Some kinds of Revolution.

di _Noodle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Senza giacca e senza difese. ***
Capitolo 2: *** Il lato oscuro della luna. ***
Capitolo 3: *** Sorprese. ***
Capitolo 4: *** Immaginate. ***
Capitolo 5: *** Rose nella miseria. ***
Capitolo 6: *** Amare non è poi la stessa cosa che credere? ***



Capitolo 1
*** Senza giacca e senza difese. ***


Disfatto.
Distrutto.
Disperato.
Era in balia del sentimento più aggressivo in cui si fosse mai imbattuto: l’amore.
Non si trattava di amore per gli ideali, per la patria o per il diritto, ma di amore fisico, umano, tangibile. L’uccello che si fa atterrare dal rospo? Inaudito; eppure quella volta Enjolras era affogato nell’acqua stagnante e torbida della palude delle emozioni e il disperato bisogno di uscirne non gli dava pace: aveva smesso di mangiare, di dormire, di parlare. La sua eloquenza e la sua capacità persuasiva, che facevano invidia a quelle dei grandi oratori del passato, si erano assopite e sembrava che non volessero più destarsi.
“Certi tipi di rivoluzione non sono pronto ad affrontarli”, si ripeteva continuamente con le mani nei capelli e le lacrime negli occhi e la vergogna, parola dopo parola, lo inglobava e lo annullava.
Lui, che era sempre stato così fermo e così convinto di ciò che il cuore gli suggeriva, ora si ritrovava a desiderare che la luce ferisse la sua mente e che scacciasse quel sentimento che per lui rappresentava l’oscurità. In quel momento la passione per la politica e quella per le leggi non erano niente, non suscitavano in Enjolras alcun fremito, come invece avevano sempre fatto.
Lui, che ignorava quell’essere chiamato “la donna”, adesso era desideroso più che mai di addentrarsi nel labirinto senza via d’uscita chiamato “l’uomo”. Riteneva che fosse sbagliato e strano, che fosse da codardi e da rammolliti abbassarsi a tali fantasticherie, ma non poteva fare a meno di pensarci.
L’amore era riuscito a renderlo più brutto. Le lacrime avevano scavato occhiaie profonde e violacee intorno ai suoi occhi dannatamente angelici, il poco cibo che mangiava aveva fatto sì che i suoi denti, solitamente bianchi e perfetti, s’ingiallissero e le dolci rughe che incorniciavano il suo sorriso si erano fatte più profonde (forse perchè di nascosto sorrideva più spesso quando pensava a lui). Si guardava allo specchio e rabbrividiva. Era ancora capace di essere terribile?
Apollo era stato deriso da Eros e sedotto da Bacco.
“Continuerai ad amarmi quando non sarò più giovane e bello?” gli chiedeva in silenzio senza ottenere mai una risposta. 
“Domani è amore!” aveva urlato ai suoi uomini pensando all’amore come fratellanza, rispetto, libertà: perchè adesso pensava a questo sentimento come un qualcosa di strettamente carnale e di vivo?
Al Musain appariva distratto e privo di convinzione. Lì, al Cafè, aveva assaporato le sue bugie e conosciuto le sue idee molli e le aveva odiate, ma chissà perchè quell’odio così radicato ad un tratto si era trasformato in interesse. Che fosse assuefatto dall’alcol? Che si fosse ubriacato anche lui per via indiretta? Che si fosse ubriacato delle sue parole e della sua risata ironica?
Quando faceva irruzione nel Musain, Enjolras ritornava improvvisamente se stesso, per non sfigurare davanti a lui, ma dentro bruciava di desiderio e talvolta il suo corpo lo manifestava quando per sbaglio si sfioravano camminando. Finalmente, dopo ventidue anni, aveva dato un nome a questa strana magia che mandava l’anima in fiamme: ma non la voleva accettare. Perchè? Forse perchè se l’altro non avesse ricambiato il sentimento o avesse cambiato opinione su di lui, come era giusto che uno scettico facesse, Enjolras non avrebbe potuto sopportarlo.
C’erano rivoluzioni che non era in grado di affrontare: una di queste era Grantaire.
 
Era una tiepida mattina di fine maggio. Apollo giaceva addormentato sul letto con addosso i vestiti della sera prima: la camicia di lino bianca, la cravatta nera lucida, la cintura rossa e i pantaloni, dello stesso colore della cravatta. Gli stivali restavano abbandonati sul pavimento di legno, la giacca rossa scivolava dalla scrivania.
Si svegliò verso mezzogiorno con un mal di testa allucinante. Gli pulsavano le tempie e gli bruciavano gli occhi; l’evidente vena che scorreva come un fiume sulla sua fronte era più spessa del solito. Si mise a sedere lentamente, cercando di non dar retta al corpo intorpidito e alle mani formicolanti e appena aprì coscientemente gli occhi sobbalzò. La camera in cui si trovava non era la sua, le lenzuola non erano pure e candide come quelle del suo letto, ma giallastre e ruvide. La scrivania su cui era appoggiata la sua giacca era invasa da bottiglie di vino vuote. Il cuore incominciò a pulsargli compulsivamente e il respiro gli si fece più affannato, cercava di alzarsi da quel letto poco accogliente ma le gambe non sostenevano il suo peso, tremavano come in preda alle convulsioni. Ricadde prono sul pavimento.
 
Con un alito tremendo gli sussurrò all’orecchio: << Bonjour mon am… >> Grantaire s’interruppe senza completare la frase.
Enjolras, ripresosi dallo svenimento improvviso, si era alzato freneticamente spalancando gli occhi come se avesse appena visto un fantasma. Senza proferire parola era corso via abbandonando Grantaire nella stanza. Aveva sceso le scale a piedi nudi, barcollando e sbattendo sulle pareti; la sua altezza non lo rendeva fiero (inaspettatamente dal solito), ma ridicolo, poiché sembrava un gigante intrappolato in una casetta di marzapane.
Grantaire rimase seduto a terra sorridente. “Mi lascerà mai finire di parlare?” pensava.
“Credeva forse che gli volessi dire ‘bonjour mon amour’? E’ curioso il fatto che ‘ami’ e ‘amour’ abbiano le prime due lettere in comune”.
Ancora più curioso, in effetti, era il fatto che Grantaire pensasse che Enjolras avesse inteso quella parola come “amour” e non come “ami”. Leggevano l’uno nella mente dell’altro senza volerlo (o forse sì). Si alzò in piedi e con accurata lentezza ripose la giacca del suo amico nell’armadio, in modo che non si rovinasse. Riusciva a sentire il suo odore impregnato su di essa, un odore forte e sfacciato che lo faceva sospirare ogni volta. Sorprendentemente sobrio, si affacciò alla finestra e lo vide mentre fuggiva disperato. Scosse la testa meravigliandosi ancora una volta di quanto quel ragazzo potesse essere intrepido e indifeso allo stesso tempo.
Enjolras, svoltato l’angolo nella via che lo avrebbe ricondotto a casa, correva come avrebbe corso uno zoppo, con le gambe doloranti e gli occhi offuscati dall’intollerabile e dopo pochi metri s’imbattè in Jean Prouvaire, che con aria spensierata teneva in mano una margherita.
<< Enjolras che ci fai qui fuori in questo stato? Dove sono i tuoi stivali? >> chiese con tono preoccupato.
Il biondo si ricordò solo in quel momento di essere a piedi nudi nel centro di Parigi.
<< Diamine... >> sussurrò rimproverando se stesso di non essere stato abbastanza accorto.
<< Che cosa? Enjolras che hai combinato? >>
<< Non lo so Jean. Non ricordo assolutamente nulla di quello che mi è successo. Mi sono ritrovato stamattina tra le lenzuola del letto di… >> la sua voce si trasformò in sibilo e il suo sguardo cominciò a vagare distratto nell’aria. Jean non l’aveva mai visto così piccolo e impaurito. In quel momento non avresti pensato che fosse il fervente testimone della Rivoluzione francese, eppure c’era qualcosa nel suo sguardo che lasciava trasparire una certa fierezza, purtroppo ferita.
<< Se mi segui fino a casa te lo spiego. >>
Prouvaire fece cenno di sì con la testa e Enjolras lo strattonò con forza prendendogli il braccio. Abbassando lo sguardo verso la sua mano vide la margherita e benché si trovasse in un particolare stato d’incoscienza non poté fare a meno di domandargli: << Perchè hai con te una margherita? >>
<< Me l’ha donata una ragazza. Si chiama Eponine. La conosci? >>
<< No. >>
E continuarono. 
Dopo che arrivarono a casa di Enjolras e  dopo che quest’ultimo si cambiò, si sedettero al tavolo e con un certo tremore,  Apollo cominciò a raccontare all’amico la sua strana esperienza.
<< Stamattina mi sono ritrovato tra le lenzuola del letto di Grantaire. >> Enjolras arrossì, probabilmente era l’influenza di Jean.
Quest’ultimo spalancò gli occhi accennando un lieve sorriso. Tutti al Musain sapevano di quanto Grantaire ammirasse Enjolras, ma non avrebbe mai pensato che questa ammirazione potesse raggiungere un tale sviluppo.
Enjolras lo guardava confuso.
<< Non ricordi assolutamente niente di quello che ti è successo dopo essere uscito dal Cafè? >>
<< Assolutamente niente. Ricordo solo che me ne stavo tornando tranquillamente a casa e che Grantaire era rimasto ad ubriacarsi lì dentro come suo solito. >>
Jean fece una smorfia e si portò la mano destra al mento per pensare. Effettivamente era la verità e lui stesso non riusciva a spiegarsi l’accaduto.
<< Enjolras >> riprese il poeta << parla con sincerità. Tutti abbiamo notato dello strano rapporto che c’è tra te e Grantaire. >>
Enjolras sbatté il pugno sul tavolo e si avvicinò con il volto a Jean esclamando con estrema fermezza: << Tra me e quello scettico ubriacone c’è solo intolleranza. Sai benissimo che le sue idee senza spina dorsale mi danno il voltastomaco >>.
Enjolras si sentiva un verme. Come poteva mentire a se stesso in quel modo?
Mentre pronunciava le parole “scettico ubriacone”, aveva stretto il pugno e contratto i muscoli del braccio, cercando di stroncare l’impulso di accarezzarsi lo stomaco in fiamme: Eros aveva liberato le farfalle.
<< Va bene Enjolras, perdonami, non volevo essere inopportuno. >>
Il biondo si alzò dalla sedia e diresse verso il letto, sotto il quale aveva un altro paio di scarpe.
<< Sai Jean >> disse mentre le infilava << non capisco perchè Grantaire debba continuare a dire di credere in me. >>
<< E perchè tu continui a dire di credere nella repubblica? >>
Enjolras non trovò da ribattere.
<< E’ uno scettico con un unico credo e questo credo sei tu. Cerca di non rimproverarlo sempre, provate a trovare un punto d’incontro. >>
<< Io e lui un punto d’incontro? Mai. >> Era dispiaciuto di ciò.
Jean sospirò alzando lo sguardo.  Enjolras si mise a sedere sul letto e sempre con un aspetto assorto e indifeso domandò a Jean: << E tu? Chi è questa Eponine? >>
<< Una ragazza lentigginosa e scarna. Sicuramente non ha di che mangiare, poverina. Però sa scrivere. L’ho incontrata al Luxembourg, chissà che ci faceva lì. >>
<< E perchè la margherita? >>
Jean ridacchiò passandosi una mano tra i capelli. I suoi occhi si stavano riempiendo di stelle.
 
Era andata pressappoco così.
Jean se ne stava seduto su una panchina a scrivere una delle sue solite poesie, quando ad un tratto, mentre stava per mettere un punto al verso, qualcuno parlò alle sue spalle.
<< Anche io scrivo. >>
Jean si girò di scatto, ma senza spaventarsi. Vide davanti a se una cerbiatta selvaggia, con gli occhi soli e curiosi, che desiderava soltanto farsi degli amici: lo capì dal fatto che teneva le braccia distese lungo il corpo con le mani aperte, quasi volesse dire “Ehi sono qui”.
<< Davvero? E che cosa scrivete? >> Le aveva chiesto con aria di sfida.
<< Scrivo messaggi di qualunque tipo. Sono di poche parole, dopo un po’ mi perdo. E voi monsieur? Voi che cosa scrivete? >>
<< Poesie. >> E si grattò la testa come tutte le volte che parlava di sé.
<< Mon dieu! Un poeta! Di che cosa trattano le vostre poesie? >>
<< Di sole, di occhi, di musica, di fiori… >>
<< Vi piacciono i fiori? Tenete con voi questa margherita >> e la tirò fuori dalla tasca lacera del vestito << l’ho trovata sul ciglio della strada. È così bella, non fatela morire. >>
Jean sorrise imbarazzato.
<< La conserverò mademoiselle… >>
<< Eponine. >>
Si guardarono un attimo negli occhi, giocando a chi avrebbe retto di più lo sguardo.
<< Ora, se non vi dispiace, ho delle faccende da sbrigare. Spero d’incontrarvi di nuovo mademoiselle. >>
<< Lo spero anche io monsieur… >>
<< Jean. Jean Prouvaire. >>
E se ne andò. Eponine giunse alla conclusione che un uomo che si prendeva cura dei fiori si sarebbe sicuramente preso cura di una donna e quindi, mentre lo guardava andare via, sorrise, terribilmente, ma sorrise.
 
Enjolras era restato impassibile per tutto il racconto di Jean. Era mai possibile che due persone entrassero in sintonia parlando di fiori e che lui non riuscisse neanche più a pensare a Grantaire? Si sentiva umiliato e stupido. Accennò un sorriso per far capire al suo amico che era stato attento e poi chinò il capo, immergendo le mani nei capelli biondi.
<< Enjolras cos’hai sul collo? >> Jean gli si avvicinò. Enjolras si toccò delicatamente, provando fastidio.
<< E’ un graffio. Piuttosto lungo, ma non molto profondo. >>
Enjolras corse a guardarsi allo specchio. Si limitò a guardare Jean sempre più spaventato e a dirgli: << Pensi che… >>
Immaginava le mani di Grantaire sul suo collo e sulla sua schiena che scendevano sporche e corrotte. Un brivido lo attraversò, facendolo tremare.
Jean scosse la testa dicendogli che andava tutto bene, dal momento che lo vedeva disperato.
Questo sentimento era per Enjolras peggio di una guerra. Nessuna carabina avrebbe potuto sparare ad Eros. Era condannato?
 
 
 
Eccomi qua, popolo di EFP! Questa è la prima fanfiction che pubblico e spero che vi sia piaciuta (: La coppia EnjolrasxGrantaire è quella che amo di più in assoluto * ringrazia Hugo per averli inventati * e anche quella JeanxEponine non mi dispiace, ho voluto creare qualcosa di nuovo, che si discostasse un po’ dai soliti canoni.
Ho scritto questo capitolo ascoltando due canzoni, che mi hanno conferito l’ispirazione: la prima è “Young and beautiful” di Lana Del Rey e la seconda “La gigantesca scritta Coop” de Le luci della centrale elettrica (da cui ho preso spunto per la frase “ Con un alito tremendo gli sussurrò all’orecchio ‘Bonjour mon am…’ ”). Sarei felice di ricevere delle recensioni per capire se il mio modo di scrivere è accettabile, visto che la scrittura, per me, è una grande passione.
Ci si rivede al prossimo capitolo! Grazie per avere letto :3

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Capitolo 2
*** Il lato oscuro della luna. ***


Gli inesperti sono vittime della città. Quando le piazze si ammutoliscono e la notte soffia sulla fiamma della candela, Parigi si sveglia ed inghiottisce i più miserabili, accogliendoli nelle sue fauci maleodoranti. Essere sprezzante del pericolo non significa saperlo affrontare in tutte le sue sfaccettature: chi è indifeso è condannato.
Il nostro uomo indifeso davanti agli attacchi dell’amore, quella sera, non si presentò al Musain. Rimase chiuso nella sua camera a leggere, cercando di dimenticare, o almeno di non pensare, ai terribili sentimenti che lo avevano martoriato per tutto il corso della giornata. Talvolta si toccava il collo sperando che il graffio fosse guarito, ma purtroppo, dovette accettare la sua presenza. Un primo passo verso l’accettazione dell’amore?
Immaginava le unghie di Grantaire solcare la sua pelle candida in chissà quale strano e corrotto attimo (di passione, potremmo aggiungere, ma Enjolras si vergognava a dirlo, o probabilmente non aveva nemmeno l’esperienza per pensarlo). 
Tentò di ricordare che cosa fosse accaduto e l’unica ipotesi che affiorò nella sua mente fu che Grantaire l’avesse fatto ubriacare a tal punto da svenire. Come aveva potuto cedere? Perchè era finito lì? Chi l’aveva condotto? C’era arrivato di propria volontà? Non lo sapeva e questo lo faceva arrabbiare e gridare. Sudava come in preda alla follia, camminava freneticamente  nella sua piccola stanza, si affacciava alla finestra per rinfrescare i pensieri, ma il caldo appena arrivato non era d’aiuto, prendeva a calci le sedie e il tavolo e, cosa che lo irritava maggiormente, non riusciva a sdraiarsi sul letto senza pensare a lui. C’era la luna quella notte e non lo trovava per nulla romantico. Uno sparo dritto in un cratere! Magari si sarebbe disperata con lui invece che stare a guardare stupita; “incomprensibile mondo!” pensava. Grantaire ed Enjolras respiravano sotto lo stesso cielo, ma la luna che osservavano era diversa.
R, sdraiato sul suo morbido giaciglio, l’ammirava, immensa, dalla piccola finestra che illuminava la sua stanza. Sembrava che lei gli volesse dire “E se non ti ama presto ti amerà, pur se non vuole”.  Sopra quel soffice letto, il desiderio.
Sorridente, poiché ripensava al volto casto e ribelle di Enjolras, abbracciava i cuscini, che il giorno prima il biondo aveva profanat0 con la sua purezza.
Come una dolce musica, le parole del suo Apollo gli riecheggiavano in mente: quel suo piglio così deciso e convincente era riuscito a convertirlo dallo scetticismo alla fede. La venerava, la bramava, la cercava in ogni attimo quella dolceamara invincibile belva. Sognava costantemente i suoi riccioli color del sole, color della vita, che gli illuminavano il cuore sbronzo ed offuscato dal dubbio; s’immaginava di averlo davanti e di poterlo fissare mentre gli stringeva le guance tra le mani venose, affinché l’azzurro dei loro occhi si potesse mescolare dando vita ad una nuova tonalità, che nella mente di Grantaire era rossa, come il sangue, come l’amore, come i tramonti che avrebbero presto incendiato. Voleva vedere il suo amabile portamento, ammirare i muscoli della sua schiena contrarsi ad ogni passo, le sue gambe distendersi per l’ardore, la sua voce irrompere come un tuono, come un tamburo, come una cannonata; si disperava per quelle braccia possenti e vigorose che si divertivano a stritolargli il cuore e le arterie.
Nella mentre di Grantaire, loro due erano a pochi respiri di distanza e tutto era un’insondabile miscela, di men che sillabe, di men che lettere, di men che fiati, silenzi puri.
Fissava la luna e, mentre era assorto in questi pensieri, pensava che un lato di essa gli rimaneva oscuro, come il cuore di Enjolras. Desiderava vederlo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Voleva guardarlo ridere, una rarità a cui aveva assistito una sola volta e bramava in modo incontrollabile di accarezzargli i capelli, anche se sapeva che non gliel’avrebbe mai permesso. Il dubbio che solitamente strisciava in Grantaire, non era nulla in confronto alla fede, che in quel momento si librava in lui come un’aquila.
Si alzò di colpo. Raggiunse l’armadio ed afferrò la giacca rossa (quella giacca rossa) e l’annusò, cibandosi per un attimo del suo odore; rise di felicità, quella felicità che solo un innamorato può percepire, quella felicità che stringe lo stomaco e rilascia la presa lentamente, quella felicità incosciente, che ti fa ubriacare, anche se sei sobrio. Grantaire, dalla mattina, continuava ad esserlo.
Inebriatosi della sua fragranza mascolina e virginea, uscì dalla stanza, chiuse la porta, scese le scale, corse tra le vie solitarie della mezza notte e bussò alla sua porta. Tutto fu un attimo: l’appartamento di Apollo, che distava dal suo alcuni quartieri, non fu mai vicino come quella notte.
<< E’ permesso? >> Disse aprendo un poco la porta.
Furono queste le due parole che bastarono per far trasalire Enjolras, che lasciò cadere il libro per terra. Guardava Grantaire pietrificato, perdendosi nei suoi occhi glaciali e beffardi, non capacitandosi di come potesse essere al contempo così irritante e così intrigante.
“Che gli devo dire?” pensava in preda al panico. “Buonasera? Ciao Grantaire? Benvenuto nella mia stanza? No, quest’ultima è troppo ambigua”; e continuava a fissarlo.
<< E’ permesso? >> Ripeté Bacco sorridente.
Il battiti del cuore di Enjolras erano accelerati e la saliva della bocca gli si era asciugata. Temeva che sarebbe svenuto da un momento all’altro, ma “per Bacco! (aveva davvero pensato a questa esclamazione riferendosi al lui?) non posso dargliela vinta in questo modo!” urlò nella sua mente.  Inspirò profondamente per infondersi coraggio.
<< Che ci fai qui? >> Una domanda semplice, schietta, in sintonia con la sua solita serietà.
<< Sono venuto a restituirti la giacca >> disse mostrandola mentre camminava verso di lui. Enjolras aveva sempre pensato che Grantaire avesse una camminata musicale: teneva il tempo, anche se non sapeva di che cosa.
<< Grazie >> rispose con freddezza. La strappò dalle sue mani, come se avesse appena sottratto la preda all’avversario ed iniziò a controllare che fosse in buono stato: tra le grinfie di quell’ubriacone nulla era al sicuro. Infatti, come era ovvio, i suoi pregiudizi si  rivelarono fondati, perchè sul dietro della giacca, in fondo a destra, si estendeva una macchia rossastra e irregolare. Enjolras  non riusciva più a ragionare, si sentiva come invaso e oltraggiato dalla sua presenza in ogni circostanza. Prima il graffio, poi la giacca: che aveva fatto di tanto brutto per meritarsi tutto ciò?
<< La prossima volta che versi del vino sulla mia giacca potresti almeno degnarti di chiedermi scusa. >> Grantaire sbarrò gli occhi diventando improvvisamente serio e si avvicinò ad Enjolras per constatare il danno.
“Non avvicinarti, ti prego” supplicò Apollo in silenzio.
Grantaire guardò la giacca e ridacchiò dicendo: << Ehi, revolutionnaire, credevo che sapessi riconoscere una macchia di sangue! >>
<< Sangue? >> Sussurrò Enjolras impallidendo.
<< Lo chiedi a me? Non so come ci sia finito lì sopra >> disse assumendo una smorfia disgustata.
<< Non posso aver fatto nulla di male…>>
<< Ti credo. >>
Eccolo di nuovo prendersi gioco di lui. Uno scettico non può elevarsi a credere, tanto meno in un altro uomo; perchè si ostinava ad azzannargli il cuore?
<< Intanto che contempli la tua giacca >> continuò Grantaire << direi che io posso andare a bere un goccio al caffé. >>
Se ne stava andando, si stava allontanando da lui così bruscamente senza dargli alcuna risposta, senza dirgli nemmeno che cos’era accaduto la sera prima, senza nemmeno accennarlo. La tentazione di chiederglielo e di colmare questo indecente dubbio era troppa per Enjolras.
<< Grantaire aspetta… >>
Il moro si limitò a girarsi inumidendosi le labbra. Il battito dei loro cuori era assordante.
<< …se al Musain fosse finito il vino, ne puoi trovare da Corinto, l’osteria. >>
“Codardo, Enjolras, sei solo un codardo” pensò chiudendo gli occhi.
<< E’ gentile da parte tua avermelo detto. Bonne nuit Enjolras. >>
Se ne andò soddisfatto.
 
Sangue. Una macchia di sangue scura e misteriosa. Sulla sua giacca. La fissava, senza formulare un pensiero compiuto. Era il suo sangue? Non era possibile. Era il sangue di Grantaire? Non lo poteva sapere.
Si sedette sul letto e, stremato dall’angoscia e dalle preoccupazioni, si addormentò dopo pochi minuti.
Il credente assalito dal dubbio e lo scettico rapito dalla fede. In quale strano modo si erano allineate le stelle quella notte?
 
Grantaire correva verso il Musain ridendo. Era felice, più felice di quanto non lo fosse già e questo solo perchè Enjolras aveva esitato. Gli aveva chiesto di aspettare? Che follia! Una dolce follia di un attimo irripetibile! Chissà che cosa pensava quell’angelo dannato e sobrio, chissà se finalmente si era accorto di lui, chissà se un giorno l’avrebbe chiamato R! Chissà se si sarebbe lasciato avvolgere dall’amore e dal suo abbraccio. Quanto lo desiderava, quanto lo adorava!
Entrato nel Musain, salì le scale in silenzio e proprio nel momento in cui, per la gioia, aveva intenzione di mettersi a cantare (dobbiamo ammettere che Grantaire era piuttosto intonato), sentì delle voci provenire dalla stanza retrostante al caffé, dove lui e gli amici erano soliti ritrovarsi ogni sera. Una di queste voci non gli parve nuova, era certamente quella delicata, ma virile, di Jean Prouvaire, mentre l’altra così stridula e roca non l’aveva mai sentita in vita sua. Era sicuramente quella di una ragazza, una miserabile senza dubbio, che se la stava spassando con il poeta. Grantaire non era uno di quei giovani che amava origliare le conversazioni altrui, ma quella sera, travolto dalla passione, non desiderava altro che stare ad ascoltare le dolci parole che due anime solitarie potevano scambiarsi. Prima però, raccattò una bottiglia mezza vuota che trovò abbandonata su un tavolo e, messosi a sedere sulle scale con la schiena appoggiata alla parete, incominciò a bere.
 
<< Che volevano quegli uomini da voi? >>
<< Informazioni. >>
<< Di chi genere? Se posso sapere… >>
<< Non lo potete sapere. >>
<< Come volete voi, Eponine. >>
<< Dammi del tu, per favore. >>
<< Va bene. >>
Jean arrossì. Mentre lui le fasciava la mano sinistra, che si era tagliata allontanando suo padre e Claquesous da davanti al Musain,  Eponine fissava le lentiggini di Jean, la sua pelle bianchissima, i suoi occhi color delle nuvole. Si stava prendendo cura di lei come poche ore prima si era preso cura della margherita e questo la faceva stare bene, bene come non mai.
Lo sguardo, poi, ricadde sulle sue mani, grandi, ferme e sul dito medio, su sorgeva il tipico callo dello scrittore.
<< Perchè scrivi Jean? >>
<< Perchè respiri Eponine? >> Lei sorrise timidamente.
<< Per vivere credo. >>
<< Hai centrato la questione. Sai, per me la scrittura è sogno e il sogno è vita; la scrittura quindi è vita. Sillogismo perfetto. >>
<< Che cos’è un sillogismo? >> Domandò lei assetata di sapere.
<< Lascia perdere, mademoiselle >> ridacchiò dolcemente. Jean cominciava ad apprezzare la curiosità di Eponine.
<< Qualunque cosa sia, in ogni caso non è perfetto. >>
<< Perchè? >> Domandò appoggiando il mento sulla mano destra, guardandola ansioso di scoprire che cosa avrebbe risposto.
<< Perchè  il sogno non è vita. >>
<< Hai mai creduto in qualcosa d’impossibile, Eponine? >>
<< Sì. >>
<< Allora hai sognato e se continui a credere in questo qualcosa d’impossibile, significa che per te è vita. >>
Eponine aggrottò le sopracciglia, non ci aveva mai pensato.
<< Qual è il tuo sogno Eponine? >>
<< Di essere amata, credo, ma sogno anche un vestito nuovo. Sì ecco, è questo il mio sogno. >>
<< E sono sogni impossibili? >>
<< Certo. >>
<< Da chi vuoi essere amata? >> La sua voce si era affievolita.
<< Non credo di saperlo più >> sussurrò lei, pensando a quell’essere bizzarro di nome Marius Pontmercy.
<< Come mai? >>
<< Sono  confusa. >>
Si osservarono, cercando di non annegare nelle iridi dei loro occhi così profondi e complicati. L’azzurro di quelli di Jean illuminava il nero di quelli di Eponine.
<< Sai Jean, forse uno dei miei sogni si sta trasformando in realtà e io non sto più sognando >> sussurrò.
<< Intendi dire… >> chiese Jean, teneramente speranzoso.
<< Il vestito nuovo. Che domande sciocche che fai, poeta >> sospirò lei, abbassando lo sguardo.
Jean non sapeva esattamente che cosa stesse succedendo al suo cuore, ma ciò che riuscì a capire, fu che Eponine, nel corso di una sola giornata, l’aveva attratto più di tutti i libri che aveva letto nel corso di una vita; ecco che cos’era quella ragazza: un libro aperto che probabilmente nessuno aveva ancora osato sfogliare e capire. Lui sarebbe stato il primo, perchè quella giovane donna, che si nascondeva dietro ad un vestito troppo lacero per la sua anima ricca, aveva un “non so che”, che lo aveva scombussolato tutto.
Improvvisamente il volto sognante di Jean assunse un’aria preoccupata. Stava ripensando a ciò che era successo poche ore prima: le urla di Eponine e di due uomini dall’aria minacciosa davanti al Musain avevano fatto sì che tutti gli studenti si affacciassero alla finestra per capire che cosa stava accadendo. Quando Jean l’aveva riconosciuta, aveva provato un sentimento misto ad emozione e preoccupazione: era sceso per le scale di fretta per portarla in salvo dai due uomini, che nel frattempo, se n’erano già andati. Lei restava immobile davanti al caffé, con una faccia terribile. Non era spaventata, ma rabbiosa. Pensando che non fosse sicuro restare lì quella sera, tutti se n’andarono; tutti tranne loro due, che per combattere il nemico avevano un’arma potentissima: l’intesa.
<< Eponine, dimmi la verità: chi erano quegli uomini? >>
Lei si guardò attorno. Ripensò in una frazione di secondo a ciò che era successo quella notte, alla sua mano sanguinante e alla perfidia di suo padre, poi si avvicinò all’orecchio di Jean. Profumava di carta.
<< Mai sentito parlare del Patron Minette? >>
Jean scosse la testa.
<< No… >>
<< Meglio così. >> Girò di nuovo lo sguardo intorno a sé, per controllare che nessuno la stesse sentendo, poi continuò: << Devo farti una raccomandazione: di’ al Signor Marius che stia alla larga da qui. >>
<< Perchè? Come fai a conoscere Marius? Eponine parla chiaro. >>
<< E’ per il suo bene. >>
<< Eponine spiegami per favore… >>
<< Non posso parlare di più. Dico solo che non voglio che sia coinvolto in questa storia. >>
Si allontanò da Jean con i brividi a fior di pelle. Tremava, ma non perchè era preoccupata per Marius, non perchè suo padre avrebbe potuto farle del male, non perchè camminava a piedi scalzi, ma perchè le lentiggini di quello stralunato sognatore le avevano morso l’anima. Si diresse verso le scale, dalle quali Grantaire, mezzo ubriaco, si era alzato per andare a cercare altro vino, ma ad un tratto si sentì afferrare il braccio.
<< Prima che tu vada via… tieni questa. Qualcosa per me e qualcosa per te. >>
Jean consegnò ad Eponine un piccolo foglio sgualcito. Lei guardò il foglio, guardò Jean, lo aprì lentamente e lesse.
 
D’assenzio i suoi occhi, che sono enormi e sfrontati.
Di sabbia la sua pelle, che è fragile e febbricitante.
Di sangue le sue labbra, che sono sincere e immacolate.
Polvere da sparo nei suoi capelli, come candida cipria.
Un quartetto d’archi nella sua voce, come nient’altro al mondo.
 
E poi sorride, terribilmente, ma sorride.
 
<< Cosa ne pensi? >>
<< Penso che sto bene. >>
Jean arrossì, poi si grattò la testa guardandola allontanarsi.
 
 
 
 
Eccomi tornata! (: Spero che anche questo secondo capitolo vi sia piaciuto. Ho inserito alcune citazioni, in particolare di Saffo, aggiungendo anche molti riferimenti alle descrizioni dei personaggi che Hugo ci presenta nel libro; il titolo del capitolo è ovviamente ispirato al celebre disco dei Pink Floyd “The dark side of the moon”.
La poesia alla fine l’ho scritta io, impresa ardua, in quanto non sono esperta nello scrivere poesie, ma almeno ci ho provato; Jean Prouvaire si sarebbe sicuramente meritato di più T.T Con la speranza di pubblicare presto anche il terzo capitolo, vi ringrazio per avere letto. Alla prossima! (:

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Capitolo 3
*** Sorprese. ***


Giugno era esploso in una moltitudine di colori. Mentre nuovi fiori e nuovi pensieri sbocciavano con timido coraggio, lei aspettava, seduta nel campo dell’Allodola, intenta ad assaporare il vento. La frizzante brezza che le scompigliava i capelli e che le scostava i ciuffi dagli occhi la tranquillizzava; si sentiva avvolta nell’abbraccio impercettibile della natura che rassicurante le sussurrava “Va tutto bene, ‘Ponine”.
Il campo dell’Allodola: quale posto migliore per pensare a Marius? Lui in quella verde distesa si faceva cullare dall’amore per Cosette, lei, invece, si faceva cullare dalla malinconia, dalla rabbia e dallo smarrimento. Marius aveva osservato ciò che lei stava osservando in quel momento, ma chissà perchè la natura che felicemente si stava svegliando la rattristava. Eponine, però,  in cuor suo sapeva di stare bene.
Perchè stava bene? Forse perchè qualcuno aveva notato i suoi occhi e i suoi capelli: forse perchè qualcuno aveva notato lei. Stava tradendo Marius, di cui si era innamorata dal primo giorno in cui si erano incontrati, ma perchè lui quando gli aveva detto “So anche scrivere!” aveva reagito diversamente da come aveva reagito quello strampalato poeta dai capelli rossi? Perché lui aveva provato una sorta d’inquietante compassione nei suoi confronti e invece Jean aveva semplicemente provato interesse? Che cosa aveva, secondo Marius, che non andava? Era sporca? Era brutta? Le mancavano alcuni denti? Perchè per lui questo contava così tanto? Le venne da piangere, ma non lo fece: ‘Ponine non piangeva mai, era una fanciulla difficile da abbattere.
Si alzò e, assorta in questi mille pensieri amorfi, incominciò a camminare, non curante delle formiche che le correvano sui piedi. Guardando il cielo mattutino, limpido e sfacciato, si mise a canticchiare una canzone che nemmeno lei credeva di conoscere, forse, se l’era inventata sul momento. Poi chiuse gli occhi, smettendo di cantare. Sospirò. Doveva ripulire i suoi pensieri, più che ripulire il suo volto e questo lo sapeva molto bene.
Ripensava alla poesia che Jean le aveva fatto leggere e sentiva scorrere dentro le sue vene una forza che non aveva mai tastato, un coraggio che non aveva mai creduto di avere, una voglia di vivere insolita, che le avrebbe permesso di volare. Le parole di Jean ruggivano nella sua mente e lei, come una leonessa, stava diventando fiera e si stava risvegliando. Voleva azzannare il cuore marcio e opaco di Marius fino a farlo sanguinare: voleva amare davvero ed essere amata realmente a sua volta.
Spalancò le braccia all’improvviso e sorridendo, questa volta radiosamente, gridò al vento: << Voglio vivere! >> Poi si tuffò nell’erba, sempre con quel sorriso novello stampato in volto. Si sentiva libera, libera finalmente di abbandonarsi ad un sentimento così puro e reale. Non avrebbe più urlato, ma solo sussurrato, “possibilmente” pensava “parole d’amore”.
 
Mentre Eponine scopriva se stessa, Jean correva verso la barrière du Maine. Correva con l’incoscienza e con la lucidità di coloro che sono travolti dalle idee e dai progetti; nella tasca destra dei pantaloni conservava ancora la margherita di Eponine.
Arrivò a destinazione verso mezzo giorno circa, con il fiatone e qualche tremore in più nella voce. Tra tutti quegli artisti a lui bastava trovarne uno, quello che lo avrebbe condotto dove desiderava, n’era certo. Entrato da Richefeu, lo trovò seduto al tavolo che disegnava  -chissà cosa disegnava.
<< Grantaire! >> Esclamò con impeto. Grantaire sobbalzò dalla sedia: era talmente concentrato sul suo disegno da aver dimenticato il mondo esterno.
<< Jean, che piacere vederti. Che cosa ci fai qui? >> Disse avvicinandosi a lui sorridente. Il foglio nel frattempo era scivolato per terra.
<< Ho bisogno di un’informazione. >>
<< Sono al tuo servizio. >> Rispose accennando ad un piccolo inchino.
<< Qual è il migliore negozio di abiti femminili qui a Parigi? Non sono un esperto di gran moda, come sai >> confessò accompagnando le parole con quel gesto, ormai per lui automatico, di grattarsi la testa.
<< Che te ne fai di un abito da donna? >> Gli chiese Grantaire smarrito.
<< Oh, non è per me! >> Ridacchiò Prouvaire. Era arrossito in modo violento.
<< Sarà meglio Jean! Comunque lo trovi in Rue Jean-Jacques Rousseau, nella Galerie Véro Dodat. >>
<< Grazie R maiuscola! >> Esclamò saltellando quasi sul posto dalla gioia.
<< Figurati >> concluse lo scettico con un sorriso sagace e le sopracciglia aggrottate.
Jean se ne stava per andare, travolto dalla vita, quando ad un tratto notò il disegno di Grantaire caduto sul pavimento lercio del Richefeu. Non aveva mai visto nulla del genere: la città in fiamme e in piedi sulla testa dell’Elefante della Bastiglia, bello come non mai e più splendente di tutte quelle fiamme raccolte insieme, Enjolras, con i capelli scarmigliati dal vento e la bandiera francese tra le mani. Benchè Apollo sostasse su quel mostro di gesso, Grantaire l’aveva disegnato più grande del reale, dimenticandosi delle proporzioni, o forse, come Jean ritenne più plausibile, l’aveva fatto apposta; ai piedi dell’imponente statua un uomo, piccolo, che costituiva un dettaglio quasi irrilevante, con una bottiglia di vino in mano.  “Originale” pensò Prouvaire.
<< Grantaire, c’è un’altra cosa di cui volevo parlarti >> esordì dopo aver fissato il disegno per qualche istante.
<< Sputa il rospo. >> Grantaire si risedette dopo aver velocemente raccolto da per terra il disegno, quasi come se avesse rivelato al mondo il suo più imbarazzante segreto. Lui? Imbarazzo? “Sarà sicuramente l’influenza di Jean” ipotizzò.
<< Enjolras è parecchio confuso >> riprese il poeta << dovresti fargli luce riguardo a ciò che è successo l’altra notte. >>
Grantaire lo guardò stranito e sbalordito, poiché non aveva capito di quale dannata notte stesse parlando.
<< L’altra notte? >> Sussurrò con la voce rotta dall’emozione.
<< Sì R. Cerca di non esasperarlo. >>
Jean corse verso Rue Jean-Jacques Roussou, Grantaire corse verso casa sua.
 
“L’altra notte? Quale maledettissima e frenetica notte? Avrò sicuramente dimenticato tutto a causa del vino: sono uno stupido. Che Jean stia forse parlando di ieri, quando ho restituito la giacca ad Enjolras? Che cosa avrebbe dovuto farlo esasperare? Una piccola e insignificante macchia di sangue forse? Conoscendolo potrebbe essere. Che cosa posso fare per farmi ‘perdonare’? Ah, pazzo! Io non devo farmi perdonare per nulla, quella macchia non è causa mia, ha fatto tutto da solo il Magnifico. Potrei anche sbagliarmi però; e se non fosse quella la notte di cui Jean stava parlando? Diamine, non ricordo nulla” si rimproverava Grantaire.  Rotolava verso casa con gli occhi spalancati e stralunati: la paura di aver mandato in confusione Enjolras lo esasperava.
“Verrà al caffé questa sera? Potrò parlargli senza che possa sfuggirmi? Che cosa ti prende Apollo?”
Salì le scale ed entrò in camera sua. Si tolse le scarpe rimanendo a piedi scalzi, poiché restare senza scarpe gli permetteva di sentire di più il contatto con la realtà: pensava con più accortezza. Si sedette sul letto macchinalmente e ritenne che fosse il momento giusto per ripulire un po’ quella vecchia topaia (“potrebbe aiutarmi a riflettere”).  Rifacendo il letto, rifaceva luce su quanto di oscuro rimaneva impresso nella sua anima e le coperte che si alzavano e che, nella sua immaginazione, diffondevano l’orgogliosa fragranza di Enjolras per tutta la stanza scoprirono quella che era una vistosa macchia rossa sul materasso. Fu un attimo e in quell’istante, fulmineo e dolorosamente piacevole, si ricordò.
 
Intanto Jean era giunto alla Galerie Véro Dodat. Le dolci sartine di Parigi si accalcavano verso le vetrine dei negozi per accaparrarsi un vestito all’ultima moda, nobili donne si confrontavano su quale indumento sarebbe stato il più fresco da indossare per l’estate e i monelli, appostati agli angoli della via, aspettavano solo di rubacchiare innocenti fanciulle. In tutto questo gioioso trambusto cittadino, Jean era entrato sorridente nell’unico negozio di moda della galleria. Si sentiva piuttosto a suo agio tra tutti quei colori e tutti quei buoni profumi che aleggiavano nell’aria: la boutique odorava di lavanda. Accarezzava lentamente e con attenzione molti vestiti; li toccava e li sfregava, ammirava la loro lucentezza e se ne meravigliava: anche il cotone più modesto aveva la lucentezza della seta. Erano leggeri e leggiadri, svolazzanti e seducenti: sarebbero stati tali anche se indossati dalla più goffa abitante di Parigi. Molte ragazzine del negozio l’avevano notato e ridacchiavano tra di loro poiché era l’unico uomo presente nel negozio, ma a lui non importava: aveva missione da compiere e non poteva fallire. Dopo aver esaminato circa una quindicina di vestiti, alzò lo sguardo e vide un capo esposto su un manichino di stoffa posto su un piedistallo, proprio alla fine del negozio.
<< Madre, voglio quel vestito! >>
<< Non è adatto a te, tesoro. >>
<< Ma io lo voglio! >> Urlavano alcune ragazzette alle madri.
Era di un colore rosso vermiglio, molto semplice, senza fronzoli particolari, di una seta leggera e preziosa. Si stringeva sotto il seno e richiedeva che la ragazza che lo avrebbe indossato fosse particolarmente esile e dai fianchi sottili.
<< Ariane, oltre a non essere adatto per il tuo fisico, costa anche la bellezza di 983 franchi! >>
<< Sei una spilorcia! >>
La boutique era invasa da giovani impertinenti e a dir poco vanitose, che ricevevano dalle madri sempre lo stesso tipo di predica: << Non è adatto a te. >>
Jean pensava la stessa cosa e in silenzio si avvicinò ad osservare il cartellino del prezzo.
<< Lo prendo! >> Gridò per farsi sentire dalla responsabile del negozio. Questa, una vecchia signora con una stola viola sulle spalle, si avvicinò a Prouvaire  con passo lento e sospettoso, mentre tutto intorno era calata una sottospecie di silenzio.
<< Tu, con i vestiti di almeno due anni fa, vorresti comprare questo abito nuovo di zecca? >> Lo provocò lei.
<< E’ così signora >> rispose lui cordialmente con un sorriso.
<< Non vorrai mica dirmi che lo compri per una ragazza! Un miserabile come te che ha al suo fianco una sartina come noi? >> Lo schernì quella Ariane che poco prima era stata rimproverata dalla madre.
<< Non è esattamente una sartina, ma è pur sempre… >> Avrebbe voluto dire “la mia donna”, ma si rese conto che purtroppo non era nulla del genere.
<< Lo compro >> ribadì tirando fuori dalla tasca mille franchi.
La proprietaria glielo vendette sbalordita; in cuor suo pensava “che ladruncolo dallo sguardo innocente, chissà dove li avrà trovati quei soldi!”, ma come ben sappiamo, Jean era figlio unico e ricco e non aveva alcun problema finanziario.
 
La giornata passò velocemente, probabilmente a causa del vento che aveva spazzato via le ore senza ritegno, e la sera arrivò limpida e fresca, senza avvisare.
Enjolras saliva le scale del Musain lentamente e con lo sguardo basso: era alquanto pensieroso. Rimase sorpreso nel trovare già tutti i suoi amici nella stanza retrostante al caffé, che parlavano e che si consultavano sulle migliori strategie da attuare per dare inizio alla nuova e tanto attesa rivoluzione. Essere arrivato “in ritardo” lo infastidiva e lo irritava, ma senza dare troppo nell’occhio, si avvicinò a Combeferre ed iniziò ad organizzare l’insurrezione con lui, sempre con quel velo di tristezza negli occhi che li rendeva ancora più azzurri. All’appello mancavano due uomini: Jean Prouvaire  e Grantaire e il fatto che quest’ultimo non ci fosse fece tirare ad Enjolras un gran sospiro di sollievo. “Per questa sera non avrò problemi” concluse soddisfatto.
Sembrava che fosse quasi ritornato in sé. Parlare della repubblica, di quel sogno ancora non realizzato che gli faceva perdere la testa, gli permise riacquistare sicurezza e fermezza, di percepire un po’ della sua solita candida e marmorea freddezza che tutti si erano ormai abituati a conoscere. Enjolras stava ritornando ad essere il capo e questo aveva fatto sì che le sue mani si riscaldassero e il sangue ritornasse a scorrere fluido nelle sue vene. Per poche ore non pensò più a Grantaire e questo gli risollevò il morale, più di quanto erano riusciti a fare un buon libro o dormire barricato in camera.
 
Jean raggiunse gli amici al Musain verso le dieci e un quarto: era raggiante, euforico, con uno sguardo meravigliosamente sognante e i capelli disordinati; dopo aver salutato con gioia tutti i presenti, si sedette vicino a Bossuet, intento ad ascoltare con interesse le parole di Combeferre e di Enjolras.
<< Ehi, Laigle,  qualche traccia di Marius? >>
<< No Jean, non si è presentato questa sera. >>
<< Perfetto… >> sussurrò il poeta.
<< Che cosa hai detto? >> Domandò Bossuet dispiaciuto.
<< Ehm, ho detto che è un peccato che non sia qui con noi mentre ci prepariamo alla rivoluzione. >>
Bossuet fece segno di sì con il capo, raggrinzendo gli angoli della bocca e riprese ad ascoltare.
Jean si tormentava le dita delle mani, come se fosse in ansia per qualcosa, ma a dire il vero, era l’adrenalina che gli circolava in corpo che lo rendeva così frenetico.
Era riuscito a compiere la sua missione e ne era felice; ora aspettava solamente che lei rimanesse soddisfatta del suo dono e che il suo piccolo sogno vitale si potesse avverare. Pensava a lei costantemente e ad ogni respiro desiderava che fosse lì con lui a fargli una di quelle sue osservazioni bizzarre che tanto lo incuriosivano. Eponine, quella piccola e ardita ragazza lo aveva stregato con un semplice gesto infantile: donargli una margherita. Ora, voleva far sì che uno dei suoi sogni si avverasse e che potesse finalmente indossare un bel vestito nuovo. Avrebbe sicuramente sospettato di lui, trovando l’abito davanti alla porta di casa –non è così?
Si era innamorato in un certo qual modo? Nessuno aveva mai sentito quegli “Uh” e quegli “Ah”.
 
La mezzanotte giunse silenziosa e, chissà perchè, Enjolras temeva che anche quella volta sarebbe successo qualcosa. Tutti si allontanarono dal Musain tranquilli e ardenti di passione, mentre lui rimase seduto su una sedia di fianco allo scaffale del vino: la stanchezza aveva invaso il suo corpo, si stava lasciando andare un’altra volta. La rivoluzione incombente e il solito maledetto dubbio che gli attanagliava il corpo lo stavano facendo impazzire: non riconosceva più quali fossero le sue priorità e non riusciva a dire a se stesso che andava tutto bene, perchè sapeva che non era così.
Dei passi cadenzati lo distolsero da questi brevi e pesanti pensieri: non fece in tempo a girare lo sguardo che lo vide lì, a pochi passi da lui, con un pacchetto in una mano e una bottiglia di vino nell’altra.
<< Buon compleanno Enjolras. >>
Il biondo non respirò per almeno dieci secondi, con lo sguardo perso tra le mani di quell’altro.
Se l’era ricordato? Lui, l’unica persona al mondo che avrebbe voluto cancellare e soffiar via dalla sua vita, si era ricordato del suo ventitreesimo compleanno? Quante volte l’aveva accennato ai suoi amici? Due, tre volte? Nessuno ci aveva mai fatto caso. Eppure Grantaire sapeva sempre come stupirlo: era l’unico tipo di rivoluzione che Enjolras non avrebbe mai saputo affrontare.
<< Te lo sei ricordato? >> Bisbigliò con un filo di voce, ancora troppo incosciente per parlare.
<< Io non dimentico mai i compleanni degli amici. >>
Si avvicinava sempre di più a lui. Enjolras restava seduto, pietrificato.
<< Tieni, questo è per te. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere. >>
Grantaire gli porse il pacchetto tremando. Era in preda all’Eros più sfrenato, il corpo di Enjolras lo attraeva in modo irrefrenabile: era una di quelle persone che anche nella disperazione più totale riusciva ad essere maledettamente e perdutamente bello –“oh se lo sei”.
Enjolras afferrò il regalo con mano ferma (anche se in realtà il suo cuore stava dando in escandescenza) e lo aprì.
<< Per rimediare al danno. >>
Apollo teneva in mano una giacca rossa nuova di zecca, perfetta e immacolata, proprio come lui. Enjolras non sapeva come reagire di fronte a questo gesto; si sentiva riconoscente e incredibilmente fragile. Non riusciva ad accettare che in una stessa persona potessero risiedere sia un’anima determinata e sia un’anima debole, anime talmente forti che non riuscivano nemmeno ad annullarsi a vicenda perchè l’una ricacciava l’altra. Tuttavia, proprio in quell’istante, dovette riconoscere il dominio di entrambe su di lui, dovette riconoscere di essere uomo e non di essere dio, di essere friabile proprio come qualsiasi altro essere vivente. Nel passaggio di quel pacco e in quello sfregarsi di mani, si era ricordato del loro primo incontro, di quella stretta di mano di monossido di carbonio tanto dolorosa e tanto strana. Da quel giorno, la loro stretta di mano diventò una condanna che sarebbe durata per tutta la vita, una condanna terribile, ma allo stesso tempo meravigliosa,  perchè legava tra di loro le anime di due ragazzi che apparentemente non si volevano, ma che segretamente si cercavano e avevano bisogno l’uno dell’altro; questo tuttavia, l’avrebbero capito solo col tempo, solo dopo essersi mangiati le ossa fino alla polvere e dopo essersi feriti a tal punto da diventare consanguinei. L’avrebbero compreso solo in quel momento, sangue nel sangue.
<< Grantaire, c’era una domanda che volevo farti da giorni… >> continuò Enjolras sottovoce.
<< Prima io Apollo. >>
Gli occhi di cobalto di uno s’incastravano perfettamente negli occhi di cielo dell’altro.
Grantaire si schiarì la voce e si sedette accanto a lui, trepidante.
<< Enjolras, che cosa è successo l’altra notte? >>
Il biondo non seppe far altro che distogliere lo sguardo e rispondere: << Credevo che tu lo sapessi. >>
 
 
 
 
 
 
Hello people! :3 Eccomi con il terzo capitolo! Beh, non c’è molto da dire, se non il fatto che non vedo l’ora di mettere un po’ di luce su questa storia che sta coinvolgendo tutti i personaggi! Per quanto riguarda citazioni particolari abbiamo solo “una stretta di mano di monossido di carbonio” da No Surprises dei Radiohead e “a forza di ferirci siamo diventati consanguinei” di Vasco Brondi. Ci si rivede al quarto capitolo, un bacio e grazie per l’attenzione <3 

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Capitolo 4
*** Immaginate. ***


Immaginate due occhi che gridano, senza voce; due bocche che tremano alla sola idea di poter raggiungere il cielo; quatto mani che pulsano, vittime dell’attesa. Immaginate una stanza vuota, colma solo di respiri affannati e di sconci e fiammeggianti pensieri e visualizzate al fondo di questo piccolo rifugio di anime due uomini, fragili e immensi come i sogni, intenti solo a fissarsi e ad esitare.
 
“Non giocare col ghiaccio Grantaire, potresti ferirti”.
“Non giocare col fuoco Enjolras, potresti bruciarti”.
 
Mentre Enjolras attendeva, Grantaire si guardava attorno, cercando una bottiglia di vino da scolare: “non farlo” si rimproverava. Avvicinò il suo volto a quello del biondo, senza intenzioni ambigue, solo per ammirare un po’ più da vicino i suoi lineamenti marmorei e angelici e poi incominciò a parlare. Le sue parole travolsero Enjolras con la stessa violenza del vento, che scuote e che devasta, che divora e che annulla e che talvolta, in casi eccezionali, apre la mente. Digrignò i denti e lui, che solitamente affogava nel dubbio, non si perse in esitazioni.
<< Io? Come posso sapere che cosa è successo? Sei tu che sei piombato in camera mia senza avvertire. >>
Enjolras stava per rischiare lo svenimento per la seconda volta: la vista gli si fece opaca, le mani iniziarono a formicolargli e gli incominciò a mancare il respiro. Aveva fatto tutto da solo? Aveva pensato giorno e notte a che cosa potesse essere accaduto e poi nulla? Aveva immaginato le sue dita solcare la sua pelle e il suo fiato ripulire il suo collo e invece era stata tutta una terribile illusione? Si sentiva profondamente sollevato, ma incredibilmente insoddisfatto, colpevole di aver abbandonato tutto ciò che di più importante c’era nella sua vita per… lui. Si era recato in camera di Grantaire per che cosa? Perchè nemmeno lui sapeva niente di quanto fosse successo? E non è che non se lo ricordava, non lo sapeva. Era un incubo o era un sogno? Grantaire sobrio, Enjolras ubriaco d’amore e di vergogna, di desiderio e di rifiuto, di Grantaire e di nessun altro.
<< Grantaire, non mentirmi: dimmi che cosa è accaduto. >>
<< Vuoi che ti racconti che cosa so? Ebbene: erano circa le due del mattino, ma a dire il vero potevano essere anche le quattro, non ricordo di aver guardato l’orologio, e quando sono rincasato, dopo aver notato che inaspettatamente la porta del mio appartamento era aperta, ti ho trovato lì, sul mio letto, addormentato. Ho temuto che fossi sbronzo sai? >>
Enjolras deglutì, anche se di saliva ormai ne aveva poca.
<< E la tua versione? Sentiamola! >> Continuò Grantaire.
<< Io non mi ricordo. Pensavo che tu avresti potuto far luce sull’accaduto. >>
Grantaire rise. Enjolras rabbrividì alla vista del suo sorriso: dolce e storto, come una mezzaluna. 
<< Io che faccio luce su qualcosa? Penso che tu abbia sbagliato persona. >>
Poi Apollo prese coraggio, da dove ci è ignoto. Rizzò la schiena e sostenne il suo sguardo, con una determinazione che fino a quel momento credeva di aver perso. “Non mi fai paura, Grantaire. Rimani sempre il solito scettico ubriacone, dopotutto”.
<< Mi vuoi dire che… >> poi s’interruppe, cascando di nuovo tra le braccia di Eros. La belva lo stava sbranando, lo stava facendo tremare e, cosa più incredibile, visto che parliamo di Enjolras, lo stava facendo eccitare.
<< Che? >>
<< Io e te non abbiamo passato la notte insieme? >>
L’immenso invase i loro corpi, i loro cervelli e i loro respiri.
Descrivere ciò che provarono in quell’istante è particolarmente arduo.
Enjolras era dispiaciuto, umiliato, infelice.
Grantaire era sbigottito, quasi divertito, quasi delirante: ce l’aveva fatta? L’aveva conquistato senza che si parlasse di Rivoluzione? L’aveva conquistato con quale mezzo? Con il suo corpo? Con il suo carattere? Con le sue idee? Enjolras avrebbe risposto “Con la tua imprevedibilità”.
<< Il rivoluzionario che pensa di essere stato a letto con me? Che onore, Enjolras, che onore! Cosa credevi che avessimo fatto, ti prego illuminami! >>
<< Grantaire non dire fesserie. Dimmi, non avresti pensato male anche tu se ti fossi risvegliato nel letto di qualcun altro? >> Enjolras era diventato color porpora.
<< Perchè mai avrei dovuto se il letto fosse stato solo di un mio amico? Per te sono forse più di un amico? >> Il tono della sua voce era cambiato.
Enjolras trattenne le lacrime, strinse i pugni, si morse le labbra e lo guardò con rabbia e con desiderio, con quell’odio misto ad amore che non lo lasciava più dormire. “ ‘Solo un amico?’ ”
Enjolras si alzò dalla sedia e se ne andò, sdegnato, offeso, incredulo.
Grantaire rimase lì, rammaricato, forse era stato troppo aggressivo con quella creatura maestosa e ingenua. Andiamo, come dimenticarsi di aver passato la notte con Enjolras? Gliel’avrebbe detto.
Lo rincorse fino in strada e lo afferrò per le spalle voltandolo verso di sé. Le loro bocche distavano soltanto alcuni impercettibili respiri quando Grantaire gli porse di nuovo la stessa sfacciata domanda.
<< Sono forse più di un amico per te, Enjolras? >> Disse afferrando i suoi capelli, così morbidi e regali.
Enjolras non sapeva che  cosa rispondere o meglio non voleva rispondere, per pura vergogna. Lui, che era sempre stato ritratto come l’uomo impassibile, ora amava e per di più un uomo? E per di più Grantaire? Non l’avrebbe mai ammesso. I sentimenti contrastanti si sa, indeboliscono, ma prima o poi, quelli come l’orgoglio si sottomettono a quegli altri come l’impulso.
<< Rispondimi! >> Gli sussurrò con impazienza: se fosse stato giorno e non fosse stato lui quello stretto nella sua morsa avrebbe urlato.
<< Vattene Grantaire, non mi assillare >>  rispose Enjolras con la fermezza di un dio.
Grantaire staccò le sue mani dalle spalle robuste e rassicuranti del suo Apollo e arricciò la bocca.
<< Bene. >>
Con una serietà mai vista, Grantaire si allontanò da Enjolras, senza fiatare. Non capì nemmeno lui se si trattasse di delusione o di ira, sta di fatto che entrambi sembrarono non volersi vedere mai più. I loro occhi però, veri e trasparenti, sembravano dirsi: “Tornerai?” “Tornerò.”
 
La mattina del due giugno 1832, Eponine si risvegliò con uno strano pacchetto davanti alla porta di casa; sulla carta c’era scritto il suo nome. Il buio l’aveva celato tra le sue tenebre e solo la pallida luce mattutina l’aveva rivelato ai suoi occhi da cerbiatta. Presa dallo stupore e dalla curiosità, lo raccolse e lo portò fuori di casa: suo padre non avrebbe dovuto vederlo.
L’aria estiva le scompigliava i capelli. Era stranamente bella e diversa: ecco il frutto di quella strana magia chiamata felicità. Tastava il pacchetto, lo sollevava e poi lo ascoltava, come fanno quei bambini che scuotono la scatola per scoprire il loro nuovo regalo di natale. Si recò al Luxembourg, il luogo più vicino a casa sua e si sedette su una panchina. Il profumo dei fiori l’inebriava.
Iniziò a scartare il pacchetto con cura, come se anche solo la carta che lo ricopriva fosse un tesoro prezioso. Quando vide al suo interno il vestito rosso, Eponine, presa alla sprovvista e presa dall’emozione, si mise a piangere, per la seconda volta nella sua vita: la prima era stata alla sua nascita.
Lo sollevò verso il cielo e alzatasi in piedi si mise a ballare come se fosse stata travolta in una danza vorticosa: quando si è felici, soprattutto per le piccole cose, quelle che ti ammorbidiscono il cuore quando meno te lo aspetti, tutto puoi fare tranne che stare seduto.
Si mise a correre, come se fosse impazzita, ridendo e saltando, abbracciando il vestito con tutta la forza che aveva in corpo, inciampando nei suoi piedi e in quelli degli altri. Non ragionava più, non sentiva più dolore, non sentiva più nulla: solo una fiammella nel cuore, che agli inizi di giugno la mandava già in fiamme.
Si nascose dietro ad un albero e si cambiò; le sue forme esili e scomposte diventavano dietro quel vestito le più sinuose e aggraziate. Era nuova, era cambiata, era libera.
Doveva cercare Jean, doveva dirle che il suo sogno si era avverato, che qualcuno le aveva regalato un vestito nuovo, che lei non era più la triste e malinconica Eponine, ma che era un’altra donna, scoppiettante e perfidamente accattivante. Ritornò verso la panchina che aveva abbandonato pochi attimi prima per raccogliere la carta, che avrebbe conservato con la stessa cura del vestito nuovo. Fissò l’involucro sognante, rileggendo in preda ad una meravigliosa estasi il suo nome, scritto a caratteri grandi e curati: nobili.
Aguzzò la vista. Ricercò nella sua mente dove aveva visto in passato quella calligrafia, così ben impressa nei suoi ricordi, e proprio nel momento in cui credette di averla riconosciuta, scambiandola per quella di Marius, come una cannonata il volto di Jean le si stampò in mente e la risucchiò in un uragano che profumava di lavanda e di inchiostro.
Era stato lui? Aveva fatto sì che il suo sogno si realizzasse? Dio, non si era mai sentita così viva.
 
Non lo trovò. Aveva errato tutta la mattinata senza incrociare il suo sguardo o scorgere il suo volto tra quelli di tutta Parigi, ma la felicità restava la stessa.
Il suo poeta, infatti, si era nuovamente recato alla barrière du Maine e questa volta non di propria volontà: Grantaire l’aveva “convocato”.
Il sole delle due era caldo e impertinente e i due se ne stavano a parlare dentro il Richefeu per ripararsi da esso. Grantaire rischiava di esplodere, aveva bisogno di parlare con qualcuno che non fosse la sua bottiglia: pensò che Jean fosse la persona adatta per un certo tipo di confidenze. Immersi tra i mille colori della barriera, Jean ascoltava in silenzio, con un’espressione raggiante e comprensiva, che rassicurava in un certo qual modo Grantaire.
<< Lui credeva che io sapessi che cos’era accaduto “quella notte”, ma vedendo la macchia di sangue sulle lenzuola, non ho potuto ricordare nient’altro se non il suo corpo addormentato sul mio letto. Era dannatamente perfetto. >>
<< R, non ti disperare. Se entrambi non sapete che cosa è successo non è grave: magari Enjolras ha combinato qualcosa per conto suo. >>
<< Perchè il mio letto Jean? Perchè? Non è una coincidenza, non lo è almeno per me. >>
<< Lo ami? >>
Fu una domanda spiazzante, anche se Grantaire conosceva benissimo la risposta.
<< No, non lo amo. È più un’ossessione. >>
<< Allora fallo tuo. Catturalo, mordilo, non lasciargli  via di scampo. >>
Grantaire lo guardò con le lacrime agli occhi.
<< Jean, sai qualcosa che io non so? >>
<< No, ma so che dobbiamo stupirlo: è l’unico modo per impressionare Enjolras. >>
E il poeta iniziò a creare, ad interrogarlo e ad estrapolare dalla mente di Grantaire quanto vi era di più remoto e nascosto, quanto di più luminoso vi era in quell’oscurità.
 
Nel frattempo Eponine si era imbattuta in Marius Pontmercy. Non era stato un incontro spiacevole, ma Marius non riusciva a non guardarla senza provare pietà e stizza e ciò la irritava.
Marius era in preda all’estasi e al furore. Schiavo d’amore, egli si lasciava asservire e non gliene importava: Cosette riusciva a sminuire il più alto dei doveri.
Eponine si ricordò che gli aveva fatto un favore due mesi prima: rammentò che gli aveva promesso che l’avrebbe condotto dalla sua amata; c’erano molte cose che Eponine sapeva e glielo doveva. In cambio di quel favore però, doveva avvertirlo, doveva avvertirlo di quanto stava accadendo.
<< Signor Marius, siete in pericolo. >>
<< Che cosa intendi con pericolo? >>
<< Intendo pericolo. >>
<< Suvvia, non fare l’enigmatica, parla! >> Eponine si sentiva presa in giro.
<< Rue Plumet: non ci dovete più andare. >>
Marius rise, seccato dalla sua presenza e divertito dal suo “scherzo balordo”.
<< E perchè mai? >>
<< Perchè cercano lei, o meglio, cercano il padre. E io non voglio che voi siate coinvolto in questa faccenda. Non dovete mettere più piede in Rue Plumet. >>
<< Eponine, non so che cosa ti sia saltato in mente ora, ma fidati di me: il padre di Cosette è una persona onesta e ragguardevole, non vedo perchè dovrebbero cercarlo; e chi poi? >>
<< Il Patron Minette. >>
Marius aggrottò le sopracciglia, confuso.
<< Questo c’entra per caso con l’avvertimento di un mio amico di non recarmi più al Caffé Musain? >>
<< Chi ve l’ha detto? >> Disse Eponine illuminandosi per quel breve attimo.
<< Si chiama Jean Prouvaire. Non lo conoscete. >>
Lei abbassò lo sguardo senza proferire parola. Arrossì dolcemente.
“Ha mantenuto la promessa”.
<< Posso anche evitare di recarmi al Musain, ma non posso evitare di vedere Cosette, quindi grazie lo stesso. >>
<< Attento signor Marius, state attento. >>
E lui se n’ andò.
 
Cerchiamo, finalmente, di far luce su questa oscura vicenda: Eponine coinvolta in una zuffa davanti al Musain, Marius che deve allontanarsi dal caffé e da Rue Plumet, il Patron Minette menzionato già due volte. Qui, credo, il lettore avrà già capito che cosa stava accadendo.
Il Patron Minette cercava Jean Valjean: di conseguenza Rue Plumet era in pericolo. Di rimando, anche Cosette e Marius lo erano, ma visto che Eponine più che per Cosette si preoccupava per Marius, gli consigliò sia di non recarsi più in Rue Plumet, sia di non frequentare più il Musain. Proprio davanti a questo edificio Eponine si era scontrata già due volte con suo padre e i suoi complici che volevano estorcere informazioni da Marius. Per fortuna lei, che non si fidava delle loro intenzioni, li aveva seguiti e forviati in entrambe le occasioni.
Pensò che Marius fosse stupido. Come faceva a non preoccuparsi? Come faceva a non avere paura per la sua donna? Decise che l’avrebbe seguito, quella sera e anche quelle successive, in modo da cacciare suo padre e suoi compagni dalla casa di Cosette. In più avrebbe dovuto convincere il padre della ragazza ad andarsene, non potevano stare lì, li avrebbero scovati e condannati.
 
Enjolras vagava cupo per Parigi. Erano le nove di sera e per lui era già notte. Dopo il particolare incontro con Grantaire si sentiva più vuoto che nei giorni precedenti: senza il suo scettico non era niente; forse con lui doveva essere niente. Grantaire avrebbe preferito sicuramente il nulla a lui.
“Credo in te”, oh quante bugie, che crudele e stupida bugia! Grantaire non lo amava, Grantaire lo odiava e lui ci era cascato. Eppure… La confusione lo stava inglobando ed Enjolras non si stava ribellando. Voleva solo scomparire, la vergogna era troppa. Si sedette davanti ad una vecchia catapecchia (dicevano si chiamasse Gorbeau) infilandosi le mani nei capelli.
 
<< Scusate, dovrei entrare. >>
Enjolras sobbalzò alla vista di quella creatura. Era scarna e sciupata, ma stranamente ben vestita: era Eponine che tornava a casa.
<< Prego entrate. >> Enjolras era glaciale.
Eponine, quando il biondo alzò la testa, non entrò in casa, ma si fermò a fissarlo e a scrutarlo con occhi impauriti e sorpresi. Improvvisamente sussultò abbassandosi e gli afferrò le spalle, come se volesse destarlo da un incubo.
<< Signore! State bene? Il suo volto mi sembra angosciato! Dove siete fuggito la notte scorsa? Io vi ho visto, vi siete battuti davanti al caffé con grande onore cercando di difendere Marius, come state adesso? Probabilmente vi ricordate di me, ero lì con voi! Oh cielo, meno male che non hanno trovato il Signor Pontmercy! Lei però non meritava di essere coinvolto in quella zuffa! Ditemi! >>
Enjolras spalancò i grandi occhi blu schiudendo la bocca. Era sconvolto, sbalordito, scosso, ferito dalle parole, sollevato da quel volto, appagato dalla memoria che improvvisamente era tornata. Si ricordava tutto: del caldo e dei pugni tirati giustamente per difendere un amico, del giovane con un cilindro che gli aveva graffiato il collo, della sua giacca insozzata dal sangue sceso dal naso della ragazza che sostava davanti a lui. Si ricordava anche di come era corso a gambe levate per sfuggire da un uomo enorme e dall’aria leggermente malaticcia che lo inseguiva: la prima casa che gli capitò a tiro per ripararsi, fu quella di Grantaire. Gli sovvenne alla mente anche la mazza che lo aveva colpito sulla schiena facendolo cadere sul letto. Aveva perso i sensi.
<< Sto bene adesso, signorina. Grazie per avermelo chiesto. >>
Enjolras si alzò e iniziò a correre verso casa di Grantaire. Doveva raccontargli tutto, doveva cercare di nascondere tutti quei brutti pensieri e far sì che ritornasse ad avere una buona reputazione di lui.
Arrivato lì lo trovò sul letto, con un sigaro in bocca e una matita in mano: continuava il suo disegno.
Alla vista di Enjolras, Grantaire sbiancò. Vederlo arrivare in casa sua con il fiatone, i capelli scomposti e il sudore sulla fronte lo rendeva umano e stranamente più affascinante di quando sembrava un dio.
Posò il disegno accanto a sé, voltandolo dall’altra parte, e si alzò in piedi cercando di rendersi presentabile: la canotta che indossava non era delle più raffinate.
<< Grantaire, ricordo tutto. >>
Grantaire sospirò, abbattuto in partenza, in quanto credeva che Enjolras lo snobbasse come suo solito.
<< Dimmi Enjolras, qual è stata la nostra avventura notturna? >>
<< Sono stato coinvolto in una rissa. >>
Iniziarono a parlare come se le loro parole non avessero fine, entrambi gioivano nel cuore senza sapere nemmeno il perchè: forse lo stare insieme li rendeva più simili di quanto in realtà fossero.
Enjolras uscì dalla sua stanza con la sua vera e sfavillante fierezza e Grantaire tornò ad ubriacarsi, rivestendo i panni dello scettico ubriacone che era sempre stato, quello che con la sua “imprevedibilità” aveva conquistato Enjolras. Il loro cuore era un guazzabuglio di emozioni indescrivibili, che in quel momento erano a dir poco indecifrabili: la notte avrebbe portato consiglio.
 
 
 
 
Zan, zan, zaaaaaaaaaaaaan! Svelato il misero! Spero che non abbia deluso le vostre aspettative, beh in tal caso il meglio deve ancora venire ;) Ho cercato di scriverlo il più velocemente possibile, ma come al solito mi ci è voluta una settimana buona. La prossima posterò il penultimo capitolo, che sarà dedicato quasi interamente ad Eponine e Jean *^*; l’ultimo sarà dedicato invece a quegli altri due, quanto amore! Spero vi sia piaciuto anche questo capitolo, grazie per l’attenzione, un bacione (: 

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Capitolo 5
*** Rose nella miseria. ***


Eponine entrò in casa, spostando lo sguardo che aveva abbandonato su Enjolras su di sé: indossava ancora il vestito di Jean. Che cosa le avrebbe detto suo padre vedendola arrivare conciata in quel modo? L’avrebbe sicuramente privata di quello che era il suo tesoro più grande. Decise che nessuno avrebbe dovuto vederlo e si cambiò, indossando i suoi soliti stracci. Che disgrazia.
 
L’indomani era il 3 giugno, il 3 giugno 1832. Quello che interessa a noi è di raccontare ciò che successe la sera di quel fatidico giorno, in cui le stelle, troppo scure e malinconiche, improvvisamente s’illuminarono di una nuova luce scintillante, quasi quanto quella che risiede nel cuore degli amanti.
Marius si avvicinava alla casa di Rue Plumet con passo deciso: percepiva e sentiva Cosette e, benché non fossero ancora l’una nelle braccia dell’altro, il casto desiderio di lei non era mai stato così prorompente. Nell’oscurità della notte, leggermente ventilata e fresca, Marius aveva temuto di vedere delle ombre minacciose calpestare i suoi stessi passi, ma poiché li credeva fantasmi li ricacciò via dalla mente, visualizzando di nuovo dentro di sé la dolce e aggraziata figura di Cosette. Spavaldo e innamorato non badava a quell’esile macchia del mondo, a quella dolce ma spaventosa creatura che l’osservava entrare nella casa della sua amata. Eponine l’aveva seguito fino a lì e, benché lui avesse cercato di evitarla, lei non si era data per vinta. Doveva sorvegliarlo e proteggerlo dal Patron Minette che sarebbe arrivato da un momento all’altro. Lo vide spostare la sbarra e scivolare in giardino.
<< Oh, >> disse << entra in casa.>>
“Non mi ha ascoltato” pensava.
<< Questo no, perdinci! >>
Si appostò in un angolo buio dove scompariva completamente e attese lì per più di un’ora. Nessuno arrivava.
Ad un tratto, mentre era persa nelle sue considerazioni, sentì una voce roca, oscura e sgradevole; una voce che a mano a mano si avvicinava a lei e benché fosse buio e fosse completamente sola, non iniziò a tremare: non aveva paura. Quella voce era seguita da dei passi: erano in tanti.
<< E’ qui >> disse uno.
Lei si svelò allo scoperto celando il suo volto tra le tenebre solo per metà. La luce delle stelle illuminava solo un quarto del suo volto. Aveva coraggio ‘Ponine. Era stramba, ma sincera, a volte timida, ma del resto intrepida. Accolse i sei uomini con un ghigno spaventoso, con quel sorriso terribile che era sempre riuscito ad allontanare tutti e che in quell’attimo di adrenalina aveva acquistato un qualcosa in più: la bellezza.
Bella e terribile, nessuna belva inquieta di più.
<< Chi è questa sgualdrina? >>
<< Vostra figlia. >>
Eponine aveva risposto al padre.
La voce non era più quella arrochita a stridula di ogni giorno, ma era profonda e incisiva: il coraggio l’aveva trasformata.
<< Eh, dunque, cosa fai qui? Cosa vuoi? Sei pazza? Cosa vieni a impedirci di lavorare? >> strillò Thenardier.
Eponine respirò profondamente per evitare di mettergli subito le mani al collo. Poi chiuse gli occhi.
<< Sono qui, babbino, perchè sono qui. Non è più permesso sedersi su una pietra? Siete voi che non dovreste essere qui >> sussurrò a pochi centimetri dal volto del padre con aria di sfida. Eponine era cresciuta: aveva abbandonato la solita bambina stracciona per una donna orgogliosa di esserlo, e nonostante i suoi vestiti non lo dimostrassero (indossava un cappotto lungo fino ai piedi) dentro di sé era formata e ricca di vita, come solo un’adulta può essere.
<< Ci sono donne sole >> osservò Gueulemer. Eponine spostò lo sguardo su di lui.
<< No, hanno traslocato >> ribatté convinta.
<< Ma le candele no. >>
Alzò gli occhi al cielo inspirando, maledicendo per un attimo che in casa non fossero ancora andati a dormire.
<< Ebbene, sono gente poverissima, una baracca dove non c’è un soldo. >> Era un’abile bugiarda quando vi era la necessità e non si faceva tradire da nessun atteggiamento sospetto.
<< Vattene al diavolo! >> Strillò il padre tirandole uno schiaffo sulla guancia. Eponine cadde quasi a terra, dolorante, ma non emise neanche un gemito: ormai ci aveva fatto l’abitudine. Si avvicinò a Montparnasse, il ragazzo col cilindro, e gli afferrò le spalle con una presa talmente salda che avrebbe fatto invidia ad un galeotto del Bagno. La forza che risiede nella fragilità è la più spietata.
<< Mio buon amico, signor Montparnasse, ve ne prego, voi che siete un buon ragazzo, non entrate >> lo supplicava tentando questa volta di sorridere in modo da ispirare fiducia, ma appena Montparnasse sentì le sue mani sulle sue spalle l’afferrò e la chiuse nella sua morsa, come fa un ragno che avvolge nella tela la sua preda. Eponine sussultò appena e temette di essere in pericolo per pochi istanti.
<< Bada, ti taglierai! >> Le bisbigliò all’orecchio Montparnasse, che nel frattempo aveva avvicinato un coltello alla sua gola.
Sudava, cercava di dimenarsi e di morderlo, ma temeva che quel coltello potesse trafiggere la sua pelle. Lei, che non aveva mai avuto paura della morte, in quel momento provò un brivido di freddo, uno di quei fremiti che accompagnano il timore. Perchè era spaventata da questo brutto mostro chiamato “la morte”? Perchè il bell’angelo chiamato “la vita” l’aveva accarezzata dolcemente da troppo poco tempo e la povera Rosa della Miseria aveva bisogno di vivere ancora un po’.
Ad un tratto, quando la lama del coltello si fece più pungente, ‘Ponine sentì alle sue spalle una voce, una voce rassicurante, che in quel momento si era fatta più virile che mai.
<< Tu hai un coltello, io ho un fucile. Lasciala andare. >>
Era la voce di Jean Prouvaire.
Eponine non riusciva a guardarlo negli occhi, ma riusciva a vederlo di sbieco. Quanto poteva essere coraggioso il suo poeta? Era venuto lì per lei, a salvarla, a portarla via dalla disperazione, a restituirgli serenità. Perchè pensava ancora a Marius? Perchè si preoccupava ancora per lui? “Che se ne stia con la sua Cosette!” pensò “Io ho di meglio.”
I dolci pensieri che le fluttuavano in mente avevano alleviato qualsiasi tipo di dolore e la pioggia battente (che per fortuna quella sera non c’era) non avrebbe distrutto, ma avrebbe fatto crescere i fiori, quelli che a lui piacevano tanto. Pensava al suo profumo e al dolce dono che le aveva fatto, ai suoi occhi azzurri, candidi e innocenti, alla sua voce debole, ma virile, alla sua calligrafia delicata e al suo sorriso, quel timidissimo sorriso, che tuttavia lo rendeva intrepido.
Montparnasse, sentendosi il fucile puntato alla tempia, non si mosse. Per lui un fucile era robetta da tutti i giorni e sicuramente un povero miserabile con i vestiti laceri non l’avrebbe spaventato.
<< La rivuoi indietro? >> Disse accennando ad Eponine.
<< Adesso. >>
<< Come sei maleducato, nemmeno un “per favore”. >>
<< Non ho motivo di essere educato con uno come te. Lasciala andare >> sibilò scandendo orribilmente le ultime due parole.
Montparnasse rise.
<< Credi di farmi paura? Uno con i fianchi da donna e il ciuffo impomatato potrebbe mai farmi paura? Sto per affrontare una rivoluzione, non sarai certo tu ad intimorirmi. Lascia andare Eponine, o ti scoppia una pallottola nel cervello. >>
Montparnasse si sentì ferito nell’orgoglio. Era diventato un criminale perchè voleva essere “bello” e adesso, quando sentiva di aver raggiunto il suo scopo, un poveraccio lo insultava paragonandolo ad una donna. Jean aveva toccato i suoi punti deboli senza saperlo. Allentò lentamente la presa, ma non perchè volesse liberare Eponine, ma perchè la vergogna lo aveva invaso al suono di quelle parole. Montparnasse era tornato piccolo, come rivelavano i suoi diciotto anni.
Nel momento in cui il coltello si allontanò dalla sua gola, la ragazza balzò fuori dalle braccia di Montparnasse con la velocità di un felino e giunta davanti al volto del padre, che assisteva alla scena sbigottito, gli sputò in un occhio.
<< Cagna! >> Gridò Thenardier.
Eponine rise in modo terribile, questa volta come non aveva mai fatto in tutta la sua vita. Vittima della felicità e dell’adrenalina più assoluta, che Jean aveva fatto affiorare in lei con il suo arrivo, puntò il dito contro il padre, urlando a pochi soffi dal suo volto parole taglienti, che Prouvaire non poté interpretare se non come poesia.
<< Non sono la figlia del cane, sono la figlia del lupo. Siete sei? Che m’importa? Siete uomini, ebbene, sono una donna, non mi fate paura, andate là. Vi dico che non entrerete in questa casa perchè non mi garba; se vi avvicinate abbaio. Ve l’ho detto, il cane sono io; me ne infischio altamente di voi, fate la vostra strada, mi seccate. Andate dove volete, ma non qui, ve lo proibisco; voi a coltellate io a colpi di ciabatta, mi fa lo stesso, avanti! >>
Mosse un passo verso gli altri banditi; era spaventevole, si rimise a ridere.
<< Perdinci, non ho paura; quest’estate avrò fame, quest’inverno avrò freddo; sono ridicoli questi imbecilli di uomini a credere di far paura ad una ragazza. Paura di che? Ah sì, davvero, perchè avete delle cretine di amanti che si nascondono sotto il letto quando fate la voce grossa; ecco, io non ho paura di niente! >>
E fissando il Thenardier aggiunse:
<< Nemmeno di voi! >>
Jean aveva le lacrime agli occhi. Quella ragazza, fragile come un pezzo di carta, le aveva cantate a sei uomini più grandi e più forti di lei, anche se lui avrebbe avuto da ridire su questo ultimo punto. ‘Ponine era la più forte e la più vera: se solo avesse creduto in Dio, sapeva che sarebbe stato fiero di lei. Racchiudeva le tenebre, ma emanava luce; mostrava bruttezza, ma rifletteva bellezza e Jean ne era innamorato, profondamente innamorato, anche se il tempo che era trascorso tra quella sera e l’incontro al Luxembourg non era molto. Coloro che s’innamorano dopo pochi istanti di vita insieme sono quelli dai sentimenti più veri, che se ne infischiano dei giudizi superficiali della gente. La semplicità di Eponine e di Jean era unica e la loro macabra innocenza li rendeva unici nel loro genere, unici insieme.
Dopo aver parlottato un po’ tra di loro quei sei uomini si allontanarono ed Eponine, che non li abbandonava con l’occhio, li vide riprendere la via donde erano venuti. Rimaneva a testa alta a guardarli, piena di sangue bollente.
Jean si avvicinò a lei con lo sguardo basso e le gote rosse, intimorito dal suo fascino; gettò il fucile per terra. Si guardarono, ringraziandosi a vicenda con gli occhi: lei lo fece perchè Jean le aveva ridato il coraggio, mentre lui la ringraziò semplicemente di esistere.
<< Andiamocene di qui Jean. Andiamo in un posto tranquillo. >>
E si diressero verso il campo dell’Allodola.
 
<< Sai Eponine, il mio vero nome è Jehan. Con l’acca. >>
<< Mi piace di più >> rispose lei con un filo di voce.
Le stelle incorniciavano i loro volti, sporchi e sognanti, che, sebbene fossero rigati da sottili gocce di sudore, profumavano lo stesso di desiderio. Una lieve brezza aveva scompigliato i capelli di lei e la cravatta mal messa di lui.
Eponine si alzò da per terra, allontanandosi di qualche passo da Jean. Si sbottonò lentamente il cappotto, in un modo così innocente e seducente, che Jean dovette distogliere lo sguardo per non andare a fuoco. Sotto quel pastrano indossava il vestito rosso. Prouvaire sorrise inebriato dall’amore e coinvolto nella travolgente danza delle emozioni incominciò ad osservarla spensierato, ponendo il pugno sotto al mento.
<< Mi stai guardando in modo strano >> disse lei.
<< Ti sto guardando. >>
<< In modo strano. >>
<< In modo strano. >> Si grattò la testa.
‘Ponine, sempre mantenendo lo sguardo basso, si sedette di nuovo al suo fianco. Improvvisamente cambiò atteggiamento, assumendo un’aria divertita e curiosa, quella che Jean conosceva.
<< Jehan, mi insegni a diventare poeta? >>
Jean alzò le sopracciglia meravigliato.
<< Perchè vuoi diventare poeta Eponine? >>
<< Perchè sei sempre così tranquillo e sereno. Mi piacerebbe diventare come te >> rispose lei gesticolando con le braccia sottili.
Jean sorrise imbarazzato per questa sua stramba richiesta. Poi, avvicinandosi ancora di più a lei e abbassando il tono della voce, continuò a parlarle.
<< È difficile: non si può imparare ad essere poeti, ci devi nascere. >>
<< Almeno provaci Jehan! >> Esordì lei facendo finta di tenere il broncio.
Prouvaire non poté non sciogliersi davanti a quell’espressione di estrema tenerezza e senza mai distogliere il suo sguardo da quello di Eponine cercò di soddisfarla.
<< Beh, per iniziare potresti ispirarti a qualcuno. >>
<< A chi? >>
<< Io ho molti poeti ispiratori, ma quello che certamente mi commuove di più è il sublime Alighieri. >>
<< Alighieri? È francese? >> Chiese la ragazza, cosciente della sua ignoranza.
<< No: è italiano. Si chiama Dante Alighieri. >>
<< Sentiamo che cosa scrive allora >> gli sussurrò ad una distanza tale che i loro respiri si sarebbero potuti fondere.
Jean si schiarì la voce, chiudendo gli occhi per l’imbarazzo.
<< Divina Commedia: quinto canto, terzo cerchio, lussuriosi, Paolo e Francesca.
 Noi leggiavamo un giorno per diletto

 di Lancialotto come amor lo strinse;

 soli eravamo e sanza alcun sospetto.
 Per più fïate li occhi ci sospinse
 quella lettura, e scolorocci il viso;

 ma solo un punto fu quel che ci vinse.
 Quando leggemmo il disïato riso

 esser basciato da cotanto amante,

 questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.>>
Eponine lo ascoltava con lo stesso interesse che una favola suscita in un bambino. Le parole le rimanevano ignote, ma il suono etereo della voce di Jean l’aveva ipnotizzata e commossa. Teneva la bocca semi-aperta e le mani appoggiate sulle gambe di lui: la naturalezza con cui si era ritrovata in quella posizione era stata disarmante per Prouvaire, che la osservava, prigioniero del suo fiato che profumava di ciliegie. Bramava di sfiorare la sua pelle e di accarezzarle il collo, fino a prenderle le mani per poi portarle alla bocca e baciarle. Quegli interminabili attimi di silenzio che li legavano alla vita erano più rumorosi di un tuono; i loro cuori frenetici e folli non si curavano delle stelle curiose e del vento impertinente, erano intenti soltanto a riprodurre il suono dei tamburi.
Eponine appoggiò la fronte contro quella di Jean: le punte dei loro nasi si sfioravano appena.
<< Ciò che hai detto sembra meraviglioso, ma che cosa vuol dire? >>
E fu così che Jean avvicinò le sue labbra a quelle di Eponine e, tutto tremante, la baciò, come Paolo aveva fatto con Francesca.
Bastò questo sussurro per far cadere i pianeti dal cielo e per rivoltare l’infinito.
Le loro labbra erano morbide e calde, come la sabbia. Entrambi baciavano per la prima volta e l’incoscienza di quel momento sembrava superare qualsiasi sensazione mai provata prima: superava i fremiti provati verso Marius Pontmercy, superava la contentezza per aver composto una poesia, superava la gioia d’indossare un nuovo vestito, superava il fascino di un fiore.
Jean le passava le mani tra i capelli, mentre lei aveva afferrato i fianchi di lui.
Impacciati e goffi si erano stesi per terra sprofondando tra l’erba e la terra fresca che compensava il loro bollore. Le loro lingue si sfidavano e s’intrecciavano come se stessero tirando di scherma e la saliva di entrambi scorreva dolce:  si fondevano come fa l’acqua del fiume quando arriva al mare.
Si separarono, respirando ancora i loro odori come se stessero continuando a baciarsi. Eponine lo fissava sconvolta, sembrava quasi che fosse volata in un altro mondo talmente il suo sguardo era stralunato.
<< E questo che cos’era? >> Chiese con l’innocenza e l’ingenuità di un angelo.
<< Un bacio ‘Ponine >> le rispose Jean sorridente, passandole una mano tra i capelli lucenti.
<< E perchè l’hai fatto? >> Gli chiese sottovoce.
<< Non volevi sapere il significato della poesia? >> Incalzò lui completamente rosso in volto.
<< Sì, ma non pensavo che avresti fatto questo; insomma, chi vorrebbe mai baciare una come me? >> Sembrava volesse nascondersi e scomparire tra le ombre della notte.
<< Io volevo. >>
Eponine s’illuminò in volto: per la prima volta nella sua vita, qualcuno “voleva”. Voleva lei, voleva il suo corpo e le sue labbra, qualcuno voleva farsi avvicinare e il fatto che questo qualcuno fosse Jean la mandava in estasi, perchè finalmente sapeva che un uomo l’avrebbe trattata come un fiore.
Lo baciò di nuovo, stringendogli le mani ed appoggiandole sul suo petto: aveva il cuore ricco di polvere da sparo e di fuochi artificiali. Staccatasi dalla sua bocca riprese a parlare con meno innocenza e con più serietà, per quanto si possa essere seri da innamorati.
<< Jehan, forse uno dei miei due sogni sta diventando realtà e io non sto più sognando. >>
Jean la fissò, facendo scendere gli occhi sul suo vestito e sui suoi fianchi fragili.
<< E no, non sto parlando del vestito. >>
Si abbandonarono alla notte dimenticando la luce, perdendosi tra i sogni e le lucciole, volendo non riaccendere mai la luce. Si persero tra i loro corpi puri e miserabili come solo due esseri perfetti potevano fare e poi si addormentarono, vivi, tra l’euforia di un abbraccio.
 
 
 
Eccomi finalmente! Sono riuscita ad aggiornare :3 Beh, che ve ne pare? Devo dire che non è stato per niente facile scrivere questo capitolo, ma alla fine credo che sia venuto abbastanza decentemente ;)
Precisazioni da fare: la prima parte consiste in una riscrittura di un capitolo del libro, “Cab corre sulle ruote in inglese e abbaia in gergo” (il mio preferito **) con delle piccole aggiunte fatte da me! Abbiamo anche un dialogo estratto da un libro di Angeles Mastretta intitolato “Donne dagli occhi grandi” che è: “Mi stai guardando in modo strano. Ti sto guardando. In modo strano? In modo strano” e infine ci sono alcuni versi de “La Divina Commedia” per completare il tutto; sì, mi sono sbizzarrita.
Ci si rivede al prossimo e ultimo capitolo cari, love ya <3
 

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Capitolo 6
*** Amare non è poi la stessa cosa che credere? ***


Siamo stati sulla luna a mezzogiorno;
andata, solo andata, senza mai un ritorno,
e abbiamo fatto piani per un nuovo mondo,
ci siamo attraversati fino nel profondo.
Ma c’è ancora qualcosa che non so di te:
al centro del tuo cuore, che c’è?
[Jovanotti - Come musica]

 
 
 
Nell’esatto momento in cui Jean, tutto tremante, aveva baciato Eponine, Grantaire aveva fatto irruzione al Musain. Enjolras, sorprendentemente e semplicemente, l’aveva guardato, ammirando per un istante la sua camminata fluida e allo stesso tempo scoordinata: l’avrebbe riconosciuto tra mille. Grantaire a sua volta aveva ricambiato l’occhiata, sorridendo maliziosamente come se volesse dire al biondo “Se volessi…”.
Alla notizia che tra di loro, quella fatidica notte, non era successo niente, tutto era tornato normale: i loro corpi sembravano essersi riappropriati delle loro personalità e il caffé non pareva più luogo d’incontri, ma solo un tempio della Rivoluzione, quella con la R maiuscola.
Enjolras gli aveva rivelato la notizia il giorno prima. Gli aveva detto: “Sono stato coinvolto in una rissa” e da quel momento tutto aveva perso d’intensità. Il fatto è, però, che è proprio dalla calma e dalla normalità apparente che nascono le tempeste, e questo lo sapevano benissimo entrambi.
Grantaire si era seduto al tavolo con una bottiglia di vino in mano: classico; Enjolras invece s’infervorava parlando dell’insurrezione imminente con Combeferre e Courfeyrac, indirizzando talvolta lo sguardo verso di lui, che immobile come una statua lo ascoltava, cibandosi del suono della sua voce. Questo un po’ lo inquietava, ma sembrava che le sue vere passioni fossero riaffiorate e che l’amore, quel sentimento stupido e frivolo, fosse andato in letargo tra le braccia di Cupido: qualcosa di più importante stava per accadere e non aveva tempo per pensare a Grantaire; l’avrebbe snobbato, come al solito. Tuttavia, mentre cercava di non badarci e di restare concentrato su altro almeno per quelle poche ore, sapeva che se solo avesse allentato la presa ci sarebbe cascato come aveva fatto da qualche giorno a questa parte. Si sarebbe innamorato di nuovo come fanno tutte le persone intelligenti: come un idiota.
Trascorsero la serata in questo modo: parlando e ascoltando.
Grantaire si stava abbandonando alla dolcezza. Desiderava le sue mani, i suoi capelli e, cosa più libidinosa tra tutte, la sua bocca. Era più rossa della luna che si affaccia sul deserto, più lucente del cristallo, più profumata di tutti i fiori che avesse mai annusato. Lo bramava in modo incontrollabile, sentiva di essere eccitato in tutti i punti più nascosti del suo corpo dal momento la fisicità di Enjolras  era devastante; la sua freddezza lo stava mandando in fiamme e sapeva che litri e litri di vino non avrebbero potuto spegnere quell’incendio.
Pensò che fosse arrivato il momento giusto di agire. Se avesse aspettato ancora un instante sarebbe esploso lacerandosi le interiora, doveva agguantare quell’invincibile demone dalle fattezze angeliche e farlo suo, anche davanti a tutti gli altri: nulla era importante quando si parlava di Enjolras.
Si ricordò delle parole che Prouvaire aveva pronunciato il giorno prima: “Dobbiamo stupirlo: è l’unico modo per impressionare Enjolras”.
Sapeva che era questo quello che doveva fare, ma tutti i bei pensieri che aveva sputato addosso a Jean sembravano valere meno: Grantaire voleva dirgli qualcosa di più forte che “Apollo, mio tutto, non essere cieco”. Voleva letteralmente lasciarlo senza ossigeno nei polmoni, voleva soffocarlo senza mani, voleva soggiogarlo come solitamente faceva Enjolras con lui: con le idee.
 
Si alzò. Scaraventò la bottiglia a terra, fracassandola in mille pezzi e avvicinatosi con passo deciso ad Enjolras lo afferrò per il colletto della camicia, come aveva già fatto in precedenza, ma questa però volta con un qualcosa in più: la tenerezza.
Pochi respiri dividevano i loro volti. R aveva sfoderato lo sguardo più dolce che possedesse e lentamente aveva accarezzato la guancia sinistra del suo Apollo con un lieve timore, quasi preoccupato di profanare tale bellezza. Incosciente e travolto dall’adrenalina che solo l’amore poteva trasmettergli, aveva schiuso le labbra, cercando il completamento di quelle dell’altro; gli atomi che li dividevano erano sempre più piccoli. Enjolras lo scrutava, immobile e pietrificato; avrebbe potuto spostarsi, ma non lo fece. Perchè si comportava in quel modo sotto gli occhi di tutti?
Grantaire era completamente ed assolutamente sbagliato, l’aveva sempre creduto. I suoi capelli arruffati, il suo naso storto, il suo sorriso ubriaco, la sua cicatrice sul mento, la sua schiena morbida, le sue mani bianche, le sue gambe muscolose, la sua voce roca, il suo accento bizzarro, le sue idee confuse, i suoi pensieri contorti, i suoi sogni irrealizzabili: tutto di lui era sbagliato; ma adesso che se lo ritrovava davanti, dannatamente bello nella sua particolare bruttezza e seducente come il diritto e la repubblica non erano mai stati, arrivò a credere che i suoi occhi, dopotutto, non fossero così sbagliati.
 
Forse era per questo che non si spostava. Era caduto nuovamente: chi voleva prendere in giro?
 
Come un tuono, la voce di Grantaire scosse il Musain. Enjolras sperava che si perdesse in uno di quei monologhi privi di senso che il vino gli suggeriva di tenere ogni sera.
Si allontanò di poco dal biondo recuperando l’aria e, senza staccargli mai gli occhi di dosso, cominciò.
Il suo parlare fu tutt’altro che privo di senso.
<< Nella notte desidereremo che le scintille dei nostri occhi non si spengano e che i sogni non si dissolvano. Tra le tenebre e gli incubi, immagineremo il nostro futuro, rubando il sangue a qualche stella e le piume a qualche angelo per poterlo scrivere: io lo farei per te.
Nella notte ti guarderò risplendere, mentre te ne stai lì, con gli occhi persi ad ammirare qualche costellazione lontana e misteriosa. So che il cuore mi esploderà nel petto, so che gli occhi mi bruceranno alla vista delle tue braccia muscolose e venose, so che la bocca mi si asciugherà e che berrò fino alla follia per dimenticare quel tuo maledetto e raro sorriso.
Il mio sangue servirà a dipingere le tue chimere, le tue giacche sporche, i tuoi sogni di rivoluzione; le tue labbra forse, che del mio sangue non si bagneranno mai.
Il mio vino non è rosso quanto i tuoi sguardi che, con l’azzurro degli occhi, incendiano l’aurora.
La tela non si sporcherà delle tue parole taglienti, vere –dolorose-, ma solo del mio sudore, che sgorga abbondante quanto le lacrime che non hai mai versato.
Ti dipingerò sfrontato, ma timidamente, cercando di non tremare al cospetto del tuo labbro sdegnoso: mi fa impazzire, mi fa fremere. Saremo compagni della speranza e dell’ardore e usciremo da questa nostra rivoluzione con le ferite aperte, da cui gocciolerà una linfa che ci rende vivi: l’amore.
Ti ruberò le mani, ti bacerò le nocche, ti pettinerò le vene.
Ti respirerò sul collo, per poi ridere piano, come se tutto fosse un’allucinazione.
Ti sfiorerò i capelli e m’impregnerò del tuo odore, del tuo furore, del tuo orgoglio.
Berrò i tuoi occhi, chiari come l’acqua, torbidi come il sangue.
Divorerò la tua bocca, pura come la ragione, rossa come il peccato.
Ti amerò, senza esitazioni, senza paure.
E se ti dicessi che ti voglio? E se ti rivelassi ciò che sogno? E se tu ti sforzassi di capire? E se mi amassi come ami la tua rivoluzione?
Non saresti Enjolras. E tu vai bene così >>.
Silenzio. Estasi.
Enjolras stava per scoppiare in lacrime, ma i suoi occhi restavano asciutti per colpa dello stupore. Era vergogna o era accettazione, quella famosa sensazione che credeva non avrebbe mai accolto? Lo amava? Si limitò ad inumidirsi le labbra e a nascondere in quel gesto tutti i suoi pensieri più reconditi.
Nella sua mente scorrevano gli infiniti attimi trascorsi con quello scettico: la loro prima stretta di mano, le sere al Musain, i rimproveri, i litigi, la volta in lui cui gli aveva detto “Credo in te!” e il momento in cui l’aveva spedito alla Barriera del Maine per pura pietà. Poi ripensava al risveglio traumatico di quella mattina di fine maggio, a tutte le insicurezze provate, al suo alito, a quel “Bonjour mon am…” che avrebbe sempre interpretato come un “Bonjour mon amour”, ai suoi occhi dannatamente belli e raccapriccianti, al suo corpo così impuro e corrotto, ai pensieri amorfi che avevano poi preso forma alla vista del suo letto: ripensava a Grantaire e al fatto che avrebbe abbandonato qualsiasi rivoluzione pur di restargli accanto, ancora per qualche attimo, prima di sparire tra la polvere.
 
Gli amici dell’ ABC si guardavano stupiti e increduli, ansiosi di scoprire quale sarebbe stata la risposta di Enjolras. Il loro capo si sarebbe finalmente abbassato ad un sentimento tanto complicato come l’amare Grantaire, tradendo la Patria, la sua eterna amante?
Bacco si era seduto al tavolo e aveva impugnato la bottiglia portandosela alle labbra. Teneva lo sguardo basso.
<< Andatevene. >> Questa fu la risposta di Enjolras.
Combeferre lo guardò stupito, Courfeyrac sbigottito, Joly preoccupato, Bossuet divertito e Grantaire incosciente; non riusciva più a catalogare le sue emozioni, ammesso che ne avesse di reali.
 
Non appena tutti i fidi compagni di Enjolras se ne andarono, il biondo dovette constare che Grantaire era rimasto lì seduto al tavolo, da solo, con lo sguardo dissolto nel nulla: non l’aveva abbandonato.
Questo lo fece riflettere. Era uno scettico, convinto di ciò che faceva. Enjolras gli aveva ordinato di andarsene, ebbene, era restato, cosa assolutamente normale per quelli come lui.
Questo comportamento ad Apollo piaceva, perchè Grantaire, tralasciando le sue strambe abitudini e i suoi strani pensieri, aveva una qualche fermezza d’animo che il biondo apprezzava.
Si sedette al tavolo di fronte a lui, togliendosi la giacca.
Grantaire si limitò a sospirare.
Restavano in silenzio, contemplandosi a vicenda, facendo scorrere gli occhi tra i meandri dei loro corpi, curiosi di scoprire il loro opposto: quello che non sarebbero mai stati e che avrebbero sempre voluto essere.
 
Era perfetto, Enjolras era completamente ed assolutamente perfetto. I suoi capelli ordinati, il suo naso drittissimo, il suo sorriso rassicurante, il suo neo sulla spalla, la sua schiena di marmo, le sue mani venose, le sue gambe lunghe, la sua voce brillante, la sua pronuncia impeccabile, i suoi ideali solidi, i suoi pensieri sensati, i suoi obiettivi raggiungibili: tutto di lui era perfetto.
Grantaire sapeva di essere piccolo di fronte a lui, tuttavia riusciva a dominarlo, senza difficoltà, con un solo battito di ciglia.
Ruppe il silenzio.
 
<< Sai, tempo fa sognai di credere. >>
Enjolras diventò serio, cupo, terribilmente bello.
<< Io che credo in qualcosa? Uno scettico come me che si eleva così in alto e che abbandona il dubbio per la fede?
Sedevo su un tavolo marcio e logorato dal tempo e davanti a me sedeva un uomo vestito di rosso. Io lo fissavo e con buone probabilità lo faceva anche lui, ma non riuscivo a capirlo: quell’uomo non aveva un volto.
Abbassai lo sguardo. Gli sussurrai: “Credo in te” e poi tutto svanì.
Credevo di essere diventato pazzo, credevo di aver bevuto troppo persino per i miei standard, credevo… credevo. Dicevo a me stesso che era impossibile, perchè io non ero mai riuscito ad essere convinto di qualcosa. Avevo amato, sì, ma creduto no: il mio amore era sempre stato una fede fasulla. >>
<< Amare non è poi la stessa cosa che credere, Grantaire? >>
Aveva risposto? Aveva detto “amare”? Enjolras era forse sbocciato?
Sorrise compiaciuto. L’altro restava serissimo.
<< Quel sogno mi aveva reso indifeso e vulnerabile. Non volevo più pensarci e non volevo più fare ricorso alla memoria, perchè sapevo che non avrei mai detto quello che avevo sussurrato nel mio sogno. >>
Enjolras sembrava essere tornato improvvisamente ai suoi sedici anni, quando un libro sulla storia francese lo aveva fatto emozionare e provare una strana fitta alla pancia. Si ricordò in quell’attimo che anche lui aveva sognato. Aveva sognato di credere in una strana donna senza volto che lui aveva sempre chiamato Patria; era bella nella sua apatia e irraggiungibile nella sua vicinanza.
La fitta che lo aveva attanagliato a causa delle parole di Grantaire era la stessa.
<< La vita era facile e divertente. Credere era da idioti, credere era da smidollati. Poi sei arrivato tu Enjolras, e mi sono ricreduto. >>
 
Cedette. Si spezzò, volò via come un soffione, cadde come un castello di carte mal fatto. Pianse.
 
Si alzò velocemente recuperando la giacca e si diresse verso la porta per non essere sorpreso in quel momento di fragilità. Grantaire, tuttavia, aveva visto tutto: aveva visto per la prima volta i suoi occhi blu essere inondati dal mare, lo aveva visto vivere, aveva sentito il suo cuore battere, aveva visto Enjolras commuoversi, e questo valeva più di mille parole. Gli sembrava un bambino, l’angelo a cui avrebbe strappato le piume per poter scrivere il loro futuro.  Lo raggiunse rincorrendolo per le scale e lo fermò, immobilizzandolo contro il utilizzando le sue braccia come se fossero due barriere, poi lo interpellò con una voce sottile, sconsolata, quasi malinconica.
<< Perchè fuggi Enjolras? Perchè tremi? Dimmi: perchè l’amore ti spaventa così tanto? Amare non è poi la stessa cosa che credere?Me l’hai detto tu qualche attimo fa, non ricordi? Tu sai credere, non sei come me. E allora perchè fuggi? Perchè tremi, Enjolras? Provi forse repulsione per la mia bruttezza? O per il mio odore? O per le mie idee? Dimmi Enjolras, perchè fuggi davanti ai sentimenti? >> 
Apollo aveva le labbra asciutte e un groppo in gola. Diamine, quel bastardo gli logorava lo stomaco.
Con la voce più dolce e umana che possedeva, lo aveva preso per mano, senza chiedergli il permesso e con estrema fragilità aveva detto: << Perchè se credo amo, se amo spero e se spero voglio. E io non posso volere te >>.
Grantaire aveva stretto la presa. << Perchè non puoi? >>
<< Perchè non c’è niente di più sbagliato che amare uno scettico. Se cambiassi idea anche su di me? Certi tipi di rivoluzione non sono pronto ad affrontarli >>.            
Quella verità spudorata lo aveva disarmato. Non riusciva a controbattere, non riusciva nemmeno più ad immettere aria nei polmoni, non riusciva a mandar giù la saliva. Enjolras si era completamente abbandonato a se stesso. Aveva reclinato la testa verso i piedi e gli aveva lasciato le mani. Si vergognava.
Poi, senza che se ne accorgesse, senza nemmeno riuscendo a spiegarlo a se stesso, si avvicinò a Grantaire e gli baciò la fronte. Era calda, buona.
L’altro non riuscì più a trattenersi e lo prese, buttandolo a terra sulle scale sudice del Musain. Gli scostò i capelli dalla fronte e senza fiatare immerse le sue labbra in quelle di Apollo, riversando il respiro in esse.
Enjolras aveva chiuso gli occhi lentamente, abbandonandosi al sapore di Grantaire: inaspettatamente non sapeva di vino. Impetuosamente aveva aperto la bocca fatto scorrere la sua lingua su quella dell’altro: era impacciato e rigido, ma le rassicuranti carezze di Grantaire lo avevano subito addolcito. Aveva allungato le gambe sulle scale.
R sorrideva. Solo Enjolras avrebbe potuto cogliere quell’espressione di estrema felicità, ma non lo fece perchè era troppo impegnato a profanare la bocca del suo amato.
Grantaire fece scendere la mano destra verso il torace del biondo e con naturalezza gli sbottonò la camicia, scoprendo il petto muscoloso e lucente. Enjolras sobbalzò per un attimo staccandosi da Grantaire e lo guardò spaventato.
<< Che stai facendo? >>
<< Ti sto amando >> rispose l’altro baciandolo sulla bocca.
Enjolras sorrise timidamente. Schiuse la bocca come se volesse parlare, ma poi stette zitto.
<< Che c’è? >>
Grantaire era accovacciato sopra di lui.
Esitò ancora per qualche istante; poi gli afferrò i capelli e, appoggiati fronte contro fronte, gli sussurrò: << Ti amo anche io ‘Taire. >>
Si alzarono in piedi presi dal furore. Si diressero nella stanza retrostante al Musain e sgomberarono il tavolo. Le braccia possenti di Enjolras spinsero Grantaire sulla mensa e le sue mani iniziarono a fremere sotto i vestiti. Toccava la sua pelle e la tastava bacio dopo bacio, non capacitandosi di quanto fosse stato stupido per tutto quel tempo.
Entrambi erano senza camicia sul tavolo, coperti soltanto dai loro fiati. Grantaire non aveva esitato a portare la sua mano verso luoghi inesplorati da Enjolras fino ad allora e quest’ultimo non aveva rinunciato a farseli mostrare. Entrambi erano felici e sentivano di aver raggiunto il loro scopo. Grantaire aveva finalmente conquistato Enjolras ed Enjolras aveva finalmente capito Grantaire.
 
La mattina dopo, quella del 4 giugno 1832, si risvegliarono entrambi tra le lenzuola del letto di Grantaire, nudi, completamente spogliati di qualsiasi pudore. Fu un risveglio molto diverso da quello di maggio: innanzi tutto Enjolras non era solo, perchè al suo fianco c’era colui che lo faceva sentire a casa, e inoltre era cambiato: ora amava. Amava Grantaire, che addormentato al suo fianco gli respirava dolcemente sulla spalla. Non si era mai sentito così sollevato: ora sapeva che non poteva più nascondersi e forse non lo voleva nemmeno. Con lui stava bene, era dotato di quella libertà che aveva ricercato da tanto e che non aveva mai trovato; ora, negli occhi di cobalto di Grantaire, aveva ritrovato il coraggio per affrontare qualsiasi tipo di rivoluzione.
Gli si avvicinò all’orecchio sussurrandogli: << Bonjour mon amour. >>
Grantaire aprì gli occhi lentamente. Vederlo davanti a sé così bello (bello di una bellezza corrotta) e raggiante, non lo trattenne dal baciarlo di nuovo.
<< Enjolras cos’hai sul collo? >> Chiese il moro dopo essersi allontanato dalle sue labbra. Enjolras si guardò il collo e poi rise, mostrando i denti bianchi e perfetti.
<< Che m’importa R? Non ho più paura dei graffi adesso. Sono riuscito ad affrontare la mia Rivoluzione e più nulla potrà impaurirmi. >>
Sprofondarono tra le lenzuola con i corpi, i cuori e gli animi attorcigliati.
 
 
 
 
Signore e signori è finita * lacrimuccia * <3
Che dire? Grazie a tutti per avere letto questa breve fan fiction, grazie per aver recensito, preferito e seguito, non avete idea di quanto mi avete resa felice (:
Non è un addio, perchè sto progettando un AU sempre su questo fandom, quindi spero che ci rivedremo presto. Non ho alcuna osservazione da fare su questo capitolo, se non che la canzone di Jovanotti iniziale mi ha ispirato come una disperata e che avrei voluto esserci io con R e Enjolras in quel momento eheheh .-.
Grazie ancora a tutti, un grosso abbraccio :* <3

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