Death Mask

di hirondelle_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Death Mask I ***
Capitolo 2: *** Death Mask II ***
Capitolo 3: *** Death Mask III ***
Capitolo 4: *** Death Mask IV ***
Capitolo 5: *** Death Mask V ***
Capitolo 6: *** Death Mask VI ***



Capitolo 1
*** Death Mask I ***


                                                                                                                               Autore: Macareux
Titolo: Death Mask
Titolo del capitolo: L’Isola I
Genere: Introspettivo, Romantico, Angst.
Avvertimenti: AU, Violenza, Contenuti Forti.
Rating: Arancione (tendente al rosso)
Pairing: Varie.
Desclaimer: I personaggi presenti in questa fanfiction non mi appartengono ma sono proprietà del rispettivo Autore. Questa fanfiction è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli avvenimenti descritti in questa fanfiction non sono mai esistiti, ogni avvenimento a fatti o persone reali è puramente casuale (… ci mancherebbe)
Attenzione!:Chiunque plagerà e/o prenderà ispirazione indebitamente da questa fanfiction verrà perseguitato dal sommo regolamento di EFP (?). Insomma, se volete scrivere qualcosa di simile avvisatemi, non vorrei che si creino dispiaceri come è già successo in passato.
Si ringrazianoe si chiede scusa a: Chiedo scusa innanzitutto a Cha-sensei (Flaine) per aver rubato la sua idea, ovvero scrivere nomi in codice per ogni personaggio. Diciamo che qui, come del resto nell’Isola che non C’è, i nomi in codice sono necessari. E volevo chiedere scusa a Roby, perché ruberò (?) la caratterizzazione di uno dei personaggi che ama di più. Cercherò di farmi perdonare…
Note 1: Questa fanfiction è ispirata al libro “L’Isola dei Liombruni” di Giovanni De Feo, a sua volta ispirato alla nota “Isola che non C’è” di Peter Pan.
 

 
 
Free spostò lo sguardo sulla luna di mezzanotte, talmente bella da sembrare quasi diafana. Le campane suonavano lentamente, con fare cadenzato, tutti i rintocchi della notte. Si diffondevano per le strade deserte, strisciavano lungo i vicoli solitari, si insinuavano sotto i portoni delle case disabitate nel freddo vento serale. Le luci dei lampioni illuminavano tristemente il vecchio viale principale, apparentemente vuoto sotto i brividi del freddo.
- Dobbiamo muoverci. – mormorò appena, la sabbia della spiaggia che attraversava vorace la strada per insinuarsi tra i suoi vestiti. Spirava il vento dal mare, un vento freddo e deciso, quasi volesse cacciarli da quel posto desolato. – Si sta avvicinando una tempesta.
Fiamma lo fissò, per nulla turbato da quella decisione. Scese dal muricciolo dal quale, da diversi minuti, controllava immobile il piccolo quartiere di periferia. Buttò la sigaretta a terra, spegnendola con un silenzioso scalpiccio del suo stivale, poi lo guardò senza una parola. Il capo era sempre stato lui, anche se Fiamma lo superava di diversi centimetri ed era più esperto nel nascondersi nel buio.
Presero a camminare lungo la strada, Fiamma si accese un’altra sigaretta e in breve iniziò a lasciare una scia di fumo lungo il loro percorso, come una presenza diafana e misteriosa. Ma erano solo loro, Free e Fiamma, due ragazzi cresciuti troppo in fretta. Nulla di più.
Solo quando il vento iniziò violento a battere contro i loro giacconi scuri Free decise di prendere qualche strada secondaria, piccole scorciatoie che con il tempo aveva imparato a conoscere come le proprie tasche. Proseguirono appoggiandosi ai muri di pietra, ascoltando il lamento dei cunicoli del paese. Forse, in quell’interminabile labirinto di acciottolati, avrebbero trovato Donnola… ma non era semplice, troppe cose da constatare, troppi rumori da percepire. Donnola non era facile da scovare.
Free fece segno a Fiamma di seguirlo per la strada che portava alla chiesetta. Il compagno semplicemente annuì, limitandosi a camminargli a fianco, come a proteggerlo: ma non c’era nessuno lì, solo loro due. Niente li avrebbe mai attaccati, non c’era nulla da temere.
I ragazzi si strinsero nei loro giacconi in silenzio, ogni parola sarebbe stata trascinata via. Salirono osservando biechi le case pallide e smunte, file di portoni dall’aria dimessa pronti a volare via. Ma c’era ancora qualcuno, lì, dietro quelle finestre simili ad occhi: nessuno lo sapeva. Nessuno lo sapeva, tranne Free e Fiamma ovviamente, ma entrambi non volevano avere a che fare con quella gente. A loro bastava l’oro, nulla di più.
- Mettiti questa. – borbottò Fiamma guardandolo di sottecchi, prima di porgergli la sua sciarpa: aveva notato da parecchio che il più piccolo stava tremando, a Free non era mai piaciuto il freddo della pioggia. Egli non accettò comunque la sciarpa, troppo orgoglioso e troppo attento al mondo che lo circondava per percepire il compagno. Troppo distante, si era sempre detto Fiamma. Si rimise la sciarpa senza una parola, socchiudendo gli occhi al vento sempre più imperioso.
Arrivarono alla chiesetta che aveva già iniziato a piovere, una pioggerella fine, apparentemente tranquilla. Presto il cielo avrebbe iniziato a piangere.
Free spalancò la porta principale con un gesto freddo, entrando nel barcollante edificio senza una parola. Osservò con cipiglio l’enorme squarcio sul tetto cadente, ma non fece alcunché: si limitò a sedersi per terra vicino a un cumulo di macerie, facendo posto all’altro con naturalezza. – Qui staremo al sicuro. – mormorò,  stringendosi le ginocchia al petto. Fiamma non rispose, si limitò ad accendere un’altra sigaretta, guardando con muto interesse l’altare spaccato rovinosamente in due, le cere delle candele ancora sul pavimento polveroso, i segni di un piccolo incendio dove un tempo doveva esserci stata la statua di una Madonna. Una chiesa cristiana. Ne aveva viste tante, in vita sua.
- Gli altri se la caveranno? – mormorò assente Fiamma ascoltando la furia delle onde lontane. Free gli prese la sigaretta dalle dita e fece un tiro intenso, chiudendo estasiato gli occhi come sotto l’effetto di una droga. – Conoscendoli, saranno a scopare da qualche parte.
Fiamma si mise a ridere, una risata cupa e leggera: - Oh sì, ci staranno dando dentro a quest’ora. In fondo a nessuno piace fare i turni.
Non si erano accorti di essersi avvicinati l’uno all’altro, sotto gli spifferi incessanti della tempesta. Troppo intenti ad ignorarsi per comprenderlo, troppo stupidi, forse troppo insofferenti alla presenza del proprio compagno. Eppure entrambi sapevano che nessuno dei due sarebbe riuscito a sopravvivere senza l’altro.
- Domani è il mio compleanno. – borbottò assente Free guardando il cielo plumbeo oltre lo squarcio. – Cosa mi regali?
- Una stella.
Free si voltò verso di lui, serio. Odiava quando il compagno lo prendeva in giro, sebbene sapesse che il segreto stava tutto nell’indifferenza. – Dico sul serio, Fiamma.
- L’uomo libero vuole un regalo. – mormorò assente il compagno sorridendo accattivante. – L’uomo libero vuole rimanere ancora legato per un po’.
Free non rispose. Si stese semplicemente tra i calcinacci e le immondizie, percependo che la tempesta sarebbe passata presto. Nulla traspariva dalla sua espressione immobile ed eterea, Fiamma non provò nemmeno a comprenderla. Stette lì, seduto accanto al ragazzo, a fumare una sigaretta dopo l’altra.
Non ci fu spazio per dirsi nulla.

 

 
Astro uscì dalla cascina malmessa che si era già fatto giorno. Per le strade tuttavia non c’era ancora anima viva, tutti erano probabilmente ancora tra le lenzuola smesse di qualche casa in disuso come loro. Eppure, di solito, i ragazzi prestanti a quell’ora si affrettavano lungo le stradine di ciottoli con ceste di pesci in mano, felici dopo una notte proficua, e le ragazze tornavano dal fiume con la biancheria da stendere cantando qualche canzoncina sciocca tipica delle donne.
Il ragazzo si appoggiò allo stipite guardando assonnato il sole già alto sul mare. Sbadigliò, tastando nella tasca dei jeans alla ricerca del suo fidato pacchetto di sigarette: maledizione, le aveva finite quella sera.
Spostò lo sguardo sul matrimoniale sfondato al centro della stanza, dove una figura si contorceva ancora nel letto cercando l’ultimo barlume di calore tra le lenzuola, nuda, lì dove l’aveva lasciata. Non era sveglia, semplicemente sembrava voler rincorrere un sogno.
Si avvicinò di soppiatto a Bijou, salì sul letto e gli morse un orecchio, leccando voluttuosamente l’orecchino. Quello aprì appena gli occhi chiari, prima di sorridere impacciato ed affondare la testa nel cuscino.
- Un tuffo in mare prima di darcela a gambe? – propose accattivante Astro sussurrandogli quelle poche parole con tanta sensualità da far arrossire di botto il ragazzino, il quale annuì dopo aver alzato il capo dalla stoffa.
Tuttavia nessuno dei due volle alzarsi subito da quel letto che, alla fin fine, aveva fatto da scenario a chissà quante scopate come la loro. Ma del resto, quando si trattava di Bijou, il pudore rimaneva una cosa a parte.
Astro addirittura si assopì, cercando calore nel corpo dell’altro, badando bene di ricoprirlo di attenzioni. Furono, come al solito, gli sbuffi del compagno a risvegliarlo. Gli buttò le lenzuola sporche addosso senza grazia, per poi alzarsi sistemandosi la zip dei pantaloni. Faceva freddo dopo la tempesta di quella notte, ma la maglietta era, almeno per il momento, inutilizzabile.
 Fu sentendo il tintinnio familiare delle collane che Astro si girò verso di lui, guardandolo serio: nonostante fossero passati anni da quel giorno, le cicatrici erano ancora ben visibili sulla sua schiena bianca, come provocati da laceranti artigli rossi. Era passato talmente tanto tempo che nessuno dei due lo contava davvero, eppure i ricordi sbiaditi erano ancora là, appiccicati alla pelle come tizzoni ardenti: Astro sentiva di voler proteggerlo. Di voler proteggerlo da tutto: dalle orgie in riva al mare, dalla droga spacciata sulla spiaggia come zucchero filato, dagli sguardi di chi ormai considerava Bijou pazzo..
Bijou non era pazzo. Non era pazzo. Non ancora, almeno.
Sentì il proprio nome pronunciato da quelle labbra sottili, le vocali strascicate di chi ha ancora sonno. – Mi aiuti?
Astro era consapevole che Bijou, per allacciarsi le cinque collane che soleva portare al collo, non aveva bisogno d’aiuto. Eppure quei gesti semplici e intimi erano diventati quasi un rito, da quando si erano conosciuti: Astro sorrise e si sedette di nuovo sul letto, a sistemare i gancetti. Bijou piegò la testa alla ricerca di un bacio.
Scesero in spiaggia mano nella mano, vestiti solo dai jeans aderenti. Bijou avanzava con le collane che tintinnavano sul suo petto latteo, i bracciali d’argento mandavano bagliori alla luce del mattino, l’orecchino dondolava pigro accompagnato dalla brezza del mare. Semplicemente meraviglioso, pensò Astro, prima di rubargli un altro bacio.
- La coppietta innamorata. Che tenerezza. – soggiunse una voce sarcastica dalle ripide scalette del vicolo. Astro si guardò attorno indispettito, riconoscendo la figura di Black appoggiata a un portone sudicio di salsedine. Mancava davvero poco al mare.
- Ma guardalo. – rispose a tono, fissandolo superiore. – Hai finito di leccare il culo al tuo capo e sei venuto a rompere le scatole a noi, non è così?

Black ghignò, si scostò dal muricciolo dal quale si era messo ad osservare la strada: da lì era facile osservare e restare inosservati, al riparo dalle ombre delle case. Estrasse il coltellino dalla tasca dei pantaloni con un gesto fluido, puntandolo alla sua gola. – Ho decisamente di meglio da fare.
- Noto. – sghignazzò Astro rispondendo sfilando il pugnale dalla cintura.
Per quanto riguarda Bijou, si era seduto su uno dei scalini di pietra, osservandoli con fare quasi annoiato. Perché era sicuro che, se fossero venuti alle mani, avrebbe vinto certamente Astro.
Lo sguardo di Black vacillò infatti appena vide il pugnale. Bello, dall’impugnatura d’oro zecchino, ben lucidato ma ancora con qualche incrostazione di sangue a deturpare la lama. Un’arma degna di un cacciatore di tesori. Ripose il misero coltellino nella tasca e ringhiò nella sua direzione, per poi caracollare giù per la discesa senza una parola.
Black era impulsivo, non stupido.
- Quelli lì sanno solo cazzeggiare. – commentò Astro riponendo il pugnale nel fodero. Rivolse uno sguardo dolce al suo Bijou e sorrise: - Andiamo?

 
 

 
 

- Una festa? – si accigliò sospettoso Night, guardandolo di sottecchi e aspirando una boccata dalla sigaretta. Perfect, la mente in parte distratta da una partita a solitario, annuì impercettibilmente. – Sì. Una festa. – ripeté piano,  senza smettere di fissare le quattro file di carte con assoluta calma. Perfect manteneva sempre la calma, una parte di lui che in un certo senso irritava la maggior parte della banda.
- Perché Donnola dovrebbe  invitarci a una delle sue feste? – mormorò il pensieroso Night, sedendosi sulla sua tappezzata poltrona di velluto. Il sole filtrava attraverso le persiane malamente chiuse, illuminando a spiragli il covo segreto del gruppo, di certo non conosciuto per il suo ordine: sedie e tavoli rovesciati, bottiglie di alcool abbandonati sul pavimento marcio e incrostato, mozziconi di sigaretta e un impregnante odore di vodka, fumo e sesso; quadri dal valore inestimabile rovinavano a terra, coperti dalla terra e dalla polvere. L’informatore si guardò attorno, impassibile, prima di concentrarsi sulle sue inseparabili carte. – Non ne ho idea. Io, del resto, sono un semplice messaggero.
Night lo guardò bieco: in realtà Perfect era molto più furbo e consapevole di quanto facesse intendere. Certo, lui era solo un informatore, un elemento neutrale in mezzo a tutte quelle bande che si contendevano l’isola… ma i suoi occhi, apparentemente sempre concentrati sulle sue carte da gioco, vedevano. E aspettavano.
Dei messaggeri, questo era certo, non bisognava fidarsi ciecamente.
- È tutto qui? Ti ho scopato per una cosa del genere?
- I messaggi hanno il loro prezzo. – mormorò semplicemente Perfect riunendo tutte le carte e riponendole nella borsa. Si alzò dal divano e si rivestì lentamente, il pudore abbandonato su uno di quei letti sudici, senza preoccuparsi dello sguardo ancora affamato e languido dell’altro. Si guardò poi allo specchio appoggiato alla parete vicino alla finestra, sistemandosi i capelli ribelli con un gesto semplice della mano nivea. – Lo sai Night? – disse poi voltandosi verso di lui, pronto per andarsene. - È sempre un piacere consegnarti i messaggi.
Night rise sommessamente, i suoi occhi azzurri si socchiusero appena squadrando la dolce e minuta figura di Perfect. – Torna pure quando desideri.
Il messaggero sembrò rimanere impassibile, ma al capobanda non sfuggì un sorriso ammiccante. Il ragazzino sparì tra le velate e calde luci dell’alba, senza una parola di più.
Night rimase a lungo seduto, abbandonando la testa sullo schienale a fissare il soffitto di muffa. Il fumo si spargeva per la stanza, nella penombra, disegnando volti astratti tra gli sbuffi biancastri.
Una festa. Per quale ragione? Night se lo chiese, alzandosi pigro per prendersi i vestiti. Appena i suoi occhi incontrarono uno spiraglio di luce sbatté le palpebre irritato, per poi dare un colpo forte a una delle persiane: essa crollò malamente, coprendo anche l’ultimo fiotto di sole.
Quali erano le intenzioni di Donnola? Una richiesta di favori, uno scambio di merci? No, non poteva essere, Donnola era fin troppo abile per procurarsi da solo tutto ciò che voleva: non c’era cosa che quel ragazzo potesse fare, rubare o procurare, tanto che era ben conosciuto nell’isola non solo per la sua fama di capobanda, ma anche per la sua infallibile astuzia.
Night ghignò, la cicca in bocca, infilandosi i jeans scoloriti. Qualunque cosa volesse Donnola da lui, di certo avrebbe preteso un pagamento equo.

 

 
Due ore prima

 
Donnola fissò a lungo Soldier, prima di compiere un gesto d’assenso con la mano inanellata: - Non fare tardi.
Il ragazzo s’illuminò a quelle parole, e sotto l’elmo ammaccato dal quale non si separava praticamente mai nacque un dolce sorriso. Donnola sapeva quanto ci tenesse ai rari incontri con uno dei messaggeri, e di certo non si considerava abbastanza potente da fermarlo. Sapeva, però, che il loro amore “segreto” non sarebbe durato: lì, nell’isola, l’amore non durava mai.
- Ah, Scheggia, scopami più forte, di più… - iniziò dunque a gridare Masquerade rotolandosi sul letto, la voce alterata e le braccia a circondarsi la vita. – Mi piace, Scheggia, mi piace
- Ma finiscila, coglione. – sbuffò stizzito Soldier arrossendo appena, tirandogli dietro una cucinata che lo centrò in pieno. Tuttavia, grazie alla maschera che soleva portare la vittima, egli non si ferì minimamente. Scoppiò anzi a ridere, e l’intera banda con lui.
Soldier decise di ignorarli, del resto non aveva molto tempo a disposizione e bisognava fare in fretta. Il capobanda gli sussurrò il messaggio all’orecchio, le labbra fini a sfiorarlo leggermente come una carezza, e Soldier scese dal faro che usavano come covo a piccoli passi, evitando gli scalini marci con balzi calcolati.
Erano ben pochi i ragazzi in grado di scrivere, ancor meno coloro che sapevano leggere. I messaggi venivano da sempre trasmessi oralmente, ragion per cui bisognava rivelarli a persone ben fidate se si voleva mantenere le informazioni al sicuro. Di certo, ciò non poteva valere per il messaggio che in quel momento Soldier si ripeteva da un po’, come una cantilena: si trattava di un semplice invito a una delle tante feste del suo capobanda, una di quelle che si pensava sarebbe stata ricca di sorprese. Donnola aveva invitato quasi tutta l’isola, eccetto ovviamente i Figli del Traghettatore.
Soldier corse, elettrizzato, lungo la spiaggia disseminata di mozziconi di sigaretta. La strada era ancora lunga, ma il suo animo invincibile: già poteva scorgere, in lontananza, la scogliera adiacente alla foresta. Il ritrovo dei messaggeri si trovava lì, in mezzo alla boscaglia, al riparo da occhi indiscreti. Sarebbe bastato raggiungere l’enorme albero concavo che si erigeva sul promontorio.
Si arrampicò con destrezza, il messaggio offuscato appena dal pensiero di Scheggia: era passata solo una settimana dal loro ultimo incontro, e già sembravano anni. I muscoli di Soldier scattarono agili e forti come molle, e nel giro di mezz’ora fu già in cima, ad ammirare la distesa azzurra dell’infinito.
Non si fermò molto: proseguì lungo il sentiero di ciottoli che portava alla boscaglia, salendo il profilo della punta. I gabbiani si chiamavano in un coro stridulo di versi, scendevano in picchiata verso il mare per poi risalire, trionfanti, un pesce nel becco adunco. Era risaputo che i loro nidi dessero il nome al promontorio: lo Sperone dei Gabbiani era già attivo ancora prima che il sole sorgesse.
Soldier emise un fischio sordo, poi un altro più lungo: ai messaggeri non piaceva ricevere visite inopportune. Il segnale significava il recapito di un messaggio.
Pochi passi, e Soldier giunse nel piccolo covo degli informatori: poche capanne addossate all’albero più grande che gli occhi dei ragazzi avessero mai visto, assi di legno sovrapposte l’una all’altra a riparare pochi giacigli lerci. Eppure i messaggeri si definivano orgogliosi della loro dimora, e non c’era da ribattere assolutamente con loro.
Seduto ai piedi di un giovane albero, il capo degli informatori fumava paziente una sigaretta: come sempre, era intento a una partita a Solitario.
Soldier non conosceva bene Perfect, ma si era fatto un’idea abbastanza chiara sul suo conto: alto, smilzo, spalle ampie, portamento gentile ed educato con la maggior parte delle donne; ma a volte tanto ombroso da risultare persino inquietante. Ovunque andasse, c’erano le carte da gioco a parlare per lui: si diceva che fosse stato, oltreoceano, un fenomeno da circo. Nessuno però sapeva la verità.
- Cerchi Scheggia. Ho indovinato.
La sua voce arrivò con un sussurro, eppure chiara e limpida come se avesse parlato normalmente.  Soldier sussultò imbarazzato, accorgendosi solo in quell’istante di averlo fissato con troppa intensità. I suoi pensieri furono subito frenati da passi svelti e agili, poi un abbraccio soffocante: Scheggia era lì, i suoi riccioli ribelli illuminati appena dalla poca luce che spezzava la fitta volta di rami. – Sei tornato! – gridò in estasi. – Sei tornato per me!
Soldier sorrise e strinse forte il messaggero più giovane dell’isola: appena tredici anni, o almeno tutti avevano deciso così di comune accordo. Si diceva che fosse anche l’informatore più veloce, si poteva elogiarlo un po’ mano per la sua affidabilità: era risaputo che Scheggia amasse parlare. Soldier sentiva comunque di amarlo, dal più profondo del cuore: come poteva essere l’amore tanto sbagliato, lì nell’isola? – Ho un messaggio…
- Vieni. – lo interruppe Scheggia prendendolo per mano, ridendo civettuolo. – Vieni, parliamo dopo.
E le sue labbra si posarono sulle proprie, incandescenti e proibite, scarlatte quanto il fuoco di uno di quei falò che si accendevano sulla spiaggia. Una delle sue mani scivolò oltre l’orlo dei boxer facendolo mugolare: Soldier si separò da lui prima di perdere completamente la testa. – Me lo dimenticherò come l’altra volta! – protestò in completa balia del suo sguardo, assuefatto dal suo profumo pungente di muschio.
- Vorrà dire che me lo gemerai all’orecchio fin quando non sorgerà l’alba. – lo tentò Scheggia iniziando febbrile a spogliarlo, trascinandolo verso uno dei giacigli. – Ora baciami.
 
Perfect li osservò a lungo fare l’amore, in silenzio, per non interrompere la sfilza di gemiti e baci proibiti.
Quei due non sarebbero durati ancora per molto. Perché l’amore, nell’isola, non durava mai più del previsto.
Spostò lo sguardo sulle quattro file di carte ancora perfettamente allineate: in fondo, che ne poteva sapere lui? Lui era un semplice informatore.
Solo un semplice informatore.
 
Angolino di Macareux
Salve c:
Eccomi qui con una nuova long-fic.
Sicuramente vi chiederete: “Ma come, non dovevi riscrivere il Re dei Ladri?”
L’amara verità, purtroppo, è che non ce l’ho fatta. Al suo posto si è creata una long-fic completamente differente: diversi i personaggi, le ambientazioni, i caratteri, la trama. Ho cambiato davvero tutto, ragazzi. E non l’ho fatto per cattiveria, semplicemente non sono riuscita a creare una ristesura per quella long che molti di voi amavano e aspettavano con ansia…
Per chi volesse rileggere la vecchia creazione può comunque chiederla via MP: ve lo devo, del resto non ho mantenuto una promessa.
Spero che questa long vi aggradi comunque: l’ispirazione mi è venuta rileggendo “L’Isola dei Liombruni”, un romanzo di Giovanni De Feo ispirato appunto all’Isola che non C’è. Mi è sembrato carino riprendere un po’ uno dei libri che mi hanno attratta di più, sebbene non abbia intenzione di inserire alcun elemento Fantasy.
Sarei felice se qualcuno mi dimostrasse qualche suo parere attraverso una recensione: ogni critica è ben accetta! –purché abbia senso-
Ah… mi piacerebbe sapere se qualcuno ha indovinato le identità dei personaggi ;)
Un bacio!
 
 

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Capitolo 2
*** Death Mask II ***


Death Mask

 
- Una festa? – domandò raggiante Scheggia, ridacchiando quando il compagno gli rubò un altro bacio nel vestirsi. L’alba non era ancora sorta, ma già si potevano intravedere i primi chiarori del giorno a spazzare via le ultime ombre della Dama delle Stelle. Scheggia si ricordava ancora quando, da bambino, si divertiva a correre nella più completa oscurità, solo per provare la piacevole sensazione di passare inosservati…
- Una festa. Ha invitato anche voi. – sorrise Soldier scompigliandogli il cespuglio rossiccio che gli contornava il viso ridente. – Stasera, appena il sole non se ne va giù.
Scheggia sorrise e si coprì maggiormente con il lenzuolo lercio, guardandolo accattivante: - Sarà la mia prima volta… Come vuoi che mi vesta?
Soldier arrossì e borbottò qualcosa del tipo: “come vuoi”, anche se l’immagine di Scheggia semi-nudo stava costituendo un grave pericolo per la sua sanità mentale. Finì di vestirsi, ma subito il messaggero lo travolse portandolo a baciarlo con passione, ridendo furbescamente: - Come sei buffo!
Quella risata argentina accompagnò il giovane Soldier per tutta la camminata verso il faro, offuscandogli la mente con il suo suono piacevole. Come poteva l’amore essere una cosa tanto sbagliata, se condivisa con lui? Più volte Soldier se lo era chiesto, non trovando mai una vera risposta. Amava Scheggia più di se stesso, sebbene all’inizio aveva fatto fatica a capirlo e ad accettarlo. La sua intera vita, dal suo arrivo nell’isola, era cambiata radicalmente.
 
- Fratello, non ti sembra di esagerare? Per quanto tempo intendi illuderlo? – domandò un ragazzo sui diciassette anni, le dita a strimpellare una vecchia chitarra malmessa. Si era seduto accanto a Perfect, sebbene entrambi volessero ignorare l’esistenza dell’altro. Il capobanda alzò lo sguardo dalle sue carte con fare inquisitore, negli occhi la stessa domanda di Onda.
- Non lo sto illudendo, è simpatico. – osservò Scheggia passandosi una mano tra i riccioli ribelli. Sviò il loro sguardo per poi incamminarsi lungo il sentiero, verso il confine della foresta. – Ho un messaggio da recapitare alle Sirene e agli Stellati. – replicò poi, salutandoli con una mano inanellata.
- Aspetta. – lo fermò calmo Perfect, fissandolo con attenzione. – Vado io dagli Stellati, Onda ti accompagnerà dalle Sirene… sei ancora inesperto. Che messaggio è?
- Una festa. Stasera, in spiaggia. Ha invitato anche noi. – spiegò conciso il ragazzino, annuendo: in effetti, era ancora troppo giovane per poter chiedere il “pagamento” per la consegna, sebbene avesse già esperienza nel campo. I capobanda si rifiutavano di avere rapporti sessuali con minori di sedici anni, e non era stato per nulla facile all’inizio venire accettato come messaggero. Alla fine sia le Sirene che gli Stellati si limitavano a miseri servizietti… Scheggia comunque preferiva le Sirene; erano le uniche ragazze dell’isola, e avevano diverse basi nelle quali nascondevano ogni cibo possibile e immaginabile: il ragazzino amava farsi coccolare dalle fanciulle come un pulcino.
- Evvai, un po’ figa!! – esclamò Onda scattando in piedi, la chitarra abbandonata ai piedi dell’albero.
- Che porco che sei. – mormorò Scheggia corrugando la fronte. – Tanto si vede lontano un miglio che il tuo unico intento è scoparti Il Sacerdote.
Onda lo fulminò con lo sguardo, poi sbuffò infastidito: - Che moccioso impertinente.
- Il moccioso sarai tu, coglione! – replicò Scheggia affrontandolo a muso duro, benché il surfista lo superasse di almeno una trentina di centimetri. – Ti lascio a riva, pidocchio! – minacciò ringhiando l’altro chinandosi su di lui.
- Smettetela, deficienti. – li interruppe con assoluta tranquillità Perfect. Raccolse con calma tutte le sue carte, infilandosele in una delle tasche della camicia a quadri, aperta a mostrare la pelle nivea. – Sbrigatevi a consegnare il messaggio piuttosto, non abbiamo tutta la giornata.
- Certo. – borbottò Onda abbassando lo sguardo: contro Perfect era difficile vincere, affrontarlo si rivelava pericoloso. Scheggia lo imitò, facendo piccoli inchini.
Appena Perfect se ne fu andato, i seguaci si incamminarono verso la spiaggia. Scheggia guardò di sottecchi il veterano per diverse volte, fino a quando non giunsero nei pressi della scogliera. Onda iniziò a scendere agilmente, la pelle del petto nudo appena sudata e lucente. Scheggia lo fissò intensamente per diversi minuti, prima di scendere con lui in modo un po’ goffo. Quando i suoi piedi nudi incontrarono la sabbia non ancora bollente si rasserenò rilassato. – Davvero mi lasci a riva?
- No, piccolo scricciolo. – rise sornione il messaggero più grande scompigliandogli i capelli con fare fraterno. – Sta’ sereno. Che vuoi che sia in confronto all’immensità dell’oceano…
Scheggia lo osservò prendere la tavola da una grotta segreta ai piedi della scogliera, fissarla un attimo come sotto ipnosi e portarla in mare accarezzandola come una bambina. – Però muoviti! – esclamò poi Onda alzando lo sguardo.
Scheggia sorrise e lo raggiunse, pensando che il surfista fosse un tipo molto strano…

 

 

Night si lasciò incantare per diversi minuti dal fuoco del falò, ammirandone le fiamme alte e voraci come un bambino guarda incantato un giocoliere esperto nelle sue arti. Fissava la notte, così bella e calma, così apparentemente fredda con quel manto puntellato di stelle: era il suo nome, un nome che era stato scelto per lui molto tempo prima, quando ancora non sapeva contare e gli anni erano dettati dalle dita alzate della piccola mano paffuta.
Gli invitati stavano già iniziando ad arrivare alla spiaggia, eccitati al solo pensiero di una notte diversa dalle altre senza alcuna inibizione… ma c’era mai stata inibizione in tutto ciò che facevano sull’isola? Night non ricordava.
Donnola se ne stava lì, appoggiato a uno degli scogli, intento a contare le bottiglie di alcolici per l’ennesima volta: Night fissò la sua figura slanciata e i lunghi capelli biondi mossi appena dalla brezza del mare. La musica rimbombava nelle orecchie quasi in modo fastidioso ma al contempo euforico, già i primi arrivati iniziavano a ballare, strusciandosi tra loro e scambiandosi baci fugaci e maliziosi: Night sentiva di appartenere a quei momenti di assoluta libertà, senza vincoli, il solo desiderio di sentire pelle contro pelle, labbra contro labbra; non importava il dove o il perché.
Sentì due mani stringersi sui suoi fianchi lattei , una voce calma sussurrargli all’orecchio parole strascicate: - Come siamo sexy stasera.
Night si voltò per incrociare lo sguardo color oro di Perfect, i capelli grigi tinti dall’ultima luce del giorno di rassicuranti sfumature rossastre. Era vestito –il termine corretto sarebbe stato “svestito”- più o meno come lui: canottiera nera attillata, jeans larghi e scoloriti che lasciavano appena scoperto il ventre liscio e immacolato, diverse collane d’oro e bracciali incastonati di pietre preziose. Era appena truccato, ma non in modo femmineo, anzi suscitando un certo fascino negli occhi di chi lo guardava. In effetti si poteva dire che Perfect avesse addosso gli sguardi languidi di mezza isola.
- Ma ciao. – rise Night portando le loro labbra a contatto, un bacio viscido e impuro senza il minimo sentimento che lo elettrizzò da capo ai piedi: baciare Perfect era un’esperienza decisamente accattivante. Già stavano andando decisamente oltre, le mani che tastavano il cavallo dei pantaloni dell’altro in una morsa famelica. Night però interruppe il contatto, scuotendo la testa con un sorrisetto: - Dopo. Sarà più divertente.
Perfect inizialmente sembrò estremamente deluso, poi fece spallucce e si allontanò senza una parola, alla ricerca di qualche preda facile. Night invece si guardò attorno, scrutando la gente attorno al falò che si era decisamente moltiplicata. Erano arrivate anche le Sirene, coi loro vestiti succinti e decisamente volgari, truccate pesantemente e ingioiellate, come era loro solito senza il minimo pudore: anche così erano bellissime. Il loro capobanda, una ragazza sui sedici anni, rivolgeva sguardi ammiccanti a tutti coloro che la osservavano con una sorta di ammirazione: Night pensò ad un certo punto che avesse guardato anche lui, con quegli occhi azzurro cielo tanto grandi da sembrare pietre incastonate.
In un angolo, al riparo tra gli scogli, le coppiette si scambiavano dolci effusioni: la maggior parte dei ragazzi finivano con l’evitarle, perché era chiaro come sarebbe andata a finire. Nessuno sembrava voler prendere contatti con loro, eppure le coppie erano felici nella loro intimità: il messaggero nuovo era seduto accanto al ragazzo con l’elmo, Astro rideva con Bijou. Erano un mondo a parte, loro. Un mondo diverso, irraggiungibile, ma che avrebbe smesso presto di girare.
A guardarli, in un certo senso, si provava quasi pena.
- Ti diverti?
Night si girò e incrociò gli occhi cremisi di Donnola: uno degli sguardi più bramati di tutta l’isola. A differenza degli altri ragazzi, lui era completamente vestito: una maglia leggera a maniche lunghe, le righe rosse e nere che quasi si confondevano nella penombra della notte, un gilet di pelle aperto sul davanti, pantaloni di tela stretti a fasciargli le gambe bianche. Nessuno l’aveva mai visto nudo, o semi-nudo. Si diceva persino che fosse ancora vergine.
Night sorrise squadrandolo da capo ai piedi, al suo solito: - Bel modo di entrare nelle grazie di un certo qualcuno, direi. Sei proprio un vero leccapiedi, è vero quello che si dice su di te.
Donnola chiuse un occhio in un sorriso ammiccante. – Bingo. O forse no.
La risposta non piacque a Night che corrugò la fronte delicata. Prese la bottiglia di alcool che gli stava offendo il ragazzo biondo quasi senza accorgersene, bevve un sorso sentendo appena un brivido ghiacciato scendergli giù per la gola: la volpe aveva un piano. Voleva qualcosa da lui… ma cosa?
 Donnola non sembrò volergli rivelare nulla. Si lasciò distrarre dalla musica, dai seni delle ragazze e dalle lingue che giocavano in una danza sfrenata e selvaggia, dondolando la testa al ritmo incalzante. Poi, dopo quell’istante immobile, gli rivolse un’occhiata civettuola: - Come sta Day?
Night a quelle parole venne travolto da un brivido di terrore. Lui sapeva. Si guardò circospetto attorno per assicurarsi che nessuno avesse sentito. – Ma che dici? Day sono io. Ho solo cambiato nome.
Donnola rise come se avesse detto una cosa decisamente divertente: si portò una mano alla bocca, scoprendo le dita fini e delicate come porcellana erose da taglietti. – Si cambia il nome Night, non la persona. Mi sono accorto lo sai? Tu e Day siete due persone diverse. Vi siete illusi di diventare il sostituto dell’altro, ma non sono stupido.
- Cazzo vuoi? – ringhiò diretto Night. Oh, gli avrebbe spaccato volentieri la bottiglia in faccia. Gli avrebbe strappato i vestiti. L’avrebbe violentato prima di mezzanotte, quando lui se ne andava puntualmente a dormire. Lo avrebbe sverginato con ferocia, chi se ne fregava in fondo di quel suo bel faccino?
- Io? L’isola. Nulla di speciale.
L’isola. Questo voleva, voleva il potere sull’isola: assoluto, nessuno a contrastarlo. Era quello che volevano tutti, in fondo: una cosa tanto grande da sembrare irraggiungibile, eppure degna di speranza. – Cosa mi vorresti dare in cambio? Ma stai scherzando?
- Pensavo che le informazioni in mio possesso fossero più che sufficienti, Night. – sorrise perfido e aggraziato Donnola. – Immagino che Day abbia bisogno di un certo aiuto dopo quel giorno, non credi? – Dopodiché rise cristallino. Night lo guardò con odio, la rabbia gli cresceva nel petto: un ricatto. Se avesse rifiutato, avrebbe sparso in giro la voce che nascondeva uno di loro. Se avesse accettato, il potere sarebbe passato a Donnola, lui avrebbe avuto le medicazioni necessarie per Day ma avrebbe dovuto agire nell’ombra.
La sua voce lo riscosse dai suoi pensieri furiosi: - Parlane pure con lui. Ti do tempo, nessuna fretta. - Poi i suoi capelli d’oro sferzarono l’aria come una frusta, mentre si voltava e raggiungeva la banda dei Divini, il sorriso sulle labbra sottili. Donnola aveva vinto.
Donnola aveva vinto su tutto.
- Ehi.
Night si girò nella stretta di due braccia esili e bianche, vide il volto di Perfect stravolto dall’alcool e dal fumo. – Ora è dopo. Balliamo un po’? – sussurrò posando le labbra contro le sue, senza lasciargli il tempo di ribattere.
Night si lasciò andare in balia dei colori, della musica e delle risate sguaiate. Si appoggiò a uno scoglio senza protestare, sentendo le mani di Perfect scivolare su di lui come sabbia bollente. Non capì più niente.
Non volle capire più niente.

 

 

Onda fece scorrere le sue mani sulla sua schiena nuda, respirando piano, la testa abbandonata contro le scalinate e gli occhi chiusi: il mare s’infrangeva contro gli scogli nascondendo i gemiti che uscivano dalla sua bocca, gli stessi che si erano ripetuti quasi tutte le sere.
“Sono venuto a tenerti compagnia”, era la scusa che funzionava sempre. “Sei sempre tutto solo, qui”.
Il Sacerdote si alzò dal suo bacino e si sollevò sulle mani per avanzare leggermente, ad appoggiare il capo sul suo grembo, le gambe scure di Onda ancora aperte sotto di lui. Lo osservò in silenzio, con gli occhi azzurri grandi e dolci che lo fissavano quasi impazienti, i capelli biondi scossi appena dalla brezza, l’oro degli orecchini reso fulgido dalla pira sulla spiaggia in riva al mare. Il messaggero spostò lo sguardo su di lui, ancora intontito, la musica della festa arrivava lontano alle sue orecchie in brevi suoni ovattati.
Nei pressi dello Scoglio delle Sirene regnava sempre il rumore delle onde che si infrangevano sulle rocce ruvide e i canti delle ragazze, il loro vociare e le loro risate, ma quella sera era diverso: c’era solo il rumore del mare, solo per loro, come a voler proteggerli in una bolla impenetrabile. Onda gli accarezzò i capelli e Il Sacerdote sorrise, socchiudendo gli occhi, come un gattino che si abbandona alle coccole del padrone. Sembrò capire anche senza bisogno di parole: non ci sarebbe stato un seguito, non quella sera. Poi si alzò in piedi, lo fissò per un po’ e lasciò che il suo sguardo scivolasse sul suo corpo ancora una volta: un’immagine terribile, cattiva e perfida, un groppo alla gola per chiunque non ci fosse abituato. Eppure Onda aveva smesso da tempo di sobbalzare appena Il Sacerdote si spogliava davanti a lui, aveva smesso di cercare o immaginare cose che non c’erano più da tempo. A volte c’era solo il desiderio, l’urgenza di sentire quella pelle proibita sotto le dita.
Il Sacerdote raccolse con delicatezza il kimono da terra, bianco come la spuma, se lo infilò con grazia misurata, per poi indossare anche i pantaloni di tela. Lasciò che l’oro delle collane scivolasse sul suo petto, le clavicole scoperte alla luce lunare, si sgranchì i muscoli tesi fino allo spasmo, socchiuse gli occhi. Poi raccolse la lancia e si voltò a guardarlo.
E lo guardò a lungo, osservando ogni minimo dettaglio di lui, come a volerlo imprimere nella memoria. Faceva sempre così, ogni sera: lo osservava, senza la minima espressione, come se stesse guardando una cosa lontana e irraggiungibile. E allora Onda si avvicinava, intrecciava una mano con la sua e lo baciava. Lo fece anche quella sera, badando bene di morderlo piano, senza ferocia. Si ricordò delle parole che aveva detto a Scheggia solo quella mattina: illuderlo. Onda era consapevole di star solo illudendolo, eppure c’era qualcosa che non capiva mai durante i loro incontri. Si era avvicinato a lui solo per sfizio, per curiosità, e ora eccolo lì, sullo Scoglio delle Sirene a baciarlo e a morderlo. Lo voleva.
Qualche tocco sulla spalla, il segno di fastidio: Onda si scostò da lui con un sorriso perverso. – Va bene, va bene, mi vesto anche io.
Si avvicinò agli scogli, lì dove aveva lasciato il costume. Ma si bloccò, appena notò qualcosa d’insolito nell’acqua: rossa. Rabbrividì e si avvicinò cautamente, notando un oggetto sottile e bianco tra le rocce: un braccio. Le onde s’infrangevano in un suono sordo, qualcosa continuava a sbattere in balia della potenza del mare.
Onda raccolse il corpo tra i brividi di freddo e agitazione: un ragazzo, forse sui quindici anni, i capelli castani e la pelle cadaverica. L’aveva trovato tra due scogli, sbattuto dalle onde imperiose senza grazia, la testa sanguinante. Il Sacerdote lo guardò muto, gli occhi spalancati, e si avvicinò con passi veloci. Onda lo adagiò delicatamente sul marmo dell’entrata del Tempio, appoggiando un orecchio al suo petto e una mano appena sopra le sue labbra violacee: il cuore batteva flebile, l’ultimo barlume di vita che ancora risplendeva nel petto magro e segnato.
Non c’era tempo da perdere. Il Sacerdote lo prese tra le braccia e lo portò all’interno del Tempio, il suo kimono si macchiò di rosso. Gli lanciò una breve occhiata: doveva chiamare aiuto; ma allo stesso tempo nessuno avrebbe dovuto sapere nulla sul loro incontro. Su di loro. Sul messaggero e Il Sacerdote.
Onda annuì, folgorato dai suoi occhi stregati.

 

 
Night tornò a casa nelle prime luci dell’alba. Non si curò di fare troppo rumore: era sempre il primo a tornare alla base, e certa gente non tornava affatto. La sbornia, non del tutto smaltita dall’acqua gelida del mare, continuava a fargli girare la testa: ma nel complesso si sentiva bene, riposato, e allo stesso tempo piacevolmente sfinito.
Una voce. Era calma e dolce, eppure una delle più terribili che Night avesse mai ascoltato: era uno di loro, ormai. Day non esisteva più.
Subito gli venne in mente il ricatto della sera trascorsa, quando Donnola era ancora sobrio, prima che se ne andasse allo scoccare della mezzanotte, come un’ombra: alla fine, aveva detto di parlarne con Day. Night non rispose al richiamo dell’Alto ma andò verso la sua stanza, scostò la tenda che copriva appena la porticina di legno marcio: a vederla, sembrava inutilizzata da secoli. Nessuno l’aveva mai aperta, nessuno aveva mai osato chiedergli le chiavi. Night sospirò sentendo il clangore metallico della serratura che scattava.
Era sveglio, come sempre seduto sul letto con le coperte a coprirgli le gambe nude: Day si svegliava sempre all’alba e si addormentava al tramonto, quasi il suo nome fosse il più adatto che avesse potuto scegliere. Un sorriso radioso gli illuminava il viso scavato, una leggera peluria rossiccia gli contornava il mento non ancora rasato, i capelli color sangue cadevano ribelli ai lati del suo viso. E quegli occhi, tanto intensi da sembrare quasi finti, lo osservavano con la curiosità di un bambino: ma Day non era un bambino. Non più. – Night! Hai passato una bella serata?
Il sosia non gli rispose subito. Si sedette e, come al solito, si ritrovò ad osservarlo con un brivido: “Anche io sarò come lui quando crescerò?” si chiedeva. “Siamo destinati a rimanere uguali per sempre? Quando finirà la mia pena?”
Uccidilo.
- Day, sembri pallido. Che ti succede? – corrugò la fronte l’uomo. – Non dirmi che era la tua prima orgia.
 - Non è niente. – mentì il ragazzo continuando a fissarlo. Poi guardò le sue gambe nascoste dalle lenzuola e si ritrovò a parlargli soprapensiero: - Hai bisogno di una mano per raggiungere il bagno?
Day si massaggiò gli arti immobili, sorridendo angelicamente: - Non preoccuparti, me la cavo da solo. Piuttosto, raccontami come è andata, dai!
- No. – rispose sbrigativo Night, e si avviò verso le finestre per permettere alla luce del sole di penetrare nella stanza: Day sembrò gradire, perché sospirò trasognato. – Mi mancano le orge in riva alla spiaggia. Chissà se sono come allora.
Night si stese freddamente sul letto, nel lato che Day non osava mai occupare. L’uomo invece si alzò sulle braccia, e facendo leva sulle mani si sedette non senza una certa difficoltà sulla sedia a rotelle accanto al matrimoniale. Fece un po’ di rumore, ma non sembrò infastidire Night.
Il ragazzo lo aspettò, sentendo distrattamente il rumore dello sciacquone, il getto del lavandino, lo sfregare dello spazzolino sui denti.
Pensava: “Quanto tempo ci rimane?” E poi: “Quando avrò il coraggio di sbarazzarmi di lui?”
Le domande non sembravano avere una risposta. Day tornò e si sedette di nuovo sul matrimoniale, stavolta però Night dovette aiutarlo per evitare che cadesse. L’uomo riprese la sua solita posizione, la schiena nuda appoggiata alla testiera e le gambe immobili sul letto sfatto. Night ci appoggiò sopra il viso respirando piano, abbandonandosi a quel calore intimo e naturale.
Day gli accarezzò piano i capelli, cantando una nenia come si fa con i bambini. Night tutto sommato trovava quelle ninnananne rassicuranti: la promessa che, a differenza di lui, non sarebbe cresciuto mai.
- Buongiorno Kira.
- Buonanotte, Kiyama.
 
Angolino di Macareux
Salve :3
Uhm, questa fic ha ricevuto un notevole successo (?) A questo punto non vi incito neanche, se il risultato equivale a due recensioni, mi aspettavo molta più pietà per il Re dei Ladri (ma quanto sono modesta -.-)
Ordunque, signore e signori, indovinate: a quelle due recensioni non ho risposto nemmeno. Ah. Che novità. Dovrei cambiare le mie abitudini.
Lo farò il prima possibile –anche ora, ma non so (?)-, ma prima vorrei precisare qualche cosa: nel precedente capitolo ho scritto che non avevo intenzione di inserire elementi Fantasy. Questo perché non volevo affatto “copiare” la storia di De Feo, semplicemente prendere spunto dalla sua ambientazione: niente Scalzi, nessuna Sibilla, nessuna fine dell’isola (o quasi), nessun sogno di Pri—
… Cazzo. Io e gli spoiler non andiamo d’accordo. Oh oh oh. Perdonatemi vi prego.
Comunque… sì, mi dispiace non inserire gli Scalzi. Io adoro gli Scalzi. Sono la mia vita. E sono anche il centro, il fulcro della storia di De Feo--- Oh, perdindirindina. Forse ci scriverò una flash –l’hogiàscrittamasonodettagli-
… E poi, amatemi: vi ho rivelato l’identità di Night al secondo capitolo. Oh, non c’è gusto così.
Chi ha indovinato l’identità di Perfect e del Sacerdote  alzi la mano ** Onda no, Onda è palese.
Perfetto, credo di aver detto tutto… perdonate la mia spigliatezza (?) e vivacità (?) ma credo di non essere del tutto a posto stasera.
Grazie mille a Cha, a Niki e a coloro che hanno messo la fic tra le seguite/ricordate/preferite. Metterla nelle preferite mi sembra esagerato al primo capitolo, ma sembrate determinat-
La smetto. Notte. Baci.
 
Fay
 

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Capitolo 3
*** Death Mask III ***


Death Mask
 
Hera sbarrò gli occhi sul soffitto, ansimando, l’incubo che si rannicchiava in un angolo della sua mente, diabolico come le ultime luci del giorno. Sempre lo stesso, ogni notte: un’isola, sangue sparso su un pavimento di finissimo marmo, vittime a terra senza vita. Tornava ogni notte con il suo strascico di disperazione e morte, come un lamento, senza mai andarsene davvero.
Era al sicuro ora.
Se ne rese conto quando focalizzò la stanza in cui si trovava: quella non era di certo la sua camera. Una parete intera era occupata interamente da un’ampia libreria colma di libri, a lato vicino alla porta stava una scrivania vuota. Era il solo e semplice arredamento oltre al letto di quella povera stanza, ma appena spostò lo sguardo verso la finestra di fianco a lui cacciò un urlo ritirandosi di scatto, sbattendo sulla testiera del letto.
La figura, immobile accanto alle tende, non parlò. Era buio, e l’unica fonte di luce proveniva dall’esterno: si stava avvicinando una tempesta, a giudicare dai lampi e dai fulmini, e il mare che si scorgeva attraverso le tende chiuse si era ingrossato pericolosamente sotto l’influenza del vento impietoso. Quella non era di certo la sua stanza, e probabilmente si era ritrovato molto lontano da casa: ma dove, e perché?
Il ragazzo non sembrò voler rispondere alle sue domane: la luce di un lampo gli illuminò il viso inespressivo e gli occhi grandi e azzurri, talmente intensi da sembrare quasi inumani. Vestiva un kimono bianco e quelli che sembravano buffi pantaloni a sbuffo. Hera s’inquietò parecchio osservandolo: aveva un aspetto del tutto androgino, innaturale, come se non fosse un comune essere mortale. Lo scrutava attentamente, senza curarsi del peso del suo sguardo inquisitore, e le labbra rimanevano una muta linea piatta. Arrivò a pensare che fosse una statua, ma con sua grande sorpresa finalmente il ragazzo si mosse: si avvicinò alla finestra distogliendo lo sguardo da lui, e soffiò sul vetro già imperlato di pioggia: poi, con il dito –finissimo, adunco e pieno di tagli- tracciò poche lettere sulla superficie appannata.
Sai leggere?
Hera sbatté le palpebre stupito. – Beh, ovvio. – mormorò. E strinse le lenzuola tra le dita rabbrividendo al sorriso dell’altro: era la cosa più dolce e inquietante che avesse mai visto.
Bene scrisse l’altro. È una buona cosa.
- Sei muto, è per questo che non parli?
Lo sconosciuto si voltò verso di lui e lo fissò intensamente. Fu allora che, come se il cielo stesso avesse voluto mostrarglielo, un lampo lo illuminò praticamente a giorno seguito da un suono roboante e terribile che avrebbe ben descritto le sue sensazioni in quel momento: c’era un lungo taglio all’altezza della gola. Deglutì  a vuoto, sentendosi improvvisamente minacciato da quella persona.
Non avere paura scrisse allora lui. Ti ho trovato davanti al tempio, eri in fin di vita.
- Chi sei? – si affrettò a chiedere il moro, scrutandolo ansioso. Forse era un altro dei suoi stupidi incubi… ma i tuoni sembravano così reali
Sono il Sacerdote.
Scritto questo, il ragazzo fece un inchino, come se si trovasse al cospetto di una divinità. Il Sacerdote. Hera rabbrividì e lo fissò a sua volta: c’era qualcosa di terribilmente familiare in tutto ciò. – E il tuo vero nome qual è?
Il ragazzo sorrise mellifluo e si portò un dito alle labbra, soffiando piano. Era un segreto.
Come faceva un semplice nome ad essere segreto?
Il Sacerdote avanzò lentamente, Hera arretrò di scatto, quasi cadde dal letto: - Non toccarmi! – esalò terrorizzato, ma lo sconosciuto non lo badò e gli appoggiò la mano sulla sua fronte –fasciata?-, poi le labbra candide. Si ritirò e gli sorrise angelico, facendo un piccolo inchino. Poi, senza che Hera glielo chiedesse, lo aiutò a distendersi e a metterlo sotto le coperte: il ragazzo scoprì solo in quell’istante che il corpo gli doleva da morire, forse si era rotto il braccio.
C’era dolcezza nei movimenti dell’altro, talmente calmi da sembrare quasi materni: gli rimboccò le coperte e gli sorrise. Facendolo sussultare, gli baciò lievemente le labbra appena schiuse.
Hera sgranò gli occhi, ma non reagì. Fissò il suo sorriso inerme e diafano, poi rabbrividì nel sentire poche e semplici parole. Il Sacerdote non sembrò però aprire le labbra.
- Buonanotte Hera… benvenuto nell’Isola…
 
 
Si svegliò una seconda volta, ma in un’altra stanza. Era decisamente meno pulita e confortevole, ma di certo non meno singolare: i muri erano incrostati e il pavimento era coperto da uno spesso strato di polvere e calcinacci. Eppure sembrava abitata nonostante tutto: alla parete erano appesi poster di cantanti sconosciuti (forse qualche famosa band degli anni sessanta), in un angolo stava un mangiadischi e un vecchio disco in vinile da 45 girava pigramente senza emettere alcun suono. Le ante di un vecchio armadio erano aperte e mostravano pochi vestiti. Accanto al suo letto probabilmente improvvisato, stavano due amache appese al muro, vuote.
Doveva essere pieno giorno, a giudicare dalle due finestre aperte. Hera si sentì intorpidito, ma comunque in forze: provò ad appoggiare i piedi per terra e scoprì con stupore due paia di morbide pantofole preparate per lui.
Si alzò vacillando coprendosi con il lenzuolo lercio, spostando il peso prima su un piede e poi sull’altro per saggiare le sue condizioni. Gli girava appena la testa, ma doveva essere guarito. Sbatté gli occhi alla luce abbagliante di un sole sospeso sul mare da un filo invisibile: i gabbiani stridevano litigandosi il pesce pescato, le onde s’infrangevano sugli scogli lambendo una piccola baia dove se ne stavano abbandonate le ceneri di un grande falò: quel posto era decisamente abitato.
Benché il paesaggio dalla finestra risultasse differente, Hera non cercò le tracce del posto in cui era stato precedentemente, certo che si trattasse solo di un sogno. Di certo non potevano esistere ragazzi con le corde vocali mutilate e con occhi così spaventosi…
- Buongiorno! ♥ - cinguettò una voce sconosciuta dalla porta, e Hera sobbalzando si ritirò di scatto dal davanzale: davanti a lui stava una ragazza dai lunghi e lisci capelli biondi, gli occhi grandi e rossi, vestita da jeans lunghi e aderenti e una maglia a maniche lunghe larga e grigia. Indossava anche dei buffi guantoni da cucina bianchi, in mano un vassoio di biscotti. – Finalmente, credevamo fossi morto! Avevamo già pensato al luogo dove seppellirti… ma per fortuna stai bene ♥
Hera la guardò storto per alcuni secondi: aveva un viso delicato da bambola e un sorriso decisamente disarmante. Non era truccata, ma aveva lunghe ciglia vistose. Pensò fosse molto bella e sexy, ma non lo diede a vedere… piuttosto l’idea di essere stato sul punto di venir seppellito vivo lo innervosiva parecchio. – E tu saresti?
- Oh, giusto. Io sono Donnola! Piacere. Sei ancora molto pallido, secondo me ti conviene sederti!
Hera Tadashi fece quanto consigliato, rimuginando sul fatto che anche lei come il ragazzo del sogno usava un nomignolo. Non osò chiederle come si chiamasse veramente. – Dove sono? – chiese, mentre lei senza che glielo domandasse lo aiutava a rimettersi sotto le coperte dopo essersi sfilata i guantoni. Aveva mani decisamente rovinate per essere quelle di una donna.
- Sei nell’Isola. – rispose semplicemente senza aggiungere altro, ma tanto bastò al suo cuore per compiere una capriola di smarrimento. L’Isola. L’incubo. Il Sacerdote.
- Sai qualcosa del ragazzo di prima? – chiese senza rendersene conto, il sangue pulsava nelle tempie come una batteria con tanto di grancassa.
- Il ragazzo di prima? – ripeté lei distrattamente: si era seduta accanto a lui e il contatto con la sua pelle smorzato dalle lenzuola lo fece rabbrividire. I biscotti erano appoggiato su un tavolino traballante vicino a loro. – Intendi il Sacerdote? È stato buono. Domani se vuoi passiamo a ringraziarlo!
Senza che Hera potesse formulare un pensiero decente, la ragazza prese uno degli invitanti biscotti al cioccolato e glielo portò vicinissimo alle labbra con fare malizioso: - Fai A~
Hera la fissò a lungo: non era stato mai molto perspicace con le donne, e ora che guardava meglio Donnola si chiedeva davvero se potesse chiamarla tale: non c’era traccia di seno e le spalle e i fianchi forse erano un po’ troppo larghi per essere quelli di una fanciulla qualunque. Si sentì terribilmente stupido ma dischiuse le labbra lo stesso e accolse il dolcetto sulla lingua quasi con avidità: era da tanto che non mangiava e non beveva, e improvvisamente quel biscotto somigliava più a manna inviata dal cielo.
- Aspetta! – esclamò Donnola come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa, e si chinò come a voler prendere un oggetto per terra, poi con una manovra da contorsionista finì con la testa sotto il letto, lasciando intravedere un altro indumento sotto la maglia: Hera la guardò stupito chiedendosi come facesse a resistere con quel caldo.
- Un secondo, ci sono quasi! – esclamò lei, la sua voce arrivava appena ovattata. Riemerse dallo strato di polvere sbuffando infastidita sistemandosi i capelli alla bell’e meglio togliendosi le ragnatele, poi gli porse sorridente una bottiglia dal curioso liquido biancastro.
- Cos’è? – chiese titubante il ragazzo prendendola fra le dita: era semi-vuota e il tappo messo frettolosamente.
- Assaggia e vedrai! – cinguettò la ragazza con fare cospiratore, e Hera svitò il tappo guardandola di sottecchi. Inghiottì leggermente incuriosito un sorso, ma lo sputò senza troppi convenevoli sulle lenzuola già sporche di loro. – Ma questo è un alcolico! – esclamò allibito e guardando Donnola ad occhi sbarrati. Lei si mise a ridere alzando il capo: i capelli le si scostarono dal viso rivelando due piccoli e preziosi orecchini color del sangue.
- Sei buffo lo sai? – rise ancora. – Sei davvero buffo!
- E tu sei completamente matta! – esclamò lui con gli occhi fuori dalle orbite, sputacchiando i residui di quel liquido bruciante. La gola pizzicava perché ne aveva inghiottito un po’.
Si aspettò che lei replicasse con qualcosa, invece la sentì smettere di ridere: interrogativo alzò gli occhi su di lei e la scoprì intenta a fissarlo con lo sguardo più ipnotico e freddo che avesse mai visto.
Poi, senza che potesse divincolarsi gli prese una mano e con la più disarmante naturalezza se la fece scivolare sotto l’inguine.
Hera non seppe se fosse diventato prima blu pavone o rosso pomodoro, ma sicuramente sentì il sangue defluire dal suo viso e poi schizzare al cervello in un moto frenetico. Rimase lì, la mano immobile e pietrificata sul cavallo del ragazzo più ambiguo che avesse mai visto. Balbettò qualche scusa imbarazzata, ma si vergognò persino della sua voce. Alla fine, dopo inutili tentativi, ammutolì e ritirò velocemente la mano abbassando lo sguardo.
Si sarebbe aspettato di tutto: uno schiaffo, un pugno in faccia o qualsiasi altra cosa. Eppure Donnola gli alzò il mento con delicatezza infinita e gli sorrise smagliante: - Sei davvero buffo.
Poi, a sorpresa, posò le labbra sulle sue. Semplicemente. Fu un contatto breve ma non abbastanza, perché Hera lo respinse spingendolo con entrambi le mani: aveva un petto gracile e ovviamente piatto. – Tu… - balbettò sbarrando ancora gli occhi. – Insomma, a te piacciono…
- Ma guarda che razza di ingrato! – lo interruppe lei… lui, incrociando le braccia spazientito. – Io ti salvo da un destino crudele e tu nemmeno mi dai un bacetto? Siamo schizzinosi.
- Ma di cosa stai parlando!! – si agitò Hera: strano, non era proprio da lui, ma bisognava ammettere che l’intera situazione aveva dell’assurdo. Probabilmente quello era un altro sogno come gli altri: non sapeva dove avesse battuto la testa ma a giudicare dagli effetti doveva essere una cosa permanente. Forse in realtà se ne stava in qualche letto d’ospedale, in coma.
- Lo sai dove stavi per capitare? – proseguì imperterrito Donnola chinandosi su di lui e guardandolo dritto negli occhi: Hera tremò perché non pensava che potessero esistere sguardi del genere. – Lo sai?
Il ragazzo scosse la testa tremando, e pensò che se quella era il suo stato celebrale, era davvero messo male. Chissà quale brodaglia era contenuta in quella bottiglia.
- Saresti stato sfruttato probabilmente come una puttanella qualunque. – spiegò spazientito Donnola portando lo sguardo al cielo, ignorando il suo disagio. – Me lo ha detto chiaro e tondo, quello lì voleva usarti come tappetino. Per fortuna è uscito croce e nessuno si è fatto male.
Hera non commentò mentalmente quella frase, il resto già bastava.
Come se non fosse abbastanza Donnola si chinò nuovamente su di lui e gli scoccò un altro bacio sulle labbra chiuse ridendo angelicamente: - Sei davvero bello. Ti chiamerò Moon, perché hai gli occhi color della luna. Neh, ti piace?
- Io in realtà mi chiamerei… - tentò di dire il naufrago, ma Donnola gli mise una mano davanti alle labbra. – Non si può sapere. Per dire il proprio nome a un’altra persona bisogna fidarsi ciecamente di lei.
- E perché? – chiese accigliato il ragazzo, scuotendo la testa.
- È un gioco. – spiegò il biondo ridendo furbescamente. – Stupido, ma pur sempre un gioco.
 
Hera tutto sommato imparò abbastanza in fretta: si abituò presto al suono del suo nuovo nome, anche se le prime volte era sobbalzato sul posto. Sembrava che ormai tutti in quell’angusto edificio lo conoscessero da anni, sebbene le voci del suo risveglio si fossero propagate solo da alcuni minuti. Donnola lo portò in giro per l’intero edificio, dopo avergli prestato un largo maglione e dei jeans aderenti: erano scomodi e troppo caldi, ma il nuovo arrivato non aveva osato rifiutare.
- Questo qui è Venus! – esclamò raggiante presentandogli un ragazzo più o meno della sua età, una vecchia cicatrice gli attraversava l’occhio come una pezza cucita per sbaglio. La lunga coda che gli ricadeva dolcemente sulla schiena sferzava l’aria ad ogni suo movimento: era intento a impilare un po’ di libri su un vecchio scaffale polveroso. Hera gli strinse la mano con gesti automatici, con la stessa freddezza con cui ci si rivolge a uno sconosciuto.
- Sarà il tuo nuovo compagno di stanza! Sei contento?~ - cinguettò allegro il ragazzo biondo, sporgendosi oltre la sua spalla. – E poi c’è anche Lava! Dov’è Lava?
- Penso sia a riparare quella vecchia bicicletta che abbiamo trovato l’altro giorno. – spiegò Venus facendo spallucce: la sua voce risultava fluida e virile, dalla quale traspariva un accento curioso e bizzarro.
- Oh già, glielo avevo ordinato io. – si ricordò Donnola inclinando la testa. – Accidenti.
Senza salutare il ragazzo trascinò Hera giù per le scale polverose, senza dargli il tempo per chiedergli qualcosa. Correva e nel frattempo gli indicava qualcuno dei suoi nuovi compagni. Moon fece così la conoscenza frettolosa di Soldier, Masquerade e altri che avrebbe sicuramente dimenticato più tardi. Contò in tutto cinque piani, e quando si ritrovò al piano terra si chiese confuso se il suo conteggio fosse giusto.
- Awn, forza Moon-chan! Abbiamo ancora un bel po’ di strada da fare prima di arrivare al faro.
- Il faro? – chiese stordito il moro, e Donnola si limitò ad annuire. – Sì, il faro. È il nostro covo ma lo usiamo come deposito per gli oggetti smarriti.
- Smarriti da chi? – chiese incuriosito Hera camminandogli accanto: la boria del ragazzo sembrava essersi calmata e ora proseguivano tranquillamente lungo un terreno sassoso. Erano entrambi scalzi e il naufrago non era abituato a quel contatto spigoloso: strinse i denti e proseguì senza fiatare.
- Non lo sappiamo. – spiegò Donnola. – Noi li troviamo e basta.
- Capisco. – mugugnò Moon fissando i sassolini che si infilavano tra le dita. Solo alzando lo sguardo scorse su una piccola altura un immenso faro a righe.
- Eccoci qui! Dovrebbe essere da qualche parte. – spiegò Donnola saltellando sull’acciottolato e Moon si chiese come diamine facesse. C’erano molte cose che ancora non riusciva a spiegarsi, e Donnola era una di queste. Lo guardò aggirarsi presso il faro chiamando il nomignolo del suo presunto coinquilino senza tuttavia riuscire a trovarlo.
- Senti un po’ – borbottò appena furono abbastanza vicini. – I vostri genitori non vi dicono mai nulla?
Donnola si bloccò improvvisamente. Abbandonò le braccia lungo i fianchi e abbassò il capo, come perso nei propri pensieri. Poi lo rialzò di nuovo a guardare il cielo. – Non dirlo più. Potrebbero sentirti.
- Sentirmi chi? – allargò le braccia Hera. – Qui non c’è nessuno, nemmeno il tuo amico! Perché, provate forse vergogna al pensiero di avere genitori? È una cosa normale lo sa—
Donnola non gli diede il tempo materiale per concludere la frase: lo baciò di nuovo con forza, quasi fosse l’unica maniera per zittirlo, poi si ritirò furente: - Ma dove cazzo vivi, lo sai che è tabù?
- Tabù? – ripeté stizzito Moon. – Non so in che caspita di posto siamo, ma da dove vengo io non si bacia la gente come se niente fosse, non si offrono alcolici ai minorenni e si hanno in genere ben due genitori! Non so se conosci questa parola lo sai? Genitori. Da dove vengo io si vive in una famiglia. Fa-mi-gl-
Uno schiaffo, forte, sulla guancia. Moon rantolò a terra con un gemito, sputando un rivolo di sangue: non era mai stato colpito con tanta ferocia.
- Zitto. – sibilò tetro il biondo guardandolo dall’alto, negli occhi rossi una furia cieca. – Stai zitto.
Hera Tadashi alzò gli occhi su di lui. E, per la prima volta nella sua vita, ebbe paura.
Ebbe paura sul serio.
 
 
 
- Ho notizie.
Red alzò lo sguardo sul ragazzo che entrò in quel momento dalla grande porta del salone del castello, i capelli lunghi e chiari scossi dal suo passo deciso e incalzato. Un tipo attento e calcolato Silver, non un ragazzo che si lasciava trascinare dagli eventi.
- Notizie? – mormorò appena, spostando un suo pedone nel quadretto nero della scacchiera. Black, davanti a lui, lo eliminò con fare annoiato. – Che genere di notizie?
- Notizie interessanti.
Red inclinò il capo, momentaneamente appoggiato al palmo della mano. Era da tempo che non sentiva la voce di Silver tremare d’impazienza.
- Sembra che ci sia un nuovo arrivato nell’Isola.
- L’ha portato il Traghettatore?
- No.
Black sbuffò, aggiustandosi il ciuffo ribelle che gli nascondeva continuamente un occhio. – Oh, che notizia interessante. Grazie Silver per il tuo fiato sprecato. – commentò sarcastico, e come se niente fosse spostò le pedine di Red senza che lui se ne accorgesse.
Red lo ignorò e fissò i suoi occhi su quello scoperto di Silver,  che a sua volta a veva arricciato le labbra palesemente scocciato. – No Black, non è una cosa da nulla.
Il compagno alzò gli occhi al cielo: - Per te niente è una cosa da nulla.
Il maggiore si leccò le labbra sorridendo perfido: - Se la gente può accedere all’Isola senza l’ausilio del Traghettatore, significa che può anche uscirne. Ci hai mai pensato?
Ad un tratto il moro si fece serio e distolse la sua attenzione dagli scacchi. Li guardò tutti e due, prima uno poi l’altro, e infine sollevò le spalle. – Tanto le barche ce le abbiamo tutte noi.
- Giusto, ma è bene tenersele. – spiegò Red aggiustandosi un dread. – Dovremo fare molta più attenzione d’ora in poi. Dubito comunque che quei due ci arriverebbero, pensano solo a divertirsi.
Black roteò infastidito gli occhi con fare scocciato, poi scosse per il braccio il figlio maggiore del Traghettatore con prepotenza. – Bene. Ora che abbiamo stabilito questo comune accordo di grande importanza, possiamo finire la partita sì o no?
Red non rispose. Silver invece sorrise e si avvicinò velocemente: salì le scalinate di marmo e arrivò tanto vicino ai due da poterli sfiorare con un movimento del bacino. Si chinò a baciarli, prima uno poi l’altro, colto da un’ispirazione improvvisa, per poi muovere la torre. - Scacco matto. – sussurrò poi sorridendo maliziosamente, ed entrambi si leccarono le labbra distese in un sorriso complice.
Il primo a baciarlo fu Black.
La partita era appena cominciata…
 
Angolino di Macareux
Coff—
Lo ammetto, ho un debole per i threesome.
In questo capitolo non avviene nulla di particolarmente esaltante. O forse sì. Tuttavia è più un capitolo descrittivo sia per presentare i Figli del Traghettatore sia per spiegare l’inizio dell’avventura del giovane (e povero) Hera Tadashi… perché sì, la fic non è ancora iniziata carissimi. Questo sarebbe l’inizio della fine. O che so io. Insomma, quello che voglio dire è che devo ancora iniziare .U.
Con molta probabilità avrete già capito chi sono Silver, Red e Black… indovinate un po’ chi sarà il Traghettatore? *la sopprimono*
La parte imbarazzante di Hera in cui scambia il nostro Donnola per una ragazza forse potevo benissimo risparmiarmela, ma vedete, ho un lato bimbominkioso pure io (lo so, devo ancora realizzare la cosa) e devo pur sfogare il mio lato represso qualche volta (?)
… Ditemi cosa ne pensate in generale della long! Venghino, siore e siori (?) (dialetto veneto why)
Insomma, non siate timidotti come al vostro solito, non è possibile sfiorare le cento visualizzazioni e rimanere con una o due recensioni per volta--- vanno benissimo anche critiche .U.
E ricordate di recensire in generale. Non solo me ovviamente, ma anche tutte le altre povere fanciulle che bazzicano in questo favoloso mondo *0*
Mi dileguo ♥
Ciao ciao ♥
 
Fay

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Capitolo 4
*** Death Mask IV ***


Death Mask
 
C’era sangue.
Scivolava sul soffitto, ma non cadeva. Saliva per muri bianchissimi profanati, quasi volesse allontanarsi dalle stelle del pavimento. Nulla si muoveva, o apparentemente, perché d’un tratto sentì il chiaro tintinnare di oggetti metallici: un rumore sinistro di catenelle che strusciavano tra di loro e perle che si frantumavano al suolo, il filo che ancora pendeva da una mano insanguinata.
Dalla sua posizione ritorta poteva vedere bene gli anfibi di Bijou, un tempo graziosamente bianchi, a pochi passi da lui.
- Astro… - mormorò il ragazzo guardandolo come se fosse la prima volta. – Non trovi che questi gioielli mi stiano divinamente?
 

 
Free rimase in silenzio per attimi interminabili, mentre percorrevano il corridoio deserto. Era sempre stato così fra loro: a volte riuscivano a bisticciare per cose altamente futili e scomode, altre volte potevano rimanere in silenzio persino per ore. Il loro silenzio più lungo si era propagato addirittura per un giorno intero, le labbra che sussurravano appena richieste mediocri senza apparente motivo.
Fiamma si fermò circospetto davanti alle enormi porte degli appartamenti dei Cinque. Non era mai andato oltre, lo aveva sempre aspettato docilmente su una delle consumate poltrone disposte poco lontano. – Aria di guai? – sussurrò calmo scrutandolo, ma l’espressione di Free rimase indecifrabile.
Fiamma lo vide entrare senza una parola, la fronte aggrottata, e rimase immobile per minuti interi. Poi si voltò e rabbrividì, perché una delle scomode poltroncine era occupata dal ragazzo di Astro: era seduto scompostamente, le gambe appoggiate allo schienale e la testa che quasi sfiorava il pavimento. Osservava ipnotizzato una delle sue collane rigirandosela tra le dita fini, sorridendo come un bambino con un nuovo giocattolo, e ogni tanto ridacchiava tra sé scoprendo la fila di denti bianchissimi.
Fiamma si sedette a debita distanza da lui, guardandolo ogni tanto con la coda dell’occhio: non si fidava della sua presunta salute mentale.
Sussultò quando uno dei Cinque gli passò silenziosamente davanti: il naso aquilino, la pelle cadaverica e la folta capigliatura corvina. Gli occhi erano rossi, ma non somigliavano affatto a quelli del capobanda dei Divini: erano piccoli e terribilmente maligni, sembrava che il suo sguardo potesse abbracciare l’intera stanza. Aveva un corpo flessuoso eppure imponente, robusto ma agile.
Se Fiamma avesse dovuto dare un nome alla perfezione fisica, quello sarebbe stato Illusion.
Lo vide entrare con il tipico passo felpato dei Cacciatori.
 
Nulla era cambiato dall’ultima volta che era stato in quella stanza: i drappi rossi coprivano le numerose ed enormi finestre, e l’unica luce della stanza era data da un vecchio candelabro arrugginito posto sul tavolino al centro della stanza - non c’era corrente elettrica sull’isola. La vecchia sala da ballo sarebbe stata completamente vuota se non fosse stato per il grazioso salotto allestito al centro della pista: alle volte se chiudeva gli occhi poteva vedere fantasmi mascherati volteggiare attorno a loro, ignari della loro presenza: le donne attraversavano gli oggetti con i loro sfarzosi vestiti, e compassati uomini in livrea le accompagnavano galantemente per mano. Poi apriva gli occhi e le immagini sparivano.
Free sfiorò con lo sguardo le intricate decorazioni del pavimento e gli affreschi alle pareti. Al soffitto era appeso un vecchio lampadario di cristallo e ragnatele che nessuno aveva mai tirato giù. Alle volte si ritrovava a pensare che probabilmente sarebbe caduto su di loro, prima o poi.
Si sedette comodamente su una delle raffinate poltrone: non ne esistevano di così belle e così intatte in tutta l’isola. Osservò il resto delle poltrone e divanetti ancora vuoto: era sempre lui il primo ad arrivare.
Alzò lo sguardo sul soffitto impreziosito e sospirò: era strano, ma quello era l’unico luogo nel quale poteva dire di sentirsi a casa. Non ci passava molto tempo, principalmente per le solite assemblee mensili di carattere amministrativo, ma tanto bastava per farlo sentire libero, accanto alle persone alle quali voleva bene davvero. E non era amore quello, ma semplice affetto: un legame che era nato lontano dall’isola ma che dentro quella stanza era diventato quasi una ragione di esistere.
Le sue riflessioni vennero interrotte dall’entrata di Illusion. Il Cacciatore prese posto e iniziarono inconsciamente a scrutarsi, come cercando un dettaglio familiare in un viso rimasto ignoto per mesi. Fu Illusion il primo a parlare: aveva una voce calma e tuttavia altisonante, nonostante parlasse piano la stanza ne era pregna, l’eco risuonava lugubre rimbalzando sulle ampie pareti. – Non sei cambiato affatto, Free. – Il suo nome scivolò dalle sue labbra come un serpente velenoso.
Il ragazzo non batté ciglio: si limitò a fissarlo altezzoso e annoiato: si diceva che Illusion stesse diventando uno di loro. E ora che lo guardava meglio poteva notare piccoli accenni di barba sul mento. – Tu stai invecchiando, invece. – rispose lapidario, e inclinò il capo.
I primi accenni di barba, capelli bianchi o addirittura rughe erano visti come una maledizione nell’isola: spesso si cercava di nasconderli il più possibile, terrorizzati alla sola idea di essere scoperti dagli altri. E quando diventava impossibile nascondere e coprire, c’era una sola cosa che andava fatta.
Il volto pallido e smunto si distese infatti in un mesto sorriso: - Che ironia, eh? Il Cacciatore di Alti si trasforma nella sua stessa preda. – Il suo sguardo vagò nel silenzio della stanza, guardò nostalgico il pavimento come se fosse la prima volta. – Mi mancherà questa stanza. Mi mancherete un po’ tutti.
Le porte si spalancarono di colpo, lasciando entrare un forte odore di alcool e fumo, e un ragazzo allampanato entrò con il suo tipico passo traballante. Non sembrava ubriaco, tuttavia ondeggiava pigramente facendo volteggiare i lembi del suo cappotto scuro, almeno di due taglie più grande di lui.
- Neeeh, nessuno ha portato da bere? Se non ci fossi io… - Non concluse la frase: scosse la testa e sfilò cinque bottiglie di vodka pura sul tavolino di vetro, ma prese anche una bottiglia di superalcolico per sé, che appoggiò accanto alla sua poltrona. Infine si sedette scompostamente risultando abbastanza volgare.
- Buongiorno Ember. – mormorò calmo Illusion stappando la sua bottiglia con le unghie acuminate come artigli. – Ti vedo riposato.
Ember lo fissò con tracotanza alzando fiero il mento: - Riposo? Non ho bisogno di riposo, io.
- I risultati si vedono. – sospirò una voce dall’ingresso, e Night entrò elegantemente con passi misurati, a suo agio nella camicia di raso che faceva intravedere le clavicole perfette. – Buongiorno a tutti! – esclamò con tono amabile socchiudendo le iridi azzurre: le sue labbra si distesero in un sorriso raro. – Ci siamo tutti?
- Manca Astro. – mormorò Free adocchiando la figura minuta che sostava sulla soglia. – Lui che ci fa qui?
- Deve esserci anche lui. – rispose vago il capobanda con un gesto della mano. – È una questione che riguarda tutta l’Isola.
Free pensò che la ragione della sua presenza fosse ben altra, e la sua teoria risultò vera quando, dopo che Night si fu seduto sulla sua poltrona di velluto, Perfect si distese sulle sue gambe circondandogli il collo con le braccia nivee e affondando il viso contro la sua spalla. Astro non ne sarebbe stato felice.
Difatti quando arrivò poco dopo, ultimo come al suo solito, arricciò il naso contrariato: - Lui che ci fa qui? – chiese con enfasi, vedendo il suo posto già occupato.
- Mi prendo ciò che mi spetta. – sussurrò Perfect guardandolo malignamente. – Io sono un messaggero, del resto.
Astro non commentò, limitandosi a guardarlo con astio: si stese supino sul divanetto di pelle e fece dondolare provocatorio le gambe denudate dai corti pantaloncini, gesto che non sfuggì a Night ma che non gli impedì di rimanere impassibile. – Bene, ci siamo tutti allora.
Le assemblee dei Cinque servivano perlopiù a fare il punto della situazione con una serie di rapporti, ma alle volte si finiva con fare cose ben più serie. Lì ognuno poteva essere quello che desiderava, era una regola sostanziale, e tutti –chi più, chi meno- erano ben felici di rispettarla.
- Inizio io. – mormorò Free restando seduto. – Non abbiamo rivelato nulla di anomalo nelle nostre perlustrazioni: tutti sembrano rispettare le regole e gli Alti non escono dalle loro abitazioni. Penso moriranno nel giro di poco, li teniamo sotto controllo da mesi e credo che non abbiano abbastanza provviste per sopravvivere. – spiegò tranquillamente, senza battere ciglio. Era lo stesso, noioso rapporto di sempre: nulla di anomalo.
Astro si mise a giocare strategicamente con uno dei cuscini e rise piano: - Siamo riusciti a trovare tre forzieri in questi ultimi mesi. – espose brevemente. – Sono tutti nella stanza degli ori, stiamo racimolando una vera fortuna! – concluse poi, e sorrise con soddisfazione.
Ember rimase in silenzio per un attimo, poi si alzò in piedi. Persino Perfect lo squadrò attentamente a quel gesto, e tutti si immobilizzarono nel vedere l’espressione indecifrabile del ragazzo: era difficile che assumesse un simile atteggiamento. – I Figli del Traghettatore hanno chiesto i mio aiuto. – mormorò piano puntando gli occhi su Night. – Uno di loro si è ammalato.
- Si tratta di una malattia che puoi curare?
Ember scosse le sue ciocche rosse: - No: la pelle si sfalda sotto le dita. Credo sia lebbra.
Un silenzio attonito seguì quelle poche parole: la rabbia, l’inquietudine e la paura si sparse come vino, lasciando l’amaro in bocca. Avrebbero chiesto sicuramente medicine al Traghettatore, ma poi? Di certo non sarebbe bastato.
- Ci sono infetti? – mormorò Night cercando di controllare il tono della voce, ma il panico era palpabile. Perfect si era aggrappato alla camicia del capobanda e fissava Ember ad occhi socchiusi.
- Per ora no, ma dovremo agire con cautela.
Seguirono attimi di silenzio, poi l’urlo rabbioso di Night irruppe nella quiete lugubre della stanza: - Quei bastardi! È sicuramente opera loro! – ringhiò battendo un pugno sul tavolo, e Perfect lo guardò con occhi sbarrati ma in silenzio, aspettando un’altra reazione. Quella non arrivò, ma l’atmosfera rimase tesa.
- A proposito di questo… - mormorò Illusion intromettendosi nella conversazione. – Ho notato degli spostamenti nella foresta, tracce di Alto. Non escluderei che si siano riprodotti.
Free ebbe un brivido a quelle parole: provò ad immaginare piccoli Alti, tanti piccoli parassiti da schiacciare ed eliminare come insetti. Riprodursi era proibito nell’Isola: o abortivi o ti uccidevano. Non erano rari i cadaveri delle Sirene arenati sulla spiaggia come delfini privi di vita.
Guardò Night, pallido alla luce delle poche candele che iniziavano a sfaldarsi. Perfect aveva smesso di stuzzicarlo e ora li fissava muto: - Cosa devo dire alle altre bande?
Night rimase in silenzio e si massaggiò una tempia, sospirando piano. – Niente. – disse poi, sorprendendo i presenti. – Devo parlare a Donnola di persona. Tu parla alla tua banda e mettili in guardia, in fondo siete i primi ad essere in contatto con loro.
Perfect annuì, poi si alzò stiracchiandosi piano: - Bene, vi lascio alle vostre cose. – mormorò adocchiando Astro. – Aspetto notizie.
Diede un bacio a Night e sorrise mesto. – A domani. – sussurrò, prima di lasciare la sala.
Night si alzò allo sbattere della porta, dirigendosi piano verso una delle finestre. Free lo guardò per secondi interminabili, perdendosi nel suo sguardo incerto: - Cosa pensi di fare, Kiyama?
Si conoscevano per nome, tutti e cinque: non c’era mai stato niente a dividerli davvero, e nonostante usassero spesso i loro nomignoli provavano un brivido di nostalgia nel pronunciare i loro nomi, quelli veri, quelli con i quali si erano incontrati ed erano cresciuti insieme.
Night non si voltò verso di loro: si aggrappò al drappo rosso e lo tirò giù con uno strattone, e la stanza venne invasa dalla luce del sole che si perdeva sul mare. – Ucciderli. – mormorò semplicemente. – Ucciderli tutti.
 

 
 
- Chi erano?
- Chi erano chi?
- I tizi ai quali hai chiesto la barca.
Donnola gli sorrise con aria cospiratrice: con una mano teneva fermo il berretto bianco che rischiava di essere trascinato via dal vento, con l’altra manovrava il motore della barca con sicurezza aggraziata. – Se~ gre~ to~ – cinguettò amabile, e infine si voltò verso la distesa d’acqua che stavano scalfendo con una chiara cicatrice di spuma.
- Almeno ditemi cos’avete fatto lì dentro. Sono rimasto ad aspettarvi per mezz’ora, sai?
Donnola si girò di nuovo e gli sorrise mostrando i denti bianchissimi. I suoi capelli biondi sferzavano l’aria nella treccia che si era fatto quella mattina ma che ora era un po’ disfatta e rovinata: alcune ciocche sfuggivano alla presa dell’elastico e gli incorniciavano il viso magro. – Sei davvero buffo, Moon! E così ingenuo… ma vedrai, ti aiuterò io d’ora in poi. Ti starò sempre vicino, mi stai simpatico!
Moon lo guardò di sottecchi e rimase serio: stava riflettendo da un bel po’ di giorni sul suo nome. Era da tempo infatti che sentiva quel nomignolo un po’ più suo, come un marchio nella pelle sempre più profondo. E sentiva già che “Hera” non era stato nient’altro che un segno di riconoscimento affibbiatogli dai suoi genitori.
“Perché non possiamo sceglierceli noi i nomi?” aveva spiegato Donnola facendo spallucce. “Per tutta la nostra vita siamo costretti a portare un nome che non abbiamo scelto, ma che ci appartiene perché scritto nero su bianco. Non lo trovo giusto”.
Sembrava esserci un profondo astio nei confronti degli adulti, tuttavia Moon da quando aveva ricevuto quello schiaffo non aveva mai osato entrare nell’argomento. Si era abituato all’idea che in quell’isola i genitori semplicemente non esistessero: erano ricordi lontani e maligni, esseri terribili semplicemente da odiare. Moon pensò a sua madre  e già la sentì un po’ più lontana.
- Il Sacerdote… è un tipo pericoloso, vero? – sussurrò sfiorando la superficie salmastra con le dita fini.
- Oh, no affatto. Anzi, è davvero molto gentile. – lo rassicurò il biondo indicandogli un punto alle sue spalle. – Ecco, siamo quasi arrivati.
Hera si voltò, rimirando con uno solo sguardo la parete del tempio, ampia e imponente, che imperava sull’isolotto di scogli. Era decorato finemente, ma la maggior parte degli affreschi era stato eroso dalle salsedine. Donnola manovrò la barca aggirando l’edificio e accostando accanto agli scogli. Essi delimitavano un ampio piazzale di marmo, scivoloso a causa delle mareggiate, e al centro del padiglione stava un ragazzo.
Donnola scese dalla barca dopo aver legato la cima a un paletto di ferro conficcato nella pietra, ma Moon non si mosse. Rimase a fissare Il Sacerdote per minuti interminabili, ignorando le parole di Donnola: era un bel ragazzo dall’aspetto androgino, i capelli corti e biondi scompigliati dalla stessa brezza che faceva volteggiare i suoi vestiti candidi e leggeri. Fissava il mare, come se non si fosse accorto della loro presenza. Nella mano stringeva una lancia impreziosita da piume.
- Moon, forza, dobbiamo ringraziare Il Sacerdote e chiedere alle ragazze se hanno vestiti per te! – sbuffò Donnola accigliato, e dovette tirarlo per un braccio per attirare la sua attenzione.
Moon scese cautamente dalla barca e guardò circospetto il Sacerdote come una sorta di miraggio. Quando finalmente i loro occhi si incrociarono, ebbe un brivido di inquietudine: occhi azzurri e velati, penetranti, sembravano volerlo erodere dall’interno. Istintivamente strinse il braccio di Donnola, il quale lo ignorò tranquillamente dirigendosi a passo spedito verso il ragazzo. Hera gli caracollò dietro, non ancora abituato al contatto del terreno ruvido a diretto contatto con la pianta del piede.
Appena si ritrovò di fronte al Sacerdote abbassò lo sguardo. Sentì Donnola parlargli e talvolta ridere, ma non sentì Il Sacerdote parlare. Rimase in silenzio non osando distogliere lo sguardo dal pavimento.
Quando proseguirono verso l’entrata del tempio poteva sentire benissimo il suo sguardo su di lui come una serpe appostata nell’ombra.
- Senti, perché è così? – borbottò a disagio voltandosi indietro: ora il ragazzo era voltato di schiena e continuava a guardare il mare.
- Così come?
- Beh, così… strano. – mormorò soprappensiero scrutando Donnola di sottecchi. – Sembra un tipo inquietante.
Donnola proruppe in una risata cristallina, iniziando a salire le ripide scalinate che portavano alle porte del tempio. – Oh, ma dai, è solo un custode! – esclamò scompigliandogli i capelli. – Non devi farti intimorire, è qui per proteggere le Sirene.
- Ed è sempre tutto solo? – chiese piano mentre osservava incuriosito la chiave che Donnola aveva sfilato da una tasca dei jeans. – Deve essere molto triste.
- Lo è… - annuì serio il ragazzo dai capelli biondi. – Ha fatto voto di castità, per questo non potrebbe avere contatti umani. Però si dice che se la passi bene con uno dei messaggeri…
- Ah sì? – chiese accigliato Hera mentre il ragazzo biondo infilava la chiave nella toppa di un’elegante serratura. – Davvero un ragazzo casto insomma… Scommetto che si diverte parecchio.
- Non direi. – sorrise Donnola mestamente aprendo le porte con una semplice spinta. – Vedi, Il Sacerdote ha fatto voto di castità: questo significa rinunciare a parecchie cose.
Non entrò nell’argomento e Moon non chiese altro: rimase incantato dall’interno dello sfarzoso edificio: affreschi di vergini coprivano le pareti diafane, i loro colori accesi erano illuminati da una serie di ampie finestre e torce appese alle colonne di marmo puro: sembrava una sorta di chiesa cristiana, ma c’era qualcosa che rimandava vagamente alle tradizioni pagane.
C’erano diverse porte, probabilmente portavano a delle dimore o camere da letto, e un vociare allegro e spensierato si diffondeva nell’aria insieme a profumi esotici e aspri. Diverse fanciulle dall’aria sbarazzina sostavano vicino alle colonne, o ridevano attraversando le volte chiare e colorate, si intrecciavano i capelli specchiandosi in lavabi posti per tutta la sala. Appena entrarono li guardarono stupite, ma poi alcune di loro sorrisero raggianti correndogli incontro: - Sei tornato finalmente! – esclamarono ridenti. – Ci hai portato uno nuovo?
Hera arrossì sentendosi al centro dell’attenzione. Gli occhi delle ragazze lo scrutavano ridenti e felici, qualcuna di loro sembrava fin troppo interessata. Ebbe l’impulso di nascondersi dietro a Donnola, il quale preferì prendere le redini della situazione: - Ragazze, non spaventatelo! È solo un cucciolo!
- Un cucciolo dici? – si interessò qualcuna di loro. – Awn, io adoro i cuccioli, lasciamelo un po’!
Moon avvampò, poi pensò che tutto questo fosse ingiusto e si aggrappò al maglione di Donnola ringhiando sommessamente: Donnola sembrò capire perché si divincolò presto dal gruppetto di ragazze con qualche scusa aggraziata, poi lo prese per mano come un bambino e insieme proseguirono lungo il corridoio. Altre fanciulle li guardarono stupiti.
Hera sentì la pressione della sua mano con la sua: fredda, ruvida e sporca, un contrasto così sgraziato a confronto con il suo viso femmineo e allegro. Lo fissò e fu come se all’improvviso si fosse fatto bambino, un bambino piccolo e mansueto con la manina esile in quella del fratello maggiore. Lo guardò dal basso, e pensò fosse bellissimo e diafano nella sua perenne giovinezza.
- Cucciolo? – chiese piano, inquieto. – Cosa significa?
Donnola non gli rispose e si limitò a sorridere, un sorriso che sembrava illuminare maggiormente le immagini affrescate sullo sfondo di pietra.
Moon lasciò la sua mano solo quando si trovarono al cospetto di una ragazza dai lunghi capelli blu e gli occhi azzurri e chiari. Sedeva tranquillamente su una sorta di trono posto su un altare ampio e luminoso. Li guardava con sufficienza, quasi annoiata, ma col sorriso sulle labbra: era la ragazza più bella che Hera avesse mai visto, con quello sguardo magnetico e civettuolo e il rossetto appena accennato sulle labbra carnose. Era leggermente truccata e le unghie risultavano curate e spigolose, smaltate di nero. Lei allungò la mano e un paio di braccialetti scivolarono lungo il braccio fine e delicato; Donnola si affrettò a baciarla inchinandosi galantemente.
- Cosa ti porta qui, piccolo leccapiedi?
Donnola sorrise raggiante, lascivo, e inclinò piano il capo. – Mi stavo chiedendo se aveste avanzato qualcosa dalla notte scorsa.
Lei sembrò pensarci, facendo tintinnare gli orecchini sfarzosi come una regina: aveva davvero degli occhi bellissimi. – Non direi, i vestiti avanzati li ho dati tutti a te. Per il tuo amico temo che dovremo confezionarne degli altri.
Donnola annuì come se avesse detto chissà quale verità. Poi lo afferrò per mano e seguì i movimenti della ragazza, che li precedette in una piccola stanzetta.
La porta si chiuse metallica dietro di loro.
 

 
Un urlo sembrò interrompere il sogno proibito come i raggi di sole sciolgono la neve di un inverno intenso. Astro si alzò piano facendo attenzione a non svegliare il compagno disteso accanto a lui, e rimase fermo per un istante, in piedi, illuminato dalla luce della luna che filtrava dalle finestre. Il pavimento sembrava ondeggiare sotto i suoi piedi, e dovette appoggiarsi al davanzale per sostenersi.
Sudava, e piangeva.
- Astro, che hai? – chiese una voce impastata dal sonno alle sue spalle. – Cos’hai?
- Niente, era solo un incubo. – sussurrò lui senza voltarsi. Solo un incubo…
Da qualche parte, nella notte, una risata irruppe nell’aria fredda di fine estate.

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Capitolo 5
*** Death Mask V ***


Death Mask
 
Pegasus era indubbiamente un bel ragazzo: capelli biondi baciati dal sole, occhi tanto azzurri da sembrare rapiti dal cielo, pelle bianca e diafana: il suo corpo non conosceva ustioni o ferite di qualche sorta, se non qualche morso o livido imbarazzante provocato da Hatter, i quali se ne andavano via nel giro di qualche settimana.
Numerose le ragazze a fargli la corte: si diceva che fosse il ragazzo più desiderabile e affascinante dell’Isola; di certo l’alone di mistero provocato dalla sua indifferenza nei confronti delle bande o degli altri giovani contribuiva solo a renderlo più attraente, ma ormai era chiaro a tutti: a Pegasus della lunga lista di spasimanti non poteva fregar di meno. Gli unici che non sembravano far parte di questa lista erano per l’appunto Hatter e Stardust, compagni da sempre nel bene e nel male.
Vivevano a ovest dell’isola, ai confini della Città Abbandonata, e quindi molto distanti rispetto agli altri ragazzi: infatti non facevano parte di nessuna banda in particolare, e non sembravano interessati alla vita al di fuori del loro vagone giallo canarino, un vecchio relitto adagiato su una scassata ferrovia che attraversava l’Isola.
Sarebbero risultati persino insignificanti se non fosse stato per un piccolo particolare: erano in possesso dell’unico generatore di elettricità dell’Isola, senza contare il consistente porto d’armi a loro disposizione. Inoltre tenevano in custodia le ultime auto ancora integre, quelle che non erano state bruciate o distrutte durante la Notte. Per questo motivo vantavano una certa considerazione sociale.
Fiamma si guardò attorno, studiando con attenzione calcolata il bosco che accerchiava il vagone: protettore e allo stesso tempo infingardo, una trappola per topi nel caso in cui alcuni di Loro avessero deciso di attaccare. Di certo se avessero colpito in massa la mitragliatrice posta in bella vista che sporgeva da uno dei finestrini rotti non sarebbe bastata.
Dall’abitazione improvvisata provenivano urla giocose. Qualche esaltazione per una vittoria o forse un pegno erotico. The Mad Hatter -soprannominato così per ovvi motivi- aveva una risata abbastanza inquietante, tanto che a Fiamma vennero i brividi. Preferiva stare lontano dai matti, ma del resto in quell’isola lo erano un po’ tutti, e capitava che qualcuno fosse più matto dell’altro.
Quando bussò alla porticina del vagone, decorata finemente da subdoli fiori di cartapesta, si fece silenzio. Gli aprì proprio Pegasus, una cicca in bocca e il torace scoperto imperlato di quello che sperò fosse sudore. – Fiamma, che ci fai qui? – chiese monotono, gli occhi spiritati da qualche droga. Fiamma poté vedere di sfuggita i polsi sanguinanti coperti da bende improvvisate prima che Pegasus si scostasse per accoglierlo all’interno del vagone.
- Vi ho interrotti? – chiese piano Fiamma alzando un sopracciglio, guardandosi attorno mestamente: il vagone era la cosa che di più inquietante si potesse immaginare, con fucili e bombe a mano abbandonati negli angoli più remoti dello stretto corridoio, coperti da peluche rosa e accozzaglie di cose colorate e sgargianti delle quali non voleva saperne la natura..
- Sai, sono le quattro di mattina. – osservò secco Stardust nascosto dalle coperte al suo sguardo interlocutore, abbastanza provato. – Comunque non stavamo facendo nulla in particolare.
Da una marea di cuscini in fondo al letto matrimoniale spuntò Hatter, ridendo sguaiatamente e visibilmente ubriaco: - Vuoi unirti a noi Fiamma-chan? Stavamo giocando a Obbligo o Verità, tee-eeh.
- Hatter, copriti per favore. – mormorò Pegasus muovendo pigramente una mano. Il vagone aveva preso quel tipico odore di sesso, fumo, alcool e parecchie cose spiacevoli, ma Fiamma non si scompose minimamente. Osservò Pegasus sedersi –avrebbe definito i suoi gesti quasi curati- su una delle sedie girevoli accanto a un tavolino malmesso che aveva sostituito parecchi sedili, e lo scrutò con sguardo assorto, spento: Fiamma capì che non era nelle condizioni adatte per affrontare una discussione, ma non fece una piega quando lui iniziò a parlare strascicando le parole: aveva una voce sensuale e a tratti roca, rovinata dalle sigarette. – Siamo mattinieri, noto.
- Si tratta di una questione importante. – annuì Fiamma. Non si sedette, e rimase in piedi. Pensava a Pegasus, e alle sue occhiaie, e pensò che certe persone non erano affascinanti come tanti credevano. Certe persone non erano affascinanti per nulla. In particolare, Pegasus era un tipo da prendere poco sul serio. Ogni tanto si diceva vagheggiasse su un dio del quale non conoscevano il nome.
Si diceva che prima della Notte andasse tutte le mattine in chiesa, lì sulla collinetta, al riparo tra i boschi silenziosi. Pregava e nel frattempo entrava nel circolo vizioso della religione, della pedofilia. Si diceva che se ne stava sempre muto prima della Notte. Che prima di dormire stringeva forte la sua collanina con la croce e pregava per sogni sicuri, che non riguardassero sangue o dolore.
Si diceva che di tanto in tanto sognasse la morte.
 – Preferirei parlare con te in maniera che tu possa capirmi, possibilmente.
- Ma caro Fiamma, io ti capisco. – sorrise Pegasus, la testa ciondolante. – Non ha ancora fatto effetto, sono un tipo tardivo io. Eventualmente potrai parlarne con Stardust nel caso io crolli.
Fiamma scosse la testa, titubante, ma alla fine iniziò a raccontare quanto i Cinque avevano deciso nella riunione: era stata diffusa l’allerta generale, e tutti erano tenuti a partecipare a una nuova Caccia agli Alti. Sorprendentemente Pegasus ascoltò tutto, ma fu costretto a stendersi sul matrimoniale poco dopo e da quel momento Fiamma tentò di ignorarlo. Uscì dopo aver salutato rispettosamente Stardust e Hatter, l’uno agitato per la visita improvvisa, l’altro esultante all’idea di una nuova Caccia.
Fiamma se ne andò con le prime luci dell’alba, e si avviò nuovamente lungo la strada insidiosa che portava alla base.
Aveva un fucile in una mano e il cuore pesante nell’altra.
 
 
Era strano ritrovarselo davanti dopo parecchio tempo, dopotutto. Night rimase in silenzio mentre la figura elegante ed aggraziata di Donnola attraversava il salone guardandosi attorno con una certa curiosità infantile, quasi provocatoria. Era come proiettarsi nel passato, un piccolo viaggio all’indietro. Un salto nel vuoto.  – Vi siete scavati un bel buco. – sussurrò solo, notando con una punta di dispiacere quanto buio fosse effettivamente in quella stanza.
- Siediti, Donnola. – replicò solamente il capo dei Stellati accavallando le gambe, e socchiuse gli occhi: non aveva dormito quella notte, e ora si ritrovava a fare i conti con la sonnolenza dovuta al chiarore delle candele. – Devo parlarti, da capo a capo. Si tratta di una questione importante.
- Me l’hanno riferito. – replicò l’altro sedendosi compostamente sul divanetto di velluto, di fronte al rosso. – Allora, hai pensato alla mia proposta? Sappi che non sono disposto a scendere a patti.
- Sii serio una buona volta, non è questo il punto. Lascia perdere l’Isola, lascia perdere le bande, Day e tutto il resto: ti chiedo solo di ascoltarmi.
Lo sguardo di Donnola assunse quel barlume di muta consapevolezza che poche volte soleva assumere. Il buio dilagava attorno a loro come una nebbia protettrice dagli sguardi indiscreti: era come trovarsi in un’isola nell’isola. Gli occhi di Night erano il mare in tempesta.
- Ho tutte le ragioni per credere che gli Alti abbiano teso un attacco.
- Un attacco? Non avevi piazzato i tuoi a perlustrare l’Isola? – chiese sospettoso il biondo accavallando le gambe con grazia. Vestiva elegantemente, un vecchio abito da sera sopra una camicia di lino, chiusa bottone per bottone, mentre una catenella d’argento pendeva dal collo fine: probabilmente aveva indotto con qualche inganno le Sirene per fabbricargli vesti tanto pregiate. I capelli erano raccolti in una coda chiusa da un fiocco scarlatto.
- Non è bastato. Questa volta hanno raffinato le loro tecniche: si sta diffondendo un’epidemia nell’Isola, i Figli del Traghettatore ne sono infetti. Nelle ultime ore si sono verificati quattro contagi Donnola, non c’è da scherzare.
- Una malattia? Che genere di malattia? – s’incuriosì impassibile il biondo guardandolo con interesse. Sembrava che tutto ciò non potesse riguardarlo.
- Inizialmente avevamo ipotizzato che fosse lebbra, ma sembra troppo contagiosa per essere una malattia di questo genere. Penso… - abbassò la voce, perché non ci credeva neanche lui. – Penso che dovremmo fare qualcosa.
Donnola, sorprendentemente, scoppiò a ridere: i suoi orecchini ondeggiarono pigri quando portò la testa all’indietro e sembrò quasi impazzito tanto appariva disgustoso. – Oh cielo Night, ma cosa credi di fare? Ember non è un medico, renditene conto! Non essere ridicolo, non sappiamo nemmeno di che cosa si tratta!
- Qualche idea ce l’abbiamo. – obiettò piano Night. – Ti prego di non infierire, non ti ho convocato qui per ridere di me.
- Non sono uno dei tuoi aguzzini. – sibilò tetro il biondo scoprendo le gengive. – Decido io cosa fare o non fare, decido io cosa dire o non dire.
- Dobbiamo unire le forze. Siamo noi a dover uccidere Loro, non il contrario.
- Non m’importa! Questo discorso non mi tocca, siamo in grado di proteggerci da soli noi. – Donnola si alzò in piedi ridendo, gli occhi sbarrati. Sembrava invaso da una muta e consapevole follia, un egocentrismo prorompente. Lo guardò con disgusto, altezzoso, sapendo che nei suoi confronti Night non avrebbe potuto nulla.
- Certi pensano tutt’ora che a portare l’epidemia sia stato il naufrago. – Night alzò la voce, furioso dal comportamento del biondo, e abbandonò la poltrona senza tuttavia avanzare di un passo. – Pensano che abbia contaminato le acque, è per questo che i Traghettatori stanno male. Tu non ti rendi conto con chi hai a che fare, Donnola. – Sputò quel nome con disprezzo, come un insetto da calpestare o rinchiudere in un barattolo per una morte atroce.
- Oh, no invece. – ringhiò Donnola scoprendo i denti affilati. – Sei tu che non ti rendi conto di chi hai davanti. Ma lo scoprirai presto, sai? È tutta questione di tempo.
- Stai vagheggiando! – Night quasi urlò rabbioso, portandosi una mano ai capelli. Si sedette e lasciò che la rabbia scemasse: era sempre così, con Donnola perdeva facilmente il controllo e si abbandonava alle sue azioni. – Donnola, ascoltami per una buona volta.
- No. – sussurrò il biondo. Si era preso una ciocca di capelli e ora la torturava piano con le dita, lentamente, quasi immerso in un pensiero che Night non avrebbe mai potuto raggiungere. – Non ti ascolterò. Lascia in pace Moon, lui è mio ora.
Night assottigliò lo sguardo, scuotendo la testa. Poi chiuse gli occhi del tutto e abbassò il capo. – Se vuoi, la Caccia è aperta. Anche per voi. – mormorò solo, e furono le sue ultime parole prima che Donnola soffiasse sulle candele facendole riposare nel buio totale.
I passi di Donnola si persero nell’ombra che veniva proiettata dalla sua figura immersa nella luce esterna. – Buonanotte, Kiyama.
 
 
Quella mattina si alzò silenziosamente. Non tanto per rispetto nei confronti dei suoi compagni di stanza, piuttosto per una pace tutta sua. Amava in particolare perdersi nel silenzio ambrato del mattino, sentire lo stridore dei gabbiani e il profumo di salsedine proveniente dalla finestra aperta.
Lava e Venus non si sarebbero svegliati prima delle dieci di mattina, mentre Moon preferiva alzarsi con l’alba, troppo abituato all’orario scolastico. Dicevano che sarebbe cambiato presto, e onestamente il ragazzo un po’ ci sperava.
Scese lentamente le scale, ascoltando i mormorii dei Divini: alcuni non sembravano dormire mai, come ombre notturne e fugaci. Percorse il corridoio buio camminando piano e a tentoni, perché non c’era luce nell’Isola e si era dimenticato la candela.
Arrivò fino in cucina, e rimase immobile per un po’ osservando la magra figura che si stagliava contro la finestra aperta. Il sole aveva preso ad alzarsi pigro.
- Che ci fai qui? – chiese tra l’imbarazzo e la sorpresa, strofinando le mani una contro l’altra in attesa del calore del giorno.
- Potrei farti la stessa domanda. – sussurrò Donnola, in piedi, immobile. Appariva stanco, e forse non aveva proprio dormito. Era vestito elegante, un’eleganza inusuale e quasi… adulta? Sembrava in effetti un bambino con un cappotto troppo grande.
- Mi sveglio troppo presto, lo sai.
- Lo so. Torna su.
- Perché?
- Torna su.
Moon non si mosse di un passo. Cercò di studiare il volto del capobanda e non vi lesse altro che stanchezza. – Non torno su. – dichiarò soltanto, a far capire che non era solito avere degli ordini. – Faccio quello che desidero.
- Fai quel cazzo che vuoi allora. – rispose Donnola con un gesto brusco. Prese una sedia e ci si abbandonò, chiudendo gli occhi stanchi. – Passami da bere.
Moon si mosse nella penombra avanzando verso le vecchie e polverose credenze della cucina malmessa. A tentoni contò il numero: quella in cui era riposto l’alcool era la settima da sinistra. Si era già abituato alla vita dell’Isola, quasi fosse nato su quella terra. Eppure ne era certo, era cosciente solo da qualche giorno sebbene fosse rimasto una settimana sul letto senza aprire gli occhi. – Questa?
- Esattamente quella. – parve illuminarsi Donnola, tendendo una mano cadaverica verso la bottiglia di liquore bianco tra le sue mani. Moon gliela porse in silenzio e lo vide ingurgitarne una generosa quantità. – Posso sapere il nome di questa robaccia?
Donnola sembrava già più in forze, e ignorò il commento del nuovo arrivato. La sua mano nivea scivolò sulla superficie fredda della bottiglia, accarezzandola come una bambina. C’era qualcosa di malato, in quel gesto. – Il Nettare degli Dei. – sussurrò sorridendo mellifluo, guardandone il contenuto con avidità mista a… dolcezza? – Fanno a gara per ottenerne un po’, qui nell’Isola. Ce l’abbiamo solo noi, solo noi abbiamo il diritto di possederla.
Moon rimase in silenzio, scrutandolo con sincera curiosità. Tutto in lui era curioso, interessante. E misterioso, soprattutto. Moon non ricordava di aver mai conosciuto personaggio più enigmatico.
Gli si sedette affianco, piano, in silenzio. Poche parole. – Mi mancano i miei genitori. – confessò piano, e per la prima volta nella sua vita si vergognò di ciò che diceva.
Donnola non rispose. Il sole aveva già iniziato a salire, ad illuminare lo spazio angusto della stanza. Piatti da lavare, finestre rotte, fango e cenere. Si accese una sigaretta come se non gli importasse: non gli importava. – Vieni.
- Dove?
- In un posto.
- Perché?
- Perché devo farti conoscere delle persone.
Il tono non gli piaceva. Tuttavia, a ben pensarci, non gli piaceva niente di lui… o meglio, non apprezzava nessun particolare lato del suo carattere. Tuttavia annuì, come se fosse stato interpellato con una domanda importante, anziani saggi in contemplazione di una cucina sporca, miserabile e vecchia quanto loro.
 
 
Era già mattino inoltrato quando giunsero davanti all’edificio. Era vicina al covo della banda degli Stellati, tuttavia non troppo lontana dal faro. Era una vecchia costruzione dai tratti europei attorniata da un giardino immenso. Poche fontane, impreziosite da statue di marmo ora ridotte in pezzi e erose dal muschio, impreziosivano quella che era stata, a suo tempo, una grande villa residenziale.
Il cancello che dava sulla strada era chiuso da un lucchetto, e i pochi bambini che scorrazzavano ridenti tra l’erba alta e incolta sembravano in questo modo una sorta di buffo e ridicolo bestiame.
Donnola tuttavia socchiuse piano le sbarre di ferro, senza chiuderle davvero. Ripose il suo solito mazzo di chiavi nella tasca dei pantaloni e si guardò attorno con un sorriso pigro.
Non ci volle molto che qualche ragazzino gli venne incontro gridando, riconoscendolo, e i bambini più piccoli si ritrovarono ad urlare, come una cantilena: “È Donnola, è Donnola!”
Alcuni si fermarono a pochi passi da loro, contemplandoli come miraggi. Erano sporchi di fango, i vestiti laceri come se avessero appena fatto a botte. In effetti, a giudicare dai lividi e dai graffi sulla pelle bruna dal sole non era una possibilità da scartare.
Uno di loro si avvicinò fissandolo con una sorta di ammirazione cieca, il moccio al naso e i denti rotti. Una criniera leonina gli scendeva lungo le spalle denudate da uno squarcio alla maglietta sudata, e le manine sporche si afferrarono ai suoi vestiti. Donnola semplicemente lo prese in braccio arruffandogli i capelli. – Ciao Lion!
- Rawr. – rispose ridente il piccolo mostrando le unghie rotte. Poi, come se fosse la cosa più semplice del mondo, si sporse su di lui e gli diede un piccolo bacio sulle labbra, avvolgendogli le braccia esili attorno al collo.
Hera non ebbe apparentemente nessuna reazione, certo che si trattasse solo di un caso. Quante volte per sbaglio sua madre gli aveva baciato l’anglo della bocca? Eppure in quel gesto c’era qualcosa di terribile, Moon ne era consapevole. Si chiese quanti anni avessero tutti quei bambini, e la risposta automatica lo fece rabbrividire.
- Moon, ti presento i Bambini Perduti. Bambini Perduti, questo è Moon.
- Siamo Ragazzini Perduti. – lo corresse uno di loro, a muso duro, ringhiando. Aveva i denti erosi dai dolciumi, una capigliatura articolata color della notte e gli occhi da lupo. – Ragazzini.
- Ragazzini. – annuì complice Donnola, e mise a terra Lion, il quale sembrò rabbuiarsi un poco. – Ho portato una sorpresa per te. – cercò di rincuorarlo Donnola, gli occhi velati di tenerezza. Sembrava che tutti gli altri non avessero la stessa importanza di Lion, e probabilmente era così.
Moon tuttavia non ricordò alcuna sorpresa: non aveva portato niente con sé se non il mazzo di chiavi, o così almeno pareva. Donnola lo prese per mano, poi strinse la mano del bambino sorridendo serenamente, e infine proseguirono per il selciato cosparso da trascurati ciuffi di erba e giocattoli rotti. Gli altri non li seguirono, tornando ai loro scherzi e al loro mondo infantile.
Hera percepì in quel luogo una sorta di degrado. Di abbandono, di completo fallimento. Nessuno sembrava voler badare ai piccoli, eppure essi erano chiusi a chiave come bestie da allevamento. Era questa l’impressione che fin da subito aveva avuto, e in un certo senso non sapeva bene se disgustarsi di questo ragionamento o della realtà in sé per sé.
- Moon, questo è Lion. Lion, questo è Moon, un mio nuovo amico.
- Eh? – sussurrò Hera sussultando, ancora in balia dei propri pensieri.
Lion ebbe tutt’altra reazione. – Sono io il tuo unico amico. – ringhiò guardandoli con occhi torvi; in particolare sembrò prendersela con Moon, il quale non aveva ben capito cosa stesse succedendo ed era ancora perso in cupe considerazioni. Fu così che trovò il ringhio di Lion decisamente animale e selvaggio, ma forse era solo frutto delle sue paranoie.
- . – sussurrò Donnola sorridendo dolcemente. Non l’aveva detto né con tono di scherno né con la tipica comprensione degli adulti: lo aveva detto  sinceramente, probabilmente lo pensava davvero. – Sei il mio unico amico.
Lion a quella confessione sembrò farsi più raggiante, e tornò a sorridere. – Cosa mi hai portato?
- Te lo faccio vedere dopo. – spiegò tranquillamente il biondo. Si sciolse i capelli spettinati e tornò a farsi la coda, stavolta più alta e sbarazzina, lasciando cadere – non casualmente-  il nastro a terra. La cosa non sfuggì al bambino, il quale raccolse il filo nero come se avesse trovato un tesoro. Se lo mise in tasca tutto contento.
Hera si ritrovò a pensare che forse, per il piccolo, Donnola stesso fosse un tesoro.
Giunsero davanti alle grandi porte dell’edificio camminando in silenzio. Donnola non aveva lasciato le mani né di Moon né di Lion, cosa che imbarazzò parecchio il castano e che fece ingelosire di più il bluetto. Tuttavia, a ben pensarci, Donnola sembrava avere intenzioni del tutto innocenti.
Il ragazzo biondo tirò fuori il solito mazzo di chiavi, e sorridendo aprì la porta. Hera iniziò quindi a dubitare della sanità mentale delle persone di quel posto: che senso aveva chiudere ogni santissima porta a chiave?
Entrarono nell’atrio di una vecchia villa vittoriana. Ad accoglierli venne una ragazzina dai lineamenti gentili e un sorriso da bambola, in completo contrasto con il mondo al di fuori. Indossava un morbido vestito di tulle bianco, le unghie erano smaltate e curate. – Donnola! Che piacere vederti. – esclamò cordiale, ma il biondo sorrise appena, i segni della stanchezza che non erano del tutto svaniti. – Ciao Tumn. Sono venuto per Lion e mi sembrava carino salutare tutte e tre.
Tumn annuì come se comprendesse, gli occhi grandi che specchiavano un’anima pura. – Mi fa piacere, sei sempre il benvenuto qui. Vera e Tate non ci sono purtroppo, credo siano state convocate da Night…
Donnola annuì, sorridendo più per circostanza che per vero interesse. – Capisco.
Si chinò quindi su Lion ignorandola come un oggetto di poco conto, e s’infilò la mano in tasca. – Bene piccolo, è il momento del regalo.
Hera per un attimo temette il peggio: se Donnola si fosse rivelato un maniaco dei bambini –in effetti avrebbe potuto spiegare parecchie cose- non avrebbe saputo come reagire. Considerando che la pedofilia era un reato, sarebbe stato abbastanza imbarazzante farlo notare. Di certo, comunque, nell’Isola non poteva esistere una legge definita tale.
Non seppe se sentirsi sconvolto o sollevato quando il biondo sfilò un semplice coltellino svizzero, dall’impugnatura elaborata e scolpita in un legno scuro, le venature che quasi sembravano vive e pulsanti… e la lama affilata come un rasoio, tanto che quando Lion lo prese in mano si tagliò il dito. Optò direttamente per svenire sul pavimento di polvere, ignorando l’esclamazione eccitata e felice del piccolo.
 
Angolino di Macareux
Saaaalve gentaglia.
Questo angolino esiste soprattutto per ringraziarvi delle vostre recensioni, e soprattutto di seguire questa fic. E soprattutto per esprimere la mia opinione al riguardo.
Penso che stia venendo una brutta copia del Re dei Ladri, o almeno per quanto riguarda lo stile. Sinceramente, a ben pensarci, penso di odiarla di già. La trama mi piace, è la stesura che non mi convince--- ho la brutta sensazione che la riscriverò prima o poi, e onestly questa cosa mi irrita alquanto, considerando che non sono mai /MAI/ soddisfatta dei miei limiti neppure dopo aver cercato uno stile migliore. Insomma, sono caduta di nuovo nello stile di prima. Mi irrita ‘sta cosa, non sapete quanto.
Odio questa fic. E odio me stessa soprattutto. Sono furiosa con la mia incapacità di scrivere, perché, Dio Cristo e tutti i Santi, i Kami e gli déi dell’Olimpo, è l’unica cosa che sento di fare meglio e non la faccio neanche bene!
… è ovvio che ci vuole talento nello scrivere, c’è poco da fare. Ahah.

Coooooomunque sia, non spaventatevi, non intendo sparire di nuovo. Risulterei ripetitiva :D Odio essere ripetitiva.
Un grazie speciale a tutti coloro che mi sostengono con le loro recensioni /in particolare a Niki ♥ La mia Gianluca ♥/ e a quelli che seguono silenziosamente.
Au revoir :)
 
Fay
 
p.s: perché mi ostino a parlare al plurale. oddio. mi faccio pena da sola D:

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Capitolo 6
*** Death Mask VI ***


 
NOTE DI INIZIO CAPITOLO
Queste note sono messe all’inizio per scusarmi per l’increscioso ritardo, e per fare un piccolo appunto sull’ultima parte della fic.
È infatti una parte estremamente delicata. Io stessa mi sono dovuta fermare più volte da quanto la immaginavo con chiarezza. Credo sia abbastanza forte per la sensibilità di alcune persone, e quindi vorrei solo scusarmi nel caso non possa piacere.
… Beh, c’è anche da dire che io in genere non sono brava con le parti toccanti e può anche darsi che non faccia il minimo effetto. Però era solo un piccolo avvertimento—
Mi scuso ancora per il ritardo durato praticamente otto mesi, ma la scuola ha occupato gran parte del mio tempo e soprattutto l’ispirazione tardava ad arrivare. Oggi stesso ho scritto ben due pagine e mezzo e di questo vado fierissima, quindi spero che il mio lavoro non sia vano c:
Il titolo è cambiato per ragioni che verranno a galla solo alla fine. Scusate tutti per il disagio!
Auguro a tutti buona lettura!!
Fay
 
Death Mask
 
 
Solo confusione, un gran mal di testa. A Moon parve come un miraggio, quella figura chiara che si chinava su di lui per un bacio ammaliatore. Capelli biondi a sfiorargli la pelle. Braccia forti a sorreggerlo. Piume bianche cadevano insanguinate nell’aria ventosa di un inverno freddo. Una risata sulle labbra diafane, occhi rossi che “Davvero?” dicevano. “Ma non mi dire”.
“Ah, sì. Ci sarà un’altra estate.”
 
 
- Ma è stata lei a soccorrerti, non è vero?
- Questo non è rilevante.
- Ora dimmi: ha una quarta vero?
Hera fissò attentamente il ragazzo davanti a lui, per quanto si potesse fissare una maschera inespressiva quale era quella di Masquerade. Appoggiò il bicchiere d’acqua sul tavolo e gli rivolse la sfumatura di un’espressione alquanto sconcertata – Sul serio, è la prima cosa che ti viene da pensare?
- È importante. – confermò quello annuendo vigorosamente. Ubriaco, come tutti gli altri. – Tumn non se l’è mai scopata nessuno. Siamo tutti curiosi.
- Il fatto che mi abbia soccorso non significa che abbiamo scopato. – si accigliò Hera, e arricciò il naso. – Siete davvero dei morti di figa.
Venus rise da dietro la tazza del famoso liquido latteo che tanto sembrava piacergli, guardandolo di sottecchi. Era un tipo che in genere si dimostrava piuttosto pacato e tranquillo, ma il Nettare in quei momenti di riposo gli dava un po’ della sua carica sensuale, che lo tramutava quasi istantaneamente in un perfetto ragazzaccio malizioso. – Lo sanno tutti che le Sirene sono intoccabili, non si fanno avvicinare facilmente.
- Ah, allora è per questo che siete tutti gay. – borbottò Moon rivolgendo loro uno sguardo piccato.
Lava lo osservò in tralice ridendo sommessamente. Era il ragazzo di Venus. O almeno così aveva capito da quei pochi giorni di convivenza: li aveva sorpresi a scopare almeno un paio di volte, e stava giusto pensando di chiedere un’altra camera. Ma in fondo lì si scopava un po’ frequentemente, da quanto aveva potuto capire, e quindi si era già convinto da solo a rinunciare in partenza. - Siamo, vorrai dire. – soggiunse il blu con una punta di malizia, e il suo riso si trasformò più in un ghigno. – Lo sappiamo tutti che ci provi con Donnola.
Moon fece per protestare, ribattendo che era il biondo a stargli sempre attorno e che la sua unica colpa era stata quella di naufragare in quel postaccio. Niente da fare. Nessuno sembrava voler ascoltarlo. Così si rese conto che probabilmente quella storia era in circolo da giorni e probabilmente era già sulla bocca dell’intera isola…
- Non credere, non te lo darà mai.
- Non ti permetterà nemmeno di sfiorarlo con un dito.
- Le conseguenze poi sarebbero terribili.
- Dicono che se provi solo a sfiorarlo muori.
- Meglio per te se gli stai lontano.
Moon sospirò e si lasciò scivolare rassegnato sullo schienale della sedia. – Guardate che è lui quello interessato… vi sembra il caso di fare questi gossip da donnicciole?
- È assolutamente necessario, sì! – rise Masquerade, visibilmente brillo, cingendogli le spalle con un braccio. - È solo che nemmeno Donnola se l’è mai scopato nessuno.
Ne parlavano sempre, quando Donnola se ne andava per i fatti suoi. Una sorta di dio, così lo definivano, alcuni pensavano che fosse proprio lui il creatore dell’Isola. Ma no, è venuto dopo Night. E allora che? Allora niente. Vi sfido a stuprarlo. Ma neanche per sogno. Lo sanno tutti che la sua pelle è stregata, se no perché la nasconde. Voi siete pazzi. No, davvero, ci hanno rimesso la pelle. E chi. Boh, un po’ tutti.
Comunque a Moon questo non poteva di certo interessare. Non al momento, almeno. Le sue uniche preoccupazioni al momento erano le voci che, come acqua, continuavano a spargersi lungo le strade dell’isola senza che lui potesse farci nulla. O meglio, non tanto le voci in sé quanto la concezione che ora i ragazzi avevano di lui: buffo come anche in circostanze del genere si ritrovasse a cercare un po’ del se stesso rimasto oltreoceano.
Donnola entrò in quell’esatto momento, facendolo sussultare. Era appena tornato da un luogo segreto che non aveva confessato a nessuno e nel quale passava la maggior parte del suo tempo. In tanti immaginavano si spogliasse finalmente di quelle vesti ingombranti e camminasse così, nudo, incurante di poter essere scoperto - o forse estremamente sicuro di non poterlo essere. Credenze popolari. Mostri che forse neanche c’erano. E però rimaneva il dubbio…
Il capobanda si fermò un attimo sulla soglia a fissarli. Sorrise candidamente prendendo a raccogliersi i capelli umidi di sale: - Buongiorno tesori. Moon, ti senti meglio? Oh, avete già finito il Nettare?
In risposta un Soldier già ubriaco sventolò in sua direzione l’ennesima bottiglia vuota. Donnola non si arrabbiò e prese a ridere di gusto, un suono lieve che si sparse per la stanza nelle prime luci del mattino. Disse che ne avrebbero chiesto un altro po’ al Traghettatore. Anche le sigarette? Anche le sigarette. E i preservativi. Lacci per le scarpe. Oh, sì, anche un paio di pantaloncini in più, sono finiti. Finiti, sì.
Una persona completamente differente dagli ultimi giorni, chiara e semplice come uno specchio limpido, senza nessun mistero enigmatico alle spalle. Moon lo fissò impassibile. Si soffermò sul suo profilo allampanato illuminato leggermente dai pochi raggi solari che strisciavano nella stanza da appannate e sudice finestre. Era bellissimo, anche con quel maglione a collo alto e i jeans a fasciargli le gambe snelle.
Venerato e temuto, divinità immortale propagatrice di ferite e morte, sembrava non accorgersi dell’ombra che scivolava rapida via da lui come una foglia trasportata dal vento. Ed era così, si trattò di un istante, che nessuno notò perché troppo presi dalla loro incosciente follia.
Hera la vide benissimo.
Perché lui, del Nettare, non voleva saperne.
 
 
L’ennesima sigaretta. Come morire, pensò Free, come consumarsi da dentro. Mille incontri educativi di una vita estranea e passata buttati nel dimenticatoio, tutte stronzate. A Free piaceva morire così, il pensiero che da qualche parte lo aspettasse questa morte, questo destino. E probabilmente sarebbe morto prima, Alto, ucciso da uno dei Bambini Perduti, e nessuno si sarebbe più ricordato di lui. Questo pensava freneticamente nel tentativo disperato di accendersi quella sigaretta. Aveva bisogno di un’altra boccata, gli sarebbe bastata solo una boccata, il tempo l’attimo il dolore dell’ennesima sigaretta, e però non si accendeva, non si accendeva cazzo, dall’accendino non usciva una fiammella che fosse una, e forse c’era troppo vento o forse era semplicemente finita, finita, aveva consumato tutti gli accendini tutti. Il pensiero lo terrorizzò. Non aveva ancora consumato se stesso.
- Hai un accendino?
Fiamma lo stava guardando da minuti interi, seduto su quel letto che puzzava di fumo, di morte e di sesso. – Sì. – commentò con un ghigno. Se l’era appena scopato a fondo e l’unica cosa che aveva da dire era “Sì”, come se non se ne fosse accorto che si stava praticamente distruggendo. Fiamma provava piacere nel vederlo distruggersi.  Forse perché normalmente non faceva neanche una piega.
Free si allungò verso i jeans dell’altro e prese l’oggetto direttamente dalla tasca anteriore. Lo fissò truce e solo quando ebbe inspirato da quell’infernale tubicino di carta si rilassò contro le lenzuola sfatte.
- Ti sta divorando. – sghignazzò Fiamma sovrastandolo. Era ubriaco. Perdeva sempre la testa da ubriaco.
“Fottiti da solo, puttana” pensò Free, ma si lasciò prendere senza fare storie, giusto un lamento, per fargli capire che a fare sesso si è almeno in due e che avrebbe dovuto andarci piano, che era una notte intera che stavano lì fregandosene del turno e forse forse forse sarebbe stato meglio smetterla, così, tanto per, ci sarebbero state altre notti per pensare a quello, che in fondo il loro non era amore e potevano gestirlo come volevano-
La sigaretta si consumò tra le sue dita senza il minimo rumore. E Fiamma intanto lo riempiva, lo sovrastava e si faceva desiderare, la sua pelle bruna si scontrava con la propria, lattea come il marmo, e quasi sembrava volercisi perdere e fondere, come una macchia di caffè va a macchiare una maglietta bianca che poi non è bianca, non proprio, ma questo gli bastava. Gli bastava davvero.
I graffi diventarono morsi, i miagolii urla. E come sempre l’amplesso si tramutò in sangue e lacrime amare, che sapevano di debolezza, ma c’era anche qualcosa di estremamente dolce in tutto quel semplice respirare l’uno il corpo dell’altro.  I loro nomi, ad esempio. Quelli veri, non quelli dell’Isola, ma i nomi che erano rimasti dall’altra parte dell’oceano. Non si potevano dire, non a voce alta, e allora l’uno tentava di soffocare l’altro nel tentativo assurdo di fermarlo, e il sesso allora si trasformava in una lotta, un certamio nel quale nessuno sarebbe mai uscito vincitore, non davvero, perché alla fine l’uno il nome dell’altro lo mormoravano sempre, e questo rimaneva tra quelle quattro mura e ritornava nei loro cuori come se non fosse successo nulla. Nulla, davvero, era successo.
Perdersi completamente. Questo era il loro sesso. Era uno di quei momenti in cui non si riusciva a capire se il Sogno del Dio stesse per finire. O cominciare. Finire e cominciare, dove il mare sfumava e i confini si disperdevano in nuvole: quello era l’inizio, quella la fine di tutto. Free lo sognava, qualche volta, quando il cielo era limpido e le stelle si completavano nel tempo della mezzanotte.
- Shuuya… Shuuya, per favore, piano.
Un ringhio coprì la sua richiesta. Una nube passò davanti alla luna, oscurando i loro volti e spegnendo i pensieri.
 
 
Ember camminava in silenzio per le vie acciottolate e abbandonate a sé stesse, infestate da fantasmi morenti, o il più delle volte da Allucinazioni che, però, non si manifestavano con una certa regolarità nemmeno agli abitanti del luogo. Red lo precedeva, cercando di mantenere una certa distanza, giusto per non mostrare la sua espressione che Ember sapeva preoccupata. Era difficile in fatti che Red riuscisse a contenere le proprie emozioni: non era affatto conosciuto per la sua impassibilità.
Il rosso si accese una sigaretta, scrutandolo da dietro come se avesse potuto effettivamente vederlo in viso. Ma era saggio che Red non gli stesse alla calcagna, principalmente per il fatto che nessuno dei due si fidava completamente dell’altro. Tra bande nemiche, del resto, non ci si poteva aspettare di più. L’unica cosa che avrebbe potuto fermare Red dal pugnalarlo alle spalle sarebbe stato il pensiero che Ember gli serviva.
- Sono aumentati dall’ultima volta? – la sigaretta sparse il suo veleno nell’aria.
- Non lo so. – rispose Red, calmo, senza voltarsi. – Abbiamo ordinato a tutti gli appestati di raggiungere autonomamente il magazzino. Chi non ha voluto ci è stato trascinato. Quindi non saprei fare una stima precisa. Forse più di venti.
- Più di venti… - si ripeté assorto Ember, ricordando perfettamente che l’ultima volta che era entrato in quel luogo di morte stesi nelle brande ce n’erano appena una decina. – Notevole.
- I sani preferiscono non addentrarsi a prendere i morti. A volte se li trascinano fuori da soli o rimangono là. Quindi non sarà un bello spettacolo.
- Capisco.
Un tremito delle spalle sotto la mantellina e già Red si era voltato, gli occhi iniettati di sangue come se non dormisse da giorni. Aveva un modo inquietante di guardare la gente, Red. Qualcosa che nessuno mai aveva capito fino in fondo. Una paura incontrollata per qualcosa di cui si conosceva solo il nome.
Traghettatore.
- No, in realtà non capisci. Non capisci un emerito cazzo. Qui la gente muore e tu il massimo che sai fare è sputare sentenze di morte. – lo aggredì ringhiando, prima di voltarsi di nuovo e procedere più velocemente per le canalette che portavano al porticciolo. Ember preferì non replicare, perché nonostante il suo animo orgoglioso si stesse scaldando, punto sul vivo, una parte di sé non poteva far altro che ammettere l’amara realtà.
Perché Ember, semplicemente, non era un medico. Aveva solo gli strumenti della cassetta del pronto soccorso e giocava al piccolo chimico.
Un bastardo.
 
Il portone era stato chiuso a doppia mandata, e i due ragazzi riuscirono ad aprirlo non dopo poche difficoltà. Ma appena riuscirono a creare uno spazio sufficiente per far passare Ember, Red indietreggiò per sfuggire all’odore nauseante della putrefazione. – Io non entro. Mi trovi al palazzo. Raggiungimi appena finisci.
- Oh certo. Sempre agli altri il lavoro sporco. – commentò cinico Ember, indossando la solita mascherina da chirurgo più per l’odore che per vera igiene. In realtà comprendeva benissimo le ragioni del capobanda. – Ci metterò qualche ora, giusto per controllare la situazione. Ti chiedo solo il favore di aiutarmi un secondo, devo fasciarmi le mani e le braccia.
Red annuì e appena ebbero finito Ember sparì dentro il magazzino. L’altro risalì lentamente le vie dell’abitato per scomparire tra le vecchie case decadenti.
L’enorme casolare era stato adibito per ospitare gli infetti, anche i minimi. C’erano tre reparti, in ordine di gravità, ma Ember preferiva sempre iniziare da quello meno grave. Lì c’era ancora chi riusciva a spicciare parola e addirittura ad alzarsi.
Nell’ultimo si sistemavano i morenti. Ed era sempre maledettamente più grande.
- Ohi. – salutò i nuovi arrivati, alzando la mano fasciata. – Vengo in pace. – scherzò un po’, ma nessuno aveva più la forza di ridere. – Mi servirebbe un volontario per aiutarmi a sistemare un po’ di gente. Vieni tu? Ma che bravo. Come ti chiami? Demonio? No, il vero nome. Ah, Demonio? Sul serio? Bene, ti visiterò per primo.
Demonio camminava e per la verità già bastava, non sarebbe servita la visita: probabilmente sarebbe rimasto lì dov’era. Ember aveva in genere un modo molto semplice di catalogare la gravità dell’infezione: chi non camminava o addirittura non riusciva a stare in piedi passava al secondo reparto. Chi non riusciva proprio a muoversi finiva al terzo, e lì si fermava per sempre.
Non aveva una cura, e chiunque si ritrovasse lì dentro capiva bene che non sarebbe più uscito. Meglio così, forse, meglio non illudersi.
- Avanti, tutti in piedi. Ho detto in piedi, non fatemelo ripetere. Che pazienza ci vuole con voi.
In realtà spesso l’infezione arrivava fino al viso, ostruendo funzioni vitali abbastanza importanti: orecchie, occhi, bocca, naso. Molti non si alzavano perché non sentivano, ed erano i compagni di morte a sollevarli. A sorreggerli, se fosse necessario, cercando di nascondere l’evidenza.
Ember li passò in rassegna uno per uno, esaminando le piaghe, disinfettandole e valutando il ritmo della propagazione. A spanne, in realtà, perché erano appena arrivati e non si poteva fare una stima precisa. Controllò la febbre e alla fine prese da parte tre ragazzi, che già zoppicavano malamente, per condurli nel secondo reparto.
Poteva vedere le lacrime negli occhi di ognuno di loro. La disperazione e la riluttanza. Ma essi non protestarono, e fu abbastanza semplice per lui e Demonio condurli dall’altra parte.
L’estate non era eterna.
Nel secondo reparto nessuno parlava. Rimanevano immobili, in attesa, di tanto in tanto chiedevano un bicchiere d’acqua a chi, del primo reparto, aveva la pietà di portarglielo. Si abbandonavano alla fame, prima ancora che alla malattia. Nessuno entrava nel magazzino se non per portare pochi avanzi della mensa comune.
Ember cercò con lo sguardo tra i letti e si fermò appena trovò Silver. Chino su un corpo, come sempre ad accarezzargli i capelli castani. – Ti reggi ancora in piedi, Sakuma?
Silver si voltò di scatto, scrutandolo con astio. Da quella volta che l’aveva scoperto nel secondo reparto ed era stato rimproverato, sembrava volerlo sfidare. Non si sarebbe allontanato dal malato –il ragazzo steso da giorni in perenne sofferenza, il ragazzo che non parlava, il ragazzo di cui era innamorato, Genda si chiamava, prima ancora di Belva, Genda dell’oltreoceano – per niente al mondo. Davvero.
- Te l’ho detto mille volte che sei da primo reparto.
- Te l’ho detto mille volte di non impicciarti.
Ember alzò le spalle. Cocciuto. – Sgombera il tuo letto allora, che ne abbiamo tre.
- Dormo con lui ormai. – replicò freddo l’altro.
- Mi vuoi forse dire che non c’è posto?
- No.
Ember si passò una mano tra i capelli fulvi, maledicendosi. Ordinò a Demonio di stendere i malati per terra, andando a prendere poche coperte dal ripostiglio. C’era bisogno di altri letti, ma chi si sarebbe premurato di aiutarlo a trasportarli dentro?
I nuovi arrivati si disposero per terra senza fare storie, premendosi l’uno contro l’altro per farsi forza. Chiusero gli occhi, e Ember li lasciò stare. Si rivolse a Sakuma, che per la verità stava in ginocchio accanto al ragazzo e non dava cenno di volersi muovere. – Riesci a camminare un po’? Mi aiuti?
Silver in realtà non era più da primo reparto. Ma aveva braccia ancora forti da poterlo aiutare con il terzo. Non protestò.
La visita agli infetti del secondo reparto fu più lunga e più complicata. C’era da controllare le piaghe, disinfettarle (con acqua fresca, a detta di molti, perché in realtà i suoi interventi non servivano poi a molto), cambiare le bende e controllare lo stato fisico del malato. Già lì, nel secondo reparto, si perdevano pezzi. Piedi, dita o mani. C’era da amputare. Prendere il seghetto e tapparsi le orecchie alla buona, con del cotone, per non sentir urlare. Trattenere le lacrime per non crollare.
- Questo è da terzo reparto. – mormorò quando arrivò a Genda, e guardò negli occhi Silver. – Te la senti? – Lui non replicò.
Trasportare i malati al terzo reparto era un altro paio di maniche. Perché in un certo senso il terzo reparto era solo una sala d’attesa. In cui si andava a recuperare i morti e la cosa finiva lì.
Si protestava, questa volta, vivamente. Si urlava, cercando di farsi capire con i suoni strascicati che si riusciva a produrre. Ci si agitava debolmente, forse con la poca forza della disperazione che si aveva ancora in corpo. Si doveva essere in due per tenerli fermi e trascinarli di peso, cercando di urlare più forte di loro, attraversare la tenda che separava il terzo dal primo e secondo, buttarli sul letto, mollare un paio di ceffoni se necessario. Ember per la precisione picchiava forte quando non riusciva a farsi ascoltare. Urlava e diceva: “Sì, ora resti qui, torniamo a prenderti”, e in realtà nessuno arrivava più a portarlo di là.
Anche stavolta Genda lanciò un lamento, ma in verità era troppo debole pure per agitarsi. Lo stesero per terra, provvisoriamente, per controllare che ci fosse qualche letto libero. Sakuma si inginocchiò vicino al morente e non si mosse di lì. Ember procedette tra le file di letti e stuoie alla ricerca di cadaveri. Ne trovò cinque.
Cambiarono le coperte e trascinarono fuori i morti. I letti vennero subito riempiti e addirittura si dovette aggiungere un’altra stuoia.
Ember non visitò nessuno di loro, controllandoli solo con lo sguardo. Mummie. Non c’era parte di pelle integra. Non si riconoscevano più l’uno dall’altro.
- Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a portare in spiaggia i cadaveri. – esordì guardando Demonio negli occhi. Quello annuì, rassegnato. Finché c’era da muoversi, si viveva.
Sakuma rimase fermo, neanche si degnò di guardarlo. Non sarebbe tornato nel secondo reparto, Ember già lo sapeva, e tuttavia lo lasciò stare. – Brutta cosa, l’amore. – si limitò a pensare ad alta voce, prima di sparire dalla porta sul retro.
 
C’era da lavare via lo sporco della morte. Il sangue delle ferite, il pus delle infezioni, l’odore della putrefazione. Ember invitò Demonio a tornare dentro il magazzino e poi si immerse nell’acqua gelida del mare. Nessuno si avvicinava quasi più, al mare, ritenuto la causa dell’origine dell’infezione, e quindi non trovò parecchi problemi a spogliarsi e lavarsi con l’acqua stessa e con un po’ di sabbia.
Bruciò i vestiti e ne prese altri, una volta che si fu asciugato al sole cocente, seduto sui pochi scogli piatti che si trovavano poco distante. Rimirò i con sguardo fermo i corpi allineati sulla spiaggia, in attesa della grazia del Traghettatore. Ma lui non arrivava, e se arrivava non prendeva che uno solo di loro. Il resto lo lasciava a marcire al solleone, e presto avrebbero dovuto seppellire quella decina di morti. Bruciarli, forse. Il fuoco poteva essere la soluzione a molte cose.
Lo disse anche a Red, quel giorno. Così, testualmente, “Il fuoco può essere la soluzione a molte cose”. Bruciare il magazzino, impensabile tra i Figli del Traghettatore.
Red chiuse gli occhi e guardò fuori. Anche da lì, la struttura di morte brillava come un miraggio. – Non intendo farlo. – commentò solo. – So che non dovrei, ma mi fido di te.
Ember sospirò. Lo guardò negli occhi e disse, piano: – Sono più di una trentina.
Red chiuse gli occhi. Black era accanto a lui, come sempre, ma molto più serio di quanto ricordasse. Era seduto sul bracciolo della poltrona e gli accarezzava i rasta con le sue dita bianche e lunghe. – E Sakuma? Dov’è Sakuma?
- Terzo reparto.
A quelle parole Red sembrò come colpito al cuore. Chiuse gli occhi violentemente e respirò a fondo, mentre la presa di Black si faceva più forte. Ember aveva notato fin da subito queste reazioni quando si parlava di quello che un tempo era stato il loro compagno. Mormorii e frasi che lui non riusciva a captare, smorfie di un dolore indicibile.
Non aveva intenzione, dunque, di comunicare la ragione delle folli gesta del malato.
Un amante indesiderato andava tenuto nascosto.
 
Brutta storia, l’amore.

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