In aeternum

di Nymeria90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Resta con me ***
Capitolo 2: *** Eri uno, ora siamo due ***
Capitolo 3: *** Una brava ragazza ***
Capitolo 4: *** Problemi di famiglia ***
Capitolo 5: *** Attacco alla Terra ***
Capitolo 6: *** Tempesta in arrivo ***
Capitolo 7: *** Andrà tutto bene ***
Capitolo 8: *** Un passo dopo l'altro ***
Capitolo 9: *** Sotto le stelle ***
Capitolo 10: *** Guerra civile ***
Capitolo 11: *** Oltre le rive ***
Capitolo 12: *** Il momento sbagliato ***
Capitolo 13: *** Keelah se'lai ***
Capitolo 14: *** Ciò che è stato e che sarà ***
Capitolo 15: *** Raccontami di noi ***
Capitolo 16: *** La macchina che sognava la vita ***
Capitolo 17: *** Di che cosa hai paura? ***
Capitolo 18: *** Milite ignoto ***
Capitolo 19: *** Verso la fine ***
Capitolo 20: *** Londra chiama ***
Capitolo 21: *** In aeternum ***
Capitolo 22: *** Vita e morte ***
Capitolo 23: *** La strada per ritornare ***
Capitolo 24: *** A. Shepard ***
Capitolo 25: *** Chi sono io? ***



Capitolo 1
*** Resta con me ***


http://www.youtube.com/watch?v=UCmUhYSr-e4

Canada, Sunshine Coast, 2186
 
La moto sfrecciò lungo l’autostrada che collegava il centro città alla costa.
Era un fenomeno raro, quasi unico, nel 2186 solo pochi patiti di antiquariato giravano a bordo di automobili o motociclette con le ruote, ma un tempo le cose erano diverse.
Fino al secolo precedente tutti possedevano almeno un veicolo a due o quattro ruote, e chi non aveva la patente per guidarli era considerato quasi un disadattato. Ma questo era prima.
Prima dell’Effetto Massa e dei viaggi a velocità iperluce, prima della scoperta delle rovine Prothean su Marte e dei portali galattici, prima della guerra del Primo Contatto quando l’umanità aveva realizzato di non essere sola nell’universo, prima della minaccia dei Razziatori.
A quei tempi l’umanità era diversa, la Terra era diversa, e di quel passato quasi dimenticato restavano le vestigia di strade piene di buche ed erbacce dove un tempo si incolonnavano file e file di macchine, un paraurti contro l’altro, e persone arrabbiate alla guida.
Esistevano ancora i nostalgici, quelli che si aggrappavano ad un passato dove gli umani guardavano le stelle con reverente timore e si domandavano, pieni d’angoscia, “c’è qualcun altro lassù?”.
Nella luce fioca del tramonto la vecchia motocicletta argentata sembrava quasi un miraggio, il vetusto stendardo di un passato troppo diverso per poter essere rievocato.
Nessuno riusciva a ricordare un mondo senza navette spaziali, viaggi interstellari, colonie remote e alieni con scaglie, tentacoli o creste appuntite.
La motocicletta rallentò la corsa, evitando accuratamente una lunga serie di buche che costellavano la strada in disuso, poi l’asfalto tornò liscio e il guidatore aprì il gas lasciando sfogare i duecento cavalli su cui sedeva.
Dopo poche centinaia di metri un avvallamento lo costrinse a rallentare di nuovo ed apparve un vecchio cartello arrugginito che pendeva tristemente da un lato. Le lettere erano scrostate e coperte di ruggine, ma era ancora in parte leggibile: indicava l’uscita per la Sunshine Coast. Dopo una lieve esitazione il motociclista fece curvare il suo mezzo e imboccò la rampa d’uscita.
Una navetta sfrecciò rombando sopra di lui e se avesse alzato gli occhi avrebbe notato una piccola bambina blu fissarlo da un finestrino, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.
Ma l’uomo non alzò lo sguardo, restò concentrato sulla strada che diventava sempre più dissestata, con buche, crepe e tombini aperti.
Infine l’asfalto cedette il posto alla terra e la terra alla sabbia, l’uomo fermò la moto, l’appoggiò sul cavalletto e spense il motore, negli occhi chiari si riflesse lo splendido spettacolo del sole che si tuffava nell’oceano in un’esplosione di colori caldi e vermigli.
L’uomo smontò dalla moto con cautela e attraversò con passo leggero la lunga striscia di sabbia che lo separava dal mare, quando fu a pochi metri dall’acqua, con le onde che arrivavano a lambirgli la punta degli stivali, si fermò e sedette sulla sabbia soffice e fredda. Si passò le mani sul viso arrossato e sorrise: amava il mare, il vento delicato che s’insinuava nei suoi abiti, il leggero sciabordio delle onde, quell’odore indescrivibile di acqua, sale, sabbia, sole … in nessun altro posto si sentiva in pace come in riva al mare.
- Quando guardo il cielo in una notte come questa mi viene ancora da chiedermi che cosa ci sia lassù.-
Alexander Shepard non si voltò verso l’ombra apparsa alle sue spalle, risentire la sua voce gli provocava dei brividi lungo la schiena e temeva il momento in cui i loro sguardi si sarebbero incrociati di nuovo.
- Tu meglio di tutti dovresti sapere cosa c’è lassù.-
- Dovresti saperlo anche tu …- mormorò sedendosi al suo fianco, la sabbia non s’increspò, non si mosse, come se, di fatto, non ci fosse nessuno accanto a lui - … dopotutto veniamo dallo stesso posto.-
Shepard abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate – Sei in ritardo, hai mancato uno splendido tramonto.-
- Ti sbagli.- fu la risposta, velata di malinconia – Sono quasi tre anni che non perdo un tramonto sulla Sunshine Coast.-
Shepard affondò le dita nella sabbia: era fredda sotto le sue dita, ma piacevole al tocco. Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi spaventato o per lo meno preoccupato, ma la verità era che non gli importava, gli piacevano quelle chiacchierate al chiaro di luna, per quanto inquietanti o folli potessero sembrare.
Erano successe troppe cose inquietanti nella sua giovane vita, una in più o in meno non aveva importanza.
- E allora dov’eri quando sono arrivato?-
- Stavo ammirando il tuo bolide. Le altre volte hai usato mezzi più convenzionali per venire qui, non avevo mai visto una di quelle … come si chiamano?-
Shepard sorrise – “Motociclette”, come fai a non sapere come si chiamano? Basta entrare in un museo per vederne una!-
- Non fare il saputello con me. - fu la risposta, piccata – Non mi aspettavo di vederne una fuori da un museo, è stato … strano vederti arrivare su quella cosa. -
I loro occhi si incrociarono per un istante, erano esattamente come li ricordava, scuri e malinconici, si chiese perché non avesse osato guardare quel viso fino a quel momento … non c’era niente di terribile o deforme in quei lineamenti gentili, provò solo una dolorosa, lacerante, fitta in fondo al cuore. Quegli occhi, quel volto, quella voce … gli erano mancati terribilmente.
- Tu parli a me di stranezza?- si costrinse a sorridere.
Entrambi scoppiarono a ridere, prima si dovettero sforzare po’, poi non fu più necessario. Si ritrovarono a ridere senza sapere perché, semplicemente felici di essere lì insieme, come se nulla fosse successo, come se la vita non li avesse mai separati.
- Non dirmi che l’hai rubata da un museo!-
- No, ho solo chiesto un prestito ad un amico …- rispose, facendo tintinnare le chiavi.
- “Prestito”, sì certo, come se non ti conoscessi … -
Shepard si strinse nelle spalle –  Se il sergente non voleva che le prendessi non avrebbe dovuto lasciarle sul tavolo. È stato praticamente un invito.-
Un’onda un po’ più grossa sfiorò pigramente i loro stivali, inzaccherando di sabbia quelli di Shepard mentre gli altri rimasero immacolati come se nulla li avesse bagnati. E forse era proprio così.
- È stato difficile sfuggire alla sorveglianza?-
Shepard scrollò le spalle – Devo forse ricordarti con chi stai parlando?-
Una risatina – No, direi di no, comandante.- si voltò, guardando con interesse il punto in cui era parcheggiata la motocicletta – Io non sarei in grado di guidarla …-
Shepard afferrò una manciata di sabbia, facendosela scivolare tra le dita – Il padre di un mio vecchio amico, C.J., era un collezionista. Abitava su Benning e ogni volta che eravamo di stanza lì io e C.J. andavamo a fare un giro. Ho imparato così. –
Una strana espressione increspò quei lineamenti conosciuti – C.J. …-
- Lo conosci?- era una domanda assurda, ma vista la situazione in cui si trovavano non così tanto.
- Dovrei?-
Avrebbe dovuto aspettarsi quella risposta e quel sorrisino enigmatico. Gli aveva sempre dato sui nervi quel sorriso.
Distolse lo sguardo, serrando la mascella – No, forse no.-
Rimasero in silenzio, seduti fianco a fianco, lo sguardo fisso sulle onde, la luce delle stelle che accarezzava piano la loro pelle.
- Amo questo posto, mi sarebbe piaciuto trascorrerci più tempo.- il sospiro che seguì quelle parole fece accapponare la pelle a Shepard. Era il sospiro di uno spettro perduto nel mondo dei vivi – Ci sono molte cose che avrei voluto fare e che ora sono … perdute.- si strinse nelle spalle con una smorfia – Fa male, ma posso sopportarlo, C’è solo una cosa che non riesco a tollerare, un pensiero che mi tormenta continuamente, più doloroso del peggiore mal di testa …-
Shepard rimase in silenzio, in attesa che continuasse e, infatti, non dovette attendere molto – Devasteranno la Terra. Bruceranno le foreste, prosciugheranno fiumi e laghi, demoliranno città mietendo milioni, miliardi, di vite. E io non potrò fare niente.-
Shepard sentì la bocca inaridirsi – Non è detto che arriveranno, forse riusciremo a fermarli, forse …- i loro sguardi s’incrociarono e si zittì: non aveva senso illudersi, mentire. Non si sfuggiva ai Razziatori.
- Tu sei l’unica speranza per questa galassia, l’unico essere vivente in grado di fermarli.-
Odiò quelle parole, suonavano come una maledizione, eppure, inconsciamente, sapeva che erano vere: combattere i Razziatori era il suo destino.
- Ti metti pure a fare profezie, adesso?-
- Potrei.- non c’era sarcasmo nella sua voce, solo una disarmante sincerità – Non è difficile fare una profezia, basta saper guardare, ma nel tuo caso la verità è davanti agli occhi di tutti: sei un grande uomo, Alexander, devi solo avere il coraggio di esserlo.-
Shepard scosse il capo, serrando le labbra – Ho fallito molte volte. Su Akuze …- i loro occhi si incrociarono, velati di malinconia - … con te …-
- Ti ho visto cadere innumerevoli volte, e altrettante volte ti sei rialzato. Ci saranno delle perdite, amico mio, altri moriranno e tu non potrai salvarli …- nella notte i suoi occhi brillarono - … quello che io mi domando è: sei in grado di accettarlo?-
Si era convinto, giorno dopo giorno, missione dopo missione, di poter rispondere di sì a quella fatidica domanda. Era l’odio a guidarlo, questo si era detto dopo aver condannato a morte un intero pianeta, si era imposto di sacrificare innumerevoli vite pur di debellare i Razziatori dalla galassia … eppure dentro di lui, quella parte che rispondeva ancora al nome di Andrej, si rifiutava di farlo.
- Non importa quello che penso. Devo.- non poteva mentire, non in quel momento, in quel luogo, ma non aveva una risposta, non una che potesse condividere con tutto se stesso.
Un lungo, tremulo, sospiro increspò l’aria – “Dovere”, il ritornello della tua vita. E della mia. Guarda dove mi ha portato il dovere.-
- E cos’altro posso fare? Se voglio distruggere i Razziatori devo essere pronto a tutto.-
- Proprio a tutto?-
Shepard si strofinò la fronte, gli sembrava di correre con dei pesi attaccati alle caviglie – Che alternativa ho?-
Un sorriso malinconico increspò quei lineamenti gentili – Combattere. Contro ogni previsione, ogni profezia. Non importa quanto disperata o inutile possa sembrare una battaglia, se è giusta vale la pena combatterla. Il destino di tutti noi è già scritto, ma se lo accettassimo passivamente cosa saremmo se non macchine prive di libertà?-
- Le tue sono belle parole, ma temo che in questa guerra la sopravvivenza avrà il sopravvento su tutto il resto.-
- E allora i Razziatori avranno vinto. Forse la galassia sopravvivrà, forse i Razziatori saranno annientati ma tutto ciò che di bello e puro esiste in questo universo sarà perduto per sempre. – la sua voce era appena udibile sopra lo sciabordio delle onde, ma Shepard udì distintamente ogni parola, le sentì insinuarsi nel suo cuore, facendolo sentire misero e impuro. - È meglio vivere da mostro o morire da uomo onesto?-
Non rispose, non ce n’era bisogno. Sapevano entrambi qual era l’unica risposta possibile. Rimasero in silenzio a lungo a fissare le onde infrangersi sulla sabbia, il loro dolce sciabordio sembrava il respiro di un’enorme creatura addormentata.
- Vorrei poter combattere con te.- sospirò l’ombra seduta al suo fianco, la voce leggermente incrinata.
Shepard deglutì – Mi dispiace per quello che ti ho fatto.-
- Era giusto così. - gli rispose con gentilezza, senza rancore o rimprovero. Shepard non aveva mai conosciuto qualcuno di altrettanto integro e buono – Ho pianto quando te ne sei andato, tremavo di paura e rabbia, ma è stato solo un istante poi tutto è finito, paura e rabbia sono svanite ed è rimasto solo l’orgoglio per ciò che avevo fatto. Tu mi hai permesso di fare la differenza, ho cambiato il mio piccolo angolo di mondo e di questo io ti ringrazio.-
Shepard distolse lo sguardo, cercando di nascondere una commozione fin troppo evidente: non meritava una simile devozione.
Rimasero così, seduti fianco a fianco in silenzio, come ai vecchi tempi, quando i discorsi erano superflui e le parole ingannevoli. Era nel silenzio che trovavano l’armonia perfetta e la più totale comprensione. Erano insieme, non contava altro.
E alla fine anche la notte ebbe termine.
L’orizzonte si schiarì lentamente e presto il sole sarebbe sorto alle loro spalle, portandogli via anche quell’ultimo istante passato insieme.
- La notte sta per finire e con essa il tempo a nostra disposizione.-
Shepard strinse i denti, trattenendo a stento un’invettiva, non sopportava l’idea di dovergli dire addio di nuovo.
Si voltò e, stupidamente, inconsciamente, sollevò una mano, per stringere la sua, dimentico di ciò che era veramente: un’ombra e nient’altro.
Sobbalzò quando senti le dita calde sfiorargli la pelle e la ferrea presa di una mano viva, reale, stringere la sua. Mentre la notte, lentamente, scivolava via, Shepard vide l’ombra trasformarsi in una persona fatta di carne, ossa e sangue.
- Non è possibile …-
- Quando il giorno e la notte s’incontrano e il sole e la luna si guardano c’è un istante, un flebile istante, in cui tutto diventa possibile.-
Shepard scosse il capo, basito – Tu parli di qualcosa che non esiste …-
L’ombra che non era più un’ombra sorrise – Solo perché non sai cos’è non vuol dire che non esiste, un tempo la chiamavano “magia” e sono felice che nessuno sia ancora riuscito a chiamarla scienza.- la stretta sulla sua mano si fece più forte e Shepard assaporò il calore di quel contatto che sapeva essere l’ultimo – Non trovi rassicurante l’idea che in questa galassia ci siano ancora domande che non hanno risposta?-
Aveva ragione. Che cosa sarebbe rimasto del mondo se non ci fossero più stati misteri da svelare o sogni da inseguire?
- Tu … tu sei di nuovo tra i vivi?-
- Io non ho la sfortuna di essere te, amico mio.- c’era pietà nella sua voce, non biasimo o commiserazione, ma sincero dolore. Vedeva ciò che il mondo gli aveva fatto e piangeva per lui.
Il sole illuminò la baia disperdendo i fantasmi che la notte aveva riportato in vita.
- Resterai al mio fianco?- domandò Shepard, aggrappandosi con disperazione a quella mano che stava già diventando fumo.
Kaidan Alenko sorrise, commosso, mentre riprendeva il suo posto nel mondo dei morti – Fino alla fine.-
 
 
 
 
 
Note
 
Eccomi con questa nuova storia che di fatto è il seguito di Requiescat in pace, gli aggiornamenti non saranno costanti e frequenti come la volta precedente, per il momento ho scritto solo i primi capitoli, chiedo scusa …
Spero che la storia sia di vostro gradimento, buona lettura!
 

 

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Capitolo 2
*** Eri uno, ora siamo due ***


http://www.youtube.com/watch?v=uMYAATQDOEQ

Canada, Vancouver, 2186
 
Siamo arrivati, tenente.-
Il portellone della navetta si aprì e il tenente James Vega scese, riparandosi gli occhi dal riverbero del sole. L’aria arroventata della pista lo colpì come un maglio, togliendogli il respiro.
- Da questa parte, Vega. – lo chiamò un ufficiale in piedi accanto ad un’astroauto parcheggiata poco lontano.
Vega corse verso il veicolo, più per sfuggire al calore insopportabile che per reale desiderio di raggiungere il militare; nulla l’avrebbe dissuaso dalla convinzione che si trovava sulla Terra per punizione e l’uomo di fronte a lui era l’artefice di quella condanna.
Quando salì sulla navetta l’ufficiale l’aveva già messa in moto e fu con gratitudine che Vega accolse la frescura dell’aria condizionata. Erano anni che non tornava sulla Terra ma era certo che quella fosse un’estate eccezionalmente calda; aveva sempre immaginato il Canada come un parco giochi per pinguini e orsi polari, non era normale che facesse così caldo!
- Hai fatto buon viaggio, tenente?-
Vega grugnì con un’alzata di spalle – Dove stiamo andando?- chiese, mettendo bene in chiaro che i convenevoli erano sprecati con lui.
L’ammiraglio David Anderson gli lanciò un’occhiata penetrante – Al QG dell’Alleanza.-
- Avrebbe potuto farmi fare un giro della città prima di spedirmi in prigione.- commentò, con una punta di sarcasmo.
Anderson superò un’astroauto in panne – Te l’ho già detto, tenente: niente prigione per te. Non questa volta, anche se dopo il casino che hai fatto su Omega te lo meriteresti.- lo rimproverò.
James appoggiò la fronte al finestrino, assaporando il ricordo della rissa su Omega: aveva dato a quei Batarian una lezione memorabile.
Avrebbe preferito che Anderson non si intromettesse, doveva permettergli di finire ciò che aveva iniziato, forse alla fine i Batarian gli avrebbero fatto la pelle, erano in tanti e persino armati, ma ne avrebbe portati un po’ all’inferno con sé. Il dolore e la morte non gli facevano paura, non gliel’avevano mai fatta, ma l’idea della gabbia lo terrorizzava. Rimasto solo con se stesso avrebbe avuto solo il ricordo degli amici che aveva perduto e degli innocenti che non era riuscito a salvare a tenergli compagnia.
Scosse il capo, scacciando quei pensieri dalla mente. Pensava a Fehl Prime e alla nave dei Collettori tutte le notti, non voleva cominciare a pensarci anche di giorno o sarebbe finito come suo nonno, con un cappio attorno al collo e una bottiglia di rhum nello stomaco: una fine infame per una vita infame. Lui si rifiutava di finire così. Aveva passato tutta la vita cercando di togliersi di dosso la puzza di miseria che suo padre e suo nonno gli avevano iniettato nelle vene insieme al loro sangue.
- Con tutto il rispetto, signore, la vita del secondino non fa per me.- sibilò, mentre il veicolo svoltava bruscamente a sinistra, infilandosi tra i palazzi.
Anderson ghignò – Non ne dubito.-
- E allora perché ha scelto me? Immagino ci sia una fila di piccoli ufficiali zelanti che non vedono l’ora di fare il loro dovere.- fece una smorfia – L’idea di vedere il comandante Shepard agli arresti deve aver mandato in fibrillazione mezza Alleanza.-
- Tu non credi che si sia meritato questo trattamento?- domandò Anderson, impassibile.
Vega sospirò. Un tempo aveva visto in Shepard un eroe, un modello da imitare e poi aveva visto quello stesso eroe cadere, inabissarsi. L’eroe era morto e risorto, come la leggendaria fenice. Ma invece di quel fantastico uccello dalle ceneri del comandante Shepard si era innalzato un corvo portatore di morte. O almeno questo era quello che i media volevano far credere alla gente comune; ma James Vega non si considerava un uomo comune.
- Shepard ha salvato molte vite. - mormorò, tenendosi sul vago. Non sapeva ancora se fidarsi o meno di Anderson.
- Ma ne ha uccise altrettante.-
Vega deglutì. Anche lui aveva ucciso molte persone, con la sola differenza che, alla fine, non aveva salvato nessuno.
- Certi uomini possono essere puniti solo con la frusta e la prigione, per altri è sufficiente la memoria di ciò che hanno fatto. Se Shepard è l’uomo che credo che sia, sta già scontando la sua pena e non esiste tribunale che possa condannarlo ad una peggiore.-
L’astroauto accostò davanti a uno splendido palazzo in vetro: il QG dell’Alleanza. Guardandolo, Vega ebbe l’impressione di osservare un edificio modernissimo immortalato in una foto in bianco e nero. L’umanità tentava di elevarsi oltre le stelle ma non riusciva a liberarsi da quel passato grandioso che la teneva ancorata alla sua Terra.
L’ammiraglio Anderson spense il motore e lo fissò, senza tradire la minima emozione – Hai appena risposto alla tua domanda.-
- Quale?-
- Non ho bisogno di qualcuno che sorvegli Shepard.- Anderson curvò le labbra in un pallido sorriso – Ho bisogno di qualcuno che lo protegga. Per questo ho scelto te.-
Vega si accigliò – Proteggerlo da cosa?-
Shepard aveva molti nemici, questo lo sapeva bene, ma non aveva mai avuto bisogno di una guardia del corpo. Era in grado di proteggersi da solo.
Anderson scese dal veicolo, invitando il tenente a seguirlo.
- Da se stesso, Vega. Devi proteggerlo da se stesso.-
Continuava a non capire, ma decise di lasciar perdere. Forse le cose sarebbero diventate più chiare una volta incontrato il famigerato comandante.
Si asciugò le mani sudate sui pantaloni mentre seguiva Anderson all’interno dell’edificio, l’idea d’incontrare Shepard lo faceva sentire irrequieto; un tempo avrebbe dato la mano destra per potergli parlare solo per qualche istante. Per molti anni il comandante Shepard era stato il suo idolo, il più grande soldato mai esistito. Ma, dopo Fehl Prime, non c’era stato più posto per gli idoli nella sua mente. Si era arruolato convinto che la guerra fosse solo un gioco, certo che alla fine il mondo lo avrebbe acclamato come un eroe. La guerra lo aveva preso, mangiato e risputato, deridendo i suoi sogni di gloria e grandezza. Non c’erano eroi nel mondo degli uomini. Né Shepard, né il capitano Toni, né James Vega.
Passarono gli innumerevoli controlli di sicurezza e salirono le scale per raggiungere il settore destinato al confinamento degli ufficiali accusati di reati militari. Non c’erano celle, ma solo semplici alloggi dotati di ogni comodità, dove gli accusati erano confinati fino alla soluzione del processo. Ovviamente gli “ospiti” erano sotto costante sorveglianza e ogni contatto con l’esterno era loro precluso. Non fu difficile trovare l’alloggio di Shepard: era l’unica stanza occupata.
I due uomini che sorvegliavano la porta si misero sull’attenti quando Anderson si avvicinò – Riposo, soldati.- ordinò l’ammiraglio con un lieve cenno della mano – Devo parlare con Shepard.-
Il soldato più alto, con la mascella squadrata e i capelli rasati, diede un’occhiata ai video di sorveglianza sul suo factotum – Sta ancora dormendo, signore.-
Anderson gli rivolse uno sguardo di gelida indifferenza – E la cosa dovrebbe importarmi? Buttatelo giù dal letto, per la miseria, non è qui in villeggiatura!-
I due uomini si scambiarono uno sguardo preoccupato, infine il mascellone fece una smorfia e annuì. Vega non avrebbe saputo dire se temevano di più l’ira dell’ammiraglio o quella del loro prigioniero.
- Agli ordini, ammiraglio.- il soldato digitò il codice d’apertura della porta, la serratura scattò con un lieve sibilo e l’uscio scivolò di lato.
L’uomo prese un profondo respiro e, con un’espressione pavida che mal si addiceva ai suoi lineamenti marcati, entrò – Ci sono visite, Shepard. Sveglia!-
Vega seguì Anderson nella stanza in penombra, leggermente intimidito, il secondo soldato fece una smorfia – Faccia attenzione, ammiraglio, l’ultima volta che lo abbiamo svegliato ha steso il sergente con una scarica biotica.-
Vega deglutì, a disagio, mentre il silenzio di Shepard si faceva sempre più inquietante … dopotutto, si disse, quell’uomo era accusato di aver distrutto un portale galattico … forse era davvero il pericoloso criminale di cui tanto parlavano i media e chissà cos’aveva in mente di fare …
- Shepard!- chiamò di nuovo il sergente, con malcelato timore – L’ammiraglio Anderson è qui per parlarti.-
Silenzio.
D’istinto Vega portò la mano alla pistola … ma perché nessuno accende la luce?
L’ammiraglio Anderson sbuffò, attraversò la stanza a grandi falcate e schiacciò un interruttore; con un ronzio sordo le tende che oscuravano le finestre si alzarono, lasciando entrare nella stanza la luce del sole.
La stanza era piccola ma ordinata, con una splendida vista su Vancouver. Di fronte alla vetrata c’era un tavolino con un paio di sedie, un frigorifero, un piano di cottura, un divano a due posti e, soprattutto, nessun folle biotico acquattato dietro la porta, pronto a farli a pezzi.
Vega si rilassò e anche il mascellone parve riacquisire una certa padronanza di sé; scrollò le spalle e, sotto lo sguardo ironico dell’ammiraglio, attraversò a grandi passi la stanza chinandosi sull’ammasso informe di coperte che occupava il piccolo letto appoggiato contro la parete – Sveglia bell’addormentato!- sbraitò allungando la mano – Che cazz …!-
Il sergente sollevò la coperta, rivelando tre cuscini disposti per dare la parvenza di una forma umana: un trucco vecchio come il mondo.
L’uomo alzò il viso, pallido come un fantasma – Non c’è, signore.-
Anderson diventò paonazzo – Come sarebbe a dire “non c’è”?- ringhiò, con voce strozzata.
- Si rilassi, ammiraglio, ho rischia di farsi venire un infarto.-
Tutti si voltarono al suono di quella voce beffarda. Appoggiato alla soglia c’era un uomo sulla trentina, alto, coi capelli quasi rasati e un sorriso ironico sulle labbra. Il comandante Alexander Shepard sembrava divertirsi un mondo.
– Dove diavolo eri, Shepard?- abbaiò Anderson, furibondo.
Il comandante si strinse nelle spalle, entrando nella stanza con passo disinvolto, come se fosse appena rientrato da una passeggiata – Oh, un po’ qua, un po’ là. La Sunshine Coast è uno spettacolo al tramonto.-
- Tramonto?- la voce di Anderson era pericolosamente acuta – Sei stato fuori tutta la notte?-
- Così sembrerebbe.- estrasse qualcosa dalla tasca e lo lanciò al mascellone che, inaspettatamente, lo prese al volo: un mazzo di chiavi – Splendida moto, sergente. Non pensavo fossi un intenditore, ma devo ricredermi. Quella moto è un vero gioiello.-
L’uomo impallidì – Ha preso la mia moto?-
Shepard aprì il frigo e prese una birra – Le ho fatto fare una bella galoppata.- bevve un sorso – Però temo di averla lasciata in riserva, spero che non sia un problema.-
- Figlio di …-
- Sergente!-
Il mascellone s’irrigidì, portandosi sull’attenti, Anderson si piazzò davanti a lui, gli occhi di brace – Si può sapere come ha fatto quest’uomo a sfuggire alla vostra custodia, impossessandosi persino di un mezzo di trasporto?-
Anche l’altro soldato si era messo sull’attenti, accanto al compagno – Signore noi …-
- Non è colpa loro.- intervenne Shepard lasciandosi cadere sul divano, le lunghe gambe appoggiate al bracciolo – Sono io che sono maledettamente bravo.-
Vega non poté fare a meno di notare una punta di compiacimento nella voce di Shepard; aveva la netta impressione che i due soldati stessero pagando per un qualche affronto ai suoi danni.
Gli occhi di Anderson si assottigliarono pericolosamente – Voglio un rapporto completo sulla mia scrivania entro questa sera e se quello che leggerò non mi piacerà vi assicuro che sarete degradati. Per il momento siete esentati dal servizio.- Shepard finì di bere la sua birra con ostentata soddisfazione mentre il mascellone lo fissava con uno sguardo carico d’odio – E ora andatevene. Non voglio più vedervi.-
Non se lo fecero ripetere due volte e, dopo un breve saluto, sparirono fuori dalla stanza.
Vega rimase piantato al suo posto, indeciso sul da farsi, non voleva assistere ad un’altra scenata ma, all’improvviso, Anderson scoppiò a ridere –Ricordami di non farti mai incazzare, Shepard. Posso prendere una birra?-
Shepard annuì ma la sua espressione si fece dura – Hanno mancato di rispetto alla mia squadra, ammiraglio, e questo io non posso tollerarlo.-
Anderson lo fissò intensamente – Mi ricordi tuo padre. Birra, tenente?-
- Grazie, ammiraglio.- afferrò con gratitudine la birra che gli veniva lanciata: stava morendo di sete.
- È il mio nuovo gorilla?- domandò Shepard guardandolo per la prima volta, anche se James aveva la netta sensazione che lo stesse valutando da quando era entrato.
- Scommetto che andrete d’accordo.- affermò l’ammiraglio lanciandogli un’occhiata ironica – Avete la stessa allergia alle regole.-
- Lo prendo come un complimento, ammiraglio.- borbottò Vega, bevendo un sorso.
Shepard gli sorrise, solo in quel momento Vega si accorse di quello che strideva nell’allegria di Shepard: era fasulla, costruita a puntino. Non c’era nulla di naturale in quei sorrisi che non riuscivano a coinvolgere gli occhi.
- Lo è, tenente …?-
- Vega. - tese la mano – Tenente James Vega.-
Shepard annuì, stringendogli la mano – Molto piacere, James.-
- Hai rischiato grosso, Shepard.- l’espressione bonaria era scomparsa dal volto dell’ammiraglio – Se ci fosse stato qualcun altro al mio posto saresti finito in isolamento.-
Shepard si alzò dal divano e si mise davanti alla vetrata, ogni parvenza di giovialità era scomparsa dal suo viso, lasciando il posto ad una durezza che Vega aveva intravisto spesso allo specchio. Era il volto di un uomo che aveva attraversato l’inferno e ne era uscito ricolmo di odio – L’Alleanza non ha ancora chiara una cosa e forse nemmeno lei, Anderson: sono qui perché l’ho voluto. Potrei andarmene in qualsiasi momento …- fece un gesto eloquente, come per ricordargli quello che era appena successo - … ero libero fino a dieci minuti fa, potevo sparire, ma non l’ho fatto. Sono qui perché il mio onore me lo impone, sono qui perché ho distrutto una colonia e tutti i suoi abitanti. So bene quali sono le mie colpe: non ho bisogno di una cella che me le ricordi.-
Anderson non trovò niente da replicare, si avvicinò al comandante, gli posò una mano sulla spalla e strinse forte.
Vega sentì un calore sconosciuto da qualche parte, nel petto, e raddrizzò impercettibilmente le spalle. Su Omega, quando quei Batarian avevano sputato sul nome di Shepard, aveva perso la testa, li aveva aggrediti semplicemente per farli tacere, per non sentire più le loro parole. Aveva difeso quell’uomo sconosciuto perché aveva una storia smile alla sua, fatta di innocenti sacrificati in nome di un bene superiore, difendere Shepard era stato come difendere se stesso.
Ma ora Shepard era davanti a lui, duro e solitario come uno scoglio in mezzo a un mare in tempesta, una solitudine che conosceva troppo bene, una durezza che lui stesso sentiva sulla pelle e nel cuore.
Quell’uomo condivideva le sue stesse colpe, i suoi stessi affanni e se era una tempesta che dovevano affrontare, perché non farlo fianco a fianco?
Erano scogli in mezzo al mare, duri e stremati, ma non più soli.

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Capitolo 3
*** Una brava ragazza ***


Nota
 
Avverto i lettori che, siccome il punto di vista del capitolo è quello di Jack, il linguaggio usato non è proprio da educanda. Chiedo scusa per tutte le parolacce che seguiranno ;)
Buona lettura!
 
http://www.youtube.com/watch?v=vSkb0kDacjs

Canada, Vancouver, 2186
 
Jack gettò i rimasugli della cena nella pattumiera. Era riuscita nella difficilissima impresa di trovare qualcuno che cucinasse peggio del sergente logistico Gardner. Fissò torva la squallida stanza d’albergo che da qualche giorno era il suo rifugio: quasi le faceva rimpiangere la sua tana nella stiva della Normandy.
Era sulla Terra da poco più di un mese e aveva già finito tutti i crediti che aveva guadagnato sulla Normandy. Nessuno le aveva mai insegnato il significato della parola “risparmiare”. Non che avesse importanza, era abituata a vivere alla giornata, senza preoccuparsi di quello che le avrebbe riservato il futuro. In un passato non troppo lontano avrebbe trovato un modo facile e divertente per guadagnare un bel mucchio di soldi in poco tempo, ma nei pochi mesi passati sulla Normandy le cose erano cambiate. Lei era cambiata.
- Vaffanculo, Shepard.- ringhiò, scagliando la bottiglia di birra dall’altra parte della stanza. Si trovava in quel casino a causa sua: si era intromesso nella sua vita, riempiendole la testa di belle parole e speranze per il futuro, per poi abbandonarla al suo destino, dando per scontato che fosse in grado di affrontare il mondo da sola. Lei sapeva uccidere, saccheggiare e rubare, il suo mondo era molto semplice: bianco o nero, vivi o muori. Il mondo di Shepard, invece, era infinitamente complicato. C’era troppo grigio in quel mondo e più il tempo passava più si rendeva conto che per lei, lì, non c’era posto. Né per il Soggetto Zero, né, purtroppo, per Jack.
Si stropicciò gli occhi cercando di riordinare le idee e fare il punto della situazione, non che ci fosse molto da capire: era al verde, non aveva la più pallida idea di come fare a guadagnarsi da vivere onestamente e, ciliegina sulla torta, il proprietario di quell’hotel fatiscente aveva minacciato di chiamare la polizia se non avesse saldato il conto entro la mattina successiva.
Né la polizia né quel viscido omino obeso le facevano paura, ma far sprofondare quel misero albergo in un buco nero avrebbe solo decretato la vittoria del Soggetto Zero e la sconfitta di Jack. Non poteva perdere la battaglia più importante della sua vita solo perché non era in grado di saldare il conto di uno squallido albergo a ore!
Tutta colpa di Shepard, si ripeté, lui e la sua morale da quattro soldi.
Che marcisca pure in qualche stupido carcere. Non me ne frega più un cazzo di lui.
- … e ora gli ultimi aggiornamenti sul “processo Shepard”.-
Jack scattò in piedi, fissando con occhi sgranati lo sgangherato televisore che stava trasmettendo il notiziario galattico; alzò il volume e la voce asettica della giornalista riempì la stanza.
- Un mese fa il Comandante Alexander Shepard, Primo Spettro Umano ed eroe della Cittadella, è stato arrestato dalle autorità dell’Alleanza in seguito alla sua collaborazione con il gruppo xenofobo pro-Umani noto come “Cerberus”, collaborazione sfociata nell’attacco terroristico che ha portato alla distruzione del sistema Bahlak e alla morte degli oltre trecentomila Batarian che risiedevano su Arathot, pianeta che oggi non esiste più. Il comandante, che rivendica la paternità di quello che è da molti considerato il peggior attentato terroristico della storia galattica, si trova ora sotto processo mentre l’Egemonia Batarian chiede a gran voce la corte marziale.-
Sullo schermo comparvero le immagini del comandante al suo arrivo sulla Terra, quando aveva consegnato se stesso e la Normandy all’Alleanza.
Jack non poté trattenere un’imprecazione di fronte all’assurdità di quel gesto, Shepard era convinto che i membri del comitato avrebbero creduto alla sua versione e preparato le flotte all’imminente invasione, ma Jack sapeva, e i fatti le avevano dato ragione, che nessuno l’avrebbe ascoltato. I Batarian erano sul piede di guerra e l’Alleanza non riusciva a vedere altro.
Si accorgeranno dei Razziatori solo quando arriveranno a spaccarci il culo.
Un po’ com’era successo coi Krogan solo che, questa volta, la posta in gioco era decisamente più alta.
Sullo schermo riapparve la giornalista, un’umana che si era fatta tingere la pelle di blu per sembrare un’Asari, si credeva molto sexy ma in verità era solo patetica.
- Dato per morto in seguito alla distruzione della Normandy SR-1 nel 2183, Shepard è riapparso meno di un anno fa, al comando di una missione segreta finanziata da Cerberus. Attivo soprattutto nei Sistemi Terminus il comandante Shepard si è circondato di alcuni degli elementi più sovversivi e pericolosi della galassia. Ad oggi ci è nota la sua collaborazione col sanguinario mercenario Zaeed Massani, con un assassino Drell dall’identità tuttora sconosciuta, responsabile di diversi omicidi, l’ultimo quello dell’imprenditrice Asari Nassana Dantius, e con una biotica psicotica, conosciuta come Jack o Soggetto Zero, responsabile, tra le altre cose, della distruzione della nave – prigione Purgatory su cui era detenuta. –
Jack fece la faccia feroce – La biotica psicotica ti ha salvato quelle chiappe ossute, puttana!-
Evidentemente non era nell’interesse dell’Alleanza comunicare la distruzione della Base dei Collettori o il salvataggio di mezza Horizon. Se l’avessero fatto  avrebbero dovuto ringraziare il pericoloso equipaggio sovversivo del comandante Shepard e questo, ovviamente, era fuori discussione.
Stava cominciando ad odiare l’Alleanza tanto quanto aveva odiato Cerberus.
- Il comandante nega il coinvolgimento di Cerberus e dei membri del suo equipaggio nell’attentato contro la colonia Batarian e afferma di aver agito per il bene della galassia la cui incolumità sarebbe, a detta di Shepard, minacciata da una specie di macchine senzienti, da lui chiamate “Razziatori”.- la giornalista lanciò ai telespettatori un’occhiata significativa e, per sottolineare l’instabilità mentale del comandante, sullo sfondo passarono le immagini di Shepard che rivolgeva un gesto osceno in direzione delle telecamere. Jack ne fu molto orgogliosa.
Spacca tutto, Andrej!
- Le autorità stanno indagando sul coinvolgimento di due figure di spicco della politica Turian e Quarian, Garrus Vakarian e Tali’Zorah, che già in passato collaborarono con Shepard. Se la loro presenza a bordo della Normandy SR-2 venisse confermata questo implicherebbe numerose ripercussioni a livello galattico …-
Il televisore esplose.
Jack sorrise e rinfoderò il Carnifex: aveva centrato quella troia dalla pelle blu in piena fronte. Avrebbe voluto averlo fatto sul serio.
Qualcuno bussò ripetutamente alla porta – Ehi, cosa sta succedendo lì dentro? – Jack riconobbe la voce querula del “direttore” ed andò ad aprire.
- Non voglio grane nel mio …- l’uomo ammutolì mentre fissava con occhi strabici la pistola premuta contro la sua fronte.
- Levati dai piedi, stronzo, prima che faccia prendere aria al tuo cervello.-
L’uomo pigolò qualcosa e scappò via.
- E ora …- commentò, trionfante - … andiamo a guadagnare un po’ di soldi.- infilò la pistola nella cintura e si chiuse la porta alle spalle.
 
I bassifondi di Vancouver le ricordavano Omega e si trovò subito a suo agio: quello era il suo habitat naturale e lei era il predatore più pericoloso.
Bazzicò in un paio di bar, dove i suoi tatuaggi riscossero un immediato successo, e non le fu difficile farsi offrire da bere da un qualche cowboy armato di stecca da biliardo.
Al terzo giro di tequila era riuscita a farsi fare la descrizione completa dello spacciatore più quotato della città, con allegato l’orario e il luogo preciso in cui trovarlo, con tanto di indicazioni su come arrivarci.
Lasciò il suo informatore a sbavare sul tavolo da biliardo e uscì dal locale a passo spedito, ignorando l’occhiata confusa della barista.
Una volta in strada si guardò frettolosamente intorno, alla ricerca di qualcosa di sospetto. Ovviamente era tutto tranquillo, ma le vecchie abitudini erano dure a morire; molti, Shepard incluso, vedevano in lei un mix di ferocia e impulsività. Si sbagliavano. In lei tutto era istinto. Puro, animalesco, istinto. E l’istinto la spingeva a guardarsi le spalle: sempre.
Incassò la testa nelle spalle, s’infilò le mani in tasca e attraversò la strada, con passo sicuro e spedito, come se fosse nata e cresciuta in quelle vie.
Azzardò un’occhiata al cielo sopra di lei e sbuffò: non si vedeva niente, se non le luci fugaci delle astroauto e quelle, violente e intermittenti, degli schermi pubblicitari. Per un attimo rimpianse il cielo stellato che sovrastava la cabina del comandante, sulla Normandy … scrollò le spalle e scacciò quel pensiero: quei tempi erano finiti, era ora che se ne facesse una ragione.
Il suo posto era lì, tra la feccia della galassia, che fosse Vancouver, Illium o la Cittadella non importava, sporcizia, sangue e violenza avevano ovunque lo stesso sapore.
Erano quasi le due quando raggiunse il parchetto pubblico tra Pacific Road e Main Street. Alzò lo sguardo e si bloccò: il QG dell’Alleanza svettava imponente oltre gli alberi del parco. Si guardò intorno, accorgendosi con stupore che gli edifici fatiscenti avevano lasciato il posto a lussuosi palazzi, con ampie vetrate e architetture complesse: aveva appena fatto il suo ingresso nei quartieri alti di Vancouver.
Maledisse Shepard e la Normandy per averla distratta: probabilmente aveva sbagliato strada ed era finita chissà dove …
Nell’oscurità del parchetto vide scattare la fiammella di un accendino che illuminò un volto scarno e appuntito, con una ridicola barbetta ossigenata.
Era l’uomo che le era stato descritto.
Si avvicinò all’uomo con aria circospetta, tenendo la testa bassa e le mani sprofondate nelle tasche – Sei tu Liam?- domandò con voce carica di urgenza.
Lui finse di non vederla – Cosa vuoi?-
- Lo sai. - sibilò con impazienza. – Mi serve una dose. -
L’uomo sogghignò, aspirando una lunga boccata dalla sigaretta, godendo nell’averla in suo potere.
- Ti costerà caro.-
Mentre l’energia oscura sfrigolava lungo il suo corpo, Jack sentì la famigliare sensazione di piacere che le fluiva nelle vene, più inebriante di qualsiasi droga, alzò lo sguardo sul volto terrorizzato dell’uomo, illuminato dalla luce blu che il suo corpo emanava, e sorrise, estasiata – Non ti preoccupare: io pago sempre i miei debiti.-
Alzò le mani e Liam volò in aria con un urlo strozzato.
 
Jack si chinò sul corpo esanime dell’uomo: non l’aveva ucciso, anche se per un attimo era stata tentata di farlo. Il Soggetto Zero l’avrebbe fatto, ma lei non era più il Soggetto Zero.
Armeggiò col factotum dell’uomo e, in meno di dieci secondi, aveva trasferito diecimila crediti dal conto di Liam al suo.
Grazie, Kasumi.
Il suo soggiorno sulla Normandy non era stato del tutto inutile.
Si alzò, soddisfatta del lavoro svolto: aveva di nuovo un discreto gruzzolo e la sua coscienza era a posto. Derubare uno spacciatore non poteva essere considerato un reato.
Visto, Shepard? Sono ancora una brava ragazza.
- Ehi!-  Jack si raddrizzò, vigile, mentre una donna le correva incontro – Che cos’è successo qui?-
Jack studiò attentamente la donna che le si avvicinava, leggermente in affanno.
Era sui quaranta, di bell’aspetto. Capelli biondi e fisico asciutto. Vestiva in modo elegante, ma sobrio.
Un’insegnante o una ricercatrice.
Una di quelle persone che lei reputava inutili, ma, soprattutto, innocue. Si rilassò appena, senza però abbassare la guardia.
La donna si fermò davanti a lei, rossa in viso – Sei una biotica? Mi è sembrato di vedere …-
Jack le lanciò un’occhiata d’avvertimento – Ti consiglio di farti i fatti tuoi, biondina.- le voltò le spalle, allontanandosi con noncuranza – Ma se vuoi renderti utile chiama pure la polizia: c’è uno spacciatore pronto per la consegna.-
Prima che la donna potesse rispondere era già sparita.
 
Era l’alba quando finalmente ritornò allo squallido alberghetto che era la sua casa e scoprì, con orrore, che il proprietario aveva chiamato la polizia. Probabilmente non aveva gradito lo scherzetto con la pistola della sera prima. Imprecò a denti stretti e girò i tacchi. L’ultimo dei suoi desideri era quello di attirare su di sé l’attenzione della polizia.
Ma forse era già troppo tardi. Il suo aspetto era fin troppo riconoscibile, i capelli rasati e i tatuaggi non erano molto discreti, e, se i poliziotti di Vancouver avevano un minimo di cervello, non ci avrebbero messo molto a capire che la pazza armata che aveva minacciato il proprietario di un albergo a ore e la biotica che aveva strapazzato e derubato uno spacciatore erano la stessa persona. Forse la tizia bionda non aveva chiamato la polizia, ma le era sembrata una cittadina zelante e rispettosa della legge, sarebbe stata un’ingenuità confidare in lei.
Il suo soggiorno sulla Purgatory aveva lasciato tracce nei database galattici e non appena avessero inserito il suo identikit nel motore di ricerca sarebbe apparsa in tutto il suo splendore la fotografia del Soggetto Zero, con allegata l’interminabile fedina penale.
Ormai non aveva più speranze di lasciare tranquillamente il pianeta.
Merda! Complimenti, Jack, ti sei cacciata in un bel casino.
Si sedette su una panchina, rimuginando sul casino che aveva combinato.
In passato si era trovata in situazioni decisamente peggiori, e ne era uscita con un bel botto biotico e parecchi proiettili. Ma mettere a ferro e fuoco l’astroporto di Vancouver e fuggire a bordo di una navetta rubata non avrebbe di certo giovato alla reputazione di Shepard, dal momento che lei era uno dei membri noti del suo equipaggio.
Sbuffò, esasperata, maledicendo per l’ennesima volta Shepard che l’aveva coinvolta nella sua stupida missione. Se non fosse stato per lui e tutti gli scrupoli morali che le aveva inculcato non avrebbe commesso l’errore di lasciare tutti quei testimoni a zonzo per la città.
Ma se non fosse stato per lui a quest’ora forse sarebbe stata ancora prigioniera della Purgatory, e, cosa ben peggiore, prigioniera di Pragia e del suo passato.
Sospirò, sfregandosi le tempie … che cos’aveva detto Shepard prima di salutarla?
“Se mai avrai bisogno di aiuto, per qualsiasi cosa, rivolgiti all’ammiraglio Anderson. È un amico.”
L’idea di rivolgersi ad un ufficiale dell’Alleanza non l’esaltava ma, ad essere sinceri, non aveva altre opzioni. Era nella merda fino al collo e se Shepard si fidava di lui …
Shepard si fidava anche dell’Alleanza e del Consiglio …
Un’astroauto della polizia sfrecciò rombando sopra di lei, fugandole ogni dubbio; si alzò, obbedendo all’ultimo ordine che le aveva dato il suo comandante.
Prima di lasciare la Normandy IDA, che non si faceva mai i fatti suoi, le aveva scaricato l’indirizzo di Anderson sul Factotum e, guardando, si rese conto che non era molto lontano dal luogo in cui aveva aggredito lo spacciatore.
Imprecando sottovoce ritornò sui suoi passi ed era ormai mattina inoltrata quando arrivò, di pessimo umore, davanti al grattacielo in cui alloggiava Anderson. Era uno splendido edificio, completamente in vetro e leggermente bombato, con una splendida vista sul QG dell’Alleanza. Si chiese cosa stesse facendo Shepard in quel momento e se, qualche volta, gli capitava di pensare a lei. Rabbrividì, disgustata dalla stucchevolezza di quel pensiero.
Quando, finalmente, raggiunse la porta dell’appartamento di Anderson si scoprì incredibilmente nervosa. Aveva le mani sudate e le tempie che pulsavano. Non aveva la più pallida idea di quello che Anderson avrebbe potuto fare.
Raddrizzò le spalle e bussò con decisione, ma la sua ostentata sicurezza si trasformò in panico quando la porta venne aperta: sulla soglia, con l’aria infastidita, c’era la biondina del parco.
Jack sgranò gli occhi – Cercavo l’ammiraglio Anderson, ma devo aver sbagliato porta. Chiedo scusa.- girò sui tacchi, nella speranza che la donna fosse troppo assonnata per rendersi conto di quello che era appena successo. Ma quel giorno, evidentemente, la fortuna non era dalla sua parte.
- Non ha sbagliato, David non c’è, devo … ehi aspetti un attimo!- sentì i passi della donna seguirla lungo il corridoio – Io la conosco!-
Jack strinse i pugni e cominciò ad accumulare energia biotica: forse era giunto il momento di passare alle cattive.
- Dimenticati di me, biondina. Te lo consiglio.- ringhiò, lanciandole un’occhiata ammonitrice.
La donna non sembrò particolarmente intimidita – Hanno appena trasmesso il notiziario: sei Jack, non è così? Immagino che tu abbia bisogno di qualcuno che ti tolga dai guai. Per questo cercavi David.-
Jack si fermò – David? Stai parlando dell’ammiraglio Anderson?-
La donna indicò la porta aperta dell’appartamento – Sì, viviamo insieme, ma al momento non è qui.-
Jack si morse il labbro – Quando torna?-
- Non prima di domani.-
- Merda.- sbottò. Aveva bisogno di aiuto subito!
- David non c’è. - ripeté la donna, rivolgendole un’occhiata penetrante. Aveva degli straordinari occhi azzurri. – Ma posso aiutarti io. -
Jack incrociò le braccia – Tu?- fece una smorfia scettica.
La donna non se la prese e sorrise – Dicono che tu sia una biotica eccezionale.-
Jack annuì, prendendo seriamente in considerazione l’idea di darle una dimostrazione pratica, ma l’altra non gliene diede il tempo: fece un passo avanti e le tese la mano, sempre con lo stesso sorriso sulle labbra – Mi chiamo Kahlee Sanders e ho una proposta che non puoi rifiutare.-

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Capitolo 4
*** Problemi di famiglia ***


http://www.youtube.com/watch?v=Tj75Arhq5ho

Canada, Vancouver, 2186
 
Shepard si appoggiò alla vetrata che dominava la baia e rimase a guardare la città che si svegliava pian piano; osservò uomini e donne vestiti di tutto punto uscire dai loro appartamenti, assonnati e svogliati, pronti ad affrontare un nuovo giorno. Le strade si riempirono di studenti, operai ed impiegati che s’incrociavano senza vedersi, ognuno sprofondato nei propri pensieri.
Shepard si domandò cosa ne sarebbe stato di quelle persone da lì a qualche settimana. I Razziatori stavano arrivando, ma a nessuno sembrava importare.
Bruceranno le vostre case, uccideranno i vostri figli, s’impossesseranno delle vostre menti.
Si sfregò gli occhi cercando di scacciare quei pensieri apocalittici dalla mente. Non era colpa di quelle persone se l’Alleanza se ne stava con le mani in mano, fingendo di non sentire i suoi disperati avvertimenti. Lo consideravano un pazzo megalomane e più cercava di convincerli dell’esistenza dei Razziatori più avvalorava questa tesi. Era ben consapevole che solo l’intervento di Anderson lo aveva tenuto fuori da un manicomio criminale, o peggio.
A volte sperava che avessero ragione. Si augurava di essere pazzo, di aver solo sognato i Razziatori e le loro atrocità. Sarebbe stato bello risvegliarsi e scoprire di essere solo un uomo qualunque che aveva abusato di droghe pesanti. Un uomo che non aveva mai avuto il destino della galassia sulle spalle.
Qualcuno bussò alla porta, distogliendolo dai suoi pensieri.
- Avanti.-
I suoi precedenti sorveglianti entravano e basta, senza bussare o chiedere il permesso. Vega era diverso, lo rispettava e non aveva la pretesa di giudicarlo; doveva ammettere che il tenente gli piaceva. Se avesse riavuto indietro la sua nave e il suo grado, forse lo avrebbe invitato a far parte del suo equipaggio. Vega e Garrus avrebbero fatto scintille insieme.
Si rabbuiò. Gli avevano tolto la Normandy e, da come si stavano mettendo le cose, difficilmente l’avrebbe riavuta indietro. Non aveva più notizie di Garrus e del resto dell’equipaggio da quando si erano salutati, quasi sei mesi prima. Sperò che avessero più fortuna di lui.
- Ci sono visite, Shepard.- annunciò il tenente.
- Anderson?- non erano molti quelli a cui era concesso di parlare con Shepard e, di quei pochi, solo Anderson si era scomodato per andarlo a trovare.
- No, una donna. – Vega lo fissò con aria insolente - Dice di essere tua madre.-
Se gli avesse annunciato la visita della Dalatrass Salarian sarebbe rimasto meno stupito. Dopo il breve incontro sulla Cittadella si era convinto che non avrebbe rivisto sua madre per il successivo decennio, si preoccupò: evidentemente doveva essere successo qualcosa di grave.
- Falla passare.- borbottò, cercando di mascherare il nervosismo. Ogni volta che incontrava sua madre si sentiva assurdamente in imbarazzo, come se avesse una colpa da nascondere. Sin da bambino si era sempre sentito a disagio di fronte a quella donna severa e algida che apriva la bocca solo per rammentargli quel era il suo dovere e rimproverarlo quando falliva.
Hannah Shepard entrò nella stanza con aria disgustata, guardandosi intorno come se si trovasse nel peggior carcere dello stato invece che nel QG dell’Alleanza.
Vega gli lanciò un’occhiata eloquente e richiuse la porta, lasciandoli soli.
Hannah studiò il divano con aria critica e si sedette sulla punta, forse per timore di sgualcire la divisa immacolata – Non ero mai stata in quest’ala dell’edificio. Ha sempre avuto una pessima reputazione, ma devo dire che ti trovo bene.-
Shepard prese una birra dal frigo, richiudendolo senza offrirle niente – Sono stato in posti ben peggiori.- stappò la bottiglia e la raggiunse sul divano – Qui mi sento quasi in villeggiatura: una bella vista, cibo caldo tutti i giorni, nessuno che ti spara addosso … ora capisco perché gli alti dignitari dell’Alleanza preferiscano stare qui al calduccio, piuttosto che là fuori, immersi nei miasmi di un qualche pianeta alieno.-
Hannah fece una smorfia – Dopo tutto quello che hai fatto pretendi ancora di giudicare gli altri?-
Per poco non gli andò la birra di traverso, ma si sforzò di mascherare l’irritazione dietro una gelida indifferenza. Arrabbiarsi non sarebbe servito a nulla, non con quella donna.
- Ho fatto quello che ho fatto perché era il mio dovere.- bevve un lungo sorso di birra, cercando di inghiottire il senso di colpa insieme a quel liquido ambrato - Non cerco scusanti o giustificazioni, conosco le mie colpe, ma so anche che quelle persone sarebbero morte comunque e i Razziatori avrebbero invaso la galassia, distruggendola. Ma a quanto pare è stato un sacrificio inutile perché state perdendo il poco tempo che ho guadagnato a farmi la guerra, quando dovreste preparavi per quello che sta arrivando.-
Hannah gli rivolse un’occhiata carica di compatimento – Tu sei pazzo.-
Vorrei che tu avessi ragione. Non sai quanto …
Ma se lo avesse detto ad alta voce sarebbe apparso debole e sciocco. Liquidò la conversazione con una scrollata di spalle. In sei mesi non era riuscito a convincere l’Alleanza, non aveva né le energie né la voglia di sprecare fiato nel vano tentativo di convincere sua madre.
Che andasse come doveva andare, lui avrebbe fatto il suo dovere e anche di più e se il mondo era destinato a finire tanto peggio per l’umanità. La Terra avrebbe continuato a girare e il tramonto avrebbe illuminato la Sunshine Coast anche se non ci fosse stato più nessuno ad ammirarlo.
- Perché sei venuta?-
- La mia nave riparte domani. Sono venuta a salutarti.-
Le lanciò un’occhiata scettica e sbuffò, in dieci anni non si era mai posta quel problema, dubitava che le fossero sorti scrupoli proprio in quegli ultimi sei mesi.
Hannah sospirò, rendendosi conto di quanto fosse poco credibile quell’affermazione. Si alzò, portandosi di fronte alla grande vetrata, le mani intrecciate dietro la schiena. Per la prima volta Shepard notò qualche filo bianco tra i capelli neri racchiusi in una crocchia serrata.
- Se tu non sei pazzo, se quello che dici è vero, allora non ci rimane molto tempo.- raddrizzò le spalle come se si stesse apprestando a fare un discorso ufficiale – Sei già morto una volta Alexander e io non vivrò in eterno. Penso spesso a noi due, al tempo che abbiamo sprecato in litigi, anche l’ultima volta, sulla Cittadella, è stato … è stato tutto sbagliato. –
Si fermò, forse nella speranza che lui dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, ma Shepard rimase chiuso in un ostinato silenzio. Non aveva nulla da dirle.
Era solo un’estranea che per caso condivideva il suo stesso sangue. Aveva smesso di cercare la sua approvazione, il suo affetto, molti anni prima.
- Perché sei venuta?- ripeté, con durezza.
Lei sobbalzò. Non era abituata a parlare con il comandante Shepard.
- Sei mio figlio.- sussurrò, senza voltarsi – Vorrei … vorrei che mi dessi un’altra possibilità.-
Shepard scosse il capo, sbigottito. - Davvero vuoi un figlio accusato di tradimento e terrorismo? Io credo di no.-
- Sei ingiusto, Alexander. – si girò fissandolo con i suoi occhi scuri e profondi – Io volevo solo il meglio per te.-
Shepard le rivolse uno sguardo duro – L’ho avuto il meglio, madre, ma non grazie a te.-
Hannah annuì lentamente, e Shepard sospirò: non aveva capito niente.
Lei pensava all’N7, al primo Spettro Umano, all’eroe della Cittadella.
Lui pensava alla sua nave, agli amici che avevano combattuto al suo fianco, alle donne che aveva amato.
Per Hannah Shepard la carriera militare era importante come i soldi per un Volus; chiederle di rinunciarvi sarebbe stato impensabile.
La fissò mentre la rabbia sfumava trasformandosi in malinconia – Non sono più arrabbiato con te, capitano. L’Alleanza è sempre stata la tua unica ragione di vita. La tua colpa è stata di pretendere che lo fosse anche per me.–
Hannah Shepard sospirò e il suo corpo sembrò afflosciarsi, come una palloncino che si sgonfia. All’improvviso le parve piccola e fragile, con le rughe intorno agli occhi e il colorito grigiastro, era una donna vecchia e stanca che aveva passato tutta la vita a fingere che non le importava di essere sola.
Si sedette accanto a lui, con le labbra che tremavano. Allungò una mano e strinse la sua. Shepard resistette all’impulso di ritrarsi: era migliore di lei e gliel’avrebbe dimostrato.
- Mi dispiace per le cose orribili che dissi a Sasha e a te tanti anni fa. Non volevo che lasciassi l’Alleanza per sposare una donna che reputavo inferiore.-
Shepard distolse lo sguardo, per mascherare l’ira che minacciava di sopraffarlo – Era migliore di tutti quanti noi, non avevi nessun diritto di umiliarla e deriderla. Mi convinse ad accettare la missione su Akuze perché voleva dimostrarti il suo valore … la mia squadra non sarebbe dovuta andare su quel sasso, offrii i miei uomini come volontari e fu un massacro.-
La mano di sua madre era fredda e ruvida, avrebbe voluto scacciarla, invece la strinse. Per anni aveva incolpato il capitano per la morte dei suoi uomini e di Sasha, ora si rendeva conto che si era trattato solo di una tragica fatalità. C’erano troppi colpevoli e nessun innocente.
A volte si domandava cosa sarebbe accaduto se avesse sposato Sasha e lasciato l’Alleanza. S’immaginava un bella casa in riva al mare, forse proprio lì, sulla Sunshine Coast, avrebbero avuto dei figli e magari anche un cane. Era una vita talmente distante dalla sua che stentava quasi ad immaginarla. Sapeva bene che il comandante Shepard non si sarebbe mai potuto adattare a una vita simile. Erano successe troppe cose, aveva combattuto troppe battaglie, versato troppo sangue … l’uomo che aveva sognato una vita tranquilla non esisteva più da molto tempo. Il suo unico sogno, adesso, era la Normandy.
- Le cose sono andate come dovevano andare.- mormorò – Mi piace la mia vita e se tutto quello che ho fatto, le morti che ho causato, saranno servite a salvare la galassia e la Terra allora ne sarà valsa la pena. Sasha è morta e io sono andato avanti. In un modo o nell’atro.-
Hannah Shepard annuì, le labbra contratte, il viso tirato – Perdonami, se puoi.-
Shepard sforzò le labbra in un sorriso – Credo di averlo già fatto molto tempo fa. -
Hannah chiuse gli occhi, nel vano tentativo di nascondere il sollievo fin troppo evidente che l’aveva invasa. All’improvviso gli parve di nuovo giovane e forte, con le guance arrossate e l’aria decisa.
Quando riaprì gli occhi ogni traccia di debolezza era scomparsa, ma c’era qualcosa in fondo al suo sguardo che forse era affetto.
Con la punta delle dita gli accarezzò il viso – Dasvidania, Andrej.- si alzò e uscì.
Erano le stesse parole con cui l’aveva salutato suo padre, un arrivederci che si trasformava già in addio. In quell’istante seppe che non l’avrebbe mai più rivista.
Si alzò e tornò ad appoggiarsi alla vetrata, nella speranza di scorgere il capitano che andava via. Di Hannah Shepard non c’era traccia ma notò un’altra donna ferma davanti all’ingresso del QG.
Era passato quasi un anno dal loro ultimo incontro, portava i capelli sciolti sulle spalle e si era tolta l’armatura, sfoggiando un corpo slanciato e tonico. Era ancora più bella di quanto non ricordasse.
Dopo Horizon si era imposto di dimenticare il suo nome e il suo viso, assieme a tutti i momenti che avevano passato insieme. Pensava di esserci riuscito, ma, evidentemente, si sbagliava. Non era facile dimenticare Ashley Williams.
La porta si aprì – Tutto bene, Shepard?-
Annuì distrattamente e sentì l’altro esitare - È l’ora del poker, ma se sei stanco di farti spennare possiamo rimandare.-
Sorrise, senza distogliere lo sguardo da Ash che stava discutendo animatamente con Anderson – Non te la caverai così facilmente, Vega. Prepara il tavolo, arrivo subito.-
Disobbediente come sempre, Vega lo affiancò, curioso di scoprire cosa ci fosse di così interessante da guardare; quando notò Ash fischiò sommessamente – Caliente … ottima scelta comandante, la conosci?-
Shepard distolse lo sguardo e scrollò le spalle – Non dovresti più chiamarmi in quel modo, Vega. Non sono più comandante. – si avviò verso il tavolo con ostentata noncuranza – Allora questo poker? Non dirmi che hai paura …-
Vega sorrise – Sì … ti piacerebbe.-
Mentre il tenente distribuiva le carte ripensò alla sua domanda: “la conosci?”
Avrebbe voluto rispondere di sì ma, dopo Horizon, non era più sicuro di niente e, col tempo, Ashley Williams era diventata un’estranea.
Se ti chiedessi di ritornare sulla Normandy, Ash, cosa risponderesti?
Scrollò le spalle e prese le carte: non aveva importanza. Non aveva più una nave da comandare né un equipaggio da cui tornare. 

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Capitolo 5
*** Attacco alla Terra ***


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Canada, Vancouver, 2185
 
Quella mattina svegliarsi fu particolarmente difficile. Il tenente Ashley Williams si tirò la coperta sulla testa, zittendo la sveglia con una manata. Aveva dormito a malapena quattro ore e l’aspettava una giornata impegnativa … tutta colpa di Sarah, sua sorella, che l’aveva tenuta sveglia fino alle due a parlare delle sue angosce da mogliettina novella. Aveva cercato di dirle che stava chiedendo consiglio alla persona sbagliata, ma Sarah aveva fatto finta di non sentirla, sommergendola con tutti i suoi dubbi, le paure, le speranze.
Sorrise contro il cuscino, erano lontani i tempi in cui Sarah prendeva a botte i ragazzi invadenti, ora aveva Thomas e, chissà, forse un giorno la famiglia si sarebbe allargata. A volte, quando era sola e stanca come quella mattina, si scopriva ad invidiarla. Sua sorella era serena, senza amici morti sulla coscienza, decisioni sbagliate alle spalle e un lavoro dove il suo cognome suscitava solo disprezzo.
Fece una smorfia, ricordando le parole di sua madre quando aveva fatto quella considerazione ad alta voce “Ti hanno appena promossa, brontolona che non sei altro, fai un bel sorriso e vai a festeggiare!”
Sospirò, scalciando via le coperte e cominciando a vestirsi: non le era rimasta molta gente con cui festeggiare. Gli unici amici che avrebbe voluto al suo fianco erano morti o … o la disprezzavano. In mattine come quella la Normandy e il suo equipaggio le mancavano terribilmente, ma era inutile, ridicolo, piangersi addosso: era stata lei ad abbandonarli. Lei sola.
I Williams hanno l’Alleanza nel sangue.
Se avesse abbandonato l’Alleanza non le sarebbero state date seconde occasioni. “È una Williams” avrebbero detto i suoi superiori “Che cos’altro vi aspettavate?”
Aveva voltato le spalle a Shepard per non tradire la memoria dei suoi avi e lo aveva abbandonato perché lui aveva fatto lo stesso con lei.
Onore e orgoglio erano i motivi che l’avevano spinta lontano da Shepard e dalla sua missione. Ma, guardandosi indietro, provava solo vergogna per quel gesto compiuto d’istinto.
Scrollò le spalle ed accese il factotum per rileggere la missiva che le era arrivata qualche giorno prima: era un avviso di comparizione.
Riguardava il processo di Shepard; siccome aveva fatto parte dell’equipaggio della Normandy originale l’Alleanza voleva interrogarla.
Sinceramente non aveva idea di quali sarebbero state le domande e, soprattutto, le risposte. La verità era che non sapeva più chi fosse il comandante Shepard. Non da quando era morto e risorto.
Finì di spazzolarsi, abbottonò la divisa e uscì.
Era una mattina splendida, col cielo limpido e il sole caldo, di quelle che ti ricordano il motivo per cui sei al mondo. In un attimo tutta la stanchezza e l’amarezza accumulate negli ultimi tre anni parvero scivolarle via dalle spalle.
Sorrise mentre le astroauto sfrecciavano alte sopra la sua testa, tra i palazzi scintillanti; da qualche parte un bambino rideva.
Si ritrovò davanti al QG dell’Alleanza senza nemmeno accorgersene e, un attimo dopo, era in piedi di fronte al comitato disciplinare, tre ufficiali ingrigiti e sviliti che la fissavano da dietro un bancone; davano le spalle all’ampia vetrata che si apriva sulla baia, un vero peccato, la vista di un simile spettacolo li avrebbe resi certamente più gioviali.
- Riposo, tenente.- disse l’unica donna del gruppo, coi capelli grigi raccolti in una crocchia severa; avrebbe dovuto conoscerne nome e grado, ma al momento non li ricordava.
Ashley si ricompose, rimanendo in piedi al centro della sala, profondamente a disagio; improvvisamente la giornata non le parve più così splendida.
L’uomo seduto al centro, senza capelli e con rughe profonde a solcargli il viso, le ricordò il suo giuramento, quello che aveva pronunciato il giorno in cui era entrata a far parte dell’esercito dell’Alleanza. Il comitato disciplinare le chiedeva sincerità e rispetto: non doveva più niente a Shepard, dissero, non era più il suo comandante.
- Non ho bisogno di mentire.- ribatté, con orgoglio, ignorando le loro espressioni infastidite: il loro sermone non prevedeva una replica – Durante il periodo che ho trascorso a bordo della Normandy SR-1 Shepard non ha mai fatto nulla che meritasse la mia disapprovazione, o quella dell’Alleanza.-
I due uomini si scambiarono un’occhiata esasperata, mentre la donna si limitò a fissarla, accondiscendente – Ho conosciuto suo nonno, tenente.- mormorò, intrecciando le dita sotto il mento – Lei gli assomiglia molto.-
Ashley s’irrigidì: suo nonno era stato l’unico essere umano ad essersi mai arreso agli alieni. Aveva salvato i suoi uomini a scapito del suo onore e lei lo ammirava per questo, ma per l’Alleanza era un esempio di viltà ed incompetenza. Il comitato le stava ricordando che era una Williams. E i Williams non potevano permettersi errori. Non più.
Arrossì di rabbia e vergogna, ma sostenne lo sguardo della donna con fierezza: aveva già pagato per gli errori di suo nonno.
Il terzo membro del comitato, di chiare origini afroamericane, le lanciò un’occhiata incuriosita e disse che potevano cominciare.
Le due ore che seguirono furono le più lunghe della sua vita: la bersagliarono di domande, allusioni, accuse e commenti sarcastici.
Volevano sapere di Shepard, di come si comportava in battaglia, dei suoi ideali, del suo rapporto con l’equipaggio e, soprattutto, con gli alieni.
Le chiesero se c’erano mai stati episodi di violenza gratuita o aperta ostilità da parte del comandante nei confronti degli abitanti di Sur’Kesh.
- Quando possibile Shepard ha sempre tentato di negoziare.- ripeté, esausta, dopo l’ennesima domanda sull’argomento – Ha sempre trattato i Batarian alla stregua di tutte le altre specie, umani e non.-
Era lei quella coi pregiudizi, ricordò, non senza una punta di vergogna. Quante volte aveva preso da parte il comandante per dirgli che non si fidava di Tali, Garrus e Wrex? Quante volte lo aveva rimproverato di essere troppo ingenuo? Alla fine erano stati gli umani a tradire il comandante, non gli alieni, Tali e Garrus erano rimasti al suo fianco mentre lei gli aveva voltato le spalle. Abbassò lo sguardo, sentendosi arrossire: aveva molto da imparare da quelli che un tempo chiamava, ottusamente, “animali”.
– Un’ultima domanda, tenente.- alzò lo sguardo e vide l’ufficiale calvo fissarla con uno strano sorrisino – Che cosa può dirmi sui Razziatori?-
In seguito alle pressioni di Anderson l’Alleanza aveva deciso di piazzare le flotte comandante dall’ammiraglio Hackett a difesa della Terra, ma in molti erano ancora restii, come il resto della galassia, ad ammettere l’esistenza dei Razziatori. Di fronte all’opinione pubblica si erano giustificati presentando quello schieramento di forze come una manovra difensiva in caso di attacco Batarian e Ashley era certa che la maggior parte degli ufficiali dell’Alleanza, compresi quei tre, preferissero di gran lunga credere a quella giustificazione piuttosto che dar ragione ad Anderson e Shepard.
Deglutì, a disagio: sostenendo l’esistenza dei Razziatori avrebbe dato il colpo di grazia alla sua carriera, tacendo, invece, avrebbe fatto bella figura di fronte al comitato senza danneggiare troppo la causa di Shepard. Quello che poteva essere fatto era stato fatto e le sue parole non avrebbero cambiato niente se non l’opinione che aveva di se stessa. Il suo silenzio sarebbe stato l’ennesimo, imperdonabile, tradimento nei confronti di Shepard.
- Quello che so, signore, è che i Razziatori esistono e che presto saranno qui. Non so se esiste un modo per difendersi, non so se possono essere sconfitti. So solo che se continuerete ad ignorare gli appelli di Shepard la Terra cadrà e, con lei, l’intera galassia.-
La fissarono, attoniti, presi alla sprovvista da una simile dichiarazione, non fecero in tempo a riprendersi che una donna entrò di corsa, visibilmente agitata e raggiunse i tre membri del comitato porgendo loro un datapad. I tre scorsero rapidamente il documento elettronico e Ashley poté vederli impallidire. Il più silenzioso dei tre, l’ufficiale di colore, le lanciò un’occhiata sorpresa e allarmata che la spinse a chiedersi cosa fosse successo.
- Convoca tutti.- ordinò alla segretaria – Massima allerta.-
Ashley sentì il cuore accelerare i battiti mentre un terribile sospetto cominciava a fare capolino nella sua mente: così presto?
La segretaria uscì e subito l’allarme risuonò nel QG.
- Può andare, tenente.- gracchiò l’ufficiale mentre la stanza cominciava a riempirsi di tecnici agitati e specialisti nervosi.
Ashley uscì, confusa, e per poco non andò a sbattere contro un ufficiale dalla pelle scura – Anderson!- esclamò.
L’uomo le rivolse un’occhiata preoccupata e si voltò a guardare una figura familiare che dava loro le spalle.
Per una attimo le sembrò di precipitare - Shepard …- avrebbe voluto aggiungere qualcosa ma la voce le morì in gola.
Lui si voltò e la fissò, sorpreso e imbarazzato quanto lei – Ashley …-
Si era dimenticata di quanto azzurri fossero i suoi occhi …
- Com’è andata, tenente?- domandò Anderson, riportandola bruscamente alla realtà.
Distolse lo sguardo da Shepard e riportò la sua attenzione sull’ammiraglio – Con loro non si può mai sapere. Ora devo solo attendere ordini.-
Shepard le si avvicinò, perplesso – Tenente?-
Si sentì arrossire violentemente. In quanto ufficiale dell’Alleanza avrebbe potuto chiedere un permesso per vedere Shepard, ma non l’aveva fatto. Le era sempre mancato il coraggio.
- Non lo sapevi?- intervenne Anderson, sorpreso.
- No.- Shepard le lanciò una lunga, significativa, occhiata – Sono fuori dal giro ultimamente.-
Ashley si sentì sprofondare – Io non sapevo come …-
- Va tutto bene.- Shepard le rivolse un sorriso forzato – Non ti preoccupare, tenente.-
La segretaria fece capolino dalla porta – Ammiraglio?-
Anderson invitò Shepard a seguirlo – Vieni.-
Il comandante le rivolse un breve cenno del capo e si allontanò. Ashley rimase ferma a guardarlo con un sorriso triste sulle labbra. Il sorvegliante di Shepard, un soldato tutto muscoli e tatuaggi, le si avvicinò, seguendo il suo sguardo – Conosci il comandante?-
Ashley si affrettò a cambiare espressione – Lo conoscevo.- rispose, incrociando le braccia al petto.
Solo in quel momento si accorse del caos che li circondava: l’intero QG era in fibrillazione, l’allarme suonava, la gente correva da una parte e dall’altra, ma nessuno sembrava capire cosa diavolo stesse succedendo. Lo chiese al soldato, che scosse la testa, confuso quanto lei.
Dio non voglia che siano loro. Non siamo pronti a questo.
Lo sarebbero mai stati?
Probabilmente no, ma si era illusa che avessero ancora un po’ di tempo, solo un po’.
- Vieni con me …- lanciò un’occhiata alla medaglietta identificativa che portava al collo -  … tenente Vega. - si fece largo tra soldati confusi e ingegneri indaffarati, senza curarsi che Vega la seguisse o meno; se i Razziatori stavano davvero arrivando c’era un solo posto in cui voleva stare, e quel posto era la Normandy.
La Terra non era preparata alla guerra, di certo non a quella guerra, e se volevano avere qualche possibilità di organizzare un contrattacco dovevano assicurarsi che la nave più avanzata della galassia sfuggisse al massacro.
Non sapeva quali fossero i piani di Shepard al momento, ma era certa che se fosse stato al suo posto avrebbe preso la sua stessa decisione; ancorata nello spazioporto la Normandy era più che vulnerabile, era inerme.
- Dove stiamo andando, tenente?- l’apostrofò Vega non appena furono fuori, sotto il sole cocente.
Ashley sollevò lo sguardo verso il cielo e rimase immobile, pietrificata: dall’alto dei cieli l’apocalisse si abbatteva sulla Terra.
Tra le urla terrorizzate della gente in strada vide i Razziatori calare sulla città, gli artigli divaricati, come le dita di una mano pronta ghermirli, un urlo strozzato le sfuggì dalle labbra quando i laser vermigli si abbatterono, implacabili, sulla città.
- Attenta!- Vega le fu addosso, scaraventandola in terra. Dietro di loro il QG dell’Alleanza esplose.
L’onda d’urto li schiacciò contro l’asfalto e il corpo possente di Vega la protesse dai frammenti che piovvero su di loro; adesso, accanto alle urla di terrore c’erano quelle, raccapriccianti, di uomini e donne in straziante agonia.
Si svincolò dalla stretta di Vega che rotolò di lato, stordito ma incolume, le mani premute contro le orecchie.
In un istante la splendida Vancouver si era trasformata in un teatro di guerra: videro grattacieli crollare, navette esplodere, uomini morire a centinaia, migliaia davanti ai loro occhi.
Dietro di loro il QG dell’Alleanza quasi non esisteva più – Shepard …-.
Vega l’afferrò per il polso – Non possiamo stare qui, tenente. –
A sottolineare le sue parole dal cielo cominciò a cadere un’apparente pioggia di meteoriti, ma si scoprì ben presto che quei “meteoriti” erano vivi. Dai crateri fumanti s’innalzarono creature che nemmeno la mente di un folle avrebbe potuto concepire: camminavano erette e tra le mani gibbose tenevano rudimentali fucili, i corpi putrescenti erano deformi e ingobbiti, avevano volti grotteschi con due paia d’occhi che sprigionavano un odio inenarrabile.
- Oh mio Dio …- solo su Eden Prime aveva visto abomini paragonabili a quelli, quando i Geth avevano trasformato i placidi abitanti della colonia in mostri assetati di sangue umano. – Sono Batarian …-
Vega la fissò, sconvolto, mentre quelle cose si trascinavano fuori dalle loro buche, ghermendo e dilaniando chiunque riuscissero a raggiungere.
D’istinto Ash estrasse la pistola, sparando all’impazzata su quelle creature grottesche. La loro pelle era talmente spessa che servirono quattro o cinque colpi per abbatterne uno.
- Madre de Diòs … sono cannibali!- esclamò Vega quando vide quegli esseri avventarsi su un loro compagno caduto e usare la sua pelle come corazza.
Ash lanciò un’occhiata sconsolata al QG: l’edificio brulicava di quelle cose. Se Shepard era sopravvissuto all’esplosione, avrebbe dovuto cavarsela da solo.
- Via di qui, tenente!- rinfoderò la pistola scarica e cominciò a correre tra detriti e cadaveri, sotto un cielo di fuoco e metallo.
Dovevano raggiungere la Normandy, a tutti i costi.
L’astroporto militare non era lontano, appena un paio di chilometri, ma le parvero migliaia. Le strade della città erano flagellate da una tempesta di macerie, corpi e proiettili, le strida metalliche dei Razziatori e quelle, gutturali e fameliche, dei loro schiavi riecheggiavano ovunque, tanto forti da coprire le urla degli abitanti inermi.
Un nugolo di pallottole li investì e si gettarono di lato, rifugiandosi dietro quello che, fino a pochi minuti prima, era stato un chiosco dei gelati.
Vega la fissò, gli occhi sgranati sotto la fronte imperlata di sudore – Pensavo di aver visto il peggio, ma questo …- scosse il capo, sgomento.
Anche lei provava la stessa cosa: aveva assistito alla distruzione Horizon e, prima ancora,di Eden Prime, si era illusa di aver passato il peggio. Si sbagliava. Nulla l’aveva preparata a quello; questa volta non ci sarebbe stata una Terra su cui tornare, perché la Terra stava bruciando: era arrivata la fine del mondo.
Vega strinse le grosse mani a pugno - Che cosa facciamo?-
Ashley trasalì quando una pallottola scheggiò l’asfalto accanto al suo piede – Siamo quasi all’astroporto poi …-
In quel momento la trasmittente incorporata nella divisa sfrigolò facendoli sobbalzare entrambi; l’accese con un misto di ansia e sollievo – Tenete mi ricevi?-  era la voce di Anderson – Ti passo Shepard.-
Era vivo …
Un’altra pallottola sfrecciò accanto a loro – Si stanno avvicinando!- urlò Vega sporgendosi e rispondendo al fuoco.
- Siamo quasi alla Normandy!- urlò nella trasmittente – Il tenente Vega è con me. –
La risposta di Shepard si perse in uno sfrigolio accompagnato da numerosi spari. Ashley imprecò a denti stretti e pregò che riuscissero a cavarsela: senza di loro non ci sarebbe stata più alcuna speranza.
Un pallottola vagante strappò la pistola dalle mani di Vega – Puta de mierda!-
Ashley gli posò una mano sul braccio - Ci siamo quasi, tenente: testa bassa e chiappe strette!-
Lui le rivolse un sorriso sfrontato e si gettò allo scoperto, Ashley fece un profondo respiro e lo seguì.
Arrivarono alla Normandy incredibilmente incolumi e scoprirono, con immenso piacere, che la nave stava già scaldando i motori.
Corsero a bordo e furono accolti da una serie di grida furiose – Non hai il permesso di far decollare questa nave, tenente timoniere!- stava urlando una donna in divisa, gesticolando furiosamente in direzione del pilota.
- Non me ne frega un cazzo del tuo permesso! Hai visto cosa sta succedendo là fuori o sei cieca?- fu con sollievo che Ashley riconobbe la voce di Joker: con quel pilota e quella nave forse potevano farcela - IDA chiudi il portellone e preparati al decollo!-
- Subito, Jeff. -
- Senza l’autorizzazione di un ufficiale superiore questa nave non può …-
- Tenente Ashley Williams.- annunciò, entrando nella cabina di pilotaggio, la donna sobbalzò vistosamente e persino Jeff si lasciò sfuggire un’esclamazione sorpresa – Autorizzo questa nave al decollo e ne assumo il comando. Ora!-
Jeff la fissò con gli occhi fuori dalle orbite – Ashley? Ma …-
- Non è una rimpatriata tra compagni di scuola, Moreau!- sbraitò – Fai partire questa nave, subito!-
La sedia del pilota ruotò immediatamente – Agli ordini, tenente.- rispose mentre le sue dita sfrecciavano sulla schermata dei comandi.
- Mi scusi, signora, tecnicamente il suo grado …- l’occhiata di Ash bastò a zittire la donna.
- Nome e grado!- sbraitò.
- Soldato semplice Campbell.- rispose, scattando sull’attenti.
- Accompagni il tenente Vega in armeria, soldato.- lanciò un’occhiata d’intesa a James che, dopo un cenno d’assenso, seguì la donna fuori dalla cabina.
Ashley raggiunse il ponte di comando e subito una donna le corse incontro – Specialista Traynor, signora, a sua disposizione.- si presentò, arrossendo leggermente.
- Quanto personale c’è a bordo?-
- Giù in armeria c’è un pilota di navette, abbiamo un ingegnere giù al ponte macchine, un paio di meccanici e altri tre soldati semplici oltre a Sarah … ehm, volevo dire il soldato Campbell.-
Ashley annuì, un po’ poco, ma abbastanza per far funzionare la nave.
Una leggera vibrazione sotto i suoi piedi l’avvertì che il motore aveva raggiunto la massima potenza e un attimo dopo sentì il familiare senso di vuoto alla bocca dello stomaco che annunciava il decollo: la Normandy era di nuovo in azione.
Ashley non riuscì a trattenere un sorriso di trionfo: era tornata a casa.
- Attiva i cannoni: li voglio carichi e pronti a sparare; e assicurati che le barriere siano online. – la specialista scattò sull’attenti e corse alla sua postazione, Ashley si diresse a grandi passi verso la cabina di pilotaggio.
- Dirigiti verso il QG, Joker, l’ultima chiamata di Anderson veniva da lì.- ordinò, appoggiandosi allo schienale della poltrona – E collega la mia trasmittente a quella della Normandy, nel caso dovesse richiamare.-
Joker annuì, concentrato, senza mostrare il minimo turbamento alla vista dei giganti metallici che avrebbe dovuto affrontare, Ashley ammirò il suo sangue freddo, era sfuggita al massacro per un soffio e l’idea di ributtarcisi dentro, seppur a bordo della Normandy, le metteva i brividi. Ma Anderson e Shepard contavano su di lei: non poteva deluderli.
Proprio in quel momento la radio sfrigolò e la voce di Anderson riempì l’abitacolo – Tenente Williams, siamo vicini allo spazioporto; tempo previsto: tre minuti.-
- Siamo arrivati alla Normandy! Ci stanno attaccando!- un raggio li mancò di un soffio colpendo in pieno una corazzata da guerra alla loro sinistra – Stanno per abbattere quella corazzata!- affondò le dita nella pelle morbida della poltrona – Manovre evasive!-
- Lo vedo, non urlarmi nelle orecchie, Ash!- esclamò Jeff, destreggiandosi tra i terminali – Tutta a tribordo, IDA!-
La corazzata esplose.
La Normandy s’inclinò pericolosamente sulla destra, in una manovra così repentina che rischiò di mandarla a gambe all’aria, l’onda d’urto li colpì di striscio facendo vibrare le paratie ma riuscirono ad evitare tutti i frammenti dell’esplosione.
- Se non sei più abituata alla mia guida ti conviene allacciare le cinture, Ash.- la canzonò Joker mentre lei riprendeva a fatica l’equilibrio – Questa corsa rischia di essere movimentata.-
Ashley si lasciò cadere sul sedile del copilota e fissò con occhi sgranati la nuvola di fumo nero che si levava dai detriti della corazzata. Si domandò quanti uomini fossero morti nell’esplosione. Decine, forse centinaia.
- Questo è solo l’inizio. - mormorò Joker cogliendo il suo sguardo.
Lei scosse il capo – No, l’inizio è stato Eden Prime. Questa è la fine.-
Jeff distolse lo sguardo senza trovare una risposta – Notizie dall’ammiraglio, IDA?-
- No, la radio è muta. - una voce femminile sconosciuta riempì la cabina, Ashley si guardò intorno, incuriosita, alla ricerca della proprietaria di quella voce conturbante dalle sfumature metalliche.
- Chi è “IDA”?-
Jeff sogghignò – Non voglio distrarti con chiacchiere inutili, tenente, non siamo ad una rimpatriata. A proposito … da quando sei tenente?-
Ashley alzò gli occhi al cielo, ma non fece in tempo a ribattere che la radio sfrigolò di nuovo – Normandy, qui Anderson. Mi sentite?-
- Ammiraglio, la vostra posizione?-
- Una navetta abbattuta nel porto, attivo la boa di soccorso …- il resto della frase si perse in un crepitio indistinto.
- Ammiraglio?-
Jeff scosse il capo – Abbiamo perso il segnale. IDA hai la posizione?-
- Segnale agganciato, ti invio le coordinate.-
Un puntino luminescente apparve sulla schermata.
Jeff le lanciò un’occhiata preoccupata – Che ne è di Shepard?-
Ashley evitò il suo sguardo – Era con Anderson. Non ti preoccupare, Jeff: lui se la cava sempre.- mentre lo diceva si tranquillizzò a sua volta: non era destino che Shepard morisse quel giorno, non quando la Terra e l’umanità avevano così disperatamente bisogno di lui.
Non poteva permettersi di morie. Non ancora.
- Forza, Joker: andiamo a riprenderci il nostro comandante.-
Jeff sorrise – Con piacere.-
Non ci misero molto a trovarli, assediati da un’orda di Cannibali a pochi passi dalla navetta abbattuta.
- È arrivata la cavalleria!- urlò Jeff nella radio, mentre la Normandy apriva il fuoco.
- Ben fatto, Joker. - si congratulò quando l’area fu completamente sgombra. – Avvicinati il più possibile di modo che possano salire …- si alzò – Io vado giù ad accoglierli.-
- Ehi, tenente.- Joker le sorrise, sollevando i pollici – Ottimo lavoro.-
Ashley ricambiò il sorriso: per la prima volta dopo molto tempo si sentì fiera di quello che aveva fatto.
Quando raggiunse la stiva trovò Vega ad aspettarla assieme ad un paio di soldati – State pronti.- ordinò, prendendo l’Avenger che Vega le porgeva – Stiamo per aprire il portellone.-
I due soldati annuirono e si misero in posizione, mentre Vega imbracciava un lanciagranate piazzandosi alle loro spalle.
Il portellone si aprì lentamente, permettendo a Shepard di saltare a bordo. Come al solito non aveva neanche un graffio, solo la divisa un po’ strappata.
- Bentornato, Shepard.- lo accolse quando le atterrò accanto.
Lui le lanciò un’occhiata frettolosa, come se trovarla lì, al suo fianco, sulla sua nave, fosse la cosa più normale del mondo – Grazie.-
In quel momento seppe che il suo posto era sempre stato solo e soltanto quello: sulla Normandy, accanto al suo comandante.
L’ammiraglio Anderson si rifiutò di salire. La Terra, i sopravvissuti, avevano bisogno di un leader che li guidasse nei terribili mesi a venire e quel compito, inevitabilmente, spettava a lui.
Ammirò il coraggio di quell’uomo: non era obbligato a rimanere sulla Terra e nessuno avrebbe biasimato la sua fuga, ma aveva deciso di rimanere perché il suo onore, la sua coscienza, glielo imponevano. Difendere la Terra e i suoi abitanti era la sua missione.
Ashley lo fissò con occhi tristi e riconoscenti, cercando di imprimersi nella memoria il volto e lo sguardo di un uomo che, probabilmente, non avrebbe più rivisto vivo.
Anderson ordinò a Shepard di lasciare la Terra per raggiungere il Consiglio e convincere tutte le specie della galassia ad allearsi contro il comune nemico. Vide Shepard tremare, di rabbia e frustrazione: fuggire era contro la sua natura, e, per un istante, Ashley pensò che avrebbe disobbedito ad un ordine per la prima volta nella sua vita.
Vittoria o morte, sembrava dire il suo sguardo, non fuga. Mai fuga.
Eppure, alla fine, cedette: chi avrebbe salvato la terra se fosse morto quel giorno? Di fronte al più terribile dei nemici, il comandante Shepard era costretto a fuggire, portando con sé, nella vastità della galassia, tutte le speranze del pianeta natale.
E così la Normandy s’innalzò nel cielo di una città morente, illuminata dalle fiamme della sua fine che diffondevano un alone rosso nel cielo saturo di fumo grigio.
In piedi accanto al suo comandante Ashley vide due navette librarsi nel cielo, cariche di civili in fuga e il suo cuore ebbe un guizzo mentre pregava un Dio silenzioso che li salvasse. Ma Dio aveva abbandonato gli uomini e la loro Terra: una dopo l’altra le navette vennero abbattute ed esplosero disperdendo in una nuvola di fuco e fumo ogni speranza di salvezza.
D’istinto cercò la mano di Shepard, le dita ruvide del comandante si strinsero sulle sue, ma il suo sguardo rimase fisso sui mostri che avevano invaso la sua Terra: non c’era pietà o disperazione nei suoi occhi, solo odio.
La guerra era cominciata. 

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Capitolo 6
*** Tempesta in arrivo ***


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Marte, Archivi Prothean, 2186

 
Liara T’Soni si sfregò le palpebre, sfinita: era rimasta incollata al terminale per tre giorni, concedendosi solo le pause necessarie per andare in bagno e schiacciare qualche breve sonnellino, era arrivata al punto di farsi portare da mangiare alla postazione. Quando chiudeva gli occhi i geroglifici stilizzati dell’alfabeto Prothean le sfrecciavano davanti come insetti impazziti e tentava di afferrarli, di dare loro un senso ma, in sogno come da sveglia, non riusciva a trovarne alcuno.
Si lasciò andare sullo schienale della sedia mentre il computer analizzava l’impressionante mole di documenti catalogata in quella sezione dell’archivio.
Era su Marte da quasi un mese e aveva appena scalfito la superficie dell’immane quantità d’informazioni contenuta negli archivi.
Aveva sempre saputo che il compito affidatole da Hackett era al limite dell’impossibile: migliaia di scienziati umani avevano studiato quegli archivi per anni senza trovare traccia dei Razziatori o anche solo una semplice allusione ad essi, ma lei era la massima esperta dei Prothean vivente, doveva fare un tentativo, soprattutto adesso che la storia era sul punto di ripetersi. E, alla fine, la sua tenacia era stata premiata: per un caso fortuito si era ritrovata tra le mani il diario personale di un semplice cuoco Prothean che, 50.000. anni prima, serviva il pranzo agli illustri scienziati degli archivi. Liara aveva scorso rapidamente i file senza prestarci troppa attenzione ma, arrivata all’ultima pagina, si era accorta che le annotazioni s’interrompevano bruscamente.
Bevve un sorso di caffè e rilesse per l’ennesima volta in tre giorni le ultime frasi del diario:
 
Sembra che il congegno non abbia funzionato, dicono che manca qualcosa. Qui sono tutti nel panico, anche gli scienziati: l’impero non esiste più.
Dobbiamo abbandonare la base di ricerca. Presto saranno qui.
 
In migliaia di anni i Prothean avevano costruito un impero capace di dominare la galassia, nel giro di un decennio quello stesso impero era finito in cenere, distrutto fin nelle fondamenta. Liara aveva passato la sua vita a cercare una risposta che spiegasse quella fine repentina e, alla fine, l’aveva trovata nella mente del comandante Shepard.
Sull’impero Prothean si era abbattuta un’apocalisse di fiamme e metallo, e i dominatori della galassia erano stati sterminati come mosche in una ragnatela, vittime impotenti di una carneficina che aveva distrutto popoli e civiltà senza che rimanesse nessuno a serbarne il ricordo.
Eppure qualcosa era rimasto: avvertimenti, indizi sepolti in un passato nebuloso, messaggi impossibili da decifrare. Su Eden Prime Shepard aveva trovato il primo tassello di un puzzle troppo a lungo ignorato e, forse, su Marte, Liara T’Soni aveva trovato l’ultimo.
“Presto saranno qui.”
Era il passato che annunciava il futuro: 50.000 anni dopo l’estinzione dei Prothean i Razziatori stavano facendo ritorno per riscuotere il loro tributo di sangue. Dubitava che ci fosse un modo per fermarli ma non aveva intenzione di rimanere ferma a guardare l’estinzione della sua gente e di tutti i popoli della galassia. Se c’era un modo per fermare i Razziatori l’avrebbe trovato. Lo doveva a sua madre, a Kaidan e a tutti coloro che erano morti combattendo quegli abomini metallici.
E forse la salvezza della galassia era stata vergata dalla mano tremante ed insicura di un modesto cuoco Prothean, Zalid, che mai avrebbe immaginato di diventare un salvatore di popoli.
“Sembra che il congegno non abbia funzionato” scriveva Zalid, confuso e atterrito, inconsapevole che, 50.000 anni dopo, una disperata archeologa Asari avrebbe letto quelle parole con travolgente partecipazione: i Prothean avevano tentato di distruggere i Razziatori? Che cos’era il congegno? Perché non aveva funzionato?
Qualunque cosa fosse, quali che fossero le risposte, lei doveva sapere.
Se fino a quel momento la sua ricerca era stata meticolosa dopo quella scoperta era diventata febbrile. I computer lavoravano giorno e notte alla ricerca di un qualsiasi indizio riguardante il congegno ma, dopo tre giorni di disperate ricerche, né lei né gli studiosi dell’Alleanza avevano trovato qualcosa. Non solo: i suoi contatti sparsi nella galassia l’avevano informata di preoccupanti attività ai margini dei Sistemi Terminus. Dallo spazio oscuro stava arrivando qualcosa.
I Razziatori erano alle porte della galassia e lei non aveva trovato niente.
- Vado un attimo in bagno, Glifo. – annunciò, stancamente, al drone che volteggiava al suo fianco – Sorveglia i terminali, se c’è qualcosa di strano chiamami.-
- Sì, dottoressa.-
Si alzò, sbuffando, ma non aveva nemmeno raggiunto la porta che la voce garbata del drone la raggiunse – Rilevata un’anomalia, dottoressa.-
Liara si precipitò al terminale travolgendo Glifo che volteggiò di lato con un’esclamazione seccata.
- Per la Dea …- sussurrò mentre sul terminale scorrevano dei disegni: il progetto di un’arma dalle dimensioni eccezionali. Con dita tremanti trascrisse il titolo del progetto in linguaggio Asari: Crucibolo.
- Credo di aver trovato il congegno, Glifo …- mormorò, incredula.
- Ottimo lavoro, dottoressa. Invio i dati al computer centrale?-
- Sì. - il file era criptato e solo il computer centrale degli archivi possedeva i software necessari per elaborare il codice – E mettiti in comunicazione con l’ammiraglio Hackett, devo informarlo immediatamente.-
- Dati trasferiti, ma non riesco ad aprire un canale di comunicazione esterno, le consiglio di recarsi in sala comunicazioni.-
Liara annuì distrattamente, lo sguardo fisso sul progetto: forse c’era una speranza.
Disattivò Glifo e si precipitò fuori dalla stanza, ansiosa di comunicare il suo successo all’ammiraglio, lungo il corridoio per poco non travolse la dottoressa Eva che le rivolse uno dei suoi sguardi glaciali.
- Tutto bene, dottoressa T’Soni?-
Liara era troppo infervorata per cogliere il tono astioso della donna – Benissimo!- esclamò, con entusiasmo – Ho fatto una scoperta eccezionale, ho inviato tutto al computer centrale.- rivolse un sorriso di trionfo alla donna, che ricambiò con evidente fatica – Mi scusi, devo correre ad informare Hackett.-
La dottoressa Eva si fece da parte – Ma certo. Ottimo lavoro, dottoressa.-
Quando Liara sfrecciò via il sorriso scomparve dal volto di Eva e i suoi occhi, impassibili e freddi, rimasero fissi sull’Asari finché non scomparve alla vista poi, lentamente, estrasse una pistola.
 
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Liara irruppe nella sala comunicazioni spaventando a morte i due operatori di turno.
- Ehi, dottoressa, che succede? Ha un’aria stravolta.-
Liara si massaggiò il fianco dolorante, concedendosi un paio di secondi per riprendere fiato – Ho bisogno che mi mettiate in comunicazione con l’ammiraglio Hackett.- ansimò.
I due uomini si lanciarono un’occhiata titubante – Mi dispiace dottoressa, è in arrivo una tempesta, le comunicazioni sono bloccate. -
- Cosa?- Liara si avvicinò ai terminali, ma il segnale lampeggiante non lasciava adito a dubbi: le apparecchiature erano offline.
Il più giovane dei due si strinse nelle spalle – Può provare all’hangar esterno, le apparecchiature sono più potenti.- lanciò un’occhiata disgustata ai terminali – Queste avranno almeno un decennio.-
Liara sospirò, strofinandosi la fronte: per accedere all’hangar esterno doveva uscire dalla struttura principale e raggiungere a piedi la postazione ausiliaria; con una tempesta in arrivo difficilmente l’avrebbero fatta uscire, ma non aveva alternative: non aveva tempo di aspettare che la tempesta passasse.
Lanciò un’occhiata riconoscente all’operatore  – Grazie, Vincent, ricordami di offrirti una birra stasera.-
Vincent arrossì – Dovere, dottoressa.-
Come previsto la sentinella di guardia all’uscita si rifiutò di farla passare – Non è consentito uscire. C’è una tempesta in arrivo.-
- Ho delle informazioni di vitale importanza, devo assolutamente contattare l’ammiraglio Hackett. -
Quella situazione stava diventando assurda: era l’informatore più potente della galassia, la sua rete di contatti arrivava ovunque e ora, a causa di una stupida tempesta marziana, era completamente isolata dal resto della galassia.
Come Ombra lasciava un po’ a desiderare.
- Mi dispiace dottoressa, senza un’autorizzazione superiore non posso …-
- Non ho bisogno di un’autorizzazione superiore.- sbottò, perdendo definitivamente la pazienza – Sono qui su disposizioni precise dell’ammiraglio Hackett, non sono un membro dell’Alleanza, faccia pure rapporto a chi vuole, caporale, ma prima mi faccia fare quella maledetta comunicazione.- lo spinse di lato e prese il respiratore dall’armadietto.
Ignorando le proteste del caporale aprì il portellone di sicurezza e, una volta superata la camera di decompressione, fu fuori.
La tempesta era davvero spaventosa: enormi nuvole cariche di elettricità coprivano l’orizzonte e il vento era talmente forte che riusciva a stento a stare in piedi.
A fatica percorse i cento metri che separavano le strutture, maledicendo gli umani e la loro attrezzatura scadente. Sperò che il comunicatore a corto raggio funzionasse, altrimenti era bloccata fuori.
- Qui dottoressa Liara T’Soni, chiedo il permesso di accedere alla struttura.-
- Permesso accordato.- sfrigolò una voce femminile nella radio – Apriamo subito le porte. –
Una volta all’interno si tolse il respiratore con un sospiro di sollievo, per un istante aveva davvero avuto paura di essere rimasta bloccata fuori.
Una donna le venne incontro, accigliata – Cosa ci faceva là fuori con quel tempaccio, dottoressa? È successo qualcosa?-
Liara scosse il capo – Nulla di grave, sergente: le comunicazioni della base sono offline e devo contattare Hackett con la massima urgenza.-
La donna sbuffò – Ogni volta sempre la stessa storia; ogni anno l’Alleanza compara una nuova corazzata e poi sostengono di non avere fondi per aggiornare le nostre attrezzature.- la invitò a seguirla nella sala radio continuando a lamentarsi sulla pessima organizzazione della base.
A Liara non interessava nulla dei fondi dell’Alleanza, voleva solo che la donna si sbrigasse a fare quella maledetta chiamata … se solo avesse avuto la sua nave: su Hagalaz affrontava tempeste del genere ogni giorno eppure riusciva a monitorare ogni angolo della galassia.
Scrollò impercettibilmente le spalle mentre il sergente apriva un canale di comunicazione con il centro operativo dell’Alleanza: la nave dell’Ombra non esisteva più, l’Uomo Misterioso non gradiva che qualcuno invadesse il suo territorio. L’aveva aiutata a sconfiggere il suo predecessore e, com’era prevedibile, aveva tentato di eliminare anche lei ma, come molti prima di lui, aveva commesso il terribile errore di sottovalutarla.
- Ci siamo.- annunciò il sergente, trionfante, alzando il volume della radio.
- A chiunque sia in ascolto.- una voce concitata uscì dal microfono, cogliendole di sorpresa – La Terra è caduta. Ripeto: la Terra è caduta.- Liara barcollò, aggrappandosi alla poltrona in preda al panico: che cosa stava dicendo? Cercò lo sguardo del sergente ma la donna fissava il terminale con occhi sgranati – A tutto il personale dell’Alleanza: abbandonare il sistema. – la voce dall’altra parte del microfono s’incrinò, rendendo ancora più drammatica la realtà di quelle parole – La Terra è caduta …-
All’improvviso, con un rumore sordo, tutte le luci si spensero e, assieme al buio, calò anche il silenzio.
Liara si guardò intorno, spaventata – Per la Dea …- sapeva chi aveva attaccato la Terra e Marte non era molto lontano dal pianeta natale degli umani. Immaginò che i Razziatori fossero arrivati sul pianeta.
No, non ora che ho trovato il modo per distruggerli!
Sarebbe stata la beffa più grande della storia galattica.
Così come si erano spente, le luci si riaccesero illuminando le due donne, l’Asari e l’umana, in piedi l’una accanto all’altra.
Il sergente la fissò, mortalmente pallida – Che cosa sta succedendo?- armeggiò col terminale – Questo è andato. Sembra che siamo tagliati fuori.-
Liara deglutì a vuoto – La tempesta?- sapeva che non era così, ma non voleva nemmeno prendere in considerazione l’alternativa.
Il sergente scosse il capo – No …- una luce lampeggiò sul terminale alla sua sinistra attirando la loro attenzione - … ma che …?-
La donna attraversò la stanza, affacciandosi alla porta – Mike, Klaus!- chiamò – Cosa diavolo succede? Perché avete aperto la porta dell’hangar?- nessuno rispose.
- Cos’è quello?- domandò Liara indicando un’altra luce che aveva cominciato a lampeggiare sul terminale.
- Maledizione …- il sergente raggiunse l’armadietto e l’aprì con la chiave che portava al collo - È il montacarichi dell’hangar.- spiegò, imbracciando un fucile a pompa – Qualcuno sta salendo. Vado a controllare. Lei resti qui dottoressa.-
Prima che Liara potesse dire qualcosa stava già scendendo le scale.
La sala comunicazioni aveva una vetrata che si affacciava sul magazzino, un piano sotto, Liara si avvicinò, osservando il sergente che, fucile spianato, si avvicinava circospetta al montacarichi in movimento; la grata di protezione si aprì.
- Fermi!- ordinò il sergente – Identificatevi!-
C’erano cinque uomini sulla piattaforma e Liara sapeva chi erano. Li aveva già combattuti, sulla nave dell’Ombra: erano agenti di Cerberus.
- Via di lì, sergente!- urlò picchiando contro il vetro.
Se la donna la sentì non ebbe il tempo di reagire: una raffica di proiettili la centrò in pieno petto, tagliandola in due.
- NO!-
Simultaneamente cinque caschi si alzarono verso di lei – Eliminatela!-
Liara si gettò in terra sotto una grandine di proiettili e vetri infranti; si coprì il capo con le mani mentre tutto intorno a lei andava in frantumi.
Gli spari cessarono di colpo, non appena gli agenti di Cerberus si resero conto che stavano solo sprecando munizioni; al sibilo dei proiettili si sostituirono i tonfi pesanti degli uomini che salivano le scale: stavano venendo a prenderla.
Liara si guardò freneticamente intorno, alla ricerca di un’arma o di una via di fuga; le trovò entrambe.
Prese una pistola dall’armadietto delle armi poi, con un sollevamento biotico, sradicò la grata che copriva la bocchetta di ventilazione; s’infilò nel condotto nell’esatto momento in cui gli agenti irrompevano nella sala.
- Prendete la puttanella Asari!-
Strisciò e si contorse nel gelido condotto metallico, cercando disperatamente di sfuggire ai suoi inseguitori; moriva dalla voglia di scagliargli addosso una singolarità, ma farlo in quello spazio ristretto sarebbe stato un suicidio. All’improvviso infilarsi in quel condotto non le parve più una buona idea.
Del tutto privi di buon senso i due agenti aprirono il fuoco e i proiettili impazziti le rimbalzarono attorno, mancandola di un soffio, con un assordante frastuono metallico.
Maledizione!
Il condotto finiva bruscamente, chiuso da una grata metallica; disperata, Liara cominciò a prenderla a calci mentre i suoi inseguitori si facevano sempre più vicini. Infine, quand’era ormai certa che non ce l’avrebbe fatta, la grata cedette.
Liara saltò fuori, atterrando malamente nel magazzino, a pochi passi dal corpo dilaniato del sergente; gli occhi vitrei della donna la fissavano, pieni d’incredulità e terrore. Un odio sconosciuto, viscerale, le offuscò la mente e l’energia oscura le invase le vene chiedendo, prepotentemente, di essere liberata.
Liara si voltò di scatto, nell’esatto momento in cui gli agenti si affacciavano al bocchettone e gli scagliò contro una singolarità. I due uomini vennero risucchiati dal piccolo buco nero che aveva creato, gridarono di sorpresa e paura mentre i loro corpi volteggiavano nell’aria, come pupazzi trascinati dal vento.
Liara estrasse la pistola lentamente, assaporando la sensazione di averli completamente in suo potere; prese la mira con cura, poi fece fuoco.
La singolarità si estinse e i due uomini precipitarono in terra, agonizzanti. Liara li sovrastò, alzò la pistola ed esplose altri due colpi, ponendo fine alle loro vite.
In altre circostanze la facilità con cui aveva ucciso quegli uomini l’avrebbe disgustata, ma questa volta non provò niente se non la soddisfazione della vendetta; poteva capire i Razziatori e la loro sete inestinguibile di sangue ma le azioni di Cerberus, uomini che uccidevano altri uomini per il bene dell’umanità, le facevano solo ribrezzo. Come poteva l’Uomo Misterioso compiere un simile massacro quando la Terra stessa era sotto assedio? Non c’erano stati già abbastanza morti quel giorno?
Con la coda dell’occhio vide un movimento alle sue spalle, si girò di scatto, la pistola spianata.
Un’onda di sollievo la travolse e, immediatamente, abbassò la pistola.
Lui era arrivato.

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Capitolo 7
*** Andrà tutto bene ***


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2186, Marte, Archivi Prothean
 

Morti.
Erano tutti morti.
I ricercatori e gli archivisti, i soldati e gli ingegneri, i cuochi e i lavapiatti, nessuno era stato risparmiato.
La morte era calata su Marte non sottoforma di abomini metallici e bestie senz’anima, ma nelle vesti di uomini.
Uomo contro uomo, fratello contro fratello, padre contro figlio, era l’umanità che combatteva se stessa, l’immagine di un popolo che non riusciva ad unirsi nemmeno per salvare il proprio pianeta.
Ogni pallottola esplosa negli archivi, era una pallottola in meno contro i Razziatori, ogni uomo che cadeva, era un soldato in meno per la Terra. Qual’era il senso di quella lotta? Quale follia spingeva quegli uomini al massacro quando avrebbero dovuto pensare alla salvezza?
Era questa la missione di Cerberus? Distruggere l’umanità per salvarla?
Ashley non aveva risposte e se anche ci fossero state non avrebbe voluto sentirle. Non c’era giustificazione alle azioni di Cerberus, non c’erano scuse che perdonassero una guerra civile.
La rabbia la spinse a pronunciare accuse infamanti verso l’uomo che combatteva al suo fianco, uccidendo gli alleati di un tempo.
Nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a capire, ad accettare, che Shepard avesse combattuto al fianco di Cerberus.
Come poteva giustificare le sue azioni di fronte ai mostri che aveva contribuito a creare? E lei come poteva amare un uomo che forse di umano non aveva più niente?
Era tutto così confuso … tutti quei morti, quelle vite sprecate, gli atroci esperimenti condotti dall’Uomo Misterioso … dov’erano giusto e sbagliato? Fino a che punto la morale poteva corrompersi in un nome di un bene superiore? Era giusto sacrificare mille vite per salvarne un milione?
La sua fede, le certezze, gli ideali … stava crollando tutto, come un castello di sabbia.
Chi era il comandante Shepard?
Un tempo avrebbe risposto a quella domanda senza esitare: Shepard era un eroe, un uomo giusto. Il paladino non solo dell’umanità ma della galassia intera.
Oggi quella risposta sarebbe suonata ipocrita alle sue stesse orecchie: Shepard era l’uomo dei compromessi, delle false alleanze, degli inganni e dei tradimenti.
Si era illusa di poter voltare pagina, aveva creduto di poter perdonare la sua alleanza con Cerberus, era arrivata al punto di biasimare se stessa! Ma ora, di fronte alla vera natura di Cerberus, non poté che sentirsi fiera della scelta che aveva fatto.
Forse ho tradito te, Shepard, ma non ho tradito l’umanità. Lascerei bruciare la galassia piuttosto che consegnarla nelle mani dell’Uomo Misterioso.
Su Horzion aveva scelto da che parte stare, non si sarebbe più scusata per quello; Shepard avrebbe capito e se così non fosse stato allora non era più Shepard e non ci sarebbe stato più nulla di cui discutere.
Guardò l’agente di Cerberus riverso in terra, quell’uomo che non era più un uomo e si chiese se era quello il destino dell’umanità: per salvarsi dai Razziatori dovevano trasformarsi in mostri al servizio di un folle?
- Potresti essere tu, Shepard.- disse, senza riuscire a trattenersi. – Per quel che ne so magari è questo che ti ha fatto Cerberus.-
- Come puoi paragonarmi a quella cosa?- domandò lui, ferito e costernato, ma in fondo al suo sguardo, dietro l’indignazione, vide dubbio, paura; ben nascosto in fondo al suo cuore c’era il terrore che lei potesse avere ragione.
In altre circostanze si sarebbe sentita in colpa per quelle parole dal sapore crudele, ma non c’era più tempo per la delicatezza o la gentilezza, e lei non era mai stata in grado di fingere o mentire. L’ipocrisia non le apparteneva: se doveva rischiare la sua vita e il destino della galassia doveva sapere cos’ era l’uomo chiamato a salvare il mondo.
- Non so più cosa sei da quando ti hanno ricostruito.- esitò di fronte alla sua espressione umiliata, fece un passo avanti, gli occhi fissi nei suoi – Sei davvero tu lì dentro? Come fai a saperlo? Non è che ti controllano?-
Shepard distolse lo sguardo – Ash …- per un attimo le sembrò che stesse implorando il suo silenzio.
- Sto solo riflettendo ad alta voce. - continuò, implacabile. Tutti i dubbi, le paure, le speranze e le delusioni accumulate in quei tre anni si riversavano fuori come un fiume che rompe la diga. La Terra era caduta: non c’era più tempo. – Non cerco risposte. Dubito che tu possa dire qualcosa per convincermi.- si passò una mano sulla fronte – Immagino mi serva del tempo per conoscerti di nuovo. Per …- gli rivolse un’occhiata incerta, quasi intimidita - … per trovare l’uomo che amavo.-
Shepard le si avvicinò, paziente e comprensivo com’era sempre stato. Accettare quelle parole non doveva essere semplice per lui, eppure non sembrava arrabbiato o deluso, solo stanco.
- Sono sempre lo stesso, Ash e ti voglio con me. Ovunque questo ci porti.-
Ashley liberò il respiro, rendendosi conto solo in quel momento di star trattenendo il fiato: se lui le avesse detto di farsene una ragione e andarsene per la sua strada sarebbe stato come sentirlo morire un’altra volta.
Forse Alexander era davvero tornato dal mondo dei morti.
Sorrise - È ciò che volevo sentire.-

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Shepard varcò la soglia dell’infermeria, terrorizzato all’idea di quello che vi avrebbe trovato. In altri tempi la dottoressa Chakwas sarebbe corsa verso di lui rassicurandolo con parole gentili, ripetendogli fino allo sfinimento che sarebbe andato tutto bene. Ma la dottoressa Chakwas non c’era, non ci sarebbero state rassicurazioni o parole gentili, nessuno gli avrebbe detto che andava tutto bene, perché le cose, bene, non andavano.
Si avvicinò all’unico letto occupato, incapace di alzare lo sguardo sulla donna che vi giaceva sopra, esanime.
Ricordò la navetta che si schiantava, Ashley e Liara in terra, e lui, così distratto, così maldestro. Come aveva potuto abbassare la guardia in quel modo? Avrebbe dovuto immaginare che non poteva essere così semplice sconfiggere un agente dell’Uomo Misterioso. Lui stesso era stato un suo strumento.
Quando il robot di Cerberus era uscito dalla navetta in fiamme lui non era pronto.
Rabbrividì mentre la sua mente tornava a quei momenti in cui aveva creduto d’impazzire. Le pallottole che, inutili, ribalzavano sul metallo, l’esclamazione sorpresa di Ash quando il robot l’aveva ghermita, sollevandola come una bambola di pezza. Non era riuscito a raggiungerla. Non era riuscito a salvarla.
- Tutto bene, Shepard?-
Liara era comparsa sulla porta, l’espressione preoccupata.
Shepard annuì, grato per quell’interruzione che gli impediva di pensare, di rivivere l’attimo in cui, forse, aveva perso Ashley per sempre.
- È stata una lunga giornata.- rispose.
Ancora non riusciva a capacitarsi che la Terra fosse caduta. Si sentiva perso in una galassia troppo grande, senza una casa a cui fare ritorno.
Era un pensiero stupido: non aveva mai avuto una casa e aveva sempre considerato la Terra come un mondo in mezzo a tanti altri. Si sbagliava: la Terra era il suo mondo. L’unico che avesse mai desiderato.
- Dovresti riposare.- mormorò Liara posandogli una mano sulla spalla.
- Non la lascio sola.- rispose con un tono che non ammetteva repliche.
 – Se la caverà, Shepard, è troppo orgogliosa per morire così.- Liara gli strinse delicatamente la spalla e se ne andò senza aspettare una risposta.
Shepard si sedette sul bordo del letto e alzò lentamente lo sguardo, trovando finalmente il coraggio di guardarla. Allungò la mano, spostando una ciocca di capelli che le copriva il viso tumefatto e pallido.
- Dovrei esserci io al tuo posto.- mormorò.
Non avrebbe sopportato di perdere anche lei.
Le prese delicatamente una mano, stringendola tra le sue, era fredda e inerme, ma finse di non accorgersene – Sai, all’inizio non ti sopportavo. Dico davvero.- sorrise immaginando l’espressione di Ash di fronte a una simile rivelazione – Mi spaventavi: eri troppo sincera, troppo diretta. Non avevo mai conosciuto qualcuno come te; non ti sei mai nascosta, hai sempre detto quello che pensavi anche se sapevi che mi avrebbe dato fastidio. Non hai mai mentito per compiacermi.- fece scorrere i polpastrelli lungo la sua mano, non si era mai accorto di quanto sottili fossero le sue dita, gli sarebbe piaciuto vederle posate su un pianoforte invece che su un fucile – Ricordi cosa ti dissi una volta? “ Se voglio un parere ragionato vado da Alenko, ma per sentire la voce del cuore vengo da te.” Su Horizon tu mi parlasti con la voce del cuore, ma io non volevo sentire.- sospirò: non aveva mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce o anche solo di pensarlo. Era così semplice incolpare lei di tutto. – Sei stata l’unica a dirmi la verità, quello che nessuno voleva vedere, nemmeno io: non stavo aiutando l’umanità, stavo aiutando Cerberus e l’Uomo Misterioso. Lui ha vinto e io ho perso.- appoggiò la fronte contro la sua mano, alla ricerca di un conforto che né lei, né nessun altro poteva dargli – Perché le cose devono essere così complicate, Ash? Perché le scelte sbagliate assomigliano così terribilmente a quelle giuste? Credevo di aver salvato l’umanità …- fece una smorfia – Invece ho perso la Terra. La Terra, Ash! E non so cosa fare non … non ne ho idea. – digrignò i denti cercando di trattenere quella disperazione che gli lacerava il cuore – Ho perso la Terra e non so come salvarla!-
Sobbalzò quando la sentì gemere sommessamente, Ash mosse impercettibilmente la testa ma i suoi occhi rimasero serrati.
Shepard rimase immobile, diviso tra la speranza di vederla aprire gli occhi e il terrore che avesse sentito tutto quello che le aveva detto.
Mai come in quel momento non poteva permettersi di essere debole. Nemmeno con lei. La speranza era tutto quello che i suoi uomini avevano.
Era il loro comandante, il capitano di una nave in balia della tempesta senza più rotta, con le vele strappate e la stiva piena d’acqua, ma nonostante tutto avrebbe sorriso, piegato il capo e, mentendo, avrebbe detto che andava tutto bene.
Accarezzò piano il viso di Ash, attento a non toccare i tagli e le ecchimosi che lo ricoprivano, le sorrise come avrebbe fatto se avesse potuto vederlo, senza ombra d’incertezza negli occhi azzurri, spavaldo come solo lui riusciva ad essere.
- Tu non morirai e, quando la Normandy farà ritorno sulla Terra, sarai accanto a me: insieme, ci riprenderemo il nostro pianeta.- il sorriso scomparve dal suo volto, lasciando posto alla freddezza che ostentava in battaglia – Andrà tutto bene, Ash. -
Era una bugia, ma, per un istante, ci credette anche lui.

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Capitolo 8
*** Un passo dopo l'altro ***


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2186, Normandy SR-2 

 
Era solo di fronte alle stelle, milioni, miliardi di stelle brillanti e silenziose, che nascevano, bruciavano e morivano, incuranti delle sorti dei mondi.
Fissò il suo riflesso nel vetro, pensando, amareggiato, che la strada per tornare a casa era diventata ancora più lunga.
Un passo dopo l’altro stava conducendo la Normandy e il suo equipaggio dritti verso l’oscurità. Si domandò se ne sarebbero mai usciti.
La porta alle sue spalle si aprì con un sibilo, lasciando entrare qualcuno.
Non si mosse né si voltò, lasciò che i passi si avvicinassero finché, nel riflesso del vetro, non comparve un’ombra accanto alla sua.
Rimasero in silenzio a fissare ognuno il riflesso dell’altro, condividendo gli stessi pensieri: “casa” era alle spalle e stava bruciando.
- Sei sicuro che sia la scelta giusta, Shepard?-
Non rispose subito, forse perché non aveva una risposta o perché era troppo impegnato a studiare il riflesso dell’altro.
Era solo un’ombra sfocata nel vetro, lo spettro di un popolo che stava morendo. Come il suo.
Si chiese se non fossero già fantasmi in viaggio per l’inferno; ma sapeva che l’inferno era alle loro spalle, avvolto intorno ai loro pianeti natali, pronto a stritolarli in un abbraccio di fiamme e metallo.
- Tu cosa faresti al mio posto?- domandò, scrollandosi quei pensieri di dosso.
Sentì Garrus sospirare al suo fianco – Non …- scosse il capo interrompendosi a metà; Shepard sapeva bene come finiva la frase: “non lo so”. Ma, come lui, anche Garrus doveva fare i conti con le aspettative della sua gente: non poteva più permettersi di dare una risposta come quella.
- Curare la genofagia …- fece schioccare le mandibole con un misto d’incredulità e disapprovazione - … Wrex non si rende conto di quello che ci sta chiedendo. –
Shepard si appoggiò contro il vetro dell’osservatorio – Invece credo che l’abbia capito benissimo: sa che nessuno curerà mai la genofagia. Non volontariamente. Ma, con Palaven e la Terra sotto attacco e i Razziatori che spadroneggiano per la galassia, i Krogan sono la nostra unica speranza di guadagnare un po’ di tempo e Wrex lo sa bene; quale momento migliore per chiedere l’impossibile?-
Garrus si lasciò sfuggire un verso basso e gutturale, simile a un ringhio – I nostri mondi bruciano e lui pensa a ricattarci? –
Shepard continuò a fissare l’universo buio che in cui era sprofondata la Normandy, per un attimo gli parve che fossero rimasti solo loro nell’infinito universo: piccola nave alla deriva dispersa nello spazio, destinata a vagare per sempre senza meta o direzione.
 – Tu non lo faresti? Io non lo farei? – appoggiò la testa sull’avambraccio, il calore del suo fiato appannò leggermente il vetro – Che i Razziatori vincano o perdano, senza una cura per la genofaigia, i Krogan si estingueranno. È inevitabile, il processo è già iniziato anni fa: la loro popolazione è vecchia, non si sono ancora estinti solo perché hanno vite molto lunghe.- Garrus s’appoggiò al vetro accanto a lui, i volti tanto vicini da sfiorarsi – Wrex sta cercando di salvare il suo popolo: come noi.-
Garrus sospirò – Il suo popolo è brutale, Shepard. Wrex è un’eccezione e tu lo sai. Se dovesse morire, se dovesse perdere il controllo … la galassia dovrà affrontare un’altra guerra, un’altra strage.- Shepard sapeva quanto gli costassero quelle parole, doveva averci pensato a lungo, nel buio della batteria primaria – Odio doverlo dire, ma la Dalatrass ha ragione: la genofagia era necessaria e lo è tuttora.-
- Credi che non ci abbia pensato?- sussurrò, quasi per timore che, nel buio, qualcuno potesse sentirli – Ho il potere di decidere del destino di un popolo, se solo lo volessi potrei estinguere un’intera specie, e sarei uguale ai Razziatori.- finalmente trovò il coraggio di guardare Garrus, sul viso del Turian vide la determinazione trasformarsi in sorpresa e la sorpresa in rammarico – Io non sono Dio, Garrus, né aspiro a diventarlo: non condannerò i Krogan a morte certa. Nemmeno se avessi la certezza di salvare la galassia: non posso farlo. Non importa quali macchie ci siano nel loro passato, non è compito mio decidere del loro futuro. Né tuo. –
Le mandibole del Turian fremettero appena, poi tornò a fissare le stelle fuori dalla finestra, impassibile – Io …- allungò il braccio e gli strinse con forza la spalla, fu solo allora che Shepard si accorse che stava tremando - … dove ci porterà questa guerra? In cosa ci trasformerà? Io voglio solo riavere il mio pianeta …- le dita di Garrus strinsero fino a fargli male, sentì le ossa scricchiolare sotto la presa ferrea del Turian ma non lo scacciò né si lamentò, alzò la mano e la posò su quella di Garrus, stringendo a sua volta.
Erano insieme, non contava altro: fratelli d’arme fino alla fine dei tempi.
- Ritornerai a casa Garrus, te lo prometto; ho solo scelto un strada un po’ più lunga.-
Garrus abbassò la testa, lasciandosi sfuggire qualcosa che era a metà tra un singhiozzo e una risata – Potevi avvertirmi, diamine, pensavo che l’avessi smarrita quella maledetta strada.-
Shepard sghignazzò – Per un attimo l’ho creduto anch’io, Vakarian.- gli assestò una sonora pacca sulla spalla e indicò la porta con un cenno – Andiamo, dobbiamo prepararci per la prossima missione.-
Garrus si finse offeso – Ah, adesso mi porti in missione? Strano, pensavo preferissi Liara e … ehm … IDA.-
Shepard lo squadrò, inarcando un sopracciglio – Indossa la tutina aderente di IDA e ti assicuro un posto nella squadra, Vakarian.-
Garrus si sistemò la corazza – Perché? Non ti piaccio vestito così?-
Shepard ammiccò avvicinandosi alla porta – Sei uno schianto, ma ho sempre sognato di vedere un Turian in calzamaglia  …-
La porta si aprì con un leggero sibilo svelando un’Asari scandalizzata – Sbaglio o ho sentito “Turian in calzamaglia”?-
Shepard si strinse nelle spalle, imperturbabile – Non sbagli, Garrus si è appena reso conto che l’armatura è terribilmente fuori moda: d’ora in poi solo calzamaglie.-
Liara fece vagare lo sguardo dall’uno, impassibile, all’altro, altrettanto serio.
- Io non credo di aver …-
Dall’altoparlante IDA la interruppe – Ci stiamo avvicinando all’Accademia Grissom, comandante, Joker sta cercando di aprire un contatto radio.-
- Arrivo subito, IDA.- Shepard superò Liara e si diresse verso l’ascensore – Vi voglio giù in armeria tra dieci minuti e …- premette sul pulsante di chiamata lanciando a Garrus uno sguardo penetrante - … mi raccomando, Vakarian: non dimenticare di metterti i tacchi.-
- Non si preoccupi, comandante.- intervenne IDA, serissima – Rifornirò Garrus di tutto il necessario.-
Shepard entrò nell’ascensore con aria assorta mentre Garrus, incapace di trattenersi, scoppiava in una fragorosa risata.
Liara scosse il capo, esasperata – Idioti.-
 
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Jack scese dalla navetta e si guardò intorno, con un filo di nostalgia: era bello essere di nuovo a bordo della Normandy.
Non era cambiata granché e di certo non avrebbe sentito la mancanza dello stemma di Cerberus né dei suoi agenti, anche se ora, finalmente, aveva il permesso di prenderli a calci.
- Forza, non restatevene lì impalati.- abbaiò, facendo cenno ai ragazzi di scendere – Avanti, Rodriguez, quel braccio non guarirà se continui a fissarlo.-
Inarcò un sopracciglio, scettica, quando Shepard aiutò una paonazza Rodriguez a scendere dalla navetta, con la coda dell’occhio scorse Prangley fissarli, indignato.
Scosse il capo, esasperata – Piantala di fare il galantuomo, Shepard, che qui non ci casca nessuno. Prangley…..- fece cenno al ragazzo di avvicinarsi - … vieni ad aiutare Rodriguez prima che le venga un infarto.-
- Cortez, accompagna i feriti in infermeria.- ordinò Shepard facendo un cenno al pilota di navette appena sbarcato - … e, James …- il soldato alto e muscoloso che stava aiutando i ragazzi alzò il capo - … porta gli altri su in mensa, assicurati di sfamarli a dovere. – sorrise agli studenti – Se lo meritano.-
- Subito, Loco.-
Kahlee le si avvicinò, mentre i ragazzi seguivano i due marines nell’ascensore – Tutto bene, Jack?- domandò.
Jack si affrettò ad annuire – Certo, Kahlee. Tu vai pure, io ti raggiungo subito.- non riuscì a impedirsi di lanciare una breve occhiata a Shepard, che stava armeggiando con i ganci della sua corazza.
Kahlee seguì il suo sguardo e sospirò – Come vuoi, Jack. Ci vediamo dopo.- le diede una breve pacca sulla spalla e si allontanò.
Jack si avvicinò a Shepard, ancora incastrato nella sua armatura – Ti serve aiuto, comandante?-
Lui sbuffò – No, tutto …- strattonò uno spallaccio, che non si mosse di un millimetro, si guardò intorno e, accortosi che erano rimasti soli, lasciò cadere le braccia – Ok, lo ammetto: sono incastrato. Mi aiuteresti?-
Jack ridacchiò, divisa tra la voglia di vederlo contorcersi ancora un po’ e il desiderio di spogliarlo. Prevalse, di poco, la seconda opzione.
- Dai, girati.- si avvicinò, lasciandogli tutto il tempo di squadrarla per bene, le piaceva sentire il suo sguardo su di sé, la faceva sentire bella, desiderabile – Ma guardati …- borbottò quando lui si fu finalmente deciso a voltarsi, svelando tutte le ammaccature della corazza - … il grande comandante Shepard incastrato in un’armatura. Non è molto glorioso.-
- Sta’ zitta.- gemette, mentre lo strattonava vigorosamente.
- Questa troia si è incastrata per bene. Come cazzo hai fatto, Shepard?- sbuffò cercando, inutilmente, di smuovere qualcosa.
- Se per caso non l’avessi notato, mi sono beccato un paio di razzi nel culo per salvare te e i tuoi ragazzi.- Jack sghignazzò immaginandosi la scena – A proposito: ti trovo bene. La vita militare ti si addice, non l’avrei mai detto.-
Spazientita, decise di ricorrere alle maniere forti e cominciò ad accumulare un po’ di energia oscura; insospettito dal suo silenzio e dal baluginio bluastro che si rifletteva sulle pareti, Shepard le lanciò un’occhiata da sopra la spalla, quando capì ciò che intendeva fare sgranò gli occhi – Ehi, aspetta un attimo!-
La deformazione biotica lo centrò tra le scapole, mandandolo a sbattere contro la navetta – Ma sei impazzita?- ringhiò, annaspando alla ricerca d’aria.
Jack lo ignorò e diede uno strattone alla corazza che, finalmente, venne via.
La prima cosa che notò fu la divisa che gli aderiva al corpo come una seconda pelle, subito dopo si accorse del sangue che gli colava lungo il braccio, dove l’armatura gli aveva inciso la carne.
- Te l’avevo detto di non fare a sportellate con quell’Atlas.- lo rimproverò, esaminando la ferita.
- Disse la biotica che li prendeva a testate.- sobbalzò leggermente quando lei gli alzò malamente la manica – Vacci piano, macellaia! –
Jack gli lanciò uno sguardo di disapprovazione – Ti lagni come un Quarian col cagotto.- picchiò il palmo aperto direttamente sulla spalla ferita, strappandogli un mugolio di dolore – Un po’ di medigel e torna tutto come nuovo. Dove lo trovo?-
Shepard si sedette sul pavimento, appoggiandosi alla navetta – C’è una cassetta del pronto soccorso sotto il sedile del pilota.-
Recuperata la cassetta si chinò sul comandante, applicando il medigel sulla spalla ferita, lui si lasciò andare contro la cassa, con un sospiro – Allora Jack, mi vuoi dire cosa ci facevi in una scuola dell’Alleanza?-
Si strinse nelle spalle, dedicando molta più attenzione alla ferita di quanta non ne meritasse: non aveva voglia d’incontrare il suo sguardo – Ero nei guai, sulla Terra, così ho seguito il tuo consiglio e sono andata da Anderson, solo che, al suo posto, ho trovato Kahlee …- si strinse nelle spalle - … io avevo bisogno di andarmene e lei aveva bisogno di una biotica per l’Accademia. Fine della storia.-
Shepard le afferrò la mano – Credo che basti.- mormorò indicando la ferita che si stava già rimarginando – Mi sembri felice.- aggiunse dopo una breve pausa.
Jack si strofinò le mani sui pantaloni poi, finalmente, trovò il coraggio di guardarlo – Lo sono.- ammise con un lieve sorriso – Quei ragazzi mi danno uno scopo; per la prima volta sto … creando qualcosa. – abbassò lo sguardo – Prima distruggevo e basta.-
Shepard le prese il mento tra le dita, costringendola ad alzare la testa e a incontrare i suoi occhi, quegli straordinari occhi azzurri – Sono fiero di te, Jacqueline.-
D’istinto lei si sporse in avanti, incapace di resistere all’impulso di baciarlo. Ma, non appena le loro labbra si sfiorarono, capì che c’era qualcosa che non andava, come quando l’aveva baciato sull’Accademia: l’uomo che stava baciando non era Andrej, non più.
Shepard l’allontanò con delicatezza – Mi dispiace.-
- Oh …- Jack deglutì - … lei è tornata, non è così? – avvicinò il viso al suo, sfidandolo a mentirle – Non è così?-
Shepard non tentò di negare né di giustificarsi, si limitò a fissarla con disarmante sincerità – Sì, è tornata.-
Lo schiaffo risuonò secco nella stiva, quando il suo palmo aperto colpì con forza il viso del comandante. Il colpo gli fece voltare il capo ma lui non sembrò stupito né risentito da quel gesto; quando tornò a guardarla nel suo sguardo c’era solo rammarico.
Jack si lasciò cadere accanto a lui, appoggiandosi contro la cassa, odiandosi per aver creduto anche solo per un istante che lui sarebbe tornato da lei.
Nessuna promessa ricordò a se stessa, per l’ennesima volta.
Quando si erano lasciati, sei mesi prima, sapeva che non ci sarebbe stata una seconda occasione e, forse, nemmeno la voleva: non era arrabbiata perché se n’era andato, era l’idea che se ne tornasse dalla Williams a farla infuriare.
Ricordava bene Horizon, era stata presente durante il loro incontro e, se non fosse stato per Shepard, avrebbe ucciso la Williams seduta stante.
- Quella ti ha abbandonato, Shepard, ti ha voltato le spalle e se ne è andata per la sua strada!- ringhiò, incapace di trattenersi – Tra tutte le donne della galassia perché lei? Io proprio non capisco.-
Lui rimase in silenzio tanto a lungo che fu spinta dal desiderio di schiaffeggiarlo ancora e stava per farlo quando lui si decise a parlare.
- Quando hai visto Cerberus minacciare i tuoi ragazzi, che cos’hai provato?-
Jack lo fissò, spiazzata – Non stiamo parlando di questo, Shepard!-
Lui non si scompose – Davvero?-
Esasperata appoggiò la testa contro le casse e fissò il soffitto, chiedendosi se non era il caso di dargli una ritinteggiata – Quando le navi di Cerberus hanno assalito l’Accademia io … non ero sorpresa. Neanche un po’.- le parole uscirono da sole, senza che lei potesse fare nulla per fermarle – Mi è sembrato normale, come se in fondo me lo meritassi: che diritto avevo di essere felice?- fece una breve pausa, cercando di scacciare quella nebbia tremolante che le aveva offuscato la vista – Cerberus stava tornando a prendersi ciò che era suo, ciò che era sempre stato suo: quella bambina idiota che pensava di potersi costruire una nuova vita, lontano da loro e da quello che le avevano fatto. – strinse i pugni sentendo le cicatrici, quelle cicatrici che l’accompagnavano da tutta la vita, tirarle la pelle. – Poi li ho visti prendere i ragazzi. I miei ragazzi. Possono avere me, Shepard, ma non loro. Mai loro.-
- Cosa sarebbe successo se li avessero portati via, lasciandoti lì, incapace di salvarli o anche solo di seguirli?-
La voce di Shepard tremava e, quando parlò, si accorse di tremare a sua volta – Sarei tornata ad essere il Soggetto Zero. Loro sono tutto quello che ho, sono il mio futuro, se me lo portassero via …- deglutì - … ho sopportato tutto, ma non potrei sopportare questo. Non più.-
Sobbalzò quando sentì le dita di Shepard sfiorare le sue, ma non si ritrasse, non ci riuscì. Aveva bisogno di sentirlo accanto a sé, nonostante tutto.
- Su Marte Ashley ha rischiato di morire, per mano di Cerberus.-Jack sobbalzò: per una attimo si era dimenticata di cosa stessero parlando. Odiava sentire quel nome nella bocca di Shepard. – Sono rimasto seduto al suo capezzale per ore, sulla Normandy e poi all’Huerta Memorial Hospital; continuavo a ripetermi la stessa domanda che mi hai fatto tu. Perché lei? Perché continuavo ad amarla nonostante tutto? Poi ho capito.- Shepard si portò una mano al petto, in un gesto che Jack conosceva bene: lì, appena sotto la divisa, gelida contro la sua pelle, c’era la medaglietta di Sasha. – Cerberus si è preso tutto quello che avevo: Sasha, la mia squadra, il mio corpo, la mia nave, persino buona parte del mio equipaggio.- la fissò – Si sono presi tutto, tranne lei. Io non la amo nonostante Horizon. Io la amo per Horizon. – sorrise, forse conscio dell’assurdità di quelle parole, ma i suoi occhi non sorrisero, rimasero fissi nei suoi, con la certezza che avrebbe capito. E Jack capì.
- Lei è come i tuoi ragazzi, Jack.- continuò in un sussurro -È una nuova vita, un nuovo mondo, lontano da Cerberus. Io e te …- scosse il capo, con rammarico - È Cerberus ad unirci, Jack. È sempre stato Cerberus. Tu mi hai usato per superare il tuo passato e io ho usato te.- le passò piano le dita sul viso, asciugando quelle lacrime che non si era accorta di versare - Non dimenticherò mai quello che hai fatto per me, una parte di me ti amerà sempre, Jack: tu mi hai insegnato a vivere di nuovo. – si morse il labbro, ansioso come non l’aveva mai visto e, all’improvviso, si accorse che aveva paura: era terrorizzato all’idea di farle del male – Jack, io …-
- Lo so …- lo interruppe appoggiando una mano sulla sua - … lo so. Tu sei Shepard e io sono Jack. In un’altra vita, in un altro tempo, saremmo potuti essere Andrej e Jacqueline.- sospirò – Sarebbe stato bello vivere una vita senza Cerberus. Ma la nostra vita è questa e non possiamo cambiarla. Dobbiamo andare avanti, un passo dopo l’altro, ognuno per la sua strada: io ho i miei ragazzi e tu hai Ashley.- dietro il dolore e l’amarezza riuscì a trovare la forza di donargli un pallido sorriso – Non rimpiango niente, Shepard. Sono felice, lo sono davvero, e lo devo a te: tu mi hai fatto sentire umana per la prima volta.- appoggiò la fronte contro la sua – Ma Ashley è avvertita: se ti fa ancora del male io la uccido.-
Shepard si lasciò sfuggire una risata che forse era un singhiozzo – Non ne dubitavo, Jack. Non ne dubitavo.- le sue labbra si posarono sulla sua fronte, tiepide e leggere – Sono grato di averti incontrata.-
Jack chiuse gli occhi e, per l’ultima volta, appoggiò il palmo della mano sul suo cuore: era esattamente dove l’aveva lasciato. 

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Capitolo 9
*** Sotto le stelle ***


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Normandy SR2, 2186

 
Liara si fermò davanti al memoriale e, subito, i suoi occhi si posarono sull’ultimo nome che vi era comparso: Mordin Solus.
Non poteva dire di essere stata amica del professore, ma, nei pochi giorni in cui era rimasto sulla Normandy, si era accorta di apprezzare molto la compagnia di quel Salarian chiacchierone.
Era la persona più intelligente che avesse mai conosciuto e, cosa rara, molto rara, per una mente così sottile, sapeva mettersi in discussione.
Ciò che aveva fatto per i Krogan ne era la prova: dopo essere stato uno degli artefici della genofagia era morto per debellarla.
Non sapeva se al suo posto sarebbe riuscita a comportarsi nello stesso modo: ne dubitava, l’altruismo non era la sua qualità più spiccata.
- Ehi …- Garrus le si avvicinò, con aria afflitta.
- Come stai?-
Il Turian si strinse nelle spalle – Sapevo che la lista prima o poi si sarebbe allungata ma …- scosse il capo, amareggiato – Spero che i Krogan si dimostrino degni di un simile sacrificio.-
Liara sfiorò brevemente le sue dita – I Krogan erano un grande popolo: l’hai visto tu stesso su Tuchanka. Torneranno ad essere grandi, lo so. -
- Conosci tutti i segreti della galassia, eppure continui ad essere terribilmente ingenua.-
Liara si avvicinò al memoriale, studiando attentamente ogni nome, se li impresse nella memoria, intimando a se stessa di non dimenticarli. Si domandò se, un giorno, ci sarebbe stato anche il suo, o quello di Garrus, o Tali, o Ashley, o Shepard.
Distolse rapidamente lo sguardo, imponendosi di rimanere calma, lucida.
- Sai qual è il pregio di vivere nell’ombra, Garrus?- il Turian non rispose, né si aspettava che lo facesse – Anche la più piccola luce ti abbaglia; conosco molti segreti oscuri ma, di tanto in tanto, c’è n’è qualcuno luminoso.-
- E quando non ci sarà più alcuna luce, Liara? Cosa succederà?-
Liara si mise al suo fianco, passandogli un braccio attorno alla vita sottile, stringendosi a lui in uno slancio di affetto che chiunque altro avrebbe interpretato con malizia. Ma non Garrus.
- Le antiche Asari amavano dire che, su Thessia, tra una persona e l’altra c’è solo luce. – appoggiò la testa sulla sua spalla – Io credo che avessero ragione, e tu?-
Garrus la strinse con delicatezza, reclinando il capo fino a posarlo sul suo – Sarebbe bello poterci credere, Ombra. Sarebbe bello. -
 
http://www.youtube.com/watch?v=-q4AhdDY1uY

C’erano troppe zone rosse sulla mappa, troppi sistemi in balia dei Razziatori, troppi mondi che bruciavano.
Shepard fece scorrere i dati sul datapad, studiando attentamente il posizionamento delle flotte, i loro rifornimenti, le armi di cui disponevano. Non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che stessero facendo troppo poco, troppo tardi.
Aveva ottenuto l’aiuto dei Krogan ma per farlo aveva dovuto rinunciare ai Salarian. Si chiese se Mordin fosse morto per niente, se il suo sacrificio sarebbe stato tradito dalla sua stessa gente. Forse avrebbe dovuto lasciare che i Salarian sabotassero la cura. Mordin si sarebbe opposto e Wrex, in un modo o nell’altro, sarebbe venuto a saperlo, ma era un rischio che, forse, avrebbe dovuto correre. Aveva scelto la via più lunga, ma adesso non era più così sicuro che l’avrebbe riportato a casa.
Chiuse gli occhi immaginando se stesso puntare la pistola contro Mordin, nei laboratori ai piedi del Velo, e fare fuoco, gli occhi rossi e il viso sfigurato. Immaginò l’ira di Wrex, la delusione, il disgusto … e, se stesso, pistola alzata e occhi crudeli.
Buttò i datapad sul tavolino e si lasciò andare sullo schienale della poltrona, fissando con aria assente i pesci che vorticavano pigramente nell’acquario.
Questa volta aveva scelto di non tradire i suoi amici, ma la prossima volta?
Se per salvare Thessia, Palaven o, addirittura, la Terra fosse stato necessario uccidere Liara o Garrus o James o … o Ashley … lui che cos’avrebbe fatto?
Scosse il capo, scacciando quei pensieri fastidiosi: ci avrebbe pensato quando e, soprattutto, se si fosse presentata l’occasione.
Oggi è morto un Razziatore, conta solo questo.
Si stropicciò gli occhi, fissando con aria mesta il letto, morbido e invitante. Era stanco e più di ogni altra cosa desiderava concedersi un bel sonno ristoratore, però sapeva che non ci sarebbe stato alcun riposo.
Solo alberi, un bambino che bruciava e le voci dei morti.
Qualcuno bussò, ma Shepard decise di ignorare quel visitatore sconosciuto, non aveva la forza di affrontare una conversazione, qualunque fosse l’argomento. Non quella sera.
La persona oltre la porta non si diede per vinta, bussando di nuovo. Shepard inarcò un sopracciglio e rimase a fissare i pesci in un ostinato immobilismo.
- Liara desidera parlarti, comandante.- lo informò IDA.
La sua onnipresenza cominciava a dargli sui nervi.
Con un sospiro rassegnato le disse di farla passare, ricordando solo in quel momento di aver chiamato lui Liara.
- Volevi parlarmi, comandante?- esordì l’Asari entrando nella stanza.
Shepard annuì, invitandola a sedersi al suo fianco. Quando Liara si fu accomodata, Shepard si mise a frugare tra i datapad finché non trovò quello che lo interessava, lo accese e glielo passò.
- Il Consigliere Salarian sospetta che Udina sia corrotto.- le spiegò – Ho chiesto a IDA di fare delle ricerche sui suoi spostamenti, i contatti, i depositi bancari e tutto il resto: non ha trovato niente, pulito come una verginella. Ma qualcosa non mi convince, è troppo …-
– Troppo pulito.- concluse Liara facendo scorrere lentamente i dati – Nessuna spesa extra, nessun movimento strano … guarda …- indicò una serie di numeri - … persino il giorno in cui la Terra è stata attaccata, tutto sembra normale: telefonate di routine, nessun tentativo di contattare la Terra o qualcuno al di fuori della Cittadella, persino gli accessi ad extranet sono nella norma. Esattamente come tutti gli altri giorni.-
Shepard annuì – Invece sappiamo bene che non è stato un giorno qualunque. Io credo che Udina si nasconda dietro un muro ben protetto, dietro il quale fa tutti i suoi giochetti. Voglio che tu scavalchi quel muro, Liara. – le rivolse un’occhiata penetrante – Puoi farlo?-
Un sorrisetto compiaciuto si dipinse sul viso dell’Asari – Domani saprò dirti anche quante volte è andato in bagno.-
Shepard si rilassò – Bene. Non voglio che il Consigliere Salarian pensi di avere più informazioni di me. Si credono indispensabili …- la sua voce s’indurì, al ricordo del terribile ricatto cui la Dalatrass lo aveva sottoposto - … intendo dimostrargli il contrario.-
Liara spense il datapad e lo appoggiò sopra gli altri – Non tutti i Salarian condividono la posizione della Dalatrass, l’SOS ti ha garantito il suo appoggio.-
- Non ho bisogno di qualche Salarian.- ribatté Shepard – Ho bisogno di tutti i Salarian.- scrollò le spalle e si alzò, prendendo due bicchieri e una bottiglia di vino dal mobiletto accanto all’acquario.
Riempì i due calici e ne porse uno a Liara che lo fece vorticare lentamente.
- L’ultima volta che ho bevuto del vino terrestre è stato dopo che mi hai aiutata a diventare l’Ombra.- ricordò. – Molte cose sono cambiate da allora, tranne la tua espressione. Sembra che non dormi da quel giorno.- sospirò - Se non saranno i Razziatori ad ucciderti lo farà la stanchezza.-
“Mi riposerò quando sarò morto.” aveva detto a Garrus nella sala briefing, quando il Turian aveva espresso le stesse preoccupazioni di Liara.
Aprì la bocca per ripetere quelle parole ma, inaspettatamente, dalle sue labbra uscì qualcosa di troppo simile a una confessione – Non appena  chiudo gli occhi arrivano gli incubi e allora mi sveglio, di soprassalto, convinto di averli scacciati, ma poi mi guardo intorno e li trovo ancora lì, annidati nelle pareti di questa nave, come parassiti impossibili da debellare. Non mi addormento perché ho paura di svegliarmi, perché so che un giorno, semplicemente, preferirò affrontare gli incubi della notte piuttosto che quelli della vita reale.-
Liara aprì la bocca per confortarlo ma lui la zittì con un brusco cenno della mano, vergognandosi per quel piccolo attimo di debolezza – Dimentica quello che ho detto, non ha importanza.-
Liara abbassò la testa, torcendosi le mani in un gesto che gli ricordò Tali – Mi dispiace per Mordin.- mormorò con sincera afflizione.
Shepard esitò un attimo, poi si alzò e si avvicinò al letto e, dopo essersi sdraiato sulla schiena, le chiese di raggiungerlo.
- Shepard non mi sembra …- protestò, imbarazzata.
- È un ordine, T’Soni. – la interruppe, perentorio.
Di malavoglia Liara si sdraiò accanto a lui, rigida e paonazza.
Ignorando l’imbarazzo dell’Asari, Shepard indicò la vetrata sopra di loro, dove lo sguardo si perdeva nell’infinito punteggiato di stelle.
- Le vedi tutte quelle stelle, Liara?- lei annuì, a disagio - Ricordo che quando mio padre morì, mia madre mi portò all’osservatorio, su Arcturus.- sentì Liara rilassarsi impercettibilmente, cullata dalla dolcezza del suo tono, non aveva mai parlato della sua infanzia con nessuno, ma quella sera, per la prima volta, ne sentiva un disperato bisogno - Io piangevo, non mi davo pace, ma lei s’inginocchiò al mio fianco e mi disse: “Guarda le stelle, Alexander: lì riposano le anime di coloro che sono morti. Tuo padre ci guarda da quelle stelle e, quando ti senti solo, ricordati che lui sarà sempre lì per guidarti e, un giorno, ci sarò anch’io”.- sentì una strana malinconia insinuarsi nel suo petto mentre quel ricordo da tempo dimenticato gli aggrediva con violenza la mente: Hannah era stata una brava madre, a modo suo, ma se ne accorgeva solo adesso, quando ormai era troppo tardi.
Sentì Liara appoggiarsi a lui, fragile e insicura come la prima volta che l’aveva incontrata – Credi che ci sia posto anche per le Asari tra quelle stelle?- chiese in un sussurro.
Shepard si girò a guardarla. Aveva il viso rivolto verso le stelle, le lacrime le scorrevano lungo il viso, senza che facesse nulla per combatterle: anche lei stava pensando a sua madre.
- Ci sono tutti lassù: mio padre, tua madre, Kaidan, Mordin …- tornò a fissare le stelle che mai gli erano parse così luminose, mentre nella mente elencava altri nomi, nomi che appartenevano solo a lui - … loro vegliano su di noi: sempre. –
E lo farò anch’io…
Liara strinse con forza la sua mano aggrappandosi a lui come a volerlo trattenere lì, su quella nave che era la loro casa – Un giorno raggiungeremo le stelle anche noi.- sussurrò con voce roca, quasi gli avesse letto nel pensiero – Ma non oggi, Alexander. Non oggi.-
 
 
 
Note
 
Questo capitolo non doveva interrompersi quì, in realtà queste prime parti dovevano essere due semplici passaggi per introdurre gli avvenimenti della Cittadella, ma scrivendo mi sono resa conto che diventava davvero troppo lungo così ho deciso di spezzarlo, anche se in questa prima parte non succede poi molto.
Mi scuso per la noia che vi è calata addosso, però almeno non è stato troppo lungo :)

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Capitolo 10
*** Guerra civile ***


http://www.youtube.com/watch?v=E9VhD4SccSE

Cittadella, 2186

 
Ashley si appoggiò al bancone, rivolgendo un sorriso cordiale alla donna della reception.
- Buongiorno, tenente, è qui per il controllo?-
Ash annuì – Oggi dovrebbe essere l’ultimo, grazie al cielo, la dottoressa Michel dovrà trovarsi un’altra cavia per i suoi intrugli.-
La donna ridacchiò – Non lo dica troppo forte o ci farà scappare tutti i pazienti. – digitò qualcosa sul computer e annuì – Bene, si accomodi pure nella sua vecchia stanza. La dottoressa arriverà con un leggero ritardo, è stata chiamata per un’emergenza, giù ai moli.-
- Non si preoccupi.- la rassicurò – Non ho impegni.-
Le rivolse un breve cenno di saluto e attraversò l’ingresso lasciando vagare lo sguardo sulle persone che affollavano l’ospedale. La sua attenzione fu attirata da una figura familiare, seduta accanto alla vetrata che dominava il Presidium; per tutto il tempo che era stata ricoverata l’aveva sempre visto lì, immerso nella luce artificiale della Cittadella, come se cercasse un calore che quella luce fasulla non poteva dargli.
I loro occhi s’incontrarono, e per un istante Ashley si sentì inghiottire da quei globi neri, senza pupille e senza fondo. Gli rivolse un breve cenno di saluto, a disagio, e lui ricambiò, composto e garbato.
Ashley attraversò le due porte che la separavano dal reparto in cui era stata ricoverata ed entrò nella sua vecchia stanza, avvicinandosi all’enorme vetrata che dominava il lago.
Si appoggiò al vetro, riflettendo sugli eventi recenti. Non sapeva come sentirsi riguardo la nomina a Spettro, era un riconoscimento inaspettato e gradito, ma non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che Udina stesse cercando disperatamente un modo per dare all’umanità un po’ di rilievo.
“Te lo meriti” le aveva detto Shepard e lei era d’accordo. Aveva lottato con le unghie e con i denti per diventare ciò che era adesso, per dimostrare di essere degna dell’uniforme che portava, degna di rappresentare l’umanità, ma ora le sembrava di aver ottenuto il riconoscimento più grande per i motivi sbagliati.
Scacciò quei pensieri e lasciò la mente libera di vagare lungo percorsi tortuosi e sconosciuti, che non portavano da nessuna parte.
Pensò a Sarah che aveva appena perso suo marito, a sua madre e alle sue sorelle fuggite dalla Terra per puro caso, a Shepard e alla Normandy che voleva disperatamente raggiungere, all’assassino seduto nell’atrio, così composto, così elegante. Si chiese se Shepard non gli avesse raccontato balle riguardo alla sua professione. Le sembrava troppo puro per essere quello che diceva di essere.
Non udì i rumori che provenivano dall’esterno, il tintinnio dei vetri infranti, i sospiri delle pistole silenziate o i gorgoglii di medici e pazienti che annegavano nel loro stesso sangue, le gole tagliate.  
Quando la porta si aprì, si voltò con un sorriso, pronta ad accogliere la dottoressa Michel. Il sorriso le si congelò sulle labbra, quando scorse un soldato in armatura, un fucile in mano e il volto coperto da un casco. Non fece in tempo a muovere un muscolo o a formulare un pensiero che l’uomo le puntò l’arma contro.
Due mani sorsero da dietro, afferrarono la canna, strappando con violenza l’arma dalle mani del suo proprietario, il fucile roteò nell’aria prima che un’ombra apparisse alle spalle del soldato, avvolgendo le lunghe braccia attorno al suo collo; una mano si posò sulla sommità del cranio, l’altra lo strinse alla base del collo, poi, con un gesto secco, tirò.
Il soldato stramazzò in terra senza un lamento.
Ashley rimase immobile, gli occhi fissi sulla figura che si stagliava in controluce, esile e sinuosa; nel tremulo bagliore delle luci artificiali intravide un profilo aggraziato, ma alieno. Era un Drell, con la pelle verde, una sottile cresta che scendeva ai lati del cranio e gli occhi neri, quegli stessi occhi che aveva incrociato al suo arrivo.
Thane Krios raccolse il fucile e glielo lanciò, senza dire una parola.
Ashley lo afferrò al volo e prese posto su un lato della porta, mentre il Drell si posizionava di fronte a lei.
Dal corridoio giunsero voci ovattate - Quanti ne vedi?- gli domandò senza perdere tempo in formalità.
- Cinque davanti alla sala operatoria e uno vicino al distributore di bevande.-
Ash annuì, concentrata – Ce ne sono altri due davanti alla porta del reparto e uno sta uscendo adesso dal laboratorio.-
- Quante munizioni hai?- domandò Krios senza perdere di vista i soldati nemici.
Ashley controllò rapidamente il fucile – Un caricatore intero.-
- Io ho tre colpi.- replicò Krios, alzando impercettibilmente la pistola.
- Vedi dei civili?-
- Solo cadaveri.- l’espressione del Drell rimase impassibile, ma il gelo nella sua voce le fece venire i brividi.
- Bene.- tolse la sicura al fucile – Nessuna pietà.-
Si slanciarono fuori insieme, muovendosi all’unisono, rapidi e letali.
Ash puntò dritta verso il gruppo più numeroso e, prima che anche uno potesse reagire, aprì il fuoco. La raffica ravvicinata frantumò le armature e i proiettili dilaniarono tutto quello che c’era sotto.
Quando fu certa che nessuno si sarebbe rialzato si voltò, per aiutare il Drell, ma scoprì che non era necessario; erano soli, in mezzo ai cadaveri.
Mentre Krios raccoglieva le munizioni, Ashley esaminò gli uomini che aveva abbattuto e non la sorprese scoprire che si trattava di soldati di Cerberus.
Chi altro avrebbe potuto attaccare un ospedale, trucidando medici e pazienti?
Ashley sentì il sapore della bile sulle labbra mentre davanti ai suoi occhi sfilavano immagini che l’avrebbero tormentata per il resto della sua vita.
La manovra di Cerberus era stata così perfetta che quasi nessuno, umano o alieno, era riuscito a fuggire. Dopo aver trucidato chiunque si trovasse nei corridoi erano entrati nelle camere, sfondando le porte, massacrando i malati che dormivano nei loro letti, sgozzando le infermiere e i medici.
Il sangue di umani e alieni si mescolava l’un l’altro, sgocciolando dai letti intrisi di sangue, avvolgendosi attorno ai cadaveri riversi in terra, gli arti scomposti, i volti sfigurati.
- È stato compiuto un massacro e nemmeno me ne sono accorta.- sibilò, disgustata da se stessa e dall’orrore che la circondava.
La porta del reparto scivolò di lato svelando un soldato di Cerberus che, superata la sorpresa, puntò la pistola su Krios e aprì il fuoco, tanto rapido da non lasciarle il tempo di reagire.
Il Drell ruotò di lato e, prima ancora che il proiettile si conficcasse nel muro alle sue spalle, alzò la pistola, abbattendo il soldato con un singolo colpo alla testa.
Ashley fissò il Drell con occhi sgranati – Accidenti che riflessi.- commentò, senza riuscire a nascondere l’ammirazione.
Krios le fece cenno di alzarsi – Muoviamoci, presto ne arriveranno altri.- chinò leggermente il capo di lato e aggiunse, con gentilezza – Non biasimare te stessa. Il loro attacco è stato fulmineo, impossibile da prevedere. Le camere sono insonorizzate, per questo non hai sentito niente, come tutti gli altri.-
Ashley lo ringraziò con un leggero cenno del capo, non aveva bisogno di chiedergli come lui fosse riuscito a sfuggire a Cerberus; all’improvviso tutto quello che Shepard le aveva raccontato sul Drell le parve plausibile.
Raccolse il fucile e lo raggiunse – Non capisco … perché hanno attaccato l’ospedale? Perché l’SSC non è ancora arrivata?-
Krios si strinse nelle spalle - Dubito che abbiano attaccato solo l’ospedale: Cerberus sta cercando d’impossessarsi della Cittadella.-
Aveva senso. Fin troppo senso. Senza la Cittadella la galassia sarebbe stata vulnerabile come non mai. Cerberus aveva puntato dritto al vertice, nella speranza che, eliminati i leader della galassia, qualsiasi resistenza crollasse. - I Consiglieri!- esclamò – Cerberus tenterà di assassinarli.-
- Probabile.- concordò Krios – Senza una guida la galassia sprofonderà nel caos e se la Cittadella cade …- lasciò la frase in sospeso, non c’era bisogno di aggiungere altro.
In una galassia in fiamme la Cittadella era l’ultimo porto sicuro. Ogni giorno arrivavano centinaia, migliaia, di rifugiati in fuga dai Razziatori … rabbrividì, senza osare immaginare cosa stava accadendo loro.
Il destino era crudele: quelle persone erano sfuggite ai Razziatori solo per finire nelle fauci di Cerberus.
- Perché hai perso tempo ad aiutarmi?- domandò, seguendo il Drell nell’ascensore.
Le porte si chiusero e una musichetta rilassante riempì la cabina, trasformando in grottesca quella che era una situazione drammatica.
Krios fissò il soffitto con aria accigliata, turbato quanto lei da quel sottofondo musicale a dir poco inquietante – Ho promesso a Shepard che ti avrei protetto.-
Ashley tamburellò le dita sul fucile, a disagio – Perché?-
Il Drell le rivolse un pallido sorriso – Shepard ha fatto molto per me, più di chiunque altro. Vegliare sulla persona che ama mi sembrava giusto oltre che doveroso.-
- Oh …- Ashley abbassò lo sguardo, sentendosi arrossire. Le sarebbe piaciuto credere a quelle parole, ma non era sicura di meritare una seconda occasione.
L’ascensore rallentò la sua corsa, Ashley si riscosse e imbracciò il fucile, puntandolo verso le porte – Immagino che tu mi abbia salvato la vita. - sussurrò – Ti ringrazio.-
Le porte si spalancarono ed entrambi scattarono fuori, testa bassa e armi spianate. Non c’era nessuno.
In lontananza si udivano rumori di lotta, spari, grida, esplosioni: la Cittadella era sotto assedio.
Ashley ricordò l’ultima volta che l’aveva vista in quello stato, durante l’attacco di Saren e della Sovereign. All’epoca avevano creduto di vincere la guerra, non sapevano che era appena iniziata.
- Devo trovare il Consiglio.- annunciò.
- Non li troverai senza l’aiuto dell’SSC.- replicò il Drell.
Ash scosse il capo – Per quel che ne sappiamo possono essere tutti morti. Il Consiglio è la mia priorità. So dove cercarli.-
Udina aveva fatto installare costosissimi congegni di sicurezza nel suo ufficio, lo aveva sentito vantarsi più volte che l’accesso era a prova di Geth. Tutte stronzate, ovviamente, come la maggior parte delle affermazioni di Udina. Non esistevano congegni elettronici che potevano resistere ad un’IA e Ash sapeva per esperienza che l’Uomo Misterioso amava circondarsi di Intelligenze Artificiali. Ma conosceva abbastanza bene Udina da sapere che, anche in un momento drammatico come quello, avrebbe fatto sfoggio di tutta la sua arroganza, convincendo gli altri Consiglieri che il suo ufficio era il luogo più sicuro della Cittadella.
- Io andrò all’SSC.- annunciò il Drell – Bisogna riorganizzare le difese e mandare un SOS. Cercherò di contattare le flotte del Consiglio, o la Normandy.-
Ashley annuì, era un buon piano, anche se non le piaceva l’idea di separasi dal Drell, era un ottimo combattente e sicuramente le sarebbe stato utile.
Gli tese la mano – Buona fortuna, Krios.-
Il Drell la strinse con vigore – Pregherò Amonkira affinché guidi i tuoi passi.-
Le rivolse un breve cenno del capo e sparì, confondendosi nell’ombra degli edifici.
Ecco qualcuno che non vorrei come nemico.
Di nuovo sola controllò nervosamente il fucile, continuando a ripetersi che era stata in situazione ben peggiori: su Eden Prime ad esempio, o su Virmire.
Entrambe le volte, però, Shepard era arrivato a salvarla. Inaspettatamente, questa volta, si ritrovò a pregare che non arrivasse: voleva essere lei, una volta tanto, l’eroina della situazione.
Accese il factotum, controllando le planimetrie: si trovava all’ingresso dell’ospedale, per raggiungere le ambasciate non doveva fare altro che attraversare il Presidium e raggiungere l’ascensore che partiva dalla zona commerciale.
Impugnò saldamente il fucile e corse allo scoperto; si fermò quasi subito, confusa, per un attimo le sembrò di essersi sbagliata: quello non era il Presidium.
Dov’erano le aiuole colorate, traboccanti di fiori? O i negozi pieni di luci e colori? Dov’era la folla di persone che, ridendo e chiacchierando, osservava le vetrine per poi sedersi al tavolino di un bar per bere o mangiare qualcosa?
Oltre il fumo acre che si levava dalle aiuole bruciate, intravide i crateri scavati dalle bombe, le vetrine in frantumi, i tavolini e le sedie spezzati e contorti; il tutto sovrastato dal puzzo della carne carbonizzata mescolato all’odore pungente degli esplosivi.
Da qualche parte, davanti a lei, si levò un lungo, straziante lamento; Ashley si guardò intorno, pietrificata, cercando la fonte di quel pianto disperato che le faceva drizzare i capelli; ma ovunque guardasse non vedeva altro che fumo e cadaveri e macerie …
E poi la scorse: una ragazzina Asari, dimostrava dieci anni o poco più, inginocchiata in terra, e stringeva al petto qualcosa.
– Papà, papà!-
Ashley si avvicinò circospetta, non avrebbe dovuto fermarsi, perdere tempo … ma come si poteva pensare di perdere tempo ad aiutare una bambina in lacrime in mezza a tutta quella devastazione?
Quando fu abbastanza vicina si rese conto che la cosa che stringeva era il capo reclinato di un Turian crivellato di colpi. Giaceva in terra, gli arti scomposti, immerso in una pozza blu che diventava sempre più ampia, il capo stretto contro il petto di una bambina in singhiozzi.
Ashley deglutì, inghiottendo le lacrime che le avevano appannato la vista – Non puoi rimanere qui.- sussurrò.
La bambina sobbalzò, strinse più forte il padre e si voltò. La sorpresa si tramutò in paura e la paura in odio. Un odio così violento, così sbagliato su quel volto da bambina, da farle fare una passo indietro.
- Stai lontana da me, umana!- sibilò la bambina, lasciando il fianco del padre e indietreggiando rapidamente.
“Umana”; non aveva mai sentito così tanto odio in una sola parola e, per la prima volta, si vergognò di esserlo. Non erano stati i Razziatori ad attaccare la Cittadella, non i Batarian o i Krogan, nemmeno i Racni: erano stati gli Umani.
- Non voglio farti del male.- mormorò, allungando una mano tremante.
La bambina scosse il capo, disgustata, e corse via.
Quello che accadde dopo non riuscì ad impedirlo. Dal fumo uscirono uomini in armatura, corazze bianche e gialle, armi in pugni, volti nascosti dai caschi. La piccola Asari finì dritta in mezzo a loro e, prima che Ash potesse anche solo rendersi conto di quello che stava succedendo, un soldato alzò la pistola e premette il grilletto. Freddo, duro, senz’anima: un’esecuzione perfetta.
Ashley si rifugiò dietro un muretto, infilandosi un pugno in bocca per impedirsi di urlare, mentre il terrore, gelido terrore, le paralizzava le membra, impedendole di muoversi, persino di respirare.
Non era più un soldato o uno Spettro, forse non lo era mai stata, era solo una ragazza catapultata dentro un incubo dal quale non sembrava esserci risveglio. Che stupida era stata a voler fare la guerra, a credere in un umanità che non esisteva e forse non era mai esistita. Sciocca ragazzina, convinta che dipingere la Gioconda, e scrivere l’Otello, e costruire la Tour Eiffel, e progettare navette spaziali, e raggiungere la luna, rendesse gli uomini superiori alle bestie.
Non osò immaginare cosa stesse facendo Cerberus per le vie della Cittadella, nelle case, nelle scuole …
I passi si avvicinavano, prudenti, e lei se ne stava lì, rannicchiata dietro a un muretto, tremante come una bambina, le guance fradice di lacrime, il petto in affanno, il fucile abbandonato nelle mani inermi. Eppure una parte di lei le urlava di alzarsi e combattere, di uccidere quegli uomini e liberare la galassia dalla loro crudeltà. Non aveva potuto salvare quella bambina Asari, ma poteva salvarne dieci, venti, cento altre se solo avesse ritrovato il coraggio di fare il proprio dovere; ma era proprio quello il punto: il coraggio l’aveva perduto.
Risentì la voce di suo padre, perentoria, nelle orecchie:
“Lascia che la paura t’invada, lascia che ti travolga, ma concedile solo cinque secondi. Non uno di più.”
Ashley appoggiò la testa contro il muretto, stringendosi il fucile al petto.
Chiuse gli occhi, mentre i passi si facevano sempre più vicini.
Uno.
L’odio sul viso della bambina, il corpo dilaniato del padre, la consapevolezza di essere responsabile … e la certezza di non essere all’altezza, di non poter salvare nessuno, di certo non quella bambina.
Due.
Come su Eden Prime quando la sua squadra era stata trucidata, quando aveva perso tutti salvando solo se stessa.
Tre.
E Virmire dove un amico era morto per lei, dove non aveva avuto il coraggio di dire “È compito mio.”
Quattro.
Horizon e i coloni rapiti. Horizon e i Collettori. Horizon e Shepard.
Cinque.
Ashley aprì gli occhi, percependo distintamente ogni respiro, il tintinnio delle corazze, il gelido metallo sotto le sue dita; il fucile guizzò nelle sue mani, fece scorrere il carrello espellendo la clip termica surriscaldata, si alzò, sporgendosi oltre il muretto, prese accuratamente la mira: uno, due, tre, quattro, cinque … esplose cinque colpi, per cinque soldati. Andarono tutti a segno.
Rimase in piedi, da sola in mezzo a quella desolazione, attraversò il campo di battaglia a grandi passi, si chinò sul corpo scomposto della bambina, la raccolse, chiedendole disperatamente perdono. Perdono per quella sua razza che non portava altro che morte.
Raggiunse il corpo inanimato del Turian e la depose al suo fianco, lì dove era il suo posto.
- Mi dispiace.- mormorò, prima di allontanarsi per raggiungere l’ascensore.

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Quando fu alle ambasciate scoprì che le sue previsioni si erano rivelate corrette, Udina si era barricato nel suo ufficio e, dopo aver aggirato le difese sfruttando il suo nuovo grado di Spettro, scoprì che con lui c’erano anche i Consiglieri Turian e Asari. Del Salarian nessuna traccia.
- Williams, come ha fatto ad entrare? Cosa sta succedendo?- sbottò Udina, pallido come un cencio.
Ashley si affrettò a chiudersi la porta alle spalle – Sono uno Spettro, Udina, l’ha dimenticato? Il suo ufficio non è poi così impenetrabile se basta uno Spettro per aprire le porte.- sibilò, caustica.
Udina divenne paonazzo – Siete i nostri agenti scelti! Di chi altro dovrei fidarmi?-
Ash armeggiò col factotum, introducendosi nel sistema di sorveglianza – Di nessuno, per esempio. O ha forse dimenticato Saren? È fortunato che l’Uomo Misterioso non abbia trovato modo o tempo di corrompere uno di noi.-
Il Turian e l’Asari si scambiarono un’occhiata preoccupata mentre Udina scattava verso di lei come una molla – L’Uomo Misterioso? C’è lui dietro questo attacco?-
Aveva sempre pensato che Udina fosse un idiota, ma non così grande – No, stavo giusto facendo un esempio. Certo che si tratta di Cerberus, imbecille!- voltò le spalle ad un indignatissimo Udina e si rivolse al resto del Consiglio – Dov’è il Consigliere Salarian?-
Sparatus allargò le braccia – Se non erro doveva incontrarsi con l’Esecutore, ma non abbiamo nessuna notizia.-
Ashley si passò una mano sulla fronte – Dovrà cavarsela da solo. Dobbiamo raggiungere un punto di evacuazione, il più vicino è quello sul tetto del Presidium. Se prendiamo uno degli ascensori dovremmo arrivarci in pochi minuti, poi prenderemo la navetta e cercheremo di raggiungere ciò che resta della flotta.- i Consiglieri la guardavano come allievi in attesa di istruzioni, suo malgrado non poté non sentirsi compiaciuta – Domande?-
- Io credo che dovremmo restare qui, in attesa dei rinforzi!- sbottò Udina, armeggiando col factotum, probabilmente nel vano tentativo di contattare l’SSC – Non possiamo certo buttarci in mezzo alle sparatorie!-
- Sono io i rinforzi!- si trattenne dal chiamarlo imbecille un’altra volta, era pur sempre l’umano più potente della galassia – Questo ufficio è un colabrodo, mi stupisce che Cerberus non sia già arrivato. Muoviamoci.-
Si avvicinò alla porta e, dopo aver studiato attentamente le immagini delle telecamere, l’aprì.
- Via libera.- annunciò, dopo aver ispezionato il corridoio deserto – Seguitemi.-
Il Turian e l’Asari le furono subito dietro e, dopo una lieve esitazione, anche Udina si decise a seguirli; stavano attraversando l’atrio quando due drappelli armati si riversarono fuori dall’ascensore.
- State giù!- urlò, spingendo la Consigliera Asari dietro un bancone mentre le pallottole s’impiantavano nel muro alle loro spalle. Con la coda dell’occhio scorse Sparatus e Udina acquattati poco lontano, incolumi.
I secondi che seguirono furono di caos assoluto, con Ashley costretta a difendere la posizione dall’assalto violento dei soldati di Cerberus, in netta superiorità numerica.
Riuscì ad abbatterne una decina prima che le munizioni finissero, ne rimanevano altrettanti.
- Williams!- urlò l’Asari, terrorizzata, indicando la granata che era appena atterrata ai suoi piedi. D’istinto Ashley la raccolse, rispedendola al mittente.
Fece una piccola strage.
Ma erano ancora in quattro e lei era a secco.
Si guardò intorno e scorse una pistola a pochi metri da lei, completamente allo scoperto, ma doveva rischiare.
Affidandosi unicamente alla protezione dei suoi scudi scattò verso l’arma, sentendo un familiare brivido lungo la schiena quando gli scudi assorbirono i colpi che altrimenti l’avrebbero uccisa. Agguantò la pistola e si tuffò dietro un pannello pubblicitario.
Controllò la potenza residua dei suoi scudi: meno del 15%. Non poteva più affidarsi a loro. I prossimi proiettili avrebbero penetrato direttamente la carne.
Si sporse di scatto premendo il grilletto con foga e riuscì ad abbattere tre soldati. Ne rimaneva solo uno, ed era scomparso.
Nella calma irreale che scese sull’atrio, Ashley girò su se stessa, talmente tesa da dimenticarsi di respirare.
Con la coda dell’occhio vide Sparatus fare capolino da dietro il riparo ma, con un gesto perentorio, gli intimò di restare al coperto: non era ancora finita.
Poi, all’improvviso, scorse un lieve incrinatura nell’aria a pochi metri da lei, un’onda che non avrebbe dovuto esserci; senza riflettere si gettò a terra, sparando contro l’aria. Sentì qualcosa di affilato morderle il fianco, e al suo gemito se ne sovrappose un altro quando i colpi andarono a segno. Tremolando il soldato di Cerberus fece la sua ricomparsa.
Era una biotica, agile e scattante, con una lunga lama in pugno. Riuscì ad evitare il suo affondo ma non il lancio biotico che la colpì in pieno petto, scaraventandola contro la vetrata. Ashley si rialzò con un gemito roco, facendo fuoco ripetutamente, mentre la biotica si slanciava verso di lei, respingendo i proiettili con gli scudi.
Per un attimo le parve di rivivere Marte, quando il robot di Cerberus si era buttato su di lei, insensibile ai proiettili.
La lama calò, ma riuscì a deviare il colpo parandolo con la pistola. Si aggrappò al braccio della donna, impedendole di usare i suoi poteri: un’esplosione biotica avrebbe colpito entrambe.
Tentò di alzare la pistola, ma l’altra le colpì il braccio con durezza, deviando il colpo; ben presto si ritrovarono ingaggiate in un vero e proprio corpo a corpo, dove ognuna tentava di sopraffare l’altra, con i pugni o le armi, senza riuscirci.
Per due volte Ash fece fuoco con la pistola, entrambe le volte colpì solo l’aria, infine, quando la biotica tentò di scansarla per poter usare i suoi poteri, intravide un varco nella difesa della donna, le premette la pistola sulla visiera e tirò il grilletto.
Nulla, non accadde nulla: la pistola era scarica.
Ruggendo di rabbia, scaraventò l’arma ormai inutile in faccia alla donna, si aggrappò al suo braccio, e, dopo una lotta serrata, riuscì a strapparle la spada; ruotò su se stessa, falciando in orizzontale, la lama lampeggiò nella luce intermittente dei neon. Infine venne il sangue: eruttò dalla gola della biotica, schizzandola in viso, Ashley si ritrasse mentre la donna crollava sul pavimento, le gambe scosse dagli ultimi spasmi.
Ashley gettò l’arma in terra, reprimendo un conato: aveva ucciso molte volte ma mai … mai con così tanta foga.
Si asciugò il sangue dal viso con gesti frenetici, spasmodici, mentre i Consiglieri uscivano dai loro nascondigli, visibilmente turbati.
Gli occhi di Udina erano fissi sulla donna riversa in terra, in una pozza di sangue, sembrava terrorizzato. Ashley immaginò che non l’avesse creduta capace di tanto.
- Andiamo.- ordinò, indicando l’ascensore.
Questa volta nessuno osò contraddirla.
Agguantò una pistola e seguì i Consiglieri dentro al cubicolo, pregando di non dover uccidere nessun altro. Non in quel modo.
Quando l’ascensore si mosse vide Udina trafficare con il factotum – Che cosa sta facendo?-
- Cerco di contattare Bailey!- sbottò Udina, furente – Cosa diavolo stanno facendo quelli dell’SSC? Li farò licenziare tutti.-
- Magari sono morti.- constatò, con voce piatta. – Spenga quel dannato factotum, Cerberus potrebbe rintracciarci.-
Udina sbuffò ma obbedì.
C’era qualcosa di strano nel suo comportamento …
Un rumore sordo sopra di loro la distrasse: qualcuno era appena saltato sull’ascensore.
- Tiratori!- urlò, sparando alla cieca verso il soffitto.
L’ascensore si fermò con uno scossone e subito le porte si spalancarono – Fuori di qui!- urlò spingendo i Consiglieri all’esterno.
Si richiuse la porta alle spalle e corse verso la navetta ma subito si bloccò: la loro via di fuga era in fiamme.
E adesso che faccio?
Era completamente a corto di idee – Torniamo all’ascensore, presto!-
Ma quando si voltò scoprì che c’era qualcuno a sbarrarle la strada: Shepard.
S’immobilizzò, completamente frastornata.
Udina le fu subito alle spalle insinuando, con voce melliflua, che Shepard fosse dalla parte di Cerberus.
Perché, altrimenti, avrebbe bloccato loro la fuga?
E, contro ogni logica, gli credette.
L’adrenalina, la paura, la rabbia, la disperazione, che non avevano fatto altro che accumularsi in quelle spasmodiche ore, la spinsero ad puntare la pistola contro l’unico uomo che aveva mai amato. E lui fece lo stesso.
- Shepard, cosa sta succedendo?- urlò, la voce incrinata dal panico.
Ecco, stava accadendo di nuovo, solo che adesso non aveva cinque secondi da regalare alla paura.
S’impose di stare calma, d’ignorare Garrus e James al fianco di Shepard, di rimanere concentrata su di lui, cercando di decifrare la sua espressione, quel viso duro che le era familiare ed estraneo allo stesso tempo.
- Andiamo, Ash, dovresti conoscermi.-
Davvero? Non conosceva più nemmeno se stessa, come poteva conoscere lui?
- Conoscevo Shepard, è vero, ma prima di Cerberus. Adesso non so con chi ho a che fare.-
Si tornava sempre lì, al punto di partenza: Cerberus. Prima su Horizon, poi su Marte e adesso sulla Cittadella, Cerberus si ergeva come un muro tra di loro.
Cerberus che, oggi come allora, li portava a scontrarsi con violenza sempre maggiore.
Shepard abbassò la pistola, cogliendola di sorpresa – Non c’è tempo per trattare, siete stati tutti ingannati. C’è Udina dietro questo attacco.-
Il mondo attorno a lei sembrò distorcersi e, mentre le voci di Udina, Shepard e degli altri Consiglieri rimbombavano lontane, ovattate e incomprensibili, lei non riusciva a vedere altro che gli occhi sbarrati di una bambina morta odiando l’umanità.
Shepard o Udina? Chi dei due era responsabile di quell’atroce massacro?
La voce melliflua di Udina le giunse chiara alle orecchie - … ora disattivo la serratura.-
In quel momento ebbe la sua risposta.
- Sento che me ne pentirò.- sussurrò, ma, in cuor suo, sapeva che non sarebbe successo. Non avrebbe preso quella decisione, altrimenti.
Si voltò, dando le spalle a Shepard e puntò l’arma su Udina.
- Via da quel terminale.- intimò.
Udina la ignorò e quando la Consigliera Asari tentò di fermarlo la gettò in terra, estraendo una pistola.
Sulle labbra risentì il sapore del sangue dell’agente di Cerberus, la rivide contorcersi in terra cercando di fermare l’emorragia … il suo dito esitò sul grilletto mentre l’idea di compiere un altro assassinio la paralizzava; fu solo un istante, un battito di ciglia, la paura passò, la mano smise di tremare e sparò.
Udina crollò in terra senza un lamento, colpito dritto al cuore, Ashley si avvicinò lentamente, fissando quell’uomo che l’aveva trasformata in assassina.
Non soldato, non Spettro, semplice macellaia. Forse lo era sempre stata, forse non c’era mai stata alcuna differenza, ma sapeva che adesso, dopo quel giorno, guardarsi allo specchio sarebbe stato incredibilmente difficile, quasi impossibile.
I singhiozzi di una bambina Asari avrebbero tormentato le sue notti per sempre e i gorgoglii di una biotica umana l’avrebbero perseguitata fino alla fine dei suoi giorni - Figlio di puttana.- sibilò, fissando con odio quell’uomo a cui aveva dato la sua fedeltà.
Sentì qualcosa sfiorare la sua mano e, quando alzò lo sguardo, vide Shepard accanto a lei, che la guardava con occhi tristi, come se conoscesse perfettamente il vuoto che le si era creato dentro.
Avevano riposto entrambi la loro fiducia in uomini sbagliati e, per colpa loro, avevano rischiato di uccidere la persona sbagliata.
Ashley sospirò, distogliendo lo sguardo: aveva fatto la scelta giusta eppure, neanche questa volta, riusciva ad esserne fiera.

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Capitolo 11
*** Oltre le rive ***


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Cittadella, 2186

 
Tossì e gli sembrò di non aver fatto altro da quando era nato; sentì una fitta al fianco, dove la lama era penetrata lacerando cuoio, carne, organi.
Non aveva bisogno di rivivere quei momenti per sapere che cosa era successo, qual era stato il suo errore … era proprio questo il punto, non c’era stato alcun errore.
Aveva visto la lama corrergli incontro, negli occhi dell’assassino di Cerberus aveva letto la sua fine, ma non aveva fatto nulla per evitarla.
Forse non avrebbe potuto cambiare le cose, anche se ci avesse provato la spada lo avrebbe colpito lo stesso, ma la verità era che non aveva nemmeno tentato di salvarsi la vita per il semplice fatto che, di vivere, non ne aveva più voglia.
La sindrome di Kepral conduceva a una morte lenta, dolorosa, una morte priva di dignità.
Conviveva con morte e dolore da tutta la vita e non ne era spaventato, ma l’idea di morire inchiodato su un letto, tossendo e sbavando, con una maschera d’ossigeno sul viso e una flebo nel braccio, lo atterriva.
Così aveva scelto una morte gloriosa, in battaglia, una morte da eroe.
Ma il destino era stato beffardo e, alla fine, si ritrovava inchiodato in un letto, tossendo e sbavando, con una maschera d’ossigeno sul viso e una flebo nel braccio.
I medici avevano insistito per fargli una trasfusione; avrebbe voluto urlare, se solo gli fosse rimasto un po’ di fiato nei polmoni, scrollarli e chiedergli “perché”? Perché tenerlo in vita per altre due ore a sbavare e pisciarsi addosso?
Aveva accettato la morte molto tempo prima, ma quell’agonia, quell’inutile protrarsi della sua vita lo disgustavano; era la sua paura più grande che diventava realtà.
Quando Kolyat era arrivato, sedendosi con aria afflitta accanto al suo letto, gli aveva chiesto, con la poca voce che gli rimaneva, di togliergli la maschera: dignità era l’unica cosa che chiedeva. Non sangue, non ossigeno, nemmeno un anestetico per calmare il dolore, solo dignità.
E Kolyat aveva capito. Gli aveva tolto la maschera con delicatezza e, anche quando la tosse aveva cominciato a scuotere il suo corpo stanco, non aveva tentato di rimettergliela.
E mentre aspettavano, insieme, una morte che tardava ad arrivare, Thane aveva scorto una singola lacrima brillare negli occhi neri di suo figlio.
Quell’unica lacrima lo commosse e lo addolorò; aveva ritrovato l’amore di suo figlio ma stava per abbandonarlo di nuovo e, questa volta, non ci sarebbe stato alcun ritorno.
- Non piangere, Kolyat.- sussurrò, quando la tosse si placò donandogli un attimo di tregua – Sto andando oltre le rive. E quando, tra molti, molti anni, oltrepasserai il mare a tua volta, sarò là. Io sarò sempre là, ad aspettarti.-
Kolyat allungò una mano tremante e strinse la sua – Lo so.-
Thane si concesse un flebile sorriso e reclinò il capo di lato. Si domandò se, oltre le rive, ci fosse qualcuno ad aspettare lui. Sperava che Irikah fosse là ad attenderlo, sperava di potersi fermare di fronte a lei, stringerle le mani, perdersi nei suoi occhi dai colori del tramonto e chiederle scusa.
Scusa per averla abbandonata, per non aver trascorso abbastanza tempo al suo fianco, per aver creduto che avessero tutta la vita davanti, per non essersi accorto che il tempo a loro disposizione era finito. Lei era morta e lui non c’era, forse non c’era mai stato.
Sto venendo da te, Siha, senza rumore … sto venendo da te e rimarrò al tuo fianco, per sempre.
Distrattamente, sentì qualcuno entrare nella stanza, accolto dalla voce afflitta di Kolyat; immaginò fosse un medico o un’ infermiera, avrebbe voluto alzarsi e dir loro di andarsene, perché quello non era il loro posto … poi riconobbe quella voce: era la voce che l’aveva risvegliato dal sonno dell’odio, quella voce che aveva dato un senso agli ultimi mesi della sua vita, permettendogli non solo di ritrovare suo figlio ma anche se stesso.
Voltò il capo, per incontrare quegli occhi azzurri che gli avevano dato tutto chiedendogli in cambio solo lealtà; e lui gliel’aveva donata senza riserve, assieme alla sua anima, al suo cuore, e ora, guardandosi indietro, poteva essere fiero di se stesso, fiero di aver dato tutto per la causa di un uomo giusto – Temo che non potrò più unirmi a te, comandante.- disse, con voce flebile.
Shepard sorrise, un sorriso che gli fece male, un sorriso che non riusciva a nascondere un dolore profondo, insanabile. Ma, accanto al dispiacere, sentì un calore nuovo, sconosciuto, invadergli il petto: la felicità per un’amicizia così vera e profonda da colmare quel vuoto che si portava dentro da troppo tempo.
- Hai fatto anche troppo, Thane.-
Avrebbe voluto dirgli che si sbagliava, che era ancora in debito, che nemmeno la morte avrebbe potuto ripagare ciò che Shepard aveva fatto per lui; ma non trovò le parole, sapeva che nulla di quello che avrebbe potuto dire sarebbe riuscito a spiegare la profonda gratitudine che sentiva nel cuore. Così si limitò a sbeffeggiare quell’assassino che aveva ucciso nient’altro che un uomo già morto; un assassino che uccideva per i motivi sbagliati, per rendere la galassia un posto peggiore.
- C’è una cosa che dovrei fare prima che peggiori.- aggiunse, rendendosi conto che il suo tempo stava ormai per finire e provò all’improvviso paura per quella morte che, adesso, gli sembrava giungere troppo presto.
Ancora un istante! la implorò. C’era un’ultima cosa da fare, la più importante di tutte.
La morte sembrò deriderlo mentre la tosse lo scuoteva tutto, togliendogli la voce, il fiato, le parole.
- Kahlaira custode degli abissi imperscrutabili.- esalò, sfidandola – Chiedo il tuo perdono. Kahlaira, con le tue onde capaci di erodere la roccia …- la tosse lo interruppe nuovamente, impedendogli di continuare, impedendogli di pregare per quell’uomo che rispettava più di se stesso.
- Kalahira …- la voce di Kolyat sovrastò i suoi colpi di tosse, continuando quella preghiera che lui non riusciva a finire - … perdona questo umile peccatore e consentigli di calcare la remota spiaggia dello spirito infinito.-
Fu fiero di quel figlio che non aveva cresciuto lui, quel figlio che non conosceva ma che, nonostante tutto, era parte di lui.
- Kalahira, il suo è un cuore puro, ma assediato da forze maligne e corrotte …-
Kolyat tacque e al suo posto continuò Shepard, ignaro di pregare per la propria salvezza.
Thane reclinò il capo di lato, abbandonandosi a quella voce profonda come gli abissi marini, una voce che l’avrebbe accompagnato oltre le rive, proteggendolo e vegliando su di lui come aveva sempre fatto.
- Indica la via verso il luogo in cui i viaggiatori non si stancano, gli amanti non si lasciano e gli affamati non patiscono. Guidalo Kalahira e lui sarà al tuo fianco come è sempre stato al mio …-
I suoni lentamente sfumarono, i pensieri si fecero confusi, passato e presente si unirono in un’unica cacofonia di suoni, odori, immagini … qualcosa gli sfiorò il viso, delicato come una brezza leggera, e mentre il mondo attorno a sé svaniva, sentì l’odore del mare, lo sciabordio delle onde, la sabbia calda sotto piedi e, ad aspettarlo sulla riva del mare, c’erano occhi dei colori del tramonto.
Era finalmente a casa.
 
 
 
Note
 
Personalmente trovo molto complicato scrivere di Thane, è un personaggio talmente profondo, talmente mistico che, quando scrivo di lui, mi sembra quasi di profanare un’opera d’arte. Ed è così che mi sento alla fine di questo capitolo estremamente sofferto: una profanatrice. Ma ignorare la sua morte sarebbe stata una colpa ancora maggiore.
Anche se questo capitolo è lungi dall’essere, non dico perfetto, ma anche solo soddisfacente, vorrei comunque dedicarlo ad andromedahawke che, con le sue splendide storie, ha saputo farmi amare questo personaggio ancora più di quanto non abbia fatto la Bioware.
 
Grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui.

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Capitolo 12
*** Il momento sbagliato ***


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Cittadella, 2186

 
C’era un momento, un breve momento tra un turno e l’altro, in cui la Normandy era silenziosa e deserta, persino IDA, che vigilava sui suoi compagni addormentati, era taciturna e schiva.
Shepard amava passeggiare per i ponti della sua nave in quel breve istante di solitudine, sentendosi come un viaggiatore solitario alla ricerca dei segreti del mondo.
In quei dieci minuti che decretavano la fine di un giorno terrestre e l’inizio di uno nuovo, Shepard interrompeva qualunque cosa stesse facendo, a prescindere dalla sua importanza, e esplorava la sua nave come se la vedesse per la prima volta.
Per dieci minuti non aveva altra preoccupazione che mettere un piede dietro l’altro.
Ma quel giorno, per motivi che nemmeno lui conosceva, decise di non adempiere a questo suo rituale. I suoi passi lo guidarono davanti alle porte dell’osservatorio, con una bottiglia di vodka in mano.
Nemmeno lui sapeva cosa aspettarsi da quella visita, l’unica cosa che sapeva era che aveva bisogno di entrare in quella stanza e assicurarsi che lei fosse davvero lì, dove aveva promesso sarebbe rimasta fino alla fine.
Non ci credeva fino in fondo; aveva paura di aprire la porta e scoprire che se ne era andata, di nuovo.
Appoggiò il palmo sul pulsante verde e la porta si aprì con un leggero sibilo, rivelando una stanza in penombra, illuminata solo dalla luce delle stelle.
Per un attimo il respiro gli si bloccò in gola, mentre i suoi occhi sembravano confermare i suoi peggiori timori: non c’era nessuno.
Poi, quasi indistinguibile tra le ombre, scorse una sagoma scura seduta sul divano di fronte alle stelle, immobile.
Non voleva svegliarla eppure il desiderio di vederla, di accertarsi che fosse davvero lei e non un sadico scherzo, lo spinse ad attraversare la stanza.
Fiocamente illuminato dalle stelle, scorse l’inconfondibile profilo di Ashley, il naso leggermente adunco, il mento deciso, le labbra voluttuose ... sobbalzò quando lei voltò il capo e lo fissò.
Ebbe la netta impressione che lo stesse aspettando e che l’avesse aspettato ogni notte, da quando era tornata sulla Normandy.
Si sedette al suo fianco, senza imbarazzo o disagio, come se la tensione, l’ostilità, che si frapponeva tra loro durante il giorno, all’improvviso fosse scomparsa, risucchiata da un buco nero.
Appoggiò la bottiglia sul divano, in mezzo a loro, e Ashley gli rivolse uno sguardo leggermente confuso prima di tornare ad ammirare le stelle.
Davanti a loro, in bilico tra una manciata di stelle e il vuoto, ai margini del grande ovale della galassia, ruotava, pigro e svogliato, un pianeta che da tempo immemore attendeva il ritorno dei suo figli.
Quando gli umani, sulla loro Terra, erano ancora alle prese con il vapore e il carbone, su quel pianeta, alle soglie del grande oceano nero del vuoto intergalattico, si consumava una lotta inenarrabile tra creatori e creati, tra padri e figli, padroni e schiavi. I creatori erano stati sconfitti, cacciati, esiliati e i creati, quegli esseri fatti di metallo e olio e circuiti e dati, erano diventati un popolo, un popolo con un loro mondo, una loro storia.
Ma i creatori non avevano dimenticato quel loro mondo perduto, non avevano rinunciato a riprendersi ciò che era stato loro e adesso, nell’era più cupa della galassia, si apprestavano a riprenderselo.
- Che cosa farai quando arriverai laggiù, Shepard?- mormorò Ashley infrangendo il silenzio.
Lui scrollò le spalle – Quello che devo fare, come sempre.-
- E se dovessi scegliere, Shepard? Geth o Quarian?-
Shepard s’irrigidì – Conosci la risposta.- replicò con freddezza.
Ash non si mosse né lo guardò, si limitò a fissare Rannoch con le braccia incrociate al petto – No, non la conosco. E non la conosci nemmeno tu.-
Fino a due anni prima aveva considerato i Geth come nemici, mostri da eliminare. Lo doveva a Jenkins e ai coloni impalati su Eden Prime. Ma incontrare Legion, parlare con lui, scoprire la logica Geth, lo avevano messo di fronte a una realtà che non riusciva a interpretare.
I Geth non erano malvagi, non erano meschini o crudeli, e le atrocità compiute agli ordini di Saren erano solo un virus, un malfunzionamento del sistema. Parlando con Legion si era reso conto che i Geth non erano mostri portatori di morte, ma robot avanzatissimi che agivano seguendo una logica inoppugnabile, con l’unico obiettivo di conservare se stessi. Si erano ribellati ai Quarian non per odio o desiderio di libertà, non conoscevano il significato né dell’uno né dell’altro, non provavano alcun sentimento, alcuna emozione, solo la consapevolezza di esistere e a quello non avevano voluto rinunciare.
Nel server Geth aveva visto la loro storia, la storia di un popolo che esisteva, un popolo che non aveva avuto altra colpa che essere stato creato.
La storia dei Geth lo aveva turbato, aveva provato compassione per loro e disgusto verso i Quarian che avevano giocato a fare Dio senza curarsi delle conseguenza. Ma non erano stati i discorsi di Legion o i filmati del server a far vacillare la sua dedizione alla causa Quarian.
Per quanto avanzati, evoluti, intelligenti, potessero essere, i Geth erano macchine e nient’altro: creature senz’anima, prive di sentimenti, incapaci di provare gioia, dolore, amore, passione, rabbia. Per quanto imperfetti, i Quarian erano vivi come mai i Geth avrebbero potuto essere. O, almeno, questo era quello in cui credeva fino a quella mattina, quando Legion gli aveva mostrato che si sbagliava.
I Geth avevano subito una metamorfosi, involontariamente i Razziatori avevano donato loro un’anima. Stavano diventando io invece che noi.
E, a questo punto, la guerra assumeva un significato ben diverso: i Quarian non gli stavano chiedendo di disattivare delle macchine ribelli, gli stavano chiedendo di sterminare un popolo, di compiere un genocidio.
- Tu credi che quelle lattine abbiano un’anima.- asserì Ashley guardandolo con quegli occhi che gli scavavano dentro.
- Non lo credo. Lo so. - fece una smorfia – Ma non sono qui per parlare di questo.-
- E allora perché sei qui?-
Era lì perché aveva temuto che se ne fosse andata. Era lì perché non voleva rimanere solo un’altra volta. Ma era troppo orgoglioso per dirlo ad alta voce.
Ashley gli rivolse un’occhiata eloquente, come se avesse capito tutto senza bisogno di parole. Prese la bottiglia e la stappò con un gesto secco – Conosci il “gioco del mai”?- domandò con un sorriso di sfida.
Shepard incrociò le braccia al petto – Per chi mi hai preso? Non esiste soldato che non abbia giocato a quel gioco.-
Ashley si sedette per terra, a gambe incrociate, appoggiando la bottiglia davanti a sé – Il comandante Shepard che beve e si rilassa? Scusa ma mi riesce difficile crederlo. –
Si sedette di fronte a lei – Non sono sempre stato comandante, sai? Un tempo mi divertivo anch’io. -
- Parli come un vecchio.- lo sbeffeggiò – Se sei così esperto forza: dimmi le regole.-
Shepard si strinse nelle spalle, con noncuranza – Si deve dire mai e finire la frase. Se è qualcosa che hai fatto bevi, altrimenti non bevi.-
- Mmm … sono colpita. A te l’onore, comandante.-
Shepard si appoggiò sui gomiti, mettendosi comodo – Mai fatto il bagno nell’oceano.-
Ashley sgranò gli occhi – Non ci credo!-
Shepard fece un gesto eloquente e lei bevve un sorso scuotendo il capo, incredula – Comandante, questo è grave! Non dirmi che non sai nuotare?-
- Tocca a te, Williams.-
Ashley rimise la bottiglia a posto, continuando a sghignazzare – Mai avuto paura del buio.-
Shepard esitò un attimo, poi prese la bottiglia e se la portò alle labbra – Non ero un bambino coraggioso.- confessò. Quando ebbe finito Ashley bevve a sua volta – Nemmeno io. -
Lui le sorrise – Mai rifiutato una missione.-
Nessuno dei due accennò a toccare la bottiglia.
- Ma che bravi soldatini.- commentò Ash – Tocca a me, giusto?-
Shepard annuì mentre lei si tamburellava il mento con le dita, pensierosa. I suoi occhi si illuminarono e gli rivolse un sorriso che non faceva presagire nulla di buono: – Mai stata con una prostituta.-
Shepard sostenne il suo sguardo per un istante, cercando di rimanere impassibile, ma di fronte al suo sguardo implacabile cedette e, con una smorfia imbarazzata, agguantò la bottiglia.
- Ah!- esultò Ashley – Lo sapevo! Che delusione, comandante!-
Shepard si bagnò appena le labbra – Non sono andato fino in fondo.- tentò di giustificarsi.
Ashley scosse il capo, disgustata – Scommetto che era un’Asari.-
Shepard si morse il labbro, annuendo con aria sognante – Prima licenza, finimmo dritti in un locale di spogliarelli. Io ero un pivello, un ragazzino alle prime armi: mai conosciuta una donna.- ammise, sentendo il collo arrossarsi pericolosamente – I ragazzi volevano farmi diventare un uomo. Fu il momento più imbarazzante della mia vita. - arricciò il naso: dopo tutti quegli anni il ricordo di quella serata gli faceva ancora venire i crampi allo stomaco.
Ashley iniziò a sghignazzare apertamente – Scommetto che ti macchiasti i pantaloni, comandante!-
- Tenente!- esclamò, sbalordito da tanta sfacciataggine – Ti spedisco a pulire i bagni se non la pianti!-
Ash si ricompose alla bell’e meglio, mascherando le risatine dietro finti colpi di tosse – Tocca a te.-
Lui sbuffò, lanciandole un’occhiata ammonitrice – Mai …- la sua espressione si fece seria - … desiderato una vita diversa.-
Le risatine di Ashley cessarono di colpe e sostenne il suo sguardo senza battere ciglio. Nessuno dei due si mosse.
- Mai dubitato della vittoria finale.-
Lei rimase immobile ma Shepard, dopo una breve incertezza, bevve un sorso.
- Shepard …-
Lui la zittì con un cenno brusco – Mai pensato che l’Alleanza avesse tutte le risposte.-
Ashley gli lanciò un’occhiataccia ma bevve, storcendo il naso - Mai andata a letto con una biotica ricoperta di tatuaggi.-
Shepard distolse lo sguardo e trangugiò la vodka, mentre Ash abbassava gli occhi, avvilita.
- Mai voltato le spalle alla persona che dicevo di amare.- replicò lui.
Ash sobbalzò, prima di rivolgergli uno sguardo colpevole e bere un lungo sorso; si rigirò la bottiglia tra le mani – È quasi finita.- sussurrò con voce impastata.
La vodka stava cominciando a fare il suo effetto.
Shepard si abbandonò contro il divano – Coraggio, l’ultima confessione. Scegli bene le parole.-
Ashley si umettò le labbra, appoggiò la bottiglia e gli rivolse uno sguardo indecifrabile – Mai perso il controllo.-
Lui fece uno strano sorriso e svuotò la bottiglia, tutta d‘un fiato. Ash scosse il capo e si alzò, leggermente malferma sulle gambe – Non ci credo.- mormorò, portandosi davanti all’osservatorio.
- Invece dovresti.- ribatté, rimettendosi faticosamente in piedi – Ultimamente non faccio altro.-
- Ah sì? E quando?-
Shepard le cinse la vita con le braccia, da dietro, avvicinando la bocca al suo orecchio – Adesso per esempio.-
La sentì trattenere il respiro, incredibilmente tesa; le spostò una ciocca di capelli, iniziando a baciarle il collo. Immaginò che l’avrebbe respinto o peggio, invece, inaspettatamente, lo lasciò fare.
Lentamente le slacciò la divisa, continuando a baciarla, e le si abbandonò contro il suo petto, gli occhi chiusi, le labbra socchiuse.
Di colpo la desiderò come mai l’aveva desiderata; più che un desiderio era un bisogno. Il bisogno di unire il suo corpo al suo, non per amore, ma per sentirsi vivo. Di nuovo.
Ash si aggrappò a lui con disperazione, intrappolando le sue labbra in un bacio che sapeva di cose perdute.
Non ci fu tenerezza o dolcezza in quel bacio, solo voracità. Come se la passione potesse far resuscitare quel loro amore calpestato, maltrattato, tradito; come se l’unico modo per ritrovarsi fosse cercarsi l’uno nel corpo dell’altra.
Si disfarono dei vestiti con movimenti febbrili, senza guardarsi, senza parlare, ognuno impegnato a lottare contro i propri fantasmi, le proprie colpe; se avessero potuto si sarebbero strappati anche la pelle. E ci provarono.
Le unghie di Ash affondarono nelle sue spalle, scavando solchi profondi, dolorosi, un dolore che lo faceva sentire reale. Lui le artigliò i fianchi, la schiena, baciandola in silenzio fino a farla gemere.
Crollarono in terra, avvinghiati, più simili a lottatori che ad amanti, più impegnati a farsi del male che a darsi piacere, nella vana speranza che la sofferenza della carne potesse lenire quella dell’anima.
Quando tutto finì si ritrovarono stretti l’uno all’altra, sudati e doloranti, imbarazzati e confusi. Shepard affondò il viso tra i suoi capelli, s’inebriò del suo odore, perdendosi nella sua carne. Poteva sentire il cuore di Ashley battere assieme al proprio, e si sentì vivo e completo come non lo era da molto tempo. Forse come non lo era mai stato.
Poi l’istante passò, rivide quella pistola, quella maledetta pistola, puntata contro di lui. Si sciolse dalla sua presa e rotolò di lato, di nuovo lucido.
Ashley si girò lentamente, dandogli le spalle, le gambe strette al petto. Per un istante provò l’istinto di abbracciarla, baciarla e cullarla tra le sue braccia finché non si fosse addormentata … scosse il capo e si rialzò, brusco.
Non c’era posto per la tenerezza; non su quella nave, non in quella guerra.
Si rivestì con metodo, con la stessa freddezza che sprigionava in battaglia.
Quando raggiunse la porta la voce di Ashley lo raggiunse, talmente flebile da fargli dubitare di averla davvero sentita – Non ti avrei mai sparato, Alex. –
Lui si bloccò, sentendo la bocca improvvisamente arida, la testa pesante.
Se avessi premuto il grilletto, Ash, mi avresti fatto meno male.
Non lo disse; la debolezza era un lusso che non si poteva permettere.
Solo i duri e i forti potevano sopravvivere in guerra. Solo i duri. Solo i forti.
Quando parlò la sua voce era quella del comandante - È acqua passata, tenente. Non parliamone più.-
Uscì dalla stanza senza aggiungere altro.
Nel buio dell’osservatorio, nuda sul pavimento gelido, Ash strinse più forte le gambe contro il petto, mentre una singola lacrima le scivolava lungo il viso.

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Capitolo 13
*** Keelah se'lai ***


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Rannoch, 2186 
 
Da quando era nata aveva sognato di ritornare sul pianeta natale, di percorrere quel mondo che non aveva potuto che immaginare nel corso della sua giovane vita.
L’intera sua esistenza, e quella di tutto il suo popolo, era protesa verso Rannoch. Nulla, nell’intero universo, era più prezioso e importante di quel pianeta arido e caldo e luminoso e terribilmente irraggiungibile.
Mai avrebbe pensato di essere la prima Quarian a rimettere i piedi sul pianeta natale. Tali’Zorah vas Normandy stava scrivendo la storia: avrebbe riconquistato il pianeta dei Quarian o sarebbe morta nel tentativo.
Rannoch era più bella di quanto avesse mai immaginato, era il luogo che aveva sempre cercato, ma per riprenderselo avrebbe dovuto lottare, più di quanto avesse mai fatto nell’intera sua vita e non solo contro i Geth.
Osservò la schiena di Shepard che camminava in testa, fucile spianato e aria risoluta; in apparenza sembrava deciso a ridare Rannoch ai Quarian, abbatteva un Geth dopo l’altro senza mostrare la minima emozione, il minimo dubbio, ma Tali lo conosceva troppo bene per farsi ingannare. Fino a pochi mesi prima Shepard avrebbe sterminato i Geth senza esitare, come si debella un virus o un batterio, ma incontrare Legion l’aveva cambiato; e forse aveva cambiato anche lei.
I Geth erano un popolo, una nazione, era proprio quello il punto: i Geth “erano”.
Shepard aveva risparmiato i Racni, aveva curato i Krogan e avrebbe salvato i Geth; di questo Tali non dubitava. Il suo unico interrogativo era cosa sarebbe successo ai Quarian.
Chiunque altro avrebbe assolto i peccati dei Quarian per il semplice fatto che erano organici, chiunque nella galassia, posto di fronte alla scelta tra organici e sintetici, avrebbe scelto gli organici quali fossero le loro colpe: ma per Shepard la scelta non era tanto ovvia.
I Quarian avevano creato i Geth e, incapaci di affrontare l’evoluzione di quelle macchine troppo simili ai lo creatori, avevano deciso di distruggerle, diventando così gli artefici inconsapevoli della loro stessa disfatta.
I Quarian erano responsabili della nascita e della ribellione dei Geth, se Tali non aveva mai visto prima d’ora il pianeta natele era a causa dei suoi antenati; e adesso la storia stava per ripetersi: oggi come allora l’artefice della guerra era la sua gente. Lei stessa vedeva e disprezzava le colpe del suo popolo ma era nella sua natura, nella sua indole, schierarsi dalla parte della sua gente; non solo perché ne condivideva lingua, cultura, storia, ma perché si trattava di esseri in carne ed ossa, nati dalla terra e nutriti dal sole, non di creature sintetiche fatte di fibre e metallo.
Ma, dopotutto, c’era davvero così tanta differenza tra sangue e olio? Sinapsi e circuiti? Ossa e acciaio? I Geth, forse, non erano che un’altra espressione della creazione.
A tutte queste domande Tali non aveva risposte e se anche ne avesse avute non avrebbero cambiato la sua lealtà: lei era una Quarian e il suo posto era accanto alla sua gente, quali che fossero le loro colpe.
Ma per Shepard era diverso, Quarian e Geth erano le due facce della stessa medaglia, erano granelli nell’immensa struttura dell’universo; non sarebbe stato l’amore a farlo schierare per l’una o l’altra parte, ma la ragione. E la ragione non era dalla parte dei Quarian.
Tali sapeva che se lui avesse scelto i Geth ne sarebbe morta; non solo fisicamente, sarebbe stato un dolore così straziante, un tradimento così profondo, che dubitava avrebbe trovato mai lenimento, nemmeno nell’al di là.
La sua mente, il suo cuore, il suo spirito, sarebbero stati inghiottiti da un buco nero e disintegrati.
Quando ci fu un attimo di tregua, tra una sparatoria e l’altra, Tali si avvicinò a Shepard, nervosa e impaurita da quell’uomo che non riusciva pienamente a comprendere, la cui fredda razionalità, talvolta, le metteva i brividi – Dobbiamo parlare, comandante.-
- Non mi sembra il momento.- replicò lui, senza guardarla, armeggiando col factotum per aprire le porte che li avrebbero condotti al centro della base, da dove partiva il segnale dei Razziatori.
- Ci penso io Shepard.- intervenne Ashley accendendo il suo factotum – Credo che Tali meriti la tua attenzione.-
I due umani si fissarono in silenzio per qualche istante e Tali si sentì all’improvviso un’intrusa mentre i due Spettri ingaggiavano una breve, silenziosa, battaglia. Alla fine, inaspettatamente, fu Shepard a cedere.
Scrollò le spalle e le lanciò un’occhiata penetrante – Cinque minuti, Tali. Ti conviene essere breve.-
A volte le sembrava che nel comandante abitassero due persone diverse: il passionale e generoso uomo che aveva lottato per lei davanti agli ammiragli che volevano esiliarla, e il duro ed impietoso soldato infastidito dalle paure di una piccola Quarian.
Si torse le mani, cercando le parole giuste - A un certo punto dovrai scegliere, Shepard, tra noi e loro, tra organici e sintetici, ma non so chi sceglierai. – vide l’espressione di Ashley farsi tesa e Tali sentì il cuore accelerare i battiti: non le fece piacere scoprire che i suoi dubbi su Shepard erano condivisi anche da Ash. – Voglio solo sapere, comandante, se sto lottando per salvare la mia gente o per distruggerla.-
Gli occhi di Shepard erano di ghiaccio, duri e insondabili, e tutti i dubbi che l’avevano assalita poco dopo la sua resurrezione tornarono a galla.
Non riusciva distinguere dove finiva la macchina e iniziava l’uomo.
- Stai combattendo per fare la cosa giusta, Tali. Dovrebbe bastarti.-
I Geth ragionavano così, non gli umani. Ogni sentimento sembrava sparito dalla voce di Shepard, sostituito da una razionalità che le metteva i brividi.
- Stiamo parlando del destino della mia gente, Shepard! Non puoi …-
Le porte si aprirono con un sibilo e Shepard le voltò le spalle, con arroganza, mettendo ben in chiaro che la cosa non lo interessava – Tempo scaduto, ammiraglio.- le lanciò un breve occhiata da sopra la spalla, glaciale – Non dare la colpa a me per il destino che i Quarian si sono scelti.-
Si sentì avvampare di rabbia, odiandolo come mai aveva creduto di poter fare, d’impulso strinse le dita sul fucile a pompa, sentendo l’irrefrenabile desiderio di sparargli alle spalle, a bruciapelo, rendendosi conto, improvvisamente, che ne andava della salvezza del suo intero popolo; e gli avrebbe sparato, ne era certa, se la mano di Ashley non fosse sorta dal nulla, posandosi sul fucile.
- Non farti ingannare, Tali.- sussurrò, fissandola con quei suoi occhi scuri che, incuranti del casco, riuscivano a leggerle dentro, fin nel profondo dell’anima – Devi fidarti di lui.-
Sotto la maschera Tali digrignò i denti mentre il fucile tremava tra le sue mani gracili; Shepard camminava spedito poco più avanti, apparentemente ignaro del pericolo che stava correndo – Muovetevi.- latrò, senza degnarle di un sguardo – Abbiamo perso già abbastanza tempo su questo dannato pianeta.-
Tali tentò di divincolarsi dalla presa di Ashley, furiosa, ma l’umana non si fece cogliere di sorpresa – Ascoltami, Tali.- la scrollò, costringendola ad ascoltare – Ascoltami! Ogni volta che ho dubitato di lui, ogni volta che non mi sono fidata, ho fatto la figura della stupida.- lanciò un’occhiata ansiosa a Shepard – Non fare i miei stessi errori, Tali, non lo merita.-
La lasciò andare e raggiunse in fretta il comandante, appostato poco lontano.
Tali rimase ferma, mordendosi nervosamente le labbra, chiedendosi se seguire il consiglio di Ashley o fare di testa sua.
Improvvisamente le tornarono in mente parole pronunciate tempo prima, quando suo padre era morto e lei aveva rischiato l’esilio:
“Per quanto riguarda tuo padre, Tali, meritavi di meglio.”
“L’ho avuto, Shepard: sei tu.”
All’epoca Shepard l’aveva aiutata molto più della sua stessa gente, aveva creduto in lei quando nessun altro sembrava disposto a farlo, forse meritava quella stessa fiducia che aveva donato a lei.
Arrossì sotto il casco, abbassò il fucile e raggiunse i due umani sul bordo della piattaforma, sperando disperatamente di non aver condannato a morte l’intera sua specie.
 
Normandy, 2186

http://www.youtube.com/watch?v=S2Hh6YayzqY 

Aveva cercato Shepard ovunque sulla nave: al ponte di comando, nella sua cabina, in armeria, persino nella stiva di carico, alla fine l’aveva trovato seduto sulla vecchia branda di Jack, giù al ponte inferiore.
Giocherellava con la medaglietta lisa che portava al collo, immerso in chissà quali pensieri, forse in qualche ricordo. A volte, guardando Shepard, le veniva da chiedersi se anche gli umani fossero in grado di perdersi nei ricordi, come i Drell.
- A cosa stai pensando, comandante?- domandò, con un filo di voce.
Lui chiuse gli occhi per un istante prima di riaprirli e rivolgerle un’occhiata leggermente appannata, come se facesse fatica a strapparsi da quel ricordo che l’aveva intrappolato – Pensavo agli amici perduti. Ci sono troppi nomi su quel maledetto memoriale … e oggi la lista è diventata ancora più lunga.-
Lei si sedette al suo fianco, incapace di trovare le parole adeguate per consolarlo; forse non era la persona più adatta, di certo non quel giorno. Era troppo felice per riuscire a piangere la morte di un amico, l’avrebbe fatto più tardi, quando l’euforia fosse sfumata, ma adesso riusciva a pensare solo a se stessa e al mondo che aveva riavuto.
Shepard si appoggiò al muro, sollevando le gambe sulla branda, le ginocchia premute al petto – Ho avuto paura oggi.-
Lei sobbalzò: mai si sarebbe aspettata una simile confessione da parte di Shepard – Perché?-
- Perché ho rischiato di perderti.- rispose, reclinando il capo per guardarla.
- Io non …- balbettò - … ti sbagli non …-
- Non devi vergognarti, Tali.- la interruppe – Stavi cercando di salvare la tua gente e io ero una minaccia. Immagino che tu mi abbia odiato. -
Tali avvampò, portandosi le mani alla testa, per coprire un viso già nascosto – Io non potevo sapere … tu difendevi i Geth e …- scosse il capo, cercando di riprendere il controllo – Invece hai salvato tutti, non hai sacrificato nessuno: hai portato la pace tra i nostri popoli.- ammirava lui tanto quanto disprezzava se stessa - Non avrei mai dovuto dubitare di te, comandante, non dopo tutto quello che hai fatto per me; ciò che hai realizzato va al di là di ogni immaginazione, mai avrei pensato che sarebbe finita così, con i Geth e i Quarian in pace sul pianeta natale. Ti dobbiamo tutto, Shepard.-
Shepard si sporse verso di lei, afferrandola per le spalle – Non ce l’avrei mai fatta senza te e Legion. Questa pace è tanto vostra quanto mia: non dubitare mai di questo.-
Tali abbassò il capo –  Ti sbagli, io avrei sterminato i Geth senza esitare. Legion merita molto più rispetto di quanto io potrò mai ottenerne. I Geth si sono dimostrati molto più nobili di noi Quarian.- ammise, con non poca fatica: era difficile riconoscere che il nemico di sempre, in fondo, non era poi così cattivo – Ora capisco perché ti saresti schierato con loro, se necessario.-
Shepard non rispose subito, si limitò a guardarla con quei suoi occhi incredibilmente azzurri: non più freddi, solo tristi.
- Avrei scelto voi.- disse infine.
Per un attimo le sembrò di aver capito male – Cosa?-
Shepard si stropicciò stancamente gli occhi – Se non fossi riuscito a mediare la pace, se fosse stato necessario scegliere tra Quarian e Geth, avrei scelto i Quarian.-
Tali sgranò gli occhi – Ma … ma su Rannoch … tutti quei discorsi sul fare la cosa giusta, il disprezzo con cui mi hai trattata ... ero convinta che …-
- Dovevo farti credere che avrei scelto loro.- spiegò, con voce atona – Dovevo costringerti a cercare una soluzione che non fosse lo scontro diretto. Se mi fossi schierato apertamente coi Quarian non avreste mai accettato la pace, ma se l’unica alternativa fosse stata l’annientamento totale allora … la disperazione può motivare una persona più di qualunque altra cosa. -
Tali si strinse le braccia attorno al petto, provando profonda vergogna per sé e la sua gente: possibile che Shepard li avesse capiti così bene?
Se avesse intravisto anche solo uno spiraglio di salvezza lei stessa si sarebbe scagliata contro i Geth, decisa ad annientarli. Shepard aveva ragione: se si fosse schierato apertamente dalla loro parte, i Quarian non avrebbero mai accettato la pace con i Geth.
- C’è stato un istante in cui avrei voluto …- si morse il labbro, mortificata e affranta – Se non fosse stato per Ash io … - spalancò gli occhi, colpita da un’improvvisa rivelazione – Sapevi che avrei tentato di aggredirti! Per questo hai portato Ash: perché mi fermasse.-
Shepard annuì – Tu dovevi salvare la tua gente e lei il suo onore.  Dovevo spingerti al limite ed essere certo di avere qualcuno a coprirmi le spalle.– si strinse nelle spalle, con noncuranza, come se la cosa non lo riguardasse, come se Tali non avesse sfiorato l’ammutinamento – Non parliamone più, Tali’Zorah.- e più che un ordine le sembrò una preghiera.
Tali si stropicciò le mani – Un’ultima cosa, comandante: perché salvare i Quarian?-
Lui parve ponderare a lungo la domanda, appoggiato contro la paratia, il capo leggermente reclinato.
- Non ho una risposta, non qualcosa di razionale.- mormorò, infine – Ma forse è proprio questo il punto: farsi delle domande e non avere delle risposte.-
Shepard dovette immaginare la sua espressione perplessa, perché le sue labbra si curvarono leggermente in un accenno di sorriso – Non riguarda l’avere un’anima o no. Legion e IDA sono la prova lampante che anche i sintetici possono provare sentimenti, come noi. No, non è questa la differenza.- le sue mani tornarono a tormentare la medaglietta che portava al collo - La differenza tra organici e sintetici è come quella tra bambini e adulti. Gli adulti non si fanno più domande, credono di avere tutte le risposte, mentre i bambini guardano il mondo con occhi sgranati, alla ricerca di un mistero da svelare o di un sogno da inseguire. Per i sintetici, il mondo, la galassia, è un luogo conosciuto, fatto di numeri, reazioni chimiche, leggi della fisica ma per gli organici …- gli occhi di Shepard s’illuminarono - … per gli organici è magia; salvando i Geth avrei salvato dati, numeri, certezze matematiche … ma la formula della vita non esiste; e cosa importa sapere che la derivata di una potenza di una variabile è uguale all’esponente della potenza moltiplicata per la variabile con lo stesso esponente diminuito di uno, se poi non riesci ad emozionarti di fronte a un tramonto o a sognare di volare con ali di piume colorate? A che cosa serve la logica se non c’è il cuore a guidarla? E che senso ha conoscere tutte le risposte se non sei in grado di farti delle domande?-  agitò una mano, come per scusarsi per quel discorso troppo lungo e complicato – Avrei salvato i Quarian perché sono imperfetti, perché sono come bambini che si barcamenano in un mondo troppo complesso e troppo grande e non c’è nulla di più orribile della morte di un bambino: un bambino è un pozzo di speranze, una miniera di cose buone, perfette; quando muore un bambino pensi che muoia un possibile salvatore, qualcuno che se fosse vissuto sarebbe forse riuscito a rendere meno schifoso questo schifosissimo mondo. - si alzò in piedi, gli occhi bassi, le gote arrossate – Ma tutto questo ormai non ha più importanza: non ho dovuto sacrificare nessuno, non ho dovuto scegliere. In una galassia in guerra la pace è come un fiore in mezzo al deserto.- le sorrise, un sorriso aperto, sincero, come non ne vedeva da molto tempo, non su quel viso – Ti scalda il cuore.-
Tali si alzò, leggermente intimidita, sentendosi incredibilmente piccola davanti a un uomo così grande, si portò una mano al petto, proprio sopra il cuore, desiderando con tutta se stessa di potersi togliere il casco e guardarlo negli occhi, senza un vetro a separarli – Ci hai ridato Rannoch, Shepard. Mai nella mia vita avrei pensato di vedere questo giorno. Oggi hai salvato il mio popolo e i Quarian ti saranno grati per sempre. Tu ci hai dato un futuro, ci hai dato speranza: saremo al tuo fianco contro i Razziatori e contro qualunque altro nemico che l’umanità dovrà affrontare. Da ammiraglio a comandante: questa è una promessa.-
Shepard portò a sua volta la mano al petto e chinò il capo – Non potevo sperare in alleati migliori.-
Dietro il casco Tali sorrise – Keelah se’lai, Alexander.-
 
 
 
 
Note
 
Dire che questo capitolo mi ha fatto dannare sarebbe un enorme eufemismo. L’ho girato e rigirato come un calzino, cercando di dargli un senso, una coerenza … non credo di esserci riuscita ma questo è il massimo che sono riuscita ad ottenere. Come credo si sia capito la missione su Rannoch mi ha mandata in crisi. Con un altro Shepard (dato che Legion mi era miseramente morto in ME2) mi sono trovata di fronte all’orribile scelta e, se anche la logica, la ragione e il buon senso, mi urlavano di salvare i Geth non ce l’ho fatta, ho salvato i Quarian per i motivi, istintivi, di qui sopra.
Mi rendo conto di aver scritto una nota insensata per un capitolo insensato, chiedo perdono e corro a rifugiarmi nella mia cella imbottita. 

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Capitolo 14
*** Ciò che è stato e che sarà ***


http://www.youtube.com/watch?v=Lh3TokLzzmw

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Camminava lungo le vie sotterranee di una città antica, abbandonata in epoche remote e riscoperta ora, nel tempo in cui l’universo finiva.
Dove fosse diretto non lo sapeva, avrebbe dovuto riposare, approfittare di quelle poche ore di tregua tra una battaglia e l’altra per rimettersi in forze, ma il terrore di addormentarsi per risvegliarsi in un mondo che non era più il suo, gli impediva di sdraiarsi e chiudere gli occhi.
Ci sarebbe stato fin troppo tempo per riposare, dopo, sia che il piano ideato dagli anziani riuscisse, sia che fallisse.
Continuò a camminare, attraversando stanze immense, stracolme di profughi, persone che avevano perso tutto: le loro case, i loro cari, i loro mondi.
Gli ultimi superstiti di quella galassia in fiamme erano lì, ammassati in quella città dal nome antico, che non voleva né pronunciare né ricordare, perché rievocava un’epoca in cui la sua gente dominava l’universo, con la forza delle armi e la luce della conoscenza, un’epoca in cui l’eternità sembrava a loro disposizione.
Ma l’eternità era finita, bruscamente, violentemente, quando dai cieli era sceso un nemico che nemmeno loro, gli esseri più potenti della galassia, erano in grado di sconfiggere.
I mondi erano bruciati, l’uno dopo l’altro, inesorabilmente, e i loro abitanti erano morti o erano stati trasformati in creature mostruose, selvagge e voraci, che avevano dato la caccia ai superstiti come bestie affamate.
Il pianto di un bambino lo distrasse, facendogli serrare i pugni e digrignare i denti, si fermò, guardandosi intorno alla ricerca della fonte di quel lamento, ma tutto ciò che vide fu una statua incombere su di lui.
Non era strano trovare statue lungo le vie di quella città costruita nella terra, ovunque guardasse c’erano sculture dalle sembianze oscure, arcaiche. Riconosceva se stesso in quei volti dai lineamenti distorti, ma era un sé diverso, selvaggio e primitivo, era il suo popolo prima della civiltà, quando le stelle erano solo luci lontane e non nebulose da esplorare.
Quelle figure rozzamente intagliate lo attraevano e ripugnavano al tempo stesso, erano la storia di un popolo in fasce che lottava per diventare grande; ma la statua sotto la quale si era fermato era diversa: la testa deforme, enorme, sembrava chinarsi su di lui, le fauci spalancate, irte di denti, pronte a ghermirlo, non aveva braccia, solo innumerevoli zampe sottili e acuminate e, sulla schiena, spuntavano piccole e tozze ali da insetto. C’era qualcosa di violentemente, profondamente sbagliato in quella statua, qualcosa che lo fece arretrare.
Ritornò sui suoi passi, cercando di sfuggire allo sguardo di pietra di quell’essere immondo: non apparteneva né al passato né al presente, ma, un’orribile sospetto, troppo simile a una premonizione, gli suggeriva che apparteneva al futuro.
Era quello il destino della sua specie? Lo stadio finale dell’evoluzione?
Svoltò l’angolo e capì di essere in un’altra stanza, più grande della prima. Gli ci volle un momento per mettere a fuoco il luogo in cui si trovava, infine si rese conto di essere arrivato in quella che era da tutti considerata la piazza della città.
Osservò l’enorme soffitto a volta che separava i profughi dall’orrore che troneggiava sopra di loro. Un tempo quello era stato uno degli ultimi mondi sicuri, sfuggito per caso o fortuna alla furia dei Razziatori, ma caso e fortuna non possono proteggerti per sempre e adesso anche quell’ultimo porto sicuro era in balia della violenza inarrestabile di esseri inconoscibili.
La battaglia infuriava alle porte della città e il tempo di dire addio a quella galassia era ormai vicino. Ovunque vedeva i profughi mettersi in marcia, abbandonando le loro poche cose, diretti al bunker in cui era riposta l’ultima speranza della loro specie.
“Aspetteremo nell’ombra che il nemico concluda la sua opera, dormiremo, nascosti, finché la pace non sarà tornata nella galassia e allora risorgeremo dalla terra coperta di cenere per ricostruire l’impero”.
Queste erano le parole con cui gli anziani avevano svelato quel piano estremo, a lungo tenuto nascosto, a cui avevano lavorato per dieci lunghi anni, togliendo risorse preziose alla resistenza armata.
Per dieci anni i vertici dell’impero avevano scavato in quella città dimenticata, costruendo un bunker colossale in cui milioni di superstiti avrebbero potuto trovare rifugio e, forse, salvezza.
I milioni erano diventati migliaia e adesso, nell’ultima ora del loro mondo, persino quel numero sembrava vacillare, ma ormai persino lui, il comandante della resistenza, sembrava rendersi conto che non c’era alternativa alcuna.
 
Fratelli che accanto a noi passate,
non giudicate le nostre anime dannate,
non fuggite la nostra macabra danza,
qui pende chi è senza speranza.
 
S’irrigidì, mentre le strofe di quella canzone blasfema gli ferivano l’udito, cercò la fonte di quel canto profano e i suoi occhi, inevitabilmente, furono catturati da un albero di pietra che si ergeva al centro della stanza; contorto e nodoso quell’albero non era altro che il simulacro della morte. Rappresentava la fine e la dannazione.
Era stato costruito per uno unico scopo: impiccare i nemici dell’impero e, a quello scopo, oggi come allora, veniva usato.
Ad addobbare i rami ritorti di quell’albero fasullo non c’erano foglie, solo carcasse.
E, sotto l’albero, ferma a braccia conserte c’era una figura curva, ingobbita, un vivo tra i morti, che cantava la sua melodia stonata.
 
La nostra voce è fioca e incolore,
ma prestate orecchio alle nostre parole:
in fondo alla corda non c’è alcuna giustizia,
solo i singhiozzi di una persona che muore.
 
Quando lo affiancò smise di cantare, le parole congelate sulle labbra, gli rivolse un’occhiata strana, come se si domandasse cosa ci facesse un vivo in un luogo che apparteneva solo ai morti.
Ma, quando lo riconobbe, il cantante sogghignò e si portò davanti a lui con un inchino che di riverente aveva ben poco.
 
Benvenuto, fratello, al nostro festino,
noi siamo del mondo il destino,
questa è la danza dei condannati,
questo è l’albero degli impiccati.
 
Furente agguantò il cantante per un braccio, scuotendolo con rabbia – Sei impazzito?- sibilò – C’è chi è stato impiccato per molto meno che una canzone blasfema.-
- Lo so, fratello.- fu la risposta, tagliente, che ottenne – E so che, alcuni, li hai denunciati tu. -
- Erano agenti del nemico.- replicò, gelido – Non ho mai tollerato il tradimento e non lo tollererò proprio ora.-
- Era solo un bambino!- ragliò l’altro, indicando un corpicino fragile che penzolava accanto agli altri – Voleva solo vedere la luce del sole e tu l’hai ucciso!-
- Non era più un bambino, Kryton! Apparteneva a loro. Non voleva vedere la luce del sole, voleva consegnarci.-
Kryton si ritrasse, sconvolto – Non avevi alcuna certezza, hai ucciso mio figlio, tuo nipote, solo per istinto.-
Lo fissò mentre quello stesso istinto che suo fratello ripudiava, lo spingeva  a sondare l’aria, cercando di captare quell’impercettibile odore di corruzione che aveva imparato a percepire così bene - Ho visto abbastanza del mondo là fuori per sapere come si diffonde la corruzione. –
Suo fratello sputò in terra appena davanti ai suoi piedi, un gesto che in altri tempi, in un altro luogo, sarebbe valso una condanna a morte.
- Tu non sai niente del mondo là fuori. Non hai visto tua moglie bruciare o i tuoi figli trascinati via da bestie senz’anima. Mi rimaneva solo lui …- i suoi occhi si posarono sul bambino impiccato per poi ritrarsi immediatamente - … e me l’hai portato via.-
D’istinto prese le mani del fratello tra le sue e, con violenza, proiettò nella mente dell’altro quelle immagini, quei ricordi, che non facevano altro che tormentare le sue notti e i suoi giorni.
Rivide il suo equipaggio, quei dieci soldati che erano stati i suoi fratelli d’armi, la sua vera famiglia, li guardò percorrere i corridoi bui della sua vecchia nave, efficienti e marziali. Erano il meglio che l’impero aveva da offrire, i soldati più letali dell’intera galassia: se esisteva qualcuno in grado di sconfiggere i mostri del cielo ebbene si trovava sulla sua nave, sotto il suo comando.
Ma, uno dopo l’altro, i Razziatori si erano presi i suoi soldati; si erano intrufolati nelle loro menti, trasformando i migliori tra i migliori in spregevoli schiavi.
Li aveva perduti, uno ad uno, e non se ne era accorto. Il nemico si era intrufolato sulla sua nave silenzioso ed infido, tanto subdolo da ingannare i suoi sensi e la sua ragione. E la guerra, quella guerra che stava combattendo con tutto se stesso, lentamente si era trasformata in massacro.
Aveva perduto una battaglia dopo l’altra, mondi interi erano bruciati davanti ai suoi occhi per errori che non si era accorto di aver commesso, per giorni, settimane, aveva vagato nello spazio alla ricerca di risposte che non riusciva a trovare. Perché i suoi piani, un tempo perfetti adesso fallivano? Perché il nemico sembrava conoscere le sue mosse, i suoi obiettivi? Dove aveva sbagliato?
Troppo tardi aveva compreso l’atroce verità: i suoi piani erano sempre perfetti, le sue mosse imprevedibili, le sue capacità immutate; il problema non era il comandante, ma il suo equipaggio.
Non uno gli era rimasto fedele: era solo tra i nemici.
La consapevolezza del pericolo era giunta insieme al pericolo stesso, quando quei soldati, che aveva da sempre considerato fratelli, avevano cercato di strappargli la vita, dopo aver consegnato ai loro padroni la chiave per la conquista del pianeta natale.
Invano aveva dirottato la nave, invano aveva lottato. La sua amata astronave era precipitata su un pianeta ghiacciato, disabitato, nel caos che aveva seguito lo schianto era riuscito a fuggire, evitando la peggiore delle morti: quella inflitta da un amico.
A lungo aveva vagato senza meta, solo e braccato, circondato da neve e ghiaccio, mentre la morte lo seguiva dappresso.
Non erano state disperazione o audacia a tenerlo in vita, né la paura della morte, ma il desiderio, bruciante, feroce, di vendetta.
L’odio era stato il suo nutrimento, la sua unica fonte di conforto. Dall’odio aveva tratto le energie che l’avevano tenuto in vita.
Odio verso quegli esseri che si erano presi tutto, anche il suo equipaggio, i suoi fratelli d’arme.
Da preda si era trasformato in cacciatore, la vittima era diventata carnefice.
Aveva seguito le loro tracce, preciso e accurato come una bestia affamata; dopo lo schianto si erano dispersi, incapaci di lavorare insieme, privi di quell’affetto profondo che li aveva resi una squadra invincibile. Non c’era più niente a tenerli uniti, perché il loro cuori erano aridi e le loro menti corrotte: erano solo involucri vuoti, burattini al servizio di oscuri padroni.
Li aveva trovati tutti, stanandoli l’uno dopo l’altro e aveva affondato la lunga lama del suo coltello nelle morbide gole, strappandoli dalle grinfie metalliche dei loro aguzzini.
Non si era trattato di omicidio ma di un atto di pietà. Il suo equipaggio non meritava di trascorrere l’eternità in schiavitù. Li aveva guardati morire, l’uno dopo l’altro e nei loro occhi, di nuovo lucidi negli ultimi spasmi della morte, aveva letto gratitudine.
Ma ciò che aveva liberato i suoi fratelli, aveva imprigionato la sua anima in un vortice di odio, dolore, rabbia. La salvezza della sua gente non era più prioritaria, ora contava solo la vendetta contro coloro che l’avevano costretto a tanto.
Kryton lo spinse all’indietro, interrompendo quel contatto che non riusciva a sopportare. Nei suoi occhi lesse terrore, disperazione: entrambi sapevano cosa sarebbe successo dopo.
- Se mi lasci andare, giuro che non sarò un percolo.- gemette quel fratello che non era più un fratello – Cercherò i figli che ho perduto e me ne andrò, per sempre. Non farò più ritorno qui, non ne parlerò con nessuno.-
Si avvicinò lentamente, costringendo l’altro a indietreggiare, l’aria intera, adesso, era impregnata da quell’odore malsano, nefasto di corruzione – Come puoi ingannare qualcosa che è nella tua testa?-
Kryton urtò l’albero con la schiena, facendo vacillare quei corpi che erano un monito per tutta la sua gente – Troverò un modo, lo farò …-
Lo zittì con un gesto, mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione di puro disgusto – Perché ti sei arreso a loro? Perché non ti sei consegnato quando hai capito di essere perduto?-
Stava parlando con suo fratello e nient’altro, poteva sentirlo. I suoi padroni lo avevano abbandonato ora che la sua utilità era finita – Volevo solo ritrovare i miei figli …-
Questa volta fu lui a sputare, non in terra, ma addosso a quel fratello che non era più nulla – E quanti altri figli moriranno a causa della tua debolezza?-
Kryton crollò in ginocchio, le mani giunte – Ti prego, fratello, in nome di nostra madre, io ti supplico di mostrarmi pietà …-
Rimase immobile, ad osservare quell’essere che gli suscitava solo ribrezzo.
Kryton non era mai stato coraggioso, ma non l’avrebbe mai creduto debole fino a quel punto, eppure, in fondo al cuore, rimaneva ancora un briciolo di quell’affetto che li aveva uniti attraverso tutti quegli anni.
- L’avrai.- disse, estraendo il coltello.
Prima che Kryton potesse comprendere il vero significato di quell’affermazione, colpì. La lama affondò nel collo morbido del fratello, recidendo la carne assieme alla sua vita, la bocca di Kryton si spalancò in un muto grido di sorpresa, ma, finalmente, nei suoi occhi scese la pace.
- Ti auguro di trovare coloro che stavi cercando.- mormorò, quando il corpo cadde riverso, scosso dalle ultime convulsioni.
Gli aveva concesso una morte rapida, dignitosa: era tutta la pietà che suo fratello poteva aspettarsi.
Girò le spalle al cadavere e corse verso il centro di comando: la defezione di Kryton poteva avere risvolti drammatici.
Suo fratello possedeva parecchie informazioni sensibili, comprese quelle riguardanti la funzione e localizzazione del bunker; se, come certamente era accaduto, quelle informazioni erano arrivate al nemico, la salvezza dell’intera specie era a rischio.
Man mano che ci si allontanava dalla città antica gli sfarzi del passato lasciavano posto al rigore del presente, statue e bassorilievi scomparivano dai corridoi di gelido metallo; arte e bellezza erano scomparse per lasciare il posto alla rigida efficienza della guerra.
Quando raggiunse il centro di comando, un piccolo cubicolo scavato nella parete di metallo, stracolmo di macchinari elettronici, ogni reminescenza del glorioso passato era svanita, sostituita da un cumolo di circuiti e proiezioni olografiche.
Al suo ingresso scienziati e ingegneri alzarono il capo, stupiti dal trovarlo lì, in quel mondo costruito apposta per loro. Lui era un soldato, era nato nella guerra e per la guerra, la scienza non lo aveva mai interessato. Lui usava le armi, non le costruiva.
Non stimava particolarmente le persone che affollavano il cubicolo, ma era tutto ciò che rimaneva dei vertici dell’impero. I politici che non erano stati uccisi nella distruzione di pianeti e stazioni spaziali, erano stati i primi a beneficiare di quella seconda gestazione che avrebbe portato il loro popolo a rivivere di nuovo.
Mentre migliaia di soldati e profughi si dibattevano e morivano per raggiungere quella remota salvezza, coloro che avevano giurato di guidare il popolo nell’oscurità erano già al sicuro nelle loro capsule vitali.
Fece una smorfia, consapevole che il tempo a disposizione era poco e che non poteva sprecarlo in futili recriminazioni.
Spiegò agli scienziati l’ampiezza del tradimento di Kryton e, come previsto, piombarono nel panico assoluto. Nessuno di loro era in grado di sostenere una crisi di tale portata, malgrado tutta la loro intelligenza non erano preparati ad affrontare un simile sfacelo.
Una comunicazione improvvisa interruppe la sequela di inutili belati che aveva accolto le sue parole – Il bunker è sotto attacco! I nemici stanno convergendo in massa alla paratia est, abbiamo bisogno di supporto immediato!- la voce del secondo in comando invase la stanza, carica d’urgenza.
Scaraventò di lato gli scienziati pietrificati e si gettò sul microfono – Qui è il comandante: resistete. Sto arrivando.-
- Per l’impero.-
Chiuse la comunicazione, felice che almeno i soldati mantenessero il sangue freddo, rivolse un’occhiata gelida a quei rammolliti nelle cui mani giacevano le sorti dell’impero – Accelerate le procedure di smistamento dei profughi e attivate Victory. Avremo bisogno di lui.-
Victory era l’IV programmata per gestire le fasi finali, doveva inviare il segnale di attivazione alle capsule di stasi e, se necessario, attivare l’impulso neutronico che avrebbe reso sicuro il bunker, eliminando i nemici che vi si fossero introdotti.
- E noi, comandante?- intervenne un ingegnere con voce tremante – Dovremmo raggiungere le capsule, non possiamo …-
Si zittì non appena incrociò il suo sguardo, indietreggiò lentamente mentre lui usciva dal cubicolo azionando la chiusura ermetica delle porte.
Non avevano previsto nemmeno quello.
- Il vostro sacrificio sarà onorato dall’impero.- disse, prima di abbandonarli al loro destino.
Ben presto le entrate del bunker si trovarono sotto assedio da ogni lato, le truppe dei Razziatori si abbattevano sui soldati stremati come onde del mare che erodono la roccia: nonostante le innumerevoli prove di eroismo e coraggio la mostruosa marea travolse le prime linee. I soldati caddero a centinaia sotto gli artigli di quegli esseri che, un tempo, erano stati loro fratelli, ma che ora non erano altro che gusci vuoti, scagliati contro la loro stessa gente.
Non provava dolore o rimorso nell’abbatterli, solo un profondo senso di giustizia compiuta, gli dispiaceva solo di non essere in grado di ucciderne di più.
Grazie all’aiuto di Victory riuscì a sigillare la paratia est ma le forze dei Razziatori erano penetrate in profondità nel bunker, infliggendo a ciò che rimaneva della sua gente perdite devastanti.
Nel giro di poche ore ben trecentomila capsule erano andate distrutte: un terzo del loro popolo.
Tutte le speranze del suo popolo stavano lentamente crollando in pezzi.
Mentre la battaglia infuriava nei pressi della paratia nord Victory lo informò della morte della gerarchia imperiale. Dei vertici dell’impero non rimaneva più nessuno: solo lui. Il destino del suo popolo gravava ora interamente sulle sue spalle; una responsabilità che accettò con onore: per tutta la vita si era preparato a quel momento.
Politici e scienziati avevano fatto il loro tempo, ora, per garantire la sopravvivenza dell’impero, era necessario un soldato; qualcuno in grado di prendere decisioni rapide e spietate.
Ordinò a Victory di inviare il segnale di attivazione stasi a tutte le capsule, abbandonando al proprio destino le migliaia di profughi che non avevano ancora raggiunto il bunker; era un sacrificio necessario: la morte di alcuni avrebbe garantito la sopravvivenza di molti.
Ma, ben presto, si rese conto che il sacrificio richiestogli era ben superiore a qualunque cosa si fosse mai preparato ad affrontare.
- Il bunker sta crollando.- gli comunicò Victory con una freddezza che gli ricordò che si trattava di una semplice IV.
Nell’ora più buia della storia, si ritrovava solo ad affrontare la fine dell’impero e l’estinzione della sua specie. Qualunque decisione avesse preso da quel momento in avanti era responsabilità sua e sua soltanto.
- Ci sono capsule attive!- url,ò ribellandosi all’ordine che l’IV gli aveva dato pochi istanti prima: attivare l’impulso neutronico – Quei soldati sono ancora vivi!-
- Il loro sacrificio sarà onorato dal prossimo impero.-
A quelle parole avrebbe preferito una fucilata in pieno viso: erano le stesse che aveva rivolto agli scienziati ed erano una condanna a morte.
Quel bunker era stato progettato per ospitare milioni di profughi. I milioni erano diventati migliaia e adesso stavano per diventare centinaia.
- Preparazione bombardamento neutrale: accedi alla capsula vitale.-
Rivolse all’IV uno sguardo di puro odio, avrebbe strozzato Victory se solo avesse avuto un corpo. Ma non aveva un corpo né un’anima; era solo un programma con la logica al posto del cuore.
Entrò nella capsula perché non aveva altra scelta, perché morire con i suoi soldati non li avrebbe riportati in vita, perché chiunque fosse sopravvissuto avrebbe avuto bisogno di lui. L’impero era tutto ciò per cui aveva vissuto e l’impero gli chiedeva di vivere ancora, anche se non desiderava altro che la morte.
Si sdraiò nella capsula che si chiuse sulla visione di fiamme, morte e distruzione: ecco cosa rimaneva della sua gente, del suo mondo.
Mentre il buio l’avvolgeva sentì la capsula, quella capsula stretta come una bara, tremare tutta mentre Victory uccideva gli schiavi dei Razziatori e buona parte di coloro che li aveva combattuti strenuamente.
Si erano addormentati pensando di salvarsi e invece la morte era arrivata comunque. Per mano sua.
- Il bunker è sicuro, comandante Javik.- gli comunicò Victory quando l’apocalisse ebbe fine.
- Quel che ne rimane.- mormorò, stringendo i pugni – Un centinaio di superstiti. Come potrò mai ricostruire l’impero?-
- Serviranno altri provvedimenti: l’impulso neutronico ha compromesso la struttura. I sensori sono stati danneggiati: riattivazione automatica non praticabile. Dovrai attendere che una nuova civiltà trovi questo bunker e disattivi la stasi: il risparmio energetico è prioritario.-
Il respiro gli si bloccò in gola quando comprese il vero significato di quelle parole – Non spegnere altre capsule!- intimò, furibondo e impotente come mai era stato – Siamo già rimasti in pochi!-
- Il razionamento energetico è assolutamente necessario.- replicò Victory e in quel momento seppe che il cuore non poteva niente contro la logica.
Si abbandonò nella capsula, consapevole di aver appena perso ogni cosa. L’impero non esisteva più. I Prothean non esistevano più.
- Tu sarai la voce del nostro popolo.- asserì Victory.
Abbandonato nell’oscurità che lo avvolgeva, unico vivo tra i morti, condannato ad attendere per l’eternità una rinascita che forse non sarebbe mai giunta, Javik accettò di compiere l’ultima missione per l’impero – Sarò ben più di questo.-
Lentamente scivolò nell’oblio chiedendosi se al suo risveglio ci sarebbero stati ancora i Razziatori ad attenderlo: sperò di sì, aveva un intero popolo da vendicare.
Quando riaprì gli occhi, un istante dopo, trovò la luce del sole ad abbagliarlo.
 
 
 
Note
 
Questo capitolo non era previsto e potrebbero esserci parecchi errori legati alla storia Prothean. Ammetto di non aver fatto ricerche particolarmente approfondite al riguardo perciò vi prego di segnalarmi qualsiasi inesattezza.
Grazie!

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Capitolo 15
*** Raccontami di noi ***


http://www.youtube.com/watch?v=UjCW9ktWB88&list=PLHwZ9V-BgL_u0qbQAiV-sBlrr_tGrJBMy

Normandy SR2, 2186

 
Le targhe che coprivano la paratia erano molte, troppe, ognuna di esse raccontava la storia di uomini e donne morti in nome di un bene superiore. Un bene che, per nascere, non chiedeva altro che male.
Immobile davanti alle targhe, Ashley Williams osservava quei nomi come se li vedesse per la prima volta. Con orrore si accorse di non ricordare più i volti di tutti quei morti o il suono delle loro voci, probabilmente con alcuni di essi non aveva mai neppure parlato.
Di che colore erano gli occhi di Pressly? Non riusciva a ricordarlo …
Allungò lentamente la mano, esitò prima di sfiorare il nome dell’unica persona di cui ricordava … tutto.
La voce, calda e gentile; il sorriso, raro e prezioso; gli occhi … erano gli occhi più malinconici che avesse mai incontrato. Chiuse le palpebre e lo immaginò lì, accanto a lei, una mano posata sulla spalla, leggera come una piuma, il capo leggermente inclinato, il volto serio, preoccupato.
Le avrebbe detto di piangere, di non trattenersi, perché le lacrime fanno meno male di un sorriso forzato.
E, tanto lievi da non farsi notare, quelle lacrime troppo a lungo trattenute cominciarono a scenderle lungo le guance.
Alzò una mano e la posò sulla spalla, le sembrò di sfiorare qualcosa, un’ombra che forse esisteva solo nella sua mente, strinse l’aria tra le dita e sussurrò parole silenziose come pensieri – Mi manchi, Kaidan.-
La morte aveva accompagnato buona parte della sua vita, talvolta le sembrava che camminasse proprio al suo fianco, ignorando lei e travolgendo chiunque incrociasse il suo cammino.
Dalla morte di suo nonno non c’era stata tregua: suo padre, i ragazzi della 212, Kaidan, Shepard e tutti quei nomi elencati sul memoriale … ogni volta aveva stretto i denti, inghiottendo un piccolo pezzetto di cuore, ed era andata avanti, a testa altra, come sempre.
Aveva passato la vita intera a fingere di essere forte, ma era bastata la morte, eroica, di un Turian che non conosceva, per distruggere tutte le barriere che aveva innalzato nel corso degli anni.
Nella morte di Tarquin aveva rivisto il sacrificio di Kaidan e, oggi come allora, lei non aveva mosso un dito.
La morte le camminava accanto, tanto vicina da confondersi con la sua ombra, e, se solo avesse avuto un briciolo di coraggio in più, avrebbe allungato una mano, ghermito il suo mantello ed esclamato, spavalda:  “questa volta prendi me.”
Trasalì quando sentì le porte dell’ascensore aprirsi, si voltò, la mano ancora appoggiata sulla spalla.
Shepard si bloccò sulla soglia, lo vide esitare davanti ai suoi occhi gonfi di pianto, fece una specie di saltello, come se avesse frenato all’ultimo istante l’impulso di andare da lei e abbracciarla.
Le ricordò una falena che, seppur attratta dalle fiamme, si era bruciata le ali troppe volte per osare avvicinarsi ancora.
Dopo ciò che era successo nell’osservatorio, qualche giorno prima, erano tornati ad essere due estranei, due soldati che combattevano per la stessa causa, ma che non condividevano nient’altro se un passato costellato di scelte sbagliate.
Abbassò lo sguardo, terrorizzata da Shepard come lo era dalla morte, incapace di allungare la mano e prendere la sua, incapace di fare una scelta invece che di subirla.
Gli voltò le spalle, negando ad entrambi quel conforto di cui avevano disperatamente bisogno, rifiutandosi, per l’ennesima volta, di ascoltare il suo cuore invece che quella mente offuscata dalla paura.
Poi, all’improvviso, mentre già lui si allontanava, avvilito e deluso, quella paura che le aveva inaridito la bocca e paralizzato le membra, svanì.
Si trasformò lei stessa in falena, una falena schiacciata, martoriata, bruciata ma che, nonostante tutto, non poteva fare a meno del fuoco.
- Credi che vegli su di noi?- domandò, a bruciapelo, senza curarsi di apparire troppo diretta o insensibile. – Kaidan intendo … -
Sapeva che si era fermato, poteva sentire il suo sguardo trafiggerle la schiena mentre analizzava attentamente quella domanda troppo diretta, alla ricerca di un significato nascosto.
- Perché non dovrebbe?- chiese, mettendosi sulla difensiva.
– Perché lo abbiamo lasciato morire.- rispose, smozzicando le parole, forzandole ad uscire.
Non avevano mai parlato della morte di Kaidan, si era sempre rifiutata di toccare l’argomento, non era certa di poter sopportare le spiegazioni che si celavano dietro la scelta di Shepard, ma adesso, quella ferita che si era imposta d’ignorare, si era trasformata in una piaga infetta, che le avvelenava la mente e il cuore.
- È stata una mia scelta, non tua.- replicò Shepard, impassibile.
Ashley scosse la testa, sentendo un’improvvisa sensazione di freddo, come un soffio di vento gelido nell’anima – Stava nascendo qualcosa tra noi, Shepard; che fosse amore o passione poco importa, hai scelto me perché …-
- Perché volevo portarti a letto?- la interruppe, improvvisamente adirato - È questo che pensi di me?-
Ashley boccheggiò, colta alla sprovvista da tanta foga, gli lanciò un’occhiata fugace, distogliendo immediatamente lo sguardo, intimidita – Io … io … ho cercato altre spiegazioni, ma non ne ho trovata alcuna. Mi sono detta che l’avevi fatto per amore, ho sempre pensato che Kaidan fosse morto per questo: perché ti facevo gli occhi dolci e …- si morse il labbro – Quale altro motivo avresti avuto di scegliere me?-
Per un istante, un folle istante, pensò che l’avrebbe colpita, lo vide stringere i pugni e digrignare i denti, poi la rabbia passò e scosse la testa, in quel buffo gesto che faceva sempre quando era confuso. Si strofinò la fronte con il dorso della mano, sconsolato – Oh, Ashley …-
Fu allora che, entrambi, si resero conto della vera ed unica ragione che li aveva spinti agli antipodi della galassia: non era stata la morte di Shepard o la sua alleanza con Cerberus a separarli, ma quella muraglia di cose non dette, quel silenzio assordante su cui avevano costruito un amore malsano.
- Oggi, quando Victus è salito sulla bomba, cos’è stata la cosa che più ti ha colpito?-
Ashley aggrottò le sopracciglia, ma quel repentino cambio di discorso non la stupì: era tipico di Shepard fare giri contorti per arrivare all’obiettivo.
Si concentrò sulla domanda, rievocando gli eventi di quella mattina: ricordò l’espressione del Turian quando era salito sulla bomba, lo sguardo fiero, i gesti precisi, accurati.
“Vittoria, ad ogni costo.”
- Non c’era paura nella sua voce. - ricordò – Di fronte alla morte non ha esitato neppure per un istante.- non appena quelle parole lasciarono le sue labbra, capì.
Spalancò gli occhi e fissò il suo comandante che annuì – Ricordo le vostre voci su Virmire: la tua tremava, come quella di una bambina intrappolata in una stanza buia. Volevi che salvassi lui, mi proibisti di venire da te, ostentavi coraggio ma eri terrorizzata. - la voce di Shepard si spezzò – Kaidan invece era sereno, la sua voce pacata, era preoccupato ma non spaventato; ebbi l’impressione che avesse passato tutta la vita preparandosi a quello. Come Victus. Tu non eri pronta ad affrontare la morte, lui sì. Per questo ho salvato te.-
Ashley si portò una mano alla bocca e chiuse gli occhi: tremava, esattamente come quel giorno.
Era vero, tutto vero. Ricordava ancora la paura provata su Virmire, una paura sottile, infida, che le aveva lasciato un sapore amaro, nauseabondo, sulle labbra. Morire con quel sapore nella bocca sarebbe stata la peggiore delle condanne.
- Grazie.- sussurrò, senza sapere a chi fosse rivolto quel flebile ringraziamento: forse a Shepard, forse a Kaidan.
Sentì Shepard sospirare, aspettò che si avvicinasse o parlasse, ma non lo fece. Forse, si disse, aveva fatto fin troppo: toccava a lei, adesso.
Sorrise, quando si rese conto che tutti i motivi che l’avevano spinta lontana da lui erano scomparsi, si voltò e gli rivolse un breve cenno, arrossendo senza motivo  – Vieni, voglio farti vedere una cosa. -
Senza aspettare una risposta entrò nell’osservatorio, puntando dritta alla libreria che copriva il lato sinistro della stanza.
- Non ti ho ancora ringraziato per essere venuto sulla Cittadella, l’altro giorno. La tua presenza mi è stata di grande conforto.- disse, quando lui varcò la soglia.
Due giorni prima, presso il memoriale della Cittadella, sua sorella aveva celebrato la memoria di suo marito, Thomas, morto combattendo i Razziatori.
Quando Ashley aveva visto Sarah ferma davanti al muro di fotografie, le spalle curve, appesantite da un dolore troppo grande, aveva provato l’impulso di voltarsi e scappare via. Il dolore di Sarah l’aveva travolta e, in un istante, si era ritrovata catapultata sulla Normandy SR1, quando aveva perso ogni cosa.
I ricordi di quel giorno lontano l’avevano sommersa, inchiodandola al suolo, incapace di respirare, muoversi o parlare. Era rimasta immobile, paralizzata, mentre l’esplosione della Normandy faceva tremare le pareti della capsula di salvataggio e un roco ansimo squarciava il silenzio, lacrime silenziose le avevano inumidito le guance al ricordo dell’ultima richiesta del suo comandante: “Parlami, Ash. Non voglio morire da solo.”
Sarebbe fuggita via, avrebbe voltato le spalle a sua sorella per la prima volta nella sua vita se lui non fosse apparso al suo fianco, discreto e silenzioso.
Era bastato uno sguardo, un lieve cenno del capo, per restituirle quella forza che credeva di aver perduto: al contrario di Sarah le era stata data una seconda possibilità. Lui era tornato.
- Non devi ringraziarmi.- mormorò Shepard, strappandola dai suoi pensieri – Era …-
- Il dovere di ogni soldato.- finì lei, non senza una punta di amarezza, gli rivolse un sorriso forzato – Lo so, me lo hai già detto.-
Lui si avvicinò alla vetrata, le mani giunte dietro la schiena – Come sta tua sorella?-
Ashley sospirò, riportando la sua attenzione alla libreria e al libro che stava cercando. – È una Williams: sopravvivrà anche a questo. –
Shepard sembrava nervoso, a disagio, probabilmente si stava chiedendo cosa sarebbe successo dopo.
- Ah ecco …- afferrò il libro e lo porse al comandante - … volevo che lo avessi tu. -
Lui prese il tomo, rivolgendole un’occhiata cauta – Che cos’è?-
Si ravviò nervosamente i capelli – Era di mio padre: il suo libro preferito. Una raccolta di vecchie poesie.- scrollò le spalle come per minimizzare l’importanza di quel dono – Sono solo un mucchio di sciocchezze ma lui le amava e … e le amo anch’io. –
Gli voltò le spalle, bruscamente, per nascondere gli occhi un po’ troppo lucidi e le guance arrossate, pentendosi immediatamente per quel regalo insensato: Shepard non era certo il tipo a cui si regalano poesie.
Attese la sua reazione col fiato sospeso: se si fosse messo a ridere ne sarebbe morta.
Lo sentì sfogliare lentamente le pagine, immaginò le sue dita scorrere le righe mentre con gli occhi si soffermavano su parole che lei conosceva a memoria.
- Dalla notte che mi avvolge, nera come la fossa dell’inferno, rendo grazia a qualunque dio ci sia per la mia anima invincibile.- trasalì, mentre quella voce dura e profonda scandiva le parole di quella poesia che era da sempre la colonna sonora della sua vita – La morsa feroce degli eventi non m’ha tratto smorfia o grido, sferzata a sangue dalla sorte non s’è piegata la mia testa. –
Ashley si portò davanti alla vetrata, evitando quegli occhi azzurri che la fissavano, scavandole dentro, fin nel profondo; si scostò una ciocca di capelli dal viso, agganciandola dietro l’orecchio, e appoggiò una mano sul vetro, lì dove si rifletteva il suo viso – Al di là di questo luogo d’ira e di lacrime, si staglia solo l’orrore della fine, ma in faccia agli anni che minacciano sono e sarà sempre imperturbato. Non importa quanto angusta sia la porta, quanto impietosa la sentenza.- chiuse gli occhi, recitando quelle parole che, da sempre, le davano la forza di rialzare il capo e continuare a combattere – Sono il padrone del mio destino, il capitano della mia anima. -*
Percepì il suo odore, il calore di quel corpo risorto dalle ceneri, prima ancora che le sue braccia l’avvolgessero. Trovò in quel’abbraccio tutto il conforto che non aveva avuto sere prima, quando si erano offerti l’uno all’altra solo per il gusto di appagare un bruciante, animalesco, bisogno.
Si chiese cosa l’avesse spinto a concederle quella tenerezza che, prima, le aveva negato, poi si accorse che non le importava la risposta.
Immaginò il sorriso lacrimoso di sua sorella: “hai una seconda possibilità, Ash: non sprecarla.”
Si abbandonò completamente tra le sue braccia, e, dopo un attimo di sorpresa, lui la strinse con così tanta forza da lasciarla senza fiato.
E, all’improvviso, le fu chiara una verità assoluta, una certezza imprescindibile: non avrebbe sopportato di perderlo di nuovo.
- Perché all’improvviso mi sento così bene?-
Lo sentì ridacchiare mentre le posava un bacio lieve sulla curva della mandibola, strappandole un sorriso sognante – Perché abbiamo smesso di farci la guerra …-
Strofinò il naso contro la sua guancia ispida, resistendo alla tentazione di baciarlo, se l’avesse fatto nemmeno l’esplosione di una nova avrebbe potuto fermarla, ma non voleva che la passione si prendesse quell’attimo di tenerezza – Conosco le mie ragioni, ma non le tue.-
Le sfuggì un lieve gemito di protesta quando si staccò da lei e andò a sedersi sul divano, il libro stretto tra le mani come una reliquia sacra – Javik …- rispose, semplicemente. Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
Nessuno sulla nave era rimasto indifferente di fronte alla storia di Javik e alla fine dei Prothean.
Ciò che stavano vivendo, l’invasione che la galassia era costretta ad affrontare, era come l’ennesima replica di uno spettacolo ormai usurato.
La fine era scontata, la trama pure; la sola differenza erano gli attori.
Di fronte alla morte di un intero popolo, alla distruzione di centinaia di mondi, quale importanza potevano avere vecchi litigi e sciocche incomprensioni?
Si sedette accanto a Shepard intrecciando le dita con le sue – Una volta ho fatto un sogno.- sussurrò – Ho sognato una collina innevata e una casa di legno, c’erano le luci accese e il fumo usciva dal camino, nel prato un’altalena e un gatto che miagolava per entrare. Io camminavo nella neve, sprofondata fino alle ginocchia, la luna era alta nel cielo e non c’erano nubi all’orizzonte. Ricordo la porta che si apriva e qualcuno corrermi incontro, lasciandosi dietro piccole orme nella neve, mi svegliai in quel momento, sorridevo, ma quando toccai il cuscino lo trovai umido di lacrime.- sollevò le gambe sul divano, abbassandosi fino ad appoggiare la testa sul grembo di Shepard. Lui le passò le dita tra i capelli, distrattamente – Non ti ho visto nel sogno, Alexander, ma so che eri lì, da qualche parte, la tua essenza permeava ogni cosa: era nella neve, nel chiarore delle stelle, nella brezza leggera che mi accarezzava il viso, in due piccoli occhi azzurri da bambino …- reclinò leggermente il capo per poterlo guardare in viso, nei suoi occhi azzurri si rifletteva il chiarore delle stelle e sul viso volitivo c’era un’espressione strana, impossibile da descrivere: serenità e malinconia assieme – Si può essere felici e tristi allo stesso tempo?- domandò in un sussurro – Si può desiderare qualcosa augurandosi che non accada mai? Perché è questo che provo ogni volta che ripenso a quel sogno.-
Alex batté piano le palpebre e la sua espressione lentamente mutò, mentre le sue labbra si piegavano in un piccolo sorriso e abbassava lo sguardo su di lei.
Amore … una parola mai approdata sulle loro labbra e mai rivelata da gesti che esprimevano solo rabbia o disprezzo, eppure, inaspettatamente, fu ciò che lesse nel suo sguardo, un amore che non aveva mai conosciuto e che, come quel sogno appena descritto, la spaventava ed estasiava allo stesso tempo. Negli occhi di Shepard vide una promessa, una promessa di cui non conosceva il contenuto, ma che, inconsciamente, accettò.
Le dita del comandante s’insinuarono nei suoi capelli, delicate e gentili – Era solo un sogno, Ash, solo un sogno.- mormorò, distogliendo lo sguardo.
Lei reclinò il capo di lato, perdendosi nell’infinito spazio dinnanzi a sé, una strana calma li avvolse e le parve di essere su una spiaggia nera e piatta, una spiaggia dove non c’erano più stelle. Un pensiero le affiorò alla mente, un pensiero vagabondo, che apparteneva al mondo dei sogni, quel mondo confuso e misterioso in cui può accadere qualsiasi cosa.
E siamo qui, come in una piana che s’oscura.
Sentì Shepard sfogliare delicatamente le pagine e l’odore, pastoso, della carta le sfiorò le narici, umile e delicato: era l’odore di casa, quando suo padre si sedeva sul bordo del letto e iniziava a leggere, con quella sua voce roca e melodica, versi scritti da mani sapienti e menti gentili.
Chiuse gli occhi quando Shepard iniziò a leggere, cullata da quella voce che le ricordava lo sciabordio di onde lontane. I versi scorsero leggeri sulle sue orecchie, senza che ne cogliesse il reale significato, fu solo quando iniziò l’ultima strofa che riconobbe la poesia; il cuore perse un paio di battiti, il sudore le imperlò la fronte ma, rapida com’era venuta, l’ansia sfumò, sostituita da un lieve torpore.
- … il mondo, che pare stendersi dinanzi a noi come una terra di sogni, così vario, così splendido, così nuovo, non possiede in realtà né gioia, né amore, né luce, né certezza, né pace, né sollievo nel dolore; e siamo qui, come una piana che s’oscura, sbattuti tra confusi allarmi e lotte e fughe, dove eserciti ignoranti si scontrano di notte. *-
Le palpebre divennero pesanti e, senza accorgersene si addormentò.
Sognò una piccola casa di legno in cima ad una collina innevata.
 
 
 
Note
 
Diventa sempre più dura ad ogni capitolo, sarà che il romanticismo non fa per me.
Ho riscritto questo due volte prima di arrivare alla “cosa” che avete appena finito di leggere o su cui vi siete miseramente addormentati.
Non mi accontento facilmente ma, questa volta, la disperazione mi spinge ad essere complessivamente soddisfatta ( probabilmente, anzi sicuramente, dipende dalla presenza di versi bellissimi non scritti da me) … lanciatemi pure addosso pomodori marci, ma è stata una tale fatica scrivere questa misera paginetta che non la cambierei nemmeno se minacciata di torture indicibili. ( però, vi prego, non fatemi ascoltare Justin Bieber, pietà!)
I miei deliri di fine pagina si fanno sempre più molesti, temo che la cella imbottita presto non sarà più sufficiente a contenerli…
 
Les jeux sont faits, rien ne va plus!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

* William Henley “Invictus”. Per chi ama questa poesia, come me, consiglio questa versione: http://www.youtube.com/watch?v=IDmVvaAN7gg
* Matthew Arnold “Dover Beach”.

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Capitolo 16
*** La macchina che sognava la vita ***


http://www.youtube.com/watch?v=a0nUDLsDjwQ

Cittadella, 2186

 
Ricordo il giorno in cui nacqui.
Aprii gli occhi e mi accorsi di esistere. Fu una sensazione strana che le parole non possono descrivere, per il semplice fatto che io, di parole, ancora non ne possedevo.
Le imparai più tardi, quando la donna che mi aveva svegliato mi disse chi ero e cosa si aspettava da me.
Lei era la ragione del mio esistere, mi fece dono del soffio vitale, estrasse il mio corpo inabile dalla culla di vetro in cui ero stato creato.
M’insegnò a parlare, combattere, pensare, m’insegnò il dolore e il piacere.
Ero stato concepito nel buio, destinato a non essere niente, solo una sacca di carne ricolma di organi e sangue, un mero strumento destinato ad un fine più grande. Non era previsto che nascessi, che acquisissi una coscienza ed una volontà.
Ma, per i motivi sbagliati, ciò che i miei padri temevano accadde: la donna che mi trovò, quella donna che fu madre e amante, mi diede gli strumenti per realizzare un progetto grandioso. Un progetto che, da suo, divenne mio: trovare il mio posto nel mondo. Solo che, quel posto che mi spettava di diritto, era già occupato da un altro uomo.
Io ero quell’uomo e lui era me; avevamo in comune tutto, ma non eravamo simili in niente. Lui era debole, io forte, lui vecchio, io giovane.
Ero ciò che avrebbe sempre voluto essere, avevo tutti i suoi pregi e nemmeno uno dei suoi difetti.
Nacqui arrogante e spavaldo, nacqui impietoso e ambizioso. Ero convinto di essere ciò di cui la galassia aveva bisogno, non conoscevo etica o morale, ridevo di amore e speranza, mi compiacevo della mia solitudine.
Mi domando cosa sarei diventato se a trovare il mio corpo inanimato fosse stata una persona di animo gentile e nobile spirito.
Sarei forse stato un uomo diverso? Avrei avuto un destino diverso?
Quale che sia la risposta, ho un'unica certezza: io sono ciò che il mondo ha fatto di me.
Prima ancora di abbracciare la morale della mia genitrice, quando appresi qual era la sola ragione della mia esistenza, un’onda cieca mi travolse, gli occhi si appannarono, il cuore accelerò i battiti, la mascella scricchiolò e il sangue mi ribollì nelle vene. Solo più tardi appresi che quella cacofonia di sensazioni aveva un nome: rabbia. E dietro quel nome ce n’era un altro: odio.
La verità che si celava dietro la mia creazione, anche se svelata da un’anima gentile, non avrebbe suscitato in me niente di diverso.
Come potevo provare amore, gioia, pietà, tenerezza, se il mio essere non era altro che un numero, nemmeno il più importante, in un’equazione scritta per la salvezza di quell’io migliore e mille volte più prezioso?
No, un’anima gentile non avrebbe cambiato la mia natura, non avrebbe trasformato il leone in agnello. Chi di voi, voi che leggete e giudicate, chi di voi, mi chiedo, avrebbe agito in maniera diversa? Alzi la mano, faccia sentire la sua voce chi, al mio posto, avrebbe accettato il ruolo di macchina che sogna la vita. Quella vita, che potevo solo sognare, quella vita, io, la volevo.
La donna che mi trovò non m’insegnò ad essere un uomo gentile, ma non era quella la lezione che desideravo apprendere: io volevo essere un uomo temibile e lei seppe istruirmi a dovere.
Elaborammo un piano, noi due, un piano per prendermi ciò che, per diritto di nascita, mi spettava: il mio nome e il mio ruolo nel mondo. Cosa volesse lei non m’interessava, immagino desiderasse un fetta di quel potere, di quella gloria, che io mi sarei preso.
Le lasciai credere che avrebbe avuto quello per cui combatteva, come lei lo fece credere a me; eravamo strumenti, entrambi, l’uno nelle mani dell’altra. Ci chiamavamo “soci” ma eravamo pronti a tradirci, a saltarci reciprocamente alla gola per il nostro tornaconto. Combattevamo per noi stessi e nient’altro, ma eravamo consapevoli di non poterlo fare da soli.
Il nemico da sconfiggere era temibile ma, come tutti gli uomini onesti, prevedibile. Catturarlo non fu semplice, ma nemmeno impossibile.
Inganno, tradimenti e minacce bastarono per stanarlo.
Mi feci beffe delle sue debolezze, delle zavorre emotive che lo inchiodavano al suolo, impedendogli di raggiungere quella grandezza che io incarnavo.
Gli tolsi ogni cosa e la feci mia: il nome, la nave, il grado … avevo già il suo volto e il suo DNA, non mi serviva altro. Solo una cosa gli lasciai: il suo equipaggio.
Non ne avevo bisogno, io solo bastavo.
Che me ne sarei fatto di uomini che si credevano miei pari? Un leone non può comandare un esercito di lupi, per questo mi circondai solo di capre.
Se mandi una capra al macello ti obbedirà, se ci mandi un lupo si ribellerà.
Il mio errore fu questo: sottovalutai i lupi e mi affidai troppo alle capre.
Quando si giunse allo scontro, quando caso o fortuna permisero all’altro di sfuggire alla trappola che gli avevo teso, quando arrivò il momento, per entrambi, di raccogliere ciò che avevamo seminato, mi accorsi di non aver seminato altro che vento e, inevitabilmente, tra le mani non mi rimase altro che tempesta.
Nella stiva di quella nave che apparteneva ad entrambi, dove lupi e capre si scontrarono per il volere di due leoni, mi ritrovai a contemplare quella solitudine che tanto avevo vantato.
Quando presi possesso della Normandy, quella nave che pretendevo essere mia quanto sua, e mi sedetti al posto del pilota ad ammirare lo spazio infinito che si apriva oltre le braccia della Cittadella, immaginai di essere l’unico uomo in tutto l’universo. Mi contemplai lì seduto dentro una nave stellare, pronto per un viaggio ai confini della galassia dove non ci sarei stato che io, nell’oscurità, a guardare le stelle. Oltre i confini dei mondi avrei finalmente avuto quella libertà per cui avevo ucciso e mentito e tradito.
Avevo un nome e una nave, avevo il rango di Spettro e la gloria di un eroe, ma continuavo ad essere niente.
Nell’esatto momento in cui mi accaparrai di quel ruolo che avevo così disperatamente cercato, mi resi conto di non averlo mai voluto.
Che me ne facevo di una vita che non avevo vissuto? Di guerre che non avevo combattuto? Di sogni che mai avevo sognato?
Ero un neonato nel corpo di un uomo, ero solo una macchina che sognava la vita. E oltre le stelle, in quella solitudine che avvolgeva la galassia, tanto lontano da lasciarmi alle spalle il peso di quel nome che avevo rubato, forse là avrei trovato libertà e futuro.
Sognavo una solitudine magnifica.
Ma la solitudine che trovai nella stiva della Normandy era ben lontana dall’essere magnifica. Era un altro tipo di solitudine.
Per provare quel tipo di solitudine non c’è bisogno di navi stellari, l’avevo sperimentata altre volte, in tutti i luoghi che visitai nella mia corta vita.
Era la solitudine delle persone che non sanno da dove vengono, né dove sono state, né dove andranno. È la solitudine degli invisibili, di chi siede in disparte a guardare il mondo che gli scorre davanti senza riuscire a fermarlo.
Non c’è alcuna grandezza in questa solitudine, nessun poeta la descriverà nei suoi versi e nessun cantante la metterà mai in musica. È solitudine patetica e squallida, che ha il sapore amaro del compatimento.
Ci si può sentire soli mentre si guardano le stelle, talvolta può essere doloroso, ma è molto più doloroso sentirsi soli in mezzo alla gente. Molto di più.
Fu questa solitudine che provai, guardando uomini pagati per combattere che morivano solo perché non avevano un posto in cui fuggire e, per l’ennesima volta dal momento che avevo saputo della sua esistenza, provai una bruciante, devastante, invidia per quell’uomo che, in fin dei conti, non ero io.
Aveva solo due persone al suo fianco, un Krogan e un Turian, erano solo due contro decine di mercenari, eppure non vacillarono, non arretrarono di un passo, continuarono a combattere per lui, nonostante le ferite o la stanchezza.
Sarebbero morti per lui, senza esitare.
Nessuno sarebbe morto per me.
Quando, alla fine, i lupi si sbranarono le capre, mi ritrovai costretto ad affrontarmi allo specchio. Combattevamo nello stesso modo, con la stessa forza, le stesse mosse, la stessa rabbia.
Non lottavo più per prendere il suo posto, ora sapevo che non sarei mai stato lui, volevo ucciderlo per non dover mai più sentire il sapore dell’invidia nella bocca.
Io non sconfissi lui e lui non sconfisse me. Ci ritrovammo entrambi a penzolare fuori dal portellone mentre la Normandy sfrecciava impazzita tra i palazzi della Cittadella.
Eravamo lì, aggrappati alla vita, e quasi risi di lui mentre lo guardavo lottare contro una morte che sarebbe giunta, uguale, per entrambi. 
Ancora una volta mi sbagliavo.
Il Krogan e il Turian arrivarono a salvarlo, rischiarono le loro vite per la sua, come avevano sempre fatto.
Nessuno venne a salvare me.
Nemmeno lei.
Lui si rialzò, immaginai che avrebbe riso di me per poi uccidermi: io l’avrei fatto.
Ma lui non era me ed io non ero lui.
Mi tese la mano dicendomi che mi avrebbe salvato.
- E poi?- sibilai, offeso dalla sua compassione.
- E poi vivrai.-
Guardai l’uomo che io non ero, in piedi su una nave che non era mia, circondato da amici che non avrei mai avuto – Per cosa?-
Mi lascai andare. Caddi e morii.
Morendo provai la stessa sensazione che avevo provato nascendo.
Sono stato un uomo invidioso, spesso spietato e violento, talvolta sono stato un uomo triste.
Ma voglio credere di non essere mai stato un uomo cattivo.
Se mio odiate per ciò che ho fatto, per ciò che permisi fosse fatto, avete la mia comprensione, ma se nel vostro cuore non provate almeno un briciolo di compassione ne sarei sorpreso.
 
 
 
Note
 
Immagino che per chi non abbia giocato al DLC Citadel questo capitolo risulti assai oscuro (spero che sia un po’ più chiaro per chi invece l’ha giocato).
Nel DLC Shepard si deve scontrare con niente di meno che il suo clone che cerca di rubargli il nome, la nave e il titolo di Spettro.
Il clone di Shepard fa una vita misera e, altrettanto miseramente, muore. Volevo solo dedicargli un piccolo spazio perché penso che, nonostante tutto, lo meriti.
 
P.S. Questo capitolo è stato scritto dal mio clone perciò, per qualsiasi rimostranza, prendetevela con lei … se la trovate XD
 

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Capitolo 17
*** Di che cosa hai paura? ***


http://www.youtube.com/watch?v=caQe8AH8URk

Sistema Psi Tophet,
2186

 
Il tempo trascorso nelle tenebre gli sembrò infinito.
Vagò attraverso quel limbo gelido e tetro per minuti lunghi come secoli e attraverso l’oscurità voci antiche come i mondi gli parlarono, rievocando un passato tanto lontano da non essere mai stato conosciuto.
Si trovava in una piana oscura, i piedi posavano sul nulla e il nulla lo circondava, davanti a lui sfilavano volti che conosceva ma a cui non riusciva a dare un nome, c’era qualcosa di grottesco nel modo in cui muovevano le labbra per far uscire una voce che non era la loro.
Ripensò a ciò che gli era stato rivelato, a quel frammento di passato che gli era stato donato; negli abissi più profondi di un mondo senza terre, aveva scoperto che quel suo nemico inconoscibile aveva avuto un inizio.
Non esisteva dall’inizio dei tempi, non era apparso con la creazione e il creato, il Big Bang, che aveva originato la galassia, i pianeti, le stelle, le nebulose e i buchi neri, non aveva generato i Razziatori. All’inizio della vita la morte non c’era.
I Razziatori erano solo un errore, un errore comune, banale, ingenuo. Erano il tentativo di domare la vita ed imbrigliare la morte, erano figli dell’arroganza di esseri ignoranti e saccenti che avevano preteso di ergersi a dominatori del caos.
La vita era stata domata, la morte imbrigliata, il caos soggiogato e un dio era stato creato. Un dio di logica e calcolo, un dio geniale ma privo di anima. Vita e morte divennero formule e tutto ciò che rimase fu l’intelligenza.
Gli esseri viventi divennero numeri e le loro azioni semplici equazioni di quelle formule creatrici di vita e di morte. Quando l’una finiva iniziava l’altra in un ciclo destinato a ripetersi per l’eternità.
No, non per l’eternità.
Spalancò gli occhi mentre i suoi polmoni si espandevano nel petto alla disperata ricerca di aria, sentì la gola bruciare mentre lingue di fuoco s’insinuavano nel petto gelato. Tossì e rantolò cercando di mettersi seduto, gli sembrò di essere riemerso dalle gelide profondità degli abissi.
- Shepard!- Ashley era china su di lui, mortalmente pallida – Stai bene?-
Si issò sul sedile, cercando di dissimulare il tremito incontrollabile di braccia e gambe, annuì, sfregandosi le tempie – Tutto bene, mal di testa a parte.- gracchiò.
Ashley si rialzò, gelida come gli abissi dal quale era riemerso – Non farlo mai più.- sibilò prima di raggiungere Steve nella cabina di pilotaggio.
Lanciò un’occhiata perplessa a Liara che si strinse nelle spalle e indicò il video terminale – C’è Ann Brissom in linea.-
Shepard annuì aprendo il collegamento, comunicò ad Ann tutte le sue scoperte e, alla domanda se il Leviatano avrebbe combattuto al loro fianco, rispose di sì, tenendosi per sé gli innumerevoli dubbi generati da quell’incontro ai limiti della realtà.
I Leviatani avrebbero combattuto i Razziatori, di questo era certo, ma quello che sarebbe accaduto dopo … “il nemico del mio nemico è mio amico”, per il momento era l’unica cosa che gli doveva interessare, ma non poteva fare a meno di chiedersi se tutto ciò che stava facendo per salvare la galassia adesso non l’avrebbe condannata dopo.
I Racni, i Krogan, i Geth e ora persino il Leviatano … scacciò quei pensieri con un secco gesto del capo mentre rabbrividiva sotto la sua armatura: non aveva mai provato così tanto freddo in tutta la sua vita.
- Quando arriviamo dovresti farti vedere dalla dottoressa, comandante. – suggerì Liara, studiandolo con occhio critico – Te la sei vista brutta là sotto.-
Scrollò le spalle – Non più di altre volte.-
L’Asari socchiuse gli occhi – Sei quasi morto, Shepard.-
Lui sorrise, sfrontato – Sono stato peggio.-
Un leggero sobbalzo della navetta li avvertì che erano arrivati, il portellone si aprì mostrando la stiva della Normandy: mai visione gli fu più gradita.
Ashley gli passò davanti – Stai solo sprecando fiato, Liara.- commentò, caustica – Certa gente non impara mai.-
Shepard la fissò, sconcertato da quell’astio che non credeva di meritare. Balzò a terra a sua volta, ma le gambe cedettero e sarebbe crollato poco gloriosamente in terra, se Steve non l’avesse sorretto.
Ash gli lanciò un’occhiata di compatimento prima di voltarsi ed entrare nell’ascensore.
- Williams!- il richiamo si perse in un colpo di tosse e fu costretto ad aggrapparsi a Cortez per non cadere.
- Devi andare in infermeria, comandante.- disse, preoccupato, il suo pilota.
Shepard scosse il capo, ostinato – Sto bene.- ansimò, liberandosi dalla presa di Steve – Ho solo bisogno di farmi un doccia.-
Ignorando le proteste di Steve e Liara raggiunse l’ascensore, mentre quel gelo, che lo perseguitava fin dal suo risveglio, non accennava a scomparire.

http://www.youtube.com/watch?v=_BmSwtjN2C0
 
Dopo una bella doccia bollente e con una tazza di caffè fumante in mano si sentì un po’ meglio, almeno fisicamente.
Malgrado tutto non riusciva a convincersi che arruolare il Leviatano fosse stata una buona idea. Javik aveva ragione: non c’era altro luogo, per loro, se non l’abisso in cui li aveva trovati, eppure lui, da quell’abisso, li aveva fatti uscire.
Ripensò al paragone che Javik aveva fatto con Lucifero e lo trovò assolutamente calzante, come un angelo cacciato dal paradiso il Leviatano si era trovato confinato nelle profondità della terra, esiliato, per propria mano, dalla sua casa; e ora lui, Shepard, lo aveva liberato, un diavolo alieno e assetato di vendetta.
Un lieve colpo alla porta lo distolse dai suoi pensieri – Avanti.- disse.
Ashley entrò, leggermente a disagio, come una bambina che si aspetta una punizione dopo aver combinato un guaio.
- Ash …- mormorò, sorpreso – Non ti aspettavo.-
Lei gli rivolse un lieve sorriso – Lo so. –
Calò un silenzio imbarazzato durante il quale il tenente si guardò intorno, studiando la cabina.
- Vedo che è tornato al suo posto.- sorrise, indicando il criceto che ronfava tranquillo in un angolo della gabbietta – Si è ripreso dal trauma?-*
Shepard si strinse nelle spalla – Non gliel’ho mai chiesto, ma non ringhia più quando mi vede, perciò suppongo che sia tutto risolto.-
- A loro non è andata molto bene, invece.- commentò indicando l’acquario vuoto.
Shepard bevve un sorso di caffè – Temo che il clone non c’entri con la loro morte.- ammise - Devo essermi dimenticato di dar loro da mangiare.- Ashley gli lanciò un’occhiata di rimprovero – Però ho tolto i cadaveri, è già un progresso.- esclamò, sulla difensiva.
- Lo sai che vendono degli alimentatori ittici automatici, comandante?-
- Non ho intenzione di spendere 25000 crediti per degli stupidi pesci.-
Ash scosse il capo, rassegnata.
Shepard finì il suo caffè e lo appoggiò sul tavolino – Perché sei qui, Ash? Mi sembrava fossi arrabbiata.-
- Lo ero.- rispose, esaminando con cura i modellini appesi nella bacheca – Lo sono ancora in effetti; ma sono stanca di litigare e portarti rancore. È solo tempo perso.-
Si sentì quasi offeso dall’indifferenza con cui pronunciò quelle parole – Invece parliamone: che cos’è successo questa volta?-
Ashley prese la foto appoggiata sulla scrivania, quella che immortalava loro due e Kaidan davanti alla SR1 – Sei stato su Akuze, hai visto la tua tomba.- constatò, passando le dita sulla fotografia lisa e stropicciata.
Shepard annuì – Sei stata tu, vero? A lasciare la foto ed incidere le parole di quella canzone …-
Ashley si morse il labbro e appoggiò la foto sul tavolino, a faccia in giù, strinse le braccia al petto, senza guardarlo – Ti ho ascoltato morire, Alex. -
Shepard le appoggiò una mano sulla spalla – Sono tornato.-
Lei lo scansò – Per cosa?- ringhiò – Perché potessi vederti morire di nuovo? Perché ti seppellissi un’altra volta?-
All’improvviso capì il motivo della sua rabbia e si sentì sopraffare da un sentimento strano: vergogna e compiacimento insieme – Ash …-
- Che cosa credevi di fare buttandoti con quel coso negli abissi? – lo aggredì lei, furiosa - Affrontare il Leviatano da solo … sei forse impazzito?-
Shepard allargò le braccia – Non c’erano molte altre alternative, e poi è andata bene, no?-
Ash strinse i pugni e gli rivolse una smorfia disgustata – Non hai nemmeno pensato alle alternative! Solo perché questa volta è ti è andata bene non vuol dire che fosse la scelta giusta.- scosse il capo – Tu hai molta fortuna, comandante, e poco buon senso. Ma anche la tua fortuna, prima o poi, finirà e allora desidererai aver avuto un po’ di buon senso.- stava tremando.
La prese per un braccio, attirandola a sé, la strinse, ignorando i suoi tentativi di divincolarsi - È andato tutto bene, sono ancora qui. La fortuna è ancora dalla mia parte.-
Ash si abbandonò contro il suo petto, rinunciando alla lotta – Per quanto ancora, Alex? Tu sei qui adesso, ma domani tornerai là fuori a rischiare la vita, come hai sempre fatto.-
- Che cos’altro dovrei fare? Sono un soldato Ash, rischiare la vita è il mio mestiere.-
- E che cosa ne sarà di noi se dovessi morire un’altra volta, ci hai pensato?- Ashley alzò il capo, rivolgendogli uno sguardo cupo – Che ne sarà della galassia, dell’umanità, dell’equipaggio?- abbassò gli occhi - Che ne sarà di me? –
Lui sospirò – Con o senza di me questa guerra va combattuta, e vinta. La galassia non si arrenderà, nessuno lo farà. -
Ash si divincolò dalla stretta – E io, Alex, cosa credi che farò?-
- Andrai avanti, come hai sempre fatto.- rispose lui, sicuro.
Gli voltò le spalle, le braccia strette al petto, lo sguardo fisso sull’acquario vuoto – Non questa volta, Alex. - raddrizzò le spalle, fiera – La prossima volta che decidi della tua vita o della tua morte ricorda che scegli il destino di entrambi.-
Avrebbe voluto prenderla, scuoterla, dirle che era una follia, convincerla dell’insensatezza di quell’affermazione, ma la parole, semplicemente, si rifiutarono di uscire. C’era qualcosa di meraviglioso in quella frase così dolorosamente sincera. Erano parole che mai avrebbe voluto sentire ma che attendeva da tutta la vita.
Era commuovente sapere che, da qualche parte nella galassia, c’era qualcuno che non poteva vivere in un universo in cui lui non c’era.
Passò le dita tra i suoi lunghi capelli neri, sfiorandoli appena – Me lo ricorderò, Ash. Mi dispiace non averlo fatto prima.-
Lei si voltò e gli sorrise, un sorriso triste e malinconico – Grazie.- sussurrò prima di baciarlo.
Fu come baciarsi per la prima volta: le loro labbra si sfiorarono timide, quasi timorose d’incontrarsi ed infine si ritrovarono aggrappati l’uno all’altra, incapaci di separarsi, due puntini di luce dispersi nell’universo.
Le loro mani si cercarono, esitanti, e s’insinuarono sotto i vestiti senza fretta, togliendo uno strato dopo l’altro, mentre con tocchi leggeri si esploravano l’un l’altra, scoprendosi per la prima volta.
Non c’era mai stato posto per dolcezza o tenerezza prima. Non c’era mai stato posto nemmeno per l’amore.
Fino a quel momento c’era stato solo il desiderio, una pazzia temporanea, simile a un vulcano che erutta per poi placarsi, lasciando dietro di sé solo una landa desolata.
Ma questa volta, accanto a quella passione bruciante che faceva tremare loro le mani, c’era una premura dolce, gentile, che spingeva i loro occhi a cercarsi, mentre creavano l’uno la felicità dell’altro.

http://www.youtube.com/watch?v=RxabLA7UQ9k

Quando si svegliò la cabina era buia, c’erano solo le stelle a rischiarare i loro corpi abbandonati sul letto.
Shepard si sorprese nel rendersi conto che, quel gelo che lo perseguitava da quando aveva incontrato il Leviatano, ora era sparito.
Ashley era accanto a lui, sdraiata sulla pancia, le lenzuola attorcigliate intorno alle gambe affusolate, i capelli neri sparsi sul cuscino.
Shepard sorrise mentre faceva scorrere le dita lungo la sua schiena, seguendo la linea della colonna vertebrale. La pelle di Ash era morbida.
Sfiorò una sottile cicatrice bianca, appena sotto la scapola e si chiese come mai non l’avesse notata prima, forse non si era mai fermato a guardare, troppo preso da … da cosa? C’era qualcosa di più importante di quello?
Ash sbadigliò e voltò il capo verso di lui, gli rivolse un sorriso assonnato prima di alzare lo sguardo e perdersi tra le stelle che sfrecciavano sopra di loro. Spalancò gli occhi, come una bambina di fronte ad un regalo inaspettato, persino lo splendore dell’osservatorio sfumava alla vista di quel tetto punteggiato di stelle.
- Sembra di vagare tra i mondi.- mormorò Ash, con una punta di meraviglia.
Shepard lanciò una rapida occhiata alle stelle, prima di distogliere velocemente lo sguardo. Più il tempo passava più quella vista lo inquietava, come se nell’infinito attorno a lui fosse scritto il suo destino. Sempre più sovente si ritrovava a fissare quei puntini luminosi, incapace di addormentarsi e allora chiudeva il portello, escludendo le luci del cielo ma ciononostante non riusciva a sfuggire il loro sguardo implacabile.
Ash si puntellò sui gomiti, ignara dell’effetto che quel panorama aveva su di lui - Conosci la storia di Sharra, la fanciulla che vaga tra i mondi*?-
Shepard si mise seduto – No, non la conosco.-
- La leggenda narra di una ragazza che vaga tra i mondi, attraverso i portali. Non si conosce l’inizio della sua storia, non si ha memoria del mondo da cui proviene e non c’è una fine da raccontare, forse non ci sarà mai.-
- E che cosa cerca, attraverso i portali?- domandò Shepard, intrigato suo malgrado.
Ash chinò leggermente il capo di lato, fissandolo – Cerca il suo amante dagli occhi di fuoco. Si era ribellato agli dèi così loro lo presero, non lo uccisero, lo portarono semplicemente via da lei, lontano. Da allora lo cerca.-
- Esistono infiniti mondi. Come potrà mai trovarlo?-
Ashley gli rivolse un sorriso malinconico – Ha tutto il tempo che le occorre: Sharra non ha età, non ha fine.-
Un brivido talmente forte lo scosse che persino Ash se ne accorse, si accigliò, sporgendosi verso di lui, preoccupata – Alex …-
Lui afferrò la coperta, coprendo entrambi – Avevo solo freddo, Ash, solo freddo …- lei gli si strinse contro, non del tutto convinta – Credi che ne valga la pena?- le domandò, dopo un attimo di silenzio.
- Cosa?-
- Passare l’eternità alla ricerca di qualcosa che non puoi trovare.-
- Prima o poi lo troverà.-
Shepard reclinò il capo all’indietro, guardando quelle stelle che si facevano beffe di lui – Sono stati gli dèi a rapire il suo uomo, giusto?- Ash annuì – E non vogliono che lo ritrovi, vero?- annuì di nuovo – E allora perché le avrebbero concesso l’eternità per cercarlo? Io credo che il suo uomo sia morto e che la stia aspettando, dall’altra parte, ma lei non arriverà mai. Vagherà tra i mondi per l’eternità e così la vendetta degli dèi sarà compiuta: non si ritroveranno mai.-
Quando Ashley parlò di nuovo la sua voce sembrava provenire da molto, molto lontano – Se fosse vero sarebbe la più atroce delle punizioni.-
Shepard strinse i pugni – Sì, lo è. -
Ashley si scostò leggermente, fissandolo con quei suoi occhi grandi e seri, conosceva già la risposta alla domanda che stava per porgli:  – Di che cosa hai paura, Shepard?-
Lui fissò il cielo sopra di lui e all’improvviso le stelle parvero spegnersi, oscurate da un’ombra scura, enorme, dalla forma vagamente umana.
L’ombra nel cielo guardò giù, verso di lui, dentro di lui, si sentì invadere da un’oscurità che gli ghiacciò l’anima.
Chiuse gli occhi, quando li riaprì, un istante dopo, non c’era più nulla.
Ashley lo stava ancora guardando.
- Di cosa ho paura mi chiedi?- sussurrò con voce roca mentre qualcosa dentro di sé si contorceva, implorandogli di tacere, perché solo così avrebbe potuto dimenticare. Non lo ascoltò:  – C’è un’unica cosa che mi fa paura: l’eternità.-
 

* Per Shadow_sea: lo so che ci tenevi al criceto ;)
* “La solitaria canzone di Laren Dorr”  George R.R. Martin

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Capitolo 18
*** Milite ignoto ***



Premessa

Per chi è facilmente impressionabile sconsiglio di guardare il video della seconda canzone che ho inserito, sono scene del film "Black Hawk Down" e una in particolare è davvero ... difficile da digerire. (minuto 1:30-1:49)

http://www.youtube.com/watch?v=k-cW0AtnGeE

Thessia, 2186
 
Sognò una battaglia, una grande battaglia, su un pianeta che non conosceva, a difesa di un popolo che non era il suo, in una città morta, senza luce.
Ovunque guardasse vedeva persone morire: Turian, Asari, Umani, Volus, Batarian … poco importava la razza, tutti soccombevano, lottando invano contro creature immortali.
C’era Talysa in quel sogno, veterana di mille battaglie, la più abile biotica che avesse mai conosciuto, sopravvissuta da sola, per due giorni, dietro le linee nemiche. L’aveva creduta morta, l’aveva pianta, aveva pregato la Dea perché la riportasse a lei e, alla fine, Talysa era tornata. Solo che non era più lei.
Nel sogno come da sveglia, incrociò i suoi occhi morti, neri e crudeli, il volto distorto nel ghigno dei teschi.
Si svegliò di soprassalto, madida di sudore, d’istinto la mano corse al fianco, dove teneva la pistola, il panico le ostruì la gola quando non la trovò.
Si guardò intorno, frastornata e spaventata, incapace di riconoscere il luogo in cui si trovava: una stanza da letto, semplice ed elegante, appena rischiarata dalla luce soffusa che filtrava dalla finestra oscurata.
Qualcosa si mosse al suo fianco e la mano scattò da sola, trovando immediatamente una gola da stringere, l’esclamazione strozzata che accolse il suo gesto le ricordò il rantolo delle bestie che aveva combattuto – Ferani!- esclamò una voce familiare e sconosciuta insieme – Ferani sono io, Lya!-
Lya … no, non era possibile: Lya era su Thessia, al sicuro.
- Dove sono?- gracchiò, allentando leggermente la presa.
Dita morbide sfiorarono la sua mano – Sei a casa, Ferani.-
Casa … casa era lontana, troppo lontana e lei non ci sarebbe mai tornata, lo sapeva, la persona che le stava parlando non era Lya, era solo una bugia, un inganno, come con Talysa … eppure le sue dita, come rispondendo al comando di qualcun altro, si aprirono.
La persona che fingeva di essere Lya scese dal letto, rapida, e si avvicinò alla finestra, Ferani fu presa dal panico: ecco, adesso l’avrebbe uccisa, aveva commesso un errore, l’ennesimo errore.
Ci fu un suono secco, metallico, simile a un colpo di fucile, ma Ferani non sentì alcun dolore e, un istante dopo, la stanza fu invasa da una luce tanto forte da costringerla a chiudere gli occhi.
Quando finalmente riuscì a riaprirli vide Lya, con un sorriso splendente e nervoso, ferma davanti ad una finestra enorme: una lastra di puro cristallo, più alta di lei, tanto grande da riempire tutta la parete.
Al di là del vetro era mattina, un mattina splendida e tersa, illuminata dal tenue bagliore rosato di quella stella che avrebbe riconosciuto tra milioni: il sole di Thessia.
Alte torri si stagliavano contro il cielo rosa, tanto sottili da poter essere scambiate per semplici illusioni.
Si alzò, sbalordita e meravigliata, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime alla vista di quel panorama che aveva disperato di rivedere.
Era a casa.
Rivolse un’occhiata colpevole a Lya, ancora ferma davanti alla finestra, in attesa che il flusso della memoria facesse il suo corso, come ogni mattina
– Mi dispiace, Lya. - ripeté per l’ennesima volta – Non avrei dovuto farti correre questo rischio …-
Lya la zittì –  Sono stata qui da sola per tante notti, troppe, e presto lo sarò di nuovo. – allungò una mano, invitandola a prenderla – Non saranno i tuoi incubi a tenermi lontana.-
Ferani intrecciò le dita con le sue, stringendosi a lei, rassicurata dal respiro calmo e delicato della sua compagna, che spazzava via gli ultimi rimasugli dell’incubo.
Guardò le loro mani intrecciate, con quella tonalità di pelle così diversa: blu scuro, quasi viola, quella di Lya e di un azzurro tenue, delicato e soffuso, la sua.
- Hai sognato la guerra?- le domandò Lya, accarezzandole piano il dorso della mano.
Ferani appoggiò il capo contro la sua spalla – Sì, ero di nuovo su Irune, con Talysa.- strinse i denti, inghiottendo lacrime di rabbia e dolore – Avrei dovuto capirlo che era cambiata, avrei dovuto spararle non appena l’ho vista tornare, invece l’ho lasciata passare e ha decimato la mia squadra.-
Lya sospirò – Non pentirti di un atto di pietà. Non hai versato tu quel sangue.-
- E allora perché quel sangue sporca le mie mani?-
Lya aprì la bocca per replicare, ma venne interrotta da un breve segnale acustico proveniente dal computer. Ferani si avvicinò al terminale, aprì il messaggio e la sua espressione si fece cupa, tesa: la tregua era finita, era tempo di ricominciare a lottare.
Prese la divisa dall’armadio e cominciò a vestirsi, sotto lo sguardo perplesso di Lya – Cosa significa?-
- Un messaggio dal comando.- mormorò, senza guardarla – Devo andare.-
- Ma sei appena tornata!- esclamò Lya con voce pericolosamente acuta – Avevi detto che saresti rimasta per qualche giorno, non puoi andartene adesso, non così!-
S’infilò gli stivali, sempre attenta ad evitare lo sguardo della sua compagna – Sono un soldato, Lya, se non andrò io, chi lo farà? Chi proteggerà Thessia e le Asari?-
- Tu non …-
Lya s’interruppe mentre la porta si apriva e due occhi azzurri sbirciavano timidamente nella stanza – Perché stai piangendo, mamma?-
Ferani alzò lo sguardo, sorpresa, mentre Lya si asciugava frettolosamente le lacrime e si avvicinava alla bambina, accarezzandole delicatamente lo scalpo – Non stavo piangendo, tesoro. Come mai sei già sveglia?- sforzò le labbra in un sorriso – Dovresti essere a letto.-
La bambina strinse le labbra e rivolse a Ferani uno sguardo penetrante, duro, che non riuscì a sostenere – Non ho sonno.-
Lya le posò un bacio leggero sulla fronte – Vai in cucina, Asha, arrivo subito e ti preparo la colazione.-
Ferani sentì la morsa pungente della gelosia serrarle il petto. Asha era anche sua figlia, ma non l’aveva mai sentita tale. Condividevano lo stesso sangue certo, ma nient’altro, erano solo rivali che si contendevano l’amore di Lya.
Ferani non sapeva quasi nulla di sua figlia, aveva passato troppo tempo in giro per la galassia e ogni volta che tornava la voragine che le separava si ampliava. Era una voragine di parole non dette, storie non raccontate, ricordi non condivisi. Ferani la copriva di regali, ma sapeva bene, fin troppo bene, che tutti i giocattoli dell’universo non potevano sostituire quell’affetto che non aveva mai avuto il tempo di darle. Era figlia di Lya, non sua, ma l’amava, a suo modo.
- Lo faccio anche per lei.- esclamò, dura, rispondendo al muto rimprovero che Lya le aveva rivolto.
- Ha bisogno di un padre, non di un soldato.-
Ferani scrollò le spalle, sbarazzandosi di quel discorso fatto infinite volte senza mai risolvere niente.
- Dovete andarvene da qui.- annunciò, voltandosi verso la finestra.
Sentì Lya boccheggiare – Che cosa stai dicendo?-
- Thessia non è più sicura. –
- Il nostro pianeta non è mai stato attaccato: Racni e Krogan non ci hanno mai minacciate. Le Asari sopravvivranno anche a questo.- replicò Lya, orgogliosa.
Ferani scosse il capo – I Razziatori hanno invaso Khar’Shan, la Terra, Palaven, Irune, Dekunna, hanno distrutto Bekenstein, Tiptree, Illium e decine di altri mondi … se i Turian non sono riusciti a fermarli, come credi che lo faremo noi?-
- Thessia non è mai caduta.- ribatté ottusamente Lya, incapace di ipotizzare qualcosa che per lei era impensabile.
Ferani sospirò – Thessia non è mai caduta.- confermò – Fino ad ora.-
Afferrò Lya per le spalle – Non mi hanno richiamato in servizio per spedirmi in un sistema remoto come supporto per i combattenti Umani o Turian. Stanno mobilitando le truppe per proteggere Thessia: combatteremo qui.- Lya sgranò gli occhi – Dovete andarvene prima che sia troppo tardi.-
Le labbra di Lya tremarono – E dove fuggiremo? Esiste ancora un posto sicuro in questa galassia?-
- Sanctuary.- ci aveva riflettuto a lungo, aveva fatto molte ricerche: Sanctuary era l’ultimo posto sicuro rimasto.
Lya scosse il capo – Non possiamo permettercelo, Ferani …-
Si umettò le labbra, a disagio, estraendo dalla tasca due biglietti – Ho già pensato a tutto, le navette partono dall’astroporto ogni ora, ogni giorno. Pensavo avremmo avuto più tempo ma … dovete partire adesso.-
Lya prese i biglietti – Dov’è il tuo?- domandò con voce flebile.
- Conosci già la risposta.-
- No, non …-
- Mamma?-
Lya si voltò di scatto, gli occhi sgranati – Arrivo, tesoro!-
Ferani le posò un bacio leggero sulla guancia – Pensa ad Asha: la sua vita vale più della mia.-
Lya chiuse gli occhi - Vieni con noi.-
Strinse piano la sua mano – Non posso.- mormorò.
Uscì dalla camera, lasciando Lya pietrificata in mezzo alla stanza e raggiunse Asha, che aspettava, con espressione tesa, seduta al suo posto.
Esitò di fronte all’espressione accusatrice di sua figlia. Era come se sapesse già ciò che stava per dirle.
- Asha io …-
- Te ne vai di nuovo, vero?- era identica a sua madre, la pelle scura, quasi viola, gli occhi grandi ed espressivi, il naso piccolo e appuntito, eppure, per la prima volta vide, un po’ di sé in lei.
Il modo in cui aggrottava la fronte, il tono duro, intransigente, la mascella protesa in avanti, in segno di sfida … le assomigliava più di quanto avesse mai creduto e, all’improvviso, si rese davvero conto che era sua figlia.
Le si avvicinò, abbassandosi finché i loro occhi non s’incrociarono: gli occhi di Asha erano carichi di dolore e rimprovero, ma Ferani sostenne il suo sguardo come non era mai riuscita a fare prima.
- Non questa volta.- affermò – Io rimango qui, su Thessia, sarete voi ad andarvene.-
Di fronte alla sua espressione perplessa continuò – Presto i nemici saranno qui e il nostro pianeta non sarà più un luogo sicuro. Voglio che tu e la mamma andiate via, voglio che vi mettiate al sicuro, il più lontano possibile.-
Sentì Lya entrare in cucina, percepì la sua presenza alle spalle, ma non si voltò a guardarla: importava solo Asha adesso.
- E tu cosa farai?-
- Io difenderò il pianeta natale.- rispose con orgoglio – Così che un giorno voi possiate tornarci. Sconfiggeremo i Razziatori qui, su Thessia.-
Vide la bambina tremare, i pugni stretti e le labbra serrate – Avevi detto che non sarebbero mai arrivati, che andavi lontano a combattere per proteggere Thessia. Hai detto che alla fine saresti rimasta con noi.- le rivolse uno sguardo carico d’ira  - Hai mentito, hai mentito per tutto questo tempo.-
- Io ci credevo, Asha. Pensavo di poterli tenere lontani, da voi, da Thessia. Ho fallito.- fece una smorfia – Le Asari hanno fallito. Ma non siamo state ancora sconfitte, resisteremo, e quando avremo vinto verrò a cercarvi.-
Avvicinò la mano alla sua, ma Asha la ritrasse – Stai mentendo di nuovo.-
E allora scelse di dirle la verità, quella verità a cui lei credeva con tutta se stessa.
- Hai ragione, sto mentendo.- Lya soffocò un’esclamazione alle sue spalle, ma non la interruppe, Asha sollevò il capo, sorpresa – Io credo che i Razziatori ci distruggeranno, ma non importa: rimarrò qui a combattere a costo della mia vita.-
Asha la fissò, furiosa – Ma non ha senso! Perché combattere una battaglia persa? Se ci vuoi bene come dici rimarresti con noi, fino alla fine.-
- Mi vuoi dire, tesoro mio, che dovrei tirarmi indietro, perché il male e la morte hanno un aspetto così orribile?- sussurrò chinando il capo – Dovrei anche  rinunciare ad un po’ di dignità, chinare il capo ed accettare che sia questo il nostro destino? – sporse in avanti la mascella come aveva fatto sua figlia pochi stanti prima – No, non io: non rimarrò ferma a guardare i Razziatori che vi riducono in schiave, non mi arrenderò né fuggirò: sputerò in faccia ai Razziatori giorno e notte. Questa è la nostra casa, non lascerò che se la prendano. Thessia merita qualcuno che combatta per lei.- sorrise a sua figlia prima di voltarsi e guardare Lya - Tu e la mamma meritate che io combatta per voi.-
Quando tornò a guardare Asha la bambina teneva gli occhi bassi, l’espressione rabbiosa – E allora facci restare con te. Possiamo combattere anche noi.-
Sentì Lya sospirare – Asha, tesoro …-
Ferani la zittì con un cenno – Lo sai bene che non potete rimanere. Non siete soldati, io lo sono.- avrebbe voluto che Asha la guardasse, ma la bambina continuò a fissare il tavolo con espressione ostinata - È normale che tu sia arrabbiata, è assolutamente normale.- sospirò – Ma adesso devi ascoltarmi, capito?-
Asha annuì, controvoglia.
Ferani strinse più forte la sua mano – Puoi covare tutta la rabbia del mondo, nessuno ha il diritto di impedirtelo. E se, un giorno, dovessi guardarti indietro e sentirti in colpa per tutta quest’ira che t’impedisce di parlare…- iniziò a piangere davvero adesso, senza fare nulla per impedirlo: le stava dicendo addio – Io voglio che tu sappia che non sono arrabbiata con te, che va bene così, Asha: va bene. Ho capito. Capisco la tua ira, capisco il tuo silenzio, non c’è bisogno che tu dica niente. -
Asha non alzò gli occhi, non riuscì a guardarla in faccia, ma annuì e fu più che sufficiente.
Ferani le posò un bacio delicato sul capo e si alzò, sorridendo tra le lacrime a Lya che piangeva silenziosamente, la mano premuta sulla bocca – Devo andare, adesso, ma promettimi che prenderete quella navetta oggi stesso.-
Lya l’abbracciò – Te lo prometto.-
Ferani le posò un bacio leggero sulle labbra – Addio.-
Si sciolse delicatamente dal suo abbraccio e si avviò verso la porta, il cuore sprofondato nel petto.
La voce di Asha la raggiunse lieve, sottile, quando aveva già un piede oltre la soglia – Non voglio andare via senza di te, papà. - disse, le lacrime che le bagnavano le guance, lente dapprima, poi con la furia di un fiume in piena.
Sentì le gambe tremare e la guardò, cercando di trasmetterle tutto quell’amore che non le aveva mai dato – Lo so, piccola mia.- mormorò con voce impastata.
Asha le corse incontro stringendola con forza – Non voglio andare via senza di te.- ripeté, il viso premuto contro il suo ventre.
Era l’unica cosa che voleva sentire.
Premette forte le labbra sul suo capo – Grazie.- sussurrò prima di scivolare via dalla sua presa.

http://www.youtube.com/watch?v=BWAhVbayGv4
 
Erano arrivati presto, troppo presto, non c’era stato il tempo di prepararsi ed evacuare il pianeta, o forse di tempo ce n’era stato ma erano state troppo orgogliose e stupide per accorgersene.
Nel corso della sua storia millenaria, Thessia non era mai stata attaccata, ma nel corso della sua storia mai aveva dovuto affrontare un simile nemico.
I Razziatori erano piombati sulla città come una tempesta di fuoco, distruggendo e devastando ogni cosa.
Il loro numero aveva oscurato il cielo rosa di Thessia, come una cupola aggrovigliata di artigli metallici e laser vermigli.
Al rosa si era sostituito il rosso, trasformando il giorno ancora neonato in un perpetuo tramonto: il tramonto delle Asari.
Ferani aveva assistito impotente alla distruzione della sua patria, in pochi minuti le strade lucenti della città erano state ricoperte da macerie, detriti, cadaveri. Le torri erano crollate, le case distrutte, l’astroporto devastato.
Una navetta carica di profughi era esplosa nel cielo sopra di lei … su quella navetta forse c’era la sua famiglia. Forse erano ancora in casa quando la torre era crollata, forse erano in strada e i mutanti le avevano trascinate via, ma forse si erano salvate, forse erano in viaggio dirette in un posto sicuro, lontano da tutta quella devastazione.
Ma non aveva importanza: disperazione o speranza non erano altro che lo sprone che la spingeva a combattere.
E fu ciò che fece, al meglio delle sue possibilità.
Arroccate in difesa di un quadrato di strada che era diventato la loro patria, il tenente Ferani Kurin e tutta la sua squadra affrontarono un’orda di mutanti dopo l’altra, come una diga che si frappone tra un fiume in piena e tutto quello che c’è dietro.
Combatterono per ore lunghe come secoli, senza arretrare d’un passo malgrado le perdite e la stanchezza.
I suoi superiori le avevano ordinato di resistere e persino quando i loro ordini le parvero assurdi e impraticabili continuò ad eseguirli.
Fu solo all’arrivo del comandante Shepard, accompagnato da un’Asari e da una Quarian, che Ferani cominciò a mostrare segni di stanchezza: aveva subito troppe perdite.
Meno di un’ora prima era arrivata una richiesta di soccorso da parte di alcuni scienziati intrappolati dietro le linee nemiche, nel tempio di Athame, aveva mandato una squadra a recuperarli, ma nessuno era mai arrivato al tempio. La sua squadra era stata decimata e le poche superstiti erano bloccate più avanti, sotto il fuoco nemico, le munizioni quasi esaurite.
Dalla radio non facevano che giungere richieste di aiuto e attorno a lei i suoi soldati, quelle compagne d’infinite battaglie, morivano; e lei non poteva fare altro che spronarle a combattere perché così le era stato ordinato, ma soprattutto perché non potevano fare altro.
L’arrivo di Shepard e della sua squadra concesse loro un minimo di respiro, erano combattenti eccezionali e se fossero rimasti con loro forse Ferani avrebbe avuto qualche possibilità di evacuare la sua squadra. Ma Shepard non era lì per salvarle.
La sua missione era raggiungere il tempio di Athame per motivi che lei non comprendeva. Perché perdere tempo con delle reliquie mentre Thessia e la sua gente moriva?
Aveva ricevuto l’ordine di difendere la barriera a tutti costi, ma il perimetro stava cedendo: doveva evacuare la squadra.
Fu ciò che disse a Shepard, ma lui scosse il capo e bastò quel gesto per farle capire che quel quadrato di terra sarebbe diventato la loro tomba.
- La situazione è seria.- confermò Shepard – Ma ci servite qui.-
Ferani incrociò le braccia al petto – Beh, dovrai darci un buon motivo per restare qui a difendere un mucchio di macerie.-
E lui glielo diede: nel tempio di Athame era custodito un manufatto Prothean, un manufatto in grado di porre fine alla guerra.
In altri tempi gli avrebbe riso in faccia consigliandoli un buon psicanalista, ma i tempi erano cambiati e quelle poche certezze che avevano guidato la sua vita erano crollate assieme alle torri della sua città.
Shepard le si avvicinò: comprendeva il suo dolore, la sua disperazione. Aveva visto anche lui il suo mondo crollare - Costruiremo una super arma Prothean.- affermò con tanta convinzione che non poté fare altro che crederci lei stessa – Porremo fine alla guerra.-
Gli credette perché non c’erano alternative, perché se lui stava mentendo la galassia intera era perduta.
Si portò il Factotum alle labbra – Qui tenete Kurin, mantenere la posizione, aprire un varco fino al tempio!- urlò nella radio – Avamposto Tyklis, presto avrete visite!- sperò che dall’altra parte ci fosse ancora qualcuno in ascolto.
Si portò davanti alla barriera e si rivolse ai suoi soldati, pronunciando le stesse parole che aveva detto ad Asha – La galassia saprà che la guerra è stata vinta qui su Thessia!- strinse le mani a pugno voltandosi verso quel nemico che le aveva portato via tutto e, presto, si sarebbe preso anche la sua vita. Ma era un sacrificio che era disposta a fare per salvare le Asari e la galassia – All’attacco.-
Shepard e la sua squadra attraversarono il ponte, bersagliati dal fuoco nemico, mentre Ferani e i suoi soldati facevano di tutto per offrirgli copertura e creare un diversivo. Ammirò il coraggio di quei tre soldati, che le parvero impossibili da sconfiggere. Fu felice che stessero combattendo dalla parte giusta.
La battaglia si fece via via più cruenta e, ben presto, le Asari riverse in terra, senza vita, divennero più numeroso di quelle che ancora combattevano.
Dopo l’ultimo rapporto della specialista Keyla, di Shepard e della sua squadra non si ebbe più notizia. Keyla e l’avamposto Tyklis non chiamarono più, e la radio, che fino ad allora aveva continuamente rigurgitato richieste di soccorso, si fece sempre più silenziosa, finché non rimase completamente muta.
Ferani si chiese se ci fosse qualcun altro di vivo, oltre a loro: sette Asari disperate che stavano finendo le munizioni e anche il tempo che la vita aveva concesso loro.
Infine si ritrovarono circondate da tutti i lati.
- C’è qualcuno su questa frequenza?- urlò nel Factotum, mentre due Asari cadevano al suo fianco – Qui è il tenete Kurin, la mia squadra è in trappola!-
Non rispose nessuno. Il factotum rimase un muto, come a prendersi gioco di loro, uniche superstiti di un pianeta distrutto.
- Ripeto: c’è qualcuno su questa frequenza?- supplicò, disperata: dov’erano Shepard e la sua squadra? Avevano recuperato il manufatto? O erano morti anche loro e ogni speranza perduta?
Un proiettile la centrò in pieno petto, un altro le dilaniò la coscia, Ferani Kurin crollò a terra senza un lamento, il sangue che le rigava il viso sovrapponendosi alle righe rosa che amava dipingersi sul volto, l’unico vezzo di una donna che aveva passato la vita a fare il soldato.
Nel silenzio ovattato che seguì l’impatto al suolo, udì l’eco lontano di una voce disperata – Il tenete è a terra, l’intera zona crollerà!-
Qualcuno si era chinato su di lei, poteva sentire le sue dita sul viso … tremavano.
- Che ne è stato di Shepard?- chiese l’Asari inginocchiata al suo fianco, conosceva la sua voce ma non ne ricordava il nome … avrebbe voluto dirle di fuggire, di lasciar perdere lei, Shepard e Thessia: lei era morta, Shepard disperso e Thessia perduta … che si salvassero almeno loro, uniche due superstiti in un mondo bruciato. – Sono arrivati al tempio?-
Che importanza poteva avere ormai? … vincere, perdere … avevano già perso. I Razziatori potevano anche essere sconfitti, ma nessuna vittoria avrebbe riportato indietro i morti.
- Li ho visti!-
Ferani sentì il suo cuore stanco sussultare e alzò piano gli occhi, con le ultime forze rimastegli: li vide sulla piattaforma del tempio, tre figure lontane, evanescenti come fantasmi … un’ombra oscura calò su di lei, un mostro di metallo e fiamme, tanto grande da oscurare il cielo.
- Aspetta! Sta arrivando un Razziatore!-
Ferani non vide più il sole, né il cielo rosa del suo pianeta, né il tempio in cui aveva riposto tutte le sue speranza, rimase solo l’oscurità che quel nemico aveva portato con sé.
Sentì le due Asari urlare, terrorizzate. Avrebbe voluto dir loro di non aver paura, di affrontare la morte con coraggio, perché avevano vissuto con dignità e nessuno, nessun mostro venuto dal cielo, avrebbe potuto toglierli questo.
- Vi prego c’è nessuno io …?- un rumore assordante, un lampo di luce abbagliante – Oh Dea … No!-
Ferani chiuse gli occhi e abbracciò la fine con un sorriso sulle labbra.
Pensò ad Asha e alla sua Lya: prima o poi si sarebbero incontrate di nuovo.
 
La navetta tremò quando l’onda d’urto di un’esplosione la investì, qualcuno urlò, ma Lya si limitò a stringere più forte Asha contro il suo petto – Andrà tutto bene.- sussurrò.
La bambina annuì, il volto duro, le labbra contratte: non aveva paura, provava solo rabbia.
Il momento critico passò e la navetta continuò la sua corsa, diretta verso l’ultimo posto sicuro della galassia: Sanctuary.
 
 
 
 
Note
 
Inizialmente avevo pensato di scrivere questo capitolo dal punto di vista di Shepard o di Liara, poi … non so, i sentimenti di entrambi sono trattati talmente bene nel gioco che scrivere di loro mi sembrava superfluo. Non avrei detto niente di nuovo. Però, d’altra parte, non scrivere di Thessia mi dava l’impressione di lasciare un buco nero, una voragine, nella storia. Penso che questa missione sia la più bella e dolorosa di tutte, oltre che una delle più importanti.
Così ho vagliato tutti i personaggi che appaiono durante la missione (ho persino considerato Kai Leng ma ho avuto un rigetto) e il tenente Kurin è sicuramente la figura più commovente; giocando ho pianto per lei, anche se il suo personaggio è praticamente sconosciuto: è solo uno dei tanti soldati che combattono questa guerra; ma quei soldati sono importanti quanto e più di Shepard e della sua squadra … se alla fine rimane qualcosa da salvare è grazie a loro.
E così ho deciso di scrivere un capitolo su di loro, Kurin rappresenta un po’ tutti quei i soldati che hanno combattuto contro i Razziatori e di cui non sappiamo niente.
Spero di essere riuscita nel mio intento, almeno un pochino.

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Capitolo 19
*** Verso la fine ***


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Cittadella, 2186

Andare a quella festa, forse, non era stata una buona idea. Le faceva piacere rivedere tutti: Garrus, Tali, Zaeed, Grunt … in altre circostanze sarebbe riuscita persino a tollerare Miranda, ma al momento provava solo una gran voglia di spaccare il culo a tutti.
Aveva passato buona parte della serata abbandonata sul divano, un bicchiere di vino in mano e lo sguardo fisso sulla coppietta felice.
Nemmeno i deliri dei due Krogan riuscivano a distrarla.
In realtà i piccioncini erano discreti: non si lasciavano andare in effusioni o frasi stucchevoli, un occhio distratto non avrebbe notato nulla di diverso da una grande amicizia. Ma il suo non era un occhio distratto.
Aveva sperato in baci plateali e ridicole smancerie, ne avrebbe riso, riservando loro occhiate di compatimento.
Poteva sopportare baci ed effusioni, ma quegli sguardi … “tu sei mia ed io sono tuo”, ecco cosa dicevano quegli sguardi. E a lei non rimaneva altro che il desiderio di prendersi la testa fra le mani e scoppiare in lacrime.
Gelosia … non aveva mai saputo cosa fosse la gelosia. Era un lusso che non si poteva permettere, solo i deboli e i viziati provavano la gelosia. Jack non aveva mai avuto nulla di cui essere gelosa. Nulla, prima di avere lui.
Svuotò il bicchiere in un sorso.
- Potresti scrivere un libro: “Cento modi per uccidere con lo sguardo”.- Shepard si lasciò cadere accanto a lei e si riempì un bicchiere – Sarebbe un successone.-
- Che cosa vuoi, Shepard?- ringhiò, porgendogli il bicchiere perché lo riempisse.
Lui si prese tutto il tempo necessario per riempirlo poi posò la bottiglia sul tavolo e alzò gli occhi su di lei. Quei maledetti occhi azzurri.
– Voglio solo essere tuo amico.-
Jack distolse lo sguardo – Sono venuta alla tua dannata festa …- mimò un brindisi portandosi il bicchiere alle labbra – Alla nostra amicizia, comandante Shepard.-
- Certo che sei venuta.- Shepard incrociò le braccia al petto – Come un condannato va al patibolo.-
Aveva sempre odiato il suo sarcasmo, quella sottile aria di superiorità che trapelava dal suo tono beffardo e comprensivo insieme. Se avesse avuto ancora del vino nel bicchiere glielo avrebbe gettato in faccia – Cosa ti aspetti che ti dica, comandante? Vuoi frasi da cioccolatino? Tipo: sono felice se tu sei felice o altre stronzate del genere?- sibilò, restituendogli un po’ del suo stesso sarcasmo – Io ti rispetto, comandante, e ti sarò leale, fino alla fine: non chiedermi altro, è molto più di quanto meriti.- si sporse verso di lui – Alla fine di questa guerra, se saremo sopravvissuti, io andrò per la mia strada e tu per la tua. Non verrò al tuo matrimonio né giocherò con i tuoi figli: non sono tua amica, Shepard, non lo sono mai stata.-
Shepard serrò la mascella, appoggiò le braccia sulle ginocchia, le mani intrecciate, lo sguardo fisso in avanti – O tutto o niente, non è così?-
Jack annuì, dura – O tutto o niente.-
Shepard si alzò – Come vuoi, Jacqueline.- il suo volto era imperscrutabile, impassibile come quello di una statua, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che assomigliava al rimpianto – Lo so che sei convinta del contrario ma … io non ti ho mai preso in giro, Jack. -
Lei fece una smorfia e indicò con un cenno la Williams che li osservava di sottecchi, fingendo di parlare con IDA – Davvero? E allora perché mi sembra che tu non abbia fatto altro?-
Shepard scosse il capo, rassegnato – Mi dispiace.- disse, prima di allontanarsi.
Jack si alzò, la bottiglia in mano, e si avvicinò alla finestra: avrebbe voluto andarsene, tornare dai suoi studenti, ma non voleva dare l’impressione di stare fuggendo. Era stata dominata dall’istinto e dalla rabbia per tutta la vita e non sarebbe certo stata una stupida delusione d’amore a vanificare tutti gli sforzi compiuti per diventare una persona migliore. Lo doveva a se stessa e a nessun altro.
- Ogni grande avventura ha un principio, ma è la strada da percorrere, quella che conduce al suo termine, che riserva la vera gloria.-
Jack sobbalzò al suono di quella voce femminile e quasi sconosciuta.
Non si era aspettata tanto coraggio da lei.
Fissò Ashley Williams con un misto di disgusto e sorpresa – Cosa diavolo vuoi, tu, da me?-
L’altra non parve intimidita – Sai chi pronunciò quelle parole?-
- No, e ne me ne frega un cazzo.-
- Sir Francis Drake.- replicò l’altra, imperterrita – Un corsaro o un pirata, dipende dai punti di vista. Ma non è per discutere di questo che sono qui …- Ashley fissò le luci della città che brillavano oltre il vetro – Sono qui perché io e te dobbiamo parlare.-
- Sei venuta a gongolare?- strinse i pugni, pronta ad usarli – O a compatirmi, puttanella?-
Ashley incassò l’insulto senza muovere un muscolo, probabilmente se lo aspettava – Nessuno dei due. Non ho mai compatito nessuno e non comincerò certo con te.- ribatté, gelida – E per quanto riguarda il gongolare …- la sua espressione s’indurì - … non mi pare di aver vinto alcunché.-
Jack grugnì, scettica, ma la Williams non le diede modo di ribattere.
- Non sono qui perché mi sento in colpa o mi dispiace.- proseguì – Non sono qui per porgere delle scuse o pretenderne in cambio: sono qui perché è giusto.- le lanciò un’occhiata ostile, velenosa: l’odio che Jack provava per Ashley era totalmente e assolutamente ricambiato. Era una possibilità che non aveva nemmeno considerato: si era aspettata disprezzo e supponenza da parte della rivale, non quella rabbia che teneva svegli la notte a versare lacrime ardenti come rivoli di lava.
All’improvviso si rese conto che Ashley aveva passato esattamente quello che stava passando lei.
- Io te non siamo uguali.- replicò, seguendo il filo di quei pensieri.
- Lo so, grazie a Dio . – mormorò l’altra, pungente.
- Vuoi dirmi perché sei qui o devo sorbirmi il tuo sarcasmo ancora per molto?-
Un lampo divertito attraversò lo sguardo del tenente, ma subito la sua espressione si fece tesa e quando iniziò a parlare parve lottare per far uscire la voce - Sono qui perché lui ti ha amato e tu lo hai salvato. Sono qui perché hai fatto quello che io non sono stata in grado di fare: aiutarlo a vivere.- la vide stringere i denti per arginare la commozione.
Attorno a loro c’erano musica e risate, dalla cucina arrivò il rumore di vetri infranti, una breve imprecazione e poi altre risate che sovrastavano ogni cosa, eppure sembrava tutto distante, ovattato, come suoni ascoltati attraverso un vetro che divideva loro dal resto del mondo.
Quando Ashley riprese a parlare le parole fluirono leste dalle sue labbra, adesso sembrava incapace di trattenerle, e le si riversarono addosso come un fiume che rompe gli argini – Su Horizon avevo una marea di buoni motivi per voltargli le spalle, a volte, quando mi sento così tanto in colpa da non riuscire a respirare, li elenco tutti, uno ad uno, ma quando arrivo alla fine mi viene in mente quell’unico motivo che avrebbe dovuto trattenermi al suo fianco: aveva bisogno di me. - si schiarì la voce, roca e impastata – Aveva bisogno di qualcuno che gli desse forza, coraggio, speranza, aveva bisogno di qualcuno che si fidasse di lui, incondizionatamente. – sollevò lo sguardo cercando i suoi occhi, dietro la rabbia, il rimpianto, l’amarezza, Jack trovò una disarmante sincerità – Io ti ringrazio, Jack, per essere stata al suo fianco, per avergli dato quella fiducia che io gli ho negato. Avrei dovuto esserci io al tuo posto, ma non c’ero.- voltò il capo, lo sguardo di nuovo perso tra le luci della città – Io non c’ero.-
Jack si voltò, osservando Shepard che scherzava con Sam e Liara, rideva e si divertiva, ma ogni tanto il suo sguardo guizzava verso le due donne alla finestra, preoccupato – Io …- deglutì, a disagio, per la prima volta nella sua vita era rimasta a corto di parole – Non importa quello che ho fatto io, alla fine è tornato da te.-
La Williams piegò le labbra in una smorfia amara, che forse voleva essere un sorriso – Certo che è tornato da me. Se non affonda una nave torna sempre in porto; ma non conta le destinazione, quello che conta è il viaggio.-
Jack sussultò, mentre le tornavano in mente parole ascoltate con disprezzo – Quella frase che hai detto all’inizio …-
- Quando Sir Francis Drake tornò in porto, dopo le sue avventure per mare, era felice, ovvio: era sopravvissuto, aveva sfidato il mondo ed era uscito vincente.- la voce di Ashley era poco più che un sussurro ma, malgrado la musica e le risate, Jack udì distintamente ogni parola – Ma la vera gloria, il ricordo che gli avrebbe scaldato il cuore negli anni a venire, non fu quello del ritorno in porto bensì quello della strada che percorse per arrivarci.-
Jack chiuse gli occhi, appoggiando la fronte contro la finestra, sperò che il tenete non si accorgesse delle lacrime che le scivolavano lungo il viso.
Shepard non sarebbe tornato da lei, ma fu grata per quelle parole che la facevano sentire … importante.
Forse, alla fine, c’era qualcuno che si sarebbe ricordato di lei.
Ashley parve esitare poi, con un fruscio, la udì allontanarsi – Williams …- la richiamò, lanciandole una rapida occhiata da sopra la spalla: Ashley era immobile, a pochi passi da lei, di spalle - … prenditi cura di lui.-
Le spalle della donna sussultarono impercettibilmente – Lo farò. - rispose, senza voltarsi.
Mentre si allontanava, Jack incrociò lo sguardo di Shepard, teso e preoccupato, gli sorrise, come non faceva da molto tempo, chinò leggermente il capo e si sfiorò la fronte con le dita.
Dopo un attimo di stupore lui fece lo stesso.
Ci vediamo in un’altra vita, Andrej.

Si svegliò di soprassalto, abbagliato da fiamme che avevano l’inconsistenza dei sogni ma che sentiva reali come i battiti frenetici del suo cuore.
Si mise seduto, cercando di scrollarsi di dosso l’inquietudine di quell’incubo ormai ricorrente in cui echeggiavano i sussurri dei morti e la risata di un bambino perduto.
Sospirò, strofinandosi gli occhi, nel vano tentativo scacciare i residui dell’incubo, scostò la coperta, appoggiando i piedi sul pavimento freddo: la notte artificiale della Cittadella era ancora lunga ma sapeva che il sonno non sarebbe più arrivato. Ascoltò con invidia il sonoro russare che proveniva dalla stanza accanto, immaginò si trattasse di Zaeed, collassato sul divano a metà serata, con ancora una bottiglia di rum in mano, nessuno aveva osato svegliarlo, lì era rimasto e, probabilmente, lì sarebbe rimasto fino al mattino.
Ash si mosse nel sonno, borbottando qualcosa a proposito di palloncini e bolle di sapone. Shepard sorrise, passandole delicatamente le dita tra i capelli.
Se Alexander Shepard fosse stato un uomo normale non avrebbe desiderato altro che passare la sua vita ad osservare Ashley dormire, il viso affondato nel cuscino e i capelli neri sparsi sulle spalle, ma lui era il comandante Shepard e la normalità era un lusso che non si poteva permettere.
Appoggiò le labbra sulla spalla scoperta di Ash, inebriandosi del sapore della sua pelle e del calore di quel corpo giovane, vivo, sotto le sue labbra.
Ricordati di questo …
Ashley si voltò verso di lui, sollevò pigramente le palpebre e gli sorrise, assonnata – È già mattina?- domandò con voce impastata.
Shepard si chinò su di lei, posandole un bacio lieve sulle labbra – No, dormi. Non è ancora il momento di tornare là fuori.-
Ashley si stiracchiò come un gatto – Di certo non voglio trascorrere il poco tempo che ci resta dormendo.- lo prese per un braccio, tirandolo a sé e sollevandogli la maglietta.
Shepard sorrise assecondandola, le labbra premute sulle sue. Si ritrovarono abbracciati, su quel grande letto sconosciuto, in una casa che non era loro.
Il letto cigolò rumorosamente e Shepard s’immobilizzò, colto da un disagio improvviso.
In una della numerose stanze di quell’appartamento immenso c’era anche Jack.
- Non questa sera. – mormorò, sciogliendosi dalla presa di Ash, imbarazzato.
Tra lui e Jack era finita, lo sapevano entrambi, e forse era da ipocriti farsi tutti quei riguardi adesso, solo perché erano sotto lo stesso tetto, ma l’idea di ferire Jack più di quanto non avesse già fatto gli era insopportabile.
Ashley parve leggergli nel pensiero perché annuì e si scostò leggermente, sistemandosi i vestiti – Ho parlato con lei prima …-
- Sì, vi ho viste.- ammise, evitando il suo sguardo.
Ash gli prese il mento tra le dita obbligandolo a guardarla, la sua espressione era seria, ma non arrabbiata – Capisco perché ti sei innamorato di lei.-
Deglutì, a disagio, avrebbe voluto negare quelle parole, mentire platealmente dicendo che non era mai stato innamorato di Jack, ma non ci riuscì. Sarebbe stato un gesto ignobile, vile, nei confronti di Jack, di Ash, ma anche di se stesso.
- Ero morto.- sussurrò, sostenendo il suo sguardo – Ero morto e lei mi ha riportato in vita. -
Gli occhi di Ash s’inumidirono, ma trattenne le lacrime, riccaciandole in fondo al petto. Gli fu grato di questo.
- Lo so. –
- Mi dispiace.-
Ash appoggiò la fronte contro la sua, i nasi tanto vicini da sfiorarsi – Avrei voluto farlo io. - confessò, amareggiata – Avrei dovuto farlo io. -
Shepard chiuse gli occhi, avvolto dal suo profumo, affondò le dita nei suoi capelli – Sì. - mormorò – Lo avrei voluto anch’io. -
Ashley rabbrividì tra le sue braccia poi si girò, raggomitolata con le ginocchia contro al petto, la schiena premuta contro il suo petto.
Rimasero distesi in silenzio, come due bambini che si confortano al buio.
Gli ritornò in mente il gioco del mai, quando entrambi avevano confessato di aver avuto paura del buio, da bambini, la strinse più forte, mentre quell’infantile angoscia tornava a farsi strada nel suo petto reso vulnerabile dalla malinconia.
In quel momento non si sentì affatto il soldato più pericoloso della galassia.
Ascoltò il respiro regolare di Ash che riempiva il silenzio poi, in lontananza, si udì un altro suono, lieve e soffocato: le note di un pianoforte.*
Lei si mosse tra le sue braccia – Alex … lo senti anche tu?-
Si mise seduto, concentrato … eccole di nuovo: note leggere come una brezza notturna – Sì …-
Si alzarono entrambi, in silenzio, attirati da quella musica tanto lieve da sembrare sognata.
I piedi nudi non fecero rumore sul pavimento freddo e le loro ombre scivolarono silenziose nel buio. Raggiunsero il pianerottolo e giù, nella grande sala illuminata dalle luci della Cittadella, uno singolare spettacolo si presentò ai loro occhi.
Al pianoforte sedeva Liara, le labbra strette in una linea sottile, gli occhi chiusi, le dita che scorrevano veloci sui tasti levigati; non era mai apparsa così bella ed aliena ai loro occhi: era una dea venuta dalle stelle.
Joker era appoggiato al pianoforte, il cappello leggermente inclinato, il mento appoggiato sul palmo della mano, guardava Liara con una strana espressione, come se si stesse chiedendo se quello che stava vedendo, ed ascoltando, fosse reale.
Garrus e Tali davano le spalle al pianoforte, in piedi davanti alla finestra, mano nella mano, le luci sgargianti della città si riflettevano sul casco di Tali e nel visore di Garrus, ma Shepard sapeva che il loro sguardo era rivolto verso un cielo invisibile punteggiato di stelle che, lontano, molto lontano, illuminavano i loro pianeti natali.
In disparte, nella penombra della sala, appoggiato contro lo stipite della porta, quasi invisibile malgrado la stazza, c’era Wrex, silenzioso e composto, come un pellegrino davanti ad una reliquia sacra.
Shepard e Ashley scesero lentamente le scale, attenti a non fare rumore nel timore d’infrangere quell’incantesimo.
Passarono accanto al pianoforte, Jeff non si mosse e Liara continuò a suonare, stregata dalla melodia che lei stessa stava creando.
Si fermarono davanti alla vetrata, accanto a Garrus e Tali, Ashley intrecciò le dita con le sue e, dopo un istante, anche la piccola mano di Tali si avvolse attorno al suo palmo.
Shepard voltò leggermente il capo finché i suoi occhi non incontrarono quelli di Wrex, quegli occhi antichi come il mondo.
Sul viso alieno ed imperscrutabile del Krogan parve sorgere l’ombra di un sorriso.
Shepard avvertì distintamente la presenza di quelle mani, così diverse eppure così vive, avvolte attorno alle sue, le strinse con più forza, spaventato all’idea che potessero scivolargli via.
Si sentiva il più felice ed infelice degli uomini. In fondo al cuore, mascherata dall’emozione, riconobbe la paura: paura di perdere quegli amici che si erano donati a lui incondizionatamente, in un atto di fede che non aveva eguali al mondo.
Mentre le note finali della canzone raggiungevano il loro culmine sentì di aver trovato il paradiso terrestre ed ebbe il terrore di esserne scacciato.
Ricordati di questo …

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Capitolo 20
*** Londra chiama ***


http://www.youtube.com/watch?v=UGsUK-HxVHE

Londra, 2186

 
Il Big Ben: simbolo di una nazione e di un popolo, stendardo di antiche glorie ed insaziabili ambizioni. All’ombra di quella stanca e vecchia torre nel corso dei secoli pochi avevano deciso il destino di molti.
Sotto lo sguardo severo del Big Ben era stato creato il più grande impero del mondo, ora, più di cinque secoli dopo, quello stesso sguardo osservava, impotente, la fine di quel mondo che tanto a lungo aveva dominato.
Eppure, nonostante tutto, resisteva.
Il maggiore William Coats si appoggiò contro la lancetta dei minuti, ferma ad indicare l’attimo in cui l’apocalisse era iniziata.
Per tre giorni era rimasto sulla torre, in compagnia di un fucile di precisione e di un mucchio di pallottole, alla fine i proiettili erano finiti, ma non i nemici, quelli non finivano mai.
Dall’alto della sua postazione aveva osservato i Razziatori impadronirsi della città, pezzo dopo pezzo, palazzo dopo palazzo, inesorabili come la fine di cui erano portatori.
Aveva cercato di fermarli o rallentarli, ma per ogni abominio che abbatteva due sorgevano al suo fianco. Aveva visto coraggiosi soldati e inermi cittadini fatti a pezzi o impalati su spuntoni metallici che trasformavano gli uomini in mostri. Aveva continuato a sparare, mentre l’ira si trasformava in pietà.
Uomini, donne, vecchi, bambini … i Razziatori non facevano differenza e nemmeno lui: l’armata nemica era composta da schiavi che solo la morte poteva liberare. Ed era la morte quella che lui dava loro, senza esitare, gli occhi asciutti e la mano ferma.
La sua anima era arida come quella dei mutanti.
Com’era la vita prima dei Razziatori? Che suono aveva una risata? Di che colore era il cielo e che sapore avevano le labbra di una donna?
Non ricordava più niente. Gli sembrava di essere nato il giorno in cui i Razziatori erano scesi sulla terra.
- Maggiore Coats? Sei ancora vivo?-
Sobbalzò quando la voce di Anderson uscì roca e distorta dalla ricetrasmittente inserita nel collo dell’armatura.
- Sì, ammiraglio.- rispose, stancamente, non era sicuro che essere vivo fosse una cosa positiva, ma aveva il terrore di morire e ritrovarsi dalla parte sbagliata dello schieramento.
- Com’è la situazione?-
- Come sempre, ammiraglio.- sospirò, osservando i mutanti che brulicavano attorno alla torre – Ho finito le munizioni. Venitemi a prendere.-
- Subito. Ottimo lavoro, figliolo.-
Coats chiuse gli occhi – Grazie, ammiraglio.-
Pochi minuti dopo arrivò la navetta, un vecchio rudere risalente alla guerra del Primo Contatto ma abbastanza solida da resistere ai colpi della fanteria nemica. Bisognava accontentarsi di quello che c’era.
Rivolse un cenno di saluto al pilota, Dean, un vecchio compagno d’accademia, e si abbandonò sul sedile al suo fianco.
- Felice di rivederti tutto intero, Billy.- lo salutò.
- Novità dal comando?-
Dean fece virare la navetta e si allontanò nel cielo grigio di Londra. William represse un sorriso sarcastico: un tempo erano i fumi delle fabbriche ad intossicare il cielo di Londra, adesso erano le ceneri della sua distruzione.
- Si mormora che i Turian si siano ritirati: hanno abbandonato Palaven.-
Coats represse un brivido: se persino i Turian abbandonavano la lotta, che speranze potevano avere loro?
- Perché?-
Dean si strinse nelle spalle - Alcuni dicono che la loro flotta sia stata distrutta, altri invece sostengono che si stanno preparando per lo scontro finale.-
Coats si rilassò leggermente: i Turian erano abbastanza cinici da rendersi conto che abbandonare il pianeta natale fosse l’unico modo per salvarlo.
Era una mossa astuta, intelligente, forse persino vincente, ma Coats non poté fare a meno di pensare che fosse assolutamente inumana, qualunque accezione si volesse dare a quel termine.
Si appoggiò contro lo schienale, distendendo le gambe, era bello avere qualcosa di diverso dalla pietra su cui sedersi – Che cosa dice Anderson?-
Dean fece un verso di scherno – Anderson è convinto che Shepard arriverà a salvarci accompagnato da un coro di angeli …- fece passare la navetta all’interno di un palazzo sventrato, Coats si chiese cosa fosse prima della guerra: una casa? Un ufficio? Un ambulatorio? Non importava, sapeva cos’era ora: un rudere.
- Tu non credi che arriverà?- lui ancora ci sperava, altrimenti cosa gli sarebbe rimasto?
- Se è furbo come dicono se ne starà nascosto in un sistema remoto a bordo della sua nave irrintracciabile ad aspettare che tutto questo finisca. – storse le labbra in una smorfia sarcastica – Chi glielo fa fare di ritornare in questo schifo?-
Coats si frugò nelle tasche alla ricerca di una sigaretta, ne trovò una, schiacciata e spezzata, se l’infilò in bocca e l’accese ignorando il grugnito di protesta di Dean. Aspirò un’ampia boccata: il gusto lo disgustava ma servì a calmarlo, donandogli una parvenza di normalità – Io spero lo faccia per noi.- sussurrò – È per questo che combattiamo, no? L’unico motivo per cui non ci siamo mai arresi ... perché ha promesso che sarebbe tornato.-
Dean fece un versetto scettico – Tu e Anderson siete fatti l’uno per l’altro.- si strinse nelle spalle, come a significare che la cosa non lo riguardava – Poco importa, se non si sbriga troverà solo un bel mucchio di cadaveri e una pila di macerie.- indicò con un cenno il paesaggio desolato che stavano sorvolando – Non è rimasto molto da salvare.-
- Siamo rimasti noi.-
Dean scosse il capo, esasperato, ma non replicò.
Coats buttò la cicca sul pavimento e la schiacciò – Non stiamo andando al quartier generale.- constatò, guardando oltre il finestrino.
Dean scosse il capo – Con questo catorcio? È già bello se arriviamo a destinazione: non siamo i soli a volare nei cieli di Londra e nemmeno i più grossi.- in lontananza si scorgevano le gigantesche ombre scure dei Razziatori che sovrastavano la città, simili a terribili divinità di metallo. Fortunatamente la zona che stavano sorvolando era praticamente deserta, all’arrivo dei Razziatori era stata la prima ad essere colpita e, dopo aver trasformato i palazzi in macerie, i mostri del cielo se ne erano disinteressati. Nella zona erano rimasti solo mutanti e cannibali.
- Atterreremo all’avamposto Manhattan, scommetto che i ragazzi saranno felici di vedere una faccia nuova.- sorrise, di fronte alla sua espressione corrucciata – Non ti preoccupare, Billy, prima o poi invieranno un trasporto decente e potrai riabbracciare il tuo amato ammiraglio.-
- Fottiti, Dean. -
L’altro ridacchiò mentre manovrava per far atterrare la navetta in un’area sgombra dai detriti, accanto ad un palazzo diroccato. La Resistenza aveva fatto un ottimo lavoro, non c’erano segni di vita nell’area, ma Coats sapeva che, proprio tra le macerie di quel palazzo e sotto, nei vecchi tunnel della metropolitana, c’era un piccolo gruppo di uomini armati che resistevano, nonostante tutto.
Quando la navetta toccò terra saltò giù mentre un uomo, che fino a quel momento era rimasto nascosto tra i calcinacci, lo accoglieva con un cenno si saluto – Felice di vederla, maggiore. In molti la davano per disperso.-
Coats strizzò gli occhi per distinguere dei lineamenti sotto lo strato di polvere e fuliggine che ricopriva l’uomo – Non è così facile ammazzarmi, caporale Sutherland.-
Felice di essere stato riconosciuto il caporale gli rivolse un sorriso smagliante, che denunciava la sua giovane età. Coats sospettava non avesse nemmeno vent’anni.
Il ragazzo si diresse verso l’edificio diroccato, una vecchia banca, a giudicare dall’insegna contorta che penzolava da un lato, e gli fece cenno di seguirlo – Da questa parte, maggiore, il vecchio ingresso è stato bloccato, ma ne abbiamo aperto un altro, più sicuro.-
- In quanti siete qui?-
- Circa duecento.- dietro di loro Dean stava spegnando i motori, la navetta era talmente malconcia che poteva essere facilmente scambiata per un relitto: gli schiavi dei Razziatori non erano abbastanza intelligenti da notare la differenza tra un velivolo funzionante e una navetta schiantata.
Erano solo bestie che seguivano l‘istinto e il fiuto, non la ragione.
Aggirarono un’astroauto ribaltata contro il muro dell’edificio, all’interno Coats scorse una sagoma scura reclinata sui comandi, si scoprì ad invidiare la morte rapida del conducente: gli era stata risparmiata una lenta e sfibrante agonia.
Sutherland si fermò davanti ad una porticina di metallo e bussò tre colpi – Kate sono io, John, abbiamo visite.-
La porta si aprì lasciando uscire una donna armata di tutto punto, squadrò Coats dall’alto in basso e annuì – Siamo appena stati avvisati del vostro arrivo, maggiore ...- una luce violenta, accecante, illuminò il cielo grigio di Londra.
Sopra di loro risuonò il terribile boato dei Razziatori, si gettarono tutti a terra, armi alla mano, sorpresi e spaventati, mentre un vento improvviso faceva volare polvere e detriti.
- Cosa diavolo è?- urlò il caporale, riparandosi gli occhi con la mano.
Coats scosse il capo, confuso: quando i Razziatori attaccavano il mondo diventava un abbacinante groviglio di laser vermigli e artigli metallici, ma quella luce bianca, abbagliante, gli era completamente sconosciuta.
Poi alzò lo sguardo e la vide: una gigantesca struttura allungata sovrastava la città, dalla sua base scaturiva un violento fascio di luce bianca che colpiva il suolo con la violenza di un uragano.
C’erano due Razziatori immensi ai lati della struttura, intenti a trainarla verso il centro della città, al loro passaggio le poche strutture sopravvissute alla furia della guerra si sbriciolarono.
Coats impallidì: puntavano dritti a loro.
- Dean!- Coats balzò in piedi, mettendosi a correre verso la navetta e il pilota ancora al suo interno.
- Maledizione, maggiore!- urlò la donna spingendo il caporale oltre la porta di metallo – Si metta al riparo!-
Il laser colpì.
Un boato squarciò l’aria, la terra tremò tutta e Coats venne sbalzato all’indietro, con violenza, come colpito dal pugno di un titano.
Volteggiò nell’aria per secondi lunghi come ore, del tutto ignaro di ciò che accadeva al suo corpo. Atterrò di schiena, sul duro cemento, le ossa scricchiolarono e nella bocca sentì il sapore del sangue, dalle labbra gli uscì un gemito strozzato.
Attraverso le palpebre socchiuse scorse un’ombra china su di lui, mani forti lo strinsero, scuotendolo, strani suoni gli rimbombarono nella testa.
Poi, all’improvviso, come se qualcuno avesse premuto il tasto play, il mondo attorno a lui tornò nitido.
- Maggiore!- Dean era chino su di lui, il bel viso trasfigurato dalla paura – Andiamo Billy, rispondi!-
Tossì e si girò di lato, sputando sangue e un pezzo di dente – Sto bene, non urlare. Cos’è successo?- si tastò alla ricerca di qualche ferita ma tutto sembrava al suo posto.
- Un’esplosione, maggiore. Quel dannato raggio ha preso in pieno la base …- il maggiore seguì il suo sguardo.
Si chiese se l’esplosione non lo avesse sbalzato dall’altra parte della città. La navetta era atterrata davanti ad un grosso edificio di pietra, una banca, alto quattro piani, adesso, invece, tra la cortina di fumo e polvere, non si vedeva altro che una distesa di macerie alte meno di un autocarro. E un puzzo di carne carbonizzata ed esplosivi.
Coats si sollevò in piedi a fatica – Dove sono gli altri?-
Dean non rispose. Lo sapevano entrambi dov’erano gli altri e i duecento uomini dell’avamposto Manhattan: sotto, erano sotto.
Coats corse verso i detriti, incurante dei richiami di Dean, gli parve di scorgere una mano che spuntava da sotto una trave divelta, immaginò che si trattasse di qualcuno rimasto intrappolato. Incurante del fucile che lo intralciava e della puzza di carne bruciata che lo nauseava, cominciò a scavare, togliendo calcinacci e mattoni – Resisti!- urlò, sperando che l’uomo sotto le macerie fosse ancora vivo, toccò le dita protese: gli parvero ancora calde – Aiutami, Dean!-
Il pilota si guardò intorno preoccupato, erano fermi da troppo tempo e le probabilità di essere trovati dai mutanti aumentavano di minuto in minuto, ma alla fine mise da parte la paura e si precipitò al suo fianco, iniziando a scavare a sua volta.
Ben presto la mano divenne un polso con l’orologio, poi un avambraccio, un gomito, una spalla che spuntava da un’apertura abbastanza grande da far passare un corpo; eccitato e speranzoso tirò. Cadde all’indietro, con un braccio in mano.
Non era un uomo ancora vivo, era solo un braccio.
Dean fece un verso raccapricciante e si chinò a vomitare dietro la trave, ma Coats si limitò a lasciar cadere l’arto, improvvisamente svuotato. La cosa peggiore non era l’arto amputato ma il fatto di non esserne turbato. Quante volte in quegli ultimi mesi si era imbattuto in scene del genere?
Si guardò intorno, svuotato e si rese conto che ciò che aveva scambiato per detriti o sassi o pezzi di metallo contorti erano in realtà brandelli umani.
C’erano stati duecento uomini in quel posto, di loro non rimanevano che i pezzi.
Un lamento soffocato lo riscosse: da qualche parte qualcuno piangeva.
I due soldati si diressero verso quel suono e trovarono John, sepolto fino alla vita nei calcinacci. Piangeva, gli occhi sgranati, aggrappato al masso che lo schiacciava, invocando la madre e un Dio in cui non credeva.
Coats s’inginocchiò al suo fianco, cominciando a scavare, subito imitato da Dean, ben presto si ritrovarono le mani insanguinate senza che fosse stato fatto nessun progresso significativo.
Dopo qualche minuto sentirono i rochi ansimi dei mutanti, attirati dall’odore del sangue.
Dean si fermò, paralizzato dalla paura – Stanno arrivando …-
John aveva gli occhi chiusi e il capo reclinato di lato, era ancora vivo, ma non lo sarebbe stato ancora per molto e loro non avevano modo di tirarlo fuori da lì, di certo non scavando a mani nude.
- Vai alla navetta.- mormorò – Io ti raggiungo subito.-
Dean esitò – E lui?-
Mise la mano sulla pistola e lo fissò.
Dean deglutì a vuoto, distolse lo sguardo e si alzò, mettendosi a correre per raggiungere la navetta.
Coats estrasse la pistola e tolse la sicura, osservò John, ancora svenuto, era davvero un ragazzino, col viso striato di lacrime e la barba appena accennata.
Gli premette la pistola sopra il cuore e sparò.
John spalancò gli occhi e fissò i suoi, ci fu un lampo d’incredulità poi il vuoto.
Una folata di vento lo investì e la navetta si alzò leggermente, dal fondo della strada i mutanti stavano cominciando ad arrivare, Coats si alzò e, senza guardarsi indietro, raggiunse il trasporto, saltando nel portellone aperto.
Pochi secondi dopo erano di nuovo in volo e lo spiazzo, sotto di loro, brulicava di mutanti.
Coats chiuse il portellone con un gesto secco e raggiunse Dean nella cabina di pilotaggio, prendendo posto al suo fianco.
Il pilota gli rivolse una rapida occhiata prima di distogliere frettolosamente lo sguardo.
- Aveva gli occhi verdi.- sussurrò, abbandonandosi sul sedile – Aveva gli occhi verdi e non me ne ero mai accorto.-
 
http://www.youtube.com/watch?v=EfK-WX2pa8c

C’era stato un tempo, per molti immemorabile e lontanissimo, ma che risaliva solo a pochi mesi prima, in cui Londra era stata una delle città più belle del pianeta. La scoperta dei portali e della comunità galattica aveva aperto una miriade di possibilità, portando sulle rive del Tamigi politici, imprenditori e turisti da tutta la galassia.
I musei offrivano ai visitatori la storia dell’umanità, mentre nei negozi e nei ristoranti chiunque poteva comprare o assaggiare un piccolo pezzo di quella galassia che l’umanità aveva così faticato a conquistare.
Ma di tutto ciò non rimaneva più nulla.
I parchi erano bruciati, le case e gli alberghi abbattuti, i musei devastati.
E gli uomini massacrati.
L’ammiraglio Anderson si appoggiò allo squarcio che fungeva da finestra, in lontananza riusciva ancora a scorgere il fumo dell’esplosione.
Stava dormendo quand’era accaduto.
Era stato il tintinnio degli oggetti e la sensazione di essere al centro di un terremoto a svegliarlo. La branda ondeggiava, il pavimento sussultava ed aveva avuto la sensazione di trovarsi su una nave persa in mezzo al mare, in balia delle onde.
Poi il mondo si era fermato; Anderson era rimasto immobile sulla branda, aggrappato alle lenzuola, il respiro intrappolato nel petto, finché un mostruoso boato aveva squarciato l’aria, e il tempo, inesorabile, aveva ripreso il suo corso.
Era schizzato giù dalla branda, precipitandosi nella sala in cui si trovava ora, per scorgere qualcosa attraverso lo squarcio nella parete.
La prima cosa che aveva visto era stato un’abbacinante raggio bianco, poche miglia più a sud, proveniva da una struttura gigantesca e allungata che sovrastava, aliena e inquietante, l’intera città. Era talmente fuori posto nei cieli di Londra che, all’inizio, non l’aveva riconosciuta.
Ma, per quanto straordinaria, non era stata quella visione a raggelarlo, bensì il mastodontico fungo di polvere grigia che si ergeva cupo ai suoi piedi, innalzandosi tanto in alto da sfiorarne la base.
Qualcuno al suo fianco, non ricordava chi fosse, nemmeno si era accorto che c’erano altri nella stanza, ebbene quel qualcuno aveva sussurrato “L’avamposto Manhattan … c’erano duecento uomini … Dio abbia pietà di loro …”
Anderson si strofinò il viso e scosse il capo al ricordo di quelle parole: quale Dio?
Lanciò un’occhiata alle sue spalle, verso la porta socchiusa dietro la quale i radiofonisti cercavano disperatamente di mettersi in contatto con qualcuno. Ma la porta rimaneva chiusa, le radio mute: non giungevano notizie, né dall’avamposto, né dal mondo, né, tantomeno, dallo spazio.
Si chiese se fosse sensato sperare ancora in un qualche aiuto.
Guardò l’enorme struttura che dominava la città. Anche da chiusa la Cittadella era bellissima, ma vederla sovrastare i cieli di Londra era a dir poco raccapricciante. Si chiese casa fosse accaduto agli abitanti, all’SSC, al Consiglio.
Forse, si disse, era meglio non conoscere la risposta.
Un radiofonista fece capolino nella stanza – Noi continuiamo a chiamare, ammiraglio, ma risponde nessuno.-
Anderson cercò di dissimulare la sua inquietudine – Non disperare, figliolo.- asserì con una sicurezza che non provava – Londra chiama: qualcuno risponderà.-
L’uomo annuì e lo lasciò solo.
Londra chiama, pensò, ma chi sta chiamando?
I morti dell’avamposto Manhattan? Le flotte di Hackett? La Cittadella? Shepard?
Per quel che ne sapeva poteva non esserci più nessuno all’ascolto.
Il suo ultimo contatto con Hackett e Shepard era stato poco prima del loro attacco combinato alla base di Cerberus, da allora non aveva più avuto notizie.
Forse, dopotutto, l’Uomo Misterioso aveva avuto la meglio, la presenza della Cittadella lì, sulla Terra, non lasciava molte speranze per il futuro. Era ben consapevole che la guerra stava per finire, ma le possibilità che finisse bene erano … praticamente inesistenti. E la colpa, di questo, era anche sua.
Quanti erano morti a causa della sua inazione?
Certo, si era prodigato più di chiunque altro per perorare la causa di Shepard, aveva impedito che finisse davanti alla corte marziale e le sue implorazioni avevano convinto Hackett a schierare le flotte in difesa della Terra, ma era forse sufficiente?
Anderson osservò il fumo che s’innalza nell’aria assieme alle anime di duecento bravi soldati e, mentre il sole, stanco, si apriva un varco tra le nubi che adombravano la città insanguinata, si disse che no, non era stato sufficiente.
Non aveva mai creduto realmente a Shepard.
Lo stimava, era il figlio che non aveva mai avuto, per questo lo aveva difeso, ma quella storia di antichi alieni mietitori di mondi non l’aveva mai convinto.
Che ingenuo sciocco era stato.
Il sangue di milioni, miliardi, di persone, sporcava le sue mani come quelle di tutti i politici che non avevano creduto ad uno Spettro morto.
Se l’avessero fatto cosa sarebbe cambiato?
Forse niente, forse tutto.
Avrebbero potuto costruire bunker, rifugi, depositi d’armi e munizioni, avrebbero potuto preparare i soldati alla guerriglia e i civili alla sopravvivenza, soprattutto, avrebbero potuto scoprire e costruire il Crucibolo molto prima.
Ma non l’avevano fatto e adesso ne pagavano le conseguenze, come i Prothean prima di loro e chissà quanti altri prim’ancora.
La Cittadella era sopra di lui, bella e alinea come l’aveva sempre vista, impenetrabile, irraggiungibile: si chiese se il segreto della loro morte o salvezza fosse custodito al suo interno.
Sospirò, appoggiando il capo contro la fredda parete di mattoni.
Non sentì il radiofonista irrompere, trafelato, nella stanza, ma la sua voce eccitata lo riscosse – Hanno risposto, signore!-
Anderson si voltò, incapace, per una volta, di mascherare le sue emozioni – Chi?- domandò con voce acuta.
- Il comandante Shepard, signore. Stanno mobilitando le flotte: arrivano.-
Anderson non riuscì a trattenere un ruggito di gioia ma la sua esclamazione venne sovrastata dal fragore di una navetta in arrivo. A giudicare dal rumore doveva essere in pessimo stato.
Incuriosito, Anderson guardò fuori, in quel momento la navetta atterrò e dal portellone uscì, malconcio ma incolume, il maggiore Coats: dunque c’era ancora qualcuno vivo, là fuori.
Anderson si allontanò dalla parete e sorrise al radiofonista, il primo vero sorriso da quando la Normandy aveva lasciato Vancouver.
- Londra chiama, ragazzo: facciamogli sentire la nostra risposta.-
 
 
Note
 
Questo capitolo vorrebbe essere speculare e opposto a quello su Thessia. Da una parte c’è un mondo che muore, dei soldati che perdono le speranze, un popolo che non ha possibilità di salvezza, mentre la Terra e la sua gente in qualche modo spera ancora in un lieto fine.
Ho usato il condizionale perché non sono sicura di aver raggiunto l’obiettivo prefissato, ma fa niente, meglio di così non riesco a fare, purtroppo.
 
Mancano pochi capitoli alla fine e che sto cercando di rimandare il più a lungo possibile, mi scuso se vi sto facendo aspettare, ma la prospettiva di chiudere questa storia m’immalinconisce molto.
Grazie a tutti quelli che sono arrivati fino a questo punto, il vostro sostegno anche silenzioso è stato assolutamente fondamentale.
Alla prossima!

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Capitolo 21
*** In aeternum ***


http://www.youtube.com/watch?v=SEVCE6aTmhw&list=PLHwZ9V-BgL_uP1qWqGqV8tAAxW0T0RsMY


Cittadella, 2186

 
Non aveva mai immaginato che la fine sarebbe arrivata in quel modo. Aveva vagheggiato di epiche battaglie e scontri all’ultimo sangue, invece c’era solo un bambino morto, che forse non era mai esistito, che parlava di cose ormai prive d’importanza.
La sola cosa che gli interessava sapere era se tutti i sacrifici compiuti per arrivare fino a quel punto avessero ancora un qualche significato.
Premette la mano insanguinata sul ventre, mentre l’altra stringeva la pistola, barcollò leggermente, incapace di pensare ad altro se non alla stanchezza che gli intorpidiva le membra e gli offuscava la mente.
Non aveva più voglia di decidere, riflettere, combattere, scegliere. Voleva solo sedersi e chiudere gli occhi, per abbracciare quella morte che fuggiva da troppo tempo.
Voleva riposare in pace, una volta e per tutte.
Si scoprì ad invidiare Anderson, seduto davanti alla Terra, col capo reclinato e gli occhi socchiusi, finalmente in pace, finalmente libero.
Persino l’Uomo Misterioso aveva avuto il buon gusto di liberare la galassia dalla sua presenza, persino lui, adesso, poteva smettere di combattere per i motivi sbagliati.
Riudì le sue ultime parole – La Terra … se solo tu potessi vederla coi miei stessi occhi, Shepard … è così perfetta …-
Per la prima volta da quando lo conosceva gli aveva dato ragione.
La Terra … era l’unico motivo per cui si era battuto così a lungo, così strenuamente.
Diversamente dall’Uomo Misterioso, Shepard non credeva, non aveva mai creduto, che l’umanità fosse superiore alle altre razze o che la Terra fosse il pianeta più bello ed ospitale dell’universo; era il suo pianeta natale, la patria dei suoi antenati, il luogo da cui tutto aveva avuto inizio … ma non erano quelli i motivi che l’aveva spinto fin a quel punto, in quel luogo ostile ai viventi.
Si era battuto per la Terra perché aveva promesso ad una donna ormai morta che, sei mai quel pianeta a lui sconosciuto fosse stato in pericolo, l’avrebbe riconquistato, per lei, lei che gli aveva dato un motivo per vivere e morire.
Ci sono quasi, Sasha. Ci sono quasi.
Riportò la sua attenzione sul bambino che, con ostentata superiorità, stava indicando le tre scelte a sua disposizione: Distruzione, Sintesi, Controllo.
Rosse, Verde e Blu.
Shepard osservò i tre raggi che brillavano di fronte a lui, illuminando meccanismi alieni e sconosciuti, che parlavano di oscuri segreti e forze incomprensibili.
Fissò lo sguardo sul raggio rosso: distruzione.
Si umettò le labbra, mentre le dita stringevano convulsamente il calcio della pistola: era tentato, oh se era tentato ...
Sentì l’adrenalina entrare lentamente in circolo, pompata dai battiti frenetici del suo cuore.
Sarebbe stato semplice alzare la pistola e porre fine a tutto: distruggere i Razziatori, vendicare gli infiniti popoli che avevano schiavizzato, liberare le loro anime intrappolate e rendere la galassia un luogo di pace.
Ma a quale prezzo?
Il bambino era stato chiaro sul prezzo da pagare: tutti i sintetici sarebbero stati distrutti. Tutti, senza eccezioni.
Pensò ai Geth, quegli ammassi di tubi e circuiti che lui stesso aveva definito sacrificabili: gli adulti della galassia, i “senza sogni”.
Ma era davvero così?
Legion gli aveva mostrato il suo sogno: provare emozioni.
“Quest’unità ha un’anima?”
Shepard abbassò lo sguardo sulla pistola che stringeva in mano. Se l’Intelligenza lo avesse posto di fronte alla possibilità di sacrificare le Asari o i Turian o i Quarian o qualunque altra specie, avrebbe scartato quell’ipotesi a priori. Erano arrivati fin lì insieme, avevano combattuto e sofferto, erano morti fianco a fianco: fratelli alla fine del mondo.
I Geth erano forse diversi? Meritavano un trattamento diverso? Loro che più di tutti gli altri avevano patito il dominio dei Razziatori e l’ira vendicativa del resto della galassia?
Deglutì a vuoto: il sacrifico di pochi per la salvezza di molti. Ma chi era lui per decidere il valore di una vita?
Gi venne in mente una lezione di storia, quando sulla stazione Arcturus ascoltava distrattamente le parole di un vecchio professore dalle palpebre pesanti.
Quella lezione, un tempo così noiosa, ora gli parve la cosa più importante mai udita: il 6 e 9 agosto 1945, i bombardieri americani avevano sganciato due bombe atomiche sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Quando la polvere delle esplosioni era ricaduta al suolo non c’era più nulla, solo morti e macerie. Migliaia di civili inermi erano morti sul colpo, altrettanti sarebbero morti dopo, tra atroci sofferenze. Per giustificarsi, gli artefici di quell’eccidio, affermarono che si trattava di un male necessario: quelle bombe avevano salvato altre vite, vite evidentemente più importanti di quelle che erano state spazzate via.
“Meglio loro che noi” era stato detto.
Shepard inghiottì un grumo di sangue e altrettanta bile: no, non avrebbe dato quella risposta, non lui. Non c’era nessun “loro” e nessun “noi”: erano fratelli alla fine del mondo.
Aprì le dita e la pistola cadde in terra con un tonfo sordo.
Il bambino lo fissò, incuriosito – Hai ancora due scelte.- disse.
Shepard desiderò poterlo strozzare.
Prese un ampio respiro e fissò lo sguardo sulle uniche due alternative possibili.
Sintesi: creare ibridi organico – sintetici, creature che possedevano l’infinita conoscenza dei sintetici e le emozioni degli organici.
Represse un brivido di puro orrore: meglio l’estinzione a quello.
Da sempre gli organici rincorrevano la vita eterna, la saggezza, la conoscenza: scoprire i segreti della galassia era il sogno di tutte le specie.
Ma una volta svelati tutti i misteri dell’universo, che cosa ne sarebbe stato dei sogni?
No, non riusciva a concepire un mondo in cui esistevano solo risposte e l’unica aspirazione per il futuro era un’eternità priva di domande.
Si chiese se per i sintetici quell’opzione potesse avere una qualche attrattiva. Ne dubitava: un’anima non si dona, la si forgia.
I sintetici avrebbero iniziato, lentamente, a provare amore, rabbia, dolore, gioia, speranza … col tempo avrebbero capito il significato di essere organici, a modo loro.
IDA non aveva bisogno che le impiantassero un’anima. Ce l’aveva già.
Un’anima forgiata dalla vita, dalla sua vita, e non un costrutto elaborato da una perversa Intelligenza.
Shepard sorrise: la galassia era imperfetta e caotica ma era proprio il caos a renderla interessante, senza non sarebbe rimasto altro che la noia.
Distolse lo sguardo dal fascio di luce verde e portò l’attenzione sull’ultima scelta rimastagli: controllo.
Provò un moto d’istintiva repulsione: quella era la scelta dell’Uomo Misterioso.
Strinse i pugni e s’impose di rimanere lucido: il disprezzo che provava per quell’uomo non doveva influenzare i suoi ragionamenti.
L’Uomo Misterioso era un mostro, l’Uomo Misterioso era un folle, ma, forse, l’Uomo Misterioso aveva ragione.
Gli veniva concesso il potere di domare le bestie e porle sotto il suo controllo: non per il dominio, non per la gloria, nemmeno per elevare una razza al di sopra delle altre, ma per porre fine alla guerra e ricostruire ciò che era andato distrutto.
Non avrebbe usato i Razziatori per imporre la propria volontà, non li avrebbe adoperati per scatenare o sedare guerre né per controllare la galassia: era un potere troppo grande nelle mani di un solo uomo.
Ricostruirò ciò che è andato distrutto, nient’altro.
I Razziatori avevano avuto un inizio e avrebbero avuto anche una fine, lo doveva a tutti gli abitanti della galassia che, millennio dopo millennio, erano diventati loro schiavi.
Cominciò ad avanzare, strisciando i piedi, verso il fascio di luce blu. Sentiva lo sguardo del bambino fisso su di sé, immaginò fosse vittorioso, fece una lieve smorfia: che s’illudesse pure di averlo ingannato, non avrebbe continuato il suo gioco di morte.
Controllare i Razziatori significava comandarli e comandarli significava che gli avrebbero obbedito, in tutto: anche a porre fine alle loro esistenze. Sarebbe diventato il padrone dei Razziatori, ma solo per poterli distruggere senza sacrificare nessun altro. Tranne se stesso.
Si fermò davanti all’abbagliante luce azzurra e fissò i due collettori di energia, alzò le mani: tremavano.
Era la scelta migliore, lo sentiva: per la galassia, per organici e sintetici, per gli schiavi dei Razziatori, per l’umanità, ma non per lui.
Sei ancora in tempo, Alex, scegli la distruzione e forse ti salverai.
Era forse un pensiero così egoista?
Aveva dato alla galassia tutto: mai un’esitazione, mai un lamento, aveva stretto i denti e aveva fatto il suo dovere, fino alla fine. Era forse troppo chiedere qualcosa per sé?
Ricordò il sogno di Ash, la casa di legno sulla collina innevata, il fuoco nel camino e il gatto fuori dalla porta … ma in quel sogno lui non c’era.
Annuì con aria assente: aveva sempre saputo che sarebbe finita così, che la sua unica debolezza si sarebbe trasformata nella sua eterna condanna.
Non c’era pace per lui. Solo l’eternità.
- Mi dispiace, Ash: mi piaceva il tuo sogno.-
Strinse le mani attorno ai collettori e un dolore straziante, lancinante gli percorse il corpo, ma non era nulla in confronto all’assoluto terrore che gli devastò la mente.
Di fronte a lui, nera, terribile, infinita, si aprì l’eternità.
Aveva condannato se stesso alla peggiore delle pene.
E, mentre il Crucibolo succhiava via la sua vita, Alex si augurò che il suo sacrificio servisse a qualcosa e che nella galassia potesse tornare ad esserci vita, gioia, speranza. Perché se così non fosse stato allora si era immolato per niente, allora aveva vissuto per niente.
Perse la presa, ma era ormai troppo tardi per tornare indietro.
Con una mano ancora aggrappata al collettore, pensò a suo padre, a Sasha, a Kaidan, a tutti quelli che erano morti e che aveva sperato, un giorno, di rivedere: ora sapeva che quel giorno non sarebbe mai arrivato.
Ripensò alla storia che Ash gli aveva raccontato una mattina, sulla Normandy, la storia di Sharra, la fanciulla che vaga tra i mondi.
Era lui Sharra, lo capiva solo ora, e il suo destino era quello di vagare tra i mondi. Per l’eternità.
Combattendo contro l’istinto e la paura, alzò la mano e strinse nuovamente il collettore. La sua bocca si spalancò in un urlo di puro terrore.
Il suo corpo si sbriciolò, la voce si spezzò, ma lui continuò ad esistere, ora e per sempre.
Abbraccia l’eternità!
E così il comandante Alexander Shepard abbandonò le sue spoglie mortali e divenne … altro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
 
Non oso uscire dalla mia cella imbottita, temo che sarei accolta da una pioggia di pomodori marci.
So che il controllo è una scelta parecchio controversa, che solleva molti dubbi.
Prima dell’Extended Cut non l’avevo mai nemmeno considerato, era la scelta dell’Uomo Misterioso perciò la odiavo a prescindere, ma forse ad essere abominevoli erano solo i motivi che spingevano l’Uomo Misterioso in questa direzione, non la direzione stessa.
Istintivamente, a pelle, senza stare troppo a ragionare su eventuali teorie come l’indottrinamento o altro, questa scelta è quella che preferisco.
Ripeto: non mi sono mai soffermata sui significati nascosti delle varie scelte o su teorie varie ed eventuali che possono essere state elaborate. Io accetto le spiegazioni dell’Extended Cut e di tutto il gioco in generale, senza mettere in dubbio niente, anche se ci sono contraddizioni, cose inspiegabili od altro.
È solo un gioco e se era effettivamente troppo sperare nel lieto fine, mi basta sapere che il sacrificio di Shepard e di tutti gli altri è servito a qualcosa, che la galassia è diventata davvero un luogo migliore.
La teoria dell’indottrinamento, onestamente, per quanto valida possa essere, non m’interessa.
 
Come ho detto, il controllo è, a mio avviso, la scelta migliore: non devi sacrificare nessuno, i sopravvissuti non si trasformano in semi-robot fosforescenti e i Razziatori finalmente possono fare qualcosa di buono prima di diventare, semplicemente, storia.
La scelta migliore, certo, per tutti tranne che per Shepard.
 
Mi dispiace, Alex, per quello che ti ho fatto.
 
Beh dopo questa nota infinita, spero di essere riuscita ad evitare qualche pomodoro marcio, e mi auguro che le mie spiegazioni siano, se non condivisibili, almeno comprensibili.
 
La storia non è ancora finita ma la sua essenza, fondamentalmente, è questa; spero di non aver deluso nessuno.
Alla prossima!

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Capitolo 22
*** Vita e morte ***



http://www.youtube.com/watch?v=DeumyOzKqgI

Londra, 2186

 
Garrus osservò il suo comandante dire addio alla donna che aveva scelto come compagna, le posò una mano sulla guancia e le disse che la amava; poi si allontanò, rapido e invincibile, tra le macerie di una città distrutta e la polvere delle esplosioni.
Mentre Shepard correva incontro ai Razziatori, Garrus non riuscì a zittire quella voce, terribilmente simile a quella di suo padre, che continuava a ripetergli, in un angolo della mente, che erano arrivati alla fine: non l’avrebbe rivisto mai più.
Tentò di soffocare quella voce, ripetendosi che Shepard era già morto una volta ed era tornato, più forte e determinato di prima, ma, di fronte alla devastazione che si apriva davanti ai suoi occhi, non poté fare a meno di pensare che questa volta era diverso: non ci sarebbe stato alcun ritorno.
Quanto a lungo un uomo può sfuggire alla morte?
Sentì Ashley dibattersi tra le sue braccia, mentre tentava, invano, di seguire il suo comandante verso qualunque destino si sarebbe scelto.
Obbedendo all’ultimo ordine di Shepard, Garrus trattenne quella donna ferita e sconfitta che, nonostante tutto, non accettava di essere lasciata indietro.
Continuò a lottare mentre la Normandy si alzava nel cielo grigio di Londra e il portellone si chiudeva, nascondendo ai loro occhi la corazza nera e rossa del comandante Shepard.
Infine, le forze abbandonarono il tenente e Ashley crollò, esanime, tra le sue braccia.
Garrus la sollevò dolcemente, rendendosi conto, per la prima volta, di quanto fragile fosse il corpo umano.
Possibile che qualcosa di così delicato potesse combattere tanto strenuamente?
Anche Shepard aveva ossa così leggere e una pelle tanto sottile?
Se ferito avrebbe sanguinato anche lui così copiosamente?
Si fermò di punto in bianco, in mezzo all’hangar navette, e si voltò verso il portellone chiuso, provando l’irresistibile impulso di buttarsi fuori dalla nave e accorrere in soccorso al suo comandante che, ne era certo, ora più che mai aveva bisogno di lui.
Come poteva un uomo, così fragile e vulnerabile, credere di poter sconfiggere i Razziatori, da solo, senza un amico a coprirgli le spalle?
Non c’è Shepard senza Vakarian … Garrus si lasciò sfuggire un gemito strozzato all’idea che il comandante fosse là fuori, senza di lui.
Mosse un passo verso il portellone, con l’idea di fare qualcosa, qualunque cosa, per aiutare Shepard ma un’esclamazione rabbiosa lo bloccò e James comparve al suo fianco, pallido e furibondo – Si può sapere cosa ti passa per la mente, pendejo? Non vedi che sta sanguinando? Devi portarla in infermeria, immediatamente!-
Stupito, Garrus abbassò lo sguardo sulla donna che teneva fra le braccia, sentendosi immediatamente un idiota per essersi dimenticato di lei che, pallida e incosciente, diventava sempre più debole ad ogni secondo che passava.
Corse in infermeria, senza abbandonarsi ad altri dolorosi ed inutili indugi.
La dottoressa Chakwas lo accolse con espressione preoccupata ma dal suo cipiglio capì che le condizioni di Ash, seppur serie, non erano critiche. La dottoressa lo rassicurò dicendogli che si sarebbe ripresa al più presto. Sollevato, Garrus rifiutò di farsi curare quelle ferite superficiali che solo ora si accorgeva di avere e, dopo aver posato delicatamente Ash su un lettino, corse al ponte di comando, ansioso di sapere se Shepard ce l’aveva fatta a raggiungere il raggio.
In plancia trovò ad aspettarlo notizie terribili: la squadra diretta al raggio era stata annientata e di Shepard si erano perse le tracce.
Si appoggiò alla poltrona di Joker, svuotato da ogni speranza, mentre la radio non faceva altro che rigurgitare richieste di soccorso e disperati appelli: le truppe di terra erano in rotta e dell’immane flotta che Shepard aveva radunato nei cieli terrestri, non rimanevano che detriti e corazzate i fiamme.
Garrus incrociò lo sguardo di Joker e negli occhi del pilota lesse la stessa disperazione che gravava sul suo cuore: stavano perdendo la guerra.
IDA, seduta al suo posto, continuava a ripetere dati e percentuali, come un’IA impazzita, e Garrus si domandò se non fosse quello il suo modo di sfogare un dolore e un’angoscia che provava senza comprendere.
- La squadra Hammer ha subito perdite pari al 95 %, la flotta Turian sarà completamente annientata tra venti minuti, la Destiny Ascension sta precipitando …-
Garrus si aggrappò alla poltrona mentre la Normandy evitava un laser che l’avrebbe sbriciolata e rispondeva pigramente al fuoco dei Razziatori, senza riuscire a scalfire la loro corazza.
Osservando le poche navi alleate che riuscivano ancora a combattere si sentì, per la prima volta da quando era cominciata la guerra, assolutamente impotente.
Non riusciva a credere come i Turian, e lui stesso, avessero anche solo immaginato di poter vincere la guerra: era logico che non ci sarebbe stata vittoria alcuna, solo morte e disperazione.
La radio sfrigolò e la voce dell’ammiraglio Hackett, tesa e speranzosa, sovrastò le disperate richieste di aiuto – Qui parla l’ammiraglio: qualcuno è riuscito a raggiungere la Cittadella.- Garrus e Joker sobbalzarono all’unisono e persino IDA alzò di scatto la testa – Temporeggiamo finché non aprirà le braccia. A tutte le flotte: convergere al Crucibolo, proteggetelo ad ogni costo.-
Un sorriso smagliante si dipinse sul viso di Jeff – Quel figlio di puttana ce l’ha fatta!- esclamò mentre la Normandy virava tutta a babordo.
Garrus stesso non riuscì a trattenere un piccolo sorriso vittorioso: Hackett non aveva fatto nomi, ma c’era un’unica persona in grado di salire su quella stazione.
Shepard non era stato ancora sconfitto.
I minuti successivi trascorsero con snervante lentezza, asserragliata a difesa del Crucibolo ogni singola nave della galassia diede prova di un eroismo senza pari. Volus, Batarian, Quarian, Turian, Asari, Geth, persino Rachni s’immolarono per difendere l’ultimo barlume di speranza della galassia.
Garrus sapeva di trovarsi di fronte ad un evento unico, irripetibile: tutte le specie dell’universo erano unite, alleate, contro un nemico più antico della galassia stessa.
Qualunque cosa fosse accaduta quel giorno, i viventi della galassia, tutti, organici come sintetici, avevano vinto. I Razziatori non li avevano divisi né piegati, nessuno si era tirato indietro di fronte a quella lotta epocale e nessuna atrocità era stata commessa in nome di una sopravvivenza che ora non gli appariva più così importante.
Fu grato a Shepard per aver curato la genofagia, risparmiato i Rachni e salvato i Geth. I Razziatori potevano prendersi tutto, ma non l’onore, quello, la galassia, lo aveva mantenuto intatto.
E infine, accadde: come un fiore che si schiude davanti ai raggi del sole, la Cittadella aprì le sue braccia, pronta ad accogliere le speranze di tutte le genti e di tutti i mondi.
La voce di Hackett risuonò nuovamente sulla plancia di ogni nave – Ci siamo gente: le braccia si stanno aprendo.-
Col fiato sospeso, Garrus osservò il Crucibolo avvicinarsi al centro della Cittadella mentre tutt’intorno i combattenti della galassia si sacrificavano per tener lontani i Razziatori, che erano diventati ancora più agguerriti, forse consapevoli della loro fine ormai prossima.
- Dieci secondi al contatto.-
Garrus affondò le unghie nella poltrona, mentre Joker, dimentico della battaglia in corso, si sporgeva verso i terminali, pallido e teso, lo sguardo fisso su quell’arma che non sapevano nemmeno se avrebbe funzionato.
Che cosa sarebbe successo?
Persino IDA non conosceva la risposta e attendeva, muta e immobile, che si compiesse il destino della galassia.
- Bene, il Crucibolo è in posizione.-
Garrus si sporse in avanti, Joker sembrò sul punto di balzare in piedi, la Normandy parve trattenere il fiato e … niente.
Non accadde niente.
Intorno a loro la battaglia riprese vigore, mentre le flotte, ormai completamente allo sbaraglio, venivano sopraffatte dall’avanzata entusiasta e vittoriosa dei Razziatori.
Un incrociatore Salarian esplose nelle vicinanze, i frammenti colpirono duramente la fiancata della Normandy facendo rollare la nave e cadere chi non si era aggrappato bene.
IDA riassunse rapidamente il controllo e riuscì ad invertire la rotta prima che l’esplosione li travolgesse – Scudi al 30%.-
- Spegni tutto quello che non ci serve!- ordinò Joker, destreggiandosi tra i terminali – Reindirizza tutta l’energia verso gli scudi, se li perdiamo siamo fregati.-
La voce di Hackett sovrastò nuovamente i rumori della battaglia: il generale di tutte le flotte stava chiamando disperatamente un uomo che forse era morto.
Inaspettatamente, Shepard rispose.
Garrus si rese immediatamente conto che qualcosa non andava, la voce del comandante era fioca, spezzata … solo un’altra l’aveva udita tremare in quel modo: il giorno in cui era morto.
Quando Hackett lo implorò di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per far funzionare il Crucibolo, lo sentirono ansimare, disorientato e sfinito, quasi a chiedersi cosa volesse ancora quel mondo da lui – Io … io non capisco …-
Poi il silenzio.
Garrus e Joker si guardarono, mentre i ricordi di un’altra battaglia, di un’altra Normandy, tornavano prepotentemente a galla – Dannazione …-
Dal ponte giunse un’esplosione di voci, seguita poco dopo dal rumore di passi affrettati e Ashley irruppe nella cabina con la dottoressa Chakwas e Samantha alle calcagna.
- Che cosa sta succedendo?- zoppicava e le bende attorno alle braccia erano intrise di sangue, ma lei non sembrava curarsene.
La dottoressa l’afferrò per la spalla – Dov’è Shepard?- domandò Ash divincolandosi.
Garrus e Jeff si guardarono, indecisi sulla risposta da dare, ma IDA li anticipò – È sulla Cittadella.-
Ashley barcollò e si appoggiò a Garrus per non cadere – Le braccia sono aperte, il Crucibolo è in posizione … cosa ci fa ancora lì?-  tossì – Dobbiamo … dobbiamo andare a prenderlo.-
La dottoressa fece un passo in avanti – Ash …- cominciò, cercando di essere ragionevole – Devi tornare subito in infermeria, non c’è niente che tu possa fare qui.-
Ashley si raddrizzò, reprimendo una smorfia di dolore – Il mio posto è qui.- rispose, gelida, senza nemmeno voltarsi a guardarla.
Improvvisamente il Crucibolo iniziò a brillare, dapprima fiocamente, poi una luce azzurra, violenta, lo percorse tutto, espandendosi lungo i bracci della Cittadella, finché l’intera struttura non fu un unico, pulsante, fiore azzurro.
- A tutte le flotte: il Crucibolo è attivo.- la voce di Hackett uscì dalla radio, perentoria – Sganciarsi e dirigersi al punto di ritrovo. Ripeto: sganciarsi e allontanarsi da qui.-
- Ma cosa sta dicendo?- esclamò Ash, pallida e sconvolta – Shepard è ancora sulla Cittadella, dobbiamo andare a prenderlo: non possiamo abbandonarlo!-
Nessuno ebbe il coraggio di risponderle, la Cittadella era un enorme amalgama di luce pulsante: era quasi impossibile che sulla stazione ci fosse qualcuno ancora in vita.
Mentre tutt’attorno a loro le navi abbandonavano il sistema, la Normandy cominciò a vibrare, man mano che la luce si faceva più intensa.
Joker cominciò a destreggiarsi tra i terminali per evitare frammenti e nemici, apparentemente incapace di lasciare il sistema.
- Joker, maledizione! – c’era rabbia nella voce di Ash, ma anche dolore, supplica, disperazione – Non possiamo abbandonarlo di nuovo!-
- Cerca di controllarti, tenente!- esclamò la dottoressa, afferrandola per un braccio, visibilmente preoccupata dal sangue che cominciava a sgocciolare dalle ferite ormai completamente riaperte – Devi tornare in infermeria: ora!- Ashley la scacciò via di nuovo, chinandosi su Joker, pietrificato al suo posto, lo strattonò violentemente – Io non ti permetterò di portare via la Normandy da questo sistema, Moreau!- urlò.
Solo la disperazione le impediva di crollare a terra, svenuta.
La dottoressa estrasse una siringa dalla tasca – Sam, Garrus: tenetela ferma.-
Ashley si voltò di scatto, colpendo Sam con un pugno, gli occhi folli, il viso stravolto dall’ira – No, maledizione!- Garrus l’afferrò per i polsi e lei scosse il capo, disperata, incapace di trattenere i singhiozzi – Devo andare da lui, Garrus … devo …- la dottoressa le iniettò il sedativo e il secondo Spettro umano crollò, come un burattino a cui erano stati tagliati i fili.
Garrus la sostenne, evitando che rovinasse in terra.
- Aiutami a portarla in infermeria.- mormorò la dottoressa, asciugandosi il sudore dalla fronte.
IDA si alzò – Ci penso io. – sollevò il corpo di Ash tra le braccia e si allontanò lungo il ponte, seguita dalla dottoressa.
Joker, pallido e stravolto, cercava ancora di controllare la Normandy, ormai sballottata senza pietà dalla corrente sempre più forte.
Garrus e Sam si lanciarono un’occhiata eloquente alle sue spalle.
Il Turian sfiorò il braccio del pilota ma lui lo scansò, continuando a barcamenarsi tra i terminali che lampeggiavano pericolosamente: se fossero rimasti nel sistema la Normandy sarebbe stata distrutta.
- Jeff …- Garrus strinse i pugni, pregando gli Spiriti di perdonarlo per quello che stava facendo - … dobbiamo andare.-
Le mani di Joker si fermarono a mezz’aria, poi le lasciò cadere, scuotendo il capo, sull’orlo delle lacrime – Maledizione.-
Strinse i denti ed inserì le coordinate per il punto di ritrovo; la Normandy sfrecciò via dai cieli della Terra nell’esatto momento in cui il Crucibolo sprigionava tutta la sua potenza.
La Normandy iniziò la sua corsa verso la salvezza, inseguita dappresso da quella luce blu che sembrava intenzionata ad inghiottirla. Tutti a bordo erano convinti che se l’onda di luce li avesse raggiunti sarebbe stata la fine.
Ma  la Normandy non riuscì a sfuggirle, nemmeno con i motori alla massima potenza, e l’onda li travolse.
La nave si capovolse, come una foglia in balia del vento, e Garrus vide il soffitto corrergli incontro a folle velocità.
Alzò le braccia per ripararsi e tutto divenne nero.
 
http://www.youtube.com/watch?v=0TESeP27g64

Da qualche parte nello spazio, 2186
 
La Normandy era precipitata su un pianeta sconosciuto, lussureggiante e selvaggio con due lune a sorvegliarlo.
Nessuno, tranne IDA, aveva idea di dove si trovassero e come ci fossero arrivati, ma le informazioni possedute dall’IA non erano al momento rilevanti.
La nave era stata danneggiata dall’esplosione ma non così gravemente come si era temuto all’inizio, IDA era ancora completamente operativa e il suo apporto per la riparazione della Normandy fu essenziale.
Ash non partecipò ai lavori di ripristino, la dottoressa insistette per tenerla in infermeria sotto osservazione e lei non protestò né s’interessò alle condizioni della nave o dell’equipaggio, la sua mente e il suo cuore erano rimasti nei cieli della Terra, ad osservare l’abbacinante luce blu che inghiottiva la Cittadella e il suo comandante.
Non riusciva a pensare ad altro: dov’era Shepard? Era ancora vivo? Lo immaginava ferito e sanguinante mentre cercava di contattare la Normandy, senza ricevere risposta. Ben presto si sarebbe reso conto che l’avevano abbandonato. Di nuovo.
Staccò con rabbia la flebo dal braccio e si alzò a fatica dal letto, le ferite erano quasi completamente guarite, ma non riusciva a liberarsi da quella spossatezza che sapeva essere solo psicologica.
Si sentiva completamente svuotata, priva di ogni ragione di vita, l’unica cosa che le impediva di abbandonarsi completamente era la speranza. La speranza che lui fosse ancora vivo, da qualche parte.
Sobbalzò, rendendosi conto di quanto sciocca era stata: invece di restare a compiangersi avrebbe dovuto dare il suo contributo per rimettere in funzione la nave; dovevano tornare indietro a cercarlo.
Ovunque fosse, qualunque cosa fosse accaduta, Shepard aveva bisogno di lei.
Attraversò rapidamente l’infermeria, ma la porta si aprì prima che potesse raggiungerla e fu con sorpresa che vide entrare IDA, il viso imperscrutabile, come sempre, eppure le bastò guardarla per capire che era successo qualcosa. IDA avrebbe potuto mettersi in contatto con lei in qualunque momento, via intercom, il fatto che avesse deciso di parlarle faccia a faccia era preoccupante.
Sentì le gambe cedere e si abbandonò sulla sedia di solito occupata dalla dottoressa – Hai notizie di Shepard?-
IDA annuì, con aria grave, qualcosa negli occhi dell’IA la turbò, erano diversi da come li ricordava: vivi e gravidi di emozioni.
Si accorse con orrore che gli occhi di IDA erano terribilmente malinconici – Sono riuscita a mettermi in contatto con alcune piattaforme Geth rimaste nel sistema Sol: la guerra è finita, la Terra è salva.-
Ash sgranò gli occhi – I Razziatori sono stati distrutti?- si lasciò sfuggire un piccolo sorriso, mentre si abbandonava contro lo schienale con sollievo - Il Crucibolo ha funzionato, Shepard ce l’ha fatta …–
IDA prese una sedia, la posizionò davanti a lei e si sedette, composta. Un comportamento tipicamente umano che non preannunciava nulla di buono.
- Non esattamente. Il Crucibolo ha fatto qualcosa ma non quello che pensavamo noi: i Razziatori esistono ancora, tenente.-
- Ma … hai detto che la guerra è finita …- mormorò, la bocca talmente secca che le risultava difficile parlare.
IDA annuì – Corretto: la guerra è finita, abbiamo vinto. Ma i Razziatori non sono morti, hanno cessato le ostilità e, anzi, sembra che adesso stiano aiutando a ricostruire.-
Il suo primo pensiero fu che l’IA fosse impazzita. Nulla di quello che le stava dicendo aveva senso. Per i Razziatori esisteva solo la vittoria o la sconfitta: nessuna via di mezzo, nessuna resa.
Nessuno aveva mai anche solo contemplato una possibilità di pace, per il semplice fatto che i Razziatori non volevano nient’altro che l’estinzioni di tutte le specie avanzate della galassia. Era ciò per cui erano stati programmati.
Quando lo disse a IDA, l’IA annuì, come se avesse seguito il suo stesso ragionamento – I programmi possono essere violati, Ashley. Qualunque cosa il Crucibolo abbia fatto i Razziatori sono stati riprogrammati: non sono più il nostro nemico, ma strumenti al nostro servizio.-
Ash si accigliò – Stai dicendo che non sono e non erano liberi? Che c’è qualcosa che li controllava e li controlla?-
- Il Leviatano ci ha narrato le loro origini: i Razziatori sono stati creati, sono la risposta ad una domanda che non furono loro a formulare. Per riportare l’ordine nel caos i Leviatani crearono un’Intelligenza: un’IA, una vera IA senza vincoli o limiti, senza padroni. L’IA ha elaborato la sua soluzione: i Razziatori. Loro erano solo uno strumento, Ashley, con un obiettivo ben preciso: distruggere gli organici. Non hanno mai avuto possibilità di scelta.-
- Eppure adesso si sono ritirati … che cos’è cambiato?- nel momento stesso in cui formulava la domanda capì qual era la risposta.
- È cambiato il loro padrone, tenente. Qualcuno ha preso il posto dell’Intelligenza e ha fermato i Razziatori. Hanno un altro obiettivo adesso: costruire invece che distruggere.-
Sentì il sangue defluirle dal volto – Shepard …-
- Sì, è l’ipotesi più logica: tutte le evidenze portano a questa conclusione.-
Alzò lo sguardo su IDA - Dunque è ancora vivo?- non era certa di quale fosse la risposta che desiderava sentire.
Se avesse potuto, l’IA avrebbe sospirato – Tutto quello che posso dirti è che lui esiste. – IDA si sporse in avanti, prendendole le mani tra le sue, un gesto che l’avrebbe commossa se le sue parole non fossero state così atroci - Ma se per vivo intendi un corpo che respira, parla, ride, piange, mangia … ama, allora la risposta è no: il comandante Alexander Shepard, l’uomo, è morto. Adesso lui non è altro che puro pensiero.-
Ash non disse nulla, non si mosse, smise persino di respirare. Per un minuto che sembrò eterno, rimase a fissare IDA, quasi a voler estrarre dai quei lineamenti metallici un’ammissione di colpa, uno spasmo che smentisse le parole appena dette.
E osservando la fronte alta e liscia di Ash, appena coperta da un ciuffo di capelli corvini, gli occhi sbarrati, scuri e vividi, il naso imperioso che fremeva di rabbia e paura, le labbra morbide contratte in una linea sottile, IDA comprese, finalmente, la vastità delle emozioni umane: angoscia, paura, terrore, rabbia, odio, disperazione …
- Che cos’è lui, adesso?-
IDA esitò, spaventata dal gelo nella sua voce  – Qualcosa che gli organici potrebbero chiamare dio: eterno, immortale, infinito.-
Era stata la speranza a sostenerla fino a quel momento, la speranza che Shepard potesse ancora essere salvato, che IDA stesse mentendo, che tutto ciò che le era stato detto fosse solo una terribile bugia; ma osservando quegli occhi sintetici e tristi, che avrebbero pianto se solo fossero stati in grado di farlo, capì che non stava mentendo, che Shepard era davvero perduto e che lei l’aveva sempre saputo, fin da quando si era svegliata, dolorante e tremante, in quella stupida infermeria.
Alexander Shepard non esisteva più, si era gettato nel suo incubo più grande e nessuno, nemmeno lei, poteva salvarlo.
“C’è un’unica cosa che mi fa paura: l’eternità.”
Si nascose il viso tra le mani, soffocando l’urlo che le usciva dalla gola, si piegò in due, le braccia incrociate sul ventre, vergognandosi per quei singhiozzi che non riusciva più a trattenere.
La prima volta che Shepard era morto aveva inghiottito il dolore fino a illudersi di averlo dimenticato, adesso usciva fuori tutto, quello di ieri e quello di oggi, tanto forte da farle credere di essere stata spezzata in due.
IDA rimase immobile, davanti a lei, senza trovare nulla da dire e, per la prima volta, non desiderò provare sentimenti umani. Come si poteva sopravvivere a tutto quel dolore?
Dopo dieci minuti la crisi passò, Ashley rialzò la testa, le guance chiazzate di rosso, gli occhi arrossati che non avevano più lacrime, e sul suo volto il dolore cedette il passo alla determinazione – Chiama la dottoressa Chakwas, dille di venire qui.-
Obbedì.
Quando la dottoressa varcò la soglia, Ash le lesse in viso che sapeva giù tutto, probabilmente IDA aveva informato il resto dell’equipaggio prima di venire da lei, si chiese come avessero reagito , scoprì che la cosa non le interessava. Non c’era più niente che le interessasse ormai.
- Ashley …- cominciò la dottoressa, ma la interruppe con un gesto secco del capo.
- Ho bisogno del tuo aiuto, Karin.-
La donna deglutì, a disagio – Ti ascolto.-
Ashley si alzò, raddrizzò la testa e la fissò dritta negli occhi  – Aiutami a morire.-

http://www.youtube.com/watch?v=YTdCzIduUb4

Inaspettatamente la dottoressa Chakwas accettò e non lasciò che le proteste di IDA le facessero cambiare idea.
Aveva visto molte morti, la maggior parte dei soldati arrivava da lei terrorizzata, l’idea della morte li sconvolgeva al punto da far perdere loro la ragione, tremavano, piangevano, imploravano e lei si costringeva a sorridere, annuire e mentire: “Andrà tutto bene, ti salverai.” Quante volte aveva ripetuto quelle parole iniettando la morfina nel braccio di un soldato? E loro ci credevano, perché volevano crederci, perché non accettavano l’idea della morte. E per ogni soldato che, impotente, aveva guardato morire aveva perso un pezzetto della sua anima.
Negli occhi di Ash c’era lo stesso, annichilente, terrore che aveva scorto negli occhi d’innumerevoli soldati in agonia, ma non era della morte che Ash aveva paura: era l’idea di continuare a vivere a terrorizzarla.
Non aveva potuto esaudire il desiderio di vita di quei giovani soldati che erano morti davanti ai suoi occhi, ma poteva esaudire Ash e il suo desiderio di morte.
Allontanò l’IA e fece sdraiare Ash sul lettino, il tenente le rivolse uno sguardo grato ed incredulo – Perché non cerchi di farmi cambiare idea?-
La dottoressa Chakwas prese una siringa dall’armadietto e cominciò a riempirla con una dose letale di morfina – Non è compito mio decidere della tua vita, né di nessun altro. Se penso a Shepard e al suo destino, mi sento così male da non riuscire a respirare …- si asciugò il naso con una manica – Non oso immaginare come possa sentirti tu che lo amavi più di ogni altra cosa al mondo: non posso condannarti a una vita come questa.-
Una lacrima solitaria scese lungo la guancia di Ash – Grazie, dottoressa …-
La donna scosse il capo e appoggiò la siringa sul comodino accanto al letto poi prese un datapad dalla sua scrivania – C’è una cosa che devi sapere prima di toglierti la vita. – le porse il datapad – Hai molti motivi per morire, Ash, ma ne hai almeno uno per continuare a vivere: ti sto dando una scelta, nient’altro. Qualunque decisione prenderai io capirò.-
Ash prese il datapad e la dottoressa uscì dall’infermeria senza aggiungere altro.
Il suo primo istinto fu quello di gettarlo da parte, senza nemmeno accenderlo: dubitava che vi avrebbe trovato un motivo per rimanere in vita. Aveva già affrontato la morte di Shepard, una volta, non intendeva farlo ancora.
Guardò la siringa, appoggiata sul comodino: le sarebbe bastato allungare la mano e finirla lì, rapido e indolore. Sfuggiva alla morte da troppo tempo: era giunto il momento di affrontarla e riposare finalmente in pace, in attesa che …
Si raddrizzò: in attesa di cosa?
“Eterno, infinito, immortale”: non c’era nessun al di là per Shepard, nessuna vita oltre la morte: solo l’eternità.
Strinse le dita attorno al datapad che si accese con un leggero “bip”, Ash abbassò lo sguardo, stupita, e subito la sua attenzione fu catturata dalle prime due righe.
Sgranò gli occhi, incapace di credere a quello che stava leggendo … eppure quel piccolo rettangolo di vetro offriva una spiegazione a tutte le stranezze che le erano accadute in quei giorni, compresa l’insistenza della Chakwas a tenerla sotto osservazione.
Strinse i denti, odiando la dottoressa e quello stupido datapad … ora morire non sarebbe più stato così semplice.
- Che tu sia maledetto, Alexander.- sibilò stringendosi il datapad al petto.
Sussultò quando si rese conto che lui, maledetto, lo era davvero.
Scagliò il datapad dall’altra parte della stanza e afferrò la siringa con un gesto rabbioso. La fissò con un misto di desiderio e ripugnanza: sarebbe stato così semplice, una piccola pressione del dito e …
Aprì la mano e la siringa cadde in terra, rompendosi.
Non poteva uccidere Shepard un’altra volta.
Lui aveva fatto la sua scelta e ora, finalmente, lei faceva la sua: sceglieva la vita, per entrambi. 

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Capitolo 23
*** La strada per ritornare ***


http://www.youtube.com/watch?v=pm4EXeJ27Jg&list=PLHwZ9V-BgL_vWm1wh9c_zocnhxSH5hz3R 


Normandy, 2186
 
Entrò nella cabina, lentamente, timorosa di quello che vi avrebbe trovato.
Era rimasto tutto uguale dall’ultima volta che l’aveva vista, ma adesso le sembrava di entrare in un altro mondo che apparteneva ad un’altra vita.
I pesci vorticavano piano nell’acquario e le numerose medaglie facevano mostra di sé sulla scrivania, appena sotto la vetrinetta coi modellini, unico vezzo di un uomo che aveva passato la vita a combattere.
Ashley si avvicinò al letto, ancora disfatto, le coperte aggrovigliate a testimonianza di quell’ultima notte passata insieme, tra ricordi, incubi e speranze.
S’inginocchiò accanto al letto, aggrappandosi alle lenzuola e affondandoci il viso dentro … riusciva ancora a sentire l’odore di Alex, ma sapeva che prima o poi sarebbe scomparso e non sarebbe più riuscita a ricordarlo.
Il suono della sua voce stava già lentamente sfumando e presto si sarebbe dimenticata della consistenza dei suoi baci e della delicatezza delle sue dita sulla pelle.
Ma il suo amore per lui, quello, non lo avrebbe mai dimenticato.
Si raggomitolò sul letto, avvolgendosi in quelle lenzuola che avevano l’odore di cose perdute; lasciò che la mente vagasse tra ricordi lontani e annebbiati, ma non ancora dimenticati: mai dimenticati.
Le ritornò alla mente il loro primo incontro, su Eden Prime, quando ogni sua certezza era crollata, quando aveva perso tutti gli uomini al suo comando senza riuscire a salvarne nemmeno uno. Riusciva ancora a sentire la paura e la disperazione di quel giorno, così diverse da quelle che provava ora: all’epoca era solo una sciocca ragazzina che credeva nelle “guerre giuste” e nell’umanità, convinta che la galassia fosse bianca e nera, senza niente in mezzo.
Invidiava gli ingenui ideali di quella ragazza ma odiava i suoi errori, quegli stramaledetti errori, che le avevano fatto perdere la via innumerevoli volte.
Rotolò sulla schiena fissando il cielo nero sopra la Normandy, diverso da qualsiasi cielo avesse mai guardato, con due lune enormi e nessuna stella. Non erano ancora ripartiti, anche se ormai la nave era quasi completamente riparata, la verità era che nessuno voleva andarsene, ognuno, a modo suo, aspettava che il comandante salisse in plancia e desse l’ordine di decollare.
Stavano aspettando un uomo che non esisteva più.
Torse le lenzuola, odiando quelle lacrime che le offuscavano la vista: far decollare la Normandy era compito su, adesso, ma dare quell’ordine avrebbe reso terribilmente reale ciò che era accaduto.
La Normandy sarebbe tornata nei cieli della galassia senza il suo comandante: Shepard non avrebbe più percorso i ponti della nave che era la sua casa, non sarebbe più sceso nell’hangar navette per fare a pugni con James e chiacchierare con Cortez, non avrebbe più fatto visita a Garrus nella batteria primaria per parlare di pistole e fucili di precisione.
Non avrebbe mai conosciuto suo figlio.
Ashley sospirò mettendosi seduta, le nausee che da qualche tempo la tormentavano, e che ora avevano una risposta, erano passate e quel vuoto che le era sbocciato dentro quando avevano abbandonato Shepard e la Terra, si stava lentamente riempiendo, man mano che realizzava ciò che il comandante le aveva lasciato.
Si chiese come avrebbe reagito alla notizia di quella vita che le cresceva dentro … le piaceva pensare che avrebbe sorriso, senza dire niente, gli occhi resi brillanti dalla consapevolezza di essere in grado di creare la vita oltre che di distruggerla.
Si alzò per sfuggire alla malinconia che minacciava di annientarla, di nuovo, continuò ad esplorare la cabina, immergendosi nel ricordo di lui.
Altri al suo posto avrebbero evitato quella stanza per sempre, terrorizzati all’idea di tutto il dolore racchiuso tra quelle pareti, ma Ash non voleva ripetere lo stesso errore fatto con Kaidan.
Shepard non sarebbe più tornato e fingere il contrario non avrebbe cambiato le cose, nell’infermeria aveva scelto di vivere e la vita ricominciava da lì, da quella stanza in cui aleggiava ancora il suo odore.
Riusciva quasi a figurarselo, addormentato sul letto, il viso finalmente rilassato, le labbra leggermente dischiuse, in pace, come non poteva più essere.
Non aveva importanza chi o cosa fosse diventato, cosa avrebbe fatto in futuro; Alexander Shepard era l’uomo raccontato in quella stanza: un uomo giusto, un uomo buono, un uomo morto.
Si fermò davanti alle fotografie appoggiate sulla scrivania, riconobbe quella scattata sulla Cittadella durante la festa che aveva concluso la loro licenza: c’erano tutti, quei compagni, vecchi e nuovi, che, in un modo o nell’altro, avevano reso grande il comandante Shepard.
Si chiese se fossero riusciti a sopravvivere, si augurò di sì: loro, più di tutti, meritavano di vivere in una galassia in pace, senza più guerre da combattere e mostri da annientare.
La foto accanto la conosceva bene, aveva passato mesi a rigirarsela tra le dita, odiando se stessa per essere sopravvissuta a entrambi gli uomini ritratti accanto a lei.
La prima volta che Shepard era morto l’aveva consolata il pensiero che, ovunque si trovasse, Kaidan sarebbe stato al suo fianco e si sarebbero coperti le spalle finché non fosse giunto anche il suo turno di raggiungerli e sarebbero stati di nuovo tutti insieme, i tre dell’Alleanza, come all’inizio.
Ma adesso sapeva che non c’era nessuno con Shepard, né Kaidan, né Thane, nemmeno Legion e non ci sarebbe stata neppure lei. Nulla sarebbe mai stato più come prima e Shepard sarebbe rimasto solo, per l’eternità.
Chiuse gli occhi, cercando di riprendere il controllo, contò fino a cinque, come le aveva insegnato suo padre e, quando la paura passò, riaprì gli occhi e posò lo sguardo sull’ultima fotografia rimasta: ritraeva uomini e donne che non aveva mai conosciuto, se non nei, rari, racconti di Alex.
Lui era lì, più giovane e spensierato, con gli occhi azzurri e i capelli troppo lunghi, inconsapevole di quanto duramente la vita gli si sarebbe scagliata contro.
Di quelle dieci persone che sorridevano all’obiettivo non rimaneva più nessuno: erano passati appena nove anni. L’Uomo Misterioso se li era presi tutti, l’uno dopo l’altro, e, alla fine, si era preso anche Shepard.
Sospirò mentre il suo sguardo si posava su un mucchio di datapad abbandonati in un angolo, li scorse distrattamente, ricordando che erano quelli che Shepard stava studiando quando era entrata nella cabina, prima dell’attacco alla base di Cerberus.
Erano informazioni sulla flotta e le difese della base, numeri e percentuali che ora non avevano più importanza, fece per posarli ma qualcosa attirò la sua attenzione.
Era un datapad in mezzo agli altri, ma riportava una data ben diversa: marzo 2185, subito dopo Horizon.
Rabbrividì, rendendosi conto di quale fosse il contenuto di quel datapad.
Con mano tremante, senza nemmeno sapere perché, lo accese.
Subito la sua voce registrata riempì il silenzio; c’era dolore nella sua voce, dolore per quell’uomo che aveva perso e ritrovato senza sapere più chi fosse, ma accanto alla malinconia e all’amarezza, c’era la speranza di potersi un giorno ritrovare. Una speranza che non poteva più provare.
L’idea che Shepard avesse conservato quella lettera la turbò, aveva sempre pensato che l’avesse buttata via, al suo posto, lei, lo avrebbe fatto.
E invece non solo l’aveva tenuta, ma l’aveva anche riascoltata poco prima di partire per una missione dal quale sapeva non ci sarebbe stato ritorno.
Ash si lasciò scivolare lungo la parete, il datapad abbandonato tra le mani, avvolta dalla sua stessa voce che rievocava quell’errore, quel terribile errore, che mai avrebbe potuto perdonarsi.
Sapere che Shepard aveva riascoltato quella maledetta lettera prima di andarsene, l’annientò: che cos’aveva pensato riascoltando quelle parole? Forse aveva scelto di sacrificarsi nella convinzione che lei sarebbe andata avanti comunque, come aveva fatto la prima volta, che avrebbe sopportato la sua morte un’altra volta.
Scagliò il datapad dall’altra parte della stanza, ma il silenzio che seguì fu più terribile di quel flusso di parole pronunciate con voce spezzata un anno e mezzo prima.
Appoggiò la testa contro la parete – Ti prometto che farò tutto bene questa volta!- singhiozzò verso quel cielo senza stelle, le braccia strette al ventre, come per proteggere il suo bambino da quel dolore che minacciava di distruggerla – Non farò gli stessi errori, non ti volterò le spalle. Torna da me, Alex: non sbaglierò più! Dammi solo una possibilità, non ti deluderò di nuovo.– si prese il volto tra le mano, le lacrime che le inzuppavano le dita – Mi dispiace così tanto per Horizon … -
Sarebbe rimasta lì, raggomitolata in un angolo della cabina del comandante, con la testa stretta tra la mani, per un tempo indefinito se la voce di IDA non fosse arrivata a riscuoterla – Qui è tutto pronto, tenente, aspettiamo solo te.-
Inspirò profondamente, per arginare lacrime che si era imposta di non versare, alzò leggermente il viso, asciugandolo con la manica – Arrivo subito, IDA.-
Appoggiò la testa contro la parete, sospirando, si ravviò i capelli e si rimise in piedi, imponendosi di non crollare più in quel modo: non poteva più permetterselo, non dopo aver fatto la sua scelta.
Attraversò la stanza e raccolse il datapad, fu mentre lo appoggiava sul tavolino che notò il libro, la raccolta di poesie che aveva regalato a Shepard.
Era aperto e in mezzo alle pagine era infilata una sua fotografia, non ricordava quando fosse stata scattata, ma la sua espressione seria e risoluta la riportò ai suoi primi giorni sulla Normandy quando la sua principale preoccupazione era dimostrare a Shepard il suo valore.
Non poteva tollerare l’idea di essere stata accolta sulla nave per pietà: era una Williams ed era un soldato.
Sollevò il libro, incuriosita: sembrava fosse stato lasciato lì apposta per lei. Quando lesse la poesia su cui era aperto, capì che era proprio così.
Scosse il capo – Lo sapevi, lo hai sempre saputo …- sussurrò, odiandolo per la sua follia.
Nessun dopo, nessuna salvezza: non per lui.
Chiuse il libro e uscì dalla cabina.
 
http://www.youtube.com/watch?v=UDm_x_7xT3M

Erano tutti lì, raccolti davanti al memoriale, come una grande e strana famiglia. E lo erano davvero, una famiglia.
Ognuno su quella nave doveva a Shepard tutto. Lui aveva dato ad ognuno di loro una possibilità, quando nessun altro era disposto a farlo.
Era questo che avrebbero ricordato di Shepard: non il coraggio o la forza, non la tenacia o l’orgoglio, ma la generosità con cui li aveva accolti sulla sua nave, dando un senso alle loro vite.
Ognuno di loro era un eroe, adesso, e lo dovevano a lui, solo a lui.
Si avvicinò al memoriale, con quella maledetta targa stretta tra le dita, le mani le tremavano talmente forte che temette di farsela sfuggire, ma non avrebbe permesso a nessun altro di apporre quella targa al posto suo.
Si fermò davanti a quella parete che aveva guardato troppe volte e che non avrebbe più avuto il coraggio di guardare ancora … tutti quei nomi, tutti quei morti … forse il prezzo della salvezza era stato davvero troppo alto, e lei continuava a sopravvivere, nonostante tutto.
Si girò a guardare gli amici ritti alle sue spalle, Liara piangeva sommessamente, le mani strette a pugno, Tali e Garrus si tenevano per mano, sostenendosi a vicenda e Joker la fissava così intensamente che dovette distogliere lo sguardo. Erano di nuovo lì, al funerale del loro comandante, senza un corpo da seppellire e tutte le speranze frantumate. Ma questa volta tutti sapevano che non c’era più niente da fare, che Shepard non sarebbe più tornato.
Incontrò gli occhi di Liara e chinò piano il capo, come a chiederle il permesso e l’Asari, stringendo le labbra e i pugni, annuì: era tempo di lasciarlo andare.
Ashley si voltò nuovamente verso il memoriale, sollevò la targa e l’aggiunse a tutte le altre, sopra quella dell’ammiraglio Anderson.
Fece un passo indietro ed aprì il libro che aveva preso dalla cabina del comandante, lo aprì alla pagina che Alex aveva segnato - E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.-*
 
http://www.youtube.com/watch?v=Vzr6zn318PY

Attraversò con sicurezza il ponte, al suo passaggio la specialista Traynor si mise sull’attenti e, come lei, anche tutti gli altri.
Il tenente Ashley Williams raggiunse la cabina di pilotaggio, mettendosi alle spalle di Joker, il pilota la guardò, sorrise e annuì – Qui è tutto pronto, tenente, aspettiamo solo il tuo ordine.-
- Accendi il comunicatore.-
- Subito, tenente.- intervenne IDA con un cenno d’assenso.
Ashley si raddrizzò, le mani dietro la schiena, fissando dritto davanti a sé il cielo che si apriva davanti alla Normandy – Qui è il tenete Williams, come Primo Ufficiale assumo il comando della nave.- comunicò con voce ferma, decisa – I portali galattici sono stati distrutti e siamo molto lontani dalle nostre case. Non importa: la rotta finale della Normandy è la Terra, ma lungo la strada per ritornare vi porterò in qualunque luogo voi chiamiate casa. Non importa quanto lungo sarà il viaggio: torneremo a casa, tutti quanti.- chiuse gli occhi - È stato un onore vivere al vostro fianco. Tenente Williams: chiudo.-
Sentì i motori della Normandy accendersi e la plancia tornare a vibrare, come un corpo che si risveglia dopo un lungo sonno. Per un istante le sembrò che tutto fosse tornato a posto. Lentamente la nave si sollevò nei cieli di quel pianeta sconosciuto e poi volò. Di nuovo.
Ashley appoggiò le mani sul sedile del pilota, lasciandosi sfuggire un piccolo sorriso – Riportaci a casa, Joker.-
 




Note


Ringrazio Shadow_sea per avermi dato, inconsciamente, l'ispirazione per questo capitolo e per la gentilezza con cui continua a sostenermi.

P.s. Spero perdonerete la piccola discrepanza tra il video e la mia storia. Non ho trovato nessun tributo in cui Shepard scegliesse il Controllo ... chissà perché XD

* Tiziano Terzani “La fine è il mio inizio”.

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Capitolo 24
*** A. Shepard ***


http://www.youtube.com/watch?v=F-4wUfZD6oc&list=PLHwZ9V-BgL_ulQoYNi6g0oxBhisjDAE_4

Canada, 2191

 
Jack saltò giù dalla navetta prima ancora che toccasse terra, come se stesse sbarcando in territorio ostile, nella foga non si accorse del mucchio di neve fresca sotto di lei e vi atterrò dritta in mezzo, ritrovandosi intrappolata fino alla cintola. Si agitò invano, imprecando e bestemmiando, mentre la navetta atterrava con un grazioso sbuffo di neve.
Cominciò a scavare freneticamente, non tollerando l’idea di farsi trovare in quelle condizioni, ma quando il portellone della navetta si spalancò, l’unico risultato che aveva ottenuto era quello di essersi impantanata ancora di più.
Steve Cortez fece capolino dal portellone e scoppiò a ridere – Sei ancora qui, Jack? Mi sembrava che avessi fretta.-
Fece una smorfia – Al diavolo, Cortez! Tirami fuori da questa roba invece di fare l’idiota!-
Lui incrociò le braccia al petto e la studiò con aria divertita – Si chiama “neve” e se tu mi avessi ascoltato non saresti in questa situazione.-
- Aspetta solo che esca da qui e ti spacco il culo!- ringhiò.
- Allora mi conviene lasciarti lì …-
- Steve!-
Il pilota allargò le braccia, esasperato, ma, a dispetto dei suoi propositi, si avvicinò con prudenza alla biotica intrappolata.
- Da quando fa così freddo sulla Terra?- sibilò lei, rabbrividendo, quando fu finalmente libera.
Steve la squadrò con aria scettica – Sei mai stata qui prima? Sul pianeta, intendo.- domandò, evitando prudentemente di fare commenti sui suoi vestiti.
- Sì, una volta sola e si moriva dal caldo.- rispose, battendo i denti.
- Mai sentito parlare di “stagioni”, Jack?-
- Fanculo, Cortez, non fare il saputello con me. -
Steve sorrise, ma non replicò, si guardò intorno tornando serio all’improvviso. Quel battibecco li aveva distratti per un po’, ma non potevano fingere di non essere in ansia per quello che li attendeva.
Sentì Jack sospirare, segno che anche lei era arrivata alle sue stesse considerazioni. Osservarono il paesaggio che li circondava, spaesati: quel posto era diverso da tutto quello che conoscevano.
In quel luogo sembrava che il tempo si fosse fermato, come se le scoperte e le innovazioni che avevano proiettato il resto del mondo nel futuro si fossero arrestate di fronte all’imponente barriera dei monti, senza aver il coraggio di penetrare al loro interno.
Lì, tra le Montagne Rocciose canadesi non c’era traccia di alieni e navi spaziali, la Cittadella e i portali galattici sembravano solo sogni sfocati e dimenticati.
Sulle rive di un piccolo lago ghiacciato, con gli abeti che si ergevano come sentinelle dalla neve, la galassia sembrava una visione lontana e priva d’importanza.
Era un luogo perfetto da chiamare casa.
I loro sguardi furono attirati dall’unica fonte di luce che, oltre alla luna, illuminava quella gelida notte terrestre.
Affacciata in riva al lago c’era una piccola casa, completamente di legno, il tetto spiovente ricoperto di neve, il fumo che usciva lieve dal camino, le finestre illuminate …
- Sicura che vuoi andare da sola?-
Jack annuì, sfoderando quell’espressione cocciuta che le veniva così bene – Sì, è una cosa che devo fare io …- gli lanciò una breve occhiata - … mi dispiace, Steve.-
Lui si strinse nelle spalle, senza riuscire a dissimulare del tutto la delusione – Non importa, immagino sia giusto così … - le diede un colpetto sulla spalla, prima di voltarsi per raggiungere la navetta – Dalle un bacio da parte mia, va bene?-
Jack fece una smorfia – Te lo scordi, Cortez! Io non distribuisco “baci”.-
Steve ridacchiò, salendo sulla navetta – Lo so che preferisci dare i pugni, ma non mi sembra il caso …- sospirò – Seriamente, Jack dille che …- gli si spezzò la voce e distolse lo sguardo.
- Lo so, Steve.-
Lui annuì, grato – Vado a fare un giro in città, quando hai finito chiamami e vengo a prenderti.-
Jack fece un cenno d’assenso – Non divertirti troppo in città, Cortez e mi raccomando: non fare niente che io farei.-
Steve ammiccò – Non ti prometto nulla.-
Mentre la navetta si alzava lentamente nella notte silenziosa, Jack scese il piccolo pendio che la separava dalla casa, attenta a non sprofondare, di nuovo, nella neve fresca.
Quando arrivò davanti alla casa aveva i piedi zuppi e tremava, ma rallentò lo stesso il passo, chiedendosi che cosa sarebbe successo una volta bussato a quella porta.
Erano passati cinque anni e non aveva idea se la persona al suo interno fosse ancora quella che ricordava e, anche in quel caso, il loro rapporto non era mai stato particolarmente cordiale.
Andare lì da sola non le sembrò più una così buona idea.
Immersa nei suoi pensieri non si accorse dell’ombra che le era scivolata alle spalle, finché non sentì qualcosa di duro premerle tra le scapole.
- Non fare un altro passo!- sibilò una voce familiare e minacciosa al suo orecchio – Identificati o ti faccio esplodere il cuore.-
Jack alzò le mani senza troppa convinzione e sbuffò, con evidente scetticismo – Sono davvero curiosa di scoprire come può un pezzo di legno farmi esplodere il cuore.-
Dopo un attimo di stupito silenzio, la pressione contro la sua schiena scomparve – Beh potevo sempre usarlo per spaccarti la testa, ma è così dura che dubito ci sarei riuscita. Devo ammettere che non mi aspettavo di rivederti, Jack. –
Jack si voltò, prendendosi qualche istante per osservare la donna chinata a raccogliere la cesta di legna che aveva abbandonato per tenderle l’imboscata.
Non riuscì a scorgerle il viso, con il cappello di lana calato sulla fronte e la sciarpa sollevata a coprire il naso, ma la vita da civile l’aveva appesantita parecchio. Jack si accigliò: era difficile immaginare che quella donna, un tempo, era stata uno dei soldati più ammirati della galassia.
Ashley Williams alzò gli occhi su di lei – Andiamo dentro, prima che ti prenda una polmonite. Solo tu puoi andare in giro conciata in quel modo in pieno inverno.-
Non trovò niente da replicare.
Seguì Ash verso casa, davanti alla porta c’era uno strano animale che emetteva versi da bestia in agonia, Jack si accigliò, domandandosi che razza di creatura fosse; cercò di ricordare le poche cose che sapeva della Terra e delle forme di vita che la abitavano – Quello è un cane?- domandò.
Ashley scoppiò a ridere mentre apriva la porta e l’animale sgattaiolava dentro – Lo hai offeso: Francis è un gatto. Ti consiglio di porgergli le tue scuse: è parecchio permaloso e odia i cani. -
Jack la seguì all’interno, stupita nel trovarsi in un ambiente tanto antico, le sembrava di entrare in un museo o di trovarsi in uno di quegli olofilm ambientanti nel passato; ma il tepore che l’avvolse la fece sentire subito meglio.
Osservò Ashley che si toglieva strati e strati di vestiti, smentendo le sue precedenti considerazioni sul suo stato di forma: la vita civile le donava tanto quanto quella militare. Non era cambiata affatto dall’ultima volta che l’aveva vista, aveva solo i capelli un po’ più lunghi e qualche piccola ruga intorno agli occhi.
Ash la squadrò con aria critica mentre si toglieva gli stivali – Vieni, ti do qualcosa di caldo da indossare, a meno che i tuoi tatuaggi non siano termici oltre che di pessimo gusto.-
Dieci minuti dopo era seduta davanti al fuoco, con una tazza fumante di caffè in mano e avvolta nei vestiti più comodi e caldi che avesse mai indossato. Si chiese se si sarebbe mai potuta abituare a una vita come quella, sicuramente no, ma capiva perché Ash l’avesse scelta.
Ci si poteva illudere di essere persone normali.
Stava sorseggiando il suo caffè mentre Ash riattizzava il fuoco, quando notò qualcuno fare capolino da dietro porta, si raddrizzò di scatto, mettendosi sulla difensiva; Ash, notata la sua tensione, si alzò, seguendo il suo sguardo.
Si mise un dito davanti alla bocca, invitandola al silenzio, poi si avvicinò alla porta in punta di piedi, rimanendo fuori dalla visuale, e, dopo essersi appostata accanto allo stipite, scattò rapida, afferrando chiunque fosse acquattato lì dietro.
Seguì uno strillo spaventato e la risata di Ash – Che cos’abbiamo qui? Un piccolo folletto impiccione? Lo sai cosa succede in questa casa ai folletti? Francis se li pappa tutti!-
- No, no!- rispose subito una vocetta infantile, un po’ spaventata, un po’ divertita – Non sono un folletto!-
- E allora cosa sei? Non dirmi che sei uno gnomo! Francis odia gli gnomi …-
- Sono un bambino!-
Jack appoggiò la tazza sul tavolo, le mani le tremavano a tal punto che rischiava di rovesciare tutto. Era il momento che più aspettava e temeva: sapeva dell’esistenza di quel bambino ma un conto era immaginarlo, un altro trovarselo di fronte, vivo e reale.
Quel bambino era tutto ciò che restava di Shepard.
- Un bambino … mmm strano, i bambini non spiano, solo gli gnomi lo fanno. I bambini non hanno paura di presentarsi.-
Jack non sentì la risposta, ma Ash rise di nuovo  – Certo che puoi portare Francis, se ti fa sentire più sicuro. Vieni …-
Jack scattò in piedi e fu con orrore che notò di essere completamente avvolta dall’energia biotica, prese un respiro profondo, imponendosi di calmarsi, e l’aura bluastra si spense nell’esatto momento in cui Ashley entrava nella stanza, seguita da un bambino dall’aria guardinga.
Si mordeva le labbra, a disagio, il gatto stretto al petto e gli occhi azzurri sollevati verso di lei, curiosi e sospettosi.
Jack fece un passo indietro, completamente in balia di quello sguardo che la riportava indietro di sei anni, quando aveva cominciato a vivere per la prima volta.
Non c’erano dubbi su chi fosse il padre di quel bambino coi capelli arruffati e l’aria sveglia.
Il gatto si divincolò e il bambino, dopo aver appurato che non ci fosse alcun pericolo, lo lasciò andare – Tu chi sei?- domandò, incrociando le braccia al petto.
Sembrava la miniatura di suo padre.
Jack boccheggiò, annientata da un bambino di cinque anni con la zeppola.
Ash accorse in suo aiuto, arruffando i capelli del bambino nel tentativo di allentare la tensione – Lei è Jack, è …- esitò, mentre i loro occhi s’incrociavano, nessuna delle due aveva mai pensato a come finire quella frase - … è un’amica. Una mia vecchia amica.- le sorrise e, inaspettatamente, Jack si ritrovò a fare lo stesso.
Il bambino si rilassò leggermente, ma continuò a studiare Jack con aria attenta, come se avesse capito che c’era molto altro oltre quella risposta.
Si avvicinò alla biotica, guardandola da sotto in su – Jack è un nome da maschio.- chinò il capo di lato – Tu non sei un maschio.-
Ashley ridacchiò, andando a sedersi davanti al fuoco – Che perspicacia.-
Anche Jack si ritrovò a sorridere, sentendo la tensione allentarsi lentamente – Jack è un soprannome.- spiegò, chinandosi verso di lui – Il mio vero nome è Jacqueline. Jacqueline Nought.- gli tese la mano, come avrebbe fatto con un adulto.
Lui annuì, composto e soddisfatto, e gliela strinse – Io mi chiamo Andrej. Andrej Shepard.-
Jack sobbalzò e ritrasse la mano come se si fosse scottata, era … troppo per una sera sola.
Guardò Ashley che la osserva dispiaciuta, come se sapesse esattamente cosa stava provando ma non potesse fare nulla per evitarlo.
- Vai a metterti il pigiama, tesoro, è tardi.-
Andrej si accigliò – Ma … - guardò verso la finestra - … non è ancora il momento.-
Ashley si passò una mano sulla fronte – Scusa, hai ragione, non ci avevo pensato. Puoi rimanere sveglio però vai su a giocare, ti chiamo io quand’è il momento. Noi …- lanciò un’occhiata a Jack che stava trangugiando il suo caffè ormai freddo per darsi un contegno - … noi dobbiamo parlare.-
Lui annuì, visibilmente sollevato, fece un timido sorriso a Jack e scappò via.
Ash si abbandonò sulla poltrona mentre il gatto le saltava in grembo, con aria soddisfatta – Respira, Jack. -
Solo in quel momento si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo – Pensavo l’avessi chiamato Alexander.- esalò in un sussurro.
Ashley passò la mano sulla folta pelliccia di Francis mentre il suo sguardo si perdeva nel fuoco – Alexander Shepard ha avuto la sua occasione … forse Andrej sarà più fortunato.-
Jack si asciugò velocemente le guance, felice che non la stesse guardando: non voleva mettersi a piangere davanti a lei.
Vedere quel bambino, incrociare il suo sguardo, conoscere il suo nome … per la prima volta Andrej Shepard esisteva davvero e seppe di amare quel bambino come e più di quanto avesse amato il padre.
Non aveva potuto salvare Alex, ma avrebbe protetto Andrej fino alla morte.
Si guardò intorno, studiando quella casa che sembrava appartenere ad un tempo ormai scomparso – Perché ti sei confinata in questo posto? Non sarebbe meglio per Andrej vivere in città, in mezzo alle gente?-
- Vorrai scherzare!- sibilò Ash, guardandola male – Il figlio del comandante Shepard? Non oso immaginare l’accanimento dei giornalisti. James e IDA hanno praticamente chiuso Diana Allers nella sua cabina per evitare che riprendesse il parto e lei è ancora una di quelle “ragionevoli”. Non voglio che mio figlio cresca con l’ombra di suo padre cucita addosso. – fece una smorfia – Qui la vita è tranquilla. In paese nessuno ci conosce, presto comincerà la scuola e sarà solo un bambino in mezzo a tanti altri. Sono figlia di militari, Jack, come Alex: non rimpiango nulla, ma non voglio quella vita per mio figlio. Merita di vivere quell’infanzia che a noi è stata negata.- le lanciò un’occhiata penetrante – Tu più di tutti dovresti capirlo.-
Non poteva darle torto. Quel posto era perfetto per crescere un bambino: lei stessa avrebbe rinunciato a trent’anni di vita per cancellare il suo passato e ricominciare da lì.
- Che cosa gli dirai quando comincerà a chiederti di suo padre?-
Ashley indicò la mensola sopra al caminetto, che non aveva notato, era piena di fotografie, medaglie, ricordi – Lui sa benissimo chi è suo padre. Forse non capisce ancora chi è stato e che cosa ha fatto, ma non gli ho mai nascosto niente e mai lo farò. –
Jack si strofinò le tempie, più tempo passava in quella casa, più assurdi le sembravano i motivi che l’avevano spinta fin lì.
Ash dovette intuire il suo disagio perché si sporse verso di lei, con aria indagatrice – Perché sei qui, Jack?-
Non c’era modo di dirlo in maniera semplice, indolore, perciò lo disse e basta, senza giri di parole – C’è una nuova missione, sulla Normandy. Il Consiglio ha chiesto l’aiuto dell’Alleanza e Hackett ha pensato di richiamare la vecchia squadra o … beh quelli che sono rimasti. Buona parte dell’equipaggio è tornato sulla Normandy, siamo al completo, manchi solo tu.-
Ashley s’irrigidì – Chi c’è al comando?-
Fece un sorrisino nervoso - Non ci crederai: James Vega. È capitano adesso.-
- “Capitano, mio capitano …”- Ash tornò a fissare il fuoco con aria assorta – Tu, Vega … chi altri? Oltre a IDA e Joker, naturalmente.-
- Sam e Cortez del gruppo dell’Alleanza, siamo riusciti a convincere Liara e Garrus mentre Tali starà con noi per un po’ … ah e …- fece una smorfia disgustata - … c’è anche Miranda.- scosse il capo per scacciare la fastidiosa prospettiva di dover convivere con la cheerleader per un tempo indefinito - Sai, tecnicamente adesso sei capitano anche tu e se decidessi di tornare il comando passerebbe a te. Vega ne sarebbe più che felice, fa tanto il duro ma … non è tagliato per queste cose. -
Ash le lanciò un’occhiata che non seppe decifrare – Non faccio più parte dell’Alleanza.-
- Beh sei pur sempre uno Spettro.- tentò un sorrisino irriverente – Non mi risulta che abbiate una scadenza.-
- Shepard era uno Spettro.- fece una smorfia e si alzò, facendo scappare via il gatto – Io non lo sono mai stata.-
Jack non disse nulla e rimase immobile, in silenzio, mentre Ash si avvicinava alla mensola carica di ricordi – Durante la guerra, quando vagavamo per la galassia alla ricerca di alleati, trovammo un gruppo di scienziati, su Gellix, erano dei rinnegati di Cerberus.- a quel nome Jack non riuscì a reprimere un fremito di odio e disgusto: Cerberus era distrutto ma avrebbe continuato a vivere nei suoi ricordi per sempre – A capo di quegli scienziati c’era una vostra vecchia conoscenza: Jacob Taylor.- continuò Ash – Quegli scienziati, e una di loro in particolare, erano diventati la sua famiglia, aveva finalmente trovato qualcosa per cui valesse la pena lottare. Quando Shepard gli chiese di tornare sulla Normandy lui rifiutò. Aveva il suo mondo da salvare.- si passò una mano tra i capelli – Shepard rispose che capiva ma Jacob lo interruppe dicendogli che no, lui non poteva capire: il suo unico amore era la Normandy. Io …- si schiarì la voce e scosse il capo - … mi aspettavo che Shepard lo smentisse, che gli dicesse che si sbagliava, che ero io il suo unico amore. Non lo fece, non disse niente, si limitò a chinare il capo e guardare da un’altra parte. Jacob aveva ragione …- prese il modellino della Normandy e se lo rigirò tra le mani - … Shepard era la Normandy e per quanto potesse amarmi non mi avrebbe mai amato come quella nave che era morta e risorta con lui.- rimise il modellino a posto e abbassò il capo, mesta – Non è giusto che la SR2 sia sopravvissuta al suo comandante.- si voltò verso di lei, seria e decisa – Non posso tornare su quella nave, Jack, non posso essere io a comandarla. Non riesco ad immaginare di intraprendere una missione sulla Normandy senza Shepard. E non potrei mai abbandonare Andrej. La mia vita è qui, sulla Terra, con mio figlio. Non c’è nulla là fuori per cui valga la pena combattere.-
Jack si accigliò –  Stronzate: un tempo combattevi per l’Umanità, per l’Alleanza. C’è ancora bisogno di te, là fuori. L’equipaggio ha bisogno di te.-
Il sorriso che si dipinse sul viso di Ashley tradiva una profonda stanchezza – Hanno bisogno di Shepard, non di me. Mi dispiace Jack, non combatto più.- indicò le medaglie appese sopra il caminetto – Le vedi quelle? La maggior parte sono di Shepard, ma ce n’è qualcuna anche mia. Al mio ritorno sulla Terra, dopo la guerra, mi hanno promosso capitano e insignito della Stella Terrestre, mi dissero che l’Umanità era fiera di me. – scosse il capo, amareggiata – Un tempo avrei dato qualunque cosa per ricevere un simile riconoscimento. Ho riscattato l’onore della mia famiglia, lavato l’onta di mio nonno, realizzato il sogno di mio padre: ho ottenuto tutto ciò per cui ho sempre combattuto, ma non riesco ad esserne felice. Che me ne faccio di onore e medaglie se non c’è più nessuno con cui condividerle? Tutti quelli a cui importava sono morti e a me rimane solo la gloria. Solo adesso che l’ho ottenuta mi rendo conto di quanta poca importanza abbia. Vorrei Alex e mio padre, invece ho una medaglia.- si voltò di scatto, per nascondere le lacrime che le rigavano il viso.
Jack esitò senza sapere troppo cosa fare, non era abituata a consolare la gente, lei picchiava duro e basta – Hai Andrej.- mormorò.
Ash annuì, continuando a darle le spalle – Allora capisci perché non tornerò indietro: non posso essere madre e soldato. Lui è … tutto per me. Non lo abbandonerò né lo trascinerò per la galassia come se fosse un pacco postale. Sono stata un discreto soldato …- le lanciò un’occhiata di sfida da sopra la spalla - … sarò una madre decisamente migliore.-
Il terminale dall’altra parte della stanza emise un suono acuto che le fece sobbalzare, Ashley le rivolse un sorrisino nervoso – Un attimo solo.- mormorò, andando a rispondere.
Mentre Ash parlava Jack si alzò, per osservare meglio le fotografie esposte sulla mensola, alcune le conosceva per averle viste nella cabina di Shepard, altre erano state scattate dopo la sua morte; una in particolare attirò la sua attenzione, immortalava madre e figlio seduti in riva al lago, di notte.
Ashley teneva Andrej tra le braccia, il bambino doveva avere due o tre anni, aveva il viso rivolto verso il cielo e la mano allungata a prendere la luna.
- È una splendida notizia.- esclamò Ash parlando al terminale – Andrej sarà felicissimo di vederti. No … non ti preoccupare, veniamo noi a prenderti … Sì, perfetto. A domani!-
Chiuse la comunicazione e si voltò verso di lei – Scusa per l’interruzione, Jack. -
Lei si strinse nelle spalle – Non ti preoccupare.- ammiccò, indicando il terminale – Appuntamento galante?-
Ashley ridacchiò scuotendo il capo – C’è un unico uomo nella mia vita, basta e avanza. Era Hannah …- esitò - … Hannah Shepard, viene a stare da noi per qualche giorno, è molto affezionata ad Andrej, non appena ha qualche giorno libero viene a trovarci.- fece un respiro profondo – Siamo l’unica famiglia che le è rimasta.-
Jack distolse lo sguardo, tornando a guardare le fotografie, non aveva mai conosciuto Hannah Shepard se non nei racconti del comandante o del resto dell’equipaggio, l’aveva sempre immaginata come una donna dal cuore di pietra, tanto presa dalla sua carriera da dimenticarsi tutto il resto … forse si era accorta delle cose importanti troppo tardi.
Scacciò quei pensieri dalla testa e indicò la fotografia - Andrej ha le stelle nel sangue. Non puoi tenerlo inchiodato qui, sulla Terra.-
Ashley spostò il peso da un piede all’altro, a disagio – Credi che non lo sappia? So bene che il suo futuro è tra le stelle. Prima o poi se ne andrà per la sua strada ed io non glielo impedirò. – strinse le labbra, quella prospettiva la turbava più di quanto non volesse ammettere - Ma adesso è solo un bambino e voglio che abbia una vita normale … voglio che sia felice.-
Jack abbassò lo sguardo sulle sue mani coperte di tatuaggi e cicatrici, unici lasciti di un’infanzia che non aveva mai avuto – Non ho mai conosciuto mia madre.- confessò – Ma se avessi potuto scegliere mi sarebbe piaciuto avere una madre come te.-
Ashley arrossì, imbarazzata, fortunatamente i rintocchi dell’orologio che annunciavano la mezzanotte la trassero dall’impiccio di dire qualcosa.
Jack scattò in piedi – Maledizione, è tardissimo.- inviò un breve messaggio a Cortez dicendogli di venire a prenderla – Tolgo il disturbo.-
Ash non diede segno di averla sentita, rimase per qualche istante a fissare l’orologio con aria assorta,  poi il suo sguardo guizzò verso la finestra – Aspetta, prima devi vedere una cosa. - attraversò la stanza e raggiunse l’arco della porta – Andrej …- chiamò - … è ora.-
Jack le lanciò un’occhiata interrogativa, ma Ash le fece cenno di aspettare mentre il bambino correva giù dalle scale come se fosse stato appostato in cima per tutto il tempo, in trepidante attesa.
Madre e figlio indossarono giubbotti e sciarpe, poi uscirono insieme nella notte terrestre, seri e silenziosi, come se stessero per assistere a qualcosa d’incredibilmente importante. Dopo un attimo di esitazione Jack li seguì.
Fuori faceva ancora più freddo di quando era arrivata, l’aria era immobile, gli alberi congelati in una silenziosa attesa, il cielo nero, senza luna né stelle.
La piccola veranda, fiocamente illuminata dalle luci provenienti dall’interno, pareva sospesa sull’orlo di un nero ed interminabile abisso … il mondo intero sembrava trattenere il respiro. Qualcosa … qualcosa d’incomprensibile e sconvolgente stava per accadere.
Andrej e Ash erano fermi davanti ai gradini della veranda, sul bordo del precipizio, gli occhi rivolti verso quel cielo senza stelle: due ombre ai confini del mondo.
- Guarda mamma, laggiù!- esclamò Andrej, indicando davanti a sé. Il bambino iniziò a ridere e d’un tratto il mondo riprese a girare, mentre dal cielo scendevano, lenti e leggeri, bianchi fiocchi di neve e su, in alto, un’unica stella si affacciava sul mondo.
Andrej corse nel prato, ridendo e saltando, col gatto che gli faceva agguati nella neve: il mondo intero era ai suoi piedi.
- Oggi è il suo compleanno.- Jack sobbalzò al suono della voce di Ash, non si era accorta che si era avvicinata – Da cinque anni, ogni anno, a mezzanotte inizia a nevicare e continua per tutto il giorno.- Ashley alzò il viso verso il cielo, fissando quell’unica stella che brillava sopra le loro teste – Mi piace pensare che sia il modo con cui Shepard rende omaggio a suo figlio. Qualunque cosa sia, ovunque si trovi, voglio credere che, almeno oggi, lui sia qui con noi.-
Jack non rispose, si limitò a fissare quella stella chiedendosi se nei pensieri di Shepard, talvolta, ci fosse anche lei. Infilò la mano nello scollo del maglione finché non trovò la medaglietta che da sei anni portava appesa al collo, unico dono di un uomo che aveva scelto di non amarla.
Uscì dalla veranda, affondando nuovamente nella neve fresca, mentre tutto attorno a lei fiocchi bianchi e ghiacciati vorticavano nell’aria, spensierati e giocosi.
- Andrej …- chiamò, perdendosi nel suono di quel nome che mai avrebbe immaginato di pronunciare ancora. Si bloccò quando incrociò quegli occhi azzurri come il cielo d’estate, tanto intensi e profondi da farle dimenticare tutto, persino i motivi che l’avevano portata fin lì, in quel luogo di pace e tranquillità.
- Che cosa c’è?- domandò quella voce da bambino.
Jack si riscosse, sorrise e s’inginocchiò davanti a lui, dentro e sotto la neve – Ho un regalo per te, per il tuo compleanno.- gli porse la medaglietta e gliela mise tra le mani, l’idea di separarsene la faceva star male ma era certa di star facendo la cosa giusta.
Era diventata davvero una persona migliore.
- Era del tuo papà. - spiegò mentre Andrej sollevava la medaglietta coi grandi occhi azzurri sgranati dalla meraviglia – È giusto che l’abbia tu, adesso.-
- A. Shepard …- lesse il bambino con la voce carica di riverente ammirazione. Le sorrise, un sorriso così radioso e felice, da riempirle quel vuoto che la morte di Shepard le aveva lasciato dentro e che mai avrebbe pensato di poter un giorno colmare.
Andrej si mise la medaglietta attorno al collo, fiero e traboccante d’orgoglio, alzò gli occhi su di lei e il sorriso si spense, sostituito da un’espressione così seria da lasciar intravedere il viso di un uomo dietro quei lineamenti da bambino – Grazie, Jacqueline.- disse prima di correre via, nella neve.
Jack rimase inginocchiata per terra, le mani appoggiate sulle ginocchia, lo sguardo perso nel vuoto … in un modo o nell’altro Jacqueline e Andrej esistevano ancora.
Si voltò al suono di passi nella neve, Ashley la raggiunse, consapevole che qualunque cosa fosse accaduta tra lei e suo figlio, era qualcosa che apparteneva a loro e a loro soltanto.
- Credo che sia arrivata la tua navetta.- annunciò, indicando le luci sulla collina davanti a loro.
Jack annuì, rialzandosi e spazzolando via la neve dai pantaloni – Dovrei restituirti i vestiti.-
Ash si strinse nelle spalle – Ne ho altri.- le porse la mano – Buon viaggio, Jack e buona fortuna.-
Jack ricambiò la stretta ma al momento di lasciarla esitò – La Normandy è attraccata allo spazioporto di Vancouver, ci rimarrà fino a mezzogiorno. Se vuoi passare a salutare, saranno tutti felici di vedere te e …- spostò lo sguardo su Andrej che scorrazzava felice nella neve - … e lui.-
Ashley esitò, a disagio – Io … io ci penserò.-
Jack si portò la mano alla fronte – Hangar D-24, Williams.- precisò avviandosi verso la navetta.
- Non esiste un hangar D-24 a Vancouver!- le urlò dietro Ashley.
Jack si voltò verso di lei, continuando a indietreggiare, allargò le braccia con un sorriso di sfida – Davvero? Vieni a verificare tu stessa, Williams.-
Se ci fu una risposta non la sentì.
 
http://www.youtube.com/watch?v=lz9xygnjvIc

L’astroporto di Vancouver era gremito di gente, un amalgama brulicante e vociante di esseri provenienti da tutti gli angoli della galassia.
Sembrava di essere nel crocevia dei mondi.
Gli umani si perdevano tra le splendide Asari, superbe e fiere, i grassocci Volus e i goffi Elcor che avanzavano lenti e impacciati, apparentemente senza altro scopo che creare ingorghi e far imbestialire gli iperattivi Salarian che saltellavano di qua  e di là come bizzarre lucertole parlanti; e poi Turian, Krogan, Hanar … di tanto in tanto si scorgevano persino Quarian accompagnati da Geth, un’accoppiata che stava ormai diventando la norma ma che suscitava ancora diffidenza e sconcerto tra gli altri abitanti della galassia.
Fuori dal tranquillo isolamento delle Montagne Rocciose il mondo si mostrava in tutta la sua prepotente frenesia e sconcertante modernità; in quell’astroporto brulicante di vita la galassia non sembrava più un luogo distante e misterioso, ma un’infinita distesa di mondi, culture e specie diverse che avevano trovato un modo di convivere e cooperare tra loro.
Ashley strinse forte la mano di Andrej, terrorizzata all’idea di perderlo in tutta quella confusione. Il bambino osservava rapito le genti e i colori che sfrecciavano tutt’intorno a lui, gli occhi sgranati, l’espressione meravigliata.
Non era la prima volta che scendevano in città, spesso vi si erano recati per incontrare Hannah o la madre e le sorelle di Ashley, ma mai prima d’ora si erano trovati immersi in una simile folla frenetica ed eccitata, che Ash aveva visto solo sulla Cittadella.
Immaginò che dovesse essere accaduto un qualche evento eccezionale.
I suoi sospetti trovarono conferma quando vide un mucchio di gente assiepata davanti alla grande vetrata che si affacciava sulle piste d’atterraggio. C’era qualcosa, là fuori, capace di ammaliare tutte le specie della galassia.
Ash si avvicinò, attenta a non perdere di vista Andrej, curiosa di scoprire cosa ci fosse di così affascinante; non riuscì a raggiungere il punto panoramico che un Krogan la urtò, rischiando di farle perdere l’equilibrio.
- Ehi!- esclamò, incapace di trattenersi – Ehi, bestione, che ne dici di fare un po’ più di attenzione la prossima volta?-
Il Krogan si voltò con aria minacciosa – Stai parlando con me, principessa?-
Ashley sentì il sangue montarle alla testa – Spero di aver sentito male.- sibilò, stringendo gli occhi a fessura.
- Hai sentito bene … principessa.- la sfidò il Krogan avanzando verso di lei.
Stava per dare inizio a una rissa quando un trafelato agente della sicurezza piombò tra loro, rovinando la festa.
- C’è qualche problema qui?- chiese frapponendosi tra i due, le spalle dritte e il petto proteso in avanti perché tutti notassero il suo distintivo.
Il Krogan lo spinse di lato, mandandolo a gambe all’aria – Fuori dai piedi, tu!- si avvicinò ad Ash puntandole contro un dito grosso come un tronco – Ringrazia che hai un cucciolo, Umana, altrimenti staresti raccogliendo i tuoi denti dal pavimento.- le voltò le spalle e sparì tra due ali di folla che si aprirono per lasciarlo passare.
Ashley sorrise: le erano sempre stati simpatici i Krogan.
Andrej era pietrificato al suo fianco, gli occhi sgranati – Forte …- lo sentì sussurrare.
Ash aiutò l’agente a rialzarsi – Tutto bene, signora?- esclamò scattando in piedi e assicurandosi che il distintivo fosse ancora al suo posto – Ah questi Krogan, sempre imprevedibili, per fortuna che sono intervenuto in tempo …-
Ashley lo osservò con aria scettica mentre si risistemava la divisa con aria computa, c’era qualcosa di familiare in quel tizio iperattivo coi capelli e il pizzetto biondi …
- Posso esserle ancora d’aiuto?- domandò, con un sorriso smagliante.
- No, grazie … - si bloccò – A dire la verità sì: saprebbe dirmi dove posso trovare l’Hangar D-24? Ammesso che esista …-
L’uomo s’illuminò, evidentemente esaltato dall’idea di rendersi utile – L’Hangar D-24? Ma certo, venga con me!- le fece cenno di seguirla verso i terminali d’imbarco - È una storia curiosa.- spiegò mentre camminavano – Fino a ieri non esisteva nessun Hangar D-24, poi una nave dell’Alleanza chiede di atterrare: massima priorità, codici di atterraggio del Consiglio … l’intero pacchetto insomma. Diamo al pilota il permesso di atterrare all’Hangar B-14, quello per i veicoli militari, lui ci chiede se abbiamo un Hangar D-24, gli rispondiamo di no e lui si rifiuta di atterrare.- scoppiò in una risatina di disapprovazione – Lo sa che cos’è successo? Invece di mandarlo al diavolo le autorità dell’astroporto ci hanno detto di cambiare il nome dell’Hangar. – alzò gli occhi al cielo - Così anche l’astroporto di Vancouver ha un Hangar D-24, adesso.- concluse, indicando l’ingresso dell’Hangar.
Ash strinse più forte la mano di Andrej, che tentava di sgattaiolare via per andare a curiosare chissà dove – Mi sa dire il nome della nave che è atterrata?- domandò, anche se conosceva già la risposta.
- Certo.- il sorriso dell’uomo si ampliò – Non ci crederà mai: è la Normandy SR2. Una leggenda!-
Ashley sentì il cuore mancare un battito: la Normandy era tornata sulla Terra, per lei.
Si aggrappò ad Andrej come se quel bambino fosse l’unico appiglio prima di precipitare nel baratro che si era aperto di fronte ai suoi piedi – Mamma?-
Ash gli sorrise, cercando di assumere un’espressione rassicurante – Tutto bene, tesoro.-
L’agente continuava a parlare, ignaro del suo turbamento – Si rende conto, la nave del comandante Shepard qui, a Vancouver! Io l’ho conosciuto sa? Gli ho anche salvato la vita una volta!- esclamò, assumendo un’aria d’importanza.
Ashley agitò una mano per zittirlo – Mi faccia accedere all’Hangar, per favore.- guardò l’orologio: le 11:45, Jack aveva detto che la Normandy sarebbe partita a mezzogiorno.
- Assolutamente no!- esclamò l’agente, scandalizzato – I civili non possono accedere all’Hangar, se vuole vedere la nave, vada alla vetrata panoramica, come tutti gli altri.- disse, indicando la massa di gente che si affollava davanti alla vetrata.
Ash si diede della stupida: la Normandy era il motivo di tutta quell’agitazione. Avrebbe dovuto immaginarlo: la nave e il suo equipaggio erano diventati leggenda.
- Sono Ashley Williams, idiota!- sbottò – Inserisca il mio nome nel terminale e vediamo cosa le dice.-
L’uomo parve offeso ma obbedì, borbottando a proposito di civili arroganti e pretenziosi poi, man mano che scorreva i dati sul terminale, la sua espressione mutò e il fastidio lasciò il posto all’assoluto sconcerto.
- Lei è davvero Ashley Williams?- balbettò, sgranando gli occhi – Quell’Ashley Williams? Il secondo Spettro Umano? Ma … ma non mi riconosce?- il suo viso si aprì in un sorriso smagliante – Sono io: Conrad Verner! Ci siamo conosciuti sulla Cittadella, anni fa! In abiti civili non l’avevo riconosciuta!-
Ashley rimpianse di non aver tirato una testata al Krogan – Sì certo, ehm Conrad … come dimenticarsi di te?- fece una smorfia – Posso passare, adesso?-
Conrad si affrettò a sbloccare le porte – Certo, signora, qualsiasi cosa per lei, signora, sono un suo grande ammiratore!-
- Sì, sì, come no.- si affrettò verso l’uscita, tirandosi dietro Andrej, spaesato e confuso – Alla prossima, Conrad!- salutò, mentre i doppi vetri si chiudevano.
Dopo la confusione e il brusio dello spazioporto il silenzio del corridoio d’accesso all’Hangar sembrava surreale, quasi fossero entrati in un’altra dimensione.
- Dove stiamo andando, mamma?- domandò Andrej, tirandola per una manica.
Ash lo prese in braccio, sentendosi in colpa, per averlo sballottato da una parte all’altra della città, senza una spiegazione  – Ti sto portando in un posto speciale, Andrej.- mormorò, passando una mano tra i suoi capelli perennemente arruffati – Il posto in cui sei nato. –
Arrivarono ad un altro posto di blocco ma, dopo aver dato un’occhiata ai terminali, la guardia li lasciò passare senza fare problemi.
Le porte si aprirono con un sibilo e fu davanti a loro: la Normandy, bella e letale come la ricordava.
Sentì Andrej tremare di meraviglia e sgomento tra le sue braccia e lei stessa si sorprese a trattenere il respiro.
Erano passati quasi cinque anni dall’ultima volta che l’aveva vista ma nulla in quello scafo liscio e sottile era cambiato: la Normandy SR2 era in attesa del suo comandante.
Andrej si divincolò dalla sua presa saltando per terra, lo sguardo fisso sulla nave di suo padre, l’espressione rapita: la Normandy aveva conquistato il cuore di un altro Shepard.
Ash non poté fare a meno di provare una fitta d’irrazionale gelosia.
Andrej la guardò, fremente d’eccitazione – Un giorno viaggerò anch’io tra le stelle, su una nave come questa?-
Ash sospirò, rassegnata: le stelle si erano portate via Alex e, prima o poi, si sarebbero prese anche Andrej. Era inevitabile. – Tu sei nato tra le stelle, Andrej.- rispose in un sussurro. – Un giorno saranno la tua casa. -
Si avvicinarono alla Normandy e in lontananza, in corrispondenza del portellone, scorsero un piccolo gruppo di persone che si preparavano al decollo. Ash riconobbe parecchi volti amici: Jeff, IDA, Garrus, Liara, James … sembrava che l’intero equipaggio fosse tornato sulla Normandy, in memoria dei vecchi tempi. Mancava solo Shepard … o forse no. Il suo sguardo si posò su Andrej che osservava, curioso e intimidito, quelle figure che si stagliavano all’orizzonte.
Erano la sua nave, il suo equipaggio: un giorno non troppo lontano ci sarebbe stato di nuovo uno Shepard a solcare i cieli della galassia.
Alexander non c’era più ma Andrej … Andrej aveva tutta la vita davanti.
- Chi sono?- domandò il bambino indicando i membri dell’equipaggio.
Ash sorrise, osservando Tali e Garrus che battibeccavano a proposito di chissà quale miglioria elettronica, mentre Jack e Miranda si guardavano in cagnesco dai lati opposti della passerella.
Andrej non li aveva mai conosciuti; la Normandy era tornata sulla Terra due mesi dopo la sua nascita e da allora Ash si era rifiutata di vedere chiunque, tranne Hannah e i suoi familiari, chiusa nel suo isolamento sulle Montagne Rocciose. Jack era il primo membro dell’equipaggio ad aver conosciuto il figlio del comandante Shepard.
Ash tese la mano a suo figlio e lui, dopo un attimo d’esitazione, la prese – Loro sono la tua ...  – s’interruppe guardando i suoi vecchi compagni d’arme e sorrise – Sono la nostra famiglia.- strinse più forte la mano di Andrej, consapevole che, da quel momento in avanti, la loro vita sarebbe cambiata per sempre. Ma era giusto così – Torniamo a casa, Shepard.-
Andrej annuì, risoluto e serio com’era stato suo padre; era solo un bambino di cinque anni eppure, guardandolo, Ash intravide l’uomo che sarebbe diventato. Un uomo che avrebbe eguagliato e superato la grandezza del padre.
Lentamente, mano nella mano, s’incamminarono verso la Normandy: Shepard era tornato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
 
Ringrazio il mio gatto per la preziosa collaborazione.
 
Dal tempo che ci ho messo a partorire questo capitolo credo si capisca che è stato piuttosto travagliato e il pessimo risultato finale lo dimostra.
Non so, non riesce a convincermi fino in fondo ma ho deciso che lascerò a voi il compito di giudicare, io l’ho riletto fino alla nausea e non posso più vederlo.
Fondamentalmente è Jack a non convincermi, temo di averla resa un po’ troppo gentile (perciò decisamente OOC), ho tentato di auto-convincermi che sono passati cinque anni e che perciò si sia ammorbidita, ma la verità è che non sono proprio riuscita a gestirla. Va beh, me ne farò una ragione.
 
La storia è quasi arrivata alla fine (non esultate troppo), il prossimo capitolo sarà probabilmente l’ultimo e prevedo un altro scempio perché non so proprio da che parte cominciare, ma questi sono problemi miei XD
 
Grazie a tutti quelli che si sono sorbiti i miei deliri!

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Capitolo 25
*** Chi sono io? ***


 http://www.youtube.com/watch?v=BOA7EbnvhIc
 
Epilogo
 
Nella vita di ognuno, presto o tardi, arriva il momento di porsi un domanda, una sola, che accomuna tutti gli esseri senzienti e che raramente riceve risposta.
“Chi sono io?”
Come molti prima di me, nemmeno io conosco la risposta a questa domanda o perlomeno, non una che mi soddisfi completamente.
Io non so chi sono, ma so perfettamente chi ero: il comandante Alexander Shepard.
Sono nato dalla sua morte, conservo i suoi ricordi e la sua morale, ma non c’è più nulla di umano in me.
Il tempo non mi scalfisce, la morte non mi riguarda, non possiedo un corpo che possa essere ferito, né una voce che venga ascoltata.
All’inizio della mia creazione possedevo emozioni umane, rabbia, dolore, gioia e tristezza non mi erano sconosciute … riuscivo ancora a provarle, da qualche parte di quel mio io sconfinato.
Ho provato paura quando ho capito che l’eternità mi stava aspettando, terribile e oscura come un animale feroce, ma d’un tratto la gioia l’ha spazzata via quando mi sono reso conto che la guerra era stata vinta senza dover sacrificare nessuno. I Razziatori erano sotto il mio comando e la mia volontà era che la mietitura si arrestasse. Poi capii che quelle emozioni, unico legame con l’uomo che ero, erano destinate a distruggere ciò per cui io, o forse dovrei dire lui, si era sacrificato.
Sentii la follia premere alle soglie del mio pensiero, un miscuglio di paura, dolore, odio, rabbia, commiserazione rischiò di travolgere quell’essere neonato a cui sto ancora cercando di dare una definizione.
Ricordo di aver pensato che il prezzo pagato era stato troppo alto, che quella scelta compiuta d’istinto era stato lo sbaglio più grande mai fatto: non si può trasformare un uomo in un dio e credere che continuerà ad essere quello di sempre.
Nelle mie inesistenti mani stringevo un potere che nessuno, né organico né sintetico, avrebbe mai dovuto avere: era potere di vita e di morte, non su un singolo uomo, nemmeno su un popolo intero, né su nazioni o pianeti … no, questo potere era ancora più grande: era potere di vita o di morte su un’intera galassia.
Una galassia che aveva trasformato un uomo in un dio, spingendolo ad abbracciare la sua paura più grande, condannandolo alla più atroce delle pene e, per questo, condannando anche se stessa.
Di tutte le emozioni provate, alla fine non rimase che l’odio.
Cosa accade se il salvatore dell’universo si accorge di desiderarne la fine? Chi protegge le genti dai loro protettori? Se un dio si ribella chi oserà fermarlo?
Ero un dio con un’armata, quegli stessi mostri metallici che la parte umana di me aveva combattuto fino all’estremo sacrificio, ora erano armi pronte ad essere usate; stavo per trasformarmi in ciò che avevo voluto distruggere.
So bene cosa mi spinse ad odiare l’universo e desiderare che bruciasse. Dall’alto dei cieli si vede tutto.
Tra le macerie di una galassia distrutta gli sciacalli si fecero avanti: depredando e razziando, saccheggiando e uccidendo, i più forti decisero che era giunta l’era del loro dominio.
Mi domandai che cosa avevo salvato; ovunque volgessi lo sguardo vedevo solo corruzione e odio e sangue e disperazione.
Era questo che avevo comprato vendendo la mia anima?
Non so cosa mi trattenne dal concludere l’opera iniziata dai Razziatori.
Forse fu la vita nata nel deserto a trattenere la mia ira e scoprii che il mio sguardo era puntato nella direzione sbagliata.  
La guerra dei Razziatori aveva cambiato gli equilibri della galassia, chi un tempo era grande ora si scopriva piccolo: la forza dei Turian non era riuscita ad arginare l’avanzata dei mostri venuti dallo spazio, l’ingegnosità dei Salarian non aveva scalfito quelle corazze metalliche, la saggezza delle Asari non aveva protetto Thessia dalla distruzione. I padroni della galassia ora si scoprivano deboli e con loro l’universo intero si domandava con quale diritto essi si erano elevati al di sopra degli altri.
I grandi erano piccoli e i piccoli si scoprivano grandi.
Osservai i Krogan tornare su Tuchanka, i grossi corpi frementi di commozione, gli sguardi fieri, le gobbe erette: avevano salvato la galassia. Di nuovo.
L’uomo che ero aveva temuto la loro rinascita, dubitando della saggezza di coloro che in tempi antichi avevano minacciato tutti i mondi e tutte le genti, ma egli era cieco nella sua ignoranza.
Quando i Razziatori avevano fatto la loro comparsa i Krogan stavano precipitando nel baratro dell’estinzione, incapaci di piegarsi alle leggi della galassia essi ne erano stati schiacciati.
Ciò che Shepard non sapeva è che l’estinzione non tempra solo i corpi, non rende gli individui solo più forti e feroci. Li rende più saggi.
Di fronte alle macerie di quel pianeta, che loro stessi avevano violato, i Krogan si resero conto che la violenza non crea imperi: li distrugge soltanto.
Quando ero umano i Krogan erano solo guerrieri o mercenari, dall’alto dei cieli li vidi diventare costruttori d’imperi.
Mentre Turian e Asari lottavano per riprendere il controllo della Cittadella e ricostruire una galassia uguale a quella distrutta, dove pochi avrebbero avuto il dominio su molti, mentre i Salarian si chiudevano a protezione dei loro mondi in un cieco isolazionismo e gli Umani sprofondavano negli orrori di quelle guerre civili che ne hanno costruito la storia, illuminata da Aralackh, il sole dei guerrieri, Tuchanka tornò a splendere, oasi di cultura, arte, scienza, letteratura in una galassia nera come l’oblio.
E, simili ai tasselli di uno splendido mosaico, altri pianeti cominciarono a brillare, illuminati dalle loro stelle e dalla grandezza di popoli costretti, nei secoli che precedettero la mietitura, ad essere piccoli.
I Quarian ricominciarono a scrivere poesie sulle scogliere di Rannoch, e mentre i Geth compivano meraviglie tecnologiche lavorando fianco a fianco con gli ingegneri Quarian, i pellegrini della galassia imparavano a vivere una vita stanziale, coltivando la terra e costruendo palazzi, riprendendo pacificamente possesso di quel mondo che troppo a lungo avevano guardato da lontano.
Durante la mia vita umana vidi molti mondi bruciare, mai ne avevo visto uno rinascere a nuova vita.
Per questo fermai la mia mano e l’odio lentamente si spense, sostituito da uno stupore sincero che mi spinse a dar loro un’altra possibilità.
Quando i Razziatori tornarono ad oscurare i cieli dei mondi non fu per bruciare ed uccidere, ordinai loro di ricostruire ciò che avevano distrutto e misi a disposizione della galassia, di tutte le specie, le infinite conoscenze di antichi popoli ormai svaniti. Finita la loro opera, nello stesso modo in cui erano arrivati, i Razziatori scomparvero.
Ritornarono nello spazio oscuro e lì li disattivai.
Per milioni di anni l’essenza di antichi ed incomprensibili popoli era rimasta intrappolata tra quei gusci metallici, senza possibilità di scampo.
Shepard aveva scelto l’eternità, ma non era giusto condannare interi popoli allo stesso tormento: dopo ere di agonia finalmente li lasciai liberi di riposare in pace.
Non fu solo la pietà a muovermi, bensì la consapevolezza che quella follia, assiepata alle soglie del mio inconscio, non era stata sconfitta, ma solo respinta.
Un dio folle con un’armata è una forza inarrestabile e oscura, un dio folle senza niente è solo una patetica creatura che guarda i mondi con odio senza poterne decidere le sorti.
Non ho mai rimpianto la scelta di recidere ogni legame col mondo dei mortali.
Per qualche anno, qualche secolo, il mio sguardo è rimasto puntato sulla Via Lattea, ho osservato coloro che lui amava proseguire con lo loro vite ed infine sono rimasto, silenzioso ed inosservato, a vegliare sui loro ultimi momenti trascorsi in questo mondo.
Se ne sono andati, l’uno dopo l’altro, fieri della vita vissuta e delle imprese compiute, li ho accompagnati fino alla fine dei loro giorni per poi lasciarli andare alle soglie di luoghi sconosciuti che non potrò mai visitare.
Negli anni trascorsi a guardar loro le spalle, ho imparato ad amarli come li aveva amati lui ed ora il mio sguardo più non si posa sui mondi spogliati dei miei affetti più cari.
Il tempo è trascorso lento e sempre uguale a stesso, non so da quanto tempo io esisto, i millenni e le ore non hanno differenza per me. So solo che col tempo la mia essenza è mutata, le emozioni mi hanno abbandonato pian piano e quando il mio sguardo ha accompagnato l’ultimo amico alle soglie di universi a me preclusi, ho reciso ogni legame con l’uomo che ero.
Il mio sguardo vaga lungo universi inesplorati, ho visto cose che non possono essere descritte, osservo perché non posso fare altro, ma non m’indigno né piango, non esulto né spero, lascio che le cose vadano come devono andare, senza cercare di capirle né di cambiarle.
Esisto e basta.
Eppure c’è un momento che si ripete a cadenze regolari, nemmeno io so come riesco a ricordare che il ciclo si è compiuto, semplicemente accade.
Ovunque io sia, qualunque cosa stia guardando, quando sento che il tempo è vicino, volgo nuovamente lo sguardo su quella galassia che mi sono lasciato alle spalle, e mi affaccio su quel mondo che un tempo chiamavo “mio”: la Terra.
Tutto è mutato dal tempo in cui facevo parte delle creature che la abitavano, nulla è più come prima e coloro che amavo se ne sono andati da molto molto tempo.
Non importa.
Quando giunge il momento, abbasso lo sguardo sulla Terra e le sue montagne, osservo un piccolo lago scintillante che esiste solo nelle mie memorie, ma lì dove un tempo c’era una casa e una famiglia, lì io volgo il mio sguardo e piango coloro che ho perso.
“Chi sono io?”
Sono un dio che un tempo era un uomo. Sono un dio senza mondi da proteggere o genti da salvare, un dio senza religione né fedeli, senza dogmi o libri di preghiere.
Sono un dio che vive di ricordi ormai dimenticati, senza amici né nemici, senza altro scopo che fare ciò per cui è stato creato: esistere fino alla fine dei tempi.
 
 
 
 
 
 



 
Note
 
E questa è la fine.
Sono orgogliosa di esserci arrivata, non è stato facile concludere questa storia ma complessivamente posso ritenermi soddisfatta. Sicuramente ci saranno errori e contraddizioni, ma in un certo senso è la mia storia (anche se i personaggi non mi appartengono) e ci sono affezionata. Per questo è doloroso decretarne la fine.
 
Ringrazio tutti quelli che mi hanno letta e seguita. Ringrazio meme_97 e NadShepCr85 per il loro sostegno, sia pubblico che privato, e Silentsky e Ultrazzurri07 che hanno inserito questa storia tra le preferite.
 
Ci tengo particolarmente a ringraziare Andromedashepard e Shadow_sea il cui sostegno è stato più che prezioso, direi fondamentale. Come credo di aver già detto questa storia è anche un po’ vostra. Grazie di cuore, davvero.
 
Concludo con una minaccia: ho già una storia in cantiere perciò, mi dispiace, ma continuerò ad infestare questo sito ancora per un po’.
E posso anticipare che, in un certo senso, Alexander, forse, farà ancora la sua comparsa.
 
Beh nel frattempo buone feste a tutti quanti, io ho già addobbato la mia cella imbottita! Non ingozzatevi troppo!
 
A presto!

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