Blind love.

di emotjon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 22: *** 22. ***
Capitolo 23: *** 23. ***
Capitolo 24: *** 24. ***
Capitolo 25: *** 25. ***
Capitolo 26: *** 26. ***
Capitolo 27: *** 27. ***
Capitolo 28: *** 28. ***
Capitolo 29: *** 29. ***
Capitolo 30: *** 30. ***
Capitolo 31: *** 31. ***
Capitolo 32: *** 32. ***



Capitolo 1
*** 1. ***




*che ve ne pare del banner?*

 

1.
 

Heidi non ricorda molto dell’incidente che le ha cambiato la vita per sempre. Ricorda solo che voleva andare via dalla festa per il diciassettesimo compleanno della sua migliore amica. Ricorda di essere salita in auto con i suoi amici. Ricorda che Alex era ubriaco, ma aveva voluto guidare lo stesso. Ricorda le risate, la bottiglia di birra che girava nell’auto di Alex. Ricorda che andavano veloci, per tornare a casa prima.
Ricorda l’autostrada. Ricorda che Alex perse il controllo dell’auto.
Ricorda le urla e lo schianto.
Poi più nulla, solo il nero.
Gli ultimi colori che ha visto sono stati il verde degli occhi di Alex, il rosso della propria camicetta e il blu del cielo notturno. Nient’altro, nessun’altro colore. Mai più, da tre anni a questa parte.
Quella notte Heidi ha battuto la testa. Il suo airbag si è aperto troppo tardi, e lei ha subito un trauma cranico, entrando in coma. Ha dormito tre mesi, perdendo ogni contatto con il mondo esterno… tranne i genitori, suo cugino Liam, e Louis, il suo migliore amico e vicino di casa, di tre anni più grande.
Si è svegliata dopo tre mesi, come se fosse rinata, come fosse risorta dalle ceneri. Si è svegliata. Ma senza poter rivedere il verde prato degli occhi di Alex, o il color cielo di quelli di Louis, o il biondo quasi platino dei propri capelli.
Si è svegliata, ma rimanendo al buio. Senza più vedere niente.
Mai più, stando a quello che dicevano i medici.

 

~


HEIDI’S POINT OF VIEW.
Sento la mano di Vicki stringere leggermente il mio braccio, segno che siamo arrivate al gradino. Sento i mormorii della gente intorno a noi, ma ormai dopo tre anni non ci faccio nemmeno più caso. Sento la mia migliore amica borbottare tra sé che odia prendere la metropolitana. Dal canto mio, mi limito a scuotere la testa con un mezzo sorriso e a salire lo scalino.
«Dove vado?», chiedo a Victoria a bassa voce, ignorando i commenti di chi mi sta intorno.
«A destra, meno di una decina di passi», mi dice calma. Apparentemente calma. In realtà io so che dentro di sé sta scoppiando di rabbia. E so perfettamente che vorrebbe prendere a sberle chiunque si sia permesso di borbottare.
Uno, due, tre.
«Ancora dritta, Vic?».
«Sì, un secondo tesoro...».
La sento allontanarsi, segno che sta andando ad occupare il posto con la sua borsa. Stupidamente, mi azzardo a fare un paio di passi avanti. Quattro, cinque. E al sesto passo mi accorgo a malapena di quello che succede, perché mi sento spingere, e in un attimo mi ritrovo spalmata sul pavimento del vagone.
Sospiro, è un classico. Come è un classico che nessuno si sia mosso dal proprio posto per soccorrere la ragazza cieca. Faccio per rialzarmi, trattenendo le lacrime, ma una voce maschile mi ributta a terra, con le lacrime pronte ad uscire dal loro nascondiglio.
«Attenta a dove vai, ragazzina!».
Ha una bella voce, lo stronzo che mi è venuto addosso. È una voce calda, avvolgente, anche se trasfigurata dalla rabbia, in quel momento. Faccio per ribattere, ma la voce incazzata della mia migliore amica mi anticipa. «Brutto stronzo, non ci vede!», gli urla quasi, avvicinandosi a me e abbassandosi al mio livello. «Stai bene, piccina?», mi sussurra poi in un orecchio.
Scuoto impercettibilmente la testa, lasciando che mi aiuti ad alzarmi.
«Se non la smette di guardarti, giuro che lo rapo a zero», mi dice Vic in un orecchio facendomi sedere sulle sue ginocchia. Evidentemente c'è un solo posto libero, e ovviamente nessuno che si degni di cedere il posto ad una disabile. Perché in fondo è quello che sono, una disabile.
«Calmati, Vic», mormoro di rimando stringendole una mano.
Ma è davvero troppo carina quando tira fuori il suo lato vendicativo, così scoppio a ridere passandomi una mano tra i capelli, che la mia migliore amica ha avuto il coraggio di lisciarmi quella mattina. Si aggiunge alla mia risata, per poi sbuffarmi nei capelli.
Riesce persino a farmi passare la rabbia per il deficiente che mi ha buttata a terra.
È miracolosa quella ragazza.
«Se mi rendessi partecipe non sarebbe male» le dico posando una mano sulla sua, che si è appena chiusa a pugno sul mio stomaco. Da quando ci conosciamo, Vic è diventata i miei occhi. Mi descrive tutto ciò che io per ovvie ragioni non posso vedere, quando siamo insieme. «Andiamo, Victoria... È carino almeno?».
Lei ride. Non vedo un ragazzo da tre anni, ma le sue descrizioni di solito sono molto fedeli, è quasi come se vedessi. Quasi, certo. Ma è pur sempre qualcosa.
«Capelli neri, tirati su in un ciuffo stratosferico e rasati ai lati. Occhi castani, mi sembra», mi spiega, incrociando le caviglie ad una frenata piuttosto brusca del treno. Sbatto le palpebre più volte, aggrappandomi a lei per non finire di nuovo per terra. «Camicia a quadri rossa con le maniche tirate su e una canotta bianca sotto, braccia tatuate e una sigaretta tra indice e medio...».
Come volevasi dimostrare, Victoria è molto brava quando si tratta di descrivere un ragazzo nei minimi dettagli. Sono sicura che se glielo chiedessi mi elencherebbe i tatuaggi, ma penso che sia meglio evitare.
Lei intanto si è fermata, come se avesse finito la descrizione. Ma io sbuffo, facendola ridere.
«Elastico dei boxer dello stesso colore della camicia, jeans strappati a vita bassa, le Supra rosse e bianche e... un gran bel culo», finisce spostandomi i capelli su una spalla. La sento sorridere, e sorrido di rimando.
«Sembra carino», ammetto mordicchiandomi un labbro.
«Carino?» sbotta Vicki quasi strozzandosi con la saliva. E a voce alta, oltretutto, tanto che sento il ragazzo ridacchiare tra sé. Mi sento arrossire, e do una botta sulla coscia alla mora, facendole capire che l'ha sentita. «È molto più che carino, credimi... Quel ragazzo è da stupro, tesoro», mi sussurra in un orecchio.
La mia migliore amica, non fa altro che pensare al sesso, penso che sia il suo argomento preferito.
«Sarà anche da stupro, Vic... Ma ammettiamolo, non mi vorrà mai nessuno».
Sento che sta per farmi una delle sue solite ramanzine, ma vengo salvata dalla nostra fermata, che fa sospirare Vic e costringe a scendere dal treno. Ma non da sole. Non ci vedo, è vero. Ma il mio naso funziona benissimo. E così mi ritrovo a sorridere, quando sento l'odore di tabacco del ragazzo perforarmi le narici.
«È sceso con noi, lo stronzo».
«Lo so», le dico con un sorriso, mentre il suo odore svanisce nell'aria, portato via da una folata di vento. È un odore caratteristico, solo suo. Che sono sicura il mio naso non dimenticherà tanto facilmente.

 

~


ZAYN’S POINT OF VIEW.
Sto aspettando la metropolitana tormentando la sigaretta che tengo tra le dita. Sono totalmente scazzato, più del solito si intende. Sono andato via dal gruppo senza dire una parola, dopo la scenata di quella troia di Perrie.
Ti amo. Era tutta una stronzata.
Ho bisogno di te. Stronzate.
E idiota io che non ho esitato nemmeno per un momento. Ci ho creduto e basta, mi sono fidato ciecamente di qualcuno che ovviamente non meritava la mia fiducia.
Ho detto a Harry di lasciarmi stare per un paio di giorni, di darmi il tempo per assimilare la situazione. Ci è rimasto male. È il mio migliore amico, sa che sono la persona più impulsiva del mondo. Semplicemente, io non penso prima di agire. Agisco direttamente, senza dare peso alle conseguenze.
E così, ancora incazzato per la presa per il culo subita, salgo sul treno, attraversando un paio di vagoni alla ricerca di un posto libero e accorgendomi appena di aver investito una ragazza bionda, facendola cadere a terra.
La prima cosa sarebbe aiutarla a tirarsi su, ma sono troppo incazzato. «Attenta a dove vai, ragazzina!», sbotto andandomi a sedere poco più avanti.
Qualche secondo e la bionda viene raggiunta da una ragazza mora, incazzata nera. Mi lancia un'occhiata omicida. «Brutto stronzo, non ci vede!», mi urla contro, per poi abbassarsi al livello della bionda, sussurrare qualcosa e aiutarla a tirarsi su.
Se possibile, divento di pietra.
Non sembra cieca, a prima vista. È una bella ragazza, bionda quasi platino e occhi celesti, e sembra normale a vederla ridere con quella che credo sia la migliore amica. Ridono, scherzano. Credo che la mora mi stia descrivendo, dalle occhiate che mi lancia.
«Sembra carino», sento dire dalla bionda.
Vedo la mora sgranare gli occhi e quasi strozzarsi con la saliva. «Carino?», la sento dire, a voce alta. Ridacchio, passandomi una mano tra i capelli, e vedo la bionda arrossire, per poi far notare all’amica che l’ho sentita. Allora riprendono a parlare, ma a voce più bassa, in modo che non le senta.
Ma preparandomi per scendere dal treno riesco a cogliere uno stralcio del loro discorso.
«Sarà anche da stupro, Vic... Ma ammettiamolo, non mi vorrà mai nessuno».
Non mi vorrà mai nessuno.
Guardo le due ragazze scendere, e mi affretto a scendere anche io, superandole e quasi correndo verso casa. Mi serve un oculista. O anche un computer, in mancanza d’altro. Devo fare qualche ricerca. Perché anche se in fondo l’ho guardata a malapena devo ammettere che quella ragazza mi intriga.
Anche se probabilmente non avrà mai la possibilità di vedermi.
Beh, o forse proprio per quello.



 




Ma salve!!!! Okay, lo so che ho "Irresistible" in corso, lo so. Mi rendo conto perfettamente.
E' solo che era da un po' che avevo questa idea che frullava per la mia mente bacata...
Quindi, mi sono decisa di postare prima di andare in vacanza, sarò eccezionale??
Okay, insomma sono molto modesta, dai.
Comunque, che ve ne pare?
Mi basta una recensioncina piccina picciò di dieci parole, sususu c:
Vi lascio i miei contatti e sparisco che è meglio, lol.
xx Fede.

P.S.: il trailer ce l'ho già pronto, ma l'ho dimenticato nel pc a casa, quindi ve lo metto la prossima volta c:
P.P.S.: aggiorno una volta a settimana, a venerdì prossimo bellezze.

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Capitolo 2
*** 2. ***




2.


 

HEIDI'S POINT OF VIEW.

Mi rigiro nel letto per l'ennesima volta. È quasi l'alba, ma io non ho dormito quasi per niente, la mente troppo occupata per riuscire a chiudere occhio. Occupata a rivivere l'incidente di tre anni fa. Occupata a pensare ad un modo per tranquillizzare mia madre. Occupata a ripensare all'incontro non proprio fortunato con il ragazzo della metropolitana.
Scendo dal letto e cammino tranquillamente fino al bagno, stando rasente alla parete, sfiorando il muro familiare con la punta delle dita. Vivo con Vicki da quasi due anni, ho avuto tempo di abituarmi a quella casa. Di abituarmi al parquet, ai quindici scalini ricoperti di moquette, al cassettone in salotto - al quale all'inizio andavo sempre a sbattere.
Ci si abitua a tutto, prima o poi.
Tiro un sospiro e regolo la temperatura dell'acqua della doccia, per poi buttarmi sotto il getto d'acqua tiepida. Cerco il mio shampoo all'albicocca e il bagnoschiuma alla vaniglia portandomi davanti al naso un flacone alla volta, sorridendo fiera quando finalmente li trovo.
Ci vuole pazienza, ad essere ciechi. Davvero molta ma molta pazienza.
Non so quanto tempo passo sotto la doccia, ma tornando in camera mia avvolta in un asciugamano, sento una voce canticchiare dalla cucina, segno che Victoria si è svegliata. Sorrido, alzando lo sguardo al cielo, anche se ovviamente non posso vedere.
Ho continuato a farlo anche dopo l'incidente. Era una delle mie espressioni più carine a dire il vero, mi sarebbe dispiaciuto disfarmene solo perché non posso più vedere.
Recupero a tentoni l'intimo dal cassetto del comò. Ne saggio la consistenza tra pollice e indice. È l'unico modo che ho per riconoscere i miei vestiti. Ho tra le mani un completino di pizzo... passo a sfiorare l'etichetta. Mia madre ci ha ricamato sopra l'iniziale del colore. Su ogni mio capo di abbigliamento. È stata adorabile, bisogna ammetterlo.
«Pizzo nero», borbotto tra me e me, indossandolo.
Passo all'armadio. Riesco a recuperare senza troppa fatica un paio di jeans scuri, aderenti, un paio di converse bianche e due camice. Le sfioro, ancora attaccate alle stampelle, senza però riuscire a capire che camice siano.
«Hai intenzione di aiutarmi?», chiedo con un sorriso appena accennato, sentendo la presenza della mia migliore amica sulla soglia della mia camera da letto. La sento ridere e avvicinarsi. La sento frugare nel mio armadio, alla ricerca di qualcosa. «Vic, andiamo...», le dico ridendo.
«Mettiti questi», mi dice lasciandomi un bacio su una guancia e mettendomi tra le mani una canottiera bianca e un cardigan celeste, di flanella. Adoro la mia migliore amica. Il celeste è il mio colore preferito - o almeno lo era - e in più adoro quel cardigan, è un regalo del mio migliore amico, Louis.
Louis William Tomlinson. Castano chiaro, occhi celesti. Da quel che mi ricordo, ovviamente. Alto più o meno quanto me, muscoloso il giusto e - sempre da quello che mi ricordo - un gran bel culo.
E se devo fidarmi di Victoria, ha davvero un bel culo, ancora adesso.
È il nostro vicino di casa, era il mio vicino quando abitavo ancora con i miei ed è sempre stato il mio migliore amico, da quello che mi ricordo, nonostante sia più grande di me di tre anni. È una specie di fratello maggiore che non ho mai avuto, mettiamola così.
Mi infilo con calma i vestiti che mi ha recuperato Vicki, e scendo le scale tranquillamente. Ormai non è più un problema fare le scale e muovermi in quella casa. Mi sono abituata. Certo, all’inizio era un trauma, penso di essere caduta da quelle scale un centinaio di volte, forse di più. Ero frustrata, piangevo in continuazione dal nervoso. E ovviamente ero piena di lividi, anche se non li posso vedere.
Victoria è stata la mia ancora di salvezza, anche in questo senso.
Mi tira su da ogni caduta, cucina per me, mi aiuta a vestirmi se non trovo qualcosa. All’inizio mi aiutava a fare la doccia, o almeno a trovare shampoo e bagnoschiuma. Mi aiutava a fare le scale, usciva con me quando volevo uscire, mi accompagnava dappertutto. Non voleva che venissi presa in giro, intimoriva chiunque mi rivolgesse uno sguardo compassionevole… è la migliore amica ideale, quella che tutti vorrebbero come propria.
«Vic, io esco», dico aprendo il secondo cassetto del mobile all’ingresso e recuperandone il mio bastone bianco. Quello apposta per i ciechi, per capirci. Un attimo, e sento il rumore dei tacchi della mia migliore amica muoversi veloce verso di me, come se mi stesse correndo incontro. Sospiro, quando sento le sue mani sulle spalle. «Non puoi impedirmi di andare a fare un giro», le dico con un sorriso.
«Posso, e lo sai».
Sbuffo, smettendo di sorridere. «Vado solo a prendere un po’ d’aria, Victoria», le dico ruotando gli occhi. Altra espressione facciale che mi è rimasta da quando vedevo. Sento la mia migliore amica sorridere, e la sento avvicinarsi per darmi un bacio su una guancia. Sento il suo odore riempire l’aria intorno a me, e so di aver vinto.
Posso uscire un paio d’ore senza che mi stia col fiato sul collo.
«Grazie, mamma», le dico con un sorriso uscendo di casa, seguita dalla sua risata.
Due passi. Tre scalini. Quindici passi lungo il vialetto.
Sento il rumore di uno skateboard. Un rumore a cui ormai mi sono abituata. Il figlio dei vicini. Penso che ci viva su quello skateboard. E so per certo che è caduto anche oggi. Lo sento dall’odore di sangue che mi fa storcere il naso. «Ciao, Heidi!», mi saluta superandomi sulle quattro ruote di quell’aggeggio che tanto ama. Gli sorrido e lo saluto con la mano, continuando poi per la mia strada.
Giro a destra. Quindici passi e c’è una buca.
So la strada a memoria ormai.
So come arrivare alla fermata della metro, solo seguendo i rumori e gli odori. So che i gradini da scendere per arrivare alla metropolitana sono ventisei. E so che gli ultimi due sono rovinati sulla destra. E una volta scesa sottoterra, sempre sulla destra si posiziona Joe, un ragazzo che suona il violino.
«Buongiorno, bionda», mi saluta quando poco meno di un’ora dopo gli passo davanti. Senza intoppi. Sorrido, prendendo qualche moneta dalla tasca del cappotto. Due sterline, le sento sotto le dita, ormai allenate. Allungo la mano e le lascio cadere nella custodia del violino. «Grazie piccola, cosa ti suono?».
Scoppio a ridere. Bionda. Piccola. Adoro quel ragazzo, sul serio.
Anche se non l’ho mai visto.
«Radioactive, ti va?», gli chiedo inclinando la testa da un lato. Lo sento scrocchiare le dita, per poi iniziare a suonare quello che gli ho chiesto, mentre ricomincio a camminare, ridendo spensierata.
Amo quella canzone.
La musica mi ha salvata. Quando ho smesso di vedere, e praticamente anche di vivere per un periodo, lei c’era. Pensavo di aver perso tutto, ogni possibilità. Poi ho imparato ad ascoltare. È stato quello che mi ha salvata, ascoltare.
 

I’m waking up, i feel it in my bones
Love to make my systems go
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age
Whoa, whoa, I’m radioactive, radioactive…

 
Ogni singola nota. Ogni fruscio, ogni minimo rumore. Il vento tra le foglie, la distinzione tra una camminata sul prato, sulla sabbia o sull’asfalto. Riesco a sentire i treni arrivare da un paio di chilometri di distanza. Riesco a riconoscere i passi di Victoria, Louis, Liam o Eleonor.
Riconosco centinaia di rumori, suoni e odori.
A volte, è come se ancora vedessi.
Sento ancora Joe suonare il violino, e accompagnarsi con la sua splendida voce, mentre il mio treno si avvicina. Un chilometro. Settecento metri. Duecento metri. E la gente che si avvicina al binario, che quasi mi schiaccia.
Finché non sento un profumo familiare arrivare alle narici, e una mano mi prende il gomito. «Buongiorno, tesoro… Vic?», mi chiede Eleonor prendendomi direttamente a braccetto. Sento l’aria spostata dal treno in arrivo scompigliarle i capelli, e mandarmi addosso il suo caratteristico odore di ciliegia e cannella.
«Mi ha lasciata uscire da sola, un miracolo», scherzo sorridendo appena.
Eleonor scoppia a ridere, mentre il treno si ferma proprio davanti a noi. Lasciamo che la gente intorno a noi salga sul treno, poi El mi tira leggermente per il gomito, spingendomi a camminare. Quattro passi, come al solito. E poi… «Gradino», mi sussurra El, come da programma.
Sorrido, annuendo appena e salendo sul treno.
Mi lascio condurre lungo la carrozza. E per la prima volta da quando sono diventata cieca, sento qualcuno alzarsi e cedermi il posto. «Grazie», mormoro stupita. Ma non faccio nemmeno in tempo a sedermi che sento un odore poco conosciuto arrivarmi alle narici. Poco conosciuto, ma allo stesso tempo familiare.
Odore di tabacco. Odore di uomo. Odore di spinello, mascherato dalla gomma da masticare alla liquirizia e dal dopobarba alla menta. Sorrido, riconoscendo quell’odore, nonostante il giorno prima il proprietario di quell’odore mi abbia trattata di merda.
Il ragazzo della metro.
Quello con le mutande dello stesso colore della camicia, per intenderci.
È lui, ne sono più che convinta. Soprattutto quando lo sento prendermi la mano e aiutarmi a sedermi. Sorrido, e sento anche Eleonor sorridere, mentre scuote la testa e probabilmente alza anche gli occhi al cielo. Io dal canto mio sto cercando di immaginarmi l’espressione del ragazzo che mi sta davanti e che mi tiene ancora la mano, senza aver l’intenzione di lasciarmela, tra l’altro.


~


ZAYN’S POINT OF VIEW.

Avevo fatto le mie ricerche, da bravo ragazzo che non aveva mai aperto un libro in vita sua. Mi ero attaccato alla connessione Internet dei vicini per cercare di capire qualcosa in più della condizione della ragazza della metro.
Poteva essere cieca dalla nascita. O essere diventata cieca a causa di una malattia, o un incidente. Wikipedia era stata molto utile, lo ammetto. Ma, riguardo la bionda...
Qualcosa mi diceva che fosse diventata cieca.
Nonostante l'avessi vista una volta sola, quella ragazza di cui nemmeno sapevo il nome, si comportava in modo normale. Come una persona vedente, per intenderci. Sbatteva le palpebre, ruotava gli occhi e alzava gli occhi al cielo.
E beh, io non sono mai stato una di quelle persone che ascoltano la gente. Ma sono sempre stato bravo ad osservare le persone. Da quei dieci minuti in metropolitana ero riuscito a capire un mondo, di quella ragazza.
I suoi capelli, erano biondo naturale, ed era probabile che li avesse lisciati, visto che sulle punte erano leggermente ondulati, verso l'interno. Il suo colore preferito doveva essere il celeste, visto il bracciale che indossava, e il cappotto color carta da zucchero. Doveva avere un rapporto speciale con quella che pensavo fosse la migliore amica, quella che senza tante cerimonie mi aveva mandato a quel paese il giorno prima.
La bionda rideva come ridono tutti. Rideva per le piccole cose, compresa la descrizione che le aveva fatto la mora di come ero vestito. Sapeva ridere, nonostante quello che passava, non vedendo...
E stranamente quando quella mattina scendo le scale della metro sulle note di Radioactive, spero vivamente che sia uscita, spero di poterla incontrare, di farmi perdonare per il mio comportamento da stronzo.
Solo che non so perché voglio che quella bellissima ragazza mi perdoni.
Tantomeno riesco a capacitarmi del mio stesso gesto, quando, una volta trovato un posto a sedere, la vedo arrivare con un’altra ragazza che la tiene sottobraccio. E mi alzo, cedendole il posto.
Non l’ho mai fatto per nessuno, mai in tutta la mia vita.
Mai, in ventidue anni, mi sono sacrificato per qualcuno, se escludiamo mia sorella Safaa e mia madre. Le prendo una mano e la aiuto a sedersi, senza che il magnifico sorriso che ha sulle labbra scompaia nemmeno per un istante.
Sorride, ma proprio non riesco a capirne il motivo.
Quella ragazza mi confonde.
E le sto per lasciare la mano, quando la sento stringere appena, come a trattenermi accanto a sé. Come se il fatto che l’abbia fatta cadere a terra il giorno prima non fosse mai accaduto. È incredibile.
«Sei il ragazzo di ieri, giusto?», mi chiede mentre la sua amica si allontana di qualche metro, per andarsi a sedere. Annuisco, ma poi mi ricordo che non può vedermi, e mi viene da ridere, non riesco a trattenermi. «Hai annuito, vero?», mi chiede unendosi alla mia risata. È ancora più bella quando ride, non riesco a smettere di guardarla.
«Sì, scusami… non sono abituato», le dico passandomi una mano tra i capelli, e lasciando l’altra mano tra le sue. Sento le sue dita, scorrere sulla pelle della mia mano, e arrivare fino alla base del pollice. «Che stai facendo?», le chiedo mentre il treno si ferma.
Lei lo ignora, come se sapesse che non deve scendere a quella fermata.
«Hai un tatuaggio, qui?», mi chiede, mentre miracolosamente il posto accanto a lei si libera, così posso sedermi. Senza lasciare che le sue mani smettano di stringere la mia. Sento le sue dita fresche passare diverse volte sul contorno del mio tatuaggio, come se stesse cercando di capire cosa rappresenta.
«Sì, è una colomba», aggiungo con un mezzo sorriso. Altra fermata, e la vedo incrociare le caviglie, per poi lasciarmi la mano. «Mi dispiace per ieri», provo a dirle, imbarazzato. Io, in imbarazzo? Oddio, che sta succedendo? «Ero incazzato e…».
«Tranquillo, ci sono abituata», mormora lei passandosi una mano tra i capelli mossi.
«Posso fare qualcosa per farmi perdonare?», scherzo, osservando la sua reazione. Scoppia a ridere, scuotendo poi la testa con un sospiro. La ragazza con cui è salita si avvicina, per poi posarle una mano sulla spalla e abbassarsi per sussurrarle qualcosa in un orecchio. Qualcosa che non riesco a sentire, dato lo stridio dei freni del treno, che si sta fermando di nuovo.
«Okay, El… io scendo alla prossima», dice all’amica mentre il treno inchioda, facendola quasi cadere dal sedile. Metto velocemente un braccio intorno alla sua vita, tirandola a me per non farla cadere. «Ti sei già fatto perdonare, quando prima mi hai lasciato il posto», mi dice posando una mano sulla mia, mentre la sua amica scende alzando gli occhi al cielo.
Sorrido, ma non so che dire, così rimango in silenzio finché il treno non fa per fermarsi e lei si alza in piedi, tirando fuori il bastone per non vedenti. La guardo avvicinarsi alle porte e scendere, con un altro paio di persone.
Allora mi accorgo di non averle nemmeno chiesto come si chiama.
«Ehi!», le urlo prima che le porte si richiudano, prima che il treno riparta. È anche possibile che io non la riveda più. Anzi, in realtà è più che probabile. La sento ridere e la vedo scuotere la testa, mentre si gira velocemente verso di me facendo svolazzare i boccoli biondi.
«Mi chiamo Heidi», la sento dire, un secondo prima che le porte si chiudano.





  

Ma salve, e buon venerdì c: Sono in perfetto orario, yeah.
Anche perchè detto tra noi avevo il capitolo già pronto, lol.
Coooomunque... 21 recensioni al primo capitolo.
Sono in lacrime, VENTUNO. Sono tante, tantissime per i miei standard...
Quindi, grazie. Un GRAZIE enorme, gigante, a tutte voi c:
Vi amo tutte, dalla prima all'ultima, nessuna esclusa.
Grazie a chi ha recensito, a chi legge, a tutti quanti.
Ma soprattutto, alle 16 preferite. SEDICI.
Non mi era mai successo, sono un attimino esaltata, perdonatemi c:

Quindi, passando alle cose serie...
Spero che questo capitolo vi piaccia come il primo, perchè a me piace.
Mi piace, molto molto strano, lol.
Non so che altro dire... Ah, ecco.

DOMENICA PARTO. VADO IN VACANZA CON I MIEI.
QUINDI, CI RIVEDIAMO A SETTEMBRE...
NON MI ABBANDONATE, PLEASE!!

Vi lascio i miei contatti e il trailer, come promesso.
A presto, xx Fede.

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Capitolo 3
*** 3. ***





3.


HEIDI'S POINT OF VIEW.

La cosa più probabile è che io e il ragazzo della metropolitana non ci vediamo più, ammettiamolo. Ma bisogna anche ammettere che quel ragazzo mi intriga, più di quanto sia lecito. Mi intriga la sua voce, così calda e accogliente – quando non è arrabbiato. Mi intriga lui, tutto quanto, anche senza vederlo.
Mi intriga il suo odore, soprattutto. Odora di sigaretta e di dopobarba alla menta.
Odora di mistero, sinceramente non lo so spiegare. È un odore particolare, che non ho mai sentito in nessun ragazzo. In nessuno e basta, a dire il vero. È un odore solo suo, suo e basta. Solo di quel ragazzo al quale ho detto il mio nome, ma di cui non so assolutamente niente.
È… frustrante. Non sapere niente, intendo.
Se almeno riuscissi a vederlo, potrei in un certo senso giudicare. Potrei dire se sia un bel ragazzo o meno, se il suo sorriso sia vero o meno. Potrei capire un mondo solo guardandolo negli occhi, sono sempre stata brava a farlo.
La cosa positiva è che anche se non posso vederlo, il mio udito è più sviluppato di quello degli altri. Posso capire dall’inflessione della voce se sta sorridendo, se è arrabbiato, se è felice. Ho come un potere speciale, se così si può dire. E devo ammettere che mi piace, mi fa sentire più normale.
Torno a casa dalla mia passeggiata dopo pranzo, e senza aver mangiato.
Sono sicura che stavolta Vic mi vorrà gettare nell’acido. Sarà preoccupata da morire, forse magari me lo merito anche, che mi frigga nell’acido. È la mia migliore amica. E anche se è una delle poche persone rimaste a trattarmi da persona normale, si preoccupa. Anche se non lo da a vedere.
Ed è adorabile quando si preoccupa, devo ammetterlo.
«Brutta incosciente!». Okay, pensavo peggio, sinceramente. Solo che non è Victoria quella che mi sta praticamente urlando contro. Ma mio cugino Liam che, chissà come e chissà perché, se ne sta seduto sui gradini davanti a casa nostra. Come faccio a sapere che è seduto? La voce viene dal basso, rispetto a dove mi trovo io. Cos’altro? Ha appena finito di fumarsi una sigaretta, a giudicare dall’odore di fumo che aleggia nell’aria.
«Ciao anche a te, cugino», scherzo tirando fuori le chiavi dal cappotto. Lo sento alzarsi e mettersi davanti a me, bloccandomi, in modo che non possa entrare in casa. Mi fa sorridere, non riesco a trattenermi dal farlo. «Qual buon vento?», chiedo, ignorando completamente i suoi sospiri. So per certo che si sta passando una mano tra i capelli, sta torturando le unghie dell’altra mano con i denti.
«Sono venuto a trovare Vicki, ma non è questo il punto».
Inarco un sopracciglio, divertita. Se ve lo state chiedendo, sì. Mio cugino esce con la mia migliore amica. Lui è cotto di lei, abbrustolito per bene. E Vic si imbarazza ogni volta che parliamo di lui, cercando disperatamente di cambiare argomento. Sono cotti a puntino. E sono adorabili.
«Ho solo fatto un giro, Payne, calmati», gli dico quando finalmente si sposta in modo che possa aprire la porta di casa. Sospiro. Odio quando si preoccupano per niente. Ho solo fatto un giro, mi serviva prendere un po’ d’aria.
Perché anche se sono cieca non significa che io debba starmene dentro casa ventiquattr’ore su ventiquattro, no? Posso uscire, prendere aria. Lavorare part time come babysitter, non me l’ha mai impedito nessuno, in fondo. Anche se né Victoria né Liam né mia madre sono mai stati d’accordo.
Louis invece è sempre stato d’accordo. Lavora con me, del resto, ma a tempo pieno.
L’agenzia di babysitting è la sua del resto, ha sempre adorato i bambini.
Comunque, ho solo fatto un giro, preso un po’ d’aria. E pensato e ripensato al suono della voce dello sconosciuto della metro. Ho ripensato a quando ha annuito, non ricordandosi che non lo potevo vedere. Ho ripensato a quando mi ha preso la mano per aiutare a sedermi. Non riuscivo a smettere di pensare alla sua risata, era una droga.
Una droga. E ne volevo ancora, disperatamente.
Sentivo il bisogno di sentire ancora quella voce, quella risata. Il bisogno di sentire ancora la morbidezza delle sue dita contro le mie. E proprio non capivo il perché. Non mi era mai successo di desiderare così ardentemente il contatto con qualcuno. Mai, in vent’anni.
E ho ripensato alla sua mano prontamente posata sul mio fianco quando stavo per cadere alla frenata del treno. La sua presa calda sul mio fianco mi ha fatto pensare che magari ci poteva essere qualcuno che avrebbe potuto tenere a me all’infuori dei soliti. Qualcuno che potesse volermi bene, nonostante fossi cieca.
«Ci hai fatti preoccupare, scusa se ho reagito male», mi sussurra Liam abbracciandomi, una volta entrati in casa. Sorrido, ricambiando l’abbraccio e lasciandogli un bacio su una guancia.
«Tranquillo, Lee», mormoro posando la borsa sul tavolino all’ingresso.
Cammino tranquillamente fino al divano, come se mi trovassi su una nuvola, e la risata di mio cugino mi fa capire che, come era prevedibile, si è appena accorto di tutto. Tutto, a partire dalla mia camminata tranquilla col sorriso da ebete sulle labbra.
Non ho mai sorriso così tanto in vita mia.
Soprattutto da dopo l’incidente. Da quando ho perso la mia migliore amica. Persa non nel senso che sia morta, si è semplicemente allontanata, e io non ho potuto fare niente. Da quando ho perso Alex, il ragazzo di cui ero cotta da anni.
Sarei voluta morire io al suo posto.
Lui è morto sul colpo. Non ha sentito niente.
Io sono stata in coma per tre mesi – periodo di cui non ricordo un accidente, per inciso – e quando mi sono svegliata e mi sono accorta di non vedere, la prima persona di cui ho chiesto è stata lui, Alex.
È stata la prima persona per cui ho pianto, quando mi sono svegliata.
La persona per cui ho sofferto, tanto.
Ma anche la persona grazie alla quale ho capito che buttarsi giù in quel modo non sarebbe servito a niente. È stato il pensiero di Alex a farmi andare avanti, a non permettere che mi arrendessi. Perché anche se probabilmente lui non provava assolutamente niente per me – oltre all’amicizia – non avrebbe voluto che soffrissi in quel modo. Avrebbe voluto che continuassi a sorridere. E così avevo fatto.
Gli altri in macchina con noi si sono salvati tutti, la più grave si è rotta un polso, ma è viva, sta bene. Ci vede. E non ha perso la persona di cui era innamorata dalle scuole medie, soprattutto.
Torno in me sentendo una lacrima bollente scorrere lungo la mia guancia, un attimo prima che Liam mi stringa a sé per un altro abbraccio. Provo a sorridere, ma dentro sto crollando. Soprattutto se penso al fatto che potrei non incontrare più quel ragazzo, l’unico nella mia nuova vita, che mi abbia trattata da persona, e non da animale.

 
~

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Heidi. Wow. Uno di quei nomi che non si dimenticano tanto facilmente. Se poi associato a quegli occhi tanto azzurri da non sembrare veri, allora diventa davvero indimenticabile. Come se me lo avessero appena inciso addosso, e non potessi scrollarmelo, nemmeno se volessi.
Un nome che mi ricorda il cielo, il vento, il sole.
Oltre che il cartone animato, ovviamente. Solo che in questo caso anche se ci fossero le caprette a farle ciao, Heidi non le vedrebbe. Paragone inutile, mi rendo conto. Ma è anche vero che è la prima cosa a cui si associa, quel nome, o no?
Da questo momento non lo assocerò più alle caprette, promesso.
Assocerò quel nome ad una della ragazze più belle che abbia mai visto. Una delle poche persone che conosco in grado di sorridere nonostante la propria situazione. Lei non ci vede, ma sorride, si comporta come fosse “normale”, come se fosse una ragazza qualunque.
Solo che i suoi capelli sembrano raggi di sole. I suoi occhi pezzetti di cielo.
E il suo sorriso sarebbe in grado di far concorrenza alle stelle, è incredibile.
Scendo dalla metro ancora soprappensiero, con un sorriso da idiota a incresparmi le labbra. Davvero, non riesco a smettere di sorridere, come non sorridevo da parecchio. Da quando ho conosciuto Perrie, molto probabilmente.
Solo che la stronza mi ha solo usato. Ogni suo sorriso verso di me è stato finzione. Ogni bacio, ogni abbraccio, ogni carezza. Finzione. Ogni volta che per me facevamo l’amore, per lei era solo una valvola di sfogo. Tutta una fottuta finzione.
Uno schifo, insomma.
Torno in me quando vedo il mio migliore amico a un centinaio di metri da me, spaparanzato su una panchina, che sbuffa fuori una nuvola di fumo, tenendo la mano libera dalla sigaretta in tasca.
Io e Harry siamo cresciuti insieme, dall’asilo, nonostante lui fosse più piccolo di me di un anno. Abbiamo avuto anche noi in nostro periodo no, al liceo, quando io ero finito nel giro sbagliato. Ero diventato un bullo. E me l’ero presa proprio con lui, con l’unica persona che dal canto suo non mi aveva mai preso in giro per le mie origini.
Poi ero stato bocciato ed eravamo tornati amici come prima.
Mi aveva tirato fuori dalla merda, ed ora avevamo la nostra banda, sempre che si possa chiamare così. Gli amici più stretti, le persone più fidate per entrambi. Anche se forse a questo punto potevamo anche mandare Perrie a farsi fottere, almeno per quanto mi riguardava.
Avevo altro a cui pensare.
Heidi, per esempio.
O come portare un po’ di soldi a casa per garantire una vita decente alla mia famiglia. O quel poco che ne rimaneva. Mia madre. E mia sorella Safaa. L’unica famiglia che non mi avesse abbandonato, nonostante tutto. C’erano state sempre, e ci sarebbero state, fino alla fine.
«Ehi, Malik», mi saluta Harry buttando a terra la sigaretta ormai finita e alzandosi in piedi, controvoglia come al solito, per poi far scontrare i nostri pugni e darmi una pacca sulla spalla. Sorrido. Ci salutiamo in quel modo da una vita, da sempre forse.
«Ehi, Styles», ricambio per poi passarmi una mano tra i capelli, tirandone le punte.
Il mio migliore amico sa perfettamente che lo faccio spesso. Specialmente quando sono soprappensiero, agitato, o nervoso. Soprappensiero, in questo caso. Non riesco a togliermi il sorriso di Heidi dalla testa, e non mi è mai successa una cosa del genere, mai.
Harry ride, passandosi una mano tra i ricci. «Non posso dirti quello che devo dirti se prima non mi dici che hai», mi dice voltandosi completamente verso di me, un sorriso furbo sulle labbra e uno scintillio negli occhi color smeraldo.
Fa paura, quando mi guarda in quel modo.
È come se mi leggesse dentro.
Come se per lui io sia un libro aperto, spalancato sui miei pensieri.
«Chi è lei?», mi chiede ridendo dopo una manciata di secondi. Cerco di trattenere un sorriso, senza troppo successo. Harry mi conosce troppo bene, è ufficiale. Mi spinge ridendo, vedendo che sto sorridendo come un’idiota.
Non ho mai sorriso così, nemmeno per Perrie.
«Una ragazza che ho buttato a terra ieri, sulla metro», gli dico, arrendendomi completamente. Gli spiego che ero incazzato per Perrie, e che praticamente le sono andato addosso, quasi volontariamente. Gli spiego che le ho urlato contro. Gli spiego che l’ho rivista proprio pochi minuti prima.
Gli spiego anche che non riesco a smettere di sorridere e che non so perché.
«Ha un nome, la biondina?».
Rido, dandogli un pugno su una spalla. «Si chiama Heidi, e prima che tu me lo chieda, non le ho chiesto di uscire», aggiungo, prima che possa aprire bocca. So perfettamente che è la domanda che tiene sulla punta della lingua dal momento in cui ho iniziato a parlare di lei.
E so anche perfettamente di non aver chiesto ad Heidi di uscire perché… non posso.
«Oh, Malik… perché?», mi chiede, come previsto.
È sorpreso, il mio migliore amico. E a ragione. Non mi sono mai tirato indietro davanti a niente, in tutti gli anni che lo conosco. Soprattutto, non mi sono mai tirato indietro davanti ad una ragazza. Beh, c’è sempre una prima volta.
Soprattutto se si tratta di quella ragazza, non di una ragazza qualsiasi, con cui magari potrei uscire una sera, farla ubriacare, sbatterla per una sera e poi mandarla via. Non vederla più. Con Heidi non posso, non potrei prenderla in giro, non ci riuscirei.
«E’ cieca», mormoro semplicemente, alzandomi e iniziando a camminare verso il parco con le mani in tasca e la testa bassa. Un attimo e Harry mi raggiunge, voltandomi verso di sé, come se non credesse alle sue orecchie. Beh, non ci crederei nemmeno io se lo sentissi. Lo vedo inarcare un sopracciglio, e quasi gli scoppio a ridere in faccia. «Hai sentito bene, Styles… cosa volevi dirmi?».
Cerco di darmi una calmata, stringendo i pugni.
Non ho chiesto alla ragazza più bella che abbia mai visto di uscire… la verità è che non gliel’ho chiesto perché sono un idiota. Perché ho avuto paura. Perché era come se avessi sentito una vocina dentro di me che mi diceva di ignorarla, di lasciarla perdere perché è cieca.
Non ho mai dato ascolto alla mia coscienza.
Quindi la verità è solo una: sono un’idiota.
«Indovina un po’ chi ho incontrato ieri sera?», mi dice ironico reprimendo una smorfia. Inclinai la testa da un lato, curioso. La sera prima mi ero immerso nella lettura di Wikipedia, quindi non ero uscito col gruppo. Ma a giudicare dall’espressione di Harry, decisamente non è stata una buona uscita.
«Non lo so, tuo padre?».
Era noto a tutti che il rapporto di Harry con la sua famiglia non fosse uno dei migliori, soprattutto col padre. I suoi sparivano per mesi e non si facevano sentire, lasciandolo a casa da solo. Da solo, in una villa a dir poco immensa.
Il che la rendeva la location perfetta per migliaia di feste.
Ma restava il fatto che Harry si sentisse solo, non potevano comprarlo con una villa per far sì che stesse meno male. Quale genitore avrebbe voluto una vita così per suo figlio? Io, no di certo.
Lo vedo scuotere la testa, divertito dalla mia supposizione sbagliata.
«Nathan è tornato in città…», mi dice scompigliandosi i ricci. Ma io sono impietrito, riesco a malapena ad aprire la bocca. Non riesco a muovere un muscolo. «Ma non è questa la cattiva notizia… era con Perrie, li ho visti baciarsi».
Ecco, ora sì che la mia giornata è andata a rotoli.


 
 
HOLA, MY LITTLE CUPCAKES c:
Sono sopravvissuta a due settimane e mezzo di vacanza. Al treno, alla scottatura sulla schiena e alla sabbia bollente.
Sono sopravvissuta al dialetto calabrese del quale non capisco un acca.
E sono sopravvissuta agli occhi celesti del ragazzo del bar dove andavo a fare colazione.
Quindi, ci sono. In perfetto orario, stranamente.
Fatevi un applauso, se non mi avete abbandonata nonostante l'assenza scandalosa.
Grazie alle 28 che hanno recensito lo scorso capitolo - vi amo tutte, per inciso.
Grazie alle preferite, ricordate e seguite.
Non so che altro dire... che ne pensate?
A me il capitolo piace, ma lascio a voi i commenti, che è meglio.
Vi lascio i miei contatti e sparisco, ci vediamo lunedì con "Irresistible".
E mercoledì con una os che ho scritto al mare, su tutti e cinque i ragazzi.
Spero di trovarvi anche lì, lol.
Alla prossima, xx Fede.


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Capitolo 4
*** 4. ***




4.

HEIDI'S POINT OF VIEW.

Erano passate due settimane dall’ultima volta che avevo incontrato il ragazzo della metro. Due settimane che non sentivo il suo odore. Due settimane che non sentivo il suo sorriso aleggiare nell’aria, o che non sentivo il suono della sua risata. Due settimane in cui avevo dormito male, col pensiero fisso su di lui. Due settimane in cui avevo cercato di andare avanti con la mia routine.
Ma due settimane in cui ero stata più distratta del solito.
Se n’erano accorti tutti , da Victoria a Liam, da Louis ad Eleonor. Persino mia madre si era accorta che non ero più la solita Heidi. Sorridevo a fatica, e stavo diventando intrattabile con tutti. Non era mai successo in vent’anni, possibile che stesse succedendo per un ragazzo di cui nemmeno conoscevo il nome?
«Non vedo l’ora che vi rincontriate», mi fa notare Louis mettendomi in braccio Denise, sei anni. Che subito si mette a disegnare sul suo blocco da disegno, canticchiando a bocca chiusa. Sento il rumore di un pastello a cera in sottofondo, segno che come al solito è totalmente concentrata nel suo capolavoro. Che purtroppo io non potrò mai vedere.
Denise è autistica. Parla poco e niente, se non con i suoi genitori. Ha preso a parlare un po’ di più solo da quando i suoi genitori la lasciano pomeriggi interi con me e Louis. Parla solo con me però. Sospetto che il fatto che il mio migliore amico la veda la intimidisca, e non poco.
Torno in me quando sento la mano fresca di Louis sulla mia.
«Sai, mi sto rassegnando al fatto che non mi voglia perché sono…».
«Non provare nemmeno a pensarlo, piccola», mi interrompe in un sussurro stringendomi dolcemente una mano, per poi lasciarmi un bacio su una guancia e allontanarsi, chiamando altri bambini per giocare con lui. Scuoto la testa con un mezzo sorriso e accarezzo delicatamente i boccoli della bimba seduta sulle mie ginocchia.
«Secondo te stavo meglio il giorno che ho incontrato quel ragazzo?», chiedo a Denise posando le labbra sul suo orecchio. Si è abituata a quel contatto, non lo faccio perché non sente, ma semplicemente perché il contatto delle mie labbra col suo orecchio le è familiare.
È autistica, e a me risponde solo dopo quel contatto.
È il nostro modo di comunicare.
Denise scuote la testa, annuendo. «Eri più felice», mormora smettendo di sfregare i pastelli sul foglio di carta. Sorrido involontariamente, attorcigliandomi un suo boccolo intorno alle dita. «Eri come quando io sto con te, Heidi», mormora ancora, spiazzandomi.
È come se mi avesse detto che con me sta bene, che è felice.
Una gran bella soddisfazione sentirsi dire da una bambina – autistica – di sei anni, che con te sta bene. Significa che non tutto quello che faccio è sbagliato, in fondo. Soprattutto se a dirlo è una bambina speciale come Denise.
«Dovrei cercarlo secondo te?», le chiedo con cautela dopo qualche secondo. La sento girarsi verso di me e prendermi una mano, per poi avvicinarsi sensibilmente e lasciarmi un bacio su una guancia, immergendomi nel profumo del suo shampoo al limone. Sono sconvolta, per il bacio intendo. È una di quelle manifestazioni di affetto che non ti aspetti da una bambina autistica. «Denise, allora?», le chiedo gentilmente sfiorandole il viso con due dita.
«Non dovrebbe essere il principe a cercare la principessa?», mi chiede di rimando. La sento sorridere, così scoppio a ridere. Ha sei anni, e i suoi genitori non sono poi tanto uniti, è normale che ragioni con quello che sa. Le favole. E anche se quasi mi dispiace ammetterlo, ha ragione.
Annuisco, dandole un bacio sulla fronte.
«Io non sono una principessa», le faccio notare con un sorriso amaro. Un sorriso che per lei sembrerà uno dei miei soliti, ma che a me costa da morire. Non sono una principessa. Non posso esserlo. Nelle fiabe le principesse… ci vedono. Nelle fiabe la principessa di turno non ha un incidente d’auto, non perde il ragazzo di cui è innamorata.
Perché è proprio quando paragono la mia vita ad una di quelle fiabe, che mi accorgo di quanto la mia vita faccia schifo. Beh, ho degli amici, mia madre, un lavoro che riesco a fare anche se non vedo.
Ma è proprio questo il punto. Non ci vedo.
E anche se sorrido con tutti, se provo a vivere una vita da persona “normale”…
Non sarò mai più normale. E mi manca, da morire.
Mi manca svegliarmi la mattina e guardarmi allo specchio. Mi manca specchiarmi negli occhi limpidi di Louis. Mi manca lo sguardo ironico di mia madre, o il suo sorriso. Mi manca vedere cosa indosso. Mi mancano i pomeriggi in cui da bambina me ne stavo sdraiata sul prato a guardare le nuvole passare.
Mi manca Alex. Mi mancano le feste in cui mi trascinava contro la mia volontà.
Mi mancano i colori, più di quanto io stessa riuscirei ad ammettere.
E mi accorgo di aver lasciato uscire una serie di lacrime solo quando sento le dita minuscole di Denise spazzarle via, per poi abbracciarmi, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo. Tiro un sospiro. Mi serviva proprio, quell’abbraccio. Anche se magari avrei preferito che fosse qualcun altro ad abbracciarmi, che fosse un altro odore a circondarmi.
Ma alle parole di Denise quasi non mi sciolgo, letteralmente. E mi sento meglio, davvero.
«Sei la principessa più forte di tutte, Heidi», mi dice in un soffio.
E sorrido davvero, lasciandole un bacio sui capelli. Torno a sorridere come sempre, con quelle parole. Come sorridevo un tempo, tre anni fa. Come sorridevo con Alex, o con le mie vecchie amiche.
Lo stesso sorriso di due settimane prima, sulla metro.
Lo stesso sorriso che era riuscito a scatenare l’incontro col ragazzo senza nome.
E inizio a sperare che Denise abbia ragione. Che debba essere il principe a trovare la principessa. Che io sia una principessa. Che lui mi trovi, in un modo o nell’altro. E che magari si sbrighi, perché chissà come mi manca.
E davvero non riesco a capirne il motivo.
~

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Grazie a chissà quale santo, angelo, o quello che vi pare, sono riuscito ad evitare di vedere la troia e il coglione per due settimane. Perrie e Nathan, se non si fosse capito. Più che altro ho girato per la città, senza meta, in solitaria.
Munito di macchina fotografica. Cosa che non facevo da una vita.
Non ho visto i due piccioncini, ma la cosa che mi fa rabbia è che in questo modo ho evitato anche Heidi. Certo, ho avuto modo di pensare. Troppo tempo per pensare, forse. Fatto sta che ho pensato. A lei, ai suoi occhi, al suono della sua voce, al suo sorriso, ai suoi capelli.
Ho sorriso come un ebete per due settimane, ripensando a lei.
Se n’è accorto Harry, se ne sono accorti tutti quelli del gruppo. Se n’è accorta mia madre, quelle poche volte che l’ho vista. E se n’è accorta mia sorella minore. Ma nessuno ha fatto domande, per fortuna.
Non avrei saputo spiegare, se mi avessero chiesto il motivo del mio sorriso.
Certo, avrei potuto dire la verità. Di essermi scontrato con Heidi nella metro, di averla aiutata il giorno seguente. Potrei dire semplicemente che non riesco a togliermela dalla testa. Potrei dire che è cieca, e che ho paura di rovinare tutto.
Perché è la verità. Ho paura. Di lei, e di me stesso.
Ho paura di poter stare con lei e fare qualche stronzata senza sapere come potrebbe reagire. Ho paura di lei, dei suoi occhi che non possono vedermi, della sua risata tanto cristallina da poter sembrare il dono di un angelo.
Ho paura di Perrie. E della sua inutile gelosia. Ho paura di quello che potrebbero fare lei e Nathan una volta scoperto che mi sto legando a qualcuno. Qualcuno di tanto fragile da poter essere distrutto da una parola sbagliata, come Heidi. Ma forse mi sbaglio. Magari non è tanto fragile come sembra.
Nella mia mente è una farfalla di cristallo.
Come uno di quegli oggettini costosi che ha mia madre sul cassettone in camera da letto. Quelle cose che se non ci stai attento e la colpisci con appena più forza del dovuto, si rompono in mille pezzi.
Ed è proprio di questo che ho paura. Di romperla. Si spezzarle il cuore irreparabilmente. Di non vedere più il suo sorriso o di non sentirla più ridere. Di non vederla più alzare gli occhi al cielo come se vedesse, solo perché magari ho fatto un’emerita cazzata. O perché stando con me entrerebbe nel nostro giro.
Il che in un modo o nell’altro ci riporta a Nathan e Perrie.
Sospiro, passandomi una mano tra i capelli, ormai fin troppo lunghi. Magari è ora di dargli una sistemata, prima o poi. Sorrido, vedendo mia sorella che rincorre una colomba. E scatto. Una serie di foto incredibili, forse le più belle della giornata. Scatto, finché non sento una risata…
È terribilmente familiare, e mi fa sorridere, ancora prima che mi possa rendere conto a chi appartenga. Mi volto, lasciando che mia sorella continui a giocare con le farfalle. E vedo la stessa ragazza che non vedo da due settimane. Quella di cui ho paura, e di cui inconsciamente mi è mancato tutto.
Heidi. La vedo ridere. È al telefono, e cammina tranquillamente, muovendo davanti a sé il solito bastone bianco, quello che si porta dietro quando è da sola. E il sorriso sul mio volto diventa ancora più da ebete di quanto non fosse già. «Safaa, vai a casa da sola, vero?», le chiedo indicando Heidi con la testa.
La sto praticamente pregando in ginocchio, ma lei ha un sopracciglio inarcato.
Ridacchio tra me, tirando fuori dalla tasca cinque sterline e porgendogliele. Mi abbraccia la vita, soddisfatta, per poi saltellare allegramente verso il chiosco dei gelati, a un centinaio di metri da casa nostra. Mi ha pregato per un gelato tutto il pomeriggio, ed è stata buona mentre scattavo fotografie apparentemente a caso. Se lo merita.
«Sì, mamma… vengo a trovarti domani, promesso».
La vedo chiudere la telefonata, con un mezzo sorriso ad incresparle la labbra. E faccio una cosa che non credevo di poter fare, con lei. L’avrei fatto con qualsiasi altra ragazza, certo. Ma con lei, boh. Non me lo sarei neanche sognato. Aspetto che si avvicini, e praticamente le vado addosso, facendola quasi cadere.
Ma la prendo al volo, è questo il piano.
«E’ un vizio, allora!», sbotta divertita mentre la rimetto in piedi.
Sorrido inconsciamente accorgendomi del fatto che – chissà come – mi ha riconosciuto. E la aiuto a rimettersi in piedi, scostandole una ciocca di capelli dal viso. Arrossisce. Mi viene da ridere al vederla arrossire, non riesco a trattenermi. «Scusa Heidi… non ti ho vista», mento, ironico.
Lo faccio apposta. So perfettamente che sa che sto mentendo, eppure mento ugualmente. Mi viene spontaneo scherzare con lei, e ovviamente è un altro di quei quesiti ai quali non so dare una risposta. Alza gli occhi al cielo, allontanandosi di un paio di passi.
«Heidi, piacere», mi dice sorridendo tra sé e porgendomi una mano smaltata di celeste. Quasi della stessa tonalità dei suoi occhi. Mi trattengo del ridere senza motivo e le stringo la mano. E in effetti è l’unico modo che ha per chiedermi di presentarmi.
Furba la ragazza.
«Zayn», le dico cercando di restare calmo.
La situazione ha un non so che di surreale. Ma mi piace. Ed è questa la cosa strana.
Anche se tutte le paure sono tornate a galla. Ma se ne aggiunge un'altra. Non so come comportarmi, e la paura folle di risultare uno stupido si impossessa di me. Come se mi trovassi in un fottuto incubo. Uno di quei brutti sogni che sembra reale, e dal quale puntualmente non riesci ad uscire.
«Non sei stupido», mi sento sussurrare. Sorride tra sé, al che mi chiedo se legga nel pensiero. «Lo dico solo perché all’inizio lo pensano tutti… è solo che non ci sei abituato».
Inclino la testa da un lato, senza riuscire a trattenermi dal ridere. Fa quasi paura da quanto è intelligente quella ragazza. Deve aver sviluppato una specie di super intelligenza quando è diventata cieca. Non me lo spiego altrimenti. «Abiti da queste parti?», riesco a chiedere dopo un paio di minuti. Senza accorgermene abbiamo iniziato a camminare verso il limitare del parco e la sto tenendo per il gomito, proprio come ho visto fare a quella ragazza due settimane fa.
«A quattro isolati da qui, volevo fare una passeggiata».
Annuisco tra me, e lei scoppia a ridere, fermandosi in mezzo al vialetto. Inarco un sopracciglio, poi mi rendo conto. Ho annuito. Di nuovo, cazzo. Sto iniziando a pensare che non mi abituerò mai. Sbuffo, facendola ridere ancora più forte. «Posso accompagnarti a casa, se ti va… ho quattro isolati per rendermi ridicolo, almeno», aggiungo, unendomi alla sua risata contagiosa.
Inarca elegantemente un sopracciglio, per poi riporre nella borsa il bastone per non vedenti e prendermi sottobraccio. Sorrido, quando sento la sua mano posarsi delicatamente sul mio avambraccio. La sento stringere appena , e dopo una manciata di secondi iniziamo a camminare.
E a parlare.
Praticamente di qualsiasi cosa di non troppo personale ci venga in mente. In quella mezz’ora di quel pomeriggio che si avvicina al tramonto parlo con lei come non ho mai fatto. Quasi con nessuno. Parliamo, interrotti solo dalla stessa Heidi che ogni tanto mi indica dove andare. Parliamo dei nostri interessi. E parliamo di musica, soprattutto. Il che mi fa scoprire che abbiamo più o meno gli stessi gusti musicali.
Ci piacciono le stesse band e amiamo le stesse canzoni. Ed è tutto troppo strano per poter essere solo una coincidenza. Strano, certo. Ma in fondo ho come la sensazione di conoscerla da sempre. Di esserci cresciuto insieme.
«Come fai ad orientarti», le chiedo ad un certo punto, stroncando il suo monologo sui Coldplay. Conosce ogni singola canzone, ed è stata a parecchi concerti, ma il fatto che ne parli con gli occhi sognanti è… incredibile. E anche molto affascinante.
Alla mia domanda, sorride.
E si ferma, stringendomi l’avambraccio con una delicatezza sovrumana, non reale. «Chiudi gli occhi», mi dice senza smettere di sorridere. E’ davvero bellissima quando sorride, e ho la tentazione di tenere gli occhi bene aperti, pur di continuare a vedere quel sorriso.
«Fatto», mormoro abbassando le palpebre.
«Cosa senti?», mi chiede dopo un attimo. Aggrotto le sopracciglia, confuso. Sento un bruttissimo senso di buio, anche se so che potrei riaprire gli occhi e tornare a vedere tutto quanto. Sento il rumore delle auto che ci superano. E sento il profumo di Heidi. Ma non riesco a capire il senso di quella richiesta, proprio non ci arrivo. «Io sento ogni più piccolo rumore e odore, riesco a capire se sta per piovere, o se nel parco hanno tagliato l’erba da poco…», aggiunge. La sento sorridere, così riapro gli occhi, e la riprendo sottobraccio, ricominciando a camminare.
«Perciò sei una specie di supereroina», scherzo dopo un centinaio di metri. E lei ride, di quella risata incredibile che è solo sua. Fa ridere anche me, nonostante sia ancora leggermente intontito. Lei sente cose che le mie orecchie e le mie narici non sentiranno mai e poi mai.
Ed è disarmante, più di quanto dovrebbe essere lecito.
«Basta imparare ad ascoltare», ribatte Heidi, con un velo di tristezza nella voce. E non mi da nemmeno la possibilità di rispondere che siamo arrivati. Svoltiamo a destra, e la vedo spingere con sicurezza un cancelletto bianco, ma quasi aranciato alla luce del tramonto. «Sono arrivata», mormora voltandosi verso di me e ritrovando il sorriso.
Fa per allontanarsi, facendo spegnere il sorriso. Ma la prendo per un polso e mi chino su di lei, lasciandole un bacio su una guancia. Non so per quale motivo, non fate domande. Non saprei dare una risposta sensata. Forse l’ho fatto solo perché avevo voglia. Fatto sta che le si riaccende il sorriso, chissà come.
«Sono stanco di venirti addosso, sai?», le dico, ancora vicinissimo al suo viso.
Arrossisce violentemente. Ma stavolta non rido. È dolcissima quando lo fa, nonché ancora più bella. Ma non ti viene da ridere a guardarla. Arrossisce in un modo strano, come se volesse proteggersi. Come le mie ex non hanno mai fatto, perché avevano già provato tutto.
È come se per Heidi fosse tutto nuovo. E la cosa mi piace.
«Magari ci vediamo».
«O magari vengo a prenderti domattina, se devi uscire… ti porto in un posto», aggiungo. Perché all’improvviso mi è venuta un’idea. La osservo inclinare la testa di lato, come se ci stesse pensando. Come se stesse pensando a qualcosa che a me è sfuggita.
«E’ un appuntamento?», mi chiede, evidentemente in imbarazzo. Rido, scompigliandole leggermente i capelli e allontanandomi. Lasciandola lì con un’espressione davvero troppo carina sul viso.
E, «Solo se vuoi considerarlo tale», le dico uscendo dal vialetto.
Scuote la testa ridendo. E quella risata mi entra in testa, e nel cuore. E non accenna a volersene andare. Mi risuona dentro per tutto il tragitto fino a casa, finché dopo la serata con i ragazzi non mi butto a peso morto sul letto.
E forse risuona anche nei sogni, probabile.


 
 
Lo so, sono in ritardo. Non odiatemi, vi supplico in urdu (?)
E' che ho iniziato il tirocinio all'università... e anche se non faccio un tubo, mi toglie tempo per scrivere.
Quindi, passando ai ringraziamenti. Grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo.
Abbiamo passato le 80 recensioni in tre capitoli. Sono al settimo cielo.
Grazie alle preferite, seguite e ricordate, come al solito.
Poi... che ne pensate del capitolo? E' più lungo del solito, lol.
Ma solo perchè ho scritto di getto, cosa davvero molto strana, che non capita quasi mai.
Recensite, mi raccomando... io intanto mi dileguo.
Vi lascio i soliti contatti, il trailer, e il link della mia os, se ancora non l'aveste letta.
Alla prossima, xx Fede.


"GIVE ME LOVE"

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Capitolo 5
*** 5. ***




5.


HEIDI'S POINT OF VIEW.

È un appuntamento?
Solo se vuoi considerarlo tale.

Oddio, non riesco a credere di averglielo chiesto. E non posso credere che mi abbia davvero risposto in quel modo, lasciandomi lì da sola come un salame. Però… c’è una cosa che mi fa pensare.
Mi è sembrato come se Denise avesse previsto tutto. Ed è incredibile.
In più, ho parlato con Zayn – Dio, finalmente so il suo nome – come non avevo mai parlato in vita mia. Io di solito non parlo così tanto. Soprattutto se ho davanti un perfetto sconosciuto. E la cosa strana, se così si può definire, è che mi sembrava di conoscerlo, come se ci fossi cresciuta insieme.
Non è strano?
Insomma, non l’ho mai visto, l’ho incontrato tre volte… ma mi sembra proprio di conoscerlo. È… strano. Ma allo stesso tempo una bella sensazione. Sento come se con lui potessi parlare di tutto. Potrei perfino aprirmi con lui, dirgli tutto. Tutto quanto. Se solo imparasse ad ascoltare.
Perché, anche se non lo vedo, mi da l’impressione di uno che non sa ascoltare. Una di quelle persone che se non vede non crede. Il mio opposto, sotto questo punto di vista. Io ho imparato ad ascoltare, dopo l’incidente. Ho dovuto adattarmi, in un certo senso. Lui invece mi da l’idea di essere uno più che altro abituato ad osservare.
Potrei sbagliarmi, ovvio. Ma mi da quest’idea.
Abbiamo praticamente gli stessi gusti musicali. Mi fa strano. Oddio, mi fa piacere aver trovato qualcuno a cui piacciono le mie stesse cose. Ma è strano, è una sensazione che non riesco a spiegare.
È troppo per poter essere solo una coincidenza, no?
E, cosa molto preoccupante, non riesco a smettere di sorridere. Entro in casa galleggiando come se mi trovassi su una nuvola. E ignoro i lamenti da isterica di Victoria, che mi ricorda di che ora sia. Poso tranquillamente la borsa e mi tolgo il cappotto, con addosso tutta la calma di questo mondo.
La sento sbuffare, ma continuo ad ignorarla, nel limite del possibile. E continuo a galleggiare fino al divano, dove mi butto di peso, ridendo come una deficiente. Una manciata di secondi e Victoria mi posa una mano fresca sulla fronte, come per sentire se ho la febbre. E io continuo a ridere, senza apparente motivo.
La verità è che non mi ricordavo come ci si sentisse ad essere felice, anche se solo per un’ora, nel mio caso. Zayn è riuscito a riportare a galla la vecchia Heidi. La ragazza che conosceva Alex, che rideva per la più piccola stronzata, che andava alle feste e che parlava delle sue band preferite cercando a fatica di trattenere le lacrime.
«Mi spieghi perché ridi?», sbotta la mia migliore amica, facendomi finalmente smettere di ridere. Ma non smetto di sorridere come un ebete, proprio non ci riesco. Non volendo mi passo due dita sulla guancia, dove si sono posate le dita di Zayn. E tra l’altro sono immersa nel suo odore… «Perché odori di spinello?».
Inclino la testa da un lato, accorgendomi che Victoria mi sta annusando.
Oddio, ti prego.
«Il ragazzo della metro… mi è venuto addosso di nuovo», dico in un soffio, sognante. Totalmente persa nel mio mondo. Vicki mi posa di nuovo una mano sulla fronte, per assicurarsi che io stia bene.
Ed è proprio questo il punto. Sto bene. Mai stata meglio.
«Dimmi che l’hai mandato a fare…». La solita finezza, Victoria.
«Mi ha accompagnata a casa», la interrompo sorridendo. Un attimo e vengo aggredita da un fiume di parole senza senso. Parole delle quali riesco a capire solo la metà. Parole che vengono spente dal sorriso ancora presente sul mio viso. «Viene a prendermi domattina», mi azzardo a dire non appena sento che ha finito con la ramanzina.
Okay che Zayn mi ha travolta e insultata.
Ma il giorno successivo mi ha aiutata. E Vicki non c’era, non sa cosa vuol dire.
Non sa quanto sia stato dolce e adorabile questo pomeriggio. Non sa cosa significhi avere di fianco qualcuno che ti capisce, che ha paura di starti accanto e non sa come comportarsi. Allo stesso Zayn sarà sembrato strano. Ma a me è sembrato terribilmente dolce, punto.
«Sei seria?», mi chiede la mia migliore amica saltando in piedi ridendo. So che non è più seduta accanto a me per un semplice motivo. La sua voce arriva leggermente da più lontano. E da più in alto. Deve essersi alzata di scatto, sorpresa. Ed è anche probabile che creda che io sia pazza. «Esci con un drogato…».
Stavolta sono io a scoppiare a ridere, non riesco a trattenermi.
Non lo conosce. E non lo conosco nemmeno io in fondo. Ma so per certo che Zayn non è un drogato. Insomma, farsi uno spinello ogni tanto non fa di un ragazzo un drogato. Certo, non sto a spiegarlo a Vicki, non capirebbe. Pura come un angioletto, non ha mai fumato, bevuto o fatto qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire.
La adoro anche per questo. È come me, da un certo punto di vista.
Pura. E senza esperienza.
Con la piccola differenza che io non ho avuto nemmeno un primo bacio e a malapena sono uscita con un ragazzo. Ho fumato una volta in vita mia. E l’unica volta che ho avuto il coraggio di bere ho avuto un incidente d’auto e ho perso la vista.
Beh, dettagli, no?
«Non è un drogato, Vic», le faccio notare scuotendo lentamente la testa.
E anche se lo fosse, ci uscirei lo stesso. Solo che a Vicki non lo dico, ovviamente.
Mi alzo dal divano e cammino tranquillamente fino alle scale, ancora su una nuvola. Lascio la mia coinquilina immersa in uno dei suoi monologhi sottovoce, e mi chiudo nella solitudine nella mia stanza. Passo dai vestiti indossati tutto il giorno alla morbidezza del pigiama di flanella.
Pesantissimo, ma che mi piace. Mi da sicurezza. Una sicurezza che non ho mai avuto.
Quel pigiama mi fa sentire protetta, in un certo senso.
Mi rintano sotto le coperte e mi metto a pensare. Penso a quello che mi ha detto Denise al lavoro. Che sono la principessa più forte di tutte. Potrei crederci, col tempo. Penso a quello che ho detto a mia madre chiudendo la telefonata. Che la sarei andata a trovare il giorno dopo.
Sorrido, mi toccherà rimandare.
E penso al pomeriggio incredibile con Zayn. Penso a quanto ho parlato con lui. Penso a tutte le piccole cose che abbiamo in comune, e alle enormi differenze che ci sono tra una come me e uno come lui. Un esempio lampante? La vista, che lui ha e io no. E l’udito, che io ho imparato a sfruttare, e lui usa a malapena.
Abbasso le palpebre e me lo immagino sorridere dopo aver annuito, pur sapendo che non lo posso vedere farlo. Mi immagino il suo sorriso in risposta al rossore spuntato sulle mie guance quando mi ha lasciato quel bacio insignificante, minuscolo.
E mi addormento, cercando con tutte le mie forze di immaginare il colore dei suoi occhi.

~

Sbuffo di rimando, sentendo Victoria sbuffare.
Sono sveglia da dieci minuti e già non mi da tregua. E quando le giornate iniziano in questo modo, non so come finiranno. Potrei tentare il suicidio prima di pranzo, da quanto si fanno insopportabili le prediche della mia migliore amica. Soprattutto se inizia a predicare alle nove del mattino.
«Hai presente quando ci siamo conosciute?», le chiedo. Riesco a coglierla di sorpresa, dato che smette di rigirare senza alcun senso il cucchiaino nella tazza di cappuccino. Ricordo il giorno il cui l’ho conosciuta come fosse ieri. «Mi sono fidata di te solo sentendoti parlare, anche se ero appena uscita dall’ospedale, ricordi?», continuo, cercando con le dita il manico della mia tazza.
«Mi ricordo…», borbotta riprendendo a giocare col cucchiaino.
La fissata coi cucchiaini che esce con mio cugino. Il cucchiaiofobo. Che coppia, gente.
Ridacchio, capendo di averle fatto capire cosa volevo dire. Mi sono fidata di lei solo sentendola parlare con mio cugino. Mi correggo, mi sono fidata della sua risata. Ho immaginato il suo modo di ridere come la luce che non avrei più potuto vedere. Una specie di luce in fondo al tunnel, se volete.
E da quel giorno siamo diventate inseparabili, come attaccate con la super colla.
Un’amicizia nata da una risata.
E la stessa cosa mi sta succedendo con Zayn. Solo che il mio “attaccamento” a lui, se così si può definire, nasce da un odore. Non da un suono. Il suo odore, quel giorno in metropolitana. E il giorno dopo. E ieri, quando mi è venuto addosso. Solo che ieri aveva qualcosa in più, oltre a sapere di Zayn.
Odorava di shampoo alla camomilla, come quello che usano i bambini. Un buon odore, complementare al suo, che addirittura lo rende ancora più buono. Credo proprio che mi toccherà indagare.
«Hai capito cosa intendo?», chiedo a Victoria sentendola alzarsi dallo sgabello e mettere la tazza nel lavandino. Forse con più potenza del necessario, visto il frastuono provocato dalla tazza contro il metallo del lavello.
La sento sbuffare, così mi alzo dal mio sgabello e mi volto, trovandomela davanti. E la abbraccio forte, accarezzandole i capelli. E’ la mia migliore amica, e capisco perfettamente che si preoccupi per me, ma… «Non c’è bisogno che ti preoccupi», le dico lasciandole un bacio su uno zigomo.
«Ti fidi del tossico, ho capito», borbotta sciogliendo l’abbraccio.
La sento sorridere, e scoppio a ridere. Ho l’impressione che Zayn dovrà convivere con quell’orrendo soprannome appena inventato da Victoria. Tossico. Scuoto la testa, cercando di smettere di ridere.
Ma è inutile. E so per certo che Vicki non cambierà idea tanto facilmente.
«Mi aiuti a vestirmi, Vic?», le chiedo passandomi una mano tra i capelli, cercando di intenerirla con una dei miei timidi sorrisi. E quando la sento ridacchiare e sciogliere la corazza che si porta dietro da ieri sera, so di aver vinto. Come al solito, niente di nuovo. Forse le faccio pena, non mi interessa. È pur sempre la mia migliore amica.
Mezz’ora dopo siamo ancora al piano di sopra, e sono ancora in mutande e reggiseno di pizzo color panna, quando sentiamo suonare alla porta. E mentre la mia migliore amica impreca e va nel panico, io scoppio a ridere. «Mettiti questi, vado ad aprire!», sbotta uscendo dalla mia stanza come un tornado e scendendo gli scalini a due a due. È il mio primo appuntamento, se così vogliamo definirlo. Eppure quella nel pallone non sono io.
Infilo con calma i jeans che mi ha lanciato un attimo prima di uscire. Rossi, attillati. Uno dei miei jeans preferiti. Scuoto la testa, passando alla camicia, che… no. «Victoria!», urlo, sentendo di rimando la sua risata, seguita da quella di Zayn. Ha fatto entrare in casa il tossico. Non credevo. «Non ho intenzione di mettermi quella camicia», le faccio notare quando la sento entrare.
Ma evidentemente ho qualcosa che non va.
Decisamente.
«Sì, in effetti è trasparente». Ma non è la voce di Victoria. Cazzo. Arrossisco fino alla punta dei capelli, cercando malamente di coprirmi. Zayn ride, avvicinandosi sensibilmente e lasciandomi un bacio su una guancia. Avvampo. «Buongiorno… ti serve una mano?», mi chiede dopo qualche secondo.
Non credevo di riuscire a parlare. Ma per fortuna recupero l’uso della parola.
Appena in tempo.
«Nel mio armadio ci deve essere una canotta beige col bordo di pizzo, e un cardigan lungo, bianco panna», aggiungo, cercando di far defluire il sangue dalle guance. Mi ha appena vista mezza nuda. Eppure quando mi ha chiesto se mi serviva una mano… sembrava interessato a me. Non al mio corpo in bella mostra. Sento il viso farsi più fresco, e dopo un attimo Zayn mi passa le due cose che gli ho chiesto. «Grazie», mormoro infilandomi il più velocemente possibile la canotta, in modo da coprirmi.
Anche se l’imbarazzo è completamente svanito, portato via dalla sua gentilezza.
Lo sento ridere, e allontanarsi verso la porta. «Pronta?», mi chiede mentre mi infilo il cardigan e prendo la borsa. Mi limito ad annuire e a seguirlo in corridoio. Faccio le scale tranquillamente, e lo sento sorridere. «Un giorno mi spiegherai come fai?», mi chiede mentre scendo gli ultimi gradini, senza nemmeno reggermi dal corrimano.
Ma andandogli addosso, finendo praticamente spalmata contro il suo petto.
«Questione di abitudine», riesco a mormorare, arrossendo, mentre Victoria si schiarisce la voce, come per attirare la nostra attenzione. La mia attenzione, nello specifico. Sbuffo, facendo ridacchiare Zayn, che purtroppo si allontana, prendendomi però sottobraccio, come il giorno prima.
Ignoro completamente le lamentele a bassa voce della mia migliore amica, su come mi sono vestita e quant’altro, e lascio condurre Zayn. Devo fidarmi. Non c’è altro modo, se non voglio finire spalmata sul pavimento. Devo lasciare che mi porti, facendo affidamento su di lui, e non sul mio olfatto e il mio udito, come faccio di solito.
Se non mi fidassi, avrei paura di cadere. E ho imparato a fidarmi con una facilità che nemmeno io pensavo esistesse. Mi fido delle persone a pelle, è quasi un vizio ormai. Ma dopotutto, non vedendo, come dovrei fare? Rimanere ferma a quelle due o tre persone che non mi hanno lasciata dopo l’incidente?
Non avrebbe senso.
Così, mi lascio trasportare per i tre scalini appena fuori dalla porta, per tutto il vialetto e per attraversare la strada. Lascio che mi apra la portiera ed entro nel suo mondo. Dove ovunque mi giri, le mie narici sono piene di lui, di deodorante alla menta, e dello stesso odore di shampoo alla camomilla che ho sentito ieri.
«Hai una sorella?», gli chiedo non appena sento sbattere la portiera dalla sua parte. Lo sento avvicinarsi e allacciarmi la cintura. È vicino, tanto. Troppo. Tanto da farmi trattenere il fiato. E sono sicura di essere diventata dello stesso colore del cielo al tramonto. Ho – letteralmente – le guance in fiamme.
«Sorella minore… come fai a saperlo?», aggiunge allontanandosi.
Rido, passandomi una mano tra i capelli. Lo sento sbuffare, per poi mettere in moto e accendere la radio. Take care riempie l’abitacolo, facendomi smettere di ridere. Ma non perché la canzone non mi piaccia, anzi. È solo che…
La verità è che ho sempre voluto qualcuno che si prenda cura di me.
Non qualcuno che mi compatisca, sia chiaro. Ho solo bisogno di qualcuno che mi accetti per quella che sono, cecità inclusa. Perché non posso cambiare, e non posso essere cambiata. Sono cieca, e il fatto che la maggior parte delle persone mi eviti, beh… non è una bella cosa per la mia autostima.
«Ieri quando mi hai baciata sulla guancia ho sentito odore di shampoo alla camomilla… e si sente anche qui», ammetto, cercando di riprendermi dall’impatto che ogni volta quella canzone ha su di me. Sento Zayn sorridere, mentre guida, ma non dice una parola.
Canticchia a bocca chiusa, semplicemente. Solo che il silenzio che si è creato non è per niente imbarazzante. E quando parte la canzone successiva – The World – e iniziamo a cantarla all’unisono… non posso farne a meno, e scoppio a ridere, seguita da Zayn. «’Cause I can’t see the light no more», intona il ragazzo al mio fianco.
Sorride.
E sono sicura che mi sta guardando.
Certa al mille per cento.
«Guarda la strada», gli dico ridacchiando. Da quel momento iniziamo a parlare, come il giorno precedente. Di tutto, qualsiasi cosa ci venga in mente. Dai colori preferiti, ai film, i libri, alla musica. Tanta, tanta musica. Finché, non so quanto tempo dopo, sento la macchina fermarsi.
E, «Ci siamo, principessa», mi sento dire. Si riavvicina per slacciarmi la cintura. Ma stavolta non mi blocco immobile come un sacco di patate. Per lo meno, continuo a respirare. Ma rischio ugualmente l’infarto…
Principessa.
«Come mi hai chiamata?», gli chiedo, sorridendo, una volta scesi dall’auto. Ma vengo distratta dal persistente odore di erba tagliata da poco, mischiato all’odore di vernice fresca, che adoro.  L’unico rumore che percepisco è il suono del mio respiro, il respiro di Zayn e degli uccellini che cinguettano, non troppo lontano. Mi viene da sorridere. «Dove siamo?».
«A quale delle sue devo rispondere?». Rido, dandogli una gomitata. «Ti ho chiamata principessa… e per la cronaca siamo alla casa per le vacanze del mio migliore amico, ma la parte migliore deve ancora venire», lo sento aggiungere mentre mi prende sottobraccio e iniziamo a camminare.
Inarco un sopracciglio, confusa. Non riesco proprio a immaginare dove stiamo andando.
Sono troppo concentrata sul suo avambraccio sotto le mie dita, che si contrae ad ogni passo. Sono concentrata su ogni minimo rumore e ogni minimo odore che arriva alle mie narici, compreso il suo.
E continuiamo a camminare, fino a che non scioglie la presa sul mio braccio e lo sento aprire quella deve essere una porta, che cigola tra l’altro. Qualche secondo e sento un fortissimo odore di fiori, e la mano di Zayn nella mia.
Non so che dire, davvero.
Mi sembra di essere immersa nella crema per il corpo all’essenza di rosa che usava mia madre quando ero piccola. Quindi, rose. Tante, tante rose. E non tutte hanno lo stesso odore. Me ne accorgo anche rimanendo ferma all’ingresso della serra.
«Wow», riesco a dire. Un sussurro nel silenzio più assoluto.


 
 
Salve mie bellissime salsicciotte c:
Allooooora... siete eccitate per le tappe? La tappa, scusate.
Io per non pensarci sto scrivendo, tanto. Più del solito.
Comunque, sono in perfetto orario. Strano.
E, cosa ancora più strana, anche questo capitolo mi piace.
Dio, potrebbe nevicare c:
Certo, mi gira un po' che le recensioni siano diminuite...
Ma vi capisco. E' iniziata la scuola, e va bene.
Bene, passando alle cose serie. Che ne pensate del capitolo.
E' ad alto contenuto di miele, mi rendo conto.
Spero comunque che vi piaccia. Fatemi sapere con una recensione, claro?
Okay, mi dileguo. Vi lascio i soliti contatti, il trailer, e lo spazietto pubblicità c:
Alla prossima, xx Fede.

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Capitolo 6
*** 6. ***




6.

HEIDI'S POINT OF VIEW.

Ho sempre sognato di avere una serra, fin da quando ero bambina. A sei anni, mia madre mi aiutò a piantare un piccolo cespuglio di violette, in un vaso sul davanzale della mia finestra. E da quel momento ho sempre adorato i fiori.
Soprattutto le orchidee, le peonie… e le rose.
«Wow», ripeto, vagamente intontita dall’odore fortissimo di rosa che pervade l’aria.
Zayn ridacchia, continuando a tenermi la mano. E sì, se voleva sorprendermi c’è riuscito. Alla grande. Non ci vedo, e l’ha capito, portandomi in un posto in cui non mi serve vedere. Una serra, in cui mi basta usare l’olfatto per orientarmi.
Quel ragazzo, che conosco appena, ha capito.
Incredula, mi volto verso di lui per abbracciarlo, lasciando che mi sollevi leggermente da terra, nonostante mi scombussoli l’orientamento. Non mi interessa. È stato talmente dolce che sinceramente del resto non me ne potrebbe fregare di meno. Lo sento sorridere, mentre mi accarezza la schiena, e non posso far altro se non sorridere anch’io.
«Piccola, così mi stritoli», mi fa notare Zayn facendomi ridere. «Vieni, c’è una panchina una decina di metri più in là». Sorrido, mentre mi mette giù, e cerco di ritrovare l’equilibrio, già precario di per sé. Provo a fare un paio di passi, senza lasciargli la mano, ma quasi non mi ritrovo con la faccia sul pavimento.
Lui ride, ma poi mi sorprende. Ancora.
Si mette dietro di me e mi mette le mani sui fianchi, facendomi arrossire. Come al solito, niente di nuovo. «Inizia a camminare, ti guido io», mi dice in un orecchio. Sento il suo respiro caldo poco sopra di esso, e rabbrividisco. Non dal freddo, però.
Il che forse non mi era mai successo, mai.
Abbasso le palpebre, anche se non serve. E inizio a camminare, con Zayn subito dietro, le mani ancora sui miei fianchi. Mi fido, nel modo più assoluto. So per certo che non ha intenzione di farmi cadere, è come se lo sentissi in un certo senso. Continuo a camminare, finché non stringe leggermente la presa, segno che devo fermarmi.
«Posso fare una cosa?», gli chiedo dopo un po’, una volta abituatami all’odore di rosa. Lui smette di tracciare linee immaginarie sul mio polso, curioso. Mi viene da sorridere. quel contatto mi piaceva, parecchio.
«Devo avere paura, Heidi?», mi chiede di rimando, rompendo il silenzio della serra.
Rido, scuotendo leggermente la testa, e mi alzo in piedi, costringendo anche lui ad alzarsi. È curioso di sapere come faccia senza vedere? Beh, gli altri quattro sensi funzionano. Ed è ora di fargli vedere come. «Rilassati, voglio solo vederti… a modo mio», mormoro avvicinandomi e portando le mani sul suo viso. «Chiudi gli occhi», aggiungo con un mezzo sorriso.
«Sì, devo avere paura…», lo sento mormorare, prima che obbedisca.
Alzo gli occhi al cielo. Ma lo ignoro completamente. Sono troppo concentrata sul suo viso per poter pensare ad altro. Parto dalla fronte, sfiorandone ogni centimetro, per poi salire verso i capelli. Sono morbidi, tanto. E tirati verso l’alto in un ciuffo, ma rasati sui lati. Sorrido, e «E’ ora di andare dal parrucchiere», mormoro, facendolo ridere.
Scendo verso le sopracciglia, sulle palpebre e le ciglia. Ha le ciglia lunghissime, quasi gliele invidio, e mi fa sorridere, perché le sbatte velocemente, facendomi il solletico ai polpastrelli. Scendo ancora sugli zigomi e lungo la linea della mascella. La sua pelle è incredibile. Liscia e morbida, quasi quanto quella di una ragazza.
Scendo ancora, e incontro una barriera al liscio di poco prima.
La barba. Che io adoro, letteralmente. È della lunghezza giusta, qualche millimetro.
Continuo a sfiorargli il viso, lungo le guance, la linea della mandibola, il naso… e alle labbra mi fermo, sentendolo sorridere. Soprattutto perché sono sicura di essere arrossita. Sono in imbarazzo, totalmente.
Perché? Semplice. Le sue labbra. Mi mettono in imbarazzo.
Perché mi viene da pensare a come potrebbe usarle, quelle labbra. E non per parlare. Mi viene da pensare di poterle sentire sulle mie, muoversi in sincrono. Mi viene da sentirle sul collo, sulla spalla. Ovunque. E cerco di immaginare la sensazione che mi darebbero le sue labbra… ma non ci riesco. Non riesco, perché non ho un primo bacio a cui poter paragonare la morbidezza delle sue labbra sotto le dita.
Non ci riesco.
Ma riesco a immaginare come sarebbe un primo bacio dato da quelle labbra. E inevitabilmente arrossisco. E per fortuna che ha gli occhi chiusi, o si sarebbe già messo a ridere. Distratta, mi scappa un sospiro, che lo fa sorridere. Lo sento, dato che ho ancora il polpastrello posato sul suo labbro inferiore…
Mi ritraggo all’istante, ma lui mi tiene stretta per i fianchi.
«Tranquilla, non mordo», mormora avvicinandosi sensibilmente. Tiene le mani alla base della mia schiena, in modo che io sia costretta ad avvicinarmi, tenendo le mani sul suo petto. E arrossisco, ancora. Lo sento ridacchiare, allora gli do uno schiaffo sulla spalla, in modo che mi lasci andare. Ma niente da fare. Continua ad abbracciarmi. «Ti da fastidio?», mi sussurra in un orecchio, facendomi rabbrividire.
Sbuffo, anche se dentro di me sto sorridendo.
E «Sì, mi da fastidio», mento, cercando di essere convincente. Mi da fastidio? Ma che diamine mi passa per la testa? Deve avere dei problemi, seri. A chi darebbe fastidio che emana tanto calore corporeo da sembrare una stufa?
A nessuno. Nessuno sano di mente, almeno.
Ma è chiaro che Zayn non sa leggere nel pensiero, quando si allontana da me. Appena, mezzo passo. Sono ancora immersa nel suo odore, che mischiato al fortissimo odore di rosa diventa anche più buono se possibile, più incredibile di quanto non sia già. E ha ancora le mani posate sui miei fianchi, e non accenna minimamente a volerle spostare.
«A cosa pensi?». Torno in me all’istante, non volendo perdere nemmeno per un istante la sensazione delle sue dita che mi sfiorano la guancia. E scuoto leggermente la testa, sorridendo. Non posso dirgli che penso dia bellissimo, mi prendere per pazza. «Pagherei oro per entrare nella tua testa in questo momento…», mi sussurra schioccandomi un bacio sulla punta del naso.
«A quanto tu sia gentile con me». Okay, Heidi. Quasi. Mezza verità.
«Sai, non mi pento di esserti venuto addosso quella mattina», lo sento dire, il respiro praticamente sul mio viso. E la cosa strana è che non voglio che si fermi, ma vorrei anche conoscerlo meglio… diciamo che baciare uno sconosciuto non è mai stato tra le mie priorità.
«Perché?», riesco a chiedere dopo un po’. Mi manca l’aria, letteralmente.
~

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Non riesco a pentirmi di esserle andato addosso. Insomma, dovrei. Le ho letteralmente rovinato la giornata. Sia quel giorno nella metro che due settimane dopo, nel parco. Ma è come se mi fossi intestardito su di lei, senza nemmeno saperne il motivo.
E addirittura portarla fuori per un appuntamento…
Non l’ho mai fatto con nessuna. Nemmeno con Perrie.
E se all’inizio mi sembrava strano, ora con le mani posate sui suoi fianchi mi sembra normale. La cosa più normale del mondo. Soprattutto dopo che mi ha “guardato”, a modo suo. Avrei dovuto chiudere gli occhi, invece li ho tenuti aperti. Ho visto ogni singola espressione attraversare il suo viso… l’ho vista arrossire una volta arrivata alle mie labbra.
E l’ho abbracciata, non ho potuto farne a meno.
Ho continuato a tenerla stretta, come avessi avuto paura che potesse scappare.
E ho provato a immaginare cosa stesse pensando, solo guardandola. Ma la sua espressione, con quel mezzo sorriso stampato sulle labbra, mi è sembrata impossibile da decifrare, in quel momento. Ma forse solo perché ero troppo concentrato a stamparmi in mente il suo sorriso.
Mi sono avvicinato, quasi senza rendermene conto.
E «Perché?», mi sento chiedere. Dice quelle sei lettere in un sussurro. Un soffio di vento, a qualche centimetro appena dalle mie labbra. E mi riscuoto, allontanandomi di un passo, sorridendo quando la vedo riprendere fiato.
«Perché sei meravigliosa, eppure sembra quasi che tu non te ne renda conto», ammetto prendendole la mano e aiutandola a sedersi sulla panchina. La vedo sorridere, e fare un respiro profondo, per poi buttare fuori l’aria con un sorriso. «Ora posso chiederti una cosa?», aggiungo osservandola giocare con le dita della mia mano destra. Si ferma un attimo, inclinando la testa da un lato. «E’ stupido e superficiale, e probabilmente…».
Heidi ride, scuotendo piano la testa. Deve aver capito cosa voglio chiederle.
«Sei…».
Si blocca non appena sentiamo la porta della serra aprirsi, e sto per dirle di ignorare tutto e continuare a parlare con me. Ma niente, non è possibile avere un attimo di pace, nemmeno in quel posto dove di solito non va mai nessuno. Impreco sottovoce e mi alzo, facendo ridere Heidi. Si passa una mano tra i capelli, in imbarazzo.
E arrossisce, ancora.
Ed è talmente adorabile quando lo fa che tornerei a sedere e la bacerei fino a toglierle il fiato.
«Vado a vedere chi è, principessa… non sparire», aggiungo chinandomi su di lei per lasciarle un bacio sui capelli. Ma non faccio in tempo ad allontanarmi che mi prende per un polso e mi tira giù a sedere, accanto a lei.
Rido, alzando gli occhi al cielo. E mi sento bene, meglio che mai, quando mi rendo conto che mi ha trattenuto. Che non vuole che mi allontani. Che l’imbarazzo che provava all’inizio con me sta svanendo, a poco a poco. Che mi vuole vicino perché con me sta bene. Si sente normale.
Perché la tratto da persona normale, come forse nessun altro ha fatto.
«Due persone, un ragazzo e una ragazza…», mi dice sorridendo appena. Inarco un sopracciglio, chiedendomi per l’ennesima volta come faccia. E per l’ennesima volta lei mi sorprende. «Ci sono due tipi di passi, e uno è un tacco a spillo», mi spiega continuando a passare le dita lungo il mio avambraccio.
Come volevasi dimostrare. È una supereroina quella ragazza.
Mi trattengo dal ridere e la prendo per mano, alzandomi e tirandola su con me. Ruota gli occhi, ma non dice una parola. Lascia che la trascini tra i cespugli di rose, e la vedo sorridere di tanto in tanto. «Grazie», mi scappa ad un certo punto. E mi blocco, facendola venire a sbattere contro la mia schiena. «Nessuno si è mai fidato di me come stai facendo tu…», le spiego quando la vedo aprire e chiudere le labbra, in cerca di qualcosa da dire.
«Non è difficile fidarsi di te, Zayn».
«Perché?», le chiedo spingendola delicatamente verso uno dei tavoli, ricolmi di piante di rosa. La tiro su per la vita, facendola ridere, e la faccio sedere tra due vasi di rose bianche, facendola ridere, mentre sfarfalla le ciglia. Le ho scombussolato l’equilibrio, ma sinceramente non potrebbe importarmene di meno.
L’unica cosa che voglio adesso è un suo sorriso. Una risposta.
«Perché sei meraviglioso, eppure sembra quasi che tu non te ne renda conto», la sento dire, proprio come le ho detto io poco fa. Ridacchio, facendola scendere  da lì e riprendendola per mano. Finché camminando non arriviamo all’ingresso della serra, e non vedo Harry che tiene Charlotte sollevata da terra, con la schiena premuta contro la porta.
«Fortuna che non vedi quello che vedo io», dico in un soffio scuotendo la testa, in modo che mi senta solo Heidi. Il mio migliore amico che tiene la mia migliore amica sollevata per i glutei, mentre le infila la lingua in bocca. Non avrei mai voluto vedere una cosa del genere. Ma Heidi ridacchia sottovoce. E mi ricordo del suo udito super sviluppato. «Li senti ansimare… oddio», borbotto passandomi una mano sul viso.
Allora lei scoppia a ridere, facendo fare un salto a Harry, che lascia andare la rossa, facendola cadere a terra. «Cazzo, Styles!», sbotta Charlie tirandosi su e dando una sberla sulla testa al riccio. Scoppio a ridere, lasciando che mi abbracci, e che mi costringa a lasciare la mano di Heidi. «Che ci fai qui?», mi chiede dopo un attimo.
Indico la bionda con la testa e in un attimo Charlie cambia espressione. Smette di sorridere da un momento all’altro, e inarca entrambe le sopracciglia, spostando lo sguardo da me ad Heidi e viceversa.
Non capisco che diavolo le prenda, davvero.
Guardo Harry sorridere mentre Heidi si presenta. E deve averle appena detto che gli ho parlato di lei, a giudicare dall’espressione sorpresa sul suo volto. Ma la mia migliore mi prende per il mento, costringendomi a guardarla.
«Che c’è?», sbotto, acido. Con la coda dell’occhio vedo Heidi rabbrividire, e Harry che la prende per il gomito e delicatamente la porta fuori di lì. Sento la vena del collo pulsare e Charlie tenere la stessa espressione senza senso di poco fa. «Mi spieghi che ti prende?», le urlo, a qualche centimetro dal viso.
«Mi prende che pensavo fossi innamorato di Perrie… e mi prende che non mi hai parlato minimamente di quella… e mi prende che sorridi come un’ebete per una ragazza che non ti potrà mai vedere sorridere, Zayn», mi urla di rimando, spingendomi. Una spinta ogni parola che esce dalle sua labbra.
La guardo negli occhi castani, un’espressione di sorpresa a incresparmi il viso. Credeva che amassi Perrie. Beh, la amavo, ed è probabile che io la ami per sempre, ma lei mi ha tradito. Mi ha mentito. Non posso passarci sopra. Non le ho parlato di Heidi. Non credevo nemmeno di uscirci, e poi… sinceramente? Mi aspettavo la reazione esagerata di Charlotte.
Solo che è una reazione che non capisco.
E per quanto riguarda il mio sorriso… mi viene da sorridere quando sorride lei, è più forte di me. Perché il suo sorriso è bellissimo, felice, spensierato e puro. Sorride nonostante non abbia quasi niente per cui valga la pena sorridere. e anche se probabilmente Charlotte ha ragione e Heidi non mi vedrà mai sorridere a causa sua… non mi importa.
«L’importante è che sorrida lei, Charlotte», le dico passandomi una mano tra i capelli e tirandone le punte. Non mi interessa di Perrie, né tantomeno di quello che sta pensando la mia migliore amica. Mi interessa che Heidi ha sentito tutto. E che con tutta probabilità urlando in quel modo l’ho spaventata.
«Ti stai affezionando ad una ragazza che ti porterà nient’altro che problemi».
«In questo momento l’unico mio problema sono i tuoi discorsi del cazzo», sbotto dandole una spallata e superandola, per poi uscire dalla serra, tirando fuori sigarette e accendino dalla tasca dei pantaloni. Ho bisogno di fumare, mi libera la mente, è sempre stato così.
Faccio un paio di tiri, ma niente. Non riesco a calmarmi.
Mi siedo scomposto sulla panchina, accanto ad Heidi, che si tormenta le mani, gli occhi leggermente lucidi. Sbuffo fuori il fumo e passo la sigaretta ad Harry. Lui si alza e si tocca l’orecchio, indicando poi Heidi con la testa. Come sospettavo, ha sentito tutto. Serro la mascella ad annuire, mentre lui si allontana.
Una manciata di secondi e vedo una lacrima scivolare sul viso di Heidi, e le sue mani iniziare a tremare. «Ehi», mormoro chinandomi davanti a lei. Le asciugo le guance, per poi posare le mani sulle sue, intrecciandone le dita. Un brivido lungo la schiena, seguito da un mezzo sorriso sul suo volto. E sorrido anch’io. «Mi dispiace che tu abbia sentito…».
«Pensi davvero quello che hai detto a lei?».
Ridacchio, scuotendo leggermente la testa. Non l’avrei detto se non l’avessi pensato, sono fatto così. Le asciugo un’altra lacrima, per poi prendere una mia mano intrecciata con la sua e portarmela alle labbra, lasciandole un bacio che per mia fortuna riesce a farla ridere.
«Va meglio?», le chiedo sedendomi di nuovo accanto a lei.
«Non pensi che io sia un peso», la sento mormorare. Sorride davvero stavolta e non posso far altro se non sorridere a mia volta. La sua affermazione è la pura verità. Lei non è un peso. È una delle pochissime persone che in ventidue anni sia riuscita a sorprendermi. E «Grazie», mi dice posando la testa sulla mia spalla.
Rido appena, finché la mia mente malata non partorisce un’idea.
Allora mi alzo e con calma torniamo verso la mia auto. Come all’andata parliamo di tutto, musica compresa. «Pronta per un posto che sconvolgerà i tuoi sensi?», le chiedo parcheggiando davanti ad uno dei miei posti preferiti. Annuisce, per poi scoppiare a ridere. E rido anch’io, soprattutto dell’idea che ho avuto. Un altro posto in cui non le servirà vedere. Sì, sono decisamente un genio.


 
 
*per la cronaca, questa è Charlotte (Hayley Williams)*


Buonasera pelle pimpe (?) Okay, non sono morta...
E' solo che ho deciso di aggiornare tutto di sabato, lol.
Vi chiederete perchè... troppi impegni durante la settimana.
E poi, la maggior parte di voi ha scuola, no?
Bene, detto questo e modestia a parte...
Io AMO questo capitolo, awwwwww.
Okay, la pianto. Fatemi sapere che ne pensate, mi raccomando.
Grazie alle 28 recensioni, mi fate sciogliere ogni fottuta volta.
Bene, che altro? Vi lascio i miei contatti e il trailer.
Dei contatti, Facebook è l'account nuovo... quindi, se volete stalkerarmi dovete aggiungermi lì.
Potete scrivermi in bacheca o in chat per qualsiasi cosa, non mordo.
Okay, evaporo... alla settimana prossima c:
xx Fede.


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Capitolo 7
*** 7. ***




7.


HEIDI'S POINT OF VIEW.

Riesco a capire dove siamo non appena Zayn mi apre la portiera e mi aiuta a scendere dall'auto. Provo a non ridere, e per fortuna - chissà come - ci riesco. Odore di fiori, risate di bambini, odore di pancakes appena sfornati e di cappuccino. Il parco, certo. Ma sono più che convinta che non è lì che mi sta portando.
Pronta per un posto che sconvolgerà i tuoi sensi?
No, decisamente non è il parco. Infatti sento anche un'altra cosa. La musica. Ovattata, come se fosse dall'altra parte di un vetro. E capisco di avere ragione quando sento una porta aprirsi e i primi accordi di una canzone familiare mi colpiscono le orecchie. Scoppio a ridere, è impossibile non farlo. È la fine, non riesco a smettere, soprattutto quando la risata del mio irlandese preferito si unisce alla mia.
«Voi due vi conoscete?», mi chiedono in coro Niall e Zayn. L'uno che a stento trattiene le risate, e l'altro totalmente sorpreso. Quasi sotto shock. Scuoto la testa, e il biondo scoppia a ridere, per poi tornare a suonare come se niente fosse. «Come lo conosci?», mi chiede Zayn mettendosi dietro di me, come nella serra, e spingendomi delicatamente tra uno scaffale di cd e l'altro.
Quel negozio di dischi è il primo posto che ho trovato da sola, dopo l'incidente. Mi sono fatta guidare dall'istinto, dai piedi che andavano per conto loro. Dagli odori e dai suoni. E il suono della voce di Niall, accompagnato dalla sua amata chitarra, è stato come una calamita per le mie orecchie sensibili.
Solo che non era la prima volta che sentivo quella voce.
«Sua madre è stata la mia infermiera nei sei mesi che ho passato in ospedale, dopo l'incidente», mormoro con un mezzo sorriso. La madre di Niall era riuscita ad insegnarmi che non servivano gli occhi per orientarmi. I tre mesi dopo il coma li avevo passati a girovagare per l'ospedale in sua compagnia. E in compagnia del figlio, a volte.
«Se ti va di parlarne io ci sono, okay?». Sento il respiro caldo di Zayn contro l'orecchio, e non posso far altro se non sorridere.
Con lui vicino non riesco a smettere di sorridere. E la cosa strana è che mi sembra la cosa più naturale del mondo. Naturale, il suo respiro sul collo. Naturale, il nostro a dir poco strano primo appuntamento. Naturale, che io non ci veda e che lui mi guidi tra pile e pile di dischi. Naturale, normale. Normale come ero prima del coma.
Normale come nessuno mi ha fatta sentire, mai.
«Sembra che tu ti trovi a tuo agio con me», gli faccio notare fermandomi di scatto. Il suo petto a sbattere contro la mia schiena, le sue mani strette sui miei fianchi. E le sue labbra premute per un attimo contro il mio orecchio. Ho i brividi, accidenti. «Zayn...», lo riprendo scherzosa.
«Mia sorella era ipovedente», mi dice dopo un po', con un velo di tristezza nella voce. Mi volto, lasciando che tenga le mani sui miei fianchi. E alzo la mano, portandola sul suo viso. Mi si spezza il cuore a sentire la guancia umida. Sta piangendo, e nemmeno so il perché.
Finché non mi rendo conto che ha parlato della sorella al passato. Ha detto era. «Mi dispiace». Sono mortificata. Non so che dire. «Scusa, lascia perdere...», aggiungo facendo per staccarmi, cullata dalla voce di Niall, dall'ingresso del negozio.
Ma Zayn mi tiene ferma per i fianchi, in modo che non mi possa allontanare. Ridacchio come un'adolescente alla prima cotta. Rettifico, io sono un'adolescente alla prima cotta. Anche se tecnicamente non sono più un’adolescente, e sempre tecnicamente questa non  nemmeno la mia prima cotta. «Sai perché ti ho portata qui?», mi domanda spingendomi all'indietro. Non mi importa del rischio di poter cadere, mi fido in un modo che nemmeno credevo possibile. Scuoto la testa leggermente.
«Per sconvolgere i miei sensi».
Lo sento ridere tra sé, finché non mi intrappola tra il muro di fondo del negozio e il suo corpo. Avvampo, sentendo le sue dita contro la guancia. E abbasso le palpebre, cercando di riprendere fiato. La sua vicinanza mi fa mancare l'aria, come se fossi asmatica e avessi corso per chilometri. Sensazione strana, ma che per la prima volta dopo tre anni mi fa sentire viva. «Perché questo posto significa tutto per me, e mi è sembrato il posto migliore per poter fare una cosa...», aggiunge intrecciando le dita della mano sinistra con la mia destra, e tenendo l'altra mano contro la mia guancia.
Trattengo a malapena un sospiro, quando sento il suo respiro contro le mie labbra. Abbasso le palpebre, come di riflesso, mentre le sue dita tracciano piccoli cerchi sulla mia guancia. «Sconvolgimi», riesco a mormorare. Ma niente, evidentemente non è giornata.
Perché quando sento Niall schiarirsi la voce e Zayn ridacchiare... È come se mi sentissi morire. Oltre che in imbarazzo e rossa dalla vergogna. Sbuffo, mentre Zayn si allontana, ma continuando a tenere la mano incollata alla mia. «Scusate, io... dico a Victoria che non sei qui», borbotta Niall balbettando, conscio di aver appena rovinato un momento... catartico. A dir poco.
Mi viene da ridere. Povero Niall.
«Vieni, mi è venuta un'idea», mi dice Zayn trascinandomi verso l'angolo del negozio in cui si possono ascoltare i vari dischi. Sorrido appena, sentendo l'odore caratteristico che emanano le cuffie e le varie poltroncine. Mi fermo quando lo sento stringermi la mano e dopo una manciata di secondi sistemarsi una cuffia sui capelli. Sento il rumore della pelle delle cuffie a contatto coi suoi capelli, un fruscio tanto leggero, che chiunque altro non sentirebbe. «Sei la prima ragazza che porto qui...».
Rido, scuotendo leggermente la testa.
«Che onore», borbotto, sentendolo trafficare con la colonna di cd accanto a dove ci troviamo. Ma mi rendo conto che è davvero un onore. Perché se quel posto significa tutto per lui e sono la prima ragazza che ci porta... in qualche modo riesco a convincermi di significare qualcosa.
Mi riscuoto dai miei pensieri solo quando sento le prime parole di Yellow uscire dalle sue labbra e arrivare magicamente alle mie orecchie. Faccio sfarfallare le ciglia, per poi abbassare le palpebre, quando Zayn si avvicina sensibilmente... continuando a canticchiare, con le labbra posate contro la mia guancia. Mi sento la testa vuota, ancora una volta come se mi trovassi su una nuvola. E ora sono davvero sicura che sia merito (o colpa?) suo.
La sua voce è ancora più incredibile quando canta, possibile? È perfettamente intonato nonostante sia sussurrando, in modo che lo senta solo io. Sembra il sussurro di un angelo. Il suo modo di pronunciare certe parole, col suo accento inglese, ma con qualcosa di straniero, mi da i brividi. È... wow. L'unica parola che mi viene in mente per descrivere la sua voce.
Mi accorgo a malapena che le sue labbra scivolano lungo la mia guancia, sono troppo concentrata sul suono della sua voce. E sul fruscio provocato dalle sue labbra l'una contro l'altra a formare le parole.
Continua a sfiorarmi il dorso della mano stretta nella sua, come a rassicurarmi. E a poco a poco mi tranquillizzo, calmando il respiro. Lo sento sorridere mentre si ferma, la fronte posata contro la mia, il suo respiro che si fonde col mio. Naso contro naso. E la sua voce incredibile che sbatte contro le mie labbra. «Look at the stars», lo sento sussurrare, a un millimetro dalle mie labbra. La canzone sta finendo, ma dal canto mio vorrei che durasse in eterno. «Look how they shine for you, and all the things that you do...».
Yellow è una delle mie canzoni preferite. In assoluto.
Solo che non vedo le stelle da tre anni.
E probabilmente non le potrò mai più vedere brillare per me.
L'ultima parola la dice con le labbra praticamente sulle mie, il pollice che continua a tracciare cerchietti sulla mano intrecciata con la sua. Prendo un respiro profondo, ascoltando il fruscio delle cuffie che si toglie da sopra la testa.
«Sicura di voler essere sconvolta?».
Mi limito ad annuire con un mezzo sorriso, spegnendo i pensieri.
Un attimo e sento le sue labbra sulle mie. Solamente posate le une contro le altre, mentre le sue mani scivolano alla base della mia schiena, come a trattenermi in modo che non possa scappare. Come in automatico, porto le mani dietro al suo collo, a giocare coi suoi capelli, mentre con la lingua traccia un linea leggerissima sul mio labbro inferiore.
Sono pervasa dal suo odore, fino quasi a perdere i sensi. E se pensavo che il suo odore fosse fantastico... beh, il suo sapore è anche meglio. Sa di tabacco, tanto quanto il suo odore. E sa di menta, di liquirizia... sa di Zayn. Dischiudo leggermente le labbra, come se sapessi di doverlo fare, e lo sento sorridere, un momento prima che la sua lingua sfiori la mia, delicatamente. Come per gioco.
Le sue labbra sono la fine del mondo.
Lui, è fine del mondo.
Ma quando si stacca appena per riprendere fiato quasi non sbuffo dalla frustrazione. È una droga e, come mi è già successo col suo odore e la sua risata, ne voglio ancora. Vorrei che le sue labbra non si staccassero mai dalle mie, se fosse possibile.

~

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Ho cercato di andarci piano tutta la mattina. Da quando l’ho vista mezza nuda e non le sono saltato addosso. A quando nella serra mi ha sfiorato il viso, arrossendo una volta arrivata alle mie labbra, e ho lottato contro me stesso pur di non baciarla all’improvviso. A quando, sempre nella serra, l’ho sollevata da terra e fatta sedere su uno dei bancali…
Le ho sfiorato volontariamente le cosce per tirarla su.
Ma mi sono trattenuto. Come mi sono trattenuto dal posare le labbra sulle sue quando l’ho vista crollare dopo la sfuriata con Charlotte. Si sentiva in colpa, si vedeva. E io avrei voluto portar via tutto il dolore e la colpa provati in quel momento.
Sì, con un bacio. Perché no?
Ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perché l’ho vista fragile, indifesa. E ho semplicemente pensato che avesse potuto pensare che stessi approfittando di lei. Non approfitterei mai di lei. Non potrei.
Ma a vederla tanto tranquilla e sorridente nel negozio di dischi, e praticamente senza fiato per colpa della mia vicinanza… non ci ho visto più. L’idea di cantarle Yellow è venuta da sé, senza pensarci troppo. E lo ammetto, il bacio migliore della mia vita, cazzo.
«Wow», mormoro riprendendo fiato, il viso ancora troppo vicino al suo.
«Wow», mormora di rimando ridacchiando, allontanandosi appena per passarsi una mano tra i capelli. «Mi hai sconvolta, lo ammetto», la sento aggiungere, mentre arrossisce. Allora mi viene in mente una cosa… no, è impossibile. «Non ti sbagli, era il mio primo bacio…».
Merda. Mi sento come se le avessi appena rubato un pezzetto di sé. Un pezzetto che magari avrebbe voluto tenere ancora per un po’. Un pezzetto che magari avrebbe voluto regalare a qualcun altro che non fossi io. E mi sento male se penso che l’ho praticamente costretta a farsi baciare.
Mi allontano, osservandola inarcare un sopracciglio, evidentemente confusa.
«Ti riaccompagno a casa, vieni…», faccio per prenderla per mano, ma lei si ritrae, incrociando le braccia sotto al seno e inclinando la testa da un lato. Mi scappa un sorriso, a vederla tanto determinata, ma non posso fare a meno di continuare a sentirmi in colpa. Scuoto la testa, tornando ad abbracciarla. «Scusa», mormoro, le labbra contro il suo orecchio.
Ride sottovoce, abbracciandomi il torace, le labbra posate all’altezza della mia clavicola.
«Sai, sono felice di averti dato un pezzetto di me, Zayn». No, impossibile. Mi legge nel pensiero. Non vedo come possa aver usato le parole a cui pensavo, altrimenti. Borbotto qualcosa, e lei ride, ancora. Musica per le mie orecchie. E ridacchio anch’io, lasciandole un bacio sui capelli biondissimi. «E non ti sentire in colpa, sei perfetto quando sei te stesso, nonostante tu sia con una ragazza che non ti vede…».
E sorrido, prendendola di sorpresa e posando di nuovo le labbra sulle sue.
Si irrigidisce per la sorpresa, ma dopo un attimo schiude le labbra, sciogliendosi completamente contro le mie. Un sorriso sulle labbra e le mani e giocare coi miei capelli. Il suo sapore di fragola e cannella che mi sconvolge i sensi, e il suo odore di primavera che pervade l’aria tutto intorno a noi.
La sento gemere appena quando la sollevo da terra, le labbra ancora contro le sue, costringendola a legare le gambe intorno alla mia vita e ad aggrapparsi con le mani alle mie spalle. Non la farei cadere, nemmeno se volessi. E se dovesse scivolarmi farei comunque qualsiasi cosa in mio potere per salvarla.
Perché? Perché nonostante la conosca da poco, ci tengo.
Ecco, l’ho ammesso.
Le mordicchio delicatamente il labbro inferiore, succhiando appena e staccandomi. Sembrerà strano, ma non voglio strafare. Meglio trattenersi, non voglio che scompaia per qualcosa di sbagliato che potrei fare, senza nemmeno accorgermene.
Riapro gli occhi, e mi godo la sua espressione sorpresa, mentre si passa la lingua sulle labbra, come sto facendo io, per continuare a sentire il suo sapore. «Sei bellissima», le dico in un soffio, stampandole un bacio leggero sul naso. Faccio per farla scendere, ma quando la sento mugugnare non posso far altro se non sorridere, mentre nasconde il viso contro il mio collo.
«Vorrei stare così per sempre».
«Tieni presente che una volta in macchina ti dovrai staccare», le dico continuando a stringerla con una mano e recuperando la sua borsa con l’altra. Detto fatto, continuo a tenerla in braccio, cullato dalla sua risata incredibile. E ignorando Niall, che ci guarda leggermente spaesato, la trasporto fino alla mia auto.
Scende con un sospiro, quasi delusa.
E fa per dire qualcosa, ma la blocco con due dita sulle labbra.
«Avrei voluto stare così anch’io, per sempre».


 

Aieah, sono viva... scusate il ritardo, e gli stati su facebook che vi hanno illuse che avrei aggiornato...
Scusate, davvero. Comunque, ci sono. E devo ammettere che il capitolo non è venuto niente male (modestamente, lol).
Insomma, è stato un parto da scrivere, ma non me la sentivo di postarvi una schifezza...
Quindi, che ne pensate?? Finalmente si sono baciati, yep.
E ve l'aspettavate il negozio di dischi? Muahahahah. E Zayn che canta Yellow [LINK]... awww.
Okay, vi lascio i soliti contatti e il trailer...
Alla prossima, che non so quando sarà, a questo punto c:
Spero di riuscire a scrivere un capitolo decente al più presto comunque, farò del mio meglio.
xx Fede.


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Capitolo 8
*** 8. ***




8.

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Avrei voluto stare così anch’io, per sempre.

Non pensavo di poter essere tanto dolce e sciropposo, nemmeno nei miei sogni. Ma la verità è che è lo stare con Heidi a darmi quella sensazione di assoluta dolcezza – quasi stomachevole – che sinceramente non credevo nemmeno di possedere.
Stare con lei mi rende dolce quanto la melassa.
E la cosa strana è che mi piace sentirmi così. Mi piace trattarla come fosse una principessa. Mi piace prendermi cura di lei, come non ho mai fatto con nessuno che non facesse parte della mia famiglia. Mi piace lei, tutta quanta, dalla testa ai piedi, nonostante io la conosca da così poco.
In più, non la vedo da tre ore e mi manca. Come mi mancherebbe l’aria se fossi un sub.
Mi gratto una guancia, soffiando via il fumo della sigaretta e ripensando per un momento a quando l’ho baciata la prima volta. E la seconda. E la terza, quando l’ho salutata sulla soglia del suo appartamento, sotto lo sguardo incredulo (ma stranamente brillante) di Victoria. Anche se Vicki ha visto quello che ha voluto vedere, ha visto quello che sembrava. Ovvero, un bacio sulla guancia.
Avrei voluto stare così anch’io, per sempre.
È la pura verità. Avrei voluto sentire ancora le due dita sfiorare la mia pelle, le sue labbra sulle mie, il suo profumo a sovrastare tutti gli altri, la sua risata a rompere il silenzio, le sue gambe intorno alla mia vita, il suo seno contro il mio petto…
«Sei ridicolo». La voce divertita del mio migliore amico irrompe nella mia bolla di felicità e quando riapro gli occhi e la sua mano che sventola davanti al mio viso entra nella mia visuale, quasi non mi viene un colpo. Ride, sistemandosi come al solito i capelli. Morirà sistemandosi i ricci, di questo passo.
«Parla quello che se la faceva con la migliore amica… chi è quello ridicolo ora?», scherzo inarcando un sopracciglio. E poi, stavo solo pensando ad Heidi. Che male c’è? Vedo il mio migliore amico fare spallucce, come se non gli importasse quello che penso. E sono sicuro che è così. Non gliene potrebbe fregare di meno, di quello che penso. È fatto così.
«Io però non sono innamorato, tu sì».
Alzo gli occhi al cielo, trattenendomi dal prenderlo a pugni. Sappiamo perfettamente entrambi che io non mi innamoro. L’unica era stata Perrie, ed era finita da troppo poco perché potessi innamorarmi di nuovo. Era passato troppo poco dal mio ultimo “ti amo”. Troppo poco dall’ultima volta in cui avevo creduto in quelle cinque lettere, pronunciate dalle labbra di Perrie. Troppo poco dall’ultima volta in cui avevo creduto di fare l’amore. Per lei era stato solo sesso. Ma mi ero fidato, ciecamente.
Mi ero fidato di lei come mai era successo prima.
Ed ero stato fottuto. Un classico.
«Sento di volerle bene», ammetto con un mezzo sorriso, fondendo i miei occhi cioccolato coi suoi verde prato. Harry ridacchia, divertito per non so cosa, ma io sono distratto da un’immagine che non avrei mai voluto vedere. «Dammi la giacca», dico al riccio alzandomi di scatto, facendo quasi rovesciare il mio caffè e il suo cappuccino. Facendo quasi rovesciare tutto il tavolo, per essere precisi.
Stranamente lo vedo obbedire senza fare domanda, forse spaventato dal mio tono di voce. Ma io sono più spaventato di lui, al vedere la mia migliore amica entrare nel bar scalza e mezza nuda, coperta solo dalla biancheria intima e da una sottoveste nera semitrasparente. Col viso sconvolto, il mascara colato quasi fino al mento e il rossetto solitamente impeccabile sparso ovunque tranne che sulle labbra.
Un attimo, e il bar crolla nel silenzio, mentre mi avvicino a lei.
Un attimo, e ad ogni mio passo avanti lei si allontana, tremando come una foglia.
Un attimo, e la attiro a me, incurante delle sue mute proteste. La faccio scontrare contro il mio petto, mettendole delicatamente la giacca di Harry sulle spalle. Le poso un bacio sui capelli, come per tranquillizzarla… ma continua a tremare, non c’è niente da fare.
«Che è successo, piccola?», mi anticipa Harry avvicinandosi.
Lo vedo asciugarle le lacrime, e dentro di me sorrido. Fortuna che sono io quello innamorato. Fortuna che lui e Charlotte non sono niente. Certo, e si aspettano che ci creda? Non sono tanto imbecille, andiamo.
«N-Nate», la sentiamo balbettare, in un singhiozzo.
Un attimo, e rischio di sentirmi male anch’io. Un attimo, e rischio di tremare almeno quanto lei. Un attimo, e Harry me la toglie dalle braccia, prendendola in braccio e lasciando che Charlie nasconda il viso nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla. Un attimo, e senza che nemmeno me ne accorga siamo saliti in macchina, nel più completo silenzio.
Nate. Nathan. La feccia. Una delle persone più cattive che io conosca.
Esatto, cattivo. Non credo che esista un altro termine per descriverlo.
Crudele, forse. Ma “cattivo” rende meglio. È più semplice da capire, potrebbe arrivarci anche un bambino a capire quanto possa essere… odioso, cattivo e crudele. O almeno, nei miei confronti è sempre stato così. Se lo odio? No, l’odio è un sentimento, e io per Nathan non provo assolutamente niente. Sono indifferente nei suoi confronti, ormai. Mi ha fatto troppo male perché io possa ancora sentire qualcosa.
Ma se ha fatto del male alla mia migliore amica me la paga, poco ma sicuro.
Parcheggio con un sospiro nel piazzale davanti casa di Harry e lo aiuto a farla scendere prendendola in braccio mentre lui tira fuori le chiavi e apre la porta di casa. Sento Charlotte sospirare contro il mio orecchio, trattenendo l’ennesimo singhiozzo. «Va tutto bene», le sussurro accarezzandole i capelli color fragola. Le lascio un bacio sulla fronte, entrando in casa di Harry.
«Mamma? Non credevo fossi a casa… portala di sopra», aggiunge Harry voltandosi verso di me. Annuisco, mentre la ragazza tra le mie braccia mugola qualcosa di incomprensibile. «Vengo subito, piccola». E a quelle parole Charlie annuisce impercettibilmente, rilassandosi visibilmente.
Mi viene da sorridere, ma riesco a trattenermi.
Decisamente non è il momento di ridere.
Lascio scendere Charlotte solo una volta arrivati in camera di Harry, e la libero della giacca. Trema ancora, ma non di freddo. Più che altro sembra terrorizzata. «Non voglio che mi faccia ancora male…», mormora alzando finalmente lo sguardo dal pavimento per fissare i suoi occhi nocciola nei miei. Ha gli occhi sgranati, e le tremano le labbra.
«Ti ha fatto male?», le chiedo, cercando di trattenere la rabbia.
Stringo le mani a pugno, facendo sbiancare le nocche.
Dire che sono incazzato nero non rende l’idea, non è abbastanza.
Annuisce piano, mostrandomi i polsi e scoprendo il collo dai capelli. Ha i segni delle dita di Nathan ovunque. Segni rossi, più scuri in alcuni punti, dove deve aver stretto più forte. Segni di violenza che nessuno vorrebbe vedere sulla propria pelle. Segni che non avrei mai voluto vedere sulla pelle candida della mia migliore amica.
«Volevo parlare con Perrie… di quello che è successo con te stamattina», mi dice tormentandosi le mani, nel momento esatto in cui Harry apre la porta, seguito dalle grida lontane della madre. Lo osservo aprire e chiudere la bocca un paio di volte, alla vista dei segni sulla pelle di Charlotte. Ma non dice una parola.
Si limita ad abbracciarla, mentre lei ci racconta cos’è successo.
Ci dice di essere andata da Perrie. Di aver suonato alla porta, e poi di averla chiamata sul cellulare, dato che nessuno le apriva. Ci dice di essersi trovata davanti Nathan mezzo nudo, che stringeva a sé una Perrie confusa, sulla soglia delle lacrime. La stringeva, quasi violentemente, come se volesse farle male.
Ci dice di aver chiesto spiegazioni a Perrie, ma che lei si è limitata a scuotere la testa.
«Mi ha tradito con Nathan mentre stava con me, ecco la spiegazione che volevi», sbotto, alzando leggermente la voce. Harry mi lancia un’occhiataccia, mentre lei ricomincia a tremare come una foglia secca. «Non volevo urlare…».
Il riccio borbotta qualcosa e va verso il bagno, lasciando che Charlotte venga a rifugiarsi tra le mie braccia, sul letto. Sentiamo scorrere l’acqua nella vasca, allora ci chiediamo scusa nello stesso istante. Ridacchio, prendendo ad accarezzarle i capelli.
«Non lo sapevo, di Perrie… non sapevo perché vi foste lasciati».
Scuoto la testa, come a scacciare tutti i brutti pensieri che mi frullano per la testa, e le lascio un bacio su una guancia, cercando di rassicurarla, di farle capire che è tutto finito e che va tutto bene. Finché non mi viene in mente una cosa. «Ti ha violentata?», le chiedo in un soffio, ma senza troppi giri di parole.
Scuote la testa, accennando l’ombra di un sorriso.
«Perrie l’ha fermato, Zayn… è palesemente sotto il suo controllo, ma quando ha visto che Nathan voleva farmi del male…». Si ferma un momento, chiudendo gli occhi. E «Ha minacciato di chiamare la polizia, allora lui mi ha lasciata andare…».
La abbraccio, ringraziando mentalmente la mia ex.
E ripetendomi di non uscire per andare a spaccare la faccia a Nathan.
Non ne vale la pena. Non ne è mai valsa la pena.
 
«Ancora non capisco cosa ci trovi in lui di tanto affascinante», borbotto dalla soglia della porta di camera sua. Doniya mi lancia un sorriso, ma senza voltarsi. Si sta preparando per uscire col suo ragazzo. Rabbrividisco, pensando che sto lasciando che Nathan Grey la tocchi. Che l’abbia toccata e che la toccherà.
Lui, uno che usa le ragazze per il piacere, e nient’altro. Uno che per guadagnarsi da vivere spaccia marijuana ai ragazzini. Che la vende anche a me, ma non è questo il punto. Il punto è che persone come Nathan non dovrebbero esistere.
Lo farei sparire, da quanto mi fa schifo.           
Lei, mia sorella. La persona a cui voglio più bene al mondo.
Carnagione ambrata, occhi e capelli scuri. Bellissima, dalla testa ai piedi. Una che con un sorriso riesce ad illuminare una stanza buia. Una che con un abbraccio riesce a far scomparire tutto il resto.
Ipovedente, dalla nascita.
«Con me è dolcissimo, Zayn». Alzo gli occhi al cielo. Certo, dolcissimo. Solo perché vuole portarsela a letto e poi lasciarla in mezzo alla strada, come ha fatto con altre mille ragazze prima di lei.
Ma in fondo chi sono io per dire a mia sorella che non deve frequentarlo?
La vita è la sua, che ne faccia quel che vuole. Soffrire, in fondo, fa parte della vita.
E parte con uno dei suoi monologhi su quanto Nate sia bello, dolce e perfetto. Mi viene quasi da vomitare. Ma la ascolto, mentre si sistema i capelli. Perché il sorriso sul suo viso è la cosa migliore che mi sia capitata in quella giornata. Perché il suo sorriso fa sorridere anche me, tutto sommato.
È bellissima, da innamorata. Anche più bella del solito.
«Sei felice con lui?», le chiedo all’improvviso, avvicinandomi per aiutarla a chiudere la cerniera del vestito che ha appena indossato. Inclina la testa da un lato, guardandomi dal riflesso dello specchio. E sorride, annuendo appena.
Se è felice lei, sono felice anch’io.
 
Riapro gli occhi, uscendo dal flashback con un brivido che mi attraversa la schiena. E affondo il viso nei capelli di Charlotte, inspirando il suo profumo e stringendola a me. Ho bisogno di un abbraccio come mai prima di allora.
Perché mia sorella è morta per colpa di Nathan, vero.
Ma speravamo tutti che stesse in galera per più di tre anni. Lo speravo io, con tutto me stesso. E mia madre, mia sorella Safaa, Harry, Charlotte. Tutto il gruppo. Persino Perrie, forse.
E invece era tornato, apparentemente per Perrie. Ma io sapevo perfettamente che era per rovinare un’altra vita. Era la sua specialità, distruggere la felicità delle persone. Rovinare loro una felicità trovata dopo anni di lotte e fatiche. E lo faceva… per noia, credo. O magari per sfogare la cattiveria repressa, chissà.
Non mi importa perché lo stia facendo. Mi importa di sapere perché ce l’avesse tanto con me, tanto da rientrare nella mia vita e fare del male a chiunque mi circondasse, chiunque mi volesse bene.
Doniya, Perrie, Charlotte.
E sono sicuro al novanta per cento che appena avesse scoperto del mio rapporto con Heidi, sarebbe stata lei la sua prossima “vittima”, la prossima persona da torturare apposta per veder soffrire me.
Heidi. Sorrido contro i capelli di Charlotte, pensando ai suoi occhioni azzurri. Quegli occhi tanto belli da non sembrare veri. Quegli occhi che non ci vedono, ma che sorridono. Quegli occhi che dicono tante cose, senza parlare. Quegli occhi che probabilmente non mi vedranno mai.
Occhi che non vedranno il male. Occhi che non vedranno Nathan.
Ed è l’unica cosa per cui ringrazio che Heidi sia cieca.
«Mi dispiace per quello che ho detto di quella ragazza…».
«Heidi», la correggo automaticamente, senza smettere di sorridere.
E la mia migliore amica scoppia a ridere, ritrovando un minimo dell’allegria che aveva perso dall’incontro non proprio amichevole con Nathan. Strofina il naso sulla mia maglietta, cercando di tornare seria. Ma non credo ci riuscirà tanto presto, è scossa dalle risate. Risate che proprio non riesco a comprendere.
«Sei cotto, Malik», mi fa notare allontanandosi appena per guardarmi negli occhi.
D’istinto li chiusi, per far sì che non vedesse che aveva perfettamente ragione. Perché sono cotto di Heidi, dal primo momento in cui l'ho vista. Ma non posso essere cotto di lei, per la paura irrazionale di fare qualcosa di sbagliato che mi porto dietro. Allora, sono cotto o no?
«Mi piace», ammetto riaprendo gli occhi.
Charlie mi sorride, lasciandomi poi un bacio sulla punta del naso, come da bambini.
«Me la devi far conoscere, allora… mi faccio un bagno e andiamo?», mi chiede con gli occhioni spalancati. I suoi meravigliosi occhioni da cucciola indifesa. Ridacchio, ma scuoto la testa. Ne aveva passate abbastanza per quella giornata, tra la litigata con me e l’esperienza con Nathan, non era proprio il caso di farle passare del tempo con Heidi.
Quella ragazza scombussolava chiunque toccasse.
Soprattutto me.


 
 
Lo ammetto, capitolo fatto apposta per mettervi confusione. E' fatto apposta, potete ammazzarmi se volete.
Comunque, sono in ritardo, ma nemmeno di tanto tutto sommato.
Il capitolo è apposta dal punto di vista di Zayn. E il quasi stupro di Charlotte ha un senso, non è messo lì a caso.
Serve a spiegare un pochetto Nathan, ma non troppo ovviamente. E serve a far riafforare la memoria di Doniya.
C'è un particolare che mi preme farvi notare, posso?
Heidi ha avuto l'incidente tre anni prima di conoscere Zayn. E proprio tre anni prima lui ha perso la sorella.
Un caso? Basta, non vi dico altro. Sono curiosa di vedere se qualcuno ci arriva, muahahahah.
Detto questo, fatemi sapere che ne pensate. Il capitolo è corto, ma è di passaggio, dovevo farlo, lol.
Bene, vi lascio contatti e trailer e mi dileguo. 
Alla prossima, che non so quando sarà. Spero presto c:
xx Fede.

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Capitolo 9
*** 9. ***


Salve bellezze, vi scrivo in alto e non in basso... perchè mi va, lol.
Allora, il capitolo è tornato più o meno della solita lunghezza, ce l'ho fatta.
Sinceramente, non mi convince un granchè.
Ma la parte di Charlotte la trovo favolosa. E gli Zaidi (?) sono troppo dolciosi, lol.
Compare anche Safaa, che adoro come personaggio...
Quindi, se recensite, ne avete di cose da commentare, yep.
Detto questo, vi lascio alla lettura... alla prossima, xx Fede.

9.


CHARLOTTE’S POINT OF VIEW.

A volte mi chiedo cosa farei se non avessi Harry e Zayn. Cosa sarei, se al primo anno di liceo non mi avessero messa di fianco al riccio? E cosa sarei che Perrie non mi avesse fatto conoscere Zayn? La risposta è la più semplice. Ma anche la più crudele che si possa dare.
Non sarei niente.
Non mi sarei tinta i capelli di rosso. Non fumerei. Non sorriderei come una bambina a vedere Harry sistemarsi in modo maniacale i capelli. E non riderei al vederli litigare per la minima stronzata.
E se non fossi quella che sono, non avrei visto Zayn innamorarsi di Perrie. Non l'avrei visto soffrire dopo la morte della sorella. E non lo vedrei sorridere al parlare di una ragazza, a suo dire straordinaria, che non lo vedrà mai.
Se non fossi quella che sono, non sarei arrogante, presuntuosa, irascibile per la minima cosa. Magari non mi piacerebbe leggere, o suonare il pianoforte. Magari il mio colore preferito non sarebbe il rosso, e magari odierei il gelato al pistacchio.
Magari non sarei innamorata di Harry, se non fossi quella che sono oggi. Se non avessi sofferto, e se non avessi i migliori amici del mondo. Non sarei niente. Non esisterei.
«Stai bene?», mi chiede Harry mentre tampono i capelli con un asciugamano. Lo guardo dallo specchio, e mi perdo nei suoi meravigliosi occhi verde smeraldo, preoccupati oltre l'inverosimile, in questo momento. E sono indecisa se dirgli la verità o la più grande bugia della mia vita.
Non mi piace mentire, non a lui.
Vada per la verità.
Scuoto la testa, lasciando scorrere una lacrima che sto trattenendo da quando Zayn mi ha lasciata a casa di Harry, regalandomi un sorriso e un abbraccio dei suoi. Una lacrima, e rivedo le mani di Nathan strette intorno ai miei polsi. Una lacrima, e la sua risata mi perfora i timpani, facendomi tremare. Una lacrima, e rivivo la scena in cui Perrie mi salva, facendo sì che Nate mi butti a terra, mezza nuda.
Un'ultima lacrima, seguita da un singhiozzo mal trattenuto, e Harry mi attira a sé, abbracciandomi. E infondendomi una dolcissima sensazione di calore e sicurezza. Il calore e la sicurezza che mi servono per non crollare.
«Mi sento sporca», riesco a sussurrare, le labbra contro la sua clavicola. Mi sento sporca, usata. Come violata. Ho un terribile mal di testa, e se chiudo gli occhi non faccio altro che rivivere il ghigno di Nathan all'infinito. I segni sui polsi mi bruciano da morire... e come se non bastasse ho bisogno di un abbraccio.
Uno di quegli abbracci carichi di sentimento, di quelli che col loro calore ti fanno dimenticare tutto. Uno di quegli abbracci che ti rimangono impressi nella mente. Ed è proprio questo che mi sta dando Harry: uno di quegli abbracci.
«Non voglio chiudere gli occhi e vedere i suoi occhi, Harry», mormoro ancora, tra le lacrime, mentre lui mi lascia con delicatezza un bacio sui capelli umidi. Delicatezza, amore. È questo quello di cui ho bisogno. Solo questo, nient'altro.
«Puoi rimanere per stanotte...».
Mi irrigidisco, sentendo le sue dita affusolate sfiorarmi la pelle arrossata dei polsi. Ma dopo un attimo mi sento meglio, come se con quel tocco stesse lavando via tutto il dolore. Come se cercasse di far passare il dolore e la sensazione di inadeguatezza, dal mio corpo al suo.
«Solo dormire...», dico piano, facendolo ridacchiare.
«Solo dormire», mi promette allontanandosi appena e avvicinando i miei polsi alle sue labbra. Vi lascia un bacio su ognuno, seguito da un mezzo sorriso. E ad ogni bacio mi sento meglio. Viva. Rinata. Curata da ogni male. Perché è come se Harry fosse la mia panacea. Come se riuscisse a farmi stare bene, anche solo con un bacio.
E finalmente riesco a sorridere.
Il sorriso più vero della giornata. E forse il migliore di sempre.

 
~

HEIDI’S POINT OF VIEW.

Due giorni di assoluta follia, per quanto mi riguarda. Due giorni in cui riuscire a smettere di pensare al mio primo bacio mi è parsa la cosa più difficile della Terra. Due giorni in cui ho canticchiato come un fringuello, aggirandomi per l'appartamento come se galleggiassi nell'aria.
Due giorni in cui Victoria si è trattenuta dal fare domande poco opportune, lasciando che la mia mente rivivesse quel bacio migliaia di volte, all'infinito. Come se non mi stancassi mai di immaginare le labbra rosee e piene di Zayn premute contro le mie.
Ma ovviamente non è capace di trattenersi dal farmi il terzo grado per più di quarantotto ore. È più forte di lei, preferisce parlare piuttosto che stare in silenzio e tenersi tutto dentro.
Il mio opposto, paradossalmente.
«Sono stufa di aspettare che tu mi dica qualcosa», mi dice sbuffando, e distogliendomi quindi dalla lettura di Ragione e Sentimento. Smetto immediatamente di far scorrere le dita sulla pagina in Braille e inclino la testa da un lato, aspettando che Vicki continui. «Racconta…», è l’unica cosa che le esce dalle labbra.
Rido, e la sento avvicinarsi. La curiosità ha preso il sopravvento. E chi la ferma più ora?
Così inizio a raccontarle tutto quanto. Dalla serra al negozio di Niall. Dalla litigata con Charlotte a quanto fosse stato dolce Harry a portarmi fuori di lì prima che la situazione degenerasse. Da come mi avesse tirata su di morale Zayn a come mi avesse spinta verso il fondo del negozio, tra le pile di cd.
«Niall ci ha interrotti», borbotto, sentendola trattenere il fiato quando arrivo a descrivere le dita di Zayn che tracciano cerchietti immaginari sulla mia guancia. «Per colpa tua», aggiungo, scoppiando a ridere.
«Beh, io… quindi le tue labbra sono ancora vergini!», sbotta, dandomi uno schiaffo sulla spalla, come per incitarmi a parlare. Ma non riesco, sto morendo dal ridere. Le tue labbra sono ancora vergini. Da dove le escono certe espressioni? Continuo a ridere, finché anche lei non scoppia a ridere, allora provo a tornare seria.
«No», mi limito a dire, sorridendo.
Ma non fa nemmeno in tempo a reagire, e io non faccio in tempo ad aggiungere altro, che suonano alla porta. La mia migliore amica sbuffa, tanto forte da scompigliarmi i capelli. Ma poi si alza e inizia a borbottare cose senza senso, andando verso la porta d’ingresso. Niente di nuovo. Victoria borbotta, è il suo segno distintivo.
“Borbottare” può anche essere diventato il suo secondo nome, per quanto ne so. E per quanto me ne importi. Fatto sta che quando la sento lanciare un gridolino quasi non mi viene un colpo. «Vic, non urlare!», strillo a mia volta, trattenendomi dal ridere. E rido, quando sento una risata familiare riempirmi le orecchie. «Stavamo parlando giusto di te», abbasso volontariamente la voce, sentendo Zayn avvicinarsi.
«Mi dirai mai come fai a riconoscermi?», mi chiede, un attimo prima di lasciarmi un bacio sulla punta del naso. Sento Victoria trattenere il fiato per un istante, e se ne accorge anche Zayn, che ridacchia... a qualche centimetro dalle mie labbra.
«Odori di buono», ammetto in un soffio, sorridendo.
Sto cercando - inutilmente - di immaginare la sua espressione. Ma non faccio nemmeno in tempo a maledire la mia cecità che sento le sue labbra posarsi per un attimo sulle mie. E Victoria tirare un urlo che quasi mi spacca i timpani. Mi viene da ridere, ma la voce di Zayn mi anticipa. «E tu sai di buono, siamo pari», mormora sorridendo contro la mia guancia.
«Mi sta venendo il diabete, io esco», ci dice la mia migliore amica.
Scoppio a ridere solo quanto sento la porta sbattere, e Zayn tirare un sospiro di sollievo. «Qual buon vento ti porta nella mia umile dimora?», gli chiedo dopo qualche minuto di silenzio per niente imbarazzante. Smette per un attimo di sfiorarmi la mano, ma ricomincia subito dopo, ridacchiando.
«Volevo chiederti di uscire per farti conoscere una persona... ma ora sinceramente sono curioso di sapere come fai a leggere con quei puntini...», aggiunge scostandomi una ciocca di capelli dal viso. Rido, appena, trattenendomi dallo scuotere la testa.
Non voglio che smetta di toccarmi.
È come una droga. Ne ho bisogno, per sopravvivere. E so che probabilmente è sbagliato che io mi sia affezionata così tanto in poco tempo. Ma non mi interessa. Ho deciso di vivere l'attimo come viene, e non di preoccuparmi di quello che potrebbe succedere.
«L'alfabeto Braille all'inizio era un trauma, ma in fondo non è tanto difficile... vuoi provare?», gli chiedo, abbassando volutamente le palpebre. È una domanda stupida, idiota. Ma lui gira intorno al tavolo e mi lascia un bacio su ogni palpebra, facendomi sorridere.
«Apri gli occhi, piccola».
Obbedisco, senza saperne il motivo. Insomma, tanto è inutile. Non ci vedo, occhi aperti o chiusi che siano. Non vedo la luce da tre anni, né i colori, né il mio riflesso. Ma evidentemente Zayn vede qualcosa che io non vedo.
«Tanto non ci vedo…».
«Grazie per aver riacceso la luce», mi dice posandomi un bacio sulla fronte.
E quando una piccola lacrima scappa al mio controllo… per un attimo vedo meno scuro. Come una stanza nella penombra, ma più sfocato. Per un attimo ho visto i contorni delle cose, grigio su nero. Apro la bocca diverse volte, ma dopo una manciata di secondi torno a vedere tutto nero.
Il buio, di nuovo.
«Ti sembrerà una cosa da pazzi, ma mi sembra di aver visto qualcosa», mormoro in un soffio, troppo shockata per aggiungere qualsiasi altra cosa. Ho visto un contorno, nel mio mondo perennemente nero. Non so se ridere dalla felicità o scoppiare a piangere per essere sprofondata di nuovo nell’oscurità. «Ho bisogno di sentirmi dire che…».
«Ti credo, Heidi», mi anticipa Zayn prendendomi il viso tra le mani. «Ti va di dirmi cos’hai visto?», lo sento aggiungere dopo un attimo, mentre le sue dita mi asciugano le lacrime dalle guance.
Tiro un sospiro, forse di sollievo, non lo so.
Zayn mi crede. Sollievo.
Vuole sapere cosa ho visto. Esasperazione. Frustrazione.
«Ho visto il contorno del tuo viso, credo… leggermente più chiaro del resto», riesco a dire dopo una manciata di secondi. È tutto quello che riesco a tirar fuori. Forse perché sono confusa, su un milione di cose. Forse è la sua vicinanza. Forse ho solo bisogno di distrarmi, di vivere la vita di qualcun altro per un paio d’ore e dimenticarmi del resto.
Mi riscuoto quando sento le dita del ragazzo che ho di fronte intrecciarsi con le mie e alzarsi, facendo poi alzare anche me. Mi viene spontaneo sorridere, perché sento come se Zayn avesse capito perfettamente cosa sto pensando, e il mio desiderio di evadere.
È assurdo. Ma è la cosa più reale che ho.
«Devi venire con me in un posto», mi dice a fior di labbra. Ridacchio. Anche lui ha un buon sapore. Buonissimo. «Charlotte aspetterà, c'è una persona più importante che voglio farti conoscere», aggiunge passandosi la lingua sulle labbra. Ma siamo talmente vicini che leccandosi il labbro inferiore finisce per leccare anche il mio.
«Chi sarebbe?».
«Safaa Malik, la mia sorellina... quella dello shampoo alla camomilla», aggiunge facendomi ridere, mentre delicatamente mi stringe a sé nell'abbraccio più sentito e voluto della storia. Un abbraccio di cui ho un bisogno immenso, più di quanto io stessa riesca ad ammettere. Un abbraccio che mi serve per non crollare nella consapevolezza che non ci vedo, di nuovo, quando anche se solo per un istante qualcosa ho visto.
«Non è un po' presto per presentarmi alla famiglia?», scherzo mentre le sue dita giocano con le mie, e mi faccio trascinare fuori casa, fino alla sua auto. Cammino tranquilla, fidandomi di lui. Senza più la minima paura di cadere.
Ridacchia, aiutandomi a salire in auto e allacciandomi la cintura.
«Mia sorella è un angelo, ti piacerà».
Sorrido, scuotendo leggermente la testa. Non è sua sorella che deve piacere a me. So per certo che mi piacerà, io amo i bambini. E poi, se mi piace almeno la metà di quanto mi piace Zayn, siamo a cavallo. Il problema è un altro. E se non le piacessi? Se reagisse come Charlotte e mi definisse un "problema"? E se...

 
~

ZAYN’S POINT OF VIEW.

«Le piacerai», le sussurro vedendola soprappensiero, mentre si tormenta le mani. Borbotta qualcosa che non riesco a sentire, facendomi sorridere. Decido di lasciar stare. In fondo, è normale che sia scossa dopo quello che è successo.
Ha visto qualcosa.
Se le credo? Certo, o sarei già scappato a gambe levate. E scappare da lei vorrebbe dire farle male, oltre che fare male a me stesso. E non voglio farle male. È come se ormai mi stia diventando quasi impossibile starle lontano.
Il suo sorriso. Mi fa sentire bene. In pace col mondo. E i suoi occhi, anche se non ci vedono, mi illuminano la giornata. Per questo l’ho ringraziata per aver riacceso la luce, quando ha riaperto gli occhi.
Perché ho rivisto il cielo limpido dei suoi occhi.
Perché se lei si sente al buio da tre anni, da quando non ci vede… lo stesso vale per me. Da quando Nathan mi ha portato via mia sorella, io sono al buio. Finché quel giorno in metropolitana Heidi non ha riacceso la luce.
Mi riscuoto dai miei pensieri, parcheggiando perfettamente in linea davanti a casa mia. In linea? No, impossibile. Di solito parcheggio tutto storto. E ammetto che potrebbe essere che io lo faccia apposta per infastidire mia madre. Sì, molto probabile. «Zayn!», mi urla mia sorella correndomi incontro, appena scendo dall’auto. La prendo in braccio, iniziando a farle il solletico, e con la coda dell’occhio vedo Heidi sorridere, per poi passarsi una mano tra i capelli.
«Ciao pulce…».
«Pensavo che doveste andare da Charlie», mi dice tormentandosi una ciocca di capelli. Ridacchio, lasciandola scendere e aprendo la portiera ad Heidi. Un attimo, e le mie dita si ritrovano incastrate nelle sue, mentre la aiuto a scendere. Un attimo e vedo mia sorella iniziare a saltellare e ridere, felice.
Ride anche Heidi, forse divertita dalla situazione.
«Ridete nello stesso modo», mi sussurra in un orecchio mentre Safaa la prende per la mano libera e comincia a trascinarla lungo il vialetto.
Le seguo, divertito dalla reazione della piccola.
E prendo Heidi per i fianchi, sfiorando involontariamente il lobo del suo orecchio con le labbra. Sorrido appena, sentendola rabbrividire. «Ammettilo, la mia risata è molto più sexy», scherzo, mentre Safaa apre la porta, senza lasciarle la mano nemmeno per un istante.
«Sicuramente», mi dice ironica, riuscendo a farmi ridere.
Ma in quella situazione la cosa più bella, ed esilarante allo stesso tempo, è mia sorella. Che ci guarda sorridente, con un sopracciglio inarcato e le manine piantate sui fianchi. Alzo gli occhi al cielo. E’ tanto carina, peccato che la ragazza che tengo ancora per la vita non la riesca a vedere.
«E così, tu saresti la ragazza che riesce a far sorridere mio fratello…».


 
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Capitolo 10
*** 10. ***


salve splendori miei, anche oggi dall'alto della pagina, lol.
e devo ammettere che mi piace un sacco scrivervi quassù...
quindi, credo che diventerà una tradizione.
detto questo... aggiorno oggi su insistenza di un paio di persone, nonostante io volessi aggiornare martedì.
quindi, dovete ringraziare Annarita e Alessandra per la spinta che mi hanno dato c:
poi... a me il capitolo piace, tanto. lo trovo forse troppo mieloso, in effetti.
ma spero che a voi piaccia.
ringrazio chi recensisce sempre, le preferite, ricordate e seguite.
e grazie per le 241 recensioni. siete l'amore. e mi fate sciogliere ogni fottuta volta.
bene, ora vi lascio al capitolo. alla prossima belle c:
xx Fede.
 
 
10.
 


HEIDI’S POINT OF VIEW.

La ragazzina più dolce dell’intero pianeta. È l’unica espressione che riesco a trovare per descrivere quella meraviglia che è la sorella di Zayn. Dolcissima, e con la stessa – identica – risata del fratello. E bellissima, a quanto ho potuto sentire sotto le dita.
Ha i capelli lunghi fino alla vita. Scuri, stando a quello che mi ha detto. La pelle liscissima, un naso piccolo ma ben proporzionato, e le labbra sottili. È alta, forse fin troppo per la sua età.
Ed è dolcissima, l’ho già detto?
La adoro, nonostante ci sia stata insieme qualcosa tipo tre ore. Ma dopotutto, come si fa a non amarla? Ripeto, è dolce, come la melassa. E non riesco a smettere di pensare a quanto mi abbia trattata bene nonostante in sostanza non mi conoscesse.
Mi sono sentita bene con un’estranea come non succedeva… da quando ho conosciuto Victoria. E quando le ho chiesto perché fosse tanto gentile con me, la sua risposta è stata sorprendente. Non sembra che abbia dieci anni. Pensa come una quindicenne, o addirittura come una diciottenne.
«Perché sei speciale, come lo era mia sorella».
O forse la soluzione è più semplice. Safaa pensa come una ragazza più grande, semplicemente perché è dovuta crescere in fretta. Perché ha sofferto. E il dolore è l’ultima cosa a cui una bambina della sua età dovrebbe pensare. Dovrebbe giocare, disegnare, fare le cose che fanno i bambini.
Ma senza sua sorella… tutto le sembra più difficile di quello che è.
«A cosa stai pensando?», mi chiede Zayn sfiorandomi una guancia. Allora mi riscuoto dai miei pensieri con un sorriso, accorgendomi che siamo fermi. Deve aver parcheggiato, e non me ne sono nemmeno accorta. Bene, direi.
«A quanto sia bella tua sorella».
Bella, anche se non la vedo. Bella dentro. E bella fuori. Ma per la parte esteriore non posso far altro se non fidarmi di Zayn, e della stessa Safaa. Bella, perché va avanti col sorriso nonostante abbia perso una delle persone più importanti della sua vita. Bella, per il bene evidente che vuole al fratello. Bella per la sua dolcezza.
Bella, punto.
Lo sento strofinare il naso contro la mia guancia, sorridendo. E sorrido anch’io, come di riflesso. Come se in effetti sorridere in risposta al suo sorriso sia la cosa più naturale del mondo.
«Tu sei addirittura più bella, sai?». Non riesco a trattenere un brivido, a quelle parole. Ridacchio, facendo per scostarmi, ma Zayn intreccia la sua mano con la mia, le labbra ancora posate contro il mio zigomo.
Non posso scappare.
Ma la verità è che non voglio scappare.
E il mio cuore inizia a battere all’impazzata, non appena le sue labbra scivolano lungo la linea della mia mandibola, fino ad arrivare al mento. Sospiro, senza pensarci, e lo sento ridere a bassa voce, in modo da riuscire ancora a sentire il battito del mio cuore. Sono sicura che lo sente. Rimbomba, a dir poco.
È a qualche centimetro dalle mie labbra, quando sono costretta a far sfarfallare le ciglia, sentendo qualcuno battere contro il finestrino. Dalla mia parte. A rovinare nel modo più assoluto… tutto quanto. Uno dei momenti più catartici della mia vita rovinato da…
«Castano, occhi celesti, espressione da idiota sul viso…», mi dice Zayn.
Senza allontanarsi, nemmeno di un millimetro. Ridacchio, immaginando l’espressione del mio migliore amico al vedermi in quel modo con un ragazzo. Un ragazzo che non conosce, e di cui nemmeno gli ho parlato, a dire il vero. «È il mio migliore amico», dico con un sorriso, un attimo prima che le labbra di Zayn si posino sulle mie.
Non faccio in tempo a fermarlo. Non voglio fermarlo.
Bacio voluto, desiderato, mal celato. Bacio dolce, potente, possessivo. Bacio lento, ma anche veloce, senza freni. Bacio felice. Bacio pieno di speranza. Bacio di labbra al sapore di sigaretta contro labbra che sanno di fragola.
Un bacio unico. Un bacio solo mio e suo.
Un bacio che dura troppo poco e finisce troppo presto, quando Zayn si stacca succhiandomi il labbro inferiore. «Dovresti vedere la sua faccia», mi sussurra divertito Zayn mentre riprendo fiato, lasciandomi un bacio sotto l'orecchio, per poi allontanarsi.
Ho i brividi, che scendono giù per la schiena.
Brividi che non accennano a diminuire, se non quando lo sento scendere dall'auto. Allora mi costringo a prendere un respiro profondo, appena in tempo perché Louis mi apra la portiera e mi aiuti a scendere, bloccandomi in un abbraccio.
«Ciao Lou», lo saluto trattenendo una risata. Inspiro il suo odore, e sento Zayn ridacchiare, seguito dal rumore delle sue dita tra i capelli. «Te l'avrei detto», mormoro, intimidita.
«Non sono arrabbiato, Didì», mormora di rimando, continuando a tenermi stretta. Sorrido, scuotendo leggermente la testa. Non me l'aspettavo, proprio no. E poi, quel diminutivo rischia di farmi piangere ogni fottuta volta.
O di farmi cadere in un flashback.
Mi fa venire in mente una bambina bionda e dagli occhi celesti insieme ad un bambino della stessa età, dai capelli castano scuro e gli occhi verdissimi. Mi fa venire in mente le migliaia di cadute dall’altalena. Le ginocchia sbucciate. Le merende a base di caramelle gommose. I pomeriggi passati a far finta di studiare. Le feste alle quali quel bambino diventato adolescente mi trascinava contro la mia volontà.
Mi fa venire in mente Alex. E solo lui poteva chiamarmi in quel modo.
«Non mi chiamare così», gli dico trattenendo le lacrime e allontanandomi appena. Faccio sfarfallare le ciglia, per poi chiudere gli occhi, impedendomi di piangere. Fa troppo male sentirsi chiamare in quel modo da qualcuno che non sia il ragazzo con cui sono cresciuta. Fa male. Porta a galla un’infinità di ricordi.
Molti belli.
E altrettanti brutti.
Uno su tutti, essermi svegliata dopo tre mesi di coma e scoprire che il mio migliore amico nonché ragazzo di cui ero cotta da sempre era morto sul colpo nell’incidente. Non vedere in confronto non era niente.
Faceva più male l’idea di non poter più sentire la sua voce. O le sue labbra sulla fronte quando mi salutava. O la sua risata. O i suoi abbracci, che chissà come riuscivano a farmi sentire bene. Davvero bene. Quegli abbracci che facevano sorridere per davvero…
«Stai bene?».
La voce di Zayn mi arriva ovattata, lontana. Allora mi accorgo di non riuscire a fermare le lacrime e sbatto le palpebre, cercando di ritrovare l’equilibrio che sto perdendo, a trattenere tutto dentro. Crollo, senza possibilità di risalita… se non fosse per Zayn, che mi prende al volo per un braccio e mi tira a sé.
Delicatamente, come a colmare il vuoto.
Piano, accarezzandomi la schiena e baciandomi i capelli.
Stringendomi come se io fossi la barca alla deriva e lui il mio porto sicuro. Come se le sue braccia fossero l’ombrello pronto a ripararmi dalla pioggia, e le sue labbra fossero la valvola di sfogo del mio dolore. Facendo sfogare tutta la frustrazione e la tristezza sotto forma di lacrime. Tante lacrime. Troppe.
«Ci penso io», lo sento dire a Louis, mentre continuo a piangere contro la sua giacca di pelle. E «Non ti lascio», mormora dopo qualche secondo, sollevandomi da terra. Mi irrigidisco, non sentendo più l’asfalto sotto i piedi, ma conscia delle sue parole mi rilasso, totalmente.
Non ti lascio.
Non ti lascio cadere. Non ti lascio andare. Non ti lascio, in nessun caso.
Quanti significati per una sola frase, non è buffo? Non è strano quanto tre parole possano cambiare tutto? Tre parole. Undici lettere. Due spazi. Due puntini sulle “i”. Non è buffo come così poco possa sconvolgere la vita di una persona?
E a poco a poco smetto di piangere, ma continuando a nascondere il viso nella spalla di Zayn. Non voglio che Louis mi veda, tantomeno Vic o Liam, di cui sento le voci. Voglio solo mettermi a dormire e svegliarmi nella vita di qualcun altro. Qualcuno che non ha avuto un incidente quasi mortale, non è stato in coma, non ha perso la vista…
Chiunque ma non me, insomma.
Mi accorgo appena di essere trasportata al piano di sopra e lungo il corridoio, verso la mia camera da letto. Mi accorgo appena di essere depositata sul mio letto, ma solo perché non sono più immersa nell’odore di sigaretta e liquirizia di Zayn. Sento solo le sue dita sulle guance, a spazzare via lacrime e mascara in un solo colpo.
«Scusa…», riesco a dire, tirando su col naso.
E sinceramente nemmeno so perché mi sto scusando.
Lo sento ridacchiare e stringermi una mano. «Sei bella anche quando piangi, Heidi», mi dice in un soffio lasciandomi un bacio sulla punta del naso. Alzo gli occhi al cielo, ridendo. È riuscito a farmi ridere, nonostante tutto. Incredibile come ci sia riuscito, con così poco.
«Mi fido», dico ironica, sorridendo appena.
«Ti va di dirmi perché piangevi?», mi chiede dopo una manciata di secondi. È titubante, come intimidito da quello che potrei rispondergli. Come se in un certo senso avesse paura della mia risposta.
Ma è come se in fondo in fondo sentissi il bisogno di parlarne.
«Lou mi ha chiamata come mi chiamava lui», riesco a mormorare, chiudendo gli occhi per non scoppiare a piangere di nuovo. Sento le mani iniziare a tremare, senza che riesca ad impedirlo. Ma Zayn le prende tra le sue, stringendole appena. «Solo Alex mi chiamava Didì, fa male sentirlo da qualcuno che…».
Mi scappa un singhiozzo. Era un secolo che non parlavo di lui.
Forse, addirittura, non ho mai parlato di lui, dopo l’incidente. Per paura di star male, di ricordare, o… non lo so, sinceramente. Forse per paura di sentire la mancanza di qualsiasi cosa potesse ricordarmi lui. Dalla punta dei capelli alla suola delle scarpe, passando per il suo meraviglioso sorriso.
«Mi manca da morire», mormoro, stretta nel suo abbraccio.
Posa il mento sulla mia testa, senza lasciarmi andare. E finalmente mi sento a casa. Come non mi ero mai sentita in vita mia. Nemmeno con Alex, a dire il vero. Mi sento come se mi avessero tolto un enorme macigno da sopra le spalle. Più leggera, libera. Come se dall’ingresso di Zayn nella mia vita, quasi tre settimane fa, la mia vita fosse diventata la vita che non ho nemmeno provato a vivere in quei tre anni.
Come se stessi recuperando il tempo perduto.

~

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Sto cercando di assimilare le informazioni. Troppe, per essere assorbite tutte insieme. Troppi sentimenti da sopportare contemporaneamente, per chiunque. Persino per Heidi. Troppo dolore sul suo volto, troppo smarrimento nei suoi occhi, e troppo tremore nelle sue mani.
Troppo. In qualsiasi caso, sarebbe stato troppo.
E mi fa male vederla in quello stato. In lacrime, con la voce rotta dal pianto. Tutto per colpa di una parola. Un semplice soprannome che evidentemente le porta a galla un mondo. Un mondo che forse credeva di aver sepolto. O dimenticato.
Un mondo che invece è ancora lì, pronto a uscire dal suo nascondiglio non appena ci si distrae. Pronto a tenderti un agguato quando meno te lo aspetti. Nel momento apparentemente perfetto, quanto va tutto bene. Troppo bene.
È in quel momento che ci crolla tutto addosso.
Come un castello di carte dopo un soffio di vento.
«Era il tuo ragazzo?», le chiedo dopo un po’, sentendola più tranquilla. Ho ancora il mento posato sulla sua testa. La tengo ancora stretta, e non ho intenzione di farla scappare, per niente al mondo. E non ho smesso di accarezzarle i capelli nemmeno per un istante.
Si è calmata, minuto dopo minuto.
La sento borbottare qualcosa, il viso ancora nascosto contro il mio petto. E mi viene da ridere, alla sensazione dei suoi capelli che mi solleticano il collo. «Ero innamorata di lui… e non gliel’ho mai detto», mi dice in un soffio.
Triste, ma allo stesso tempo più serena. Più tranquilla.
Come se le avessero appena tolto un macigno da sopra le spalle. Un macigno troppo pesante per lei, e di cui sicuramente non ha mai voluto farsi carico. Ero innamorata di lui e non gliel’ho mai detto. Una stilettata al cuore. E un inaspettato e opprimente senso di malinconia si impadronisce di me.
Malinconia, perché l’amore taciuto – o addirittura non corrisposto – fa schifo. Essere innamorati di qualcuno che non sa che esisti o che ti considera solo come amico quando tu vorresti essere di più, fa schifo.
La stilettata al cuore, invece…
Mi ritrovo a scoprire che sapere che Heidi sia stata innamorata fa male. Perché vederla in quello stato mi distrugge. E perché credo che una ragazza come lei possa amare tantissimo, più di chiunque abbia conosciuto in vita mia.
Perché vorrei che amasse me.
«Io lo capirei se fossi innamorata di me», le dico intrecciando le dita con le sue. La sento trattenere il fiato qualche secondo, per poi espirare. Sorpresa, felice. E allontanandomi la vedo arrossire, ritrovando il solito sorriso allegro di sempre. «E se non ti amassi ti chiederei di insegnarmi a farlo», aggiungo semplicemente.
E il sorriso che si apre sul suo volto è il più bello che abbia mai visto.
Sono sempre stato uno stronzo insensibile, che non ha mai sopportato il romanticismo e le smancerie. Beh, forse ho sempre indossato una maschera. Mi viene troppo naturale essere tanto dolce con lei, come se in realtà io fossi proprio così.
Ho tolto la maschera.
O forse con Heidi non l’ho mai indossata.
«Posso chiederti una cosa?», mi dice dopo un po’, seduta a gambe incrociate sul letto, mentre io le sono sdraiato accanto e la osservo sfiorare i tatuaggi sul mio avambraccio destro. Annuisco, dimenticando per la miliardesima volta che lei non mi vede, e la sento ridacchiare. Alza lo sguardo al cielo, per poi prendere un respiro profondo e… «Rimani a dormire con me?».
Non faccio nemmeno in tempo ad assimilare le sue parole.
Un attimo, e le sue guance si tingono di porpora. Un istante, e mi tiro su a sedere, per poi avvicinarmi a lei e posarle le labbra sulla fronte. Si rilassa sensibilmente, al solo tocco delle mie labbra. Scendo lungo il profilo del naso, fino a fermarmi a due centimetri dalle sue labbra, sospirando.
Lei rabbrividisce, trattenendo un sorriso.
«Vado a dire a Victoria che rimango a dormire», le soffio sulle labbra, per poi allontanarmi con un ghigno. Heidi fa sfarfallare le ciglia, mentre io scendo dal letto e faccio per uscire dalla sua camera.
«Ehi!», esclama, facendomi sorridere. Mi volto verso di lei, e al vederla con un sopracciglio inarcato e le labbra dischiuse a formare una piccola “o” mi viene da ridere. Per fortuna mi anticipa, prima che possa dire qualsiasi cosa. «Io volevo un bacio…», sussurra a voce bassissima.
È la tenerezza, quella ragazza.
E forse non si aspettava che la sentissi, vista la sua espressione al sentire improvvisamente le mie labbra sulle sue. Le accarezzo una guancia con un pollice, facendo poi una leggera pressione sulle sue labbra, in modo da fargliele schiudere. Il tempo di un respiro e le nostre lingue si rincorrono, finché senza fiato Heidi posa una mano sul mio petto, facendomi scostare da lei.
È bellissima anche col viso arrossato e i capelli scompigliati, possibile?
«Scendo un attimo, non sparire», le dico lasciandole un ultimo bacio a stampo.
E il suo sospiro in risposta è semplicemente il suono più bello del mondo.


 
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Capitolo 11
*** 11. ***


uccidetemi, me lo merito. dovevo postare ieri, ma poi ho sclerato contro il pc...
e contro la connessione, visto che ancora non sono riuscita a vedere il video di Story of my life.
comunque, a parte questo, che sicuramente non vi interessa...
strano ma vero il capitolo a me piace. scusate per i passaggi da un pov all'altro, ma non ho potuto fare altrimenti.
ah, e ne approfitto per ringraziarvi. siamo a 270 recensioni.
e quasi 100 preferiti. vi adoro, non so come altro dirvelo ormai...
bene, ora vi lascio alla lettura. alla prossima bellezze c:
xx Fede.

 
 


 
 
11.


HEIDI'S POINT OF VIEW.

Apro gli occhi, ma senza vedere. Solo buio. La solita coltre di nero che ricopre tutto quanto, insomma. Ma sono avvolta da un odore che non è il solito. Un odore che non è quello della mia camera da letto. Non solo, almeno.
Un odore forte, vicino. Di liquirizia, menta e tabacco.
Zayn, mi suggerisce una voce. La mia coscienza, forse.
Allora mi accorgo di aver dormito con la schiena attaccata al petto di Zayn, i capelli sparpagliati sul cuscino e le sue labbra posate sulla mia spalla. Faccio per girarmi, ma la sua mano che stringe appena sul mio fianco me lo impedisce. E mi viene da sorridere  al pensare di averci dormito insieme.
Mi volto lentamente, attenta a non svegliarlo. Il battito del mio cuore a sbattere contro il suo, il mio respiro che si fonde col suo. Gli sono praticamente incollata, eppure non mi da fastidio, nemmeno un po’.
Sollevo la mano verso il suo viso. Semplice. Anche se non lo vedo, so dove si trova, per via del suo respiro che mi arriva addosso. E abbasso le palpebre, al contatto delle mie dita con l’accenno di barba sulla sua guancia. Sorrido appena, salendo verso la tempia, per poi riscendere fino alle labbra, che si schiudono sotto le mie dita, come per magia.
«Buongiorno», sento sussurrare con voce roca, ancora impastata dal sonno. Un sussurro, ma nitidissimo alle mie orecchie. Un sussurro, e anche il migliore dei risvegli. Un sussurro, soffiatomi contro le labbra, che mi fa finalmente rendere conto della distanza che ci separa.
Un paio di centimetri, forse. Forse meno.
«’Giorno», mormoro di rimando, accorgendomi di essere diventata rossa come un pomodoro maturo. Zayn ridacchia contro le mie labbra, facendo sorridere anche me, in chissà quale modo. «Cazzo», borbotto ricordandomi improvvisamente di una cosa. E lui ride, al sentirmi imprecare.
Non è da me, in effetti.
«Come siamo scurrili, stamattina», mormora, con le labbra praticamente sulle mie. Rido appena, stampandogli un bacio a stampo. E come qualche ora prima, mi ritrovo col fiato spezzato in due, e la vista delle ombre che popolano il mio mondo di solito totalmente immerso nell’oscurità. «Piccola, che…?».
Trattengo un gemito di frustrazione quando, due battute di palpebre più tardi, torno nel buio. «Mi è parso di vedere qualcosa, di nuovo». Sento il suo cuore – premuto contro la mia cassa toracica – fermarsi per un istante, per poi ripartire più veloce che mai. Fermo le lacrime, o almeno ci provo, e per tutta risposta sento le labbra di Zayn posarsi sulle mie palpebre, una dopo l’altra.
«Andrà tutto bene, te lo prometto».
Mi allontano, quasi di scatto, gli occhi sbarrati. «Non provarci nemmeno. Non andrà mai tutto bene, Zayn… non formulare promesse che non riuscirai mai a mantenere, ti prego». Mormoro l’ultima frase in un alito di vento, scendendo dal letto e acquistando l’equilibrio necessario per arrivare in bagno e chiudermici dentro.
Possibile che mi senta presa in giro?
Insomma, in fondo io e Zayn non siamo niente. Ci siamo solo baciati. E abbiamo solo dormito insieme. Ma non siamo niente di più che un ragazzo e una ragazza, quasi normali. Siamo solo io e lui, e nessuno dei due sembra voler – o essere in grado di – cambiare l’altro. E mi piace, certo.
Mi piace troppo, forse.
Mi piace più di quanto credevo fosse possibile, non vedendolo. Non posso dire che mi piaccia fisicamente, chiaro. Ma posso dire che mi piace la sua voce, giusto? O la sua risata. O il fruscio che fanno le sue labbra quando si sfiorano. O le sue mani a contatto con le mie. E le sue labbra premute contro le mie.
Questo posso dirlo. Ed è probabile che nemmeno lo penserei, se non lo credessi vero.
Ma il senso di presa in giro rimane, nitido nella mia mente vagamente contorta e difficile da decifrare. Non so perché mi sento in quel modo. Come se Zayn stesse approfittando di me. Della me fragile e insicura che in effetti sono. A pelle direi che non si sta approfittando di me.
Ma la realtà è che non posso saperlo.
Perché non lo conosco. Non abbastanza da giudicare.
Mi lascio scivolare contro la porta del bagno con un sospiro. Trattenendo a stento le lacrime. Vorrei piangere tutto, e tutto in una volta, in modo da non sentirne più il bisogno per il resto della vita. In modo da non esserne più in grado.
Perché piangendo ogni lacrima che il mio corpo è capace di tirar fuori, magari smetterei di provare dolore, in un certo senso. O almeno smetterei di esternare il dolore. Soffrirei solo all’interno, senza far vedere a tutti quanto sto male.
Ma dopotutto non è colpa mia.
È colpa di chi ha causato l’incidente. Colpa dell’auto che ci è venuta addosso.

***

ZAYN’S POINT OF VIEW.

La miglior dormita della mia vita, lo ammetto. Forse è stato il modo in cui Heidi mi ha sussurrato la buonanotte, o il modo il cui si è accoccolata contro il mio petto. O il suo odore di fragola e vaniglia, che mi ha cullato fino a farmi addormentare.
Non lo so, sinceramente.
Resta il fatto che non ho mai dormito tanto bene come la notte appena passata con Heidi. Con la sua schiena posata delicatamente contro il mio petto e l’odore fantastico dei suoi capelli a permeare tutto quanto. Persino il mondo dei sogni, forse.
E oltre ad aver dormito decisamente alla grande, è stato anche il miglior risveglio di sempre. Con le sue dita ad accarezzare delicatamente la mia guancia, come se avesse avuto paura di svegliarmi. Come se fossi un oggetto di cristallo e lei avesse il terrore di rompermi. Sarebbe dovuto essere il contrario, no? Invece è lei a sfiorarmi in quel modo. Piano. Lentamente. Con delicatezza. Come mai nessun altro mi aveva mai sfiorato, se escludiamo mia madre quando ero un bambino.
Perché è così che mi fa sentire Heidi.
Un bambino. Un adolescente alla prima cotta.
Ma la cosa più bella è aprire gli occhi, dopo aver dormito tanto bene, e trovarsi davanti il suo sorriso. Ad un paio di centimetri dalle mie labbra. E la sua reazione una volta sentita la mia voce che le da il buongiorno. Impagabile. Un velo di rosso che si spande sulle sue guance, e lo stesso sorriso – magari leggermente imbarazzato – di poco prima a incresparle le labbra.
Ciliegina sulla torta? Sentirla imprecare, appena riemerso dal mondo dei sogni.
«Cazzo», la sento borbottare, come se all’improvviso si fosse ricordata qualcosa di importante. Allora non riesco a trattenermi dal ridere, al sentirla usare un linguaggio del genere. Decisamente, non è da lei, per quel poco che sono riuscito a conoscerla.
«Come siamo scurrili, stamattina», mormoro, con le labbra praticamente sulle sue. E Heidi ride appena, stampandomi poi un bacio a stampo. Centrando alla perfezione le mie labbra. Come se mi vedesse davanti a lei. Come se non fosse cieca. E come qualche ora prima, la vedo trattenere il fiato per qualche istante. Ma proprio non capisco… «Piccola, che…?».
Trattiene un gemito, come di frustrazione, e sbatte molto velocemente le palpebre. Facendomi confondere ancora di più, se possibile. «Mi è parso di vedere qualcosa, di nuovo». Sento il cuore fermarsi per un istante, per poi ripartire più veloce che mai. E mi accorgo che sta trattenendo le lacrime, anche se a fatica. Così poso delicatamente le labbra sulle sue palpebre abbassate, una dopo l’altra.
«Andrà tutto bene, te lo prometto», mormoro in un soffio, sorridendo appena.
Ma il mio sorriso, anche se appena accennato, si spegne in un istante. Sparisce, come per magia, al vederla allontanarsi di scatto, con gli occhi sbarrati. Come se l’avessi ferita. Solo che ancora non capisco. Come posso averla ferita? Che ho detto di male? «Non provarci nemmeno. Non andrà mai tutto bene, Zayn… non formulare promesse che non riuscirai mai a mantenere, ti prego».
Un colpo al cuore. Una crepa, che mi distrugge lentamente, dall’interno.
E non posso far altro se non guardarla scendere dal letto, allontanarsi da me. Senza riuscire a muovere un muscolo, nemmeno quando rischia di inciampare dirigendosi verso il bagno. La guardo, impassibile.
E mi sento dannatamente in colpa.
Se ne capisco il motivo? Assolutamente no, ovviamente. So solo che mi sento male, almeno quanto sta soffrendo lei, anche se non lo darà a vedere nemmeno sotto tortura. E so che ho bisogno che lei stia bene, per stare bene anche io, almeno la metà di lei.
 
[*la parte in corsivo è dal punto di vista del narratore*]
 
Entrambi complicati, chi per un motivo chi per un altro. Entrambi con i sensi di colpa a corrodere lo stomaco. Entrambi con il bisogno di tenersi stretti fin quasi a soffocare, per cancellare tutto quanto e tornare a sorridere insieme.
Dopotutto, ad Heidi e Zayn viene bene. Sorridere insieme, intendo.
Così passano minuti interi, scivolano via portandosi dietro tutti i problemi. O almeno una buona parte. Il tempo, quei dieci minuti che ognuno dei due passa immerso nei propri pensieri, scaccia via i sensi di colpa, e la sensazione di essere presa in giro che prova Heidi. Zayn scende dal letto con un sospiro e si prepara a scusarsi.
Perché anche se in fondo la colpa non è di nessuno, lui si sente in dovere di farlo.
E Heidi è in un certo senso costretta ad aprire la porta del bagno quando Zayn bussa delicatamente e dopo un attimo la vede aprirgli con gli occhi leggermente gonfi di lacrime trattenute. Il moro le prende una mano e ne intreccia le dita, per poi tirarla a sé e stringerla.
Solo tenerla stretta lo fa sentire meglio.
Solo essere abbracciata a lui la fa sperare che non si stia sbagliando. Che Zayn non la stia prendendo in giro. Non lo sopporterebbe. Non sopporterebbe un altro abbandono, dopo Alex. Crollerebbe, definitivamente. Ne morirebbe.
«Scusa, principessa… niente più promesse impossibili, te lo prometto».
E la bionda si ritrova a ridere tra le lacrime, ancora stretta a lui, e con l’intenzione di non staccarsi più. Come fossero incollati con la super colla. Perché quell’abbraccio serve a entrambi, li rende entrambi più forti. Indistruttibili, meno fragili e meno disperati. Uniti come se non ci fosse un domani.
«Mi devi accompagnare in un posto, Zayn», riesce a mormorare Heidi mentre il ragazzo che fino ad un attimo prima l’aveva tenuta stretta si allontana leggermente per asciugarle le guance ricoperte di lacrime. Le spazza via con le dita fresche, aspettando che la bionda continui. «Ho la visita di controllo, oggi».
Un attimo e Zayn si sente come sollevato. Credeva peggio. Credeva... che gli chiedesse di accompagnarla al cimitero, magari. Cosa che con tutta probabilità il moro non sarebbe riuscito a sopportare. No, non avrebbe potuto guardare Heidi in lacrime davanti alla lapide del migliore amico. E magari costringersi a sorridere.
Non era bravo a fingere. Non con lei.
 

HEIDI'S POINT OF VIEW.

«Vengo volentieri», mormora Zayn sfiorando il mio naso con il proprio. Mi scappa un sospiro. Sollievo. Credevo che  avesse potuto dirmi di no. Non capivo. Non avrei capito in nessun caso. Né che mi avesse detto di no, né che come in effetti è successo, mi dicesse di sì. Più provo ad immaginare la sua espressione più mi sale il mal di testa.
Che nervi, cazzo.
Sorrido, centrando per la seconda volta le sue labbra con le mie. Un bacio a stampo, il più casto possibile. Perché? Non voglio distrazioni, proprio oggi che ho la visita oculistica col dottor Harrison. La solita routine, che si svolge una volta ogni due mesi, per controllare che vada tutto come al solito.
Ma stavolta ho davvero qualcosa da raccontare. E mi viene da pensare che forse non sarò relegata nell’oscurità per il resto dei miei giorni. Mi viene da pensare che forse è merito di Zayn se ho ricominciato a vedere qualcosa.
Anche se è qualcosa di davvero minuscolo.
Anche se sono solo ombre.
«Mi do una sistemata e scendo», gli dico con un sorriso. Al solito, è come se sentissi il suo sorriso di risposta al mio comparire sul suo viso. Quasi scoppio a ridere. Perché anche se magari non lo conosco nel profondo, in tre settimane ho imparato a conoscere una parte di Zayn che forse nemmeno lui conosce.
Conosco il suo sorriso, il sapore delle sue labbra e il suono della sua voce.
Conosco ogni minima inflessione, capisco quando sorride, quando è triste o quando è incazzato ma lo nasconde. Sento i battiti del suo cuore accelerare quando senza nemmeno volerlo lo sorprendo. Riconosco il momento in cui la sua voce si spezza al parlare della sorella, o quando non è in sé se gli si cita la sua ex.
Tutto questo. In sole tre settimane.
E benedico il giorno in cui mi è venuto addosso in metropolitana, senza riserve.
Lo sento scendere al piano di sotto allora mi faccio una doccia veloce, asciugo i capelli lasciandoli mossi e mi vesto. Un paio di jeans scuri, la Converse celesti e una canotta nera, con sopra una felpa bianca con lo stemma di Batman. È di mio cugino, quella felpa. E stranamente mi porta sempre una gran fortuna, quando la indosso.
Lascio che il viaggio da casa mia all’ospedale scorra in silenzio, cullata dalla voce di Zayn che canticchia Lovestoned di Justin Timberlake. Anche quella, è una delle mie canzoni preferite. E a questo punto inizio a sospettare che Vicki gli abbia passato tutta la mia playlist. Anche perché è impossibile che ogni volta che metto piede nella sua auto alla radio passino una delle mie canzoni, no?
Lascio che tutto mi passi accanto, senza nemmeno sfiorarmi.
Sono troppo nervosa. Troppo, persino per canticchiare, per fare qualche battuta stupida o per abbandonarmi ai miei pensieri. Ho perso la vista da tre anni, e all’improvviso torno a vedere qualcosa. Ho paura, che il mio medico mi dica che me lo sono immaginato. Che tronchi sul nascere le mie speranze. Che mi dica che nonostante quei due episodi io rimarrò cieca per sempre.
Non voglio. Voglio tornare a vedere. Per Zayn, non per me.
«Siamo arrivati, principessa», mi sento sussurrare, le sue labbra posate languidamente contro il mio orecchio. Sorrido appena. Non mi sono accorta di nulla, tanto ero immersa nei miei pensieri. «Stai bene?», mi chiede dopo una manciata di secondi, scostandomi una ciocca di capelli dal viso.
«Solo se rimani con me durante la visita», gli dico voltandomi verso di lui. Il suo respiro fuso con mio. I nostri nastri che i scontrano. Lui. Io. Noi. Zayn annuisce, sfiorandomi poi un labbro con il pollice e facendomi ridacchiare, mentre cerco di allontanarmi.
«Non me lo dai un bacio?», mi prende in giro. Sorride, è come se lo vedessi.
«Ma arriviamo tardi», protesto in un sussurro, senza smettere di sorridere. E’ più forte di me, non ci riesco. Non riesco a non sorridere, con lui intorno. Non so il motivo. Ma sinceramente non me ne potrebbe fregare di meno. Sbuffo, notando che non ha intenzione di allontanarsi, allora gli stampo un bacio sulle labbra, che lo fa scoppiare a ridere. «Contento?».
«Molto», mormora contro le mie labbra un attimo prima di scendere dall’auto.
Scuoto la testa, divertita, e mi lascio condurre dentro l’ospedale. Il solito odore di disinfettante stantio mi riempie la narici, ma in fondo a questo punto non mi da più tanto fastidio. Ci ho fatto l’abitudine. Ci si abitua a tutto, prima o poi.
Anche all’odore troppo forte del dopobarba del dottor Harrison, quando mi abbraccia calorosamente. Un uomo sulla trentina, simpatico, disponibile e perennemente ottimista. Come se non mi vedesse da una vita. Sbuffo, alzando gli occhi al cielo e facendolo ridere. «Tutto bene, Heidi? Vedo che hai una persona nuova con te, oggi…».
«Un amico», gli spiego con un sorriso, mentre Zayn mi aiuta e salire sul lettino. «Un amico che può restare durante la visita, dottore», aggiungo ridacchiando, nel momento esatto in cui lo sento aprire la bocca come per protestare.
«Bene, allora… novità?».
Faccio un respiro profondo, e stringo forte la mano di Zayn, fin quasi a stritolarla. Non riesco a parlare, è inutile, ma in chissà quale modo le dita del ragazzo al mio fianco che mi accarezzano i capelli, riescono a calmarmi.
«Mi è sembrato che la vista si schiarisse, due volte», mormoro, abbassando le palpebre. Mi accorgo che il medico di fronte a noi trattiene il fiato, sorpreso. Allora mi rilasso visibilmente, prima di aggiungere la cosa più importante. «Tutte e due le volte con lui», aggiungo indicando Zayn con la testa. Ora non resta che sperare.



 


 

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Capitolo 12
*** 12. ***


*si nasconde sotto la scrivania*
non so con quale coraggio sto postando.
sono in un ritardo abbastanza inqualificabile.
e non sto nemmeno a giustificarmi, non avrebbe senso.
vi lascio alla lettura, che è meglio.
alla prossima, xx Fede.

p.s.: grazie. siamo a 300 recensioni *.*



 

12.
 


HEIDI'S POINT OF VIEW.

«Mamma, te l’ho già detto…». Sbuffo, ignorando la risata di Zayn, che mi sta portando a casa dopo la visita col dottor Harrison. Siamo in macchina da venti minuti, più o meno, e mia madre sta piangendo e facendo domande al telefono da venti minuti. Uno strazio. «Ho visto solo delle ombre, ma’. E il dottore mi ha prenotato gli ennesimi noiosissimi esami», le spiego per la centesima volta.
E lei continua a piangere contro il suo cellulare. Non la sopporto quando fa così.
È emotiva in modo esagerato, andiamo.
«Quindi tornerai a vedere?», mi chiede. Trattengo il respiro, e Zayn rallenta, anche se siamo in autostrada. Non penso gli interessi, in questo momento. Penso solo che voglia sentire la mia risposta, nient’altro.
«Non lo so, mamma», riesco a mormorare.
Mi viene da piangere. E Zayn se ne accorge. Sento l’auto rallentare fino a fermarsi, un singhiozzo formarmisi in gola, e il cellulare scivolarmi di mano. Mi accorgo appena che Zayn mi slaccia la cintura e mi tira a sé, facendomi scavalcare la leva del cambio, fino a farmi sedere a cavalcioni su di lui.
Lascio scorrere una, due, dieci, cento lacrime. Perdo il conto, accoccolandomi contro il petto del ragazzo migliore del pianeta, mentre lui mi accarezza la schiena, cercando di calmarmi. Mi bacia la testa all’infinito, tenendomi stretta. Allora mi accorgo della posizione ambigua in cui ci troviamo. E faccio per allontanarmi, ma…
«Non ti muovi di qui finché non ti sei calmata», mi dice allontanandomi appena e bevendo le lacrime dalle mie guance. Rido appena per il solletico provocato dalla sua barba, e cerco di fare un respiro profondo. Ci riesco, più o meno. «Va meglio?», mormora Zayn stampandomi un bacio sulla punta del naso.
Annuisco appena, posando di nuovo la testa nell’incavo tra la sua spalla e il suo collo.
«Voglio stare bene, non solo meglio».
«Starai bene, Heidi». Scuoto la testa, contrariata. Un’altra promessa praticamente impossibile da mantenere. Faccio per dire qualcosa – non so cosa – ma mi blocco all’istante sentendo la sue dita sulle labbra, a fermare il respiro, insieme alle parole. Tutto immobile, come congelato, bloccato come in un fotogramma.
Io. E lui. Fermi.
Senza dire o fare assolutamente niente per far passare il momento.
«No, Zayn…».
«Hai detto che non posso prometterti nulla di impossibile», mormora continuando ad accarezzarmi la schiena, dalla base alla cima e ritorno. «Ma posso prometterti che cercherò di farti stare bene», aggiunge con la fronte posata sulla mia. Naso contro naso. E le labbra ad un millimetro dall’unirsi con le mie.
«Nessuno può farmi stare bene», dico in un sussurro. Ma in realtà sono la prima a non crederci. La prima a non credere a quello che mi esce dalle labbra, la prima a non avere fiducia. La prima a non credere in niente.
Sento Zayn scuotere la testa, a metà tra il divertito e il contrariato. Sbuffo appena. Non voglio litigare con lui. Non così, non adesso e non per questo. Ma non riesco a spostarmi da dove sono. E non faccio in tempo a muovere un muscolo che dalla sua bocca escono proprio le parole che ho bisogno di sentire.
«Lascia che provi ad aggiustarti».
Sono difettosa. Una macchina che non funzionerà mai più a dovere. Eppure lui vuole provare ad aggiustarmi. Potrebbe essere inutile, qualsiasi sentimento lui provi per me, qualsiasi quantità di tempo vorrà sprecare. Potrebbe essere inutile.
Ma mi interessano davvero le conseguenze?
Mi interessa davvero quella parola? Inutile.
Ho sempre pensato che il significato che si da alle parole cambi appunto da una persona all’altra, che sia soggettivo. Magari io darei un certo significato ad una certa parola. E magari mia madre gli sarebbe un significato diverso, magari opposto.
Beh, ho appena deciso di non dare un significato alla parola inutile. Ho appena deciso che non me ne frega niente, di niente. Ho appena deciso di vivere alla giornata. E ho appena deciso che per lui ne vale la pena. Soffrire, gioire, sorridere, piangere, lottare. Decisamente, ne vale la pena.
«Aggiustami», riesco a dire, trattenendo per miracolo altre lacrime.
Un attimo. Un momento. Meno di una manciata di secondi e le sua labbra sono sulle mie. Vogliose. Fameliche. Felici. Sorride, Zayn. Contento della mia risposta, probabilmente. Sorride contro le mie labbra, totalmente incurante delle auto che ci scorrono intorno alla velocità della luce.
Un attimo, e schiudo le labbra, facendo incontrare la sua lingua con la mia, lasciando che il suo sapore forte si mischi con il mio, tanto dolce. Diversi, eppure che sembrano fatti apposta per stare insieme. Come fossero due pezzi di uno stesso puzzle.
Un attimo e le sue mani si infilano sotto la mia maglietta, spudorate.
Ed è un attimo, prima che mi accorga di quello che sta succedendo.
Ma non faccio in tempo a fermarmi, che Zayn ferma le mani lungo la mia schiena, lasciandomi un ultimo bacio a stampo. Ho il viso bollente, lo so. Le labbra gonfie, so anche questo. Ma non potrebbe importarmene di meno, a dire il vero.
«Scusa», lo sento mormorare dopo un attimo, le labbra premute delicatamente sulla mia fronte. E sto per chiedergli di cosa si stia scusando, ma ancora una volta non faccio in tempo. E fortuna che sono io quella con l'intuito super sviluppato. Certo, come no. «Stavo andando oltre...», mormora ancora. Un soffio di vento caldo contro la mia fronte.
«Ma ti sei fermato», gli dico sorridendo.
Non riesco a smettere di farlo, è più forte di me.

***

ZAYN'S POINT OF VIEW.

Ma ti sei fermato.
E sorride. Sorride. E non sembra aver intenzione di smettere, a dirla tutta. Ma in fondo il suo sorriso è talmente bello e caloroso che vorrei – egoisticamente – che non smettesse mai.
Mi sono fermato, sì. Non so come, ma sono riuscito a fermarmi prima di fare la cazzata più grande della mia vita. Prima di rovinare tutto. Prima di spaventarla. Prima di andare troppo oltre. Mi sono fermato, prima che mi fermasse lei.
«E se non l'avessi fatto?».
«Il punto è che tu l'abbia fatto, Zayn», ribatte, prima che possa anche solo pensare, a qualsiasi cosa. E il mio nome, pronunciato dalle sue labbra... boh, è quasi meno orrendo e odioso di quanto non sia. «Il punto è che non sei male come credi».
Perdo un battito, trattenendo il fiato per uno, due, dieci secondi.
Ha capito tutto, o quasi, senza che io le dicessi una parola.
«Il punto è che non mi conosci», le dico duro, passandole un dito sul labbro inferiore, per poi aiutarla a rimettersi al suo posto. Le allaccio la cintura, in silenzio, senza più dire una parola. La sento irrigidirsi sotto le mie dita, ma anche lei non apre bocca. Niente di niente. «Heidi...».
«Lascia stare, non ha senso».
Una pugnalata, dritta al cuore. Cinque parole, cinque stilettate. E muoio cinque volte, al sentirla parlare in quel modo. Con quel tono di voce. Cinque parole, che rovinano una giornata di per sé quasi perfetta.
E al solito è colpa mia.
Tiro un pugno contro il volante, facendola sobbalzare. Una manciata di secondi, e inizia a tremare. Le mani, le labbra. Trema. E la colpa è solo mia. Rimetto in moto, ignorandola. Sono troppo incazzato con me stesso per poter fare qualsiasi cosa.
Perché dico sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato.
Perché rovino sempre tutto, quasi senza accorgermene.
«Piccola, parlami». È tutto quello che riesco a dire, dopo una mezz'ora, fermi ad un semaforo. Respira piano, con la testa poggiata al finestrino e gli occhi lucidi. Le mani che ancora le tremano. «Sono uno stronzo, lo so... e mi dispiace averti trattata di merda, scusami».
Non mi scuso mai, di solito. Anche se so perfettamente che la colpa è solo mia.
«Non sono l'unica che ha bisogno di essere aggiustata», la sento dire in un sospiro. Si passa velocemente una mano sulla guancia, portandone via una lacrima sfuggita al suo controllo. «Devi anche lasciare che io aggiusti te, se vuoi che funzioni». Il semaforo è ancora rosso, e io sono appena rimasto senza parole, col respiro mozzato a metà.
«Sicura di voler sapere tutta la storia?», le chiedo mentre il semaforo diventa verde. Annuisce appena, appena in tempo perché io possa mettere la freccia e svoltare verso il quartiere di Charlie. «Andiamo da una persona allora...», mormoro con un mezzo sorriso.
Osservo con la coda dell'occhio la sua espressione.
Confusa, soprattutto.
Vedo un mezzo sorriso comparire sul suo viso, ma sinceramente non ne riesco a capire il motivo. Insomma, era arrabbiata con me, a ragione, per il mio averla trattata di merda. Ma le basta un gesto per tornare a sorridere. No, penso che non la capirò mai.
«Fammi indovinare... la tua ex ragazza può raccontarmi la tua storia, meglio di quanto possa fare tu?».
Ridacchio, scuotendo piano la testa. Ex ragazza? Beh, forse sì. Forse Perrie si divertirebbe a dare la sua versione dei fatti. Forse mi sputtanerebbe, alla grande. Ma il fatto è che non mi fido di lei, non più.
«Migliore amica, non ex ragazza», la correggo con un sorriso. Heidi si passa una mano tra i capelli biondissimi, arrossendo violentemente. Una sola parola per descriverla: adorabile. «Charlotte non vede l'ora di conoscerti», aggiungo continuando a guardarla con la coda dell'occhio. Lei inclina la testa da un lato, sempre più confusa. È comprensibile. La mia migliore amica le ha praticamente dato addosso, la prima e ultima volta che si sono viste.
«Io non ero un problema?», mormora la bionda, mentre io parcheggio dietro casa di Charlotte.
«L'ha detto senza conoscerti», le dico scendendo dall'auto e facendo il giro per aprire la portiera e aiutarla a scendere. Vengo travolto dal suo odore di fragola. Travolto dal suo abbraccio. Travolto dallo svolazzare dei suoi capelli che mi solleticano il volto. Travolto da Heidi, tutta quanta.
«Dovrei collegare il cervello alla bocca, di tanto in tanto», mi dice ridacchiando, ancora stretta a me. Lunatica lei e lunatico io. Sì, siamo proprio una bella coppia. Le lascio un bacio sui capelli, senza aggiungere che in fondo ha ragione. Molto, molto in fondo. «Sicuro che Charlotte non ce l'abbia con me?».
«Sicurissimo, principessa».
Heidi rabbrividisce ma, proprio quando sto per mettermi a ridere, veniamo interrotti da Charlie, che si schiarisce la gola poco lontana da noi, per attirare la nostra attenzione. La bellissima ragazza tra le mie braccia nasconde il viso nella mia spalla, mentre io mi volto appena per sorridere alla mia migliore amica.
Charlie, dal canto suo, ci guarda come venissimo da un altro pianeta.
Ma con un sorriso rassicurante sulle labbra.
«Malik! Tu e la tua ragazza avete intenzione di rimanere lì ancora per molto?», la anticipa Harry comparendo dietro di lei e cingendole delicatamente i fianchi. Certo. Tra quei due non c'è assolutamente niente. Come no.
«Pronta?», chiedo ad Heidi in un sussurro.
«Pronta», sussurra di rimando dandomi un bacio a stampo, centrando perfettamente le mie labbra, al solito. Devo farmi insegnare. Magari potrei prendere una di quelle bende nere, spesse, e provare a stare una giornata senza vedere. Forse, per lei, sarei disposto a farlo. «Aspetta…», mi ferma quando sto per allontanarmi. «Sono la tua ragazza?».
«Solo se vuoi considerarti tale», le dico in un orecchio, in modo che lo senta solo lei. In modo che associ le mie parole alle stesse pronunciate la prima volta che le ho chiesto di uscire. In modo che capisca che può essere lei a decidere, che io non la spingerei a fare nulla che lei non voglia fare.
Sto diventando un pappamolla, bene.
O forse ti stai solamente innamorando. Dannata coscienza, chiudi il becco.
Torno sulla Terra quando la sua risata mi arriva alle orecchie, limpida e meravigliosa, forse anche più del solito. Appena in tempo per vederla abbracciata ad Harry. Appena in tempo per sentire il mio migliore amico sussurrarle un “grazie”. E appena in tempo per vedere Charlotte impalata a qualche metro da noi, senza sapere che fare.
«Non so che fare», mi dice, una volta abbracciata a me.
«Ti verrà in mente qualcosa, Lot… te la lascio, se te la senti di raccontarle tutto», aggiungo dolcemente lasciandole un bacio sui capelli. Si irrigidisce appena. Come se la vecchia, menefreghista, e apparente fortissima, Charlotte, si fosse sgretolata sotto le dita di Nathan.
«Tutto?», mi chiede di rimando, allontanandosi per guardarmi negli occhi.
Mi limito ad annuire. E so che dovrei essere io a raccontare ad Heidi la mia storia. Ma non sono mai stato bravo con le parole. È sempre stata Charlie ad avere l’ultima parola, nel gruppo. E l’ho sempre ammirata per questo.
In più, non credo di avere la forza necessaria per riportare a galla tutto.
«Tutto… io e Harry dobbiamo fare una cosa», aggiungo sfiorandole delicatamente un polso, ancora leggermente livido. Mi guarda con gli occhi sgranati e le labbra schiuse a formare una “o”. La vedo scuotere violentemente la testa, con forza. «Stai tranquilla».
Mi spinge via, tremando appena.
«Vi farete ammazzare, e tu mi chiedi di stare tranquilla?», mi dice a voce alta, passandosi una mano tra i capelli color fragola. Ha paura. Per me. E per Harry. Perché ha capito tutto, come sempre.
Ma sono troppo concentrato sulla reazione della mia ragazza, per potermi curare di Charlotte. Heidi è come diventata di pietra. Ancora una volta per colpa mia. Sussurra qualcosa ad Harry, che dopo qualche secondo di indecisione la guida dentro casa della mia migliore amica, tenendola per un gomito.
Lei mi ignora, nel modo più assoluto.
«Tu pensa a raccontarle tutta la storia, a farmi perdonare ci penso io», le dico con un mezzo sorriso lasciandole un bacio veloce sulla fronte, per poi voltarmi e salire in macchina, mentre il mio migliore amico la stringe in un abbraccio e le sussurra qualcosa, tenendole il viso tra le mani.
Li vedo scambiarsi un bacio veloce, e anche da quella distanza posso vedere una lacrima di frustrazione brillare sulla guancia della mia migliore amica. «Allora, andiamo da chi penso?», mi chiede il riccio una volta in macchina.
Annuisco, serrando la mascella.
E metto in moto, accendendomi una sigaretta. Senza riuscire a dire niente. Me ne sto in silenzio per tutto il viaggio. I venti chilometri più lunghi della mia vita, cercando di non pensare né ad Heidi, né alla testa di cazzo che sto per rivedere dopo tre anni.
Cercando di non pensare al sorriso di mia sorella.
O mi metterei a piangere come un bambino.
Parcheggio davanti a casa di Perrie con un sospiro. Inutile dire che non so dove abiti Nathan. E inutile dire che la casa della mia ex è l’unico luogo dal quale possa iniziare a cercarlo.
«Bingo», mormora Harry scompigliandosi i ricci e indicando poi un’auto che arrivando non avevo notato. Un SUV nero. L’auto di Nathan. Al cento per cento. «Ehi, andrà tutto bene», aggiunge dopo un attimo stringendomi una spalla. Riesco a sorridere, in un modo o nell’altro. Faccio un respiro profondo, annuendo.
«Sarà più difficile chiedere scusa ad Heidi, vero?», scherzo. Stiamo camminando lungo vialetto, dritti verso la porta d’ingresso. Ma non ho intenzione di tirarmi indietro. Sono stanco di scappare. Basta fuggire.
«Sicuramente», ribatte Harry, ridacchiando.
E ho il dito a qualche centimetro dal campanello, quando vediamo la porta spalancarsi. E mi ritrovo davanti lo stesso stronzo che tre anni fa mi ha portato via mia sorella. Cresciuto. Con la barba quasi incolta. Ma con gli stessi, identici, occhi glaciali.
«Malik, Styles… quanto tempo». Nathan Grey. Risputato persino dall’inferno.



 
 

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Capitolo 13
*** 13. ***


*buongiorno splendori... allora, wow. riesco ad aggiornare quasi in orario, non è strano?
molto molto strano, direi. comunque, il capitolo è stato parecchio impegnativo da scrivere.
ma tutto sommato non penso sia venuto tanto male, yeeeh.
grazie per le recensioni, aumentate tantissimo di capitolo in capitolo.
e vi giuro che ogni volta che controllo le recensioni ho un sorriso da un orecchio all'altro, lol.
bene, detto questo, vi lascio alla lettura... alla prossima, xx Fede.

p.s.: non odiatemi per la suspence finale, vi prego c:*

 
13.
 


HEIDI'S POINT OF VIEW.

Non voglio piangere. Quando ero piccola, mio padre mi ha sempre detto che piangere faceva bene, soprattutto in certi momenti, quando non vedi altra via d’uscita. Ma piangere non mi fa bene. Non mi fa sfogare. Al contrario, mi sento come svuotata.
Non voglio, ma evidentemente il mio corpo la pensa in modo diverso.
Sento una lacrima bollente scorrere lungo la guancia e fermarsi un attimo sul mento, per poi scivolare via, nel vuoto. Un attimo, e quella lacrima è già passato. Un attimo, e cerco di tirar fuori un sorriso. Almeno un sorriso a metà, per non far vedere a Charlotte quella che sono in realtà.
Debole. Inutile. Difettosa. Impaurita.
«Non devi nasconderti, non con me», mi dice lei mettendomi delicatamente tra le mani un fazzoletto. Mi irrigidisco all’istante. In fondo lei ha detto che io sono un problema. Che non voleva che io uscissi col suo migliore amico. E ora fa la carina? «Lo so che ti ho trattata male…», aggiunge dopo una manciata di secondi.
Riesco solo ad annuire. Non posso fare altro. Sono impietrita, con quelle tre parole che mi frullano per la mente. Vi farete ammazzare. Non riesco a smettere di pensarci, è più forte di me.
E Zayn non mi ha nemmeno guardata, prima di sparire. Non so dove sia andato. Non so perché se ne sia andato. Non so cosa voleva dire Charlotte. Non so un bel niente, al solito. Sono sempre l'ultima a sapere le cose... e anche stavolta non sta andando diversamente, a quanto pare.
«Senti, non mi interessa... voglio solo sapere dove sono andati...». Reprimo malamente un singhiozzo, senza nemmeno essere in grado di dire il suo nome senza soffrire. Non è incredibilmente strano? Sto male solo a pronunciare il suo nome, ora che non c'è. E di sicuro non è mai successa una cosa del genere.
Non a me almeno.
«Sono da Nathan», la sento dire dopo un po'. Un sussurro tanto flebile che persino io faccio fatica a sentirlo. Ma lo sento. E sono a dir poco confusa. Non ho la più pallida idea di chi possa essere questo Nathan.
Posso solo immaginare che Charlotte sia spaventata da lui.
Che magari le abbia fatto del male.
Sento il suo respiro velocizzarsi sensibilmente, fino a fuoriuscirle dalle labbra in piccoli sbuffi. Come un singhiozzo mal trattenuto. Avvicino la mano verso di lei, trovando il suo ginocchio nudo, che stringo appena. Allora lo sento, il singhiozzo. Uscire senza nemmeno che lei lo voglia. Volare libero nell’aria, fino a schiantarsi contro il soffitto.
«Ti ascolto», le dico facendomi scivolare la giacca dalle spalle e mettendomi comoda. Ho come l’impressione che una volta finita, questa giornata mi sembrerà la più impegnativa della mia vita.
«Quello che adesso è il gruppo di Zayn, una volta era il gruppo di Nathan… facevamo tutti parte dello stesso giro», inizia Charlotte. La sento tirare su col naso, e passarsi una mano tra i capelli, per poi prendere a torturarne una ciocca. Sento le unghie battere tra loro e un respiro profondo farsi breccia nei polmoni della ragazza seduta al mio fianco.
Annuisco appena, porgendole poi una mano, che prende come fosse la cosa più preziosa del pianeta, stringendola delicatamente. E non posso far altro se non aspettare che continui a parlare, nonostante la curiosità mi stia uccidendo.
«Nate era il ragazzo grande che tutti volevano tenersi buono, quello che organizzava le feste migliori, quello che usava gli amici senza rendersene conto…». Si ferma qualche istante. Per ridere. Una risata triste, amara, fasulla. Deglutisco, passandomi la mano libera tra i capelli. Non sono sicura di voler conoscere tutta la storia.
Ma la domanda è un’altra.
Voglio conoscere Zayn? Ovviamente.
Tutto quanto? Certo.
«Hai detto che eravate nello stesso giro», riesco a dire, ad una manciata di secondi dalla sua risata. Non so se chiedere o meno. Ma faccio un respiro profondo. E mi costringo a chiedere. «Che genere di giro?».
Sento la sua presa sulla mia mano stringersi sensibilmente. E sussulto, sorpresa. Non so cosa pensare. Charlotte se ne sta al mio fianco, tesa come una corda di violino. Me la sto immaginando, persino col fumo che le esce dalle orecchie.
«Non ho mai visto tante anfetamine come quando giravamo con lui», dice piano. Pianissimo. Sembra essersi calmata. Ma le trema la voce, come se sia sul punto di scoppiare in lacrime. «Ci ha tirati tutti dentro, minacciando di dire tutto a Doniya se lo avessimo tradito…», aggiunge lasciandomi la mano.
E la sua voce è diventata nient’altro che un flebile sussurro, al pronunciare quel nome.
Tossico.
All’improvviso l’opinione di Victoria non mi sembra poi tanto sbagliata. Certo, mi fido di Zayn, più di chiunque altro. Ma c’è qualcosa che non torna. Perché darsi allo spaccio? E chi è questa Doniya?
«Così siamo entrati nel giro. Inizialmente per noia…». Tiro un sospiro di sollievo. Davvero, mi sento decisamente meglio. Noia. Per un attimo diventa la parola migliore del mondo. «Ma poi io e Perrie volevamo uscirne, e Harry la pensava come noi… ma a Zayn servivano i soldi, e sua madre aveva appena perso il lavoro…».
Charlie fa un respiro profondo, seguito da un sospiro, mentre io cerco disperatamente di assimilare il tutto, invano. Sto cercando di trovare una soluzione a tutto, ma sento come se mancasse un pezzo. Il pezzo fondamentale dell’enorme puzzle che è la vita di Zayn.
La vita del mio ragazzo. Dio, suona fin troppo bene.
«Poi che è successo?», chiedo giocando con una ciocca di capelli.
Altro respiro profondo. Altro battito che perdo.
«Doniya, la sorella di Zayn, ha trovato un sacchetto di erba nel suo armadio. Se l’è presa con lui, con me, con Harry, con Perrie… e col suo ragazzo… lei e Nathan stavano insieme», aggiunge Charlotte. La sento scuotere la testa, come se quello che mi ha appena detto non le piaccia.
E prende a gesticolare, mandandomi addosso il suo odore di shampoo al mandarino, continuando a raccontare di quanto Zayn e la sorella fossero legati. Di quanto lei le fosse legata. Di quanto secondo lei Nathan l’abbia usata. Di quanto si sia preso il suo amore senza darle niente in cambio. Fino alla fine.
Mi racconta dell’allontanamento di Doniya e Nathan, di quanto Zayn fosse perennemente incazzato con la sorella perché continuava a frequentarlo. E incazzato con Nathan per averla usata.
Mi dice di quando si sono lasciati. E poi ripresi. E poi lasciati. E di nuovo ripresi.
Di come Zayn si sia arreso all’evidenza. Doniya era innamorata di Nathan.
Mi racconta della primavera in cui l’hanno persa.
Del funerale. Del dolore di Zayn. Del processo in tribunale durato più di un anno. Di quando Nathan è stato scortato in galera. Dell’anno e mezzo appena passato a cercare di ricostruire le loro vite, cercare di andare avanti. Di dimenticare. Di smettere di soffrire.
Ma c’è ancora un particolare che non torna.
«Com’è morta Doniya?», mormoro mentre lei prende fiato, tra una frase e l’altra.
Sento un sospiro leggerissimo provenire dalla ragazza al mio fianco, che nel frattempo mi ha ripreso la mano, lasciando che le mie dita disegnino degli strani ghirigori sul suo dorso. Mi volto, di riflesso, e la sento ridacchiare amaramente.
«L’unico a saperlo di preciso è Nathan». Inarco entrambe le sopracciglia. E io che pensavo di avere una storia complicata. Insomma, sono solo diventata cieca. In confronto a loro io non ho passato assolutamente niente. «Io so solo che hanno avuto un incidente schiantandosi contromano contro un’altra auto, ma non so la dinamica precisa dell’incidente…», si giustifica.
La sento sorridere. E devo ammettere che Charlotte non è tanto male, a conoscerla.
«E Nathan non si è fatto niente…», mormoro tra me.
«Gli ha fatto più male Zayn, che non l’incidente», mi risponde lei, nonostante credevo non mi avesse sentita. E di riflesso mi irrigidisco, smettendo di disegnare sul dorso della sua mano. Gli ha fatto più male Zayn. Male. Zayn. «Ma non ti toccherebbe nemmeno con un dito, credimi», mi rassicura Charlotte intrecciando le dita con le mie.
Mi sento avvampare, per non so quale motivo. E lei scoppia a ridere, rilassata. Di certo più calma di poco fa. La sento scuotere la testa leggermente, lasciarmi una mano per legarsi i capelli, e poi alzarsi dal divano, ridendo sottovoce.
Sono vagamente scioccata dal racconto di Charlotte. Ma non ho intenzione di darlo a vedere. E voglio parlarne con Zayn, comunque. Voglio le sue parole, il suo dolore, la sua sofferenza, la sua versione dei fatti. Voglio sapere cosa ha provato lui, dalle sue labbra.
Non da quelle della sua migliore amica.
Faccio un respiro profondo, posandomi poi una mano sulla guancia in fiamme. E mi viene da sorridere. è Zayn che mi fa questo effetto. Che mi fa arrossire, sorridere, incazzare, ridere, svegliare col piede giusto… sperare di tornare a vedere.
E amare. Amare, sì.
È possibile che mi stia innamorando di lui. E non è come con Alex. Non ci ho messo anni per accorgermene. Alex non mi mancava quando non c’era. Non così, almeno. Ma forse sono solo cresciuta, maturata. E Zayn mi manca, quando non c’è. Come adesso. Zayn mi capisce, meglio di quanto Alex abbia mai provato a fare. Zayn mi vuole, più di quanto mi abbia mai voluta Alex.
«Ti ho portato una tazza di the».
La voce di Charlotte interrompe il flusso dei miei pensieri. E riapro occhi – anche se invano – con un sospiro e un sorriso, mentre lei mi mette una tazza bollente tra le mani. Ma il calore non mi da tanto fastidio, e l’odore di the alla vaniglia mi perfora le narici, ricordandomi il profumo di tabacco di Zayn. «Lui si fa ancora qualche spinello, vero?», le chiedo, facendole quasi andare di traverso il suo the. Ridacchio appena, sentendola imprecare.
«Qualche volta, sì… ti fa dimenticare tutto per un paio d’ore, soprattutto quando va a trovare Doniya, ma come…?».
Rido, scuotendo la testa, per poi sfiorarmi il naso con due dita. L’odore di marijuana si riconosce, eccome. E Zayn odora di erba praticamente sempre, come se vivesse in una piantagione di cannabis.
«Non mi dispiace come odore, su di lui… basta che non ne sia dipendente», ammetto facendo spallucce. Insomma, se gli serve a stare meglio, ben venga. Basta che non si faccia uccidere dalla droga. E sarò egoista, ma non lo voglio perdere, non adesso che l’ho trovato.
Stavolta è Charlie a ridere. La sento sorseggiare il suo the. Ma un attimo dopo ho di nuovo i suoi occhi addosso. È come se fosse indecisa se dirmi qualcosa o meno. Inclino la testa da un lato, facendole capire che sto aspettando che si decida a parlarmi. E ridacchia, di nuovo, in imbarazzo.
È bello che tra me e lei non ci sia bisogno di troppe parole. È bello ridere con la migliore amica del mio ragazzo. Nonostante avessimo iniziato col piede sbagliato. Penso proprio che potremmo andare d’accordo, nonostante l’inizio burrascoso.
«Cosa provi per lui?». Sento il divano muoversi, segno che si sta mettendo comoda per ascoltare quello che ho da dire. Ma non ho niente da dire. Oppure sì? Non lo so, non saprei che dire. «Da donna a donna, giuro che non gli dico niente», aggiunge dopo una manciata di secondi. E la sento sorridere, mentre mi stringe piano un ginocchio.
«Non lo so…».
Scoppia a ridere, divertita. «Certo, e io non provo niente per Harry, come no», borbotta. Faccio un respiro profondo, l’ennesimo della giornata, e decido di sputare il rospo. Di dirle tutto quanto. Di confidarmi come non ho mai fatto. Come con Victoria non posso fare, perché non capirebbe.
«Con lui mi sento come se potessi essere me stessa, senza fingere niente. Mi sento come se vivessi perennemente su una nuvola, come se avessi ripreso a respirare dopo anni… come se con lui mi sentissi bene, nel vero senso della parola, e non solo meglio».
Bene, non meglio.
Bene, come se vivessi per la prima volta dopo tre anni.
Bene, come se non avessi mai smesso di vedere.
Prendo fiato. Ed espirando mi sento leggera come non succedeva da troppo tempo. E Charlie espira con me, borbottando un “wow”, leggero come un battito d’ali di farfalla. Ma è un attimo, e la bolla nella quale chiudo sempre me stessa e i miei pensieri, esplode.
Charlotte mi abbraccia, mi tira a sé rischiando di farmi rovesciare il the. Mi tira a sé facendomi ridere. Mi stringe a sé come se non ci fosse un domani. E, come Harry qualche ora prima, mi sussurra un “grazie” che vale più di mille parole.
«Non sorrideva così da una vita», mi dice, alludendo evidentemente a Zayn. «Forse nemmeno con Perrie ha mai sorriso così… la sua ex», aggiunge ridacchiando, vedendomi perplessa. E a ragione. Me lo sentivo che quella Perrie fosse la sua ex.
Sesto senso, forse.
«Perrie c’entra qualcosa con Nathan?».
«Oh, eccome… mi stavo dimenticando. Nathan è il motivo per cui lei e Zayn si sono lasciati. L’ha manipolata, Perrie è uno dei suoi burattini, come lo sono stata io, e come lo è stata Doniya», confessa, triste.
«Cosa ti ha fatto?», riesco a chiedere stringendole una mano.
Ma Charlie non fa in tempo a rispondermi, che suonano alla porta. Si alza in un lampo, e la sento correre a piedi nudi sul parquet. Spero che sia Zayn, come lei spera che sia Harry, non c’è bisogno di un genio per intuirlo.
Spero che stia bene. Spero che non si sia fatto ammazzare, come ha suggerito Charlotte.
Continuo a respirare con calma, ma tormentando la stoffa del divano con le mani, in preda al panico. Panico che cerco di tenermi dentro. Un panico solo mio. Che deve rimanere dov’è, perché nessuno deve capire quanto posso star male per Zayn.
Lo farei capire a lui, se ci fosse. Ma non c’è.
E mi manca, come se mancasse da giorni, e non solo da un paio d’ore.
Mi manca da morire.


 

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Capitolo 14
*** 14. ***


*ragazze sono in ritardo, e per di più di corsa.
quindi, vi lascio direttamente col capitolo.
un grazie enorme a chi continua a recensire, siete l'amore c:
alla prossima, xx Fede.*




14.


ZAYN'S POINT OF VIEW.

Se penso che Nathan era il mio migliore amico, rabbrividisco. Anzi, no. Quasi mi viene da vomitare. Come ho potuto essere il suo migliore amico? come ho potuto fidarmi di lui a tal punto da fargli conoscere mia sorella? Come ho potuto lasciare che la usasse?
Mi fa schifo. Mi faccio schifo io, più di tutto.
Lo guardo negli occhi, quegli occhi color ghiaccio di cui Doniya era profondamente innamorata. Lo guardo negli occhi, cercando di capire se sia cambiato o se sia lo stronzo tossico di sempre. Ha il solito sguardo malizioso che a mia sorella piaceva tanto, e le pupille dilatate a dismisura.
Vera la seconda. Stronzo e tossico.
Non è cambiato di una virgola, c’era da aspettarselo.
«Sei fatto», gli fa notare Harry, addirittura prima che io riesca a formulare un pensiero di senso compiuto. E non ho idea di come, ma riesco a trattenermi dal prenderlo a pugni. Scoppia a ridere, e di riflesso sento i miei pugni stringersi fino a far sbiancare le nocche.
«Ma no, io e la biondina ci stavamo solo divertendo un po’…», dice con voce roca una volta placate le risate. La biondina. Perrie, che compare mezza nuda dietro di lui, con gli occhi sgranati e lucidi dal pianto, e il labbro che le trema leggermente. «Vero, piccola Perrie?», aggiunge strattonandola verso di sé.
La vedo annuire velocemente, ma non lo guarda.
I suoi occhi celesti stanno cercando i miei, in una muta richiesta di aiuto. È terrorizzata, glielo leggo negli occhi. Le ha sicuramente fatto qualcosa. E Perrie vuole scappare, come mai prima d’ora.
«E’ una persona, non il tuo giocattolo», sbotto, visibilmente incazzato.
Ma a Nathan non potrebbe fregarne di meno, continua a ridere. Tranne quando mi viene da sorridere, e tendo istintivamente la mano verso Perrie. Allora Nathan sgrana gli occhi, spostando lo sguardo da me a lei, interdetto. Però non dice una parola, nemmeno quando la sua adorata marionetta mette la mano nella mia, scrollandoselo di dosso.
«Vieni in macchina», le dice Harry, sorpreso almeno quanto me che Nathan non abbia mosso un muscolo, se escludiamo la mascella contratta. È strano, in effetti. Non è da lui lasciar andare le sue vittime in questo modo.
«Dove pensi di andare, troietta?», le urla Nate, risvegliandosi finalmente dal suo stato di trance. Ma Perrie è già lontana, stretta ad Harry, che la fa salire in auto, per poi salire con lei a continuare a tenerla stretta.
E così, intento a guardare il mio migliore amico e la mia ex abbracciati, non mi accorgo del pugno diretto contro il mio zigomo se non quando sento il dolore stordirmi, segno che il suo destro è arrivato a destinazione. Sento Perrie gridare, e per poco non cado a terra, quando un secondo pugno mi colpisce dritto sullo stomaco.
Cerco di prendere fiato, piegato in due, e finalmente riesco a reagire, tirandogli un pugno sullo zigomo, che lo fa traballare. «Per mia sorella, stronzo», sputo con rabbia, passandomi poi il dorso della mano sulla guancia e scoprendola sporca di sangue. «Per averla usata». Altro pugno, nello stomaco, che lo fa piegare in due. «E per averla uccisa», mormoro preparandomi a sferrargli un calcio nelle parti basse, ma Harry mi tira indietro per la spalla, cercando di fermarmi.
«Zayn, lascia perdere… ti farai ammazzare», mi dice usando le stesse parole di Charlie, mentre nel frattempo Nathan si sta alzando, ridacchiando divertito. Ho titubato, e in più Harry mi sta fermando dal massacrarlo di botte. «Lascia stare», ripete il riccio spingendomi verso l’auto.
Nathan ride di gusto. In parte per l’anfetamina.
Ma in parte ride di me.
«Prova a toccare di nuovo Charlie, o Perrie, e ti rovino quel bel faccino, Grey», gli dico, lasciando mio malgrado che Harry mi allontani da lui. Gli spaccherei la faccia, ma le prenderei. Le ha prese solo una volta a causa mia. Ma è stato dopo la morte di Doniya. Le ha prese senza fiatare. Senza difendersi.
Questa volta mi farebbe a pezzi, come quando facevamo il liceo. E non voglio che Heidi mi veda in quello stato. Anche se, tecnicamente, lei non mi può vedere. Tecnicamente. Ma capirebbe comunque che mi hanno pestato, sentirebbe l’odore del sangue, e si preoccuperebbe.
Poi si darebbe la colpa per non potermi aiutare perché non ci vede.
La conosco, anche se da poco tempo.
«Le tue donne, Malik… ma un uccellino mi ha detto che ce n’è una terza». Mi irrigidisco all’istante, ad un paio di passi dall’auto. E Harry si blocca con me, stringendo la presa sulla mia spalla. «Allora? Non stavi scappando?». Sbuffo violentemente, cercando di trattenermi dal fare una delle mie solite cazzate.
Io non sono più così. Non bevo, e non mi faccio quasi più. Non faccio a botte per divertimento, contro i più deboli. E di sicuro non spaccio. Io non sono come lui. Lo sono stato, è vero. Ma non lo sono più.
Io sono migliore di lui. Io ho Heidi.
«Com’è che si chiama? Ivy? Heidi?».
«Non devi nemmeno azzardarti a nominarla», gli ringhio contro, voltandomi di scatto. Colpito e affondato, Malik, complimenti. Mi passo una mano tra i capelli, calmando il respiro, mentre Nathan scoppia a ridere per l’ennesima volta. È consapevole di aver appena trovato il mio punto debole, e più che soddisfatto.
«Se no? Mi fai fare la fine di tua sorella?».
Apro la bocca, come se volessi ribattere, ma non ci riesco. Non riesco nemmeno a formulare un pensiero concreto. Ha toccato il tasto dolente per eccellenza, dato che lui è l’unico a sapere davvero come è morta Doniya. L’unico che sappia come è andato l’incidente. E nessuno è mai riuscito a farlo parlare.
Stringo i denti e salgo in macchina. «Zayn…». La voce di Harry mi arriva alle orecchie come attutita dalla distanza, anche se siamo vicinissimi. Ma non voglio parlare di mia sorella. Non penso di averne la forza. «Sei ferito, lascia che guidi io».
Annuisco a stento, passando in silenzio dal lato del passeggero e posando la testa contro il finestrino, cullato dal respiro leggero di Perrie dai sedili posteriori. Chiudo gli occhi, mentre il mio migliore amico mette in moto, nel più completo silenzio.
Ferito, ma non solo esteriormente.
Sto male dentro. Ho come un buco nero al posto del cuore, che mi corrode.
Incolmabile.
«Mi dispiace di avergli detto di Heidi, Zay», mi dice Perrie in un soffio, che riesco a percepire solo perché ho gli occhi chiusi e sono concentrato sui suoni, e non sulla vista come succede di solito. Sorrido appena. Ecco come fa Heidi. Ma non è il momento di stimarmi per una cosa del genere. «Mi dispiace», ripete. E quando la sento singhiozzare per poco non mi sento male.
«Non è colpa tua, Pez».
Mi ignora. Completamente. «Lui mi ha costretta a spiarti… non volevo dirglielo, ma mi ha…». Mi volto di scatto, posandole due dita sulle labbra e scuotendo la testa. Non voglio che si senta costretta a dirmi cosa ha dovuto subire. Ma da come ha la tentazione di ritrarsi dal mio tocco, penso di aver capito.
«Non ti farà più del male, te lo prometto», le sussurro prendendole una mano e stringendola appena, mentre con la mano libera le asciugo le lacrime dalle guance, il più delicatamente possibile. «Puoi stare a casa mia, o da Charlotte», aggiungo con un mezzo sorriso, che per mia fortuna riesce a ricambiare.
«Come faccio adesso?», mi chiede mentre Harry parcheggia, a qualche metro da casa di Charlotte. Inarco un sopracciglio, ma dopo un attimo mi rendo conto. Non fa altro che spostare lo sguardo dal proprio corpo seminudo alla porta di casa.
È nuda. E non solo fisicamente. Si sente come se chiunque potesse leggerle dentro.
«Ti porto in braccio io, piccola», mi viene spontaneo dirle, un mezzo sorriso ad incresparmi le labbra. La vedo arrossire appena, ma dopo qualche secondo annuisce, anche se leggermente titubante. Harry nel frattempo ha spento il motore ed è sceso dall’auto, sorridendo appena. Bah, non lo capisco, ma non fa niente. Mi importa solo di Perrie, in questo momento.
Scendo anch’io, aprendole la portiera e aprendo semplicemente le braccia.
Non voglio che pensi che la sto tirando fuori dall’auto con la forza. Nathan l’ha toccata. E io non voglio che sentendo le mie mani su di sé si ricordi del dolore. Non voglio che stia male, perché l’ho amata. E le voglio ancora un bene assurdo, nonostante abbia sofferto a sapere che mi tradiva.
«Lei è fortunata ad avere te», mi dice una volta stretta tra le mia braccia. Mi blocco qualche istante, ma poi mi viene da sorridere. Mi aspettavo tanta gelosia da distruggere mezzo pianeta, e invece niente. Si limita a nascondere il viso nell’incavo del mio collo, sospirando. Ma mi ha perso ormai, come ragazzo. Posso solo cercare di esserle amico.
Di certo non posso tornare con lei solo perché ne ha bisogno.
«Mi dispiace che sia andata così».
Harry ha appena suonato il campanello, quando sento le labbra di Perrie lasciarmi un bacio leggerissimo sulla guancia e sussurrarmi un “grazie” che in questo momento significa più di qualsiasi altra cosa al mondo. La lascio scendere dalla mia presa, depositandole poi un bacio sui capelli biondi.
Ed è un attimo, prima che Charlotte apra la porta, a bocca aperta e con le lacrime agli occhi. Un attimo, prima che si accorga della sua migliore amica e la tiri a sé, scoppiando a piangere. Un attimo, e vedo anche Perrie scoppiare in lacrime.
«Vai da Heidi», mi dice Charlie posandomi una mano smaltata di rosso sull’avambraccio, ma continuando a tenere strettissima Perrie, quasi fino a farle male. E non posso far altro se non annuire, quando il sorriso della mia migliore amica mi perfora il cervello, facendomi ridacchiare di rimando.
Quel sorriso vale più di uno dei suoi lunghissimi discorsi apparentemente senza senso.
Quel sorriso vuol dire che ha intenzione di abbracciare Perrie e Harry fino a sentirsi male. Vuol dire che ha parlato con Heidi. Vuol dire che la mia ragazza l’ha presa bene, tutto sommato. Vuol dire un’infinità di cose, solo con uno sguardo e un sorriso.
Così la lascio lì, accorgendomi appena della pacca di Harry sulla spalla, seguita da una risatina, che però ignoro. Sta andando tutto alla grande, o quasi. Tutto si sta risolvendo, con Perrie libera dalle grinfie di Nathan. Ora non mi resta che scoprire la reazione di Heidi a tutto questo.
Dalle sue labbra, e non da un sorriso allusivo di Charlotte.

***

HEIDI'S POINT OF VIEW.

Non riesco a smettere di pensare alle parole di Charlotte, a quello che mi ha detto sul passato di Zayn. Mi fido di lui, e il fatto che spacciasse per noia, o perché la madre aveva perso il lavoro è… esemplare.
Non fa di lui una brutta persona. O un cattivo ragazzo.
Era così, e posso accettarlo. Solo, non capisco perché non mi abbia detto tutto lui. No, proprio non ci arrivo. Che se ne vergogni? Che non riesca a parlarne? È tutto possibile, in effetti.
Ma all’improvviso sono costretta a riscuotermi dai miei pensieri, sentendo il suo odore arrivarmi prepotentemente alle narici, misto all’odore di sangue ormai secco, e seguito dal rumore leggero dei suoi passi sul parquet del salotto di Charlotte.
Mi tremano le mani, e tal punto che quasi non mi cade la tazza, ormai mezza vuota. Ma le sue mani sono immediatamente sulle mie, e in un istante torno a respirare. «Sanguini». È tutto quello che riesco a dire. In un soffio, e storcendo il naso.
Zayn mi toglie delicatamente la tazza dalle mani e incastra le sue dita con le mie. Piano, con calma. Tanto piano che percepisco distintamente una serie di brividi scivolarmi lungo la schiena. «Ti ho fatta preoccupare». E annuisco, anche se la sua non è una domanda, perché dire che sono stata in pensiero tutto il pomeriggio, è sminuire quello che ho provato.
Ansia. Angoscia. Preoccupazione. Paura.
«Almeno non ti sei fatto ammazzare», mormoro, quasi sperando che non mi abbia sentita. Ma lo sento irrigidirsi contro le mie dita. Ha sentito. Oh, bene. «Scusa», mormoriamo all’unisono. Allora ridacchio, scuotendo leggermente la testa, e facendo ridere anche lui.
«Scusa se me ne sono andato senza spiegarti niente, scusa se ho chiesto a Charlie di dirti tutto, scusa se non ho avuto la forza di baciarti prima di andare da Nathan… ma ero incazzato, e tu eri incazzata e…».
Mi trattengo a malapena dal ridere. È adorabile quando si scusa. Cambia tono di voce, come un bambino piccolo che si sente terribilmente in colpa. Gli poso due dita perfettamente sulle labbra, e lo sento ridacchiare, sorpreso.
«Ti ha fatto molto male?», gli chiedo, spostando le dita verso lo zigomo e sentendolo gonfio e ricoperto di sangue secco. Mugola qualcosa, contrariato, allora alzo gli occhi al cielo, prendendogli il viso tra le mani e posando delicatamente le labbra contro lo zigomo contuso. «Dovresti farti vedere…».
Per tutta risposta mi lascia un bacio a stampo e si allontana di corsa, facendomi rimanere a bocca aperta. Sbuffo, ma tempo mezzo minuto e sento Charlie sedersi al mio fianco, seguita da un altro peso sul divano, dall’altro lato.
Una ragazza. Con un forte odore di shampoo alla ciliegia e bagnoschiuma alla lavanda. Una mano che viene passata tra i capelli. Un respiro che viene trattenuto, e una mano che batte contro la coscia, che sento solo per via delle unghie lunghe.
Perrie, immagino.
«Devi essere Perrie», provo a indovinare, facendo ridacchiare Charlotte, mentre nel frattempo Harry e Zayn chiacchierano dalla cucina. Sento la ragazza al mio fianco borbottare qualcosa, evidentemente sorpresa, allora scoppio a ridere.
Ma non dice una parola. È come impietrita dalla mia capacità. Non che sia una gran cosa, certo. Ci vuole solo una gran concentrazione, tutto qui. Niente di che. Sembra cosa da tanto, ma senza uno dei cinque sensi è abbastanza normale che il corpo umano sviluppi gli altri.
Sento i passi di Zayn e Harry venire verso di noi, e di conseguenza mi volto, ancora prima che le altre due ragazze se ne accorgano. Sono consapevole di sembrare un aliena, la maggior parte del tempo. Devono farci l’abitudine.
«Prenditi cura di Zayn, mi raccomando», mi sussurra Perrie, riprendendosi dallo shock, mentre Harry e il mio ragazzo si avvicinano. Annuisco, con un mezzo sorriso, porgendole una mano, che mi stringe riconoscente.
«Non ci credo che andate d’accordo».
Rido, ma Charlie mi anticipa. «La tua ragazza va d’accordo con tutti», dice alzandosi dal divano e lasciandomi un bacio veloce su una guancia. Mi sento arrossire, e mi copro il viso con le mani, in imbarazzo. «Rimanete quanto volete, noi andiamo a fare una doccia, vero Pez?».
È l’ultima cosa che riesca a sentire con esattezza, prima del mal di testa.
Un dolore che parte con una fitta, che diminuisce appena, ma che non accenna a cessare. Mi massaggio le tempie, mentre Harry e le ragazze si allontanano. E sento lo sguardo preoccupato di Zayn addosso, ma lo scaccio con un mezzo sorriso e un cenno della mano.
«Stai bene?».
«Sì, tranquillo…». Ma non sono convinta di stare bene, nemmeno lontanamente. «Meglio il ghiaccio del pronto soccorso?», aggiungo ironica, avendo sentito qualche secondo prima il rumore del sacchetto pieno di ghiaccio che cozzava contro la pelle del divano. Lo sento ridere, prima che mi metta in mano il sacchetto. Inclino la testa da un lato, curiosa.
«Mi fido più di te che dei medici del pronto soccorso…», mi sussurra con voce roca avvicinandosi lentamente alle mie labbra. Superiamo tutto, io e lui, anche le risse. Ridacchio, divertita dai miei stessi pensieri, prima di sentire – finalmente – le sue labbra sulle mie.
Speriamo solo che duri.


 
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*ah, e tenete d'occhio il mal di testa di Heidi.
recensite, mi raccomando c:*

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Capitolo 15
*** 15. ***


*ormai non ha nemmeno più senso che io mi scusi per il ritardo.
quindi, non lo farò. vi dico solo che questo capitolo sembra di passaggio ma non lo è.
che a me piace particolarmente la fine.
e di non sottovalutare il mal di testa, perchè ha un senso.
bene, che altro? ah, grazie per le recensioni e i preferiti, siete l'amore.
okay, vi lascio alla lettura. alla prossima pasticcini c:
xx Fede.*




 
15.


HEIDI'S POINT OF VIEW.

Mi massaggio le tempie per l’ennesima volta questa mattina, senza riuscire a placare questo stramaledetto mal di testa. Tengo gli occhi chiusi, cercando almeno di fermare i pensieri. Perché sono sicura che siano loro a causarmi questo fottuto dolore, sbattendo contro la scatola cranica.
Sbuffo. Odio stare peggio di quanto non stia di solito.
Sono ferma sul mio letto da un paio d’ore, da quando Zayn ha chiamato al telefono dicendomi che avrebbe passato la mattinata con la sorellina. A gambe incrociate da due ore, tentando inutilmente di far smettere i martelletti che sbattono nel cranio.
Due ore. E ancora niente da fare.
«Dannati pensieri», borbotto tra me, facendo un respiro profondo. Ma la situazione sembra solo peggiorare. Mi arriva più aria. E anche il fruscio che fa passando nei polmoni, fa aumentare il mal di testa. Non ne posso più, letteralmente.
Scaglio il primo cuscino che mi capita a tiro attraverso la stanza, ma non sento il rumore che dovrebbe causare il cuscino una volta a terra. Solo silenzio, seguito dalle mani ormai familiari di Zayn che si intrecciano con le mie. Ridacchio leggermente, sentendo il suo odore mischiarsi al mio, e il suo respiro calmarmi a poco a poco.
«Non dovresti essere con… ciao Safaa», mi correggo all’ultimo momento sentendo un altro peso sul materasso, seguito dall’odore dello shampoo della piccola Malik. Sorrido appena , quando la sento ridacchiare e avvicinarsi per abbracciarmi. «A cosa devo questa bellissima sorpresa?».
«Non la smetteva di ripetere quanto gli mancassi».
Mi sento arrossire violentemente, mentre la piccola che tengo ancora abbracciata ridacchia, e Zayn rimane in silenzio. Inclino la testa da un lato, divertita. «Mi è mancato anche lui», dico a Safaa, ma a voce abbastanza alta perché mi senta anche il fratello.
Mi è mancato, è vero.
E poi con qualcuno che mi distrae magari smetto di pensare al dannato mal di testa che mi fa compagnia da ieri sera. Ancora non riesco a capire a cosa sia dovuto. Solo, non vedo l’ora che finisca.
«Okay, allora vado giù da Victoria, piccioncini…», ci dice lasciando un bacio prima a me e poi a Zayn. Sento lo schioccare delle sue labbra morbide contro la sua guancia ispida, per poi scendere dal letto e andare al piano di sotto. Saltellando. Adorabile.
«Non sono qui solo perché mi mancavi», mi sussurra Zayn dopo un po’, riprendendo a giocare con le mie dita. Mi viene spontaneo inarcare un sopracciglio, borbottando poi qualcosa che nemmeno io capisco. Ride, e lo sento scuotere la testa. Ride, apparentemente senza pensieri. «Ti devo una spiegazione».
Ah, ecco.
«Non mi devi niente…».
«Sì, invece», mi interrompe posandomi due dita sulle labbra. Sorrido, di riflesso, per il leggerissimo solletico che mi provoca. «Tu mi hai detto di Alex, io ho bisogno di raccontarti di me», aggiunge piano, lasciandomi un bacio quasi impalpabile sulla punta del naso. Ho bisogno. Allora mi limito ad annuire, massaggiandomi piano le tempie. «Hai ancora mal di testa?».
Annuisco ancora, un mezzo sorriso a stendermi le labbra. Ma non voglio parlare di come sto io. Sono stata sempre e costantemente al centro dall’attenzione altrui negli ultimi tre anni. Sono stufa. Basta parlare della ragazza cieca, per una volta.
«Pensiamo dopo al mio mal di testa…», dico tentando di sorridere, ma è più che probabile che ne sia appena venuta fuori una smorfia. Mi sistemo meglio sul letto e lo sento avvicinarsi, senza far staccare le nostre mani.
«Non mi sono comportato bene in passato, sicura di volere la mia versione?», mi sento chiedere. È un sussurro, come se nemmeno lui ne fosse convinto. Come se fosse indeciso se dirmi tutto o no. Ma dopotutto mi ha già detto tutto Charlotte, no?
Annuisco, di nuovo.
«Di cosa hai paura, Zayn?», gli chiedo aumentando leggermente la presa sulle sue mani. In questo momento vorrei proprio vedere la sua espressione. Perché alla cieca è peggio del solito. Non capisco. «Charlotte mi ha già detto tutto… e io sono ancora qui, no?», aggiungo tentando un sorriso.
Lo sento scuotere la testa, ma comincia col suo racconto prima che possa ribattere, come se mi avesse appena ignorata. Mi mordo il labbro, soprappensiero, ma dopo un attimo non posso far altro se non venire rapita dal suono della sua voce, che mi ripete le stesse cose che sono uscite dalle labbra della sua migliore amica.
Solo, col suo impatto emotivo, ovviamente.
Mi racconta di come ha conosciuto Nathan. Di come si sia fidato di lui, ciecamente. Di come abbia iniziato a spacciare. Del primo spinello. Della prima pasticca di anfetamina. Del suo rapporto con Harry e Charlotte. Di Perrie e del suo amore per lei. E mi scappa un sorriso, a sentirlo parlare così di lei… forse solo perché spero che prima o poi possa parlare in quel modo di me. Non lo so.
«Non mi ha mai amato, non quanto io abbia amato lei».
Lo interrompo con una mezza risata. No, impossibile che l’abbia detto. Forse ho conosciuto una persona diversa, e non la stessa Perrie che è stata con lui. Forse mi hanno presentato un’altra ragazza, giusto per confondermi le idee.
«Ti ama da morire, credimi», borbotto portandomi le ginocchia al petto, come se volessi proteggermi. Non posso farmi vedere shockata davanti a lui. Anche perché ancora non ha finito di raccontare. Ancora non si è aperto, non del tutto. «Ignorami… continua», aggiungo passandomi velocemente la lingua sulle labbra.
E per fortuna che mi da ascolto.
Non credo di potergli spiegare quanto mi dia fastidio quella parte del suo passato. Perrie, intendo. Mi da fastidio quello che ha avuto con lei. L’amore che ha provato e proverà sempre nei suoi confronti. Mi da fastidio, e non posso farci un bel niente.
Mi passo una mano tra i capelli mossi, prendendo a giocare con un boccolo, nell’attesa che parli. Che mi parli. Perché ho bisogno della sua voce, ora. «Mia sorella…», inizia, ma si ferma un attimo dopo, sospirando. «Non ci riesco, Heidi».
Inclino la testa da un lato. Ce la deve fare. Deve riuscire a parlarmi di lei. E non tanto per la mia curiosità, o perché io lo voglio sapere. Credo che dovrebbe pensare a sé stesso per una volta. Credo che sfogarsi con me gli farà bene.
«Usciamo, ti va?», gli chiedo dopo diversi minuti di silenzio. E non mi da nemmeno fastidio che non se la senta di parlare con me della sorella morta misteriosamente in un incidente d’auto. Non mi da fastidio, no. Vorrei solo che si aprisse. «Magari passiamo da tua sorella…», butto lì tentando un sorriso.
Sento la sua mano irrigidirsi contro la mia. Stringere forte, fino quasi a farmi male.
Apro la bocca come per dire qualcosa, ma non ci riesco, sono come bloccata. Perché per la terza volta in tre anni, mi si è appena schiarita la vista. Vedo grigio. E i contorni sfocati. E in quell’attimo – prima di poter sbattere le palpebre e tornare a vedere il buio – non sento più quell’orrendo cerchio alla testa che mi non mi ha dato pace tutta la mattina.
«Stai bene?». La voce di Zayn mi riporta sulla Terra, ma è come attutita, lontana. Mi limito a scuotere la testa, confusa. Mi sta scoppiando la testa. Mi sento prendere tra le braccia e cullare come fossi una bambina. E poi, la sua voce, bassissima, a canticchiare Yellow, come al nostro primo – e unico – appuntamento. «Vuoi che ti prenda qualcosa… o che chiami il medico?», mi chiede dopo un po’ a voce bassissima, accarezzandomi piano i capelli.
Scuoto leggermente la testa, spalancando gli occhi.
Non voglio il medico. È solo un po’ di mal di testa. «No», riesco a sussurrare, cercando di respirare a fondo per far passare la fitta. Mi lascio stringere, sperando irrazionalmente che quell’abbraccio porti via tutto. Dolore. Paura. Ansia. «Voglio che mi racconti di Doniya».
Mi viene da piangere, da quanto mi fa male la testa. Ma non mi importa.
Voglio sapere quello che prova.
«Okay, ma prova a riposarti…», acconsente in un soffio, lasciandomi un bacio leggerissimo sulla fronte e facendomi stendere, per poi stendermisi di fronte. Ho il suo respiro sulle labbra, e una sua mano sul fianco. «E domani andiamo dal medico, che tu lo voglia o no».
Sporgo il labbro inferiore, facendolo ridacchiare. «Solo se sto ancora male».
Mi regala un bacio a stampo, come a dirmi che è d’accordo col mio ragionamento. Che in effetti non fa una piega, dal mio punto di vista. Non mi piacciono i medici. Meno vedo gli ospedali, meglio sto, sia chiaro.
Così è costretto a riprendere il suo racconto. Gli trema la voce, mentre parla di quanto volesse bene alla sorella maggiore. Di come lei si sia presa cura di lui quando i suoi non c’erano. Di quanto all’inizio non gli piacesse Nathan. E di come si sia innamorata di lui, fino a diventare cieca – metaforicamente. Non vedeva altro che lui.
«Me l’ha portata via… l’ha allontanata da me…». Non posso fare niente. Solo ascoltare le sue parole e trattenere le lacrime. Perché ogni sua pausa è un singhiozzo mal trattenuto. E ogni suo singhiozzo è un colpo per il mio povero cuore. «Ci ho litigato, qualche ora prima che morisse…».
Smetto di respirare per qualche secondo. E mi si ferma anche il cuore, ne sono più che sicura. Ecco perché non voleva parlarmene. Ha portato a galla tutto, per me. È colpa mia se sta piangendo. «Piccolo, shhh», mormoro stringendolo a me, mentre prende a singhiozzare più forte. Non riesco a parlare, solo a tenerlo stretto, con gli occhi chiusi.
E mentre lui si calma, anche il mio mal di testa si placa.
Appena, ma è già qualcosa.
Lascio che continui a piangere, in silenzio, contro la mia spalla. Lascio che riprenda a respirare col suo ritmo. Intanto io non riesco a smettere di pensare a quello che mi ha detto. Al fatto che abbia litigato con la sorella prima dell’incidente. Al fatto che nessuno tranne Nathan ne sappia niente.
Com’è possibile che nessuno sappia niente? Insomma, un incidente di quel genere deve aver coinvolto anche un’altra auto. A meno che anche gli altri passeggeri non siano morti, ovvio.
Scuoto la testa, confusa. È solo che, tutta questa faccenda mi confonde. Tutto quanto.
«Non volevo che uscisse con Nathan quella sera… sapevo che lui avrebbe bevuto, ed era come se sentissi che qualcosa sarebbe andato male», mormora distraendomi dai miei pensieri. Ha la voce roca, propria di chi ha appena smesso di piangere. Ma alle mie orecchie appare come più… sereno, in un certo senso.
«Quindi pensi che abbia guidato lui».
Lo sento annuire, appena prima che mi lasci un bacio alla base della mandibola. «Hanno trovato lui fuori dall’auto, e mia sorella al posto del passeggero e con la cintura slacciata», mi dice, stavolta straordinariamente calmo. A me però sembra ancora che ci sia qualcosa che non torna.
«E se avesse guidato Doniya?». Sento il suo sguardo addosso in meno di un secondo. Dal canto mio, io sto solo pensando ad alta voce. Insomma, posso capire che sua sorella non avesse la patente, perché ipovedente. Ma se davvero avesse guidato lei? Nathan, ferito lievemente, sarebbe potuto uscire dall’auto e spostarla… per proteggerla. «Vuoi farmi credere che non ci aveva mai pensato nessuno?», gli chiedo, inarcando un sopracciglio.
Andiamo, è surreale.
Ma non ottengo risposta. Non faccio nemmeno in tempo a pretenderla, né ad aprire bocca, né a respirare, che il corpicino di Safaa mi arriva addosso, smuovendo parecchia aria, unita al profumo di Victoria.
Me l’ha lanciata addosso. Che migliore amica stronza che ho.
 «Vic, sei una brutta persona!», le dico acida voltandomi di scatto, in modo che Safaa possa accoccolarsi tranquillamente tra me e suo fratello. La sento trattenere il respiro. E non so se è per come ho sbottato o per gli occhi probabilmente gonfi di Zayn. Più probabile che sia per la seconda.
Mi accorgo appena della mia migliore che esce dalla stanza, perché la piccola Malik mi sta stritolando, il viso nascosto contro il mio collo. Ha capito tutto. No, è impossibile che quello scricciolo abbia solo dieci anni.
Mi limito ad accarezzarle la schiena, lasciando che anche lei si sfoghi.
«Vi va una passeggiata, piccole?», ci chiede Zayn lasciandomi un bacio leggero sui capelli. Annuisco con un mezzo sorriso, mentre Safaa tira su col naso, staccandosi leggermente dal mio abbraccio. «Magari passiamo a trovare Doniya…», aggiunge, riuscendo a farmi sorridere.
Ma sono sicura che lo stia facendo per Safaa, non per me.
Ed è giusto così.

***

ZAYN'S POINT OF VIEW.

Mi ha ascoltato. Ascoltato e basta, senza interrompermi. Mi ha tenuto stretto. Mi ha fatto sfogare. E la verità è che dall’incidente di mia sorella, nessuno l’aveva mai fatto, non davvero. Non tenendoci. Non volendo capire.
Si erano preoccupati tutti di come stessero mia madre e mia sorella minore.
Zayn, tu sei grande, ti passerà.
Era questo che tutti continuavano a ripetere. Che mi sarebbe passata. Come se la perdita di una sorella potesse passare. Certo, come no. Dicevano che col tempo sarei riuscito ad andare avanti, che magari l’avrei dimenticata, e sarebbe stato addirittura meglio.
Come se avessi potuto dimenticare mia sorella. Come se il tempo avesse potuto guarirmi dalla perdita che avevo appena subito. Come se lasciandomi in balia di me stesso avessero risolto tutto, tutti quanti. Come se l’odio che provavo – e provo – per Nathan potesse passare da un giorno all’altro.
Con lei invece è diverso. Mi ha spinto a parlarne, convinta chissà come che mi avrebbe fatto bene. Sfogarmi, parlarne, piangere. E aveva ragione. Come sempre del resto. Forse è addirittura troppo intelligente e intuitiva per stare con uno come me.
Forse. O forse no. Forse mi sto sottovalutando, tanto per cambiare.
E ora, guardando Safaa accarezzare la lapide di nostra sorella e tenendo Heidi stretta, con il mento posato sulla sua spalla, mi sento meglio. Non ho la tentazione di piangere, né di urlare, né di prendere a calci qualsiasi cosa mi capiti a tiro. È… strano. Ma lascia quel senso di serenità che non provavo da tanto. Troppo, forse.
«Grazie, piccola», le sussurro, facendola rabbrividire. E non per il freddo. Mi fa sorridere, soprattutto quando intreccia le sue dita con le mie, mentre le lascio un bacio alla base del collo.
Mugola qualcosa che non riesco a capire, nel momento esatto in cui una folata di vento le scompiglia i capelli. E con qualsiasi altra ragazza mi sembrerebbe surreale, starmene davanti alla lapide di mia sorella, abbracciati e in silenzio. Invece con lei mi sembra la cosa più giusta e normale del mondo.
«Di cosa?», mi chiede in un soffio, voltando appena la testa verso di me.
Di cosa? Di tutto. Dei sorrisi, degli abbracci, dei baci casti, e di quelli maliziosi. Delle mani intrecciate, delle carezze. Delle guance rosse, dei capelli scompigliati. Della sua risata, che oscura tutto il resto. Della luce che sta portando della mia vita, nonostante lei la luce non la veda. Dei demoni che sta spazzando via.
Di due cuori che battono all’unisono come se fossero stati creati per stare insieme.
«Mi stai salvando da me stesso, non ti ringrazierò mai abbastanza».


 
 
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Capitolo 16
*** 16. ***


*credo di essere particolarmente imperdonabile stavolta.
quindi, penso che eviterò di chiedervi scusa per il ritardo.
penso anche che vi augurerò buone feste, vi ringrazierò e vi lascerò leggere il capitolo in pace.
quindi, buone feste, grazie per tutto e buona lettura c:
alla prossima, al prossimo anno... xx Fede.*



16.


HEIDI'S POINT OF VIEW.

Due settimane di pace. Pace apparente? No. Pace. Vera e propria pace. Nel senso di benessere. Di allegria. Sorrisi, abbracci, carezze. Senza la minima preoccupazione a turbare la quiete, nonostante Zayn sia ancora turbato per Nathan.
Sono convinta che gli passerà, prima o poi. Anzi, devo ammettere che se si parlassero come persone civili una volta per tutte, e magari riuscissero a chiarire… avrei un motivo in più per sorridere. Non che non abbia un motivo per sorridere, certo. Ma mi sentirei decisamente meglio se tutta questa storia e quest’odio che si portano dietro, finissero.
«Andiamo, non fare la scema!». Scema? Mi riprendo sentendo la voce di Charlotte chiamarmi in quel modo, allora mi blocco in mezzo al marciapiede e inarco un sopracciglio. La sento sbuffare. E forse potrebbe anche avere ragione. Forse. «Stiamo girando intorno all’ospedale da quasi un’ora Heidi, dai…». Sì, ha ragione. Sto facendo la scema.
«Ho paura degli ospedali, te l’ho detto», cerco di giustificarmi, senza troppo successo. Sospiro, passandomi poi la mano libera dalla sua presa tra i capelli. Non è strano che una ragazza cieca abbia paura degli ospedali? Insomma, ormai dovrei averci fatto l’abitudine. E invece niente, continuo ad esserne terrorizzata.
«Mi spieghi perché non hai chiesto a Zayn di accompagnarti?». Ed eccola, la domanda che mi aspettavo. La domanda che Charlie avrebbe dovuto farmi fin da subito, quando è venuta a prendermi a casa. Sorrido appena, trattenendo a malapena le lacrime, quando lei mi prende delicatamente il viso tra le mani. «Heidi…».
«Il mal di testa… non è mai passato», le dico semplicemente, lasciando scorrere una lacrima. Ed è per quello che sono spaventata, non per l’ospedale. Mi sono imbottita di antidolorifici per due settimane, sperando di sentirlo meno. Ma il mal di testa era sempre lì, forte e continuo, senza migliorare né peggiorare. Sempre lì e sempre uguale. «Ho detto a Zayn che stavo meglio perché…».
«Non vuoi che si preoccupi, ho capito», mi dice in un soffio, abbracciandomi. «Ora però mi fumo una sigaretta e andiamo dal medico, okay?». La sento sorridere, prima che mi lasci un bacio sulla guancia e sciolga l’abbraccio, per riprendermi per mano e ricominciare a camminare.
E annuisco, non riuscendo a fare nient’altro di concreto.
Tanto prima o poi avrei dovuto dirlo a qualcuno, parlarne, o avrei rischiato di esplodere. Solo, davvero non pensavo di poterlo dire ad una ragazza che praticamente non conosco. Pensavo di trovare il coraggio per dirlo a Vicki, a Louis… o a Zayn. Charlotte è davvero l’ultima persona a cui avrei pensato.
«Andiamo, mia piccola Stevie Wonder?», mi chiede Charlotte dopo un po’. Mi soffia l’ultimo tiro di sigaretta in faccia, prima che mi possa rendere conto di come mi ha chiamata. Stevie Wonder? Oddio. Tra tanti doveva proprio paragonarmi ad un cantante cieco?
Ma non riesco a fare a meno di ridacchiare e annuire, senza nemmeno protestare per l’odore di fumo in cui mi ha praticamente immersa. Non è poi tanto male. Ma solo perché mi ricorda Zayn. Solo per quello.
E mi accorgo a malapena di camminare tra i corridoi di quell’ospedale che tanto odio. Tengo addirittura le palpebre abbassate, lasciando che la migliore amica del mio ragazzo mi trascini dove vuole. Lascio che mi spinga delicatamente in ascensore, sfiorando con calma un tasto dopo l’altro, fino a trovare quello per il quarto piano.
Sento Charlotte sorridere appena e scuotere la testa. È sorpresa, direi.
«Che c’è?», le chiedo senza riuscire a trattenere una risatina.
«Niente, è che sei sorprendente, bionda», ribatte aumentando appena la presa sulla mia mano. Mi viene spontaneo sorridere, scuotendo delicatamente la testa, appena prima che l’ascensore ci avverta di essere arrivate al piano. «Non c’è da stupirsi che Zayn tenga tanto a te», aggiunge a voce tanto bassa che quasi non riesco a sentirla.
«Penso che lo prenderò come un complimento, Char».
E appena fuori dall’ascensore, mi arriva addosso l’odore penetrante e fin troppo forte del dopobarba del dottor Harrison. Segno evidente che gli siamo vicine, parecchio. Oppure che è appena passato di fronte all’ascensore da cui io e Charlotte siamo appena uscite. Buona la prima. «Heidi», mi sento chiamare. La sua voce ha una sfumatura di sorpresa, che non prova nemmeno a nascondere.
Ed è normale, considerando che avrei dovuto essere in ospedale non prima della prossima settimana, per gli esami e tutto il resto. Tutto solo per quelle due o tre volte in cui mi è sembrato di vedere qualcosa.
«Ha un minuto, dottore?», gli chiedo con un mezzo sorriso. Charlie mi stringe la mano, segno che devo iniziare a muovere un passo dietro l’altro, seguendo lei e il mio oculista. Deve essersi preoccupato, chissà come, e deve aver fatto un segno alla ragazza al mio fianco, di sicuro.
Una cinquantina di passi lungo il corridoio, sempre dritti. Poi una svolta sulla sinistra, e altri venti passi. Attraversiamo la porta di quello che so perfettamente essere il suo studio, e sento la porta chiudersi alle nostre spalle, prima che Charlie possa aiutarmi a mettermi seduta sul solito lettino coperto dal solito lenzuolo di carta sterile.
«Ti aspettavo la prossima settimana». La voce del dottor Harrison rompe il silenzio, che era interrotto solo dal masticare nervoso di Charlotte. Dovrei essere io quella nervosa, non lei. «E hai portato un’amica… che non conosco», aggiunge facendomi sorridere.
Non ha tutti i torti. Non ho mai portato nessuno che non fossero Vicki, Liam, Louis o mia madre. Ed è incredibile come in poco più di un mese sia cambiato tutto. Prima Zayn, e ora Charlotte. Sì, il mio oculista deve essere davvero sorpreso.
Sento appena Charlie che si allunga verso di lui per stringergli una mano e presentarsi. Io, dal canto mio, non posso far altro se non massaggiarmi le tempie, cercando di placare l’ennesima fitta alla testa. E sento il medico trattenere il fiato qualche secondo, notando evidentemente quello che sto facendo.
«So che mi sta guardando male dottore, non sono stupida».
Sbuffa, prima di alzarsi in piedi e avvicinarsi al lettino su cui sono seduta. Charlotte si è allontanata per fargli spazio. E sento che il dottor Harrison ha tirato fuori dalla tasca del camice la solita torcia elettrica, di quelle che usano gli oculisti per vedere i riflessi della pupilla, credo.
Sento che me la punta contro, tenendomi aperto prima un occhio e poi l’altro.
Ma niente, continuo a vedere solo il buio. Il buio più totale.
«Da quanto hai questo mal di testa?», mi chiede alla fine, sospirando.
«Dal giorno in cui ci siamo visti per la visita…». Mi sento terribilmente in colpa. Perché avrei dovuto chiamarlo subito, il pomeriggio stesso, e dirglielo. Perché ho fatto finta di stare bene due settimane. Perché non ho detto niente a Zayn. Sono decisamente una brutta persona.
«Due settimane… è interessante». Inarco un sopracciglio, confusa. Mi aspettavo una sfuriata, lo ammetto. Mi aspettavo che mi incolpasse di non aver detto niente a nessuno, di non essermi fatta vedere prima. E invece niente. Interessante? No, davvero non capisco. «Devo ricoverarti Heidi, facciamo tutti gli accertamenti e cerchiamo di capire se il mal di testa ha a che fare con le ombre che mi hai detto di aver visto…».
Mi irrigidisco sensibilmente, già alla parola “ricoverarti”. Per poi rabbrividire alla parola “accertamenti”. Ma l’unica cosa che posso fare è annuire, anche se contrariata, e seguire il volere del medico. Perché non ci vedo. Non posso saltare giù dal lettino e correre via, prendere l’auto di Charlotte e tornare a casa.
Non posso. Anche se vorrei farlo, terribilmente.

***

ZAYN'S POINT OF VIEW.

Grazie a chissà quale miracolo arrivo in orario al lavoro. Niente più spaccio. Ho solo trovato un lavoro in un bar vicino al liceo. Mamma lavora, certo, ma la pagano talmente poco che non è la prima volta che devo trovarmi un lavoretto per aiutare a pagare le bollette. Solo, niente più droga, alcool… niente più Nathan.
E in fondo servire caffè e cornetti non mi viene tanto male. Basta prenderci la mano. Basta avere una buona memoria coi clienti, e sorridere, sempre e comunque. Beh, è proprio quella parte del lavoro che mi viene meglio.
Mi basta immaginare di avere Heidi davanti. Lei e il suo bellissimo sorriso.
E viene spontaneo sorridere, come respirare.
«Zayn, il tavolo cinque… un the alla vaniglia e due pancakes al cioccolato», mi dice sorridente Helene, la mia collega. Ha qualche anno più di me, le labbra tinte di rosso e i capelli color cioccolato, lunghi fin sotto la vita e liscissimi, con qualche meches blu elettrico qua e là. «So di essere bellissima, piantala di fissarmi», aggiunge arrossendo appena e passandosi una mano tra i capelli.
Alzo le mani come per arrendermi, prendo il vassoio che mi porge e mi volto, camminando ancora divertito verso il tavolo cinque. Poso tutto sul tavolo e lascio il conto ad una signora dai capelli castani, sui quarant’anni. Familiare, è l’unico aggettivo che mi viene per descriverla. E quando alza lo sguardo e mi sorride, capisco di averla già vista.
E se ne accorge anche lei, dato che il sorriso le si spegne, come una lampadina sovraccarica che si è appena fulminata. Si porta una mano alla bocca, cambiando totalmente espressione.
Dolore. Tristezza. Ricordi che vengono a galla.
Finché non capisco perché mi è tanto familiare. Era al processo di Nathan, quello per l’incidente di Doniya. Era a quel processo, come me, come parte lesa. Sua figlia era sull’altra auto, finita in coma dopo un trauma cranico. «Si ricorda, immagino…», riesco a dire con un sorriso triste non appena lei fa cenno di sedermi.
La vedo annuire, mentre si porta la tazza di the alle labbra. Le tremano le mani.
«Io… scusa se ho reagito in quel modo poco fa… è che…». Annuisco, tentando un sorriso, che ricambia timidamente. La capisco, eccome. Quel che non capisco è come possa essermi familiare la sua voce, considerato che non ci siamo mai detti una parola. È un tono di voce dolce, allegro… terribilmente familiare. «Ho sentito che il ragazzo dell’incidente è uscito di prigione».
«Sì, l’erba cattiva non muore mai», borbotto passandomi una mano tra i capelli e tirandone leggermente le punte. Scuoto appena la testa. Non voglio parlare di Nathan. Fa male a me, e a lei. E mi farebbe solo incazzare, in fin dei conti. «Sua figlia…». Lascio volutamente la frase in sospeso, e quando la vedo sorridere, mi sento meglio.
Molto meglio, eccome.
«E’ ancora viva, per fortuna… a proposito, mi dispiace per tua sorella».
Ed ecco. All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, mi si accende una lampadina. Ma più che altro è un’idea folle, da pazzo. È solo che il modo in cui ha pronunciato le ultime parole… non posso far altro se non pensare ad Heidi. L’ha detto esattamente come lei, con lo stesso tono di voce, la stessa inflessione e lo stesso dispiacere.
Con lo stesso lampo negli occhi celesti. Celesti, come quelli della mia ragazza.
«Io… credo di conoscere sua figlia», butto lì. Non ne sono convinto, non al cento per cento almeno. Ma sono quasi sicuro di avere davanti la madre della ragazza cieca di cui mi sto innamorando. La vedo sgranare gli occhi, inarcando un sopracciglio.
Ma non faccio in tempo a dire altro, così come lei non fa in tempo a ribattere. Vedo il suo cellulare illuminarsi e prendere a lampeggiare, nello stesso momento in cui anche il mio prende a vibrare, nella tasca della divisa. Mi alzo, prendendo il cellulare e allontanandomi per lasciarle la sua privacy.
E alzo gli occhi al cielo, quando vedo chi mi sta chiamando.
«Dimmi tutto, rossa», dico a Charlotte con un sorriso. Me la immagino, sul divano con Harry a giocare con una ciocca dei suoi capelli, mentre sorridono e si guardano. Annoiati, ma che si bastano a vicenda. «Char?», aggiungo dopo qualche secondo, ridacchiando dei miei stessi pensieri.
«Non ti arrabbiare, ma ho accompagnato Heidi in ospedale…».
Mi irrigidisco all’istante, facendo quasi cadere il telefono, da quanto mi tremano le mani. È più forte di me. Sono terrorizzato, almeno quanto la signora del tavolo cinque, che mi lancia un’occhiata, come se sperasse di non trovare la sua stessa espressione sul mio volto. Come se sperasse che io non conosca sua figlia.
«Dammi cinque minuti…», dico nel telefono levandomi di dosso il grembiule e lasciandolo sul bancone davanti ad Helene, che mi guarda a metà tra il preoccupato e il dispiaciuto.
«Zayn, piano… lei sta bene», mi sento dire dopo qualche secondo. Allora mi blocco, senza capire. Se sta bene, perché diavolo è in ospedale? «Senti, è meglio se te lo spiega lei… ma ora è al telefono con sua madre». Mi viene da sorridere, appena, e mi volto verso la signora del tavolo cinque, che ricambia lo sguardo, spaesata.
E nemmeno mi fa strano aver conosciuto la madre di Heidi in questo modo. Per niente. Insomma, dopotutto è stato un incontro chiarificatore, da un certo punto di vista. Se Heidi è sua figlia, e lei era al processo per l’incidente che ha ucciso mia sorella… vuol dire che sono uno stupido.
Che avrei dovuto pensarci prima.
Che Heidi ha perso la vista nello stesso incidente in cui è morta mia sorella.
«Ci vediamo in ospedale, Char», dico alla mia migliore amica con voce roca, chiudendo la telefonata prima che possa fare domande. So perfettamente di essere sbiancato, ma mai quanto la madre di Heidi. È pallida come un cencio, ed è come se non riuscisse a togliermi gli occhi di dosso. «Signora Foster… io, non so che dire…», è l’unica cosa che esce dalle mie labbra, prima che lei mi abbracci, senza dire una parola.
«E’ strano conoscere il ragazzo di mia figlia così, sai?», scherza allontanandosi per rivolgermi un sorriso. Ed è il suo sorriso, la copia esatta. Ridacchio, mentre lei si asciuga una lacrima sfuggita al suo controllo.
«Pensi quanto è strano per me… vuole un passaggio?», le chiedo, dopo aver fatto cenno ad Helene che devo andare. È una specie di emergenza dopotutto, o no? La madre di Heidi mi sorride dolcemente, prima di annuire e seguirmi fuori dal bar, senza dire una parola.
«Heidi non lo sa, immagino… dell’incidente».
«Non lo sapevo nemmeno io, fino a poco fa», ammetto guardandola con la coda dell’occhio. Alza gli occhi al cielo e si passa una mano tra i capelli. E’ proprio sua madre, non c’è dubbio.


 

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Capitolo 17
*** 17. ***


*no, non sono morta. scusate il ritardo, ragazze, davvero.
comunque, sono riuscita - finalmente - a partorire il capitolo.
non mi convince appieno, ma non fa totalmente schifo, diciamo.
quindi, vi lascio alla lettura. ed evaporo.
prima che me lo chiediate, ho aggiornato oggi, quindi non aggiornerò domani, o il giorno dopo.
giusto per essere chiara. nessun rancore con chi ha insistito più volte perchè aggiornassi.
alla prossima ragazze c:
xx Fede.*





17.


HEIDI’S POINT OF VIEW.

Sento il dottor Harrison parlare, e parlare, e ancora parlare. Ma non lo sto ascoltando. Odio starmene seduta su questo dannato lettino. Odio non capire cosa sta succedendo. Odio non capire perché mi sta ricoverando. Odio non capire perché non si è arrabbiato quando gli ho detto del mal di testa.
Odio tutto questo. Cecità inclusa.
Finché il mio medico non la smette di blaterare, e la mia stanza d’ospedale piomba nel silenzio più totale, interrotto solo da quattro respiri differenti. Il dottor Harrison, tutto respiri profondi e paroloni ultra scientifici. Charlotte, il respiro un po’ affannato di chi fuma per far passare lo stress. Mia madre. E Zayn. I respiri affannati per le scale che devono aver fatto.
Ma un attimo. Sono insieme. Che…? Inarco un sopracciglio, e prendo un respiro profondo, finché l’odore di mia madre e quello del mio ragazzo mi arrivano alle narici, con prepotenza. Odorano entrambi di ciambelle e caffè. Ma… non capisco. «Mamma, che…?», riesco a chiedere, mentre lei si avvicina al letto e mi intrappola in un abbraccio dal quale non voglio fuggire. Perché sono a casa, al sicuro.
«Vado un attimo fuori col dottore, okay? Io e te parliamo dopo, piccola».
Riesco solo ad annuire, ma sempre più confusa. E sempre più in preda al panico. Mia madre e il mio ragazzo sono entrati insieme. Odorano entrambi di ciambelle. Insomma, potrebbe essere una coincidenza. Oppure no. Fatto sta che non ho idea di cosa stia succedendo. E non ho idea di cosa pensare.
Tiro un sospiro, non di sollievo. Provo di tutto in questo momento. Tutto, ma proprio tutto. Tranne il sollievo. Sensazione che però arriva quando sento le dita di Zayn contro le mie. Le sue labbra posate delicatamente sulla mia fronte. E il suo odore di tabacco a entrarmi dentro, a permearmi completamente.
«Ehi», mi sussurra sfiorandomi delicatamente una guancia con due dita.
Rilasso il volto, accorgendomi solo ora che sto stringendo i denti fino a digrignarli, fino quasi a farmi male. Sento mia madre parlare con dottore. Li sento uscire, seguiti dal rumore dei tacchi di Charlotte. «Come conosci mia madre?», gli chiedo in un soffio. Faccio quasi fatica a sentirmi.
«Ho scoperto poco fa che fosse tua madre», mi dice Zayn a voce appena più alta della mia. Spezza il silenzio con poche parole, e lo riempie di un eco fastidiosa, irritante. E sto per chiedergli di spiegarsi, ma mi chiude la bocca con un bacio a stampo. Veloce, bisognoso. «E’ giusto che tu lo voglia sapere…».
«Allora dimmelo, Zayn», lo interrompo allungandomi verso il suo viso e sfiorandogli una guancia, dalla tempia al mento, per poi fermarmi col pollice sul suo labbro inferiore. Trema appena.
Un tremito di indecisione. Di sorpresa. Di paura. Di sconforto.
Sento il suo respiro infrangersi contro la pelle del mio viso. Prepotente. Come se sbuffasse, scocciato dalla mia richiesta. Ma so perfettamente che non è scocciato. Ha solo paura della mia reazione, come sempre.
«Era al processo per l’incidente di mia sorella».
Ogni parola è un pugno nello stomaco. Dolorosa. Ma detta con calma, e con attenzione nei miei confronti. Non vuole che stia male. Ma sto male. Soprattutto quando collego i fili di quel casino esorbitante e arrivo alla soluzione senza bisogno del fiume di parole che so che sta per dirmi.
«No…».
«Hai perso la vista nell’incidente che ha ucciso mia sorella».
Poche parole. Ma solo perché ha capito dalla mia espressione che ci ero già arrivata, senza bisogno che mi si spieghi come si fa coi bambini piccoli. Sono cieca, non stupida. Riesco a collegare due avvenimenti fino a dargli un senso logico. Ma nonostante io l’abbia già capito, non riesco a dire niente.
Niente di niente. Sono come diventata muta. Perché sentirselo dire fa più male che capirlo da sola. Perché non lo posso guardare negli occhi e dirgli quanto mi dispiace. Perché non riesco ad abbracciarlo. Non riesco a dare niente che abbia un senso. Riesco solo a pensare, facendomi probabilmente aumentare il mal di testa.
«No», ripeto facendo scorrere una lacrima lungo la guancia.
«Ma non è colpa tua, piccola». Sento a malapena le sue parole, troppo concentrata sulle sue labbra, che portano via le lacrime, nutrendosi di esse. Portando via il dolore che da sola non potrei cacciare. E ogni lacrima che mi porta via, ogni singhiozzo che soffoco contro di lui… mi sento meglio. «Heidi, calmati…», lo sento aggiungere, mentre prendo a singhiozzare più forte. Sento il dolore nella sua voce. Ma non mi importa. Vorrei solo piangere, fino ad affogare nelle mie stesse lacrime. «Mi fa male vederti così, principessa…».
«Avrei dovuto guidare io…».
Tormento il lenzuolo di cotone con le dita, cercando inutilmente di smettere di piangere. E sento lo sguardo di Zayn addosso, ma non posso fare niente per impedirgli di guardare la mia sofferenza, anche se così soffre anche lui.
Non posso farci niente.
La situazione è e resterà uno schifo.
«Non pensarci nemmeno…». Mi stringe a sé come fossi la cosa più importante del mondo. Come se per lui, fossi la cosa più importante. Come se vedermi in lacrime lo uccidesse. Come se provasse qualcosa per me. «Sistemeremo tutto, okay?». Non ho nemmeno la forza di protestare, perché quella è un’altra delle promesse che non riuscirà mai a mantenere.
Annuisco e basta, come se bastasse. Come se aggiustasse tutto quanto.
«Da quanto lo sai?».
«L’ho incontrata poco fa al bar… non sapevo che fosse tua madre, prima di oggi». Annuisco, accoccolandomi con il viso nascosto nell’incavo della sua spalla. La guancia a sfiorare la sua, ricoperta dal solito centimetro di barba. «Non te la prendere con lei perché non te l’ha detto…».
Mi irrigidisco. Come fa? Come fa a capire come mi sento?
Tradita da mia madre, che non mi ha detto niente. Perché a questo punto è evidente che sapesse che nel mio incidente fosse coinvolta un’altra auto. Lo sapeva, e non mi ha detto niente. Né quando ero in ospedale, né mai. Sapeva che un’altra famiglia aveva perso una figlia, una sorella… e io non ho potuto fare niente, perché non lo sapevo.
In più, l’avrei conosciuto prima. Zayn, intendo.
«Avrei voluto fare qualcosa, se l’avessi saputo, amore».
Mi scappa un sorriso. Non l’ho mai chiamato così, non seriamente. E immaginare la sua espressione mi sta facendo più male del solito. Non fisicamente, no. Psicologicamente. Mi sento impotente, anche più del solito.
 

***
 

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Guardarla piangere, soffrire. Sentirla singhiozzare, sentirla perdere un battito, o sentire il suo respiro spezzarsi in due. E non riuscire a far niente. Né poter fare niente. Cosa potrei fare, se non abbracciarla, stringerla e cercare di capirla? Voglio tenerla al sicuro, e ogni volta che sono sicuro di starci riuscendo… ci crolla il mondo addosso, irreparabilmente.
Stavamo bene, e arriva il suo mal di testa.
E ora scopriamo che il suo incidente e quello di mia sorella sono lo stesso.
«Avrei voluto fare qualcosa, se l’avessi saputo, amore».
Trattengo il respiro per diversi secondi. Poi espiro, e la vedo abbassare le palpebre e sorridere appena. Scuote leggermente la testa. Ma io sono come impietrito, basito e troppo sconvolto per aprire bocca. «Come mi hai chiamato?», riesco a chiederle alla fine, dopo un paio di minuti di silenzio. Arrossisce. Diventa rossa nel giro di un secondo. E si prende il viso tra le mani. Si nasconde. E sorrido, perché è davvero la cosa più tenera che abbia mai visto. «Se potessi vedermi…», mormoro scostandole le mani dal viso. Le lascio un bacio sulla punta del naso, delicato come il battito d’ali di una farfalla. E continuo a guardarla, cercando le parole giuste. «Vedresti il sorriso più vero della mia vita».
Le prendo una mano, intrecciandone le dita con le mie.
E porto le nostre mani intrecciate sul mio cuore, che batte ad una velocità che probabilmente non ha mai raggiunto. Mai, in ventidue anni. Come se il mio cuore riprendesse a vivere, per merito di quelle cinque lettere. Amore. Non è incredibile?
Le lascio un bacio sulle labbra, leggero, che sa dell’unica promessa che riuscirò a mantenere stando con lei. Amarla. È talmente facile amarla. Viene naturale, come respirare, dormire, mangiare… vedere. E sto per approfondire il bacio, quando sento qualcuno schiarirsi la voce, per attirare la nostra attenzione.
Heidi sbuffa, il suo respiro caldo ad infrangersi contro la mie labbra, a dimostrazione di quanto siamo vicini. Ma non mi allontana. Arrossisce solamente, rimanendo immobile a pochi millimetri da me, continuando a tenermi una mano. Il battito del suo cuore che mi rimbomba nelle orecchie, da quanto le batte forte. Non vuole che mi allontani? Non lo farò, mai. Allora ridacchio appena, lasciandole un bacio sui capelli biondi. «Dopo, piccola», mormoro, facendole alzare gli occhi al cielo.
Mette il broncio. E sembra una bambina. La mia bambina.
Piccola, indifesa, fragile. Di cui prendersi cura.
«Scusate l’interruzione, ragazzi…», ci dice il dottor Harrison avvicinandosi al letto di Heidi, senza nemmeno trattenersi dal sorridere. E, forse dal suo tono di voce, la mia ragazza se ne accorge, sbuffando sonoramente. E facendo ridere tutti, compresa sua madre. «Sarai curiosa di sapere perché ti ho fatta ricoverare», aggiunge, facendo sparire il sorriso spensierato dal viso di tutti i presenti.
Heidi però continua a tenere il sopracciglio destro leggermente inarcato, e la mano stretta nella mia. Ferma. Immobile. Ben salda. Cosa che mi renderebbe impossibile scappare, se solo lo volessi.
Passo il pollice sul dorso della sua mano, sentendo i nervi rilassarsi al mio passaggio, come per magia. Finché non si rilassa del tutto, incastrando le dita con le mie. Un mezzo sorriso ad incresparle le labbra. «Curiosissima… non sto nella pelle», dice atona. La guardo, e capisco in un attimo che sta morendo dalla voglia di alzare gli occhi al cielo.
Si trattiene, e aspetta, come me, che il medico dica qualcosa, qualsiasi cosa.
Ed è un fiume di parole. Devastante, immenso, che rischia di farci finire tutti sott’acqua, fino ad annegare, e che sembra non finire mai. Inizia a parlare dell’incidente, delle sue conseguenze. Del trauma cranico, dei tre mesi di coma. Della riabilitazione. Di quanto abbia fatto fatica ad orientarsi senza vedere.
«Non so se ti ricordi, Heidi… il trauma cranico aveva causato un rigonfiamento nel cervello». La vedo annuire, mentre io a quelle parole non posso far altro se non irrigidirmi. Bloccato come in un fotogramma. «E’ stato l’edema a provocare la cecità… ma sarebbe dovuto sparire nel giro di tre mesi». A quel punto Heidi, sua madre, e Charlotte, sono confuse almeno quanto me. Passo dal un volto all’altro, e vedo un sopracciglio inarcato dopo l’altro, a non finire.
Voglio dire qualcosa. Non so nemmeno io cosa. Ma non riesco ad aprire bocca.
«Quindi…?». La madre di Heidi mi anticipa, scossa, passandosi una mano tra i capelli.
«Quindi… a quest’ora non dovrebbe essere cieca, giusto?». Mi anticipano di nuovo, stavolta Charlotte, avvicinandosi al letto a prendendo la mano libera di Heidi tra le sue. Guardo la mia migliore amica. È tesa, almeno quanto meno. Ma lo nasconde bene, c’è da ammetterlo.
«Giusto Charlotte». Il medico le sorride, come compiaciuto di essersi riuscito a spiegare senza troppe parole. Senza troppe spiegazioni, più che altro. «Quindi, per rispondere alla sua domanda signora Foster… c’è qualcos’altro, qualcosa che c’era anche prima dell’incidente, ma che forse in seguito al trauma è cresciuto».
Apro per l’ennesima volta la bocca. Ma ancora un volta non riesco a far uscire nemmeno la parvenza di un suono. Me ne resto immobile, anche se vorrei prendere Heidi e scappare di lì in un baleno. Resto lì, cercando di capire come mai non si fossero resi conto prima che poteva esserci qualcos’altro.
«Che genere di esami?», chiede Heidi, in un sussurro appena percettibile, che a giudicare dalla sua espressione le costa una fatica immensa. Mi chino appena su di lei per lasciarle un bacio sui capelli, ignorando il mezzo sorriso che compare sul volto di sua madre. Non mi interessa. Ho bisogno di sentirla. Perché tutte queste novità stanno uccidendo lentamente entrambi, non solo lei.
«Una TAC e una risonanza magnetica intanto…».
Ma, aspettate un attimo.
«Ha qualcosa nella testa da sempre e non se n’è mai accorto nessuno?», riesco a dire dopo interi minuti di silenzio, in cui nessuno sembra aver la forza di parlare. Allora il medico di volta verso di me, limitandosi ad annuire. Annuisce a basta, facendomi sentire anche peggio. «E potevate scoprirlo prima ma non avete fatto niente…», provo ad indovinare, ma la voce di Heidi mi blocca.
«Ho rifiutato io, Zayn… non volevo esami invasivi o cose del genere».
Beh, c’è da capirla, a dire il vero. Una ragazza cieca con il terrore di medici e ospedali. È normale che non voglia sottoporsi ad esami invasivi, che potrebbero anche non servire a niente. Solo che, non capisco. Okay la paura, ma se io fossi cieco farei di tutto per tornare a vedere, se fosse possibile. A meno che…
«Credevamo che la cecità fosse data dal trauma…».
«E le avete detto che sarebbe rimasta così per sempre?», sbotto senza riuscire a fermarmi. Lascio di scatto la mano di Heidi, allontanandomi dal letto e dal medico, alzando le mani. Non voglio sentire una parola in più. Così prendo la mia giaccia ed esco di lì, ignorando le debolissime proteste di Heidi. Ignorando Charlotte. E ignorando sua madre.
Ho bisogno di aria. E di una sigaretta. Ora.
Non mi meraviglio nemmeno, quando una mano smaltata di nero mi passa una sigaretta, una volta nel parcheggio. La mia migliore amica ha il fiatone, ed è costretta ad appoggiarsi a me per togliersi i tacchi, borbottando qualcosa che non riesco a capire. Non mi interessa. Sono appena scappato. Scappato da lei.
«Calmati, e torna da lei, idiota…», mi dice Charlie costringendomi a guardarla negli occhi. Tenta un sorriso, lasciandomi poi una carezza sulla guancia e un bacio sulla punta del naso. «C’è una speranza… e tu sei scappato, Zayn».
«Le avevo promesso che sarei rimasto sempre».
«L’hai solo fatta piangere, le passerà… è troppo innamorata di te per essere davvero arrabbiata, credimi», mi interrompe prima che possa dire qualsiasi cosa. Sono a bocca aperta, ma lei si limita a sorridermi e a lasciarmi un bacio sulla guancia. «Torniamo dentro?».
«Pensi davvero che sia innamorata di me?».
«Ne sono certa, Malik».


 

 
 
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Capitolo 18
*** 18. ***


*buongiorno bellissime...
mi rendo conto di essere in un ritardo colossale.
lo so, faccio schifo. ma sto preparando un esame.
e di scrivere non ho nè il tempo nè la voglia di mettermi davanti al pc.
comunque, capitolo di svolta, che spero vi piaccia.
e spero che l'ultima parte non vi scandalizzi. gli istinti di Malik andavano descritti, lol.
okay... che altro? GRAZIE.
per le recensioni, i preferiti... e le 4000 visite al primo capitolo.
siete l'amore, dalla prima all'ultima. bene... io evaporo.
alla prossima, che non ho idea di quando sarà... xx Fede.*




A Marta, che mi ha fatto passare uno dei weekend più belli della storia.
Che mi ha fatta ridere, sorridere, emozionare, star sveglia fino all'una...
Che mi ha colorato la faccia di viola mentre dormivo.
Che è una persona fantastica, e bellissima, ma non se ne rende conto.
Ti voglio bene, piccolo panda.

18.


HEIDI’S POINT OF VIEW.

E le avete detto che sarebbe rimasta così per sempre?
Le parole di Zayn mi risuonano nella mente, all’infinito, come con un disco rotto. Solo quelle dieci parole, a ripetizione, come se non riuscissi a sentire nient’altro se non quelle. Beh, in fondo non ha tutti i torti. I medici sapevano. Sapevano che poteva esserci qualcos’altro. Forse lo sapeva anche mia madre, probabilmente.
Ma nessuno mi ha detto una parola. Hanno preso il mio terrore per gli ospedali e me lo hanno rivolto contro. Hanno lasciato che io vivessi tre anni senza vedere quando in realtà sarebbe bastato qualche esame… e ci sarebbe stata una possibilità – anche se minuscola – di tornare a vedere.
Speranza. Piccola, minuscola. Ma pur sempre un briciolo di speranza.
Ma, tornando a Zayn… sto fissando il vuoto. Da cinque minuti buoni. Ho ignorato l’uscita di Charlotte dalla mia stanza. Ho ignorato il medico. E ho ignorato mia madre. Riesco a solo a rivedere nella mia mente la sua espressione… ferita, in un certo senso. E’ scappato. Senza dire una parola. E senza darmi la possibilità di spiegare. Senza darmi la possibilità di fargli vedere come mi sento davvero… male. Molto male.
Tradita. Abbandonata. Lasciata sola.
Lascio scorrere una lacrima, e nel momento esatto in cui inizio a piangere, mia madre e il dottor Harrison smettono di parlare, come per magia. C’è silenzio. Più di quanto riesca a sopportare. «Piccola…». Mia madre mi si avvicina. Ma blocca la mano a mezz’aria, la sento, vedendo che mi ritraggo, forse senza nemmeno volerlo. «Heidi, tesoro…». Le trema la voce, come se si stesse trattenendo dallo scoppiare a piangere con me.
Ma è un attimo, e svanisce tutto. Sia il silenzio, che il tipico odore da ospedale. Svaniscono nel nulla, sostituiti da un respiro affannato, che sa di fumo di sigaretta. Un odore di muschio, tabacco e menta, che spazza via tutto.
Dolore. Tristezza. Abbandono.
Il tutto, sostituito da un abbraccio. Dal suo odore. Dal ruvido della sua barba contro il mio collo. Un bacio appena sotto il lobo dell’orecchio. Uno “scusa” appena sussurrato, come portato da un alito di vento caldo quando hai freddo, dentro e fuori. E la porta della stanza che viene aperta e poi richiusa, prima che Zayn si allontani e spazzi via coi pollici le lacrime dalle mie guance.
«Scusa…», mi soffia sulle labbra, a voce appena più alta.
Mi sfugge un sospiro, come sempre quando sono con lui, in quel modo. «Se non avessi bisogno di te, ti avrei già preso a calci in culo, Malik», riesco a mormorare, chissà come. Ho smesso di piangere, anche se mi trema ancora la voce dal dolore. «Se non…». Mi blocco all’improvviso, accorgendomi di quello che sto per dire.
Se non ti amassi.
«Se non…?».
Lo sento appena pronunciare quelle parole. Perché lo vedo. Nel vero senso della parola. Lo vedo, a colori, senza sbavature, per un paio di secondi. Vedo il profilo della mascella, la barba, la linea delle labbra… e gli occhi chiusi. Chiusi. Apri gli occhi, amore. Sbatto le palpebre a ripetizione, sperando di tornare a vederlo, per qualche altro secondo. Ma niente, sono tornata nel buio.
«Ti ho visto…», sussurro piano. Pianissimo. Mi tremano le mani, senza che riesca a controllarle. È impossibile. L’ho visto. E sono tornata al buio. Ma dura poco, e Zayn intreccia le dita di entrambe le mani con le mie, posandomi poi un bacio sulla fronte. «Avevi gli occhi chiusi». Ma sei proprio tanto bello, lo sai?
Lo sento sorridere. E quel sorriso mi fa respirare un po’ meglio.
Anche se non lo vedo.
«Hai cambiato argomento, però», mi fa notare dopo una manciata di secondi, riuscendo a spezzarmi il respiro in due. Me ne sono quasi dimenticata, focalizzando la mia attenzione sulla novità della giornata… averlo visto, anche se per un attimo, mi ha scombussolata. Più di quanto riuscirei ad ammettere. «Se non…?», ripete ancora, passando due dita sulla mia gola, dal mento a poco sopra l’incavo tra i seni.
Cattura un mio sospiro fra le labbra, rimanendo a qualche millimetro da me. Immobile, come una statua di cera. Allora mi accorgo che la mia paura per gli ospedali è niente. Niente in confronto alla paura che ho di dire quelle due semplicissime parole.
Ho paura. Paura di dire due parole. Paura di venir presa per pazza, perché innamorarsi di qualcuno che si conosce da meno di due mesi è letteralmente da manicomio. Non ho mai creduto all’amore a prima vista. In senso lato, ovviamente.  Ho paura che se dico di amarlo lui possa scappare.
E sono stanca di rimanere sola e delusa da tutti.
«Ho paura…».
«Non vado da nessuna parte, qualsiasi cosa tu volessi dire prima, piccola». Faccio un respiro profondo, per poi buttare fuori l’aria in un sospiro. Pesantissimo. Come un macigno. E le mie labbra sfiorano le sue, nel tempo di quel respiro. «Resterò con te sempre, te lo giuro», aggiunge tra un bacio a stampo e l’altro.
«Anche se dovessi rimanere così per sempre?», gli chiedo, stranamente con voce abbastanza ferma, lasciando scorrere una lacrima, sfuggita al mio controllo. Bum, bum, bum. Sento il cuore battermi fin nelle orecchie, da quanto batte forte.
Bum-bum, bum-bum, bum-bum.
E un altro battito di cuore si aggiunge al mio. Più forte. Più veloce. Inesorabile. Come se potesse esplodere da un momento all’altro. E una mano, che prende la mia e la porta alle labbra. Ne bacia le dita, una dopo l’altra, piano. Poi le dita si intrecciano, e finiscono dritte sul suo cuore, senza che nessuno dica loro di farlo.
«Sempre…».
Un sussurro. Ma la parola più intensa che mi abbiano mai detto in vent’anni. Un sospiro. Flebile. Ma che ha più importanza di qualsiasi altra parola mi sia stata detta prima di questa. Sempre. Sei lettere che, in qualche modo, riescono a convincere la parte folle del mio cervello a fare questa pazzia, senza sensi di colpa, rimorsi, o qualsiasi altra cosa possa farmi pentire di quello che sto per dire.

***

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Sempre.
Perrie me lo diceva, in continuazione. Diceva che io e lei saremmo stati insieme, sempre.  Per sempre. Che ci saremmo sposati, prima o poi. Perché ci rendevamo migliori a vicenda. Perché eravamo l’uno il lato migliore dell’altra.
E magari era vero, una volta. E forse Heidi ha addirittura ragione quando dice che Perrie è innamorata di me. Ma mi rendo conto solo ora che sono io. Sono stato io il problema, tra me e Perrie. Non lei. Io, le ho rovinato la vita facendola entrare nel giro di Nathan. Io, l’ho fatta soffrire. Io, ho lasciato che Nathan le facesse del male. Io, l’ho allontanata dopo la morte di mia sorella.
Lei, voleva solo starmi vicino. Io, ho eretto un muro d’acciaio intorno al cuore. In modo che lei non potesse nemmeno pensare di avvicinarsi. Ho sempre dato la colpa a lei. Ma sono stato io. Sono io che ho rovinato tutto, non lei.
Sempre.
Starei accanto ad Heidi sempre, per sempre. Contro gli ospedali, i medici, la cecità. Contro Nathan. Contro il suo odio per sé stessa. Contro il suo sentirsi inutile, sbagliata, disabile. Contro tutto e tutti. Sempre. Come Perrie promise di fare con me.
E come Perrie continua a mantenere la promessa con me, io la manterrò con Heidi.
Perché la amo troppo. Troppo, se si considera che la conosco da nemmeno due mesi. Troppo, come non ho mai amato nessuno. Quel troppo che ti attorciglia le viscere. Quell’amore che distrugge. Quell’amore che rimane, lì. Fermo, immobile, e immutato. Nonostante lei sia così… diversa. Non sbagliata, solo diversa.
E ho ancora le nostre dita intrecciate ferme sul mio cuore che batte all’impazzata, quando mi accorgo che sta finalmente muovendo le labbra, tirando fuori… tutto. Senza più paura in quegli occhi magnificamente azzurri.
«Ti amo». Sento distintamente il mio cuore, fermarsi per secondi che sembrano anni. E poi ripartire all’impazzata, mentre le dita di Heidi contro le mie si rilassano sensibilmente. Ma se il cuore è ripartito subito, il cervello fatica a rendersi conto di quello che ha appena detto. Fatica a capire. «Forse ti amo da quando mi sei venuto addosso la prima volta…».
Chiudo gli occhi, sorridendo. Ho sempre pensato che il nostro primo incontro la potesse portare ad odiarmi. Sarebbe stato più semplice. Andarle addosso, e magari non vederla più. Non cercarla, non cederle il posto, non chiederle di uscire, non presentarle mia sorella, non raccontarle la storia della mia vita. Non scoprire nulla dell’incidente. Non conoscere sua madre.
Eppure, se non avessimo fatto tutto questo, probabilmente non saremmo noi. Non ci saremmo affezionati. Riuscirei a stare senza di lei. Riuscirei a tenere il broncio con mia madre e mia sorella, perché non avrei niente per cui sorridere. Riuscirei a sopravvivere. Ma non a vivere.
Vivi, Zayn.
«Sarebbe strano se ti amassi anche io?». È un attimo, prima che sgrani gli occhi e le si spezzi il respiro in due. Un attimo, prima che il sorriso più bello di sempre compaia sul suo volto. E un attimo, prima che una lacrima le scorra indisturbata lungo la guancia, lungo il collo, e poi sparisca. «Comunque, non vedo perché tu non debba amarmi… sono o non sono incredibile?», scherzo contro le sue labbra, facendola insieme sorridere e rabbrividire.
«Lo sei», mi sussurra ridacchiando, facendo ridere anche me. È inevitabile. Non riesco a smettere di ridere, nemmeno quando si fa piccola piccola e si accoccola contro il mio petto, un attimo prima che aprano la porta della stanza. Non vorrei smettere nemmeno quando sento il dottor Harrison schiarirsi la voce per attirare la nostra attenzione. Di nuovo.
Poi accade tutto troppo in fretta perché possa accorgermene. Suona il cellulare di Charlotte, come impazzito nella tasca dei suoi jeans. Così lei si allontana, lasciandoci da soli. E il dottor Harrison inizia a parlare… e parlare… e parlare. Di esami, sangue, macchinari. E Heidi trema. Non fa altro che tremare.
«Basta», riesco a dire puntando i miei occhi in quelli del medico. La ragazzina impaurita tra le mie braccia tira un sospiro di sollievo, e vedo distintamente sua madre, che sospira all’unisono con lei. «Non c’è bisogno che le spieghi con quanti aghi, elettrodi o chissà cosa, le dovrete riempire la pelle… fatelo e basta», aggiungo sentendo la presa di Heidi diminuire sulla mia camicia. Le tremano le labbra, posate contro il mio collo… e non voglio che stia così.
«Volevo solo che avesse chiaro…».
«Voglio che senta la mia voce quando sarà a fare la TAC e la risonanza», lo interrompo inclinando la testa da un lato. Deve smetterla di parlare. Ora. Voglio che stia zitto. E che Heidi sia il più tranquilla possibile al momento degli esami. Il dottor Harrison si massaggia le tempie per un paio di secondi, per annuire, quasi impercettibilmente.
«Allora procurati un microfono e gli auricolari… ha il primo esame tra due ore, ragazzo», ci dice con un mezzo sorriso, chiudendo di scatto la cartella clinica della mia ragazza e uscendo dalla stanza, seguito dalla madre di Heidi, che prima di uscire in corridoio mi rivolge un sorriso, strapieno di riconoscenza.
«Vengo con te…».
«Sei ricoverata, piccola. Non puoi venire con me». E sto per posare le labbra sulle sue, quando veniamo interrotti per l’ennesima volta dalla porta che si apre. Di scatto, finendo poi per sbattere contro il muro. «Oh, insomma… Charlie, che…?». Cambio tono di voce all’improvviso, rendendomi conto della mia migliore amica, col fiatone e gli occhi lucidi. Ferma sulla porta. Pallida come non mai.­
«Harry… l’hanno trovato privo di sensi nel vicolo dietro casa tua…». La voce della mia migliore amica è debole, distrutta dal dolore, spezzata in due. Faccio appena in tempo a lasciare Heidi e correre da lei, a pochi metri da noi, che mi crolla tra le braccia, scoppiando a piangere. «E’ stato Nate, Zay…», mi sussurra con voce roca.
Convinta fino all’ultima cellula del proprio corpo.
E di conseguenza me ne convinco anch’io. Con tutto me stesso.
«Chiama Perrie e chiedile se sta bene, poi chiama Niall e chiedigli di portare qui un microfono e tutto il resto… e vai da Harry, okay?». Le poso un bacio sulla fronte e mi allontano, vedendola poi annuire e uscire. E mi volto verso Heidi, che tortura il lenzuolo, stringendolo forte tra le mani. «Ehi…», provo a dire vedendola scendere dal letto e provare a muovere un paio di passi verso di me.
Mi avvicino in silenzio, lasciando che mi abbracci. In punta di piedi, con il viso nascosto nell’incavo del mio collo, e i capelli biondi a solleticarmi il volto. Respiro il suo profumo, con le sue mani legate dietro il mio collo e le mie a cingerle i fianchi. E lei respira piano, lentamente. Ha paura, in un certo senso. Lo capisco da come mi stringe a sé. Perché ha capito tutto, come ogni volta.
«Non farti male, ti prego… ho troppo bisogno di te…». Voce ferma, anche se debole. Voce ferma, piena di paura e amore insieme. Ha bisogno di me. E io di lei, troppo. Le do un bacio sui capelli, poi sulla fronte, uno sulla tempia, e giù giù fino a fermarmi a qualche millimetro dalle sue labbra. «Ti amo, okay? Se ti succedesse qualcosa…».
Le blocco le parole prima che possano uscire, posando le labbra sulle sue. Heidi sorride appena, per poi prendermi il labbro inferiore tra i denti e succhiarlo piano. La tengo per i fianchi, sollevandola fino a farle posare i piedi nudi sulle mie scarpe, in modo da averla più vicina. E la sento ridere, come fosse l’unico suono che importa, in quel momento. L’unico suono che mi fa dimenticare il fatto che anche il mio migliore amico è in ospedale.
Muovo le labbra contro le sue, con urgenza, bisogno, voglia di lei.
E sento il suo respiro affannato contro le labbra, le sue mani a giocare tra i miei capelli, tirandoli appena. Sento un gemito uscire dalla sua bocca, e le sue labbra schiudersi al passaggio della mia lingua su di esse. Ed è un attimo, prima che camminando all’indietro io appoggi la schiena contro la porta, mentre le nostre lingue prendono a rincorrersi.
E come ogni volta che succede, rischio di perdere la testa.
Faccio scivolare le mani sotto il camice color carta da zucchero, a sfiorarle i fianchi e la schiena nuda, portandomi dietro le stoffa leggerissima. Ma poi mi rendo conto. E mi stacco da lei mordicchiandole un labbro, cercando di tornare a respirare normalmente. Riapro gli occhi e la vedo rossa in viso, ma sempre incredibilmente bella.
«Scusa…», le mormoro, ancora labbra contro labbra.
Ma in realtà non mi dispiace. Per niente.
Heidi scoppia a ridere, a voce bassa, come un coro di campanellini d’argento, scendendo dai miei piedi e sbattendo velocemente le palpebre, cercando di ritrovare l’equilibrio. «Dovrei dire al dottore che ti ho visto… e che sei bellissimo… e tu dovresti andare».
Stavolta sono io a ridere. «Forse… ma tu sei più bella, principessa», ribatto dandole un ultimo bacio a stampo e uscendo da lì col sorriso sulle labbra. Tipo ragazzina innamorata, incredibile. Ma poi mi ricordo di una cosa, e torno indietro lungo il corridoio. Apro la porta della stanza, e la trovo sul letto, con la testa leggermente inclinata da un lato. «Ho scordato una cosa…».
«Cosa?», mi chiede, visibilmente divertita.
«Ti amo».
E l’ultima cosa che vedo prima di uscire di lì è lei, che scuote la testa e sorride come mai l’ho vista sorridere. Ed è la fine del mondo, quel sorriso. Dovrei dirglielo, prima o poi. Ma prima c’è un’altra cosa da fare.
Spaccare la faccia ad uno stronzo, per dirne una.


 
 
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*ah, a proposito... uno di questi giorni dovrei creare un gruppo su fb per le mie lettrici.
e molto probabilmente anche un gruppo su whatsapp, se volete :)
okay, mi dileguo. addio. Fede.*

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Capitolo 19
*** 19. ***


*ci sono. non sono morta. e sono riuscita a scrivere...
oltre che essere riuscita a passare l'esame che vi dicevo.
ma questo non vi interessa.
comunque, non mi dilungo, e vi lascio direttamente alla lettura.
fatemi sapere che ne pensate, mi raccomando.
ah, un'ultima cosa... banner nuovo c:
okay, sparisco. alla prossima ragazze.
- Fede.*






19.

HEIDI’S POINT OF VIEW.

Siete mai stati pienamente felici?
Di quella felicità che ti prende alla sprovvista, senza che tu te ne renda conto, e magari in momenti e luoghi in cui non ci sarebbe proprio niente da sorridere. Con quel sorriso che non fate mai vedere a nessuno. Un sorriso solo vostro, che dedicate solo a voi stessi. E alla persona alla quale tenete di più, in tutto il mondo.
Felici, col sorriso a trentadue denti che non accenna a svanire. Felici, continuando a ridacchiare tra voi, apparentemente senza alcun motivo. Felici, con la mano passata nervosamente e più volte tra i capelli. Felici, magari ripensando ad un sorriso, ad un paio di occhi…
Magari ripensando ad un bacio. Uno di quei baci dati e voluti, che rischiano di degenerare e di far impazzire entrambi. Uno di quei baci di cui hai un bisogno straziante, irrazionale e quasi doloroso. Uno di quei baci… un bacio vero. Senza mezzi termini. Dato con tutti voi stessi e ricevuto con la stessa intensità, la stessa voglia, e lo stesso amore.
Allora… siete mai stati pienamente felici? In questo modo, intendo. Rispondete, senza pensarci troppo, vi prego. E rivolgetemi la stessa domanda, senza preoccuparvi di quello che potrei rispondere io.
Perché, nel mio caso, io risponderei di sì. Senza esitazione alcuna.
Risponderei che sorrido quando sorride lui. Che avvampo quando mi fa un complimento, o quando la sua fronte si posa delicatamente contro la mia. Che sorrido, quasi senza accorgermene, quando le sue labbra si posano contro il mio collo, e la sua barba lasciata crescere fin troppo mi fa il solletico.
Risponderei che sto pensando a quel bacio, come se lo rivedessi all’infinito, da spettatrice, nella mia mente. Forse sto diventando pazza, certo. Forse “vedere” nel mio caso non è proprio la parola adatta. Ma sono dettagli, e come tali si possono anche tralasciare, no?
Risponderei che…
«Non mi hai nemmeno sentita entrare, è incredibile cosa ti faccia quel ragazzo».
La voce di mia madre interrompe il mio monologo interiore, seguita da una risatina. E non c’è nemmeno un pizzico di malizia nella sua voce, stranamente. Ma so perfettamente che si è accorta delle labbra gonfie e dei capelli spettinati. Se ne sarebbe accorto chiunque. Mia madre, a maggior ragione.
«Stavo pensando…», ammetto con un sorriso. Sorriso causato dal ricordo del bacio con Zayn. Causato da lui, sempre. Sorriso che mi fa dimenticare di essere in ospedale, o del fatto che anche il migliore amico del mio ragazzo è in ospedale. Sorriso che mi fa dimenticare persino di Nathan… anche se solo per un attimo. «Perché non mi hai detto niente dell’incidente?», le chiedo, inclinando la testa da un lato.
Sento mia madre avvicinarsi al letto, sedersi accanto a me, e prendere le mie mani tra le sue. Le sento stringere appena, prima che sospiri e faccia un respiro profondo, come se dovesse prendere coraggio. Tanto coraggio, a giudicare dalla stretta sulle mie mani, che aumenta, un secondo dopo l’altro. Ma non sembra essere in grado di dire niente, nemmeno una parola. Come fosse appena diventata una statua, ferma immobile tra le mie mani.
«Mamma…».
«Non c’era niente da dire, né niente che avessi potuto fare se te l’avessi detto», mi interrompe, evidentemente spazientita dalla mia insistenza. Inarco un sopracciglio, non credendole. Non è possibile. Avrei potuto fare qualcosa, anche se non so cosa, di preciso. E poi… non c’era niente da dire?
Apro la bocca, diverse volte, prima di arrendermi al fatto che non riesco a parlare. E che probabilmente non c’è niente da dire. Perché, oggettivamente, anche se me l’avesse detto non avrei potuto fare niente, ha ragione. Solo, mi da ai nervi che non me l’abbia detto. Mi da ai nervi che mi si nascondano le cose.
«Avresti dovuto dirmelo comunque», le dico con calma, facendola sospirare.
Avrebbe dovuto dirmi dell’incidente, del processo, che c’era un’altra famiglia coinvolta, che un ragazzo era finito in prigione, che una ragazza di qualche anno più grande di me era morta. Rimango dell’idea che avrebbe dovuto dirmelo, fregandosene di quanto mi sarei sentita impotente o di quanto avrei potuto soffrire. E poi… non capisco perché non me l’abbia detto. Scusate, ma non ci arrivo.
«La madre di Alex mi ha fatto promettere di non coinvolgerti, perché l’incidente ti aveva già strappato via tutto, non voleva che soffrissi». Scuoto la testa, ridendo nervosa. La madre di Alex. Non voleva che soffrissi. Come se non avessi sofferto ugualmente a cercare di ricordare cosa fosse successo, o a perdere il mio migliore amico, o a perdere la vista.
Ho perso comunque parte di me. E ho sofferto ugualmente.
Cosa sarebbe cambiato se me l’avessero detto?
«Ma… non sarebbe cambiato niente…».
«Saresti entrata nel giro sbagliato, se ti avessi detto che c’era un’altra famiglia coinvolta», mi dice, a voce fin troppo alta, lasciandomi le mani di scatto. Allora scoppio a ridere, non riuscendo a fermarmi. La risata più amara della mia vita. Non si fida di me. Non si fida di Zayn. Non si fida di Charlotte. «Heidi… non è quello che volevo dire…».
Però l’hai detto.
«No, mamma, tu credi davvero che conoscendo Zayn prima mi sarei rovinata la vita», riesco a dire, in un sussurro, per poi scostare il lenzuolo dell’ospedale e scendendo dal letto, dall’altro lato. Recupero il bastone bianco dal comodino accanto al letto e faccio per uscire, cercando di orientarmi nonostante io non conosca il posto.
Mia madre non mi ferma, non prova nemmeno a fermarmi.
Ma a fermarmi ci pensano le voci di Louis e Liam, poco distanti. Così mi bloccò, probabilmente vicina alla porta, e lascio scendere una lacrima. Appena un attimo prima di trovarmi tra le braccia del mio migliore amico. Non dice una parola, Louis. Non chiede niente. Solo, sento Liam trascinare mia madre fuori di lì, prima di crollare, senza riuscire a fermare i singhiozzi.
Lascio che mi trasporti di nuovo a letto. Che mi faccia sedere, con le gambe a penzoloni. E che mi si sieda accanto, tenendomi una mano e lasciando che mi sfoghi, con la testa poggiata sulla sua spalla. Sento le sue labbra sulla testa, e una sua mano ad accarezzarmi un braccio, come se volesse tranquillizzarmi.
Ma non ci riesco. Non riesco a calmarmi. E realizzo, due cose.
La prima, è che ho bisogno di Zayn. Disperatamente.
La seconda, è che anche Louis sapeva dell’incidente, di Doniya, del processo e di tutto il resto, ma non mi ha detto niente. Lo sapevano tutti. Anche Liam, Victoria, Eleanor, Niall. Tutti, tranne me.
«Se può farti sentire meglio, io volevo dirtelo, piccola», mi sussurra in un orecchio, continuando a stringermi a sé. Come se riuscisse a leggermi dentro. Come se capisse che sto pensando proprio a quello. Come faccia, proprio non lo so. Forse è solo perché è il mio migliore amico. Perché siamo cresciuti insieme e mi conosce meglio di chiunque altro. Forse, sì.
«E’ morta una ragazza… una famiglia ha sofferto, e un ragazzo è finito in prigione, eppure io lo scopro dopo tre anni, ti sembra giusto?».
Lo sento sorridere, per poi posarmi delicatamente le labbra sulla fronte.
«Dici così solo perché sei innamorata di Zayn, lo sai, vero?». Mi viene da ridere, mentre mi abbandono grata al suo abbraccio e alle sue parole. Abbandonandomi al bacio fraterno del  migliore amico che si possa desiderare. «E per la cronaca, io penso che avresti lottato ancora più duramente, se te l’avessimo detto».
Riesco solo ad annuire, a quelle parole. Perché probabilmente solo le più vere che mi abbia mai detto. Perché in questi due mesi l’ho allontanato, senza volerlo. Non era mia intenzione, è solo che sono stata presa da tutto il resto per curarmi anche di lui. Ma mi è mancato, troppo. E sentirlo parlare in quel modo, mi fa sentire decisamente meglio.
E meno sola. Molto meno sola.
E meno terrorizzata da quello che sta per accadere, di lì a poco più di un’ora.

***

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Ventidue minuti bloccato nel traffico. Ventidue fottutissimi minuti fermo ad un semaforo per non so quale incidente, o cantiere stradale. Non mi interessa. Mi interessano quei ventidue minuti. Ventidue minuti lontano da lei. E già mi manca.
Mi ha detto di amarmi.
Le ho detto di amarla.
Tutto bene, se quel cazzone di Nathan non si mettesse sempre in mezzo. Tutto bene, se la mia migliore amica non mi fosse crollata tra le braccia singhiozzando. E, ancora, tutto bene. Se il mio migliore amico non fosse stato trovato privo di sensi. Tutto bene, se non fosse al pronto soccorso.
Tutto benissimo. Se non mi sentissi dannatamente in colpa.
Mi massaggio la radice del naso, cercando quasi disperatamente di tornare in me. Cercando di non pensare al peggio. Né di pensare al sorriso meraviglioso e meravigliato di Heidi, quando ho posato le labbra sulle sue, in ospedale.
Chiudo gli occhi, lasciando uscire più aria possibile dai polmoni. Respiro meglio, ma ancora non riesco a togliermi dalla testa le parole di Charlotte. È stato Nate, Zay. Come se se lo sentisse. Come se lo sapesse, senza in realtà sapere niente.
Trentacinque minuti, e finalmente riesco ad arrivare.
Parcheggio davanti al pub che è stato spettatore di parecchie delle mie “avventure” con Nathan. Il pub che ha visto crescere la nostra amicizia. Che ha visto nascere l’amore tra Charlotte e Harry, o quello che Nathan e mia sorella – sempre che di amore di possa parlare.
Scendo dall’auto sbattendo la portiera, notando con la coda dell’occhio il SUV di Nathan, parcheggiato poco lontano da me, e poco lontano dall’ingresso. Mi passo una mano tra i capelli, tirandone le punte fin quasi a strapparli, da quanto sono nervoso, stressato e incazzato. Ed entro nel pub, ignorando il senso di nausea che mi assale, e sperando che non succeda quel che invece succede in una manciata di secondi.
Il tempo di un respiro e tutto cade nel silenzio più assoluto
Vedo Tom, il barman, scuotere la testa con un mezzo sorriso, come fosse divertito da qualcosa che non riesco a cogliere. Vedo Ashley e Samantha scambiarsi un’occhiata, per poi alzarsi dal loro tavolino nell’angolo, prendere le rispettiva borse, sistemarsi i capelli e venirmi incontro a braccetto, per poi superarmi con un mezzo sorriso e uscire. Come stessero scappando. È quello che sembra. E probabilmente è anche quello che è.
Ho visto due sorrisi preoccupati. Preoccupati per me.
Mi avvicino al bancone. E allora vedo Nathan, con una ragazza dai capelli scuri – che non ho mai visto ma che allo stesso tempo mi è terribilmente familiare – sulle ginocchia. Mi guardano, entrambi, attenti ad ogni mia minima mossa. Finché lei non gli sussurra qualcosa in un orecchio, gli lascia un bacio sulle labbra e si alza. Cammina fino al bancone e mi si mette davanti, inclinando la testa da un lato, come se si stesse aspettando che la riconosca.
La guardo, attentamente. Cercando di capire. Ma niente. Niente di niente.
Vedo solo una chioma di capelli scuri, lunghi fino a metà schiena. E i suoi occhi, quasi troppo grigi e messi in risalto dall’eyeliner nero per essere veri. Fino a che non scosta i capelli dal collo, allora riesco a vedere un tatuaggio sulla clavicola e tre nei sul collo, che se uniti insieme formano un triangolo.
Apro la bocca. E la richiudo senza riuscire a dire o fare niente.
«Ariel», è l’unica cosa che riesco a sussurrare. Il suo nome, che mi esce dalle labbra a fatica, quasi come se non ci credessi. Perché quella non è Ariel. Non è la ragazza bionda che conoscevo io. Non è la sorellastra di Charlie. No…
«Bingo, Malik», mi dice con un sorriso sporgendosi sul bancone per lasciarmi un bacio su una guancia. Sono immerso nel suo fortissimo odore di zenzero, fino quasi a non sentire altro. «Mi sei mancato, sai?», aggiunge, a voce bassissima, in modo che la senta solo io.
Anche a me è mancata. Da morire. Era stata come una sorella, prima della morte di Doniya. Era la sua migliore amica. Come fossero sorelle, ma separate alla nascita, e completamente opposte. Sempre insieme. Sempre unite. Finché Doniya e Nathan non avevano iniziato a uscire insieme, allora Ariel si era allontanata da tutti.
Me compreso.
«Charlie lo sa?», riesco a chiedere, alludendo a Nathan, indicandolo con un cenno della testa. E Ariel si limita a scuotere la testa, passandosi una mano nei lunghi capelli scuri. Ma sorride appena, e continua a guardarmi negli occhi. «Ha mandato Harry in ospedale, lo sai?».
La vedo sbiancare, diventare quasi dello stesso colore del grembiule da cameriera che indossa. Quasi fino a mimetizzarsi con esso. Scuote la testa, spostando poi lo sguardo da me a Nathan, e ritorno. Prende un respiro profondo, stringendo tra le dita il bordo del bancone in legno chiaro, e chiude gli occhi per qualche istante.
Quando li riapre li vedo lucidi.
«Harry…».
«C’è tua sorella con lui, e io devo tornare in ospedale», aggiungo passandomi una mano sugli occhi. L’idea di spaccare la faccia a Nathan mi si è sgretolata tra le mani quando ho riconosciuto Ariel, portando a galla la memoria di Doniya, come se mia sorella non fosse mai morta. «Ma devo parlare con Nathan, Ariel». La supplico con gli occhi, pregandola di non piangere, di non dare di matto, e di aspettarmi in macchina.
La sorella della mia migliore amica si asciuga velocemente una guancia, annuendo.
Ma non fa in tempo a fare un passo che Nathan è al mio fianco, e le stringe una mano intorno al polso, facendole sgranare gli occhi. Sto per dirle di lasciarla, quando Tom si mette in mezzo, lanciando un’occhiata di fuoco a Nathan e battendo una mano sul bancone. «Basta, smettetela!». Lo urla, quasi.
«Ha ucciso mia sorella, stuprato la mia ex, quasi violentato la mia migliore amica e picchiato il mio migliore amico… è lui che deve smetterla», dico acido, strattonando il polso di Ariel dalla presa di Nathan, che alle mie parole è diventato livido dalla rabbia, ma senza perdere il solito ghigno dal viso. «Andiamo, sirenetta», aggiungo in un sussurro, aiutandola a scavalcare il bancone e atterrare al mio fianco, sui tacchi.
E chiamandola volutamente in quel modo, osservando un’espressione incredula e stupita comparire sia sul volto di Ariel che su quello di Nathan. Ma mentre lei mi sorride, arrossendo appena, lui mi guarda quasi disgustato.
«Malik… la prossima è la tua ragazza».
Mi si gela il sangue nelle vene a quelle parole. E noto anche che Ariel sembra come congelata sul posto, la mano posata sul mio braccio, a fermarmi. Congelata, fermata dalle parole di quello che una volta era nostro amico, l’esempio da seguire. E confusa dal fatto che Nathan abbia accennato ad una ragazza.
«Prova a toccarla e ti farò pentire di essere nato». La voce mi esce roca, più del solito. E sono anche più incazzato del solito, a dire il vero. Mi ha portato via quasi tutto. Non lascerò che tocchi l’unica ragazza a cui abbia mai tenuto più della mia stessa vita. Ha rovinato la mia vita, più di qualsiasi altro.
Ma lui ride, sembra quasi sappia fare solo quello. Allora mi scrollo Ariel di dosso e mi girò di scatto, prendendolo per il colletto della giacca di pelle e sbattendolo contro il bancone, ignorando le imprecazioni di Tom e l’urlo soffocato della ragazza poco dietro di me. Ma non c’è niente da fare. Nathan continua a ridere, incurante di tutto e tutti, come sempre.
«Wow… sei così violento anche con lei?», sputa, a pochi centimetri dal mio viso, puntando gli occhi celesti nei miei. Senza perdere il sorriso strafottente nemmeno per un attimo.
Ma non mi abbasserò al suo livello, nemmeno per sogno. Così, lo lascio andare e mi volto senza dire una parola. Prendo Ariel per mano e annuisco, lasciando che mi trascini fuori di lì. Le passo addirittura le chiavi dell’auto, lasciando che guidi fino all’ospedale, senza che nessuno dei due riesca a dire una parola. Io riesco solo a tenere gli occhi chiusi e a respirare a fatica.
Riapro gli occhi solo quando la sento singhiozzare, nel parcheggio dell’ospedale.
«Ariel…».
«Sto bene», mi dice in un sussurro, mentre poso una mano sulla sua. Guardo il mascara e l’eyeliner colarle sulle guance, con le lacrime, senza che riesca a fermare lo shock, né il dolore. Non sta bene. Inutile che menta. La conosco troppo bene, nonostante non la veda da più di tre anni. «Zayn… perché Nate è così?».
Scuoto appena la testa, e lancio un’occhiata all’orologio sul cruscotto. Un’ora e quarantacinque minuti. Ancora un quarto d’ora e faranno la TAC ad Heidi. Non mi aspetteranno, ovviamente. E non ho il tempo di chiedermi perché Nathan sia così, né di chiedermi perché ce l’abbia in quel modo proprio con me.
Non ho tempo. Un po’ per Heidi. Un po’ perché mi è appena tornata in mente una frase di Nathan. Sembra una vita fa. Credi di essere perfetto, Zayn. Ma io ti prometto, ti giuro, che ti toglierò tutto quello che hai di bello, proprio come tu stai cercando di allontanarmi da tua sorella. Ogni parola torna a me come un pugno dritto nello stomaco.
«Vuole farmela pagare… perché ho provato ad allontanarli… lui e Doniya», riesco a mormorare, in un sussurro. Tanto basso che credo addirittura che Ariel non mi abbia sentito.
Ma scende dall’auto, asciugandosi le guance striate di nero. Mi apre la portiera e mi trascina fin dentro l’edificio, ignorando le occhiate stupite che ci lancia la gente. E si ferma davanti al pronto soccorso, davanti ad una Charlotte accasciata su una sedia di plastica, che non appena ci vede e riconosce la sorella, sgrana gli occhi e apre la bocca, ma senza riuscire a dire una parola.
Sposta lo sguardo da me alla sorella, scuotendo poi la testa con un mezzo sorriso e abbracciando Ariel. Ma tiene gli occhi castani fissi nei miei. E la vedo indicare i piani di sopra con la testa, prima che mormori una sola parola. «Heidi».
Allora corro. Corro come non ho mai fatto.
Arrivando davanti alla sala per le TAC a due minuti dallo scadere delle due ore. Affannato e quasi senza fiato. Trovando Niall seduto su una cassa nera, appena fuori dalla sala. Ci sono anche Louis, Victoria, Liam e la madre di Heidi. Il biondo mi sorride e indica la porta, sulla quale mi aspetta il dottor Harrison, un mezzo sorriso ad increspargli le labbra.
«Credevamo ti fossi perso, ragazzo».
Rido, a voce bassa, prima di entrare nella sala comandi, dove il mio amico musicista ha attaccato una serie di cavi, con un microfono e un paio di cuffie. La stessa cosa, nella sala della TAC, solo che Heidi ha la cuffie con il microfono attaccato, in modo che possa parlare con me anche da sdraiata.
«Iniziamo, Heidi?», le chiede il medico, parlando nel mio microfono.
«Zayn…».
«Sono qui, piccola», le dico, con voce stanca. Ma sto decisamente meglio, ora che l’ho sentita. «Pronta?», le chiedo abbozzando un sorriso, ignorando lo sguardo del medico, puntatomi addosso.
La sento ridere, appena, quasi in imbarazzo. «Prontissima, adesso».


 


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Capitolo 20
*** 20. ***


*buongiorno splendori c:
tipo che era 16 giorni che non aggiornavo, ma okay.
l'importante è che io sia ancora viva, no? sì, dai.
ho partorito il capitolo.
e devo ammettere che stranamente mi piace da matti.
soprattutto la parte Charry. sono anche più shippabili degli Zaidi quei due, boh.
bene, che altro dire?
vi lascio alla lettura. ah, in fondo insieme ai contatti c'è una cosa nuova.
il gruppo facebook che avevo detto che avrei fatto...
ce l'abbiamo, nuovo di zecca. quindi, iscrivetevi, giuro che non mordo.
okay, evaporo. grazie alle recensioni, alle preferite/ricordate e seguite.
con le recensioni siamo quasi tra le popolari, yeeeeeeeeeeeeeeeeeh.
va bene, ho scritto un poema. alla prossima ragazze.
- emotjon.*.



20.


HEIDI’S POINT OF VIEW.

Zayn sembra stanco. Ma non come chi non dorme la notte. Non è la stanchezza tipica dell’insonnia, quella che sento nella sua voce. È stanco. Stanco come chi lotta ma non riesce ad arrivare al proprio obiettivo. Stanco come chi viene trattato male tutta la vita. O stanco come chi perde tutto, e non riesce più a trovare la forza per andare avanti.
Stanco come se avesse combattuto contro un drago per salvare la sua principessa.
Sento la sua voce attraverso gli auricolari. E nonostante rida con me, nella mezz’ora della TAC… non so. Lo sento diverso. Come se la sua voce avesse qualcosa di diverso, che non ho mai sentito. O forse sì, ma è passato talmente tanto tempo che me ne sono quasi dimenticata. C’è qualcosa nella sua voce, che mi ricorda il giorno in cui ci siamo conosciuti.
«Attenta a dove vai, ragazzina!».
Chiudo un attimo gli occhi, e boccheggio, in cerca d’aria. C’è una sfumatura quasi impercettibile nella sua voce, che è la stessa che aveva il giorno che ci siamo conosciuti. Rabbia. Dolore. Insieme. Certo, non nella misura di quel giorno di due mesi fa, ma c’è. E proprio non capisco se sia causata da me, o da qualcos’altro. Insomma, ci siamo baciati, in quel modo poi. E ci siamo detti quelle tre parole, tra un rossore delle mie guance e l’altro.
«Amore, stai bene?», gli chiedo, interrompendolo a metà di una frase. Non riesco a farne a meno. E anche se la mia è una domanda inutile, ho bisogno della risposta. Anche se con tutta probabilità la conosco già. Solo, spero che mi dica che sì, sta bene. Che non c’è niente che non va. Però non mi arriva risposta, tanto che penso che sia colpa degli auricolari. «Zayn…».
«Non sto bene, è tanto evidente?».
Sospiro pesantemente, trattenendomi dal passarmi una mano tra i capelli. Devo rimanere immobile, a quanto ha detto il dottor Harrison. Niente movimenti inconsulti, o la TAC è da rifare. E preferirei non passare un’altra mezz’ora in questo aggeggio infernale, se possibile. Beh, menomale che non soffro di claustrofobia, o sarei già morta da un pezzo.
È evidente, sì. Evidente che non stia bene. Lo si sente dal tono di voce. Stanco, arrabbiato. Ma è come se non volesse parlarmene, per chissà quale motivo. E penso di sapere quale sia il problema. Deve essere per il fatto che Harry è in ospedale. Deve essere per Nathan, o Zayn non starebbe tanto male. Proverebbe a nasconderlo, come in fondo sta provando a fare anche con me.
Peccato, dal suo punto di vista, che io lo capisca fin troppo bene.
«Lo sai che con me puoi parlarne, vero? Sono qui apposta…», aggiungo, tentando un sorriso. Sorriso che però lui non può vedere. Solo, prego che l’abbia sentito. I sorrisi fanno rumore, a modo loro. I suoi, alle mie orecchie, lo fanno.
Appunto, lo sento sorridere, contro il microfono. E mi viene da ridere, perché, come volevasi dimostrare, riesco a capirlo come non riesco con nessun altro. Nemmeno con mia madre, o con Louis, o con Victoria. Di lui capisco qualsiasi cosa faccia, e qualsiasi espressione facciale, senza doverlo vedere.
Comincio quasi a pensare che avesse ragione. Sono una specie di supereroina.
«Nathan ha minacciato di farti del male…». È un sussurro. Ma nello stesso tempo alle mie orecchie risuona nitido, come non mai. Vorrei non aver sentito. Vorrei che non l’avesse detto. E la sua voce, distrutta da quello che ha appena detto, fa anche più male della minaccia stessa.
«Non mi farà del male, se ci sei tu», riesco a dire, altrettanto a voce bassa. Quasi come se avessi paura che lui possa dire il contrario. E ho paura, a dire il vero. Come non averne? Non conosco Nathan, ma da come me ne hanno parlato, c’è da aver paura. Ma il problema è un altro… e se provasse ad allontanare Zayn da me? Io, poi, come farei?
«Lo so piccola… ma è questo il punto, dovresti esserci arrivata, no?».
Annuisco solamente. Non credo di riuscire a parlare, con le lacrime che premono per uscire. E quasi non riesco a respirare, quando mi accorgo di quello che potrebbe davvero succedere se lui sparisse dalla mia vita. «No…». È quasi un singhiozzo, strozzato. «Non te ne vai…».
«No, ma se non riusciamo a liberarci di Nathan, sarò costretto ad andarmene… per il tuo bene», lo sento aggiungere dopo una manciata di secondi. E sorride, lo so. Appena. Ma è pur sempre un sorriso quello che sento. Sospiro, ma non di sollievo. Ho bisogno di un abbraccio, ora. «Altri due minuti e ti faccio uscire da lì… e ti porto a casa, okay?».
Sento le proteste del mio medico, in sottofondo. Ma non mi interessa. Abbasso le palpebre e mormorò un “sì”, appena sussurrato, quasi convinta che Zayn non sia riuscito a sentirmi. Sarebbe la cosa più probabile, visto il mio tono di voce.
Sono stanca, a questo punto. Quasi quanto lui. Stanca, di subire, di soffrire, di non riuscire a sorridere come vorrei. Stanca di non vedere. Stanca che il mio principe stanco non riesca ad abbattere il drago. Stanca, e basta. Apparentemente per un nonnulla. Ma, semplicemente, non ne posso più. Delle bugie e del buio, soprattutto.
Stanca dei medici.
Vorrei solo stare a casa mia, dormire per il resto della vita. O magari dormire, sì. E poi svegliarmi, e vedere. Come nel sogno che faccio tutte le notti. Che al mio risveglio io possa tornare a vedere. Ma è solo un sogno, purtroppo. E io non vedrò mai quello che sogno di vedere da due mesi a questa parte.
Gli occhi di Zayn.
E quasi non mi accorgo che passano gli ultimi minuti di TAC, immersa come sono nei miei pensieri. Sento all’improvviso le mani della stessa infermiera che mi ha aiutata ad entrare lì dentro, aiutarmi ad uscire, il più delicatamente possibile. Mi tolgo gli auricolari, ed è un attimo prima che mi ritrovi – finalmente – nell’abbraccio di Zayn.
Quasi mi dimentico dove sono, presa come sono da quell’abbraccio.
Il più bell’abbraccio che mi abbiano mai dato. Il suo più bell’abbraccio.
Un abbraccio pieno. Pieno di tutto. Pieno di me, e di lui. Pieno di noi. Pieno di… amore. Sì, amore. Le mie labbra posate appena sotto il suo orecchio, e le sue, di riflesso a sfiorarmi i capelli. «Ho paura», dico, strofinando il naso contro il suo collo, mentre lui continua a stringermi a sé, come fossi la cosa più importante e preziosa che abbia mai avuto. Delicatamente, ma allo stesso tempo con decisione.
«Piccola, io non vado da nessuna parte, te lo giuro».
«E’ l’ennesima promessa che non riuscirai a mantenere, lo sai?». Mi scappa una risata, nonostante tutto. Perché anche se all’inizio di tutto si era detto niente promesse impossibili, lui continua, imperterrito, a promettere cose su cose, amore su amore. Lo sento ridacchiare contro i miei capelli, ma dopo un attimo torna serio.
«Posso provarci però, no?».
Sorrido, solo questo. Ed è probabile che mi venga anche da piangere. Ma non me ne accorgo. Non faccio in tempo. Sento solo le labbra del mio ragazzo scendere dai capelli, alla fronte, al profilo del naso, e fermarsi ad un soffio dalle mie labbra, dopo aver lasciato una serie infinita di baci lungo tutto il loro percorso.
Per adesso, sembra proprio che tu ci stia riuscendo.
Un battito di ciglia, e le sue labbra sono sulle mie. Appena, solo qualche secondo, nel bacio a stampo più bello di sempre. E che sa di lui, se mi sfioro le labbra con la punta della lingua, ancora con le palpebre abbassate. Lui ridacchia, al mio gesto, decisamente più rilassato. E appena in tempo per essere interrotti dalla voce fastidiosa del dottor Harrison.
Ormai sta diventando un’abitudine, tanto quanto la mia reazione. Sbuffo, ancora tra le braccia di Zayn. Proprio non riesco a farne a meno. Né di sbuffare, né di rimanere dove sono. Sto troppo bene, qui, immersa nel suo odore.
«Pronta per la risonanza, Heidi?».
Inarco un sopracciglio, e sento Zayn irrigidirsi al mio fianco. E i risultati della TAC? Io credevo si dovessero aspettare i risultati. Che si dovessero aspettare giorni, se non settimane, prima dell’esame successivo. Poso stancamente la testa sulla spalla del ragazzo al mio fianco e sospiro, trattenendomi a malapena dallo scuotere la testa.
«Ma… i risultati della TAC?», gli chiede Zayn, leggermente acido. Come se mi avesse appena letta nel pensiero. Lo sento spostare un braccio dal mio fianco a circondarmi le spalle. Lo sento farsi anche più protettivo di quanto già non sia. Lo sento stringere la presa, come se davvero quel semplice contatto potesse proteggermi dalle parole del medico che ci sta di fronte.
Sento il medico sbuffare. Nitidamente.
E ancora una volta intuisco tutto. «Non si vede niente dalla TAC, non è vero?», gli chiedo, stringendo inconsciamente le mani a pugno. Lo sento borbottare un “sì”, come avesse paura della mia reazione. E inizio a tremare, quasi senza rendermene conto. Era proprio questa la mia paura. Il sottopormi ad una procedura invasiva – per le radiazioni, non per altro – che probabile non avrebbe dato alcun risultato.
«Le risponda, dottore».
«Dalla TAC non si vede niente, Heidi, mi dispiace».

***

CHARLOTTE’S POINT OF VIEW.

Non riesco a guardare mia sorella negli occhi.
No, proprio non ci riesco, nonostante lei stia cercando il contatto visivo da quasi venti minuti. Sono troppo preoccupata per Harry, non posso farci niente. E poi, i suoi occhi tanto grigi, mi fanno male. Mi uccide, far scivolare i miei occhi nei suoi.
Mi tornano alla mente troppe cose. Troppi ricordi, tutti insieme, se la guardo negli occhi, anche solo per qualche secondo. E non credo di poter reggere ai ricordi di quando eravamo piccole. Lei è sempre stata la bambina perfetta. Più alta, più magra, con gli occhi più magnetici. Coi capelli sempre lunghi, biondissimi e liscissimi. Più bella, sempre.
Quella con più ragazzi a ronzarle intorno. Con più amiche. Lei aveva la fila fuori casa, di ragazze che volevano entrare nel suo giro. Io non ho mai avuto nessuno, se non Harry e Zayn. Lei non ha avuto problemi col fumo, con l’alcool, col proprio peso, con la droga. Non è finita nel giro di Nathan, non al mio livello almeno.
Non si è innamorata senza via di scampo del proprio migliore amico.
Ha solo perso Doniya. Solo questo. L’unica cosa che la vita le ha tolto è stata la sua migliore amica. Ad allontanarsi da tutto e tutti ci ha pensato da sola. Non l’ho costretta io ad andarsene. E nemmeno l’ha costretta Zayn.
Io… sinceramente nemmeno so perché se ne sia andata.
Così, fermo il mio camminare avanti e indietro davanti al pronto soccorso. E mi volto, azzardandomi a guardarla. Si è scurita i capelli, e le sopracciglia. È bellissima comunque. Nonostante il mascara colato lungo le guance, le labbra screpolate dal nervosismo e i polsi… gonfi.
«Sei tornata per Nate…», le dico in un sussurro, passandomi una mano tra i capelli.
Non ci posso credere. Come non posso credere che abbia i polsi ridotti in quel modo. Deve essere stato lui, per forza. Nessun altro farebbe del male a mia sorella. E sto seriamente valutando il fatto di uscire di qui e andare dallo stronzo. Merita un calcio in culo.
Ariel alza lo sguardo dal pavimento ai miei occhi. Quasi mi sento male da quanto siamo diverse. Da quanto lei sia bella e perfetta rispetto a me. Distolgo lo sguardo, un attimo dopo averla vista annuire. Non riesco… «Non è niente… lui mi ha fatto promettere di non dire niente a nessuno».
Sospiro, trattenendo una risata isterica.
Con Nathan è sempre così. O fai quello che vuole lui, o finisci con un polso tumefatto. O un labbro. O uno zigomo. A seconda di come gli giri quel determinato giorno. Alzo gli occhi al cielo, cercando di distrarmi.
Il mio “ragazzo” in ospedale. La ragazza del mio migliore amico in ospedale. Io, preoccupata fino all’ultima particella del mio essere. E la mia sorellastra, che ricompare dopo più di tre anni, dal nulla. E apparentemente senza un motivo valido.
Ma un motivo ce l’ha, è Nathan. Solo, continuo a non capire perché.
E non mi interessa, non in questo momento, perlomeno.
«Non mi interessa perché sei tornata, Ariel», ammetto dopo qualche secondo, massaggiandomi le tempie. Gli ospedali mi fanno venire mal di testa. E la preoccupazione per Harry non fa altro che aumentarlo. La vedo inclinare la testa da un lato, coi capelli che le scivolano tutti su una spalla. «Mi sei mancata da morire». Mi siedo di fianco a lei, posando la mia testa di capelli rosso fuoco sulla sua spalla.
Il contrasto è quasi insopportabile. Ma in fondo io e lei siamo sempre state così. Diverse, totalmente. Lei il bianco e io il nero. Lei il giorno e io la notte. E lascio che mi stringa una mano, e che mi dia un bacio sulla tempia, da brava sorella maggiore. «Sei preoccupata per Harry, sorellina?». Le lancio un’occhiataccia, che la fa sorridere, per chissà quale motivo. «Sei innamorata di lui…».
«Può darsi…», scherzo, in un fil di voce.
Come quando eravamo ancora bambine. Quando mi chiedeva se avessi preso io le sue bambole, o se avessi rubato l’ultimo biscotto, o se sarei uscita con i ragazzi, io le rispondevo sempre con le stesse due parole. Può darsi. Allora lei scoppiava a ridere e mi scompigliava giocosamente i capelli, facendomi infuriare.
La sento ridacchiare, al mio fianco.
Ma riesco solo a vedere una dottoressa uscire dal pronto soccorso, e venire verso di noi, una mano passata tra i capelli e l’altra a sistemarsi gli occhiali da vista sul naso. Mi alzo dalla scomodissima sediolina di plastica, quasi in automatico, senza accorgermene. E Ariel si alza con me, continuando a tenermi per mano.
Capisco che lei c’è, qualsiasi cosa accada. E capisco che probabilmente ho sbagliato a sentirmi inferiore a lei, per tutti questi anni. Non è servito a niente. Perché lei ci sarà sempre e comunque, nonostante i tre anni passati lontana da me. Lontana da tutti.
Arrivo a pensare che magari non è stata una scelta sua.
Peccato che i miei pensieri vengano interrotti dalla voce stanca della dottoressa, ferma a pochissimi passi da noi, che ancora ci teniamo per mano. «Chi di voi due è Charlie?», chiede lanciando un’occhiata alla cartellina che tiene tra le mani. Mia sorella mi indica con la testa, mentre io non riesco a smettere di guardare la dottoressa che ho di fronte, sperando che continui a parlare.
Sperando che mi dica che Harry sta bene.
Perché ho bisogno di sapere che è così. Sto crollando, a non sapere.
«Sono io», riesco a mormorare.
Ariel stringe di più la presa sulla mia mano, intrecciandone le dita con le mie, come per trasmettermi la forza che mi serve per rimanere in piedi. «Harry ha chiesto di lei, signorina… camera 213», aggiunge con un sorriso chiudendo di scatto la cartellina. Ma io sto già correndo lungo il corridoio, mentre Ariel rimane con lei.
Sento mia sorella ridacchiare piano, sensibilmente più rilassata. E lo sono anche io, decisamente. Soprattutto quando apro la porta della stanza di Harry e lo trovo sul lettino. Seduto, a petto nudo, con una fasciatura a coprirgli l’addome. I capelli scompigliati, il labbro e il sopracciglio spaccati. Uno zigomo gonfio.
Mi porto una mano alla bocca, cercando di trattenere un singhiozzo. Tentativo vano. Harry apre gli occhi, attirato dal rumore delle lacrime che mi scorrono indisturbate lungo le guance. E punta gli occhi verdi nei miei, tentando un sorriso, che più che altro è una smorfia di dolore.
Lo vedo battere delicatamente una mano contro il materasso. E non me lo faccio ripetere due volte. Mezzo secondo, e lo sto abbracciando, ignorando i lamenti soffocati che escono dalle sue labbra. «Ehi, piccola… piano…», mormora facendomi salire sul lettino e lasciando che mi rannicchi contro il suo petto.
«Scusa…». È quasi un singhiozzo il mio. Di sollievo, più che altro.
«Non ti avrei lasciata prima di dirti che ti amo, non c’è da preoccuparsi».
Eh? Deve essere impazzito, non c’è altra spiegazione. Alzo lo sguardo verso di lui, a dir poco incredula. Ho gli occhi sgranati, e le labbra schiuse a formare una piccola “o”. No, non può averlo detto davvero. Magari sto sognando.
«Che…?».
Porta due dita a sollevarmi il mento, in modo che i suoi occhi siano praticamente incatenati coi miei. In modo che le mie labbra siano distanti solo pochi millimetri dalle sue. In modo che io possa perdermi nei suoi occhi, e ubriacarmi del sapore del suo respiro. Faccio sfarfallare le ciglia. Ed è un attimo prima che le sue labbra finiscano sulle mie. Piano, con calma.
Come a cercare di farmi capire che quello che ho sentito uscire dalle sue labbra è vero. Che non mi sono appena immaginata tutto. «Sono innamorato di te», mi sussurra a fior di labbra, la fronte ancora contro la mia. I suoi occhi ancora fusi coi miei. E il battito del suo cuore a confondersi col mio, da quanto sia vicini.
Faccio scorrere una lacrima, ma sorrido. Sorrido davvero.
E «Anche io, piccolo».


 

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chi non è stato aggiunto, che si aggiunga pure, non mordiamo, giuro)
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Capitolo 21
*** 21. ***


*lo so. so perfettamente che ho aggiornato quasi un mese fa.
so perfettamente di essere orribile. di avere da fare.
e magari di non avere la giusta ispirazione per scrivere, al momento giusto.
ma... c'è un ma, sì. sono riuscita a scrivere.
non so da dove sia venuta l'idea, ma ho scritto un nuovo punto di vista, che scoprirete leggendo.
la parte in corsivo, per la cronaca, è un flashback, anche se penso che si capisca, lol.
quindi... che altro dire? vi lascio i soliti contatti in fondo... e stop.
credo di aver detto tutto. vi lascio leggere, che è meglio.
alla prossima bellissime :)
- emotjon.*






21.
 


HEIDI’S POINT OF VIEW.

Sono sdraiata sul letto di Zayn da quasi un’ora, con le palpebre abbassate e le sue dita che mi sfiorano il braccio nudo, dal polso alla spalla e ritorno. Senza parlare. Senza bisogno di muoversi. Sono in canottiera e pantaloncini, nonostante l’aria fresca. Ma è come se sentissi il bisogno fisico di avere le sue dita addosso. Come se mi servisse.
Sono passati due giorni dalla TAC. Il dottor Harrison mi ha prescritto degli antidolorifici per il mal di testa, almeno finché non si scoprirà qualcosa in più. Mi sono rifiutata di fare la risonanza subito. Vogliamo parlare delle radiazioni? Insomma, potrebbe venirmi qualcosa, no?
E in più, una volta resosi conto, anche il medico è stato d’accordo con me.
Mi ha dato appuntamento una settimana dopo la TAC. Quindi, mancano cinque giorni. Che preferirei passare in pace, nel limite del possibile. Ridacchio, pianissimo, quando senso le labbra del mio ragazzo sostituirsi alle sue dita, sulla mia spalla. «Ti ho sentita», mi soffia sulla pelle Zayn, facendomi rabbrividire. Allora rido, accorgendomi appena del rumore della porta d’ingresso che si apre.
Sento solo le sue labbra risalire lungo il mio collo, per arrivare a qualche millimetro dalle mie. «E’ arrivata tua sorella», gli dico in un sussurro, sentendo la porta richiudersi. La voce della piccola Malik mi arriva alle orecchie dopo qualche secondo, seguita da una voce più adulta, femminile. «E tua madre…».
Zayn ride contro le mie labbra, divertito dal mio tono di voce. «Chiudo la porta?».
Ma non faccio in tempo ad annuire né lui a fare altro, che la voce di Safaa ci arriva fin troppo nitida, fin troppo vicina. Deve essere ferma sulla porta, magari con le manine sui fianchi. «Dio, prendetevi una camera!». È ironica, in ogni minima sfumatura, ma non posso fare a meno di arrossire, nascondendo poi il viso nel collo di suo fratello, che ridacchia appena, posandomi un bacio sui capelli. «Rimani per cena, Heidi?».
Sorrido, le labbra ancora posate contro il collo di Zayn, e annuisco appena, borbottando qualcosa di poco comprensibile, facendolo ridere. Come farei senza quella risata? Sopravvivrei? A stento, forse. E mi rilasso di nuovo sotto le sue dita, che stavolta mi sfiorano la schiena, dalla nuca all’osso sacro.
Sto andando a fuoco. Letteralmente. Ogni millimetro di pelle sfiorato dalle sue dita – anche se coperto dalla canottiera leggerissima – si surriscalda, andando a fuoco. «Sei carina quando ti imbarazzi», mi sento sussurrare. Ha le labbra posate sulla mia guancia arrossata. Ferme, immobili in un punto impreciso tra lo zigomo e la mascella.
«E tu sei un bravissimo bugiardo», riesco a dire, stranamente con voce piuttosto ferma. Senza ridere. Senza l’ombra di un sorriso. E senza ansimare. Sono una brava attrice, dopotutto. Peccato che mi scappi un sospiro, al sentire le sue labbra sfiorarmi l’orecchio. Peccato che lui senta quel sospiro. E peccato che si fermi, stampandomi un bacio sulle labbra.
«Stavo andando troppo oltre… di nuovo».
«Non ti avrei fermato», mi scappa, con un sorriso da un orecchio all’altro. Ed è vero, probabilmente non l’avrei fermato. Probabilmente non ne avrei avuto la forza. Probabilmente mi fido fin troppo di lui. O probabilmente non mi importa di nient’altro, quando sono con lui. «Il confine è davvero sottile quando si tratta di andare oltre, sai?».
Lo sento trattenere il fiato qualche secondo, per poi buttare fuori tutta l’aria. Tutta contro le mie labbra, in un sospiro che sa di tabacco, menta e liquirizia. Un sospiro che sa di lui, fino a riempirmi le narici. Fin troppo.
Il confine è davvero sottile.
Si tratta di qualche misero millimetro. La stessa distanza che intercorre tra le nostre labbra. La stessa che c’è tra le sue dita e la mia coscia nuda. Sento le sue dita, anche se non mi tocca, come se il suo tocco emanasse calore anche senza essere in contatto con me.
La stessa distanza che sta tra un bacio puro e uno che di puro non ha niente. Si passa da un lato all’altro in un nano secondo, senza nemmeno rendersene conto. Perché quando si ama, non ci si rende conto di niente, se non della persona che ci ha rubato il cuore. Quella persona che ci guarda come fossimo la cosa più importante sulla Terra… anche se io non lo vedo.
Lo sento. E basta questo, credo.
«Troppo sottile, piccola», mi sussurra prima di stamparmi un bacio a stampo, interrotto solo dalla risatina di Safaa in corridoio. Non ha chiuso la porta, c’era da aspettarselo. Ma rido anche io con lei, non riesco a farne a meno. «Ora la uccido a forza di solletico, porca putta…».
In qualche modo riesco a centrare le sue labbra con due dita, ridacchiando.
«Lasciala stare, è carina», borbotto accoccolandomi contro il suo petto e stringendo tra le dita un lembo della maglietta che indossa. Respiro a fondo, con calma, volendo imprimermi nella mente ogni sfaccettatura del suo odore. Ogni minima variazione, impressa nella memoria. «Vorrei tanto poterti vedere». Poso le labbra sulla sua clavicola, abbassando le palpebre, timorosa della sua reazione.
Silenzio. Non dice una parola. Quasi non lo sento respirare. È immobile, fermo al mio fianco. Forse l’ho spiazzato. Non lo so, perché non lo vedo. Niente di nuovo. Ma posso sempre sentirlo. Anche qui, niente di nuovo. Lo sento alzarsi dal letto e prendermi per mano. Farmi scendere.
E rido, non riuscendo ad orientarmi. Non capendo niente.
Scendiamo le scale. Attraversiamo un corridoio. Sento la piccola Safaa ridacchiare. E una risata unirsi alla sua, probabilmente sua madre. Ma Zayn stringe semplicemente la presa sulla mia mano. E continua a trascinarmi.
Mi fido. Beh, in fondo, ho altre possibilità?
«Mi dici dove…?». Ma il mio sussurro si spegne contro le sue labbra, contro la sua risata appena accennata. E rido anche io, più spensierata che mai, ma ancora senza riuscire a capire un accidente. Né dove mi stia portando, né cosa voglia fare.
«Non mi puoi vedere, è vero… ma mi puoi sentire, e ho pensato che…».
«Hai pensato? Che novità è mai questa?», scherzo, non riuscendo nemmeno a trattenere una risata. La verità è che mi piacciono le sorprese. Forse anche perché nessuno ha mai provato a sorprendermi davvero.
Ma Zayn mi ignora. Ignora la mia battuta, anche se lo sento sorridere. E apre una porta. Mi fa entrare e ci richiude la porta alle spalle. In silenzio. Sento solo il rumore di un interruttore che scatta, ma al solito io rimango al buio. «Doniya diceva sempre che ho un dono… che quando suono è come se trasmettessi quello che sento, senza doverlo dire a parole», mi dice allontanandosi. Lo sento fare rumore, spostare qualcosa, ma non capisco cosa.
Riesco solo ad annuire, lasciando che mi aiuti a sedermi su quella che deve essere una poltrona. Sollevo le ginocchia, portandole al petto e posandoci sopra una guancia. Abbasso le palpebre, nell’attimo esatto in cui le sue dita iniziano a sfiorare le corde di una chitarra. E mi scappa un sorriso.
Ad ogni nota, sento le lacrime salire agli occhi. Ad ogni nota, sento le gambe cedermi, tanto che se non fossi seduta rischierei di cadere a terra. Ad ogni nota, mi si riempie il cuore. E continuo a sorridere, sentendo il suo sguardo addosso. A dire il vero, non riuscirei a fare altro.
Sorrido e basta, mentre lui continua a suonare.
Perché sorrido? Credo proprio che Doniya avesse ragione.

 
***

NATHAN’S POINT OF VIEW.

La sogno tutte le notti. Non riesco a smettere di sognarla. Una notte dopo l'altra, rivedo il suo sorriso. E le sue labbra. E i suoi occhi. E rivedo la luce che amavo tanto vedere in essi, affievolirsi un secondo dopo l'altro.
Doniya era la ragazza più bella che avessi mai visto. Lei era... perfetta. Qualsiasi cosa facesse, qualsiasi straccio indossasse. Bellissima anche quando era triste, o incazzata - la maggior parte delle volte proprio con me.
Che poi, tutti a dire che la perfezione non esiste. Beh, forse allora ero io. Forse è stata la mia mente a creare non so quale immagine di lei. Perfetta, comunque. Perfetta sempre, in qualunque caso.
Prendo un respiro profondo, guardando il soffitto bianco, vuoto. Vedo tutto in bianco e nero, da quando l'ho persa. Niente ha più senso, da quando lei non c'è più. Mi sono chiesto spesso che senso avesse, vivere senza il suo sorriso. Mi sono fatto sbattere in galera, pur di non assistere al funerale. Come avrei potuto?
Lei mi aveva voluto proteggere, quella sera. E io stavo facendo lo stesso con lei, non dicendo niente di quel che era successo davvero. In fondo, non avrei nemmeno avuto la forza di parlarne. Non volevo parlarne.
«Dovresti dire quello che è successo davvero, Nate». Ariel è un angelo. Non capisco perché continui a starmi accanto, ma lei c'è. Continua ad esserci. E non riesco a mandarla via. Scuoto la testa con una smorfia. «Andiamo a trovare Doniya?», mi dice allora, strappandomi un mezzo sorriso. Ha cambiato argomento, come se niente fosse.
Mi lascia un bacio su uno zigomo, leggero. Come se mi volesse bene. Come se non le importasse che la abbia fatto male. O che abbia quasi violentato sua sorella. «Come fai a non odiarmi, Ariel?», le chiedo spostando lo sguardo dal soffitto al suo viso. Mi sorride appena, scuotendo poi leggermente la testa.
«Ho promesso a lei che mi sarei presa cura di te».
«Carattere di merda compreso?».
Ariel ride, apparentemente spensierata, anche se so che parlare di lei le fa male, quasi quanto fa male a me. Teneva a lei quasi quanto me. Era la sua migliore amica, prima di quella sera. Era la persona con cui si confidava. E Ariel era l'unica persona con cui Doniya parlasse di... tutto.
«Carattere compreso… i polsi vanno meglio, a proposito», aggiunge tirando su le maniche della felpa. La vedo fare una smorfia, ma non dico una parola. Non ci riesco. I suoi polsi lividi mi ricordano…
«Nathan, mi fai male». La voce di Doniya mi arriva ovattata, come se in realtà fosse davvero troppo lontana per poterla sentire. Ma non mi interessa. Sono troppo fatto perché mi interessi. Stringo la presa sui suoi polsi, ignorando il gemito trattenuto che esce dalle sue labbra. «Nate…».
«Zitta!», le urlo contro, a due centimetri dal viso. La vedo rabbrividire. Ma ancora non mi importa. O forse nemmeno me ne accorgo. «Hai capito? Zitta…». Mi passo una mano tra capelli, tenendo stretti i suoi polsi in una mano sola. Tenendola ferma tra il mio corpo e il muro.
In trappola.
E senza staccare i miei occhi celesti dai suoi, neri, ormai lucidi. Quasi sul punto di scoppiare a piangere. Ed è un attimo, prima che sbatta le palpebre e una lacrima sfugga al suo controllo, già precario di per sé. Un attimo, prima che mi accorga di quello che sto facendo.
Mi avvicino, tanto da avere le labbra quasi incollate alle sue, ma all’ultimo istante devio verso la sua guancia, prendendo al volo la lacrima tra le labbra. Chiude gli occhi, Doniya, tirando un sospiro di sollievo, quando dopo un attimo le lascio andare i polsi, intrecciando le dita di entrambe le mani con le sue.
«Amore…». È un sussurro, quello che esce dalle sue labbra, depositandosi direttamente sulle mie. Ma non faccio nemmeno in tempo a chiederle scusa, che posa pianissimo le labbra sulle mie. Un bacio a stampo, nulla di più. «Mettiti a letto, ti prendo un’aspirina…. e del ghiaccio per me», aggiunge, evidentemente convinta che non l’abbia sentita.
Faccio un respiro profondo e annuisco, lasciandola andare.
E «Scusami, piccola». È tutto quello che riesco a mormorare mentre si allontana. Tutto quello che riesco a dire, convinto che non mi abbia nemmeno sentito. Anche se l’ombra di un sorriso, sulle sue labbra, dice esattamente l’opposto.
«Scusami, picc… Ariel». Mi correggo all’ultimo istante, tornando al presente. Pensare a Doniya mi destabilizza. Mi fa sentire debole, fragile, più di quanto non sia mai stato. Mi posa un bacio sulla tempia, riconoscente, per poi scendere dal letto e infilarsi le scarpe.
Io però non riesco a muovermi.
Non posso andare al cimitero. Non posso andare nel posto dove l’hanno seppellita. Non posso guardare la sua lapide e… ricordare lei. Magari vederla davanti a me, immaginare che mi baci. Non posso. Non ci riuscirei. Sprofonderei, più in basso di quanto non sia già.
«Nate…», mi chiama Ariel riavvicinandosi. Deve essersi accorta che… non sto bene.
I pensieri. Magari sono loro. Magari i miei pensieri fanno rumore. Magari lei li sente, sbattere tra un neurone e l’altro. Ma no. Lei non sente niente. Lei non capisce niente. Lei non sa come mi sento. Non sa cosa provo da quando lei è morta.
«Zitta!», riesco a dire con voce strozzata alzandomi di scatto e spingendola contro il muro, di fianco alla porta di legno bianco. Batto un pugno sulla porta, di fianco al suo viso. Ma lei non trema. Non batte ciglio. Non dice una parola. Ed è anche peggio. Sentire la sua paura, o le sue grida, probabilmente mi farebbe stare meglio. Ma no, niente di niente. «Tu non sai come mi sento da quando lei…».
«Mi sento nello stesso modo invece. Mi sento in colpa, Nate».
Un altro pugno, ad un soffio dal suo viso, tanto vicino da spostarle leggermente i capelli color ebano. Ma ancora niente, nemmeno la più piccola reazione, neanche la minima paura nei suoi occhi grigi. «Non sai niente… nessuno sa come mi sento», riesco a sussurrare allontanandomi da lei e sedendomi scomposto sul bordo del letto.
Chiudo gli occhi, sforzandomi di non far apparire Doniya come per magia. Sforzandomi di non pensarci. Lei, la sua risata, le sue labbra contro le mie. Sforzandomi di non pensare a quanto la amassi, e quanto poco l’abbia dimostrato. Sforzandomi di non pensare a quanto male le abbia fatto. A quanti lividi, labbra spaccate, segni di morsi, i miei occhi abbiano visto sul suo corpo.
Ed era colpa mia. Ogni volta.
Mi accorgo a malapena di Ariel, che si inginocchia davanti a me e mi scosta le mani dal viso. Sento le sue dita intrecciarsi quasi automaticamente con le mie, la sua fronte posarsi delicatamente contro la mia, il suo respiro addosso.
Ed è la prima volta in tre anni. La prima volta in cui non immagino che sia Doniya.
«Allora dimmelo». Ariel libera una mano dalla mia, e mi sfiora il viso. Una carezza leggera, che nessuno mi rivolgeva da fin troppo tempo. Carezza che nessuno mi avrebbe rivolto, se non Doniya. Dimmelo. Dirle cosa? La guardo negli occhi, confuso. Spaesato. Non capisco cosa vuole che le dica. «Dimmi come ti senti».
Faccio un respiro profondo. Non me l’aveva mai chiesto nessuno, in quei tre anni. Non in quel modo, e non con quel tono di voce. Non come se volessero saperlo davvero. Non come se fossero davvero preoccupati per uno come me.
Un violento, arrogante. Che si faceva per non soffrire, e faceva finta di divertirsi a fare del male alle persone. Io non ero così. Le cose erano solo degenerate. Prima della morte di Doniya, con la droga. E dopo… beh, era stata proprio la sua morte ad essere la causa della mia violenza.
Dimmi come ti senti.
«Uno schifo…». L’unica cosa che riesco a sussurrare, in un sospiro appena udibile. Ma Ariel annuisce, semplicemente. E mi abbraccia, lasciandomi un bacio tra i capelli. Non l’aveva mai fatto nessuno, se non Doniya. Nessuno mi ha mai trattato come se gli importasse. «Come ne esco?».
«Posso aiutarti io, se me lo permetti».
«Non saprei da dove cominciare…».
«Devi solo farmi entrare, qui dentro», sussurra con le labbra contro la mia tempia. È dolcissima. Fin troppo, per i miei standard. Ma la sua dolcezza non mi dispiace. È tenera. Fa stare… bene.



 


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Capitolo 22
*** 22. ***


*non so per quale strano miracolo, ma sto aggiornando.
non ne approfitterei troppo. insomma, la connessione va, ma fa abbastanza schifo.
quindi, bando alle ciance.
vi lascio direttamente con un GRAZIE gigantesco, e col capitolo da leggere.
alla prossima ragazze :)
- emotjon.*


*niente banner. l'editor mi odia a morte, scusate*




22.


ZAYN’S POINT OF VIEW.

Avete mai avuto paura di rimanere da soli? Quella paura che arriva quando si trova quel qualcuno col quale si sta davvero bene, ma poi si inizia a pensare al peggio, al fatto che magari questa persona potrebbe sparire da un momento all’altro, senza lasciare traccia del suo passaggio.
Senza spiegare perché. Potrebbe uscire dalla mia vita e basta, magari per qualcosa che ho fatto ma non mi sono reso conto. Sono impulsivo, da sempre. E lei è imprevedibile, alla massima potenza. Se non fosse che ormai ho imparato a convivere con quel lato di lei, mi stupirei ancora ogni volta che mi sorride.
E magari lo faccio. Solo, ho smesso di accorgermi delle mie stesse reazioni, da quanto sto con lei. Perché ogni mia più piccola espressione è il riflesso quasi identico di qualcosa che fa lei, e non posso fare niente per impedirlo. Lei sorride, e sorrido io. Lei ride, e rido io. Lei si intristisce, e di conseguenza divento triste anche io.
Non ho smesso di pensarci da quando ho suonato la chitarra davanti a lei, raggomitolata su quella poltrona di pelle ormai logora. L’ho guardata sorridere tutto il tempo, senza riuscire a smettere di sorridere a mia volta. L’ho guardata versare una lacrima, due, tre, sempre con le palpebre abbassate, e sempre sorridente. Felice. Felice di sentirmi suonare.
Come se stesse capendo davvero quello che volevo dirle, anche se senza parlare.
E non ho smesso di pensare a quel sorriso, da quel giorno. Come se me lo avessero impresso a fuoco nella mente. Incancellabile. Indelebile. Il suo sorriso era sempre lì, che avessi gli occhi aperti, o chiusi, che stessi dormendo o meno. Il suo sorriso rimaneva lì. Come una diapositiva abbandonata in un proiettore lasciato acceso.
Non ho smesso nemmeno per un secondo di pensare a quanto mi mancherebbe quel sorriso, se lei mi lasciasse. A quanto mi mancherebbe, se lei sparisse dalla mia vita, come se non fosse mai realmente passata dal mio cuore.
Avete mai avuto paura di rimanere soli? Io sì.
Ogni volta che penso a come starei senza Heidi. Ogni volta che la guardo addormentarsi con quel piccolo broncio a incresparle le labbra. Ogni volta che io annuisco e lei si trattiene dal ridere. Ogni volta che centra le mie labbra con le sue per farmi stare zitto, pur senza vedermi. Ogni volta che la sua mano si incastra alla perfezione con la mia, e trattengo il fiato per un attimo, pensando a come sarebbe… senza.
Senza il suo sorriso, la sua risata, la sua mano contro la mia.
Come sarebbe? Farebbe schifo come penso, probabilmente. Ed è per questo che ho paura. Tornerei ad essere lo stronzo insensibile che ero prima, senza di lei. Manderei a puttane tutto, di nuovo, senza di lei. Allora che senso avrebbe avuto lottare contro tutto e tutti per starci insieme, se lei sparisse?
Che senso avrebbe? Nessuno, probabilmente.
E sono passati altri cinque giorni. Sono le tre di notte. E non riesco a dormire.
Tra sei ore, la risonanza magnetica. Lei dorme, abbracciata a me, coi capelli legati in una crocchia disordinata, che le lascia scoperto il collo. Dorme con la testa posata sul mio petto, il respiro che si infrange contro la mia clavicola. Un braccio a circondarmi la vita, una mano che finisce sul mio fianco, appena sopra l’elastico dei boxer.
La mia mano non smette un attimo di accarezzarle la schiena. Sento la pelle d’oca formarsi sotto i polpastrelli non appena faccio scivolare la mano sotto la canottiera – la mia canottiera – che indossa. Sospira piano, ma non si sveglia. Stringe la presa sul mio fianco, cambia posizione, e continua a dormire.
Mi viene da sorridere, in automatico.
E vedo un sorriso formarsi sul suo viso, nella penombra della sua camera da letto a casa della madre. Un mezzo sorriso, ma di quelli che riuscirebbero a illuminare qualsiasi cosa, in una qualunque notte senza luna e senza stelle. Perché se fossimo lontani, e sapessi che lei sta sorridendo, mi basterebbe alzare lo sguardo alla notte.
In fondo, viviamo tutti sotto lo stesso cielo, giusto?
Sfilo la mano da sotto la canottiera, e le lascio un bacio sui capelli biondi, che riconosco anche al buio. Non ho sonno, per niente. Ma tanto vale provare a dormire… «Sei sveglio?». Mi scappa una risata, appena accennata, prima che possa mormorarle un “sì” nell’orecchio, che la fa sorridere, oltre che rabbrividire. «Da molto?». Annuisco piano, strofinando il naso contro la sua tempia. Evito di dirle che non ho dormito, si preoccuperebbe. Farebbe domande alle quali non sono sicuro di voler – o riuscire a – rispondere.
«Sei nervosa?», le chiedo in un soffio, attento a non fare troppo rumore. Non voglio svegliare sua madre, o suo padre. Tra l’altro, io dovrei essere nella stanza degli ospiti. Piccolo e insignificante dettaglio. Mi riscuoto non appena la sento annuire, i suoi capelli a solleticarmi una guancia. «E se ti facessi evadere per un paio d’ore?», le propongo dopo una manciata di secondi. Ancora un soffio, con le labbra praticamente posate sulle sue.
«Cos’hai in mente?».
Non le rispondo. Semplicemente, le lascio un bacio sulla fronte, prima di tirarmi su a sedere e tirarla su con me. La sento ridacchiare, quando faccio scivolare le dita sulla sua pelle, per aiutarla a liberarsi della canottiera, e le passo una maglietta pulita e una felpa da mettere sopra, in modo che non senta freddo. Faccio la stessa cosa coi pantaloncini del pigiama, facendole poi indossare un paio di jeans e un paio di Converse, mentre lei mi sfila la maglietta, lasciandomi per un momento senza fiato.
«Ricambi il favore?».
La vedo annuire, mentre si mordicchia il labbro. «Peccato che non possa…».
«Nemmeno io ti ho guardata», mormoro, baciandola poi velocemente sulle labbra. «Perché credi che non abbia acceso la luce?». So benissimo che anche lei sa che siamo al buio. Avrebbe sentito il rumore dell’interruttore, in caso contrario. E ride appena, prima che io possa catturare quella risata tra le labbra, e farla mia, renderla parte di me. La bacio piano, tenendole il viso tra le mani, accarezzandole una guancia con il pollice, mentre con l’altra mano le stringo un fianco, tenendola il più vicina possibile a me.
Sento le sue dita giocare coi miei capelli, poco sopra la nuca, e un sorriso comparire sulle sue labbra, nel bacio. Ed è un attimo, prima che un suo sospiro si faccia spazio fino alle mie orecchie, mentre sento la porta aprirsi lentamente e l’interruttore della luce scattare, facendomi strizzare gli occhi per la troppa luce.
Sua madre ridacchia, passandosi poi una mano tra i capelli. «Stavate uscendo?».
Vedo la mia ragazza aprire la bocca, e poi richiuderla, con un’espressione spaesata sul viso, che mi fa sorridere. Allora annuisco al posto suo, infilandomi un paio di jeans e le scarpe, ancora sotto lo sguardo divertito della madre. «La porto… siamo nervosi per la risonanza», confesso passandomi una mano tra i capelli, tirandone le punte fin quasi a strapparli. Fin quasi a farmi male.
«In ospedale alle nove, Zayn… mi fido, mi raccomando».
Heidi mi lascia un bacio su una spalla, ridendo tra sé, prima che sua madre ci faccia uscire. Non una protesta. Non un rimprovero. Niente. Come se non le importasse. O come se le importasse solo del sorriso della figlia, quanto importa a me, in effetti. Siamo fuori, e poi in macchina. In silenzio per tutto il tragitto, mentre Heidi si rannicchia sul sedile di pelle e chiude gli occhi, respirando piano.
Sono i venti minuti più lunghi della mia vita.
Venti minuti in cui mi viene in mente che forse sto sbagliando tutto, dal primo all’ultimo gesto, dalla prima all’ultima parola. Sbaglio, quando le apro la portiera e la aiuto a scendere dall’auto. Sbaglio, quando le lascio un bacio sulla tempia, prima di prenderla a braccetto e guidarla.
Dritto davanti a noi, c’è un giardino recintato. Una specie di serra gigantesca, a dire il vero. O forse, una serra gigante circondata da un giardino, circondato da un muro di mattoni. C’è un cancello, ma io ho le chiavi. Il custode mi conosce da quando ero bambino. Conosceva Doniya, e sa praticamente tutto di me. Quasi tutto, certo. Ma sa abbastanza da fidarsi e avermi lasciato una copia delle chiavi.
È uno dei miei posti preferiti, in assoluto. Era il posto preferito di mia sorella maggiore, e Safaa lo adora. Io ci passerei le ore, in silenzio, solo col rumore del carboncino che scivola sul foglio bianco, quasi vivesse di vita propria. Come se non fossi io a disegnare, ma lo schizzo si tracciasse da solo, in autonomia.
Era il posto in cui mia madre mi portava da piccolo. Agli altri bambini piaceva giocare a calcio. Io disegnavo. Mi chiudevo il quel giardino, mi sedevo sotto un albero e col blocco da disegno in equilibrio sulle ginocchia, disegnavo. Disegnavo e basta, apparentemente senza motivo alcuno.
E mi è sempre piaciuto quel giardino, anche di notte.
Anche nella penombra, con solo le lampade a bassa intensità ad illuminare il sentiero.
Solo, stanotte non posso stare alla luce. Non posso, non voglio, e non sarebbe giusto. Perché Heidi è al buio sempre, ogni giorno. In ogni momento, frustrata perché non può vedermi. Lo vedo da come di comporta, da come a volte sorride solo a metà.
Possiamo essere alla pari, qui. Qui, più che in qualsiasi altro posto.
Le scosto le mani dalle orecchie. Coprirle gli occhi non avrebbe senso. Con lei si fa tutto al rovescio, ormai è chiaro. E ormai mi sono abituato. «Pronta?», le chiedo in un soffio stringendole appena i fianchi, voltandola poi verso di me. Apre la bocca, come per dire qualcosa. Ma poi sgrana semplicemente gli occhi, facendomi ridacchiare. «Cosa senti?», le chiedo ancora, soffiandoglielo delicatamente sulle labbra.
Io sento la pelle d’oca formarsi sulle sue braccia, mentre gliele accarezzo. Sento il suo respiro che sa di fragole, infrangersi sul mio viso. Sento il suo profumo arrivarmi alle narici, portato dal vento. E sento l’odore delle belle di notte, come sento il rumore leggero delle migliaia di farfalle che ci svolazzano intorno, alcune posandocisi addosso.
Più di tutto, sento lei.
«Le farfalle, i fiori… sento te». Non avrebbe potuto dirlo in modo migliore. Con gli occhi chiari e lucidi visibili anche al buio, il labbro inferiore che le trema appena, la voce leggermente commossa. Bellissima, mentre una farfalla apparentemente senza colore le si posa sulla punta del naso, facendola ridere, facendole arricciare il naso dal solletico che deve averle provocato quell’insetto tanto bello. Bello quasi quanto lei.
E la farfalla vola via, mentre lei continua a ridere.
Ed è la cosa più bella del mondo. Il suono più bello che esista, gli occhi più meravigliosi che ci siano. Mi importa solo di lei. E di quanto io stia bene a vederla e sentirla ridere. Le lascio un bacio sulla fronte, mentre lei fa scivolare le braccia intorno al mio busto, stringendomi a sé.
«Mi prometti una cosa, amore?», la sento sussurrare contro la mia spalla. Siamo immobili. Mi sembra che sia una vita, che siamo fermi così. Non posso far altro se non annuire, baciandole pianissimo i capelli. Qualsiasi cosa voglia che le prometta, qualsiasi condizione mi dovesse imporre. «Mi prometti che farai tutto il possibile perché io torni a vedere?».
Faccio un respiro profondo, abbassando le palpebre.
È una richiesta folle, che potrebbe quasi sembrare disperata, se non fosse appena scivolata via dalle sue labbra. Lei credeva di dover rimanere al buio per sempre. Ora invece c’è uno spiraglio, che lascia entrare un minuscolo fascio di luce nella sua vita. C’è la minima speranza che i suoi occhi color mare rivedano il cielo che sono nati per vedere. Cielo che non vedono più, da troppo tempo.
Lei ci crede. Crede davvero di poter tornare a vedere.
«Te lo prometto». E sì, ci credo anche io.

 
***

Sento Charlotte posare la testa sulla mia spalla, mentre dall’altro lato Harry le accarezza una coscia coperta dai leggings a fiori che indossa. Siamo sempre stati tanto uniti, noi tre. Noi contro tutti, dal giorno in cui io e il mio migliore amico abbiamo conosciuto la ragazza dai capelli rossi. Noi contro la scuola, contro i professori, contro i problemi adolescenziali. Noi, contro Nathan.
E siamo ancora noi, fuori dalla stanza della risonanza magnetica.
Siamo ancora noi, contro la cecità di Heidi.
Liam è seduto dall’altro lato dello stretto corridoio, di fianco alla madre di Heidi, che ha gli occhi chiusi, mentre il nipote le accarezza dolcemente i capelli. Louis ed Eleanor sono poco lontani, alle macchinette del caffè. Niall sta sbocconcellando una ciambella della mensa ospedaliera in un sacchetto di carta, mangiandone un pezzetto di tanto in tanto.
E poi, c’è Victoria. Seduta sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro dipinto di celeste e gli occhi bassi. Le cuffie nelle orecchie. Non si è mossa dal momento in cui Heidi è entrata nella sala della risonanza col medico e il tecnico. L’ho osservata fissare il vuoto per quasi un’ora, e non ce la faccio più a vederla così.
Siamo tutti in silenzio. E non ne posso più.
Riesco ad attirare il suo sguardo, nemmeno io so come. Le faccio un cenno, prima di alzarmi in piedi e porgerle una mano, che prende, accennando persino un sorriso. Ci allontaniamo da lì. C’è troppo silenzio. Troppa tensione, mascherata dalla solita pace apparente.
Siamo fuori, sulla scala antincendio, quando mi accendo una sigaretta. E la migliore amica della mia ragazza mi guarda come a supplicarmi da passargliene una. Inarco un sopracciglio, sorpreso. Non mi sembra di averla mai vista fumare. «Andiamo, non fare l’idiota con me… ho bisogno di fumare».
Ridacchio, passandole poi la mia sigaretta, già accesa. «Ce la smezziamo, ti sta bene?», le chiedo, con un sorriso divertito sul viso. Sono sicuro che lei non fumi, al centodieci per cento. Ma evidentemente c’è qualcosa che non so. Butta giù il fumo, senza nemmeno tossire, e lo fa uscire dalle narici con uno sbuffo, passandomi poi la sigaretta. «Sei stata rapita dagli alieni, Vic?».
Ma lei ignora completamente la mia domanda. Come se non l’avessi mai fatta. Come se non avessi nemmeno aperto bocca. Il momento è passato, così come è arrivato. «Cosa le hai promesso stavolta, Zayn?», mi chiede, lasciando perdere le battute e le cretinate, passandosi una mano tra i lunghi capelli castano scuro, leggermente più chiari sulle punte. Mi mordo un labbro. Quasi a sangue. «Mi ha raccontato di stanotte… e mi ha detto che le hai promesso qualcosa, non ha voluto dirmi cosa», la sento dire, mentre ad occhi chiusi prendo un lungo tiro dalla sigaretta.
Mi prenderebbe per pazzo, se le dicessi cosa ho promesso ad Heidi. Ma in effetti, è anche fin troppo strano che lei ancora non pensi che io sia pazzo. Innamorarsi di una ragazza cieca è da pazzi. Completamente fuori di testa.
«Le ho promesso di fare di tutto perché lei torni a vedere».
Le ho appena passato la sigaretta. Le scivola dalle dita, finendo incastrata nella grata della scala antincendio. Si spegne dopo qualche istante, mentre lei sbianca, ed è costretta a reggersi alla ringhiera per non cadere sulle ginocchia, o magari addirittura svenire. Non credo di aver mai visto una persona impallidire a tal punto.
«Dimmi che ho sentito male…».
«Hai sentito bene, Vic. Lei è forte. E io la amo da morire. E ci crede. Ci credo anche io. Credo che tornerà a vedere. Perché ci siamo aggrappati entrambi a quel raggio di speranza che sta portando luce nelle sue tenebre… quindi sì, farò tutto il possibile perché la ragazza di cui sono follemente innamorato torni a vedere».
Lo dico tutto d’un fiato. Senza pause, come fosse un’unica parola. E sì, l’ho ammesso. Amo la sua migliore amica tanto da morirne. Tanto da sentirmi male quando mi sorride. Tanto da credere a qualcosa di praticamente impossibile. Tanto da fare di tutto perché lei non perda la speranza.
Perché quella speranza la aiuta a sopravvivere meglio un giorno dopo l’altro. Quella tenue speranza la fa sorridere. E fa sorridere me. Quindi, magari sarò egoista, ma sono davvero convinto di quel che le ho promesso, per quanto possa sembrare impossibile quella promessa.
«Zayn, Heidi ha chiesto di te… è appena uscita dalla risonanza».
La voce di Liam mi riporta alla realtà, facendomi accorgere del fatto che Victoria ha gli occhi lucidi, con una lacrima che le scorre prepotentemente lungo la guancia, sul mento, per poi sparire lungo la curva del collo.
Così la abbraccio. La abbraccio e basta, lasciando che si sfoghi contro la mia spalla. Lasciando che singhiozzi, sotto lo sguardo preoccupato del suo ragazzo. Ma scuoto la testa, cercando di fargli capire che va tutto bene. «Dille che finisco la sigaretta e arrivo, okay?». Liam annuisce, accennando un sorriso, mentre Victoria si allontana da me asciugandosi le guance dalle lacrime.
«Scusa…», mormora, cercando di placare le lacrime e i singhiozzi.
«Sei umana anche tu, Vic, tranquilla», le dico con un mezzo sorriso passandole un fazzoletto di carta con cui ripulirsi il viso. Mormora un “grazie”, prima di cercare di rimediare al danno fatto dalle lacrime. «Sei più umana tu di tutti loro, in silenzio, senza un sospiro, un singhiozzo… niente», aggiungo togliendole il fazzoletto appallottolato di mano e tamponandole una guancia.
«La ami davvero?», mi chiede in un sussurro. La sento benissimo. Domande del genere le sentirei anche se mi trovassi in un posto pieno di gente e lei fosse dall’altra parte della stanza, a sussurrare. E rido, scompigliandole i capelli. Come se in fondo la risposta a quella domanda non importasse.
Importa, decisamente.
«Quanto Liam ama te», le dico un attimo prima di tornare dentro. La sua bocca mezza dischiusa mi rimane impressa nella mente. L’ho sorpresa, di nuovo. E devo dire che ne sono anche un po’ orgoglioso. Okay, molto orgoglioso.
Ma questo, davvero, non ha importanza.


 


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Capitolo 23
*** 23. ***


ATTENZIONE.
Capitolo di rating superiore al resto della storia.
Anche se ho cercato di non sfociare nel volgare o nel porno, è mio dovere avvertirvi.
Quindi, buona lettura.
*me spera di non tirarsi contro decine di recensioni negative e/o segnalazioni*
*ci vediamo in fondo*
- emotjon.






23.
 
A Sofia, per aver insistito che arrivassero al sodo.
A Maria, per la piano version di Over again.
Ad Anna Chiara, che voleva che Heidi “sentisse il fagiolo”.
A Giorgia e Valentina, per aver letto in anteprima e avermi illuminata coi loro pareri.
E a Marta, perché sì.
 

HEIDI’S POINT OF VIEW.

Distante. È l’unica parola che mi viene in mente per descriverli. Tutti quanti, nessuno escluso. Sono tutti distanti, quasi fossero lontani anni luce da me, e non nella stessa auto. Liam è al volante, con lo sguardo sulla strada. Distante, più per dovere che per altro. Victoria è seduta dietro con me, mi tiene la mano. Ma è distante, come se non fosse davvero presente. Sento il suo sguardo addosso, eppure è come se mi passasse attraverso.
Distante mio cugino. Distante la mia migliore amica.
Distante il mio ragazzo, più che mai. Sul sedile del passeggero, col finestrino abbassato a metà per fare uscire il fumo della sigaretta che tiene tra le labbra. E il suo odore, misto a quello del tabacco che scivola via, mi arriva addosso, con prepotenza. È distante, come perso tra i suoi pensieri, probabilmente troppo lontani perché io possa afferrarli.
È arrabbiato. Me ne rendo conto, non sono stupida.
È arrabbiato, forse più con me di quanto non lo sia con sé stesso. È più arrabbiato con me di quanto non voglia o non riesca ad ammettere. È arrabbiato per avermi trasmesso la sua stessa impulsività. Ora agisco anche io senza pensare. Mi oppongo anche io, quando le cose si mettono male, o non vanno come vorrei.
Mi dispiace Heidi, ma anche dalla risonanza non si vede nulla.
Eccole, quelle parole. Le parole del mio medico. Ma ne ho sentite solo alcune. Mi dispiace. Non si vede niente. Niente. Un altro trattamento inutile, al radiazioni contro il mio corpo. Altro dolore psicologico. E sempre meno possibilità di tornare ad essere normale. Sempre meno speranza.
«Zayn». Un sussurro, che esce dalle mie labbra senza che quasi me ne accorga. Un sussurro, e lo sento trattenere il respiro. Un soffio, e sento le dita di Victoria stringere la presa sulla mia mano, mentre Liam abbassa il volume della radio. «Zayn… amore». Quasi un singhiozzo, al pronunciare quella parola.
Perché ho agito senza pensare. Perché ho rifiutato di fare tutto il possibile per cercare di guarire, senza pensarci due volte. Solo perché ho paura di farmi infilare un ago in un braccio. Solo perché non ho tenuto la bocca chiusa e non ho pensato alle conseguenze che avrebbe avuto quella scelta, o a quello che avrebbe voluto lui per me.
Non ho pensato alla promessa che mi ha fatto in quel giardino.
Sono un disastro.
«Sai cosa? Pensavo che quella promessa significasse qualcosa, ma evidentemente mi sbagliavo… tu non vuoi davvero tornare a vedere». Non credo di aver mai sentito tanto freddo in vita mia. Non tutto insieme, non uscire dalle labbra di qualcuno. Non dalle sue labbra.
Sento la macchina fermarsi, e lo sguardo di mio cugino addosso, mentre lui scende dall’auto sbattendo la portiera, senza darmi il tempo per rispondere, e il suo odore si allontana da me come portato via da una folata di vento. Victoria mi lascia un bacio su una tempia, poi scende – probabilmente per corrergli dietro – mentre Liam rimette in moto.
Non dico una parola. Non ci riesco. Non riesco nemmeno a respirare, lontana da lui.
Ma forse me lo merito. Forse è una punizione alla mia impulsività. Forse sono condannata a distruggere tutto quello che amo davvero, senza che mi sia dato il tempo di dimostrarlo fino in fondo. Forse sono solo una stupida, che non ha saputo ascoltare. «Dove andiamo?», riesco a borbottare, soffocando la voce nel sedile. E Liam ridacchia, mentre io vorrei solo sotterrarmi.
«A casa sua… lo so che hai le tue ragioni, Dee, e che sei stata impulsiva». Fa una pausa, forse lanciandomi un’occhiata dallo specchietto retrovisore. «Devi sono spiegarglielo». Spiegarglielo. Mio cugino deve essere impazzito. Se io sono da lui e lui è da me, qualcuno mi spieghi come faccio a spiegargli. E a scusarmi. Poi ci arrivo. Riesco a intercettare i pensieri di Liam, e mi tiro su a sedere, cercando di trovare un minimo di equilibrio. «Gli puoi registrare un messaggio, piccoletta».
Sono telepatica, molto probabilmente. Telepatia tra cugini.
Il resto sono spezzoni da film, come il racconto della giornata alla madre di Zayn. Le sue lacrime, le mie. Le sue carezze. E l’abbraccio di Liam, prima che torni a casa da Vicki, mentre Safaa insiste per aiutarmi a registrare il messaggio per suo fratello, prima che tutti quegli eventi mi finiscano addosso, facendomi crollare dal sonno.
«Non so cosa dirgli», borbotto, facendo ridere la piccola Safaa.
Non so nemmeno se abbia acceso o meno il registratore. Non so se sto facendo una figura di merda o meno. Sento solo il sorriso di quella bambina adorabile addosso, prima che inizi a parlare a raffica, quasi senza rendermi conto di quel che sto dicendo. Parlo con lui come se ce l’avessi davanti, non come se stessi parlando da sola.
«Ciao amore… io, credevo di non sapere da dove iniziare, invece è il contrario. So da dove cominciare, ma non so dove porterà questo discorso. Forse da nessuna parte. Volevo dirti che ti amo, e magari farlo di persona, ma eri incazzato, e lo capisco… me lo merito, merito che mi urli addosso, merito che tu te la prenda con me». Faccio un respiro profondo, passandomi una mano tra i capelli, sentendo poi Safaa ridacchiare tra sé – non ho idea del motivo, e nemmeno mi interessa.
«Continua…».
«Ho ripensato alla promessa che mi hai fatto, e a quanto sia da pazzi che io voglia tornare a vedere… ho cambiato idea dopo una manciata di secondi, sai?». Domanda retorica, fatta al vuoto davanti a me, e non a chi vorrei davvero. Non direttamente, almeno. E faccio per riaprire bocca, per ricominciare quel discorso probabilmente inutile, quando sento le sue dita intrecciarsi con le mie.
«Lo so, piccola». È un sussurro, con le labbra fresche posate appena sotto il mio orecchio. Non sento niente se non lui. Mi accorgo appena della porta che si chiude, facendo uscire sua sorella. «Scusa se ho reagito male». Le sue labbra salgono fino alla tempia, per poi scendere allo zigomo e posarmisi sulla punta del naso. Mi viene da sorridere, ma mi trattengo solo perché… si sta davvero scusando? No, credo di non capire.
«Ora ti scusi anche quando è colpa mia?».
«L’impulsività l’hai presa da me, a quanto mi ha detto Vic», ribatte, prendendomi per i fianchi e facendomi sedere a cavalcioni su di lui. Lancio un gridolino, sorpresa, e in un lampo dimentico tutti i problemi, le urla e le lacrime. Dimentico di non poterlo vedere, quando le sue labbra mi si posano sul mento e le sue dita scivolano esperte sotto la mia felpa, dritte a sfiorare le fossette di Venere.
Un sospiro mi esce dalle labbra, quasi come una preghiera, e le sue dita salgono su per la schiena, portandosi dietro i vestiti e fermandosi sul gancetto del reggiseno. Un bacio sulla gola, mentre intreccio le dita ai suoi capelli. Un bacio sulla clavicola destra. Uno sulla clavicola sinistra. Poi torna su, sfiorandomi il labbro inferiore con il pollice.
«Tu prova a fermarti e…».
Ride contro le mie labbra, mentre con le mani torna a stringermi piano i fianchi, e strofina il naso contro la mia guancia aspettando che torni a respirare normalmente. Ma non scherzo. Davvero non voglio che si fermi. Davvero voglio che mi slacci il reggiseno, che le sue mani salgano ancora fino a togliermi la felpa. Voglio davvero… vederlo. Mi accontenterò di sentirlo, magari.
«Non mi fermo, se è quello che vuoi», sussurra contro la mia pelle, scostandomi i capelli dal collo. Rabbrividisco, a quel contatto. Mi tremano anche le mani, a contatto con la sua nuca. E improvvisamente ho più paura di quanta non ne abbia in ospedale. Ho più paura di questo che di un ago nel braccio. Ho più paura che lui mi faccia male, di quanto non abbia paura dei medici. «Però devi scegliere tu, principessa…». Mi bacia una palpebra alla volta, per poi intrecciare le dita con le mie.
«Ho paura…». Forse nemmeno mi ha sentita, da quanto è flebile il mio tono di voce. O forse mi ha sentita, a giudicare dalle sue dita, che si stringono un po’ di più contro le mie. Ma no, non ho paura di lui. Mi fido troppo per averne paura. Ho paura di… di cosa ho paura, davvero? «Fa male?». Mi sento arrossire, così nascondo il viso contro la sua clavicola, e Zayn mi bacia piano i capelli. Sorride. Lo sento fin troppo bene.
Ma non ride. Non ride di me. Non si prende gioco di me, anche se gli ho appena confessato implicitamente di essere vergine. E mi solleva il viso fino a farmi incontrare le sue labbra. Poi si alza con me ancora in braccio e chiude la porta a chiave. Sento l’interruttore della luce scattare, segno che deve averla appena spenta.
E le sue labbra tornano sulle mie, prima che mi depositi delicatamente sul materasso e si sdrai su di me, tenendo le mani ai lati della mia testa. Tenendosi su per non pesarmi. Il suo respiro mi arriva direttamente sul viso, dandomi quasi alla testa. Sa di tabacco, menta e liquirizia, come sempre. Ma sa di lui, anche più del solito. «So a cosa stai pensando, e puoi sempre vedermi a modo tuo, no?». Sorrido, forse inconsciamente, e faccio scivolare le mani sotto la sua felpa. Sotto la canottiera. Sento ogni singolo addominale sotto le dita, e lo vedo dietro le palpebre. Quasi come se lo vedessi davvero. «E ti prometto che farò il più piano possibile, te lo giuro».
Sento tutto amplificato.
Le sue dita mi sembrano bollenti, a contatto con la mia pelle. Le sue labbra sembrano bollenti, nella scia di baci leggeri che lasciano mentre le sue dita mi liberano della felpa. E della canottiera. E del reggiseno. E la sua lingua a tracciare il contorno dell’ombelico, mentre inarco la schiena e lo sento sorridere contro la mia pelle ormai surriscaldata.
Non ho mai sentito una cosa del genere. Non ho mai avuto le labbra di qualcuno tanto vicine. Non ho mai lasciato che qualcuno mi sfiorasse in quel modo. Non ho mai spogliato nessun ragazzo come sto facendo ora con Zayn, mentre faccio scivolare le dita lungo la sua schiena, fino a liberarlo della canottiera di cotone che indossa.
Mi irrigidisco appena, quando sento le sue dita fermarsi sul bottone dei jeans, quasi come se mi stesse chiedendo il permesso. Le sue labbra all’angolo della bocca. La mano libera a sfiorarmi la nuca, mentre mi sussurra che mi ama, insieme al mio nome. E il mio nome, in un sospiro, mi fa annuire quasi senza che me ne accorga.
Sento il bottone scattare, e la cerniera abbassarsi, attutita dalle labbra di Zayn contro l’orecchio. Ma la sento, e quel rumore mi fa irrigidire, mi fa stringere le dita sul lenzuolo, come se in qualche modo il mio corpo volesse opporsi. Io non voglio oppormi. Non voglio che si fermi.
«Ehi…».
Prendo un respiro profondo, per poi annuire di nuovo. Le sue labbra sul collo, sulla clavicola e sulla spalla, mi fanno dimenticare tutto, ancora una volta. Deglutisco, portando le dita lungo l’addome di Zayn, all’ombelico, e al bottone dei jeans. Trattiene il fiato, allontanandosi poi da me per farmi scivolare i pantaloni lungo le gambe, indugiando coi polpastrelli su di esse.
Via i miei pantaloni. Via i suoi, buttati chissà dove sul parquet.
«Piccola?». Faccio per aprire gli occhi, a quel sussurro, col respiro un po’ affannato. Ma tanto, a cosa servirebbe? Continuerei ad essere al buio, come sempre. Così mi limito a stringere appena la presa sulla sua mano, non fidandomi della mia voce. Devo essere rossa da morire. Imbarazzata da morire, perché sono nuda. Davanti a lui, altrettanto nudo, anche se non lo vedo. Basta sentirlo. «Se ti faccio male fermami, okay?». Annuisco, e vorrei che bastasse. Un cenno della testa, e lui che entra in me, soffocando un gemito sulle sue stesse labbra. «Heidi», mi chiama invece, sfiorandomi un labbro col pollice.
«Sì…».
«Sei bellissima, lo sai?».
Ridacchio, a pochi centimetri dal suo orecchio, prima che le sue dita si intreccino per l’ennesima volta con le mie. Posa le labbra sulle mie un istante prima che i nostri corpi di uniscano a formarne uno solo. Uniti, fino a non sapere dove finisco io e inizia lui. Uniti, tanto da far male. Tanto che le sue labbra fermino il dolore che preme per uscire dalle mie. Mi aggrappo alla sua schiena come fosse la mia ancora di salvezza, il mio porto sicuro. mi aggrappo a lui, finché non sento il dolore scemare e scomparire fino a diventare piacere.
Uniti, fino a non poterne più. Fino a scomparire l’una nell’altro. Fino a soffocare in un sospiro, in un “ti amo” appena sussurrato nell’orecchio. Fino a inarcare la schiena e far inarcare anche lui, che nasconde il viso nella mia spalla, le labbra contro la mia clavicola. Fino a venire con un sospiro, un gemito più alto degli altri, e le unghie premute ancora più a fondo nella sua pelle.
Mi accoccolo contro il suo petto, cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Quasi incredula, da tutto quello che è successo. La risonanza andata male. La quasi litigata con Zayn. Sesso riparatore? Si dice così, vero? E se avessi sbagliato tutto? Se… «Amore, respira…». Voce roca contro i miei capelli, una mano a sfiorarmi una coscia, sotto al lenzuolo. Non mi sono nemmeno accorta, di aver il fiato corto, di respirare a fatica. «Non so a cosa stai pensando, ma posso immaginarlo…».
Respiro il suo odore fortissimo di liquirizia con una punta di cocco, cercando di collegare almeno un paio di neuroni e formare una frase. Ma niente. Annuisco e basta, strofinando il naso contro la sua pelle, ricoperta da uno strato quasi impercettibile di sudore. Passano diversi minuti, in silenzio, per niente imbarazzante, prima che riesca ad aprire bocca.
«Puoi davvero?».
Mi si chiudono gli occhi. E soffoco uno sbadiglio, che lo fa ridacchiare, mentre la sua mano si stringe sul mio fianco e mi lascia un bacio sulla punta del naso. «Non era solo sesso». Mi si ferma il cuore, prima di ripartire ad una velocità impressionante. Tanto forte che credo lo senta sbattere attraverso la pelle, a contatto con la sua. Tanto forte che lo sento rimbombare nelle orecchie, dieci volte più veloce del suo respiro.
E sorrido. Quasi rido, a quelle parole. L’ho sottovalutato, mentre al contrario lui sapeva perfettamente a cosa stessi pensando. E la sua risata si unisce alla mia, si mischia al suo odore, e al mio, e all’odore di quella stanza che sa di noi.
«Ti amo, sai?».
«Quanto ti amo io?».
Lo sento scuotere leggermente la testa, prima che mi mordicchi una spalla. «Di più».


 



*me si nasconde sotto al letto per non essere presa a pomodori in faccia*
*me tira fuori la testa dal letto, pregando di non ricevere troppi insulti*

okay, a parte le solite stronzate che scrivo quando sono in imbarazzo...
strano ma vero, mi ha imbarazzata scrivere il capitolo, ma non postarlo.
e niente, sto pregando in aramaico di non perdere seguito, dopo questo.
bene, passando alle cose serie.
questo è un capitolo di passaggio, in cui succedono tante cose.
dalla risonanza non si vede nulla.
il dottore propone loro un altro trattamento (spiegato nel prossimo capitolo).
Heidi rifiuta senza pensare. Zayn si incazza.
litigano (?). mi correggo. discutono, circa.
e poi, finiscono per fare l'amore.
perchè si amano, e credo di aver pianto, finendo di scrivere il capitolo.
detto questo (un poema, di dimensioni epiche), vi ringrazio.
per le recensioni, i preferiti, ecc. siamo quasi nelle popolari.
e penso che non vi ringrazierò mai abbastanza, in effetti.
bene, ora posso anche evaporare.
alla prossima splendori... vi lascio i contatti e il trailer...
un abbraccio,
- emotjon.



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Capitolo 24
*** 24. ***






24.



 
ZAYN’S POINT OF VIEW.

È tutto completamente buio. Tutto nero, più scuro della notte, più scuro delle profondità marine. Più scuro di qualsiasi altra cosa abbia mai visto; perché è tanto scuro da mancarmi il fiato, da farmi perdere un battito. Tanto scuro da farmi paura, come effettivamente non ne ho mai provata prima.
Nel buio, le uniche cose che riesco a sentire sono il rumore dell’acqua che scorre. Potrebbe essere il mare, o un fiume. Più semplicemente, potrebbe essere qualche goccia caduta da un rubinetto lasciato aperto per sbaglio, per quanto ne so. Nel buio, sento un odore, sopra tutti gli altri. C’è uno strano odore di fiori, ma non sono sicuro di che fiori siano; ed è mischiato ad un odore che riconoscerei anche da chilometri, o in mezzo alla gente.
L’odore dello shampoo di Heidi mi arriva addosso, portato da una brezza leggerissima.
Sento anche freddo, sulla pelle. Come fossimo all’aria aperta, con le intemperie che ci finiscono addosso. E noi fermi lì, immobili, forse ad aspettare che succeda qualcosa. Forse fermi sotto la neve così, per gioco. Forse perché lo voleva lei, o forse perché l’ho voluto io.
Non lo so. Non me lo ricordo. Ricordo poco o niente. Sento fin troppo. E non vedo niente. Nemmeno la mia stessa ombra, o una luce seppur minima proveniente da chissà dove. Niente, se non le tenebre, le profondità del mare, o qualunque cosa sia tutto quel nero.
Non faccio in tempo a capirlo, però, che sento le dita della ragazza al mio fianco staccarsi delicatamente dalle mie. Staccarsi le une dalle altre come se non significasse nulla e come se io non potessi né riuscissi a fare niente per impedirlo. La sento semplicemente staccarsi da me, lasciarmi un bacio a fior di labbra e allontanarsi senza dire niente.
Lasciando il mio “ti amo” ad essere l’unico rumore in quella giornata invernale.
Un rumore che non ottiene risposta, se non il freddo che sento mentre lei si allontana. Un rumore e una frase che rimangono inascoltati, lasciandomi cieco sotto la neve, coi suoi passi che si allontanano attutiti dalla distesa bianca sulla quale camminano.
Sento la voce di Heidi arrivarmi alle orecchie. Un po’ distorta. Sembra nervosismo, o preoccupazione; ma in realtà non saprei dire che cosa sia, perché le sue piccole mani bianche mi scuotono le spalle, intente a strapparmi da… possibile che sia un sogno?
«Zayn!».
È decisamente preoccupazione, quella insita sul suo viso e nelle iridi celesti che tanto amo. E’ sicuramente preoccupazione, dato che non riesco a smettere di tremare. Prendo un respiro profondo – probabilmente un sospiro di puro sollievo – non appena mi accorgo che lei è qui, al mio fianco.
Qui, ancora mezza nuda e coi capelli scompigliati. Le guance rese rosse dalle lacrime mi fanno ricordare… tutto quanto. Le iridi celesti sgranate cercano di vedermi, senza successo; ma a farlo ci pensano le sue mani, che salgono lungo le mie spalle, a fermarsi sul mio collo contratto.
«Amore…», mi sussurra contro la pelle, avvicinandosi sensibilmente. Posa le labbra sulla mia fronte, prendendo un respiro profondo che in chissà quale assurdo modo riesce a farmi rilassare. «Shhh, va tutto bene», continua, stringendomi a sé.
Ed è solo allora che mi accorgo di piangere, di far fatica a trattenere i singhiozzi.
Riesco solo a stringerla a me. A farmi stringere. Riesco solo a nascondere il viso nell’incavo del suo collo e a respirarla cercando di non crollare; perché anche se non riesco a dirlo, quello era un incubo. Un incubo in cui lei scappava da me, lasciandomi cieco sotto la neve.
«Ti amo, piccola». E forse mi basta sentirla sorridere in risposta, per smettere di pensare alla sensazione che ho ancora appiccicata addosso; la sensazione di averla persa è ancora lì, non se ne va nemmeno quando si accoccola contro di me mormorando un timido “ti amo”, sussurro bollente contro la neve del mio sogno.

 
***

Il medico di Heidi mi sta spiegando per la millesima volta che cosa sia una risonanza magnetica con mezzo di contrasto, stavolta al telefono. L’aria gelida dell’inverno che sta arrivando entra prepotente dalla finestra lasciata socchiusa, finisce contro la pelle nuda delle mie braccia, facendomi rabbrividire; poi mi supera, e arriva in un attimo a scompigliare il lenzuolo bianco col quale è malamente coperta la ragazza bionda nel mio letto, sdraiata a pancia in giù con i capelli sparsi sul cuscino e una ciocca di essi che le scende lungo le vertebre.
Tanto bella che per un momento mi dimentico di essere al telefono.
«So che Heidi non era d’accordo, e che ha paura…».
«Ho più paura io di lei», ammetto passandomi una mano tra i capelli.
Dopo stanotte, vorrei aggiungere. Ma non lo faccio. Sento il dottore ricominciare a parlare, e vedo Heidi girarsi su un fianco, tirare su il lenzuolo fino a coprire il seno, sospirare appena per la sensazione di freddo e continuare a dormire.
Dopo stanotte, ho paura anche solo a respirare, in sua presenza. Ho paura di toccarla e sentirla irrigidirsi. Ho paura di posare le labbra sulle sue e non sentirla rispondere al bacio. Ho paura che senta quello che penso solo toccandomi. E ho paura che se mai tornasse a vedere sarà lei ad avere paura, tanto da lasciarmi da solo sotto la neve, senza la forza di guardarla allontanarsi.
Dannati incubi.
Benedetto amore.
«Vista la situazione, credo di poterti far entrare mentre la preparano». Ma lo sento appena, concentrato sulla smorfia che si forma sul viso della ragazza che amo. Le si forma una piccola ruga tra le sopracciglia, e sporge leggermente il labbro inferiore in fuori, prima di aprire fin troppo lentamente gli occhi, come in una scena al rallentatore. «Zayn...». Mi sento chiamare, ma non fermo il sorriso che mi spunta sul viso quando la vedo stiracchiarsi, con le braccia al cielo, incurante di essere nuda, per di più. Mi sento chiamare, ma non rispondo, incantato come sono a guardare lei.
Metto la telefonata in attesa senza pensarci due volte, lasciando il cellulare sul bordo della finestra. Trattiene un sorriso, Heidi, ma non dice una parola. Mi inginocchio accanto a lei sul materasso, posandole un bacio sulla spalla nuda. Rabbrividisce, al contatto con le mie labbra, o per colpa della barba; o forse è solo il freddo.
«Buongiorno».
«Hai messo in attesa…».
«Il dottor Harrison, già», finisco la frase per lei, facendola scoppiare a ridere. Mormora un “perché” contro le mie labbra, portando le mani al mio collo, fino a giocare coi capelli dietro la mia nuca. «Perché la mia bellissima ragazza nuda mi ha distratto», ammetto, sfiorandole appena il naso col mio.
Ma mentre pensavo di metterla in imbarazzo, lei non fa una piega.
«Che è successo stanotte?». Ignora come me il suo medico. Ignora la telefonata in attesa. Ignora persino il mio tentativo di distrarla e magari imbarazzarla a tal punto da farle dimenticare tutto. Ignora tutto e mi sfiora una guancia, costringendomi a guardarla. «Sussurravi il mio nome come se avessi paura di…».
Perdermi. Sono quasi sicuro fosse quella, la parola.
«Ti ho sognata, e ti allontanavi da me», riesco a dire in un soffio, osservando il suo viso cambiare radicalmente espressione. Le si forma una piccola ruga tra le sopracciglia, storce leggermente il naso e sospira direttamente sulle mie labbra, prima di arricciare le labbra, forse indecisa sulle parole più adatte da usare. Forse solo impaurita quanto lo sono io. «Ero io quello cieco, piccola…».
Sento il respiro spezzarlesi in gola, e entrambe le mani fermarsi sulla mia pelle, all’improvviso. La mano tra i miei capelli si stringe su di essi, mentre riprende a respirare, con gli occhi tristi che nasconde sotto le palpebre. L’altra mano si allontana dalla mia guancia, ma la prendo al volo, intrecciandone le dita con le mie.
«Io non vado da nessuna parte, Zayn».
«Infatti era solo un brutto sogno», cerco di rassicurarla, ma forse quelle poche parole servono più a me che a lei. Scuote la testa, con gli occhi ancora chiusi e un sorriso amaro ad affiorarle sulle labbra.
Allora capisco. È come si sente lei ogni giorno a stare con me; sempre sul filo, sempre in equilibrio precario tra la luce e il buio. Sempre con la paura che io possa lasciarla da sola, cieca sotto la neve. Stavolta sono io a sospirare, prima di lasciarle un bacio all’angolo delle labbra e avvicinarmi al suo orecchio.
«Nemmeno io vado da nessuna parte, principessa», le sussurro, a voce bassissima, prima di scendere dal materasso e riprendere il telefono.
Sono decisamente più leggero, con un macigno in meno sul cuore. Decisamente meno impaurito e più innamorato, se possibile. Decisamente meno preoccupato. Decisamente più me stesso, dopo averne parlato con lei. E riprendo la conversazione col dottor Harrison come se niente fosse, come se non l’avessi tenuto in attesa per una vita.
In fondo, non serve spiegargli nulla. Credo che abbia già capito tutto.
E «Lo so che vi chiedo molto, ma prima scopriamo cos’ha Heidi, prima risolviamo tutto, prima potrete vivere in pace… magari lontani dagli ospedali, non sarebbe male, no?».
Rido sottovoce, distraendo la mia biondissima ragazza dall’atto di allacciarsi il reggiseno. In un paio di secondi, perde la presa sui gancetti e fa uscire l’aria dalle labbra in uno sbuffo secco, frustrazione pura. Incastro il telefono tra l’orecchio e la spalla, avvicinandomi a lei mormorando un “non sarebbe male, decisamente” e scostando piano le sue dita, sostituendole con le mie.
Le allaccio i due gancetti continuando a parlare col suo medico per un possibile appuntamento per quel pomeriggio, sfiorando la schiena di Heidi con la punta dei polpastrelli, sentendola rilassarsi un secondo dopo l’altro, tanto da costringermi ad inginocchiarmi sul letto dietro di lei, in modo che possa posare la testa all’indietro, sulla mia spalla.
«Va bene se facciamo oggi la risonanza?».
Occhi chiusi e respiro pesante, mentre le mie dita scendono lungo la sua pancia, superano l’ombelico e si fermano poco sopra l’elastico degli slip. Annuisce appena. Non so se alle mie dita o alla mia domanda. Annuisce ancora, alzando poi la mano fino al mio viso, fino a trovare il cellulare e chiudere la chiamata, lanciandolo poi sul materasso, tra le lenzuola accartocciate davanti a sé.
«Se sapevo che mi avresti fatto questo effetto non ti avrei permesso di toccarmi», mormora in un soffio, le labbra rivolte contro il mio orecchio, mentre posa una mano sulla mia. Unite, sulla sua pancia nuda. Rido contro il suo orecchio, godendo della formazione della pelle d’oca sulle sue braccia. «Perché sei entrato nella mia vita?», mi chiede con un filo di voce in più, decisamente sarcastica.
«Destino, principessa».

 
***

In fondo nemmeno io sono il tipo di persona a cui piacciono gli ospedali. Non mi fanno paura, ma nemmeno mi piacciono. Diciamo che sono nella giusta via di mezzo. Di solito. Ora, al contrario, non riesco a smettere di passarmi nervosamente le dita tra i capelli. Non riesco a smettere di sospirare di frustrazione, e non vedo decisamente l’ora di andarmene.
Forse sono il tipo di persona che scappa. Forse sono il genere di ragazzo che si tira i capelli fino a farsi del male. Forse amo senza pensarci, o senza esserne pienamente consapevole; sono tardo in materia di sentimenti, inutile negare l’evidenza. Ma se amo, lo faccio fino in fondo. Se amo, non scappo. Se amo, lascio che lei mi stringa la mano, disegnandomi dei cerchietti sul dorso con la punta del pollice. Se amo, prendo un respiro profondo e poso un bacio su una testa di capelli biondo platino, più per rassicurare me stesso che per lei.
«Sei più nervoso di me».
«Vero», ammetto, soffiandole sui capelli.
«E’ solo un ago nel braccio, un liquido che si mischia al mio sangue, e una quantità indefinita di radiazioni, no?». Sorrido, al sentirla scherzare. Non so come ci riesca. Non ne ho la minima idea, ma trattengo la curiosità. Anche perché non c’è bisogno di domandare, ci arriva da sola. «Merito tuo, se te lo stai chiedendo».
«Mio, eh…».
Stavolta è lei a ridere, la tempia posata sulla punta della mia spalla. Senza lasciarmi la mano, si volta appena e raddrizza la schiena, tanto da riuscire a posare le labbra sulla mia guancia, ma parecchio vicino all’orecchio. «Credo sia merito di stanotte, incubi a parte», mormora contro la mia pelle, sorprendendomi. Una manciata di secondi, e sento un brivido scorrermi giù per la spina dorsale.
«Allora credo sarà così anche domani». Mi fermo per lasciarle un bacio su uno zigomo, e un altro, e un altro ancora. «E il giorno dopo, e quello dopo ancora», continuo, lasciandole una serie di baci, forse facendole il solletico. La vedo leccarsi piano il labbro inferiore, con un sopracciglio leggermente inarcato, in tensione come la sua mano contro la mia. «E niente incubi…».
«Ecco a voi il supereroe che fermava i brutti sogni…».
«Nah, basta solo non dormire», ribatto in una piccola vendetta contro le sue labbra picchiettando delicatamente le dita sulla più alta delle sue gambe accavallate. Lo stronzo che esce piano dalle sue labbra rosa mi fa scoppiare a ridere, contento di aver distratto sia lei che me stesso dalla situazione pesante, un momento prima che il dottor Harrison compaia da una porta dall’altra parte del corridoio.

 
***

ARIEL’S POINT OF VIEW.

Faccio scorrere le dita tra i capelli scuri e ormai troppo lunghi del ragazzo sdraiato al mio fianco, facendomi scappare un sospiro. Sollevata su un gomito, coi capelli legati in una crocchia sfatta, la mia mano libera gli sfiora il viso, l’accenno di barba, le labbra poco carnose. Picchietto con le unghie blu scuro – quasi nere – su di esse, senza curarmi di poterlo svegliare.
Nathan, da sobrio e addormentato, è un angelo con tanto di aureola.
Curiosa, gli graffio giocosamente il petto da sopra la maglietta bianca. Niente, se non un sospiro. Niente, se non fosse per la presa appena più salda sul lenzuolo che lo copre fino alla vita. Per quanto possa essere bello guardarlo per ore mentre dorme, però, devo assolutamente fare una cosa. O più che altro, vedere una persona.
Così scendo dal letto e mi vesto, lasciandolo semplicemente con un bacio sulle labbra che ormai ha smesso di infastidirlo e un pezzetto di carta attaccato allo specchio. “Sono da mia sorella, vieni da lei quando ti svegli… Ariel”.
Non sono mai stata il genere di ragazza che conclude una frase con cuori, fiorellini da elementari o baci vari da serie tv. Le serie mi piacciono poco, e sono decisamente cresciuta per i cuori e cazzate varie. Firmare solo col mio nome mi viene naturale, anche perché come potrei concludere?
Ti amo, Ariel.
Mi mordo un labbro, scuotendo poi la testa e incastrando il biglietto in un angolo dello specchio. Non che non lo faccia – amarlo – ma… no. Semplicemente non posso scriverglielo in un pezzo di carta strappato da un vecchio quaderno. Non posso dirglielo così. Forse non posso dirglielo e basta, semplice.
Come posso anche solo pensare di dire all’ex ragazzo della mia ex migliore amica ora morta, che lo amo? Non posso, direi che è semplice; nonché l’unica soluzione passabile e possibile che esista. Non posso mettermi di fronte a lui, prendergli il viso tra le mani e mormorare un “ti amo” sentito con tutto il cuore, con tanto di lacrime agli occhi.
Nathan non capirebbe.
Si incazzerebbe a morte.
Probabilmente mi picchierebbe fino ad allontanarmi da sé.
Sospiro, guardandolo dallo specchio. Si gira sulla pancia, mentre mi sistemo la tracolla su una spalla. Fa un respiro profondo, muove la mano sul materasso come se stesse cercando qualcosa – o qualcuno. E continua a dormire come se niente fosse. Allora mi scappa un sorriso, prima di uscire dalla sua stanza e da quell’appartamento; prima di prendere la metropolitana e camminare per tre isolati a piedi sotto quel cielo bianco che inizia finalmente a promettere neve.
È il primo pomeriggio quando arrivo davanti a casa di mia sorella Charlotte. La sento ridere anche prima di vedere i suoi capelli rossi spezzare tutto quel candore e quel freddo. La sento cadere di sedere sul prato, e vedo Harry buttarlesi giocosamente addosso, facendola ridere anche più forte.
Non sono mai stata il genere di persona che riesce a dire quello che prova. Ma voglio un bene dell’anima a mia sorella. E amo Nathan da sempre. Voglio bene ad Harry, a Zayn. Volevo bene a Doniya come ad una sorella.
Eppure… non ho fatto nulla.
Mi avvicino di qualche passo, e forse schiaccio una foglia secca, ma non me ne accorgo, e non mi interessa; fatto sta che al rumore Charlotte si volta senza perdere il sorriso, poi sgrana gli occhi e dischiude le labbra. Sorpresa, decisamente. Sorpreso Harry, che si scosta da lei e la aiuta a tirarsi su. Sorpresi, mentre mi avvicino ancora, trattenendo le lacrime.
«Ti posso parlare?». È ora di portare un po’ di luce tra le tenebre, credo.



 



odiatemi quanto volete, credo proprio di meritarmelo.
mandatemi le bombe a casa.
insultatemi.
merito ogni bomba ed ogni insulto che vi venga in mente.
vi ho fatto aspettare non so quanto, e chiedo perdono.
il capitolo non è il massimo che potessi fare, e chiedo venia.
però ci siamo. sono riuscita a sbloccarmi.
e dovrei solo ringraziare voi, se ce l'ho fatta.
quindi, grazie.
poi... non saprei che altro dire sinceramente.
se non che a poco a poco ci stiamo avvicinando alla fine.
alla risoluzione di tutto.
i capitoli in tutto saranno 32. ripeto, 32. epilogo compreso.
boh, direi che posso anche dileguarmi.
e scusa ancora per il ritardo immenso...
aspetto le bombe e gli insulti... tranquille, non mi offendo.
alla prossima, un abbraccio

- emotjon.



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Capitolo 25
*** 25. ***







25.



 
 
HEIDI’S POINT OF VIEW.

Indosso l’ormai abituale camice da ospedale. Di un tessuto ruvido che chiamano cotone, ma che non si avvicina ad esso nemmeno lontanamente; nemmeno tentando con tutta me stessa a immaginarlo come tale ci sarei riuscita. Più che altro sembra più come indossare un sacco della spazzatura. Plastica spacciata per cotone.
La stanza in cui mi hanno messa è adiacente al laboratorio della risonanza magnetica. Odora di disinfettante, come qualsiasi altra cosa in quell’ospedale. Persino le infermiere ne sono impregnate. È fastidioso, fa lacrimare gli occhi e bruciare le narici, un po’ come l’insetticida, o il diserbante. Solo che è quasi peggio, perché dopo qualche minuto smetti di sentire.
Qualsiasi odore viene annullato da una patina bianca, o forse incolore.
Fatto sta che il disinfettante annulla tutto.
Odori, sapori. Sentimenti.
Sento il chiacchiericcio insopportabile delle infermiere, che mi girano intorno come avvoltoi con una carcassa. Paragone cattivo, penserete. Non credo proprio. Dal mio punto di vista, mi reputo anche fin troppo simpatica a definirle così. Sono almeno in tre, inodori come tutto il resto. Incolori come sempre, solo deboli ombre grigio fumo nell’oscurità più totale.
Sento il dottor Harrison impartire gli ultimi ordini ai tecnici della risonanza. Probabile che mi stiano guardando con la compassione negli occhi, con la pena impressa a fuoco nelle iridi. Probabile che il mio medico li sgridi per l’ennesima volta, una volta finito tutto. Probabile che non me ne importi, in fondo.
Faccio un respiro profondo, cercando di isolare tutto il resto con l’unico odore non neutralizzato che ancora riesce ad invadermi le narici. Tabacco, fumo di sigaretta. Liquirizia, dopobarba alla menta. Sento la traccia di un pollice leggermente ruvido sfiorarmi la mano tracciando tanti piccoli cerchietti immaginari, la presa forte contro le mie dita.
«Non me ne vado, qualsiasi cosa succeda».
Il suo sussurro mi arriva alle orecchie attutito, ovattato. Come se invece di essere a pochi centimetri dal mio orecchio fosse altrove, troppo lontano per sentirlo. La sua presa su di me invece rimane forte, si intensifica non appena mi lascio andare al fantasma di un sospiro, fin troppo debole per provare a sembrare tale. Intreccia le dita con le mie e mi lascia un bacio sulla mandibola che tengo contratta da quando mi hanno infilato quel dannato camice.
Annuisco, provando a rilassarmi. Forse invano, a giudicare dal sorriso di Zayn che mi brucia contro la pelle. Brucia, ma per fortuna mi distrae dal freddo del metallo contro il braccio libero, all’altezza dell’incavo del gomito. Stringo la presa sulle sue dita, con un’infermiera accanto che mi dice come sempre che andrà tutto bene e che non sentirò nulla.
Ho la pelle tanto sensibile che sentire nulla è praticamente impossibile.
Mi giro verso Zayn, nascondendo il viso contro la sua spalla. Gli occhi chiusi anche se non vedo niente. I denti a mordere il labbro inferiore, mentre la punta dell’ago mi penetra la carne come un coltello col burro.
E per quanto io ci sia abituata, il bruciore dell’ago sulla pelle e nella vena non cambierà mai. Sarà sempre come se mi stessero violando contro il mio consenso. Avrò sempre paura che l’infermiera di turno sbagli e mi rompa una vena, o che mi dissanguino, o qualsiasi altra cosa.
Sento la paura svanire con la presa del ragazzo accanto a me che si stringe attorno alle mie dita. Sento il suo mento posato sulla mia testa, mentre mormora che è tutto apposto, che andrà tutto bene. Sento che ci crede poco o niente, alle sue stesse parole. Ma sento che sta facendo di tutto per farmi passare la paura e l’ansia e tutto il resto. Sento che ci sta provando con tutto sé stesso, anche se probabilmente ha gli occhi chiusi come i miei e la mandibola contratta e la paura che gli scorre nelle vene col sangue.
Proprio come me, sta lottando per non crollare.
Anche se il dolore lo sento solo io.
«Ora sentirai una sensazione di freddo lungo il braccio».
La voce dell’infermiera mi arriva un po’ attutita, come fosse a diversi metri da me. Come se non potessi sentirla davvero, non come vorrei. E la sento, la sensazione di freddo. Lungo il braccio, fino alla spalla. Come se mi stessero gelando il sangue nelle vene. Tanto freddo da farmi venire la pelle d’oca fino al collo. Tanto freddo da sentire il bisogno di stringere la mano di Zayn fino a farmi male. Tanto freddo da sentire il respiro mancare e il cuore perdere un battito.
Prendo un respiro profondo, prima che le dita del mio ragazzo si stacchino pianissimo dalle mie. «Mi stanno cacciando via, piccola… ci vediamo fuori, okay?». Sento solo il dolore nella sua voce, come se in qualche modo non volesse staccarsi da me, non volesse lasciarmi da sola. Ed è devastante, sapere che lui stia male per me. Certo, da un lato è bello sapere che ci tiene… dall’altro, è come se venissi trafitta da tante lame quante ne bastano per sopravvivere a stento.
«Okay… Zayn?». In qualche modo riesco a chiamarlo con un filo di voce, prima che lo facciano uscire. Lo sento voltarsi, e il suo profumo sconfigge ancora una volta il disinfettante, arrivandomi addosso. Lo sento sorridere appena; un sorriso che fa rumore quanto un grido lanciato nel buio, quanto un ti amo sussurrato e portato a spasso dal debole vento di aprile. Non siamo ad aprile, però. E il ti amo che riesco a mimare con le labbra fa meno rumore di quanto riesca ad immaginare, sperando che però riesca comunque a smuovere le montagne, il velo di disinfettante, e i sentimenti.

 
***

ZAYN’S POINT OF VIEW.

Lasciarle andare le dita mentre sta soffrendo per il mezzo di contrasto nelle vene, è l’ultima cosa che vorrei fare. Se le infermiere che le ronzano attorno come mosche non mi guardassero tanto male, probabilmente resterei a tenerle la mano all’infinito, pensando ad un possibile modo razionale per farle passare la sofferenza. Se il suo medico non mi avesse posato la mano sulla spalla chiedendomi implicitamente di uscire, sarei rimasto lì. Immobile. Muovendo solo le dita di tanto in tanto, solo per stringere le sue. Non avrei dato fastidio a nessuno.
Il dottor Harrison vede come me la smorfia sul viso di porcellana della mia ragazza. Vede come me la pelle d’oca percorrerle le braccia e invaderle prepotente il collo. Vede come me la mandibola contratta e la mano stretta come una morsa intorno all’unica cosa che riesce a toccare, la mia mano.
Vede tutto quel che c’è da vedere. Ogni segno di ansia sul suo corpo.
Lui lo vede e non fa nulla.
Mi mette solo una mano sulla spalla e fa per scortarmi fuori. Come se io lì non contassi nulla. Come se Heidi fosse solo una paziente come tante altre, quando invece non lo è. Non lo è mai stata. «Mi stanno cacciando via, piccola… ci vediamo fuori, okay?». In qualche modo riesco a pronunciare quelle poche parole, mentre stacco le dita dalle sue. E sono consapevole di quanto si senta il dolore nella mia voce; perché staccarmi da lei fa male, fin troppo. So perfettamente quanto si senta il mio dolore, quanto lei lo senta. Eppure non mi importa; forse semplicemente voglio che lo senta, voglio che senta tutto.
«Okay… Zayn?».
Lancio un’occhiataccia all’infermiera che mi intima di andarmene, insieme ad uno sguardo al medico, che fortunatamente smette di trascinarmi e lascia che mi volti. Mi viene da sorridere, nonostante la lacrima che le scorre sulla guancia. Sorrido, perché è bellissima. Sorrido, perché è mia. Sorrido, perché andrà tutto bene.
E nonostante premano per cacciarmi, riesco a scorgere perfettamente il mezzo sorriso sulle sue labbra, prima che mimi due parole. Solo due, che fanno più rumore di qualsiasi altra cosa, nella mia mano.
Perché vedo perfettamente le sillabe formarsi.
E quel ti amo è più reale di tutto il resto.
È l’unica cosa certa che ho, che abbiamo.
È l’unica cosa che importa, mentre esco da lì. L’unica che conta, mentre tutti lì fuori cercano di guardarmi negli occhi per capire come stia andando. Ma io non riesco a guardarli, il pavimento grigio è l’unica cosa che riesce a distrarmi un po’. Quel pavimento mi permette di non guardare la madre di Heidi e vedere i suoi stessi occhi; mi permette di non vedere la preoccupazione negli occhi di suo cugino, o della sua migliore amica; mi consente di non guardare nessuno e concentrarmi su come sto io, su come stia impazzendo lei con tutto quel disinfettante nell’aria.
Ma non c’è niente da fare. O forse ci tengono troppo, perché Victoria mi si siede accanto passandomi un bicchiere di carta con del caffè. Non so perché, ma in qualche modo mi fa sentire un po’ meglio. Come mi fa stare un po’ meglio sentire la sua mano posarsi sulla mia gamba e stringere appena. O il bacio che mi lascia sulla guancia, sussurrando anche lei che andrà bene, anche se forse non ci crede.
Stranamente non mi fa uscire di testa. Stranamente, non mi viene voglia di spingerla via, alzarmi da quella scomoda sedia di plastica bianco sporco e dare un pugno al muro. Stranamente, prendo la mano di Victoria e la stringo, vedendo poi con la coda dell’occhio un sorriso comparire sulle labbra di Liam.
Prendo un sorso di caffè, non riuscendo poi a trattenere un sospiro.
E, semplicemente, aspettiamo. Aspettiamo che i secondi passino, che lo facciano i minuti dopo l’altro. Fissiamo il vuoto in quel corridoio sperando che qualcuno lo riempia; ma nessuno lo fa. Rimaniamo in silenzio e immobili, almeno finché due paia di passi non mi distraggono da tutto quel silenzio e tutta quell’attesa.
Alzo lo sguardo trovando poco distante gli occhi celesti del mio migliore amico della mia ragazza. Louis, coi capelli scompigliati e il respiro accelerato; con la camicia abbottonata male ed Eleanor che lo segue borbottando. Non perché non voglia, piuttosto perché non sopporta l’ansia di Louis. Come biasimarla, del resto.
«Sigaretta, ora», lo sentiamo dire mentre si passa nervosamente una mano tra i capelli.
La castana al suo fianco gli lascia la mano e saluta tutti, fermandosi di fianco alla madre di Heidi e prendendola per mano. Louis invece non fa che guardare me, come se mi stesse pregando con uno sguardo di uscire di lì, di fare qualcosa che non sia aspettare inermi.
Sinceramente, non aspettavo altro che una richiesta del genere.
Annuisco e lascio la mano di Victoria, prima di lasciarle un bacio leggero su una tempia e seguire il migliore amico della mia ragazza lungo lo stesso corridoio dal quale è appena arrivato, seguito da una delle classiche occhiatacce di Eleanor; una di quelle occhiate che se potessero ucciderebbero, per quanto sono profonde e fanno male.
«Non ti azzardare a tornare puzzolente come una ciminiera, Tomlinson».
Riesce a farmi sorridere. Sorrido, soprattutto alla reazione melodrammatica di Louis, quell’alzare gli occhi al cielo che tanto mi ricorda Heidi e i suoi occhi, così simili a quelli del castano che per un momento mi sembra di vederla accanto a me. Così simili che per una manciata di secondi mi dimentico di essere per l’ennesima volta in un ospedale.
Torno in me non appena mi accorgo di aver già acceso la sigaretta e di averne fumata più della metà, sotto lo sguardo decisamente divertito di Louis, a dimostrare – forse – che io sono anche più in ansia di quanto non lo è lui. Forse semplicemente dimostriamo angoscia e tristezza in modi differenti.
«Come stai?».
«Starei meglio se lei non fosse cieca», dico quasi senza pensare, a voce talmente bassa che quasi non riesco a sentirmi. E la mano di Louis si posa piano sulla mia spalla, mentre con la coda dell’occhio lo vedo annuire. Piano, un cenno appena percettibile… ma io lo vedo comunque, e sono certo di non essermelo sognato perché dopo qualche secondo ridacchia, costringendomi a voltarmi verso di lui.
«Starebbe meglio anche lei, se non fosse cieca… fa solo fatica ad ammetterlo», mi fa notare prendendo un lungo tiro dalla propria sigaretta e facendone poi uscire il fumo dalle labbra in uno sbuffo di fumo bianco. «Staremmo meglio tutti, quindi non ci resta che sperare che qualsiasi cosa ci sia nella sua testa bionda essa sia… curabile… non saprei in che altro modo metterla», aggiunge con un mezzo sorriso alzando le mani come a discolparsi delle proprie parole.
Scappa un sorriso anche a me, seguito da un sospiro, quando mi rendo conto di quanto abbia effettivamente ragione. Finisco la sigaretta seguito dall’eco delle sue parole, non accorgendomi della presenza di Victoria e Liam poco dietro di noi, almeno finché Louis non mi posa una mano sul braccio e mi fa voltare, facendomi immergere completamente in due paia di occhi castani.
Due paia di occhi, tanto uguali quanto diversi.
Lucidi, quelli di Victoria. Determinati ma un po’ spenti, quelli di Liam.
«E’ uscita ora e…». «… il dottor Harrison ha uno strano sorriso sul viso, non mi piace per niente». Lui inizia la frase, lei la finisce. Ed è probabile che sarei scoppiato a ridere, in un’altra situazione. Fuori dall’ospedale, e con la mia ragazza seduta sulle ginocchia, con le sue dita intrecciate alle mie… avrei riso, poco ma sicuro.
Avrei almeno sorriso, se non fossi stato tanto impegnato a cercare di respirare senza iperventilare; se non fossi stato impegnato a tenere le palpebre abbassate per non crollare; se non fossi stato tanto preoccupato da non rendermi conto del resto. «Zayn…». La voce di Louis mi fa rendere conto di aver smesso di respirare e di aver irrigidito i muscoli delle braccia senza nemmeno il bisogno di pensare di farlo. «Respira, per lei».
E lo faccio.
Prendo un respiro profondo. E un secondo respiro, ancora con gli occhi chiusi, prima di annuire e seguire gli altri tre per il lungo corridoio che sa di chiuso e di disinfettante. Lascio che Victoria mi prenda a braccetto; che la sua mano si stringa sul mio avambraccio; che mi trascinino fino alla fine, fino alla sala d’attesa che ho lasciato solo qualche minuto fa.
Riesco a respirare come se fossi all’aria aperta. Respiro tutta l’aria che mi serve e anche di più, finché non arrivo in fondo e mi si incastra il fiato in gola, al vedere Heidi nel camice celeste dell’ospedale, coi capelli scompigliati e le borse sotto gli occhi stanchi. È un po’ pallida, le palpebre abbassate e la mano della madre che le accarezza una gamba.
Devo fare qualche altro passo prima che sollevi la testa e che i suoi occhi vuoti si posino nei miei. La vedo accennare un sorriso, che nel giro di pochi secondi si proietta anche sul mio viso. Magia, è l’unica parola a cui riesco a pensare. Amore, la parola successiva. La ragazza al mio fianco mi lascia andare da lei, fermandosi al fianco di Liam, che le mette una mano intorno alla vita tirandola a sé con l’ombra di un sorriso. Sento il loro sguardo addosso mentre faccio alzare Heidi, per poi sedermi al suo posto e farla risedere sulle mie ginocchia.
Ho il mento sulla sua spalla, i suoi capelli a solleticarmi la pelle. Il suo profumo che mi stordisce, portando via tutto quel disinfettante che iniziavo a non sopportare. Solleva di poco le braccia, lasciando che i porti le mie a stringerle il busto, poco sotto al seno. E «Ciao», sussurro piano, facendola ridacchiare, seguita dalla madre e da tutti gli altri. Sento la risata acuta di Louis, e quella un po’ stanca di Liam.
Ma svaniscono così come sono iniziate, spente dalla leggera risata del dottor Harrison.
«Dottore», lo saluta semplicemente Heidi, con uno sbuffo che più che altro sembra un sospiro di frustrazione. La sento irrigidirsi, ma basta un bacio leggero sulla sua spalla, perché il respiro le si strozzi appena, prima che stringa sensibilmente la presa sulla mia mano, a metà tra la preghiera di smetterla e la paura che sta provando nell’attesa di quella diagnosi che avrebbero dovuto darle anni prima.
«Heidi… vado dritto al punto… ho una notizia buona e una cattiva».
Sento distintamente il rompersi di due respiri. Il primo, della ragazza seduta sulle mie gambe. Il secondo, della donna seduta sulla sedia di fianco alla mia. E non posso far niente, se non stringere la presa sulla vita della prima e allungare una mano verso la seconda, lasciando che la prenda e la stringa come fosse l’unica cosa che possa tenerla in piedi.
Una notizia buona.
Una cattiva.
«Prima la cattiva», riesco a dire, abbassando le palpebre e posando poi le labbra sui capelli biondissimi della mia ragazza. La sento annuire, prima che entrambe le sue mani si posino sulla mia, stretta all’altezza del suo stomaco. A dita intrecciate, riesco quasi a respirare in modo decente, almeno per qualche secondo.
Prima la cattiva.
E la presa su entrambe le mie mani aumenta, nel momento in cui il medico inizia a snocciolare una serie di parole. Lo sento, ma non lo ascolto davvero. Sento un fiume di parole che non capisco. Sento parole come massa e cervello, ma non riesco a capire niente; forse la verità è che non voglio ascoltare e non voglio capire.
Prima la cattiva.
E capisco che forse avrei dovuto prima chiedere della buona notizia quando sento un singhiozzo scuotere l’aria, emesso dalla madre di Heidi qualche millesimo di secondo prima della parola tumore. Apro gli occhi, con la mano stretta in quella della mia ragazza e il suo respiro spezzato che mi arriva alle orecchie. Apro gli occhi, puntandoli in quelli del medico, che però sono bassi sulla cartella che tiene tra le mani, come se non volesse guardarci, come se non volesse vedere la paura che ha instillato lui stesso, nelle nostre iridi distrutte da una sola parola.
«Non credo di aver sentito bene…», mi anticipa Victoria, la voce spezzata dalle lacrime che sta cercando inutilmente di trattenere. Inutilmente, dato che anche a distanza di qualche metro posso vedere gli occhi lucidi e gonfi e qualche goccia che le brilla sulla guance rosa.
«Dalla risonanza si può vedere una massa che preme sul chiasma ottico e sul cervello di Heidi, impedendole di vedere… dovremmo fare una biopsia per esserne sicuri, ma dovrebbe essere un piccolo tumore».
Massa. Chiasma ottico. Cervello. Biopsia.
Tumore.
Tumore.
Tumore.
Una parola che mi continua a girare nella mente, tra un pensiero e l’altro. Sei lettere che riescono ad occupare ogni spazio vuoto, ogni centimetro di mente lasciata inabitata. Sei lettere che mi arrivano ai polmoni, impedendomi di respirare; che scendono lungo l’esofago per arrivare allo stomaco, facendomi venire la nausea.
Non ci riesco. Non riesco a trattenere il piccolo singhiozzo che mi si forma in gola. Lascio uscire il dolore, per la prima volta dall’inizio di questa assurda situazione. Sento appena Heidi che si volta verso di me, lasciandomi la mano per qualche istante, per poi riprenderla e stringerla più forte di prima. «Non lasciare che quella parola ti schiacci, amore… non lasciare che quelle sei lettere ti uccidano, perché se crolli tu crollo anche io», mormora pianissimo, passandomi delicatamente le dita su una guancia e fermandosi poi tra i miei capelli.
«La buona notizia è che possiamo operarla e togliere tutto».
Parole che arrivano come un fulmine a ciel sereno.
Parole che ci fanno sperare di nuovo.
Parole che in qualche modo mi fanno rilassare, per quanto ancora la situazione possa essere tesa. Perché abbiamo di nuovo una speranza, per quanto flebile essa sia. Abbiamo di nuovo una piccola luce nel nostro mondo attraversato dal buio, e in questo momento è sicuramente meglio che non avere niente.

 
***

NATHAN’S POINT OF VIEW.

Ricordo a malapena di essermi addormentato. Ricordo ancora meno di aver sognato qualcosa, ma la sensazione di freddo lungo la schiena la sento forte e chiara, ora che sono sveglio. Come un brivido e uno strano senso di mancanza di qualcosa, mischiati insieme e lasciatimi scorrere lungo la schiena, una vertebra dopo l’altra.
Apro gli occhi appena in tempo per sentire una porta aprirsi e poi richiudersi. Faccio per chiamare Ariel, ma è abbastanza evidente che sia uscita, nonostante il suo odore mi sia ancora impregnato addosso e il cuscino accanto al mio sia ancora tiepido. Non mi illudo certo di poterla trovare in cucina a prepararmi la colazione, né tanto meno mi aspetto uno stupido biglietto di inutili scuse tra le lenzuola.
Non stiamo insieme.
Non la amo.
Non mi deve niente.
Non stiamo insieme. Allora perché sento come se mi mancasse un pezzo? E se non la amo, perché non appena mi sollevo a sedere e noto un probabile biglietto di scuse attaccato allo specchio, mi spunta un sorriso da idiota sul viso? Se non mi deve niente, perché continuo a sorridere? E perché mi manca?
Sbuffo, forse per la frustrazione o per la confusione, prima di divincolarmi dalle coperte con uno sbadiglio e posare i piedi nudi sul pavimento ghiacciato. Un altro brivido lungo la schiena, non più piacevole del precedente. Barcollo leggermente fino allo specchio, una mano tra i capelli decisamente troppo lunghi e l’altra ad afferrare il pezzetto di carta.
Sono da mia sorella, vieni da lei quando ti svegli… Ariel.
Ci vogliono pochi secondi perché il sorriso che ho addosso svanisca. Pochi attimi e mi ritrovo a stringere il pugno sulla carta, tentato con ogni fibra del mio corpo di scagliare la mano in avanti e rompere lo specchio. Sbuffo di nuovo, abbassando le palpebre e provando a prendere un respiro profondo.
Non voglio arrabbiarmi, non voglio spaccare niente. Non voglio che la rabbia prenda il sopravvento, perché è già successo in passato, e farei del male a qualcosa… a qualcuno. Potrei tranquillamente prendere la macchina e andare da Ariel, farle male come facevo con Doniya quando mi incazzavo e lasciavo che il resto scomparisse. Potrei, ma so che me ne pentirei un secondo dopo, guardandola in quegli occhi grigi e perdendomici completamente.
Non voglio essere quello che ero. Ho già fatto soffrire troppe persone, troppo.
Sono da mia sorella. So perfettamente cosa vuole fare. Cosa vuole dire. Vuole raccontare tutto a Charlotte, vuole portare luce nelle tenebre. Vuole dire la verità. Vuole portare a galla avvenimenti che io non voglio ricordare, che non avrei nemmeno voluto vivere, a dirla tutta.
L’incidente. Doniya.
Mi vesto in un lampo, senza nemmeno fermarmi a pensare. Infilo un paio di jeans al volo e una maglietta con una vecchia felpa sopra. Prendo il telefono e le chiavi della macchina dal comodino di Ariel, respirando velocemente. Non so cosa sto facendo, non so se voglio impedire ad Ariel di parlare. Non so niente.
So solo che esco da quell’appartamento quasi di corsa, salendo in auto con un sospiro.
Respiro profondamente, prima di mettere in moto. Cerco di canalizzare la rabbia sui movimenti delle mani, sul volante e sul cambio, sul piede pigiato sull’acceleratore. Cerco di concentrarmi sulla strada, anche se ho la mente altrove. Cerco di tenere gli occhi aperti, di non pensare ad Ariel, o – ancor peggio – a Doniya.
Allungo la strada, la sbaglio – forse volontariamente. Guardo alcuni di fiocchi di neve cadere sul parabrezza, e prima che me ne accorga davvero sto parcheggiando di fronte a casa di Charlie; quella casa che una volta era dei suoi genitori, che era anche casa di Ariel. Quella casa che ricordo fin troppo bene, in ogni suo particolare, gradini di legno e dondolo sotto al portico compresi.
E su quei gradini, due ragazze. Sorelle ritrovate, due opposte che si tengono per mano.
I capelli rossi di Charlotte legati in una treccia laterale, e lo sguardo color nocciola che scivola su di me non appena mi sente sbattere leggermente la portiera e scendere dall’auto. La vedo irrigidirsi, prima che anche Ariel sposti lo sguardo su di me, sui miei capelli sicuramente in disordine e sulla felpa allacciata male. I lunghi capelli nero pece che le ricadono sulle spalle e gli occhi grigi che mi guardano. Lucidi. Gonfi.
Faccio fatica a guardarla. Fa male, guardarla. Sento qualcosa rompersi, al centro del petto, dove dovrebbe esserci il cuore. Fa male, e la rabbia svanisce com’è arrivata. Evapora nell’aria fredda che non fa altro che promettere neve. Sbollisce in una manciata di secondi, come se in realtà non fosse mia esistita, come se non fosse stata tanto importante da ricordarla.
La guardo, prendendo l’ennesimo respiro profondo.
E – forse con sorpresa di entrambi – annuisco. Non posso fare altro. Perché in fondo ha ragione, è ora di fare luce. Sono passati tre anni, è ora di finirla, qualsiasi che siano le conseguenze. La vedo annuire di rimando, facendo cenno di avvicinarmi; e lo faccio, mi avvicino tanto da sentirne l’odore, come ho fatto tutta la notte appena passata, come faccio da giorni.
Le siedo accanto e le prendo la mano libera da quella di Charlotte, che per un momento mi guarda a bocca aperta ed occhi sgranati oltre l’inverosimile, sorpresa da quel che ho appena fatto, perché di solito non prendo le ragazze per mano. Non credo di averlo mai fatto se non con Doniya.
«Non guardarmi in quel modo…», le dico, intrecciando poi le dita con quelle di Ariel, che per un momento sorride, prima di tornare a guardare la sorella. «Sicura di volerle dire tutto?», le chiedo poi, guardandola prendere un respiro e posare piano la testa sulla mia spalla.
Respiro meglio, e non so perché.
«Sicuro di non voler spaccare qualcosa?», mi chiede di rimando, facendomi ridacchiare. Scuoto la testa, prima di posarle un lungo bacio sui capelli e annuire. La respiro, perché ho appena capito che è l’unico modo che ho per non dare di matto. Per non spaccare qualcosa, come mi ha appena fatto notare lei.
«Sicuro, piccola».




 



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Capitolo 26
*** 26. ***











26.


*flashback – tre anni prima*


Ariel.

Faceva fin troppo freddo per essere maggio; il vento proveniente da nord mi scompigliava i lunghi capelli castano chiaro, che sotto la luce del lampione sembravano quasi biondi, schiariti dal sole. Mi arrivava addosso più freddo e più forte di quel lunghissimo inverno che doveva essere già finito da un pezzo ma sembrava non voler finire più, facendomi venire la pelle d’oca sulle gambe lasciate scoperte.
Freddo, eppure io giravo mezza nuda come se ci fossero almeno venti gradi in più. Freddo, eppure col braccio del mio migliore amico intorno alle spalle non stavo affatto male; era come se la temperatura non la sentissi, come se lui riuscisse con un solo tocco a portare sulla mia pelle il calore necessario a scaldarmi. «Nate…», mormoro sentendolo irrigidirsi e alzando lo sguardo verso i suoi occhi fin troppo celesti.
Lo sento stringermi più forte, e ne capisco il motivo solo quando sento le voci della mia migliore amica e di suo fratello provenire a qualche metro da noi, oltre la porta chiusa della villetta di fronte alla quale abbiamo parcheggiato. Sento urlare Zayn, il fratello di Doniya; sembra parecchio incazzato, e le sue urla solo rivolte proprio alla sorella maggiore, a quanto pare.
«Nate, mi fai male», aggiungo, a voce appena più alta.
Continuo a guardarlo e, nonostante abbia allentato la presa su di me, noto che ha appena serrato la mascella, tanto forte da riuscire a sentire il digrignare dei denti nell’aria, a riempire quel poco di silenzio che ci rimane. Lo sento prendere un respiro più fondo degli altri, e quasi in automatico la mia mano corre a cercare la sua contratta, a volerne intrecciare le dita, perché è sempre stato quel tipo di contatto che tra di noi funziona anche senza il bisogno di aggiungere altro.
Le grida di Zayn si fermano per qualche momento, abbastanza da farmi sentire e assaporare il sospiro di sollievo che scivola via dalle labbra del ragazzo al quale sto ancora stringendo la mano. Dio, quanto la ama. Sono le uniche parole alle quali riesco a pensare, prima che la porta della villetta si spalanchi di scatto e io mi affretti a staccare la mano dalla sua come se mi fossi scottata.
Faccio finta di non accorgermi dell’occhiata che mi lancia, dei suoi occhi color ghiaccio sprofondati per qualche istante nei miei, grigi come le nuvole che ci sovrastano e che coprono la luna, o come l’asfalto che calpestiamo per non sprofondare. Non riesco a reggere il suo sguardo; faccio anche fatica a riviverlo, quello sguardo, quando abbasso le palpebre per non vederlo baciare la mia migliore amica.
Mi avessero avvertita che sarebbe stato tanto difficile…
Probabilmente sarei già scappata da un pezzo.
Scappata. O scoppiata?
Mi riscuoto sentendo la porta sbattere, e un singhiozzo scuotere Doniya. Rabbrividisco. Odio vederla soffrire. Odio che litighi col fratello. Odio che pianga. Odio che non riesca a reggere il peso delle cose. Odio che non veda come dovrebbe. Odio la sua mano stretta in quella di Nathan. E odio le labbra di Nate che le baciano la fronte e le sussurrano che andrà tutto bene, perché ci sono io.
«Mi dispiace interrompere il vostro idillio romantico – non è vero, non mi dispiace per niente – ma ho bisogno di ubriacarmi, ora», ammetto, spostando lo sguardo da lei a lui. Da lui a lei. Fermandomi sugli occhi neri di Doniya, che accenna un sorriso, mentre Nathan semplicemente scoppia a ridere, non cogliendo l’ironia e il sarcasmo nella mia voce.
Una risata che però non raggiunge gli occhi, che per un momento sembrano chiedermi che diavolo io stia facendo. Chiedono perché mi stia comportando così. Chiedono cos’abbia. Se non lo capisce è cieco, quanto lo è il mio amore per lui. Ma, ehi, io non posso amarlo. Lui ama lei, la mia migliore amica, l’unica persona al mondo che non tradirei per nessun motivo al mondo.
«Ci sto», mi dice Doniya guardandomi negli occhi.
Scoppio a ridere passandomi una mano tra i lunghi capelli biondi, prima di porgerla alla mia migliore amica, che la prende con un risatina. Risata che mi arriva distorta, perché è come se riuscissi ad essere concentrata solo sugli occhi di Nathan che perdono improvvisamente la freddezza con cui guardavano me, per scaldarsi spostando lo sguardo sulla sua ragazza.
Lo sopporto a malapena, quello sguardo. E non posso farci niente.
 
***

Nathan.

Per quanto detesti ammetterlo, la amo.
Amo Doniya.
Amo i suoi capelli scurissimi. E gli occhi scuri. E il suo fisico formoso. E le labbra carnose. E amo il suo modo di ridere. Amo il modo in cui inarca le sopracciglia. Amo la sua pelle contro la mia, o le sue unghie troppo lunghe che mi graffiano la schiena quando facciamo l’amore.
Amo i suoi occhi spaventati quando mi ubriaco e dico cose che non penso mai davvero. Amo la paura che leggo in essi quando capita che io mi sfoghi su di lei. Ubriaco, fatto, o chissà cosa… lei mi amerà sempre. Lo dicono le sue labbra, la sua pelle che rabbrividisce al contatto con la mia; lo dicono il modo in cui si muove, il modo in cui mi guarda, e il modo in cui le sue iridi si illuminano guardandomi.
Come se improvvisamente vedesse come tutti, sfumature impercettibili comprese.
L’espressione sul suo viso è serena, mentre sale in macchina con Ariel, che al contrario ha sul volto una maschera che non capisco. Una smorfia. Come se fosse disgustata da qualcosa, da me. Come se le desse fastidio qualcosa che però io non riesco ad intuire. Come se le desse fastidio il mio sguardo, forse? Il mio sguardo per Doniya?
No, è impossibile.
«Ariel…», riesco a chiamarla con voce ferma prima che salga in auto, sui sedili posteriori. So perfettamente che le piace sdraiarsi quando guido. So che probabilmente tirerà fuori una pasticca di anfetamina e la farà sciogliere lentamente sotto la lingua per isolarsi dal resto del mondo. Forse per allontanarsi da me.
Lei si ferma, con un piede a mezz’aria e i capelli biondi sparsi sulle spalle. La vedo prendere un respiro profondo, per poi irrigidirsi quando le sfioro un polso, fermo sullo sportello dell’auto. Si volta con gli occhi chiusi, e io davvero non ci capisco più un cazzo. Faccio per richiamarla, per chiederle cosa ci sia che non va, ma lei apre gli occhi con un sorriso e annuisce, come a dirmi che va tutto bene.
La conosco abbastanza da capire che sta mentendo.
La conosco tanto da notare l’accenno di una lacrima all’angolo di un occhio.
La conosco.
«Hai intenzione di sparire, stasera?», le chiedo in un soffio, scostandole una lunga ciocca di capelli che le si è impigliata alle labbra umide e colorate di quel rossetto rosso che la fa sembrare un’altra, che la fa sembrare più grande. Noto il labbro inferiore tremarle, mentre annuisce ancora, ma non dico niente. Le lascio la mano e salgo in auto, guardandola cercare qualcosa nella tasca interna della giacca di pelle nera che indossa.
Una bustina di plastica. Piccole pasticche bianche.

***
 
Ariel.

Il sapore familiare della pasticca che si scioglie sotto la lingua mi fa chiudere gli occhi. Ci sono cascata ancora. Ancora per colpa sua. Chiudo gli occhi per godermi la sensazione. Chiudo gli occhi per impedirmi di notare lo sguardo preoccupato di Doniya. Chiudo gli occhi per non vedere i suoi, tanto azzurri da farmi paura.
Chiudo gli occhi, preparandomi a sparire.
E per quando arriviamo davanti al pub sono già fuori di testa. Leggera come se camminassi su una nuvola, mi accorgo a malapena di barcollare, di bere una birra dopo l’altra, di ballare con sconosciuti dei quali non mi ricorderò nel giro di trenta secondi, perché sarò passata allo sconosciuto successivo, e solo per cercare di far sparire due occhi celesti dalla mente.
Ballo con Doniya, con Nathan che ci guarda da uno dei tavoli. Completamente ubriaco, lui. Decisamente brilla, lei. Mani al cielo, braccia che si muovono a ritmo di musica, fianchi che oscillano nel vestito verde scuro che indossa e occhi chiusi; ora capisco cosa vede il mio migliore amico quando la guarda, perché è decisamente bellissima.
Ballo con lei come se fosse il nostro ultimo giorno sulla terra, come se fossimo insieme su un altro pianeta, e non in quel vecchio pub in cui siamo conosciute anni fa. Ballo con lei ridendo come se capissi qualcosa di quello che succede, quando al contrario dopo due ore non riesco a connettermi con la realtà, nemmeno lontanamente.
Mi fanno male i piedi.
E quando l’anfetamina inizia a svanire mi fa male la testa.
«Stai bene?», la sento urlarmi nell’orecchio per sovrastare la musica. Ed è come lontana da me, come se mi stesse parlando da dietro una spessa parete di vetro. Ovattato, il suono. Lontana, lei. «Ariel, stai bene?», ripete, a voce più alta, più vicina. E nonostante sia brilla sembra preoccupata, come se io stessi davvero tanto male da non reggermi in piedi.
Eppure sono ancora qui, sento ancora tutto. Non sono ancora scomparsa.
«Sto…». Uno schifo. Mi porto una mano alla bocca per non vomitarle addosso. Forse sbianco, a giudicare dalla sua occhiata. «Bene…», riesco a finire la frase in un sussurro, che non sono nemmeno sicura sia stato udibile. Sento il respiro fermarmisi in gola, non appena mi accorgo di una mano di Nathan ferma sul mio fianco, a tenermi in piedi nonostante sia messo quasi peggio di me. «Nate…».
Voglio scomparire. Con lui.
 
***

Nathan.

Dovrei essere troppo ubriaco anche solo per pensare. Anche solo per riuscire a connettere due neuroni e formare l’incipit di una frase. Dovrei essere talmente fuori da non accorgermi di quel che mi succede intorno; tanto ubriaco da non notare quella ragazza dai capelli insolitamente biondi che mi guarda dall’altro lato della sala, o da non accorgermi di quanto sia sexy la mia ragazza con quel vestito verde addosso; tanto ubriaco da non sentire gli occhi della mia migliore amica addosso.
Migliore amica?
Due parole che mi continuano a rimbalzare da un lato all’altro della scatola cranica, senza trovare un senso, coperto sicuramente dai fumi dell’alcool e della mezza anfetamina che mi ha messo in mano proprio lei prima di correre a ballare con Doniya.
Le guardo, così uguali ma così diverse.
E – anche se offuscato dalla nebbia data dal miscuglio di alcool e droga – vedo due paia di gambe lunghe, più formose e olivastre le prime, più affusolate e pallide le seconde; vedo due paia di fianchi che si muovono a tempo di musica. Vedo due anime che si perdono tra le altre, e rivoli di sudore che scivolano lungo la pelle, rendendola lucida, brillante; vedo i sorrisi di due ragazze, ubriache solo per dimenticare qualcosa – o qualcuno – o solo per divertirsi.
Le guardo, e la mente vaga dai capelli quasi neri di una a quelli biondissimi sotto le luci stroboscopiche dell’altra; dagli occhi tenuti chiusi della mia ragazza, a quelli grigi, ben aperti e fissi nei miei, della mia migliore amica. Le guardo, e il mezzo sorriso di Ariel mi attraversa come un fantasma, lasciandomi un brivido lungo la schiena che non riesco a mandare via nemmeno distogliendo lo sguardo.
Abbasso le palpebre, ma quando le risollevo il suo sorriso è svanito. Mi accorgo appena del volume della musica che viene abbassato, o forse me lo sto solo immaginando. Fatto sta che il sorriso che aleggiava sul suo viso ha lasciato il posto ad una smorfia di smarrimento che per un istante mi spaventa.
Nel tempo che ci impiego per raggiungerle, Doniya ha smesso di ballare e l’ha afferrata per un braccio, avvicinandosi al suo orecchio per chiederle qualcosa. Passando tra un corpo e l’altro, riesco a riconoscere due parole sulle sue labbra. Stai bene? Ma non è difficile da intuire; non sta bene, se ne accorgerebbe chiunque, nonostante Ariel stia cercando di dire il contrario. Si porta una mano sulla bocca tinta di rosso, come se stesse trattenendo i conati di vomito.
E, beh, non è proprio un bello spettacolo vederla in quello stato.
Le raggiungo appena in tempo per evitare che crolli a terra, prendendola per un fianco e tirandola a me, avvicinandomi al suo orecchio, nascosto dai lunghi capelli dorati. «Quante ne hai prese, piccola?», le sussurro, ma forse nemmeno lo sente, a giudicare dal suo sguardo perso nel vuoto. Sussurra il mio nome come se fosse una preghiera, probabilmente vana. «Ti porto a casa, okay?».
Doniya mi aiuta a portarla fuori di lì. A fatica. Passando tra decine di corpi ubriachi e sudati. Passando tra decine di spintoni e mani e respiri di ubriachi, come se noi non lo fossimo. Tenendo su Ariel, però, quasi non mi rendo conto della mano della mia ragazza nella tasca della giacca, a prendere le chiavi della macchina.
«Guido io», mi dice semplicemente, facendo spallucce.
Certo. Senza patente.
«Che stai dicendo?», riesco a chiederle, nonostante mi giri la testa. Ho bevuto troppo, e so perfettamente di aver esagerato e di non poter guidare… ma no. Non posso permettere che guidi lei. Ipovedente, brilla e senza patente. Ho una brutta sensazione. Molto brutta. «Don, non puoi guidare…», provo a convincerla, ma lei scoppia semplicemente a ridere, mentre Ariel mi si stringe addosso per sentire meno freddo.
Non capisco che le succeda. Non è abbastanza ubriaca da sragionare, questo è sicuro.
«Preferisci che guidi Ariel?».
Alzo gli occhi al cielo, aprendo la portiera e facendo sdraiare la bionda sui sedili posteriori, su un fianco, mentre la mora sale in macchina, al posto del guidatore. Tanto testarda da farmi imprecare. Ma la leggera presa di Ariel sulla mia mano mi distrae, costringendomi a guardare lei e nient’altro.
«Che hai fatto, piccola?».
«Volevo solo sparire».
 
***

Doniya.

Credono davvero che non me ne sia accorta? Credono davvero che solo perché vedo un po’ meno del normale io non mi accorga delle cose? Di come si guardano, ad esempio. Di come si toccano quando credono che io non guardi. Di come si preoccupino l’uno per l’altra… come se ci fosse qualcosa sotto.
Credono davvero che io non li senta sussurrare? Non sono a chilometri di distanza, sento perfettamente la voce del mio ragazzo chiamare piccola la mia migliore amica. E sento la risposta di lei, quel volevo solo sparire che mi fa venire i brividi lungo la schiena. E no, non è l’alcool che mi gira nelle vene, è il modo in cui lo dice, con quel dolore che per un attimo mi fa credere che stia male davvero.
Volevo solo sparire. Perché?
Ma non riesco a voltarmi e a chiederglielo, perché l’immagine sfocata delle loro dita intrecciate rimandatami dallo specchietto retrovisore mi arriva al cervello alla velocità della luce. Fa male. Come se mi stessero accoltellando. Come se volessero lasciarmi soffrire, col sangue che scorre indisturbato da quella ferita lasciata aperta.
Vedo Nathan avvicinarsi alla sua fronte lucida di sudore e lasciarle il fantasma di un bacio. Vedo la smorfia sulle labbra rosse di lei. Vedo lui scostarsi piano da lei, sistemandole le gambe sul sedile prima di scendere dall’auto e risalire accanto a lei. Le sue dita che sfiorano le sue gambe.
«Aveva ragione Zayn…», mormoro, quasi senza accorgermene e stringendo la presa sul volante, tanto forte da farmi sbiancare le nocche. Sento il suo sguardo addosso, mentre abbasso le palpebre e ripenso alle parole di mio fratello, a quelle parole urlatemi contro che solo poche ore fa mi hanno fatta piangere.
Non ho mai ascoltato Zayn, quando diceva di non fidarsi di Nathan, quando diceva che mi avrebbe solo preso in giro, perché lui non è capace di amare nessuno che non sia sé stesso. Dovevo dargli ascolto, quando diceva che ne sarei uscita col cuore a pezzi, quando diceva che mi avrebbe usata e basta.
Avrei dovuto dare peso a tutte le volte in cui Nathan mi ha sbattuta contro il muro stringendomi i polsi, lasciandomi a piangere piena di lividi. Avrei dovuto ascoltare la mia testa, quando diceva che lui era pericoloso, di quel pericolo che attrae come la luce con le falene.
Pericoloso. Aveva ragione Zayn, per quanto io odi ammetterlo.
«Aveva ragione, cazzo…».
«Doniya, che stai dicendo? Chi aveva ragione?».
«Mio fratello, aveva ragione, su di te», gli dico acida, indicando con la testa i sedili posteriori. Indicando Ariel, senza troppi giri di parole. Perché non riesco nemmeno a dirlo a voce alta, ma basta un cenno per renderlo più reale. Basta un cenno, e Nathan si irrigidisce, inarcando poi un sopracciglio. Come se non capisse. Mi sta prendendo in giro. «Non mi hai mai amata, vero? È sempre stata lei…».
Sento gli occhi riempirsi di lacrime, ma non ci faccio caso, né ci do peso, mettendo in moto. Non sento nient’altro, mentre spingo non proprio dolcemente il piede sull’acceleratore. Non sento nulla, scrollandomi la sua mano di dosso mentre accelero ancora, diretta verso l’autostrada.
Non una parola, dal ragazzo che mi siede accanto. Il ragazzo che amo. Non una parola. Potrebbe dirmi che mi sbaglio, che ho visto qualcosa che non esiste. Potrebbe dirmi che Zayn aveva torto marcio, che si sbaglia su di lui, che non mi prenderebbe mai in giro, che Ariel per lui non significa nulla.
Ma, nulla.
Non sento. E non voglio sentire.
Vorrei solo sparire.
 
***

Nathan.

Non riesco a parlare. Non riesco a dire nemmeno una parola. Nemmeno una, per provare a farla stare meglio, per provare a toglierle quel senso di malessere dal cuore, che la attanaglia nel profondo; lo vedo dal modo in cui stringe spasmodicamente le mani sul volante.
Non riesco a guardarla, né ad allungare una mano verso di lei, anche solo per sfiorarla. Non riesco a distogliere lo sguardo dalla strada, immerso nei miei pensieri, neppure quando sento Doniya accelerare e il motore salire di giri. Riesco solo a pensare alle sue parole, a quanto esse mi facciano male, a quanto lei mi abbia appena ucciso, lasciandomi una cicatrice che niente riuscirà a far rimarginare.
Che nessuno rimarginerà mai.
Le sue poche parole mi rimbombano nella mente, senza una via di fuga. Il suo dare ragione a Zayn, il considerarmi pericoloso, una brutta persona; il fatto che abbia potuto pensare che io non la ami. Il fatto che abbia anche solo pensato di poter dare retta a lui e non a me. Il fatto che pensi che io ami Ariel.
È sempre stata lei.
Dio, non ci capisco più niente. Non capisco da dove le sia venuta l’idea. Non capisco se le sia venuta per qualcosa che ho detto, o fatto, o se sia merito di Zayn. Non capisco perché. Perché da parte mia io non ho mai pensato nemmeno lontanamente di tradirla, soprattutto non con Ariel.
Ariel. È la mia migliore amica, la migliore amica di Doniya. È come una sorella, e l’ho sempre guardata come tale. Non l’ho mai baciata, né toccata, né guardata in modo diverso da come guarderei… una parente. Perché in fondo io ho sempre e solo avuto occhi per Doniya, e lei lo sa perfettamente; o almeno, credevo lo sapesse.
A meno che non sia il contrario. A meno che non sia Ariel a provare qualcosa per me.
Mi gira la testa.
E no, non è tutta colpa dell’alcool, o della mezza anfetamina.
È colpa delle parole di Doniya, della forza con cui sta spingendo sull’acceleratore, della velocità. Dell’adrenalina che mi scorre nelle vene. Non mi accorgo di nient’altro che non sia la velocità sempre crescente, ora che siamo sulla superstrada. Non circola una macchina, ma mi preoccupo comunque quando, voltando la testa verso Doniya, vedo le lacrime scorrerle lungo le guance.
«Amore, rallenta…». Faccio per allungare una mano verso di lei, ma lei si ritrae immediatamente, piangendo più forte. E Ariel dai sedili posteriori borbotta qualcosa, ma non la sento. Non voglio sentirla. «Doniya, porca troia, ci farai ammazzare!», le dico alzando la voce. Non mi importa di farle male, a questo punto. Se ne sta già facendo abbastanza da sola.
«Non voglio… voglio sparire, Nate! Lo capisci questo?».
Ci stiamo spostando dal centro della nostra carreggiata, e me ne rendo conto solo quando vedo il guardrail allontanarsi da me, e nello stesso tempo i fari di un’auto dalla direzione opposta, avvicinarsi. Le lacrime che continuano a bagnarle le guance le impediscono di vedere, e per un momento vorrei averle impedito di salire in auto.
Avremmo dovuto chiamare un taxi, mi sorprendo a pensare con l’adrenalina in circolo, mentre l’alcool cessa a poco a poco il suo effetto e divento più lucido. Più lucido che mai, improvvisamente vedo tutto più chiaramente, sento tutto, e mi accorgo che stiamo sempre più al centro della strada, con l’altra auto che corre almeno quanto noi, sempre più vicina.
Troppo vicina.
«Doniya, rallenta… siamo in mezzo alla strada!».
«Pensi davvero che sia tanto cieca! L’ho visto come la guardi, e sei uno stronzo se pensi di potermi distrarre con una cosa del genere, sai?».
Faccio appena in tempo ad afferrare lo sterzo con una mano, mentre gli abbaglianti dell’altra auto ci vengono addosso, illuminando le sue lacrime, le sue palpebre abbassate e i miei occhi sgranati. Le prendo una mano, intrecciandone le dita e stringendo, portando il mio braccio davanti al suo petto, a proteggerla, perché la brutta sensazione è tornata.
So che ci schianteremo. Non vedo altra via d’uscita.
Tre, due, uno.
Tre.
E finalmente Doniya lascia andare l’acceleratore, per poi pigiare con forza sul freno. Sento lo stridore degli pneumatici contro l’asfalto umido, e il respiro incastrarmisi in gola per colpa della cintura di sicurezza, che col contraccolpo mi blocca contro il sedile. Sento il corpo di Ariel sbattere contro il mio sedile con un gemito, e un singhiozzo uscire dalle labbra di Doniya.
Due.
«Se dovesse andare male…», sussurra velocemente la mia ragazza, mentre l’altra auto si fa sempre più vicina, i fari sempre più abbaglianti, e quasi riesco a sentire le urla dei ragazzi all’interno di essa. Mi volto per guardarla, e riesco solo ad annuire, mentre le sue labbra formano due parole che non pronunceranno mai davvero. Parole che io non sentirò mai.
Ti amo.
Uno.
«Anche io, piccola», mormoro di rimando.
Un sussurro spento dal rumore dell’airbag che mi si apre di fronte. Un piccolo scoppio che fa gemere la ragazza sdraiata dietro di me, ancora non abbastanza lucida da capire. Un solo scoppio, mentre con gli occhi chiusi prego che anche l’altro airbag si apra. Riesco a contare almeno due secondi pieni, prima che succeda, prima che un altro piccolo scoppio riempia l’aria, un millesimo di secondo prima della fine.
Zero.
La cintura di sicurezza mi trattiene dal venire sballottato avanti e indietro. Mi trattiene dallo sbattere la testa e morire sul colpo. Le uniche cose che si spezzano solo le ossa del mio braccio ancora intente a proteggere Doniya. E il mio respiro, bloccato in gola. E il battito del mio cuore, quando sento distintamente la testa della mia ragazza sbattere prima contro l’airbag – che si è aperto tardi – e poi contro lo schienale.
Riesco a sentire persino l’urlo agghiacciante di Ariel, ora perfettamente lucida, seduta dietro di me e con le mani che le tremano in maniera assurda, mentre le lamiere dell’auto nella quale siamo seduti si accartocciano su sé stesse in uno stridio metallico che sono sicuro non dimenticherò mai.
Sento l’accartocciarsi delle lamiere dell’altra auto. Un rumore di freni, di pneumatici che frenano all’ultimo secondo. E altri due piccoli scoppi, altre urla agghiaccianti ma più lontane. Non vedo altro se non fumo, e respiro a stento, bloccato dal peso dell’airbag e dallo stringere della cintura, che quasi mi fa soffocare.
Sento perfettamente il dolore al braccio e ad entrambe le gambe, più per il colpo che per altro. Sento il dolore, me l’unica cosa che riesco a fare a prendere un mezzo respiro e nel panico sgonfiare il cuscino d’aria che si è formato di fronte alla mia ragazza. «Don, piccola…». Gli occhi ancora chiusi, e il respiro che le esce in piccoli sbuffi dalle labbra, mentre vedo distintamente un rivolo di sangue scenderle lungo la tempia. «Amore, guardami…»
Ti prego, guardami.
Ti prego. Guardami.
Non ce la faccio.
Sento i respiri veloci di Ariel come se mi respirasse direttamente nell’orecchio. Sento i suoi singhiozzi, troppo vicini. Ma riesco a vedere solo il petto della mia ragazza che si alza ed abbassa a stento; riesco a vedere solo le sue palpebre abbassate, ma che per un momento sfarfallano, fino a sollevarsi, fino a rivedere i suoi occhi. Spenti. Privati di ogni luce ma ancora lucidi di lacrime.
Faccio per dire qualcosa, ma mi gira la testa. Vorticosamente, in un modo che nemmeno credevo possibile. Vedo le sue palpebre tornare ad abbassarsi e il suo respiro farsi ancora più debole, mentre il sangue continua a scenderle lungo la tempia, lungo la mascella. Mi volto lentamente verso Ariel, con gli occhi lucidi e il respiro irregolare.
«Riesci a camminare?», le chiedo, guardandola negli occhi grigi.
Lei si porta una mano alla bocca per trattenere un singhiozzo, l’altra mano che le trema, mentre cerca di allungarla verso di me. O verso Doniya. Non lo so. Credo che nemmeno lei lo sappia. Annuisce appena, prendendo un respiro appena più fondo degli altri. È lucida, ora. Completamente in sé.
«Lei… Nate…».
«Devi aiutarmi a spostarla».
E sento a malapena le sirene dell’ambulanza. Lontane. Abbastanza lontane da farmi scendere dall’auto tossendo forte per via del fumo. Sto in piedi a stento, e sento una fitta attraversarmi il braccio fino alla spalla. Non importa. Non importa niente. So solo che devo ignorare il dolore e spostare Doniya.
Riusciamo a spostarla.
Ariel continua a singhiozzare, mentre le allaccia la cintura al posto del passeggero. E io non posso far altro se non guardarla, mentre mi incastro al posto del guidatore. Non posso non guardarla, coi capelli biondi scompigliati, il rossetto sbavato dappertutto e il mascara colato sulle guance.
«E’ colpa mia, vero?».
«L’importante è che pensino che sia colpa mia, piccola», riesco a dire alla mia migliore amica con l’ombra di un sorriso, prendendo la mano fredda della mia ragazza e intrecciandone le dita. «Vai via, Ar», aggiungo abbassando le palpebre, sentendo l’ultimo spiraglio di vita scivolare via dalla mia ragazza in un ultimo sospiro.
Sospiro che è l’ultimo suono che sento, prima che le sirene spengano tutto.
Vedo Ariel allontanarsi dall’incidente con passo incerto e qualche leggero singhiozzo a farle compagnia. È l’ultimo suono che mi degno di sentire, prima di lasciare che le lacrime prendano il sopravvento e mi inondino le guance, con la consapevolezza di averla uccisa. Con la consapevolezza di aver ucciso l’ultimo briciolo di sentimento che il mio cuore ancora riusciva a sentire.
L’ultima cosa che sento. L’ultima che vedo.
Prima di svenire.



 



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Capitolo 27
*** 27. ***






27.

 


Charlotte.

Per quanto tra me e mia sorella non abbia sempre scorso buon sangue, vederla piangere mi da fastidio. Un fastidio che si irradia dai polsi, che mi formicolano in modo preoccupante; che attraversa le braccia fino ad arrivare al collo, fino a farmi prudere la punta del naso e farmi bruciare gli occhi, rendendoli lucidi.
Per quante ne abbiamo passate, vederla in lacrime mi ricorda quel tempo lontano in cui eravamo bambine e io le rubavo le bambole, staccando loro la testa prima di restituirgliele. Era una cosa che la faceva piangere, che di conseguenza mi faceva stare male. Ho sempre riattaccato le teste alle bambole, solo per vederla accennare un sorriso.
Ma questo va ben oltre quei vecchi pezzi di plastica coi capelli finti.
Li ho sentiti parlare, senza riuscire ad interromperli, senza riuscire a dire una parola. Perché loro due stavano già dicendo tutto quel che c’era da dire. Mi sono accorta a malapena di Harry, della sua smorfia al vedere Nathan, del suo sedermisi accanto e prendermi la mano. Ero come su un altro pianeta, in un altro tempo.
È stato come tornare a tre anni fa.
Come rivivere le urla di Zayn, il mutismo di Nathan, la scomparsa di Ariel, la polizia, le ambulanze, le sirene. Come rivivere il funerale di Doniya, i singhiozzi di sua madre, la bambola di pezza lasciata sulla sua bara bianca dalla piccola Safaa. Come rivivere quei mesi assurdi, le testimonianze alla polizia, il tribunale.
È stato come rivedere anche i ragazzi sull’altra auto.
Tutto lo stesso, tutto nello stesso modo, ma da una prospettiva totalmente diversa.
Dopo tre anni, mi chiedo perché nessuno non ci sia arrivato prima. Se Nathan avesse protetto Doniya dal posto del guidatore si sarebbe rotto il braccio opposto. Se fosse stato dove l’hanno trovato, sarebbe morto lui, non Doniya. Se lui non avesse chiesto a mia sorella di scappare come una mediocre fuggitiva, lei avrebbe potuto dire la sua in tribunale, avrebbe potuto risolvere la faccenda… prima.
Non dopo tre anni.
«Perché adesso?», mi anticipa Harry. Lo ringrazio stringendo appena la sua mano nella mia; io non riesco ancora a parlare, devo mettere a posto ogni pezzo di quel puzzle assurdo, ho bisogno del mio tempo, dei miei pensieri. «Perché cazzo vi siete decisi dopo tre anni?», aggiunge il mio ragazzo, con la voce che gli trema, quasi urlando.
Mi sto facendo esattamente la stessa domanda, inutile negarlo.
Ma un’occhiata a mia sorella basta a spazzare via la curiosità. È davvero odioso vederla piangere; fa davvero male vedere quelle lacrime scivolarle lungo le guance, anche con gli occhi chiusi; è uno schifo vederle tremare le mani e non poter vedere quelle iridi tanto belle, che continua a nascondere dietro le palpebre.
La guardo, e finalmente capisco perché sia tanto cambiata, negli ultimi tre anni in cui non l’ho vista. Capisco perché abbia cambiato colore di capelli, perché sia passata dai mini abiti ai jeans stretti, o perché le sue adorate scarpe col tacco abbiano lasciato il posto agli anfibi, quasi sempre gli stessi, quasi sempre neri. Il biondo è diventato nero, il rosso è diventato nero. L’unico colore che è rimasto lo stesso è il grigio dei suoi occhi, ma anch’esso più scuro, più spento, più sofferente.
Le prendo dolcemente una mano, stringendola appena quando la sento irrigidirsi. Non la sto incolpando di nulla, non ci riesco. Perché non è colpa sua. Lei era solo ubriaca, era solo fatta, era solo innamorata. Non la incolpo, perché lei ha solo… si è solo sballata, e la capisco. Ha solo cercato di sparire, per non vedere la fonte del suo male e del suo bene insieme, e la capisco.
Strano, ma riesco addirittura a capire Nathan.
Per quanto abbia fatto star male tutti, anche dopo l’incidente e dopo la prigione, io lo capisco.
Capisco perché abbia chiesto a mia sorella di andarsene; perché se la polizia l’avesse trovata avrebbero fatto domande su domande, e lui in fondo voleva solo proteggerla da tutto quel casino. Capisco perché abbia spostato Doniya e perché si sia preso tutta la colpa quando non doveva; perché avrebbe potuto impedire che la sua ragazza guidasse, perché voleva proteggerla.
Perché la amava.
Ed è inutile negare che io, al posto suo, avrei fatto la stessa cosa per Harry.
«Perché ora?», chiedo loro a voce bassissima, sentendo la mano del mio ragazzo chiudersi sulla mia e i suoi occhi perforarmi, passarmi oltre lasciandomi un brivido lungo la schiena. Ignoro il brivido, concentrata sugli occhi grigi di Ariel, finalmente nei miei. Perché, perché, perché. Non riesco a pensare ad altro se non a quelle sei lettere l’una dietro l’altra, ferme nell’aria davanti a me senza ottenere una risposta, ferma anch’essa, ma negli occhi di mia sorella.
«Perché non ce la faccio più», la sentiamo ammettere in un filo di voce. Ha smesso di piangere, ora, ma i suoi occhi grigi ancora pieni di dolore e lacrime mi fanno male. Fanno male a me quanto la sua voce rotta dal pianto fa male a Nathan, lo vedo dal modo in cui ha serrato la mascella e ha stretto impercettibilmente la preso sulla sua mano. «Perché non avrei dovuto essere così, o farmi tanto da rischiare di svenire… perché vorrei essere morta io al posto di Doniya, Char», ammette ricambiando il mio sguardo.
Deglutisco, poi, leggendo nei suoi occhi un altro perché che non sembra voler dire, né avere il coraggio di ammettere. Perché lo amo e lui amava lei. Perché invece di scappare con me ha salvato lei. Perché non sarò mai io. Solo che non lo dice. Sono solo pensieri che rimangono fermi, immobili tra i suoi occhi color argento e i miei color terra; solo fantasmi di parole che forse non riuscirà mai ad ammettere, perché dirle ad alta voce le farebbe anche più male che pensarle solamente.
«Perché non prima?».
«Perché volevo tenerlo al sicuro, come lui aveva fatto con me».
 

 
***
 

Nathan.

Farfalle nello stomaco, cavallette a sbattere contro la scatola cranica.
Pensieri che vagano senza alcun senso logico, sbattendo in qua e in là come impazziti. Senza senso. Senza cognizione di causa. Totalmente fuori dalla realtà. Totalmente estranei, alieni, lontani ma allo stesso tempo tanto vicini da sentirli sbattere contro le ossa; tanto vicini da far male, fisicamente.
Farfalle nello stomaco, cavallette a sbattere contro la scatola cranica, termiti a sgranocchiare le pareti degli organi vitali. Termiti a mangiare il cuore, in primis. Impazzite anch’esse, come i pensieri, mentre mangiano e mangiano. Ancora e ancora, senza fermarsi. Distruggendo un atrio per volta, poi i ventricoli e le vene e le arterie.
Tutto come distrutto, tanto che di me non rimane che un involucro pallido e vuoto, inutilizzato e inutilizzabile. Lasciato solo come una carcassa mangiucchiata dagli avvoltoi nel deserto del mio dolore; lasciato in balia di esso e senza sapere a chi darne la colpa.
A me stesso, forse. A Doniya? Nemmeno per idea, nemmeno lontanamente. A Zayn? E per cosa? Lui nemmeno c’era, quella sera. Forse me la sono presa con lui, in seguito. Forse l’ho odiato, oppure ho solo finto di farlo; forse ho ferito i suoi amici per ferire lui, o per sentirmi meno in colpa, o per scordare anche solo per un momento altro dolore – quello per la perdita dell’unica donna che abbia mai amato.
Ad Ariel? E per cosa?
Per essersi sballata, come qualsiasi altra sera. Per aver bevuto troppo. Per aver desiderato di sparire. Per aver pianto. Per aver urlato. Per non avermi fermato. Per avermi dato retta quando le chiesi di aiutarmi a spostare Doniya. Per avermi ascoltato quando le dicevo di scappare.
Dovrei incolparla per cose del genere? Con quale coraggio?
Dovrei darle la colpa di tutto solo perché, per qualche strano motivo che nemmeno riesco a comprendere, è irrimediabilmente innamorata di me? Mi passo rigidamente una mano tra i capelli, a quel pensiero, e con la coda dell’occhio la vedo cedere all’abbraccio della sorella, mentre le lacrime trattenute per tre anni le solcano le guance come un fiume in piena.
Innamorata di me. Non riesco a capire come faccia ad esserlo. Non capisco come riesca a non odiarmi, come sembra invece fare chiunque altro di mia conoscenza. Penso addirittura che qualcuno mi odi senza conoscermi per niente; non sarebbe poi così difficile, a pensarci bene. Ma dopo i mille modo in cui l’ho ignorata considerandola solo la mia migliore amica, i mille e più modi in cui ho fatto male a lei e a chi tiene… come riesca ancora ad amarmi, è un mistero.
Come ci sia mai riuscita, è un mistero.
Smetto di guardare il vuoto non appena mi accorgo dello sguardo di Ariel sulla pelle. Addosso. Dappertutto. Sguardo di un grigio terribilmente agghiacciante e bollente allo stesso tempo, quando i miei occhi scivolano inevitabilmente nei suoi. Azzurro nel grigio, blu nell’argento, cielo estivo fuso nella polvere lasciata nella notte dalle stelle. Il suo sguardo – tutto quel grigio e tutte quelle lacrime – pesa; una tonnellata di dolore, tutta sulle mie spalle e tutta insieme, nello stesso momento. Tanto dolore da non riuscire a respirare, da impedire al cuore di battere, da mandarmi una scossa lungo la colonna vertebrale.
Tanto peso da impedirmi di spostarmi, di alzarmi e scappare, per quanto io desideri farlo.
Tanto amore da sovrastarmi e rischiare di farmi affogare. Tanto amore da spingermi a fondo, con la testa sott’acqua fino a non avere più respiro, fino a sentirmi male. Tanto amore da annullarmi, da non permettermi più di esistere, nemmeno come involucro vuoto, nemmeno come pensiero, nemmeno come molecole dissolte nell’aria.
Tanto amore che il mio corpo, una volta resosi conto, lo rigetta.
«Non puoi…». È tutto quello che riesco a dire, continuando a guardarla.
Lei, i suoi occhi feriti da cucciolo, le sue labbra carnose che credevo non provassero nulla mentre mi sfioravano. Lei, la sua pelle di porcellana, il suo sorriso, la sua risata cristallina. Lei, i suoi piedi freddi, i suoi anfibi buttati in un angolo alla rinfusa, la miriade di nei e piccole imperfezioni che le costellano le pelle.
Per quanto io debba e voglia, non riesco a distogliere gli occhi da lei, da tutto quel che rappresenta, da tutto che è e che ha passato, soprattutto a causa mia. I vecchi lividi sui suoi polsi mi tornano in mente in un lampo, facendomi irrigidire. Come se fosse appena successo, mi ritrovo con la testa che mi gira furiosamente e lo sguardo altrove, lontano da lei, terribilmente colpevole.
«Non posso… amarti?». La sua voce mi arriva alle orecchie attutita, distante anni luce ma allo stesso tempo più vicina di quanto vorrei, più vicina di quanto sia necessario. Con più dolore al suo interno di quanto io possa sopportare. Mi arriva rotta, distrutta, sbriciolata in mille e più pezzi.
«Non c’è niente da amare, in me…», mormoro pianissimo, trovando finalmente la forza di alzarmi da quel gradino e tirare fuori una sigaretta. La accendo dandole le spalle, cercando di ignorare il mezzo singhiozzo che le sfugge e la scuote; cercando di ignorare il debole sussurro della sorella; cercando di ignorare i passi di quello che una volta era mio amico, che rimbombano nel portico di legno mentre rientra in casa.
Li ho delusi tutti. Ho deluso Ariel. Non c’è modo di rimediare.
C’è solo modo di scappare.
Scappare da occhi grigi amano dove da amare non c’è rimasto più nulla. Scappare da labbra rosse che credevo mi baciassero sena provare niente. Scappare da canzoni cantate con l’alcool in circolo, canzoni che parlano della ragazza dai lunghi capelli neri una volta biondi e del ragazzo dai celesti occhi di ghiaccio in realtà creati dalle tenebre, dal centro dell’inferno.
Scappare dal ricordo di una ragazza ormai morta. Scappare dal modo in cui lei diceva di amarmi. Scappare dalla rabbia di suo fratello e dalle lacrime di sua madre, dalla bambola di pezza lasciata sulla sua bara dalla sorella minore. Scappare dalle persone alle quali inevitabilmente ho fatto del male, e solo per cercare di proteggere lei.
Scappare dal ricordo dei suoi occhi mentre la vita la abbandonava.
Muovo i primi passi lontano da lì e lontano da Ariel quasi senza accorgermene, col sole che ormai è tramontato da un pezzo e il lampione che illumina fiocamente occhi grigi e capelli rossi, rendendo entrambi quasi aliene, spettrali. Continuo a camminare lungo il vialetto con passo strascicato, ignorando i singhiozzi di una e la voce dell’altra. Entrambe mi chiamano, ma io non le ascolto, nemmeno le sento.
Entrambe cercano di fermarmi, eppure io salgo in macchina riuscendo a trattenere le lacrime e a guidare fino all’unico posto in cui la mia mente mi dice di andare. Il cuore batte lentamente, a singhiozzo; la mente è l’unica cosa che mi rimane, l’unico organo in questo involucro vuoto a rimanere lucido.
Mi accorgo di essere fuori città solo quando ci arrivo.
Mi rendo conto di essere all’entrata del cimitero solo quando scendo dall’auto.
E mi accorgo di piangere solo quando inizia a piovere, quando le gocce di pioggia di mischiano alle gocce di me.
 

***


Zayn.

Sto ripensando da ore alle parole di quel medico che ho smesso di sopportare la prima volta che l’ho visto, o che forse a dirla tutta non ho mai sopportato. Sto ripensando alla parola tumore, che mi si è radicata dentro, attaccata agli organi vitali senza dare segni di cedimento alcuno, senza nemmeno pensare di staccarsi da dove si è accidentalmente posata. Mi si è ancorata al cuore, allo stomaco, al cervello.
Sto ripensando alla sua espressione contrita, alle sue mani chiuse sulla cartella clinica di Heidi. Ripenso alla notizia buona e a quella cattiva. Ripenso ai respiri di tutti bloccati in gola, al mio singhiozzo mal trattenuto, al sussurro della mia ragazza contro le mie labbra. Continuo a pensare al viaggio in macchina, con la sua mano pallida e fresca chiusa sulla mia; penso alle parole che ci siamo detti e che mi vorticano in mente.
L’operazione imminente. Il fatto che il dottore le abbia detto che dovrà rasarsi la testa, e la sua mano che si è stretta sulla mia quasi abbastanza da farmi male. Penso ai suoi lunghi capelli biondi che non ci saranno più, e ai suoi occhi azzurri che forse torneranno a vedere. I suoi occhi che mi vedranno, che spero non mi lascino perché senza di essi non reggerei nemmeno il tempo che ci vuole per morire.
Vengo riscosso dal flusso di pensieri solo sentendo la vibrazione del cellulare sul comodino, allora mi accorgo di aver passato un’eternità a fissare il soffitto senza vederlo davvero. Sospiro leggermente, vedendo il nome di Harry lampeggiare sullo schermo, e rispondo senza pensarci, senza pensare alle conseguenze di quello che potrebbe dirmi, perché ho la mente troppo presa da Heidi, da tumori da rimuovere e da capelli che cadranno, con o senza chemio.
«Styles, ehi…».
«Nathan e Ariel hanno sputato il rospo», mi dice, senza troppi giri di parole. E mi si blocca un respiro in gola – l’ennesimo della giornata – mentre mi metto a sedere e mi passo una mano tra i capelli. Al nome di Nathan sento lo stomaco chiudersi ad impedire alla nausea di montare; Ariel, al contrario, mi fa quasi sorridere, anche se il suo nome associato e quello dello stronzo fa più male di quanto pensavo fosse possibile. «Hanno spiegato a me e Charlie… tutto quello che è successo la sera dell’incidente».
Mi si ferma il cuore, mentre al tempo stesso mi sale la voglia di prendere a pugni qualcosa. Magari lo stesso Nathan. Ma poi il mio migliore amico continua a parlare, in un flusso di parole tanto veloce da far fatica a capire tutto. Mi dice di pasticche, alcool, ragazzi ubriachi; mi descrive l’espressione di Ariel mentre raccontava, anche se non riesco a capire cosa c’entri lei; mi dice di quanto lei sia innamorata di Nathan, di quando mia sorella se ne fosse accorta, di quanto fosse gelosa.
Mi racconta di come Ariel fosse totalmente fatta e sul punto di svenire, di come Nathan l’abbia caricata di macchina; mi racconta di sussurri inudibili ad orecchie umane e perfettamente udibili da mia sorella; mi racconta di Doniya, distrutta dal dolore e folle di gelosia.
Harry mi dice che mia sorella quella sera è salita in macchina. Al posto di guida.
E di come Nathan non l’abbia fermata, troppo ubriaco per pensare.
Non riesco a pensare, né a piangere. Penso solo alla faccia da schiaffi di Nathan, ai suoi occhi celesti portati dall’inferno e all’espressione di mia sorella Doniya quando le dissi che lui la stava solo usando, che non volevo che ci uscisse, semplicemente perché avevo una brutta sensazione.
Pensiero premonitore?
È morta qualche ora dopo, e non ho nemmeno potuto chiederle scusa per averle urlato contro, non ho potuto spiegarle quanto le volevo bene. Non ho potuto fare niente, e nemmeno prendere a pugni Nathan al funerale mi ha fatto stare meglio, per quanto fossi convinto che fosse davvero colpa sua, se lei era morta.
«Zayn… lui si è preso la colpa di tutto e ha fatto scappare Ariel». Mi trema la mano, tanto da rischiare che il cellulare mi sfugga dall’orecchio. Non so cosa dire, né cosa pensare, né cosa fare. Vorrei solo uscire in terrazzo e urlare che vorrei essere morto io, al posto di Doniya. «La amava davvero, tua sorella», aggiunge Harry, prima che un singhiozzo scappi al mio controllo, nel momento esatto in cui mia madre compare sulla soglia della mia camera, con lo sguardo preoccupato che può avere solo una madre per il proprio figlio. Riesco a chiudere la telefonata e far schiantare il telefono contro il muro di fronte, prima che mia madre si sieda sul materasso accanto a me.
Prima di crollare, non potendo far altro se non abbracciarla stretta e pregare che il dolore passi. Pregare, in qualche modo, che Nathan non faccia qualche stronzata delle sue ora che la verità è saltata fuori. Pregare che Heidi sia al sicuro da lui, perché so per certo che potrebbe inevitabilmente puntare a lei per distruggere ancora una volta me, se si sentisse minacciato.
E un pensiero, mi attraversa la mente.
Se io scappo, Nathan non farà del male ad Heidi.
Seguirà me, e lei starà bene.



 



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Capitolo 28
*** 28. ***








28.

 



Zayn.

Notti intere passate a fissare il soffitto bianco. Notti insonni, che sembravano non finire mai. Notti passate a guardare Heidi dormire, a sfiorarle un braccio godendo della comparsa della pelle d’oca sulla pelle, a respirarle nei capelli sperando che durasse per sempre. Notti che parevano essere diventate infinite, nelle quali mi ritrovavo a lanciare occhiate stanche alla sveglia sul comodino, accorgendomi con un sospiro del troppo poco tempo trascorso, dei troppi pensieri che mi affollavano la mente, rendendo il sonno solo l’ultimo di una lunga serie.
Giorni interi passati con lei. Giorni pieni, che finivano troppo in fretta, quasi senza che io mi accorgessi della loro esistenza. Giorni passati a tenere Heidi per mano, a farla ridere, a parlare di musica, a bere cioccolata e guardarla fare una smorfia quando puntualmente si scottava la lingua. Pomeriggi passati a fare l’amore sopra le coperte e con la finestra lasciata aperta, per poi rintanarsi sotto al piumone e condividere gli stessi respiri e la stessa pelle. Giorni che sembravano volare, coi pensieri che si nascondevano, pronti a prendere il sopravvento al calar del sole.
Tre settimane erano volate, facendoci dimenticare Nathan e facendoci concentrare quasi unicamente sull’imminente intervento di Heidi. Lui non si faceva più sentire né vedere, era come scomparso e in qualche modo ne ero sollevato, per quanto avessi ancora il terrore che potesse prendere di mira la mia ragazza; lei era terrorizzata, con le mani che le tremavano praticamente sempre e non solo per il freddo, aveva paura per l’intervento, paura di morire, paura di non tornare a vedere, paura che tutto quel che stavamo facendo potesse essere vano, inutile.
Lancio l’ennesima occhiata distratta alla sveglia sul comodino, notando con un sospiro che sono le due di notte e ancora gli occhi non mi si chiudono. Sono le ore in cui il soffitto bianco si rende interessante, lasciando nello stesso tempo che i pensieri lo colorino di sfumature indefinibili, indecifrabili. Occhi azzurri e capelli biondi compaiono tra le minuscole crepe dell’intonaco, portandomi un peso sullo stomaco che ormai sembra tornare puntualmente tutte le notti, quando inevitabilmente finisco per pensare a cosa succederebbe ad Heidi se Nathan desse di matto.
Le farebbe male, e non posso permetterlo.
Ci penso da tre settimane, alla possibilità di scappare. Di andare lontano per un po’ e tornare quando Ariel avrà convinto Nathan a costituirsi, a dare la vera versione dei fatti alla polizia. Potrebbe anche non succedere mai, e io sarei un fuggitivo a vita, un uomo che vaga di collina in collina pur di non tornare a casa e distruggere l’equilibrio. Devo proteggere Heidi, qualsiasi cosa la mia decisione comporti.
Quasi non mi accorgo di aver tirato fuori la sacca di tela che tengo sotto al letto finché non sento la consistenza delle banconote che vi tengo dentro sotto le dita. Sono le mance del bar, i soldi che non ho dato a mamma per pagare le bollette e fare la spesa. Sono i soldi che tengo da parte per ogni evenienza, per le emergenze, per le fughe – non programmate o programmate che siano. Scendo dal materasso con un sospiro, prima di riempire la sacca di vestiti e infilarmi un paio di jeans e una felpa pesante, prendere le scarpe e uscire in corridoio.
Un altro sospiro, e cammino sul parquet attento che non scricchioli. Scendo le scale senza nemmeno accendere la luce, conoscendo ogni centimetro di quello spazio quasi meglio di come conosca me stesso. Infilo le scarpe e la giacca di pelle, ma quando sono con la mano sulla maniglia mi blocco, vedendo con la coda dell’occhio una luce accendersi, in fondo alle scale.
Non riesco a non voltarmi, è più forte di me.
E la figura di mia sorella minore che si stropiccia un occhio dal sonno, coi piedi nudi e i capelli arruffati da morire, mi colpisce come un pugno nello stomaco. La guardo, con gli occhi che mi si inumidiscono e lei che di rimando si morde piano il labbro inferiore, ricordandomi nostra sorella maggiore, in modo in cui lo faceva lei, il modo in cui mi riprendeva quando cercavo di scappare dalla realtà.
È la stessa situazione. Identica.
«Vai via..?», la sento chiedermi in un filo di voce. E ora non lo so più. Non so più cosa rispondere, non so più se sia giusto che io me ne vada così, nel cuore della notte e senza un biglietto, una motivazione valida. Provo ad annuire, mentre lei si avvicina di qualche passo, come se volesse salutarmi, come se volesse lasciarmi andare. Come se la piccola Safaa sapesse tutto. «Heidi si arrabbierà tanto», mi fa notare, mentre stringo la presa sulla maniglia della porta. Si è avvicinata ancora, allora noto che anche lei ha gli occhi lucidi; noto in quegli occhi che farebbe di tutto per non farmi andare via. «Doniya non vuole che tu vada via… mi ha svegliata lei, in sogno…».
Scivolo contro la porta lasciando la presa sulla maniglia e facendo scivolare il borsone dalla spalla. Guardo la piccola copia di me con un mezzo di sorriso, aprendo le braccia e facendole cenno di tuffarvisi dentro. La stringo forte, come forse non l’ho mai stretta. «La vuoi una cioccolata, piccola?», le chiedo in un sussurro accarezzandole i lunghi capelli neri. Annuisce contro il mio collo, non trattenendo un sorriso, perché sa perfettamente di aver vinto lei.
«Non te ne vai, quindi?».
«Non vado da nessuna parte».

 
***

Heidi.

Tocco pigramente la piccola sveglia che tengo sul comodino, premendo piano un piccolo pulsante che mi fa capire che ore siano. La solita voce elettronica mi fa capire che è finalmente mattina, e in qualche modo mi sento terribilmente sollevata, nonostante il mal di testa e la stanchezza che imperversano.
Non ho dormito, e le mani mi tremano come quando mi sono messa a letto, se non peggio. Ho avuto una brutta sensazione verso le due di notte e se a quel punto sarei dovuta crollare, non c’è stato verso che riuscissi a prendere sonno. Ho pensato che potesse essere successo qualcosa a Zayn, ma non me la sono sentita di chiamare Victoria nel mezzo della notte per farle telefonare. Magari lui dormiva beato, raggomitolato tra le coperte senza il benché minimo pensiero ad attraversargli la mente.
Io invece non sono riuscita a smettere di pensare ad incidenti stradali, urla spettrali e ragazze bionde totalmente ubriache. Non ho smesso di rivivere gli ultimi istanti con Alex, tutta la notte. Non ho smesso di immaginare gli occhi di Zayn, tutta la notte. E non ho smesso di pensare alla sensazione di sentirmi tagliare i capelli, di sentir scivolare via una parte di me.
Mi tiro a sedere lentamente, passandoci una mano in mezzo, forse per l’ultima volta. Mi godo la sensazione di morbidezza dei capelli contro i polpastrelli, quasi non accorgendomi della porta che si apre e di Victoria che si ferma sulla soglia. Respira piano, come non volesse farsi sentire; ma il suo odore mi arriva addosso ugualmente, prepotente come sempre.
«’Giorno…», la sento sussurrare, e riesco solo ad annuire, ancora con le palpebre abbassate, ancora con le dita che sfiorano distrattamente la ciocca di capelli di poco prima. Non riesco a smettere, non riesco a parlare, non riesco a non pensare a quanto sarò diversa, senza capelli. «Ho chiamato la parrucchiera, ieri sera…». La sento sedersi sul bordo del letto e prendermi la mano libera dai capelli. Mi irrigidisco, scuotendo la testa e mordendomi un labbro per non piangere. «Piccola, li devi tagliare…».
Scuoto ancora la testa. Ma no, non perché io non voglia tagliare i capelli. So di doverlo fare, sono consapevole che se non li taglio non mi potranno operare, togliere il tumore e presumibilmente ridarmi la vista. È un sacrificio che devo fare, e ne sono più che convinta. Il problema è un altro, ed è anche strano che la mia migliore amica non ci sia ancora arrivata.
«Mi puoi portare da Zayn?».
In qualche strano modo riesco a non scoppiare in lacrime pronunciando il suo nome. In qualche strano modo riesco ad abbassare le palpebre e stringere solo un po’ di più la mano stretta nella mia. La stringe di rimando, Victoria, prima di mormorare un “va bene” e lasciarmi un bacio leggero sulla tempia.
E riesco a non crollare. Riesco a non scoppiare in lacrime mentre mi pettino, o mentre mi vesto; riesco a resistere abbracciando Liam e salendo in macchina; non crollo quando Victoria nomina ancora la parrucchiera e sento mio cugino borbottare il suo nome, come se volesse solo farla stare zitta, come se in quel modo volesse proteggermi, come se lui capisse quello che sto provando anche senza il bisogno che io lo dica.
Mi concentro sulle ruote dell’auto che girano, sul suono del vento che si abbatte quasi placidamente contro i vetri, sullo scatto della leva del cambio sotto le dita esperte del ragazzo al mio fianco; cerco di sentire nient’altro che non sia la trama della stoffa dei jeans che indosso, che sto sfiorando da quando siamo partiti, per distrarmi da parole vuote e pensieri troppo colorati perché io possa gestirli.
Crollo, quando siamo davanti alla porta di Zayn e la sento aprirsi; crollo, quando sento il suo odore riempirmi i polmoni e colpirmi la pelle; crollo, quando mi tira a sé per abbracciarmi senza bisogno di dover dire una parola. Lascio scorrere le lacrime, libere di sfogarsi sulle mie guance, di scivolare via nel vento, di sparire nel tempo di un respiro. Lo sento accarezzarmi la schiena, mentre mi mormora che andrà bene, che c’è lui, che devo stare tranquilla.
«Non so cosa le prenda, Zayn… io…». La voce di Victoria mi arriva attutita dalla pelle contro cui mi stringo come fosse la mia ancora per non andare a fondo e affogare. Lei continua a parlare, e io continuo a piangere tanto da rischiare di crollare anche fisicamente, tanto da aggrapparmi alle sue spalle e stringere forte per non sentire niente che non sia lui.
«Shhh… basta, piccola…», mi dice piano, direttamente contro l’orecchio, e posso immaginare il suo sguardo perso e impotente, i suoi occhi tenuti chiusi per non piangere con me, la piccola ruga che gli si forma spessissimo tra le sopracciglia. «E’ per l’intervento?». Scuoto appena la testa, poco convinta. È anche per l’intervento. «E’ per i capelli allora…». Mi scappa l’ennesimo singhiozzo, a quelle parole, prima che mi prenda delicatamente in braccio, col viso ancora nascosto contro il suo collo; prima che mi porti su per le scale come pesassi meno di una piuma; prima che mi faccia sedere sul suo letto e mi scosti una ciocca bionda dietro l’orecchio.
Ho paura di tagliare i capelli. Di tagliarli tanto corti da non sentirli. Di sembrare un maschio. Di essere compatita. Di diventare orribile. Di sembrare malata. Di non piacere più a nessuno. Di non piacere a Zayn. E quelle parole mi sfuggono dalle labbra senza che riesca a fermarle, con nuove lacrime che fanno compagnia alle vecchie sulle mie guance probabilmente rosso fuoco. Sono davvero convinta che lui se ne andrà, che mi possa lasciare sola, che mi abbandoni… ho paura di rimanere senza, di rimanere terribilmente sola e vuota.
«Ti piaccio adesso… quando sarò senza capelli…». Non riesco a finire la frase senza ricominciare a piangere. Sento una lacrima bollente raggiungermi velocemente le labbra, fermarsi in un angolo senza venir raccolta da nessuno e senza poter scivolare via. «Non voglio che tu te ne vada perché sarò brutta e malata, Zayn…», aggiungo con un piccolo singhiozzo, senza che la sua mano smetta di accarezzare la mia coscia, stringendosi ogni tanto sul ginocchio.
Non so che altro dire.
E probabilmente non c’è nient’altro da poter sussurrare tra i singhiozzi, dato che il ragazzo che mi è seduto di fronte di alza dal materasso dopo una manciata di secondi, lasciandomi un lieve bacio sulla fronte, prima di percorrere qualche passo lontano da me, sul pavimento di legno, probabilmente verso il bagno.
Non ho idea di cosa abbia in mente, ma riesco solo a sussurrare il suo nome.

 
***
 
Zayn.

Sento distintamente il suo sussurro un po’ rotto dalle lacrime arrivarmi alle orecchie. Nitido, com’è sempre la sua voce, anche nel bisbiglio più soave. Doloroso, perché vederla e sentirla piangere non è mai bello, non mi fa mai bene. La sento mormorare il mio nome in tono interrogativo, forse confusa dal fatto che io l’abbia lasciata da sola per fare qualcosa che non riesce ad intuire.
Esco in corridoio ed entro in bagno lasciando le porte aperte e accendendo la luce dello specchio con un sospiro misto ad un mezzo sorriso. Non so come possa pensare che io non la vorrò più o non la amerò più quando sarà rasata. So che ha paura dell’intervento e delle occhiate della gente e di perdere me. Ma l’ultima delle tre è quella di cui non dovrebbe preoccuparsi nemmeno lontanamente.
Un respiro profondo, mentre tiro fuori il rasoio elettrico dal mobile bianco sotto al lavandino. Lo attacco alla corrente convinto con ogni fibra del mio corpo di quello che sto per fare. Non voglio che si senta a disagio solo perché costretta a rasarsi la testa; non voglio che la guardino con la pietà negli occhi quando porterà un foulard colorato per coprirsi. Voglio che sorridano al vedere me al suo fianco nelle stesse condizioni; voglio che lei senta i sorrisi sui volti stupiti delle persone, voglio che si renda conto che io non ho intenzione di lasciarla né smetterò di amarla solo perché non avrà una chioma di capelli biondi ad incorniciarle il viso.
Accendo il rasoio tendendo l’orecchio verso la mia camera, cercando di sentire la reazione di Heidi sopra il leggero ronzio dell’apparecchio che tengo in mano. Niente, nessuna reazione udibile. Avvicino il rasoio alla testa, osservandomi nello specchio e pensando che forse i capelli mi mancheranno ma in fondo chi se ne frega. I capelli ricrescono, penso sorridendo prima di rasare senza rimpianti la prima striscia sul lato della testa, poco sopra l’orecchio.
Una manciata di secondi, e mentre passo alla striscia successiva di capelli, facendoli cadere nel lavandino, sento due paia di passi salire le scale e Heidi scendere dal letto dicendo ancora il mio nome, a voce più alta. Curiosa, non preoccupata. Senza più lacrime, per fortuna. Non sopporterei di vederla piangere ancora senza scoppiare con lei, non ce la farei, non più.
Vedo con la coda dell’occhio Victoria fermarsi all’improvviso sulla soglia del bagno, portarsi una mano sulla bocca ma poi accennare un sorriso, mentre scuote un poco la testa e alza gli occhi al cielo. Mi viene da ridere, ma mai come al vedere Liam fermarsi subito dietro di lei con gli occhi sgranati e le labbra schiuse. Li ho sconvolti, è evidente. E rido, alle loro reazioni. Rido non sapendo che altro fare, fermandomi solo per continuare a rasare, appena in tempo per sentire la mia ragazza dagli occhi vuoti trattenere il fiato.
La sua migliore amica la fa passare, avvicinandola a me quanto basta per sentirla respirare piano, in contrasto col ronzio del rasoio. E le vedo, le mani che le tremano; li vedo, gli occhi di nuovo lucidi; li vedo, i denti che mordono forte il labbro inferiore. Si sta impedendo di piangere, ma questa volta proprio non capisco se sia un bene o un male. Ma non dico niente, continuo semplicemente a rasarmi la testa, almeno fin dove riesco ad arrivare. Finché «Oddio…». E sono costretto a fermarmi, a spegnere tutto anche se la sento perfettamente. La guardo dallo specchio, portarsi una mano tremante alle labbra per coprire un sorriso. «Ti stai rasando…», mormora ancora, sollevando la mano tanto da incontrare il mio braccio, salendo fino al mio collo, fino ai miei capelli mezzi rasati e mezzi no.
Sentirla scoppiare a ridere – anche con la lacrima solitaria che le scorre lungo la guancia – mi fa tirare un enorme sospiro di sollievo. Ride anche Victoria, con lei. E io che credevo di sbagliare tutto; non ho sbagliato nulla, e la sua risata cristallina ne è la conferma più evidente, la miglior conferma della mia vita.
«Solidarietà, no?», le mormoro voltandomi per posarle un bacio sulla fronte.
«Il gesto d’amore più bello che io abbia mai visto», mi smentisce Victoria, facendomi sorridere. Mi si avvicina, mentre Heidi mi prende semplicemente una mano tra le sue e stringe forte. Stringe come se mi ringraziasse; stringe come a dire ti amo senza però dirlo davvero; stringe come se volesse privarmi di un po’ di quella forza e farla sua. «Ora però dammi quel rasoio, stai facendo un pasticcio».
«Tanto ricrescono», ribatto posando un lungo bacio sulla tempia di Heidi, che la fa sorridere e arrossire. E, beh, è la cosa più bella del mondo, e la sto tenendo tra le braccia. Non potrei stare meglio, a pensarci bene.
 
***

Heidi.

Faccio un respiro profondo, seduta a cavalcioni sulle gambe di Zayn. La mia migliore amica e mio cugino parlano di qualcosa che non sento davvero, seduti sul divano opposto. Forse ci guardano, o parlano di noi, ma sinceramente non mi interessa. «Abbassa le palpebre e fai finta che ci sia solo io». Annuisco pianissimo, mentre il suo sussurro mi si posa sulla pelle, marchiandola a fuoco; e sollevo una mano verso il suo viso, chiudendo gli occhi e facendo davvero finta che ci sia solo lui. Faccio finta che il suo respiro sia l’unico nella stanza, che la sua pelle contro la mia sia l’unica ad esistere.
Mi viene da sorridere, quando le mie dita incontrano il profilo della mascella, ricoperto del solito centimetro abbondante di barba. E lo sento rilassarsi, schiudere le labbra e prendere un respiro profondo, non appena salgo con le dita verso le orecchie, verso la testa ora rasata. Trattengo il fiato, non trovando la solita massa di capelli nei quali amo – amavo – passare le dita in mezzo; e Zayn se ne accorge, passando delicatamente il pollice lungo il mio collo, su e giù, tracciando una miriade di cerchietti immaginari che sono il nostro modo di dire che va tutto bene, che ora passa tutto.
Traccio gli stessi cerchietti sulla sua pelle, cercando di vedere il lato positivo. Cercando di immaginare i sorrisi della gente quando ci vedranno camminare mano nella mano tutti e due rasati a zero. Cercando di immaginare le occhiate divertite ed eliminare dalla mia mente quelle piene di pena e compassione.
Respiro meglio, una volta sfioratagli tutta la testa e arrivata al collo. Respiro più a fondo, con le sue labbra sempre più vicine alle mie. Ma l’incantesimo sembra infrangersi quando Victoria scoppia a ridere e al mio ragazzo scappa un sospiro che si infrange direttamente contro le mie labbra. Rabbrividisco, stringendo la presa sulla sua pelle e lasciandogli un bacio a stampo sulle labbra, prima di «Voglio che me li tagli tu», mormoro senza scostarmi da lui, dalle sue labbra, dal suo respiro, dall’ombra del suo amore.
«Sarebbe troppo scortese se li cacciassi di casa?», mormora lui di rimando, facendomi ridacchiare e scuotere la testa nello stesso momento. So che sono la mia migliore amica e mio cugino, ma non credo di poter sopportare il loro sguardo addosso mentre ciocca per ciocca sentirò un fruscio dopo l’altro contro le piastrelle del bagno. Non credo di poter reggere davanti a loro, anche se so che vorrebbero restare per farmi sentire meglio, meno sola.
Io non sono sola. Sono seduta sul mio angelo custode.
«Vic, non dovevi comprare quel vestito, oggi?».
«Hai ragione, Heidi… quel vestito, amore! Andiamo?».
E, dio, meno male che esiste Liam Payne. Ridacchio, nascondendo il viso nel collo di Zayn mentre sento Victoria protestare e mio cugino spingerla via cercando di non ridere, mentre al contrario il mio ragazzo non trattiene una risata contro il mio orecchio, evidentemente divertito dalla mia trovata.
«Ora penserà che io voglia approfittare di te».
È solo un sussurro, mentre le sua dita scivolano sotto la mia maglia e i suoi denti intrappolano giocosamente il mio labbro inferiore, tirandolo appena. Non vedo l’ora che tu lo faccia, vorrei ribattere mordicchiandogli il lobo dell’orecchio. Vorrei, davvero, ma in un attimo mi torna in mente l’intervento e mi irrigidisco appena, facendolo così scostare da me. Le sue mani rimangono incollate alla mia colonna vertebrale però, senza segni di cedimento.
«I capelli, Zayn…», mugolo stringendo la presa sul suo collo, mentre le sue labbra si fermano sulla mia gola. «Voglio davvero vederti», aggiungo, prima di sentirlo tornare verso l’alto in una scia di baci umidi e leggermente ispidi, fino alle mie labbra. Sento le sue mani scivolare via dalla maglietta e lasciarmi al freddo, prima che mi prenda per le cosce e si alzi in piedi, senza staccare le labbra dalle mie. E io mi aggrappo al suo collo, con le unghie dei pollici a sfiorargli le orecchie, senza smettere di baciarlo, di respirarlo, di amarlo. Senza smettere nemmeno quando mi fa sedere sul marmo ghiacciato del lavandino. Senza smettere finché non rimaniamo a corto di fiato e mi viene da ridere perché vorrei avere più fiato, più ossigeno a disposizione pur di non smettere mai di baciarlo.
Rido, ancora con la fronte posata sulla sua.
Rido, anche se sto per perdere i capelli.
Rido, semplicemente perché ho lui.
«Amore, stai piangendo…», mi fa notare Zayn, posando le forbici che deve aver preso da uno dei cassetti di fianco a me, sul marmo. Fanno un rumore metallico che mi fa passare un brivido di freddo lungo la schiena, ma gli bacio semplicemente le labbra e mi asciugo una lacrima che nemmeno mi sono resa conto di piangere. «Ti amo, Heidi… con o senza vestiti, con o senza vista, con o senza capelli…». È poco più di un sussurro, poi sento lo scatto delle forbici sui capelli, e il fruscio che fanno quando Zayn li fa cadere a terra.
Faccio sfarfallare la ciglia e scivolare via una lacrima che lui cattura con le labbra, in perfetto silenzio. Un silenzio rotto ancora dalle forbici, ancora e ancora, all’infinito. Una ciocca dopo l’altra, nella sequenza scatto-fruscio-lacrima-bacio; una sequenza che sembra non finire mai, un po’ come le ciocche dei miei capelli e le mie lacrime. Mi scappa un sospiro di sollievo, quando sento lo stesso suono metallico delle forbici sul ripiano. Non so quanto tempo sia passato, so solo di essere arrivata al punto per cui farei di tutto pur di non perdere la speranza che un intervento possa ridarmi i colori, la vista. E, anche se non abbiamo finito, mi azzardo a sollevare una mano verso la testa, con l’altra mano stretta in quella di Zayn, il suo respiro a riempirmi le orecchie e un sospiro spezzato fermo in gola.
«Sei bellissima», mi assicura lui mentre passo la mano tra i capelli scompigliati e cortissimi, anche se non ancora tagliati a zero. Tento un sorriso, anche se so che sarà una smorfia, e Zayn ride pianissimo, l’equivalente del suono di mille campanelle di cristallo. «Sei davvero bellissima, principessa». Mi accorgo della mano che mi trema solo quando incontra la sua, a mezz’aria.
«Ricrescono, no?».
«Già… a settant’anni dovrai supplicarmi di farti la treccia, da quanto saranno lunghi… e avrò l’artrite alle mani, sarò calvo e non potrò più uscire con la giacca di pelle in inverno, ma tu resterai sempre bellissima». Lo sento asciugarmi l’ennesima lacrima senza vacillare minimamente, come se lui fosse lì apposta per asciugarle, apposta per farle scendere e apposta per impedir loro di scappare al mio controllo. Ma stavolta non piango per i capelli. Piango per quello che ha appena detto, e non riesco a smettere di farlo, sorridendo anche, nello stesso istante.
«Mi prometti una cosa? Farai ancora l’amore con me quando avremo settant’anni?».
«Sempre, piccola».
E quasi il rumore del rasoio non lo sento, con lui che canticchia una delle mie canzoni preferite. Non sento gli ultimi centimetri di capelli scivolare via, né la porta di ingresso aprirsi e le voci di sua madre e sua sorella riempire l’aria, né Safaa salire le scale di corsa e fermarsi a pochi metri da noi coi capelli che profumano di neve e camomilla. Non faccio caso al respiro che le sento trattenere, né a Zayn che le dice qualcosa con l’ombra di un sorriso nella voce.
Sento solo il silenzio che segue tutto quello, il rasoio elettrico e le forbici che vengono riposti nel mobile e Zayn che mi accarezza piano una gamba mentre richiude lo sportello. Non riesco a dire niente, nemmeno quando sento le sue dita sfiorarmi la testa e il suo sorriso bruciarmi la pelle dove mi sta sfiorando con le labbra, sulla tempia. Sto ripensando alle sue parole, quando trovo il coraggio di sollevare la mano e incontrare la sua sulla mia testa. È rimasto mezzo millimetro di capelli, quanto basta da non sentire solo pelle. Mi fa il solletico, ma invece di ridere ricomincio a piangere, lasciando che Zayn mi abbracci perché non c’è altro che possa fare, o dire, o promettere.
Mi faccio portare il camera in silenzio. Lascio che mi faccia sdraiare sul suo letto e mi abbracci da dietro, facendo aderire il suo petto alla mia schiena e posando il mento nell’incavo del mio collo. Respira come se avesse paura di rompermi. Mi accarezza un fianco come a dire di esserci. Mi lascia un bacio sul collo come a dire di amarmi. E mi volto con un sospiro verso di lui, cercando a tentoni il profilo della sua guancia e il collo e le labbra.
«Faresti l’amore con me?».
Vorrei averglielo chiesto a voce alta, guardandolo negli occhi e con più sicurezza sulle labbra di quanta io abbia mai avuto. Vorrei poter osservare i suoi occhi per capire a cosa stia pensando, ma posso solo intuirlo dal sospiro che si abbatte contro la mia fronte prima che le sue dita mi sollevino il mento. Occhi vuoti in occhi pieni.
«Perché non dovrei?», sussurra lui di rimando.
«Perché…». Ma mi posa due dita sulle labbra prima che possa anche solo pensare di finire la frase. Prima che possa dire qualcosa sui miei capelli che non ci sono più, posa le labbra sulle mie, portando via tutto il dolore e le lacrime che avrei voglia di piangere. Mi lascia una serie di baci a stampo che mi fanno quasi ridere, prima di allontanarsi quanto basta per guardarmi.
«Te l’ho detto, sei bellissima anche così principessa».
E facciamo l’amore così, come il sole si tuffa nel mare.
 
***

Zayn.

Devo ammettere che mi fa strano non vedere più i suoi lunghi capelli biondi sparpagliati sul cuscino dopo aver fatto l’amore. È strano non sentire i suoi capelli farmi il solletico quando mi si accoccola contro. È strano non vedere più qualche ciocca ricaderle lungo la spina dorsale mentre dorme sdraiata sulla pancia e il lenzuolo le copre a malapena i fianchi.
Strano, non brutto.
Sollevato su un gomito, osservo la luce del giorno filtrare dalle persiane e finire dritta sulla sua schiena nuda. Osservo il reticolo di vene e arterie che la attraversa sotto pelle, visibile perfettamente anche nella penombra. Mi abbasso su di lei lasciandole un primo bacio tra le due fossette di Venere, un altro poco più in alto, e poi a salire, un bacio per ogni vertebra, fino a fermarmi sul collo con un bacio più lungo degli altri, che le fa trattenere il respiro.
«Mi hai amata come se avessi paura di perdermi», la sento sussurrare, ancora con le palpebre abbassate e il viso ora rivolto verso di me. Annuisco e basta, consapevole che non serve che io dica nulla, perché anche lei ha fatto lo stesso, anche lei mi ha amato come avesse paura di perdermi, come fosse l’ultima notte del mondo. «Ho fatto la stessa cosa», ammette infatti dopo qualche secondo di silenzio, passandosi una mano sulla testa con un mezzo sospiro.
«Lo so…».
«Ho paura, Zayn».
«Anche io, tanta».
E restiamo in silenzio. Un silenzio costellato da sospiri e suoni di mani che si intrecciano piano. Silenzio di lenzuola che odorano di calore umano e non più di detersivo. Silenzio di capelli gettati nella spazzatura e unghie che sfiorano la schiena. Silenzio di parole mai dette e di altre dette tanto spesso da rendersi inutili, come i nostri ti amo, ormai sussurrati dalle pareti, dalle lenzuola, dagli occhi che non vedono e dalle mani che si sfiorano. Restiamo in silenzio aspettando il momento giusto per parlare, o forse solo quello giusto per scivolare via dalle lenzuola calde e vivere questa giornata come tutte le altre.
Perché, in fondo, potrebbe anche non cambiare niente.
«Se non cambiasse niente…». Catturo le sue labbra sulle mie prima che possa dire altro. La bacio con un sorriso, contento che la situazione si sia sbloccata; le pizzico un fianco, facendola ridere con le labbra ancora contro le mie. E quando mi stacco, lei dice le parole più belle che avrebbe potuto dire. «Stavo per dire che ti amerò lo stesso, anche se non dovesse cambiare niente, perché io e te andiamo bene così come siamo, perché ti vivo anche se non ti vedo e tu mi vivi anche se i miei occhi vedono solo tenebra e anche se non ho i capelli e anche se…». La fermo di nuovo con un bacio che fa scoppiare a ridere entrambi, nel momento esatto in cui mia madre bussa delicatamente alla porta.
«Ci dobbiamo alzare, mi sa».
«Già… dobbiamo alzarci, andare in ospedale, togliere un tumore e pregare che tutto questo non sia stato inutile».
Le lascio solo un bacio sulle labbra e uno sulla punta del naso, prima di vivere quella giornata come tutte le altre, prima di vestirci, andare in ospedale, sentire mille e più paroloni medici e lasciarla davanti ad una sala nel suo camice da ospedale che è uguale ai precedenti anche se è sempre uno diverso. Le lascio un bacio di petali di rosa sulle labbra che sanno di fragola. Le tocco ancora le dita, prima che Charlotte e Victoria non mi tirino via, facendomi sedere su una sedia di plastica bianca uguale alle altre ma sempre diversa.
Seduto, ad aspettare.
Seduto, a sperare.
Seduto, a ripetermi che dopo tutto il buio forse ci sarà la luce.



 



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Capitolo 29
*** 29. ***







29.




Nathan.

Fermo in coda, l’autostrada sembra un serpente del quale vedi solo la coda e non la testa. Sembra che essa non finisca mai, sembra che la coda di auto non abbia fine. Tu sei una delle tante macchine ferme, fissi il parabrezza e i fiocchi di neve che vi cadono sopra senza fare rumore, e non sai quando potrai muoverti, quando potrai andare avanti anche solo di qualche metro. Non sai quanto durerà né quando ripartirai.
E quel tempo è il tempo perfetto per pensare.
Non mi è mai piaciuto stare fermo ad aspettare. Ad aspettare cosa, poi? Aspettare di andare avanti, ma per andare dove? Chiudo un momento gli occhi, trovandomi di fronte gli occhi grigi della mia… migliore amica? Ariel è davvero solo quello? Stringo la presa sul volante, prima di sospirare sconfitto e accendermi una sigaretta, l’ennesima di quella mattina nevosa che sta finendo; sento il fumo grattare in gola mentre aspiro per fargli raggiungere velocemente i polmoni; sento la nicotina rilassarmi le cellule, uccidere i polmoni, farmi male come sempre ma mai abbastanza da far male davvero. Espiro lentamente, osservando il denso fumo grigio riempire l’abitacolo e posarsi ovunque, senza via d’uscita.
Ho passato tre settimane a vagare in questo modo, ad aspettare che qualcosa nella mia vita si muovesse senza che dovessi per forza fare qualcosa per farla muovere. Ho passato tre settimane ad aspettare un segno, guidando una città di seguito all’altra solo per respirare aria diversa, gente nuova; solo per allontanarmi dal passato, dal presente, dal futuro. Da Doniya, da Ariel, da me stesso.
Ho pensato tre settimane a ripensare al passato. A ripensare alla vecchia banda, allo spaccio, a Zayn. A Doniya, a quanto lei avesse sempre odiato tutta quella parte della mia vita. Alle notti da ubriaco e fatto e violento. Ai polsi lividi e alle labbra gonfie. Ho rivissuto il modo in cui mi abbracciava, il modo in cui mi faceva calmare quando mi incazzavo, il modo in cui le sue labbra si fondevano con le mie o il modo in cui amavo farci l’amore fino al mattino, fregandocene totalmente del resto.
Ho ripensato alle anfetamine che ci calavamo io e Ariel, alle birre che ci scolavamo e alle urla da ubriachi che liberavamo nell’aria fredda della notte mentre i treni ci passavano davanti sfiorandoci appena. Io ed Ariel abbiamo sempre aspettato tutto insieme; aspettavamo Doniya, ci aspettavamo l’un l’altra, aspettavamo che le pasticche facessero effetto, attendevamo che il treno fischiasse e che il vento ci arrivasse addosso facendoci quasi cadere a terra.
Ho ripensato all’incidente. Al funerale. Al processo. Alla prigione.
Ho ripensato a come Perrie mi si sia buttata tra le braccia una volta fuori. A come volesse starmi vicina perché voleva aiutarmi a fare non so cosa per vendicarmi di Zayn. Che poi, che colpe aveva lui? Ho ripensato alla sua voce mentre mi diceva che lei era l’unica che non ce l’aveva davvero con me, l’unica che capiva come mi sentissi per via di Zayn quando in realtà non era vero. Nessuno capiva. Nessuno aveva mai capito.
Nessuno tranne Ariel.
Solo Ariel capiva come avessi sofferto giorno per giorno a fare del male a Doniya; solo lei capiva cosa avessi sentito quando lei era morta; solo lei capiva come si stesse ad essere totalmente ubriachi e fatti. Lei capiva, perché passava le stesse cose, o forse anche peggio. Lei doveva sorbirsi Doniya che mi abbracciava e mi baciava quando sarebbe voluta essere lei, morsi che facevano sanguinare le labbra e spinte troppo forti e polsi lividi compresi. Lei aveva sempre accettato quella parte di me, anche il dolore, anche il buio.
Era cieca, nei miei confronti. Lei era la luce, ma si faceva assorbire completamente dal buio, da me. Solo, non ne avevo mai capito il motivo. Non l’avevo mai nemmeno provato ad indovinare finché non me lo aveva detto lei raccontando tutto alla sorella. Era cieca, se riusciva ad amarmi in quel modo. È cieca, se riesce a passare sopra alla droga, all’alcool, alla galera e alla violenza.
Cieca, eppure mi vede. Mi guarda.
E non c’è nessun altro che vorrei mi guardasse in quel modo.
Faccio tutto talmente in automatico che non mi accorgo dello scorrere della coda, né di premere sull’acceleratore per ripartire. A malapena mi rendo conto di essere quasi arrivato e di accendere l’ultima sigaretta del pacchetto; accesa a stento, con l’ultimo respiro di fuoco dell’accendino che ho rubato a non ricordo chi, non ricordo quando.
E sono tanto distratto da prendere l’uscita sbagliata, da non aspettare il resto al casello autostradale e da sbagliare strada due volte prima di arrivare a casa dell’unica ragazza alla quale potrei mai chiedere scusa pensandolo davvero e guardandola negli occhi. Ci sarebbe Doniya, ma i suoi occhi non li vedo da troppo e non li vedrò mai più. C’è Ariel, solo lei. Ma a casa non c’è nessuno, solo la sua vecchia vicina di casa che mi dice con una smorfia disgustata che se sto cercando lei la troverò in ospedale.
Ma no, non sono il tipo di persona da andare in paranoia per una notizia del genere, così le do le spalle senza nemmeno ringraziarla e riscendo le scale. Risalgo in macchina con un sospiro, rimetto in moto passandomi una mano tra i capelli e mi maledico per aver finito le sigarette durante il viaggio. Faccio inversione verso il centro senza pensare minimamente al perché Ariel potrebbe essere in ospedale.
In fondo, lo so già.
Le mando un messaggio camminando sotto la neve leggera dal parcheggio all’ingresso dell’ospedale. Non ho intenzione di entrare, subire occhiatacce su occhiatacce e dover chiedere di una ragazza che in fondo nemmeno conosco. Ho visto Heidi tre volte sì e no, quando Perrie mi ha proposto di seguire lei e Zayn per capire se potevamo usarla in qualche modo. Avrei dovuto farmi gli affari miei e vivere il mio schifo di vita senza Doniya. Peccato che io lo capisca solo ora, con la schiena posata contro una colonna e le porte automatiche dell’ospedale che si aprono alla comparsa di Ariel.
Trattengo un sorriso, al vederla. Al vedere la sua espressione stupita. Le labbra struccate leggermente schiuse, gli occhi grigi contornati dalle lunghissime ciglia chiare un poco sgranati e un leggero brivido che la scuote, forse colpa del cambio di temperatura, forse colpa mia. «Ciao…». Riesco a malapena a sussurrare un saluto, e nemmeno guardandola negli occhi. Non ci riesco, è come se in sua presenza tutte le cicatrici che ormai dovrebbero essersi rimarginate si riaprissero, riprendessero a sanguinare. Sanguino, davanti a lei, più umano che mai.
«Pensavo non tornassi…».
E sollevo lo sguardo, trovandola più vicina di un paio di passi, con gli occhi quasi argentati che cercano i miei. Ma lo sguardo è un po’ perso, come si stesse trattenendo dal piangere, dall’urlarmi contro o – nella migliore delle ipotesi – dall’avvicinarsi ancora e abbracciarmi. Mi scappa un sospiro, mentre abbasso le palpebre qualche istante e quando le risollevo la trovo ad un metro scarso da me.
«Pensavo di non tornare, infatti», ammetto trattenendomi dallo scostarle una ciocca di capelli scuri dal viso. E ho pensato davvero di non tornare. L’ho pensato anche quella mattina fermo in coda in autostrada ad aspettare un segno che non è arrivato o ad aspettare semplicemente che la neve smettesse di cadere.
«Perché sei qui allora?». E al diavolo tutto, non riesco a trattenermi dal prenderle una mano che le trema da morire e intrecciarne le dita con le mie. Tremo anche io, e lei mi guarda confusa, non aspettandosi un gesto del genere. Sono pulito da una settimana, questo sono io. Senza i fumi dell’alcool, senza gli effetti della coca. «Stai tremando, Nate…». Annuisco appena, prendendo un respiro profondo; è l’astinenza, non posso farci niente. E lei solo guardandomi sembra capirlo, tanto che accenna un mezzo sorriso, che anche se solo per un momento fa smettere di sanguinare quel che mi rimane del cuore.
La guardo, e capisco di aver sbagliato tutto. La guardo, e capisco di aver avuto paura. Una paura folle, folle tanto da non riuscire a respirare. Capisco di aver mascherato la paura con la violenza, con l’alcool, con la droga, con lo spaccio. La guardo, e capisco di aver paura anche ora, guardandola e riuscendo a malapena a respirare decentemente. Ho paura di me stesso, del mio carattere che non ha mai portato a niente di buono; ho paura del suo amore incondizionato per me, per i miei demoni, per tutto quello che sono e che lei conosce alla perfezione ma ama lo stesso, senza paura, senza ripensamenti; ho paura di quell’amore di fronte al quale non ho idea di come comportarmi, semplicemente perché io non so più amare, non ne sono più in grado.
La guardo, e poco alla volta le paure svaniscono, annegate nei suoi limpidi occhi grigi. La guardo, e vorrei non aver sbagliato, vorrei non aver avuto paura. Vorrei aver fermato Doniya prima che salisse in auto e mettesse in moto. Vorrei essermi accorto dei suoi sentimenti prima, avrei voluto ascoltarla quando diceva di voler sparire, magari aiutarla a farlo, sparire con lei e aspettare insieme che il dolore passasse, come avevamo sempre fatto.
«Perché senza di te mi manca un pezzo…», mormoro piano sfiorandole una guancia con un sospiro. Vedo i suoi occhi diventare lucidi. Il mio mare in tempesta, i suoi occhi. La mia ancora in mezzo all’oceano, le sue iridi. Una lacrima le sfugge con un mezzo singhiozzo, prima che possa colmare la distanza e abbracciarmi lasciandosi abbracciare di rimando. «Solo che non so come riattaccarlo, quel pezzo», sussurro ancora, tenendola stretta come avessi paura che possa scappare.
«Fidati, un modo lo troviamo…».
Ha la voce rotta dalle lacrime che premono per uscire, gli occhi fermi nei miei e il labbro inferiore che le trema appena, eppure penso di non aver mai visto niente di più bello. In qualche modo riesco a sussurrarle che le voglio bene, e sento il suo sussurro in risposta, a dirmi che – per il momento – va bene così.
E continuo a stringerla, continuo a godermi il leggero suono dei suoi respiri nelle orecchie, continuo a tenere gli occhi chiusi e una mano sulla sua schiena per non farla allontanare quanto serve per non riuscire più a riprenderla. Continuo a stringerla fino a che non sentiamo le porte a vetri aprirsi, allora apro gli occhi, mentre Ariel dal canto proprio si irrigidisce appena, al sentire la voce di Zayn.
Non riesco a lasciarla andare. Non ci riesco, e non voglio.
«Torni dentro?», le chiedo con un mezzo sorriso giocherellando con una ciocca dei suoi capelli. Quel gesto le fa inarcare un sopracciglio e ridacchiare tra sé, prima che annuisca, ma senza staccarsi da me nemmeno di un millimetro. Continua a tenere le braccia intorno al mio torace e gli occhi nei miei, le labbra stirate nell’ombra di un sorriso furbo e uno strano brillio negli occhi che mi fa sentire integro, ancora, anche se solo per il momento di un respiro non troppo profondo.
«Ci vediamo al bar più tardi..?».
«Devo ancora capire come tu faccia ad amarmi…».
«Devo ancora capire come tu faccia a non capirlo», ribatte lei con un sorriso divertito, lasciandomi andare. La osservo fare qualche passo – che mi da il tempo di riappoggiarmi con la schiena ala colonna – prima di vederla tornare indietro e stamparmi un bacio veloce sulle labbra, che mi fa scoppiare a ridere. «Questa… – mormora  alludendo alla mia risata, che forse stona un po’ con il candore della neve ma non le interessa – è una delle ragioni». Finisce la frase con un altro bacio prima di allontanarsi salutando Zayn con un mezzo sorriso che lui ricambia scuotendo la testa.
Non so se sia divertito da lei o disgustato da me. E nemmeno mi interessa.
Osservo qualche secondo il suo viso mentre si accende una sigaretta e la porta nervosamente alle labbra, senza però riuscire a dire una parola né riuscire a guardarmi. Osservo i lineamenti marcati del suo volto, cambiati col passare degli anni ma sempre riconoscibili alla perfezione, sempre fin troppo simili a quelli di sua sorella. Osservo la carnagione ambrata, arrossata sulle guance – ricoperte del centimetro abbondante di barba che so che non ha mai voglia di rasare – per il freddo invernale. Osservo le sopracciglia aggrottate mentre aspira il fumo dalla sigaretta e la fronte che gli si rilassa quando butta fuori il fumo in un unico respiro, calmato da quel minimo afflusso di nicotina nei polmoni. Osservo una mano passare pigra sulla testa rasata di fresco e le palpebre sfarfallargli qualche istante, prima che col tiro successivo della sigaretta si decida a guardarmi.
«Mi ha detto Ariel che siete tutti qui per la tua ragazza…», riesco a dire, con un tono di voce abbastanza alto e fermo da attirare la sua attenzione e far scivolare le sue iridi nelle mie. Me ne pento immediatamente; non avrei attirato la sua attenzione se avessi considerato l’effetto delle sue iridi su di me. Occhi castani come Doniya, profondi come i suoi, pieni di un sentimento che forse non ho mai capito appieno. Prendo fiato, distogliendo lo sguardo per un momento, ripensando alla sua ragazza, a quel poco che so di lei e alla sua condizione… è solo colpa mia se Doniya è morta, come è colpa mia se la ragazza di Zayn – di cui non ricordo il nome, ma poco importa – non ci vede e forse non ci vedrà mai. «Mi dispiace…».
Vedo Zayn annuire poco convinto, con la presa sulla sigaretta che si fa più salda e la mano libera che si chiude istintivamente a pugno. Noto le unghie conficcarglisi nella pelle, e i denti digrignati, con la mascella contratta tanto che arrivo a pensare che voglia prendermi a pugni.
Non lo biasimo, comunque. Non l’ho mai fatto.
Non dice niente, però. Gli bastano un paio di respiri più profondi e l’aria fredda e intorpidirgli i polmoni, perché le mani strette a pungo e la mascella gli si rilassino nel modo più naturale che c’è. E lo invidio, perché io non sono capace di trattenere la rabbia in quel modo, non sono mai stato in grado. Lo invidio, da morire.
«La amavo davvero, tua sorella, Zayn».
«Avresti dovuto fermarla, se la amavi davvero».
La rabbia nella sua voce roca è quasi totalmente mascherata, nascosta a chiunque non sappia dove cercare, a chiunque non lo conosca tanto bene da sapere della sua esistenza. La rabbia c’è, e per quanto lui possa provare a nasconderla io la scoverò sempre; semplicemente, gli ho insegnato io ad essere così, ad arrabbiarsi, a farsi vedere cattivo. Il dolore è nascosto al meglio, ma riesco comunque a vederlo nei suoi occhi castani tanto simili a quelli della sorella da costringermi a deglutire nervosamente.
Prendo un respiro profondo, con le palpebre abbassate e le mani che continuano a tremarmi un po’ per via dell’astinenza. Prendo fiato, rilasciando poi le parole che forse avrei dovuto dirgli anni prima, al funerale dell’unica persona che ci abbia sempre uniti e separati allo stesso tempo.
«Credi che non ci abbia provato? Credi che mi sarei preso la colpa di tutto se non l’avessi amata? Credi davvero che potessi usarla e basta? Ho amato solo lei nel mio schifo di vita, e lo sai… solo lei… mentre tutti andavano avanti, io sognavo il suono della sua voce, la sua risata, i suoi occhi mezzi vuoti e il calore della sua pelle…».
Faccio una pausa, notando i suoi pugni rilassarsi completamente e una delle sue mani passare sulla testa e grattarsi il collo per qualche secondo, prima di prendere fiato e guardarmi da dietro un velo di dolore. Sembra quasi che non sappia cosa dire, che io l’abbia spiazzato. Ma è tutta la verità: sua sorella è l’unica persona che io abbia mai potuto amare, solo lei.
«Non mi dispiace averti rotto il naso, al funerale», lo sento dire in un soffio, ma con l’ombra di un sorriso a distorcergli le labbra. Sorride come lei, non posso fare a meno di notarlo. E annuisce pianissimo, Zayn; un po’ come se non ne fosse convinto fino in fondo, un po’ come le mie parole l’avessero toccato, come se ci credesse davvero. E, beh, era ora che la risolvessimo, in fondo.
Scoppio a ridere, lasciando andare la testa contro la colonna di metallo e passandomi poi una mano ancora leggermente tremante tra i capelli scuri e troppo lunghi. Per un attimo mi chiedo se mi taglierei i capelli a zero per qualcuno… e la risposta è sì. Per Doniya l’avrei fatto. Per Ariel lo farei. Tiro le punte con un briciolo di nervosismo, tornando a guardare Zayn non appena la mano mi finisce automaticamente in tasca, ancora tremante, ma stretta sul tessuto abbastanza da non sentirla.
Lascio che la mia risata risuoni tra i fiocchi di neve, fin troppo bianca per sembrare vera e fin troppo fitta per non esserlo. Lascio che quel suono si perda  nel giro di pochi secondi, libero di volare dove vuole, libero di raggiungere colei che lo faceva scaturire anche quando non c’era nulla per cui dover sorridere. Lascio che i polmoni si svuotino di quella risata e si riempiano di aria gelata, gelata quasi quanto la mia anima.
«Vorrei essere morto io nell’incidente», ammetto, nelle migliori scuse che io possa concepire. Perché non mi sono mai scusato, non ne sono mai stato capace. Ho fatto tutto il necessario per dovermi scusare ma mai abbastanza per scusarmi davvero. Guardo Zayn negli occhi un po’ sgranati dalla sorpresa, un po’ lucidi, prima che lui possa scuotere la testa e accennare un altro sorriso. Non so come, ma la mia mente ringrazia chiunque ci sia lassù per avermi aiutato a risolverla.
Devi ringraziare Ariel, e lo sai.
Sento distintamente la voce della mia coscienza – quel poco che ne rimane – e vedo le stesse parole formarsi negli occhi limpidi e profondi di quello che una volta era il mio migliore amico. Annuisco tra me, un po’ per rispondere alla voce nella mia mente e un po’ per rispondere a lui ma senza dover necessariamente parlare.
«Sai Nate? Io e te non siamo poi tanto diversi… tendiamo a scappare quando si mette male, poi ci rendiamo conto di avere accanto la persona senza la quale andremmo a fondo senza possibilità di ritorno… proteggiamo chi amiamo, facciamo le peggio pazzie, ma alla fine ne vale la pena, credimi».
Tendiamo a scappare quando si mette male. Non potrebbe avere più ragione, e lo sa perfettamente, dal modo in cui mi guarda, aspettando che io reagisca alle sue parole. Non so come reagire, però, perché è come se mi avesse letto dentro, come se per lui fossi un fottuto libro, aperto su una pagina a caso, che guarda caso è proprio la pagina che gli serviva. Ci rendiamo conto di avere accanto la persona senza la quale andremmo a fondo senza possibilità di ritorno. Ha ragione di nuovo, io sono tornato per Ariel. Senza di lei sarei già andato a fondo da un pezzo… solo, non me ne sono mai reso conto fino a che non ho rischiato di perderla. Prendo un respiro profondo, chiudendo gli occhi per qualche istante, nelle orecchie solo il rumore delle macchine sulla strada e della neve che continua a cadere. Proteggiamo chi amiamo, facciamo le peggio pazzie. Vero, e ancora vero. Io sono il genere di persona che ama fino a farsi male, e Zayn è evidentemente come me. Siamo più simili di quanto non avessi mai pensato, e le sue parole ne sono la prova lampante.
«Ne vale la pena?».
«Se ti ama nonostante tutto, ne vale la pena».
Mi rivolge un ultimo mezzo sorriso, prima di voltarsi senza aggiungere altro e tornare nell’ospedale con la testa bassa, a guardarsi la punta delle scarpe. Io, al contrario, non posso entrare lì dentro. Devo fare una cosa più importante, devo chiedere scusa alla persona più importante dell’equazione, a quella persona che se lo merita perché sopportare me di certo non è una passeggiata.
Guido verso il cimitero lentamente.
Con la neve che mi ostacola il cammino e continua a cadere in fiocchi piccoli, dritta per la sua strada, ignorando tutto e tutti. La neve mi somiglia. Somiglia a tutti noi figli del caos. Somiglia a chi non sa cosa fare della propria vita, a chi combina un guaio dopo l’altro, a chi non sa chiedere scusa, a chi crede di non poter amare.
Cammino nella neve senza sentire il freddo bagnarmi la giacca o penetrarmi le ossa. Cammino nella neve fino a bagnarmi totalmente i capelli, fino a sentire alcune gocce gelide scendermi sulla nuca e sparire nella giacca, sotto al maglione di lana che dovrei buttare solo per via del buco che ha sotto l’ascella, ma che non riesco a gettare perché inevitabilmente mi ricorda lei.
«Ciao, amore…», riesco appena a mormorare, con le dita ficcate nelle tasche per evitare che si ghiaccino.
Rivolto a quella lapide bianca e ricoperta di neve, con la sua foto incorniciata sopra, mi sfugge una lacrima. Tiro fuori una rosa da dentro il cappotto. L’ho presa dal fioraio all’ingresso; forse gli ho fatto persino pena, da solo a camminare nella neve, con una rosa bianca come lei tenuta al sicuro dal freddo, dalla morte. Metto quel bellissimo fiore in equilibrio sulla lapide, sulla coltre di neve fresca che la ricopre. E sussurro, sussurro le uniche parole che non sono mai riuscito a dirle.
«Scusa, piccola mia».
Scusa se ti ho fatto male. Scusa se non ti ho amato abbastanza. Scusa se mi facevo, se bevevo, se fumavo come una ciminiera. Scusa se ti stringevo i polsi e ti sbattevo contro il muro. Scusa se ti mordevo le labbra fino a farle sanguinare. Scusa se sembrava che non ti amassi. Scusa per Ariel. Scusa per l’incidente. Scusa, perché non meritavi uno come me. Meritavi di essere accarezzata giorno e notte, e meritavi il bacio del buongiorno, e meritavi di essere portata a cena fuori per il tuo compleanno, e meritavi che facessi con te le pazzie che facevo con Ariel. Scusa, per tutto.
E non appena penso di amarla, una folata di vento gelido mi arriva addosso, ghiacciandomi le ossa e facendomi rabbrividire, mentre mi sento decisamente più leggero. Leggero come la neve. Meno freddo. E col sangue che pompa veloce al cuore, come a ricordarmi che un cuore ce l’ho ancora, che posso ancora amare.

 
***


Heidi.

Muovo piano le dita sul lenzuolo che sembra fatto più di carta che di cotone, respirando a fatica. Respirare mi fa male alla gola, completamente secca. Vorrei tossire, ma credo che non servirebbe a nulla. Magari chiedere dell’acqua, ma ho il sospetto che anche parlare mi possa fare male. Provo a schiarire la gola, pianissimo e ancora con le palpebre abbassate. Non ho il coraggio di aprire gli occhi, e anche se li aprissi il buio perenne mi farebbe venire più mal di testa di quello che sto già soffrendo.
Col passare dei secondi sento diversi suoni arrivarmi alle orecchie, diversi odori – anche se tutti coperti dalla solita patina di disinfettante che caratterizza gli ospedali. Il leggero bip dei macchinari ai quali sono attaccata mi martella nelle orecchie come se mi trovassi in un campanile, con le campane intente a suonare il mezzogiorno. I passi delle infermiere intorno al letto sono quasi ritmici, come si trattasse di un bip differente, più umano ma comunque senza sentimento alcuno a sporcarlo. Le parole soffuse dei medici mi sfiorano appena, come non parlassero di me, come se potessero scivolarmi addosso senza fare altri feriti, altre vittime.
Muovo ancora le dita e aggrotto la fronte, sperando che tutti i suoni spariscano e quell’odore venga sostituito da qualsiasi altra cosa. Se dovessi scegliere, chiederei di poter sentire il forte odore di tabacco e liquirizia che caratterizza Zayn. Andrebbero bene anche dei semplici fiori, una stecca di vaniglia, della cioccolata calda. Qualsiasi cosa, pur di non sentire più quell’odore un po’ acido che quasi mi corrode le narici, la trachea, i polmoni.
E, come se avessero intuito i miei pensieri, i passi si fermano e le parole calano ancor più di volume, fino a diventare un brusio quasi inudibile. Inudibile da chiunque non abbia un udito più sviluppato degli altri, tipo i ciechi, tipo me. Mi scappa un sospiro stanco, e una fitta alla testa mi fa gemere appena, prima che io provi a portare una mano alla testa, fermata prontamente dalla presa tiepida e familiare del dottor Harrison.
«Piano, tigre», mi sento ammonire in tono piuttosto allegro. Un’allegria che ora come ora non riesco a comprendere. Ho mal di testa, mi sento debole come non mai, non ho il coraggio di aprire gli occhi e ho probabilmente una decina di tubicini e aghi attaccati alle braccia. Vorrei solo dormire per il resto della vita, e lui è tanto allegro da trattenere una risata. «E’ probabile che ti senta la testa pesante…».
«Può farle smettere?», riesco a mormorare con voce roca, riposando la mano sul letto, sentendo almeno un paio di tubi tirare leggermente la pelle mentre mi muovo. Trattengo una smorfia, col bip delle macchine che mi rimbomba nelle orecchie e le infermiere che borbottano qualcosa, forse non consapevoli del fatto che io mi stia rivolgendo proprio a loro. Voglio che la smettano, non riesco a pensare. «Può rimanere solo lei, dottore?». Ci riprovo, a voce appena più alta ma pur sempre roca, coi polmoni che raschiano quando respiro e la ferita alla testa che mi pulsa da morire.
Non sento la sua risposta. Non me ne curo.
Sento solo qualcuno aprire la porta e uscire senza bisogno di dire altro, lasciandomi col suono delle macchine e il respiro leggero del medico, che dopo una manciata di secondi di silenzio sento sedersi sul letto, accanto alle mie gambe. Mormoro un grazie che non sono sicura lui possa aver sentito finché non mi stringe appena il ginocchio, protettivo e preoccupato come solo un padre dovrebbe essere.
«Dicevo, ti potrebbe far male la testa…». Annuisco appena, ancora con le palpebre abbassate, indecisa se aprire gli occhi o meno. Perché ho paura, troppa. «L’intervento però è andato bene, la dottoressa che ti ha operata ha rimosso la massa che premeva sul chiasma ottico». Non posso far altro se non annuire ancora, con le dita strette appena sul lenzuolo e un respiro che mi muore lentamente in gola, oppresso dalla mia paura. «E il senso di stanchezza è dato dai postumi dell’anestesia… se vuoi provare ad aprire gli occhi…».
«Posso provare quando lei sarà uscito?».
Un’altra stretta al ginocchio, come se stesse annuendo. «Dobbiamo tenerti in osservazione qualche giorno, come ti ho spiegato prima, e farti fare qualche seduta di chemio per eliminare le possibilità che il tumore si ripresenti». Stringo le mani fino e conficcare le unghie nei palmi, ma evidentemente non troppo da farmi male, non davanti a lui. Annuisco ancora, trattenendo a stento la voglia di scoppiare a piangere; sono stufa di tutto questo, non ce la faccio più.
«E se non dovessi vedere..?».
«Sarebbe strano se vedessi, subito dopo l’intervento», tenta di rassicurarmi, mentre sento il suo peso abbandonare il mio fianco e la sua mano scostarsi piano dal mio ginocchio, dopo un’ultima stretta. Prende un respiro come se volesse dire altro, ma poi se ne sta in silenzio, prima che io lo senta muovere qualche passo sul linoleum, arrivare alla porta e chiudersela alle spalle.
Lascio andare la testa sui cuscini con un sospiro, ripensando qualche istante alle sue parole. Sarebbe strano se vedessi subito. Dobbiamo tenerti in osservazione. Qualche giorno. Qualche seduta di chemio. La voglia di sprofondare nel materasso troppo freddo aumenta di parola in parola, insieme con la voglia di dormire e risvegliarmi con la vista, senza fatica, senza altri esami, senza vivere le solite angosce per qualche giorno.
Ma forse chiedo troppo, decisamente.
E nemmeno posso pretendere una macchina del tempo per tornare indietro e impedire ad Alex di guidare, ad Ariel di farsi fino a non esserci più davvero e a Doniya di ingelosirsi di lei senza alcun motivo valido. Non posso tornare a tre anni fa, alla camicetta rossa e al cielo blu e agli occhi verdi del mio migliore amico. Non posso, e se potessi probabilmente non lo farei. Per me, per Zayn, per Victoria, per il dolore che fortifica e per i suoni di un mondo che ho scoperto solo dopo l’incidente.
Dopo la perdita di colore, c’è stata la sinfonia del mondo.
Con la sinfonia, c’è stato Zayn.
E non posso tornare indietro, come nemmeno voglio farlo. Ma non posso evitare di far scorrere qualche lacrima, quando finalmente trovo il coraggio di sollevare le palpebre e non vedo nulla che non sia la solita oscurità che pervade il mio solito mondo, col solito dolore che mi stringe lo stomaco e mi fa scoppiare in singhiozzi senza che quasi me ne accorga.
Ma, sarebbe strano se vedessi subito.
Quindi mi addormento cercando di non pensarci, perché l’unica luce che mi serve davvero è in corridoio e gli unici colori che voglio davvero solo quelli che immagino quando ci faccio l’amore. Mi addormento immaginando le sue dita che spazzano via le lacrime, perché in fondo la speranza è l’ultima a morire.


 



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Capitolo 30
*** 30. ***







30.




 
Heidi.

Giorno 1.
Si pensa che il giorno dopo un intervento chirurgico, una ragazza possa e debba starsene a letto, con gli occhi chiusi, la testa posata sul cuscino e le ginocchia comodamente rannicchiate al petto. Senza fare assolutamente niente che non sia respirare, mangiare o al massimo pensare. Pensavo mi avrebbero lasciata in pace, almeno il primo giorno. Pensavo di non dover rispondere a domande su domande, di non dover essere visitata; pensavo addirittura che il dottor Harrison avrebbe potuto evitarmi le visite, il primo giorno.
Ma, ehi, evidentemente mi sbagliavo.
La voce sussurrata di una delle infermiere mi da il buongiorno, mentre appena sveglia la sento muoversi poco lontana dal mio letto, a sfiorare con le dita sullo schermo dei macchinari che mi monitorano, col quel bip continuo e sempre uguale che nonostante tutto mi ha lasciata dormire abbastanza e abbastanza bene. Mugugno qualcosa e la sento sorridere, prima che prenda a fischiettare, allegra ma non fastidiosa. Ed è strano, perché ho sempre trovato le infermiere insopportabili – e molto, molto fastidiose.
«Mi ha detto il dottore che le infermiere non ti vanno a genio…». Tento un sorriso, tirandomi a sedere sul letto ignorando la leggera fitta alla testa e cercando di non strapparmi gli aghi dalle braccia. Stufa del dolore e degli ospedali, questa ragazza mi sta decisamente più simpatica del resto del mondo, ora come ora. «Io sono una volontaria del reparto, e posso stare con te tutto il giorno». La sento battere le mani come una bambina coi regali di Natale, e improvvisamente mi viene da ridere, di gusto. «Mi chiamo Janice, a proposito».
E mentre mi toglie aghi e tubi dalle braccia con più delicatezza di qualunque altra infermiera l’abbia mai fatto, scopro che Janice ha venticinque anni, la testa rasata a zero e la pelle color cioccolato, da come la descrive lei. Scopro che le piace leggere e ama la musica – qualsiasi genere di musica e qualunque tipo di libri; scopro che adora parlare e che ha un figlio di cinque anni a casa, che rimane con la nonna quando lei ha i turni da volontaria qui all’ospedale e che…
«Si può..?». Smetto di ridere ad un aneddoto su suo figlio non appena sento un bussare leggero alla porta e la sua voce arrivarmi nitida ma un po’ roca alle orecchie. Deve aver dormito poco o niente, ma un sorriso mi compare ugualmente sulle labbra, prima che la ragazza seduta sul bordo del mio letto scoppi a ridere. «Ciao, piccola», mi sussurra Zayn posandomi un bacio sulla fronte, che sa di caffè e sigarette, ma non mi da per niente fastidio. Tutto, pur di non dover sentire ancora medicinali e disinfettante.
«Ciao…». E mi sento avvampare, ma non mi interessa.
«C’è tua madre, in corridoio», mormora ancora, passandomi le dita tiepide sulle braccia ora completamente libere dagli aghi. Mi formicola la pelle, sotto il suo tocco, e sono terribilmente tentata di lasciarmi andare ad un sospiro, ma le voci del dottor Harrison e della dottoressa Blackwood – la donna che mi ha operato – riempiono l’aria, prima che Janice e Zayn vengano cacciati in corridoio per poter parlare con me liberamente e senza andare contro il segreto professionale o che so io. «Ci vediamo dopo», scherza il mio ragazzo lasciandomi un bacio veloce sulle labbra che grazie al cielo riesce a far ridere anche me.
A risata scomparsa, sono un milione di parole che escono da due paia di labbra senza che io riesca ad assimilarle tutte. Sono parole su parole, che dopo una decina di minuti e l’ingresso che un’infermiera che con poca delicatezza mi infila un ago nell’incavo di un gomito senza curarsi di non farmi male, mi fanno venire mal di testa. Strizzo gli occhi e alzo una mano verso la fronte, massaggiandomi le tempie con due dita.
All’improvviso mi vengono in mente le parole di Zayn in una situazione simile e «Non c’è bisogno che mi diciate con quanti aghi, tubi o elettrodi dobbiate riempirmi la pelle… fatelo e basta». E, a parte le deboli proteste della dottoressa, il mio medico trattiene a stento una risata e mi dice semplicemente che l’infermiera mi ha messo su una flebo.
Annuisco con un sospiro, senza bisogno che lui mi dica altro.
Chemio terapia.
La chemio fa schifo, sinceramente.
Non ho idea di quali sostanze ci siano nella flebo che mi hanno attaccato, e nemmeno voglio saperlo, a dire il vero. Sembra una flebo di fisiologica, all’inizio. La mia “infermiera” mi ha detto che è un liquido trasparente come l’acqua, che la flebo è piuttosto grande e che l’ago che mi hanno infilato nel braccio è piuttosto grosso per essere solo un ago. Mi ha fatta ridere, mentre le labbra di Zayn mi si posavano sul collo nascondendo un sorriso divertito al resto del mondo.
Quello che però non si vede da quel liquido trasparente in quella semplice sacca di plastica con quell’ago enorme che ti trapassa la carne, è il dopo. E so perfettamente che devo farlo per impedire al tumore di tornare, per stare bene, per aumentare le possibilità di tornare a vedere e Dio solo sa cosa, ma forse se avessi saputo le conseguenze mi sarei opposta almeno un po’ – anche se non sarebbe servito a niente.
Avrei dovuto ascoltare i dottori quando mi parlavano degli effetti della terapia. Avrei dovuto assimilare parole come nausea, debolezza, mancamenti. Avrei dovuto, sì. Se l’avessi fatto sarei stata pronta a sopportare il mal di stomaco, credo. Forse avrei chiesto al mio ragazzo di uscire dalla stanza prima che la flebo finisse, o solo prima che un conato mi contraesse lo stomaco.
Comunque, non lo voglio vicino quando rigetterò l’anima.
Mi tocco lo stomaco con una smorfia, abbassando le palpebre e sentendo il mio ragazzo irrigidirsi al mio fianco, la stretta sulla mia mano che si fa più forte, come mi stesse chiedendo che succede. Non riesco a parlare, però, costretta a coprirmi la bocca con la mano, nel momento esatto in cui un’infermiera arriva a staccarmi la flebo ormai vuota. Sento Janice imprecare a bassa voce, prima che faccia rumore di fianco al letto e mi posi in fretta quello che immagino sia un catino sulle gambe e mi sussurri di buttare fuori tutto.
Sì, fa schifo proprio come sembra. Per questo non voglio che Zayn mi veda star male. Perché fa schifo proprio come sembra. Ma, per quanto provi e mugolare che voglio che esca e per quanto provi a non dare l’idea di star davvero male, non riesco a mandarlo via, e Janice non mi aiuta per niente. Al contrario, la sento sorridere, quando il mio ragazzo – iperprotettivo e testardo da morire – sbuffa, probabilmente alza gli occhi al cielo, e si alza in piedi; mi si mette affianco, con una mano ad accarezzarmi la schiena mentre i conati mi scuotono, e le labbra posatemi sulla testa, mormorandomi che non ha intenzione di andare da nessuna parte e che la superiamo insieme.
Sorriderei, se potessi.

Giorno 2.
Ricordate i sintomi post chemio? Nausea, debolezza e mancamenti.
Sopravvissuta al primo sintomo, per un attimo ho creduto che il mio organismo mi desse tregua un paio di giorni, almeno fino alla seduta di chemio successiva. Credevo male, ovviamente. Okay, non so cosa pensavo, dato che la sfortuna è perennemente dalla mia da quando ho avuto l’incidente – Zayn escluso. Forse essere positiva e sempre col sorriso sulle labbra non serve, se non vengo mai ricambiata con un pizzico di pace.
«E’ venuta ad aprirmi alla porta mezza nuda», mi dice Zayn ridendo, alludendo alla sua migliore amica dai capelli rossi che mi cammina accanto dall’altro lato, sbuffando leggermente e probabilmente arrossendo sulle guance e sul collo. Ridacchio, dando poi una gomitata al ragazzo al mio fianco per intimargli di smetterla. «Che c’è, era esilarante… ma la parte migliore è che Harry è caduto dal divano, sbattendo il…». Rido, portando una mano alle sue labbra e fermando le ultime parole contro la mia pelle.
Non voglio sapere cosa abbia battuto Harry cadendo dal divano. Ho già immaginato abbastanza senza che lui me lo dica, tanto che arrossisco, lasciando la presa sulla sua bocca e nascondendo il viso contro la sua spalla mentre mormoro qualcosa che assomiglia a “ti prego, amore, non me li fare immaginare nudi”, che lo fa ridere contro la mia testa rasata. Un millimetro di capelli fa capolino, tranne che nel punto in cui un grosso cerotto ne impedisce la crescita; aveva ragione lui, tanto ricrescono.
Victoria e Charlotte ci superano di qualche passo, continuando a chiacchierare e ridere come fossero amiche da tutta una vita. Mi viene da sorridere, mentre le mie dita si rintrecciano a quelle di Zayn, perché sta andando bene, tutto sommato. Sono viva, ho lui, e va bene. Non è il meglio che potrei chiedere, ma nemmeno il peggio che mi potesse capitare.
«Secondo te come andrà?».
«Te l’ho detto che finiremo ad avere settant’anni insieme, tra capelli da intrecciare, tatuaggi scoloriti e mal di schiena, no?». Ridacchio, annuendo alla sua assurda promessa di rimanere insieme sempre, fino alla fine dei nostri giorni. Magari lui mi intreccerà i capelli, io gli bacerò un tatuaggio scolorito e finiremo per fare l’amore tra vecchie lenzuola che ne avranno viste di tutti i colori. Ma, no, non è quello che intendevo, e lui lo sa perfettamente. «Sono convinto che i tuoi bellissimi occhi celesti rivedranno lo stesso cielo che ha dato loro colore quando sei nata».
«E mi porterai a vedere il mare?», gli chiedo con un sorriso che non riesco a fermare.
«Ti porto a vedere quello che vuoi, principessa».
Sono le ultime parole che sento nitidamente, prima che il respiro mi si faccia pesante e le gambe mi tremino. Mi aggrappo alla sua mano, che lui lascia dopo qualche istante per stringermi un fianco, per tenermi su, dato che è evidente che sono troppo debole anche solo per stare in piedi. I mancamenti, il dannatissimo terzo sintomo della chemio. Mi sfarfallano le ciglia e sento la sua voce chiamarmi, come lontana anni luce, direttamente da una stella. Il mio mondo però non è più tanto nero, e me ne accorgo solo quando svengo tra le sue braccia, col mio nome che si affievolisce e le mie orecchie che riescono a sentire solo silenzio.
Mi risveglia il suono del macchinario nella mia stanza. Quel bip insistente e monotono che sopporto a stento. Mi risveglia il chiacchiericcio di due voci familiari, ma cerco di non muovermi per capire al meglio a chi appartengano e cosa stiano dicendo. Sono curiosa di natura, inutile negarlo.
«Mi sono spaventato a morte, dio…». Cerco di non trattenere il fiato al suono di quelle parole, dette dalla voce di Zayn. È chiaro a cosa si stia riferendo, perché ricordo alla perfezione di essere svenuta tra le sue braccia, mentre prometteva di regalarmi l’azzurro del cielo e il blu del mare. «C’era da aspettarselo, con la chemio, ma… non lo so, mi sono spaventato». Vorrei sorridere, ma voglio capire con chi stia parlando, e l’olfatto non mi è di aiuto, con tutto quel disinfettante che permea l’aria.
«Cazzo se la ami, eh?».
Una voce femminile, che non riconosco perché non l’ho mai sentita. O forse l’ho già udita, magari in un sogno, o nel sogno di un sogno, ma non riesco ad associarla ad alcun volto. Deve essere sua amica, di certo non mia. Io ho solo Victoria, la principessa delle puritane, che non direbbe una parolaccia nemmeno se sotto tortura.
Sento Zayn scoppiare a ridere, e il suo sguardo scivolarmi addosso, fermarsi sul mio viso, sul labbro che forse mi trema un po’ e sulle palpebre abbassate che lottano strenuamente per non alzarsi e far notare che sono sveglia. Non ho fatto i conti con lui, però. Non ho preso in considerazione quanto lui mi conosca.
«Abbastanza da capire che è sveglia…», lo sento dire, sollevato. Percepisco il sollievo, insieme col divertimento, nella sua voce, e sbuffo, prima aprire gli occhi e rendermi conto che davvero il mondo è meno nero dal solito. «Che c’è?», mi sento chiedere dopo una manciata di secondi, quando sbatto le palpebre a ripetizione per assicurarmi che non sia solo un bel – bellissimo – sogno.
«Le tenebre hanno lascio spazio al grigio piombo, amore».
E rido di gusto, quando in un lampo lo sento prendermi il viso tra le mani e stamparmi un bacio sulle labbra, poi sulla punta del naso, poi di nuovo alle labbra, più profondo. Abbastanza spinto da far ridere la ragazza che non conosco e da farmi perdere completamente un respiro, per donarlo a lui e far mio uno dei suoi.

Giorno 3.
La seconda seduta di chemio va “meglio” della prima. Il che è tutto dire. Riesco a trattenermi dal vomitare anche l’anima per due ore, nelle quali sono troppo impegnata a ridere alle battute che Ariel – la ragazza dalla voce sconosciuta ma familiare – rivolge a Charlotte – che scopro con non poca sorpresa essere la sorella. La rossa si nasconde nel mio abbraccio, sul divanetto che ho scoperto avere in quella credo troppo bianca camera di ospedale.
Zayn è al lavoro, e ho finto di crederci, dato che il tono piuttosto sarcastico di Ariel faceva pensare a tutt’altro. Ho inarcato un sopracciglio e mi sono limitata a sorridere quando sua sorella mi ha lasciato un bacio divertito su una guancia, scuotendo poi la testa leggermente, con l’odore del suo profumo ad arrivarmi alle narici sconfiggendo finalmente la patina di disinfettante con cui sto mio malgrado imparando a convivere. E il fatto che lei abbia scosso la testa divertita mi ha fatto proprio pensare che il mio ragazzo non fosse dove mi avessero detto loro.
Non ho motivo di non fidarmi di lui, per cui ci sono passata sopra con un sorriso e il mal di stomaco crescente che mi ha costretta a far allontanare le ragazze per permettere alla nausea di fare il suo corso. E non ho nemmeno avuto il tempo di stupirmi, quando questa volta è stata Charlotte a passarmi il catino e accarezzarmi la schiena. Mi sono vergognata sotto il suo tocco, ma lei continuava a dire che non c’era problema, che era tutto okay e che aveva visto di peggio.
Immagino che aiutare la sorella – o Harry – dopo una sbronza, sia abbastanza naturale per lei, così mi limito ad annuire e a ringraziarla stringendole una mano e tentando un sorriso – più una smorfia che altro, a giudicare dalla sua risata quando ricambia la stretta sulle mie dita fredde.
Sento la voce di Zayn arrivarmi alle orecchie solo a sera, quando lo sento chiamare me e Louis da pochi metri di distanza; il mio migliore amico mi ha convinta a fare due passi lungo il corridoio nonostante mi sentissi debole, e devo ammettere che gli sono grata, molto. Mi ha fatta distrarre tutto il pomeriggio, descrivendomi il corridoio di oncologia come fosse lo scenario di una sparatoria con annesso inseguimento del criminale. E, davvero, credo di non aver mai riso così tanto per così poco.
Il «Ciao, piccola» allegro e spensierato di Zayn riesce a farmi morire una risata in gola, rischiando di farmi strozzare con un suono. Altro che il proverbiale strozzarsi con la saliva. Lui ridacchia, abbracciandomi e lasciandomi un bacio lievissimo sulla fronte, che fa sospirare Louis. Lo sento anche borbottare qualcosa, ma il fatto che il mio ragazzo mi tenga tanto stretta da riuscire a sollevarmi da terra per baciarmi sulle labbra mi distrae da tutto il resto.
«L’orario di visita è quasi finito», gli faccio notare arrossendo appena dopo aver ricambiato il bacio. Mi fa ancora strano baciarlo davanti a tutti, con lo sguardo di tutti addosso, con i mormorii che mi accompagnano da quella che mi sembra una vita, quando al contrario sono solo poco più di tre anni. Louis mi saluta  con un bacio su una guancia appena Zayn mi rimette giù, infatti. Ma il mio ragazzo sembra non avere intenzione di andarsene, per niente al mondo. «Ti farai cacciare…», mormoro ridacchiando, quando mi risolleva da terra iniziando a camminare verso la mia camera. A dire il vero non me ne frega un accidente dell’orario di visita, non me n’è mai importato di meno.
«E’ possibile che io abbia corrotto le infermiere per farmi restare tutta la notte», mi sussurra contro l’orecchio senza lasciarmi andare. Rabbrividisco, trattenendo una risata e lasciando che le sue mani scivolino sotto il camice, ad accarezzarmi la parte bassa della schiena e le cosce nude. Stringo la presa sulle sue spalle e mi lascio andare ad un sospiro, ripensando alle parole “tutta la notte”. «Ho promesso loro un caffè, in cambio di poter restare quanto voglio…». Lo sento scendere con le labbra lungo il mio collo, nella più piacevole delle torture, mentre le sue mani mi si arrampicano lungo la schiena, portandosi dietro il sottile pezzo di stoffa che mi copre.
«Tutta la notte?», chiedo per conferma, praticamente contro le sue labbra.
«Tutta la notte».

Giorno 4.
Ho sempre pensato che Victoria non fosse in grado di svegliare le persone con grazia. Per esperienza personale, la mia migliore amica salta addosso alle persone per svegliarle, urla, scuote, strepita, si scandalizza per niente. Beh, scopro di aver ragione – per una volta – quando la sento gridare di prima mattina, il che mi fa sobbalzare e aprire gli occhi di scatto, con la mano stretta spasmodicamente sulla maglietta di Zayn, che si irrigidisce sotto di me borbottando qualcosa di poco comprensibile.
Richiudo gli occhi, infastidita dalla luce, e mi accoccolo un po’ di più contro il petto del moro, ignorando le urla da assatanata della mia migliore amica. Mi riscuoto solo quando mi rendo conto del fastidio, della luce che mi è sembrato di vedere quando ho aperto gli occhi di soprassalto.
«Vic… chiama il dottor Harrison…», riesco a dire con la voce tutto sommato piuttosto ferma. Mi sollevo a sedere facendo leva su una braccio, appoggiandomi tranquillamente al petto di Zayn, che alle mie parole sembra svegliarsi del tutto, chiedendomi cosa ci sia che non va. Riapro gli occhi sperando che per una volta non sia stato solo un sogno e… è tutto troppo luminoso e terribilmente sfocato, tanto a costringermi a riabbassare le palpebre per il fastidio. È come se avessero riacceso la luce dopo anni di buio, e a stento mi trattengo dal mettermi a piangere. «E’ possibile che io stia svalvolando, ma ti giuro che vedo tanta luce, se apro gli occhi…».
La mia migliore amica si decide finalmente ad uscire dalla stanza, a quelle parole, e il mio ragazzo si tira a sedere, cingendomi un fianco e baciandomi una spalla. Apparentemente tranquillo, ma le labbra gli tremano contro la mia pelle e la mano che mi stringe il fianco stringe quasi abbastanza da rischiare di farmi male.
«Ti credo, lo sai…».
Annuisco a stento, provando a riaprire gli occhi. Fa meno male, ma non da meno fastidio. Tengo le palpebre sollevate solo per provare a capirci qualcosa. Mi sento come se un raggio di sole mi colpisse in pieno viso, rendendo tutto sfocato e poco visibile; è tutto troppo confuso e poco a fuoco perché possa vedere davvero qualcosa, ma è luce, e non posso fare a meno di ridacchiare, portandomi una mano davanti al viso e vedendone i contorni immersi nella luce, col resto della stanza che ai miei occhi rimane di qualche tono più chiaro, meno luminoso. Mi viene da ridere, e non riesco a trattenermi, facendo ridacchiare anche Zayn, davanti a tanto entusiasmo.
Poi è il solito fiume di parole del medico, che però non mi fa perdere il sorriso, mentre continuo a guardare affascinata le scie e le macchie di luce chiara che riempiono il mio campo visivo. Mi accorgo che l’intensità della luce cambia a seconda di quello che i miei occhi puntano, come se le mie iridi avessero una specie di filtro che mi fa vedere più luminose le cose chiare e meno accecanti gli oggetti scuri, come un vecchio film in bianco e nero visto da dietro una spessa vetrata che riflette la luce.
«Come faccio ad abituarmi a tutta questa luce?», chiedo ad un certo punto, e Zayn scoppia a ridere, poco lontano da me. Inarco un sopracciglio, contrariata, e mi rendo conto che forse non sono stata attenta a quel che diceva il medico, come sempre. Mi passo una mano dietro il collo, grattandolo soprappensiero e arrossendo violentemente. «Ero distratta dalle macchie di luce…», cerco di giustificarmi provando a trattenere un sorriso, senza troppo successo, a giudicare dalle due risate che mi riempiono le orecchie.
E «Occhiali da sole», mi dice semplicemente il dottor Harrison. Lo sento sorridere entusiasta, e il grazie che mi lascia le labbra vale più di qualsiasi altra parola avessi potuto dire, a giudicare dal suo borbottio imbarazzato. Grazie, di tutto.

Giorno 5.
Sono l’unica paziente a girare dentro l’ospedale con gli occhiali da sole, in pieno inverno e con la neve che cade fuori dalle finestre. Le lenti mi proteggono dalla troppa e improvvisa luce che i miei occhi ora riescono a vedere, lo so. Mi permettono di tenere le palpebre sollevate, di essere reattiva alla luce come non lo ero dall’incidente, quando i fari dell’altra auto ci hanno illuminati a giorno, costringendomi a coprirmi gli per la troppa luce.
Sono l’unica ragazza di vent’anni con un tumore presumibilmente rimossomi interamente dal cranio, con un foulard di non so che colore in testa per coprire l’immenso cerotto che protegge l’immensa cicatrice che ho alla testa. L’unica in quell’ospedale ad avere un ragazzo – anch’esso rasato a zero – che cerca di farmi ridere continuamente, nonostante la situazione.
Sono l’unica a riuscire a ridere davvero, in una situazione del genere. L’unica a sorridere dopo aver vomitato l’anima per la terza volta in meno di una settimana. L’unica a riuscire a ridere dopo una dissacrante e massacrante seduta di chemio terapia.
«I contorni delle cose li vedo, amore!», gli ripeto per la millesima volta scoppiando a ridere, quando mi tira a sé per non farmi andare a sbattere contro qualcosa – forse un carrello delle infermiere. Lo sento borbottare qualcosa, prima che mi dica verso che reparto stiamo andando. Un giro un pediatria, tanto per restare allegri. Allora mi fermo all’improvviso e gli stampo un bacio su una guancia, fin troppo vicino alle labbra.
«Lo sai che ti amo, vero?».
«Lo so». Mormoro una conferma abbassando le palpebre e accennando un sorriso. «Perché pediatria?», gli chiedo poi lasciando che mi riprenda a braccetto e intrecci le mie dita con le sue. Lo sento prendere un respiro profondo, e l’aria tiepida mi arriva sull’orecchio, facendomi rabbrividire. Immagini di bambini costretti in ospedale mi riempiono la mente in bianco e nero e il cuore a colori, facendomi quasi male, ma proprio non capisco perché pediatria.
«Da piccolo mi sono rotto una gamba e il polso cadendo dalla casa sull’albero, mi hanno tenuto in ospedale qualcosa come un mese… ed è stato quando abbiamo scoperto che Doniya era ipovedente», lo sento aggiungere dopo qualche istante, mentre le immagini di un piccolo Zayn costretto a letto mi riempiono la mente, facendomi mordere un labbro per non interromperlo quando arriva a parlare della sorella. «Aveva otto anni, ed era nella mia stanza qui nel reparto… inciampò in uno sgabello di quelli piccoli, di plastica… batté il ginocchio e il naso sul pavimento, giurando poi che per un momento non aveva visto assolutamente nulla». Provo ad annuire, ma riesco a malapena a respirare, davanti ad una cosa del genere. Capisco dove vuole arrivare solo quando continua a parlare, e solo dopo avermi stretto la mano più forte. «Credevo fosse colpa mia, se lei non vedeva più… e anche se mia madre mi diceva che non era così, io mi sono sempre sentito un po’ in colpa per Doniya…».
«Dove vuoi arrivare?».
Ci fermiamo dopo qualche istante, apparentemente in mezzo al corridoio, dato che vedo solo punti di luce e qualche contorno. Non saprei ben dire se siamo fermi davanti ad una porta, al muro vuoto, ad un’infermiera o a qualsiasi altra cosa. Ma prendo comunque un respiro profondo, aspettando che lui continui a parlare. Ho bisogno che continui, con tutto il cuore.
«Con te sta succedendo l’esatto contrario, in qualche modo… e volevo che tu sapessi come mi fai sentire ogni giorno, come mi sento quando ti tengo per mano, o ti bacio, o quando facciamo l’amore… volevo che tu sapessi che il mio mondo era in bianco e nero, prima che arrivassi tu…».
Sento di avere le lacrime agli occhi, ma sinceramente non mi importa, quando lo fermo con un gesto della mano, prima di sfilarmi gli occhiali da sole. È cambiato qualcosa, ancora. Qualcosa che mi fa portare una mano alla bocca e trattenermi a stento dall’urlare, dallo scoppiare a ridere o dal baciarlo così, in mezzo ad un corridoio dalle pareti celesti e con gli occhi aperti per non perdermi più nulla, mai più.
Sono solo macchie. Oggetti smussati, poco a fuoco, troppo saturi di luce perché possa riuscire a distinguerli davvero. Ma sono macchie di colore. Distinguo la parete celeste, dietro la sagoma poco definita del mio ragazzo; distinguo i camici rosa delle infermiere; il bianco immacolato delle porte delle stanze. Distinguo il maglioncino rosso che indossa Zayn e i pantaloni scuri.
Mi viene da piangere. Piangere come non ho mai fatto e baciarlo come non ho mai avuto possibilità di fare davvero, perché sostanzialmente in questi pochi mesi sono sempre andata alla cieca. Sento una lacrima bollente scivolarmi lungo la guancia e finire sulle labbra; sento il sapore del sale sulla lingua non appena ne passo la punta su di esse. Sento il respiro di Zayn farsi incerto, confuso, impaurito.
«Fino a poco tempo fa credevo di dover rimanere nel buio per il resto del miei giorni… tu mi hai dato una luce, la promessa di vedere il mare, un cuore capace di amarmi come nessuno aveva mai fatto e… i colori, amore. Mi hai appena ridato i colori», mormoro, senza riuscire a trattenermi dal ridere tra le lacrime, soprattutto sulle ultime parole.
E non credevo qualcuno potesse stringere qualcun altro come lui sta stringendo me.

Giorno 6.
Non ho intenzione di descrivere la risonanza magnetica che mi hanno fatto questa mattina. Non ci tengo a rivivere un ago infilato nel braccio e la sensazione di freddo per tutto il corpo, né il momento in cui due infermiere mi hanno fatta sdraiare sul piano del macchinario, prima di accenderlo e farmi finire in quello che so essere un tunnel, che fa un rumore allucinante, detto tra noi.
Ho chiuso gli occhi e cercato di chiudere anche le orecchie, pensando a tutt’altro e rimanendo ferma e immobile mentre mi analizzavano il cervello. Niente di nuovo, la parte in cui qualcuno mi analizza; sono una cavia da laboratorio, la ragazza sopravvissuta ad un incidente d’auto mortale, che ha perso la vista ma non per colpa dell’incidente, che dopo tre anni scopre di avere una massa che preme su qualche strano e minuscolo organo, che si fa riempire di aghi e aprire la testa, pur di risolvere qualcosa.
Ho riavuto la luce. Ho riavuto i colori.
All’incirca, certo. Non vedo come vedevo prima dell’incidente, ma quell’eterno ottimista che è il mio medico è fiducioso che con passare dei giorni io possa mettere a fuoco tutto. Potrebbe anche succedere da un momento all’altro, ma devo essere onesta, non ci credo più di tanto. Magari ha ragione, certo, ma senza la mano di Zayn nella mia non credo ad un accidente.
Credo solo che mi scoppierà la testa e di questo passo le mie braccia diventeranno uno scolapasta, con tutti i buchi che devono subire e il rumore dei macchinari costantemente nelle orecchie – non scherzo quando dico che lo sento anche quando dormo, il che è il motivo principale per cui odio gli ospedali, ma questa è un’altra storia.
È quando vengo riaccompagnata in camera e i medici iniziano a parlare, che mi accorgo veramente dell’assenza di Zayn. Charlotte e Harry mi hanno detto che è al lavoro, ma sta facendo i doppi turni da due giorni, se è vero, e non ne capisco il motivo. I suoi migliori amici non hanno voluto dirmelo, e non li biasimo… solo, detesto che non mi si dicano le cose come stanno davvero. Non mi va a genio come comportamento, soprattutto se è lui a non dirmi le cose, a mentirmi. Certo, mia madre mi stringe la mano come forse non l’ha mai stretta, con più speranza di quanto non abbia mai avuto da tre anni a questa parte. Ma no, non è proprio la stessa cosa.
Comunque sia, il dottor Harrison e la dottoressa Blackwood mi informano che dalla risonanza non si vede assolutamente nulla di anomalo – il che è una bellissima notizia –, che il tumore è completamente scomparso dalla mia vita, che non si dovrebbe riformare e che posso addirittura sospendere le sedute di chemio. Tutte notizie incredibilmente belle, per cui mia madre scoppia a piangere contro la mia spalla, ma io non riesco a dire niente, né a sorridere.
«Tesoro, è fantastico… non sei contenta?».
«Al settimo cielo», riesco a mentire, col sorriso più finto di sempre sul viso. Lei non sembra accorgersene, i medici continuano a parlare, e io torno ad essere una cavia per gli esperimenti, alla quale dicono i risultati di essi senza che lei abbia la possibilità di capirli davvero.
Ma nessuno se ne accorge, e io riesco ad accennare un sorriso solo quando sento la voce di Zayn nelle orecchie. Nessuno si rende conto di quel sorriso, di come lo stringo e di come maschero la tristezza. Nessuno dice niente, e io ho la conferma del fatto che nessuno di loro mi conosce abbastanza bene da capirlo, nemmeno mia madre.
Sorrido, ci passo sopra. È solo un momento no.

Giorno 7.
È la luce a svegliarmi. È strano, dio. Mi sveglia il fastidio della luce contro le palpebre. Ricordavo a stento come fosse svegliarsi per la troppa luce, ed è strano da morire che io stia provando di nuovo quella sensazione, quando fino a poco tempo fa credevo che avrei vissuto al buio per il resto della vita.
Più strano ancora, è il fatto che io debba subito chiudere gli occhi, una volta aperti. Non è la stessa sensazione di qualche giorno fa, con le macchie di luce, le macchie di colore. Questa volta chiudo gli occhi per il fastidio del riflesso della luce che entra dalla finestra, sul muro di un grigio chiarissimo. Trattengo il respiro, davanti a quella scoperta… non posso aver sognato l’esatto colore della vernice con cui è stata dipinta quella parete che non ho mai visto prima, come non posso aver immaginato il riflesso della luce su di essa senza averla vista davvero.
E riaprendo gli occhi, con le mani strette nel lenzuolo dell’ospedale tanto da rischiare di strapparlo, metto a fuoco. Apro la bocca come per dire qualcosa, ma faccio fatica a respirare, quando vedo finalmente qualcosa che non sia buio, qualcosa che non siano macchie poco distinte di luce e di colore. Le prime cose che vedo sono il muro grigio, il divanetto di pelle nera dall’altra parte della stanza, il rosso fuoco dei capelli di Charlotte e gli occhi verdi di Harry, che mi guardano spaesati, come si fosse accorto che effettivamente qualcosa è cambiato.
Mi prendo qualche istante per osservarli, ora che posso. Lui, seduto un po’ scomposto, coi capelli scompigliati, gli occhi sgranati e le labbra schiuse, e una mano tra i capelli rossi di lei, la cui testa è posata sulle sue cosce, mentre il suo corpo minuto è rannicchiato sulla parte libera del divano, fasciato da un paio di jeans scuri strappati sulle ginocchia e un maglione grigio piombo di parecchie taglie più grandi, che sospetto essere del suo ragazzo, magari rubato non troppo di nascosto dal suo armadio.
Sposto lo sguardo reso appannato dalle lacrime verso il basso, verso le mie mani, e finalmente sento Harry realizzare cosa sia appena accaduto, il fatto che io li abbia appena visti, visti davvero, non solo immaginati. «Cazzo, ci vedi…», lo sento imprecare mentre io mi osservo le dita, incantata dalla loro forma, dal colore della mia pelle rosa chiaro, dalle unghie che forse sono troppo lunghe ma mi piacciono da impazzire. «Charlie, svegliati, porca puttana!». E scoppio a ridere, non posso farne a meno. Forse è proprio la mia risata che la sveglia del tutto, che le fa aprire gli occhi – credo castani – e le fa dare uno schiaffo sulla gamba al suo ragazzo.
«Che cazzo, Harry…». Si interrompe alzando lo sguardo verso di me, che ancora mi guardo le mani come fossero la miglior scoperta di sempre, la cosa più bella che abbia mai visto. «Cazzo, ci vede! Ci vedi!», esclama saltando su dal divano e rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi, mentre la vedo saltellare euforica e battere le mani, prima di passarsele tra i capelli rossi e praticamente saltarmi addosso, facendo ridere sia me che il suo ragazzo, che vedo con la coda dell’occhio alzarci e venirci incontro, fermandosi in fondo al mio letto.
«Ci vedo, ma calmati», le dico ridendo accarezzandole i capelli e guardando Harry con gli occhi lucidi e un sorriso che si riflette anche sul suo viso, pochi secondi più tardi. Charlotte mi stringe forte, scoppiando poi a piangere sulla mia spalla, singhiozzando di gioia. «Calmati, Char… respira», scherzo allontanandola di qualche centimetro per guardarla negli occhi. Le asciugo le lacrime con un sorriso e le poso un bacio sulla fronte. «Me lo fai un favore? Chiamate tutti tranne Zayn».
E vedo Harry annuire con una mezza risata, prima che la sua ragazza riprenda a stringermi e a baciarmi le guance ridendo ogni volta che i miei occhi incontrano i suoi. Ride, Charlotte, e viene da ridere anche a me.
Il dottor Harrison mi visita senza smettere di sorridere. Controlla la reattività delle mie pupille, il colore delle mie iridi e la cicatrice alla testa. Mi stacca dagli ultimi aghi e dagli ultimi elettrodi ridacchiando, mormorando quanto avesse sognato quel momento e abbracciandomi. E io, che non avevo mai creduto di poter abbracciare un medico, ricambio l’abbraccio con l’ombra di una risata imbarazzata ma terribilmente grata. È il mio modo di ringraziarlo, senza bisogno di parlare, per tutto quello che ha fatto per me, testardaggine e antipatia apparente comprese.
Victoria non riesce a smettere di piangere.
La vedo entrare con una mano nei capelli e la treccia sfatta, con mio cugino e mia madre subito dietro, mentre io ed Harry siamo a piedi nudi sul linoleum, a ridere e guardarci le dita ed è come se rimparassi a camminare, come se dovessi ritrovare l’equilibrio ora che non ho più bisogno del bastone né di appoggiarmi necessariamente ad altri mentre cammino. Vedo dove sto andando, ed è una gran bella sensazione, soprattutto quando mi accorgo di quanto siano grandi i piedi del riccio rispetto ai miei, piccoli e pallidi.
Alzo lo sguardo sulla porta, e non c’è niente di meglio che accorgersi di quanto sia bella la mia migliore amica, con la carnagione color cappuccino che impallidisce nel giro di un istante, gli occhi castani sgranati e increduli, le labbra che le tremano e una lacrima che le scende lungo la guancia senza che nemmeno ne sappia il motivo. Non c’è niente di meglio che notare quanto sia cresciuto mio cugino in tre anni, notare il velo di barba e gli occhi color nocciola che sembrano brillare solo per Victoria, che non si muove se non quando lui le dice qualcosa in un orecchio, troppo piano perché io possa sentirlo davvero.
Allora piange, senza riuscire a smettere.
«Chi devo ringraziare per il miracolo?», sento sussurrare da mia madre mentre la mia migliore amica si decide ad abbracciarmi, guancia contro guancia, il suo respiro rotto dalle lacrime che mi penetra nelle orecchie come una macabra ninna nanna. E sorrido debolmente a mia madre, facendo cenno a lei e a mio cugino di venire ad abbracciarmi, un po’ perché mi sono mancati, un po’ perché ora che li vedo non ho intenzione di smettere di farlo. «Zayn non c’è, tesoro?». Scuoto la testa, facendole un occhiolino, che la fa ridere e le fa capire al volo tutto quanto, per fortuna. Non ho voglia di spiegarle che non l’ho fatto chiamare apposta…
«Siamo tutti qui riuniti perché…». Il flusso dei miei pensieri viene interrotto dalla voce ironica del mio migliore amico, fermo sulla porta coi capelli scompigliati, il maglione infilato di corsa e la giacca tenuta sotto braccio. Di Eleanor non c’è traccia, a quanto pare. Ma io proprio non riesco a smettere di guardare lui, portandomi velocemente una mano davanti alla bocca per non urlare di gioia. Lui e i suoi capelli che sono castani ma alla luce dei neon sembrano più chiari e al sole sembrano quasi rossi; lui e l’accenno di barba di cui tre anni fa non c’era traccia; lui e i suoi occhi azzurri che sono del colore del cielo e delle mie stesse iridi. «Cosa…?». Si rende conto delle lacrime di tutti gli altri e dei loro sorrisi a trentadue denti, poi si accorge che lo sto guardando – guardando davvero – e mi si avvicina di qualche passo, prima di tirarmi a sé e sollevarmi da terra, senza fare niente che non sia stringermi e senza dire niente, senza nemmeno piangere.
«Ciao, Lou», mormoro contro il suo orecchio, aggrappandomi ai suoi capelli per non scivolare dal suo abbraccio, anche se quasi mi sta stritolando.
«Mi sono mancati, i tuoi occhi».
«E a me i tuoi», ammetto stringendolo più forte.
Sono andati via tutti, quando mi incanto a guardare fuori dalla finestra, seduta con le ginocchia al petto sul davanzale interno. Ignoro il mio riflesso sul vetro – gli occhi che mi sembrano troppo grandi e troppo azzurri, i capelli biondo chiaro che stanno ricrescendo troppo lentamente e le labbra rosse e un po’screpolate – e mi concentro sulla caduta lenta dei fiocchi di neve persi nel vento e che vorticano come impazziti, prima di toccare finalmente terra e unirsi ad altri fiocchi, ad altra neve, ad altro freddo.
Da bambina volevo essere un fiocco di neve, mi piaceva l’idea di cadere vorticando nel cielo e non sapere esattamente dove sarei atterrata e a quali fiocchi mi sarei mischiata. Mamma mi prendeva in giro, dicendo che ero già un fiocco di neve e non lo sapevo, che i miei capelli quasi bianchi erano raggi di sole congelati, e che i miei occhi erano color del ghiaccio. Allora mettevo il broncio e incrociavo le braccia al petto, finché lei non si arrendeva ridacchiando, promettendomi una tazza di cioccolata calda.
Sorrido, al pensiero, sentendo poi una mano posarmisi sulla spalla e saltando dalla sorpresa. Non mi sono accorta della porta che si apriva, né dei passi sul linoleum. Non mi sono accorta di nulla, troppo concentrata sui miei pensieri e sulla neve che cade senza fare rumore e sul fatto che non riesco a smettere di guardarmi le unghie delle mani e le gambe lasciate scoperte dal camice troppo corto e le caviglie sottili e tutte quelle parti di me che ho potuto solo sentire e mai vedere, per troppo tempo.
E la mano di Zayn sulla spalla fa sì che il mio cuore prenda a battere ad una velocità assurda, irreale. Prendo un respiro profondo ignorando il suo riflesso sulla finestra e «Eri soprappensiero?». Annuisco con un mezzo sorriso, prima di voltarmi e… rimanere a bocca aperta. Inarca un sopracciglio, stranito dalla mia reazione, e capisco che gli altri devono aver seguito le mie indicazioni, tenendo la bocca chiusa. Per Zayn io sono ancora cieca, e non ho proprio idea di come spiegargli che lo vedo, che mi viene da ridere e che lo bacerei fino a starne male. «Amore…». Gli poso due dita sulle labbra, alzandomi poi in piedi e provando ad ignorare gli occhi che gli si sgranano e il sorriso che comprare sotto i miei polpastrelli.
Mi sono alzata in piedi come una che ci vede, non ho potuto evitarlo.
Come non posso evitare di guardarlo, di studiarlo in silenzio, senza dire niente perché semplicemente non c’è alcun bisogno di parlare. Guardo la pelle color caffelatte, gli zigomi un po’ rossi per il freddo che deve far fuori, il velo di barba ispida che gli ricopre le guance; osservo il profilo del naso diritto, le sopracciglia folte e i capelli nero carbone che stanno ricrescendo lentamente dalla sua pelle; liscio con un dito la piccola ruga che gli si è formata tra sopracciglia, ammiro le ciglia lunghe e nere, con la loro ombra proiettata sugli zigomi e il leggero sfarfallare che fanno perché lui possa trattenersi dal piangere.
«Non dare di matto, okay?», mormoro pianissimo prendendogli una mano, intrecciandone le dita e portandomele sul petto, sul cuore che batte forte, troppo forte perché possa cercare di controllarlo con un respiro profondo. Ride, contro le mie dita; ride, e quando quel suono raggiunge le mie orecchie viene da ridere anche me, senza che riesca a trattenermi. «Fa strano dire “ti amo dal primo momento in cui ti ho visto”, perché io ti amo dal primo momento in cui ti ho sentito, in cui ti ho toccato quel giorno sulla metro… fa strano perché io ti vedo solo ora», aggiungo con un sorriso alzandomi in punta di piedi per catturare una lacrima prima che si perda nella sua barba come una goccia di rugiada nella foresta.
«E’ addirittura più strano del fatto che io mi sia innamorato dei tuoi occhi senza che essi mi avessero mai visto», mormora sfiorandomi il collo e l’attaccatura dei capelli con due dita. Stavolta è il turno di sbattere le palpebre per non scoppiare in lacrime, e Zayn ridacchia, con gli occhi che gli si illuminano di uno strano riflesso celeste e un sorriso da far invidia alla più bella delle stelle, coi denti bianchissimi a mordere la punta della lingua.
E ci penso, a quelle poche parole.
Ci penso, fino a che finalmente non mi azzardo a guardarlo negli occhi.
Forse sono castani, o color nocciola. Ma c’è dell’ambra, del miele e qualche goccia di cioccolato fuso. Sono più chiari e limpidi vicino alla pupilla, e scuriscono a mano a mano che ci si allontana da essa, fino a sembrare quasi neri al confine dell’iride. C’è del verde, in quegli occhi, e del nero, qualcosa che ricorda le nuvole cariche di pioggia. C’è lui, in quelle iridi. Mi accorgo appena delle lacrime che mi sfuggono guardando quegli occhi, perché Zayn le cattura con le dita e le spazza via come la neve che cade di fuori viene spazzata via dal vento. E c’è del celeste, nelle sue iridi, che capisco essere il riflesso delle mie quando per un istante distoglie lo sguardo, ed esso sparisce così come è comparso.
«Devo far notare a Victoria che non hai gli occhi castani, sai?».
Lui ride, direttamente sulle mie labbra. Ride sollevandomi da terra e mentre gli cingo il bacino con le gambe. Continua a ridere, e io con lui, facendo finalmente collidere le sue labbra con le mie. Mi toglie il fiato, mi ruba ossigeno, si appropria di parte del mio cuore, solo con le sue labbra che si muovono piano sulle mie. «Hai qualche vestito che non sia questo camice?». Annuisco senza capire, ancora sulle sua labbra e con un sopracciglio leggermente inarcato per la confusione. «Devo farti vedere una cosa…».
Ed è all’improvviso che mi viene in mente una cosa.
L’unica spiegazione plausibile alla sua assenza dei giorni precedenti.
«Ti amo», mormoro dandogli un ultimo bacio sulle labbra, prima che il suo “anch’io” mi riempia le orecchie della melodia migliore di sempre; o, almeno, della melodia migliore che io abbia mai sentito.


 


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Capitolo 31
*** 31. ***


* salve :) lo so, sono in ritardo, non scrivo uno spazio autrice da una vita e sto aggiornando per miracolo divino.
questo è l'ultimo capitolo prima dell'epilogo, quindi col prossimo aggiornamento abbiamo finito.
caput, fine. anche se mi dispiace da matti, ovviamente, quindi avrete dei ringraziamenti da far invidia alla divina commedia in quanto a lunghezza.
a parte il mio delirio...
spero che questo capitolo vi piaccia e che recensiate in tante, perchè ci tengo davvero tanto, fin troppo.
okay... penso che vi lascerò leggere.
evaporo, alla prossima bellissime.

-emotjon.*


*niente banner, connessione a singhiozzo*




31.



 
Charlotte.

È stata una settimana intensa. La mia vita, è intensa, da tre anni a questa parte. E questa settimana sembra quasi essere stata la settimana della riconciliazione, del ritorno alla normalità, ma è stata comunque intensa, stressante, tanto da volersi mettere a urlare contro il cielo da un momento all’altro.
Ripenso per qualche istante al sorriso di mia sorella Ariel il giorno che Nathan è tornato; mi torna in mente il modo in cui non riuscisse a smettere di toccarsi i capelli e di mordersi un labbro e di sorridere a tutti; e penso per un momento a come Harry mi abbia stretta a sé baciandomi una tempia, vedendo lei tanto felice e me tanto fiera di lei. Ripenso ai crolli emotivi di Zayn contro la mia spalla, ai caffè tenuti in equilibrio in ascensore e distribuiti a tutti mentre aspettavamo che aprisse l’orario di visita, alla sorpresa negli occhi del mio migliore amico quando ci vedeva lì, giorno dopo giorno, a tenere su di morale la sua ragazza.
Non l’ho fatto solo per lui. L’ho fatto per lei, perché le voglio bene, tanto.
Ripenso a come mi sia cambiata la vita in tre anni. Con lo spaccio, l’incidente, la morte di Doniya, la scomparsa di mia sorella, il processo in tribunale, gli interrogatori della polizia anche a noi che non c’entravamo nulla. Con una ragazza cieca e il mio migliore amico tradito e sempre triste. Con un tentativo di stupro. Con un ragazzo al mio fianco che credevo potesse essere solo un amico, quando è evidente che sia sempre stato un po’ di più, che sia stato amore anche quando non pensavo che lo fosse.
Mi riscuoto dai miei pensieri quando mi accorgo del fatto che Harry abbia svoltato all’incrocio sbagliato, verso una zona che di solito non frequentiamo, con i palazzi nuovi, gli appartamenti troppo grandi per pensare anche solo di metterci piede dentro e i terrazzi tappezzati di vasi di fiori, ora ricoperti di neve e probabilmente con pochi – pochissimi – sopravvissuti.
«Hai sbagliato strada, amore…».
E lo vedo trattenere un ghigno a quel nomignolo, che però gli fa comparire una fossetta su una guancia, e in quell’istante mi compare un sorriso sulle labbra che mi fa alzare gli occhi al cielo. Non posso trattenermi dal pensare che Harry sembri un bambino, quando sorride, ma sia un uomo a tutti gli effetti per la maggior parte del tempo restante – soprattutto in camera da letto… no, vabbè, meglio evitare.
Ferma la macchina davanti ad un condominio che di solito eviterei come la peggiore delle malattie veneree, davvero. È gradevole, devo riconoscerlo. Meno anonimo degli altri, con un vialetto carino e il portone in vetro. Ma è il poco che riesco a vedere, prima che il mio ragazzo mi bendi con un nastro di stoffa nera. Mi viene spontaneo storcere il naso, il che lo fa ridere; io odio le sorprese, e lui lo sa meglio di chiunque altro al mondo. Mentre faccio per dire qualcosa però, posa le labbra sulle mie in un rapido bacio che mi fa dimenticare la quasi incazzatura nei suoi confronti.
Perché odio le sorprese, ma i suoi baci sono la giusta ricompensa alla sopportazione di questa benda sugli occhi, degli scalini fatti a passo di lumaca perché ho paura di cadere e della sua risata divertita nelle orecchie mentre mi spinge su per le scale.
Cerco di immaginare come Heidi abbia fatto a sopportare tutto questo buio per tre anni, senza riuscirci, quando finalmente sento il tintinnare di un paio di chiavi e una porta che cigola leggermente sui suoi cardini. Inarco un sopracciglio, spinta a fare un altro paio di passi su quello che penso essere parquet, ma non ne sono sicura fino a che finalmente Harry non si decide ad far scattare un interruttore della luce e a liberarmi della benda.
Non ho la più pallida idea di cosa ci facciamo qui, in un appartamento completamente vuoto, coi muri ancora da dipingere e il pavimento ricoperto in parte di polvere di cemento. Non ne ho idea, ma quando torno a guardare il mio ragazzo e lo vedo sorridere, capisco a giudicare dalla sua espressione che deve esserci per forza esserci un motivo. Non l’ho mai visto sorridere così tanto, non con gli occhi che gli brillano in quel modo ma con le mani strette a pugno.
Come se avesse paura. Paura della mia reazione, forse.
«Che significa… che ci facciamo qui?», riesco a chiedergli, giocherellando nervosa con l’orlo della giacca di pelle, tirando su e giù la cerniera rischiando di romperla ma non riuscendo a fermarmi. Sono… nervosa. Agitata. Confusa. Non capisco un accidente, e voglio – esigo – una risposta, ora.
«Ti devo chiedere una cosa, piccina».
Inarco un sopracciglio, sorvolando su quell’orrendo soprannome che odio e lui lo sa alla perfezione. Lancio un’occhiata alla stanza vuota, alle pareti grigio chiaro e al corridoio che probabilmente da alla camera da letto e al bagno. Ma niente, proprio non capisco dove voglia arrivare, se deve chiedermi una cosa in un appartamento vuoto. «Okay, ma perché qui? È solo un appartamento vuoto, amore…».
Lo osservo passarsi una mano tra i capelli ricci, accennare un sorriso con tanto di fossetta sulla guancia destra e prendere un respiro profondo. Sono tentata di prenderlo a pugni, da quanto mi sta facendo aspettare. Io detesto aspettare, con tutta me stessa. Detesto che mi si tenga sulle spine, soprattutto detesto che lo faccia lui, soprattutto con quel sorriso perfetto sulle labbra e gli occhi che gli brillano meglio di quanto potrebbero brillare le stelle, ora nascoste dalle nuvole che portano neve da giorni e ne porteranno per altrettanto tempo.
«Il nostro appartamento… se vuoi…», lo sento mormorare in un fil di voce, quasi avesse il terrore di farsi sentire davvero.
E per un momento divento di pietra, senza sapere che dire. Con le labbra appena schiuse e improvvisamente secche e gli occhi sgranati, perché è decisamente l’ultima cosa che mi sarei aspettata, soprattutto se si parla di Harry. Perché Harry non organizza sorprese, non quando si tratta di me, di noi. Perché Harry ha un lavoro sottopagato solo per poter essere indipendente dai genitori, e perché mi accorgo solo ora che nonostante sia pagato poco quei soldi non li ha mai usati.
Continuo a guardarlo per qualche altro secondo, cercando di capire se davvero mi interessa da dove vengano i soldi per quell’appartamento o se mi interessa se lo stia facendo solo per indispettire i genitori oppure se lo stia facendo perché effettivamente vuole andarsene… andare a vivere insieme. Mi viene da ridere, con una mano tra i capelli rossi freschi di tinta, mentre faccio un rapido giro su me stessa per osservare ancora quello spazio che vuoto sembra immenso e penso che in fondo mi importa solo di quello, solo di Harry, solo di noi sotto lo stesso tetto.
Quando torno ad affogare nei suoi occhi mi accorgo quanto sia più rilassato e quanto si stia trattenendo dal ridere, alla mia reazione. Evito di fare domande, di chiedere se stia facendo sul serio, perché glielo leggo in faccia, è palese quanto stia facendo sul serio. Più palese di cosi non si può, più sicuri di così si muore. Evito di chiedere e annuisco. Annuisco solamente, facendolo ridere, ma mai quanto ride mentre gli vado incontro quasi di corsa e lo costringo a prendermi in braccio.
Con le sue mani sotto le mie cosce, le mie gambe intorno a lui e le mie mani a giocare coi suoi capelli, a stringerli tra le dita come per rendere tutto un po’ più vero, più reale, meno strano da realizzare. Continuo ad annuire, lasciandogli una serie di baci sulla labbra, sempre più vicini, sempre più veloci, sempre più miei e più suoi e più nostri.
Nostri come quell’appartamento vuoto.



 
Ariel.

Accarezzo la tazza di cioccolata calda ormai mezza vuota, nello stesso identico modo in cui il ragazzo sdraiato al mio fianco mi sta accarezzando la schiena da sopra il maglione di lana che indosso. Dal fondo della schiena, fin dove le sue dita possono arrivare senza che lui debba mettersi a sedere. Accarezza soprappensiero, proprio come le mie dita sembrano vivere di vita propria sulla tazza che tengo tra le mani, senza nemmeno più sentire il calore che emana.
Sono concentrata sulle sue dita su di me, sul suo respiro regolare, sulla ciocca di capelli che a poco a poco sento scivolare via dallo chignon improvvisato che ho dovuto fermare con una matita perché di trovare un elastico non c’è stato verso. Sono attenta allo spiffero ghiacciato che sento fischiare attraverso la finestra che non ha voluto saperne di chiudersi e arrivarmi addosso prepotente, facendomi venire più pelle d’oca di quanta già non ne abbia addosso per via di Nathan che continua a toccarmi, immerso tra i suoi pensieri, tra i suoi problemi.
Immerso tra le proprie paure.
«Secondo te cosa devo fare?».
La sua voce terribilmente roca mi arriva alle orecchie come fosse lontanissima, come una ninna nanna alla quale non dovrei dare ascolto perché finisce inevitabilmente per ferirmi, per lasciarmi agonizzante e apatica, spettatrice della mia stessa vita. E del resto so perfettamente a cosa si riferisca, a cosa stia pensando, a quali parole stia cercando di dirmi. Ma sono stanca di piangere per lui, perciò quando mi volto ho sempre la stessa espressione un po’ persa di poco fa, ancora intenta a sfiorare la tazza, anche se le sue dita si sono fermate all’improvviso.
Ci stiamo provando, ma evidentemente non basta. Con lui non basta mai. E quel “secondo te cosa devo fare” ne è la prova. Sa benissimo come la penso. Sa benissimo che non voglio che vada alla polizia, né che dia la propria versione dei fatti per un incidente capitato quella che a tutti pare essere una vita fa. Non voglio che finisca in carcere di nuovo, né che si allontani ora che l’ho finalmente convinto a provare a lasciarsi amare, solo per vedere come va.
Scuoto appena la testa, facendo sì che qualche altra ciocca di capelli scuri mi finisca sul viso. E lo guardo in quegli occhi azzurri che amo tanto da star male, capisco da quello sguardo di aver ragione sui suoi pensieri, di aver letto bene le sue parole e i pensieri che tenta imperterrito di nascondermi. «Ti sei già fatto due anni e mezzo…». In qualche modo riesco a non far tremare la voce, a non fargli notare che sto serrando le dita sulla tazza per non scoppiare in lacrime.
«Ma l’ho uccisa, Ariel… ho lasciato che guidasse, che morisse, che rischiasse anche le nostre – la tua – vite».
Mi mordo forte un labbro, mentre gli occhi mi si fanno automaticamente lucidi e guardare lui si fa sempre più difficile. Resto comunque fissa nelle sue iridi che mi hanno sempre attratta a loro come calamite, senza riuscire a staccarmene perché se me ne staccassi mi sentirei vuota, come se mi mancasse improvvisamente qualcosa, e come sensazione la conosco sin troppo bene, l’ho vissuta per troppo tempo, troppo a lungo per poter semplicemente far finta che non esista o di non averla provata.
Prendo un respiro, più profondo del dovuto. Abbasso le palpebre per qualche secondo, quanto basta per avvertire appena il vuoto farsi spazio tra i miei organi interni e minacciare a bassa voce di distruggere qualsiasi cosa si trovi sul suo passaggio. Riapro gli occhi lasciandomi andare a quello che dovrebbe essere un sospiro, ma che sembra più un singhiozzo mal trattenuto che altro.
«Doniya è morta perché io ti amo», dico a voce a malapena udibile, ma lo penso davvero. E a giudicare dalla smorfia che compare per un secondo sul volto di Nathan, mi ha sentita benissimo. Forte e chiara, come se l’avessi urlato. Gli poso piano due dita sulle labbra, continuando a stringere la tazza di cioccolata con la mano libera; fermo le sue parole prima ancora che possa pensarle, perché non voglio che mi interrompa… c’è una cosa che devo dire, che mi pesa sul cuore e sono stufa di tenermela dentro.
«Non ti voglio di nuovo dietro le sbarre», ammetto a voce alta, rendendolo finalmente vero, reale oltre ogni limite. So di avere le lacrime agli occhi, le labbra che mi tremano e un desiderio di baciarlo che riesco a stento a trattenere; sinceramente non mi importa di farmi vedere così, perché io lo amo anche quando sta male, lui deve solo imparare a fare la stessa cosa con me. Scosto per qualche istante le dita dalle sue labbra, il tempo necessario per posare la tazza sul comodino e sedermi a cavalcioni sul suo bacino, con di nuovo due dita sulle labbra, perché non ho finito, perché voglio che per una volta mi faccia parlare e perché senza quelle due dita non esiterei nemmeno un secondo… lo bacerei senza pensarci due volte.
«Non posso stare a guardare mentre di distruggi, come non posso evitare di venire giù con te quando cadendo non avrai il coraggio di lasciarmi la mano». Ad ogni parola che riesco a dire senza piangere vedo i suoi occhi farsi più chiari, più sereni, anche se a me sembra solo che si stia arrendendo al dolore, all’amore che provo per lui, a me. «E’ solo che ti amo così tanto che mi uccide vederti così, lo sai».
Scosto di nuovo le dita dalle sue labbra, questa volta per disfare lo chignon e provare a rifarlo, interrotta però da un sospiro di Nathan, con le palpebre abbassate, come se non sapesse che dire. Lo fa sempre, soprattutto se preso alla sprovvista, soprattutto se si tratta di me. Sospira ad occhi chiusi, riordina i pensieri – o almeno ci prova. E mi viene da sorridere, nonostante tutto; sorrido e basta, passandogli una mano tra i capelli scuri, tirandoli appena e godendo della loro morbidezza tra le dita.
«Dovresti odiarmi».
E di nuovo due pezzi di cielo mi si scagliano contro, facendomi perdere il respiro e la ragione in un colpo solo. Per non parlare del cuore che mi si ferma all’improvviso, per poi ripartire alla velocità della luce. Quelle due parole mi uccidono e mi ridanno la vita nel giro di pochi secondi, velocizzandomi il respiro e accarezzandomi la schiena con un brivido.
«Forse dovrei… ma non voglio, è questo il punto».
Ed è sempre lo stesso discorso, quasi sempre le stesse parole. Sento la fronte aggrotarmisi quasi senza che lo voglia davvero, e una piccola ruga spuntarmi tra le sopracciglia, che non riesco a far sparire, nemmeno con un respiro profondo. Siamo sempre allo stesso punto, facciamo un passo in avanti e uno indietro, ricominciamo da capo un giorno dopo l’altro senza arrivare da nessuna parte. Lui mi chiede di odiarlo, io gli dico che non riesco a farlo, che non posso… che non voglio. E mi si aggrotta la fronte, ma poi le sue dita la lisciano e gli scappa un sorriso e facciamo sempre finta che non sia successo nulla, che io non sia stanca di spiegargli che lo amo come si fa coi bambini piccoli, che lui non mi abbia chiesto di odiarlo e che semplicemente il problema non esista, portato apparentemente via dal vento.
Mi rilasso un secondo dopo l’altro, come sempre, al sentire la punta delle sue dita sfiorarmi il profilo del collo. Su e giù, avanti e indietro, fino a farmi spuntare l’ombra di un sorriso sulle labbra e a far scomparire ogni grado di nervosismo dal mio viso. Abbasso le palpebre, e le sue dita mi sfiorano la guancia, le labbra, il profilo del naso, prima che si sollevi a sedere con me ancora sopra e mi sfili il maglione.
Piano, delicato come mai è stato.
Mi irrigidisco al sentire le sue labbra posarmisi sul mento e scendere lungo la gola, tra le clavicole, fermandosi per lasciarmi un bacio tra i seni, per respirarmi addosso, facendomi sfarfallare le ciglia e spezzare un respiro in gola. «Che stai…?». Vorrei chiedergli cosa stia facendo, ma vengo bloccata dalla sua presa sui miei fianchi, dal leggero pizzicare delle sue dita sulla pelle e dal brivido che sento propagarsi lungo la schiena.
«Dimmi una bugia».
Sento le sue labbra fare la strada a ritroso, mentre lo dice. Lo sento fermarsi sulla mia spalla, scostare la spallina del reggiseno con le dita e sostituire piano le sue labbra alla stoffa leggera che mi copriva la pelle. Sfilo il braccio dal reggiseno, ancora accompagnata dalle sue dita e senza sapere che dire. Senza parole, con le labbra schiuse e la gola secca.
«Mi stai facendo male», mento a bassa voce, riuscendo a malapena ad articolare una frase senza che mi giri la testa. Non mi sta facendo male. In realtà non potrebbe farmi più bene, purché non si stacchi da me e non smetta di toccarmi, di spogliarmi. Che mi faccia quello che vuole, non può farmi male, non così, non adesso.
Lo sento sorridermi contro la pelle, tornare indietro verso il collo e salire al viso, fermarsi sulle mie labbra per pizzicarmele coi denti e farmi sospirare a stento. Mi sento avvampare un secondo dopo l’altro, eppure non faccio nulla per fermarlo. Non posso. Non voglio fermarlo, non adesso che sto così… bene. Completamente bene.
«Dimmi un’altra bugia».
Rabbrividisco appena, e «Ti odio».
«Ti odio anche io».
Sgrano gli occhi all’improvviso, appena in tempo per vedere un angolo della sua bocca sollevarsi in un sorriso obliquo, prima che annuisca pianissimo e mi dia un bacio sulle labbra. Un bacio dei suoi, di quelli che partono in quinta e ti fanno finire col respiro affannato e la bocca rossa e un brivido che se ne va a malincuore dalla schiena. Un bacio di quelli che conservo nella memoria, nel cuore, sulla pelle; un bacio di quelli da rivivere quando lui non c’è, da sognare la notte; un bacio da rifare e rifare e rifare fino a non poterne più.
Io e lui abbiamo sempre funzionato al contrario. Io ho finto di non amarlo. Lui ha finto che non gli importasse nulla di me. Io sto fingendo di odiarlo. Lui sta fingendo lo stesso. Sta mentendo quanto sto mentendo io. Va tutto al contrario, ma a me va bene così. Finché sorrido come sto sorridendo ora e mi viene da ridere e lui sorride allo stesso modo, va bene. So di non potergli strappare quelle due parole di bocca perché gli farei solo del male, perciò funzionare al contrario va bene. È il meglio che possiamo sperare di avere.
E averlo così è pur sempre meglio di non averlo affatto.
 



Heidi.

È tutto tanto bianco da togliere il fiato.
È un bianco onnipresente, che campeggia un po’ ovunque, dalle strade alle case coi tetti imbiancati ai fiocchi che continuano a cadere anche ora, sul parabrezza dell’auto del mio ragazzo, coi tergicristalli che fanno avanti e indietro come impazziti. È tutto bianco, ma non mi da fastidio. In fondo è piacevole anche solo vederlo, quel bianco, dopo tutto il nero che ho dovuto sopportare. È solo… totalizzante e strano da morire, perché non è solo bianco, ci sono anche i colori ed è ancora più strano perché non riesco a smettere di guardarmi intorno stupita e meravigliata. Come una bambina piccola, mi verrebbe da chiedere perché la neve sia bianca, o perché le foglie ancora sugli alberi non siano verdi come in primavera o perché i suoi occhi siano dello stesso colore di quelle poche foglie superstiti.
L’autunno, in quelle iridi, che non hanno smesso di tenermi d’occhio nemmeno per un istante. Né mentre mi vestivo con un paio di jeans, un maglione celeste e un berretto di lana, né mentre mi trascinava sorridendo alle infermiere per i corridoi dell’ospedale – come se non stessimo davvero passando di lì, come se effettivamente non stessimo scappando dal mio ricovero – né attraversando il parcheggio coperto di macchie di neve.
Mi osservano anche ora, le sue iridi, mentre i miei occhi assuefatti dal buio cercano di imparare di nuovo i colori, di riabituarsi al bianco della neve o ai verdi rossi e gialli dei semafori. Mi osservano mentre quasi senza accorgermene mi meraviglio delle cose più piccole e insignificanti o mentre mi scappa un sorriso a riconoscere una dopo l’altra le canzoni della playlist che suona in sottofondo mentre lui continua a guidare e io continuo a meravigliarmi. Sono le nostre canzoni – le mie canzoni che in qualche modo Zayn ha imparato ad amare e le sue canzoni che chissà come sembrano parlare di me, di noi – e le canticchio indisturbata, poco conscia della sua presenza o del paesaggio che ci scorre intorno.
I suoi occhi castani mi osservano di sottecchi mentre sollevo i piedi sul sedile, rannicchiandomi su me stessa e voltandomi quasi del tutto verso di lui per osservarne il profilo e imprimermelo bene in mente, quasi a renderlo indelebile e impossibile da cancellare. Mi osservano accennare un sorriso quando lo sento prendere a canticchiare con me qualche parola, perché anche se apparentemente non distoglie lo sguardo dalla strada, io so che i suoi occhi mi guardano, non mi mollano nemmeno per un secondo. Mi osservano mentre soprappensiero mi mordo un labbro, quando ad un semaforo lo guardo accendersi una sigaretta, aspirare il fumo nei polmoni ed espirare nella mia direzione, guardandomi direttamente ma ancora senza dire una parola.
Non c’è niente da dire. Parlare non serve a nulla.
Rovinerebbe il nostro piccolo miracolo, credo.
«Tutto a posto?».
Posa una mano sulla mia, una volta parcheggiata l’auto nel vialetto, vedendo che mi sto guardando intorno leggermente spaesata. Non sono tanto i colori, a confondermi, ma forse l’idea che mi ero fatta di casa sua senza poterla vedere. La immaginavo più… grande, credo. È una di tante villette a schiera, separate le une dalle altre da una staccionata; sono tutte uguali, tutte con lo stesso minuscolo giardino e la stessa coltre di neve a coprire ogni centimetro.
«E’ strano, tutto qui…».
È strano, e sono nervosa da morire, anche se non ne capisco il motivo. Sono già stata a casa sua, mi ha già toccata, mi ha già guardata e baciata e fatta sua. Sento il collo contratto, la mascella tesa e il labbro incastrato tra i denti senza che quasi mi sia accorta di stringere. Ho le palpebre abbassate, quando lo sento ridacchiare e avvicinarsi sensibilmente al mio viso, tanto da poterne sentire il respiro caldo sulla pelle, tanto da potermi baciare delicatamente sotto l’orecchio. Mi rilasso un secondo dopo l’altro, respirando meglio e sentendo i muscoli del collo distendersi a poco a poco che le sue labbra mi sfiorano; faccio sfarfallare le ciglia, sentendolo allontanarsi e aprendo gli occhi appena in tempo per vederlo giocherellare con la mia sciarpa, prima di sfilarmela da intorno al collo e legarmela a coprire gli occhi.
Mi mordo un labbro per non ridere, sentendolo poi slacciarmi la cintura di sicurezza e scendere dall’auto. Riconosco i suoi passi intorno all’auto, sulla neve, e il rumore della portiera dal mio lato che viene aperta. Sono di nuovo cieca, ma stavolta posso riderci su, perché è solo un gioco, è solo per la sorpresa e i colori ritorneranno in men che non si dica. Le mani di Zayn sono subito sul mio gomito e alla base della mia schiena, a spingermi delicatamente per farmi muovere i primi passi sul vialetto.
Diciotto passi. Tre scalini.
E poi dieci passi sul parquet, quindici scalini ricoperti di moquette e una decina di passi lungo il corridoio, al piano di sopra. Passiamo la camera della madre, quella di Safaa e il bagno, prima di fermarci all’improvviso, tanto che Zayn deve stringere la presa per non farmi cadere, mormorando delle scuse che si confondono con una mezza risata, un po’ mia e un po’ sua.
La porta cigola sui cardini, prima che Zayn mi spinga di un paio di passi all’interno e mi sfili la sciarpa dagli occhi fermandosi dietro di me dopo aver acceso la luce, cingendomi i fianchi e posando il mento sulla mia spalla, il naso che mi sfiora il collo e le dita che giocano con l’orlo del mio maglione. E apro gli occhi, ma non capisco cosa volesse che vedessi di tanto speciale che non sia il suo letto sfatto, la libreria stracolma di cd e la scrivania ricoperta di album da disegno e matite con la punta spezzata. Inarco un sopracciglio divertita, facendo per girarmi verso di lui e chiedere cos’abbia in mente.
Ma, al solito, mi anticipa.
«Guarda in alto». Un sussurro contro l’orecchio, lieve come le neve che cade.
E lo faccio. Guardo in alto, ma mentre mi aspettavo di trovare un soffitto bianco, monotono e triste, rimango a bocca aperta. Ci sono io, su quel soffitto. Ci sono decine di mie foto. Decine di me, decine di teste bionde, di occhi celesti, di sorrisi, di mani che coprono il viso come a volersi nascondere, come a voler rendersi invisibili, come a voler sparire dal mondo per il tempo di una risata. Decine di mani che si intrecciano, di labbra che sfiorano una guancia, di mani incastrate tra i capelli, di graffi sulla schiena. Pile di vestiti sparsi sul pavimento, lenzuola annodate, spalle nude con ciocche di capelli biondi che vi ricadono sopra coprendo la pelle, i nei, le cicatrici della varicella.
«Zayn… è incredibile», è l’unica cosa che ad occhi ancora sgranati riesco a dire senza balbettare né mettermi a piangere. Mi stacco da lui ancora con lo sguardo rivolto in alto, facendo qualche passo per godermi quella meraviglia da ogni angolazione possibile, trattenendomi a stento dal ridere, almeno finché non torno a guardare lui e il suo mezzo sorriso soddisfatto. Ride con me, Zayn, prima di muovere un paio di passi verso di me, senza perdere il sorriso soddisfatto e senza smettere di guardarmi negli occhi. Mi sento arrossire, ma non potrebbe interessarmi di meno.
«Mi ha detto Charlie che non hai creduto alla storia dei doppi turni… questo è il  motivo».
Annuisco e basta, non trovando altro da poter dire che non possa sembrare inutile o scontato. «E’ come guardarsi allo specchio…», mormoro passandomi distrattamente una mano sulla testa, ancora allibita dal suo gesto, dalla sua dimostrazione d’amore, da tutto quello che fa. «Quando me le hai fatte?»
«Quando non guardavi».
È sempre più vicino, eppure ridacchio, totalmente felice e spensierata. Quando non guardavi. Mi passo una mano sulla nuca, soprappensiero, giocherellando con la sciarpa che tengo tra le dita da quando Zayn me l’ha sfilata dal viso, da quando sono tornata ai colori dopo la nostra cecità per gioco.
Un pensiero mi attraversa la mente per un istante e inarco un sopracciglio trattenendo l’ennesimo sorriso… colmo la distanza che ci separa in un paio di passi, legandogli la mia sciarpa sugli occhi, in una piccola vendetta per quei mesi in cui lui mi ha potuto guardare quanto ha voluto e io sono rimasta nel buio, una marionetta tra le sue dita affusolate. Intreccio le dita con le sue, prima di alzarmi in punta di piedi per lasciargli un bacio sulle labbra, che sa di me, di lui, e forse un po’ di noi.
Mi scosto con uno schiocco di labbra che lo fa scoppiare a ridere, mentre un brivido mi attraversa la spina dorsale, acceso proprio dal suono di quella risata. Ma, sparita la risata, Zayn diventa una statua di cera tra le mie mani, immobile e totalmente alla mia mercé, per la prima volta da quando lo conosco.
Comando io, lui si limita a guardare il buio e a sentire le mie dita abbassare la cerniera della giacca di pelle e sfilargliela mentre mi mordo un labbro senza che lui debba per forza accorgersene… è esilarante. Lui si limita ad accennare un sorriso quando le mie dita trovano i lembi del maglione e lo tirano verso l’alto, seguendo la stessa via delle mani con gli occhi, scoprendo un centimetro di pelle alla volta, respirando ancora decentemente, almeno finché Zayn non solleva le braccia di riflesso per aiutarmi e il maglione scivola via, mostrando tutta la sua pelle e tutta insieme.
Sento le guance arrossarsi nel giro di qualche secondo.
Deglutisco, ma a parte l’ombra di un sorriso Zayn non reagisce. Rimane immobile, aspettando che io ritrovi il controllo del respiro, aspettando che le mani smettano di tremarmi almeno un po’. Respiro a fondo, e mentre espiro posso notare la pelle d’oca formarsi sul suo petto, sulle spalle, alla base del collo. È una cosa nuova, per me. È nuovo vederlo, come lo è vederlo mezzo nudo, o spogliarlo, o rendermi conto che è a causa mia se la sua pelle si ricopre di pelle d’oca. È una cosa nuova vedere tutti quei tatuaggi sul petto e sulle braccia e desiderare di baciarne centimetro dopo centimetro.
I secondi scorrono inesorabili, ma gli do poco peso. Li lascio scorrere senza curarmene, prima di prendere coraggio e posargli una mano sul collo, scendere lungo la spalla e lungo il braccio tatuato. Più piano che posso, come per stamparmi in mente ogni millimetro di pelle e ogni tatuaggio; lentamente e con calma, per abituarmi alla sensazione almeno finché non mi lascio andare e poso le labbra sulla spalla opposta, sentendo Zayn irrigidirsi con un sospiro strozzato.
Sono tentata di allontanarmi di scatto, credendo di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma al contrario lui intreccia le sue dita con le mie, rilassando i muscoli del collo e del viso a mano a mano che le mie labbra ne assaporano la pelle, fermandomi con una mezza risata solo arrivata alla sua bocca e presa abbastanza confidenza col suo corpo. Non so quanto tempo stia passando, ma me la prendo comoda, esplorando con le dita il suo torace, la linea degli addominali, l’ombelico, le creste iliache leggermente in fuori. Le dita di Zayn si stringono con forza sulle mie, cercando di prendere aria quando le mie dita si fermano a contatto col bordo dei jeans.
Gli regalo un bacio sul mento, di nuovo con le dita che mi tremano e il respiro irregolare, perché improvvisamente non so cosa fare, non guardandolo, non così. Provo a scendere di qualche altro centimetro, ma esito di nuovo a contatto con la cerniera dei pantaloni, deglutendo rumorosamente e sollevando lo sguardo sul suo viso, sul sorriso che si allarga sulle sue labbra mentre si sfila la sciarpa dal viso e torna finalmente a guardarmi.
«Ciao…».
«Non so cosa…».
Ma le mie parole vengono fermate dalla sua mano sulla mia ancora ferma sulla cerniera. La abbassiamo insieme, tra un mio respiro spezzato e un suo sospiro soffocato appena sulla mia fronte. Insieme, facciamo scattare il bottone e spingiamo la stoffa verso il basso, dove poi Zayn li scalcia via insieme alle scarpe, prima di tornare a guardarmi negli occhi e fare la stessa cosa che io ho appena fatto con lui.
Mi spoglia piano, come volesse farmi abituare alla sensazione, anche se non mi è nuova. È solo diversa, perché ora posso vedere il modo in cui mi guarda, posso vederlo mordersi il labbro alla vista della mia pelle ora libera dal maglioncino celeste. È tutto diverso, perché vederlo trattenere l’eccitazione è più intenso che immaginarlo; vederlo davvero è più intenso che averlo solo pensato per tutti questi mesi; poterlo vedere mentre mi spoglia e mi tocca è… incredibile.
«Non spegnere…».
È un sussurro che mi esce a fatica dalle labbra, ma che fa comunque rumore e lui continua a guardarmi mentre spegne la luce principale e accende quella sul comodino, prima di giocherellare quasi distratto con ognuna delle spalline del reggiseno e tirarle verso il basso con un sospiro. Sento l’intimo scivolare via senza quasi che me ne accorga, troppo concentrata sui suoi occhi scuri che brillano come diamanti nella penombra.
Sembrano esserci una miriade di domande, in quegli occhi, che trovano ogni risposta nei miei, anche se sono il loro opposto e potrebbero sembrare totalmente incompatibili. Sembra chiedermi se sono sicura, e i le mie iridi brillano, come a dire di sì ma senza parlare. Sembra chiedere se va tutto bene, ed il mio sorriso urla, sembra gridare che va tutto meravigliosamente bene, come un sogno dal quale non vorrei svegliarmi mai più. E riesco solo a sorridere, ad annuire appena, inclinando la testa da un lato per poi finire di sfilarmi il reggiseno e sentirlo ridere.
La sua risata fa ridere anche me, anche se sono praticamente nuda e rossa in viso.
Non mi vergogno. Non davanti a lui. Non ce n’è motivo.
Non mi vergogno quando mi cinge i fianchi, né quando mi solleva da terra per lasciarmi andare solo sul materasso, con il fantasma di una risata a far breccia nelle mie orecchie. Non arrossisco quando mi spoglia dell’ultima barriera che ancora mi copre, né quando fa scivolare i boxer lungo le gambe e allarga le mie continuando a guardarmi, senza distogliere lo sguardo nemmeno per un attimo.
Non mi vergogno delle sue labbra posate giocosamente sulla punta del mio naso, né della mano che mi sfiora la gamba in tutta la sua lunghezza, fino a farmi cingere il suo bacino. Sempre occhi negli occhi, almeno finché non sono costretta a chiudere i miei per una manciata di secondi, al sentirlo entrare in me con una spinta, con le dita intrecciate alle mie e gli occhi sul mio viso, che sento osservarmi anche se non li vedo, come sempre.
Boccheggio per un momento, disincastrando le dita dalle sue per farle scivolare dietro al suo collo, sulle sue spalle, per graffiargli la schiena fino a farlo gemere appena. Allora riapro gli occhi, lucidi dal dolore momentaneo, e mi godo la sua espressione. È come… estasiato, nel guardarmi, e mi viene da sorridere, prima di sporgermi per baciargli appena le labbra e annuire, come a dargli il via libera.
E sono baci, mani che si sfiorano, pelli che si sfregano. Sono respiri che si mischiano, labbra che si cercano, guance che arrossiscono e goccioline di sudore che si formano, scivolando lungo i muscoli come sciatori sulla neve. Sono le sue labbra, che non riesco a smettere di guardare, schiuse appena in un eterno sospiro; è il mio nome che sfugge dalle sue labbra come una litania; sono i suoi muscoli che attirano l’attenzione delle mie iridi, contratti nello sforzo di tenersi su per non pesarmi.
Sono due gemiti più forti degli altri. Sono due “ti amo” sussurrati nella penombra.
È un mio bacio sulla sua guancia e un suo pizzico sul mio fianco, che mi fa scoppiare a ridere.
E mi accoccolo contro di lui abbracciandogli il bacino e lasciandogli un bacio sulla spalla, ascoltando il suo respiro farsi più regolare con ogni secondo che passa, finché non si addormenta con le labbra schiuse e il lenzuolo che gli copre a malapena i fianchi. Allora mi sollevo delicatamente su un gomito e osservo il suo petto alzarsi e abbassarsi al tempo del suo respiro, al tempo del battito tranquillo del suo cuore che mi risuona nelle orecchie.
Non riesco a dormire, troppo sveglia e concentrata su ogni centimetro di lui per poter anche solo pensare di chiudere gli occhi. Troppo amata per poter dormire. Troppo coccolata per abbassare le palpebre e tornare nel buio ora che posso finalmente vedere. Quindi lo guardo, gli sfioro un braccio attenta a non svegliarlo, gli stuzzico una guancia ispida… eppure non si sveglia, continua a tenere gli occhi chiusi e a respirare piano, regolare, tranquillo.
Tanto tranquillo che posso scivolare dalla sua presa per rivestirmi, dopo averlo osservato due ore senza che mi venga sonno. Infilo gli slip e il maglione, per poi camminare guardinga per la sua stanza, lanciando qualche occhiata al soffitto e esaminando la sua stanza. È la tipica camera di un ex adolescente, coi poster di qualche band semi-sconosciuta, la libreria carica di cd impilati in disordine, uno stereo lasciato acceso e con qualche cd dentro ma con le casse staccate.
E la sua scrivania. Colma di disegni. Di miei ritratti.
Mi rannicchio sulla sedia con qualche foglio in mano, osservando il suo tratto deciso sulla carta, la sua bravura nelle sfumature. Tocco con mano la consistenza della carta e del carboncino su di essa, lanciando di tanto in tanto uno sguardo dietro di me, all’artista sdraiato tra le lenzuola sfatte e che odorano ancora dei nostri sospiri e del nostro sudore. Lo vedo muoversi, tastare la parte di materasso nella quale dovrei essere sdraiata io, allora mi accorgo della luce che un secondo dopo l’altro si espande nella stanza.
È l’alba, e sono stata sveglia tutta la notte senza che mi pesi, tenendo gli occhi aperti e amando meglio che ho potuto e facendomi gli affari del mio ragazzo, scoprendo con un sorriso che non c’era nulla da scoprire che già non sapessi. Nessuno scheletro nell’armadio di cui già non sapessi l’esistenza – come ad esempio la foto incorniciata che lo ritrae con Perrie, ognuno con uno spinello acceso tra le labbra. Niente di nuovo, niente di nascosto, solo Zayn come l’ho imparato a conoscere in questi mesi, nei nostri momenti da bolla di sapone, quando il resto non esiste e lui è l’unica cosa sulla quale riesco a concentrarmi.
Ripongo i disegni al loro posto quando lo sento sospirare nel sonno, tornando in fretta a sdraiarmi accanto a lui, di nuovo sollevata su un gomito per poterlo osservare, accarezzandogli un braccio per cercare di capirne l’intrico di inchiostro che gli ricopre quasi ogni centimetro di pelle nuda. La storia della sua vita, dipinta addosso. Ne sono affascinata, e anche se non capisco il significato di ogni disegno, spero di restare con lui abbastanza a lungo da capirli tutti – abbastanza da poter essere anche io sulla sua pelle, un giorno.
«Non volevo svegliarti», mormoro in un soffio vedendo un mezzo sorriso affiorare sulle sue labbra, con gli angoli inclinati appena verso l’alto e il naso leggermente arricciato. Mugugna qualcosa, portandosi un braccio sul viso per coprirsi dalla luce e mordendosi un labbro all’accorgersi che sono sveglia e che l’ho davvero visto sorridere, o nemmeno mi sarei accorta che sia sveglio.
«Magari essere svegliati sempre così».
Ridacchio, abbassandomi per baciargli una spalla, prima di rimettermi sdraiata e accoccolarmi contro il suo petto cercando di reprimere uno sbadiglio, senza riuscirci. Zayn scoppia a ridere, di quella risata roca e terribilmente irresistibile che fa rabbrividire ed eccitare allo stesso istante.
«Magari a settant’anni ti sveglierò ancora così». Ridacchio, sollevandomi per poi sedermi a cavalcioni sul suo bacino, continuando ad osservarlo senza riuscire a smettere, mentre le sue dita mi accarezzano piano la schiena, le spalle, le cosce. Sono concentrata su quel che vedo, eppure non riesco a fermare un sorriso spontaneo dal formarmisi sul viso, che fa scoppiare a ridere il moro mentre io non posso far altro se non inarcare un sopracciglio, anche se vorrei solo baciarlo, baciarlo e basta. «Non riesco a smettere di guardarti», ammetto arrossendo e mordendomi un labbro.
Zayn mi tira un poco a sé, tanto vicina da riuscire a pizzicarmi un labbro con i denti.
«Io non riesco a smettere di sentirti», mi sussurra di rimando, senza smettere di toccarmi e con le labbra a pochi millimetri dalle mie.
Mi spunta l’ennesimo sorriso, prima che finalmente la sua bocca tocchi la mia in un bacio dei nostri, che parte piano e aumenta la velocità un attimo dopo l’altro, tanto che le labbra si fondono e fanno fatica a staccarsi per prendere fiato. Mi stacco da lui con un mugugno solo quando sentiamo un timido bussare alla porta della camera, anche se la presa di Zayn sui miei fianchi non accenna a diminuire e la sua risata roca mi risuona nelle orecchie come la migliore delle sinfonie.
«Mmm… fermo un secondo».
Rido forte, facendo presa sul suo petto per allontanarmi quanto basta per voltarmi e riconoscere la piccola Safaa sulla soglia, con solo la testa di capelli scuri che fa capolino attraverso la porta e una mano a coprirsi gli occhi. Mi divincolo dalla presa di Zayn continuando a ridere, perché sua sorella è troppo adorabile e dolce; e lui scoppia a ridere con me, mormorandomi un “ti amo” nell’orecchio e dicendo alla piccola che ora scendiamo.
Si prende qualche secondo per tornare a baciarmi, per solleticarmi i fianchi e nascondere con un sospiro il viso nell’incavo del mio collo, tanto che vorrei davvero rimanere in quel modo fino ad avere settant’anni, col mal di schiena, i capelli grigi e i tatuaggi sbiaditi dal tempo e che quasi svaniscono.
E, finalmente, va bene così.


 




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Capitolo 32
*** 32. ***





32.



Aurora.

«E Nathan che fine ha fatto?».
La voce un po’ squillante di Kenneth – mio fratello minore – mi da la forza di incrociare di nuovo lo sguardo troppo simile al mio della donna che ci ha raccontato tutta la storia, distogliendolo quindi dall’enorme album di foto dalla vecchia copertina di pelle che tengo aperto sulle ginocchia. Ken ha posto a nostra nonna proprio la domanda che avrei voluto farle io, una volta assimilata tutta quella marea di informazioni della quale ci ha caricato, un po’ per noia e un po’ per curiosità.
Mi scappa un sorriso, mentre scompiglio i capelli neri di quella peste che ho per fratello, facendolo sbuffare e facendo quasi inspiegabilmente ridere la signora anziana seduta su quella sedia a dondolo di vimini che potrebbe benissimo avere la sua età, senza problemi. Io sorrido per il suo sguardo ancora così celeste da far impallidire chiunque e lei ride per il mio gesto, per lo sbuffo di mio fratello, per il ricordo che ha lei di quel gesto, di quella reazione.
E Kenneth inizia a spazientirsi, vuole una risposta, vuole che qualcuno colmi quella curiosità perché, insomma, che fine ha fatto Nathan? Lo osservo qualche istante, trovando piuttosto imbarazzante la somiglianza con le vecchie fotografie di nostro nonno; gli stessi capelli neri, lo stesso odio nei confronti di chiunque quando glieli si scompiglia, lo stesso naso, le stesse orecchie piccole e gli stessi – identici – occhi un po’ castani e un po’ no. Mi mordo un labbro, passandomi poi una mano tra i capelli che sono l’opposto di quelli di mio fratello e aspettando con lui una risposta che non tarda molto ad arrivare.
Una decina di secondi, e posso vedere le labbra circondate di piccole rughe di nostra nonna stirarsi nell’ombra di un sorriso forse un po’ triste, mentre con le dita prende a giocare con la punta della lunga treccia di capelli bianchi che le arriva in vita. «Nathan ha imparato a farsi imparare da Ariel, quando tutti si aspettavano che facesse qualche sciocchezza delle sue e rovinasse tutto di nuovo… sono persino venuti al mio matrimonio col nonno. Ci deve essere nelle foto, Rori».
Torno indietro di parecchie pagine, fermandosi sulla figura di una giovane donna dai corti capelli biondo chiaro in abito da sposa, sorridente e mano nella mano con due ragazze della stessa età, somiglianti alla lontana, una coi capelli rosso porpora e gli occhi castani e l’altra coi capelli tinti di nero e gli occhi grigi ma che nelle foto sembrano azzurri. Charlotte e Ariel, amicizie inaspettate ma mai più abbandonate una volta instaurate.
Sposto lo sguardo sulla foto accanto, in cui il sorriso di Ariel nello stesso corto abito blu della foto precedente si riflette nel sorriso dell’uomo che le posa dolcemente un bacio sulla tempia, rischiando di rovinarle l’acconciatura – anche se a giudicare dai loro sorrisi è l’ultima cosa di cui gli importa. Nathan sorride quanto Ariel, in quella foto, e io sorrido soddisfatta, perché nonostante tutto non è mai stato così cattivo come si sarebbe potuto pensare all’inizio di quella lunga storia.
Torno alla foto con Charlotte, trattenendo a stento una risata.
«Era incinta».
E nonna Heidi scoppia a ridere con me, mentre il piccolo Kenneth scivola giù dal dondolo di plastica bianca e corre di nuovo in spiaggia, pronto a rituffarsi tra le onde e a imbrattarsi di nuovo di granelli di sabbia e di salsedine. Lo guardo per qualche secondo, prima di rincontrare lo sguardo obliquo di quella donna che ammiro così tanto dopo quello che ci ha raccontato, che credo davvero che un libro non basterebbe per descrivere la stima e l’ammirazione che provo per lei.
«Charlotte era incinta… è incinta praticamente in ogni cerimonia catturata da quell’album, se ci fai caso», mi dice divertita, portandosi poi la tazza di tè verde alle labbra per prendere un sorso. Si sistema il cappello di paglia sulla testa, prendendo un secondo sorso e sorridendomi da dietro la tazza, lisciando poi le pieghe inesistenti del lungo vestito color carta da zucchero che indossa. «Charlie ed Harry hanno avuto quattro figli, Aurora», mi spiega, mostrandomi una mano mentre li conta sulle dita, forse per non dimenticare nessuno, o forse solo per rendere tutto più teatrale e divertente. «Il primo per il mio matrimonio, il secondo per il battesimo di tua padre e di zia Soraya, il terzo per il terzo compleanno di Chris e Yaya e il quarto… non ricordo a quale cerimonia, ma Charlotte rideva alzando gli occhi al cielo e Harry si limitava a sorridere sornione come se volesse far notare a tutti quanto fosse dotato».
Ridacchio, giocando con una ciocca di capelli biondi al sentire i diminutivi di mio padre e di mia zia, la quale per inciso odia che la si chiami Yaya, anche se ancora non ne ho capito il motivo. Forse solo per stizza nei confronti di nonno, che poteva anche scegliere meno assurdo per la sua prima – ed unica – figlia.
«Posso…?».
«Chiedi quello che vuoi, piccola».
«Gli altri?».
E mi racconta serenamente di Charlotte, Harry e della loro gigantesca e rumorosa famiglia. Mi dice del salone da parrucchiera aperto da Charlotte, della laurea in architettura di Harry – presa senza nemmeno troppi sforzi –, della loro stramba convivenza, dei litigi, delle paci fatte senza nemmeno stare a pensarci troppo, della proposta di matrimonio al contrario – dalla rossa al riccio non più tanto riccio. Mi dice dei loro figli, della loro villa immersa nella campagna scozzese, delle telefonate che ancora le tengono impegnate per ore, nonostante il mal di schiena perenne e le rughe intorno agli occhi e i capelli di Charlotte che ormai non sono più tinti di rosso da anni.
Mi racconta di Ariel e Nathan e dei loro viaggi intorno al mondo senza praticamente fermarsi mai se non il tempo necessario perché la mora potesse spedire una cartolina a nonno, coi saluti dal Brasile, dall’India o da chissà dove. Mi dice delle scuse dell’eterno ragazzo cattivo alle famiglie lese da quell’incidente causato da lui solo in parte ma del quale si è sempre voluto prendere tutte le colpe e anche di più. Mi dice di come Ariel lo tenesse sempre per mano, anche senza un anello a legarli; mi dice della gravidanza inaspettata di come i capelli della mora siano tornati biondi a mano a mano che il tempo passava inesorabile e di come Nathan abbia ammesso di amarla ma senza mai chiederle di sposarlo, perché loro hanno sempre funzionato al contrario e perché Ariel non ha mai preteso nulla.
Mi racconta con un sorriso leggermente amaro di come Louis ed Eleanor si siano lasciati qualche mese dopo l’intervento che le ha fatto recuperare la vista. La vedo fare un gesto piuttosto vago con la mano, nel sorvolare sul motivo della loro rottura e nel raccontare in breve come il suo migliore amico sia andato avanti anche se a stento con la propria vita, mentre la castana si laureava in qualsiasi di particolare che lei dal canto proprio non ricorda, perché in fondo non le è mai interessato.
Mi racconta di Victoria e Liam, esalando un sospiro e passandosi stancamente una mano tra i capelli bianchi. Mi spiega di quanto si siano amati e fatti male, un giorno dopo l’altro, o di come lei abbia dovuto abbracciare forte l’uno o l’altra a seconda di chi usciva ridotto peggio dal litigio di turno. Litigi stupidi, giovani stupidi condannati ad amarsi troppo – o troppo poco – e destinati più ad urlarsi contro che a baciarsi fino a perdere il fiato. «Ci sono stati momenti in cui avrei davvero voluto chiuderli in una stanza a sbollire la rabbia… quasi quanto avrei voluto incatenare Victoria quando ha fatto le valigie ed è sparita senza nemmeno lasciare due righe per chi amava…».
La voce è più alta di parola in parola. La vena sul collo che le si gonfia per la rabbia.
Si ferma all’improvviso, travolta da un colpo di tosse che la scuote come la terra durante un terremoto, con la tazza di tè verde che quasi le cade sul pavimento e io che semplicemente non ho idea di cosa fare. Non quando i colpi di tosse aumentano; ma per fortuna vedo con la coda dell’occhio zia Soraya accorrere trafelata, toglierle delicatamente la tazza di mano e darle una serie di pacche leggere sulla schiena, sussurrandole di respirare a fondo e di calmarsi.
«Calma, mamma… Victoria non se la merita, la tua rabbia».
«Certo che non se la merita».
La voce di mio nonno è roca come al solito, forse un po’ distorta dalla rabbia e della preoccupazione. La solita voce di sempre, quella che tante volte mi ha fatta addormentare cantando qualche canzone di quelle che li hanno accompagnati nella loro vita insieme e nel loro amore. Il solito fino di barba sulle guance, sempre più grigia di anno in anno. I soliti capelli tenuti corti, grigi come la barba. E la solita scia di inchiostro scolorito che gli ricopre le braccia, visibile attraverso la leggerissima camicia di lino che indossa.
E lo osservo sostituire la mano di mia zia con la propria nascondendo un sorriso, quando nonna Heidi torna a respirare normalmente e accenna addirittura un sorriso tirato. Come se, anche dopo cinquant’anni, l’unico a riuscire a calmarla sia Zayn. Come se la sua mano sulla schiena sia la sua bombola d’ossigeno personale, che le da tutta l’aria di cui ha bisogno per continuare a vivere.
Perché Heidi non è solo sopravvissuta. Con Zayn, lei ha sempre vissuto, vissuto davvero.
«Posso andare avanti con la storia senza che vi preoccupiate?».
Ridacchio, facendo posto a nonno sul dondolo e lasciando che mi cinga le spalle con un braccio, lasciandomi poi un bacio sui capelli sotto lo sguardo divertito di nonna. Perché io sono la sua copia in miniatura, e siamo tutti consapevoli di come io sia diventata in fretta la nipote preferita di nonno Zayn.  Ridacchio, forse arrossendo un po’ per via di quelle attenzioni non richieste.
Ridacchio, sentendo poi nonna ricominciare a parlare di Victoria e Liam con più serenità, almeno finché non mi viene in mente una persona… personaggio secondario ma non inutile, ragazzo biondo con la chitarra tra le mani, ragazzo che sembra essere fatto apposta per interrompere primi baci e far ridere le persone solo scoppiando a ridere lui stesso.
«Ma… Niall?».
Gli occhi di nonna Heidi si illuminano del più chiaro dei celesti, prima che batta divertita le mani e nonno accanto a me scoppi a ridere e una sua mano nodosa mi stringa un ginocchio scuotendo la testa. Come a dire che quella domanda proprio non avrei dovuto farla. Alzo gli occhi al cielo, tornando a rivolgere la mia attenzione su quella donna alla quale somiglio tanto in tutto, e che conosco solo ora in ogni minima sfaccettatura.
Mi racconta di Niall e dei suoi capelli tinti di biondo. Dei suoi occhi celesti che sembravano poter brillare solo per la musica, ma che quando hanno visto per la prima volta una ragazza coi capelli scuri e gli occhi come i propri, hanno brillato solo per lei. Mi racconta di Aileen, la ragazza irlandese con la passione per il violino, e di come quei due abbiano passato nottate intere nel negozio del biondo anche solo a ridere, suonare e mangiare caramelle gommose – lui solo quelle verdi e lei solo quelle rosse, nessuno ne ha mai capito il motivo.
Mi racconta di quanto ci abbiano messo quei due a capire di essere fatti l’uno per l’altra, tra archetti consumati, plettri distrutti per la frustrazione e sacchetti di caramelle gommose lasciati incustoditi su una pila di vecchi dischi per attaccare le labbra e non lasciarle più andare. Mi racconta di come siano spariti al loro matrimonio, per poi ricomparire; Niall con una macchina di rossetto sul colletto della camicia ed Aileen con l’orlo del vestito turchese strappato dalla foga con cui evidentemente il biondo l’aveva sollevato.
Scoppio a ridere, coprendomi il viso con le mani per nascondere il rossore e l’imbarazzo, perché – okay che ho sedici anni e una cugina di venti che racconta le proprie esperienze sessuali come leggesse la lista della spesa – la timidezza l’ho certamente ereditata da qualcuno. Qualcuno che mentre arrossisco gioca con una ciocca di capelli bianchi sfuggita alla treccia e guarda con un mezzo sorriso – malizioso? – l’uomo al mio fianco.
«Ha trovato anche lui il proprio raggio di sole», dice con dolcezza distogliendo lo sguardo da me per guardare la moglie.
Vedo la nonna arrossire, per poi alzare gli occhi al cielo e fargli un gesto con la mano come a chiedergli di smetterla, facendomi sorridere e facendomi inevitabilmente brillare gli occhi, perché si amano ancora come fosse il primo giorno, e davvero non c’è niente di più bello da poter guardare.
«Qualche altra domanda, piccola?», mi chiede nonno sollevando le maniche della camicia di lino fino ai gomiti. Sulle braccia spiccano ancora – anche se sbiaditi dal tempo – i numerosi tatuaggi che hanno fatto innamorare nonna anche solo sfiorandolo, senza bisogno alcuno di vederlo. All’anulare, la fede in oro bianco scintilla, gemella di quella stretta al dito della moglie, che incrocia le caviglie aspettando che a me venga in mente qualcosa da poter chiedere.
E ci penso. Ci penso su.
Ripercorro tutta la storia dei miei nonni solo chiudendo gli occhi per qualche istante.
Rivedo la caduta nella metropolitana, il loro secondo incontro e lo scontro nel parco, fatto apposta solo per darsi una scusa soddisfacente per parlarsi. Rivedo una serra colma di rose e un vecchio negozio di musica che non esiste più, dove una band che nessuno ricorda più ha fatto da colonna sonora al ragazzo dalle braccia ricoperte di inchiostro e alla ragazza bionda dagli occhi vuoti.
Rivivo il crollo di Heidi con Zayn quando gli raccontò di Alex, la loro prima notte passata a dormire nello stesso letto e il loro primo risveglio; rivivo la visita in ospedale, la nascita di una piccola speranza che lei potesse tornare a vedere, la rassicurazione di Zayn quando fermò la macchina in autostrada e se la mise a cavalcioni stringendola a sé come a farsi passare almeno un briciolo di dolore, chiedendole poi di lasciare che provasse ad aggiustarla.
Anche se a mio parere non c’era nulla da aggiustare.
Rivivo il sussurro scivolato via dalle labbra di nonna, quell’“aggiustami” che se io fossi stata lì mi sarei messa a battere le mani eccitata, come stessi guardando uno di quei film romantici pieni di miele e di dolore che onestamente mi piacciono fin troppo. Rivivo il racconto di Charlotte e la reazione di Heidi. Rivivo Nathan e il destro allo zigomo di Zayn, rivivo Heidi, il suo primo mal di testa sospetto e la sua delicatezza nel continuare a toccarlo anche se ferito.
Rivedo le lacrime di Zayn e la loro visita al cimitero. Immagino Doniya.
Immagino i sentimenti di ognuno di loro, i mal di testa, le visite in ospedale, i ricoveri non voluti e la consapevolezza che l’incidente che tolse la vista a mia nonna fosse lo stesso che rubò la sorella a mio nonno. Immagino i primi ti amo. Immagino Ariel e Nathan. Le corse in ospedale, le risse sventate, i giardini di notte con le farfalle che con le proprie ali fanno più rumore dei respiri degli amanti. Immagino i litigi, le paci, i baci, le prime volte. E rivedo altri ricoveri, i colori che tornano, le lacrime di tutti, la gioia di molti, la vista che torna in un paio di occhi rimasti vuoti per troppo tempo.
E li immagino fare l’amore come il sole si tuffa nel mare, capendo poi il significato sia del mio che del nome di mia cugina Eileen. Raggio di sole, lei. Prime luci del giorno, io. Capisco il senso riaprendo gli occhi e facendoli fondere ancora con quelli di mia nonna, che mi guarda, forse incuriosita dalle mie palpebre tenute chiuse così tanto e dal sorriso da completa idiota sulle mie labbra.
«Fate ancora l’amore come cinquant’anni fa?».
«Tutte le notti, ogni volta come fosse la prima…», mi risponde nonno, mentre nonna nasconde il viso dietro la tazza di tè, ancora. Vedo lo stesso le sue guance diventare un po’ rosse e sento lo stesso la risata divertita dell’uomo al mio fianco anche se sono apparentemente concentrata su di lei.
E capisco un’altra cosa, spostando lo sguardo da uno all’altra.
Capisco di non volere l’amore narrato nei romanzi rosa né quello descritto nei film d’amore con tutte quelle scene ad alto contenuto di miele che io amo alla follia. Io voglio una persona come mio nonno lo è stata per mia nonna, nella mia vita. Voglio qualcuno che mi ami in tutto e per tutto, difetti e mancanze compresi. Voglio qualcuno che mi baci fino a farmi dimenticare tutto, che mi ascolti quando voglio parlare tutta la notte e che mi asciughi le lacrime con la punta delle dita, accennando un sorriso e promettendomi che qualunque cosa sia successa andrà bene, perché io avrò sempre lui.
Voglio qualcuno che sia come Zayn è stato per Heidi.
Voglio qualcuno che sia la liquirizia della mia vita, come io sarei la vaniglia della sua.
Poso un bacio sulla fronte di ognuno e sussurro ad ognuno un ti voglio bene che sembra portato dalla leggera brezza che viene dal mare, che mi colpisce col forte odore di sabbia bagnata e salsedine, prima di lasciare le dita di nonna ed entrare nella villa, con la luce del tramonto che mi colpisce la schiena, mentre con la coda dell’occhio vedo i miei nonni sorridersi complici; sono la cosa più bella che abbia mai visto, e non smetterei mai di guardarli amarsi.

***

Sono passate ore, non so nemmeno quante. La scatola dei ricordi dei miei nonni è ancora aperta sul mio letto, e il vecchio cd testimone del loro primo bacio va a ripetizione nel vecchio lettore che ho trovato sempre nella scatola, tra mucchi di vecchie foto, inviti a matrimoni e cartoline da tutto il mondo. Canticchio Yellow, giocherellando con la penna che tengo in mano e rileggendo le ultime righe del mio diario.
Guarda le stelle, come dicono i Coldplay.
E lo faccio. Seduta sul davanzale, con la finestra lasciata aperta e la brezza estiva che mi scompiglia i capelli, guardo le stelle. Sono tante, a milioni. Mi ricordano i sorrisi di cui mi ha raccontato tanto la nonna oggi pomeriggio, ma anche le lacrime e le pagliuzze argentate nei suoi occhi, arrivate anche nei miei. Provo a contarle, tutte quelle stelle, provando a credere che in qualche strano modo stiano brillando proprio per me, come cinquant’anni fa brillavano per Zayn e soprattutto per Heidi, anche se lei credeva di non poterle vedere mai più.
Distolgo lo sguardo arrivata a contare la centesima stella, brillante come tutte le altre o forse anche di più. Mi si chiudono gli occhi e sto decisamente perdendo il conto, quando la risata anziana ma ancora cristallina di nonna mi arriva alle orecchie. Distolgo lo sguardo dal cielo per posarlo sulla sabbia, sui rari cespugli che la colorano di quei fiori che si schiudono solo di notte, come nel giardino delle farfalle dei ricordi dei miei nonni.
E anche al buio le vedo, le loro mani intrecciate.
Lo vedo anche al buio, Zayn che trascina Heidi nella sabbia, più lentamente di come avrà sicuramente fatto un tempo, ma con la stessa allegria e soprattutto con lo stesso amore. La vedo anche al buio, nonna, con la vestaglia che sventola per la brezza e la lunga treccia di capelli bianchi posata sulla spalla destra. Li vedo anche nel buio, mentre si stringono e si sussurrano qualcosa che da quassù io non posso nemmeno sognare di sentire, nonostante l’orecchio teso per la curiosità. Li vedo, i loro sorrisi e le loro mani ancora intrecciate. Le sento, le loro risate che volano libere nel vento.
Ho l’onore di vederli innamorarsi solo guardandosi negli occhi, dal castano al celeste, come forse era destino che facessero tutta la vita. Ho l’onore di vederli trovare il proprio amore fermi dove sono, col naso all’insù e le dita che continuano a cercarsi come se fossero state create per non lasciarsi mai.
Li vedo fermarsi a guardare le stelle, col capo di nonna posato delicatamente sulla spalla di nonno. Li immagino respirarsi come facevano una volta e come fanno ancora, anche se sono passati tanti anni, le mani fanno male per l’artrosi e nonno non può più uscire col giacchetto di pelle in pieno inverno. E li immagino meravigliarsi l’un l’altra, sentendo ancora gli stessi odori nelle narici.
Respirando liquirizia, lei. E vaniglia, lui.


 


Io odio finire le storie.
Non l’ho mai ammesso se non con qualcuno, ma non mi piace – per niente – finire una storia. Non mi piace finire un libro e ritrovarmi con le lacrime agli occhi, come non mi piace inventarmi tutto un mondo, portare avanti una storia per trentadue capitoli e poi ritrovarmi a piangere come una fontana quando tutto quel mondo finisce e i personaggi è come se morissero, anche se finiscono bene perché io amo i lieti fine con tanto zucchero e una colata di miele.
Blind love è nata quasi per caso. Okay, potete togliere il “quasi”. Non credo di averlo detto a nessuno, ma vagavo per questo sito – tra le popolari, perché mi diverte e allo stesso tempo mi irrita, vedere che le fanfiction di successo sono quasi tutte rosse – e mi sono resa conto che nessuno aveva mai trattato un tema delicato come la cecità senza sforare nel banale o documentandosi (c’è davvero tanto da studiare, in un certo senso, lol), come mi sono resa conto della quasi completa assenza di rating verde tra le popolari.
Insomma, io capisco, siamo tutte adolescenti con gli ormoni a palla.
Ma mi sono detta, perché non provare a scrivere una semplicissima storia d’amore? Sarebbe però stato banale se Heidi fosse stata una ragazza “normale”. Sarebbe stato banale se i suoi occhi celesti avessero visto Zayn e si fosse innamorata di lui a prima vista. Andiamo, avrebbe potuto scriverlo anche una capra. Lei è bellissima, lui è il classico finto stronzo. Bam. Si vedono e si innamorano. Ma io odio essere banale, odio scrivere le cose che scrivono tutti, coi nomi che usano tutti, anche se i clichè letterari mi piacciono, se espressi bene.
Per capirci, gli occhi di Heidi sono color cielo, i suoi capelli biondo chiaro e le sue labbra sono probabilmente a forma di cuore. Zayn ha gli occhi di quel colore che nessuno ancora è riuscito a capire, ed è tatuato, fuma e fa lo stronzo. Sono clichè, d’accordo, ma io ci ho messo tutta me stessa per renderli diversi, originali. Ci ho messo ogni sorriso e ogni lacrima in ogni capitolo, riga, sillaba e virgola.
Inizio già a delirare, chiedo venia.
Questi sarebbero dovuti essere ringraziamenti, ma io odio finire le storie e odio non sapere cosa scrivere in fondo all’ultimo capitolo. Perdo le parole o – come ora – ascolto I see fire per trovarle, ma finisco per piangere e, ehy, finisce che deliro come sempre. Sono un disastro, madonna. (prima che una certa persona mi picchi, sono un disastro nei ringraziamenti, non in generale).
Okay, proviamo.
 
Grazie a chi ha aperto la storia per caso, il giorno in cui ho iniziato a pubblicarla. Voi mi seguivate già da prima e probabilmente avete iniziato a leggere Blind love perché ve l’ho chiesto io, ma okay. Grazie comunque, perché se non se la fosse calcolata nessuno dal primo capitolo io non sarei mai andata avanti e l’avrei cancellata due giorni dopo aver iniziato a postare e nessuno avrebbe sorriso con Heidi, sbavato davanti a Zayn o odiato Nathan (povero il mio cucciolo).
Grazie a chi ha trovato la storia su facebook, twitter, tumblr o solo aprendo per caso uno dei capitoli successivi. Grazie a chi ha sparso la voce con le amiche, perché so per certo che qualcuno l’ha fatto. Grazie a chi ha lasciato il proprio parere anche una volta sola nel corso di questi trentadue capitoli, perché siete state la mia gioia, la mia unica forza per andare avanti – anche quando le recensioni sono calate e io sono entrata nel panico più totale. Grazie a chi ha recensito un capitolo dopo l’altro, sclerando in maniera adorabile e facendomi davvero ridere di gusto per così poco, rendendomi orgogliosa di me stessa per la prima volta nella vita.
Grazie a chi ha cliccato sui bottoni dei preferiti, seguiti e ricordati, perché quando ho iniziato davvero non mi aspettavo poteste essere così tante, come non mi aspettavo poteste aumentare a vista d’occhio di capitolo in capitolo, anche se non sono cifre astronomiche. Perché a me va bene così, con le mie cinquecento lettrici e le mie quasi ottocento recensioni. Credevo sarei arrivata a stento a duecento, quindi immaginate il mio sorriso aumentare di intensità un giorno dopo l’altro.
Grazie, per averla fatta arrivare tra le popolari.
Grazie a chi ha sorriso con Heidi e Zayn. Grazie a chi si è stupito nell’immaginare una ragazza cieca orientarsi col proprio bastone bianco fin nella metropolitana, capire a che fermata scendere o riconoscere odori sentiti solo una volta. Grazie alle persone cui è spuntato un sorriso quando Zayn ha annuito, dimenticandosi che la ragazza che gli sfiorava la mano non avrebbe potuto vederlo.
Grazie per l’idea delle rose, che onestamente non ricordo chi me l’abbia suggerita. Grazie a chi ha trattenuto il fiato, picchiato il computer, lanciato il telefono, chiuso tutto per non piangere. Grazie anche a chi ha consumato tanti fazzoletti da riempire la propria camera da letto o a chi non ha preparato i fazzoletti e ha allagato il cuscino di lacrime e mascara colato. Grazie alle vostre lacrime di gioia, ai vostri urli di sorpresa, alle vostre risate ai vostri saltelli in giro per la stanza o alle vostre imprecazioni perché magari non riuscivate a smettere di piangere.
Grazie a chi ha supportato Victoria e Liam. Grazie alle larry shippers che hanno sopportato Louis ed Eleanor. Grazie a chi ha shippato Harry e Charlotte come se non ci fosse un domani e li shippa anche ora, anche se è finito tutto (piccolo appunto che le Charry shippers, in fondo). Grazie a chi si è intenerita davanti a quell’orsacchiotto irlandese di Niall, anche se c’è stato poco e mi dispiace troppo (piccolo avviso anche per voi, in fondo)
Grazie a chi avrebbe voluto uccidere Nathan, a chi invece è stato “simpatico” da subito, a chi l’ha trovato dannatamente erotico e a chi si è ricreduta quando ve l’ho fatto capire un po’ meglio. Grazie a chi ha amato Ariel, e a chi l’ha shippata con Nathan, perché dopo Zayn e Heidi penso siano la mia coppia preferita lol.
 
Fin qui ho trattenuto le lacrime. Ora, da qui in avanti, la vedo più complicata.
Perché fino a qui ho fatto la cretina, ora arriva la parte “seria”.
Io avrei delle persone da ringraziare, ma non so chi mettere prima di tutti, perché qualcuno potrebbe offendersi se non la metto per prima, conoscendola. Quindi, partiamo dal ringraziare chi non c’entra nulla ma comunque mi ha supportata dall’inizio alla fine, pur non leggendo una parola.
Grazie mamma, per non avermi tolto il computer, per avermi aiutata con la parte medica e per non avermi mandata a fanculo quando avrei dovuto studiare ma finivo sul divano con un pezzo di carta, la penna che funzionava a stento e un’idea da buttare giù subito o me la sarei dimenticata. Anche se non hai letto, grazie, perché hai supportato l’idea di fondo della ragazza cieca che trova l’amore anche se non vede, mi hai dato mille soluzioni al problema e mi ha spiegato mille volte cosa fosse il chiasma ottico prima che lo riuscissi a capire.
Grazie a Marta, Helena, Anna Chiara, Giorgia, Mimì, Cesca, Valentina, Francesca, Elena, Alice, Elena, Chiara, Cristina, Federica, Aurora, Ilaria, Jennifer, Mar, Marina, Mel, Vittoria, Martina e Simona. Emotjoners una volta, emotjoners tutta la vita, per quanto può essere banale come frase e per quanto poco può valere.
Grazie a Milla, perché è la mia bimba e le voglio bene.
 
Grazie a Sofia. Ai sorrisi, le lacrime, gli urli e le litigate. Grazie piccola, perché ti voglio bene da morire anche se non lo dimostro, anche se urliamo e anche se a volte mi urti il cervello (rido). Grazie perché in qualche modo riesci a farmi sorridere sempre, anche quando stai più male di me, anche quando vorresti solo sparire. Grazie per aver ascoltato tutta la mia storia senza aver giudicato e grazie per aver sclerato ad ogni spoiler immenso, ad ogni trama che ti ho mandato anche se non sono sicura di riuscire a scriverle tutte ma okay. Grazie… grazie e basta, perché con te non so mai che altro dire.
Grazie ad Anita. Ai messaggi vocali che ci metto sempre un secolo per scaricare ma che poi mi fanno ridere come nient’altro. Ai sorrisi che mi spuntano quando ci diamo il buongiorno. Ai cuoricini rossi che pulsano e che entrambe troviamo piuttosto inquietanti. Agli scleri migliori del mondo, tutti in maiuscolo perché tu può. Alle foto illegali di Zayn che ispirano cose che il mio cervello malato dovrebbe smettere di immaginare. Grazie, perché nonostante la distanza prima o poi ci abbracceremo, poi sentiremo un acuto di Zayn e moriremo insieme. Okay, troppo tragica, ma vera. Grazie tesoro mio, ti voglio un bene assurdo che se provo a descriverlo finisco domani.
 
Grazie a… okay, come ti nomino? Annalucia, per una volta. Me lo concedi?
Grazie ad Annalucia. A parte il fatto che ti ringrazio tutti i giorni in chat anche solo perché esisti, cercherò di essere breve e concisa per una volta, limitando magari anche il contenuto di miele, perché non credo sia luogo adatto per dimostrare quanto io ti voglia bene. Per quello c’è la chat. Il telefono. Il dodici giugno. Okay… basta, porca miseria. Tu mi rendi più complicato di quanto non sia già anche ringraziare. Ma mannaggia, lo vedi cosa mi fai? Mi va il cervello nel pallone, mi batte il cuore in un modo assurdo e mi viene da ridere e da piangere insieme.
Grazie, piccola mia. Per aver adorato la storia, per aver letto qualche capitolo in anteprima, per avermi fatto notare gli errori, per aver sorriso tanto e pianto anche di più. Grazie per avermi detto un milione di volte quanto io per te sia brava a scrivere, perché è davvero il miglior incoraggiamento di sempre. Grazie per avermi fatto salire l’autostima quando ce n’era bisogno e per avermi fatta ridere quando avrei solo voluto piangere. Grazie per avermi ascoltata piangere al telefono quando il resto del mondo mi era contro e avermi fatta ridere subito dopo, perché nessun altro ci sarebbe riuscito.
Grazie per aver supportato me e le mie parole sempre, qualsiasi cosa io scrivessi. Grazie per aver amato ogni singolo personaggio della storia e grazie per la fanart che devi finire e grazie per… no, quello va nell’avviso in fondo. Grazie per i sorrisi che mi fai fare quando tutto il miele che non ho messo qui finisce per colare nelle nostre chat in quantità esorbitanti.
Grazie per essere lo zucchero della mia vita, amore.
 
Sono arrivata in fondo senza scoppiare a piangere. Oddio, troppo fiera di me, madonna.
Ora ci sarebbero gli avvisi. Oh, meno male. La parte più semplice di tutte e anche la più eccitante dal mio punto di vista. Sono pochi avvisi che vi chiederei di leggere, già che siete arrivate fin qui. Anzi, grazie per aver letto tutto questo poema di ringraziamenti (che siamo alle milleottocento parole e iniziano a farmi male le mani).
Avviso numero 1. Quell’amore di Anita mi ha pregata di scrivere un missing moment del matrimonio di Heidi e Zayn. Ho già iniziato a scriverlo e so come impostarlo, grazie al cielo. Quindi non so, credo che un paio di settimane mi bastino per finirla di scrivere e postarvela.
Avviso numero 2. Niall. Ho intenzione di scrivere una one shot su lui e il suo raggio di sole, perché non hanno avuto abbastanza spazio e continua a dispiacermi da morire ogni secondo che passa.
Avviso numero 3. Liam e Victoria. Nell’epilogo li vedete già mollati da un pezzo. Vi devo una one shot, una spiegazione del perché la mia mente malata li abbia fatti lasciare. Anche nel loro caso, mi spiace, ma se li avessi fatti finire tutti sposati e con quattro figli nella campagna scozzese non ci sarebbe stato gusto.
Avviso numero 4. Charlie e Harry. Ho in programma uno spin off su di loro, una mini long di otto capitoli (epilogo compreso), perché non riesco a lasciarli andare e mi dispiacerebbe non scrivere più nulla su di loro perché sono troppo teneri e coccolosi, madre santa.
Avviso numero 5. Questa fanfiction è finita, ma anche no. Nel senso che la devo correggere, revisionare e tutto… poi, se tutto va secondo i piani diventerà un ebook. In quel caso, vi avvertirò una per una, promesso. Riceverete un specie di messaggio di spam che vi chiedo già da ora di non segnalare, perché mi avete chiesto in tante un libro, e sarebbe ingiusto impedirmi di avvertirvi, no?
In realtà riceverete un messaggio di spam per ognuno degli avvisi, ma shh.
 
E… niente. Credo di aver ringraziato tutti e di essermi ricordata tutti gli avvisi.
Credo di aver delirato anche troppo in effetti, ma pazienza.
Grazie ancora ragazze. Grazie a chiunque stia leggendo.
Vi voglio bene, un abbraccio grande grande…
- emotjon.


 



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