Al crepuscolo

di francy91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuoco ***
Capitolo 2: *** Da Touya ***
Capitolo 3: *** Grigio perla ***
Capitolo 4: *** Ancora da Touya (per Vale) ***
Capitolo 5: *** Viola ***
Capitolo 6: *** Da un dannato ***
Capitolo 7: *** Bianca ***
Capitolo 8: *** Hotaru ***
Capitolo 9: *** Erba notturna ***



Capitolo 1
*** Fuoco ***


Senza nome 1

fuoco

Quando entrai in casa c’era ancora una fievole luce. Era il crepuscolo. Prima che il cielo diventasse buio non c’era la luce: il crepuscolo.

Tutti lo descrivono come l’intermezzo fra la luce e il buio, invece non era così: quando gli stormi di rondini erano ormai andati e l’inverno era profondo e angoscioso, il crepuscolo ospitava la vera essenza dell’animo umano. Gocce di luce non bastano a bagnare una pangea buia, ma si diluiscono con essa, per formare un nuovo colore, una nuova torbida lucentezza: la vita.

-Ehi, scherzo della natura! Come mai così presto a casa? Il cinese è morto? Yahoo!-.

Fu così che mi salutò mio fratello quando udì i miei passi nell’ingresso e la porta d’entrata che si chiudeva con un botto frastornante.

Non lo guardai nemmeno: sapevo che stava cucinando.

Corsi, corsi, corsi nella nebbia, nella fragranza del fiori ormai essiccati e fragili che abitavano la mia mente in quel momento.

Non sentivo il rumore dei miei passi, ma solo le lacrime che scorrevano nel mio corpo, che paradossalmente non facevano che inaridire ancora di più i miei tessuti.

Assopita in una fantasia floreale, foglia fraterna nei confronti del suo ramo.

La mia camera non era lontana, il letto era più duro del solito, scomodo e spigoloso. Come ossa umane.

-Sakura?-, mio fratello mi chiamò con il mestolo ancora in mano, probabilmente. Era preoccupato.

(Vieni vieni vieni vieni vieni vieni vieni)

Sento i tuoi passi…

Prometto a me stessa che non parlerò.

Giuro che non lo farò.

Non darmi ciò che voglio…

Languido come la protagonista di un quadro di Gauguin, eccoti sulla porta.

No, non posso.

Eccoti.

Non ce la faccio…

Avvicinati…

Spargiti come sabbia e sovrastami con le tue onde.

Orrore supremo, delizia malinconica.

Le mie lacrime si congiungono col nettare della vergogna.

-Che ti ha fatto?-. Sembri inquieto. Non devi… Non devi…

Come un’eco sognante, sono solo qualcosa, non sono tutto ma nemmeno niente. Sono un foglio accartocciato che non tornerà mai più liscio e perfetto.

-Sakura, io ti amo tanto, davvero, ma non puoi andare avanti così. A dire la verità… So che non dovrei ammetterlo, ma non fraintendermi: non mi fai schifo, è solo che… Insomma, è impressionante. E penso tu abbia capito che lo intendo in senso negativo. Ma tu non…-.

Allora gli facevo schifo, così mi aveva indirettamente detto Shaoran: aveva capito. Non che la cosa fosse provata solo da lui, anch’io ero disgustata, allibita, turbata, inquietata, smarrita, intimorita… E stanca.

Tutte le mie azioni, i miei sentimenti, tutti così sottintesi ed incomprensibili, caduchi ed interminabilmente sofferenti. Piangere mi aveva portata fin lì e non volevo sapere cosa mi stesse aspettando aldilà della staccionata.

-Sakura, quel cinese ti ha fatto qualcosa? Per favore, se è così dimmelo, perché…-.

La tentazione…

Di fronte ad ogni desiderio bisogna porsi questa domanda: che cosa accadrà se il mio desiderio sarà esaudito, e che cosa accadrà se non lo sarà? (Epicuro)

Io quella domanda me l’ero posta e avevo deciso che non ne valeva la pena. No. Nero Orrore, ecco che significava NO.

E’…

Difendimi… difenditi… Scappa via, via da me!

Invincibile.

-Sakura, rispondi!-. Mi percuoti piano. Le tue mani su di me sono dolci. Non mi hai mai abbracciata. Mai.

Apro gli occhi. E’ buio, ma ti vedo. Come sempre.

No, non chiedermi di parlare. Sento invadermi… da te… da te… da te…

Se parlassi sarei un’ipocrita, ma tacendo sarei una bugiarda.

Il tuo viso vicino, le tue labbra…

Ti bacio.

Dolce e impetuosa, il mio dardo che pensavo ti dovesse infuocare ha sbagliato la mira. E ora sono io che brucio, come aceto e sangue.

-Sei impazzita?-. Ti distacchi da me portando con te un pezzo di pelle delle mie labbra. Sento il sangue finalmente.

Così vicino, palpabile…

Così denso, cremoso…

Così oscuro, serpeggiante…

Così penetrante, soggiogante…

Così mio.

Come una musica gotica, mi affloscio in me stessa.

Questa sera morirò. Al crepuscolo.

Quando tu ti schiferai di me, quando mi sputerai addosso il tuo disprezzo e il tuo ribrezzo. Al crepuscolo.

Quando le candele infiammeranno il veleno dentro di me e il mondo saprà che cosa sono, che tipo di bestia sono diventata. Al crepuscolo.

Non ci sei più. Sei fuggito, forse pensi che io sia pazza, che Shaoran mi abbia fatta drogare.

Io ti ho baciato e questo mi basta, mi basta per scoprire che la morte non è altro che una cura, che un balsamo profumato.

E tutto finirà quando le mie mani impugneranno il mio collo.

Ecco… Non lo ricordavo così morbido e tenero…

Ecco… Sento il respiro bloccato e statico…

Ecco… Il sangue pulsa nel collo, ma mai più su, mai più.

Diventerò stella? Diventerò una costellazione quando morirò? Diventerò acqua, aria, terra? No.

Sarò fuoco, bruciante come la testa che sembra scoppiare, vuota di sangue. La pelle del cranio si dilata, si espande…

Scoppio.

Il rintocco si arresta.

Sono fuoco, brucio, avvampo… Al crepuscolo.

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Capitolo 2
*** Da Touya ***


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Capitolo 3
*** Grigio perla ***


Senza nome 1

Salve, sono francy91. Dato che qualcuno non ha ben compreso la trama di questa storia, ve la spiegherò il più chiaramente possibile.

Sakura ama Touya e glielo dice. Shaoran le dice quelle parole perché ha capito i sentimenti della ragazza nei confronti del fratello. Poi, Touya, dopo essere stato baciato, se ne va dalla stanza di Sakura, la quale tenta di strangolarsi per la vergogna e l’umiliazione, ma perde solo i sensi. La ragazza, però, non sa che anche Touya la ama, beh, a suo modo naturalmente (un modo molto ambiguo). Touya nasconde ciò che prova e dice a Sakura che i suoi sentimenti e quel bacio lo disgustano. Può risultare sconvolgente, ma è la cruda verità.

Questa storia verrà scritta da me (che interpreterò la parte di Sakura) e dalla venerabile Faffy (che, invece, sarà Touya).

Bene, ora che (spero) è tutto chiaro, buona lettura.

Come la colomba, serpeggiante di desiderio, che vola con le ali spiegate nel cielo perso e crudo; come la spezia orientale, potente, che provoca prolisso piacere; come la rugiada che, simile ad acido, brucia la mia candida pelle e mi trapassa, come una lama in uno specchio d’acqua, turgido e torbido di resti umani; come le nocche sulla porta quando aspetti la Morte: Sua Maestà Infernale raccoglierà trionfante le mie reliquie d’amore.

Comincio a brancolare nel buio…

Non c’è più spazio, non c’è più aria per cui vivere…

(… mi disgustano … mi disgustano … mi disgustano … mi)

Se vedessi la luce chiuderei gli occhi, se ascoltassi il canto delle allodole e degli usignoli serrerei le finestre, se percepissi il profumo dell’amore mi laverei con sangue e assenzio, per odorare di ferro tagliente.

Give me the redemption,

Yes I’m wrong, yes I’m right,

I just want to feel my soul beneath my feet.

My bleeding love is turning to madness.

It feels like heaven’s darkening

And hell’s whitening… softening…

Splendore fiabesco, come non anelarti? Come non desiderare che questo virginale rossore impallidisca fino a diventare pietra di luna? Come non essere tormentata dall’eco esasperante delle sue parole? Come non chiedere redenzione dei peccati commessi e agognati?

Quando amare significa scoprire la tenera pelle bagnata dalla luna e scorticata dall’aria davanti al pugnale argentato che, così simile al mio corpo, riflette il tuo crudele profilo, proprio in quel momento sarò sicura di amarti. E quel momento è arrivato.

I muscoli si contraggono il sangue riceve la sua contropartita di lacrime, che seccano le mie infide vene curve e le spine della…

Il campanello mi riscuote come campane vespertine, ossessive e insaziabili, rimpinguate dalle fedeli e caduche ed inutili e divine preghiere dei credenti, di coloro che portano le perle in croce, di coloro per cui la via della perdizione è un viale affollato di corpi nudi e pulsanti…

La mia fronte sanguina, come se una corona di spine mi consacrasse con il frutto della mia passione… Sento il denso liquido purpureo colarmi sugli occhi… Il sangue, lo stesso sangue che scorre nelle sue vene… Vorrei assaporarlo fino a sentire le mie viscere contorcersi insopportabilmente… Lo gusterò come la lupa affamata che sbrana il mite agnello… Ah, sì…

Paura. Della. Mia. Stessa. Coscienza.

Ormai inesistente, certo, ormai subdola e dall’ineffabile corruzione… Non si può negare, ormai preda del più sfrenato e incontrollabile inconscio.

Scendo le scale intrecciando sagome mute e suoni bui.

Come le cicatrici della notte,

come il bagliore vermiglio della perdizione,

come il gigante che porta la vergine rapita nelle sue grotte

pronto a saziare la sua sadica, violenta ossessione,

così l’amore morde la mia carne

infestata dai feroci, spietati, selvaggi insetti del peccato,

così l’amore inghiottisce le scarne

speranze di candore fuggito, strappato, sbranato.

La mia mente lavora, inserisce, elimina, taglia, cuce, copia, strappa, incolla, infrange, ripristina, collega e tesse delebili reprensioni.

E’ mattina. Le finestre riflettono il noioso e soffocante grigio delle nuvole che accecano il sole velato, dallo sguardo perso.

Le scale sembrano così numerose … così molteplici e fitte… Le scendo apaticamente, osservando i miei piedi muoversi come il sole a mezzogiorno, che sembra non spostarsi mai.

Appoggio il palmo caldo e sudato alla porta lignea, salatamente lucida e odorosa. La apro, finalmente.

-Ciao Sakura, ma non dovresti essere a scuola?-. Un sorriso disgustoso stampato in faccia, ecco Yukito.

Mille demoni ringhiano dentro di me con versi animaleschi, bestiali. Vedo corpi sudici strisciare sensualmente e mordere i loro stessi cuori con denti di ghiaccio e lingue di avorio… Odore di umido, sapore di amara dannazione…

E pensare che quel sorriso lo amavo qualche anno fa.

La gelosia contamina la mia mente sussurrandomi parole sporche e infangate e suggerendomi il peccato, striscia attorno a me per stringere poi la sua morsa vitale e infuocata; i suoi denti stimolano la mia pelle come piume che solleticano un organo stonato, le sue parole mi restituiscono il fantasma della realtà effimera, il suo gutturale canto dissimula la mia coscienza arenata… Abbandonata su quell’isola sperduta sussultante di cannibali: la terra del mordace vizio.

-Non stavo bene, allora non ci sono andata. Anche tu dovresti essere a scuola…-, constato infastidita, poggiando un braccio allo stipite della porta.

-Oggi la mia classe va in gita, ma io e tuo fratello non partecipiamo perché abbiamo da fare.-. Sta sogghignando con gli occhi rivolti altrove. Mi mordo l’interno della bocca, appena sotto il labbro inferiore.

Sciocco, sciocco, sciocco… Per colpa tua la mia felicità si è tramutata in umiliazione, per colpa tua ciò che avrebbe dovuto essere lucente è opaco e inconsistente. Ti ho amato sino a quel momento e me ne vergogno, mi odio e mi detesto per questo.

-Sono venuto per Touya. C’è?-, affermi guardando oltre le mie spalle per scorgere la vaga ombra di mio fratello.

Ti diverte? Il mio sguardo truce nei tuoi confronti provoca quell’insopportabile sorriso sornione? Davvero ti piace fissarmi, vestita di lividi? Godi veramente nel contemplare beatamente la mia sofferenza da te, oh sì, da te causata? Mi osservi con quegli occhi superbi perché hai ciò che anelo, possiedi le braccia che desidererei mie, contamini le labbra che io stessa ho toccato senza alcun pudore e con suo disprezzo, dardeggi la pelle porosa e oscura che bramo lacrimosamente.

-A quanto pare, no.-.

Sorridi. Sono solo immagini distorte della mia mente solo questo solo questo solo questo solo questo solo questo solo questo solo…

-Mmh, sarà andato a lavoro, non perde mai l’occasione di guadagnare qualcosa. Comunque sono venuto anche perché doveva darmi un CD. Sicuramente sarà nella sua camera, quindi se vuoi potresti…-.

-Certamente.-, taglio la sua frase.

Ascolto i violini stonati suonati con grazia, le corde si spezzano sotto il leggero e magico tocco dell’archetto.

Quelle impressioni sul suo sadico sorriso sono tutte false: sto impazzendo. Vedo le immagini che desidero aborrire, vedo le spine che voglio strappare dal mio corpo e vedo tutto così dolorosamente spento, come se fossi annebbiata da un respiro d’incenso.

Gli faccio cenno di aspettarmi nell’ingresso, salgo rapidamente le scale e sono subito davanti alla porta della stanza di mio fratello. È da tanto tempo che non vi entro, da quell’ultima volta.

Appena poggio la mano fredda e asciutta sul pomello della porta è inevitabile il flashback indesiderato.

Ricordo che avevo undici, forse dodici anni. Ero a casa da sola e stavo studiando in cucina, perché le pareti della mia camera erano appena state ridipinte di bianco e quindi non potevo entrarvi. Spesso Touya e Yukito studiavano insieme il pomeriggio dopo la scuola e quel giorno le cose non cambiarono. Appena giunsero a casa presero posto sulla parte del tavolo opposta alla mia. A quei tempi amavo Yukito, così invece di studiare lo contemplavo e sorridevo, beata dalla sua presenza. Ad un certo punto Touya sembrò infastidito e mi avvertì che sarebbero andati in camera sua per non disturbarmi. Ovviamente cercai di dissuaderlo, poiché non volevo essere privata della presenza di Yukito, ma non ci fu verso e così restai sola in cucina. Stavo studiando inglese e avrei dovuto tradurre un brano riguardante lady Diana, ma non ci riuscivo proprio: frasi che si accavallavano, parole che non conoscevo, tempi che non riuscivo a rendere in giapponese… Così pensai di chiedere aiuto a mio fratello, il che era anche una scusa per vedere Yukito, senza dubbio. Così arrivai davanti alla camera di Touya con in mano il libro d’inglese, il quaderno e la penna. Poggiai la mano sul pomello particolarmente freddo e…

I fuochi ardenti si contorcevano nell’aere umido di benzina che alimentava sempre di più quella folle fiamma.

Arsa viva da quel calore urlante e dal cupo ringhio maledetto, lasciai cadere a terra ciò che avevo in mano e mi afflosciai come una spada fra le fiamme. Il fumo del loro piacere si espanse retrocedendo, i gemiti e i sospiri scoppiarono per lasciare spazio alle punture inclementi del gelo.

Non oso ricordare oltre, rimembrare il romanticidio che stese un luttuoso velo nero sul mio amore.

Spalanco la porta. La stanza è buia, le persiane sono chiuse, ma dalle fessure regolari presenti su di esse filtra polvere d’alluminio, fumo perlaceo aleggia e mostra le labili ombre del letto e dei mobili.

Mi chiudo la porta alle spalle ed esploro con desiderio crescente la camera opalescente. Il letto è sfatto, le lenzuola sparse sul letto e anche a terra, formando morbide ed ondeggianti pieghe, simili a piaghe di pelle morta e cartacea. Il cuscino sembra nero a causa della penombra; lo prendo e sfilo la fodera: odora di lui, dei suoi capelli corvini, della sua pelle del colore della sabbia in un annacquato tramonto primaverile. La sostituirò con la federa del mio cuscino, appena se ne andrà Yukito.

All’improvviso, come una farfalla nera in un pozzo bianco, il mio occhio viene catturato dalla scrivania, più esposta alla luce rispetto al resto della stanza. Su di essa si posano cornici dure e solenni che racchiudono le foto di me e Touya da piccoli. Non è una novità, ci sono in tutte le stanze, ma le osservo lo stesso.

Una mi cattura particolarmente: ci sono io, a circa cinque anni, nel cortile di casa. Mio padre aveva appena comprato una piscina gonfiabile e io ero davanti ad essa, i piedi affondati nell’erba, le gambe magre leggermente divaricate, il ventre lievemente all’infuori, le braccia esili penzolanti. Il mio corpo non era né in posizione frontale né di profilo, ma il mio volto era puntato dritto verso la macchina fotografica. Nella foto indosso solo un paio di mutandine bianche di cotone e le mie gambe bianche sembrano risplendere di luce propria. Il volto è decorato da un mezzo sorriso e da uno sguardo davvero molto strano: gli occhi, strizzati per via del sole, si congiungono con le sopracciglia in modo da formare un’immagine orientalmente perfetta; sembro una piccola geisha o una danzatrice del ventre. Ricordo che quella foto fu fatta da Touya.

E ricordo anche che quel giorno sentii per la prima volta la parola sexy.

Me la disse lui.

Disse che, a cinque anni, vestita solo di mutandine e con uno sguardo penetrante, ero sexy.

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Capitolo 4
*** Ancora da Touya (per Vale) ***


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Capitolo 5
*** Viola ***


Senza nome 1

Well, memories will burn you.
Memories grow older as people can
They just get colder
Like sweet sixteen

(Billy Idol, Sweet Sixteen)

Ognuno ha il diritto di amare, di vedere un passerotto volare leggero quando un bacio toglie il fiato al vento, di sbattere le ali con capriccioso egoismo, per far diventare questo monotono io un noi.

Non tutti.

L’amore ultimamente viene ritenuto un dovere: non muoverti, posa il tuo gravoso peso su una pietra liscia e madida di pioggia, qualcuno passerà e ti porterà via al sicuro. Prima o poi verrà questa persona. Ora non c’è? Poco importa, attendi e la troverai…

NO.

Sono già caduta in questo errore, non lo farò più, mai più. E’ per questo che ho dichiarato a Touya ciò che provo per lui.

Avevo amato Shaoran, tanto. Le mie labbra erano state sue per la prima volta, lui mi aveva condotta verso una via sperduta, gentile e letale. Lo avevo amato davvero. Ma ora è diverso, è tutto così diverso, come me.

Io non ho il diritto di amare, non ho il diritto di sfiorare il cielo e di sentire la pelle muoversi sotto la scossa del vento: il mio amore è diverso, solo questo. Diverso… Vago, ambivalente…

Se potessi precipitare su nel cielo annegherei all’aria aperta nel viola. Viola come il pensiero, come l’ambiguità. Il viola infatti nasce dall’unione del rosso e del blu, attività e passività, bacio e sguardo, presente e passato, determinazione e nostalgia, non amore e odio, perché il rosso contiene in sé entrambi; invece il blu è l’interiorità, il misticismo, l’infinito racchiuso in un corpo, il chiaroscuro e il dolceamaro, l’obiettivo irraggiungibile e luminoso come una candela nello spazio. L’atavica metamorfosi.

La stanza è acquosa e umida, sento quasi le onde sbattermi sugli scogli. Quando fugace il vento entra dalla finestra, la mia pelle viene ancestralmente dipinta di gelo.

Perché non posso essere normale? Perché la tela su cui mi è stato ordinato di dipingere è troppo grande e i miei colori troppo pochi? Perché c’è solo una corda del mio violino che può essere suonata? Perché non ho scelta? Perché la mia anima è solo grigio perla e blu di Persia?

Come un canto ebraico durante il Pesach, la mia lingua si muove contro le setose e drappeggiate pareti della mia bocca, senza sapere cosa fare.

Amabile come un batuffolo di cotone, la sua voce mi raggiunge:

-Esco, cucina tu. Ah, papà oggi torna verso le dieci, perciò metti la sua cena nel forno così non si raffredda.-.

Questo c’era prima di me, sì, è già successo. Non sono certo la prima che ama proibitamente… No.

Ma questo non cambia le cose. Devo nascondermi per questo, devo chiudere gli occhi per far sì che la gente non guardi il peccato e rimanga pietrificata da tanta mostruosità.

Sono un mostro, detestabile spazzatura dei difetti umani, ineffabile stranezza ambigua e mastigofora.

O devo tentare? Devo tentare di cambiare la mia insana passione e di sostituirla con… con cosa? Non può essere sostituita se non dalla fuga, ma neanche quella mi farebbe espiare la mia colpa dannata e lacrimosa. Lacrimosa speranza di innocenza ed ingenuità, di sole perduto in un sogno oscuro, di selvaggia foresta invece di questa asfissiante stanza.

All’improvviso capisco: perché fuggire dalla realtà? E’ così bella… Bella come caos armonico, gentile come un cuore valoroso, feroce come una fiera sanguinaria, ma pur sempre innocente. E con innocenza lo conquisterò, se non ci sono riuscita con l’amore, lo farò con la passione innocente, che non fa male, non nuoce.

Cremosi, i miei pensieri sorridenti inghiottiscono l’angoscia e, almeno per un po’, vivrò il mio turpe sogno.

Sento la porta sbattere, non aspetta la mia risposta.

Chi dice che non baciare senza innocenza, sedurre senza ingenuità?

A costo di essere l’unica a farlo, mi taglierò le vene per far scorrere sulla mia pelle sangue viola, senza vergogna di essere diversa, senza rinnegare ciò che abita dentro di me.

Lievito subitaneamente dal letto e m’incammino verso il mio armadio; prendo della biancheria intima bianca e mi spoglio. Il mio corpo si confonde col tessuto candido, non capisco dove finisca la pelle e dove inizi la stoffa.

Il vento fa sbattere violentemente le finestre… Percepisco tutto istantaneamente, senza pensarci, senza comparare: non ho bisogno di similitudini, io sono ciò che vedo, sono ciò che sento, sono ciò che tocco con le mani e con la mente, lievemente e violentemente, bestialmente e angelicamente, in linee verticali, con perfetta armonia curva e obliqua.

Il letto è morbido sotto il mio corpo ricoperto solo di fine pelle, mentre un lampo ingiallisce il cielo, una pagina consumata e ammuffita.

Inquieta, abbandono la nudità e mi ricopro di monocromatico bianco.

-Troppo monotono.-, mormorò guardandomi allo specchio inclinato. Devo coprirmi con qualche altra cosa… Mi vengono in mente le zanzariere che mio padre conserva in attesa dell’estate. Poteva bastarne anche una.

Le trovo subito e le fisso: nere, delle rete fitte come i pori della pelle, come gli occhi che si affacciano sulla mia vita.

Mi circondo il busto con una di quelle reti, fermandola alla vita con un nastro bianco come i capelli della Fede, come il bambino che cerca la sua stella fra le onde del mare.

Mi costruisco la mia terra di ghiaccio che non si scioglie con l’amore, non si liquefa col fuoco, ma con altro ghiaccio ed altra neve, altro gelo ed altre stelle bianche. Equilibrio che emana armonia… come una melodia incantevole e fiabesca.

Scendo le scale con rinnovata purezza; non sempre il bianco è il colore della salvezza, ma di una cosa sono sicura: l’oblio in cui sto cadendo non è oscuro, è perdizione, sì, ma bianca come una civetta delle nevi, come una tigre siberiana, feroce, seducente, sacra, vergine e profana.

Questo mio dilettevole abbandono è santo e implacabile, innato, istintivo, primordiale, immortale, non è nato prima del mondo perché è il mondo stesso, è l’idea di lui, la sensibilità del tocco del vento contro Atlante, il mondo che vacilla e trema, il mondo che cade, il mondo che crolla sulle fila del vento, unico dominatore delle forze, vincitore della dipartita di cielo e terra, angelo interiore che anche noi possiamo risvegliare, sola entità vincitrice e vinta.

Soffio di vita e di salvezza, Eden incontrastato sulla Terra, speranza perduta, anima di innocente, ninnananna aleatoria.

Mi stendo lentissimamente sul divano.

Sono diversa, sono bianca nell’oscurità, sono sorridente nella depressione, sono innocente nel peccato. Nessuna colpa da espiare: se Dio vuole amore, che amore sia: fraterno, passionale, materno, eretico, estatico, imperfetto, indeciso, pazzo, impossibile, indesiderato, agognato, ricercato, predetto, impressionato, scoperto, tradito, contrastato, implacabile, stanco, obbligato, sconveniente, scandaloso, disumano, violento, lacrimoso, indomabile, creduto, mentito, sparito, vittorioso, sempreverde, appassito, sconfitto… E’ amore e nessuno può negarlo. L’amore non porta mai nulla di nocivo.

Non mi accorgo del tempo che scorre, sei già arrivato. Sento le chiavi nella serratura e subito la porta si chiude. Tutto scorre velocemente, ma con dolcezza, senza sollecitudine o fretta. Sei qui.

-Sono tornato.-, urli.

Io rimango ferma. Cosa farai quando mi vedrai così? Cosa penserai? Io sono una nuvola, volo leggera e muto grazie al vento, bacio il vento e lo abbraccio, fra i suoi schiaffi e le sue carezze.

I tuoi passi si avvicinano, chiudo gli occhi e poggio la testa sul bracciolo.

Sento l’aria muoversi, trasparente ma così palpabile, fonte di vita e respiro. Percepisco tutto, senza filtri: è l’aria che mi guida, il soffio consistente e inafferrabile di un sospiro altisonante.

Sei arrivato. Sento i tuoi passi fermarsi e il vento che giocava nella stanza ora ricade sul pavimento, tenue e vaporoso.

I tuoi occhi trapassano l’aria e mi colpiscono, lo sento. Sei furioso, iracondo, collerico, infuriato… Ma non m’importa, io ti amo.

-Ti amo.-, sussurro ancora ad occhi chiusi. Sembro in estasi mistica, come quelle sacerdotesse, le Pizie, che andavano in trance e comunicavano con il proprio dio. Io comunico con Eolo dai dodici figli, sei maschi e sei femmine che si unirono fra loro. Forse io e Touya siamo figli di Eolo, siamo la settima figlia e il settimo figlio non riconosciuti. Destinati a isole serene e libere, come il vento.

-Ti amo davvero… Non so perché, ma è così. Voglio essere assoluta per una volta, sciolta da convenzione e regole da altri definite. Io ti amo.-, sorrido.

Le tue mani mi stringono il collo, mi tiri i capelli…

-Non hai capito niente. È inutile che ti impegni tanto con questa tua mania. Cosa farai domani? Ti piazzerai sul marciapiede dove cammino io e ti struscerai contro il primo palo che trovi? Oppure mi metterai sul piatto le tue mutandine? O che altro, verrai a scuola vestita da coniglietta di Playboy? Smettila, sei patetica.-.

Parole scivolose e inconsistenti, mentre le tue mani ruvide mi costringono ad alzarmi.

-Smettila, smettila, SMETTILA. Non ti servirà a niente tutta questa messa in scena. Sei disgustosa, schifosa, orrenda.-.

Apro gli occhi: una colomba vola in diagonale verso l’alto. Forse sta andando in paradiso, sta sporcando il suo candore con l’impermeabile viola del cielo. Addio, colomba. Addio.

Addio…

Mig vaknar draum-haf
mitt hjartað, slá
úfið hár.
Sturlun við fjar-óð
sem skyldu-skrá.
og hér ert þú
fannst mér.....
og hér ert þú
Glósóli.....

(Sigur Ros, Glòsòli)

(Traduzione:

Mi sveglio da un incubo.
Il mio cuore batte
fuori controllo…
Mi sono cosi abituato a questa follia
che ora non ne posso fare a meno
Eccoti...
Sento...
Eccoti...
Raggio di sole...
Eccoti...
Raggio di sole...
Eccoti...
Raggio di sole...)

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Capitolo 6
*** Da un dannato ***


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Capitolo 7
*** Bianca ***


Senza nome 1

Fiore

d’argento chiaro.

Fiore bello.

Fiore incastonato nelle mie membra putrefatte.

Fiore melodico, innamorato, perso.

Fiore ignaro come un’infantile melodia notturna.

Fiore spezzato, sventrato, decaduto, impigliato fra le nostre stesse ossa, muori solo per far rinascere mille altri fiori, sacrificio estatico e leggendario, lacrima lieta, lieve lamento, grazia ingrata, gradito gracidio.

Fiore, non abbandonarmi nell’acqua tiepida e gentile, portami là dove il cielo è perso, i rami oscuri, i laghi oblii infiniti, i sospiri gemiti di dolore, il vento spasimo dell’aere ferito, il Paradiso mera smania folle: lì ci sarà anche lui, il mio sangue, le mie ossa, LUI. Sarà lui ad illuminare il mio turpe cammino, sarà lui a scostare i violenti e lesivi rami, sarà lui a guadare insieme a me i laghi e ad attraversarli a bordo del presente fiorito, sarà lui a sfiorare le corde di questa mia dolente arpa, sarà lui a baciare i respiri estinti e caduchi per ridonar loro forza, sarà lui, infine, a sorgere e a creare la perfezione di un atto compiuto e continuo, a circondarmi con i suoi caldi raggi, a far fiorire il secco stelo che ci unisce, a farmi dimenticare l’inferno che in realtà siamo e che più di ogni altra cosa anelo.

Non voglio un Paradiso creato da altri a disposizione di tutti, desidero il nostro regno, egoisticamente nostro.

Non amo Dio.

Amo lui.

Le sue tremanti labbra si posano sulle mie, sussultanti. Il suo respiro, essenza ancestrale, lambisce il mio viso e lo accarezza con immonda delicatezza.

Questo è il mio respiro, è la stessa aria che entra nei polmoni e nel mio sangue e… Oh, lo stesso sangue, lo stesso sangue!

Chi ama si illude di formare con l’altro un unico corpo. Anche chi ama davvero, per così dire. Ma noi, noi possiamo pensarlo davvero! Non è un’illusione, non è un drammatico sogno che ci lascerà impietriti e sperduti! No, no no! È tutto vero, così lapalissianamente vero, così reale in un modo tanto emozionante da sciogliere la mia felicità in lacrime, lacrime che non fanno che accrescerla!

Lo stesso sangue… La stessa tonalità di rosso tramonto, lo stesso ritmo di battiti, le stesse ossa, immortali, indelebili, costanti, crescenti… Sì, questa è la vera felicità: io e te, amore mio, io e te siamo un solo corpo, un solo brivido, una sola inscindibile entità spirituale. Alacremente, noi veniamo da lontano, dalla terra in cui questo è possibile, nello sperduto ma così vicino luogo dell’incantevole perdizione, dell’angusta armonia. Ritorneremo lì e il nostro sangue finalmente si riunirà. Per sempre.

Apro gli occhi e, oh, anche tu li hai aperti. Probabilmente non li hai mai chiusi, sì. Sono vicinissimi, scuri come la notte che ci inghiottirà perché siamo troppo liberi per dipendere dalla luce.

Sento le chiavi girare nella toppa… Stiamo entrando in casa e tu mi baci ancora, illumini ancora il buio vivido dei tuoi occhi con le tue labbra. Enfatico, estatico.

La porta si apre con un cigolio mentre l’adrenalina mi costringe dolcemente a chiudere gli occhi, a osservare finalmente la tua vera essenza.

Sento il tuo corpo più vicino al mio, sento il calore dell’amore, del coraggio, della pazzia e del peccato.

Con questo mio angelico tocco…

Le tue mani accanto al mio collo mi solleticano la pelle con la delicatezza di una farfalla morta che tramonta sullo specchio di un lago eternamente violaceo e putrido, ma liscio e benefico al tocco.

… Ti battezzo mio…

I tuoi capelli, come corvi che barbaramente strappano aggressivamente le carni di un agnello, vittima sacrificale in onore di un crudele dio, accarezzano la mia fronte con fervore, pungono la mia pelle con irruenza leonina, scorticano le mie membra assetate di vita con deturpante alienazione.

… Nel nome…

Le tue labbra, ovattate mezzelune di ghiaccio, giacciono potenti sulle mie, mentre due lune nuove dominano empiamente l’Urano notturno mordendo piano le mie candide labbra perlacee, opaline come i tuoi marmorei denti che si macchiano del nostro sangue, che assorbono il mio fluido vitale per poi ridonarmelo, prezioso e sacrilego, con opalescente avorio e con rose bianche, cristalline, di neve ricoperte, senza sconcezza alcuna.

… Del nostro amore, più eterno, atavico, innocente, misericordioso di qualsiasi dio; più sporco, sprezzante, vergognoso, ignominioso di qualsiasi diavolo.

-Siamo tornati!-, urli nell’ingresso.

-Oh, ciao ragazzi! Stavo proprio per apparecchiare. Raggiungetemi qui in cucina appena finite di lavarvi le mani!-. Voce lontana, sussurro dei muri.

Sali le scale rapidamente.

Lontano da me, distante… Perché quell’interminabile momento è terminato? Perché la tua figura s’insinua fra meandri che ti portano sempre più lontano da me?

Sciocca, sciocca, sciocca: non desiderare il buio quando è già tuo! Non guardare la luce agognando l’oscurità, perché ti basta chiudere gli occhi per vivere! Ti basta morire per un attimo per vivere tutta la tua vita, un solo istante… Fuggente, sì, ma elettricamente folle nel suo pazzo e continuo movimento rotatorio. Allora chiudi gli occhi e accarezza l’elegante soffio di vento guidato da mille squilibrati: è questa l’aria che respiri, questo lo spirito di cui sei fatta, questa l’essenza vitale che vibra sotto la tua pelle! Non rinnegarla, non essere il tuo stesso boia.

Mi dirigo svelta verso la cucina e mi lavo le mani nel lavandino, sorridente e rinfrancata.

-Ti vedo allegra.-, constata mio padre.

-Mmh?-, mugugno distratta, al che lui ride divertito e mi accarezza la testa scompigliandomi i capelli.

Chissà, in questo momento cosa starà facendo? Magari è in camera sua e ha la testa poggiata sul cuscino su cui si sono posate le mie dita.

-Quando ci sarà l’incontro scuola – famiglia?-, chiede mio padre con interesse.

-Mmh? Non lo so.-, rispondo ancora assorta, asciugandomi le mani con uno strofinaccio.

E forse sta guardando la mia foto, sì, quella in cui avevo cinque anni. E sta sorridendo pensando a quanto sono cambiata… Sì! La sta prendendo in mano e la sta osservando da vicino. Il suo respiro fa appannare il vetro che custodisce la mia ripudiata verginità.

Verginità, verginità, perché mi lasci? Dove vai tu?
Mai più tornerò da te, mai più tornerò.

(Saffo, frammento 114)

Ti ho abbandonata, malinconica compagna di tante avventure, ti ho rifiutata, respinta, rinnegata, sconfessata… Ma non me ne pento. Amore e verginità non possono convivere, non possono incrociare i propri affilati sguardi, perché il primo con il suo fuoco ardente e il suo vento tempestoso la incendia senza scampo alcuno; la seconda, invece, rischia di pietrificarlo e di ricoprirlo di pallida neve, perpetua ma soffice.

Non piangere, piccola dea vestita di bianco, non gelare le tue bianche guance con lacrime di rimpianto: le ninnananne delicate hanno accompagnato la mia bianca infanzia, ma ora questa neve deve sciogliersi in mille pianti di rugiada gelida e salata.

Ti ho persa per sempre, mia tenera amica, ma sii felice per me, sii lieta, perché solo gli essere umani possono conoscere entrambe le facce della medaglia: voi dèi siete immortali, potete fare ciò che noi non possiamo concludere in un’unica vita; siete immuni da qualsiasi dolore fisico, perchè solo l’uomo è soggetto alla sofferenza; siete soprattutto esenti da qualsiasi morale, perché siete voi che la create, siete voi che scrivete regole opportuniste e lucrose solo per voi stessi. Ma noi esseri umani conosciamo l’Ignoranza e la Sapienza, la Bellezza e la Ripugnanza, l’Orgoglio e la Vergogna, il Rigore e la Trasgressione, il Terrore e la Pace, le Stelle e l’Abisso, il sapore agrodolce della Violenza e della Soavità. Voi non conoscerete mai il chiaroscuro che voi stessi avete dipinto, esonerati dal peccato e da ogni suo piacere.

-Sakura, che avete fatto oggi a scuola?-.

Sento la mia testa percossa da quelle parole così distinte nella limpidezza della mia mente e mi risveglio dal torpore in cui ero caduta mentre sedevo a tavola.

Intanto noto che Touya è già qui e mi sta guardando mentre tiene in mano in precario equilibrio le bacchette lisce.

-Ehm… Bene, stancante da un certo punto di vista… Cioè, insomma, volevo dire… Sì, che mi sono stancata, sì. Beh, per educazione fisica, no? Per cos’altro, se no? Eh? Spossante, ma comunque piacevole. Perché educazione fisica mi piace… insomma… cioè…-. Sto arrancando. Senza accorgermene comincio ad indirizzare sguardi disperati a Touya, che alza un sopracciglio e fa un mezzo sorriso. Com’è bello… La sua pelle color legno che produce un morbido contrasto esotico con il bianco pallore degli occhi. E poi le sue iridi, onice pura. Si dice che l’onice sia nata dalle unghie di Venere tagliate per dispetto da Cupido.

Nera onice, figlia del contrasto fra amore e bellezza, incanto del…

-Sakura, secondo me hai ancora l’influenza. Sei sicura che sia stata una buona idea andare a scuola oggi?-, mi interrompe ancora una volta mio padre.

-Tutto bene.-, taglio corto esasperata, alzandomi dopo aver messo il piatto nel lavandino.

-Vado a letto, sono davvero stanca.-, affermo prima che mi faccia un’altra domanda. Faccio in tempo a vedere mio padre mentre si stringe nelle spalle e sono sulle scale. Vedo la porta della sua camera. Senza pensarci entro e mi chiudo la porta alle mie spalle. Osservo con attenta meraviglia l’obliqua oscurità e cammino lentissimamente sul parquet levigato e scivoloso poggiando prima la punta dei piedi e poi i talloni, come una graziosa ballerina ghiacciata che affonda nel sole.

Accarezzo le lenzuola fredde e un po’ ruvide e subito un fremito fa danzare le mie tenere membra: il suo letto, suo per sempre.

Mi stendo con calma sempre maggiore in un tempo assurdamente prolisso per l’umile azione che sto compiendo. Appena poggio la testa sul cuscino e i miei capelli si spargono ai lati del mio viso come un angelo che precipita giù dalle nuvole più alte e beate, ecco la porta che si apre.

-Sapevo che saresti venuta.-, sorridi.

-Non pensi di essere stata troppo spazientita con papà?-, commenti con voce soave mentre chiudi la porta con calma.

-Più che spazientita direi egoista. Comunque sì, lo so, e mi dispiace… Ma non posso resistere.-, spiego tutto d’un fiato tormenta domi con la lingua il taglio ferroso che mi hai provocato sul labbro inferiore con i tuoi denti. La serratura scatta una volta e ti volti verso di me, ma poi ci ripensi e giri la chiave verso il lato contrario.

-Così sarà più divertente.-.

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Capitolo 8
*** Hotaru ***


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Capitolo 9
*** Erba notturna ***


Senza nome 1

Vivi ogni attimo e questo non sarà mai l'ultimo.

Akira Kurosawa

 

Rimani, come le onde fragorose e odorose. Rimani ancora, come questi forti alberi immortali, frutti di un seme ricco e vero. Rimani immobile sul mio viso, come questo roteante soffio di vento che uggioso sparge e semina fuoco sulla mia pelle.

-Sai, a volte quando sono con te mi sento un pedofilo.-, sussurri laconicamente erotico.

Morbosamente mi fissi con lo sguardo scuro e luminoso del nostro mistero, astro invisibile e buio, troppo lontano lui per poter essere ammirato e troppo disattenti noi per notarlo. Inquietante questo cielo spinato che ci circonda pretenzioso, confusionarie le tue dita sul mio viso…

Il sole illumina le tue oscure piume da corvo producendo riflessi grigio scuro e color fumo, mentre la mia inettitudine di fronte al sole ed al tuo volto fertile e terreno non fa che acuirsi sempre di più.

La mia croce, la tua croce, brucia riflettendo i criptici raggi di un sole plumbeo, madreperlato, ombroso, malinconico; pare uno specchio in cui le nuvole che ci celano all’astro primato si gonfiano fino ad inghiottire il tuo bruno petto.

Eppure questo paesaggio è triste, cadente, piangente, come quei salici che spiccano, eleganti e viziati come una frivola e leziosa ragazzina vagamente donna, essenzialmente bambina; lo stesso salice i cui rami ospitarono le vergini e candide vesti di Aretusa prima che s’immergesse letteralmente nelle vitree acque del suo amato e sconosciuto Alfeo. I cipressi, avvolti nel loro confortante apollineo mantello verde, piangono le loro principesche lacrime di una sfumatura più cupa dell’erboso colore dei miei occhi. Una luna mattutina e sfumata affiora da una goccia celeste di questo cielo ruvido e voluminoso.

E’ tutto così oziosamente oscuro… L’ombra dei tuoi spessi e pesanti capelli sul mio viso fragile e delirante è più rassicurante di qualsiasi foglia immortale, di qualsiasi ramo fruttifero e selvaggio, di qualsiasi albero sostenitore dei mali della Terra, questa Terra che nessuno conosce e dei cui orrendi difetti solo noi godiamo: puri in acque torbide, intoccabili, insaziati dal fango che golosamente ingoiamo, dai vermi che ci calpestano senza rispetto né pietà. Sì, persino gli insetti ci disprezzano, troppo occupati nel costruirsi una casta, una tribù di cui rispettare regole varate dai più saggi e avviliti, dai più stanchi della vita tanto da renderla salata e amare anche per coloro che non sono altro che terra, che mangiano la polvere, che vivono in miseria, che seminano scandalo, che sputano su erba profumata e accessibile per ungere la loro turpe pelle con olezzi oleosi e marci baci.

Schiacciateci, oltraggiateci, umiliateci: preferiamo nutrirci di arboree lacrime miste a sterco ammuffito piuttosto che usufruire di una falsa rugiada  proveniente da petali taglienti e fiori cannibali.

Un melanconico cuscino di nuvole acceca il sole, il suo splendente nitore.

-It’s going to rain, kids! Be careful.-.

La tua mandibola scatta, il viso virile si gira, veloce, verso la ventosa voce di Wendy, la dolce e giovanile madre della famiglia presso cui alloggiamo. Il tuo collo si tende, si stende, attende… Oh…

-Don’t worry, Mrs. Brothster, we love rain. We can stay here, in Japan we used to go walking when it rained. It’s a… tradition. Thanks, anyway.-.

-Cos’ha detto? Cos’hai detto? Eh?-.

La curiosità non è minore della meraviglia, pur essendone figlia e sposa. Attendendo la tua risposta, ti osservo; un punto nero, un frammento di onice, unghia di Venere… No, due gemme notturne, due germi vespertini che mi cingono, mi attraggono, mi circondano, mi pugnalano, redimono  la mia voluttà. Non mi tentare, amore mio, non mi stringere il cuore, non lo arpionare con le tue scaltre dita.

Fallo, fallo, fallo…

Le tue pupille sono ritornate, infestano un’altra volta il fertile prato dei miei occhi, fiamme di cloro bruciano il tuo cupo e tenebroso inchiostro, lo incendiano, fuori controllo, sfrenati, incandescenti. Grinze sul mio cuore, stonate e raschianti, artificiali, opache e doloranti: mi strozzi il cuore, lo privi di aria pura, risucchi compiaciuto la mia anima, mi annulli, mi azzeri in zolle di cenere zampillante, come un piromane disperato. Ancora il mio cuore, ancora!

Fallo fallo fallo fallo fallo fallo.

-Niente, la puttanella, il Golem e Paperino ci lasciano soli, finalmente.-, bisbigli accarezzandoti il labbro inferiore e gettando gli occhi sotto il mio mento.

-Non parlare così della signora Brosher, del signor Bruffer e di Jerry! Sono molto gentili con noi e…-.

-Be’, almeno ne hai azzeccato uno su tre. Si chiamano Brothster.-, puntualizzi al mio sguardo perplesso, mentre strizzo l’occhio sinistro per un ciuffo di capelli entratovi. Cautamente, il dito prima poggiato sul labbro mi carezza la palpebra, rotatorio e sensuale.

-Troppe consonanti.-, borbotto imbronciata.

La tua mano, fredda e sudata, mi storce un orecchio per scherzo, facendo defluire quel momento di delirio (mio) e di compiacenza (tua) in un’allegra e frivola leggerenza cangiante.

Sento i coniugi che ci ospitano e il loro bambino, Jerry, raccogliere in movimenti stanchi e incoerenti con la voce festosa di Wendy le tovaglie a scacchi stese sull’erba fradicia, le sfrigolanti buste bianche per la spazzatura diligentemente piene, la guida per le campagne, i centri d’ippica e gli agriturismi nei dintorni di Stecin, dove alloggiamo nei fine settimana, il cestino di vimini per il pranzo e il barbecue portatile sporco di Ketchup; percepisco accanto a noi i passi lievi e rasenti di qualcuno e, voltandomi, scorgo il piccolo Brothster, la sua chioma castana, tanto lignea da ricordarmi quella di Shaoran con sorprendente angoscia, quasi del tutto ottenebrata dal cappuccio arancione della giacca a vento datagli con calore e preoccupazione dalla mamma, il viso sempre contratto, come se combattesse perennemente con un sole invisibile posto da un dio maligno davanti ai suoi occhi grandi e scuri da bimbo, o come se fosse eternamente impegnato in un pianto perpetuo.

Ci voltiamo verso quell’ombra grigia nel cielo cinereo e sull’erba plumbea, improvvisamente accesa d’arancio, e aspettiamo che apra quella piega, una delle tante nella sua espressione uggiosa.

-Now you’re alone. Screw in peace.- (trad.: ora siete soli. Scopate in pace).

Touya sporge le labbra e aggrotta le sopracciglia, pensieroso e… divertito, in maniera oltremodo sconsiderata, a giudicare dal sorriso furiosamente angelico che gli balena sul viso, accartocciando la sua perfetta espressione rilassata. Dal canto mio, non capisco cos’abbia detto quel ragazzino dalla pelle argentea e lentigginosa per far reagire in tal modo mio fr… Touya. Touya, Touya, Touya.

-Mind you own fucking business.- (trad.: fatti i cazzi tuoi).

-Cosa gli hai detto? Che sta succedendo?-, bisbiglio al tuo orecchio parzialmente nascosto dalle piume corvine della tua notturna capigliatura. Palpito, non capisco cosa stia accadendo, le mie pupille rimbalzano nell’angusto spazio delineato dalle palpebre, vorrebbero schizzare fuori come macigni che scivolano da una rupe, sono biglie metalliche e brillanti attratte dalla tua mente, desiderano ardentemente varcare le porte adornate della tua testa, comprendere ogni tuo cambiamento di espressione, ogni grinza tura del tuo viso, ogni distensione muscolare, ogni flessione articolare, ogni gioco di palpebra, pregustare ogni tuo impulso, essere trasportata di sinapsi in sinapsi dai tuoi stimoli, baciare la tua pelle come piastrine delicate, penetrare ogni tua membrana, conoscere e assaporare ogni residuo di citoplasma, piegarsi e accomodarsi in ogni tuo organulo, insinuarsi fra i legami misteriosi dei tuoi atomi, per poi rifluire nel fluviale flusso ematico, accarezzare con leggiadria le pareti dei tuoi vasi sanguigni, solleticandole e abbandonandomi alle tue viscere.

Ma tu non rispondi, ignori la mia domanda, ancora concentrato a fissare quell’undicenne (sì, quando ci siamo presentati ha detto I’m thirteen, cioè che ha undici anni, no? Anche Touya ha annuito e poi ha ridacchiato quando gli ho fatto notare ciò che avevo capito…); sembra vagamente la scena di un film western, manca solamente la polvere secca in nuvole opprimenti, sostituita dalla pioggia fina e fitta che picchietta sui miei capelli sciolti.

-You’re just two rotten bogs...- (trad.: siete solo due cessi schifosi), bisbiglia Jerry voltandosi.

-Jerry, come here! You’ll catch a cold!-, (trad.: Jerry, vieni qui! Prenderai il raffreddore!), urla Wendy dal finestrino del passeggero.

Che sorriso tagliente, amore mio. Come un dio greco, come un’entità vendicatrice e superba, il tuo sorriso si flette come una lama affilata, come il coltello folle di un sanguinario assassino.

Agitiamo contemporaneamente la mano per salutare la nostra famiglia inglese, che aspetterà in auto finché non finirà di piovere – questione di minuti, come dice sempre Wendy – mentre io e Touya rimaniamo seduti sull’erba acquosa, su questo letto di alghe palpitanti e accoglienti.

-Troia.-, sussurri trionfante.

-Smettila di prenderla in giro! È una donna fantastica, non puoi trattarla in questo modo.-, commento bruscamente, tirandoti con forza un piccolo ciuffo di capelli dietro la nuca rugosa e soffice e facendoti ritirare il capo all’indietro. In questa posizione mi osservi con gli occhi socchiusi, sensuali e lascivi, scioccanti. Come minuscole mezzelune orizzontali, nuove e fondenti, le tue pupille mi fissano, mi circondano, avvolgono il mio corpo, accentrano i miei margini e rimodellano la mia figura, ammorbidendo le creste vesp…

Le tue labbra bagnate, fradicie di pioggia, pure e straripanti di umore, innaffiano le mie, le fertilizzano, le fecondano, creano miracoli scoppiettanti, turbinii di cellule, vita. Ritmo, note, musica, pennello, penna, violino, corda, archetto, tavolozza, tela, calamaio, tastiera, disco, costellazione cromatica, pulsione fonetica, orgasmo grafico, furia tattile, ovattata fiamma d’ispirazione. Sei come arte per me, mi ravvivi con il legno bagnato del tuo corpo, mi inaridisci come Scirocco, mi sazi con le labbra, mi impregni di denso liquido vitale con le tue guance, mi avviluppi mortalmente, mi privi d’aria e me la rendi con immensa misericordia, gonfi la mia disperazione per poi sminuirla, adorni l’incuria del mio spirito e lo nutri di imprescindibili carezze incessanti. Sei il mio periferico organo vitale, il guscio immortale della mia anima, il sospiro che arricchisce ogni respiro di significati dolceamari, acri e spiritosi.

-Ma sai almeno qualcosa, una cosa, d’inglese?-, ridi esasperato e pazzo. Pazzo, folle, scellerato, con quello sguardo tutt’altro che limpido, ma torbido, schiumoso e indecente. Il ciuffo che prima ti stringevo ora è libero, le mie mani scivolano sulle tue spalle; nonostante la liberazione, non sposti il viso, mi scruti ancora da quella mezzaluna magistralmente intagliata in porcellana olivastra, assolata, selvaggia.

-Certo!-. Mi sollevo, costringendo anche te ad alzarti, e inizio a piroettare attorno al tuo tronco, accarezzo i tuoi rami umidi e ti sfioro le fronde cospicue e copiose, intonando:

-I’m singin’ in the rain, just singin’ in the rain! What a glorious feelin’… I’m happy again!-.

Che delicatezza, che… bellezza, semplice, grezza e vera. Pura bellezza, bellezza pura! Oh, acqua volubile e serafica, salvatrice delle mie membra disseccate, depuratrice! Uccidi, schiaccia, polverizza i vermi ipocriti che ci calpestano, scioglici da questo dolore, dissolvi in acido i loro corpi e, con essi, fertilizza la nostra passione! Liberaci dal male! Viola, grigio, bianco… Mischia il mischiato e il mischiabile, lasciaci soli nel nostro putridume, nel marciume che ci ricopre, nella muffa benefica che ci permea!

Trionfa, lordura!

Trionfa, sporcizia!

Trionfa, amore!

 

O dolore! O dolore! Il Tempo si mangia la vita,

e l’oscuro Nemico che ci rode il cuore

cresce e si fortifica col sangue che noi perdiamo!

(Charles Baudelaire, Fiori del male, X)

 

Nel cielo scoppia un turbine di stelle che si riflette sul tuo tenero viso e, come prima ha iniziato a piovere, così finisce.

Come prima tutto è iniziato, così finisce.

 

Non è tutto tenero ciò che si semina,

come petali di rosa, dopo poco termina;

quel che il cielo riflette son solo dolcezze,

mentre noi, bagnati, siamo in preda alle brezze.

Ci dilaniano, turpi, gli insetti epuranti,

ci perdiamo, noi, naufragando distanti.

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