Al crepuscolo di francy91 (/viewuser.php?uid=10566)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuoco ***
Capitolo 2: *** Da Touya ***
Capitolo 3: *** Grigio perla ***
Capitolo 4: *** Ancora da Touya (per Vale) ***
Capitolo 5: *** Viola ***
Capitolo 6: *** Da un dannato ***
Capitolo 7: *** Bianca ***
Capitolo 8: *** Hotaru ***
Capitolo 9: *** Erba notturna ***
Capitolo 1 *** Fuoco ***
Senza nome 1
fuoco
Quando entrai in casa c’era ancora una fievole luce. Era il crepuscolo. Prima
che il cielo diventasse buio non c’era la luce: il crepuscolo.
Tutti lo descrivono come l’intermezzo fra la luce e il buio, invece non era
così: quando gli stormi di rondini erano ormai andati e l’inverno era profondo e
angoscioso, il crepuscolo ospitava la vera essenza dell’animo umano. Gocce di
luce non bastano a bagnare una pangea buia, ma si diluiscono con essa, per
formare un nuovo colore, una nuova torbida lucentezza: la vita.
-Ehi, scherzo della natura! Come mai così presto a casa? Il cinese è morto?
Yahoo!-.
Fu così che mi salutò mio fratello quando udì i miei passi nell’ingresso e la
porta d’entrata che si chiudeva con un botto frastornante.
Non lo guardai nemmeno: sapevo che stava cucinando.
Corsi, corsi, corsi nella nebbia, nella fragranza del fiori ormai essiccati e
fragili che abitavano la mia mente in quel momento.
Non sentivo il rumore dei miei passi, ma solo le lacrime che scorrevano nel mio
corpo, che paradossalmente non facevano che inaridire ancora di più i miei
tessuti.
Assopita in una fantasia floreale, foglia fraterna nei confronti del suo ramo.
La mia camera non era lontana, il letto era più duro del solito, scomodo e
spigoloso. Come ossa umane.
-Sakura?-, mio fratello mi chiamò con il mestolo ancora in mano, probabilmente.
Era preoccupato.
(Vieni vieni vieni vieni vieni vieni vieni)
Sento i tuoi passi…
Prometto a me stessa che non parlerò.
Giuro che non lo farò.
Non darmi ciò che voglio…
Languido come la protagonista di un quadro di Gauguin, eccoti sulla porta.
No, non posso.
Eccoti.
Non ce la faccio…
Avvicinati…
Spargiti come sabbia e sovrastami con le tue onde.
Orrore supremo, delizia malinconica.
Le mie lacrime si congiungono col nettare della vergogna.
-Che ti ha fatto?-. Sembri inquieto. Non devi… Non devi…
Come un’eco sognante, sono solo qualcosa, non sono tutto ma nemmeno niente. Sono
un foglio accartocciato che non tornerà mai più liscio e perfetto.
-Sakura, io ti amo tanto, davvero, ma non puoi andare avanti così. A dire la
verità… So che non dovrei ammetterlo, ma non fraintendermi: non mi fai schifo, è
solo che… Insomma, è impressionante. E penso tu abbia capito che lo intendo in
senso negativo. Ma tu non…-.
Allora gli facevo schifo, così mi aveva indirettamente detto Shaoran: aveva
capito. Non che la cosa fosse provata solo da lui, anch’io ero disgustata,
allibita, turbata, inquietata, smarrita, intimorita… E stanca.
Tutte le mie azioni, i miei sentimenti, tutti così sottintesi ed
incomprensibili, caduchi ed interminabilmente sofferenti. Piangere mi aveva
portata fin lì e non volevo sapere cosa mi stesse aspettando aldilà della
staccionata.
-Sakura, quel cinese ti ha fatto qualcosa? Per favore, se è così dimmelo,
perché…-.
La tentazione…
Di fronte ad ogni desiderio bisogna porsi questa domanda: che cosa accadrà se il
mio desiderio sarà esaudito, e che cosa accadrà se non lo sarà? (Epicuro)
Io quella domanda me l’ero posta e avevo deciso che non ne valeva la pena. No.
Nero Orrore, ecco che significava NO.
E’…
Difendimi… difenditi… Scappa via, via da me!
Invincibile.
-Sakura, rispondi!-. Mi percuoti piano. Le tue mani su di me sono dolci. Non mi
hai mai abbracciata. Mai.
Apro gli occhi. E’ buio, ma ti vedo. Come sempre.
No, non chiedermi di parlare. Sento invadermi… da te… da te… da te…
Se parlassi sarei un’ipocrita, ma tacendo sarei una bugiarda.
Il tuo viso vicino, le tue labbra…
Ti bacio.
Dolce e impetuosa, il mio dardo che pensavo ti dovesse infuocare ha sbagliato la
mira. E ora sono io che brucio, come aceto e sangue.
-Sei impazzita?-. Ti distacchi da me portando con te un pezzo di pelle delle mie
labbra. Sento il sangue finalmente.
Così vicino, palpabile…
Così denso, cremoso…
Così oscuro, serpeggiante…
Così penetrante, soggiogante…
Così mio.
Come una musica gotica, mi affloscio in me stessa.
Questa sera morirò. Al crepuscolo.
Quando tu ti schiferai di me, quando mi sputerai addosso il tuo disprezzo e il
tuo ribrezzo. Al crepuscolo.
Quando le candele infiammeranno il veleno dentro di me e il mondo saprà
che cosa
sono, che tipo di bestia sono diventata.
Al crepuscolo.
Non ci sei più. Sei fuggito, forse pensi che io sia pazza, che Shaoran mi abbia
fatta drogare.
Io ti ho baciato e questo mi basta, mi basta per scoprire che la morte non è
altro che una cura, che un balsamo profumato.
E tutto finirà quando le mie mani impugneranno il mio collo.
Ecco… Non lo ricordavo così morbido e tenero…
Ecco… Sento il respiro bloccato e statico…
Ecco… Il sangue pulsa nel collo, ma mai più su, mai più.
Diventerò stella? Diventerò una costellazione quando morirò? Diventerò acqua,
aria, terra? No.
Sarò fuoco, bruciante come la testa che sembra scoppiare, vuota di sangue. La
pelle del cranio si dilata, si espande…
Scoppio.
Il rintocco si arresta.
Sono fuoco, brucio, avvampo… Al crepuscolo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Da Touya ***
Hai trovato un baco su EFP, per questa non vedi il testo della storia.
Segnala il problema cliccando qui. Si tratta di un form per violazioni del regolamento, ma copiate pure quanto scritto in grassetto nella casella. La storia con indirizzo 'stories/fr/francy91/207308.txt' non e' visibile.
L'amministrazione provvedera' a fare il possibile per sistemare. Grazie in anticipo per la preziosa collaborazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Grigio perla ***
Senza nome 1
Salve, sono francy91. Dato che qualcuno non ha ben compreso la trama di questa
storia, ve la spiegherò il più chiaramente possibile.
Sakura ama Touya e glielo dice. Shaoran le dice quelle parole perché ha capito i
sentimenti della ragazza nei confronti del fratello. Poi, Touya, dopo essere
stato baciato, se ne va dalla stanza di Sakura, la quale tenta di strangolarsi
per la vergogna e l’umiliazione, ma perde solo i sensi. La ragazza, però, non sa
che anche Touya la ama, beh, a suo modo naturalmente (un modo molto ambiguo).
Touya nasconde ciò che prova e dice a Sakura che i suoi sentimenti e quel bacio
lo disgustano. Può risultare sconvolgente, ma è la cruda verità.
Questa storia verrà scritta da me (che interpreterò la parte di Sakura) e dalla
venerabile Faffy (che, invece,
sarà Touya).
Bene, ora che (spero) è tutto chiaro, buona lettura.
Come la colomba, serpeggiante di desiderio, che vola con le ali spiegate nel
cielo perso e crudo; come la spezia orientale, potente, che provoca prolisso
piacere; come la rugiada che, simile ad acido, brucia la mia candida pelle e mi
trapassa, come una lama in uno specchio d’acqua, turgido e torbido di resti
umani; come le nocche sulla porta quando aspetti la Morte: Sua Maestà Infernale
raccoglierà trionfante le mie reliquie d’amore.
Comincio a brancolare nel buio…
Non c’è più spazio, non c’è più aria per cui vivere…
(… mi disgustano … mi disgustano … mi disgustano … mi)
Se vedessi la luce chiuderei gli occhi, se ascoltassi il canto delle allodole e
degli usignoli serrerei le finestre, se percepissi il profumo dell’amore mi
laverei con sangue e assenzio, per odorare di ferro tagliente.
Give me the
redemption,
Yes I’m wrong,
yes I’m right,
I just want to
feel my soul beneath my feet.
My bleeding love
is turning to madness.
It feels like
heaven’s darkening
And hell’s
whitening… softening…
Splendore fiabesco, come non anelarti?
Come non desiderare che questo virginale rossore impallidisca fino a diventare
pietra di luna? Come non essere tormentata dall’eco esasperante delle sue
parole? Come non chiedere redenzione dei peccati commessi e agognati?
Quando amare significa scoprire la
tenera pelle bagnata dalla luna e scorticata dall’aria davanti al pugnale
argentato che, così simile al mio corpo, riflette il tuo crudele profilo,
proprio in quel momento sarò sicura di amarti. E quel momento è arrivato.
I muscoli si contraggono il sangue
riceve la sua contropartita di lacrime, che seccano le mie infide vene curve e
le spine della…
Il campanello mi riscuote come campane
vespertine, ossessive e insaziabili, rimpinguate dalle fedeli e caduche ed
inutili e divine preghiere dei credenti, di coloro che portano le perle in
croce, di coloro per cui la via della perdizione è un viale affollato di corpi
nudi e pulsanti…
La mia fronte sanguina, come se una corona di spine mi consacrasse con il frutto
della mia passione… Sento il denso liquido purpureo colarmi sugli occhi… Il
sangue, lo stesso sangue che scorre nelle sue vene… Vorrei assaporarlo fino a
sentire le mie viscere contorcersi insopportabilmente… Lo gusterò come la lupa
affamata che sbrana il mite agnello… Ah, sì…
Paura. Della. Mia. Stessa. Coscienza.
Ormai inesistente, certo, ormai subdola e dall’ineffabile corruzione… Non si può
negare, ormai preda del più sfrenato e incontrollabile inconscio.
Scendo le scale intrecciando sagome mute e suoni bui.
Come le cicatrici della notte,
come il bagliore vermiglio della perdizione,
come il gigante che porta la vergine rapita nelle sue grotte
pronto a saziare la sua sadica, violenta ossessione,
così l’amore morde la mia carne
infestata dai feroci, spietati, selvaggi insetti del peccato,
così l’amore inghiottisce le scarne
speranze di candore fuggito, strappato, sbranato.
La mia mente lavora, inserisce, elimina, taglia, cuce, copia, strappa, incolla,
infrange, ripristina, collega e tesse delebili reprensioni.
E’ mattina. Le finestre riflettono il noioso e soffocante grigio delle nuvole
che accecano il sole velato, dallo sguardo perso.
Le scale sembrano così numerose … così molteplici e fitte… Le scendo
apaticamente, osservando i miei piedi muoversi come il sole a mezzogiorno, che
sembra non spostarsi mai.
Appoggio il palmo caldo e sudato alla porta lignea, salatamente lucida e
odorosa. La apro, finalmente.
-Ciao Sakura, ma non dovresti essere a scuola?-. Un sorriso disgustoso stampato
in faccia, ecco Yukito.
Mille demoni ringhiano dentro di me con versi animaleschi, bestiali. Vedo corpi
sudici strisciare sensualmente e mordere i loro stessi cuori con denti di
ghiaccio e lingue di avorio… Odore di umido, sapore di amara dannazione…
E pensare che quel sorriso lo amavo qualche anno fa.
La gelosia contamina la mia mente sussurrandomi parole sporche e infangate e
suggerendomi il peccato, striscia attorno a me per stringere poi la sua morsa
vitale e infuocata; i suoi denti stimolano la mia pelle come piume che
solleticano un organo stonato, le sue parole mi restituiscono il fantasma della
realtà effimera, il suo gutturale canto dissimula la mia coscienza arenata…
Abbandonata su quell’isola sperduta sussultante di cannibali: la terra del
mordace vizio.
-Non stavo bene, allora non ci sono andata. Anche tu dovresti essere a scuola…-,
constato infastidita, poggiando un braccio allo stipite della porta.
-Oggi la mia classe va in gita, ma io e tuo fratello non partecipiamo perché
abbiamo da fare.-. Sta sogghignando con gli occhi rivolti altrove. Mi mordo
l’interno della bocca, appena sotto il labbro inferiore.
Sciocco, sciocco, sciocco… Per colpa tua la mia felicità si è tramutata in
umiliazione, per colpa tua ciò che avrebbe dovuto essere lucente è opaco e
inconsistente. Ti ho amato sino a quel
momento e me ne vergogno, mi odio e mi detesto per questo.
-Sono venuto per Touya. C’è?-, affermi guardando oltre le mie spalle per
scorgere la vaga ombra di mio fratello.
Ti diverte? Il mio sguardo truce nei tuoi confronti provoca quell’insopportabile
sorriso sornione? Davvero ti piace fissarmi, vestita di lividi? Godi veramente
nel contemplare beatamente la mia sofferenza da te, oh sì, da te causata? Mi
osservi con quegli occhi superbi perché hai ciò che anelo, possiedi le braccia
che desidererei mie, contamini le labbra che io stessa ho toccato senza alcun
pudore e con suo disprezzo, dardeggi la pelle porosa e oscura che bramo
lacrimosamente.
-A quanto pare, no.-.
Sorridi. Sono solo immagini distorte della mia mente solo questo solo questo
solo questo solo questo solo questo solo questo solo…
-Mmh, sarà andato a lavoro, non perde mai l’occasione di guadagnare qualcosa.
Comunque sono venuto anche perché doveva darmi un CD. Sicuramente sarà nella sua
camera, quindi se vuoi potresti…-.
-Certamente.-, taglio la sua frase.
Ascolto i violini stonati suonati con grazia, le corde si spezzano sotto il
leggero e magico tocco dell’archetto.
Quelle impressioni sul suo sadico sorriso sono tutte false: sto impazzendo. Vedo
le immagini che desidero aborrire, vedo le spine che voglio strappare dal mio
corpo e vedo tutto così dolorosamente spento, come se fossi annebbiata da un
respiro d’incenso.
Gli faccio cenno di aspettarmi nell’ingresso, salgo rapidamente le scale e sono
subito davanti alla porta della stanza di mio fratello. È da tanto tempo che non
vi entro, da quell’ultima volta.
Appena poggio la mano fredda e asciutta sul pomello della porta è inevitabile il
flashback indesiderato.
Ricordo che avevo undici, forse dodici anni. Ero a casa da sola e stavo
studiando in cucina, perché le pareti della mia camera erano appena state
ridipinte di bianco e quindi non potevo entrarvi. Spesso Touya e Yukito
studiavano insieme il pomeriggio dopo la scuola e quel giorno le cose non
cambiarono. Appena giunsero a casa presero posto sulla parte del tavolo opposta
alla mia. A quei tempi amavo Yukito, così invece di studiare lo contemplavo e
sorridevo, beata dalla sua presenza. Ad un certo punto Touya sembrò infastidito
e mi avvertì che sarebbero andati in camera sua per non disturbarmi. Ovviamente
cercai di dissuaderlo, poiché non volevo essere privata della presenza di
Yukito, ma non ci fu verso e così restai sola in cucina. Stavo studiando inglese
e avrei dovuto tradurre un brano riguardante lady Diana, ma non ci riuscivo
proprio: frasi che si accavallavano, parole che non conoscevo, tempi che non
riuscivo a rendere in giapponese… Così pensai di chiedere aiuto a mio fratello,
il che era anche una scusa per vedere Yukito, senza dubbio. Così arrivai davanti
alla camera di Touya con in mano il libro d’inglese, il quaderno e la penna.
Poggiai la mano sul pomello particolarmente freddo e…
I fuochi ardenti si contorcevano nell’aere umido di benzina che alimentava
sempre di più quella folle fiamma.
Arsa viva da quel calore urlante e dal cupo ringhio maledetto, lasciai cadere a
terra ciò che avevo in mano e mi afflosciai come una spada fra le fiamme. Il
fumo del loro piacere si espanse retrocedendo, i gemiti e i sospiri scoppiarono
per lasciare spazio alle punture inclementi del gelo.
Non oso ricordare oltre, rimembrare il romanticidio che stese un luttuoso velo
nero sul mio amore.
Spalanco la porta. La stanza è buia, le persiane sono chiuse, ma dalle fessure
regolari presenti su di esse filtra polvere d’alluminio, fumo perlaceo aleggia e
mostra le labili ombre del letto e dei mobili.
Mi chiudo la porta alle spalle ed esploro con desiderio crescente la camera
opalescente. Il letto è sfatto, le lenzuola sparse sul letto e anche a terra,
formando morbide ed ondeggianti pieghe, simili a piaghe di pelle morta e
cartacea. Il cuscino sembra nero a causa della penombra; lo prendo e sfilo la
fodera: odora di lui, dei suoi capelli corvini, della sua pelle del colore della
sabbia in un annacquato tramonto primaverile. La sostituirò con la federa del
mio cuscino, appena se ne andrà Yukito.
All’improvviso, come una farfalla nera in un pozzo bianco, il mio occhio viene
catturato dalla scrivania, più esposta alla luce rispetto al resto della stanza.
Su di essa si posano cornici dure e solenni che racchiudono le foto di me e
Touya da piccoli. Non è una novità, ci sono in tutte le stanze, ma le osservo lo
stesso.
Una mi cattura particolarmente: ci sono io, a circa cinque anni, nel cortile di
casa. Mio padre aveva appena comprato una piscina gonfiabile e io ero davanti ad
essa, i piedi affondati nell’erba, le gambe magre leggermente divaricate, il
ventre lievemente all’infuori, le braccia esili penzolanti. Il mio corpo non era
né in posizione frontale né di profilo, ma il mio volto era puntato dritto verso
la macchina fotografica. Nella foto indosso solo un paio di mutandine bianche di
cotone e le mie gambe bianche sembrano risplendere di luce propria. Il volto è
decorato da un mezzo sorriso e da uno sguardo davvero molto
strano: gli occhi, strizzati per via del sole, si congiungono con le
sopracciglia in modo da formare un’immagine orientalmente perfetta; sembro una
piccola geisha o una danzatrice del ventre. Ricordo che quella foto fu fatta da
Touya.
E ricordo anche che quel giorno sentii per la prima volta la parola sexy.
Me la disse lui.
Disse che, a cinque anni, vestita solo di mutandine e con uno sguardo
penetrante, ero sexy.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Ancora da Touya (per Vale) ***
Hai trovato un baco su EFP, per questa non vedi il testo della storia.
Segnala il problema cliccando qui. Si tratta di un form per violazioni del regolamento, ma copiate pure quanto scritto in grassetto nella casella. La storia con indirizzo 'stories/fr/francy91/208782.txt' non e' visibile.
L'amministrazione provvedera' a fare il possibile per sistemare. Grazie in anticipo per la preziosa collaborazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Viola ***
Senza nome 1
Well, memories will burn you.
Memories grow older as people can
They just get colder
Like sweet sixteen
(Billy Idol, Sweet Sixteen)
Ognuno ha il diritto di amare, di vedere un passerotto volare leggero quando un
bacio toglie il fiato al vento, di sbattere le ali con capriccioso egoismo, per
far diventare questo monotono io
un
noi.
Non tutti.
L’amore ultimamente viene ritenuto un dovere: non muoverti, posa il tuo gravoso
peso su una pietra liscia e madida di pioggia, qualcuno passerà e ti porterà via
al sicuro. Prima o poi verrà questa persona. Ora non c’è? Poco importa, attendi
e la troverai…
NO.
Sono già caduta in questo errore, non lo farò più, mai più. E’ per questo che ho
dichiarato a Touya ciò che provo per lui.
Avevo amato Shaoran, tanto. Le mie labbra erano state sue per la prima volta,
lui mi aveva condotta verso una via sperduta, gentile e letale. Lo avevo amato
davvero. Ma ora è diverso, è tutto così diverso, come me.
Io non ho il diritto di amare, non ho il diritto di sfiorare il cielo e di
sentire la pelle muoversi sotto la scossa del vento: il mio amore è diverso,
solo questo. Diverso… Vago, ambivalente…
Se potessi precipitare su nel cielo annegherei all’aria aperta nel viola. Viola
come il pensiero, come l’ambiguità. Il viola infatti nasce dall’unione del rosso
e del blu, attività e passività, bacio e sguardo, presente e passato,
determinazione e nostalgia, non amore e odio, perché il rosso contiene in sé
entrambi; invece il blu è l’interiorità, il misticismo, l’infinito racchiuso in
un corpo, il chiaroscuro e il dolceamaro, l’obiettivo irraggiungibile e luminoso
come una candela nello spazio. L’atavica metamorfosi.
La stanza è acquosa e umida, sento quasi le onde sbattermi sugli scogli. Quando
fugace il vento entra dalla finestra, la mia pelle viene ancestralmente dipinta
di gelo.
Perché non posso essere normale? Perché la tela su cui mi è stato ordinato di
dipingere è troppo grande e i miei colori troppo pochi? Perché c’è solo una
corda del mio violino che può essere suonata? Perché non ho scelta? Perché la
mia anima è solo grigio perla e blu di Persia?
Come un canto ebraico durante il Pesach, la mia lingua si muove contro le setose
e drappeggiate pareti della mia bocca, senza sapere cosa fare.
Amabile come un batuffolo di cotone, la sua voce mi raggiunge:
-Esco, cucina tu. Ah, papà oggi torna verso le dieci, perciò metti la sua cena
nel forno così non si raffredda.-.
Questo c’era prima di me, sì, è già successo. Non sono certo la prima che ama
proibitamente… No.
Ma questo non cambia le cose. Devo nascondermi per questo, devo chiudere gli
occhi per far sì che la gente non guardi il peccato e rimanga pietrificata da
tanta mostruosità.
Sono un mostro, detestabile spazzatura dei difetti umani, ineffabile stranezza
ambigua e mastigofora.
O devo tentare? Devo tentare di cambiare la mia insana passione e di sostituirla
con… con cosa? Non può essere sostituita se non dalla fuga, ma neanche quella mi
farebbe espiare la mia colpa dannata e lacrimosa. Lacrimosa speranza di
innocenza ed ingenuità, di sole perduto in un sogno oscuro, di selvaggia foresta
invece di questa asfissiante stanza.
All’improvviso capisco: perché fuggire dalla realtà? E’ così bella… Bella come
caos armonico, gentile come un cuore valoroso, feroce come una fiera
sanguinaria, ma pur sempre innocente. E con innocenza lo conquisterò, se non ci
sono riuscita con l’amore, lo farò con la passione innocente, che non fa male,
non nuoce.
Cremosi, i miei pensieri sorridenti inghiottiscono l’angoscia e, almeno per un
po’, vivrò il mio turpe sogno.
Sento la porta sbattere, non aspetta la mia risposta.
Chi dice che non baciare senza innocenza, sedurre senza ingenuità?
A costo di essere l’unica a farlo, mi taglierò le vene per far scorrere sulla
mia pelle sangue viola, senza vergogna di essere diversa, senza rinnegare ciò
che abita dentro di me.
Lievito subitaneamente dal letto e m’incammino verso il mio armadio; prendo
della biancheria intima bianca e mi spoglio. Il mio corpo si confonde col
tessuto candido, non capisco dove finisca la pelle e dove inizi la stoffa.
Il vento fa sbattere violentemente le finestre… Percepisco tutto
istantaneamente, senza pensarci, senza comparare: non ho bisogno di
similitudini, io sono ciò che vedo, sono ciò che sento, sono ciò che tocco con
le mani e con la mente, lievemente e violentemente, bestialmente e
angelicamente, in linee verticali, con perfetta armonia curva e obliqua.
Il letto è morbido sotto il mio corpo ricoperto solo di fine pelle, mentre un
lampo ingiallisce il cielo, una pagina consumata e ammuffita.
Inquieta, abbandono la nudità e mi ricopro di monocromatico bianco.
-Troppo monotono.-, mormorò guardandomi allo specchio inclinato. Devo coprirmi
con qualche altra cosa… Mi vengono in mente le zanzariere che mio padre conserva
in attesa dell’estate. Poteva bastarne anche una.
Le trovo subito e le fisso: nere, delle rete fitte come i pori della pelle, come
gli occhi che si affacciano sulla mia vita.
Mi circondo il busto con una di quelle reti, fermandola alla vita con un nastro
bianco come i capelli della Fede, come il bambino che cerca la sua stella fra le
onde del mare.
Mi costruisco la mia terra di ghiaccio che non si scioglie con l’amore, non si
liquefa col fuoco, ma con altro ghiaccio ed altra neve, altro gelo ed altre
stelle bianche. Equilibrio che emana armonia… come una melodia incantevole e
fiabesca.
Scendo le scale con rinnovata purezza; non sempre il bianco è il colore della
salvezza, ma di una cosa sono sicura: l’oblio in cui sto cadendo non è oscuro, è
perdizione, sì, ma bianca come una civetta delle nevi, come una tigre siberiana,
feroce, seducente, sacra, vergine e profana.
Questo mio dilettevole abbandono è santo e implacabile, innato, istintivo,
primordiale, immortale, non è nato prima del mondo perché è il mondo stesso, è
l’idea di lui, la sensibilità del
tocco del vento contro Atlante, il mondo che vacilla e trema, il mondo che cade,
il mondo che crolla sulle fila del vento, unico dominatore delle forze,
vincitore della dipartita di cielo e terra, angelo interiore che anche noi
possiamo risvegliare, sola entità vincitrice e vinta.
Soffio di vita e di salvezza, Eden incontrastato sulla Terra, speranza perduta,
anima di innocente, ninnananna aleatoria.
Mi stendo lentissimamente sul divano.
Sono diversa, sono bianca nell’oscurità, sono sorridente nella depressione, sono
innocente nel peccato. Nessuna colpa da espiare: se Dio vuole amore, che amore
sia: fraterno, passionale, materno, eretico, estatico, imperfetto, indeciso,
pazzo, impossibile, indesiderato, agognato, ricercato, predetto, impressionato,
scoperto, tradito, contrastato, implacabile, stanco, obbligato, sconveniente,
scandaloso, disumano, violento, lacrimoso, indomabile, creduto, mentito,
sparito, vittorioso, sempreverde, appassito, sconfitto… E’ amore e nessuno può
negarlo. L’amore non porta mai nulla di nocivo.
Non mi accorgo del tempo che scorre, sei già arrivato. Sento le chiavi nella
serratura e subito la porta si chiude. Tutto scorre velocemente, ma con
dolcezza, senza sollecitudine o fretta. Sei qui.
-Sono tornato.-, urli.
Io rimango ferma. Cosa farai quando mi vedrai così? Cosa penserai? Io sono una
nuvola, volo leggera e muto grazie al vento, bacio il vento e lo abbraccio, fra
i suoi schiaffi e le sue carezze.
I tuoi passi si avvicinano, chiudo gli occhi e poggio la testa sul bracciolo.
Sento l’aria muoversi, trasparente ma così palpabile, fonte di vita e respiro.
Percepisco tutto, senza filtri: è l’aria che mi guida, il soffio consistente e
inafferrabile di un sospiro altisonante.
Sei arrivato. Sento i tuoi passi fermarsi e il vento che giocava nella stanza
ora ricade sul pavimento, tenue e vaporoso.
I tuoi occhi trapassano l’aria e mi colpiscono, lo sento. Sei furioso, iracondo,
collerico, infuriato… Ma non m’importa, io ti amo.
-Ti amo.-, sussurro ancora ad occhi chiusi. Sembro in estasi mistica, come
quelle sacerdotesse, le Pizie, che andavano in trance e comunicavano con il
proprio dio. Io comunico con Eolo dai dodici figli, sei maschi e sei femmine che
si unirono fra loro. Forse io e Touya siamo figli di Eolo, siamo la settima
figlia e il settimo figlio non riconosciuti. Destinati a isole serene e libere,
come il vento.
-Ti amo davvero… Non so perché, ma è così. Voglio essere assoluta per una volta,
sciolta da convenzione e regole da altri definite. Io ti amo.-, sorrido.
Le tue mani mi stringono il collo, mi tiri i capelli…
-Non hai capito niente. È inutile che ti impegni tanto con questa tua mania.
Cosa farai domani? Ti piazzerai sul marciapiede dove cammino io e ti struscerai
contro il primo palo che trovi? Oppure mi metterai sul piatto le tue mutandine?
O che altro, verrai a scuola vestita da coniglietta di Playboy? Smettila, sei
patetica.-.
Parole scivolose e inconsistenti, mentre le tue mani ruvide mi costringono ad
alzarmi.
-Smettila, smettila, SMETTILA. Non ti servirà a niente tutta questa messa in
scena. Sei disgustosa, schifosa, orrenda.-.
Apro gli occhi: una colomba vola in diagonale verso l’alto. Forse sta andando in
paradiso, sta sporcando il suo candore con l’impermeabile viola del cielo.
Addio, colomba. Addio.
Addio…
Mig vaknar draum-haf
mitt hjartað, slá
úfið hár.
Sturlun við fjar-óð
sem skyldu-skrá.
og hér ert þú
fannst mér.....
og hér ert þú
Glósóli.....
(Sigur Ros, Glòsòli)
(Traduzione:
Mi sveglio da un incubo.
Il mio cuore batte
fuori controllo…
Mi sono cosi abituato a questa follia
che ora non ne posso fare a meno
Eccoti...
Sento...
Eccoti...
Raggio di sole...
Eccoti...
Raggio di sole...
Eccoti...
Raggio di sole...)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Da un dannato ***
Hai trovato un baco su EFP, per questa non vedi il testo della storia.
Segnala il problema cliccando qui. Si tratta di un form per violazioni del regolamento, ma copiate pure quanto scritto in grassetto nella casella. La storia con indirizzo 'stories/fr/francy91/213377.txt' non e' visibile.
L'amministrazione provvedera' a fare il possibile per sistemare. Grazie in anticipo per la preziosa collaborazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Bianca ***
Senza nome 1
Fiore
d’argento chiaro.
Fiore bello.
Fiore incastonato nelle mie membra putrefatte.
Fiore melodico, innamorato, perso.
Fiore ignaro come un’infantile melodia notturna.
Fiore spezzato, sventrato, decaduto, impigliato fra le nostre stesse ossa, muori
solo per far rinascere mille altri fiori, sacrificio estatico e leggendario,
lacrima lieta, lieve lamento, grazia ingrata, gradito gracidio.
Fiore, non abbandonarmi nell’acqua tiepida e gentile, portami là dove il cielo è
perso, i rami oscuri, i laghi oblii infiniti, i sospiri gemiti di dolore, il
vento spasimo dell’aere ferito, il Paradiso mera smania folle: lì ci sarà anche
lui, il mio sangue, le mie ossa, LUI. Sarà lui ad illuminare il mio turpe
cammino, sarà lui a scostare i violenti e lesivi rami, sarà lui a guadare
insieme a me i laghi e ad attraversarli a bordo del presente fiorito, sarà lui a
sfiorare le corde di questa mia dolente arpa, sarà lui a baciare i respiri
estinti e caduchi per ridonar loro forza, sarà lui, infine, a sorgere e a creare
la perfezione di un atto compiuto e continuo, a circondarmi con i suoi caldi
raggi, a far fiorire il secco stelo che ci unisce, a farmi dimenticare l’inferno
che in realtà siamo e che più di ogni altra cosa anelo.
Non voglio un Paradiso creato da altri a disposizione di tutti, desidero il
nostro regno, egoisticamente nostro.
Non amo Dio.
Amo lui.
Le sue tremanti labbra si posano sulle mie, sussultanti. Il suo respiro, essenza
ancestrale, lambisce il mio viso e lo accarezza con immonda delicatezza.
Questo è il mio respiro, è la stessa aria che entra nei polmoni e nel mio sangue
e… Oh, lo stesso sangue, lo stesso sangue!
Chi ama si illude di formare con l’altro un unico corpo. Anche chi ama davvero,
per così dire. Ma noi, noi possiamo pensarlo davvero! Non è un’illusione, non è
un drammatico sogno che ci lascerà impietriti e sperduti! No, no no! È tutto
vero, così lapalissianamente vero, così reale in un modo tanto emozionante da
sciogliere la mia felicità in lacrime, lacrime che non fanno che accrescerla!
Lo stesso sangue… La stessa tonalità di rosso tramonto, lo stesso ritmo di
battiti, le stesse ossa, immortali, indelebili, costanti, crescenti… Sì, questa
è la vera felicità: io e te, amore mio, io e te siamo un solo corpo, un solo
brivido, una sola inscindibile entità spirituale. Alacremente, noi veniamo da
lontano, dalla terra in cui questo è possibile, nello sperduto ma così vicino
luogo dell’incantevole perdizione, dell’angusta armonia. Ritorneremo lì e il
nostro sangue finalmente si riunirà. Per sempre.
Apro gli occhi e, oh, anche tu li hai aperti. Probabilmente non li hai mai
chiusi, sì. Sono vicinissimi, scuri come la notte che ci inghiottirà perché
siamo troppo liberi per dipendere dalla luce.
Sento le chiavi girare nella toppa… Stiamo entrando in casa e tu mi baci ancora,
illumini ancora il buio vivido dei tuoi occhi con le tue labbra. Enfatico,
estatico.
La porta si apre con un cigolio mentre l’adrenalina mi costringe
dolcemente a chiudere gli occhi, a osservare finalmente la tua vera
essenza.
Sento il tuo corpo più vicino al mio, sento il calore dell’amore, del coraggio,
della pazzia e del peccato.
Con questo mio angelico tocco…
Le tue mani accanto al mio collo mi solleticano la pelle con la delicatezza di
una farfalla morta che tramonta sullo specchio di un lago eternamente violaceo e
putrido, ma liscio e benefico al tocco.
… Ti battezzo mio…
I tuoi capelli, come corvi che barbaramente strappano aggressivamente le carni
di un agnello, vittima sacrificale in onore di un crudele dio, accarezzano la
mia fronte con fervore, pungono la mia pelle con irruenza leonina, scorticano le
mie membra assetate di vita con deturpante alienazione.
… Nel nome…
Le tue labbra, ovattate mezzelune di ghiaccio, giacciono potenti sulle mie,
mentre due lune nuove dominano empiamente l’Urano notturno mordendo piano le mie
candide labbra perlacee, opaline come i tuoi marmorei denti che si macchiano del
nostro sangue, che assorbono il mio fluido vitale per poi ridonarmelo, prezioso
e sacrilego, con opalescente avorio e con rose bianche, cristalline, di neve
ricoperte, senza sconcezza alcuna.
… Del nostro amore, più eterno, atavico, innocente, misericordioso di qualsiasi
dio; più sporco, sprezzante, vergognoso, ignominioso di qualsiasi diavolo.
-Siamo tornati!-, urli nell’ingresso.
-Oh, ciao ragazzi! Stavo proprio per apparecchiare. Raggiungetemi qui in cucina
appena finite di lavarvi le mani!-. Voce lontana, sussurro dei muri.
Sali le scale rapidamente.
Lontano da me, distante… Perché quell’interminabile momento è terminato? Perché
la tua figura s’insinua fra meandri che ti portano sempre più lontano da me?
Sciocca, sciocca, sciocca: non desiderare il buio quando è già tuo! Non guardare
la luce agognando l’oscurità, perché ti basta chiudere gli occhi per vivere! Ti
basta morire per un attimo per vivere tutta la tua vita, un solo istante…
Fuggente, sì, ma elettricamente folle nel suo pazzo e continuo movimento
rotatorio. Allora chiudi gli occhi e accarezza l’elegante soffio di vento
guidato da mille squilibrati: è questa l’aria che respiri, questo lo spirito di
cui sei fatta, questa l’essenza vitale che vibra sotto la tua pelle! Non
rinnegarla, non essere il tuo stesso boia.
Mi dirigo svelta verso la cucina e mi lavo le mani nel lavandino, sorridente e
rinfrancata.
-Ti vedo allegra.-, constata mio padre.
-Mmh?-, mugugno distratta, al che lui ride divertito e mi accarezza la testa
scompigliandomi i capelli.
Chissà, in questo momento cosa starà facendo? Magari è in camera sua e ha la
testa poggiata sul cuscino su cui si sono posate le mie dita.
-Quando ci sarà l’incontro scuola – famiglia?-, chiede mio padre con interesse.
-Mmh? Non lo so.-, rispondo ancora assorta, asciugandomi le mani con uno
strofinaccio.
E forse sta guardando la mia foto, sì, quella in cui avevo cinque anni. E sta
sorridendo pensando a quanto sono cambiata… Sì! La sta prendendo in mano e la
sta osservando da vicino. Il suo respiro fa appannare il vetro che custodisce la
mia ripudiata verginità.
Verginità, verginità, perché mi lasci? Dove vai tu?
Mai più tornerò da te, mai più tornerò.
(Saffo, frammento 114)
Ti ho abbandonata, malinconica compagna di tante avventure, ti ho rifiutata,
respinta, rinnegata, sconfessata… Ma non me ne pento. Amore e verginità non
possono convivere, non possono incrociare i propri affilati sguardi, perché il
primo con il suo fuoco ardente e il suo vento tempestoso la incendia senza
scampo alcuno; la seconda, invece, rischia di pietrificarlo e di ricoprirlo di
pallida neve, perpetua ma soffice.
Non piangere, piccola dea vestita di bianco, non gelare le tue bianche guance
con lacrime di rimpianto: le ninnananne delicate hanno accompagnato la mia
bianca infanzia, ma ora questa neve deve sciogliersi in mille pianti di rugiada
gelida e salata.
Ti ho persa per sempre, mia tenera amica, ma sii felice per me, sii lieta,
perché solo gli essere umani possono conoscere entrambe le facce della medaglia:
voi dèi siete immortali, potete fare ciò che noi non possiamo concludere in
un’unica vita; siete immuni da qualsiasi dolore fisico, perchè solo l’uomo è
soggetto alla sofferenza; siete soprattutto esenti da qualsiasi morale, perché
siete voi che la create, siete voi che scrivete regole opportuniste e lucrose
solo per voi stessi. Ma noi esseri umani conosciamo l’Ignoranza e la Sapienza,
la Bellezza e la Ripugnanza, l’Orgoglio e la Vergogna, il Rigore e la Trasgressione, il Terrore e la Pace, le
Stelle e l’Abisso, il sapore agrodolce della Violenza e della Soavità. Voi non
conoscerete mai il chiaroscuro che voi stessi avete dipinto, esonerati dal
peccato e da ogni suo piacere.
-Sakura, che avete fatto oggi a scuola?-.
Sento la mia testa percossa da quelle parole così distinte nella limpidezza
della mia mente e mi risveglio dal torpore in cui ero caduta mentre sedevo a
tavola.
Intanto noto che Touya è già qui e mi sta guardando mentre tiene in mano in
precario equilibrio le bacchette lisce.
-Ehm… Bene, stancante da un certo punto di vista… Cioè, insomma, volevo dire…
Sì, che mi sono stancata, sì. Beh, per educazione fisica, no? Per cos’altro, se
no? Eh? Spossante, ma comunque piacevole. Perché educazione fisica mi piace…
insomma… cioè…-. Sto arrancando. Senza accorgermene comincio ad indirizzare
sguardi disperati a Touya, che alza un sopracciglio e fa un mezzo sorriso. Com’è
bello… La sua pelle color legno che produce un morbido contrasto esotico con il
bianco pallore degli occhi. E poi le sue iridi, onice pura. Si dice che l’onice
sia nata dalle unghie di Venere tagliate per dispetto da Cupido.
Nera onice, figlia del contrasto fra amore e bellezza, incanto del…
-Sakura, secondo me hai ancora l’influenza. Sei sicura che sia stata una buona
idea andare a scuola oggi?-, mi interrompe ancora una volta mio padre.
-Tutto bene.-, taglio corto esasperata, alzandomi dopo aver messo il piatto nel
lavandino.
-Vado a letto, sono davvero stanca.-, affermo prima che mi faccia un’altra
domanda. Faccio in tempo a vedere mio padre mentre si stringe nelle spalle e
sono sulle scale. Vedo la porta della sua
camera. Senza pensarci entro e mi chiudo la porta alle mie spalle. Osservo con
attenta meraviglia l’obliqua oscurità e cammino lentissimamente sul parquet
levigato e scivoloso poggiando prima la punta dei piedi e poi i talloni, come
una graziosa ballerina ghiacciata che affonda nel sole.
Accarezzo le lenzuola fredde e un po’ ruvide e subito un fremito fa danzare le
mie tenere membra: il suo letto,
suo per sempre.
Mi stendo con calma sempre maggiore in un tempo assurdamente prolisso per
l’umile azione che sto compiendo. Appena poggio la testa sul cuscino e i miei
capelli si spargono ai lati del mio viso come un angelo che precipita giù dalle
nuvole più alte e beate, ecco la porta che si apre.
-Sapevo che saresti venuta.-, sorridi.
-Non pensi di essere stata troppo spazientita con papà?-, commenti con voce
soave mentre chiudi la porta con calma.
-Più che spazientita direi egoista. Comunque sì, lo so, e mi dispiace… Ma non
posso resistere.-, spiego tutto d’un fiato tormenta domi con la lingua il taglio
ferroso che mi hai provocato sul labbro inferiore con i tuoi denti. La serratura
scatta una volta e ti volti verso di me, ma poi ci ripensi e giri la chiave
verso il lato contrario.
-Così sarà più divertente.-.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Hotaru ***
Hai trovato un baco su EFP, per questa non vedi il testo della storia.
Segnala il problema cliccando qui. Si tratta di un form per violazioni del regolamento, ma copiate pure quanto scritto in grassetto nella casella. La storia con indirizzo 'stories/fr/francy91/217986.txt' non e' visibile.
L'amministrazione provvedera' a fare il possibile per sistemare. Grazie in anticipo per la preziosa collaborazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Erba notturna ***
Senza nome 1
Vivi ogni attimo e questo non sarà mai l'ultimo.
|
Akira Kurosawa
Rimani, come le onde fragorose e odorose. Rimani ancora, come questi forti
alberi immortali, frutti di un seme ricco e vero. Rimani immobile sul mio viso,
come questo roteante soffio di vento che uggioso sparge e semina fuoco sulla mia
pelle.
-Sai, a volte quando sono con te mi sento un pedofilo.-, sussurri laconicamente
erotico.
Morbosamente mi fissi con lo sguardo scuro e luminoso del nostro mistero, astro
invisibile e buio, troppo lontano lui per poter essere ammirato e troppo
disattenti noi per notarlo. Inquietante questo cielo spinato che ci circonda
pretenzioso, confusionarie le tue dita sul mio viso…
Il sole illumina le tue oscure piume da corvo producendo riflessi grigio scuro e
color fumo, mentre la mia inettitudine di fronte al sole ed al tuo volto fertile
e terreno non fa che acuirsi sempre di più.
La mia croce, la tua croce, brucia
riflettendo i criptici raggi di un sole plumbeo, madreperlato, ombroso,
malinconico; pare uno specchio in cui le nuvole che ci celano all’astro primato
si gonfiano fino ad inghiottire il tuo bruno petto.
Eppure questo paesaggio è triste, cadente, piangente, come quei salici che
spiccano, eleganti e viziati come una frivola e leziosa ragazzina vagamente
donna, essenzialmente bambina; lo stesso salice i cui rami ospitarono le vergini
e candide vesti di Aretusa prima che s’immergesse letteralmente nelle vitree
acque del suo amato e sconosciuto Alfeo. I cipressi, avvolti nel loro
confortante apollineo mantello verde, piangono le loro principesche lacrime di
una sfumatura più cupa dell’erboso colore dei miei occhi. Una luna mattutina e
sfumata affiora da una goccia celeste di questo cielo ruvido e voluminoso.
E’ tutto così oziosamente oscuro… L’ombra dei tuoi spessi e pesanti capelli sul
mio viso fragile e delirante è più rassicurante di qualsiasi foglia immortale,
di qualsiasi ramo fruttifero e selvaggio, di qualsiasi albero sostenitore dei
mali della Terra, questa Terra che nessuno conosce e dei cui orrendi difetti
solo noi godiamo: puri in acque torbide, intoccabili, insaziati dal fango che
golosamente ingoiamo, dai vermi che ci calpestano senza rispetto né pietà. Sì,
persino gli insetti ci disprezzano, troppo occupati nel costruirsi una casta,
una tribù di cui rispettare regole varate dai più saggi e avviliti, dai più
stanchi della vita tanto da renderla salata e amare anche per coloro che non
sono altro che terra, che mangiano la polvere, che vivono in miseria, che
seminano scandalo, che sputano su erba profumata e accessibile per ungere la
loro turpe pelle con olezzi oleosi e marci baci.
Schiacciateci, oltraggiateci, umiliateci: preferiamo nutrirci di arboree lacrime
miste a sterco ammuffito piuttosto che usufruire di una falsa rugiada
proveniente da petali taglienti e fiori cannibali.
Un melanconico cuscino di nuvole acceca il sole, il suo splendente nitore.
-It’s going to rain, kids!
Be careful.-.
La tua mandibola scatta, il viso virile si gira, veloce, verso la ventosa voce
di Wendy, la dolce e giovanile madre della famiglia presso cui alloggiamo.
Il tuo collo si tende, si stende, attende… Oh…
-Don’t worry, Mrs. Brothster, we love rain. We can stay
here, in Japan we used to go walking when it rained. It’s a… tradition. Thanks,
anyway.-.
-Cos’ha detto? Cos’hai detto? Eh?-.
La curiosità non è minore della meraviglia, pur essendone figlia e sposa.
Attendendo la tua risposta, ti osservo; un punto nero, un frammento di onice,
unghia di Venere… No, due gemme notturne, due germi vespertini che mi cingono,
mi attraggono, mi circondano, mi pugnalano, redimono
la mia voluttà. Non mi tentare, amore mio, non mi stringere il cuore, non
lo arpionare con le tue scaltre dita.
Fallo, fallo, fallo…
Le tue pupille sono ritornate, infestano un’altra volta il fertile prato dei
miei occhi, fiamme di cloro bruciano il tuo cupo e tenebroso inchiostro, lo
incendiano, fuori controllo, sfrenati, incandescenti. Grinze sul mio cuore,
stonate e raschianti, artificiali, opache e doloranti: mi strozzi il cuore, lo
privi di aria pura, risucchi compiaciuto la mia anima, mi annulli, mi azzeri in
zolle di cenere zampillante, come un piromane disperato. Ancora il mio cuore,
ancora!
Fallo fallo fallo
fallo fallo fallo.
-Niente, la puttanella, il Golem e Paperino ci lasciano soli, finalmente.-,
bisbigli accarezzandoti il labbro inferiore e gettando gli occhi sotto il mio
mento.
-Non parlare così della signora Brosher, del signor Bruffer e di Jerry! Sono
molto gentili con noi e…-.
-Be’, almeno ne hai azzeccato uno su tre. Si chiamano
Brothster.-, puntualizzi al mio sguardo perplesso, mentre strizzo
l’occhio sinistro per un ciuffo di capelli entratovi. Cautamente, il dito prima
poggiato sul labbro mi carezza la palpebra, rotatorio e sensuale.
-Troppe consonanti.-, borbotto imbronciata.
La tua mano, fredda e sudata, mi storce un orecchio per scherzo, facendo
defluire quel momento di delirio (mio) e di compiacenza (tua) in un’allegra e
frivola leggerenza cangiante.
Sento i coniugi che ci ospitano e il loro bambino, Jerry, raccogliere in
movimenti stanchi e incoerenti con la voce festosa di Wendy le tovaglie a
scacchi stese sull’erba fradicia, le sfrigolanti buste bianche per la spazzatura
diligentemente piene, la guida per le campagne, i centri d’ippica e gli
agriturismi nei dintorni di Stecin, dove alloggiamo nei fine settimana, il
cestino di vimini per il pranzo e il barbecue portatile sporco di Ketchup;
percepisco accanto a noi i passi lievi e rasenti di qualcuno e, voltandomi,
scorgo il piccolo Brothster, la sua chioma castana, tanto lignea da ricordarmi
quella di Shaoran con sorprendente angoscia, quasi del tutto ottenebrata dal
cappuccio arancione della giacca a vento datagli con calore e preoccupazione
dalla mamma, il viso sempre contratto, come se combattesse perennemente con un
sole invisibile posto da un dio maligno davanti ai suoi occhi grandi e scuri da
bimbo, o come se fosse eternamente impegnato in un pianto perpetuo.
Ci voltiamo verso quell’ombra grigia nel cielo cinereo e sull’erba plumbea,
improvvisamente accesa d’arancio, e aspettiamo che apra quella piega, una delle
tante nella sua espressione uggiosa.
-Now you’re alone.
Screw in
peace.- (trad.: ora siete soli. Scopate in pace).
Touya sporge le labbra e aggrotta le sopracciglia, pensieroso e… divertito, in
maniera oltremodo sconsiderata, a giudicare dal sorriso furiosamente angelico
che gli balena sul viso, accartocciando la sua perfetta espressione rilassata.
Dal canto mio, non capisco cos’abbia detto quel ragazzino dalla pelle argentea e
lentigginosa per far reagire in tal modo mio fr… Touya.
Touya, Touya, Touya.
-Mind you own fucking business.- (trad.: fatti i cazzi
tuoi).
-Cosa gli hai detto? Che sta succedendo?-, bisbiglio al tuo orecchio
parzialmente nascosto dalle piume corvine della tua notturna capigliatura.
Palpito, non capisco cosa stia accadendo, le mie pupille rimbalzano nell’angusto
spazio delineato dalle palpebre, vorrebbero schizzare fuori come macigni che
scivolano da una rupe, sono biglie metalliche e brillanti attratte dalla tua
mente, desiderano ardentemente varcare le porte adornate della tua testa,
comprendere ogni tuo cambiamento di espressione, ogni grinza tura del tuo viso,
ogni distensione muscolare, ogni flessione articolare, ogni gioco di palpebra,
pregustare ogni tuo impulso, essere trasportata di sinapsi in sinapsi dai tuoi
stimoli, baciare la tua pelle come piastrine delicate, penetrare ogni tua
membrana, conoscere e assaporare ogni residuo di citoplasma, piegarsi e
accomodarsi in ogni tuo organulo, insinuarsi fra i legami misteriosi dei tuoi
atomi, per poi rifluire nel fluviale flusso ematico, accarezzare con leggiadria
le pareti dei tuoi vasi sanguigni, solleticandole e abbandonandomi alle tue
viscere.
Ma tu non rispondi, ignori la mia domanda, ancora concentrato a fissare
quell’undicenne (sì, quando ci siamo presentati ha detto
I’m thirteen, cioè che ha undici anni,
no? Anche Touya ha annuito e poi ha ridacchiato quando gli ho fatto notare ciò
che avevo capito…); sembra vagamente la scena di un film western, manca
solamente la polvere secca in nuvole opprimenti, sostituita dalla pioggia fina e
fitta che picchietta sui miei capelli sciolti.
-You’re just two rotten bogs...-
(trad.: siete solo due cessi schifosi), bisbiglia Jerry voltandosi.
-Jerry, come here! You’ll catch a cold!-, (trad.:
Jerry, vieni qui!
Prenderai il raffreddore!), urla Wendy dal finestrino del passeggero.
Che sorriso tagliente, amore mio. Come un dio greco, come un’entità vendicatrice
e superba, il tuo sorriso si flette come una lama affilata, come il coltello
folle di un sanguinario assassino.
Agitiamo contemporaneamente la mano per salutare la nostra famiglia inglese, che
aspetterà in auto finché non finirà di piovere – questione di minuti, come dice
sempre Wendy – mentre io e Touya rimaniamo seduti sull’erba acquosa, su questo
letto di alghe palpitanti e accoglienti.
-Troia.-, sussurri trionfante.
-Smettila di prenderla in giro! È una donna fantastica, non puoi trattarla in
questo modo.-, commento bruscamente, tirandoti con forza un piccolo ciuffo di
capelli dietro la nuca rugosa e soffice e facendoti ritirare il capo
all’indietro. In questa posizione mi osservi con gli occhi socchiusi, sensuali e
lascivi, scioccanti. Come minuscole mezzelune orizzontali, nuove e fondenti, le
tue pupille mi fissano, mi circondano, avvolgono il mio corpo, accentrano i miei
margini e rimodellano la mia figura, ammorbidendo le creste vesp…
Le tue labbra bagnate, fradicie di pioggia, pure e straripanti di umore,
innaffiano le mie, le fertilizzano, le fecondano, creano miracoli scoppiettanti,
turbinii di cellule, vita. Ritmo, note, musica, pennello, penna, violino, corda,
archetto, tavolozza, tela, calamaio, tastiera, disco, costellazione cromatica,
pulsione fonetica, orgasmo grafico, furia tattile, ovattata fiamma
d’ispirazione. Sei come arte per me, mi ravvivi con il legno bagnato del tuo
corpo, mi inaridisci come Scirocco, mi sazi con le labbra, mi impregni di denso
liquido vitale con le tue guance, mi avviluppi mortalmente, mi privi d’aria e me
la rendi con immensa misericordia, gonfi la mia disperazione per poi sminuirla,
adorni l’incuria del mio spirito e lo nutri di imprescindibili carezze
incessanti. Sei il mio periferico organo vitale, il guscio immortale della mia
anima, il sospiro che arricchisce ogni respiro di significati dolceamari, acri e
spiritosi.
-Ma sai almeno qualcosa, una cosa,
d’inglese?-, ridi esasperato e pazzo. Pazzo, folle, scellerato, con quello
sguardo tutt’altro che limpido, ma torbido, schiumoso e indecente. Il ciuffo che
prima ti stringevo ora è libero, le mie mani scivolano sulle tue spalle;
nonostante la liberazione, non sposti il viso, mi scruti ancora da quella
mezzaluna magistralmente intagliata in porcellana olivastra, assolata,
selvaggia.
-Certo!-. Mi sollevo, costringendo anche te ad alzarti, e inizio a piroettare
attorno al tuo tronco, accarezzo i tuoi rami umidi e ti sfioro le fronde
cospicue e copiose, intonando:
-I’m singin’ in the rain, just singin’ in the rain!
What a glorious feelin’… I’m happy again!-.
Che delicatezza, che… bellezza, semplice, grezza e vera. Pura bellezza, bellezza
pura! Oh, acqua volubile e serafica, salvatrice delle mie membra disseccate,
depuratrice! Uccidi, schiaccia, polverizza i vermi ipocriti che ci calpestano,
scioglici da questo dolore, dissolvi in acido i loro corpi e, con essi,
fertilizza la nostra passione! Liberaci dal male! Viola, grigio, bianco… Mischia
il mischiato e il mischiabile, lasciaci soli nel nostro putridume, nel marciume
che ci ricopre, nella muffa benefica che ci permea!
Trionfa, lordura!
Trionfa, sporcizia!
Trionfa, amore!
O dolore! O dolore! Il
Tempo si mangia la vita,
e l’oscuro Nemico che
ci rode il cuore
cresce e si fortifica
col sangue che noi perdiamo!
(Charles Baudelaire, Fiori del male,
X)
Nel cielo scoppia un turbine di stelle che si riflette sul tuo tenero viso e,
come prima ha iniziato a piovere, così finisce.
Come prima tutto è iniziato, così finisce.
Non è tutto tenero ciò che si semina,
come petali di rosa, dopo poco termina;
quel che il cielo riflette son solo dolcezze,
mentre noi, bagnati, siamo in preda alle brezze.
Ci dilaniano, turpi, gli insetti epuranti,
ci perdiamo, noi, naufragando distanti.
|
|