembrava di camminare
da ore. Ma poi scorse finalmente la pietra grigia del castello e la
colse una stretta allo stomaco. Le cose non andavano male. Se fosse
riuscita ad uccidere Lucius, avrebbe avuto il potere e avrebbe potuto
fare qualcosa di utile per il mondo. Se, al contrario, fosse rimasta
uccisa lei, beh, non doveva più preoccuparsi di niente.
Manlio…
Miguel…
Morire però
ancora le faceva una paura immensa. Non sapeva cosa ci fosse dopo la
morte, la vera morte. Secondo Ramona, avrebbe rivisto tutti i suoi cari
ed era una cosa che Acilia voleva assolutamente evitare.
C’era un
fossato intorno al castello. Tutti si affrettarono a nascondere le armi
e Acilia, guardandosi prima intorno, spiccò il volo e
arrivò fino al portone. Bussò con convinzione, ignorando
la tensione che si era creata sia nel gruppo sia dentro di lei.
Planò a terra e con uno sguardo fugace vide che Lyuben e Ramona si tenevano per mano.
Poi il ponte levatoio si abbassò e volarono verso di loro tre cavalieri della morte con sguardi arcigni.
“Che cosa volete?” chiese uno di loro, sgarbatamente.
“Chiedo udienza al Superiore Lucio” disse Acilia, a voce alta, avvicinandosi a loro.
I tre si guardarono, poi quello che di loro aveva parlato disse, indicando la compagnia di Acilia: “E loro?”.
“Loro sono miei accompagnatori”rispose lei, tranquilla “Mi aspetteranno qui”.
Doveva arrivare a
Lucius, intrattenerlo, mentre gli altri avrebbero fatto piazza pulita
nel castello, per poi raggiungerla. Poi sarebbe stata lei, lei,per diventare Superiore e per gridare vendetta, a uccidere Lucius.
Sperava tanto che andasse tutto per il meglio.
I tre tipi avevano
un’aria stupida. Dopo qualche attimo si decisero a farla passare.
Uno di loro, basso e con la barba, si avvicinò a lei.
“Ti accompagno”.
Acilia si mordicchiò il labbro.
Uno in più da fare fuori.
Lo seguì
dentro al castello, su per le scale, lungo un corridoio stretto. Il
pavimento e le pareti sembravano pregiate. Lungo i muri c’era un
tunnel di quadri che sembravano rappresentare persone importanti.
Acilia ricordò per un momento quelli che lei stessa aveva nella
sua casa romana. Tanti quadri che per lei non avevano nessun
significato…
Lo scagnozzo di Lucius bussò a una porta e Acilia si preparò mentalmente.
Non sapeva come
sarebbe stato rivederlo dopo tutti quegli anni. Non ricordava quasi
nulla del suo viso, a parte gli occhi, neri ed ipnotici, che
l’avevano catturata in un mare d’oscurità, e non
l’avevano mai più lasciata andare.
“Avanti” fece una voce.
Come ti chiami?
La sua voce era più melodiosa allora… Certo, perché lei era sotto incanto…
L’uomo che era con lei aprì la porta ed entrambi entrarono.
Seduto su un trono
pacchiano stava un uomo dalla corporatura esile, con lunghi capelli
scuri e il naso dritto ed Acilia ricordò improvvisamente ogni
tratto del suo viso.
Lucius, senza
l’ombra di un sorriso, si alzò in piedi di scatto e lei si
sentì letteralmente raggelare il sangue nelle vene.
Eike stava facendo zapping di malavoglia, lo sguardo incollato al televisore.
Fece un sorriso quando capitò nel suo programma preferito. Era uno show stupidissimo di nome Mi è sembrato di vedere un vampiro! ed ad Eike faceva un sacco ridere.
La signora intervistata quella sera era molto anziana.
“Così
lei sostiene di aver visto un vampiro a Preston?” stava dicendo
il presentatore, un uomo tutto sorrisi, che immancabilmente rivolgeva
uno sguardo ammiccante verso la telecamera.
“Sì, io l’ho visto!” rispose la signora con convinzione e la mascella tremolante.
“E com’era?”.
“Era brutto! Peloso… Volava! Ed era… piccolo”. La signora stava entrando visibilmente in confusione.
Il presentatore fece un enorme sorriso alla telecamera. “Signora, non è che lei ha visto un pipistrello?”.
Eike scoppiò a ridere.
Si voltò
verso destra, per vedere se il programma faceva sorridere anche Acilia.
Ma lei era acciambellata comodamente sul divano, con uno dei suoi
soliti libri in mano, e la tv non sembrava neanche sentirla.
“Eh…
Proprio un’altra generazione”sospirò Eike, tornando
a guardare la vecchia piena di rughe in televisione.
Acilia era tornata
da Arcangelo da due giorni, ed era a dir poco funerea. Le cose non
dovevano andare un granché bene, lassù ai piani alti. E
neanche in casa, a pensarci bene. Dopotutto Jacque ed Emily erano al
piano di sopra.
Socchiuse gli
occhi, cercando di non lasciarsi andare alla tristezza. Tutto quello
che poteva fare lui era ridere. Non avrebbe mai potuto trovare una
ragazza da portare al piano di sopra come Jacque. Avrebbe potuto
trovare… una bambina? Una vampira piccola, trasformata come lui
da ragazzina?
Ma non avrebbe le tette, pensò Eike, serio.
“Ma
signora… Non sa che è stato dimostrato che i vampiri non
possono trasformarsi in pipistrelli? Loro sono uguali a noi, per questo
è difficile riconoscerli”.
Qualcuno
bussò alla porta ed Eike sbuffò. Adesso anche Acilia
sarebbe andata al piano di sopra a spassarsela con Dubris.
“Col pelo no? Si riconoscono dal pelo”.
Acilia non
sembrava intenzionata a smuoversi ed Eike sbuffò di nuovo,
alzandosi dal divano e andando pigramente verso la porta.
Si preparò
mentalmente ad incantare qualcuno. Se era qualche umano che controllava
la casa, o semplicemente in vena di scherzi, bisognava subito mandarlo
via.
Aprì la
porta, aspettandosi di trovare in realtà Dubris. Perciò
fu sorpreso quando si ritrovò davanti un individuo affascinante,
molto alto e ben slanciato.
Questo non è un umano, né tantomeno Dubris.
“Salve”
disse lo sconosciuto, tendendo la mano “Il mio nome è
Kaeso, sono il segretario del Partito Oscuro”.
Eike, inibito, gli
strinse la mano pensando a come dovesse comportarsi. Il PO era il
nemico, giusto? Cos’era venuto a fare in casa loro? Era una spia?
Ma chi se ne frega, pensò poi, io neanche ho l’età per votare.
“E’ casa di Acilia questa? Posso entrare?” domandò cortesemente Kaeso.
Non erano informazioni riservate gli indirizzi di residenza? Eike era parecchio confuso.
Kaeso strinse gli occhi e lo studiò con attenzione. “Sei suo figlio?”.
“Nipote” biascicò Eike.
“Oh!”.
Gli occhi di Kaeso si illuminarono e divennero, se possibile, ancor
più blu. “Quindi ha messo su una vera e propria
famigliola, che cosa carina”.
Il tono era decisamente sarcastico ma Eike pensò che ormai non poteva più mandarlo via.
“Aci!”
esclamò, girando la testa all’indietro
“C’è qui un tuo… un tuo…”. Che
cavolo era Kaeso? Un collega?
“Nemico
andrà benissimo” disse l’altro, con un enorme
sorriso. Assomigliava un po’ al presentatore televisivo.
Inquietante.
Eike non fece in tempo a dire niente che subito era apparsa Acilia al suo fianco.
“Eike, torna dentro” ordinò lei.
Kaeso si bagnò le labbra, meditabondo. “Sempre dietro a dare ordini, non è vero Aci?”.
Eike lasciò scivolare uno sguardo curioso dall’uno all’altra. Il capo del PO e quello del PPC a confronto? E chi se la perdeva quella scena?
“Eike” ripeté Acilia, adirata.
“Non mi inviti ad entrare?”s’intromise Kaeso “Pensavo che i vampiri buoniconoscessero anche le buone maniere”.
Acilia aveva tutta l’aria di volerlo cacciare fuori a pedate.
Anche quella non sarebbe stata male come scena.
“Guarda che
è meno rischioso se parliamo dentro” disse Kaeso,
tranquillo. Poi si guardò intorno, con aria perplessa.
“Questa casa non era disabitata da anni?”.
Acilia si spostò di lato, freddamente, e Kaeso, con un piccolo inchino, scivolò dentro casa.
Subito la sua
attenzione fu catturata dalla televisione e dalla voce della signora
che ancora tentava di convincere il presentatore di aver visto un
vampiro in carne ed ossa.
“Questo programma è spassosissimo”disse, sorridendo “Uno dei miei preferiti”.
Eike si
illuminò. “Hai visto la puntata in cui un tizio dichiarava
di essere stato morso da un vampiro e in realtà era stato punto
da un’ape?”.
“Certamente. E quella in cui una donna ha sostenuto di essere andata a letto con trentaquattro vampiri?”.
“Oh sì! Quella penso che l’abbiano internata…”.
“Io ero tra quei trentaquattro”.
“Kaeso” tuonò la voce di Acilia, alterata.
“Oh, Aci,
stavo solo scherzando, se fossi stato tra quei trentaquattro lei non
sarebbe stata in grado di raccontarlo…”
“Cosa ci sei
venuto a fare a casa mia?” disse bruscamente lei, ignorandolo
“Sono appena tornata da Arcangelo, se avevi qualcosa da dirmi
potevi benissimo…”.
“Mi sono
trasferito” la interruppe lui, passandosi una mano tra i corti
capelli neri “Adesso sto qui in Inghilterra”.
Allargò la bocca in un sorriso, un sorriso che però non
riusciva a raggiungere gli occhi. “Ho pensato potesse essere
divertente”.
Acilia si era
impietrita. Poi, stringendo le labbra, gli fece cenno di seguirlo nella
stanza adibita alla cucina. Una volta che furono dentro entrambi la
porta venne chiuse ed Eike sbuffò.
Subito si appostò dietro la porta.
“Vede, signora, i vampiri sono molto pallidi, hanno gli occhi rossi e le zanne…”.
“E io che ho detto?”.
Eike
imprecò correndo verso il telecomando. Subito abbassò il
volume e tornò dietro la porta, poggiando il telecomando per
terra.
“Qual è esattamente il tuo piano?”stava dicendo Acilia.
“Mi sembra di aver già fatto un discorso in proposito, e tu c’eri”.
“E come pensi di ottenerlo?”.
La voce di Kaeso
si fece impercettibile ed Eike spinse con vigore l’orecchio
contro la porta. E meno male che i vampiri avevano i sensi molto
più sviluppati degli umani.
“Me la vuoi far pagare, non è vero?”fece Acilia in un bisbiglio agitato.
Anche Kaeso sussurrò, ed era quasi dolce. “Oh no, come potrei?”.
Eike
aggrottò la fronte. Perché Acilia e quel Kaeso sembravano
così in confidenza? Acilia non era più in politica da
molti anni. Kaeso diventa il capo del PO e lei torna a essere membro
della Rappresentanza… E ora lui veniva a casa loro! Non poteva
essere…Non poteva certo essere…
Sentì dei passi ed Eike si allontanò d’istinto dalla porta.
“Cosa fai
lì?” fece la voce di Jacque ed Eike si voltò.
Jacque ed Emily erano appena scesi dalle scale.
“Oh, niente” bofonchiò lui.
“Accompagno
Emily a casa” disse Jacque, mentre Emily si guardava nervosamente
intorno. “Ehm... ragazzi, la luce vi fa proprio schifo eh?”.
“Oh, le
candele!” esclamò Eike “Mi dispiace, quando siete
andati su le ho spente tutte. Mi davano fastidio”.
Emily fece un
gesto noncurante con la mano. “Non fa niente, almeno
c’è la luce della televisione…”.
“Ma ti rovinerai la vista” osservò Jacque, guardando torvo Eike.
“Mi sto
rovinando anche il fisico se è per questo, a forza di fare
questi… che ore sono?” fece Emily, strizzando gli occhi
cercando di guardare il suo orologio.
“Le tre e mezza, più o meno”rispose prontamente Eike. Sapeva che Mi è sembrato di vedere un vampiro iniziava intorno alle tre.
“Oh cavolo” mugolò Emily “Tra meno di quattro ore mi devo alzare per andare a lavorare”.
“Il tempo
passa in fretta quando ci si diverte eh?” fece Jacque,
avvicinandosi a lei e sorridendole. Le si cancellò subito
l’espressione corrucciata dal viso.
Eike fece una smorfia. Se fosse stato un umano avrebbe potuto dire: Ho voglia di vomitare.
La porta della cucina si aprì all’improvviso e tutti e tre sobbalzarono.
L’espressione di Acilia si allarmò mentre Kaeso inspirava l’aria a pieni polmoni.
Fece per avanzare
verso Emily e Jacque le si parò davanti, con le zanne in fuori.
Emily si portò una mano alla bocca e indietreggiò, senza
emettere un suono.
Kaeso
squadrò Jacque, senza dare segno di essere minimamente
impressionato. “Mi ricordo di voi due… Siete gli
innamorati sventurati che si sono presentati davanti a noi lo scorso
mese” disse, melenso.
Jacque non si spostò di un centimetro.
“Ma voi non
vi ricordate di me, certo, siamo talmente tanti nella
Rappresentanza”. Le labbra di Kaeso si piegarono in un sorriso
malvagio. “Troppia dire la verità, sei d’accordo, Aci?”.
Acilia non rispose
e Kaeso si rivolse ad Emily, che lo guardava con’espressione
intimorita. “Sono uno di quelli che ha votato per la tua
trasformazione” disse, dolcemente.
“Secondo la legge numero ventisette chi fa il patto del sangue…” cominciò Acilia, in allarme.
“Non
può essere toccato” completò Kaeso, guardandola
“Grazie, Aci, conosco la legge, se no non sarei il segretario di
un partito”.
Si voltò
nuovamente verso i due.“Ma tu, Jacque… Dico bene? Tu la
tocchi?” chiese, stringendo gli occhi con fare curioso.
Eike trattenne a stento una risata.
Jacque
lanciò uno sguardo confuso verso Acilia e Kaeso inalò di
nuovo il profumo che proveniva da Emily, con aria deliziata. “Se
mai io andassi al potere” disse “Lo eliminerei il patto del
sangue, non esisterebbero” e guardò fisso Emily
“umani intoccabili”.
Eike d’un
tratto avvertì una bruttissima tensione e per un momento
pensò che Kaeso tirasse fuori le zanne e si scagliasse su Emily
e Jacque.
Ma poi Kaeso
scrollò le spalle e si mise a ridere. “E chi non sogna di
andare al potere un giorno? Lasciatemi sognare un po’”. Poi
tese la mano ad Acilia, con una formalità che colse Eike di
sorpresa. “Ora devo andare, grazie per avermi ricevuto”.
Lo sguardo
glaciale e pieno di disgusto di Acilia fece capire ad Eike che quelle
cose che aveva pensato poco prima erano solo cretinate. Non poteva
essere vero nemmeno in un altro mondo, Acilia non aveva a che fare col
Partito Oscuro!
Dopo che Kaeso se
ne fu andato il silenzio piombò nella casa, ma durò
qualche attimo, prima che Jacque sbottasse, guardando Acilia:
“Cosa ci faceva quello in casa nostra?”.
Eccoli, pensò Eike, deliziato, eccoli che litigano come marito e moglie, davanti ad Emily per di più.
“E’ il capo del PO” spiegò Acilia.
Jacque era allibito. “E che cosa voleva il capo del PO da te?!”.
“Minacciarmi”
fece la sua creatrice, a occhi bassi. Sembrava triste, ma Jacque non si
commosse neanche un po’. Anzi, avanzò verso di lei, con
un’espressione rabbiosa. “Se essere membro della
Rappresentanza comporta portare individui pericolosi a casa, ti puoi
anche trasferire ad Arcangelo!” gridò.
Acilia aveva uno
sguardo ferito, perso nel vuoto. Eike non l’aveva mai vista
così. Sembrava una bambina che stava venendo rimproverata.
Eike guardò
torvo il suo creatore. L’affetto per Emily gli stava dando alla
testa, era ingiusto comportarsi così.
“Non sembrava pericoloso” disse, cercando di andare in aiuto di Acilia “Solo prepotente”.
“Per Emily sì che è pericoloso!”disse Jacque a denti stretti.
Emily sembrava terribilmente a disagio.
“Scusa,
sai” esplose Acilia con voce tremante, guardando Jacque con occhi
incendiati “Non l’ho invitato io qua Kaeso! Ma, dato che
non ho il potere di prevedere chi verrà in casa per spaventarci,
Emily forse non dovrebbe stare qui!”.
Eike guardò Jacque. Gli sembrava di seguire una partita di ping pong.
Il suo creatore ritirò le zanne, senza ammorbidire neanche un angolo del suo volto. “Andiamo” fece ad Emily.
Senza una parola e rossa in volto, la sua ragazza lo seguì ed entrambi uscirono.
Rimasto solo con un’Acilia fumante di rabbia, Eike ebbe il fortissimo desiderio di diventare minuscolo, invisibile.
“Io…
Io non so proprio…” farfugliò lei, parlando da sola
“Non so proprio cos’altro avrei potuto fare!”.
Eike la
guardò. Era visibilmente agitata, ed era così strano
vedere lei, sempre inflessibile e composta, così nervosa e
arrabbiata. Era la gelosia che provava nei confronti di Jacque? O forse
era per via di Kaeso?
E’ venuto davvero per minacciarti?
Acilia corse su
per le scale ed Eike sentì una porta sbattere. Lui raccolse il
telecomando da terra e alzò di nuovo il volume della televisione.
Il presentatore, palesemente stufo, stava ancora intervistando la vecchia.
“Comunque
è questo che mi ha salvata!”stava dicendo lei, mostrando a
tutti il crocefisso che portava al collo“Tenetene sempre uno
attaccato alla vostra porta e i vampiri non potranno entrare!”.
Eike si buttò sul divano e disse in un soffio: “Oh, cara signora, magari bastasse così poco”.
Cadde morto ai suoi piedi.
Acilia aveva
ancora le mani tese davanti a sé, che stringevano il nulla,
incapace di realizzare quello che aveva appena fatto. Da quanto tempo
era che non uccideva? La sua ultima vittima –perché era
quello che era – era stata Jacque.
Fece un passo
indietro, inorridita. La sua mente vorticò fino ai suoi primi
anni di vita, quando uccidere la spaventava da morire. Si sentiva di
nuovo così, di nuovo un mostro.
Cos’avrebbe detto Lyuben se l’avesse saputo? E Dubris? Ramona? Jacque?
Sarebbe stata arrestata, lo sapeva. Non avrebbe avuto importanza il fatto che era stata lei a fondare il PPC, lei a far sì che ora le cose andassero in quel modo.
Doveva allontanarsi subito da lì.
Ma cos’era
successo? Non era riuscita a controllarsi. Aveva rabbia e fame, sentiva
la sua mente schiacciata da una pressione fortissima che le impediva di
concentrarsi. Possibile che ancora dopo duemila anni di vita provasse
tutte queste emozioni?
E’ colpa sua, lo sai.
Non avrebbe dovuto
tornare dentro alla Rappresentanza, lo sapeva fin dall’inizio! Ma
Dubris l’aveva convinta… E poi c’era Jacque
che… Cosa? Cosa c’entrava Jacque?! Perché le faceva
così male il fatto che uscisse con Emily?
Camminò
lontano dall’uomo che aveva appena ucciso in un angolo buio. La
strada l’accolse, facce che, ignare di tutto, camminavano
spensieratamente, assaporando l’aria di primavera. Non lo
sapevano che presto per loro sarebbe stata la fine. Se Kaeso fosse
riuscito ad andare davvero al potere… Per loro sarebbe stata la
fine. Cosa voleva Kaeso da lei? Perché era venuto a vivere in
Inghilterra, a trovarla a casa? La voleva tormentare, la voleva far
impazzire per poi colpire. Perché lui era il suo nemico…
La risata di una
bambina lì vicino la fece trasalire. Si voltò. La bambina
teneva per mano suo padre e indicava una vetrina. Aveva i capelli scuri.
Tu non hai avuto figli.
Forse le sarebbe
piaciuto, ad Acilia, avere un figlio. Non sarebbe stato come avere
Jacque, il suo figlio di vampiro. Lo voleva provare un amore totalmente
incondizionato e disinteressato…
Tu non puoi capire!
“Ci rincontriamo” disse una voce.
Lei si riscosse e
spalancò gli occhi. Non era possibile, davanti a lei c’era
ancora il tizio del bar! Quello dagli occhi grigi e tristi, quel
maniaco che la cercava ogni sera…
Si guardò intorno. Il maledetto bar del loro incontro era proprio dall’altra parte della strada.
“Senta, mi lasci stare” sbottò Acilia. Non voleva far fuori un altro umano.
“La vedo turbata. Ha pianto?” fece lui, scrutandole il viso.
Acilia aveva voglia di ridergli in faccia.
Però era da
molto tempo che qualcuno non la guardava così, con un vivo e
sincero interesse sul volto. Forse l’ultimo era stato Jacque.
“No”
rispose lei “E comunque non sono affari suoi”. Si sentiva
vulnerabile, parlare con un umano alle otto di sera in una via
affollata era pericoloso. Era così stanca di doversi
nascondere…
“Dovrebbe rilassarsi, si prenda una cosa da bere con me, poi non la disturberò più”.
Non sembrava neanche male come proposta.
“Oh, mi
perdoni, non mi sono mai neanche presentato” continuò lui,
tendendole la mano. “Mi chiamo Curtis”.
Acilia evitò accuratamente di stringerla. “Emily” sparò.
Curtis la guardava
speranzoso e lei fu tentata di seguirlo ovunque andasse. Era questa la
vita degli umani? Incontrare gente per strada, fare amicizia, prendersi
una cosa al bar? Oh, quanto le sarebbe piaciuto.
“Mi promette che dopo mi lascerà stare?” chiese.
Non farlo, si
disse, lo sai quanto è pericoloso! Ma la voglia di tornare a
casa e guardare in faccia Jacque era meno di zero. Poi forse sarebbe
arrivato Dubris, a parlare di Kaeso, di cosa fare per fermarlo. E poi
magari sarebbe arrivato Kaeso stesso, con altri discorsi intimidatori
nazisti.
“Glielo prometto” disse Curtis, illuminandosi.
Non ci sarebbe veramente più voluta tornare a casa.
Lui avanzò
con passo sicuro verso il bar e lei lo seguì, maledicendosi.
L’ultima volta che aveva tentato di fare l’umana non era
finita troppo bene.
Ma poi pensò a Jacque e a Kaeso, e concluse che anche fare la vampira ultimamente non era molto divertente.
Non ne poteva
più, la sua mente galleggiava continuamente in un mare troppo
inquinato di eventi e sentimenti, forse era per quello che il suo
inconscio si era risvegliato dopo tanti secoli e lei era tornata a
sognare. E nella morte vedeva lui…
Curtis si sedette a un tavolo per due e Acilia gli si sedette di fronte.
“Cosa prende?” le chiese.
“Acqua”
rispose subito lei “Acqua naturale”. L’acqua era
l’unica cosa che, per quanto disgustosa, riusciva a mandare
giù senza che il suo corpo la rifiutasse.
Lui si alzò
per andare verso il bancone e lei rimase sola, meditando di andarsene.
Avrebbe dovuto farlo, subito. Non ci poteva credere che era dentro ad
un bar in compagnia di un umano…
Alzati e vattene!
L’atmosfera
di quel bar era intima e tranquillizzante. I tavolini erano tondi, di
legno e attaccati alle pareti c’erano foto, poster, pezzi di
giornali.
Anche il
chiacchiericcio che sentiva era rassicurante. Vedere persone che
parlavano, scherzavano davanti a un bicchiere era… era…
Non per me.
Curtis era tornato con in mano due bicchieri, uno di birra e uno di acqua.
Perché
sarebbe dovuta tornare a casa ad affrontare discorsi e faccende
complicate quando avrebbe potuto benissimo starsene lì a fare
due futili chiacchiere?
L’uomo che
aveva appena ucciso…Aveva ancora il suo sangue addosso…
Tutte quelle persone che ora ridevano intorno a lei sarebbero potute
morire se non avesse trovato il modo di fermare Kaeso… Non
poteva continuare a fingere.
“Ti dispiace se ci diamo del tu?”fece la voce di Curtis.
“No, va bene” replicò Acilia.
Lo sguardo
dell’uomo era accattivante. Non era chissà quale bellezza
ma emanava un qualcosa di invitante, addirittura seducente. Il fascino
dell’uomo maturo, che lei non aveva mai avuto.
“Emily” fece lui, dopo un sorso di birra “E’ un bel nome. Significa rivale”.
Acilia aggrottò la fronte. Un significato molto azzeccato.
“Hai
imparato il significato di tutti i nomi femminili per
rimorchiare?” chiese. Oddio, lo stava davvero facendo. Stava
davvero flirtando.
Ricordò
l’esperienza con Miguel, tutte le repliche fatte a Jacque e ora
lei stava flirtando con un umano sconosciuto in un bar. Era ovvio che
quella sera sarebbe stata l’unica loro sera.
Curtis sorrise. “No, solo dei nomi più carini”.
Acilia non sapeva
più cosa dire. Aveva sempre considerato un’arte riuscire a
condurre una conversazione con uno sconosciuto, e lei era da troppo
tempo che non lo faceva.
“Cosa fai, Emily? Studi? Lavori?”.
Sono la fondatrice della politica vampiresca e capo del Patito Per la Convivenza.
“Lavoro” rispose lei “Faccio la commessa in un negozio in centro”.
“E tu?” si affrettò ad aggiungere.
“Sono un fotografo. Mi contattano spesso e viaggio molto”.
“Deve essere bello” commentò Acilia, sincera. Anche lei aveva viaggiato molto.
Curtis fece una piccola smorfia, come se non fosse troppo d’accordo.
“Una foto ci
imprigiona in un momento perfetto ed eterno” disse, bevendo
ancora un sorso di birra “Chi vuole tante foto di sé
è perché ha l’impellente desiderio, spesso
inconsapevole, di moltiplicarsi e di moltiplicare tutti i momenti che
non torneranno mai, di incanalare il tempo, di controllarlo. Chi invece
non vuole avere foto di sé, è perché ha
paura” alzò lo sguardo su Acilia “di non
riconoscersi”.
Acilia si sentì suggestionata. Lei era come in una foto, intrappolata in perfezione ed eternità.
“I primi
tempi dopo l’invenzione della fotografia” disse
“molti avevano paura, avevano come l’impressione che la
foto spogliasse loro di qualcosa, sembrava una cosa…”.
“Demoniaca”. Curtis incurvò le labbra in un sorriso.
Era quello che era Acilia. Perfetta, eterna, demoniaca.
Però le piaceva conversare con Curtis.
“Vedo che hai studiato la storia, brava” scherzò lui.
L’ho vissuta.
Anche lei forse
avrebbe avuto paura della macchina fotografica, ma probabilmente dopo
l’avrebbe superata. Invece lei, vampira, non poteva superare
quella paura.
Perché ha paura di non riconoscersi.
Era come guardare uno specchio, guardare la realtà e non riconoscerla perché tu non eri nessuna realtà.
“La paura
del doppio è qualche di molto radicato” continuò
Curtis “Anche se non ce ne rendiamo conto, l’abbiamo sempre
con noi”.
Bevve la birra. Ne era rimasta metà.
“Tu invece da che parti stai?”domandò “Le ami o le odi le foto?”.
Le odio.
“Vengo sempre male in foto”rispose Acilia con una scrollata di spalle.
Curtis rise. “Non ci credo”.
E fai bene.
Lui
trafficò con la mano nella sua tasca e lei ebbe l’orribile
sensazione che stesse per tirare fuori una macchina fotografica.
Sarebbe stata la fine. Ma lui aveva estratto solo il suo telefono
cellulare. Guardò il display, sospirò poi lo rimise in
tasca. Tornò a guardare Acilia come se niente fosse.
“Dalla foto
di una persona si possono capire molte cose, sai” disse
“Come si mette in posa, come sorride, sono tutti dettagli che
dicono qualcosa”.
Immagino di sì, pensò lei.
“E tu stai molto attento ai dettagli” disse.
“Esatto”
disse Curtis “Per esempio non mi è sfuggito il fatto che
non hai bevuto ancora neanche un sorso”.
Acilia sgranò gli occhi. Forse era davvero meglio non rivederlo più quel tipo.
“Non avevo poi così sete” disse, con un sorriso forzato.
Curtis bevve un sorso e la invitò a fare altrettanto. “Coraggio, ti si secca la gola a forza di parlare”.
Acilia si fece
coraggio e bevve un sorso d’acqua. Aveva un sapore orribile e
mentre la sentiva scivolare in gola le si accese nel petto il desiderio
di sangue. Cercò di mantenere l’espressione del viso
impassibile e bevve ancora.
Curtis continuava
a guardarla e lei, a disagio, prese fuori dalla tasca dei jeans il
cellulare e finse di controllare l’ora.
“Si è fatto tardi” disse “Devo proprio andare”.
“Ma certo” fece l’altro, gentilmente. La guardò negli occhi. “Ci rivedremo?”.
Acilia si alzò. “Non credo sia una buona idea”.
Curtis bevve un altro sorso, con gli occhi grigi non meno sicuri di prima.
“A presto, Emily”.
Lucius stava avanzando verso di lei, scrutandola con attenzione.
“Il tuo volto non mi è nuovo”.
Acilia trattenne un fremito di rabbia.
“Allora almeno hai la decenza di ricordarti le facce di chi uccidi”.
Lui sorrise. Poi si rivolse al tirapiedi che aveva fatto entrare Acilia.
“Lasciaci soli”.
Quello
obbedì all’istante e Acilia diede un’occhiata
nervosa alla stanza. Era sfarzosa, piena di decorazioni. Dietro al
trono di Lucius c’era un camino acceso, presumibilmente solo per
bellezza.
Doveva sforzarsi di fare conversazione, almeno per il tempo che serviva agli altri per raggiungerla.
“Vedo che ti sei sistemato bene”disse, senza riuscire a tenere a freno l’odio che dilagava nella sua voce.
“Cosa sei venuta a fare qui, Acilia? A vendicarti?” fece Lucius, cominciando a girarle intorno.
Acilia si
affrettò a uscire dal cerchio e si mise a girare in tondo, sulla
stessa linea di lui. Non ne voleva sapere di sentirsi braccata, di nuovo, da lui.
“Io ti
volevo solo uccidere”continuò lui, senza fermare il suo
cammino “Avevo fame, puoi capirmi no? Non hai mai ucciso
nessuno?”.
Acilia capiva, capiva perfettamente. Non poteva neanche permettersi di giudicarlo, Lucius.
“Sì”
disse, tenendo la testa alta“Posso capire come deve essere
crescere senza un creatore come Marcus”.
Lucius si mise a
ridere. “Marcus…Il buon vecchio Marcus… Allora
perché sei qui? Prenditela con lui no?”. Si fermò,
piantandole gli occhi neri e cupi in faccia, con sguardo serissimo.
“Io ti avrei solo uccisa, lui invece ti ha trasformata nel mostro
che ora sei! Era il tuo fidanzato quello che hai ammazzato,
vero?”.
Acilia strinse i pugni. Manlio non era stata vittima di Marcus, era colpa sua, di lei, solo ed unicamente sua…
“Come se non sapessi che Marcus è morto!” sbottò.
L’espressione
di Lucius si fece attenta e lei andò avanti, gridando tutto il
dolore e tutto il rancore: “Non voglio vendicare la mia
vita… Tu eri solo uno come me, un mostro che non è
riuscito ad evolversi e a trovare la luce nelle tenebre! No, non sono
qui per la vita che mi hai tolto”.
La cenere di
Marcus, che lei aveva lanciato in aria, che il vento aveva portato via
e che lei aveva così ingiustamente odiato.
“Sono qui per la vita che hai tolto a Marcus!” urlò.
Lucius alzò
un sopracciglio.“Allora l’avevi capito. Mi chiedevo
perché non venissi a cercarmi, un figlio che non vendica la
morte del proprio creatore…”. Terminò scuotendo la
testa e con una mezza risata.
“L’ho
capito tardi” disse lei, quasi vergognandosi “Marcus e i
suoi pochi seguaci… tutti morti nello stesso giorno! Ma allora
ero troppo giovane e stupida per capire”.
Era vero. Allora
non capiva quanti nemici si stesse facendo Marcus, Superiore della
zona, che impediva agli altri come lui di uccidere. E Lucius lo
detestava, sicuramente detestava una persona che gli toglieva il pasto
di bocca… Poi quando Acilia aveva appreso che Lucius era
Superiore e che per diventarlo bisognava uccidere il precedente, beh,
allora tutto era diventato lampante. E poi non aveva senso, non aveva
alcun senso che Marcus si uccidesse, dopo tutto quello che le aveva
detto, quello che le aveva insegnato…
“Ma
c’è una cosa che non mi è chiara” disse,
serrando i pugni e fissando Lucius “Avete ucciso Marcus e coloro
che come lui credevano in una possibile convivenza con gli umani.
Perché non avete ucciso anche me?”.
L’altro sorrise, compiaciuto.
“Francamente,
cara Acilia, pensavo che lasciarti in vita sarebbe stato molto
più doloroso per te, e più utile per noi”.
“Utile?”.
Lucius si avvicinò, stringendo gli occhi.
“Eri un
giovane ed assetato cavaliere della morte” spiegò
“Avevi passato troppo poco tempo con Marcus perché le sue
idee ti si radicassero bene in testa. E se tu avessi creduto al suo
suicidio allora ti saresti ribellata a tutte quelle stupide e
fantasiose idee”.
Acilia abbassò lo sguardo, quasi senza rendersene conto.
Lui si era
avvicinato ancora di più, si chinò su di lei e
sussurrò: “Avresti fatto né più né
meno di tutto quello che faccio io”.
Acilia non disse nulla e lui si allontanò, rialzando la voce. “Ed è stato così, dico bene?”.
Il suo viso era in
ombra per via della luce che proveniva dal camino acceso e Acilia,
respingendo i ricordi, trovò la forza di guardarlo in faccia.
“No”
disse, con voce ferma. Si puntò le mani sui fianchi e lo
guardò con aria di sfida. “Avresti fatto meglio ad
uccidermi allora, Lucius”.
Lui rise. “Ti posso uccidere anche adesso”.
Acilia sentiva lo strepitio del fuoco nel camino, ma sentiva anche altro. Dei passi che correvano. Era quello il momento.
Sorrise, per la prima volta da quando era entrata in quella stanza.
“Mi puoi anche uccidere, ma non potrai più uccidere le idee di Marcus”.
Un grosso tonfo la fece trasalire e dietro di lei la porta cadde a terra.
Sulla soglia comparve Mathias col piede a mezz’aria.
“Bastava semplicemente aprirla, la porta” fece la voce di Lyuben.
“Sì, e magari bussare anche, giusto?” replicò Mathias, con una smorfia.
Comparve anche la
nuca rossa di Dubris che reggeva la testa dello scagnozzo di Lucius che
aveva accompagnato dentro Acilia. Aveva occhi rossi di fuoco, un rivolo
di sangue che gli usciva dal naso e i denti che digrignavano in maniera
agghiacciante. Ancora qualche attimo e la testa cominciò a
gonfiarsi, sempre più velocemente, e la pelle che veniva tirata
e lacerata lasciava intravedere solo il rosso sangue che colava. Dubris
la lanciò per terra e quella esplose imbrattando il pavimento di
sangue poltiglioso e sporco. “Non sei l’unico che ama fare
scena, Mathias” disse il rosso, scrollando le spalle.
Acilia
fissò l’espressione attonita di Lucius con un largo
sorriso. “Perché, come vedi, siamo troppi”.
Lucius si riprese
in fretta. Tramutò la sua espressione sorpresa in pura collera e
urlò: “Cavalieri!”.
Le grandi vetrate
sulle pareti si ruppero in miriadi di frantumi e proruppero nella
stanza uomini e donne con lunghe zanne. Ramona urlò ed Acilia si
voltò. Anche alle spalle dei suoi compagni ne erano arrivati
altri.
Era il momento
della battaglia, in cui i più giovani sarebbero morti, e sarebbe
stata colpa sua? Colpa del suo desiderio di vendetta? Era questo che
avrebbe voluto Marcus? Avrebbe fatto di tutto pur di raggiungere il suo
scopo? Non lo so, pensò Acilia, non lo so cos’avrebbe
voluto fare perché è morto troppo presto! Sentì la
rabbia che montava dentro di lei mentre vedeva i suoi compagni uscire
dalla stanza e lanciarsi all’inseguimento dei cavalieri di
Lucius. I cavalieri entrati dalle finestre fecero altrettanto e le
oscurarono la vista di Lucius. Non lo trovava più e anche lei si
buttò nella mischia.
Presto si
ritrovò per le scale circondata da tappeti rossi, pareti scure
ed enorme finestre da cui entrava la pacata luce della luna. Non doveva
perdere di vista il suo obiettivo. Il suo unico obiettivo era Lucius.
Si guardò
intorno, sforzando la vista. Ma non riusciva a districare i corpi in
lotta tra loro, sentì varie esplosioni e si buttò a terra
d’istinto. Sentì qualcosa comprimerle il corpo e con una
mano si toccò la schiena. La ritrasse piena di poltiglia rossa e
si alzò di scatto, cercando di capire chi fosse morto. Le scale
erano imbrattate di sangue, ai piedi dei combattenti, e lei voleva
sapere a chi apparteneva quel sangue. Era quello che diventavano,
quando morivano… Loro erano un’enorme sacca di sangue
ricoperta da pelle finta di morto e se ti colpivano la finzione spariva
e ti rivelavi per quello che eri, una rossa materia collosa… Era
quello che lei aveva dentro… Un pugno la colpì a pieno
viso e lei cadde all’indietro.
“Aci! Che stai facendo?!” urlò la voce di Dubris da qualche parte.
Lei si
rialzò in piedi e vide Dubris conficcare un bastone nel petto
dell’uomo che l’aveva aggredita. Quello si buttò a
terra, contorcendosi, prima di scoppiare.
Il legno.
Acilia estrasse il suo paletto da sotto la veste, guardando con riconoscenza Dubris.
“Dov’è
Lucius?” le chiese lui, con gli occhi rossi sbarrati e le zanne
che sembravano più lunghe del solito. Faceva paura. Ma era
questo il loro vero aspetto, la loro vera natura, quando lottavano
erano davvero loro stessi.
“Lo ritroverò” disse Acilia, con convinzione.
I cavalieri che
entravano dalle finestre… Non l’avevano previsto. Non
pensavano fosse così numeroso l’esercito di Lucius. Ma non
era ancora finita.
Sentì i
suoi canini spingere e una strana sensazione di euforia le
infiammò tutto il sangue, che prese a scorrere tumultuoso. Si
buttò su qualcuno che era lì vicino e avvicinò il
paletto, glielo conficcò dritto nel cuore prima che quello
potesse difendersi e lei rimase lì, ferma e immobile, a farsi
ricoprire di sangue. Si pulì il volto e si leccò le
labbra, pronta ad attaccare di nuovo.
Lyuben diceva che
avrebbero dovuto dare a tutti loro la possibilità di scegliere.
Quelli non erano più cattivi di loro, erano solo stati
più sfortunati.
Avrebbero dovuto imprigionarli? E poi chiedere loro da che parte volevano stare?
Acilia
sentì qualcuno tirarla con forza inaudita per i capelli e per un
momento temette che le si staccasse la testa. Ma i suoi piedi furono
svelti e le diedero la giusta spinta verso l’alto. Si librava in
aria. Ma certo, stando in alto, sarebbe stato più facile trovare
Lucius.
La possibilità di scegliere…
No, era molto più semplice ucciderli tutti.
Il suo sguardo
saettava in giro e non sapeva se cercare i suoi amici o se cercare il
suo bersaglio. Una botta nelle costole la fece quasi planare a terra.
Urlò di rabbia mentre guardava negli occhi chi l’aveva
colpita. Era un grosso uomo che volava esattamente come lei. La prese
per il bavero della tunica e la percosse ripetutamente il volto con il
pugno finché lei non sentì la pelle della guancia che le
si lacerava in più punti. Cercando tutta la forza che aveva gli
prese la mano e gliela morse. Quello urlò e lei continuò
a spingere i canini in profondità finché non gli
staccò tutta la mano. Rabbioso, l’uomo la colpì con
un calcio e lei volò via. Si sentì prendere da due
braccia muscolose e lei alzò lo sguardo per vedere chi fosse. La
testa le vorticò mentre non era sicura di star vedendo due occhi
blu di un viso splendido. L’aveva presa per le braccia e ora
gliele stava stritolando, gliele avrebbe staccate… Non aveva la
forza di reagire, non voleva…
Il paletto di
legno che teneva nella mano destra planò a terra e lei
capì che quel cavaliere l’avrebbe uccisa…
Lo faresti veramente?!
Ma le braccia
improvvisamente la lasciarono andare e lei tracciò col corpo una
storta linea in aria, prima di ritrovare stabilità. Fernand
stava lottando con l’uomo dagli occhi blu.
No, pensò Acilia, terrorizzata, che sta facendo… Che sta facendo…
“Fernand!” urlò, tentando di soccorrere quell’imprudente che l’aveva salvata.
Ma subito Fernand esplose in getti e fiotti di sangue e lei volò via, per non farsi vedere dal suo assassino.
Stordita, cercò di recuperare la situazione visiva del castello.
Fernand era morto,
non doveva essere scioccata, sapeva che sarebbe successo, probabilmente
lo sapeva anche lui stesso. Era troppo giovane per una cosa del genere.
Ma è morto salvandomi da…
E Ramona?! Ramona era ancora viva?
La cercò disperatamente con lo sguardo ma non la trovava.
Il paletto di legno…
Era disarmata. Non sarebbe sopravvissuta in quel luogo disarmata!
Cercò di ricordare in che esatto punto fosse quando le era caduto di mano.
Si buttò in picchiata e lo cercò tra la massa di corpi e la massa di sangue…
Di chi è questo sangue?!
Non importava, non doveva pensarci…
Vide Ramona china a terra, spaventata, mentre davanti a lei Lyuben le faceva da scudo, immobile.
Lyuben era un
pacifista. Voleva dare a tutti la possibilità di scegliere ma
non si poteva! Avevano appena ucciso Fernand, dovevano fermarli tutti,
tutti!
Voleva urlargli di
darsi una scrollata ma poi qualcosa di marrone in mezzo alle gambe di
due lottatori catturò la sua attenzione. Era il suo paletto. Si
buttò con una mano sui capelli di uno di loro e con
l’altro braccio gli circondò il collo. Sentendosi un
animale tirò con tutta la forza che aveva finché non le
rimase la sua testa in mano, che la guardava con odio e disperazione.
Poi esplose e lei non vide altro che rosso. Cadde a terra, pulendosi
gli occhi e cercando a tastoni il suo paletto. Lo vide e lo prese,
sentendosi vincente, anche se in realtà era tornata esattamente
alla situazione di partenza. Si alzò e lo vide.
I capelli lunghi e
liscissimi, macchiati di rosso, di Lucius stavano ondeggiando in una
corsa frenetica, che puntava proprio verso Lyuben.
Perché proprio Lyuben? Gli sembrava un debole, a vederlo così, distante dalla battaglia?
Acilia fece per
gridare un avvertimento ma poi vide Lyuben alzare una mano e spezzare
il braccio di Lucius dal suo corpo come se fosse uno pezzo di pane.
Il volto di Lucius si deformò in un grido e lui cadde sulle ginocchia.
Tutti i cavalieri cessarono di combattere impietriti, fissando il loro capo che si era chinato in una pozza di sangue.
“E
così… tu sei” ansimò Lucius, mentre il
braccio gli stava lentamente ricrescendo “Lyuben Vladimir,
giusto?”.
Acilia avanzò verso di loro, tenendo bene saldo il paletto nella mano. Come faceva Lucius a conoscere il suo nome?
Lyuben non rispose. Aveva lo sguardo pieno di disprezzo.
Gli si avvicinò e lo prese per i capelli.
“Sono ciò che tu non sarai mai”disse, pacatamente.
Lucius
cercò di afferrargli le gambe col braccio sano ma Lyuben
balzò via e Acilia ne approfittò per correre verso il
primo, e conficcargli il paletto nel petto. Lucius le prese il braccio
e lo tenne fermo, a pochi centimetri dal suo petto. Acilia spingeva
digrignando i denti e sentì del gran trambusto dietro di lei. I
cavalieri di Lucius probabilmente stavano cercando di soccorrerlo ma
trovavano la strada sbarrata da Dubris, Victoire e Mathias. Li sentiva
che la incitavano.
Devo farlo io… Devo riuscirci…
“Non-sei-più-forte-di-me” ringhiò Lucius, a denti stretti.
Il braccio destro
gli era ricresciuto e ora teneva entrambe le mani sul paletto, e lo
spingevano verso di lei. Acilia sentì il legno scalfirle il
petto.
Urlò, cercando in ogni angolo di se stessa la forza, e la trovò per Marcus, per Manlio e Miguel…
“Aci!” urlò Ramona.
Gli occhi neri di
Lucius la guardavano con aria di sfida. Non l’avrebbero
incantata, non avrebbe provato pietà, mentre sentiva ancora
tutta la paura che aveva provato quella gelida notte che era risorta
dalla terra, e tutta la disperazione che aveva provato nel tenere
Manlio morto tra le sue braccia, e tutta la sua frustrazione mentre
cercava il perché tra la cenere di Marcus…
Gli occhi di
Lucius rotearono, il suo corpo vacillò e lasciò la presa
del paletto con entrambe le mani. Acilia capì che Lyuben doveva
avergli dato un pugno in faccia perché il naso si era fratturato
in più punti e il sangue gli colava fino alle labbra, il mento e
scivolava giù imbrattando il paletto. Acilia colse al volo
l’attimo e lo premette in profondità. Lucius sputò
sangue mentre la sua faccia veniva tirata, le cavità oculari si
allargavano e un bulbo oculare cadde, insieme a uno zampillo di sangue.
“Non…
salverai… la tua… anima…”fece la voce bassa
e strascicata di Lucius. Si stava rompendo anche essa, come la sua
faccia, come il suo corpo. “E’… troppo…
sporca!”.
Un’ultima spinta e tutto di Lucius esplose avvolgendo Acilia in un orripilante manto di sangue.
Lei si pulì
per l’ennesima volta il volto e si alzò in piedi, sfinita.
Si guardò intorno e notò che i cavalieri di Lucius si
erano messi in fuga.
Dubris ne stava inseguendo un paio brandendo il paletto con aria assatanata.
“Fermi!”
gridò Acilia, con fare autoritario “Non vi uccideremo. Chi
vuole passare dalla nostra parte, può restare. Altrimenti che se
ne vada per sempre”.
Non sapeva se era la cosa giusta da fare, ma vedere l’espressione di approvazione sul viso di Lyuben la rassicurò.
Ci fu un borbottio generale, poi alcuni si diressero verso l’uscita del castello, altri invece rimasero.
Lo sguardo di
Acilia si posò sull’assassino di Fernand. Anche imbrattato
di sangue, non perdeva il suo fascino. Aveva i capelli neri e lucenti e
gli occhi blu come il mare erano gelidi, pieni di odio.
L’espressione con cui la guardava era atroce e Acilia quasi si
sentì vacillare sotto il suo sguardo.
Poi lui le diede le spalle e lei provò l’impulso di fermarlo.
Ma era meglio così, era meglio lasciarlo andare. Chissà poi se l’avrebbe più rivisto.
“Congratulazioni” fece una voce.
Acilia si
voltò, sorpresa. Dubris la stava guardando, sporco dalla punta
dei capelli fino ai piedi, con un sorriso. “Sei il nostro
Superiore adesso”.
“Oh, già”.
“Che
c’è?” fece lui, con una mezza risata “Avevi
dimenticato per quale motivo hai ucciso Lucius?”.
Acilia si
girò e guardò ciò che era rimasto di Lucius. Una
poltiglia orribile che mescolava il sangue di chissà quanti
umani. Però Marcus non sarebbe certo potuto tornare in vita.
“No” rispose, piattamente “Certo che no”.
Dubris rimase
fermo a guardarla, come incerto sul da farsi. Acilia, a disagio,
avrebbe preferito che non lo facesse. Poi il rosso si girò e lei
lo vide che cercava ed abbracciava Ramona.
Acilia avanzò verso Lyuben, che stava tentando di pulirsi. Si sentiva in dovere di ringraziarlo.
“Lyuben, io…”.
“E’ stato solo un incoraggiamento”disse lui, sorridendo.
Lei annuì. “Dovresti essere tu il Superiore”.
Lyuben alzò un sopracciglio. “Aci, questa è la tua battaglia”.
Ma lui era
così forte, e aveva gli ideali giusti… Acilia si
mordicchiò il labbro. Era un uomo avvolto nel mistero.
“Lyuben… Perché Lucius conosceva il tuo nome?”.
Lui le
puntò addosso gli occhi azzurri, attraversati da venature quasi
bianche. “E perché Lucius ha detto che la tua anima
è sporca?”.
Acilia esitò e lui sorrise.
“Ognuno ha i suoi segreti, Aci”.
Le strizzò un occhio, poi si voltò.
Lei si
guardò intorno. Il castello era proprio ridotto male. Vetri
rotti, quadri a terra in pezzi, pareti pieni di fori, per non parlare
del sangue che era ovunque.
Lì in mezzo, da qualche parte, c’era anche quello di Fernand.
Perché Lucius ha detto che la tua anima è sporca?
Forse aveva capito come faceva Lucius a conoscerla così bene, se gli occhi non l’avevano ingannata.
Vide Mathias, fermo a fissare un punto del pavimento.
“Mathias” lo chiamò lei, raggiungendolo “Mi dispiace per Fernand”.
Lui annuì, distrattamente.“Dispiace anche a me”.
Acilia si sentiva in dovere di dire qualcosa, due parole di circostanza, che però in quel caso erano verissime.
“E’ stato molto coraggioso, lui…lui mi ha salvata! E’ un eroe”.
Sperava che quelle parole facessero piacere a Mathias ma lui aveva il viso come oscurato.
“Credeva che la sua vita valesse meno della tua, no?”.
Nelle sue parole
c’era solo amarezza ma Acilia ci trovò anche un velo di
rimprovero. Forse era la sua immaginazione ma si sentì triste,
ed era da tanto che non si sentiva così. La disperazione, il
dolore, l’angoscia… quelli li conosceva bene. Ma la tristezza,
quella pacata ma pur così fastidiosa, non la ricordava, e
l’avvolse come una coperta ruvida e sporca che voleva togliersi,
ma non ci riusciva.
“Cosa
facciamo con tutta questa roba?” fece la voce di Mathias. Il
ragazzo stava indicando il pavimento screziato e maculato.
Acilia guardò le finestre. Molte tende erano cadute, alcuni vetri si erano rotti.
“Domattina
entreranno i raggi del sole, e bruceranno ogni cosa” disse. Si
sarebbe trasformato tutto in polvere. Forse anche il castello sarebbe
bruciato.
“Acilia!”.
Acilia si voltò sentendosi chiamare.
Victoire stava trascinando verso di lei una ragazzina bionda, che urlava e si dimenava. Era visibilmente umana.
“Chi è?” chiese Mathias. Anche Dubris, Ramona, Lyuben e gli altri si avvicinarono.
Acilia
guardò bene l’umana. Aveva una veste sporca e rotta in
più punti, il volto pieno di graffi e lividi e gli occhi gonfi
di lacrime.
Ricordò
quello che diceva la gente. Che Lucius aveva ucciso tutti gli abitanti
del castello, compresi i servitori, tranne una fanciulla.
“Era nascosta dietro una tenda”spiegò Victoire “Cosa ne facciamo?”.
L’umana singhiozzò, biascicando qualcosa in fiorentino.
Acilia provò a chiederle come si chiamasse nella sua lingua. Sentiva gli occhi straniti di tutti su di sé.
“L-Laura” balbettò la ragazzina. Non dimostrava più di sedici anni.
“Deve averla torturata Lucius”intervenne Ramona, guardandola con tristezza “Lasciamola andare, no?”.
“Non possiamo” disse Acilia, mestamente “Ha visto troppo”.
Ramona si voltò di scatto verso Lyuben ma lui si limitò ad annuire.
“Allora trasformiamola” tentò Dubris.
Nessuno ebbe
niente da ribattere ma Acilia non credeva fosse la cosa giusta da fare.
Negli occhi spalancati e tormentati di Laura vedeva un atroce inferno,
troppo grande per una ragazzina adolescente. Cercò Lyuben con lo
sguardo, sapendo che lui sarebbe stato d’accordo.
“Deve avere
la possibilità di scegliere” dichiarò.
Guardò tutti i presenti. “Quella che non abbiamo avuto
noi”.
La guardò fisso in volto, cercando di controllare il tremito della voce.
“Hai visto quello che siamo. O diventerai come noi o ti uccideremo” disse.
Aveva mischiato elementi di francese, spagnolo, latino e qualcosa di fiorentino. “Capisci quello che dico?”.
Laura fece segno
di sì con la testa poi riprese a gridare e a dimenarsi, in un
tentativo di fuga. Ma Victoire la teneva stretta.
Acilia le si avvicinò. “Scegli”.
La ragazzina
urlava, scuotendo la testa e scalciando e lei le prese il volto tra le
dita costringendola a stare ferma. “Scegli!” ordinò.
Laura piangeva a
dirotto, ma teneva gli occhi ben aperti, reggendo lo sguardo di Acilia.
“Dovrei…diventare…” farfugliò
“come chi mi ha fatto questo?!”.
Acilia
provò ad immaginare e vide una ragazzina costretta a vivere
nella sporcizia e nella fame, che veniva ripetutamente violentata e
privata del suo sangue fino quasi a morire, abbandonata su un letto
sudicio sul quale pregava che tutto finisse, sul quale pregava di
morire perché non aveva abbastanza coraggio per uccidersi lei
stessa.
“La
morte!” urlò Laura “Scelgo la morte…”.
Pianse fortissimo. Acilia odiava sentir piangere, sì, ma quella
volta no. Non odiò nulla. In realtà aveva sperato che
Laura scegliesse l’altra opzione.
Guardò i volti degli altri e capì che non c’era bisogno di traduzioni. Morteera
una parola grandiosa e terribile allo stesso tempo, che non evolveva,
che non cambiava e rimaneva la stessa spaventosa cosa per tutti.
“Bene” disse, tetra “Qualcuno proceda”.
Un gruppetto di
cavalieri che aveva combattuto per Lucius si fece avanti, leccandosi i
baffi, e Acilia si chiese se mai sarebbe riuscita ad educarli. Victoire
lasciò andare Laura e quella cadde in ginocchio, con le mani
congiunte mentre mormorava delle preghiere spezzate da singhiozzi
disperati.
Acilia si
voltò per non guardare, mentre sentiva i suoi singulti che si
trasformavano in urla strazianti. Davanti a lei c’era Dubris che,
titubante, alzò le braccia verso di lei, e lei si lasciò
abbracciare, sentendo scivolare via la coperta ruvida di tristezza,
almeno un po'.
Beh beh, un po' di sangue in una storia di vampiri non guasta mai XD
Sara,
ahahah "facebook è la risposta in fatto di gossip" mi piace
molto come frase XD Jacque con troppe donne per la testa, Lyuben che
è un figo, Marcus il padre modello e i campi di concentramento
umani di Kaeso (i pecoroni XD).. sì, nella tua recensione
c'è tutto come al solito ;) aspetto la prossima!
Nene,
ahahah sei molto carina a preoccuparti per Kaeso ma tranquilla che non
va verso la distruzione.. ha parlato di recinti pieni di umani, non ha
detto "uccidiamoli tutti" (il che è molto inquietante, li fa
riprodurre a forza D:).. ahahahah Jacque che fa il reticente e la
chicca di facebook sì XD Hai visto che ho approfondito la morte
di Marcus? ;) Devo farti i complimenti perché sei stata l'unica
ad aver azzardato l'ipotesi che potesse essere stato Lucius a ucciderlo
:DDD ottimo intuito, però in materia di vampiri siamo più
carenti u.u come ti ho già scritto nel messaggio in risposta
all'altra recensione non è certo una mia fantasia che i vampiri
volino XD aspetto le prossime recensioni!
Norine,
ohh qualcuno che comincia a rivalutare il povero Dubris ^^ (a me sta
così simpatico, ma è schifato da tutte XD) ahahah che
bello hai notato il paradosso di Emily che canta le lodi di Acilia
eheheh XD ora attendo altre opinioni :DD
Red,
cosa c'è di così porcelloso nel fare un pompino? DD:
povera Emily, lasciale almeno la sua dignità di donna, e poi
è una donna adulta u.u va beh un po' di conversazione dopo il
sesso ci sta sempre.. potevi aggiungere anche "parlare di Acilia",
quello deve aver turbato Jacque XD No niente suicidio per il tuo caro
Marcus, anche tu avevi il dubbio XD I pipistrelli no li ho tolti
perché non mi piacevano.. XD per il vampiro più famoso
del mondo ci stavo ancora pensando..ho paura di incappare in qualche
"blasfemia"..vedrò :D
Aaaaal prossimo capitolo!
(vado troppo a busso, probabilmente riesco a finire il libro quest'inverno!)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** La leggenda ***
Quattordicesimo capitolo
CAPITOLO XIV
LA LEGGENDA
Istria, 1672
Stavano avvenendo strani morti nel paese.
Ulika affrettò il passo mentre tornava a casa. Da quando era morto suo marito, usciva poco e la sera le
incuteva timore, soprattutto ora che la gente aveva cominciato a morire.
“Ulika!” si sentì chiamare.
La donna si voltò, con un
soprassalto.
Un uomo in calzoni e giubba, col
volto avvolto nell’oscurità, stava avanzando e lei trattenne il fiato.
“Ulika, non volevo spaventarvi”
disse l’uomo.
“Ivan” sospirò la donna,
premendosi una mano sul cuore “Con tutte queste morti, io…”.
“Lo so” disse subito Ivan, con un
certo nervosismo “E’ proprio di questo che volevo parlarvi”.
Ulika in realtà non vedeva l’ora
di andarsene a casa e l’idea di parlare di morti di notte, in strada, col governatore
non l’attirava particolarmente.
Fece scorrere uno sguardo inquieto
per i campi e sul volto stanco e rugoso di Ivan. Stava invecchiando, proprio
come lei.
“C’è stata un altro assassinio”
disse lui, senza aspettare una risposta “Si tratta di Zoran”.
Ulika si portò una mano alla bocca.
“Ed è…”.
“Come gli altri, sì. I medici
dicono che non ha più neanche una goccia di sangue nelle vene”.
Quella cosa del sangue, era così
strana. Ulika sentiva il suo cuore battere forte. Era possibile che smettesse
di battere perché il sangue si era… volatilizzato?
“Non può essere un’epidemia?”
disse, con un tremito nella voce.
“No” rispose Ivan “Il sangue
sembra essere risucchiato dall’esterno, ci sono dei buchi nella pelle del collo
di Zoran”.
“Oh Signore, risucchiato… da cosa?”.
“Dalla bocca. I denti possono
essere in grado di bucare la pelle”.
Ulika fece una risatina nervosa.
“I denti di un animale forse!”.
Ivan sospirò. “Nessun animale
succhierebbe tutto quel sangue…”.
“E allora cos’altro può essere?”
squittì la donna “E poi perché ne parlate proprio con me?”. Lei era figlia di
contadini, moglie di un contadino defunto e contadina lei stessa. Non se ne
intendeva di tutte quelle faccende, che parlasse con altri medici!
Ivan esitava. Poi finalmente
parlò: “Zoran era in pessimi rapporti con vostro marito, dico bene?”.
“Oh buon Dio, non lo so… Qualche
scaramuccia, ogni tanto…”.
“Si sono azzuffati più di una
volta, se la memoria non mi inganna”.
Ulika fece uno sforzo per
ricordarsi. Ma suo marito era morto tanto tempo, e il ricordo di lui era ancora
così amaro…
“Sì, forse, può essere” farfugliò,
nel dolore.
Ivan aveva la fronte aggrottata e
lo sguardo pensoso.
“Mi volete dire cosa vorrebbe dire
questo?” sbottò Ulika “Jure è morto! Da sedici anni…”.
“La terra vicino alla sua fossa”
disse Ivan, lentamente “è smossa”.
Ulika non riusciva a capire.
“So che per voi sarà uno shock e
che non vorrete credermi” si affrettò a dire l’altro “Ma ascoltatemi vi prego…
Jure potrebbe essere tornato…”.
“Tornato?” strillò Ulika, facendo
un passo indietro “Un fantasma?!”.
“Qualcosa di peggio di un
fantasma” disse Ivan, in tono grave.
Erano sciocchezze, solo
sciocchezze! Solo perché qualcuno che stava antipatico a Jure veniva
assassinato non significava certo che Jure era uscito dalla sua tomba per
ammazzarlo!
“Se voi… poteste dirmi qualcosa”
continuò Ivan, speranzoso “Jure è forse tornato a farvi visita? L’avete visto
da qualche parte? Avete avvertito…”.
“Basta!” sbottò Ulika, fuori di
sé. Si allontanò, doveva assolutamente tornare a casa. “Io vedo Jure ogni notte
da quando è morto!” singhiozzò “Lo vedo nei miei ricordi e so che lui non mi
abbandonerà mai… E voi insultate la sua memoria dicendo che sarebbe tornato dal
mondo dei morti per uccidere! Un assassino! Il mio Jure non era un assassino!”.
Ivan aveva il volto mortificato.
Tese le braccia, provando a calmare la donna ma lei lo respinse, mandandolo al
diavolo.
Con le lacrime agli occhi corse
verso casa. Le mani le tremavano quando aprì la porta e subito si fiondò a
prepararsi qualcosa di caldo. Un tè l’avrebbe fatta sentire meglio.
Non doveva fermarsi a parlare con
Ivan. Tutto quello che stava capitando gli stava dando alla testa! Poveretto,
era il governatore di un villaggio fantasma ormai… Il comune gli avrebbe tolto
il potere. Sicuramente aveva paura, come tutti loro, come lei stessa.
Jure potrebbe essere tornato…
Ulika lanciò un gridolino sommesso
e frammentato dai singulti. Non voleva cedere alla speranza che dal mondo dei
morti si potesse tornare.
Rovesciò il tè dalla teiera in un
bicchiere. Poggiò la teiera, che vibrava visibilmente nella sua mano, sul
tavolo, cercando di stare calma.
Avrebbe bevuto un po’ poi sarebbe
andata a dormire. Era già tardi e la vita nei campi non prevedeva che facesse
quegli orari.
“Ulika”.
Il bicchiere le cadde di mano e
pezzi di terracotta, foglie verdi e liquido andarono a spargersi sul pavimento.
Quella era la sua voce.
Alzò lo sguardo tremolante,
indietreggiando e mormorando confuse parole di terrore.
Jure, alto e giovane come lo
ricordava, era davanti a lei, pallido come un cencio e con un mesto sorriso.
“E’…è… uno scherzo” balbettò
Ulika, le mani davanti alla bocca “E’…è…”.
Jure avanzò verso di lei,
allargando le braccia. “Sono io! Sono proprio io!”.
Ulika scoppiò fragorosamente a
piangere e quando lui l’abbracciò lei non si tirò indietro. Ivan… Ivan aveva
detto…
“Sei tornato! Hai ucciso tu Zoran?
E gli altri?”.
Lui le sussurrò all’orecchio: “Non
so di cosa tu stia parlando”.
Ulika si sentì nascere sul volto
un enorme sorriso e rimase aggrappata a suo marito tutta la notte.
Quel giorno Ulika aveva lavorato
sodo nei campi. Esausta, ma con un sorriso raggiante sul volto, stava tornando
a casa col sole che calava. Avrebbe rivisto Jure quella sera. La mattina si era
svegliata e lui non c’era più ma lei sapeva che sarebbe tornato.
Ma c’era un gran ciabattare di
sandali in strada e vari mormorii. La gente era agitata, sconvolta. Qualcuno
gridava e qualcuno piangeva.
Ulika si avvicinò titubante a un
gruppo di persone. Possibile che fosse successo ancora? Una donna piangeva,
disperata, sorretta da un uomo che aveva mille sfumature di dolore nel volto.
Rispondeva con cenni e parole a testa china alle domande che Ivan gli faceva.
“Cos’è successo?” chiese Ulika,
col cuore in gola.
Uno tra le persone che aveva
avvicinato si voltò. “E’ morto un ragazzo, Nikola”.
Chi fosse Nikola, Ulika non lo
sapeva, ma non importava.
“Non ha più sangue…” stava dicendo
qualcuno.
“Che sia stato un mostro?!”.
“Allora esistono davvero!”.
“Quando finirà tutto questo?!”.
Ulika si fece largo tra le voci
angosciate e disperate e raggiunse Ivan, che aveva appena congedato quelli che
dovevano essere i genitori di Nikola.
Ivan fu sorpreso quando la vide.
“Ulika, per ieri sera… Io…”.
“Quando è successo?” lo interruppe
lei, bruscamente.
“Cosa?”.
“Quando è morto Nikola?”.
Ivan si strinse nelle spalle. “Il
medico ha detto poco prima dell’alba”.
Ulika batté le mani, trionfante,
guadagnandosi parecchie occhiatacce. “Non può essere stato Jure!”.
Ivan era a disagio. “Vi volevo
dire che mi dispiace, per quello che vi ho detto ieri sera”.
La donna non lo ascoltò. “Non può
essere stato lui perché è stato tutta la notte con me!” disse, entusiasta “E’
tornato, è tornato! Ma non è un assassino!”.
Ivan era a bocca aperta. “Come
dite… E’ tornato?”.
Ulika scandì bene le parole. “Io l’ho visto”.
Tutti smisero di parlare e lei si
sentì osservata. Ivan la prese per un braccio e la condusse via.
“Ulika” disse, in tono grave, dopo
qualche passo “Siete sicura di quello che dite?”.
Lei annuì. “E vi dico che non può
essere stato lui a…”.
“Lo sapete” la interruppe lui, con
uno sguardo strano “che ci sono storie strane sulle persone che tornano
dall’aldilà?”.
“Persone che tornano per succhiare
sangue?” sbottò Ulika “Oh cielo, Ivan, ancora con questa storia…”.
Ivan si passò una mano sui folti
capelli sbiaditi e ingrigiti. Guardò la donna, con una smorfia di
preoccupazione che lo invecchiava ancora di più. “Io devo fare qualcosa, Ulika.
Non posso restare a guardare mentre gli abitanti della mia comunità muoiono uno
dopo l’altro!”.
Ulika si sentiva il volto
paonazzo. Non capiva il senso di quello che Ivan stava dicendo. Perché
collegava le morti che stavano avvenendo nel villaggio a suo marito… Suo marito
era morto da sedici anni…
Ma tu l’hai visto, la scorsa notte.
Non avrebbe fatto del male a
nessuno! Chi svuotava le persone del proprio sangue? Chi?! Se quei mostri di
cui la gente parlava esistevano davvero, Jure non era tra quelli, non poteva
essere.
Cercò di mantenere la calma,
mentre domandava: “E allora cosa vorreste fare?”.
“Credete che si presenterà a casa
vostra casa stanotte, di nuovo?”.
Ulika sentì il panico nella gola,
che saliva insieme alla sua voce. “Non lo ucciderete!”.
E’ già morto…
Ivan sospirò. Ulika gli vedeva
negli occhi la paura di essere ridotto a una sacca di pelle vuota, come Nikola
e Zoran.
“Riunirò il consiglio, subito.
Decideremo sul da farsi”.
Ulika annuì, con aria di sfida.
Con un breve cenno del capo si discostò e fece per andarsene.
“Aspettate!” fece l’uomo,
guardandola dritto negli occhi. Lei si fermò e lo guardò. Lui deglutì,
esitando. Disse solo: “Fate attenzione”.
Ulika alzò un pelo il capo. “E’
mio marito”.
Non avrebbe mai avuto paura di suo
marito. Prima che Ivan potesse replicare, lei si allontanò, andando verso casa.
Jure sarebbe tornato da lei, ne
era sicura.
Quella notte non dormì. Aspettò la
sua comparsa tutto il tempo, sobbalzando per ogni minimo rumore, piangendo ad
ogni ostinato silenzio.
Ma lui non si presentò.
Non ci poteva credere che stava
davvero avvenendo. Non poteva lasciarglielo fare.
Eppure era lì, inerme, che
piangeva rumorosamente contro un pezzo di stoffa mentre farfugliava pietà.
I suoi compaesani erano intorno a
lei, a fissare la tomba di Jure. Erano tutti complici della crudeltà che stava
per compiersi.
“Non profanate” biascicò,
guardando la tomba offuscata davanti a lei “Non profanate il suo cadavere!”.
Era giorno, sentiva il sole che le
picchiava sulla testa. Secondo alcune storie e secondo molti alcuni cadaveri
avrebbero potuto prendere vita di notte, e sarebbero andati in giro a nutrirsi
di sangue umano.
Ma lei sentiva ancora il profumo
di Jure a casa sua, e quello non era odore di sangue!
Il suo sguardo lacrimoso incrociò
quello della madre di Nikola. Aveva il volto magro, scavato di disperazione ma
quando la guardò, una traccia di odio le luccicò negli occhi.
“Non è stato lui!” ululò Ulika.
Ma era tutto inutile. Due uomini
del consiglio la tenevano per le braccia, per evitare che intervenisse. Ma che
credevano? Che avrebbe potuto fare lei contro tutto il villaggio?
Ivan la guardava con sguardo
rassegnato e lei ricambiò con gli occhi più sprezzanti che conosceva.
“In seguito agli orribili
assassinii che si sono compiuti nella nostra comunità” disse Ivan a voce alta,
voltandosi immediatamente da un’altra parte “abbiamo deciso di prendere un
provvedimento mai preso prima”. Tutti
subito presero a parlottare tra loro, spaventati, e lui fece una pausa,
schiarendosi la voce, e Ulika urlò: “Non si profanano i morti! Finirete
all’inferno!”.
Ivan le lanciò uno sguardo
implorante, prima di continuare: “Questi assassinii sono avvenuti di notte.
Abbiamo motivo di credere che sia stato un nostro compagno defunto. Cosa ci sia
nell’aldilà non ci è dato saperlo, ma qualcosa lo deve aver fatto tornare in
vita, e trasformato in…”.
“Non è vero” pianse Ulika, per la
frustrazione “Lui non è un assassino…”.
Ivan si voltò a guardarla mentre
proseguiva il discorso: “In un essere diverso, che non è più quello di un tempo
e che non sa quello che fa”.
Ulika si strattonò dai due uomini
ma loro la tennero ferma. Aveva voglia di prendere a schiaffi Ivan, l’uomo che
un tempo, qualche anno dopo la morte di Jure, lei, abbattuta e afflitta, aveva
creduto di amare… Ma ora lui era lì, pronto a credere a stupide dicerie, ad
aprire la tomba di Jure e la ferita che lei ancora aveva nel cuore, che ci
aveva messo così tanto a rimarginarsi e che ora di nuovo perdeva così tanto
sangue.
“Jure Grando era un brav’uomo, un
gran lavoratore e, soprattutto, era uno di noi” dichiarò Ivan, e ad Ulika non
importava che gli luccicassero gli occhi. “Ma ora non è più lui, e noi dobbiamo
proteggere la nostra comunità”.
Ulika guardò tutti i presenti, uno
ad uno. Nessuno che avesse qualcosa da ridire. Eppure c’erano anche quelli che
si definivano amici di Jure…
“Dicono che questi morti che
camminano” proseguì Ivan “si possano sconfiggere piantando loro un paletto di
legno nel cuore”.
Lo sguardo di Ulika cadde su
Premil, un uomo che doveva essere un combattente, ma che tremava visibilmente,
con in mano un bastone di legno.
Non c’era più nulla da fare.
Avrebbero ucciso per sempre Jure, avrebbero rovinato il suo corpo e fatto a
pezzi il cuore di lei.
Qualcuno si offrì per scavare la
fossa e lei rimase a fissare, con sguardo vacuo, coloro che si misero al
lavoro.
Venne aperta la tomba e gli abitanti trovarono un corpo dal viso
vermiglio, che li accolse con un sorriso, ciò ebbe l’effetto di disperdere la
maggioranza dei presenti.
Il corpo venne riesumato. Era
perfetto, intatto, come fosse appena morto e Ulika, senza neanche riuscire a
guardarlo, crollò in pianto, sulle ginocchia.
Premil avvicinò il braccio
tremante ma non riusciva a spingere il legno nel petto. Dopo poco lasciò cadere
il bastone e si allontanò, dichiarando di avere paura.
Ma il paletto non riusciva a entrare nel cadavere.
Ulika si accorse che molti se ne
stavano andando, tra mormorii confusi, qualcuno addirittura urlava che Jure si
fosse mosso. Ivan e altri uomini cercarono di mantenere l’ordine.
Un uomo, che si chiamava Nikolo,
avanzò con sguardo deciso dicendo che lo avrebbe decapitato.
Giacché il corpo non poteva essere impalato, un uomo chiamato Nikolo
Nyena si assunse il compito di decapitarlo.
Ulika gridò e altre voci si
mescolarono al suo grido. Non capì più niente e fuggì via, lontano, nei boschi,
non senza aver lanciato uno sguardo fugace a Ivan, che ricambiava con un'espressione di affranto e amareggiato amore.
Ma cercò di farlo in modo non convinto e un certo Stipan Milasich, più
coraggioso, gli staccò la testa di netto.
Allora il morto lanciò un grido e si contorse come un vivente. Gran
sangue si disperse nella bara.
Imma, finita la lettura, chiuse di
scatto il libro di Valvasor. Sentiva il suo stesso respiro che si faceva
affannoso. Poggiò il libro sul comodino e si raggomitolò sotto le coperte.
Non esistono i vampiri.
Leggeva quelle storie ad Eike,
gliele leggeva tutte le sere.
Strinse la stoffa del cuscino tra
i polpastrelli fino quasi a farsi male. Le sembrava di morire, ogni volta.
Si asciugò gli occhi e si rigirò
dall’altra parte. Era buio e lei aveva paura. Aveva paura come ne aveva sempre
avuta Eike.
Ma erano solo storie, solo storie.
Sono tornato!
Batté un pugno sul cuscino,
trattenendo un grido strozzato.
Non era davvero venuto da lei.
Jure Grando era tornato dalla moglie, ma Jure Grando era un personaggio di
fantasia, Eike invece era la realtà, era il suo fratellino…
Era.
Le lacrime scorrevano silenziose
sulle sue guance. Eike non era tornato e non l’avrebbe mai fatto, ciò che aveva
visto qualche mese prima era stato frutto della sua mente addolorata e
delirante. Era sicura di esserselo inventata. Ma il ricordo era così nitido,
chiaro… Il suo viso fanciullesco con quei
denti…
Ormai aveva paura dei vampiri,
però continuava a leggere storie che li riguardavano. Voleva capire se
potessero davvero esistere, se Eike poteva davvero essere…
Non può.
Ma io l’ho visto, pensò Imma,
continuando a piangere, l’ho visto!
Perché mi racconti queste storie?
“Mi dispiace” sussurrò lei, a
occhi chiusi, tenendo stretto il cuscino “Mi dispiace, Eike…”.
Se lui era davvero un vampiro,
perché non tornava da lei?
Perché ti odia.
“Scusami…”. Le parole erano
inutili se non poteva pronunciarle davanti a lui. Sua madre ancora non riusciva
a parlare di lui e suo padre, beh, suo padre forse era troppo impegnato per
accorgersene.
Perché voglio farti crescere! Come farai ad affrontare la guerra se
hai paura di cose che non esistono?!
La guerra ci sarebbe stata ma Eike
era già caduto. Il sorriso più triste che poteva esserci le crebbe sul volto,
quando pensò che almeno Eike non l’avrebbe conosciuta, la guerra.
Un piccolo rumore e lei si mise
seduta con un sobbalzo.
“Chi c’è?” chiese in un soffio.
Ogni notte il cuore le martellava nel petto come mai aveva fatto nei suoi
quindici anni di vita.
Immaginò che fosse Eike. Lo
immaginò piccolo e fragile come era sempre stato, ma con quel sorriso maligno,
dal quale spuntavano due zanne. Poi
il viso di Eike diventava più grande, si incattiviva, dalla bocca usciva del
sangue, gli occhi erano vermigli. Lo vedeva proprio davanti a sé, nel buio, un
volto pallido che galleggiava…
Si coprì il volto con le mani e
gridò, senza riuscire a trattenersi. Poi pianse, poi di nuovo urlò, e la porta
si aprì e lei si trovò accoccolata tra le braccia di sua madre, che piangeva
con lei.
Acilia aggirava il cadavere, con
sguardo triste.
“Donna, sui quarant’anni” dichiarò
“E’ stato uno di noi”.
Aveva il volto spento e incredulo,
la bocca semiaperta e gli occhi raggelati.
“Ma che ci faceva nei boschi?”
fece Dubris “Sembra una contadina… Non doveva essere nei campi a zappare?”.
Acilia si strinse nelle spalle.
Anche l’Istria era sotto la sua giurisdizione, ma i cavalieri della morte
continuavano a fare come volevano. Non c’era un modo per impedire loro di
uccidere. Lei, Dubris e gli altri avevano fatto così tanto negli ultimi due
secoli, lei ormai era conosciuta come la Regina e molti cavalieri la
rispettavano. Ma per quanti passi avanti avevano fatto, ora le sembrava solo di
camminare all’indietro.
Vide una figurina venire verso di
loro e lei e Dubris si prepararono alla fuga, ma poi la figura divenne Mathias
ed entrambi si calmarono.
Il nuovo arrivato lanciò uno
sguardo alla donna. “Ho sentito delle voci. Questa donna era al cimitero questo
pomeriggio” disse “C’era un sacco di gente. Hanno tentato di impalare un
morto”.
“Impalare?” esclamò Dubris.
“Non ci sono riusciti” si affrettò
a dire Mathias “Poi l’hanno decapitato”.
“Vuoi dire che…” cominciò Acilia.
Mathias scosse vigorosamente la
testa. “Non credo fosse un cavaliere della morte, quando l’hanno tirato fuori
dalla fossa sarebbe dovuto bruciare no?”.
“E poi nessuno è così stupido da
fare della propria tomba il proprio nascondiglio diurno” aggiunse lei,
meditabonda.
“Probabilmente era solo un
cadavere” convenne Mathias.
“Poverino” fece Dubris in un
soffio “Cos’avrà mai fatto per meritarsi un tale trattamento?”.
Acilia sentiva l’aria tiepida
sfiorarle le braccia nude. Gli umani non erano così stupidi, non avrebbero potuto essere stupidi per
sempre.
“Gli umani hanno paura” disse, non
riuscendo a distogliere lo sguardo dall’espressione terrificata della signora
“E il terrore deforma gli occhi”. Gli occhi della donna chissà cos’avrebbero
detto, se avessero potuto parlare.
La vista degli umani è debole, è
condizionata dalla mente. Non tutto ciò che vedono è reale.
“Cosa vuoi dire?” domandò Mathias.
“Che quegli umani probabilmente
credevano che quel morto fosse un cavaliere” spiegò Acilia.
I due uomini si lanciarono uno sguardo
allarmato e lei continuò, indicando lo spazio al di là degli alberi: “Quel
villaggio lo sto tenendo d’occhio. La gente muore, in modo strano,
inspiegabile! Siamo noi che li uccidiamo e se le cose vanno avanti così, non
riusciremo a nasconderci ancora per molto!”
“Quegli stronzi” sbuffò Mathias
“Ci faranno scoprire”.
Acilia si sedette per terra, con
la testa tra le mani, pensosa.
Sentì qualcuno che si sedeva
accanto a lei, neanche doveva chiedersi chi fosse.
“Ehi” fece la voce dolce di Dubris
“Tutto bene?”.
Perché non la smetteva di preoccuparsi
così tanto per lei? Ma dopotutto era colpa sua, era lei che lo aveva illuso,
abbandonandosi a lui. Ma lei non voleva impegni, non voleva complicazioni
perché anche se erano passati tre secoli la vita distrutta di Miguel era ancora
lì a un passo da lei.
“Quanti siamo?” disse lei,
bruscamente “Quanti cavalieri siamo in Europa? E’ impossibile tenerli sotto
controllo tutti!”.
“Bisognerebbe punirli” disse
Mathias “Sai, come fanno gli umani… Fai un reato e un minuto dopo bruci sul
rogo”.
Lo disse col sorriso sul volto ma
Acilia tremò vistosamente.
Lolita bruciava e non perdonava…
“Aci?”. Dubris la guardava
preoccupato.
Smettila!
Odiava essere così debole ma non
sarebbe mai più finita tra le braccia di un uomo per sentirsi protetta e amata…
Perché lei non amava più, non lo voleva più fare.
“Delle leggi, sì, ci vogliono
delle leggi” disse con sguardo vitreo, alzandosi in piedi “Ma sarà comunque
impossibile tenere sotto controllo tutti, siamo sempre di più… Non la smettono
mai di trasformare”.
Dubris aveva un’espressione
risentita. “Spesso trasformano perché si sentono soli”.
“Lo so” disse subito lei, voltando
di scatto la testa verso di lui “Non volevo giudicarti, lo so come ci si
sente”.
Dubris fece un debole sorriso e
lei guardò di nuovo da un’altra parte, sentendosi in colpa.
“Torniamo alla base” disse. Forse
era meglio discuterne anche con Lyuben.
Si guardarono intorno e poi tutti
e tre si librarono in aria e sparirono, lasciando solo la solitudine in compagnia
della misera donna.
Curtis aveva trentasei anni,
viveva da solo ed era un fotografo.
Acilia gli aveva detto di avere
diciotto anni, sperando che lui desistesse dal tentativo di conquistarla. In
realtà lui non sembrava neanche volerla conquistare. Non si avvicinava a lei,
non cercava la sua mano o un suo bacio, non chiedeva di accompagnarla a casa.
Quella era già la terza sera che
si vedevano, e per la terza volta lui era oltre un bicchiere d’acqua, davanti a
lei, con una birra in mano.
A lei andava bene così. Finché non
si fossero toccati lei sarebbe stata al sicuro e finché continuavano a parlare
lei poteva non pensare ai suoi guai.
Forse si stava cacciando
nell’ennesimo guaio, perché Curtis aveva qualcosa che l’attirava. Il suo
sguardo, le sue parole, il suo comportarsi come se lei fosse umana, l’atmosfera
tiepida del bar.
Quando lei gli aveva detto di
avere diciotto anni aveva sperato che lui la lasciasse stare, ma in realtà in
un angolo aveva anche sperato l’esatto opposto. Com’era possibile una cosa del
genere?
Dubris le chiedeva dove andasse
ogni sera. Mostrava quella gelosia di un tempo che Acilia non sopportava. Ma
dopotutto Dubris lo sapeva che lei non era sua, che non lo era mai veramente
stata. Le spiegava che stavano tenendo d’occhio Kaeso, specie ora che era in
Inghilterra. Che ci faceva in Inghilterra? Aveva un piano? Un piano che
riguardava lei? Le domande erano tante ma quella che Dubris implicitamente le
indirizzava ogni volta era una sola.
Perché sembra che non te ne freghi un cazzo?
Non era così, in realtà le
importava. La verità era le importava più del dovuto. Le importava troppo e più
ci pensava più le importava, mentre tutto quello che voleva fare era
dimenticare.
“Hai la faccia di chi vuole
dimenticare qualcosa” scherzò Curtis.
Acilia si riscosse e lo guardò,
facendo attenzione. Non voleva rischiare di perdersi nei suoi occhi grigi.
“Cosa?”.
Dimenticare sembra una cosa da
niente, quando vivi per duemila anni. Eppure non era mai stato davvero così.
Curtis era molto diverso da Miguel.
Miguel era un ragazzo che non era mai davvero diventato uomo. Esternamente
cresceva ma la pazzia l’aveva divorato, da dentro. Curtis era un uomo adulto di
una società nuova, con addosso il peso della coscienza, non della fame e della
malattia.
Quando guardava Curtis, Acilia non
rivedeva Miguel. Era la prima volta che le succedeva da quando lui era morto.
Guardare un uomo, desiderare un uomo senza percepire Miguel.
“Non dimostri l’età che hai, sai”
stava dicendo Curtis.
“Mi dicono che sembro più grande”
disse Acilia, riciclando una frase che avrebbe potuto essere di una qualsiasi
ragazzina.
“Non è quello” replicò l’altro,
con un sorriso “La tua espressione… è adulta”.
Acilia sbatté le palpebre e per un
momento le venne la folle idea di spalancare gli occhi, e farsi guardare.
“Troppo sofferta per una ragazza
di diciotto anni” continuò Curtis. Bevve un sorso e tornò a fissarla. “Perché
non mi racconti la tua storia, Emily?”.
Acilia fece una risatina. “Non è
così facile”.
Capì che l’avrebbe davvero voluto
fare. L’avrebbe voluta davvero raccontare a qualcuno la sua storia. Perché non
l’aveva mai fatto? Perché non si era mai confidata con Dubris? Perché aveva
lasciato che Jacque si allontanasse da lei senza dargli neanche una
spiegazione? Faceva terra bruciata intorno a sé, solo perché duemila anni erano
tanti, scottanti, immutabili, e mai rivelati.
Si rese conto che con Curtis
doveva fingere. Perché aveva voglia di dire tutto proprio all’unica persona con cui doveva fingere?
Perché aveva sempre finto con Jacque?! Il loro rapporto avrebbe potuto
salvarsi…
“Non ho niente che non va,
davvero” disse lei “Mi dispiace se sono di pessima compagnia, ho dei…
problemi”.
Confidarsi con gli estranei era
sempre stato più facile, perché loro non sono coinvolti in niente. Ma lei non
poteva fare certo di testa sua.
Curtis ridacchiò, divertito. “Io
trovo che sia una pessima compagnia una persona che non ne ha di problemi. Che
noia sarebbe?”.
La noia, Acilia l’agognava tanto
la noia.
“E tu?” chiese “Tu li hai dei
problemi?”.
L’uomo sospirò. “Sì”.
Acilia inarcò le sopracciglia e
lui si affrettò ad aggiungere: “I problemi di tutti… Quelli che hanno gli
adulti”.
Gli adulti.
Curtis era misterioso. Sembrava
avesse qualcosa da nascondere. Beh, come lei.
Prese coraggio. “Posso chiederti
perché… Perché esci con me? Sono una ragazzina”. Fu strano definirsi in quel
modo. Le ragazzine che vedeva camminare in divisa scolastica sghignazzando e
guardando le vetrine dei negozi erano in un altro mondo rispetto al suo. Cercava
di ricordare come era quando era davvero ragazzina, quando era viva. Più
immatura di ora, certo, ma era diversa. I tempi erano diversi.
Curtis sorrise. “Non pensi più che
io sia un maniaco?”.
“Diciamo che il tuo approccio è
stato strano”.
Lui bevve lentamente. Sembrava
dovesse riflettere prima di rispondere. Non sembrava un maniaco, ma era strano.
“Te l’ho detto, non sembri una
ragazzina. I tuoi occhi hanno qualcosa da raccontare e io li ho notati”.
Acilia pensò di dover arrossire.
Si addiceva a una ragazzina. I suoi occhi avevano qualcosa da raccontare?
Jacque diceva che i suoi occhi erano freddi, spenti, senza un’anima.
“Non ho cattive intenzioni” disse
ancora Curtis “Sei una bella ragazza e chissà quanti ragazzi più belli e più
giovani di me ti fanno la corte”.
Acilia si fece sfuggire un piccolo
sorriso. Avrebbe avuto da ridire sia sul più
belli sia sul più giovani.
“Tu hai i tuoi problemi, io ho i
miei” continuò l’uomo “Concediamoci solo qualche serata di spensierate
chiacchiere”.
Era proprio quello che Acilia voleva.
Ma sarebbe riuscita a mantenere le distanze?
“Ci sto”. Le parole le sfuggirono
di bocca prima lei potesse riflettere.
Lei è un’umana! Cosa credi di fare?
Cos’avrebbe detto Jacque?
Ma non c’era bisogno che Curtis
sapesse la sua natura, non c’era bisogno di niente…
Ti puoi anche trasferire ad Arcangelo!
Jacque la odiava ormai…
Si sforzò di bere un sorso d’acqua
che, viscida e fastidiosa, andò ad accenderle il corpo in un lamento.
Si mosse leggermente sulla sedia,
tentando di mantenere il sorriso sul volto.
Di giorno ormai i sogni, sempre più
impotenti, la demolivano. Jacque le urlava addosso e Dubris le chiedeva che
stesse facendo e perché non stesse
prendendo più la loro causa sul serio. Lyuben la guardava deluso e Ramona le
chiedeva perché li avesse traditi.
Ma soprattutto il mondo dei suoi strani sogni
era popolato da occhi blu, tremendi e glaciali.
Emily si mise la giacca e si
accinse ad uscire.
Aveva già afferrato la maniglia
della porta di casa quando sentì lo sguardo torvo di sua madre su di sé.
“Che c’è?” chiese, voltandosi a
guardarla, un po’ scocciata.
Sua madre strinse le labbra. “Sei
sicura di voler uscire? Sembri distrutta”.
Emily scrollò le spalle. “Sto
bene”. Non era vero per niente, cascava dal sonno. Probabilmente a casa di
Jacque si sarebbe addormentata.
“Torni sempre così tardi” si
lamentò sua madre, alzando gli occhi al cielo “Come fai a concentrarti a
lavoro? Non ti farai mica licenziare! Sai quant’è difficile trovare…”.
“Non mi farò licenziare, mamma”
sbottò Emily. Ci mancava solo quello, farsi licenziare, non trovare più nessun
altro lavoro e dipendere tutta la vita dai suoi genitori. La sola idea era
repellente. “Tranquilla, a lavoro va tutto bene”.
Sua madre aveva il volto
preoccupato ed Emily si sentì in colpa. Si sentiva sempre in colpa, tutte le
volte. Del resto non poteva certo dirle la verità.
“Stasera non farò tardissimo”
disse, per rassicurarla. Effettivamente la avrebbe fatto bene evitare di
tornare alle quattro del mattino.
Ottenne l’effetto sperato perché
sua madre annuì, un po’ più serena. Però aveva ancora un velo di preoccupazione
negli occhi ed Emily sapeva che c’era dell’altro. Al telegiornale ogni sera
venivano elencati i nomi di decine di vittime dei vampiri. Le cose erano
peggiorate, ed Emily sapeva che era colpa della campagna di orrore di Kaeso.
“Ma perché devi uscire tutte le
sere?” esclamò sua madre, lamentosamente “Coi tempi che corrono…”. Era
spaventata a morte. Dopo il lavoro tornava precipitosamente a casa, si
arrabbiava col marito se tornava tardi e permetteva a Michael di uscire tutti i
pomeriggi, ma mai la sera. Con Emily però era diverso. Lei era grande, non
poteva più comandarla.
“Andrà tutto bene, mamma” disse,
la mano ancora ferma sulla maniglia.
Sua madre aveva l’espressione di
chi stava per mettersi a piangere. Anche lei era stanca, perché – anche se non
lo ammetteva – aspettava tutte le notti che Emily rincasasse sana e salva,
prima di addormentarsi.
Tante volte la ragazza era stata
tentata di dirle che non poteva accaderle niente, che i vampiri avevano un
parlamento e delle leggi e che lei era sotto la tutela di un patto. Chissà,
l’avrebbe sconvolta ma l’avrebbe fatta sentire meglio forse, dopo.
Si tolse la borsa dal braccio e
prese a frugare dentro essa. Ne estrasse una pistola e la mostrò alla madre.
Costavano tanto le pistole con
proiettili di legno ma i suoi genitori ne avevano acquistate due, e chiunque
uscisse alla sera doveva portarsela dietro.
“Basta puntarla dritto al cuore,
premere il grilletto e il vampiro è morto” disse Emily, cercando di apparire
convinta. Non era affatto sicura che sarebbe stato così facile. Quell’arma la
spaventava. Era una delle poche cose che potevano uccidere Jacque, per sempre…
Sua madre annuì, con un tremito ed
Emily rimise la pistola nella borsa. Fece per uscire ma l’altra ancora la
chiamò.
“Emi, ma dove vai tutte le sere?”.
Lei si voltò, incerta.
La donna abbozzò un piccolo
sorriso incerto. “C’entra un uomo?”.
Emily sorrise, suo malgrado.
“Ti prometto che non farò tardi”
disse, e poi uscì.
Chiuse la porta e si guardò
intorno.
Le strade erano deserte, la gente
se ne stava chiusa in casa. C’era solo una persona, al di là della strada, che
guardava proprio nella sua direzione.
Emily si avviò verso Jacque. Da
quando era comparso Kaeso, Jacque aveva deciso di andare a prenderla per
portarla a casa sua, piuttosto che farle fare la strada da sola.
“Ciao” la salutò.
“Non è necessario che tu venga
sempre fino a qua” disse lei “Se non vuoi che venga a piedi, posso sempre
prendere la macchina”.
Jacque alzò le sopracciglia.
“Credi che una macchina possa fermare Kaeso Virnius?”.
Emily ebbe una fugace visione di
lei al volante, col parabrezza oscurato dal volto di Kaeso, che la guardava
assatanato e con le zanne di fuori.
Cominciamo coi pensieri macabri.
“Guarda che non mi scoccia per
niente venirti a prendere” disse Jacque “Cosa vuoi che mi faccia fare due
passi?”.
“Per te è pericoloso uscire”
tagliò corto Emily.
“Devo comunque uscire per
nutrirmi” replicò il ragazzo, con sguardo incredulo “E renditi conto che sei
molto più in pericolo tu di me!”.
Emily lo guardò in cagnesco. Si
sentiva arrabbiata. Sua madre aveva tutto il diritto di essere preoccupata, ma
Jacque no! Lo sapeva del patto.
“Guarda che Kaeso non ha il
potere, non può fare quello che vuole! Non credo proprio mi attaccherebbe,
sapendo che sono la ragazza del figlio di Acilia. Risalirebbero subito a lui e
lo arresterebbero! E non mi sembra uno stupido” spiegò, stancamente. Non si era
resa conto di aver alzato la voce.
Jacque aveva uno sguardo
corrucciato. “Perché vuoi litigare?”.
“Io non voglio litigare”.
Lui si incamminò, sbuffando. “Se
ti dà così fastidio che io ti venga a prendere, mi pare proprio di sì”.
Emily lo seguì, sentendosi in
colpa. Lui era solo preoccupato per lei. Era ovvio che fosse preoccupato, lei
era solo un’umana armata di una stupida pistola caricata con proiettili di
legno!
Una volta che gli fu affianco, gli
disse: “Scusami, è che sono stanca”.
Jacque sembrava ancora arrabbiato
e non pareva intenzionato a rispondere.
“Però se fai così mi rendi solo le
cose ancora più difficili!” sbottò lei, sentendosi saltare i nervi.
Che diritto aveva lui di fare
così?!
Jacque si voltò a guardarla,
sbigottito. “Le cose difficili per
te?”.
Emily sgranò gli occhi e si fermò.
Cos’era quel tono? Era ovvio che fosse difficile per lei! Per lui cosa c’era di
difficile? Qual era il problema, che mentre facevano l’amore le veniva voglia
di mangiarla?!
“Credi che per me sia facile?”
esclamò lei “Credi che sia facile stare con un vampiro? Non dormo la notte, mi dimentico di mangiare, a lavoro ho
l’aspetto di una pazza, mia madre è preoccupata e la mia miglior amica ti vuole
conoscere!”.
Si sentiva il volto in fiamme,
mentre Jacque la fissava attonito. Passò qualche istante poi lui si mise a
ridere, lasciandola di stucco.
“La tua miglior amica mi vuole
conoscere?”.
“E’ tutto ciò che hai capito?”
sibilò lei, mentre la rabbia dentro di lei cominciava a placarsi.
Jacque tornò serio. “Mi dispiace,
io non vorrei che le cose fossero così difficili per te”.
Emily scrollò le spalle. Non
voleva fare una scenata, la verità era che era stanca, molto stanca, e la
stanchezza era una brutta bestia.
“E per te cosa c’è di difficile?”
chiese. Tanto valeva guardarsi in faccia e dirsi la verità.
Jacque esitava e lei andò avanti:
“La tua preoccupazione per me? Il fatto che litighi sempre con Acilia?”.
Lui la guardò sorpreso,
addirittura a disagio.
Emily si strinse nelle spalle,
ricordando il disagio di qualche giorno prima.
“Hai esagerato l’altra volta”
disse “Le hai detto delle cose ingiuste, che colpa ne ha lei se Kaeso…”.
“Eike mi ha detto di averli
sentiti confabulare” la interruppe Jacque, bruscamente.
“Confabulare?”.
“Sono entrati in cucina, hanno
chiuso la porta e parlavano come se si conoscessero da un sacco di tempo”.
Emily inarcò le sopracciglia.
“Questo non è confabulare”.
A Jacque era tornata sul volto
quell’espressione arrabbiata. “Non hai sentito quello che ho detto? Acilia non
ci ha mai detto nulla su Kaeso!”.
Emily non capiva proprio. Perché
Jacque l’accusava così?
“Tu credi davvero che lei stia confabulando con il capo del PO? Stai
parlando della tua creatrice!”.
Jacque abbassò lo sguardo e lei
sentì una strana sensazione dentro di sé.
La domanda le attraversò le cavità
orali prima che lei se ne rendesse conto: “Perché quando si parla di Acilia
diventi così strano?”.
Lui aveva gli occhi meno freddi.
Erano occhi tristi.
Emily si rese conto che Jacque
aveva passato con Acilia praticamente tutta la sua vita, più di cento anni…
Provò una fitta di gelosia, così, all’improvviso, mentre guardava i suoi occhi.
Per lui non era certo come una
madre, era ovvio.
Ricacciò indietro le lacrime, così
inutili e imbarazzanti.
Ti prego, Jacque, dì qualcosa…
“E’ lei che è strana” disse lui.
Lei era così forte, intelligente e
così bella. Possibile che Jacque non avesse mai avuto pensieri su di lei? Emily
era così insignificante in confronto.
Cercò di inghiottire il boccone
amaro.
“Credi che lei vi stia nascondendo
qualcosa?”.
“Non lo so” ammise Jacque.
Presero di nuovo a camminare. Erano
quasi arrivati, Emily già scorgeva quella casa per lei così piena di misteri.
Cos’è avvenuto in quella casa?
Qualunque cosa fosse avvenuta,
apparteneva al passato. E chissà, magari Jacque un giorno gliene avrebbe
parlato. Stavano insieme solo da due mesi dopotutto, non era tenuta a sapere
ogni cosa.
“Eike dice che è ovvio che Acilia
abbia dei segreti, dopotutto ha quasi duemila anni di vita” disse Jacque,
meditabondo.
Emily si sentì sollevata. Il fatto
che lui parlasse di Acilia tranquillamente rendeva in qualche modo meno chiaro
il suo sospetto.
“E’ strano pensare a una persona
che ha vissuto così tanto” disse,
fantasticando.
Si voltò verso Jacque. “Ha
conosciuto Dracula?”.
Lui la guardò allibita.
“Dracula?”.
Emily arrossì lievemente. “Ho
fatto delle ricerche” disse “Ma non ho ancora capito se Dracula sia realmente
esistito”.
Jacque fece un mezzo sorriso. “E’
solo un libro”.
Emily si sentì stupida, e si sentì
arrossire ancora di più.
“Ma che ricerche hai fatto?”
aggiunse lui.
“Volevo capire quando gli umani si
sono accorti per la prima volta dell’esistenza dei vampiri… Però poi è stato
tutto messo a tacere fino alla fine del Novecento no? Credevano fossero solo
leggende” spiegò lei.
“Esatto”.
“La prima leggenda riguardante
vampiri è quella di Jure Grando, vero?”.
“Sì”.
Erano arrivati davanti a casa e si
fermarono.
“E lui è esistito?” insistette
Emily “Voglio dire, come vampiro”.
Jacque scosse la testa. “Non credo
proprio”.
La guardò con un sorriso
malizioso. “Non siete mai stati tanto bravi in questo voi umani”.
Emily ricambiò lo sguardo confusa.
“In cosa?”.
Jacque strinse gli occhi e si
avvicinò a lei, fino a sfiorarle la bocca. Poi subito si allontanò e disse:
“Prenderci”.
Sparì e un secondo dopo era sulla
soglia di casa, con la porta aperta.
Emily si mise a ridere e si lanciò
nel suo impossibile inseguimento.
“Si fanno chiamare i Cavalieri di
Lucius” stava spiegando Lyuben, seduto su un divano di velluto.
Dubris, accanto a lui, fece una
smorfia. “L’avevo detto che bisognava ucciderli tutti quando abbiamo preso il
suo castello”.
Lyuben non parve turbato. “Oh”
disse, tranquillo “Non credo proprio siano solo loro. Il loro gruppo sarà
sicuramente aumentato”.
“Fantastico” commentò Ramona.
Acilia, in piedi, si stava
mordicchiando il labbro e contorcendo le mani. Che si fosse immischiata in una
faccenda troppo grande? Era la regina ma come avrebbe potuto farsi rispettare
da tutti?
Fece scivolare lo sguardo sui
presenti. Lyuben era calmo ma serio, Ramona preoccupata, Dubris nervoso,
Mathias scocciato e Victoire annoiata. Acilia aveva scelto loro cinque come
consiglieri, aiutanti o come altro avrebbe dovuto chiamarli. In realtà
prendevano le decisioni tutti insieme, e lei si sentiva un po’ inutile come regina. Si sentiva più un simbolo che
altro ma, dopotutto, come le diceva sempre Lyuben, era stata lei ad alzare
tutto quel polverone. Aveva fatto bene? Non le conveniva continuare la sua vita
indifferente senza preoccuparsi degli altri cavalieri?
No, pensò, incrociando lo sguardo
di Dubris, non sarebbe più riuscita a vivere nell’indifferenza. Vivere per il
gusto di vivere non aveva proprio più alcun senso per lei, avere qualcosa per
cui combattere invece non l’avrebbe lasciata morire. E poi c’era il sogno di
Marcus, quello così violentemente spezzato.
“Temo ci sarà un’altra guerra”
disse Victoire, con noncuranza.
Mathias fece un suono che sembrava
una specie di lamento. Acilia sapeva che era inevitabile ma si sentì comunque
oppressa. Avevano combattuto così tanto, contro ogni Superiore che non si
volesse piegare alla sua volontà. Era davvero la cosa giusta? Non era una
regina, era una tiranna. Si guardava intorno. Quella sala di quell’ultimo
castello che avevano conquistato era molto bella, ma era ancora intrisa
dell’odore del sangue.
Nessun Superiore di nessuna zona
avrebbe mai rinunciato al divertimento di essere un cavaliere – all’uccidere –
e Acilia si convinceva che stesse facendo la cosa giusta. Lei aveva ucciso
tanti umani, ora aveva smesso ma… uccideva tanti cavalieri. Era poi così
diverso?
Guardò Mathias e ripensò alla
morte di Fernand.
Credeva che la sua vita valesse meno della tua no?
Avrebbe perso qualche altro
compagno, succedeva di continuo.
“Tutti sanno di me” dichiarò
“tutti sanno di noi e di quello che facciamo da circa due secoli. Credo abbiano
già avuto tutti modo di scegliere da che parte stare”. Guardò i volti di quelli
che ormai aveva cominciato a considerare amici, cercando di apparire convinta.
“Quindi non ci resta altro da fare
che ucciderli”.
Salve a tutte, vi scrivo ammalata e dolorante quindi fatevi piacere questo capitolo ancora di più :3
Dunque, volevo allegare qualche chiarimento, se serve.
La leggenda di Jure Grando è la prima leggenda riguardante
vampiri e risale appunto alla fine del diciassettesimo secolo. In
Internet ho trovato poco, e cioè che questo Jure era un
contadino istriano che, nel 1672, dopo sedici anni dalla sua morte, era
tornato sotto forma di vampiro e uccideva nel suo stesso villaggio, ed
era pure apparso alla moglie. Il governatore aveva deciso di provare a
impalarlo ma senza successo, quindi poi è stato decapitato. Le
frasi in corsivo (che sarebbero quelle che Imma legge) appartengono al
libro Die Ehre des Hertzogthums
di Johann Weichard von Valvasor, libro che ha reso famosa tale
leggenda. Comunque, dato che non ho letto il libro e dato che tanto
è solo una leggenda, ho aggiunto dei fronzoli come avete letto
XD Nella mia storia, come avrete capito, la leggenda è solo una
leggenda (come è effettivamente nella realtà). Il povero
Jure Grando non è mai diventato vampiro e la povera Ulika,
suggestionata dalle parole di Ivan, ha solo immaginato di vederlo. Per
il fatto che poi, scavando nella sua tomba, hanno trovato un corpo
intatto e perfetto, a voi la scelta: potrebbero aver avuto tutti (o
comunque buona parte dei presenti) gli occhi deformati del terrore
(come dice Acilia) oppure potrebbero aver sbagliato tomba.. il che li
rende ancora più stupidi ma va beh D:
Poooi.. Fa qui il suo rientro
nella storia Imma, così anche questo capitolo ha tre livelli
temporali. L'ordine che seguo per le sequenze è tutto studiato e
motivato quindi vi volevo chiedere.. non è che visto
dall'esterno sembra un gran macello? D:
Passiamo ai ringraziamenti vari :D
Sara,
sempre puntuale :D il nome del programma certamente è stato
fatto apposta.. Insomma, con tutti questi drammi ci vuole qualcosa per
spezzare XD Stessa cosa vale per l'intermezzo di Kaeso ed Eike, e anche
per la scena di Dubris indemoniato che ti ha fatto ridere (la battaglia
se no diventava troppo seriosa u.u). Sapevo che il discorso di Curtis
avrebbe risvegliato ricordi di piacevoli esami passati (ebbene
sì, a sto mondo esiste anche qualche esame piacevole, per
così dire) XD Per il resto, che dire, hai commentato tutto e
aspetto con trepidazione altri commenti ;)
Nene,
qualunque tipo di vampiro tu abbia in mente, il fatto che i vampiri
volino non può essere una mia "bella trovata" (ti cito
testualmente) se milioni di altri scrittori ne hanno già parlato
prima di me.. ma magari non lo sapevi, lo preciso semplicemente
perché non voglio meriti che non ho ^_^ Poi ci tenevo a
ricordarti che i vampiri sono esseri inesistenti e ognuno se li crea
come vuole (a meno uno non tolga loro il tratto principale: bere sangue
umano D:).. quindi se il mio paletto di legno ti sembra "una cagata" mi
dispiace ma ho scelto di costruirmi il "mio" vampiro in questo modo ;)
Inoltre, ehm, definire Bram Stoker una mente malata.. ehm, è
un'affermazione moolto azzardata : Parlando della storia, certo, il
"cavaliere dagli occhi blu" è Kaeso e, sì, Jacque ha
davvero esagerato XD Mi fa molto piacere che ti sia piaciuta
l'atmosfera pre battaglia e ti abbia divertito Eike (il mio punto di
forza è sempre il dramma, a fare della comicità ci provo
XD).. Per Curtis ahahahah, che ci vuoi fare.. sti "stalker".. ne
sappiamo qualcosa eh XDXD
Norine,
non sarai mai in superritardissimo quando c'è RedTears di mezzo
(frecciatina :D).. Grazie mille per l'"ottimo capitolo" e vedo che ho
suscitato in te tutte le sensazioni giuste :D alla prossima recensione!
Ringrazio anche tutti coloro che leggono solo. Non siate timidi, lasciatemi una piccola recensione :DDDD
Ooooggi devo dire che la sezione
post-capitolo è davvero lunga. Sarò ispirata? Ho pure
fatto tutto in due colori.. Beh, già che ci sono vi dico anche
che ho ripianificato per l'ennesima volta i capitoli che mancano alla
fine (ma potrei farlo ancora mille altre volte) e ce ne sono ancora
diiieeciii (aiuto -.-)
Alla prossima! :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Isteria ***
Quindicesimo capitolo
CAPITOLO XV
ISTERIA
Austria,
1726
I Cavalieri di
Lucius che Acilia e i suoi compagni avevano combattuto più volte ormai non si
facevano chiamare più così. Dopotutto Lucius era morto ormai tre secoli prima e
il suo nome, seppur così imponente e maestoso un tempo, non sarebbe rimasto
nella storia. Era solo un pretesto, perché loro non volevano essere il
portavoce di nessuno, né volevano vendetta. Volevano il sangue e dicevano in
giro di essere i veri vampiri. Vampiro
era un termine recente, che gli umani sussurravano con terrore. Che diavolo
significa vampiro, aveva chiesto Dubris, la prima volta che l’aveva sentito.
Il termine veniva
dalla Serbia e si era diffuso come una macchia d’olio in tutta Europa.
Significava qualcosa come stregone che succhia sangue.
Ma non importava
veramente che cosa significasse, era qualcos’altro che importava. Il fatto che
avessero un nome, il fatto che gli umani sapessero come chiamarli… dimostrava palesemente che il loro mondo non era
più nascosto.
Era ovvio che
sarebbe finita così. I cosiddetti veri
vampiri non si preoccupavano di incantare le persone, non si preoccupavano
di nutrirsi in privato, spaventavano ma soprattutto uccidevano, e tanto. Andavano
in giro dicendo agli altri vampiri che la regina non era legittima, che aveva
preso il potere con la forza e accumulavano sempre più seguito. La sfidavano,
le chiedevano di avere dei diritti, dicevano che non era giusto che fosse lei a
decidere per tutti. E Acilia li combatteva. E rimaneva a guardare gli esseri
umani, al colmo della disperazione, che disseppellivano i loro cari e li impalavano,
per il terrore di vederli ricomparire sottoforma di vampiri.
Erano in molti a
crederci, tanti che lo facevano davvero. Pochi ancora non credevano ai vampiri.
Dicevano che erano tutte storie, che la morte è un punto di non ritorno e
cercavano di mantenere l’ordine.
“E’ il caos là
fuori, Dubris”.
Era stanca di
combattere e di vederli morire.
Alla fine ciò che
le piaceva di più era stare accoccolata tra le braccia di Dubris all’interno
del loro palazzo. Non che Dubris le piacesse più di tanto. Poteva esserci
chiunque altro al suo posto, il punto era che scegliere Dubris era stato più
facile, perché lui era completamente stregato da lei. E quando ci pensava, pensava
di piacergli veramente, ed era allora che si sentiva una stronza. Ma che
importanza aveva? Tanto erano tutti e due morti, ed erano destinati a morire di
nuovo. Voleva solo un po’ di pace e quella pace la trovava nel calore
dell’amore di qualcun altro, mentre il suo non riusciva più ad accendersi.
“Morti per strada,
tombe che vanno a fuoco, cadaveri profanati per strada… Non è un bello
spettacolo eh?” fece Dubris, accarezzandole i capelli.
“E’ colpa mia?”
disse lei, lasciando scorrere i suoi pensieri e abbandonandosi al suo tocco “Ho
sbagliato qualcosa?”.
“Hai fatto il
possibile”.
Non poteva essere
tutto finito lì.
“E se invece
avessero ragione i VV?” domandò ancora lei, riferendosi ai veri vampiri.
“Ma che stai
dicendo?”. Dubris era sorpreso.
“Forse dovremmo
seguire la nostra natura e basta”.
Lui le prese il
volto e glielo girò e lei si ritrovò faccia a facca col suo sguardo severo.
Ricordò che tre secoli prima era stato difficile convincerlo a seguirla nei
suoi ideali e ora provò vergogna.
“Se seguissimo la
nostra natura, tutti gli umani morirebbero o si trasforemerebbero in vampiri, e
il mondo andrebbe a puttane”.
Era vero. Quello
che facevano i VV era controproducente, ma allora loro per cosa stavano
lottando? Non solo proteggevano gli umani, proteggevano il loro cibo…
Si discostò un pelo
da Dubris, sentendo un malessere che cresceva dentro di sé.
“Allora noi… Siamo
così migliori dei VV?” fece.
“Certo che lo
siamo!” esclamò Dubris. La guardò negli occhi. “Aci, dobbiamo pensare anche
alla nostra di salvaguardia! Guarda che ne hai parlato tu per prima… convivenza tra umani e vampiri”.
Acilia evitò il suo
sguardo ma lui le prese di nuovo il volto.
“Non voglio
sentirti parlare così, Aci, non tu, non dopo tutto quello che abbiamo fatto, e
quello che abbiamo perduto”.
Lei lentamente
annuì, sentendosi di nuovo triste.
“Credi che a
Mathias farebbe piacere?” insistette lui.
Mathias era morto l’anno
scorso e lei aveva scoperto che le avrebbe fatto piacere seppellirlo da qualche
parte. Ma non c’era nessun cadavere da sotterrare perché in realtà lui era
morto tanti secoli prima e la sua tomba era già da qualche parte in Francia.
Dubris aveva uno
sguardo strano. “Tu e Mathias avete avuto dei rapporti?” domandò.
Acilia sussultò e
si sentì inquietata dalla sua espressione. Che cosa c’entrava ora una sciocchezza come un rapporto?
“Un paio di volte”
rispose.
Dubris non rispose
e lei lo fissò, un pelo arrabbiata.
“Sono affari miei”
disse.
“Lo so” rispose
l’altro. Aveva gli occhi tristi. Forse era perché il loro taglio era inclinato
verso il basso, Acilia non se n’era mai accorta. O forse era triste davvero.
“Io non ti devo
niente!” esclamò, sulla difensiva. Si mise seduta sul letto, stirandosi la
veste stropicciata. Era sempre stata chiara in proposito, ma si sentiva in
colpa lo stesso.
Dubris tentò un
sorriso forzato. “Posso ancora sperare?”.
Acilia socchiuse
gli occhi e sospirò. Ne aveva davvero abbastanza di veri vampiri, di umani… Non
doveva complicarsi ancora di più le cose! Mathias almeno si faceva meno
problemi. E forse, in fondo, era per questo che lei preferiva Dubris. E si
odiava per questo…
“Perché?” le chiese
lui, prendendola una mano “Dimmi perché”.
Acilia rivide nei
suoi occhi e nella sua voce quelli di Miguel e si sentì smarrire.
Dimmi cosa sei.
Dubris non le
toccava le corde del cuore come Miguel, e lei non si sentiva in grado di dargli
niente.
Si lasciò prendere
la mano e se la lasciò avvicinare al volto di lui. Lui la baciò, poi si
avvicinò al suo viso, in cerca delle sue labbra.
“E perché tu invece
non mi lasci perdere?” domandò lei.
Dubris la baciò
dolcemente. “Non chiedermi questo”.
Ad Acilia
dispiaceva. Non voleva lasciarsi andare così. A volte aveva l’impressione che
vivere per millesettecento anni non l’avesse fortificata affatto. E se
continuava a fare del male agli altri, allora dalla vita non aveva proprio
capito niente.
Possibile che in
realtà non crescesse? Possibile che sarebbe rimasta in eterna la stessa
insicura ragazzina di diciotto anni che tenta di giustificare i suoi errori e
mascherare i ricordi?
In uno slancio
sentimentale abbracciò il freddo ed esile Dubris, immaginando che fosse il
corpo caldo e forte di Miguel.
“Che cosa devo
fare, Dubris?” chiese in un sussurro “Cosa devo per l’Europa?”.
L’Europa stava
cadendo, si stava accortacciando sotto le urla mescolate dei vivi e dei morti,
degli umani che combattevano una guerra persa in partenza e sotto il sangue
innocente, che ricopriva ogni angolo buio, dove non batteva il sole.
Germania, 1934
“L’hanno chiamata Controversia sui vampiri del diciottesimo
secolo” stava spiegando il dottor Pohl.
“E che cosa diavolo
sarebbe?” replicò la signora Lehmann, con un moto di stizza.
“Una vera e propria
isteria, signora” rispose il medico, con un sorriso, paziente “Le persone
avevano veramente paura dei vampiri.
Attribuivano la morte dei loro cari a questi esseri leggendari e tiravano fuori
i loro morti dalle fosse per finirli definitivamente con un paletto di legno,
per evitare la loro trasformazione. Oserei definirla una psicosi”.
Il signor Lehmann
borbottò qualcosa e la moglie si coprì la bocca con una mano. “E’ questo che ha
Imma, dottore? E’ psico… psico…”. Le sue parole sfumarono in un sospiro.
Imma se ne stava
seduta in un angolo dello studio medico, corrucciata.
Sapeva bene cosa
significava il termine psicosi. Non si trattava semplicemente di nevrosi, psicosi era quando perdevi il contatto
con la realtà.
“Oh no” disse
subito Pohl, alzando le mani “Non siamo ancora a questi livelli”. Al di là
degli occhiali, grandi e spessi, aveva occhi piccoli e rassicuranti.
Il padre di Imma si
chinò sulla scrivania per avvicinarsi a lui. “Dice che suo fratello morto è
diventato un vampiro!”. Aveva bisbigliato, quasi digrignato, ma Imma aveva
sentito ogni singola parola.
“Signore” ribatté
Pohl in tono calmo e professionale “Possono esserci molteplici motivi. La
nostra mente non è una macchina
perfetta e se qualcosa non funziona, non necessariamente è del tutto guasta”.
I signori Lehmann
avevano delle espressioni visibilmente confuse.
Imma odiava essere
lì. Ma le mani le tremavano, la sera voleva andare in giro a cercare Eike e la
notte urlava.
Eike è morto, Imma! Smettila di cercarlo!
Sua madre pensava
che Imma non accettasse la morte di Eike, ma la verità era diversa. Imma
l’aveva accettata e aveva accettato anche la sua conseguenza. Eike, anche se
non da vivo, calpestava il terreno là fuori da qualche parte!
Era un anno che
andavano avanti così.
Quelle storie! Quelle maledette storie che leggi ti
hanno dato alla testa! Sua madre le aveva confiscato ogni singolo libro sui
vampiri. Al momento erano in uno scatolone, in attesa del loro ignoto destino.
Dopo un anno di
sopportazione il signor Lehmann aveva concluso che Imma doveva essere pazza e
aveva deciso di portarla da uno psichiatra.
Imma aveva gridato
fino allo sfinimento che non era matta e che non sarebbe andata da nessun medico
ma alla fine anche sua madre si era convinta a portarla dal dottor Pohl. Per il suo bene diceva. Imma credeva
davvero che sua madre fosse preoccupata. Suo padre invece forse sperava solo
che la rinchiudessero in qualche gabbia di matti così si sarebbe sbarazzato di
lei.
“Per poter capire
qualcosa di più” disse Pohl, sbirciando oltre le spalle dei signori Lehmann “ho
bisogno della collaborazione di Imma”.
Collaborazione
significava farsi curare. E Imma non
aveva bisogno di nessuna cura.
“Quindi vi pregherei
cortesemente di lasciarmi solo con vostra figlia” continuò il medico, affabile,
pronto a stringere la mano ai due coniugi. Questi ci misero qualche secondo a
reagire ma poi gliela strinsero con un piccolo accenno di sorriso incerto e
uscirono dallo studio.
Pohl attese che la
porta fu chiusa per rivolgere uno sguardo speranzoso a Imma, seduta sul
divanetto in fondo allo studio.
“Vuoi che venga io
lì?” domandò, zuccherino.
Imma si alzò e si
andò a sedere sulla sedia occupata poco prima da sua madre.
Guardò Pohl con
aria di sfida. “Non mi parli come se fossi una bambina”.
Lui sembrò
compiaciuto. “E quanti anni hai, Imma?”.
“Quasi sedici”.
“E quanti anni
avevi quando è morto tuo fratello?”.
Imma sgranò gli
occhi. Allora era già cominciato l’interrogatorio dello strizzacervelli.
“Quattordici”
rispose, dopo qualche attimo di esitazione.
“E lui?”.
Imma strinse i
pollici. Teneva le mani serrate in un pugno, appoggiate sopra alla gonna. Lui
aveva… aveva…
“Quanti anni aveva
Eike, Imma?”.
“Dodici”.
“Come è morto?”.
Imma si sentì
accapponare la pelle. Ogni volta che pensava a quella mattina, in cui aveva
trovato suo fratello morto nel suo letto… Sembrava dormisse, ma non si destava
ai suoi richiami. Poi aveva notato che era freddo, e con una strana espressione
serena sul viso. L’immagine di Eike che aveva ora nella mente aprì gli occhi,
rossi, e lei sussultò.
“E’ morto
all’improvviso… di notte. I medici non hanno mai capito di cosa, pensano sia
una malattia legata al cuore” spiegò, mantenendo ferma la voce.
“Sì, ho sentito di
casi del genere. Casi strani” fece Pohl, a bassa voce, come se parlasse con se
stesso.
Troppo strani. Non poteva essere un caso che un bambino
morisse in circostanze misteriosissime e che poi lei lo vedesse tornare
vampiro! Aveva chiesto ai suoi genitori di poter aprire la bara, di poter
verificare che lui fosse davvero lì. Ma loro si erano rifiutati. L’ho già
sepolto una volta, aveva detto sua madre con gli occhi lucidi, non lo farò
un’altra volta.
“Perché non mi
parli di lui?” continuò Pohl.
Imma non aveva
nessunissima voglia di parlare di Eike. Quando pensava a lui i ricordi si
assottigliavano così tanto da diventare nebbia, che non riusciva ad afferrare,
ma che le offuscava terribilmente la vista.
“Imma”.
La voce del dottore
arrivava come un eco lontano. Perché lei non riusciva più a essere razionale?
Perché cominciava a sentirsi strana, a vedere il tutto come se fosse sconnesso
da lei, a credere a cose fantasiose, a leggende?
“Imma, riesci a
ricordarti il volto di Eike?”.
“Sì”.
“Descrivimelo”.
Imma provò a
concentrarsi. Eike, da qualche parte, in qualche momento, la stava guardando
col volto traboccante di rimprovero e paura. Era il solito fifone, quello che
credeva a tutto e si spaventava con niente.
“Ha il viso
piccolo, le guance piene, il naso a patata…”.
“Perché dici ha?”.
“Poi ha gli occhi
azzurri, i capelli corti e biondi…”.
“Imma, perché dici ha?”.
Imma si fermò,
confusa. Cos’altro avrebbe dovuto dire?
“Quanti anni ha Eike?” domandò Pohl.
“Dodici” ripeté
Imma, sorpresa “Me l’ha aveva già chiesto”.
“Ti avevo chiesto
quanti anni aveva quando è morto”.
“Dodici” insistette
Imma, arrabbiata “E’ morto a dodici anni quindi avrà sempre dodici anni!”.
E avrebbe sempre
avuto i capelli biondi, e le guance piene e il naso a patata. Pohl non capiva.
“In che rapporti
eravate?”.
“Buoni”.
“Buoni quanto?”.
Imma lo sapeva di
voler sviare la domanda. “Come si fa a quantificare? Erano buoni e basta”. Era
nervosa, e Pohl se ne accorse.
Si avvicinò a lei,
con lo sguardo di chi aveva già capito tutto.
“C’è qualche cosa
che non hai fatto in tempo a dirgli? Qualcosa di cui ti rimproveri?”.
Mi dispiace, Eike.
“Io… sì, forse”.
La concentrazione
del dottore era quasi palpabile. “Di cosa ti rimproveri?”.
Imma non voleva
dirglielo, ma le parole vennero da sé. Le mani le tremavano, nel tentativo di
afferrare tutta la sua razionalità che era scivolata via.
“Gli raccontavo
delle storie dell’orrore” disse, fissando una pila di fogli sulla scrivania
“Gli mettevo paura”.
Pohl sospirò.
“Rigurdanti cosa?”.
Lo sa già.
“Imma, queste
storie di che cosa parlavano?”.
Di zanne, di
sangue, di esseri mortali, di Eike, che era sia vittima sia carnefice…
“Di vampiri”.
Il dottore incrociò
le braccia e strinse le labbra. Attese qualche attimo prima di parlare di
nuovo.
“Eike si è trasformato
nelle tue storie dell’orrore” disse. Si sistemò gli occhiali sul naso, che
stavano scivolando giù. “Ti sta punendo”.
“Sì” rispose subito
la voce tremante di Imma. Dopotutto lo sapeva che era questo che voleva Eike.
Qualche ignobile essere l’aveva trasformato in un vampiro e lui era tornato per
farle vedere che non aveva più paura, che doveva averne lei ora… Si voleva vendicare…
“Però” esclamò lei,
alzando un po’ la voce “Se mi vuole punire perché è venuto da me solo una
volta?”
“Imma…”
“Perché non
torna?!”.
“Imma” insistette
Pohl, sempre calmo “Lo sai chi ti sta punendo?”.
Eike. Non l’avevano
appena concluso?
Ma lei non rispose
e il dottore dichiarò: “Il tuo inconscio”.
Imma aggrottò la
fronte. Inconscio era una parola che
negli ultimi tempi andava tanto di moda, ma lei proprio non riusciva a capire
cosa fosse.
Pohl decifrò la sua
espressione. “L’inconscio è una parte di noi inconsapevole e inaccessibile. E’
quel luogo della mente in cui finisce tutto ciò che rimuoviamo”.
“Cioè
dimentichiamo?”.
“No, le cose che
dimentichiamo le possiamo recuperare. Ti ho detto che è un luogo inaccessibile.
Tu non puoi entrarci, solo un estraneo –
il medico – può aiutarti a fare luce”.
Imma scosse
vigorosamente la testa. Una parte di lei in cui lei non poteva accedere? Una
parte della mente che non conosceva? Non aveva senso.
“E che cosa rimuoviamo? I ricordi?”.
“Sì, per esempio”.
Gli occhiali di
Pohl scintillavano di sicurezza.
“E perché li
rimuoviamo?” chiese ancora lei.
Lui chinò la testa
un momento, poi la rialzò. “Perché ci danno fastidio. Non li accettiamo, li
neghiamo o, peggio, li rinneghiamo”.
Imma cominciava a
sentire caldo. Quello studio, quelle parole, lo sguardo del medico la
soffocavano.
“Io non ce l’ho
questo inconscio, io non ho mai rimosso niente”.
Pohl la ignorò con
un sorriso.
“L’inconscio
manifesta la sua presenza attraverso sintomi”.
La sensazione che
quello che le stava intorno fosse sconnesso da lei…
Basta, pensò Imma,
basta! Che la smettesse di parlare, perché la verità era che lei stava cominciando
a capire.
“Nell’inconscio tu,
Imma, ti vuoi punire. Tu ti odi per
quello che hai fatto ad Eike e non puoi sopportare il peso di quest’odio.
L’inconscio è quella parte di te che è senza freni, che vuole il tuo bene, che
insegue i tuoi desideri. Sta cercando di farti stare meglio, ti punisce perché
è quello che tu vuoi”.
“La smetta”. La
voce di Imma era un bisbiglio, ma lei la sentiva vibrante di rabbia. I suoi
pensieri lei li conosceva molto bene, quel medico non poteva venirle a dire che
la conosceva meglio di se stessa!
“Quell’Eike vampiro
che tu credi di aver visto…”.
“Io non credo
niente!” sbottò la ragazza, sempre più arrabbiata “Io l’ho visto!”.
Pohl cercò di
sovrastare la voce di lei alzando la sua. “…era una proiezione del tuo
inconscio!”.
“Era Eike!” gridò
Imma, alzandosi in piedi e sentendosi le lacrime agli occhi “L’ho visto
distintamente, con questi occhi! Non me lo sono immaginato!”.
Pohl si alzò con
lei e cercò di acquietarla con le mani. “Non tutto ciò che vediamo è reale”.
Imma si asciugò gli
occhi. Che cavolo significava? Se non si poteva più fidare neanche di se stessa
di chi si poteva fidare?
Pohl indicò la
propria tempia. “E’ la mente, Imma. La nostra psiche è potentissima, neanche
hai idea di cosa ci sta là dentro”.
“Io le dico che
l’ho visto” piagnucolò lei. La testa le faceva male e chiuse gli occhi. Aveva
paura di vedere cose che non avrebbe dovuto vedere.
Non tutto ciò che vediamo è reale.
Davvero la sua
mente poteva condizionare la realtà che la circondava? La realtà, quella che
vedeva, quella che toccava… E qual era la vera realtà?!
Sentì due mani che
le si poggiavano sulle spalle e lei si placò un poco.
“Imma” la chiamò la
voce di Pohl e lei si decise ad aprire gli occhi “Cosa non hai fatto in tempo a
dire ad Eike?”.
Ancora quella
domanda.
Questa volta Imma
rispose.
“Che mi dispiace”
farfugliò. Si abbandonò sulla sedia e scoppiò in lacrime. Possibile che la sua
mente avesse creato l’immagine di Eike e l’avesse fatta sembrare reale cosicché
lei potesse chiedergli scusa?
Nella sua testa una
sola parola veniva gridata con sicurezza. Psicosi.
“Ma io l’ho visto…”
continuava a singhiozzare. Senza quasi rendersene conto, strinse i pugni e li
batté sulla scrivania, digrignando i denti. Non si vergognava di fronte al
medico, voleva solo sfogare il suo dolore per la morte del fratello, la sua
disperazione per averlo visto tornare come lui non avrebbe mai voluto essere,
la sua frustrazione perché non capiva più quello che era reale e quello che era
frutto della sua mente.
Qualcuno bussò alla
porta e qualcuno subito scivolò dentro la stanza. Imma sentì due braccia sulla
schiena e capì che doveva essere sua madre.
“Cos’è successo?”
chiese la signora Lehmann, trafelata “Cos’ha scoperto?”.
Imma non vedeva
quello che stava accadendo, nascosta tra le sue braccia, al riparo dalla
realtà, sentì solo dei sussurri. E sua madre poi le disse: “Imma, perché non ci
aspetti fuori? Prenditi un tè intanto”.
Continuavano a
trattarla come se fosse una bambina. Si alzò di malavoglia ed evitò
accuratamente di incrociare lo sguardo deluso del padre. Pohl doveva sputare il
verdetto? Doveva dire ai suoi genitori che era pazza e non voleva dirlo in sua
presenza? Doveva scrivere loro l’indirizzo del manicomio più vicino?
Uscì dallo studio
ma, incapace di avanzare, rimase lì inchiodata e, combattendo contro se stessa,
incapace di reagire, avvicinò l’orecchio alla porta, in ascolto.
“Allora, dottor
Pohl? Noi la paghiamo e vorremmo delle risposte” stava dicendo suo padre, in
tono poco amichevole.
“Non è nulla di
grave, signor Lehmann” rispose Pohl, con tutt’altro tono “Quando perdiamo una
persona cara, la nostra mente ci può tirare dei brutti scherzi”.
Imma sentì
distintamente sua madre emettere un sospiro.
“Ma viviamo in una
società strana, signori” continuò il dottore, annettendo una nota preoccupata
nella voce “Sono tempi strani questi e sarebbe meglio per tutti che Imma si
convincesse che Eike è morto e sepolto, e che non è un vampiro. Deve venire da
me ogni tanto, per semplici conversazioni”.
Il signor Lehmann
emise uno sbuffo. “E quanto costerebbe questo?”.
“Non è questione di
prezzo, signor Lehmann”. Pohl era, per la prima volta, lievemente irritato.
“Vostra figlia rischia di diventare isterica”.
Isterica?
Imma si allontanò
dalla porta con uno scatto, senza voler ascoltare altro.
Una vera e propria isteria, signora. Le persone
credevano veramente nei vampiri.
Ricordò
improvvisamente di quando poco prima si era messa a piagnucolare e a battere i
pugni sul tavolo. Si vergognò, ma cercò di tranquillizzarsi. Prima era convinta
di non aver bisogno di nessuna cura, adesso cercava di calmarsi ripetendosi che
il dottore aveva detto che non era nulla di grado.
Era diventata
matta?
Eppure lo sapeva
che i vampiri non esistevano. Quella parte razionale che ancora era da qualche
parte dentro di lei, lo sapeva.
Continuò a
piangere, silenziosamente, finché la porta non si aprì e allora incrociò gli
sguardi funerei dei suoi genitori.
Tutti e tre, senza
una parola, uscirono dall’edificio poi sua madre si girò a guardare l’insegna
sul portone che dichiarava il divieto agli ebrei di entrare.
Imma guardò da
un’altra parte, nauseata.
“La gente non vuole
problemi” dichiarò improvvisamente sua madre, fissando l’insegna. Si voltò
verso Imma, che la guardava smarrita, con gli occhi gonfi di pianto. Ma fu suo
padre a parlare, in tutta sicurezza: “La parola vampiro è ora vietata quanto la parola ebreo, Imma. Mettitelo ben in testa”.
La vetrina della
pasticceria non mostrava il suo riflesso.
La gente non se ne
accorgeva, probabilmente era troppo impegnata a fissare i dolci.
“Non ti manca il
sapore dei dolci?” gli chiese Emily, prendendolo sotto braccio.
Jacque fece vagare
il suo sguardo sulle torte. Erano così belle da guardare. Grandi, colorate e
decorate, sembravano finte, sembravano oggetti.
“I sapori si
dimenticano” disse “E i dolci… I dolci danno assuefazione vero? Più ne mangi,
più ne vuoi. E se non li mangi per molto tempo, poi non ne senti più il
bisogno”.
“Molto tempo come
cent’anni?” sussurrò Emily, senza lasciarlo andare.
Jacque ridacchiò.
“Ne bastano molti meno, credo”.
“Non sarebbe male,
sai?” disse lei, fissando la vetrina con occhi golosi “Dovrei provare a
smettere di mangiarli”.
Lui la guardò, divertito.
“Se lo dici con quegli occhi sei molto credibile!”.
Emily gli diede un pugnetto
affettuoso. Era visibilmente contenta. Si erano concessi una passeggiata in
quella serata di fine maggio che pareva tranquilla e anche lui si sentiva
qualcosa di bello germogliare dentro. Camminare per strada tenendosi per mano,
guardare le vetrine… Fare cose da
fidanzati era strano, ma bello.
“Passiamo oltre,
prima che tu compra l’intera pasticceria” disse Jacque, allontanandosi e
tirandola per un braccio. Lei si lasciò trascinare, sorridendo. Perché le cose
non potevano essere sempre così facili? Se il tempo si bloccava, se per un
attimo esistevano solo loro due… Senza pensare che non potevano stare insieme,
che lei era in pericolo, che lui era in pericolo, che l’intera umanità era in
pericolo, che esistevano due occhi verdi sempre pronti a guardarlo, e a
giudicarlo… La mano di Emily era piccola e calda. Non ricordava nemmeno di aver
mai tenuto Acilia per mano, no, non era cosa da vampiri. Però a volte pensava
ancora alle sue carezze, i suoi baci, ma erano freddi, lei era fredda…
“Jacque, allenta un
po’ la presa!”.
Jacque si riscosse.
Stava stringendo la mano di Emily molto forte, neanche se n’era accorto.
Fece scivolare via
la sua forza e intrecciò le dita in quelle della ragazza.
Ripresero a
camminare, lui ogni tanto le lanciava uno sguardo. Chissà cosa le passava per
la testa. Chissà cosa pensava quando lo vedeva, chissà se a volte aveva paura
di quello che stava facendo. Erano passati quasi tre mesi dal loro primo bacio
e tre mesi non erano niente, erano una piccolissima porzione della vita di lei
e un infinitesimo trascurabile di quella di
lui. Però più passava il tempo più lei era così radiosa.
Non è che si sta innamorando?
Come funzionavano
le cose tra gli umani? Si frequentavano, si mettevano insieme, si innamoravano,
a volte si sposavano, così in fretta. Emily non poteva certo innamorarsi di
lui, come lui non avrebbe potuto innamorarsi di lei. E allora cosa stavano
insieme a fare? Perché camminavano per strada lanciandosi sguardi d’amore?
Chissà cosa ne
pensava lei.
Perché quando si parla di Acilia diventi così strano?
Era stare con
un’umana che era strano. Possibile che ancora pensasse ad Acilia? Acilia era
tutto ciò che lui non voleva essere, come si spiegava questo? Strinse con più
vigore la mano di Emily e capì che lo faceva perché non voleva lasciarla
andare. E perché non volesse lasciarla andare, davvero non lo sapeva.
“Jacque” lo chiamò
lei “Forse è meglio se rientriamo”.
Le persone in giro
si erano disperse, si sentivano solo ultimi frettolosi passi e porte che si
chiudevano. Arrivato un certo orario, la gente aveva paura a stare fuori casa.
“D’accordo”.
Qualcuno da qualche
parte urlò ed entrambi si voltarono di scatto. Una donna tremante e
pallidissima brandiva una pistola contro un uomo, terrorizzato, che aveva le
mani in alto.
“Non sono un
vampiro! Non lo sono!” gridava lui.
La donna
indietreggiò lentamente, poi si mise a correre all’impazzata, tenendo stretta
la pistola in mano, in uno scalpito di tacchi. Le poche persone che erano
ancora in giro affrettarono il passo, lasciando l’uomo accusato di stucco.
“Non è un vampiro”
disse Jacque in un soffio, riprendendo a camminare.
Emily stette al suo
passo. “C’è parecchia isteria in giro, eh?” chiese, con aria poco scherzosa.
“E’ paura” disse
lui “Più aumentano gli attacchi più la gente ha paura”.
“Ma non possono
fare niente? Acilia e gli altri?”.
Jacque annuì.
“Dubris è riuscito ad arrestare un paio di vampiri. Il problema è che sono
sempre di più”.
Emily si strinse
nelle spalle, con un velo d’ombra sul suo sorriso.
“Stai tranquilla,
adesso andiamo a casa” le disse lui.
“Sono più
preoccupata per la mia famiglia in realtà” replicò lei “Casa non sarà un posto
sicuro per sempre, vero?”.
“Non lo so” ammise
Jacque. Sinceramente non sapeva fino a che punto si sarebbe spinto Kaeso.
Emily annuì,
sospirando. Era più bassa di Acilia, ma sembrava più adulta. Lo era, più
adulta. Aveva un’espressione viva in volto, mentre Acilia rifletteva la morte,
eppure lui a volte le vedeva così tante sfumature diverse nei suoi occhi,
tonalità di sentimenti sconosciuti. Era così strano, non capiva se fosse più
vera l’una o l’altra, a volte le confondeva, a volte… Credeva di vederla,
persino in quel momento, credeva…
“Jacque! E’ Acilia
quella?”.
Era davvero lei
quella che vedeva oltre al vetro della finestra di un bar?
“No, non può
essere…”.
Eppure vedeva il
suo profilo perfetto, i suoi capelli nerissimi… Un accenno di un sorriso?
Impossibile, Acilia non sorrideva mai. Aveva denti bianchissimi, quasi
risplendevano.
“Jacque, è lei… Con
chi sta parlando?”.
Quello non era un
vampiro. Era un uomo adulto, più vecchio di Emily, e aveva un’espressione che a
Jacque non piaceva.
Che ci faceva lei
con un umano?!
“Jacque” lo chiamò
ancora lei “Tu lo conosci? Non è normale vero? Perché sta in un bar a parlare
con…”.
Lei gli sorrideva.
Sorrideva, flirtava in un bar con un umano! Dopo aver rimproverato lui perché
voleva uscire con Emily… Ma che diavolo le era saltato in testa?! Perché lui
non ne sapeva niente?
Quand’è che avevano
smesso di parlare…
Emily lo tirò per
un braccio. “Jacque… Jacque!”.
Lui si strattonò
d’istinto, in un moto di rabbia, e lei si scurì in volto.
Mi dispiace, non volevo.
Non voleva
rattristarla, non voleva… Perché lo guardava così?
Perché quando si parla di Acilia diventi così strano?
Tentò di placare
l’ondata di rabbia che lo aveva preso. In un solo momento aveva ricordato il
sorriso di Acilia, quello che lei aveva per lui, lo sguardo arrabbiato di
Dubris, il suo odio per lui, la gelosia e l’amore… il patto del sangue di
Emily, la rabbia di Acilia… era gelosia anche quella?! E che ci faceva ora nel
bar con un umano?!
Strinse le labbra e
concentrò i suoi occhi solo su Emily, che lo guardava preoccupata.
“Andiamo a casa,
dai”. Tentò un sorriso, il sorriso di un morto che voleva tornare a vivere, e
anche ad amare.
Claire, seduta su
una sedia, con espressione concentrata, si stava dando la seconda mano di
smalto rosa sulle unghie.
Eike era seduto
nella sedia accanto a lei, annoiato.
“Claire” disse dopo
un po’ “Tu non ce l’hai un fidanzato?”.
Lei alzò lo sguardo
su di lui e con un movimento della testa cercò di scostare la sua frangia
bionda da davanti agli occhi.
“No”.
“E perché no?”.
Lei alzò un
sopracciglio e fece un sorrisetto. “Sono uno spirito libero”.
Eike si mise a
ridere.
Claire era molto
bella, superficiale, un po’ strana, ma bella. Alta, magra, bionda, quelle
labbra così rosse che Eike avrebbe voluto mordere.
Lei pose il
pennellino e si accorse del suo sguardo.
“Perché mi guardi
così?”.
Eike scivolò sulla
sedia incrociando le braccia e sbuffando.
Claire alzò gli
occhi al cielo. “Eike, ne abbiamo già parlato. No, non è fattibile”.
Erano in momenti
come quelli che Eike odiava il suo corpo.
“Con Jacque l’hai
mai fatto?” chiese, senza neanche guardarla in faccia.
“Oh no” fece subito
lei “Mi farebbe troppa impressione. Siete entrambi due ragazzini per me”.
Sentirsi dire che
la sua età era vicina quella di Jacque lo fece sentire un po’ meglio. Si voltò
con sguardo beffardo ed estrasse le zanne.
“Però quando ti
mordiamo, ti piace”.
Claire scoppiò a
ridere ed Eike si immusonì.
“La verità” disse
lei dopo qualche attimo “è che mi sento sola anch’io”.
Lui la scrutò in
volto e percepì un barlume di tristezza in quei suoi occhi superficiali e
pesantemente truccati.
“Io non mi sento
solo” ribatté “Ho solo impellenti bisogni maschili”.
Claire sbatté le
lunghe ciglia recuperando la sua usuale espressione e allontanando da sé le
mani per rimirare il suo lavoro.
“Usa i termini che
vuoi ma la sostanza non cambia”.
Eike non disse
nulla e lei andò avanti: “Jacque si è fidanzato e Acilia è sempre fuori per
lavoro. Ti senti solo, se no perché mi avresti chiesto di rimanere?”.
Lui sviò la domanda
e disse, con una smorfia: “Acilia non è fuori per lavoro. Spesso Dubris viene
qui con la speranza di incontrarla ma non la trova mai, e io non so che
dirgli”.
“Credi che si veda
con un uomo?”.
Oddio. Eike si accasciò sul tavolo, chinando la
testa, sbuffando ancora.
“Ti dispiace molto
che Jacque e Acilia non stiano insieme, vero?” domandò Claire, guardandolo
amabilmente.
“Io ho sempre fatto
il tifo per Jacque, perciò se Jacque vuole stare con Emily, che stia con Emily”
ribatté lui, stupefatto.
La ragazza
continuava a guardarlo con viso amorevole, quella bruttissima espressione che
si ha quando si guarda un bambino.
“Hai sempre visto
Jacque e Acilia come i tuoi genitori, non è vero?”.
Se Eike ripensava
ai suoi genitori, a come avevano trattato Imma e alla loro posizione nei
confronti del nazismo, gli veniva da vomitare. La parte di lui che era bambina
poteva aver identificato Jacque come suo padre e Acilia come sua madre.
Dopotutto aveva passato molto più tempo con loro che con la sua vera famiglia.
“Sono così stupidi”
disse “Basterebbe solo che si parlassero un po’ di più delle loro cose”.
Claire soffiò sulle
unghie con aria perplessa.
“Non avevi detto
che Jacque vuole stare con Emily?”.
Eike scrollò le
spalle. “Mica può durare per sempre. Siamo noi che duriamo per sempre”.
Claire sbatté le
palpebre, più volte. I suoi occhi quasi presero la forma di due cuoricini.
“E se Emily fosse
così innamorata di Jacque da volersi far trasformare?”.
“Non durerebbe
comunque”.
“E perché?”.
Eike ghignò,
vedendo l’espressione delusa di Claire che già si era fatta un film d’amore in
testa. “Semplice, perché Emily non è Acilia”.
Inaspettatamente,
Claire sorrise. “In fondo sei un tenerone, Eike”.
Lui sgranò gli
occhi.
E che aveva detto
di tenero?
Lei scrollò le mani
e mise lo smalto dentro la borsetta. Si alzò e chinò la testa verso Eike.
“Ora devo andare”.
Gli diede un
bacetto a stampo sulle labbra e lui si sentì irretire fino alla punta dei
capelli. Con gli occhi spalancati, rimase a guardarla mentre camminava
disinibita sui suoi trampoli fino alla porta.
Ritrovata la voce,
le disse: “Ehi, Claire!”.
Lei si voltò, la
mano sulla maniglia.
Lui fece un
sorrisetto triste, sentendo sulle labbra tirate traccia del rossetto di Claire.
“Trovati qualcuno, tu che puoi”.
La ragazza annuì.
“Ci proverò, te lo prometto”.
Uscì ed Eike
distese le gambe. Si toccò le labbra nel punto in cui Claire l’aveva baciato e
si rese conto di avere ancora le zanne a penzoloni. Le sfiorò con un dito.
Erano piccole, non facevano paura. Lui era piccolo, poteva essere solo piccolo.
Si alzò tristemente
e andò ad accasciarsi sul divano, aspettando un allegro rientro rumoroso di
qualcuno.
Un punto qualunque d’Europa, 1730
Aveva aperto gli
occhi dopo un lungo sonno. Aveva inseguito la luce ma l’aveva lasciata andare,
ecco perché ora si trovava nell’oscurità.
Cercò di aprire di
più gli occhi ma erano già spalancati al massimo. Intorno a lei era buio, non
poteva vedere niente. Sentiva un ronzio fastidioso nelle orecchie e cercò di
muovere una mano per raggiungerle. Non ci riusciva perché il suo braccio
sbatteva contro qualcosa che non riusciva a vedere. Dov’era finita? Perché era
lì?
Il suo respiro era
affannoso e spaventato. L’ultima cosa che ricordava… Si era fatta male… Era
caduta da…
E dov’erano i suoi
genitori?! Dov’erano i suoi amici? Dov’era finita lei? Si sentiva incastrata in
un buco. Alzò le mani e tastò tutto ciò che le era intorno. Era in una… scatola?
Urlò a
squarciagola, mentre le sue mani colpivano con violenza il legno che era sopra
di lei. Era una bara, una maledettissima bara!
Urlò per giorni
finché le sue grida non si smorzarono in singhiozzi e i suoi colpi si
affievolirono in unghiate. A volte si addormentava ma dopo un po’ non riuscì
neanche più a dormire perché la sete la stava divorando. Aveva provato a bere
le sue lacrime e si mordeva le mani per placare la fame. Sentiva la terribile
puzza di se stessa e il dolore che si dipanava in tutti i suoi arti. Aveva
perso la voce e tra poco avrebbe perso anche il battito del suo cuore.
Un giorno – chissà
quanti ne erano passati – il legno che era sopra di lei sparì e lei intravide
nella sua vista appannata un pezzo di azzurro.
Il cielo?
C’era un volto
davanti a lei che la guardava terrorizzato e lei provò a muovere le sue labbra
maciullate dai morsi e dalle screpolature. Voleva chiedere dell’acqua.
Quell’uomo aveva qualcosa in mano.
Le sue labbra si
mossero per formare la parola acqua,
ne era sicura.
Ma poi i suoi occhi
accecati dalla luce videro solo qualcosa di marrone e bianco che le si
avvicinava al petto. Sentì l’urlo dell’uomo ma non sentì il suo, perché la voce
non ce l’aveva più, neanche per esprimere protesta, neanche per esprimere dolore,
e la morte arrivò al posto dell’acqua, e lei all’uomo fu grata ugualmente.
Non riusciva più a
bere il latte. Le rimaneva sullo stomaco e si sentiva la pancia sempre più
gonfia, finché non doveva correre in bagno a vomitare.
Addentò un pezzo di
pane ricoperto di marmellata e sospirò, sforzandosi di tenere gli occhi aperti.
Sua madre la
scrutava dall’altra parte del tavolo.
“Non hai dormito?”.
Imma si scostò i
capelli biondi da davanti alle spalle. Ormai erano lunghissimi, doveva proprio
farseli tagliare.
“Non molto”.
Aveva sognato di
svegliarsi in una bara, di svegliarsi morta, forse vampira. Qualcuno poi
l’aveva trafitta con un paletto di legno e lei si era svegliata di nuovo nella
morte, nella sua morte quotidiana.
Sua madre sospirò,
ma non fece altre domande.
La terapia dal
dottor Pohl stava andando bene, Imma sognava sempre più raramente vampiri, ma a
volte accadeva. Pensava spesso ad Eike, ma non ricordava più bene di averlo
visto fuori dal balcone, con le zanne. Non riusciva più a figurarselo, probabilmente
non l’aveva mai davvero visto. Aveva creduto di vederlo, sì, come diceva Pohl.
“Imma” la chiamò
sua madre “andrà tutto bene”.
Imma apprezzava la
buona volontà di sua madre. Solo che la buona volontà non sempre bastava.
“Tuo padre si è
arruolato nelle SS” continuò lei “Saremo al sicuro”.
Imma inghiottì il
boccone.
“Che cosa?” fece.
“Andrà tutto bene”
ripeté l’altra, convinta.
Non va tutto bene, mamma!
Imma abbandonò il
pezzo di pane sul tavolo, senza più voglia di mangiare niente. Guardò il
proprio esile braccio. Quanto era dimagrita nell’ultimo anno che era passato?
Sei solo un burattino in mano alla società. Diventerai
come papà.
Eike non sarebbe
mai diventato come loro padre, ne era sicura. Trattenne un singhiozzo, ci provò
disperatamente ma le lacrime presero a sgorgarle tempestosamente dagli occhi.
Si sentì prendere
le mani e un tocco che le accarezzava la testa.
Sua madre era lì e
ancora le ripeteva che andava tutto bene.
Imma piangeva e non
riusciva a fermarsi. “Dove li portano gli ebrei, mamma? Dove li portano?”.
“Li vogliono solo
tenere sotto controllo” rispose lei, stringendola “Non gli fanno niente, non
gli fanno niente…”.
Imma continuò a
piangere, diffidente, ma si accovacciò tra le sue braccia, sentendosi una
bambina troppo cresciuta. Quella che era sempre stata, una bambina che cresceva
troppo in fretta, che pensava con la sua testa, che aveva già il folle sogno di
cambiare il mondo. Ma non poteva cambiare niente, la realtà la inchiodava a
terra e le mozzava il respiro, non poteva fare niente per nessuno, la morte di
Eike aveva preso tutta la sua lucidità, e la sua mente contorta, che vedeva
cose che non esistevano, l’aveva fatta a pezzi.
Acilia guardò oltre
il vetro ma vedeva solo il blu scuro della notte.
Erano passati quarant’anni
da quel pericoloso e atroce periodo in cui la gente vedeva vampiri ovunque. Le
urla di terrore, il correre via, impalare i vivi e dissotterrare i propri
morti. Eppure non l’avevano mai neanche visto, un vero vampiro.
Non sanno neanche
distinguere i morti dai vivi, aveva detto Dubris – notando quante persone vive
venivano sepolte e poi dissotterrate, e impalate, in seguito ad angoscianti
rumori che provocavano dentro la proprio bara –
non riusciranno a scovarci.
Per questo c’era
ancora tanta gente che non credeva ai vampiri. Gerard van Swieten, medico
personale dell’Imperatrice d’Austria, aveva indagato su queste entità chiamati
vampiri. Aveva studiato ogni cadavere accusato di essere stato un vampiro e
aveva concluso che questi mostri non esistevano, e neanche potevano esistere.
Maria Teresa d’Austra aveva allora promulgato una legge che proibisse
l’apertura delle tombe e la profanazione dei cadaveri.
Le acque si erano
poco a poco placate, e loro erano salvi.
Acilia continuò a
guardare il cielo. Aveva voglia di lanciarsi e di volare, di mescolarsi con
l’oscurità ma ormai aveva preso una decisione e non poteva più tornare
indietro. Era stanca di essere la regina e di essere chiamata la tiranna. E
aveva capito che le continue lotte tra vampiri non potevano passare
inosservate, gli umani prima o poi avrebbero davvero capito.
Si voltò e vide una
decina di vampiri seduti a un lungo tavolo, impegnati ad aprire vecchie buste
ingiallie o spiegare rotoli.
Circa un anno prima
Acilia aveva affidato a una cinquantina di vampiri di andare in tutta Europa a
spargere la voce. La regina abbandonava il suo posto, abbandonava la monarchia
e avrebbe costituito un regime poltico parlamentare. I VV si erano fatti sempre
più insistenti e crudeli e Acilia credeva di tenerli più facilmente sotto
controllo, ammettendoli nello spazio del potere. Non voleva più essere la
tiranna che dava ordini a tutti, non ne aveva più la forza. Guardò il vampiro
che, di fianco a Ramona, leggeva con attenzione ogni pezzo di carta. Quello era
Luca, uno dei rappresentanti dei VV, quello che le aveva detto che lei non
poteva pretendere di essere un esempio per tutti i vampiri. Acilia aveva
ceduto, sotto lo sguardo incredulo di Dubris che le diceva che era pericoloso,
non doveva lasciare niente ai VV! Non doveva concedere loro niente perché poi
avrebbero trovato il modo di prendersi tutto.
Ma Acilia era
stanca di lottare ed era stanca di vedere morire i suoi compagni per lei. Lyuben, pacifista come sempre,
non aveva trovato da ribattere. I due partiti erano nati ed Acilia era a capo
di quello che si faceva chiamare Partito Per la Convivenza. I VV erano
diventati il Partito Oscuro.
E stava agli altri
vampiri, tutti gli altri, decidere da
chi sarebbero stati rappresentati.
I cinquanta vampiri
che Acilia aveva mandato in giro avevano promulgato la voce che tutti coloro
che avessero voluto votare sarebbero dovuti andare nel loro castello austriaco
e lasciare a Dubris un qualunque pezzo di carta con inciso sopra una delle sue
sigle: PPC o PO. Chi non sapeva scrivere poteva dirglielo a voce, e Dubris
avrebbe preso nota. Potevano votare solo coloro che avevano raggiunto il loro
primo secolo da vampiri. Spesso i più giovani erano quelli più affamati e
accecati, e Acilia sperava in questo modo di riuscire a salvaguardare il suo
PPC. Ramona le aveva chiesto cosa sarebbe successo se avesse vinto il PO. Io
non voglio tornare a uccidere, aveva detto, poi non sarei più capace di
smettere. Acilia le aveva spiegato che lei avrebbe sempre, fermamente, tenuto
la sua posizione, perché sarebbe stata comunque un membro del PPC, e a questo
non doveva rinunciare.
Dubris,
nervosamente, stava scrivendo con una piuma su un lunghissimo rotolo il
resoconto dei voti. Finché Victoire non lesse l’ultimo pezzo di carta: PO.
Luca si stiracchiò.
“Bene” disse, gioiosamente “Qualcuno conti”.
Sembrava convinto
di vincere e Acilia provò, per la prima volta, paura.
La conta durò quasi
fino all’alba e alla fine Dubris aveva un mezzo sorriso.
“Abbiamo vinto”
disse “Milleseicentoquarantotto voti contro milleseicentotrenta”.
Luca estrasse le
zanne e strappò il foglio dalle mani del rosso. “Dà qua”.
Dubris lo guardò,
gelido. “Controlla se vuoi”.
Un altro vampiro
del PO si alzò in piedi, indignato. “Li ha raccolti lui i voti! Ci ha senz’altro
ingannati!”.
“Basta così!” tuonò
Acilia, scocciata e sollevata al tempo stesso. “Finché non verrà eletto il
Presidente, io sono ancora la regina quindi vi ordino di controllare i voti e
di stare zitti”.
Luca aveva uno
sguardo feroce e Ramona sorrideva radiosa.
“E velocemente”
sibilò Dubris con un ghigno “Dato che tra un po’ sorge il sole”.
Mentre i membri del
PO si affrettavano a contare, Lyuben si alzò dal tavolo e si affacciò alla
finestra chiusa, di fianco ad Acilia.
“Hai intenzione di
candidarti?” gli chiese lei, avvicinandosi a lui.
Lui sorrise. “No.
Perché dovrei?”.
“Saresti perfetto
come Presidente”.
“Non ho ambizioni
di questo genere”. Lyuben si voltò a guardarla. “Tu piuttosto, perché non vuoi
candidarti?”.
Acilia scrollò le
spalle. “Sinceramente mi sono bastati questi tre secoli da regina, lascio la
palla a qualcun altro”.
Non ne voleva
proprio sapere di diventare Presidentessa dei vampiri, avrebbe avuto una
Rappresentanza, certo, ma le sarebbe sembrato sempre di essere troppo responsabile, e giudicata,
continuamente.
“Vedremo chi sarà a
prenderla, questa palla” scherzò Lyuben.
“Ho piena fiducia
in tutti i nostri compagni” disse Acilia “Sono tranquilla, sul serio”.
Era vero. Forse non
era mai stata così serena. Il PPC aveva vinto e lei non sarebbe stata più
regina. Ci sarebbero stata una Rappresentanza, leggi, votazioni e lei sarebbe
stata, finalmente, solo un ingranaggio all’interno della grande macchina dei
vampiri.
Avevano passato un
brutto periodo ma forse, davvero, gli umani non li avrebbero scoperti. Eppure
il fatto di chiamarsi vampiro la
faceva rabbrividire. Vampiro era una
parola vera, con un significato vero, e ogni volta che un umano la pronunciava
era sempre più vicino di un passo alla verità.
Questi vampiri erano cadaveri, che uscivano
dalle loro tombe la notte per succhiare il sangue dei vivi, sia dalle loro gole
che dai loro stomachi, e poi tornavano nei loro cimiteri. Le persone a cui
succhiavano il sangue si indebolivano, divenivano pallide e iniziavano a
consumarsi, mentre i cadaveri che succhiavano il sangue prendevano peso, la
loro carnagione si faceva rosea e godevano di un grande appetito.
[dal Dizionario filosofico di Voltaire, 1764]
Mi scuso per il ritardo ma sono stata via e in generale ho avuto da fare ^^
Mi scuso anche per il capitolo in
sè. Non so per voi come sia stato leggerlo, ma per me scriverlo
è stato un po' palloso.. Negli ultimi due capitoli il ritmo
è stato piuttosto lento (per quel che riguarda il presente dove
praticamente non succede mai niente, visto che ho lasciato molto spazio
ai due passati) ma vi prometto che la storia tornerà ad essere
interessante, subito, dal prossimo capitolo! XD
Sara,
mi piace lo stile Loda!! :D mi è venuto in mente "lo stilo della
Loda" dello stilnovismo, ovviamente i miei compagni di scuola all'epoca
(oddio, sembra passata una vita) non avevano certo mancato di notarlo..
XD Eh, la libido viscosa! E scommetto che troverai un bel po' di Freud
anche in questo capitolo! E' una bella ispirazione il nostro amico XD
Bene sono riuscita a rendere Curtis un bel soggetto misterioso e mi fa
piacere che tu capisca Emily, finalmente un po' di comprensione! XDXD
ahahahah "Lyuben, tu che sei tanto saggio , saprai cosa fare"
X°°D alla prossima crocchetta di patate cara!
Nene,
che papiro papirissssssimo! Ehhh no leggi bene la tua scorsa
recensione, hai esplicitamente detto che il paletto di legno è
una cavolata, hai parlato dopo del frassino :PP non mi sfugge niente
:PP ma se consideri solo una cavolata la cosa del frassino tanto
meglio, anche se non mi cambia molto, sono inutili queste inezie!
Passiamo ben oltre XD siii certo che ho capito cosa intendi, bene bene,
la "bidimensionalità" è apprezzata ^^ ti ringrazio per la
nota in cui hai parlato di gente viva che si trovava sepolta sotto
terra, mi ha ispirato un pezzo di questo capitolo XD ahahaha la scena
del parabrezza sì doveva far ridere, in fondo Emily è
sempre Emily, coi suoi pensieri assurdi! Comunque no non ho visto
Paranorman, ma pare interessante XD per il tuo PS: immagino che da
sempre ci siano leggende che circolino su esseri dannati succhiatori di
sangue che però solo nel '700 hanno acquistato un nome, ti
ringrazio molto magari mi spiegherai, però per questa storia
è un po' tardino :
RedTears
- per la recensione al capitolo 13 - questa poca fiducia in Eike?? :( e
questa rabbia per Jacque? Dai almeno mi pare che Acilia ti piaccia
molto :DD grazie per le spiegazioni sul frassino che è
considerato sacro eccetera.. allora appena vedi un vampiro fammi sapere
in che modo muore, ci conto eh!! ;) Curtis e Lyuben che ti fanno venire
tante domande.. bene bene! Beh, recensione a dir poco esilarante come
al solito (e per molti motivi!) XD Ma su Dubris non cambierai mai
ideaaaa??
Bon, aspetto che Red (la solita
ritardataria) faccia la sua recensione e che anche Norine torni a darmi
dei pareri :DDD Eeeee se qualcun altro si volesse aggiungere alla lista
dei recensori non mi farebbe schifo :DDD (no, non vi sto supplicando
:DD)
Vi lascio con un piccolo spoiler!
Secondo me Jacque non vi sta più così simpatico come
all'inizio della storia, ne ho qualche vago sentore.. E' normalissimo,
soprattutto perché Jacque è l'unico personaggio di cui
ancora non è stata esplicitata la storia! Beh, nel prossimo
capitolo.. comincia la storia di Jacque! Non perdetevelo! Mi sembra
veramente di star facendo la pubblicità di una serie tv..
Ciao a tutte!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Vittima e oppressore ***
Capitolo 16
CAPITOLO XVI
VITTIMA E OPPRESSORE
Sei carino, vieni con me.
Jacque si riscosse
quando sentì la porta aprirsi e l’usuale rumore di tacchi di Acilia che
entrava.
La guardò,
sforzandosi di non salutarla come al solito. Troppe volte aveva creduto di
odiarla, e alla fine non era vero niente.
I capelli neri e
lunghi le ricadevano sulle spalle ricoperte da una camicetta verde.
Una donna si
era avvicinata ad un soldato, con capelli lunghi e neri, perfetti.
“Ciao” fece Acilia
fermandosi a guardarlo.
Lui era rientrato
da poco, dopo essersi nutrito, ed era seduto sul divano. I giorni passano così
lenti e inesorabili, quando sei un vampiro e non hai niente da fare.
“Ciao” ricambiò,
dopo un po’.
Sei carino, vieni con me, gli aveva
probabilmente detto.
Acilia sembrava
volesse dire altro ma poi i suoi piedi si mossero verso le scale.
“Chi è il tipo del
bar?” chiese Jacque, di punto in bianco.
Lui non capiva
perché la stesse seguendo. Lei era così bella, un angelo arrivato per
alleviargli le ferite di guerra?
“Ti sei messo a
seguirmi?” scattò Acilia, voltandosi di scatto verso di lui con espressione
allarmata.
Se era un
angelo, perché gli stava facendo così male?
“No” ribatté
Jacque, alzandosi in piedi “Ti ho semplicemente vista”.
“Chi sia non ti
riguarda” rispose lei.
Jacque si mise a
ridere, sentendo così poca allegria.
Se era un
angelo, perché gli faceva sempre
male?
“Sai che cosa mi fa
ridere?”.
Acilia non aveva
l’aria di chi volesse sapere ma rimase ferma, gli occhi incastrati nella sua
direzione.
“Mi fa ridere che
tu volessi che Emily venisse trasformata, che non ti andasse giù che facesse il
patto del sangue e che tu ti sia arrabbiata
perché io ho iniziato a frequentarla!” sbottò Jacque “E ora tu cosa fai,
frequenti un umano?”.
“Non lo sto
frequentando!” esclamò Acilia “Tu non capisci…”.
Allora lui,
che aveva visto tutto, si chiedeva, perché aveva trovato sulla sua strada
quell’angelo demoniaco?
“Già” disse
l’altro, oscurandosi “Io non posso mai capire, non è vero?”.
Era sempre stato
così. Lui era sempre troppo giovane, troppo ingenuo, troppo innocente.
Un giorno forse ti dirò cosa ho fatto, gli diceva
lei.
Di lui lei non si
era mai fidato.
Acilia sembrava non
riuscire a dire niente.
Sempre così
perfetta, sempre così impeccabile… È stata umana troppo tempo fa, questa
macchina.
“Sono contento”
disse lui in un soffio “che tu abbia trovato qualcuno di cui ti possa fidare”.
“Jacque, non lo sto
frequentando!” ripeté Acilia “Non sa che neanche che sono un vampiro”.
“Ti rendi conto di
quanto è pericoloso?” fece lui, incredulo. Strinse gli occhi, rievocando
spiacevoli ricordi. “Cosa direbbe Dubris?”.
Acilia strinse le
dita delle mani, e abbassò lo sguardo.
“Io ho sempre
capito il tuo interesse per Emily, lo so benissimo cosa ti piace di lei”.
Jacque sgranò gli
occhi.
L’ha capito lei,
pensò, e non l’ho capito io.
“Non ascoltarmi più
perché io sbaglio tutto” continuò Acilia fissandolo negli occhi “Ho sempre
sbagliato tutto”.
Non avrai mica
creduto che steste insieme, vero?
“Ho amato un umano
più di me stessa tanto tempo fa” proseguì lei, con la voce che tremava
leggermanete “Per tutta la sua vita. Non mi perdonerò mai quello che gli ho
fatto ma l’amore è così, può essere solo così. Solo gli umani ci fanno sentire
di nuovo umani”.
Lo guardava e a
Jacque sembrò di camminare su un filo sospeso. Sotto di lui c’era il baratro di
tanti anni d’amore. Emily lo teneva su quel filo, ma cosa preferiva lui?
Camminare come un equilibrista o cadere?
Acilia gli stava
parlando di se stessa per la prima volta. Quell’umano di cui parlava… Non è che
lo vedeva nell’uomo del bar?
“Emily ha capito
tutto questo” disse ancora Acilia, scrollando le spalle “È brava. Sono
contenta, davvero”.
Non aveva sorriso
né i suoi occhi ridevano.
Jacque non disse
niente, sentendo il suo viso ancora pungente, per la rabbia che provava. Non
aveva voglia di abbracciarla, gli sarebbe sembrato di fare un torto ad Emily.
Ma non aveva neanche voglia di lasciarla andare così.
“Mi dispiace per
quello che ti ho detto quando Kaeso è venuto qui” disse.
Acilia fece un
piccolo sorriso e lui non poté trattenersi: “Ma perché era qui? Tu già lo
conoscevi, vero?”.
Un giorno ti dirò cosa ho fatto, gli diceva. Ma
non gli aveva mai detto niente, lui per lei non era niente.
Lei scosse la
testa, con quel piccolo sorriso, che le era sbocciato sul volto, che lentamente
moriva. Il volto di Medusa, che se lo guardavi non potevi raccontarlo. Jacque
voleva dire qualcos’altro ma non trovò niente, perché tanto lei avrebbe reso
inutile ogni suo tentativo.
E lei girò i
tacchi, e se ne andò.
Lei se n’era
andata.
Se era morto,
non aveva mai sofferto da vivo come ora soffriva da morto.
Francia, 1918
Quelli erano tempi
bui per tutti.
Tra gli umani c’era
stata una grande guerra le cui conseguenze già pesavano e sarebbero pesate per
molto tempo. La guerra non era una novità ma quella si diceva avesse coinvolto
così tanti Paesi da essere chiamata mondiale.
Neanche per i
vampiri la guerra era una novità. La guerra per loro aveva due risvolti. Uno
positivo, perché permetteva a loro di nascondersi ancora meglio, e uno
negativo, perché di nutrimento in giro ce n’era poco, e di scarsa qualità. Il
sangue di una persona debole che non mangiava da giorni saziava poco i vampiri,
sempre più inquieti, che vagavano e attaccavano, sempre di più. Certo, ora lo
potevano fare, ora non avevano nulla da temere.
Alle ultime
elezioni, avvenute circa trent’anni prima, aveva vinto il PO. Haris, il nuovo presidente,
più che sadico, era stupido. Non vedeva altra via d’uscita dell’essere vampiro
che non fosse quella di vivere per il sangue.
Le leggi erano
cambiate, certo. Quelle leggi a cui così tanto devotamente si erano dedicati
alla fine del diciottesimo secolo Theodolf (il primo presidente in carica) e il
resto della Rappresentanza non contavano più. Ma le leggi che riguardavano la
loro tutela, le leggi che negavano in modo assoluto di mostrarsi agli umani…
Non era forse uno stupido Haris a non farle rispettare?
Acilia camminava
sulla costa della Francia, ignorava il nome della città a lei più vicina. Camminava
affranta e affamata. La guerra era stata dichiarata finita proprio qualche
giorno prima, ancora un po’ e gli umani sopravvissuti si sarebbero resi conto
che parallela alla loro storia ce n’era sempre stata un’altra, un’altra storia,
un’altra guerra.
L’hai voluto tu,
Aci, le aveva detto Dubris. Durante il secolo scorso, in cui era al governo il
PPC, c’era stata qualche sporadica sommossa di gruppi irredentisti del PO.
L’avevano messa a tacere, ma ora… ora che potevano fare? Il PO aveva vinto in
maniera pulita.
Hai gettato la tua corona di giusta e ora guardi il
mondo in mano ai malvagi.
I suoi piedi
finirono nel fango.
Si guardò intorno.
C’era un gran traffico di gente, la guerra era finita e si vedeva. Molti
uomini, sporchi e carichi di borse, stavano tornando dal fronte e lei, con una
tunica pulita e i piedi nel fango, senza neanche una borsa, non passava certo
inosservata. Qualche ragazzo fischiò nella sua direzione, qualcuno tentò di
avvicinarla ma lei scivolò via.
Doveva nutrirsi ma
voleva ancora rispettare le sue stesse leggi. Doveva trovare un umano solo e
incantarlo. Avrebbe difeso la sua specie e avrebbe protetto gli umani dal
terrore… Ma per quale motivo? Quale scopo poteva avere ormai?
Non l’aveva gettata
la sua corona di giusta, l’aveva venduta. L’aveva venduta al diavolo.
Ma la fame
incalzava e non la lasciava ragionare. Doveva muoversi, per cosa? Per tornare
alla base e discutere con Dubris, Lyuben e gli altri su come muoversi?
Adocchiò un ragazzo
che si teneva a distanza dalle altre persone. Aveva la divisa da soldato, il
viso angustiato sporco e graffiato.
Non era solo perché
era privo di compagnia, che Acilia scelse lui. Era poco più alto di lei,
magrissimo. Nei suoi occhi si vedeva la guerra. Non aveva neanche un’ombra di
sorriso, neanche un briciolo di gioia per il fatto che stava tornando a casa,
sano e salvo.
Acilia gli si
avvicinò. Il sangue di un reduce di guerra non doveva avere un buon sapore, ma
il mercato non offriva altro.
Lui le lanciò
un’occhiata incerta poi passò oltre.
Aveva sì e no
vent’anni.
Da quanto tempo non vedi una donna, giovane soldato?
Acilia lo inseguì e
gli si piazzò davanti. Lui non poteva più ignorarla.
Spalancò gli occhi
grandi e marroni, come avrebbe fatto un bambino. Solo che le iridi di quegli
occhi non avevano nulla di fanciullesco, come avrebbero potuto averlo dopo
quello che avevano visto?
“Ha bisogno di
qualcosa, signorina?” chiese il soldato, impacciato.
C’era qualcosa in
lui… Forse era lo stesso colore dei capelli, forse era la stessa espressione
addolorata di chi è in balia del destino, forse la stessa triste umanità che
emanava dagli occhi. Di Miguel.
Buffo come Acilia
si ricordasse di Miguel dopo quasi cinque secoli. Si diceva che il vero amore,
quello non lo scordi mai, neanche se vivi per sempre.
Sorrise al soldato.
“Sei carino” gli
sussurrò, mantenendo il contatto visivo “Vieni con me”. Lo stava incantando.
Lui la seguì,
docile, dietro alle macerie di una casa.
Lei lo fece sedere,
gli era sopra, gli circondò la testa col braccio come se volesse baciarlo. Il
soldato pendeva dalle sue labbra.
Acilia lo morse sul
collo, sentendosi inebriare dal sangue, come sempre. Era sangue sporco, sangue
sofferto, quando sentiva scivolare lungo la gola del sangue le pareva di
sentire la storia del corpo al quale apparteneva. Sangue di un ricco, dolce e
succulento. Sangue di un povero, secco. Sangue di un reduce di guerra, scarso e
tormentato.
Acilia gli teneva
la testa con una mano, con l’altra gli teneva il collo. Sentì il suo cuore
quasi fermarsi e riemerse da quel bagno di odori e sapori. Dovette trattenersi,
ancora un po’ affamata, perché quel debole soldato sarebbe potuto morire, in un
lampo, tra le sue braccia.
Gli pulì la ferita.
I buchi si sarebbero rimarginati, sarebbe rimasto solo un livido. Quale cosa
più naturale per uno che tornava dalla guerra?
Tenendo stretti i
capelli fece girare la testa del ragazzo e riprese assoluto controllo sul
contatto visivo.
“È stato un bel
bacio” disse “Ora vai”.
Lui si alzò
lentamente, tramortito, poi fece per correre via. Oltre ai suoi passi, Acilia
captò un rumore.
Si voltò e vide un
ragazzo cereo che la fissava atterrito. Era seminascosto da delle macerie e
quando si accorse di essere stato scoperto si diede all’immediata fuga,
lasciando cadere a terra la sua borsa.
No.
Legge numero due: mai farsi vedere, mai farsi vedere!
Acilia si lanciò
nel suo inseguimento e in attimo lo braccò. Gli gridò di fermarsi e lo bloccò
per le braccia. Lui cercò di strattonarsi, per minuti, finché non si
immobilizzò, senza osare voltarsi.
Acilia gli vedeva
solo la nuca bruna. I capelli lunghi e unti lasciavano intravedere un collo pieno di ferite. Notò, all’estremità
del braccio che gli teneva fermo, che gli mancava una mano. Era un soldato
anche lui.
Era scampato alla
guerra per farsi uccidere da un vampiro?
Acilia annaspò. Non
poteva lasciarlo andare e basta? Non poteva fingere di non essersi accorta di
lui? Ma se pure lei infrangeva le leggi, allora non c’era proprio più speranza.
Lo devo uccidere?
Il ragazzo
ansimava. Aveva il respiro grosso per la corsa, e dopo qualche attimo parlò:
“Che cosa sei?”.
“Non ti deve
interessare” sospirò Acilia sul suo collo.
“Lasciami voltare”
digrignò il giovane “Fatti vedere!”.
Era strano parlare
con un umano che non fosse sotto incanto. Miguel era stato l’ultimo.
Acilia lo lasciò
andare. Avrebbe potuto incantarlo e ordinargli di andarsene. Ma non avrebbe
potuto in alcun modo cancellare quello che lui aveva visto.
Lui si era voltato
con sguardo rude e impaurito allo stesso tempo. Era lo sguardo di un
combattente, che non si voleva lasciare sopraffare ma che sapeva che prima o
poi sarebbe successo.
Aveva gli occhi color
nocciola scavati da profonde occhiaia, le guance incavate rivestite di barba,
un taglio che gli sfregiava diagonalmente lo zigomo sinistro. Anche lui doveva
essere sui vent’anni.
“Cosa sei? Cos’hai
fatto a Victor? Non ho paura” disse, mantenendo il suo sguardo. Ma certo,
doveva aver seguito il suo compagno, insospettito dalla sua dipartita.
Ci credo che non
hai paura, pensò Acilia, guardando com’era ridotto.
“Hai imparato a non
averne, paura” disse “Proprio come me”.
Lo devo uccidere?
No, Acilia non
voleva. Guardò il suo braccio monco. Non voleva ucciderlo!
“Sei un vampiro?”
disse lui, ignorandola. “La morte che non guarda nazionalità o provenienza,
come la guerra”.
Perché si sentiva
quasi rimproverata da quel ragazzo?
“Come ti chiami?”
chiese lei.
“Ha importanza?”.
La sua voce tremava.
“Sì”.
Il mio nome è Miguel.
Era un combattente,
che però avrebbe perso.
“Jacque”.
Acilia si guardò in
giro. Aveva rincorso Jacque in un vicolo dove non passava nessuno. Avrebbe
dovuto chiederglielo. Avrebbe dovuto fargli quella stessa domanda che tanto
tempo prima aveva posto a quella ragazzina nel castello di Camelio, Laura si
chiamava.
Legge numero ventotto: concedere una scelta, sempre.
La preferita di
Lyuben.
“Non posso
lasciarti andare, Jacque” disse lei “E tu non puoi scappare”.
Avrebbe preferito
morire in un vicolo della Francia, non in guerra, non come un eroe, o avrebbe
preferito condividere con lei la dannazione?
Acilia non voleva
trasformare, aveva paura di come sarebbe andata a finire…
Avrebbe spento per
sempre la scintilla fiera di quegli occhi? Avrebbe acceso la crudeltà e sepolto
ogni speranza di dimenticare?
Gli sfiorò la
ferita sulla guancia con la mano e lui serrò la mascella.
D’altra parte, era
così tanto tempo che non uccideva.
Jacque lasciò
intravedere la paura e Acilia capì che non era sopravvissuto alla guerra per
rimanere ucciso nella strada di ritorno. Lui voleva essere un testimone, magari
voleva scrivere poesie sulla guerra!
Beh, non avrebbe
potuto essere un testimone, ma le poesie le poteva scrivere. Solo per lei.
Si stava costruendo
un quadretto famigliare inquietante che le metteva solo paura e la spingeva nel
rimorso.
Lo vuoi fare davvero?
Non voleva
annientare la sua scintilla, ma l’avrebbe fatto comunque, ancora…
Lo prese d’un
tratto e lo morse, ignorando le sue urla e i suoi scalpiti. Il suo cuore presto
arrivò al limite e lui cadde a terra, quasi svenuto. Lei gli fece scivolare in
bocca il suo sangue dal braccio e pronunciò quelle parole.
Chissà se lui la
stava ascoltando, chissà se la capiva, o aveva in mente ancora i cannoni e gli
spari, e i morti che gli coloravano di rosso il mondo, e gli occhi. Il sangue
che aveva visto in guerra, ora non avrebbe mai smesso di tormentarlo.
Riavrai la tua
mano, pensò Acilia mentre lui si alzava, leggermente rinvigorito e le domandava
come impazzito cosa lei gli avesse fatto.
“Va a casa, Jacque”
gli disse solo lei.
Ci mise un po’ a
convincerlo ad andarsene. Lui forse si convinse che era stato tutto uno scherzo
della sua mente, ma lei lo avrebbe seguito e lo avrebbe cercato, quando sarebbe
stato il momento.
Riavrai la tua mano, Jacque, ma non avrai più
nient’altro.
*
Acilia uscì di casa
con il telefono cellulare in una mano.
Curtis le aveva
dato il suo numero e lei aveva voglia di chiamarlo, nonostante la sera prima
Jacque stesso le avesse ricordato quanto era pericoloso. Aveva detto di Miguel
a Jacque e non era stato difficile. Probabilmente non sarebbe stato difficile
parlare con lui, solo che non l’aveva mai voluto fare, come non aveva mai
voluto farlo con Dubris. Loro, che erano pronto a darle tutto… Cosa c’era che
non andava in loro? Era in lei, c’era qualcosa che non andava in lei. Vampiri
troppo giovani o troppo diversi per capirla, e perché mai un umano invece
avrebbe dovuto ascoltarla? Perché, forse, non l’avrebbe giudicata. Quando una
situazione non la vivi, non puoi giudicare. Dubris non faceva altro che sputare
sentenze e della ribellione di Jacque lei aveva paura. Aveva paura a lasciarlo
andare, aveva paura a tenerselo troppo stretto. Lo sapeva cosa poteva
succedere, lo sapeva, fingeva di non saperlo ma lo sapeva, e ne era
continuamente tormentata…
A me è sempre piaciuto
intrattenermi con la gente che non conosco, scriveva Zeno per penna di Svevo.
Con loro si sentiva sano e sicuro.
Acilia con Curtis
era protetta, poteva dimenticare quello che era, anche se era tutta illusione.
Scorse i pochissimi
nomi che aveva in rubrica. C’erano quelli di Jacque, Eike, Dubris, Ramona,
Lyuben e Victoire. A volte sorrideva quando si chiedeva perché non avesse
salvato il numero di Miguel. Sarebbe stato bello fare una telefonata a
sentirlo. La tecnologia avanzava, avrebbero trovato il modo di comunicare con i
morti? Il dito le scivolò sul nome di Jacque e lo cliccò per sbaglio. Imprecò
digitando annulla chiamata. Era una
trappola mortale quella tecnologia.
Curtis era il primo nome della lista. Poteva
chiamarlo? O l’avrebbe trovato al bar? Ne dubitava, ormai era già quasi
mezzanotte. Non gli avrebbe dato un’impressione sbagliata se l’avesse chiamato?
Abbandonò l’idea,
dandosi della stupida.
Cosa voleva fare?
Innamorarsi di lui, fargli fare il patto del sangue e guardarlo morire nel suo
letto?
Doveva troncare i
rapporti, era ovvio. Infilò il telefonino nella tasca dei jeans e prese la
direzione del parco. Se proprio non poteva stare con Curtis, sarebbe rimasta da
sola. Anche se spesso i propri pensieri sono la compagnia peggiore che si possa
avere, soprattutto dopo averli ascoltati per millenovecento anni.
Il parco era
avvolto nell’oscurità. Aveva un qualcosa di tetro ma lei ci vedeva benissimo.
Sospirò. L’estate si stava avvicinando e le notti erano sempre più brevi.
Nel parco una
panchina si affacciava sul sentiero e lei non ci credette quando vide chi vi
era seduto su quella panchina.
No, la compagnia
peggiore non erano i propri pensieri,
decisamente.
Non c’era limite al
peggio, ma quello che aveva davanti era proprio il peggio.
“Ciao” le sorrise
Kaeso, le gambe rivestite di blu jeans stretti distese.
Acilia ci mise un
po’ a riprendersi dalla sorpresa.
“Allora è proprio
vero che ti sei trasferito in Inghilterra per me” sbottò.
Kaeso si
stiracchiò. “Egocentrica” fece.
Egocentrica? Lui era
casualmente a pochi metri da casa sua
e lei era egocentrica, certo.
Pensò di voltarsi e
di andarsene ma qualcosa dentro di lei la fece sedere, proprio accanto a Kaeso.
“Sei molto attento,
non è vero?” chiese.
“A cosa?”.
“A non farti
beccare”.
Kaeso rise. “Ma io
non faccio niente di male, Aci”.
“Infrangi la
legge”.
Lui la fissò, con
quel sorriso perfetto e con quegli occhi gelidi. “Cerco solo di guadagnare
credito per le prossime elezioni” disse, amabile.
“Davvero
ammirevole” disse lei, reggendo il suo sguardo.
Kaeso ridacchiò.
Aveva una risata quasi confortante. Sentire ridere qualcuno era sempre
confortante.
Ma anche i cattivi
ridono.
Lui la guardò e
allargò le braccia. “Allora, posso portarti a cena?” disse, gentilmente.
“Ho già mangiato,
grazie” rispose lei a denti stretti.
Kaeso le scivolò
più vicino e Acilia sentì la coscia di lui a stretto contatto con la sua. Per
un attimo trattenne il respiro.
Lui avvicinò anche
il volto e le sussurrò: “Perché ti sei seduta, Aci? Perché sei rimasta?”.
Il suo nomignolo, Aci, pronunciato da lui era davvero
snervante.
Perché sei rimasta?
Lei strinse le
labbra, pensando a cosa dire.
Alla fine disse ciò
che davvero pensava: “Vorrei riuscire a convincerti a lasciar perdere”.
Kaeso non aveva
l’aria di essere sorpreso. Il sorriso falso che aveva sul viso gli donava, ma
non lasciava intravedere niente.
“E’ la nostra natura. Gli umani sono solo
nutrimento. Non possiamo convivere con loro, possiamo solo mangiarli”
disse, in tono teatrale, come se stesse recitando qualcosa che aveva imparato a
memoria.
Acilia si sentì
ferita nel profondo e istintivamente abbassò lo sguardo. Il mare di sangue che
aveva nel corpo era in tumulto, e cercava di annegare tutto quello che doveva
essere annegato.
Lui scrollò le
spalle, guardando un punto davanti a sé. “Smettila. Credi di riuscire sempre a
far fare agli altri quello che vuoi? ”.
Lei si girò di
scatto a guardarlo, per vedere se qualcosa trapelava dai suoi occhi o dalla sua
bocca. Un guizzo di rabbia, un moto di tristezza, qualunque cosa…
Kaeso ricambiò lo
sguardo, tagliente e senza sorriso. “Me ne frego dell’autorità che hai avuto.
Ora ho la tua stessa identica autorità”.
Acilia ricordò di
quando si sentiva chiamare tiranna. C’era anche lui là fuori che la chiamava in
quel modo. Tentò di calmarsi e a non pensare alla sua autorità che aveva
buttato al vento. Forse ora non avrebbe dovuto fare i conti con la cruda realtà
di ciò che era andato, se fosse stata ancora regina. Ma non sarei potuto
esserla per sempre, pensò, mi avrebbero uccisa prima. Guardò con occhi tremanti
quelli di Kaeso. L’avrebbe uccisa lui.
Lui tornò a
sorridere, forse si era accorto dell’effetto che avevano avuto le sue parole su
di lei.
“Sai” disse “Primo
Levi aveva scritto una cosa…”. Strinse gli occhi e buttò indietro la testa,
cercando di ricordare.
“L’oppressore resta tale, e così la vittima”
recitò a memoria “non sono
intercambiabili”.
“Saresti tu
l’oppressore?” chiese Acilia, confusa ed accigliata.
“Ma entrambi hanno bisogno di rifugio e
difesa, e ne vanno istintivamente in cerca”.
“O gli oppressori
siamo noi e le vittime sono gli umani?”.
Kaeso piegò il suo
sorriso da un lato. “Anche”.
Acilia aggrottò la
fronte. “Mi pare un po’ paradossale che tu ti metta a citare Primo Levi”
osservò dopo un po’.
“È uno scrittore
italiano come un altro. Mi piacciono gli scrittori italiani” rispose Kaeso.
Fece un gesto con la mano come se dovesse scacciare una mosca. “Quelli veri,
intendo. Non quelli di oggi”.
Beh, era Kaeso ad
essere completamente paradossale. Un
terribile vampiro sadico che nel tempo libero, tra uno spuntino e l’altro, si
metteva a leggere.
Lui si accorse
dello sguardo ancora attonito di lei e continuò a parlare: “Io non sono
razzista, Aci. Ti assicuro che se davvero mettessi gli umani in dei recinti,
non li dividirei per razza, né per nazionalità, né per qualunque altra cosa”.
Sorrise, amabile.
“Mi fai venire i
brividi” ribatté lei.
Kaeso si fece
serio. “Sono stupidi” disse “Gli umani sono stupidi. Si mangiano l’un con
l’altro per delle inezie e poi i cattivi siamo noi, che li mangiamo perché
siamo costretti”.
“Non siamo
costretti!” sbottò Acilia.
“La convivenza è
tutta una favola, piccola Aci” fece lui, mieloso e macabro allo stesso tempo “I
cacciatori non farebbero differenza tra me e te, ti sparerebbero un proiettile
di legno proprio lì, dove hai il cuore”. Le indicò il petto. “Sono stupidi. Noi
siamo più forti e più intelligenti, siamo la loro evoluzione” continuò “Loro
mangiano le piante – le verdure – per stare in salute, no? E noi dobbiamo
mangiare loro. Bisogna stare al passo coi tempi”.
Acilia lo guardava
e non trovava neanche una traccia di umanità, in nessun angolo della sua pelle.
Non doveva rimanere lì, non doveva stare ad ascoltarlo perché ogni parola che
lui diceva era come una pallottola di legno. E faceva venire tutto a galla,
ogni maledetta stupida sua parola di
un tempo…
E com’era possibile
che un essere tanto meschino avesse letto Levi?
La passione per la
letteratura, sapeva da dove proveniva.
“E gli scrittori
che ti piacciono tanto?” fece Acilia, arrabbiata “Anche loro sono stupidi
umani?”.
Kaeso la guardò
sorpreo. Sembrava stesse riflettendo. “No, loro no” disse dopo un po’ “Ma loro
sono già tutti morti”.
Rise e poi andò
avanti: “La nostra dannazione può essere un dono, Aci, pensaci bene. Vivere per
sempre… Non è bellissimo? La vita non si esaurisce mai e neanche la sete di
conoscenza… Puoi leggere all’infinito, guardare così tante forme d’arte,
giudicare, apprendere, tutto con gli occhi di un eterno passante, un estraneo
che non verrà mai coinvolto. Non è bellissimo questo?”.
Anche Acilia amava
l’arte. Ma non amava vivere in eterno. Aveva letto tantissimi libri, visto
qualche film, guardato qualche mostra e ascoltato la musica, solo perché sono
le uniche cose belle che può concedersi un vampiro. Non bellissime, consolazioni.
Non rispose alla
domanda di Kaeso e lui la guardò con espressione pensosa. “Ora che mi ci fai
pensare, se dovesse spuntare fuori un nuovo grande artista gli risparmierei le
sofferenze che infliggerei agli altri umani” disse.
Acilia si alzò,
cupa, decisa a non ascoltare altro. Ma rimase ancora ferma, a fissare quel
folle che parlava. “Non nasceranno più grandi artisti se attuerai il tuo piano,
Kaeso. Gli umani che vengono trattati come bestie si abbrutiscono e non pensano
più, pensano solo al loro immediato presente, proprio come gli animali”.
Si voltò, pronta ad
andarsene. Ma poi si girò di nuovo per guardare un’ultima volta Kaeso. Lui la
guardava con uno strano sorriso. Non era il solito, presuntuoso e irritante
sorriso. Era solo… strano.
“Se davvero hai
letto Primo Levi” disse ancora lei “dovresti saperlo bene”. Si voltò, questa
volta definitivamente e si allontanò, sentendo un grosso macigno che la
comprimeva da tutte le parti, e la schiacciava, l’accartocciava, come fosse un
foglio scritto pieno di errori, da buttare.
*
La guerra non era
finita.
Non per lui.
Jacque si sforzò di
mandare giù un po’ di zuppa. Si era abituato a mangiare poco, e ora il suo
stomaco faticava a ricevere quantità copiose di cibo. Anche se in realtà copiose
non lo erano di certo.
Distrattamente si
mise a mescolare la zuppa col cucchiaio, senza avere più voglia di mangiare.
L’altro braccio era
abbandonato lungo la sua gamba sinistra.
“Sei in pensiero?”
fece una voce.
Jacque alzò lo
sguardo e vide che una giovane ragazza con un grembiule gli stava riempiendo il
bicchiere di birra. Lo guardava con occhi avidi. “Stai tornando a casa dalla
guerra?”.
Jacque non aveva
idea di che orribile aspetto avesse. Si sentiva il volto secco e bruciante,
sinceramente non pensava avrebbe mai riscosso successo con le donne.
La donna si poggiò
coi gomiti sul tavolo e si avvicinò a lui. Alzò un dito e gli indicò la
guancia. “Ti fa male?”.
Sì, gli faceva
male, doveva avere un brutto taglio.
Lei aveva gli occhi
azzurri e provocanti.
“Prendo una stanza”
disse Jacque. Il viaggio sarebbe stato ancora lungo. Aveva fretta di tornare a
casa ma se non si fosse riposato non ce l’avrebbe fatta. Aveva fretta perché
non sapeva se sarebbe riuscito a tornarci, a casa. Quella strega, quel vampiro, dagli occhi verdi… Non era
avvenuto nella sua testa. Ma i vampiri non esistevano… La ferita sul collo gli
faceva male. Cosa gli aveva fatto? Cosa gli sarebbe successo?
Non posso lasciarti andare.
Pensava che
l’avrebbe ucciso, invece poi l’aveva lasciato andare. Aveva pronunciato delle
parole, sembravano una formula. Jacque non le aveva capite bene… Sapeva poco
sui vampiri. Aveva sentito qualcosa su Dracula, un libro che continuava ad
avere successo. Sapeva che i vampiri uccidevano o… trasformavano.
Ma lui non si era
trasformato. O sì?
“Certamente”.
Le labbra della
cameriera erano carnose e invitanti. Jacque aveva fretta di tornare a casa ma
aveva anche fretta di qualcos’altro. Se davvero si sarebbe trasformato nel giro
di poco… Da così tanto tempo non possedeva una donna! Ma non sentiva niente
dentro di sé. Non era possibile pensare che si sarebbe trasformato. In cosa
poi? Un vampiro?
Non aveva senso…
Però lui che aveva
visto morire i suoi compagni, lui che aveva visto la morte in faccia… aveva di
nuovo paura.
Alzò il braccio
monco, come se si sentisse in dovere di far vedere com’era fatto alla
cameriera. Lei sgranò un poco gli occhi ma non disse niente.
“Non voglio stare
da solo stanotte” disse lui, sentendo il suo cuore che batteva forte. Cosa sarebbe
successo quella notte? Sul fronte non voleva
addormentarsi perché aveva paura di non svegliarsi più. In viaggio non
voleva addormentarsi perché aveva paura di vedere i visi dei suoi amici morti.
Nei sogni l’orrore non finiva mai, mai… E ora? Quella notte… Non voleva
dormire, come si sarebbe svegliato? Come?! Gli occhi verdi di quel mostro… Li
avrebbe rivisti, quella notte?
La ragazza dagli
occhi azzurri sorrise e annuì, poi se ne andò. Jacque non sapeva neanche il suo
nome, ma a cosa importava?
Rinunciò a finire
la zuppa. Il panico lo stava divorando. Aveva così tanta voglia di rivedere la
sua famiglia… Sua madre e sua sorella gli avevano mandato delle lettere,
stavano bene. Ma i suoi fratelli? Dov’erano? Erano sopravvissuti? Erano in
viaggio? Le due donne a casa avevano perso i contatti con Fabien. Davvero
poteva essere morto…
Le lacrime che
avevano imparato col tempo a non uscire, si formarono dentro ai suoi occhi,
senza cadere. Lui chiuse gli occhi e se li asciugò. In un lampo rivide il corpo
di Hugo, quello di Tom… Il sangue scorreva dopo ogni sparo e sempre quella
domanda, che si insinuava fastidiosa nella sua testa: perché lui e non io? Perché io sono ancora vivo e lui no?!
Il destino amava
giocare a scacchi col mondo e ora lui doveva vincere una nuova prova. Ma si
trattava di vincere? Aprì gli occhi e vide davanti a sé una donna dai capelli
neri e gli occhi verdissimi, lucenti e malvagi. Lanciò un’esclamazione di
spavento e si guadagnò una buona dose di occhiatacce da parte degli altri
clienti. Il vampiro sparì e lui riprese a respirare normalmente. Il sangue dei
suoi amici, lo stesso di Victor, lo stesso suo,
e quello della strega… Sotto le sue palpebre tutto il rosso si mescolava e lui
si ritrovò ad annaspare.
Non devi pensarci,
si disse, dov’è finito tutto il tuo coraggio?!
Aveva corso sotto
le bombe, aveva dato coraggio a Tom mentre stava morando, aveva tentato di
portare in salvo Simon. Ora doveva solo arrivare nella camera della locanda a
lui destinata. Se la sarebbe spassata con una bella ragazza e la mattina dopo
avrebbe continuato il suo viaggio, per tornare dai suoi cari…
Si alzò con uno
scatto dal tavolo e si avviò verso il bancone. La locandiera gli diede una
chiave e lui le chiese se poteva pagare l’indomani. Lei acconsentì e lui si
sentì per un attimo felice, come se un domani davvero ci fosse. Si avviò verso
le scale e fece l’occhiolino alla cameriera.
Cercò la porta
della sua stanza, entrò e si sistemò.
Il letto era caldo
e accogliente. Si distese, contento della comodità che gli era stata concessa.
Nel momento in cui il suo viso sfiorò il cuscino, ripensò alla terra, dura e
bruciata, su cui doveva dormire. Non appena stirò gambe e braccia ricordò che
riusciva a stare caldo solo se stava rannicchiato, accanto ai suoi compagni.
Immaginò di essere
morto, immaginò di non essere su quel letto, immaginò di essere dentro a una
tomba, accanto agli altri soldati, tutti insieme perché era così che sarebbero
dovuti stare d’ora in poi: tutti insieme, uniti dal coraggio, dalla paura,
dalla passione. Ma loro se n’erano andati e lui era rimasto solo, li aveva
abbandonati lui. Il fatto era che lui era vivo e loro no. Il senso di colpa lo
invase e quando sentì bussare alla porta si accorse che stava piangendo.
Ricordava tutto, però con quell’opaca
trasparenza tipica dei sogni. La verità era che ricordava tutta la sua vita da
umano come se fosse stato un sogno, un lungo sogno dal quale si era
risvegliato. Un sogno che non aveva potuto fare mai più, del resto i sogni non
si ripetono mai.
Ricordava di essere andato ad aprire la
porta. Si era trovato davanti la cameriera della taverna, quella tanto buona e
gentile da aver acconsentito a passare la notte con un soldato ferito e
menomato. Non ne ricordava affatto il volto, niente, neanche i lineamenti, neanche
il colore dei capelli o degli occhi. Il suo viso era sfumato in una nuvola
rosa, proprio come i visi dei sogni. Anche se non poteva più sognare, ricordava
com’erano i sogni. Forse da umano ne aveva fatti tanti, o forse confondeva la
sua vita da umano con i sogni. Forse era la sua condizione di vampiro ad essere
un sogno e doveva ancora svegliarsi, svegliarsi in quella stanza di quella
locanda, accanto alla cameriera, senza una mano ma felice. Tante volte l’aveva
pensato, eppure non si era mai svegliato.
Ricordava che la giovane donna si era
spogliata. Si era spogliato anche lui e i loro corpi si erano avvinghiati in
una stretta che sarebbe diventata mortale. Lui quasi non riusciva a respirare,
era sopraffatto dall’emozione, dalla gioia e dal dolore, il calore che tanto
gli era mancato. Quella donna era una perfetta sconosciuta e neanche gli
importava di lei, come del resto a lei non importava di lui. Importava solo il
momento, sentirsi vivo ed essere felice perché era vivo. La colpa era scivolata
via, la guerra e l’orrore erano dietro le quinte per un attimo. Lei ansimava,
poi gli aveva chiesto preoccupata cosa non andasse.
Lui l’aveva lasciata andare, sentendo che il
calore stava prendendo il sopravvento su di lui. C’era troppo calore, era
troppo caldo e il suo corpo stava prendendo fuoco. La ragazza urlò allora lui
pensò che davvero stesse bruciando. La baciò perché se stava morendo la voleva
portare con sé, quella donna di cui non sapeva neanche il nome. La baciava e
lei si dimenò, gli diceva di calmarsi ma lui la teneva stretta. Non vedeva più
la cameriera ma vedeva il volto della vampira, quella dagli occhi verdi, e ne
vedeva bene i lineamenti, oh sì. Le voleva fare del male, più male che poteva.
La odiava ma allo stesso tempo avrebbe voluto giacere con lei. Tutto bruciava
nella stanza, la donna urlava e lui piangeva. Ad un certo punto si rese conto
di quello che stava facendo e la lasciò andare. Entrambi caddero sul pavimento.
Lui aveva preso a contorcersi e lei gli aveva gridato una cosa. Gli aveva gridato
che aveva bisogno di cure, che avrebbe chiamato un medico.
Non ho bisogno di un medico, aveva pensato
lui tra le fiamme, non ne ho bisogno perché sto morendo. Voleva anche scusarsi
se le aveva fatto male in qualche modo, involontariamente, ma non riusciva a
parlare. Voleva chiederle di restare con lui, di assisterlo mentre moriva, di
fargli compagnia. Non voleva morire da solo. Adesso capiva perché Tom l’avesse
ringraziato prima di morire, perché era rimasto con lui fino alla fine. Adesso
capiva quanto fosse importante, non sentirsi soli…
Ma la ragazza era uscita dalla stanza, forse
per fuggire da lui, forse per cercare aiuto.
Il motivo per cui lui non aveva mai voluto
parlare della sua trasformazione ad Emily era la vergogna. Si vergognava di
avere avuto un rapporto con una sconosciuta, di averle fatto del male, di aver
pensato ad Acilia mentre lo faceva…
I ricordi a questo punto erano davvero
confusi perché lui non vedeva più niente. Tutto si era fatto rosso, come il
sangue dei feriti e dei morti. Il sangue che aveva visto bere e che lui stesso
aveva bevuto.
La passione si era trasformata in violenza, e
la violenza si trasformò in morte.
Quando riaprì gli
occhi sentì subito un puzzo terribile. Subito dopo capì che non riusciva a
muoversi, incastrato com’era tra degli oggetti. Toccò gli oggetti e si rese
conto che non lo erano, oggetti, e
lanciò un grido strozzato. Era incastrato in un cumulo di cadaveri.
Li sentiva,
freddissimi e viscidi, appiccicati al suo corpo che, per qualche motivo, era completamente
nudo. Tentò di muoversi, di districarsi dai morti, cercando di non pensarci e
di non urlare… Liberatosi da quell’abbraccio mortuario non poté fare a meno di
guardarli. Corpi bianchi e sporchi, alcuni nudi, alcuni ricoperti di stracci.
Violacei in volto, gli occhi spalancati e vitrei, braccia e gambe come quelle
di bambole bianche, rotte e abbandonate. Erano tetralmente illuminati da una
pallida luce di luna e Jacque alzò la testa. Sopra di loro c’era un foro, erano
in… una buca! Una buca scavata sotto terra, ecco perché erano tutti così
sporchi… Si scrollò di dosso il terriccio e cercò di mantenere la calma.
Qual era l’ultima
cosa che ricordava?
Stava facendo
l’amore con la cameriera della taverna poi, poi… Cos’era successo? A lei cos’era successo?
Preso dalla nausea,
rovistò tra i cadaveri, cercandola. Ogni viso di donna cereo lo faceva
sobbalzare, ma i bambini… C’erano anche dei bambini! Minuscoli esserini,
piccole marionette abbandonate al loro destino. Dov’era la ragazza? No, non la
trovava, non c’era… Gli veniva da piangere ma non lo fece.
Perché era lì
sotto, sotto terra insieme ai morti?!
Era… Era dunque
morto? Davvero morto?
Non aveva l’aspetto
di un morto. Ricordava di essere così magro… E invece ora si era rinvigorito.
Sembrava essere tornato nella stessa forma fisica in cui era prima della
guerra.
Si prese la testa
tra le mani e lanciò un altro grido.
“Aiuto! Qualcuno mi
aiuti!” urlò, ma nessuno rispondeva.
Doveva darsi una
calmata e ragionare. La prima cosa da fare era uscire da lì.
Ai cadaveri e alle
situazioni estreme era avvezzo, si trattava semplicemente di uscire da quella
buca. Però il fatto di essere nudo lo faceva sentire scoperto, disarmato,
inerme. E cosa diamine gli era successo? Era morto? Resuscitato? Un vampiro?
C’era una frase
nella sua mente, quasi un ritornello di una canzone…
Torna al tuo creatore quando risorgerai.
Nonostante avesse
solo una mano e un polso su cui contare fu veloce a scalare la montagna di
morti. E mentre avanzava, sempre più in alto, verso la superficie, gli venne in
mente che lo stava di nuovo facendo. Si stava di nuovo salvando, lasciando una
scia di morti dietro di sé. Si stava arrampicando sui cadaveri, lui era l’unico
sopravvissuto! Il senso di vergogna che provò in quel momento lui, lì, unico vivo,
tra uomini, donne e bambini morti, quasi gli impedì di andare avanti. Ma poi si
riaccese dentro di sé la speranza di poter tornare a casa e la luna fu di nuovo
vicina. Si ancorò al terreno con una mano mentre l’altro braccio rimase a
penzoloni lungo il suo corpo. Lo sentì sbattere contro la terra scavata e
digrignò i denti. Qualcosa lo aveva colpito proprio là dove avrebbe dovuto
esserci la mano ma lo ignorò. Un taglietto non sarebbe stato nulla.
Lanciò
un’esclamazione di trionfo quando fu fuori ma subito lo invase la paura. Il
freddo era pungente e lui era nudo. Sarebbe morto assiderato? Si guardò. Come
avrebbe resistito? Notò il taglio nella parte monca del suo braccio. Era
piuttosto lungo, non immaginava di essersi fatto così male. Infatti gli bruciava,
quel taglio bruciava terribilmente. Ma che stava succedendo? Si stava…
allargando? Il taglio era sempre più lungo, e largo… Gocce di sangue
cominciarono a uscire, sempre più copiosamente… Faceva un gran male e lui si
mise a gridare. Cadde sul terreno freddo e si contorse. Cosa stava succedendo?
Quando aveva perso la sua mano… il male era stato atroce, ma poi era passato,
se n’era andato, con la sua mano. Perché ora il male era tornato?! Urlò, si
prese il polso con la mano dell’altro braccio e lo guardò, lo guardò mentre la
ferita si spaccava e il sangue usciva. Un osso sporgeva, Jacque vedeva bene il
bianco intagliato nella notte e quel bianco cresceva. L’osso stava crescendo,
ossicini spuntarono dal nulla, legamenti e sangue… Jacque urlò tantissimo, il dolore
era insopportabile e non riusciva a distogliere gli occhi dalla sua mano, che
stava tornando, che si stava formando… Pelle bianca proprio come l’osso ricoprì
tutto.
Com’è possibile…
Il dolore cessò
così come era venuto e lui annaspò a terra, sulle sue due mani. Era felice… Quando aveva perso la mano si era disperato
così tanto, ora… ora l’aveva di nuovo! Ma com’era possibile?!
Cosa sono diventato?! Cosa?!
“Ti ho portato dei
vestiti” disse una voce e lui sobbalzò.
Subito si alzò in
piedi e fu sorpreso dalla sua prontezza. Il freddo lo sentiva eccome, ma
sembrava che non lo stesse indebolendo.
Davanti a lui c’era
la donna dagli occhi verdi e dai lunghi e lisci capelli neri. Aveva un volto
impassibile e in braccio teneva una casacca e un paio di pantaloni scoloriti.
La buca, la mano,
quella donna vampiro… La consapevolezza di non essere più un ragazzo normale lo
invase e per un momento fu incapace di parlare. Poi ritrovò la voce, e quella
esplose.
“Cosa mi hai
fatto?!” gridò “Perché?!”.
Lei si mordicchiò
il labbro. Il suo viso era freddo, ma qualcosa come il dispiacere lo
attraversò. “Non avevo scelta, mi dispiace”.
Jacque si avvicinò
a lei, rabbioso. “Io volevo tornare a casa!” urlò “Volevo solo tornare a
casa!”. Il suo coraggio, la sua fermezza si sciolsero in un grido strozzato e
disperato… Davvero non sarebbe più tornato a casa? La guerra l’aveva
intrappolato per sempre nel suo mondo di morti e lui non avrebbe mai potuto
liberarsi?
Avvicinò le sue
mani agli occhi per asciugarli ma non c’era nulla da asciugare. Non poteva
nemmeno piangere?!
Si avvicinò ancora
di più alla vampira, sempre più gonfio di rabbia. Voleva urlarle addosso,
voleva picchiarla, farle tutto il male possibile… Alzò le mani ma lei aveva il
viso di una ragazzina e lui non voleva veramente toccarla. La sua frustrazione
esplose nelle sue gengive e lui urlò di dolore. Qualcosa stava venendo fuori,
sotto i denti, qualcosa spingeva… Chinò la testa, gridando. Si toccò il labbro,
la bocca, i denti… I suoi canini si erano allungati, orribilmente.
Rialzò la testa e
vide la sua assassina che lo guardava stringendo le labbra.
“Sono un vampiro”
biascicò Jacque, con la mano ancora sulle zanne “Sono un…”.
“Mettiti questi, ti
prego” disse lei spingendo verso di lui il vestiario “E ti prego di non urlare
più, potrebbero sentirci. Poi ti spiegherò ogni cosa”.
Jacque si ricordò
di essere nudo e per un momento si vergognò.
Strappò con
violenza i vestiti di mano alla donna e se li infilò in un lampo. Gli stavano
un po’ larghi.
“La tua divisa è in
una catasta di vestiti. So dove trovarla se la rivuoi” disse la ragazza, a mò
di giustificazione.
Jacque annuì, poi
la guardò. I denti tornarono a fargli male e lui fece una smorfia. Le sue zanne
si erano ritirate.
“Dopo un po’ smette
di far male” disse l’altra.
Lui non disse
niente. Attendeva spiegazioni. Di certo non poteva fuggire a gambe levate, non
avrebbe avuto senso… E non aveva senso neanche cedere alla rabbia o alla
tristezza… Aveva imparato a prendere cosa gli veniva dato dal destino, sì, ma
quello, quello era troppo.
“Mi chiamo Acilia”
disse la vampira “e sono la tua creatrice. Ho milleottocento anni”.
Jacque si impietrì.
Non era affatto morto, era solo diventato immortale…
“Dalla taverna… Ti
ricordi della taverna?” continuò lei.
Lui annuì.
“Dalla taverna
hanno portato qui il tuo cadavere. Credevano fossi morto di spagnola e ti hanno
buttato in questa fossa comune”.
Jacque deglutì.
Quindi era morto sul serio. Non l’avrebbero mica messo in una fossa se non
fosse morto davvero?
“È passata una
settimana, e ora sei… risorto. E sei
un vampiro”.
Una settimana?!
“Cos’è successo
alla… alla cameriera?”.
Acilia lo guardò
confusa.
“C’era una ragazza”
disse dopo un po’ “Castana… aveva gli occhi azzurri. Aveva dei lividi sulle
braccia, e piangeva”.
Lividi sulle braccia…
Jacque abbassò lo
sguardo, sentendo qualcosa di spregevole dentro di sé.
Poi guardò di nuovo
Acilia.
“Un mostro…” ansimò
“Mi hai fatto diventare un mostro…”.
“Sta bene” ribatté lei.
“Sono io che non
sto bene!” urlò Jacque.
Si prese la testa
tra le mani e si chinò. C’era qualcosa che tormentava, era fame…
Sentì la voce di
Acilia su di sé, che gli cadeva addosso, in frammenti.
“Non avrei mai
voluto… Io… Tu mi hai vista e io…”.
“Non me ne frega un
cazzo!” gridò lui.
“Non urlare!”
sbottò lei e lui si sentì prendere le spalle e si ritrovò due occhi verdi
dritti nei suoi.
“Non urlare” ripeté
Acilia “Non è facile per nessuno, all’inizio”.
La fame… Cosa, cos’avrebbe dovuto mangiare?
“Io” continuò lei,
inspirando a fondo “Quando sono diventata vampiro sono andata dal mio
fidanzato. Non potevo controllarmi, l’ho ucciso, ho bevuto il suo sangue”.
Sangue…
Jacque rabbrividì.
“Questo… questo…” farfugliò “Dovrebbe farmi sentire meglio?”.
Acilia lo prese per
un braccio. “Ti insegnerò a nutrirti senza uccidere. Ora vieni, devi mangiare”.
“No!” esclamò lui,
strattonandosi. “No! Mai!”.
Oh no, non avrebbe
bevuto neanche una goccia di sangue, aveva già fin troppe morti sulla
coscienza! Sarebbe rimasto lì e si sarebbe lasciato morire di fame!
“Devi nutrirti!” fece l’altra, impaziente.
Lui la guardò negli
occhi e sentì montare di nuovo la rabbia. “No” ripeté.
Si allontanò da lei
e non le parlò più.
Dopo un po’ lei lo
prese per un braccio e lui si lasciò condurre via. Lei scavò una fossa nel
terreno e gli disse che avrebbero dovuto stare lì dentro per tutta la durata
del dì. Jacque cercò di ribellarsi ma alla fine lei vinse. Era così forte. Le
prime luci dell’alba stavano sorgendo e i due si seppellirono insieme. Lei
voleva toccarlo ma lui si girò dall’altra parte. Provò a piangere ma non ci
riuscì, poi tutto fu buio. Parevano passati pochi minuti quando Acilia lo destò
però si sentiva riposato. C’era un’unica cosa, che tentava in tutti i modi di
ignorare… La fame.
“Vieni, ci
nutriremo insieme” gli disse Acilia, ma lui rifiutò ancora.
Non sapeva neanche
dove fosse. Non vedeva mai persone, mai delle case. Si limitava a stare in un
angolo. Acilia se n’era andata per nutrirsi e lui era rimasto lì. Non aveva
senso fuggire, non voleva andare da nessuna parte, non voleva incontrare
nessuno. Era diventato un mostro, non avrebbe mai più potuto incontrare nessuno.
Quando Acilia
tornò, lui le chiese: “Ce ne sono altri come noi?”.
Lei lo guardò,
sorpresa. Forse era contenta che lui avesse di nuovo parlato.
“Sì” rispose
“Molti. Io faccio parte della Rappresentanza Vampiresca d’Europa. Sai, come un
Parlameno”.
A Jacque non
importava.
“E perché non sei
nella tua Rappresentanza ora?” domandò, un po’ acido.
“Ho diritto a
qualche giorno perché sono diventata creatrice” disse lei, dopo un po’ “Devo stare
col… mio vampiro infante”.
Infante?
Jacque fece una
mezza risata. “Quando dici creatrice… intendi genitore?”.
“Non è proprio la
stessa cosa” disse Acilia, avvicinandosi a lui “Però in un certo senso sì”.
Lui sospirò. “Mio
padre è morto quando ero piccolo. Un incidente in fabbrica” disse. Alzò lo
sguardo su Acilia, uno sguardo pieno di odio. “Ma una madre ce l’avevo già”.
Lei si era seduta accanto a lui e non lo guardava arrabbiata né risentita e lui
si sentì sciogliere. La tristezza era troppa. La fame incalzava ma non voleva
cedere, e i ricordi di casa sua… I ricordi di sua madre e dei suoi fratelli presto
sarebbero sfumati… Non avrebbe più ricordato i loro volti? “Vorrei rivederla…”
fece, con la voce che si era trasformata in un pigolio “Vorrei rivedere mia
madre…”. Nascose il volto tra le braccia, anche se non aveva senso. Non c’era
nulla da nascondere, nessuna lacrima sarebbe scesa.
“Almeno in guerra…”
gemette “Almeno in guerra potevo piangere!”. La sua voce si era lievemente
alzata, impastata di disperazione, rabbia e fame e sentì un braccio freddo che
gli circondò le spalle.
Non respinse
Acilia, non ne aveva voglia. Ricordava quando la notte prima gli aveva detto di
aver ucciso il suo ragazzo perché non poteva controllarsi. Per quanto lei fosse
vecchia, erano simili. Erano legati dallo stesso destino e dalla stessa
commiserazione. Fece scivolare la sua testa sulla spalla di lei e si lasciò
abbracciare.
A volte le cose
vanno in modo strano. A volte la vittima finisce per affezionarsi al suo
oppressore. L’oppressore è l’unica fonte di sostentamento che la vittima ha, e
la vittima finisce per dimenticare che la causa di tutti i suoi mali è proprio
l’oppressore.
La terza notte che
risorse da quella buca che condivideva con Acilia aveva un vago pensiero in
testa. Si sentiva debole e fiacco, la fame che lo divorava ma era riuscito
comunque a raggiungere una conclusione.
“Non sento più quel
senso di colpa” disse, più rivolto a se stesso che ad Acilia “Così tanti sono
morti in guerra, perché proprio io dovevo sopravvivere? Tanta gente migliore di
me è morta…”.
Acilia non diceva
niente e lui andò avanti: “Ora sono stato punito anch’io, ora sono libero”. Si
alzò in piedi, vacillando. Aveva la lingua e la gola secca. Il suo corpo
implorava sangue.
“È l’unica cosa”
disse, stringendo i pugni e guardando le stelle nel cielo “che mi fa sentire un
po’ meglio”. Gli mancava anche il sole ora.
Rivolse il suo
sguardo ad Acilia. “Portami a mangiare”.
Lei, sorpresa e
sollevata, come una madre che finalmente si sente dire dal dottore che il
proprio figlio è guarito, annuì. Gli tese una mano, serenamente, e lui,
prendendogliela, si sentì più accettato, più forte.
Acilia gli disse
che avrebbero cercato un uomo abbastanza avanti con l’età, Jacque non sapeva
perché.
Ma quando affondò i
canini nel suo collo e sentì il sangue che scorreva dentro di lui, lo capì.
Acilia gli diceva di fermarsi ma lui non ci riusciva. E l’uomo cadde morto ai
suoi piedi.
*
Curtis premette il
tasto rosso del cellulare per porre fine alla chiamata.
Emily l’aveva
appena chiamato e gli aveva chiesto se potevano vedersi. Lui faticava a
capirla. Gli aveva mandato ogni segnale possibile per metterlo in guardia,
sembrava non ne volesse sapere di lui. E ora gli telefonava.
Sospirò. Non voleva
certo finire con una ragazzina. Ma c’era qualcosa in lei… Era bella, ma non era
solo bella. I suoi occhi erano freddi ma allo stesso tempo sprigionavano un
gran bisogno di raccontare. Quegli occhi avevano dietro un mondo.
Dalla camera da
letto si avviò verso il salotto. In corridoio si fermò e prese in mano la sua
macchina fotografica dal mobile.
Lo vuoi davvero fare?
“Con chi eri al
telefono?”.
Curtis si voltò.
Dalla soglia del salotto Karen lo guardava sospettosa.
“Lavoro” disse lui,
prontamente, sollevando la macchina fotografica “Devo andare, mi dispiace”.
Lo vuoi davvero fare?!
Ad Emily si stava
affezionando.
Karen strinse le
labbra, fino a nasconderle e i suoi piccoli occhi erano gelidi. Proprio come
ogni volta che lui le diceva che doveva lavorare.
Si avvicinò a lei,
incerto. Alla fine le diede un bacio sulla guancia e lei rimase immobile.
Curtis si avviò
verso la porta, mettendo la macchina nella sua borsa a tracolla. Abbassò la
maniglia lentamente, sperando che Karen lo salutasse. Ma lei non lo fece, chiusa
nella sua ostinata rabbia.
“Papà! Papà!”.
Curtis si voltò e
vide che in corridoio i suoi bambini Sally e Selwyn stavano saltellando in
corridoio.
Sorrise. Ogni volta
che usciva di casa non poteva fare a meno di domandarsi se…
“Dove vai?” gli
chiese Sally.
“Devo lavorare,
piccola”.
“Ma torni vero?”.
“Certo!”. Curtis si
avvicinò ai due gemelli. “Non sono sempre tornato?”.
Sentiva lo sguardo
arrabbiato di sua moglie su di sé.
Sally annuì. Selwyn
non diceva mai niente. Si limitava a guardare il suo papà con i suoi grandi e
tristi occhi. Una volta gli aveva chiesto se la mamma lo odiava. No, certo che
no, Selwyin, io e la mamma ci amiamo, gli aveva risposto lui. Diede a un bacio
a entrambi e poi uscì, curandosi di non incrociare lo sguardo di Karen.
Non poteva farne a
meno, ogni volta.
Eccomi qui : D
Alla
fine anche questo capitolo è lento.. anzi, in certi punti mi
è venuto fuori poetico.. Spero non sia stato troppo pesante XD
Nene,
wow è stato così favoloso il capitolo scorso? D: beh,
bene XD ti ringrazio molto per i complimenti e anche per aver annesso
l'episodio del villaggio che voleva ditruggere il cimitero: potrei
farne buon uso per quando revisionerò/riscriverò il libro
: DD Per la questione politica non saprei se mi sono ispirata.. direi
di no perché in ogni caso il capitolo avrebbe avuto
quell'andazzo, poi se il clima aiuta, tanto meglio :) beh, aspetto una
prossima recensione, a qualunque capitolo la lascerai (che brava
recensitrice che sei XD)! eee un personaggio normale nella storia? Io?
Ma mi conosci? :PP baci!
Sara,
anche a te è piaciuto molto il capitolo scorso XD beh, che dire
ragazze, mi commuovete! Pochi (pochissimi) fan ma buoni! Sapevo che ti
sarebbe piaciuta la seduta col dottor Pohl! XDXD Jacque sì..
è un po' così, spero che con questo capitolo e i prossimi
(mica è finita qui la sua storia) ti aiuteranno a comprenderlo
meglio XD E così scopri che anche Claire è una persona
più o meno normale.. eh sì, i miei personaggi hanno tutti
un perché XD anche se ammetto che Claire non verrà
sviscerata a fondo.. ho troppi personaggi T.T alla prossima e grazie
mille! baci! w w le crocchette!
Tornate
a recensirmiiiiii ç_ç oppure, venite a recensirmiiii! Non
vedete quanto è carina e coccolosa questa storia? (sto
impazzendo..)
Credo
che non riuscirò ad aggiornare la prossima domenica, quindi temo
di dovervi dare appuntamento a quella dopo ancora! : D
Per darvi un'idea di quanto state leggendo: compreso questo capitolo, siamo a 331 pagine!
Byeeeee!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Assente ***
Capitolo 17
CAPITOLO XVII
ASSENTE
Era sera tarda quel
giorno sul termine di giugno e una fila di persone stava entrando in un
condominio. Avevano visi poco allegri ed erano vestiti di nero.
S’infilò dietro
all’ultima persona, una donna dai capelli biondo rame, con un lungo abito scuro
coperto da un coprispalle velato, che si trascinava dietro una bimbetta. La
bimba si voltò sulle sue scarpette nere e lo guardò con una traccia di
confusione tra le palpebre, che stringeva. Aveva un visetto vispo e il colore
degli occhi molto simile a quello di lui.
Lui si avvicinò
l’indice alla bocca e fece “Sssst”. Le fece l’occhiolino e quella si girò di
nuovo sghignazzando.
Quella che
presumibilmente era sua madre le diede uno scossone. Non doveva ridere.
Dovevano essere tutti tristi e immobili: erano queste le regole del mondo.
“L’ultimo chiuda la
porta, per favore” disse una voce triste e pacata.
Era lui l’ultimo.
Appoggiò delicatamente la porta sulla soglia, lasciandola socchiusa. Si voltò e
vide una tetra sala, un tetro tavolo con sopra dei tetri stuzzichini.
Per Giove, pensò
lui, se proprio dovevano fare una festa, che almeno la facessero bene! Ci
voleva proprio lui per movimentarla.
Anche se non c’era
molto da festeggiare, pensò guardando l’angoscia che alcuni volti trapelavano.
Ma perché diamine bisognava festeggiare un morto? Se diventava un vampiro
allora sì che c’era da festeggiare! Ma se era morto e basta, che senso avevano
tutte quelle persone, tutti quei salatini e tutte quelle bevande? Un’anziana
signora in carrozzella piangeva senza ritegno davanti a due uomini che
cercavano di darle conforto. Doveva essere la padrona di casa.
Si diresse in
corridoio e sulla sua destra vide una stanzetta gremita di persone, scarsamente
illuminata. Volevano darle un’aria lugubre? Eccola, l’attrazione della serata,
la star!
Si avvicinò alla
bara e vide un raggrinzito cadavere. Doveva essere stato il marito della
signora in carrozzella. Quanta inutile tristezza! Insomma, quell’uomo ormai aveva
più di novant’anni! Che gusto c’era a vivere così? Quella cosa che nessuno
voleva, quanto la volevano in verità! Piangerebbero mai, quegli stupidi umani,
per la vecchiaia e la morte se davvero non
volessero diventare vampiri? Vivere per sempre e per sempre giovani! Chi poteva
non volerlo?
“Vorrei dire due
parole” disse un ometto con gli occhiali, alzando un pelo il bicchiere che
aveva in mano.
Ma perché?
Bisognava fare i discorsi come ai matrimoni? Proprio non capiva, un morto è
morto e basta. Non ti può sentire, gli avrebbe voluto dire, perché io lo so
com’è la morte. Non c’è nessun cielo, nessun al di là, dal quale vedere e
sentire i propri cari. Non c’è niente.
“Non so se tutti mi
conoscono, mi chiamo Larry Stevens” continuò l’ometto “Ho lavorato per Abner, e
posso dire era un brav’uomo, onesto, efficiente e severo nella giusta misura.
Si faceva rispettare e amare allo stesso tempo”.
Face vagare i suoi
occhi inquieti per la sala in cerca di visi d’approvazione. “In questo doloroso
momento, sono vicino a tutti i familiari e gli amici di Abner. Quest’uomo ha
vissuto al meglio, e ora, che riposi in pace”.
Conoscete qualche
morto che non sia stato bravo, onesto ed efficiente in vita? Ci fu qualche
mormorio d’assenso, qualche sorriso, qualcuno applaudì. La piccola – che era
l’unica bambina presente – incrociò le mani come se dovesse pregare e socchiuse
gli occhi, e aveva un piccolo sorrisino compiaciuto. Probabilmente non capiva,
forse nemmeno sapeva chi fosse Abner.
Lui sospirò, pensando al da farsi.
La bambina aveva
incrociato il suo sguardo e lui le strizzò ancora l’occhio. Poi avanzò verso
Larry e gli tese la mano.
“Gran bel discorso,
signor Stevens” disse, con una smorfia di educazione sul volto.
Larry gliela
strinse con un sorriso incerto. “Oh, grazie mille, lei è…”. Lo guardò, in
attesa di una risposta, un po’ stupito, forse perché la sua mano era
freddissima.
“Un amico di
famiglia” rispose lui prontamente. Poi si voltò verso la folla e disse, a voce
più alta: “Potrei avere l’onore anch’io di dire due paroline?”.
Tutti si zittirono
e lo guardarono. La bambina aveva un sorriso enorme.
“Per i morti” disse
lui “si spendono sempre belle parole. Muoiono sempre i migliori, non è vero?”.
Si sporse per guardare il vecchio Abner, vestito di tutto punto, comodo nella
sua morbida bara. Ah, beati tempi che corrono, una volta le tombe mica erano
così accoglienti! Guardò il suo rugoso e spigoloso visto. Aveva davvero un
signor naso, quel tizio.
“Oh” fece, senza
distogliere lo sguardo dal cadavere “Ma Abner era il migliore, certo, lo era
davvero” si affrettò ad aggiungere. Indicò la bara. “Si vede dalla faccia, ha
una gran faccia simpatica” continuò, sbirciando con piacere i volti attoniti
dei presenti. “Efficiente, rispettoso, onesto, amabile, carino…”. Si voltò concentrato
verso Larry, gesticolando con una mano. “Che altri aggettivi aveva usato,
signor Stevens?”.
Larry era diventato
scarlatto e aveva la bocca semiaperta.
“Ma chi è lei?”
fece una voce frustrata.
Apparteneva alla
vecchia in carrozzella, con una di quelle espressioni tipiche che assumono le
signore quando il loro uomo viene messo in mezzo.
“Signora” disse
lui, amabilmente “Non pianga per suo marito, presto lo raggiungerà anche lei”.
Ci furono mormorii
scocciati e qualuno disse: “Ma chi è questo? Ma qualcuno lo cacci via!”.
La bambina invece
avanzò verso di lui con una faccia furbetta, la faccia di chi aveva capito
tutto. Sua madre se ne accorse troppo tardi ed esclamò: “Charlene! Torna qua!”.
Lui sorrise alla
bambina. Doveva avere sei o sette anni. Gli stava simpatica.
La guardò con
sguardo amorevole. “Charlene, lo sai dov’è il bagno?”.
Quella spalancò gli
occhi e annuì.
“Vai lì dentro, e
chiudi a chiave la porta. Poi getta la chave nel gabinetto. Lì sarai al
sicuro”.
Charlene lo
guardava con quel suo nasino all’insù e le sue guance piene. Gli veniva davvero
voglia di mangiarsela.
Docilmente lei gli
diede le spalle mostrando i folti riccioli chiari e andò fuori dalla stanza.
Lui sapeva che avrebe obbedito.
La donna fulva,
madre di Charlene, dopo qualche attimo di esitazione attonita, uscì dalla
stanza e ben presto arrivò chiara e limpida la sua voce che intimava alla
figlia di aprire la porta.
Kaeso sogghignò e
camminò lentamente, verso la carrozzella su cui la signora lo guardava in
cagnesco, enfatizzando ogni singola ruga. Un bello spettacolo. “Mi piacerebbe
davvero dirle che quando morirà, rivedrà il suo efficiente, onesto e amabile
Abner” disse, chinandosi su di lei. Inalò il suo odore. Sapeva di vecchio. Era ora di finirla no? “Ma la verità
è che… Non lo so”. In un lampo estrasse le zanne e fu sul suo collo. Un sangue
poco gustoso, poco caldo ma era come… una bibita rinfrescante. La donna e tutti
in quella stanza urlarono e lui riemerse, lasciando gocciolare il sangue dal
suo labbro sulla foto del marito che la signora teneva in mano. Lei lo guardava
terrea e terrorizzata, le lacrime agli occhi e la bocca aperta, mentre le mani
freneticamente tentavano di portare indietro la carrozzella.
“Sono morto solo per una settimana e devo dire
che è stata una settimana assai deludente” disse ancora Kaeso, proseguendo il
discorso “Però, sa, sperare non costa nulla, lo speri, signora. Preghi di
incontrare di nuovo suo marito!”. La sua voce si fece cattiva, per qualche
motivo.
La vecchia
boccheggiò mentre intorno a lei ancora la gente urlava.
Lei unì la sua voce
stridula e gracchiante al coro di terrore e lui le prese la mascella. “Lo dica,
perché è l’ultima possibilità che ha di farlo”.
“I-io” boccheggiò
lei, gli occhi colmi di terrore “prego di… r-rivedere… A-a… Abner…”.
“Ora basta!”
strillò qualcuno.
Kaeso si voltò e
vide l’ometto Larry Stevenson che gli puntava, tutto sudato, una pistola
addosso.
Kaeso sbuffò. Era
davvero una seccatura venire interrotti sul più bello.
Ma Larry aprì la
bocca e ne uscì un rivolo di sangue, mentre con gli occhi sgranati chinava il
capo. Aveva un buco nel petto e il sangue usciva a fiotti. Tra le urla, cereo
si voltò e vide che dietro di lui c’era una donna dai capelli biondi platino,
quasi argentei, che teneva appeso il suo cuore, tenendolo per le arterie. Era
grande, rosso, ancora pulsava. Delizioso.
Larry cadde a terra
e dopo qualche attimo non si mosse più.
Svetlana lo
scavalcò con una smorfia di disgusto, stando attenta a non calpestare coi suoi
tacchi bordeaux le interiora dell’uomo. Si chinò a terra e raccolse la pistola.
Lanciò il cuore sul corpo inerme di Larry e gli puntò contro la pistola.
Premette il grilletto e lo centrò in pieno. Il cuore esplose in grumi di
sangue, un piccolo fuoco d’artificio meraviglioso.
Qualcuno piangeva
rumorosamente, fastidiosamente, stupidamente. Quelli che piangono sono sempre i
primi a morire.
“Grazie, Sve”
salutò cordialmente Kaeso. Tornò a guardare la vecchia, pronto a colpire ma la
trovò bianca latte, afflosciata sulla sua sedia a rotelle, con gli occhi
chiusi.
“Maledizione”
borbottò Kaeso “Le è venuto un infarto! Non c’è gusto così”.
Svetlana fece un
sorrisetto.
“Tu parli troppo e
la gente si prende dei colpi” disse, imprimendo una lunga unghia rossa sulla
ruvida guancia della vecchia. La ferì e il suo dito si tinse di sangue. “Un
giorno capirai che tutte quelle cerimonie che fai sono inutili”.
“Guarda che sei
stata tu a farle venire un colpo” ribatté Kaeso, indicando Larry e il suo
cuore.
“Che ci vuoi fare”
disse lei, ammiccando “Sono una rubacuori”.
Gli umani gridavano
e provarono a fuggire da tutte le parti ma dalla porta, in salotto, erano
entrati altri vampiri, famelici e divertiti.
“Calmi!” gridò
Kaeso, per sovrastare il rumore “Li ho invitati io, per onorare Abner!”.
“Lo vedi come fai
tu” disse Svetlana, succhiandosi il dito serenamente “Devi sempre parlare”.
Kaeso scrollò le
spalle. Per lui l’unica differenza che c’era tra loro e le bestie era la parola. Non voleva rinunciarci, perché
loro non lo erano bestie. Invece per Svetlana probabilmente la differenza tra
loro e gli animali era che loro potevano indossare dei bei vestiti.
Le persone
inciampavano le une sulle altre, i suoi amici vampiri non avevano pietà per
nessuno e il sangue cominciò presto a sgorgare. Kaeso socchiuse gli occhi e
respirò l’aria, compiaciuto.
“Spero di non
sporcarmi il vestito più del dovuto” lo raggiunse la voce di Svetlana, che
guardava la scena stringendo i suoi occhi, talmente chiari da sembrare bianchi,
tutto di lei era accecante.
Kaeso rise. “Lo vedi
come fai tu” scherzò, ripetendo le parole di lei “Devi sempre vestirti bene per queste occasioni”.
Svetlana sbarrò la
strada ad una ragazza che stava ignorantemente tentando di fuggire dalla loro
parte. Aveva un bel fisico nascosto da un abito nero succinto. Ma dove pensava
di andare? Alla veglia del nonno – o bisnonno, o prozio, chissà – o in
discoteca?
Svetlana la tirò
per i capelli e quella urlò con una voce così acuta e squillante che avrebbe
potuto rompere i vetri delle finestre.
“Mi hanno insegnato
a vestirmi bene alle feste” disse la vampira con un sorriso perverso,
accarezzando il corpo della ragazza “Dopotutto si possono fare dei belli
incontri”. Con un gesto e un verso voglioso, le strappò il vestito in
prossimità del ventre e la morse nell’inguine mentre delicatamente la poggiava
a terra e violentemente le toccava le cosce nude.
La ragazza si
dimenò e urlò, guardando, con quella divertente espressione che tutti gli umani
hanno quando hanno paura, il suo stesso sangue, la sua stessa morte.
Kaeso alzò le
spalle. “Ti sporcherai eccome, Sve” disse.
Si lanciò nel
vortice di calore, odore e gusto, tra le grida, i pianti e le risate. Un uomo
aveva ormai la testa completamente staccata dal collo, una donna nuda veniva
morsa in più punti da più bocche fameliche, un uomo stava tentando disperatamente
di salvare sua moglie; i soprammobili, le fotoricordo e tutto il resto caddero
a terra e si imbrattarono di sangue. Feste come quelle erano sempre piaciute ai
suoi seguaci.
La bara si era
capovolta ed Abner era caduto a testa in giù, non più padrone, calpestato e
macchiato del sangue dei suoi cari, nel giorno che doveva onorare la sua
memoria.
Peccato che tu non
possa vederla la veglia del tuo funerale Abner, pensò Kaeso, ti sarebbe
piaciuta. Afferrò dei capelli e morse il collo della donna a cui appartenevano,
il sangue scivolava dolcemente giù per la gola, gli riempiva lo stomaco fatto
di sangue, sangue che si aggiungeva ad altro sangue, in un ciclo infinito di
piacere, dolore, morte, arte… Come una statua, la donna cadde per terra, in una
pozza di sangue, con un’espressione di morte perfetta e in una posizione
perfetta gambe e braccia si appoggiarono al pavimento.
“Eliza!” gridava
qualcuno “Eliza, vieni via! Dobbiamo andarcene!”.
In un lampo Kaeso
fu in corridoio e vide che un ragazzo stava gridando disperatamente alla donna
fulva. Questa era in lacrime, in ginocchio, con le mani che picchiavano ad una
porta.
“Charlene, apri la
porta!” gridava. Si voltò come una furia verso l’uomo. I capelli ramati, mossi,
le si erano appiccicati alla fronte e alle guance, e gli occhi sgranati
lasciavano trapelare un mondo d’orrore. “C’è mia figlia lì dentro, Ralph! Ti
prego! Aiutami!”.
Ralph si passò una
mano tra i capelli, tremante, mentre decideva sul da farsi. Poi fece per
precipitarsi verso Eliza. Voleva buttare giù la porta? Coraggioso il ragazzo.
Kaeso fu più veloce
di lui e gli si parò davanti cosicché Raplh gli finì dritto tra le braccia e
lui lo stritolò in un abbraccio mortale. Sentiva le sue ossa rompersi, lentamente,
in uno stridio così musicale, anche quello così perfetto. C’era così tanta arte
nel mondo… Al ragazzo mancava il fiato per gridare, era la voce della donna
quella che Kaeso aveva così sgradevolmente nelle orecchie. Morse il collo di
Ralph e quello rovesciò la testa. Dopo pochi attimi Kaeso lo lasciò cadere al
pavimento e si voltò verso Eliza. Quella aveva bocca e occhi spalancati –
com’era divertente! – e strisciò fino al cadavere di Ralph con mani tremanti.
“Era un po’ giovane
per te, non ti pare, Eliza?” fece Kaeso, punzecchiante.
Lei lo guardò
mutando espressione. Gli occhi,
nonostante fossero di uno strano verde palude, parveano incendiati e i suoi
capelli color fuoco erano un quadro perfetto e Kaeso non riuscì a pensare altro
se non wow.
In quel momento
però qualcosa dentro di sé esplose, un grumo di sangue si lamentò e un male
atroce gli prese il corpo costringendolo a chinarsi a terra. Dopo pochi secondi
si calmò e si rialzò, ansante, ribollente di rabbia, consapevole di quello che
era appena venuto. In un lampo afferrò Eliza e, ignorando le sue grida, si
precipitò nel salone. Tenendo la donna sollevata davanti a sé senza alcun
sforzo, frugò furiosamente con lo sguardo tutto il pavimento. Bicchieri rotti,
salatini insanguinati, cadaveri e quadri a pezzi… Eccola: una poltiglia viscosa
di sangue e Kaeso sapeva a chi apparteneva, lo gridavano le sue ossa, lo
strillava il suo sangue. Era Warren, uno dei vampiri da lui creati, uno dei più
giovani.
Colmo di rabbia,
cercò il colpevole e nello stesso istante capì che erano stati scoperti. Era
una figura ancor più rossa di Eliza, quella che aveva in mano una pistola e che
stava venendo verso di lui con un’espressione arrabbiata e trionfante allo
stesso tempo.
“Dubris” digrignò
la sua voce tra le zanne.
I vampiri fermarono
le loro bocche e presto sia loro sia gli umani che ancora erano in grado di
muoversi si misero precipitosamente in fuga. Ma non solo Kaeso era sotto il
tiro di una pistola, altri due compagni di Dubris, con i loro gilè blu, avevano
bloccato due seguaci di Kaeso.
“Una volta andavamo
in giro a uccidere quelli come voi con paletti di legno” fece Dubris, con
disprezzo, senza abbassare l’arma “Questa è molto più pratica, e lo dobbiamo
agli umani”.
Kaeso strinse
ancora di più Eliza, anche se non avrebbe mai potuto scappare. Non la sentiva
piangere, ed era strano.
“Finalmente ti
abbiamo beccato, Kaeso!” fece una donna vampiro, alle spalle di Dubris. Doveva
essere Victoire.
Kaeso ghignò. I
suoi compari si stavano facendo ammanettare dai membri della Corporazione.
Erano manette d’argento quelle, e i tirapiedi di Dubris le maneggivanao
cautamente, con le mani rivestite di guanti. Ma lui, no, non si sarebbe
lasciato intimorire. Non gli avrebbero legato le mani!
“Se fai un altro
passo, Dubris, questa donna muore” sibilò, tra le zanne.
“Sparagli”
intervenne subito Victoire.
Sparargli? Il suo
petto era completamente protetto dal corpo di Eliza. Non le vedeva il volto ma
la sentiva respirare affannosamente. Sentiva tutto il suo corpo rigido. Non piangeva,
voleva fare la dura?
“È ovvio che non
posso, Vicky” disse Dubris, lievemente spazientito.
Invece era
abbastanza ovvio che Dubris fosse un tonto.
“Ma guardati
intorno!” sbottò la donna “Siamo un cimitero! Che differenza vuoi che faccia un
morto in più? Se lo lasci fuggire invece ci saranno sempre più morti!”.
Dubris non disse
niente ed Eliza esplose: “Salvate mia figlia! Vi prego!”. Il suo tono era
disperato e fermo allo stesso tempo. Li aveva presi per cacciatori?
“Dov’è?” chiese il
rosso.
Ma prima che Eliza
potesse rispondere, Svetlana apparve dal nulla e con un calcio disarmò Dubris.
Ci furono grida di
sgomento e Kaeso subito ne approfittò per fiondarsi in corridoio. Sentiva la
presenza di Svetlana dietro di sé e in un attimo sfondò la porta del bagno. La
piccola Charlene era lì, con gli occhi blu lacrimanti e la boccuccia incurvato
verso il basso. Non appena vide la madre si mise a urlare e Kaeso afferrò anche
lei.
Svetlana nel
frattempo volò fino alla finestra del bagno e in un lampo di bianco abbagliante
sparì. Kaeso fece per seguirla ma sentì Dubris dietro di sé e subito si voltò,
per evitare che gli sparasse alla schiena.
Aveva ripreso
possesso dell’arma e dalla soglia del bagno lo guardava furioso.
“Mettile subito
giù!” urlò.
“Non credo” ribatté
Kaeso, tranquillo “Lo sai che il sangue dei bambini è quello più buono in
assoluto?”.
“Sparagli!” gridava
Victoire.
Avrebbe colpito la
donna o la bambina, per raggiungere e penetrare il suo cuore?
“Dobbiamo prenderlo, Dubris!”
Ma Dubris era così
pateticamente sentimentale… Tutto quel tempo in compagnia di Acilia gli aveva
fatto male.
“Anche a voi
conviene andarvene, sapete, tra poco arriveranno i cacciatori, quelli veri” disse Kaeso, mentre sentiva il
cuore dei suoi ostaggi battere all’impazzata “E loro non la vedono la
differenze tra me e voi. Sono saggi. La differenza non c’è”.
“Sì che c’è!” gridò
Dubris.
Victoire,
spazientita, alzò il suo braccio, nella mano stringeva una pistola. Sparò un
colpo ma Dubris si lanciò su di lei e il proiettile di legno colpì lo specchio,
sopra al lavandino.
In un frastuono di
vetri e schegge, in un gioco di specchi, tintinnii e pioggia scrociante Kaeso
si librò in aria e vide i volti di Dubris e Victoire allontanarsi sempre di
più. Le loro urla di rabbia erano sempre più lontane e lui fu fuori, in volo,
nell’oscurità del cielo, ancora le due umane urlanti strette al suo petto, e i
denti che sgocciolavano sangue.
Emily si domandava
il perché di tante cose. Scavare nel passato di Jacque le faceva paura, ma
forse solo in quel modo sarebbe riuscita a capirlo. In faccia non gli si
leggeva niente, o era lei che non voleva leggere niente?
Era seduto su
quella vecchia poltrona beige che aveva in camera, assorto, le braccia
penzoloni, le gambe divaricate.
“Vuoi guardare un
film?” tentò Emily.
Lui si riscosse e
la guardò. “Non è un po’ tardi?”.
Già, lei tra poco
sarebbe dovuta tornare a casa. Ma non era lui a doverlo stabilire! Lui sarebbe
stato in piedi tutta la notte, che razza di problema aveva?
Era strano. Da
quando avevano visto Acilia con un uomo, era strano.
Perché quando si tratta di Acilia diventi così strano?
Strano non era la parola più adatta, ma Emily
riusciva a pensare solo a quella. Ce n’erano tantissime altre di parole.
Pensieroso, passionale… assente.
Acilia è un fantasma tra di noi, non è vero, Jacque?
Emily si alzò dal
letto e gli fu di fronte. Lui non disse niente, si limitò a farsi guardare. Un
profilo scolpito nella neve e quegli occhi scuri ma di ghiaccio… Aveva un viso
da ragazzino, ma aveva un’aria così adulta.
Proprio come Acilia…
Gli piaceva, gli
piaceva così tanto! Odiava pensare che non potevano avere nessun futuro. Lei,
così infantilmente volubile, che finiva per rovinare tutto, con ogni ragazzo…
Ora non stava rovinando niente ma lui era troppo, troppo… strano. L’unico che volesse veramente al suo fianco era un
vampiro?! E lui… perché voleva stare con lei? Cosa voleva da lei? Gliel’aveva
mai chiesto?
Sapeva che ci
sarebbe dovuta essere una fine prima o poi, ma non immaginava accadesse in quel
modo, o che accadesse così presto. Lascialo, si diceva, cosa vuoi fare,
innamorarti di lui? Non avevi cominciato per gioco? Lui le piaceva davvero, ma
si comincia ogni volta per gioco. Le aveva detto che poteva lasciarlo, in ogni
momento, quando lei non se la fosse sentita più. Certo, perché per lui era
facile. Lui aveva più di cent’anni, cinque mesi passati con una ragazza se li
sarebbe scordati in un lampo!
Ma poi cos’avrebbe
fatto senza di lui? Mi hai giocato un brutto tiro, Jacque, pensava, mi hai
coinvolto nel tuo mondo, ti sei divertito a fare l’umano e ora… ora dove sei?!
Jacque alzò lo
sguardo e si accorse finalmente di lei. Le sorrise.
E per che cosa sorridi ora?!
Emily inspirò a
fondo. Bastava poco per sciogliere il volto freddo di Jacque, bastava un
sorriso e si riempiva così in fretta di umanità… Un sorriso può fare tanto,
solo se è sincero però.
Mi stai sorridendo davvero?
“Hai poi scoperto
chi era quell’uomo che parlava con Acilia?” chiese. Scavare nel passato di
Jacque, sarebbe stato come scavare nel suo cuore.
Come temeva, il suo
sorriso scomparve.
“È un umano, che
non sa neanche che lei è un vampiro” disse a denti stretti “Sta facendo davvero
l’incosciente”.
Emily si stupì. Non
era certo da Acilia comportarsi in quel modo. Ma Jacque come al solito non si
chiedeva il perché… Si arrabbiava e basta, diventava strano. Quando c’era in ballo Acilia.
“C’è stato qualcosa
tra te e lei, vero?” domandò Emily, facendosi coraggio.
Jacque alzò un
sopracciglio, sorpreso. Esitò e lei intese la risposta.
Allora gli fece
un’altra domanda: “Che cos’è Acilia per te?”. Si sentiva stupidamente vicino
alle lacrime e se lui non rispondeva, non faceva altro che peggiorare le cose.
“Che cos’è ti ho chiesto!” sbottò “Una madre? Una sorella? Una ex ragazza?”. La
voce le si ruppe quando gli lesse la risposta negli occhi ma la lesse ad alta
voce. “Un amore perduto?”.
Si strofinò in
fretta gli occhi, vergognandosi.
Jacque si alzò
dalla poltrona. Fece per avvicinarsi a lei, con le mani protese, ma dovette
ripensarci, perché lei non sentì il suo tocco.
“Abbiamo trascorso
molti anni insieme” disse lui.
Emily annuì e
strinse le labbra. “Quanti?”.
“Non mi ricordo…”.
“Più o meno,
quanti?” insistette la ragazza, cercando di tenere ferma la sua voce. Se solo
fosse stata assolutamente certa che quegli anni di cui parlava Jacque
appartenessero al passato… Ma non era così, non era così!
Jacque si strinse
nelle spalle. “Quasi venti”.
Emily spalancò la
bocca. Venti? Non poteva aver capito
male. Vent’anni… erano tutta la vita umana di Jacque ed erano quasi tutta la
sua.
“Vent’anni” ripeté,
scioccata “Vent’anni!”. La sua voce si era alzata, lo shock l’aveva fatta
riprendere e le aveva ridato sicurezza. “Ti avevo chiesto… ti avevo chiesto se
eri stato insieme a delle vampire! Avevi detto di no… E sei stato insieme ad
Acilia per…”.
“Non ti ho mai
mentito” ribatté Jacque, un po’ rude.
Emily aveva voglia
di prenderlo a schiaffi. Represse il suo malessere e fece per voltarsi, senza
neanche sapere il perché ma lui la prese per un braccio.
“Io e Acilia non
stavamo insieme! Non nello stesso modo in cui stiamo insieme io e te” disse,
con foga.
Emily non si voltò
ma rifletté sulle sue parole. Non si lasciava abbindolare, di che cosa stava
parlando? Come faceva a paragonare vent’anni con Acilia a cinque mesi con lei?
Di che modo parlava?
Si girò e, di
nuovo, inspirò a fondo. “E a te quale modo piace?”.
Lui rimase
spiazzato.
Perché non rispondi?!
Perché non la
rassicurava? Perché non le diceva che voleva lei, solo lei, che Acilia non
aveva più importanza?
Emily si strattonò
e lui la lasciò andare.
Rimase a guardarlo,
tristemente, le lacrime che scorrevano silenziose, come il silenzio che si era
creato tra di loro.
“A volte penso che
se tu mi trasformassi” disse “forse riuscirei finalmente a capire quello che ti
passa per la testa”.
Tirù su col naso.
Si imponeva di non piangere, perché sapeva quanto dava fastidio a Jacque, ma
non ci riusciva. Quel pensiero così assurdo, di diventare vampiro, le era
balenato nella testa quando aveva paura. La paura è una forma di difesa, le
avevano spiegato, ma la paura fa fare cose stupide, è un’arma a doppio taglio.
“Però non lo vorrei
mai” continuò “La verità è che non sono disposta a rinunciare a niente di
quello che ho per te, la mia famiglia, i miei amici, il mio lavoro… Niente…”.
Jacque aveva
aggrottato la fronte, la guardava con dispiacere. No, non erano quelli gli
occhi dell’amore.
“E tu non sei
disposto a rinunciare alla tua vita precendente” proseguì lei “Non mi farai mai
entrare completamente nella tua vita…”.
Lui fece per aprire
la bocca ma Emily, con un singhiozzo, si sforzò di concludere: “E allora… come
si fa a stare insieme così?”.
Era dunque arrivata
davvero la fine?
“Emily, ma che stai
dicendo?” fece Jacque, le sopracciglia inarcate “Io non ti chiederei mai di
rinunciare alla tua vita per me!”.
Lydia le diceva che
l’amore vero era quello disinteressato, era voler vedere l’altra persona
felice, in qualunque modo e a qualunque prezzo. Ma, in qualunque modo e a
qualunque prezzo, quando amavi non volevi anche tenere l’altra persona tutta
per te? Forse era lei che amava nella maniera sbagliata, egoista e gelosa. Ma
perché ora parlava di amore? Sentiva un sentimento che germogliava dentro di
sé, quando guardava Jacque, quando lo toccava, ma soprattutto quando non c’era,
quando era assente, proprio come in quel momento. Perché le mancava davvero
tanto.
“Vado a casa”
disse, senza voler aggiungere altro.
Si voltò senza
guardarlo e fece per andarsene ma lui, di nuovo, la trattenne.
“Non ci vai a casa
da sola” disse, tenendola ferma per un braccio.
Emily inghiottì la
rabbia, ma quella le risalì per la gola e lei si voltò, senza riuscire a
tenerla a freno.
“Ti ho chiesto che
cos’è Acilia per te! Se ancora non mi vuoi rispondere, puoi risparmiarti di
accompagnarmi!”.
Jacque la lasciò
andare e sospirò.
“Acilia è stata
importante per me” disse, con voce bassa e controllata “Ma lei mi ha
trasformato in quello che sono… Che senso ha mi chiedo?”. Fece una pausa ed
Emily percepì un grande malessere, che proveniva da lui, che era dentro di lei,
era terribile. “Quello che tu non capisci” continuò lui “non ha senso neanche
per me. Era un amore malato e ho provato a guarire”.
Aveva usato la
parola amore, a Emily non importava sapere altro.
“Hai usato me per
provare a guarire” disse, con lo sguardo basso. Si sentiva il volto in fiamme e
gli occhi erano di nuovo umidi.
“Tu mi piaci,
Emily!” replicò Jacque “Io ti voglio bene davvero!”.
Amare però è
diverso, pensò lei amaramente.
La gelosia che le
infuocava il cuore, che batteva, che pompava sangue fino al suo viso, che era
rosso di umiliazione, che le scendeva dagli occhi, lacrime aspre e inutili.
In ogni coppia, in
ogni relazione, c’è sempre qualcuno che si innamora per primo, cosa c’era di
male se era capitato a lei?
Ma se io ti aspettassi, ti innamorerai mai di me,
Jacque?
A quale scopo,
pensava poi, a quale scopo! Cosa ti aspetti da lui?! Non doveva succedere, ed
era successo.
Scrollò le spalle e
disse: “Andiamo”.
Insieme uscirono
dalla stanza. Lui l’accompagnava perché le voleva bene, perché era preoccupato
per lei, perché si sentiva responsabile di lei. Non per altro.
Era arrivata
davvero la fine?
La verità era che
quando aveva iniziato la relazione con Jacque era attratta dalla novità e da
quello che lui rappresentava. Era forse scioccamente attratta dall’idea che un
vampiro – un essere che tutti temevano! – provasse qualcosa per lei.
Non pensava si
sarebbe innamorata, non lo pensava nemmeno in quel momento, all’inizio non lo
si pensa mai, all’inizio neanche ce ne si accorge.
Francia, 1920
Quanti uomini aveva
ucciso? A volte Jacque cercava di contarli, voleva imprimere i loro volti nella
sua mente. Acilia gli diceva che in quel modo si faceva solo del male, ma lui
non riusciva ad evitarlo. Gli uomini che aveva ucciso in guerra, quelli non
poteva ricordarseli. Sentiva la sensazione di dover riparare qualcosa, di dover
dare un senso a quello che faceva.
Ma il primo uomo
che aveva ucciso, quello se lo teneva stretto, stava attento a non lasciarlo
andare, come fosse un primo amore. Il paragone era macabro ma era questo che
voleva, ricordare. Perché, per quanto
volesse rimuovere tutto dal suo corpo, ogni sensazione, ogni immagine, ogni
paura, dimenticare era la cosa più spregevole, sarebbe stata solo un’altra cosa
orrenda – così effimera ma così terribile – da aggiungere al cumulo macerato
della sua vita, violenta e ingiusta.
Era un ragazzo, il
primo uomo che aveva ucciso. Lui aveva compiuto da poco diciotto anni e senza
neanche fargli fare dell’esercizio, l’avevano cacciato subito in quel marasma
che era la guerra. La situazione era disperata, i ragazzi appena entravano in
età militare venivano subito mandati al fronte. Sua madre, Jacque la ricordava
bene mentre piangeva e pregava che almeno uno dei suoi figli, il più piccolo,
Jacque, non andasse in guerra… Che la guerra finisse prima dei suoi diciotto
anni! Camille, la figlia più grande, le diceva che anche se la guerra non fosse
finita, non avrebbero certo potuto mandare Jacque subito al fronte. Ci volevano
anni di esercizio militare prima di poter combattere davvero! Era sempre stata
molto razionale e logica, Camille. Jacque la ricordava serrando i pugni e
stringendo gli occhi, l’espressione dolce ma sicura del suo viso. Non aveva
avuto ragione e Jacque era dovuto partire subito, in fretta e furia! Non le
aveva salutate per bene: sua madre, Camille e la piccola Ginette. Quando era
partito, pieno di lacrime e col cuore in gola, lo sapeva che probabilmente non
sarebbe più tornato, e lo capiva ora perché Simon, il suo fratello più grande,
piangeva quando era partito, mentre lui aveva il cuore gonfio di speranza,
insieme alla tristezza.
E così era stato,
non era mai tornato a casa, esattamente come quel tedesco che aveva ucciso. Era
la sua punizione. Era un ragazzo anche lui, quel primo tedesco che aveva
ucciso, era uguale a lui, forse anche lui aveva diciotto anni, forse ne aveva
di più, era difficile capirlo. Erano così coperti, mascherati, dalla divisa,
dall’elmo, dalla fuliggine e la sporcizia. Ricordava solo i suoi occhi così
azzurri, che spiccavano tra il nero, il bianco e il rosso della pelle che si
mescolavano. Era uguale a lui, semplicemente era tedesco. E l’aveva ucciso
perché doveva farlo.
Quel tedesco
l’aveva accompagnato in ogni morte che aveva successivamente visto, lo
accompagnava ancora, quando qualcuno gli moriva tra le braccia, non perché
fosse tedesco, austriaco o bulgaro, ma perché era il suo cibo. Non sapeva quale
condizione – o motivazione, se si poteva
chiamare così – fosse peggio, non lo sapeva, ma i pensieri lo tormentavano, i
ricordi si mescolavano, i rimorsi, macchiati di sangue, continuamente.
Anche ora, che era
seduto ad un tavolo di legno con quel pennino in mano – affianco a lui c’era l’inchiostro – non
riusciva a concentrarsi. Non l’aveva mai neanche avuto un tavolo tutto per lui,
era così strano.
Si era tagliato i
capelli e rasato la barba. Non sarebbe cresciuta, mai più… Ma odiava avere la
barba continuamente increspata di sangue: ora si sentiva… pulito. Pulito, che ridere.
Aveva un fiume di parole
nella mente che avrebbe voluto scrivere, ma come si faceva? Lui sapeva leggere,
poco ma sapeva leggere. Sua madre lo aveva pregato di mandar loro delle lettere
dal fronte e lui così aveva fatto. Camille, l’unica della famiglia che aveva
imparato a leggere e a scrivere in maniera sufficiente, leggeva le lettere alla
madre e alla sorella, e rispondeva per conto di tutte e tre, in un francese
elementare, che Jacque si sforzava di capire. Jacque rispondeva, ma a scrivere
era un disastro. Le lettere le confondeva, non riusciva a imprimere la parola
che aveva in mente sulla carta, non aveva lo stesso suono se la leggeva. Aveva
imparato qualche formula tipo Sto bene,
a volte se aveva cose più articolate da dire chiedeva a qualche suo compagno di
scrivere per lui.
Acilia ora voleva
che imparasse a scrivere e a leggere per bene. Jacque non aveva capito se lo
riteneva davvero necessario o era solo un modo per trovargli qualcosa da fare.
In ogni caso lui le era grato, a scuola non ci andava da dodici anni, non ricordava
più nulla. Però scrivere era così difficile… Come si fa a trasportare tutte le
parole della mente sulla carta? Com’era possibile?
Sentì dei passi e
la porta di casa si aprì.
Quella era una casa
in cui non viveva più nessuno. Ce n’erano tante, dopo la guerra.
Jacque si voltò e
vide Acilia che entrava, con un’espressione stanca.
“Come va?” gli
chiese lei.
Bella domanda,
pensò lui. Cosa glielo chiedeva a fare? Non poteva prendere il posto di sua
madre né di sua sorella.
Lei gli si avvicinò
e vide il foglio di carta completamente bianco. Sospirò e si sedette di fianco
a lui. Era stata con quelli del suo partito, supponeva Jacque. Era sempre più
stanca e triste. Al potere c’era il PO, gli aveva spiegato, ed era un male.
Erano quelli che volevano uccidere e mangiare senza preoccuparsi di nulla.
Erano stupidi, dopo due anni di allenamento Jacque cominciava a capire come si
potesse fare per trattenersi. Bisognava solo fare un fottuto sforzo.
“Prova a scrivere sangue” gli disse Acilia.
Lui la guardò in cagnesco.
Lo faceva apposta?
“Che c’è?” si
difese lei.
“Ne ho abbastanza
di sangue” sbottò lui.
Acilia fece un
sorrisetto. “Oh, non credo”.
Jacque si alzò dal
tavolo, arrabbiato. La odiava, sì, la detestava!
Lei si alzò con lui
e lo trattenne.
“Ehi, Jacque,
scusa. È la prima parola che mi è venuta in mente”.
“Chissà perché”
borbottò lui.
Acilia gli
accarezzò un bracco. “Jacque, ti prego. Smettila di tormentarti. Impara a
scrivere, concentrati su qualcosa, non lasciare che i brutti penseri abbiano la
meglio”.
Jacque alzò un
sopracciglio e le diede le spalle. A volte aveva l’impressione che Acilia si
sentisse in colpa per averlo trasformato. Lei predicava una possibile
convivenza tra umani e vampiri, che cosa stupida. Era tutto inutile, perché
doveva concentrarsi e stare buono mentre lei cercava di raggiungere
l’impossibile?
“Hanno già la
meglio”.
“I pensieri sono
pericolosi” disse lei, seria “Ti si annidano dentro e ti fanno fare cose
orribili”.
Jacque scrollò le
spalle. “Ho già fatto cose orribili”.
In un lampo – era
dannatamente veloce – Acilia gli fu davanti e gli puntava un dito contro. “Tu
non hai idea di cosa voglia dire fare cose orribili, solo perché sei un vampiro
non vuol dire che tu sia orribile!”.
Molto carino da
parte sua, considerato che lui era un vampiro per colpa di lei. Ma allora
perché continuava a stare con lei sotto lo stesso tetto? Non la odiava? Beh,
del resto, senza di lei cos’avrebbe fatto?
Le diede le spalle
di nuovo, sperando che lo lasciasse in pace. Gli era sempre così addosso! Creatrice
si definiva, madre. Una madre alquanto apprensiva!
“Jacque, ascoltami,
per favore” disse lei.
Lui sbuffò e si
voltò di nuovo a guardarla. Odiava lei o odiava quello che lui provava quando
la guardava? Perché a volte lei gli faceva tenerezza, a volte provava affetto per lei. A volte la maschera
fredda e disumana spariva e lui si trovava davanti a una ragazza triste, sola,
bella.
“Lo sai come siamo
appena veniamo trasformati?” disse lei “Siamo come animali. Andiamo in cerca di
cibo e, senza capire neanche come, uccidiamo, beviamo tutto il sangue che
troviamo in una persona!”.
Fece una pausa e
lui non disse nulla.
Lei proseguì: “Tu
non sei stato così. Sei l’unico vampiro che conosca che non si è nutrito nelle
sue prime due notti. Due notti, Jacque! Non volevi nutrirti,
non volevi bere il sangue di nessuno!”.
E questo che cosa
voleva dire? Aveva notevolmente recuperato poi. La sete non l’aveva fatta
sparire, l’aveva solo accantonata e quella era creciuta.
“E in due anni hai
fatto notevoli progressi!” continuò Acilia, infervorandosi “Hai un grande
autocontrollo, e questo è perché sei davvero buono”.
Jacque sbuffò. Se
fosse stato davvero buono si sarebbe
fatto ammazzare alla prima occasione in guerra. Non avrebbe lottato con le
unghie e con i denti per poter sopravvivere, non avrebbe avuto il coraggio di
sparare su nessuno!
“Un vampiro buono,
un bel contrasto” disse lui, con amarezza “Pensavo fossi anche tu un vampiro
buono”.
Acilia scrollò le
spalle. “Forse lo sono diventata, ma il mio in origine non era affatto un animo
buono come il tuo”.
Jacque non capiva.
Era lei che gli aveva insegnato a non uccidere per mangiare. “All’inizio avrai
ucciso, come abbiamo fatto tutti, no?” fece. Che differenza c’era? Erano tutti
buoni trasformati in qualcosa di cattivo che, solo col tempo, forse, poteva
riprendere le sue antiche tracce di umanità.
“Uccidere non è
abbastanza, Jacque, non è abbastanza per definire quello che ho fatto” disse
lei, stringendosi nelle spalle.
Ecco, erano in quei
momenti, che sembrava così piccola e fragile…
Lui le si avvicinò,
un po’ confuso. “Forse è solo perché non avevi accanto qualcuno che ti diceva
come fare a gestire la situazione, come io ho te”.
Nel momento in cui
pronunciò le parole io ho te, quelle
stesse parole gli sembrarono strane, gli rimasero sulla lingua, come un sapore
che non riusciva a identificare.
Lei fece un piccolo
sorriso e alzò lo sguardo verso di lui.
Jacque sentì che
voleva sapere qualcosa in più sul suo conto. Del resto, perché fingere di
odiarla? Lei era qualcosa che vagamente si avvicinava a una famiglia. Poteva
comprenderlo più di chiunque altro.
“Quali sono queste
cose orribili?” chiese.
Il piccolo sorriso
di Acilia sparì, così come l’incanto. Il suo volto tornò fermo e immobile, come
quello di una statua.
“Un giorno ti dirò
cosa ho fatto” disse solo.
Jacque non la
voleva lasciare andare, odiava ammetterlo ma voleva aggrapparsi a qualcuno, a
volte pensava di volersi aggrappare proprio a lei.
È lei che ti ha
trasformato, si diceva, è a causa sua che non potrai più rivedere tua madre e i
tuoi fratelli!
Ma anche lei era
stata trasformata, come lui, anche lei aveva sofferto, come lui.
“Beh” disse “lo sei
diventata, buona, per poter credere che vampiri e umani possano convivere”.
Acilia sgranò un
pelo gli occhi. Erano molto belli. Erano spenti e luminosi allo stesso tempo,
un contrasto anche quello, come lo era lei stessa, come si sentiva lui stesso.
“Credi che sia una
sciocchezza, vero?”.
Jacque esitò. “Sì”.
Lei non disse
niente e lui si affrettò ad aggiungere: “Credo che sia giustissimo non uccidere
e combattere contro il PO, come stai facendo ma…”.
“Si accorgeranno
della nostra esistenza prima o poi” disse lei, decisa “E ci combatteranno!
Dobbiamo trovare un modo per far capire loro che…”.
“Non è possibile”
la interruppe Jacque, più rude di quel che avrebbe voluto essere.
Se sei così buona, Aci, perché mi hai trasformato?
“Umani e vampiri
non potranno mai convivere pacificamente” concluse lui.
Perché diceva così?
Allora la voleva ferire.
Lei, come una
bambina spaesata, non capiva. Come poteva tramutarsi da severa e autoritaria a
così dolce e confusa?
Per lui, lei era
così… inspiegabile.
Però glielo disse,
non poteva negarlo. “Perché noi ci nutriamo di loro, Aci”.
Acilia strinse le
labbra e annuì lentamente. Abbassò lo sguardo. Lei era così vecchia, così
grande e importante e… Perché Jacque sentiva il bisogno di proteggerla? Era
così assurdo, voleva proteggere colei che lo proteggeva, e anche lo dannava, al
tempo stesso…
Le prese le mani e
la condusse al centro della stanza. Lei, le sopracciglia inarcate, si lasciò
portare e lui portò avanti un piede, costringendo lei a muovere i suoi.
Improvvisò un ballo, così stupido senza musica. Non sapeva scrivere ma sapeva
ballare un poco. Gliel’aveva insegnato Camille da più piccoli, gli diceva che
se sapeva ballare un po’ avrebbe conquistato un sacco di ragazze.
Quanta nostalgia…
“Che stai facendo?”
chiese Acilia, dopo un po’, continuando a seguire i passi.
“Tra noi possiamo
essere umani, per un po’, qualche volta” disse lui, con un lieve sorriso.
Acilia non l’aveva
mai guardato così come stava facendo ora. La pelle bianca, gli occhi verdi e le
labbra rosse; Jacque provava un misto di sensazioni indicibile. Sorpresa,
paura, irretimento, sospensione. Era sospeso insieme a lei, in un mondo che
stava tra l’umano e il mostro.
Si avvicinò al suo
viso e lei non si allontanò.
Se una ragazza non
si allontana, diceva Camille, vuol dire che ti dà il permesso!
Gli veniva da
ridere e fu col sorriso che baciò Acilia. Era un bacio freddo, come se lo
aspettava, ma era un bacio che voleva, e del resto lui era un uomo, tutto il
suo corpo era in fermento mentre si avvinghiava a lei e la toccava. E lei lo
lasciava fare, ma aveva un’espressione triste. Lo notò quando entrambi si
poggiarono sul pavimento, prima di ricominciare a intrecciarsi. Aveva proprio
un’espressione triste.
*
La tensione era
tesa intorno a quel tavolo.
Dubris aveva la
testa tra le mani e Victoire un’espressione di orgoglio arrabbiato. Lyuben
aveva detto che le cose non andavano così male. Perlomeno ora avevano la prova
schiacciante che Kaeso andava arrestato. Non era più il segretario del PO, non
poteva più esserlo. Non si era più presentato alla Rappresentanza, ovviamente,
era un fuggitivo, come tutti coloro che erano riusciti a fuggire quella notte
in quella palazzina. Ora potevano davvero fare di tutto per fermarli.
“Ora però è più
difficile” obiettò Victoire, con un velo di disprezzo “Perché non sappiamo dove
si trovi. Era un po’ più facile quando lo vedevamo tutte le settimane”.
“Vicky” intervenne
Ramona, stancamente “Le cose sono andate come sono andate”.
“Avreste potuto
ucciderlo” fece Luca, con una smorfia “La questione poteva già essere risolta”.
Lyuben fece per
aprire bocca ma Victoire, infervorandosi, prese di nuovo la parola: “Abbiamo
avuto la fortuna di coglierlo in
flagrante! Non capiterà mai più, mai più!”.
Dubris aveva ancora
il volto nascosto e Acilia gli accarezzò un braccio. Lo comprendeva, eccome se
lo comprendeva. Ma c’era sempre gente che pensava che il mondo fosse nero o
bianco, che riusciva a prendere sempre una decisione in fretta, che si
convinceva che fosse quella giusta.
Dubris aveva
lasciato scappare Kaeso perché aveva due ostaggi. Colpirlo avrebbe voluto dire
uccidere uno dei due.
“Credi di aver
salvato due vite, Dubris” sibilò ancora Victoire “Ma in realtà ne hai
condannate a morte centinaia!”.
Dubris riemerse, il
volto pallido e gli occhi scintillanti nel loro color rame, ancora più acceso
del solito.
Aveva il volto
contratto in una smorfia di insofferenza. “Non ne ho avuto il coraggio, va
bene?” fece, a bassa voce, come se si stesse trattenendo dal gridare.
“Perché sei debole”
sbottò Victoire “Uccidiamolo, dicevi! Dobbiamo fermarlo, dobbiamo ucciderlo!
Hai le idee chiare, non è vero?”.
Qualcosa dentro
Dubris parve esplodere e lui batté le mani sul tavolo. “Se l’avessi davanti in
questo momento non esiterei un secondo a sparargli! Teneva in braccio una
bambina! Una bambina!”.
“Sei così stupido,
quella bambina avrebbe preferito essere colpita da un proiettile piuttosto che
essere prosciugata da un maniaco psicopatico!”.
Il viso di
Victoire, incorniciato in corti e precisi capelli castani, emanava convinzione
da tutti i pori, Luca annuiva vigorosamente e Dubris venne sconfitto. Le sue
sopracciglia si incurvarono e il suo sguardo di abbassò mentre mormorava: “Lo
so, lo so…”.
“Non ne avevi il
coraggio?” continuò Victoire, velenosa “Benissimo! Ce l’avevo io, l’avrei fatto
io! Ma tu mi hai fermata!”.
Dubris aveva ancora
gli occhi fissi sul tavolo. “Perché tu devi stare sotto i miei ordini” mormorò.
“Come?”.
Lui alzò la testa
ed esclamò: “Perché sono io che comando la Corporazione inglese!”.
Victoire esitò e
lui si voltò verso Luca, arrabbiato: “E non sopporto di venire criticato da uno
che faceva parte del PO!”.
Tutti tacquero,
finché Lyuben non si schiarì la voce e intervenne: “Se avete finito, col vostro
permesso, vorrei discutere di cose più serie”.
Victoire lo guardò
male e Dubris parve confuso.
“Sì” insistette il
biondo “Parlare di quel che è stato non è
utile. Comunque” il suo sguardo piroettò sulla donna “Anch’io probabilmente
avrei fatto lo stesso sciocco errore di Dubris, Vicky, ma in ogni caso è lui il
prefetto, puoi consigliargli, puoi confrontarti con lui. Ma ricordati di stare
al tuo posto”.
Lei non disse
niente, il volto cereo e impassibile.
Lyuben si rivolse a
Dubris, in maniera eloquente. “E se rinvangare faccende di una settimana fa non
ha senso, ha ancora meno senso parlare di ciò che è stato un secolo fa”. Si
riferiva evidentemente a quello che lui aveva detto di Luca.
Lui annuì, serrando
le labbra.
Dopo un po’ disse,
piano: “Non ci sono delle possibilità che la donna e la bambina siano ancora
vive, vero?”.
“No” rispose secca
Victoire.
“Temo di no,
Dubris” rispose Lyuben “Kaeso le ha usate solo per fuggire. Non credo proprio
si faccia impietosire”.
Acilia invece
temeva che Kaeso potesse fare ben di peggio a quelle due umane che ucciderle,
ma non disse niente. Non diceva mai niente.
“D’accordo” fece
Luca “Come ci organizziamo per cercarlo?”. Il suo volto vagò da Lyuben ad
Acilia. Certo, una volta erano loro due che prendevano le decisioni.
“Era in
Inghilterra” disse Ramona “Ma suppongo che ora potrebbe essere ovunque”.
“Contatterò le
Corporazioni di tutte le nazioni” disse Lyuben “Ognuna setaccerà la propria
zona, manderò qualcuno anche nelle Americhe”.
“E noi?” chiese
Luca.
“Faremo
altrettanto”.
Gli occhi azzurri
di Lyuben si posarono su Acilia e si strinsero. Lei si sentì in dovere di dire
qualcosa. Del resto anche lei avrebbe tanto voluto acciuffare Kaeso. “Si
potrebbero interrogare gli umani” disse “Se vedono o sentono qualcosa, o se
qualcuno a loro vicino viene ucciso da un vampiro. Potrebbero darci delle
piste”.
Le sopracciglia di
Luca si erano alzate tantissimo. “Sì, andiamo da un umano e ci presentiamo…
Salve, sono un vampiro buono, sto
cercando di acchiappare uno dei cattivi,
mi daresti una mano?”.
“Non c’è bisogno di
presentazioni” ribatté Acilia. Sarebbe stato bello, se umani e vampiri avessero
imparato a collaborare. Era quello per cui si era battuta per secoli e secoli,
no? La convivenza tra umani e vampiri. Jacque le diceva che era una cosa
impossibile, lui che non aveva trascorso neanche un anno di quello che aveva
passato lei, ma lei gli aveva creduto, semplicemente.
“Potrebbe servire
invece” disse Victoire “Data la situazione disperata, tutto è utile”.
“Anche guardare i
telegiornali” aggiunse Dubris “Strage come quella della settimana scorsa non è
passata inosservata… Ce ne saranno altre, e ci possono dare dei riferimenti”.
Ognuno disse la
propria idea nell’ora che trascorse. Acilia sentiva che forse non avrebbe più
potuto credere a quello che diceva il PPC, ma Kaeso andava fermato, lo doveva
fermare…
A fine riunione,
Lyuben disse a Ramona di andare avanti e si accostò ad Acilia. Quest’ultima ne
fu sorpresa ma fu ancora più sorpresa dell’ansia che scoprì di avere. Cosa
voleva dirle Lyuben? E perché quell’improvvisa paura? Non erano forse amici da
secoli? Eppure… Lei si definiva amica di Dubris, di Ramona. Con Lyuben le cose
erano sempre state più strane, più misteriose.
Ma il vampiro fece
la cosa che lei meno si aspettava. Le porse una busta.
Acilia lo guardò
con aria interrogativa.
“Una volta ti dissi
che ognuno ha i suoi segreti, ricordi?” le disse lui.
Lei si sforzò di
ricordare e fece un accenno di sorriso. “Hai la tua solita grande memoria,
Lyuben”.
Lui tese in avanti
la lettera, con un’espressione che non era la sua solita.
“Qui dentro c’è il
mio segreto” disse. Lei sgranò gli occhi ma lui non aveva ancora finito. “E
anche il tuo”.
Acilia, prima di
pensarci un attimo, gli strappò la lettera di mano, con una strana sensazione.
Lyuben aveva gli
occhi ridenti, ma la bocca rimase seria. “Ti chiedo però di leggera questa
lettera solo quando avrai preso una decisione”.
Acilia si sentiva
stordita… Possibile che Lyuben… Di che decisione parlava?
“Quale decisione?”
domandò, confusa.
Lui le si avvicinò
e sussurrò: “La più importante della tua vita”.
Acilia si guardò
intorno. Nella sala non c’era più nessuno, perché Lyuben aveva sussurrato?
“La più
importante…” rifletté lei ad alta voce “Quando deciderò di morire?”.
Lyuben lasciò
intendere la sua risposta e fece un cenno col capo. Le sue labbra si distesero
in un sorriso misterioso e si allontanò.
La ragazza si
affrettò a infilare la lettera in una tasca e anche lei uscì.
Trovò Dubris in
corridoio, che la guardava spaesato.
Lei subito stette
sulla difensiva. “Non lo so, io…”.
Ma lui la
interruppe. “Aci, secondo te ho sbagliato?”.
Acilia rimase a
bocca aperta. Squadrò il viso di Dubris. Era chiaro che era avvolto da una nube
di suoi pensieri. Ed era strano, vedere il suo vecchio amico così insicuro.
Probabilmente il
Dubris di una volta avrebbe saputo cosa fare, ma quella vita li aveva
ammorbiditi tutti. Erano sempre più vecchi, la loro vita da classico vampiro
era lontana e loro erano sempre più svigoriti.
“Hai fatto quello
che ti sentivi” gli rispose, dopo un po’ “Non è sbagliato”.
“La verità è che
non volevo assumermi la responsabilità della morte di un umano” disse lui “Perché
lo sapevo che sarebbero morte comunque, solo che non volevo ucciderle io. E ora
moriranno sotto atroci dolori perché io sono stato egoista e codardo”.
“Non è vero”
replicò Acilia, cercando di togliersi dalla testa il pensiero della lettera di
Lyuben “Non è solo perché non volevi assumerti la responsabilità, se no non
avresti sventato il colpo sparato di Victoire”.
Dubris si
mordicchiò il labbro e lei continuò: “Quando hai davanti un innocente, e devi
decidere in un minuto del suo destino, è normale che si pensi di salvarlo. È
una cosa che agli umani viene automatica. Non è né giusto né sbagliato, è umano”.
Dubris fece un
sorrisetto. “Interessante teoria, sono umano”.
Acilia aggrottò la
fronte, poi fece per andarsene ma lui parlò ancora: “Me lo spieghi perché non prendi
una posizione?”.
Lei si stupì. “Cosa
intendi?”.
Dubris resse il suo
sguardo. Non era un volto duro, solo ansioso di sapere. “Sei tornata nella
Rappresentanza, ma non sei tornata davvero. Sei assente”.
Leggi questa lettera quando avrai preso una decisione.
“Beh, perché me
n’ero andata lo sapevi” ribatté lei con un certo nervosismo.
Erano passati dieci anni dalla trasformazione di
Jacque. Acilia a volte se ne pentiva. A volte pensava che avrebbe potuto
lasciarlo andare e basta. Se avesse detto in giro di aver visto un vampiro, chi
gli avrebbe creduto? Ma d’altronde sapeva che non poteva comportarsi così. Se
tutti loro l’avessero fatto, ora ci sarebbero stati centinaia di umani
dichiaranti di aver visto un vampiro. E a centinaia di umani, dopo un po’, si
crede.
Altre volte invece, era contenta di averlo fatto. Le
piaceva la compagnia di Jacque. Si baciavano, facevano l’amore. Lei gli aveva
detto che era meglio mantenere le distanze, come se davvero fossero madre e
figlio, e quello fosse un rapporto incestuoso, ma finiva sempre per cedere.
Aveva paura di quello che provava lui, e anche di
quello che provava lei. Aveva paura che le cose precipitassero, che lei non
riuscisse più a controllarle. Aveva paura dell’effetto che lui le faceva.
Perché si era ritrovata a prendere quella decisione, tutti quei secoli passati
a lottare, le parole di Marco cancellate da un vampiro di dieci anni?
La verità è che lui aveva ragione, e che lei era
stanca. Non aveva più voglia di lottare. Quel presidente li avrebbe fatti scoprire.
Gli umani avrebbero avuto paura, li avrebbero cacciati, come si fa con gli
animali. E che cosa poteva farci lei? Passavano i secoli, e la convivenza nella
quale credeva era sempre più lontana.
“Sei davvero convinta di quello che hai fatto?” le chiese
Dubris, arrabbiato.
“Sì” rispose lei. Aveva appena detto a tutti che
lasciava la Rappresentanza, dichiarando che non ci credeva più. Nessuno l’aveva
presa bene. Ramona era sconvolta, Lyuben amareggiato. Quello che aveva reagito
peggio di tutti però era Dubris.
“È per via di Jacque, non è vero? Da quando c’è lui,
sei strana”.
Acilia non disse niente, lasciando intendere la
risposta.
“Diventare creatori è una cosa che ti cambia, certo, ma
non pensavo che ti…”. Dubris si trattenne, serrando i pugni, per non essere
volgare, immaginò Acilia.
“Non sarà per sempre, potrei tornare” disse “Ma ora
voglio occuparmi di lui”.
“Sì ma qui non si
tratta di combattere per un posto nella società, quello è passato in secondo
piano, no?” fece lui “Stiamo combattendo contro Kaeso. Mi ricordo il tuo
fervore quando abbiamo combattuto contro Camelio! Dov’è finito?”.
Acilia aprì la
bocca ma non ne uscì niente. Rimase a guardare gli occhi accusatori di Dubris.
Non erano accusatori, solo che… Beh, per lei lo erano. Si sentiva sotto accusa,
ecco perché non diceva mai niente!
Perché sembra che non te ne freghi più un cazzo?
Ma nessuno
l’accusava, era tutto dentro la sua testa.
Quando avrai preso una decisione…
“E mi dici che io
sono umano” continuò Dubris, scuotendo la testa e con un mezzo sorriso “Riesci
sempre a dire la cosa giusta, quando vuoi, eh?”.
Acilia si sentì
ferita. Non lo voleva più ascoltare. Dubris non aveva il diritto di fare così!
Lui aveva lo
sguardo nel vuoto. “Sono così stanco di essere preso in giro da te”.
Lo disse in un
sussurro. No, non aveva il diritto.
“Scusa” disse
subito dopo, socchiudendo gli occhi. Lo sapeva anche lui di non averlo.
“Dubris, mi
dispiace” fece lei “Io invece sono stanca di vivere, e non voglio
complicazioni, nella mia testa… non c’è più spazio per niente”.
Dubris non disse
niente, neanche la guardava.
“Ma sono qui per
combattere insieme a te. Lo fermeremo insieme, ce la faremo” disse ancora lei.
Ti prego, pensava,
ti prego, Dubris, non odiarmi anche tu.
Ma ciò che lui
provava, doveva averlo accantonato in un angolo. Dopo così tanto tempo, l’amore
assume una diversa prospettiva, così come la vita.
La guardò senza
sorriso e annuì.
Insieme si
avviarono verso l’uscita.
Lesse un’acuta gelosia negli occhi di Dubris, insieme
alla rabbia, il risentimento e la delusione. Gli occhi dei vampiri sono
inespressivi, ma a forza di starci vicino impari a conoscerli, impari che non è
vero.
Jacque le piaceva più di Dubris. Gli voleva così tanto
bene, avrebbe anche potuto innamorarsi di lui.
Ma quello che provava per lui non era uguale a quello
che aveva provato per Miguel, ma a quello che aveva provato per qualcun altro.
E questo la spaventava, troppo.
In gran ritardo rispetto ai miei standard ma ci sono! Ci ho messo tanto
a scrivere questo capitolo per impegni vari ma, avendo più
giorni per rifletterci (sotto la doccia, in corriera, a letto prima di
addormentarmi..) devo dire che non è venuto male, sono
abbastanza soddisfatta u.u
Lo
splatter vi è piaciuto? XD Il mio ragazzo mi ha fatto
appassionare a telefilm come True Blood e The Walking Dead, mi fanno
male.. XD no comunque, se si parla di vampiri un po' di splatter ci
vuole, se no andiamo a pettinare le bambole u.u Ad ogni modo, credo di
essere stata nei confini del mio rating, senza sfociare nel rosso.
Nene,
grazie mille :) sono contenta che la storia di Jacque ti sia piaciuta,
e che ti abbia fatto provare compassione.. Sì, è stato
proprio sfigato, ma d'altronde devo dire.. chiunque venga trasformato
è proprio sfortunato.. Mi dispiace invece che tu non riesca a
comprendere quello che prova Acilia XD Io cerco di riprodurre una
specie di flusso di coscienza all'italiana (molto diverso da quello del
caro Joyce), quindi non prendere sul serio tutti i suoi pensieri.. Se
noi andassimo in giro con tutti i pensieri idioti che abbiamo in mente
scritti sulla fronte saremmo tutti dei cretini XD Inoltre di far fare
il patto del sangue a Curtis l'ha pensato in maniera molto ironica e
sarcastica; per il resto.. credo la comprenderai meglio verso gli
ultimi capitoli, certe cose le lascio ambigue e "strane" apposta ;)
Curtis che ti fa più paura di Kaeso lo capisco XDXD E' un
personaggio che non si riesce a inquadrare! I progetti di Kaeso sugli
artisti infatti sono inattuabili, serve giusto per sottolineare la sua
pazzia XD
Norine,
non ti preoccupare se tralasci dei capitoli, l'importante è non
sparire per sempre T.T Ha così pochi lettori questa storia che
cerco di tenermeli stretti XD Che Jacque capisca qualcosa di più
su se stesso.. temo che leggendo questo capitolo ti risponderai da sola
XD grazie mille per la recensione :)
Sara,
molto contenta che ti sia piaciuto il doppio piano tra presente e
passato. Ormai descrivere la trasformazione di ognuno dei protagonisti
è diventato scontato, cerco sempre degli espedienti per farlo
ogni volta in maniera un po' "diversa" XD Un punto di incontro tra
Acilia e Jacque.. ehh è difficile, vedrai vedrai.. Certo che
puoi dire che Jacque è truloso, è tristemente truloso, e
lo è di più nel passato che nel presente immagino XD
Ahahaha Curtis sfuggiva dalla routine e andava a caccia di ragazze, ma
poi scoprì che non importava più perché aveva
trovato The Big Bang Theory, grazie al quale riusciva a tirare avanti e
a sopportare la moglie Karen: un bel risvolto anche questo XD
Grazie ancora e buone vacanze a tutti! Vacanze.. Diciamo in bocca al lupo a tutti per gli esami!!
E, dato che non credo di riuscire ad aggiornare prima del 25, vi auguro un buon Natale! Non esagerate col cibo eh XD
Tornerò comunque prima del nuovo anno ;)
..sempre
che venerdì non finisca il mondo, penso che giovedì sera
in centro a Bologna sarà come se avessimo vinto gli europei o i
mondiali D:
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** D'incanto e d'inganno ***
Capitolo 18
CAPITOLO XVIII
D’INCANTO E D’INGANNO
Germania, 1934
Quando Jacque aveva
visto gli occhi azzurri di quel ragazzino tedesco, aveva visto la sua prima
vittima. Anche se erano passati già sedici anni, forse era per quel motivo che
non aveva potuto lasciar morire Eike, mentre Acilia glielo gridava nelle
orecchie. Glielo diceva sempre. Non contare le vittime, non pensarci, non fare
l’eroe.
Ora che guardava
Eike giocare con un pallone di cuoio nel giardinetto della loro casa, pensava
quasi di poter dare un senso a quello che faceva. Aveva salvato la vita di
quella donna aggredita dai nazisti, aveva salvato la vita di Eike e ora lo
avrebbe allevato lui. Si sentiva un padre mentre Eike faceva saltare la palla
sul suo ginocchio. Ma poi, tra il buio e la foschia, racchiusi nella pelle
perfettamente bianca del ragazzetto, stavano i suoi occhi, che non erano quasi
mai azzurri, erano rossi, rossi come il sangue che lui voleva e chiedeva,
continuamente. Avrebbe posato la palla, quando Jacque gli avrebbe detto che era
ora di cena.
Non l’aveva salvato
davvero, aveva ragione Acilia. Non poteva davvero dare il senso che voleva alla
sua vita. Non poteva credere di essere sposato con Acilia, di avere un figlio,
non poteva credere niente!
La palla stava
rotolando verso di lui e Jacque la fermò con un piede. Eike gli corse incontro
allegramente.
Aveva reagito in
maniera così strana. Mentre Jacque ancora si chiedeva come stessero e che fine
avessero fatto i suoi familiari, Eike, così piccolo, non sembrava sentirne la
mancanza. Non si era disperato la prima volta che aveva nutrito e ucciso,
rideva così tanto che presto quelle risate gli si sarebbero ritorte contro.
Sarebbero cadute e crollate, lasciandolo scoperto e indifeso?
È un bambino,
diceva Acilia, un bambino che è diventato la cosa più potente del mondo.
“Jacque, ho fame”
gli disse Eike.
Si sentiva potente,
era tutto lì. Quello che Jacque non aveva mai pensato di essere, perché lui
vedeva tutto il male che c’era, perché lui non poteva più ragionare come un
ragazzino.
“Andiamo” rispose
Jacque, facendogli un cenno. S’incamminarono, si allontanarono dal parco. “Però
mi devi promettere che ti impegnerai stavolta” disse dopo un po’ “Cosa ti devi
ricordare di fare?”.
Eike sbuffò, come
se Jacque gli avesse chiesto di ripetere una lezione.
“Di non uccidere”
fece, scocciato.
“Come si fa?”.
“Devo ascoltare il
battito del cuore”. La voce cantilenosa e ironica di Eike imitava quella di una
maestra indispettita. Jacque pensò che stesse fingendo di essere Acilia e gli
scappò un sorriso.
“Mi prometti che lo
farai?”.
Eike si mise a
saltellare.
“Eike? Mi stai
ascoltando?”.
Il ragazzino alzò
la testa e gli puntò uno sguardo innocente addosso. “Quando mi insegnerete cose
più interessanti? Tipo volare?”.
Jacque sospirò. Ci
provava, ci stava davvero provando ma non riusciva a farsi obbedire. Era da due
anni che provava a farsi ascoltare. Acilia gli diceva di non scoraggiarsi. Che
pretendeva, era vampiro da sedici anni ed era già creatore! Però poi a volte
Acilia si arrabbiava, con lui o con Eike, non si capiva. Ad Eike non stava poi
così simpatica, lo sgridava troppo.
“Io non so volare”
disse Jacque, pazientemente.
“E perché Acilia
sì?”.
“Perché è più…
grande”.
Eike lo guardò
stranito. “Più grande di te?”.
Jacque esitò.
L’avrebbe capito Eike che non sarebbe più cresciuto? Lo guardava il suo corpo?
Lo vedeva che era sempre uguale?
È un bambino,
diceva Acilia. Sarebbe però sempre rimasto un bambino. E si sarebbe sempre
sentito la cosa più potente del mondo? Come funzionavano le cose? Jacque si
sentiva più maturo ma aveva davvero quasi quarant’anni? Quanti anni aveva la
sua testa?
Sentì delle foglie
che si accartocciavano e subito Jacque girò la testa davanti a sé. C’era una
lieve, grigia, niebbolina nell’aria quella sera ma Acilia risplendeva come
sempre, anche con un misero cappottino grigio sgualcito addosso.
A Jacque mancava il
suo paese, nella Francia del sud. Tirava un’aria strana in quel posto. E non si
trattava del clima, lì qualcosa stava per esplodere, e non sarebbe stato
piacevole. Aveva voglia di far qualcosa, avrebbe
potuto far qualcosa. Bastava solo ficcare le zanne nel collo delle persone
giuste, pensava. Ma quali erano le persone giuste? Chi meritava di morire e chi
no? Davvero lui pensava di poterlo stabilire?
Erano calcoli che
solo una mente fredda poteva fare, ma Acilia non ne voleva sapere. Era fuori
dal mondo da troppo tempo, gli affari degli umani non la toccavano e
paradossalmente avrebbe voluto convivere pacificamente con loro. Ma da quando
aveva mollato la Rappresentanza e si erano trasferiti a Berlino, non aveva più
l’aria di una che ci credeva. Era diventata più fredda. Quando gli aveva
chiesto di non intervenire contro le Camicie Brune, quando gli aveva chiesto di
non trasformare Eike, di lasciarlo morire, un ragazzino…
“Avete mangiato?”
chiese.
“Ancora no” rispose
Eike, con un sorrisetto. Si rivolse a Jacque, con la sua solita voce
cristallina e innocente: “Posso mangiarmi una ragazza? Non mi avete mai fatto
mangiare una ragazza”.
Lo sguardo di
Acilia guizzò sul volto di Jacque. Era delusa, come sempre. Perché gli diceva
di non perdersi d’animo se poi lo doveva guardare così?!
“Ci sto provando”
disse il ragazzo in un sussurro.
Non era facile. Non
era facile trasformare un ragazzino di dodici anni e poi insegnargli… cosa?
Cosa poteva insegnargli? Che era un morto che cammina, un pericolo pubblico, un
assassino?
“Non mangerai
nessuno, Eike” disse Acilia, bruscamente, e voltò le spalle ad entrambi.
Jacque le fu subito
affianco, lasciando il piccolo indietro.
“Aci…”.
Lei lo guardò
arrabbiata. “Occupati di lui, non di me!”.
Jacque non distolse
lo sguardo. “Perché mi tratti così?”.
Acilia abbandonò
per un attimo il suo sguardo duro e alzò gli occhi al cielo. “Jacque, non
dovevi farlo, non dovevi…”.
“Tu l’hai fatto” replicò lui, sentendosi
innervosire.
“Non è la stessa
cosa!”.
“È vero!” sbottò
Jacque, col risentimento che cresceva dentro di sé “Non lo è! Tu avevi la
possibilità di lasciarmi andare, io invece avevo solo la possibilità di
lasciarlo morire!”.
Acilia aveva il
viso ferito, sembrava stesse per piangere ma poi ogni centimetro della sua
pelle si ricompose.
Non volevo dirlo,
pensò Jacque, se lei non mi avesse trasformato non l’avrei mai conosciuta.
Sarebbe stato meglio? Ma ora come ora non riusciva ad immaginare una vita senza
di lei…
“Non litigate”
disse Eike, dietro di loro.
Entrambi si
voltarono.
Eike era a pochi
passi da loro, immusonito.
Jacque gli andò
vicino e gli disse: “Stiamo solo discutendo, non litigando”.
Acilia lo guardò
incredula e lui non riusciva mai a cancellare quello sguardo dai suoi ricordi.
Devi fare il creatore, non il padre!
Ma Eike non lo
stava più guardando, i suoi occhi rossi erano diretti verso un terzetto di
ragazze ben vestite che, civettando ad alta voce, stavano camminando scuotendo
borsette e cappelli.
Jacque lo tenne per
un braccio. “No, Eike, mai attaccare qualcuno che è in compagnia, te lo
ricordi?”.
“Ma se le uccidiamo
tutte non c’è problema” fece quello, scrollando le spalle. Le sue piccole,
affamate e crudeli zanne vennero fuori e prima che Jacque potesse fermarlo,
Eike piombò su una delle tre che si mise a gridare con voce strozzata. Le
amiche urlarono per lo spavento e si avvicinarono alla donna ma qualcosa
dovette spaventarle a morte – il sangue, le zanne di Eike – e si misero in
fuga.
“Eike, NO!” gridò
Jacque. Lo prese per le braccia e lo tirò via, quel mostro assatanato che
grondava sangue.
La ragazza, il
volto deformato dall’orrore, aveva il vestito rosa macchiato di rosso e dal suo
collo gramolato continuava a uscire, brillante e profumato, il suo sangue.
Jacque si lasciò inebriare, allentò la presa, i denti spingevano…
Qualcosa lo spinse
e si ritrovò di fronte un’Acilia furiosa.
“Vattene e portalo
via! Ci penso io qui”.
Jacque si riscosse
e si accorse che Eike era ancora tra le sue braccia, che rideva e si dimenava.
Si allontanò camminando all’indietro, portando con sè il piccolo. Vide Acilia
chinarsi, accarezzare i capelli della ragazza. Poi la sua testa si abbassò e le
gambe dell’umana – l’unica cosa che Jacque poteva vedere – presero a muoversi
freneticamente da sotto il vestito. Una nuvola agitata di rosa e poi più
niente: l’immobilità.
Si girò, con in
braccio Eike e continuò a camminare, verso il giardino dal quale erano venuti.
Si infilò una mano in tasca ed estrasse un fazzoletto bianco. Senza dire
niente, amorevolemente, pulì il viso di Eike. Eppure aveva dimenticato
qualcosa…
Arrivati al
giardinetto scorse la palla di cuoio. La palla di cuoio di un bambino che poco
prima giocava innocentemente…
Con orrore, posò
Eike a terra e lo guardò, ansimando. Cosa poteva dirgli? Non sapeva più cosa
fare, quello non sarebbe mai diventato come lui e Acilia… Era così piccolo e
così cattivo, gli diceva di incantare
le persone, gli diceva di non uccidere… cos’altro doveva dirgli?! Non lo
ascoltava… Non lo ascoltava…
Una spinta violenta
che gli arrivò alle spalle lo fece vacillare e lui si voltò confuso.
Acilia aveva i
pugni stretti e il volto contratto della rabbia.
“Io potevo
diventare creatrice perché avevo milleottocento anni di esperienza! E tu eri un
adulto, non un moccioso ingestibile! È per questo
che non è la stessa cosa!”.
Jacque alzò le mani
per calmarla. Ma la verità era che non sapeva proprio cosa dire, neanche a lei…
“Gli anni
passeranno, l’esperienza fa l’età ma non è sufficiente di per sé” continuò lei,
senza preoccuparsi di abbassare la voce “Il suo cervello non crescerà! È
imprigionato in quell’età e rimarrà così per sempre!”.
Jacque lanciò
inavvertitamente uno sguardo ad Eike. Quello aveva la bocca serrata e le
sopracciglia inarcate, ma non disse niente. Si limitò a fuggire via, in casa e
Jacque lo definì un ragazzino impossibile, un ragazzino sbagliato. Si
preoccupava molto di più di Acilia, allora era vero che era un pessimo
creatore.
Si avvicinò alla
ragazza e l’abbracciò. Lei si strinse a lui e lui non sapeva chi dei due
dovesse essere consolato.
“L’ho uccisa” fece
Acilia, con un tono di voce normale, i pugni stretti sul petto di Jacque “Eike
non ha imparato neanche a bucare il collo per bene, gliel’ha stracciato. Le
altre due… quelle due…”.
Non sarebbe
cambiato molto. C’erano sempre più storie di vampiri, alcuni forse già ci
credevano. Non faceva differenza, la verità sarebbe venuta a galla, era solo
questione di tempo.
“Non pensare a
questo” disse lui.
“Mi dispiace”
proseguì lei, con la voce fresca sul suo collo “Mi dispiace… Tu l’hai salvato
perché sei troppo buono… Avrei dovuto lasciarti andare… Sei troppo buono per
vivere in questo modo…”.
La voce le si era
rotta ma lui non le vedeva il viso, nascosto dai capelli. La strinse ancora di
più e le diede un bacio in fronte.
“Vivere con te mi
va bene” le sussurrò.
Lo pensava davvero.
*
Giorno –
Sinceramente
ho perso il conto dei giorni. È da mesi che non scrivo niente qui sopra,
semplice, ho smesso di scrivere perché non avevo più paura. Non ne avevo più
bisogno, Jacque mi ha reso felice, anche se per poco, e quando sei felice e
tranquilla, cosa scrivi a fare?
Ho riletto
le pagine passate e avrei voglia di strappare questo quaderno, perché non
doveva succedere niente di tutto quello che è successo. Sembra passata una vita
ma si tratta solo di sette mesi. Sette mesi sono passati dal giorno 1 e la
situazione era già assurda in partenza. Mi chiedo se altre ragazze, o anche
ragazzi, siano finiti nella mia stessa situazione…
Non
gliel’ho detto che mi sono innamorata di lui e non ho intenzione di dirglielo.
Il mio orgoglio e la mia gelosia hanno distrutto altre relazioni in passato,
bene, lascerò che succeda anche questa volta perché io e Jacque, insieme, non
possiamo andare da nessuna parte. Sono sempre stata cocciuta e impulsiva, beh,
ora basta. Non si può fare sempre come si vuole, sono cresciuta anch’io, è
tempo di essere razionale, avrei dovuto esserlo fin dall’inizio. Ma cosa
pensavo di fare? Pensavo di starci insieme per un po’, pensavo che mi sarei
stufata, pensavo che fosse solo un divertimento passeggero? Non poteva esserlo,
perché ci ho messo anima e corpo. L’ho seguito fino ad Arcangelo, mi sono
fidata di lui, ho tentato di capirlo, ho scavato nelle sue memorie. Sono stata
maledettamente stupida, mi sono tenuta questo segreto addosso, ho creato un Jack
alternativo che non avrei mai potuto presentare né alla mia famiglia né ai miei
amici e ora vorrei strapparmelo di dosso! Vorrei strappare i ricordi, le pagine
della paura e dell’angoscia da cui è nato un amore folle e stupido!
Due giorni
dopo il nostro litigio è tornato da me. Ma non dice niente di quello che vorrei
sentirmi dire e, dopotutto, è meglio così. Se mi dicesse che mi ama – quale
sogno impossibile! – e che Acilia per lui non vale più niente, finirei per
credergli e mi troverei imprigionata nell’amore più sbagliato che ci possa
essere! Un vampiro… È un vampiro!
È migliore
di tanti umani, questo vampiro, e io lo so, nel profondo lo so. Ha addosso il
fascino del passato, del dannato che prova ad essere uomo, il coraggio di un
guerriero e l’amore di un ragazzo puro. Sto piangendo mentre scrivo, perché lo
immagino, immagino il suo viso, la sua sofferenza e la sua perfezione, il
ragazzo di altri tempi che non avrei mai potuto conoscere se non fosse stato
maledetto. Maledico il fatto che sia un vampiro, ma se non fosse stato vampiro
non avrei neanche avuto il privilegio – non so che altra parola usare – di
conoscerlo. Probabilmente neanche l’avrei notato. Un Jacque francese, buono e
simpatico, ma senza una storia interessante alle spalle, senza il dolore e la
serietà che anni di dannazione gli hanno impresso sul volto… Cosa lo maledico a
fare il fatto che sia un vampiro?!
Ho sognato
che sarei stata insieme a lui per l’eternità, avevo gli occhi rossi ed ero
felice. I sogni non sono desideri, non sono così stupida da credere che sia
questo quello che voglio. Sarebbe l’unico modo per poter stare con lui no? Lo
amo, ma non lo amo fino a quel punto. Amare fino a perdere la testa, fino a
perdere la concezione con la realtà, quello non l’ho mai provato. Allora mi
dico, per cosa soffri. Per cosa soffri, stupida, neanche lo ami così tanto. Ma
è il mio modo di amare, il mio stupido e egoista modo di amare… E passerà, mi
dico, ne sono passate così tante, anche se nessuna bruciava in questo modo.
Jacque se ne andrà, sarà solo un ricordo e si porterà con sé tutto un mondo
mostruoso e meraviglioso allo stesso tempo. Devo accettare che sia così, e
basta.
Il resto
verrà da sé, piangendo, ma verrà da sé.
Germania, 1938
Era una vita strana
la sua. Molto vagamente ricordava sua sorella Imma che gli raccontava storie di
vampiri. Era diventato uno di loro, uno di quegli esseri mostruosi e bramosi di
sangue, sì. Ma quanto tempo era passato ormai? Non riusciva a tenere conto del
tempo che passava ma vedeva le stagioni che si susseguivano. Era autunno, poi
la neve… poi il sole, il caldo, il freddo, di nuovo. Tante volte. Imma doveva
essere diventata grande ormai. La ricordava un po’ più alta di lui, il viso da
ragazzina sveglia. La ricordava impaurita. Lui
l’aveva spaventata. Ma perché l’aveva fatto? Non poteva piuttosto
salutarla? Non l’aveva capito allora, che non l’avrebbe più vista.
Se Jacque avesse
scoperto che lui era tornato a far visita a sua sorella, l’avrebbe sgridato. Se
l’avesse scoperto Acilia, sarebbe diventata furiosa.
Eike stava seduto
nell’erba di quel loro giardino. Neanche sapeva di preciso dove fosse. Il prato
era verde, i fiori erano sbocciati per l’ennesima volta. C’era un buon profumo
e lui si sentiva sereno. Chi lo stava trattenendo? Non voleva tornare dalla sua
famiglia?
Strappò scocciato
dei fili d’erba. Si divertiva a strapparli, a romperli, a ridurli in pezzi
sempre più piccoli, sempre più fini. Poi li lasciava cadere a terra, una
pioggia di brandelli verdi. Un po’ gli mancavano i suoi genitori. Acilia e
Jacque glieli ricordavano. Litigavano spesso, poi si baciavano. E soprattutto
lo sgridavano. Però ricordava sua madre taciturna e indifesa. Acilia era
diversa, era più autoritaria di Jacque, era lei che comandava. Era una famiglia
strana la loro, una famiglia al contrario.
La sua manina,
sempre piccola, strappò una margherita. Allora considerava Jacque e Acilia la
sua famiglia. Se, lì dov’era ora, guardava indietro, verso il suo passato, si
rendeva conto che quei due ragazzi – poco più vecchi di lui in effetti – si
erano presi più cura di lui che i suoi veri genitori. Forse era più corretto
definirli fratelli… Eike lanciò via la margherita. No, nessuno avrebbe preso il
posto di Imma. Nessuno.
Il suo sguardo non
riusciva a spostarsi, guardava la margherita morta, il suo cadavere steso sul
prato, bianca, pura, il fiore dell’innocenza. Aveva visto tanto rosso su
bianco, tanto sangue sull’innocenza.
Ansimava, quando i
ricordi diventavano velenosi.
Era davvero
diventato uno di quegli esseri mostruosi e bramosi di sangue, sì. Infastidito,
si alzò da terra, sulle sue gambette, sempre così corte.
Le stagioni si
susseguivano. Freddo, neve, sole, caldo. Sì. Lui invece rimaneva sempre uguale.
Anche Acilia e Jacque erano sempre uguali. Acilia era molto bella, a volte
pensava di… Ma lei era di Jacque. E lui del resto… Lui cos’era? Ancora un
bambino, per sempre…
Girava nervosamente
per il giardino.
È imprigionato in quell’età e rimarrà così per sempre!
Arrabbiato si tolse
la maglietta, poi le scarpe, i pantaloni. Disgustato, odiò le sua pelle così
candida, morbida, liscia. Esitando,
si tolse le mutande e si detestò ancora di più. Aveva scoperto di non poter
piangere e tutta la sua frustrazione crollò con lui, in ginocchio, nudo e
vergognoso. Digrignò qualcosa, a fatica, perché già per la rabbia i suoi denti
spingevano. Non riusciva a controllarle quelle maledette zanne! Erano loro,
quelle dannate che gli facevano venire fame, ma lui non la voleva, non la
voleva più… Ciò che faceva solo pochi anni prima era una macchia confusa di
ricordi orribili, lui era diventato ciò di cui aveva sempre avuto paura… Posso
spaventare, si diceva, posso spaventare a morte la gente, che bello!
Che orrore, pensò
tristemente, guardando ancora il suo corpicino…
“Eike! Che
succede?”.
Eike alzò lo
sguardo. Se avesse potuto arrossire, l’avrebbe fatto. Si infilò le mutande in
fretta, senza dire una parola, sotto lo sguardo muto di Jacque. Era stato lui,
era lui il suo creatore. L’aveva
trasformato, i ricordi erano strani, confusi… Risate di esseri umani orribili,
uno sparo e Jacque che arrivava, che lo salvava. L’aveva salvato e aveva creato
un altro essere orribile, più di quegli umani con la divisa marrone!
Gli era davanti,
con sguardo dolce. Forse era quello un vero sguardo paterno, non lo sapeva, suo
padre non l’aveva mai guardato così.
Jacque si chinò e
raccolse gli indumenti, mentre Eike era impegnato a fissare un punto
imprecisato nel prato.
“Ti sei messo a
fare uno spogliarello?” scherzò Jacque, aiutandolo a infilarsi la maglietta.
Eike si srotolò la
maglia addosso dopo aver infilato le braccia nelle maniche, si tolse i capelli
biondi da davanti agli occhi e lo fissò.
“Io non cresco più,
vero, Jacque?”.
Jacque sospirò. Era
un’inutile domanda del resto.
“No” rispose dopo
un po’. Non aggiunse altro, che poteva dire?
“Sognavo di
diventare grande” disse Eike, con gli occhi abbassati “Di diventare forte e
sicuro”.
Forte lo era, ma
Jacque non obiettò e il ragazzino gliene fu grato. Non sognava certo di essere
forte in quel modo.
“Ti dispiace che io
ti abbia trasformato?” chiese il suo creatore, i pantaloni in mano.
Eike scrollò le
spalle.
La verità era che
ammirava Jacque, lo ammirava perché aveva combattuto le Camicie Brune e salvato
una donna, e anche lui, aveva salvato anche lui, a suo modo, nell’unico modo che c’era.
“Voglio riuscire ad
essere come te” disse. Avrebbe voluto non provare più sete di sangue. I
ricordi, quelli potevano scivolare via…
Jacque sorrise e
passò i pantaloni ad Eike. “Stai già facendo grandi progressi”.
Eike infilò le
gambe nei pantaloni, tenendosi aggrappato alle spalle del suo creatore.
Jacque lo teneva
fermo, lo guardava seneramente. Gli era vicino.
“Non crescerai
fisicamente” disse dopo un po’, serio “Ma non è vero che resterai imprigionato
per sempre in quest’età”. Avvicinò un dito alla sua tempia. “Crescerai qui”.
Eike finì di
abbottonarsi i pantoloni e scrollò di nuovo le spalle, con indifferenza.
Esitò un momento
prima di dire quello che pensava. “Sei più bravo del papà che avevo”.
Gli occhi di
Jacque, seppur scuri, in quel momento, parvero brillare, di contentezza.
Jacque ed Eike si
stavano abbracciando, Acilia li vedeva nel giardino, attraverso il vetro sporco
e graffiato della finestra.
“È molto
migliorato” disse “Non lo credevo possibile ma sta mostrando un maturamento”.
Si voltò, dando le
spalle al cielo che si stava scurendo sempre di più. La notte stava avanzando.
Dubris era seduto
sul letto a baldacchino, le braccia stese e le mani appoggiate dietro al busto.
“Gli anni passano
per tutti” disse, con noncuranza “Non mi dirai che ti senti ancora come se
avessi diciotto anni”.
Acilia si sedette
accanto a lui e il materasso cigolò appena. Era su quel letto che si stringeva
addosso a Jacque. Era strano stare lì insieme a Dubris, forse.
“Diciotto no”
disse, riflettendo “Ma non molti di più, non millenovecento di certo”. Era
adulta, certo, ma le sembrava che la sua fosse una corsa senza fine e le
sembrava di inciampare sempre negli stessi errori.
Dubris le diede una
piccola spinta affettuosa al braccio. “Per il resto, va tutto bene qui?”.
Nonostante si
fossero trasferiti in Germania, Dubris spesso andava a trovarla. A lei non
dispiaceva la sua compagnia. Erano amici da così tanto tempo, aveva abbandonato
la Rappresentanza sì, ma non voleva seppellire anche tutto il resto.
“Gli umani sono
impegnati in una caccia all’ebreo qui, a quanto pare” rispose Acilia, alzando e
riabbassando le spalle “Non so per quanto ancora sarà un posto sicuro”.
“La caccia
all’ebreo diventerà una caccia al vampiro” assentì Dubris “È solo questione di
tempo”. Fece una smorfia socciata.
“Il presidente
ancora non vuole sentire ragioni?”.
Dubris si buttò
all’indietro, sul letto, sospirando. “Bisognerebbe ucciderlo” disse in un
bisbiglio.
Acilia non volle
ribattere. “Immagino che Lyuben voglia seguire una linea più diplomatica”.
Lyuben aveva preso il comando del PPC, dieci anni prima, quando Acilia aveva
preso la decisione di andarsene. Era stata una scelta di lei, e nessuno aveva
avuto da ridire.
Dubris ridacchiò.
“Chi l’avrebbe mai detto, eh?”.
Acilia si sdraiò,
avvicinandosi a lui. “Jacque dice che dovremmo fare qualcosa. Non sopporta
quello che sta capitando nel mondo degli umani”.
“Umani contro
umani” bofonchiò Dubris “È la cosa più stupida del mondo, ma anche la più
vecchia”.
Acilia non disse
niente. Lo sapeva fin dove si poteva spingere l’uomo, che si definiva uomo ma
sapeva essere una bestia.
“E Jacque, l’uomo vissuto, vorrebbe far qualcosa” proseguì
il rosso, con un mezzo sorriso. Si girò su un fianco, puntando uno sguardo fastidioso
su Acila. Lei aggrottò la fronte. Non le piaceva l’espressione che assumeva la
faccia di lui quando si parlava di Jacque.
“Come quella volta
che ha tentato di salvare una donna ed ha finito col trasformare un bambino?”
fece ancora Dubris.
“L’ha salvata” precisò Acilia, scocciata.
“Aci, andiamo”
disse l’altro “Lo sai anche tu che non si può fare”.
“Lo so” fece subito
lei, senza guardarlo “Dopotutto noi viviamo nell’ombra o nelle storie
dell’orrore”.
Dubris le si
avvicinò con sguardo deciso. “Non deve essere così per sempre”.
“Noi li mangiamo,
Dubris” ribatté lei “Magari non li uccidiamo, ma ci nutriamo di loro! Come
potranno mai accettarci?”.
Dubris batté una
mano sul materasso e si mise seduto, scuro in volto.
“E questo non lo
sapevi anche seicento anno fa quando mi hai convinto ad aderire ai tuoi
ideali?” sbottò.
Acilia rimase
sdraiata, senza dire niente.
“Cosa vorrebbe fare
il tuo Jacque, eh? Andare in giro a
salvare la gente come un eroe senza mai farsi vedere, senza mai sperare di potersi fare vedere?!”
s’infervorò Dubris.
Anche lei si mise
seduta, senza guardarlo in faccia. Fece per alzarsi ma lui la trattenne,
prendendole una mano.
“E tu ascolti lui”.
Acilia non
allontanò la mano, ma ancora voleva evitava il suo sguardo.
“Aci, guardami”.
Perché… perché…
“Per favore”.
Acilia si decise a
guardarlo negli occhi e ci vide proprio quello che temeva. Ancora quel velo di
gelosia, palpabile e una domanda che lei non voleva affrontare.
“Lo ami?”.
Non riusciva a
sostenerlo e il suo sguardo cadde, sulle loro mani intrecciate, come lo erano
un tempo.
Un animo come
quello di Jacque, forse l’aveva incontrato solo in Miguel. Eppure era così
facile gridare che aveva amato Miguel, con tutto il cuore, invece ora… ora non
era più in grado, neanche di pensarlo. Jacque era un’altra cosa, un altro
essere, quello che era lei.
“Aci, ti ho chiesto
se lo ami”.
Basta con le
domande! Non tutte le domande hanno una risposta, lei di risposte non ne aveva
mai trovate, non era fatta per calcolare i sentimenti, per quantificare l’amore,
per decifrare il suo cuore.
Ricordava il
soldato a cui aveva tolto la vita e che aveva lanciato in un mondo crudele.
Cosa poteva offrirgli?
“Come potrei
amarlo” rispose lei, amaramente, senza alzare lo sguardo. “Ogni volta che lo
guardo vedo la morte, quella che gli ho inflitto io”. Le sembrava di rivedere
Jacque, terrorizzato, atterrito da lei.
Dopo quella che
sembrò un’eternità, alzò il viso e vide che quello di Dubris era vicinissimo a
lui, quasi rincuorato.
“Mi manchi, Aci…”.
Le sue labbra fredde
la toccarono, dopo tanto tempo. Ancora più fredde di quelle di Jacque. Lei
sgranò un pelo gli occhi, sorpresa, ma non fece nulla per fermarlo. Poi gli
occhi li chiuse, con Dubris era più facile, lui la conosceva bene, sapeva come
lei fosse fatta, che stronza fosse… Ma non era giusto neanche così! Non voleva
che lui soffrisse, e neanche Jacque… Soprattutto Jacque! L’aveva ucciso,
l’aveva strappato alla sua famiglia, non poteva, non doveva…
I suoi occhi
tristi, impauriti, pieni di guerra e di dolore e poi trasformati, gli occhi
della morte, li aveva spenti lei quegli occhi…
Qualcosa la spinse
ad indietreggiare, a lasciare le labbra di Dubris, che per secoli l’avevano
confortata e amata, senza mai avere niente in cambio.
Forse si era
allontanata da lui solo perché aveva sentito un rumore fuori dalla porta della
stanza. Volò subito alla finestra, la mano appoggiata al vetro e il respiro
pesante.
Eike era sdraiato
per terra, tra i fili d’erba, le braccia incrociate dietro la testa e le gambe
divaricate. Una pallida luce di luna gli illuminava il viso che era rivolto al
cielo, ma che pareva indirizzato proprio a lei.
Era solo e aveva
addosso quello che sembrava un sorriso beffardo.
Quella notte Jacque non l’avrebbe mai
dimenticata. Quella era la prima notte in cui si era davvero risvegliato
dall’incanto. Si era reso conto che la disperazione gli aveva fatto tessere un
inganno, in cui si era imprigionato e non riusciva più a districarsi dai fili
della speranza, non ci era mai veramente riuscito. Acilia non poteva amarlo
perché era morto – proprio come lo era lei – o perché era stato lei ad
ucciderlo? Sentirle dire quelle parole, pensarla vicino a Dubris, tra le sue
braccia, nella sua bocca… Lo facevano impazzire. Essere un mostro non gli
sembrava poi così male, se era accanto a lei. Essere morto non gli pesava così
tanto, se era l’unico modo per poter stare con lei. Aveva dimenticato ogni
cosa, messo a tacere ogni dolore e perdonato ogni rancore, per stare con lei.
Come poteva lei fargli questo?
Aveva detto ad Emily che quello che provava
per Acilia era un amore malato. Come può non essere malato l’amore di una
vittima per il suo carnefice? Gli venivano i brividi se pensava ad Acilia in
questi termini. Si diceva che non era malato, che aveva capito perché Acilia lo
avesse trasformato, che lo aveva conquistato solo in seguito, tutto di lei, i
suoi occhi, le sue parole, quelle dette e quelle mute. Ma allora perché,
sapendola nell’indifferenza, continuava a pensare a lei? Erano passati così
tanti anni, non era normale. Perché Acilia aveva potuto amare solo un uomo, un
umano, e lui invece non riusciva ad amare altro che lei, un essere morto e
freddo, mentre per Emily… per Emily provava un grandissimo affetto ma i
pensieri che la riguardavano si macchiavano continuamente di nero, di verde e
di rosso. Come si spiegava questo? Era il sangue che quasi cento anni fa Acilia
gli aveva dato da bere? Era quello che gli aveva fatto perdere la testa? Era
tutto lì? Ma non funzionava così! Sapeva che la creata di Dubris era totalmente
innamorata di Lyuben, non di Dubris!
All’epoca gli era stato tolto tutto. Pensava
di potersi costruire una vita normale, si trattava di questo. Pensava che se
avesse avuto una donna – e in seguito un ragazzino da accudire – si sarebbe
sentito ancora uomo, umano. Stare con Emily invece gli dimostrava
continuamente, ogni giorno di più, che lui non lo era più umano, perché non ci
riuscivano a stare insieme!
I pensieri lo angosciavano e lo tormentavano.
Negli anni che passavano, e cercava una spiegazione. Non è vero che più tempo
vivi più capisci te stesso, o addirittura il mondo. Più tempo passi sulla
terra, più tempo respiri e cammini nella realtà, più ti fai domande e le cose
ti appaiono sempre meno chiare, perché non c’è un limite, non c’è una fine, puoi
solo andare avanti, sempre, accrescendo le ondate delle emozioni! Non era un
vecchio saggio a cui si è spenta la passione e a cui basta vivere nei ricordi,
non li aveva quei cent’anni. L’umano che lavorava alla Rappresentanza, Boyan,
Jacque ricordava cosa gli aveva detto. Non puoi
sentirti vecchio davvero finché un bel giorno non ti alzi e non vedi allo
specchio la tua prima ruga.
Era vero e lui era ancora uno
stupido ventenne che non riusciva a liberarsi di una maledetta ed ossessiva
cotta… Era davvero così? Davvero solo una cotta? Era il sentimento più forte
che avesse mai provato. Per il sangue? Per il triste destino che lui ed Acilia
condividevano? Per tutti gli anni che avevano passato insieme? Perché lui era
morto e poi rinato tra le braccia di lei…
E ora cosa doveva dire a Emily?! Lei era
dolce, buffa, lo aveva fatto ridere, dopo tanto che non lo faceva più. Gli
piaceva davvero e aveva creduto davvero che si sarebbe potuto innamorare di
lei. Ma che senso aveva insistere se la stava facendo soffrire? Non stava
succedendo niente, i suoi sentimenti non mutavano, la stava solo soffocando,
come Acilia aveva fatto con lui. E prima o poi sarebbe dovuta comunque finire,
non voleva certo che Emily si trasformasse! Non poteva volere che entrasse
anche lei nella cerchia dei dannati senza età, che vivono fino allo sfinimento,
fino all’estremo, perché non sanno fare altro, perché devono sempre vivere e in
fondo hanno una paura enorme della morte.
Allora perché aveva iniziato, cosa credeva di
fare?! Ora lei piangeva, povera creatura… per lui, che non poteva darle niente,
fin dall’inizio!
Quello che Acilia aveva fatto a lui,
incantandolo e ingannandolo, lui l’aveva fatto a Emily. Provava vergogna,
ancora…
Sarebbe dovuto andare ancora avanti, in
quella mezza vita, senza neanche una speranza di rivincita, nel tunnel di
un’esistenza senza fine… Di un amore senza fine…
Jacque! Dove
corri? Dove scappi? Non puoi andartene dalla mia casa, dalla mia vita!
Corro e non
riesco a raggiungerti. Cos’hai sentito? Cos’hai visto? Credi davvero che sarei
disposta a lasciarti andare così?
È un tunnel.
Sono in questo tunnel da quasi millenovecento anni, rimani con me nel buio, non
cercare di uscire, non seguire la luce!
È questo che
ho fatto? Ti ho tenuto nell’oscurità con me tutto questo tempo? Ti sei
svegliato, tesoro, prima di andartene sveglia anche me… Sveglia anche me!
Jacque, cosa ti aspettavi? Noi non siamo umani, non
possiamo fare quello che fanno gli umani.
Sono qui
dentro, non abbandonarmi, sono intrappolata!
Avresti voluto che ci sposassimo, non è vero?
Rispondi,
amore, ma non guardarmi in faccia, non guardarmi!
Lo so bene che non possiamo essere una coppia normale,
però pensavo… Pensavo…
Cosa pensavi?
Hai gli occhi così tristi, ma perché ti ho fatto questo?!
Jacque, non ti sarai mica innamorato di me?
È veleno
quello che ho nel petto, non ho più amore da dare, non ce l’ho più… Catene nere
mi tengono ancorata sul fondo di questo pozzo. Ti prego, vienimi a cercare!
Fai un
accenno di sorriso, ancora brancolo. Sono dietro a questi occhi freddi, mi
vedi?
Che vuoi farci,
mi dici amaramente, Tu sei tutto quello che ho. È una cosa così stupida…
Perché sei tu che mi hai tolto tutto.
Sto urlando
dalla fine. Sono scivolata così tanto in profondità che le mie grida non ti
raggiungono. Sto piangendo sul fondo; sta implorando aiuto, quella parte di me,
che è in un angolo del tuo cuore.
Ma tu non mi
senti, come potresti sentirmi?
È così che
finisce, è finita davvero.
*
“Gli attacchi dei vampiri sono aumentati con l’inizio
dell’estate. Gli esperti credono che l’aumento della temperatura e delle ore
solari provochi nei vampiri un senso ancor maggiore di fame e uno smarrimento
che li porta a cercare continuamente del cibo per sentirsi al sicuro”.
La signora del
notiziario aveva una pettinatura cotonata e uno sguardo fermo, ma le braccia,
rigidissime nelle strette maniche del suo tailleur blu, lasciavano traplera un
pelo d’ansia. Sembrava vagamente convinta di quello che diceva, vagamente
perché d’altronde non poteva saperne niente. Considerare i vampiri alla stregua
di animali, in cerca di cibo e non pensanti, era atteggiamento diffuso anche
tra gli esperti, nonostante molti anni prima, attraverso l’analisi di un
cervello di un vampiro ucciso dai cacciatori, fosse stato accertato che non era
così.
“Non ti sembra una
stronzata?” fece Lydia con una smorfia, mentre poggiava due tazze fumanti di tè
sul tavolo.
Emily scrollò le
spalle con indifferenza.
“Voglio dire”
continuò l’amica, sedendosi di fronte a lei “L’estate scorsa gli attacchi non
sono aumentati e poi, andiamo, non può essere colpa del tempo!”.
“Già” si limitò a
rispondere lei.
Lanciò un’occhiata
di sottecchi alla giornalista in televisione. Se solo la gente sapesse la
verità, pensò. La gente cercava una spiegazione per qualunque cosa, forse avere
delle spiegazioni aiutava ad avere meno paura.
“Tu credi che i
vampiri attacchino senza pensare?” domandò Lydia, facendo scivolare lo sguardo
dalla televisione ad Emily.
Emily avvicinò la
tazza di tè a sé. “L’hanno dimostrato una quindicina d’anni fa, no?” disse,
senza esprimere opinioni personali “Il cervello dei vampiri è identico a quello
di un umano sano di mente”.
L’unica cosa che la
gente non riusciva a capire era come fossero nati i vampiri. Da quanto tempo
esistevano? Come era nato il primo vampiro? Come era stato possibile? Si
trattava di magia? Le domande avrebbero potuto essere tante ma la maggior parte
delle persone in vita era nata che i vampiri già erano nel loro mondo, e
l’avevano semplicemente accettato.
Emily avvicinò la
tazza alla bocca ma subito la ritrasse. Il tè era bollente.
“Le raccomandazioni che diamo sono sempre le
stesse. Uscire dopo il tramonto solo se strettamente necessario, e solo se
armati di pistole caricate con proiettili di legno. Porre oggetti d’argento ad
ogni porta e finestra della vostra casa. Evitare di parlare con gli estranei…”.
“Abbiamo pubblicato
anche noi un articolo con le stesse raccomandazioni” disse Emily, ricordando di
aver steso lei stessa l’elenco.
Lydia bevve un
sorso, con aria preoccupata. “Immagino che di questi tempi parlino ancora
peggio di quel tuo articolo a favore dei vampiri”.
Emily ridacchiò,
suo malgrado. “È già molto che non mi abbiano licenziata”.
“Sei ancora
convinta di quello che hai scritto?”.
La ragazza esitò.
Certo che ne era convinta, solo che non si poteva generalizzare. Gli esseri
umani non erano tutti uguali, e allo stesso modo non lo erano neanche i
vampiri!
“No” mentì,
stupidamente, per non destare sospetti.
Lydia annuì,
stringendo la tazza tra le mani. “È terribile… E pensare che quella strage è
avvenuta a pochi isolati da qua…”.
Di quella strage, avvenuta due settimane
prima, se ne parlava ancora tanto. Dei vampiri erano entrati in un condominio
dove si stava svolgendo una veglia funebre. Undici morti, cinque feriti, due –
una donna e una bambina – dispersi.
“Quello non è
istinto di sopravvivenza” proseguì Lydia, guardando un punto sul tavolo, con le
mani ancora strette alla tazza “Quello non è nutrirsi… Perché lo fanno?”.
“È l’unico modo di
vivere che conoscono” rispose Emily automaticamente. Siuramente dietro a quella
strage c’era Kaeso. Non sapeva a che punto fossero le ricerche, con Jacque non
aveva più parlato. Ma parlare di quanto fossero pericolosi i vampiri non la
rattristava, anzi, le dava la certezza che le cose tra lei e Jacque non
sarebbero potute andare diversamente.
Lydia la stava
guardando sorpresa.
“Sono dei mostri”
continuò Emily, alzando le spalle. Inavvertitamente un senso di malessere le
prese lo stomaco e lei aveva voglia di piangere. Odiava generalizzare. Non
poteva davvero dare del mostro a Jacque…
“Emi?” fece Lydia,
con un sorriso “Dai, non ci pensare, saremo al sicuro”.
Parlare di vampiri
eccome se la rattristava, non doveva
mentire a se stessa. Vedeva Jacque ovunque, in ogni giornale, in ogni
notiziario, in ogni parola ingiusta detta contro i vampiri…
“Con Jack come va?”
chiese ancora Lydia, ingenuamente convinta di aver cambiato argomento.
Emily scosse la
testa, socchiudendo gli occhi. La tazza di tè aveva smesso di fumare ma lei non
l’aveva più toccata.
“Non funziona,
siamo troppo diversi” disse semplicemente.
Non voleva parlarne
perché non sapeva cosa dire. Come spiegare il motivo della loro diversità? Come
poteva dire a Lydia che non poteva uscire alla luce del sole con lui? Come poteva
spiegarle che era spaventata da una sua passata – ma tremendamente presente,
forse sempiterna - relazione che era durata quasi vent’anni? Una relazione che
lui considerava malata, perché Acilia era la sua creatrice… Colei che l’aveva
trasformato in un mostro…
La giornalista in
televisione stava ora parlando di un attacco avvenuto in Scozia. Si parlava
solo di sangue al telegiornale, solo di loro, dei mostri. Guardò Lydia. Lei non
diceva niente, poverina, anche lei aveva i suoi problemi con Sam. Stare tutto
quel tempo con una persona non doveva essere facile. Un rapporto può sfiancarti
ma se diventa abitudine può logorarti senza che tu neanche te ne accorga.
Vent’anni…
Era come se si
fosse svegliata da un incanto. In televisione, sui giornali, per strada,
parlavano di mostri. Lei stava con uno di quelli, uno di quelli che chiamavano
mostri. Le sembrava quasi che fosse stato tutto un sogno. Un incanto e un
inganno, allo stesso tempo.
Charlene, Charlene
Dov’è la mamma, Charlene?
Oh, non abbassare gli occhi, su, guardami in faccia.
No, non guardare quella chiazza rossa sul pavimento.
È ketchup, lo vuoi?
Ti preparerò un panino con il ketchup
E poi avrai tutta la bocca rossa, come me
Ti fa ridere, non è vero?
Charlene, Charlene
Ti piace la tua nuova casa?
Potrai avere tanti giocattoli
E pupazzi
Se solo lo vorrai
Potrai avere le bambole più belle del mondo
Te le costruirò io
Sembrano vere, queste bambole, non è vero?
Sono solo un po’ sporche
Ma basterà pulirle
E tutto il ketchup andrà via
No, non agitarti, Charlene
Hai dei bei ricci
Sono luminosi, non vorrai sporcarli
Allora stai buona e fai la brava
Charlene, come si chiama il tuo papà?
Come? Non lo sai? Non lo conosci?
Lo farò io, tesoro, sarò io il tuo papà
E smettila di piangere
Mamma non può sentirti
Mamma è di là che prepara la cena
Charlene, Charlene
Come dici? Senti delle urla?
Oh no, tesoro, non ti preoccupare
È che la pappa a volte fa i capricci
Dammi le mani, Charlene, così
Hai gli occhi blu, Charlene
Come i miei
Saremo una bella famiglia
Quella che non hai mai avuto
E quella che io una volta avevo
Staremo bene insieme,
Charlene
Sono stata buona dai, questo capitolo non è eterno come gli ultimi due-tre! XD Anche se forse è un po' noioso.
Fin dagli albori del libro, questo capitolo era già destinato ad
essere molto sentimentale. E dato che a volte mi sembra di essere un
po' banale e ripetitiva ho deciso di fare un esperimento: ho provato a
dare al capitolo un'atmosfera un po' particolare, vagamente surreale.
L'esperimento sta nelle seguenti scene: il fatto che mentre Eike
attacca una delle tre ragazze tedesche non passa nessuno; la scena in
cui Eike si spoglia in mezzo al giardino per guardare la sua
nudità; la scena in cui Acilia, mentre bacia Dubris, sente un
rumore fuori dalla porta e va a vedere fuori dalla finestra, e il
vedere Eike, da solo, con quel "sorriso beffardo" le dà la
conferma che era Jacque fuori dalla porta; la scena in cui a parlare
è una parte di Acilia relegata chissà dove; la scena
finale di Kaeso che parla alla bambina rapita. Inoltre per spiegare
come è finita la storia tra Acilia e Jacque nel 1938 ho fatto
tre salti di punti di vista e un salto nel presente (la parte in cui
Jacque pensa, scritta in corsivo) giusto per dare varietà se no
questi "salti nel passato" sono tutti uguali XD
Beh, insomma, mi piace esprimere le mie motivazioni, spero di non avervi confuso ancora di più le idee XD
Nene, mi fai recensioni sempre
più lunghe, e questo è bene XD Grazie mille per i
complimenti! Dunque, è giustissimo che ti abbia spiazzato il
fatto che Kaeso abbia "messo in salvo" Charlene ma ogni cosa, come
vedrai - o come vedi anche adesso - ha il suo perché :D Anche a
me fa più paura Svetlana sinceramente, i suoi gusti sessuali
comunque sono irrilevanti, però, sì, direi che è
bisessuale (i vampiri che vivono da tanto tanto tempo provano di
tutto..se no che nooia :S) Dubris, sì, è stato
stupido e sa di esserlo stato, ma ha agito d'istinto, come sempre del
resto XD Per quanto riguarda Jacque e Acilia, i "quasi vent'anni" si
riferiva al periodo che hanno trascorso come "fidanzati" esatto,
cioè dal 1920 al '38 XD Eh sì Jacque è divertente
da analizzare, è uno dei miei personaggi preferiti, infatti non
vedevo l'ora di arrivare a raccontare la sua storia passata :3 Continua
continua con le tue supposizioni sulla famosa frase di Acilia "Uccidere
non è abbastanza per definire quello che ho fatto" e continua a
recensire :DD grazie mille!
Sara, ahahaha anche scriverlo
lo splatter è meglio che guardarlo! Scriverlo è quasi
divertente, perché, per quanto te lo immagini, sembra tutto
troppo finto XD Kaeso sì ormai è il maestro del
grottesco XD Il fatto che senta dentro di sè quando muore uno
dei suoi creati sono contenta che ti sia piaciuto, è la stessa
cosa che prova Acilia nell'antica Roma quando sente che Marcus è
morto (insomma, vale sia per creatori che per creati).. purtroppo non
posso prendermi il merito di questa cosa molto "romantica" XD Dubris
è passato di livello :DD è diventato patatone! Emily e
Jacque mmmm...mmmmm.. la mia mente diabolica deve ancora decidere se
salvarli o no..no scherzo, è già tutto deciso buahahha!
Uhh che bello hai notato la frecciatina finale del capitolo scorso, mi
diverto a piazzare robe enigmatiche e antipatiche :D grazie mille per i
complimenti, aspetto il prossimo commento, maestra della recensione!
Norine, grazie per i
complimenti! Dubris rivalutato, sapevo che ce l'avrei fatta :DDD Hai
ragione, un po' di sano sangue ci vuole, anche perché se no
tutta sta storia verrebbe troppo melensa (lo è già
abbastanza)! Aspetto altri pareri, anche corti, chi se ne frega, non
farti venire i complessi :D
Nel mese di gennaio temo di riuscire a pubblicare solo un capitolo,
probabilmente nei primi dieci giorni. A forza di scrivere, sono rimasta
indietro con lo studio, ohibò, con questi capitoli chilometrici
che escono circa ogni dieci giorni chi l'avrebbe mai detto eh? XD
Vi auguro di festeggiare alla grande questo 2013 che sembrava non dovesse neanche arrivare! :D
Buon anno a tutte!
Baci
ps:
Il titolo del capitolo è lo stesso titolo che avevo dato alla
mia tesina della maturità ahahahah! La prof di italiano mi aveva
fatto i complimenti, bei tempi andati (no, affatto)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** Fulgida stella ***
Capitolo 19
CAPITOLO XIX
FULGIDA STELLA
Germania, 1983
C’era un’atmosfera
cupa a Berlino.
La sera in giro non
c’era nessuno, erano ormai troppi quelli che credevano all’esistenza dei
vampiri. In Inghilterra se ne parlava nei giornali, alla televisione, ovunque.
C’era ancora qualcuno che diceva che era tutta opera dei terroristi, altri
sostenevano fosse opera dei russi. La guerra, quella c’era sempre, nell’aria,
anche se era fredda, proprio come i
vampiri. La paura dei vampiri e la paura del pericolo atomico stavano
trascinando il mondo sempre più giù. Anche i vampiri avrebbero dovuto avere
paura della bomba atomica no? Ma a che scopo, pensava Eike, cos’abbiamo noi da
perdere?
Dopo la guerra, la
Germania non aveva mai avuto modo di riprendersi, era stata schiacciata senza
pietà dalle altre potenze mondiali – come lei aveva schiacciato un intero popolo e
non solo – e non lo facevano per punirla, ma per fare i loro interessi,
ovviamente.
C’era stato un
periodo, negli anni Quaranta, in cui ognuno, ogni mostro che era stato a
imporsi nei lager, era tornato tranquillamente alla propria attività, col
sorriso e modi cortesi di un’altra persona. Poi era scoppiata quella che chiamavano
la grande vergogna.
La Germania era
stata sconfitta, l’opera di Primo Levi era arrivata non dall’Italia, no, ma da
una recondita parte di tutti i tedeschi, come un velenoso ricordo o segreto che
era stato sepolto, ma non troppo a fondo.
Pochi sapevano, e
avevano taciuto. Qualcuno l’aveva sentito, ma non ci aveva creduto. Molti
avevano il sentore di qualcosa, ma non si erano interessati. Tanti avevano una
vaga sensazione, che avevano represso. Troppi avevano sorriso, ciechi e sordi,
mentre il sangue e le urla erano ad un passo da loro.
Eike tornava a
Berlino ogni tanto, per vedere come stava, quella patria che odiava, e per
allontanarsi da Acilia e Jacque.
Pensava di odiarla,
sì, la sua città, ma in realtà non rimproverava nessun tedesco. Perché anche
lui – e Jacque, e Acilia – avevano capito ed erano stati fermi. Ma loro erano
già mostri così com’erano, che differenza faceva?
Rimproverava i suoi
genitori forse, sì, loro. Jacque era incredulo e arrabbiato, ma degli
sconosciuti dopotutto che si può sapere? È inutile additarli e giudicarli. Ma
più ci pensava più si rendeva conto che anche i suoi genitori erano degli
perfetti sconosciuti, per lui. Ricordava che suo padre parlava così bene delle
Camicie Brune. Ricordava che lui, Eike – suo figlio dodicenne! – era stato
ucciso dalle Camicie Brune.
E ora non ci sono
più nazisti, pensava Eike avanzando in quella strada buia e deserta, ma la
paura che prima o poi qualcosa accada, che qualcosa esploda, che qualcosa ti prenda e ti morda, ti succhi
il sangue, ti uccida. La paura non finisce, la vergogna non cede il posto a
niente.
C’era molto sporco
in giro. Pezzi di cartone bagnati dalla pioggia abbandonati in strada, lattine
di coca cola in piedi sui marciapiedi. L’aria era densa, grigia, maleodorante.
Non trovava più il parco in cui giocava coi suoi compagni di scuola. I tempi
erano cambiati, nulla gli sembrava come quando era bambino. Tutto evolveva – o
involveva – solo lui rimaneva sempre
uguale, ennesima macchia di un mondo che stava andando a rotoli. I suoi
genitori dovevano essere già morti, gli importava poco.
Acilia e Jacque
avevano passato anni senza rivolgersi quasi la parola. Erano irritanti, perché
si ostinavano comunque a vivere insieme. Il loro rapporto era talmente
consolidato che non c’era più bisogno di parlare, ma neanche se ne accorgevano.
Erano tornati in rapporti civili ma Eike non aveva visto più un solo bacio. Che
lo facessero di nascosto non sembrava, si vedeva dalla faccia di Jacque.
Ma non erano i suoi genitori e lui era
grande ormai per rattristarsi per queste cose.
Grande…
In lontananza
vedeva ergersi un alto muro di cemento armato. Era lui, era ancora lì. Il muro
di Berlino, quello che dall’altra parte chiamavano Barriera di protezione antifascista, si ergeva da più di vent’anni
ormai.
Eike si accertò che
in giro non ci fosse nessuno e si mise a correre per raggiungerlo. Pochi
secondi e con la mano poté toccare il cemento macchiato di colore. C’era una
grande confusione di scritte e disegni, varie calligrafie in vari colori e
varie lingue. Al di là del muro c’era quello spazio che chiamavano striscia della morte. Poi un altro muro,
con altre calligrafie ma gli stessi colori e le stesse lingue.
Eike fece vagare il
suo sguardo a destra e a sinistra. Il muro sembrava essere infinito. Era una
cosa incredibile, separare le persone. Era questo il divertimento dell’Unione
Sovietica? I tedeschi non avevano bisogno di un muro per stare separati,
avevano bisogno di confrontarsi, di parlarne, di perdonare…
Lesse qualche
scritta. Ce n’erano di malinconiche, ce n’erano di arrabbiate. Una frase di
addio. Eike non le aveva mai lette, non c’era mai stato in quella parte di
muro. Una calligrafia tremolante attirò la sua attenzione, forse perché le
lettere erano grandi, forse perché c’era scritto il suo nome.
Eike, torna da me.
Sotto quella frase,
intricata ad altre parole, c’era una firma, dello stesso colore, e di certo
Eike non l’avrebbe notata se non avesse ben distinto una I. Dopo la I c’erano
delle ondine, delle m, Eike socchiuse
gli occhi. Se lo stava immaginado, certo, ma anche se non fosse stata la sua
immaginazione, quante donne c’erano a Berlino che si chiamavano Imma?
Tantissime. E quante che chiedevano ad un uomo di nome Eike di tornare da loro?
Molte, o poche, ma di sicuro qualcuna c’era. E poi lui era morto per Imma, sua
sorella non avrebbe mai pensato di…
Sei tornato da lei. Una volta.
Eike vacillò
davanti a quella scritta, era come se tra le parole vedesse sua sorella, la
piccola Imma, spaventata davanti a lui, e che cresceva, sempre con quell’espressione
confusa e spaesata, e piangeva…
Perché l’ho fatto?
Attaccò i
polpastrelli al muro, ansimando, come in cerca di qualche indizio.
Lo trovò. Di fianco
alla parola Imma c’erano altre
parole, era un indirizzo! Qualcuno ci aveva scritto sopra con un altro colore,
maledizione! Strinse gli occhi, si ripeté che i suoi sensi erano super
sviluppati e cercò di districare ogni lettera. Lesse l’indirizzo – o quello che
credette di aver letto – e lo ripeté più volte per memorizzarlo. Sfrecciò via
ma dove sarebbe andato? Aveva dodici anni quando era morto e non li conosceva i
nomi delle vie!
Si sforzò di
ricordare… un appoggio, un qualunque aiuto…
Un bar, davanti al
bar tre cassonetti della spazzatura. Quel posto gli era familiare… Sentiva le
scarpe che calpestavano le pozzanghere, i pantaloni gli si stavano bagnando…
L’odore non gli diceva niente, niente. Era tutto così nuovo, così diverso!
Eike, torna da me.
Non è che le aveva
rovinato la vita?
Fece due conti.
Imma ora doveva avere… sessantacinque anni! Quanto tempo era passato… Quando
l’aveva scritta quella frase? Massimo ventidue anni prima. Pensava ancora a
lui? E se non fosse stata più viva? Ma dove pensava di andare?!
Smise di correre,
per ragionare. Voltò la testa a destra e a sinistra. C’era una coppia di
anziani signori che camminava tenendosi per mano.
Avrebbe potuto
chiedere indicazioni, che problema c’era? Per loro lui sarebbe stato un innocuo
bambino di dodici anni, mica avrebbero pensato che fosse un vampiro. Oppure
poteva incantarli! Immaginò la faccia di Acilia se fosse stata lì presente, in
quel momento critico dovevano ridurre i rapporti con gli umani al minimo (per
il nutrimento)… Ma tanto li avevano già scoperti! Non c’era più niente da fare…
Niente… Dall’altra parte della strada, vicino al palo della luce c’era un’altra
persona, un uomo, immobile, sul ciglio del marciapiede. Aveva l’espressione
ferma, a parte per gli occhi, quelli saettavano di qua e di là velocemente.
Vestito tutto di nero come se fosse a un funerale, mortalmente pallido.
“Ehi, ragazzino,
non dovresti girare per strada a quest’ora”.
Eike sussultò e si
voltò.
Dietro di lui c’era
una donna, con un braccio attorno a un cesto, che lo guardava con un misto di
preoccupazione e severità sul volto. Aveva le sopracciglia folte e un accenno
di rughe.
Neanche lei, signora.
“Mi sono perso, mi
può aiutare?” si buttò Eike, tentando di usare i vocaboli che avrebbe usato un
bambino.
Il volto della
donna si ammorbidì.
“Devo andare in Oranibruger Strasse” continuò lui in fretta.
Lei alzò un sopracciglio. “Intendi Oranienbruger?”.
“Sì, forse, può essere” farfugliò lui.
“È qui vicino” rispose lei, guardandolo poco
convinta, alzando il braccio libero e indicando l’incrocio davanti a loro. “Vai
a destra, poi dopo un centinaio di metri giri ancora a destra. Quella è la
via”.
Eike sorrise, sinceramente contento.
“Grazie mille!” esclamò.
La donna annuì e senza aspettare che lei dicesse
altro, Eike si buttò in mezzo alla strada per attraversarla. Passò vicino
all’uomo eretto di fianco al palo della luce e si ricordò di lui, non era certo
umano.
Si fermò un attimo a guardarlo ma l’uomo non era
interessato a lui. Stava avanzando, nelle sue lucide scarpe nere, verso la
donna col cesto. La donna, tranquilla, non l’aveva visto, si stava allontanando
nella direzione apposta.
Se ci fosse stato
Jacque, avrebbe fatto qualcosa. Ma Eike non era Jacque, lo capiva quando non
c’era niente da fare. E si allontanò in fretta, inseguendo quello che avrebbe
potuto fare un tempo, o quello che non avrebbe dovuto, inseguendo i ricordi che
riuscivano ad avere solo una fanciullesca trasparenza.
*
Era da un po’ che
temporeggiava, il momento di divertirsi era finito. Se l’era vista brutta
quella notte, ormai aveva capito che Dubris e la sua combriccola gli erano sempre
alle calcagna.
Bisognava fare le
cose per bene, insomma. Non voleva certo fare il vampiro scapestrato fuorilegge
per sempre. No, non sarebbe stata una vita piacevole.
Alzò lo sguardo. Ad
Arcangelo non riusciva mai a vedere un bel cielo stellato, anche quello gli
sarebbe piaciuto. Il buio, la notte e le sue luci, una tela dipinta coi colori
dell’oscurità, la sua oscurità…
Kaeso rilassò il
corpo e inspirò l’aria.
Quando poi i colori
del buio si macchiavano di rosso, era magnifico. Adorava il rosso. Carminio,
amaranto, cremisi, scarlatto… Ogni sua sfumatura.
“Cosa stiamo
aspettando?” fece Svetlana, nervosamente, appoggiata alla Dacia nera
parcheggiata e impegnata a guardarsi lo smalto sulle unghie.
Kaeso si voltò a
guardarla, un po’ infastidito.
“Rilassati, goditi
questa serata”.
Il vento fischiava
leggermente e le insegne luminose dei negozi stavano cominciando a spegnersi,
in un gioco di suoni e bagliori.
Svetlana si mise
una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sbuffando piano. Anche i suoi capelli,
così chiari e lucenti, creavano un bellissimo contrasto, così, intagliati nella
notte.
Un gruppo di
ragazzi che portavano i pantaloni a vita bassissima le passarono a qualche
metro di distanza e fischiarono nella sua direzione.
Svetlana fece un
sorrisetto e sembrava intenzionata a muovere dei passi verso di loro.
“Ferma” le ordinò
Kaeso, guardando le mutande bianche e grigie dei ragazzi che sparivano dietro
l’angolo. Quanta poca eleganza.
“Potevi metterti
qualcosa di meno appariscente” disse poi, guardando la sua minigonna rosa
shocking.
“Certo, papà” digrignò lei, tra i denti.
“Non sono tuo padre
e tu non sei mia figlia” disse Kaeso, mettendosi le mani nelle tasche dei jeans
e guardando da un’altra parte. I vampiri facevano una gran confusione tra i
termini creatori e genitori, creati e figli. Lui no.
Sentiva addosso lo
sguardo pungente della ragazza. L’aveva creata il secolo scorso, aveva solo
ventitré anni. L’aveva trovata in mezzo ad una strada.
“Kaeso” fece una
voce perplessa.
Finalmente.
Kaeso alzò lo
sguardo e il suo sangue ribollì per l’emozione.
Lyuben era in
piedi, davanti a lui, la giacca nera chiusa, delle chiavi in mano. Aveva l’aria
vagamente confusa, ma non allarmata.
Kaeso balzò in
avanti, superando la Dacia. Gli conveniva cambiare macchina ogni tanto, a
Lyuben, per evitare di essere seguito.
Il biondo recuperò
un’espressione pacata. “Una bella serata, non è vero?”.
Ti converebbe arrestarmi subito, e lo sai.
“Non c’è neanche
una stella” obiettò Kaeso, fermandosi a pochi metri da lui. Lyuben non
l’avrebbe mai attaccato. Erano le nove di sera e ancora la gente era in giro.
“Bella macchina”
disse ancora lui, accennando alla Dacia. Di nuovo guardò fisso il Presidente.
“Non trovi più pratico volare?”.
“Io mi voglio
integrare, Kaeso” rispose l’altro, tranquillo “E gli umani non volano”.
Kaeso non riuscì a
trattenere una grossa risata. “E dove volevi andare, caro Lyuben, con questa
bella macchina e senza scorta? A integrarti?”.
“A pregare. E
volevo essere solo”.
Kaeso alzò un
sopracciglio e fissò lungamente il suo nemico. La vaga aria di un quarantenne,
sicuro nella bocca, preoccupato nella fronte.
“Pregare?” ripeté
lui “Lyuben, sei nato tremila anni fa, dovresti saperlo che non c’è nessuno da pregare”.
“La religione è ciò
che serve agli umani per trasforamare il caos, l’indistinto, in qualcosa di
definito” rispose l’altro, tranquillamente “E noi non siamo così diversi da
loro, solo che ognuno ha la propria, di religione”.
Kaeso si sentì
toccato dall’argomento. Sapeva bene che non doveva perdere tutto quel tempo, ma
era interessato. Il cielo continuava ad essere blu scuro, i passanti non li
degnavano di uno sguardo, Svetlana dava leggeri segni di impazienza e di
nervosismo. Era tutto racchiuso in un momento che non sarebbe mai più tornato,
che senso aveva sprecarlo?
“Parli di Caino?
Non crederai a quelle fandonie” disse, con una smorfia.
I fanatici
credevano che il primo vampiro fosse stato Caino, che da Caino derivasse la
stirpe dei vampiri, e da Abele quella degli umani.
“No” rispose Lyuben
“Parlo di una storia che probabilmente tu non potresti capire”.
Kaeso aggrottò la
fronte. Non conosceva alcun vampiro più vecchio di Lyuben, nessuno… Che fosse
stato lui il primo? Il vero Creatore? Non credeva in Caino perché non credeva
in Dio, ma qualcuno, qualcuno doveva pur aver cominciato a generare qualcun
altro!
“Sei così convinto
che non esista Dio, Kaeso” proseguì Lyuben “Non credi nelle cose inspiegabili?
Non credi nelle cose paranormali? Dovresti aver cominciato a crederci quando
sei stato trasformato”.
Si stava
avvicinando e Kaeso avvertì per la prima volta un accenno di nervosismo. La
sentiva quasi nell’odore, la potenza del vampiro che aveva di fronte. La verità
era che aveva smesso di credere a qualsiasi cosa, quando era stato trasformato.
Tutti gli dei gli si erano ritorti contro, e lui aveva voltato le spalle a
loro.
“Dove saresti
andato a pregare?” domandò, quasi in un bisbiglio “Sulla tomba di chi?”.
Il volto di Lyuben
era impassibile e il sibilo di Kaeso si fece più arrabbiato: “Dimmelo!”.
Il biondo lo
guardava dritto negli occhi, senza la traccia di alcuna sfida. “Lo vedi, Kaeso,
che anche tu hai bisogno di trasformare l’indistinto in qualcosa di definito?”.
Kaeso tentò di
mantenere la calma ma Lyuben lo afferrò per la mascella, lo stringeva fortissimo,
gli faceva un gran male. Gli sembrava che la sua faccia si stesse sciogliendo.
Svetlana fece un passo avanti con un mormorio ma Kaeso alzò una mano per
fermarla.
“Vorrei arrestarti”
disse il presidente, una traccia maligna negli occhi, senza mollare la presa
“Ma immagino che mi renderai la cosa impossibile, non è vero? Non sei uno
sciocco, sarai venuto ad affrontarmi con i dovuti rinforzi”.
L’osso, l’osso gli
si stava rompendo… Ne sentiva il rumore, sentiva il sangue, che affluiva nella
sua faccia, che sgorgava dal naso…
Kaeso provò ad
afferrare il polso del suo nemico, e a spingerlo. Sembrava fatto di acciaio.
“Non ti dirò niente
a proposito del mio creatore” continuò Lyuben, conservando ancora quell’aurea
malvagia che non apparteneva al suo viso “Non ti darò la possibilità di dare un
senso alla tua vita, non ti darò nessuna
speranza di redenzione”.
Così come era
cominciato, il dolore cessò. Lyuben l’aveva lasciato andare con un gesto
sprezzante e si era allontanato di un passo.
Kaeso fece un
debole sorriso, mentre sentiva la sua faccia lavorare per tornare come prima, e
il dolore riprese a martellargli nel mento, ma lui lo ignorò.
“Habere et non haberi, come disse
D’Annunzio” disse, con un lieve fiatone. Allargò le braccia e alzò la voce. “La
vita è una gigantesca opera d’arte, da plasmare come vuoi! È questo l’unico
senso della mia vita, del resto non me ne frega nulla”.
La malvagità che
Lyuben aveva mostrato poco prima parve scivolare via come un drappo che cade
dalla testa, fino ai piedi. Manifestava solo malinconia.
“Se devi sempre
dire ciò che hanno già detto altri” disse, mestamente “significa che in realtà
tu da dire non hai niente”.
Fece per
avvicinarsi di nuovo a lui, con più cattiveria, con l’intenzione di ucciderlo
forse ma poi si fermò, un urlo che gli deformava il volto e le mani, brucianti,
che cercavano di togliersi di dosso ciò che gli aveva appena cinto il collo,
una catena d’argento.
Qualcun altro urlò
e Kaeso si voltò.
Un gruppetto di
quattro umani stava guardando la scena a bocca aperta.
“Sve” disse lui,
prontamente “Pensaci tu”.
Svetlana si mosse
velocemente, compiaciuta e lui tornò a fissare Lyuben, intrappolato ormai nella
stretta di più catene d’argento, macchiate di sangue, accerchiato dai suoi
compagni.
Lo guardava, non
spaventato, neanche arrabbiato, quasi rassegnato.
Kaeso alzò lo
sguardo al cielo, mentre sentiva i passi dei fuggitivi e le grida della gente.
Era apparsa una
stella, splendente perché unica. Una macchia fulgida e brillante nella tela
nera dell’universo.
Sorrise, poi il
sorriso si spense, come se qualcuno avesse premuto l’interrutore, spento la
luce, e quasi si aspettava che anche la stella svanisse.
“Bright star” recitò, a bassa voce,
immaginando la natura e la poesia di Keats. L’amore? “Would I were stedfast as thou art…”
Abbassò lo sguardo,
incrociando quello di Lyuben, i capelli biondi, luminosi nella notte come la
stella, rosso di sangue, in ginocchio, legato, i denti che digrignavano e gli
occhi che non esprimevano però, inspiegabilmente, alcuna sofferenza.
Poi il prigioniero,
con un urlo, le mani e il volto ustionati, grondante di sangue, allargò le
braccia, si liberò dalle catene e si rialzò in piedi.
Inghilterra, 1983
Qualcuno stava
bussando alla porta. Jacque poggiò ben volentieri il giornale sul tavolo e si
alzò dalla sedia. Non gli piaceva proprio per niente la lingua inglese, non
l’avrebbe mai imparata correttamente. Nervosamente, sbirciò oltre le tende
delle finestre e subito rimpianse la lettura di inglese che si stava
infliggendo. Dubris era fuori dalla porta.
Jacque contemplò
per un momento l’idea di lasciarlo lì poi decise di infischiarsene e di andare
a sentire cosa volesse.
Aprì la porta,
consapevole di avere un’espressione ostile in volto.
Dubris parve
sorpreso di vederlo, per un attimo quasi in imbarazzo.
Mi prendi in giro?
Jacque si sentiva
vagamente intimidito da lui. Fisicamente era più vecchio di lui ed era morto da
molto più tempo, era molto più alto ed era stato vicino ad Acilia per cinque
secoli.
“Cercavi Acilia?”
domandò il giovane, con una piccola smorfia.
Dubris esitò. Poi
disse: “Sì”.
“È andata a
mangiare”.
“Non cacciate
insieme?”.
Jacque alzò le
sopracciglia. Non erano affari suoi. “Non più”.
Nessuno disse
niente per un po’, poi il rosso chiese: “Eike come sta?”.
Jacque non poté non
stupirsi per la domanda. “Sta bene. Al momento è a Berlino”.
“Da solo?”.
“Sì”. Jacque
incrociò le braccia e inarcò le sopracciglia. “Se la sa cavare”.
Dubris non sembrava
convinto. “Certo”.
Jacque attese che
il visitatore disse qualcos’altro, ma non diceva niente e si accinse a
rientrare.
“Volevo dire”
esclamò subito Dubris. Fece una pausa. “Volevo ricordare ad Acilia che tra poco
ci sono le elezioni, per il nuovo presidente”.
Lo scrutò. “Tu… Non
puoi ancora votare, vero?” aggiunse.
“No” rispose Jacque,
secco.
“Finalmente si
cambia” disse il rosso, con un’alzata di spalle. Si sforzava di essere
cordiale, ma gli veniva malissimo. “Anche se ormai temo che il danno sia già
stato fatto”.
A Jacque poco
importava che gli umani li avessero scovati. Gli dispiaceva che il panico
dilagasse, certo, ma lui… Che ci poteva fare? In ogni caso doveva vivere
nell’ombra, nascosto, come se fosse qualcuno di orribile, qualcosa di
sbagliato, e, dopotutto, lo era, lo sapeva di esserlo.
Fece un cenno di
assenso e di nuovo fece per rientrare.
“Tu mi odi, Jacque”
disse Dubris d’un tratto, abbandonando quella finta espressione cortese che
aveva dipinta in faccia “Perché credi che io ti abbia portato via Acilia”.
Jacque sgranò gli
occhi. Gli avrebbe volentieri sbattuto la porta in faccia.
Se ne stava lì,
nella sua felpa color mattone, ad accusarlo di cosa? Anche se erano più scuri,
i suoi occhi erano gli stessi di Acilia… Freddi, opportunisti! Erano tutti
uguali.
“Se proprio devi
credere che sia una sfida tra noi due” continuò Dubris “ricordati che tu sei
venuto dopo”.
Jacque sentì un
moto di stizza. Dovette trattenere l’impulso delle sue zanne di saltar fuori.
“E quindi sarei io
che te l’ho portata via?” sbottò.
Dubris teneva lo
sguardo abbassato su di lui, fermo e deciso. “È lei che ci ha portato via
entrambi”. Fece un sorrisetto frustrato. “Non ama nè te nè me, renditene conto.
Ama solo se stessa”.
Jacque sentì la
rabbia invaderlo. Gli veniva da prenderlo a pugni, un gesto insensatamente
umano.
Ama solo se stessa.
Ci aveva pensato
anche lui, tante volte, ma poi la rivedeva con le lacrime che non poteva avere,
mentre lo proteggeva, lo teneva con sé, il loro stupido modo di vivere.
“Se pensi questo di
lei” disse, con calma ma serrando i pugni “puoi anche smettere di ronzarle intorno”.
Dubris gli si
avvicinò con sguardo truce. Aveva gli occhi, piccoli, stretti, nessuna luce al
loro interno. La mascella protesa, le parole vennero fuori quasi forzatamente,
e ringhiose: “Credi di aver capito già tutto. Sei solo l’ultimo arrivato”.
Jacque non riuscì a
trattenersi. La sua rabbia era la stupida rabbia di un ragazzo che voleva
difendere la sua donna e se stesso, o l’idea di loro insieme, o semplicemente
la sua dignità. Le zanne spinsero e, prima di rendersene conto, la sua mano era
stretta intorno al collo di Dubris.
Quello emise una
risatina. Poi scacciò via il suo braccio, come se scacciasse una mosca.
Per un momento
Jacque temette che lo colpisse ma poi il rosso scosse la testa e biascicò
qualcosa come vampiro infante.
“Ti saluto, Jacke” disse poi, pronunciando il suo
nome con un forte, fastidioso, accento inglese.
Jacque non rispose
e quello gli voltò le spalle, e si allontanò.
Tornò in casa e
sbatté forte il portone per la rabbia. Non voleva pensare ad Acilia, non
voleva! A volte pensava che lui ed Eike se ne sarebbero dovuti andare a vivere
da un’altra parte. Ma cos’avrebbero fatto? Lei era la sua creatrice…
Appunto, è la tua creatrice e basta.
Ricordava quando
Acilia gli spiegava che era complicato, che creatrice e creato non potevano
stare insieme! Ma che significava, non era mica sua madre… E allora perché
diavolo non si metteva insieme a Dubris? Lui era più vecchio, più esperto e non
era suo.
Jacque, cosa ti aspettavi? Noi non siamo umani, non
possiamo fare quello che fanno gli umani.
La stessa cosa
valeva anche per Dubris dopotutto. Loro non era umani, e basta.
Ama solo se stessa.
Vaffanculo, pensò
Jacque, buttandosi sul divano, senza sapere se si riferiva a Dubris o ad
Acilia. Forse a se stesso, o a tutto il mondo, che gli faceva sempre più
schifo.
E non gliene
fregava proprio un cazzo delle elezioni.
*
Lyuben era ancora
più forte di quello che pensava. Le catene ai suoi piedi, le lunghe e affilate
zanne ben in vista, noncuranti della folla, lottava per salvarsi. Manuel era
già a terra, e dopo poco il suo corpo sparì, lasciando spazio alla sua vera
consistenza, sangue e basta.
Kaeso lanciò un
sommesso grido di rabbia, mentre Lyuben teneva testa a tre dei suoi,
contemporaneamente. Uno lo teneva fermo per un braccio, l’altro per la testa,
il terzo con la bocca, lo stava mordendo, e sangue sporco, nero, usciva a
fiotti da ogni foro della sua pelle.
Gli umani correvano
di qua e di là, una sirena gli preannunciò l’arrivo dei cacciatori. Era ovvio
che sarebbero arrivati, ma Kaeso pensava che per quel momento loro avrebbero
già finito il lavoro.
Fece vagare il suo
sguardo inquieto sui suoi compagni. Alcuni tentavano di aiutare i loro amici in
difficoltà, altri guardavano Kaeso spaesati, in attesa di istruzioni.
“Svetlana, Christoph,
Philippe, Andrea e Katrin” sbottò, nominando alcuni, facendo attenzione a
mescolare giovani e vecchi “Voi occupatevi dei cacciatori e degli umani”.
Quelli fecero un
passo in avanti e corsero verso la folla di umani che si stava disperdendo, e
stava lasciando posto a uomini corazzati e armati.
Gli umani erano
stupidi, se se ne fossero stati buonini nessuno di loro si sarebbe fatto male.
No, quella sera tutte le energie sarebbero dovute essere dedicate a Lyuben, non
c’era tempo di festini. E invece gli umani dovevano intromettersi, benvenuti
allora! E, terrorizzati, forse si chiedevano perché mai dei vampiri lottassero
tra di loro. La stessa domanda che poteva porsi un gatto, un cane o un uccello,
vedendo continuamente gli umani in lotta tra loro. Era tutto così chiaro, era
un altro segno del fatto che loro vampiri fossero ad uno scalino più avanzato
dell’evoluzione umana!
Kaeso estrasse
dalla tasca della giacca dei guanti neri e li indossò velocemente. Afferrò una
catena d’argento e si buttò nelle esplosioni di sangue che stavano avvenendo
attorno a Lyuben, e ogni esplosione era un nome, un urlo e la violenza e la
rabbia che crescevano, sempre di più.
Spiccò il volo e
lanciò un estremo della catena addosso a Lyuben, non curandosi degli altri che
venivano colpiti. L’argento non li avrebbe uccisi.
Lyuben, il volto
ricoperto di sangue e piaghe, cadde.
“Avanti! Legatelo!”
gridò Kaeso, lasciando cadere la catena.
Con varie smorfie e
ringhii, Patrick e Florian, i due che erano addosso a Lyuben, feriti in volto,
afferrarono la catena nei guanti e legarono il presidente, tenendogli braccia e
gambe ferme. Lui pareva esausto, disperato, l’argento gli bruciava il viso e le
mani, e lo immobilizzava. Non sembrava più avere alcuna forza, sdraiato a
terra, col respiro pesante, le pelle rossa che fumava.
Ci furono degli
spari e Kaeso alzò lo sguardo verso i cacciatori, allarmato. Svetlana era
ancora in piedi, lei e gli altri li tenevano impegnati, ma qualcuno era stato
colpito? Non sentiva niente dentro di sé, se qualcuno era stato colpito non era
un suo creato, ma il pensiero lo spaventava. “Andate ad aiutare gli altri!”
ordinò a Patrick e a Florian. Quelli, esausti, si stavano riprendendo e non si
mossero. Kaeso urlò l’ordine più forte, più cattivo e i due, senza dire niente,
presero il volo. Non gli importava quanto fossero stanchi, dovevano aiutare gli
altri, non doveva morire nessun altro! Tutto per colpa di…
Diede un poderoso
calcio al corpo di Lyuben, che incassò come un sacco di patate. Tossiva, dalla
bocca e dal naso colava sangue.
Kaeso si chinò su
di lui e lo afferrò per i capelli che ricordava biondi, ma ora erano neri e
rossi, sporchi, appiccicosi, morenti. Anche loro non erano altro che sangue.
Tirò i capelli e
gli inclinò la testa violentemente, costringendolo a guardarlo.
Lyuben ricambiava
lo sguardo, senza espressione. Ma il suo corpo, rinchiuso nell’abbraccio
d’argento, tremando, lo tradiva.
“Dimmi, Lyuben”
disse Kaeso, dolcemente, tirando senza pietà “Che cosa rimpiangerai di più? Non
aver realizzato il tuo patetico sogno di integrazione? O non essere riuscito a
fermarmi?”.
Il suo nemico lo
guardava con odio, dagli occhi chiari uscivano rivoli di sangue. L’azzurro, il
rosso e il bianco si mescolavano ma lui chiuse le palpebre e digrignò i denti,
mentre le braccia si muovevano freneticamente.
“O ti dispiace
lasciare da soli i tuoi amichetti? Lasciare sola Ramona?” continuò Kaeso, melenso.
Lyuben soffocò un
grido.
Kaeso tirò più
forte i capelli. “Non rispondi, Lyuben? Dov’è finita la tua galanteria?”.
Gli prese il volto,
arrabbiato e gli strinse con una mano le guance. “Guardami!”.
Lyuben aprì a
fatica gli occhi, ma quelli non esprimevano più niente.
“Non ti chiedi cosa
c’è dopo la morte?” sbottò Kaeso, arrabbiato “Non hai paura di morire davvero?”.
Il biondo aprì la
bocca e tossì. Poi disse, con parole lente, ansanti e sofferenti: “No, perché
io… Lo so… Cosa c’è. Dopo. Tu non lo sai. Tu avrai sempre… paura”.
Furioso, Kaeso gli afferrò
la testa e tirò con tutta la potenza che aveva. L’ultima parola che lesse sulle
labbre di Lyuben era molto simile al nome di Ramona e lui tirò così forte che
sentì la pelle che gli veniva via dalle mani.
Il collo di Lyuben
Vladimir si strappò in più punti, e il sangue, come desideroso di vedere finalmente
il mondo, uscì subito, ciascun rivolo rincorreva l’altro. Il corpo ricadde su
se stesso e, con la sua testa tra le mani, Kaeso si alzò da terra e lanciò un
grido di trionfo.
La battaglia tra
vampiri e cacciatori era ancora in atto, gli spari e le grida erano la colonna
sonora di quel magico momento.
Poi la testa di
Lyuben si deformò come un pallone che si sgonfiava ed esplose, imbrattando di
sangue il braccio di Kaeso, e lasciando posto a un pezzo di cielo,
all’universo, all’ignoto, che lui non poteva più sperare di capire. La stessa
stella che aveva visto poco prima brillava ancora più intensamente e il piacere
lo invase, come luce che arriva dalle tenebre.
To feel for ever its soft fall and swell,
Awake
for ever in a sweet unrest,
Still,
still to hear her tender-taken breath,
And
so live ever, or else swoon to death…
*
Eike vagava avanti
e indietro, lungo quella via. C’erano varie palazzine, in quale avrebbe trovato
l’illusione che cercava?
Una ragazza dai
ricci capelli biondi e con un lungo vestito celeste stava camminando con delle
buste, davanti a lui. Eike la seguì e quando lei si mise di profilo, di fronte
a una porta, Eike dovette trattenere l’impulso di urlare “Imma!”.
Ci assomigliava
così tanto, quella ragazza. Aveva il suo stesso profilo, i suoi stessi capelli.
La porta si aprì e
lei scomparve alzando le scarpine nere.
Eike avanzò piano e
titubante verso quella casa. Era uguale a tutte le altre, in cemento. Eike non
ricordava di aver vissuto mai in una casa così. Erano abitazioni strane, che
non sentiva come sue, non le sentiva autentiche.
Alzò lo sguardo. La
casa era a due piani e c’erano due balconi, uno per piano. Avrebbe potuto
spiare da lì, ma come ci sarebbe arrivato? Non c’erano appigli, nulla. E se
qualcuno fosse passato di lì cos’avrebbe detto nel vedere un ragazzino che si
arrampicava sul balcone di una casa?
Raccolse una
cartaccia da terra che piegò accuratamente in quattro parti e, dopo grandi
attimi di esitazione, e si ritrovò a bussare alla porta.
La stessa ragazza
di cui aveva visto la nuca e il profilo aprì con aria interrogativa.
Eike notò che aveva
gli occhi più grandi di Imma, erano quasi sproporzionati rispetto alla faccia.
“Sì?” fece.
Eike sventolò in
fretta il foglio piegato che aveva in mano. “Devo consegnare un messaggio alla
signora…”. Esitò. Signora cosa? Qual era il cognome di Imma ora? Si era
sposata? Decise di tentare. “Imma Lehmann”.
Per un momento
pensò che la ragazza gli dicesse che non esisteva nessuna Imma Lehmann e che
aveva sbagliato casa. Ma poi sbatté le palpebre dei suoi grandi occhi e tese la
mano.
“Dammi pure, glielo
consegnerò io”.
“No” disse subito
Eike “Devo darglielo personalmente”.
La ragazza fece una
risatina. “Ma chi sei?”.
“È una cosa
importante”.
Quella ancora
rideva.
“Mia nonna non vive
qui” disse dopo un po’ “Hai sbagliato, abita nella casa qui affianco”. Indicò
verso destra.
Nonna.
“Ma ti ripeto che
puoi darlo a me, lo darò a mia madre. Tanto va a trovarla spesso, le può…”.
“No, non importa,
grazie mille” disse Eike in fretta, facendo un abbozzo di inchino.
La ragazza incrociò
le braccia al petto e di nuovo ridacchiò, con una vaga traccia di imbarazzo.
“Sei un ragazzino strano”.
Eike la ignorò,
pensando che gli sarebbe piaciuto entrare per conoscere sua madre. La figlia di Imma…
“Allora ciao” disse
la ragazza, la porta in mano.
“Ciao” fece Eike,
debolmente, guardandola bene, cercando di imprimersi la sua faccia nella sua
memoria. Ma poi la porta si chiuse e lui ebbe l’impressione di aver già
dimenticato tutto, anzi, che l’avesse solo sognato.
Si fece coraggio e
corse di fronte alla casa subito a destra.
Suonò il campanello
e attese. Dopo quella che parve un’eternità una voce rugosa chiese: “Chi è?”.
Eike trattenne il
respiro. Cosa doveva dire? Se diceva la verità gli avrebbe aperto la porta? Ma
era lei che voleva rivederlo, no?
“Eike” rispose, con
un filo di voce.
La voce non disse
nulla. E poco dopo la porta si aprì.
Eike alzò lo
sguardo e vide una donna alta, col viso segnato dalle rughe, i capelli grigi
legati in una crocca. Ma gli occhi erano gli stessi che lui ricordava, quegli
occhi vispi e attenti, indagatori del mondo.
Lasciò andare un
debole urlo, con aria spaventata. Si guardò intorno, nervosamente, poi si
spostò, invitando Eike ad entrare.
Lui obbedì,
sentendo che le sue gambe leggere e veloci si erano improvvisamente fatte di
piombo.
Imma chiuse la
porta e non si voltò. Si teneva una mano sul petto e sussurrava con voce
tremante: “Oh Signore… Oh Signore…”.
Si voltò piano e
aveva ancora gli occhi sgranati. Dopo un po’ disse, con la stessa voce fioca:
“Pensavo che questo giorno non sarebbe mai arrivato”. Aveva un debole sorriso,
racchiuso tra due piccole strisce di pelle bagnata dalle lacrime. Si avvicinò a
lui con una mano protesa, ma poi la ritrasse, come se avesse paura di toccarlo.
“Vieni, siediti”
disse poi, scostando lo sguardo e avanzando verso una stanza. Camminava piano,
come se fosse stanca.
Eike la seguì in
quella che doveva essere la cucina. Lei si sedette al tavolo e lui fece
altrettanto.
“Come… Come mi hai
trovata?” domandò lei.
“Ho letto l’indirizzo
sul muro”.
Imma aprì la bocca
in una mezza risata incredula. “Quel dannato muro… Allora serve a qualcosa. Chi
l’avrebbe mai detto, ho scritto quella frase… quanti saranno? Quindici anni
fa?”. Eike vedeva i suoi occhi saettare su di lui, in ogni angolo, non stavano
mai fermi. “Sei proprio uguale” disse poi lei “Sei… come in una foto”.
“Ho visto tua
nipote” ribatté Eike.
Imma sbatté le
palpebre. I suoi occhi per un momento si fermarono. “Quale?”.
“Era una ragazza…
Quindici, sedici anni, forse”.
“Quindici” confermò
Imma, annuendo “È sempre fuori casa quella ragazza… Non lo capisce che…”.
Sospirò, senza finire la frase.
Eike le si
avvicinò. Non riusciva a smettere di guardarla, come lei non riusciva a
smettere di guardare lui. Lui cercava i cambiamenti in lei, lei cercava i suoi
ricordi.
“Non ha paura dei
vampiri?” domandò.
“Non ha paura di
niente, di nessun demone” rispose Imma, abbassando lo sguardo “Neppure di quelli del passato”.
Demoni del passato,
ripeté Eike riflettendo.
Imma tornò a
puntare gli occhi su di lui, di colpo, come se si fosse improvvisamente
ricordata di qualcosa.
“Chi è stato,
Eike?”.
Chi è stato.
“Mi hanno ucciso le
Camicie Brune, in un vicolo, per sbaglio” rispose lui “Colui che mi ha
riportato alla vita, se si tratta di vita, non ha alcuna colpa”.
Imma aveva l’aria
nauseata. Poi si riprese. “Come sei cambiato”.
“Non è vero”.
“Sì, parli in modo
diverso”.
Eike fece
spallucce. “Gli anni passano anche per noi, solo che vanno molto più lenti”.
Imma non diceva più
niente. Gli occhi erano ancora sbarrati. Ma ci credeva davvero a quello che
stava vedendo? Eike si aspettava di sconvolgerla di più. Ma Imma… Imma riusciva
sempre a sorprenderlo.
“Nostro padre si
era arruolato nelle SS, Eike” disse finalmente la donna, con un sospiro “Ed è una
cosa per cui non smetterò mai di provare vergogna. Ma sapere che è colpa loro se…”. Non finì la frase, gli occhi
brillarono di nuovo di lacrime.
Eike non si
sorprese. Suo padre era lontano anni luce.
“È morto?”.
“Sì, anni fa. Anche
la mamma”.
Eike non disse
niente e Imma continuò: “Se fossero vissuti qualche anno in più, avrebbero
scoperto dell’esistenza dei vampiri anche loro e, forse, mi avrebbero chiesto
scusa”.
Eike si ritrovò di
nuovo a trattenere il fiato mentre la solita pioggia di domende lo assaliva.
Cos’era successo ad Imma dopo la sua riapparizione? Cos’aveva pensato?
Cos’aveva detto? Stava annegando, tra le domande.
Imma dovette
leggergli nella mente, ma disse semplicemente, e senza l’ombra di un
rimprovero: “Non mi credevano. E dopo un po’ smisi di credermi anch’io. Ma
quando la gente ha cominciato a parlare di vampiri, io lo sapevo fin da subito
che non erano fandonie”.
Eike non ebbe il
tempo di dire niente perché Imma non smetteva di parlare. “Avrei voluto lottare
di più, avrei voluto continuare a credere a quello che avevo visto… Avrei
voluto anche trovare un modo per dire a nostro padre di smetterla. Di
ascoltarmi, di non seguire Hitler, di non cercare la guerra, di pensare di più
a noi!”. Fece una pausa, come se una sola parola in più l’avrebbe fatta
esplodere. Le lacrime scorrevano lungo la pelle bianca e ruvida. “Ma ero solo
una bambina”.
Anche Eike avrebbe
voluto lottare di più. Neanche sapeva per cosa, forse contro il mostro che
stava nascendo dentro di lui, contro i suoi impulsi.
“Raccontami della
guerra” disse. Pensava a Jacque, a come avrebbe voluto lottare, una lotta tutta
umana, e quasi più mostruosa di loro.
“Si può solo
ricordare, solo ricordare fino allo sfinimento” fece Imma, stringendo le
labbra.
I demoni del passato.
“Quando Thomas Mann
fece quell’annuncio alla radio, quando parlò di Auschwitz e delle camere a gas,
la mamma mi disse che non era vero niente. Ho pensato che mi stesse mentendo ma
solo dopo ho capito che noi non crediamo alle cose che non hanno senso di
esistere, non le accettiamo. Non aveva voluto mentirmi davvero”.
Eike cercò di
rispecchiarsi negli occhi luccicanti di Imma. Se avesse potuto piangere, forse
avrebbe voluto ricordare anche lui. “Io preferisco dimenticare… tutto quello
che ho fatto”.
Imma sospirò, posandosi
una mano sul petto, ricoperto da un maglioncino grigio. “Sulle cose che non
possiamo comprendere, il giudizio deve restare sospeso, in eterno”. Lo guardava
dritto negli occhi.
C’erano tante cose
che Eike non comprendeva, ma non poteva essere una giustificazione! Avrebbe
voluto essere come Jacque, fin da subito. Lui ci era riuscito, non era
impossibile.
“Da quanto tempo
esistono i vampiri, Eike?” domandò Imma, mantenendo fermo lo sguardo.
“Non lo so” rispose
lui, sinceramente “La creatrice del mio creatore ha millenovecento anni, ma non
è la più vecchia”.
Imma sgranò gli
occhi. “E ce ne siamo accorti solo ora…”.
Eike abbozzò un
sorriso. “Nessuno ci credeva, perché non aveva senso” disse, ripetendo le
parole di Imma.
Lei non ricambiò il
sorriso. Era avvolta in una glaciale maschera di paura, che solo dopo qualche
secondo si sciolse un poco. Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra. I vetri
erano appannati e goccioline di umidità scivolavano sul vetro.
“Non ho mai
conosciuto la pace, Eike…”.
“I vampiri hanno un
sistema politico” disse Eike, senza neanche pensare “È appena finito il governo
di un pazzo incosciente, vedrai che le cose andranno meglio”.
Imma era
stralunata. “Sistema politico?”.
“Abbiamo delle
leggi. Non siamo dei mostri sanguinari, non tutti. Quelli come me si nutrono
senza uccidere”.
La donna aveva
ancora quello sguardo allibito, poi ad un tratto si alzò e circondò Eike con un
abbraccio. Quello si sentì come paralizzato, mentre la sorella scoppiava a
piangere. “Lo sapevo… Lo sapevo che non eri… Non eri…”. Non riusciva a finire
la frase ed Eike capì che lei aveva avuto paura di lui. Aveva paura di quei
demoni di cui aveva parlato subito, i demoni del presente, e del passato, che
si mescolavano in una danza dell’orrore e la tenevano appesa ad un filo. Aveva
paura per se stessa, per i suoi figli, i nipoti… Quella ragazzina che aveva
riso davanti ad Eike, sulla soglia di casa sua, non aveva conosciuto
l’assurdità terribile del passato e non si rendeva conto del pericolo del
presente.
“Imma” fece Eike,
con l’immagine di quegli occhi grandi e ignari ancora in mente “Dov’è tuo
marito?”.
Lei si staccò
dall’abbraccio e si portò una ciocca di capelli bianchi uscita
dall’acconciatura dietro l’orecchio. “Siamo separati da vari anni ormai”.
“Oh. Come mai?”.
Imma scrollò le
spalle. Lentamente, si sedette di nuovo. “Quando mi sono sposata ero così
giovane… E solo perché volevo fuggire da quella casa”.
Eike annuì. Poteva
comprendere, forse… No, non poteva. Lui non avrebbe mai amato, mai, nessuno…
“Mi piacerebbe
conoscerli i tuoi figli e i tuoi nipoti” disse.
Imma sorrise,
scuotendo la testa. “E come ti dovrei presentare? Farebbe male a me, e
soprattutto a te”.
Eike si mordicchiò
il labbro, incupendosi.
“Non puoi, Eike,
non sarebbe giusto”.
Lui si limitò ad annuire,
poi comprese quello che lei intendeva. Gli avrebbe fatto male conoscere la vita
che era andata avanti dopo di lui, conoscere quello che lui avrebbe potuto
fare, quello che avrebbe potuto essere, pensare di poter avere ancora una vita
umana… Doveva andarsene da lì.
Si alzò.
“Meglio che torni a
casa” disse. Qui non c’è posto per me.
“Qual è la tua
casa?” chiese Imma, con una leggera ansia “Dove vivi? Con chi?”.
“Sto in
Inghilterra” rispose lui “Con la mia attuale famiglia”. L’unica che poteva
avere, e dalla quale doveva tornare.
Fece per dirigersi
verso la porta e lei lo seguì, più velocemente che poteva. Faceva fatica a
stargli dietro, neanche si rendeva conto, lui, quanto camminava in fretta.
“Eike” lo chiamò
“Ti ho sempre voluto dire una cosa…”.
Lui si voltò e la
guardò, confuso.
“Mi dispiace”
dichiarò lei, asciugandosi gli occhi. “Mi dispiace…”.
Eike non capiva.
“Per cosa?”.
“Per tutta la
paura… Quelle storie… Ti spaventavo e basta”.
Se Eike non avesse
saputo tutte quelle storie coi vampiri, forse all’inizio non si sarebbe sentito
così potente, non sarebbe stato così contento.
Fece un sorrisetto.
“Eri troppo sveglia per avere un fratellino fifone come me”.
Era arrivato il
momento dell’addio, quell’addio che si era negato cinquant’anni prima, che aveva
sprecato a causa del suo stupido infantilismo, ora era veramente arrivato. E lo
sapeva anche Imma, che piangeva, e sorrideva, allo stesso tempo.
“Hai realizzato il
sogno di ogni bambino… E-essere un eterno P-Peter Pan, insegui la tua stella, e
non… Non ti fermare…”.
Lo abbracciò di
nuovo, più a lungo. Tremò. “Come sei freddo…”.
Eike ricambiò
l’abbraccio, la strinse forte, in quel corpo debole, che presto sarebbe morto…
E lui no, mai, mai…
Senza più dire
niente, si staccò da lei, guardò per l’ultima volta quegli occhi azzurri, i più
intelligenti che avesse mai conosciuto, e uscì.
*
Il posto del presidente
era vuoto.
Era strano che
Lyuben fosse in ritardo, non era da lui. Tutti se n’erano accorti, e nella sala
c’era un po’ di trambusto.
Acilia notò che i
mormorii provenivano soprattutto dall’ala destra. Il PO era cresciuto
esponenzialmente. Erano la maggioranza, e questo le faceva intuire qualcosa,
forse… Cosa succede quando la maggioranza cambia? No, si diceva, bisogna
aspettare le prossime elezioni.
“Ma dov’è Lyuben?”
fece Victorie, con aria preoccupata. Si voltò verso Ramona, in attesa di
spiegazioni. Ma lei si limitò a dire che non lo vedeva dalla notte prima.
L’espressione concentrata di Victoria, come se avesse un sospetto, come se
temesse qualcosa, si trasferì in un baleno sul volto di Ramona che subito cercò
il suo creatore, tra le file dei prefetti. Acilia seguì la traiettoria del suo
sguardo e vide lo stesso terribile sospetto negli occhi di Dubris. E i mormorii
dei membri del PO erano sempre più eccitati…
Acilia serrò in
pugni. L’euforia… Era sempre un cattivo segno, l’euforia.
La porta al di
sotto delle loro panche si aprì, una folata di vento, dei passi veloci, un
volto ghignante, euforico.
Acilia si sentì
agghiacciare il sangue, terribilmente, mentre Kaeso dichiarava di aver ucciso
Lyuben e di essere il nuovo presidente. Dubris e molti altri si alzarono in
piedi ma gli scagnozzi di Kaeso sembravano già pronti ad attaccare, a tutto pur
di difendere il loro orribile impero, ed erano più di loro.
“La scorsa notte è
stata fatta la storia, amici miei” disse Kaeso, con lo sguardo dritto in quello
di Acilia “Ora si fa sul serio”.
L’urlo disperato di
Ramona… Ancora le risuonava nelle orecchie, sarebbe risuonato in eterno.
Non
pensavo che ce l'avrei fatta, invece, scrivendo piano piano una
paginetta al giorno, sono riuscita a pubblicare prima del fatidico
esame XD
Dunque,
il capitolo, come si evince dal titolo, sarebbe una specie di omaggio
al poeta inglese Keats. Il fatto che Kaeso reciti un pezzo della sua
poesia Bright star dovrebbe
risultare grottesco: i puri versi che Keats indirizza alla sua amata
Fanny sono per Kaeso indirizzati alla sua distorta e folle concezione
di arte. Spero sia passata quest'idea, e che la cosa non sembri solo
una vaga forzatura che non c'entra niente con tutto il resto.. XD
Nene,
grazie mille per i complimenti! E' importante per me sentirmi dire che
non sono sempre uguale a me stessa, perché a volte ho proprio
l'impressione contraria.. I personaggi pure mi sembrano tutti uguali,
sarà perché uso per tutti loro la stessa "lingua", ma,
ahimè, l'italiano medio di oggi è l'unica lingua che
conosco.. Quindi mi fa un sacco piacere quello che hai detto ^^
Sì, Eike si comporta da un bambino perché è
questo che è, è patatoso esatto XD un patato un po'
macabro.. ma fase superata XD Per quel che riguarda Emily, ti correggo.
Sono andata a rileggere per paura di essermi espressa male però
non mi pare: ad Emily non è tornata la malsana idea di farsi
trasformare tranquilla XD Semplicemente l'ha pensato per
dirsi che sarebbe una gran cavolata, che - ed è questa la cosa
importante - non se la sentirebbe proprio per niente di rinunciare alla
sua vita solo per Jacque. E Kaeso sì, avrebbe proprio bisogno di
uno strizzacervelli, di uno bravo ahahah! Grazie ancora :D
Sara, anche
a te è piaciuto quella specie di esperimento, che bello XD
Eeesattamente, hai c'entrato il punto, cerco sempre di scegliere
i titoli dei capitoli nel modo più sensato possibile, a volte ci
riesco, a volte di meno ma il titolo del capitolo scorso era proprio
azzeccato. Le illusioni cadono giù per tutti i personaggi, come
hai detto tu. E anche il pezzo di Kaeso in quel contesto aveva un suo
senso, perché, mentre le illusioni degli altri cadono, lui se la
crea, un'illusione/inganno, creando nel contrasto una "doccia fredda",
termine molto adatto che hai usato tu XD Molto bello anche il
termine "psicoscopio" ahahaha! Nella mia ignoranza non sapevo che
quella sindrome che lega oppressi e oppressori si chiamasse "sindrome
di Stoccolma" però sì teoricamente sviscerare il rapporto
tra le due parti era voluto XD Grazie mille per tutte le belle parole
che hai usato *_*
Sapete
una cosa, mi sorprende che nessuno abbia mai detto che Acilia è
un po' vacca XD Mi fa piacere perché vuol dire che sono riuscita
a rendervi chiaro il flusso delle sue emozioni :DD
Duuunque, adesso faccio sto esame, poi tornerò entro fine gennaio con il capitolo-chiave! ;)
ps:
Che Lyuben morisse era scontato fin dall'inizio (i troppo buoni e
troppo potenti fanno sempre una brutta fine..) quindi mimimi non
arrabbiatevi :333
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** Dimenticare ***
Ventesimo capitolo
CAPITOLO XX
DIMENTICARE
Acilia non poteva crederci che Kaeso l’avesse davvero fatto. Non poteva crederci che Lyuben davvero non ci fosse più!
Ma perché non ci credi, si diceva, non lo conosci Kaeso? Non sai di cosa è capace?
Possibile che avesse davvero rimosso ogni cosa? Lyuben era morto ed era colpa sua… Che non aveva agito subito, che si era messa a far di tutto, pur di perdere tempo! Pure uscire con un umano!
Ancora lo sguardo di Dubris non lo dimenticava.
Perché sembra che non te ne freghi più un cazzo?
Non è quello, Dubris, non è che non me ne frega più…
E’ che me ne frega troppo, è forse quello il problema?
Uscì
di casa quasi correndo. Aveva avvertito Jacque ed Eike di quello che
era successo. Si erano sorpresi, rattristati forse, ma non era con loro
che lei voleva parlare. Doveva andare da Dubris, spiegargli ogni
cosa… Lui era così addolorato, si sentiva in colpa per
non aver ucciso Kaeso quando poteva, neanche riusciva a guardare
più in faccia Ramona! Ramona… Cosa provava lei? Acilia
neanche riusciva ad immaginare come dovesse essere amare lo stesso uomo per sei secoli…Come
era possibile? Come ci si riusciva? Lyuben era un uomo fantastico e,
ora, dopo sei secoli il nulla, così,
all’improvviso… Come si sentiva Ramona?!
Era
da così tanto che Acilia non pensava alle lacrime. Dopo
così tanto tempo che non puoi piangere, te lo dimentichi
com’è. Però… piangere le sarebbe servito,
era proprio quello che si sentiva dentro, che non poteva uscire, che la
consumava e le aveva fatto fare cose stupide! Le lacrime non le aveva,
ma le parole sì! Perché le aveva tenute sempre per
sé? Perché non aveva fatto che allontanare tutti e tutto,
senza dire niente a nessuno?
Ormai era troppo tardi…
Uscì
dal proprio vialetto, camminava veloce, senza correre o prendere il
volo, perché aveva paura di incontrare qualcuno.
“Emily!” fece una voce.
Acilia
continuò ad avanzare, trattenendo la voglia che aveva di andare
alla sua velocità. Doveva andare subito, subito…
“Ehi, Emily!”.
Ma era lei Emily.
Si voltò di scatto, come se avesse preso la scossa.
Era Curtis quello che le veniva incontro. Era vestito con una camicia leggera e al collo aveva la sua macchina fotografica.
“Ciao!” disse.
Acilia tentò di apparire naturale. “Ciao”.
“Non hai più risposto alle mie chiamate” fece lui, perplesso.
“Io… ho avuto da fare”.
“E prima non ti fermavi… Stai cercando di evitarmi?”.
Sì.
“No”.
Non
era proprio il momento! Non era mai stato il momento… Che
stupidaggine, uscire con un umano! Mentre cose più importanti
erano da fare! Eppure anche adesso, mentre guardava il volto umano e
così normale di Curtis, provava l’impulso di gettarsi tutto alle spalle, di fregarsene, di vivere come voleva lei…
“Vai di fretta? Che ne dici se facciamo un giro?”.
Quell’impulso…
Hai delle responsabilità, Acilia.
Responsabilità era una parola dalla quale troppo spesso fuggiva.
“Sì, sono di fretta” rispose.
“Da che parte stai andando?”.
Acilia
indicò dritto davanti a sé. “Di qua”. Poi
avrebbe raggiunto il bosco e, lì, dietro un albero, avrebbe
potuto librarsi in aria e lasciarsi indietro Curtis. Era lui, solo lui, che si doveva lasciar indietro, non…
“Ti accompagno per un po’ allora”.
Questo come poteva rifiutarlo?
Sospirò. Si trattava solo di rallentare un pelo il passo, non era così terribile.
“D’accordo”.
Del
resto…Affrontare Dubris non la riempiva di gioia, allontanare
quel momento, anche se di poco, di pochissimo… Non le
dispiaceva. Aveva paura di quello che avrebbe potuto dire, o pensare,
lui, che aveva tanta fiducia in lei…
Presero a camminare insieme.
Ogni tanto Curtis si fermava, per fare delle foto.
Acilia
si guardava intorno. Era una delle solite noiose strade di Horfield.
Cemento circondato da qualche chiazza di verde. Cosa c’era da
fotograre?
“Se non ti va più di vedermi, basta dirlo” disse Curtis, dopo un po’, trafficando con la macchina.
Sì, digli di sì!
“Non
è questo” fece la voce traditrice di Acilia. Non capiva
proprio cosa lui volesse da lei, era quello il punto.
Lui
sembrava stesse meditando, sempre lo sguardo rivolto alla macchina. Con
il dito premeva un tasto e sfogliava le immagini sul display di luoghi
già immortalati. Fermò i propri passi, e alzò lo
sguardo su Acilia.
“Prova a metterti lì in piedi tra l’erba. Ci sono dei fiori, prendine in mano uno”.
Acilia non si mosse. “Perché?”. Non era abituata a fare quello che le veniva detto.
“Per favore, mettiti un attimo lì” insistette Curtis.
Il
suo sguardo così sereno, così distaccato, la vergogna dei
ricordi lontana. Da quanto tempo Acilia non prendeva in mano un fiore?
Forse
un po’ Curtis le piaceva, per quello sorpassò il
marciapiede e le sue scarpe pestarono i fili d’erba. Di solito
portava scarpe nere, col tacco, ma quella sera aveva fretta, e altro
per la testa. Le sue scarpe da ginnastiche bianche poco consumate si
macchiarono subito, ma non le dispiacque. Intorno ai propri piedi i
fiori che erano sbocciati davano un tocco di colore. Non si era mai
soffermata a pensare a quanto fossero belle le stagioni calde. Non si
era mai soffermata su niente, in realtà, quasi duemila anni di
vita e ciò che era contato qualcosa per lei erano solo i suoi
stupidi sentimenti…
“Come pensavo, stai proprio bene tra il verde. Ti risalta gli occhi”.
Acilia
si chinò e circondò le dita intorno ad una margherita. Le
dispiaceva quasi strapparla. Lei, che aveva strappato così tante
vite, provava dispiacere a cogliere una margherita? Le veniva quasi da
ridere, a lei, così crudele, lei, così ipocrita.
“Prendi un fiore, dai”.
Capiva perché Curtis amasse la fotografia. Imprimere pezzi di natura, renderli eterni, come fosse una poesia…
La
sua mano arretrò dalla margherita. Le sue dita si strinsero
intorno al nulla. C’era qualcun altro che glielo diceva sempre,
qualcun altro vedeva magia e arte in qualunque cosa, tranne che in se
stesso…
Acilia
si alzò di scatto, capendo all’improvviso. Curtis stava
per inserire il proprio sguardo dentro l’obiettivo e lei si
spostò all’improvviso dal suo campo visuale. Lui era
perplesso.
Niente foto, pensò lei, spaventata e dandosi della cretina.
“Volevo solo scattarti una foto” tentò l’uomo, confuso.
“Devo
andare, sul serio” disse Acilia, a costo di apparire
scortese“E poi non mi sembra neanche il caso”.
Si
allontanò subito, camminando piano e sicura nella direzione
opposta al bosco. Sperava che Curtis smettesse di guardarla,
così lei avrebbe potuto nascondersi tra gli alberi. Ma sentiva
gli occhi di lui, li sentiva dietro la schiena, come due fanali, quasi
la trapassavano, come un paletto di legno, lì, dentro al cuore.
Jacque
ero corso nello scantinato e stava rovistando in ogni scatolone. Vecchi
vestiti, vecchi oggetti, giornali, libri, piume d’oca,
candelabri, pastelli colorati, rotoli di pergamena e uno di quegli
aggeggi tecnologici che servivano per ascoltare la musica. Rovesciava
tutto per terra, l’intero tempo del mondo era rovesciato sul
pavimento, tutta la storia, riassunta in pochi oggetti impolverati.
Sentiva Eike dietro di sé, che sbuffava piano.
“Mi vuoi dire che diavolo stai facendo?”.
Jacque si voltò, trafelato. “Aiutami a cercare” disse solo, passandogli un altro scatolone.
“Cercare cosa?” ribatté Eike, senza afferrare il contenitore.
Jacque trasse un respiro profondo. “Guanti”.
“Non
abbiamo dei guanti” fece l’altro, stupito “A che ci
servono dei guanti? Siamo freddi come la neve! E poi è estate,
lo sai?”.
“Acilia li avrà sicuramente!” sbottò Jacque.
“Ma perché?”.
Jacque
andò verso una cassettiera. Aprì l’ultimo cassetto
e mostrò il contenuto al ragazzino. All’interno
scintillavano grosse catene d’argento.
Eike spalancò la bocca. “Perché cavolo abbiamo dell’argento?!”.
“Acilia se l’è procurato qualche tempo fa. Aveva paura che un giorno uscissi di giorno col sole”.
“E ti minacciava con queste?”.
Jacque fece un gesto noncurante con la mano.
“Avrà anche dei guanti da qualche parte”.
Eike
scrollò le spalle, mantenendo fisso il suo sguardo. Poi
sgranò gli occhi, facendo un passo indietro. “Jacque,
accidenti, quale vampiro vuoi legare come un salame?!”.
“Nessuno”rispose
l’altro, allibito. Esitò, poi disse: “Voglio solo
proteggere la casa di Emily”.
Non
sapeva dove cercare dei guanti e stava solo perdendo del tempo. Se
Kaeso era davvero al potere, nessuno sarebbe stato più al
sicuro. Kaeso lo odiava il patto del sangue! Jacque lo ricordava il
giorno che lui ed Emily erano stati ad Arcangelo davanti alla
Rappresentanza. Kaeso aveva votato per la trasformazione della ragazza,
l’aveva vista in faccia… Quanto tempo ci avrebbe messo
per…
Fissò la luce che le catene emanavano stringendo i pugni.
E
lui, Jacque, come si sarebbe presentato ad Emily dopo settimane che non
si vedevano? Cosa le avrebbe detto? Che gli dispiaceva, che non
l’amava ma che doveva ascoltarlo perché un pazzo vampiro
sanguinario sicuramente prima o poi l’avrebbe uccisa?
Non importa, pensava, non importa… Non voglio che le succeda nulla, sarebbe tutta colpa mia, devo fare qualcosa!
Alzò
una mano, titubante. Si fece coraggio e con uno scatto afferrò
una catena. Subito sentì un dolore lancinante al braccio e le
dita bruciarono come se stringessero delle fiamme. Non riuscì a
trattenere un’imprecazione e aprì la mano, e la catena
cadde pesantamente a terra. Distese le dita, sulle quali si erano
formate piaghe e vesciche. Lentamente, dolorosamente, quelle sparirono.
Jacque si girò ansimando verso Eike, che lo guardava attonito.
“Sei matto” disse quello.
“Non so che altro fare” si difese Jacque.
“Sei matto!” ripeté Eike “Guarda che tutti gli umani sono in pericolo, mica solo Emily!”.
“Beh”sbottò
Jacque“Non possiamo salvarli tutti gli umani, da qualcuno
bisognerà pur cominciare, no?”.
Eike aprì la bocca, poi la richiuse. “Stai esagerando” disse dopo un po’.
Jacque
lo guardò torvo. “Sono stanco di stare a guardare senza
fare niente!” esclamò “E’ quello che fanno
alla Rappresentanza! Stanno lì e fingonodi fare qualcosa
solo quando ci sono le elezioni! Ma chi se ne frega dei diritti, a
quelli come Kaeso non può essere concesso di formare un partito,
quelli come lui vanno fermati subito!”.
Eike
non disse nulla e lui continuò, infervorandosi. Afferrò
la catena caduta sul pavimento e digrignò i denti per non
urlare, mentre parlava: “Hanno in testa solo i loro stupidi
sogni… senza senso, mentre potrebbero
fare…qualcosa… di più concreto”.Fece un
enorme respiro mentre la pelle bruciava come l’inferno e le
piaghe si riaprivano. La sua mano tremava, e così il braccio, ma
li ignorò. Si buttò la catena sulla spalla, con
l’altra mano la fece passare più volte intorno al braccio,
finché non fu stabile. Le mani, brucianti e libere, provarono
sollievo, mentre la spalla si stava infiammando piano piano, protetta
dalla maglia a maniche lunghe.
Eike lo guardava senza dire una parola. Non sembrava colpito da quello che aveva detto. Sembrava stesse pensando ad altro.
“Secondo te i primi ad essere in pericolo sono quelli che hanno fatto il patto?” chiese.
“E’possibile”rispose
Jacque, afferrando un’altra catena, senza aspettare che le sue
mani si riprendessero. Non c’era tempo! La legò intorno
all’altro braccio, stringendo occhi e labbra, ansimando
fiaccamente. Era come una vampata che incendiava il sangue, che si
metteva a ribollire, come se la temperatura, sempre così bassa,
si fosse improvvisamente alzata a livelli improponibili.
“Allora dobbiamo pensare anche a Claire” disse Eike, serio.
Jacque lo fissò, stupito, pronto a prendere una terza catena.
“Claire?”.
“Sì, Claire! Hai presente? E’ anche lei un’umana in pericolo”.
Sì, certo ma… Che c’entrava Claire con Emily? Si trattava di una situazione completamente diversa!
“Claire ama farsi
succhiare il sangue, l’ha scelto lei di
fare…”.Jacque si bloccò, notando lo sguardo omicida
di Eike.
“Credi che le piacerebbe morire o farsi trasformare?!” ringhiò il biondo.
“No,
però…”. Jacque sospirò. Il tempo
scorreva.“Eike, non abbiamo idea di dove abiti Claire, la
conosciamo appena… Potrebbe essere ovunque!”.
“Sarà
qui a Horfield, no?” sbottò l’altro “Siamo
vampiri, siamo velocissimi! Che ci costa cercarla?”.
Jacque
lo guardava poco convinto e lui continuò, abbassando la voce ma
sollevando il disprezzo:“Non sei davvero un eroe se ti interessa
salvare solo le persone a cui tieni”.
Jacque
si sentì salire la rabbia. Non aveva mai detto di essere o voler
essere un eroe, non gli piaceva stare a guardare se a qualcuno veniva
fatto del male ma da lì ad essere un eroe c’era un abisso!
Lui non era un eroe, non lo era mai stato, si trattava sempre e
unicamente del suo senso di colpa che galoppava, che lo costringeva a
cercare di rimediare, di essere migliore. Perché voleva salvare
Emily? Gli importava di lei, certo… Ma era perché era
stato lui a ficcarla in quella situazione, il suo senso di colpa non
avrebbe retto se lei fosse morta! Si trattava solo di quello… A
Claire invece non doveva niente!
“Eike”disse,
cercando di mantenere la calma “Ti prometto che Claire
starà bene. La cercheremo, ma ora andiamo da Emily!
Aiutami!”. Indicò le catene nel cassetto.
Eike
esitò per qualche attimo poi, con sguardo serio, prese una
catena e, tra le grida, se la mise intorno al braccio. Era caduto sulle
ginocchia, tremante, e Jacque si sentì mortificato.
“Basta
quella”disse. Si fece coraggio e prese una terza catena tra le
mani. L’avrebbe portata così, ce l’avrebbe
fatta.“Ora andiamo, presto” digrignò tra i denti,
mentre le mani velocemente si arrossavano. I due risalirono in fretta
per la scala e le mani di Jacque presero a fumare. Sul pavimento
cadevano gocce di sangue caldo.
Uscirono
di casa e corsero velocissimamente, senza il timore che qualcuno li
potesse vedere. Eike andava più veloce però, Jacque era
tremendamente affaticato, e ad ogni passo gli veniva da urlare, da
mollare la catena per terra. Ma tenne ben ancorate le dita intorno a
quella trappola, e se il dolore cresceva, la stringeva più
forte. Se avesse allentato la presa, sarebbe stato sempre più
tentato di lasciarla cadere, e l’avrebbe fatto.
Ad
un certo punto si mise a correre a velocità umana. Eike se ne
accorse, e lo aspettò. Jacque si diceva di resistere, che
mancava poco, pochissimo! Casa di Emily non era lontana, ma ora, in
quel momento, sembrava così distante… La vista gli si
stava offuscando, le gambe erano pesanti. Se la morte non
l’avesse già esperita, avrebbe pensato che era proprio
quello che gli stava accadendo.
“Jacque… Ci siamo, dai, ci siamo!”.
La voce di Eike gli arrivava come un eco confuso, ma lui la seguì.
Quando
furono davanti alla casa di Emily, inciampò sui propri passi. Si
sentiva talmente stanco, si sarebbe sdraiato a terra
volentieri…Quasi cadde ed Eike lo aiutò a tenersi in
piedi. Insieme avanzarono verso la porta e Jacque suonò il
campanello. Eike gli disse qualcosa come: “Cosa credi di fare
quando ci apriranno?”.
La
porta di casa si aprì e Jacque scivolò dentro senza
neanche guardare chi l’avesse aperta. Fece cadere tutte le catene
che, con un tonfo e un tintinnio, si poggiarono sul pavimento. Si
guardò le mani, che non avevano più pelle, poi
alzò lo sguardo e con la vista che lentamente gli tornava si
guardò intorno. Una figura bassa e grossa gli stava urlando
contro.
“Ma chi sei?! Cosa ci fai qui?! Che hai fatto? Ti senti bene? Ehi… Riesci a sentirmi?”.
Jacque finalmente mise a fuoco. Era una donna abbastanza avanti con l’età, forse era la madre di Emily…
Sentì dei passi frettolosi e dalla rampa di scale lì vicino apparvero varie persone.
“Che succede, Rosie?” fece un uomo corpulento.
Accanto
a lui spiccava una ragazza alta e dai folti capelli biondo scuro.
Quando lo vide spalancò la bocca. I suoi occhi corsero dalle
mani ustionate di lui alle catene d’argento schizzate di sangue
sul pavimento.
“E’un
vampiro!”gridò. Ci furono delle urla, la signora che gli
aveva aperto la porta fece un salto indietro e la ragazza alzò
il braccio, con sguardo rabbioso, stringendo nella mano una pistola
caricata con proiettili di legno, e gliela puntava addosso, dritto al
cuore, pronta a sparare.
Eliza
si sforzava di mangiare ogni giorno. Non poteva lasciarsi morire di
fame, non poteva farlo finché sua figlia era in vita. Non poteva
assolutamente abbandonarla con quei mostri.
Spinse il piatto verso Charlene.
“Avanti, tesoro, mangia” disse, tentando un sorriso convincente.
La
bambina lanciò un’occhiata alla fetta di carne spezzettata
sul piatto senza dire niente. I ricci oscillarono mentre girava la
testa per guardare la soglia della cucina. Un vampiro dal volto
impassibile le stava tenendo d’occhio, le guardava mangiare, con
quello sguardo maniacale, come se volesse anche lui nutrirsi, nutrirsi
di loro.
“Charlene”chiamò
Eliza, allungandosi e portando la mano alla testa della
bambina“Girati, dai, mangia”.
Charlene
si voltò e impugnò la forchetta. Le punte della posata
inforcarono un pezzo di carne, che viaggiò lentamente verso la
boccuccia della bambina. Gli occhi erano bassi, mentre mangiava. Aveva
perso la sua vivacità, Charlene.
Eliza
si portò una mano alla bocca, per nascondere il suo sorriso che
spariva. Socchiuse gli occhi e all’internò della sua
stessa mano sospirò forte.
Si sforzava di non piangere quando la paura la prendeva come una stretta soffocante, mortale.
“Mamma, quando ce ne andiamo?” chiese Charlene, la forchetta in mano con un pezzo di bistecca a mezz’aria.
“Presto” disse Eliza “Ce ne andremo presto”.
“Voglio andare a casa” insistette la bambina.
“Non ora… Ora non si può. Non si può ancora”.
Charlene ripeteva sempre le stesse cose. Ma aveva smesso di chiedere il perché.
Ci
troveranno prima o poi, si diceva Eliza, verranno a salvarci. Ma quanto
tempo sarebbe passato ancora? Quanto avrebbe dovuto aspettare? Cosa
sarebbe successo nel frattempo?! Cosa sarebbe diventata sua figlia, una
bambina dal volto inespressivo, non quello di chi ha guardato troppa
televisione ma quello di chi vive il terrore e dopo un po’ non lo
sente più… Cosa pensava Charlene? Cosa le aveva detto
quel mostro?
La forchetta cadde e la bambina rimase a guardarla senza muovere un muscolo.
Cosa voleva lui da loro?!
“E’ finito il tempo per mangiare” disse il vampiro sulla soglia, rimanendo impassibile.
Eliza,
senza una parola, si alzò, ignorando le gambe che tremavano.
Prese Charlene per mano e la fece stare dietro di lei mentre andava
verso la soglia. Si costrinse a mantenere il contatto visivo con il
vampiro. Era basso, col capello corto, aveva l’aspetto di un
ragazzo, solo un ragazzo… E’ solo un ragazzo, si diceva,
non ci pensare, non ci pensare!
Quando
incontrava gli occhi di quelle creature il suo labbro cominciava a
tremare, e la mano stringeva più forte quella di Charlene. Cosa
c’era dentro la testa di quei mostri? E loro… loro
sarebbero dovute diventare come loro?! Sua figlia… la sua
bambina…
Il
vampiro si spostò per farle passare e le due, attraversato il
corridoio, si trovarono nell’angustiante salone. Non riusciva a
trattenere un qualcosa che stava tra il lamento e il grido, ogni volta
che entrava.
Sul
divano di pelle rossa stava il cadavere di una ragazzina mezza nuda,
con la pelle pulita e livida di freddo, la bambola con cui avrebbe
dovuto giocare Charlene. Svetlana, un vampiro donna, le era seduta
accanto, con la sua testa nel grembo, e le pettinava i capelli con una
vecchia spazzola. Rivolse loro uno sguardo altezzoso, quando entrarono.
Charlene si nascondeva dietro di Eliza, si aggrappava alla sua gamba
mentre Eliza le premeva la testa contro il suo fianco.
Prima
che si potesse rendere conto che qualcuno aveva aperto il portone, il
mostro dai capelli neri e dagli occhi blu era già in casa.
Kaeso, lo chiamavano.
“Sono
tornato”salutò, con un sorriso. Qualcuno ricambiò
ma Eliza lo guardava, e tremava. Non riusciva a spiegarsi come un corpo
così perfettamente umano potesse racchiudere l’animo
più nero… Come potevano i suoi occhi nascondere
un’anima?! Perché senza anima non c’è
vita… Che mostri erano i vampiri?! Quale misterioso, orribile
scherzo della natura…
“Eliza” disse Kaeso, avanzando verso di lei e accarezzandole una guancia “Oggi ho una sorpresa per te”.
Istintivamente Eliza strinse più forte a sé Charlene.
“No,
Eliza” disse ancora lui, continuando a guardarla negli
occhi“Dovrai separarti da lei, dovrete stare separate, per un
po’”.
Eliza
distolse lo sguardo, ricordando che i vampiri potevano incantare. Si
ritrovò faccia a faccia con gli occhi di Charlene, che la
spiavano da dietro la schiena. Voleva sorridere per lei, ma non ci
riusciva… Non ci riusciva… L’essere che aveva
ucciso parte della sua famiglia, che aveva ucciso Ralph, la stava
toccando, e lei non poteva sopportarlo… Non poteva…
La
mano di lui scivolò lungo il viso e arrivò a prenderle il
braccio. La sua stretta era molto forte. Le tirò il braccio e
lei si mosse con lui, trascinandosi dietro Charlene.
Kaeso ridacchiò.“Attaccate con la colla”.
Si voltò verso il portone e disse a qualcuno di entrare.
La
porta si aprì e un quarto vampiro – quanti ce
n’erano?! – entrò, trascinandosi dietro un uomo
bendato con pochi capelli, che si dimenava con aria
arrabbiata.“Lasciami! Dove mi stai portando?! Che diamine!”.
Quando
furono fermi, la sua voce e i suoi arti si placarono. Prese a
respirare, irregolarmente, mentre, cieco, si guardava intorno.
“Voglio
che la razza umana continui, Eliza” disse Kaeso, senza lasciarle
andare il braccio “E tu mi sarai molto preziosa in questo
senso”.
“Co…Cosa?”boccheggiò
Eliza, guardando impietrita l’umano, che, udita la voce di Kaeso,
si era fatto attentissimo.
Kaeso la lasciò andare e allungò una mano verso Charlene.
“Vieni, piccola, vieni con me, ora la mamma ha da fare”.
Eliza
si parò davanti alla sua mano. “Non la
toccherai”disse, sentendo il suo volto che si deformava in una
maschera cattiva. La paura c’era, ma la rabbia, quella era
tantissima…
Kaeso la guardò, seriamente.
“Comprendo la tua paura per la tua bambina, Eliza” disse “Ma ti assicuro che non le farò niente”.
“Come non hai fatto niente a Ralph?!”. La voce della donna proruppe in un pianto.
Kaeso
fece un mezzo sorriso. Poi la prese per le spalle e la spostò
con la forza. Lei non poté fare niente per fermarlo e lui aveva
già Charlene in braccio.
“Ti
sfugge una cosa, dolcezza” disse, trotterellando “Io non ho
mai assicurato niente a nessuno sul destino di questo Ralph”.
Charlene
non sembrava spaventata e questo rassicurò Eliza ma nulla poteva
impedire quella sensazione indicibile di panico che le prendeva il
cuore quando vedeva la sua bambina in quella casa, lontana da lei, in
braccio a un vampiro!
“Potete
andare a divertirvi, ragazzi, scegliete la stanza che
volete”disse Kaeso “Potete stare anche qui, per me non ci
sarebbero problemi ma… Immagino che tu, Eliza, sia una pudica,
sì, lo sospettavo…”.
“Cosa…cosa…Cosa
sta succedendo?!” sbottò la voce dell’umano bendato,
con le braccia aperte in allerta, le gambe pronte a fuggire.
Kaeso
sembrò accorgersi solo in quel momento che l’uomo aveva
una benda sugli occhi. “Oh, per Polluce, toglietegli quella
benda!”.
Il
vampiro che aveva scortato l’umano obbedì
all’istante e quello strabuzzò gli occhi, per poi
guardarsi con aria spaesata intorno. Il suo sguardo intercettò
il cadavere sul divano e la bocca mandò un lieve urlo.
“Chi siete?! Cosa volete?!”.
Era
un uomo vestito bene, sembrava un borghese, di quelli abituati alla
vita più facile e che quando si trovano davanti a una situazione
non prevista si lasciano invadere dal panico.
“Dove sono?!”.
Charlene
emise un singhiozzo e Kaeso le diede un buffetto sul naso, con un
sorriso che Eliza avrebbe voluto a fare pezzi. Avrebbe voluto
buttarglisi addosso, strappargli i capelli… avrebbe voluto fare
qualcosa! Ma lui l’avrebbe uccisa. La sua vita era appesa ad un
filo e lei non poteva permettere di lasciarla cadere. Che Charlene
stesse bene, era questa la cosa più importante, e senza la sua
mamma, in braccio a quel mostro… non sarebbe potuta stare bene.
“Lei è il signor…?”. Kaeso si era rivolto all’uomo spaventato.
“Russell” rispose quello, affrettandosi a riprendere il controllo.
“Signor Russell”disse Kaeso, affabile “Lei è stato scelto per dare un seguito alla razza umana”.
“Un seguito… un seguito a cosa?!” fece quello, allibito “La razza umana non è certo in via d’estinzione!”.
“Quello
che dico anch’io” giunse una voce femminile infastidita.
Svetlana aveva poggiato la spazzola sul bracciolo del divano e seguiva
la scena con varie smorfie.
“Preferiamo non correre rischi” ribatté Kaeso “Deve essere tutto perfetto”.
L’uomo
prese coraggio e gli si avvicinò, esibendo un dito corto e
grassoccio. “Io sono sposato, ma che crede?! Ho moglie e figli!
Ma chi accidenti è lei?!”.
Kaeso
sembrò quasi mandare lampi di luce dagli occhi. Distese la bocca
in un sorriso e dal labbro superiore spuntarono le sue zanne. Charlene
emise un urletto ed Eliza fece un respiro profondo.
“Sono uno che faresti meglio a non fare arrabbiare”.
Russell subito indietreggiò con un mezzo urlo. Tremava vistosamente. “Siete tutti… tutti…”.
“Philippe”lo
interruppe Kaeso, voltandosi verso il vampiro dal volto
giovane“Accompagnali in una stanza, e dà loro
istruzioni”.
Istruzioni?!
“No” fece Eliza con un filo di voce “No…”.
Philippe
afferrò sia lei che Russell e li trascinò su per le
scale. “No!” continuava a dire inutilmente. Il suo sguardo
cercava disperato quello della figlia. Voleva guardarla, dirsi che
sarebbe andato tutto bene, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei ma
lei aveva il visetto corrucciato e abbassato e per Eliza fu come una
pugnalata. Continuava a dire nomentre Philippe tirava lei e
l’altro umano senza alcuna difficoltà, continuava a
trattenere le lacrime, ma che utilità c’era, se Charlene
neanche la guardava? Una volta che furono al piano di sopra
scoppiò a piangere ma dimenarsi come faceva Russell era inutile,
tutto inutile…
La razza umana non è certo in via d’estinzione!
Perché
Kaeso aveva detto di non voler correre rischi?! Cosa stava succedendo?!
L’intero mondo sarebbe forse stato governato dai vampiri?!
“Oh mio Dio…” si lasciò sfuggire tra in singhiozzi, mentre Philippe apriva la porta di una camera.
“Starete
qui”disse, spingendoli all’interno. Si rivolse a
Russell.“Hai tempo tre giorni per metterla incinta”.
Russell
spalancò subito la bocca, indignato, ma Philippe andò
avanti. “Se non ce la farai, saremo costretti ad ucciderti”.
“Cosa
c’è dentro la tua testa?!” esplose Eliza, guardando
il vampiro “Perché lo fai?! Perché siete
così malvagi?!”.
Philippe la guardò perplesso. Aveva davvero l’aria di non aver compreso.
“Malvagi?”fece“Curioso.
E’ così che vi definite voi quando fate lo stesso con gli
animali?”.
Chiuse la porta prima che i due avessero il tempo di rispondere.
Passò qualche attimo di silenzio, poi Eliza si voltò a guardare Russell, impaurita.
Lui era sudato in volto e respirava forte, ansante.
“Non
voglio morire…” fece con un flebile filo di voce. La
guardava con le sopracciglia alzate, gli occhi sgranati e la bocca
posta in una strana, storta smorfia, specchio del non sapere cosa dire,
per la paura.
“Non
voglio morire”ripeté con la voce un po’ più
alta, impastata e frammentata dal terrore “Non voglio morire! Non
voglio morire!”.
Russell
si mise ad urlare quella stessa maniacale frase più volte, in un
orribile impulso di giustificazione, ed Eliza si premette le mani sulle
orecchie, per non ascoltare, scivolando giù, con le ginocchia
sul pavimento, scoppiando a piangere, in attesa del suo destino.
“Lydia, no! Non sparare!”.
Emily
si era buttata al fianco dell’amica, con sguardo implorante.
Aveva riconosciuto Jacque, non sapeva perché fosse lì e
il cuore le batteva all’impazzata. Pensare che solo premendo il
grilletto, la sua vita sarebbe finita… No, era insopportabile!
Lydia si voltò allibita verso di lei, senza abbassare l’arma. “Ho detto che è un vampiro!”.
“Spara!” la incitò il signor Dixon.
La
moglie si era fatta piccola piccola contro la parete, con gli occhi
sgranati e un’espressione
terrea.“L-lydia”balbettò, con voce mozzata dalla
paura“S-spa…”.
“NO!” strillò Emily, correndo verso Jacque. Allargò le braccia e gli si parò davanti.
“Emi” fece Michael, stralunato “Ma che stai facendo?”.
La
madre si era messa ad urlare e il padre le intimava di venire subito
via, di allontanarsi da quell’essere mostruoso…
Emily
li ignorò. I suoi occhi erano unicamente per Lydia.“Lydia,
per favore… Metti giù la pistola, non ci farà del
male” disse, con calma. Ma il cuore che batteva forte la tradiva.
Sentì
qualcosa dietro di lei che cadde pesantemente. Si voltò e subito
si chinò sul corpo di Jacque, a terra, che respirava
irregolarmente, e tremava.
“Jacque”fece“Jacque…Che
ti è successo? Perché avevi dell’argento
addosso?”. Le sue mani… Le sue mani non avevano più
pelle, erano solo pugni di sangue.
“Emily!” gridò Michael, in allarme.
“Jacque?!” stava dicendo il padre, isterico “Hanno pure un nome quei cosi?”.
Emily
si sentì le lacrime agli occhi, mentre vedeva Jacque così
sofferente, lui così forte, come poteva stare così
male… Si voltò arrabbiata verso suo padre. “Erano
umani prima di diventare dei vampiri, papà! Certo che hanno un
nome!”.
Suo
padre era allibito e lei aiutò Jacque a mettersi a sedere. Lui
la guardava quasi spaesato, gli occhi erano sofferenti, in quelle
condizioni lui sembrava così…umano. Emily trattenne
l’impulso di abbracciarlo e si voltò verso Lydia, per
vedere se aveva abbassato la pistola. L’aveva fatto e la guardava
stringendo gli occhi, con un volto strano. “Jacque?
Emily…E’ lui? Sarebbe lui Jack?”.
Emily
non trattenne più le sue lacrime, quelle scorrevano senza
pietà sul suo viso, che sentiva come quello di una svergognata,
che veniva beccata mentre faceva l’amore con un mostro.
“Che… Che cosa significa? Emily?!” stava dicendo suo padre.
Emily
lo ignorò. Perché Jacque aveva fatto questo?
Perché era entrato in casa sua?! Lo voleva toccare, sfiorargli
una guancia, ma non ne aveva il coraggio… Lui ancora respirava
fiaccamente. Ti vuoi decidermi a parlarmi, pensava Emily, cosa sei
venuto a fare? Perché sei qui?!
La
porta cigolò piano e un ragazzino con un’espressione poco
felice entrò nella casa. Anche lui poggiò al pavimento
una grossa catena d’argento.
“Eike”fece
Emily, sentendo che l’ansia che prendeva il sopravvento su di
lei“Che sta succedendo?!”.
“E’un
altro vampiro?” fece Michael, facendo un passo avanti, con
un’espressione di vivace curiosità, passata la paura.
“Michael, stai indietro!” gli ordinò il signor Dixon e il ragazzo si fermò.
Eike si chinò insieme ad Emily su Jacque.
“Ha
bisogno di sangue” spiegò “Portare tutto
quell’argento fino a qui l’ha stancato troppo”.
“Perché?!”sbottò
Emily “Perché avete portato dell’argento?
Perché siete venuti qua?”.
Jacque
tossì e sputò sangue. Poi fece un enorme sospiro e
guardò Emily in faccia. Le sfiorò una mano, debolmente.
Lei quasi sussultò. “Mettete… Queste catene a ogni
ingresso… E a ogni finestra” disse lui con voce fioca.
Ad
Emily cadde lo sguardo sulle loro mani vicine. Ora anche la sua era
sporca di sangue. “Scusa…Ti ho
sporcato”biascicò Jacque.
“Jacque” fece lei, seria “Cosa sta succedendo?”.
“Kaeso
è al potere”spiegò Eike, tranquillo. Avanzò
verso gli altri, che lo guardavano atterriti. Alzò un
sopracciglio.
“Sentite”disse,
ignorando la signora Dixon che aveva cominciato a lanciare degli
squittii“Abbiamo fatto una gran fatica a portare qui
quest’argento per proteggere voi dai vampiri del PO. Il minimo
che possiate fare è muovere il culo e metterlo alle finestre e
alla porta, non vi pare?”.
Il
signor Dixon indicò Eike con un lungo e tremante dito e
guardò Emily. “Emily… N-non credi che dovresti
darci qualche spiegazione?”.
Emily,
seduta per terra, cercava di rielaborare quello che aveva appena
saputo. Kaeso… Al potere? Questo significava…
Di scatto si alzò e andò verso la sua famiglia.
Tutti
la guardavano spaventati, tranne Michael, che aveva
un’espressione assolutamente incredula, quasi ilare. “Mi
sembra chiaro, papà! Emily è amica dei vampiri, che
forza!”.
Emily
lo ignorò. Si sentiva male, malissimo. Col suo stupido
articolo– tutto era partito da lì – e il conseguente
patto del sangue stava mettendo in pericolo tutta la sua famiglia! E anche Lydia, che si trovava a casa sua da un paio di giorni, perché aveva litigato con Sam…
“Vi
spiegherò ogni cosa” disse, con voce tremante “Ma
ora mettete l’argento sui balconi. Serve per proteggerci dai
vampiri”.
“A
cosa serve” fece la voce di Lydia, seria e profonda, come se
fosse arrabbiata “se abbiamo già dei vampiri in
casa?”.
“Loro
non ci faranno niente!” esclamò Emily, spazientita. Ma
perché non si fidavano di lei? Comprendeva la loro paura
ma… No, forse non la comprendeva. Per lei era così facile
fidarsi di Jacque, e anche di Eike, si era già dimenticata il
terrore che l’aveva invasa la prima volta che li aveva visti?
Michael
con un balzo afferrò una catena d’argento e andò
verso la finestra del salotto. Passò qualche attimo prima che i
genitori imitassero il suo esempio. Lydia però rimaneva
immobile, fissava Emily intensamente, come se cercasse di capirla, di
capire perché… Era lo stesso sguardo con cui
Emily fissava se stessa, a volte, o con cui avrei avrebbe voluto
fissarsi. Uno sguardo accusatorio che le diceva che era totalmente
impazzita.
“Con un vampiro, Emily?” fece Lydia, quasi disgustata “Un vampiro? Tu sei malata”.
Emily
fece per aprire la bocca, indignata, ma poi qualunque
possibilità di replica le morì in gola, perché non
lo sapeva con esattezza cosa dire in sua difesa. Cosa poteva dire?
Jacque era un morto pieno di sangue e nient’altro, e lei era
malata.
Notò
che Eike era arrivato al suo fianco e che guardava Lydia con le
sopracciglia alzate. La ragazza sembrò innervosirsi e il vampiro
estrasse le sue piccole zanne con un ghigno. Lydia quasi fece un salto
all’indietro, abbandonando la sua espressione di disgusto.
“E
tu sei ridicola”disse Eike. Lydia fece per allontanarsi ma lui
continuò a parlare: “Prima di essere un vampiro, Jacque
è un grandissimo uomo”. Si voltò verso Emily,
mutando espressione da divertita a preoccupata. “Ha davvero
bisogno di sangue”.
Emily si voltò all’indietro. Jacque era ancora seduto per terra, e continuava a sputare sangue.
Si girò di nuovo verso Eike, col cuore che batteva forte. “Se non beve del sangue cosa succede? Potrebbe… morire?”.
“No”disse
Eike“L’argento non ci uccide, ma ci indebolisce parecchio.
Il nostro corpo ha bisogno della giusta quantità di sangue per
poter rimarginare le ferite”.
Emily non capiva.“E se non ne ha abbastanza di sangue?”.
“Starà sempre peggio, senza poter morire”.
Ancora
lei non capiva bene, ma non poteva lasciarlo così! Non poteva
assolutamente, lui era venuto da lei per metterla in guardia, le aveva
portato tutto quell’argento...
Si guardò le braccia, inspirando a fondo.
“Emily, no” disse subito Lydia “Non penserai di…”.
“Devo farlo”ribatté la ragazza.
“Ma
sei impazzita?!”sbottò l’amica “Si può
sapere come ti salta in mente una cosa del genere?!”.
Emily si voltò verso Eike. “Quanto sangue gli serve?”.
“Ne
basta un po’”disse lui, annuendo. Guardò Lydia,
tentando un’espressione rassicurante, ed era strana, sul viso di
Eike. “Non la ucciderà”.
Lydia
aveva la bocca spalancata, sconvolta, e Emily le diede le spalle,
camminando verso Jacque. Le giunse da dietro la voce
dell’amica.“Emily, perché vuoi farlo?! Per cosa?! E’ un vampiro!”.
Emily
si voltò di scatto, sentendo un malessere che la prendeva e la
stritolava. Non era rabbia quella che le uscì dalla bocca, solo
una grande frustrazione. “Lo so bene che è un
vampiro!” esclamò, con le lacrime agli
occhi“E’ per questo che non posso stare con
lui…”.Singhiozzò, senza volere, mentre le lacrime
diventavano sempre copiose. Credeva di poterlo dimenticare Jacque, ma
così… Come poteva farlo? Si inginocchiò di fianco
al ragazzo –perché era questo che era, un ragazzo – e gli prese il volto tra le mani, per farsi guardare.
Sentì dietro di sé Lydia emettere uno sbuffo angosciato mentre Jacque aveva solo il volto confuso.
Emily
gli mise davanti il braccio. “Jacque, bevi” disse, con voce
tremante. Non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe arrivata a
questo… Ma non sarebbe successo niente, si diceva, quasi tutte
le persone esistenti sulla Terra erano state morse, Jacque mordeva
gente ogni sera per nutrirsi, e non li uccideva, non li uccideva mai!
Dopo tutti tornavano tranquilli alle loro vite, avevano solo una
ferita… Una semplice ferita… E poi, non sarebbe stato
certo peggio del patto del sangue! Le avevano iniettato del sangue di
vampiro, del veleno, nel corpo… Farsi risucchiare del sangue non
poteva fare più male…
Ma Jacque non aveva neanche estratto le zanne. Scuoteva la testa. “No… Non posso farti questo”.
“Jacque, stai male! Ti prego…”.
Lui
continuava a scuotere la testa e lei prese a piangere più forte,
impotente. “Per favore”singhiozzò “Fammi fare
qualcosa per te, lasciati aiutare da me… Per una
volta…”.
Jacque
socchiuse gli occhi, come se riflettesse esasperato. Ma le sue narici
si dilatarono ed Emily capì che lui ne aveva una gran voglia,
del suo sangue. “Potrei non riuscire… a fermarmi”.
Il
cuore di Emily saltò un battito. Jacque stava talmente male,
aveva bisogno di talmente tanto sangue che… avrebbe davvero
potuto ucciderla? No, Emily non ci credeva.
“Ti fermerai” disse la voce di Eike, da qualche parte “So che lo farai, Jacque”.
E’vero,
si diceva Emily, è vero, si
fermerà…Avvicinò il braccio al naso di Jacque,
decisa. Sentiva il cuore che batteva, per paura e per amore, mescolati
insieme, le sue labbra tremavano, gli occhi talmente impregnati di
ansia la smisero di secernere lacrime.
Jacque
fece un enorme sospiro, allargando ancora di più le narici e i
suoi canini si allungarono. Lydia emise un piccolo urlo ed Emily si
voltò a guardarla. L’amica aveva gli occhi pieni di
lacrime, sbarrati, la pistola che aveva in mano tremava, insieme al suo
braccio.
Poi
Emily, mentre ancora guardava Lydia, sentì qualcosa che con uno
scatto crudele le bucava la pelle, gliela stracciava e lei urlò
fortissimo. Strinse gli occhi e i denti, digrignando qualcosa,
stringendo a sé l’altro braccio come fosse una protezione.
I denti di Jacque si erano insinuati nella sua carne, ed era terribile
ma poi sentì il flusso del suo stesso sangue che usciva, che
spingeva verso l’esterno, tirato e risucchiato e lei provò
un fortissimo capogiro, buttò indietro la testa e quasi non si
rese conto che aveva ripreso ad urlare.
Insieme
alla sua sentiva altre voci urlanti nelle sue orecchie. C’era una
gran confusione, riusciva solo a distinguere una voce grossa. Doveva
appartenere a suo padre.
Tranquilli, andrà tutto bene…
Ma
la vista le si stava offuscando, tutto era sempre più caotico e
strano, dentro la sua testa, e fuori, il suo braccio quasi non lo
sentiva più.
“Jacque, ora ti devi fermare! Basta!” gridava qualcuno.
Il sangue continuava ad uscire e lei chiuse gli occhi, abbandonandosi al freddo torpore che la stava invadendo.
Poi
sentì un rumore forte, strano. Sembrava uno sparo, un colpo di
pistola. Il rumore la risvegliò per un momento, aprì gli
occhi e vide il bianco soffitto.
Riuscì a rendersi conto che il sangue aveva smesso di uscire, e il dolore stava passando.
Ma poi il bianco che vedeva divenne grigio, sempre più scuro, e poi nero.
“Potevamo averlo ucciso! Potevamo averlo già ucciso!”.
“Vicky, per favore…”.
Victoire guardò Ramona con sguardo allibito.
“Vuoi difenderlo? Continui a difenderlo? Se Dubris avesse fatto quello che doveva ora Lyuben non sarebbe…”.
“Lo so!” gridò Ramona, con una voce talmente alta e arrabbiata che non sembrava neppure potesse essere sua.
Victoire tacque e tutti puntarono gli occhi su Ramona.
Quella
si alzò dalla sedia, le gambe tremanti ma il volto oscurato da
un’immagine di dolore. Anche i suoi ricci, sempre così
perfetti, parvero essersi afflosciati.
Guardò
i presenti, e così fece Acilia, seduta al suo fianco. Dubris
aveva il volto inespressivo, Luca aveva l’aria di chi doveva
vomitare, altri erano spaventati, altri ancora solo spaesati. Acilia e
gli altri avevano deciso di aprire la porta delle loro
riunioni–che non si potevano più tenere alla Sede di
Arcangelo, usurpata con l’omicidio – a tutti coloro della
Rappresentanza che fossero contro Kaeso, di qualunque partito fossero.
Ed era così triste vedere che in quella stanza che apparteneva
alla casa di Dubris erano solo in quattordici.
“So
di essere la più giovane qui in mezzo, di non avere
nessun’autorità e nessun potere decisionale” disse
Ramona, con le labbra così incurvate verso il basso da far
sembrare il suo volto coperto da una maschera teatrale “Ma so che Lyuben non avrebbe mai incolpato Dubris. Quindi, per favore, non dite nulla contro di lui…”.
Dubris
socchiuse gli occhi e strinse le labbra. Acilia sapeva che lui
continuava a sentirsi tremendamente in colpa. E sapeva anche che lui
credeva che in realtà Ramona pensasse l’esatto contrario
di quello che aveva appena detto. Altrimenti gli avrebbe parlato, si
sarebbe sfogata con lui… Era come se qualcosa dentro di Ramona
lottasse tra ciò che era giusto e ciò che era naturale, i
suoi pensieri, i suoi sentimenti, la sua rabbia…
“E poi Lyuben aveva ragione” intervenne Luca “Pensare al passato è inutile”.
Nessuno
ebbe da ribettere, neanche Victoire che incrociò le braccia
sopra il ventre, con lo sguardo triste rivolto al pavimento.
Acilia guardò inavvertitamente Dubris, l’unico lì in mezzo che ora sapeva.
Anche
lui la stava guardando. Entrambi sapevano che pensare al passato non
era inutile, il passato bisognava conoscerlo, bisognava mostrarlo,
imparare da esso, per poter fronteggiare il presente.
Dubris
continuava a fissarla e lei capì che era giunto il momento di
parlare. La notte prima, quando lei era stata da lui, l’amico
l’aveva osservata senza crederle, poi l’incredulità
era diventata durezza, biasimo.
Acilia
si fece coraggio e aprì la bocca. L’aria le entrò
subito dentro e per un momento le parve di soffocare. Ma non poteva
più tacere…
“Devo dirvi una cosa” disse. La voce le usciva più bassa del solito. Timorosa, vergognosa…
Tutti
si voltarono verso di lei, avidi di sapere qualunque cosa, qualunque
informazione che potesse essere utile. Ma Acilia avrebbe preferito che
Ramona non la guardasse così, con gli occhi tristi e spalancati.
Avrebbe preferito proprio che non ci fosse, che uscisse dalla casa, che
non sentisse mai quello che lei aveva da dire.
Sospirò,
poi le parole le uscirono di bocca veloci, come se in realtà non
avessero aspettato altro che venir fuori ed essere scoperte, per
alleggerire la coscienza.
“So come poter fermare Kaeso”.
Mediolanum, 263
Non riusciva a trovarla, si era nascosta davvero bene.
Viridio
accettò mentalmente la sfida, allegro. Amava giocare con Iulia,
amava farla divertire. Stava nei campi intere giornate di sole, ma
quando calava la sera, nonostante fosse stanco, voleva passare del
tempo con sua figlia. Le cose stavano andando bene, e quella sera per
cena Prisca sarebbe riuscita a preparare qualcosa di più che una
semplice zuppa d’orzo. Lui e Iulia erano usciti di casa vedendola
al lavoro con bietole, cipolla, lenticche e formaggio e la bambina,
così magra, si stava già leccando i baffi.
Viridio
passò oltre il sentiero di ghiaia, sentendo i sassolini che
sbattevano contro i suoi sandali. Il suono era gradevole e
l’odore che si alzava con la povere non gli dispiaceva. Fuori dal
sentiero, calpestò l’erba. I lunghi fili gli solleticavano
i piedi e le gambe nude e lui amava quella sensazione. Nonostante tutti
gli sforzi e la fatica, sentiva di amare la natura e la vita, quella
che aveva trovato in sua moglie, quella che aveva dato a sua figlia, e
la sua, così misera ma così perfetta.
Cercò tra i cespugli, dietro gli alberi, rovistò tra cumuli di foglie secche.
“Iulia” chiamò, consapevole che non avrebbe avuto risposta “Dove accidenti ti sei cacciata?”.
Misurò
a grandi passi il prato ma di Iulia non c’era traccia. Gli venne
una brutta sensazione, di quelle che gli venivano ogni volta che non
vedeva la bambina nelle sue immediate vicinanze. E se le fosse successo
qualcosa? Se si fosse fatta male? Se fosse stata rapita?
Cominciò
a correre e continuava a chiamarla, sempre più angosciato.
Cos’avrebbe detto a Prisca se fosse tornato a casa senza loro
figlia? In tutti i suoi ventotto anni di vita non aveva
mai avuto paura maggiore di quella di perdere le persone più
care, e da sette anni le persone più importanti in assoluto per
lui erano Prisca e Iulia.
“Iulia, vieni fuori, dai!” gridava.
I
sandali ora calpestavano con violenza erba e sassi, tutto, Viridio non
si curava più di niente, la natura, così splendita, si
era trasformata in un mostro che aveva risucchiato sua figlia…
“Ma padre… Sono qui!”.
Viridio si voltò, trafelato.
Iulia sembrava appena sbucata dal nulla e correva verso di lui ridacchiando.
I
capelli scuri un po’ ruffi erano mossi dal vento e a Viridio
venne voglia di prendere in braccio la bambina e stringerla.
Quella
si fece sollevare mostrando un leggero ritegno. “Sei proprio una
frana in questo gioco”disse, con una smorfia, puntandogli addosso
due grandi occhi blu soddisfatti.
“Sono
una frana?”ribatté Viridio, con un sorriso “Adesso
mi nascondo io e tu mi cerchi! E vedremo chi sarà la frana, che
ne dici?”.
Iulia rise e fece di sì con il capo.
Il
padre la poggiò a terra e le sistemò la tunica sporca e
troppo corta. Si chinò sulle ginocchia per guardarla in
faccia.“Adesso chiudi gli occhi e ripeti Sono una bambina bella, brava, buona ma non riuscirò mai a trovare mio padre”.
Iulia alzò una gambetta e col piede pestò il suolo, con una mezza risata.
“No, mi rifiuto”.
“Sì, invece. Ripeterai questa frase così io avrò il tempo di nascondermi, capito?”.
“Uffa”.
Viridio le scrollò le braccia prendendola per le mani. “Forza, cosa devi ripetere?”.
Iulia
sbuffò ma poi obbedì: “Sono una bambina bella,
brava, buona ma non riuscirò mai a trovare mio padre”.
Viridio
le diede un bacio in fronte. “Bravissima. Ora ripetilo ancora,
però con gli occhi chiusi e più lentamente!”.
La
bambina incrociò le braccia al petto e chiuse gli occhi. Subito
lui corse via a cercare un posto dove nascondersi mentre la voce di
Iulia che ripeteva la cantilena gli raggiungeva le orecchie.
Scorse
delle pareti bianche dietro a degli alberi, probabilmente appartenevano
a una vecchia casa abbandonata, perché lì intorno non ci
abitava nessuno. Corse verso la casa e si nascose dietro di essa. Con
la testa sbucò oltre la parete e controllò la figlia che,
in lontananza, aveva appena cominciato a guardarsi intorno.
Ridacchiò piano, mentre la guardava correre in qua e in là.
Un respiro sommesso che sentì alle sue spalle lo fece smettere di ridere e lui si voltò di scatto.
Dietro
di lui c’era qualcuno e per lo spavento emise
un’esclamazione ma poi si calmò, vedendo che quel qualcuno
era solo una ragazza molto giovane.
“Mi
avete spaventato” disse Viridio, con un mezzo sorriso “Vi
serve qualcosa?”. Notò che la ragazza aveva uno sguardo
strano e neanche l’ombra di un sorriso. Anzi, sembrava totalmente
inespressiva, come una bambola. Lo sguardo di Viridio scivolò
giù e vide che la tunica di lei era sporca quanto la sua, ma non
solo di fango e terra. C’erano delle chiazze rosse che sembravano
macchie di sangue.
Alzò lo sguardo preoccupato. “Vi è successo qualcosa? Vi serve aiuto?”
Lei non rispondeva e lui notò che era anche parecchio pallida. Stava sicuramente male!
Viridio
avanzò di un passo, cercando di essere cortese e di non
spaventarla. “Mi chiamo Viridio. Vi potete fidare di me”.
Il suo nome per esteso era Kaeso Iulius Viridio, ma lui preferiva sempre presentarsi col solo cognomen.
Anche la ragazza avanzò verso di lui, guardandolo con quei suoi strani, inquietanti, occhi verdi.
C’erano cose che non si potevano dimenticare.
Acilia aveva seppellito in una parte di sé ciò che aveva fatto a Kaeso, e forse non era l’unica cosa.
Ma
non l’aveva mai davvero dimenticato e rivedeva tutto come se
vedesse un film. Non voler trasformare Miguel, non volersi innamorare
di Jacque, non voler parlare di Kaeso alle riunioni, non volerlo
cercare, non volerlo uccidere, cercare sempre stupidamente una
scappatoia, pure nelle parole di un umano come Curtis, nei suoi occhi
grigi che, la prima volta che li aveva visti, le erano sembrati blu.
Tutti
la stavano fissando, col fiato sospeso. Ramona stava già mutando
espressione ma lei non si poteva più tirare indietro.
Aprì la bocca, ricordando tutta la sua agitazione, ciò che provava quando vedeva Kaeso, odiandosi, infinitamente.
“Chi crea può anche distruggere. E’ che… Kaeso, l’ho creato io”.
I pezzi stanno cominciando ad andare a posto? :) Nel corso della storia
c'erano moolti indizi del fatto che Acilia avesse trasformato Kaeso,
alcuni li avete notati, altri invece erano (apposta) impercettibili,
quei dettagli che si notano solo ad una seconda lettura. Boh, se era
troppo scontato ditemelo che tolgo degli indizi, così magari il
"colpo di scena" riesce meglio.. XD
Un'altra cosa, per informazione: all'inizio del libro ho sempre detto che il nome di Kaeso era Kaeso Virnius. Come vedete, ho cambiato il nome e sto già provvedendo ad eliminare tutti i Virnius presenti nel documento.. XD
Nene,
quante lacrime ç__ç Sono davvero contenta che ti abbia
commosso l'incontro tra Eike ed Imma. L'intento era quello, di far
commuovere, ma pensavo di non esserci riuscita troppo quindi.. ottimo
:DD Per il colpo di stato già, hai ragione, Kaeso è un
vero bastardo. Dici che anche i cattivi hanno una morale e ci tengono a
vincere lealmente, è vero, molti cattivoni sono così.
Kaeso no XD L'ho voluto rendere senza alcuna morale, un vero pezzo di
cacca, un cattivo nel vero senso della parola. Eh.. quello che voleva
sapere Kaeso da Lyuben riguardo alla genesi dei vampiri.. Sì,
dai, gli sta bene non averlo scoperto. Ma voi lettori lo scoprirete
mai? :PP Per quel che riguarda la scena di Jacque e Dubris.. Ahahhaha!
Me li vedo che fanno un corso di uncinetto! Cucina meglio di no.. "Per
rendere più saporito il vostro sangue!" o_O Comunque invece a me
sono sempre piaciute le scene in cui due uomini discutono per una
ragazza (da piccola mi emozionavo proprio) però almeno non sono
arrivati alle botte, dai, quello è proprio infantilismo! Diciamo
che ad ogni modo la scena serviva per spiegare ancora più
esplicitamente da cosa sono nati quell'odio e quella tensione che
c'è tra i due vampiri fin dai primi capitoli del libro. Grazie
mille della solita bella e lunga recensione :)
Sara,
devo dire che hai superato te stessa XD Eri proprio ispirata quando hai
fatto l'ultima recensione, sembra di un critico d'arte u.u L'idea che
Eike trovasse la scritta di Imma sul muro di Berlino è nata
prima di Lyuben, sai?? XD Forse anche di Dubris.. Però non ci
avevo pensato al fatto che scriverlo sul muro fosse simbolo della loro
inevitabile separazione, mi suona bene :DD Non te lo ricordavi ma nei
capitoli passati (uno dei primi) si capiva in maniera esplicita che ci
sarebbe stato un incontro tra i due, beh, meglio, così è
stata una mega surprise XD Il grande Lyuben l'ho fatto uscire con stile
eh sì u.u Di Acilia hai detto esattamente quello che penso
anch'io, piace tanto anche a me come personaggio ^^ E come vedi, in
questo capitolo, vedi l'allegra famigliola di Kaeso, che ti interessava
dopo aver letto la sua macabra filastrocca.. XD come al solito grazie
per la fantastica recensione :D :poooop:
Ebbene
sì, carissime, siamo a 414 pagine. Mancano ancora cinque
capitoli (quindi altre cento pagine come minimo .-.) e poi sarete
liibeere, forza e coraggio :DD
Alla prossima!
ps: Il titolo del capitolo fa cagare, lo so.. Ma non mi veniva niente di meglio XD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** Parole magnetiche ***
Ventunesimo capitolo
CAPITOLO XXI
PAROLE MAGNETICHE
Ogni
volta che riapriva gli occhi e tornava a respirare, era come riemergere
dall’acqua più gelida e sporca in cui avesse mai nuotato
– o meglio, in cui fosse mai annegato.
Viridio
scavò velocemente la terra sopra di lui e in un attimo fu in
superficie. Si scrollò di dosso il terriccio e la polvere che
gli imbrattavano la tunica. Ricordava ancora bene la notte in cui per la prima volta si
era svegliato sotto terra. Ancora la ricordava e ancora gli venivano i
brividi. Era passato solo qualche giorno e ancora aveva voglia di
urlare e di scappare, ma una cosa l’aveva capita. Il sole non gli
era amico, mentre le terra sì.
Si
guardò intorno e vide che Acilia era già alzata. Seduta,
col busto chino sulle proprie gambe piegate, si stava pulendo i piedi.
Viridio trattenne un’imprecazione. Ogni notte sperava che lei non ci fosse più.
La
donna alzò lo sguardo e si accorse di lui. Distese le gambe e le
divaricò, con un sorriso che non aveva nulla di bello.
“Salve” lo salutò“Me lo vuoi dire oggi il tuo nome?”.
Viridio scosse la testa e ad Acilia si spense il sorriso.
Lo guardò, con le sopracciglia inarcate. “Dovrò pur chiamarti in qualche modo”.
Lui
esitò.“Chiamami Kaeso” disse infine, arrendendosi.
Se c’era una cosa di cui era certo, era che quel mostro non
l’avrebbe maichiamato con lo stesso nome che pronunciava
sua moglie. No, non riusciva neanche a pensarlo, il nome di Prisca,
senza che qualcosa di terribile gli comprimesse il petto.
Si voltò dall’altra parte, per evitare di guardare Acilia.
Ma
quella si alzò e gli fu dietro in un attimo. Viridio sentiva
l’alito di lei sulle sue spalle.“L’ho vista la tua
smorfia” disse, divertita “E’ inutile che ti giri,
è inutile che ti trattieni… Non ci riesci a
piangere!”. Ridacchiò e quella risata orribile raggiunse
l’orecchio di Virido amplificandosi di più ogni secondo
che passava. Era una tortura per il suo orecchio e lui si voltò,
guardandola in faccia.
Ella aveva il volto perfetto, avvolto nel suo pallore, nella sua malvagità.
“Perché
mi hai fatto questo…” fece Viridio, sentendo la propria
voce affievolirsi per la disperazione. Ogni notte era costretto a
uccidere qualcuno per sopravvivere. Non l’avrebbe potuto evitare
neanche quella notte, no, l’avrebbe fatto… Ma
l’orrore stava prendendo il sopravvento dentro di lui, e sentiva
ogni parte di lui urlare per la paura e l’indignazione.
Acilia
lo guardò con un volto fintamente
compassionevole.“Andiamo, Kaeso, è inutile piangersi
addosso. Anch’io ero tanto triste all’inizio, come te, ma
ci si fa l’abitudine…”. Il suo viso si
illuminò e lei si mise di nuovo a ridere. “Ho detto piangersi addosso… Che espressione infelice eh!”.
“Ti
ho chiesto perché mi hai fatto questo!” urlò
Viridio, frustrato “E smettila di ridere!”.
Acilia si fece seria tutto a un tratto, e sgranò gli occhi. Erano folli quegli occhi.
“Avevo bisogno di compagnia” disse, con l’espressione di una pazza.
Bisogno di compagnia.
Viridio si allontanò trattenendo l’impulso di gridare.
Bisogno di compagnia.
Era stato trasformato in un mostro per un bisogno di compagnia!
Diede
un pugno all’aria e crollò sulle ginocchia. Quando era
stato… Come… Stava giocando con Iulia…Iulia…
Perché
non venivano fuori le lacrime?! Le avrebbe dedicate tutte a lei, alla
sua piccola Iulia, che si trovava senza padre…
“Voglio andare da lei” mugugnò, rivoltò alla terra “Voglio andare da loro…”.
Sentì
un peso sulla propria testa, che premeva e gliela spingeva giù.
Con un gemito, si trovò con la faccia immersa nel terriccio, e
non riusciva ad alzarsi.
Acilia agitò le dita del piede nudo tra i suoi capelli.
“Se vai da loro le ucciderai”.
“No…” fece Viridio, mentre la terra gli entrava in bocca “Non…”.
Acilia
spinse con più vivacità. “Sì. E’ la
nostra natura, Kaeso. Gli umani sono solo nutrimento. Non possiamo
convivere con loro, possiamo solo mangiarli”.
Viridio
fece dei versi tristi, soffocati, senza neanche provare a lottare. Lo
sapeva che quel mostro era più forte di lui.
Ogni
giorno, quando sorgeva il sole e lui chiudeva gli occhi, come se
morisse, sperava di morire davvero e di non svegliarsi più. Ma
poi gli occhi si riaprivano sempre e ogni notte si chiedeva
perché mai era successo a lui. Quale orribile incubo era quello!
Quale dio gli aveva fatto questo? No, non esistevano dei, non
esistevano più per lui… E la natura, un tempo tanto
bella, era così mostruosa…
E’ la nostra natura, Kaeso.
Che parola orribile era diventata natura!
Passò
qualche attimo e poi si sentì libero dalla pressione del piede
di Acilia. Non si voleva alzare, sarebbe rimasto lì per sempre.
Ma la sentiva dentro di sé, la fame che cresceva. Lui
l’aveva provata la fame, il non avere il cibo sulla tavola, sentire lo stomaco che soffriva e la testa che doleva. Ma quella era
diversa…Era tutta un’altra cosa… Era qualcosa che
ti prendeva non solo lo stomaco e la testa, ma tutto il corpo, ogni
arto era in fibrillazione, il cervello si spegneva, il dolore agli
occhi, alla bocca, quegli orribili denti…
“Ti vuoi alzare?”.
Viridio si diede una spinta con le braccia, e si alzò da terra.
Acilia lo stava fissando con le braccia incrociate al petto. “E’ ora di mangiare, andiamo”.
“No” disse lui, deciso, serrando i pugni “Non vengo”.
Acilia lo guardò confusa.
“Non vengo” ripeté lui “Non voglio più uccidere nessuno. Non voglio vivere così!”.
Quell’orribile
donna con l’aspetto di ragazzina gli si avvicinò, le bocca
talmente dritta, gli occhi talmente spenti…
“Vuoi metterti qui e aspettare la morte?”.
Viridio
annuì, chinando lo sguardo. Non riusciva a reggere quegli occhi,
gli mettevano soggezione, gli incutevano timore, quegli occhi non erano
umani, non potevano esserlo mai stati!
“Guarda che la morte è dolorosa”.
Non
importava. Se non avrebbe mai più rivisto Prisca e Iulia, tanto
valeva farla finita. Per cosa poteva vivere? Quale sarebbe stato ora il
suo scopo?!
“Se
vuoi esporti al sole, bruceresti per giorni prima di morire. Forse per
settimane” continuò Acilia, avvicinandosi a lui sempre di
più, con quella voce crudele che gli si insinuava nella pelle,
in profondità “Se non vuoi più bere sangue, non
moriresti. Saresti sempre più debole, e secco, e rimarresti per
l’eternità immobile, a riflettere, a meditare, a ricordare: una vera gioia”.
Viridio
deglutì. Ricordare sua moglie e sua figlia senza più
avere la speranza di rivederle? Ricordare i volti di chi aveva ucciso,
tormentarsi senza poter morire? Avrebbe rinunciato, sì, ma a
quale prezzo… Quale prezzo…
Acilia
si era fatta vicinissima. Viridio si poteva perdere nei suoi malvagi e
disumani occhi. Ma per la prima volta notò qualcos’altro
in essi.
Qualcosa di magnetico.
“Inoltre sono la tua creatrice, Kaeso” continuò Acilia, persuasiva “E mi devi obbedire”.
Lo prese per un braccio e lo tirò.
Viridio
si lasciò condurre, come fosse un giocattolo, un burattino. Un
burattino nelle mani sbagliate, un giocattolo di una bambina
capricciosa, cattiva, perversa.
Passò qualche secondo prima che Emily si riprendesse.
Jacque aveva il volto mortificato che si tramutò nel più vivo sollievo quando lei si mise a tossire.
Eike
lanciò un’occhiata di sbieco all’espressione
orripilata del signor Dixon, stringendo la pistola di lui tra le dita.
Il signor Dixon, tornato in salone dal piano superiore con una pistola,
spaventato a morte da quello che stava capitando, aveva sparato un
colpo dritto a Jacque. Eike però l’aveva previsto e
l’aveva spinto, sviando il proiettile che ora si trovava sul
pavimento, ai piedi della poltrona. Gli aveva preso la pistola, come
fosse stata una caramella.
Spostò
il suo sguardo su Emily che, annaspando, si stava riprendendo. La
signora Dixon era china su di lei e tremava come una foglia.
Fortunatamente Jacque si era fermato, appena in tempo. La ragazza era
pallida come uno straccio, mentre lui si stava rinvigorendo. Le mani
erano meno rosse e il sangue si stava ritirando.
Poi
Eike puntò gli occhi sugli altri ragazzi. Quella bionda, che si
chiamava Lydia, aveva gli occhi lucidi e Michael –
presumibilmente il fratello minore di Emily – aveva la bocca
aperta, sgomento.
Emily
e Jacque si guardavano ed Eike si chiedeva cosa ci fosse in quello
sguardo. Lui si avvicinò a lei e lei trattenne il respiro. Eike
chinò la testa leggermente di lato. Sembrava uno di quei film
melensi che davano in televisione il martedì sera.
“Bisogna
medicare la ferita” stava dicendo Jacque. Visto che Emily, ancora
molto pallida, sembrava non fosse in grado di muoversi, il ragazzo si
rivolse alla signora Dixon, che ancora lo guardava con occhi sbarrati.
“Prenda del cotone e del disinfettante” disse Jacque “Per favore” aggiunse poi.
Neanche
la signora Dixon pareva in grado di muoversi, anche se per altro
motivo, allora sopraggiunse la voce di Lydia. “Ci penso
io”.
Eike
guardò la ragazza allontanarsi in tutta fretta verso una porta,
poi ripuntò lo sguardo sull’interessante quadretto. Beh,
Jacque non poteva proprio fare conoscenza dei suoceri in circostanze
migliori! Quale padre e quale madre non desidererebbero per la loro
unica figlia femmina un ragazzo che ha rischiato di dissanguarla con un
solo morso sul braccio?
“Che
ti è saltato in mente… Tu, brutto
vampiro…”fece la voce del signor Dixon, vibrante di
rabbia, facendo oscillare il suo sguardo da Jacque ed Eike,
tant’è che Eike neanche sapeva a quale dei due si
riferisse.
Emily fece un respiro profondo, poi parlò. “L’ho deciso io, papà. A Jacque serviva del sangue”.
Gli occhi del signor Dixon parvero uscire dalle orbita. “Ti stava uccidendo!”.
“Come vedi, non l’ha fatto” ribatté Emily.
“Ha
ragione tuo padre” intervenne Jacque “Non dovevi
farlo”. Oh, ecco, pensò Eike, l’aitante giovanotto,
pretendente la mano della fanciulla, cerca di rimediare al suo
disastroso ingresso in famiglia, con un po’ di sana adulazione al
pater familias.
Il signor Dixon effettivamente parve spiazzato. Aveva aperto la bocca pronto a ribattere a qualunque cosa, ma poi la richiuse.
“Non riuscivo a fermarmi” insistette Jacque.
“L’hai fatto invece, ti sei fermato” ribatté la ragazza.
“Non potevi sapere che…”.
Emily ridusse i suoi occhi a due fessure. “Bastava un semplice grazie” lo interruppe freddamente.
Accidenti,
pensò Eike, c’è aria di tempesta, malintesi ancora
non risolti. Ovviamente sentiva puzza di Acilia.
Lydia
intanto era tornata con disinfettante, cotone e garze. Senza degnare di
uno sguardo Jacque, si sedette sul pavimento, accanto ad Emily,
chiedendole di tendere il braccio. La ragazza obbedì.
Lydia
operò in silenzio e non appena ebbe fasciato il braccio in
prossimità della ferita, alzò lo sguardo
sull’amica. Lei la ringraziò debolmente.
Michael
a un certo punto fece qualche passo avanti. “Emi, si può
sapere come li hai conosciuti questi vampiri?”.
“Giusto… Giusto” si rianimò il signor Dixon “Spiegaci come cavolo…”.
“Okay”lo
interruppe Emily, un po’ scocciata, mentre si alzava in piedi
aiutata da Lydia. Si sedette sul divano e invitò i suoi
familiari a fare altrettanto. Il signor Dixon si appollaiò sulla
poltrona, col sedere sulla punta, come se fosse pronto a scattare in
piedi. La signora Dixon e Lydia si sedettero ai lati di Emily. Michael,
che era momentaneamente sparito, tornò dalla cucina con in mano
due sedie. “Per… Ehm, gli ospiti” disse
educatamente.
Jacque
si rialzò da terra e ringraziò il ragazzo. Eike si
sedette senza ringraziare e Michael sparì di nuovo in cucina,
per prendere evidentemente una terza sedia.
Quando
tutti furono seduti, Emily trasse un respiro profondo. Eike fece vagare
serenamente lo sguardo nella stanza. Erano disposti in una specie di
cerchio deforme e le facce che vedeva erano scavate e segnate da forti
sentimenti, sembravano chiedersi cosa ci facessero lì. Emily in
particolare aveva proprio la faccia di chi stava per alzarsi e dire Ciao, sono Emily. Non bevo da tre mesi.
Ma
la ragazza non si alzò e disse: “Ho conosciuto Jacque per
caso e ho capito che non mi avrebbe fatto del male”.Guardò
in giro nervosamente che reazioni avesse suscitato ma Eike non
notò alcun cambiamento. Il signor Dixon pareva una pentola a
pressione che stava per esplodere, e sarebbe esplosa se Emily avesse
continuato a dire sempre le stesse cose.
L’umana
si decise ad andare avanti: “Ho scoperto che i vampiri hanno un
sistema politico. Il motivo per cui noi riuscivamo a vivere le nostre
vite serenamente…”.
La signora Dixon emise un verso scettico.
“Abbastanza serenamente”acconsentì
Emily“è che fino a poco tempo fa il Presidente della loro
Rappresentanza era membro di un partito di vampiri che cerca la
pacifica convivenza con gli umani”.
La faccia del signor Dixon parve sgonfiarsi. “Convivenza?”emise, in un sibilo.
“Rappresentanza? Partito?” stava dicendo Lydia, incredula.
Eike
notò che Jacque si stava guardando i piedi. Lo imitò,
pensando che fosse decisamente più interessante. Ora ci
sarebbero stati vari urletti increduli e scettici, poi domande, e
spiegazioni, e ancora domande, e spiegazioni…
“Come-diavolo-sarebbe-possibile-la-convivenza-tra-vampiri-e-umani?!”digrignò
il signor Dixon, lanciando loro una lunga occhiata sprezzante.
“Non lo so” ammise Emily, paziente “Sta di fatto che per loro uccidere è contro la legge”.
Un silenzio attonito accolse le ultime parole della ragazza.
“Contro
la legge?”starnazzò la signora Dixon “La loro legge?
E quella strage di capodanno, eh? Ve la ricordate? E quella strage che
è avvenuta…”.
“Mamma, andiamo!”esclamò Michael “Se una cosa è contro la legge non vuol dire che non può avvenire!
Quegli assassini li avranno messi in prigione, o li stanno
cercando… Giusto?”. Guardò speranzoso i due vampiri
ed Eike alzò un sopracciglio. Stava parlando proprio con loro?
“Oh, già” farfugliò la signora.
“E’molto
difficile arrestare un vampiro” intervenne Jacque “Ma non
si tratta di un nostro compito. Io ed Eike siamo troppo giovani perfino
per votare”.
“Ma
certo” continuò la signora Dixon, azzardando
un’occhiata ad Eike “Quello è un bambino!”.
Eike le sorrise, amabile. “Ho novantadue anni, signora”.
Quella strabuzzò gli occhi, poi si mise una mano sul cuore. “Ha più anni di mia madre!”.
“Mamma” fece di nuovo Michael, alzando gli occhi al cielo “E’ un vampiro”.
“Certo, certo… Lo so…”.
Il
signor Dixon aveva stretto gli occhi e con quelle due fessure squadrava
chiunque parlasse. Eike lo trovava piuttosto inquietante.
“Emily” disse poi l’uomo “Hai detto fino a poco tempo fa…Fino a poco tempo fa c’era questo strano presidente… Questo vampiro buono…”.
“Sì,
ci stavo arrivando” rispose la ragazza. Guardò Jacque ed
Eike. “Non è più lui al
potere…Cosa…Cosa gli è successo?”.
“Kaeso l’ha ucciso”rispose Eike.
“Ma
come è possibile?” esclamò Emily “Lyuben era
il vampiro più vecchio in assoluto, no? Chi potrà fermare
ora Kaeso?”.
“Il vampiro più vecchio?” fece Michael, eccitato “Quanti anni aveva?”.
“E Kaeso? Quanti anni ha?” insisteva Emily.
“Ma chi se ne frega!” esplose il signor Dixon “Chi se ne frega di quanti anni ha… Chi è questo Keso?”.
“Più un vampiro è vecchio, più è forte” spiegò Emily, sbuffando piano.
Il padre sembrava piuttosto perplesso.
“Non
lo so quanti anni ha” disse Jacque, scrollando le
spalle“Parecchi, immagino. Il nome è latino, no?”.
“Latino?!” fece di nuovo il signor Dixon, come folgorato.
“E questo Kaeso, dunque, è al potere?” chiese Lydia, concentrata.
Jacque ed Eike annuirono.
“E
questo significa che…” iniziò la bionda, lasciando
in sospeso la frase e guardando i due con aria interrogativa.
“Che siete nella merda” disse Eike, tranquillamente.
“Diciamo
che le ultime stragi avvenute… Sono stati lui e i suoi amici, a
compierle” si affrettò ad aggiungere Jacque.
Tutti gli umani presenti continuavano a guardarli come dei mongoli e ad Eike sfuggì un risolino.
“Le leggi sono cadute. Non c’è più controllo. Anarchia”provò a spiegare Jacque.
Ancora qualche attimo di silenzio, poi tutti scoppiarono a parlare insieme.
Eike
faceva fatica a districare quel vespaio di parole agitate e confuse, e
rinunciò subito. Jacque aveva alzato le mani, in un tentativo di
placare la situazione.
Poi
Lydia si alzò in piedi e si allontanò, col cellulare in
mano ed Eike la sentì dire “Devo chiamare
Sam”.Sparì oltre la porta da cui era venuta quando aveva
preso il necessario per disinfettare la ferita di Emily.
Eike si voltò a guardare Jacque, ricordandosi di una cosa. Gli aveva detto che avrebbero cercato anche Claire.
“Jacque… Jacque!”lo chiamò.
Quello, ancora con le mani alzate, si girò verso di lui.
“Li abbiamo avvertiti, ora stiamo perdendo tempo. Andiamo da Claire”.
Il suo creatore parve sconcertato. Eike l’aveva capito che lui non aveva nessuna intenzione di separarsi da Emily.
Stupido Jacque, pensò, quando lo capirai che ti piace mille volte di più Acilia?
“Un
momento” fece d’un tratto il signor Dixon “Per quale
motivo questi due vampiri vorrebbero proteggerci? Perché hanno
portato dell’argento proprio a te, Emily?”.
Prima che Emily potesse rispondere, Jacque disse: “Beh, non abbiamo molti amici umani, oltre ad Emily”.
Claire. Ci sarebbe anche Claire.
Eike
guardò il suo creatore, un po’ arrabbiato. Claire aveva
concesso loro il suo sangue e loro la ripagavano facendola morire?
Invece Emily cos’aveva fatto? Si era solo intromessa tra Acilia e
Jacque. Anzi, aveva mandato in pappa il cervello di lui.
“Amici” ripeté il signor Dixon, come se fosse una parola disgustosa “Amici…”.
Eike
notò che Emily aveva accuratamente evitato di parlare del patto
del sangue, del fatto che molti vampiri l’avessero vista, e la
conoscessero. Erano lì per quello del resto, perché era
in pericolo. O perché Jacque l’amava?
Eike li guardò di sbieco entrambi. Sembravano evitare di guardarsi in faccia.
E’ così, Jacque? Addirittura l’ami?
Ne era infastidito.
“E adesso che si fa?” domandò Michael.
La
signora Dixon infilò bene i piedi nelle pantafole arancioni e si
alzò in piedi, guardando torva il ragazzo. “Si va a letto,
Michy. E’ già l’una e mezza, e domani hai
scuola”.
Il ragazzo la guardò come se fosse impazzita. “Letto? Scuola? Mamma, hai capito quello che sta succedendo?”.
La madre fece un sospiro enorme e lui continuò, con tono saccente: “Come farei a dormire?”.
“Andate a dormire”disse Jacque “Resteremo a fare da guardia, per questa notte”.
Eike guardò il proprio creatore, stralunato.
Emily intervenne subito: “La guardia? Ma loro sono molto più forti di voi, non potete!”.
“Sì, Jacque, non possiamo” le diede man forte Eike, continuando a fissarlo con occhi sgranati.
“Solo
per questa notte” insistette Jacque “Non credo
capiterà nulla questa notte… Poi vediamo come
evolverà la situazione”.
La
signora Dixon lo stava guardando con una strana espressione. Sembrava
qualcuno in procinto di vomitare. Eike immaginò fosse
combattuta. Una parte di lei voleva ringraziarli, un’altra voleva
solo andare a letto e dimenticare la loro presenza nella sua casa.
Sì, doveva essere così, stava cercando di vomitare la
parola grazie. Alla fine non ci riuscì e con uno sguardo
quasi allucinato si allontanò verso le scale e con morbidi passi
arancioni sparì.
Michael,
con uno sbadiglio, si avvicinò ad Eike. Lo scrutò e dopo
un po’ gli disse: “Mi fai vedere le zanne?”.
Eike lo accontentò subito, formando un ghigno con le labbra.
L’umano spalancò lo bocca. “Che for…”.
“Michael!” abbaiò il signor Dixon, evitando di guardare le zanne di Eike “A letto!”.
Il
ragazzo sbuffò scuotendo la testa bruna, poi si allontanò
con passo strascicato su per le scale, seguito dal signor Dixon che
continuava a guardarsi indietro con sguardo circospetto. A un certo
punto inciampò su uno scalino e si decidette a guardare in
avanti. Poi sparì anche lui.
Emily
si era alzata e si stava avvicinando a Jacque ed Eike, con uno sguardo
carico di sensazioni. Aveva la bocca mezza aperta, come se dovesse dire
qualcosa, ma non diceva niente. Assomigliava vagamente
all’espressione che aveva sua madre quando pareva dover vomitare.
“Acilia e gli altri proveranno a fermarlo?” disse infine.
Jacque scrollò le spalle. Eike ne era convinto, ma preferì tacere.
Una
porta sbatté e nel salotto comparve di nuovo Lydia, le lacrime
che sgorgavano da due occhi marroni sgranati. Aveva una mano tra i
capelli, che continuava a tirarli indietro, come se non sopportasse
più la loro presenza sul suo viso. “Sam non mi
risponde” annunciò “L’avrò chiamato una
decina di volte! Non…”.
Emily le fu davanti e le mise le mani sulle spalle, cercando di calmarla.
“Lydia, tranquilla, Sam starà dormendo”.
“No!”protestò
l’altra“oggi è giovedì. Il giovedì ha
allenamento… E dopo l’allenamento mangiano sempre una
pizza… E stanno fuori fino a tardi…”.
“Lydia”insistette
Emily “L’allenamento può essere saltato. O magari
era stanco ed è andato a casa. O magari…”.
Lydia scosse la testa, singhiozzando. “Ho bisogno di certezze, non di sentire tutte le eventualità”.
“Magari
non ti risponde perché ti odia” se ne uscì Eike,
squadrando la bionda che continuava a piangere senza alcun motivo
fondato.
Emily, Lydia e anche Jacque lo guardarono con gli occhi spalancati.
Lui si strinse nelle spalle. “Ah, scusate. Era un’altra eventualità”.
La
bionda si asciugò gli occhi. “Può essere che sia
ancora arrabbiato… E che non mi voglia
rispondere”rifletté.
Emily annuì vistosamente. “Certo”.
“Ma perché diavolo…Perché diavolo è ancora arrabbiato?!”.
Eike
alzò gli occhi al cielo e si voltò, guardando da
un’altra parte. Tra Emily e Jacque che giocavano a fare gli
innamorati inconsapevoli e quella lì che piangeva perché
uno stupido ragazzo non le rispondeva, si era ritrovato in una tempesta
d’amore. Tutta per colpa di Kaeso che aveva deciso di buttare il
mondo nel panico. Si sa che nel panico le storie d’amore fioccano
o si aggiustano come per magia.
Si diresse fiaccamente verso il divano e ci si stravaccò sopra.
Dopo poco lo raggiunse anche Jacque, che si sedette accanto a lui sospirando.
“Sarà una lunga notte” disse, guardando le due ragazze che si abbracciavano.
Eike incrociò le braccia, un po’ alterato. “E’ stata una tua idea, capo”.
La tensione che era calata nella stanza era quasi palpabile.
Acilia
strinse i pugni, appoggiati sulle sue cosce ricoperte dai jeans, e
serrò le labbra, in attesa di una qualche reazione.
Il primo a dire qualcosa fu un vampiretto che aveva la faccia molto giovane. Dimostrava qualche anno in più di Eike.
Era a bocca aperta, poi esclamò: “Se l’hai creato tu, perché è così?”.
Certo,
pensò Acilia amaramente, tutti hanno in mente Jacque, il
perfetto vampiro buono che ho creato, il mio magnifico lavoro.
Ricordò la paura che aveva quando aveva trasformato Jacque, la
paura che tutt’ora aveva di lasciarlo andare.
Guardò
il vampiro che aveva parlato, ed esitò prima di rispondere.
Abbiamo tutti un passato, voleva rispondere. Ma non lo fece.
“Ci
siamo persi di vista più di mille anni fa” disse
semplicemente “Ciò che ha fatto dopo di allora, io non lo
so”.
Ci
fu ancora qualche minuto di silenzio attonito. Acilia evitava
accuratamente di incrociare lo sguardo di Ramona, che era seduta
proprio di fianco a lei. Teneva il volto fisso su Dubris, che fissava
il pavimento. Avrebbe voluto che dicesse qualcosa anche lui.
Ma
parlò Victoire. Aveva le sopracciglia alzate e la chiara
espressione di qualcuno che è stato preso in giro. “Da
quanto tempo eri diventata vampiro?”.
Acilia
si sforzò di riflettere. “Non
ricordo…”.Pensa, si diceva, pensa. Marcus era morto da
parecchi anni, dopo la morte di lui, lei… Era sempre stata sola.
Forse era questo che l’aveva fatta impazzire. “Meno di due
secoli. Poco meno, credo”.
Victoire
aveva ancora quell’espressione. E poi arrivò quella
domanda. “Perché non ce l’hai mai detto?”.
Se l’era chiesto anche Acilia, tante volte. Non aveva trovato spiegazioni. Si vergognava di quello che aveva creato?
“Aci?”.
Aveva
tentato lei stessa di dimenticarlo, e ce l’aveva quasi fatta.
Dirlo ad alta voce sarebbe stato come ricominciare da capo.
“Aci! E’ il capo del PO da sette mesi! Perché non ce l’hai mai detto?”.
Acilia aprì la bocca. Neanche sapeva quello che avrebbe detto, ma forse sarebbe uscita la verità.
“Che
differenza avrebbe fatto… Non sapevo dove trovarlo, e non mi
avrebbe ascoltato: è totalmente fuori controllo, anche dal
mio” disse.
Continuava a leggere una forma d’accusa nel volto di Victoire.
“E
non l’avrei ucciso” continuò Acilia, sentendo
qualcosa che si diramava, sotto la sua pelle“Non volevo
ucciderlo…”.
In realtà aveva provato a parlargli, a Kaeso. Ma anche con lui, si sentiva sotto accusa.
Smettila. Credi di riuscire sempre a far fare agli altri quello che vuoi?
A volte ci pensava…Come dargli torto?
Al suo fianco qualcuno emise un verso che stava a metà tra uno sbuffo spazientito e un lamento esasperato.
Acilia si voltò finalmente per guardare Ramona.
Lei la guardava con un’espressione dura, che non aveva mai avuto. “Non lo vuoi uccidere? Tu non lo vuoi uccidere?”.
Acilia cercò di rimediare. “Ora la situazione è diversa…”.
“Non
poteva non degenerare la situazione” la interruppe Ramona,
severa. Trasse un respiro profondo, ma ciò non la calmò.
I suoi occhi si fecero sempre più cattivi.“Neanche Lyuben
lo sapeva?”.
Perché Lucius ha detto che la tua anima è sporca?
Acilia
tentennò. Avrebbe potuto dirglielo, in quel momento… Cosa
le costava? Forse l’avrebbe fatto, ma Lyuben non aveva insistito.
Ognuno ha i suoi segreti, Aci.
Non aveva insistito, perché ne aveva anche lui.
Ramona interpretò il suo silenzio correttamente e sbottò: “Lui si fidava di te!”.
Si
alzò in piedi, tremante. Tutti i suoi ricci scuri, così
ruffi e mosci da quando era morto Lyuben, parvero riprendere vita, per
la rabbia.
Acilia
voleva dire qualcosa, ma Dubris l’anticipò. Anche lui si
era alzato dal divano e aveva raggiunto la sua creata con fare
rassicurante.
“Ramona, calmati, ascolta…”.
“Sono calmissima”fece lei, evitando di guardarlo.
“Anche se Lyuben l’avesse saputo, non avrebbe potuto certo impedire quello che è successo”.
“No” rispose Ramona, sempre fissando un punto di una parete “Lei avrebbe potuto impedirlo”.
Dubris fece un sospiro. Poi disse: “Io avrei potuto impedirlo. Avevo Kaeso nel mirino della mia pistola, e non ho sparato. Se Lyuben non se la prenderebbe con me, non biasimerebbe neanche lei”.
Ramona
socchiuse gli occhi. Sarebbe parso così naturale vedere delle
lacrime scorrerle sulle guance. Poi finalmente si voltò a
guardare il suo creatore, sgranando i suoi occhi scuri più che
mai, deformandoli quasi. “Sono stanca di dire quello che Lyuben
farebbe o non farebbe” disse, con la voce che vibrava “Lui
non c’è più…E ci sono io!
Io!”alzò la voce “E non voglio parlare con nessuno
di voi due!”.
Anche
Acilia si alzò ma Ramona, senza degnarla di uno sguardo, si
diresse verso la porta di casa, guardando dritto davanti a sé.
La ragazza fece per seguirla ma Dubris la fermò, tenendola per
un braccio, ed entrambi la guardarono uscire, sbattendo forte la porta
dietro di sé.
Ad
Acilia dispiacque tantissimo. Il sentimento di colpa che provava era
così umano, ancora lei era in grado di sentirlo. Mentre le
parole che lei stessa aveva rivolto a Kaeso solo qualche mese prima le
tamburellavano nelle orecchie così forte, anche se erano solo
nella sua mente, come se qualcuno le stesse urlando.
Me la vuoi far pagare, non è vero?
Curtis,
seduto al tavolo della cucina, giocherellava con la fede nuziale, che
si metteva e toglieva in continuazione, ultimamente.
Karen
era fuori a lavoro ma presto sarebbe tornata. Sapeva che lei in casa
non voleva sentir parlare del lavoro di lui, quindi si voleva
affrettare a sbrigare le sue faccende. Sospirò, mentre scorreva
sul display della macchina fotografica vecchie foto, alcune di esse non
erano mai state stampate. Mostravano solo vuoti paesaggi, o vuote
stanze.
Non la capiva, Karen. Si sforzava di parlarne, lui voleva davverosalvare
il loro matrimonio ma lei insisteva col dire sempre le stesse cose o
peggio, si ostinava a restare muta. Non era sempre stato così.
C’era stato un tempo in cui lei lo ammirava, tutto ciò che
lui faceva accendeva la loro passione. Ma poi era venuto il matrimonio,
la nascita dei gemelli, il suo rincasare così tardi. Karen, da
contabile qual era, non lo comprendeva proprio. E se continuava
così, era ovvio che prima o poi Curtis si sarebbe stufato. Era
ovvio che guardasse altre donne, era istintivo, naturale che si
sentisse attratto da quella ragazza, Emily.
Qualcosa di magnetico.
Curtis
non si doveva far sopraffare. Sapeva qual era il suo posto, e sapeva
anche che amava Karen, e che non si sarebbe cacciato ulteriormente nei
guai, per Selwyin e Sally.
E’ quello che dice sempre lei…
Si
infilò la fede nell’anulare, poi prese il cellulare e
compose un numero. Aspettò pazientemente che qualcuno
rispondesse poi disse: “Ho qualcosa in mano”.
Il
suo interlocutore reagì stizzito ma Curtis lo ignorò.
Sapeva di averci messo molto tempo. Aveva forse temporeggiato apposta?
Scambiò
qualche altra informazione con l’uomo all’altro capo del
telefono, poi chiuse la chiamata, proprio nel momento in cui
sentì la porta di casa aprirsi.
Karen apparve nel salotto, in gonna e giacca e lo salutò in maniera distaccata.
“Preparo io la cena” disse Curtis “Poi esco”.
Karen
fece un vago cenno d’assenso, irrigidendosi ulteriormente. Ormai
neanche gli chiedeva più dove andasse. Sembrò esitare,
poi prese il telecomando sul tavolo, vicino alla macchina fotografica
di Curtis, e accese la televisione. Trovò un telegiornale e i
suoi occhi scrutarono la telegiornalista che annunciava una serie di
morti. Gli attacchi dei vampiri stavano aumentando a dismisura ed ella
consigliava, come tutti, di rincasare sempre prima del tramonto e di non uscire mai prima dell’alba. Gli occhi scrutatori di Karen persero la loro freddezza, coma la neve che si scioglie.
Era la paura, che la muoveva, la faceva muovere a scatti, arrabbiata ma triste.
Curtis
le si avvicinò, in un tentativo di abbraccio ma lei lo
allontanò con un gesto della mano. Non lo guardava in faccia e
il suo viso era contratto in una smorfia. Stava trattenendo le
lacrime.“Non uscire questa sera, Curtis, per favore”.
Lui spalancò gli occhi. No, questo era impossibile. “Devo”.
“Per una sera… Per favore” insistette Karen, continuando a non guardarlo.
Curtis cercò di essere dolce. “Tu e i bambini sarete al sicuro, non vi accadrà niente”.
Karen
si voltò finalmente a guardarlo, con occhi increduli. Scosse la
testa, aprendo a metà la bocca, per dire qualcosa, ma qualunque
cosa fosse le sfuggì via e lei girò i tacchi e
uscì dal salotto.
Curtis strinse i pugni, sentendo la rabbia che saliva. Qualunque suo sforzo, la moglie lo mandava sempre in frantumi.
“Devo lavorare, lo capisci?!” sbottò.
Non
ottenne risposta ed uscì dal salotto, desideroso di vedere i
bambini. I loro visetti lo rasserenavano più di qualunque altra
cosa, anche se a volte, paradossalmente, accadeva che gli mettessero
ancora più angoscia.
Fece capolino con la testa sulla soglia della loro cameretta.
La
testa castana di Sally era china sul suo tavolino, a disegnare con
delle matite colorate. Selwyn era seduto sul pavimento, circondato da
macchinine.
Quella
era una di quelle volte che gli cresceva l’ansia. Curtis
cercò di calmarsi. A volte si domandava se Karen sarebbe mai
stata capace di lasciarlo e di portarsi via i figli. Non vederli
più, era questa la più grande paura di Curtis. Non
vederli più perché Karen gliel’avrebbe potuto
impedire oppure per un altro motivo. La stessa cosa che temeva Karen, e
la rendeva così scontrosa, e rabbiosa…
Non uscire questa sera.
Avevano tutti paura della stessa cosa, e allora perché non riuscivano a parlarsi?
Sally
alzò la testa, accorgendosi del padre, e fece un risolino. Si
alzò dalla piccola seggiola e corse verso di lui con un foglio
in mano. Gli mostrò orgogliosa il suo disegno.
Curtis
le sorrise e afferrò il foglio. C’erano due persone
stilizzate. Quello che sembrava un ragazzino con un cespuglio marrone
scuro sopra la testa teneva per mano una figura dai capelli lunghi e
dritti, che aveva una riga per la bocca, e sotto di essa c’erano
dei triangolini storti.
Curtis strabuzzò gli occhi. “Sally… Cosa… Cosa significa? Chi sono?”.
Sally
fece un sorrisetto soddisfatto e il suo corpicino ondeggiò di
contentezza. “Lui” disse, indicando il cespuglio
marrone“è un ragazzo… E lei… è un
vampiro!”.
Curtis si chinò e poggiò le ginocchia sul pavimento, per stare comodo.
“E perché si tengono per mano?”.
Sally
fece spallucce, continuando a ondeggiare su stessa, con il pancino in
fuori. “Se lo fanno… Sarebbe bello”.
Curtis
sbatté più volte le palpebre. Non era sicuro di aver
capito bene. Per un momento pensò che Sally avesse voluto
suggerirgli qualcosa, ma poi lei tornò allegramente alla sua
postazione da disegnatrice e lui si ricordò che la bambina aveva
solo cinque anni. Cosa poteva capirne di quelle questioni?
Si accorse che Selwyin lo stava fissando e, inconsapevolmente, trasalì.
Il bambino non distolse lo sguardo. “Esci anche oggi, papà?”.
Curtis annuì.
Selwyin chinò lo sguardo e mosse una macchinina rossa.
“Ma torni?” fece la voce di Sally.
Sempre quella domanda…
Era Karen che li spaventava, con il suo sguardo fisso e triste che aveva ogni volta che lui usciva?
“Certo, Sally”disse Curtis, guardando con tenerezza i due bambini “Certo che torno”.
Uscì dalla camera, e qualcosa dentro di lui si fece di piombo, quasi fino a mozzargli il respiro.
Tante
belle parole, tante belle parole aveva detto Marcus! Che ridere che
facevano, le sue belle parole! C’è un modo per vivere
anche per noi, oh sì, non siamo dei mostri. Tutte parole, un
maestro di retorica era il vecchio Marcus. Mi ha impedito di buttarmi
sotto il sole, me lo proibiva tutti i giorni. E io, perché mai
gli ho obbedito? Perché mai ho obbedito a quel traditore della
sua specie, traditore del suo sangue?
Kaeso aveva la bocca sporca di sangue e Acilia lo guardava con soddisfazione.
L’umana
di cui si stavano nutrendo respirava ancora flebilmente e rivoli di
sangue correvano giù per il suo petto nudo, tingendo la pelle
bianca, arrivando all’ombelico, riempiendolo.
Acilia fece una smorfiosetta compiaciuta. “Comincia a piacerti, non è vero?”.
La vedeva nel volto di Kaeso, quell’eccitazione, quella frenesia, forse pazzia.
Ma
lui a un certo punto discostò lo sguardo, tenendo ancora
l’umana tra le sue braccia, appoggiata sulle sue ginocchia
piegate.
“Acilia” mormorò“Non hai mai pensato che… Potremmo nutrirci di… sangue animale?”.
Aveva un’aria così triste, nei suoi occhi blu.
Le piacevano quegli occhi, le ricordavano il mare.
Marcus
diceva che è impossibile nutrirsi di sangue animale. Non ci
soddisfa, non è quello che cerchiamo. Se beviamo sangue animale,
la nostra fame si accende ancora più fastidiosamente, e il
desiderio diventa un’assatanata voglia di sangue. E’ andare
contro la propria natura, diceva Marcus. La natura… Ma la nostra
natura è quella di uccidere, Marcus, lo sai? Non ti stai
contraddicendo? Non ti sei contraddetto sempre? La tua morte non
è stata la più grande contraddizione del mondo?!
Acilia
gli si avvicinò e leccò il sangue dalle sue labbra. Lo
sentì irrigidirsi. Poggiò la mano sulla sua tunica, tra
le gambe. Oh, sì, si era irrigidito.
Lo guardò, maliziosa.
“Lo sai che hai gli occhi del color del mare?”.
Kaeso evitava di guardarla.
“Fammeli vedere questi occhi” insistette lei, accarezzandogli il viso.
Lui cedette e la guardò. Era molto bello, sembrava una statua di un bianco perfetto.
“ll
mare, Kaeso…”sussurrò lei, avvicinandosi sempre di
più col corpo. Sfiorò il corpo dell’umana morente.
La sentiva muoversi debolmente, grugnire qualcosa, soffrire così
atrocemente…
Com’è divertente…
La
ignorò mentre quella si aggrappava lievemente al suo braccio,
invocando forse pietà. Fece passare una gamba dietro la schiena
di Kaeso, sedendosi sopra di lei, che era sdraiata sopra di lui, che
era seduto su un bianco materasso.
“La
natura”continuò Acilia, parlando all’orecchio di
lui“Non ti piacciono le bellezze della natura?”.
Kaeso
non rispondeva e lei si avvinghiò al suo petto, buttandogli le
braccia al collo, parlando più forte, eccitata e
concitata:“La lotta, l’istinto di sopravvivenza, nutrirsi a
spese di altri pervivere, e la morte… Non è natura questa?”.
Gli
passò le mani tra i capelli, glieli strinse e lei spinse il suo
corpo in avanti, sentendolo accendersi. “L’arte è la
riproduzione della natura… Noi siamo questo, siamo arte, Kaeso!
Arte!”.
Con le labbra cercava quelle di lui.
“Non abbiamo altra via d’uscita, Kaeso, accettalo”.
Si
incollò alla sua bocca, creando qualcosa che credeva perfetto.
Lui esitò un momento, poi ricambiò il bacio e quello dopo
un po’ si fece sempre più passionale, sempre più
violento. Con le zanne le morse il labbro e il sangue di lei
andò a mescolarsi con quello dell’umana che lui aveva
ancora sulla lingua. Il sapore del sangue, dell’amore, della
perfezione…
Marcus,
perché mi hai fatto credere ci fosse una via d’uscita?
C’è solo sangue intorno a noi, ed è buono, ed
è bello. E tu non l’avevi capito. Ti sei ucciso e mi hai
dimostrato che eri solo una barzelletta. Ti ringrazio per avermi aperto
gli occhi. Ti ho amato, lo sai? E ti ritroverò sempre, quando
vorrò, nel sangue, il sangue che mi hai donato per farmi
rinascere, lo sento ancora dentro di me, e ci sarà sempre.
Bugiardo e falso. Amore mio, grazie per questa vita che mi hai donato!
Quando
riemersero dal bacio, l’umana aveva cominciato a muoversi
più forte. Aveva cominciato a dire qualcosa. Chiedeva aiuto.
Acilia
si alzò e l’afferrò per le braccia. Senza dire
nulla, la lanciò per terra e lei emise un debole grido. Ci fu un
brutto rumore, forse la donna si era rotta qualcosa. C’era ancora
più sangue.
Acilia
si voltò e rise quando vide la stanza piena di sangue. Era una
stanza bianca, tinta di rosso. L’umana si contorceva per terra,
accanto ad altri dieci cadaveri. Erano tutti bianchi, tinti di rosso.
Si fermò davanti al materasso, dov’era seduto Kaeso, che aveva di nuovo il volto oscurato.
Lei si chinò su di lui, con un sorriso.
“Facciamolo, ti prego” bisbigliò, vogliosa “Facciamolo sopra al sangue”.
Lui
si lasciò trascinare, in quella stanza bianca, tra le bianche
vesti che furono tolte, e la loro bianca pelle, che divenne rossa.
Perché l’hai fatto, Marcus? Perché mi hai abbandonata?
Jacqueera
uscito di casa in gran fretta, quella sera. Acilia gli aveva chiesto
dove andava ma non aveva avuto risposta. Eike le aveva spiegato che
sarebbero andati da Emily per la seconda notte consecutiva. Certo,
aveva pensato Acilia con tristezza, Emily ha fatto il patto del sangue,
Emily è in pericolo. Erano tutti in pericolo, ed era colpa sua.
Non lo vuoi uccidere? Tu non lo vuoi uccidere?
Non lo voleva ancora uccidere, Kaeso, dopo quello che aveva fatto a Lyuben?!
Eike
aveva seguito Jacque con un’espressione scontenta. Lei doveva far
qualcosa. Anche Jacque ed Eike ora erano in pericolo… Avrebbe
sacrificato il mondo intero pur di non uccidere Kaeso?!
Pensò a quanto fosse innocente Jacque, a quanto fosse diverso da Kaeso, suo fratello…
No, non avrebbe permesso che il mondo pagasse per i suoi errori, che erano di lui, ma soprattutto di lei.
Si
affrettò ad uscire di casa. Bisognava pensare a un piano, fare
qualcosa, parlarne, guardarsi in faccia… Sarebbe andata da
Dubris, e ci sarebbe rimasta finché non avessero pensato a
qualche cosa.
Chiuse la porta e si avviò, camminando veloce, ma a passo d’uomo. Come al solito, sarebbe andata nel bosco.
Le
sue scarpe pestavano con frenesia il cemento del marciapiede. Poi si
fermarono. Acilia trattenne il fiato quando riconobbe una figura che
sembrava aspettarla in fondo alla strada.
Si guardò intorno. C’era qualcosa che non andava, qualcosa di strano.
Curtis si avvicinò, con l’aria più seria che lei gli avesse mai visto.
“Emily” la salutò“Dove vai?”.
Curtis
che aveva capito dove abitava, che l’aspettava nei luoghi in cui
si faceva vedere più spesso, che le stava col fiato sul collo,
che la chiamava, che la voleva vedere. Non era un maniaco.
Lei arretrò lentamente.
Da due macchine parcheggiate lì accanto uscirono degli uomini con delle armi.
Acilia forse l’aveva capito, quando Curtis aveva insistito così tanto per una maledetta foto.
Non era affatto un fotografo.
Gli uomini l’accerchiarono e anche Curtis le stava puntando una pistola addosso.
“Qual è il tuo vero nome, Emily?”.
Erano
state solo tante, belle, parole, che per lei avevano avuto uno stupido
effetto magnetico. Umani e vampiri, erano tutti deboli, pronti a farsi
ammaliare, solo da delle parole.
Curtis aveva saputo interpretare bene la sua parte, molto più di lei.
E ora lei era in trappola.
Ben
ritrovate! Boh, non saprei, in certi punti questo capitolo l'ho scritto
di malavoglia.. spero vi sia piaciuto lo stesso! E non odiatemi Curtis
:3
Che
dire, ringrazio tutte voi ragazze che mi seguite e mi lasciate sempre
bellissime recensioni ^^ Come vedete mi sono messa a rispondere in
privato, è una cosa molto più pratica (una volta non
c'era questa possibilità, quindi mi ero abituata a rispondere
all'interno degli stessi capitoli). In particolare, grazie mille e
complimenti a Red per aver recuperato alla velocità della luce
ed essersi messa in pari! :DD
Non
saprei bene dirvi quando pubblicherò di nuovo. Ora
rallenterò un po' il ritmo perché ho sia lezioni da
seguire sia esami da dare, poi mettiamoci anche la ginnastica per non
diventare balene e un minimo di vita sociale.. E' un peccato,
perché siamo agli ultimi capitoli, ma ce la faremo, ogni
"scrittrice" come si deve lo trova il tempo per scrivere e vedrete che
non ci metterò troppo u.u
Alla prossima ;)
ps: se vedete delle parole in corsivo attaccate a parole non in corsivo
non fateci caso.. Ho provato a staccarle tutte ma magari me n'è
sfuggita qualcuna.. Il simpatico Nvu me le attacca, per qualche
misterioso motivo o_O
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Didone ***
Capitolo 22
CAPITOLO XXII
DIDONE
Eliza si
raggomitolò su un fianco, cercando il sonno che non ne voleva sapere di venire
da lei. Era parecchio stanca, ma l’agitazione la tormentava, come la paura, la
paura di quello che sarebbe potuto accadere, o la paura di incontrare Ralph nei
suoi sogni crudeli.
Nonostante fosse
estate – doveva essere luglio, sì, credeva di sì, o forse era già agosto –
quella casa era fredda, come pure quel letto su cui era stesa. Vestita con gli
stessi abiti che portava da intere giornate, sentiva il suo stesso odore, e non
lo sopportava più. Si sentiva sudata, appiccicosa, ma continuava a stare sotto
quella ruvida coperta, fredda anch’essa, per sentirsi più protetta. Il cuscino
era sempre bagnato, perché non la smetteva mai di piangere.
Le era stato
concesso di dormire intere notti, ora che era incinta. Le era stata data una
stanza con bagno. C’era anche un armadio, forse era pieno di vestiti, ma Eliza
non l’aveva ancora aperto. Avrebbe voluto cambiarsi, farsi un bagno ma il solo
pensiero di spogliarsi la ripugnava. Vedere i graffi che aveva sul corpo
l’avrebbe fatta vomitare. Ricordarsi quello che aveva fatto l’avrebbe sciolta in
lacrime feroci.
Cosa direbbe Ralph?
Eppure neanche ce
l’aveva con Russell. Non voleva morire, come non lo voleva lei. Del resto anche
lui aveva dei figli… Avrebbe voluto parlare con lui, magari piangere insieme,
mostrare racconti di vita. Ma no, lui le si era avvinghiato addosso, come se
aggrapparsi a lei avesse significato aggrapparsi alla vita. L’aveva stretta con
tutte le sue forze ed Eliza neanche lo voleva quel figlio che lui le aveva
forzatamente messo in grembo. Non odiava Russell, come non avrebbe mai potuto
odiare la creatura che stava crescendo dentro di lei. Ma quel bambino che
sarebbe nato, di lui, che ne sarebbe stato?
Eliza emise un
lungo singhiozzo, cercando di calmarsi. A Charlene non aveva detto niente. Cosa
le avrebbe potuto dire? Che avrebbe avuto un fratellino? E gliel’avrebbe detto
piangendo? Quale destino avrebbero avuto Charlene e suo fratello?
Eliza pianse più
forte, desiderando di avere sua figlia vicino a sé. Ma Charlene dormiva in
un’altra stanza. Anche a lei era concesso di dormire qualche ora di notte.
Eliza inspirò a
fondo. Doveva resistere. Appena sarebbe stata l’alba, sarebbe andata nella
stanza della figlia, e sarebbero state insieme tutto il giorno. Non era
pensabile cercare di fuggire durante il giorno. Porte e finestre erano serrate.
Non venivano mai aperte e l’odore che respiravano era sempre peggiore.
Inoltre non
conveniva loro scappare. Quanto mai sarebbero potuto andare lontano? Al calar
del sole, i vampiri le avrebbero trovate in un lampo. E forse sarebbero stati
con loro meno clementi, soprattutto con Charlene, alla quale non avevano ancora
torto nemmeno un capello… Eliza non poteva rischiare, non poteva. Per quanto
lei soffrisse, se Charlene stava bene… Le lacrime si fecero più insistenti ed
Eliza sentì il cuore che le rimbalzava violentemente nel petto. Si premette una
mano sopra, in prossimità del cuore, respirando piano. Si stava prendendo in
giro, ecco cosa stava facendo. Charlene non
stava bene ed Eliza l’avrebbe fatta rimanere lì, in balia di quei pazzi, a
vedere quell’orrore, per quanto?! Solo perché lei, Eliza, era troppo codarda e
non riusciva a pensare a come poter fuggire… Pianse ancora più forte e il suo
pianto si fece disperato. Ogni parte del suo corpo tremava e lei capì che non
avrebbe mai trovato il sonno, perché non avrebbe mai trovato pace.
Si premette una
mano sulla bocca quando arrivò la nausea. Levò la coperta e si alzò di scatto.
A piedi nudi corse sul pavimento e raggiunse la porta del bagno. L’aprì, accese
la smunta luce di una lampada appoggiata su un mobile e si precipitò sul
gabinetto. La nausea la vinse e lei continuò a piangere mentre il fluido
rigetto la svuotava, e la faceva sentire debole. Continuava a rimettere, e lo
faceva volentieri, come se volesse espellere qualcosa di terribile, come se
volesse vomitare il bambino stesso, come se, per lui, finire dentro a un
gabinetto sporco fosse un miglior destino di quello che avrebbe atteso se
avesse potuto crescere. Eliza ne era ancora
convinta quando la nausea si placò, e lei tornò a respirare
regolarmente. Afferrò il rotolo di carta igienica dal pavimento e si pulì la
bocca. Sputò, più volte, ancora, sputò sempre più rabbiosamente. Si pulì di
nuovo, lanciò il rotolo di carta per terra e debolmente si alzò. La testa le
girava, le mattonelle bianche del pavimento erano sporche, la carta igienica
correva su di esse, finché non sbatté contro la parete e lei stessa sbatté col
fianco contro il lavandino. Con le mani si appoggiò su di esso e alzò lo
sguardo verso lo specchio vecchio e graffiato. Emise un verso quando si vide,
neanche sapeva se per spavento o per disgusto. Aveva le guance quasi incavate,
gli occhi piccoli e attraversati da mille venature rosse avevano perso il loro
pallido color palude, quasi grigio, inghiottito da due grandi pupille che
tentavano di orientarsi. Per la sua opaca vista i contorni del suo viso non
erano così definiti e il bianco della sua pelle, che mai era stato così bianco,
pareva uscire dalle linee dando un aspetto deforme alla sua faccia, cerea e
abbattuta, con perenni goccioline di sudore là sulla fronte, sotto
l’attaccatura dei capelli, sporchi e flosci.
Si asciugò il viso,
infastidita. Non riusciva neanche a distinguere il caldo dal freddo. Aveva
freddo, sempre freddo, eppure sudava, sentiva il sudore ovunque, sotto i
pantaloni, sotto le ascelle, nei capelli. Si sentiva così sporca. Avrebbe
dovuto davvero farsi un bagno.
Si era quasi decisa
a sfilarsi i pantaloni quando sentì dei passi e trattenne il fiato, in allerta.
Ma i passi erano al di fuori della sua camera, avrebbe potuto ignorarli. E se
stessero andando, quei passi, nella camera di Charlene? Cosa le volevano fare?
Eliza uscì dal
bagno e controllò l’orologio appeso alla parete. Segnava le tre del mattino.
Strano, di solito a quell’ora i vampiri erano fuori casa, a… Eliza inspirò a
fondo, senza volerci pensare a quello che facevano. Si avvicinò alla porta
chiusa della camera e premette l’orecchio contro il legno.
Una porta si stava
aprendo, scricchiolando in maniera sinistra. Una voce concitata seguì subito
dopo ed Eliza riconobbe il suo proprietario: Russell. Senza vergogna, la donna
emise un sospiro di sollievo. Non era la camera di Charlene quella in cui
qualcuno era entrato.
Ma subito dopo
l’espressione sollevata che sentiva di avere sul volto si tramutò in un muto
grido d’orrore, quando sentì Russell urlare, forte, così forte che lei si
allontanò dalla porta e le lacrime ripresero ad scorrere, questa volta più
debolmente, timorose e sconvolte.
Poi il tonfo di un
corpo morto che cade ed Eliza si premette una mano sulla bocca, per non
emettere alcun suono.
Il suo corpo
riprese a tremare mentre senza alcun motivo si dava della stupida. Stupida
perché aveva creduto di uscire viva da lì? Stupida perché pensava che almeno
quel figlio che teneva in grembo avrebbe conosciuto suo padre, al contrario di
Charlene? Stupida perché pensava che Kaeso l’avrebbe lasciato vivere Russell?!
Dopotutto aveva già
fatto quello che doveva… Russell non aveva più scopo. Eliza capì che finché
fosse stata utile sarebbe stata viva. Provò vergogna di sé subito dopo perché
pensava a se stessa mentre un uomo veniva privato del suo sangue, ucciso e
sfigurato. Ma Charlene… Charlene a cosa poteva servire? L’avrebbero uccisa
prima o poi? O avrebbero aspettato che crescesse per trasformarla? Oppure per
farle vivere lo stesso tormento di sua madre? Eliza non riuscì più ad alzarsi
dal pavimento quella notte e pianse silenziosamente, rannicchiata contro la
parete. Avrebbe aspettato il sole. Forse col sole avrebbe trovato un po’ di
pace, e sarebbe riuscita a dormire, magari abbracciata a sua figlia. La sola
cosa che poteva fare per lei, farla sentire amata.
*
Acilia si procurava
valanghe di manoscritti, Viridio neanche sapeva perché. I rotoli di pergamena,
poggiati alla rinfusa sul pavimento, regnavano, nel caos e nell’odore pregnante
dell’inchiostro.
Viridio stava
leggendo con interesse le Heroides di
Ovidio. Perché mai Acilia avrebbe dovuto leggere epistole così piene di pathos
e dramma? Erano lettere di donne, le eroine dei miti greci, che piangevano per
i loro uomini lontani. A volte era questo che Viridio vedeva in Acilia,
un’eroina di un mito. La tunica bianca, la stola colorata, i capelli lisci e
lunghi che volavano col vento, incorniciandole il viso cereo, con quei smeraldi
incastonati. Poi il rosso schizzava quel magnifico quadro e la dea cadeva giù
in un dirupo fatto di violenza e morte… Viridio smise di leggere e socchiuse
gli occhi.
Poggiò il volume
aperto di Ovidio sul tavolo e dondolò su se stesso, seduto sul materasso.
Buttò l’occhio sulla
pergamena del volume, pensando a quanto fosse costosa. Non ne aveva mai avuto neanche un pezzetto in vita
sua. Il suo sguardò incappò nella parola Didone,
che scriveva… A chi poteva scrivere? Viridio si concentrò, aveva già sentito
quel nome. Ah, ma certo! Ne aveva parlato Virgilio. Viridio aveva letto l’Eneide solo a tratti, era un latino così
diverso da quello che lui era abituato ad usare, troppa difficoltà gli aveva
privato la lettura di un’opera che, a detta di Acilia, era magnifica. Però
aveva letto la storia d’amore tra Didone ed Enea, la ricordava.
Si alzò in piedi ed
avanzò verso la parte opposta del tavolo. Ecco la copia dell’Eneide. Viridio prese il quarto volume
e sfogliò qualche carta, nostalgico. A volte pensava che quella vita che ora conduceva
non era così male. Finalmente aveva il tempo per cose per cui non lo avrebbe
mai avuto il tempo, né la possibilità, nella vita precedente. Erano cose che
neanche conosceva prima, e lo affascinavano. A volte mentre leggeva dimenticava
tutto il resto, si ritrovava immerso tra le parole, e il sangue che aveva fatto
scorrere lui stesso non aveva più importanza, e lui si commuoveva per il sangue
che altri avevano versato nella storia…
Si
mihi mon animo fixum immotumque sederet
Ne cui me vinclo vellem sociare iugali…
[Se non avessi
deciso nel mio cuore irrevocabilmente di non legarmi mai più a nessuno col
vincolo coniugale…]
Viridio trattenne il fiato quando lesse vinclo iugali. Ricordava i baci di
Acilia, i suoi sussurri, le sue carezze… Non erano dolci come quelli dell’amore
che ricordava.
Postquam
primus amor deceptam morte fefellit;
[da quando il primo
amore mi tradì con la morte]
Viridio sentì la
presa delle sue mani attorno al volume farsi più forte, mentre le macchie di
sangue scivolavano via, Acilia scivolava via, tutto scivolava via e lasciava
vedere, intatta e immacolata, un’altra figura. Piccola ed esile, così graziosa,
lunghi capelli castani…
Ille meos, primum qui me sibi iunxit, amores
Abstulit; ille
habeat secum servetque sepulchro.
[Il mio amore se l’è portato via l’uomo che mi ha legata
per primo a sè, e lui lo conserverà per sempre nella sua tomba]
Viridio sentì
esplodere qualcosa dentro di sé ma all’esterno uscì solo un flebile suono.
Prisca – così si chiamava, vero? – era morta, sepolta da qualche parte… Da
sola? Aveva portato con sé l’amore che provava per lui, Viridio, dentro la sua
tomba? Sarà per sempre conservata lì dentro la sua – di lui – antica umanità, il suo antico amore? Quello che
era una volta…
E lui invece si era
gettato nelle braccia di un’altra donna, come Didone aveva dimenticato il suo
primo e unico amore, per lanciarsi su di Enea, che l’aveva solo illusa e
tragicamente, portata alla morte…
Il volume di
Virgilio cadde dalle mani di Viridio, con un lieve tonfo calpestò il pavimento,
ma quel pacato rumore rimbombò all’interno del suo corpo, come se fosse caduto
non per terra, ma sul suo cuore, e violentemente.
Che stai facendo, Viridio?
Quanti giorni
felici dimenticati, quante promesse distrutte, quanto amore buttato al vento!
Per un po’ di sangue… Era come se il sangue gli fosse arrivato al cervello e
avesse manomesso tutto, l’avesse fatto impazzire.
Quell’angelo dalla veste bianca era solo un demonio, che l’aveva ucciso e poi fatto suo, il tragico destino si
vedeva fin dall’inizio, fin dal primo istante, quando aveva visto quegli occhi,
di un verde folle, che gli avevano tolto la vita, e l’onore…
Prisca reclamava il
suo spazio, reclamava a gran voce l’uomo che le era stato portato via,
reclamava una dolce zona nella sua mente, per lei, per i suoi ricordi, di lei e
di Iulia.
Viridio nascose il
volto nelle mani. Non ricordava più la voce della sua bambina, la sua risata,
niente.
Aveva in mente solo
i suoi occhi, blu. Come il mare… Digrignò
i denti, inconsapevolmente. Li ricordava a fatica, quegli occhi. Erano uguali a
quelli suoi, lo sapeva, ma non poteva più vederli, neanche quello gli era
rimasto. Non poteva guardarsi perché non aveva più un riflesso, non poteva più
ritrovare nella sua immagine gli occhi di sua figlia…
Come il mare…
Più tentava di
riacciuffare il ricordo sbiadito di quei blu occhi, più la voce di Acilia gli
entrava nella testa, quel sussurro, così fastidioso… Non poteva neanche
riesumare i cocci della sua vita perduta senza che quella sua voce, quel suo
bisbiglio, limpido, irritante ma così inspiegabilmente suadente gli perforasse
il cervello, gli rimbombasse nella mente, cancellando tutto il resto,
distruggendo i suoi ricordi, dolci e lontani.
Come il mare…
Un mare di
cadaveri, un mare di sangue che scorreva incessante, e un mare di piacere, che lui stesso aveva provato…
“Kaeso, stai
bene?”.
Quanto odio questo nome!
Viridio riemerse
dalle proprie mani. La porta della casa era aperta, Acilia era sulla soglia,
intagliata perfettamente nella notte, al chiaro di luna.
Viridio, pensò, mi
chiamo Viridio. Ma non disse niente.
Non meritava più
quel nome che avevano pronunciato tutti i suoi cari. Viridio non esisteva più,
Prisca stessa l’aveva seppellito, Iulia chissà quanto aveva pianto per la sua
morte! Non c’era più Viridio, esisteva solo Kaeso e sarebbe esistito per sempre
solo Kaeso… Che non era più lui, che era un mostro e basta.
“Kaeso?” insistette
Acilia, squadrandolo. Entrò in casa e chiuse la porta dietro di sé. “A che
pensi?”.
Ancora Viridio non rispose.
“Me lo puoi dire a
cosa pensi” disse lei “È normale pensare. Anch’io penso tanto”.
Lui alzò un
sopracciglio. Si sentiva arrabbiato. Acilia pretendeva di mettersi sul suo
stesso piano? Di capirlo?
“Pensavo alla mia
vita passata”.
“Oh, quello” fece Acilia.
Si sedette vicino a lui e gli prese la mano “È passato quasi un secolo. Ancora
ci pensi?”.
“Tu non ci pensi
mai?” ribatté Viridio, con meno collera di quanto avesse voluto.
“No”.
Per un momento
Viridio pensò che la ragazza stesse mentendo. Qualcosa nella sua espressione
severa e pazza era mutato, ma solo per un istante.
“Beh, io sì”
replicò.
“Ci vuole del tempo
per lasciarsi tutto alle spalle” fece Acilia, con un tono che sembrava quasi
confortante.
“Non basterà mai,
il tempo non basterà mai!” sbottò Viridio, alzandosi con uno scatto “Cosa ne
vuoi sapere tu?!”.
Anche Acilia si
alzò, con la fronte aggrottata e un lampo di rabbia negli occhi.
“Ero umana anch’io,
avevo una vita anch’io” disse, con più calma di quella che emanava dallo
sguardo. Il suo corpo sembrava tremare, come se si stesse trattenendo, come se
stesse sopprimendo… qualcosa.
“Tu non hai avuto
figli!” gridò Viridio, senza chiederle nulla, senza voler capire nulla “Tu non
puoi capire!”.
Acilia non disse
nulla e lui andò avanti, sentendo tutto l’odio che scivolava, mentre la
tristezza, quella avanzava crudele, implacabile: “Cerco di ricordarmi il suo
dolce viso… Era bellissima, lo sai? Lo so che era bellissima, me lo ricordo… Ma
non riesco a… I dettagli del suo volto mi sfuggono via! E sua madre…”. Viridio
abbassò lo sguardo, mentre la voce diventava quasi un pigolio “Non voglio
dimenticarle… Non voglio che il tempo le elimini…”. Alzò lo sguardo verso di
Acilia, ritrovando la rabbia. “Ma finché guarderò te, rivedrò loro” disse,
riprendendo il controllo della voce, facendosi velenoso “Perché sei tu che me le hai portate via!”. E
la voce di nuovo si fece tenue, vedendo che Acilia non reagiva, quella sembrò
volersi nascondere, e la rabbia così come veniva se ne andava. “Allora… perché
le sto già dimenticando? Perché qui ci sei solo tu?!”. Crollò sulle ginocchia,
gli occhi fissi sul pavimento, senza volerla guardare quella donna, perché non
era vero che se la guardava rivedeva loro, vedeva solo lei, solo lei…
Sentì Acilia che si
chinava su di lui, e lo abbracciava. “Ci sono io” ripeté ella “Ci sono solo io…
Dimenticarle ti farà bene, non puoi vivere con l’onere dei ricordi della tua
vita passata”. Gli prese il volto nelle mani e lui la lasciò fare,
completamente succube. “Ti aiuterò io a dimenticarle. Sono l’unica su cui ora
puoi contare”. Gli diede un bacio ma lui si ribellò. Indietreggiò ma non poté
evitare di guardarla, quella megera, così bella.
Era vero, solo su
lei poteva contare. Ed era vero che anche lei era stata umana. Lo poteva davvero
capire, forse…
Lei si riavvicinò a
lui, paziente. “Non puoi fare altro” disse “Non c’è altra via d’uscita”. Glielo
diceva spesso, sempre. Non c’è via
d’uscita. “Possiamo solo affrontare tutto questo insieme, io e te”. Gli
riprese le labbra e gli circondò il collo con le braccia.
Lui, come una
stupida Didone consapevole di quel che l’attendeva, ricambiò il bacio. Pensava
alle storie d’amore, quella di Didone ed Enea, di tanti altri, di com’erano
tragiche, ma così belle da leggere.
Prisca apparteneva ad un altro volume, ora c’era Acilia. Poteva plasmare la sua
vita, come se fosse un’opera scritta, o teatrale, un’immensa opera d’arte…
Acilia diceva sempre che loro erano natura, e la natura era arte, non c’era
dubbio. La lingua fredda di lei solleticava la sua, erano entrambe lingue
fredde di due cuori che non potevano più battere, se non, metaforicamente,
l’uno per l’altra. Sapeva che avrebbe finito di nuovo col fare quello che lei
gli diceva, sapeva che avrebbe ucciso ancora, ma il pensiero lo spaventava sempre
meno, lo eccitava. A volte tornava lucido, come se riemergesse da un sogno, e
cercava di fare mente locale, e quel che ricordava non aveva senso, perché era
tutto pregno di sangue. Ma tornava lucido sempre meno volte, sempre meno…
Ti devi svegliare.
*
In un primo momento
Acilia non riuscì a reagire. Il primo istinto fu quello di fuggire, perché era
quello che facevano gli animali, e lei in quel momento era braccata come fosse
un animale. Ma Curtis l’aveva sempre guardata come se fosse umana.
La tua espressione è adulta. Troppo sofferta per una
ragazza.
Ma era stata tutta
finzione.
Perché non mi racconti la tua storia?
Acilia notò uno
scintillio nella mano di Curtis, che stringeva l’arma. Era una fede. Si sentiva
stupida, davvero.
Si guardava intorno,
quei cacciatori l’avevano accerchiata, da dove poteva fuggire? Ma voleva
davvero scappare? Farsi prendere non sarebbe stata una gran liberazione?
Buffo, lei che
predicava tanto la convivenza… Morire per mano degli umani che lei stessa
difendeva…
No, pensò, non è
giusto, io non sono malvagia, non merito di essere presa!
Ma cosa stai dicendo? Certo che sei malvagia.
Aveva mille armi
puntate addosso.
Che dici? Saranno solo sette.
Erano tanti, tutti
contro di lei, tutti arrabbiati con lei, perché lei era qualcosa di sbagliato
che andava assolutamente eliminato.
Affrontali! Sono solo umani!
Se l’avessero
eliminata milleottocento anni prima… Se non fosse stata trasformata, se si
fosse sposata con… Come si chiamava, Vito? Se si fosse sposata con Vito, avesse
avuto figlie sfortunate e presuntuosi figli e poi fosse morta, inutile e
indignata… Non sarebbe stato meglio che affrontare tutto questo?
Non avresti conosciuto Miguel. O Jacque.
Non sarebbe morto
Damiano.
Sarebbe morto comunque. Che differenza fa?
Perché non farla
finita?
Non vuoi più rivedere Jacque?!
Sentì uno sparo,
poi un altro, seguiti da un lungo eco, o forse era solo nella sua testa perché
con un salto spiccò in aria e riuscì a schivare ogni proiettile. Fischi nelle
orecchie, visi levati verso di lei, proiettili che arrivavano, urla lontane,
lei doveva scappare, scappare…
Un gran dolore alla
gamba e lei planò a terra con un grido, sentì la pesantezza del suo corpo
poggiarsi sul cemento, un tonfo, graffi sulle mani. Le voci intorno a lei si
fecero insistenti ed emozionate, lei si mise seduta di scatto, ignorando la
gamba che doleva. Urlando, tentò di estrarre il proiettile che le trafiggeva il
polpaccio. Il sangue colava ma non era niente, niente.
“È un vampiro! È un
vampiro!” gridava qualcuno.
“Andiamo via!”.
“Corri!”.
“Sì!” sbottò
Acilia, allargando le braccia, mentre le auto inchiodavano e le persone
scappavano “Sono un terribile vampiro! Uccido tutte le notti! Sono un mostro!”.
Lo sei. Lo sei.
Estrasse le zanne e
vide dei ragazzini correre via terrorizzati e in quel momento le attraversarono
la mente i visi delle sue vittime.
Lo sei.
Non poteva
ricordare quei visi, ma erano fisionomie comuni, facce qualsiasi, e lei avrebbe
potuto averli uccisi tutti.
Credeva di essere
stata pazza, ma chi le assicurava che non lo fosse ancora?
Dei passi si fecero
concitati, i cacciatori la stavano raggiungendo.
Trafelata, si alzò
e si mise a correre, più lentamente di quanto avrebbe voluto.
Li sentiva vicini,
troppo vicini. Sentiva anche una sirena, nella sua testa… Ma certo, dovevano
aver preso la macchina, l’avrebbero raggiunta!
Disperata,
accelerò.
“Emily!” sentì la
voce di Curtis “Vogliamo solo parlarti, fermati!”.
Parlarmi? È così che si fa? Prima sparano e poi ti
dicono che vogliono solo parlarti?
No, prima dici loro
qualcosa di carino e poi, a tradimento, li azzanni…
Acilia aumentò il
passo, più che poteva, fuggiva da Curtis e fuggiva dal suo passato. Entrambi la
volevano prendere, catturare, fare a pezzi…
Basta, Kaeso, smettila, finiamola, non voglio più, non
voglio più…
L’aria, così
potente, la colpiva sul viso. A quella velocità non l’avrebbero presa.
Ti devi svegliare. Ti devi svegliare!
Poi sentì ancora
degli spari e cadde di nuovo a terra. Si contorse per terra, cercando di capire
in che punto l’avessero colpita. Poi si mise sulle ginocchia, ansimando, e
scorse la figura di Curtis, sempre più vicina.
“I morti sono otto, i feriti tredici, dei
dieci cacciatori sopraggiunti ne sono sopravvissuti…”
Emily vide le
spalle di sua madre fremere e contemporaneamente un tonfo sonante le fece
capire che una stoviglia le era scivolata dalle mani, sul fondo del lavello.
Senza dire nulla,
continuò ad asciugare le pentole, una dopo l’altra, poggiandolo sul tavolo in
perfetto ordine, inutilmente, dato che poi avrebbe dovuto riporle al loro
posto. Dopo un po’ notò che anche a lei tremavano le mani.
Lanciò uno sguardo
alla piccola televisione accesa riposta sul mobile di fronte alla tavola. Pensò
di spegnerla ma alla fine a cosa sarebbe servito? Le cose succedevano comunque,
tanto valeva saperle, ed essere preparati.
Jacque ed Eike,
arrivati dopo cena, erano nel salotto, e lei stava lì, in cucina, ad asciugare
stoviglie. Era assurdo, e tragico.
“Lydia allora è
tornata a casa sua?” fece la voce di sua madre.
Emily ne scrutò la
schiena larga e curva.
“Sta cercando Sam”
rispose, tristemente. Quella mattina Lydia si era precipitata a casa, e non
l’aveva trovato. Lei, Emily, era andata a lavoro, se no l’avrebbe aiutata a
cercarlo, avrebbe fatto qualcosa…
“Ma adesso è buio”
fece sua madre.
Emily non ne vedeva
l’espressione e per un momento la detestò, insensatamente. La detestava perché
aveva paura? E per la prima volta aveva davvero paura anche lei? Là fuori era
il caos e Jacque non avrebbe potuto fare niente per salvarla. Sarebbe morto
anche lui forse, e lei stessa, e i suoi genitori, e Lydia si sarebbe cacciata
nei guai, per cercare Sam… Dove diavolo era finito?! Sui giornali e alla
televisione avevano elencato i nomi dei morti ma il suo non c’era. Dov’era il
suo corpo? Perché ormai non ci sperava più che fosse vivo. Poggiò lo
strofinaccio sul tavolo, sentendo che stava per esplodere.
Doveva chiamare
Lydia di nuovo, farla ragionare. Ma a che scopo, lo sapeva anche lei che non si
sarebbe data pace finché non avesse trovato Sam. L’amore era forte, tumultuoso,
ti annebbiava il cervello ma ti infondeva coraggio. Emily neanche poteva
immaginare quello che legava Lydia e Sam, neanche lontanamente.
Per quanto si
sforzasse di non pensare a Jacque, non poteva, non…
“Emi, mi ascolti?”.
Emily riemerse dai
propri pensieri e la prima cosa che vide fu il suo riflesso opaco e distorto su
una pentola. Si voltò e vide il viso di sua madre, aggrottato, che la guardava.
“Fai venire Lydia qui”.
E quello che
significava? Quello sguardo? Un ordine?
“Ci ho provato”
rispose, quasi sussurrando. Si sentiva arrabbiata, eppure la voce era fioca.
“Richiamala”
insistette l’altra “È fuori, da sola, di notte!”.
“Lo so!” sbottò
Emily, ritrovando la voce di colpo. Aveva voglia di buttare all’aria tutte le
stoviglie asciugate e poggiate accuratamente
sul tavolo – perché?
Sua madre la guardò
torva e lei si mise a gridare: “Hai paura, mamma? Ce l’ho anch’io! Ho paura
anche per Lydia! Che non trova Sam…”. Le sue stupide grida si sciolsero in
lacrime e lei girò la testa di lato, in un vano tentativo di non farsi
guardare.
Sentì la madre
sussultare.
Jacque era apparso
sulla soglia della cucina, imbarazzato, le mani nelle tasche dei pantaloni.
Sembrava davvero un teen ager, poco più grande di Michael.
“Va tutto bene?”.
La madre di Emily
fece un breve cenno d’assenso col capo e tornò al lavello. La ragazza si
asciugò velocemente gli occhi con le mani e si diresse verso di lui, e uscirono
dalla cucina.
“Vuoi che vada a
cercarla?” domandò Jacque. Si riferiva evidentemente a Lydia.
Sì, digli di sì.
Che gli sarebbe
potuto succedere?
Ma non poteva
approfittare di lui fino a quel punto, non poteva più farlo.
“Provo a chiamarla
di nuovo” rispose infine Emily. Evitava di guardarlo negli occhi, quegli occhi
spenti che l’avevano fatta innamorare, perché ora sapeva che quegli occhi non lo erano, spenti. Riflettevano
tutta la vitalità di un amore passionale e tormentato, lontano nel tempo ma
destinato ad essere eterno, e quell’amore ovviamente non era lei.
“Non mi costa
niente andare a cercarla” insistette Jacque.
Smettila, smettila…
Perché le stava
così vicino, perché voleva proteggerla, aiutarla? Voleva fare l’eroe, come suo
solito? Quando era entrato in casa sua pieno di argento, con le mani lacere…
Cosa voleva dimostrare?!
Emily evitò ancora
il suo sguardo e afferrò il suo telefono cellulare da una mensola in salotto.
Non cercò il numero di Lydia in rubrica ma compose il suo numero, nervosamente,
come se volesse prendere tempo.
Ogni volta temeva
che lei non rispondesse.
“Ragazzi” li chiamò
la voce di Eike, dal divano, lo sguardo fisso sul televisore. Anche la tv del
salotto era accesa e il telegiornalista pareva aver cominciato ad elencare
un’altra lista di morti.
Emily e Jacque si
avvicinarono in fretta. Lei sentiva il proprio cuore battere forte, e la mano
si era avvinghiata quasi inconsapevolmente al cellulare. Con l’altra mano
avrebbe voluto cercare quella di Jacque, ma non lo fece.
In giro per strada non c’era nessuno. La città era un
deserto e questo invece di rassicurla, la inquietava. Il cielo si stava
rannuvolando, sarebbe arrivato un acquazzone, sicuramente. Ma faceva caldo,
l’aria era soffocante lì dentro la sua macchina e il sudore le imperlava la
fronte, tuttavia non si sarebbe fermata a riposare. Aveva chiesto di lui in
ogni locale e ristorante. Aveva controllato quando si fosse collegato a
Facebook l’ultima volta. Aveva chiamato tutti i suoi amici, e quelli di lui.
Cos’altro poteva fare? Cosa c’era rimasta da fare?!
I nomi erano tanti
e il telegiornalista neanche riusciva a mantenere un contegno. Era quello che
dovevano fare i telegiornalisti, no? Restare impassibili, essere neutrali
qualunque cosa dicessero, avere un’espressione quasi disumana, e usare un
linguaggio talmente formale da risultare falso, un sottolinguaggio. Non c’era
nulla di tutto questo nel telegiornalista con gli occhiali rettangolari e il
mento ispido che Emily aveva di fronte, nulla di freddo e nulla di finto. Era
tutto tragicamente vero.
“A Sheffield sono
stati identificati i corpi di Herny Mills, ventinove anni. Ian Stevens,
trent’anni. Stephanie Knight, quarantotto anni”.
Il panico stava prendendo il sopravvento, ma la
speranza non l’abbandonava. I vampiri erano crudeli, terribili. Da quando aveva
memoria, aveva sempre vissuto in un incubo ma quello era peggio. Non poteva
immaginare, non avrebbe potuto mai immaginare! Le cose brutte capitano agli
altri, no? Agli altri! A lei non era mai capitato niente, niente…
“A Preston. Susan
Clark, cinquantadue anni. Aaron Hunt, trentasei anni”.
Avrebbe voluto fare la pace con lui. Per che cosa
avevano litigato del resto? Neanche se lo ricordava più. Non avrebbe mai più
litigato con lui, mai più, per nulla al mondo. Perché lo avrebbe ritrovato, sì,
e gli avrebbe detto che lo amava.
“A Bristol. Nick Powell,
ventun anni. Jonette Mitchell, quarantaquattro anni. E le figlie Betsy Russell,
sedici anni; Valerie Russell, tredici anni. Il marito è disperso”.
Gli avrebbe detto che l’amava, e l’avrebbe baciato,
l’avrebbe abbracciato, stretto, e mai più lasciato andare…
“A Horfield. Julyan Smith, trentacinque anni. Pamela Price,
ventiquattro anni. Sam Jenkins, ventotto anni”.
D’altronde, come avrebbe potuto esserci un mondo senza
di lui?
Il cuore di Emily
saltò un battito. Forse stava per cadere, perché si ritrovò il braccio di
Jacque dietro la schiena. Quel contatto così freddo… Lo stesso che aveva ucciso
Sam… La stanza sembrava girare e d’improvviso lei avvertì la nausea. Il
telegiornalista con gli occhiali appariva tremendamente sfuocato, e la sua voce
non la sentiva più. Indietreggiò di qualche passo e si sedette sul divano,
delicatamente. Aveva ancora il cellulare nella stretta mortale della sua mano.
“Devo chiamare
Lydia” disse, con una voce che neanche pareva più la sua “Devo dirle che ora
può tornare a casa”.
Avrebbe risposto,
vero?
Sentì la voce di
Jacque, ma lui, lei non lo voleva ancora guardare in faccia. “Chiamala.
Chiamala subito”.
Come poteva
riferire una cosa del genere?
Tuttavia la paura
di veder scomparire anche lei ebbe la precedenza.
Ma se poi Lydia
avesse fatto qualche cazzata?
“Emily” fece
Jacque, quasi leggendole nel pensiero “Non dirle nulla, fatti solo dire dove si
trova. La vado a prendere”.
La doveva chiamare
davvero, allora. Gliel’avrebbe detto davvero, allora.
Era successo davvero, allora.
Emily premette
finalmente il tasto di chiamata.
Eppure lo sapeva
già che Sam doveva essere morto.
Ma la speranza
talvolta ti si attacca come una malattia fastidiosa, diventa una condanna, e tu
non puoi fare altro che aspettare.
Se ancora sperava così tanto, perché non riusciva a
frenare le lacrime?
Era quasi fatta, il
vampiro era a terra, con un colpo alla gamba, un altro all’addome, schizzato di
sangue. Il prossimo colpo sarebbe arrivato nel profondo del suo cuore, e poi
sarebbe esploso.
Curtis, ansante e
sudato, indossava un apposito giubbotto imbottito che avrebbe attutito il
penetrare dei denti. Aveva caldo, ma sporadiche gocce di pioggia già
cominciavano a cadere e l’avrebbero rinfrescato.
Del resto era solo
una misera protezione quella che aveva addosso. Se si fosse presentato
corazzato, il vampiro donna sarebbe fuggito subito.
I suoi compagni
stavano arrivando, erano appesantiti dalle protezioni e dal casco, e lui era
stato più veloce. Forse era anche perché voleva ucciderla lui stesso? Strano,
non aveva nessuna voglia di ucciderla. Forse era proprio il contrario, forse
voleva salvarla. Tutte quelle sere in cui si erano visti, perché lei non gli
aveva mai fatto del male?
Emily – chissà qual
era il suo vero nome – si stava guardando atterrita il corpo. Aveva
un’espressione spaventata, un’espressione che non le si addiceva, a lei che
mostrava così tanta saggezza in un viso fanciullesco. Ora sembrava davvero una ragazzina e sparare sarebbe
stato più difficile.
È un vampiro, che aspetti?
Era il suo lavoro.
Se avesse ucciso un vampiro avrebbe meritato un po’ di riposo, sarebbe potuto
stare con Karen e i bambini. Quelli erano tempi brutti, Karen aveva sempre più
paura che lui morisse e li abbandonasse. L’ammirazione che lei provava per il
sogno di lui, quando erano ragazzi, si era trasformata in una cieca e rabbiosa
paura, ma lui continuava ad amarla. Del resto, se credeva nel suo lavoro era
perché voleva proteggerla, proteggere i gemelli e tutte le famiglie, e tutti i
bambini. Da quelli come lei.
Devi sparare.
Aveva già ucciso
dei vampiri, ma lei era diversa.
Non ho niente che non va, davvero. Mi dispiace se sono
di pessima compagnia, ho dei… problemi.
Avrebbero potuto
parlare ancora, e lui avrebbe potuto scoprire cose che non sapeva e che non
aveva mai voluto sapere sui vampiri. Ricordò il disegno che Sally aveva fatto
quello stesso giorno.
Sarebbe bello, aveva detto.
Emily era inerme.
Indietreggiava strisciante e lui aveva la pistola puntata contro il suo petto.
Spara. Devi sparare!
Le gocce di pioggia
stavano aumentando la loro frequenza, cadevano sul vampiro, si mescolavano col
sangue. Precipitavano sul suo volto, e lui pensò alle lacrime. Karen forse
stava piangendo, aspettando il suo ritorno, pregando
che tornasse… Non poteva più farla piangere, non poteva più farla
attendere!
Spinse il braccio
ancora più avanti, pronto a sparare. Ma Emily, con quello che pareva uno sforzo
enorme, fece un balzo improvviso verso di lui e gli afferrò il collo con le
mani. Curtis lanciò un grido e la sua pistola sparò, a vuoto. Sentiva le unghie
di lei ferirgli il collo e si dimenava con tutto il corpo, disperatamente.
L’immagine di Karen che piangeva era sempre più vivida dentro di lui, dentro al
suo cuore.
Gridava e gridò più
forte quando sentì i denti di lei perforargli il collo.
Adesso arrivano gli
altri, si diceva, adesso arrivano gli altri… Ma quanto erano rimasti indietro?!
Sentiva il sangue uscire, insieme alle sue forze, e la vista stava sparendo e
tutto gli veniva risucchiato via, l’anima gli veniva portata via, con il
terribile morso di un animale che aveva paura di morire, mentre la pioggia,
facendosi più insistente, gli picchiava la testa, fresca, unico suo sollievo.
Il suo stesso grido
dopo poco si placò, neanche l’aveva più la forza per urlare. Rimpiangeva di
aver dedicato tutto se stesso al lavoro, di non essersi sforzato di più con
Karen.
Ma torni?
Certo, Sally, certo
che torno…
Non sapeva dire se
la vista l’aveva abbandonato o se invece erano le sue palpebre che si erano
chiuse, ma era tutto tremendamente buio, e freddo. Non sentiva più il sangue
scivolare giù per la sua gola, non sentiva più le gocce di pioggia che gli
bagnavano le guance, come fossero le lacrime che non aveva fatto in tempo a
versare. Non gli sembrava neanche più di avere un corpo, a dire il vero.
Ma Selwyin lo
guardava ancora torvo e la risata infantile di Sally si era trasformata in una
risata maligna, e lui non trovava alcun conforto, alcuna serenità, alcuna pace,
nella morte…
Acilia correva tra
gli alberi del bosco. Non era riuscita a fermarsi perché era ferita. Non era
riuscita a fermarsi perché se non avesse bevuto tutto il sangue di Curtis, non
avrebbe potuto più correre veloce e gli altri cacciatori l’avrebbero presa. Non
era riuscita a fermarsi perché non voleva. E lei, maledetta, continuava a voler
vivere!
Dove sarebbe potuta
andare ora?
Non importava, se
continuava a correre non l’avrebbero catturata. Bastava solo continuare a
correre.
La sua mente era
attraversata da sangue, solo sangue, lei aveva ucciso ancora, un innocente, lei
che avrebbe tanto voluto avere un dialogo con i cacciatori! L’aveva avuto sotto
il naso tutto quel tempo, un cacciatore, quante cose avrebbe potuto dirgli!
Ma lui non ti avrebbe ascoltato, lui ti voleva
uccidere…
Si era difesa,
l’aveva sempre fatto, no? Continuava a difendersi, invece di sparire
nell’orrore che aveva fatto tanto tempo prima, che era lontano, ma era lì,
sempre lì… Continuava a difendersi e a difendere la sua sporca razza inseguendo
un sogno impossibile!
Parlare con Curtis?
Fargli capire – e far capire a tutti gli umani – che lei era buona? Lui le aveva puntato una pistola
addosso, e lei l’aveva ucciso. Era questa la realtà.
La pioggia si era
fatta violenta e ogni goccia la infastidiva. Tutta quell’acqua sul suo viso, le
sue finte lacrime, non la voleva.
Pensò che sarebbe
stato meglio farla finita, morire, farsi catturare. Ma farsi catturare sarebbe
stato un po’ come arrendersi. Lei non credeva più in nulla ma arrendersi non
l’avrebbe mai fatto.
Ma allora non era
vero che non voleva morire, semplicemente non voleva che qualcun altro lo
decidesse per lei, che era giunto il tempo di morire.
Però è giunto da tanto tempo…
Continuava
a correre, accogliendo quel pensiero, e poi subito ricacciandolo, ritornello e strofa,
l’uno sempre lo stesso e l’altra sempre diversa. Le motivazioni per cui non
voleva morire erano diverse, e si rincorrevano pietose, ma il chiodo fisso,
come intermezzo, rimaneva sempre quello. E lei intanto correva, mentre la pioggia
puliva le sue ferite, e il fango di nuovo la sporcava, e l’animo rimaneva
sempre uguale, nella danza frenetica della sua mente.
Chissà per quanto
tempo corse, chissà quanti chilometri aveva percorso, prima che, stanca, si
fermasse. Chissà dov’era finita, in un limbo tra l’odio e l’amore, tra il il
perdono e il rancore.
Si buttò a terra,
dolorosamente, accompagnata dagli schizzi di pioggia, che rimbalzavano sul
terreno, e su tutto il suo corpo.
In quel momento,
Lyuben che le parlava della decisione più importante della sua vita, le
sembrava così surreale.
Si portò una
mano al petto mentre un’idea che aveva sempre avuto ma che la spaventava troppo
tornò a galla nel mare tempestoso della sua mente. Sarebbe rimasta lì, sdraiata
tra l’erba e il fango, sotto la pioggia, che l’avrebbe rasserenata e fatta
sentire parte della natura. Si sarebbe ricordata le cose belle della vita,
avrebbe pensato all’unico uomo che aveva davvero amato e l’avrebbe stretto a sé
e l’avrebbe scaldato nel gelo dei suoi ricordi. Finché non fosse venuta l’alba.
Allora
avrebbe guardato il sole come se lo vedesse per la prima volta, avrebbe sentito
il suo calore accarezzarle la pelle, come il calore dell’amore che non voleva
dimenticare.
E poi
sarebbe bruciata, all’inferno.
Chiuse
gli occhi, convinta che non li avrebbe mai più aperti, perché la luce del sole
sarebbe stata atrocemente accecante, per una figura buia come lei.
Chiuse
gli occhi, e per la prima volta dopo tantissimo tempo pensò solo a respirare.
Contava
i suoi respiri. Uno ad uno.
Signore, come vedete il cerchio si è chiuso, l'ultimo pezzo del
capitolo era proprio lui, il prologo u.u Quindi.. fine? No, mi spiace :D
Dunque, il titolo del capitolo Didoneè
stata un'ispirazione dovuta al fatto che protagoniste indiscusse di
questo capitolo sono donne, alle quali volevo dare una vaga aria di
eroine tragiche, proprio come quelle delle Heroides che
leggeva il nostro simpatico Kaeso XD Infatti ogni donna ha la sua
disgrazia: quello disperata di Eliza, quella più banale di Emily
che ama Jacque, quella drammatica di Lydia che perde il suo ragazzo e,
infine, Acilia, l'apoteosi della tragedia che, proprio come Didone,
pensa al suicidio come soluzione. Poi, beh, anche Kaeso si è
sentito vicino a Didone ma quel riferimento serviva poi per collegare i
vari pezzi :D
(ah sì c'è anche la tragedia di Curtis ç_ç)
Ragazze,
vi ringrazio tantissimo perché trovate sempre il modo di
lasciarmi una recensione (in alcuni casi.. dei papiri D:) il che
significa che almeno un minimo la storia vi ha preso e questo mi rende
davvero felice :D
Vi
lascio ancora in suspanse (ormai ci ho preso gusto con gli ultimi
capitoli, vero?), e vi do appuntamento al prossimo capitolo! Ora come
ora sono alle prese con la prima parte di un esame caccoso che di umano
ha ben poco eee facendo due conti.. dovrei tornare circa a metà
marzo ;)
Au revoir!
[cit. Jacque]
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** Luna ***
Capitolo 23
CAPITOLO XXIII
LUNA
“Lydia…
Lydia, aprimi, per favore!”.
Jacque
picchiava con insistenza sul vetro del finestrino della macchina della ragazza,
illuminata dalla luce di pochi lampioni e da una luna grigia.
“Lydia,
sono io… Sono Jacque!”.
Al di
là del vetro rigato di gocce di pioggia, vedeva la ragazza guardarlo con
espressione spaventata, con occhi spalancati e lacrimosi. Dopo qualche secondo
l’umana si decise ad aprire la portiera.
“Cosa
sei venuto a fare qua?” esclamò, con voce strozzata “Pensavo venisse Emily per
aiutarmi!”.
“Vieni
fuori” ribatté il vampiro “Dobbiamo andarcene da qui”.
“No!”
gridò la ragazza, affrettandosi a richiudere la portiera ma lui fu ovviamente
più veloce e con un braccio la tenne ferma. Lydia non aveva speranze contro la
sua forza e se ne rese subito conto, perché estrasse la pistola e gliela puntò
addosso, di nuovo.
“Lasciami
in pace o ti sparo, giuro che ti sparo!” urlò, esasperata.
Jacque
trasse un sospiro profondo.
“Sono
qui per aiutarti, mettila giù… È pericoloso per te stare qui” disse,
lentamente, con gli occhi come ipnotizzati dalla pistola. Bastava un colpo,
premere un solo grilletto e tutto sarebbe finito…
Aveva
promesso ad Emily che avrebbe riportato a casa Lydia, sana e salva.
“Ti
prego, fidati di me”.
“Perché
dovrei fidarmi di te?” sbottò la ragazza, agitando il braccio e la pistola
“Solo perché Emily si fida? Emily è impazzita… oppure l’avrai incantata! Ecco
cos’hai fatto! L’hai…”.
“Smettila!”
esclamò Jacque “Perché non vuoi capire che io sono dalla vostra parte?!”.
“Non mi
interessa!” urlò l’altra “Io devo cercare Sam!”. Solo nominandolo, la rabbia
abbandonò il suo volto e lei proruppe in un pianto, abbassando l’arma.
Lui
strinse le labbra e la guardò, cosparsa di lacrime, pioggia e disperazione.
Lentamente alzò un braccio e avvicinò la mano alla pistola. Gliela prese e
Lydia non oppose resistenza, continuando a piangere.
“Non
urlare, è pericoloso” le disse.
Non
aveva idea di come dirle che il suo ragazzo era morto.
Le tese
la mano. “Vieni con me”.
Lei
smise di singhiozzare, ma aveva abbassato lo sguardo sulle proprie cosce, gli
occhi puntati sui jeans bagnati.
“Lydia,
vieni con me” insistette lui.
Dovevano
muoversi, non sapeva se sarebbe stato in grado di proteggerla se fosse arrivato
qualcuno.
“Per
favore!”.
Lei aveva
preso a tremare, e ancora non lo guardava.
Jacque
si decise a prenderla per un braccio e a tirarla fuori dall’auto con la forza.
Lei lanciò un gridò e si dimenò ma si trovò presto intrappolata tra le braccia
di lui. Gli assestò una gomitata nello stomaco e subito dopo gridò di nuovo,
dolorante.
“Calmati,
o ti farai solo del male” sibilò Jacque, invocando la pazienza.
“Non
torno a casa” stava dicendo la ragazza, furiosa “Devo trovare Sam! Lo devo
trovare!”.
Jaque
si sentì mosso da pietà, ma, per quanto avesse vissuto a lungo, il tatto non
era una cosa su cui Acilia aveva particolarmente insistito, educandolo.
“Non lo troverai”
disse solo.
Si aspettava che
Lydia continuasse a dimenarsi e che urlasse che invece lo avrebbe trovato,
invece si placò.
Lui la teneva tra
le braccia. Era calda, proprio come Emily.
“Se ti lascio
andare” disse il ragazzo “mi prometti che non tenterai la fuga? Sarebbe
inutile, e pericoloso”.
Passò qualche
attimo, poi lei annuì.
Lui mollò la presa
e la guardò in faccia. Il volto era cereo, i capelli biondi appiattiti e zuppi,
il respiro affannoso, che le usciva dalla bocca, semiaperta, come se fosse
pronta ad urlare ancora.
“Ora pensa a te
stessa e vieni con me” insistette Jacque “Sam vorrebbe che tu ti salvassi”.
Inaspettatamente Lydia
crollò a terra e le sue ginocchia sprofondarono in una pozza d’acqua. Appoggiò
i palmi delle mani sul cemento e diede in un rantolo, come se stesse per
soffocare.
Jacque si chinò
subito su di lei, senza sapere cosa fare. Guardò la sua nuca, senza osare
immaginare l’espressione che poteva avere ora il suo volto.
“Vieni con me”
ripeté “Poi tutto andrà bene. Vieni…”.
“Con te” biascicò
Lydia, innaturalmente immobile “Con te… La tua razza… È la tua razza che lo
ha…”. Respirò forte, poi tossì. Il suo corpo tremava vistosamente, sotto lo
zampillare dell’acqua.
“La mia razza è
umana!” esclamò Jacque, lo sguardo fisso sui capelli di lei “So com’è perdere
qualcuno… So com’è perché io ho perso me stesso. Ero io il morto mentre tutti
gli altri erano vivi. E allora perdi tutti, tutti!”.
Lydia alzò il viso
e lui non capì se l’acqua che le rigava il volto era pioggia oppure erano le
sue lacrime. Sperò che fossero lacrime, perché se piangi fai uscire la tua
afflizione, la espelli, e dentro puoi tornare a sperare. Proprio quello che lui
non poteva fare.
“Alzati” disse,
tendendole la mano che aveva libera “Alzati… Tu hai ancora un cuore che batte”.
Lei continuava a
guardarlo, con un’espressione che Jacque non riusciva a decifrare. Forse anche
gli occhi di lei ora erano diventati gli occhi della morte, come i suoi. Perché
non c’entra niente se sei vivo o morto, c’entra solo quello che provi.
Ad un tratto si
levarono delle urla e Jacque si mise prontamente davanti a Lydia, guardandosi
intorno. Sentì dietro di sé la ragazza che lentamente si alzava da terra e
aguzzò la vista. In lontananza c’erano dei corpi a terra e un’ombra si stava
avvicinando…
Lanciò
un’esclamazione quando si accorse che un vampiro era davanti a lui, con le
labbra e i vestiti grondanti sangue. Quello fece un sorriso ebete, mostrando
denti lunghi e rossi. Sporse la testa, con gli occhi che guardavano proprio
dietro di Jacque, mentre le narici si allargavano, estasiate.
“Lascia perdere”
disse subito Jacque, cercando di apparire minaccioso “Questa è mia”.
“Oh, andiamo” fece
quell’altro “Ha un profumo delizioso, ce la possiamo spartire”.
Jacque notò che
pure i suoi pantaloni erano imbrattati di sangue. Di certo aveva già mangiato
abbastanza, e in maniera orribile. Non sarebbe stato facile liberarsi di lui.
D’istinto, gli puntò la pistola di Lydia addosso.
“Ti ho detto che è
mia. Ora vattene!”.
L’altro vampiro
alzò le braccia, sinceramente sorpreso. “Un’arma?”. Riprese in fretta il
controllo e cercò di essere persuasivo. “Non c’è più bisogno di quella roba,
ora che c’è Kaeso al governo possiamo finalmente essere tutti fratelli tra noi!
Non dobbiamo inimicarci l’un con l’altro!”.
Ma che belle
parole, pensò Jacque con sarcasmo, sono davvero commosso.
Non abbassava
l’arma e l’altro si scurì in volto. Si stava arrabbiando.
Fece per lanciarsi
su di lui e Jacque sparò. Quello cadde a terra, gridando di dolore. Il
proiettile di legno gli si era incastrato nell’addome.
Jacque gli si
avvicinò, sentendo una rabbia furente dentro di sé che non aveva mai trovato
sfogo da nessuna parte.
Ora il suo nemico
era inerme, sdraiato a terra, Jacque avrebbe dovuto provare pietà, invece gli
puntò la pistola al cuore.
“No!” urlò il
disgraziato “Perché?! A quale scopo?! Io sono come te, sono come te!”.
Jacque guardò il
sangue che aveva sui vestiti e sul volto. Erano quelli come lui che avevano
ucciso Sam. E ora Lydia ed Emily piangevano…
Quella non era la
sua battaglia, non lo era mai stata e neanche gli era mai importato, ma
improvvisamente capì che se Acilia e gli altri fossero riusciti davvero a
trasmettere il loro modo di vivere a tutti i vampiri, nel mondo ci sarebbe
stato meno orrore.
Io sono come te!
Non aveva mai
ucciso un vampiro ma aveva ucciso tanti uomini, quando ancora era uomo.
Non dobbiamo inimicarci l’un con l’altro!
Era sempre la
stessa storia, che apparteneva ad umani e a vampiri.
Si era così odiato
quando aveva ucciso tutti quei ragazzi, solo in nome della patria. Ma ora non
si odiava più, forse perché era diventato freddo, forse perché sentiva che
stavolta doveva davvero farlo.
“Tu non sei come
me, figlio di puttana” disse. E sparò.
Chiuse gli occhi
per ripararsi dalla pioggia di sangue ma il boato, insieme con un terribile
grido, gli penetravano le orecchie.
Riaprì gli occhi e
del vampiro non era rimasto altro che una poltiglia rossa, sporca, viscida su
cui schizzava l’acqua, e si scioglieva, e si spandeva, abbandonata nel buio. Il
debole spicchio di luna offuscato dal mal tempo le era sopra ma non riusciva ad
illuminarla.
Jacque non riusciva
a staccare gli occhi da tutto quel sangue, mentre un’amara soddisfazione gli
riempiva la bocca. Poi, ad un tratto, si ricordò di Lydia e si voltò subito.
Stava andando verso la ragazza, che era di nuovo a terra, con lo sguardo
pietrificato, quando delle voci li raggiunsero.
“Ehi! Ragazzi!
State bene?”.
Jacque aiutò Lydia
ad alzarsi ed entrambi si voltarono, lei avvinghiata a lui, tremante, come se
non fosse più in grado di camminare.
Un paio di uomini
in armatura li stavano raggiungendo di corsa con delle torce in mano. Erano cacciatori.
Jacque inspirò a fondo e, inavvertitamente, strinse più forte a sé l’umana.
Uno dei due
cacciatori puntò il fascio di luce nella loro direzione e si tolse il copricapo
per farsi guardare. Aveva due folti baffi e uno sguardo rassicurante.
“Siete feriti?”.
“Ne hanno steso
uno” osservò il suo compagno, fissando la poltiglia di sangue alla loro destra.
Il cacciatore
baffuto notò la pistola di Jacque. “Sei stato bravo” disse. Lo stava osservando attentamente, con quella
dannata torcia puntata su di lui. “Sei riuscito a centrargli il cuore prima che
lui ti azzannasse”. Era sorpreso.
Jacque non disse
niente, terribilmente a disagio.
“Sì sì, molto
bravo” fece il secondo cacciatore, con tono scocciato. Si rivolse a Jacque.
“Non giocate a fare i cacciatori, non sarete sempre così fortunati. E ora
andate a casa”.
Jacque sapeva che
doveva stare zitto e obbedire all’istante, ma qualcosa in quello che l’uomo
aveva detto gli aveva dato fastidio. “Non stiamo giocando” disse quasi in un
bisbiglio. Non aveva mai giocato in vita sua, mai.
L’uomo gli si
avvicinò. “Stiamo cercando un vampiro donna molto pericoloso” disse, rude “Ha
fatto fuori uno dei nostri”. Cercava di spaventarli, forse. “Andatevene, sul
serio”.
“Jacque” biascicò
la voce di Lydia, notevolmente scossa. Era la prima volta che lei pronunciava
il suo nome e lui ne fu sorpreso. “Ha ragione, andiamo a casa…”.
Dovevano tornare da
Emily, ma quel cacciatore aveva detto che stavano cercando un vampiro donna…
“Com’è fatto?”
domandò Jacque ai cacciatori. Quelli lo guardarono straniti e lui aggiuse: “Il
vampiro donna, com’è fatto?”.
“Non hai sentito
quello che ti ho detto?” replicò il secondo cacciatore “Va a casa, questo non è
un gioco!”.
“Magari l’avevamo
visto passare” insistette Jacque “Volevo solo dare una mano”.
La pioggia
picchiava meno insistentemente di prima, forse il temporale stava cessando.
“Ha l’aspetto di
una ragazza molto giovane” rispose l’uomo coi baffi, con l’aria di uno che
stava ragionando troppo in fretta “Ha una statura di poco sopra la media e
lunghi capelli neri”.
Jacque deglutì. Le
probabilità che si trattasse di Acilia erano alte.
Ha fatto fuori uno dei nostri.
In che guaio si era
cacciata?!
“No, mi spiace, non
l’abbiamo vista” si affrettò a dire “Arrivederci”. Voltò loro le spalle e camminò,
sorreggendo Lydia, che silenziosa gli stava accanto nel fascio di luce che
ancora li inondava. Poco dopo finalmente la luce si fece più lontana e Jacque
portò Lydia dietro un edificio.
“Non… Non torniamo
alla macchina?” domandò la ragazza, confusa.
“La macchina va
troppo piano” rispose Jacque. Le mise le mani sulle spalle e continuò: “Ora ti
devi davvero fidare di me”.
“Cosa vuoi fare?”.
Lydia non aveva affatto lo sguardo convinto.
“Ti prenderò in
braccio, e correrò” spiegò lui “Ti devi aggrappare forte perché andrò molto
veloce”.
Lydia scosse
energicamente la testa e Jacque le afferrò il mento, piano, per farla stare
ferma, e per farsi guardare.
“Dobbiamo muoverci.
Non costringermi ad incantarti”.
Lydia gli stava
fissando gli occhi, con un’espressione strana.
“Come fai ad essere
morto?” fece con un filo di voce “Come fai a provare dei sentimenti se il cuore
non ti batte più?”.
Jacque era
sorpreso. Provare dei sentimenti. Non
pensava che Lydia l’avesse capito.
“Non lo so” rispose
“Non so niente”.
Passò qualche
attimo poi Lydia gli passò le braccia intorno al collo, respirando
affannosamente, ancora spaventata. Lui le sollevò le gambe e la strinse,
preparandosi a correre.
Dove corri? Non pensi ad Acilia?
Doveva portare a
casa Lydia, l’aveva promesso ad Emily, doveva proteggerle...
Perché le devi proteggere?
Acilia era in
pericolo. In pericolo…
Porta a casa Lydia. Poi ci penserai.
A cosa avrebbe
dovuto pensare? Cos’avrebbe potuto fare?!
Si strinse a Lydia
più forte di quanto avesse dovuto, come se credesse che fosse Acilia o una
qualunque soluzione, come se volesse un patetico conforto.
Si mise a correre,
sotto il cielo che poco a poco si stava riaprendo. Sotto quell’esile luna che
cercava di farsi spazio tra le nuvole.
Era la stessa luna
che c’era in cielo, quando lui era morto.
La sede
di Arcangelo era presa e Dubris non sapeva se valesse la pena di attaccare per
riprendersela.
“Almeno
sappiamo dove sono” osservò Victoire, col suo solito tono di voce fermo
“Possiamo attaccarli quando vogliamo”. Fece un passo in avanti, a braccia
conserte. “Anche adesso”.
Dubris
si guardò intorno. Erano soltanto una decina di vampiri e, come se non fosse
abbastanza, Acilia mancava.
“Vuoi
farci morire tutti?” sbottò, piuttosto rude, guardando Victoire.
Quella
alzò le sopracciglia sottili e severe, alzando un pelo il volto spigoloso. Il
collo era candido e invitante, ma l’espressione presuntuosa che aveva dipinta
sul volto la rendeva davvero poco desiderabile.
“Là
sotto non c’è Kaeso” disse, come se fosse una cosa ovvia, accennando al grosso,
vecchio, palazzo grigio che era a poche decine di metri da loro.
“Di
certo non si farà trovare in un posto che conosciamo bene” puntualizzò Luca
“Del resto, se prendiamo lui, prendiamo tutti”.
Dubris
tentò di mantenere la calma ed evitò accuratamente di guardare l’italiano,
pensando al suo stupido accento che rendeva ridicola ogni parola che diceva.
“Se
fosse solo lui il problema saremmo già un bel passo avanti!” esclamò “Ne ha
tantissimi dalla sua parte, come pensate di sconfiggerli?”.
“Sono
solo un branco di stupidi ragazzini” disse Victoire, cercando altro consenso in
giro “Potremmo farcela”.
Dubris
inspirò a fondo. Era vero, non tutti quelli che ora erano nella Sede erano
della Rappresentanza, ce n’erano di più giovani, giovani e sbandati, ma erano
tanti. Tanti e non tutti ragazzini!
“Per
prendere decisioni del genere penso dovremmo aspettare Acilia” disse,
consapevole di toccare un tasto dolente.
Victoire
infatti emise una risata incredula e spazientita, insieme a qualcun altro.
“Acilia? Acilia?”.
Sì, Acilia. Dove cazzo è finita?!
“È la
più vecchia del gruppo” si limitò a rispondere Dubris.
“Tu
davvero ti fidi di lei?” sbottò qualcuno alla sinistra di Victoire.
Dubris
lo guardò e riconobbe Homer, un omone calvo e dall’aria minacciosa, ma buono.
Per quanto poteva esserlo un vampiro, come tutti loro.
“Certo
che mi fido di lei” ribatté il rosso, arrabbiato. Fece scivolare il suo sguardo
su tutti i presenti, sentendo la frustrazione che cresceva, angosciante,
all’interno del suo morto cuore, che, se avesse potuto, avrebbe martellato
furiosamente. Nessuno di loro c’era, nessuno di loro l’aveva sentita parlare in
quel lontano giorno del quattordicesimo secolo, quando aveva dato una
possibilità di vita, per tutti i vampiri! Nessuno di loro l’aveva vista mentre
lottava per tutto quello che ora avevano, o avevano avuto. Aprì la bocca e
parlò liberamente. Si sentiva libero perché neanche Ramona era presente, e non
l’avrebbe sentito.
“Vorrei ricordarvi che senza di lei tutto
questo non sarebbe stato possibile!”.
“Certo”
bofonchiò Homer “Senza di lei, non ci sarebbe Kaeso”.
Gli
altri risero e Dubris sgranò gli occhi, incredulo. Non c’era proprio niente di
cui ridere.
“Non
tutti sono creatori esemplari” sbottò “E non è questo il problema!”. La sua
voce si era alzata e le risate si erano spente. “È lei che ha fatto tutto
questo! È per merito suo se ora siamo qui a proteggere qualcosa! E ora mi dite
che, solo perché ha sbagliato una volta, solo perché ha vacillato una volta… È direttamente, personalmente coinvolta nella faccenda di Kaeso, è ovvio che abbia
vacillato! E ora non vi fidate più di lei?!”.
Il suo
grido si spense nella notte e i volti pallidi dei suoi compagni erano
ammutoliti, anche se a lui sembrava di non aver detto ancora abbastanza.
“Tu sei
innamorato di lei da sempre, Dubris” fece la voce di Victoire, pacata ma
tagliente “E non ti rendi neanche conto di quello che dici”.
Dubris
la fissò con odio. Perché doveva tirare in ballo questo ora? Non era amore il
suo, era rispetto, perché lei gli aveva dato qualcosa di grande… Solo che a lui
non era mai bastato.
Stava
per ribattere ma l’altra lo precedette, e quello che disse lo lasciò
interdetto. “Acilia è un vampiro straordinario” stava dicendo “E non è perché
ha creato un mostro che non mi fido più di lei, e non è neanche perché non ce
ne ha messi subito al corrente”. Avanzò di un passo, mentre guardava Dubris con
i suoi occhi piccoli e pungenti. “Ma l’hai detto tu stesso, Dubris, possibile
che tu non lo capisca?”. Improvvisamente il suo sguardo si sciolse, sembrò che
gli alti zigomi cadessero, a terra, prorompendo in un lamento, e la voce di
Victoire era questo che era, un lamento. “È personalmente coinvolta! È la
creatrice di Kaeso! Non lo vorrà mai uccidere!”.
Dubris
sbatté le palpebre, cercando di ragionare. Aveva un senso, però Kaeso e Acilia
erano come il giorno e la notte, e poi lui aveva ucciso Lyuben…
“Ma lui è…”.
“Dov’è
ora Acilia?” esclamò Victoire, allargando le braccia e guardandosi intorno
“Dov’è? Se ti fidi tanto di lei, dimmi dov’è! Dimmi dov’è!”. La sua voce era
quasi disperata e ciò che era peggio era che Dubris non ce l’aveva, una
risposta.
Per
qualche secondo ci fu solo silenzio, in quel vicolo buio di Arcangelo. Forse
sarebbero dovuti tornare a casa, e lasciar perdere, per quel giorno.
“Devi
accettare il fatto che lei non sarà con noi in quest’operazione” continuò
Victoire “Non sarà contro di noi, ma neanche con noi”.
Ancora
nessuno disse niente. Dubris non sapeva come ribattere ma, da qualche parte,
dentro di lui, sapeva che Acilia sarebbe stata con loro. Lui la conosceva
meglio di chiunque altro, ne era certo…
“Allora,
cosa facciamo?” fece qualcuno.
Ma
Acilia lì non c’era, e loro non potevano perdere altro tempo.
“Dovremmo
rapire qualcuno dalla Sede” disse Dubris, riflettendo “E farlo parlare, farci
dirci dove si nasconde Kaeso”.
“Cominciamo
a ragionare” fece Victoire, con un sospiro di sollievo.
“Ma non
oggi” si affrettò ad aggiungere il rosso, deciso. Su questo non aveva
ripensamenti, lei non l’avrebbe avuta vinta su tutto. “Dobbiamo prepararci bene
e pianificare la sortita”.
Nessuno
ebbe da ribattere, neppure Victoire.
“Uscite
dal vicolo a gruppetti, e raggiungete l’elicottero” disse Dubris, facendo cenno
a un paio di vampiri di avviarsi. Quelli obbedirono e mentre li guardava
allontanarsi, lui sentì una strana sensazione. Era abituato a comandare nella
Corporazione ma quello era diverso. Quella era una cosa molto più grossa, e se
non c’erano né Lyuben né Acilia… Come avrebbero fatto?
Altri
si allontanarono finché non rimasero solo lui, Victoire, Luca e altri due
vampiri. Erano gli unici che sapevano volare.
“Ci
vediamo a casa mia” disse loro, poi fece un salto e si abbandonò al vento. Il
suo campo visuale divenne vastissimo, ma sfuocato. La luna, compagna di tutte
le notti, troneggiava silenziosa su di lui.
Passò
qualche minuto, in cui Dubris liberò la mente il più possibile, finché non
rimase solo qualche opaca immagine di Acilia a invadergli la testa, insieme
alla pioggia che cominciò a scivolargli addosso, e lui poggiò i piedi per
terra, di nuovo in Inghilterra, in un vasto prato deserto e umido.
Era
tutto bagnato, ma non ci fece caso e cominciò ad avanzare tra la pioggia.
Qualcosa
prese a vibrargli contro la gamba e lui estrasse subito il cellulare, ricordandosi
di quante volte avesse provato a chiamare Acilia, senza successo.
Il suo
cellulare continuava a vibrare, senza sosta e Dubris si affrettò a guardare il
display. Erano solo dei messaggi.
Ti ho cercato alle 01.44 del 4 agosto 2012.
Acilia!
L’aveva cercato per tre volte, e infine, dato che il telefono non prendeva, gli
aveva lasciato un lungo messaggio scritto.
Dubris
asciugò il display e lesse il messaggio, avido, frettoloso, forse qualche frase
neanche l’aveva capita bene ma il panico lo invase terribilmente.
“No…”
mormorò flebilmente “No… Aci, no!”.
D’istinto
cercò il numero di lei in rubrica per chiamarla ma poi ricordò l’ultima frase
del messaggio che aveva appena letto.
Non provare a chiamarmi. Dopo che avrai
letto questo messaggio, non ti potrò più rispondere.
*
Acilia sedeva alla
destra di un cumulo di resti, di un bianco sporco, una colonna fatta a pezzi e
caduta a terra chissà quanto tempo prima.
Davanti a lei si
ergeva la statua di Diana, che guardava verso l’alto, ammaccata e senza naso.
Sotto i delicati panneggi di marmo, una lunga e bianca gamba terminava con un
piede sottile e affusolato, che poggiava delicatamente sul terreno, mentre
l’altra gamba si interrompeva appena sopra al ginocchio, lasciando solo
irregolarità e pesantezza.
“Cosa fai? Preghi?”
domandò una voce alla sue spalle.
Lei non si voltò
neanche, e scosse la testa.
Diana era la dea
delle selve, della luna, protettrice degli animali e delle donne. Acilia un
tempo le chiedeva perché le fosse stato fatto questo. Le chiedeva perché
l’avesse imprigionata nella notte, lei donna ma ormai anche animale, costretta
a stare nei boschi, a rivolgersi solo alla luna, non più meritando di vedere il
dio Apollo. Ma aveva smesso ben presto di farlo. Del resto, a cosa serviva?
“Allora cosa fai
qui?” chiese ancora Kaeso.
Acilia fissò il
volto marmoreo della dea. Una volta era perfetto.
“Guardo i cocci
dell’esistenza umana” rispose.
“I Cristiani non
l’hanno ancora completamente distrutta, questa statua” osservò Kaeso.
La distruzione,
pensò Acilia, non è giusta, stanno distruggendo la civiltà.
“Mi chiedo che
senso abbia” continuò l’altro, dietro di lei, con voce pacata “fare tutto
questo caos in nome di qualcuno che forse neanche esiste”.
“Forse?” fece
Acilia.
“Nulla è certo”.
La ragazza si voltò,
senza alzarsi da terra. Alzò lo sguardo e vide il volto di Kaeso, più perfetto
di quello di Diana, cereo e compatto, freddo, senza alcuna emozione viva. Aveva
ucciso tutto, ce l’aveva fatta, finalmente.
“Non credi più
negli dei?” chiese.
“Neanche tu, mi
pare”.
Aveva ucciso
proprio tutto.
Acilia non disse
nulla e Kaeso con un balzo fu coi sandali sopra i cocci della colonna. Le
macerie scricchiolavano, lui ridacchiava.
“Almeno noi abbiamo
un motivo per cui distruggere tutto” disse.
Lei lo scrutò. “Un
motivo?”.
“La sete” affermò
l’altro “non è immaginaria, come il loro dio”.
Distruggere. I
Cristiani distruggevano in un nome di
un loro dio, e loro distruggevano per la loro sete. Acilia a volte aveva la
sensazione che le due cose non fossero così diverse, per una qualche ragione,
che non riusciva a ricordare…
Abbassò di nuovo la
testa, in preda ad uno strano capogiro.
“Allora perché dici
forse? Se credi che il loro dio e
anche i nostri dei siano immaginari… Perché dici forse?”.
Kaeso non rispose,
ma smise di ridacchiare. Le dava le spalle.
“Perché?”
insistette lei.
Finalmente lui si
voltò a guardarla, per nulla turbato, con un lieve sorriso che gli increspava
le labbra.
Le si avvicinò,
tendendole le mani per aiutarla ad alzarsi.
“Ho una sorpresa
per te”.
Perché, cara Aci, di cosa posso essere sicuro? Tu non
mi hai insegnato tutto.
Acilia gli prese le
mani e si alzò, lasciandosi andare in un sorriso. Baciò Kaeso e lo abbracciò.
Si strinse a lui e tutto quel freddo la rasserenava, si sentiva una sciocca ma
le piaceva pensare che non era sola.
Mi hai insegnato ad essere
me stesso. Mi hai reso inerme e nudo davanti alla vita. Mi hai dato alla luce,
una luce dolce, delicata e suadente – quella della luna. Mi hai dato un’arma e mi hai detto di
combattere, aggrappato a un brandello di esistenza.
“Vieni” le disse
Kaeso. La teneva per mano, con un sorriso compiaciuto, e la trascinò con sé via
da quelle macerie. Camminavano sempre più veloci, i sandali scalpitavano nella
ghiaia, alzando una polvere che però non le impediva di vedere ciò che aveva
intorno. Paesaggi sempre diversi, disparate costruzioni, varietà di idiomi, di
pelli, di costume, ormai loro due avevano girato tutto l’Impero e Acilia amava
quella vita.
Ma non mi hai insegnato tutto.
La condusse in un
boschetto. Gli alberi erano piuttosto fitti, i rami secchi e cumuli di foglie
gialle ai loro piedi coloravano la lieve foschia che stava scendendo. Lo
scrociare di un fiume lì vicino era la musica perfetta per quel quadretto.
L’autunno aveva un
buon odore ma c’era qualcos’altro nell’aria. Un odore ancora più buono che
stimolò ogni senso in Acilia che si sentì improvvisamente eccitata, da morire.
Si voltò verso Kaeso e con uno scatto si incollò alle sue labbra. Lo spinse
contro un albero, con forza, e lo toccò dappertutto, sentendo il suo corpo
bruciare. Kaeso la baciava e ricambiava il suo tocco. Lei si avvinghiava a lui,
premendosi contro il suo corpo, ansimando contro la sua bocca, felice, piena di
un amore strano, un amore nero, dannato, ma libero da ogni preoccupazione…
Libero da ogni preoccupazione, il mio amore, in cui
riuscivo a percepire di nuovo il calore, quello del sangue, quello del piacere,
il godere e il dolore. Non sapevo se fosse vero o falso, ma era vivo, era
l’unica cosa viva in me.
E non c’era altro a cui pensare, perché ero morto, ma
con qualcosa di vivo, che disperatamente afferravo, per non lasciarlo andare
via. Kaeso e nient’altro, chi altro dovrei essere? Chi altro, Aci? Chi?!
Acilia si separò da
Kaeso e gli accarezzò il viso con entrambe le mani. Quel tocco freddo la
scioglieva, come fosse fatta di ghiaccio – forse lo era davvero – e in quegli
occhi blu ritrovava la morte che era anche sua, loro eterna compagna.
“Cos’è questo
profumo, Kaeso?” chiese, con un largo sorriso. L’odore era così intenso, le sue
zanne già spingevano.
“Ti avevo detto di
avere una sorpresa” rispose lui, cingendole la vita.
Acilia rise. “Non
mi avrai mica preso una schiera di umani!”. Era profumo di un sangue delizioso,
non un semplice sangue…
Distruzione.
“Il sangue dei
bambini, Aci, è quello più buono in assoluto” spiegò Kaeso, inspirando l’aria
“È ancora puro e incontaminato, è così squisitamente dolce…”.
Acilia si lasciò
inebriare. Rideva. “E dove li avresti nascosti?”.
“Li ho raccolti un
po’ qua e un po’ là” disse l’altro con voce lenta e suadente “Sono tutti in
questo bosco. Ho detto loro che avremmo giocato a nascondino”.
Acilia si fece
passare la lingua sulle labbra. “Un gioco”.
“Un gioco” ripeté
Kaeso “Vince chi trova più bambini”.
“Mi piacciono i giochi”.
Acilia gli morse il labbro, glielo morse forte, fino a farlo sanguinare. Lui
ansimò e la strinse più forte.
“Ti piace vedere il
sangue che scorre…”.
“Hai avvertito i
bambini che è un gioco serio, vero?” ribatté lei, assumendo un tono severo,
fintamente preoccupato.
“Certo” rispose
l’altro, passandosi una mano sulla bocca per pulirsi “Ho detto loro che devono
fare attenzione, perché, giocando, ci si può far male”.
Acilia fece un
balzo indietro, ilare, lasciando Kaeso appoggiato all’albero.
“Giochiamo
allora!”.
Distruzione?
Si mise a correre
nel bosco, saltellando di tanto in tanto, chiamando a gran voce i bambini e
ridendo.
La sensazione di distruggere qualcosa…
Vide un esile
braccio che tentava di nascondersi dietro un grosso arbusto.
Subito lo toccò
gridando: “Presa!”. Tirò via dal suo nascondiglio quella che era, si rese
conto, una bambina che non dimostrava più di quattro anni. Era sporca in viso e
aveva una piccola tunica stropicciata. Gli occhi spalancati la guardavano con
un misto di paura, ammirazione e divertimento. “Chi sei?” le chiese, con una
bassa vocetta.
“Gioco anch’io con
voi” spiegò Acilia, chinandosi su di lei e accarezzandole la guancia. L’odore
era fortissimo, si insinuava nelle narici e le arrivava alla testa, la faceva
impazzire. Quella guancia era così morbida…
“Ti ho trovata”
disse “Ho vinto, e tu hai perso, mi dispiace”. Estrasse i denti e la bambina
urlò, atterrita. Acilia la trasse verso di sé e le conficcò le zanne nel collo.
Kaeso aveva ragione, quanto era buono e dolce quel sangue! Le sembrava di
galleggiare nella vastità e nella perfezione del mondo, mentre quel liquido
mielato e delizioso le scivolava giù per la gola, accendendo il suo corpo in un
tremore entusiasta, quasi di infantile felicità.
L’urlo della
bambina non disturbava quel momento, le grida di terrore, di dolore, erano
divertenti…
Cosa stai distruggendo?
Ma quell’urlo e
quella voce la fecero d’improvviso stare male e Acilia buttò a terra la bimba,
crollando sulle ginocchia. Un altro fastidiso capogiro.
Aci!
Era una voce nota.
Chi sei?
Chi sono?
Alzò lo sguardo e
vide la bambina a terra, uno squarcio sul collo, la testa piegata in una
posizione innaturale, un piccolo lago di sangue intorno a un debole corpicino.
Strisciò verso di
lei carponi, assetata, e, come un cane, leccò la pozza di sangue sul terreno,
senza riuscire a farne a meno. Socchiuse gli occhi, estasiata, ma quando li
riaprì era così vicina all’occhio spalancato, privo di vita e pieno di terrore,
della bambina, che fece un salto indietro.
L’ultima espressione che Damiano aveva
avuto sul volto – quella che aveva tuttora – era di terrore, ed era stata colpa
sua.
Acilia cercò di
nuovo il controllo di sé, mentre qualcosa simile al vomito, ma che non poteva
esserlo, spingeva per tornare in superficie, e alla fine sputò sangue.
Chi sei? le aveva chiesto la bambina.
Chi sono?
Tu non sei Aci! urlava lui, in un altro mondo, lontano e
passato…
Allora, chi altro dovrei essere? Chi sono io? Chi ero?
Cosa mi hai fatto dimenticare? Del resto, anche tu avevi dimenticato qualcosa,
non è vero? Sei riuscita a recuperarlo, Aci, hai recuperato te stessa o quello
che credevi di essere. Perché tu eri come me, e questo non potrai mai
cancellarlo.
È questo ciò che non potrai mai dimenticare.
Acilia afferrò il
corpo della bambina esangue e lo trascinò fino al fiume. L’acqua era torbida e
l’azzurro e il verde si mescolavano al rosso.
Buttò il cadavere
in mezzo all’acqua, già sporca, già contaminata. Il corpo della bambina si unì
ad altri fanciulleschi corpi, che galleggiavano sporcando il corso d’acqua,
fatto di sangue, sotto la pacata luce della luna, sotto lo sguardo imperfetto
di Diana, distrutto, impietrito forse, da tale distruzione.
I corpi dei bambini
erano tanti, Acilia non li contò ma rimase ipnotizzata a guardarli. Kaeso aveva
decisamente vinto, era davvero bravo in quel gioco.
Il giorno in cui l’aveva conosciuto stava facendo
proprio quel gioco. Insieme a sua figlia.
Kaeso era diventato
irrefrenabile, Acilia sentiva la risata di lui, che si mescolava ad altre urla.
L’acqua e il sangue
continuavano a scorrere, i cadaveri dai bambini emergevano da quel flusso
magico e orrendo, la luna piangeva lacrime di luce su di loro.
*
Emily aveva tentato
di abbracciare Lydia, entrata in casa sorretta da Jacque, ma quella si era
scostata e, lasciando il braccio del vampiro, aveva salito le scale senza
proferire parola.
Emily allora era
scoppiata in lacrime e aveva cercato un appoggio che casualmente era Jacque stesso. Le due ragazze si erano
letteralmente dato il cambio ed Eike si divertì a vedere la tipica espressione
del non-so-proprio-che-fare che si
era dipinta sul viso di Jacque.
Il piccolo vampiro
non aveva abbandonato la sua postazione sul divano, a poca distanza da Michael
che, con lo sguardo abbassato e le lacrime agli occhi, poteva sembrare
addirittura una persona seria, se non fosse stato per il pigiama di Spider-Man
che aveva addosso. I signori Dixon invece erano a ridosso della poltrona,
accuratamente lontani da qualunque vampiro fosse nel salotto. Lei si stava
rumorosamente soffiando il naso, tra un singhiozzo e l’altro, mentre lui stava
mescolando della camomilla in una tazza arancione, che cercava di sbolognare
alla moglie per tranquillizzarla. Tra l’altro, si sarebbe abbinata
perfettamente alle sue pantofole. Per non ascoltare i vari mugolii e pianti,
Eike cercò di concentrarsi sul tintinnio del cucchiaino ma, dopo un po’, divenne
fastidioso anche quello.
Jacque si era
finalmente deciso ad abbracciare Emily e l’atmosfera nel salotto stava
diventando sempre più seccante.
Eike provava
compassione per Lydia, e anche per Emily, ma, si sa, quando dimostri dodici
anni non puoi sfruttare certe occasioni.
Dopo qualche minuto
Jacque si staccò da Emily, in maniera po’ goffa e imbarazzata, e si diresse
proprio verso di Eike.
“L’eroe romantico
vuole conferire con me?” fece quest’ultimo, sorpreso.
Michael si lasciò
sfuggire un piccolo risolino, che sfumò in qualcosa di simile ad un
rantolo.
“Ehi” disse Emily,
mentre Jacque si sedeva tra i due ragazzi “Perché non andate a letto? Sono le
due passate”. Aveva un tono quasi incoraggiante.
Per tutta risposta
la signora Dixon si soffiò il naso più forte. Emerse un attimo dal fazzoletto e
ululò: “Quel povero ragazzo… Quella povera gente…”.
Il signor Dixon ne
approfittò subito per metterle davanti alla faccia la tazza, che lei prese come
in automatico. Lui si alzò e disse, con voce lenta e stanca: “Chiamo di nuovo
mio fratello. Per sapere come va”.
“Chiama anche le
mie sorelle” fece la signora Dixon “E mia madre”.
“Tua madre l’abbiamo
sentita cinque minuti fa!”.
La signora pianse
e, con un tremore del braccio, fece rovesciare un goccio di camomilla sul
pavimento. “Bastano cinque minuti per…”. Non finì la frase e continuò a
singhiozzare, finché Emily non andò a sedersi sul bracciolo della poltrona, per
darle conforto.
Eike ripuntò il suo
sguardo su Jacque. Aveva un’aria davvero preoccupata e di certo non era
preoccupazione per la nonna di Emily.
“Cos’hai?”
bisbigliò.
“Abbiamo incontrato
dei cacciatori” rispose Jacque in un sussurro.
Eike non ne fu
sorpreso. “Beh, qualcuno che fa il proprio lavoro di sti tempi ci vuole”.
“Cercavano Acilia,
ne sono sicuro”.
La faccia di Jacque
emanava sicurezza e terrore ed Eike si sentì suggestionato. “A-acilia?”
farfugliò, incredulo “Com’è possibile?”.
“Non lo so” sospirò
Jacque “Ma sono sicuro che parlassero di lei!”.
Eike notò che Emily
li stava guardando. La ignorò e guardò severamente il proprio creatore,
consapevole che sarebbe stato capace di tutto. “Jacque, Aci sa badare a se
stessa. Non fare stronzate”.
L’altro non disse
niente ed estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans. “Non so se provare a
chiamarla” disse, pensieroso “Magari si è nascosta da qualche parte e se faccio
suonare il cellulare…”.
“Ma quale vampiro
tiene la suoneria attiva!” esclamò Eike.
“Ehm…”. Jacque
apparve ancora più confuso.
Eike alzò gli occhi
al cielo, poi disse: “Se non vuoi chiamare lei, chiama la persona che le è più
vicina”. Usò quei termini apposta, per vedere quale reazione suscitassero in
Jacque. Perché non era lui stesso la persona che era più vicino ad Acilia.
Come era
prevedibile, Jacque si irrigidì. “Intendi Dubris?”.
“Se non ti va, lo
posso chiamare io” disse Eike, con un piccolo ghigno.
Il suo creatore
scosse la testa e si alzò in piedi, con lo sguardo fisso sul cellulare, stretto
nella sua mano destra. “No. Lo devo fare io”.
“Chi devi
chiamare?” si levò la voce di Emily “Perché? Cos’è successo?”.
Eike sbuffò. “Non
mettergli ansia!”.
La ragazza stava
guardando intensamente Jacque e pareva non averlo neanche sentito.
“Chiamo Dubris,
c’è… un problema… con Acilia” rispose quello, un po’ controvoglia, mentre
pigiava i tasti del telefono.
“Che problema?”
insistette l’umana.
“Chi è Acilia?”
s’intromise Michael.
Eike sbuffò di
nuovo, sperando che Jacque non si mettesse a spiegare la situazione e che si
muovesse a telefonare. Fortunatamente il vampiro fece proprio così; fece segno
di tacere e appoggiò il cellulare all’orecchio.
Passò qualche lungo
secondo e finalmente parlò, con voce piuttosto distaccata: “Dubris… Sono
Jacque”. Silenzio e poi di nuovo: “Sai qualcosa di Acilia?”. La sua espressione
mutò completamente e il ragazzo spalancò la bocca, sbigottito. “Cosa?”.
Anche Eike si alzò
in piedi, sentendo l’ansia che galoppava in corpo. “Cosa? Jacque, cosa?”.
“Ma perché?!” stava
sbottando l’altro, frustrato. Poi si premette una mano sul cuore e disse,
abbassando il tono di voce: “Non è ancora morta”. Eike sentiva la voce di
Dubris ma pure il suo udito non riusciva a distinguere bene le parole che,
agitate, incespicavano le une sulle altre. Ma Jacque non faceva altro che
ripetere “Non è ancora morta” e dopo poco chiuse la telefonata.
Con aria decisa si
diresse verso la porta ma Eike, preparato, corse più veloce e si parò davanti a
lui. “Jacque” fece, arrabbiato “Ti ho detto di non fare stronzate! Dimmi cosa
ti ha detto Dubris”.
“Devo andare prima
che sia troppo tardi!” gridò l’altro, accingendosi a spostare il proprio
creato.
Ma Eike,
inaspettatamente, gli sferrò un pugno nello stomaco.
Jacque si piegò e
guardò attonito il ragazzino. “Ma che fai?” sibilò.
“Che sta
succedendo?” stava urlando Emily, raggiungendoli nell’ingresso.
“Dimmi cosa ti ha
detto Dubris!” insistette Eike, alzando la voce.
Non avrebbe
permesso che Jacque giocasse di nuovo a fare l’eroe, prima o poi si sarebbe
fatto ammazzare. Che senso aveva voler salvare Acilia? Se non riusciva a
salvarsi da sola, lui cos’avrebbe potuto fare? Era un vampiro limitato, di
neanche cent’anni, ed era ora che se ne rendesse conto!
Jacque sospirò,
scocciato, e si raddrizzò. Finalmente parlò: “Acilia gli ha detto che si
sarebbe consegnata ai cacciatori”.
Il silenzio piombò
in tutta la casa. Addirittura la signora Dixon aveva smesso di fiatare.
“Che cosa
significa?” chiese Eike, con un filo di voce. Acilia non faceva mai niente per
caso, non era quel tipo di persona.
“Una volta lei mi
ha spiegato che se fossi morto, lei l’avrebbe saputo” replicò Jacque “E io
avrei saputo se lei fosse morta. E la stessa cosa vale per me e te”.
Eike scosse la
testa. Quello non aveva importanza.
“Lei non è ancora
morta e io devo andare a fermarla!” concluse Jacque.
“Jacque, calmati…”
azzardò Emily.
Lui le lanciò uno
sguardo obliquo, senza dire niente.
“Smettila” disse
Eike “Davvero credi che Aci abbia intenzione di farsi ammazzare?”.
“Cos’altro potrà
mai accadere se va dai cacciatori?”
sbottò Jacque, che stava visibilmente perdendo la pazienza. Quando si trattava
di Acilia, gli si annebbiava il cervello, era chiaro.
“Acilia non vuole
morire!” esclamò Emily.
Jacque la guardò
torvo. Era uno sguardo brutto, dal labbro superiore spuntarono le zanne ed
Emily tremò. Chissà, forse più che paura era dolore, quello di essere respinta,
di non sentirsi amata.
“Tu non la conosci”
ringhiò Jacque.
“Neanche tu” disse
subito Eike “Nessuno di noi la conosce del tutto”. Accennò alle sue zanne. “Ora
datti una calmata e dì cos’altro ti ha detto Dubris”.
Jacque non ritirò
le zanne ma sembrò placarsi. Sospirò forte e disse: “Acilia ha in mente di parlare ai cacciatori. Non ha senso, la
faranno fuori e lo sa anche lei!”. La sua voce vibrava e si alzava,
irregolarmente, intramezzata da angosciosi respiri. Si teneva una mano sul
cuore. Certo, aveva paura di sentirlo urlare di dolore, sentire come se
esplodesse, quando sarebbe esploso quello della sua creatrice.
Né Eike né Emily
ebbero il tempo di dire niente perché Jacque continuò, abbassando la voce, che
si fece sempre più lamentosa: “Lo sa che il rischio è grosso… Ma l’ha detto
solo a Dubris. Non mi vedrà mai più e l’ha detto solo a Dubris!”.
Eike incrociò le
braccia al petto. Accecato dalla gelosia, Jacque non si era mai reso conto che
con Dubris Acilia aveva condiviso secoli di lavoro e di costruzione. Non si era
mai reso conto che Acilia e Dubris facevano parte di un progetto immenso, che
prescindeva dall’amore, e se lei ne aveva parlato solo con lui, voleva dire che
aveva un piano e che sperava che funzionasse.
Emily d’altro canto
si rendeva perfettamente conto di tutto quello che stava accadendo. E guardava
il suo amato con gli occhi dell’amore ferito.
“Scusate” fece una
voce timorosa.
Eike si voltò e
vide che nell’ingresso era arrivato anche Michael. Si stava stritolando un
lembo della maglia del pigiama.
“Se davvero un
vostro… beh, un vampiro è andato a
parlare coi cacciatori… sarà su tutti i notiziari”.
Eike alzò un
sopracciglio. Ecco, ci mancava pure un po’ di pubblicità.
“Vuoi dire che
Acilia potrebbe apparire in televisione?”.
Michael scrollò le
spalle. “Non è una roba che capita tutti i giorni”.
“Ma sono le due e
mezza di notte!” osservò Emily.
Il fratello fece un
gesto noncurante con la mano. “A chi vuoi che importi! Da quando sono venuti
fuori i vampiri, non solo i cacciatori lavorano di notte ma anche giornalisti e
reporter! Non credo proprio che si lasceranno sfuggire un’occasione del
genere!”.
Eike rifletté,
cercando di stare calmo. “Del resto” disse “anche se non la facessero parlare,
annuncerebbero comunque di averla uccisa. Lo dicono sempre quando riescono ad
uccidere un vampiro, per far vedere che si danno da fare e per tenere alta la
speranza”.
Jacque si accigliò.
“Molto confortante” borbottò.
“Avremmo comunque
notizie” ribatté l’altro.
“Quale speranza”
fece Emily a testa china “Se uccidono Acilia non ci sarà più davvero nessuna
speranza”.
Quanto siamo
positivi, pensò Eike, avanzando verso il salotto. Raggiunse la televisione
spenta e l’accese. Ci fu un mugolio da parte della signora Dixon, che
evidentemente non ne voleva sapere di sentire altre carrellate di morti, ma
Eike frugò in ogni canale, in ogni telegiornale, finché finalmente non trovò
quello che cercava. Dietro di lui sentiva Jacque che quasi tratteneva il
respiro.
La telegiornalista
era una donna truccata, vestita di tutto punto e con i capelli acconciati alla
perfezione nonostante l’ora tarda. Stava annunciando che sarebbe andato in onda
un servizio speciale. Per la prima
volta un vampiro si era consegnato ai cacciatori chiedendo di poter, prima di
una qualunque esecuzione, parlare pubblicamente di una cosa da cui sarebbe
dipesa l’incolumità dell’intera razza umana.
“La fanno parlare!”
esclamò Emily, sollevata.
Allora non sono
così scemi gli umani, pensò Eike, tirando un sospiro di sollievo. Se alla frase
“vi devo dire una cosa da cui dipende la salvaguardia della razza umana”
l’avessero uccisa, avrebbero vinto il primo premio per stupidità.
“Non è detto che
dopo averla sentita parlare non la uccidano” sbottò Jacque, scrutando la
televisione.
Apparve l’immagine
di una stanza spoglia. Una figura nera si intagliava nella parete resa gialla
da un’illuminazione vivace. Era Acilia, legata ad una sedia con delle catene
d’argento, sporche di sangue come lo erano i vestiti. Il volto era sofferente,
gli occhi semichiusi, del sangue colava dalle narici e dalla bocca. Intorno a
lei degli umani le puntavano addosso delle armi, pronti a sparare a qualunque
mossa falsa.
Jacque cadde piano
sulle ginocchia, con un gemito. Era chiaro che soffriva nel vedere la sua
creatrice ridotta così. La sua creatrice, o la donna che amava…
“Dov’è?” fece
“Dov’è quel posto? Dove si trova?”.
Eike non disse
niente. Non avrebbe lasciato andare Jacque: sarebbe piombato lì, avrebbe
mandato all’aria il piano di Acilia e i cacciatori li avrebbero ammazzati
entrambi.
Notò che anche i
signori Dixon si erano alzati, incantati dalla televisione.
“Perché nessuno
l’aveva mai fatto?” domandò Emily “Perché nessuno aveva mai tentato un dialogo
con gli umani?”.
“Gli umani
avrebbero accettato un dialogo solo in una situazione disperata” spiegò Eike,
osservando gli occhi di Acilia. Avevano perso il loro bagliore verde, erano due
rubini e lei, ora, davvero incuteva timore. “E questa è una situazione disperata”.
Acilia aprì la
bocca e tutti si zittirono. Ma dalla sua bocca uscì solo un grumo di sangue.
“Come fa a parlare
in quelle condizioni!” esclamò Jacque, da per terra “Come fa…”.
“Mi chiamo Acilia”
cominciò finalmente lei, con voce sofferente e trascinata “sono morta a
diciotto anni, da più di millenovecento”. Si sforzava di tenere alta la testa
per guardare dritto nella telecamera. “Vi… ringrazio per avermi permesso di
parlare” continuò.
Eike si chiedeva
cosa Acilia avesse in mente. Cosa voleva dire agli umani? Voleva parlare della
Rappresentanza? Dei partiti? No, non poteva essere così stupida.
“Ho ucciso uno dei
cacciatori di Horfield, si chiamava Curtis”. La voce le tremò. “Ma l’ho fatto
solo perché altrimenti mi avrebbe uccisa lui. Non avevo scelta”. Sembrava
triste sul serio e lo sguardo si era quasi inavvertitamente ripiegato su se
stesso.
“Di solito non
uccido” proseguì, a voce un po’ più alta “Mi nutro degli umani di una quantità
di sangue che mi è sufficiente per tenermi in forza. E poi li lascio andare,
sempre”.
Nessuno fiatava né
a casa Dixon, né all’interno del luogo in cui si trovava Acilia e lei, parendo
lievemente più serena, rialzò il capo.
“E non solo io
agisco in questo modo, ma tantissimi altri vampiri. Non vogliamo che la razza
umana sia oppressa dai vampiri, perché noi stessi vampiri, per primi, siamo
stati oppressi da loro”. Tossì e sputò ancora del sangue. Le sue cosce ormai
erano completamente imbrattate. I suoi occhi parevano folli e cruenti, chi non
la conosceva come avrebbe potuto crederle? Ma la sua voce… La sua voce era così
disperata. “Ci hanno ucciso, strappato ai nostri cari, ci hanno trasformato in
dei mostri” disse ancora lei “Ma, una volta trasformati, siamo ancora in grado
di soffrire, ed è questa la cosa peggiore”. Emise un gemito, le braccia
scoperte, legate dietro lo schienale della sedia, colavano sangue copioso.
“È per questo”.
Acilia quasi urlò, digrignando i denti, per resistere al dolore. “È per questo
che io vi chiedo di ascoltarmi… Perché ho a cuore la razza umana… La situazione
è così degenerata per colpa di un solo individuo, un vampiro, che ha trascinato
dalla sua parte chissà quanti altri! E finché c’è lui non potrete mai più stare
tranquilli! È il più crudele di tutti i vampiri, io lo so, io lo conosco…”. La
sua voce emanava una tale sofferenza ed Eike ebbe l’impressione che non era
solo l’argento a procurarle quell’afflizione.
“Perché sono stata
io” continuò lei, con un forte sospiro “Millesettecentocinquant’anni fa, l’ho
creato io”.
Il silenzio si
ruppe con un’esclamazione di sgomento di Emily.
Jacque aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata accerchiati da una vitrea
espressione.
Eike aggrottò la
fronte mentre la testa gli si riempiva di domande. Acilia aveva creato Kaeso?
Perché non gliel’aveva mai detto? E come era possibile che Kaeso fosse
diventato un tale mostro?!
Guardò di nuovo
Jacque. Lui non ricambiava lo sguardo, gli occhi immobili puntati sul
televisore.
Neanche tu. Nessuno di noi la conosce del tutto.
Eike rivolse lo
sguardo ad Acilia. Non l’avevi detto a nessuno, non è vero? pensò.
Sai quanti segreti può avere una persona che ha duemila
anni?
Era così ovvio, che
nessuno di loro la conoscesse davvero. Neppure Jacque.
“Solo io lo posso
fermare” stava dicendo Acilia “L’ho creato io, sono io che devo distruggerlo!”.
Lo sguardo traboccante di sangue e furore implorava ed Eike non aveva mai visto
Acilia implorare.
“Se voi me lo
permetterete, se mi lasciate andare… Io lo ucciderò. Poi, ve lo giuro, mi
avrete. E farete di me quel che vorrete”.
Sta durando un pochino questa nottaccia, eh? Ben tre capitoli XD
Dunque,
ci sto riuscendo a creare un climax ascendente d'ansia con questi
ultimi capitoli? Dai, manca poco, ancora tre capitoli e un epilogo e
tutto finirà, in qualche modo.. :DD
Ringrazio
tantissimo Nene e Norine che hanno lasciato una recensione allo scorso
capitolo e do appuntamento a tutti alla prossima puntata, spero di
riuscire ad aggiornare presto! :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** Catene ***
Ventiquattresimo capitolo
CAPITOLO XXIV
CATENE
In tutta la città –probabilmente in tutto il
mondo–non si faceva altro che parlare di quel vampiro donna dai
capelli neri che aveva fatto un patto coi cacciatori.
Ad
Horfield molte persone si erano ribellate. Erano scese in piazza sotto
la luce del sole e avevano urlato che non si poteva operare in quel
modo, i vampiri andavano eliminati, non ascoltati. Altri invece
sostenavano che, se c’era anche una sola, piccola,
possibilità che quello che quel vampiro aveva detto fosse vero,
se c’era davvero una piccola speranza che davvero potesse fermare
quelle uccisioni e quelle stragi, sempre più frequenti, allora
sarebbe stato un delitto non ascoltarlo.
In televisione non facevano altro che parlarne e a Jacque ormai scoppiava la testa.
Uccidere non è abbastanza, Jacque, per definire quello che ho fatto.
Significava
qualcosa. Significava qualcosa il fatto che Kaeso fosse così
diverso da Jacque. Non potevano aver avuto la stessa creatrice. Acilia
doveva essere un’altra, millesettecentocinquant’anni
prima…
Un giorno ti dirò cosa ho fatto.
E’ questo che non mi hai mai detto? Me l’avresti mai detto che ho un vampiro fratello? Mi hai mai detto qualcosa di te?
Perché
poi avrebbe dovuto dirgli qualcosa? Lo conosceva davvero da poco tempo.
Conosceva Dubris da molto più tempo. Scommetto che lui lo sapeva, che lui sapeva tutto. Ma lui, Jacque, era il suo creato, doveva pur valere qualcosa…
Jacque
alzò di scatto la testa, nella penombra della sala. Ma certo,
pensò, è questo il punto, io sono il suo creato.
Acilia
gli diceva che c’era qualcosa di sbagliato nel loro rapporto,
loro erano genitore e figlio, ma anche amanti. Lei diceva che non era
possibile e Jacque non aveva mai capito il perché. Pensava che
fosse una scusa.
Non ti sarai mica innamorato di me, vero?
Perché lei non lo amava.
Ma
se avesse voluto solo staccarsi da lui perché aveva già
vissuto un’esperienza simile? Cos’era successo tra lei e
Kaeso?
C’è stato qualcosa tra loro?
Jacque focalizzò il viso di Acilia, poi quello di Kaeso. Ricordò quando lui era stato a casa loro…
E che cosa voleva il capo del PO da te?!
Quegli occhi di lei, sempre così tristi, che lui non aveva mai compreso.
Minacciarmi.
Era ovvio che ci fosse stato qualcosa.
E poi? Cos’era successo poi? Perché si erano separati?
Il
volto di Acilia stava sfumando. I suoi tristi occhi verdi divennero
sgranati e rossi, rivoli di sangue che uscivano da essi, dal naso,
dalla bocca…
L’ho creato io, sono io che devo distruggerlo!
Avrebbe
distrutto un suo creato, quale disperazione doveva avere in corpo,
mentre lui, Jacque, non faceva altro che giudicarla, in continuazione.
Serrò
le dita delle mani in due pugni. Avrebbe voluto vederla, dirle
qualcosa, abbracciarla. Poteva essere l’ultima volta, dannazione!
Aveva detto ai cacciatori che avrebbero potuto averla, che pazzia!
Non
aveva capito niente quando lei cercava di proteggerlo da
quell’affetto che sentiva per Emily e non aveva capito niente
neanche adesso. Acilia sacrificava se stessa per salvare
l’umanità, ma perché non pensava anche a lui?
Perché non si fidava di lui?!
Ma perché era qui? Tu già lo conoscevi, vero?
No,
gli aveva detto di no. Forse voleva per l’ennesima volta
proteggerlo, o si vergognava. Di cosa puoi vergognarti con me, Aci,
pensò Jacque, abbandonando il divano e scivolando sul pavimento
della sua casa, di cosa devi vergognarti, io sarò sempre dalla
tua parte…
Ci
fu un grosso rumore e Jacque non capì immediatamente cosa fosse.
Poi vide la porta di casa spalancata, la luce dei lampioni entrata
prepotentemente in salotto, insieme a del sangue che già vedeva
scintillare sul tappeto. Una ragazza ferita in più punti era
sdraiata a terra, tossiva rabbiosamente, e tremava, stringendosi
l’addome tra le braccia, come se potesse staccarsi e volare via
da un momento all’altro. Eike era affianco a lei, in ginocchio.
Jacque si alzò e corse sui due individui. La donna era Claire.
“Sono andato a cercarla” spiegò Eike, con voce inespressiva “Ma era troppo tardi”.
“Perché
l’hai portata qui? Bisogna portarla in
ospedale!”gridò Jacque, fissando inorridito i suoi occhi
sbarrati e pieni di venature rosse. Gli ricordavano quelli di Acilia e
barcollò.
“Non
c’è più niente da fare” ribatté Eike,
più controllato del suo creatore “E lei voleva venire
qui”.
Jacque
guardò il corpo di Claire. Perdeva sangue dal collo, dalla
pancia e da una coscia. Ne aveva perso troppo? Jacque sapeva che in un
corpo umano c’erano circa cinque litri di sangue, un vampiro si
sfamava con molto meno, com’era possibile perderne troppo?
Com’era possibile non poter fare niente?!
“Voleva… venire qui?” farfugliò.
Ricordava
Claire coi capelli e il trucco perfetti. Ora la sua faccia era una
maschera impastata di nero e rosso, il mascara colava sulle sue guance,
insieme alle lacrime, e sospiri affannosi che le sfuggivano dalla
bocca, rossa di sangue o di rossetto, che si sforzava di
parlare.“Per… favore”.
Per favore cosa?
Cosa
potevano fare loro? Eppure Jacque già sapeva la risposta quando
Eike parlò di nuovo.“Dobbiamo trasformarla, è
l’unica soluzione”.
Jacque vacillò. Trasformare qualcuno? Di nuovo?
Scosse
la testa vigorosamente ed Eike lo guardò furioso. “Lo
farò io! Ma mi devi aiutare… Non l’ho mai
fatto”.
Perché
Jacque si sentiva in dovere di urlare ad Eike di non farlo?
Perché aveva una terribile sensazione di deja vu? Un corpo
morente, in un lago di sangue, un vampiro deciso, un creatore protettivo…
Non farlo, Jacque. Non donargli un’esistenza a metà! Meglio la morte!
Era una catena illimitata, un ciclo infinito di gente che stava per morire e gente che la trasformava, credendo di salvarla.
Jacque, ti ordino di smetterla!
Ma non gliene era fregato nulla degli ordini, a Jacque, e non si poteva fare niente per spezzare quella catena.
“Me l’ha chiesto lei” insistette Eike “E’ lei che lo vuole!”.
Lo
voleva davvero? Tutti gli umani preferiscono qualunque cosa alla morte,
ma è perché non lo sanno, non lo capiscono qual è
il prezzo da pagare per poter scampare alla morte.
Legge numero trentadue: lasciare sempre una scelta agli umani che non possono essere più tali. Morte o trasformazione.
Era la cosa giusta da fare, secondo Acilia.
“Per favore”piangeva Claire, digrignando i denti per il dolore.
Acilia gridava che avrebbe ucciso Kaeso, stremata e lacera.
Portale rispetto, per una volta…
“Jacque!” gridò Eike.
“Avanti” si riscosse Jacque “Falle bere il tuo sangue”.
Il
ragazzino si affrettò ad affondare i denti nel proprio polso per
bucarlo. Gocce di sangue si inseguirono sul suo braccio e lui
avvicinò il polso alla bocca di Claire. Quella si
spalancò in un grido strozzato e accolse al suo interno il
sangue, che andò a mischiarsi col suo, che si costrinse a non
sputare.
“Basta” disse Jacque dopo poco.
Le
fuoriscite di sangue si arrestarono, e Claire smise di contorcere
braccia e gambe per il dolore. Rimaneva solo il suo respiro angosciato.
Poi gridò di nuovo, mentre ogni ferita che aveva sul corpo lentamente e dolorosamente si ricuciva.
“Ora la formula”disse Jacque, fissando Claire, provando una strana sensazione.
La formula, Jacque.
Avrebbe voluto che ci fosse anche Acilia, a guardare, a stringergli la mano, come quella volta, quando era toccato ad Eike.
“Non me la ricordo”fece Eike.
“Più
il cuore non ti batterà” iniziò Jacque. La
sensazione di deja vu divenne fortissima e rivedeva davanti a sé
un bambino insanguinato, ucciso crudelmente per strada, che sarebbe per
sempre, da quel tragico momento, dipeso da lui.
“Più
il cuore non ti batterà” ripeté Eike, annuendo e
guardando Claire “Più lacrime non avrai… La fame
incalzerà, il sangue verserai…”.S’interruppe.
Claire gli aveva afferrato il braccio e glielo stringeva fortissimo,
continuando a gridare. Perché provava tutto quel dolore? Le
ferite si erano rimarginate, cosa stava succedendo? Eike la guardava
con volto scioccato.
“Sposa delle tenebre…” lo incalzò Jacque, trepidante.
“Sposa
delle tenebre” fece subito l’altro, con voce più
alta, per sovrastare le urla della donna, ma incerta “Nemica
della luce, mai ti si chiuderan le palpebre, mai fu più la vita truce…”.
Claire
lanciò un urlo straziato di afflizione, battendo un pugno sul
pavimento, mentre con l’altra mano stringeva sempre più
forte il braccio di Eike. Questi guardava confuso il suo creatore ma
neanche lui sapeva cosa stesse capitando. Cercava di ricordare il
giorno in cui aveva trasformato Eike… Gli aveva dato il suo
sangue ed Eike era guarito… Stava bene… Poi la formula. Acilia diceva che era importante la formula, perché?
“Vai avanti, Eike!”gridò.
“Questa
notte morirai” continuò l’altro, sempre più
inorridito “Torna al tuo creatore… quando
risorgerai!”.
Claire piangeva, le sue gambe non riuscivano a stare immobili, e la formula era terminata.
“Claire! Cosa ti senti?” esclamò Jacque “Dicci cosa…”.
Ma lei si limitava a scuotere la testa, in preda a quello che pareva un immenso dolore.
“Che
cosa succede?”fece Eike, agitato
“Jacque…E’perché ho esitato a dire la
formula?”.
Jacque cercava di ricordare, l’aveva chiesto ad Acilia, gliel’aveva chiesto…
Dubris ha detto che un vampiro senza creatore impazzisce. E’ a questo che servono le parole del rito, non è vero?
Ma Acilia aveva risposto di no. Aveva detto che non esistevano formule magiche e incantesimi.
Dubris ha detto che un vampiro…
Cos’aveva detto Dubris? In quale occasione? Ma certo, il patto del sangue!
“Jacque…”mugolò
Eike. Ora la sua mano teneva stretta quella di Claire, che ancora si
dibatteva, tra lacrime, sudore e il sangue che le sue ferite avevano
qualche minuto prima versato.
Il patto del sangue… Dubris aveva spiegato a Jacque e ad Emily ogni cosa.
Jacque
scostò la maglietta, ormai cremisi, di Claire in
prossimità della pancia, senza dire niente. La goccia…
Certo, Claire aveva fatto il patto… Cos’aveva detto Dubris?
I
primi patti del sangue sono stati un fallimento. Non sapevamo come
regolarci con le dosi, e iniettavamo troppo sangue di vampiro nel corpo
degli umani.
Claire aveva già del sangue di vampiro nel corpo.
Il sangue che viene utilizzato per questi tatuaggi non è il sangue di nessuno, è una miscela di sangue di vampiro.
Il sangue di nessuno. Di nessuno.
Il sangue di Eike non era altro che un’ennesima goccia di un ennesimo sangue di vampiro – sangue nocivo – che andava nel corpo di Claire.
Che fine hanno fatto questi umani che sono stati trasformati per sbaglio?
Avevano perso la ragione, aveva detto Dubris.
Claire
continuava a gridare ed Eike fissava, impotente, agghiacciato, il suo
fallimento. Come un aborto, l’avrebbe segnato, per sempre.
“Aci, ma che ti è preso?!” stava esclamando Dubris.
Acilia
alzò gli occhi al cielo, e lui si sentì ancora più
in collera. Presto sarebbero arrivati gli altri nel luogo
dell’appuntamento prestabilito e presto sarebbero partiti per
Arcangelo. La notte prima avevano progettato un piano, e due notti
ancor prima Acilia aveva avuto la folle idea di parlare coi cacciatori.
“Perché
l’hai fatto?” continuò lui, serrando i pugni lungo i
fianchi. Poteva permettersi di parlare ad alta voce. In quel bosco
lontanoo chilometri e chilometri da qualunque centro abitato non
l’avrebbe sentito nessuno.
C’era
una brezza leggera che smuoveva i rami verdeggianti e il tempo era
umido, ma caldo. Tutto quel buio in cui erano avvolti rendeva il volto
di Acilia spettrale, ma Dubris ne vedeva chiaramente
l’espressione distaccata e fredda.
“Te
l’ho detto”rispose lei dopo un po’ “I
cacciatori mi avevano trovata. Sono fuggita ma sono tornata indietro.
Se continuavo ad essere una fuggitiva, come avrei fatto a dare la
caccia a Kaeso? I cacciatori mi avrebbero solo intralciata”. Il
suo tono di voce era innaturalmente calmo.
“Sì,
certo” fece Dubris, a denti stretti “Ma che mi dici di quel
piccolo dettaglio, superfluo, certo, per cui tu, dopo aver ucciso
Kaeso, ti consegneresti a loro per farti uccidere?!”.
Acilia non mosse un solo muscolo facciale.
La
sua pelle brillava sotto la luce della luna e delle stelle. Quella
pelle si sarebbe spenta, quel volto non ci sarebbe stato
più…
Dubris
neanche sapeva perché si sentiva così arrabbiato. Acilia
non doveva rendere conto a lui di niente. Non aveva alcun legame con
lei, e lei era pure più vecchia di lui di cinque secoli!
“Pensavi
che altrimenti non ti avrebbero lasciato andare?
E’così?” continuò, dato che Acilia non
rispondeva“Ma come faranno a prenderti dopo… Tu ora sei libera. Fuggirai dopo, non è vero?”.
Dopo. Quel dopo che
Dubris aveva usato, dava per scontato un sacco di cose. Dava per
scontato che avrebbero trovato Kaeso, che l’avrebbero ucciso e
che entrambi sarebbero stati ancora vivi. Ma non vedeva alternative nel
suo futuro e non voleva vederlo un futuro in cui Acilia non c’era più.
“No, Dubris, non ho mentito. Io dopo mi consegnerò a loro” dichiarò lei.
“E si fidano…”. Dubris non ci voleva credere.
“Non
avevano altra scelta” continuò la ragazza, guardandolo
torvo. Il suo tono di voce si incrinò leggermente mentre
aggiungeva: “Lo farò, Dubris, lo farò. Fattene una
ragione!”.
Dubris sentì il sangue scalpitare all’interno del proprio corpo.
Farmene una ragione?
Si
avvicinò ad Acilia, non riuscendo a trattenere l’impeto
dentro di sé che sarebbe sgorgato in fiumi di lacrime, ma che
scaturì solo in ira.
“Me ne faccio sempre una
ragione. Me ne sono fatto una ragione quando sei piombata tra me e
Ramona a dirci come ci dovevamo comportare, me ne sono fatto una
ragione quando ci hai abbandonato tutti il secolo scorso, me ne sono
fatto una ragione quando hai cominciato a voler scopare senza mostrare
il benché minimo sentimento nei miei confronti!”. Aveva
alzato la voce, senza accorgersene, e si sentiva così
triste.“E ora dovrei accettare come se niente fosse anche il
fatto che vuoi morire?!”.
Non
si era mai sfogato in quel modo con Acilia, e provò vergogna
subito dopo. Abbassò lo sguardo ma subito lo rialzò, per
vedere che reazione avesse suscitato in lei. Ma lei lo guardava ancora
glacialmente.
“Sì” disse solo.
Dubris non se l’aspettava. Acilia non era mai stata troppo sentimentale, ma così… Che le era successo? Perché voleva morire?!
Non
disse niente, perché non sapeva più cosa dire e Acilia
continuò: “Non sono fatti tuoi, è una scelta mia,
solo mia!”.
Le
sue parole furono accolte nel buio e nel silenzio. Dubris non trovava
proprio altro da dire. La vergogna lo bloccava e gli annebbiava il
cervello, gli annodava la lingua.
Per
qualche istante stettero in silenzio e Dubris quasi sospirò di
sollievo quando giunsero Ramona, Victoire, Luca e gli altri. Ramona
fece un rapido cenno di saluto, senza guardare Acilia. L’altra
non sembrò farci caso, continuava a guardare dritto davanti a
sé.
L’aria
si riempì di tensione e Dubris notò che Victoire lanciava
uno sguardo di sottecchi rivolto ad Acilia. Non sembrava convinta.
“Aci”fece,
dopo un po’, abbandonando stranamente il suo solito tono sicuro e
altezzoso “Sei sicura di volerlo fare?”.
Non sono fatti tuoi, è una scelta mia.
Dubris
ricordò di come Victoire sosteneva che Acilia non avrebbe mai
potuto partecipare all’operazione, perché lei era la
genitrice del nemico.
E’ una scelta mia.
Dubris si chiedeva perché volesse morire…
“Sicurissima”rispose Acilia.
Lui si sporse a guardarla, sperando che lei ricambiasse lo sguardo. Ma non lo faceva.
E’ una scelta mia.
Poi
qualcosa si ruppe nell’espressione della ragazza e lei stessa,
senza spostare il viso, continuando a tenere lo sguardo fisso di fronte
a sé, sussurrò con voce bassissima, rivolta solo a
Dubris: “E’ come se fosse mio figlio, Dubris, e lo devo
distruggere. Come pensi che potrei ancora vivere dopo averlo
fatto?”.
La sua voce si era crepata, così il suo viso, ma lei si ostinava a non volerlo guardare.
Gallia Aquitania, 376
Kaeso
grondava sangue dai capelli. Capelli scuri, lucenti, incrostati di
sangue e violenza. Con la mano si sistemò, sereno, un ciuffo
ribelle e ritrasse poi la mano sanguinante, e la lasciò
penzolare lungo il braccio, di fianco alla gamba, come se niente fosse,
con quel suo sorriso di sangue, perenne, impresso sul volto. E quel
sorriso Acilia non la lasciava mai andare, anche lei aveva impresso
quel sorriso sporco e cruento, nella mente. Lo vedeva ovunque e a volte
aveva pensato di fuggire, perché la stava facendo impazzire.
Anche tu hai avuto quel sorriso…
Kaeso
era diventato lo specchio di lei stessa e guardarlo per lei era
diventato un obrobrio insopportabile. E si ritrovava sempre con le mani
sporche di sangue, con il sangue di qualche vittima nella bocca, e la
bocca abbracciata a quello di Kaeso, in un continuo scambio e flusso di
sangue.
Guardarlo era come guardare la realtà, ciò che lei aveva fatto, ciò che era
e e lei a volte aveva il terribile desiderio di distruggerlo,
perché aveva come l’impressione che, se l’avesse
fatto, avrebbe ucciso anche quella parte così malsana che era
dentro di lei.
Ma la spaventava. Kaeso era diventato la verità e la verità la spaventava.
“Aci” fece lui, curvandosi su di lei “Perché non sei venuta a caccia con me?”.
Le
stampò un bacio in fronte e lei sentì subito il sangue
colarle sugli occhi. Si mise le mani in faccia e si pulì
frettolosamente.
Kaeso la guardò stranito. “Non ti piace più il sangue?”. Subito dopo rise.
Il sangue, certo che le piaceva. Era qualcos’altro che non le piaceva, che non le piaceva più…
“Sì”rispose
lei, accovacciandosi per terra e abbassando lo sguardo. Se ne sentiva
ancora l’odore in quella casa. I proprietari di
quell’abitazione dovevano essere molto ricchi, erano stati
trucidati dai barbari, che stavano invadendo l’Impero, da tutte
le parti. Goti, o forse Unni…
I barbari sono persone, i veri barbari siamo noi.
L’Impero
si era diviso, al potere non si capiva neanche più chi ci fosse.
Nella sua testa, Acilia non sapeva più cosa ci fosse…
Distruggere.
La guerra… Barbari contro romani, cristiani contro pagani, vampiri contro umani.
“Meno male” rispose Kaeso “Perché ti ho portato la cena”.
Non ha alcun senso.
Acilia
alzò di scatto la testa e vide che Kaeso stava trascinando
dentro la stanza qualcuno che era rimasto fuori dalla soglia ad
aspettare. Una persona, certo… Strano, Acilia neanche ne aveva
sentito i vagiti, o il pianto, o le urla. Quelle che le piacevano,
quelle dei bambini…
Quelle dei bambini non le erano piaciute.
Le
risuonavano ancora nelle orecchie, con il fiume di sangue, il blu
delll’acqua, che era negli occhi di Kaeso, e il rosso,
innaturale, che era nella sua bocca. Da allora non sopportava
più di sentir gridare le vittime.
Quello
che Kaeso aveva portato dentro la stanza era un ragazzino in piena
pubertà. Gli mancava una gamba, così non poteva fuggire.
Che cosa orribile, pensò Acilia, non sarebbe potuto fuggire
comunque. Kaeso gliel’aveva troncata solo per divertirsi.
La tunica era insanguinata ma la fuoriuscita di sangue dalla gamba era stata fermata con delle stoffe.
“Non volevo mica che morisse prima del tempo” spiegò Kaeso.
Il
ragazzino aveva gli occhi intrisi di lacrime, ma le labbra erano di
poco scostate l’un labbro dall’altro. Emetteva suoni bassi,
gutturali, e Acilia aggrottò la fronte, poi notò che
quelle labbra, e anche il mento del ragazzo, erano imbrattati di
sangue.
Kaeso,
tenendo fermo il ragazzo, rivolse ad Acilia uno sguardo
dolce.“Non ti piace più che gli umani urlino troppo, e
allora li uccidi subito. Gli ho tagliato la lingua, così potrai
giocarci finché vorrai”.
Acilia rabbrividì. Non si gioca col cibo, pensò.
Un gioco? Mi piacciono i giochi!
Cercare i bambini nascosti nel bosco… trovarne più possibile, uccidernepiù possibile…
Kaeso spinse il ragazzo e quello, con un goffo saltello, cadde e finì addosso ad Acilia, che si ritrasse un poco.
Il
ragazzino, seduto e poggiando il peso del corpo sulle braccia,
cercò di indietreggiare, con la paura più folle negli
occhi, sgranati e piangenti, spargendo con la voce suoni più
forti, ma comunque sordi.
Acilia
guardò Kaeso, poi abbassò di nuovo lo sguardo.“Sono
io che ti ho ridotto così…”sussurrò.
I
ricordi si facevano confusi, annebbiati, colorati di rosso. Quello che
lui aveva detto, era meglio non ricordarlo. Lui era malvagio, e lei lo
doveva uccidere. Non doveva ricordare, non doveva pentirsi.
Doveva solo ragionare a mente fredda, ripetersi che Viridio non abitava più quel corpo da tempo, ed eliminarlo.
In verità l’aveva già fatto, solo che questa volta sarebbe stato per sempre.
Kaeso era a terra, poggiato sulle ginocchia. Si guardava le mani, che continuavano a colare sangue, incessantemente.
“Sono
io che ti ho ridotto così” sussurrò di nuovo
Acilia, avvertendo il tremito del ragazzino di fianco a sé.
Continuava a mugugnare, sforzando la gola. Era come se urlasse, e
Acilia non lo sopportava.
Lo ignorò e si sforzò di guardare Kaeso negli occhi.
“Il
giorno che ci siamo conosciuti” disse “ti sei presentato a
me con un altro nome… Qual era? Che nome era?”.
Kaeso si era di nuovo oscurato in faccia, e la guardava di nuovo col sangue tra i denti.
“Non
ho altri nomi che Kaeso”. Si alzò da terra, con
l’aria di chi non sapeva come ci fosse finito, a terra.
Il
ragazzino vociava sempre più forte, atterrito. Acilia, presa da
una rabbia funesta, si voltò a guardarlo. Gli occhi sembravano
così innaturali, troppo grandi, col bianco che dominava mentre
il resto non era che un pallino ristretto, sgorganti pianto.
Non gioco più con gli umani.
Senza
neanche pensarci, scattò su di lui e affondò i denti
nella sua gola. Quello si dimenò ma presto la quiete morte prese
il sopravvento su di lui, e lui smise di soffrire.
Acilia, il ragazzo tra le braccia, si voltò di nuovo verso Kaeso, che la osservava con occhi impassibili.
“Ti
devi svegliare” disse con voce flebile. Cercò dentro di
sé il coraggio e parlò più forte: “Ti devi
svegliare… Kaeso, ti devi svegliare!”.
Lui
spalancò leggermente gli occhi, per un attimo, poi quelli
tornarono freddi, la bocca si espanse in un piccolo ghigno e lui le
diede le spalle.
Era notte fonda. Quel vecchio edificio come al solito era avvolto nel
buio, senza alcun lampione intorno. D’altronde sarebbe stato uno
spreco, non abitava nessuno in quel quartiere di Arcangelo. E i vampiri
non avevano certo bisogno della luce per vederci.
I vampiri…
Gerasim
lanciò lo sguardo là nel buio. Sarebbe dovuto tornare a
casa, lo sapeva, ma si sentiva elettrizzato, dalla paura stessa.
Yan lo tirò per una manica: “Ger, che fai? Andiamo a casa”.
Erano
stati a bere in un locale con degli amici, che li avevano già
salutati. Molti si rintanavano in casa quando il sole tramontava, ma
non loro. Gerasim, Yan e gli altri non ne volevano sapere di rinunciare
alle loro serate per degli stupidi morti che camminano. Andavano in
giro armati, e si fermavano nei locali, sempre vuoti, ma aperti per
loro. Era rigenerante, li faceva sentire potenti.
“L’hai
mai visto un vampiro, Yan?” fece Gerasim, continuando a guardare
verso il buio. L’ultimo lampione acceso era quello proprio sopra
la sua testa.
Yan
sospirò e lo tirò ancora per la manica della
giacca.“Non farti venire strane idee, hai bevuto troppo tu”.
Gerasim
si strattonò e guardò l’amico con una luce violenta
negli occhi, rincarata da quella del lampione sopra di loro. “Io
ne voglio vedere uno!”. Mostrò il fucile caricato con
proiettili di legno, compiaciuto. “E magari ucciderlo”.
“Lasciale fare ai cacciatori queste cose” ribatté Yan, brusco.
“Hai paura, non è così?” fece Gerasim.
“L’avresti anche tu se non ti fossi bevuto tutta quella birra!” esclamò l’altro.
Gerasim scoppiò a ridere, ilare, guadagnandosi una spinta dall’amico.
“Sei proprio un idiota, Ger, ci stavo cascando!”.
Yan, visibilmente sollevato, si portò le mani alla testa, portando dietro i capelli biondo cenere.
“Dai, andiamo”sghignazzò Gerasim.
Entrambi si avviarono verso il centro della città, lasciandosi alle spalle quel misterioso angolo buio.
Gerasim
trovava divertente spaventare e prendere in giro i suoi amici. Un
vampiro l’avrebbe voluto vedere davvero, prima o poi. Sì,
probabilmente aveva bevuto troppo, i pensieri vagavano piuttosto
liberi, in un flusso poco sensato. Dopotutto, se non avesse bevuto,
probabilmente non avrebbe mai accettato di fare quello che stava per
fare.
Ma già non sentiva più i passi di Yan accanto ai suoi, e poi sentì un grido.
Si
voltò di scatto e vide che una donna stava tenendo stretto tra
le braccia il suo amico che, spaesato, continuava a gridare.
Ecco,
pensò Gerasim, agghiacciato. La donna aveva una minigonna e
tacchi alti, un bel viso ma un’espressione poco amichevole. Nel
buio, la sua chioma bionda sfavillava. E anche la sua pelle…
Gerasim
si affrettò a puntarle il fucile addosso, cercando di stare
calmo. I suoi pensieri si fecero ancora più strani, spaventati e
poco razionali, mentre le gambe avevano preso a tremare. No, questo non
era l’alcol. E la testa gli girava un poco… No, devo avere
mira, devo avere mira, pensò disperato il ragazzo.
“Non
mi puoi sparare” fece la donna, da dietro Yan, con le zanne in
fuori, appoggiate al collo del ragazzo “senza colpire il tuo
amico”.
Gerasim sudava freddo. Ne valeva la pena? Ne valeva davvero la pena?!
Poi,
finalmente, qualcosa vibrò nell’aria e ci furono suoni
confusi. Gerasim non era riuscito a vedere niente, e poi Yan
finì a terra e il vampiro donna si trovò accerchiata da
sei figure nere, con mantelli e passamontagna. Ciascuna le puntava
addosso un’arma e quella, braccata e spaesata, levò le
mani in alto.
Gerasim si era precipitato sull’amico e lo stava aiutando a rialzarsi.
“Come stai?” gli domandò.
Quello, completamente bianco in volto, si tastò il collo e ritrasse un indice sporco di una goccia di sangue.
“Aiuto…
Ger, quella era… e quelli… chi…”. Atterrito,
dopo aver visto la morte in faccia, sembrava non avere più voce.
“Ehi”fece
subito Gerasim, posandogli una mano sulla spalla“Tranquillo, loro
non ci faranno del male…”.
“Li conosci?!”sbottò l’altro, ritrovando la voce.
“Ora
basta” fece una voce femminile, piuttosto infastidita. Una delle
figure abbandonò la preda e avanzò verso i due ragazzi.
Nella mano destra stringeva una pistola, nella sinistra una valigetta
nera.
“Qui ci sono i vostri soldi” disse, tendendo la valigia verso Gerasim “Spartiteveli”.
Yan
era a bocca aperta e Gerasim, con uno slancio di sollievo e
avidità, afferrò la valigetta e l’aprì
subito. Era certo che i suoi occhi brilassero, davanti a tutti quei
soldi.
“Tu…Tu…”fece
Yan, allibito “Tu non mi hai detto niente!”. La paura stava
cedendo spazio alla rabbia.
Gerasim tentò di apparire rassicurante. Era ovvio che Yan si fosse arrabbiato, era preparato a questo.
“Hai messo a repentaglio la mia vita!” urlò ancora Yan, indicandosi il collo.
“Quelli volevano catturare un vampiro” spiegò
Gerasim, in fretta “Sarebbero intervenuti prima che ti accadesse
qualcosa, e così è stato”.
“Guarda!” gridò ancora l’altro, continuando a indicare il proprio collo.
“Ragazzino”disse
la donna in tono severo, della quale i due ragazzi potevano vedere solo
gli occhi, verdissimi “Non sai che un morso di vampiro che non ti
prosciughi il sangue né ti uccide né ti trasforma?
Figuriamoci quel graffio”.
Yan parve leggermente confortato, poi diede un’occhiata alla valigetta che Gerasim teneva in mano.
“A me spetta più della metà” disse, in tono nervoso.
“Ehi, ma…”.
“Prendete i soldi e sparite!” disse ancora la donna, alzando la voce.
Gerasim
e Yan si lanciarono uno sguardo. Era meglio filarsela. Il vampiro donna
che quegli sconosciuti avevano catturato li stava guardando in
cagnesco, e aveva cominciato a urlare per chiedere rinforzi. Che
rinforzi?
Gerasim
annuì e, la valigetta stretta a sé, si mise a correre
verso il centro, e Yan con lui, riuscendo però a captare
l’ultima, strana, frase che quella donna dagli occhi verdi
rivolgeva ai compagni.
“Forza, qualcuno prenda Svetlana e voliamo via. Non vorremmo mica scatenare una battaglia qui, no?”.
Claire era morta, cosparsa di sangue e avvolta nel sangue.
Aveva gli occhi ancora aperti, vitrei, e ancora qualche lacrima appesa alle ciglia.
Eike,
chino su di lei, allungò una mano per chiuderglieli. “Cosa
succederà tra una settimana?”domandò dopo
poco“Come si risveglierà?”.
“Non
lo so” rispose Jacque, sincero. Non sapeva cosa dire ad Eike e
non sapeva nemmeno cosa fare, o cosa avrebbe fatto, una settimana dopo.
Avrebbero dovuto lasciarla morire, Claire, morire davvero, morire in
maniera naturale! E invece…
Ecco cos’avrebbe dovuto interrompere quella catena: una trasformazione sbagliata.
Eike
non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo di Claire. Aveva la
gambe magre e lunghe, un’espressione serena, una ragazza normale,
perché perdeva tempo con loro? Perché aveva voluto fare
quel maledetto patto del sangue? Jacque si domandava tante cose,
chissà Eike a cosa pensava. I suoi occhi erano impassibili come
sempre, spenti come quando aveva realizzato che non sarebbe più
cresciuto. Sembrava tanto forte, Eike, con la sua lingua schietta e la
sua mente vivace, ma era piccolo, e la verità, quella lo
annientava sempre.
“Eike…” provò Jacque, ma si fermò, vedendo che il ragazzino stava scuotendo la testa.
Ancora qualche attimo e quello si alzò. “Dobbiamo seppellirla?”.
“Possiamo
tenerla nello scantinato” disse Jacque, non pensando che potesse
essere una cosa piuttosto macabra. Voleva solo risparmiare ad Eike la
fatica di scavare una buca e il dolore di pensare al futuro.
“Dobbiamo ucciderla?” domandò ancora Eike.
Jacque aggrottò la fronte. “Non possiamo”.
“Se le ficchiamo un pacchetto nel cuore, non si trasformerà” continuò l’altro.
Jacque cominciava a capire. “Vuoi che non si trasformi?”.
Eike
teneva lo sguardo basso. “Non voglio doverla uccidere quando si
risveglierà. Non voglio che soffra ancora”.
Jacque
si strinse nelle spalle. Nonostante fosse abituato alla morte e
all’orrore, guardando il corpo di Claire, morta così
inutilmente, senza motivo, si sentiva intristito.
“Quando
si sveglierà potrebbe non essere più lei” disse,
riflettendo “Ma potrebbe anche esserlo ancora, in qualche modo,
non possiamo saperlo”.
Qual
era la cosa giusta da fare? Perché non riusciva a dare ad Eike
delle certezze? Mai, non l’aveva mai fatto, tutto ciò
sapeva fare era dipendere da Acilia…
“Dovremmo chiedere consiglio ad Acilia o a Dubris” ammise infine, con uno sforzo.
“Oh
sì” sbottò Eike“Hanno molto tempo libero in
questo periodo”. Non c’era traccia di ironia nella sua
voce, ma solo un arrabbiato sarcasmo.
“Seppelliamola”sentenziò
Jacque, ignorando il pensiero di Acilia “Quando sarà
finita questa storia ci consulteremo con loro”.
L’altro alzò lo sguardo su di lui, uno sguardo pungente, e Jacque, per qualche motivo, si sentì in colpa.
“Aci finirà uccisa o da Kaeso o dai cacciatori, ecco come finirà questa storia”.
Acilia si voleva consegnare, era questa la verità, Jacque non doveva dimenticarla.
Eike
vacillava di fronte alla verità, ma lui non era da meno. Erano
qualcosa di più degli umani, qualcosa che si avvicinava un poco
di più alla verità ma entrambi, in confronto alla
terribile verità che li osservava dall’alto, non erano
niente.
Jacque
scosse la testa, stringendo gli occhi e guardando da un’altra
parte. “Non potresti essere un po’ più
ottimista?”.
Non
ottenne risposta e ripuntò lo sguardo su Eike. Quello aveva di
nuovo lo sguardo chino su Claire, intriso di cotanta tristezza, che
però Jacque non riusciva a condividere, a ridosso com’era
di un altro baratro.
“Non
potresti fare uno sforzo?” continuò, con rabbia impastata
di dolore “Non potresti crederci?!”.
Ancora
fu come se avesse parlato al vento, e dopo aver lungo osservato Eike
che trascinava il corpo di Claire, in una striscia di sangue, per
l’ingresso fino alla porta sul retro, avanzò verso di lui,
per dargli una mano.
Svetlana, seminuda, era legata ad una colonna con tre grosse catene
d’argento. Indossava solo il vestiario intimo, in maniera che la
pelle nuda soffrisse ancora di più, sotto la tortura
dell’argento. Le ferite continuavano ad allargarsi e le gocce di
sangue si inseguivano, cadendo l’una sull’altra, estendendo
le piccole pozze sul pavimento.
Una
quarta catena, più sottile, le cingeva la testa, attraversandole
la bocca aperta e urlante. I denti parevano marcire e le labbra
parevano sciogliersi in sangue.
“Non è necessario tutto questo” osservò Ramona, gli occhi puntati sulla scena nauseante.
“E’ la figlia di Kaeso” fece Dubris, per nulla risentito.
Acilia
era fuori, a montare la guardia insieme agli altri. Non aveva voluto
gestire lei la tortura e l’interrogatorio, il richiamo del sangue
era forte solo tra creatore e creato ma, del resto, Svetlana era pur
sempre come una nipote per lei. Invece Dubris aveva accolto il compito
a braccia aperta. Ricordava ancora quella strage avvenuta in
Inghilterra, alla veglia funebre di un pover uomo, organizzata dalla
sua povera moglie. E c’era quella donna, dai capelli fulvi, con
la sua bambina… E c’era Dubris che non aveva potuto fare
niente per salvarle, mentre Kaeso e Svetlana se ne andavano lontani.
“E che colpa ne ha lei?” insistette Ramona.
Dubris
sentiva la rabbia galoppare. Stragi di umani, la crudeltà di
Kaeso, Acilia che lo aveva sempre rifiutato e che lo avrebbe
definitivamente abbandonato, la morte di Lyuben, il senso di colpa nei
confronti di Ramona… Sì, avrebbe sfogato tutta la sua
rabbia, e se non poteva farlo su Kaeso, l’avrebbe fatto sulla sua
creata. Lui avrebbe comunque sofferto.
“Non tirare fuori quella scusa. Non dire che è sempre tutta colpa di come veniamo creati e da chi veniamo creati” sbottò Dubris “Io non sono stato creato da nessuno”.
“Ma hai incontrato Acilia”.
Già, Acilia.
Dubris
guardò gli occhi di Svetlana, sgranati dal dolore. Erano rossi
ma erano diversi dagli occhi sofferenti e disperati che Acilia aveva,
quando era in catene davanti ai cacciatori. Quelli erano occhi pazzi,
in cui bruciavano le fiamme della scelleratezza, e mai del rimorso.
Urlava,
come aveva urlato lui, solo, il giorno del suo risveglio…Gridava
il nome di sua moglie, la cercava, la chiamava… Ma il posto in
cui si era risvegliato non era casa sua, né tantomeno la sua
patria.
Aveva
scoperto che il sole gli bruciava la pelle, e aveva urlato, aveva
scoperto che non riusciva più a mangiare niente, aveva scoperto
che si nutriva di persone, del loro sangue, e aveva scoperto che allora
lui non lo era più, umano, e aveva urlato. Non l’aveva
più rivista, la sua casa. Quando era riuscito a tornare in
Inghilterra, non ne era rimasto più niente. La sua casa era
stata bruciata e, del resto, forse, era stato meglio così.
“Non
ero come lei”disse, riemergendo dai ricordi e accennando a
Svetlana “Anche se non sapevo niente, anche se non sapevo come
controllarmi… Non sono mai stato come lei”.
Continuava
a fissarla, sentendo accendere il proprio sangue in faville di ira. Non
voleva scostare lo sguardo, non voleva guardare il volto pacato e
segnato dalla solitudine di Ramona, che l’avrebbe acquietato,
cosicché la sua rabbia non avrebbe più trovato
un’uscita.
Aveva
più volte cercato di ricordare come fosse fatto il suo creatore.
Ma l’ultima cosa che ricordava era che tornava a casa, stanco e
spossato… Nulla. Chi l’aveva creato doveva averlo
incantato, mentre lo faceva. E chissà se aveva pronunciato il
rito.
“Ramona,
esci”disse, stringendo la scheggia d’argento che aveva
nella mano rivestita di un guanto molto spesso “Ora la
farò parlare”.
“Non vuoi che io assista? Cosa le vuoi fare?” ribatté la voce di Ramona.
Dubris
si voltò finalmente a guardarla, risoluto, e cercando di
trasmetterle con la sola forza degli occhi, e del sangue, il suo
rancore.
“E’ la figlia di colui che ha ucciso Lyuben”.
Ramona incurvò lievemente le sopracciglia verso l’alto.
“La vendetta non porta a niente, solo ad altra vendetta, in una catena infinita di odio”.
Dubris alzò gli occhi al cielo, incredulo. “Mi vuoi forse dire che hai perdonato Kaeso?”.
“Non
cercare vendetta non significa perdonare!” replicò Ramona,
alzando la voce, forse per sovrastare i mugolii di Svetlana, che
continuava a cadere a pezzi, o forse perché era davvero
arrabbiata.
L’altro
forse comprese, ma voleva chiedere una cosa alla sua creata. E glielo
chiese senza traccia di ira. “E Acilia, l’hai
perdonata?”.
Ramona
ebbe un fremito. Infine, deviò la domanda e disse: “Non
vorrei che si consegnasse davvero ai cacciatori”.
Dubris
immaginò che equivalesse a un sì, perché se non
c’era odio, allora c’era perdono, per lui.
“Voglio solo farla parlare” sentenziò “Ora esci”.
Ramona non replicò e, rassegnata, uscì dalla stanza.
Dubris
si voltò immediatamente verso Svetlana. Le guance, ormai
talmente scarne da far intravedere le ossa, esalavano fumo e sangue,
gli occhi sembrava piangessero, ma quelle che buttavano fuori erano
solo lacrime di sangue e la bocca, che cercava incessantemente di
spingere via l’argento da sé, non aveva più labbra.
Il corpo bruciava e fumava, l’intimo che Svetlana indossava era
completamente insudiciato di sangue e pelle, che cadevano insieme, in
gocce e brandelli.
La donna emetteva grida sempre più sommesse, ma, in qualche modo, sempre più laceranti.
Dubris
poggiò il pezzo di argento che aveva in mano su una vecchia
scrivania e si avvicinò Svetlana e, con uno scatto aggressivo,
le strappò la catena d’argento dalla bocca, facendole
sbattere violentemente la testa contro la colonna di legno a cui era
legata.
Quella,
liberata la bocca, diede libero sfogo al suo dolore e gridò
fortissimo, un urlo che però aveva un qualche, fastidioso, suono
di sollievo.
Dubris,
con la mano libera estrasse dalla tasca dei pantaloni uno specchietto
rosa. L’aveva trovato nella borsa della prigioniera.
Lo aprì e mostrò il lato fornito di specchio al volto di lei.
“Guardati”.
Svetlana
provò a sibilare qualcosa, stancamente. Ma l’assenza di
labbra e la lingua bruciata le impedivano di articolare qualunque suono.
Dubris
ghignò, senza abbassare lo specchietto. “Non ho fretta.
Aspetterò che la lingua ti ricresca, così potrai dirmi
tutto quello che voglio”.
Per
tutta risposta Svetlana grugnì qualcosa, lanciandogli uno
sguardo d’odio. Gli occhi erano ancora rossi, e lo sarebbero
stati ancora per molto tempo.
“Oh,
e se ti rifiuterai di parlare, ti rimetterò in bocca
questa” continuò Dubris, sollevando la catena annerita e
sporca “E poi te la toglierò ancora, e aspetterò
che ti ricresca la lingua. Così finché non
parlerai”.
Buttò la catena per terra, avvertendo un formicolio alla mano, seppur protetta daun guanto.
Svetlana riprese ad urlare di dolore, mentre nascevano sulle sue guance nuovi strati di pelle.
Passarono
diversi minuti prima che un accenno di labbra le venisse disegnato sul
volto e, dopo altrettanto tempo, tra urla sempre più forti, lei
poté parlare.
“Cosa… vuoi” esalò.
Dubris
nel frattempo si era seduto sulla scrivania, giocherellando con la
scheggia d’argento. Fu piacevolmente sorpreso quando la voce di
Svetlana lo raggiunse.
“Oh,
ti rigeneri in fretta” disse, compiaciuto “Tipico di voi
giovani. Vi scomponete lentamente e vi rigenerate in un lampo…
Ah, beata gioventù!”. Si alzò e con un solo balzo
fu vicinissimo al viso di Svetlana, ancora rigato da strisce di
sangue.“Chissà quanto deve essere doloroso per voi…
morire”.
Svetlana gli sputò addosso del sangue.
Dubris rimase un attimo interdetto, poi, con un risolino, si pulì il naso.
“Perché
non finisci questa pagliacciata e mi uccidi, visto che ci tieni
tanto?” biascicò Svetlana, con voce bassa.
“No,
non voglio ucciderti” ribatté l’altro “Voglio
solo che tu mi dica dove possiamo trovare Kaeso”.
“Anche se te lo dicessi, poi mi uccideresti comunque” sibilò la prigioniera, sputacchiando ancora sangue.
Dubris rise. “Credi davvero di essere un tale pericolo da dover essere uccisa così?”.
Svetlana
non rispose. I capelli biondissimi avevano perso parte della loro
luminosità e le cadevano sulla faccia, e lungo il corpo,
impiastricciandosi di sangue.
“Rimarrai
nostra prigioniera finché non avremo ucciso Kaeso, poi ti
lasceremo andare” continuò Dubris “Credimi, quando
questa storia sarà finita, se farai di nuovo qualcosa contro la
legge, ti ritroverei subito”. Le si era avvicinato con sguardo
convincente e con una mano le sfiorò le mutande e lei ebbe un
tremito. Continuava a lacrimare e a sudare sangue, e a respirare
fiocamente, ma non gridava più.
Dubris le guardò a lungo il corpo. “Sarebbe proprio uno spreco ucciderti, non costringermi a farlo”.
“E la vendetta di cui parlavi?” fece la donna, lievemente acquietata.
“La
tortura”rispose l’altro, avvicinando il viso e
comprimendole il corpo col proprio.“Lenta, e
atroce”sussurrò con voce dolce.
Si
allontanò, con i vestiti un po’ macchiati e andò
verso la scrivania, mentre Svetlana, agitandosi, gridava: “Pensi
sul serio che io tradirei il mio creatore?”.
Dubris
afferrò il pezzo d’argento e in un lampo le fu addosso.
Con una mano le stringeva la spalla, con l’altra le conficcava
nell’occhio sinistro un estremo della sua arma. Lei gridò
spaventosamente, mentre l’occhio si scioglieva, in una grande
quantità di fumo e sangue che colava copioso, in un
elettrizzante fetore di bruciato.
“Ti
decidi a parlare?!” abbaiò Dubris, spingendo sempre
più in profondità “La tortura è di gran
lunga peggiore della morte, quanto resisterai?!”. Aveva urlato
per sovrastare la grida di Svetlana, ma anche perché la rabbia e
la fretta stavano prendendo il sopravvento su di lui. Estrasse di
scatto l’argento dall’occhio di lei e rimase a guardare,
senza l’ombra di un ghigno o di un sorriso, quel buco pieno di
liquido rosso, con la pelle che si accartocciava su se stessa.
“Sono pronto a rimetterti la catena in bocca” sbottò.
“Kaeso…”esalò
Svetlana, la testa piegata sulla
sinistra“Kaeso…verrà a salvarmi…”.
“Sei
una cretina!”gridò Dubris “ A quello non gliene
frega niente di te! Dimmi dov’è!”.
“So
bene che lui non ha amore da darmi” continuò a biascicare
l’altra, con un torrente di sangue sulla guancia
sinistra“Del resto, io non ne ho per lui…”.
La sua voce era debole, il suo corpo tremava e dalla sua espressione sembrava che non potesse davvero sopportare altro.
“Se ti dico dov’è la sua casa… mi lascerai andare?”.
Dubris si placò, soddisfatto.“Non posso lasciarti andare, perché potresti correre ad avvisare Kaeso”.
Svetlana
non aveva la forza per scuotere la testa, ma i suoi capelli oscillarono
lo stesso, con un gemito per la fatica. “Sono giovane,
l’hai detto anche tu… Voi siete più veloci di me,
voi potete volare”.
Dubris esitò. Ma il tempo scorreva. “D’accordo allora, ti lascerò andare. Ora parla”.
Svetlana
sospirò.“E’ una grande villa, completamente di
legno. E’ isolata, a parecchi metri di altitudine”.
“Dov’è?” insistette l’altro.
La prigioniera attese qualche attimo, poi disse: “Zofingen, in Svizzera”.
Dubris
annuì, poi si diresse per l’ennesima volta verso la
scrivania, dove poggiò la scheggia d’argento. Si tolse i
guanti e li pose nelle tasche dei pantaloni.
“Ehi” fece la voce di Svetlana “Ora mi devi liberare”.
Lui
le fece cenno di attendere. In una mano prese la borsa della donna e
con l’altra impugnò la sua pistola, entrambe dalla
superficie della scrivania.
Si
voltò verso la prigioniera, che lo guardava confusa. Il bulbo
oculare sinistro si stava riformando e la scena stava diventando sempre
più raccapricciante. L’altro occhio era sgranato e le
labbra, ora perfette, scostate un poco, in un piccolo grido muto.
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta, in una catena infinita di odio.
Dubris alzò la pistola, puntando dritto al cuore. “Mi hai mentito. Dimmi dov’è Kaeso”.
Svetlana parve incredula. “Non ho mentito!” gridò.
“Dimmi subito la verità, o sparo” disse lui, in tono deciso.
“E’la
verità! Ti ho detto la verità, cosa vuoi da
me?!”urlava l’altra, disperata, sputando grumi di sangue.
Dubris sbuffò. Non ne poteva davvero più.
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta…
Sparò.
L’espressione,
di dolore e di urlo, che Svetlana aveva in volto rimase fissa per un
momento, come se fosse una foto. E poi l’intero suo corpo esplose
in sangue, finalmente libero dalle catene.
Dubris
si affrettò ad uscire dalla casa, infilando la pistola nella
cinghia dei pantaloni, e tenendo salda la borsa della morta per il
manico.
Varcata
la soglia, la luce delle stelle di quella serena notte lo raggiunse
insieme a un belare. Accanto al recinto delle pecore, stavano i suoi
compagni, che lo fissavano sbigottiti. Evidentemente avevano sentito lo
sparo.
“Le
ho dato l’opportunità di dirci dove trovare Kaeso, ma non
me l’ha voluto dire” si giustificò lui.
“E l’hai uccisa?”fece Victoire, incredula “E ora come facciamo a…”.
“E’a
Gressan, in provincia di Aosta” la interruppe lui, con un
sorrisetto. Sollevò la borsa di Svetlana. “Aveva il
navigatore acceso, che segnava proprio quella località. Non
aveva un grande senso dell’orientamento, la piccola rampolla di
Kaeso”.
“Oh” disse l’altra, un po’ sorpresa.
Dubris cercò lo sguardo di Acilia. Lei ricambiava, ma non aveva alcuna espressione.
Ti dispiace che io abbia ucciso Svetlana?
“Che bisogno c’era allora di torturarla e di ucciderla?” se ne uscì Ramona, visibilmente risentita.
“Non
ha voluto collaborare fino alla fine” rispose Dubris, in tono
piatto “Quindi era a tutti gli effetti una nostra nemica, e
andava eliminata”.
La
sua creata gli si avvicinò, con qualcosa di peggio che la furia
nel volto, la delusione. “Ora sei finalmente soddisfatto?”.
Dubris resse il suo sguardo. “Sì” disse, in tono duro.
Si
rivolse indietro, verso gli altri e soprattutto verso Luca, che, con lo
sguardo fisso negli occhi del pastore proprietario della casa,
continuava a parlare in tono dolce e tranquillizzante, accanto a una
borsa nera, piena.
“Lasciagli
i soldi e digli che avrà un po’ da pulire, dentro casa.
Ora possiamo andare a chiudere questa storia”.
Kaeso sputò il sangue che aveva in bocca, scaraventando a terra l’umano, Albert, da cui si stava nutrendo.
Philippe scattò verso di lui, preoccupato. “Kaeso, stai bene?”.
Lui
non rispose, troppo impegnato com’era nel resistere al dolore.
Sembrava che il petto gli si stesse squarciando, il sangue che aveva
appena bevuto – o il suo stesso – si stava rivoltando
contro di lui e lui lo sputò tutto sul pavimento.
Alzò
gli occhi, e accanto alle macchie di sangue che stava creando
c’era Albert, a bocca aperta, con l’abituale taglio sul
collo, in pantaloncini e canottiera, spaventato e infreddolito.
“Che
hai fatto, umano?” ruggì Philippe, dando un calcio
all’uomo per terra. Si rivolse a Kaeso.“Vuoi che lo
uccida?”.
Kaeso
si riprese, dopo vari affanni. Alzò lo sguardo sul suo compagno.
Sotto i capelli mori, esibiva uno sguardo deciso, che lampeggiava dai
suoi stessi occhi scuri.
“Sciocco”lo
ammonì Kaeso, stancamente, con un colpo di tosse “Non
avrebbe potuto farmi niente. Non lo uccidere, il suo sangue è
squisito”.
Philippe
era sconcertato. “Non mi pare che tu abbia avuto una reazione
molto positiva al suo sangue” disse, osservando le macchie sul
pavimento.
Kaeso
si rialzò a fatica. Non ne aveva più voglia di bere ed
era strano, non gli succedeva mai. Serrò i pugni, nero di rabbia
e scagliando un mezzo calcio in aria. Albert intanto stava lentamente
strisciando indietro, sul sedere.
“E’morto
qualcuno dei miei creati” spiegò Kaeso, rabbiosamente.
Chi? Chi poteva essere? Ne aveva così tanti…
Ascolta il tuo sangue.
Socchiuse gliocchi. Ascoltava il sangue ma quello semplicemente ribolliva per la rabbia e l’umiliazione.
“Svetlana non è ancora rientrata” disse Philippe, con uno sguardo terreo.
Kaeso aprì gli occhi e li puntò immediatamente su di lui.
Svetlana?
Furioso,
lasciò uscire la sua ira in un grido. Svetlana, chi
l’aveva uccisa? Era così giovane, non era un bersaglio
difficile per i cacciatori! Sì, forse erano stati i cacciatori,
loro, maledetti, stupidi e sporchi umani… Oppure…
“Quell’annuncio
che Acilia ha fatto, alla televisione” disse
Philippe“Kaeso, ci stanno attaccando”.
Kaeso
annuì. Era più probabile che fossero stati loro. Acilia,
Dubris e la loro allegra compagnia di mentecatti. Dove, dove era
successo? Se si concentrava, avrebbe potuto sentire il richiamo del
sangue di Svetlana, che l’avrebbe condotto fino al punto in cui
l’avevano ammazzata. Ma era inutile, di certo Acilia non era
stata così stupida da farla uccidere nel loro covo.
Aveva ancora le dita delle mani strette in due pugni, serrate fino a graffiarsi e a farsi sanguinare i palmi con le unghie.
Chiunque di loro fosse stato, l’avrebbe pagata cara.
Jacque ed Eike erano appena rientrati in casa, dopo aver seppellito il corpo di Claire nel bosco, sotto un agrifoglio.
Si erano seduti sul divano, e nessuno aveva detto niente per un po’.
Jacque non si era mai reso conto che Eike ci tenesse davvero, a Claire.
Si voleva scusare, ma l’altro lo precedette e parlò.
“A
volte mi chiedo da dove veniamo” disse, con gli occhi sprofondati
in un alone di riflessione“La scienza ha dimostrato qual è
l’origine degli esseri umani. Ma i vampiri? Perché
esistono i vampiri?”.
Jacque
non rispose. Era una domanda che si era posto anche lui parecchie
volte. Era una domanda che si ponevano tutti, in realtà, umani
compresi che, con le loro ricerche, non erano ancora arrivati a nulla.
“Forse
ha ragione Kaeso” disse dopo un po’ “Forse siamo
davvero l’evoluzione genetica degli umani, e noi ci siamo finiti
in mezzo, a questa evoluzione. E se è così, allora
l’intera umanità è destinata a estinguersi”.
“Il mondo popolato di vampiri” rifletté Eike “E di cosa si nutrirebbero?”.
“Non lo so” ammise Jacque.
Il
suo creato scosse la testa, risoluto. “No” disse “Non
si può liquidare la faccenda parlando di una semplice evoluzione
genetica. Non ha senso”.
Il
suo volto dai lineamenti così morbidi, apparve duro come la
roccia, in quel momento. Eppure, dentro, doveva essere molto triste, il
piccolo Eike.
“Noi
abbiamo dei poteri, Jacque” proseguì “Abbiamo una
forza incredibile, possiamo correre velocissimamente, incantare le
persone, volare…”. Fece una pausa, oscurandosi un pelo,
prima di aggiungere: “Non portiamo i segni dell’avanzare
del tempo”.Ancora si fermò, poi
proseguì:“Queste cose non le spieghi con la scienza, sono
poteri soprannaturali. Devono discendere da qualcosa… Qualcuno,
o qualcosa, ci ha creati, e questo qualcuno non era un umano. Una
divinità?”.
Jacque
non disse niente. Quando era umano, credeva in Dio, ma adesso, ora,
come poteva crederci? Come poteva credere che un dio avesse creato i
vampiri? Eppure Eike gli stava spiegando che proprio loro erano la prova che un dio –almeno uno – esistesse. Perché loro erano qualcosa di soprannaturale.
“Una
divinità che ci ha dato dei poteri” continuava Eike, che
aveva posato lo sguardo sulle proprie gambe “Poteri inutili, se
non dannosi. Poteri soprannaturali, poteri divini ma che non possono
fare niente per aiutare le persone”.
Jacque
stava guardando il pavimento, ancora sporco di sangue, su cui Claire si
stava trasformando in qualcosa che loro non avrebbero potuto
controllare. Avrebbero dovuto pulire, sì…
“Siamo tanto potenti ma non siamo stati in grado di salvare neanche una persona” diceva Eike, con la voce che a poco a poco si spegneva.
Si
voltò a lato, guardando Jacque. Quello ricambiò, quasi
col fiato sospeso, perché aveva paura di quello che Eike avrebbe
potuto dire.
“Pare
che tu provi compassione solo per le tue donne” disse infatti
lui, riprendendo colore nelle parole, che però non suonavano
pungenti, ma solo tristi “Forse se ti fossi fatto anche Claire,
avresti cercato di salvare anche lei”.
Jacque
lo fissò impietriro, senza riuscire a proferir parola. Era
questo che Eike, il suo creato, il suo miglior amico, suo figlio, pensava di lui?
“Eppure”continuò
amaramente l’altro “per Lydia non hai esitato neanche un
secondo”. Sospirò.“Dimmi”aggiunse, guardandolo
dritto negli occhi “Ami Emily al punto da voler proteggere tutte
le persone che sono intorno a lei?”.
Ancora Jacque ebbe come l’impressione che gli si fosse seccata la lingua.
Eike
concluse, usando parole davvero più crudeli dei suoi occhi da
bambino: “Sarebbe una cosa che ti farebbe davvero onore, se solo
tu l’amassi sul serio”.
A Jacque sembrò quasi di annaspare, ed era una sensazione nuova, essere messo a nudo così, e la vergogna…
“Eike…”provò
a dire “Mi dispiace…”. Non usciva altro dalla sua
bocca. Alla fine, rimproverava tanto Acila, perché non gli aveva
mai detto niente, ma lui non ci riusciva mai a parlare. Le aveva mai
chiesto qualcosa? E ad Emily cos’aveva detto? L’aveva
lasciata andare così, senza una parola? Ed Eike? Aveva mai fatto
qualcosa per lui?
“Mi dispiace”ripeté, sentendosi stupido “Mi dispiace…”.
Ma
quello non diceva niente e Jacque abbassò il volto e per un
momento davvero credette che avrebbe pianto, ma, ovviamente, il suo
corpo non glielo permetteva.
Loro
erano potenti, ma senza alcun potere. Potevano solo decidere se
uccidere o trasformare, salvare e condannare, la loro era solo una
catena di mutamenti, e creazioni, e si passavano l’uno
all’altro il rancore e la sofferenza, e la catena, apparentemente
senza origine, andava avanti, all’infinito.
Questo
capitolo è stato lungo e faticoso :( sottolineo il lungo... solo
a rileggerlo e a correggerlo ci ho messo un sacco di tempo .-. Accade
tutto in una notte ma volevo spezzettare le scene, in modo che sempre
Jacque ed Eike, che hanno aperto il capitolo, lo chiudessero con le
loro riflessioni :)
Inoltre, in questo capitolo, come nel precedente, ho eliminato il punto
di vista di Acilia, per rendere le cose un po' più.. boh..
interessanti XD infatti il mio scopo è non farvi intravedere
quello che lei pensa. Di conseguenza sta acquistando sempre più
spazio Dubris e me ne sorprendo io stessa, dato che all'inizio era
partito come personaggio moolto secondario, e pure come prefetto
rompipalle D:
Ad ogni modo, nella storia mi sto dilungando. Per esempio, vi giuro che
la questione di Claire non era prevista, mi è venuta così
all'improvviso D: quindi devo annunciarvi che al "gran finale" mancano
ancora tre capitoli (più l'epilogo). Spero di non dovermi
allungare ancora!
RIngrazio
tantissimo Norine, unica superstite ormai dei recensori XDXD e do
appuntamento a tutti al prossimo capitolo, che arriverà
presumibilmente a fine mese!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** In pezzi ***
Capitolo 25
CAPITOLO XXV
IN PEZZI
I sentimenti erano
in tumulto, i passi erano pesanti, un quarto di luna era nel cielo, sereno,
così inspiegabilmente blu, spruzzato di tanti punti luminosi.
La notte in cui
erano andati da Camelio pioveva, Dubris lo ricordava ancora. Era così che
doveva essere. Era così strano, quel bel cielo, ignaro, come se niente stesse
per accadere.
“Davvero sarà così
facile trovare Kaeso?” domandò Ramona, trascinando le scarpe sul sentiero
ruvido e ciottoloso.
Dubris alzò il capo
e lo sguardo vagò dritto, superando gli alberi e i massi. Poco più in alto, una
silenziosa, grande casa li attendeva.
“Non avrai mica
pensato che fosse difficile per dei vampiri cercare in un piccolo paese come
Gressan?” fece.
Ramona non disse
niente per un po’. Poi aggiunse: “Non è strano che abbia dimora fissa? Dovrebbe
spostarsi continuamente, per non farsi trovare”.
“Sì, è strano”
convenne qualcun altro.
“No che non lo è”
intervenne Acilia.
Dubris si voltò
subito a guardarla, e così fecero gli altri. Sentirla parlare quella notte era
un evento raro. Era distante, come le notti scorse, ma il suo sguardo era come
oscurato, chino verso il basso, come una ragazzina che non vuole far vedere che
piange. Un’abitudine umana, che Acilia non poteva più avere… I suoi occhi si
erano induriti come due pietre, cos’aveva paura di mostrare?
“Kaeso non vuole
essere un fuggitivo, lui vuole essere il re del mondo” spiegò. Un lieve soffio di
vento le mosse i capelli, fili neri, lunghi e lisci, che nel buio si
nascondevano, nascondendole il volto. L’aria di montagna era fresca, e buona.
Dubris assaporava il sapore, ma avrebbe voluto vedere Acilia.
“Forse lui
addirittura desidera essere trovato da noi, cosicché possa sconfiggerci, noi,
l’ultimo ostacolo” proseguì lei. Si voltò verso l’interno della montagna e alzò
il viso, guardando in alto. Ma ancora Dubris non la vedeva. “Quello che
troveremo non è un nascondiglio. È una fortezza”.
Le sue parole
furono accolte nel silenzio, poi Homer disse, cercando di sdrammatizzare: “E
smettila di essere così teatrale, per favore”.
Acilia non sorrise
e non disse nulla. Riprese solamente a camminare.
Dubris la seguì,
riflettendo. Se Kaeso immaginava il loro arrivo, si doveva essere preparato.
Non un nascondiglio, ma una fortezza… Non dei fuggitivi ma un esercito…
Guardò i suoi compagni.
Erano tutti decisi, e forti, ma non erano tanti.
Ramona… Durante il
combattimento contro Camelio, l’aveva protetta Lyuben. Lyuben, che era stato
ucciso da quel Kaeso, quell’essere immondo… E Dubris come avrebbe fatto a
proteggerla, Ramona? Ne sarebbe stato in grado? Del resto, non riusciva a
smettere di pensare ad Acilia. Anche lei andava protetta, da se stessa. Eppure,
pensandoci, guardandole la schiena, dritta e sicura, non ne era poi così
sicuro.
È giunta l’ora, Dubris?
Per cosa era più
preoccupato? Perché non sarebbe stato capace di proteggere Ramona? Perché non
avrebbe mai più visto Acilia? Perché forse lui stesso sarebbe morto?
Acilia? Lei vuole questo, lei vuole morire.
Del resto, cosa
pretendeva lui? Accusava Acilia di non averlo mai voluto, di non averlo mai
amato, e lui cos’aveva fatto per lei? Era un vampiro, proprio come lei, neanche
lui era più in grado di dare nulla ad una donna. La sua era una stupida
infatuazione per una persona che ammirava, e che l’aveva tirato fuori da un
baratro di orrore, per una persona con cui condivideva l’età, il modo di
pensare, il modo di vivere… Non voleva che morisse.
La verità è che vuoi morire anche tu. Se muore lei,
vuoi morire anche tu.
Perché era quello
che desideravano tutti i vampiri. Nessuno lo diceva mai, tutti lo sapevano ma
nessuno lo diceva mai, ma d’altronde era per quello che si trascinavano avanti
nelle loro inutili vite macchiandosi di delitti. Perché loro in realtà dovevano
essere morti.
Allora che differenza fa se muori oggi in battaglia?
Non voleva
andarsene se non sapeva che Ramona sarebbe stata al sicuro.
Se tu vuoi morire, se tutti i vampiri lo vogliono,
allora lo vuole anche lei.
Forse stavano
andando tutti verso l’autodistruzione – e non lo dicevano. Forse l’unico che
voleva vivere davvero era Kaeso.
Allora che differenza fa se muori oggi in battaglia?
E lasciare vincere
Kaeso? Lui, Dubris, poteva morire, ma voleva avere la certezza che il mondo non
sarebbe andato a rotoli, che Kaeso non avrebbe attuato il suo piano… Ma a lui
che importava poi? Era morto – sarebbe
stato morto. Che gli importava di che fine avrebbe fatto il mondo?
Allora che differenza fa se muori oggi in battaglia?
Ormai erano in cima
al sentiero. Che differenza faceva, pensava Dubris. Vorrei salutare Acilia, si
disse, vorrei rivederla.
Che differenza fa?
Tutti lo sapevano
ma nessuno lo diceva mai. Non sapevano cosa ci fosse dopo la morte e, per
quanto potessero pensare di aver già visto cose terribili, avevano ancora
paura.
Erano giunti,
insieme, davanti alla villa. Avvolta dalla natura, circondata da un prato color
verde smeraldo, che scintillava sotto le stelle, emetteva solo inquietudine,
nel suo perturbante silenzio.
C’era troppo silenzio.
Dubris fece appena
in tempo a vedere Acilia che alzava la testa verso l’alto, poi delle ombre
saltarono fuori all’improvviso e tutti loro si trovarono accerchiati.
Roma, 410
Sai, non volevo farti male sul serio. Ero solo
spaventata.
Acilia faticava a
ricordare quel lontano giorno in cui aveva trasformato Kaeso. Ricordare stava
diventando una cosa difficile, da quanto tempo viveva ormai? Eppure ricordava
molto di più la sua vita da umana, così breve... Guardava i ricordi proiettati
nella sua mente e sembravano appartenere a qualcun altro. Era davvero lei
quella ragazza, triste, che non poteva coronare il suo sogno d’amore con
Damiano?
Anche Damiano è tanto triste…
Il suo sangue, il
primo che aveva assaggiato, oh, eppure quello l’aveva dimenticato.
Le era poi venuto
in mente Marco, era lui che l’aveva abbandonata, no? Quel dolore al petto,
quella sensazione, la polvere tra le dita. Era quello che sarebbe diventata
lei, cenere. Poi…
Kaeso inizialmente
le era sembrato un angelo. Non ricordava nulla, se non il suo viso in un fascio
di luce. Era arrivato da lei per darle conforto, per farle compagnia.
No, te lo sei preso tu, con la forza.
La luce si faceva
più fioca.
Davvero?
I ricordi, erano
così confusi…
Era sangue quello
che vedeva intorno a lei, non luce. Era sangue che non aveva nulla di luminoso,
e loro erano intrappolati nelle tenebre.
“Kaeso” fiatò.
Voleva ancora tentare, gli si avvicinò, gli toccò un braccio.
Lui le sorrise.
“Hai trovato qualche preda che ti piace?”.
Stavano camminando,
in quella serata tranquilla. Gli animi erano spenti a Roma, Acilia non la
riconosceva più come sua quella città. Brutti tempi, dicevano, si potesse
tornare indietro!
Si potesse tornare indietro…
“Kaeso” insitette
Acilia “Troviamo una persona… Una sola. Basta la vita di un umano solo per
sfamarci entrambi”.
Kaeso alzò gli
occhi al cielo. Poi le puntellò un fianco. “Non è divertente così, lo sai”.
“Kaeso” tentò di
nuovo di lei, sospirando “Sei troppo violento”.
Lui fece
un’espressione strana e Acilia si fermò, prendendo un grosso respiro. Buffo
come rimanessero certe abitudini, loro neanche avevano bisogno di respirare.
“Forse dovresti…
dovresti pensare che sei stato anche tu umano”.
Lui ancora non
disse niente e Acilia andò avanti: “Tua figlia era umana”.
Tutto il sangue, di
tutti quei bambini. Le risate di lui in sottofondo, il riflesso delle stelle,
affogate nel sangue.
All’improvviso
Kaeso abbracciò Acilia, così in fretta che lei non fece in tempo neanche a
vedere in quale follia la sua espressione si fosse mutata. La stringeva forte,
e lei lo sentiva tremare. Gli occhi, non riusciva ad immaginare i suoi occhi…
Lui sussurrò solo una parola: “Aiutami”.
Le sembrava di
rivederlo, in ginocchio, davanti a lei, indifeso… Viridio, aveva detto di
chiamarsi così.
Tua figlia era umana.
Possibile che
Viridio fosse ancora lì dentro da qualche parte?
Acilia cercò di
allontanarlo. Voleva vedergli il viso, l’espressione, doveva vedere cos’avesse
la sua faccia… Ma lui non demordeva, e la stringeva fino a farle quasi male.
“Ho voglia di sangue… Ho voglia di sangue, aiutami…”.
Cosa voleva dire?
Che tentava di dire?! Che doveva aiutarlo a procurarsi del sangue? O doveva
aiutarlo a smettere?
Smettere è impossibile, lo sai.
Ma Acilia era più
forte di lui e riuscì a spingerlo via. In quel momento sentì un urlo e del fumo
si levò nel suo orizzonte. L’odore di bruciato le fece storcere il naso.
Negli occhi di
Kaeso brillavano due fiamme danzanti. Acilia si voltò, confusa. La gente
gridava, fuggendo dall’incendio che era appena divampato. Strilli di bambini si
univano confusamente al coro spaventato delle donne, a quello concitato degli
uomini.
Strilli di bambini…
Le fiamme negli
occhi di Kaeso parvero allargarsi e Acilia non riuscì a fermarlo, quando lui si
lanciò tra la folla.
Ora no, ora no, si stava svegliando!
La gente fuggiva
impaurita anche da Kaeso. Sembrava un nemico, un barbaro… Qualcosa di peggio…
Non bruciava le carni, le divorava.
Ma quante volte ti è sembrato che si stesse svegliando?
Le persone cadevano
a terra ma le urla aumentavano. Acilia indietreggiò, il fuoco correva
inglobando più spazio. Eccola la luce che credeva di vedere, una luce d’orrore!
Il fuoco le faceva paura e lei indietreggiò, mentre con lo sguardo cercava
Kaeso, eppure vedeva solo sangue.
*
Dubris aveva
prontamente puntato sui vampiri che aveva di fronte il suo fucile. Quelli ricambiavano
il favore con altre armi.
Voleva contarli ma
non riusciva a schiodare lo sguardo dai due che lo avevano nella mira. Erano
alti e slanciati, con un gilè scuro addosso imbottito, che li rendeva più
grossi e minacciosi.
Quanti erano? E i
suoi compagni erano lì con lui?
Non c’è ancora stato nessuno sparo.
L’aria era
tremendamente tesa.
Lui, che poteva
sentire un qualunque basso suono anche a distanza, ora non udiva assolutamente
niente. Forse avrebbe potuto sentire una cinquantina di cuori che battevano
forte, all’unisono, per la paura. Forse…
“Nessuno si farà
male” disse la voce di Acilia, da qualche parte dietro di lui “se ci consegnate
Kaeso. Ci basta solo lui”.
Ottimo piano, pensò
con sarcasmo Dubris, sicuramente cederanno.
I due vampiri che
aveva di fronte fecero una risatina, guardansosi.
Dubris approfittò
del momento senza pensarci due volte e sparò due colpi, uno per uno, puntando
al petto di ciascuno.
Poi subito si
voltò, convinto di aver fatto segno, per vedere quale fosse la situazione ma i
nemici stavano reagendo e seguirono altri colpi, da entrambe le parti.
Era cominciata, ora
non si poteva davvero più tornare indietro.
Non sei arrivato fino a qua per tornare indietro.
Dubris si
proteggeva il petto con una mano mentre avanzava, il fucile saldo nell’altra.
Faceva vagare il suo sguardo in cerca di qualcuno da aiutare, o da uccidere.
Sentì Homer urlare e lo vide cadere a terra. Nel momento in cui il suo corpo
toccò il suolo, quello esplose, come se non avesse potuto sopportare l’impatto.
“No!” gridò Dubris,
correndo verso il suo assassino. Mentre correva vide con la coda nell’occhio i
due vampiri che aveva colpito per primi. A terra, un poco sporchi di sangue, si
stavano rialzando.
Dubris frenò la sua
corsa, impietrito.
Non è possibile, li avevo colpiti!
Poi il suo sguardo
si fermò sui grossi gilè che indossavano. Inorridito si rese conto che tutti
loro li avevano, ed erano quelli che proteggevano il loro inerme cuore.
Dove accidenti li
hanno trovati, pensò, furioso.
Dimenticatosi dell’assassino
di Homer, cercò con lo sguardo Acilia e Ramona. I suoi occhi attraversarono
corpi caduti a terra e sangue viscoso che colava sul prato… Stupidamente notò
delle margherite, il loro biancore, imbrattato di sangue. Lo spicchio di luna
intagliato nel cielo blu fasciava tutto, con la sua debole luce, eppure
sembrava così intenso, tutto era così intenso, orribilmente accecante, ogni
filo d’erba, su cui ci fosse stata anche una sola goccia di sangue…
Una scarpa marrone,
che riconobbe essere quella di Ramona, affondò nel fango colloso di sangue. Gli
schizzi le macchiarono i polpacci nudi, che si muovevano freneticamente, come
le braccia, brandendo un’arma, furenti, sparando invano. Dubris fece per
scattare in suo aiuto ma l’uomo che stava attaccando Ramona cadde a terra in
ginocchio, in seguito ad un ennesimo sparo, ma non era stata la donna a
sparare. Il vampiro nemico gridava, con una mano si teneva l’occhio, come se
esso fosse potuto cadere da un momento all’altro. Una densa striscia di sangue
gli colava sulla guancia, certo, il proiettile gli era arrivato dentro
l’occhio… Acilia comparse dal nulla, con in mano un fucile automatico, pestando
con energia il prato e dando un calcio all’uomo che, prima di scivolare su un
fianco, appoggiò la mano sull’erba, per non cadere, lasciando scoperto
l’occhio, che, tra gocce di sangue e frammenti, si stava ricomponendo, sotto
una pupilla vibrante. Ma Acilia, andando dietro di lui e lasciando cadere il
fucile a terra, gli aveva circondato il collo con un braccio, bloccandolo e per
un momento Dubris pensò che lei gli volesse staccare la testa. Ma poi lei, con
la mano che aveva libera, gli strappò il gilè con forza, conficcando le lunghe
unghie nel tessuto. Lanciò l’indumento da parte e in un attimo raccolse da
terra la sua arma, che subito premette contro il petto di lui.
“Kaeso è dentro?”
domandò, ostentando una tranquillità incredibile.
“Sì! Sì!” gridò
quello, con un barlume di speranza che gli usciva dagli occhi come il sangue.
Acilia non disse
niente e sparò. La pelle del vampiro deflagrò, tutto il suo corpo si disgregò
in brandelli di sangue coagulato e lei, con disinvoltura, cosparsa di grumi, si
rivolse rivolse verso Dubris e Ramona.
“Io devo andare
dentro a cercare Kaeso e ho bisogno che voi veniate con me” disse, in tono
piatto “L’ho già detto a Victoire. Lei e gli altri rimarranno qui e cercheranno
di fare piazza pulita”. Indicò il gilè accanto ai suoi piedi. “Uno di voi se lo
metta”.
I due annuirono
all’istante e Dubris fu mentalmente grato ad Acilia per aver preso la decisione
di far venire Ramona con loro. Prese il gilè e lo porse insistentemente a Ramona,
che scuoteva la testa, e che poi finalmente cedette e se lo infilò. Si sentiva
più tranquillo se poteva tenerla d’occhio e difenderla, poi subito un altro
pensiero lo colpì. All’interno della casa le cose sicuramente non sarebbero
state più facili. Forse era addirittura più pericoloso…
Aspettò che Ramona
fosse pronta e insieme corsero dietro ad Acilia, che si era già avviata verso
l’ingresso della casa.
Né dentro né fuori è un posto sicuro, è inutile che
continui a pensare a come proteggerla.
Forse il male
minore era che stesse nello stesso posto in cui era Acilia. Era lei la più
forte.
I tre varcarono la
soglia e si trovarono nella prima stanza. Priva di illuminazione, come
qualunque casa di vampiri, mostrava un atrio spazioso e pulito ma che celava un
odore forte. Il pavimento era ricoperto di moquette, di un rosso irregolare, in
alcuni punti più chiaro e in altri più scuro. L’unico mobile che c’era era un
divano, amaranto, in fondo, apparentemente lontanissimo, angosciante nel suo
essere così isolato. Sulla sinistra una porta aperta mostrava un corridoio buio
e sulla destra, accanto alla grande finestra chiusa dalle imposte color
nòcciolo, prendeva il via una scalinata di marmo, o forse di granito, lustra di
bianco sporco.
Dubris guardò
Acilia, facendo cenno verso le scale. Lei si guardava freddamente intorno, come
se si aspettasse – e senza paura – che qualcuno sbucasse fuori dal nulla. Poi
annuì e tutti e tre avanzarono sulla moquette, che attutiva i loro passi. Ma
altri passi stavano venendo verso di loro, nella direzione opposta e i tre si
bloccarono sulle scale, pronti con le armi tese verso il nulla. Ben presto il
nulla divenne un gruppo di vampiri che fu loro addosso con una scarica di
proiettili. Dubris afferrò Ramona e si lanciò subito da un lato della scala.
Entrambi rimasero sospesi, lei aggrappata a lui, ed entrambi risposero al
fuoco. Ne colpirono due mentre Acilia planava prontamente su di loro, con le
zanne in fuori, e con la sola forza delle mani staccò loro le teste, che
rotolarono giù per le scale, in una striscia di sangue che andava a confondersi
col rosso della maquette. Quelle esplosero, come i propri rispettivi corpi, e
il colore del pavimento si fece più intenso.
Dubris e Ramona
atterrarono ai piedi delle scale, affannati. Lui guardò la sua compagna. Gli
occhi sgranati, la mano che impugnava la pistola tremava leggermente, e
continuava a guardare il sangue che, goccia a goccia, cadeva giù dall’ultimo
scalino.
Non sono Lyuben, Rami, ma sono il tuo creatore, ti puoi
fidare di me!
D’altronde doveva
davvero sentire la sua mancanza… La battaglia, la scalinata, la morte, il vasto
salone sporco di sangue. Lyuben che combatteva al suo fianco, che non la
lasciava sola.
Dubris si rendeva
conto, si rendeva conto che mancava pure a lui. Gli mancava tutto quello che
c’era prima della sua morte e gli mancava quel loro primo scontro, contro
Camelio. Acilia che lo abbracciava, affranta e triste, nonostante avessero
vinto… Avevano una prospettiva davanti e lui, Dubris, sapeva per cosa
combattere!
Senza Acilia, non vorrai più combattere.
Ma i nemici
continuavano ad arrivare e lui continuava a sparare, cercando di tenere il
braccio il più fermo possibile, ma in realtà, anche se avesse mancato il
bersagio, cosa gli importava? Se per caso, per errore, avesse colpito Acilia
cosa sarebbe cambiato?
Davvero vuoi deluderla fino a questo punto?
Deluderle, si
corresse Dubris, cercando di riprendere controllo di sé. Deluderli. Cosa gli stava succedendo? Non voleva più vendicare
Lyuben? Lyuben, il più grande vampiro, sarebbe davvero morto invano?!
I suoi canini
finalmente si allungarono e lui non sentì alcun male quando gli puntellarono il
labbro inferiore. Ricordò la cattiveria che sentiva in corpo quando aveva
ucciso Svetlana. Era tutta lì la rabbia, doveva solo farla uscire verso la
direzione giusta, verso i nemici.
E non verso Acilia, per non rivedere più i suoi occhi
freddi come il ghiaccio.
Si lanciò nel
combattimento sparando colpi a destra e a manca. Puntava a tutto, braccia,
gambe, occhi, collo… Li voleva vedere cadere a terra, strisciare mentre gli
arti si ricomponeva, voleva saltare loro addosso, strappare quei gilè anti
proiettili e moderli fino a staccare loro la testa.
L’hai capito che è la tua unica via d’uscita,
combattere?
Qualcuno lo colpì e
lui cadde a terra. Gridò di dolore, il sangue si espandeva a fiotti da una
ferita all’addome. Strisciò in un angolo, sperando di avere il tempo per
potersi rigenerare.
“Dubris!” urlò
Ramona, correndo verso di lui.
No, pensò lui,
allarmato, non venire verso di me, guardati le spalle, guardati le spalle!
A fatica cercò di
alzarsi e vide che Ramona scivolava a terra per evitare degli spari. Il
proiettile le colpì la fronte e il suo viso fu inondato di sangue. Lanciò un
flebile grido ma era già pronta a difendersi, in piedi, scaricando la sua
pistola intorno a lei.
Dubris strisciò
verso il divano, con la moquette intorno a lui che si faceva sempre più rossa.
Si nascose dietro lo schienale e si guardò la pancia. La ferita che si
rimarginava faceva male, ma il sangue stava smettendo di uscire. Fece capolino
dal divano con la testa e la mano armata. Sparò dei colpi, poi subito si
nascose di nuovo, cercando di stare tranquillo. Ancora sbirciò e vide che i
vampiri erano sempre più numerosi. Fortunatamente erano giunti nell’atrio anche
Victoire e gli altri, e la battaglia si faceva sempre più fitta, e terribile.
Come finirà? Come finirà?!
Finalmente Dubris
sentì le forze che gli tornavano e poté uscire allo scoperto ma uno sparo,
proprio dietro di lui, lo fece nuovamente chinare a terra. Si voltò di scatto,
il dito pronto a premere il grilletto ma, così come si era girato,
all’improvviso si sentì frenato.
Davanti a lui stava
una donna, tremante da capo a piedi, il volto stravolto e i capelli sporchi,
rimescolati gli uni sugli altri, in un goffo caos fulvo. Impugnava una pistola
ma il braccio teso tremava ancor più delle sue gambe.
L’ho già vista questa donna…
Era umana, era ovvio.
Piegò il viso in
tante piccole rughe e, ad occhi sgranati, lanciò un grido strozzato e ancora
sparò.
Kaeso osservava
tutto, nel buio. Vedeva Acilia, oh, la vedeva, che continuava a colpire,
ferire, crudele come lo era una volta.
Ma non voleva combattere
contro di lei, non ancora.
A un certo punto dovrai farlo.
Non ancora.
Voleva eliminarla
ed eliminarli, quei matti, ma prima voleva assicurarsi di una cosa. Lo
tormentava, incredibilmente, lui doveva sapere una cosa, non poteva permettere
che quella persona morisse.
Mi chiedo che senso abbia fare tutto questo caos in
nome di qualcuno che forse neanche esiste.
Acilia lo guardava
e gli chiedeva perché.
Gli chiedeva sempre
perché. Ma lei, a lui, aveva mai risposto invece?
Io lo so cosa c’è dopo. Tu non lo sai. Tu avrai sempre
paura.
Era così? Aveva
davvero paura di morire?
Lo vedi, Kaeso, che anche tu hai bisogno di
trasformare l’indistinto in qualcosa di definito?
Stai zitto, tuonò
Kaeso nella sua mente, zitto, Lyuben, tu sei morto, morto!
Sentiva gli spari,
ogni colpo gli faceva male… Ma se fosse stata colpita anche Acilia, non gli
avrebbe fatto male? Gli avrebbe fatto male da morire…
Lei era lì, bella e
assassina, non meno di quanto lo fosse lui, con quell’espressione orribile
negli occhi, che trafiggevano la pelle non meno dei suoi denti.
Ti odio.
Intravide
finalmente una cascata di ricci scuri, impiastricciati di sangue. Eccola,
l’amante di Lyuben.
Come hai potuto, Lyuben, amare una donna sola per così
tanti secoli?
L’avrebbe fatto
forse anche lui, Kaeso. Con una sola donna, che non fosse Acilia, no, eppure
non ricordava di aver mai amato nessun’altra.
Sei sicuro?
Kaeso provò un
brivido e si aggrappò alla parete. Il corridoio che collegava la cucina al
salone era stretto e buio, ma possibile che nessuno avesse notato la sua
presenza?
Sembra quasi che
non mi cerchino affatto, pensò, divertito. Massa di stolti, stupidi mentecatti,
che avevano rinunciato al richiamo del sangue, come quell’Acilia, che quel
giorno, a Roma, quando tutto andava in pezzi…
Patetici, che
credevano di combattere per un qualche bene superiore e neanche sapevano cosa
fosse. Che credevano di combattere per salvare gli umani, quando gli umani, se
solo avessero avuto le zanne anche loro, oh, quanti danni avrebbero fatto!
Perché loro, invece, ormai non erano
più umani con le zanne, erano microbi che avevano perso la loro umanità, e
insieme la loro crudeltà. Non erano nulla, solo qualcosa che strisciava per
sopravvivere, e che qualcuno prima o poi doveva pur schiacciare.
Kaeso alzò il cappuccio
per nascondere il volto e strinse con più vigore l’impugnatura della sua
sciabola. Di scatto si lanciò nella sala, velocissimo, come spinto dai suoi
stessi pensieri.
Nella sua visuale,
campiture di sangue, come al solito, che cospargevano tutta l’ipocrisia
nell’aria.
Ipocriti, ipocriti,
urlava nella sua testa, predicate la pace con gli umani ma fate la guerra coi
vampiri! Proprio come gli umani si tengono in casa cani e gatti e poi vanno a
fare la guerra coi proprio simili! Siete stupidi, pensava, stupidi come loro,
falsi, bugiardi, che sognate il nulla e stringete ancor meno.
Tu sei così, Aci, una maledetta ipocrita.
Si guardava
intorno. Non vedeva più Acilia ma non era lei che cercava. E allora perché
tutto dentro di lui urlava il suo nome? Quel maledetto sangue che scorreva
nelle sue vene, apparteneva anche a lei.
E ora sei venuta a finirmi una volta per tutte?!
Uno sparo, e un
proiettile fischiò minaccioso vicino al suo orecchio. Si voltò istantaneamente
e con un movimento repentino di spada troncò la testa dell’individuo che aveva
osato provare a colpirlo. Veloce, Kaeso scavalcò il cadavere, lasciandosi alle
spalle l’esplosione. Con lo sguardo ritrovò Ramona e piombò su di lei,
stringendole con forza il polso. Quella donna aveva la pelle – incredibilmente
scura per appartenere ad un vampiro –
più vecchia della sua, ma Kaeso lo sapeva di essere molto più anziano di
lei.
Le strinse il
braccio così forte, quasi fino a romperlo, e Ramona, con un grido sommesso,
lasciò cadere la sua pistola a terra.
Kaeso diede un
calcio all’arma. “Che roba è?” fece, con una risatina “Dubris ti permette di
usare solo armi-giocattolo?”.
Ramona gli lanciò
uno sguardo sprezzante, stringendo i denti.
Lui allargò il
sorriso, mostrando i suoi denti aguzzi. Poi afferrò saldamente Ramona per
l’avambraccio, e prima che lei potesse dire qualunque cosa, la trascinò via,
senza che nessuno – tutti così presi dalla battaglia – facesse caso a loro.
Tenendola stretta, attraversò il corridoio coi piedi a qualche centimetro dal
pavimento e, una volta arrivati in cucina, la lanciò per terra, prima di
chiudere violentemente la porta.
Ramona, dolorante,
si alzò in piedi, grondando sangue da un braccio.
Kaeso si levò il
cappuccio, avvicinandosi alla donna.
“A che gioco stai
giocando?” domandò lei, tradendo un certo nervosismo.
Lo so che hai paura.
Lui sorrise,
giocherellando con la sciabola. Divertito, vedeva lo sguardo di lei come
ipnotizzato dalla lama scintillante, che si muoveva, spaventosa, in qua e in
là.
“Un’amica una volta
mi ha detto che parlo troppo, e che faccio cerimonie inutili” disse, seriamente
“Voglio darle ascolto, ora che è morta”.
“Un po’ tardi, mi
pare” fece Ramona, mal celando il tremito della voce.
Kaeso la fulminò
con lo sguardo. “Tu sai chi l’ha uccisa, vero?”.
“Non so di chi tu
stia parlando” ribatté subito lei.
L’altro, rabbioso,
le puntò l’estremità della spada alla gola, poi si trattenne. Lo sto facendo di
nuovo, Svetlana, pensò, sto perdendo tempo.
“Non sei stata tu”
ragionò Kaeso, scrutando la sua nemica “Non ne saresti capace. Ho visto come
combatti, come se lo dovessi fare per forza”.
“È così” replicò
Ramona “Non credere che mi piaccia essere qui, ma lo devo fare”.
“Per Lyuben, non è
vero?” fece lui, con tono fintamente compassionevole.
Ecco, pensò, ecco un
cambiamento nel suo volto. Un tremito delle ciglia, gli occhi che si allargano,
la bocca che si schiude… Chi dice che i vampiri non hanno un cuore che batte?
Ha perso una persone che ama, dev’essere una cosa
triste.
Lo so che è una
cosa triste, disse una voce all’interno di Kaeso.
“Ti ho vista anche
l’altra volta, ora che ci penso” disse con uno scatto, alzando la voce.
Sospirò, recuperando la calma. “Nel castello di Camelio. Eri nascosta, piccola
e fragile, dietro Lyuben, che ti proteggeva”.
“Sono cresciuta
ora” fece Ramona con voce spezzata. Alzò il tono, più decisa. “Ora so cosa devo
fare e lo farò perché devo. Ma non mi piace la violenza, non mi piace perché
non è parte di me, ma è parte di te!”.
Kaeso, sei troppo violento.
Kaeso socchiuse gli
occhi e strinse le labbra.
“Non pensare che ti
stia biasimando” disse, quando l’incendio scoppiato nella sua mente si
acquietò. Abbassò l’arma e si chinò verso di lei. “In mezzo a loro, sei la più
vera”.
Lei si scostò
immediatamente. “Stammi lontano, barbaro!”.
Barbaro.
Kaeso si mise a
ridere, neanche capiva il perché. “Sai cos’è successo a Roma nel 410, Ramona?”.
Ramona non rispose,
limitandosi a lampeggiare avversione dagli occhi.
“Sono entrati i barbari” proseguì lui “Ero lì, è stato
un lungo assedio. Loro distruggevano tutto, oh sì, e per cosa? Io non distruggo
niente, io mi prendo solo quel che mi appartiene”.
La donna aveva una
faccia stranita. Poi scosse la testa, con uno sguardo timoroso ma anche
concentrato. “Puoi nutrirti anche senza fare delle stragi! Se solo imparassi a
controllare… Si può fare, è Acilia che ce l’ha insegnato!”.
Aveva alzato la
voce, e con essa forse la speranza. Credeva forse che nominando la sua
creatrice avrebbe fatto centro?
Kaeso le fu addosso
e la spinse contro la parete. Lei gridò e lui le mise una mano intorno alla
gola, per mozzarle il respiro, per farla smettere di urlare.
Perché ricordi sempre quella data?
“È buffo che tu lo
dica” le bisbigliò, furiosamente “Perché, sai chi me l’ha insegnato a fare le
stragi?”. Ramona scalciava e gli picchiettava sul petto, come fosse una
bimbetta isterica. Avrebbe smesso, subito.
Quella data…
“Acilia”.
410, Roma.
Ramona si bloccò,
come previsto. Kaeso sentiva il suo respiro affannoso e vedeva i suoi occhi
sgranati.
Fa male la verità, non è vero?
“Voi tutti” sibilò
ancora lui “andate dietro a colei che ha seminato il male”.
Lei gli conficcò
lunghe unghie nella mano, fino a farla sanguinare e lui si ritrasse, con
un’imprecazione.
“Ha seminato anche
il bene!” esclamò la donna, una volta libera. Ma si vedeva che, in fondo, non
era convinta.
Del resto chi mai è convinto fino in fondo di qualcosa?
“Sei proprio
ottusa” ribatté Kaeso “Se il bene e il male hanno la stessa faccia, allora non
esistono, nessuno dei due, non ti pare?!”.
Ramona parve guardasi
intorno, disperata.
No, nessuno ti verrà a cercare…
“Che cosa vuoi da
me?!” sbottò infine “Dicevi che non ti saresti perso in chiacchiere, eppure non
hai fatto altro! Cosa vuoi?!”.
Ti hanno abbandonata?
Di nuovo Kaeso le
puntò addosso la sciabola, questa volta contro il petto, cercando di ritrovare
la concentrazione. Aveva il gilè, doveva averlo sottratto a qualcuno.
“Qual era il
segreto di Lyuben?”.
Ramona aggrottò la
fronte. “Ma di che parli?”.
“Non fare la finta
tonta!” gridò Kaeso, sentendo la furia che galoppava dentro di sé “Lyuben
sapeva qualcosa sull’origine dei vampiri, è impossibile
che non te l’abbia
detto!”.
L’altra esitò. Poi
scosse la testa e disse: “Non ti dirò niente”.
Non ti dirò niente a proposito del mio
creatore, non ti darò la possibilità di dare un senso alla tua vita, non ti
darò nessuna speranza di redenzione!
Lyuben urlava nella
sua testa e alla sua voce si univa quella di Ramona, sua complice.
Kaeso gridò di
rabbia e con uno scatto di sciabola, le tagliò di netto il braccio destro, che
cadde a terra in fiotti di sangue.
Lei urlò e si gettò
per terra sulle ginocchia, tenendosi il braccio mozzato nella mano sinistra.
“La degna amante di
Lyuben Vladimir” farneticò Kaeso, ilare e tremendamente furente allo stesso
tempo “Ma se non parli… ti ucciderò”.
“Accomodati!”
gridò
l’altra, col viso deformato dal dolore, mentre nuovi strati di
pelle e sangue
fuoriscivano dal suo braccio monco “Non so se l’hai capito
ma non me ne frega
proprio niente di morire! Anzi, fallo! Uccidimi!”. Si
rannicchiò sul pavimento,
gli occhi fissi sul suo stesso sangue, con un fioco, doloroso affanno
“Uccidimi…” continuò, con voce più
flebile “E potrò rivedere Lyuben…”.
“Rivedere Lyuben?”
ripeté Kaeso, allarmato. Rivedere… Rivedere
le persone che erano già morte era un pensiero che lo perturbava,
terribilmente. Allora era possibile? Allora c’era davvero qualcosa dopo la
morte?
“Parla!” strepitò,
fuori di sé.
“Piuttosto
uccidimi!” strillò lei.
Kaeso lanciò un
verso, furibondo. Non poteva ucciderla, non poteva… Non avrebbe mai saputo
quello che disperatamente voleva sapere!
Ma perché ti interessa tanto?
Un posto dopo la
morte… rivedere i morti… qual era il problema? Cosa gli faceva tanto paura?!
Chi hai seppellito nel mondo dei morti, Kaeso? Chi hai
paura di rincontrare?
“Se non parli”
fece, riabbassando la voce, serio come non lo era mai stato “ucciderò Dubris”.
“Non sai neanche
dov’è!” esclamò l’altra, incredula.
“È stato lui a
uccidere Svetlana, non è vero?” insistette lui.
Ramona sgranò gli
occhi.
Centro.
“Credo che tu sia
stata troppo sulla difensiva quando ho accennato a Svetlana, all’inizio della
nostra chiacchierata” spiegò Kaeso, soddisfatto, ritrovando la sua sicurezza “E
poi… Dubris è fatto così, no? Stupidamente impulsivo”.
“Non è stato lui”
si affrettò a dire Ramona “Non è stato lui!”.
“Allora chi è
stato?” domandò lui, cordialmente.
Lei fu colta alla
sprovvista. Esitò e Kaeso poté mettere a tacere anche gli ultimi dubbi.
“Credimi, sono
molto arrabbiato” disse, facendo oscillare la spada. Ramona di nuovo ne fu ipnotizzata,
dallo scintillio o al sangue. “Ma ti prometto che gli risparmierò la vita, se
mi dirai ciò che voglio sapere”.
“Non mi fido delle
tue promesse” rispose lei, dopo un po’.
“Non mi pare che tu
abbia molte alternative” ribatté lui.
Ramona digrignò i
denti, mentre qualcosa di bianco spingeva per uscire dal suo avambraccio.
L’osso stava ricrescendo e lei non ebbe la forza di trattenere le grida.
Kaeso, senza alcuna
pietà, le troncò di nuovo il braccio che stava rigenerandosi.
Ramona urlò per un
attimo, poi smise, sofferente, mentre non colava altro che sangue.
“Ti fa meno male se
non si rimargina” disse Kaeso “Ora parla, prima che ricominci a urlare. Non ti
darò un’altra possibilità”. La fissò, irremovibile.
Lei aveva un mare
di calcoli negli occhi, Kaeso quasi riusciva a vederli. Sprigionavano dolore,
conteggi, possibilità, speranza.
Uccidimi… così potro rivedere Lyuben…
Poi parlò.
Dubris si buttò di
nuovo a terra, evitando il proiettile. Poi si mise in piedi, ritirò le zanne e
alzò le braccia, in segno di resa, guardando l’umana.
“Ferma, ascolta…”.
Lei per tutta
risposta sparò di nuovo e lui si spostò ancora, velocemente.
“Aspetta… Aspetta
un attimo!” sbuffò.
La donna
continuava, imperterrita, a sparare e lui prese il volo. Subito dopo le fu così
vicino che lei indietreggiò gridando. Lui per precauzione coprì con la mano il
foro della canna della pistola e fece per afferrare l’arma, e lanciarla via,
quando lei fece partire un altro colpo ancora.
“Ahi! Maledizione!”
imprecò Dubris, mentre la pistola cadeva a terra e lui si guardava la mano
bucata.
L’umana lo fissava
con occhi deformi e tra le labbra screpolate fuoriusciva il suo urlo: “Non ho
paura!”. Singhiozzò mentre lo diceva, con le mani si toccava il ventre. “Non ho
più paura…”. La voce abbassò il suo tono, sommersa com’era di singulti.
Dubris ignorò la
propria mano dolorante e le si avvicinò, riconoscendo, forse per prima, proprio
la sua disperazione.
“Sei viva” fiatò,
incredulo.
Il pensiero di aver
lasciato fuggire Kaeso lo logorava tutti i giorni. Il pensare che gli avrebbe
potuto sparare, sacrificando due persone che sarebbero comunque morte, quel
terribile pensare che Lyuben sarebbe
potuto essere ancora vivo…
“Non ti voglio far
del male” si affrettò a dire, vedendo che l’umana lo guardava spaventata e
smarrita. Indicò il suo stesso volto. “Forse tu non mi riconosci ma io…”. Si
bloccò.
Deve aver passato le pene dell’inferno, e vuoi che ora
si ricordi di te?
“Non importa, non
importa” disse poi.
Ma lo sguardo della
donna era curiosamente concentrato sui suoi capelli, come se fossero un
particolare importante.
“Salva mia figlia,
ti prego… Salva mia figlia…” disse con un filo di voce.
Le grida della
battaglia non riuscivano a sovrastare il suo debole pianto. Le urla, le
esplosioni, la paura…
Non puoi lasciare la battaglia!
Dubris si voltò di
scatto verso la mischia. I corpi ormai erano intrecciati tra loro e vedeva più
sangue che pelle…
E Ramona? Vuoi abbandonare Ramona?
Ma se lui, Dubris,
non aiutava quella donna e sua figlia, sarebbe stato tutto davvero inutile… Far fuggire Kaeso, la morte di Lyuben, il dolore
di Ramona!
“Aiutaci, ti
prego!” insistette l’umana, chinando il viso e piangendo.
Dubris, non è quello che vuoi? Predichi la convivenza
con gli umani e preferisci fare la guerra piuttosto che aiutare uno di
loro?
“Dov’è?” domandò il
vampiro.
“Al piano di sopra”
rispose l’altra.
Lui l’afferrò per
un braccio e le disse di aggrapparsi forte. Pensava che lei si opponesse e che
lo allontanasse, invece subito obbedì, con espressione sofferta ma determinata.
È disperata al punto di fidarsi di un vampiro?
Eppure era una
bella sensazione, sentire il calore di un umano, e la sua fiducia… Faceva
sembrare tutto sensato; quello che aveva fatto, quello in cui credeva.
Dubris la prese tra
le braccia e si librò in volo puntando alle scale. In un attimo fu al piano
superiore ed entrambi atterrarono su un largo e silenzioso corridoio di
moquette grigia.
Dubris fissò per un
attimo il pavimento, stranito dal fatto che non fosse rosso ma poi vide che
l’umana si stava allontanando, facendogli cenno di seguirla e lui obbedì
all’istante.
Lo condusse ad una
porta ed entrarono in una camera da letto. Una bambina con capelli appiattiti,
che un tempo dovevano essere ricci, stava seduta sul letto, rivolta verso la
finestra. Una volta entrati, si voltò con uno scatto verso di loro, con un viso
pallido e sciupato. Non c’era nulla di fanciullesco nel suo volto e gli occhi
grandi erano secchi di pianto, proprio come quelli di un vampiro.
“Lyuben apparteneva
alla terza generazione di vampiri. Quelli più vecchi di lui sono morti tutti da
tempo” disse Ramona, con voce apatica e amara.
Kaeso annuì. Certo,
non aveva mai conosciuto un vampiro più vecchio di Lyuben… Perfino Camelio era
più giovane. Ma non era abbastanza.
“Chi era il primo
vampiro? Chi l’ha creato?”.
“Non era nessuno”
rispose Ramona, stringendo i denti e con la mano che febbrilmente toccava il
suo braccio monco, come se volesse fermare il flusso di sangue “L’ha creato la
Divinità a sua immagine e somiglianza e l’ha mandato nel mondo dei mortali a
mordere tre uomini. Uno di loro era il creatore di Lyuben”.
Divinità?
“Hai detto…
mordere?”.
“Un tempo bastava
un morso per trasformare un essere umano in un vampiro” spiegò ancora Ramona “I
più vecchi hanno più potere semplicemente perché sono più vicini a essere una
divinità… I più giovani sono più lontani da quel primo vampiro e quindi sono
meno forti. I poteri scompaiono… I giovani di oggi non impareranno mai a
volare, come voi, che pure siete vecchi, ma giovani di un tempo, non avete mai
imparato a trasformare solo con un morso”.
Vicino a una
divinità… Era dunque questa l’origine dei vampiri? Discendevano direttamente da
una divinità?
Ramona fece una
smorfia, di amarezza, di dolore e di sprezzo.
“Puoi immaginare
perché Lyuben non avrebbe mai detto una cosa del genere… a un fanatico come
te”.
Ma Kaeso si sentiva
smarrito. “I poteri scompaiono? Scompariranno tutti, prima o poi?”.
“Lo spero” rispose
Ramona, in tono di sfida “Tutte le razze prima o poi si estinguono. I vampiri
più di tutti dovrebbero davvero sparire dalla faccia della terra”.
Kaeso stava
riflettendo in fretta, stordito dalle nuove notizie. “Perché la divinità avrebbe mandato quindi questo
essere tra di noi? Perché avrebbe fatto una cosa del genere?”.
Non riusciva a
capire… Una divinità avrebbe dovuto avere a cuore il proprio mondo… O no?
L’ha creato la Divinità a sua immagine e somiglianza.
“Tu hai detto…”
proseguì, prima che Ramona potesse rispondere “Quindi questa divinità è uguale
a noi?”.
“Uguale al primo
vampiro” precisò lei.
Quindi simile a
loro, anche se con molto più potere! Ciò significava che niente, dopo la morte,
l’avrebbe punito per quello che aveva fatto. O forse sì?
“C’è un altro mondo
dopo la morte, non è vero?” domandò. Sentiva la sua voce così strana… Davvero
stava interrogando qualcuno, così ingenuamente, senza minacce, solo per la sua
sete di sapere?
Ramona scrollò le
spalle e a Kaeso parve addirittura che qualcosa nel viso di lei si stesse
addolcendo. “Non lo so, Kaeso… Io spero di sì…”. Socchiuse gli occhi e
continuò, con voce lenta e faticosa: “Spero di avere ancora un corpo, e di non
provare mai più la fame, e di poter versare le lacrime, tutte quelle che
voglio…”.
Kaeso cadde sul
pavimento accanto a lei, la spada ancora stretta in pugno.
“Spero che rivedrai
Lyuben” disse, e si sorprese lui stesso della sua sincerità.
Ma Ramona aveva
capito, e lo guardava con un triste sorriso. “Lo sapevo che non avresti
mantenuto le tue promesse”.
“Devo vendicare la
morte di Svetlana”.
“Te l’ho detto, non
mi importa assolutamente nulla. Uccidimi”. Ramona aveva la voce sempre più
fioca e la serenità che stava prendendo il sopravvento su di lei pareva farle
scivolare sempre più giù, delicatamente, le palpebre. Il braccio aveva cominciato
a rigenerarsi, ma lei sembrava non sentire più dolore.
“Non è te che
voglio ferire” replicò Kaeso, sentendo l’antica rabbia tornare “Dubris ha
ucciso la mia creata, e io ucciderò la sua. La mia vendettà sarà sentirlo
urlare, e vederlo soffrire!”.
Mosse
la lama così velocemente verso il collo di Ramona, non prima di aver visto i
suoi occhi spalancarsi, angosciati, consci di quello che sarebbe stato il
dolore di Dubris; e quando la testa della donna cadde, prima di esplodere, il
suo viso aveva ancora quell'espressione.
La bambina
continuava a fissarlo, senza timore. Neanche sbatteva le palpebre.
Dubris sgranò gli
occhi e fu allora che lo sentì.
Quella fitta, e
quello spasimo, che mai avrebbe voluto sentire, che lo costrinsero a cadere a
terra, sulle ginocchia, lo sguardo fisso in quello vuoto della bambina, mentre
pensava alla sua di bambina – avrebbe
potuto chiamarla così? Eppure in quel momento non gli veniva altra definizione
– mentre un incendio gli divampava nel petto e un grido di terreo, eterno dolore
gli usciva dalla bocca.
*
Le case bruciavano,
tutto cadeva a pezzi e lui correva, le mani sporche di sangue.
Come al solito.
Le persone intorno
a lui cadevano in laghi di sangue. Non importava se fossero romani o visigoti,
pagani o cristiani oppure ebrei! Non importava, non gliene importava più nulla
di quell’Impero che stava crollando a pezzi!
I pezzi… Pezzi di
pelle, pezzi di legno, di marmo, pezzi infuocati o bruciati, tutto ridotto in
pezzi! E tutto cadeva, crollava, esplodeva… E lui continuava a correre tra i
frantumi, senza scivolare mai, tutto precipitava, ma lui mai, lui non sarebbe
sprofondato, mai…
Tra i frammenti
delle urla, le schegge di dolore, Kaeso cercava ancora altro. La vedeva ancora,
vedeva il suo viso, circondata da fiamme. La vedeva col terrore negli occhi,
scuoteva la testa mentre lo guardava e lui la vedeva sempre, ogni volta! Come
in un sogno lontano…
Ma tu non sogni più, è sempre la realtà quella che tu
vedi.
La realtà… Eppure
sembrava tutto così finto.
Gli cadeva tutto
addosso ma niente gli faceva male.
Cercava di
raggiungerla. Ma Acilia, triste e sporca di sangue, gli aveva voltato le spalle
e se n’era andata, allontanandosi per sempre da lui, triste e sporco di sangue.
Gli cadeva tutto
addosso ma niente gli faceva male.
Fine aprile, come no! XD Questa volta non sono stata per niente puntuale.. XD
Mi
scuso per il mega ritardo, ho avuto un esame che mi ha risucchiato
tutta la vitalità.. poi altre faccende.. e vedo periodi sempre
più neri! Ma ce la farò, voglio finire presto questo
libro!
Passando
al capitolo.. Spero vi piaccia, l'azione non è il mio forte, si
sarà capito : per quel che riguarda l'origine dei vampiri
immagino abbiate le idee un po' confuse ma non vi preoccupate, non
è finita qua ;)
Infine
grazie mille a Norine e a tutti coloro che leggono e non recensiscono e
a tutti coloro che leggono e recensiscono in altre sedi!
Spero
di tornare presto, ma meglio non fare previsioni.. ad ogni modo
putroppo mancano ancora tre capitoli alla fine! Ma possibile che in
OGNI capitolo io dica che ne mancano ancora tre? Più ti avvicini
al traguardo e più quello si allontana, eh sì.. O_O
Alla prossima! :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** Il sole non cambia ***
Ventiseiesimo capitolo
Un riassuntino veloce
per i miei lettori, perché stavolta ho fatto passare davvero troppo
tempo! Che può essere utile anche per chi è rimasto un po' indietro ;)
Curtis
ha rivelato la sua vera identità: un cacciatore. Acilia, per salvarsi,
è stata costretta ad ucciderlo ma, braccata ormai dagli altri
cacciatori, ha preso la difficile decisione di consegnarsi. Sotto
tortura, ha dichiarato davanti all'intera nazione che, se l'avessero
lasciata andare, avrebbe ucciso Kaeso, un vampiro crudelissimo, da lei
stessa creato, che sta seminando il panico nel mondo. E, una volta
fatto, si sarebbe consegnata a loro. Gli umani l'hanno assecondata e
Acilia, Dubris, Ramona, Victoire e gli altri si sono messi sulle
tracce di Kaeso. Rapita e torturata Svetlana, creata di Kaeso, i
protagonisti hanno scoperto dove trovarlo: in un paese in Valle
D'Aosta. Dubris ha poi ucciso Svetlana, con grande disappunto di
Ramona. Il PPC ora si trova all'interno del castello di Kaeso e la
battaglia è cominciata. Dubris ha trovato Eliza e Charlene, entrambe
prigioniere di Kaeso. Ramona è stata costretta a rivelare a Kaeso il
mistero dell'origine dei vampiri e lui l'ha uccisa per vendicare
Svetlana.
Nel
frattempo in Inghilterra Claire, essendo stata attaccata da dei
vampiri, in punto di morte ha chiesto a Jacque e ad Eike di essere
trasformata. L'esperimento è fallito perché Claire aveva già del sangue
di vampiro in corpo, avendo fatto il patto. Per il momento è sepolta in
una fossa, e Jacque ed Eike non sanno che fare: si tratta solo di
aspettare una settimana.
In
questo capitolo c'è una sequenza appartenente al passato, che è il
continuo di una sequenza di due capitoli fa. Kaeso, mostro sanguinario,
nel 376, ha mutilato un ragazzino, privandolo di una gamba e della
lingua, e l'ha portato, come fosse un dessert, ad Acilia che,
spaventata, cerca di far rinsavire il suo creato. E Kaeso mostra un
lato di sè che Acilia ora preferirebbe dimenticare...
CAPITOLO XXVI
Acilia
e gli altri erano partiti la scorsa notte. Jacque lo aveva detto con
una pesantezza negli occhi che ad Emily non era potuta sfuggire.
Poi, ve lo giuro, mi avrete. E farete di me quel che vorrete.
Le
parole di Acilia, così strane, risuonavano nelle orecchie di Emily.
L’immagine di Jacque che cadeva sulle ginocchia davanti alla
televisione con quellosguardo si faceva molteplice nella sua mente.
Aveva
provato a chiedergli come stava ma lui non le rispondeva. Anche Eike,
seduto sul divano e dondolando concitatamente le gambe, mostrava un
certo triste nervosismo, e non era da lui.
Che ne vuoi sapere tu, Emily, di quello che provano?
Se
Jacque avesse perso Acilia, cos’avrebbe perso? Quello che lei non aveva
mai capito, quel loro rapporto così strano. Una madre, una sorella,
un’amica e amante allo stesso tempo. Ad Emily venivano i brividi.
Michael succhiò rumorosamente dalla cannuccia il fondo del suo succo di frutta ed Emily si ridestò.
Lo
guardò un po’ torva, poi si addolcì, guardandolo a
testa china sul suo succo, tristemente curvo e ingobbito.
“Come sta Lydia?” si levò ad un tratto la voce di Eike.
Emily
lo fissò, stupita. “Male” rispose, automaticamente “Ho provato a
parlarle… Sono stata capace solo di mettermi a piangere con lei”. Forse
ora stava dormendo, pensò poi, chissà se ci era riuscita, ad
addormentarsi. Aveva paura di incontrare Sam nei sogni, o forse era
quello che sperava. “Non esce mai dalla mia camera”. Anche i suoi
genitori erano da poco andati a letto, rassegnatisi all’idea che Jacque
ed Eike non sarebbero stati pericolosi per i loro figli.
Eike annuì senza dire altro. Ad Emily dispiacque. Le sarebbe piaciuto fare conversazione, qualunque cosa era meglio di quel silenzio.
“Non avete notizie?” chiese. Era una domanda stupida.
“Staranno combattendo, non possono stare al telefono!” esclamò Eike.
Michael
soffocò una risata con la cannuccia in bocca e quasi si strozzò. Emily
gli batté la mano sulla schiena mentre lui tossiva, riemergendo con le
labbra e il mento arancioni.
“Erano
diretti in Italia, sulle Alpi” aggiunse Jacque “Sono andati con
l’elicottero e là avrebbero preso un furgone, han detto. Saranno già
arrivati da un pezzo”.
Quindi ha parlato con qualcuno, pensò la ragazza, con Dubris? Con Acilia?
Lo squadrò con cautela. “Ma sono sicuri che Kaeso sia lì?”.
Lui annuì e non pareva intenzionato a parlare ancora.
Emily
si alzò in piedi, di scatto, mentre tutte le sue ferite si riaprivano.
Jacque aveva finalmente parlato dopo tanto tempo e lei non avrebbe
permesso che lui si richiudesse di nuovo nel suo silenzio.
“Jacque” fece, poco convinta “Posso parlarti un attimo? Per favore”.
Lui
la guardò con ancor meno sicurezza, la sua espressione diceva tutto:
che non gliene fregava più nulla di lei. Però poi si alzò, sotto lo
sguardo curioso di Eike, e la seguì in cucina.
Lei
chiuse la porta, tentando un sorriso in direzione di Michael che, dal
divano, la guardava incerto. Stette qualche secondo a fissare il legno
graffiato della porta poi prese coraggio e si voltò.
Jacque
la guardava mestamente e lei non sapeva più cosa dire. Frasi cominciate
e lasciate a metà, parole a caso, impulsi ed emozioni, che le
percorrevano la mente di continuo, e ora il vuoto.
Ma, sorprendentemente, parlò lui: “Non ti ho ancora ringraziato per il sangue che mi hai dato”.
“Oh”
fece Emily, con un piccolo tremito “E io devo ringraziarti per essere
venuto qui con l’argento in mano… E per aver portato a casa Lydia”.
L’altro annuì, puntellandosi il labbro inferiore con quello superiore.
“Perché
l’hai fatto?” proruppe improvvisamente la voce di lei “Perché sei
qua?”. Sentiva gli occhi inumidirsi e lei si voltò da un’altra parte
per asciugarseli, odiandosi.
Lui non rispondeva, allora lei andò avanti: “Perché mi vuoi proteggere?”.
“Perché ti voglio bene, lo sai”.
Emily
pensava che la risposta fosse un’altra. Gli si avvicinò, sforzandosi di
trattenere le lacrime. “A te piace proteggere la gente. E ora stai così
perché non puoi fare niente per proteggere Acilia”.
Certo, però lei, lui l’ama. Si vede, è ovvio.
Fu
più forte di lei e lo abbracciò. Era da quando lo aveva visto entrare
in casa, qualche notte prima, con tutto quell’argento letale in mano,
che aveva voglia di farlo.
Lo abbracciava, voleva baciarlo, parlare di loro ma parlava di un’altra.
“Hai tanta paura per lei, vero?”.
Lui finalmente le mise le braccia intorno alla vita ed Emily non riuscì a trattenere un singulto.
“Sì”.
La
ragazza si mise a piangere e Jacque la strinse. “Voglio che muoia
nel modo in cui vuole. E non è così, non è
così…”.
“Non
lo sai, Jacque” disse lei, tra le lacrime “Devi lasciarla
andare, farle fare quello che crede…”.
Jacque
la strinse più forte e il suo respiro si fece più
irregolare. “Mi manchi” le sussurrò, debolmente.
Emily
non riusciva più a tenere a freno le lacrime e pianse senza ritegno
contro il petto del vampiro. Era freddo, freddissimo ma la faceva
sentire bene. La morte di Sam, l’umanità in pericolo, il suo stupido e
sciocco amore… Tutto si riversava in gocce di pianto disgraziate, che
non ne volevano sapere più di niente. Non volevano nulla, solo uscire e
inondare tutto, distruggerlo.
Lo stai facendo, stai distruggendo tutto…
“Emily” fece Jacque “Dai, per piacere, smetti di piangere…”.
Lei
tirò su col naso alzò il viso, cercando i suoi occhi.
“È una delle prime cose che mi hai detto: non
piangere”.
Jacque sbatté le palpebre, lievemente attonito.
Emily proseguì, con voce spezzata: “E io poi ti domandai se avevi voglia di piangere, ti ricordi?”.
Lui annuì. Quegli occhi secchi e spenti, quegli occhi che, la prima volta che li aveva visti, la terrorizzavano.
“Tu
mi risposi di sì ma io… Io non avevo capito” disse ancora Emily “Non
avevo capito niente…”. Strinse gli occhi per far uscire le lacrime.
Bruciavano e rendevano tutto opaco. Mentre Jacque era splendente e lei
voleva vederlo. Le stava accarezzando il viso, con un’espressione che
in qualche modo era quella di qualche mese prima, ma in un altro modo
ancora era diversa.
“Ora
ho capito perché vuoi tanto piangere” fece lei
“Adesso più che mai, non è vero?”.
Jacque
le era così vicino. La sua mano, sul viso di lei, fredda, refrigerante,
come poteva lei perdersi in un torpore d’amore? Lui la teneva sveglia,
viva, triste, arrabbiata, felice.
“E anche tu mi manchi…” pianse infine Emily.
Jacque
continuava a tenerla stretta e a guardarla, lei non poté più
trattenersi. In tutte quelle notti niente le arrecava sollievo più di
lui, era lui che le faceva ancora sperare, e le faceva pregare che il
sole tramontasse al più presto e che non la faceva mai sentire stanca,
non più. Si avvicinò alla sua bocca e lui ricambiò il bacio. In uno
scatto di passione lui la sollevò e la fece sedere sul tavolo.
Rovistava nella sua pelle come se non avesse cercato altro per tutta la
vita e lei sentì infuocarsi, nonostante la pioggia di ghiaccio che le
cadeva addosso. Era pronta a spogliarsi, pronta a cedere ad un magico
momento di un periodo oscuro, quando la lingua di Jacque smise di
muoversi e con un ultimo bacio sulle labbra lui si discostò.
“Scusa” disse lui, evitando il suo sguardo “Non posso, non riesco, in questo momento…”.
Ma
certo, pensò Emily, nel momento in cui pensa così
intensamente ad Acilia, e ha paura per lei, non può fare niente
con me.
Sei la solita egoista.
Eppure
mentre le lacrime tornavano a riempirle prepotentemente gli occhi e
vedeva il ragazzo con cui era stata per sei mesi che neanche riusciva a
guardarla, non si sentiva affatto un’egoista.
“Mi
dispiace” continuò lui, scuotendo la testa “Ti ho
già delusa, ho deluso Eike, tutti… Non posso”.
Perché mi hai detto che ti manco?
Emily annuì, senza riuscire a dire niente. Le parole le si strozzavano in gola.
Cosa ti manca di me?
Jacque
si allontanò e lei scese dal tavolo. Lui la stava aspettando di fronte
alla porta e lei gli fece un cenno. “Vai prima tu” disse, con voce
tremante.
Il ragazzo obbedì e richiuse la porta dietro di sé, e lei scoppiò istantaneamente a piangere.
Acilia è stata importante per me… Ma lei mi ha trasformato in quello che sono… Che senso ha mi chiedo?
Che
senso ha, si chiedeva Emily. In quale malsano modo si era innamorata di
un vampiro? Ricordava l’espressione pungente di Lydia; tu sei malata,
le aveva detto.
Era un amore malato e ho provato a guarire, aveva detto Jacque.
Non sei guarito, pensò Emily, non sei guarito e ora lo provo anch’io un amore malato, è malato tutto questo.
Continuò
a piangere. Nella sua testa sentiva le urla disperate di Lydia, e lei
piangeva di più, sempre di più.
Dubris
non sapeva dire da quanto tempo stesse gridando, ma a un certo punto il
dolore finì e lui capì di essere rannicchiato a terra sulle sue
ginocchia. Annaspò e alzò la testa.
La donna umana era a ridosso di una parete e lo guardava spaventata. La bambina non aveva mosso un muscolo, e lo fissava.
Dubris
si alzò, a fatica. L’impulso gli gridava di correre via, andare a
cercare Ramona e assicurarsi che fosse stata solo un brutto scherzo
della sua mente. Ma lo sguardo di quella bambina lo teneva lì
inchiodato.
“Chi è stato?” sussurrò. Chi aveva ucciso Ramona? Chi?!
“Quel vampiro di nome Kaeso” rispose l’umana, avvicinandosi un poco.
Kaeso… è stato Kaeso…
Dubris
puntò il suo sguardo sull’umana, che si ritrasse appena.
Non doveva avere uno sguardo molto amichevole in quel momento.
“Come fai a saperlo?”.
“Stava sempre con lei” singhiozzò l’altra.
Dubris aggrottò la fronte poi capì che la donna si riferiva alla sua, di figlia.
“Ho paura ad avvicinarmi a lei” diceva, piangendo “Come posso aver paura di mia figlia?”.
Il vampiro si avvicinò alla bambina e le toccò una guancia. Carne morbida e fredda.
“Come ti chiami?” le chiese.
“Charlene”
rispose quella. Inclinò appena lo sguardo, sembrava volesse cercare la
madre con gli occhi, ma si fermò a metà strada. “Non voglio fare male
alla mamma”. Indossava un vestitino rosa a fiori.
“Fai
bene a non avvicinarti” disse Dubris, rivolgendosi alla madre,
continuando ad accarezzare il viso di Charlene, come in un gesto
automatico che poteva non avere mai fine “Non sarebbe in grado di
controllarsi”.
Tu non ti sei controllato, Dubris.
“Me
l’hanno tenuta lontana perché volevano che rimanessi
incolume… Lei… Lei… non mi guarda neanche!”.
Ramona, davanti a lui, gli diceva di controllarsi, di non uccidere Svetlana.
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta.
“E’
incredibilmente controllata, per essere un vampiro così giovane” si
sforzò di dire Dubris. Charlene era davvero intelligente, sapeva cosa
sarebbe successo a sua madre se si fosse avvicinata? E se si fosse
trattato di un altro umano? L’avrebbe attaccato, sicuramente. Ma da
quanto tempo non mangiava? Se non si nutriva, l’avrebbe attaccata,
avrebbe ucciso sua madre… Quando lui era entrato nella stanza, aveva
notato i suoi grandi occhi blu. Il loro colore ora invece stava
cominciando a sfumare, in una striscia purpurea.
“Devo portarvi fuori di qui, subito” disse.
Che fai, Dubris? Vuoi proteggere anche il vampiro infante?
Senza creati, cerchi già qualcun altro di cui occuparti…
Dubris gridò e scivolò di nuovo a terra.
Non vuoi che io assista? Cosa le vuoi fare?
Mi dispiace, mi dispiace, pensò Dubris… Era tutta colpa sua! Era stato Kaeso… si era vendicato!
Potrei cercare la morte, cercando di uccidere Kaeso.
No,
si disse il vampiro, a chi sarei utile in questo modo? Ramona era
morta, così come lo era Lyuben. Non doveva più cercare vendetta, non
doveva più distruggere, doveva salvare delle vite!
Chissà se Ramona sarebbe fiera di me se porto via Charlene e sua madre…
Dubris
lanciò di nuovo un grido, battendo un pugno sul letto su cui
Charlene era seduta. D’altronde era il suo modo di piangere.
“Che succede?!” strillò l’umana.
Voglio vederlo morto, morto! gridava Dubris, dentro di sé.
E se uccidesse anche Acilia?
“Che succede?!” gridò ancora la donna.
Dubris
inspirò a fondo, poi alzò lo sguardo verso di lei.
“Colui che ha fatto questo a tua figlia, ha ucciso la mia
creata”.
L’umana sembrò non capire. “Creata…”.
“La mia figlia vampira. Una donna che ho trasformato io stesso” spiegò lui.
“Mostri…” fece lei, scuotendo la testa “Siete mostri che trasformate!”.
Dubris
vacillò. Non aveva mai chiesto scusa a Ramona, per averla trasformata.
Ma lei gli voleva bene, lui lo sapeva… Gli voleva bene davvero?
“Vi porterò fuori di qui” dichiarò.
Si alzò, reggendosi sul bordo del letto con le mani.
“Charlene” disse “Sei veloce ora. Seguici”.
In
un lampo fu vicino alla madre e la prese per la vita. Lei lasciò andare
un’esclamazione, poi scosse la testa dicendo: “Prendi in braccio lei”.
Dubris fece un sorrisetto mesto. “Non ne ha bisogno”.
Le
iridi castane della donna parvero vibrare poi lei aprì la bocca,
premendosi una mano contro le labbra. I suoi occhi si chiusero e lei si
acquietò.
Dubris
aggrottò la fronte e finalmente chiese quello che, in realtà, si era
domandato fin da subito. “Perché non ti hanno fatto niente? Perché
volevano che rimanessi incolume?” fece, ripetendo le parole che aveva
usato lei.
La
donna scosse la testa e inspirò a fondo. Poi alzò quegli
occhi caldi e arrossati su di lui. “Sono incinta” disse.
Dubris
rivedeva davanti a sé Kaeso che teneva in braccio quell’umana e sua
figlia, che le portava via. E lui, lui non poteva fare niente… Sparagli gridava Victoire Dobbiamo prenderlo! Non gli aveva sparato e Ramona non c’era più. Credevi di fare l’eroe? si era chiesto, cosa credevi?
Ramona era volata via in un posto di morte, nel vero posto di morte.
Un
pensiero positivo per la prima volta lo pervase, mentre continuava a
contare i respiri della donna davanti a lui. Ramona avrebbe raggiunto
Lyuben.
Ma dove?
Eppure è stata colpa tua, Dubris, tua!
I
respiri dell’umana si trasformarono di nuovo in lacrime. Un lamento di
bambina affamata, presto quella donna sarebbe morta, dissanguata,
uccisa da sua figlia… E Dubris le rivedeva, le avrebbe sempre riviste,
nei suoi ricordi, volare via da quella finestra in braccio al vampiro
più crudele di sempre.
E’ colpa tua!
Sparagli, gridava Victoire, sparagli, sparagli, sparagli.
E quella rabbia, che gli aveva fatto uccidere così violentemente Svetlana.
Sparagli, sparagli, sparagli…
Era lui che doveva colpire!
Sparagli!
Ma
ormai Kaeso e Svetlana erano volati via, tenendo salde la donna e la
bambina. E il cuore di Ramona ormai era a brandelli, l’esplosione era
già avvenuta.
Dubris
abbracciò la donna. La voleva sollevare, voleva volare via ma si tenne
stretto a lei. Anche se puzzava, anche se non sapeva chi fosse, anche
se lui era affamato.
Lei
rimase spiazzata e cercò di allontanarlo. “Tu… sei… un vampiro”. Dubris
non capì se si trattava di una domanda o di un’affermazione ma avrebbe
fatto in modo che non andasse tutto perduto. Aveva commesso un grave
errore a non sparare in quel bagno, ma voleva fare in modo che servisse
a qualcosa. Almeno una delle tante persone coinvolte ne sarebbe uscita viva.
“Qual è il tuo nome?”.
“Eliza” rispose lei, dopo un po’ “Sei… sei molto freddo”.
Tremava
di paura e ad un certo punto urlò. Dubris si separò da lei e vide che
la piccola Charlene, con sguardo famelico, aveva i denti infilati nella
mano della madre. Eliza urlava d’orrore, senza staccare gli occhi dal
visetto della figlia, mentre il sangue colava sulla moquette grigia e
Dubris capì in quel momento che anche al piano di sotto la moquette un
tempo doveva essere di quel colore. Subito afferrò la bambina e la
lanciò lontano.
“Andiamo!”
esclamò, afferrando Eliza. Corse fuori dalla porta con la donna in
braccio e Charlene si lanciò subito nell’inseguimento.
Finalmente
lo vide. Era comparso vicino ad un atrio buio ed era sporco di sangue.
C’era del vento che gli muoveva i capelli. Il portone del castello era
aperto.
Acilia
diede un calcio ad un vampiro che le impediva la vista poi gli trafisse
il collo con una scarica di proiettili. Alzò la testa e vide che anche
Kaeso l’aveva vista. La stava guardando, da lontano, come il giorno in
cui lei l’aveva abbandonato. Quel giorno lei si era allontanata sempre
di più, fino a perderlo di vista.
Hai sbagliato tutto, lo sai?!
Ma
ora si sarebbe riavvicinata, passo dopo passo. Tra gli schiamazzi, le
grida e il sangue, proprio come quella volta. Avrebbe dovuto percorrere
il cammino a ritroso, raggiungerlo, arrivare alla sua morte, quella che
gli aveva inflitto millesettecento anni prima. Era quello il punto di
partenza a cui sarebbe dovuta tornare.
Lui rimaneva fermo. Sembrava la stesse aspettando, impugnando una spada.
No, non ho paura.
Del
resto, paura di cosa? Tanto sarebbe morta comunque. La paura era una
cosa egoista, non poteva aver paura di fallire e di lasciare in eredità
al mondo quel mostro. Perché da morta, non gliene sarebbe importato più
nulla.
O sì?
A Jacque? Non ci pensi a Jacque?
Nel
volto dell’uomo che aveva davanti non c’era nulla di
Jacque. Erano entrambi suoi ed erano così diversi, perché
era lei che era diversa. Non era una persona sola.
Chi ero? Cos’ero?
Vivere
così tanto tempo era logorante; non si faceva altro che cambiare, in
continuazione, non si stava mai fermi, non si era mai gli stessi.
Pareva di vivere più e più vite, tutte d’orrore, ma sembrava capitasse
solo a lei, solo lei sembrava capirlo!
Kaeso
era ancora più vicino. Lui di certo non lo avrebbe capito. Il sangue
colava dalla sua spada e le gocce si schiantavano silenziosamente sul
pavimento. Quel sangue… di chi era? Acilia provava una strana
sensazione, come se Kaeso avesse colpito qualcuno della sua famiglia.
Ma era Kaeso stesso la sua famiglia! Acilia pensò d’istinto a Dubris,
vedendo quel sangue colare. Perché pensava a lui? Era da un po’ che non
lo vedeva combattere…
Dubris l’ha mai capito che tu non sei mai stata la stessa?
Dubris
aveva fatto il possibile per lei ma comprenderla era impossibile. Lui
non riusciva neanche a capire perché lei volesse morire! Lui era così…
attaccato ai suoi sogni, attaccato alla vita!
Ecco,
ora Acilia avrebbe voluto rivederlo, mentre vedeva solo Kaeso,
spiegargli tutto – ma cosa c’era da spiegare? Era stata così fredda nei
suoi confronti negli ultimi giorni, solo per farsi odiare. Voleva che
Dubris, quando lei fosse morta, non se ne rattristasse, ma che al
contrario pensasse che liberazione! Non aveva più voluto guardarlo in faccia perché forse sarebbe stato capace di farle cambiare idea…
Non cambio idea, non mi muovo, non mi muovo!
Non rivedrai più Jacque…
Stai fuggendo da quello che hai fatto.
Acilia
si riscosse. Quella voce sembrava provenire da Kaeso, ma lei non ne era
sicura che fosse stato lui a parlare. La fissava, eterno e immobile,
perfetto.
“Fuggi?” diceva.
Ancora. Vuole chiedermi se fuggirò ancora, pensava Acilia.
“Quando
mi hai abbandonato, non pensavi che mi avresti più rivisto, non
è così?” domandò lui.
Acilia
non disse niente. Sentiva tutto il suo corpo intorpidito. Quella che
aveva davanti era il suo sangue, il suo amore e il suo sbaglio, tutto
insieme, tutto così dolosamente insieme, e intricato.
“Era
quello che speravi. Hai sbagliato tattica” proseguì lui “Sei diventata
un personaggio in vista, lo dovevi pur sapere che io ti avrei
cercata!”. Le ultime parole le pronunciò quasi sibilando, con un moto
di cattiveria che per un attimo abbandonò la pazzia. Non era pazzo, ora
era arrabbiato.
“La prima volta ti ho rivisto nel castello di Lucius” riuscì a dire Acilia.
“Quando stavo per ucciderti” precisò lui.
Lei ebbe un fremito, e si vergognò di averlo avuto. “Mi odi così tanto?” fece.
Kaeso
alzò le sopracciglia, abbandonando la rabbia e con un sorriso quasi
ilare. “Hai dichiarato in televisione che mi avresti ucciso. Hai fatto
irruzione in casa mia con un esercito. Ora, dimmi… Perché non dovrei
odiarti?”.
Acilia fece un altro passo verso di lui, mordendosi il labbro. Sentiva il suo stesso sangue colare lungo il mento.
Si
era lasciata alle spalle la mischia, sicuramente qualcuno si era
accorto che lei si era allontanata, che era con Kaeso…
O forse no, perché stanno tutti morendo.
Kaeso
fece un cenno alla spada e continuò, cancellandosi il sorriso dalle
labbra. “Mi sto solo difendendo, Aci. E’ quello che ho sempre fatto”.
Le
si avvicinò di scatto e fu a pochissima distanza da lei. Acilia lo
vedeva alto, troneggiare su di lei, ed aveva paura. Cercava di
ricordarsi chi fosse stata lei stessa, perché se fosse riuscita a
vedere se stessa negli occhi di Kaeso, sarebbe stato più facile, forse…
Ma l’idea la faceva solo rabbrividire di più e la vergogna si
impadroniva di lei, accartacciandola come fosse fatta di carta, un
foglio di carta da buttare.
“Ricordi quando ti ho detto che oppressore e vittima non sono intercambiabili?” chiese lui, tranquillo.
Acilia
ricordava bene. Una serata che sembrava infinitamente lontana, eppure
non erano passati che due mesi. Il tempo, scorreva così strano…
“L’oppressore
sei tu” sussurrò Kaeso, e tutto parve bloccarsi. Non c’erano le grida,
gli spari, tutto era immobile e silenzioso, solo la voce del vampiro
serpeggiava fino al suo orecchio. “Sei sempre stata tu”.
Acilia
voleva trovare la forza di alzare la sua arma e puntargliela dritto in
quegli occhi malvagi, ma il suo braccio non si muoveva.
“Per
quanto tu lo desideri” continuava Kaeso “non sarai mai una vittima. Non
stanotte e neanche dopo. Tu non ti consegnerai mai, non ti suiciderai
mai! Ti conosco!”. Alzò la voce e, con un movimento rabbioso, levò la
spada pronto a colpire. Acilia fu veloce e si spostò. Era quello che
doveva fare, doveva combattere, doveva fermarlo e poi… uccidersi.
Non ti suiciderai mai! Ti conosco!
“Non
è vero che mi conosci” ribatté “Non è
vero! Tu hai conosciuto solo una parte di me!”.
Kaeso
era pronto a riprovarci e lei quasi gridò per la frustrazione.
“Non lo sai perché voglio tanto morire!”.
Il
suo creato si fermò con la spada a mezz’aria, attonito.
Ripresosi disse, con un mezzo sorriso: “Non lo so?”.
Acilia
trattenne il fiato, incerta. Non voleva che Kaeso dicesse più niente,
lei non voleva ascoltarlo. Le venne in mente quando lo vedeva pieno di
sangue, assetato più che mai, crudele e perfido, e lei si rivedeva in
lui, e aveva paura. Non voleva che succedesse di nuovo la stessa cosa.
Non voleva ascoltarlo e scoprire cose di lei che lei non sapeva! Ma
Kaeso non parlò e scosse la testa, ancora con quel mezzo sorriso.
Devo agire. Devo agire.
“Sei
entrato nella Rappresentanza per me?” domandò Acilia, con un tremito.
Perché parlo? pensò disperatamente, guadagno tempo per cosa?
Non lo vuoi uccidere.
“Hai fatto tutto questo per me? Per vendicarti?”.
Perché se lo uccidi, dovrai morire anche tu.
“Mi stai facendo impazzire per farmela pagare?!” gridò ancora lei, esasperata.
Kaeso finalmente rispose: “Sì”.
Allora non è che ti dispiace per lui. Allora non è che gli vuoi bene.
Acilia
inspirò a fondo. “Quindi… Se io mi lasciassi uccidere da te, fermeresti
poi questa follia?”. La sua voce stessa tremava. Sembrava incredibile
pensare che solo poco prima lei era così tranquilla – o fingeva di
esserlo. Aveva paura della risposta di Kaeso. Se lui avesse risposto di
sì, lei si sarebbe sacrificata. Era quello che doveva fare. Aveva una
maledetta paura di quella risposta – perché non lo voleva fare.
Allora non è che ti dispiace per lui. Allora non è che gli vuoi bene.
Kaeso fece un sorrisetto, poi aprì la bocca, fissandola dritto negli occhi.
“No”.
Il
ragazzino, seduto e poggiando il peso del corpo sulle braccia, cercò di
indietreggiare, con la paura più folle negli occhi, sgranati e
piangenti, spargendo con la voce suoni più forti, ma comunque sordi.
Acilia
guardò Kaeso, poi abbassò di nuovo lo sguardo.
“Sono io che ti ho ridotto così…”
sussurrò.
I ricordi si facevano confusi, annebbiati, colorati di rosso…
Kaeso
si buttò a terra, con la testa china. Il suo corpo tremava e Acilia lo
raggiunse di scatto. Alzò una mano, incerta, pensando di toccarlo, di
accarezzarlo – ma sarebbe servito a qualcosa?
Il ragazzino continuava a emettere versi così fastidiosi. Fastidiosi? Acilia si voltò a guardarlo. Piangente, mugugnava, viola di paura. Poverino, pensava lei, poverino… Riesci davvero a provare pena per lui?
E allora perché non gli diceva niente? Perché non lo rassicurava? Perché non lo liberava?
Che vita potrebbe mai avere ridotto in quello stato?
“Aci” fiatò Kaeso.
Acilia si chinò sul suo creato. Gli prese il volto tra le mani. “Dimmi, dimmi…”.
Era stato lui a ridurre a quel modo il ragazzino. Non doveva essere compassionevole, doveva sgridarlo, doveva imporsi!
Non è colpa sua, lo sai, è colpa tua.
“Vorrei tanto poter rivedere mia figlia” biascicò
Kaeso, con gli occhi sgranati e tristi “Secondo te è per
questo che torturo dei ragazzini? Per la rabbia?”.
Acilia
non sapeva cosa dire. I versi del bambino erano strazianti per le sue
orecchie, ma perché solo quelle di lui? Perché quelle di tutti gli
altri no? E perché ora Kaeso diceva quelle cose? Era davvero lui? O era
qualcun altro? Non si poteva essere due cose contemporaneamente, non si
poteva!
Allora tu cos’eri?
“Kaeso, io…”.
“Viridio,
chiamami Viridio!” esclamò lui, guardandola con un sorriso. “Mi
chiamava così mia moglie, sai…”. Le poggiò le mani sulle guance, con un
velo di dolcezza poggiato sui suoi occhi rossi. “E io ti amo come ho
amato lei, davvero”. Acilia trattenne il fiato e il velo di dolcezza su
di lui parve poi stropicciarsi, in una smorfia su quel viso che
sembrava sereno, un tempo, e lui strinse gli occhi, e digrignò i denti.
“Perché mi hai fatto questo? Perché l’hai fatto?!”. Le sue mani si
fecero pesanti e le graffiarono le guance. Acilia sentì un lieve dolore
e il sangue che colava vicino alle orecchie. Lui era arrabbiato e
continuava a stringerla, ferendola con le unghie. “Perché?!”.
Acilia
si lasciò graffiare e percuotere le guance, stringendo i denti per il
dolore, davanti alla bocca teneva una mano, in cui cacciava grossi e
tristi respiri.
“Ti
posso aiutare” disse dopo un po’, in un lamento, allontanandosi dalla
presa di Kaeso. “Ti posso aiutare… Devi solo controllarti un po’ di
più… Potrai ancora uccidere ma solo per sfamarti! Senza torturare, e
senza bambini…”.
Kaeso
aggrottò la fronte. Non sembrava rincuorato, solo disgustato. “Potrò
ancora uccidere… Che vita è… Che vita è!” urlò e conficcò le sue
unghie, che poco prima avevano graffiato il viso di Acilia, sul suo
collo, come se avesse voluto scavare a fondo nella sua gola e staccarsi
la testa. Gridava e le sue dita si imbrattavano di sangue, quando
Acilia gli prese con forza le braccia urlandogli di fermarsi.
Kaeso, frustrato, abbandonò le braccia lungo il corpo, richinando la testa.
“Cosa siamo, Aci?” domandò, con voce affatica “Tu lo sai?”.
Alzò
il viso e ad Acilia tremavano le mani, in quel momento si poteva
perdere negli occhi di lui e si sarebbe persa volentieri, in quel mare.
Perdersi, piuttosto che rispondere…
“No” ammise “Non lo so…”.
“Quanto
durerà ancora?” continuava Kaeso “E cosa ci sarà dopo? Sarà così per
sempre? Per sempre?”. La sua voce s’affievolì e quel per sempre, che pronunciava così mestamente – ma che suonava così minaccioso – si ridusse quasi ad un eco.
Le
prese una mano e la guardò con due occhi blu che mai erano stati così
grandi, e vivi. “Hai detto che mi puoi aiutare. Promettimelo…” fece.
Acilia si sentì mozzare il respiro. Kaeso… Dov’era finito Kaeso? Possibile che se ne fosse andato davvero? Per sempre?
Strinse la sua fredda mano, come pervasa da un’istantanea fiducia.
“Promettimi che mi aiuterai, e che non mi abbandonerai mai!” concluse
lui.
La
fiducia scivolò via, come quel sangue appiccicoso e lei sentì un gran
peso sul proprio cuore, era un macigno. Non era brava lei con le
promesse. Era stata in grado di uccidere l’uomo che amava – e ancora
aveva voglia di gridare per questo! – cosa sarebbe stata in grado di
fare a Kaeso?
Cosa gli hai già fatto…
“Sì”
disse dopo un po’ “Sì… Sì!”.
Strinse con più vigore la mano, convincendosi lei stessa.
“Staremo
sempre insieme, non è vero?” chiese Kaeso, incurvando le sopracciglia.
Tremò quando sentì il ragazzino mugghiare, e per un attimo non disse
nulla, poi la sua voce riemerse da quelle spalle ingobbite e insicure,
come un naufrago che ancora aveva speranza.
“Questo
per sempre mi fa paura, ma se staremo insieme… se ci sarai anche tu…”.
Ebbe un altro tremito e guardò con orrore il ragazzino mutilato. “Tutto
questo mi terrorizza!” esclamò. I suoi occhi rimasero fermi, come
ipnotizzati dal sangue e dal dolore che colavano dalla sua vittima.
“E’
come se non fossi più io… Non lo sono, non sono più io… Perché io sono
morto, e questo è un altro me…”. Tornò a guardare Acilia, che intanto
lo fissava, allucinata forse, o con chissà quale altra espressione di
sgomento sul volto. “Sei tu che mi hai ucciso” dichiarò e lei non aveva
più voglia di guardarlo in faccia. “Mi hai ucciso tu” continuò lui,
annuendo e alzando la voce “Mi hai ucciso tu, ora non mi puoi più
abbandonare, me lo devi… Me lo devi!”.
Acilia
mollò la presa e si portò entrambe le mani al viso. Aveva voglia di
nascondere lacrime che non aveva. La voce di Kaeso la raggiunse
attraverso le fessure tra le dita. “Se tu te ne andassi… Penso che
potrei impazzire del tutto”.
Acilia allargò le dita e guardò Kaeso. Guardandolo, si sentiva sicura. Bastava poco, un solo momento per cancellare tutto il resto. “Non
ti abbandonerò” fece, con voce spezzata “Staremo
insieme, sopporteremo tutto insieme…”.
Kaeso
fece un debole sorriso poi richinò lo sguardo sulle proprie mani,
ancora sporche di sangue. Il suo viso divenne a poco a poco più freddo,
e non diceva più niente, e Acilia aveva paura. Ad un tratto il vampiro
si leccò avidamente le dita, con sguardo trasognato. “Ho fame”. I suoi
occhi intercettarono il corpo del ragazzino che ancora era lì, tremante
e disperato, e non avevano più niente di vivo dentro.
Acilia si impietrì. Gli aveva tenuto stretto le mano, gli aveva fatto una promessa, lui le aveva sorriso.
Come pensavi di poter cancellare tutto il resto?
“Sono
io che ti ho ridotto così” sussurrò nuovamente, ripetendo quello che si
diceva sempre, quello che si infliggeva sempre, quello che non doveva
dimenticare, mai.
Dubris
cercava di evitare il più possibile la mischia, tenendo ben stretta a
sé Eliza, quando si accorse che nessun vampiro stava cercando di
attaccarlo. Si fermò e si voltò indietro. Persino Charlene si guardava
intorno, spaesata. La sala dal pavimento sempre più rosso, sangue che
colava ovunque, di corpi a terra non ce n’erano e Dubris non riusciva a
capire chi fosse vivo. Poi capì perché in quel momento la battaglia
sembrava sospesa.
Dalla
parte opposta della sala Kaeso e Acilia stavano combattendo. Lei in
realtà sembrava solo evitare la spada di lui, con un’inutile arma in
mano.
Cosa aspettava? Doveva colpirlo!
Dubris
sentiva di nuovo dentro di sé una grande rabbia e strinse
più forte Eliza per calmarsi, fino a che lei non gemette.
Scusa, pensò Dubris chinando la testa, senza parlare, scusa. Voleva vedere Kaeso morto, ora!
Poi sarebbe morta anche Acilia…
Dubris alzò di scatto il viso e vide la spada di Kaeso conficcarsi nel fianco di lei.
“No!” gridò. Doveva andare ad aiutarla, subito.
La
gente urlava intorno a lui, parecchi fomentavano Kaeso, correvano, gli
si avvicinavano brandendo le loro armi… “No!” urlò ancora Dubris,
sentendosi inerme, con il peso di quell’umana addosso.
“Fermi!”
tuonò Kaeso voltandosi verso tutti loro, mentre Acilia, a terra,
fiatava e gocciolava sangue. “Non vi intromettete. Questa è una
battaglia tra me e la grande Acilia”.
Tutti tacquero e Dubris lo odiò. Poi ebbe una strana sensazione, un
presentimento così assurdo… Era come se Kaeso stesse dando il tempo ad
Acilia di riprendersi. Dubris si guardò intorno. Tutti erano attoniti.
Charlene guardava Kaeso con gli occhi e la boccuccia spalancati.
Poi quello urlò di nuovo. “Uccidete tutti gli altri!”.
Dubris
ricevette un pugno o qualcosa di simile alla schiena e barcollò. Eliza
era aggrappata a lui piangendo piano e digrignando i denti.
Non posso aiutarti, Aci, non posso.
Tutti
ripresero a muoversi e a gridare, un terribile formicaio che Dubris
doveva riuscire a superare. Doveva portare in salvo Eliza, doveva…
Doveva salvare qualcuno!
Perché non hai salvato Ramona.
Corse
più velocemente possibile, intorno a quelle macchie di colore che si
muovevano repentine quanto lui, e lui vedeva tutto sfuocato, finché non
vide…
“Dubris! Dov’è Ramona?”.
Non
era possibile, quello era Lyuben! Vedeva distintamente la sua chioma
bionda, increspata, e un rivolo di sangue che gli usciva dalla bocca.
Stava combattendo al loro fianco! “Dov’è Ramona?!” insisteva.
Come faccio a dirglielo, pensò Dubris, atterrito, come faccio…
Aprì la bocca, sentendo le proprie labbre così pesanti.
“E’… è morta”.
Lo sguardo di Lyuben si raggelò. I suoi occhi si fecero così stranamente crudeli.
“Non l’hai protetta” disse.
A
Dubris tremarono le gambe. Lyuben non poteva fare niente, quella volta
toccava a lui, Dubris, il suo creatore, proteggere Ramona… Non l’aveva
fatto e ora Lyuben l’avrebbe odiato.
“E quella che hai in braccio chi è?!” abbaiò ancora il biondo, arrabbiato.
“E’…
è…”. Non è nessuno in confronto a Ramona,
pensava Dubris, non ho giustificazioni.
“Dubris!
Ti ho chiesto chi è!”. La voce di Lyuben si era alzata,
era diventata squillante… Sembrava una voce femminile.
“Dubris!”.
Dubris
sbatté le palpebre più volte. Victoire era davanti a lui con gli occhi
sgranati, i capelli impastati di sangue, un rivolto che le correva giù
per il mento. “Mi dispiace per Ramona, Dubris… Ma non è colpa tua!
Reagisci!”.
Non l’hai protetta.
Non c’era Lyuben in quella stanza. Certo, Lyuben era morto.
Dubris
fece un cenno d’assenso, confuso. Victoire lo guardava in attesa e lui
parlò: “E’… è l’umana che ha rapito Kaeso. Ti ricordi? E’ incinta. La
devo salvare”.
Victoire
spalancò ancora di più gli occhi. Era lei la stessa che gli gridava di
sparare a Kaeso, anche se aveva quella donna in braccio, e ora non
riusciva a dirgli che stava sbagliando ancora.
“Vai” disse “Vai… al furgone… muoviti… tra un po’ sorgerà il sole!”.
Allora sto facendo la cosa giusta.
Dubris
non disse più niente e corse, ignorando gli spari, le urla, il pianto
di Eliza che, disperato, gli chiedeva dove fosse Charlene.
Acilia si era rialzata ed aveva riacquistato velocità.
Kaeso aveva di nuovo mancato il colpo.
Perché fallisci?
Lei era più forte e più veloce, ma lui non stava forse sbagliando un po’ troppo? Non stava prendendo tempo?
La
verità era che voleva che durasse molto, moltissimo tempo quella
battaglia. Lui e Acilia, quel per sempre di cui avevano più volte
parlato.
Per farsi coraggio a vicenda. Per non arrendersi.
Ma Kaeso aveva imparato ad apprezzare quello che era.
E allora perché avresti voluto Acilia al tuo fianco?
Acilia
non faceva altro che evitare i suoi colpi, col volto concentrato e gli
occhi tristi. Non avere quegli occhi tristi, pensò lui, è solo colpa
tua se siamo arrivati a questo punto.
Apprezzi davvero quello che sei?
Ramona
gli aveva parlato di una divinità che era più simile a loro che agli
umani. Era una cosa strabiliante, ciò che aveva temuto per tutta la
vita non era altro che un’immagine più potente di se stesso.
Un’immagine più potente di me stesso.
Acilia
sparò improvvisamente un colpo e Kaeso fu costretto a volare via. Il
respiro mozzato, le gambe sospese per aria, la spada lucida e
oscillante.
Un tempo, lui aveva avuto paura di se stesso…
Rise appena quando vide Acilia librarsi in aria e raggiungerlo. Lo guardava con sfida, odio e rancore.
No, quello è il tuo sguardo.
Gli occhi di Acilia sono tristi, ricordi?
Smettila di confondere le cose!
“Kaeso”
lo raggiunse la voce di Acilia. Ora Kaeso la vedeva bene. Aveva i
lunghi capelli neri appiccicati alla faccia, i vestiti sporchi di
sangue e non gli puntava la pistola addosso. Il viso piegato in rughe
che la rendevano così vecchia, così tanto più vecchia di quello che era…
Lei è vecchia. Lo sei anche tu.
“Non ti ricordi più nulla di Viridio?”.
Kaeso schioccò le labbra, infastidito. “Il mio nome da umano”.
Acilia parve confusa e lui ridacchiò. “Aci, io mi ricordo tutto… Non sono pazzo, renditene conto”.
Lei
inspirò a fondo. Esitò un attimo, poi disse: “La pazzia ha preso
completamente possesso di te. Sei pazzo da talmente tanto tempo che non
lo sei più”. Aveva sussurrato, come se parlasse a se stessa.
Kaeso rivide l’immagine di Acilia che sussurrava a se stessa, lo sussurrava sempre. Sono io che ti ho ridotto così.
L’antica
rabbia che tornava, una ragazza dal volto innocente che gli si
avvicinava e a tradimento lo uccideva, beveva il suo sangue… E osava
venirgli a dire che era pazzo!
“Sono
solo cambiato!” gridò “Tu ti credi la buona, non è vero? E io sarei il
cattivo! Ma chi era il cattivo millecinquecento anni fa?!”.
“Ho
fatto degli errori!” urlò Acilia in risposta ma Kaeso non aveva alcuna
intenzione di lasciarla parlare. Con odio, alzò il braccio e sfregiò
con la punta della lama la bocca della ragazza. Lei barcollò, nella
brezza che proveniva dalla porta aperta, e si portò una mano alla bocca
con un urlo soffocato, imbrattandola subito di rosso e Kaeso recuperò
la calma.
“Non
si tratta di essere buoni o cattivi, non si è mai trattato di questo”
disse, fissando Aci, mettendo bene a fuoco il suo dolore, con piacere
“Ci sono solo epoche da attraversare, scelte da compiere e personalità
che cambiano”.
Acilia
ritrasse la mano lasciando intravedere sangue e labbra che si
ricomponevano e Kaeso concluse: “Nessuno vive così poco da non cambiare
volto nemmeno una volta”. Le si avvicinò in un lampo e le prese il viso
tra le dita, stringendoglielo. “E tu hai vissuto parecchio, no?”.
Acilia,
immobile nella sua stretta, lo fissava senza battere ciglio e lui sputò
fuori di nuovo la rabbia, gridando. “E io non so chi sei veramente!”.
Alzò la spada, deciso finalmente a decapitarla, a punirla.
Per cosa la vuoi punire? Ora fai tutto quello che ti ha insegnato. Ti piace quello che ti ha insegnato.
Urlò di collera e la sua mano era pronta e veloce, il collo di Acilia in attesa.
Quale parte di te la vuole punire?
Ma ci fu uno sparo e Kaeso cadde all’indietro, planando a terra.
Non ti ricordi più nulla di Viridio?
L’impatto
col pavimento fu forte e doloroso. Kaeso gridava, si contorse, ma il
dolore diminuiva e lui si guardò il torace. Il proiettile si era
infilato in una costola e il suo corpo e lo stava espellendo, insieme a
fiotti di sangue. La spada era caduta poco distante da lui.
Allora
mi hai finalmente sparato, pensò. Guardò verso l’alto. Acilia aveva il
fucile puntato su di lui e avrebbe di nuovo colpito, Kaeso ora sapeva che l’avrebbe fatto…
“Papà!” fece una vocetta squillante, sovrastando il caos.
Sia
Kaeso che Acilia si voltarono. Lontana dalla mischia stava una figurina
coi capelli ricci, in un vestitino schizzato di sangue. I suoi occhi
blu, Kaeso li vedeva così bene, anche se erano rossi.
“Charlene” fece lui, allarmato “Non dovresti stare qui! Torna di sopra!”.
“Papà!” insistette lei, avvicinandosi “Stai bene?”.
Papà.
Kaeso
sentiva qualcosa di stranamente caldo nel petto. Aveva voglia di
abbracciare la bambina ma voleva anche che se ne andasse, che se ne
stesse al sicuro. Charlene continuava ad avvicinarsi, ma era diversa.
Aveva i capelli lisci e scuri, una tunichetta sporca e dei sandali.
“Hai ricreato Iulia” giunse la voce di Acilia, incredula.
Kaeso
si voltò di scatto a guardarla. Lei aveva gli occhi spalancati, fissava
Charlene e sembrava non capacitarsene. “Hai trasformato una bambina… Sì
che sei pazzo!”. Sembrava un dolore immenso quello sul volto di Acilia
e Kaeso non capiva il perché. Non c’era niente di sbagliato in quello
che aveva fatto, niente!
“Charlene,
tesoro, è pericoloso qua… Torna di sopra” disse, rivolto a Charlene. Ma
la bambina non si muoveva. Gli sorrise, e non aveva i denti aguzzi. Gli
occhi non erano rossi e la sua carnagione era olivastra.
Ma
fasci di luce luminosi stavano entrando nel castello dall’ingresso e i
piedi di Charlene cominciarono a fumare. La sua tunica si allungò e
divenne un vestito, la pelle impallidì e i capelli tornarono ricci. Nei
suoi occhi rossi zampillavano fiamme.
“Spostati!” urlò Kaeso, sgranando gli occhi.
Che è successo?
Corse
verso la bambina e la spinse via, verso l’interno e il buio del salone.
Gli altri combattenti si erano fermati, allarmati. La notte era già
finita, il sole stava sorgendo e loro erano diventati tutti ugualmente
inermi.
Hai ricreato Iulia.
“Moriremo
insieme, Kaeso!” gridò qualcuno, spintonandolo. Lui ricadde a terra,
Acilia troneggiava su di lui. Il suo viso era un esplodere di angoscia
e ira. Si chinò su di lui e lo afferrò con una mano, con l’altra ancora
stringeva il fucile. Prese il volo, trascinandolo fuori.
Kaeso
non oppose troppa resistenza, non capiva cosa diavolo avesse in mente
la sua creatrice, sapeva solo che se si fossero esposti entrambi alla
luce del sole lui non sarebbe morto per primo.
Il
calore cominciò a trafiggerlo con delle fitte fastidiose, poi il calore
divenne dolore e il dolore divenne insopportabile. Si sentì spinto e
lui cadde a terra, sui fili d’erba che divennero rossi, perché lui
stava sputando sangue, ma non era sangue normale… Era così rosso,
fumante, gorgogliante ma lui dovette smettere di guardarlo perché gli
occhi gli facevano male e gridò, rigirandosi e contorcendosi.
“Tranquillo,
non ci vorrà troppo” disse la voce di Acilia, lì
vicino, affaticata “Siamo vecchi, bruceremo presto”.
Kaeso
si mise seduto con quelle che sentiva ancora come sue gambe e si sforzò
terribilmente di aprire gli occhi. Si mise una mano sulla fronte, che
fungesse da visiera, perché aveva paura che i suoi occhi si
squagliassero e lui voleva vedere Acilia, la voleva vedere dannatamente
bruciare.
“Brucerai
prima tu” biascicò, sentendo le guance che scendevano
sulla bocca, impedendogli di articolare bene i suoni.
Acilia
aveva i capelli incendiati, in una corona di fuoco. Ed era bellissima,
così illuminata; il sole, doveva essere bellissimo… Kaeso l’aveva
dimenticato. I vestiti della donna si stavano annerendo e lacerando,
scoprendo il suo corpo, che presto sarebbe stato cenere.
Allora lo vuoi davvero, morire.
Nessuno
dei due riusciva più a parlare e Acilia si buttò a terra affianco a lui
perché le sue ginocchia stavano scomparendo. Metà del suo viso stava
bruciando ed era una visione orribile, perché Kaeso sapeva che stava
capitando la stessa cosa a lui.
Non riesco a essere felice. Non riesco a vederla bruciare ed essere felice.
Ma
stavano bruciando insieme, era la loro fine, decretata da un destino
crudele, che li aveva voluti insieme, in tutti i modi in cui due
persone possono stare insieme.
Ma
Acilia stava sollevando una mano annerita. Riusciva ancora a tenere il
fucile con quel braccio, facendo ombra con il suo stesso corpo.
La
sua bocca smise di urlare e digrignò i denti che ancora aveva,
preparandosi a parlare. E i suoni uscirono angosciati, spezzetati e
brucianti, ma Kaeso capì.
“Se
brucerò per prima… Mi devo…” un urlo e chiuse l’occhio che ancora era
intatto. Doveva muoversi, prima che le fiamme arrivassero alla bocca.
“Assicurare… che tu… muoia”. Gli puntò il fucile tremante contro il
petto e Kaeso si preparò.
Mi abbandoni anche stavolta. Allora tu non cambi mai.
Kaeso
non capì come ma riuscì a parlare, mentre le fiamme continuavano a
divorarlo. Non capiva neanche come potesse essere ancora vivo, ma forse
era già morto e l’al di là non era che un ripetersi di tutti gli
avvenimenti più brutti della propria vita.
“La finiamo come… l’abbiamo cominciata, Aci. Con te che mi uccidi”.
Acilia
era ormai incandescente, avvolta dal fuoco, dal sole, dalla luce, tutto
ciò che Kaeso aveva sempre disprezzato, e temuto.
Almeno aveva potuto vederle un’ultima volta: il sole, la luce, Acilia.
Dubris
aveva volato fino ai piedi del monte con Eliza in braccio, ignorando i
suoi scalpiti e le sue grida, ed aveva raggiunto il loro furgone. Il
sole aveva cominciato a sorgere e lui aveva perso velocità ma era
giunto appena in tempo. I suoi capelli avevano cominciato a fumare un
poco e ora, seduto con la schiena poggiata alla parete del furgone, a
grossi respiri, si stava riprendendo. Aveva una gran sete ma doveva
trattenersi perché l’unica umana che aveva vicino era una donna incinta
a cui aveva appena salvato la vita, e dissanguarla non sarebbe stato un
gran finale.
Eliza
stava piangendo a dirotto. “Charlene…”. Guardava Dubris implorante, con
gli occhi che traboccavano lacrime a non finire, una disperazione
lacerante sul volto. “Ti prego… Dobbiamo tornare indietro e salvare
Charlene!”.
Dubris
scosse la testa, sentendo un grossissimo nodo alla gola. “Non
posso più uscire, Eliza, c’è il sole”.
“Ti prego…” continuava a singhiozzare lei.
Lui
non ce la faceva più. Aveva le orecchie perforate dal suo pianto e non
poteva fare più niente per aiutarla. Si sentiva inutile e stupido,
impotente… Cosa sarebbe successo a Charlene? Forse… forse se la sarebbe
cavata, in fondo era un vampiro.
“C’è
il sole” ringhiò, costernato, tirando un pugno sul
pavimento “C’è il sole…”.
“Lascia
andare me” disse Eliza “Lascia andare me!”. Si alzò in piedi,
accingendosi ad uscire ma Dubris in un attimo le fu addosso con un
abbraccio strettissimo. “Smettila, moriresti!”.
“Devo salvare mia figlia!” strillò lei.
“E’
un vampiro! Non è più tua figlia!” gridò lui, continuando a stringerla.
Non l’avrebbe mai lasciata andare, avrebbe fatto di tutto pur di
proteggere almeno lei.
Eliza
sembrò acquietarsi un attimo poi scoppiò a piangere più forte. Guardò
Dubris con odio e disse: “Anche tu sei un vampiro. Credevo che non
facesse differenza”.
Dubris
annuì, poi scosse la testa subito dopo. Era confuso, era tutto assurdo,
quella battaglia era andata in un modo così strano… così sbagliato.
“Tutti i vampiri perdono la propria famiglia, tutti…”.
Eliza si riagitò tra le sue braccia.
“Vuoi uccidere anche il bambino che porti in grembo?” sbottò Dubris “Non andare, fallo per lui”.
La
donna si calmò di nuovo e poi scivolò giù dalle
braccia del vampiro, cadendo sulle ginocchia, gemendo atrocemente.
Dubris si chinò a terra insieme a lei e le prese le mani. “Mi dispiace, davvero, mi dispiace…”.
Eliza
continuò a piangere così forte che l’altro fu tentato di mettersi le
mani sulle orecchie. Per lui era tutto moltiplicato, il sentire, il
vedere, il soffrire… Ma si trattenne. Rimanse con le mani nelle sue, ad
aspettare, chissà cosa.
Il
dolore era immenso e Acilia doveva riuscire a premere quel maledetto
grilleto prima che il fucile le si sciogliesse in mano, per il contatto
con la sua pelle, o prima che la mano le cadesse. Doveva farlo, l’aveva
promesso: uccidere Kaeso e consegnarsi agli umani!
Un urlo la raggiunse, ancora quell’urlo, questa volta più straziante…
“Papà!”.
Roteò
gli occhi, o un occhio, la vista la stava abbandonando, liquefacendosi
e nella luce che divampava e uccideva tutto vide un incendio. Era la
bambina, quella povera bambina trasformata da Kaeso. Aveva i capelli e
il vestito in fiamme e gridava tantissimo. Li aveva seguiti! Ad Acilia
parve di rivedere Lolita, crogiolarsi in lingue di fuoco, mentre urlava
all’ingiustizia umana e a tutto ciò che c’era di crudele.
Poi
sentì Kaeso gridare disperatamente il nome di Charlene ed Acilia
desiderò di aver premuto subito il grilletto, per risparmiare a lui
quella vista infame. Solo un mostro poteva trasformare un bambino in un
vampiro per divertimento, ma non era un mostro il creatore che urlava
così furiosamente vedendo la morte di un suo creato.
Lei è un creato diverso dagli altri. Lei, per quella parte di lui sepolta e scomparsa, è Iulia.
Acilia
premette il grilletto con un ultimo sforzo e un ultimo urlo, proprio
contro il petto di Kaeso, mentre gli guardava il volto stravolto dalle
fiamme, dal dolore, dall’amore.
Allora Viridio non è morto del tutto.
Riuscì
a udire lo sparo e riuscì a vedere Kaeso esplodere in un mare di
sangue, avvolto da un mare di luce, così intenso e accecante. Poi gli
spasimi e le fitte di dolore aumentarono vorticosamente e Acilia
dovette abbandonare il fucile perché la sua mano non esisteva più – non
se la sentiva più – e poi si accasciò a terra, o quella che pensava
fosse terra, perché intorno a lei era tutta luce, e tutto fuoco. E lei
bruciava.
Dubris
provò quella sensazione, di nuovo. Il suo petto che sembrava lacerarsi,
un dolore così forte da farlo urlare. Dovette allontanarsi da Eliza e
rimase sul pavimento del furgone, a contorcersi, senza sapere perché.
Ramona non poteva essere morta due volte e lui non sapeva di chi stesse
il suo corpo piangendo la morte. Ma un creatore del resto, da qualche
parte, doveva avercelo anche lui.
Ed evidentemente stava morendo.
Ormai ci siamo, mancano solo due capitoli, ma mi vedo costretta a
rimandare il prossimo a fine luglio perché tra poco parto :)
intanto non abbandonatemi! Entro agosto la storia sarà conclusa!
Alla prossima! E buoni esami/vacanze (madonna che ossimoro) a tutti :)
ps: l'azione lascia sempre a desiderare, lo so.. abbiate pazienza XD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 28 *** All'origine ***
Ventisettesimo capitolo
CAPITOLO
XXVII
ALL’ORIGINE
Era tornata bambina. Si sentiva bambina. Correva con
le gambe nude esposte al sole, bianchissime, ma calde. Correva lungo una spiaggia
e i suoi piedi morbidi e bianchi venivano bagnati dal mare, che veniva e se ne
andava, e tornava, e si ritraeva, continuamente. La sabbia umida si alzava coi
suoi passi, insieme agli schizzi, e a lei veniva voglia di ridere.
Il sole era bello e la riscaldava, finalmente poteva
di nuovo vederlo. Ora poteva vederlo perché era libera. Aveva pagato per i suoi
delitti e scontato i suoi peccati. Ora poteva essere felice.
La sua corsa non si fermò nemmeno quando vide una
nuvola passare sopra il sole. Lei non ci fece caso. Ma poi ne arrivarono altre
e il cielo si fece sempre più scuro. Qualcosa stava inghiottendo il sole e lei
voleva smettere di correre ma non ci riusciva. Il giorno stava diventando notte
e il sole le era alle spalle. Il mare divenne più schiumoso e irrompeva
bruscamente sulle sue gambe. Il pezzo di cielo verso cui stava andando era
sempre più nero e lei si rese conto che non stava andando da nessuna parte.
Stava solo tornando indietro.
Era tutto il giorno
che Jacque provava a chiamare Acilia e Dubris. Il sole tra poche ore sarebbe di
nuovo tramontato e lui non aveva chiuso occhio. Lui ed Eike erano rintanati
nello scantinato della casa, ma adagiarsi sul pavimento e dormire era
impensabile.
“Lo sapresti se lei
fosse morta” disse Eike, sdraiato per terra e girato su un fianco.
“Mi sento strano”
rispose Jacque, agitato “Ho una brutta sensazione e un vuoto allo stomaco… È
questo? Vuol dire che lei è morta?”
Eike alzò gli occhi
al cielo. “Quella si chiama fame.”
L’altro sbuffò e
fece due passi, carcando di calmarsi. Eike aveva ragione. Erano affamati e
preoccupati, ma Acilia stava bene. Altrimenti non se lo sarebbe chiesto ogni
due secondi, lo avrebbe saputo e basta. E
attendere il momento in cui forse si sarebbe accasciato a terra per l’orribile
consapevolezza, quella era la cosa peggiore.
“Non risponde
nemmeno Dubris” sbuffò ancora.
Eike rimase
immobile nella sua posizione. “Forse è lui che è morto.”
Jacque non rispose
ma la sua preoccupazione cresceva. Non credeva che si sarebbe mai dispiaciuto
per Dubris.
Le sue orecchie
avvertirono un rumore provenire dal piano di sopra. Era lieve, proveniva
dall’esterno della casa. In un lampo si precipitò su per le scale e fu in
salotto. Eike era dietro di lui, con la stessa espressione attenta.
Qualcuno stava
bussando al portone della villa e Jacque si sentì tirare per un braccio.
“Facciamo
attenzione” gli disse Eike.
“Sarà Acilia”
ribatté l’altro, felice e stordito come non mai.
“Facciamo
attenzione comunque” ringhiò il biondo, passando avanti. Jacque non replicò, cercando di contenere la
propria agitazione. Era Acilia? Dubris che veniva a dire loro che Acilia era
morta? Ma Jacque l’avrebbe saputo… E se fosse stato Dubris che era venuto per
dire loro che Acilia si era già consegnata?
Lei non era ancora morta… E se fosse stato un umano? Una squadra di cercatori?
Acilia aveva rivelato la loro posizione? Oppure… Kaeso? Era venuto per
prendersi un pezzo della sua famiglia? Jacque rabbrividì. Ma poi si avvicinò
cautamente alla finestra chiusa per sbirciare oltre il vetro, stando attento a
non lasciarsi catturare dai raggi di luce.
Fuori dalla porta
c’era una figura alta di donna insanguinata e Jacque trattenne il respiro.
Claire lo squadrava
con un sorriso maligno, gocce di sangue che colavano dalle zanne, i capelli
biondi che riflettevano la luce del sole.
Le immagini
sfuocate intorno a lei stavano poco a poco riprendendo forma e colore e lei
riusciva a sbattere le palpebre. Le sentiva meno pesanti e il terribile caldo
che aveva provato stava lentamente andandosene. Un corpo ce l’aveva ancora,
ferito e dolorante, ma la schiena le obbediva e l’alzò, mettendosi seduta. Un
tremendo capogiro la colse e sputò sangue. Si guardò le braccia, segnate da
graffi, pezzi di pelle bruciata, fori che si stavano chiudendo. Acilia digrignò
i denti per il male, e non capiva. Stava bruciando, non doveva morire?
L’ultima cosa che
ricordava era che stava bruciando… poi c’era quella spiaggia, calda, infuocata…
“Aci! Acilia!”
gridavano intorno a lei “Si è ripresa!”
Finalmente Acilia
alzò lo sguardo e ciò che vide la raggelò. Intorno a lei stavano distesi tre
corpi bianchi di umani. Morti.
Dissanguati.
“No…” biascicò,
ritraendosi sconvolta “No…” Scalciò strisciando all’indietro, ignorando il
dolore e urlando. Allora era così, era sopravvissuta a spese di altri! Aveva
dissanguato tre persone per potersi riprendere! C’era qualcosa di davvero
demoniaco in lei, che non voleva lasciarla morire…
“Stai bene?”
Acilia inquadrò il
volto di Victoire. Sembrava stare bene e accanto a lei c’erano i suoi compagni.
Ma mancava qualcuno… mancavano… Li cercò con lo sguardo. Erano nel salone della
casa di Kaeso. Non c’erano più tende alle finestre e dai vetri si vedevano il
cielo chiaro e una pallida luce di sole. Si rese conto che le tende rosse erano
a terra, sul pavimento, delle quali una era proprio accanto a lei.
“Kaeso è morto”
disse Victoire.
Morto, morto davvero… Perché lei non lo
era?
“Ci siamo coperti
con le tende e ti siamo venuti a prendere. Stavi bruciando.”
Lo so, pensò
Acilia, lo so che stavo bruciando, maledizione…
“Ti abbiamo dato
del sangue per…”
“Delle persone.”
Acilia parlò per la prima volta, arrabbiata, con voce spezzata e affaticata. “Mi
avete dato delle persone. Chi erano?”
“Prigionieri di
Kaeso” rispose Luca “Erano gli unici umani nei paraggi, tu avevi assolutamente
bisogno di…”
“Di essere lasciata
in pace, ecco di cosa avevo bisogno” farfugliò l’altra. Tossì subito dopo,
sputando ancora sangue. Guardò con odio tutti i presenti. Molti si lasciarono
intimorire, Luca era contrariato, Vicotire aveva affilato lo sguardo. “Tu vuoi
morire, d’accordo, ma non puoi farlo subito. Non puoi lasciarci così, senza
dirci cosa fare dei prigionieri e della Rappresentanza.”
Acilia si guardò
intorno e vide che legati con dell’argento c’erano innumerevoli vampiri, sul
lago di sangue che apparteneva ai caduti. Poi rifece scivolare lo sguardo sui
tre umani morti. Erano due donne giovani e un uomo. “Siamo venuti qui per
salvarli” bisbigliò “Siamo venuti qui per fermare Kaeso e salvare gli umani…”
“Non è vero”
insistette Victoire “Siamo venuti qui per fermare Kaeso, e salvare l’umanità.”
Acilia voleva
rispondere ma, ancora, rantolò.
Noi proteggiamo gli
umani, voleva dire. Voleva urlarlo, voleva urlare quello che aveva sempre
pensato Jacque, quello che aveva capito anche lei – ipocriti! Quello che pensava anche Kaeso – Acilia boccheggiò col
sangue tra i denti.
Insensibile, pensò,
mentre a fatica si rialzava in piedi ed evitava lo sguardo di Victoire. Quando
marchi la differenza tra umani e umanità, allora sei diventato insensibile.
“La loro vita
valeva più della mia” biascicò.
“Non dire
sciocchezze” replicò qualcuno.
Acilia cercò chi
avesse parlato. Pensò a Dubris ma lui non c’era.
“Non sembra che
abbiamo vinto” borbottò qualcun altro.
Acilia ignorò i commenti
e le voci che si levarono dal gruppo e passò oltre, zoppicando, sentendo la sua
faccia ancora bruciare. Guardò oltre il portone, tentata di fuggire di nuovo
sotto il sole.
Codarda.
Le avevano messo
sotto il naso tre umani e lei li aveva finiti in un lampo, senza neanche
accorgersene.
Per quanto tu lo desideri, non sarai mai una vittima.
Non stanotte e neanche dopo.
Allora lei era
ancora attaccata alla vita. Perché?! Odiava pensare che Kaeso potesse avere
ragione.
Tu non ti consegnerai mai, non ti suiciderai mai!
Ti sbagli di
grosso, Kaeso, pensò, tu non mi conosci, non mi conosci…
E se invece fosse colui che ti conosce meglio di tutti?
I tre corpi morti
ai suoi piedi, erano tre come potevano essere venti… Era quella la sua vera
natura…
Si girò di scatto
verso gli altri, ansimando per la paura, anche se di paura ormai non doveva più
averne.
Se hai paura, hai ancora qualcosa da perdere.
“Victoire” chiamò.
La stimava poco, quell’amica. Eppure stimava molto meno se stessa. “Dov’è
Dubris? E Ramona?”
Quella non parlava
e Acilia gridò: “Dove sono?!”
Victoire scosse
finalmente la testa.
Acilia rimase a
fissare tutto quel sangue sul pavimento, tutti quei vampiri, tutte quelle
persone.
Se hai paura, non sei ancora pronta per morire.
Crollò sulle
ginocchie e non riuscì a dire altro.
“Non… non dovresti
dormire?”
Dubris, rintanato
in un angolo del furgone, alzò lo sguardo verso Eliza, seduta dalla parte
opposta.
Era molto stanco,
ma non faceva altro che rimanere immobile e assorto.
“D-Dubris…”
balbettò ancora la donna.
Lui scrollò le
spalle. “Prova tu a dormire. Io rimango di guardia.”
“Cosa stiamo
aspettando?” domandò lei, mettendosi a carponi e avvicinandosi.
“Non lo so…” ammise
Dubris. Lanciò un’occhiata ai sedili del furgone, illuminati dalla luce che
filtrava dal finestrino. “Appena cala la sera andrò a vedere che è successo.”
“Ma…”.
“Per il momento non
sta succedendo niente. Di giorno i vampiri sono più deboli, non stanno
combattendo.”
Eliza annuì e tirò
su col naso.
No, non rimetterti a piangere.
“Quell’urlo… Me lo
vuoi dire perché hai urlato così prima?”
Prima poteva voler dire interi giorni prima, o
solo qualche ora, o addirittura pochi minuti. Dubris non lo sapeva, era tutto
così lento.
“È morto il mio
creatore” rispose. Non aveva creati oltre a Ramona e Ramona era già morta, e
quella era l’unica spiegazione.
“Il tuo… quello che
ti ha trasformato?”
Dubris annuì. Era
così strano… A qualche decina di metri da loro stavano combattendo dei vampiri
e il suo creatore era morto. Non aveva certezze a riguardo ma… sembrava proprio
che il suo creatore fosse all’interno della villa di Kaeso. Non si stupì.
Chiunque fosse non poteva altro essere che uno della razza peggiore se l’aveva
abbandonato appena creato.
“Quindi… sei
contento?” domandò Eliza.
Dubris sorrise
dell’ingenuità della donna. Pensava che i vampiri odiassero i loro creatori.
Certo, non faceva una piega. In verità non era mai così, ma Dubris, Dubris lo
detestava davvero il suo creatore. Anche se una strana malinconia lo
attanagliava. Forse quel dolore gli aveva ricordato la perdita di Ramona, o
forse il rimpianto di non aver conosciuto il suo creatore.
“Ti prego,
rispondimi” fece Eliza, asciugandosi gli occhi “Se non mi tengo impegnata, se
non parlo… impazzirò.”
Dubris la guardò e
notò i suoi occhi fiammeggianti. Spalancati, rossi di pianto, incavati nelle
orbite e due occhiaie profondissime. Un’espressione che sembrava non potesse
mai più aggiustarsi.
Già due lacrime le
stavano percorrendo il volto stanco e Dubris si decise a parlare: “Voi umani
credete che noi vampiri siamo senza cuore. Beviamo il vostro sangue,
trasformiamo altre persone… Ma spesso lo facciamo per non sentirci soli. Ci
costruiamo una famiglia.”
Eliza non disse
niente, neanche un battito di ciglia.
“Quando un vampiro
crea un altro vampiro, non è mai un atto di crudeltà. È un atto di fiducia, di
affetto, di compassione, a volte anche d’amore” proseguì Dubris. Guardò Eliza e
non si stupì di vederla perplessa. Cercò le parole giuste per dire quello che
voleva: “Sono sicuro che Kaeso non odiasse Charlene. Charlene non è morta
circondata d’odio.” La sua voce si incrinò mentre vedeva gli occhi di Eliza
rigonfiarsi di lacrime.
“Il mio creatore
invece mi ha abbandonato” disse ancora “Non l’ho mai conosciuto, nessuno mi ha
mai parlato di lui… però so che è morto. Buffo, no?” Eliza si asciugò ancora
gli occhi, senza staccarli da lui. “Lui l’ho odiato, oh se l’ho odiato. Perché
mi ha trasformato senza neanche darmi una spiegazione” continuò Dubris “Però…
Ora che è morto… Mi dispiace. La verità è che avrei voluto conoscerlo. Avrei
voluto chiedergli perché mi ha creato, perché mi ha lasciato, se l’ha fatto
apposta, se è stato costretto…” La sua voce diventava sempre più bassa, mentre
dava sfogo a tutto ciò che non aveva mai detto a nessuno. “Era l’ultimo pezzo
del puzzle, e ora non posso più averlo. Senza di lui non potrò mai capire certe
cose della mia vita perché purtroppo lui fa parte di me.”
Eliza singhiozzò e
si mise una mano davanti alla bocca. Fece un profondo respiro poi disse: “Non
posso più credere che voi vampiri siate senza cuore.” Sembrava volersi
avvicinare ma poi rimase ferma dov’era. “Io ho perso mia figlia…” pianse “Tu
hai perso la tua… Non avrei mai pensato di… di poter accumunare le due cose.”
Dubris sentì una
stretta allo stomaco. “Io e Ramona siamo stati insieme sette secoli” disse, in
tono spento “Tu e tua figlia sette anni. Neanch’io pensavo di poter accumunare
le due cose.”
Eliza gli punto gli
occhi addosso, annacquati ma sempre più curiosi, quasi affascinati. “Chi sei
tu? Chi siete voi che siete entrati nella casa di Kaeso?”
“Siamo i vampiri
che credono nella convivenza pacifica con gli umani” rispose Dubris,
semplicemente, come se fosse semplice “Ci nutriamo senza uccidere e cerchiamo
di dare meno fastidio possibile. Kaeso aveva preso il controllo di troppi
vampiri, e noi avevamo il dovere di fermarlo.”
Eliza aveva gli
occhi ancora più sgranati. “Gli altri che stavano combattendo… Sono tuoi amici?”
Dubris fece un
sorrisetto. “Le amicizie più lunghe di sempre.”
“Hai paura di perdere
anche loro?”
Lui si sentì come
oscurato, dal pensiero di Acilia. Ci aveva pensato, e se fosse lei ad essere
morta? Le voleva talmente tanto bene che il suo corpo la percepiva come sua?
Per quello aveva urlato? Aveva un senso, poteva averlo. In cosa doveva sperare?
Cosa preferiva? Aver perso il proprio creatore o Acilia?
“Quando sei un
vampiro hai sempre paura di perdere qualcuno. O perdi te stesso, o tutti gli
altri.”
Eike lanciò un
grido e indietreggiò. Gli occhi gli stavano facendo uno scherzo, non poteva
essere vero quello che vedeva! Claire era uscita dalla sua tomba prima del
tempo e ora stava fuori alla luce del giorno.
Lanciò un’occhiata
Jacque e vide che anche lui era tremendamente confuso.
“Facciamola entrare”
disse, ripuntando lo sguardo su quella terribile Claire, che continuava a
scrutarli con occhi rossi e folli.
“Non brucia al sole”
farneticò Jacque, sconvolto “Non brucia al sole… Chissà cos’altro può fare! No,
non possiamo…”
“Jacque!”
“È pericolosa!”
Eike batté un piede
a terra come un vero bambino e poi puntò un dito contro il vetro della
finestra. “È più pericolosa per gli umani là fuori! Di chi credi che sia tutto
quel sangue?!”
Sapeva di aver
toccato un tasto dolente. Dopotutto durante il giorno Emily non se ne stava in
casa impaurita. Non aveva motivo di temere per la propria vita di giorno, ma se
ci fosse stato un vampiro come Claire…
“Okay” fece Jacque,
frustrato. Avanzò verso la porta e mise una mano sulla maniglia. “Stai
indietro, Eike.” Non sarebbe entrata solo Claire, ma anche qualche raggio di
luce.
Eike obbedì e non
si mosse.
Jacque aprì la
porta, standosene dietro, senza sporgersi dalla soglia e con un lungo balzo
Claire entrò. Lui si affrettò a spingere la porta per richiuderla e il sole
uscì in un lampo così com’era entrato.
“Claire?” tentò
Eike.
La donna si voltò,
ingobbita e con un lieve ringhio sul volto. Non era più lei, quella cosa non
poteva più essere una donna che amava vestirsi bene e truccarsi. Era così primitiva…
“Claire, sai chi
sono io?” domandò di nuovo Eike.
Lei si pulì con il
braccio la bocca, facendo gocciolare sangue tutto intorno. “No” rispose.
La delusione di
Eike era immensa. Sconfortato, guardò Jacque. Questi si rivolse a Claire, con
cautela: “Sai chi sei tu?”
Gli occhi di lei si
illuminarono. “Sono Dio.”
Eike rimase
interdetto. Questa non se l’aspettava proprio.
“Ma davvero?” fece
Jacque, nervoso.
“È impazzita, non è
Dio” ribatté Eike.
“Beh” continuò
l’altro, sempre più nervoso “Il fatto che sia un vampiro che non brucia al sole
potrebbe essere una prova convincente.”
“Voi che osate
chiamarvi vampiri” tuonò Claire, emanando quasi dei lampi dagli occhi rossi,
ancora cerchiati di trucco e sangue “vi siete pateticamente rammolliti. Sono
tornato per diffondere il mio seme ancora una volta.”
“Il tuo… cosa?”
“Potere, potenza,
potenzialità” proseguì la donna, avanzando un passo ad ogni parola “E crudeltà.”
Sul finale sibilò e la sua lingua si sciolse in sangue, per poi ricomporsi
nuovamente, orribilmente appuntita.
“Te l’ho detto che
non dovevamo farla entrare” disse Jacque, appiattitosi contro una parete,
terrorizzato.
Eike fissava il
volto un tempo candido di Claire e la sua mente lavorava febbrile. “No” disse
poi, rivolto al suo creatore “Pensaci, Jacque… Se è Dio come dice di essere,
perché sarebbe venuta da noi?”
Era sangue
schiumoso quello che usciva continuamente dalla bocca della donna, come fosse
la sua bava, come fosse un animale.
“È Claire che l’ha
condotta qua, la vera Claire” proseguì Eike, serrando i pugni “Vuole che la
fermiamo.”
Era calato il sole
e finalmente potevano uscire dalle mura della villa.
Acilia non poté
fare a mano di cercare le ceneri di Kaeso sparse per il prato. Avrebbero potuto
esserci anche le sue lì in mezzo, magari proprio mescolate a quelle di lui,
così come doveva essere. Non meritava altro che quella fine.
La finiamo come l’abbiamo cominciata, Aci. Con te che
mi uccidi.
Aveva ripetuto
tutto, ma questa volta non era uno sbaglio. Non era uno sbaglio ucciderlo, era
stato uno sbaglio non morire con lui. Quello che gli aveva detto… così tanto
tempo prima…
Promettimi che non mi abbandonerai.
Non aveva mantenuto
la promessa, fino alla fine.
Mi hai ucciso tu, ora non mi puoi più abbandonare, me
lo devi… Me lo devi!
Morire insieme a
lui… Gli doveva semplicemente questo. Quando aveva visto quella bambina
trasformata, l’aveva capito. Lei gli aveva strappato la vita, l’aveva fatto
impazzire e l’aveva fatto impazzire di più, abbandonandolo.
Me lo devi… Me lo devi!
Kaeso urlava ancora
nella sua testa e lei non riusciva più a sopportarlo. Sopportare tutto quello
che aveva fatto, sopportare di aver ucciso il suo creato… Di averlo abbandonato
ancora, nel modo più crudele. Quel dolore così forte, divampato insieme alle
fiamme, era convinta che l’avrebbe uccisa.
Le sue gambe erano
pesanti. Non vedeva l’ora di essere davanti agli umani, non vedeva l’ora di
essere giudicata, condannata… Ne aveva un eterno bisogno. Non ti ho
abbandonato, Kaeso, pensava, ti raggiungo, ti raggiungo.
Lo raggiungi dove?
Il segreto che
Lyuben custodiva, ora Acilia avrebbe avuto il tempo di leggerlo. Non voleva
leggere quella lettera, aveva paura… Con la mano cercò all’interno della tasca
dei pantaloni. Era ancora lì, spiegazzata ma intatta. Se l’era portata dietro,
per qualche motivo, credeva forse che l’avrebbe protetta? Credeva che avrebbe
potuto leggerla? Ma il destino le aveva regalato ancora un po’ di tempo. E poi
forse avrebbe raggiunto Kaeso e, chissà, gli avrebbe chiesto scusa.
Si mise in allerta,
perché qualcosa si stava avvicinando. Un motore, ruote che graffiavano il
sentiero… Possibile che…
Ci fu un coro di
sorpresa e il loro furgone apparve proprio davanti a loro. La portiera si aprì
e uscì Dubris.
Acilia si portò una
mano alla bocca, stordita dalla contentezza. Doveva trattenersi, doveva mantenersi
fredda, pronta a sposare la morte e invece corse verso di lui e gli gettò le
braccia al collo.
“Dubris!”
Lui la strinse. “Aci…
Sei viva” Dopo poco la lasciò andare e il vampiro venne accolto da altre
esclamazioni entusiaste. Finalmente c’era aria di vittoria.
“E così” disse poi
lui, guardandosi intorno “Kaeso è morto.”
Ci furono mormorii
di assenso, che poi divennero veri e propri boati di gioia.
“Questo furgone lo
possiamo usare per i prigionieri” intervenne Victoire, calma, addirittura un
poco accigliata, discostandosi dai festeggiamenti e aprendo il retro del
furgone.
“No, aspetta!”
esclamò Dubris, correndo verso di lei. Ma Victoire stava già osservando stupita
ciò che vi era all’interno. Acilia si accostò a loro e vide una donna che
doveva avere all’incirca l’età di Curtis, dai capelli ruffi che se ne stava
rannicchiata con due occhi spaventati.
“Sei riuscito a
salvarla” fece Victoire, sbattendo le palpebre.
“Cos’è questo tono
stupito?” replicò Dubris, con un mesto sorriso.
La donna, come
presa da un improvviso e folle coraggio, uscì dal furgone e si guardò intorno,
terrea. “Mia figlia… Mia figlia… Non è tra voi?”
Acilia capì
immediatamente che si trattava di quella Charlene. Nessuno rispondeva ma lei si
avvicinò all’umana, assumendosi le sue responsabilità – le sue colpe – senza
sforzarsi nemmeno di trovare le parole giuste. “È bruciata, l’ho vista.”
La donna si
premette una mano sulla bocca, come per impedirsi di urlare. Strinse gli occhi
– dovevano bruciare parecchio, le lacrime. Stava per cadere a terra ma Dubris,
che era al suo fianco, la sorresse.
“È meglio così, mi
creda” proseguì Acilia “Una persona intrappolata nel corpo di una bambina
vampiro… Neanche si immagina quanto avrebbe sofferto.” L’immagine di Eike le
percorse la mente. Con Jacque, un creatore fantastico, più simile a un padre,
sempre al suo fianco.
L’umana non disse
niente, si limitò a piangere più forte. Dubris la prese in braccio, come fosse
una piuma, e la portò sul sedile anteriore del furgone. Chiuse la portiera e
tornò dagli altri.
“Li porto io i
prigionieri col furgone. Voi andrete volando” disse.
“Dubris” fece
Acilia, sforzandosi di non tendere le mani verso di lui “Ramona…”
Lui abbassò le
palpebre. “L’ha uccisa Kaeso, ne sono sicuro.” Riaprì gli occhi e con essi
cercò lei. “Sono contento che tu l’abbia ammazzato.”
Acilia chinò il
capo, sentendosi le viscere contorcersi per la tristezza. Era il sangue, che
non ribolliva più di rabbia, ma lento e addolorato strisciava sotto la sua
pelle.
“Cosa ne faremo dei
prigionieri?” domandò Luca, avanzando un passo, interrompendo il silenzio che
era appena sceso.
Acilia aveva ancora
la testa abbassata ma sentiva gli occhi di tutti puntati su di sé. “Non morirà
più nessuno per la follia e gli errori di qualcun altro” disse, in tono spento
ma deciso “Abbiamo delle prigioni, usiamole.”
Nessuno disse
niente e lei non volle neanche vedere che tipo di sguardi si stessero
scambiando.
“Muoviamoci allora”
annunciò Victoire.
Intorno a lei tutti
si mossero ma lei vedeva ancora i piedi di Dubris che puntavano esattamente
nella sua direzione. Alzò la testa, pensando a cosa potergli dire – e da dire
ce n’era troppo – ma fu lui a parlare.
“Aci… Durante la
battaglia, poco dopo il sorgere del sole… Chi è morto?”
Acilia aggrottò la
fronte. Non si aspettava una domanda del genere.
“Kaeso” rispose.
Dubris si
mordicchiò il labbro. “Solo lui?”
Acilia non ne era
sicura ma credeva che, una volta sorto il sole, tutti gli altri avessero smesso
di combattere. “Solo lui.”
L’altro sembrava
sconvolto e lei non ne capiva il motivo. Voleva chiedergli cos’avesse – ma ne
aveva poi il diritto? Era stata talmente poche volte sincera con Dubris che ora
non riusciva più a dire nulla.
“Rispetto la tua
scelta” disse poi lui.
Acilia alzò le
sopracciglia. “Cosa?”
“Se ti consegnerai
agli umani mi dispiacerà molto” spiegò ancora lui “Ma rispetto la tua scelta.”
Lei non fece in
tempo a rispondere che lui subito si voltò, diretto ad aiutare gli altri nel
caricare i prigionieri sul furgone, che scalciavano e si lamentavano. Uno minacciava
di mordere e Luca gli aveva staccato le zanne a mani nude.
Dubris aveva detto
che rispettava la sua scelta, motivo in più per cui Acilia poteva andarsene
serena. Ma ora era di nuovo spaventata, era davvero quello di cui aveva
bisogno? Sentirsi dire che poteva andare tranquilla, che faceva la cosa giusta…
Nei giorni precedenti non aveva mai voluto parlare con Dubris perché temeva che
potesse farle cambiare idea. In realtà forse aveva solo paura che lui non lo
facesse.
Jacque teneva salda
nella mano la pistola, con la testa quasi svuotata. Era incredibile quello che
stava capitando ma non doveva avere paura. Se moriva non avrebbe perso niente.
Ma Eike sarebbe rimasto solo, senza più né lui né Acilia…
“La dobbiamo
uccidere” disse Eike, a malincuore.
Eike voleva bene a
Claire, Jacque l’aveva capito tardi. Non poteva lasciargli fare una cosa del
genere. Dopotutto era anche colpa sua se erano finiti in quella situazione,
doveva fare qualcosa per rimediare!
“Lo farò io” disse,
deciso.
Eike non ribatté e
Jacque capì che allora era la cosa giusta da fare. Non fece in tempo ad alzare
il braccio che Claire gli fu vicinissimo, col petto premente contro la canna
della pistola. Jacque rimase talmente interdetto che la sua mano rimase
immobile.
“Questo corpo non è
invincibile e morirà” disse la donna, lasciando correre rivoli di sangue giù
per il mento a ogni parola “Ma io ho già morso tre umani, che sono già
diventati vampiri. Veri vampiri.”
“Già diventati… ma
cosa…” farfugliò Eike.
Jacque si sentiva
come ipnotizzato dallo sguardo di Claire. Non aveva senso, non poteva avere
senso. I vampiri non incantano altri vampiri…
“E questi vampiri
morderanno altri umani. È il ricambio generazionale, miei cari. Voi siete
vecchi e spenti ormai” proseguì lei, con un ghigno.
Jacque poteva
sparare in qualunque momento, ma non lo faceva. Aveva paura di uccidere Claire
di nuovo? Aveva paura di fare un torto ad Eike?
“Non capisco” disse
“Non capisco proprio niente di quello che stai dicendo.” O forse voleva capire?
Voleva sapere?
“Ho morso tre umani”
ripeté Claire, parlando più lentamente e spalancando gli occhi “Proprio come
l’ultima volta.”
Voleva davvero
sapere?
Jacque sparò
finalmente un colpo e la pallottola di legno si piantò con un boato nel corpo
dello strano vampiro, che cominciò ad emanare luce, prima di sgretolarsi in
tanti piccoli pezzetti insanguinati, e poi l’esplosione, e tutto nel salotto
venne imbrattato di rosso.
Era morta.
Jacque fece cadere
la pistola, attonito, mentre Eike, lì di fianco, ansimava.
“Chi cazzo era,
Jacque? Che cazzo è successo?” domandò, con un sincero panico nella voce.
“Non lo so” gli
rispose l’altro, respirando fiaccamente “Non lo so.”
Ma se quella cosa
era realmente Dio e davvero c’entrava con l’origine dei vampiri – Dio poteva
forse c’entrare…? – Jacque preferiva non sapere altro.
Cara Acilia,
come ti ho detto, vorrei che tu leggessi questa lettera
quando avrai preso la decisione più importante della tua vita. Sì, sono così
ottimista da sperare che deciderai tu il momento della tua morte. Ma forse non
è ottimismo, è giustezza. Non solo per ogni vampiro, ma per ogni essere vivente
– anche gli umani, certo – dovrebbe essere consentito scegliere quando morire.
Si parla di suicidio come un atto di debolezza. Non riusciva a reagire, dicono,
non riusciva ad affrontare la vita, ha preferito scegliere la via più facile.
Secondo me morire non è mai la via più facile. Come può essere facile andare
incontro all’ignoto? È molto più semplice resistere, stare fermi, aspettare
qualcosa che ci faccia sorridere. È sperare la cosa più facile del mondo.
Capire quando è il momento giusto per andarsene, questa è la cosa più
difficile. Mi chiederai allora cosa ho fatto io in proposito. Vedi, Aci, io so
già che morirò per mano di Kaeso. Ho vissuto troppo a lungo per non capire
ancora come funziona la mente delle persone, e per persone voglio intendere sia
umani sia vampiri. Lui, sì, cercherà di uccidermi. O forse sarebbe più giusto
parlarne al passato, visto che tu stai leggendo questa lettera, e se la stai leggendo
io sono già morto. Eppure ho ancora qualche difficoltà a pensarmi come morto,
forse è perché sono vivo da troppo tempo, perdona questa mia debolezza. Dunque
– proviamoci – lui mi ha ucciso. Perché?
mi chiedi. Tu sei più forte, perché gliel’hai permesso? Perché andavi in giro
da solo, senza una scorta? Le cose sono andate così perché lo volevo io, Aci.
Avrei potuto elaborare un piano, se l’avessi voluto. Ci sarebbero stati mille
modi per evitare di essere ucciso. Non voglio peccare di superbia, ma non sono
debole né tantomeno sciocco. Ho lasciato semplicemente che gli eventi
scivolassero in avanti. La mia ora era giunta, ero il vampiro più vecchio
ancora in circolazione e non ho rimpianti. L’unico mio desiderio era che la mia
morte – che mi avrebbe portato finalmente alla pace – avesse uno scopo, che
servisse a qualcosa. Per questo ho deciso di lasciarmi uccidere da Kaeso: per
aprirti gli occhi.
Kaeso è diventato malvagio e pericoloso, Aci, devi
fermarlo e smetterla di temporeggiare. Lo so che alla fine riuscirai a fare ciò
che devi. A te la scelta se cercare di fermarlo, catturarlo o ucciderlo.
Prenderai una decisione e niente di ciò che farai sarà sbagliato. Solo a te
spetta decidere quale sarà il suo destino, perché l’hai creato tu. Non essere
sorpresa, lo so fin dal principio, ma volevo che lo capissi da sola che
nasconderlo era inutile. Sono sicuro che crescerai, e che non mi deluderai.
Come so che sei la creatrice di Kaeso? Come so di
essere il vampiro più vecchio nel mondo? Sono tante le domande che mi vorresti
fare ed è per questo che ho scritto questa lettera. Quello che so riguardo alla
nostra esistenza l’ho confidato solo a Ramona, perché è in lei che ho trovato
una fedele e dolce compagna per la vita. Ma, ahimé, anche lei prima o poi dovrà
morire e io non voglio che con lei muoiano anche tutte le risposte. Ho scritto
questa lettera appositamente per te, Aci, e l’ho fatto per ringraziarti. Una
volta letta, voglio che tu la consegni al tuo caro Jacque, quando verrà il
momento. E dopo che Jacque l’avrà letta, la consegnerà ad Eike. Non voglio che
sappiate la verità prima del tempo, non voglio che conviviate per un’eternità
con questo segreto. È bello vivere senza pensieri. Ma è anche giusto che voi
sappiate, prima di morire, a cosa andrete incontro.
È grazie a te, Aci, se ho scoperto che un’esistenza
serena e non da assassini è possibile anche per noi vampiri. Quando ci siamo
incontrati per la prima volta, era da tantissimo tempo che non mi nutrivo. Non
volevo uccidere.
Una volta noi vampiri, quando ci trovavamo davanti un
essere umano, avevamo ben poca scelta: bere il suo sangue, uccidendolo o
trasformandolo. Bastava un morso. Un morso e se non bevevi tutto il sangue di
quel poveretto, allora quel poveretto diventava un vampiro. Non ho mai trasformato
nessuno. Per nutrirmi ho dovuto uccidere, mi sono sempre rifiutato di non
andare fino in fondo.
Ma poi tu mi hai aperto un mondo. Ero rimasto indietro,
non sapevo che il nostro morso avesse perso quella sua capacità… magica? La
trasformazione era diventata una cosa più complessa, più artificiosa, più
simile a un rituale.
Sarai sbigottita. Un solo morso per trasformare?
Ebbene, Aci, non è questa l’unica capacità che abbiamo perso. Siamo sempre meno
magici, sempre meno potenti, siamo sempre più vicini agli umani. Con Ramona ho
fantasticato che un giorno i vampiri potrebbero addirittura estinguersi.
Sei confusa, me lo sento. Lascia che ti spieghi, lascia
che ti racconti una storia. È la storia dell’origine dei vampiri. Vedrai che
poi tutto sarà più chiaro.
Circa cinquemila anni fa è arrivato nel nostro mondo un
essere di cui ovviamente ho solo sentito parlare. Era un essere mandato da Dio,
a sua immagine e somiglianza, così mi han detto. Si nutriva degli umani, poteva
volare, far fare agli altri ciò che voleva, camminava sia di giorno sia di
notte, senza aver mai bisogno di riposo. Non aveva zanne e la sua pelle era
lucente, non bianca. I suoi occhi erano sempre color del cielo, mai rossi. Così
me l’hanno descritto. Questo essere ha morso tre umani, sparsi per il mondo.
Questi tre umani si sono trasformati, senza prima morire. La loro pelle è
diventata lucente e i loro denti sono diventati più appuntiti. I primi tre
umani contagiati, i primi tre vampiri. Più simili all’essere divino che li ha
morsi, che a noi. Uno di loro era Tahn-ka, il mio creatore. Gli altri si
chiamavano Kas e Rankan. L’essere divino li riunì e disse loro di creare delle
famiglie, di mordere più umani possibili, ma di sceglierli prima. Gli umani
erano animali inferiori, ma andavano studiati e analizzati. Bisognava scegliere
i migliori, quelli più forti, e diffondere con loro la propria razza. E poi
l’essere se ne andò, così come era venuto.
Tahn-ka ha creato pochi anni dopo il suo primo vampiro.
Non l’ho mai conosciuto perché venne presto ucciso da un membro della famiglia
di Kas. Avevano una mente primitiva, Aci, sono sicuro che comprendi. L’essere
divino avrebbe voluto che convissero pacificamente, avendo come unico nemico
gli umani, ma invece i tre vampiri si facevano la lotta tra loro, per capire
chi tra loro era il più forte, chi doveva essere il capo, il re.
Io sono stato il secondo e ultimo creato di Tahn-ka.
Prima che rimanesse ucciso da Rankan stesso, Tahn-ka è riuscito a dirmi tutto
ciò che ti ho spiegato fin’ora. Secondo lui avrei dovuto continuare a
combattere, io, unico superstite della nostra piccola famiglia. Io ho ceduto
subito le armi, preferendo vivere da solo una lunga e triste vita. Ero
pallidissimo, all’occasione i miei denti si allungavano terribilmente e diventavano
zanne, come quelle di un animale. Ero morto. Sono stato il primo umano a morire
per colpa di un morso che non mi prosciugasse. E poi sono risorto, vampiro. Ci
stavamo evolvendo. Non avremmo potuto avere le caratteristiche dei nostri padri
per sempre, più ci mescolavamo con gli umani più le cose cambiavano.
Girovagavo per il mondo – al tempo c’era ben poco da
vedere – e mi nutrivo infelicemente. Andavo velocissimo, più veloce di quanto
tu possa immaginare, e neanche me ne rendevo conto. Incontravo spesso dei
vampiri: era la famiglia di Kas quella che si stava più vistosamente
allargando. Ho scoperto che anche altri vampiri, prima di venir trasformati,
morivano. Anche loro erano pallidi, avevano le zanne e i loro occhi diventavano
rossi per la fame. Stavamo poco a poco diventando dei mostri. E c’era di più:
pareva che i più giovani corressero e volassero meno velocemente. Sempre più
diversi dagli umani, ma sempre meno potenti.
Il sole cominciò a farci male quando io avevo più o
meno cinquecento anni. Me ne sono sempre domandato il perché. Il sole,
l’emblema di Dio, perché doveva volerci male? Perché non stavamo compiendo il
suo destino abbastanza velocemente? O forse – ed è solo una mia ipotesi – il
sole è quella parte di Dio che non avrebbe mai voluto l’espansione della razza
di un mostro, a discapito degli umani. Ho cominciato ad elaborare questa teoria
l’anno della venuta di Cristo. Credi in queste cose? mi chiederai. In realtà
no, però vorrei. Vorrei credere che quell’essere piombato sulla Terra cinquemila
anni fa non fosse il vero Dio, ma un impostore. Il sole ci ricorderebbe questo,
in continuazione, tutti i giorni, che su questo mondo noi non siamo i
benvenuti.
Ho imparato a girare solo di notte, mentre di giorno me
ne stavo nascosto. Scoprii che altri vampiri più giovani di me avevano bisogno
di riposare durante il giorno. Io invece non ero mai stanco.
Qualche secolo prima della venuta di Cristo, incontrai
nell’antica Roma per la prima volta un vampiro che mi fece pensare bene della
mia razza. Come me odiava la sua vita e si poneva tante domande, pur non
trovando nessuna risposta. Era un uomo, più giovane di me di più di mille anni
e apparteneva alla famiglia di Kas. Il suo nome era Marco. Ho saputo da lui che
Kas e tutti i suoi creati erano morti, in quella stupida battaglia contro la
famiglia di Rankan. Io e Marco ci siamo congedati, io ero fatto per stare in
solitudine e, ti dirò, di questa mia scelta mi sono pentito. Poco tempo dopo
seppi che Marco era diventato Prefetto dei vampiri di Roma. E seppi anche che
aveva creato il suo primo vampiro: tu. Vedi, Aci, ti conosco da sempre, ma non
pensavo che tu saresti diventata così importante per me. Marco è stato poi
ucciso, lo saprai, da Camelio, quel vampiro orribile che ho avuto l’onore di
combattere al tuo fianco. Se è Marco il primo vampiro che ha capito che non
serviva più solo il morso per trasformare e ha trovato in questo piccolo
dettaglio una via di salvezza per tutti noi, allora sono stato ben contento di
accompagnarti in quella missione per vendicare la sua morte.
Di Camelio me ne aveva parlato già una volta Marco. Me
ne aveva parlato con odio, lo vedeva come un pericolo. Bada bene, Camelio non
era l’unico vampiro malvagio a quel tempo, ma era quello che stava acquistando
sempre più pericolosamente fama. Camelio
era stato creato da un creato di un creato di Rankan. Può sembrarti uno
scioglilingua, ma ecco come sapevo che in quella battaglia sarei stato il più
vecchio. Rankan e i suoi creati erano morti, Aci. Io ero ufficialmente il
vampiro più vecchio di tutto il mondo.
Come so che Kaeso è tuo creato? Dopo la morte di Marco,
ho temuto per te. Già nutrivo del risentimento nei confronti di Camelio ma
ancora di più avevo una strana voglia di occuparmi di qualcuno. Di fare un
favore a Marco. Ho chiesto in giro a tutti i vampiri se sapevano chi fossi, se
sapevano dove avrei potuto trovarti. Eri famosa, e puoi immaginarne il motivo.
Io ti cercavo, Aci, non è un caso se ci siamo incontrati. Quando, quel felice
giorno, incontrai te, Ramona e Dubris, non ero sicuro fossi tu, ma perché non
ho detto niente? Volevo conoscerti per quel che eri e non per quel che di te avevo
sentito dire. E, lo ammetto con gioia, non solo non hai deluso le mie
aspettative, ma mi hai letteralmente sconvolto. Hai fatto un’evoluzione
straordinaria, non ricadere nel tuo passato e lascialo andare. Non ti
appartiene più. Sei un’altra persona ora e, come ti vergogni di quello che eri,
ora devi andare fiera di quello che sei. Ti ringrazio ancora, e non c’è nulla
che valga di più di un grazie. Non sappiamo ancora di preciso cosa
incontreremo. Un Dio c’è e voglio sperare che sia buono. Qualcosa dall’altra
parte c’è, Aci; ci rincontreremo.
Un abbraccio,
Lyuben
Acilia rilesse più
volte diversi punti della lettera, stordita. Si lasciò cadere sulla poltrona
del salotto di casa di Dubris, con quel pezzo di carta in mano. Si sentiva
addirittura tremare ma contemporaneamente presa da una strana commozione.
Sentiva ad un tratto Lyuben vicino, si immaginava la sua voce e la sua voce la
confortava, era una bella sensazione che non voleva far andare mai via. Ma
tutte quelle novità… Il fatto che Lyuben fosse morto per sua scelta! Per
aprirle gli occhi… Lui sapeva… Sapeva tutto! E lei che si vergognava
soprattutto con lui! Non doveva, ma si sentiva ancora più stupida. Il fatto che
però Lyuben sapesse e che le volesse lo stesso bene, e che fosse morto per sua
scelta, per ritrovare la pace… La
faceva sentire meno in colpa. I primi vampiri, l’essere divino, quali cose
incredibili!
Ci ricontreremo.
Presto, presto, ci
rincontreremo presto, si diceva Acilia, eccitata e impaurita. Ma poi rilesse
quell’unica riga in cui veniva nominato Jacque. Doveva dargli la lettera ed era
giusto dargliela, cosicché sapesse anche lui…
Come fargliela
avere? Non lo voleva vedere, non voleva essere costretta a dirgli addio, non
voleva vedere quanto gli faceva male… Non aveva più pensato a lui, chissà a
cosa pensava. Mi sta odiando, pensò Acilia, proprio come mi ha odiato Kaeso.
Si alzò in piedi e
chiamò Dubris a gran voce.
Dopo
poco lui
arrivò dal piano di sopra. “Che c’è?”
domandò, in allerta “Vuoi già andare?” Dubris
sarebbe stata l’unica persona che avrebbe salutato, insieme a
Lyuben, con
quella lettera.
“Andrò tra poco”
confermò Acilia. Gli tese la lettera. “Ti chiedo di dare questa a Jacque.”
Dubris la prese,
perplesso. “L’hai scritta tu?”
“No” disse subito
Acilia. Se ne andava così? Senza dirgli niente? Non trovava proprio altre
parole se non che le dispiaceva, all’infinito. Poteva dirglielo, almeno quello.
“Digli che la deve leggere solo quando sarà giunto per lui il momento di morire”
continuò “E digli che mi dispiace tanto… E che gli voglio bene.”
Una fitta tremenda
le prese lo stomaco. Voglio piangere, pensò, voglio piangere, forse poi potrò
farlo.
Ma Dubris non
allungò la mano, si limitava a guardarla torvo.
“Ti sembra giusto
scappare così?” le disse “Non è un comportamento da veri creatori.”
Acilia sgranò gli
occhi. Lo sapeva, ma si sentì offesa. “Non ho mai detto di essere una brava
creatrice.”
“Con Kaeso hai
sbagliato tutto, lo sappiamo” insistette Dubris “Ma per Jacque puoi fare ancora
tanto! Almeno digli addio!”
Acilia si
mordicchiò il labbro mentre guardava, sorpresa, l’ardore sul viso del suo
amico. Proprio lui, che detestava tanto Jacque, ma che in realtà lo aveva a
cuore, perché aveva a cuore lei.
La ragazza strinse
gli occhi, come per far uscire lacrime fastidiose infossate da qualche parte
nel suo corpo. “Come faccio… io…”
“L’ho chiamato io
per te” la interruppe Dubris “Sarà qui tra poco.”
No, no…
Rivedere Jacque,
dopo tutto quello che lui aveva scoperto di lei! Le girava la testa.
Indietreggiò quando qualcuno bussò alla porta.
Perché mi fai questo, Dubris? Mi vuoi trattenere? Mi
vuoi complicare ancora di più le cose?
“Io ho perso
Ramona, Aci” proseguì Dubris, emanando dolore dagli occhi “So come sarà per
Jacque perdere te. Non fare in modo che questo dolore venga improvviso e
inaspettato.”
Acilia annuì,
chiusa nel suo solito egoismo mentre Dubris andava ad aprire la porta. Nella
stanza entrarono Jacque ed Eike e ad Acilia si sarebbe fermato il cuore, se
avesse potuto battere.
“Ciao” fece, un po’
titubante, e chissà quale espressione aveva sul volto.
I due ricambiarono
il saluto, non meno esitanti.
Acilia non riusciva
neanche a ricordare da quanto tempo non parlasse con loro. Le cose avevano
preso una piegha strana e tutto era precipitato all’improvviso.
“Eike” saltò su
Dubris, con un tono che forse voleva essere allegro “Vieni, lasciamoli soli.”
Eike gli lanciò uno
sguardo funereo ma non trovò da ribattere. Lo seguì ed entrambi sparirono su
per le scale.
Acilia sospirò e si
avvicinò a Jacque. Chinò il capo, non riusciva a – o non voleva – guardarlo in
faccia.
“Non te lo farò
fare” proruppe all’improvviso la voce vibrante di lui “Hai capito? Non te lo
lascerò fare.”
Lei alzò la testa e
vide il corpo di lui tremare. La guardava come non aveva mai fatto, il capo
alto, senza vergogna ma con gli occhi sfavillanti e la mascella tesa. “Non mi
puoi abbandonare, okay? Ne abbiamo passate tante insieme… Pensavo… Pensavo che
avremmo continuato a sopportare insieme.”
Promettimi che non mi abbandonerai.
Acilia sentiva i
suoi occhi sgranarsi mentre terribili deja vu le trapassavano la pelle come
spilli appuntiti, facendola sanguinare all’interno.
“Sei tu che mi hai
trasformato!” sbottò ancora l’altro “Tu mi hai legato a te, non te ne puoi
andare così!”
Mi hai ucciso tu, ora non mi puoi più abbandonare, me
lo devi… Me lo devi!
Non era Kaeso
quello che disperatamente stava parlando davanti a lei, era Jacque, Jacque! Aveva ucciso entrambi, li aveva
legati a lei per l’eternità, come un
macabro e funesto matrimonio… Voleva morire perché aveva portato alla follia e
ucciso Kaeso… E a Jacque, a Jacque non ci pensava più?!
L’immagine del
volto triste e supplichevole di Jacque si sovrappose all’immagine del Kaeso
triste e furente.
Stava per
abbandonare anche Jacque? Avrebbe commesso lo stesso errore una seconda volta?
Non è che perché Jacque è un vampiro eccellente, non
devi più preoccuparti di lui.
Lo aveva
trasformato lei. Non si era comportata come aveva fatto con Kaeso ma aveva
causato eterna sofferenza anche a lui! E lui meritava così tanto di più,
rispetto a tutti gli altri…
Quindi non era
ancora arrivato il momento per morire? Non era ancora l’ora giusta? Si sentiva
pronta, eppure… Ma se continuava a legarsi alle persone che le stavano accanto
non sarebbe mai stata pronta! Ricordò le parole di Lyuben.
Capire quando è il momento giusto per andarsene, questa
è la cosa più difficile.
Strinse in un pugno
la lettera, accartocciandone una parte. Era davvero difficile.
Quando avrai preso una decisione.
Quale decisione,
Lyuben? Quale?
La più importante della tua vita.
Si riferiva
palesemente alla morte. Decidere di morire, era questa la scelta più ardua, più
importante…
Continuava a guardare
Jacque, come ipnotizzata, come se stesse per la prima volta capendo qualcosa.
“E non ti sto
dicendo queste cose perché non so cavarmela senza di te” proseguì lui,
traboccante di sofferenza nella voce “Sono un vampiro indipendente ormai…” La
fissava dritto negli occhi. Erano occhi bellissimi, grandi. Perché lei vedeva
un’anima in quei occhi? I vampiri stanno perdendo potere, pensò Acilia, tenendo
a mente la lettera di Lyuben, per questo Jacque non può volare ed è meno forte…
Per questo forse lo vedo così umano, per questo mi sono lanciata tra le sue
braccia.
“Te le sto dicendo
perché ti amo” concluse lui, dopo qualche attimo di esitazione. Le si avvicinò,
insicuro nello sguardo ma sicuro nelle mani, che le presero il volto e
l’accarezzarono.
“Ti amo… ti prego,
non mi lasciare.”
Amare, anche quella
era una scelta importante.
Acilia si lasciò
abbracciare senza opporre alcuna resistenza, completamente attonita, sentendo
uno strano formicolio allo stomaco che non credeva di poter provare ancora.
Nonostante vivesse da duemila anni, allora, poteva ancora provare qualcosa.
L’abbraccio di Jacque… l’aveva dimenticato.
“Ti prego…”
Lui continuò a
sussurrare contro la sua bocca, poi la baciò teneramente. Lei ricambiò il bacio
e se avesse avuto delle lacrime le avrebbe spese tutte per quel momento.
Vivere, anche quella
era una scelta importante.
Kaeso aveva torto.
Non è che Acilia non avesse il coraggio, semplicemente non era ancora giunto il
momento.
Kaeso aveva torto –
o era l’unico ad aver ragione.
“Scusami” sussurrò
lei, tra un bacio e l’altro, con le braccia al collo di Jacque “Scusami…” Si
riferiva ad ogni cosa, si rivolgeva non solo a Jacque, ma anche a Kaeso. E
forse anche ad Eike, a Dubris, a Lyuben, a Ramona… Chiedeva scusa al mondo
intero, perché ancora non riusciva a piegarsi a una volontà più grossa ma
seguiva il suo cuore, come aveva sempre fatto.
Baciò ancora
Jacque, scavando nella sua bocca come se volesse scavare nella sua vita, con
una passione di duemila anni che tornava fuori, e non si era ancora spenta.
Aveva solo bisogno di sentirsi amata, stupida ragazza di diciotto anni che non
sarebbe mai cresciuta. Era ancora umana, da qualche parte. E finché se lo fosse
sentita dentro, non sarebbe mai stata pronta per morire.
“E così” stava
dicendo Eliza “quel vampiro che è di sotto… è lei che ha creato Kaeso.” Aveva
lo sguardo vacuo, con qualche traccia di risentimento.
“È anche quella che
l’ha ucciso” aggiunse Eike, seccato “salvando il culo a tutti voi.”
La donna lo guardò
con occhi gonfi di lacrime e Dubris si impietosì.
“Puoi lasciarci un
attimo soli, Eike?” domandò al solito piccolo impertinente.
“Non posso stare di
sotto, non posso stare qui…” ribatté lui con tono spento e occhi irrisori “C’è
un posto in questa casa in cui non rischio di interrompere un felice e
vomitevole idillio?”
Dubris rimase
interdetto mentre Eliza era del tutto sgomenta.
Eike sorrise
all’umana ed estrasse le zanne. “No, signora, non sono un bambino come tutti
gli altri.”
Dubris lo avrebbe
preso e appeso letteralmente per il collo ma quello uscì, soddisfatto,
chiudendosi la porta della camera dietro di sé.
Eliza era
sconvolta, e bella. Aveva potuto rinfrescarsi con una doccia e profumava di
buono. I capelli ramati non erano curati ma, puliti, le ricadevano in buffe
ciocche arrotolate sulle spalle. Seduta sul letto della camera, teneva le
braccia conserte e le spalle curve, in un umano tentativo di difesa.
“Mi dispiace” si
affrettò a dire Dubris “Eike è un vampiro buono, fa parte della famiglia di
Acilia, è solo un po’…”
“Anche tu fai parte
della loro famiglia?” lo interruppe Eliza.
Dubris inarcò le
sopracciglia. “Io… non ho mai detto…”
“Allora perché sono
a casa tua?”
“È… complicato.”
Eliza alzò gli
occhi al cielo, asciugandosi le lacrime. “Che cosa non lo è?”
Il vampiro sospirò,
pensando a come spiegarsi. “Acilia vuole suicidarsi” disse poi, pensando che
non era poi una tematica così complessa, dopo tutto quello che Eliza aveva
passato “È stata costretta ad uccidere il suo creato e ora non vuole più andare
avanti. Io voglio salvarla ma le mie parole non contano niente. È Jacque
l’unico che può salvarla, per questo l’ho chiamato.”
Eliza lo guardava
mestamente. “L’ami?”
Dubris fu sorpreso
e lei fece un gesto noncurante con la mano. “Noi umani siamo bravi a capire
queste cose… Cioè, solo noi donne, in realtà.”
Lui fece un
sorrisino, ma c’era un pensiero che gli ronzava in testa da tutta la sera.
Anche tu fai parte della loro famiglia?
“Forse mi sono così
tanto affezionato ad Acilia perché era la cosa più simile ad una creatrice che
avevo” rifletté ad alta voce. Guardò Eliza dritto negli occhi e disse la cosa
che ancora non aveva detto a nessuno. “Del resto lei ha creato Kaeso, e Kaeso
ha creato me.”
La donna spalancò
gli occhi, sbigottita. “Credi davvero…”
“È molto probabile”
fece lui, scrollando le spalle. Non riuscì a trattenere una mezza risata. “In
pratica Acilia è mia nonna!”
Eliza non rise con
lui. “Lei lo sa?”
Lui scosse la
testa. “Non importa.”
Sperava davvero che
Acilia e Jacque si riconciliassero, che lei trovasse in lui un motivo per
andare ancora avanti. Tutto il resto non importava, ed era giusto così. Dubris
si sorprendeva di se stesso: chissà, dopo millecinquecento anni, si poteva
ancora maturare?
“Forse a lei
importerebbe” insistette ancora Eliza.
Mi vergogno, pensò Dubris,
senza guardarla, mi vergogno. Aveva combattuto, aveva ucciso, senza domandarsi
il perché di niente – aveva ucciso sua sorella
senza pensare a niente. Kaeso l’aveva abbandonato ed era stata la sua fortuna.
Se l’avesse conosciuto, se fosse cresciuto con lui, ci sarebbe stato lui legato
a quella colonna, al posto di Svetlana, con l’argento addosso, il sangue
addosso, i pianti mai fatti, quelli di sangue, ma un amore, per il proprio
creatore… Non avrebbe conosciuto altro, e sarebbe morto, così, ucciso da
qualche stupido, rancoroso, accecato, senza conoscere altro.
“Avrei potuto
aiutarla” fece in un sussurro, stringendo i pugni “Avrei potuto…”
Alzò lo sguardo e vide
che Eliza, con la testa china, stava piangendo piano. Capì che neanche Svetlana
importava più ormai, e sarebbe stato per lui solo un offuscato e insanguinato
rimorso.
“Non è giusto che
tu stia ancora qui a soffrire” disse, sentendosi in colpa “Ti porto a casa,
dimmi dove ti devo…”
Ma Eliza stava
vistosamente scuotendo la testa. “Non è più casa mia senza Charlene.”
“Casa dei tuoi
genitori?” tentò Dubris.
“Morti entrambi.”
“Un fratello?
Un’amica?”
La donna incurvò le
sopracciglia ma questa volta i suoi occhi non si sciolsero, parvero solo
disillusi. “C’era solo Ralph…”
Dubris non disse
nulla e lei tirò su col naso.
“Non voglio che
anche questo figlio che nascerà cresca senza padre e nella paura” disse,
assumendo uno sguardo deciso. Guardò Dubris, e la sua espressione divenne
implorante. “Al momento mi sento al sicuro solo qui.”
“Oh” rispose l’altro,
stupito “Okay, puoi restare qui… Tutto il tempo che vorrai.”
Eliza gli si
avvicinò e gli prese le mani. “Se mi succedesse qualcosa… voglio che sia tu ad
occuparti di mio figlio… Veglia su di lui… In qualunque modo tu creda di fare
il suo bene.” Le lacrime percorrevano il suo volto, grazioso, nonostante tutta
la paura e l’angoscia, e la stanchezza, che le piegava le guance in morbide
rughe. “Promettimelo, per favore…”
Dubris, stupefatto,
non lasciò la presa. “D’accordo, d’accordo… Te lo prometto” disse, dopo un po’.
Eliza gli sorrise
tra le lacrime, poi si tuffò tra le sue braccia, e pianse, pianse tanto. Come
poteva quella donna avere ancora delle lacrime dentro ai suoi occhi? Gli esseri
umani erano creature meravigliose, piene di risorse, che non si arrendevano
mai.
Dubris l’abbracciò
forte e la baciò sulla fronte, avvertendo uno strano, caldo, formicolio.
Qualcuno finalmente si fidava totalmente di lui e lui si sentiva, per la prima
volta dopo più di millecinquecento anni, a casa.
Sono passati quasi nove
mesi dal mio primo incontro con Jacque. Ho avuto paura di lui, poi l’ho trovato
intrigante. Poi mi sono innamorata. Ho pensato di essere completamente folle, o
più probabilmente una deficiente che si andava a mettere nei guai. Ho capito
che amare è la cosa più facile del mondo. Anche se si tratta di un vampiro. Ad
amare qualcuno non ci vuole niente. Ancora più facile è innamorarsi di una
persona che non puoi avere. Anche – soprattutto – se si tratta di un vampiro.
Forse mi sono comportata, io adulta, come una sciocca ragazzina ma non mi pento
di niente. Ho vissuto questi mesi intensamente e così continuerò a fare fino
alla fine dei miei giorni. Jacque mi ha insegnato ad amare la mia vita più di
ogni altra cosa. Non devo amare lui più della mia vita, lo so. È per questo che
non voglio diventare un vampiro, anche se in questo modo gli starei accanto.
Non lo voglio fare, per lui. Ognuno andrà avanti per la sua strada. Jacque ha
scelto Acilia, ed è stato giusto così. Lei gli può offrire cose che io posso solo
sognare. E lui può offrire tanto a lei, mentre a me quasi nulla. Avranno un
futuro insieme e io sarò contenta per loro, e probabilmente non li rivedrò mai
più.
Ieri ho detto addio a
Jacque per sempre. Loro devono partire, fuggire dall’Inghilterra. Ho pianto ma
gli ho detto di non sentirsi in colpa. È stata una mia scelta e ora sarò forte,
per me stessa e per Lydia.
In realtà il mio cuore ha
detto addio a Jacque da molto più tempo. Me ne sto rendendo conto ora, perché
so che la ferita si rimarginerà.
Che dire, termino così
questo strano diario di paura e amore. Dopotutto è stata una bella avventura,
un’esperienza che non dimenticherò mai. Jacque non lo dimenticherò mai. E pure
Eike mi mancherà.
Il bello di noi esseri
umani è che abbiamo una vita breve, così breve, che se diciamo che non
dimenticheremo mai qualcosa – o che ricorderemo per sempre qualcosa – allora
non ci sono dubbi, sarà così.
Emily
Erano partiti,
diretti verso un posto lontano, ancora non sapevano quale.
La Rappresentanza
era un punto interrogativo. Ci sarebbero state le elezioni, ma Acilia se n’era
di nuovo chiamata fuori. Quando ci sarebbe stato bisogno, allora forse sarebbe
tornata. Chissà chi sarebbe stato il nuovo presidente: Acilia faceva il tifo
per Dubris.
L’Inghilterra era
alle loro spalle e Acilia si intristì. Avevano vissuto parecchi anni là,
sperando e aspettando. Aveva ritrovato Kaeso, aveva conosciuto Curtis. Aveva
rincontrato Jacque. Erano morti Lyuben, Ramona e tanti altri. La lettera di
Lyuben, Acilia l’avrebbe conservata con cura. Le dispiaceva averla letta prima
del tempo, ma, dopotutto, se era lì con Jacque ed Eike in quel momento, era
anche perché l’aveva fatto. Chissà perché, era convinta che questo Lyuben lo
sapesse. Le aveva detto di leggere la lettera quando avesse preso la decisione
più importante della sua vita, e lei aveva deciso. Aveva deciso di non morire
ancora. Eppure non si sentiva né coraggiosa né entusiasta né felice.
“Non sei ancora
soddisfatta, Aci? Perché non sorridi?” chiese Jacque, vagamente deluso.
Acilia lo guardò.
Di cosa avrebbe dovuto essere soddisfatta? Stava fuggendo, come sempre. Il suo
sogno era lontano come lontano lo era duemila anni prima. Era salva, era con
lui, questo gli leggeva lei negli occhi. Avrebbe dovuto bastarle, per ora. Ma
si stavano lasciando dietro una valanga di morti, vittime della loro guerra
senza fine.
“Sorridere? Credi
che i soldati russi che hanno liberato Aushwitz abbiano mai sorriso?” fece.
Jacque si
mordicchiò il labbro.
E tu, perché non sorridi?
“È la vergogna”
continuò lei “La vergogna di cui il mondo non ne ha mai abbastanza.”
Gli prese la mano e
continuò a camminare.
Vorrei solo che tu
mi stessi accanto per sempre, gli voleva dire. Ma non glielo disse.
Sentiva lo sguardo
sereno di Eike che li guardava e li guidava, come sempre aveva fatto.
Senza dire altro, i
tre si allontanarono sotto la pacata luce della luna, la loro luna, come una
famiglia taciturna e inquietante, con cui nessuno avrebbe mai voluto avere
niente a che fare.
Ho accorciato ed ecco l'ultimo capitolo! Spero sia tutto chiaro, in caso contrario scrivetemi!
Aspetto recensioni :) a breve l'epilogo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 29 *** Epilogo ***
Epilogo
In data 11 agosto ho aggiunto una sequenza all'ultimo capitolo, se l'avete letto prima ridateci un'occhiata ;)
EPILOGO
Inghilterra, 2073
Chiuse
la porta dietro di sé, non prima di aver acceso la luce
dell’ingresso. La luce non gli serviva, oh no, ma bisognava stare
attenti. Un piccolo dettaglio come quello quello e ti potevi ritrovare
denunciato dai vicini. E’ un vampiro, avrebbero gridato, i
vampiri non accendono mai la luce!
“Papà…” lo accolse una voce lagnosa.
“Eccomi a casa” disse lui, avanzando a fatica tra degli scatoloni che ingombravano il soggiorno.
Maryann
lo guardò con un sorriso colpevole. “Sto facendo pulizie,
non sei contento? Dici sempre che ho troppi vestiti”.
“Certo”
borbottò l’altro “Hai accumulato più vestiti
tu in cinquant’anni che me in…”.
“E
tu” lo interruppe Maryann, strizzando gli occhi “che pure
sei nato nell’età della pietra, ti ostini a voler
accendere queste fastidiosissime luci…”.
“Norme di sicurezza, semplici norme di sicurezza…”.
Maryann
cominciò a fargli il verso e lui s’alterò. “E
poi, quale età della pietra! Sarebbe meglio se ti rifacessi un
bel ripasso di storia…”.
La ragazza si mise a volteggiare nel soggiorno con un risolino. “E’ ovvio” cantilenava “Tu sei Dubris, il Presidente… Se non le rispetti tu le norme di sicurezza!”.
Dubris
si puntò le mani sui fianchi, esasperato. Poi sospirò,
poggiò la borsa sul tavolo e l’aprì. Porse a
Maryann il barattolo pieno di sangue che vi era all’interno.
Quella
sbuffò ma lo afferrò. “Papà… Quando
potrò tornare ad occuparmi da sola del mio
sostentamento?”. Aprì il barattolo con foga e bevve tutto
in in sorso.
Dubris sorrise. “Lo sai che questi sono tempi brutti, Mary”.
Si
sedette, pigramente, sentendo scivolargli addosso tutta quanta la
preoccupazione che credeva di aver abbandonato una volta uscito dalla
Sede.
“Ci sono stati altri casi strani?” domandò Maryann, diventando seria tutto a un tratto.
Dubris
annuì. “Umani che muoiono per mano di vampiri durante il
giorno… e così tanti vampiri che vengono uccisi da altri
vampiri”.
“E’
così assurdo?” chiese la ragazza “Voglio
dire… I vampiri di solito andavano d’amore e
d’accordo tra di loro?”.
Dubris non poté trattenere un sorrisetto all’ingenua domanda, pensando a ricordi neanche troppo lontani.
“Ci
sono sempre stati vampiri che fanno la guerra ad altri vampiri”
spiegò “ma il fenomeno si è davvero intensificato.
Io credo che ci sia un collegamento con gli umani che vengono morsi di
giorno”.
Maryann si abbandonò su una sedia con un sospiro. “Vampiri che vedono il sole… Che invidia”.
Dubris
la guardò torvo ma non disse nulla. Maryann era così
giovane… I capelli ondulati le coprivano gran parte della
schiena, era quella la pettinatura che la ragazza aveva scelto prima
della sua trasformazione. Gli occhi erano di un delicato marrone, che
si circondava all’estremità dell’iride di un verde
scuro. Fulve ciocche le ricadevano sulla fronte e aveva qualche
lentiggine sul naso. Era così dolce guardarla, e Dubris si
lasciava andare ai ricordi. Solo settant’anni prima neanche
credeva che avrebbe mai avuto qualcuno che lo chiamasse papà.
“E’
come se fossero arrivati dei vampiri fortissimi da chissà
dove” disse, ridestandosi “Vampiri incredibili… Che
ci vogliono mandare un messaggio di guerra. Per gli umani sarebbe la
fine”.
Era
per quel motivo, del resto, che Maryann era stata trasformata. Fin da
piccola sognava di diventare come il suo “papà”.
Eliza, sua madre, era spaventata ma quando, una volta malata, Dubris le
aveva chiesto se poteva trasformare Maryann per tenerla al sicuro, la
donna gli aveva ricordato quello che tanti anni prima gli aveva detto.
Di occuparsi del suo futuro figlio – o figlia – nel modo
migliore in cui credesse di fare il suo bene.
E
così, una volta compiuti ventitré anni, Maryann venne
trasformata da Dubris, dilaniato da due sentimenti contrastanti. Il
dolore di trasmettere l’eterna dannazione alla creature a cui
voleva più bene in assoluto e la gioia, vergognosa, di avere
un’altra creata che, in qualche modo, potesse rimpiazziare il
vuoto lasciato da Ramona.
Cercò
con lo sguardo la fotografia di Eliza poggiata su una mensola del
salotto. La cercava sempre in cerca di approvazione. Sto facendo del
mio meglio, Eliza, ci sto provando, pensava.
Perché
non hai trasformato anche la mamma prima che morisse, lo aveva
rimproverato una volta Maryann, ora saremmo tutti e tre insieme.
A
Dubris sarebbe piaciuto ma Eliza non aveva voluto. Aveva preferito
crescere sua figlia da umana, insegnandole i giusti valori, facendola
giocare all’aria aperta. E poi era diventata vecchia, si
vergognava perfino di farsi vedere da Dubris, che pure continuava ad
amarla tantissimo, e aveva preferito lasciarsi morire. Gli mancava
tanto.
“Ma
da dove arrivano?” stava ragionando Maryann “Non possono
essere stati creati da poco, no? I vampiri giovani sono quelli
più deboli”.
Dubris la guardava e ne andava sempre fiero. La guardava perché rivedeva Eliza in lei.
“Già” ammise dopo un po’ “Non riesco proprio a spiegarmelo”.
Eppure,
se ci pensava, se guardava quella fotografia di Eliza, se ricordava i
momenti in cui quella vecchia casa si era riempita di vita, non poteva
che essere felice. Aveva scoperto la gioia di avere una vera famiglia,
quella che credeva potessero avere solo gli umani, quella che, se
guardava Mary, era contento, perché l’avrebbe avuta per
sempre.
Il
sentiero ciottoloso, qualche zolla di terra, qualche respiro di prato;
file e colonne di lapidi bianche. La sera, con la sua leggera foschia,
avvolgeva tutto col suo solito fascino, mentre la luna risplendeva
della sua solita inquietudine. Il luogo più spaventoso per
Jacque.
Era
diventato bravo a capire quanto potessero vivere gli umani. In
realtà non sapeva con quale speranza fosse entrato nel cimitero.
Forse avrebbe preferito rincontrarla, da viva, anziana, e farsi
raccontare le sue vicende. Quali uomini avesse conosciuto, se era
soddisfatta della sua vita. O forse preferiva ricordarla com’era,
giovane e forte, con le lacrime agli occhi e le guance rosse,
l’umanità che gli aveva fatto credere di poterla avere.
Era stato un egoista. Pagava continuamente il suo prezzo, scontava la
sua pena, guardando ancora le tombe degli altri. Gli altri, quelli che
riposavano in pace, quelli che una risposta già ce
l’avevano.
Emily Dixon
1985 – 2069
Amata moglie e una madre premurosa per Jack
Era
giusto così, che fosse morta così. Jacque la vedeva nella
piccola fotografia accanto ai fiori. Riconosceva i lineamenti, gli
occhi nocciola, il sorriso sincero. E quelle rughe lo angosciavano:
quale ragazzo di vent’anni – era questo che lui sembrava
– non sognerebbe di non avere mai neanche una ruga? Il pensiero
lo attanagliava in una morsa, come al solito.
I
suoi occhi caddero sul nome del figlio di Emily. Sorrise, sicuro come
lo era del tempo che Emily non lo avesse mai dimenticato. Quando gli
umani dicono che non dimenticano, non dimenticano davvero,
pensò. Chissà se invece lui, tra due o trecento anni, si
sarebbe ancora ricordato di lei.
Del resto aveva cose così importanti per la testa ora…
Nella
mano sinistra teneva una lettera, il cui contenuto era assai rilevante.
Quello che aveva letto… Doveva parlarne con Dubris, il
Presidente della Rappresentanza. Soltanto ora i pezzi del puzzle
combaciavano. Umani che venivano morsi durante il giorno, Claire
vampiro che camminava sotto il sole, dicendo di aver morso tre umani,
come l’ultima volta… Non farneticava, non era impazzita.
Jacque inspirò a fondo.
“Sono
contento che tu sia vissuta prima di tutto questo, Emi”
sussurrò alla tomba “Spero che tuo figlio Jack viva a
lungo come te”.
Strinse
nella mano sinistra la lettera che gli aveva donato il suo unico e
tormentato amore. Con la mano destra mandò un bacio alla foto di
Emily. Poi si voltò e tornò sui suoi passi, nel silenzio
della notte.
Non mi sembra vero aver finalmente finito! Un anno e mezzo fa questa
storia era solo uno schema fatto su un quaderno e mi sembrava una
storia così complicata, e ora sono ben 563 pagine :S Nonostante
la debba riguardare e rifinire, sono soddisfatta del mio operato e
ringrazio tantissimo chiunque abbia letto e soprattutto chi ha
recensito. Mi farebbe assai piacere se chi l'ha letta fino alla fine (i
pochi coraggiosi XD) mi lasciasse un piccolo parere sui contenuti e
sulla forma :)
A chi ama recensire pongo le mie questioni/curiosità:
1)
qual è il personaggio riuscito meglio e quale quello riuscito
peggio, che dovrei cercare di approfondire di più?
2)
ha un senso veder evolvere il personaggio di Dubris da personaggio
secondario a personaggio principale (insieme agli altri)? Le sequenze
col suo punto di vista appaiono solo verso la fine, dovrei metterne
qualcuna anche all'inizio?
3) i personaggi hanno un loro senso individuale o ragionano tutti in maniera simile? sono sufficientemente approfonditi?
4)
qual è la coppia che vi è piaciuta di più?
Aci-Manlio, Aci-Miguel, Aci-Kaeso, Aci-Jacque, Aci-Dubris,
Jacque-Emily, Dubris-Eliza e poi non mi ricordo più nemmeno io..
5) personaggio preferito? XD
6) i continui salti temporali appesantiscono la lettura? c'è il rischio di perdere il filo?
7) ci sono descrizioni a sufficienza? o l'immagine visiva si fa difficoltosa?
Alcune domande mi possono aiutare con la revisione, ma ovviamente non siete tenuti a rispondere a tutto :)
So che questo epilogo lascia un piccolo dubbio in sospeso (come l'ha
avuta Jacque la lettera?) e lascia presagire l'inizio di una nuova
storia, ma per il momento non è previsto un seguito.
Chissà, magari un giorno mi verrà voglia.. ma mi piace
anche concludere così. Del resto le cose non hanno mai una fine
precisa.
Di nuovo grazie a tutti, è stata una gran bell'esperienza, come lo è ogni storia.
Loda
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1016273
|