Parachute

di Helena Kanbara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ho bisogno di andare via da qui. ***
Capitolo 2: *** Scelta sbagliata? ***
Capitolo 3: *** Se stai male tu, sto male anch'io. ***
Capitolo 4: *** Oh. Merda. ***
Capitolo 5: *** Riserva di Beacon Hills - Non entrare dopo il tramonto. ***
Capitolo 6: *** Licantro... che!? ***
Capitolo 7: *** How will you fix me now? ***
Capitolo 8: *** I'm only the monster you made me. ***
Capitolo 9: *** Che cosa stai cercando di fare? ***
Capitolo 10: *** Mai fidarsi di nessuno. ***
Capitolo 11: *** Trust the instinct. ***
Capitolo 12: *** Who's the Alpha? ***
Capitolo 13: *** Carter. ***
Capitolo 14: *** Sorella gemella della paura. ***
Capitolo 15: *** Luna piena. ***
Capitolo 16: *** Buongiorno, raggio di sole. ***
Capitolo 17: *** It's you and me. ***
Capitolo 18: *** Carpe diem. ***
Capitolo 19: *** Resa dei conti. ***
Capitolo 20: *** Ospite. ***



Capitolo 1
*** Ho bisogno di andare via da qui. ***


N.B.: La fanfiction che vi apprestate a leggere non terrà conto degli avvenimenti di Teen Wolf, almeno non di alcuni. Tutti i personaggi presenti (esclusi Harriet Carter, la sua famiglia e i suoi amici texani) non mi appartengono, ovviamente. Non scrivo a scopo di lucro e spero che questa mia storia vi possa piacere.
 
 

parachute

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1.  Ho bisogno di andare via da qui.
 

 
Quello a cui stavo lavorando da almeno quattro ore era il mio ultimo progetto per la Austin High School: lo sapevo bene. Fin dal momento in cui avevo deciso di accettarlo.
Continuai a far scorrere freneticamente gli occhi sulle pagine internet aperte sul mio laptop mentre cercavo di non cadere addormentata. Era davvero troppo tardi, ma non potevo andare a dormire senza aver prima finito la mia ricerca. Non potevo perdere altro tempo. Prima avrei scritto quel saggio sull’Ucraina per il professor Timber, prima sarei stata libera di considerarmi in vacanza – seppur prematuramente.
Ero nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù.
Quello stesso inverno mi ero segnata volontaria per un corso di intercultura in California. Se solo qualche famiglia avesse deciso di adottarmi, sarei andata a stare lì per ben nove mesi. E mi sarei liberata almeno per un po’ di tempo della mia terra natale. Avrei frequentato il mio secondo anno di liceo a Beacon Hills, una cittadina piccola e tranquilla. Proprio ciò di cui avevo bisogno io per scampare dall’aria metropolitana della quarta città più grande del Texas.
«In seguito alle elezioni per la Verchovna Rada...», iniziai a leggere, mentre trattenevo uno sbadiglio.
Credevo che leggere ad alta voce la ricerca – o quello che ne stava venendo fuori, insomma – potesse aiutarmi a rimanere più concentrata. Purtroppo, però, visto quant’ero stanca non ero nemmeno più tanto sicura del fatto di starmi comportando nel modo giusto. E se stessi sbagliando tutto?
Non potevo permettermelo. Non potevo avere un debito in storia, dal professor Timber. Mia madre non me l’avrebbe perdonato mai, mia sorella – la secchiona di famiglia – mi avrebbe preso in giro a vita e io di conseguenza sarei stata eliminata repentinamente dalla lista dei nominati per l’intercultura.
Alzai gli occhi color nocciola al cielo, incontrando la visione del grande orologio rotondo che tenevo in cameretta, sopra la porta. Segnava l’una meno venti. Merda. Era davvero troppo tardi.
Comunque, evitai di farmi distrarre anche dal movimento lento delle lancette e riportai gli occhi sul laptop, imprecando in mezzo ai denti.
«Stai concentrata, Harry», mi ammonii, scuotendo la testa mentre prendevo un bel respiro. Riaprii gli occhi e fissai nuovamente il documento di Word ancora incompleto. Ripresi a leggere ad alta voce. «… il parlamento ucraino, tenutesi il 26 marzo 2006, la ‘‘coalizione arancione’’ presieduta da Juščenko uscì notevolmente ridimensionata... a causa del voltafaccia di una parte della coalizione: il partito socialista».
Pensai immediatamente di aver scritto un paragrafo senza senso. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime.
«Oh Dio. Non posso anche perdere tempo a piangere, ora!», brontolai, allontanando il pc dalle mie gambe e lasciandolo sulla coperta, incurante del fatto che non fosse bene per l’apparecchio essere lasciato su superfici come quella.
Di certo avrei dovuto farci attenzione – in fondo, se mi si fosse rotto proprio il pc allora sì che sarei stata irrimediabilmente fottuta – ma ormai, dopo quattro ore no stop di studio, non ero più molto attenta a cose del genere.
«Sono troppo stressata. Adesso basta», dissi, prendendo l’ennesimo respiro profondo.
Abbandonai il caldo letto e mi misi in piedi, toccando il pavimento con le doppie calze di spugna. Quelle là erano una delle mie più grandi stranezze. Infatti, non importava che stagione fosse e quanto caldo facesse, ma io tendevo a non toglierle quasi mai.
Non lo so, forse il tutto derivava del fatto che non avendo mai in vita mia portato ciabatte, l’unico modo che avessi per sentire protetti i miei piedi fossero le calze. E finivo così per non toglierle mai, nemmeno d’estate. Questo ovviamente solo quand’ero in casa.
Alzai gli occhi al cielo, ravviandomi i capelli e muovendomi titubante lungo tutta la cameretta. L’ennesimo sbadiglio sfuggì al mio autocontrollo. E finalmente, decisi di andare a dormire. 
«Okay, continuerò domani. Non hai nessuna fretta, in fondo. Lo sai, Harry?». Sì, parlavo da sola. Serviva a tranquillizzarmi. «La scuola finirà tra diciassette giorni. Hai tutto il tempo per fare un buon lavoro. Ma adesso hai bisogno di riposare».
Conclusi la mia arringa che ero arrivata di fronte all’enorme specchio a parete a furia di camminare a zonzo per la cameretta. Fui costretta a scontrarmi col mio riflesso – orribile – e mi sforzai di farmi un sorriso per riparare a quella brutta faccia che mi ritrovavo.
Maledizione a me che non riuscivo mai a studiare nel pomeriggio, perché troppo impegnata a stare fuori coi miei amici, e mi riducevo ogni volta a dover iniziare i compiti alle nove di sera.
Cercai nuovamente con lo sguardo l’orologio da parete. Mancavano ormai pochissimi minuti all’una.
Non aspettai nemmeno di darmi un’altra controllatina allo specchio. Mi girai fulminea verso il letto e arraffai il pc alla velocità della luce, muovendomi altrettanto repentinamente verso la scrivania.
Poi, però, un rumore agghiacciante per poco non mi fece cadere il laptop di mano. Mi ritrovai a sobbalzare mentre per la sorpresa e la paura inciampavo nella sedia da studio di fronte alla scrivania e mi ritrovavo stesa per terra, col pc a pochissimi passi da me.
In quel momento sinceramente non pensai neanche minimamente all’evenienza di poterlo aver rotto. Chi se ne fregava? Meglio lui che io. Stavo rischiando un esaurimento nervoso.
In realtà non pensai nemmeno all’imbarazzo che in un’altra situazione mi avrebbe causato la caduta appena fatta. Cioè, in realtà c’ero abituata e fin troppo a cadere dovunque. Era scritto nel mio dna. Se qualcuno mi avesse chiesto in cos’ero brava avrei risposto che inciampare era la mia abilità numero uno.
Comunque… il raschiare contro la porta continuava, imperterrito. Mi rimisi in piedi lentamente: stavo tremando. Chi mai poteva essere? Mia madre e mia sorella erano uscite come loro solito, e io ero chiusa in casa. Da sola.
Ma forse mi sbagliavo. Non ero affatto sola.  
«Tranquilla… tranquilla, Harry», sussurrai a me stessa, desiderando fortemente aver invitato Ryan a passare la notte con me.
Mi guardai intorno affannata, nella ricerca di qualche oggetto contundente più o meno pericoloso. Speravo che impugnare qualcosa mi avrebbe fatto sentire più al sicuro ma… non c’era nulla lì. Nulla di utile. Mia madre, Jenette, aveva sempre avuto la fobia degli incidenti, quindi faceva di tutto per procurarmene il minor numero possibile – soprattutto a me che tra le due figlie che si ritrovava ero quella più imbranata. E sì, questo significava che alla veneranda età di sedici anni mi propinasse ancora le forbici dalla punta arrotondata. 
Sospirai affranta, rinunciando al proposito di ricavarmi un’arma. Intanto il raschiare contro la porta chiusa della mia camera continuava. Mi ci avvicinai in punta di piedi, anche se in realtà ero più che conscia del fatto che non potessi fare rumore dal momento che ero senza ciabatte. Per un attimo ringraziai quel mio strano vizio.
Pensai di aprire semplicemente la porta e affrontare chiunque ci fosse dall’altro lato. Poi cambiai subito idea. Decisi di abbassarmi in ginocchio in modo da vedere nella fessura per la chiave e, mentre il rumore al di là della porta aumentava… mi diedi della stupida.
«Cazzo, Randall!», strillai, mettendomi nuovamente in piedi alla velocità della luce e aprendo la porta in un lampo.
L’enorme alano altresì conosciuto come uno dei miei migliori amici se ne stava in quel momento accucciato accanto alla porta della mia camera, sulla quale aveva graffiato fino a quel momento affinchè gli aprissi. Dannazione.
«Cosa ci fai qui in casa? Te l’ho detto mille volte che non devi entrare: rischi di rompere tutto grande e grosso come sei!», lo ammonii, mettendomi sulle ginocchia e prendendo ad accarezzargli il dorso. Randy mi rivolse un’occhiata stanca. «Chi ti ha fatto entrare, poi?».
E, quasi come se capisse cosa gli stessi dicendo, Randall si mise in piedi alla velocità della luce e prese ad abbaiare furiosamente. Poi lo vidi correre lungo il corridoio tappezzato di moquette color panna e sparire giù per le scale che portavano al piano inferiore.
Io mi limitai a fare spallucce, controllando che non fossero rimasti brutti segni sulla porta in legno bianco della mia cameretta. Cucciolo cattivo, avrei dovuto sul serio punirlo. Ma come si faceva ad anche solo sgridare Randy quando lui ti guardava con quegli occhioni neri estremamente dolci?
Constatando che non ci fosse nessun graffio esagerato – giusto due o tre zampate copribili benissimo con un po’ di pittura – decisi di raggiungere il mio alano al piano di sotto. Ancora non aveva smesso di abbaiare, e non appena i miei piedi abbandonarono le scale lo vidi di fronte alla porta sul retro, spalancata, che ringhiava contro il buio della notte.
«Randall, si può sapere cosa diamine hai?», gli domandai a quel punto, ormai visibilmente preoccupata. Lo raggiunsi e cercai di tenerlo buono con delle carezze, ma il mio cane non voleva proprio saperne di starsene zitto. A quel punto mi fu inevitabile ridonare un altro sguardo al buio che si stagliava oltre la porta completamente aperta. E non potei fare a meno di chiedermi chi l’avesse aperta. Era davvero poco probabile credere che ci fosse riuscito Randy. «Stai tranquillo, cucciolo. Non c’è nessuno lì fuori».
Subito dopo decisi di chiudere la porta sul retro a chiave, evitando così di far entrare odiosi spifferi di vento e, ovviamente, malintenzionati in casa. Ma ciò che vidi proprio a terra di fronte alla porta mi paralizzò, e non appena fui vicina abbastanza da poter vedere distintamente coi miei occhi il quadrato di carta bianca firmato Beacon Hills High School, Randall smise di abbaiare e mi si accostò, spingendomi la testa sulla schiena di modo che continuassi ad avanzare. 
Quindi… aveva cercato di dirmelo per tutto quel tempo? Non me ne stupii. Il mio cagnolone era molto più in gamba di quanto potesse sembrare.
A quel punto non potei far altro che chinarmi a raccogliere la lettera, aprendola in fretta e furia e leggendola con la curiosità che mi divorava. Fantastico. Una famiglia californiana aveva acconsentito ad ‘‘adottarmi’’ per nove mesi.

Gli Stilinski.   








A
 n e w b e g i n n i n g:
Okay, mi scuso da subito con tutti voi per questo capitolo/prologo cortissimo. Avrei voluto scrivere di più e far continuare la cosa con la reazione di Stiles all'adozione di Harriet, ma essendo quello un altro pov ho pensato che poi il tutto sarebbe diventato troppo confusionale e ho deciso di mettere un punto qua. Quindi, per chi ancora non l'avesse capito (perché sono io a spiegarmi demmerda, non per altro) nel prossimo capitolo, che forse sarà corto come questo o forse no, avrete il pov di Stiles. E poi nel terzo entreremo sul serio nel vivo della storia ^^
Per ora sto zitta riguardo al timeline, ma scoprirete tutto presto. L'avviso in alto lo metterò in ogni capitolo, così la cosa è più chiara. Ed ecco a voi Harriet Carter! La sua interprete è Victoria Justice, perché io la shippo con Dylan O'Brien ogni santissimo giorno della mia vita solo grazie a The first time (che, per chi non lo sapesse, è un film che hanno girato insieme). La gif che userò come copertina della mia storia è proprio presa da una scena del film (che vi consiglio di vedere) e l'ho trovata azzeccatissima per illustrare come diventerà il rapporto di Harriet e Stiles. Per correttezza, poi, devo dire che non è opera mia: quindi tutti i diritti all'autrice :)
Andando avanti, prima o poi conoscerete anche la famiglia di Harry (alla quale qui ho solo accennato) e anche i suoi amici texani, solo che ancora non so quando ed è troppo presto per pensarci. Inoltre voglio fare un ringraziamento calorosissimo a
 Hazel92Muchlove9 e xXx Veleno Ipnotico xXx perché è solo grazie alle splendide recensioni che hanno lasciato alla mia flashfiction introduttiva di Harriet e Stiles che ho ritrovato la voglia di scrivere questa long. Sì, l'ho fatto per loro e spero proprio di non averle deluse. Uh e... per chi ancora non l'avesse capito, c'è una flashfic future!verse di Harriet e Stiles, sì. La trovate nella serie che ho creato. Non è un granché perché è uno spezzone di un capitolo futuro che non mi è andato di ritoccare ma ho pubblicato e basta... ma spero possa piacervi lo stesso :3
Be', adesso ho finito. Spero che la storia vi piaccia e di ricevere delle recensioni. Alla prossima.

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Capitolo 2
*** Scelta sbagliata? ***


N.B.: In effetti avrei dovuto (forse) pubblicarli al contrario, perché il capitolo che vi apprestate a leggere è ambientato un po’ di tempo prima del prologo. Ma siccome non c’ho pensato lascio stare così e vi avviso semplicemente (che poi, se proprio la cosa vi crea scompiglio, posso sempre invertire l’ordine dei capitoli). Vabbè, comunque adesso la smetto di annoiarvi. L’ultimo avviso riguardo ciò che state per leggere è che in questo capitolo avremo il pov di Stiles. Non abituatevi troppo, però, perché sarà una cosa unica e rara (o almeno credo). Buona lettura.
 
 

parachute

2.  Scelta sbagliata?

 

 
«Qui è lo sceriffo Stilinski, mi dica pure».
Aprii gli occhi lentamente, non appena avvertii la voce di mio padre provenire da molto vicino. Fino a quel momento ero stato in una specie di dormiveglia piacevolissimo: avete presente quel momento magico giusto un attimo prima del risveglio in cui vi sembra di aver trovato il posto più comodo del letto e, in un certo qual modo, la pace dei sensi? Be’, io mi ero sentito così finché papà non aveva parlato con la sua voce seria e profonda.
Improvvisamente non mi interessava più stare a letto il più possibile prima di dover iniziare un nuovo e faticosissimo giorno di scuola. In quel momento volevo solo scoprire con chi stesse parlando mio padre e perché. Avevo sempre sentito dire che la curiosità fosse donna, ma secondo me era sbagliato credere che fosse così. La curiosità era Stiles. La curiosità era me. Almeno quanto io ero lei.
Scossi la testa per quei pensieri – come al solito – stupidi, lasciandomi anche andare ad un sorrisetto divertito mentre cambiavo posizione nel letto e mi ci sdraiavo di schiena, maledicendomi dopo due secondi per averlo fatto a causa del sole che così facendo mi colpiva in piena faccia. Sole a Beacon Hills prima del tempo? Davvero molto strano.
«Come? Davvero? Wow, è… una bella novità».
Stavo quasi per ridare le spalle alla finestra e ritornare a sonnecchiare in pace prima che mio padre venisse ad urlarmi di alzarmi prima di uscire per andare a lavoro – e sì, già mi ero dimenticato del mio proposito di ascoltare la sua telefonata per capire cosa stesse ‘‘tramando’’ – quando lo sentii parlare nuovamente e non potei fare a meno di aggrottare le sopracciglia.
Abbandonai ben presto l’idea di restare a poltrire ancora cinque minuti e mi misi in piedi in fretta e furia, correndo verso la porta chiusa della mia cameretta e aprendola per potermi affrettare verso la cucina – perché ero quasi sicuro che mio padre fosse lì. Ed infatti non mi sbagliavo. Se ne stava nei pressi del frigorifero, col telefono premuto contro l’orecchio e un’espressione un po’ confusa. Aggrottai le sopracciglia nuovamente mentre lo vedevo annuire molto spesso e capivo quindi che stesse ascoltando attentamente il suo interlocutore.
«No, in verità non sapevo niente di questa iniziativa dell’intercultura».
Mi immobilizzai sulla soglia della cucina, abbandonando ben presto il mio proposito di fare colazione e poi prepararmi per scuola mentre chiedevo spiegazioni a papà. Oramai non ne avevo più bisogno: lui mi aveva già detto tutto ciò che volevo sapere con quella semplice parola sulla quale aveva messo un accento particolare per evidenziarla a sufficienza. L’intercultura, cazzo. Come avevo potuto dimenticarmi di parlarne a papà?
Feci dietrofront non appena intercettai la sua occhiata truce nella mia direzione e camminai – senza correre, per non destare ulteriori sospetti – verso la mia cameretta, dove mi rifugiai con la porta chiusa a chiave. Quello sarebbe stato un buon espediente per guadagnare tempo utile ad inventarmi quantomeno una scusa per scappare. Ma, alla fine, quale scusa migliore della scuola? Non potevo mica arrivare in ritardo.
Poco prima di chiudere a chiave la porta sentii mio padre dire: «Ma non si preoccupi, signorina Morrell. È tutto a posto, mi serve solo un po’ di tempo per… abituarmi all’idea. Ma sono certo che insieme a mio figlio risolveremo la situazione».
Certo, perché quale altra opzione avevamo? Quella che venissi rimandato in Francese? Non credevo proprio che mio padre l’avrebbe mai e poi mai permesso. Comunque, decisi di evitare le perdite di tempo e mi affrettai a vestirmi. In meno di dieci minuti, ero pronto. Diedi un’occhiata alla sveglia posta sul comodino di fianco al mio letto: erano le sette e mezza. Ancora troppo presto per uscire. Ma forse… se avessi detto a papà che andavo a scuola a piedi…
«Stiles!», sentii mio padre urlare mentre, a giudicare dai passi affrettati lungo il corridoio, si stava dirigendo proprio verso la mia camera. Sobbalzai e fui distolto da ogni possibile ‘‘piano di fuga’’. «Stiles, apri! Dobbiamo parlare».
Merda. Era arrivato davanti alla porta chiusa della mia cameretta e alternava inutili tentativi di girare la maniglia per aprirla a colpi furiosi sul legno bianco. Merda, merda, merda. Dovevo inventarmi qualcosa.
«N-non… non posso, papà!», gli feci presente alla fine, guardandomi intorno nella speranza di trovare una buona scusa.
Nulla. Niente di niente.
«Cosa stai facendo? Anzi no: non mi interessa! Qualsiasi cosa tu stia facendo devi farmi entrare subito! Hai scuola tra mezz’ora», disse papà, evidentemente irremovibile.
«Ma io…».
«STILES!».
E quando lo sceriffo Stilinski pronunciava il mio nome in quel modo, era ormai più che certo che non avessi nessuna probabilità di sopravvivenza.    
Prima che potesse ordinarmi ancora una volta di aprire la porta della mia camera lo feci io, stampandomi anche sul viso un sorriso falsissimo.
«Buongiorno, papà! Scusa ma ero impegnat…».
«Mi spieghi cos’è questo?», mi chiese mio padre, interrompendo il mio – solito – straparlare e facendomi perdere il sorriso. «Perché non ne sapevo nulla?».
Tra le mani stringeva un foglio di carta bianco pieno di scritte. Mi feci vicino a lui per poter riuscire a leggere. Erano… una sfilza di nomi? Nomi sconosciuti, tra l’altro. Aggrottai le sopracciglia.
«Posso?», domandai poi, chiedendo che mio padre mi passasse il foglio.
Lui lo fece senza esitazioni. Poi aggiunse: «Sono dei nomi di ragazzi segnati per l’intercultura. Sono tutti texani: Beacon Hills… o meglio, la tua scuola… ha deciso di iniziare il gemellaggio con Austin».
Annuii.
«Sì… la signorina Morrell ha detto che d’ora in poi il nostro liceo si occuperà ogni anno di attività come queste. Per stringere rapporti anche con ragazzi ‘‘stranieri’’…», constatai, passando in rassegna i nominativi di ragazzi e ragazze presenti nella lista.
«E posso sapere per quale assurdo motivo tu hai deciso di renderti disponibile all’iniziativa senza dirmi nulla?».
«Diciamo che…», iniziai, cercando di trovare le parole giuste. «Potrei… essere messo un po’ male con la materia della Morrell, che si occupa dell’iniziativa e me l’ha proposta come ‘‘rimedio’’. E comunque ne abbiamo parlato moltissimo tempo fa: nemmeno me ne ricordavo più!».  
Mio padre mi donò uno sguardo a metà tra il deluso e il comprensivo. Emozioni contrastanti.
«Quindi in poche parole ospitando un ragazzo texano per tutto l’anno eviti la bocciatura in Francese?».
«Be’, tecnicamente sì. Ma praticamente devo continuare ad impegnarmi finché la scuola non sarà finita e continuare a farlo anche l’anno prossimo».
Papà annuì, come se fosse ovvio. E in effetti lo era.
«D’accordo, allora. La tua insegnante ha detto che dobbiamo scegliere uno di questi nomi sulla lista. Vieni di là, così risolviamo la situazione prima che tu debba andare a scuola».
 
Io e papà ci eravamo sistemati in cucina. Erano passati dieci minuti, e li avevamo impiegati tutti a discutere sugli eventuali pro e contro dell’avere un ragazzo in casa o dell’averci una ragazza. Alla fine, però, quando mancava solo un quarto d’ora all’inizio di scuola e sarei dovuto uscire di casa subito per evitare di essere in ritardo, capimmo entrambi che o ragazzo o ragazza non sarebbe cambiato poi molto. Avremmo comunque avuto un ospite in casa Stilinski per nove mesi: un ospite che avrebbe dormito nella camera degli ospiti – perché sì, quando mi ero detto disponibile all’intercultura avevo pensato anche a quell’evenzienza. Eh-eh, per chi mi avete preso? Sono intelligente, io – un ospite, mio coetaneo, che avrebbe frequentato scuola con me e che probabilmente avrebbe conosciuto tutti i miei amici.
Se vista solo da quel punto, la cosa poteva sembrare molto interessante. Insomma, la vita del figlio unico non era così divertente come sembra. Io molto spesso mi sentivo solo… perché sì, nonostante avessi Scott quasi sempre con me non sarebbe stato mai come avere un fratello o una sorella accanto, e questo già lo sapevo bene. Quindi l’idea di ricavare una sorellastra o un fratellastro grazie a questa cosa dell’intercultura mi faceva molto felice. Cioè, per nove mesi non sarei stato più solo come prima. E, in più, avrei sistemato la mia situazione col Francese.
«Papà!», trillai ad un certo punto, portandomi una mano alla fronte. Avevo avuto un colpo di genio? Be’, certo che sì. «Perché ci stiamo scervellando da dieci minuti su chi scegliere? Io so già chi merita davvero di venire a stare a casa nostra!».
Vidi mio padre riservarmi un’occhiata scettica. Come al solito. Riponeva in me troppa poca fiducia.
Sbuffai, strappandogli la lista coi vari nomi candidati all’intercultura a Beacon Hills ed iniziando ad analizzare attentamente tutti i requisiti degli studenti che ancora né io né mio padre avevamo escluso dalla selezione. Perché sì, in quei dieci minuti sia io che lui avevamo deciso di escludere qualcuno in modo che la cerchia dei prescelti fosse più ristretta. Naturalmente non avevamo escluso nessuno dei candidati perché fosse poco bravo a scuola o cose del genere… erano tutti bravissimi, altrimenti i loro nomi non sarebbero stati presenti su quella lista.
Ma, siccome avevamo bisogno di restringere la scelta, io avevo iniziato ad escludere ragazzi perché: ‘‘Questo qui mi sta antipatico a pelle’’, ‘‘Questa ha un nome impronunciabile’’, ‘‘Lui mi sa tanto di palestrato senza troppo cervello e mi basta già Jackson’’, ‘‘Lei ha un nome simile a quello di Lydia e di Lydia ce n’è solo una’’… e così via. Mio padre per un momento mi aveva pure assecondato, iniziando a cancellare nomi alla rinfusa mentre teneva gli occhi chiusi per non vedere. Si era giustificato dicendo: «I nomi dei ragazzi che cancellerò ha voluto che li cancellassi il Destino. Mi dispiace, cari». Non avevamo quasi mai scherzato in quel modo. Era stato molto divertente. E in più c’eravamo liberati di altri nomi. Ma comunque non riuscivamo ancora a scegliere.
«Quindi deduco che siamo finalmente vicini ad una scelta», affermò mio padre, facendomi annuire in risposta.
Di ogni studente segnato all’intercultura avevamo i nominativi, la data di nascita e tutti i voti scolastici. Io avevo problemi col francese… quindi quale mossa più astuta di ospitare qui da noi un esperto della materia? Afferrai un pennarello rosso e cerchiai i nomi degli studenti coi voti più alti nella materia della Morrell. Ne trovai quattro: tre ragazzi e una ragazza. Avevano tutti nove in francese: quello che mi serviva.
«I quattro nomi cerchiati. Sono i quattro ragazzi coi voti più alti in francese. Ospitiamo uno di loro, così potrà aiutarmi durante tutto l’anno con la materia della Morrell. Mi sembra ovvio!», spiegai a mio padre, fiero della mia – ennesima – idea geniale.
Se solo avessi potuto, mi sarei battuto il cinque da solo.
«Sai che ti dico? Scegli tu, tanto non mi cambia nulla. Vado di là a prendere lo zaino e le chiavi della Jeep. Sono già in ritardo per scuola».
Mio padre annuì, prendendo ad analizzare i quattro nomi papabili con occhio attento. Io tornai nella mia cameretta e mi misi lo zaino in spalla, recuperando le chiavi della mia macchina da sopra la scrivania. Ritornato in cucina per salutare mio padre, gli donai un’occhiata sospettosa.
«Non riesci ancora a scegliere?», chiesi.
«No, no», mi rassicurò lui prontamente, mettendosi in piedi e raggiungendomi sulla soglia. «Ho scelto. Harriet Carter. L’unica ragazza. Ha un nome che colpisce e perciò… lei».
Annuii.
«D’accordo. Sono certo che andrà più che bene». Io e papà ci dirigemmo, come capitava spesso quando lui andava al lavoro in ritardo, insieme fuori di casa, separandoci per entrare ognuno nelle rispettive automobili. «Come hai detto che era il nome? Magari più tardi a scuola faccio qualche ricerca».
«Harriet Carter», mi ripeté mio padre, poco prima di entrare nella volante dello sceriffo. «E comportati bene a scuola. Ci vediamo stasera».
«Come sempre, papà», assicurai, entrando anch’io nella mia Jeep e posizionandomi al posto di guida.
Harriet. Era un nome strano davvero. Non l’avevo mai sentito. Fu proprio la curiosità che aveva spinto mio padre a scegliere proprio lei e che in quel momento si stava impadronendo di me, a farmici pensare fissamente per tutta la mattina finché non ebbi occasione di occupare un computer e fare un po’ di ricerche sul sito del liceo di Austin dal quale sapevo provenisse.
La trovai quasi subito. Nel profilo dedicato a lei, ebbi la possibilità di vedere tutte le varie foto inserite nell’annuario. Ma non persi tempo più di tanto: non ne avevo bisogno. Mi bastò semplicemente ritrovarmi di fronte il suo sorriso, i suoi occhi scuri, i capelli mossi e la pienezza delle sue labbra. E capii subito che non sarei mai e poi mai riuscito a considerare una ragazza così bella come una sorella e niente più.
Molto probabilmente mio padre aveva fatto la scelta sbagliata.








n e w b e g i n i n g:
Capitolo pocopocopocopoco più lungo del precedente. Da come già annunciato ecco a voi il pov di Stiles. Spero di non aver combinato casini: è la prima volta che provo ad impersonarmi in Stilinski e... ho avuto non poche difficoltà :3 Ma, se all'inizio il capitolo non mi convinceva, adesso credo invece che sarebbe potuto essere molto peggio. In definitiva non ne sono proprio delusissima, e spero si potrà dire la stessa cosa di tutte voi che avete deciso di mettere tra le seguite questa storiella senza pretese. Siete dieci splendori e mi avete fatta felicissima! :))
Non ce la faccio a nominarvi tutte (sono sempre di fretta, fuck) ma un po' di tempo per dei ringraziamenti speciali a chi ha avuto il coraggio di recensire me lo ritaglio. Quindi... ringrazio 
xXx Veleno Ipnotico xXx e Hazel92 che ci sono fin dall'inizio (?) e Williams_, che c'è stata pure lei fin dall'inizio e ha deciso di scrivermi. Davvero molte grazie! Infine... ultima ma non meno importante... ringrazio lilyhachi.Potrebbe sembrare davvero stupido da dire ma per me le recensioni sono una cosa davvero importante, e riceverne quattro è praticamente un miracolo! Quindi adesso capirete il perché di tutti questi ringraziamenti vivissimi XD Ovviamente ringrazio anche chi ha letto e inserito tra le seguite in silenzio!
Andando avanti... nello scorso capitolo ero di fretta (e quando mai?) quindi mi sono dimenticata di dirvelo. Ma sappiate che la mia ff prende il nome dall'omonima canzone di Cheryl Cole, che io adoro e vi consiglio davvero tanto di ascoltare. Non so, l'ho trovata fin da subito molto adatta ^^ Infine, nel prossimo capitolo (che non so quando arriverà perché vorrei dare un po' di spazio alle altre mie long) avremo la partenza di Harriet e la sua prima ambientazione a Beacon Hills, oltre ovviamente all'incontro con Stiles e... al primo giorno di scuola! Siete curiose? Io sì ;)

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Capitolo 3
*** Se stai male tu, sto male anch'io. ***


N.B.: Non ho mai partecipato, né credo succederà, ad un corso intercultura come quello del quale parlo in questa long. Proprio per questo motivo non so esattamente come funzionino le cose, ma mi limito a descrivere quelle poche che so di certo (perché mi sono informata su internet, eheheheh) e quello che mi ricordo dell’esperienza uguale alla quale ha partecipato un tipo nella mia scuola. Poi per tutto il resto invento alla grande, quindi mi sto preoccupando di specificarlo prima che qualcuno decida di tirarmi pomodori addosso giacché me ne esco con baggianate assurde sull’iniziativa XD Poi nient’altro da dire: non vi scoccio più e mi auguro che il capitolo sia di vostro gradimento, anche se io per prima non ne sono (come al solito) pienamente soddisfatta!

 
 
parachute
 

3.  Se stai male tu, sto male anch’io.
 
 
Lunedì ventisette maggio. Meno tredici giorni alla fine della scuola. Meno tredici giorni all’inizio dell’estate vera e propria. Meno tredici giorni ai miei ultimi mesi ad Austin, per un periodo lungo quasi un anno. Io stentavo ancora a crederci.
La sera del giovedì precedente avevo trovato la lettera inviatami dalla Beacon Hills High School abbandonata sulla porta del retro. Mi ero chiesta a lungo cosa ci facesse proprio lì… ma non ero riuscita ad arrivare ad una risposta sensata. E il fatto che me l’avesse fatta trovare Randall? Era ancora più strano.
Nemmeno parlare della situazione con mia madre e mia sorella mi aveva fatto avere una spiegazione. Anzi, entrambe le donne di casa non avevano fatto altro che divagare in discorsi eccitati e spaventati. Erano tutte e due felicissime per l’esperienza alla quale avrei partecipato a breve e allo stesso tempo molto dispiaciute del fatto che avrei dovuto lasciarle lì sole ad Austin per andare in una cittadina del tutto sconosciuta. Non sapevano assolutamente cosa aspettarsi, proprio come me.
Il tutto comunque non mi rendeva poi molto nervosa. Piuttosto cercavo di stare tranquilla il più possibile e godermi gli ultimi mesi nella mia città natale prima di doverle dire ‘‘addio’’, anche se non per sempre. Mi bastava già il nervosismo crescente di mia madre, Jenette, che da solita complessata e superproblematica donna di quarantaquattro anni, già si prospettava scenari nefasti con me come protagonista mentre ero lontana da casa. Insomma, non serviva proprio che mi agitassi pure io.
Perciò avevo accettato di buon grado l’idea che aveva avuto mia sorella Cassandra di passare il più tempo possibile insieme. Era una cosa che non avevamo mai fatto spesso, prima d’ora, forse perché io essendo più piccola di lei di ben undici anni non riuscivo a capirla bene – e viceversa. Ma tutto sommato avevamo avuto sempre un buon rapporto, e me ne resi conto ancora di più durante l’estate che arrivò prima della mia partenza per Beacon Hills. Se già sapevo di amare mia madre alla follia – nonostante tutto – in quei mesi capii anche di non poter quasi più fare a meno di Cass, il che era ovviamente un punto a sfavore. Insomma… come avrei fatto per nove mesi senza le due donne della mia vita? E senza Randall? E senza la mia migliore amica e tutti i miei compagni di scuola? E senza Ryan?
Il tutto, se visto solo ed unicamente da questo punto, mi spaventava e non poco. Ma, allo stesso tempo – proprio come mia madre e Cassandra – ero attraversata anch’io da emozioni contrastanti. Perché sì, oltre alla paura di fallire e di non riuscire a sostenere il distacco da casa, dentro di me si agitava in contemporanea una grossa dose di eccitazione. Cioè: avrei preso parte ad un’esperienza fantastica! Tra tutti i ragazzi del mio liceo che avevano deciso di segnarsi disponibili per l’intercultura proprio io ero stata scelta… e, siccome ero ben conscia della grande quantità di fortuna da me stessa posseduta in quell’occasione, giurai fin da subito che avrei approfittato della mia permanenza a Beacon Hills al massimo. Sarei tornata dopo nove mesi in Texas migliorata, cresciuta. E non vedevo l’ora.
 
Come sempre, la sveglia suonò alle sette del mattino. Mugolai, stiracchiandomi pigramente e senza aprire gli occhi nocciola. Non volevo, infatti, scontrarmi con la visione dei numerini che si muovevano frenetici su quell’aggeggio infernale che interrompeva il mio sonno ogni giorno. Non volevo nemmeno scorgere che giorno fosse sul calendario, né tantomeno mettermi in piedi per disegnare un’ennesima croce rossa sull’ennesimo giorno passato.
Il lunedì era sempre tragico, per me. Soprattutto quando mi ritrovavo alla fine di un anno scolastico e la mia vita sociale, complice il caldo dell’estate imminente, prendeva un’impennata tale che mi ritrovavo a passare sabato e domenica sempre fuori casa e a dormire sei ore scarse – che per me erano praticamente nulle.
Avrei voluto semplicemente rimanere a letto a poltrire e perdermi un altro inutile giorno di scuola, ma sapevo che tale miracolo non mi sarebbe stato concesso mai e poi mai. Perciò, prima che mia sorella o peggio mia madre decidessero di irrompere nella mia stanza urlando come pazze perché dovevo svegliarmi, decisi di mettermi in piedi da sola.
Aprii gli occhi uno alla volta, sdraiandomi di schiena e trovandomi di fronte l’enorme ‘‘H’’ color oro appesa alla parete. In casa ognuno aveva nella sua camera da letto la sua iniziale. Mi misi seduta a letto, lentamente, mentre ancora provavo a rassegnarmi all’idea di dover affrontare ancora un altro giorno di scuola, passandomi una mano tra i capelli sfatti e mettendomi in piedi subito dopo solo perché ero curiosa di vedere come li avrei trovati quella mattina. Dovete sapere che anche io, come ogni ragazza che si rispetti, mi svegliavo ogni giorno con una pettinatura diversa.
Strisciai quindi i piedi – sempre coperti dalle calze di spugna, eh – fino all’enorme specchio a parete nella mia stanza, scontrandomi col mio riflesso e trattenendo a stento un’espressione schifata. Come ogni lunedì, il fatto che fossi reduce da un weekend era fin troppo evidente sul mio viso – e nascondere il tutto sarebbe stata l’ennesima impresa titanica. Enormi occhiaie se ne stavano placide sotto i miei occhi. Ma, in compenso, quando salii con lo sguardo ad analizzare i capelli non li trovai così male come sempre. Anzi, avevano qualcosa di… selvaggio? … che mi piacque abbastanza da decidere di evitare ulteriori complessi inutili e lasciar perdere.
Andai in bagno a sciacquarmi la faccia come sempre, in modo da essere un po’ più sveglia, e poi decisi di scendere giù in cucina dove quasi sicuramente avrei trovato Jenette e Cass ad attendermi. Una volta abbandonate le scale – ricoperte anch’esse da moquette color panna – capii di non essermi sbagliata. Mia madre se ne stava vicino ai fornelli, indaffarata a cucinare quelli che dall’odore mi sembravano waffles, mentre mia sorella occupava sempre il solito sgabello posto accanto all’isola rivestita in marmo bianco che avevamo in cucina.
«Buongiorno, donne», le salutai entrambe, coprendomi la bocca con una mano mentre mi lasciavo andare ad uno sbadiglio.
«Ehi», sussurrò mia madre, sorridendomi. Adoravo quando lo faceva, perché delle rughe adorabili si formavano sotto i suoi occhi stretti. «Stavo giusto mandando Cassandra a svegliarti. Sono già quasi le sette e un quarto: non scendi mai a fare colazione così tardi».
Feci spallucce.
«Ieri sera ho davvero esagerato. Sono stanca come non mai», spiegai, prendendo posto sullo sgabello di fianco a mia sorella e guardando mia madre posizionare di fronte a me un piatto pieno di waffles caldi. «Dov’è il miele?».
Cass mi passò il barattolo di miele senza dire una parola. Io lo afferrai dalle sue mani ed iniziai a cospargerne i miei adorati waffles.
«Hai intenzione di fare qualcosa per quelle occhiaie, vero, sorellina?», mi chiese solo dopo un po’, girandosi a guardarmi mangiare.
Per poco non mi andò di traverso la colazione. Cass alzò gli occhi al cielo.
«È davvero scortese da parte tua far notare al mondo intero in che condizioni siano i miei occhi dopo la nottata di ieri!», esclamai, facendo tintinnare la forchetta contro il piatto di ceramica già vuoto per metà. Al mattino avevo sempre una fame allucinante, non c’erano dubbi. «Scommetto che mamma non se n’era nemmeno accorta!».
Non appena finii di parlare cercai con lo sguardo mia madre, ritrovandomi di fronte la sua espressione tipica da: ‘‘Sto trattenendo una risata fragorosa con tutte le mie forze ma non ce la farò a lungo’’, che più o meno era composta da occhi bassi, labbra strette e comportamento generalmente sfuggente. Sbuffai. Non ci voleva anche lei contro di me. Mi bastava Cassandra!
«Oh… ma è ovvio che mami non si fosse resa conto della condizione atroce del tuo viso», commentò mia sorella a quel punto, serafica, trattenendosi il volto con le mani incrociate sotto al mento e sbattendo le ciglia velocemente.
E io, nonostante fosse così insopportabile e secchiona, non potevo proprio fare a meno di volerle un mondo di bene.
«I momenti di dolcezza alla ‘‘Ti prego, sorellina, non partire e resta qui con me ad Austin’’ sono finiti, vero? Siamo già indietro ai tempi delle torture?», domandai, una volta che ebbi finito di divorare i miei waffles.
Mi misi in piedi e mi diressi verso il frigorifero bianco, aprendolo e tirandone fuori il cartone di succo all’ananas che adoravo. Me ne riempii un bicchiere mentre sentivo gli occhi di mia sorella constantemente addosso. Jenny invece era troppo impegnata a mettere tutto in ordine prima di andare a lavoro per occuparsi anche di noi due.
«No… sono ancora dolce. E mi mancherai quando sarai a Beacon Hills», stabilì Cassandra, imbronciandosi verso la fine della frase. Sorrisi mentre prendevo una lunga sorsata di succo. «Come già sai dobbiamo approfittare al massimo di questi ultimi tempi per stare insieme! Quindi chiama la tua amichetta e dille che d’ora in poi non hai più bisogno dei suoi passaggi per andare a scuola. Ti accompagno io».
 
«Harry, mio Dio! Perché non hai voluto che ti venissi a prendere stamattina?».
Danielle Shelton e la sottoscritta erano migliori amiche – e in un certo qual modo sorelle – fin dalla notte dei tempi. Conoscevo la ragazza che mi era appena saltata addosso e che mi stava stringendo le braccia al collo rischiando di soffocarmi con la sua massa di lunghi capelli rosso Ariel – come adoravo definire io la sua tinta – da quando entrambe eravamo ancora in fasce.
L’amicizia che condividevo con Dani era da sempre una delle più pure della mia vita. Le nostri madri per prime erano state migliori amiche da adolescenti, e ci avevano concepito nello stesso giorno, nello stesso ospedale, con la sola differenza di trentuno minuti di tempo. Quella notte del diciotto ottobre, infatti, nacqui per prima io, il che mi faceva essere ‘‘la più grande’’ tra me e Danielle. E si vedeva.
Perché, infatti, se io per la mia età potevo benissimo essere considerata molto più matura di quanto sarebbe potuto sembrare, Dani al contrario era l’eterna ragazzina infantile e stramba che proprio non si poteva fare a meno di amare. Io poi credevo che fosse proprio questa grande differenza tra i nostri due caratteri a tenerci sempre insieme da ormai sedici anni.
«Ciao, Danielle. Come vedi sono viva e vegeta, nonostante il fatto che tu non mi abbia accompagnata a scuola anche stamattina», sospirai dopo un po’ di tempo, accarezzando i capelli morbidi della mia migliore amica, nella speranza di riuscire a calmare la sua solita iperattività. «Devi scusarmi. Ma Cassandra vuole passare il più tempo possibile con me prima che io mi trasferisca a Beacon Hills… perciò mi porterà sempre lei a scuola, fino alla fine dell’anno».
Dani si allontanò da me, guardandomi con gli occhi scuri sgranati e una mano posata sulle labbra. Trovava davvero così inaccettabile il fatto di non potermi vedere già alle otto meno un quarto del mattino? Be’, un po’ riuscivo a capirla. Anche per me era difficile non passare la gran parte delle mie giornate con lei. Non osavo nemmeno provare ad immaginare come sarebbe stato quando mi sarei trovata in California.
«Oh… fantastico! Il che vuol dire ancora meno tempo da passare con te!», strillò Danielle, mentre entrambe prendevamo a camminare lungo i corridoi affollatissimi del nostro liceo. «Sto quasi iniziando ad odiare tua sorella, sappilo. Ti sta monopolizzando. Mi spieghi quand’è che staremo insieme io e te? Guarda che anche io ho bisogno di una ‘‘scorta di nostri momenti’’!».
Scoppiai a ridere, afferrando la mia migliore amica per un braccio di modo che si fermasse. Poi la invitai ad abbracciarmi nuovamente.
«Vieni qui, scemotta», mormorai, ancora sorridente. Dani mi assecondò senza nemmeno pensarci su. «Ci vediamo a scuola, finché non finirà. Passeremo le nostre giornate insieme, rinchiuse in questo odiosissimo liceo fino alle tre del pomeriggio. E poi, una volta uscite da qui, andremo tutti insieme al lago. A studiare e fare gli scemi come al solito. Non c’è bisogno di rivoluzionare la nostra routine completamente solo perché non sei più la mia tassista personale o perché andrò via da Austin alla fine dell’estate».
Shelton si allontanò da me, e capii che fosse sul punto di piangere quando la sentii tirare su col naso e potei addirittura vedere i suoi occhi un po’ lucidi. Era sempre la solita.
«Uff… mi mancherai da morire quando non ci sarai», mi fece presente allora, tenendo la voce bassa e passandosi un dito sotto agli occhi truccati ad arte. «Chi mi terrà compagnia? Cosa farò senza di te?».
Alzai gli occhi al cielo, lasciando un bacio sulla guancia di Danielle. Poi ripresi a camminare in direzione della classe di chimica mentre ancora sorridevo.
«Smettila. Tanto lo sai meglio di me che non sarai sola», cercai di consolarla. «Ti terrà compagnia Kyle, quell’amore di fidanzato che ti ritrovi. E, riguardo a cosa fare, credimi: sarai impegnata abbastanza da non sentire constantemente la mia mancanza. Ma, ricorda, ogni volta che proprio non potrai fare a meno di pensare a me, chiamami. Anch’io avrò bisogno di sentirti vicina in qualche modo, cosa credi?».
Solo quando arrivammo finalmente davanti alla porta della classe, sentii nuovamente la mia migliore amica sbuffare.
«Impegnata? E a fare cosa? Praticamente non faccio nulla senza di te!», mi spiegò, evidentemente corrucciata ed infastidita.
Be’, anche a me dispiaceva doverla lasciare lì sola ad Austin. Ma se Danielle non se ne fosse fatta una ragione subito avrei rischiato di innervosirmi sul serio, senza via di ritorno.
«Sei sempre la solita tardona!», l’apostrofai, avvicinandomi a lei ed abbassando la voce in modo che nessuno ci sentisse mentre le dicevo: «È ovvio che dovrai tenerti occupata a controllare Ryan al posto mio, mentre io non ci sarò! Non vogliamo mica che si fidanzi senza che io lo sappia».
All’improvviso vidi Dani assumere un’espressione comprensiva. Sorrisi, mentre speravo di essere stata chiara abbastanza. Prima che la mia migliore amica potesse aggiungere qualcosa, comunque, due voci fin troppo conosciute – e fin troppo simili – ci impedirono di continuare a chiacchierare mentre attendevamo l’inizio delle lezioni. Che, per inciso, alla Austin High School non era mai puntuale.
«Oh, ragazze! Non ditemi che è già arrivata l’ora degli addii!».
«Harriet, non avrai mica deciso di anticipare la partenza?».
Lee e Dean Royal erano i due fratelli gemelli più carini e simpatici che avessi mai conosciuto in tutta la mia vita. Sia io che Danielle passavamo molto tempo insieme a loro, perché proprio non si poteva fare a meno di amarli. Mi voltai a salutarli, col sorriso sulle labbra. Dio, mi sarebbero mancati tantissimo anche loro due.
«Buongiorno, ragazzi. Non ho anticipato un bel niente», esalai, poco prima di indicare Danielle con un dito. «È semplicemente che la signorina qui presente proprio non riesce ad accettare l’idea di avermi lontana, quindi inizio a consolarla già da ora».
«Oh, povera piccola», sussurrò Dean, abbracciando Dani mentre io scoppiavo a ridere.
«Dai, su. Ti terremo compagnia noi, quando Harry sarà lontana in California», la rassicurò Lee.
O perlomeno ci provò. Con scarsi risultati, visto che Danielle mise su un’espressione truce ed io decisi di colpire davvero poco giocosamente il nostro amico.
«Non sei d’aiuto così, L!», strillai, raggiungendo di nuovo la mia migliore amica per consolarla. Mi sembrava come una piccola cucciola indifesa, ed io mi sentivo in dovere di ‘‘proteggerla’’. «Dani, dai. Ci sentiremo tutti i giorni. Non ti permetterò di sentire la mia mancanza. Te lo prometto».  
 
«Indovina chi sono?».
Non ebbi bisogno nemmeno di ascoltare Ryan parlare: capii subito che si trattasse di lui non appena sentii la pelle delle sue mani coprirmi gli occhi e di conseguenza la vista sul lago di Austin al quale sia io che tutti i miei amici – avevo un gruppo piuttosto grande, sì – ci recavamo ogni pomeriggio dopo scuola per studiare insieme e fare gli stupidi come al solito.
Quella stessa mattina le cose al liceo si erano svolte proprio come quasi sempre. Lee e Dean avevano deciso di marinare le lezioni ed io avevo sbuffato infastidita – non sarei mai e poi mai riuscita a riportare quei due testoni sulla retta via – mentre prendevo sottobraccio Danielle ed insieme entravamo nella classe di chimica. Poi tutto si era svolto normalmente: io e la mia migliore amica ci eravamo recate sempre insieme ai soliti corsi – perché sì, li seguivamo tutti uguali – e avevamo anche intravisto di sfuggita Kyle e gli altri, potendoci parlare però per bene solo quand’era arrivata ora di pranzo.
Eppure, in tutto quel tempo passato a scuola, non avevo visto per nulla Ryan. La cosa un po’ mi aveva preoccupata, ma mi ero trattenuta fino all’ultimo per non chiedere in giro di lui. Già tutti i miei amici – cioè, solo quelli che erano a conoscenza della mia cotta per Nelson – mi prendevano in giro giorno e notte perché non facevo altro che parlare di lui… io avrei preferito evitare ulteriori imbarazzi. E quindi ero stata a chiedermi tutto il giorno dove fosse finito Ryan, aspettando con impazienza di andare al lago perché ero sicura del fatto che almeno lì si sarebbe presentato. Alla fine era arrivato con un’ora e mezza di ritardo… ma era lì e ciò mi bastava.
«Ehi! Dove ti eri nascosto?», gli domandai, liberandomi velocemente dalle sue mani e girandomi a cercare i suoi occhi chiari.
Ryan fece spallucce, raggiungendomi per sedersi di fianco a me sull’enorme plaid che avevo steso sul prato. Mi ero seduta come ogni giorno a pochi passi dal lago, e pensavo ad ultimare la mia ricerca per il professor Timber mentre poco spazio più in là Kyle e Danielle giocavano a farsi il solletico perché troppo pigri per studiare ‘‘così presto’’.
«Taylor ha fatto i capricci perché non voleva andare a scuola fin dal primo momento in cui ha aperto gli occhi, stamattina», mi spiegò Ryan, rivolgendo uno sguardo a Mary – la ragazza che insieme a me e Dani faceva parte del magnifico trio delle meraviglie – che come al solito stava aiutando William a studiare sotto l’ombra di una grande quercia. «Quindi ne ho approfittato per rimanere a casa con lei a fare nulla».
«Ogni scusa è buona per saltare scuola, eh?», chiesi, ridacchiando.
«Ormai l’anno è finito, e io sono a posto con tutte le materie. Posso permettermi due o tre assenze, no?».
Mi girai a cercare gli occhi di Ryan solo per dedicargli un’occhiata truce.
«No, che non te le puoi permettere», borbottai, lasciando cadere la matita che avevo usato per correggere i pochi errori futili ancora sfuggiti al mio sguardo sul plaid a quadri per poi portarmi le ginocchia al petto. «Soprattutto se fare assenza a scuola significa passare meno tempo con me».
«Oh». Pregai a lungo perché il silenzio non cadesse e Ryan decidesse di aggiungere qualcos’altro. Quella era probabilmente la frase più imbarazzante che gli avessi rivolto fin dal giorno in cui l’avevo conosciuto, poco più di due anni prima. «Fidati, vederti è l’unico motivo che mi spinge ancora a frequentare scuola».
Trattenni un sorriso, ringraziando Dio mentalmente perché l’imbarazzo non fosse ancora sceso a schiacciare me e Ryan. Poi mi voltai a guardarlo e gli dedicai un’occhiata un po’ scettica.
«Ma comunque stamattina non ti sei presentato», spiegai, lasciando libere le ginocchia e riportandomi sulle gambe i fogli della mia ricerca sull’Ucraina. Poi distolsi lo sguardo dal bellissimo viso dalla pelle chiara di Ryan ed impugnai la matita, pronta a rimettermi all’opera. «Quindi adesso devi fare in modo di farti perdonare».
«Be’, mi sembra giusto. Cosa vuoi che faccia?», mi rassicurò, senza nemmeno pensarci su due minuti.
Scoppiai a ridere.
«Innanzitutto mi aiuti a finire di correggere questa ricerca», ordinai, passandogli metà dei fogli stampati dal computer di mia madre. Perché sì, il mio si era rotto sul serio. Non c’era mai fine alla sfiga. «C’è qualcosa che non mi convince. Voglio vedere se tu pensi altrettanto».
Ryan annuì, mormorando un: «Okay», a bassa voce mentre prendeva i fogli dalle mie mani ed iniziava ad esaminarli.
«Ma non è finita qua. Stasera esci con me», continuai poi, con chissà quale coraggio. Non appena finii di parlare sentii gli occhi verdi di Ryan addosso e distolsi subito lo sguardo, sforzandomi di continuare a parlare in modo da uscire dall’ennesimo momento imbarazzante della giornata. «Così recuperiamo il tempo che avremmo potuto passare insieme stamattina».
«Mi stai… proponendo di… venire ad un appuntamento, con te? Da soli?».
Alzai gli occhi al cielo, cercando di non fare troppo caso alla voce appena incredula e forse un po’ schifata di Ryan. Poi cercai nuovamente il suo sguardo.
«Certo che no, scemo», lo rimbeccai, pizzicandogli una guancia per dispetto. Anche se avrei voluto fargli di peggio, sì. «Ci saranno anche Dani, Kyle, mia sorella e il suo ragazzo. Andiamo in pub che Cass venera. Ci sarà da divertirsi e non accetto un ‘‘no’’ come risposta».
L’espressione di Ryan si fece tutt’a un tratto più rilassata. Magari mi stavo immaginando tutto e alla fine non gli sarebbe nemmeno dispiaciuto avere un appuntamento con me… ma ai tempi ero troppo stupidamente infatuata di Nelson per riuscire a vedere le cose per com’erano davvero. E comunque volevo sul serio uscire in gruppo, quella sera. Perché me l’aveva chiesto mia sorella ed io volevo passare dell’ulteriore tempo sia con Ryan che con Danielle… quindi cosa c’era di male nel chiedere loro di aggregarsi a noi?
«Va bene, ci sarò».
Poi poco importava che io considerassi questa uscita come un appuntamento mentre Ryan era di tutt’altro parere.
 
L’estate che venne fu una delle più veloci della mia vita. Nemmeno il tempo di rendermi conto del suo inizio che già mi ritrovavo a fine agosto intenta a fare le valigie e a pregare Dio giorno e notte affinché non mi capitasse la disgrazia di dimenticare ad Austin qualcosa di davvero importante.
Nei miei ultimi giorni di vacanze, affrontai il nervosismo sempre crescente di Jenette anteposto alla calma quasi esasperante di Cassandra – che sì, era triste pure lei perché me ne andassi ma preferiva nasconderlo durante la maggior parte del tempo.
Io dal mio canto me ne stavo il più tranquilla possibile mentre cercavo in ogni cosa il lato positivo, proprio come avevo sempre fatto fin da quando mi era stata spedita la lettera di ‘‘accettazione’’ da parte della Beacon Hills High School. La lettera che mi aveva cambiato la vita e mi aveva fatta pensare a come avrei vissuto l’esperienza dell’intercultura a casa Stilinski. Io mi auguravo bene.
Per tutto quel tempo, da prima ancora che finisse la scuola, avevo passato la gran parte delle mie giornate con mia sorella. Lei, avendo ereditato tutto il suo carattere dal nostro ‘‘famoso’’ padre, non mi aveva mai e poi mai messo addosso pressioni – al contrario di Jenette – ma mi aveva aiutata a vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, passando momenti all’insegna del divertimento più sfrenato. Certo, alcune volte s’intristiva pure lei al pensiero di non vedermi per nove mesi, ed io la seguivo a ruota – perché, per quanto banale potesse sembrare, la regola del ‘‘Se stai male tu, sto male anch’io’’ era dannatamente vera – ma poi Cass si asciugava le poche lacrime sfuggite al suo controllo di ferro e riprendeva a ridere come se non ci fosse un domani insieme a me.
Il fatto di dover abbandonare Austin per molto tempo sembrava anche, inoltre, aver fatto aprire gli occhi a Ryan, che improvvisamente sembrava essersi reso conto sul serio della mia esistenza. In quegli ultimi mesi, infatti, passammo molto più tempo insieme di quanto ne avessimo potuto passare in tutti i due anni e più in cui l’avevo conosciuto. La sera in cui gli chiesi di uscire insieme a me, Danielle, Kyle, mia sorella e mio cognato andammo in un pub che Cassandra venerava come non so cosa, e ci divertimmo da morire. Il locale era molto carino e si mangiava benissimo: le serate si passavano ballando ed ascoltando musica country dal vivo. Ryan mi rimase attaccato come una cozza allo scoglio per tutto il tempo, rendendomi estremamente felice. E, nonostante il fatto che avesse continuato a specificare che non fossero appuntamenti, i nostri, uscimmo insieme tante altre volte ancora. La prima volta che – ‘‘per forza di cose’’, sostenne lui – ci ritrovammo ad uscire da soli, mi baciò addirittura.
Nonostante tutto, comunque, non diventammo una coppia. Eravamo entrambi troppo giovani per credere di poter resistere ad una storia a distanza, quindi avevamo convenuto entrambi di restare amici e aspettare. Difatti, il patto prevedeva che, se una volta tornata ad Austin entrambi ci saremmo riscoperti ancora interessati l’uno all’altra, allora avremmo provato a costruire qualcosa insieme. Non che ci credessi sul serio, nella riuscita della cosa, ma mi piaceva sorriderci su quando mi ritrovavo a pensare all’assurdità dell’evenienza di Ryan che rimaneva single per quasi un anno. O del pensiero di me, la sottoscritta, che continuava a pensare a lui anche essendogli lontana kilometri. Cioè, non che credessi di trovare finalmente l’amore a Beacon Hills – magari – ma ero convinta del fatto che in un modo o nell’altro, Ryan sarebbe finito nel dimenticatoio. E la cosa non mi dispiaceva nemmeno poi così tanto. Forse Cass era sul serio riuscita a cambiarmi almeno un po’.
Comunque, un altro anno scolastico era giunto al termine ed io ne ero uscita a pieni voti. La mia ricerca sull’Ucraina aveva lasciato più che soddisfatto il professor Timber ed io mi ero sentita davvero felice.
Se guardavo il mio calendario, oramai tutti i giorni erano segnati da una gigantesca ‘‘X’’ disegnata col pennarello rosso. Il giorno della partenza era arrivato.
Avevo finito di preparare le mie valigie e, in quei giorni più che agitati, avevo addirittura trovato il tempo di rimediare al casino che aveva combinato Randall sulla porta della mia stanza. Come da previsione, era bastata solo un po’ di pittura bianca a coprire i graffi che il mio cagnolone ci aveva lasciato su, ma comunque mi ero premurata bene di non dire niente a mamma. Cassandra mi aveva aiutata a fare tutto di nascosto, ed io l’avevo vista un po’ come una perfetta ‘‘partner in crime’’. E, parlando di Randall, mi ero presa tantissimo tempo per dirgli addio. Anche se potrebbe sembrare stupido, lui era l’unico uomo del quale davvero mi fidassi.
Infine, mia madre e tutti i miei amici mi avevano organizzato una grandiosa festa – per salutarmi una volta per tutte prima della partenza. E lì sì, che si erano versate molte lacrime. Persino Laurel, la mia nemica numero uno da più o meno quand’ero nata, si era presentata lì insieme a suo fratello Thomas e si era dimostrata dispiaciuta all’idea di vedermi andar via. Mi aveva chiesto: «Adesso che non ci sarai chi tratterò male?», ed io non avevo potuto far altro che sorriderle sinceramente, perché a volte è proprio vero che l’amore dei nemici è anche più sincero di quello degli amici.
Danielle era abbattuta, ma mai come mia madre e, incredibilmente, Cassandra. Tutte loro insistettero per accompagnarmi in aeroporto, dove tra l’altro trovai ad aspettarmi il professor Islan. Giustamente, da partecipante all’intercultura qual ero, mi era stato affidato un tutor che mi avrebbe spiegato tutto ciò che c’era da sapere sull’esperienza. Il professor Islan avrebbe viaggiato con me fino a Beacon Hills, dove poi mi avrebbe lasciata nelle mani di una certa Marin Morrell, che si sarebbe presa ‘‘cura di me’’ al suo posto durante tutta la mia permanenza in California.
Non appena fossi arrivata avrei dovuto partecipare ad un primo incontro di benvenuto che mi avrebbe permesso di conoscere tutti i miei professori ed anche la famiglia che mi avrebbe ospitato per nove mesi – e ricordo benissimo di aver supplicato il mio tutor di ripartire dopo ciò e non abbandonarmi prima per nessuna ragione al mondo – e poi avrei dovuto partecipare ad incontri del genere anche durante tutto il corso dell’anno scolastico. Gli incontri seguenti a dire il vero non mi spaventavano, ma il primo sì. Perciò avevo voluto che il prof rimanesse con me, e lui aveva deciso di accontentarmi.
Una volta arrivata a Beacon Hills, più precisamente alla Beacon Hills High School, mi ritrovai a fissare l’edificio con occhi curiosi. Non sapevo esattamente cosa mi sarei ritrovata di fronte, per ciò nel vedere il comunissimo liceo che mi avrebbe ospitata per quell’anno mi sentii un po’ stupida. E… tesa? Be’, quello senza dubbio. Ma pronta? Ero pronta a tutto quello?
Certo che sì.









A
n e w b e g i n n i n g:
Okay, chi si è sorbito le mie lamentele su fb *appare una grossa freccia brillante che punta su
 
xXx Veleno Ipnotico xXx e Bianca* saprà quanto è stato difficile per me scrivere questo capitolo. In poche parole il baratro di repulsione verso efp, fanworld, word, ff varie ecc. che mi aveva assorbita prima delle mie vacanze ha fatto sì che ci ricadessi anche non appena tornata a casa. E quindi eccomi qua, ad aggiornare con un ritardo di sette giorni. #inaccettabile Coooomunque, ieri stesso, dopo tante lamentele (D:) sono riuscita finalmente ad ultimare questo capitolo... che adesso è tutto per voi, carissime lettrici che come al solito ci tengo a ringraziare. Senza tutto il vostro supporto molto probabilmente non avrei mai finito di scrivere questo capitolo :)
In più ci tengo anche a scusarmi in ginocchio, perché vi avevo promesso che da qui in poi saremmo entrati nel vivo della storia, e invece poi ho deciso di cambiare tutte le carte in tavola e prendermi un altro (odioso) capitolo di passaggio, credendo fosse giusto farvi prima un po' presente la vita di Harriet in Texas, per mostrarvi poi la vita di Harriet in California. Boh, spero di non aver sbagliato... anche se sinceramente non sono poi più molto convinta della mia scelta.
#esieracapito Sembra quasi una maledizione quella dei "capitoli tre" che sono sempre di passaggio (vedi: Ingiustamente tu. XD).
Andando avanti... qui ho messo in mezzo molti personaggi nuovi. Ad alcuni di loro (Ryan) sono molto affezionata, altri invece restano volutamente un po' più nell'ombra e, da come potrete vedere
 qui mancano addirittura di interprete. Per alcuni (vedi: padre di Harriet e Cassandra) la mancanza di attore è voluta, perché sinceramente ci tengo ad avvolgere questo personaggio nel mistero per ancora un po' di tempo XD Mentre per altri non mi sono messa a cercare prestavolto perché non ne avevo né tempo né voglia, ma sappiate che sono più che aperta a consigli! Quindi sì, volendo potrete scegliere voi gli attori mancanti ;)
E poi niente, credo di aver detto tutto. Sappiate che il prossimo capitolo, a meno che non cambi idea ancora, si aprirà con il primo incontro tra lo sceriffo (<3) ed Harriet. Adesso vi chiederete: "E Stiles?". Arriverà presto anche lui, non disperate! Infine, prima di evaporare e lasciarvi libere una volta per tutte, lascio un paio di link che potrebbero servirvi. 
Qui c'è il mio profilo fb: chi di voi ancora non l'ha fatto può benissimo aggiungermi ai suoi amici, ne sarei onorata ^^ Spero di risentirvi tutte, almeno per sapere di non aver combinato un disastro totale con questo capitolo :( Baaaaci!


 

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Capitolo 4
*** Oh. Merda. ***


N.B.: Da come mi ha fatto notare Kary nella magnifica recensione che ha lasciato allo scorso capitolo di questa mia modestissima storiella, i collegamenti ipertestuali che ho inserito nell'ultimo angolo autrice non funzionano. Io sono impedita ed evidentemente nvu mi odia, quindi evito di reinserirli. Sappiate solo che, se volete, mi trovate su fb sotto il nome di A new beginning. Sul mio profilo si trova anche, ovviamente, l'album con tutte le fotografie dei personaggi di parachute :)
 
 

parachute

 
4.  Oh. Merda.
 
 
Contrariamente a quanto sarebbe potuto sembrare, incontrare gente nuova non mi era mai piaciuto. Magari riuscivo a nasconderlo bene – o forse no – ma in fondo in fondo ero semplicemente la solita ragazzina insicura, quella che si faceva complessi per tutto e non riusciva mai a sentirsi ‘‘abbastanza’’.
Perciò, mentre la maggior parte delle mie coetanee si ritrovava alla costante ricerca di un ragazzo che le amasse oppure di amici disposti a fare di tutto per loro, io facevo al contrario ogni cosa possibile ed immaginabile per evitare la gente che non conoscevo. Detto così magari sembrerebbe una cosa bruttissima, vi verrebbe da pensare che io sia una delle solite sedicenni asociali e depresse con la fobia di ‘‘ciò che è diverso da loro’’. Ma non è così. Io ero semplicemente… troppo poco coraggiosa. Non riuscivo a credere in me stessa, ad accettarmi per quella che ero e a dire: «Okay, sono fatta così e mi sta bene».
Odiavo le cose che non conoscevo, temevo il confronto con persone con le quali non avevo mai parlato perché – come già detto – non riuscivo proprio a vedermi alla loro altezza, mentre invece il problema era proprio questo. Non esistono persone migliori di altre: siamo tutti uguali, tutti con gli stessi difetti e pregi miscelati in diverse misure. Avrei scoperto queste cose solo più tardi, però, quando sarebbe arrivato qualcuno a cambiarmi la vita e ad aprirmi gli occhi. Per altro tempo ancora, comunque, non sarebbe successo nulla di tutto ciò. Ed io mi ritrovavo quindi nell’atrio della Beacon Hills High School, con le guance rosse per l’imbarazzo e la voce flebile e tremolante.
C’erano un sacco di persone di fronte a me. Persone che non conoscevo e con le quali non avevo assolutamente voglia di parlare e confrontarmi, perché come al solito temevo di poter dire l’ennesima ‘‘cosa sbagliata’’ e rovinare tutto. Se solo avessi potuto esprimere un desiderio, avrei sicuramente chiesto che Beacon Hills fosse già casa mia.  
Tutta quella sensazione di spiazzamento data dalle millemila novità che mi stavo ritrovando ad affrontare non mi piaceva nemmeno un po’. Avevo la fobia dell’ignoto, sì. E avrei voluto che Beacon Hills fosse già casa mia per sentirmi a mio agio, per ritrovarmi a salutare calorosamente tutti gli sconosciuti di fronte a me, per sapere tutto di loro e per fargli sapere tutto di me. Per poterli considerare miei amici – come consideravo le persone a me vicine ad Austin, insomma – e fare della paura di non essere adatta e apprezzata, solo un brutto ricordo.
Perché con gli amici va così, no? Una volta che riesci a costruire un rapporto e a mostrarti per quella che sei senza farti frenare da paure infondate, poi arrivi al punto in cui non ti vergogni più di nulla e non fai altro che dire: «Non devo trattenermi con loro, perché qualunque cosa io faccia capiranno. Mi conoscono come le loro tasche».
Avrei voluto superare ‘‘i primi tempi’’: quelli dell’imbarazzo, quelli dei gesti trattenuti e delle parole non pronunciate. Quando si ha sempre troppa paura di osare perché non si ha idea di come reagirà il nostro nuovo amico. Io odiavo quella fase. Odiavo conoscere gente nuova proprio per questo. E mi avrebbe fatto comodo un desiderio magico… ma sapevo benissimo di non poterne avere. Perciò, forse, era meglio tornare alla realtà.
«Oh, tu devi essere la famosa Harriet Carter. Non è così?».
Fissai la donna dalla pelle olivastra e i lunghi capelli scuri di fronte a me con occhi curiosi, sforzandomi di riservare un sorriso timido tutto per lei. Il professor Islan mi era ancora al fianco: come da promessa, non mi aveva abbandonata nella tana del lupo ma era rimasto con me, rincuorandomi con parole di conforto.
«Già, sono proprio io. È davvero un piacere essere qui e… conoscerla, signora…», incominciai, porgendo una mano in direzione della donna e interrompendo poi il mio fiume di parole quando scoprii di non sapere ancora il suo nome.
«Signorina, prego», mi apostrofò lei a quel punto, con un sorriso benevolo, tuttavia. Poi ricambiò la mia stretta. «Il mio nome è Marin Morrell: mi occuperò io di te, per quest’anno».
Il mio sorriso si estese ancor di più. Non chiedetemi perché, ma la Morrell mi aveva fatto fin da subito una buonissima impressione. Mi ispirava fiducia e autorevolezza. Sapevo fin da quel momento che con lei mi sarei trovata bene.
«Oh, quindi sarà lei il mio tutore. È grandioso», le feci presente, senza – improvvisamente – nessun altro imbarazzo.
«Sì, e spero che andremo d’accordo. Ti troverai bene qui a Beacon Hills, vedrai. Sia io che gli Stilinski ti aiuteremo ad ambientarti senza troppi sforzi, okay?».
Annuii, rilassata.
«Sono sicura che andremo d’accordo. Mi chiedevo… lei sarà anche una mia professoressa?».
Be’, il professor Islan non mi aveva detto niente del genere. Ma speravo che la Morrell insegnasse qualcosa. Non so esattamente spiegarvi perché, ma l’idea di poter imparare qualcosa da quella donna mi allettò fin da subito. Avrei voluto diventare come lei, un giorno. Emanava sicurezza da ogni poro. Mi resi conto solo in quel momento di stare provando addirittura ad ‘‘imitarla’’. Volevo che mi apprezzasse, sì.
«Certamente! Insegno francese. E, il primo giorno di scuola, la prima lezione alla quale assisterai sarà la mia!», mi spiegò Marin, dedicandomi l’ennesimo enorme sorriso.
Io mi accigliai leggermente.
«Assisterò ad una lezione?».
«Be’… sì. Essendo una nuova alunna tutto il consiglio docenti della Beacon Hills High School ha acconsentito al fatto che potresti sentirti un po’ spaesata dovendo affrontare subito una lezione vera e propria. Perciò te ne mostriamo una!», esalò quella che ormai potevo definire ‘‘la mia professoressa di francese’’, mentre io mi ritrovavo a pensare che fosse davvero una bella cosa da fare, quella dell’assistere ad una lezione dall’esterno prima ancora di frequentarla sul serio.
«Mi sembra un’idea fantastica», mormorai, ritrovandomi ancora a sorridere. Rischiavo una paresi ma non mi interessava: stava andando tutto così bene che come potevo non farlo? «Ma… posso sapere che corsi frequenterò?».
Non so ancora spiegarmi perché, ma per un attimo cadde il silenzio. Ovviamente il professor Islan mi aveva già citato alcune lezioni che avrei dovuto seguire per forza, ma io ero così nervosa, durante il viaggio, che a malapena l’avevo ascoltato. Perciò avevo chiesto alla professoressa Morrell, ma lei non fece neanche in tempo a rispondermi che una voce maschile – proveniente da dietro di me, credevo – parve farlo al posto suo.
«Ovviamente sarebbe meglio tu frequentassi tutti i corsi che segue mio figlio», raccomandò il nuovo arrivato, che – con mia enorme sorpresa – si stava rivolgendo proprio a me. «Uh… non sono in ritardo, vero?».
Okay, qualcuno che mi spiegasse cosa diamine stava succedendo? No, eh?
«Certo che no, signor Stilinski. Stavo giusto iniziando ad esporre ad Harriet come funzioneranno qui le cose. Venga a conoscere la nuova arrivata in famiglia, su».
Oh. Merda.
 
Cioè… ma davvero l’aver appena conosciuto colui che per tutto l’anno che si apprestava ad iniziare mi avrebbe fatto da ‘‘padre’’ poteva essere una cosa così imbarazzante?
Improvvisamente avevo dimenticato la sensazione di benessere provocata dalla presenza della professoressa Morrell e mi ero trasformata di nuovo nell’adolescente insicura appena arrivata a Beacon Hills. Mi sentivo visibilmente impallidita e non riuscivo proprio a trovare il coraggio per mormorare nemmeno uno stupidissimo: «Buongiorno» o un meglio ancora: «Piacere di conoscerla, signor Stilinski. La ringrazio davvero con tutto il cuore per avermi offerto questa magnifica opportunità. Essere ospitata nella sua casa sarà un onore, per me».
Mi stavo dimostrando una ragazzina insolente e davvero maleducata, ma – come al solito – la timidezza stava agendo al posto mio e non sapevo cosa fare per impedire che le cose andassero così. Comunque, prima che la situazione potesse diventare ancora più opprimente, il signor Stilinski – del quale ancora non conoscevo il nome – prese nuovamente parola e mi salvò dall’enorme imbarazzo che, paradossalmente, mi stavo provocando da sola.
«Quindi… sei proprio tu. Harriet».
Annuii, un po’ confusa, a dire il vero. Non avevo capito perché avesse pronunciato il mio nome di battesimo con così tanta enfasi, tanto che all’inizio ne fui anche un po’ spaventata. Ma poi mi bastò guardarlo bene negli occhi: mi ispirava così tanta fiducia! Sembrava proprio il padre che avrei voluto avere e che invece non mi era stato concesso…
«Già, sono io. È un piacere conoscerla, signor Stilinski!», riuscii a pigolare chissà come, allungando addirittura una mano nella sua direzione.
Mi sentivo gli sguardi della professoressa Morrell e del professor Islan addosso, il che non aiutava per niente. E la voce era ancora tremolante, sì. Non saprei spiegarvi bene perché, ma solo Marin sembrava essere stata in grado di farmi ‘‘sentire a mio agio’’. E ciò non significava che la preferissi all’uomo con cui avrei vissuto per nove mesi, ma… boh. Ero così confusa che se ci penso, ancora rido. Esperienze buffissime.
«Oh, ma chiamami pure Stephen», mi incitò a quel punto, stringendo la mia mano e donandomi il primo sorriso della giornata. Ricambiarlo mi venne più che spontaneo. «E benvenuta a Beacon Hills!».
E mentre ancora sorridevo, mi chiesi se potesse mai essere possibile avere un benvenuto migliore di quello.
 
Dopo aver conosciuto quasi tutti i miei nuovi professori e soprattutto il mio ‘‘padre adottivo’’, non potevo far altro che pensare di essere soddisfattissima di quell’esperienza dell’intercultura che, chissà come, era stata concessa proprio a me.
Le cose stavano andando tutte così bene che incominciai seriamente a chiedermi cosa avessi fatto di così bello in una possibile vita precedente per meritarmi una cosa così magnifica. E persone così magnifiche. 
Insomma, per fare un po’ il punto della situazione: la professoressa Morrell mi aveva fatto un buonissimo effetto e non vedevo l’ora che arrivasse il primo giorno di scuola per vederla insegnare, e poi… anche quasi tutti gli altri nuovi professori mi si erano presentati.
Erano tutte persone carinissime, e – stranamente! – persino il professore di educazione fisica mi era simpatico! Dico ‘‘stranamente’’ perché educazione fisica era senza dubbio la materia che più odiavo al mondo, quindi – da antisport in persona – per me nutrire un odio viscerale e super-immotivato verso qualunque professore di educazione fisica era una cosa di normale amministrazione. Ma odiare il professor Finstock mi fu davvero impossibile fin dal primo minuto, anche e soprattutto perché si dimostrò l’unica persona in quella stanza affollatissima in grado di farmi ridere come non facevo da ormai moltissimo tempo. E sto parlando di ridere – a crepapelle, quasi – non di fare sorrisini di circostanza.
Comunque, una volta aver abbandonato insieme al signor Stilinski l’edificio scolastico che mi avrebbe ospitata per ben nove mesi – solo dopo aver salutato il professor Islan e averlo rassicurato sul fatto che non avrei avuto nessun crollo emotivo, eh! – mi resi conto del fatto che all’appello mancassero ancora due o tre professori da conoscere. La Morrell mi aveva spiegato che non fossero presenti a quel primo incontro di benvenuto perché proprio non avevano potuto venire, ma mi aveva rassicurata dicendo che li avrei conosciuti il più presto possibile – il che mi rincuorava, perché stavo iniziando a cambiare idea sul fronte ‘‘nuove conoscenze’’. Avevo capito infatti che quando sulla tua strada trovi persone così deliziose fare amicizia è la cosa più bella del mondo, quindi avevo tanta di quella voglia di conoscere tutti! Non riuscivo a smettere di sorridere, e pensai anche che fosse meglio iniziare a fare altre domande a Stephen. Perché ci tenevo a conoscere meglio anche lui. Ero anche curiosissima di sapere perché avesse scelto di ospitare proprio me. E… sua moglie?
Oh Dio, come avevo potuto non pensarci prima? Dov’era la mia mamma? Ero quasi sul punto di parlare e chiedere tutto a Stephen quando lui mi precedette, ed io assunsi un’espressione più che interdetta. Per fortuna mi ricomposi subito, perciò non si accorse di nulla.
«Tra poco conoscerai mio figlio. Voi due avete esattamente la stessa età», esordì, dopo molti minuti che avevamo trascorso a camminare in silenzio, l’uno di fianco all’altra.
Beacon Hills era davvero un posto carinissimo: fino a quel punto la strada da scuola a casa era calma e tranquilla, il che non poteva essere altro che un bene. Anche se immaginai non sarebbe stato così quand’è che le lezioni sarebbero ricominciate, ma vabbè. Sempre meglio di Austin.
«Giuro che non l’abbiamo fatto di proposito, quando ti abbiamo scelta», continuò a raccontarmi Stilinski, lasciandosi andare anche ad una breve risata che mi strappò un sorriso sincero.
Stephen era davvero un bell’uomo: aveva sia gli occhi che i capelli chiari e in quel momento – quando finalmente mi ricordai della sua battuta d’esordio e quindi del fatto che avesse un figlio – mi ritrovai a pensare che con un padre così non poteva che essere più che carino, Stilinski junior.
Ma gli ormoni impazziti lasciarono ben presto il posto all’incredulità.
«Avete un figlio?», domandai quindi, interrompendolo senza alcuna remora.
Arrestai addirittura la mia camminata solo per piazzarmi di fronte a lui con gli occhi sgranati. Il signor Stilinski fu costretto perciò a fermarsi. La scena poteva sembrare addirittura comica, se vista dall’esterno. Lo vidi zittirsi di colpo e guardarmi con le sopracciglia aggrottate.
«Non riesco a capire se sei inspiegabilmente incredula o semplicemente infelice dell’avere scoperto dell’esistenza di un altro Stilinski», mi fece presente, mentre evidentemente tratteneva un sorriso. «E dammi del tu, per favore».
Mi portai la mano alle labbra, sgranando gli occhi ancor di più – se possibile. Mi sentivo improvvisamente colpevole. Ripresi a camminare, prima di rispondere.
«No, no! Il sapere che avet… hai… un figlio non mi rende infelice, anzi! Wow. Avrò compagnia, quindi! È fantastico!», trillai, improvvisamente consapevole del fatto che avrei diviso casa con un mio coetaneo e non solo con due ‘‘genitori adottivi’’. «Il fatto è che mi sembra molto strano! Sapevo che in genere l’ospitare ragazzi di intercultura fosse concesso solo a famiglie senza figli».
Stephen sorrise, sinceramente divertito. Continuò a camminarmi al fianco e notai che mantenne, chissà per quale motivo, lo sguardo fisso sull’asfalto mentre riprendeva a parlarmi.
«Be’, non nel nostro caso», iniziò, serio. «Anzi, ti dirò di più. Se non fosse per mio figlio, molto probabilmente non saresti nemmeno qui!».
A quel punto sì che ero incredula, ancora più di prima! Alzai gli occhi per cercare quelli del signor Stilinski e cercare di capire almeno un po’ la sua frase. Ero lì grazie a suo figlio?
«Ma com…», provai a chiedere, prima di essere interrotta da un rumore assordante di… gomme che strisciavano sull’asfalto?
Distolsi lo sguardo da Stephen e mi voltai fulmineamente verso la fonte del rumore, ritrovandomi di fronte la visione di una Jeep azzurro cielo che si dirigeva nella nostra direzione a velocità a dir poco disumana. Pensai che ci avrebbe investiti – c’era per caso qualcuno che odiava la famiglia Stilinski?, mi chiesi – ma per fortuna si fermò a pochi passi da noi, con l’ennesima frenata pazzesca e così rumorosa che rischiai di rimetterci un timpano. Argh
Sentii Stephen sospirare pesantemente e mi trattenni dal fare due più due. Non potevo avere un ‘‘pirata della strada’’ come fratellastro, no.
«Quel testone là è mio figlio», mi spiegò invece il signor Stilinski, a voce bassa, confermando le mie paure. «E ha seri problemi in francese, perciò per non bocciarlo la professoressa Morrell gli ha proposto di ospitare un ragazzo dell’intercultura. Ed eccoti qui».
A dire il vero prestai attenzione solo alla prima parte della frase, perché mi concessi – spinta dalla curiosità – di lanciare uno sguardo verso il conducente della Jeep impazzita: conducente al quale fino a quel momento non avevo prestato nemmeno un minimo di attenzione. E mi persi negli occhi nocciola più belli che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Oh. Merda.
 
It’s you and me
and all of the people
and I don’t know why…
I can’t keep my eyes off of you
 
La strada scorreva veloce davanti ai miei occhi ed io stavo facendo di tutto per osservarla il più attentamente possibile attraverso i finestrini della Jeep azzurro cielo. Volevo riuscire a memorizzare nel minor tempo possibile ogni minimo dettaglio di quel posto nuovo e bellissimo, in modo da riuscire a sentirlo ‘‘mio’’ quanto prima. Purtroppo, però, concentrarsi sul paesaggio visto da una macchina in corsa – non a velocità troppo elevata, per fortuna – non era poi così facile. Soprattutto quando alla guida c’era un ragazzo come Stiles.  
Dopo i primi minuti di ‘‘Oh mio Dio, non riesco a toglierti gli occhi di dosso’’, avevo seriamente cercato di ricompormi. E, come se niente fosse, mi ero quindi diretta insieme al signor Stilinski in direzione di suo figlio. Alla fine non era successo niente di troppo entusiasmante, imbarazzo a parte. E perciò ero riuscita a tranquillizzarmi, riuscendo anche a catalogare la cosa: ‘‘Sono nella macchina di uno dei ragazzi più carini che abbia mai visto’’ come normale amministrazione – perché comunque quello sarebbe diventato. Avrei avuto infatti la possibilità di condividere la macchina con Stiles sempre più spesso, ne ero sicura. E, inutile dirlo, la cosa mi rendeva – stupidamente – eccitata. 
Sospirai, evidentemente felice. Non mi stavo nemmeno preoccupando di nascondere tutta la marea di buone sensazioni che mi stava assalendo, difatti le mie labbra erano piegate in una smorfia sorridente e – ci avrei scommesso – persino i miei occhi sprizzavano felicità.
«Uhm… dov’è che abitate?», trovai il coraggio di chiedere alla fine, distogliendo lo sguardo dal finestrino e puntandolo – più per un riflesso quasi naturale che per altro – sullo specchietto centrale che mi permetteva, neanche a farlo di proposito, di avere un’ottima visuale sia su Stiles che su Stephen. Inutile dire quanto già li adorassi entrambi.
Mi schiarii anche la voce, trovandola più roca del solito. Stare in silenzio per tutto quel tempo non mi aveva di certo aiutata.
«Dov’è che abiterai anche tu, vorrai dire!», mi corresse subito il signor Stilinski, cercando i miei occhi scuri nello specchietto – proprio come avevo fatto io precedentemente – e sorridendomi. 
Non potei fare a meno di ricambiare il suo sorriso, come al solito. E sorrisi ancor di più quando vidi anche Stiles cercare il mio sguardo.
I nostri occhi si incontrarono ancora solo per una manciata di secondi, perché lui doveva fare attenzione alla strada, ma la cosa mi rese felicissima lo stesso. Non sapevo ancora spiegarmi perché fossi avvolta da tutte quelle buone sensazioni in sua presenza, perciò catalogavo il tutto come ‘‘forte attrazione fisica’’.
Ovviamente sotto c’era molto di più. Era – ma l’avrei capito solo dopo – come quando all’improvviso ti ritrovi ad incontrare una persona nuova, e la tua vita cambia totalmente. Per sempre.
«Abitiamo poco lontani da scuola, comunque. Tra poco vedrai», parlò poco dopo, mentre svoltava tranquillamente a destra.
Non chiedetemi perché, ma avevo come l’impressione che l’avesse fatto parecchie volte. Nonostante tutto l’impegno, infatti, il senso dell’orientamento proprio non era il mio forte. E sapevo già che ci avrei messo secoli per riuscire ad ambientarmi appieno a Beacon Hills… ma cosa poteva farmi più felice del sapere della presenza di Stiles al mio fianco?
Sorrisi ancora, cambiando posizione sul sedile giusto così, per il gusto di muovermi un po’.
«Okay», aggiunsi prontamente, pronta a proseguire subito. «E la signora Stilinski? Quando la conoscerò?».
Cadde, ancora una volta, il silenzio. E capii subito di aver fatto una delle domande più sbagliate del mondo.
A dire il vero non riuscii subito a spiegarmi il perché – o meglio non volli pensarci – perciò me ne rimasi impietrita a guardare Stephen sbiancare. Mi dissi che forse sarebbe stato meglio se mi fossi tenuta per me quel dubbio, anche se in realtà l’idea di conoscere la madre di Stiles mi stava tormentando già da tempo.
Fu proprio lui, alla fine, a rispondermi, solo dopo aver sospirato abbastanza pesantemente.
«Purtroppo non c’è più nessuna signora Stilinski», mi spiegò, dando la conferma al mio – atroce – dubbio. «Mia madre è morta ormai da molti anni».
Oh. Merda.    









A
n e w b e g i n n i n g:
Okay, esordisco chiedendovi (ancora) scusa per il mio imperdonabile ritardo. A dire il vero non credevo che ci avrei messo così tanto per riuscire a scrivere questa schifezzuola, ma credo sia oramai evidente che ancora non mi ero ritrovata a fare i conti con la scuola :( Perché sì, ovviamente un nuovo anno scolastico è iniziato. E, chissà perché, tutti i professori vanno di fretta come non mai. Okay, sono ad un anno dalla maturità... ma keep calm, ahahaha.
Vabbè, la smetto di fare la stupida. Sappiate comunque che depressione scolastica a parte mi va tutto benissimo. Nel mio amato carcere (vedi: liceo linguistico) riesco addirittura a divertirmi un sacco e a fare buonissimi incontri :P Quindi sì, andare a scuola è piacevole. E, finora, non mi ritrovo indietro in nessuna materia e ho addirittura il tempo di riposarmi. Ma sì, è normale che dopo dieci giorni sia ancora tutto rose e fiori. Ne riparliamo a novembre, va' :3
Pooooi, dopo questa inutile parentesi sulla mia vita (scusate ma mi andava di aggiornarvi ahahaha), vorrei parlarvi un po' del capitolo. Innanzitutto sappiate che ha qualcosa, a parer mio, che non mi convince. Proprio per questo sono ansiosa di sentire i vostri pareri! Da come la penso io, ci sono troppe scene corte e salti temporali messi così giusto per. La verità è che non volevo scrivere un papiro di capitolo e quindi ecco qua il risultato çç Da come avevo scritto su fb, poi, quaggiù impariamo a scoprire un nuovo lato del carattere di Harriet. Vediamo che non è la ragazzina supersocievole che conosciamo ma che è affetta da timidezza compulsiva pure lei! Ed è inutile dire quanto io mi sia ispirata a me stessa per questo lato del suo carattere, ahahahah.
Inoltre la vediamo anche avere diversi sbalzi di umore. Da come già detto non ho mai partecipato ad un'esperienza come quella dell'intercultura, perciò non posso sapere sul serio come ci si possa sentire... ma spero di aver descritto delle sensazioni quantomeno realistiche. Io credo che se fossi stata in Harry, mi sarei comportata nello stesso identico modo XD
Non so se l'avete notato, ma ho dato molto spazio al personaggio di Marin Morrell. Forse sarò l'unica, ma a me lei piace(va) tantissimo, quindi non vi stupite se deciderò di inserirla di qua e di là molto spesso. Per quanto riguarda parachute, poi, la vediamo coinvolta fin dall'inizio (l'idea dell'intercultura è sua) quindi mi piaceva questo fatto di coinvolgerla abbastanza frequentemente. Non ho idea di come si evolverà il suo rapporto con la Carter, ma quando penso a queste due insieme automaticamente penso ad Harriet e Derek insieme. E non voglio fare spoiler, ma per questi due ho delle belle idee in mente ahahahah (ma non credeteci troppo, potrei sempre cambiare tutto come al solito D:).
E poi vabbè, abbiamo i due uomini Stilinski, che spero vi siano piaciuti. Naturalmente Stephen non è il vero nome dello sceriffo, ma mi è andato di far sì che si chiamasse così (ovviamente avevo bisogno di un nome, ahaha) perché è stato il primo nome che mi è venuto in mente, quindi pace. Stiles si è visto poco, ma rimedierò nel prossimo capitolo (che spero arriverà presto!). Non posso far altro, adesso, che salutarvi e ringraziarvi tutte ad una ad una. Siete quindici splendori, e vi adoro così tanto <3
Un ringraziamento speciale va anche, poi, a quelle sante che trovano il coraggio di recensire i miei capitoli ogni volta. Per me sette recensioni sono tantissime, ed è tutto merito vostro se sto portando avanti questa idea della long StilesxHarriet senza mollare tutto come mio solito. Vi devo tutto (e molto di più). Alla prossima!

 

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Capitolo 5
*** Riserva di Beacon Hills - Non entrare dopo il tramonto. ***


N.B.: Questa volta niente di troppo importante da dire, se non un enorme GRAZIE a tutte voi. Questa storia è tra le più popolari del sito solo per le vostre magnifiche recensioni <3 Quindi buona lettura ancora una volta, splendori.


 
 
parachute
 
 

5.  Riserva di Beacon Hills – Non entrare dopo il tramonto.

 
 
Scoprire che Stephen Stilinski non fosse semplicemente ‘‘il signor Stilinski’’ ma anche, e soprattutto, ‘‘lo sceriffo Stilinski’’, mi aveva lasciata a dir poco sbalordita. Sembrava quasi come se Beacon Hills non volesse smetterla più di riservarmi sorprese – per fortuna fino a quel momento erano state tutte belle sorprese – ma, alla fin fine, era più che normale ritrovarsi a confronto con una realtà completamente nuova rispetto a quella che avevo ad Austin – la realtà alla quale ero stata abituata per sedici anni. Quindi diciamo che mi ero messa ben presto l’anima in pace e mi ero sforzata di agire come se nulla fosse, anche perché alla fine non c’era niente di più giusto. Cosa c’era di così strano nel ritrovarsi un padre adottivo membro delle forze dell’ordine? Assolutamente nulla, tanto che – una volta messi da parte tutti i miei inutili ‘‘complessi’’ – io, Stephen e Stiles eravamo anche riusciti a scherzare sulla cosa. 
Ah, giusto. Stiles. Era passata oramai una settimana esatta dal mio arrivo a Beacon Hills, e di momenti insieme ne avevamo trascorsi parecchi. Certo, dire che lo conoscevo bene sarebbe stato esagerato… ma in ogni caso potevo affermare senza dubbio alcuno di aver capito che tipo fosse, e mi piaceva. Infatti, Stilinski junior non mi aveva fatto semplicemente una ‘‘buona prima impressione’’, ma aveva continuato a confermarsi un ragazzo carinissimo e simpatico. Il genere di ragazzo col quale ogni mia coetanea sarebbe uscita, insomma. E, parlando di questo, il fatto che fosse single – e no, non gliel’avevo chiesto, ma semplicemente avevo dedotto che fosse così – destava in me non pochi sospetti.
Cambiai posizione nel letto, trattenendo un sorriso. I raggi argentei della luna – quei pochi che riuscivano a sfuggire ai nuvoloni neri – filtravano attraverso le fessure delle veneziane bianche, facendomi compagnia. Com’era più o meno normale che fosse, riuscire a dormire in un letto che non era il mio mi era stato fin dalla prima notte molto difficile. Il risultato? Chiudevo occhio due orette scarse. La cosa non era preoccupante finché ancora era estate e non avevo scuola… ma come avrei fatto già il giorno dopo ad alzarmi presto e seguire le lezioni come se fossi fresca e riposata? Perché sì, il giorno dopo – il nove settembre – avrei finalmente ripreso scuola. Dire che fossi nervosa è un eufemismo.
Sospirai, controllando l’orario sulla sveglia. Segnava quasi l’una di notte. Era tardissimo, e, come al solito, faceva freddo da morire. Nonostante mi trovassi in California e fossimo appena reduci dall’estate, se di mattina a Beacon Hills il tempo era mite e sopportabile, la notte si scatenava un freddo senza eguali. O forse ero io troppo esagerata? Sta di fatto che ero coperta fino al collo e non vedevo l’ora che spuntasse di nuovo il sole, anche se ciò avrebbe significato dover affrontare la scuola. E i nuovi amici.
Non feci in tempo a perdermi in altri inutili complessi che un rumore sordo riempì le mie orecchie e mi provocò un grande spavento. Sobbalzai, mettendomi in piedi alla velocità della luce e affacciandomi nel corridoio che ospitava tutte le stanze da letto di casa Stilinski. Pensare a: ‘‘Sembra che qualcuno sia caduto a terra’’ non si era rivelato, alla fine, per nulla sbagliato. E, escludendo Stephen che era al lavoro da dieci minuti – spesso veniva chiamato a lavoro di notte, il che talvolta portava me e Stiles a stare svegli fino a tardi a fare di tutto oppure ad uscire e dimenticarci del coprifuoco – chi volete che fosse disteso sul pavimento, evidentemente reduce da una brutta caduta e troppo preso dall’imprecare per potersi accorgere di me?
«S-Stiles…», ansimai, cercando – invano – di trattenere una risata. «Si può sapere cosa combini!?».
Quando il mio fratellastro si fu rimesso in piedi ed incrociò i miei occhi, scoppiai finalmente a ridere. Aveva in viso un’espressione troppo buffa, tanto che tentare di rimanere serie per non rendere evidentente il fatto che lo stessi prendendo in giro mi venne impossibile.
«Oh, Ha-Harriet», boccheggiò, massaggiandosi il ginocchio prima di ritornare composto. «Scusami, non volevo svegliarti».
Smisi di ridere, limitandomi a fare spallucce mentre mi appoggiavo allo stipite della porta per osservare meglio Stiles.
«Non ti preoccupare, non stavo dormendo», lo rassicurai, aggiungendo poi – a voce bassa perché non mi sentisse: «Come al solito…».
Incrociai le braccia, mentre Stiles annuiva e deglutiva. Era evidente che fosse nervoso, il che riuscì a strapparmi l’ennesimo sorriso.
«D’accordo. Allora io… torno nella mia camera. Buonanotte, Harry», mi spiegò, fingendo un sorriso e dirigendosi verso la porta della sua camera – quella in fondo al corridoio. «Ci vediamo domani mat…».
«Stiles, lo so che stavi uscendo», interruppi, sbuffando divertita. «A meno che tu non ti sia vestito così per andare a dormire. In tal caso alzo le mani!».
«No, io…».
Portai gli occhi al cielo, stupefatta. Davvero era così testardo da voler continuare a negare l’evidenza come se niente fosse? Ridacchiai, alzando le mani in alto in segno di arrendevolezza.
«Ooookay, è tutto chiaro. Non vuoi dirmi dove vai», stabilii, realizzando improvvisamente che – di sicuro – stesse uscendo per vedersi con la sua ragazza, ragazza della quale mi aveva nascosto l’esistenza. «Stai tranquillo, ovviamente non dirò niente a Stephen. Buonanotte, Stiles».
Feci per entrare nella mia stanza e chiudermi la porta dietro le spalle, quando la sua voce mi richiamò, e rimasi bloccata con lo sguardo sull’interno della cameretta buia che avevo abbandonato solo pochi minuti prima.
«Harriet, sto andando da Scott».
Aggrottai le sopracciglia, voltandomi a cercare lo sguardo di Stiles e chiedendogli silenziosamente di continuare a spiegarsi. Be’, magari sbagliavo ad essere così invadente e appiccicosa… ma sapere di essere lasciata da sola in casa in piena notte non mi rassicurava molto. Comunque, avrei imparato ben presto a cavarmela anche da sola.
«È… sorta un’emergenza».
Continuai a non capire, ma decisi – finalmente – di non insistere più. Mi sforzai anche di sorridere, sperando di essere credibile. Già stavo odiando il mio modo di fare degli ultimi minuti, non ci voleva che anche Stiles capisse quanto fossi spaventata all’idea di rimanere da sola. Il tutto mi sembrava già troppo evidente, e mi maledii per ciò.
«Va bene», dissi, incrociando nuovamente le braccia. «Stai attento, però».
E, detto questo, misi piede nella mia stanza e tentai anche di chiudere la porta per ritornare a dormire – o perlomeno a provarci. Ma, ancora una volta, non ci riuscii. Ed è inutile dire che ne fui più che felice. Addirittura mi venne difficile trattenere un sorriso di fronte all’ennesima interruzione da parte di Stiles.
«Harry… puoi venire con me, comunque. Papà non si accorgerà di nulla neanche stavolta», mi spiegò, alludendo a tutte le altre occasioni in cui, mentre Stephen era a lavoro, io e Stiles eravamo stati fuori fino a tardi senza che lo sceriffo se ne rendesse conto.
«Allora mi vesto!», esclamai, esibendo un gran sorriso ed affrettandomi ad entrare nella mia camera – una volta per tutte.
«Ti aspetto».
Stiles mi sorrise a sua volta. E sì, mi ritrovai a pensare che avesse – anche – uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto. Se fossi stata in un anime, realizzai quasi con orrore, cuoricini rossi sarebbero stati tutt’intorno a me, intenti a svolazzare allegramente.
Merda
 
Casa di Scott distava solo cinque minuti a piedi dalla ‘‘nostra’’ – usare quell’aggettivo era stranissimo e credevo sarebbe stato così per sempre – perciò, ovviamente, avevamo deciso di non prendere la macchina di Stiles e di limitarci a passeggiare praticamente spalla contro spalla verso casa McCall. L’aria notturna era fredda, ma grazie a Dio mi ero coperta abbastanza da non rischiare di morire assiderata. Da sempre odiavo il freddo e l’inverno, il che rendeva molto evidente il fatto che venissi dal Texas – terra dove il sole e il caldo erano praticamente eterni.
Avevo deciso di non chiedere nulla a Stiles sul perché stessimo andando a casa del suo migliore amico all’una di notte: già per me era tanto che avesse deciso di portarmi con sé senza escludermi. Fino ad allora non l’aveva mai fatto – nel senso che dove andava lui c’ero io – ma quella volta… be’, doveva essere per forza successo qualcosa perché Stiles decidesse di non poter aspettare fino al mattino dopo per vedere Scott. Qualcosa di intimo, che riguardava solo loro due. Qualcosa nel quale io ero stata inclusa.
Trattenni un sorriso, stringendomi le braccia al petto e comprendendo che nonostante il fatto che Stiles avesse provato ad uscire di nascosto alla fine aveva comunque deciso di non lasciarmi a casa da sola, il che mi rendeva molto felice, perché – anche se ero a Beacon Hills da poco tempo – iniziavo già a sentirmi parte di qualcosa. Parte di un… trio? Be’, meglio non esagerare troppo.
«Sei silenziosa».
Improvvisamente, Stiles interruppe il silenzio che si era venuto a creare tra di noi – anche per scelta mia – ed io mi girai a cercare i suoi occhi, sorridendogli, un po’ dispiaciuta.
«Scusami», dissi infatti, facendo spallucce.
«Sto pensando a domani», mentii.
«Sei in ansia per scuola?», domandò, cercando il mio sguardo a sua volta.
A quel punto iniziai a pensare sul serio alla scuola, e il realizzare che fosse già l’una di notte mi fece allarmare non poco. Mancavano solo sei ore all’inizio di tutto, ed io non avevo chiuso occhio nemmeno cinque minuti. In più, come se non bastasse, mi ritrovavo in giro per Beacon Hills per motivi assolutamente ignoti. All’improvviso l’idea di essere uscita non mi sembrava più così buona, e credo proprio che se non fosse stato per il fatto che Stiles si trovava lì con me, mi sarei proprio pentita del tutto.
Abbassai lo sguardo sull’asfalto, sospirando.
«Direi proprio di sì», ammisi, sempre a testa bassa.
Chissà perché, tutt’a un tratto fissare le mie Converse nere era una cosa di gran lunga più interessante. Ero – ancora – in imbarazzo.
«È tutto così… nuovo», aggiunsi poco dopo, sentendomi molto stupida.
Era normale che fosse tutto ‘‘nuovo’’, per me. Persino Stiles me lo fece notare.
«Be’, è naturale. Ma ti troverai bene, vedrai. In fondo conosci già tutti i professori… e la Morrell ti piace, no? Cioè, io non so come tu faccia a fartela andare a genio… ma okay».
Scoppiai a ridere.
«Io potrei chiederti il contrario!», esclamai, puntandolo con un indice e voltandomi a guardarlo. «Il francese è una lingua bellissima e Marin un soggetto davvero interessante. La tipica professoressa che ti fa venire voglia di studiare, insomma».
«Parla per te», borbottò Stiles, infilando le mani nelle tasche della giacca scura. «Il francese sarà bello quanto vuoi, ma è difficile. E la Morrell è una strega».
Mi persi nell’ennesima risata, alzando gli occhi al cielo e velocizzando il passo per non rimanere indietro. Stiles correva decisamente troppo per i miei gusti – segno evidente del fatto che sul serio fosse successo qualcosa di importante – dannate quelle sue gambe lunghe!
«Scommetto che sei tu a non impegnarti abbastanza. Ed è un peccato, perché sei un ragazzo davvero intelligente», gli feci presente, senza vergogna alcuna.
Certi sprazzi di intraprendenza mi capitavano solo una volta su un milione – oserei dire ‘‘purtroppo’’.
«Tranquillo, comunque. Quest’anno ti aiuterò io!», continuai, ancora priva di imbarazzo.
«Mi salverai la vita. Ne sei consapevole?», riuscì semplicemente a sussurrare Stiles in risposta, una volta giunti di fronte casa McCall.
Poi sorrise ancora, ed io lo ricambiai come se fosse la cosa più naturale del mondo, mentre pensavo che ‘‘salvarlo’’ sarebbe stata una cosa che avrei fatto con immenso piacere.
 
Entrare dalla porta non era una cosa da Stilinski, forse, perché non appena feci per dirigermi verso l’ingresso di casa McCall e provai a suonare il campanello, Stiles mi bloccò.
«Ferma, non suonare!», mi redarguì, cercando di non alzare troppo la voce. «Non dovremmo essere qui, ricordi? Solo Scott può sapere della nostra presenza. Melissa no: lo direbbe immediatamente a papà».
«Oh», boccheggiai, indietreggiando. In effetti, come avevo fatto a non pensarci? «D’accordo, allora. Che facciamo?».
«Aspettami qui, okay? Torno subito».
In risposta a quella domanda, non potei far altro che limitarmi ad annuire e decidere di non porne ulteriori. Me ne rimasi in silenzio a pochi passi dalla porta d’ingresso di casa McCall, con le braccia incrociate sul petto e l’aria improvvisamente persa, mentre guardavo il mio ‘‘fratellastro’’ allontanarsi, molto probabilmente diretto verso il retro della struttura.
Credo fosse normale sentirsi al sicuro solo in presenza di Stiles – e morire di paura anche solo all’idea di rimanere in giro da sola – perché ero a Beacon Hills da pochissimo e praticamente non sapevo nulla di quella cittadina così allegra e solare, all’apparenza. Ma, nonostante tutto, il rendermi conto dell’indipendenza che in un certo qual modo avevo perso in seguito a quell’esperienza dell’intercultura, mi rendeva solo molto arrabbiata. Se avessi dovuto usare un sostantivo qualunque per descrivermi, avrei scelto: intralcio. Perché, in quell’esatto periodo, non ero nient’altro che un intralcio.
«Non ti muovere, eh!», aggiunse Stiles all’improvviso, voltandosi ancora a guardarmi e strappandomi una sonora risata.
Ero così assorta nei miei pensieri, infatti, da non essermi più accorta della sua presenza. Non mi aspettavo proprio che potesse parlare ancora, il che mi aveva colta di sorpresa e provocato un bello spavento. Ma, al contrario di sobbalzare, l’unica cosa che mi era venuta naturale fare era ridere.
Non sapevo ancora spiegarmi come, ma farlo – quando c’era Stiles di mezzo – era una cosa così normale che non c’era nemmeno bisogno di chiedersi perché. Era… una cosa quasi necessaria, come respirare o mangiare. Era benessere, e felicità. Era anche assurdo, a dirla tutta, perché conoscevo Stilinski junior da così poco… ma mi sentivo già legata da morire a lui. Dipendente, da lui. Sotto moltissimi aspetti.
«Me ne sto ferma qui, parola di lupetta scout!», esclamai, ancora ridendo e gesticolando da morire.
Lo facevo sempre quand’ero più felice del solito.
Stiles mi sorrise ancora un’ultima volta, prima di sparire sul retro di casa McCall, e quando non riuscii più a vederlo rimasi con gli occhi ancora fissi sul punto in cui si trovava fino a pochi secondi prima. Non riuscivo più a smettere di sorridere, improvvisamente. E non potevo far altro che chiedermi: cosa può succedere di male? Non avevo più paura di stare sola. E lo dovevo solo a lui. 
Il tutto, comunque, durò solo un minuto o poco più. Certo, non che avessi più paura di un possibile attentato da parte di forze oscure – perlomeno non ancora – ma mi stavo annoiando lì tutta sola, in piena notte.
Mi strinsi maggiormente le braccia al petto, prendendo a guardarmi intorno. Casa di Scott era davvero bella. C’ero stata poche volte ma la ricordavo già bene, forse perché mi ero sentita a mio agio e la catalogavo – inconsciamente – nella schiera dei luoghi capaci di donarmi sensazioni positive. Osservai attentamente la facciata della struttura dipinta d’azzurro, cercando di indovinare a quali stanze appartenessero le poche finestre dalle luci accese. Quand’ero stata da Scott insieme a Stiles non avevo badato a tutte quelle piccolezze, ma in quel momento – colpevole la noia – mi sembrava la cosa più interessante da fare.
Comunque, prima ancora di poter iniziare a fare un pensiero logico e sensato, il sentire diversi rumori provenienti dalla porta d’ingresso mi fece allarmare e non poco. All’improvviso mi ritrovai paralizzata a pochi passi dagli scalini che conducevano al portico, incapace di pensare del tutto a cosa fare e in attesa di scoprire cosa fosse quel rumore. Sembrava proprio come se qualcuno stesse girando un mazzo di chiavi nella serratura, e nonostante il fatto che il rumore fosse tutt’altro che fraintendibile, non riuscivo ad ammettere a me stessa che dall’altra parte della porta c’era Melissa, che sicuramente avrebbe potuto da un momento all’altro affacciarsi fuori chissà perché e vedermi lì.
Forse fu quello a spingermi via, verso il retro della casa, o forse l’avvertire in lontananza le voci – concitate? – di Scott e Stiles. Non riuscivo più a capire cosa stesse succedendo, perciò avevo assoluto bisogno di sapere. La scena che mi ritrovai dinanzi alla fine, comunque, non aveva niente di troppo spaventoso o preoccupante. Piuttosto, a lasciarmi impietrita, furono i discorsi di Stiles e Scott.
Non riuscii a prestarci molta attenzione, a dire il vero, perché ero lontana e sbalordita. Ma comunque le parole: ‘‘agenti federali’’, ‘‘polizia’’ e ‘‘corpo morto nel bosco’’ arrivarono forti e chiare alle mie orecchie.  
«Un omicidio?», sentii chiedere a Scott, a bassa voce.
Anche lui era evidentemente sconvolto. L’unico a sembrare perfettamente consapevole di ciò che stava dicendo sembrava Stiles. Ipotizzai subito che fosse così tranquillo, a contatto con un argomento spinoso come la morte, perché si era ritrovato già ad affrontarla – in seguito al decesso della madre – e ciò faceva sì che in un certo senso ci fosse più o meno abituato. Il realizzare il tutto mi rese immensamente triste, tanto che sentii addirittura gli occhi diventare lucidi.
«Non si sa ancora. Era una ragazza, comunque. Di circa vent’anni».
Solo il sentire di nuovo la voce di Stiles riuscì a ‘‘farmi rientrare in me stessa’’. Lo osservai attentamente mentre faceva spallucce – sempre come se niente fosse – e gesticolava furiosamente come al solito. Potrebbe sembrare assurdo da dire, ma ci assomigliavamo anche in quello.
«Ma se hanno trovato il corpo, allora che stanno cercando?», continuò a domandare Scott, aggrottando anche le sopracciglia.
A quel punto sgranai gli occhi. Ma certo: come avevo fatto a non pensarci? C’era qualcosa di più, sotto. Doveva esserci qualcosa di più! Agenti federali e polizia non potevano muoversi in piena notte se non guidati da un motivo valido. E, da come aveva fatto notare Scott, se il corpo era stato già trovato… perché mai tutto quel trambusto? Perché la situazione non veniva archiviata e basta? Sul serio: cosa stavano cercando tutti quanti?
«Qui viene il bello!», esclamò Stiles, dopo aver ridacchiato un po’.
Fece anche una pausa ad effetto, mentre io aspettavo impazientemente che continuasse a parlare e Scott era evidentemente divorato dalla curiosità.
«Ne hanno trovato solo metà».
«Coooosa!?».
Non urlare mi fu impossibile.
Mi ritrovai gli sguardi dei miei due coetaneii addosso in men che non si dica. Oh, Cristo. Non potevo credere a ciò che avevo appena sentito.
Cos’era che avevo affermato solo poco tempo prima? Beacon Hills era una cittadina allegra e solare?
Certo. Come no. 
 
Riserva di Beacon Hills – Non entrare dopo il tramonto.
Queste semplici quanto efficaci parole recitava il cartello all’entrata della riserva: cartello che sia io che Stiles e Scott ci ritrovammo ad ignorare completamente, proprio mentre io mi chiedevo: «Ma per quale assurdo motivo ci stiamo ficcando in una situazione del genere?».
Facevo tale domanda a me stessa perché non avevo il coraggio di esternare tali pensieri a voce, non avevo proprio la forza di urlare: «Ma chi ce lo fa fare? Perché non lasciamo fare agli agenti e alla polizia il loro lavoro mentre noi cerchiamo di dormire un po’ prima di scuola?».
Ero… sconvolta. Un omicidio così brutale dopo sette giorni di permanenza a Beacon Hills? La cosa non mi rendeva affatto fiduciosa riguardo al mio soggiorno laggiù.
Sarebbe stato sempre così? Avrei dovuto imparare a scontrarmi con realtà terrificanti, abbandonando perciò la spensieratezza dei miei sedici anni? Quella spensieratezza che, in un certo senso, mi era dovuta? Che era dovuta anche a Stiles e a Scott?
La risposta ovviamente era sì, ma in quelle prime ore del nove settembre, mentre mi ritrovavo a calpestare foglie secche mentre gironzolavo per la riserva di Beacon Hills con le braccia incrociate al petto e la paura che non la smetteva di tenermi sotto assedio, non potevo ancora saperlo. Né neanche lontanamente immaginarlo.
Sospirai pesantemente, osservando – quasi rapita – la nuvoletta d’aria che uscì fuori dalle mie labbra. Allora faceva davvero molto freddo: non ero io la solita freddolosa, né l’agitazione a farmi sentire come un pezzettino di ghiaccio.
Mi strinsi ancor di più nella mia giacca di pelle marrone, mantenendola ben chiusa sul petto mentre facevo di tutto per rimanere al passo di Scott e Stiles – che, manco a dirlo, di camminare lentamente nemmeno volevano saperne.
Cercavo anche di stare dietro ai loro discorsi, ma puntualmente mi perdevo nella visione immaginaria di uno scenario funereo che vedeva il mio corpo tagliato a metà venire ritrovato nel bosco. Oh mio Dio. Stavo forse diventando paranoica come mia madre!?
«Giusto. Perché stare seduto in panchina è davvero faticoso», sentii dire a Stiles, intento a camminare – diretto chissà dove – con Scott alle spalle.
Io ero dietro, a chiudere la fila, e non c’era certo bisogno di dire che non mi fosse capitato affatto un posto d’onore. Alzai gli occhi al cielo mentre sentivo Stiles ridacchiare proprio come se tutto quello che stava succedendo fosse una cosa di normale amministrazione, e mi ritrovai addirittura a chiedermi se non fosse sul serio così.
Insomma… Scott non aveva quasi fatto nemmeno mezza piega di fronte alla notizia che avremmo passato la notte a cercare il corpo di una ragazza morta. Si era limitato ad un semplice: «Dobbiamo farlo per forza?», mentre io sgranavo gli occhi e mi chiedevo se il problema non fosse proprio la mia persona. Scott voleva davvero così tanto bene a Stiles da accettare, per lui, di fare anche cose del genere? O erano semplicemente pazzi entrambi, mentre io mi stavo facendo coinvolgere senza nemmeno opporre resistenza in un qualcosa di gran lunga più grande di noi?
«Quest’anno giocherò. Anzi: sarò tra i titolari», replicò Scott dopo un po’, continuando imperterrito a camminare.
Non riuscii a capire quale fosse il centro del loro discorso, né me ne importò più di tanto. Il mio cervello era bloccato dalla paura così tanto che non riuscivo più a pensare lucidamente.
«Questo è lo spirito giusto. Devi avere un sogno, anche se non si realizzerà mai».
Scott ridacchiò, scuotendo la testa. La sua felpa rossa era l’unica vera macchia di colore nel bel mezzo di quel bosco buio e terrificante, perciò ci tenevo volentieri gli occhi sopra. Solo raramente spostavo lo sguardo sulla luce flebile emanata dalla torcia che teneva in mano Stiles, altra cosa – l’unica – in grado di tranquillizzarmi almeno un po’.
«Harriet?», lo sentii richiamarmi dopo poco tempo, e la sua voce rivolta a me dopo quel lasso apparentemente infinito di tempo fu come un fulmine a ciel sereno.
Mi ritrovai ancor più spaesata di prima, senza nemmeno riuscire a spiegarmi perché.
«Cosa c’è?», riuscii a gracchiare semplicemente, ritrovandomi gli sguardi di entrambi i ragazzi addosso.
Alzai gli occhi al cielo, infastidita. Praticamente mi avevano ignorata fino a quel momento: perché quindi non continuare tranquillamente a farlo, invece di squadrarmi con quell’aria corrucciata e tremendamente insopportabile?
«Ci sei? Va tutto bene?», domandò Stiles, arrestando anche la sua camminata – proprio come avevevamo fatto io e Scott – ed avvicinandosi a me.
O perlomeno provandoci, perché lo fulminai con lo sguardo così tanto che desistette senza pensarci nemmeno un po’ su. Improvvisamente, la paura stava lasciando il posto alla rabbia. Mi sentii tremendamente in colpa. Perché mi stavo comportando così male con Stiles quando invece tutta quella situazione dipendeva da me? Avrei potuto oppormi. Anzi, avrei dovuto farlo. Ed invece me n’ero stata zitta.
«Sì, va tutto bene…», sussurrai allora, non molto convinta mentre spostavo il peso del corpo da un piede all’altro e mi lasciavo andare ad un lungo sospiro.
«Anzi, no. Non va bene affatto», ritrattai subito dopo, ben consapevole di non poter mentire né a Scott né – tantomeno – a Stiles, il cui sguardo attento la diceva lunga su quanto poco avesse creduto alle mie precedenti parole. «Mi sto chiedendo perché non mi trovo a casa a dormire, Stiles. Sto morendo di paura».
Aggrottò le sopracciglia, poco prima di prendere a parlarmi. Scott se ne stava a metà strada tra me e lui, come una sottospecie di ‘‘paciere’’. Infatti, se ancora non avevo assalito Stiles fisicamente, era anche grazie a lui. McCall però non interagiva: si limitava ad assistere alla scena in silenzio, proprio come avevo fatto io fino a quel momento. Adesso era lui l’Harriet della situazione.
«Davvero avresti preferito rimanere a casa da sola, visto ciò che è successo?».
«Vorrei ricordarti che mi ci stavi lasciando», sputai, assottigliando gli occhi e serrando le labbra.
Ero arrabbiata? Sì. Improvvisamente, e quasi contro ogni logica, lo ero. Non avrei mai e poi mai creduto di poter trattare Stiles così male dopo così poco tempo… eppure stava succedendo. Ma ero veramente io a parlare, in quel momento, oppure le ‘‘cattive’’ emozioni che stavano prendendo il sopravvento su di me?
«Io…».
«Ehi, basta».
Scott intervenne, impedendo a Stiles di provare a spiegarsi. Quasi sicuramente sapeva anche lui che nulla sarebbe servito a farmi cambiare idea, in quel momento. Inconsciamente, mi ritrovai ad essergli grata. E sicuramente la pensò così anche Stilinski.
«Piuttosto, quale metà del cadavere stiamo cercando?».
«Oh», riuscì solo a dire Stiles, mentre riprendeva a camminare proprio come se nulla fosse successo.
Scott lo seguì, infilando le mani nelle tasche della grande felpa rossa. E a malincuore, ripresi a marciare anch’io.
«A questo non ho pensato», continuò poi Stiles, facendo sì che i miei occhi si spalancassero – pieni di stupore – per l’ennesima volta.
In quel momento, come mai prima d’allora, stava dimostrando al meglio tutti i suoi sedici anni. 
«E se… l’assassino fosse ancora da queste parti?».
Quella volta, quasi inaspettatamente, fui io a parlare. Inutile dire che – ancora – non furono affatto belle parole.
«Ah. Bella domanda, Scott», ridacchiai, arrestando la mia camminata e guardando i due ragazzi fare altrettanto, poco prima di girarsi a guardarmi con sguardo interrogativo.
Incrociai le braccia al petto prima di riprendere a parlare.
«Cosa vogliamo scommettere sul fatto che Stiles non ha pensato neanche a questo?».
Mi stavo trasformando in una stronza. Era ufficiale, ormai.
 
A dire il vero, l’avevo capito fin dal primo momento che, qualunque fosse la situazione assurda nella quale ci stavamo cacciando io, Stiles e Scott, non avrebbe portato ad assolutamente nulla di buono. Lo sapevo, me lo sentivo nel profondo. Eppure non ero stata capace di dire né fare nulla per impedire il tutto. Ero stata bravissima a sputare odio addosso a Stiles, quello sì. Ma non a far valere le mie ragioni in modo giusto, cosicché qualcuno potesse decidere di ascoltarmi e fare come volevo io.
E alla fine, tutto era andato proprio come previsto. Male. 
Stephen ci aveva scoperti a curiosare nel bosco – intralciando quindi il suo lavoro – in un battito di ciglia, ed io mi ero sentita tremendamente colpevole mentre la luce della torcia che teneva tra le mani per avere più visibilità in quel posto buio mi colpiva gli occhi, i cani da fiuto latravano impazziti e la pioggia scendeva copiosa. Perché sì, nell’istante esatto in cui il signor Stilinski ci aveva scoperti, il cielo aveva iniziato a piangere. Un temporale senza eguali si era scatenato, col risultato che, in quel momento, ero seduta – fradicia – nel sedile posteriore della volante dello sceriffo.
Naturalmente, c’era anche Stiles con me. Eppure non osavamo parlarci, né guardarci. Era come se fossi sola, lì dentro. Sola, abbandonata a me stessa, a morire di freddo.
Infatti, nonostante il fatto che mi fossi raggomitolata su me stessa sul sedile – portando le ginocchia al petto – e che facessi di tutto per non morire assiderata, i brividi non facevano altro che aumentare. Ed è evidente che non fossero più, semplicemente, brividi di freddo. Che non mi sentissi così male solo ed unicamente per il clima.
Erano oramai quasi le tre del mattino, e le ore precedenti – da quando io e Stiles eravamo usciti fuori di casa, diretti da Scott – non facevano altro che ripassarmi nella mente, come un vecchio film malinconico che non faceva altro che procurarmi ulteriore senso di colpa. Perché sì, mi sentivo colpevole. Mi sentivo una persona cattiva.
Stephen non ci aveva rimproverati granché, ma il suo sguardo deluso era bastato a sufficienza a farmi sentire malissimo. Più che altro si era limitato a ‘‘prendersela’’ con Stiles, aggiungendo anche che avrebbero discusso per bene a casa e chiedendo dove fosse Scott. Perlomeno lui era riuscito a scamparsela, anche se non avevo idea di dove fosse in quel momento – il che mi preoccupava e non poco.
Io ero stata lasciata in pace: il fatto che fossi la nuova arrivata mi autorizzava a scamparla, qualunque cosa facessi, col risultato che Stiles doveva prendersi le sue colpe e – come se non bastasse – anche le mie. Era una cosa profondamente ingiusta: non volevo che andasse così.
«Stiles…», sussurrai poco tempo dopo, voltandomi a cercare il suo viso ed avvertendo la mia voce tremula a causa del freddo.
Rabbrividii ancora, spostandomi sul sedile di modo che la mia schiena fosse poggiata allo sportello e mi fosse perciò più facile guardare Stiles – senza più nascondermi. Portai via dalla fronte una ciocca di capelli bagnati e sospirai.
«Mi dispiac…», provai a dire, venendo interrotta, però.
«Ssh, stai zitta».
Descrivere esattamente cosa provai in quel momento, nel credere che lui non volesse parlarmi, è difficile – se non impossibile. Ridurre tutta la sofferenza ad una parola è una cosa che proprio non mi si può chiedere di fare.
Eppure, ben presto – insieme al malessere – subentrò la confusione. Aggrottai le sopracciglia, abbandonando la posizione raggomitolata solo per poter osservare meglio Stiles. Si stava… sfilando la giacca?
«Mettila. Stai morendo di freddo», mi ordinò, porgendomi proprio l’oggetto della mia curiosità.
Nonostante indossassi una felpa pesante e la giacca, stavo morendo di freddo. E il fatto che fossi completamente bagnata non aiutava affatto. Perciò non ci pensai due volte ad indossare sopra la mia, anche la giacca di Stiles.
Forse dimostrai di essere una persona molto egoista, perché – sinceramente – non mi passò nemmeno per la testa di chiedermi come avrebbe fatto lui senza giacca… ma in quel momento mi sentivo così stanca e stremata da non riuscire più a ragionare lucidamente.
Comunque, una cosa mi era ben chiara. Nonostante quanto male l’avessi trattato, Stiles stava ancora facendo di tutto per aiutarmi a stare bene.
«Perché fai così? Sono stata una stronza nel bosco, prima», trovai la forza di domandare, stringendomi nelle braccia ed avvertendo nelle narici un odore nuovo, e buonissimo.
L’odore di Stiles.
«No, non sei stata una stronza», mi rassicurò ben presto, voltandosi a cercare il mio viso mentre alzava le spalle, quasi indifferente. «Semplicemente hai dimostrato di avere cervello. Magari se ti avessi ascoltato, adesso non saremmo qui».
Scossi la testa, con la voglia di dire tutto e niente che mi divorava dall’interno.
«Ma come avresti mai potuto ascoltarmi visto che io non ho aperto bocca tutta la sera se non per sparare cazzate?», chiesi, con la voce che si spezzava ancora una volta e gli occhi che faticavano a restare fermi sulla figura di Stiles.
Ero piena di vergogna.
«Avrei dovuto parlare subito, è vero. Mettere in chiaro come la pensassi ed evitare quindi di trattarti malissimo perché stanca e spaventata. Ma non l’ho fatto. Ti ho seguito nel bosco, insieme a Scott, e sono colpevole della nostra presenza qui proprio tanto quanto lo sei tu. Non è giusto che Stephen se la prenda solo con…».
«Sì che è giusto», chiarì subito Stiles, interrompendomi. «Io ti ho trascinata qui».
«Ma io mi ci sono fatta trascinare, senza aiutarti a fare ‘‘la scelta giusta’’! Sono venuta con te perché, in un certo senso, volevo farlo. Non sono la vittima della situazione, proprio come vuole credere tuo padre».
Cadde il silenzio. Sicuramente, anche Stiles si era reso conto della veridicità delle mie parole. Non ero giustificabile: né io né, tantomeno, il mio comportamento. Eppure, il fatto che comunque stesse cercando in tutti i modi di prendersi – ancora una volta – la colpa di tutto quello che era successo, riusciva in un modo contorto e assurdo a rendermi felice.
Mi stava proteggendo. Senza volere nulla in cambio. Nessuno mai, in sedici anni di vita, l’aveva fatto.
Mi sentivo al sicuro. Ed era una sensazione bellissima.
«E prima che tu possa continuare a definirti ancora colpevole… sappi che mi dispiace davvero per tutto quello che ti ho detto. Non ti meritavi nemmeno mezza delle brutte parole che ti ho rivolto. Sono stata troppo impulsiva e ho sbagliato», spiegai, approfittando del silenzio che era calato nell’auto. «È solo in momenti come questo che mi sento sul serio figlia di mio padre. Lui è una testa calda e io odio assomigliargli, a volte. Essere così… insopportabilmente arrogante e bastarda. Non voglio. Perciò cerco di nascondere il tutto, di sopprimerlo. Ma a volte la vera me salta fuori e… mi dimostro per quello che sono. Una persona orribile».
«Okay, posso dirti una cosa? Visto che, evidentemente, siamo in uno di quei tipici momenti da ‘‘sincerità assoluta’’», chiese Stiles dopo un po’ di tempo, facendomi aggrottare le sopracciglia mentre mi stringevo nuovamente nella sua giacca.
«Certo che puoi». 
«Forse – e dico forse – sei stata un po’ stronza, prima».
Ridacchiai, interrompendolo subito mentre alzavo anche gli occhi al cielo.
«Diciamo pure ‘‘un po’ tanto stronza’’».
«Okay, sei stata un po’ tanto stronza», mi accontentò subito, ridendo. «Ma avevi perfettamente ragione. E hai perfettamente ragione anche adesso. Abbiamo sbagliato entrambi questa sera, è vero».
Automaticamente mi aprii in un grande sorriso.
«Sono d’accordo».
Finalmente, tutto stava andando per il meglio. Dovevo chiarire le cose anche con Stephen, però.
 









A
n e w b e g i n n i n g:
Ed eccoci giunti alla fine di questo quinto capitolo, che sinceramente, visto quanto mi dedico a questa storia (anima e corpo), mi sembra tipo il millesimo XD E invece siamo ancora all'inizio, il che ha lati positivi e negativi allo stesso tempo.
Btw, i risultati si vedono, ed è tutto merito vostro. Le magnifiche parole che lasciate ad ogni capitolo non solo mi rendono felicissima (<3) ma mi fanno venire sempre più voglia di continuare a portare avanti questo progetto nato quasi per caso. E, anche se molte volte mi ritrovo a doverlo mettere da parte causa scuola (e salute, perché ultimamente sto davvero male çç), poi alla fine ritorno sempre a lavorarci. Ci tengo troppo a questa storia, e non credo mi sia mai capitato prima d'ora.
Comunque, da come avvisato su fb, il capitolo non era stato concepito così. Avevo pensato infatti di inserirci anche il ritorno a scuola di Harriet&Co. e tutto il resto... ma scrivendo mi sono fossilizzata principalmente sulla notte nel bosco che Harry si ritrova a condividere con Stiles e Scott, e credo sinceramente che sia meglio quindi fermarci qui, all'epilogo di questo episodio che io reputo molto importante (in fondo, Scott viene trasformato in licantropo quella notte). 
Siamo ritornati alla prima stagione, in definitiva, e spero che questa mia scelta di timeline non annoi nessuno. Personalmente credo sia piacevole rivivere "i vecchi tempi" in una chiave diversa, con qualche personaggio in più. A proposito di questo, spero di aver amalgamato bene Harriet col tutto. Non vorrei affatto che sembrasse, la sua presenza, una cosa totalmente campata per aria. Non penso sia così (perché sì, questo è ufficialemente il primo capitolo del quale sono almeno in parte convinta) ma potrebbe sempre essere che io mi sbagli. E la conclusione è una merda, lo ammetto, ma (ripeto) non sto bene per niente e devo anche studiare 1916141910 pagine di letteratura francese entro martedì. Quindi è meglio se mi dileguo.
Giuro che ci metterò meno di quindici giorni o giù di lì per farvi avere il prossimo capitolo. O perlomeno ci proverò. Spero di non aver deluso nessuna, e di risentirvi tutte nelle recensioni. Alla prossima <3

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Capitolo 6
*** Licantro... che!? ***


N.B.: La scena 6, se non erro, potrà sembrarvi a tratti nonsense. E vi assicuro che il tutto è voluto. Ci ho messo secoli per scriverla, perché mi sono incartatata da sola con tutta questa storia del controllo mentale (come dissi già tempo fa su fb) che spero di aver utilizzato e descritto bene. Ad essere sinceri, non ho idea di dove mi porterà tutta questa storia, ma comunque spero di sviluppare bene la cosa, perché credo non sia più ormai un mistero che vorrei far crescere ‘‘qualcosa’’ tra Harriet e Derek, che come coppia per me sono il massimo (e non in senso romantico, tranquille). Vedremo cosa ne uscirà fuori, nel frattempo la smetto di fare troppo spoiler e vi auguro buona lettura.
             
                                                                                                         

parachute
 
 
 
6.  Licantro… che!?
 
 
Le note di Aquarius risuonavano basse e melodiose per tutta la stanza. Non mentivo quando dicevo che quella fosse una delle mie canzoni preferite in assoluto. Riusciva a rendermi allegra come solo poche cose facevano. Ascoltarla di prima mattina era il modo giusto per iniziare una giornata. 
Sorrisi debolmente, voltandomi su un fianco ed aprendo lentamente gli occhi. Giallo.
Aggrottai le sopracciglia, muovendomi indietro di modo che il muro fosse più lontano dalla mia vista. Magari mi stavo sbagliando. Ma il problema era che… le pareti della mia cameretta non erano mai state gialle!
E poi realizzai.
«Harriet! Alzati, su, o tu e Stiles arriverete in ritardo a scuola fin dal primo giorno!».
Non ero a casa mia. Bensì a Beacon Hills. Insieme alla mia nuova famiglia.
E quella che stava per iniziare era la mattina del nove settembre. Il mio primo giorno di scuola.
«Merda», sussurrai, mettendomi in piedi chissà grazie a quale aiuto divino, con la testa che pulsava furiosamente a causa del poco sonno e gli occhi che all’improvviso faticavano a restare aperti.
Non mi ci voleva. Non quel giorno.
Stephen aveva avuto ragione quando mi aveva detto – poche ore prima, non appena tornati a casa – che non ce l’avrei fatta ad affrontare una giornata di scuola in quelle condizioni. Ma io non me l’ero proprio sentita di dargli atto della cosa. Avevo deciso che sarei stata presente il primo giorno proprio come lo sarebbe stato Stiles, perché non volevo avere trattamenti di riguardo né cose del genere. Eppure credevo, seriamente, di aver sbagliato.
Misi a tacere il telefono – Aquarius era stata impostata come suoneria-sveglia proprio da me, e me ne ricordai solo in quel momento – mentre sospiravo e mi avvicinavo alla finestra coperta dalle veneziane. Le tirai tutte su, godendomi il sole sul viso e la visione della ‘‘Beacon Hills mattutina’’ alla quale potevo assistere.
Sorrisi. Non mi sarei persa il mio primo giorno di scuola per nessun motivo al mondo.
«Harriet, ci sei? Non mi far preoccupare!», sentii ancora strillare a Stephen, cosa che riuscì a strapparmi una risata mentre uscivo finalmente fuori dalla mia stanza.
Immaginai che lo sceriffo fosse in cucina, intento a muoversi istericamente di qua e di là. Sembrava quasi più stressato di me per il mio primo giorno di scuola, il che riusciva a divertirmi abbastanza da poter dimenticare in un batter d’occhio tutta la stanchezza delle ore precedenti.  
«Ah. Scusalo, è nevrotico».
Risi, voltandomi a cercare Stiles con lo sguardo. Anche lui, come me, se ne stava di fronte alla porta della sua camera.
«Buongiorno, Stiles», esalai semplicemente, aprendomi in un gran sorriso – forse pure troppo grande.
«E tu, invece, sei euforica».
Appunto.
«Be’, certo che lo sono!», esclamai, dirigendomi in cucina con Stilinski junior al seguito. «Tu no?».
Aggrottò le sopracciglia.
«Di ricominciare scuola?», domandò, stupito. «Certo che no».
«Harrieeeet, stai bene?», urlò ancora Stephen, proprio due secondi prima che io e Stiles potessimo entrare in cucina.
Io scoppiai a ridere, mentre proprio Stiles rispose al padre.
«Pà, Harry sta bene sì. Puoi anche smetterla di urlare», spiegò, sedendosi a tavola dopo aver sbuffato.
Io lo seguii, abbastanza a mio agio, oramai.
«E poi, grazie per l’interessamento che dimostri anche per me. Sei un padre d’oro», continuò a dire, evidentemente ironico.
Solo a quel punto notai che, in effetti, il signor Stilinski non si era preoccupato nemmeno un po’ di cosa potesse star facendo Stiles. Mentre aveva riempito di domande me. E…
«Oh, non sarai mica geloso?», gli chiesi, solo una volta che Stephen se ne fu andato a lavoro.
Stiles sollevò lo sguardo dalla sua colazione e cercò i miei occhi.
«Di cosa?», domandò a sua volta, evidentemente confuso.
«Delle… attenzioni che tuo padre mi dedica», dissi, ritrovandomi a sussurrare – piena di vergogna – le ultime parole della frase.
«Macché», mi rassicurò subito Stiles, sorridendo. «Te le meriti tutte».
Sospirai, sollevata. Poi mi misi in piedi, posando tazza e piatto sporchi nel lavabo. Li avrei lavati dopo scuola, sì. Ma allora non ne avevo proprio tempo.
«E poi papà non si comporta così da quando sei arrivata tu. È quasi sempre andata in questo modo, tra me e lui».
«In questo modo come?», chiesi, curiosa.
Ritornai anche vicina al tavolo, in modo da poter guardare bene in viso Stiles. Le migliaia di espressioni che riusciva sempre a mettere su erano qualcosa di davvero fantastico.
«Be’, nel modo… che vedi», tentò di spiegarmi, con scarsi risultati, però.
Mi morsi le labbra, incrociando come al solito le braccia al petto e prendendomi un po’ di tempo per riflettere. Dopo tutte le brutte cose che ero stata capace di dire la notte prima perché preda dell’impulsività, avevo imparato che contare fino a dieci e pensare bene a cosa dire prima di iniziare a sparare qualunque tipo di cazzate, fosse – sempre – la cosa più giusta da fare.
«Vuoi sapere cosa vedo io, Stiles?», decisi di domandare alla fine, con la voglia di dire mille cose che mi divorava.
«Sì».
«Vedo un padre che tiene a te più della sua stessa vita. E sono qui da pochissimo tempo, ma la cosa è comunque molto evidentente», spiegai, sorridendo. «Sei davvero fortunato ad avere Stephen. Dico sul serio».
«Immagino che adesso sia molto fortunata pure tu», mi fece presente Stiles, sorridendo e mettendosi in piedi.
Io aggrottai le sopracciglia, confusa. E poi, proprio come se mi leggesse nel pensiero, Stilinski decise di continuare a spiegarsi.
«Mio padre ci sarà sempre per te, d’ora in poi».
Sorrisi, perché mi resi conto che era la verità.
«E la stessa cosa vale per me».
Nient’altro che la verità.
 
«Ma Harry, Dio santo, lo sai cosa significa dover riprendere scuola e vedere alla prima ora del primo giorno il professor Timber? O ti sei già dimenticata della tua vecchia vita e del nazista che ti ha insegnato storia per anni?». 
Io e Danielle eravamo al telefono da tantissimo tempo, oramai. Fin da quando ero arrivata a Beacon Hills, non c’era stato un giorno in cui non l’avevo sentita. Che si trattasse di telefonate interminabili o di due messaggi a mattina o sera, poi, non faceva molta differenza. Mi bastava semplicemente sapere che stesse bene, e sperai che non avremmo perso quell’abitudine di sentirci spesso molto presto.
Non credevo sarebbe potuto succedere molto facilmente, perché volevo bene a Danielle come ad una seconda sorella, e non sarei assolutamente stata in grado di arrivare alla fine di una giornata senza parlare con lei nemmeno due minuti. Ma chi poteva mai sapere cosa ci riservava il destino? Magari sarei stata così occupata da non poterla sentire. Oppure lei avrebbe capito ben presto di avere cose molto più importanti da fare, ad Austin, piuttosto che perdere tempo al telefono con la sua migliore amica residente a Beacon Hills.
Sgranai gli occhi, incredula a causa dei cattivi pensieri che stavo facendo. Forse era vero che il nervosismo costante di mia madre aveva iniziato a fare di me la sua preda. Il tutto non era affatto positivo.
«Suvvia, Dani. Timber non è affatto una persona cattiva», ammisi, subito dopo aver liberato un grosso sospiro.
Continuai a seguire Stiles lungo il grande vialone che portava all’ingresso della Beacon Hills High School. Proprio da come avevo già previsto un po’ di giorni prima, era super-affollato.
Io me ne stavo al telefono con la mia migliore amica, perciò non ci facevo molto caso. Certo, le occhiate curiose di alcuni ragazzi non passavano certo inosservate al mio sguardo attento… ma Danielle riusciva a distrarmi abbastanza da evitare di paralizzarmi in mezzo alla strada per la timidezza. Averle detto di chiamarmi a quell’ora era stata un’ottima idea. E, come se non bastasse, con me c’era pure Stiles.
«Certo, ha la sua bella mole di difetti pure lui. Ma…», continuai a dire, dopo aver sorriso – consapevole, ancora una volta, della grande dose di fortuna che il Fato mi aveva concesso. «… credo dipenda anche da come lo prendi, sai? Ti ricordo che è stato proprio lui, l’anno scorso, a permettermi di portare a termine il programma in anticipo».
«Ah già, quella storia della ricerca sull’Ucraina», borbottò Dani, e io me la immaginai intenta a percorrere più o meno il mio stesso cammino – diretta anche lei a scuola, proprio come me – mentre si attorcigliava una ciocca di capelli rosso fuoco intorno al dito. «Be’, non significa niente. Solo che ti aveva presa in simpatia. E, purtroppo, io non mi trovo nella tua stessa situazione». 
Sbuffai sonoramente, tanto che Stiles si voltò a guardarmi con aria interrogativa.
«È tutto a posto?», mi mimò con le labbra, mantenendo le sopracciglia aggrottate.
Annuii, cercando di tranquillizzarlo con un sorriso.
Mi ricambiò quasi automaticamente, facendomi cenno di continuare a seguirlo poco prima di riprendere a camminare.
Sempre attenta a non inciampare in nessuno, mi rimisi in marcia anch’io, premendo ancor di più il cellulare contro l’orecchio.
«Sei in una situazione migliore della mia, infatti», sbottai, a bassa voce perché Stiles non potesse sentirmi.
Per la prima volta da quand’ero a Beacon Hills, mi ritrovai ad approfittare della sua velocità, rimanendo un po’ indietro di proposito. Non che avessi intenzione di dire chissà cosa di brutto… ma Stilinski avrebbe facilmente potuto fraintendere, e non volevo che ci fossero altri ‘‘scontri’’ tra di noi.
«Non devi frequentare il tuo primo giorno di scuola dell’anno in un liceo del quale non sai praticamente niente!», finii di spiegare, avvicinandomi a Stiles un po’ di più, perché non notasse che ero rimasta indietro per parlare più liberamente con Danielle.
Lei sospirò, poco prima di riprendere a parlare.
«Okay, davvero non vorrei dirti niente di male», mi spiegò, tranquilla. «Ma te la sei andata a cercare tu. Ti sei voluta segnare volontaria per questa cosa dell’intercultura, e ora che ci sei dentro vedi di ricavarne solo il meglio, intesi? Perché io davvero non ho intenzione di stare qui a sorbirmi i tuoi piagnistei per tutto il tempo».
«D’accordo, hai ragione tu», concessi, sorridendo.
«Come sempre, baby».
Fui sul punto di uscirmene con una battuta acida delle mie quando vidi Scott venire in contro a me e Stiles, fermi esattamente a pochi passi dall’ingresso di scuola. Wow, allora c’eravamo fermati lì per un motivo. Perché non c’avevo proprio pensato?
«Buongiorno, Harriet!», mi salutò, non appena fu abbastanza vicino perché riuscissi a sentirlo senza problemi.
«Ciao, Scott», dissi dunque, evitando di rispondere a Danielle e destando, quindi, la sua immensa curiosità.
«Scott, eh? Chi è, chi è, chi è, chi è?».
«Dani, per l’amor del cielo, vuoi smetterla di urlare?», imprecai, allontanandomi di poco da Stiles e Scott per poter sussurrare ancora: «Rischi di farti sentire dal diretto interessato!».
Solo dopo mi voltai a cercare ancora i due ragazzi, notando che si fossero mossi ancor di più verso l’ingresso del liceo, perfettamente inconsapevoli del mio essermi allontanata – seppur di pochissimo.
Li raggiunsi cercando di non farmi notare, riuscendo a percepire la parola ‘‘lupo’’ ripetuta diverse volte. Aggrottai le sopracciglia, credendo di star sicuramente sbagliando, e tentando di riprestare nuovamente attenzione ai deliri della mia migliore amica. Ma ciò che disse Scott subito dopo riuscì a distrarmi definitivamente dalla mia telefonata.
«D’accordo, potrai non credermi riguardo al lupo. Ma sicuramente mi crederai se ti dico che io ho trovato il cadavere».
Sgranai gli occhi, stringendo – quasi involontariamente – il cellulare tra le dita. Ancora che si parlava di quel maledetto cadavere? E… Scott l’aveva trovato? Quando? Dove? Come? Perché?
Tuttavia, l’infinità di domande che avrei davvero voluto porre, rimase imprigionata semplicemente nella mia mente.
«Stai scherzando!?», esclamò Stiles, agitandosi proprio come aveva fatto la notte precedente.
Era, improvvisamente, euforico. Ed io proprio non riuscivo a capire cosa ci fosse di così divertente nel ritrovamento di un cadavere – tra l’altro tagliato a metà chissà come.
«No. Avrò gli incubi per un mese», spiegò Scott, scuotendo la testa.
Io non facevo altro che rimanermene in silenzio, sperando che il non emettere suono potesse aiutarmi a fare ordine nella mia testa. Improvvisamente ero di nuovo confusa. Nel frattempo, Danielle era preoccupata per me.
«Harriet, ci sei?», la sentii strillarmi nelle orecchie, cosa che mi fece sobbalzare vistosamente.
«Accidenti, è davvero incredibile!», aggiunse Stiles, gesticolando – come al solito – furiosamente. «È la cosa più assurda che sia mai capitata in città dalla nascita di Lydia Martin. Ciao, Lydia».
E allora la vidi. Una ragazza bellissima, con la pelle chiara e perfetta, e lunghi capelli biondo rame. Era… meravigliosa.
E vidi anche Stiles seguirla con lo sguardo finché lei non sparì dentro scuola, finendo per essere ignorato categoricamente. All’improvviso, vedevo e sentivo tutto. Non ero più la controfigura assente, quella che arrivava sempre ‘‘in ritardo’’. Purtroppo.
«Sì che ci sono, Danielle», sussurrai alla fine, rivolta alla mia migliore amica, stringendo le labbra in una smorfia evidentemente contrariata.
Ho appena trovato una nuova nemica. 
 
You take a deep breath
and you walk through the doors,
it’s the morning of
your very first day
 
Fin dal primo momento il liceo di Beacon Hills era riuscito, chissà come, a farmi una buona impressione. E persino in quel momento, essendo lì come ufficialmente una nuova studentessa del plesso, riuscivo a sentirmi a mio agio dentro quella struttura piena di adolescenti simili a me in tutto e per tutto.
La campanella che sanciva l’inizio delle lezioni era suonata giusto due secondi dopo aver visto Lydia Martin sparire dietro le porte della scuola, cosicché persino io ero riuscita a distrarmi e a non pensare più a quell’incontro, se così avrei potuto definirlo.
Aver visto com’era e, soprattutto, aver notato come cambiasse Stiles con lei nelle vicinanze, mi aveva fatto sentire molto stupida. Gelosia ed invidia si erano impadronite di me senza che riuscissi ad evitarmelo, il che era una cosa che non mi piaceva affatto e che quindi avevo fatto di tutto per tenere nascosta.
Il mio odio verso una ragazza che non conoscevo per nulla era del tutto immotivato, e nessuno avrebbe dovuto saperne nulla. Mentre attendevo di fronte all’aula di francese che la professoressa Morrell si facesse viva, ringraziai il cielo per aver fatto sì che nessuno si accorgesse del mio sguardo improvvisamente diventato truce e della mascella contratta.
Solo Danielle si era resa conto dal mio tono di voce che ci fosse qualcosa che non andava, ed in quel momento promisi a me stessa che le avrei spiegato tutto al più presto. Le stavo nascondendo già troppe cose – come, ad esempio, la notte che avevo passato nel bosco con Scott e Stiles – perché proprio non volevo che si preoccupasse per me e finisse, magari, col raccontare tutto a mia madre. Ero sicura del fatto che se Jenette avesse saputo anche solo mezza delle cose che stavo nascondendo a tutti riguardo a Beacon Hills, mi avrebbe fatta ritornare immediatamente in Texas. D’altronde, da mamma super-apprensiva qual era, non aspettava altro che una scusa per potermi riavere al più presto con sé. E in fondo la capivo benissimo.
«Oh! Eccoti qua, signorina! Come stai?».
La porta dell’aula di francese, rimasta fino a quel momento chiusa, si aprì di scatto, rivelando la figura di Marin Morrell: la mia nuova professoressa di francese. Mi voltai completamente verso di lei per poterla osservare meglio, notando i lunghi e lucidi capelli neri ricaderle ordinatamente lungo la schiena e il vestito nero e argento – bellissimo – che indossava. Le sorrisi, sincera.
«Buongiorno, professoressa», mormorai, avvertendo quella parola rivolta a lei come una cosa stranissima da dire.
Insomma, avevo molto spesso pensato alla Morrell come alla mia prof. Ma non l’avevo mai chiamata così prima d’allora. Era tutta una novità, per me. Una bellissima novità.
«Io sto bene, la ringrazio per avermelo chiesto», continuai poco dopo, sorridendo nuovamente.
Marin mi ricambiò, avvicinandosi a me e facendo ticchettare, di conseguenza, i tacchi delle scarpe sul pavimento bianco e lucido. Mi passò un braccio attorno alle spalle, conducendomi però, inaspettatamente, verso la direzione opposta a quella dell’aula di francese. Mi trattenni dall’aggrottare le sopracciglia.
«Il tutto mi fa molto piacere. Come ti trovi qui a Beacon Hills? Hai legato con i due Stilinski?», mi domandò, in tono cordiale.
Come al solito, stava cercando di mettermi a mio agio. Con ottimi risultati.
«Oh, sì. Sono due bravissime persone, davvero», la rassicurai, annuendo al suono delle mie stesse parole. «E Beacon Hills è una cittadina… particolare».
Avrei voluto dire ‘‘magnifica’’, o qualunque altro aggettivo che esprimesse positività. Eppure, ad un passo dal pronunciare la fatidica parola, senza che nemmeno potessi impedirmelo le immagini della sera precedente – i dialoghi della sera precedente, l’idea di una ragazza uccisa brutalmente da chissà chi – mi ritornarono nella mente, facendo sì che non riuscissi più a parlare, quasi come se tutto ciò che di bello avrei voluto dire mi fosse rimasto incastrato in gola. E alla fine, ‘‘particolare’’ era stato il massimo che ero riuscita a fare. Perché come mai si sarebbe potuta definire magnifica o spettacolare una cittadina all’apparenza così allegra e solare ma in realtà piena zeppa di pericoli?
«Non potrei essere più che d’accordo con te, cara», spiegò Marin, sorridendo ancora. «E scusami se ti ho fatta aspettare finora, ma quasi tutti i ragazzi del mio corso si sono eccitati a dismisura all’idea di new entries. C’è voluto un po’ per calmarli».
A quel punto sì che aggrottai le sopracciglia.
«New entries?», domandai, stupita, cercando con lo sguardo la mia professoressa. «Non sono l’unica ad essersi trasferita in questa scuola? Stiamo aspettando qualcun altro? Ed è per questo che non siamo già in aula a fare lezione?».
Marin sorrise, molto probabilmente divertita dal mio fiume di domande.
«Esatto. Un’altra ragazza si è trasferita qui, viene da San Francisco e… perché non ne sai nulla? Avevo detto al professor Morgen di avvisarti della cosa e di presentarvi. Ma vedo che la signorina Argent non è ancora qui».
Oh, quindi si trattava di una ragazza. Non riuscii ben presto a spiegarmi perché, ma la cosa riuscì a sollevarmi. Forse si trattava del fatto che, essendo una ragazza esattamente come me e nella mia stessa situazione, mi sarei sentita più a mio agio con lei che con un maschio.
«E nemmeno il professor Morgen, a quanto pare», mormorai, lasciandomi andare nuovamente ad un sorriso.
«Già. È sempre il solito ritardatario», spiegò la Morrell, alzando gli occhi al cielo e riprendendo a camminare, diretta chissà dove.
Io la seguii immediatamente.
«E anche la nuova alunna sembra non essere da meno».
Prima che anche solo potessi riuscire a pensare a qualcos’altro da aggiungere, una voce bassa e profonda parlò, facendomi sobbalzare visto che non me l’aspettavo proprio. Mi voltai subito nella direzione dalla quale era provenuta, ritrovandomi di fronte un uomo di colore in abito scuro e cravatta blu elettrico con al fianco una ragazza – evidentemente mia coetanea – dai capelli neri, lunghi e ricci, e la pelle d’alabastro.
A quanto pareva, io e Marin Morrell eravamo le uniche donne abbronzate in tutta Beacon Hills. Mi ritrovai a sorridere per quel pensiero alquanto stupido.
«Sempre a criticare i miei modi, eh, Marin?», domandò l’uomo, avvicinandosi a noi, seguito ben presto da quella che doveva essere ‘‘la signorina Argent’’. «Eccoci qua, finalmente. Scusateci per la lunga attesa».
«Infatti, professoressa», aggiunse subito la nuova alunna, guardando dritta negli occhi la Morrell e parlando con una voce melodiosa e bellissima. «Mi scuso per il ritardo. Il mio nome è Allison Argent».
La Morrell le strinse la mano senza esitazioni, poi vennero fatte le dovute presentazioni. Come per Lydia, capii subito il ruolo che avrebbe avuto la Argent nella mia vita.
Avevo appena trovato un’amica. Una vera amica. 
 
Alla fine, proprio come da ‘‘promessa’’, la mia prima lezione alla Beacon Hills High School – la mia prima lezione da studentessa – era stata tenuta dalla professoressa Morrell.
Proprio non avrei mai e poi mai potuto immaginare che non sarei stata sola quel giorno, e che ci sarebbe stata con me un’altra ragazza – con una situazione molto simile alla mia – a farmi compagnia. Ma scoprirlo era stato molto positivo. E, ancora una volta, Beacon Hills mi aveva riservato una bella sorpresa.
Tutto era andato benissimo, comunque. Be’, a parte i primi minuti. Venire presentata davanti a tutti quei ragazzi curiosi di conoscermi era stato… imbarazzante? Sì. Tantissimo.
Mi ero sentita arrossire e, nel salutare tutti cordialmente, la mia voce aveva tremato. Ma comunque credevo di essere riuscita a fare meglio di Allison, il che per me era già tanto. La Argent, infatti, era riuscita semplicemente a sorridere dolcemente – mostrando delle fossette carinissime sulle guance – ma non aveva spiccicato parola per tutta la lezione, limitandosi a sedersi accanto a me e a scambiare qualche sguardo con un bellissimo ragazzo che, più di tutti, ci aveva tenute d’occhio.
Certo, non che io fossi intervenuta più di tanto… ma com’è che si dice? Prendiamo quel viene.
Marin aveva chiesto a tutti gentilmente di provare in qualsiasi modo a farci sentire a casa, il che era stata una cosa davvero carina – e infatti mi ero permessa di lasciarmi andare ad un sorriso. Poi, si era limitata ad esporre il programma che avremmo svolto quell’anno, e così avevano fatto tutti gli altri professori. Perché sì, avevo seguito altri corsi. E, per fortuna, li avevo seguiti tutti insieme ad Allison.
Credevo davvero che tra noi sarebbe potuta nascere una bellissima amicizia, e il fatto che mi fossi trovata a mio agio con lei senza nemmeno conoscerla ne era la prova lampante. Il punto era che alla base di tutto c’era la comprensione. Potevo capire come davvero si sentisse ad essere ‘‘la nuova arrivata a Beacon Hills’’, perché io stessa stavo vivendo un’esperienza uguale alla sua. E ciò bastava affinché la considerassi una buona persona, e decidessi di passare volentieri il mio tempo con lei.
«Quindi… San Francisco, eh?», domandai, mentre sia io che la Argent uscivamo fuori dall’aula di storia americana – corso che, insieme ad ovviamente inglese, dovevamo seguire per forza.
Fortuna che non fossero materie troppo pesanti, altrimenti avrei rischiato il suicidio. E poi, quel primo giorno di scuola era praticamente volato. Storia americana era stato l’ultimo corso ed io ero davvero felice di poter ritornare a casa. A dormire, magari, visto che – nonostante tutto – ero ancora molto stanca a causa della nottata che avevo passato.
Allison sorrise, preparandosi a rispondermi. Ma prima che potesse anche solo spiccicare una parola, finimmo entrambe addosso a non sapevo ancora chi, e la cosa ci distrasse abbastanza da smettere di chiacchierare.
Aprii gli occhi – chiusi involontariamente per lo spavento – ritrovandoli riflessi in uno sguardo chiarissimo. Oh mio Dio! Eravamo davvero appena andate a sbattere contro il ragazzo curioso del corso di francese? Si poteva essere più sfigate di così? 
«Non vi sarete fatte male, spero», commentò lui all’improvviso, indietreggiando di un passo ed osservando sia me che Allison con un sopracciglio alzato in modo piuttosto arrogante.
Tutt’a un tratto la bellissima maschera cadde, rivelando una persona piena di sé e cattiva. Una persona che assolutamente non mi piaceva più, per nulla.
«Stiamo bene. Non è vero, Allison?», trovai il coraggio di dire dopo un po’, indietreggiando a mia volta con la Argent alle spalle, mentre mi massaggiavo il gomito coperto dalla maglia blu notte.
«S-sì», sussurrò lei in risposta, passandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio. «È tutto a posto».
«Bene, meglio così», sorrise il tipo del quale ancora non sapevo il nome, mostrando delle adorabili fossette sulle guance. «Eravate a francese, vero? Vi ho tenute d’occhio».
«Ce ne siamo accorte», feci presente immediatamente, quasi senza nemmeno lasciargli il tempo di finire la sua frase. «Si potrebbe sapere chi sei, di grazia?».
«Mi chiamo Jackson Whittemore», spiegò, esibendo ancora una volta il ghigno brevettato che già precedentemente gli avevo visto metter su. «E lei… è la mia ragazza. Lydia Martin».
Coooosa!?
Evitai di urlare ad alta voce come avevo già fatto la notte precedente, limitandomi a deglutire sonoramente e a non sgranare troppo gli occhi. Okay, quindi. Cercando di ragionare… Jackson era un bellissimo stronzo che aveva radiografato sia me che Allison per tutta la durata dell’ora di francese, e Lydia – la Lydia di cui Stiles era cotto – era la sua bellissima stronza ragazza. E c’era, evidentemente, qualcosa che non andava.
«Oh-oh. Chi abbiamo qui?», domandò proprio la Martin, non appena fu abbastanza vicina a noi da farsi sentire senza problemi in mezzo alla mandria di studenti che uscivano dalle aule per andare finalmente a casa.
Non smise per un attimo di toccarsi i capelli, mentre vedevo Jackson passarle un braccio attorno alla vita e di nuovo ghignare in direzione di me ed Allison. Dio, cosa avrei fatto per fargli smettere una volta per tutte quell’espressione insopportabile…
«Siamo Allison ed Harriet. Nuove alunne».
Forse per la prima volta da quand’era arrivata alla Beacon Hills High School, la Argent parlò. E mi ritrovai a ringraziarla in silenzio, perché se non ci avesse presentate lei a Lydia-La-Regina-di-Beacon-Hills-Martin, io avrei finito semplicemente per ignorarla ed andarmene via. Ma dato che ‘‘eravamo ormai in ballo’’… le porsi anch’io la mano e misi su, addirittura, uno dei miei sorrisi falsissimi. Buon viso a cattivo gioco, insomma.
«È un piacere conoscerti, Lydia».
Lei si limitò a ricambiare il mio sorriso con uno altrettanto finto, prima di girarsi verso Allison.
«La tua giacca è… davvero bellissima», mormorò allora, fissando la giacca della mia compagna intensamente, nemmeno avesse voluto avere il potere di sfilargliela con la forza del pensiero. «Dove l’hai presa?».
«Mia madre lavorava in un negozio di abbigliamento, a San Francisco», spiegò subito Allison, annuendo al suono delle sue stesse parole.
Senza farmi notare, alzai gli occhi al cielo. Lydia le stava simpatica. Era palese.
Mi chiesi cosa mai potesse avere quella rossa da strapazzo di così speciale da attirare l’attenzione di tutti, persino quella di…
«Stiles!», esclamai, individuandolo pochi passi più avanti, insieme a Scott.
Feci per allontanarmi dal gruppo ormai affiatato – tutti e tre stavano chiacchierando al meglio di non sapevo che – ma la voce di Lydia mi trattenne. E anche la sua mano sul mio braccio, a dirla tutta.
«Aspetta, dove vai?», mi chiese, quasi… gentile?
Io di tutta risposta fulminai con lo sguardo la sua mano sul mio braccio, cosicché lei la tolse senza farselo ripetere due volte. Sorrisi, soddisfatta.
«Questo venerdì c’è una festa. Ci sarai?».
Indietreggiai di un passo, aggrottando leggermente le sopracciglia.
«Io… credo di sì. Forse», dissi alla fine, insicura.
Avrei dovuto parlarne con Stephen e Stiles, questo era certo. Ma perché mai scomodarsi a dare spiegazioni a gente che nemmeno conoscevo? Troncai lì il discorso senza farmi nemmeno mezzo problema.
«D’accordo. Adesso ci sono gli allenamenti di lacrosse. Se siete libere potete venire a dare un’occhiata», aggiunse a quel punto Jackson, rivolgendosi ovviamente sia a me che ad Allison.
Okay, perché all’improvviso sia lui che Lydia sembravano così gentili? Mi ero forse sbagliata sul loro conto?
Sbattei le palpebre, incredula.
«Uhm… vedrò!».
E poi scappai letteralmente da Stiles e Scott.
 
Freddo. Tanto freddo.
Rumore di foglie cadute che si frantumano sotto la suola delle Converse. Molto fastidioso.
Gambe indolenzite a causa del troppo camminare. Anzi, correre.
Scott e Stiles non sarebbero cambiati mai. Ed io per quale assurdo motivo mi ero fatta convincere, ancora una volta, a seguirli alla riserva di Beacon Hills? Cosa diamine ci facevo lì?
Vento che inizia a soffiare violentemente. Così tanto che quasi riesco a sentire la sua ‘‘voce’’ nelle mie orecchie.
E poi… crac! Paura. Solo un ramoscello che si spezza. Sobbalzo. Poi sbuffo. Troppa agitazione.
A pensarci bene, proprio non riuscivo a ricordare come e perché fossimo finiti un’altra volta nel bosco. Tutto era buio dalla partita di lacrosse – che Scott aveva giocato sorprendentemente bene – in poi. Che stava succedendo, esattamente?
All’improvviso avvertii sotto i miei piedi il vuoto. Non c’erano più foglie, niente più terreno duro. Ma…
«Acqua!», squittii, quasi inorridita, osservando la punta della Converse che si bagnava tutta.
Ritirai indietro il piede, lentamente, immobilizzandomi ad un passo dal ruscello che proprio non ce l’avrei fatta ad attraversare senza l’aiuto di Stiles. Lo richiamai subito, infatti.
«Scott, aspetta», lo sentii interrompere Scott, che per tutto il tempo aveva blaterato di strani sintomi collegati ad un morso e di altre cose che proprio non ero riuscita a comprendere.
Poi il rumore dei suoi passi sulle foglie mi fece capire che si stava dirigendo verso di me – rimasta, come al solito, indietro.
«Stiles, aiutami», piagnucolai, non appena lo vidi spuntare nuovamente nel mio campo visivo.
Stilinski sorrise debolmente, avvicinandosi a me con lo sguardo basso – chissà perché. Si fermò anche lui ad un passo dall’acqua, tendendomi una mano.
«Dai, su. Aggrappati a me», mi ordinò.
Provai subito a fare come mi aveva detto Stiles, spingendo il corpo in avanti e allungando la mano destra verso la sua. Ma… improvvisamente lui era troppo lontano. E le mie dita troppo corte.
«Non ce la faccio!», mormorai, nervosa, cercando di spingermi il più possibile verso Stiles.
Inutilmente.
«Andiamo, solo un altro pochino», mi incitò lui di tutta risposta, avvicinandosi a sua volta.
E poi accadde. Mi spinsi così tanto in direzione dell’altra riva che ce la feci, o perlomeno così mi sembrò.
Sfiorai la mano che Stiles mi tendeva, credendo di essere riuscita finalmente a superare quel difficile ostacolo mentre mi lasciavo andare ad un sorriso soddisfatto.
Ma di quel sorriso fu visibile solo il principio. Perché la mano di Stiles non riuscii ad afferrarla mai. E, in compenso, la mia caduta iniziò. Verso il vuoto.
Senza che riuscissi a spiegarmelo, attraversai l’acqua. Giù, giù, giù, giù. Sempre più giù, sempre più a fondo. E intanto, l’unica cosa che ero in grado di fare mentre cadevo – lontana dal mondo reale, lontana da Stiles – era urlare, così tanto che sentivo la gola bruciare e il fiato mancarmi.
Ma ben presto tutto finì. La caduta s’interruppe, e mi fermai su un terreno di foglie uguale a quello del ‘‘mondo superiore’’, con tutti i muscoli del corpo indolenziti e la testa che pulsava.
I miei abiti erano fradici, proprio come i miei capelli. Sembrava essere diventata un’abitudine, quella. Sentire il freddo dentro. Faceva schifo.
Provai a mettermi in piedi, riuscendoci solo dopo infiniti sforzi. Le gambe faticavano a reggermi e il viso era completamente sporco di terra. Non riuscivo proprio a capire dove diamine mi trovassi: sapevo solo perfettamente che niente di tutto quello che stava succedendo avesse senso. E sapevo anche bene di essere sola. Abbandonata a me stessa.
«Scappa!».
Ed improvvisamente la sentii. Una voce, un urlo. Non avevo idea di chi fosse.
La paura mi fece accapponare la pelle, e senza che nemmeno riuscissi a spiegarmi perché, cominciai ‘‘a scappare’’. Sentivo, improvvisamente, una presenza alle mie spalle. Una presenza assolutamente non buona. Perciò, mossa dallo spiccato senso di sopravvivenza, presi a correre a perdifiato, nonostante il fatto che mi sentivo accecata dal dolore ad ogni muscolo del corpo. 
C’era qualcosa dietro di me: qualcosa – o forse qualcuno? – che mi stava inseguendo. E, nonostante il fatto che nulla sembrasse avere più il minimo senso, sapevo bene che se solo mi fossi fermata un attimo sarei morta. Me lo sentivo dentro.
«È cominciato tutto con quel morso?».
Ma quella… era la voce di Stiles! Oh Dio, ciò significava che almeno lui era sano e salvo?
Mentre ancora correvo, diretta chissà dove, mi ritrovai a ringraziare il cielo. Provai anche a chiedermi per quale assurdo motivo riuscissi a sentire la sua voce – come se provenisse da sopra la mia testa, dove provai a guardare, trovando solo un infinito cielo stellato – ma, non riuscendo a fornirmi nessuna spiegazione sensata, decisi di desistere e continuare a pensare solo a scappare.
Comunque, decisi di prestare più attenzione ad altri rumori che non fossero quelli dei miei inseguitori, perché volevo sentire cosa stesse succedendo a Stiles e Scott. E proprio la sua voce fu quella che sentii pochissimi attimi dopo.
«E se si trattasse di un’infezione? O se fosse la scarica di adrenalina che precede uno shock?».
Come al solito, decifrare i loro discorsi sarebbe stata un’impresa, perciò non ci provai affatto. Capii subito ben presto che stessero ancora parlando del famoso morso, e ciò mi fece anche prendere consapevolezza di ciò che stava succedendo.
Scott e Stiles si stavano comportando proprio come se io non fossi mai sparita, lassù. Non stavano provando a cercarmi, proprio come se non fossi mai andata alla riserva di Beacon Hills con loro…
Nel realizzare tutto ciò, una lacrima scese giù lungo la mia guancia. Mi avevano già dimenticata.
«Credo di averne sentito parlare, è un particolare tipo di infezione».
Avvertii di nuovo la voce di Stiles, e nonostante il fatto che pochi istanti prima fossi stata grata di poterne essere in grado, in quel momento mi ritrovai a maledire la situazione. Non volevo più sentire le loro voci. Non volevo più saperne nulla. Volevo ‘‘spegnere’’ tutto.
«… credo che si chiami licantropia».
Non ebbi nemmeno il tempo di imprecare ancora, né quello di chiedermi: ‘‘Licantro… che!?’’, che – proprio come se avessero sentito anche loro Stiles pronunciare quella parola – dei forti ululati mi riempirono le orecchie, terrorizzandomi a tal punto che cominciai a correre ancora più veloce di prima, mentre urlavo a perdifiato, sperando che il tutto potesse aiutarmi a scacciare via la paura.
«Venerdì ci sarà la luna piena».
Instintivamente guardai in cielo. E, insieme alle stelle già saltate ai miei occhi prima… scorsi la luna piena. Ma… non era venerdì. Ero per caso finita nel futuro? Avrei visto coi miei occhi cosa sarebbe successo il venerdì seguente?
Aggrottai le sopracciglia, trovando chissà come la forza di scuotere la testa. Ciò che la mia mente scossa stava partorendo era del tutto assurdo. E dovevo ammettere che, per quanto il poter prevedere il futuro sarebbe stato affascinante, il tutto era più che impossibile. Dovevo semplicemente ritornare coi piedi per terra. E continuare a correre, così da evitare di finire sbranata da un branco di lupi apparsi da chissà dove.
«Forse hanno spostato il corpo».
Ed allora caddi, in ginocchio, ferendomi le gambe su una struttura di pietra anch’essa completamente sbucata dal nulla. Sentivo ancora Stiles e Scott sopra di me, perciò alzai lo sguardo, sperando ancora una volta di riuscire a vederli. Poggiai le mani su qualcosa di freddo che non mi scomodai a guardare, scrutando attentamente il cielo nero e pieno di stelle alla ricerca di qualche risposta.
«Che ci fai qui?».
Sobbalzai ancora, al suono di una voce del tutto sconosciuta. Ero così confusa che avrei voluto piangere, ma al contrario mi limitai semplicemente ad alzare gli occhi lucidi sulla figura di un ragazzo – bellissimo, avrei aggiunto se fossi stata meno provata da tutta quella assurda situazione – che si dirigeva a passo svelto verso di me, completamente avvolto in abiti scuri.
Nel vederlo avvicinarsi, provai nuovamente a mettermi in piedi, ma quella volta fui meno fortunata, perché i miei muscoli – dopo tutta quella corsa che li aveva messi veramente a dura prova, dopo la brutta caduta dal ‘‘mondo superiore’’ – sembravano non essere più intenzionati a seguire i miei ordini.
Eppure fui costretta a mettermi in piedi quando il ragazzo sconosciuto fu ormai così vicino a me da riuscire ad afferrarmi un braccio e stringerlo forte, finché non abbandonai il freddo terreno di foglie, oramai con le lacrime che mi riempivano gli occhi.
«Smettila di stringermi, mi fai male», mi lamentai, cercando di dimenarmi dalla sua presa.
Nonostante non sembrasse poi molto più grande di me, era senza dubbio più forte della sottoscritta. Troppo forte.
«Tu sta’ lontana da mia sorella ed io ti lascio andare!», urlò, a pochissimi centimetri dal mio viso, continuando imperterrito a stringermi il braccio mentre per l’eccessivo dolore l’ennesima lacrima scendeva giù a rigarmi la guancia.
Nonostante tutta la confusione, provai comunque a prestare attenzione a ciò che mi stava dicendo. Stare lontana da sua sorella? Non riuscivo a capire, ma improvvisamente – proprio come se il mio cervello mi avesse suggerito in automatico di fare così – abbassai gli occhi verso il terreno, lentamente.
E da quel momento in poi seppi sul serio cosa la gente intendeva per orrore. A terra, infatti, coperta da un manto di foglie e sangue, c’era il corpo di una ragazza giovanissima, tagliato a metà.
Capii subito che fosse il famoso cadavere che Stiles e Scott stavano cercando lassù, senza riuscire a trovarlo. Era vero che il corpo era stato spostato. Ed era vero anche che quella ragazza era…
«… era tua sorella?», soffiai, con la voce spezzata dalle troppe lacrime e il tono fievole.
Non riuscivo a parlare, davvero.
«Sì. E guarda com’è finita. Sai perché le hanno fatto questo?», domandò, lasciandomi andare il braccio e permettendomi finalmente di stare il più lontana possibile da quello scempio.
Scossi la testa, asciugandomi le guance. Il ragazzo allora continuò a parlare.
«Perché ha deciso di tornare qui a Beacon Hills. Questa città è maledetta, e tu non saresti mai dovuta venire quaggiù».
Ancora non riesco a spiegarmi perché, ma credetti immediatamente alle sue parole. Ma comunque non parlai, limitandomi a sgranare gli occhi e a mantenere il silenzio. Sapevo che avesse ragione, ma come mai avrei potuto ammettere una cosa del genere?
«Faresti meglio ad andartene via. Subito. Restare qui non ti conviene. Vuoi finire come mia sorella? Come Laura? Io non credo proprio. Vai via, lontana da qui, lontana da Beacon Hills. Questo posto non è sicuro per te. È sporco del sangue di Laura. Proprio come lo sei tu».
Nuovamente, il cervello mi suggerì esattamente cosa fare, perciò abbassai immediatamente gli occhi sulle mie mani. Credo sia inutile dire come le trovai, vero?
Un urlo sfuggì dalle mie labbra, riempiendo la notte scura e silenziosa. E solo allora mi accorsi del fatto che i lupi fossero spariti.
«Oh mio Dio… no, no, no, no…», cominciai a piagnucolare, strusciando le mani sui miei vestiti fradici, sperando che ciò riuscisse a pulirle.
Ma il sangue non andava via: era sempre lì. Oramai ero sporca.
«No, ti prego… no…».
«Andiamo, smettila», mi ordinò il fratello di Laura, afferrandomi nuovamente un braccio e facendo sì che fossi costretta a fissare i miei occhi scuri nel suo sguardo verde.
Senza che nemmeno riuscissi a spiegarmi perché, quelle iridi mi tranquillizzarono subito.
«Non c’è niente che tu possa fare per pulirti, te ne rendi conto? Una volta che ti sei sporcata le mani non ne esci viva. Perciò scappa!».
Con quello ‘‘scappa!’’, il puzzle si ricompose all’istante. Sgranai gli occhi, liberandomi dalla presa del ragazzo sconosciuto – con successo, stavolta – ed allontanandomi da lui di qualche passo, improvvisamente di nuovo all’erta.
«Sei stato tu prima, ad urlarmi di scappare! Hai provato a… salvarmi?», trovai il coraggio di domandare, incerta verso la fine della frase e coi brividi di freddo che davvero stavano rischiando di farmi morire assiderata.
«Sì, ho provato a salvarti. E sai perché? Perché tu sei sola. Esattamente come me», mi fece notare subito, avvicinandosi di un passo mentre io mi mettevo già ‘‘sulla difensiva’’.
Sola? Io non ero sola. Avevo tanta gente che mi voleva bene, ad Austin. Ed anche a Beacon Hills stavo cominciando a farmi degli amici veri.
Prima ancora che potessi parlare, però, sentii il fratello di Laura sogghignare, cosa che mi spinse ad aggrottare le sopracciglia mentre cercavo il suo viso nell’ombra della notte.
«Stai pensando a Stiles e Scott. Che illusa che sei, Harriet Carter», mi apostrofò, con un tono pieno d’astio che mi fece riempire gli occhi di lacrime. «I tuoi ‘‘amici’’, come credi tu… sono per caso qui ad aiutarti? O hanno anche solo provato a cercarti, quando sei sparita? Rispondi».
Non risposi, ovviamente. Me ne rimasi in silenzio, mentre dentro morivo. Perché quello sconosciuto aveva deciso, improvvisamente, di farmi del male in quel modo?
«Ecco, appunto. Non essere più così ingenua, e va’ via. Ritorna in Tex…».
Prima che potesse finire di parlare, una creatura enorme – dal manto scuro e gli occhi rossi – agguantò il fratello di Laura coi suoi artigli aguzzi, ferendolo così tanto che lui iniziò a perdere sangue, di fronte ad una me improvvisamente paralizzata.
Ovviamente avevo visto quella creatura del tutto sconosciuta arrivargli alle spalle, ma le mie corde vocali non avevano risposto ai comandi, impedendomi di avvisarlo. E adesso anche lui sarebbe morto? Avrei assistito ad ancora altro orrore?
Senza che riuscissi a darmi una risposta sensata, né a formulare un qualsiasi pensiero, me ne rimasi lì di fronte a lui, aspettando il momento in cui la creatura avrebbe lasciato a terra il suo corpo inerme e si sarebbe tuffata su di me. Era come minimo cinque volte più grande della sottoscritta, dunque scappare sarebbe stato del tutto inutile. Il mio destino era già scritto.
«Quello era Derek Hale! Ha solo qualche anno più di noi. Tutti i membri della sua famiglia morirono in un incendio, una decina di anni fa», sentii dire a Stiles.
E, proprio mentre tutto acquistava finalmente senso, il buio più totale mi avvolse definitivamente.
Quando aprii gli occhi, scontrandomi col nero assoluto della mia stanza da letto, non potei fare a meno che urlare: «DEREK!», con tutto il fiato che avevo in corpo. Come se ne fosse dipeso della mia stessa vita.
Dovevo assolutamente parlare con Stiles.
 
It’s not fair when you say that I didn’t try,
I just don’t wanna hear it anymore.
I swear I never meant to let it die,
I just don’t care about you anymore









A
n e w b e g i n n i n g:
*smette di sgranocchiare dolcetti e si impegna per scrivere un angolo autrice decente*
Cccciao, ragazze! Come state? Spero vivamente meglio di me, perché è ormai risaputo che ultimamente non va bene quasi nulla :D Maaaa, la smetto di lamentarmi e cerco sul serio di scrivere qualcosa di sensato.
Innanzitutto ci tengo moltissimo a scusarmi per l'ennesimo ritardo, ed anche perché non ho mantenuto la "promessa" fatta nello scorso capitolo. A dire il vero ci tenevo molto ad aggiornare prima di quindici giorni, ma è evidente che non ce l'ho fatta, e sebbene non sia dipeso da me mi sento comunque molto in colpa. Quindi scusatemi davvero :(
Spero che parachute vi sia mancata, perché per me è stato così ahahaha! Rieccoci dunque qui, alle prese con le avventure di Harriet e Stiles. In questo capitolo succedono un bel po' di cose, e spero che il tutto vi piaccia. Io non esprimo commenti, anche perché ho spoilerato già troppo di qua e di là. Dirò solo che ci tengo moltissimo a sentire i vostri pareri, soprattutto sull'ultima scena del capitolo (che non doveva finire così ma che ho tagliato perché mi è venuto una Bibbia)! Dunque spero di risentirvi tutte presto <3 E come al solito vi ringrazio dal profondo del mio cuore.
Due appunti: la prima canzone citata nel capitolo è di Taylor Swift, Fifteen. Mentre la seconda è dei miei amati Three Days Grace: Let it die. Boh, mi sembravano entrambe adattissime e vi consiglio di ascoltarle! Adesso però scappo. Alla prossima, belle :3
 

 

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Capitolo 7
*** How will you fix me now? ***


N.B.: C’era un avviso che volevo farvi, come al solito, ma ora proprio non me lo ricordo (come al solito XD). Quindi andiamo avanti. Magari mi esprimerò più tardi ahahaha. #dannataamnesia Nel frattempo buona lettura, belle! <3
 
                                                                                                                          

parachute

 

7. How will you fix me now?
 
 
«Quindi mi stai sul serio dicendo di aver sognato esattamente tutto quello che abbiamo fatto io e Scott, solo poche ore fa, alla riserva di Beacon Hills?».
«C’ero anch’io alla riserva con voi».
«Giusto. E poi improvvisamente sei caduta…».
«… in un’altra dimensione?», domandai, alquanto scettica.
Nonostante il fatto che fossi finalmente sveglia e libera da quel brutto sogno, non riuscivo ancora bene a capire come descriverlo in modo che Stiles non pensasse che soffrissi di qualche strano disturbo mentale – cosa che comunque stavo iniziando a credere anch’io.
Come si poteva arrivare ad una spiegazione sensata? Tutto quello non era stato solo un sogno ed io lo sapevo bene. Non avrei potuto mai e poi mai liquidare tutto con un: ‘‘Be’, non l’ho controllato io, è capitato e basta’’. Per poi andare avanti come se niente fosse successo. Proprio come non potevo trovare una spiegazione plausibile a tutto ciò. Ma comunque, avevo bisogno di capire.
«In un’altra dimensione, okay. Dove dei lupi hanno preso ad inseguirti».
«Finché qualcuno non mi ha salvata», aggiunsi, stringendomi le ginocchia al petto e facendo spazio a Stiles sul divano.
Era notte inoltrata e fuori, tanto per cambiare, stava piovendo a dirotto. Grazie al fuoco scoppiettante nel camino riuscivo a non avvertire freddo, e – stranamente – nemmeno l’idea che stesse piovendo riusciva a rendermi triste. Dopo quel bruttissimo sogno, ero armata chissà come di una piacevolissima energia positiva che riusciva a rendermi allegra.
«Derek Hale».
Annuii, cercando con lo sguardo il viso di Stiles.
«Sono sicura che fosse lui».
«D’accordo. Ma adesso il problema è un altro, vero?», mi domandò, senza pensarci nemmeno un po’ su. Possibile che mi conoscesse già così bene da sapere esattamente a cosa stessi pensando? «Non credi che sia stato semplicemente un sogno, ed è questo che non ti fa stare tranquilla. A proposito: come ti senti? Sul serio, intendo».
Feci spallucce, tentando arduamente di trattenere un sorriso. Ma nascondere l’appagamento che la preoccupazione sincera di Stiles mi provocò non fu affatto facile.
Insomma, voglio dire. Quel giorno mi aveva fatta infuriare e non poco, con tutta quella storia di Lydia. Ma alla fine con chi era, in quel momento? Per chi era preoccupato?
So bene che non avrei dovuto vedere il tutto come una competizione, ma comunque non potevo far altro che considerare la situazione come una piccola vittoria.
«Mi sento…», incominciai quindi a spiegare, decidendo poi di rinunciare. «Voglio solo trovare una spiegazione logica a tutto ciò. Piuttosto: Scott sta bene?».
«Scott è stato… strano. Ha qualcosa che non va», mi fece presente Stiles a quel punto, gesticolando come suo solito. Io di tutta risposta non feci altro che continuare a prestare attenzione alle sue parole. «L’hai visto alla partita di lacrosse, no? Ti giuro che non ha mai giocato così bene in vita sua. E… credere che sia merito dei suoi allenamenti estivi mi sembra un’opportunità troppo semplice».
Aggrottai le sopracciglia.
«Cosa credi che ci sia sotto?», domandai, visibilmente confusa.
«Se te lo dicessi non mi crederesti mai», mormorò semplicemente a quel punto, lasciandosi andare ad una risatina divertita.
Continuai a non capire, ma cercai di ragionare attentamente per tentare di arrivare ad una qualche soluzione dell’enigma.
«Quindi, pensi che Scott stia cambiando e che… ciò non dipenda da lui?».
Stiles annuì, combattuto. Non capivo perché non mi stesse parlando dei suoi pensieri, ma non me la presi affatto. Potevo immaginare come si sentisse: accecato e frenato dalla paura di poter essere giudicato da me, una ragazzina che conosceva da pochissimo e della quale sapeva poco e niente. Perciò lasciai correre.
«Ne sono sicuro. Non è opera sua».
«Be’, anch’io sono sicura di una cosa. E so già che non ti piacerà», trovai il coraggio di dire dopo qualche minuto, abbassando lo sguardo in modo da sentirmi più protetta di fronte agli occhi curiosi di Stiles. «So che Scott è in pericolo. Ne sono sicura, e, se proprio ci tieni a saperlo, è anche questa cosa a non farmi stare tranquilla».
Lo sguardo di Stiles si adombrò per un attimo, ma per mia fortuna, il tutto durò poco. Davvero non volevo che si preoccupasse – perché sapevo bene quanto tenesse a Scott – ma, d’altro canto, avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, e di confessare ad alta voce le paure che quel sogno mi aveva messo addosso.
Magari si sarebbero dimostrate anche paure infondate, ma comunque avevo bisogno di condividerle con qualcun altro che non fossero le persone a me care che avevo lasciato ad Austin. E quindi, siccome per ovvi motivi non potevo contare più su nessuno di loro, l’unico rimasto al mio fianco era Stiles.
«Okay», cominciò proprio lui a dire, sospirando prima di continuare, molto probabilmente per pensare bene a cosa aggiungere. «Posso capire la tua preoccupazione. Ma, Harry, è tutto infondato. Hai bisogno di tranquillizzarti: l’incubo che hai avuto ti ha un po’ traumatizzata e lo capisco. So già cosa fare».
Detto questo si alzò in piedi, mentre io mi limitavo a seguirlo con lo sguardo mentre spariva diretto chissà dove. Quando ritornò nella stanza buia dov’ero rimasta, seduta sul divano a gambe incrociate, aveva il suo cellulare tra le mani.
Gli sorrisi, avendo già capito benissimo cos’avesse intenzione di fare. E Stiles non fece altro che ricambiarmi, mentre si sedeva nuovamente di fianco a me e componeva il numero di Scott. Poi mi porse il suo cellulare.
«Vuoi parlarci tu? Vedrai che Scott sta alla grande».
 
E Scott stava alla grande davvero: lo appresi parlando con lui proprio quella sera, trovandolo eccitato e felice perché – udite, udite – Allison Argent si era presentata alla clinica veterinaria dove lui lavorava e Scott era riuscito a chiederle di uscire insieme, ricevendo una risposta più che positiva.
Scott stava bene sul serio, ed io come al solito – come la paranoica che stavo diventando – non avevo fatto altro che costruirmi castelli di carta e vedere mille cose che non c’erano.
Quella telefonata era riuscita molto a tranquillizzarmi, e per ciò dovevo ringraziare solo Stiles. Sorrisi pensando a lui, e al fatto che da quel momento in poi tutto sarebbe andato per il meglio – perché ne ero convinta, stupidamente.
Credevo davvero che si fosse trattato solo di ‘‘doversi adattare’’. Che le cose brutte che mi erano successe a Beacon Hills fossero solo frutto dei miei primi giorni lì, a contatto con una realtà molto diversa da quella nella quale ero cresciuta.
Credevo che tutto sarebbe andato per il meglio, da quel momento in poi, e che sarei riuscita ad abituarmi a qualunque cosa. Proprio come stavo già facendo.
Be’, mi sbagliavo.
Scott non stava alla grande: stava semplicemente fingendo di esserlo. In realtà, il non riuscire a capire cosa gli stesse capitando in quel periodo – perché sentisse e vedesse cose che non avrebbe dovuto sentire e vedere, perché non riuscisse più a dormire – lo stava divorando dall’interno, uccidendolo pian piano. Portandolo alla pazzia.
Ma tenersi tutto dentro era molto più semplice di provare a trovare una soluzione al problema, col risultato di scontrarsi poi alla fine con una cosa che ci spaventa da morire. Fingere di stare bene è più conveniente, e non bisogna nemmeno dover avere il timore del giudizio degli altri. Perché, cosa ne penserebbero loro, se sentissero i miei pensieri?
Dunque Scott ingannava tutti – o perlomeno ci provava. E io mi lasciavo ingannare, anche perché – seppur cosa dura da ammettere – anch’io credevo che fosse meglio fingere serenità che doversi scontrare con i propri problemi.
E poi, cosa ne poteva sapere una povera, ingenua, ignorante, ragazzina di sedici anni, di tutto ciò che di brutto la aspettava? Di come sarebbe cambiata radicalmente la sua povera, monotona, noiosa, vita da teenager texana trasferitasi in California? Proprio nulla.
Io non potevo nulla, contro il destino. Solo subire.
Sospirai debolmente, adagiando sul letto il vestitino bianco in pizzo che avevo scelto di indossare per la festa alla quale Lydia Martin mi aveva invitata. Perché sì, sia io che Stiles ci saremmo andati. Stephen non aveva avuto problemi a darci il permesso, e persino Scott sarebbe stato lì… con Allison. Sarebbe stato impossibile definire quanto fossi felice per lui.
Sorrisi, uscendo fuori dalla mia stanza per dirigermi in quella di Stiles. Oramai mancava solo poco più di un’ora all’inizio della festa, e se dal canto mio potevo dirmi libera di prepararmi in tutta calma, per quanto riguardava Stilinski junior non avevo idea della situazione nella quale si trovasse.
Da quando eravamo tornati da scuola, infatti, non aveva fatto altro che chiudersi nella sua camera e rimanerci. Avevamo parlato a malapena, il che iniziava anche a preoccuparmi, visto e considerato che Stiles non fosse affatto un tipo taciturno e introverso.
«Ehi, non sei ancora pronto», sussurrai all’improvviso, bloccandomi sulla soglia della sua stanza, dove la porta era – inaspettatamente – aperta.
«Ehi, non lo sei neanche tu», rispose immediatamente Stiles, distogliendo lo sguardo dal suo pc per puntarlo sulla mia figura, ancora avvolta nella vecchia tuta fuxia, sì.
«Manca ancora un’ora alla festa», sospirai, facendo spallucce e dirigendomi verso il letto nell’angolo, sdraiandomici placidamente. «Cosa stai facendo?».
Presi a fissare la miriade di fogli sparsi in giro con occhi curiosi, e tentai anche di capire cosa stesse cercando Stiles su internet. Ma lo schermo del pc era troppo lontano perché riuscissi a vederci bene, e mettermi di nuovo in piedi mi sarebbe costato troppa fatica. Perciò rinunciai.
«Delle ricerche per scuola».
«Certo», sbuffai, posizionandomi a testa in giù. Non stavo bene, questo era ovvio. «Come se davvero ti avessero già assegnato compiti. Fingerò di crederci».
«Ascolta, semplicemente sto cercando di togliermi un po’ di dubbi. Sono preoccupato per…».
Ma prima che Stiles potesse continuare a parlare, un’ombra nei pressi della porta mi fece sobbalzare. Mi portai una mano al cuore, buttando fuori un sospiro sollevato quando riconobbi McCall.
«Scott!», trillai, invitandolo con un gesto della mano a raggiungerci dentro.
Non avevo idea del luogo dal quale fosse venuto fuori, ma non me ne curai, comprendendo subito che sicuramente l’avesse fatto entrare Stephen – ancora in casa con me e Stiles visto che il suo turno di lavoro sarebbe incominciato ancora più tardi del solito, quella sera.
«Sì, entra», mi diede manforte Stiles, mettendosi in piedi e passando un braccio intorno alle spalle di Scott mentre lo trascinava fino alla scrivania. «Ho un po’ di novità».
«Non dirmi che hanno scoperto chi è l’assassino», mormorò Scott, quasi incredulo.
«Nah. Stanno interrogando alcune persone, compreso Derek Hale. Ma non si tratta di questo».
«E di che cosa?».
Scott anticipò la domanda che avrei voluto porre io, perciò mi limitai a rimanere semplicemente in ascolto mentre McCall prendeva posto di fianco a me sul letto e Stiles si posizionava di nuovo di fronte al computer.
«Ti ricordi? Ti ho preso in giro. Non avrei dovuto», cominciò a dire Stilinski, mentre io aggrottavo le sopracciglia, non capendo.
Mi venne spontaneo chiedermi perché non avesse voluto esporre i suoi dubbi a me mentre in quel momento li stesse confidando a Scott in mia presenza come se nulla fosse. Ma tenni quel dubbio per me, perché anch’io – seppur non coinvolta – volevo delle spiegazioni.
«Il lupo, il morso nel bosco! Ho fatto moltissime ricerche. Lo sai perché i lupi ululano?».
Ancora con questi lupi? Iniziavo a percepire il tutto come una persecuzione bella e buona. Prima il cadavere di Laura Hale, ora questo…
«No, non so perché i lupi ululano», rispose Scott, facendo spallucce, come se niente fosse.
Mi chiesi come facesse a rimanere così tranquillo, ma anche quella volta tenni tutto per me.
«È un segnale. Quando un lupo è da solo, ulula per segnalare la sua posizione al branco. Quindi se senti un lupo ululare, significa che ci potrebbe essere anche il suo branco lì vicino».
Sgranai gli occhi. I lupi in California?
«Un branco di lupi?».
«No. Di lupi mannari».
Non appena Stiles finì di parlare, trattenni una risata fragorosa. Davvero avrei voluto scoppiare a ridere e dire qualcosa tipo: «Le tue battute non sono divertenti», ma ancora una volta me ne rimasi in silenzio, comprendendo che se mi fossi comportata come volevo non avrei fatto altro che essere inopportuna.
«Hai finito di farmi perdere tempo in questo modo!? Devo andare a prendere Allison tra meno di un’ora», esclamò Scott, alzandosi in piedi di colpo, evidentemente alterato.
Un po’ riuscivo a capirlo: era teso per via dell’appuntamento – al quale teneva moltissimo, evidentemente – con la Argent. E Stiles invece di tranquillizzarlo che faceva? Si metteva a scherzare.
Proprio quando anche Stilinski si mise in piedi per fronteggiare Scott, mi ritrovai costretta a combattere contro la mia pigrizia, e mi misi in piedi, parandomi al fianco di McCall. Non volevo che nessuno dei due, mosso dal nervosismo, finisse per fare qualcosa della quale poi sicuramente si sarebbe pentito.
«Oggi ti ho visto in campo, Scott. Quello che hai fatto non è solo incredibile: è impossibile».
«Era solo un bel lancio», rispose, spiccio, facendo nuovamente spallucce.
«No, era un lancio formidabile! Il modo in cui ti sei mosso, la velocità, i riflessi! La gente non diventa così da un giorno all’altro», continuò a spiegare Stiles, cercando di aprire gli occhi al suo migliore amico e forse, in modo indiretto, anche a me.
Mi chiesi perché non riuscissi a credere a Stiles, visto e considerato che tutto il ragionamento sembrasse non fare una piega, e la teoria del mio fratellastro fosse anche retta dal terribile incubo che avevo avuto. Io i lupi li avevo sognati, dunque dovevano ‘‘per forza’’ essere collegati a tutto ciò.
«E poi le tue visioni, i sensi sviluppati… non hai nemmeno più bisogno del tuo inalatore!».
«Va bene, ma io non ho più tempo, adesso. Ne parliamo domani», sussurrò Scott a quel punto, allontandosi di poco da Stiles, con in viso quella che aveva tutta l’aria di essere un’espressione di resa.
«Domani? Ma no! Stanotte ci sarà la luna piena!».
Sgranai ancora una volta gli occhi, incredula come non mai.
Okay, davvero. Stiles non poteva star facendo sul serio. Tutte quelle stronzate che stava cercando di mettere in testa a Scott stavano rischiando di farmi esplodere.
«Che stai cercando di fare?», sibilò McCall a denti stretti, traducendo alla perfezione i miei pensieri.
Stiles rimase interdetto per un attimo, ma Scott non gli diede il tempo di rispondere perché continuò a parlare, trafelato.
Tuttavia, non potei sentire cosa si dissero, perché il mio telefono cellulare – rimasto abbandonato in cameretta – prese a squillare sonoramente, costringendomi ad abbandonare la stanza per correre nella mia e rispondere. Quasi sicuramente si trattava di mia madre o di Cassandra, dunque non potevo permettere che si preoccupassero mentre ci mettevo mezz’ora per rispondere ad una chiamata o peggio ancora la ignoravo del tutto.
Trattenni il mio: «Ragazzi, vi prego, state tranquilli» colmo di preoccupazione, in gola, limitandomi a precipitarmi nella mia cameretta, proprio nel momento esatto in cui la chiamata giungeva al termine e sul display compariva per gli ultimi millesimi di secondo il nome di mia sorella.
Sospirai, recuperando il cellulare e scegliendo ben presto di scrivere un messaggio a Cass dove le spiegavo di richiamarmi in seguito, dato che dovevo andare ad una festa ed ero in pessimo ritardo coi preparativi.
Fu proprio pensando a ciò che decisi immediatamente di non ritornare da Scott e Stiles – anche perché loro avevano bisogno di un po’ di privacy – e pensare piuttosto a vestirmi. Mi liberai ben presto della tuta fuxia, infilando i collant color carne con tanti sforzi, prima di dedicarmi al vestitino.
Anche se dura da ammettere, feci tutto di fretta, senza pensare a curarmi troppo. Stiles e Scott erano entrambi troppo agitati – giustamente – e avevo troppa paura che potessero giungere alle mani, dunque avevo deciso di prepararmi alla velocità della luce in modo da poter essere libera di intervenire in caso di pericolo.
«Sto cercando di aiutarti! Sei cambiato, Scott. La luna piena ti provocherà dei cambiamenti fisici, ma ne avrai anche quando il tuo desiderio di sangue sarà incontrollabile».
Stiles aveva urlato così forte che riuscii a sentire perfettamente tutto ciò che disse, avvertendo distintamente un brivido di paura corrermi lungo la schiena adesso coperta dal vestitino in pizzo bianco. Non precipitarmi alla velocità della luce nella camera in cui li avevo lasciati mi costò un immenso sforzo, ma provai davvero con tutta me stessa a rimanere dov’ero – seppur all’erta – perché non volevo intromettermi più nelle loro cose.
Tuttavia, la preoccupazione vinse su tutto, e piena di paura mi ritrovai a dirigermi nuovamente verso la cameretta di Stiles, coi collant in nylon che producevano un rumore fastidiosissimo strisciando sul pavimento, e le mani che quasi mi tremavano.
«Devi annullare l’appuntamento. Chiamala subito», sentii dire, proprio nel momento esatto in cui rimettevo piede nella stanza.
Aggrottai le sopracciglia, intuendo che si riferisse ad Allison e chiedendomi il perché di quel comportamento. Qual era il problema con l’appuntamento che Scott avrebbe avuto con la Argent?
«Che fai?», si ritrovò a domandare McCall, sul cui viso era dipinta un’espressione interrogativa spaventosamente simile alla mia.
Avanzai ulteriormente, avvicinandomi tanto ai due da mettermi al loro fianco. Volevo avere la situazione sotto controllo totalmente. E scoprii ben presto di aver fatto benissimo a preoccuparmi…
«La sto chiamando».
… perché non appena Stiles finì di pronunciare queste tre semplici parole, McCall scattò in avanti, spinto da chissà quale oscura forza.
Mi venne più che automatico pararmi di fronte a Stiles: non pensai nemmeno per un attimo al fatto che Scott, accecato dalla rabbia, avrebbe potuto colpirmi – cosa che comunque non accadde. L’unica cosa importante in quel momento era evitare che Stiles potesse farsi male, io passavo in secondo piano.
Perciò, mi ritrovai con la schiena schiacciata contro il suo petto e il viso di Scott a pochissimi centimetri dal mio. Riuscivo ad avvertire benissimo il suo respiro accelerato, ma non avevo paura. Nonostante il fatto che per un attimo avessi temuto Scott – o meglio, ciò che stava diventando – ritrovandomi a serrare gli occhi, in quel momento la paura era svanita nel nulla, lasciando il posto ad una leggera arrabbiatura. Sapevo benissimo che non avrebbe mai fatto del male volontariamente né a me né, tantomeno, a Stiles. Ma in ogni caso si stava comportando male, e cercai di farglielo capire con uno dei miei soliti sguardi agghiaccianti.
«M-mi dispiace», si ritrovò a sussurrare infatti pochissimi istanti dopo, indietreggiando di qualche passo e permettendomi di conseguenza di lasciare un po’ più di respiro a Stiles.
Perché sì, eravamo finiti praticamente schiacciati contro la parete della sua camera. E, per quanto in un’altra occasione il tutto mi sarebbe piaciuto e pure parecchio, in quel momento non potevo far altro che sentirmi irritata da tutta quella situazione a dir poco assurda. 
«Devo andarmi a preparare per la festa», aggiunse inoltre McCall, pochissimi secondi prima di scappare letteralmente dalla ‘‘nostra’’ casa.
Quando fui sicura che se ne fosse andato del tutto mi lasciai andare ad un sospiro pesante, voltandomi verso Stiles alla velocità della luce e prendendogli il viso tra le mani senza nemmeno pensarci un po’ su.
Lo analizzai bene con lo sguardo a lungo, per poi posare le mie iridi scure nelle sue.
«Grazie a Dio stai bene», mormorai semplicemente, a voce così bassa che a malapena riuscii ad avvertirmi io stessa.
Stiles sospirò, ed in quel momento potei vedere nei suoi occhi così tanta tristezza che quasi mi sentii male. A dir la verità, non stava bene affatto.
«Arriveremo in ritardo alla festa».
Immediatamente mi feci lontana, sgranando gli occhi.
«Non ti preoccupare! Devo finire di prepararmi anch’io», trillai, gesticolando furiosamente proprio come facevo sempre quand’ero nervosa. «Piuttosto: sei sicuro di volerci andare? Possiamo anche evitare».
«No… devo andarci. Non posso lasciare Scott da solo».
Mi limitai ad annuire, tirando leggermente verso il basso il vestitino bianco, e dirigendomi poi verso l’uscita della stanza con lo sguardo basso.
Avevo osato troppo, e Stiles me l’aveva fatto capire chiaramente. Quanto potevo essere stupida!?
Eppure, quando mi ritrovai finalmente a raggiungere la soglia, pronta a correre via il più velocemente possibile, col momento più imbarazzante di sempre che si ripeteva nella mia testa e mille voci che mi urlavano quanto fossi una povera ed illusa ragazzina che mai sarebbe riuscita a fare la cosa giusta, Stiles parlò, stravolgendo tutto. 
«Harriet… grazie».
Mi limitai a sorridere debolmente. Poi, finalmente, uscii fuori da quella – maledetta – stanza.
 
Non sapevo proprio a chi appartenesse l’immensa casa nella quale era stata organizzata la festa – in onore di cosa? – alla quale io e Stiles ci eravamo presentati in scandaloso ritardo, e a dirla tutta, credevo che nemmeno lui fosse a conoscenza dell’identità del proprietario di quell’immensa mansione.
A dire il vero non mi interessava poi più di tanto conoscere il padrone di casa: l’unico motivo per cui avevo deciso di perdere tempo con quei pensieri stupidi era che non volevo sentirmi sola, avevo bisogno di distrazioni.
Continuai a camminare, priva di una meta precisa, tra la miriade di corpi accalcati su quella che aveva tutta l’aria di essere stata trasformata in una pista da ballo. I piedi dolevano a causa degli stivali dal tacco alto, e la testa pulsava per colpa della musica house sparata ad un volume troppo elevato per i miei gusti. Non ero mai stata il tipo da feste del genere, io.
In Texas il massimo del divertimento a cui potevi aspirare era passare il pomeriggio al lago e la sera in qualche pub, rovinando celebri canzoni al karaoke e perché no, qualche volta alzando anche un po’ troppo il gomito. In effetti, bere era proprio quello di cui avevo bisogno in quel momento. Mi serviva dell’alcool, perché sapevo benissimo che se mi fossi ubriacata avrei smesso di pensare alla situazione nella quale mi ero cacciata e avrei potuto godermi la vita almeno un po’.
Stiles mi aveva rivolto a malapena la parola, durante il tratto in macchina verso quella festa che stavo iniziando ad odiare, per poi sparire non appena scesi. Non lo vedevo da quella che sembrava un’eternità, e mi sentivo dannatamente sola. Infatti, seppur avessi intravisto tra la folla Lydia ed Allison, avevo deciso di non aggregarmi a nessuna delle due, rimanendomene in disparte a torturarmi con le mie solite paranoie. In seguito, tra l’altro, avevo scoperto di aver fatto bene. Avevo ritrovato Lydia e Jackson intenti ad amoreggiare contro una delle colonne vittoriane nel giardino della villa e Allison avvinghiata a Scott sulla ‘‘pista da ballo’’. Sebbene fossi felice per entrambe le coppie, proprio non era nel mio stile giocare alla terza incomoda.
Dopo vari tentativi andati a vuoto – ma quante stanze aveva quel dannato castello!? – raggiunsi la cucina, trovandola piena di ragazzi frequentanti la mia scuola che, almeno quanto me, proprio non sembravano avere intenzione di unirsi alla vera festa.
Avanzai cautamente, cercando di non arrossire sotto i loro sguardi inquisitori. Un ragazzo in particolare mi fissò le gambe scoperte per tutto il tempo, perciò decisi di non dargli corda e continuai ad esaminare la grande stanza in lungo e in largo. Peccato che comunque, dopo parecchi minuti di ricerche infruttuose, fui costretta a sbottare.
«Cristo santo, non c’è un goccio di alcool, in questa casa? Ma come sopravvivete qui a Beacon Hills?», esclamai, alzando le braccia al cielo.
Dopo quella sfuriata epica, lo sguardo di tutti i presenti nella stanza si fossilizzò sulla mia figura ancora più insistentemente di prima. E a quel punto sì che arrossii.
Ma non ebbi molto tempo per morire di vergogna, perché una voce bassa e piuttosto roca mi si rivolse dall’entrata della cucina. Il solo tono che quello sconosciuto mi rivolse mi fece salire una rabbia inspiegabile.
«Certo che c’è dell’alcool, qui, tesoro. Basta solo cercare bene, cosa che ovviamente non sei molto brava a fare».
Mi voltai a rallentatore verso il ragazzo appoggiato allo stipite della porta in legno bianco, ed oltre alla sua spropositata altezza mi saltò subito all’occhio che avesse una bottiglia di un liquore non ben identificato tra le mani. Era completamente piena, ed in quel momento riuscii solo a pensare al fatto che dovevo averla.
«Be’, ci sei tu che cerchi e trovi per me, no?», decisi di domandare dopo un po’, sorridendo fintamente maliziosa.
Dovevo acquistarmi il suo consenso per far sì che decidesse di farmi bere, quindi quale cosa migliore di giocare a fare un po’ la gatta morta?
«Perché non mi offri da bere, comunque?».
Mise su un’espressione sconvolta, e per quanto a pelle lo reputassi un ragazzo antipatico – e piuttosto carino, – non potei comunque fare a meno di tirare fuori un sorrisino divertito.
Grazie a Dio tutta la gente intorno a noi era tornata ad occuparsi delle proprie cose, per cui non mi sentivo più molto a disagio. Ero solo… sulla difensiva, proprio come con ogni sconosciuto che si rispetti.
«Solo se mi dici come ti chiami».
«Sono Harriet».
«Non ti ho mai vista da queste parti».
«Nemmeno io».
La nostra conversazione stava diventando un vero e proprio botta e risposta, e per quanto mi dolesse ammetterlo – non avrei dovuto odiarlo, quel ragazzo all’apparenza così pieno di sé e insopportabile? – tutta quella situazione stava riuscendo a divertirmi e a distrarmi abbastanza da non pensare più a tutte le cose che avevo cercato di tenere lontane dalla mia mente per l’intera serata.
«Non frequento il liceo».
Oh. Il che lo rendeva un tipo ancora più inaffidabile di ciò che sembrava, vero? E allora perché non riuscivo a stargli lontana, rinunciando al mio proposito – stupido – di prendermi una sbronza colossale per stare un po’ meglio? Perché non riuscivo a lasciarlo perdere?
La risposta era più semplice di quanto credessi. C’era qualcosa in quello strano tizio che mi attraeva, e di sicuro non si trattava semplicemente del suo bel faccino o del mio smaniare per la bottiglia di liquore che possedeva.
«Capisco», mi decisi a dire alla fine, per evitare di fare la figura della stupida. «Ma resta il fatto che voglio bere».
Presi a far scontrare il tacco delle mie scarpe col pavimento, producendo un fastidiosissimo rumore che speravo sarebbe bastato a fargli capire quant’ero impaziente di terminare quella conversazione uscendone vincitrice.
«Non lascerei mai bere una liceale», mi rispose lui semplicemente, lasciandosi andare ad un sorrisino divertito che mi fece venir voglia di spaccargli la faccia a suon di sprangate.
Strinsi forte i pugni, allontanando visioni piene di sangue dalla mia mente. Tutta quella rabbia non mi faceva bene.
«Cazzate!», esclamai, muovendo l’ennesimo passo nella direzione di quel pallone gonfiato. «Faresti questo, e molte altre cose anche peggiori!».
Ero ormai alterata senza via di ritorno. Peggio per lui.
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi parlò ancora, mettendo su un finto broncio e facendo per porgermi la bottiglia di liquore.
«Oh, mi hai scoperto».
Mi lasciai andare ad un grosso sorriso – da perfetta lunatica qual ero – allungando immediatamente il braccio nella sua direzione per potermi impadronire della bottiglia. Ma prima ancora di poterci riuscire, capii che il cazzone mi stesse prendendo, ancora una volta, in giro.
«Ancora una cosa», aggiunse infatti, ritirando indietro il braccio e aprendosi nell’ennesimo sorriso divertito nel momento in cui intercettò il mio sguardo furente posato sulla sua figura.
Cercai di lasciar perdere le sue adorabili fossette, focalizzando al contrario tutta la mia attenzionzione sulla rabbia che quel tipo da strapazzo avrebbe fatto salire su anche alla più tranquilla delle persone.
«Lasciami il tuo numero e la bottiglia è tutta tua».
Ancora che si permetteva di darmi ordini!? Sbuffai, reprimendo – ancora una volta – l’immensa voglia che avevo di prenderlo a pugni in quel finto visino da angioletto che si ritrovava.
«Innanzitutto voglio conoscere il tuo nome», sibilai, comportandomi proprio come lui faceva con me, e abbassandomi dunque al suo infimo livello.
In quel momento, comunque, lasciai correre. Volevo semplicemente liberarmi di quella piattola, poco importava doversi trasformare nella sua versione femminile.
«Che ragazzaccio, non mi sono ancora presentato», mormorò lui a quel punto, allungando anche la mano libera nella mia direzione. «Sono Victor Daehler: il padrone di casa».
Sgranai gli occhi, trattenendo a malapena l’istintivo gesto di portare anche una mano a coprirmi le labbra socchiuse per via dell’immensa sorpresa. Sul serio quell’imponente casa era sua, o comunque, dei suoi genitori? Improvvisamente avrei voluto porgli così tante domande… ma le tenni tutte per me.
«D’accordo. Lasciami il tuo numero, ti chiamerò io. E poi dammi quella dannata bottiglia».
Contro ogni mia aspettativa, Victor acconsentì subito a lasciarmi il suo numero. Era davvero così stupido da credere davvero che l’avrei chiamato?, mi chiesi, mentre lui dettava ed io scrivevo. Aveva l’aria un po’ più intelligente di così, pensai anche, salvando il suo numero in rubrica sotto il nome ‘‘Cazzone’’.
Mi trattenni dal fare spallucce: in fondo non mi interessava poi molto del quoziente intellettivo di quel tipo, volevo solo bere. Ricacciai il cellulare nella tasca della giacca di pelle nera, porgendo la mano a palmo aperto nella direzione di Daehler, riservandogli un sorrisone da perfetta leccaculo. Aspettavo solo che mi consegnasse la bottiglia colma di un liquore non ben identificato, poi sarei letteralmente scappata da quella cucina. E perché no, magari anche da quella casa.
Tuttavia, il sogno durò poco. Perché non appena Victor mi ebbe consegnato la bottiglia e feci per scappare, avvertii la pelle gelida delle sue mani afferrarmi il polso e stringerlo. Ero in trappola, a dir poco.
Victor mi si avvicinò così tanto che avvertii il suo corpo contro la mia schiena, le sue labbra contro il mio orecchio e il suo respiro caldo solleticarmi la pelle sensibile del collo. Trattenni il fiato finché non si decise a parlare, ancora con quella voce bassa e roca che mi fece salire su per la schiena non pochi brividi.
«Farai meglio a chiamarmi, in questi giorni, Harriet. Perché se non mi cercherai tu, verrò io a trovarti. Essere ignorato dalle ragazze carine non fa per me». Fece una piccola pausa, poi continuò: «E vacci piano con quel liquore, tesoro. Non vorrei che ti succedesse niente di male».
Detto questo, mi lasciò finalmente andare. E a quel punto scappai via letteralmente, buttando fuori tutto in un colpo il respiro trattenuto fino a quel momento.
Me l’ero vista brutta davvero.
 
I’m scared to get close and I hate being alone,
I long for that feeling to not feel at all.
The higher I get: the lower I’ll sink,
I can’t drown my demons: they know how to swim
 
Convenni ben presto con l’idea di aver bisogno di aria, dopo quell’incontro terrificante che ero stata costretta a subire. Perciò mi diressi verso l’esterno della villa, ritrovandomi in un immenso giardino completo di piscina e chi più ne ha più ne metta.
Austin era una grande città e di meraviglie di ogni genere se ne trovavano in tutti gli angoli, ma mai ero stata così vicina a persone tanto ricche. La mia famiglia non versava certo in brutte condizioni – al contrario, proprio non potevamo lamentarci – ma tutto quello sfarzo… io provenivo da tutt’altro mondo!
Nonostante l’atroce dolore ai piedi e la voglia di liberarmi presto degli stivali di vernice grigia, continuai a camminare, dirigendomi a passo piuttosto svelto verso una delle innumerevoli sedie sdraio situate nei pressi dell’enorme piscina.
Purtroppo, comunque, non feci in tempo a sedermi, che un rumore agghiacciante attirò la mia attenzione, facendomi sobbalzare dallo spavento. Non ero sola, ne ero sicura. Mi era sembrato addirittura di veder muoversi gli alti arbusti lì intorno, e non credevo proprio fosse tutta opera del vento. Chi c’era lì dietro, pronto a farmi prendere un colpo?
Incominciai a guardarmi intorno attentamente, all’erta. So che probabilmente avrei fatto meglio a ritornare dentro, dove la folla di persone mi avrebbe sicuramente protetta dal cattivo lì fuori, ma la verità era che ero immobilizzata dalla paura. E inoltre, qualcosa dentro di me mi ordinava di restare in quel giardino.
«Stai cercando qualcuno?».
Mi voltai immediatamente verso la voce proveniente dalle mie spalle, e nemmeno il tempo di pensare: ‘‘Wow, che voce conosciuta’’, che mi ritrovai dinanzi una persona molto più che conosciuta.
Presi a boccheggiare, avvertendo le gambe diventare molli e le mani tremare. Era perfettamente uguale al mio sogno: nei vestiti, nella postura, tutto. Derek Hale era lì, di fronte a me. Deglutii.
«Sei reale?».
Domanda stupida, okay. Ma come pretendere che mi comportassi in modo intelligente? Derek, di tutta risposta, sorrise. Poi annuì.
«Almeno tanto quanto te, Harriet», mi spiegò, rimanendo fermo dov’era.
Non stava facendo nulla per avvicinarmi e ringraziai il cielo per ciò. Ero spaventatissima già al solo averlo di fronte, proprio non osavo immaginare come avrei potuto reagire nell’avercelo più vicino.
«Cosa ci fai qui? E come diamine fai a conoscere il mio nome?», domandai velocemente, tentando di non strillare troppo.
Mi aveva chiamata per nome anche durante il mio incubo, e me ne resi conto sul serio soltanto in quel momento. Cosa mai poteva significare tutto ciò?
«Potrei fare le stesse domande anche a te», mormorò, abbassando lo sguardo per un attimo prima di riprendere a parlare. «Credevo fossi più intelligente di così. Ma visto che ancora non hai preparato le valigie per tornare in Texas, direi che mi sbagliavo».
Continuai a boccheggiare, incredula. Non riuscivo a capire più niente di tutta quell’assurda situazione, e non potei proprio fare a meno di chiedermi semmai stessi – ancora una volta – sognando. Oramai tutto nella mia vita era all’insegna della confusione: tutto era mescolato e capovolto. La realtà col sogno, il sogno con la realtà.
«Cos…», provai a chiedere, bloccandomi poi quando avvertii la voce tremare così tanto da non essere in grado di parlare.
«So che te lo stai chiedendo, e la risposta è sì», mi anticipò allora Derek, facendo sì che le mie sopracciglia si aggrottassero di conseguenza. «La nostra vecchia chiacchierata è stata reale».
«Ma come… sei entrato nella mia mente!?».
Incredibile. Assolutamente incredibile.
«Se vuoi metterla così, okay. Sono entrato nella tua mente».
«Pazzesco», sbottai ancora, portandomi le mani tra i capelli. «Ascolta, lo dirò una volta sola: devi starmi lontano. Avvicinati a me ancora solo un’altra volta e ti faccio arrestare. Vivo…».
«… nella casa dello sceriffo. Lo so».
Sgranai gli occhi. Come faceva a conoscere così tante cose sul mio conto? Rischiavo di uscire fuori di testa.
Prima di poter esplodere del tutto, quel poco di buonsenso che ancora mi era rimasto mi ordinò categoricamente di girare i tacchi e andarmene il più lontano possibile da Derek Hale – la minaccia numero uno. 
«Oh, non dirmi che stai andando dai tuoi ‘‘amici’’, adesso».
Arrestai il mio cammino, senza però osare voltarmi nuovamente ad affrontare Derek. I suoi occhi verdi erano in grado di spaventarmi a morte, e odiavo sentirmi così debole sotto il suo sguardo. Strinsi i pugni, attendendo che continuasse a parlare. Perché sapevo che l’avrebbe fatto.
«Non lo capisci che loro per te non ci sono? Lo so che sei stata sola tutta la sera, Harriet. E perché adesso credi che questa cosa possa cambiare?».
Senza che riuscissi a fare niente per impedirglielo, Derek si avvicinò a me. Così tanto che, quando continuò a parlare ancora una volta, compresi ben presto che mi stesse alle spalle. Fortuna che non riuscissi a sfiorarlo nemmeno per sbaglio, altrimenti sì che sarei impazzita. Ne avevo le palle piene di tutti quegli incontri ravvicinati e terrificanti.
Chiusi gli occhi, pretendendo di essere sola.
«Li vedi Lydia e Jackson? Non si sono lasciati un attimo. Ti piacerebbe avere un rapporto come il loro?», mi domandò a voce bassa.
Non potei fare a meno di aprire gli occhi, prendendo a cercare lì nelle vicinanze le figure dei due ragazzi che Hale mi aveva appena nominato. In effetti li scorsi pochi metri più lontani, intenti a ballare. Sì, decisamente mi sarebbe piaciuto avere un rapporto come il loro. Ma non lo ammisi, mordendomi le labbra per fermare il fiume di parole che avrei voluto buttar fuori.
«Magari con Stiles? Oh, guardalo. È lì che parla con Allison e a te non ci pensa minimamente».
E a te non ci pensa minimamente. E a te non ci pensa minimamente. E a te non ci pensa... minimamente.
Queste parole iniziarono a ripetersi nella mia mente più e più volte, facendo sì che un dolore atroce facesse di me la sua preda. Non si trattava di dolore fisico, ma di dolore all’anima. Di uno di quei dolori che feriscono ancor più di una ferita sanguinante.
Mi voltai di scatto verso Derek, per niente imbarazzata dall’idea di dovermi mostrare a lui nel mio stato attuale. Avevo gli occhi lucidi, e i capelli scompigliati dopo averli stretti tra le dita per tutto quel tempo.
Strinsi la mascella, impugnando meglio la bottiglia di liquore tra le dita. Non ne avevo toccato un goccio, e non sapevo se esserne felice o triste. In ogni caso, dovevo liberarmene. E quale cosa migliore da fare se non scaraventarla via, facendo in modo che si rompesse rumorosamente?
Derek assistette alla scena senza scomporsi, come al solito. Illusa. Avevo creduto davvero di poterlo spaventare con così poco?
Scossi la testa, con una prima lacrima di frustrazione che cominciava a rigarmi la guancia. Poi feci per sorpassare Derek e scappare finalmente via da quella dannatissima festa, cosa che, realizzai solo in quel momento, avrei dovuto fare moltissimo tempo prima.
Ma ancora una volta la mia fuga fu interrotta, e mi ritrovai la mano di Derek sul braccio. Fu quel gesto a farmi capire tutto. Il nostro incontro era stato reale sul serio. Non solo i vestiti e la postura erano gli stessi. Anche il tocco.
Mi voltai a cercare il suo viso, e sono certa che in quel momento tutta la paura che provavo fosse più che evidente.
«Ti porto a casa», si limitò a dirmi Derek, subito dopo aver spazzato via dal suo viso l’espressione sconvolta che aveva messo su, quasi sicuramente nel vedere il poco bello spettacolo nel quale mi ero trasformata.   
Non potei far altro che annuire, costretta dalla sua stretta poco gentile sul mio braccio, a seguire il nemico nel buio della notte.
In che guai mi stavo cacciando?









A
n e w b e g i n n i n g:
Capitolo lunghissimo e noiosissimo, che tra l'altro pubblico in scandaloso ritardo (?). Mi dispiace moltissimo. Anche perché ancora non mi ricordo cosa avevo intenzione di dirvi quand'ho iniziato a scriverlo (cioè secoli fa) e ormai sono convinta di essere del tutto pazza. But anyway. Vorrei davvero sapere cosa ne pensate, perché io come al solito non ne sono convinta! Basta lasciarmi una recensione anche piccola-piccola, o scrivermi su fb (cosa che potete fare in ogni caso, per ogni evenienza <3).
Parlando un po' del capitolo... il titolo è tratto da una canzone dei miei adorati Marianas Trench, il cui titolo è (ma va'?) Fix me. Vi consiglio di ascoltarla, anche perché il testo è qualcosa di fantastico, e sono convinta del fatto che la frase che ho utilizzato come titolo sia adattissima a descrivere le situazioni di un po' tutti nella storia. Scott, Stiles, Harriet, Derek e... sì, anche Victor... sono "rotti", e aspettano di essere "aggiustati". Siete curiose di vedere se ciò accadrà o meno? :)
Spero comunque che il tutto vi convinca. A parer mio (ripeto) è troppo prolisso e poco interessante, ma ci sono Victor e altre cose che spero vi siano saltate all'occhio, quindi pace. Parlando di Daehler, la mia idea di fargli fare solo la comparsa è andata via così com'è venuta. Tenetevi forte: Victor è ufficialmente un personaggio ricorrente di
parachute! Hell yeah. Spero vi piaccia, ahah. 
Altra nota: la canzone scritta in corsivo prima dell'ultima scena Derriet appartiene ai Bring Me The Horizon (<3) e il suo titolo è Can you feel my heart?. La adoro, proprio come adoro i BMTH e come adoro Oliver Sykes (che è il loro frontman, btw). Se ci tenete ad avere un'introspezione di ciò che sta provando Harriet in questi ultimi capitoli, vi consiglio di ascoltarla. Io personalmente trovo che sia adattissima a descrivere sia lei che (SPOOOOILER) Victor. Ma non aggiungo nient'altro e mi dileguo.
Vi ringrazio tutte per le fantastiche recensioni (alle quali risponderò domani, skst) ma ringraziamenti speciali vanno a 
lilyhachi e Ely 91, che mi fanno sempre felice con le loro bellissime recensioni e anche con le meravigliose storie che scrivono, e che praticamente sono le compagne di sclero più vicine che ho qui su efp. Alla prossima!

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Capitolo 8
*** I'm only the monster you made me. ***


N.B.: Per un’altra volta ancora (e non credo sarà l’unica) ritorniamo al pov Stiles. Non c’è un perché che giustifichi pienamente questa mia scelta, semplicemente sentivo il bisogno di dare un po’ di spazio anche ai pensieri di Stilinski junior. E nulla, come al solito spero vi piaccia. Buona lettura <3
 
                                                                                                                          

parachute


 
8. I’m only the monster you made me.
 
 
Avete presente quei fastidiosissimi momenti in cui la sensazione di sapere già ciò che succederà e come andrà la vostra giornata, è così forte che proprio non riuscite a convincervi del contrario? Quel venerdì era uno di quei momenti. Senza che nemmeno riuscissi a spiegarmi perché, fin da quando avevo aperto gli occhi al mattino – per nulla pronto al mio secondo giorno di scuola di quell’anno – la consapevolezza che quella che mi aspettava sarebbe stata una giornata dura, s’era riversata su di me con la pesantezza di un macigno. Sapevo bene che non mi sarei divertito per nulla, e così era stato.
Su una cosa, però, avevo sbagliato. Ero convinto, infatti, che a scuola sarebbe stata sempre la solita noia. E invece la partita di lacrosse era stata una vera e propria rivelazione, o meglio dire una conferma. Tutti i miei dubbi su Scott e su ciò che lo stesse spingendo a cambiare, dopo quella misteriosa notte nel bosco, avevano trovato un senso. Era tutto vero: non si trattava delle mie solite, stupide, congetture.
Avevo iniziato a fare ricerche, scontrandomi con scoperte che avrei preferito non fare e verità che chiunque avrebbe ritenuto inaccettabili. Ma non potevo più escludere nessuna opzione: dovevo considerarle tutte, perché sapevo che la verità si celava proprio tra una di esse. Non era più il momento di scherzare come avevo fatto fino a quel momento, con Scott e non. La situazione si era dimostrata ancor più seria del previsto, e ci tenevo ad evitare il pericolo ad ogni costo. Come si suol dire: meglio prevenire che curare
Come se non bastasse, non dovevo più – come al solito – proteggere solo me e Scott. Non eravamo più noi due soli ‘‘contro il mondo’’. C’era anche Harriet, il che riusciva a farmi stare in ansia abbastanza. Non volevo che fosse in pericolo, non volevo che le succedesse niente di male. Perciò avevo deciso di allontanarla.
Credevo stupidamente che escluderla potesse bastare a farla stare bene: e mi faceva pure comodo convincermi del fatto che sul serio fosse così. Era più conveniente per me non avere nessuno che intralciasse il mio lavoro e le mie ricerche, ero convinto di potermi focalizzare maggiormente su entrambe le cose. Ovviamente, mi sbagliavo.
Perché avevo finito per dedicarmi solo a Scott e ai suoi problemi, lasciando Harriet alle prese coi suoi: alle prese con dei problemi molto più grandi di lei, che avrebbero finito con lo schiacciarla. Ma non ci pensavo, non riuscivo a pensarci. Per quanto brutto da dire sia, in un certo senso l’avevo dimenticata.
Il fatto che lei non facesse nulla per farsi notare e per esprimere bene le sue difficoltà, poi, contribuiva moltissimo. La conoscevo poco, eppure per certi versi era così trasparente ai miei occhi che mi stupivo, certe volte, di riuscire a comprenderla così tanto. Harriet aveva quasi il super-potere di rendersi invisibile, perché credeva che non fosse mai il momento adatto per parlare di lei e per preoccuparsi di lei. Riusciva ad isolarsi pur stando insieme a moltissima gente, nascondendo i suoi problemi dietro un sorriso.
Io ci avevo messo un po’ a capirlo, ma quella sera anche quella cosa – insieme a molte altre – mi era diventata chiarissima. Proprio come era diventato chiarissimo, per me, il forte dovere che mi ‘‘costringeva’’ a farmi perdonare. Non volevo che Harriet vivesse male quell’esperienza a Beacon Hills: dovevo fare di tutto perché fosse felice, e senz’altro un buon punto di partenza era comportarsi bene con lei. Dipendeva tutto da me.
Fu solo nel realizzare veramente questa cosa che, forse per la prima volta da quand’eravamo arrivati alla festa, mi chiesi dove fosse Harry. Cosa stava facendo? Con chi era? Si stava divertendo? Non si stava cacciando nei guai, vero? Non era mica sola? Si stava annoiando a morte?
«Mio Dio, come ho fatto a non pensarci finora?», mi chiesi anche, facendomi lontano dal gruppo di conoscenti col quale avevo chiacchierato di cose futili per tutta la sera.
Presi a camminare non sapevo bene verso dove, ma vedere Scott entrare nel mio campo visivo mi fece abbandonare qualsiasi proposito di ricerca. Non sembrava stare affatto bene, e il realizzare che potesse essere l’effetto della luna piena mi spaventò e non poco.
«Scott, che hai?», riuscii a domandare al mio migliore amico, raggiungendo la sua sagoma barcollante e afferrandolo per un braccio.
Credevo che si sarebbe fermato e si sarebbe lasciato aiutare, proprio come sempre. E invece Scott mi stupì. Si ritrasse dal mio tocco velocemente, tenendosi la testa tra le mani – come preda di un fortissimo dolore – e mi sorpassò, quasi sicuramente diretto verso l’esterno della villa, scansando anche gli aiuti degli altri presenti alla festa. Erano tutti preoccupati per lui, io in primis.
E non riuscii proprio ad offendermi per il suo comportamento: solo a preoccuparmi di più per lui. L’unica cosa che andava fatta, in quel momento, era rincorrerlo. Raggiungerlo, e aiutarlo. Ero il suo migliore amico, ero suo fratello. Dovevo essergli accanto.
Raggiunsi l’esterno della casa giusto in tempo per vedere Scott entrare nella sua macchina e correre via a velocità pazzesca. Dovevo seguirlo, perciò raggiunsi la mia Jeep senza pensarci su due volte. Toccava correre anche a me, se volevo arrivare a casa McCall in tempo per aiutarlo. Ma, senza che nemmeno riuscissi a spiegarmi come, non appena seduto al posto del guidatore non riuscii subito a mettere in moto e a lasciare la festa. Harriet era lì, ed io la stavo abbandonando ancora una volta?
Mi ritrovai a pensare di essere alle prese con un destino crudele. Come mai mi si sarebbe potuto chiedere di scegliere tra Harriet e Scott? Anche se a malincuore, dovevo ammettere di tenere di più al mio migliore amico. Insomma: perché essere ipocriti? Harriet era una ragazza magnifica, ma la conoscevo da poco. Scott c’era stato da sempre per me, e in quel momento aveva bisogno del mio aiuto. Come potevo negarglielo?
«Harry starà bene», mi dissi, sperando di riuscire a convincere me stesso in primis, mentre recuperavo dalla tasca dei pantaloni il mio cellulare e componevo il numero della Carter.
Nel frattempo – come se già non stessi facendo mille cose contemporaneamente – misi in moto l’auto. Ma sembrava proprio che non fosse destino che dovessi andar via da quella festa, perché la vista di Derek Hale nel giardino della villa mi immobilizzò, impedendomi di partire.
«Oh mio Dio, cosa ci fa lui qui?», mormorai, impietrito dalla visione di Derek ed Allison coinvolti in una chiacchierata.
Non riuscivo a credere ai miei occhi. Cosa ci facevano quei due insieme?
Prima ancora che potessi darmi una risposta sensata, però, la linea telefonica cadde, spingendomi a fissare il display del mio cellulare con occhi confusi. Harriet non aveva risposto alla mia chiamata. L’aveva per caso rifiutata? O semplicemente non aveva sentito la suoneria, data la musica altissima che c’era alla festa?
Decisi che non avevo tempo per pensarci bene, che avrei scritto un messaggio ad Harriet non appena fossi arrivato da Scott. Donai un’ultima occhiata preoccupata ad Allison e Derek, poi partii una volta per tutte e mi diressi a casa McCall. Durante tutto il tragitto non feci altro che pensare a quanto mi sentissi colpevole per il non avere assolutamente idea di dove fosse Harriet. L’avevo abbandonata.
Provai ancora a chiamarla, più e più volte, senza ricevere risposta. Mi promisi che, una volta che Scott si fosse ripreso, sarei corso da lei, smuovendo addirittura mari e monti pur di ritrovarla. Avrei contattato Allison, Lydia, e addirittura Jackson. Chiunque avrebbe potuto cercare di aiutarmi. Ma non in quel momento: dovevo ‘‘salvare’’ il mio migliore amico. Ero preoccupatissimo.
Scesi dalla macchina osservando intensamente la luce accesa nella camera di Scott. Proprio come avevo immaginato, era lì. Mi diressi a passo svelto nella direzione dell’albero sul quale mi arrampicavo spesso per intrufolarmi a casa McCall senza che Melissa se ne rendesse conto. L’agitazione fece sì che in pochissimo tempo mi trovassi all’interno, intento a dirigermi verso la camera di Scott.
Trovando la porta chiusa, incominciai a bussare più e più volte, chiamando il mio migliore amico a gran voce.
«Vattene!», lo sentii ordinarmi quasi subito, mentre a giudicare dal rumore dei suoi passi sempre più vicini, si stava dirigendo verso di me.
«Scott, sono io», misi subito in chiaro, cercando di aprire la porta, inutilmente.
«Vattene, Stiles! VATTENE, ti prego», continuò McCall, facendo pressione sulla porta di modo che mi fosse difficile aprirla ed entrare nella stanza.
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo e continuando a contrastare la forza del mio migliore amico.
«Andiamo, Scott, non è il momento! Harriet è sola chissà dove, e dobbiamo cercarla. Fammi entrare: posso aiutarti!».
«Allison. Devo andare a prendere Allison», soffiò Scott, con la voce quasi tremolante.
«No! Allison sta bene. L’ho vista alla festa, non era sola! Il problema non è lei, ma Harriet. Potrebbe anche essere in pericolo, per l’amor di Dio! Allison sta bene, te lo giuro».
Non potei fare a meno di alzare la voce, anche se comunque provai a trattenermi. Continuai ancora a spingere contro la porta che Scott manteneva chiusa, come se volesse nascondermi chissà quale segreto, senza ottenere buoni risultati. Era troppo forte, ed ovviamente non c’era bisogno di chiedersi quand’è che lo fosse diventato. Non era opera sua.
«Credo di sapere dov’è andata».
Aggrottai le sopracciglia, chiedendomi a chi si stesse riferendo. Harriet o Allison? Difficile capirlo. E, come se non bastasse, non avevo tempo per pensarci.
«SCOTT, FAMMI ENTRARE, PER FAVORE!», urlai allora, venendo però interrotto verso la fine della mia frase.
«È Derek! Derek Hale! Il lupo mannaro. Lui mi ha morso! Lui ha ucciso quella ragazza nel bosco!».
Oh. Per un attimo, il silenzio cadde. E allora tutti i pezzi del puzzle corsero al loro posto. Merda.
«Scott», sussurrai allora, con lo sguardo basso e la voce improvvisamente flebile. «Derek è andato via con Allison, mi pare».
Quello era l’inizio della guerra.
 
You’ve gone too far,
who do you think you are?
Is this what you came for?
Well, this means war!
 
Inseguire Scott sarebbe stato inutile, lo compresi subito. Non avevo possibilità di riuscire a raggiungerlo nemmeno se mi fossi impegnato con tutto me stesso per farlo, e sinceramente, nemmeno volevo più di tanto rimanere invischiato in quella storia che riguardava semplicemente lui e Derek Hale. Era finalmente arrivato il momento di mettersi a cercare Harriet.
Realizzai il tutto proprio mentre guardavo il mio migliore amico sfoderare artigli e canini da lupo prima di balzare fuori dalla finestra della sua stanza, verso la quale corsi subito per accertarmi delle condizioni in cui avrebbe raggiunto il suolo. Quello non era Scott, non poteva essere lui. Mi rifiutavo di crederci. Quello lì era… un mostro. Sì, un mostro. Un mostro che era stato creato da chi?
Intendevo scoprirlo, ma non era quello il momento. Non più. Scott se la sarebbe cavata da solo: era forte, adesso, e comunque io – nemmeno volendo – sarei stato in grado di aiutarlo. Recuperai il mio cellulare dalla tasca dei pantaloni, sperando ardentemente di trovarci un messaggio di risposta da parte di Harry. Proprio come mi ero prefissato, infatti, una volta a casa McCall le avevo scritto nuovamente, chiedendole dove fosse finita e soprattutto come stesse.
Sospirai sconsolato nel notare di non aver ricevuto alcuna risposta, e decisi di fare la cosa che avrei già dovuto fare da molto tempo: chiamare i “miei” amici, e gli amici di Harriet. In fondo, anche se la Carter si trovava a Beacon Hills da poco, era riuscita comunque a stringere rapporti – seppur superficiali – con Allison, Lydia e Jackson. Li avevo visti spesso insieme a scuola, e mi aveva fatto molto felice realizzare che pian piano si stesse ambientando.
Chiedere a loro notizie di Harriet era senza dubbio la cosa più giusta da fare, dal momento che quattro paia di occhi sono più efficienti di uno. Perciò scrissi a tutti, ritrovandomi ad aspettare pieno d’ansia una loro risposta. Non sapevo cosa fare nell’attesa, perciò rimasi dentro casa di Scott. Non avevo idea di cosa potesse esserci fuori ad aspettarmi, ma ero ormai certo del fatto che Beacon Hills non fosse più un posto molto sicuro. Dunque meglio stare al riparo finché possibile, anche perché se fossi uscito, dove sarei dovuto andare?
Prima che potessi darmi una risposta, sentii il mio cellulare vibrare nella mano destra. Sbloccai velocemente lo schermo, ancora una volta senza sapere esattamente cosa aspettarmi. Non sapevo se sperare che fosse Allison a dirmi che l’avesse vista – perché sinceramente ci credevo poco al fatto che Lydia e Jackson si sarebbero scomodati ad aiutare me – o direttamente sperare che fosse Harry ad aver finalmente risposto ai miei continui messaggi.
Ma come al solito accadde ciò che mi aspettavo di meno, e mi ritrovai a leggere alla velocità della luce l’SMS che Jackson-Sonotroppofigo-Whittemore, mi aveva inviato. Non diceva nulla di rassicurante, proprio come c’era da immaginare, ma comunque vedere che avesse provato ad aiutarmi riuscì a farmi calmare almeno un po’. Nemmeno Jackson aveva visto Harriet. Era per caso sparita nel nulla?
Mi guardai ancora un’ultima volta intorno prima di uscire fuori una volta per tutte dalla cameretta di Scott, diretto al piano inferiore di casa sua. Nessuno aveva notizie di Harry, è vero, e non sapevo se ritornare alla festa o andare a casa mia, ma che senso aveva oramai rimanere lì dentro? Di certo le mura di casa McCall non mi avrebbero aiutato a ritrovare la mia sorellastra. Piuttosto sarebbe stato meglio fare un giro per il quartiere e dare un’occhiata.
Una volta di nuovo nella mia Jeep, decisi di telefonare ad Harriet. Composi il suo numero velocemente, portandomi il telefono all’orecchio ed ascoltando spazientito il ‘‘Tu, tu’’ della linea telefonica mentre mi guardavo intorno attentamente. Sembrava tutto tranquillo, e buio. Forse pure troppo.
«Rispondi, ti prego. Rispondi», mi ritrovai a pregare, mentre ancora aspettavo inutilmente che Harry decidesse di darmi sue notizie.
Ovviamente, ancora una volta, non ricevetti risposta. La linea cadde ed io allontanai il telefono dall’orecchio, sentendolo vibrare subito dopo, quasi senza che nemmeno riuscissi a realizzare il fatto di aver ricevuto un altro messaggio. Da… parte di Lydia? Lo lessi ad occhi sgranati, sempre più sorpreso dalla situazione.
La Martin mi aveva sul serio scritto di aver visto Harriet lasciare la festa insieme ad un ragazzo? Che fosse la verità era difficile da credere – anche se Lydia non avrebbe avuto alcun motivo per mentirmi – ma non impossibile. Insomma, Harriet era pur sempre una bellissima ragazza, e che avesse fatto colpo ci stava. Ma… andare via senza dire niente a nessuno? Non mi sembrava molto da lei. C’era senza dubbio qualcosa sotto, e l’unico modo che avevo per scoprirlo era trovarla.
Andiamo alla volta di casa Stilinski.
 
Take a good look at me, now,
do you recognize me?      
Am I so different inside?
This world is trying to change me!
 
«Grazie a Dio stai bene».
Harriet aveva detto a me quelle stesse parole, solo poche ore prima, e adesso la scena si stava ripetendo, con l’unica differenza che ero io a dirle a lei.
Era tutto vero, sicuramente. Ero sul serio grato a Dio. Harry stava bene, ed era a casa. Lydia ovviamente non mi aveva mentito.
«Mi dispiace essere andata via senza chiamarti. Ero stanca e…», cominciò a spiegarmi, tenendo sempre lo sguardo basso.
Lì per lì non mi chiesi il perché di quel suo comportamento sfuggente, anche se comunque il motivo di tutto ciò era alquanto evidente. La mia mente era troppo presa da altri mille pensieri, e, ancora una volta, non riuscivo a dare tutta la mia attenzione solo ed esclusivamente ad Harriet.
«Non fa nulla. L’importante è che tu stia bene, davvero», dissi, notando solo in quel momento che non indossasse più il vestitino in pizzo bianco che aveva messo per la festa.
Il suo viso era anche privo di trucco, il che mi faceva intuire che fosse andata via già da parecchio tempo. E gli occhi… quelli li teneva il più nascosti possibile. Ma perché?
Aveva pianto. Lo capii solo in quel momento, e mi sentii davvero uno stupido, dal momento che non ero riuscito a comprenderlo prima, seppure il tutto fosse piuttosto scontato.
Come avrei dovuto comportarmi, in quel caso? Quella fu la prima domanda che mi posi. Domanda alla quale non riuscii a trovare risposta, decidendo perciò di sorvolare – di evitare il problema – e pensare ad altro. Mi stavo comportando in modo immaturo ed egoista, perché avrei dovuto senza dubbio chiedere ad Harry come stesse, e spronarla a confidarsi con me. Ma d’altronde, immaturo ed egoista era proprio ciò che ero. Non avevo possibilità di ‘‘salvarmi’’ e fare la cosa giusta. Era troppo difficile, per me.
«Sono andata via un sacco di tempo fa», mormorò lei all’improvviso, pochi secondi prima di sedersi sul suo letto. «Cos’è successo nel frattempo?».
«Scott non si è sentito bene. È l’effetto della luna piena, che tu ci creda o no», riuscii a spiegare semplicemente, restando immobilizzato vicino alla porta.
Harriet sospirò, portandosi le ginocchia al petto ed avvolgendole con le braccia. Era una cosa che faceva spesso, e la rendeva estremamente tenera. Trattenni un sorriso.
«Non vorrai dirmi sul serio che Scott è un licantropo?», mi domandò dopo pochi secondi, alzando gli occhi arrossati e un po’ gonfi su di me.
Decisi ancora una volta di ignorare lo stato in cui si trovasse la Carter, ripetendomi che lo stessi facendo solo ed unicamente perché non volevo farle pesare il tutto. Speravo di riuscire a convincermene.
«Dal momento che l’ho visto trasformarsi di fronte ai miei occhi, direi che tutte le teorie sono confermate», esalai, entrando nella stanza di Harriet una volta per tutte, e raggiungendola sul suo letto.
Mi sedetti accanto a lei, intrecciando le dita delle mani e tenendo lo sguardo fisso sul pavimento.
«Oh mio Dio», esclamò Harry, portandosi una mano alle labbra. «Non ti avrà mica fatto del male?».
Cercai i suoi occhi, sorridendole.
«Sto bene», la rassicurai. «Non c’è da preoccuparsi per me. Piuttosto per Scott. E per…».
«Per?».
«Scott delirava, e mi ha parlato di Allison. Era preoccupato per lei. Adesso lo sono anch’io», spiegai subito.
Era vero che ero preoccupato. All’inizio mi ero ritrovato a scacciare via il pensiero di Allison, convinto del fatto che fosse al sicuro. Ma dopo ciò che Scott mi aveva detto, i dubbi avevano iniziato ad assillare pure me. E se il mio migliore amico avesse avuto ragione? Dovevo andare a casa Argent.
«Ma voglio controllare», aggiunsi. «Vuoi venire con me? Se tutto va bene, Allison è a casa. Andiamo a trovarla e ci mettiamo l’anima in pace».
Harriet scosse la testa prontamente, distogliendo lo sguardo dal mio viso e liberando le gambe dalla presa ferrea delle braccia.
«Scusami, ma sono davvero troppo stanca. Voglio andare a dormire. Domani c’è scuola ed è già tardissimo», si giustificò, a voce bassa. «Vai pure, io starò bene. Tuo padre tornerà anche da un momento all’altro».
«Sei sicura? Potrebbe volerci molto tempo, voglio recuperare anche Scott. E non voglio più lasciarti sola».
Vidi Harriet trattenere un sorriso, il che mi tranquillizzò un po’. Nonostante tutto sembrasse risolto e stessimo fingendo entrambi di stare bene, le cose non erano affatto positive. Ero ancora pieno di rimorsi per quanto male mi ero comportato con lei.
«Stai tranquillo, Stiles. Ce l’ho fatta stasera, ce la farò sempre». 
E solo Dio sapeva quanto ciò fosse vero.
 
«Sai che mi preoccupa di più?».
Proprio come da previsione, s’era fatta l’alba. Ero stanchissimo: non solo fisicamente, ma anche, e soprattutto, emotivamente. Perlomeno comunque ce l’avevo fatta a ritrovare Scott. Stava bene anche lui, ce l’aveva fatta. Aveva superato la sua prima luna piena nel migliore dei modi. Non c’erano stati ‘‘brutti effetti collaterali’’. Da quel momento in poi sarebbe stato tutto solo in salita.
«Se dici Allison, ti do un pugno in faccia», mi decisi a parlare, finalmente, rivolgendo al mio amico uno sguardo furtivo, poco prima di riportare gli occhi sulla strada.
Proprio pensando alla Argent… trovavo quasi incredibile quanto Scott fosse stato capace di affezionarsi a lei in così poco tempo. Era davvero preso, e per me che pur conoscendolo da una vita non l’avevo mai visto in quelle condizioni, il tutto era una cosa davvero molto strana.
Cercai di non pensare alle brutte conseguenze che tutto ciò avrebbe potuto portare a lungo andare, scacciando via dalla mia mente ulteriori pensieri pessimistici. Non potevo iniziare a farmi altri problemi: ne avevo già tanti così. E uno di questi era sicuramente mio padre. Mi avrebbe ucciso, nel vedermi rientrare a casa così tardi e soprattutto senza Harriet.
«Probabilmente ora mi odia».
Il tono di voce dispiaciuto di Scott riuscì a distogliermi dai miei brutti pensieri, aiutandomi ad ignorare il cellulare che, per l’ennesima volta, riprendeva a vibrare nella tasca dei miei pantaloni. Che chiamata era, quella? La ventesima? Sapevo benissimo chi fosse, e proprio per quello non avevo alcuna intenzione di rispondere. Meglio ignorare i problemi, sempre. Quella era la mia filosofia di vita.
«Sicuramente non più di quanto Harriet odi me».
Scott aggrottò le sopracciglia, voltandosi di poco a cercare il mio viso con lo sguardo. Avvertii chiaramente i suoi occhi addosso, e proprio perciò decisi di non girarmi a guardarlo di rimando. Volevo evitare di vedere la sua espressione confusa e… di rimprovero. Volevo evitare il confronto.
«Cosa sta succedendo tra voi due, esattamente?», decise di domandarmi McCall, distogliendo finalmente lo sguardo dalla mia figura.
Tirai un sospiro di sollievo nel modo meno evidente possibile, continuando sempre e comunque a tenere gli occhi fissi sulla strada. Pensai per un po’ alla cosa giusta da dire, ma non riuscendo a risolvere ‘‘l’enigma’’, mi limitai a fare spallucce.
«Non lo so. Ma le faccio sempre del male. Non intenzionalmente, che sia chiaro. Ma alla fin fine, in un modo o nell’altro, riesco a trattarla sempre nel modo più sbagliato possibile. Ed è una cosa che fa schifo».
Non sapevo da dove provenissero quelle parole. Non volevo nemmeno chiedermelo, forse perché inconsciamente sapevo che la risposta non mi sarebbe piaciuta nemmeno un po’. Perciò continuai ad ignorare il problema, tutti i miei problemi, e mi limitai a rinchiudermi in un silenzio eloquente. La cosa giusta da dire? Senz’altro tutto quello!
Avevo davvero bisogno di sfogarmi, e lo compresi solo in quel preciso istante. Mi sentivo ‘‘meglio’’. Trattenni un sorriso. Ero libero. Svuotato almeno per un po’ da tutto.
«Credo basti chiederle scusa, sai?».
Ancora una volta, la voce di Scott mi riportò al presente. A quel punto mi girai a cercare il suo viso, sempre per pochi secondi, prima di dedicarmi nuovamente alle strade quasi vuote che stavo percorrendo per portare il mio migliore amico a casa sua. Annuii debolmente, poi risposi.
«È quello che dovresti fare anche tu, con Allison. Inventarti qualcosa che giustifichi il tuo essere scappato dalla festa, lasciandola sola», spiegai, proprio come se fosse la cosa più facile del mondo.
E a parole, lo era davvero. Dare consigli era sul serio la cosa più facile del mondo. Metterli in atto, un po’ meno.
«Oppure potresti prendere in considerazione la divertente idea di dirle la verità. E cioè che sei un lupo mannaro», aggiunsi, guadagnandomi un’occhiata stranita da Scott.
Scoppiai a ridere, scuotendo la testa. Stavo scherzando, non l’aveva capito, per caso? Avanzi ancora un po’ in direzione di casa McCall, individuandone la struttura a pochi metri.
Stavo facendo dell’ironia, proprio come sempre. Il sarcasmo era la mia unica difesa, e l’unica persona al mondo che proprio sembrava non averlo capito, era proprio il mio migliore amico. Assurdo, eh?
«Lo so che è una pessima idea. Stavo scherzando, infatti», chiarii subito, approfittando del silenzio che era calato nella Jeep per l’ennesima volta.
Giunto di fronte casa McCall, fermai l’auto e mi appoggiai meglio al sedile. Ero davvero esausto. Sospirai.
«Ma comunque ci inventeremo qualcosa, Scott. Potrei sempre incatenarti nelle notti di luna piena, e darti da mangiare topi vivi. Una volta l’ho fatto».
Il mio migliore amico scoppiò a ridere, colpendomi ad una spalla per dispetto. Mi aggregai anch’io alle sue risate, cercando di schivare i suoi colpi. Non riuscendoci, ovviamente, decisi di puntare tutto sul ‘‘senso di colpa’’.
«Ehi, ehi! Questo si chiama giocare sporco!», esclamai, con la voce spezzata a causa delle troppe risate. «Non tutti abbiamo superpoteri da lupo!».
Dopo pochi minuti, Scott si arrese, lasciandomi libero. Continuammo a ridere ancora per molto tempo, e solo in quegli attimi riuscii a sentirmi davvero felice. Spensierato. Proprio come avrei dovuto essere.
«Sei proprio un coglione, Stiles», mormorò McCall dopo un po’, col respiro corto, guardando fisso di fronte a sé.
Era evidente che scherzasse: aveva parlato col sorriso sulle labbra. E in ogni caso, non sarei mai stato capace di prendermela con lui. Perché ciò che aveva detto era dannatamente vero. Ero un coglione
«Lo so», mormorai infatti, annuendo e ricambiando il sorriso del mio migliore amico.
Rimisi in moto la macchina, pronto a ritornare a casa e affrontare mio padre. Semmai mi avesse messo in punizione, non ne sarei stato triste. Sempre meglio stare a casa, visto tutto quello che stava succedendo ultimamente a Beacon Hills.
«Ma sarò anche un ragazzo morto, se non torno a casa il più presto possibile».
Solo allora Scott sembrò riscuotersi. Si tirò su sul sedile, abbandonando la posizione sbracata in cui era stato fino a quel momento. Donò un ultimo sguardo a casa sua, soffermandosi un po’ di tempo sull’unica stanza dalla luce accesa che essa presentava. Quella era la stanza di Melissa. Il mio migliore amico avrebbe dovuto affrontare i miei stessi problemi.
«Sì, vai. E se sopravvivi manda segnali di fumo!», mi ordinò, una volta fuori dalla mia Jeep.
Non mi lasciò partire subito, tuttavia, rimanendo appoggiato allo sportello chiuso.
«Vado anch’io a discutere con mamma. Se non sopravvivo sappi che ti ho voluto bene».
Sorrisi.
«Non mi piace essere dolce, ma siccome questa potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo, sappi che ti ho voluto bene anch’io, Scott», mormorai, trattenendo le risate fino all’ultimo.
Ma quanto potevamo essere scemi, noi due messi insieme? E quanto avrei fatto per far sì di poter passare sempre momenti come quello e anche migliori? 
Scott non riuscì nell’intento di restare serio, e ruppe la ‘‘farsa’’. Scoppiò a ridere, facendosi lontano dallo sportello e salutandomi con un cenno mentre si avvicinava a casa sua. Io rimasi a guardarlo per un po’, poi, quando fui sul punto di partire, Scott richiamò la mia attenzione.
«Ah, Stiles! Grazie».
Allora sì che potevo andar via felice.









A
n e w b e g i n n i n g:
Sì, lo so che ci ho messo secoli per riuscire a scrivere questa schifezzuola, ed è proprio per questo motivo che vi chiedo scusa in ginocchio. Come al solito, il capitolo non mi convince nemmeno un po', e sono quasi sicura del fatto che sia tutta colpa del pov Stiles. D'altronde, questa è solo la seconda volta che scrivo dei suoi pensieri, ancora non ci ho fatto pienamente l'abitudine. Proprio per questo darò più spazio a Stilinski, in modo di anche solo provare a migliorare. Comunque, ho scelto di inserire il suo pov in questo capitolo perché finora abbiamo visto le cose sempre e solo dal punto di vista di Harriet, e credevo fosse lecito aiutarvi ad entrare almeno un po' anche nella testa di Stiles. Spero di essere riuscita a fare un buon lavoro, ma da come si sarà già capito non ne sono molto convinta.
Il titolo del capitolo è una frase della canzone Monster you made, dei Pop Evil, che come già scrissi su fb può essere considerata la colonna sonora per eccellenza di questo ottavo capitolo (ne ho scritti già così tanti? lol). La canzone, inoltre, ricorre nuovamente nel corso del capitolo, ed è la seconda che ho citato, quella in corsivo prima della penultima scena. Per quanto riguarda la prima canzone in corsivo, invece, quella è dei miei amati Nickelback (<3) e il suo titolo è This means war. Andando avanti... avrei mille cose da dire su questo capitolo, ma non voglio annoiarvi oltre. Mi limiterò semplicemente a farvi presente che sì, Stiles è immaturo, troppo ingenuo, egoista e assolutamente non pronto, in questo esatto momento, ad una storia d'amore. E' lo Stiles della prima stagione, ed io non ho alcuna intenzione di cambiarlo e renderlo già il "ragazzo perfetto" che è diventato col tempo e con l'esperienza: io voglio farlo crescere proprio come ha fatto zio Jeff (<3) e lo farò, nel mio piccolo. Spero solo che il tutto vi convincerà!
Infine, ultimo avviso importante. Questo capitolo è l'ultimo che pubblico prima della pausa natalizia, che durerà non so ancora bene fino a quando (di certo fino a gennaio). Non era in programma, è vero, ma mi sono riscoperta davvero bisognosa di un momento di pausa. Devo approfittare delle vacanze natalizie per studiare, e anche per dedicarmi un po' a me stessa. Voglio mettermi in pari con tutti i telefilm che amo e che sto trascurando a causa di mille fattori combinati insieme, pronti a farmi impazzire. E non posso farlo in questo modo, già lo so. Metto
parachute in pausa perché non voglio affatto che lo scriverla, per me, diventi un obbligo. Voglio lavorare bene al prossimo capitolo, e parlando di questo... parachute di capitoli ne avrà venti esatti. Né uno in più, né uno in meno. E sì, per la felicità di una persona che non nominerò (ahah), ho deciso già da moltissimo tempo che questa sarà una vera e propria serie di tre storie, di cui la prima è ovviamente parachute. Spero che la cosa non vi annoi, e che deciderete di aspettarmi e seguirmi. 
Non credo di avere nient'altro da aggiungere, e comunque in ogni caso possiamo sentirci su fb. Vi rinnovo i grazie più sinceri di sempre: senza di voi davvero non so dove sarei in questo momento! Molto probabilmente a scrivere storie che non piacciono a nessuno, uhm. Ma sorvoliamo. Ne approfitto già da ora per augurarvi buone feste: io sono in vacanza ma non sono in vacanza. Godetevi il Natale, e cercate di far andare il 2014 nel migliore dei modi. Vi meritate il meglio, tutte! Helena vi abbraccia <3
(scordatevi di Bì, lol)

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Capitolo 9
*** Che cosa stai cercando di fare? ***


Previously on parachute:
Dovevo semplicemente ritornare coi piedi per terra. E continuare a correre, così da evitare di finire sbranata da un branco di lupi apparsi da chissà dove.
I lupi erano spariti.
«hanno preso ad inseguirti?».
«Lo sai perché i lupi ululano?».
Ancora con questi lupi!?
In California?
«Non semplicemente lupi. Lupi mannari».

«Che ci fai qui?».
«Quello era Derek Hale! Ha solo qualche anno più di noi. Tutti i membri della sua famiglia morirono in un incendio, una decina di anni fa».
Derek Hale – la minaccia numero uno.
«Ti porto a casa».
«È Derek! Derek Hale! Il lupo mannaro. Lui mi ha morso! Lui ha ucciso quella ragazza nel bosco!».
«Derek è andato via con Allison, mi pare».
E non solo con lei.
 
 
 
 
 
 
 
9. Che cosa stai cercando di fare?


 
Utilizzare il computer portatile di Stiles non appena potessi era diventata una vera e propria abitudine. Vivevo a Beacon Hills da meno di un mese, e cioè da pochissimo tempo, eppure di abitudini ne avevo prese già tante, forse pure troppe. E non è detto che tutte fossero buone abitudini.
Posai lo sguardo sul Mac grigio, mordendomi le labbra nell’attesa. Era sabato pomeriggio, e quel giorno non mi ero presentata a scuola, proprio come aveva fatto Stiles. Quando Stephen aveva proposto ad entrambi, inaspettatamente, di restare a casa per quel giorno, quasi non ci avevo creduto.
Eravamo stati ad una festa, non a fare i lavori forzati. Poco importava che fossimo comunque stanchi: né io né tantomeno Stiles reputavamo il tutto come una buona scusa per fare la prima assenza dell’anno. E il fatto che lo sceriffo non si fosse arrabbiato nemmeno un po’ con suo figlio, nonostante il fatto che questi fosse rientrato all’alba, senza nessuno che gli tenesse compagnia?
Se si fosse trattato di mia madre, sarei finita in punizione a vita. Ora, non volevo insinuare che Stephen non fosse un buon padre o cose così. Non volevo credere che avesse deciso di evitare una giusta punizione a Stiles semplicemente perché si preoccupasse poco per lui. C’era qualcosa sotto: qualcosa di più grande, che aveva spinto il signor Stilinski a lasciare a casa anche me.
Qualcosa che avrei scoperto, giacché ero lì senza far nulla. E sì, non avrei dovuto accettare di saltare scuola, ma… be’, era già la seconda volta che Stephen mi proponeva una cosa del genere. La carne è debole! Soprattutto quella di una sedicenne che vuole evitare le ore di educazione fisica come la peste.
«Dio sia lodato!», esclamai poi, distraendomi all’istante dal filo dei pensieri che mi riempivano la mente, non appena rividi il viso di mia sorella attraverso il pc.
Ci eravamo videochiamate via Skype e stavamo cercando di chiacchierare tranquillamente, ma c’era qualcosa che non andava nella linea internet, molto probabilmente, perché il collegamento era disturbato e molto spesso c’eravamo dovute interrompere perché le immagini sparivano e le voci arrivavano tutte spezzettate.
«Sempre sia lodato», mi diede ragione Cassandra, ironicamente, alzando gli occhi al cielo mentre la guardavo muoversi agitata di fronte al pc.
«Cos’è che stavamo dicendo?», domandai, cercando di ‘‘ripristinare l’ordine’’.
Prima che venissimo interrotte per la ventimilionesima volta, mia sorella mi stava raccontando qualcosa di interessante, solo che non riuscivo più a ricordare cosa. Nel silenzio della camera di Stiles mi ero distratta troppo per poter ancora prestare attenzione ai gossip che Cassandra come al solito aveva iniziato a snocciolare nelle mie orecchie.
«Uhm…», mormorò mia sorella, passandosi un dito sottile sul mento. «Ah, sì! Stavo quasi per dimenticarmene. Questo è il regalo che James mi ha fatto per il mio ventottesimo compleanno. Non è un amore?».
Osservai con occhi critici la maxi bag di Minnie Mouse che Cassandra mi stava mostrando piena d’orgoglio, avvicinandola alla webcam per poi allontanarla subito dopo e voltarla in tutte le direzioni e angolazioni immaginabili. Sbuffai.
«Il tuo compleanno è tra tre mesi, Cass. Perché ho un cognato così stupido?», chiesi, più a me che a lei.
Davvero: perché fare regali con così tanto anticipo? Sì, okay, mia sorella era una rompipalle di prima categoria, e molto probabilmente James – meglio conosciuto da tutti come Jamie – le aveva comprato quella borsa solo per calmarla un po’… ma comunque il tutto non mi convinceva.
«E io perché ho una sorella così tonta?», ribatté Cassandra velocemente.
Posò la borsa da un lato e ritornò a guardarmi intensamente attraverso la webcam. Poi alzò gli occhi al cielo, lasciandosi andare a quello che aveva tutta l’aria di essere un sospiro di rassegnazione.
«È ovvio che la borsa sia solo un regalo di copertura! Altrimenti perché darmela così in anticipo? E poi… credi davvero che sarei capace di accontentarmi di una misera borsetta insulsa?».
Decisi di non replicare, evitando perciò in questo modo di far presente a Cassandra che la ‘‘misera borsetta insulsa’’, come la definiva lei, doveva essere costata a Jamie molto più di quanto lei volesse far credere. In fondo, se lo stupido amava così tanto mia sorella da voler rischiare la bancarotta per lei, chi ero io per impedirglielo?
«Un regalo di copertura… per cosa?», riuscii solo a chiedere, appoggiandomi allo schienale della sedia da scrivania di Stiles e guardando mia sorella con gli occhi scuri ridotti a due fessure.
«Be’… non lo dirò per scaramanzia», spiegò lei, aprendosi in un sorrisino soddisfatto che per poco non mi mise i brividi addosso.
«Ma sono sicura che avrai già capito».
Se avevo capito? Ovviamente no. Ma decisi di lasciar perdere.
«Comunque… come va lì? Conosciuto bei ragazzi?».
Mi sentii avvampare e impallidire al tempo stesso. Oh, no. Cassandra non poteva uscirsene con domande del genere così all’improvviso.
Sprofondai giù nella sedia, nascondendo le guance con i palmi caldi e sudati delle mani. Troppe emozioni contrastanti, troppe.
«No, io…», trovai la forza di dire, in seguito all’ennesimo richiamo da parte di mia sorella.
Era più curiosa di un gatto! Ma, per fortuna, non potei aggiungere nient’altro, perché i forti latrati di quello che aveva tutta l’aria di essere Randall – il mio Randall – richiamarono l’attenzione di Cass, e anche la mia, a dirla tutta.
«È Randy che abbaia furiosamente? Che gli prende?».
Mia sorella alzò gli occhi al cielo, mettendosi in piedi per dirigersi verso la finestra che dava nel giardino, posto nel quale da sempre veniva confinato il nostro cagnolone.
«Non ne ho idea, è tutto scemo. Magari sente che sto parlando con te! A proposito, vuoi vederlo?».
Non potei fare a meno di annuire, sorridendo mentre Cassandra prendeva sottobraccio il suo computer portatile e si dirigeva prima al piano terra di casa nostra e infine fuori, alla ricerca dell’alano dal manto bianco-nero.
«Dov’è mamma?», domandai a quel punto, dopo aver visto passare davanti ai miei occhi l’intera casa Carter completamente vuota.
Cass sospirò, continuando ad avanzare nel giardino in ombra.
«Non lo so. In giro come al solito, comunque. Tornerà stasera e pretenderà di parlare alla figlia prediletta, senza preoccuparsi di come possa essere andata la mia giornata».
Alzai gli occhi al cielo, trattenendo un sorriso ed osservando attentamente tutto ciò che Cassandra mi permetteva di vedere attraverso la webcam man mano che continuava a muoversi. Mi mancava tantissimo il Texas, e ancor di più casa mia.
«Ma dov’è finito Randall? Si è zittito di colpo, hai notato?».
Solo allora me ne resi pienamente conto. Era vero, il silenzio era sceso nel giardino, e del mio alano sembrava non esserci più la minima traccia.
«Randy? Randy, dove sei?».
Cassandra continuò a richiamarlo ancora diverse volte, mentre io non potevo far altro che osservare la scena dall’esterno, proprio come se si trattasse di uno dei soliti telefilm horror che seguivo alla tv. Ero piena d’ansia e, in un certo qual modo, avevo la paura e la sensazione che qualcosa di atroce sarebbe successo di lì a poco… ma non potevo certo immaginare come poi davvero si sarebbero risolte le cose.
Accadde tutto all’improvviso: mia sorella tirò fuori un urlo agghiacciante, facendomi balzare immediatamente in piedi mentre il mio cuore si riempiva di paura. Non riuscii a guardare bene l’intera scena, perché il portatile le sfuggì di mano a causa del troppo spavento, cadendo sul manto di foglie secche in giardino con un tonfo orribile.
«Randall! Oh mio Dio, Randall è morto!».
Non ebbi alcuna reazione a quella rivelazione. Avrei dovuto essere distrutta, e orripilata. Al contrario, invece, me ne rimasi di fronte al pc, completamente apatica mentre il buio mi avvolgeva, esattamente due secondi dopo l’ennesimo urlo straziante di Cass.
Quando ripresi conoscenza, o credetti di averla ripresa, mi ritrovai nel letto in camera mia. Notai che indossavo una delle solite tute che mettevo per stare in casa, e fissando l’orologio appresi che fossero le venti del sabato sera.
Avevo fatto un altro di quei strani sogni, vero? Iniziavo ad esserne stanca. E, come se non bastasse, mi ero anche persa un dettaglio fondamentale del tutto.
Due occhi rossi e cattivi, che scrutavano Cassandra nel buio del giardino di casa nostra.      
 
«Oh mio Dio, capisci? Io non riesco più a distinguere la realtà dalla finzione. Sto diventando pericolosa, per l’amor del cielo! E questo potrebbe essere un altro dei miei fottutissimi sogni».
Giuro che c’avevo provato a tenermi tutto per me, evitando di riempire di preoccupazione Stiles e Stephen. Giuro che c’avevo provato a divertirmi con loro la sera prima, trascorrendo il tempo a parlare del più e del meno, accompagnati da tè caldo e diversi giochi di società. Giuro che c’avevo provato a non far diventare loro, i miei problemi. C’avevo provato a dormire tranquillamente e a comportarmi proprio come se niente fosse, la domenica mattina successiva.
Ma era tutto troppo difficile perché io, una debole sedicenne texana, potessi gestirlo completamente da sola. Non potevo tenermi tutto dentro: avevo bisogno di sfogarmi e di togliermi il peso opprimente di quei maledetti sogni dal petto. E con chi altro parlare, se non con Stiles? Non di certo con Stephen. Lui quasi sicuramente non avrebbe capito, e sarei passata semplicemente come una ragazza che stava perdendo la testa a causa del suo trasferimento in California, lontana miglia e miglia dalla sua famiglia e dalle abitudini che ‘‘la facevano stare bene’’.
«Harriet, si può sapere di cosa diavolo stai parlando? Non ci sto capendo niente, quindi innanzitutto tranquillizzati. E poi spiegati bene».
Stiles mi afferrò per le spalle, cercando i miei occhi. Mi ritrassi al suo tocco il più velocemente possibile, come scottata, senza neanche sapere cosa sul serio mi avesse spinta a comportarmi così. Continuai a sviare il suo sguardo mentre mi muovevo agitata nel salotto di casa Stilinski, passando le mani tra i capelli scuri e lunghi.
«Scusa», sospirai infine dopo un po’, quando fui almeno un po’ più certa di essermi tranquillizzata, prendendo posto sul divano e posando i gomiti sulle mie ginocchia. «Non ho il diritto di farti preoccupare in questo modo, lo so. Ma devo parlare con qualcuno, Stiles. Rischio di impazzire se questa storia continua ad andare avanti».
«E con me puoi parlare, lo sai», mi rassicurò immediatamente, sedendomisi al fianco. «Ma devi permettermi di aiutarti, d’accordo? E non riesco nemmeno a provarci, se ti limiti a sclerare in questo modo».
Cercai di trattenere un sorrisino divertito, con scarsi risultati. Solo Stiles poteva definire il mio comportamento come nient’altro che uno ‘‘sclero’’. Io non stavo sclerando. Magari fosse stato tutto così facile. Io stavo direttamente impazzendo. 
«Hai avuto un altro incubo?», mi domandò dopo un po’, notando che non fossi affatto intenzionata a parlare.
«Sì», risposi immediatamente, correggendomi subito dopo. «Cioè no».
Stiles si limitò a fissarmi con espressione confusa. Aveva le sopracciglia aggrottate e gli occhi nocciola esprimevano tutta la sua curiosità. Voleva riuscire a capire cosa diavolo stessi dicendo, perciò decisi immediatamente di spiegarmi.
«Non sono semplicemente incubi. Né sogni o cose del genere. È molto di più», mormorai, tenendo lo sguardo fisso sulle mie mani intrecciate.
Ero piena di vergogna, quasi senza alcun motivo. Non riuscivo a guardare Stiles in viso per troppo tempo, e presumo fosse tutta colpa del fatto che, in qualche strano modo, mi ritenevo colpevole per quei… strani sogni che facevo. Era colpa mia se non riuscivo a fermarli, no? Avrei dovuto fare di tutto per impedirlo, e invece…
«Mi ritrovo, ogni volta, a sentire e vedere cose che non dovrei sentire e vedere. Come quella volta che tu e Scott siete ritornati alla riserva di Beacon Hills, completamente da soli, e io vi ho sognati. Ho sognato esattamente ogni parola che vi siete detti, non me ne sono persa nemmeno una. E non è normale, no? Non ero con voi. Non ero nemmeno nelle vicinanze! Tu una cosa del genere come te la spieghi?».
Dopo che ebbi posto la mia domanda a voce più alta di quanto avrei voluto, il silenzio cadde nella casa, e mi ritrovai a ringraziare vivamente il fatto che Stephen non fosse lì con noi ma a lavoro. Ad un occhio esterno sarebbe potuto sembrare che io e Stiles stessimo litigando, visto quanto urlavo senza riuscire ad impedirmelo, e sapevo che se solo lo sceriffo fosse stato lì sarebbe venuto a controllarci da tempo, preoccupato. E non volevo che succedesse una cosa del genere: non lo volevo affatto. Non volevo attirare l’attenzione di nessun altro. Stiles mi bastava e mi avanzava.
«Tuttavia, la prima volta ho solo sentito. Senza riuscire a vedervi. Nemmeno per scherzo. Questa volta, invece…», ripresi a parlare, consapevole del fatto che nessuno avrebbe potuto fornire una spiegazione sensata per quella assurda situazione. «Questa volta ho visto cose che non avrei dovuto vedere».
E mi bloccai, senza una ragione precisa. Semplicemente non riuscivo più a parlare, o forse non mi andava più di farlo. In ogni caso, se mi avessero chiesto di spiegare il perché, avrei fatto scena muta.
Stiles, molto probabilmente notando la mia improvvisa titubanza, decise di incoraggiarmi, parlandomi nuovamente dopo quelli che mi erano sembrati secoli. Ammetterlo non è il massimo, perché nel dire una cosa del genere non posso far altro che sentirmi una stupida ragazzina romantica, ma il solo avvertire la sua voce nell’aria riusciva ogni volta a tranquillizzarmi un po’.
«Di che parli? Cos’è che hai visto?».
Sospirai, restando in silenzio a lungo, chiedendomi come affrontare il discorso nel modo giusto. Alla fine, decisi di prenderla alla larga. Molto alla larga.
«Ieri mattina abbiamo saltato scuola, vero?».
Di nuovo il volto di Stiles si riempì di curiosità, e, molto probabilmente ansioso di saperne di più, mi rispose: «Sì» immediatamente.
«E nel pomeriggio mi hai prestato il tuo Mac per videochiamare Cassandra».
Quella volta non la posi come una domanda, perché sapevo benissimo che la risposta – più che scontata – sarebbe stata ancora una volta affermativa. Stiles, di tutta risposta, si limitò ad annuire.
«Ecco, fin qui sembra tutto a posto, no? E adesso viene il bello», mormorai, scuotendo la testa più e più volte. «Io non mi ricordo assolutamente niente di tutte le cose che ho fatto ieri. Nulla, zero, il blackout totale».
«Non capisco», mi interruppe subito, confuso sempre di più ogni minuto che passava. «Le domande che mi hai fatto… tu ricordi! Perché dici di no?».
«Perché le cose che ti ho chiesto le ho sognate. Se non fosse per quello… fidati, non ricorderei niente di tutto ciò che è successo ieri».
Ancora una volta cadde il silenzio, ma dopo un po’ di riflessione Stiles decise di spezzarlo nuovamente, chiedendomi: «Quindi, se ho capito bene, hai sognato tutta la giornata di ieri?».
«Non proprio tutta, ma direi che il concetto è quello».
«E c’è sotto qualcos’altro».
«Oh, », annuii, sempre più esterrefatta dall’immensa capacità intuitiva che Stiles aveva dimostrato già più volte di possedere. «Ho sognato cose che ancora non succedevano e cose che, invece, non sono ancora successe né succederanno a breve. O perlomeno si spera sia così».
«Okay, spiegati meglio».
«Nel mio sogno/incubo – chiamalo come diamine vuoi, non cambia il fatto che sia un autentico schifo – ho videochiamato mia sorella via Skype e lei… mi ha mostrato una borsa, un nuovo regalo da parte del suo ragazzo. Ecco, potrebbe sembrare una cosa normalissima, proprio ciò che farebbero due sorelle. Il problema è che quando stamattina ho chiamato Cass per farle due domande, lei mi ha assicurato di non aver menzionato nemmeno per scherzo il suo nuovo regalo, ieri, anche e soprattutto perché Jamie gliel’ha consegnato solo questa mattina stessa».
Presi un respiro profondo prima di riprendere a parlare. Anche se non lo stavo guardando in viso, potevo dire con certezza che Stiles fosse scioccato da tutte quelle rivelazioni ogni minuto che passava sempre di più.
«Cioè, capisci? Ho fatto la figura della pazza con Cassandra, che nel sentirmi parlare del regalo del quale avrei dovuto non sapere assolutamente niente ha iniziato ad urlarmi contro come un’ossessa, convinta che fossi diventata chissà quale sottospecie di chiaroveggente. Certo, alla fine è poi arrivata da sola alla conclusione che avrei potuto essere stata avvertita da James, e a me è andato bene farglielo credere. Ma… la verità è che non ho parlato con mio cognato. Nemmeno per sogno».
«Okay, borsa a parte… è successo qualcos’altro?».
«Ho visto Randall morto».
«Oh».  
Sospirai.
«E in caso non fosse chiaro, catalogo il tutto come ‘‘cose sognate che non sono ancora successe né succederanno a breve, si spera’’».
«Quindi riesci, inspiegabilmente, a predire il futuro attraverso dei sogni. Wow».
«Non mi credi?», domandai, improvvisamente piena di incertezze e con la voce appena tremolante.
Stiles sgranò gli occhi, voltandosi immediatamente a guardarmi.
«Scherzi? Il mio migliore amico è un licantropo, Harriet, e ho creduto alla sua natura senza pormi troppe domande, per quanto strano possa sembrare! Perché dovrei avere dubbi su di te?».
Mi limitai a sorridere, incapace di aggiungere nient’altro. Ancora una volta, Stiles aveva capito tutto.
«Tuttavia, dal momento che non hai mai fatto sogni del genere prima d’ora e sono sempre e comunque dell’idea che bisogna ignorare i ‘‘problemi’’ finché questi non diventano realmente tali… sappi che mio padre ha una teoria che adesso condividerò con te».
«Di che si tratta?», chiesi subito, voltandomi a cercare con lo sguardo il viso di Stiles e scrutandolo con un’espressione sopresa e curiosa.
«Stephen dice sempre: uno è un incidente, due è una coincidenza».
E quindi, dal momento che quella era solo la seconda volta che mi capitava di fare un sogno del genere… si trattava di nient’altro che una coincidenza? Non fasciarsi la testa prima di essersela rotta, parafrasando? Mh. Potevo anche farmi andar bene quella soluzione, per allora. Ma… se mi fosse ricapitato ancora un’altra volta di avere strani incubi del genere?
«E tre cos’è?», non potei proprio fare a meno di domandare.
«… tre è uno schema».
Che tradotto equivaleva ad un: ‘‘se ricapita iniziamo a preoccuparci sul serio’’. D’accordo. 
 
You know what I always say.
One is an incident.
Two is a coincidence.
 … three is a pattern.
 
Ancora una volta, parlare con Stiles era stata la cosa più giusta che potessi fare, perché mi resi conto subito – non appena ebbi finito di confidarmi con lui – della sensazione di tranquillità che mi pervase. Senza che nemmeno riuscissi a spiegarmi come, Stiles era riuscito a rassicurarmi, e la paura che mi aveva tenuto compagnia fino a poche ore prima era praticamente sparita nel nulla.
Sorrisi, sfregando le gambe l’una contro l’altra mentre ponevo nuovamente lo sguardo sulla tv accesa. Stavano trasmettendo le prime puntate della settima stagione di How I met your mother, e sebbene né io né Stiles seguissimo costantemente la trasmissione, avevamo deciso di restare lì in salotto a guardarla, quella domenica sera, visto che nessuno dei due, dopo la festa ‘‘distruttiva’’ del venerdì, aveva intenzione di uscire a fare baldoria o cose simili.
Più che altro stavamo aspettando che Stephen tornasse a casa dopo il suo turno pomeridiano di ronda: quella settimana, dopo innumerevoli giorni passati a lavorare di notte, le cose gli stavano andando bene, ed era riuscito già un paio di volte a farsi sostituire dal vicesceriffo per stare a casa con me e Stiles un po’ di più. Quella domenica sera, per fortuna, non avrebbe fatto eccezione. Stephen non avrebbe lavorato e avremmo avuto la possibilità di passare dell’altro tempo insieme.
Ad ogni modo, tutti i miei pensieri vennero immediatamente spazzati via da un rumore di passi appena udibile che mi riempì le orecchie, facendomi aprire nell’ennesimo sorriso della serata. Quando vivi a lungo con determinate persone, pian piano impari a riconoscere tutto di loro, persino il rumore dei loro passi o quello del motore delle loro auto. Infatti, semplicemente udendo quelli, capii subito che dietro la porta di casa – intento ad aprirla, da come mi fece capire il rumore di chiavi che girano nella toppa – ci fosse nient’altro che lo sceriffo Stilinski.
«Sono a casa, ragazzi!», si annunciò subito, non appena entrato.
Né io né Stiles riuscimmo a rispondergli nulla, perché Stephen prese a muoversi nella casa finché non arrivò in salotto, dove ci vide sul divano a guardare la tv. Io ero completamente sdraiata, mentre Stiles se ne stava seduto con le mie gambe sulle sue. Era una posizione dannatamente comoda, quella, infatti non mi ero mossa di un millimetro per moltissimo tempo, e soprattutto non ne avevo ancora alcuna intenzione.
«Ah, siete qui», mormorò semplicemente non appena ci vide, lasciandosi andare ad un timido sorriso che io ricambiai subito.
Stiles si limitò a fare un cenno di saluto a suo padre, riportando poi gli occhi sulla tv accesa, cosa che feci anch’io automaticamente.
«Tanto meglio, pensavo foste usciti».
Stephen continuò a parlare, avanzando nella stanza finché non ci fu più vicino e fu più facile, per me, osservare il suo viso stanco nascosto dalla penombra. 
«Non ne avevamo voglia», spiegò Stiles per entrambi, tanto che io mi limitai semplicemente ad annuire. «Perché, comunque? È successo qualcosa, per caso?».
«In effetti sì, volevo parlarvi».
Ancora non riesco a spiegarmi come, ma fiutai subito il ‘‘pericolo’’, e proprio per ciò, decisi ben presto di scappare. Mi misi in piedi alla velocità della luce, portandomi una mano tra i lunghi capelli scuri e scompigliati nell’intento di dar loro una forma migliore.
«Ehm… possiamo parlare dopo, magari. È tardi e… ancora non ho preparato nulla per scuola. Che sbadata».
Per quanto potrebbe sembrare assurdo, stavo dicendo la verità. Dopo il sabato passato a casa e tutto ciò che era successo, quella domenica sera ancora non avevo realizzato a fondo di dover rimettere piede a scuola la mattina dopo, col risultato che tutto il materiale utile era ancora sparso nella mia cameretta e non al suo posto nella mia borsa. Mi serviva una scusa per scappare, e quale migliore di quella?
«No, Harriet, aspetta qui. È proprio di scuola che voglio parlarvi».
Non potei fare a meno di bloccarmi sulla soglia del salotto, mentre aggrottavo le sopracciglia e prendevo seriamente a chiedermi se non avessi già combinato qualcosa di male – anche – sul fattore scuola. Il tutto mi sembrava piuttosto improbabile dal momento che avevo frequentato la Beacon Hills High School per pochissimo e mi ero sempre impegnata al massimo per fare una buona impressione su tutti.
In più Stephen voleva parlare sia a me che a Stiles, quindi qualunque problema ci fosse dovevamo averlo causato insieme. E nonostante i ‘‘guai’’ combinati, proprio non riuscivo a capire in che modo qualcuno di questi potesse essere mai collegato alla scuola, al nostro rendimento o a cose simili.
«Che cosa sta succedendo?», mi decisi a chiedere alla fine, ritornando indietro e prendendo nuovamente posto di fianco a Stiles, confuso da tutta quella situazione almeno quanto me.
«D’accordo. È inutile girarci intorno più di tanto e far finta di niente. Andrò subito al punto», mormorò Stephen, sedendosi su una poltrona abbastanza vicina al divano che occupavamo io e Stiles.
Entrambi rimanemmo ad ascoltarlo in silenzio, mentre lo sceriffo di Beacon Hills si metteva seduto comodo e prendeva a passarsi una mano sul viso. Aveva un’aria davvero stanca, com’era normale che fosse dopo un’altra giornata lavorativa.
«Sapete del caso Laura Hale. La ragazza aveva poco più della vostra età e… vi ho trovati a curiosare sulla scena del crimine, quindi evitate di negare il tutto».
Non che ne avessi intenzione, mi ritrovai a pensare. Eppure non lo dissi, continuando a prestare tutta la mia attenzione al signor Stilinski.
«Ci sono stati degli sviluppi nelle indagini. Abbiamo interrogato persone che avrebbero potuto essere coinvolte, come suo fratello Derek…».
Io e Stiles sapevamo anche questo: Stephen non ne era al corrente, però.
«Ma il problema è che Laura non è morta per causa di una persona. L’autopsia ci ha aiutati a riscontrare sul suo corpo evidenti segni di attacco animale. Il medico legale presume che possa trattarsi di un coyote o di una lince».
«Il punto, comunque, non è questo. Vero, papà?», si decise a domandare Stiles, non appena Stephen si chiuse nell’ennesimo silenzio.
«No, hai ragione. Il caso Laura Hale non è stato un avvenimento isolato, purtroppo. Non ci sono stati altri morti, questo è vero… ma ad ogni modo, gli attacchi animali stanno continuando. Ne stiamo registrando moltissimi: più di sempre». 
«D’accordo, ma…», incominciai a dire, ancora del tutto titubante riguardo a quella faccenda. «… in quale parte entriamo in gioco noi, e soprattutto la scuola?».
«L’intera popolazione di Beacon Hills è in pericolo, proprio come lo era Laura Hale prima di morire. In qualità di sceriffo devo prendere provvedimenti in modo da evitare risvolti davvero poco piacevoli, ed è proprio perciò che ho deciso che non frequenterete scuola fino a data da destinarsi. Non è sicuro uscire di casa, spero capirete».
«No! Non che non capiamo! Non puoi impedirci di andare a scuola! E per cosa, poi, per segregarci qui dentro?».
La reazione di Stiles fu immediata e… esagerata? No, non riuscivo a catalogarla come tale, perché anche se me ne stavo seduta tranquilla, pensavo anch’io tutto ciò che stava dicendo. Stephen si limitò a fissare suo figlio con occhi sorpresi, mentre io seguivo ogni suo gesto, preoccupata.
«Non è di certo così che ci terrai al sicuro, non tirandoci fuori dalla società e impedendoci di vivere. Sia io che Harriet sappiamo difenderci benissimo da soli, la scuola non è affatto nelle vicinanze del bosco e soprattutto, qui in California e a Beacon Hills gli attacchi animali ci sono sempre stati e siamo sempre riusciti a gestirli pur continuando a vivere ‘‘come se niente fosse’’. Perché adesso ne stai facendo tutta questa tragedia?».
In effetti aveva ragione. Stephen – forse – ci stava presentando il tutto in modo un po’ troppo drammatico. Ma non riuscivo a dargli torto e ad andargli contro come stava facendo Stiles. Al contrario, capivo anche fin troppo bene le sue ragioni, la sua volontà di tenerci il più al riparo possibile e la sua preoccupazione. Mia madre Jenette aveva sempre fatto altrettanto, per me. Quella non era di certo una novità.
«Perché è una tragedia! Finirà per diventarlo, Stiles, se non mi dai ascolto. Io voglio solo il vostro bene, nient’altro. E se dico che dovete restare a casa, resterete a casa. È chiaro?».
Anche Stephen aveva alzato la voce, mettendosi in piedi di fronte a suo figlio ed affrontandolo nel migliore dei modi. Non appena ebbe lasciato la stanza e fui di nuovo sola con Stiles, non potei proprio fare a meno di restare per un po’ di tempo in silenzio. Avevo intenzione di riflettere bene su tutta quella situazione, e non c’era modo migliore di farlo che non fosse allontanare tutti gli altri pensieri dalla mente.
Quando finalmente riuscii ad avere un quadro un po’ più completo del tutto, alzai lo sguardo su Stiles, e mi stupii di trovarlo ancora lì in piedi dove sia io che Stephen l’avevamo lasciato. Si capiva dai suoi occhi che fosse, anche lui, pieno di pensieri, ed io davvero non riuscii ad impedirmi di farmi subito vicina a lui per provare a rassicurarlo almeno un po’.
«Ehi», mormorai, accarezzandogli piano un braccio mentre avanzavo ulteriormente nella sua direzione. «Tuo padre ha ragione, e lo sai pure tu. Vuole il meglio, per noi, e vuole che stiamo lontani da scuola per un po’. Se dice così ci tocca farlo, d’accordo? Io mi fido di lui, e dovresti anche tu».
«Ti giuro che ci provo, Harry. Ma…».
«Ssssh», lo interruppi, aprendomi in un sorriso. «Non devi darmi spiegazioni. Ti capisco. Come non potrei? Devi solo… capire tuo padre, e le ragioni che lo spingono a comportarsi in un determinato modo. Questa situazione non durerà a lungo, e prima o poi ritorneremo a scuola. Nel frattempo, però… perché non approfittiamo di questa pausa?».
A quel punto, Stiles non poté far altro che ricambiare il mio sorriso.









A
n e w b e g i n n i n g:
Ebbene sì,
parachute è ritornata. La pausa natalizia è ufficialmente finita e... d'ora in poi vedrò di ripubblicare più o meno regolarmente proprio come ho sempre fatto. Giusto per la cronaca: il prossimo capitolo arriverà presto, dal momento che ce l'ho già pronto (devo solo revisionarlo per bene). 
In realtà, questo nono capitolo era stato concepito per essere il doppio di ciò che ho pubblicato oggi, ma dal momento che non voglio annoiare nessuno mi sono vista costretta a dividerlo in due parti. Ed ecco a voi la prima!
Harriet continua a sognare: cerca di tenersi tutto per sé ma non ce la fa. Sbotta e si confida con Stiles, che è sempre lì pronto a darle una mano in qualche modo. Non era previsto che usassi la citazione di papà Stilinski nella 2S di TW, ma me la sono ritrovata di fronte un giorno e l'ho trovata azzeccatissima. Dunque ecco qua, spero apprezzerete.
In questo capitolo ho dato anche spazio a Stephen. In origine volevo tagliare la sua scena, ma poi mi sono detta che non fosse giusto nei suoi confronti: anche lui merita di essere presente e di partecipare. Ed ecco qua: a causa dei numerosi attacchi animali, Stephen tiene lontani Harriet e Stiles dalla scuola. Stiles non accetta questa scioccante novità, e prova a ribellarsi, ma alla fine (grazie ad Harriet) capisce di essere in torto e "si rassegna". So che potrebbe sembrare un po' irrealistico che un adolescente si lamenti perché non può andare a scuola... ma ho provato a vedere la cosa dal punto di vista di Stiles, e spero di non aver preso una cantonata assurda :)
Per questo capitolo/introduzione, direi che è tutto. Non ho idea di quando arriverà il prossimo (presto) e nel frattempo mi dileguo, rinnovandovi i miei più sentiti ringraziamenti, davvero per tutto. Nella "seconda parte" ritorneranno due uomini misteriosi 
, vedremo due personaggi legare sempre di più e ci sarà anche una discussione. Di chi si tratta, secondo voi? Mi piacerebbe ascoltare i vostri pareri! Alla prossima!
 

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Capitolo 10
*** Mai fidarsi di nessuno. ***


Previously on parachute:
«Perché non mi offri da bere?».
«Solo se mi dici come ti chiami».
«Sono Harriet».     
«Che ragazzaccio, non mi sono ancora presentato. Sono Victor Daehler: il padrone di casa».
Una ragazza responsabile avrebbe sicuramente prestato più attenzione al suo cognome.
«Farai meglio a chiamarmi, in questi giorni, Harriet. Perché se non mi cercherai tu, verrò io a trovarti. Essere ignorato dalle ragazze carine non fa per me».

 

 
 


 
10.  Mai fidarsi di nessuno.

 
Alla fine, era bastato che parlassi con Stiles per convincerlo a seguire i consigli – o meglio dire ordini? – di suo padre, ed acconsentire a restare a casa almeno per un po’ di tempo. All’inizio l’aveva fatto con riluttanza, certo, ma comunque non si era più ribellato e proprio da come gli avevo proposto io, era anche riuscito a godersi quell’inaspettata pausa da scuola al meglio.
Non che fosse poi molto piacevole restare segregati in casa, ma comunque le visite frequenti di Scott riuscivano a farci pesare di meno il tutto. Eravamo riusciti a passare delle serate divertenti, tutti insieme a casa Stilinski, e come se non bastasse non c’eravamo persi poi molto del programma scolastico dal momento che Allison e Lydia si erano preoccupate di passarci i compiti più o meno tutti i giorni.
Tutti erano al corrente del motivo che spingesse me e Stiles a saltare scuola, ma nessuno si era preoccupato per la situazione quanto noi. I nostri amici avevano continuato a frequentare il liceo normalmente, e non sapevo se ciò fosse un bene o un male. In ogni caso, dal momento che non era successo loro nulla di negativo, forse era meglio non pensarci.
Avevamo trascorso meno di sette giorni, a casa, eppure ci eravamo ormai abituati già così tanto a quel nuovo ‘‘stile di vita’’, che quando il giovedì dopo Stephen ci annunciò che venerdì avremmo rimesso piede a scuola – solo perché accompagnati – per me fu come la distruzione di un bel sogno, e per Stiles altrettanto, dal momento che l’avevo visto trattenere a malapena uno sbuffo infastidito.
Repressi un sorriso, nel ripensarci, continuando a camminare a passo lento verso la classe di biologia. Dire che amassi tutte le materie scientifiche era dire poco. Certo, preferivo la chimica alla biologia, ma comunque aver saputo di dover riprendere scuola con quella classe mi aveva resa felicissima. Io e Stiles, stranamente, eravamo riusciti ad arrivare in anticipo, quel giorno, tanto che la prima campanella era suonata da poco quando io già mi stavo dirigendo in classe.
Non avevo idea di dove fosse Allison, e seppur dovessi fare biologia con lei, non riuscivo a preoccuparmi di cercarla. Scott e Stiles erano a fare lacrosse insieme a Jackson: il giorno dopo avrebbero avuto la loro prima partita dell’anno, ed è inutile dire quanto Scott fosse nervoso al riguardo. Non sapevo nemmeno dove fosse Lydia. Ero, perciò, completamente sola. E non che fosse una novità.
Sospirai debolmente mentre componevo la combinazione del mio armadietto. Subito dopo il suono della prima campanella, il corridoio principale della Beacon Hills High School si era svuotato, riempito solo da un silenzio innaturale e soprattutto agghiacciante. Mi guardai intorno sospettosa. C’era qualcosa lì, o meglio dire qualcuno?
«Sempre la solita paranoica. Vai così, Harry», sussurrai, parlando da sola come mio solito, afferrando il testo di biologia prima di chiudere l’armadietto con un tonfo.
Ne approfittai ancora una volta per dare un’occhiata in giro, limitandomi a scuotere la testa rassegnata quando capii di essere completamente sola. Non c’era nessuno lì con me: quelle che avevo addosso erano solo brutte sensazioni. Come tanti piccoli diavoletti sempre lì pronti a spaventarmi.
Ripresi a camminare verso la classe di biologia, purtroppo ancora per nulla tranquilla. Certo, avrei potuto cercare di chiamare qualcuno e chiedere aiuto, ma in un certo senso sapevo che nessuno sarebbe venuto a ‘‘salvarmi’’. Ne ero certa. Perciò mi limitai ad avanzare velocemente verso la classe, stringendo tra le mani il libro di biologia.
Improvvisamente, il suono assordante della seconda campanella del giorno – quella che annunciava l’inizio delle lezioni – ruppe il silenzio, facendomi sobbalzare esageratamente a causa dello spavento. Nell’esatto momento in cui mi ritrovai di fronte alla classe di biologia, la Beacon Hills High School si riempì nuovamente di gente, e non mi sentii più sola. Ma…
«Oh mio Dio, scusami! Non guardo mai dove vado. Mi dispiac... tu!».
Cosa diavolo ci faceva Derek Hale nella mia scuola!?
«Buongiorno, Harriet. Tu e Stiles vi siete degnati di ritornare a scuola. Che piacere», mormorò semplicemente in risposta, rivolgendomi un sorriso sarcastico.
Quel gesto mi lasciò stordita per un attimo. Derek Hale sapeva davvero sorridere? Continuai a domandarmelo ancora per un po’ di tempo, limitandomi a fissarlo con le sopracciglia aggrottate.
«Cosa ci fai qui?», gli chiesi alla fine, guardandomi intorno, preoccupata.
Non volevo che qualcuno ci vedesse parlare, dal momento che era stato uno degli indagati principali nel caso Laura Hale e soprattutto non avrebbe dovuto per nessun motivo al mondo trovarsi in quel liceo. Fortunatamente, comunque, la grande folla di studenti permetteva che passassimo del tutto inosservati. Chiunque lì pensava solo a se stesso. Io e Derek non facevamo testo.
«Lo so che stai pensando di essere invisibile. E un po’ lo sei, sì», mi fece notare, poco prima che decidessi di voltarmi a guardarlo in modo truce.
«Non te la prendere, è semplicemente la verità».
«Ti ho chiesto perché sei qui», sospirai, indietreggiando un po’. «Ed esigo una risposta».
Derek alzò le spalle, non accennando minimamente a spostarsi dall’ingresso della classe di biologia. Anche se avessi voluto introfularmi dentro ed evitarlo, non avrei mai potuto. Aggirare la sua imponente figura era praticamente impossibile. Fortuna che le lezioni non iniziassero mai in orario nemmeno lì.
«Sono qui per… Scott», sussurrò.
Improvvisamente si preoccupava di essere discreto?
«Devo tenerlo d’occhio».
«E perché mai dovresti tenerlo d’occhio? E poi… tu? Come lo conosci?», domandai, sempre più confusa ogni minuto che passava.
«Anzi no, sai che ti dico? Non lo voglio sapere, non mi interessa. Devi lasciarmi in pace, credevo di essere stata chiara».
E detto questo feci per sorpassarlo ed entrare in classe una volta per tutte, ma proprio come da previsione non ci riuscii, rimanendo bloccata dal braccio che prontamente Derek pose come ostacolo. Sbuffai infastidita.
«Se non mi lasci entrare subito in classe, mi metto ad urlare».
Decisi di minacciarlo, stupidamente convinta del fatto che un ricatto debole come quello sarebbe bastato a spaventarlo tanto da fargli decidere di lasciarmi in pace una volta per tutte. Ovviamente mi sbagliavo, e la debole risata di Derek me lo confermò.
«Non lo faresti mai. Non ti piace essere al centro dell’attenzione».
Non avrei mai capito come diavolo facesse, ma mi conosceva più di chiunque altro. Era come se riuscisse a leggere la mia mente e i miei pensieri. Sapeva cos’avevo in testa in ogni momento, e riusciva a prevedere tutti i miei movimenti. In più, riusciva a dire con un margine altissimo di precisione ciò che avrei fatto in moltissime situazioni. Come avrei reagito a quello o come mi sarei comportata con questo. Ed è inutile dire quanto tutto ciò mi spaventasse. Era proprio per quello che volevo che Derek mi stesse lontano. Lo temevo: il suo conoscermi così bene mi spaventava, mi sentivo… debole. Non era umano, ne ero certa.
«Non sfidarmi», ordinai, con voce flebile, stringendo i pugni lungo i fianchi ed avanzando ulteriormente nella sua direzione.
Magari, se mi fossi mostrata priva di paura, sarei risultata più convincente.
«Non ce n’è bisogno», mi spiegò subito Hale, alzando un sopracciglio. «Adesso me ne vado. La tua amichetta ti sta aspettando e non voglio disturbarvi oltre».
Mi girai fulminea alle mie spalle, cercando con lo sguardo ancora nemmeno sapevo io chi. Quando i miei occhi scuri incontrarono quelli di Allison, rimasi per un attimo immobilizzata a fissarla. Oh, no. Non avrebbe dovuto vedermi parlare con Derek. Non lei.
Mi sforzai di farle un sorriso e di agitare la mano nella sua direzione, tentando in ogni modo di nascondere il tremolio che mi aveva colta improvvisamente. Poi mi voltai immediatamente nella direzione di Derek.
«Sparisci. Subito», sibilai, infuriata a dir poco.
«Ai suoi ordini, signorina», esalò lui semplicemente, allontanandosi finalmente dalla porta della classe per avvicinarsi a me e andar via una volta per tutte.
Prima che potesse sparire, tuttavia, mi si avvicinò finché le sue labbra non furono vicine al mio orecchio, e ne approfittò per sussurrarmi: «Lo sai benissimo perché devo tenere d’occhio Scott. È pericoloso. E dovresti davvero stargli lontana».
Quando finalmente mi lasciò ‘‘libera’’, tirai un sospiro di sollievo, voltandomi a guardarlo sparire inosservato in mezzo alla folla di studenti ancora per nulla intenzionati ad entrare nelle loro classi. Allison mi raggiunse subito, salutandomi come se niente fosse, ed io la ricambiai senza degnarla di uno sguardo, ancora troppo impegnata a fissare Derek.
Quasi come se fosse in grado di avvertire i miei occhi puntati sulla sua ampia schiena, si voltò a cercare il mio sguardo un’ultima volta – prima di sparire – e quando i nostri occhi si incontrarono ancora, io che non aspettavo altro, sussurrai: «Non ti credo».
Sapevo benissimo che mi avrebbe sentita comunque.
 
«Scott mi ha chiesto scusa».
Cercai immediatamente il volto di Allison, trovandola intenta a fissarmi con un sorriso adorabile che proprio non era in grado di trattenere. La ricambiai subito, spingendola scherzosamente mentre camminavamo l’una al fianco dell’altra per i corridoi affollati come al solito della Beacon Hills High School.
La festa del venerdì precedente non era andata male solo a me: avevo avuto modo di capirlo quando Allison mi aveva chiamata, quel weekend stesso, per raccontarmi di Scott che l’aveva abbandonata improvvisamente lì da sola, tanto che alla fine la Argent era stata ‘‘costretta’’ a tornare a casa con Derek.
Sapevo benissimo cosa avesse spinto Scott a lasciare Allison, ma non potevo di certo dirglielo. Proprio per ciò mi ero limitata a rassicurarla con parole di conforto, dicendole che sicuramente McCall le avrebbe chiesto scusa e i due avrebbero chiarito in un batter d’occhio. Così era stato, evidentemente.
«Dici davvero?», le domandai allora, piuttosto retoricamente, dal momento che la risposta che Allison avrebbe dato era più che scontata.
«Sì!», trillò infatti, saltellando appena sul posto mentre io scoppiavo a ridere piano.
«Hai intenzione di dargli una seconda possibilità?».
«Sì!».
«È grandioso. Sono felicissima per voi».
E lo ero sul serio.
«Lo sono anch’io. Ma… oh Dio, scusami. A te come vanno le cose? Tutto bene? Sembra un’eternità che non abbiamo una conversazione vera e propria!».
Era vero. Durante il periodo che avevo trascorso lontana da scuola, ci eravamo sentite solo per telefono, e non avevamo avuto la possibilità di parlare per bene ed aggiornarci. Presi un grosso respiro prima di risponderle, pensando bene a cosa le avrei detto. Come mi andavano le cose? Stavo bene?
«A dir la verità non va tutto a meraviglia».
«No?», mi chiese subito Allison, arrestando la sua camminata per cercare i miei occhi scuri. «Che succede, Harry?».
Sospirai ancora una volta, avvicinandomi al mio armadietto e aprendolo lentamente. La Argent si fermò al mio fianco, pronta ad ascoltarmi – proprio come la brava amica che si era sempre dimostrata – con le braccia incrociate al petto e un’aria leggermente corrucciata.
«Hai presente il ragazzo che mi ha parlato prima di biologia, impedendomi di entrare in classe in anticipo? È pericoloso. E non riesco a fare in modo che stia lontano da me», mormorai, parlando a voce sempre più bassa e guardandomi in giro in modo frenetico.
Avevo paura che Derek fosse ancora lì a scuola – cosa della quale ero quasi certa – e potesse sentirmi dire determinate cose sul suo conto. Non sapevo esattamente perché, eppure ero sicura del fatto che fosse pericoloso, seppur fino a quel momento non mi avesse fatto niente per meritarsi un riconoscimento simile.
«Intendi Derek Hale? Derek? Lo stesso Derek che venerdì sera mi ha accompagnata a casa dopo la festa?».
Se io volevo essere discreta e ‘‘cercare di limitare i danni’’, Allison al contrario non s’era per nulla trattenuta, ponendomi tutte le sue domande con voce ogni minuto che passava più squillante e fastidiosa. Posai il libro di biologia nell’armadietto, rinchiudendolo con un tonfo e limitandomi a fissare la Argent in modo truce mentre le afferravo un braccio.
«Sì, Allison, sì! Intendo proprio quel Derek. Adesso piantala di urlare!», la ammonii, alzando però la voce a mia volta.
Riprendemmo a camminare ancora una volta per i corridoi della scuola, e vidi Allison rivolgermi uno sguardo di sincere scuse. La tranquillizzai sorridendole debolmente.
«Hai ragione, hai ragione. Perdonami», disse anche, improvvisamente preoccupata per il suo pericoloso comportamento. «Dov’è Derek ora? Cosa vuole da te? E perché dici che è pericoloso?».
Sospirai, alzando gli occhi al cielo mentre tiravo verso il basso il dolcevita nero che indossavo.
«Non lo so. Non so cosa voglia da me, né perché è pericoloso. Sento che è così e basta. Merda, non so cosa fare».
«Perché non ne parli con Stiles?».
Per quanto potesse essere una cosa sbagliata, dovevo ammettere – ahimè – di aver già preso in seria considerazione l’idea. Per fortuna, però, alla fine avevo riacquistato un po’ di buon senso, ed ero riuscita a capire che non fosse affatto giusto riempire Stiles di tutti i miei problemi. Ne aveva già abbastanza per conto suo: non ci volevo anch’io.
«No, ha già troppi problemi…», spiegai infatti ad Allison, mordendomi il labbro inferiore. «E poi… non è per cattiveria: Stiles è un bravissimo ragazzo e ci tengo a lui. Ma… non credo che potrebbe mai essermi utile, con Derek».
«Se non può aiutarti lui, allora chi?», domandò la Argent, aggrottando le sopracciglia.
E fu proprio ciò a far balenare un’idea nella mia mente. Mi aprii immediatamente in un enorme sorriso, battendo le mani freneticamente. Perché non ci avevo pensato prima?
«Stephen!», esclamai entusiasta, voltandomi a guardare la mia amica con gli occhi sgranati. «È lo sceriffo, d’altronde! Grazie, Allison!».
Abbracciai la Argent velocemente, dileguandomi in un batter d’occhio alla ricerca del signor Stilinski. Dovevo parlare col mio papà. Era l’unica cosa giusta da fare.
 
«Coprifuoco alle ventuno e trenta… è assurdo! E quando aveva intenzione di dircelo?».
Continuai ad ascoltare le solite lamentele di Stiles mentre aprivo la porta di casa ed entravo dentro, seguita subito da lui. Un’altra giornata di scuola era finita, e nonostante il fatto che Stephen si trovasse proprio lì alla Beacon Hills High School – per discutere col nostro preside dell’iniziativa ‘‘coprifuoco’’ – non mi era stata concessa la possibilità di parlargli in privato del mio problema con Derek.
«Tanto valeva che ci tenesse ancora qui in casa, segregati! Incredibile davvero», continuò a dire Stiles, alzando le mani al cielo mentre entrambi ci dirigevamo verso le nostre camere.
«Cosa ti ho detto, domenica scorsa, riguardo al fidarti di tuo padre? Dai, stai tranquillo. Si risolverà tutt…».
Non riuscii a finire la mia frase, perché nel momento stesso in cui misi piede nella mia cameretta, capii subito che ci fosse qualcosa che non andava. Ancora non riesco a spiegarmi come, eppure sapevo che fosse così. Era successo qualcosa, lì dentro, mentre io ero a scuola. Anche se apparentemente non c’era nulla fuori posto, ero convinta del fatto che fosse così.
«Che succede? Perché ti sei zittita di colpo?», mi chiese subito Stiles, raggiungendomi sulla soglia della mia cameretta e guardando all’interno, curioso come al solito.
Quando si rese conto che non ci fosse nulla di evidentemente sbagliato, ripose lo sguardo sul mio viso, osservando critico il mio sguardo sospettoso ancora fisso sull’interno della stanza.
«Credo che qualcuno sia stato qui dentro, mentre non c’eravamo», spiegai, anche se – realizzai dopo – avrei fatto meglio a tenermi quell’atroce dubbio per me.
Entrai nella mia camera, seguita da Stiles, ancora molto confuso.
«Qualcuno è stato in casa nostra? E chi?».
Mi chiesi per chi mi avesse presa, esattamente. Non mi era ancora stata donata l’onniscienza, anche se lui sembrava proprio credere il contrario. Tuttavia, mi tenni tutta quella acidità per me, continuando a muovermi nella stanza alla ricerca di un qualsiasi dettaglio fuori posto. Perché sapevo che ne avrei trovato uno.
E tutte le mie convinzioni vennero confermate non appena si presentò ai miei occhi un post-it giallo fluorescente, lasciato come se niente fosse in cima alla pila di libri che riempivano la mia scrivania in legno chiaro. Sarebbe potuto benissimo passare per mio, potrebbe essere stato un appunto scritto da me sulla scuola o cose simili. Il problema era che non l’avevo scritto io: non usavo post-it.
«Credo che lo scopriremo presto», mormorai, avvicinandomi cauta al post-it fluorescente e prendendolo tra le mani.
Ti ho sentita parlare con Allison, recitava, e a me bastarono quelle semplici sei parole per capire chi fosse l’artefice di quello scherzo di cattivo gusto.
Presi a muovermi agitata sul posto, alla ricerca di un altro post-it che sapevo avrei trovato. Derek stava cercando di dirmi qualcosa e non poteva limitarsi a farmi presente di aver ascoltato la conversazione che avevo avuto a scuola con la Argent. C’era molto di più sotto, ne ero convinta, e lui stava semplicemente provando l’ennesimo approccio nei miei confronti. Non lo sapeva che avrebbe fallito miseramente anche quella volta.
Stiles di tutta risposta aveva iniziato a riempirmi di domande di ogni tipo. Io mi limitai ad ignorarlo, mentre lo guardavo seguirmi in lungo e in largo nella cameretta con la coda dell’occhio. Si stava, ancora una volta, preoccupando per me, e proprio non potei fare a meno di sentirmi in colpa. Avrei dovuto davvero parlargli di Derek: dirgli che mi avesse accompagnata a casa il venerdì sera precedente e che, per qualche strana ragione, mi stesse sempre in mezzo ai piedi – pronto a terrorizzarmi. Peccato che me ne resi conto solo in quel momento.
Non sono così pericoloso come dici in giro, te lo assicuro... ma posso diventarlo. 
«Harry, rispondimi, Dio santo! Chi ha scritto questi bigliettini? E non provare a dirmi che non lo sai!».
La voce di Stiles riuscì a riportarmi alla realtà, e lasciai cadere il secondo post-it che avevo trovato incastrato in una cornice piena di mie vecchie foto, sul pavimento, abbandonando le braccia lungo i fianchi e sospirando debolmente. Era arrivata l’ora: dovevo dirglielo. Lui meritava di sapere.
Mi sedetti sul letto, passandomi una mano tra i capelli prima di dire: «È stato Derek. Venerdì sera, dopo la festa, mi ha accompagnata lui a casa. Mi dispiace non avertelo detto, l’ho fatto solo perché non volevo che ti preoccupassi. Non credevo ce ne fosse bisogno, ma… evidentemente mi sbagliavo».
«Oh mio Dio, ti prego! Dimmi che scherzi! Come ti è saltato in mente di tenermi nascosta una cosa tanto pericolosa? Ti stai avvicinando al Diavolo in carne ed ossa!», scattò subito Stiles, incredulo e più che agitato.
Io di tutta risposta me ne rimasi semplicemente ferma, completamente presa nell’osservare i gesti frenetici di Stiles, tutti dettati dalla rabbia improvvisa che l’aveva colto. E che avevo causato io. Come al solito.
«Te l’ho già detto: non credevo potesse essere pericoloso», mi giustificai, dapprima tranquilla. «E non ti ho nascosto proprio nulla: semplicemente ho evitato di correre da te come una cuccioletta indifesa e impaurita per l’ennesima volta. Non voglio caricarti di tutti i miei problemi! E poi sinceramente non vedo nemmeno come potresti aiutarmi».
Mi ero agitata anch’io, sì. Mi stavo arrabbiando e… sembrava proprio impossibile che io e Stiles riuscissimo a tenere una conversazione civile con toni moderati.
«Questo lo dici tu! Dio… certe volte sei così infantile che quasi non ci credo. E comunque, i tuoi problemi sono anche i miei, Harriet. Dal momento che viviamo insieme».
Quella frase, inspiegabilmente, riuscì a donarmi nuova calma. Improvvisamente abbandonai ‘‘la posizione d’attacco’’ e tornai di nuovo rilassata, limitandomi a sospirare pesantemente prima di riprendere a parlare. Non volevo litigare in quel modo con Stiles, non dal momento che lui faceva – come al solito – di tutto per aiutarmi.
Il punto, tuttavia, era che non potevo accettare il suo aiuto.
«Ascolta, non mi va di litigare. Possiamo… semplicemente lasciar cadere il discorso?», proposi, speranzosa di far finire l’episodio nel dimenticatoio.
Sapevo che non sarebbe successo mai, ma… la speranza è l’ultima a morire, no?
«Devo andare: Allison mi aspetta».
«Ti accompagno», mormorò semplicemente Stiles, proprio come se nulla fosse successo.
«Preferirei di no».
Alzò gli occhi al cielo.
«Papà mi ucciderebbe se sapesse che ti lascio uscire da sola».
Mi risparmiai l’ennesima frase acida, qualcosa di molte simile a: ‘‘Per me va bene’’, limitandomi a mettermi in piedi e recuperare il borsone con il cambio di vestiti già pronti. La Argent mi aveva invitato a dormire a casa sua, ed io avevo accettato volentieri. Sembrava proprio capitare a pennello, quell’invito: dopo la brutta discussione avuta con Stiles, non vedevo l’ora di cambiare un po’ aria.
Me ne rimasi zitta perché non volevo peggiorare ulteriormente la situazione, e anche perché sapevo che se avessi dato sfogo alla mia rabbia e a quella frase cattivissima partorita dalla mia mente stanca, me ne sarei pentita dopo due secondi. Non volevo ferire Stiles: non era proprio nella mia natura, né mai lo sarebbe stato.
«D’accordo, andiamo», mormorai, triste, afferrando la giacca e muovendomi di nuovo verso l’esterno di casa Stilinski.
Stiles mi seguì subito, in religioso silenzio. Mentre uscivamo fuori dalla mia stanza, mi persi la vista di un ultimo post-it giallo fluorescente, abbandonato sotto il mio armadio. Quattro inqueietanti parole se ne stavano scritte lassù in quella che quasi sicuramente era la calligrafia di Derek: L’hai voluto tu.
Ed era proprio così.
 
If this
is a
nightmare, then
wake me up
 
Stiles era andato via prima che Allison potesse vederlo, perciò per un po’ di tempo me ne rimasi immobile a fissare lo sguardo curioso della Argent, accorsa ad aprirmi la porta di casa e vogliosa di sapere come avessi fatto a giungere fin lì.
«Mi ha accompagnata Stiles», le spiegai, prima che potesse chiedermelo. «E tra l’altro, abbiamo discusso. Quindi preferirei evitare l’argomento».
Sul viso di Allison si dipinse un’espressione confusa, e si affrettò ben presto a farmi entrare in casa sua. Avanzando cautamente nell’elegante salotto nelle vicinanze della cucina, mi resi subito conto di essere finita in una casa meravigliosa a dir poco.
«Complimenti, Allison, questa casa è bellissima», mormorai infatti, muovendomi un po’ di più in direzione dell’enorme vetrata portante su un balconcino niente male.
Grazie a quella, la casa era piena di luce, ed era una cosa che adoravo.
«Ti ringrazio», rispose la Argent timidamente, riservandomi un sorriso. «Ti va se andiamo in cameretta a posare il tuo borsone e a recuperare un po’ di libri? Poi andiamo di sopra: ti presento mio padre».
Impallidii al pensiero di conoscere ancora nuova gente, e la solita sensazione di inadeguatezza ritornò a farmi compagnia. Non avevo idea di che tipo potesse essere il signor Argent, e solo in quel momento mi resi conto di aver accettato di stare lì in casa loro senza chiedermi se i genitori di Allison potessero essere d’accordo o meno.
«I tuoi lo sanno che dormirò qui, vero? Non disturbo mica?», domandai velocemente, voltandomi a cercare con lo sguardo la figura di Allison che si muoveva verso un corridoio piuttosto buio e pieno di porte.
Giunta di fronte alla seconda sulla destra, si voltò a cercare il mio sguardo, scuotendo lievemente la testa.
«Certo che no, sciocchina», mi rassicurò, sorridendo radiosa come al solito. «I miei sono stati felicissimi di sapere che ho già legato con qualcuno così tanto da invitarlo qui. Temevano che non mi sarei mai abituata a questa nuova città. In fondo… è così diversa da San Francisco!».
Sospirai, seguendo Allison nella stanza e ritrovandomi dentro una cameretta piuttosto piccola, ma completa di tutto e accogliente. Sorrisi nel notare l’esorbitante numero di peluches disseminati in ogni dove, e posai il borsone coi vestiti dove mi indicò la Argent.
«Ti capisco benissimo. Anche Austin è completamente diversa da Beacon Hills», sussurrai, appoggiandomi lievemente alla scrivania di legno bianco vicina ad una delle pareti.
Allison annuì, avvicinandosi al letto a baldacchino per recuperare alcuni libri, ed io mi preoccupai di prendere anche i miei. Ci aspettava un intenso pomeriggio di studi, in preparazione per il seguente giorno di scuola. Com’era che diceva il detto? Prima il dovere e poi il piacere.
«Eppure mi sono sempre trovata piuttosto bene, qui. E sono davvero contenta che sia altrettanto anche per te», continuai a dire, sorridendo alla Argent e avvicinandomi a lei.
«Mi trovo bene qui anche grazie a te», mi ringraziò lei, accarezzandomi un braccio.
Non potei fare a meno di sorriderle, davvero felice di aver trovato così presto qualcuno che mi capisse così tanto come Allison.
«Ed io mi trovo bene qui grazie a te, quindi siamo pari», aggiunsi, seguendola verso il secondo piano della sua meravigliosa casa.
«E ti trovi bene anche grazie a Stiles».
Aggrottai immediatamente le sopracciglia, stringendo i libri al petto in una sorta di ‘‘mossa difensiva’’. Perché Allison sembrava così tanto intenzionata a tirare fuori il discorso Stiles, anche se le avevo chiesto di non farlo? Davvero quello non era il momento più adatto per parlare del mio fratellastro: non dopo che avevamo discusso ancora e soprattutto non per fare quella che mi era sembrata una vera e propria allusione.
«Vogliamo parlare di ciò che è Scott per te, allora?», mormorai, dicendo praticamente la prima cosa che mi era venuta in mente, dato che la precedente affermazione di Allison mi aveva scombussolata a dir poco.
Dopo quella domanda improvvisa, osservai la Argent impallidire e bloccarmi sulle scale che portavano al secondo piano con un’espressione a dir poco terrorizzata in viso. Gioii internamente, comprendendo ben presto cos’avrei dovuto fare per far sì che non mi chiedesse di Stiles, e cioè tirare in ballo Scott – che, chissà perché, era un tasto dolente per lei come Stilinski junior lo era per me.
«Non… non nominare Scott di fronte a mio padre, okay?», mi chiese la Argent, trattenendomi per un braccio e usando un tono di voce a dir poco implorante. «È un tipo un po’… geloso. Ne parliamo dopo. Anche di Stiles».    
Certo. Contaci.
 
Ogni volta che avevo pensato o parlato dell’imminente prima partita di lacrosse che si sarebbe tenuta quel sabato sera alla Beacon Hills High School, proprio non avrei mai potuto immaginare come poi avrei passato la gran parte del mio tempo. Ma forse è meglio andare per ordine.
Dopo aver passato dei fantastici momenti con Allison, il venerdì sera precedente, sabato ci eravamo dirette a scuola insieme, per trovarci poi Stiles e Scott assenti senza un motivo preciso. Ovviamente avevo reagito alla notizia come se nulla fosse, fingendo di non essere preoccupata dalla loro sparizione e limitandomi a scrivere dei messaggi a Stiles dove lo pregavo di avvertirmi su dove fosse.
Non volevo preoccuparmi per lui né pensarci, dopo il nostro ennesimo ‘‘litigio’’, e seppur quello potesse essere un comportamento infantile e stupido, proprio non riuscivo ad impedirmi di fare così. Tenere il pensiero di Stiles lontano dalla mia mente era di gran lunga più facile di anche solo considerare l’idea di affrontare la situazione nella quale ci ritrovavamo.
Sapevo benissimo che avrei continuato ad ignorare il tutto per ancora molto, se non fosse stato che proprio Stiles mi chiamò, quel sabato pomeriggio immediatamente dopo scuola, chiedendomi preoccupato se stessi bene e con chi fossi. Io non avevo potuto far altro che aggrottare le sopracciglia: lui che si preoccupava per me, quando invece avrebbe dovuto essere tutto il contrario?
Tutta la situazione aveva poi trovato spiegazione non appena Stiles mi era venuto a prendere a casa di Allison, spiegandomi cosa avessero fatto lui e Scott la sera prima e di come proprio McCall l’avesse fatto preoccupare dato il malessere che una certa pianta della quale non ricordavo il nome gli aveva causato. Mi aveva confessato inoltre di aver saltato scuola a causa dell’arresto di Derek – notizia che mi aveva resa subdolamente felice – e in quel frangente, nonostante l’interrogatorio da papà apprensivo che mi fece proprio a causa di Hale e del nostro ‘‘legame’’, sentii che tra me e Stiles non ci sarebbero dovuti essere mai più dei segreti.
Ne ero convinta, ma sarei sul serio riuscita a tener fede a quella mia promessa? In genere, dicevo sempre A e poi facevo Z, frenata come al solito da mille pensieri stupidi che assolutamente non avrei dovuto assecondare. Sbuffai, infastidita da me stessa in primis, stringendo le dita sottili sulla tracolla della mia borsa mentre continuavo a dirigermi con passo non troppo veloce verso la scuola.
Mancava ancora un po’ di tempo all’inizio della partita di lacrosse, ma non mi sarebbe affatto dispiaciuto arrivare in anticipo: sapevo che ci avrei trovato già altra gente, e proprio non mi andava di rimanere a casa da sola a non far nulla. Stephen era ancora al lavoro e sarebbe arrivato più tardi, mentre Stiles era già alla Beacon Hills High School da un pezzo, obbligato a partecipare agli ultimi riscaldamenti prima del match seppur non fosse in prima squadra ma come al solito relegato in panchina.
Io, quindi, ero ancora una volta sola. Per quanto brutto potesse sembrare il tutto, oramai stavo imparando a farci l’abitudine, e non mi pesava più come all’inizio avere moltissimo tempo da dedicare a me stessa. Quando arrivai a scuola la prima cosa che feci fu dirigermi verso il retro, dove sapevo fosse situato il campo dove venivano disputate le partite di lacrosse e fatti i vari allenamenti. Proprio come da previsione, c’era già parecchia gente, ma non così tanta da impedirmi di individuare ben presto Scott e Stiles.
Salutai subito McCall, ma lui si perse il mio gesto a causa di Lydia che reclamò la sua attenzione con prepotenza. La guardai agguantarlo con poca grazia, e parlargli a solo pochissimi millimetri dalle labbra. Non potei far altro che alzare un sopracciglio, scettica. Aveva un’aria un tantino arrabbiata, ma ad ogni modo proprio non riuscivo a giustificare un suo comportamento del genere. Poi, il mio pensiero corse a Stiles.
Posai immediatamente gli occhi sulla sua figura e lo vidi che fissava la scena con un’espressione più che sconvolta, e di certo non in modo positivo. Avvertii distintamente un peso sullo stomaco e feci per attraversare le gradinate e raggiungerlo. Volevo parlargli e magari distrarlo, perché non si meritava di assistere a certe scene. Non meritava di essere trattato così, affatto.
Comunque, io non riuscii a far nulla per rimediare a quella situazione, perché non appena cominciai a muovermi verso il campo da lacrosse avvertii una mano stretta intorno al mio polso e non potei fare a meno di immobilizzarmi. Oh, no. Conoscevo fin troppo bene quel tocco, anche se quella era solo la seconda volta che le nostre pelli si ritrovavano a sfiorarsi – senza che io lo volessi minimamente.
Avrei voluto gridare, o comunque chiedere aiuto. E al contrario me ne rimasi zitta, instupidita come sempre dalla paura, mentre Victor Daehler mi trascinava verso il retro della scuola. Non ci provai nemmeno a fermarlo, perché sapevo che non ci sarei riuscita e forse anche perché volevo davvero dargli una possibilità. Era difficile non partire prevenuta nei suoi confronti, data la brutta impressione che mi aveva fatto fin da subito, ma dovevo perlomeno provarci. Non ero mai stata una ragazza con la puzza sotto al naso, e di certo non lo sarei diventata allora.
«Cosa ci fai qui!?», mi limitai quindi ad esclamare non appena mi lasciò libera, posizionandosi di fronte a me per non lasciarmi alcuna via d’uscita.
«Vengo a guardare una partita di lacrosse e ci trovo te. Questo è il mio giorno fortunato», mi rispose subito, sorridendo come se niente fosse e infilando entrambe le mani nelle tasche dei jeans.
«E… che ne so, salutarmi in un modo normale, proprio come farebbe chiunque, invece di portarmi qui dietro?».
Non appena finii di parlare voltai lo sguardo tutt’intorno a me, rabbrividendo non appena mi resi conto di quanto fosse isolato e buio quel posto. Se solo Victor avesse voluto… no. No, no, no, no. Non dovevo pensare sempre al peggio. Non serviva a nulla, giusto?
«Cosa hai intenzione di fare?», gli domandai tuttavia, pur sapendo che la risposta non avrebbe portato a nulla di buono.
«Ti piacerebbe saperlo…», mormorò ben presto, dondolando sul posto mentre io non facevo altro che avvertire tutta l’ansia del momento aumentare dentro di me.
«A dire il vero no», stabilii, sincera e con la voce resa il meno tremolante possibile. «Adesso devo andare: sono qui per la partita e non ci tengo a perdermela».
Feci per fare come avevo detto, ma è inutile dire come andarono davvero le cose. Victor mi permise di fare a malapena un passo prima che mi ritrovassi di nuovo stretta nella sua morsa, e priva com’ero di qualsiasi possibilità di scampo, provai improvvisamente il desiderio incessante di scoppiare a piangere. Non lo feci solo perché avevo un orgoglio da difendere, e ne approfittai per allontanarmi il più possibile da Victor. Quel ragazzo non mi piaceva affatto: la prima impressione avuta su di lui era stata come al solito quella giusta, e anche se mi ero detta – speranzosa di trovare qualcosa di buono in lui – di dovergli dare una possibilità… in quel momento capii di essermi completamente sbagliata. Non se la meritava proprio, la mia buona fede. Non si meritava nulla.
«E no!», esclamò proprio lui all’improvviso, facendomi sobbalzare. «Sei sparita, dopo della festa, quando ti ho chiesto gentilmente di cercarmi… credi che adesso ti lascerò andare, commettendo nuovamente lo stesso errore?».
Ci pensai un po’ su, cercando anche se in minima parte di giustificare lui e il suo comportamento sbagliato. Capii però ben presto che ci fosse poco da comprendere. Era pazzo e basta. Non ragionava.
«Certo che mi lascerai andare! Oh mio Dio, ma ti senti quando parli? Qual è il tuo problema?», chiesi dopo qualche attimo di silenzio, quasi al limite della sopportazione.
«Non voglio essere solo».
La risposta di Victor arrivò velocemente, e altrettanto presto i miei occhi corsero a cercare le sue iridi… tristi? Oh, no. Era tutta una tattica, ne ero certa. Puntava sulla tenerezza perché si aspettava che cedessi, cosa che in effetti stavo prendendo in considerazione di fare. Sospirai appena, combattuta e quasi pronta a dargli un’altra ed ultima possibilità, ma qualcosa nel suo sguardo – di nuovo non poi così triste – mi fece immediatamente cambiare idea.
«Devo andare», sbottai, stringendo ancora la tracolla della borsa tra le dita e provando nuovamente a scappare.
La partita di lacrosse era iniziata già da ormai un po’ di tempo, e ovviamente me la stavo perdendo. Riuscivo a sentire il frastuono proveniente dal campetto, e sapevo che sarebbe stato inutile chiedere aiuto. Non mi avrebbe sentita nessuno.
«No».
«Victor, lasciami!», strillai, nonostante tutto.
Presi a dimenarmi inutilmente, nuovamente intrappolata tra le sue braccia e senza via di scampo. Non avevo idea che potesse finire così e mi chiesi dove avessi sbagliato per poter arrivare ad una cosa del genere. Intuii presto la risposta, comunque: era ben chiara nella mia mente. Gli avevo dato corda: era stato quello il mio grande errore.
Continuai a combattere ancora, e ad urlare. Ma era tutto inutile, e proprio nel momento in cui lo compresi e decisi di ‘‘arrendermi’’, una voce fin troppo conosciuta mi riscosse immediatamente e mi voltai, più che sorpresa, a cercarne il proprietario.
«Ehi! Non l’hai sentita? Lasciala andare».
Derek Hale era lì, e non in prigione. Mi aveva salvata. E lo sguardo che gli rivolsi in quel momento, mentre Victor faceva immediatamente ciò che gli era stato ordinato, fu uno dei pochi veramente pieni di gratitudine che gli regalai mai. Traballai sulle mie stesse gambe, muovendo passi incerti nella sua direzione. Non volevo raggiungerlo ma nemmeno stare ancora vicina a Victor. Derek, inspiegabilmente, mi sorrise, allungando una mano nella mia direzione. Mi venne automatico ricambiarlo debolmente e piegare le labbra all'insù, mentre avvertivo le forze mancarmi e il buio avvolgermi. L'ultima cosa che sentii davvero prima di svenire del tutto, fu il mio corpo che rovinava a terra con un tonfo e Derek immediatamente vicino a me.









A
n e w b e g i n n i n g:
Okay, ci ho messo forse un po' troppo (?) ma sappiate che è tutta colpa del signorino Hale. Io lui e Harriet me li sogno di notte, vi rendete conto? Il che mi fa decidere puntualmente di stravolgere i capitoli e... eccoci qua. Spero possa piacervi perché io sinceramente non so cosa dire, al riguardo *////*
Nella speranza di evitare brutte figure varie, mi limiterò semplicemente a fare un po' di appunti. Nella prima scena del capitolo, quando Harriet è sola a scuola, la vediamo decidere di non chiedere aiuto perché "sa che nessuno la salverà" e poi... be', c'è proprio bisogno che vi ricordi di com'è finito il capitolo? Ora mi chiedo: credete che questo gesto, il fatto che comunque qualcuno l'abbia salvata e sia stato disposto a fare una cosa del genere per lei, farà cambiare ad Harriet il suo modo di vedere Derek? :P 
Abbiamo visto che inoltre c'è stata una (ennesima) discussione con Stiles, ma non preoccupatevi: in caso già non si fosse capito, i due hanno chiarito, e la scena di suddetto chiarimento sarà tutta vostra in un missing moment quasi finito che pubblicherò a breve. Ci tengo poi a richiamare la vostra attenzione anche sulla figura di Stephen, perché Harriet in questo capitolo l'ha definito il suo papà e non vorrei che passasse come una cosa superficiale (?). Senza fare troppi spoiler vi dirò che la Carter è praticamente vissuta senza una figura paterna e spero di aver reso chiaro fin da subito che lei veda in Stephen il papà che avrebbe voluto avere e che non le è stato concesso... ecco perché "si comporta in un certo modo" :)
A questo punto direi che non ho niente da dire: non ho idea di quando potrò aggiornare nuovamente (il missing moment ve lo farò avere presto, promesso) perché ultimamente è un periodo davvero incasinato e nonostante le parecchie idee che ho già riguardo al prossimo capitolo, ho comunque paura di non potermici dedicare presto. In ogni caso, farò di tutto per non farvi aspettare molto, e mi limito a dileguarmi con i soliti importantissimi ringraziamenti, nella speranza che questo capitolo possa piacervi davvero! 

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Capitolo 11
*** Trust the instinct. ***


 
 

parachute
 
 

 
 
11. Trust the instinct.
 
 
 
«Ti piace proprio essere una calamita per i pericoli di ogni tipo, eh? Ammettilo».
Un tono di voce piuttosto basso e divertito interruppe improvvisamente il mio sonno, facendo sì che ritornassi sveglia bruscamente e anche con immenso dispiacere. Strizzai gli occhi, avvertendo la testa pulsare furiosamente e ritrovandomi con l’immensa voglia di portare una mano alla fronte per cercare di placare un po’ la sofferenza. Avrei davvero voluto muovermi ma… non ci riuscivo, notai con crescente orrore. I miei muscoli erano indolenziti come se avessi passato tutto il giorno a correre senza sosta, e anche solo l’idea di sforzarmi un po’ di più per non sembrare una statua di cera riusciva a farmi avvertire dolore da tutte le parti.
Aprii gli occhi lentamente, sollevando una palpebra alla volta perché anche quel piccolo gesto riusciva a darmi fastidio. Avrei davvero tanto voluto restare a dormire per altre dodici ore filate, ma a quanto pareva qualcuno aveva deciso di negarmi del buon riposo che sicuramente mi avrebbe permesso di star meglio. Ed io volevo assolutamente sapere di chi si trattava.
Quando una figura fin troppo conosciuta si ritrovò nuovamente nella mia visuale, sentii la rabbia montarmi dentro con fin troppa facilità e mi misi seduta nel letto fregandomene altamente del dolore lancinante a braccia e gambe. Repressi un gemito mentre mi voltavo a cercare qualcosa di davvero contundente.
«Ancora tu!», strillai quasi subito, liberandomi della bottiglietta d’acqua trovata pochi secondi prima su uno dei due comodini di fianco al letto.
Non mi preoccupai del fatto che avrebbe potuto aprirsi e che il liquido avrebbe potuto combinare un gran bel casino: ero accecata dalla rabbia e ciò, ovviamente, non mi permetteva di pensare lucidamente. Più che altro mi preoccupai di avere una mira pessima, e me ne rimasi a fissare Derek che evitava ‘‘l’arma’’ come se niente fosse.
Ancora per nulla scoraggiata, sbuffai sonoramente, e il più velocemente possibile ripresi a cercare qualcos’altro da lanciargli contro. Possibilmente qualcosa di più grosso, perché volevo fargli davvero male e in un modo o nell’altro ci sarei riuscita. Tuttavia, Derek – ancora una volta – capì subito le mie intenzioni e mi raggiunse in un batter d’occhio, bloccandomi i polsi senza alcuna difficoltà.
«Toglimi le mani di dosso. Mi stai facendo male», sputai, dimenandomi non molto, ma comunque quanto bastava per far sì che Derek obbedisse al mio ordine.
Lo vidi fare un passo indietro e ritornare dove l’avevo trovato non appena sveglia, e sospirai massaggiandomi i polsi doloranti. Che cosa era successo? Non riuscivo a capirlo. Non ricordavo nulla. E dove mi trovavo? Di nuovo piuttosto tranquilla – almeno quanto bastava per impedire che mi mettessi ad aggredire Derek Hale senza successo – presi a guardarmi intorno mentre trattenevo degli altri lamenti. Ero… in una stanza d’ospedale. Oh mio Dio. Sgranai gli occhi, voltandomi a guardare Derek immediatamente.
«Che cosa è successo? Cosa mi hai fatto?», urlai, sperando che qualcuno potesse sentirmi e in un certo senso salvarmi.
«Che cosa ti ho fatto… io? Sei seria?», mi domandò lui, all’apparenza piuttosto indignato. «Quel tizio biondo aveva intenzione di aggredirti e tu hai il coraggio di chiedere a me cosa ti ho fatto?».
Quelle semplici parole ebbero l’immediato potere di innescare nella mia mente tutto un complicato meccanismo di ricordi. Vidi avvicendarsi tutti gli avvenimenti delle ultime ore e capii che Derek stesse riferendosi a Victor. Rimembrai immediatamente del nostro incontro ‘‘forzato’’ nel retro di scuola e del fatto che fossi stata salvata proprio da Derek. Ad un certo punto, però, c’era il buio.
«Sono svenuta, vero?», chiesi con voce flebile, ansiosa di avere risposte e certezze. «Che cosa è successo?».
«Hai avuto un calo di zuccheri. Forse è stata colpa dell’eccessiva ansia. Ti sei spaventata non poco, è comprensibile».
«E perché sono finita in ospedale?», continuai, ancora piuttosto confusa.
Che io sapessi non era necessario farsi ricoverare per un semplice calo di zuccheri. Bastava mettersi a riposo e assumere più glucosio, di modo che non ne venisse più a mancare al cervello. Allora perché mi trovavo in quella stanza e non a casa mia? E soprattutto, perché ero sola con Derek?
«Ti ci ho portata io. Eri svenuta e non sapevo come aiutarti», mi spiegò subito lui, facendo spallucce.
«Perché non hai chiamato Stiles, o Stephen? Dove sono loro?».
Mi ero infiammata un’altra volta e sempre a causa di Hale. Certe volte, quell’uomo sembrava proprio mettersi d’impegno per rovinarmi la vita, prendendo una serie di scelte che puntualmente non facevano che peggiorare di più la situazione. Derek, di tutta risposta, sospirò mentre distoglieva le iridi chiare dal mio viso.
«Se n’è occupata un’infermiera. Arriveranno tra poco».
«E tu andrai via immediatamente», ordinai subito, più che decisa.
Assolutamente non volevo che né lo sceriffo né Stiles lo trovassero lì, con me. Derek aveva già combinato fin troppi guai, mettendo a repentaglio il minimo di rapporto che io e Stiles stavamo cercando di costruire con quel suo ‘‘scherzetto’’ assolutamente non gradito: non volevo che le cose peggiorassero irrimediabilmente anche con Stephen. Chissà come si sarebbe preoccupato nel vedermi insieme ad un tipo del genere!
«Puoi scommetterci».
E, forse per la prima vera volta da quando l’avevo conosciuto, Hale era d’accordo con me.
A quel punto mi limitai semplicemente ad annuire, improvvisamente più tranquilla. Forse non avrei dovuto fidarmi di una sua semplice frase e continuare invece a stare constantemente sulla difensiva, eppure qualcosa nel suo tono di voce o nello sguardo che aveva, faceva sì che riuscissi a credere alle sue parole senza poi tanti problemi.
Mi rimisi sdraiata e sospirai lievemente, lasciandomi andare ancora una volta ai pensieri finché non mi ritornò in mente una delle domande che avrei voluto porgli già da tempo.
«Posso sapere che problemi hai?», chiesi infatti, stranamente senza alzare la voce e fare scenate.
Mi limitai a mormorare quelle cinque semplici parole mentre fissavo le mie dita intrecciate sul ventre e non osavo rivolgere nemmeno mezzo sguardo a Derek. Non gli diedi neanche tempo di rispondere, comunque.
«Mi hai terrorizzata con quella storia dei post-it: non sei divertente! E ho anche litigato con Stiles, per colpa tua. Non ti voglio più vedere, Derek, dico sul serio».
Presi l’ennesima pausa, dopo aver continuato a parlare a raffica e soprattutto senza guardarlo in viso. Speravo che ripetergli sempre le stesse cose riuscisse a fargli capire che sul serio doveva starmi lontano, e anche che fosse la cosa giusta da fare assecondarmi e darmi ciò che volevo. A dire il vero ci credevo poco, ma tentare non costava nulla, no?
«Sei uno stronzo. E un cazzone. E perché mai non ti trovi in carcere? Sei evaso? Oh mio Dio».
Stavo iniziando a svalvolare, e me ne resi conto ben presto. Avevo iniziato a ‘‘sgridare’’ Derek nel modo giusto, per poi perdermi in insulti arrabbiati e in un mare di domande agitate. Solo alla fine era arrivata la preoccupazione. Mi portai una mano a coprire le labbra.
«Certo che no!», esclamò presto Derek, quasi indignato da quella mia – ennesima – accusa. «Mi hanno liberato. Non ho ucciso io mia sorella».
«Okay, ascolta», sospirai infine, stanca a causa di tutta quella situazione e desiderosa di farla finita. «Ti sono grata per avermi aiutata con Victor ma davvero vorrei che mi stessi alla larga. Puoi andare via prima che mi metta ad urlare di nuovo?».
Gli rivolsi un ultimo, speranzoso, sguardo, sperando che finalmente decidesse di farmi felice e lasciarmi sola ad attendere l’arrivo di Stephen e Stiles. Ovviamente le cose non andarono come avrei voluto, perché proprio nel momento in cui Derek annuì lievemente e fece per uscire fuori dalla stanza d’ospedale, lo vidi sobbalzare appena, e aggrottai le sopracciglia. Si allontanò via dalla porta d’ingresso velocemente e si diresse nella direzione opposta, sparendo poi subito dopo dietro una porta nelle vicinanze del mio letto conducente quasi sicuramente al bagno.
Non ebbi nemmeno tempo di metter su un’espressione sconvolta che dalla porta di ingresso vidi fare capolino Stiles e Stephen. Cercai di non sgranare troppo gli occhi mentre vedevo proprio Stiles corrermi incontro come se non mi vedesse da secoli e abbracciarmi per la prima vera volta da quand’ero a Beacon Hills. Me ne rimasi, piena d’ansia, stretta a lui, mentre fissavo Stephen con un’espressione colpevole che proprio non riuscii a reprimere.
Rischiavo di rovinare tutto un’altra volta ancora.
 
Contro quasi ogni previsione, alla fine in ospedale era andato tutto bene e non c’era nemmeno stato bisogno di dire a Stiles di Derek, anche se sinceramente stavo pianificando di farlo ben presto. Quando dicevo di non voler avere più segreti con lui, facevo sul serio.
Ero stata dimessa la sera stessa ed ero tornata a casa, dove sia Stephen che Stiles mi erano stati ansiosamente vicini per tutto il weekend, evitando di lasciarmi sola per anche solo due secondi dal momento che avevano paura potessi sentirmi male di nuovo.
La cosa mi aveva resa felice e mi aveva fatto sorridere, e continuavo a prendere bene il tutto soprattutto quando notavo l’avvicinamento che stavamo avendo quasi improvvisamente io e Stiles. Non mi aveva lasciata un attimo sola – non più – né sembrava avere intenzione di farlo, proprio come me. Il fatto che poi quel lunedì avremmo seguito gli stessi corsi, a scuola, era solo l’ennesimo lato positivo della situazione.
Non avevo idea di dove fosse finito Derek dopo la sua sparizione nel bagno, ma sinceramente me ne ero curata poco. Non era lui che mi interessava: volevo solo che le cose andassero bene e che il rapporto con Stiles e Stephen non venisse incrinato da niente e nessuno.
Sorrisi debolmente mentre mi richiudevo alle spalle lo sportello della Jeep: mancavano pochi minuti alle otto del mattino e stava per iniziare l’ennesima settimana di scuola. Nonostante tutte le insicurezze dei primi tempi, quel giorno mi fece anche fin troppo piacere trovarmi lì alla Beacon Hills High School, circondata da migliaia di studenti simili a me ma allo stesso tempo diversi da me. Non avevo più paura del confronto e dovevo ringraziare solo Stiles che mi stava accanto, e anche Stephen. Non mi sentivo più sola, né terrorizzata, e speravo solo che le cose potessero andare così per sempre.
«Ciao, Harriet! Stai bene?».
La voce di Scott mi riscosse dai miei pensieri, e mi voltai immediatamente a guardarlo con un sorriso. Né io né Stiles avevamo avuto il tempo di muoverci molto in direzione della scuola che McCall ci aveva raggiunti, senza che io tra l’altro lo notassi minimamente. Annuii debolmente, trovando la sua ‘‘euforia’’ un po’ troppo artefatta perché potessi credergli.
«È tutto a posto, ti ringrazio. Quello di sabato è stato solo un malore passeggero», gli risposi comunque, prendendo tempo prima di partire all’attacco con uno dei miei soliti interrogatori. «A te come va, invece? Mi sembri un po’ giù».
Non mentii, perché non ne avevo alcun motivo. Mi limitai ad esporre il mio pensiero senza problemi e vidi Stiles aggrottare le sopracciglia mentre Scott prendeva a muoversi agitato sul posto. Magari lui non si era reso conto di come stesse realmente Scott, ma io sì. Ai miei occhi attenti era raro che sfuggisse qualcosa.
«Stanotte ho… fatto un brutto sogno», mormorò McCall dopo un po’, tenendo lo sguardo puntato sull’asfalto.
Inutile dire che Stiles intervenne subito, sempre sinceramente preoccupato per le persone alle quali teneva. Mi aprii in un piccolo sorriso mentre lo guardavo avvicinarsi a Scott e passargli un braccio intorno alle spalle, e tutti e tre prendemmo a muoverci verso l’entrata della Beacon Hills High School.
«Ehi, amico. Di che si tratta?», gli chiese, piuttosto tranquillo nonostante tutto.
«C’eravamo io ed Allison, qui a scuola. Soli. Ad un certo punto l’ho portata in uno degli autobus vuoti parcheggiati in giardino e…».
Per un attimo mi chiesi se davvero quello che Scott ci stava raccontando fosse un brutto sogno. Insomma, la premessa suggeriva tutt’altro – per quanto mi sforzassi di non cogliere cose perverse ovunque – e non potei fare a meno di aggrottare le sopracciglia. Stiles, poi, dimostrò subito di aver pensato esattamente ciò che avevo pensato io, e per poco non scoppiai a ridere.
«Okay, frena, non voglio i particolari!», esclamò, allontanandosi da Scott velocemente mentre faceva una faccia piuttosto schifata.
«Non è quello che credi, deficiente!», si difese subito McCall, riservandogli un pugno sulla spalla mentre io scoppiavo finalmente a ridere di gusto.
«Allora cos’è successo dopo?», domandai quando mi fui finalmente calmata.
«L’ho aggredita».
Dopo quella sua risposta, il silenzio cadde e il momento di ilarità finì. Quello di Scott era stato solo un sogno, certo, eppure perché non riuscivo a stare tranquilla? C’entrava forse il fatto che fosse un licantropo? Distolsi lo sguardo dal mio amico per puntarlo sulla porta di ingresso del liceo, avvicinandomi ad essa per entrare dentro scuola, ancora completamente in silenzio.
«L’hai uccisa?», chiese Stiles allora, spingendo il portellone mentre si voltava a guardare Scott, rimasto indietro.
«Non lo so. Mi sono svegliato. Ero completamente sudato e non riuscivo a respirare: non mi era mai successo prima d’ora».
«A me sì», mormorai all’improvviso, voltandomi a cercare lo sguardo di Scott mentre mi chiedevo per quale assurdo motivo volessi in quel momento metterlo a conoscenza degli strani incubi che facevo di tanto in tanto.
«Okay, provo ad indovinare», intervenne Stiles, spostando l’attenzione su altro.
McCall, però, non gli lasciò nemmeno il tempo di parlare.
«Lo so cosa stai per dire. Credi sia dovuto al fatto che domani esco con Allison e che magari potrei perdere il controllo».
«No, certo che no. , in effetti sì».
Risi, muovendomi in direzione del mio armadietto.
«Oh, dai. Andrà tutto bene, d’accordo? Credo che tu stia gestendo la cosa in modo eccezionale. Non esiste un corso per giovani licantropi alle prime armi», continuò Stiles, rassicurando Scott senza nemmeno pensarci su.
«Un corso non c’è ma… un maestro sì».
Capii improvvisamente l’antifona e mi voltai a guardare Scott con ancora una mano ben salda sull’armadietto aperto, e lo sguardo truce. Non poteva davvero insinuare che…
«Derek?», strillò Stiles, colpendo Scott con uno schiaffo nient’affatto leggero. «Ricordi che l’abbiamo fatto mandare in prigione?».
McCall si limitò a sospirare mentre io me ne restavo ancora in silenzio, più che determinata nel voler sentire cosa avrebbe detto per giustificarsi. Riprese a parlare dopo un po’, a voce bassa.
«Lo so, Stiles, ma… trascinare Allison in fondo allo scuolabus sembrava così reale!».
Sbuffai lievemente, recuperando il libro di chimica dall’armadietto mentre cercavo di allontanare via dalla mia mente qualsiasi tipo di brutto pensiero. Non potevo permettere davvero che Scott chiedesse anche solo un minimo aiuto a Derek, autorizzandolo così ad entrare ancora una volta – per forza di cose – nella mia vita, ma cosa avrei potuto fare davvero per impedirlo? Nulla.
«Tanto reale?», chiese Stiles dopo un po’ di tempo, camminando al mio fianco e stando comunque vicino a Scott mentre ci dirigevamo fuori in giardino.
«Non ci credereste nemmeno».
Oh no, ci crediamo eccome.
Questa fu la prima cosa che pensai nel momento esatto in cui uno dei tanti scuolabus messi a disposizione per gli studenti dalla Beacon Hills High School apparve di fronte ai miei occhi, non appena tutti e tre ci ritrovammo all’esterno del liceo. Era praticamente distrutto, e macchiato da parecchio sangue. Non osavo chiedermi a chi appartenesse, soprattutto perché non ci riuscivo. Ero sopresa da quella situazione, e ovviamente non in modo positivo.
«Merda…», riuscii semplicemente a sussurrare, ritrovandomi anche incapace di distogliere lo sguardo da quello scenario assurdo.
«Scott. Ti crediamo».
 
Il panico assoluto aveva preso possesso di tutti non appena realizzammo cosa avesse fatto, quasi sicuramente, Scott. Mi resi conto di non aver pensato ad Allison quasi per nulla, durante tutto il weekend e anche quella mattina, nonostante il fatto che come al solito avrei dovuto vederla a scuola e passare del tempo insieme a lei.
L’unica cosa che sapevo per certo era che le cose, con Scott, stessero andando a gonfie vele. I due si erano scambiati un bacio dopo la partita di lacrosse del sabato precedente, e la Argent mi aveva descritto la scena in modo entusiastico con un SMS che mi aveva inviato domenica e al quale io avevo risposto piuttosto velocemente, con mio grande dispiacere.
In un certo senso l’avevo ignorata, e mi pentii amaramente della cosa nel realizzare in quell’esatto momento dell’alta possibilità che avevo di non rivedere Allison mai più. Se solo il sogno di Scott non fosse stato solo un sogno e lui l’avesse davvero aggredita, quante probabilità c’erano che lei fosse sopravvissuta? Certo, prepararsi ad un funerale così presto forse non era proprio la cosa giusta da fare, ma troppe emozioni contrastanti avevano preso il possesso di me, in quel momento, e chiedermi di pensare lucidamente sarebbe stato assurdo.
Il fatto che la Argent fosse poi del tutto impossibile da rintracciare non aiutava di certo. Ma tutte quelle paure si dimostrarono poi, per fortuna, infondate. Allison era a scuola, e tutta quella situazione era stata nient’altro che il frutto di una spaventosa coincidenza. Sia io che Stiles e – soprattutto – Scott, avevamo tirato un sospiro di sollievo e ci eravamo diretti piuttosto tranquillamente nella classe del professor Harris, pronti – io più degli altri, dato il mio amore per la materia – ad un’ora di chimica.
Potevo avvertire senza problemi la curiosità di tutti gli studenti del liceo in quanto alla faccenda dello scuolabus macchiato di sangue in giardino, e si era accorto della situazione anche il nostro preside. Con un annuncio fatto dagli altoparlanti, aveva infatti cercato di rassicurare tutti dicendo che la polizia stesse già lavorando al caso e che dovevamo limitarci a stare tranquilli e seguire le lezioni proprio come se niente fosse, cosa che alla fine avevamo fatto.
«Potrebbe essere mio, quel sangue».
La voce di Scott, seduto ad un tavolo vicino al nostro ma comunque non proprio insieme a me e Stiles, interruppe il silenzio che era calato dal momento esatto in cui la lezione del professor Harris era iniziata. Distolsi lo sguardo dagli appunti di chimica che ero riuscita a prendere fino a quel momento e che mi stavo preoccupando di analizzare con attenzione, puntandolo su McCall con espressione interrogativa.
«O quello di un animale», spiegò Stiles al contrario, rivolgendo anch’egli un’occhiata a Scott prima di prestare nuovamente attenzione alla spiegazione, seppur per finta. «Potresti aver preso un coniglio».
Dubitai della sua teoria fin da subito, anche perché mi sembrava molto più che improbabile il pensiero che un piccolo coniglietto potesse lasciare in giro tutto quel sangue. Pensai che per giustificare le condizioni dello scuolabus bisognasse come minimo figurarsi il coinvolgimento di un orso, o comunque di un animale molto grande. Eppure me ne rimasi in silenzio, senza dire niente. Tra tutti gli altri motivi, non volevo dare ad Harris una scusa per sgridarmi.
«Che ne ho fatto?», domandò quasi subito Scott, sempre guardando il viso di Stiles e mettendo anche su un’espressione piuttosto sconvolta.
«L’hai… mangiato?».
Nella voce di Stiles c’era un po’ di insicurezza, cosa che assolutamente non riuscì a passare inosservata. Trattenni un verso a metà tra una risata divertita e uno sbuffo schifato, limitandomi a spostare gli occhi tra Scott e Stiles come se stessi assistendo ad una partita di tennis.
«Crudo?».
«No, l’hai prima cucinato al forno!», esclamò a quel punto Stiles, facendomi sobbalzare mentre mi voltavo velocemente a guardare il professore.
Sembrava non essersi accorto dello scambio di battute tra i due, sebbene Stiles avesse alzato un po’ troppo la voce con quella sua ultima affermazione sarcastica. Ad ogni modo, non ero tranquilla, e cercai di risolvere la situazione.  
«Ragazzi…», mormorai infatti, richiamando sia Stiles che Scott al silenzio o comunque ad un po’ più di discrezione.
Ma non servì a nulla.
«Stilinski, McCall: volete smetterla? Cambiate posti, forza».
Il rimprovero di Harris era arrivato, proprio come mi aspettavo, e non potei far altro che pensare: ‘‘Dannazione’’ guardando Scott mettersi in piedi e prendere posto in prima fila, mentre Stiles faceva per seguirlo.
Improvvisamente l’agitazione prese possesso di me e mi mossi inquieta sullo sgabello. Harris voleva che Scott e Stiles stessero lontani così da smetterla di chiacchierare per tutta la lezione, ma dal momento che Scott si era allontanato, che bisogno c’era che lo facesse anche Stiles? Perché mi stava lasciando sola?
«Non ti spostare», sussurrai infatti, rivolgendogli uno sguardo implorante del quale non mi vergognai nemmeno un po’.
Stiles non disse nulla e si limitò a prendere nuovamente posto di fronte a me, annuendo lievemente mentre mi riservava un piccolo sorriso. Ma Harris, ancora una volta, decise di rovinare tutto.
«Stilinski, spostati», ordinò, con voce decisa.
Sarebbe stato impossibile contraddirlo, lo capimmo entrambi. Feci spallucce allo sguardo dispiaciuto che Stiles mi riservò mentre si sedeva, obbligato, lontano da me, lasciandomi sola al tavolo. Magari esageravo con tutti quei problemi che mi facevo venire ogni volta, ma mi resi conto solo in quel momento del fatto che quando dicevo di essere abituata alla solitudine, stessi mentendo. Molto probabilmente non mi ci sarei abituata mai.
Mi guardai intorno a disagio, e una strana sensazione di fastidio prese possesso di me non appena incontrai gli occhi azzurro ghiaccio di Jackson Whittemore puntati sulla mia figura. Mi trattenni dall’aggrottare le sopracciglia nel notare che mi stesse riservando un’occhiata piuttosto truce senza nessun motivo logico, ma non ebbi tempo di farmi alcuna domanda al riguardo perché l’urlo sconvolto di una delle ragazze nella nostra classe mi distolse da tutti i miei pensieri.
«Ehi, la polizia ha trovato qualcosa!».
E bastarono quelle sei semplici parole a creare un vero e proprio caos. Guardai tutti gli studenti, nessuno escluso, correre alle finestre per poter dare un’occhiata all’esterno, e decisi di aggregarmi a loro non appena incontrando gli occhi di Stiles lo vidi annuire nella mia direzione ed alzarsi contemporaneamente a me e Scott.
Quando fummo vicini anche noi ai vetri, vedemmo senza problemi un uomo sulla cinquantina che veniva trasportato dai paramedici su una barella. C’era anche un’ambulanza, pronta a portarlo in ospedale, e di nuovo avvertii la paura attanagliarmi le viscere al solo pensiero che potesse essere stato Scott a ridurre l’uomo in quello stato. Forse Derek aveva ragione. Forse era pericoloso sul serio.
«Non è un coniglio», disse proprio lui, con espressione funerea.
Mi trattenni dal rivolgerli uno sguardo dispiaciuto, restando concentrata sulla scena che si stava svolgendo all’esterno di scuola nell’attesa che succedesse chissà cosa. Forse in fondo me l’aspettavo che non sarebbe stato tutto così normale come sembrava, perché infatti – quasi a conferma delle mie sensazioni – all’improvviso l’uomo sulla barella fu colto da uno spasmo violentissimo che fece sobbalzare tutti dallo spavento.
Con il cuore a mille, seguii Stiles e Scott lontano dalla finestra. McCall era ancora più agitato di me, ovviamente, e non si preoccupava affatto di nasconderlo. Stiles gli posò le mani sulle spalle, sperando di riuscire a rassicurarlo in qualche modo.
«Stai calmo, okay? Quell’uomo è vivo. È una cosa positiva, no?».
Per quanto quelle parole fossero belle e rassicuranti, non riuscii a crederci io in primis. Figurarsi Scott.
«Sono stato io», sussurrò infatti semplicemente, con la voce che quasi gli veniva a mancare.
Oh, merda.
 
Stiles si affrettò a prendere posto di fronte a Scott ed io lo seguii, sedendomi alla sua sinistra. Era l’ora della mensa, e proprio come accadeva quasi giornalmente, bisognava combattere per potersi accaparrare un tavolo libero. Non potevamo permettere che qualcuno sentisse i nostri discorsi, e proprio per quel motivo ci eravamo diretti a passo di carica verso la caffetteria della Beacon Hills High School. Alla fine, ce l’avevamo fatta. Eravamo soli e lo saremmo rimasti quasi sicuramente. Certe volte, il non essere persone ‘‘popolari’’ aveva i propri vantaggi.
«Scott, i sogni non sono ricordi», esordì Stiles, sospirando e spezzando il momentaneo silenzio.
«Be’, allora non è stato un sogno».
McCall gli rispose velocemente, quasi senza nemmeno pensarci su. A quel punto, era ormai più che convinto di essere lui il colpevole. Credeva che il sogno non fosse stato del tutto tale e che avesse aggredito lui, la sera prima, l’uomo che avevamo visto trasportato in ambulanza dai paramedici. Credeva di essere pericoloso, di non essere in grado di controllare la sua natura di licantropo… e voleva chiedere aiuto. A Derek.
«Perché pensi che Derek abbia tutte le risposte?».
La domanda di Stiles era più che lecita, e solo a quel punto decisi di interrompere il silenzio che avevo tenuto fino a quel momento, sollevando appena lo sguardo per donare un’occhiata neanche fin troppo veloce ad entrambi.
«Non stiamo prendendo davvero in considerazione l’idea di cercarlo, vero?», domandai, con la voce piccola piccola.
Scott si limitò a sospirare. Poi fornì l’ennesima motivazione.
«Durante la luna piena lui non è cambiato: aveva il controllo totale. Io invece sono addirittura riuscito ad aggredire una persona innocente!».
«Scott…», lo richiamai immediatamente, fissandolo con espressione dispiaciuta.
Non volevo che si colpevolizzasse così per qualcosa che non poteva controllare. Soprattutto quando era, almeno fino a prova contraria, innocente.
«Non puoi essere certo di essere stato tu».
«E tu non puoi dire che sono innocente per forza. Non posso uscire con Allison. Annullo».
Sgranai gli occhi, scattando in avanti, preda di un riflesso involontario. Cosa aveva intenzione di fare, quel testone lì? Mandare a monte la sua intera vita?
Non feci in tempo a parlare, perché ci pensò Stiles. Riuscì chissà come a mantenere la calma, e quando ebbe finito di rispondere a Scott, mi trattenni dal battergli le mani e mi limitai ad annuire in accordo.
«No, non annulli proprio niente. Non puoi annullare tutta la tua vita. Ci inventeremo qualcosa».
A quel punto, credetti che la situazione si sarebbe conclusa presto e che finalmente tutti e tre saremmo potuti stare tranquilli. Perché alla fin fine, per uscire dai problemi basta semplicemente volerlo davvero. Una soluzione si trova sempre.
«Cos’è che ci inventiamo?».
Mi voltai fulminea a fissare in maniera raggelante la figura di Lydia Martin, in piedi vicina a Scott. Cosa ci faceva lì con noi, Sua Altezza? E soprattutto, come aveva osato ascoltare i nostri discorsi? Sperai non avesse sentito cose fraintendibili e cercai di mantenere la calma, facendomi più vicina a Stiles quasi involontariamente nel momento in cui vidi Lydia prendere posto alla sinistra di Scott.
«Perché si siede con noi?», gli chiesi a quel punto, sussurrandogli praticamente nell’orecchio.
Stiles si limitò a fare spallucce mentre mi riservava un’occhiata confusa e prendeva poi a guardare altrettanto sorpreso Jackson, Danny – il suo migliore amico gay – ed Allison, che raggiunsero Lydia dopo pochi attimi e presero posto insieme a noi. Nonostante il fatto che fosse un po’ strano ritrovarsi all’improvviso un sacco di persone intorno, Lydia a parte non riuscivo ad essere infelice di quella compagnia. Sorrisi addirittura ad Allison, seduta di fronte a me, contenta di vederla stare bene. E decisi che avrei ignorato Lydia nel momento in cui la Argent ricambiò il mio gesto, radiosa come al solito.
«Sembra che l’uomo di prima, quello ferito… sia stato attaccato da un animale. Forse un puma», esordì Danny, facendo sì che immediatamente mi voltassi a cercare il suo viso.
Era seduto alla destra di Stiles, e dovetti sporgermi un po’ per poterlo vedere bene. Era un bel ragazzo, niente di speciale ma nemmeno ‘‘da buttare’’, come si suol dire. E soprattutto era simpatico. Non aveva niente del carattere di Lydia o peggio di quello di Jackson. A vederli insieme c’era da chiedersi costantemente cosa fosse in grado di legarli, ma forse era proprio vero che gli opposti si attraggono.
«O un leone di montagna», propose proprio Jackson, alzando un sopracciglio.
Lui era a capotavola, invece, ed evitai di guardarlo mentre ritornavo seduta composta e afferravo il mio cellulare. Tutte quelle nuove informazioni sulla strana vicenda non stavano facendo altro che incuriosirmi ancor di più, e volevo cercare di scoprire qualcosa di più utile di quelle che sarebbero potute essere nient’altro che voci. Avevo bisogno di informazioni attendibili, date da fonti certe.
«Il puma è un leone di montagna», sentii precisare a Lydia, e il tono di voce da saputella col quale parlò fece sì che tutti noi – nessuno escluso – prendessimo a fissarla con le sopracciglia aggrottate e gli occhi sgranati.
La sua osservazione era giusta, per carità, ma… possibile che Lydia Martin fosse molto di più di ciò che sembrava? Mi presi del tempo per scrutarla attentamente ad occhi socchiusi mentre notavo un piccolo rossore farsi spazio sulle sue guance. Era evidentemente imbarazzata e mi stupì vederla così impacciata e alla ricerca di un escamotage.
«… non è così?», domandò alla fine, con voce flebile.
A quel punto, tutti ci rilassammo all’improvviso, tornando a fare ciò che stavamo facendo prima che Lydia parlasse. Lei scivolò sulla sedia con aria quasi colpevole, ed io feci spallucce poco prima di riprendere a fare ricerche varie col mio cellulare. Avevo trovato alcune cose interessanti, ma niente che facesse perfettamente al caso mio. Eppure sapevo di esserci vicina.
«Che importa? Quell’uomo sarà stato un drogato… sarebbe morto comunque».
Proprio la fine che farai tu se non la smetti immediatamente di sparare minchiate, cazzone. Se solo non fossi stata troppo impegnata a fare ricerche, avrei dato sfogo a quel mio commento arrabbiato e quasi sicuramente io e Jackson saremmo finiti a discutere violentemente. Per fortuna, mi limitai a donargli un’occhiata truce poco prima di riposare lo sguardo sul mio cellulare. Ce l’avevo fatta, finalmente. Avevo trovato un sito affidabile e c’era anche un video dell’ultimo notiziario mandato in onda in tv. Richiamai subito Stiles mentre premevo il tasto play.
«Ehi, guardate cos’ho trovato», dissi poi, lasciando il mio telefono al centro del tavolo proprio mentre il video partiva, permettendo così a tutti di guardarlo.
Durava poco ma aveva tutte le informazioni utili che ci servivano. Insieme, osservammo e ascoltammo attentamente una reporter sulla quarantina che spiegava tutti gli sviluppi del caso. L’uomo ferito si chiamava Garrison Mayers, ed era sopravvissuto. In quel momento si trovava al Beacon Hills Memorial Hospital, l’ospedale dove prestava servizio proprio la madre di Scott.
«I-io lo conosco! Guidava l’autobus», esclamò lui, sobbalzando.
Tutti rimanemmeno un po’ sconvolti da quella nuova scoperta, ma nessuno trovò il coraggio di dire nulla. Be’, tranne Lydia, che fece schioccare la lingua sotto il palato prima di riprendere a parlare con la sua tipica voce squillante e fastidiosa.
«Perché non passiamo a qualcosa di più allegro? Tipo… dove andiamo domani?», domandò, cambiando totalmente discorso e guadagnadosi un’occhiata stranita da parte di Allison.
Anch’io misi su la stessa espressione confusa, proprio come credo tutti i ragazzi seduti intorno a quel tavolo. Posai il cellulare nella mia borsa, sistemando l’orlo della minigonna nera nell’attesa che Lydia continuasse a parlare e spiegasse cosa intendeva davvero dire con quelle sue parole.
«Tu e Scott uscite, domani sera. Giusto?».
A quel punto sgranai gli occhi senza preoccuparmi di nascondere la mia sorpresa, e mi bastò donargli un’occhiata veloce per vedere Stiles fare altrettanto. Tuttavia, nessuno ad eccezione di Allison e Lydia parlò. Ci limitammo tutti ad osservare la scena e ad ascoltare, nemmeno stessimo assistendo ad un importantissimo match. Osservai Scott, seduto tra i due fuochi, spostare lo sguardo velocemente tra la Argent e la Martin. Era confuso almeno quanto noi altri.
«Veramente stiamo ancora decidendo», spiegò Allison tranquilla, dopo un po’.
«Non ho intenzione di restare a casa. Quindi se dobbiamo uscire, dobbiamo andare a divertirci».
«U-uscire, ha detto? Cioè, noi quattro?», chiese solo a quel punto Scott, come improvvisamente risvegliatosi da una trance.
E così avevano intenzione di fare un’uscita tutti insieme? Wow.
Vidi Stiles passarsi una mano sulla faccia, come se fosse scoraggiato, e gli rivolsi immediatamente un’occhiata preoccupata.
«Tu… hai intenzione di uscire insieme a loro?», continuò subito McCall.
Nemmeno lui riusciva a crederci, pazzesco. Trattenni un sorriso mentre attendevo con quasi più ansia del diretto interessato la risposta di Allison.
«Sì… sarebbe… divertente», sussurrò, piuttosto indecisa, a dir la verità.
Non ci credeva nemmeno poi tanto lei stessa, al fatto che si sarebbe potuta divertire con Jackson e Lydia. E fu solo ciò che mi trattenne dal fulminarla con lo sguardo.
«Certo. Divertente come un pugno su per il culo», mormorai comunque, a voce bassissima, scivolando giù sulla sedia con le braccia incrociate al petto e un broncio per nulla nascosto.
Ero gelosa? Sì, e da morire. E non mi preoccupavo affatto di nasconderlo.
Stiles – purtroppo – sentì chiaramente la mia frase, e non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Era ovvio che avrebbe sentito il mio commento piccato, dal momento che eravamo seduti vicinissimi, ma nel parlare non ci avevo pensato e mi ero limitata a dare voce ai miei pensieri senza imbarazzo alcuno. Fortuna comunque che avessi sussurrato così piano che solo lui mi avesse sentita. Tutti gli altri non avevano capito nulla, e li guardai osservare me e Stiles con le sopracciglia aggrottate mentre noi due ancora ridevamo a causa della mia esorbitante acidità.
«Scommetto che uscire insieme sarà divertente come bucherellare la mia faccia con questa forchetta», esalò a quel punto Jackson, ignorando le nostre risate e parlando mentre impugnava una forchetta di quelle della mensa.
Non appena finì, sia io che Stiles la smettemmo improvvisamente di ridere e ci voltammo a guardare Whittemore con gli occhi sgranati. Davvero avevamo pensato alla stessa cosa? Davvero eravamo così simili? Non potevo crederci.
«Smettila di fare l’antipatico, Jackson, dai», lo richiamò Lydia, togliendogli la forchetta dalle mani. «Andiamo al bowling: ci state?».









Partendo dal principio: il link lassù è quello dell'ultimo missing moment legato a questa long che ho pubblicato. I protagonisti indiscussi sono Stiles ed Harriet, ma come al solito c'è di mezzo Derek (che però viene solo menzionato). Leggerlo non è importante ai fini della storia, né obbligatorio. Ma non nascondo che mi farebbe un immenso piacere se ci faceste comunque un salto per leggere e magari, perché no, anche per lasciarmi un parere. Non è un granché, ma si fa quel che si può XD
Passando a questo capitolo... mado, già undici. Per me sono un'infinità, ahahaha. E siamo più vicini alla fine (?). Qui è tutto stranamente tranquillo, ma già dal prossimo ritorneremo ai "soliti ritmi", seppur lentamente. C'era bisogno di una pausa e di una parentesi spensierata, sì. Scrivere questo capitolo mi è piaciuto tantissimo e spero piacerà tanto anche a voi leggerlo :D
Derek qui s'è visto poco, ma rimedieremo nel prossimo (ovviamente). Harry forse parlerà con Stiles, e per quanto riguarda il dodicesimo capitolo vi dico fin d'ora che si aprirà col magico trio Scott/Harriet/Stiles (li voglio chiamare McCartinski, ahahahahah). Mi piace tantissimo scrivere di questi tre insieme, se non si fosse capito, e ancor di più mi piace vedere gli Starriet che legano, come spero piacerà a voi. A riguardo, vi posso dire che ci saranno tanti piccoli dettagli che li vedranno insieme ^^
E poi credo di non avere nient'altro da dire, vi lascio tutte libere e vi do appuntamento alla prossima, sperando sia presto. Le idee ci sono e devo solo trovare del tempo per buttarle giù, cosa comunque non facile. In ogni caso, ce la farò. Grazie di tutto a tutte, un abbraccio,
hell

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Capitolo 12
*** Who's the Alpha? ***


N.B.: La 3B di Teen Wolf mi sta uccidendo lentamente, come penso un po’ a tutte, perciò anche solo pensare di scrivere riguardo ai ‘‘bei tempi’’ della 1S mi sembrava impossibile, tant’è che i lavori per questo nuovo capitolo sono stati fermi a lungo prima che potessi buttar giù qualcosa. Ad ogni modo ci ho provato e spero di non aver combinato casini, proprio come spero vi piacerà fare un tuffo nel passato e rinchiudervi con me, Harriet e Stiles, nella ‘‘felicità’’ dei vecchi tempi. Oggi filosofo, sì. Vabbè, comunque… buona lettura.

 
 
parachute
 

 
 

 
12. Who’s the Alpha?
 
 
«Harry, mi sto annoiando».
Non potei fare a meno di alzare gli occhi al cielo, mentre tuttavia trattenevo a malapena un sorrisino divertito – l’ennesimo. Poi cercai lo sguardo di Stiles, rivolgendogli un’occhiata interrogativa con tanto di sopracciglia sollevate.
«Lo so», stabilii a quel punto, parlando lentamente senza nessun motivo in particolare.
Forse c’entrava il fatto che improvvisamente Stiles sembrava essersi trasformato in un bambino capriccioso, ed ero convinta di dovermi applicare per fargli capire due parole in croce. Chissà.
«È tipo la centesima volta che lo dici, da quando siamo arrivati qui», continuai, senza mai interrompere il contatto visivo. «Non posso aiutarti se continui a ripetere sempre le stesse cose. Dimmi cosa vuoi fare e la facciamo». 
«Non lo so cosa voglio fare!», esclamò Stiles allora, mettendosi in piedi frettolosamente e mostrando finalmente tutto il nervosismo che fino a quel momento aveva nascosto quasi ad arte.
Non gli feci domande, comunque. Non mi mostrai preoccupata – anche se un po’ lo ero – né altro. Semplicemente me ne rimasi a guardarlo gironzolare per tutta la cucina mentre mi sorreggevo la testa con una mano. Sapevo che si sarebbe spiegato da solo. Aveva bisogno di confidarsi con qualcuno e glielo si leggeva in faccia. Personalmente, ero fiera del fatto che avesse scelto me.
«Sto morendo dalla curiosità, okay? Voglio scoprire cos’ha fatto Scott dopo scuola: se davvero è andato a chiedere aiuto a Derek o meno», mi spiegò, alzando la voce un po’ di più ogni minuto che passava. «E voglio anche sapere se ci sono sviluppi sul caso Mayers. Ma per quello avrei bisogno di mio padre e… indovina? Lui non è ancora ritornato da lavoro!».
«Ma tornerà presto», lo rassicurai, distogliendo finalmente lo sguardo dalla sua figura e spostandolo sul libro di filosofia aperto sempre sulla stessa pagina. «E per quanto riguarda Scott, puoi sempre chiamarlo».
«L’ho già fatto», rispose subito Stiles, un po’ più tranquillo mentre prendeva nuovamente posto a tavola di fronte a me. «Tredici volte». 
A quel punto risi, scuotendo la testa. Era un caso perso. Non avevo mai visto qualcuno che fosse almeno la metà curioso quanto lui. Feci anche per rispondergli, ma l’improvvisa suoneria del mio cellulare mi distrasse, e mi limitai semplicemente a mettermi in piedi mentre prendevo a cercarlo.
Quando finalmente lo trovai, nel fondo della mia borsa, ed ebbi occasione di leggere il display, scoprii che si trattasse di mia madre. Prima di rispondere, però, mi voltai ancora a guardare Stiles.
«È mia madre. Devo rispondere», gli spiegai, tranquilla. «Mi prometti che nel frattempo non ti fai venire un esaurimento nervoso?».
«Giurin giurello», mi rispose allora lui, subito, posando anche una mano sul cuore nella posa solenne.
A quel punto mi limitai a ridere ancora una volta, poi gli diedi le spalle e risposi finalmente al telefono.
«Ciao, mamma. Stai bene?», dissi, guardandomi intorno un po’ ansiosa mentre attendevo la risposta di Jenette.
Lei era pur sempre mia madre e la conoscevo come forse nessuno. Sapevo che stesse male, almeno un po’, e non potevo far altro che preoccuparmi. Lei tentava di nasconderlo ogni volta, ma con me non attaccava. Quel giorno ci provò nuovamente.
«Tu chiedi a me se io sto bene? Ma certo che sto bene. In fondo quella lontana da casa sei tu!», spiegò infatti, fingendo allegria e benessere.
«Te lo chiedo perché so che menti. Ti manco».
«Quello è naturale. Ma sto bene, davvero. Smettila di fare da mamma a me, okay? Non mi piace che ci scambiamo i ruoli».
A quel punto risi, scuotendo la testa mentre raggiungevo il divano. Ero stata seduta quasi tutta la mattina a scuola, tornata a casa mi ero seduta e adesso avevo bisogno di sdraiarmi. Ero proprio un’adolescente attiva, sì. Ad ogni modo, scacciai tutti quei pensieri inutili e mi limitai a prendere posto sul divano mentre mi arrotolavo una ciocca di capelli scuri intorno al dito e pensavo a cosa dire di adeguato.
Mia madre, comunque, mi tolse da quell’impiccio.
«Qui va tutto bene, davvero», mi rassicurò, apparentemente sincera. «Cassandra mi aiuta tantissimo e anche Adam mi sta più vicino del solito».
Quasi sobbalzai nel sentir di nuovo pronunciato dopo quelli che mi erano sembrati secoli, il nome dell’uomo col quale mia madre aveva una relazione da quattro anni. Adam Key era un compagno straordinario e fin da subito era riuscito a conquistare il cuore di Jenette. Lui e mia madre avevano una relazione che tuttavia non si decidevano ad ufficializzare: credo anche perché alla fin fine stavano bene così, e si poteva dire benissimo altrettanto di me e mia sorella Cassandra. Avevamo accettato Adam anche noi.
«Sono felice per te, davvero», mi decisi a dire ad un certo punto, parlando a voce bassa. «Anche qui va tutto a meraviglia. Non mi lamento, anche se mi mancate».
«Anche tu».
Jenny mi fece presente ancora una volta i suoi sentimenti molto simili ai miei e dopo quelle due parole cademmo nuovamente in un silenzio carico di doppi significati. Avremmo voluto dirci moltissime cose, ma farlo attraverso la cornetta di un telefono ci frenava. Volente o nolente, la mia mamma era distante, e non c’era niente che potessi fare per impedirmi di star male.
Ci limitammo entrambe a stare chiuse nei nostri pensieri per ancora un po’ di tempo, poi – quando finalmente mi decisi a parlare di nuovo – capii che al contrario il destino aveva in serbo per me piani ben differenti. Non appena sentii trillare il campanello di casa, infatti, scattai in piedi.
«Mamma, hanno suonato alla porta. Devo andare, scusami», mormorai, quasi senza nemmeno sapere perché. «Ci sentiamo presto, okay? Ti richiamo io».
Poi continuai a dirigermi verso la porta d’ingresso, grata per quell’improvvisa distrazione. Rischiavo di finire in un baratro di pensieri tristi e non mi ci voleva. Misi da parte il mio cellulare, alzando poi la voce per parlare a Stiles. Stranamente, non l’avevo sentito agitarsi quanto me di fronte all’idea di una visita.
«Stiles, vado io!», esclamai, già vicina alla meta. «Sono sicura che è tuo padre! Avrà dimenticato le chiav…».
Continuai a parlare a voce alta con Stiles anche mentre aprivo la porta d’ingresso, ma non riuscii a terminare la mia frase. Di fronte a me non c’era affatto il signor Stilinski.
 
Concentrai tutta la mia attenzione sul rumore che le ruote della Jeep emisero poco prima di fermarsi, esattamente di fronte al cancello – chiuso – della Beacon Hills High School. Preferivo pensare a cose stupide come quella quando erano quasi le due di notte ed io, Stiles e Scott ci ritrovavamo coinvolti nell’ennesima missione suicida. Era molto, molto più rilassante distrarsi.
Quando McCall si era presentato a casa Stilinski, proprio non mi aspettavo potesse essere lui. Credevo fosse Stephen – di ritorno da lavoro – ma mi ero sbagliata, ed avevo avuto modo di capirlo nel momento in cui i miei occhi scuri si erano trovati riflessi in quelli lievemente a mandorla di Scott. Osservando preoccupata il suo cipiglio agitato, mi ero fatta da parte per farlo entrare in casa ed avevo subito annunciato a Stiles che almeno un po’ della sua curiosità sarebbe stata sanata.
Alla fine, Scott aveva deciso di andare a chiedere aiuto a Derek. Durante tutto il suo racconto dettagliato io non avevo fatto altro che starmene in silenzio, in un angolino della cucina, a chiedermi perché mai McCall riuscisse a raccontare anche le cose più scomode – come per esempio chiedere aiuto al ‘‘nemico’’ – a Stiles, mentre io ero sempre lì a farmi seghe mentali per ogni minima cosa.
Se solo non fosse stato per la decisione repentina che era stata presa dopo, sarei finita nuovamente nel mio adorato baratro di insicurezze croniche, e lo sapevo più che bene. Quindi sì, almeno un 10% di me stessa era grata al destino per quella distrazione, ma il resto della Harriet Carter spaventata rischiava di morire per l’ansia. Mentre ancora ascoltavo distrattamente Stiles e Scott discutere del ‘‘piano’’ un’altra volta ancora, mi ritrovai a chiedermi perché mai ci fossimo sempre noi tre in mezzo a certe situazioni. Era come se fosse quasi obbligatorio, metterci nei guai. Ce le andavamo proprio a cercare, un po’ come il magico trio di Harry Potter.
Fui sul punto di scoppiare a ridere tra me e me per quel pensiero piuttosto stupido: io sarei dovuta essere la Hermione della situazione? Be’, la cosa non poteva essere più lontana dal vero di così! Non avevo nemmeno un quarto di tutta la sua intelligenza, ed in quel momento – colta da chissà quale pazzia – mi ritrovai a pensare che mi avrebbe fatto proprio comodo averne un po’ di più. Tuttavia, comunque, la risata mi rimase bloccata in gola nel momento in cui mi accorsi di Stiles e Scott che erano scesi dalla Jeep velocemente.
«Non osare scendere dalla macchina», mi sentii dire da Stilinski, e cercando il suo sguardo lo trovai intento a fissarmi con una delle espressioni più serie di sempre.
Cosa? Davvero credeva che me ne sarei rimasta lì da sola nella Jeep mentre lui e Scott andavano a mettersi nei guai? Tirai fuori un verso molto simile ad uno: ‘‘Mh!’’ infastidito e sorpreso, poi mi sporsi subito in avanti per poter aprire lo sportello dall'interno e alla velocità della luce, mi ritrovai in piedi vicina a Stiles. Non ero mai stata così agile in vita mia e per poco non me ne stupii. Ma sapete com’è, non volevo per nulla al mondo lasciare quei due testoni da soli.
«Sei un povero illuso se credi che davvero me ne starei qui buona senza fare storie», dissi a Stiles, riservandogli un sorrisone divertito con le mani posate sui fianchi.
Lo avvertii sbuffare lievemente – sconfitto – e lo intravidi anche alzare gli occhi al cielo.
«E tu sei una piccola testarda!», mi rimbeccò, poco prima che prendessimo tutti e tre a camminare in direzione del cancello di scuola.
Risi sinceramente, divertita da tutta la situazione. Mi piaceva forse più del lecito, il rapporto che stavo imparando a costruire con Stiles, e perché mai negarlo? Arrivati di fronte al cancello, mi ritrovai a chiedermi cos’avremmo fatto a quel punto. Cioè, era scontato che ci fosse da scavalcarlo – nessuno sarebbe venuto ad aprircelo – ma sapevo già che non ci sarei riuscita, perlomeno non da sola, e perciò me ne rimasi semplicemente lì in attesa di ancora non sapevo cosa.
Stiles però, iperattivo come al solito, non fece altrettanto. Provò ad arrampicarsi sul cancello, ma prima che potesse iniziare a fare sul serio, Scott lo bloccò.
«Vado solo io. Voi restate qui a tenere d’occhio la situazione», gli ordinò, con voce perentoria.
C’è bisogno di dirlo che Stilinski si trovò subito in disaccordo?
«Non ci sto, voglio venire con te».
Incrociai le braccia al petto, scuotendo la testa lievemente. Era prevedibile, quel suo comportamento, ma ad ogni modo non me ne preoccupai. Di quel gruppo forse un po’ strano, Scott era senza dubbio il leader, e sapevo benissimo che qualunque cosa avesse detto – volente o nolente – Stiles alla fine avrebbe ubbidito. Ci teneva troppo a lui.
«E lasciare Harriet qui da sola? Ho bisogno che qualcuno faccia la guardia, Stiles», spiegò ancora infatti.
A quel punto, non potei fare a meno di sentirmi un po’ un peso, per entrambi. Insomma, se io non ci fossi stata nessuno sarebbe dovuto restare con me a farmi compagnia. Tuttavia, prima ancora che potessi rassicurarli dicendo che me la sarei cavata anche da sola, Stiles sbuffò nuovamente e si incamminò verso la Jeep.
«Ti odio», sussurrò a Scott, poco prima di allontanarsi dal cancello.
Per un attimo sia io che McCall rimanemmo impalati a guardarci, poi io rivolsi un’occhiata preoccupata a Stilinski junior e mi sembrò anche di sentirlo borbottare qualcosa di molto simile a: ‘‘Se ne approfitta perché sa che ci tengo. Bel migliore amico’’, ma non posso dirlo tutt’oggi con sicurezza. Ad ogni modo, non potei fare a meno di sgranare gli occhi.
«Harry, vieni qui!», mi richiamò Stiles, quando era ormai di nuovo vicino alla macchina, usando – ovviamente – un tono piuttosto infastidito.
Chissà come non riuscii a prendermela per quella situazione: in fondo, riuscivo a capirlo. A chi sarebbe piaciuto restare dietro le quinte? Cioè, oh Dio… io ci sguazzavo, in certe situazioni, da brava ‘‘wallflower’’ qual ero. Ma Stiles… lui era diverso. Lui ci teneva, ad essere presente.
Solo quando ci ritrovammo di nuovo nella Jeep, io seduta accanto a lui al posto del passeggero che durante il viaggio di andata aveva occupato Scott, decisi di aprire bocca. Sapevo che fosse più che nervoso, e dovevo fare qualcosa per tranquillizzarlo. Mi sentivo quasi in dovere di rendermi utile.
«Scott vuole solo proteggerci. Lo sai, vero?», trovai quindi il coraggio di chiedergli, tuttavia senza cercare il suo viso.
Me ne rimasi, al contrario, con gli occhi puntati nel posto in cui avevo visto McCall per l’ultima volta, e cioè nelle vicinanze del famoso scuolabus incriminato. A dire il vero, non avevo capito in cosa consistesse esattamente il piano: sapevo solo che Scott avesse preso la decisione di chiedere aiuto a Derek dopo aver incontrato il signor Mayers all’ospedale. Da quanto ne avevo capito, bastava che annusasse qua e là per avere la risposta. Bah, licantropi. Chi mai li avrebbe compresi?
«Lo so», mi rispose Stiles, dopo quello che mi era sembrato un bel po’ di tempo, mettendo una fine ai miei soliti stupidi pensieri.
Non potei fare a meno di sorridere lievemente nel notare che il suo tono si fosse tranquillizzato almeno un po’, e mi misi più comoda contro il sedile dell’auto mentre mi portavo due dita alle labbra quasi istintivamente. Feci anche per incrociare le gambe, ma l’avvertire lo sguardo truce di Stiles puntato su di me mi fece decidere di evitare. Sbuffai, cercando di sistemarmi alla bell’e meglio senza dare ‘‘fastidio’’ alla sua preziosa macchina.
«Ho fame», borbottai ad un certo punto, improvvisamente infastidita da tutto e tutti.
Non mi piaceva più, quella situazione. Qualcosa di negativo sarebbe successo, me lo sentivo, e stavo seriamente iniziando a preoccuparmi. Stiles, comunque, non fece altro che riservarmi un’occhiata sconvolta.
«Che c’è?», gli chiesi, facendo spallucce. «Sono preoccupata, e ho sempre fame quando lo sono».
Per un attimo cadde il silenzio, ed io stessa decisi di non aggiungere nient’altro. D’altra parte, cosa avrei potuto dire? Incrociai le braccia al petto mentre scivolavo ancora un po’ più giù sul sedile, cercando di stare tranquilla e sperando che Scott finisse in fretta di ispezionare qua e là – anche se, sinceramente, ci credevo poco. Ad ogni modo, tutta la mia preoccupazione diventò più che sensata nel momento in cui Stiles mi indicò un punto nel giardino di scuola a me un po’ oscurato.
«Oh mio Dio, guarda quella luce!», esclamò, indicandomi con un indice una luce quasi sicuramente proveniente da una torcia. «C’è qualcuno!».
Certo che sì! Si trattava sicuramente del custode! Per poco non caddi nel panico più assoluto: fortuna che dopo aver preso due grossi respiri riuscii a pensare un po’ lucidamente. Sgusciai nei sedili posteriori della Jeep, ordinando a Stiles di suonare il clacson finché Scott non avesse sentito ‘‘l’avvertimento’’. In fondo, quello era l’unico modo che avevamo per comunicare con lui.
«Avanti, avanti, avanti, avanti», scongiurai, non appena notai McCall correre verso di noi a velocità quasi disumana.
Oh Dio, non volevo nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto succedere se ci avessero trovati tutti e tre lì a notte fonda! 
«Parti!», ordinò Scott, praticamente urlando, solo una volta che fu al posto del passeggero.
Quando ormai fummo lontani da scuola e quindi al sicuro, mi resi conto di aver appena perso come minimo dieci anni di vita.
 
«Dimmi che perlomeno ti sei ricordato».
Dopo quelli che praticamente mi erano sembrati secoli di silenzio glaciale, mentre ancora tutti e tre riuscivamo ad avvertire senza problemi i battiti accelerati dei nostri cuori e la paura di quell’essere stati quasi scoperti, ci ritrovammo a casa di Scott.
Io – con ancora il respiro che mi mancava, praticamente – non potei fare a meno di traballare, un po’ incerta, in direzione del divano in tessuto rosso situato nel salotto di casa McCall. Mi ci sdraiai sopra, esausta sia fisicamente che emotivamente, e sentii gli occhi che mi si chiudevano in automatico. 
«Già, e dimmi che quindi è servito a qualcosa il mio rischiare l’infarto», pregai, con voce più che flebile.
Attesi, ancora ad occhi chiusi, una risposta da parte di Scott. Ad ogni modo, prima ancora che potesse riuscire a parlare, sentii Stiles venire a sedersi di fianco a me, e non potei fare a meno di donargli un’occhiata. Sembrava stare bene, per fortuna.
«Mi dispiace», sillabò lentamente, mentre io mi limitavo a fare spallucce.
Mi sforzai anche di fargli un sorriso, ma ero troppo stanca per poterci riuscire. Tuttavia, ogni mio pensiero fu scacciato via dalla voce di Scott. 
«Ho ricordato, sì. Ero lì, ieri notte. Il sangue sullo scuolabus in parte era mio», spiegò, prendendo a camminare nervosamente per tutto il salotto.
Mi ritrovai a chiedermi cosa avremmo fatto a quel punto, ma come quasi sempre tenni quel pensiero per me. Proprio non avevo la forza di parlare: volevo solo andare a dormire al più presto, e perciò aspettai che ci pensasse Stiles a chiedere le altre spiegazioni che in fondo volevo ascoltare anch’io.
«Quindi sei stato tu?», domandò infatti.
«No. Ho visto degli occhi sullo scuolabus: non erano i miei, ma di Derek».
A quel punto il respiro mi si mozzò in gola, e sgranai gli occhi. Era ufficiale, allora? Era Derek l’Alpha? Era lui il colpevole? E se davvero così era, perché non aveva detto fin da subito la verità a Scott? Perché, al contrario, aveva fatto in modo che lui capisse tutto in quel modo?
«E il conducente?», chiese ancora Stiles, stranito da tutta quella situazione almeno quanto me.
«Cercavo di proteggerlo». 
«Non ha senso», trovai la forza di dire a quel punto, scuotendo la testa. «C’è qualcosa che non quadra».
Ero sicura del fatto che fosse così, anche se non riuscivo a capire che ci fosse di sbagliato. Il mio cervello sapeva che fosse così, ma non riusciva comunque a mostrarmi la soluzione. Non ancora, perlomeno.
«Lo penso anch’io», mi appoggiò Stiles, mentre anche a Scott iniziavano a venire i primi dubbi. «Insomma, perché mai Derek vorrebbe che tu ricordassi una cosa del genere?».
«Non lo so: non capisco!», esclamò proprio McCall dopo poco tempo, passandosi una mano tra i capelli lunghi.
«Magari è questione di branco. Tipo iniziazione! Avete cacciato insieme».
Davvero non potevo credere al fatto che stessimo sul serio facendo dei discorsi del genere di primo ‘‘mattino’’. Era tutto così assurdo che ogni volta non potevo proprio fare a meno di chiedermi come avesse fatto la mia vita a cambiare così radicalmente. Mi limitai a sbuffare, però, senza dire nulla mentre mi voltavo su un fianco nella direzione di Stiles.
«Squarciare la gola a qualcuno è un’esperienza che unisce?», sentii domandare a Scott, con la sua voce che arrivava già ovattata alle mie orecchie, simbolo del sonno più che imminente.
Ad ogni modo, comunque, prima ancora che potessi cercare di farmi cullare dalle braccia accoglienti di Morfeo, qualcosa scattò improvvisamente nella mia testa e tutto mi fu almeno un po’ più chiaro. Sì, finalmente avevo trovato la soluzione a quell’enigma.
«Quindi tu saresti nel branco di Derek! Oh mio Dio, adesso capisco», trillai, improvvisamente sveglia, mettendomi in piedi quasi alla velocità della luce.
«Capisci cosa? Che succede, Harry?», mi chiese subito Stiles, preoccupato da quel mio scatto improvviso e curioso di sapere almeno quanto Scott.
Mi voltai a guardarli un’ultima volta entrambi poco prima di prendere a parlare, con tutti i pezzi del puzzle che iniziavano finalmente ad acquistare almeno un po’ di senso. Quello era senza dubbio il momento adatto per confidare tutto ciò che riguardava Derek Hale che ancora tenevo nascosto.
Mai come allora il suo essere sempre in giro mi sembrò adeguato.
 
Neo-licantropo (1)
Umani (2)
Alpha (1)
Vittime (1)
Calcai la parola ‘‘Alpha’’ col pennarello nero ripetutamente, cercando di riflettere a fondo, nell’attesa di un’illuminazione improvvisa. Era lì il problema, e ne ero ben consapevole. Tuttavia, nonostante gli sforzi, non c’era niente che potessi fare per arrivare ad una soluzione sensata.
Fatti i conti, eravamo proprio: un neo-licantropo, due umani, un Alpha ‘‘colpevole’’ di aver trasformato Scott e una vittima. Da quanto ne sapevo io – date le esperienze – la situazione non poteva far altro che peggiorare. E ovviamente, l’aveva fatto.
Sospirai, tirando indietro i lunghi capelli scuri mentre cercavo di scacciare fuori dalla mia mente tutto il baccano che erano capaci di fare i miei compagni di classe in assenza di qualsiasi professore. Il mio insegnante di matematica, infatti, era come al solito in ritardo. E nell’attesa, io facevo schemini deficienti nella speranza che questi potessero aiutarmi a capire.
Neo-licantropo (1)
Umani (2)
Alpha (1)
Vittime (0)
Deceduti (1)
... Derek (1)
Non appena il pennarello abbandonò il foglio per l’ennesima volta, me ne rimasi a scrutare lo ‘‘schema aggiornato’’ che ne era uscito fuori. Mi trovavo davvero in una situazione del genere? A quanto pareva sì. Strizzai gli occhi, provando ancora una volta a concentrarmi. Non che fosse facile, in una classe come quella nella quale ero, ma tentar non nuoce – mai.
Partendo dall’Alpha – perché sul neo-licantropo e i due umani, nessuno aveva dubbi – era scontato che ce ne fosse uno. Un Alpha che aveva trasformato Scott e che, udite-udite, si era scoperto non fosse Derek Hale. Oh già, perché il signorino aveva finalmente parlato chiaro e detto a McCall di non essere il ‘‘colpevole’’. Sinceramente, non sapevo se credergli, ma ammesso e non concesso che dicesse la verità, il tutto ci portava al dover aggiungere un… Derek… alla lista. Perché, insomma, se Derek non era l’Alpha allora cosa diavolo era?
«Se Derek non è l’Alpha e non ti ha morso lui, allora chi è stato?».
Mi voltai a guardare Stiles, seduto di fianco a me, prestando davvero pochissima attenzione al professore di matematica appena entrato in classe. La sua domanda era ovviamente rivolta a Scott, ma alla risposta ero interessata anch’io. E quasi non mi resi conto del fatto che avessimo pensato in contemporanea alla stessa cosa.
«Non lo so», si limitò a mormorare Scott, facendo spallucce.
Sembrava davvero non saperlo, quindi non potevo fargliene una colpa… ma allo stesso tempo sembrava non preoccuparsi abbastanza per quella situazione, e il tutto stava seriamente cominciando a darmi sui nervi. Cercando di mantenere la calma, distolsi lo sguardo dalla sua figura per poi spostarlo sul mio professore. Stava passando per tutti i banchi per distribuire i compiti corretti di matematica, e subito nascosi lo schema che avevo ideato. Non avevo bisogno di diventare la pazza di scuola.
«L’Alpha ha ucciso il conducente?», continuò Stiles, quasi imperterrito.
Sorrisi lievemente. La testarda tra i due ero io? Come no!
«Non so neanche questo».
Ovviamente.
«E il padre di Allison…».
Non appena Stiles riprese a parlare, trattenni una risata e cercai di distrarmi. Scott non sapeva nulla, era evidente, e non potevamo contare su di lui per risolvere l’enigma. Continue domande non avrebbero portato a nessuna soluzione.
Quando il professore arrivò di fronte al mio banco, gli rivolsi un: «Grazie» sussurrato ed afferrai il mio compito, ritrovandomi di fronte una bella ‘‘A’’ in pennarello rosso. Non potevo crederci! Allora qualcosa andava per il verso giusto, lì a Beacon Hills. Sorrisi, ma tutta la mia felicità fu scacciata via da ciò che urlò Scott pochi secondi dopo.
«STILES! Basta domande».
Mi voltai a guardar male McCall, ed altrettanto fece il nostro insegnante di matematica mentre gli consegnava il suo compito corretto. Vidi quasi per prima la ‘‘D’’ disegnata in alto, e anche lo sguardo dispiaciuto di Scott. Subito m’intristii per lui.
«Ehi, quanto hai preso?», mi sentii chiedere da Stiles, all’improvviso.
Sobbalzai lievemente, voltandomi a guardarlo. Gli sorrisi, grata perché mi avesse distratta, per poi mostrargli la A della quale andavo davvero molto fiera.
«Tu cos’hai preso?», domandai a mia volta.
Solo quando anche Stilinski mi mostrò il suo compito e la sua bellissima e rossissima ‘‘A’’, scoppiai a ridere di gioia.
«Ah, batti cinque!», trillai, allungando una mano nella sua direzione.
Ancora una volta, ero davvero felice.
 
«Un’altra giornata è passata».
La prima cosa che feci, non appena Stiles ebbe finito di pronunciare quelle poche parole, fu donare uno sguardo quasi vuoto al cielo che era già sul punto di imbrunire. Era vero, aveva ragione. Un’altra giornata era passata e stava quasi per volgere al termine, mentre io a momenti già mi disperavo per il tempo che mi sfuggiva dalle mani, privandomi di ulteriori giorni da trascorrere a Beacon Hills. Nonostante tutto, una parte di me ci sarebbe voluta rimanere più o meno per… sempre.
«Ed io non so se esserne felice o meno», mormorai infatti, stringendomi nel giubbotto di pelle mentre camminavo sempre al fianco di Stiles in direzione della Jeep azzurro cielo.
Eravamo soli, proprio come capitava spesso negli ultimi tempi. Scott sarebbe andato a studiare a casa di Allison mentre noi ci saremmo chiusi nella nostra, di casa. Non che ci fossero programmi speciali: dopo tutta l’avventura della notte prima, avevamo intenzione di non metterci nei guai per almeno un po’. Strano ma vero.
«Oh, posso solo immaginare», sentii dire a Stiles dopo qualche momento, e d’istinto mi voltai a guardarlo per trovarlo intento a scuotere lievemente le spalle mentre annuiva.
Mi stava appoggiando nuovamente e, senza che potessi impedirmelo, sorrisi mentre mi sistemavo la tracolla della borsa su una spalla. Feci per riprendere a parlare, ma mi accorsi che fossimo oramai arrivati di fronte alla Jeep e decisi dunque di aspettare. Solo quando entrambi fummo all’interno dell’abitacolo, dissi:
«Sai, pensavo di tornare ad Austin, per Natale. Voglio stare con la mia famiglia e…».
Ma fui interrotta dalla voce di Stiles, e dopo ciò che disse, rischiai seriamente di sciogliermi come un gelato al sole.
«Che peccato. Sarebbe stato bello averti qui con noi».
Parlò con estrema leggerezza, mentre io al contrario mi irrigidivo come forse non mai, ancora sporta verso i sedili posteriori dove stavo lasciando come al solito la mia borsa e lo zaino di Stiles. Solo dopo aver respirato a fondo nel modo più impercettibile possibile, tornai a sedermi composta mentre lo osservavo mettere in moto la Jeep.
«Be’, questa è una decisione che devo ancora prendere. Ho molto tempo, in fondo», decisi di dire alla fine, controllando nello specchietto di non essere arrossita più del solito.
Per fortuna, la mia pelle conservava ancora il suo naturale colorito abbronzato. Provavo l’impulso di urlare dalla gioia e allo stesso tempo di piangere senza quasi nessun buon motivo, ma tutte quelle sensazioni riuscivo a nasconderle piuttosto bene.
«Prometto che cercherò di non influenzarti ulteriormente. Prima cosa stavi cercando di dire? Ti ho interrotta, scusami».
«I-io…», presi a balbettare, di nuovo in imbarazzo. «… pensavo volessi passare il Natale insieme a tuo padre, senza me di mezzo. Come al solito».
«Stai scherzan…».
E fu improvvisamente questione di un attimo: quella volta fui io ad interrompere Stiles, bloccando la sua domanda un po’ stupita mentre gli posavo una mano su un braccio ancora fermo sul volante. Sapevo benissimo che fosse un gesto inutile ma lo feci comunque, impulsivamente. 
«STILES, ATTENTO!», strillai in contemporanea, individuando una figura scura ferma nel bel mezzo del viale.
Sarebbe stato un bel problema se avessimo investito qualcuno, mi dissi. Purtroppo, però, ancora non avevo riconosciuto chi fosse quel qualcuno.
«Oh, maledizione!», imprecò Stiles, frenando la Jeep giusto un attimo prima che questa potesse colpire a velocità elevata un Derek Hale dall’aspetto alquanto strano.
Aggrottai lievemente le sopracciglia mentre lo squadravo dall’alto in basso, con gli occhi nocciola sgranati.
«Merda. Che ci fa lui qui?», domandai poi subito dopo.
Ero seriamente curiosa e forse anche un po’ spaventata. Derek non accennava a muoversi dalla strada: non aveva intenzione di farci passare e questo era chiaro, ma allo stesso tempo sembrava come se non ne fosse nemmeno in grado. Mi stupii di vederlo così sorprendentemente pallido. Come… smorto.
«Non ci credo. Questo tizio è ovunque», sentii dire a Stiles, e mi voltai lentamente nella sua direzione per vederlo sospirare bruscamente.
Avrei desiderato poter avere del tempo per pensar bene a cosa fare, ma la situazione non mi permise niente del genere e, mentre mi rendevo conto del fatto che fossimo ancora tutti e tre immobili nel bel mezzo di una strada, tutte le auto in fila dietro di noi cominciarono a suonare i clacson.
«Stiles, dobbiamo muoverci. Stanno tutti impazzendo e…»
e stiamo attirando troppa attenzione, avrei voluto dire. Ma ancora una volta, venni interrotta. Quella giornata sembrava voler far sì che nessun discorso – soprattutto quelli importanti – venisse portato a termine.
Osservai Derek perdere i sensi e cadere a terra proprio di fronte alla Jeep, ma, immobilizzata senza nemmeno sapere perché, non feci nulla per anche solo provare ad aiutarlo. Stiles, poi, reagì nel mio stesso identico modo.
A smuoverci da quella situazione fu solo Scott, che trovai vicino alla nostra macchina quasi all’improvviso.
«Ma che cavolo succede?», domandò velocemente, donando un futile sguardo a Stiles prima di correre ad accertarsi delle condizioni di Derek.
Solo allora trovammo il ‘‘coraggio’’ di scendere, camminando sotto gli sguardi sconcertati di moltissimi studenti della Beacon Hills High School, nella direzione del licantropo Hale. Era ancora sdraiato a terra, sembrava non riuscire a muoversi, e Scott si era abbassato sulle ginocchia per potergli parlare. 
«Che ci fai qui?», gli chiese, confuso come tutti.
Di tutta risposta, io me ne rimasi accanto a Stiles mentre incrociavo le braccia al petto. Il rapporto – potevo definirlo così? – tra me e Derek non era affatto roseo, e in tutta sincerità devo dire che a quei tempi pensavo mai lo sarebbe diventato… ma ad ogni modo potei avvertire immediatamente un senso di preoccupazione nei suoi confronti, e quasi mi odiai per quelle sensazioni.
«Mi hanno sparato».
Derek parlò con una leggerezza tale che per poco non mi misi ad urlare. L’avevano sparato, diamine. Era un licantropo, certo, magari nemmeno sentiva dolore… ma stava morendo e lo diceva con così tanta nonchalance? Cercando di non perdere le staffe – perché capii che sarebbe stata una cosa del tutto inutile, in quel momento – spostai il peso del corpo da una gamba all’altra.  
«Non ha una bella cera», dissi poi, indicandolo con un lieve cenno della testa.
«Ma Scott, non dovrebbe guarire?», chiese invece Stiles, ovviamente più intelligentemente.
Non appena finì di parlare, rivolsi uno sguardo a Scott, aspettando la sua risposta. Nel frattempo, tutti intorno a noi impazzivano. Eppure, continuavamo quasi ad ignorarli.
«Non ci riesco… era un proiettile diverso».
Fu proprio il diretto interessato a rispondere, e solo a quel punto mi presi dell’altro tempo per osservarlo bene. Parlava a fatica, con voce flebile e spezzettata, e dubitavo che sarebbe stato in grado di mettersi in piedi senza problemi. D’altra parte, però, dovevamo andare tutti via subito. Per un sacco di motivi. 
«Era d’argento?», domandò Stiles, curioso come al solito.
Non avevo mai visto Derek in quelle condizioni, e solo in quel momento pensai a quanto potesse essere strana tutta quella situazione se vista dall’esterno. Fino ad allora, lui non aveva fatto altro che mostrarsi ai miei occhi come invincibile, quasi senza sentimenti e spaventoso. Quando invece quel pomeriggio mi ritrovai a rivolgergli l’ennesimo sguardo preoccupato, non vidi nulla di tutto ciò. Solo un uomo che soffriva.
«No, idiota», disse però poi rivolgendosi a Stiles, rovinando tutta la ‘‘magia del momento’’ e facendo sì che qualsiasi buon pensiero sul suo conto sparisse subito dalla mia mente.
Sentii la rabbia montarmi dentro e digrignai appena i denti, sfregando un piede sull’asfalto mentre mi facevo un tantino più avanti e gli dedicavo una delle mie solite occhiate truci. Come si permetteva a parlare in quel modo? A qualcuno, poi, che lo stava aiutando? O che perlomeno provava a farlo?
Tuttavia, prima ancora che potessi mettere su un’altra delle mie scenate, Scott disse qualcosa di abbastanza insolito, tanto che tutti prendemmo a guardarlo con le sopracciglia aggrottate.
«Aspetta! Ho sentito la donna che ti ha sparato dire che ti restavano quarantotto ore!», esclamò, sgranando gli occhi ogni secondo che passava un po’ di più.
Stiles sussultò lievemente mentre io assumevo un’espressione sconvolta. Scott aveva assistito alla sparatoria? E perché non aveva fatto nulla per impedire che tutto ciò accadesse?
Ovviamente, comunque, non ero l’unica ad essere piena di domande. Anche Derek infatti fece per parlare, tirandosi lievemente su sull’asfalto, ma non appena provò a dire qualcosa la voce gli venne a mancare, spezzandosi in una tosse violenta. Fu solo allora che vidi i suoi occhi brillare e trasfigurarsi in un azzurro intenso che decisamente non era naturale. D’istinto mi ritrovai ad indietreggiare, stringendo il braccio di Stiles con una mano senza che potessi impedirmelo.
«Derek, cosa stai facendo? Smettila!», lo riprese Scott immediatamente, preoccupato, scuotendogli le spalle nella speranza di farlo tornare in sé.
Si stava trasformando? Stavo davvero guardando coi miei occhi un licantropo trasformarsi? Avvertii ogni mio muscolo immobilizzato dalla paura e il respiro che accelerava mentre mi facevo ancora un po’ più indietro, trascinando Stiles con me. Potevo ancora avvertire tutt’intorno a noi il rumore incessante dei clacson e l’impazienza sempre crescente di gran parte degli studenti della Beacon Hills High School, ma proprio non riuscivo a curarmi anche di loro.
«Non ci riesco», sibilò Derek dopo un po’, parlando con voce debole mentre strizzava gli occhi, molto probabilmente ancora preda di un dolore lancinante.
Mentre ancora osservavo ciò che succedeva intorno a me con sguardo vacuo, avvertii gli occhi di Stiles posarsi sulla mia figura scossa letteralmente dai tremiti. Fino a quel momento mi aveva a malapena guardata, convinto del fatto che stessi bene e che la persona di cui ci si sarebbe dovuti preoccupare in quella situazione fosse solo Derek, ma quando sentì la mia mano tremante afferrargli un braccio e tirarlo verso di me, si voltò di scatto a guardarmi e potei vedere bene i suoi occhi riempirsi di preoccupazione. Tuttavia, non ebbe il tempo di far nulla.
«Dobbiamo portare Derek via da qui. Verrà in macchina con voi!», ordinò Scott all’improvviso.
E non c’era niente che potessimo fare per impedire quella cosa.
 
«Ce la fai a camminare?».
Distolsi subito lo sguardo dal display del cellulare di Stiles, abbandonandolo nella tasca della giacca in pelle. Fino a quel momento ne avevo fatto uso io per poter comunicare con Scott mentre Stiles guidava. Lui inizialmente aveva provato a fare entrambe le cose contemporaneamente, ma io gliel’avevo impedito. Non potevamo permetterci anche il rischio di un incidente: già era piuttosto preoccupante pensare a non farci scappare il morto.
In risposta alla domanda di Stiles, Derek si limitò ad annuire. A momenti sembrava stare un po’ meglio ed era in grado di parlare, mentre in altri la situazione sembrava improvvisamente colare a picco. La ferita sul braccio era piuttosto profonda e l’emorragia non si era ancora fermata. Derek diceva di aver bisogno del proiettile per sopravvivere e aveva incaricato Scott di cercarlo a casa Argent. A quanto pareva, la donna che lo aveva sparato era una di loro.
«Allora scendi. Harry, tu va’ con lui mentre io parcheggio», ordinò Stiles, cercando di restare tranquillo nonostante tutto.
In mancanza di Scott, aveva saputo prendere le redini della situazione nel migliore dei modi, evitando che mi venisse un attacco di panico e che Derek morisse nel mentre. Era stato davvero bravo e non potei fare a meno di sorridergli mentre seguivo Hale fuori dalla Jeep.
Fu solo in quel momento, però, che mi resi conto di dove fossimo sul serio. L’insegna dello studio veterinario di Beacon Hills dove lavorava Scott se ne stava di fronte ai miei occhi, e per un attimo mi chiesi cosa avrei dovuto fare. Era chiuso, ovviamente, ma se McCall aveva ordinato di andare lì doveva esserci per forza una possibilità di entrare.
«Merda», sibilai, avanzando lentamente in direzione della porta d’ingresso mentre ascoltavo Derek trascinare i passi dietro di me, evidentemente affaticato.
Mi volsi a donargli l’ennesimo sguardo preoccupato di quella giornata, osservandolo mentre mi raggiungeva accasciandosi poi contro il muro della struttura.
«Stai bene?», non potei proprio fare a meno di domandargli, mentre in contemporanea mi guardavo intorno attentamente.
Possibile che lì in giro ci fosse una qualche chiave? Perché Stiles non mi aveva detto come entrare? E soprattutto, perché io non gliel’avevo chiesto? Che stupida.
Derek, comunque, evitò la mia domanda, socchiudendo gli occhi stancamente mentre sospirava reggendosi il braccio ferito.
«Non sai cosa fare, vero?», lo sentii chiedermi all’improvviso, mentre ancora parlava con una voce così bassa da essere a malapena udibile.
«Stiles a volte dimentica che non sono del posto», borbottai, controllando sotto lo zerbino inutilmente.
Tra l’altro, dov’era finito?
«La chiave è in una scatola dietro al cassonetto».
Improvvisamente mi voltai a guardare Derek con gli occhi sgranati. Cosa? L’aveva saputo per tutto quel tempo e non me l’aveva detto, divertendosi a guardarmi annaspare in quel modo? E soprattutto, come faceva a saperlo?
«Muoviti», ordinò, troncando sul nascere ogni mio tentativo di protesta.
Feci come mi aveva ordinato, e seguendo il suo indizio trovai velocemente le chiavi della porta. La aprii proprio nel momento in cui Stiles ci raggiunse, e lo osservai aiutare Derek a mettersi in piedi poco prima che entrassimo all’interno della clinica tutti e tre insieme.
A passo spedito, ci dirigemmo verso quella che aveva tutta l’aria di essere una sala visite. Stiles accese tutte le luci ed io avanzai nel piccolo ambiente illuminato mentre mi guardavo curiosamente intorno, tenendo le braccia strette al petto nella speranza di avvertire meno freddo. Derek incominciò ben presto a rovistare in tutti i cassetti, e mentre mi prendevo del tempo per osservarlo con la testa piegata da un lato, mi chiesi cosa diavolo avesse intenzione di fare a quel punto.
«Devo avere il proiettile, altrimenti morirò. A che punto è Scott?», domandò a Stiles, voltandosi brevemente a guardarlo poco prima di tirar fuori da uno dei tanti cassetti uno strumento dall’aria pericolosa ed un elastico blu.
Aggrottai le sopracciglia, confusa, ma qualsiasi mia domanda venne spazzata via dalla visione che si presentò poco dopo ai miei occhi. Derek infatti prese a sfilarsi la maglia nera che indossava come se niente fosse, mentre io potevo avvertire distintamente le mie guance imporporarsi e l’imbarazzo salire alle stelle. Non ero pronta per una cosa del genere, assolutamente no. Non era il momento per ritrovarsi ad apprezzare un tipo come Derek a petto nudo. No, no, no, n…
«Harriet», mi sentii chiamare, e fui costretta a scuotere la testa violentemente mentre strizzavo gli occhi.
Rivolsi un ennesimo sguardo a Derek, concentrandomi per fissargli solo il viso pallido e nient’altro. Deglutii, sperando che fosse passata inosservata la reazione che avevo avuto nel trovarmelo di fronte mezzo nudo, notando solo in quel momento che mi stesse porgendo proprio l’elastico blu che gli avevo visto recuperare.
«Legamelo intorno al braccio», ordinò, mentre mi ritrovavo mio malgrado ad afferrare l’elastico.
Ero ogni minuto che passava un po’ più confusa e provai a chiedere spiegazioni, ma l’occhiata infastidita che Derek mi lanciò mi fece decidere di evitare. Muovendo un ulteriore passo nella sua direzione e trattenendo il fiato, feci come mi aveva chiesto, cercando di sfiorargli la pelle il meno possibile, ancora spaventata da chissà cosa.
«Che hai intenzione di fare?», domandò solo a quel punto Stiles, poggiando le mani a palmi aperti sul tavolo in metallo che lo separava da me e Derek.
«Mi devi amputare il braccio», spiegò proprio lui spiccio, porgendo a Stiles lo strano strumento che aveva recuperato in uno dei cassetti della clinica mentre si allontava un po’ da me. «È l’unico modo per evitare che io muoia».
«Spero tu stia scherzando!», urlai a quel punto, come improvvisamente sveglia da un lungo sonno, osservando Derek con occhi sgranati.
«Che si fa se ti dissangui?», gli chiese Stiles invece, restando tranquillo come quasi sempre in certe situazioni.
Derek decise di ignorarmi, rispondendo a Stiles mentre teneva gli occhi verdi fissi nei suoi.
«Sono un licantropo», esalò semplicemente, non osando posare lo sguardo sulla mia figura. «Le mie ferite guariscono. O perlomeno dovrebbero».
A quel punto mi posi di fronte a Derek, obbligandolo a guardarmi. Non poteva essere serio. Davvero no.
«Preferisco non dover scoprire quanto siano funzionanti i tuoi superpoteri di guarigione usando te come cavia», sibilai, stringendo le braccia al petto un po’ di più ogni minuto che passava.
«Perfetto: cos’altro hai intenzione di fare?», sospirò Derek, guardandomi senza tuttavia avere la minima voglia di farlo. «No, perché in caso non l’avessi capito… sto morendo, Harriet». 
Furono solo le ultime tre parole di quel discorso a placarmi almeno un po’. Socchiusi gli occhi mentre prendevo un grosso respiro e provavo inutilmente a calmarmi ancora, avanzando in direzione di Derek con sguardo minaccioso. Non era mia intenzione mettermi a discutere con lui, ma davvero non potevo impedirmi di essere preoccupata.
«Allora scordati che lo faccia io», sussurrai dopo qualche tempo, vicinissima al viso di Derek, parlando a denti stretti.
«Non l’ho chiesto a te», replicò lui immediatamente, rivolgendomi un ultimo lungo sguardo poco prima di voltarsi nuovamente a fissare Stiles.
Allora mi ricordai nuovamente di lui, e a mia volta cercai il suo viso. Era sconvolto, almeno quanto me e forse pure di più. Lo ascoltai mentre provava a rifiutarsi inutilmente, non riuscendo tuttavia a cogliere ogni sua parola. Non avevo idea di cosa stesse succedendo esattamente, ma era come se il cervello si connettesse ad intervalli alterni. Mi sentivo ancora una stupida, sì.
Solo quando improvvisamente Derek afferrò Stiles per la maglia, attirandolo a sé con forza, mi risvegliai dalla trance nella quale ero caduta per l’ennesima volta senza che riuscissi ad impedirmelo e mi avvicinai ai due, tirando subito Derek lontano da Stiles.
«Piantala! O ti lascio qui a morire una volta per tutte», lo ripresi, notando subito però come non reagì per nulla al mio sgridarlo.
«… Derek?», lo chiamò Stiles, osservando il licantropo con espressione confusa e anche vagamente preoccupata.
Questi non rispose ancora una volta, ed improvvisamente lo osservammo piegarsi su se stesso per vomitare sangue. 
«È il mio corpo che cerca di guarire», spiegò proprio lui, non appena fu nuovamente in grado di parlare. «Devi amputarmi il braccio, adesso».
Si rivolse nuovamente a Stiles, e lui di tutta risposta si limitò a balbettare. Proprio non voleva farlo, e come dargli torto? Derek di tutta risposta provò ad urlargli di nuovo contro, ma io glielo impedii anticipandolo.
«Prova a sbraitargli contro solo un’altra volta e ti uccido io personalmente!», lo redarguii, alzando la voce sempre di più mentre toglievo dalle mani di Stiles lo strumento del quale assolutamente non conoscevo il nome. «Lo farò io. Mi serve solo…».
Presi un lungo respiro, cercando di prepararmi mentalmente e fisicamente. Stavo davvero per amputare un braccio ad un licantropo in punto di morte? A quanto pareva sì.
Proprio nel momento in cui cominciai ad avvertire un vago senso di rassegnazione prendere possesso di me ed osservai quasi dall’esterno la lama della sega – potevo chiamarla così? – sfiorare la pelle chiara del braccio di Derek, capii che il destino fosse venuto nuovamente a salvarmi.
«Ragazzi?», sentii infatti dire a Scott, che finalmente era riuscito a raggiungerci alla clinica.
Immediatamente misi via lo strumento da operazione e liberai un grosso sospiro di sollievo, mentre tutti e tre ci voltavamo nella direzione da cui sapevamo sarebbe giunto McCall. Nel momento stesso in cui i miei occhi incontrarono i suoi, non potei fare a meno di pensare che ero grata a Dio per la sua presenza lì.
 
Derek Hale ha stretto amicizia col suolo.
Fu quella l’unica assurdità che riuscii a pensare nel guardare, piena di disperazione, Derek che sveniva di fronte a me per la seconda volta nel giro di meno di sei ore. Sperai che fare pensieri stupidi come quello sarebbe riuscito almeno un po’ a tirarmi su il morale, ma purtroppo quella mia tattica strampalata non sortì affatto l’effetto desiderato. Al contrario, la situazione colava sempre più a picco.
«Derek?», soffiai, raggiungendolo il più velocemente possibile mentre osservavo solo di sfuggita Stiles e Scott che cercavano di recuperare il proiettile caduto inavvertitamente.
«Oh no», continuai subito dopo, inginocchiandomi alla sua altezza e prendendogli il viso tra le mani quasi senza che nemmeno me ne accorgessi.
Aveva perso i sensi del tutto e non c’era nulla che potessi fare per rianimarlo, perlomeno nulla che mi venisse in mente in quel momento. Mi sentivo più stupida del solito, immobilizzata e tremante allo stesso tempo a causa della paura, che aveva fatto di me la sua preda. Incominciai a tremare quando osservai Derek non rispondere al mio ennesimo richiamo e mi resi conto di quanto fosse estesa a quel punto la sua ferita. Se solo l’infezione avesse raggiunto il cuore…
«Ti prego, no. Ti prego, non morire», piagnucolai quasi, con un tono di voce un tantino stridulo e fastidioso. «Sono troppo giovane per assistere alla morte di qualcuno, mi hai capita?».
A quel punto, la mia mano destra partì praticamente in automatico, andando a colpire la guancia di Derek. Non mi resi pienamente conto di ciò che avevo fatto almeno finché non sentii il palmo bruciare lievemente e un senso di sorpresa e soddisfazione perversa prendere possesso di me. Più volte, Derek si era comportato male e mi aveva fatta arrabbiare, mentre io sognavo già da moltissimo tempo di poterlo schiaffeggiare.
«Oh mio Dio! Avrei davvero dovuto farlo prima!», trillai, trattenendo a stento un sorrisino soddisfatto.
Solo quando la mia mano fu nuovamente ad un passo dalla pelle ghiacciata di Derek, lo vidi finalmente riacquistare un minimo di conoscenza, e senza che potessi impedirmelo, il mio sorriso si allargò ancora di più.
«Pazzesco. Allora sai sorridere anche tu…».
Inutile dire che la mia espressione mutò radicalmente nel giro di due millesimi di secondo, vero? Ritirai indietro le mani mentre le mie labbra formavano una perfetta linea dritta. Feci anche per dire qualcosa di molto simile a: «Ti davo già per morto, peccato» o «Ho pensato la stessa cosa anch’io, l’unica volta che ho visto sorridere te», ma prima ancora che potessi aprir bocca fui distratta dalle figure di Stiles e Scott che ci raggiunsero.
Mi misi in piedi velocemente, facendomi lontana da Derek mentre li guardavo aiutarlo a mettersi in piedi. Avevano recuperato il proiettile facendo un ottimo lavoro, ed in quel momento mi sentii fiera di loro come non mai. Cercai lo sguardo di Stiles, riservandogli un gran sorriso. Realizzai solo in quel momento che Derek fosse salvo e che tutto si sarebbe finalmente concluso nel migliore dei modi.
Anche quella volta, stavamo tutti bene.
 









Forse non mi crederete, ma scrivere questo capitolo è stato praticamente faticoso tanto quanto un parto trigemellare, e non sto esagerando. Ci ho messo più di un mese per riuscire a farci qualcosa, infatti, il che credo la dica già lunga su tutta la situazione. Poi alla fin fine nemmeno mi piace, quindi alé. Lo trovo lungo, noioso, pesante... mannaggia a me ç.ç Sono stressata, sìsì. Perciò ho deciso che metterò la storia nuovamente in pausa, per un mese o poco più.
Ho bisogno di tempo per dedicarmi a me e magari anche ad altre storie, dal momento che esplorare altri fandom non fai poi tanto male. Anche se, devo proprio dirlo, quello di Teen Wolf è il migliore nel quale sia mai stata in questi quasi due anni di efp ♡
Coooomunque, parlando del capitolo (o perlomeno provandoci), avrete notato che Stiles ed Harriet si avvicinano sempre di più, spero. Per come la vedo io, oramai lei è a Beacon Hills da poco più di un mese e ovviamente di esperienze insieme i due ne hanno fatte, dunque è legittimo (?) vederli legare ogni giorno un po' di più, anche dal momento che vivono sotto lo stesso tetto. Ovviamente poi ci sono le solite missioni suicide (noi siamo ancora all'inizio, ma Harry non lo sa mica :P) del trio McCartinski. L'avevo detto che ci sarebbero stati e mi fa davvero piacere essere stata capace di dare uno spazio anche a loro, perché insieme li adoro davvero molto e spero sia altrettanto per voi.
E poi c'è Harriet che si improvvisa detective (sono tutti ansiosi di scoprire chi è l'Alpha, sì), e Derek che... è semplicemente Derek, non so cosa dire al riguardo XD Direi che forse è meglio se mi limito a scomparire nel nulla, lasciando tutti i pareri possibili ed immaginabili a voi, sempre nella speranza che non siate svenute addormentate alla seconda scena o giù di lì ç.ç Alla prossima, e cioè tra un mese o più,
hell

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Capitolo 13
*** Carter. ***


N.B.: Il capitolo che vi apprestate a leggere è uno dei più importanti della long e spero proprio che vi possa piacere perché io sinceramente, dal canto mio, non posso far altro che trovarlo estrememante noioso e pesante, e rimproverarmi perché sicuramente avrei potuto organizzarlo meglio. È un capitolo ancor più Harriet!centric degli altri e iniziamo a saperne un po’ di più sulla famiglia Carter. Spero che la storyline di fondo possa risultare interessante e non solo un’accozzaglia di informazioni date tutte insieme in modo sbagliato. Per altre dovute spiegazioni, ci rileggiamo sotto. Nel frattempo, buona lettura.


 
 
parachute
 
 

 
 
 
13. Carter.
 
 
La storia mi aveva appassionata fin da sempre. La trovavo una materia molto interessante, oltre che ovviamente utile. Mi piaceva tanto poter avere la possibilità di conoscere il passato e spesso mi ero ritrovata a dispiacermi per tutte quelle persone che, per un motivo o per un altro, non avevano avuto i miei stessi privilegi. Poter scoprire cosa avesse spinto i popoli di tutto il mondo a guerre e conquiste – ma non solo – imparando a capire almeno un po’ i pregi e difetti di tutti, mi aveva sempre incuriosita abbastanza da studiare la materia con parecchia voglia. Trovavo la storia bella anche e soprattutto perché non importava quanto tempo fosse passato dal principio: lei era sempre la stessa. Le passioni degli uomini non mutano mai e la storia non fa altro che ripetersi, sempre uguale nel tempo, proprio a causa di queste ultime. La storia va innanzitutto capita, diceva il professor Timber, e poi studiata.
In quei primi giorni di ottobre mi ritrovai a pensare molto spesso alle sue parole, anche se non so spiegarmi tutt’ora l’esatto motivo. Forse mi spingeva la nostalgia di Austin, forse il fatto che la mia nuova professoressa di storia – la signora Finnigan – avesse assegnato alla sua intera classe una ricerca da svolgere sulle nostre famiglie e soprattutto sulle loro storie. Appassionata com’ero della materia avrei dovuto essere felice di quel compito, e invece no. Non appena ne ero venuta a conoscenza ero caduta in un vero e proprio vortice di disperazione assoluta. Perché se era vero che mi era stata data fin da sempre la possibilità di conoscere il passato di greci e romani, quella invece di conoscere il passato della mia famiglia mi era stata negata fin da subito.
Philip Carter era il nome di mio padre, l’uomo che, dopo aver visto mia madre mettere alla luce Cassandra e in seguito me, aveva deciso pochi giorni dopo la mia nascita di essere più interessato alla sua carriera di musicista che alle tre donne della sua vita. Non l’avevo mai conosciuto né credevo ne avrei mai avuto l’occasione. Non che mi interessasse più di tanto: d’altronde, perché nutrire interesse verso qualcuno che non ne ha mai avuto nei tuoi confronti? Non ho mai conosciuto lui né i suoi genitori, né i genitori dei genitori e così via. Niente zii, cugini, nipoti. Niente di niente. Jenette, Cassandra e io. L’unica cosa che davvero mi collegasse ai Carter era il cognome che sia io che mia sorella portavamo. Erano una famiglia – ma siamo sicuri che davvero si potesse definire come tale? – inesistente, morta. Almeno per me. E davvero non avevo alcuna intenzione di conoscerne la storia.
«La cosa… di chi?».
Il tono confuso di Lydia riuscì immediatamente a riportarmi alla realtà, fuori da quell’insieme di pensieri che mi tenevano costantemente a metà tra la tristezza e la rabbia. Per un attimo provai l’impulso di ringraziarla per avermi distratto, ma la sua espressione sorpresa mi portò a domandarmi di cosa stessero parlando lei ed Allison mentre io non avevo fatto altro che giocare distrattamente col cibo da quando eravamo entrate in mensa quel giorno.
«La bestia del Gévaudan. Ascolta», spiegò proprio la Argent, e lanciandole uno sguardo attento notai che teneva tra le mani un libro dalla copertina consunta dal quale cominciò a leggere alcune informazioni. «“È un mostro quadrupede simile al lupo che terrorizzò le regioni francesi dell’Alvernia e della Dordogna dal 1764 al 1767”».
«Scusate», mi intromisi all’improvviso, bloccando la lettura – senz’altro interessante – di Allison. «Cos’è questa roba?».
«Ho cominciato a lavorare alla relazione sulla storia della mia famiglia. A quanto pare sono l’unica», fu la sua risposta, accompagnata da un sorriso gentile. «Sentite come continua. “La bête uccise oltre un centinaio di persone, diventando tanto famigerata che il re Luigi XV inviò uno dei suoi migliori cacciatori ad ucciderla”».
«Noioso», sentenziò allora Lydia, spostando un ciuffo di capelli rossi da una spalla all’altra con estrema noncuranza.
Non le interessava affatto ciò che Allison le stava leggendo con tanto entusiasmo, al contrario mio che ero grata a qualsiasi tipo di distrazione possibile. Le rivolsi un veloce sguardo poco prima di concentrarmi nuovamente sulla Argent, seduta di fronte a me, facendole cenno di continuare a leggere la storia senza dar retta alla Martin. Più che altro, ero curiosa di capire che legami avesse quella leggenda con la famiglia Argent.
«“Anche la Chiesa alla fine dichiarò il mostro un messaggero di Satana”», continuò proprio lei infatti, leggendo con intonazione e interesse mentre Lydia ancora sussurrava lamentele. «“I criptozoologi ritengono che si tratti di un predatore ungulato: forse un mesochinide. Alcuni credono si trattasse di uno stregone in grado di trasformarsi in un mostro cannibale…”».
«Mi spieghi tutto questo cosa c’entra con la tua famiglia?», la interruppe Lydia a quel punto, spazientita e curiosa forse quanto me.
Allison, di tutta risposta, quotò altre righe del vecchio libro che ancora stringeva tra le mani mentre io prendevo un sorso d’acqua nell’attesa.
«“Si pensa che la bête fu intrappolata ed uccisa da un famoso cacciatore, il quale sosteneva che la bestia gli avesse ucciso sua moglie e i suoi quattro bambini”. Si chiamava Argent», completò poi alla fine, riservando uno sguardo soddisfatto a Lydia.
Per un solo breve attimo, mi chiesi se anch’io avrei trovato una storia così sorprendente nel passato della mia famiglia – se solo avessi deciso di mettermi a cercare qualcosa. Ancora non lo sapevo, ma la risposta era assolutamente sì. 
«Un tuo antenato ha ucciso un grosso lupo. E allora?».
«Non è solo questo. Guarda quest’immagine», ordinò la Argent, mostrando poi ad entrambe la rappresentazione illustrata presente su una delle tante pagine ingiallite di quello strano libro.
Il suo: «Che cosa ti sembra?» rivolto a Lydia arrivò ovattato alle mie orecchie. Ero stata rapita dalla grossa bestia dagli occhi rossi che Allison mostrava quasi con orgoglio, forse fiera di poter dire che un suo vecchio antenato fosse stato capace di compiere un atto di coraggio tale da poter uccidere un animale del genere e ridare di nuovo la pace.
La creatura abbozzata a malapena sulla carta era fin troppo simile a quella che, in uno dei sogni che avevo fatto da quand’ero lì a Beacon Hills, aveva ucciso Derek coi suoi artigli aguzzi. Sentii un brivido scorrermi velocemente giù per tutta la schiena e ancora una volta, proprio come nel mio sogno, mi ritrovai incapace di parlare.
Scoprii che Lydia avesse avuto una reazione molto simile alla mia solo quando la voce di Allison, intenta a richiamare la sua attenzione ripetutamente, raggiunse di nuovo le mie orecchie. Ritornai in un batter d’occhio alla realtà, strizzando le palpebre mentre sentivo appena Lydia balbettare una delle sue solite scuse prima di sparire verso chissà dove.
«Che le è preso?», mi domandò Allison delusa, riservandomi uno sguardo vagamente intristito.
«Lascia perdere. Sarà preoccupata perché ancora non ha iniziato la sua ricerca. Proprio come me!», trillai, subito dopo aver fatto spallucce come se niente fosse.
Allison sospirò lievemente, tornando a leggere il suo libro in silenzio almeno finché non vide sfrecciare davanti a sé Scott e Stiles, anche loro diretti chissà dove. 
«Scott? Scott, aspetta!», esclamò, poco prima di raccattare le sue cose velocemente e prendere a rincorrere i due ragazzi.
Oh. No, no, no, no. Non andava bene! Il piano era di far stare lontani i due piccioncini, merda! Pensai a tutta questa serie di imprecazioni mentre seguivo Allison a stento, ascoltandola richiamare Scott almeno finché lui non si chiuse la porta del bagno maschile alle spalle mentre io tiravo un sospiro di sollievo. Di Stiles, invece, non c’era traccia.
«Non ti sembra che mi stia evitando?», mi domandò la Argent, scoraggiata, voltandosi a guardarmi mentre ci allontanavamo dai bagni ed io sentivo distintamente le mie guance imporporarsi.
Certo che la stava evitando, ma lo stava facendo per il suo bene e per quello di tutti. Come avrei potuto spiegarglielo, però?
«Sicuramente no», la rassicurai infatti, fingendo un sorriso mentre le accarezzavo un braccio.
«Forse è arrabbiato perché zia Kate ci ha interrotti sul più bello, l’altro giorno».
A quelle parole arrossii nuovamente, pregando che Allison non se ne accorgesse. Me lo ricordavo ancora troppo bene il racconto dettagliato che proprio lei mi aveva fatto del suo ultimo incontro con Scott, che nonostante gli avvertimenti di Derek aveva deciso di andare a casa Argent per vederla.
«Ma figurati», mormorai, nervosa. «Doveva semplicemente andare in bagno di corsa. Smettila di farti paranoie e andiamo a lezione, piuttosto».
E sperai solo di essere stata convincente abbastanza.
 
Ancora non sapevo chi ringraziare o maledire, eppure eccomi lì in quel tardo pomeriggio di ottobre nella grande biblioteca della Beacon Hills High School, rapita dagli infiniti documenti riguardanti la “dinastia Carter” che ero stata capace di trovare navigando in internet.
Ero stata in grado di leggerne così tanti, in relativamente poco tempo, che i miei occhi stanchi chiedevano pietà, semi-nascosti dalle lenti degli occhiali da lettura che di tanto in tanto mi decidevo ad indossare.
Pareva che i Carter fossero originariamente inglesi emigrati in America a partire dal XVIII secolo. Dietro la storia della mia famiglia non si celavano leggende straordinarie come quella degli Argent che avevo avuto modo di ascoltare quella mattina stessa da Allison, eppure ebbi occasione di capire, in quel freddo pomeriggio di ottobre, che a loro modo anche i Carter avessero qualcosa di eccezionale.
Tutto sembrava partire dalla figura di Charles Shelby Carter, l’unico di loro che fosse riuscito a far parlare di sé abbastanza da non finire subito nel dimenticatoio. Nato a New York nel 1888, secondogenito in una famiglia di umili trasportatori di merci, dopo aver servito per dieci anni nell’esercito americano e aver raggiunto l’alta carica di secondo luogotenente d’artiglieria terrestre, aveva deciso di congedarsi per trasferirsi a Beacon Hills nel 1919.
«Cioè, hai capito? I Carter appartengono a questo luogo ed io non ne sapevo nulla!», esclamai, rivolta a Stiles, subito dopo aver letto quella strabiliante notizia.
«Che coincidenza che anche tu ti trovi qui», mi fece notare lui allora, mettendo su una smorfia divertita che mi fece venir voglia di ridere. «Cosa ha fatto Charles dopo essere arrivato in California?».
«“Nel ventotto ottobre del 1920 prese in sposa la giovane Rita Fitzgerald, che diede alla luce il suo primogenito – Eric – esattamente un anno dopo. I tre vissero una vita più che agiata, affermandosi come una delle famiglie più celebri della piccola cittadina di Beacon Hills. Agli inizi degli anni ’30 Charles diventò inoltre uno degli uomini più ricchi d’America, famoso non solo per la sua carriera militare ma anche per essere stato in grado di fondare una delle banche d’investimento più conosciute del paese. La fortuna era senza dubbio a favore dei Carter, cosa che riempì d’invidia alcuni nemici, colpevoli dell’organizzazione di un vero e proprio attentato ai danni del patriarca”».
«Figata», fu l’unico commento di Stiles, rimasto ad ascoltarmi con attenzione dopo un iniziale momento di noia acuta che ai miei occhi non era passato per nulla inosservato. «Sembra un film! Continua».
Feci come mi aveva chiesto, riprendendo la lettura da dov’ero rimasta. Che quella di Charles Shelby Carter fosse una storia interessante era innegabile, ma quanto di vero c’era in quelle righe? Mentre riprendevo a leggerla lentamente a Stiles, me lo chiesi più volte.
«“A seguito di un tragico incidente che subì il primo luglio del 1935 – un incidente organizzato con l’obiettivo di ucciderlo – rimase paralizzato perennemente e inoltre, per un qualche inspiegabile trauma cranico, si narra in uno dei tanti diari che la moglie di Charles scrisse sotto dettatura del marito, che perse l’abilità di sognare”».
«Wow. È possibile una cosa del genere?», mi domandò Stiles, aggrottando le sopracciglia, confuso.
Di tutta risposta mi limitai a fare spallucce, poco prima di dire: «Me lo chiedo anch’io».
Era vero, ma in realtà non era quella la parte più interessante della storia. Il meglio doveva ancora venire.
«Senti come continua, comunque. “I sogni hanno una grande importanza terapeutica, cosa che Charles si ritrovò a provare sulla propria pelle. In seguito alla soppressione forzata di questi ultimi, infatti, visse le stesse fasi delle cavie da laboratorio sulle quali nella seconda metà dell’800, erano stati condotti diversi studi per cercare di comprendere la natura dei sogni e l’impatto che avessero sugli uomini, partendo proprio dall’abolizione di essi. Charles affrontò un iniziale periodo di aggressività comportamentale quasi incontrollabile, che poi si tramutò in allucinazioni tanto vivide che diventò sempre più difficile, per lui, distinguere la realtà dalla finzione”».
«Okay, adesso le cose si fanno inquietanti», sentenziò Stiles a quel punto, interrompendomi nuovamente mentre io sorridevo appena, più che d’accordo con lui. «Ma è sempre comunque una figata. Tu che ne pensi?».
«Dubito che cose del genere siano successe veramente», spiegai, subito dopo aver fatto nuovamente spallucce. «Insomma, tu certi siti li reputeresti affidabili?».
«Perché no? Anche se in effetti sarebbe bello poter leggere qualcosa di autentico, tipo i diari di Charles».
Oh. Perché non c’avevo pensato prima? Era un’ottima idea, e per un attimo mi chiesi se fosse sul serio possibile reperirli. Gettai un lungo sguardo tutt’intorno a me, cercando di individuare tra gli innumerevoli scaffali di libri, qualcosa che potesse attirare la mia attenzione.
«Lo sai che è proprio una buona idea?», feci notare a Stiles, mentre lo vedevo con la coda dell’occhio prendere a fare lo stupido come suo solito.
«Ci credo, è venuta a me», esalò difatti, mentre io scoppiavo a ridere.
«D’accordo. Ma non montarti troppo la testa, Stilinski», lo ammonii, riservandogli uno sguardo divertito. «Piuttosto, dopo mi aiuti a cercare qualcosa?».
«Certo che sì, signorina Carter», rassicurò, sorridendomi apertamente. «Ma prima devi finire di leggere la storia, perché sono troppo curioso».
Obbedii subito, riprendendo a leggere ad alta voce subito dopo aver annuito lievemente.
«“Il terzo ed ultimo stadio che l’uomo si ritrova ad affrontare in assenza di sogni è quello della morte per insufficienza surrenale, e Charles lo sapeva così bene che si dimostrò fin da subito disposto a tutto pur di riottenere la capacità di sognare. Tutti i rimedi che provò risultarono inutili, almeno finché Charles non riuscì ad entrare in contatto col popolo indiano e a scoprire così la Silene Capensis, pianta meglio conosciuta come “erba del sogno”. Ritenuta sacra dal popolo Xhosa ed utilizzata dagli indiani per l’iniziazione di aspiranti sciamani, era capace di provocare – se ingerita – vivide e profetiche allucinazioni e lucidi sogni durante la fase REM. Charles iniziò ad assumerla di buon grado, grazie ad un patto stipulato con alcuni sciamani che si offrirono di donargliene quanta ne volesse a patto che lui tenesse annotati tutti i sogni che la Silene gli avrebbe fatto fare. Carter riuscì a riottenere i suoi sogni, e tenne fede al patto col popolo degli Xhosa, dettando alla moglie Rita ognuno di essi affinché lei li annotasse nei diari che entrambi custodivano gelosamente”».
«Cavoli, voglio assolutamente leggerli!», esclamò Stiles, interrompendomi ancora.
A quanto pare, però, non aveva colto il punto cruciale di tutta la storia. La cosa che sembrava collegarmi in una maniera assurda ai Carter e riusciva a farmi sentire profondamente una di loro, seppur non volessi affatto e mi rifiutassi perciò di credere a quello che leggevo. Nell’attesa che potesse comprendere anche Stiles, continuai a leggere dopo avergli lanciato un lungo sguardo.
«“Pochi anni dopo la nascita del suo secondogenito avvenuta nel 1935, Charles smise di assumere la Silene Capensis a causa della rottura del patto con gli Xhosa, facendo una scoperta sorprendente. Pur senza ingerirla, continuava a sognare e per di più, continuava a fare sogni premonitori. Era diventato un chiaroveggente in piena regola e abitando in una cittadina piccola come Beacon Hills dove tutti sanno tutto di tutti, per lui raggiungere un’altra volta la fama in un batter d’occhio fu facile come bere un bicchiere d’acqua. Come se non bastasse, anche Thomas Carter – fratello di Eric – dimostrò di avere dentro di sé i poteri di chiaroveggenza del padre, sognando l’avvenimento di ben tre fatti storici a soli dieci anni. I poteri a lungo sopiti nelle terre della California erano stati risvegliati e da allora si tramandano di secondogenito in secondogenito nella famiglia Carter, capace di riportarli alla luce dopo secoli di buio. Da qui ebbe veramente inizio la “dinastia Carter”, che ottennero subito la fama di chiaroveggenti infallibili della cittadina”».
Quando quelle ultime quattro parole uscirono fuori dalle mie labbra e i miei occhi corsero a cercare quelli di Stiles, trovai sul suo viso l’esatta espressione che ore prima era stata sul mio. Era un misto di confusione e sorpresa, ma più che altro vi regnava l’incredulità.
«Adesso capisci perché non riesco a crederci?», gli domandai, chiudendo tutte le varie schede aperte dopo aver ricopiato solo alcuni file utili sulla mia pendrive.
Mi misi in piedi spegnendo il vecchio computer di scuola, raccattando le mie cose mentre ancora attendevo una risposta da parte di Stiles. Lui mi seguì, prendendo a boccheggiare. L’avevo davvero stravolto.
«Tu… cioè, i Carter… voi… i sogni… i tuoi sogni…», cercò di dire, non riuscendo tuttavia a trovare le parole giuste e limitandosi perciò a gesticolare furiosamente.
«Non dirlo», ordinai, con tono di voce perentorio. «Non venirmi a dire che sono una chiaroveggente perché potrei reagire con violenza alla cosa, sappilo. Non ci credo alle minchiate che ti ho appena letto: i miei sogni sono semplici coincidenze e per di più, si tratta di un caso di omonimia».
«Come vuoi tu. Però non picchiarmi se ti dico che non sono d’accordo per niente e che ti renderai conto ben presto anche tu di essere in errore», spiegò Stiles, mentre si ritrovava a camminarmi al fianco nei corridoi della Beacon Hills High School.
Trattenni una risata divertita, voltandomi a donargli uno sguardo interrogativo.
«Ora giochi anche tu a predire il futuro?», gli domandai, già dimentica dello sconforto dei minuti precedenti.
«Che ne sai, magari sono un chiaroveggente anch’io».
In seguito a quella risposta non potei far altro che scoppiare a ridere di gusto. Senza che ci fosse un motivo logico per farlo, come al solito io e Stiles avevamo trovato il pretesto per scherzare sulla scoperta sorprendente che mi ero ritrovata a fare per puro caso, e pensai in quel momento che fosse senz’altro meglio reagire così alla cosa che in modo negativo.
Stiles non era affatto un chiaroveggente, ma la sua predizione si dimostrò più che esatta quella sera stessa, quando in seguito all’ennesimo evento inspiegabile fui costretta a prendere coscienza di cosa – all’apparenza – ero veramente. La realtà è sempre dura da accettare, ma la mia dimostrò di esserlo in modo particolare.
 
«Questa è davvero una pessima idea».
No, non ero stata io a pronunciare quelle parole, ma Stiles. Sentirle venire fuori dalle sue labbra mi stupì e non poco, perché ancora una volta era riuscito ad esprimere alla perfezione i miei pensieri pur senza che io gliene parlassi. Gli donai uno sguardo sorpreso mentre sia io che lui e Scott scendevamo dalla Jeep per ritrovarci nel parcheggio di scuola.
«Sì, lo so», acconsentì proprio McCall, dirigendosi verso il bagagliaio posteriore dell’auto.
Ebbene sì, eravamo alla prese con l’ennesima missione suicida. Non che ci fosse più da stupirsi molto della cosa, né tantomeno del fatto che fossimo alla Beacon Hills High School – di notte fonda – invece che, per esempio, a casa a dormire. Sinceramente, dato come stavano andando le cose negli ultimi tempi, mi sarei stupita di più del contrario.
«Lo faremo lo stesso?».
«Hai un piano migliore?».
Be’, io avrei potuto proporre qualcosa, come ad esempio starne fuori del tutto e fare finta di nulla. Ma sapevo bene che né Scott né Stiles mi avrebbero mai presa sul serio né dato retta, perciò me ne rimasi in silenzio mentre assistevo al loro confronto.
«Proporrei di ignorare completamente il problema fino a che non sparirà da solo», spiegò Stiles, facendo sì che sulle mie labbra spuntasse un sorriso triste.
Quanto avrei voluto che quella fosse una possibilità da prendere in considerazione…
«Tu pensa a farci entrare».
Scott però riportò l’ordine, proprio mentre il sorriso spariva dalle mie labbra e Stiles annuiva appena, poco prima di mettersi a cercare nel bagagliaio della Jeep una torcia e una grande tenaglia che aveva portato da casa. Feci per chiedere a Scott cos’avesse davvero intenzione di fare, quando la luce di due fari catturò la mia attenzione.
«È qui», mormorò proprio lui, alludendo a Derek, che sia io che Stiles osservammo attentamente mentre scendeva dalla sua Camaro nera.
Sapevo che sarebbe stato presente anche lui ed era proprio per quel motivo che avevo voluto andare anch’io alla Beacon Hills High School con Scott e Stiles. Avevo bisogno di parlargli.
«E il mio capo?», sentii che McCall gli chiese, avanzando nella sua direzione.
«Sta dietro».
Alludeva al signor Deaton, il padrone della clinica veterinaria nella quale Scott lavorava da ormai un po’ di tempo. Quel pomeriggio Derek era andato a fargli una visita per nulla educata perché convinto che fosse lui l’alpha, e a quanto pareva, tutto quel piano era proprio per dimostrare l’innocenza dell’uomo di colore che, da quanto ebbi occasione di osservare, Derek continuava a trattare proprio bene.
«Tu e la gentilezza siete proprio amiche intime, vedo», gli soffiai contro, facendomi lontana dallo sportello posteriore e dalla visione di quell’uomo legato e imbavagliato.
Non riuscivo a sopportarlo.
Derek, di tutta risposta, mi riservò un sorrisino fintamente divertito che io ricambiai con una smorfia.
«Oh sì, sembra proprio che stia comodo», mi diede manforte Stiles, ironico come suo solito.
Scott invece lasciò correre, avviandosi verso scuola per poi essere seguito dal migliore amico, mentre io me ne rimasi nelle vicinanze della Camaro. Dovevo parlare con Derek e non l’avevo di certo dimenticato.
«Aspetta. Che fai?», domandò proprio lui, scettico.
«Sono collegato all’alpha. Vediamo se hai ragione».
E detto questo, sia Scott che Stiles sparirono dentro scuola. Io mi poggiai lentamente contro la carrozzeria della sua auto mentre aspettavo placidamente che Derek capisse. Perché a giudicare dalla calma che regnava in lui in quel momento, era chiaro che ancora non ci fosse arrivato. Tuttavia, le cose cambiarono e potei dirlo subito da come mutò radicalmente la sua espressione. 
«Fammi capire bene», ordinò con voce dura, voltandosi a fronteggiarmi. «Vuole attirarlo qui? Cos’ha che non va, quel ragazzo?».
Sapevo bene che non volesse una vera e propria risposta, e lo capii soprattutto nel momento in cui compresi che avesse intenzione di raggiungere Scott e Stiles all’interno di scuola. In fretta e furia mi feci lontana dalla Camaro, raggiungendo Hale giusto in tempo da agguantargli un braccio con la mano sinistra.
«Derek, fermo!», lo ammonii, alzando la voce senza riuscire ad impedirmelo. «L’idea non piace nemmeno a me ma prova a fidarti di Scott, d’accordo?».
Per fortuna non ci fu bisogno di insistere più di tanto come avevo programmato, perché al contrario bastò che quelle poche parole abbandonassero le mie labbra perché Derek decidesse di calmarsi e dare una possibilità al giovane McCall – proprio come avevo fatto io. Sospirò arrendevolmente mentre insieme ci dirigevamo nuovamente nei pressi della sua auto.
«Posso chiederti una cosa?», trovai il coraggio di domandargli, in seguito a diversi minuti di silenzio assoluto.
Derek si limitò a dedicarmi un lungo sguardo poco prima di annuire appena, il che mi autorizzò a chiedergli ciò che avevo progettato di chiedergli da un po’ di tempo a quella parte.
«Cosa sai dirmi sulla mia famiglia?».
Sapevo che lui fosse nato lì a Beacon Hills, così come tutti gli Hale e in apparenza anche gli ultimi Carter. Sapevo anche che fosse l’unico a potermi aiutare a far luce su tutta quella strana faccenda, dal momento che mia madre Jenette sembrava non saperne nulla proprio come Stephen – col quale avevo parlato prima che uscisse per il suo solito turno di notte alla centrale di polizia.
«Perché mi fai questa domanda?», mi chiese allora Derek, riservandomi uno sguardo sorpreso.
«Tu inizia a rispondere. E bada bene di non raccontare cazzate come tuo solito».
«Non ne so niente».
«Come non detto».
Sapevo che ottenere risposte non sarebbe stato facile. D’altronde, credevo di conoscere già piuttosto bene il ragazzo che avevo di fronte, nonostante tutto. D’altra parte, però, non avevo alcuna intenzione di arrendermi così facilmente.
«Tu eri qui quando loro c’erano! E poi sono spariti nel nulla. Io voglio solo capire perché», esalai, mentre il mio tono di voce diventava sempre più lieve.
«Dovresti parlarne con la tua mammina», soffiò Derek, inspiegabilmente pieno d’astio.
«Lei non ne sa niente davvero, al contrario tuo».
«Ne sei sicura?».
No, no che non ne ero sicura. Ma perché farlo sapere anche a lui? Così da dargli motivo per burlarsi ulteriormente di me e dell’ignoranza in cui ero cresciuta?
Me ne rimasi in silenzio, stringendomi le braccia al petto mentre mi mordevo nervosamente l’interno guancia. Proprio quando credevo che la nostra conversazione si sarebbe conclusa in quel modo, Derek parlò ancora.
«Erano molto famosi, qui. In senso buono, stai tranquilla. Erano brava gente. Forse un po’ boriosi. Ma con quello che erano in grado di fare, ci sta che lo fossero. Hanno evitato un sacco di guerre inutili», mi spiegò, mentre io lo osservavo, rapita da tutte le belle parole che pronunciava.
«Quindi tutto quello che ho letto in internet è vero?», domandai, con la voce ridotta ad un sussurro.
Derek annuì nuovamente ed io ancora mi ripetei che non riuscivo a crederci.
«Continuo a non crederci», gli feci presente infatti, scuotendo la testa. «Ci sono un sacco di cose che non tornano. Ad esempio: perché nessuno a parte te sembra ricordare dei Carter? Se è vero che erano così famosi, Stephen avrebbe dovuto dirmi qualcosa sul loro conto».
«Beacon Hills non è così piccola come sembra, Harriet. Se da una parte c’è gente che col soprannaturale ci vive da sempre o che anche solo ha imparato ad accettarlo, dall’altra ci sono comunque persone scettiche come te. Non tutti riescono a credere, sai? Ecco perché una volta che i Carter furono spariti nel nulla, la maggior parte della città acconsentì a lasciarli sepolti sotto un velo».
«Se tutto questo è vero, dovrei avere anch’io dei poteri. Sono una secondogenita».
«E vorresti dirmi che non ne hai?».
Quella domanda divertita mi lasciò di nuovo senza fiato, tanto che mi rifiutai di rispondere, chiudendomi ancora una volta in un silenzio glaciale.
«Tutto questo non ha senso», mormorai però dopo qualche momento di riflessione.
«Non deve per forza averne. Ti ricordo che stai parlando con un nato licantropo».
Giusto.
«Faresti meglio a chiedere informazioni a tua madre, comunque. Dico sul serio», mi consigliò Derek, ancor prima che ebbi la possibilità di rispondergli qualcosa.
«Lo farò. Grazie».
E detto questo mi diressi verso scuola, più che decisa a cercare Stiles e Scott. Volevo sapere cosa stessero combinando.
«Non ho fatto nulla», sentii Derek sussurrare, e la sua voce arrivò alle mie orecchie a malapena, dal momento che già mi ero allontanata un bel po’ da lui.
Avvertii le mie guance imporporarsi appena: sapevo che non fosse la verità e avrei voluto dirglielo, ma qualcosa mi trattenne. Ancora una volta, Derek Hale aveva fatto molto di più di nulla.
 
Riuscii ad entrare all’interno della Beacon Hills High School nel momento esatto in cui qualcosa di molto simile ad un intenso miagolio arrivò a riempirmi le orecchie. Era un suono che ancora non so come descrivere meglio di così, tanto fastidioso che fui costretta a pormi entrambe le mani sui timpani per poterlo non sentire più.
Mentre speravo con tutta me stessa che non fosse stato Scott a farlo, mi mossi a tentoni verso la fonte di quel fastidioso rumore. I lupi ululavano per segnalare la propria posizione al branco, ma quello non aveva nulla di un ululato. Se McCall contava di attirare l’alpha a scuola in quel modo, direi che il piano non aveva alcuna speranza di riuscita.
Tuttavia, scoprii di sbagliarmi quando – dopo aver cercato a lungo – riuscii a trovare sia lui che Stiles, e un ululato di quelli proprio fatti bene si levò sul silenzio che circondava l’intero istituto. Se solo non fosse stato che Scott era di fronte a me mentre lo faceva, con gli occhi gialli brillanti, non avrei mai creduto che fosse opera sua.
«Io vi ammazzo tutti, lo giuro! Che cos’avevi intenzione di fare? Volete attirare tutto lo stato qui a scuola?».
Non mi stupii per nulla del fatto che Derek non fosse entusiasta nemmeno la metà di quanto lo fossimo noi tre. Al contrario, mi aspettavo una sua reazione del genere.
«Non sapevo che fosse così forte», si giustificò subito Scott, sorridendo divertito.
«Sì, era forte. Ed era fighissimo!».
«Sta’ zitto».
Il commento soddisfatto di Stiles fu stroncato dall’ordine perentorio di Derek, ed immediatamente potei vedere altra preoccupazione farsi spazio sul suo viso. Stiles provò ancora a parlare ma quella volta venne zittito anche da Scott, mentre mi sembrò di avvertire un rumore per nulla rassicurante. Non sapevo cosa stesse succedendo esattamente, ma avevo capito subito che non fossimo più al sicuro.
«Che gli hai fatto?», sentii chiedere a Scott.
Deaton era sparito ma Derek non ne era responsabile, mi bastò guardarlo in viso per averne la certezza.
Il resto, accadde tutto così velocemente che quando ci penso ancora non riesco a capacitarmene. Mi sembrò di rivivere il mio sogno per la seconda volta, con l’unica eccezione che allora ero fin troppo sicura di essere sveglia.
Un’enorme creatura dagli occhi rossi e cattivi arrivò di scatto alle spalle di Derek, afferrandolo coi suoi artigli aguzzi. Lui, ferito, prese a sanguinare.
Sentii Stiles e Scott che correvano via, lontani da quello scenario da perfetto film horror, e provai l’impulso di raggiungerli per poi rendermi conto del fatto che le mie gambe non me l’avrebbero permesso. Erano inchiodate al suolo, schiacciate dall’immensa paura mista alla consapevolezza di cosa davvero stesse succedendo che mi aveva colta.
Avrei sicuramente urlato, se solo non fosse stato che anche le mie cordi vocali sembravano congelate, proprio come tutti i miei muscoli. Fu solo quando la bestia ebbe lanciato via il corpo inerme di Derek che capii di essere spacciata, perché sicuramente a quel punto si sarebbe tuffata su di me, che – indifesa – non avrei potuto far altro che soccomberle.
Ma nel momento esatto in cui l’alpha si mosse nella mia direzione, un forte rumore di passi mi riempì le orecchie, e prima ancora che potessi vederlo, capii che si trattasse di Stiles quando mi afferrò forte la mano. Non mi servì nient’altro, solo sentire la sua pelle a contatto con la mia bastò a farmi ritrovare la forza adatta a mettermi in salvo.
«Harry, andiamo!», mi spronò, urlando, e senza tuttavia aspettare un mio cenno prese a trascinarmi di corsa verso la scuola. 









Se dopo aver letto questo capitolo non mi ucciderete, allora crederò seriamente che ci sia qualcosa che non va. Finora è quello che mi piace di meno, ma non mi va di ripetermi più di tanto e perciò vado avanti. Che ne pensate dell'intera faccenda? Vi prego: se fa schifo, ditemelo. La sottoscritta ha bisogno anche di critiche, eh.
L'idea di dare un ruolo importante alla famiglia di Harriet già mi riempiva la testa da un po' e, sinceramente, sono molto felice di aver avuto l'occasione di farlo senza distaccarmi da ciò che succede nella 1S di Teen Wolf :) Spero che il tutto non vi sembri troppo campato in aria... lo so che la storyline non ha senso, sono la prima ad ammetterlo, ma come ha detto Derek: non deve per forza averne uno. Stiamo parlando di soprannaturale, in fondo.
Inoltre sono sicura del fatto che d'ora in poi avrete ancor più domande che necessitano di risposta, come ad esempio:
1. Harriet si trova a Beacon Hills per puro caso o no?
2. Jenette davvero non è a conoscenza della storia dei Carter?
3. E perché questi ultimi sono spariti nel nulla?
Be', non posso far altro che dirvi che per avere le risposte che meritate non dovete far altro che continuare a leggere questa fanfiction strampalata. Detto questo, mi dissolvo: piena di vergogna e intenta a ringraziarvi sempre, per tutto. Alla prossima, ancora non so quando.
hell

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Capitolo 14
*** Sorella gemella della paura. ***


N.B.: Il titolo del capitolo è ispirato a Thomas Hobbes, filosofo inglese che da sempre si è definito “fratello gemello della paura”. Non chiedetemi come io abbia potuto pensare a lui nello scrivere, perché l’unica cosa che so è che se lo dicessi alla mia professoressa di filosofia, sarebbe fiera di me XD Nient’altro da aggiungere, solo ho trovato questa espressione molto adatta per descrivere Harriet. Il capitolo è… be’, chi ricorda la serie lo saprà. Buona lettura.
 
 
parachute
 
 
 
 
14.  Sorella gemella della paura.
 
 
«Chiudi! Chiudi!».
Ancora scossa dai tremiti, mi ritrovai ad ascoltare la voce dal tono acuto di Scott. Impartiva ordini a Stiles mentre noi tutti, all’interno di scuola, non facevamo altro che nasconderci dietro la porta d’entrata, trattenendo le maniglie nella speranza che quella soluzione potesse bastare a tenere lontano… l’alpha.
Era strano ammettere di avere sul serio a che fare con una bestia del genere, e me ne resi sul serio conto solo in quel momento. Ancora più assurdo era il fatto che Deaton, il meno sospettato in tutta quella storia – tranne che da Derek, potesse ricoprire un ruolo simile.
Proprio al pensiero di Derek, avvertii il sangue gelarmi nelle vene e un gemito abbandonò le mie labbra. Era morto. Quella volta per davvero.
Pur senza sapere esattamente cosa stessi facendo, decisi di seguire – ancora una volta – i movimenti di Stiles. Quando lui si mise in piedi per osservare l’esterno attraverso la piccola finestrella della porta, lo feci anch’io, tentando di seguire attentamente il suo sguardo.
Quando la grande tenaglia gialla che Stiles aveva portato da casa colpì il mio, non potei fare a meno di aggrottare le sopracciglia. Nonostante l’annebbiamento tipico della paura e delle lacrime in arrivo, ero riuscita a sentire i due ragazzi alla ricerca di un modo per bloccare la porta.
«No», soffiai all’improvviso, quando tutto mi fu chiaro, come per magia. «Stiles, no».
Voleva uscire fuori, recuperare la tenaglia ed utilizzarla come fermo. Era evidente. Non gliel’avrei lasciato fare. Né allora né mai.
A quel mio lamento soffocato, anche Scott si mise in piedi, e gli bastò seguire lo sguardo di Stiles – ancora più che deciso a portare avanti la sua folle idea – per capire immediatamente cos’avesse in mente. Lo conosceva molto meglio di me, e si vedeva.
«No», decretò infatti anche lui, quasi fulminando il migliore amico mentre io mi ci avvicinavo, sicura del fatto che avrebbe “agito” di lì a poco.
Scoprii di non essermi affatto sbagliata nel momento in cui proprio Stiles, dopo aver pronunciato un: «Sì» deciso e aver lasciato la sua torcia nelle mani di Scott, spinse il grande maniglione della porta antincendio di scuola e fece per buttarsi all’esterno.
Il battito del mio cuore aumentò senza che potessi impedirmelo, e gli occhi mi si riempirono di lacrime mentre per fermarlo non avevo altra scelta che aggrapparmi a lui con entrambe le mani.
Lo: «Stiles, no!» di Scott si sovrappose al mio urlo quasi disumano. Non mi preoccupai nemmeno di far troppo rumore e attirare l’attenzione dell’alpha – che nel frattempo sembrava essere sparito – e scoprii di aver fatto bene quando Stiles decise di darmi finalmente di nuovo retta.
«Non andare, ti prego», riuscii solo a mormorare quando i nostri occhi si incontrarono, sperando inconsciamente che la voce non venisse fuori troppo spezzata.
«Starò bene», furono le semplici parole di Stiles, accompagnate da un sorriso per nulla tipico di lui.
Era un sorriso di quelli che avrebbero dovuto infondere sicurezza ma era anche… finto. Non spontaneo né sentito. Non ci credeva nemmeno lui.
Scott provò a richiamare ancora una volta il suo migliore amico, ma lui ignorò bellamente sia McCall che me, e districandosi dalla mia presa si precipitò all’esterno, chiudendosi la porta dietro le spalle con un tonfo. Mi conosceva già così bene da sapere che avrei fatto di tutto per inseguirlo? Me lo chiesi a lungo, mentre attraverso la finestrella riuscivo ad osservare di sbieco la sua schiena ancora schiacciata contro gli infissi.
Capii che la risposta fosse sì quando lo vidi restare immobile per lungo tempo, con la paura che mi cresceva dentro sempre di più. Nel momento in cui le mie dita avevano perso presa col tessuto chiaro della giacca di Stiles, il mio corpo era scattato in avanti e nessuno si era perso quel mio spostamento istintivo – nessuno. Se solo la porta non si fosse chiusa così velocemente, a quell’ora sarei stata fuori con lui.
«No…».
Mi venne quasi automatico ringhiare quella parola, mentre stringevo i pugni contro il vetro. L’alpha era tornato e guardava Stiles – ignaro di tutto – coi suoi ardenti occhi rossi, acquattato dietro la Jeep, in attesa di poter attaccare.
Non me lo lasciai ripetere due volte: ignorai Scott che provava inutilmente a richiamare il migliore amico all’interno e ripetei gli stessi gesti di Stiles, facendo per raggiungerlo velocemente. Purtroppo, però, come in un déjà-vu si ripeterono le stesse azioni della volta precedente. L’unica differenza era che allora, al posto di Stiles c’ero io.
«Che hai intenzione di fare? Non anche tu, ti scongiuro!», esclamò Scott, afferrandomi la giacca di pelle quand’ero già con un piede all’esterno.
Gli riservai uno sguardo veloce poco prima di districarmi dalla sua stretta ed uscire fuori una volta per tutte. Non c’era tempo da perdere.
«Stiles, entriamo!», ordinai ad alta voce, correndo nella sua direzione e accovacciandomi istintivamente alla sua altezza.
L’alpha avvertì benissimo il mio urlo, tanto che lo interpretò – forse – come un invito. Io e Stiles alzammo gli occhi nella sua direzione nello stesso momento, e sempre insieme li sgranammo sospresi. Quando l’alpha prese a correrci in contro, trattenni il respiro e mi misi in piedi velocemente, trascinando Stiles con me all’interno di scuola.
Scott ci aiutò ad entrare e poi insieme sistemarono la tenaglia di modo che riuscisse a trattenere la porta chiusa un po’ meglio. Col fiatone, mi ritrovai ad accasciarmi contro il muro, prendendo a scivolare sul pavimento. Mi sentivo il cuore in gola.
«Non fare mai più una cosa del genere, stupida!».
Quando quelle parole raggiunsero le mie orecchie, alzai di scatto la testa dal nascondiglio che erano diventate le mie ginocchia e donai a Stiles uno sguardo furioso. Come si permetteva? Avevo rischiato la mia vita per lui e no, non volevo che mi ringraziasse. L’avrei rifatto altre mille volte ancora senza ripensamenti, ma… addirittura ringhiarmi contro?
«Neanche tu», sibilai dopo qualche attimo, riuscendo chissà come a non urlare come avrei voluto.
Io e Stiles continuammo a guardarci negli occhi ancora a lungo, poi lui sviò il mio sguardo e cercò Scott.
«Perché le hai permesso di uscire?», gli domandò, infuriato.
«Io…».
A quel punto, mi misi in piedi il più in fretta possibile, cercando di ignorare il capogiro che mi aveva colta dopo tutti quei movimenti bruschi. Sarebbe finita male, me lo sentivo.
«Cosa avrei dovuto fare, me lo spieghi? Guardar morire anche te? No, grazie!», strillai di colpo, parandomi di fronte a Scott, ancora incapace di spiegarsi.
Stiles fece per replicare, ancora per nulla tranquillo ma tuttavia un po’ più consapevole di essere nel torto. Era arrabbiatissimo e un po’ potevo capire perché, ma non era affatto giusto che mi trattasse male. Non potevo accettarlo.
«Non osare aggiungere altro! Non è il momento», continuai, quando mi resi conto che avesse ancora tutta l’intenzione di discutere. «Dobbiamo uscire di qui. Quanto pensi che reggerà quella tenaglia?».
Quando smisi di pronunciare quelle parole, un silenzio glaciale calò su noi tutti e per un solo attimo, mi ritrovai a benedire quel momento di pace apparente. Ero allo stremo delle forze ed impiegarne delle altre per discutere con Stiles era una cosa che proprio non potevo permettermi.
Sospirai stancamente, rivolgendo uno sguardo tutt’intorno a me. Di notte, con le luci spente e completamente vuota, la Beacon Hills High School faceva davvero – davvero – paura. Credo che lo stesso pensiero attraversò le menti di Scott e Stiles, perché avvertii anche loro guardarsi distrattamente intorno, forse alla ricerca di un piano di fuga efficace.
Tuttavia, prima ancora che qualcos’altro potesse essere aggiunto, un fortissimo ululato ci riempì le orecchie, facendo aumentare ancor di più la nostra paura. Era un richiamo e significava nient’altro che morte. L’alpha, in un modo o nell’altro, ci avrebbe raggiunti. E noi cos’avremmo potuto fare, se non scappare?
 
Non anche Allison in tutto questo schifo, non anche lei.
Quando Scott era riuscito ad avvertire grazie al suo udito ipersviluppato la suoneria del suo cellulare, mi ero ritrovata a sperare che si stesse solo sbagliando. E quando aveva avuto occasione di parlare con lei al telefono, seppur stupidamente, avevo fatto di tutto per convincermi del fatto che fosse nient’altro che un sogno. Ma quando me l’ero ritrovata di fronte, non c’era stato più niente che potessi fare per convincermi di lei a casa, al sicuro. Nel momento in cui poi anche Jackson e Lydia avevano occupato la mia visuale, avevo avvertito distintamente il mondo crollarmi addosso.
Non anche loro, non anche loro.
Non c’era modo di scappare da quella scuola: l’alpha aveva pensato proprio a tutto. Solo in quel momento realizzai che fosse anche un umano, che avrebbe potuto pianificare ogni cosa senza sospetti e che, soprattutto, non ci volesse sul serio morti. Avrebbe potuto ucciderci molto tempo prima, per esempio quando aveva ammazzato il bidello di scuola nello spogliatoio dei maschi o quando invece era riuscito ad entrare dentro scuola con un balzo che aveva distrutto i vetri.
Al contrario, aveva fatto sì che riuscissimo a scappare – sempre – senza fare in modo di raggiungerci con la sua velocità disumana ma standoci sempre alle calcagna. Voleva farci impazzire, oramai a quel punto ne ero più che consapevole – proprio come lo erano Stiles e Scott. Quando il soffitto, per la seconda volta in quella serata, prese a tremare sopra la mia testa, fu più che naturale per me cercare la mano di Stiles. Intrecciai le mie dita alle sue proprio come se fosse una cosa “normale” e quando avvertii la sua stretta rafforzarsi, gli donai uno sguardo riconoscente.
Avevamo discusso, sì, ma non c’era tempo per tenersi il muso a vicenda ed io avevo bisogno di lui, proprio come Allison aveva bisogno di Scott e Lydia di Jackson. Mi bastò solo un attimo per vedere le nostre sei paia di mani intrecciate e non ci fu occasione per pensare a qualcos’altro da aggiungere perché, ancora una volta, dovemmo riprendere a scappare verso una destinazione imprecisa. Mai come in tutta quella serata mi era capitato di correre tanto o di avere così tanta paura. Credetti anche di star diventando qualcosa di molto simile alla sua sorella gemella.
«Dobbiamo bloccare la porta!», sentii Scott esclamare, solo una volta che fummo riusciti a rinchiuderci in quella che aveva tutta l’aria di essere la cucina della scuola.
Jackson non se lo fece ripetere due volte, mentre io me ne rimasi in un angolino a fissarli entrambi collaborare per la sopravvivenza. Era straordinario cosa certe situazioni potessero provocare, pensai mentre mi stringevo le braccia al petto, tremante e stremata da tutta quella assurda situazione. Era anche strano quali alleanze si potessero creare, aggiunsi poi, riservando degli sguardi preoccupati a Lydia ed Allison – scoprendo che i loro fossero lo specchio esatto dei miei.
«Datemi una mano! Spostate quelle sedie!», ordinò ancora Scott, ignorando le domande ansiose della Argent, le lamentele di Lydia e i richiami di Stiles.
L’avevo guardato distrattamente mentre non muoveva un dito per aiutare ma al contrario se ne stava contro l’immensa parete di finestre presente nella stanza, intento ad osservare l’esterno con occhi preoccupati. Non avevo avuto tempo di chiedergli nulla né di starlo a sentire, semplicemente avevo fatto di tutto per aiutare gli altri a fermare la porta d’ingresso nel migliore dei modi – pur sapendo che sarebbe stato inutile.
«Ragazzi. Aspettate solo un attimo. Ragazzi, ascoltatemi. Fermi, aspettate!».
Fu solo allora che bloccai tutti i miei movimenti, voltandomi a guardare Stiles, preoccupata. Cosa gli prendeva? Perché la sua voce aveva quel tono così spaventato? Perché non ci stava aiutando per nulla? Avrei voluto porgli tutte queste domande ma non ci riuscii, limitandomi a guardarlo con le sopracciglia aggrottate e gli occhi lucidi, nell’attesa che capisse e decidesse di spiegarsi. Ma non lo fece, continuando al contrario a richiamare tutti gli altri – che ancora continuavano ad ignorarlo, indaffarati.
Fu solo quando Stiles urlò con tutto il fiato che aveva in gola che si voltarono a guardarlo, sobbalzando per lo spavento. Lui sospirò, poco prima di prendere finalmente a parlare.
«Bel lavoro. Davvero un bellissimo lavoro», mormorò, alludendo all’infinità di sedie poste di fronte alla porta come fermo. «Adesso, che pensate di fare con questa parete di finestre?».
Oh. Ci immobilizzamo tutti all’improvviso, realizzando cosa Stiles avesse provato a dirci fin dall’inizio. Sapevo benissimo che tutte quelle misure di sicurezza fossero inutili ma… le finestre. Dio, le finestre. Perché solo lui era riuscito a pensarci?
«Qualcuno può spiegarmi che sta succedendo? Io sto per impazzire e vorrei sapere perché».
Allison fu la prima a trovare il coraggio di parlare, con gli occhi pieni di lacrime mentre cercava lo sguardo di Scott – intento ad evitare il suo. 
«Scott?», lo richiamò infatti quando si rese conto della cosa, parlando con la voce spezzata dalle lacrime incombenti.
Quando McCall si allontanò dal mio fianco per isolarsi, mi venne spontaneo lanciare uno sguardo preoccupato a Stiles. Non so esattamente cosa vide nei miei occhi stanchi, credo una preghiera o qualcosa di simile, perché mentre Scott se ne stava da parte senza alcuna intenzione di fornire spiegazioni, Stiles cominciò ad avanzare nella mia direzione.
«Qualcuno ha ucciso il bidello», spiegò, raggiungendomi.
«Come?».
«Sì, il bidello è morto».
Quando fu vicino a me abbastanza da permettermelo, mi appoggiai contro la sua spalla, chiudendo gli occhi e provando – senza successo – a tenere lontane le voci terrorizzate dei miei amici. Volevano sapere cosa stesse succedendo sul serio e soprattutto, chi fosse l’assassino. E volevano saperlo da Scott.
Riaprendo gli occhi lentamente gli donai un’occhiata dispiaciuta, consapevole oramai dell’immenso carico di responsabilità che gli gravasse sulle spalle. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, mai avevo sentito frase più veritiera, e chissà come mi ritrovai a pensare anche che – se fosse stato vero che anch’io possedevo qualche sorta di poteri – mai li avrei utilizzati. Non mi sentivo all’altezza.
«È stato Derek. Derek Hale».
Il suono del suo nome mi colpì lo stomaco con la violenza di un pugno, e di nuovo provai l’impulso di scoppiare a piangere. Deglutii sonoramente, pensando che – nonostante tutto – dopo Derek sarebbe stato il mio turno e quello di Stiles, Scott, Allison, Jackson…
Un gemito mi sfuggì dalle labbra, incontrollato, mentre realizzavo che mai avrei voluto che le cose andassero in quel modo. Non l’avrei voluto per me, inutile negarlo, ma soprattutto per Stiles e gli altri. Mi portai una mano alle labbra, cercando di trattenere ancora un po’ il pianto – almeno finché non fossi stata sola, semmai ne avessi avuto l’occasione. Tuttavia, fu inutile.
«Ehi…», mormorò infatti Stiles, voltandosi velocemente a guardarmi con occhi preoccupati.
Tirai su col naso, scuotendo la testa e sperando che capisse che non era nulla e che poteva anche lasciarmi stare, senza preoccuparsi. Non glielo dissi a voce perché sapevo che poi avrei incominciato a piangere senza più fermarmi, ma sperai che i miei occhi riuscissero ad ingannarlo abbastanza bene. Ovviamente, mi sbagliavo.
«Si risolverà tutto, te lo prometto. Però devi stare…», incominciò, venendo poi interrotto mentre mi accarezzava piano i capelli.
«Tu, chiama la polizia. Subito».
Distolsi immediatamente gli occhi da quelli di Stiles, strizzando le palpebre, confusa. Non stavo prestando più attenzione a nulla, ascoltavo solo lui, quindi chi era stato ad interromperlo? Me lo chiesi finché non vidi Jackson avanzare nella nostra direzione, col dito puntato verso Stiles.
«No», gli rispose proprio lui, voltandosi a fronteggiarlo mentre io gli rimanevo sempre al fianco.
«Che significa no?».
«Significa no. Te lo dico in spagnolo? NO!».
Stranamente, provai l’impulso di ridacchiare, e se non fosse stato per tutta quell’orrenda situazione, l’avrei anche fatto. Nel frattempo, comunque, mi limitai come tutti a godermi il dibattito tra Stiles e Jackson, curiosa di sapere fin dove si sarebbero spinti.
«Derek ha ucciso tre persone, non sappiamo che armi abbia».
«Ma tuo padre è lo sceriffo! Ha le armi di tutto il dipartimento».
«Tranquilli, lo chiamo io».
Ovvio, perché Jackson non bastava. Mi feci lontana da Stiles velocemente e controvoglia, ascoltandolo mentre flebilmente cercava di dissuadere la Martin dal chiamare la polizia e attirare Stephen a scuola. Non ci tenevo a veder morire anche lui, per nulla.
«Molla quel telefono», le sibilai contro, parandomi di fronte a lei mentre quattro paia di occhi sorpresi si posavano sulla mia figura.
«Troppo tardi, tesoro», sentenziò Lydia, ignorando il mio avvertimento come se nulla fosse mentre mi mostrava anche un sorrisino di quelli per i quali l’avrei presa volentieri a schiaffi.
Strinsi i pugni lungo i fianchi, distogliendo immediatamente lo sguardo dal suo viso per evitare di fare qualcosa della quale poi mi sarei pentita e cercai gli occhi di Stiles. Io non volevo suo padre a scuola perché l’idea di mettere in pericolo anche lui mi faceva stare malissimo, figurarsi lui!
«Hanno riattaccato. Non ci credo!».
«La polizia ha riattaccato?».
Aggrottai le sopracciglia. Cosa?
«Li hanno avvertiti che ci sarebbero stati scherzi su un’irruzione nella scuola! Ha detto che se richiamo rintracciano la telefonata e mi arrestano».
Ancora una volta, l’alpha era un passo avanti a noi. Soprattutto, era più intelligente. E ci aveva trovati di nuovo.
 
Scappare. Correre. Bloccare porte. Stare in silenzio. Nascondersi. Ideare inutili piani di fuga. Per tutta la sera, non avevamo fatto altro. Che si trattasse solo di me, Stiles e Scott o che le scene comprendessero anche Allison, Lydia e Jackson, la situazione non cambiava affatto. Qualunque cosa facessimo, eravamo sempre al punto di partenza.
Chiamare la polizia era stato inutile, proprio come avvertire Stephen stesso. Stiles ci aveva provato – dopo aver rifilato a Jackson un pugno di quelli per i quali in un’altra situazione, gli avrei battuto le mani – ma era scattata subito la segreteria, e se qualcuno mi avesse detto che anche quella era opera dell’alpha, non me ne sarei affatto sorpresa. Ad ogni modo, credevo fosse meglio lasciar fuori Stephen da tutta quella situazione.
Seduta in prima fila nel laboratorio di chimica, mi resi conto sul serio solo allora di quanto tremassero le mie gambe. Sospirai pesantemente, socchiudendo gli occhi mentre facevo di tutto per fermare quel movimento fastidioso – e involontario. Niente da fare, non ce la facevo. Non riuscivo a smettere di tremare. Perfetto.
Posai la testa sul banco, nascondendola tra le braccia mentre desideravo nient’altro che essere fuori da quella scuola una volta per tutte, anche per potermi lasciare andare al sacrosanto pianto che stavo trattenendo da più o meno tutta la sera. Non ce la facevo più: ero stremata, in tutti i sensi, e sapevo che presto o tardi sarei scoppiata.
Nella stanza c’era un silenzio innaturale. Scott ci aveva lasciati per poter recuperare le chiavi del terrazzo – di modo che da lì, attraverso la scala antincendio, potessimo raggiungere il parcheggio. Avrebbe dovuto trovare il cadavere del bidello ma si era detto capace dell’impresa: gli bastava fiutare il suo sangue.
Storsi il naso, ancora con la testa nascosta. Il piano prevedeva che poi andassimo via con la macchina di Jackson, anche se Allison stessa si era dimostrata poco convinta. Aveva affermato di entrarci a malapena, nei sedili posteriori, dunque come avremmo fatto a metterci lì dietro in quattro? La vedevo dura anch’io, ma mi sforzavo ancora di sperare.
Parlando di Allison, non aveva fatto altro che strillare e piangere. La invidiavo un po’, a dire il vero, perché si era mostrata capace di far uscire allo scoperto le sue vere emozioni e sfogarsi. Immaginavo che dovesse sentirsi un po’ meglio della sottoscritta, ancora occupata a trattenere tutto dentro – anche perché decisa, stupidamente, a mostrarsi forte.
Lydia era riuscita a preparare una molotov con autoinnesco, rendendosi incredibilmente utile. E ancora una volta, aveva preferito nascondere la vera se stessa, giustificando quella sua conoscenza preziosa con un: «Devo aver letto il procedimento da qualche parte». Proprio non riuscivo a capirla, ma c’era anche da dire che in momenti come quello fossimo più simili di quanto potesse sembrare.
«Harry?».
Lentamente, sollevai la testa, modulando la mia espressione per non farla sembrare più afflitta del consentito. Mi puntellai sui gomiti, sorridendo distrattamente a Stiles accovacciato di fronte a me, mentre mi massaggiavo lentamente le tempie e socchiudevo ancora gli occhi. Basta era diventato il mio pensiero costante.
«Tutto bene?», mi domandò, osservandomi con le sopracciglia abbassate, interessato a ciò che gli avrei detto più che mai.
«Una bugia spudorata vale come risposta?», provai a chiedergli, dopo aver sbuffato, stranamente divertita.
Solo lui era capace di farmi stare un po’ meglio, nonostante tutto. Incrociai di nuovo le braccia mentre trattenevo un sospiro appagato e lo fissavo attentamente con la testa posata su di esse. Stiles fece spallucce e mi riservò un debole sorriso, mentre alzava gli occhi al cielo poco prima di parlare ancora.
«Scusa, per prima», mormorò, e il respiro quasi mi si spezzò in gola. «È che mi preoccupo per te. Tanto».
In risposta, avrei potuto – e dovuto – dirgli moltissime cose, ma sentivo perfettamente come quello non fosse il momento adatto per discorsi di quel genere. Perciò, spinsi via in un angolino remoto la parte di me emotiva, e diedi ascolto, ancora una volta, alla ragione.
«Lascia perdere. Ci penseremo dopo, a casa», lo rassicurai, fintamente tranquilla. «Semmai ci torneremo…».
«Ma certo che ci torneremo!», esclamò subito Stiles, guardandomi con gli occhi sgranati. «Prima o poi papà ascolterà il messaggio che gli ho lasciato in segreteria, e verrà qui a salvarci».
Proprio come un perfetto supereroe. Sorrisi ancora a quel mio pensiero un po’ stupido, annuendo ripetutamente mentre ancora non avevo alcuna intenzione di distogliere lo sguardo dal viso di Stiles. Era così vicino al mio che me ne resi conto solo in quel momento, intenta a perdermi nei magnifici occhi che si ritrovava, mentre non sentivo più nessuno intorno a me – quasi come se quella notte, in quel laboratorio, ci fossimo solo io e lui.
Fui sul punto di ringraziarlo di cuore, per tutto, ma l’improvvisa voce di Allison mi distrasse e, velocemente, distolsi lo sguardo da Stiles per puntarlo proprio sulla Argent. Era esausta anche lei e avrei tanto voluto starle vicina, ma come aiutarla quando la prima ad essere in grandissima difficoltà ero io? A parte qualche abbraccio, carezza e sguardo comprensivo, ero stata – tutta la sera – più che impotente.
Allison chiese ancora spiegazioni, chiedendo perché Scott fosse andato via lasciandoci lì da soli e affermando di non riuscire a smettere di tremare, ma prima ancora che qualcuno potesse sul serio consolarla, un altro ululato ci fece sobbalzare. Fu il più forte e lungo dell’intera serata, e ad un certo punto mi posi le mani sulle orecchie nella speranza che finisse presto – mentre vedevo di sfuggita Lydia imitarmi.
Tuttavia, quella non fu la cosa più sorprendente. Quando Jackson cadde a terra in ginocchio, prendendo ad urlare, sgranai gli occhi e mi misi in piedi velocemente. Anche Stiles mi seguì e ci avvicinammo entrambi al nostro “amico”. Whittemore non faceva altro che urlare, premendosi una mano sul retro del collo mentre sia io che Stiles lo guardavamo straniti e un po’ preoccupati.
«Sto bene. È tutto okay», mormorò distratto, solo quando Lydia ed Allison l’ebbero aiutato a rimettersi in piedi, facendosi lontano da noi.
«Non sembrava affatto okay», lo punzecchiò la Argent, squadrandolo con le sopracciglia aggrottate.
«Che hai dietro al collo?».
Mi voltai a guardare Stiles, chiedendomi cosa avesse visto dietro il collo di Jackson che a me fosse sfuggito – sebbene fossimo vicini. Lo vidi di sfuggita allungare una mano nella sua direzione e venire allontanato ancora da uno schiaffo poco gentile.
«Ho detto che sto bene», sibilò Jackson, fulminandolo con lo sguardo mentre io alzavo gli occhi al cielo.
Perché mai ci stavamo preoccupando di un tipo del genere? Non si meritava né quello né altro. Sbuffai infastidita, ignorando l’ennesimo battibecco della coppia più instabile di Beacon Hills e gli inutili tentativi di fare da paciere di Stiles. Nel momento esatto in cui Allison chiese ancora una volta di Scott, un’ombra nera mi passò davanti agli occhi. Potei vederla attraverso il vetro satinato della porta d’ingresso e rimasi a fissarla imbambolata per moltissimo tempo. Sapevo chi fosse, riconoscevo la sagoma. Era Scott. Anzi, non era proprio lui.
Con un rumore metallico annunciò la sua presenza e immediatamente, Allison si voltò verso la porta. Neanche fossero collegati, l’aveva capito subito che lui fosse lì dietro. Lo chiamò affannosamente, spostando la sedia dalla porta per poterla aprire, almeno finché non si rese conto di cosa fosse successo sul serio.
La porta era bloccata, Scott aveva appena spezzato la chiave nella serratura e ci aveva chiusi dentro. Proprio come l’alpha, gli piaceva tenerci in trappola. Sentii il respiro mancarmi in gola mentre Allison continuava, agitata, a richiamare McCall, e Lydia domandava a nessuno in particolare cosa davvero stesse succedendo.
«Ferma», la sentii poi ordinare alla Argent, ancora intenta a battere le mani sul legno della porta. «FERMA!».
Quell’urlo riuscì a risvegliarmi dalla specie di trance nella quale ero caduta, e strizzando gli occhi lucidi mi avvicinai in punta di piedi ad Allison, posandole le mani sulle braccia mentre la trascinavo via dalla porta d’ingresso.
«Dai…», le sussurrai, stringendola a me brevemente.
Cercai lo sguardo di Stiles ancora una volta, chiedendogli silenziosamente: “Cosa facciamo adesso?”, ma prima ancora che potesse fare qualcosa per rispondermi, Lydia continuò a parlare.
«Avete sentito? Ascoltate».
E solo allora mi resi conto della fine di uno degli incubi peggiori di tutta la mia vita. Il rumore delle sirene della polizia mi riempì le orecchie e un senso di gioia grandissimo m’inondò il cuore. Quasi faticavo a crederci, tanto che decisi di lasciar andare via Allison per avvicinarmi alle finestre e controllare coi miei occhi.
Venni subito imitata dagli altri e quando le due volanti della polizia entrarono nella mia visuale, un sorriso spontaneo mi nacque sul viso.
«Siamo salvi…», sospirai, quando anche Stephen apparve.
 
«Sicuro che fosse Derek Hale?».
Mentre ancora mi teneva un braccio sulle spalle, Stephen si voltò a guardare Scott con aria interrogativa ed io, per forza di cose, feci altrettanto.
«Sì», gli rispose McCall, dopo aver esitato forse troppo a lungo.
«L’ho visto anche io», diede manforte Stiles, avvicinandosi a noi tre mentre tutti camminavamo in direzione del parcheggio.
«Mh, mh», mugugnai allora, decisa a dare il mio supporto ma tuttavia incapace di parlare per bene.
Cercai gli occhi di Stephen, tentando di capire se fosse convinto o meno dalle nostre parole. Speravo che credesse alla storia di Derek come colpevole, perché sinceramente non credevo ci fosse altra scusa migliore per insabbiare tutto.
«Avete trovato il bidello?», domandò Scott, dopo qualche attimo di silenzio.
«Lo stiamo cercando».
«Avete già controllato sotto le tribune?».
«Sì, abbiamo controllato. Le abbiamo tirate fuori come hai chiesto. Non c’è niente».
Sgranai gli occhi. Come poteva un corpo essere sparito nel nulla? Scott non stava mentendo e lo disse anche allo sceriffo. Perché mai avrebbe dovuto, poi?
«Lo so. Ti credo. Davvero», tentò di rassicurarlo proprio Stephen, sempre stringendomi a sé.
«Non è vero!», sbottò Scott all’improvviso, per nulla convinto.
Sobbalzai sotto il suo sguardo, mentre Stephen aggrottava le sopracciglia e Stiles non faceva nient’altro che guardare la scena.
«Ha questo sguardo…», continuò a spiegare McCall, dispiaciuto. «… come se provasse compassione per me! Come se volesse credermi, ma so che non mi crede». 
«Ascolta. Perlustreremo tutta la scuola: lo troveremo. D’accordo? Te lo prometto».
Socchiusi gli occhi, realizzando ancora una volta che persona meravigliosa fosse il padre di Stiles. Mi chiesi anche di sfuggita perché anch’io non ne potessi avere uno così: uno che mi volesse bene sul serio, che amasse il suo lavoro e che fosse comprensivo almeno tanto quanto lo era Stephen. Lo stavamo ingannando e lui lo sospettava, eppure non aveva fatto nulla per remarci contro.
Scott fece per aggiungere qualcos’altro, ma qualcuno richiamò l’attenzione dello sceriffo e lui, dopo aver intimato a McCall e a suo figlio di non muoversi per nessuna ragione al mondo, fece per raggiungere l’agente che aveva reclamato la sua attenzione trascinandomi con sé.
«Aspetta», lo bloccò subito Stiles, agitato, guardandoci entrambi con uno sguardo sorpreso. «Harry può stare qui con noi. Vero, Harry?».
Presa in contropiede, annuii più volte nella speranza che Stephen mi permettesse di restare lì con Stiles e Scott. Avevo bisogno di parlare con loro.
«No che non può stare qui con voi», mormorò al contrario lo sceriffo, sgranando gli occhi. «Non posso più lasciarla con voi e soprattutto non posso lasciarla con te! A casa faremo una lunga chiacchierata, Stiles».
Oh no. Non ancora.
«Stephen…», sussurrai all’improvviso, non appena smise di parlare, preoccupata da ciò che sarebbe seguito. «… non è solo colpa di…».
Prima ancora che potessi pronunciare il suo nome, il diretto interessato m’interruppe.
«Oh, andiamo, papà. Preferivi che lasciassi Harriet sola a casa? Davvero?», domandò, incredulo.
«No! Preferivo che entrambi restaste lì. A dormire, magari. Come dei normali adolescenti».
Per poco, una risatina fintamente divertita non mi abbandonò le labbra. Normali adolescenti era quanto di più lontano ci fosse da una nostra descrizione veritiera. Né io né Stiles o Scott lo eravamo più, e soprattutto credevo che non avremmo più avuto occasione di esserlo ancora.
A quel punto, comunque, nessuno fu capace di replicare – quasi sicuramente perché nella mente di tutti era balenata quell’improvvisa e atroce consapevolezza – e l’unica cosa che potei fare mentre Stephen mi trascinava via con sé, fu voltarmi a cercare lo sguardo di Stiles e sillabargli un sincero: «Mi dispiace».
 
Quando sentii cigolare la porta della mia camera, sollevai lo sguardo verso l’entrata, stringendomi addosso il plaid arancione. Ero felicissima di poter essere di nuovo a casa e sorrisi, convinta che fosse Stephen. Dopo quella sera, gli ero riconoscente come non mai.
Tuttavia, trovarmi di fronte Stiles fu una sorpresa ancora migliore, e il mio sorriso si intensificò per un solo attimo, poco prima di spegnersi. Non avevo sentito lui e suo padre discutere, stranamente, ma ero sicura del fatto che – purtroppo – se la fosse presa con lui per la situazione in cui c’eravamo ritrovati.
«Ti ha messo in punizione?», gli chiesi infatti, riservandogli uno sguardo sconsolato.
«Niente di nuovo, tranquilla», mi rassicurò subito Stiles, sorridendomi mentre avanzava nella stanza.
Sospirai, incrociando le gambe sul letto e rinchiudendomi ancora più stretta nel bozzolo di calda lana che ero riuscita a creare attorno al mio corpo.
«Mi dispiace», sussurrai dopo qualche attimo, evitando imbarazzata lo sguardo di Stiles. «Con me Stephen è stato fin troppo gentile, come al solito. Lo amo, davvero. Ma in certi casi è proprio ingiusto».
A quel punto, Stiles scoppiò a ridere sonoramente, ancora fermo nei pressi della porta. Io alzai di scatto lo sguardo verso di lui e lo trovai intento a scuotere la testa, come incredulo, mentre ancora sorrideva.
Fui sul punto di dirgli che ero seria, su ogni cosa che avevo detto, ma proprio la sua voce mi fece desistere. 
«Ti adoro, lo sai?», lo sentii chiedermi – retoricamente? – mentre le guance mi andavano a dir poco a fuoco e il respiro mi si mozzava in gola.
Oh, merda. Merda, merda, merda. Cosa gli avrei detto a quel punto? Soprattutto: cosa voleva sentirsi dire Stiles? Non ero brava con le parole, per nulla. Al contrario suo che sapeva sempre uscirsene con frasi perfette nei momenti giusti.
Deglutii: non potevo far cadere il silenzio così e mostrarmi tanto infantile, perciò decisi che avrei fatto ciò che sapevo fare meglio al mondo. Cambiare discorso.
«Cosa vi siete detti tu e Scott quando tuo padre mi ha portata con sé?», domandai, ancora così piena di imbarazzo che decisi di rifugiarmi contro il muro mentre la voce tremava.
«Niente di che», commentò Stiles spiccio, infilando entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni mentre si poggiava di schiena contro la scrivania in legno. «L’alpha non vuole ucciderci: vuole Scott nel suo branco».
«Ma?».
Sapevo ce ne fosse uno. Tutto lo lasciava intuire.
«Ma prima deve liberarsi del vecchio. Allison, Lydia, Jackson… noi».
Siamo davvero un… “branco”? Me lo chiesi a lungo, mentre trattenevo un sorriso.
«L’alpha non vuole ucciderci perché aspetta che a farlo sia Scott stesso. E lui è pericoloso come non mai, inutile dirlo».
«Non ti chiederò perché», sospirai, facendo spallucce mentre mi mettevo in piedi, liberandomi dal plaid.
Era davvero troppo tardi per degli altri problemi, e mi dissi che – almeno per qualche ora – li avrei rimandati tutti a quando fossi stata meno stanca.
«Preferisco non sentirlo, davvero», continuai, dando la schiena a Stiles per piegare ordinatamente il plaid di lana.
All’improvviso, avevo bisogno di tenermi occupata. Sentivo l’imbarazzo crescere sempre di più e non credevo di essere mai stata in una situazione tanto fastidiosa.
«Già, meglio così», mormorò Stiles a bassa voce, e quasi mi sembrò di sentirlo sorridere mentre si avviava verso la porta.
Sapevo che la conversazione si sarebbe conclusa in quel modo e stavo aspettando solo la sua buonanotte per potermi lasciar andare ad un sospiro di sollievo, quando la voce di Stiles mi ridestò dai miei precoci “festeggiamenti”.
«Harry?», mi richiamò infatti, fermo sulla soglia.
Mi voltai velocemente a guardarlo, lasciando perdere il plaid spiegazzato e sperando solo che non avesse notato il mio sobbalzare nel sentire di nuovo la sua voce. Osservando i suoi occhi, non vidi nemmeno una briciola di consapevolezza, e la cosa un po’ mi risollevò il morale.
«Mh?».
«Non mi piace per niente quando discutiamo».
Oh.
«È pessimo», gli diedi immediatamente ragione, non riuscendo in nessun modo a trattenere un enorme sorriso. «Hai ragione».
Non mi aspettavo ne avremmo parlato ancora. Non avevo alcuna intenzione di discutere dell’argomento un’altra volta, anche perché non sapevo come le cose sarebbero potute finire. Sarebbe bastato pochissimo per litigare pesantemente e non volevo affatto. Meglio metterci una pietra sopra e ricominciare da capo. Ma il fatto che Stiles volesse chiarire, be’…
«Non ti offendere, ma credo che alle volte i primi ad essere pessimi siamo proprio noi», esalò con leggerezza, entrando nuovamente nella stanza.
Sorrisi ancora, annuendo. Come dargli torto?
«Concordo», acconsentii, mentre mi avvicinavo alla scrivania – e a Stiles, soprattutto – senza nessun motivo in particolare.
«Vieni qui, dai».
Inutile dire che non me lo feci ripetere due volte. Mi bastò semplicemente guardarlo lì: nella mia stanza, di fronte a me, con le braccia spalancate perché voleva abbracciare la sottoscritta e non chissà chi… e feci esattamente come mi aveva detto. Gli passai le mani attorno ai fianchi e poggiai la testa sulla sua spalla un’altra volta ancora. Non era la prima volta che lo abbracciavo, ma era senz’altro tutto diverso.
«Scusa…», trovai la forza di sussurrare, ancora tra le braccia di Stiles.
«Scusami tu».
E per descrivere quel momento, non c’era parola più di giusta di paradiso.









Non credevo di poter aggiornare oggi: stasera sono di cresima ma, stranamente, c'è ancora del tempo perché io mi dedichi a parachute e addirittura anche ad Arrow. Soprattutto, però, non credevo di poter scrivere un capitolo in così poco tempo. Non mi era mai capitato: questo è l'aggiornamento più veloce della storia e cavoli, sono proprio fiera di me! Anche perché questo quattordicesimo capitolo non è nemmeno corto, anzi... succedono tantissime cose e, a proposito, spero di non avervi annoiate troppo. Da come ben ricorderete ci troviamo intorno alla 1x07 e le cose iniziano a farsi sempre più difficili, per tutti. Ho cercato di descrivere solo i passaggi più importanti per tenere viva l'attenzione (?) ma se ho toppato, ditemelo.
Inoltre, non so cosa aggiungere riguardo al capitolo, perciò magari vi faccio spoiler sul prossimo (perché sono tanto buona!). Niente, si aprirà con una scena Starriet e non lo so, vorrei provare a renderlo più Starriet!centric degli altri. Ho già in mente alcune cose divertenti, ahahah. E non so se l'avete notato, ma i due bambini si avvicinano sempre di più <3 Spero solo che la cosa possa farvi piacere e che non vi risulti tutto troppo forzato ai fini della trama. Per me sarebbe un incubo, quindi ditemelo finché sono in tempo per correggere! E ditemi anche cosa ne pensate di questo ultimo capitolo e del modo in cui ho descritto le sensazioni di Harry in situazioni come quelle vissute qui. Mi basta un commentino anche piccolo piccolo :3
Nel frattempo mi dissolvo, devo betare furiosamente! Duty calls. Alla prossima, bellissime (che può essere tra una settimana come tra due mesi),
hell 

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Capitolo 15
*** Luna piena. ***


parachute





15.  Luna piena.


 
Qualcosa mi premeva sulla spalla. Non era una pressione indelicata: non era forte né fastidiosa o tantomeno dolorosa. Eppure non potevo fare a meno di sentirmene innervosita. Sapevo cosa significasse. Ero sveglia. E come al solito, non sarei più riuscita a prendere sonno. Era ora di alzarsi.
Mugugnai dispiaciuta, agitandomi nel letto almeno finché la lieve pressione sulla spalla non si tramutò in uno strattone e successivamente in scuotimenti veloci e periodici. Quando poi il mio nome abbandonò le labbra di Stiles, sgranai gli occhi fulmineamente, e mi resi conto di essere intenta a dargli le spalle solo nel momento in cui il giallino chiaro delle pareti mi riempì le iridi ancora assonnate. Grazie a Dio non poteva vedermi bene da appena sveglia.
«Harry? Dai, ti devi alzare! Non abbiamo l’intero pomeriggio».
Quando Stiles pronunciò quelle parole, continuando imperterrito a reclamare la mia attenzione, mugolai rumorosamente, cercando di scappare dalla sua presa. Purtroppo, però, avere un letto singolo aveva i suoi svantaggi. Incapace di svincolarmi, optai per la seconda opzione: nascondermi. Facendo sgusciare velocemente le mani da sotto il cuscino, afferrai il pesante piumone e me lo tirai fin sulla testa. Quando Stiles smise di chiamare il mio nome e di puntigliarmi, sorrisi soddisfatta. Non volevo più stare a letto: a quel punto mi sarei alzata presto perché sicuramente non sarei più riuscita a dormire… volevo solo che Stiles mi concedesse la calma per farlo tranquillamente e che uscisse quindi dalla mia stanza.
«Okay, vuoi giocare duro? Perfetto».
Feci a malapena in tempo ad aggrottare le sopracciglia e subito le dita di Stiles sui fianchi fecero sì che il viso mi andasse a fuoco e il respiro mi mancasse. Mi stava facendo il solletico. A me. Ai fianchi! Una delle cose che di più soffrivo al mondo.
Ancora nascosta – inutilmente – sotto il piumone di colore chiaro, presi a dimenarmi mentre ridevo a crepapelle. A dire il vero all’inizio non avevo fatto altro che lamentarmi e urlare, ma dopo un po’ l’impulso di ridere era stato così forte che resistergli mi era risultato impossibile. Quando davvero fu troppo difficile per me respirare, decisi di arrendermi. Sgusciai fuori dal piumone mentre intimavo a Stiles di fermarsi, rendendomi conto forse un po’ troppo tardi dei capelli scompigliati e della faccia rossa come un peperone.
«Buongiorno, Medusa!», mi riprese infatti Stiles, riservandomi un sorrisone quando, stesa di schiena, feci correre i miei occhi sul suo viso.
A quel punto sbuffai, divertita, tirandomi indietro il disastro che erano capaci di diventare i miei capelli ogni mattina e riafferrando il piumone per sistemarlo almeno un po’. Okay, ci eravamo divertiti ed era bello essere svegliata da Stiles, ma… perché? Me lo chiesi solo in quel momento.
«Che è successo? Non è forse domenica?», mormorai, mentre mi voltavo di fianco nella direzione di Stiles, ancora fermo di fianco al mio letto.
«Certo che è domenica», mi rassicurò lui, annuendo mentre trascinava la sedia della mia scrivania di fronte a me e ci si sedeva sopra placidamente.
«E allora?».
«E allora possiamo indagare ancora sulla tua famiglia! Devi finire la relazione per la professoressa Finnigan, no? Ed io sono curioso da morire».
«Stiles… è domenica», borbottai semplicemente, calcando la parola “domenica” mentre cercavo di voltarmi per stare a letto in santa pace ancora un altro po’. «E non ho voglia di studiare di prima mattina. Riparlamene stasera, mh?».
«Non è prima mattina, Harry».
A quelle parole, aggrottai le sopracciglia. Eppure, non chiesi niente mentre mi stendevo prona e abbracciavo il cuscino, voltando la testa verso il muro e socchiudendo appena gli occhi. Aspettai semplicemente che Stiles decidesse di spiegarsi, mentre davo pieno sfoggio della mia immensa pigrizia.
«Sono le quattro del pomeriggio e abbiamo due ore prima che la biblioteca chiuda», esalò dopo qualche attimo, facendo sì che i miei occhi si sgranassero nuovamente. «Dai, voglio andarci con te! Dobbiamo cercare i diari di Charles Carter, ricordi?».
Okay, sul serio: cosa gli prendeva? Era ammattito del tutto? Voleva andare in biblioteca di domenica? E soprattutto: avevo dormito così tanto?
Mentre mi muovevo fulmineamente nel letto per puntellarmi sui gomiti e voltare la testa nella direzione di Stiles, presupposi fosse perché tutte quelle scorribande notturne non stavano facendo altro che privarmi del sonno e rivoluzionare tutti i miei ritmi. In fondo, il sabato precedente ero andata a letto praticamente all’alba, dunque svegliarsi alle quattro del pomeriggio non sembrava poi così assurdo.
«Stiles, è domenica», ripetei, ancor più infastidita della prima volta. «La biblioteca è chiusa. Ed io non muoio affatto dalla voglia di studiare».
Osservai Stiles mentre, con una mano premuta sulle labbra, cercava di trattenere una sonora risata. Solo allora mi resi conto di quanto dovessi essere buffa in quel momento: a letto col piumone disfatto, i capelli in disordine e lo sguardo truce già da appena sveglia. Per un solo attimo, mi chiesi se a Stiles piacesse davvero così tanto come sembrava mettermi in costante imbarazzo.
«E non osare prenderti gioco dei miei capelli», borbottai infatti quando mi resi conto davvero della sua espressione divertita, sdraiandomi nuovamente – questa volta, però, continuando a guardare Stiles.
«A dire il vero mi piacciono», esalò lui, serio come raramente l’avevo visto mentre io sbuffavo lievemente. «Hanno qualcosa di… selvaggio».
«Smettila».
«D’accordo».
Alzò le mani al cielo in segno di resa, mentre anch’io decidevo di gettare via la spugna e socchiudevo gli occhi stancamente. Non volevo alzarmi, affatto, ma sapevo che Stiles non si sarebbe arreso tanto facilmente. Neanche a dirlo, infatti, riprese a parlare pochi secondi dopo.
«Ma ti prego, alzati. Voglio indagare, dai! La biblioteca è aperta fino alle sei, oggi. E noi dobbiamo andarci», spiegò, terminando con quello che aveva tutta l’aria di essere un ordine. «Come faccio ad essere io più curioso di te?».
«È nella tua natura, Stiles».
«La mia è una bellissima natura».
«Non ho mai detto nulla in contrario», risi, alzando gli occhi al cielo mentre – finalmente – prendevo la decisione di assecondarlo.
Era l’unico modo che avessi per farlo andar via.
«Ora però esci, altrimenti non mi alzerò mai», intimai, riservandogli l’ennesimo sguardo ammonitore.
Stiles non se lo fece ripetere due volte: si mise in piedi velocemente, spostando la sedia sulla quale era stato seduto fino a quel momento di nuovo di fronte alla scrivania in legno chiaro e poi ritornò brevemente di fronte a me, sorridendo.
«Preparati, Watson! Questa sera sveleremo il mistero della famiglia Carter!», esclamò, poco prima di avviarsi verso la porta mentre io scoppiavo a ridere.
«Ai suoi ordini, Holmes…».
Che coppia di scemi eravamo alle volte?
 
Nonostante tutto l’iniziale interesse, dopo circa un’ora di ricerche pressoché inutili, Stiles aveva deciso di gettare la spugna e s’era dileguato chissà dove. Sospettavo fosse nella sezione fumetti dell’immensa biblioteca di Beacon Hills, e la cosa non mi stupiva affatto. Sapevo sarebbe finita così, ma non me ne curai più di tanto quando – a mezz’ora dalla chiusura – ancora ero intenta a gironzolare nel reparto “storico”. Reperire i diari di Charles Shelby Carter si stava dimostrando una cosa più difficile del previsto, ma chissà perché riuscivo ad essere ancora fiduciosa. La curiosità di Stiles mi aveva senz’altro contagiata.
Anche Scott era lì con noi: proprio Stiles gli aveva proposto di accompagnarci affinché potesse distrarsi dopo la sua rottura con Allison, e lui – seppur controvoglia – aveva accettato di venire. Gli riservai uno sguardo dispiaciuto mentre lo analizzavo: seduto ad uno dei grandi tavoli che gli studenti utilizzavano per studiare, con lo sguardo perso e il piede che ticchettava nervosamente a terra, sembrava nient’altro che un fantasma. Stava diventando l’ombra di se stesso e non avrei mai voluto che reagisse così alla cosa. Continuai a pensare a cose del genere mentre mi muovevo distrattamente sul posto, e tutto andò bene almeno finché non mi scontrai con qualcuno.
«La prego, mi perdoni! Ero sovrappensiero!», sobbalzai, posizionando le mani di fronte a me in un gesto del tutto istintivo.
Tuttavia, mi tranquillizzai immediatamente nel ritrovare Marin Morrell dinanzi ai miei occhi. Mentre la mia espressione preoccupata si distendeva e vietavo al mio sopracciglio di svettare verso l’alto, piegai addirittura le labbra in un sorriso mentre incrociavo le braccia al petto.
«Professoressa, buonasera», osservai, cordiale come mio solito con quella donna capace di ispirarmi pur senza far nulla.
«Buonasera, Harriet», mi ricambiò subito lei, sorridendomi. «Che ci fai qui, se posso saperlo? È davvero raro trovare qualche studente in biblioteca di domenica. Complimenti!».
Ridacchiai, alzando lievemente gli occhi al cielo mentre mi spostavo una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Cerco di portarmi avanti con lo studio. Stiles mi ha detto che la biblioteca sarebbe stata aperta e abbiamo deciso di approfittarne. C’è anche Scott McCall».
«Tre studenti in biblioteca di domenica! Che carini. Vi farei una foto!», mormorò la Morrell, fingendosi stupita poco prima di scoppiare a ridere, seguita a ruota da me. «E se posso saperlo, quale materia ti ha presa così tanto da portarti a studiare nel weekend?».
«Storia», esalai velocemente, prendendo a passeggiare insieme a lei lungo gli infiniti corridoi di libri. «La signora Finnigan ci ha assegnato una ricerca da svolgere sulla storia delle nostre famiglie. Quella della mia si sta rivelando un po’ complicata».
Quando ebbi finito di parlare, mi sembrò quasi di vedere uno scintillio negli occhi di Marin. Per un attimo, mi preoccupai anche. Perché all’improvviso non mi sentivo più al sicuro? Cercai di non farmi troppi complessi inutili, dicendomi di aver solo immaginato quella sua improvvisa quanto sospettosa fiammata di interesse acceso. Tuttavia, decisi che non le avrei rivelato nulla di troppo intimo.
«Complicata in che senso? Sempre se posso saperlo», la sentii infatti domandarmi, un po’ a conferma delle mie sensazioni. «Vorrei provare ad aiutarti, se me lo permetti. Sono o no la tua tutor?».
«È molto gentile da parte sua, ma non intendo annoiarla con tutta la storia», le feci presente, mettendo su un sorrisino falso mentre ancora le camminavo al fianco. «Dunque, per farla breve: sto cercando i diari di un mio antenato. So per certo che ne ha scritti alcuni: l’ho letto su internet. E sono convinta che sarebbe interessante poterli sfogliare».
«Trovo che sia un’idea davvero ottima. Com’è il nome?».
«Charles», pigolai, stringendomi le braccia al petto. «Charles Carter».
Ancora una volta, vidi uno scintillio attraversarle le iridi e un brivido mi partì incontrollato lungo la schiena. Cercai di nuovo di non farci caso e ripetermi che fosse solo una mia impressione, ma proprio non riuscivo a togliermi dalla mente il brillio che avevo intravisto nel fondo di quei due pozzi scuri.
«Capisco. E finora non hai trovato nulla?».
«No. Credevo che cercare nella sezione storica sarebbe stato utile, ma niente», spiegai, facendo spallucce verso la fine, poco prima di controllare nuovamente l’orologio.
Era davvero ora di andar via.
«Chiederò informazioni a qualche addetto, quando tornerò. Ormai è l’orario di chiusura».
«Già, che peccato», annuì Marin. «Sarà per un’altra volta, dai. Adesso devo andare anch’io. Ci vediamo a scuola, Harry».
«Certo. Arrivederci, professoressa».
Non appena la Morrell mi ebbe lasciata “libera”, non mi preoccupai nemmeno di guardarla andare via, limitandomi solo a raggiungere Scott – sempre fermo al solito posto – per intimargli di cercare Stiles insieme a me per poi tornare a casa. Probabilmente avrei dovuto dare ascolto alle mie sensazioni e tenere d’occhio la professoressa di francese almeno per un po’, perché se solo l’avessi fatto l’avrei vista allontanarsi nervosamente verso l’entrata della biblioteca di Beacon Hills mentre tirava fuori dall’elegante borsa in pelle il suo cellulare.
L’avrei vista anche portarlo all’orecchio dopo aver composto velocemente chissà quale numero e aspettare impaziente una risposta dall’altra parte che le avrebbe permesso di parlare. La cosa fu possibile solo quando un: «Pronto?» pronunciato da una voce grossa le arrivò alle orecchie.
«Sono Marin», si presentò allora la Morrell, spiccia. «Tua nipote è alla ricerca dei diari di paparino. Credo sia meglio tirarli fuori da quella polverosa soffitta. Tu che ne dici?».
 
«Non ci credo».
Al suono di quelle parole, sollevai lo sguardo dalla nuova edizione di Cime tempestose e portai i piedi – che fino a quel momento avevo tenuto sollevati sul sedile dell’auto – a terra.
«Davvero, papà? Qui è pieno di agenti e tu hai anche insistito per accompagnarci a scuola? Un altro paio di occhi in più addosso, eh?».
A parlare, ovviamente, era Stiles. In quel freddo lunedì mattina del ventuno ottobre, Stephen aveva deciso di accompagnarci a scuola – anzi, più che altro ce l’aveva imposto. Be’, credo non ci sarebbe stato nulla di male se non fosse stato che quella mossa era ovviamente piazzata ad arte per poter spiare ogni nostro movimento.
«Che imbarazzo. Mi sento come se fossi in arresto», continuò Stiles, facendo per scendere dalla volante della polizia con uno sbuffo.
Stephen lo bloccò immediatamente, ponendo una mano sul suo braccio e riservandogli uno sguardo ammonitore, almeno finché il figlio non si voltò a guardarlo con aria interrogativa. Io, dal mio canto, posi il segnalibro all’ultima pagina letta e riposi il volume di Cime tempestose nello zaino. Personalmente, credevo anch’io che farsi scortare a scuola dalla volante dello sceriffo fosse alquanto imbarazzante, ma non avevo avuto alcuna intenzione di lamentarmi della cosa – al contrario ovviamente di Stiles.
«In arresto prima o poi ci finirai sul serio, se non impari a comportarti degnamente», sentii Stephen che lo rimproverava, con tono grave. «Adesso filate in classe. E tu, attento. Resterò qui per un po’ a parlare col preside».
A quel punto, Stiles non ci pensò su due volte e sgusciò fuori dalla macchina velocemente. Io, al contrario, mi misi lo zaino in spalla con tutta calma e prima di scendere mi sporsi in avanti quel tanto che bastava da lasciare a Stephen un bacio sulla guancia. Poi, donandogli uno sguardo attraverso lo specchietto retrovisore, gli sorrisi.
«Buona giornata, bambina», mi augurò allora lui, poco prima che scendessi dalla macchina per raggiungere Stiles – che stranamente, invece di scappare si era fermato poco più avanti ad attendermi.
Mi diressi nella sua direzione con un gran sorriso sulle labbra ma la mia smorfia non perdurò granché. Mentre fianco a fianco ci muovevamo in direzione dell’entrata, potei sentire distintamente il nervosismo di Stiles e mi preoccupai non poco.
«Ehi, cosa c’è?», gli domandai, curiosa, quando capii che non mi avrebbe parlato della cosa.
«È papà. Mi sta addosso, ed è fastidioso», sbuffò, velocemente. «E come se non bastasse è in costante pericolo e non ho idea di come farglielo capire».
Aggrottai le sopracciglia.
«Cosa intendi?».
«Stasera c’è la luna piena».
«E allora?», continuai, ancora confusa. «Stiles, siamo più in pericolo noi di tuo padre. Smettila di preoccuparti».
«Credimi, è più in pericolo lui», mi contraddisse, nel momento in cui entravamo finalmente a scuola. «Stasera usciranno a cercare il corpo di Derek».
Non potei fare a meno di boccheggiare, arrestando la mia camminata mentre dentro di me, un po’ tutto si fermava. Il respiro, il cuore, il cervello. Avrei voluto chiedere a Stiles delle informazioni ma mi sentivo improvvisamente svuotata di ogni energia.
«Sì, il suo corpo è scomparso. E capirai bene quanto sia pericoloso uscire in una notte di luna piena con un alpha a piede libero. Devo assolutamente parlare con papà».
 
Davvero non credevo ci fosse sensazione più brutta dell’angoscia immensa che faceva della sua preda ogni studente intento a ricordare a meno di dieci minuti dall’inizio della giornata scolastica, la presenza di un importantissimo test o interrogazione. Sebbene avessi provato già quella sensazione orribile – sbadata tanto da dimenticare spesso cose così importanti – ogni volta era peggio della precedente.
E fu proprio ciò che mi accadde quella mattina, nel momento stesso in cui ritrovandomi a passeggiare da sola per i corridoi della Beacon Hills High School, osai pensare con un debole sorriso a qualcosa di molto simile ad un: “Che bello, oggi sarà una giornata nient’affatto pesante”. Certo, lo sarebbe stata sul serio se solo non fosse stato per il test di ancora non avevo capito bene cosa che Harris aveva avuto la faccia tosta di assegnare alla sua classe tanto – a mio parere troppo – tempo prima della fine del trimestre. Un test per il quale, ovviamente, non ero preparata.
Nascondendo alla bell’e meglio la smorfia di delusione profonda che improvvisamente era arrivata a deturparmi il viso, lasciai velocemente alcuni effetti personali nel mio armadietto e poi me lo richiusi alle spalle, lanciando uno sguardo tutt’intorno a me. Non avevo nemmeno idea di dove si tenessero prove di quel calibro: da quanto ne sapevo io venivano usate classi adatte ed era inutile dire che, anche in quello, fossi completamente disinformata.
Stiles era sparito per parlare con suo padre, proprio come da programma, mentre io non riuscivo ad individuare né la Morrell né nessun altro di utile. Per fortuna, però, mi resi conto di aver “parlato” troppo presto. Quando Lydia Martin ed Allison Argent mi apparvero davanti agli occhi, quel freddo lunedì mattina, proprio non potei fare a meno di sorridere. Avevano tutta l’aria di essere la mia salvezza.
Velocemente mi avvicinai a loro, giusto in tempo per sentire Lydia chiedere: «Stai scherzando?» con un tono di voce esterrefatto. Allison si limitò a scoccarle un’occhiata confusa specchio della mia, che non ebbi nemmeno tempo di salutare le due ragazze perché la Martin me lo impedì, continuando a parlare.
«Scott ci ha chiusi in quell’aula e ci ha lasciati a morire. Avremmo potuto denunciarlo, o fargli pagare i conti degli psicologi. Il tuo rompere con lui è il minimo».
A quel punto pensai di scappare via, a gambe levate. Al contrario, però, non feci altro che restare immobilizzata alle spalle delle mie due “amiche”. Come potevano avere una considerazione simile di Scott? Okay, non conoscevano tutta la storia, ma perché non si impegnavano nemmeno per provare a comprendere?
Feci per allontanarmi da loro di modo che non si accorgessero del mio aver origliato, senza volerlo, la conversazione, ma proprio nel momento in cui provai a muovere un passo all’indietro Allison si voltò istintivamente alle sue spalle e i nostri occhi entrarono subito in contatto. Osservai la sua espressione congelarsi e perfino Lydia notò lo sgomento improvviso.
«Oh. Ciao, Harriet», la sentii dirmi infatti, quando seguendo lo sguardo di Allison trovò me. «Hai compito con noi, vero? È meglio se andiamo in classe, vieni!».
Falsa. Falsa, falsa, falsa. Lydia Martin non si era mai comportata da amicona con me, tranne che per alcuni sorprendenti sprazzi di gentilezza, perché mai iniziare a farlo allora? Solo perché sospettava avessi sentito ciò che aveva detto e temeva che le sue parole arrivassero alle orecchie di Scott? Perché lo sapeva del buon rapporto che avessimo noi due, anche grazie a Stiles, proprio come ne era consapevole Allison. Proprio lei, infatti, mi ignorò per tutto il tempo. Era arrabbiata con McCall. E con me.
«Sì, d’accordo», pigolai semplicemente quando ne fui in grado, prendendo a seguire le due verso un’aula dentro la quale mai ero stata prima di allora.
Il cammino verso “il patibolo” mi sembrò più lungo ed imbarazzante che mai, e mentre passeggiavo al fianco di Lydia – in religioso silenzio – mi ritrovai a sperare di poter scappare in qualche modo da quella situazione scomoda.
Quando finalmente fui libera di allontanarmi dalle due e fummo arrivate nella classe che il professor Harris aveva deciso di farci occupare per svolgere il suo test, mi diressi a passo spedito verso un banco che fosse il più lontano possibile sia da Allison che da Lydia. Alla fine, infatti, mi ritrovai in una delle ultime file. E mentre mi guardavo intorno pensando che quello fosse senz’altro un lato positivo della cosa, non potei fare a meno di chiedermi dove fosse finito Stiles.
 
Il professor Harris mi avrebbe bocciata. Il professor Harris mi avrebbe bocciata. Il professor Harris ci avrebbe bocciati. Quello era diventato il mio unico pensiero fisso. Era nient’altro che la verità. E sapevo fin dall’inizio che sarebbe andata così, se non per Scott e Stiles di sicuro per me. Non ero pronta a quel test: non quella mattina, non a quell’ora. Mi era bastato semplicemente leggere qualcosa al riguardo del “meccanismo dei prezzi” per capire di essere irrimediabilmente fottuta. E, sinceramente, a giudicare dall’ansia che avevo visto nei movimenti di Scott, anche lui non sembrava molto preparato.
Che fossi rimasta in classe a completare il test con risposte messe lì a caso o che fossi uscita dopo nemmeno dieci minuti dall’inizio – come in effetti avevo fatto – per seguire Stiles e Scott all’esterno, senza nemmeno sapere perché, ero convinta del fatto che non sarebbe cambiato nulla. Sarei stata bocciata comunque. Il che, almeno un po’, riusciva a consolarmi.
Prendendo un grande respiro, fermai di colpo la mia corsa e mi accasciai sulle ginocchia. Ero stanca come se non mi fossi fermata da secoli e per un attimo, mi chiesi perché. I corridoi della Beacon Hills High School erano più che deserti, com’era normale che fosse durante lo svolgimento delle lezioni, e cercai di scacciare via dalla mia mente il ricordo di quei corridoi avvolti dal buio durante la notte infernale che io e gli altri eravamo stati costretti a passare dentro quell’edificio a causa dell’alpha. Avanzando a passi lenti verso nemmeno sapevo io dove, mi tranquillizzai solo nel momento in cui Stiles apparve nella mia visuale.
Se ne stava inginocchiato sul pavimento: mi dava le spalle, perciò non potevo dire con certezza cosa stesse analizzando lì per terra ma ero sicura che fosse intento a guardare qualcosa. Istintivamente buttai un’occhiata dietro di me, come per mettere a tacere l’insistente vocina nella mia testa che cercava da ormai troppo tempo di convincermi che ci fosse qualcuno che mi seguiva, poi – a passi veloci – raggiunsi Stiles, chinandomi alla sua altezza mentre gli posavo una mano sulla spalla.
«Che succede?», mormorai nella sua direzione, subito dopo aver pronunciato il suo nome con lo stesso tono di voce.
Per un attimo mi sembrò di sentirlo sobbalzare lievemente sotto il mio tocco, poi si voltò a guardarmi e posò l’indice sulle labbra prima di rispondermi. Distogliendo brevemente lo sguardo dal suo viso, notai che teneva tra le mani lo zaino di Scott. Stava guardando quello, prima.
«Stai attenta», mi ordinò, mettendosi in piedi lentamente poco prima di chiamare il nome del migliore amico ad alta voce.
Ovviamente non ricevette risposta, e mentre mi rendevo conto di essere intenta a trattenere il respiro – nascosta dietro le sue spalle, praticamente – lo osservai afferrare il cellulare e comporre velocemente il numero di Scott. Mentre Stiles attendeva che la suoneria si facesse sentire, si guardò intorno, ed io d’istinto feci lo stesso. Quel silenzio nei corridoi era innaturale, e in un certo senso – per i ricordi che riportava alla mia mente – doloroso. Non volevo più trovarmi in certe situazioni, ma era di Scott che stavamo parlando. Cos’altro avrei potuto fare?
«Da questa parte», stabilì, prendendo a seguire la suoneria del cellulare di McCall.
Io lo seguii senza farmelo ripetere due volte, sempre attenta a non perderlo di vista – non che fosse poi molto probabile, ma non si sapeva mai. Dopo aver svoltato nel primo corridoio a destra, ci ritrovammo di fronte alla porta aperta dello spogliatoio maschile. Capimmo subito entrambi che la musichetta alquanto fastidiosa provenisse da lì, e mentre Stiles entrava nella stanza ponendosi lo zaino di Scott in spalla e posando nella tasca dei pantaloni il cellulare, io lo seguii ancora.
Quando però i suoi passi si arrestarono di botto, fu inevitabile per me finirgli contro la schiena.
«Ouch», mugolai, lievemente infastidita. «Che ti prende? Perché ti sei fermato di colpo?».
«Devi stare ferma qui. Vado avanti io», sussurrò allora Stiles, voltandosi a guardarmi mentre io non indietreggiavo di un passo.
Difatti, ci ritrovammo vicini come mai lo eravamo stati. Per fortuna, comunque, non ebbi modo di perdermi troppo in pensieri del genere perché Stiles mi diede nuovamente le spalle e fece per proseguire all’interno dello spogliatoio, convinto del fatto che avrebbe trovato lì Scott. Io, incurante dei suoi ordini, gli andai dietro tranquillamente. Speravo non avrebbe sentito i miei passi dietro di sé – avevo cercato di fare meno rumore possibile e di non stargli troppo addosso – ma le cose non andarono così, per sfortuna. Stiles si rese subito conto di me che continuavo a muovermi contro il suo volere e si voltò di nuovo, velocemente, nella mia direzione, ponendomi entrambe le mani sulle spalle per far sì che arrestassi finalmente la mia camminata.
«Harry!», mi ammonì, alzando la voce pur senza volerlo. «Ferma. Ti prego».
A quel punto, cos’altro avrei potuto fare se non sospirare sconfitta e annuire? Osservando il mio acconsentire, Stiles mi lasciò andare e proseguì tranquillo verso l’interno dello spogliatoio. Io non disubbidii al suo comando ma tuttavia avanzai quel tanto che bastava per poterlo tenere almeno un po’ d’occhio, nascosta alla bell’e meglio dietro uno dei tanti armadietti grigi.
Quando lo sentii rivolgere una domanda confusa a Scott, tirai un sospiro di sollievo. Non riuscii a captare la loro intera conversazione ma solo domande come: «Ti stai trasformando?» e preghiere tipo: «Non ora, ti scongiuro. Di là c’è Harriet!». A quelle parole, fu inevitabile per me sorridere, ma quella smorfia soddisfatta abbandonò subito il mio viso nel momento in cui capii che il problema non fosse la licantropia. Scott stava male. E volevo assolutamente capire perché.
«Stiles?», chiamai con voce flebile, quando mi ritrovai praticamente in direzione delle docce. «Cosa succ… oh. Stai bene, Scott?».
Un solo breve attimo di smarrimento e sopresa separò quella mia esclamazione sussurrata dalla domanda preoccupata che posi a McCall. Lui, di tutta risposta, annuì nella mia direzione mentre il respiro affannoso andava via via scemando. Stiles, invece, arrestò il chiacchiericcio nervoso e – dopo aver lanciato un’occhiata nella mia direzione – si rivolse nuovamente al migliore amico. 
«Hai avuto un attacco di panico», gli spiegò, con voce decisa. «Ma credere di avere un attacco d’asma ha bloccato il tutto».
«Geniale», non potei fare a meno di mormorare, voltandomi a guardare Stiles con un’espressione esterrefatta.
Come faceva lui a sapere certe cose? Mi venne spontaneo chiedermelo.
«Grazie!», mi rispose allora, velocemente, mettendo su un sorriso che gli illuminò il volto. «Aspetta. Ti avevo detto di non muoverti, mi pare. Perché non mi ascolti mai?».
Quella consapevolezza arrivò forse con un po’ di ritardo, tanto che il vedere tutto l’entusiasmo provocato dal mio complimento sparire via dal suo viso lentamente per essere sostituito dalla confusione e poi dal nervosismo, mi fece venir voglia di ridere.
«Ti divertiresti di meno se lo facessi», esalai dopo qualche attimo, piegando le labbra nell’ennesimo sorriso mentre Stiles alzava gli occhi al cielo, vagamente infastidito.
Di fronte a quella sua reazione, non potei proprio evitare di metter su uno dei miei tipici bronci infantili. Sapevo che fossero più che infallibili e trattenni un sorrisino vittorioso nel momento in cui Stiles, captando la mia espressione, socchiuse le labbra e ridusse gli occhi a due fessure. Era indignato dal mio usare mezzucci subdoli come quello: non ci voleva un genio per capirlo. Io, di tutta risposta, accentuai ancor di più il tremolare del labbro inferiore.
«Harriet Carter, non mettermi il…», mi disse proprio Stiles, calcando ogni minima parola mentre mi teneva un indice puntato addosso.
Tuttavia, il suo ordine fu interrotto da Scott e solo quando lui distrasse Stiles dal nostro piccolo battibecco, mi concessi di sfogare la risata che avevo trattenuto fino a quel momento.
«Come fai a sapere tutte queste cose sugli attacchi di panico?», domandò McCall, mentre un’idea balenava improvvisamente nella mia testa e sentivo l’aria farsi un po’ più cupa.
«Ne ho sofferto quand’è morta mia madre», soffiò Stiles immediatamente, infilando entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni chiari mentre prendeva anche a dondolarsi nervosamente sul posto. «Non era divertente».
Dopo che il silenzio fu caduto in quell’angusto spogliatoio, cercai il viso di Stiles mentre mi mordevo il labbro inferiore nervosamente, e lo trovai intento a rifuggire il mio sguardo. Non ci fu nemmeno bisogno di chiedersi perché: sapevo benissimo – immaginavo, più che altro – come potesse sentirsi. E non c’era niente che potessi fare per aiutarlo. Se non, forse, stargli vicino.
«Io…», prese a dire Scott all’improvviso, facendo in modo che tutta l’attenzione fosse su di lui. «mi è bastato guardare Allison per sentirmi come se mi avesse colpito un martello».
Prima che potessi anche solo provare a dire qualcosa, intervenne Stiles. E per un attimo, mi sembrò proprio nient’altro che il ragazzo solare di sempre. Mentre parlava al suo migliore amico, mi presi del tempo per osservarlo attentamente e provai a pensare a come dovesse sentirsi. Era disarmante come riuscisse a passare dalla serietà al sorriso in un battito di ciglia.
«Si chiama cuore infranto. Due milioni di canzoni sono state scritte al riguardo. Ti dice niente?», domandò, apparentemente tranquillo.
«Non riesco a non pensare a lei».
«Be’, pensa a questo: suo padre caccia lupi mannari, e… tu sei un lupo mannaro. Non credo che avrebbe funzionato».
Non potei fare a meno di sgranare gli occhi. I ragazzi e il loro rapporto conflittuale col tatto. Stiles ne era la prova lampante. Con un’espressione alquanto spiritata, mi avvicinai a lui quanto bastava per colpirlo su un braccio – nemmeno troppo scherzosamente.
«Stiles!», esclamai, richiamando la sua attenzione mentre Scott aveva un’espressione un po’ più atterritta ogni minuto che passava. «Così non sei d’aiuto».
Provai anche a consolare Scott, mentre Stiles aggiungeva qualcosa tipo: «È normale che tu stia così, ma ti passerà» ed io gli davo manforte. Tuttavia, lui non ne sembrò affatto convinto e fece in modo che l’aria afflitta che aveva assunto già da parecchi minuti, rimanesse a deturpargli il viso – aumentando sempre di più.
«Stanotte ci sarà la luna piena», osservò poi ad un certo punto, facendo volare lo sguardo all’oblò posto in alto dal quale filtravano i raggi spenti del sole. «Non credo basterà rinchiudermi in camera mia. Se uscirò… io… io ucciderò qualcuno».
Ah.
 
«Stiles?».
La voce mi abbandonò le labbra in un soffio appena appena udibile, cosa provocata dal fatto che da ormai troppo tempo fossi intenta a rincorrere il diretto interessato per i corridoi della Beacon Hills High School. Ero stanca, e preoccupata. La situazione di Scott sembrava non far altro che peggiorare sempre di più e avevo bisogno di parlarne con Stiles e di metterlo in guardia, o perlomeno provarci. Lui però non sembrava avere le mie stesse intenzioni.
«Stiles, ti dispiacerebbe rallentare?», pregai ancora, allungando i miei passi nella sua direzione, nei pressi – ancora – dello spogliatoio maschile.
La giornata scolastica stava quasi per giungere al termine e da quando Scott aveva confessato la sua paura di poter uccidere qualcuno, non c’era stato niente che potessi fare per tranquillizzarmi. Né seguire lezioni né anticipare nuovi compiti per casa. Niente di niente, solo la sua frase che si ripeteva nella mia mente ancora ed ancora.
Non avevo avuto il coraggio di cercare Scott: al contrario, mi ero tenuta a debita distanza da lui e di conseguenza anche da Stiles. A quel punto avevo però compreso di star sbagliando e mi ero messa a cercarlo. Non era proprio il momento di abbandonarli.
«Stiles?».
Quando pigolaii per l’ennesima volta il suo nome, alquanto esausta, lui decise di avere – finalmente – abbastanza pietà di me da fermarsi. A dire il vero, realizzai qualche minuto più tardi, l’aveva fatto solo perché ormai giunto a destinazione. Col respiro corto, gettai uno sguardo alla porta blu dello spogliatoio dalla quale uscivano ed entravano ragazzi in gran numero. Era l’ora del lacrosse e si vedeva.
«Harry, non ho tempo, mi dispiace», lo sentii spiegarmi, dopo che si fu voltato a cercare il mio viso arrossato. «Possiamo parlare dopo, a casa. Adesso vado a cambiarmi».
Quando ebbe finito di parlare, allontanò la schiena dal muro contro il quale era stato appoggiato e velocemente, mi diede le spalle. Inspirai bruscamente mentre mi avvicinavo a lui tanto da afferrare la sua maglia e trattenerlo esattamente lì dov’era. Non avevo più intenzione di rincorrerlo né tantomeno potevo seguirlo all’interno dello spogliatoio. Proprio perché Stiles lo sapeva aveva cercato di sgattaiolare dentro velocemente.
«No, non possiamo parlare dopo a casa perché quasi sicuramente non ci tornerai nemmeno», sibilai, mollando la presa sul tessuto della t-shirt di Stiles solo quando lui si voltò a guardarmi con espressione interrogativa. «Quindi ascoltami».
«D’accordo», non poté fare a meno di sospirare, posizionandosi di fronte a me mentre incrociava le braccia al petto. «Cosa succede?».
«Succede che Scott è totalmente fuori controllo e muoio dalla paura, Stiles», sussurrai, muovendo un passo nella sua direzione affinché potesse sentirmi meglio.
Era il cambio dell’ora e la scuola era gremita di gente che parlottava ad alta voce – o meglio urlava – perciò non che ci fosse bisogno di mormorare per tenere al sicuro il nostro segreto, ma a dire il vero con certe cose non si sa mai. Meglio sempre essere cauti.
«Lo so che è la luna piena: non ce l’ho con lui. Ma capisci? È come una bomba ad orologeria, e nel momento in cui scoppierà… semmai dovesse scoppiare… verremo colpiti entrambi. Tu specialmente».
Vidi l’espressione sul viso di Stiles cambiare radicalmente, distendersi quasi. Fui tentata dal tirare un sospiro di sollievo: credevo avesse finalmente capito il mio punto di vista e mi avrebbe assecondata, dandomi ragione. Tuttavia, mi sbagliavo.
«Ti stai preoccupando troppo, come al solito», mi disse, tenendo un tono di voce basso mentre cercava i miei occhi scuri. «Voglio solo che tu stia tranquilla, d’accordo? Fallo per me. Io sono al sicuro: Scott è il mio migliore amico e non mi farebbe mai del male. Per quanto riguarda te, stanotte gli starai lontana e da domani ritornerete amici come prima».
Gemetti. Era proprio quello il problema. Il fatto che io fossi esclusa a prescindere, che tutti si preoccupassero di proteggermi senza pensare a se stessi – Stiles in primis. Liberai un grosso sospiro stanco, passandomi una mano sulla fronte mentre strizzavo gli occhi.
«Lo vedi? Non capisci. Non voglio lasciarti solo con Scott. Perché devi farlo tu?», domandai dopo qualche attimo, con la voce ridotta praticamente ad un lamento.
«Scusami, ma non credo che lui si incatenerebbe di sua spontanea volontà, proprio come non credo funzionerebbe dirlo a Melissa», osservò subito Stiles, guardandomi con occhi stralunati. «E poi, chi dovrebbe aiutarlo se non io? Sono il suo migliore amico. Riuscirò a tenerlo a bada».
«Riformulo la domanda», mormorai, scuotendo la testa e sospirando ancora.
Perché incappavamo solo in incompresioni?
«Perché devi farlo solo tu? Voglio esserci. Devo esserci».
«È fuori discussione. E lo sai».
«Ma…».
Ogni mio tentativo di protesta fu smorzato sul nascere, e donai uno sguardo al pavimento mentre mi sentivo letteralmente la coda tra le gambe. Sapevo sarebbe andata così: lo sapevo benissimo. Tuttavia, mi era sembrato giusto almeno provare a cambiare le cose.
«Niente ma», si limitò a dire Stiles, richiamandomi poi con un: «Ehi» sussurrato per attirare di nuovo la mia attenzione sul suo viso.
Non volevo guardarlo di nuovo negli occhi, non per ricadere ancora nella trappola che stavo scoprendo fossero. Tuttavia, quando l’indice di Stiles toccò il mio mento dolcemente e lo spinse verso l’alto, non mi restò altro da fare che assecondarlo. Evitandogli di usare la “violenza”, tirai su il viso di mia spontanea volontà e solo quando ritrovai gli occhi nocciola di Stiles, liberai un sospiro arrendevole.
«Dopo continuiamo, promesso. Adesso devo scappare», furono le sue parole, seguite poi da un leggero bacio sulla fronte che mi lasciò a dir poco stupita.
E imbambolata. Così tanto che quando Stiles mi richiamò, poco prima di entrare nello spogliatoio maschile per cambiarsi, quasi non lo sentii. Fu solo il suo sguardo indagatore puntato sul mio corpo a riscuotermi, e cercando di allontanare dalla mente qualsiasi pensiero futile, misi a fuoco la figura di Stiles di fronte a me strizzando gli occhi. 
«S-Sì?», balbettai poi rivolta a lui, ancora frastornata per via di tutti quei gesti affettuosi e nuovi.
«Prevedi che succederà qualcosa di bello, oggi? Usa i tuoi superpoteri».
Quella richiesta mi fece immediatamente aggrottare le sopracciglia.
Poi: «Come, prego?», pigolai, facendomi ancor più vicina a Stiles mentre mi domandavo se non avessi sentito male.
Aveva davvero parlato di superpoteri? A me? Non intendeva quello che pensavo, vero?
«Dai, hai capito!», esclamò, gesticolando furiosamente come suo solito. «Vedi qualcosa?».
Mi fece quell’ultima domanda muovendo velocemente le sopracciglia e quella sua buffa espressione mi fece venir voglia di ridere. Il che fu proprio ciò che feci, incapace di trattenermi.
Solo quando sentii il respiro mancarmi e l’espressione lievemente scocciata di Stiles mi indicò di smetterla, misi fine al mio divertimento, trattenendomi l’addome dolorante con una mano poco prima di riprendere a parlare, col viso arrossato e i capelli scompigliati.
«Andrà tutto bene», osservai, con un tono di voce solenne. «Divertiti».
Quella mia previsione sembrò bastare a Stiles, che mi riservò l’ennesimo grande sorriso prima di sparire finalmente all’interno dello spogliatoio maschile. Era in un mostruoso ritardo per gli allenamenti di lacrosse eppure non sembrava importargliene: era lì insieme a me e questo bastava. O perlomeno, a me piaceva pensarla così.
Prima di dileguarmi verso casa, sospirai un’ultima volta, con lo sguardo ancora rivolto alla porta blu di fronte ai miei occhi. Ovviamente non avevo nessun tipo di superpotere né tantomeno riuscivo ad utilizzarlo come avrebbe voluto Stiles: ciò che avevo detto era stato dettato dal puro caso e dalle mie speranze, soprattutto da quelle.
Perché Stiles Stilinski meritava solo il meglio e su quello non c’erano dubbi.









Siete libere di odiarmi, davvero. Ve lo concedo, anche perché è il minimo. Ci ho messo i secoli per scrivere questo capitolo ma abbiate pietà: scuola, vita sociale (che tra l'altro porto avanti con scarsi risultati), "lavori" vari e vita da fangirl non mi danno tutto il tempo che vorrei da dedicare a questa storia. Non dimentichiamoci poi dell'ispirazione che va e viene a suo piacimento, il che porta ai risultati che vedete. Vi chiedo scuuuusa çwç
Anyway, il capitolo non è corto (quando mai?) e succedono un po' di cose. Sono quasi certa del fatto che la vostra attenzione sarà tutta sulla seconda scena e soprattutto su un personaggio in particolare che comincia ad uscire allo scoperto. Be', io l'avevo detto fin da principio che non era inclusa nella storia senza un motivo ben preciso, no? In questo capitolo ho cominciato piano piano a spiegarvi il perché :)
D'altra parte, se entrambi gli Stilinski e anche Scott si avvicinano ad Harry sempre di più, Allison e Lydia sembrano ancora alle prese con alcune incomprensioni e non le vediamo unite come da mio programma. Non preoccupatevi, però, perché prima o poi le cose si sistemeranno e le nostre tre donne formeranno un vero e proprio triangolo di badass. Io già ce le vedo u_u
Passando per la questione "poteri di Harriet" (questo è l'Angolo autrice più lungo di sempre, sorry) non è finita qua, anzi: siamo ancora all'inizio. Chi ha stretto amicizia con me su fb probabilmente lo saprà già, ma a breve (quasi sicuramente già nel prossimo capitolo) avremo dei nuovi personaggi ad Harriet collegati e scopriremo sempre più cose sulla sua famiglia ecc. Dunque nulla, stay tuned XD
Per eventuali spoiler, dubbi e chi più ne ha più ne metta, ribadisco che potete aggiungermi su fb e starò ad ascoltarvi moooolto volentieri. Il mio nome è, ovviamente, Helena Kanbara. Per ora non posso far altro che scomparire e pensare a rispondere alle vostre meravigliose recensioni, mentre "lavoro" da betareader e inizio pure a scrivere il nuovo capitolo. Cercherò di farvelo avere il prima possibile (è già plottato quasi tutto, tranquille) ma con l'estate alle porte non vi prometto niente T_T
Anyway, alla prossima. Un abbraccio fortissimo e l'ennesimo grazie,
hell

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Capitolo 16
*** Buongiorno, raggio di sole. ***


parachute
 
 

 
 
 
16. Buongiorno, raggio di sole.
 
 
Allison aveva deciso di ignorarmi. O meglio, di non parlarmi più. Per quanto potesse sembrar strana la cosa, era proprio così.
Stiles era diventato titolare nella squadra di lacrosse. Per sua grande gioia, la mia previsione si era rivelata giusta. Ed era assurdo perché a dire il vero io non avevo fatto proprio nulla.
Scott aveva baciato Lydia. Se avessi dovuto trovare un aggettivo per descriverlo, avrei scelto lunatico. Ma come biasimarlo data la luna piena?
Stiles aveva reagito davvero male alla cosa. E si era reso conto di quanto avessi ragione nel dire che il suo migliore amico fosse praticamente una persona diversa, quel giorno. Non mi ero sbagliata nemmeno su quello, purtroppo.
Derek era miracolosamente vivo. L’ennesimo avvenimento incredibile col quale mi ero ritrovata a dover fare i conti, senza che nemmeno lo volessi. D’altra parte, non ci avrei creduto finché non l’avessi visto coi miei occhi.
Altri due uomini erano stati uccisi. Beacon Hills stava sfiorando picchi di criminalità mai visti prima di allora, proprio al momento giusto. Io dal mio canto mi sentivo bloccata senza via d’uscita in quella buia cittadina.
Scott aveva intenzione di liberarsi dalla licantropia. Voleva farlo per se stesso, ma soprattutto per Allison. Era innamorato e per amore si sa, si farebbe di tutto.
Derek aveva affermato che la cosa fosse probabile una volta ucciso l’alpha. Semplice, no? Perlomeno potevamo contare sul suo aiuto.
Quello, a grandi linee, era il quadro completo. Il puzzle incasinato che andava man mano ricostruendosi sotto ai nostri occhi, sgranati sempre più per la sorpresa. Mancavano ancora parecchi tasselli, però, e me ne sarei resa conto molto presto. D’altra parte, non credevo che quello fosse il momento più adatto ad esami di coscienza vari.
Ancora col respiro corto e il cuore che mi batteva nel petto come un forsennato, schiacciai ulteriormente la schiena contro il sedile posteriore della Camaro nera di Derek. Era un’auto coi fiocchi e avevo pensato più di una volta di volerci fare un giro, ma mai avrei immaginato che ne avrei avuto l’occasione in quel modo. Non con Scott alla guida e Stiles accanto a lui, non con me che mi nascondevo nei sedili posteriori e non alle prese con un vero e proprio inseguimento.
«Ci ammazzeremo se continuiamo così!», sbottai all’improvviso, rivolta ad entrambi i ragazzi di fronte a me.
Non sapevo cosa esattamente ci avesse spinti in quell’ennesima missione suicida, forse il masochismo o semplicemente il talento innato che avevamo di ficcarci sempre nei guai, fatto sta che Kate Argent ci era alle calcagna mentre noi guidavamo la macchina di Derek per depistarla. E per farlo, c’era bisogno che sfiorassimo velocità inaudite.
«Se Scott non accelera ci ammazzerà la zia psicopatica di Allison, che credo sia anche peggio!», ribatté Stiles con un tono di voce innervosito almeno tanto quanto il mio, voltandosi velocemente a guardarmi.
Fece poi per riportare lo sguardo sulla strada mentre il suo migliore amico, alla guida, accelerava come da comando, ma i suoi occhi nocciola rimasero fissi dietro di sé e l’improvvisa sorpresa sul suo volto mi spinse a seguire il suo sguardo. Sempre stando attenta a non espormi troppo, mi voltai alle mie spalle e ciò che non vidi lasciò basita anche me.
«Dov’è finita?», mormorai, riferita alla strada deserta dietro di noi.
Dov’era andata Kate Argent? Perché di colpo aveva smesso d’inseguirci?
«Non c’è più», aggiunse Stiles con voce flebile, ancora preso a boccheggiare.
Scott sembrò capire tutto solo in quel momento.
«Cosa?», tuonò, alzando la voce forse un po’ troppo. «Kate non ci è più alle calcagna?».
Nessuno osò più pronunciare altro e mentre sia io che Stiles ce ne ritornavamo seduti composti, incrociai le gambe sul grande sedile posteriore che occupavo solo io e mi persi ad osservare Stiles. Senza nemmeno dire una parola, lo vidi tirar fuori un walkie-talkie collegato con la polizia e bastò quel semplice oggetto ad attirare di nuovo tutta la mia attenzione.
«A tutte le unità: il sospettato si dirige verso lo stabilimento siderurgico».
La voce metallica di Stephen mi riempì le orecchie e la consapevolezza di quanto avesse appena detto fece sì che i miei occhi si sgranassero incredibilmente. Sapevo fosse fuori per il suo turno di notte ma perché proprio alle prese con quella faccenda? Non volevo vederlo ancora una volta in pericolo ma purtroppo il suo lavoro sembrava pieno di nient’altro che quello, soprattutto negli ultimi tempi.
Non ci fu bisogno di aggiungere altro, comunque, bastò semplicemente che Scott sentisse quelle poche parole per fargli prendere la rincorsa verso lo stabilimento siderurgico in questione. Le vie desolate della periferia di Beacon Hills mi sfrecciavano a fianco senza che potessi osservarle per bene, e fu solo quando la Camaro sgommò violentemente sul pavimento in cemento dello stabilimento che mi permisi di buttar fuori un sospiro. Derek Hale era lì.
«Dentro!», gli ordinò velocemente Stiles, aprendo lo sportello dell’auto prima di catapultarsi nei sedili posteriori insieme a me.
Il volto di Derek si voltò immediatamente nella direzione di quella voce amica e fu solo in quel momento che vide la Camaro ferma ad aspettarlo. Non gli restò nient’altro da fare che prendere la rincorsa e, evitando i colpi di balestra di Chris Argent – che intravidi appostato in un punto alto e ben riparato della struttura, con un’espressione arcigna sul volto che cambiò per sempre il mio modo di guardarlo – si riparò all’interno dell’auto, chiudendosi lo sportello alle spalle ed autorizzando perciò Scott a scappare via un’altra volta ancora.
Non so dire se allora fu il silenzio a farla da padrone o se i ragazzi insieme a me trovarono chissà dove il coraggio di scambiarsi qualche parola, perché dal momento in cui la Camaro ricominciò a sfrecciare per le vie vuote di Beacon Hills presi a sentirmi proprio come quasi sempre, e cioè come una spettatrice impotente di fronte ad un film che sconvolgeva ogni minuto sempre di più. Difatti, non feci altro che osservare Derek attentamente, accertandomi del fatto che fosse davvero lì, vivo, insieme a me. Non riuscivo a crederci – come diavolo aveva fatto a salvarsi? – ma dovevo.
«Tu proprio non riesci a stare lontano dai guai!», osservò all’improvviso Scott, risvegliandomi dalla trance fitta di pensieri nella quale ero caduta nuovamente.
«Accidenti, era mio!».
A quell’affermazione, non potei far altro che aggrottare le sopracciglia. Di chi parlava? Ovviamente, la mia curiosità fu compensata da quella naturale e smodata di Stiles, che si sporse in avanti affinché il suo viso e quello di Derek si trovassero esattamente l’uno di fronte all’altro.
«Parli dell’alpha?», domandò, esaltato.
«Sì! Era davanti a me quand’è arrivata quella cavolo di polizia!», sbottò immediatamente il beta, facendo sì che io alzassi gli occhi al cielo – incredula – e Stiles liberasse uno sbuffo infastidito.
Parlare male della polizia al figlio di uno sceriffo e a me? Assurdo.
«Fanno soltanto il loro lavoro», lo rimbeccò difatti Stiles, tirandosi un po’ indietro.
Derek si limitò a fulminarlo con lo sguardo. Poi riprese a parlare.
«Certo», acconsentì, prima di riservare un’occhiata astiosa a Scott, ancora intento a guidare verso chissà dove. «Grazie a qualcuno che mi ha fatto diventare l’uomo più ricercato dell’intero stato!».
«Possiamo cambiare discorso, per favore?», pregò immediatamente McCall, infossando la testa nelle spalle e stringendo le mani attorno al volante in pelle. «Ho fatto uno stupido errore, lo so».
Fu solo quando mi resi conto di Derek e della risposta velenosa che avesse sulla punta della lingua che mi tirai seduta composta sul sedile e decisi di intervenire.
«Basta», sibilai, fulminando entrambi i ragazzi di fronte a me poco prima di sporgermi in avanti verso di loro. «Come hai fatto a trovare l’alpha?».
Quella mia domanda era rivolta ovviamente a Derek, che di tutta risposta mi ignorò bellamente – proprio come aveva fatto sin dall’inizio – e si voltò a guardare la strada di fronte a sé, con la maturità di un bambino dell’asilo. Feci per sbraitargli contro ma la mano di Stiles sul mio braccio mi trattenne e mi voltai a guardarlo mentre m’intimava in silenzio di lasciar stare e si sporgeva in avanti a sua volta.
«Puoi fidarti di noi almeno per mezzo secondo?», suggerì Scott, abbattuto.
«Puoi fidarti anche di me!», gli diede manforte Stiles, ma quando Derek lo fulminò nuovamente con uno sguardo spaventoso, cambiò versione. «O solo di lui, io mi limiterò a starmene buono qui».
Poi tornò seduto composto, di fianco a me, che gli nascosi un mezzo sorriso divertito. Lui e Derek prima o poi avrebbero fatto impazzire tutti, ne ero più che certa.
«L’ultima volta che ho parlato con mia sorella mi ha detto che aveva trovato due cose. La prima era un uomo di nome Harris», osservò Derek, arrendevole.
Quel cognome fece subito scattare qualcosa nella mia mente. Lo conoscevo, e anche troppo bene.
«Come», pigolai infatti, ma la mia domanda si interruppe quando la voce mi mancò. Mi schiarii la gola prima di continuare a parlare. «come il nostro insegnante di chimica?».
«No. Proprio lui», fui corretta.
«Il nostro insegnante di chimica?», urlò Stiles a quel punto, esterrefatto.
Le cose stavano prendendo una piega davvero incomprensibile. E mi chiesi se sul serio il pericolo fosse dentro scuola come sembrava.
«Perché lui?», chiese solo Scott, stranamente calmo.
«Ancora non lo so». 
«Cos’altro aveva trovato tua sorella?».
Derek si sollevò lievemente sul sedile anteriore della Camaro e pescò dalla tasca posteriore dei jeans un foglietto di carta ingiallita. Sopra se ne stava disegnato un simbolo piuttosto famigliare, e quando Derek ce lo mostrò sia io che Scott ci aprimmo in un: «Oh» sorpreso.
«Che vi prende?», domandò Derek, donandoci uno sguardo veloce e pieno di curiosità. «Sapete cos’è?».
«L’ho visto su un ciondolo», sospirò subito Scott, a voce talmente bassa che a malapena lo udimmo.
«Sul ciondolo di Allison», aggiunsi.
E mi bastò osservare lo sguardo di Derek puntato sul mio viso per capire che avremmo dovuto averlo a tutti i costi. 
 
Quando il forte rumore di qualcuno che si appoggiava di peso contro l’armadietto di fianco al mio mi arrivò alle orecchie, sobbalzai visibilmente e mi venne naturale trattenere il respiro. Col cuore che ancora aumentava i suoi battiti imprecai, sporgendomi poi oltre l’anta dell’armadietto quel poco che bastava a far entrare il mio interlocutore nell’area coperta dai miei occhi.
Feci per pronunciare il nome del ragazzo di fronte a me con una nota di astio malcelato nella voce, ma proprio il diretto interessato me lo impedì e a me non restò altro da fare che stringere tra le dita la copertina consunta del vecchio libro di economia che mi aveva prestato Stiles. Mi sarebbe servita molta pazienza se avevo intenzione di affrontare una conversazione con Jackson Whittemore di prima mattina ed uscirne indenne.
«Buongiorno, raggio di sole», osservò proprio lui candidamente, riservandomi un sorriso finto che diede la conferma a tutte le mie convinzioni.
«Va tutto bene?», non potei far altro che domandare, col viso malcelato dall’anta dell’armadietto che non avevo alcuna intenzione di chiudere.
Era la mia protezione, la mia corazza. Mai esporsi di fronte a Jackson, era quello il mio mantra.
«No. A dire il vero no».
Quelle quattro parole in croce fecero subito sì che il mio animo da crocerossina si attivasse, e mentre il viso mi si piegava in un’espressione contrita sentii la preoccupazione farsi largo in me. Portai le dita sottili sull’anta dell’armadietto e lo accostai, di modo che fossi più vicina a Jackson. Tuttavia, a metà strada mi fermai. Bastavano davvero due moine per farmi cedere? No.
«Posso aiutarti?», chiesi dunque, fingendo disinteresse assoluto e rifuggendo il viso di Jackson. 
«Sì. Eccome».
Una zaffata di profumo da uomo di ottima qualità mi riempì le narici e fu solo quella cosa a farmi capire quanto Jackson si fosse avvicinato a me. Mi venne naturale distogliere lo sguardo dal punto morto in cui l’avevo tenuto fisso pur di non osservarlo e voltare di scatto la testa nella sua direzione, trovandolo troppo vicino a me – tanto che indietreggiai di un passo, quasi intimorita.
«Facendo cosa?», mormorai, con la voce ridotta ad un sussurro.
«Mi basta sapere dov’è il tuo amichetto».
Aggrottai le sopracciglia. Poi, ancora una volta, distolsi lo sguardo dalle iridi chiarissime di Jackson e mi diedi un’occhiata intorno. I corridoi della Beacon Hills High School erano affollatissimi come al solito ma nessuno sembrava averci notato. E non sapevo se quella fosse una cosa positiva o meno.
«Stiles?», domandai, insospettita.
Perché Jackson voleva parlare con lui? Me lo chiesi prima di continuare.
«Non l’ho visto per niente, mi dispiace. Perché lo cerchi?».
Jackson sbuffò, a metà tra l’infastidito e il divertito. Poi alzò gli occhi al cielo e con aria estremamente annoiata cambiò posizione, poggiando una spalla contro l’armadietto e atteggiandosi – come suo solito – da gran figo. Io, di tutta risposta, avrei voluto semplicemente cavargli gli occhi fuori dalle orbite.
«Non cerco lui», osservò dopo poco, spiccio, facendo schioccare la lingua contro il palato. «A dire il vero, non saprei che farmene di Stiles».
Sputava veleno, letteralmente. E sentii la voglia di ucciderlo a mani nude aumentare dentro di me ogni secondo che passava un po’ di più. D’altra parte, però, cercai di trattenermi e dopo aver inspirato bruscamente, ripresi a parlare con le mani strette a pugno lungo i fianchi.
«Si può sapere cosa diavolo vuoi, allora?».
«Scott. Scott McCall. Dov’è?».
Il respiro mi si mozzò in gola. Che Jackson cercasse Stiles era strano, che cercasse Scott a dir poco preoccupante. I rapporti tra di loro non erano affatto dei migliori e ancora me le ricordavo bene le ripetute minacce che aveva osato rivolgergli. Gli aveva detto di sapere del suo “segreto” e quella mattina proprio non potei fare a meno di chiedermi se non avesse detto la verità per tutto il tempo.
«Si può sapere che succede? A me puoi parlarne», chiesi, fingendomi tranquilla e interessata ai problemi esistenziali di Jackson.
Quello era l’unico modo che avessi per capirne qualcosa: credevo che bastasse mostrarsi interessata e sfamare così l’immenso ego del ragazzo di fronte a me per farlo capitolare, ma scoprii ben presto di quanto lui fosse di gran lunga più furbo della sottoscritta.
«Non devo dire niente a te», borbottò infatti, cacciando fuori dell’altro veleno. Sembrava averne in quantità industriali. «Devo parlare con Scott».
«Perché?».
«Perché so cos’è».
E fu come se l’intero mondo mi crollasse addosso e tutte le mie speranze venissero spazzate via con un colpo violento. Tutte le mie sensazioni, ognuna di esse, si rivelarono ancora una volta dolorosamente esatte. Jackson sapeva e ci aveva tutti letteralmente in pugno.
Come se non bastasse, poi, bastò la mia reazione sconvolta a fargli acquistare punti. Con gli occhi persi sul suo viso osservai il sorriso che aveva messo su allargarsi a dismisura e l’ennesima brutta sensazione mi salì alla bocca dello stomaco, per essere poi confermata qualche secondo dopo.
«E a quanto pare lo sai anche tu. Perfetto», sibilò infatti, mentre avanzava verso di me con aria soddisfatta. «Allora possiamo anche parlarne».
Tutti i miei meccanismi di autodifesa si attivarono in un battito di ciglia, e indietreggiando col mento alto – fingendo un coraggio che non avevo – rifuggii ancora lo sguardo di Jackson e chiusi il mio armadietto con un tonfo, più che decisa ad andarmene. Non potevo più permettermi di portare avanti quella conversazione.
«Non vedo di cosa dovremmo parlare, io e te», osservai però ancora, con voce piena di acidità. «È evidente che non ci riusciamo».
E detto ciò feci per salutarlo con un’altra delle mie frecciatine prima di scappare letteralmente via dalla sua vista, ma purtroppo ogni mio tentativo di fuga fu arrestato dalla figura di Jackson, ormai più che incombente su di me. Ancora una volta, non potei fare a meno di sentirmi inerme.
«Non mi interessa conversare amabilmente con te, forse non ci siamo capiti», lo sentii dirmi, ad un passo dal mio viso, con una voce così tagliente che mi stupii di essere ancora tutta intera sotto i suoi occhi. Avevo paura. «Sappi solo che qualunque cosa abbia trasformato Scott in quello che è, la voglio».
«Credo tu abbia seri problemi».
«Per favore. Non fare la finta tonta con me. Cos’è stato? Un morso? Un graffio?».
Raddrizzai di scatto la schiena, socchiudendo gli occhi per fissare Jackson attentamente. Come diavolo faceva a saperne – inconsapevolmente – così tanto?
«Perché mai dovremmo aiutarti?», domandai poi, quando ebbi raccolto coraggio e voce sufficienti a parlare in maniera abbastanza decisa da non mostrarmi terrorizzata come in realtà ero.
Jackson di tutta risposta sorrise nuovamente, scoprendo una fila di denti bianchissimi mentre scuoteva la testa, ancora fintamente divertito. Solo quando ebbe finito portò gli occhi chiari di nuovo nei miei e si avvicinò a me ulteriormente, investendomi col suo buon profumo.
«Perché non credo vogliate che anche Allison venga a conoscenza di tutta questa storia. O sbaglio?».
E detto ciò se ne andò, lasciandomi sola e libera di buttar fuori il respiro che avevo trattenuto fino a quel momento. Pur non volendo mi voltai a seguirlo con lo sguardo, individuandolo mentre si avvicinava con passo felino proprio ad Allison, posandole una mano sulla spalla con fare lascivo e donandole un sorriso falso in segno di saluto. Pensai che lei avrebbe capito subito quali fossero le vere intenzioni di Jackson ma al contrario, la osservai ricambiare il suo sorriso come se niente fosse e scambiare con lui ulteriori convenevoli. Sembravano proprio amici di vecchia data e mentre prendevo a correre il più lontano possibile da quella scena, non potei far altro che ripetermi quanto davvero fossimo nei guai.
 
Non appena fu arrivato l’orario di pranzo, l’unica cosa che feci fu sgattaiolare fuori dalla classe di inglese per catapultarmi nella caffetteria già affollata. Camminai a testa bassa, evitando lo sguardo di tutti e ripetendomi solo di dover pensare a cercare Stiles e Scott. Non appena li vidi, infatti, seduti insieme ad un grande tavolo pressoché vuoto, non feci altro che prendere la rincorsa nella loro direzione. Fu solo quando arrivai da loro e mi sedetti di fronte a Scott che mi concessi di parlare.
«Siamo in guai seri», spiegai, evitando convenevoli inutili ed utilizzando un tono di voce serissimo. 
«Buongiorno, raggio di sole», fu la risposta di Stiles, che alzò gli occhi al cielo poco tempo dopo, seguito da me. «Che bello vedere che porti con te sempre buone notizie».
Cosa avevano tutti quel giorno? Me lo chiesi mentre gli lanciavo un’occhiata truce, poco prima di sibilare:
«Non chiamarmi mai più in quel modo».
Lui di tutta risposta borbottò uno: «Scusa» innervosito che sentii a malapena, perché decisi di evitare litigi inutili e di calmarmi mentre puntavo i miei occhi in quelli di Scott, seduto di fronte a me.
«Cos’è successo stavolta?», lo sentii chiedermi, quando notò il mio sguardo.
«Jackson. Sa tutto. E vuole essere trasformato».
«Come cavolo l’ha scoperto?», urlò Stiles, sgranando gli occhi e attirando su di sé l’attenzione di alcuni studenti nelle vicinanze.
Lo ammonii ancora con lo sguardo, intimandogli di fare silenzio. L’attenzione non era mai abbastanza.
«Non ne ho idea», soffiai poi dopo qualche attimo, puntando gli occhi sulla superificie grigia del tavolo che presi a sfiorare nervosamente con le dita.
«Magnifico. Okay, manteniamo la calma. Cosa ti ha detto esattamente?», continuò Stiles, cauto come gli avevo “suggerito” di essere.
«Voleva parlare con Scott», esalai, rivolgendo uno sguardo al diretto interessato che se ne stava chiuso in un silenzio religioso. «Perché sa cos’è, testuali parole. E la mia reazione sconvolta gli ha fatto capire che lo so anch’io, perciò gli è andato bene recapitare il messaggio direttamente a me».
«Ma l’ha detta la parola magica?».
A quell’ennesima domanda non potei far altro che rispondere con le sopracciglia aggrottate. Comprendendo bene la mia confusione, Stiles decise subito di spiegarsi, senza nascondere un pizzico di agitazione.
«Licantropo, Harry!», esclamò, provando a tenere un tono di voce basso con scarsi risultati. «Ha detto: “So che Scott è un licantropo”?».
Solo allora mi resi conto di non aver pensato a quel lato della cosa. Cercai di rivedere nella mia mente tutta la scena e dopo un’attenta analisi giunsi alla conclusione che no: Jackson non aveva mai pronunciato la parola magica. Che stesse solo bluffando?
«No», affermai allora, poco prima di riprendere a parlare col viso nascosto dalle mani e dai boccoli scuri e disordinati. «Ma sapeva del morso e ne vuole uno per sé! Ho avuto davvero paura».
I deboli rumori che avvertii subito dopo mi fecero subito capire che Stiles si stesse sporgendo verso di me ed ebbi la conferma della cosa quando le sue dita mi sfiorarono il braccio dolcemente. A quel punto fu inevitabile per me rispondere al suo “richiamo” e scoprendomi il viso, puntai i miei occhi nei suoi.
«Ti ha fatto qualcosa?».
«Nulla, fisicamente parlando. Ma è un maestro della violenza psicologica».
Quando ebbi finito di parlare, Stiles indietreggiò fino a sedersi di nuovo in maniera composta ed io mi scoprii il viso del tutto, osservandolo mentre sbuffava infastidito e faceva aderire la schiena alla sedia in plastica blu.
«Non so voi ma io proporrei di fissargli sul serio un appuntamento con l’alpha», spiegò all’improvviso, facendo sì che sia io che Scott sgranassimo gli occhi in risposta. «Magari lo uccide».
Mi fu impossibile trattenere un sorriso e scuotendo la testa, distolsi lo sguardo da Stiles mentre sentivo un vago senso di pace e tranquillità ritornare dentro me. Cos’avrei fatto senza di lui?
«D’accordo, time out», dichiarò poi Scott, parlando di nuovo dopo quelli che erano sembrati secoli. «Un problema alla volta. Prima la cura».
«E il ciondolo».
«Lo prenderò io».
Mi proposi subito, senza nemmeno pensarci un po’ su. Quell’idea mi stava girando in testa già da un bel po’ di tempo e sapevo toccasse a me, quella volta, essere d’aiuto agli altri. Non sarebbe stato facile dal momento che i miei rapporti con Allison non erano proprio al massimo, in quel periodo, ma certamente avrei fatto di tutto per rendermi utile.
«Ma non vi parlate», mi fece notare subito Stiles, in un sussurro.
«Troverò un modo».
Feci spallucce: ero convinta di potercela fare. Bastava solo molta nonchalance e un po’ di cautela – anche se quella, in effetti, non mancava mai. Scott mi fece notare che non sarebbe stato facile e Stiles mi consigliò di chiedere la collana solo in prestito, suggerimento in risposta al quale non potei far altro che annuire.
«Se si rifiuta, ho già un piano B», li rassicurai ulteriormente, ricevendo in risposta due sorrisi soddisfatti.
Il piano B, per inciso, prevedeva di rubare la collana di Allison. Come si dice? A mali estremi, estremi rimedi.
«Controllalo all’interno. Cerca ogni indizio utile», consigliò ancora Stiles, mentre io mi mettevo in piedi.
Era ora di andar via.
«Lasciate fare a me».
«Harry?».
Quando la voce di Scott mi riempì le orecchie, arrestai la mia camminata verso l’esterno della caffetteria e mi voltai a guardarlo un’altra volta ancora, incitandolo a parlare con un mugugno distratto.
«La mia vita è letteralmente nelle tue mani».
E allora sorrisi, annuendo ancora per fargli capire quanto mi rendessi conto della cosa prima di andar via definitivamente, con la convinzione che sia lui che Stiles si fidassero di me almeno tanto quanto io mi fidavo di loro. E credetemi, non poteva esserci soddisfazione migliore.
 
«Non ci posso credere, non ci posso credere!».
Ripetevo quelle quattro parole da ormai così tanto tempo che mi stupivo di come Stiles ancora non mi avesse uccisa con le sue stesse mani. Il piano A da me ideato per recuparare il ciondolo di Allison era fallito miseramente, così come il B e tutti quelli che avevo cercato di mettere in atto a seguire. Quella dannatissima collana sembrava essersi improvvisamente volatilizzata nel nulla e non potevo far altro che sentirmi infastidita dalla cosa e più inutile che mai. L’unico modo che avessi per sfogarmi era strillare, il che era esattamente ciò che stavo facendo da tempo immemore. Come diavolo faceva Stiles a sopportarmi ancora?
«Da quando Kate gliel’ha regalato quel maledetto ciondolo è stato di fronte ai miei occhi in ogni momento e ora che ci serve non lo si trova! È assurdo!», aggiunsi ancora, evitando di ripetermi e procurare un esaurimento nervoso a Stiles, ancora armato di pazienza.
Dopo quella mia ennesima lamentela tra noi due cadde il silenzio e mi limitai a schioccare la lingua contro il palato mentre lo seguivo in direzione della porta di casa. Nonostante il mese di ottobre quel pomeriggio l’aria era piacevolmente calda e un timido sole ancora faceva capolino da dietro le nuvole. Sospirai, cercando di calmarmi. Inutilmente.
«Hai controllato bene nella borsa?», domandò Stiles tranquillo, senza nemmeno voltarsi a guardarmi ma continuando a trafficare con la serratura.
«L’ho letteralmente messa sottosopra», rassicurai. «Non era lì».
«E non hai potuto parlare con Allison e chiederglielo».
«Non me ne ha lasciato occasione», spiegai, entrando in casa e posando immediatamente lo zaino sul pavimento.
Stiles si chiuse in un silenzio innaturale mentre io avanzavo in direzione della mia camera. Mi liberai dal giubbotto di pelle nera e diedi una sistemata alla gonna del vestito bianco a fiori grigi prima di raggiungerlo nuovamente, chiedendomi perché ci fosse così tanto silenzio in casa. Stephen dov’era?
«Mi sento davvero inutile», mormorai, quando ebbi trovato Stiles in salotto, rifuggendo però il suo sguardo.
Lui di tutta risposta lasciò perdere lo zaino in cui stava rovistando alla ricerca di chissà che e si voltò di scatto a guardarmi. Forse, non riuscendo a trovare i miei occhi, decise di raggiungermi. Solo quando fu vicino a me abbastanza da potermi sfiorare le spalle, parlò.
«La vuoi smettere?», chiese, lievemente spazientito mentre le sue mani si muovevano alla base dei miei capelli e poi sul collo, di modo che riuscisse a farmi sollevare la testa. Cosa che in effetti feci immediatamente. «Non sei inutile».
A stento mi trattenni dall’annuire, in accordo con lui. Come diavolo faceva a parlare e a farmi credere ad ogni cosa che diceva? Era assurdo.
«Senza di te non so come avremmo fatto. Risolveremo anche questo problema», continuò poi a dire, sempre tenendomi il viso tra le mani mentre io trattenevo un sorriso. «Anzi, sai cosa? Adesso ci mettiamo in camera mia a fare ricerche. Qualcosa dovremo pur trovare, no?».
A quel punto annuii per davvero, sollevata. Stiles mi sorrise prima di lasciarmi andare ed io lo seguii verso la sua stanza da letto, se non per arrestarmi a metà strada quando sentii la porta sul retro sbattere violentemente contro i cardini. Feci per spaventarmi, salvo rendermi poi conto del fatto che fosse rientrato Stephen.
«Ehi, ragazzi!», lo sentii salutarci a voce alta. «Sono tornato!».
Stiles non arrestò la sua camminata, rispondendo al saluto con un semplice: «Ciao, papà» mentre entrava nella sua camera, seguito da me.
Anch’io feci per ricambiare il saluto di Stephen ma invano. Nel momento in cui misi piede nella cameretta di Stiles, infatti, solo il nome del ragazzo di fronte ai miei occhi abbandonò le mie labbra.
«Derek», osservai senza riuscire ad impedirmelo, con un tono di voce più alto di quanto avrei voluto.
Lui si portò immediatamente un indice sulle labbra, intimando il silenzio, ed io di tutta risposta posi una mano sulla bocca di Stiles. Credetti che saremmo riusciti a gestire la situazione ma poi un rumore sempre più forte di piedi sul pavimento mi fece intuire che Stephen fosse diretto proprio in quella stanza e i miei occhi si sgranarono ancor di più.
«Merda», imprecai, trascinando Stiles fuori e chiudendomi la porta alle spalle.
Stephen ci trovò lì, immobili e incollati spasmodicamente all’ingresso. Che stessimo nascondendo qualcosa era ben evidente ma come al solito, lasciò perdere e si limitò a scoccarci un’occhiata confusa.
«State bene?», domandò semplicemente, interdetto.
«Benissimo, papà», rispose semplicemente Stiles, fingendo indifferenza mentre si avvicinava a me ulteriormente per fare da “barriera”.
«D’accordo. Io sto per uscire ma tornerò in tempo per la partita».
E fu solo allora che mi ricordai della partita di lacrosse che si sarebbe tenuta proprio quella sera alla Beacon Hills High School, partita nella quale Stiles avrebbe esordito come titolare. Non avevo avuto occasione di pensarci per nulla e sorrisi sincera quando proprio Stiles rammentò al padre che avrebbe giocato anche lui.
«Sono molto felice per te. E anche molto orgoglioso», fu la risposta di Stephen, che fece sì che il mio sorriso si allargasse ancor di più.
«Grazie. Anch’io sono felice. E orgoglioso. Di me stesso».
«Bene, ci vediamo lì».
Credetti che il pericolo fosse ormai scampato e feci per liberare un sospiro di sollievo ma quando Stephen si avvicinò a noi pericolosamente ripresi a preoccuparmi, salvo poi tranquillizzarmi nuovamente quando semplicemente abbracciò Stiles in segno di saluto. Sorrisi intenerita guardandoli e salutai Stephen poco prima che uscisse dopo avermi lasciato un bacio sulla fronte.
Poi, solo quando sentimmo la porta d’ingresso chiudersi alle sue spalle e il silenzio ritornare a farla da padrone in casa Stilinski, mi voltai a guardare Stiles. Lui ricambiò velocemente il mio sguardo, ancora con la mano stretta sulla maniglia, e poi annuì, abbassandola e ritornando insieme a me in camera sua. Quando Derek fu di nuovo di fronte ai miei occhi, non potei fare a meno di chiedermi cosa avremmo fatto a quel punto. Non era la prima volta che vi s’intrufolava ma allora la situazione era più grave. Avremmo davvero ospitato un fuggitivo in casa dello sceriffo?
«Sta per arrivare Danny», mi spiegò allora Stiles, spezzando il silenzio e costrigendomi a cercare il suo viso per riservargli un’occhiata stranita.
Danny, il migliore amico di Jackson? Da quando Stiles aveva rapporti con lui?
«Ho un piano», continuò, quando si rese conto del fatto che non lo stessi affatto seguendo.
Allora non potei far altro che annuire, poco prima di avvicinarmi in direzione del letto di Stiles per sedermici sopra. Mi sfilai immediatamente gli stivali in pelle beige, esausta.
«Cosa facciamo con lui?», domandai, stesa di schiena sul letto mentre facevo un cenno in direzione di Derek e parlavo proprio come se il diretto interessato non fosse lì con noi.
«Se dovrò nascondere un fuggitivo dentro casa mia, lo farò con le mie regole».
E a quel punto avevo solo un’ultima domanda. Quali erano le regole di Stiles?
 
«Lui chi è?».
Sia io che Derek sollevammo gli occhi da ciò che stavamo leggendo in contemporanea. Il sussurro di Danny non ci era affatto sfuggito, e poco prima di riportare gli occhi sul display del mio iPad, convenni tra me e me che la discrezione non fosse affatto uno dei suoi pregi.
Stiles, dal canto suo, si sentì preso in contropiede per un attimo e mi chiesi cosa si sarebbe inventato quella volta.
«Mio cugino», mormorò poi, riportando gli occhi sul viso di Danny, seduto accanto a sé. «Miguel».
Cercai invano di trattenere una risata. Quando gli sguardi di tutti i presenti nella stanza furono puntati su di me – chi infuriato, chi agitato e chi confuso – cercai di mascherare il tutto fingendo si trattasse di una tosse fastidiosa, ma non ero mai stata un’ottima bugiarda e di quello ne era consapevole chiunque.
La curiosità di Danny, tuttavia, non si spense, e al contrario sembrava aumentare ogni secondo che passava un po’ di più.
«È sangue quello che ha addosso?», domandò infatti a Stiles, poco prima che questo si voltasse a guardare Derek nuovamente per controllare.
Sangue?, mi chiesi, aggrottando le soppracciglia. Non mi era parso ferito. Ma scoprii ben presto di sbagliarmi. 
«Oh. Sì. È che purtroppo soffre terribilmente di epistassi», s’inventò ancora Stiles, mentre io – nello sforzo di trattenere l’ennesima risata – arrossivo violentemente.
«Miguel, te l’ho detto che puoi prendere una delle mie magliette».
Ancora una volta, Derek sollevò lo sguardo dalla pagina ingiallita del manuale che stava consultando con una lentezza esasperante che mi preoccupò non poco. Era irritato ogni minuto sempre di più e Stiles stava decisamente tirando troppo la corda. Per me era divertente, per Derek tutt’altra cosa.
Prima di mettersi in piedi lo trovai intento a cercare il mio sguardo e non appena mi resi conto della distrazione degli altri due ragazzi, ne approfittai per scoccargli un’occhiata a metà tra l’accondiscente e l’ammonitore. Un po’ perché capivo che fosse infastidito, un po’ perché doveva a tutti i costi comportarsi bene.
Lui riprese ad ignorarmi subito dopo e si diresse verso il comò in legno bianco accostato al muro, prendendo a spogliarsi come se niente fosse mentre io ricominciavo a leggere. Stiles, nel frattempo, cercava di convincere Danny ad aiutarci. Praticamente il suo piano consisteva nell’individuare chi fosse il mittente del messaggio che aveva attirato Allison a scuola nella notte in cui l’alpha ci aveva intrappolati lì.
Mi resi conto forse un po’ troppo tardi del teatrino improvvisato che si venne a creare: sebbene non mi fossi impegnata abbastanza ero stata capace di distrarmi tanto da perdermi gli ultimi sviluppi delle cose intorno a me e ritornai lucida solo quando Stiles chiese a Danny:
«Tu che ne pensi?».
«Eh?», fu però tutto ciò che riuscì ad articolare l’altro.
Appunto. Eh? Aggrottai le sopracciglia, aspettando che Stiles decidesse di spiegarsi mentre mi guardavo intorno, curiosa.
«La maglietta», snocciolò poi, e quelle due parole mi spinsero a cercare nuovamente la figura di Derek.
Indossava una t-shirt a righe arancio e blu, niente di troppo particolare o assurdo, ma allora perché…
«Quei… quei colori non gli donano».
Non ebbi bisogno di chiedere altro. Fingendo indifferenza e tranquillità, sgusciai un po’ più giù nel letto di Stiles e mi coprii il viso con l’iPad, fingendo di essere interessatissima alla mia lettura. Derek si accorse ben presto del mio comportamento ma Stiles e Danny no, ed era quello l’importante.
«Stai guardando solo i colori o anche quello che c’è sotto, Danny-bello?».
La discrezione non era neanche un dono di Stiles, me ne resi conto davvero solo in quel momento. Non aveva fatto niente per poter parlare a voce bassa ed evitare che almeno io sentissi. D’altra parte, l’omosessualità di Danny non era certo un segreto.
Curiosa di cosa potesse pensarne Derek, voltai il viso nella sua direzione quel tanto che bastava a donargli un’occhiatina apparentemente disinteressata e l’espressione truce sul suo viso non mi rassicurò per niente. Povero Derek, pensai, trattenendo un sorriso divertito.
«Sei una persona orribile».
E povero Danny.
«Lo so, non riesco a dormire la notte. Comunque, tornando al messaggio…».
«Mi serve il provider, il cellulare e l’ora dell’invio».
Mi tirai a sedere di scatto. Sul serio? Bastava agitare Derek di qua e di là per un po’ affinché Danny ci aiutasse? Sorrisi apertamente mentre Stiles neanche provava a nascondere tutta la sua soddisfazione e poi misi da parte l’iPad per poterli raggiungere entrambi alla scrivania. Magari, osservando Danny al lavoro avrei imparato qualcos’altro di utile.
Purtroppo, scoprii ben presto di sbagliarmi. Non ero una frana con la tecnologia ma allo stesso tempo non mi era stata donata tutta l’intelligenza utile a fare cose del genere. Me la cavavo, ecco tutto. Al contrario di Danny, che scoprii essere davvero molto bravo. In quattro e quattr’otto, difatti, riuscì a trovare il mittente del messaggio mandato ad Allison, sconvolgendo sia me che Derek e Stiles con la leggerezza che aveva utilizzato per svolgere quel difficile compito. Lo faceva sembrare quasi facile.
«È stato inviato da un computer», esalò alla fine delle sue ricerche, con un tono di voce tranquillissimo. Era proprio una cosa da niente, per lui. «Beacon Hills Memorial Hospital, Melissa McCall».
«È impossibile», furono le uniche parole di Stiles, sconvolto da quella scoperta almeno tanto quanto me.
Provai a dire qualcosa anch’io ma la voce mi venne a mancare ancora e prima che potessi fare qualcosa per provare a rimediare, sentii improvvisamente tutte le forze venire a mancarmi e gli occhi farsi pesanti. Mi portai una mano alla testa: pulsava violentemente e l’unica cosa che avessi davvero voglia di fare in quel momento era dormire per otto ore filate, come minimo. Stavo diventando narcolettica? Me lo chiesi mentre provavo a sorridere, inutilmente, e sorda ai richiami dei ragazzi insieme a me cadevo addormentata improvvisamente senza che però riuscissi ad impattare contro il pavimento in morbida moquette della camera di Stiles. Chi mi aveva presa? Non potevo saperlo.
C’era solo buio.









Niente da dire se non "Aspettate il prossimo capitolo e vedrete". Ovviamente, si aprirà con una scena Starriet. Ormai c'ho preso gusto. Oh, e poi conosceremo gente nuova :) Anche se non ho idea di quando potrà arrivare il nuovo aggiornamento perché ho in mente mille idee e una paura fottuta di non riuscire a lavorarci su bene, quindi (scusate) ma mi prenderò tutto il tempo del mondo per poter fare qualcosa di buono. 
Sono sicura quando dico che il diciassettesimo capitolo sarà uno dei più importanti della storia e veramente voglio provare a renderlo bello come lo immagino çç Poi vabbè, ci avviciniamo alla fine e ci tengo a fare un buon lavoro. E parachute compirà un anno, il 6 agosto! La mia bambina è cresciuta tanto *____* La amo, ma allo stesso tempo non vedo l'ora di finirla per potermi dedicare ad altre cose. Per come la vedo ora non appena sarà conclusa scriverò una minilong (?) su The 100 e pooooi, solo quando avrò concluso anche quella, ritornerò a scrivere sui miei bambini <3 Anche se potrei benissimo cambiare idea, non fidatevi mai di me MAAAA lasciatemi recensioni ché quelle sono sempre ben accette XD
Alla prossima, cioè tra 342516789 secoli. Cià,
hell

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Capitolo 17
*** It's you and me. ***


parachute 

 

 
17.  It’s you and me.
 
 
Non so esattamente cosa scattò dentro Derek non appena mi vide svenire di fronte ai suoi occhi. Forse semplici riflessi da licantropo – velocità sovrumana, capite? – o il fatto che quello per lui fosse nient’altro che un déjà vu, una scena già vista. Una cosa alla quale sapeva benissimo come avrebbe dovuto reagire. E il punto è proprio questo: reagì.
Prima ancora che potessi perdere completamente equilibrio e conoscenza, infatti, lo vidi scattare vicino a me e sentii la presa delle sue dita diventare salda sul mio braccio. Fu una presa del tutto improvvisata e me ne resi conto, ma bastò a tenermi in piedi ed evitare che rovinassi sulla moquette nella camera di Stiles. Una cosa del genere non sarebbe stata affatto piacevole.
Continuai a lungo a chiedermi perché l’avesse fatto, perché spesso mostrasse preoccupazione nei miei confronti, perché tenesse a me senza nessun motivo in particolare. Ma non gli posi mai la domanda. Mi limitai a far finta di nulla. Non lo ringraziai nemmeno. Quando Stiles mi raccontò ciò che avvenne durante la mia perdita di coscienza, mi limitai ad assimilare il tutto e basta. Poi scacciai via la brutta sensazione d’inadeguatezza tornata a farmi nuovamente compagnia.
«Lasciala a me», fu la prima cosa che Stiles riuscì a dire, dopo essere scattato in piedi.
Sarebbe stato bello poter sapere cosa avesse smosso lui, invece. Ci pensai spesso e ogni singola volta, giunsi alla stessa stupida conclusione. Mi piaceva più del lecito credere che un interesse simile al mio lo spingesse continuamente nella mia direzione, facendo sì che fosse affezionato a me come se ci conoscessimo da secoli e tenesse al mio star bene più che al suo. Avrei potuto chiederglielo, mettere da parte quel poco d’imbarazzo che ancora faceva di me la sua preda quando si trattava di Stiles, e sperare nelle risposte che desideravo. Ma capii ben presto che sarebbe stato inutile.
«Sei sicuro di farcela?», gli domandò Derek, donandogli uno sguardo indagatore mentre ancora mi stringeva entrambe le mani sulle braccia.
Non mi aveva sollevata dal pavimento: l’estrema velocità con la quale si era svolta la scena non gli aveva permesso di agire perfettamente e al contrario, l’aveva costretto ad improvvisare. Le punte dei miei piedi ancora sfioravano la moquette e le gambe se ne stavano molli quanto le braccia. Ero svenuta e praticamente abbandonata a me stessa.
«Non la lascerò cadere, se è questo ciò che intendi», lo rassicurò subito Stiles, ricambiando lo sguardo di Derek poco prima di muovere un ulteriore passo nella nostra direzione.
Allora si limitò ad allungare le braccia verso di me e Derek l’accontentò subito, capendo che quella volta ci fosse poco da discutere. Lasciò andare le mie braccia piano, tanto quanto bastava per permettere a Stiles di afferrarmi al meglio. Lui mi prese quasi come se fossi la cosa più preziosa che avesse mai stretto tra le braccia e mi sollevò dal pavimento, stringendomi dietro la schiena e nella piega delle ginocchia. Derek non gli tolse gli occhi di dosso nemmeno per un attimo, preoccupato forse perché credeva che sul serio non sarebbe stato in grado di reggermi, ma Stiles non fallì nemmeno lontanamente. Con una sicurezza che mai gli avrei visto addosso per via del mio essere svenuta, avanzò con me tra le braccia nella direzione del suo letto. La mia testa era riversa all’indietro, il braccio destro era sfuggito alla dolce morsa di Stiles e penzolava nel vuoto, così come i miei piedi nudi. Ma nonostante tutto, anche se non potei vivere sul serio quel momento, non pensai neanche per un attimo di averne sofferto. Al contrario, credetti sempre di non essere mai stata meglio di allora.
«Che cos’ha?», chiese Danny, segnalando agli altri la sua presenza nella stanza dopo essere stato in silenzio per quelli che sarebbero benissimo potuti sembrare secoli.
Stiles mi adagiò piano sul suo letto, ignorandolo per un po’ mentre si sistemava velocemente accanto a me. Poi si voltò a guardarlo, facendo spallucce. Derek seguì il suo sguardo, avanzando nella nostra direzione con le braccia incrociate al petto e la solita – tipica – aria contrita in volto. Era preoccupato. Ancora.
«Nulla di grave», rassicurò Stiles, fingendo un sorriso poco prima di cercare nuovamente il mio viso. Lo osservò per qualche momento, poi continuò a parlare volgendo a Danny la schiena. «Era solo molto stanca».
Il migliore amico di Jackson non parve molto convinto da quella sua giustificazione ma ad ogni modo decise di non insistere ancora. Si limitò a fare spallucce, annuendo lievemente. Poi voltò lo sguardo verso la scrivania di Stiles e raccattò tutti i suoi libri, impilandoli ordinatamente nello zainetto grigio.
«Credo sia meglio che vada», trovò il coraggio di dire quando fu pronto a scappare. «Quando si sveglierà, salutala da parte mia».
Stiles annuì, poi si voltò a guardare Danny – più per gentilezza che per reale interesse. Lo salutò brevemente e quando lui ebbe infilato la porta e abbandonato la stanza, si lasciò andare ad un sospiro di sollievo. Non aveva avuto bisogno di mandarlo via: Danny aveva saputo capire da solo che tipo di situazione fosse quella nella quale si trovavano pur senza saperne nulla, e aveva deciso bene di evadere. Per un attimo, Stiles ringraziò la sua discrezione.
«Stanchezza? Sul serio, Stiles?», domandò dopo qualche minuto Derek, con le sopracciglia aggrottate e una lieve aria di rimprovero. «Cosa credi che abbia veramente?».
Inizialmente Stiles fu tentato dal rispondergli a tono, ma poi decise di evitare. Fece nuovamente spallucce, continuando a tenere gli occhi fissi sul mio viso inespressivo. Se fossi stata sveglia o anche solo capace di avvertire i suoi occhi puntati su di me in quel modo, sarei morta dall’imbarazzo già diversi secoli prima.
«Non è stanca. Ovviamente», rispose poi, iniziando a valutare mentalmente tutte le possibili spiegazioni per giustificare quel mio improvviso svenimento. «Stava bene. Non era agitata né spaventata».
Derek si illuminò immediatamente. Senza che Stiles dicesse ciò che aveva in mente, era già stato in grado di cogliere i suoi pensieri.
«Sta sognando?», chiese, enfatizzando le due parole da lui pronunciate con una nota appena accennata d’incredulità.
Sapeva di cosa avessi dentro me, dei poteri che possedessi seppur non mi piacesse affatto dimostrarlo. Sapeva di cosa ero in grado, di come funzionassero le cose, quale fosse il modus operandi. Le mie visioni, quando le avevo, come e perché. Sapeva ancor di più di quanto ne sapessi io, a momenti. E aveva appena fatto centro. Stavo sognando.
Tuttavia, quella volta le cose furono lievemente diverse dal solito. Quella era la mia terza volta. Il terzo sogno in due mesi, la conferma allo schema del quale mi aveva parlato Stiles tempo addietro. Come aveva detto? “Uno è un incidente, due è una coincidenza, tre è uno schema”. Appunto. Uno schema. Qualcosa di definito. Niente era stato frutto del Caso, da quand’ero arrivata a Beacon Hills. Niente. E allora solo una domanda riempì la mia mente: che cos’ero?
Non ebbi tempo per pensarci o per potermi dare risposte, improvvisamente il buio cadde sulle figure di Allison e Kate Argent che avevano avuto il possesso sulla mia mente per tutto quel tempo, e una forza completamente nuova fece sì che fossi finalmente in grado di aprire le palpebre di scatto. Sgranai gli occhi, soffocai un urlo e strinsi la mia mano attorno a quella di Stiles. Solo quando fui pienamente cosciente me ne resi conto, ma non mi liberai da quel piacevole intreccio.
«Dio, Harriet!», sbottò proprio Stiles, sobbalzando appena a causa del mio brusco risveglio. «Cos’è successo? Cos’hai visto? Stai bene?».
Il suo fiume di domande mi scosse ancor di più. La testa continuava a pulsarmi e, irritata, premetti la mano libera contro le tempie doloranti. La voce di Stiles m’innervosiva. Era una cosa talmente nuova per me che a malapena ci credetti. Sospirai lentamente, cercando di calmarmi mentre provavo a sollevarmi nel letto. Dopo diversi tentativi, anche grazie all’aiuto di Stiles, mi ritrovai comodamente seduta.
«Allison è a casa di Derek», furono le prime parole che pronunciai, sistemandomi alla bell’e meglio contro la testiera del letto di Stiles mentre la mia voce assumeva un’inclinazione a dir poco spaventosa. Sembrava smorta. Quel sogno mi aveva letteralmente sfinita. Era stato molto più confuso degli altri e tentare di decifrarlo mi aveva liberata da tutte le mie forze. «Credo che Kate abbia intenzione di cominciare ad allenarla».
«Dannazione!», sbottò Derek, ricordandomi che fosse presente anche lui.
Gli donai uno sguardo stanco, socchiudendo poi gli occhi subito dopo. Avevo sonno e bisogno di stare a letto per dodici ore filate, come minimo. Dovevo riprendermi al più presto, però. Dovevo capire chi diavolo fossi sul serio.
 
It seems what’s left of my human side is slowly changing in me,
looking at my own reflection when suddenly it changes, violently it changes.
There is no turning back now:
you’ve woken up the demon in me
 
Quando il mio cellulare squillò, il pomeriggio seguente, mi chiesi immediatamente chi mai avrebbe potuto essere tra tutte le persone che avevo lasciato ad Austin – e sperai si trattasse di mia madre Jenette. Quando tuttavia individuai il nome di mia sorella Cassandra lampeggiare sul display, mi limitai a fare spallucce e convenni tra me e me di non essere poi così sfortunata. Avevo bisogno di parlare con Jenny, di chiederle ciò che avevo sempre detto di non voler sapere e provare a capirci qualcosa. Lei era l’unico collegamento che avessi coi Carter, l’unica persona che potesse dire di averci avuto a che fare – seppur per poco tempo e non sapevo in che misura. Ma quando Cass mi spiegò che nostra madre fosse come al solito in giro a fare chissà che, capii di dovermi ancora una volta rimboccare le maniche per trovare da sola ciò che stavo cercando.
Rimasi al telefono con Cassandra poco meno di quindici minuti, assimilando con acuto disinteresse la notizia del suo matrimonio. James Irvine, fidanzato storico della mia sorella maggiore, aveva finalmente trovato chissà dove il coraggio di proporsi e lei ovviamente aveva accettato di buon grado. Se solo la mia mente fosse stata un po’ più sgombra da tutti quei fastidiosi problemi che avevano preso a popolarla, sarei stata in grado di rispondere alla sua notizia con una dose di genuina felicità e un pizzico d’invidia, provocata dal mio considerare che bel rapporto avessero Cassandra e il ragazzo che amava da quando ancora erano due primini al liceo. Al contrario, non potei far altro che reagire con una fastidiosa apatia. E mia sorella, che a momenti mi conosceva meglio delle sue tasche, capì subito che non fosse giornata e mi salutò con la promessa di farmi richiamare da Jenette non appena l’avesse rivista.
Fu solo a quel punto che decisi di fare nuovamente visita alla biblioteca di Beacon Hills, ed evitando le continue domande preoccupate di Stiles mi precipitai fuori da casa nostra con una borsa in spalla. Il mese di ottobre si avvicinava sempre di più alla sua fine e il grande freddo invernale iniziava a fare i riscaldamenti. Sospirai, stringendomi maggiormente nel cappotto rosso ciliegia mentre continuavo a camminare in direzione della biblioteca. Distava da casa mia almeno venti minuti a piedi, e tutti sapevano quanto poco mi piacesse “essere in movimento”. Ma sarei stata pronta a tutto pur di scoprire qualcosa di più sulla mia famiglia.
Quando finalmente fui sul posto, l’aria calda emanata dai riscaldamenti altissimi m’inebriò i sensi e fui costretta a liberarmi dei guanti in pelle nera e del cappotto prima di cominciare paradossalmente a soffrire il caldo. Sorrisi lievemente soddisfatta: quella biblioteca riusciva ad instillare dentro me scariche di positività ed era proprio ciò di cui avevo bisogno. Subito, a passo spedito, controllai velocemente la sezione storica ma – proprio da come avevo immaginato – non vi trovai nulla di nuovo. Niente diari in vista. E allora decisi di aver assolutamente bisogno dell’aiuto di qualcuno.
A passo deciso mi mossi verso il banco informazioni all’entrata, facendo tintinnare fastidiosamente le fibbie dei miei stivali in pelle nera ad ogni passo compiuto. Quando arrivai, mi accolse il vuoto. Non c’era nessun addetto lì dietro e per un attimo mi chiesi come avrei fatto. Chi avrei dovuto chiamare? Ma per fortuna, prima ancora che entrassi in panico una tendina di sonaglini tintinnò e da essa comparve la sagoma di un ragazzo che mai avevo visto prima d’allora. Mh, pensai immediatamente, bel tipo.
Deglutii, prendendo poi a fissarlo senza remore. Chiedergli informazioni o meno? Era o no un dipendente della biblioteca? Il fatto che fosse uscito dall’ufficio dietro il banco informazioni avrebbe dovuto darmi la risposta o semplicemente mi avrebbe provocato una figura di merda colossale? Nel dubbio, non feci altro che limitarmi a squadrare la sua figura. Io sì che sapevo come far gioire i miei occhi.
«Ciao», mi salutò allora lui, quasi sicuramente comprendendo il mio momentaneo sgomento. Altrimenti perché sorridermi in quel modo? «Posso aiutarti?».
Scossi la testa, socchiusi gli occhi e mi imposi la calma. Dovevo smetterla di concentrarmi su inutili dettagli come la giacca di pelle che il ragazzo di fronte a me portava poggiata sull’avambraccio o la semplice maglia bianca che indossava, complice di risaltargli un paio di braccia davvero niente male. Okay, Harry. Time out.
«Se lavori qui, sì», gli feci notare non appena ne fui in grado, dando ascolto finalmente alla saggia voce che dentro di me m’intimava di non perdere più tempo.
«Tecnicamente, il mio turno è appena finito», snocciolò, sorridendo ancora mentre io già mi preparavo a cercare qualche altro addetto. Della serie: una distrazione in meno. «Ma non ho fretta di andare a casa. Dimmi pure».
D’istinto mi immobilizzai. Pura quanto disarmante gentilezza, o c’era qualcos’altro sotto? Lavorare di più per aiutare me? Automaticamente le mie difese si sollevarono ma intimai loro di non esagerare. Non volevo chiudermi nel solito bozzolo da ragazzina diffidente che stavo diventando, non prima di aver analizzato bene la situazione.
«Sto cercando i diari di un mio antenato», esalai dunque, mantenendo un tono di voce piuttosto rilassato. «Il suo nome è Charles Shelby Carter. Mi domandavo se li aveste».
Prima ancora che potessi chiedergli di fare qualche ricerca veloce e ringraziarlo, gli occhi del ragazzo di fronte a me si sgranarono, e per un attimo me ne rimasi fossilizzata a fissare le sue iridi ambrate. Wow. Poi lui avanzò nella mia direzione, posando la giacca in pelle chissà dove e le mani a palmi aperti sul bancone in legno chiaro che ci separava. Trattenni a malapena l’impulso di indietreggiare.
«Come hai detto che ti chiami?», mi domandò, con un’aria a dir poco spiritata.
«N-Non l’ho detto».
Forse fu il mio balbettare a suggerirgli qualcosa, non lo so, fatto sta che sembrò tranquillizzarsi appena e mosse un passo indietro. Mi chiesi cosa avrebbe fatto a quel punto ed ebbi la mia risposta nel momento in cui superò il bancone per posizionarsi di fronte a me. Mi tese una mano, che strinsi senza troppa convinzione.
«Walter Edwards», mormorò, obbligandomi a fare le dovute presentazioni.
«Harriet Carter», snocciolai, vagamente sconfitta.
I suoi occhi si illuminarono ancora e mi rivolse un grande sorriso. Mi chiesi perché all’improvviso fosse così felice e combattei contro me stessa in modo da evitare che le sopracciglia svettassero verso l’alto. Sarebbe stato piuttosto rude prendere a guardarlo come se fosse un fenomeno da baraccone.
«Ho sempre voluto conoscerti», furono le nuove parole che mi sentii rivolgere, mentre un brivido di paura mi faceva accapponare la pelle. Cosa diavolo stava dicendo? «Sapevo che saresti tornata ma non pensavo sarebbe successo proprio oggi. Non ho avuto nessuna visione su di te. Ma sei vagamente come ti immaginavo!».
A quel punto, qualcosa dentro di me scattò. Indietreggiai, piena di domande e vagamente all’erta. Chi era davvero quel ragazzo sconosciuto? E soprattutto, perché sentivo che non lo fosse affatto?
«Come hai detto che ti chiami?», pigolai allora, formulando la domanda che poco tempo prima lui stesso aveva rivolto a me.
«Non sono esattamente un Carter, se è questo ciò che vuoi sapere», mi rassicurò Walter, sorridendo ancora. «In famiglia è mia madre a portare questo cognome. Io ho preso quello di mio padre».
Mia madre. Riflettei sul senso di quelle parole. Sua madre chi era? Una Carter, sì okay, ma chi? Che grado di parentela ci legava? E quel ragazzo stava sul serio dicendo la verità? Avrei dovuto fidarmi? Ma a che pro mentire?
«Sei mia cugina, Harriet», continuò all’improvviso, facendomi sobbalzare.
Ecco svelato l’arcano.
«Non ci credo», sbottai, senza nemmeno pensarci su.
«Te lo giuro! Sei la figlia di Philip, fratello di mia madre. Hai una sorella più grande di te e vivi in Texas. Ti trovi qui a Beacon Hills perché gli Stilinski hanno deciso di ospitarti in casa loro», cercò di giustificarsi, ma non mi convinse affatto perché chiunque avrebbe potuto essere a conoscenza di quelle informazioni. Capendo, andò sul pesante. «Sei una chiaroveggente. Come me».
Boom. Colpita e affondata.
 
I can see inside you: the sickness is rising.
Don’t try to deny what you feel,
it seems that all that was good has died
and is decaying in me
 
«Devi essere piuttosto scossa. Mi dispiace».
Sollevai gli occhi dal liquido ambrato nella tazza di ceramica che reggevo con entrambe le mani per evitare che cadesse sul pavimento, rompendosi. Non sarebbe stato bello né educato, e inoltre trovavo di gran lunga più interessante il tremolare del tè nella tazza piuttosto che i visi delle persone di fronte a me.
Ero a casa Edwards. A casa di Walter. A casa di “mio cugino” Walter. Chiedermi come ci fossi finita sarebbe stato inutile. Non ce l’avevo una risposta, né una spiegazione, motivo che mi aveva spinta ad ignorare i continui messaggi di Stiles e le sue chiamate. Cos’avrei potuto dirgli? “Ehi, tranquillo, è arrivato il momento che io conosca la famiglia Carter”? Direi che non avrebbe funzionato e inoltre, avrei fatto venire un colpo anche a lui.
«Cercavo nient’altro che una lettura interessante e invece eccomi qua, riunita a dei parenti dei quali nemmeno sapevo l’esistenza», osservai con sarcasmo dopo minuti, quando già la donna dai corti capelli dorati seduta di fronte a me – mia zia – sembrava aver perso ogni speranza in una mia possibile risposta.
Maila Carter aveva quarantotto anni, una sorella gemella e due figli. Uno di questi era Walter, che di anni ne aveva ventidue e possedeva – al contrario mio – una sorella minore di nome Natalie. Quel giorno non ebbi occasione di conoscere anche lei, ma incontrai per la prima volta in vita mia il signor Edwards e un’altra cugina: Oriesta Osbourne, ventidue anni e legatissima a Walter, da quanto avevo potuto capire. Figlia di Erin Carter, sorella gemella di Maila. Mio padre Philip aveva una famiglia piuttosto grande e lo capii solo quel pomeriggio di ottobre, all’alba dei miei sedici anni. Quante persone non avevo avuto la possibilità di conoscere a causa della separazione dei miei? Troppe.
«Oh, giusto. Cosa ti ha spinta a cercare i diari del tuo bisnonno?», mi domandò mio zio Roman, padre di Walter e Natalie.
Era un bell’uomo sulla quarantina, con indomabili capelli castani e occhi scuri. Aveva qualcosa che mi ricordava profondamente suo figlio, ma non avrei saputo dire cosa. Distogliendo lo sguardo dal suo viso per un attimo mi concentrai nuovamente sul tè: ne presi un sorso, godendomi il sapore dolciastro del limone mescolato allo zucchero nella speranza che riuscisse a calmarmi almeno un po’. Fortunatamente, le mie preghiere furono accolte e un vago senso di pace arrivò a fare di me la sua preda.
«Una semplice coincidenza», mormorai dunque, visibilmente più tranquilla.
Poi abbandonai la tazza vuota per metà sul tavolino da caffè di fronte a me, attenta a non farla tintinnare troppo contro il costoso vetro che faceva da base. Tutto nella casa degli Edwards sembrava uscito da una rivista d’arredamento di quelli costosi: era tutto raffinato e chic e per quanto non fossi cresciuta in cattive condizioni, non potei fare a meno di sentirmi fuori luogo. Tutto quel lusso non faceva per me.
«La mia professoressa di storia ci ha assegnato una relazione sulla storia delle nostre famiglie e a me è toccato mettermi a… indagare», continuai a spiegare, rivolgendo a mio zio Roman un nuovo sguardo. «Mia madre non mi ha mai parlato di voi».
Lui se ne stava comodamente appollaiato sul bracciolo della poltrona in tessuto rosso che occupava sua moglie Maila: aveva atteso con una ben celata trepidazione la mia risposta, senza mai scollarmi gli occhi attenti di dosso. Walter, invece, se ne stava seduto di fianco a me sul divano a due posti situato esattamente di fronte alla poltrona dei suoi genitori, mentre Oriesta ciondolava di qua e di là, prestando poca attenzione alle mie parole e ben più agli spuntini che riusciva a racimolare viaggiando tra la cucina e il salotto.
«Be’, immagino fosse risentita», prese parola mia zia, parlando con un tono di voce tranquillo e posato. «Non ce l’abbiamo con lei. L’errore è stato compiuto da entrambe le parti. Avremmo potuto cercarti, e invece sono passati sedici anni».
«Avrebbe potuto cercarmi anche mio padre», feci notare, indurendo la voce. Era vero. Avrebbe potuto. «Ma non l’ha fatto, né mai lo farà».
Oriesta rimise piede in salotto giusto in tempo per sentirmi parlare con un astio davvero malcelato di mio padre Philip, o per meglio dire dell’uomo che aveva contribuito alla mia procreazione e che aveva poi deciso di abbandonare mia madre e Cassandra pochi mesi dopo la mia nascita senza nessun apparente motivo. Non appena ebbi finito di parlare il silenzio la fece da padrone nell’enorme stanza nella quale ci trovavamo tutti insieme, ma mia cugina decise ben presto di rimediare e camminò a passo non troppo svelto nella mia direzione. Non mi staccò gli occhi di dosso nemmeno per un attimo, e anch’io la tenni d’occhio mentre la guardavo accomodarsi in una poltrona accanto al divano che occupavamo io e Walter.
«Meglio che tu non parli troppo presto», mi redarguì una volta seduta, accavallando le gambe coperte da un semplice paio di collant scuri con immensa nonchalance, mentre si rigirava una ciocca di capelli biondicci intorno all’indice. «Fidati: non appena Phil vedrà che ci hai conosciuti, si catapulterà qui per difenderti dai cattivi».
Mi stupì sentirla parlare di “Phil” e non di uno “zio”, ma tenni per me quei dubbi e decisi di concentrarmi su qualcosa di più utile e interessante. Aveva parlato di “vedere” cose, no? Ed io ero bisognosa di conferme.
«Ha poteri anche lui?», chiesi infatti a mia zia Maila, riportando gli occhi scuri sulla sua figura. «E tu? Cioè: voi?».
«Sì, Philip ha poteri. Molto forti, a dire il vero, dal momento che è il prossimo in linea di successione», fu la sua immediata risposta, e presa dal decifrare ciò che mi aveva appena detto quasi non mi resi conto del fatto che avesse ignorato la mia domanda. Per caso non voleva parlarmi dei suoi poteri?, mi chiesi più tardi. «Ma non appena sarai pronta la gran parte dei poteri di tuo padre confluiranno dentro te e potrai portare avanti la dinastia».
«N-Non… non è proprio nei miei programmi. Mi dispiace», decisi di balbettare a quel punto, indietreggiando contro il morbido schienale del divano, desiderando di potermi fondere con esso e scappare da quella complicata situazione.
Io a capo di una famiglia di chiaroveggenti? Anche no. E poi: per fare cosa? Di che si occupava la gente come noi?
«Lo sarà, fidati», mi rassicurò Roman, sorridendomi mentre io decidevo bene di ignorarlo e mi voltavo a cercare lo sguardo di mio cugino.
«Tu hai poteri?».
«Sì. Anche Oriesta ne ha», rispose lui con un sorriso, che notai essere precisamente uguale a quello di Roman. Ecco cosa li accomunava! «Così come ne hanno mia sorella Natalie e Niall».
Niall era il fratello minore di Oriesta, aveva un anno più di me e non era presente a quella stramba riunione di famiglia. Non che avessi poi così tanta voglia di conoscerlo – meglio fare le cose con calma – ma nel profondo sentivo che qualcosa non quadrasse. Cosa mi stavano nascondendo? Cercai nuovamente gli occhi di mia zia. Lei capì subito cosa intendessi sapere e ancor prima di domandarglielo, mi rispose.
«Io non ho poteri, Harriet. Ma mio padre e la mia gemella sì».
Suo padre era Thomas. “Mio nonno” Thomas. Il famoso Thomas Carter, secondogenito di Charles Shelby. Quello di cui si parlava in internet, capace di predire l’avvenimento di ben tre fatti storici a soli dieci anni. Incredibile.
Fu proprio pensando a lui che mi resi conto nella grossa falla in tutto ciò che Roman, Maila, Walter e Oriesta mi avevano raccontato fino ad allora. Thomas era un secondogenito e sapevo che solo loro potessero ricevere poteri di chiaroveggenza, dunque com’era possibile che anche Walter, Oriesta e la gemella di Maila ne fossero provvisti?
«Aspettate. Che ne è della teoria secondo la quale solo i secondogeniti ereditano questa croce?», domandai dunque con parecchia foga.
La paura che mi stessero mentendo, ancora, era così forte da farmi tremare le ginocchia.
«Non è corretta. Molte delle cose che sai non lo sono. Ma non tocca a noi spiegarti tutto», furono le uniche parole che mi rivolse Walter, provando inutilmente a tranquillizzarmi.
«E allora a chi?».
«A nonno Thomas, mi sembra ovvio».
Oriesta si mise in piedi, alzando gli occhi al cielo forse per la stupidità della mia ultima domanda mentre si sistemava la gonna nera lungo i fianchi. Recuperò una borsetta del medesimo colore dal pavimento e poi restò immobile nei pressi del divano che ancora occupavamo io e Walter. Cosa succede adesso? Non potei fare a meno di chiedermelo.
«Walt può darti un passaggio», mi informò Maila, alzandosi in piedi mentre si scompigliava annoiata i corti capelli biondi. «A tuo nonno farà piacere conoscerti».
Era già tutto scritto e programmato: nessuno si preoccupò nemmeno un attimo di cosa avrei voluto o potuto fare io, di quanto fossi scossa dall’averli conosciuti tutti insieme e preferissi evitare altri spiacevoli incontri. Avrei potuto rifiutarmi, questo è vero, ma la verità è che non lo feci perché in fondo ci tenevo a conoscere mio nonno. Era l’unica persona sulla quale potessi contare per ottenere tutte le risposte che meritavo, e in quel momento mi resi conto di non desiderare altro.  
Seguendo le orme di sua cugina e sua madre, Walter si mise in piedi battendo i palmi delle mani sui jeans ed io lo seguii a ruota, indossando velocemente il cappotto rosso che avevo tolto per poter essere più comoda e recuperando la mia borsetta in pelle. Ci avviammo insieme verso l’ingresso della mansione Edwards e zio Roman ci raggiunse quando ormai eravamo arrivati alla porta.
«È stato bello averti qui. Torna pure quando e quanto vuoi», mi disse, donandomi l’ennesimo sorriso di quel pomeriggio.
«Mi casa es tu casa, no?», aggiunse Oriesta, con un finto accento spagnolo che mi provocò una sonora risata.
Già sapevo che l’avrei adorata.
«Questa non è casa tua, Ori», la rimbeccò Walter, avvicinandosi a lei quanto bastava per scompigliarle i capelli.
«Sì ma il messaggio è quello», borbottò lei in risposta, mentre io mi godevo il loro teatrino, divertita. Non avevo più dubbi: erano legatissimi. «Ti inviterò anche da me, Harry. Devi conoscere i miei, e quella bestiolina di mio fratello Niall!».
«Senz’altro», la rassicurai, annuendo poco prima di abbandonare casa Edwards insieme a mio cugino.
In fondo, com’è che si dice? “Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno”. 
 
It seems you’re having some trouble in dealing with these changes,
living with these changes.
The world is a scary place now that
you’ve woken up the demon in me
 
«Come ti senti?».
Ero stufa di domande del genere: me ne resi conto sul serio solo in quel momento. Ero stanca della quasi falsa preoccupazione di tutti nei miei confronti: nessuno dei Carter che avessi incontrato poteva davvero capire come mi sentissi, dunque perché continuare a chiedere e mostrarsi interessati?
«Confusa», mi limitai a dire allora, facendo spallucce mentre donavo un ennesimo sguardo nella direzione di mio nonno.
Thomas Carter era un bell’uomo dai capelli d’argento e gli occhi azzurri. Era ricco e pieno di sé: era sicuramente piuttosto anziano ma non dimostrava affatto tutti gli anni che aveva. Casa sua era una magione di gran lunga più grande di quella degli Edwards: signore con completi neri da domestica passeggiavano lungo i corridoi spogli e scuri, preoccupandosi di tanto in tanto di chiedermi se mi andasse di mangiare o bere qualcosa.
«Lo immagino», fu la risposta di “mio nonno”, e lo osservai attentamente mentre infilava entrambe le mani nelle tasche del pantalone in raso grigio. «Walt ti ha portata qui perché potessi darti tutte le risposte che meriti. Quindi domanda e ti sarà detto».
Se avessi sul serio dovuto chiedere tutto ciò che avevo intenzione di scoprire – sulla mia famiglia e non – una giornata di trentasei ore non mi sarebbe bastata. Scrollai ancora le spalle, decidendo di limitarmi alle cose più importanti mentre scacciavo via dalla mente la prima immagine che mi era stata donata di Thomas Carter: lui, in piedi sulla soglia della sua casa, che mi salutava con un: «Ciao, nipotina» accompagnato da un sorriso vagamente arrogante.
«Non sono qui a Beacon Hills per puro caso, vero?».
«No. Sospetto te ne fossi resa conto già da un po’».
Certo che me n’ero resa conto. Non ero stupida e sembravano averlo capito tutti, per fortuna. Annuii nella sua direzione, mentre Walter – seduto accanto a me – tratteneva il respiro per un attimo. Prima di rispondere a mio nonno mi voltai a cercare il suo sguardo, riservandogli un sorriso che lui ricambiò subito. Lo conoscevo né più né meno degli altri Carter ma riuscivo a fidarmi di lui come di nessuno: sapevo che c’entrasse poco e niente con tutta quella situazione.
«Non c’ho mai voluto credere sul serio. Nemmeno dopo aver letto la storia di tuo padre su internet», snocciolai, ritornando a fronteggiare Thomas con un tono di voce privo d’incrinature. «Quando mi hanno presa per l’intercultura mi sono sentita fortunata. Avrebbero potuto scegliere chiunque e invece qualcosa ha spinto Stephen e Stiles nella mia direzione. Mi sono sentita speciale. Che stupida».
Distolsi lo sguardo dal suo viso segnato dal tempo, mordendomi un labbro. Il mio intento di mostrarmi nient’affatto sconvolta stava fallendo miseramente e me ne resi conto sul serio nel momento in cui gli occhi mi si riempirono di lacrime per l’ennesima volta in quella giornata. Ripensare ai miei primi tempi a Beacon Hills era più che doloroso: mi trovavo lì da meno di tre mesi, eppure sembravano già passati secoli.
«Lo sei, Harriet. Gli Stilinski ti hanno scelta di loro spontanea volontà. Ma quello fortunato sono stato io», mi rassicurò mio nonno, sorridendomi beffardo mentre prendeva posto a tavola di fronte a me e Walter. «Non so cosa li abbia spinti ad ospitare proprio te. Siamo sicuri che non abbiano qualche sorta di potere anche loro? Magari sentivano qualcosa: sapevano quanto importante saresti diventata. Non lo so. Fatto sta che hanno evitato il mio ricorrere a metodi poco piacevoli per portarti qui».
Aggrottai le sopracciglia. Dunque né Stephen né Stiles erano in combutta coi miei parenti? Non avevano collaborato con loro di modo da riportarmi a Beacon Hills con la scusa dell’intercultura? Feci per sorridere ma la mia smorfia felice non raggiunse il volto. Avevo davvero dubitato di loro? Mi fidavo così poco? Be’, non l’avrei fatto di nuovo. Poco importavano le insinuazioni di Thomas.
«Perché qui? Perché io?», domandai dunque, ignorandole.
«Per ciò che sei. Per ciò che è questo posto. Sei una Carter, e i Carter appartengono a Beacon Hills fin dal 1919. Questa è casa tua».
«Casa mia è Austin. E sappiamo bene entrambi che c’è qualcosa di molto più importante sotto. Nessuno è davvero interessato a familiarizzare con me e regalarmi il suo amore. Avete bisogno di me a Beacon Hills. Perché?».
Thomas sospirò, annuendo. Ero troppo intelligente perché potesse intenerirmi con tutti quei discorsi sull’importanza della famiglia e altre cazzate simili. Se davvero i Carter avessero tenuto a me mi avrebbero cercata molto tempo prima, ma non l’avevano fatto. Avevano lasciato che crescessi in Texas con Jenette e Cassandra – e badate, non avevo intenzione di prendere a lamentarmi della cosa, anzi – ricordandosi di me solo all’alba dei miei sedici anni. Coincidenza? Anche no.
«Successione. Scommetto che qualcuno degli Edwards te ne avrà già parlato. I nostri poteri di chiaroveggenza si tramandano di generazione in generazione di modo che col tempo diventino sempre più forti, senza esaurirsi. Tu e i tuoi cugini avete più potenzialità di me e dei miei figli: siete giovani. E tocca a voi portare avanti la famiglia. Più precisamente, a te».
A me? Perché a me? A rigor di logica la linea di successione avrebbe dovuto essere più o meno così: Charles, il mio bisnonno; Thomas, il suo secondogenito; mio padre Philip – anch’egli secondogenito; e poi io. Ma di Phil Carter a capo della famiglia non c’era l’ombra, e gli Edwards avevano negato la veridicità dei poteri posseduti solo dai secondogeniti, quindi tecnicamente anche qualcuno che non lo era avrebbe potuto prendere il potere dell’intera famiglia nelle sue mani.
Quindi: «Perché io?», chiesi, confusa. «Perché non mio padre o chiunque altro?».
«Tuo padre ha rinunciato da tempo ai suoi diritti sulla famiglia. Quando è giunta la sua ora di prendere il comando non ha fatto altro che scappare come un codardo, lasciandoci nei guai. Non lo perdonerò mai per questo, proprio come non perdonerei mai te se rinunciassi a portare avanti la dinastia. Come ha fatto Philip».
«Perché l’ha fatto?», domandai, ignorando come al solito quelle parti di discorso da me reputate troppo spinose per essere affrontate in quell’esatto momento.
«Era giovane e spaventato. Non si è mai sentito all’altezza dei suoi poteri, né di questa famiglia. Immagino fosse nel giusto», spiegò subito Thomas, gesticolando proprio come facevo sempre io.
Come dubitare ancora del nostro legame di sangue? Sarebbe stato impossibile.
«E credi che io sia all’altezza, invece?».
«Non lo so. Ma con un po’ di impegno potresti diventarlo. Ti aiuteremmo tutti insieme ad allenare i tuoi poteri ed accettarli. Ma non devi scappare, Harriet».
Non dovevo scappare. Certo che no. Lo sapevo anche senza che me lo dicesse, e glielo feci notare con un’occhiataccia.
«Io non sono mio padre», aggiunsi poi, quasi sputando veleno.
Odiavo che la mia immagine fosse accostata alla sua: a quella di un codardo che nemmeno conoscevo, incapace da sempre di farsi carico dei suoi doveri. Io e Philip Carter condividevamo solo sangue e patrimonio genetico, ed era già molto di più di quanto potessi sopportare. 
«Lo so benissimo», mi appoggiò mio nonno, sorridendo, forse vagamente divertito dal mio bel caratterino.
«Ma provo le sue stesse paure. E sono molto giovane».
Era vero. Come negarlo? Come prenderli in giro? Avevo soli sedici anni e nessuna idea di ciò che mi aspettava. Gli unici contatti che avessi avuto coi miei mirabolanti poteri da chiaroveggente erano stati scarsi e del tutto innaturali. Non sapevo niente di cosa ci fosse sul serio dentro di me: non avevo avuto modo di conviverci per tutta la vita come i miei cugini né di abituarmici. E ancora una volta mi chiesi perché io? Perché non Walt: il più grande? Il più affidabile?
«Come volete che mi comporti?», continuai ancora, sollevando lo sguardo dalle mie mani intrecciate mentre mi rivolgevo a nessuno in particolare.
«Come una normale teenager».
«Con qualcosa di speciale», osservò a quel punto mio cugino, evadendo finalmente dal silenzio nel quale s’era rinchiuso per tutto quel tempo.
Mi sorrise anche e a me venne spontaneo ricambiarlo, vagamente rilassata. Poi Thomas riprese a parlare ed io cercai il suo sguardo azzurro, donandogli di nuovo la mia più completa attenzione.
«Tu non hai idea delle cose che potresti fare con la giusta pratica. La chiaroveggenza è da sempre dentro noi Carter e non è legata ai sogni come credi. Quella è la fase iniziale, l’incipit, causato dal passato di mio padre. Ma possiamo fare molto di più. Addirittura leggere i pensieri della gente, se ci impegniamo. Hai idea di quanto ti renderebbe forte una cosa del genere?».
Leggere i pensieri? Sgranai gli occhi, immobilizzandomi. Loro… potevano farlo? Avevano sentito chiaramente tutto ciò che mi era passato per la mente? Quando sia Thomas che Walter annuirono in sincrono, aprendosi in un sorriso, mi sentii sbiancare. Merda. Merda, merda, merda. Quella era violazione della privacy. Altroché.
«Non ho bisogno di essere forte», soffiai a quel punto, evitando di mettere su scenate inutili ed ignorando come al solito l’ennesimo argomento spinoso della giornata.
«A Beacon Hills? Ne avrai bisogno eccome, bambina», mi fece notare mio nonno, sicuro di sé forse fin troppo. «Non hai la minima idea di ciò che ti aspetta dietro l’angolo. E se vuoi essere in grado di proteggere le persone a cui vuoi bene, faresti meglio a darmi ascolto».
«Non resterò qui per sempre».
Ed era vero. In quel momento, forse per una delle prime volte da quand’ero arrivata lì, mi ritrovai addirittura a pensare per fortuna. Infatti, non vedevo l’ora di tornare in Texas.
«Credo che invece faresti meglio a considerare quest’opportunità».
«D’accordo, un passo alla volta», sospirai, sconfitta, guadagnandomi un sorriso da parte di Thomas. «Voglio che mi spieghi esattamente come funziona. Sono debole. Non a livello di premonizioni, intendo proprio fisicamente. È una cosa che non sopporto. Svengo di continuo e non riesco a controllare i miei sogni, né a capire quando sto per averne uno. Sono tutti diversi e alcuni così confusi che decifrarli è come provare a completare un rebus. Una volta mi è capitato addirittura di dimenticare un giorno intero. È pericoloso, e non voglio rischiare».
Ero davvero pronta ad imbarcarmi in una storia del genere? Be’, mi dissi, volente o nolente lo sarei stata. Se anche solo la metà delle cose che mio nonno mi aveva detto erano vere, avrei senz’altro fatto meglio ad acquistare un po’ di forza in più. D’altronde, cos’avevo da perdere?
Tuttavia volevo mettere in chiaro fin da subito le condizioni di quell’alleanza. E Thomas non si dimostrò in disaccordo.
«È per questo che ti stiamo offrendo tutto il nostro aiuto, Harriet», mi rassicurò infatti, tranquillo. «Siamo qui per te, tutti. Potrai allenarti quanto vuoi: con me, Walt, Niall, le tue zie o Oriesta. Con chi ti pare, dove e quando ti pare. Vuoi riuscire ad avere tutto sotto controllo, no?».
Sì. Lo volevo. Proprio come volevo capire bene cosa diavolo mi stesse succedendo, leggere i diari di Charles Carter, conoscere mio padre ed evitare altri svenimenti in pubblico. Quelli sarebbe stato un po’ difficile spiegarli. Annuii, poi ripetei a mio nonno ciò che di sicuro aveva già sentito leggendo i miei pensieri.
«Voglio che mi parli di Philip».
«Se è questo ciò che vuoi, lo farò. Tutto ciò che vuoi, Harriet».  
Perfetto.
 
Quando finalmente raggiunsi casa Stilinski quella sera, erano oramai le dieci e mezzo. Le strade di Beacon Hills erano buie, deserte e spaventose e come se non bastasse faceva così freddo che non riuscivo proprio a smettere di tremare, nonostante il cappotto e i guanti. Incapace di fermare il movimento delle mie dita intorpidite, cercai d’infilare le chiavi di casa nella porta d’ingresso e dopo vari tentativi, le feci ruotare nella toppa e mi ritrovai all’interno.
Il cambio repentino di temperatura mi colpì immediatamente, proprio come mi era successo quello stesso pomeriggio in biblioteca, lasciandomi lievemente intontita. Mi liberai dai capelli lunghi che un vento dispettoso mi aveva spinto davanti agli occhi e cercai immediatamente l’interruttore della luce per illuminare il corridoio d’ingresso. La casa era buia e silenziosa e subito mi chiesi perché.
Sperai che sia Stephen che Stiles stessero già dormendo mentre senza fare alcun rumore mi liberavo del cappotto, dei guanti e della borsa, lasciando tutto nell’ingresso e avanzando in punta di piedi verso il salotto – anch’esso completamente buio – ma capii subito di sbagliarmi non appena una fioca luce proveniente dalla cucina mi colpì gli occhi con violenza.
«Harriet! Si può sapere dov’eri finita?».
Merda. Forse non ero stata così silenziosa come credevo, perché ancor prima che superassi il salotto Stiles mi raggiunse. Non appena fui di fronte ai suoi occhi dimostrò la preoccupazione che per tutto il pomeriggio non aveva nascosto e Stephen lo raggiunse subito, scoccandomi un’occhiata che non compresi. Anche lui era preoccupato e questo era chiaro: mi aveva dato conferma della cosa il fatto che verso le dieci mi avesse scritto “Dove sei?”. Io gli avevo risposto con un semplice “Sto tornando a casa” e poi mi ero incamminata. Peccato non fossi molto veloce.
«Ero da Allison. Scusate il ritardo», m’inventai su due piedi, sparendo poi in direzione della mia camera da letto con un finto sorriso a deformarmi il viso.
Stephen come al solito si lasciò bastare quella spiegazione frettolosa e non mi chiese nient’altro, lasciando perdere mentre ritornava in cucina. Stiles, purtroppo, non dimostrò essere del suo stesso avviso e velocemente mi seguì lungo il corridoio buio della zona notte finché non mi ebbe raggiunto.
«Cos’hai?», lo sentii chiedermi, per nulla convinto dalla mia bugia.
«Sto bene», dissi, voltandomi a guardarlo sulla soglia della mia stanza. «Cos’è successo a tuo padre?».
Come non notare il suo malessere? Chiunque se ne sarebbe accorto.
«È un po’ giù», confermò infatti Stiles, facendo spallucce. «Non riesce a trovare Derek e si sente impotente perché non può risolvere il caso. Ovvio, gli mancano interi tasselli del puzzle completo. Io in compenso ho capito cosa vuole l’alpha».
«Vendetta, no?».
«Sì, giusto. Ho capito contro chi». Gli rivolsi uno sguardo d’incitamento affinché continuasse a parlare. E Stiles lo fece. «Tutte le persone che ha ucciso e alle quali ha dato la caccia sono responsabili dell’incendio in casa Hale. Quello che ha sterminato la sua famiglia. Peter sta cercando il principale colpevole».
«Sappiamo chi è?», domandai.
Con un nome sarebbe stato più semplice decidere se la persona in questione meritava o meno di essere aiutata e magari anche salvata.
«Non ancora. Ma lui mi sembra piuttosto vicino a scoprirlo», osservò Stiles, poco prima di ritornare al fulcro principale di tutta la conversazione. «Adesso vuoi dirmi per favore cos’hai? Dove sei stata tutto il giorno? Ero preoccupatissimo».
Sospirai, comprendendo bene che mai avrei potuto evitare di parlargliene. Misi piede nella mia camera, massaggiandomi le spalle doloranti mentre convenivo tra me e me che quella di confidarmi con Stiles era una cosa che volevo profondamente. Dunque, cosa aspettavo?
«Sono tornata in biblioteca», esordii, non prima però di aver cercato nuovamente il suo sguardo. Stiles mi seguì all’interno della camera e mi ascoltò attentamente mentre si chiudeva la porta alle spalle. Io ripresi a parlare. «Ho chiesto ad un addetto dei diari di Charles, e viene fuori che questo tizio è mio cugino. Che voleva conoscermi già da tempo, così come tutti i suoi famigliari. Mi ha portata a casa sua».
La voce mi venne fuori atona e priva di emozioni. Non che non ne avessi da mostrare, ma continuavo da fin troppo tempo a tenerle tutte dentro me e stavo imparando ad essere piuttosto brava nel farlo. Tuttavia, sapevo che prima o poi sarebbero straripate fuori tutte insieme e a me non sarebbe rimasto altro da fare che scoppiare. Se non altro, non sarei stata sola. Stiles era lì con me, come sempre.
«Tu sei pazza», mi fece notare allora, mentre io sbuffavo divertita. «Perché ci sei andata da sola? Avresti potuto chiamarmi ed evitare di affrontare tutto questo…».
«Da sola», completai per lui, prima che ripetesse ancora quelle due paroline fastidiose. Annuii. «Lo so. Ma sentivo il bisogno di farlo».
«Senza di me?». Mi guardò con le sopracciglia alzate. Io aspettai in silenzio che continuasse a parlare. «D’accordo. Però lo sai che ti avrei accompagnata senza nemmeno pensarci su, vero?».
«Sì».
Lo raggiunsi, annuendo. Certo che lo sapevo. E in fondo, era proprio per quel motivo che non gli avevo chiesto di farlo. Avevo bisogno di imparare ad affrontare i problemi da sola, per diventare più forte e capace di proteggere le persone alle quali tenevo. Inutile dire che Stiles fosse la prima di queste.
«Siamo io e te, Harry, hai capito? Sempre», mi fece notare dopo qualche tempo, attirando di nuovo la mia attenzione sul suo viso.
Presa dai miei pensieri com’ero non mi ero accorta minimamente di essere intenta ad avanzare nella sua direzione e fu solo quando rialzai gli occhi sul suo viso che mi ritrovai Stiles irrimediabilmente vicino – così tanto che i nostri corpi addirittura si sfioravano. Avrei seriamente potuto baciarlo, in quel momento. Ma qualcosa come al solito mi trattenne, e mi limitai a tenere gli occhi fissi nei suoi.
«Siamo io e te», ripetei, imitandolo appena mentre m’imponevo di non fissargli più le labbra ed evitare distrazioni di quel genere.
«Ora dimmi: com’è andata? Che gente sono?».
Ed ecco di nuovo tornare la curiosità morbosa. Ecco che mi distoglieva completamente dai miei dolorosi pensieri e mi strappava come al solito un sorriso. Facendo spallucce, indietreggiai e rivolsi uno sguardo disinteressato alla stanza intorno a me. Mi parve di sentire la testa girare, forse come effetto collaterale del trattenere tutto ciò che volevo fare e dire dentro me e capii che l’unica soluzione fosse quella di sfogarsi finalmente del tutto.
«L’unica cosa che so è che sono terrorizzata, Stiles», mormorai allora, abbassando tutte le mie difese mentre sentivo gli occhi già umidi e la voce tremante. «Tutti questi cambiamenti all’improvviso… non so se riuscirò ad affrontarli, e viverci. Che si fa se non ne sono all’altezza? Se non riesco a controllare quello che ho dentro me?».
Non credevo sarei scoppiata a piangere, e invece successe. Proprio come se fosse un’altra delle tante cose sulle quali non riuscivo più ad esercitare controllo in quell’ultima fase della mia vita, lacrime calde sgorgarono dai miei occhi senza che quasi me ne accorgessi, rigandomi le guance e facendomi anche sobbalzare lievemente per la sorpresa. La figura di Stiles di fronte a me divenne subito fastidiosamente offuscata, ma anche se non potevo vederlo bene lo sentii perfettamente mormorare un: «Oh…» vagamente dispiaciuto prima che mi attirasse contro il suo corpo.
«Cosa ti fa credere che non ce la farai?», mi domandò non appena mi fui stretta a lui, con le braccia intorno al suo petto mentre cercavo di fermare lacrime e singhiozzi. «Sei una bellissima persona e sei forte, Harry. Da quando sei qui hai sopportato tante di quelle cose… Quello che hai dentro è comunque parte di te e non c’è niente di pericoloso o cattivo da temere. L’unica cosa che devi fare è imparare a conoscerlo. Poi lo sai, io sarò con te ad ogni passo. E credo che d’ora in poi nemmeno la tua famiglia ti lascerà più andare. Una volta conosciuta te, nessuna persona sana di mente lo farebbe».
Piegai le labbra all’insù in quello che avrebbe dovuto essere un abbozzo di sorriso e tirai su col naso, posando il mento sulla spalla di Stiles mentre le lacrime continuavano a scendere giù incontrollate.
«Mio padre lo ha fatto», gli feci notare non appena capii di essere in grado di parlare. «Lui mi ha abbandonata».
«Tuo padre è pazzo».
Bel tentativo, Stiles. Sorrisi appena.
«Non mi conosce nemmeno…».
«È un pazzo che non ti conosce nemmeno».
D’accordo, vittoria a lui. Mi arresi, stremata dalle lacrime e dalla stanchezza di quella pesantissima giornata. Allungai le dita quel tanto che bastava ad asciugarmi il viso alla bell’e meglio e poi mi godetti il silenzio pacifico calato nella stanza. Mancava qualcosa, però, me ne resi conto quasi subito.
«Ti voglio bene, Stiles», sussurrai, in imbarazzo senza nemmeno sapere perché.
Non gli avevo mai detto una cosa del genere da quando lo conoscevo.
«Ti voglio bene anch’io, piccola».
Ecco. A quel punto non mancava più nulla. Ero completa.
 
I don’t need a parachute,
baby, if I’ve got you – baby, if I’ve got you,
I don’t need a parachute.
You’re gonna catch me – you’re gonna catch – if I fall down, down, down.









 
Be', chi l'avrebbe mai detto? Credevo ci avrei messo secoli per scrivere questo capitolo e invece ho fatto relativamente presto, che cosa beeeella. Okay, uhm, passando ad argomenti seri (?), che ne dite? Mi piacerebbe moltissimo sapere cosa ne pensate di questo capitolo perché a giudicare dalle cose che vi sono dentro è uno dei più importanti della storia e anche se io ne sono soddisfatta (non lo nasconderò ahahah) il vostro parere è senz'altro più importante del mio, e ci tengo a conoscerlo.
So che molte domande sono ancora in sospeso ma vi assicuro che col tempo scoprirete più cose e nel frattempo, se qualcosa non è chiaro, potete comunque chiedere a me. A patto che non sia una cosa troppo spoiler vi darò tuuuutte le spiegazioni che vorrete. Sono a vostra più completa disposizione. Poi: innanzitutto tempo fa (?) mi sono iscritta a Spotify per creare playlist delle mie fanfiction e indovinate? C'è anche quella di parachute. Che è quasi vuota e in continuo aggiornamento, ma c'è. Dunque, se volete seguirla vi basterà cercare Helena Kanbara (il mio profilo) o parachute (la playlist). Se invece vi volete semplificare la vita, aggiungetemi su fb e la troverete lì.
Restando sempre in argomento musica: il titolo del capitolo è ripreso vagamente dalla canzone dei Lifehouse - You and me, ed è praticamente il motto (?) degli Starriet. La canzone citata a fine di prima/seconda/terza scena è Down with the sickness dei Disturbed, e la finale è ovviamente Parachute di Cheryl Cole. Non credo di avere altre precisazioni da fare, ma... che ne pensate dei nuovi personaggi? Walt non è un amore? Se siete interessate a conoscerne i prestavolto vi basta aggiungermi su fb e curiosare nell'album Welcome to Beacon Hills. E dello Starriet che mi dite? Vi prego, fatemi sapere. Ahahaha. Non credo di essere mai stata così in ansia per un capitolo che tra l'altro mi piace pure.
Uhm. Okay. Adesso levo le tende. Vi ho angosciate abbastanza con quest'angolo autrice più lungo del capitolo, a momenti. Alla prossima, girlZ. Non dirò che il diciottesimo capitolo arriverà tardi, ma se dovesse succedere, non è colpa mia. Per come l'ho plottato io l'angst (?) si taglierà a fette e potrei avere problemi a scrivere. Scusatemi. Nel frattempo godetevi questo, no? Alla prossima,
hell

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Capitolo 18
*** Carpe diem. ***


parachute
 
 
 
 
18.  Carpe diem.
 
 
Quella notte io e Stiles dormimmo insieme. Non fu affatto una cosa programmata: semplicemente continuai a piangere senza riuscire a fermarmi per ancora moltissimo tempo e lui non mi abbandonò – il pensiero di farlo neppure gli passò per la testa – nemmeno quando mi stesi a letto, stremata. Aveva detto che mi sarebbe stato accanto e l’aveva fatto: mi aveva raggiunta e pur senza dire una parola, era riuscito a farmi star meglio. Avevo preso sonno tra le sue braccia, con le guance ancora umide e le sue dita intrecciate ai miei capelli. Non ho idea di cosa pensò Stiles di quel momento così intimo: so solo che lo avvertii perfettamente entrare a far parte del mio cuore ogni secondo che passava un po’ di più.
Il mattino dopo fu Stephen a svegliarci, seppur indirettamente. Uscendo di casa per il turno mattutino alla centrale di polizia urtò inavvertitamente un oggetto non ben identificato che sicuramente io e Stiles avevamo lasciato in corridoio, dimentichi di rimetterlo a posto o semplicemente troppo disordinati per farlo. Stephen rischiò di cadere e farsi male, ma i suoi riflessi pronti lo aiutarono e se la cavò con un paio d’imprecazioni che – seppur fossi ancora mezza addormentata – mi strapparono un sorriso.
Non ricordo quanto imbarazzante fu ritrovare Stiles accanto a me, nel mio letto, vicinissimo dato che occupavamo in due un materasso a una piazza, ma non ho dubbi quando dico che non me ne curai. Sì, insomma, decisi per il mio bene di godermi solo il meglio della cosa e – seppur scioccamente – assaporai fino all’ultimo tutta la felicità di quel momento. Tuttavia, il benessere durò poco. Un mal di testa lancinante mi riportò immediatamente indietro alla sera prima e potei avvertire gli strascichi del precedente malessere ancora ben presenti dentro di me.
Lasciai perdere, ancora una volta, simulai benessere e mi alzai. Semplicemente continuai a vivere. Perché era quello che la vita mi chiedeva. Dovevo andare avanti, di certo non era successo nulla di grave o irreparabile. Certo, aver conosciuto l’altra metà del mio albero genealogico aveva portato alla mia mente spiacevoli pensieri riguardo a mio padre – ferita aperta – ma potevo ricacciarli indietro come avevo sempre fatto e dimostrarmi forte. O comunque imparare a diventarlo.
Fu proprio per ciò che decisi sarei tornata subito dai Carter. Da mio nonno o dai miei zii ancora non l’avevo deciso ma Stiles, come al solito, mi aiutò. Non appena fu sveglio quel giovedì mattina gli parlai dei miei piani e lui acconsentì subito ad accompagnarmi da «quelli che meno ti spaventano», parole sue. Alla fine scelsi di andare da Thomas, non perché fosse tra i Carter quello che temevo di meno ma perché lo consideravo il più qualificato per allenarmi.
Andò tutto così bene che il giorno dopo mi ritrovai di nuovo lì, pronta a scollarmi di dosso gli ultimi dubbi ancora presenti nella mia mente e soprattutto mossa dalla smania di conoscere alla perfezione ciò che da sempre era dentro di me senza che io me ne rendessi conto. Volevo riuscire ad imparare ad utilizzare al meglio qualunque sorta di poteri Madre Natura mi avesse donato e se l’unico modo per farlo fosse stato quello di esporsi agli stremanti allenamenti di Thomas, allora l’avrei fatto. Avrei sopportato i mal di testa lancinanti e i sogni notturni triplicati se ciò fosse servito a farmi diventare più forte.
A pochi minuti dal mezzogiorno del sabato successivo mi ritrovai lì lì per uscire nuovamente di casa, diretta – tanto per cambiare – alla magione Carter. Stiles quella volta non sarebbe stato con me: era dovuto correre da Scott per non avevo capito quale importantissima questione di vita o di morte ed io ero rimasta di conseguenza da sola. Per fortuna, la cosa non mi dispiaceva né mi spaventava. Non più. Avevo smesso di aver paura.
Controllai ancora una volta che fosse tutto a posto: che avessi chiuso e spento tutto e di aver sistemato qua e là per evitare di lasciare la casa in condizioni penose. Poi infilai il cappotto e mi misi una borsetta con giusto il minimo occorrente dentro in spalla e mi avviai alla porta, pronta ad uscire. Quel giorno Thomas mi avrebbe permesso – finalmente – di leggere i diari di suo padre ed ero davvero eccitata all’idea di cimentarmi nell’impresa che mi aveva aiutata a ritrovare la mia famiglia. Tuttavia, capii ben presto che il Destino non fosse d’accordo coi miei programmi e ne avesse per me di ben diversi.
Nel momento esatto in cui aprii la porta, infatti, Allison Argent premette con forza le dita sul campanello ed io non potei far altro che sobbalzare sotto i suoi occhi scuri sgranati. Trattenni a malapena un urlo spaventato, portandomi una mano sul cuore intento a battere furiosamente mentre indietreggiavo, convinta di sbagliarmi. Potevo benissimo aver avuto un abbaglio, no? Magari lo stress degli allenamenti con mio nonno cominciava a farsi sentire e il cervello ad andare in pappa.
Ma non mi sbagliavo affatto, no. Allison era sul serio di fronte a me, sulla soglia di casa Stilinski con un’espressione sconvolta a deturparle il bellissimo viso. Io, ancora con le mani strette sulla maniglia in ottone della porta d’ingresso, inizialmente non riuscii a far altro che ricambiare il suo sguardo lievemente sospettoso. Avrei voluto dire qualcosa ma non ne fui in grado: per parlare servì che radunassi ogni goccia di coraggio ancora disponibile.
«Ciao», fu però il massimo che riuscii a fare, e mi diedi immediatamente della stupida. «V-Vuoi entrare?».
Già meglio, Harriet. Adesso aspetti una sua risposta e poi continui così. Mi schiarii la gola, nervosa proprio come aveva dimostrato bene il mio balbettio. Poi riportai gli occhi in quelli di Allison, così simili ai miei da farmi stare quasi male. Mi era mancata moltissimo: me ne resi conto sul serio solo in quel momento. Il suo porre un taglio netto alla nostra amicizia senza un apparente motivo logico mi aveva ferita.
«Posso parlarti?».
Una parte di me, quella senz’altro più stupida, ebbe bisogno di tempo per pensarci. Non di certo perché avessi dubbi sul permettere o meno ad Allison di parlarmi – non ero ancora messa così male, andiamo – ma più che altro perché sul serio una parte di me si ritrovò, combattuta, a chiedersi: Allison o me? Dovevo mettere la mia amica al primo posto, trascurando me stessa per il suo bene? Trovai la risposta nei suoi occhi umidi.
«Certo», dissi, spostandomi dall’ingresso quel tanto che bastava a farla entrare.
Allison non se lo fece ripetere due volte, ed io mi accorsi immediatamente di aver fatto la scelta giusta. I miei poteri, Thomas, i diari di Charles… poteva tutto aspettare. Tutto tranne Allison ad un passo dal crollo. 
 
Ehi: everybody loses it, everybody wants to throw it all away sometimes. 
And ehi: yeah, I know what you’re going through. Don’t let it get the best of you,

you’ll make it out alive. People like us, we’ve gotta stick together:
keep your head up, nothing lasts forever 

«Andiamo, Allison. Si può sapere cos’hai?».
Evitai di alzare lo sguardo su Lydia, limitandomi al contrario a tenere gli occhi incollati sul pavimento e sulla spaventosa scala mobile a pochi centimetri da me. Avevo come l’impressione che i tacchi a spillo delle mie decolletè in camoscio nero non sarebbero andati affatto d’accordo con quel mezzo di tortura.
«È tutto a posto. Ho solo… molte cose per la testa».
Mi morsi il labbro inferiore prima di seguire Allison sulla scala mobile, posizionando un piede alla volta nel posto giusto affinché il tacco delle scarpe non restasse incastrato nel mezzo e potessi arrivare al primo piano sana e salva. Forse quella di andare da Macy’s per comprare un abito in vista del Ballo d’inverno era stata un’ottima idea – grazie, Lydia – ma indossare tacchi per fare shopping nient’affatto. Mea culpa.
«Già, come tutti. Potresti almeno sorridere, però. Mai sentito dire: “Non fare il muso, qualcuno si innamorerà del tuo sorriso?”».
Piegai le labbra all’insù, vagamente divertita dalla tenera ingenuità che Lydia decideva di mostrare di tanto in tanto. La adoravo quando era così pacifica e inoffensiva: quando era se stessa. Proprio per quel motivo avevo accettato senza nemmeno pensarci su di accompagnare sia lei che Allison al centro commerciale. Non solo perché serviva anche a me fare acquisti né per stare vicina alla Argent dato tutto quello che stava passando in famiglia ma anche per poter conoscere meglio Lydia. Basta essere infantili.
«Ti sembrerà strano, ma sono d’accordo con lei, Als», mormorai, solo quando fui stabile su quell’odiosa scala mobile.
Allison sorrise voltandosi appena a guardarmi e Lydia fece altrettanto, stupendomi con un batti cinque amichevole. Allora cadde il silenzio, ma non durò a lungo. In prossimità del primo piano Lydia si voltò nuovamente a guardare di fronte a sé, facendo ondeggiare la borsetta in pelle che portava sulla spalla destra ed Allison sospirò pesantemente, chiaro segno del fatto che fosse sul punto di dire qualcosa di poco bello.
«Andrò al Ballo d’inverno con Jackson», annunciò infatti, con gli occhi puntati sul pavimento mentre la mascella di Lydia arrivava ad un passo dal toccare terra.
Tra le due fui io quella che ebbe una reazione migliore: non perché Allison mi avesse già parlato della cosa ma soprattutto perché quella era stata inizialmente idea di Scott. Dal momento che per lui il ballo era off-limits aveva chiesto a Jackson di tenere d’occhio Allison accompagnandola, e lui alla fine aveva acconsentito.
Quando fummo finalmente nel negozio d’abiti, Lydia deglutì sonoramente prima di dire: «Divertitevi», e poi fece per allontanarsi da me ed Allison, diretta chissà dove. Fortuna però che la Argent la fermò.
«Devo chiederti una cosa», le disse poi, cogliendomi stranamente di sorpresa mentre ancora le stringeva il braccio in una morsa nient’affatto violenta. Lydia si limitò a scoccarle un’occhiata ed Allison continuò subito a parlare. «Voglio che tu annulli l’appuntamento con chiunque sia l’idiota palestrato a cui hai detto sì e vada al ballo con qualcun altro».
Aggrottai immediatamente le sopracciglia e se non fosse stato per l’irritazione che sentivo crescere dentro me ogni minuto che passava un po’ di più, la mia espressione sarebbe stata lo specchio perfetto di quella di Lydia Martin. Mentre proprio lei chiedeva: «E con chi dovrei andare?» le riservai un’occhiata, stringendo tra le dita la spallina della mia borsa.
«Con lui», furono le uniche parole che Allison pronunciò allora, e quando prese a voltare il capo verso sinistra sentii distintamente paura e rabbia crescere dentro me e mescolarsi in un perfetto mix esplosivo.
Sia io che Lydia seguimmo lo sguardo della nostra amica a rallentatore, e quando mi ritrovai niente di meno che Stiles di fronte, sentii quasi il mondo crollarmi addosso. Cosa diavolo aveva in mente, quella volta? Perché stava facendo una cosa del genere a me, che avevo sempre cercato di aiutarla? Lo sapeva, diamine. Allison lo sapeva quanto Stiles mi fosse tutt’altro che indifferente. E lo stava sul serio spingendo tra le braccia di Lydia?
«Oh. Non fate il muso, qualcuno si innamorerà del vostro sorriso», mormorò dopo qualche attimo, guadagnandosi un’occhiataccia innocua da parte di Lydia e diverse maledizioni silenziose da parte mia.
Mi limitai a riservare ad Allison uno sguardo truce, poi distolsi gli occhi dal suo viso e cercai nuovamente la figura di Stiles. Lui non ci pensò su due volte: sorrise come solo lui sapeva fare e alzò una mano in segno di saluto mentre dentro mi sentivo perfettamente morire. Se anche avesse avuto intenzione di invitare me al Ballo d’inverno, una volta che Lydia gliel’avrebbe chiesto quell’idea sarebbe svanita proprio com’era apparsa e il mio sogno sarebbe stato infranto. Tutto perché io non reggevo il confronto. Non ero la prima scelta. Mai.
Grazie, Allison. 
 
“Cosa diavolo ci faccio ancora qui?” era diventata ufficialmente la domanda del giorno. Continuavo a sussurrarmela ancora e ancora, senza trovare una risposta. Ma d’altronde, sul serio, cosa ci facevo ancora da Macy’s? Perché continuavo a torturarmi con la vista di tutti quegli abiti meravigliosi che avrei anche potuto acquistare ma mai indossare? Insomma, se anche avevo avuto una mezza possibilità di presentarmi al Ballo d’inverno con un accompagnatore l’avevo vista sgretolarsi di fronte ai miei occhi nel giro di cinque minuti scarsi.
Non c’era possibilità che andassi a quello stupidissimo ballo da sola: era come calpestare il mio immenso orgoglio e dimostrarmi come la ragazzina sola e sfortunata che ero. Dunque, mi ripetei, cosa diavolo ci facevo ancora lì? Sarei dovuta andare a casa senza nemmeno salutare Allison, passare la serata ad affogare i dispiaceri nel gelato ed imparare a lasciarmi scivolare tutto addosso ancora una volta.
«Ma non ce la faccio, merda», sputai a quel punto, finalmente giunta alla mia agognata risposta.
Spinsi a posto con fin troppa forza il vestito blu elettrico che mi ero permessa di spostare dall’appendiabiti per potermi far del male ancora un po’ e quando fui finalmente in grado di rimetterlo proprio dov’era in precedenza, un vago gemito di dolore mi fece sobbalzare per lo spavento. Credetti di averlo solo immaginato e provai a tranquillizzarmi, ma quando la lamentela continuò imperterrita non potei far altro che preoccuparmi sul serio.
Avevo colpito qualcuno? Ma chi? Non mi era parso di vedere gente dall’altra parte dell’appendiabiti: di certo non gente alta quanto me… realizzai forse con un po’ di ritardo. Ansimai terrorizzata, portandomi una mano alle labbra mentre correvo verso la fonte dei lamenti per assicurarmi di non aver fatto più male del previsto alla povera bambina da me colpita. Ma…
«SCOTT!», urlai, quando ebbi aggirato l’appendiabiti con passi pesanti e rumorosi a causa dei tacchi.
McCall era accasciato sul pavimento, nascosto malamente da una pila di vestitini colorati mentre si reggeva il naso dolorante. Mi inginocchiai subito alla sua altezza mentre improvvisamente la presenza di Stiles al centro commerciale appariva chiara ai miei occhi e Scott finiva di lamentarsi per riservarmi un’occhiata truce.
«Alzati, Harry! Via, via! Non mi guardare!», trillò come se fosse impazzito, guardandomi con occhi spiritati che mi spinsero a fare subito come diceva lui. «Sono qui in missione!».
Quelle sue ultime parole mi resero tutto subito chiaro e, fingendo indifferenza, presi ad osservare fintamente annoiata una pila di vestiti nelle vicinanze.
«Stai tenendo d’occhio Allison come al solito?», bisbigliai, solo quando si fu nascosto di nuovo dietro l’appendiabiti dove l’avevo trovato. Lo raggiunsi lì, sempre fingendo tranquillità. «Ci siamo io e Lydia con lei, non ce n’è bisogno».
«Peter è qui, ce n’è bisogno eccome».
Sgranai immediatamente gli occhi, stringendo le dita su una gruccia in plastica. Peter lì? Peter Hale? L’alpha, Peter Hale? Merda.
«Dov’è?», sussurrai, agitata. «Cosa fa?».
«Oh Dio», furono le uniche parole di Scott, ed io aspettai in ansia che aggiungesse qualcos’altro. «Sta parlando con Allison. Devo fare qualcosa, devo fare qualcosa!».
«Cosa?», strillai, esasperata.
Il panico più totale aveva preso assoluto controllo di me e chiedermi di mantenere la più completa discrezione sarebbe stato sul serio assurdo. Ecco perché urlai, fregandomene altamente di tutto e tutti. La vita della mia amica era in serio pericolo, proprio come lo era stata quella di Stiles durante il primo incontro che lui stesso aveva avuto con Peter. Ero stanca di trovarmi in situazioni del genere.
«A tutti i signori clienti, una Mazda blu targata 5NI768 sta per essere rimossa».
M’immobilizzai, incapace di fare altro. Possibile che…
«Pericolo scampato».
Sì. Era stato Scott.
«Pretendo che tu mi spieghi come diavolo hai fatto», mormorai quando fui tornata in me, aggirando l’appendiabiti senza più pormi problemi.
Allison era andata via e Scott non aveva più motivo di nascondersi. Non appena l’ebbi di fronte osservai immediatamente la sua espressione rammaricata.
«Che succede?», domandai, preoccupata dal suo improvviso silenzio.
«È Peter. Lascia stare», mi tranquillizzò lui semplicemente, prendendo poi a tastarsi il naso arrossato.
Ahia.
«Ti ho fatto male? Scusami».
Scott si limitò a fare spallucce.
«Colpa mia. Avrei dovuto trovarmi un nascondiglio più sicuro».
Cadde il silenzio mentre provavo a concentrarmi ancora sui vestiti intorno a me, senza nessun motivo in particolare. Scott mi seguì per gli immensi corridoi colmi d’abiti di ogni tipo, mantenendo il silenzio finché non vide Stiles cercare inutilmente di tenere il passo dietro a Lydia. Facevano shopping proprio come una bella coppietta.
«Scott, mi accompagneresti a casa?», mormorai allora, distogliendo lo sguardo da quella visione mentre avvertivo chiaramente un groppo formarsi nella mia gola.
Scott fece per dire qualcosa riguardo Stiles e Lydia ma non appena mi sentì parlare decise di desistere, e quando incontrò i miei occhi non poté fare a meno di aggrottare le sopracciglia. Non so esattamente cosa lesse nelle mie iridi, ma mi sentii non poco a disagio sotto il suo sguardo indagatore.
«Non hai trovato nulla che ti piace?», domandò poco dopo, alludendo ai vestiti mentre io facevo spallucce e mettevo su un debole sorriso.
«Non credo andrò al ballo».
«Okay, time out!», fu la prima cosa che Scott esclamò, prendendo a guardarmi con occhi sgranati. «Cosa succede? Sei arrabbiata?».
«Dispiaciuta», rettificai, con un tono di voce a malapena udibile. «Allison ha spinto Lydia tra le braccia di Stiles ed io ho perso ufficialmente la mia unica chance di presentarmi con un accompagnatore. Andare da sola al Ballo d’inverno non occupa esattamente il primo posto della mia To-do list»
«Chi ha detto che devi andarci da sola? Stiles non è l’unico ragazzo in tutta Beacon Hills che sarebbe disposto ad accompagnarti».
Sbuffai, fintamente divertita mentre distoglievo lo sguardo dal viso di Scott per posarlo ancora sugli abiti alla mia sinistra. Erano tutti bellissimi, e colorati. Ce n’erano di ogni modello, tessuto o lunghezza. Mentre passeggiavo lentamente presi ad accarezzarne i profili, nell’attesa di trovare qualcosa di adatto da dire a Scott.
«Conosci qualcun altro di così carino?», gli domandai dunque dopo qualche tempo, cercando di nascondere alla bell’e meglio un broncio piuttosto infantile.
Quando dopo diversi minuti non ricevetti risposta fu inevitabile per me voltarmi a cercare la figura di Scott, e ciò che mi ritrovai di fronte fu qualcosa di davvero incredibile. McCall mi fissava con uno dei suoi soliti sorrisini sghembi e i pollici puntati contro il petto. Significava davvero ciò che credevo?
«No, non dirmi che sono carino. M’imbarazzo», sussurrò quando vide un velo di consapevolezza oscurare il mio viso, dando la conferma a tutti i miei pensieri.
A quel punto trattenni una risata, prendendo a passeggiare annoiata per il negozio di vestiti.
«Bel tentativo, Scott», gli feci presente, voltandomi a guardarlo solo di sfuggita. «Ma non puoi venire al ballo».
«E chi l’ha deciso?».
Non potei fare a meno di richiamarlo, con gli occhi sgranati e il tono di voce squillante tipico di quand’ero incredula. Non riuscivo a capire come si potesse essere così pazzi – in senso buono. Davvero non ci arrivavo.
«Non hai il permesso per venire al ballo né un auto o un invito. Licantropi e cacciatori non vedono l’ora di farti la pelle almeno tanto quanto Finstock – semmai dovesse vederti a scuola. Sei davvero così masochista?», dissi allora, cercando inutilmente di far ragionare Scott.
Il suo era davvero un buon tentativo e si stava dimostrando una persona dolce e preoccupata per me, ma non c’era modo di far funzionare la cosa. Purtroppo.
«E tu? Vuoi sul serio perderti il Ballo d’inverno solo perché credi di essere sola?», lo sentii domandarmi, mentre mi spiava con le sopracciglia abbassate nell’attesa di una mia risposta. «Perché non lo sei, Harry. Io non lo permetterei mai».
«Stiamo davvero per compiere una pazzia del genere?», sospirai, sconfitta.
Sapevo benissimo che mai avrebbe cambiato idea. Scott McCall avrebbe sempre – in ogni caso – fatto qualunque cosa fosse in suo potere per aiutare le persone alle quali teneva. Ed io, fortunatamente, ero parte di queste.
«Ehi, ci andiamo da amici», mi redarguì dopo qualche tempo, strappandomi una sonora risata. «Non ci sto provando con te».
«Non ti offendere, ma non ci speravo minimamente».
Scott rise insieme a me e io scossi la testa. L’avrei messo nei guai, quello era certo, ma ero sicura del fatto che li avremo affrontati insieme. Come sempre.
«Allora ci stai?», mi chiese, porgendomi una mano che strinsi subito dopo, quasi senza nemmeno pensarci su.  
«Mettiamo su ufficialmente il club degli sfigati, uhm?».
Scott annuì, con una esagerata aria solenne che mi fece ridere ancor di più. Era una fortuna averlo accanto in quel momento di “rabbia cieca”.
«Io e te presidenti indiscussi. Per me è perfetto!».
 
Is this a dream or is it now? Is this a vision or normality I see before my eyes? 
I wonder why, I wonder how that it seems that the power’s getting stronger every day. 
I feel a strength, an inner fire,

but I’m scared I won’t be able to control it anymore 
 
L’indice tremolò in direzione del campanello della magione Carter e quando lo raggiunse, vi esercitò una leggera pressione seguita dal suono tipico di quando un ospite intende annunciare la sua presenza. Osservai tutta la scena dall’esterno, proprio come se non fossi io la ragazza che aveva appena suonato al campanello del nonno in cerca di aiuto. Per l’ennesima volta mi ritrovavo a dover visitare quella casa, per l’ennesima volta sentivo il nervosismo aumentare dentro me sempre di più. Fortuna che non fossi sola. Scott e Stiles erano con me, quel giovedì pomeriggio, e quando Thomas in persona venne ad aprire lo osservai scoccare un’occhiata confusa nella loro direzione.
«Ehi, nipotina», mi salutò poi con un sorriso che ricambiai a malapena, troppo tesa perché potessi agire in maniera naturale. «Vedo che stai coinvolgendo sempre più persone in questa cosa».
Thomas si spostò dall’ingresso quel tanto che bastava a permetterci di entrare ed io misi piede nella casa velocemente, evitando di alzare gli occhi al cielo, vagamente infastidita. Se voleva che mantenessi il segreto sui miei poteri aveva proprio sbagliato persona. Scott e Stiles erano miei amici e non avevo bisogno di nascondere loro nulla. Questo non significava però che mancassi completamente di discrezione.
«È tutto a posto: Scott è un amico», rassicurai, avanzando nel salotto affollato.
Mia nonna Sarah – moglie di Thomas, madre di Philip – e mio cugino Niall – fratello di Oriesta – occupavano lo stesso divano, quello di fronte all’enorme televisore al plasma sintonizzato su un canale di sport. Li salutai entrambi con un semplice cenno della mano. Poi continuai a parlare a Thomas.
«È a conoscenza del mio segreto proprio come lo sono io del suo».
«Scott, eh?», domandò ancora mio nonno, avvicinandosi a McCall con una mano tesa. «Io sono Thomas Carter».
«Scott McCall, signore. È un piacere conoscerla».
Bastò semplicemente che Scott ricambiasse la stretta di mio nonno perché un’intensa consapevolezza si accendesse nel fondo dei suoi occhi chiari. Lo osservai andare quasi in trance per un attimo e poi ritirare indietro la mano, come se si fosse scottato.
«Un licantropo», esalò infine, con un tono di voce che non compresi. «È per questo che sei qui?».
Non capii quella sua domanda, proprio come Scott, che si limitò a fissare Thomas con gli occhi sgranati. Scossi la testa, cercando di scacciare via dalla mente qualsiasi interrogativo estraneo alla missione. Non dovevo distrarmi, per nulla al mondo. Poteva esserci una vita in gioco.
«Noi…», cominciai dunque a dire, trovando subito obbligatoria una pausa per prendere coraggio. «stiamo cercando un amico. Vorrei rendermi utile».
«Un licantropo anche lui?».
«Sì».
«Non sapete dove si trova?». Mi limitai semplicemente a scuotere la testa. «E vuoi che ti aiuti a visualizzarlo?».
«Posso farlo, no?».
Già, perché il punto era proprio quello. Ne sarei stata in grado? Sarei stata in grado di trovare Derek e salvarlo? Valeva la pena provarci? I miei allenamenti sarebbero serviti a qualcosa? Ero piena di domande, paura, nervosismo e confusione. Sentivo che qualcosa dentro me stava cambiando: i miei poteri diventavano più forti ogni giorno che passava e mi sentivo piena di una forza del tutto nuova. Ma allo stesso tempo mi chiedevo se sarebbe bastata.
«Certo che puoi. Ma ne sei sicura?», fu l’unica domanda che mi pose Thomas, avvicinandosi a me con aria grave.
Credetti fosse perché temeva che non sarei riuscita a controllarlo e in fondo, sapevo che prima o poi le cose sarebbero sul serio potute andare così. Ma me ne fregai, per allora l’unica cosa importante davvero era trovare Derek: avrei potuto benissimo sopportare l’emicrania e qualsiasi altro effetto collaterale.
«Devo provarci», mormorai, col tono di voce più deciso che riuscii a metter su.
Allora non ci fu bisogno di aggiungere nient’altro. Thomas si limitò ad annuire convinto e poi mi fece cenno di seguirlo fino al tavolo che di solito occupavamo per i nostri allenamenti. Presi posto subito, trattenendo il respiro mentre Stiles e Scott si posizionavano alle mie spalle e Thomas mi si sedeva al fianco. Fino a quel momento c’eravamo allenati su cose stupide tipo: «Dimmi cosa sta facendo Walt in cucina» o «Come sarà il tempo domani?» ma quella volta c’era molto di più in ballo, e mi chiesi nuovamente se fossi pronta. .
«D’accordo, bambina», mormorò mio nonno, stringendomi una mano tra le sue. «Ormai hai capito come funziona. Chiudi gli occhi, respiri a fondo e ti concentri sulla persona che intendi visualizzare. Svuota la mente da qualsiasi tipo di pensiero, dedicati solo a…».
«Derek», sussurrai, con gli occhi serrati come da ordine e la mente più sgombra possibile.
Cercai di non distrarmi ma il rumore della sedia accanto a me che strisciava sul pavimento fece sì che aprissi gli occhi incuriosita, interrompendo la “trance”. Stiles prese posto di fianco a me e strinse tra le sue la mano che mio nonno aveva lasciato libera. Poi mi sorrise, mentre io lo ricambiavo e Thomas lo ammoniva con uno sguardo infastidito.
«Puoi farcela», furono le uniche parole che mi rivolse Stiles, e in quel momento sentii qualsiasi dubbio abbandonarmi.
Potevo farcela. Certo. Non ci fu bisogno che mio nonno aggiungesse nient’altro: mi limitai a chiudere gli occhi e focalizzare nuovamente tutta la mia attenzione solo ed esclusivamente su Derek. Ero pronta a visitare di nuovo quella specie di mondo onirico – potevo definirlo ancora così? – col quale stavo iniziando a prendere confidenza. E improvvisamente non fui più all’interno di casa Carter.
La prima cosa che sentii furono gli stralci di una conversazione telefonica, poi freddo. Nell’angusto corridoio in cui mi ritrovavo catapultata gocce d’acqua sporca colavano dal soffitto e s’infrangevano sul pavimento producendo un rumore spaventoso. Mi strinsi le braccia al petto mentre provavo ad avanzare nel buio, strizzando gli occhi inutilmente. Non so dire per quanto tempo camminai prima di raggiungere una porta, so solo che dopo un po’ mi ritrovai di fronte una grande maniglia di ferro arrugginito e capii subito che Derek fosse lì. La trascinai per aprirla, poi mi catapultai velocemente all’interno.
«Ehi…», fu infatti la prima cosa che dissi quando scoprii di avere ragione e Derek fu di fronte a me.
Non so dire esattamente cosa provai nel rivederlo, so solo che mi resi conto forse con un po’ di ritardo della situazione. Era a petto nudo – ma dai, che novità – con i polsi legati sulla testa e una sorta di apparecchio spaventoso collegato ai suoi addominali. La stanza nella quale l’avevo trovato era impregnata da un cattivo odore ma era anche stranamente vuota. Avrei potuto chiedergli di tutto ma evitai.
«Harry? Come…», provò a dire Derek, rendendo ancor più evidente la sua sofferenza. «Stai usando i tuoi poteri?».
Annuii, riprendendomi dal momentaneo smarrimento mentre avanzavo velocemente nella sua direzione.
«Credevi non ti avremmo cercato?», domandai, cercando di capire cosa gli stessero facendo mentre esaminavo con attenzione i fili collegati al suo corpo.
«Potrebbe essere pericoloso!».
Tipico.
«Smettila di borbottare sempre», sbuffai, alzando gli occhi al cielo mentre esaminavo l’unica macchina collegata a Derek, senza capire. «Sei molto più carino quando parli solo per dire cose utili. E a questo proposito: cosa ti stanno facendo?».
«È Kate».
Oh. Mi morsi il labbro, avanzando nuovamente nella sua direzione con le braccia incrociate al petto. Non avevo molto tempo da trascorrere lì: iniziavo già a sentirmi stanca e le forze mi stavano abbandonando, ma dovevo cercare di capire quante più cose possibili.
«Cosa vuole da te?».
«Trovare Scott, e l’alpha».
«Non le hai detto nulla, vero?», chiesi subito, preoccupata. Derek scosse la testa. «Dove ti trovi? Non riesco a vedere il posto. Devi dirmelo, Derek. Verrò con Scott e Stiles e ti tireremo fuori di qui. Ma devi parlarmi».
Compii un altro passo nella sua direzione, catturandone lo sguardo chiaro nel momento in cui Derek provò a deviare il mio. Gli sollevai il viso con due dita e lo costrinsi a guardarmi: solo allora mi resi conto dell’espressione sofferente che avesse messo su. E sussultai, sorpresa. Non l’avevo mai visto così… distrutto.
«Io non lo so. Non mi ricordo nulla».
Ma certo. Ecco perché non riuscivo a visualizzare il posto, per quanto mi sforzassi. Stavo provando ad appigliarmi ai ricordi di Derek, ma lui non ne aveva alcuno. Mi allontanai di poco dal suo corpo, annuendo mentre cercavo di mantenere la calma.
«D’accordo. D’accordo, troverò un altro modo. Ti porteremo a casa», stabilii, provando – inutilmente – a rassicurarlo, mentre iniziavo a sentirmi sempre più debole.
«Non dovete venire. Non dovete venire!».
«Cosa diavolo dici? Lo sai che…».
«Harry, no! Kate ha capito! Sa che è Scott il beta a cui dare la caccia. È una trappola».
Inorridii immediatamente, senza potermelo impedire. Derek le aveva detto tutto? Non ebbi tempo di chiederglielo, né riuscii a domandargli perché mi avesse mentito. Semplicemente il contatto s’interruppe bruscamente come al solito e ritornai alla realtà con un sussulto. Immediatamente gli occhi di mio nonno e Stiles mi furono addosso. Ma nessuno mi chiese niente, semplicemente le loro strette sulle mie mani si rafforzarono un po’ di più. Fui io a parlare non appena vidi Scott.  
«Kate ha Derek. Se vai a liberarlo catturerà anche te».

 
It can’t be all coincidence, 
too many things are evident. 
You tell me you’re an unbeliever,  
but wouldn’t you like to know the truth? 
 
Strizzai gli occhi cercando di aguzzare la vista e mi specchiai al meglio che potevo nella superficie riflettente di fronte a me. Sistemai i capelli dietro le orecchie, analizzai il vestito in raso bluette alla ricerca di qualsiasi imperfezione e ruotai di novanta gradi a destra per potermi osservare di profilo. Ritornai dritta solo per poter sollevare i capelli sulla testa e avere un’anteprima di come sarei stata con l’acconciatura che avevo intenzione di fare. Non era niente di speciale, proprio come l’abito che indossavo: io e Scott l’avevamo scelto insieme e non avrei potuto esserne più soddisfatta.
Sorrisi al mio riflesso e poi lasciai ricadere i capelli sulle spalle, facendomi lontana dallo specchio alla ricerca delle scarpe – anch’esse piuttosto semplici: non c’era certo bisogno di strafare. Raggiunsi l’armadio in legno chiaro e feci per piegarmi sulle gambe: avevo posto la scatola con le nuove decolletè scelte insieme a Scott nell’ultimo cassetto, quello più in basso. Tuttavia, prima ancora che riuscissi a raggiungerlo, sentii dei passi affrettati farsi sempre più vicini e prima che me ne potessi rendere conto pienamente, Stiles si catapultò nella mia stanza.
«Harry?», chiamò velocemente, facendomi subito scattare in piedi.
Mi ritrovai di fronte a lui con un’espressione vagamente sorpresa in volto, ed entrambi ci prendemmo un po’ di tempo per osservarci a vicenda.
Poi: «Wow», mormorammo in contemporanea, poco prima di scoppiare a ridere.
«Wow davvero», aggiunsi solo quando fui riuscita a calmarmi.
Quella sera, Stiles era… indescrivibile. Era la prima volta che lo vedevo vestito in un determinato modo ed era perfetto. Non avrei mai potuto essere più invidiosa di Lydia di come lo fui in quel momento.
Stiles rise ancora, annuì e mi riservò l’ennesima profonda occhiata sotto la quale quasi mi sentii arrossire.
«Sei bellissima», disse poi, avvicinandomisi mentre io andavo letteralmente a fuoco.
«Grazie», pigolai, donando una veloce occhiata alla moquette sul pavimento pur di evitare lo sguardo di Stiles. «Nemmeno tu te la passi male, stasera».
Sbuffò vagamente divertito e fu solo allora che cercai il suo viso. Lo vidi scuotere la testa e poi tornare a fissarmi mentre sorrideva.  
«Di sicuro starei meglio se riuscissi a mettere la cravatta», mormorò, e solo in quel momento notai che ne stringesse una tra le dita. Me la porse, chiedendo: «Mi dai una mano?».
Ovviamente non ci pensai nemmeno un po’ su. Gliela sfilai dalle dita e la passai sotto il colletto della camicia di Stiles, sperando di ricordare come si facesse un nodo ordinato. Qualche volta avevo aiutato i miei amici ma quella di annodare cravatte non era certo la mia vocazione.
«Quindi…», esordì Stiles, mentre io me ne stavo concentrata e in religioso silenzio. «verrai al ballo da sola?».
«No», sorrisi, sollevando gli occhi verso i suoi. «Scott mi ha chiesto di accompagnarlo. Avrò un cavaliere. Impegnato a nascondersi da Finstock, ma ce l’avrò».
L’espressione di Stiles si fece improvvisamente buia e senza che nemmeno avesse parlato già sapevo cosa mi avrebbe detto. Di conseguenza, mi rabbuiai anch’io. Avrei preferito non affrontare l’argomento.
«Harry, mi dispiace. Volevo chiederlo a te», disse infatti, mentre sentivo perfettamente il cuore incrinarsi un po’.
«Scherzi? Da quanto ti piace Lydia? È la tua occasione», fu tutto ciò che dissi, sperando che sia il mio tono di voce che il sorriso finto che improvvisai potessero risultare almeno agli occhi di Stiles, sinceri.
Dentro mi sentivo morire ma lui non avrebbe dovuto saperlo: volevo che si godesse quella serata, perché se la meritava. Si meritava le attenzioni di Lydia e si meritava di essere felice. Prima di lasciargli un bacio veloce sulla guancia, gli sorrisi. Poi ritornai a lavoro sulla cravatta, come se niente fosse.
«Sì, ma…», provò ancora a dire lui, ma subito lo zittii.
Non potevo sopportare oltre.
«La smetti? Staremo comunque insieme».
«Quello sempre».
Sorrise ed io lo ricambiai solo quando ebbi finito di annodargli la cravatta. Non credevo sarei stata in grado di riuscirci ma quando mi resi conto di avercela fatta, mi sentii davvero fiera di me stessa.
«Okay, sono pronto. Alleluia. Grazie, Harry!», esclamò Stiles, sorridendo prima di scappare dopo un ultimo: «Non so che farei senza di te!».
Scoppiai a ridere veramente felice, poi ritornai alla ricerca delle mie decolletè nuove. Prima che però potessi infilarle, Stiles ritornò nella mia stanza.
«Ti serve un passaggio?».
Scossi la testa.
«Non preoccuparti. Scott sarà qui a momenti». Occhiata stranita da parte di Stiles. «Convincerà Melissa a lasciargli l’auto».
«Oh», boccheggiò, mentre anch’io ero finalmente pronta. «Perfetto, allora ci vediamo là?».
«Certo», sorrisi.
«D’accordo. Okay. Devo… devo andare a prendere Lydia. Sono in ritardo».
Trattenni l’ennesima risata divertita, limitandomi ad annuire. Era nervoso.
«Stiles?», lo richiamai prima che potesse sparire per l’ennesima volta.
«Sì?».
«Sta’ tranquillo. Andrà tutto bene». Speravo di riuscire a calmarlo almeno un po’. «Buona fortuna!».
Stiles mi sorrise sinceramente ed io lo ricambiai. Credetti che allora sarebbe andato via e invece mi stupì, facendo nuovamente retromarcia per tornare da me. Quando fu vicino abbastanza da poterlo fare, mi stampò un bacio veloce sulla fronte e poi mi sorrise ancora.  
«Sei un raggio di sole», trillò, guadagnandosi un’occhiata stranita da parte mia. «Non negarlo».
Non ne avevo intenzione.
 
Dal momento che l’unico sport che alla Beacon Hills High School venisse praticato seriamente era il lacrosse, sport per il quale veniva utilizzato il campo d’allenamento all’esterno, la palestra all’interno dell’istituto era davvero molto ma molto piccola – e soprattutto, poco utilizzata. In quel primo novembre dell’anno, mi ritrovai addirittura a pensare che se non fosse stato per il Ballo d’inverno, non ci avrei mai messo piede.
Ad ogni modo, gli organizzatori avevano fatto un ottimo lavoro. La scuola non era mai stata così unita dal divertimento e la piacevole musica di una cover band poco conosciuta risuonava per tutta la palestra. Finstock e gli altri professori scelti dal preside come “guardie” perlustravano il perimetro e tenevano d’occhio tutti per evitare che l’innocuo divertimento potesse degenerare in qualcosa di peggio.
Sia io che Scott li tenevamo d’occhio, muovendoci nell’ombra – aiutati dalle luci stroboscopiche capaci di annebbiare la vista, dalla massa di corpi dondolanti a ritmo di musica e da posizioni riparate – senza farci notare. C’eravamo presentati al ballo con un ritardo ben pianificato, attenti a non dare nell’occhio. Nessuno sapeva fossimo lì: solo Stiles. Avevamo passato tutta la sera a nasconderci da Allison, Lydia e Jackson ma avevamo tenuto d’occhio tutti i loro movimenti dagli spalti più alti della palestra. Eravamo al sicuro: avrei dovuto sentirmi tranquilla e magari provare a divertirmi. Ma non ci riuscivo.
«Non dovremmo essere qui», mormorai ad un certo punto, interrompendo il silenzio nel quale c’eravamo chiusi io e Scott poco prima di distogliere lo sguardo da Danny, accerchiato da due o tre ragazzi dei quali non conoscevo i nomi.
Evitai di voltarmi a cercare gli occhi scuri di McCall: mi limitai a guardare dritto di fronte a me, nel mare di corpi abbarbicati sull’improvvisata pista da ballo. Inutile dire chi stessi cercando.
«Credi che siamo troppo esposti?», domandò subito Scott, voltandosi a guardarmi. «In effetti è vero, ma questo è l’unico posto da cui riesco ad avere una buona visuale su Allison e…».
«Intendo qui a scuola», lo interruppi. «Kate sa che sei tu il beta. L’avrà sicuramente detto anche a Chris. Un’intera famiglia di cacciatori ti vuole morto e noi… siamo qui, al Ballo d’inverno? Come normali teenagers?».
Davvero non riuscivo a capacitarmene. Nell’attesa di una risposta da parte di Scott, sospirai pesantemente e riportai gli occhi sulla folla di persone al centro della palestra. Solo in quel momento individuai Stiles e Lydia: occupavano lo stesso tavolo in fondo alla sala e poco distanti da loro, se ne stavano tutti i nostri professori.
«È ciò che siamo, Harry», sussurrò Scott sorridendo, seppur debolmente. «Nonostante tutto».
Scossi la testa, mordendomi nervosamente l’interno guancia. Non lo eravamo affatto, dei normali teenagers. Nemmeno “nonostante tutto”. Quell’etichetta valeva per Stiles, Lydia, Jackson e Allison… ma io e Scott? Ne eravamo esclusi senza ombra di dubbio.
«Non voglio perderti».
«Non accadrà». Scott si sporse verso il mio viso, costringendomi a guardarlo. «Non stasera. Ci meritiamo di essere a questo ballo e di godercelo. D’accordo?».
Mi pose le mani sulle spalle scoperte nel vago tentativo di rassicurarmi ed io annuii subito, provando ad improvvisare un sorriso. Poi sfuggii nuovamente allo sguardo di Scott, fingendomi impegnata a sistemare una ciocca di capelli ribelli dietro le orecchie.
«Da domani riprendiamo a preoccuparci, però», ordinai dopo un po’ di tempo, arrendevole.
«Certo che sì, Comandante Carter».
Il saluto da soldato di Scott mi fece ridere sinceramente e capii che dovevo sul serio godermi quella serata. Perché sì, me la meritavo – come tutti – e nessuno ce l’avrebbe portata via tanto facilmente. Mentre il silenzio ritornava a farla da padrone, portai di nuovo gli occhi sulla folla di studenti intenti a ballare mentre lo sguardo di Scott si faceva perso e riuscivo finalmente ad individuare Jackson ed Allison.
Li osservai attentamente, preoccupata dall’espressione truce di lui e dall’improvviso nervosismo di Scott. La Argent sorrideva ma Jackson non provava nemmeno a ricambiarla. Aggrottai le sopracciglia, confusa. Mi voltai a guardare McCall per chiedergli spiegazioni ma prima ancora che potessi riuscirci, lui disse: «Non vuole ballare» e a me fu tutto subito chiaro. 
«Oh», fu l’unica cosa che riuscii a mormorare, spiazzata. «Se vuoi vado a farle compagnia».
Ma proprio in quel momento Jackson pose un braccio nella direzione di Allison per invitarla a ballare e Scott mi bloccò, incitandomi a prendere nuovamente posto di fianco a lui mentre mi sorrideva. Voleva fingersi felice ma ci stava riuscendo con scarsi risultati: potevo vedere in quel sorriso tutta la tristezza che solo qualche secondo dopo, nel vedere Stiles e Lydia unirsi alle danze, fece capolino sul mio volto.
«Ehi…», esordì Scott allora, voltandosi a guardarmi così velocemente che non ebbi tempo di inventarmi un’espressione meno afflitta. Aggrottò le sopracciglia, improvvisamente preoccupato. «Cos’hai?».
«Nulla. Va tutto bene. Ti prometto che non andrò più in paranoia», dissimulai seppur con scarsi risultati, portandomi una mano sul cuore. «Dobbiamo divertirci, no?».
Scott assottigliò gli occhi, per nulla convinto dal mare di bugie che gli stavo riversando addosso. Non ero mai stata brava a mentire.
«Harry», mi redarguì, quasi sibilando. «So che non è perché sei preoccupata per la mia incolumità. Si tratta di…».
Ma non completò la sua frase, limitandosi a ruotare la testa in direzione di Stiles e Lydia. Seguii il suo sguardo curiosa, ritrovandoli abbracciati sulla pista da ballo. Scott li indicò con un cenno del capo, ancor più convinto della sua tesi quando mi vide nuovamente afflitta. Sentivo come se una mano invisibile mi stesse stringendo il cuore in una morsa e deglutii, oramai allo scoperto.
«Sono felice per Stiles».
«Come lo sono io per Allison».
«Non…», provai a giustificarmi ancora, fissando Scott con gli occhi sgranati. Ma rinunciai subito, sospirando. «È diverso. Più complicato».
Scott aggrottò le sopracciglia, pensieroso.
«Solo perché Stiles non sembra avere idea di ciò che provi per lui?», domandò dopo attimi di silenzio. Ovviamente non voleva una mia risposta. «Lo ammetto, non ce l’avevo neanch’io. Ho iniziato ad immaginarlo solo l’altro giorno, quand’eravamo al centro commerciale». 
Nonostante l’aver realizzato solo in quel momento quanto mi fossi esposta pur senza volerlo, non potei fare a meno di sbuffare divertita.
«Siete uomini», mormorai poi, scuotendo la testa mentre Scott mi dava ragione, sorridendo e annuendo. «Capite tutto troppo tardi». 
«Dovresti dirglielo», mi spiegò dopo che il silenzio fu calato su di noi ancora una volta, quasi sussurrando. «Provaci, no? In fondo Stiles ti vuole bene».
Sorrisi amaramente. Certo che mi voleva bene. Ed era proprio quello il problema. Mi voleva bene.
«È pazzo di Lydia dalle elementari».
«Non la aspetterà in eterno».
Improvvisamente boccheggiai, incapace di replicare in qualsiasi modo. Sentii quasi il respiro mancarmi e mentre un mix di emozioni contrastanti s’agitava dentro me, ci fu solo un ennesimo attimo di silenzio tra me e Scott prima che scoppiasse il finimondo. Dopo quasi un’intera serata di nascondigli e sotterfugi, infatti, capimmo che la pace fosse durata anche troppo.
«Oh mio Dio, Scott, corri!», esclamai, mettendomi velocemente in piedi nel momento in cui osservai Finstock prendere a muoversi nella nostra direzione.
Era totalmente impazzito: urlava frasi sconnesse e si muoveva a grandi falcate verso gli spalti sui quali eravamo seduti io e Scott – fortuna che l’immensa folla di studenti lo rallentasse e non poco. Scott seguì subito il mio consiglio e in men che non si dica lo osservai sparire mentre anch’io cercavo di rendermi utile, mettendomi all’inseguimento di Finstock per provare a distrarlo. Non fu facile farlo su un paio di tacco dodici ma perlomeno ci provai. Fallendo, ma ci provai.
«McCall! Si può sapere… si può sapere che fai?».
Di fronte alle urla del professore di educazione fisica ed economia, il canto della cover band s’interruppe improvvisamente e un silenzio innaturale riempì la palestra, mentre tutti gli studenti nel raggio di dieci metri si voltavano a fissare Bobby Finstock con sguardi stralunati. Io mi piegai sulle ginocchia solo una volta giunta accanto ad Allison, bellissima nel suo abito di raso grigio perla. Avevo il fiatone e i piedi dolevano per l’inutile corsa. Ero in ritardo.
«Sì, coach?», domandò Scott con estrema nonchalance, stringendosi a Danny un po’ di più mentre sia io che Allison trattenevamo a malapena una risata.
Inutile dire che l’imbarazzo dell’allenatore della squadra di lacrosse raggiunse immediatamente livelli stratosferici. Mentre Scott continuava con la sua recita, aiutato da un inconsapevole Danny, Finstock prese a balbettare cose senza senso e si lasciò andare a lunghissime risate nervose nella speranza di rimediare a quella che sembrava una gaffe in piena regola.
«Ballate, forza! È un ballo! È una festa!», sbottò infine scocciato, senza più provare a giustificarsi.
Poi si defilò, lasciando in pace Scott che promise a Danny di ripagarlo con un favore e si diresse poi nella direzione in cui eravamo io ed Allison. La musica riprese e così anche le danze: Scott sorrise ad Allison e lei, senza bisogno di parole, capì già cos’avesse in mente.
«Sì, mi piacerebbe ballare con te», mormorò, provando inutilmente a trattenere un sorriso felice.
Scott di tutta risposta le afferrò una mano, trascinandola al centro della pista da ballo mentre io li osservavo con un’espressione soddisfatta. Li invidiavo molto ma allo stesso tempo ero felice per loro. Quando McCall si voltò un’ultima volta a guardarmi gli sorrisi ampiamente, sollevando i pollici in alto in segno di approvazione. Lui si limitò a scuotere la testa divertito, poi mimò: «Va’ a ballare con Stiles» ed io ubbidii più che volentieri.
 
«Posso rubarti un attimo il cavaliere?».
Mi feci vicina a Lydia e Stiles nella più perfetta imitazione di fierezza che riuscii a metter su. Dentro provavo profondo imbarazzo e avrei voluto farmi piccola piccola sotto lo sguardo verdissimo di Lydia e la figura di Stiles, ma continuavo a ripetermi che dovevo dimostrarmi decisa. Perché anch’io meritavo di essere felice, quella sera, e la mia felicità era Stiles.
«Certo».
Lydia si limitò a sorridermi annuendo ed io rilassai la mia posizione tronfia composta da petto in fuori e mento all’insù. Ricambiai il suo sorriso mentre la vedevo allontanarsi da Stiles con un semplice cenno della testa, prima che sparisse diretta chissà dove. Avevo aspettato di poter ballare con Stiles per tutta la sera, eppure quando fummo rimasti finalmente soli, non seppi più che fare.
«Ehilà», mi richiamò proprio lui, cercando di attirare la mia attenzione – completamente persa chissà dove – mentre mi sorrideva prendendo le mie mani tra le sue.
«Ciao», replicai allora, improvvisamente più tranquilla mentre avanzavo nella sua direzione di un passo e mi stringevo a lui. «Ti stai divertendo?».
Stiles si limitò ad annuire contro i miei capelli, stringendomi le mani alla base dei fianchi mentre io passavo le mie attorno al suo collo. Poggiai il mento sulla sua spalla sinistra e semplicemente prendemmo a dondolare sul posto. Non ero mai stata una gran ballerina e il lento che la cover band stava improvvisando mi diede perfettamente occasione di dissimulare.
«Come non mai. Tu?».
Annuii, sorridendo.
«A dire il vero all’inizio ero troppo nervosa per riuscirci, ma per fortuna Scott mi ha fatto capire quanto sia importante cogliere l’attimo».
Qualcosa si fermò, lo avvertii subito e distintamente. Quasi trattenni il fiato, chiedendomi spaventata se non avessi detto o fatto qualcosa di male. Stiles mosse le dita sui miei fianchi, sul tessuto blu del mio abito, impercettibilmente, e solo dopo parlò, forte del fatto che non lo guardassi in viso.
«Non ti piace Scott, vero?», mi chiese, mentre provavo con tutte le mie forze a trattenere una risata.
Era gelosia, quella? Era davvero preoccupato che potesse interessarmi Scott? Il suo migliore amico? Mi feci lontana – vagamente controvoglia – dal nostro abbraccio, solo per riservare a Stiles uno sguardo stranito, completo di sopracciglia aggrottate.
«No. Come ti viene in mente?».
«Lascia stare», si limitò a commentare Stiles, facendo spallucce. «Chiedevo».
Mi morsi l’interno guancia, decidendo di lasciar perdere, evitando di infierire. Trattenni un risolino appagato e abbracciai Stiles nuovamente poco prima di riprendere a muovermi a tempo di musica, con un enorme sorriso soddisfatto a piegarmi le labbra.
Dopo qualche tempo, però, le parole di Scott mi tornarono alla mente. Provaci, no? In fondo Stiles è geloso di te. Aggrottai le sopracciglia. No, Scott non aveva sul serio detto così. Trattenni un sospiro nervoso, stringendomi maggiormente a Stiles. Perché mi stavo perdendo in quei pensieri inutili? Meglio agire, no?
«Stiles…», mormorai allora, piena di un coraggio che nemmeno sapevo di possedere. «c’è una cosa che vorrei dirti».
Nervosissima, strinsi maggiormente le dita sulla camicia di Stiles e aspettai che mi rispondesse. Speravo lo facesse perché mi serviva una sua “spinta” e sapevo che solo sentire il suono della sua voce sarebbe riuscito ad aiutarmi almeno un po’. Poi realizzai sul serio cosa stavo per fare. Stavo davvero per dichiararmi a qualcuno, per la prima volta in sedici anni di vita?
«Dimmi», disse Stiles, e quello fu un po’ come il mio via.
«Io… non so come spiegartelo», deglutii, cercando – con chissà quale coraggio – gli occhi di Stiles. Peccato che distolsi lo sguardo dopo due secondi netti e lo ancorai al pavimento, spaventata. «È complicato. Non voglio rovinare tutto e… i cambiamenti in genere mi spaventano. Ma…».
Non riuscii a proseguire. Fu come se mi venisse sferrato un pugno in pieno stomaco senza preavviso alcuno. Subito il fiato mi venne a mancare e indietreggiai mentre mi portavo una mano alla tempia: la mia emicrania, di colpo, era forte come non mai e non riuscivo più a distinguere il mondo di fronte ai miei occhi. A malapena vedevo Stiles avanzare nella mia direzione – preoccupato – e la mia mano stretta al suo braccio: avevo paura di poter cadere.
Poi non vidi più niente. La mia retina si riempì di nero e fu solo dopo diversi sforzi che capii. Stavo avendo una visione. Jackson Whittemore barcollava all’esterno della Beacon Hills High School con una bottiglia di whiskey vuota tra le dita: aveva i sensi annebbiati dall’alcool e a malapena distingueva i contorni delle figure sulle quali posava gli occhi. Era confuso almeno tanto quanto me ma una cosa la capimmo subito benissimo entrambi: riconoscemmo senza nemmeno doverci impegnare il paio di occhi rossi che si muovevano fulminei nell’ombra del bosco antistante la scuola.
Fu solo nel momento in cui Jackson prese ad avanzare in direzione del pericolo che la visione sparì com’era arrivata e mi ritrovai di nuovo di fronte a Stiles. Lui mi aveva parlato tutto il tempo, preoccupato senza poterlo mostrare al mondo intero. Bastò semplicemente che mi rendessi conto della sua figura intenta a reggermi perché mi tuffassi tra le sue braccia, ancora col respiro corto – scombussolata da quell’inaspettata quanto violenta visione.
«L’alpha è qui fuori, Jackson gli si sta avvicinando», soffiai semplicemente, dopo infiniti attimi passati a cullarmi tra le braccia di Stiles, con le sue mani che percorrevano la mia schiena e i flebili sussurri che proprio lui mi rivolgeva per tranquillizzarmi.
La pace era finita.
 
I don’t tell anyone about the way you hold my hand, I don’t tell anyone about the things that we have
planned. I won’t tell anybody, won’t tell anybody. They want to push me down,
they want to see you fall down. Won’t tell anybody how you turn my world around,
I won’t tell anyone how your voice is my favourite sound










 
Ed eccomi qui ancora una volta, pronta a scocciarvi con l'ennesimo lunghissimo capitolo di questa storiella che tra l'altro (dopo quasi un anno) si avvia pure al termine. Ormai siamo vicinissimi alla chiusura del sipario e ovviamente, come credo capiti a tutti, sono attentata da emozioni contrastanti. Se una parte di me non vede l'ora di liberarsi di parachute e dedicarsi ad altro dopo tutto il tempo passato praticamente solo su un'unica storia, c'è anche una parte di me che si chiede come sto andando e soprattutto: riuscirò a darvi tutte le risposte che cercate nel giro di due capitoli? Sono spaventata, sì, nemmeno fosse l'inizio.
Parlando di "due capitoli", be'... questo doveva essere ancora più lungo di così (ci doveva come minimo essere una scena in più) ma mi sono resa conto subito di quanto sarebbe risultato noioso e ho deciso di tagliarlo. Non vi preoccupate, comunque, perché tutto ciò che avevo intenzione di far succedere qui lo ritroverete nel diciannovesimo. Quello tra l'altro dovrebbe essere quello conclusivo, conto di utilizzarne un altro solo come epilogo ma a dire il vero non si sa mai. Devo ancora plottare il tutto, quindi immagino che vi terrò informate su fb (aggiungetemi senza paura, lo ripeterò fino allo sfinimento).
Intanto, che ne pensate di questo capitolo? Allison finalmente mette da parte l'orgoglio e si precipita da Harry, subito dopo aver scoperto la verità sugli Argent e su ciò che fanno. Le ha raccontato tutto e Harriet avrebbe voluto fare altrettanto coi suoi poteri ma non l'ha fatto. Dunque Allison crede che sia una semplice teenager proprio come lei (più o meno). Dato che ho deciso di saltare il confronto Hallison, ci tenevo a specificare la cosa. Le canzoni citate nel capitolo sono, in ordine: People like us - Kelly Clarkson, The Clairvoyant - Iron Maiden, Infinite dreams - Iron Maiden e Parachute - Cheryl Cole. Poi: lo Scarriet si butta, Harry e Lydia cominciano ad andare più d'accordo, ci sarà una bella chiacchierata Derriet e per quanto riguarda Stiles ed Harriet... be', ormai siamo quasi al punto di non ritorno! Cioè, lei stava per dirgli tutto, vorrei farvi notare... non fosse stato per quella visione... Poi nel prossimo capitolo Harry farà anche una cosina che la "scoprirà", quindi...
Niente, non voglio spoilerare più di così e mi limito a svolazzare via. Spero che questo capitolo possa piacervi perché è stato un parto scriverlo e sarebbe davvero una bella soddisfazione. Grazie a tutte ancora una volta, per ogni minima cosa. Se non fosse per ognuna di voi, parachute non esisterebbe (o comunque non sarebbe arrivata fin qui). Grazie, grazie, grazie, grazie! Alla prossima,
hell

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Capitolo 19
*** Resa dei conti. ***


parachute
 
 
 
 
19.  Resa dei conti.
 
 
Fu come se il tempo si fermasse all’improvviso ed io e Stiles finissimo, quasi senza nemmeno volerlo, in un vortice di buio silenzio e momentaneo smarrimento. Non importava, infatti, che la stragrande quantità di ragazzi attorno a noi fosse intenta a ballare a ritmo di musica – il tempo dei lenti era già finito, ahimè – dimenandosi sull’improvvisata pista da ballo senza notare affatto né noi due né la nostra immensa preoccupazione: intorno a me e Stiles c’era solo silenzio. E paura.
Fu con immensa calma che mi feci lontana dal suo corpo e cercai i suoi occhi, nell’attesa di una risposta che potesse tirarci fuori da quel baratro. Quello era il punto di non ritorno, lo sapevamo benissimo entrambi. La resa dei conti, la grande battaglia, il posizionamento dei tasselli più importanti del mosaico che – inutilmente – da mesi provavamo a costruire. Stiles ricambiò il mio sguardo, immobilizzato, e solo quando notò la mia espressione indecifrabile decise di parlare. Fu come ritornare a vivere.
«Dobbiamo andare da Jackson», stabilì, ed io annuii subito, consapevole che non ci fosse nient’altro di meglio da fare.
Certo che dovevamo andare da Jackson: dovevamo aiutarlo. Per quanto non fosse un nostro grandissimo amico o una persona che mai aveva dimostrato di meritare aiuto e compassione, di certo non meritava di morire per mano di un alpha sanguinario né di essere morso e trasformato in un licantropo. Non importava quanto Jackson lo volesse: sbagliava. Io e Stiles lo sapevamo bene: ecco perché, mano nella mano, ci avviammo a passo spedito verso l’uscita della palestra. Pronti a combattere una guerra molto più grande di noi. 
«Aspetta!», esclamai però ad un certo punto, stringendo la mano di Stiles quanto bastava ad arrestare anche la sua camminata. «E Lydia?».
Era incredibile come riuscissi a rimanere lucida e concentrata di fronte a certe situazioni e mi complimentai subito con me stessa. Ci trovavamo ad un passo dal portellone d’emergenza della palestra e la musica già arrivava ovattata alle nostre orecchie, segno del pacifico silenzio nel quale ci saremmo immersi una volta attraversata la porta. Stiles si fermò e si voltò a guardarmi con un’espressione vagamente sorpresa. Possibile che lui non avesse pensato a Lydia?
«Sta cercando Jackson», stabilì infine, prima di riafferrarmi la mano e prendere a camminare in direzione dell’uscita.
Sperai che avesse ragione, che la conoscesse abbastanza da riuscire a prevedere dove fosse finita la Martin quando s’era defilata perché io e Stiles potessimo ballare insieme. Lo sperai con tutte le mie forze mentre mi sentivo stanca e dolorante ogni minuto che passava un po’ di più. Continuai a pregare avesse ragione anche mentre le luci laser rosse di un paio di fucili mi riempivano gli occhi, Jackson si accasciava a terra implorando di ottenere un potere che era stato concesso – per un tragico scherzo del destino – solo a Scott, e Chris Argent spuntava dal buio del bosco col solito sorriso malefico in volto. Rabbrividii, sperando Stiles non se ne accorgesse. Non gli dissi nulla di quelle visioni fulminee né di ciò che sentii e vidi dopo. Semplicemente continuai a seguirlo, fuori dal mondo.
«Prometta che non gli farà del male», pregò Jackson, donando a Chris Argent uno sguardo vagamente spaurito.
Lui di tutta risposta si limitò a sorridergli accomodante, stringendo un po’ di più il braccio attorno alle sue spalle.
«Ma certo, è solo un ragazzo», lo rassicurò, mentre io mi sentivo morire.
Chris sapeva di Scott. Jackson gliel’aveva detto. Non Kate. Jackson.
«Che cosa gli farà?».
A quella domanda, scoppiai a piangere. Stupido. Ingenuo. Infantile. Lo volevo morto. Come lo sarebbe stato Scott alla fine di quella serata. Sempre se non avessi fatto qualcosa di pazzesco per impedirlo.
«Mi occuperò della cosa. Ora torna al ballo, Jackson. Sta’ con i tuoi amici, sii normale».
Jackson si limitò ad annuire. Quando Chris lo liberò dalla stretta sulle sue spalle, ci mancò poco che non prendesse a correre – spaventato – verso scuola. L’ultima cosa che vidi prima di tornare alla dolorosa realtà fu il sorriso soddisfatto di Chris. Stava vincendo lui.
Stiles si voltò a guardarmi solo allora e il mio viso pieno di lacrime lo costrinse a fermare la sua camminata ancora una volta. Eravamo finalmente giunti all’esterno della palestra ma eravamo fermi nell’immenso corridoio portante alle varie aule dell’istituto. Ancora mancava un po’ per poter raggiungere l’esterno. Provò a chiedermi qualcosa, mi strinse le mani sulle guance bagnate e cercò i miei occhi nell’attesa di una risposta. Lo ignorai, scombussolata come al solito, incapace di parlare. Come gliel’avrei detto?
Tutto riprese solo nel momento in cui vidi Jackson avanzare nella nostra direzione. Lui non ci aveva visti ma io lo individuai subito, traballante giù per l’anonimo corridoio della Beacon Hills High School, con lo sguardo chino tipico di chi è colpevole. Mi liberai dalla presa di Stiles con uno strattone e presi a correre – per quanto le decolletè me lo permettessero – nella direzione di Jackson. Lo schianto fu violento e, per lui, inaspettato. Gli arrivai addosso con una potenza che mai mi sarei aspettata di possedere, spintonandolo all’indietro con entrambe le mani premute sul suo petto. Jackson alzò gli occhi terrorizzati verso di me, solo per trovarmi furiosa e in lacrime di fronte a sé.
«Che cosa hai fatto?», urlai, avanzando nuovamente nella sua direzione mentre Jackson di conseguenza indietreggiava.
Stiles ci raggiunse quando fui quasi sul punto di avventarmi nuovamente su Jackson, bloccando la mia ira semplicemente afferrandomi entrambe le braccia e trattenendomi ferma. Mi dimenai per un po’ tra la sua stretta, almeno finché Stiles non mi disse: «Calma! Si può sapere che ti prende?».
Solo allora mi tranquillizzai, smettendo di agitarmi come un pesce fuor d’acqua. Jackson se ne stava di fronte a noi, a fissarci con gli occhi sgranati tipici di chi non ha idea di cosa stia succedendo sul serio. E davvero non lo sapeva. Non sapeva i guai in cui si era appena cacciato.
«Gli ha detto tutto», mormorai, così piano che a malapena mi udii.
Indicai Jackson con un gesto stanco e Stiles mosse gli occhi da lui a me, ripetutamente e confuso.
«A Chris», spiegai allora, nella speranza di fargli capire tutto. Ma Stiles continuava a lanciare occhiate stralunate da Jackson a me e ritorno, nemmeno stesse seguendo un’incomprensibile partita di tennis. «Di Scott».
Di nuovo cadde il silenzio e il tempo sembrò fermarsi un’altra volta ancora. Gli occhi azzurri di Jackson si sgranarono ancor di più mentre li puntava su di me, sorpreso. Se solo fossi già stata in grado di leggere la sua mente sono certa che ci avrei visto una domanda posta ripetutamente a chissà chi. Come fa lei a saperlo?
«Morirà», fu l’unica cosa che Stiles riuscì a dire, con lo sguardo perso nel vuoto.
Non potei far altro che annuire, sofferente.
«Dobbiamo portarlo via da qui».
«Una cosa alla volta», osservò Stiles, dandomi ragione.
Poi velocemente si voltò a fronteggiare Jackson.
«Dov’è Lydia?», gli domandò, e Whittemore non poté far altro che scrollare le spalle.
Era inutile.
«Riesci a vederla?».
Quella domanda mi lasciò spaesata solo per un attimo. Poi, in modo maturo, decisi di non perdere ulteriore tempo e provai a concentrarmi sulla figura di Lydia. Me la immaginai sola e spaventata, persa chissà dove. Strizzai gli occhi ancor di più, cercando di allontanare dalla mia mente l’immagine delle iridi chiare di Jackson puntate sulla mia figura. Non riusciva a capire ma sapeva, ormai, del mio essere… qualcosa.
Fu solo un flash, un miracolo. All’improvviso tutto sparì e nella mia testa ci fu solo Lydia, perfetta nel vestito in raso bianco, sola al centro del buio campo da lacrosse all’esterno della Beacon Hills High School. La voce le tremava mentre chiamava Jackson e per poco mi trattenni dal ringhiare. Tutta colpa sua, per l’ennesima volta. Ma qualsiasi mia imprecazione mi si mozzò in gola nel momento in cui la sagoma di Peter prese ad avanzare verso Lydia. E aprii gli occhi di scatto, terrorizzata.
«È al campo da lacrosse. Peter è lì», mormorai, col fiato corto e gli occhi sgranati. Afferrai un braccio di Stiles. «Devi correre da lei. D’accordo? Salvala».
Fu solo allora che mi presi del tempo per osservare attentamente il suo viso e ci vidi la sorpresa e la paura crescere drasticamente. Mi sentii male per lui mentre ricambiava debolmente la mia stretta e, dopo aver boccheggiato un po’ alla ricerca di parole, esordiva con un: «Non voglio lasciarti sola!».
Scossi la testa ripetutamente, cercando di farlo ragionare.
«Lydia morirà!».
Bastò che pronunciassi quelle due parole. Stiles sembrò immediatamente capire la gravità della situazione e l’espressione terrorizzata sul suo viso si pietrificò. Ancora una volta sentii il cuore stretto in una morsa. Per quanto poco fossero adeguati pensieri del genere in quel momento, capii come i sentimenti di Stiles per Lydia fossero così puri che mai sarebbero cambiati del tutto. Avrebbe sempre tenuto a lei e sofferto in caso fosse morta. Era giusto così.
Mi ripresi dal mio momento di tristezza acuta solo alle parole di Stiles, di fronte ai suoi ordini sussurrati di trovare Scott e portarlo in salvo. Di mettermi al sicuro. Annuii distratta mentre gli riservavo un’ultima occhiata appannata dalle lacrime, poi Stiles lasciò che la mia presa sul suo braccio si allentasse fino a sparire e fece per correre da Lydia.
Fu solo allora che ripresi a vivere, e ritornai cosciente sul serio. Sbattei le palpebre ripetutamente, ancora confusa da ciò che sul serio stava accadendo, e prima che potessi veramente rendermene conto avevo afferrato nuovamente il braccio di Stiles e fermato la sua corsa. Lui si voltò a guardarmi con un’espressione interrogativa in volto e per un attimo, sotto i suoi grandissimi e sorpresi occhi nocciola, mi posi la domanda che sapevo avrebbe voluto farmi lui. Perché l’ho fermato?
Trovai la risposta sulle labbra di Stiles. Semplicemente lo baciai così, d’impeto, proprio come avrei voluto fare fin troppe volte in quei due mesi. Presi quasi la rincorsa verso il suo viso, annullai la poca distanza che ancora ci divideva e mi godetti il momento proprio come se non ci fosse un domani. Assaporai le sue labbra, perché lo volevo disperatamente e perché finalmente ero riuscita a spegnere il cervello e seguire l’istinto. Mai niente eguaglierà la sensazione delle labbra di Stiles sulle mie, il sentirlo cauto e sorpreso contro di me pochi secondi prima che reagisse d’impeto anche lui, ricambiando il mio bacio. 
«Va’…», fu l’unica cosa che sussurrai quando infine mi feci lontana dalle sue labbra, col fiato corto e le mani che senza nemmeno accorgermene avevo fatto correre fin sul collo di Stiles.
Gli indicai con un cenno del capo la direzione verso la quale aveva fatto per avviarsi prima che lo fermassi e così facendo, senza volerlo, il mio naso sfiorò il suo e fu letteralmente la cosa più dolce dell’intero pianeta. Me ne resi conto solo molto tempo dopo, ma in tutti quegli attimi Stiles non distolse mai gli occhi dai miei. Passarono altri minuti prima che si decidesse ad annuire, segnalandomi che avesse capito. Poi semplicemente sfiorò le mie labbra ancora una volta e si fece lontano da me così velocemente che mi sentii inspiegabilmente e dolorosamente vuota.
Lo osservai mentre correva da Lydia, per salvarla com’era giusto che fosse, prendendo nuovamente coscienza di Jackson accanto a me e chiedendomi cos’avesse pensato nel vedere me e Stiles poco prima. Poi mi portai due dita alle labbra e finalmente realizzai sul serio cosa fosse successo. L’avevo baciato. Io.
 
I know I’d better stop trying, you know that there’s no denying:
I won’t show mercy on you, now.
I know I should stop believing, I know that there’s no retrieving:
it’s over, now. What have you done?
 
Per quanto mi sarebbe piaciuto poter scappare da tutto quel disastro per rifugiarmi a casa e passare l’intera notte a pensare al mio primo bacio con Stiles, capii fin da subito che non ne avrei avuto occasione. Comportarmi più o meno come avevo fatto solo due mesi prima, su per giù, quando dopo il mio primo vero appuntamento con Ryan ero riuscita a baciarlo, non mi sarebbe stato permesso. Dovevo continuare a combattere, correre e pregare. Cercare Scott, trovarlo e trascinarlo via da scuola prima che fosse troppo tardi. Ma McCall era introvabile e io come al solito in ritardo.
Quando lo individuai nel parcheggio degli scuolabus insieme ad Allison, infatti, non potei muovere mezzo passo nella loro direzione prima che due auto mi tagliassero la strada sgommando violentemente sull’asfalto. Capii subito cosa stesse succedendo, anche perché niente mi avrebbe mai tolto dalla mente il SUV rosso sangue di Chris Argent e l’espressione vittoriosa che gli si dipinse sul volto quando Scott fu intrappolato tra due scuolabus, la sua auto e quella di un altro cacciatore suo amico. Quella era la fine, ed io non potevo far altro che starmene a guardare col viso bagnato dalle lacrime e una mano premuta sulle labbra.
In quei pochi tipici attimi di calma prima della tempesta mi limitai ad alternare sguardi da Chris a Scott e Allison. Inutile dire che entrambi tradissero confusione ma se Allison proprio non riusciva a spiegarsi cosa stesse succedendo, i dubbi di Scott ormai continuavano a scemare sempre più. Finché non scomparirono del tutto e i due cacciatori premettero il piede sull’acceleratore con violenza. Non potei far altro che sobbalzare, capendo come avessero intenzione di agire. Così, dinanzi agli occhi di un’ignara Allison.
Smisi di temere per l’incolumità di Scott dopo un attimo, esattamente nel momento in cui lo vidi balzare in piedi sulle due auto ed Allison si scopriva le labbra, sgranando gli occhi. Com’era possibile che Scott si fosse salvato con una mossa del genere? Un’agilità così non era certo tipica di un umano. Potevo leggere milioni di domande di quel tipo sul suo viso dalla pelle chiara, proprio come vidi la paura prenderne il possesso nel momento in cui Scott – o meglio, ciò che diventava da trasformato – alzò il viso verso di lei al rallentatore, mostrandole un paio di brillanti occhi gialli e un animalesco viso distorto. 
Fu allora che corsi via, lontana da quel doloroso momento di stallo, poco prima che Scott decidesse di imitarmi. Mi sfilai le decolletè, incurante di poter rovinare i collant sfregandoli sull’asfalto e corsi più veloce che potei verso nemmeno io sapevo dove, coi piedi doloranti e il cuore distrutto tipico di chi non è riuscito a fare nulla per salvare le persone a cui tiene. Tipico di chi si sente inutile.
Alla fine furono delle urla ad attirare la mia attenzione. Interruppero improvvisamente l’odioso silenzio nel quale mi ritrovavo immersa – dopo la tempesta tornava comunque la calma – spaventandomi nuovamente e spingendomi a correre verso l’entrata di scuola. Ero sicura provenissero da lì e scoprii di non sbagliarmi quando capii il motivo di tutta quell’agitazione. Il ballo era ormai giunto al suo termine e gli studenti della Beacon Hills High School cominciavano a riversarsi all’esterno per tornare a casa: di certo non urlavano per la tristezza o l’euforia.
Jackson Whittemore avanzava verso di loro col corpo devastato di Lydia Martin tra le braccia, mentre tutti indietreggiavano spaventati e si lasciavano andare ad urla di terrore. Io stessa non riuscii a trattenere uno strillo ma decisi di fermarmi subito, ponendomi una mano sulle labbra mentre correvo in direzione di Jackson. Una sola domanda mi rimbombava nella mente: dov’è Stiles? Ma la scacciai alla vista del corpo sanguinante di Lydia.
«Dobbiamo chiamare un’ambulanza!», esclamai quando gli fui accanto e Jackson si limitò ad annuire mentre professori vari ci raggiungevano, tentando inutilmente di calmare gli animi.
Io nel frattempo telefonai subito al 911 e spiegai la situazione cercando di non far tremolare troppo la voce. I soccorsi arrivarono nel giro di dieci minuti scarsi ed io e Jackson li seguimmo al Beacon Hills Memorial Hospital con la sua Porsche metallizzata. Il tragitto fu strano e imbarazzante: il silenzio regnò sovrano per tutto il tempo e anche se lo volevo terribilmente, non osai chiedergli di Stiles. Avevo paura di una sua risposta.
Nel giro di un’ora Lydia venne visitata, medicata e ricoverata. Jackson non si scollò un attimo dalla vetrata attraverso la quale poteva tenere d’occhio la sua stanza mentre io continuai a gironzolare per tutto l’ospedale senza meta, provando inutilmente a chiamare Stiles più e più volte. Capii non ci fosse niente da fare alla ventitreesima telefonata, quando la linea telefonica cadde di nuovo e presi a ripetermi che fosse semplicemente perché avendo il cellulare in silenzioso Stiles non sentisse le mie chiamate. Perché, insomma, non poteva essere morto. Non lui.
Ritornai da Jackson nel momento esatto in cui Stephen, preda di un impeto non indifferente di rabbia, lo afferrava per le spalle costringendolo contro un muro. Era agitato perché le cose gli sfuggivano di mano sempre di più e si ritrovava a notte fonda con una sedicenne ferita quasi a morte e quello che ancora credeva essere il suo ragazzo che continuava a negare di saperne qualcosa di quella situazione.
«È la tua ragazza, è tua responsabilità!», lo sentii urlare a Jackson, mentre io – ancora una volta impotente – mi limitavo a fissare la scena da lontano.
«No. Non lo è, okay? Non è venuta al ballo con me!», replicò Whittemore e fu allora che impallidii, avanzando piano nella loro direzione con una nuova paura ad attanagliarmi le viscere.
Stiles rischiava di ritrovarsi in guai seri.
«Ci è andata con suo figlio», spiegò infatti Jackson quando Stephen, stupito, gli chiese il nome dell’accompagnatore di Lydia. «Stiles era con lei».
E allora mi immobilizzai a pochi passi dai due, con un’espressione sconvolta in viso che Stephen non si perse affatto. Lentamente lasciò andare Jackson e si voltò nella mia direzione trattenendo il fiato. Quando mi vide, mi puntò un dito contro e mi raggiunse.
«Io e te dobbiamo parlare».
Finché Stiles non si fosse fatto vivo, avrei dovuto tenere io lo Sceriffo a bada.
 
«Innanzitutto, cosa significa che Stiles è andato al Ballo d’inverno con Lydia Martin?».
Sospirai, scuotendo lievemente la testa e continuando imperterrita a tenere gli occhi fissi sul pavimento bianco dell’ospedale. Dopo aver letteralmente aggredito Jackson, Stephen aveva capito fosse il caso d’interrogare me e dunque eccoci lì, nel bel mezzo del Beacon Hills Memorial Hospital.
«Gliel’ha chiesto e lei ha detto sì», mormorai, stringendomi maggiormente nella felpa che Melissa McCall mi aveva prestato, insieme ad un comodissimo paio delle ciabatte che di solito facevano indossare ai pazienti dell’ospedale. «Anzi, no. Tecnicamente lei ha invitato lui».
Inutile dire che la sorpresa di Stephen crebbe ancor di più. Riposai la schiena contro la sedia in plastica sulla quale ero seduta e con la coda dell’occhio lo vidi sgranare gli occhi prima di prendere a straparlare. Gironzolò per qualche minuto intorno a me, gesticolando e mormorando strane cose tra sé e sé. Era stravolto e stanco proprio come tutti, e la cosa peggiore era che quella notte era appena iniziata.
«Credevo ci sareste andati insieme!», esclamò infine, riportando la sua attenzione su di me mentre mi raggiungeva e mi si sedeva al fianco.
Lo credevo anch’io, non potei fare a meno di pensare con un bel po’ di rammarico. Ma non lo dissi ad alta voce e mi limitai a scrollare le spalle.
«Io ci sono andata con Scott».
«Con… Scott?», pigolò Stephen, cercando il mio viso affinché la smettessi di rifuggire il suo sguardo. Sotto i suoi intensi occhi azzurri, non potei far altro che annuire. «Ma che vita amorosa incasinata avete, voi adolescenti d’oggi? Beautiful vi fa male!».
Mi ritrovai all’improvviso indecisa sul da farsi: piangere o ridere? Sì, insomma, la situazione aveva un che di comico a tratti ma d’altra parte credevo sarei stata benissimo anche senza il pungente sarcasmo che Stiles aveva senza dubbio ereditato dal padre. Che tra l’altro… aveva sul serio parlato di “vita amorosa”? Arrossii.
«Ad ogni modo. Eri con Lydia quando l’hanno ferita?».
«No», scossi la testa, distratta dai miei soliti imbarazzanti pensieri. «Nemmeno Stiles era con lei».
«Bene, e dov’era?».
«Con me. Al centro della pista da ballo. Abbiamo non pochi testimoni».
«Quindi avete ballato insieme…», mormorò Stephen con un tono di voce che non compresi, come se volesse rimarcare ancor di più la cosa. Stranita, mi limitai ad annuire. «mentre Lydia non era né con voi né con Jackson».
«Esatto».
«Ma allora con chi diavolo era?».
Prima ancora che potessi rispondere, un rumore piuttosto forte attirò la nostra attenzione e mi limitai a fare spallucce poco prima di voltarmi verso l’ascensore del piano. Quando Stiles ne uscì di corsa e si diresse verso me e Stephen, quasi faticai a trattenere l’emozione. Mi misi in piedi alla velocità della luce, correndogli incontro e stringendolo non appena ne fui in grado in un abbraccio strettissimo.
«Stavo morendo di paura», sussurrai, ma prima ancora che potessi aggiungere qualcos’altro o Stiles potesse anche solo provare a rispondermi, Stephen ci raggiunse ed io mi feci subito lontana da lui.
«È un bene che siamo in ospedale perché voglio ucciderti!», quasi urlò, facendomi sobbalzare per la paura.
«Scusa! Ho perso le chiavi della Jeep, sono venuto a piedi fino a qui», si giustificò immediatamente Stiles, sperando di calmare Stephen. Inutilmente. Poi si voltò a guardarmi brevemente e aggiunse: «E ho il telefono scarico».
«STILES, NON MI INTERESSA!».
Sobbalzai ancora, poi afferrai un braccio di Stephen nella speranza che sul serio si tranquillizzasse. Potevo capire la sua agitazione e la sua paura, ma esagerare a quel modo non avrebbe portato a nulla di buono. Osservai Stiles trattenere a malapena un sospiro sconfitto mentre indietreggiava, poi sollevò gli occhi lucidi sulla figura di Lydia costretta nel letto d’ospedale e mormorò un semplice: «Se la caverà?» in direzione di suo padre che mi strinse il cuore in una morsa.
«Non lo sanno. Non capiscono neanche che cos’abbia. Ha perso molto sangue ma c’è anche qualcos’altro che non va».
Aggrottai le sopracciglia. Possibile che fosse tutto collegato al morso di Peter? Che Lydia si stesse… trasformando? Rabbrividii al sol pensiero, passandomi una mano sul viso mentre donavo alla Martin l’ennesimo sguardo di quella serata. Mi uccideva vederla in quel letto d’ospedale, collegata a macchinari vari e priva di sensi sapendo che non potevo fare nulla per aiutarla.
«Che vuoi dire?», chiese allora Stiles, stranito, e distolsi lo sguardo da Lydia per osservare Stephen, in attesa di una sua risposta.
«I medici dicono che è come se avesse una reazione allergica. Il suo corpo è in stato di shock». Sgranai gli occhi, cercando lo sguardo di Stiles solo per trovarlo col viso distorto nella medesima espressione sconvolta. «Hai visto qualcosa? Hai idea di chi o che cosa l’abbia aggredita?».
Cadde il silenzio all’improvviso e di colpo cominciai a temere il peggio. Non distolsi gli occhi dal volto di Stiles nemmeno per un attimo e mi sembrò di leggerci sopra un’indecisione ben tangibile. Stava vacillando: voleva dire tutto a suo padre. Ma non potevo permetterlo.
Indietreggiai quel tanto che bastava ad essere nascosta alla vista di Stephen e cercai di attirare l’attenzione di Stiles, scuotendo la testa e fissandolo con occhi imploranti. Non complicare le cose ancor di più, avrei voluto dirgli, ma anche se non ne ebbi occasione Stiles recepì comunque il messaggio perché all’improvviso distolse gli occhi dal mio viso e rispose a Stephen con decisione.
«No. Non ne ho idea. Ero insieme ad Harry quand’è successo tutto».
 
Dopo che Stephen ebbe finito di interrogarmi sparì per rispondere a chissà quale ennesima telefonata e subito Stiles lo seguì, lasciandomi sola proprio di fronte alla stanza di Lydia. Io non potei fare a meno di sentirmi spaesata per un attimo, indecisa sullo scappare dalla visione dolorosa di quella che stavo cominciando a reputare un’amica ridotta in quelle condizioni oppure restare lì a guardarla e pregare in silenzio che potesse cavarsela nel migliore dei modi. Alla fine non so esattamente cosa mi aiutò a scegliere: semplicemente vidi Jackson appostato lì di fronte, come sempre da quand’era arrivato, e gli andai in contro. Mi misi al suo fianco e ce ne restammo in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri. Fissavo Lydia ma una parte di me pensava anche a lui: mi chiedevo quali fossero sul serio le ragioni di anche solo la metà dei suoi comportamenti e capivo finalmente che non ce l’avevo con lui, perlomeno non più. Certo, aveva commesso gravi errori ma la colpa di tutto quel dolore non era solo – né principalmente – sua. Semplicemente un male molto più grande di noi aveva deciso di entrare a far parte delle nostre vite e lui non era stato in grado di combatterlo per bene.
Avrei dovuto dirgli che mi dispiaceva per la scenata a scuola e per come l’avevo aggredito, avrei voluto potergli dire che avevo torto e che non era colpa sua – non totalmente, non per Lydia – ma non sapevo proprio da dove avrei dovuto cominciare, e perciò mi limitai a starmene in silenzio, con gli occhi fissi sul corpo di Lydia. Lei non accennava a riacquistare i sensi e semplicemente se ne stava lì, costretta in quel letto d’ospedale mentre tutti gli altri non potevano far altro che guardarla respirare a malapena. Compresa me, che continuavo a sentirmi inutile.
Fu solo il ritorno di Stiles a distogliermi da quei dolorosi pensieri, e subito mi allontanai dalla vista di Lydia per andargli in contro. Sapevo avesse discusso con suo padre: potevo leggerglielo in volto e poi era stato via troppo tempo per essere semplicemente andato a fare un giro. Perciò, non appena la smise di fuggire dalla figura di Lydia – probabilmente troppo per lui perché potesse sopportare di vederla – lo raggiunsi e gli chiesi di dirmi cosa fosse successo e cosa si fossero detti lui e Stephen. Alla fine del suo racconto, molte cose cominciarono ad essermi più chiare su tutta quell’assurda e malsana situazione.
«L’incendio di casa Hale era premeditato», sussurrai infatti, consapevole di cosa davvero ci fosse alla base della vendetta che Peter tanto ci teneva a portare a termine.
Dolore. Perdita. Risentimento.
Stiles annuì brevemente e poi cominciò a dirigersi a passo svelto verso chissà dove: io lo seguii subito mentre aspettavo che mi rispondesse.
«Papà mi ha parlato di un testimone chiave che l’ha confermato», affermò dopo pochi secondi, sempre continuando a camminare, senza voltarsi a guardarmi.
Sul momento non mi fermai a chiedermi il perché di quel suo comportamento né dove fossimo diretti: semplicemente lo seguii, ansiosa di capirne di più sulle sue ultime scoperte.
«E Kate era la mandante».
«Il testimone la descrive come una giovane donna di circa trent’anni con al collo un pendente».
Quello degli Argent, realizzai subito. Quello che lei aveva regalato ad Allison affinché potesse scoprire la verità sulla sua famiglia e sulla loro “attività”. Il pendente che io avevo cercato a lungo – e inutilmente – di ottenere.
«È decisamente Kate», stabilii in seguito a quella rivelazione, facendo una constatazione piuttosto ovvia.
«Già, e Peter la ucciderà se non ci muoviamo».
Solo a quel punto sorsero i primi dubbi. La sorpresa che mi provocò quella frase fece sì che la mia camminata veloce si arrestasse e me ne rimasi dietro Stiles con le sopracciglia aggrottate, intenta a fissarlo nell’attesa di una risposta che sapevo non sarebbe arrivata – non se non avessi posto una domanda. Dal suo canto, Stiles si limitò a continuare a camminare e solo quando decisi di guardarmi intorno mi resi conto fossimo giunti all’entrata principale dell’ospedale. Ce ne stavamo andando?
«Che cos’hai in mente?», fu tutto ciò che riuscii a chiedere a Stiles, prendendo a correre affinché potessi raggiungerlo, con l’unico filo di voce rimastomi a causa di quello sforzo.
Probabilmente intuendo una cosa simile, Stiles decise finalmente di fermarsi e si voltò a guardarmi. Io lo ringraziai in silenzio, arrestando la camminata a mia volta e approfittandone per prendere un bel respiro. D’accordo, dovevo imparare a fare più movimento. Giuro che non salterò mai più le lezioni di Finstock.
«Dobbiamo cercare Scott», esalò Stiles comunque, distogliendomi da quei pensieri totalmente fuori luogo mentre mi fissava con un sopracciglio sollevato, come a volermi chiedere: “Che domande stupide fai?”.
Mi limitai a sbottare.
«Ehi, frena», lo redarguii, scoccandogli un’occhiataccia mentre lo raggiungevo. «Come pensi di fare? Non abbiamo nemmeno la Jeep!».
«Vi accompagno io».
Una terza voce fin troppo conosciuta arrestò la mia filippica e improvvisamente, sia io che Stiles ci limitammo a fissarci con gli occhi sgranati per via della sorpresa. Dopo quella battuta cadde il silenzio e mi tranquillizzai, così come Stiles che smise di boccheggiare alla ricerca di una buona risposta da darmi mentre il viso gli si distorceva in un’espressione a dir poco ostile. Ma fu solo quando mi voltai alle mie spalle e vidi Jackson intento a fissarci che tutti i miei dubbi furono confermati. E ancora una volta, non seppi cos’avrei dovuto dire. Ma Stiles, ovviamente, mi tolse da quell’impiccio.
«Spero tu stia scherzando», esordì infatti, avvicinandosi a me per poi sorpassarmi e raggiungere Jackson. Quel suo gesto mi mise improvvisamente all’erta e subito mi assicurai di essere tra i due, così da almeno provare a fermarli nel caso in cui le cose fossero degenerate. «Non m’interessa se improvvisamente ti senti in colpa, hai causato tu la metà di tutto… questo!».
Stiles alzò la voce così tanto che ci ritrovammo almeno una decina di sguardi puntati addosso, e subito mi voltai a fronteggiarlo con un’espressione di ammonimento ben calcata in viso. Sapevo benissimo quanto Jackson fosse colpevole e quanto no, proprio come lui. Capivo che volesse sfogarsi e non gliene facevo una colpa: ma aveva sul serio intenzione di mettersi a discutere nel bel mezzo di un ospedale, senza risolvere niente? Probabilmente sì. Ma Jackson, per fortuna, no.
«Io ho un auto, tu no. Lo vuoi il mio aiuto?», domandò infatti, tranquillissimo per mia grande sorpresa mentre io ancora fissavo Stiles.
La veridicità di quell’affermazione e il rendermi conto di quanta ragione avesse mi lasciarono spaesata per un attimo e non potei fare a meno di tradire tutta la mia sorpresa mentre Stiles mi fissava vagamente infastidito. Potevo capire che si sentisse sconfitto, ma se Jackson aveva il coltello dalla parte del manico io che potevo farci? Mi limitai a rivolgergli uno sguardo dispiaciuto, scrollando lievemente le spalle poco prima di voltarmi a guardare Jackson, ancora in attesa di una risposta.
«Andiamo», mormorai allora semplicemente, senza aspettare nient’altro mentre Stiles reagiva con un sussulto sorpreso e prendeva a boccheggiare.
Sapevo avrebbe voluto uccidermi in quel momento, ma non me ne curai. Semplicemente fissai Jackson annuire e poi lo seguii verso l’uscita dell’ospedale, intimando con uno sguardo a Stiles di fare altrettanto. Dovetti insistere un po’ ma alla fine lui mi accontentò, raggiungendoci con uno sbuffo infastidito che mi strappò anche un sorriso. Purtroppo, però, qualcosa andò storto. Come al solito.
«Ragazzi», salutò Chris Argent, apparendoci di fronte così all’improvviso che a malapena riuscimmo a fermarci.
Non era solo: altri due uomini gli facevano compagnia e in tre riuscivano bene a bloccarci qualsiasi via di fuga. Stiles e Jackson si strinsero subito attorno a me quel tanto che bastava a farmi da scudo mentre io mi limitavo semplicemente a fissare il sorriso malefico di Chris con un’espressione infastidita. Era così diverso dall’uomo che tempo addietro aveva aiutato me ed Allison coi compiti di algebra. Era così… cattivo.
«Per caso sapete dirmi dove si trova Scott McCall?», domandò, impassibile e tranquillo proprio come se quella fosse una semplice chiacchierata tra conoscenti.
Il fatto che all’improvviso in quel punto d’ospedale non passasse – nemmeno per caso – anima viva, mi spaventò e non poco. Sarebbe potuto succedere di tutto. Mentre sia Stiles che Jackson boccheggiavano alla ricerca di una risposta che sembrasse convincente, me ne rimasi sempre all’erta e nemmeno provai a rispondere a Chris. Mai l’avrei fatto.
Ma quando proprio lui fece segno ai suoi uomini affinché ci prendessero e loro cominciarono ad avanzare verso di noi con Chris che li seguiva in tutta tranquillità, pregai di poter diventare all’improvviso invisibile e scappare. Stiles e Jackson indietreggiarono spingendo me a fare altrettanto ma non ci fu nulla che potessimo fare per sfuggire, e nel momento in cui sentii un paio di mani per nulla gentili stringermi le braccia, urlai e compresi che quella fosse la fine.
 
Ripensandoci, non credo capii sul serio cosa stesse succedendo davvero finché non mi ritrovai spinta insieme a Stiles e Jackson dentro una stanza adibita – per ciò che sembrava – a magazzino. Semplicemente mi lasciai trasportare da quello dei due uomini di Chris che aveva deciso di occuparsi di me quasi senza opporre resistenza, stremata da tutta quella situazione e immobilizzata dalla paura.
Ma quando proprio Chris si assicurò di chiudere a chiave la porta alle nostre spalle e riafferrò poi Stiles – sfuggito alla sua presa – per spingerlo violentemente contro una fila di armadietti chiusi, tutto riacquistò senso e capii sul serio ancora una volta quanto fossimo nei guai e quanto quell’assurda situazione fosse degenerata nel pericolo puro.
«Hai mai visto un cane rabbioso, Stiles?», sentii Chris che urlava a pochi centimetri dalla faccia di Stiles, ancora immobilizzato contro l’armadietto chiaro.
Non potei far altro che urlare e dimenarmi inutilmente, almeno finché l’uomo che mi teneva ferma non mi tappò la bocca con una mano e strinse di più la presa sulle mie braccia, provocandomi così tanto dolore che proprio non riuscii più a trattenere le lacrime. E anche sapendo quanto fosse inutile, continuai ad agitarmi tra le braccia del cacciatore almeno finché Stiles non mi scoccò un’occhiata dispiaciuta.
«Non farle del male, Jordan», ordinò Chris, solo quando seguendo lo sguardo preoccupato di Stiles individuò me in condizioni pessime. Immediatamente la stretta dell’uomo si affievolì e davvero non seppi quali santi ringraziare. «Comunque, io l’ho visto un cane rabbioso. E fa davvero paura. Ma mai come vedere un tuo amico che si trasforma con la luna piena. Vuoi sapere che gli è capitato, Stiles?».
«Veramente no. Anche se come racconta le storie lei…».
Mi estraniai per un attimo, volgendo lo sguardo tutt’intorno a me. Jackson era bloccato dal terzo uomo di Chris ma non aveva mai – nemmeno per scherzo – provato ad opporsi alla sua presa. Si limitava a registrare quello che accadeva attorno a lui in religioso silenzio, con un’espressione terrorizzata in volto. Mi chiesi come diavolo ci riuscisse.
«Ha cercato di uccidermi», continuò a raccontare Chris, e l’improvviso cambiamento del suo tono di voce quasi mi fece sobbalzare. Sembrava pieno di rammarico. «Gli ho dovuto ficcare una pallottola nel cervello. E intanto, mentre era per terra agonizzante, cercava in tutti i modi di azzannarmi. Voleva uccidermi: come se fosse la cosa più importante. Anche se stava morendo. Riesci ad immaginarlo questo?».
«No. Dovrebbe scegliere meglio le sue amicizie».
Quella risposta non piacque per nulla a Chris, che reagì mostrando tutta la sua irritazione, lasciando andare Stiles e battendo con violenza entrambe le mani ai lati della sua testa. Quando il rumore assordante che l’impatto causò arrivò alle mie orecchie, sobbalzai per lo spavento.
«Scott voleva ucciderti durante la luna piena!», urlò Chris, ancora agitato. «L’hai dovuto incatenare, sbaglio?».
Stiles si limitò ad annuire.
«Sì, esatto. L’ho ammanettato al termosifone: perché? Avrei dovuto chiuderlo in cantina e bruciare tutta la casa?», disse poi, e non appena ebbe finito di parlare un innaturale quanto spaventoso silenzio scese nella stanza.
Chris si fece finalmente lontano da Stiles, un sorriso incredulo a piegargli le labbra. Prima di rispondergli, gli puntò un indice contro con la sua solita aria minacciosa.
«Non vorrei smentire una leggenda metropolitana», affermò. «ma non siamo stati noi».
«Giusto, voi avete un codice. E nessuno l’ha mai infranto?».
. Chris, ignaro, si limitò a scuotere la testa.
«Ne è proprio sicuro?», continuò allora Stiles con aria insinuante.
«A chi ti riferisci?».
Un’altra volta ancora Chris alzò la voce, nuovamente afferrò Stiles costringendolo contro la fila di armadietti e di nuovo io provai inutilmente ad oppormi alla cosa, strillando e scalciando almeno finché Jordan non mi ammonì infastidito. Ma la mia scenata passò in secondo piano e tutto si dissolse nel momento in cui Stiles disse sottovoce: «A sua sorella».
Da allora accadde tutto così velocemente che a malapena me ne resi conto. Una nuova scintilla di consapevolezza si accese nel fondo degli azzurrissimi occhi di Chris e lo osservai mentre lasciava andare Stiles una volta per tutte, facendosi lontano dal suo corpo mentre raggiungeva i suoi uomini e segnalava loro di lasciar liberi me e Jackson. Jordan e l’altro ubbidirono subito e prima ancora che me ne potessi sul serio rendere conto, tutti e tre sparirono dietro la porta d’ingresso.
Stiles sospirò rumorosamente poco prima di scivolare lungo il muro e accasciarsi sul pavimento ed io lo raggiunsi subito dopo aver scoccato un’occhiata nella direzione di Jackson. Mi inginocchiai alla sua altezza tentando di catturarne lo sguardo. Solo quando i nostri occhi s’incontrarono, parlai.
«Ti ha fatto male?».
Stiles si limitò a scuotere la testa.
«Sto bene, tranquilla», mi rassicurò, sospirando nuovamente prima che ricadesse il silenzio. «Ti ha fatto male?».
Scossi la testa anch’io, sorridendo intenerita da quel suo rigirarmi la domanda. Prima ancora che potessi aggiungere qualcos’altro, però, la vibrazione di un cellulare mi stoppò e aggrottai le sopracciglia incuriosita. Io e Stiles ruotammo il capo verso destra in contemporanea, seguendo la fonte del rumore pur di sapere da dove provenisse sul serio. Quando Stiles individuò proprio il suo cellulare sul pavimento, la prima cosa che fece fu afferrarlo e leggere il messaggio ricevuto.
«È Scott. Dobbiamo andare», fu tutto ciò che disse infine, mettendo da parte il cellulare e alzandosi in piedi mentre io lo seguivo a ruota.
«Andare?», domandai però, scettica. «Andare dove?».
«A casa di Derek. Sono insieme e si stanno dirigendo lì».
Stiles si diresse verso la porta e fece per uscire fuori dalla stanza con Jackson pronto a seguirlo ma io impedii subito che tale cosa accadesse raggiungendoli e afferrando un braccio di Stiles affinché fermasse la sua corsa.
«Non ci andremo disarmati», lo redarguii, con un tono di voce basso e vagamente minaccioso.
Totalmente preso in contropiede, Stiles cominciò a balbettare scuse assurde e boccheggiò alla ricerca di qualcosa di ragionevole da dire ma alla fine, sconfitto, si limitò a cercare il viso di Jackson in attesa di rinforzi. Tuttavia Whittemore, molto maturamente, si limitò a fare spallucce mentre gli diceva: «Non guardarmi così. Ha ragione lei».
Ma Stiles non sembrava ancora convinto. Perciò aggiunsi: «Peter sarà sicuramente lì. Per Scott. E non ho intenzione di andare senza qualcosa con cui difenderci».
«D’accordo! Che cos’hai in mente?», cedette infine Stiles, sbuffando mentre alzava gli occhi al cielo.
Per un attimo mi limitai a sorridere divertita: poi, quando gli sguardi curiosi dei due ragazzi insieme a me furono troppo, decisi di parlare.
«Costruiremo una molotov ad autoinnesco».
E ancora una volta… grazie, Lydia.   
 
“Derek Hale è l’alpha”. Continuavo a ripetermi sottovoce quelle cinque parole striminzite nella speranza che tale tattica bastasse a fornirmi una spiegazione valida abbastanza da farmi comprendere cosa fosse sul serio successo nel giro di quell’ultim’ora. Ma sapevo già che non avrebbe funzionato. Perché, infatti, non c’era niente che potesse spiegare la corsa che io, Stiles e Jackson avevamo fatto verso casa Hale, né la battaglia che l’aveva seguita. Niente avrebbe potuto rendermi chiaro il perché del gesto che Derek, egoisticamente, aveva compiuto nei confronti del corpo segnato da ustioni multiple – come per un sadico scherzo del destino – dello zio. Semplicemente restava il rammarico e nessuna spiegazione veniva fornita, almeno finché non avessi cominciato a chiederne.
Fu proprio per questo motivo che quando Stiles mi comunicò che saremmo tornati in ospedale con Scott per sincerarci delle condizioni di Lydia che scossi la testa e gli dissi che invece sarei rimasta esattamente dov’ero. Inizialmente ricevetti solo un’occhiata preoccupata in risposta e fu allora che decisi di continuare a giustificarmi, dicendo a Stiles di come volessi semplicemente parlare a Derek senza mettermi in troppi guai. Ma anche allora, lui non mi sembrò affatto convinto.
«Tranquillo, resto io qua con lei», lo rassicurò però Jackson, ed io gli scoccai un’occhiata piena di gratitudine mentre osservavo con la coda dell’occhio Stiles mettere su la sua tipica espressione da “Okay, mi arrendo”.
Sapevo quanto poco si fidasse sia di Derek che di Jackson ma stava acconsentendo a lasciarmi lì a casa Hale, perché sapeva che non volessi nient’altro. Lo stava facendo per me e semplicemente gli sorrisi, annuendo al suo: «Quando hai finito chiamami, ti vengo a prendere». Poi semplicemente lo osservai andar via insieme a Scott e mi voltai un’ultima volta a guardare Jackson, rassicurandolo su come non ci avrei messo molto. Lui semplicemente si limitò a scrollare le spalle mentre si appoggiava placidamente alla Porsche metallizzata. Sapevo benissimo perché fosse rimasto lì – non di certo per me – ma preferivo non pensarci.
Al contrario mi diressi con passi traballanti verso casa Hale, cercando di scacciare il pesante cumulo di stanchezza che da ormai troppo tempo mi pesava sulle spalle. Avrei voluto semplicemente mettere una fine a quell’assurda giornata, andare a dormire e resettare tutto per partire da capo – come se nulla fosse successo – il giorno dopo, ma sapevo di non potere. Non finché non avessi parlato con Derek, che trovai nascosto in un angolo buio della casa distrutta. Fu solo allora che mi resi conto di come quella fosse la prima volta che ci entravo.
«Che ci fai qui?», mi sentii chiedere da Derek, appena uscito fuori dall’angolo nel quale s’era apparentemente nascosto. «Se ne sono andati tutti».
A quella sua affermazione trattenni un sorrisino divertito. Com’era ingenuo. Scrollai le spalle e mossi un ulteriore passo in direzione della malridotta scalinata in legno. Derek era al primo piano e mi fissava dall’alto: per potergli rispondere guardandolo in viso fui costretta a sollevare il mio non poco.
«Non Jackson», osservai placidamente, mentre negli occhi chiari di Derek si dipingeva una nota di consapevolezza. «Ha ancora un conto in sospeso con te ma gli ho chiesto la precedenza. Non voglio assistere ad ulteriori spargimenti di sangue».
Sapevo che domanda sarebbe seguita a quella mia affermazione e sapevo come mai avrei voluto dare a Derek la mia risposta guardandolo negli occhi. Fu proprio per quel motivo che negli attimi di silenzio che ci furono dal mio aver smesso di parlare al: «Perché dici così?» di Derek, puntai gli occhi sul pavimento e salii la scalinata fino a metà, accomodandomi su uno scalino. Davo le spalle a Derek, quando gli risposi, e capii che non avrei potuto far di meglio di così.
«Lo trasformerai», spiegai, posando i gomiti sulle ginocchia scoperte e infreddolite mentre intrecciavo le dita delle mani. «Adesso ne hai il potere, no? Il tuo obbiettivo è sempre stato questo, fin dall’inizio».
Pregai non scendesse le scale per raggiungermi, desiderai restasse lì in cima a perforarmi la schiena con lo sguardo verde. Credevo fosse molto meglio averlo lì – anche se avrebbe potuto attaccarmi a suo piacimento – che ritrovarselo di fronte e affrontarlo sul serio. Parlavo e parlavo ma non mi andava di confrontarmi sul serio con Derek. Ma sapevo già quanto le mie speranze fossero malriposte.
«L’obbiettivo era vendicare mia sorella», lo sentii mormorare, e al suono della sua voce si sovrappose quello dei piedi che scivolavano sullo scalino successivo.
Sempre più vicino. Sbuffai divertita, scuotendo la testa.
«Già. Uccidendo tuo zio, che guarda caso era un alpha. Che morendo, ha lasciato tutti i suoi poteri a te. Belle coincidenze».
Derek scese ancora: uno scalino più vicino a me e poi un altro. Il silenzio era riempito solo dai tonfi delle sue scarpe sul legno rovinato. Io trattenevo il respiro.
«Aiutare Scott», continuò poi, come se stesse stilando una lista e io l’avessi interrotto con accuse infondate che decise di ignorare. «E proteggere te».
Solo allora me lo ritrovai accanto e capii quanto sul serio non potessi più evitare quel confronto. Al contrario, dovevo accoglierlo a braccia aperte e approfittarne. Sedendosi di fianco a me sullo scalino consumato e polveroso che occupavo, Derek individuò senza sforzi la mia espressione esterrefatta. E allora capii come nascondergliela non sarebbe servito a niente.
«Proteggere me?», pigolai, voltandomi a guardarlo e mostrandogliela senza paura. «A malapena mi conosci! Hai sempre e solo avuto quest’interesse morboso nei miei confronti che mai ti sei deciso a spiegare, e…».
«Io ti conosco, Harriet», m’interruppe, e – ancora sorpresa – non potei far altro che sgranare gli occhi. «I Carter pianificavano da tempo di attirarti a Beacon Hills, lo sai. Ma c’è una cosa che non ti ho mai detto: io ero coinvolto. E non ero l’unico».
Non seppi identificare bene tutte le emozioni che si mescolarono al mio interno in quell’esatto momento, dopo quella frase rivelatrice di tanti perché. Semplicemente un mare di sensazioni e pensieri mi si agitò dentro, pronto ad inghiottirmi e lasciarmi affondare. Ma non cedetti: al contrario, continuai a nuotare controcorrente e cercai di raccogliere tutta la voce possibile per porre la mia prossima domanda.
«Di cosa stai parlando?», sussurrai flebilmente, giusto poco tempo prima che Derek prendesse a raccontarmi una storia che mai avrei potuto immaginare di dover ascoltare.
«La mia famiglia e la tua sono sempre state al comando di Beacon Hills. Certo, c’erano anche altri rappresentanti della società, come famiglie di cacciatori e di altri esseri soprannaturali, ma principalmente tutto il potere scorreva nelle nostre mani. Questo finché non abbiamo sfiorato il declino. Tuo padre ha lasciato la famiglia senza un erede che potesse prenderne il comando e gli Hale sono stati decimati nell’incendio di sei anni fa. Potrebbe sembrare strano, ma le nostre disgrazie ci hanno uniti ancor di più. Ecco perché quando Thomas mi ha chiesto di aiutarlo a portarti qui e riprendere potere su Beacon Hills, io ho acconsentito».
Credevo avrebbe continuato a parlare e raccontare, ma poi capii non ci fosse nient’altro da aggiungere e conclusi con l’aprirmi in un sorrisino beffardo. Cercavo inutilmente di nascondere la mia delusione.
«Alla fine è sempre quello il punto. Potere», osservai, con una nota ben evidente d’amarezza nella voce.
Ancora una volta, Derek ignorò la mia battuta e continuò a parlare. Proprio come se mai l’avessi interrotto.
«Ma alla fine il piano non è stato messo in atto: gli Stilinski hanno scelto te di loro spontanea volontà e la mia collaborazione non è più servita. Tuo nonno ha guadagnato due piccioni con una fava».
Aggrottai le sopracciglia. Solo mio nonno c’aveva guadagnato?
«Tu no?».
Derek scosse il capo, distogliendo gli occhi dai miei.
«Ho iniziato a dubitare del “piano” non appena Laura è stata uccisa. Quell’esperienza mi ha aperto gli occhi e ho capito quanto sbagliato fosse trascinarti qui. Ti ricordi ciò che ti ho detto la prima volta che ci siamo visti?».
Deglutii. Eccome se mi ricordavo. Ancora in quel momento, a distanza di poco più di due mesi, non sapevo come descrivere la cosa. Perciò: «Nel… mio sogno?», balbettai, imbarazzata e confusa.
Quel mio atteggiamento divertì Derek, che si limitò a ridacchiare piano mentre annuiva. Poi parlò.
«Volevo che tornassi in Texas, perché Beacon Hills non è un posto sicuro. Probabilmente non lo diventerà mai», spiegò, con la consapevolezza che solo chi viveva quel posto da sempre poteva avere in quanto al suo essere una città impossibile da salvare. «Ma tu ovviamente non mi hai ascoltato. E da quel momento mi sono sentito in dovere di… tenerti d’occhio».
Non ci fu bisogno che Derek aggiungesse nient’altro: subito compresi come le sue parole nascondessero molto di più. Deglutii silenziosamente, sporgendomi in avanti sullo scalino quel tanto che bastava a catturare lo sguardo di Derek. Gli posi la mia ennesima domanda mentre lo fissavo intensamente negli occhi, alla ricerca di una risposta che sapevo mai mi avrebbe dato a voce.
«Ti senti responsabile di avermi attirata qui anche se in effetti non l’hai fatto?».
«Voglio solo proteggerti».
Appunto.
Sospirai combattuta, tornando a sedermi piuttosto compostamente sullo scalino in legno. Derek mi era al fianco ma non riuscivo a sentirlo sul serio vicino. Come al solito, un muro invisibile ci divideva, nonostante tutti i nostri sforzi di abbatterlo. Stanca e infastidita da tutto quel suo misterioso parlare, sbuffai.
«Proteggermi da cosa?», quasi urlai, poco prima che la giusta domanda da porre mi balzasse davanti agli occhi. Allora mi corressi. «Da chi?».
Derek sospirò, avvertendo chiaramente tutta la mia scarsa sopportazione. Arrivati a quel punto non potevo più affrontare nient’altro: figurarsi i suoi discorsi emblematici, sempre bisognosi di analisi affinché potessi capire cosa sul serio cercasse di dirmi.
«Ascolta», lo sentii esordire, mentre mi distoglieva dai miei annebbiati pensieri. «lo so che i Carter non ti stanno trattando male e che credi ti vogliano bene. Ma quello che hanno in serbo per te – farti guidare la famiglia – non è uno spasso come dicono. Perché credi che tuo padre sia scappato? Si tratta di responsabilità. E pericoli. Sono semplicemente preoccupato per te, Harry. Perché sono stato un sedicenne anch’io e so come ci si sente».
Un silenzio pregno d’imbarazzo scese su di noi e inondò la casa vuota e disastrata nella quale ci trovavamo mentre sentivo ogni centimetro di pelle andare a fuoco e arrossire. Ci mancò poco che non mi coprissi il viso con le mani, imbarazzata come non mai, ma alla fine per fortuna mi limitai a deglutire rumorosamente. Derek, forse intuendo il mio stato d’animo, continuò a parlare – così che non fossi obbligata a dire qualcosa.
Ma: «Mentirei se ti dicessi che non mi sono affezionato a te», confessò, peggiorando la situazione ancor di più.
«Già…», balbettai allora, muovendomi a disagio sullo scalino. «anch’io».
Poi, capendo che tutto quello fosse davvero troppo, mi misi in piedi – forse troppo velocemente perché sembrassi stare bene – e mi strinsi nella felpa di Melissa mentre raggiungevo la fine della scalinata. Non dissi nemmeno una parola mentre mi dirigevo verso la porta d’ingresso, stetti addirittura attenta a non respirare troppo forte, ma quando avvertii Derek seguirmi non potei fare a meno di sospirare sconfitta. Non avevo ancora finito, per quella sera.
«PromettimichenonuccideraiJackson», esclamai dunque, voltandomi di scatto a fronteggiare Derek, parlando così velocemente che lo vidi aggrottare le sopracciglia confuso. Imbarazzatissima, continuai subito a spiegarmi. «Potrei affezionarmi anche a lui, col tempo».
Mentre sgattaiolavo via nel buio della notte colsi con la coda dell’occhio il sorriso divertito di Derek e capii immediatamente che avrebbe fatto come gli chiedevo.
 
Proprio come da promessa, era bastato che chiamassi Stiles perché lui accorresse per portarmi a casa. Ero imbarazzatissima per ciò che era successo con Derek – per le parole che si erano dette – stanca e vogliosa di fare solo una cosa: andare a letto e dormire per minimo dodici ore filate, dimenticandomi di quell’orribile giornata per poi risvegliarmi e cominciare daccapo. Avevo espresso così tante volte quel desiderio, nelle ultime ore, che – paradossalmente – quando mi ritrovai a pochi passi dal poterlo finalmente realizzare, evitai di farlo. Deviai la mia camera e mi diressi, al contrario, verso quella di Stiles.
Dire che il viaggio di ritorno a casa fosse stato silenzioso si sarebbe potuto definire benissimo un eufemismo. Ma non era quel tipo di silenzio imbarazzato o pieno di rabbia: al contrario era un silenzio paradossale, che nascondeva milioni di cose che non si riusciva proprio a trovare il coraggio di dire. E sapevo benissimo di non poter mettere fine a quella giornata se prima non avessi rimediato a quel silenzio, riempiendolo con tutte le spiegazioni che dovevo a Stiles e che lui doveva a me.
Ecco perché strisciai i piedi verso la sua stanza, anche se in fondo ero troppo stanca per un confronto e una vocina insistente dentro me continuava a ripetermi: “Gira i tacchi, va’ a dormire. Tu e Stiles parlerete dopo”. Ma sapevo benissimo che quel dopo non sarebbe più arrivato, e fu proprio per quel motivo che combattendo contro me stessa, continuai ad avanzare verso la stanza di Stiles finché non mi ritrovai a fronteggiare la porta. Mi sembrò fosse chiusa, ma avvicinandomi maggiormente scorsi uno spiraglio di luce filtrare dall’interno e capii fosse semplicemente socchiusa. Stiles era ancora sveglio e reagì ai colpi delle mie nocche sul legno invitandomi subito ad entrare.
Lo feci senza farmelo ripetere due volte, entrando velocemente nella stanza poco prima di richiudermi la porta alle spalle. La lasciai socchiusa proprio come l’avevo trovata e poi rivolsi uno sguardo perso a Stiles. Ero lì sulla soglia mentre lui era seduto al centro del letto con una miriade di fogli dinanzi a sé e per un attimo proprio non seppi che fare. Perché ero lì? Mi sarebbe piaciuto un sacco saperlo. Ma più che altro avrei gradito capire come comportarmi. Improvvisamente, tutto l’imbarazzo messo in secondo piano dalla lotta e dalla stanchezza ritornò a galla. Ma Stiles riuscì a spazzarlo via con un gesto della mano. Semplicemente mi invitò a raggiungerlo a letto ed io lo feci, sorridendogli grata.
«Le ferite di Lydia non stanno guarendo», osservò sollevando gli occhi sui miei, poco tempo dopo che ebbi preso posto di fronte a lui, distogliendo l’attenzione dalla miriade di fogli che stava analizzando con attenzione.
Improvvisamente presi a boccheggiare. Come mai Lydia non stava guarendo? Quando Scott era stato morso, le sue ferite s’erano rimarginate nel giro di un paio d’ore. Ma allora perché non stava accadendo la stessa cosa alla Martin? Possibile che…
«Non si trasformerà?», pigolai, fissando Stiles con le sopracciglia aggrottate.
In attesa di una sua risposta, incrociai le gambe infreddolite sul copriletto caldo e spostai una ciocca di lunghi capelli dietro l’orecchio.
«Credo di no», stabilì Stiles dopo qualche attimo, abbassando lo sguardo sui fogli di fronte a sé prima di prendere a sistemarli tutti ordinatamente.
Peter Hale aveva detto che le opzioni erano due: trasformarsi o morire. Se Lydia non stava guarendo allora c’erano buone probabilità che la trasformazione non si stesse attivando. Ma ciò significava sul serio che l’avremmo vista morire?
Un’improvvisa onda di preoccupazione mi salì alla gola, mozzandomi il respiro. Sussultai, attirando l’attenzione di Stiles che captò i miei pensieri come spesso solo lui riusciva a fare e mi donò uno sguardo rassicurante.
«Lydia non sta morendo, Harry», osservò, riservandomi anche un debole sorriso. «Non lo so, magari c’è una terza via d’uscita della quale Peter non mi ha parlato».
Peter. Solo quando il suo nome venne fuori dalle labbra di Stiles pensai sul serio a lui. E una domanda proprio non poté fare a meno di balzarmi in testa.
«Credi ce ne siamo liberati?».
Stiles scrollò le spalle, ci pensò un po’ su e alla fine mi rispose, utilizzando tutta la sincerità del mondo. Proprio ciò che volevo.
«Di Peter? Sì», stabilì, annuendo. Mi sentii più tranquilla, ma la cosa – avrei dovuto prevederlo – durò poco. «Di altri pericoli? Non credo proprio».
Deglutii. Aveva ragione. E avrei dovuto pensarci. Ma non mi andava di farlo. Non in quel momento. Ecco perché mi limitai ad annuire, cercando di nascondere la mia espressione afflitta mentre mi stringevo le ginocchia al petto. Ero stanca. Davvero tanto, tanto stanca. E non solo fisicamente.
«Credi che potrei trovare qualcosa sulla condizione di Lydia, in internet?», sentii che Stiles mi domandava dopo qualche attimo, distogliendomi dai miei pensieri, sicuramente più per riempire il triste silenzio sceso a farla da padrone in quella stanza che per altro.
Scrollai le spalle, esordendo con un retorico: «Perché no?». Poi mi morsi lievemente il labbro inferiore e continuai. «Ma quanto pensi che possano essere affidabili, certi siti?».
A quella mia domanda insinuante, Stiles aggrottò le sopracciglia e mi fissò confuso. Si era liberato dei fogli che stava analizzando accatastandoli tutti sul comodino in legno di fianco al letto e così facendo, tra noi due era rimasto uno spazio vuoto che – fissandolo attentamente in quel momento – mi parve immenso.
«Proponi di non fare ricerche?», mi chiese poi, facendo sì che i miei occhi scuri fossero costretti a sollevarsi dal copriletto blu per fissarli nei suoi.
Si era avvicinato a me, riempiendo lo spazio vuoto e quasi spingendomi a sobbalzare per quella sua improvvisa vicinanza. Quando rialzai lo sguardo sul suo viso, mi stupii di ritrovarmelo così improvvisamente vicino.
«Propongo di parlare con un esperto», mormorai però, fingendo tranquillità e calma.
Stiles si irrigidì.
«Derek», sputò, come se quel nome fosse un insulto.
Mi misi sulla difensiva a mia volta e gli scoccai un’occhiataccia. Perché mai gli veniva in mente proprio Derek?
«Deaton», lo corressi allora, con tono glaciale. E immediatamente l’espressione di Stiles si addolcì. «Quando Scott è stato ferito da Kate, lui l’ha curato. Sa molto di più di ciò che sembra. Potremmo andare a chiedergli informazioni».
Ma sapevo che quella mia ulteriore spiegazione fosse inutile perché per convincere Stiles bastava semplicemente che non mi riferissi a Derek. Trattenendo uno sbuffo infastidito, osservai la sua espressione soddisfatta mentre annuiva e mormorava qualcosa riguardo all’ottima idea che avevo avuto. Poi: «Hai parlato con Derek?», mi chiese, ed io semplicemente annuii.
«Ho scoperto che lui e mio nonno sono molto legati».
«Fantastico».
Già.
«E che Thomas gli aveva chiesto aiuto per riportarmi qui. Cosa che poi non è successa perché c’avete pensato tu e Stephen».
«Il che mi fa sentire un tantino in colpa».
Sgranai gli occhi. Cosa diavolo blaterava? 
«Scherzi?», lo ammonii infatti, chiedendomi se sul serio non si sentisse responsabile della mia presenza lì a Beacon Hills. Sarebbe stato assurdo. «Se non fossi stata io, ci sarebbe stato qualcun altro al tuo fianco che avrebbe vissuto tutto questo insieme a te. Insieme a voi».
Mi salvai in calcio d’angolo, dandomi della stupida per tutti i sottointesi che lanciava quella mia penultima frase. Irritata dalla mia lingua lunga, strizzai gli occhi e pregai Stiles non notasse nulla. Per fortuna, qualche entità superiore decise di accontentarmi e continuai a parlare senza ulteriore imbarazzo.
«E anche se potrebbe sembrare strano, non vorrei mai che fosse così».
Perché non c’è nessun altro posto nel quale vorrei essere, avrei dovuto aggiungere. Ma non lo feci. Semplicemente me ne rimasi a fissare Stiles, vicinissimo a me, alla ricerca di ogni piccola emozione che si sarebbe di lì a poco dipinta sul suo viso. Non sapevo esattamente cosa sperassi di trovarci, ma quando lui semplicemente mi sorrise, illuminandosi, mi reputai piuttosto soddisfatta.
«In ogni caso saresti arrivata qui, no?», mi domandò, deciso. «Tuo nonno avrebbe messo in atto il piano e tu ci saresti stata comunque».
Forse non con te, fu il mio improvviso pensiero. Ma anche quella volta tenni tutto per me e mi limitai ad abbassare lo sguardo sulle mie mani intrecciate mentre sfoggiavo un perfetto sorriso finto.
«Era destino», mormorai, pur non potendolo sapere con certezza.
Cadde nuovamente il silenzio, come fosse l’ennesimo indizio di quanto – nonostante tutti gli sforzi – la nostra conversazione non si decidesse a partire. Né a spostarsi sull’unico argomento che mi premeva sul serio affrontare.
Quella volta fu Stiles a distogliere lo sguardo dal mio, subito dopo aver annuito debolmente. Pensai non fosse il momento adatto – qualcosa me lo stava facendo capire in tutti i modi – e che dovevo rinunciare e andarmene, ma capii subito di starmi sbagliando nel momento in cui Stiles riprese a parlare. E quella volta sì, che la nostra conversazione cominciò.
«Harry, ascolta…», lo sentii esordire, cauto e balbettante. «posso farti una domanda?».
Deglutii, perché immaginavo perfettamente cosa mi avrebbe chiesto ma non avevo idea di come avrei risposto. Perciò mi limitai a sputare fuori un: «Sì, certo» insicuro.
«Quella cosa che… hai fatto, stasera a scuola… che… abbiamo fatto…», continuò Stiles, cercando inutilmente di spiegarsi tra una pausa e l’altra. Sapevo benissimo a cosa si riferiva ma non glielo feci capire, limitandomi a non guardarlo troppo mentre mi sentivo il viso andare a fuoco. «cioè, perché ho partecipato anch’io. Anche piuttosto attivamente. Però, ecco… mi chiedevo perché. Cioè, è stata solo l’adrenalina del momento… no? Una cosa… impulsiva. Giusto?».
Improvvisamente, tutto il rossore accumulato in quegli ultimi due minuti si volatilizzò nel nulla e al contrario mi sentii sbiancare. La mia mascella fu ad un passo dal toccare terra per la sorpresa ma tentai di dissimulare, nascondendo la mia espressione delusa con un sorriso striminzito. Tra tutte le conclusioni che Stiles avrebbe potuto trarre da quel mio gesto, quella era la più sbagliata. E mi chiesi solo: perché?
«Certo», mormorai però, incapace di darmi una risposta, decidendo di mettermi in piedi per scappare da quella stanza alla velocità della luce.
Sussurrai un paio di scuse non troppo convinte sul fatto che fosse tardi e avessi sonno mentre mi dirigevo verso la porta, dando a Stiles le spalle. L’avevo semplicemente visto seguirmi con lo sguardo mentre mi mettevo in piedi e da allora non avevo più osato guardarlo.
Sperai mi avrebbe semplificato le cose, lasciandomi andare senza fare nulla per impedirlo, ma quando lo sentii alzarsi e raggiungermi sulla soglia, capii di aver sperato invano. Non so esattamente cosa mi spinse ad agire, proprio come feci qualche attimo dopo, fatto sta che il corpo di Stiles dietro il mio aiutò e non poco. Semplicemente, invece di uscire come avrei voluto fare fino ad un attimo prima, mi voltai a fronteggiarlo e feci scorta di tutto il coraggio a mia disposizione prima di parlare ancora.
«D’accordo, sai cosa?», domandai, mentre col respiro spezzato muovevo un passo nella sua direzione, tanto vicina che mi sarebbe bastato pochissimo per sfiorare nuovamente le labbra di Stiles. Improvvisamente nell’aria c’era una tensione del tutto nuova, ma piacevole. «Ho mentito».
Non ti ho baciato per l’adrenalina. Non è stata una cosa impulsiva. Non è “capitato”. Semplicemente lo volevo tantissimo. Da molto tempo, avrei voluto aggiungere, ma il coraggio per parlare ancora mi mancava: quelle due semplici parole avevano richiesto molte più energie del previsto e semplicemente mi limitai a restarmene lì di fronte a Stiles, nel silenzio tipico dell’attesa alla quale mi stava costringendo. Passò così tanto tempo che alla fine mi convinsi del fatto che avrei ottenuto un rifiuto come risposta e feci per scappare – quella volta sul serio – ma quando capì le mie intenzioni, Stiles azzerò la poca distanza che ancora ci divideva e mi afferrò un polso affinché evitassi di scappare.
«Sono davvero felice che tu me l’abbia detto», fu tutto ciò che si limitò a dire, mentre un fiume di emozioni positive s’agitava dentro me e reagivo aprendomi nell’ennesimo banale sorriso.
Ma Stiles non fece altro che ricambiarmi e tutt’a un tratto smisi di pensare, spegnendo il cervello e godendomi il momento fino in fondo, mentre avvertivo i suoi polpastrelli posarsi delicati sulle mie guance in una carezza che mi fece sentire come la cosa più preziosa del mondo.
Quando Stiles mi si avvicinò ancor di più, il suo profumo mi riempì le narici ed io lo respirai a pieni polmoni, sorridendo ancora mentre lo assecondavo e mi avvicinavo al suo viso di conseguenza. Volevo baciarlo, terribilmente, ma non l’avrei fatto. Ero curiosa di vedere come si sarebbe comportato lui, volevo che facesse la prima mossa e mi dimostrasse un interesse simile al mio.
Tutto questo finché non mi venne la felice idea di seguire il suo sguardo perso sulle mie labbra dischiuse e di imitarlo, posando gli occhi scuri sulle sue labbra chiare e sottili. Mi distrassi così tanto che nemmeno ci feci caso, quando Stiles richiamò il mio nome sottovoce, limitandomi a fissare rapita l’incurvatura che le sue labbra assunsero facendolo. Era bellissima, proprio come credevo lo fosse il mio nome, specialmente se pronunciato da Stiles. Specialmente se con quel tono di voce sussurrato e…
E niente. Qualsiasi mio pensiero venne spazzato via nel momento in cui le labbra di Stiles furono nuovamente sulle mie, e inizialmente l’unica cosa che recepii senza problemi fu il battito del mio cuore che aumentava paurosamente d’intensità. L’aveva fatto, sul serio: mi aveva preso il viso tra le mani e mi aveva baciata. Mi stava baciando, e capii solo allora di dovermi godere il momento fino in fondo.
Risposi al bacio, muovendo le mie labbra contro le sue mentre ancora ci limitavamo a sfiorarci semplicemente, e attirai Stiles a me passandogli le braccia attorno al collo. Lui spostò le mani dal mio viso e mi afferrò i fianchi, stringendoli poco prima di costringermi a compiere un passo all’indietro e scontrarmi con la porta socchiusa. Fu in quell’esatto momento che la situazione degenerò – più che in positivo – e sorrisi sulle labbra di Stiles dopo che la mia schiena, impattando contro il legno della porta, la chiuse con un tonfo. Non eravamo per nulla discreti ma non me ne importava, perché in quel momento Stiles mi stava baciando ed io non mi ero mai sentita meglio di allora: non mi ero mai sentita così sua. Ed era una sensazione bellissima. Era, dopo tanto tempo, pace. 
 
So nothing’s incomplete.
It’s easy being with you: sacred simplicity.
As long as we’re together,
there’s no place I rather be 









 
Ebbene, eccoci qui, giunti dopo la bellezza di quasi un anno alla fine (che poi tanto fine non è). Dovrei scrivere un sacco di cose ma davvero non so da dove partire: attualmente sono in lacrime proprio come ieri nel momento in cui ho finito di scrivere il capitolo e ringrazio di non dover fare un discorso del genere a voce (già scrivere è difficile, figurarsi parlare), dunque l'unica cosa con la quale posso esordire è un immenso GRAZIE, a tutti, nessuno escluso.
Alle fantastiche persone che sono state con me, Harry e Stiles fin dall'inizio e hanno contribuito a far crescere questa storia: a farle guadagnare la bellezza di 76 recensioni, 13 preferiti, 2 ricordati e 36 seguiti. Grazie, grazie, grazie, grazie. Tutti questi numeri mi hanno anche aiutata, tra l'altro, a vedere parachute presente nelle storie più popolari della sezione Teen Wolf e non credo che avrei mai potuto raggiungere traguardo migliore quindi, di nuovo (a costo di diventare noiosa), grazie a tutti voi, perché se sono così soddisfatta di questa modestissima storia il merito è solo vostro. :)
Parlando (finalmente) del capitolo: la prima canzone citata è What have you done? dei Within temptation e l'ultima Rather be dei Clean bandit. Spero che l'eccessiva lunghezza del capitolo non vi annoi e soprattutto che vi piaccia quanto piace a me o anche solo la metà, perché giuro che per me non ci sarebbe cosa migliore di questa. Ci tengo moltissimo a sapere cosa ne pensate di questo capitolo: Harriet e Stiles sono giunti alla fine del loro viaggio (rigorosamente insieme) ed io sono cresciuta insieme a loro. Spero di aver fatto un buon lavoro e che questo capitolo possa lasciarvi qualcosa di buono.
Parlando della storia in generale: non è ancora finita qua. Come direbbe Nesli: arriverà la fine, ma non sarà la fine. C'è ancora l'epilogo, che tra l'altro non arriverà prima dell'anniversario della storia ma è rimandato a data da destinarsi. Giuro comunque che non ci metterò troppo tempo per scriverlo. Non so ancora bene cosa ci troverete ma probabilmente un personaggio di cui si è parlato spesso farà comparsa (indovinate chi è?) e avrete risposta a qualche ultima domanda ancora irrisolta.
Per il resto, dato che alcune di voi non ne sono ancora al corrente: parachute avrà un seguito. Del quale ancora ho scelto poco ma che sicuramente scriverò, sperando che la cosa possa farvi piacere e di potervi ritrovare da qui a tra sei mesi/un anno ancora qui con me, pronti a seguire le avventure di Harry e Stiles. 
Non credo di aver nient'altro da aggiungere e perciò mi limito ad esiliarmi nell'attesa di vostri commenti, rinnovandovi i miei più sentiti ringraziamenti e dandovi appuntamento all'epilogo. Un abbraccio forte a tutte,
hell

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Capitolo 20
*** Ospite. ***


parachute
 
 
 

 
20.  Ospite.

 
lilyhachi,
che c’è sempre stata. Non solo per
Harriet e Stiles, ma soprattutto per me.
Grazie infinite.
 

Non so dire da quanto tempo esattamente io e Stiles ci trovassimo in biblioteca quella mattina: molto probabilmente da mezz’ora, quasi sicuramente da molto meno. L’orologio da parete scandiva il tempo regolarmente grazie alla lancetta dei minuti che, avanzando sul quadrante, segnava un orario che non avevo voglia di guardare – mi limitavo a sentire il suono della lancetta rimbombarmi nelle orecchie e provavo ad indovinare che ora fosse: sollevare gli occhi da ciò che stavo leggendo sarebbe stato troppo faticoso.
Il sabato prima mi ero recata a casa di mio nonno per poter finalmente leggere i diari di Charles Shelby Carter, ma come mi succedeva molto spesso in quell’ultimo periodo, nel momento in cui li avevo stretti tra le mani e la possibilità di poterli leggere era divenuta sul serio concreta, avevo quasi avvertito un mancamento e non ce l’avevo fatta. Ero irrazionalmente spaventata da ciò che ci avrei trovato all’interno, e il risultato era stato chiedere per favore a mio nonno di poter portare via i diari con me e provare a leggerli con calma. Lui, naturalmente, aveva acconsentito.
Perciò eccomi lì in una tranquilla domenica mattina che avevo deciso di passare in biblioteca insieme a Stiles, del quale avevo bisogno – oramai non aveva più senso negarlo – sempre. Provavo a concentrarmi su ciò che leggevo, sulle testimonianze di ogni singolo sogno premonitore avuto dal mio bisnonno e poi trascritto dalla moglie, ma non ci riuscivo. Passavo interi minuti ferma allo stesso rigo, o peggio proseguivo a leggere senza davvero comprendere cosa ci fosse scritto e infine mi ritrovavo immersa in conclusioni che proprio non riuscivo a capire. Allora aggrottavo le sopracciglia, sbuffavo lievemente e cominciavo daccapo. Indovinate tutto questo per colpa di chi?
Stiles se ne stava seduto al mio fianco, col corpo addossato al tavolo in legno intorno al quale c’eravamo accomodati e la testa poggiata sulla mano sinistra. Teneva il viso voltato nella mia direzione e nonostante quanto mi sforzassi di ignorarlo, riuscivo comunque a vederlo con la coda dell’occhio e capivo benissimo cosa in realtà stesse cercando di fare. Pur non distogliendo mai lo sguardo dalle pagine ingiallite del diario di Charles, avvertivo benissimo il respiro regolare di Stiles infrangersi sul mio collo e i suoi occhi costantemente puntati sul mio viso, come se alla ricerca di chissà quale bellissimo particolare che fino a quel momento non aveva avuto occasione di notare. Dire che mi distraesse sarebbe stato un eufemismo.
«Ti stai perdendo la lettura», lo ripresi giocosamente quando mi reputai stanca di ignorarlo, sollevando dopo quelli che mi sembrarono secoli gli occhi dalla pagina consunta che stavo provando a leggere.
Sentii il collo scricchiolare appena, indolenzito, e lo massaggiai con una mano mentre lo piegavo all’indietro e mi guardavo velocemente intorno. Mia cugina Oriesta correva da un corridoio all’altro della biblioteca cercando di aiutare chissà chi, buffissima nella polo gialla che tutti i dipendenti dovevano indossare e che lei aveva candidamente confessato di odiare. Proprio non potevo biasimarla.
«Lo sai cos’ho pensato la prima volta che ti ho vista?».
Al suono di quella domanda, distolsi immediatamente lo sguardo da mia cugina e mi voltai a cercare il viso di Stiles. Lo trovai esattamente come l’avevo lasciato: poggiato al tavolo con la testa voltata nella mia direzione e gli occhi intenti ad analizzarmi attentamente. Aggrottai le sopracciglia mentre lo fissavo confusa, poi scossi la testa, finalmente consapevole del fatto che il mio richiamo non avesse avuto l’effetto che speravo. Seppur sapessi che nemmeno quella volta sarei riuscita a leggere, provai nuovamente a farlo.
«Non so, cos’hai pensato?», domandai però, troppo curiosa per ignorarlo ma troppo timida per guardarlo in viso mentre affrontavamo un argomento del genere.
«Non intendo quando ti ho vista dal vivo», spiegò, continuando imperterrito a fissarmi, nonostante il fatto che rifuggissi il suo sguardo e gioissi delle ciocche di capelli intente a coprirmi buona parte del viso. «Anche se in effetti in quel momento ho riformulato i pensieri che ho fatto la vera prima volta».
Aggrottai le sopracciglia. Stiles stava cercando di dirmi che, nel mio primo giorno a Beacon Hills, quando era venuto a prendere me e suo padre a scuola, mi avesse già vista? E quando? Ma soprattutto: cosa aveva pensato? Credetti che la curiosità mi avrebbe divorata. Ma ovviamente, decisi di non mostrare niente del genere e cercai di rimanere il meno colpita possibile, scacciando via i ricordi dei pensieri che io avevo fatto su di lui la prima volta che l’avevo visto, senza arrossire.
«Quand’è stata la prima volta che mi hai vista, allora?».
«Sai, è stato mio padre a sceglierti. Io credevo non avrebbe fatto alcuna differenza avere te in casa oppure un altro tra i ragazzi che avevamo deciso di tenere ancora in considerazione, perciò ho lasciato fare a lui. Ti ha scelta per il tuo nome: l’aveva colpito», mi raccontò, evitando la mia domanda ma mettendomi a conoscenza di fatti che mai nessuno mi aveva riferito.
Sorrisi al pensiero di Stephen, distogliendo brevemente lo sguardo dal foglio senza però posarlo su Stiles. Charles raccontava del suo primo sogno fatto grazie alla silene capensis, e blaterava di banche e leoni che sputavano fuoco ma più di quello non ero riuscita a cogliere. Ero troppo distratta.
«Ricordami di ringraziare mio padre», feci presente a Stiles, ironicamente.
La sua attenzione crebbe immediatamente.
«Ha voluto lui che ti chiamassi Harriet?».
Annuii.
«Saperlo è una delle poche cose che mi fa sentire di avere un padre. Certe volte nemmeno mi sembra vero: come una figura mitologica. Capisci?», tentai di spiegargli, scoprendomi il viso dai capelli per poter finalmente osservare di nuovo Stiles.
Ciò che gli avevo confidato era quanto di più intimo gli avessi mai detto e per quanto fosse una cosa stupida, temevo ciò che avrebbe potuto pensare di quella cosa. Perciò fissai il suo viso alla ricerca di emozioni e quando ci vidi solo sincera comprensione, non potei far altro che sentirmi bene.
«Fin troppo», mi disse Stiles, ed io gli sorrisi prima di riportare l’attenzione all’argomento principale della nostra conversazione.
«Cos’hai pensato di me la prima volta che mi hai vista?».
«Oh, sì», osservò Stiles, quasi sorpreso da quel cambiamento improvviso d’argomento. Poi però riprese a raccontare ed io lo ascoltai attenta. «Quando papà mi ha detto di averti scelta ho pensato che avessi un nome strano – ma bello – e mi sono incuriosito così tanto che ho continuato a pensarci finché quello stesso giorno, a scuola, non ho avuto occasione di fare ricerche sul tuo conto».
Wow.
«Sapevo venissi da Austin e conoscevo il nome del tuo liceo, perciò ho cercato il sito ufficiale e guardato le tue foto sull’annuario. Ho visto come sorridevi mettendoti in posa, non del tutto a tuo agio perché stare al centro dell’attenzione non ti piace granché. Ho pensato che avessi degli occhi e dei capelli bellissimi e mi censurerò sul resto», continuò, mentre le mie labbra si schiudevano – per via della sorpresa – ogni secondo che passava un po’ di più. Come aveva fatto a capirmi così bene semplicemente guardando delle mie foto? «Credi che sia inquietante, vero?».
Scoppiai a ridere, scuotendo la testa e strizzando gli occhi. Distolsi lo sguardo da Stiles e ancora una volta lo feci viaggiare tutt’intorno a me, ricambiando il saluto di Oriesta quando la vidi sorridermi e agitare una mano nella mia direzione.
«No», rassicurai Stiles, solo quando la mia risata si estinse. «Sono felice che tu me l’abbia detto! Anche perché, ad essere sinceri, pensieri del genere li ho fatti anch’io. Mi sono piaciuti i tuoi occhi fin da subito. Sono…».
Ma non riuscii a proseguire, perché avevo commesso – proprio come molte altre volte prima d’allora – l’errore di fissare gli occhi in quelli di Stiles, dove presto o tardi avrei finito per perdermi. Boccheggiai alla ricerca di un aggettivo che potesse rendere giustizia a quelle iridi così belle, poco prima di rendermi conto del fatto che non ne esistesse alcuno. Finii perciò per chiudermi in un silenzio imbarazzante che per fortuna fu interrotto da Stiles che riprese a parlare.
«A me le tue labbra», sussurrò infatti, posando lo sguardo proprio sulle mie labbra mentre io pregavo in tutte le lingue da me conosciute di non essere arrossita sotto gli occhi che tanto amavo. «Ho pensato che mai e poi mai sarei riuscito a vederti come una sorella e niente più».
E infatti eccoci qua, avrei voluto dire, ma evitai e mi limitai a sorridere a Stiles prima di rimettere mano al diario del mio bisnonno. Il silenzio cadde ancora una volta ma fu privo d’imbarazzo e finalmente riuscii a concentrarmi sulla lettura. Ripresi ad analizzare il sogno del leone che sputava fuoco, assumendo un’espressione un po’ più confusa ogni secondo che passava. Era strano: il primo sogno di Charles Shelby non aveva predetto proprio un bel niente, eppure lui l’aveva reputato così importante – come un miracolo – da addirittura rendere il leone che sputa fuoco come il simbolo della famiglia Carter. 
«Che c’è?», mi domandò Stiles non appena si accorse del mio momentaneo sgomento.
Immediatamente gli descrissi tutta la situazione e mi parve di sentirlo subito irrigidirsi. Aggrottai ancora le sopracciglia, decidendo una volta per tutte di abbandonare la lettura. Chiusi il diario con cautela, evitando di rovinarlo più di quanto già non fosse, e poi mi voltai a guardare Stiles. Improvvisamente sembrava nervoso e lo osservai boccheggiare alla ricerca di parole senza però chiedergli spiegazioni. Sapevo me ne avrebbe date lui stesso.
«A proposito…», esordì infatti dopo qualche minuto, spingendomi ad avanzare nella sua direzione dal momento che aveva inspiegabilmente abbassato il tono di voce. «mi è venuta in mente una cosa che non ti ho detto».
«Di cosa si tratta?».
«Quando venerdì sono andato a cercare Lydia l’ho trovata con Peter». Trattenni il respiro. Avremmo parlato ancora di quella notte? Pareva proprio di sì. «Lui ha lasciato che chiamassi Jackson affinché la portasse in ospedale e mi ha imposto di seguirlo: voleva trovare Derek».
«Ebbene?», domandai, messa di fronte al suo ennesimo silenzio.
Sapevo che stesse per raccontarmi qualcosa riguardante Peter, ma allora perché prenderla così alla larga e temporeggiare? Avrei dovuto preoccuparmi?
«Ecco, ad un certo punto mi ha… proposto di mordermi».
Boom. Tra tutte le cose che avrebbe potuto dirmi, quella era l’unica a cui mai avrei pensato. Non appena Stiles finì di parlare, sentii il respiro mozzarmisi in gola un’altra volta ancora e una domanda prendere a rimbombarmi in testa nell’attesa che la ponessi: “Ti sei fatto mordere?”. Ma sapevo già che non l’avrei fatto perché temevo una qualsiasi risposta più di ogni altra cosa. Perciò mi limitai a chiudermi in un silenzio di tomba mentre fissavo Stiles con occhi sgranati, nella speranza – e allo stesso tempo nella paura – che continuasse a parlare.
«E io non ho saputo rispondergli subito», mormorò infatti dopo qualche minuto, distogliendo dopo tempo lo sguardo dal mio viso per puntarlo tutt’intorno a sé, come se si sentisse colpevole.
Continuava a non dirmi se Peter l’avesse morso o meno ed io avrei continuato a non chiedere: mi sarei limitata a far sì che Stiles si sfogasse con me nella speranza che la cosa servisse a farlo stare meglio – improvvisamente vedevo e sentivo quanto abbattuto fosse – e nella paura che da un momento all’altro potesse trasformarsi in una bestia simile a Peter. Quelle due emozioni contrastanti mi tenevano prigioniera.
«Perché?», domandai comunque, cercando di non balbettare ma di parlare cautamente e mostrando sicurezza.
Come potevo chiedergli di fidarsi di me e parlarmi se mi mostravo spaventata?
«Diceva che mi avrebbe mostrato la sua gratitudine, così. L’avevo aiutato. E invece di dirmi grazie mi ha proposto di trasformarmi».
«Questo perché è pazzo».
«Certo, ma sai qual è la cosa peggiore? Per un attimo ho desiderato dire sì». Ma?, mi domandai, sicura del fatto che ce ne sarebbe stato uno. «Ma non l’ho fatto».
Liberai un sospiro sollevato, socchiudendo gli occhi lentamente senza nemmeno rendermene conto. Stiles non era stato morso: non si sarebbe trasformato né tantomeno sarebbe morto – non avrei potuto permetterlo mai. Non sarebbe diventato come Scott e Derek o peggio come Peter e Jackson. Sarebbe stato sempre e solo Stiles. Il mio Stiles.
Feci per sorridergli, mostrandogli così tutta la soddisfazione che mi aveva procurato quella sua scelta, questo poco prima di inquadrare la sua espressione afflitta – un po’ di più ogni secondo che passava. Allora capii.
«Ne sei pentito?», chiesi, stringendogli un braccio in modo rassicurante mentre cercavo di far sì che mi guardasse negli occhi.
Inutilmente.
«Non lo so…».
A quel punto mi mossi, cambiando posizione sulla sedia solo per essere vicina a Stiles quanto bastava ad afferrargli il viso e far sì che smettesse di rifuggire il mio sguardo.
«Ehi. Ascoltami, d’accordo?», lo richiamai, premendogli le mani sulle guance nella speranza che decidesse di fare come gli dicevo. «Se dovessi trasformarti anche tu, io darei di matto. Riesci ad immaginarlo? Tra te e Scott… e Jackson! Non è così bello come sembra, Stiles, tu lo sai. Quindi perché dovresti dubitare della scelta che hai preso?».
Lo vidi semplicemente scrollare le spalle, senza svincolarsi dalla mia presa ma distogliendo comunque gli occhi dal mio viso prima di rispondermi. Non andava bene.
Vagamente sconfitta, mi ritirai.
«Peter ha detto che quella notte nel bosco, quando ha trasformato Scott, avrebbe anche potuto scegliere me. Che è stato tutto frutto del caso. Che se mi avesse trasformato, avrei potuto essere un licantropo anche migliore di Scott. Diventare più forte e più veloce», sentii che mi spiegava Stiles, mentre io tornavo a sedermi composta e ad ascoltare la sua voce farsi sempre più lieve e piena di dispiacere. «Ma gli ho detto che non volevo... Non voglio diventare come Peter».
Annuii. Lo capivo benissimo. Arrivati a quel punto, c’era solo una domanda che potessi porgli.
«Eri sincero?».
Cercai gli occhi di Stiles. Solo allora lui ricambiò il mio sguardo. Poi rispose.
«Peter ha detto di no».  
 
The hard part isn’t
choosing, it’s living
with the choice
you make
 
Dopo la rivelazione di Stiles, un silenzio teso ed imbarazzato era sceso ad avvolgerci entrambi. Avrei voluto continuare a parlargli, avrei voluto che Stiles continuasse a confidarsi con me e che non mal interpretasse la mia reazione. Non ce l’avevo con lui per ciò che aveva pensato di fare: al contrario potevo comprendere che fosse combattuto e desiderasse tornare indietro, cosa che comunque aveva ancora tempo di fare: Derek l’avrebbe trasformato senza indugi, ma egoisticamente preferivo non farglielo notare.
Come al solito non dissi nulla e preferii far cadere la questione: era molto più facile così. D’altronde, se avessi parlato cos’avrei risolto? Stiles non avrebbe cambiato idea e avrebbe continuato a pensare alla scelta che aveva fatto per ancora un po’ di tempo, almeno finché non avrebbe compreso di aver fatto la cosa giusta. L’unica cosa che davvero potessi fare in quel momento per rendermi utile era stargli accanto ed aiutarlo a convivere con ciò che aveva scelto, chissà perché, di fare. Non trasformarsi.
Proprio per questo motivo quando alle dodici in punto di quella domenica mattina il turno di lavoro di Oriesta finì e proprio lei ci richiamò per andare a casa tutti insieme decisi di far finta di nulla, nella speranza che Stiles mi assecondasse e che potessimo goderci il pranzo in famiglia al quale io ero stata invitata, volendo a tutti i costi che Stiles fosse con me. Quando Oriesta tempo addietro mi aveva infatti detto: «Ti inviterò anche da me, Harry» non mentiva affatto.
Per fortuna le mie preghiere furono accolte e il viaggio in auto verso casa Osbourne fu piacevole e rilassato. Oriesta guidava e nonostante il fatto che mi avesse offerto di sedermi accanto a lei, alla fine avevo ripiegato per prendere il posto del passeggero nei sedili posteriori, giusto per poter stare ancora vicina a Stiles – cosa che mi aveva fatto guadagnare un’occhiatina furba da parte di mia cugina che, ne ero sicura, aveva già capito tutto. Durante il tragitto verso casa Osbourne tutti e tre chiacchierammo in modo tranquillo e rilassato, ascoltando buona musica: Oriesta aveva gusti molto simili ai miei e passarci del tempo insieme era sempre piacevole.
Arrivati a destinazione trovammo zia Erin – sorella di mio padre e gemella di Maila – ad accoglierci. Ci salutò tutti calorosamente, stringendo me e Stiles in un abbraccio – proprio come se ci conoscesse da una vita – al quale noi rispondemmo salutandola intimiditi. Capii però che quei comportamenti così espansivi fossero una prerogativa della famiglia solo nel momento in cui Niall spuntò dal salotto, accogliendomi con un: «Hola, cugina!» che riuscì a strapparmi un sorriso divertito poco prima che monopolizzasse Stiles. 
«Tu devi essere Stiles!», esclamò infatti nel momento in cui lo rivide, probabilmente ricordando della volta in cui eravamo stati tutti insieme a casa di Thomas. «Io sono Niall, piacere di conoscerti».
E così dicendo ci raggiunse, porgendo una mano a Stiles che ricambiò il saluto, stringendogliela senza esitazioni. Io e zia Erin ci limitammo a fissare la scena mentre Oriesta si dileguava, annunciando di aver bisogno di una doccia dopo due faticosissime ore di lavoro in biblioteca. Fu in quel momento, mentre osservavo vagamente distratta Stiles e mio cugino fare amicizia, accanto a mia zia, che sentii sul serio – per la prima volta in sedici anni – di avere una famiglia che non fosse composta semplicemente da mia madre e Cassandra. E mi sentii davvero bene.
«Vuoi giocare a LoL?», sentii che Niall proponeva a Stiles, proprio come se – anche lui – lo conoscesse da una vita e fossero già diventati grandi amici nel giro di due minuti.
Solo allora mi risvegliai dalla mia trance fitta di pensieri e dovetti trattenere una risata a metà tra il divertito e l’intenerito quando Stiles, subito dopo aver annuito nella direzione di Niall, si voltò a fissarmi con occhi brillanti e un sorriso soddisfatto in volto. La proposta di mio cugino doveva averlo reso davvero felicissimo e poco prima che si decidesse a seguirlo verso il pc da gaming nelle vicinanze della cucina, gli sorrisi e sillabai: «Divertiti». Io, a quel punto, raggiunsi ancora una volta mia zia.
«Tu e Stiles siete molto legati».
Lei mi accolse in cucina con quella frase e per un attimo m’immobilizzai, gelata dalla veridicità delle sue parole. Come aveva fatto a capirmi così bene? Era tanto evidente ciò che provavamo l’uno per l’altra? Nel dubbio mi limitai ad annuire nella sua direzione, fingendo tranquillità.
«Ti ringrazio per averlo invitato qui. Quando ho lui accanto per me è tutto più facile», le dissi, osservandola mentre si dedicava alla preparazione di tramezzini vari dall’aspetto gustoso. «È il centro di tutte le mie sicurezze. Come un paracadute quando sei nel pieno della caduta libera. Dovresti essere terrorizzata ma non ci riesci perché sai che c’è».
Non sapevo da dove avessi tirato fuori quelle parole ma ero sicura del fatto che mai avrei potuto descrivere cosa fosse Stiles per me meglio di così. Lo sapevo io proprio come lo sapeva zia Erin, che si limitò a sorridermi semplicemente poco prima di lasciare da parte i tramezzini e prendere a sciacquare le mani nel lavabo metallizzato.
«Posso farti una domanda?», le chiesi allora, decisa ad approfittare del momento di piacevole silenzio che mi si era presentato davanti per riempirlo con delle ottime quanto utili informazioni.
Zia Erin si limitò a mormorare un: «Certo» gentile, e allora le posi la domanda che mi vorticava in testa già da un po’.
«Ti senti mai come se Maila fosse stata più fortunata di te? Sai, senza poteri… La sua vita è più semplice, vero?».
Non appena il silenzio calò nuovamente nella stanza, mi sentii immensamente stupida. La mia domanda parve perdere improvvisamente senso e mi limitai a fingere una tranquillità che non possedevo più sotto gli occhi azzurri di mia zia. Chissà perché, sapevo già che non avrebbe risposto.
«Ti senti così, Harriet?», domandò infatti, rigirandomi la domanda forse perché convinta che gliel’avessi posta perché personale.
Ma si sbagliava.
Mi morsi un labbro, indecisa. Non volevo sapere se fosse invidiosa della sua gemella e della vita senz’altro più semplice che le era stata donata perché anch’io mi sentivo così nei confronti di Cassandra: nemmeno ci avevo mai pensato! Certo, fino a quel momento…
«N-No», balbettai allora, nella speranza di distogliere dalla mia mente certi pensieri. «Credo di non averci mai pensato prima d’ora».
«Be’, nemmeno io», mi sorrise Erin, e allora – sconfitta – non potei far altro che ricambiarla e deglutire, delusa.
Avevo fallito ma non glielo feci capire, limitandomi a sorriderle debolmente mentre le chiedevo se avesse bisogno d’aiuto lì in cucina.
Ma: «Certo che no, sei un’ospite», mormorò, poco prima di asciugare con un panno alcuni dei piatti ancora impilati sullo scolatoio. «Va’ da Oriesta e fatti prestare un costume: la piscina aspetta solo te!».
Piscina? No, grazie. Mi strinsi le braccia al petto, scuotendo la testa mentre rifiutavo gentilmente la sua offerta e poi ritornavo all’attacco.
«Per favore, c’è qualcosa che posso fare per darti una mano? Posso apparecchiare, per esempio!», proposi, ansiosa che decidesse di assecondarmi e mi desse un motivo per non starmene a girarmi i pollici finché il pranzo non sarebbe stato pronto.
Quando la sentii sospirare, un sorriso vittorioso si fece strada sul mio viso e realizzai che – almeno per quella volta – avevo vinto io.
«Tua madre deve proprio amarti. Sei una ragazza d’oro». Il mio sorriso si allargò ancor di più. Poi zia Erin cominciò ad indicarmi i posti dove avrei trovato le varie cose utili ed io la ascoltai in silenzio. «Le tovagliette sono nel secondo cassetto a destra e le posate subito sopra. Se non trovi qualcosa, chiedi».
Soddisfatta del compito che mi era stato assegnato mi misi subito all’opera, grata affinché non dovessi per forza portare avanti una conversazione – ormai divenuta imbarazzante – con mia zia, né provare ancora a farle domande alle quali non si sarebbe minimamente degnata di rispondere. Al contrario mi limitai ad apparecchiare la tavola, disponendo tre tovagliette per lato mentre mia zia continuava a trafficare in cucina.
Quando ci feci ritorno per procurarmi le posate, la vidi abbandonare la stanza e tornare poi con una sedia che pose a capotavola proprio nel momento in cui finivo di distribuire le posate per tutti. Confusa, mi limitai a fissare la scena. A pranzo saremmo stati in sei e c’erano già tutte le sedie che servivano, dunque perché Erin ne aveva aggiunta una?
«Avremo un ospite?», domandai, ancora con la sopracciglia aggrottate.
Lei si limitò ad annuire mentre mi riservava l’ennesimo sorriso, poi si scompigliò i capelli biondi e fece ritorno in cucina, seguita da me che ero intenzionata ad apparecchiare anche per il settimo misterioso ospite. Ma proprio quando fui ad un passo dal prendere un’altra tovaglietta e le posate utili, suonarono al campanello.
«Harry, penso io ad apparecchiare», sentii che mi diceva mia zia, bloccando il mio braccio prima che aprissi il cassetto contenente le tovagliette. «Tu puoi andare per favore ad aprire?».
Non potei far altro che annuire, dirigendomi fuori dalla cucina a passo spedito. Individuai Niall e Stiles col viso incollato allo schermo del pc: erano così presi dal gioco che nemmeno sembravano aver notato il suono del campanello, perciò evitai anche di salutarli con un cenno e semplicemente mi diressi verso la porta, aprendola con la curiosità di conoscere l’ospite appena arrivato che mi divorava.
Scoprii però con immenso rammarico che chi mi ritrovai davanti era l’ultima persona che avrei voluto vedere. Occhiali da sole impigliati tra i capelli biondicci, abbigliamento casual, niente lasciava presagire quanti anni avesse sul serio – ne dimostrava molti di meno – e occhi azzurrissimi, com’era tipico dei Carter. La gran parte di loro li aveva così e fu proprio quel dettaglio a dare la risposta al: Chi diavolo sei tu? che mi ronzava in testa già da un po’.
Philip Carter era lì di fronte a me.
 
All’inizio c’erano stati semplici sguardi silenziosi, all’apparenza inespressivi ma contenenti tutta la curiosità che provavamo l’uno nei confronti dell’altra. Quella era la prima volta in assoluto che vedevo mio padre dal vivo: fino a quel momento avevo osservato foto e ascoltato racconti, niente di più. Proprio come se sul serio colui che aveva contribuito alla mia nascita fosse nient’altro che una creatura mitologica impossibile da incontrare.
Poi era arrivata la consapevolezza e il pesante silenzio nel quale c’eravamo immersi era stato interrotto dalla voce squillante di mia zia, accorsa per salutare calorosamente il fratello maggiore. Mi limitai a sentire i suoi passi sempre più vicini a noi, senza però allontanarmi dalla porta che avrei voluto disperatamente chiudermi alle spalle mentre vedevo con la coda dell’occhio Stiles staccarsi dal gioco e mettersi in piedi senza però raggiungermi. Non sapeva come agire, proprio come me.
Ma alla fine qualcosa si mosse e trovai chissà dove la forza di scappare. Improvvisi conati di vomito mi si agitarono all’interno e, anche se tutto intorno a me aveva preso improvvisamente a girare vorticosamente, cercai di restare il più lucida possibile mentre lasciavo che zia Erin abbracciasse il fratello, facendomi lontana dalla porta d’ingresso e correndo a perdifiato verso il bagno.
Oriesta, appena uscita dopo la sua “doccia rigenerante” – come l’aveva definita lei tempo prima – mi osservò con occhi spaventati mentre la sorpassavo con uno spintone nient’affatto programmato e mi chiudevo la porta alle spalle con un tonfo, finendo poi a rovesciare anche l’anima nella tazza del WC giusto in tempo. Ero tutta un tremito ma me ne accorsi sul serio solo nel momento in cui le mie mani furono ancorate, dopo diversi sforzi, al lavandino in marmo di fronte allo specchio. Tutto girava, mi sentivo soffocare e la nausea non accennava ad andar via: evitavo come la peste di osservare il mio riflesso perché sapevo che ci avrei trovato niente di piacevole.
Quando Stiles mi raggiunse me ne resi conto subito. Sentii che si chiudeva velocemente la porta alle spalle, ignorando le domande preoccupate di Oriesta e fregandosene di agire con cautela ma dirigendosi al contrario verso di me affinché mi voltassi a fronteggiarlo. Nel farlo sentii la testa girarmi e avvertii a malapena la sua voce richiamarmi.
«Ehi», lo sentii però sussurrare, mentre una sua mano correva a scansare via una ciocca di capelli dal mio viso sudato. Lo vedevo a malapena ma già il sapere che fosse lì aiutò a farmi stare meglio. «Mi dici che succede? Hai rovesciato?».
Anche se la mia retina mi offriva immagini al rallentatore tipiche della sensazione di sbandamento che mi teneva prigioniera da ormai qualche minuto, riuscii comunque a vedere Stiles che si chinava verso il WC per capire se avessi rimesso o meno. Poi tornò a fronteggiarmi e solo allora capii che dovevo perlomeno provare a dargli una risposta, combattendo contro il respiro che sembrava mancarmi sempre più.
«Credo…», esordii, ritenendo obbligatoria una pausa per prendere fiato. «credo di star avendo un attacco di panico».
Le mani mi tremavano ancora troppo ma comunque le mossi sulle braccia di Stiles, insicura ma vogliosa allo stesso tempo di sentirlo vicino a me e rendermi conto che fosse sul serio lì – che non stessi in realtà impazzendo. I sintomi del mio malore erano tutti abbastanza evidenti e per un attimo mi chiesi come avesse fatto Stiles a non capire ma in realtà lui aveva compreso tutto: semplicemente voleva che gli parlassi e glielo dicessi. Quando mi afferrò il viso con entrambe le mani trovai anche il coraggio di continuare.
«Voglio andar-mene», pronunciai, a fatica ma facendo comunque in modo di farmi comprendere.
Ma Stiles si limitò a scuotere piano la testa ed io compresi subito che non mi avrebbe mai permesso una cosa del genere.
«Questa è la tua occasione, Harry», spiegò, tentando inutilmente di far valere le sue ragioni. «Tuo padre è qui. È qui per te».
Al suono di quelle parole una nuova ondata di nausea – più forte delle precedenti – mi assalì, e dovetti impegnarmi a fondo per non rovesciare ancora. Alla fine risolsi chiudendo gli occhi, inspirando ed espirando finché non mi sentii più tranquilla. Stiles non fece altro che restarmi accanto in silenzio, accarezzandomi i capelli affinché potessi rilassarmi almeno un po’.
«Non ce la faccio», stabilii alla fine, ritornando a guardarlo.
Lui semplicemente mi sorrise.
«Sì che ce la fai. Devi solo calmarti e prendere un paio di respiri profondi. Quando ti senti pronta me lo dici e usciamo. Insieme, come sempre. Ti starò accanto».
Quanto potevano essere importanti, per me, semplici parole come quelle? Moltissimo. Tanto che improvvisamente mi sentii più tranquilla e socchiusi nuovamente gli occhi, respirando profondamente proprio come da suggerimento.
«Non mi lasci?», chiesi dopo un po’, sempre tenendo gli occhi chiusi perché timorosa di una risposta negativa, anche se sapevo che mai Stiles avrebbe potuto darmene una.
«E perché dovrei?», lo sentii infatti che mi diceva, riuscendo chissà come a strapparmi un sorriso.
Allora riaprii gli occhi: sembrava strano ma mi sentivo già meglio. Mossi lentamente le braccia, facendo intendere a Stiles che aspettavo solo un suo abbraccio e lui subito capì perché mi attirò ancor più vicina al suo corpo. Gli passai le braccia attorno al petto mentre lui le posava sulle mie spalle, infilandomi una mano tra i capelli lunghi. Sospirai sollevata e solo allora mi resi conto di come il mio attacco di panico fosse scomparso.
 
«Hai detto di volermi parlare ma dalla tua bocca non viene fuori nulla».
A malapena percepii la mia voce, resa ancor meno alta dall’infuriare del vento nel giardino in ombra di casa Osbourne. Quella domenica era cominciata bene e stava andando sempre peggio: pareva che pure il tempo volesse farmelo capire e stesse preparando perciò un temporale in piena regola. Nonostante tutto, però, continuavo a starmene seduta in giardino – né troppo lontana né troppo vicina a mio padre, nell’attesa che parlasse proprio come aveva detto di voler fare – cercando di non morire assiderata prima di aver visto e sentito che intenzioni avesse. Nell’attesa, mi strinsi maggiormente nella mia giacca pesante.
«Ti chiedo scusa», pronunciò, e mi resi conto di come quella fosse una delle prime volte che sentivo la sua voce. Aveva un timbro particolare: non era né troppo roca né troppo squillante, piuttosto simile alla mia, cosa che mi fece rabbrividire – non di certo per il freddo. «È difficile trovare qualcosa di adatto per iniziare».
Mugugnai, annuendo impercettibilmente. Forse non avrei dovuto ma riuscivo a capirlo. Quella situazione per me non era facile ma scommettevo che per lui, nonostante tutto, la cosa non fosse da meno. Poi poco importava che se la fosse cercata da solo.
Però scrollai le spalle con noncuranza, perfettamente decisa a non mostrare nessun tipo di comprensione – l’avrei tenuta solo per me.
«Che ne dici di esordire con: “Sono stato chissà dove in questi sedici anni senza preoccuparmi di te perché anche dopo quasi mezzo secolo di vita sono comunque uno stronzo incapace di prendersi le sue responsabilità”? Ti piace?», proposi, aprendomi – sul finale – in un sorrisino storto che speravo mi avrebbe fatto guadagnare una reazione da parte di Philip.
Ne volevo una disperatamente. Volevo che mi parlasse sul serio, non che fingesse, volevo che urlasse se lo riteneva opportuno e mi facesse sentire le sue ragioni. Perché io, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire nemmeno la metà dei suoi comportamenti. Ma al contrario Phil se ne rimase seduto al mio fianco con la solita espressione indecifrabile che da quando era entrato in quella casa non gli avevo mai visto abbandonare.
«Non sai perché me ne sono andato», mormorò inespressivo, come se stesse leggendo la lista della spesa e non dicendo qualcosa di davvero importante a sua figlia.
«Perché non me lo spieghi, allora?».
Dire che il pranzo fosse stato imbarazzante sarebbe un eufemismo. Un silenzio teso aveva fatto della tavola il suo habitat naturale, intervallato solo dalle domande fuori luogo/spezza tensione di mia zia Erin, domande alle quali mio padre aveva dato sempre mezze risposte di poco conto. In tutto quell’ambaradan, come se non bastasse, non avevo avuto occasione di conoscere mio zio Simon, padre di Niall e Oriesta e marito di Erin. Peccato.
«Sono scappato in Texas perché volevo disperatamente una vita normale, che non avesse niente a che fare col soprannaturale di cui è piena Beacon Hills. Credo che almeno da questo punto di vista potrai capirmi». , pensai immediatamente, distolta dai miei pensieri divaganti. Sì, ti capisco. Continua, ti prego. «Ero un secondogenito costretto ad ereditare poteri che non volevo e a vivere una vita che era stata già programmata per me e non avrei mai – mai – sopportato di vederti fare la stessa fine. Quando sei nata, io… ho avuto paura. Tanta paura. E lo so – lo so – che ho sbagliato, e mi dispiace, sul serio: te lo giuro. Ma non sarei stato in grado di fare nient’altro».
Capii di come mio padre stesse facendo il mio stesso gioco nel momento in cui lo vidi scrutarmi attentamente, alla ricerca di una mia reazione. Voleva anche lui che reagissi e mostrassi qualcosa – qualsiasi cosa – ma non gli avrei dato soddisfazione, proprio come aveva fatto lui con me. E quando vidi una scintilla di delusione farsi largo sul suo volto, capii di aver vinto. Aveva mostrato un’emozione.
«Molto commovente», dichiarai però, evitando di distrarmi. «Ma ho una sorpresa per te: non solo i secondogeniti possono ereditare poteri di chiaroveggenza. Avrebbe potuto averne anche Cassandra. Ma tu no, hai lasciato la tua famiglia senza informarti sulla cosa e hai lasciato noi compiendo lo stesso sbaglio un’altra volta ancora. Ci hai abbandonate per nulla, ne sei consapevole? E non provare a dirmi che non lo sapevi perché Erin è tua sorella, non è una secondogenita e ha poteri – proprio come ne hanno i suoi figli e quelli di Maila. Non potevi non saperlo».
Non appena ebbi finito di parlare distolsi lo sguardo dal suo viso – mi stupivo di come riuscissi a sostenere il suo sguardo senza problemi, sicuramente merito del mio spropositato orgoglio – e lo puntai tutt’intorno a me, individuando subito Stiles intento a muoversi nervosamente da una parte all’altra del salotto di casa Osbourne. Potevo vederlo attraverso le ampie vetrate e non mi serviva nient’altro per capire quanto fosse in ansia – per me.
Sperai immediatamente che potesse voltarsi e vedermi e quando il mio desiderio fu esaudito, gli regalai l’ombra di un sorriso e un’occhiata che – speravo – gli avrebbe fatto capire che stessi bene, nonostante tutto. Quando vidi Stiles ricambiarmi capii che avesse recepito il messaggio e mi sentii immediatamente sollevata.
«Non lo sapevo. L’ho scoperto dopo».
«L’hai scoperto dopo», ripetei stupidamente, trattenendo a malapena una risatina fintamente divertita. «Certo… E dopo averlo scoperto non ti è mai venuta voglia di tornare dalla “secondogenita maledetta”? Quella che ti ha spaventato così tanto da abbandonare una casa e una famiglia, e che aveva disperatamente bisogno di te nonostante tutto? Quella che aveva bisogno di sapere che non eri un personaggio immaginario o qualcuno che poteva guardare solo in foto quando ne sentiva davvero troppo la mancanza? No, eh?».
Solo allora mi immobilizzai, assumendo anche un’espressione sconvolta senza che me ne potessi rendere conto sul serio. Oh, mio Dio. Cos’avevo fatto? Quanto mi ero lasciata andare? Dov’era finita la mia corazza di orgoglio, pronta a difendermi da qualsiasi emozione pronta a distruggermi? Provai, proprio come poche ore prima, il forte impulso di piangere. Ma ancora una volta riuscii a combatterlo – inutilmente, tra l’altro, perché a Philip bastò guardarmi attentamente per comprendere ogni cosa.
«Quando l’ho scoperto era già troppo tardi. E mi dispiace, ripeto», sillabò, quella volta a voce più bassa.
Mi sembrava che si impegnasse a mostrare qualcosa ma senza riuscirci. Non importava cosa mi dicesse, continuavo a vederlo come una maschera neutra e le sue parole – per quanto belle fossero – non mi trasmettevano niente. Ecco qual era la cosa peggiore. Ma non era l’unica.
«Sai qual è la cosa peggiore?», chiesi infatti. «Non è mai troppo tardi».
Non per te, pensai, ma non gliel’avrei mai detto. Mi limitai a scostare rumorosamente la sedia sulla quale ero stata seduta fino a quel momento per poi mettermi in piedi, lentamente. Non l’avrei mai ammesso ma, stupidamente, speravo che mi fermasse. E quando lo fece, capii che avesse deciso di mostrarmi qualcos’altro. Non voleva lasciarmi andare. 
«Harriet?», lo sentii infatti che mi richiamava, sobbalzando, improvvisamente agitato dai miei movimenti. «Non andare via. Parliamo ancora un po’. Ti prego».
Quelle ultime due parole quasi mi fecero vacillare, tant’è che afferrai il tavolo in marmo per reggermi, sperando che mio padre non avesse notato quell’ennesimo momento di grande insicurezza. Mi sarebbe piaciuto restare lì con lui, nonostante tutto, ma arrivati a quel punto cos’altro avremmo potuto fare?
«Non ho niente da dirti», sussurrai semplicemente, lasciando andare il tavolo e la sedia, facendo un passo indietro per allontanarmi gradualmente da quella situazione. «Voglio solo che tu risponda ad una domanda. Mamma quanto sa di tutta questa storia?».
Vidi mio padre aggrottare le sopracciglia dorate e strizzare gli occhi azzurri, così diversi dai miei.
«Nulla», mi rispose poi, sempre mostrando la sua improvvisa confusione. «Sono scappato ad Austin proprio per allontanarmi dal soprannaturale. Insomma, amo tua madre ma non l’avrei mai condannata al fardello di sapere cosa e chi sono in realtà. Come ho fatto con te…».
Ennesimo momento d’insicurezza, ancora che rischiavo di avere uno scompenso. Cos’era, all’improvviso Philip sapeva quali parole usare per colpirmi nel profondo o la sua era semplicemente una tattica perché non andassi via? Per quanto ci provassi, non riuscivo a fidarmi.
«Okay. Grazie per avermi risposto», dissi dunque, cercando di dissimulare e di scacciare via dalla mente le parole “amo tua madre”.
Perché? Perché usare il presente? Mentre facevo per ritornare – finalmente – da Stiles, avvertii gli occhi inumidirsi e la gola stretta in una morsa soffocante. Oh, no. Non avrei pianto proprio alla fine. Non dopo aver affrontato tutto quello. Ecco perché deglutii rumorosamente e strinsi i denti, sotto la figura di mio padre che solo allora decideva di alzarsi, con movimenti impacciati e indecisi. Voleva salutarmi? Me lo chiesi a lungo mentre mi dirigevo verso la porta a vetri conducente al salotto, promettendo a me stessa che non gliel’avrei permesso. Non sarei riuscita a sopportarlo.
Ma: «Harriet? Aspetta», sentii che mi richiamava, e la mia mano s’immobilizzò sulla maniglia, congelata. Pur non volendo, fui costretta a cercare nuovamente il suo sguardo chiaro. «Come stanno? Tua madre e Cassandra, intendo».
Ennesimo colpo basso. Ma non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi scombussolata ancora una volta. Perciò risolsi scrollando le spalle e ostentando nonchalance.
«Bene. Siamo sopravvissute anche senza te», risposi, mordendomi un labbro e sapendo di dire la pura e semplice verità. «Mamma è felice: ha un uomo che la ama e due figlie che farebbero di tutto per lei. Così Cassandra, che ha deciso di sposarsi l’anno prossimo».
A quella rivelazione, Phil reagì sgranando gli occhi e boccheggiando per un attimo. Doveva essere strano, per lui, tornare e trovare una me sedicenne, mamma fidanzata e Cassandra pronta a sposarsi. Soprattutto per Cass, dal momento che aveva vissuto i suoi primi undici anni e avevano senz’altro un legame più forte.
«Oh…», fu tutto ciò che riuscì a dire, distogliendo lo sguardo dal mio viso e infossando le mani nelle tasche dei pantaloni scuri.
Allora capii che fosse il momento di andar via. Non prima però di avergli dato un ultimo consiglio, che in fondo speravo avrebbe messo in atto.
«Magari potresti chiamarle», suggerii, pentendomene l’attimo dopo. Ma nonostante tutto continuai, stringendo convulsamente la mano sulla maniglia. «Voglio dire, sei venuto fin qui dopo avermi ignorato per sedici anni. Puoi farcela a fare una telefonata».
A quel punto decisi di rientrare – scappare – e mossi la maniglia fino ad aprire la porta-finestra. Ero già per metà nel salotto quando l’ennesima frase di mio padre mi gelò sul posto.
«Somigli davvero tantissimo a loro».
Inspirai profondamente, cercando di racimolare una calma che ormai non mi apparteneva più. Lo sapevo di assomigliare a mia madre e Cassandra, ma sentirmelo dire da lui faceva – senza motivo – tutt’altro effetto. Voltai il capo di tre quarti, donandogli l’ultimo sguardo di quella giornata. Poi parlai.
«E non ho nulla di te…».
 
È insolito che io scriva a quest’ora – a dire il vero, è insolito che io scriva e basta – non so nemmeno perché stia facendo una cosa del genere, so solo di averne bisogno. Devo... sfogarmi. Sfogarmi? È la parola giusta? Non lo so. Non so un sacco di cose, di certo ne so ancora meno da quando sono arrivata qui a Beacon Hills esattamente due mesi e due giorni fa.
Certe volte penso che dovrei pentirmi del mio trasferimento. In questo esatto momento, con me che me ne sto rintanata sotto il piumone, con la felpa che Jamie mi ha portato il Natale scorso da Brooklyn, i capelli scompigliati e un accenno di febbre, il pentimento è l’unica cosa alla quale riesco a pensare.
Dire che oggi sia stata una giornata stancante non rende il concetto nemmeno lontanamente. Certo, qualcuno potrà pensare: “Da quando sei qui, quale giorno non lo è stato?” il che in effetti è anche un po’ vero, ma riflettendoci bene... no. No, oggi ho proprio passato il segno.
Come da previsione, fuori s’è scatenato un temporale senza eguali – cosa che, a ben pensarci, non aiuta per nulla il mio animo fortemente meteoropatico. Peccato. La pioggia scende senza fermarsi e sbatte sui vetri, rendendomi triste e pensierosa e infreddolita, anche se questo credo sia merito della febbre che mi sono beccata – come se già non avessi altre cose di cui preoccuparmi, tipo quel magnifico uomo che è mio padre, ritornato alla riscossa dopo sedici anni di sesso, droga e rock ‘n’ roll. Be’... rock ‘n’ roll di sicuro.
Mi rendo conto di star esagerando. Il punto è che mi sento tramortita. Non so cosa dovrei pensare, fare, dire. Ho cominciato dicendo che dovrei pentirmi di essere giunta qui a Beacon Hills e, be’, ecco: dovrei. Il punto è che non ci riesco. Certo, se riuscissi a pentirmene, maledire questa città e tornarmene a casa giuro che l’avrei già fatto – perlomeno starei preparando le valigie, questo è poco ma sicuro. Ma non funziona così: a quanto pare sono, ahimè, molto più complicata.
La verità è che qui c’è troppo. Troppe cose, troppe... persone, perché io possa avere il coraggio di mollare tutto e continuare a vivere come se nulla fosse stato. Qui c’è Stephen, che è quanto di più simile ad un padre io abbia mai avuto in sedici anni di vita. C’è Stiles che, che lo dico a fare?, ormai è troppo importante per me perché possa trovare anche solo una parola che renda giustizia a ciò che sento per lui. Ci sono Scott, Allison, Lydia, Jackson e... sì, dai, c’è anche Derek. E c’è una casa. C’è una famiglia della quale nemmeno conoscevo l’esistenza. E, last but not least, c’è mio padre.
Ora, okay, intendiamoci. Non mi aspetto che rimanga qui per sempre, al contrario sono certa che sparirà nel momento in cui inizierò a fidarmi – semmai succederà una cosa simile – giusto per farmi soffrire un altro po’, proprio come se questi sedici anni non fossero già abbastanza ma bisognasse a tutti i costi aggiungere il carico da novanta e spuntare da chissà dove con quegli odiosissimi occhioni azzurri, gli occhiali da sole calcati in testa e la giacca di pelle nera. Apparire quando, a sedici anni, credo di essere pronta a passare tutta la mia vita con la mancanza costante di una figura paterna e ripetermi sempre: “Finora ce l’ho fatta benissimo senza e continuerò così” è diventato quasi piacevole. Ma no, mio padre deve tornare e distruggere tutte le mie convinzioni.
Sapete qual è la cosa peggiore? Una parte di me è disposta a permetterglielo. Non lo dirò mai ad alta voce – forse è questo il motivo per cui sto scrivendo – ma in fondo spero che mi dia una ragione, una, mezza, affinché io possa ricredermi sul suo conto e sul mio. Capire che no, da sola non ce la faccio ma va bene così, perché in fondo ho solo sedici anni ed è giusto che voglia un padre accanto a me: al mondo non c’è persona che non senta ciò che provo io. Voglio potermene convincere, voglio che mio padre mi convinca di questa cosa. Ma allo stesso tempo c’è una parte di me che sa nulla di tutto questo accadrà e se la prende con la metà speranzosa, schernendola e urlandole contro.
Non sono qui a Beacon Hills da tanto, eppure – in questo esatto momento – mi rendo conto con dispiacere di come Austin sia diventata per me quasi un ricordo. Un bellissimo, meraviglioso, ricordo. Ma nient’altro che questo. E, badate, non è nemmeno un ricordo al quale posso appigliarmi nei momenti bui. Al contrario è qualcosa che, quando ci penso, non fa altro che buttarmi giù ancor di più perché mi dà la certezza vera e inconfutabile che non riavrò mai più ciò che ero un tempo – nemmeno quando ci ritornerò. La vita che conducevo, i rapporti che intrattenevo. La spensieratezza che ogni sedicenne dovrebbe avere e che io, neo-chiaroveggente prossima al comando della famiglia Carter, vedo invece scivolarmi tra le dita come finissima e inafferrabile sabbia.
Credo che a questo punto nessuno potrà contraddirmi se mi lamento un po’ di tutte queste cose e decido che dovrei pentirmene ma che non ce la faccio e evito di arrabbiarmi anche se mi piacerebbe un sacco poterlo fare. Una cosa comunque posso dirla con certezza, ed è che sono grata, sul serio. Ringrazio il fatto che qui a Beacon Hills riesco a sentirmi a casa così tanto da non avvertire quasi più la mancanza del Texas. Sono grata a mia madre, a Cass, alla professoressa Morrell e in generale alla Beacon Hills High School per avermi dato l’opportunità di vivere in un altro paese e dico grazie – non a voce ma giuro che rimedierò – ai miei due uomini preferiti per avermi ospitato nella loro meravigliosa casa e avermi fatto sentire come se appartenessi a questo posto e alle persone che vi ho trovato da più o meno sempre. Non tutti hanno opportunità come questa e forse è proprio per ciò che non riesco a pentirmi sul serio di aver cambiato Stato né ad arrabbiarmi per tutto ciò che di brutto mi è capitato. Perché mi sento fortunata e, indovinate un po’?, lo sono sul serio.
Da quando sono qui ho fatto cose che non dimenticherò mai. Sto costruendo la mia vita e non sono sola
Improvvisamente, arrestai il ritmo di scrittura e m’immobilizzai. Stiles era apparso proprio pochi secondi prima che, tanto per cambiare, scrivessi di lui. Che fosse un segno del destino? Ancora non so darmi una risposta, fatto sta che gli dedicai un sorriso stanco mentre chiudevo penna e agenda, posandole sul comodino di fianco al letto. Stiles non se lo fece ripetere due volte: semplicemente gli feci segno di raggiungermi a letto e lui ubbidì – come se ormai fosse una cosa scontata e abitudinale. Io di tutta risposta mi limitai a fargli spazio, nell’attesa silenziosa che si sdraiasse. Non appena lo fece mi misi giù anch’io, con la testa sul suo petto e un braccio attorno alla vita di Stiles. Potrei giurare di averlo sentirlo sorpreso, all’inizio, ma qualsiasi tentennamento svanì quando anche lui ricambiò la mia stretta e mi lasciò un bacio tra i capelli.
«Come stai?», domandò poi dopo qualche tempo, forse percependo il mio vago malumore.
Inizialmente mi limitai a stringermi contro il suo petto, inspirando l’odore che la sua t-shirt grigia emanava. Era l’odore di Stiles ed era casa.
«Stordita», mormorai infine, socchiudendo gli occhi stanchi. «E sono sicura di avere un po’ di febbre».
Be’, in realtà ne ero più che sicura. Quel pomeriggio, durante la chiacchierata con mio padre, avevo preso non poco freddo e già prima di lasciare casa Osbourne avevo cominciato a sentirmi tramortita. Avevo brividi di freddo ma mi sentivo accaldata, proprio com’era tipico della febbre. Stiles, comunque, si limitò ad aprirsi in una serie di: «Oh» che non compresi finché non continuò a parlare.
«Dovrei alzarmi, non è vero? Comportarmi da bravo padrone di casa e portarti il termometro».
Allora risi.
«Ma?», chiesi, nell’attesa che continuasse, già con una risata divertita che spingeva alla base della gola.
Sapevo avrebbe detto qualcosa di ridicolo, come al solito.
«Ma non mi va! Sto così bene…», esclamò infatti, con una voce stridula da bimbo lamentoso. «Cioè, oh Dio. Direi che questo letto è stretto anche per una persona sola e in effetti sto un po’ scomodo, ma».
Lo interruppi subito, mi venne spontaneo.
«La prossima volta dormiamo nel tuo che è più grande».
Solo dopo mi resi conto di ciò che avevo detto. Ancora una volta Stiles prese a boccheggiare e ripetere: «Ah» mentre io pensavo solo oh, merda.
«Cioè…», provai a correggermi, ma cosa avrei potuto dire?
Ero troppo imbarazzata: così tanto che il cervello aveva deciso di non aiutarmi nemmeno un po’. Stiles lo capì subito.
«Harry», mi richiamò, con un tono di voce serio che raramente gli avevo sentito utilizzare. «non andare in paranoia, okay? Mi sposterei già da adesso ma sono troppo stanco e scazzato. Quindi stanotte qui, la prossima da me».
Improvvisamente m’illuminai, proprio come se nulla fosse successo. Un sorriso si aprì magicamente sulle mie labbra, per poi diventare più grande quando – con qualche difficoltà, lo ammetto – mi alzai quel tanto che bastava ad inquadrare il viso di Stiles.
«Dormi qui stanotte?», gli domandai, ricevendo in risposta un cenno d’assenso.
«Mi sembra il minimo, mademoiselle. Tengo compagnia ad una povera donzella ammalata».
Scoppiai a ridere.
«Ma che gentiluomo», dissi. Poi: «Il tuo francese è migliorato» aggiunsi a bassa voce.
Continuai a fissare Stiles in viso, sistemandomi per stare un po’ più comoda mentre gli passavo una mano tra i capelli e ridacchiavo per il solletico che puntualmente riuscivano a procurarmi.
«Continua a non piacermi, però», mormorò Stiles scrollando le spalle. «Tra l’altro se hai la febbre domani salti scuola e mi abbandoni nelle grinfie della Morrell!».
Alzai gli occhi al cielo. Quando ci si metteva, era proprio melodrammatico. Feci per dirglielo, ma poi un altro pensiero mi passò per la testa e non potei fare a meno di ridere poco prima di esprimerlo a voce.
«Puoi saltare scuola anche tu», spiegai infatti, beccandomi un’occhiata stranita da Stiles, che però non chiese nulla e si limitò ad attendere chiarimenti. «Posso infettarti».
E allora ricevetti in risposta nient’altro che un meraviglioso sorriso complice che ricambiai senza farmelo ripetere due volte, mentre mi tuffavo nuovamente sulle labbra di Stiles. Un paio di giorni a casa erano tutto ciò di cui avessi bisogno.
Oltre a Stiles, ovviamente.
 

 
The end
 









Non sono brava coi ringraziamenti, anzi no: faccio direttamente schifo e credo avrete avuto modo di notarlo nello scorso capitolo. Ma ad ogni modo cercherò di impegnarmi perché dopo aver sopportato me e questa storiella senza pretese per la bellezza di un anno e dieci giorni, vi meritate questo e altro.
Innanzitutto voglio ringraziare
lilyhachi, a cui è dedicato questo epilogo che, lo ammetto, lascia un po’ a desiderare. Voglio ringraziarla perché è un tesoro bellissimo e mi è sempre rimasta accanto, dall’inizio fino alla fine, anche al di fuori di parachute. È proprio per questo che le devo tutto.
Poi voglio ringraziare
Muchlove9, che è una vera e propria meraviglia e con le sue recensioni ad alto tasso di sclero mi ha puntualmente fatto spuntare sorrisoni. AHAHAHA, la ringrazio anche perché come fangirla lei nessuno – a parte me, il che mi fa sentire sempre molto ma molto compresa.
E ringrazio anche tutte le altre: chi è stato sempre presente e chi no, perché indifferentemente da questo avete tutte saputo farmi felice e ogni vostra singola parola mi ha aiutata ad andare avanti nello scrivere questa storia che se non fosse stato per quella mezza scena scritta per gioco e pubblicata qui per lo stesso motivo, probabilmente non avrei mai scritto. Quindi grazie, grazie, grazie, grazie!
Siamo arrivati alla fine di questa prima parte del viaggio e l’unica cosa che posso augurarmi è di ritrovarvi ancora tutte qui per leggere delle prossime avventure di Harriet e Stiles, questo quando mi deciderò a pubblicare il sequel. So di certo che non arriverà presto ma il resto è ancora tutto da decidere, quindi se ci tenete a restare in contatto con me (cosa che mi farebbe molto ma molto piacere) potete scrivermi, su efp o fb che sia fa poca differenza. Alla prossima,
hell 

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