End-Zone

di Codivilla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Un'altra occasione ***
Capitolo 2: *** Cap. 1 - Ritardi e cacciaviti ***
Capitolo 3: *** Cap. 2 - Cheerleader... che passione! ***
Capitolo 4: *** Cap. 3 - Sorprese inaspettate ***



Capitolo 1
*** Prologo - Un'altra occasione ***






- Prologo -
Un'altra occasione



***


 

La palla ovale sibilò in alto nell’aria fresca di quel pomeriggio di Settembre. Veloce scavalcò la traversa della porta a sud del campo da football, atterrando poco lontano dal primo anello degli spalti, quello più vicino ai margini dell’erba appena tagliata e curata di fresco. Quello dove sedevano, durante le partite, i tifosi più accaniti. E anche quelli che avevano una passione particolare per le cheerleader.
«Cazzo, Nigel, certo che non potevano trovarti soprannome più azzeccato!»
Nigel “Il Piede” Gruff voltò il viso smilzo ed affilato verso il proprietario di quella voce, abbozzando un sorriso sornione e portando la mano destra alle labbra. Aspirò un tiro profondo da una sigaretta, soffiando poi via il fumo con noncuranza.
«Due anni che giochiamo insieme e ancora non te ne fai una ragione, Franklin? Dalle mie parti cresciamo a pane e calcio, quante volte devo ripetertelo!» disse infine col suo marcato accento gallese.
Clifford Franklin scosse il capo adorno di corti dread scuri, ridacchiando ed avvicinandosi all’allampanato ragazzo europeo. Biondo e pallido com’era, Nigel Gruff faceva un buffo contrasto accostato alla pelle scura di Clifford, marchio inequivocabile delle sue origini afro-americane.
«Meglio per noi, amico! Non sono molte le squadre che possono vantare qualcuno in grado di tirare un calcio piazzato da sessantacinque yarde![1] »
Nigel aspirò una nuova boccata di fumo e gettò la cicca della sigaretta a terra. Il sorriso sul suo volto si fece più ampio mentre guardava il suo compagno di squadra.
«Puoi dirlo forte, cazzo!» esclamò, porgendo a Clifford un “cinque” che il ragazzo ricambiò energicamente, facendo schioccare la sua grossa mano destra contro quella del compagno.
«Ehi, Franklin, Gruff! Qualcuno sa dove diavolo sia finito Falco?!»
La voce imperiosa e autoritaria del coach McGinty si fece largo nella conversazione dei due, che si voltarono immediatamente a quel richiamo, entrambi facendo spallucce.
«Non s’è ancora visto, coach! Avrà trovato traffico per strada» rispose Clifford, ma Nigel riuscì a malapena a trattenere un sorriso malizioso a quelle parole dell’amico. Jimmy McGinty girò sui tacchi e si allontanò dai due borbottando, coi baffi grigi che ondeggiavano buffamente sulle labbra ad ogni parola che pronunciava. Tornò nuovamente a sbraitare verso i due, puntando l’indice della destra con fare minaccioso.
«E voi andate a cambiarvi, di corsa, finitela di fare gli sfaccendati!»
Nigel guardò negli occhi il suo compagno di squadra.
«Già…traffico» disse soltanto, inarcando le sopracciglia, prima di dirigersi a passi lenti e cadenzati verso gli spogliatoi, fischiettando sommessamente una vecchia canzone gallese.



***


 

La stagione del football sarebbe ricominciata di lì ad una settimana. L’intera Washington andava in fermento, mano a mano che si avvicinava la domenica in cui si sarebbe giocata la prima partita: i Washington Sentinels sfidavano in casa i Detroit Ironmen, dando come ogni anno l’occasione ai propri tifosi di tornare a godersi lo sport che era il vanto nazionale americano.
L’interesse per il football, già presente e vivo fra i cittadini, si era acuito e rafforzato in quegli ultimi due anni, susseguiti ad uno sciopero dei giocatori che aveva fatto scalpore[2]. Due stagioni prima, praticamente tutti i giocatori di football del campionato si erano rifiutati di scendere in campo, lasciando le proprie squadre in cattive acque, con la pretesa di stipendi aumentati a dismisura. Quelle moine da primedonne pluripagate avevano profondamente irritato il presidente dei Washington Sentinels, Edward O’Neil. Anzi, per dirla tutta, l’avevano fatto incazzare come una belva. Ma il vecchio volpone non era rimasto a piangersi addosso, così come non l’avevano fatto i presidenti delle altre squadre. Non poteva permettersi di ritirare la squadra dalla competizione. Chi avrebbe fatto fronte ai risarcimenti degli sponsor, agli impegni pubblicitari che sarebbero sfumati, se i Sentinels avessero rinunciato a giocare le ultime quattro partite, le più importanti della stagione?
L’idea gli balenò alla mente durante l’ultima partita prima dello sciopero, contro i Miami Barracudas, e precisamente durante una azione sconsiderata d’attacco mandata in fumo da Eddie Martel, lo strapagato quarterback dei Sentinels, e il più spocchioso e prepotente dell’intero spogliatoio. La soluzione era pazzesca, ma poteva funzionare. Ricostruire una squadra intera in meno di una settimana per finire la stagione ad ogni costo. Una squadra di semi-professionisti. Una squadra di riserve, insomma. E quel compito l’aveva affidato all’unica persona al mondo di cui si fidava: Jimmy McGinty.
McGinty, per la verità, non era stato trattato coi guanti bianchi dal presidente dei Sentinels. Bruscamente liquidato dallo stesso, dopo una lite furiosa con un quarterback dalla rabbia facile e dal gioco pretestuoso, ma molto amato dal pubblico, si era ritirato dall’allenare, disgustato da quel branco di puttanelle miliardarie che erano diventati, negli anni, i giocatori di football. Nonostante quell’episodio turbolento, era rimasto in buoni rapporti con quel vecchio figlio di puttana di O’Neil. Forse fu per quella sorta di amicizia che non seppe dire di no alla sua richiesta di allenare una squadra improvvisata, fatta di giocatori non professionisti. O forse ad averla vinta fu il pensiero che quella sfida lo allettava, immensamente. Niente primedonne capricciose pronte a reagire ad ogni sgridata. Niente giocatori che credevano di essere chissà chi e avevano perso di vista le emozioni pure che provocava lo stringere fra le mani la palla ovale. Una squadra di giovani, ognuno a suo modo speciale, che avrebbero giocato per il piacere di farlo, senza pensare solo ed unicamente alla propria retribuzione. Con questo pensiero fisso nella mente, Jimmy McGinty acconsentì a guidare i Washington Sentinels, completamente rivisitati nel loro organico, nelle ultime quattro partite della stagione durante il periodo dello sciopero dei giocatori ufficiali.
Il coach volle il controllo completo della sua squadra. Aveva scelto personalmente i giocatori sui quali fare affidamento. Un gruppo di semi-professionisti, che non avevano mai sfondato nella League, chi per un motivo, chi per un altro. Ognuno di essi era dotato di talento, ma i rovesci della vita, si sa, giocano spesso brutti scherzi.
Era il caso di Clifford Franklin, wide receiver[3], che McGinty aveva appellato come “il più veloce figlio di puttana che avesse mai visto”. Sfortunatamente, Franklin aveva mani incerte e tremolanti alla presa della palla ovale, difetto che Leo Pilachowski, il coordinatore offensivo, aveva corretto almeno in parte, in quelle quattro settimane, a suon di allenamenti e lanci improbabili lungo il campo da football. Per Clifford, abituato a lavorare in un minimarket e a sfruttare la propria velocità per inseguire piccoli ladruncoli di merendine, quel traguardo era servito come monito a ritagliarsi un posto in quello sport che aveva, a malincuore, abbandonato.
Nigel Gruff aveva alle sue spalle una storia sportiva che si distaccava invece parecchio dal football americano. Ex-calciatore di una squadra della città di Cardiff, nel Galles, Nigel aveva appeso le scarpe al chiodo per aprire un pub. Gli affari erano andati male anno dopo anno, a causa anche del brutto vizio del gallese di scommettere ogni sterlina guadagnata ai botteghini. Che fossero corse di cavalli, incontri di calcio, partite di football, non gli interessava. Scommetteva su tutto e puntualmente ci rimetteva perfino i peli del naso. L’esile calciatore era ben noto al coach McGinty per il suo poderoso calcio, che gli era valso negli anni il soprannome di “Il Piede”; proprio per questa sua caratteristica egli l’aveva fortemente voluto nella squadra, rendendolo il kicker [4] ufficiale dei Sentinels.
Un nome più famoso degli altri spiccava fra quelli indicati da McGinty. Quello di Shane Falco. “Piedi Lunghi” Falco, dello stato dell’Ohio. Un ragazzo di venticinque anni con un grande talento, scelto per rimpiazzare lo spocchioso Martel nel ruolo di quarterback[5]. Un talento che era scemato a seguito di una disastrosa finale universitaria, persa sul punteggio di quarantacinque a zero, durante la quale l’intera squadra da lui capitanata si era smarrita nel gioco. Non era stato capace di tirarne le redini, e in quei minuti era lentamente crollato, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Il suo rendimento in quella finale gli era valso il soprannome di “Piedi Lunghi”; era riuscito a completare solo pochi passaggi verso i ricevitori, e nella maggior parte delle azioni aveva scaricato velocemente la palla a qualche compagno per evitare i placcaggi della difesa avversaria, che la sua linea offensiva non riusciva a fermare in alcun modo. Aveva corso le mille miglia in quella partita, praticamente. Non si era più ripreso da quel duro colpo; abbandonò il football divenendo manovale nel piccolo porto di Washington, sul fiume Potomac. Passava le giornate a grattar via la merda dalle barche lussuose dei cittadini benestanti. Sempre col tormentoso ricordo di quella finale che era stata la sua rovina. Sempre con la consapevolezza che aveva tentennato, una volta trovatosi sul filo di quella partita. Non aveva retto alla pressione ed era rimasto sopraffatto.
Quando il coach gli aveva chiesto di unirsi alla squadra di non professionisti per portare a termine il campionato dei Sentinels, Shane ci aveva riflettuto su parecchio. La paura di ricadere in quell’incertezza durante le partite l’aveva fatta da padrone, nei primi momenti, ma aveva infine deciso di cogliere quella seconda occasione e di accettare il ruolo di quarterback per quelle quattro, sole partite.
Altri ricevettero una seconda occasione, al fine di completare quelle strana ed eterogenea squadra. Ad esempio l’agente speciale SWAT Danny Bateman, linebacker[6] nervoso ed assolutamente imprevedibile quando l’adrenalina della partita si faceva sentire; o il galeotto Earl Wilkinson, cornerback[7] di grande talento, che aveva mandato in fumo la sua carriera per una rissa in cui aveva picchiato due agenti di polizia, facendosi sbattere in galera. O ancora, il lottatore di sumo Jumbo Fumiko, “riadattato” al ruolo di bloccatore offensivo per la impressionante mole e la forza fisica devastante. Una squadra che nulla aveva di convenzionale.
I ragazzi giocarono come se non vi fosse un domani, in ogni singola partita. In effetti, non c’era nulla per loro dopo quell’apparizione fugace. Niente feste, niente cerimonie, niente fan che chiedevano autografi. Solo ossa rotte, sudore e consapevolezza di avercela messa tutta.
Al primo incontro, contro i Detroit Ironmen, dopo tentennamenti vari iniziali che avevano portato a un pesante svantaggio, la squadra aveva cominciato a funzionare. Rimontarono, facendo a spallate con gli avversari senza risparmiarsi. Ma Shane aveva ancora impresso nella mente il fallimento della finale universitaria. All’ultima azione, quella che avrebbe consentito quantomeno il pareggio, decise di andare contro gli ordini del coach. Cambiò schema, per paura di essere placcato, affidando immediatamente la palla ad un compagno di squadra invece di concludere personalmente l’azione. Persero miseramente la possibilità del touchdown[8], e con essa la partita.
Nell’affrontare i San Diego Stallions, invece, provvidenziale fu il calcio poderoso di Nigel; i Sentinels conquistarono la vittoria appunto con un calcio piazzato da sessantacinque yarde, mirabilmente trasformato dal gallese nell’azione che condusse i ragazzi alla vittoria.
La terza gara fu contro i Phoenix Scorpions. Ne vennero fuori, vincenti, alla fine, grazie a un touchdown messo giù da Clifford dopo aver intercettato un incerto passaggio di Shane. A dirla tutta, era un passaggio che Shane aveva quasi completamente sbagliato. Ma in quel momento non importava. Un’ultima partita, ancora, da vincere; un solo ulteriore ostacolo verso i play-off[9].
Shane si allenò duramente per non commettere lo stesso errore. Si concentrò ogni attimo in quella settimana per convincersi che avrebbe avuto la freddezza giusta, nel caso la partita con la squadra di Dallas si fosse messa sul filo del rasoio. Ma il presidente O’Neil aveva altri progetti in mente per i Sentinels e per quella partita in particolare.
Fu infatti Eddie Martel a scendere in campo con le riserve, contro i Dallas Ropers. Shane Falco era stato liquidato, perfino con una certa signorilità. O’Neil voleva essere sicuro di vincere. E con Martel, il miglior quarterback della League, quella vittoria era più che certa. Non poteva permettersi che Falco si calasse nuovamente le braghe, combinandone una delle sue. Ma c’era qualcosa che il vecchio presidente non aveva considerato.
I ragazzi della squadra credevano fortemente in Falco. Era diventato loro amico, prima ancora che loro capitano. Non sapevano adattarsi all’egoismo di Martel, al suo gioco presuntuoso, che non teneva in conto delle esigenze di gioco e fisiche degli altri ragazzi. Per quanto la tecnica del quarterback nel lanciare e passare la palla fosse perfetta, essa arrivava sempre un attimo prima del ricevitore, oppure andava a finire da tutt’altra parte rispetto a quello che il ricevitore stesso si aspettava. Il tutto perché Martel pretendeva di essere compreso al volo, facendo il suo gioco ad ogni costo. Alla fine del secondo quarto[10], i Sentinels erano sotto di diciassette a zero, e Martel continuava a fare la parte della primadonna isterica, suscitando l’incazzatura generale dei giocatori che l’avrebbero volentieri preso a calci nel culo.
Fu quasi un’apparizione l’ingresso di Falco negli spogliatoi. L’avrebbe guidata lui, la squadra. Non aveva bisogno di campioni strapagati. Gli bastava soltanto la fiducia dei suoi compagni, ed ogni lancio sarebbe andato a segno nelle mani del ricevitore, e poi oltre la linea di touchdown. Sotto la guida di Shane, le riserve dei Sentinels riuscirono nell’impresa che la squadra inseguiva, invano, da sette lunghi anni. Una rimonta sudata a suon di spinte, contusioni ed infortuni, fino a battere la squadra di Dallas passando ai play-off ed aprendosi, quindi, la strada di una possibilità verso il superbowl. 
Quella stessa sera, i ragazzi sgombrarono i loro armadietti. Sorridevano per la vittoria, ma dietro il sorriso amaro c’era la consapevolezza che era finita, dopo quell’ultimo, mirabolante touchdown. Lo stadio era andato in delirio. Le cheerleader avevano ballato con una grinta mai vista. Il pubblico li aveva ringraziati ed amati, per aver loro restituito quelle emozioni che da anni mancavano alla squadra di Washington. Misero via le protezioni e le magliette, appesero al chiodo i pantaloni e le ginocchiere, fasciandosi le braccia graffiate ed insanguinate ed asciugandosi il sudore. Un passaggio verso casa e via, ognuno verso la propria vita.
Ma per qualcuno di loro, dopo qualche giorno da quella partita, le cose andarono diversamente. Ricevettero tutti e tre la stessa telefonata. Gruff, Franklin e Falco. La voce di Leo Pilachowski li invitava a presentarsi nuovamente allo stadio di Washington.
Fu il sorriso di Jimmy McGinty ad accoglierli, quel giorno.
Fu la sua voce dura e un po’ burbera ad annunciare che i pesanti sederi delle alte sfere dei Sentinels avevano deciso di dar loro, addirittura, una terza possibilità. La grinta di Falco era piaciuta immensamente al vecchio O’Neil, che al cambiare del vento aveva immediatamente voltato anche la bandiera, facendo fuori Martel la sera stessa della partita coi Dallas Ropers. Franklin e Gruff, invece, li aveva voluti McGinty, senza ammettere repliche. Gli era dovuto, dopo il miracolo dei play-off, e soprattutto era fra i suoi diritti di allenatore (nuovamente ufficiale) dei Sentinels scegliersi i giocatori che riteneva più opportuni.
Da quel giorno, i tre furono ufficialmente iscritti alla lega professionistica dei giocatori di football degli Stati Uniti. Certo, avrebbero dovuto guadagnarsi il posto da titolari ancora con tanto sudore e tanta fatica. Ma quel pezzo di carta che firmarono era già, per loro, il realizzarsi di un sogno.



***


 

Erano passati due anni dalla firma di quel contratto. Falco era divenuto oramai il perno insostituibile della squadra, e pareva intendersi con Franklin senza neanche bisogno di guardare quale fosse la sua posizione nel campo. Dal canto suo, Clifford aveva insistito per allenarsi nelle prese della palla giorno e notte, facendo sfinire il povero Leo ma migliorando a tal punto da risultare essere estremamente completo nel ruolo di ricevitore. Capace di superare chiunque in corsa, e di acchiappare qualsiasi lancio. E Nigel…era rimasto il solito Nigel. Fumava come un turco, beveva come solo un gallese sa fare e aveva ancora quel fisico esile che faceva sorridere chi lo ascoltava definirsi un “chiodo d’acciaio”. Ma manteneva saldo e forte quel piede dalla rara potenza. Era una sicurezza sui calci piazzati. McGinty era fiero del rendimento di quei ragazzi così tenaci, eppure non lo dava mai a vedere. I modi autoritari e schietti di fare che aveva lo rendevano più che mai carismatico nel guidare la squadra e in questi atteggiamenti egli comprendeva il non dispensare troppo facilmente complimenti ai suoi ragazzi. A dirla tutta, dava loro addosso più spesso con rimproveri e grugniti di varia foggia che lo facevano somigliare a un vecchio orso imbronciato.
Era proprio questa l’idea che dava in quel momento, in piedi accanto alla panchina, con gli occhi fissi agli spogliatoi mentre i giocatori cambiati di tutto punto e con le divise indosso lo guardavano dal campo, aspettando che desse ordini per iniziare l’allenamento.
Abbassò lo sguardo all’orologio che portava per vezzo al polso destro invece che al sinistro. Sbuffò pesantemente sotto i baffi grigi e si aggiustò la visiera del cappellino di paglia che portava calcato sul capo per coprire la calvizie che si faceva sempre più incipiente con l’avanzare degli anni.
«Avanti, giochiamo a football!» gridò infine, verso i suoi giocatori, battendo le mani un paio di volte.
Shane Falco, giuro che appena ti prendo ti uccido.





 

 

 

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Note:
[1]
In realtà, il record della NFL (National Football League) per il calcio piazzato realizzato dalla maggiore distanza è di 63 yards. Come per molti degli aspetti del film, il "Piede" di Nigel rappresenta una poderosa, quanto azzeccatissima, esagerazione! Una yard statunitense è pari a circa 0,9144 metri.
[2] Il film è liberamente ispirato allo sciopero dei giocatori della NFL del 1987, durante il quale i Washigton Redskins (vera squadra di football di Washington D.C.) andarono a vincere tutte e tre le partite rimanenti con la sola squadra di riserve, senza nessun giocatore titolare. Al termine della stagione, vinsero perfino il SuperBowl. Tra l'altro, la controversia raccontata nel film tra Shane Falco, quarterback di riserva, ed Eddie Martel, quarterback titolare aderente allo sciopero, è del tutto simile a quella che si ebbe in realtà fra Doug Williams e Jay Schroeder.
[3] Wide receiver: ricevitore esterno. Sono generalmente tra gli atleti più veloci della squadra, specializzati nel ricevere passaggi da lontano, devono avere una notevole abilità manuale ed energia nel saltare per anticipare gli avversari in elevazione.
[4] Kicker: calciatore. E' colui che calcia la palla sia per dare il via all'inizio di un tempo, sia per riprendere il gioco dopo un touchdown, per realizzare un calcio piazzato o per ottenere punti extra.
[5] Quarterback: è uno dei ruoli principali in una squadra di football americano. Il quarterback è definito "capo dell'attacco", la sua funzione principale è quella di far applicare gli schemi che gli vengono suggeriti dal Coach, leggere la difesa avversaria e guidare l'attacco (meglio definito come offense) in end-zone, la zona del campo dove la palla deve essere portata per realizzare un touchdown.
[6]
 Linebacker: giocatore di seconda linea difensiva. Probabilmente il ruolo chiave della difesa. Questi giocatori devono seguire e bloccare le azioni di corsa, difendere contro i passaggi (marcando i ricevitori che si portano nel mezzo del campo) e minacciare le azioni di lancio con corse improvvise contro il quarterback avversario, chiamate incursioni (blitz in lingua inglese).
[7] Cornerback: difendono i due lati esterni del campo, soprattutto contro i passaggi del quarterback avversario. Marcano direttamente un avversario specifico, di solito un ricevitore (marcatura a uomo), oppure marcano indistintamente chi venga a fare ingresso nella zona da loro presidiata (marcatura a zona).
[8] Touchdown: meta. Si segna essenzialmente in due modi: ricevendo un passaggio al volo all'interno dell'area di meta (end-zone) o varcando la stessa con il pallone in mano. Vale 6 punti.
[9] Alla fine di ogni stagione, i vincitori dei playoff dell'American Football Conference (AFC) e della National Football Conference (NFC) si incontrano nella finale del campionato, il Super Bowl, che si disputa in una città diversa ogni anno, e su campo neutrale per le due squadre.
[10] Le partite di football americano hanno una durata di 60' di tempo semieffettivo, suddivisi in quattro tempi (quarti) da 15' l'uno e con un intervallo di ulteriori 15' fra il secondo e il terzo quarto.


 

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- Angolo Autrice:
"Le Riserve" è fra i miei film preferiti in pratica da dieci anni.
Non avevo mai pensato però a scrivere qualcosa in merito, fino al mese scorso, quando l'ho rivisto per l'ennesima volta, e mi son detta: "Perchè non provarci?"
Bè, non ho idea di cosa ne verrà fuori. Sarà una long...molto long, quantomeno nei progetti che ho in testa!
In questo primo capitolo, facciamo conoscenza con alcuni dei personaggi principali della storia: Nigel Gruff, Clifford Franklin, l'allenatore Jimmy McGinty e, indirettamente, il protagonista principale, Shane Falco. E sembrano esserci guai in vista per il nostro quarterback, a giudicare dall'ondeggiare dei baffoni grigi del coach...!
Mi scuso ancora se c'è qualche svarione su regole e ruoli nel football: è uno sport che adoro ma sono completamente autodidatta in merito (è anche difficile informarsi non 'vivendolo' in prima persona come chi risiede negli Stati Uniti). Sarò felice di ricevere correzioni eventuali, di imparare non sono mai stanca!
PS: le immagini finali con questo stile sono ispirate alla bellissima storia Qui, dove tutto ha avuto inizio di Amartema, che vi consiglio di passare a leggere, merita davvero.
Grazie a chiunque passerà di qui e si fermerà a leggere. 


 

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Capitolo 2
*** Cap. 1 - Ritardi e cacciaviti ***






- Capitolo Uno -
Ritardi e Cacciaviti


***


 

Shane si rigirò sotto le lenzuola. Dormiva placidamente, come un bambino, col respiro regolare che gli faceva ritmicamente alzare ed abbassare il torace. Il sole pomeridiano che filtrava dalla finestra, tuttavia, sembrava avere altri progetti per lui, che non prevedevano il lasciarlo dormire in pace. I suoi raggi gli battevano fastidiosamente, infatti, sulle palpebre chiuse. Increspò le sopracciglia in una smorfia ed alzò leggermente il capo, ritrovandosi con mezzo occhio aperto e l’altro chiuso, ancora evidentemente assonnato. Lasciò ricadere pesantemente la testa sul cuscino ed allungò il braccio destro in uno scatto verso il comodino, afferrando un orologio da polso nero ed avvicinandoselo al viso.
D’un tratto, fu completamente sveglio.
«Cazzo!» esclamò, scattando a sedere sul materasso e buttando all’aria le lenzuola, insieme all’orologio.
Puntò i piedi nudi sul pavimento freddo della stanza da letto alzandosi concitatamente e mugugnando qualcosa mentre vagava, seminudo a parte i boxer neri, alla ricerca dei propri pantaloni.
« …Shane? ...che succede?»
La testa di una ragazza castana, dai capelli di media lunghezza, scompigliati dal sonno, fece capolino dal lato opposto del letto. Il viso di lei rivelava immediatamente quanto fosse stato brusco quel risveglio, quantomeno a giudicare dalla evidente fatica con cui teneva gli occhi aperti.
«E’ tardissimo, Annabelle! Sono in ritardo di almeno mezz’ora per l’allenamento, dannazione!» ribattè Falco, afferrando i pantaloni da sopra una sedia ed infilandoseli velocemente, sollevando poi lo sguardo sulla ragazza «Il coach vorrà la mia testa su un piatto d’argento».
Annabelle sbuffò leggermente in una mezza risata. Quel gesto lo fece improvvisamente sorridere. Scuotendo il capo, le si avvicinò, aggirando il letto per trovarsi dalla sua parte. «Eri in ritardo anche al primo allenamento di due anni fa. E mi pare che la testa tu ce l’abbia ancora attaccata al collo».
«Ma all’epoca non ero un giocatore di football professionista. Ero solo una riserva».
Il giovane si chinò nell’atto di sedersi sul materasso.
«Te l’ho mai detto che sei bellissima quando sorridi?»
La ragazza annuì guardandolo un po’ di sottecchi, mentre lui si sedeva accanto a lei dalla sua parte del letto, e si tirò su a sedere a sua volta coprendosi il corpo nudo con il lenzuolo.
«Mi sembra di avertelo sentito dire, qualche volta» la mano di Annabelle andò a sfiorargli la fronte ampia. I capelli scuri di lui scivolarono fra le sue dita «Dovresti accorciare i capelli» aggiunse, osservandolo con occhio critico.
Shane inarcò un sopracciglio con aria dubbiosa.
«A me piacciono così» si limitò a dire, socchiudendo le palpebre mentre si lasciava accarezzare, come un gatto che si facesse coccolare dal padrone, e poco mancava che facesse pure le fusa. I capelli di Shane erano spesso argomento di disaccordo, fra i due. Lui non diceva mai che li teneva così lunghi sul davanti quasi a sfiorargli gli occhi perché convinto che la sua fronte fosse troppo alta e che i capelli, in qualche modo, mascherassero questo piccolo “difetto”.
Annabelle avrebbe voluto che lui li portasse più corti, ma non la spuntava mai, così come raramente la spuntava su altri argomenti. La ragazza sospirò lievemente, mentre la sua mano scendeva dalla fronte alla guancia di lui.
«Shane, dobbiamo parlare» sussurrò, improvvisamente seria.
«Di cosa?» lui riaprì gli occhi e la guardò di rimando.
«Lo sai».
Shane inspirò facendo fare ad una boccata d’aria un ampio giro nei suoi polmoni. Le narici si dilatarono un poco, fremendo appena. Si alzò dandole le spalle e puntò dritto alla sua t-shirt, in terra ai piedi del letto, chinandosi poi a raccoglierla.
«E tu sai già quel che ne penso, Annabelle» tagliò corto, infilandosi addosso l’indumento e riemergendo da quell’azione con i capelli scompigliati davanti agli occhi.
«Shane…» il tono della ragazza sembrava adesso velato da una punta di rimprovero.
Lui parve sordo a quell’ulteriore richiamo, limitandosi a sedersi nuovamente sul letto, dal proprio lato, per infilarsi i calzini e le scarpe. Annabelle si strinse più forte le lenzuola addosso e schiuse le labbra, come per dire ancora qualcosa. Le parole andarono a morirle in gola, e silenziosamente si morse il labbro inferiore, guardando la schiena di lui. Quando ebbe finito di allacciarsi le scarpe, Shane si voltò verso di lei. La osservò per un lungo attimo, soffermandosi ad ammirare il colore castano screziato di verde dei suoi occhi. Era proprio bella.
«Devo andare» disse in un soffio, chinandosi un poco per riuscire a darle un bacio delicato sulle labbra.
«Va bene. Ti raggiungo al campo più tardi. Oggi ho i provini per sostituire Donna e Kim».
Shane annuì e si rimise in piedi. Recuperò l’orologio e se lo allacciò poi al polso sinistro. Annabelle lo guardò allontanarsi. Quando il rumore del portone dell’appartamento che sbatteva risuonò nella stanza, sbuffò lasciandosi ricadere a peso morto sul letto cigolante, col lenzuolo ancora stretto al petto.
«L’avevo detto io, che i quarterback sono i più bambinoni di tutti!» sbraitò, tirandosi il lenzuolo fin sopra la testa. Con l’intenzione di restarsene a letto fin quando non fosse arrivata l’ora di andare a torturarsi, suo malgrado, dietro alle terribili aspiranti cheerleader che le si sarebbero presentate davanti di lì a mezz’ora.

***


La finestra del soggiorno doveva essere difettosa. Non c’erano spiegazioni, altrimenti, al fatto che non volesse aprirsi in nessuna dannata maniera. Vittoria fece partire un mezzo cazzotto bene assestato alla maniglia, ma non valse a molto. Continuava a restarsene beffardamente bloccata.
Uno sbuffo contrariato le increspò le labbra. Si voltò e si diresse verso il corridoio che dal soggiorno dava alla cucina dell’appartamento. Una montagna di scatole di cartone, alcune chiuse del tutto dallo scotch da imballaggio, altre aperte e piene di roba, la faceva da padrone in ogni dove: accanto ai muri, negli angoli, un paio perfino sulle sedie nella cucina stessa. Dava l’idea della rimessa di un robivecchi.
Come se sapessi dove cavolo è la cassetta degli attrezzi, in questo casino.
Si chinò su una delle scatole, scostandosi dalla fronte un ciuffo di capelli castani che erano sfuggiti alla coda di cavallo con cui li aveva raccolti alla meglio. Se non fosse stato per l’energia con cui strappò direttamente con le mani lo scotch da imballaggio che chiudeva la scatola, a guardarla in viso si sarebbe detto che fosse stremata dalla fatica. Rovistò a lungo tirando fuori di tutto. Alcuni libri, della roba impacchettata in fogli di giornale, un paio di pesi da palestra e solo alla fine, nel fondo della scatola, una cassettina nera. La prese e si rialzò da come si era chinata senza curarsi di rimettere a posto quello che aveva buttato in giro.
Tornata in soggiorno, posò con malgrazia la cassetta sul tavolo coperto da una tela di plastica trasparente impolverata, facendola sbattere con un tintinnio di oggetti metallici.
A noi due.
Le dita affusolate fecero scattare le chiusure. Aperto il coperchio, gli occhi di Vittoria vagarono sommariamente in cerca di qualcosa di adatto allo scopo. Scelse fra i tanti un cacciavite a stella e tornò presso la finestra. Le viti della maniglia ci misero un attimo in più a cedere ai tentativi di essere svitate, ma alla fine, con un cigolio rivelatore del fatto che nessuno ci avesse mai messo mano, vennero fuori dai loro alloggiamenti. Trasse un profondo respiro per poi staccare la maniglia dalla finestra, mettendosi in punta di piedi per guardare all’interno del meccanismo. La vecchia guarnizione era consunta oramai.
Avrebbero dovuto cambiarla già dal decennio scorso. Bah!
Se la rigirò fra le mani nel tornare presso il tavolo. La gomma della guarnizione era talmente consumata da essersi in pratica erosa, fino ad attaccarsi alle componenti in metallo del meccanismo. Si sedette al tavolino e diede di nuovo una veloce occhiata alla cassetta degli attrezzi, posando il cacciavite per prendere, al suo posto, un coltellino svizzero dal quale fece scattare la lama più sottile. Iniziò pazientemente con essa a grattar via la gomma, i cui detriti cadevano man mano sulla vecchia tela plastificata del tavolino, facendo compagnia alla polvere. Quando ebbe finito, soffiò dentro l’incavo ripulito per togliere gli ultimi residui.
Posò la maniglia sul tavolo e sollevò il piano superiore della cassetta degli attrezzi. Al di sotto di esso vi erano viti, bulloni e dadi messi alla rinfusa, insieme a una serie di guarnizioni di diversa forma, spessore e colore. Vittoria ne scelse una tonda che potesse adattarsi in qualche modo al congegno della maniglia e ve la sistemò all’interno con precisione, barando un poco quando serviva e tendendola più del dovuto in alcuni punti per farla aderire bene, nonostante non fosse la guarnizione originale. Riprese il cacciavite e rimontò la maniglia, osservandola poi con aria di sfida. Posò la mano destra su di essa, le fece fare un mezzo giro, e con un sonoro “clac” la finestra, finalmente, si aprì.
Stavolta fu un sorriso vittorioso a disegnarsi sulle sue labbra. Si sporse un poco verso l’esterno, osservando la strada trafficata e caotica. Inspirò profondamente guardando dritto davanti a sé; vedeva solo grossi palazzi, grattacieli e costruzioni. Anche se sapeva che, non molto lontano, scorreva un fiume. Il Potomac River, se la memoria non la tradiva e se ricordava bene la cartina che aveva scorso velocemente durante il tragitto in taxi. Sarebbe andata a farsi un giro in quella zona, prima possibile. Non era il mare, ma meglio che niente. Ed era comunque meglio dello starsene chiusa in quell’appartamento. Specie al pensiero di doverlo ripulire da cima a fondo.
Il suono del campanello la riscosse dai suoi pensieri. Aggrottò le sopracciglia, voltandosi in direzione dell’ingresso, ma restando ferma accanto a quella finestra. Il campanello suonò una seconda volta. Poi una terza. Solo allora i piedi di Vittoria si mossero in uno scatto, dirigendosi verso la porta dell’appartamento.
Sarà un piazzista.
Una bassa signora dall’aria anziana, in vestaglia nera a stampe floreali rosa pesca di gusto giapponese, era l’ultima persona al mondo che si sarebbe aspettata venisse a suonare alla sua porta.
«Vittoria Marchetti?» chiese la vecchietta, con una voce stridula. Doveva avere come minimo cent’anni, a giudicare dal candore dei capelli, raccolti in una instabile permanente da bigodini colorati messi alla meglio.
Le palpebre di Vittoria si ridussero a due fessure. Il suo viso in quel momento era il ritratto della sospettosità e non pareva volerne fare alcun mistero davanti alla sconosciuta.
«Sono io. Perché?» rispose, pacatamente.
«Sono la signora Patterson, l’inquilina dell’appartamento accanto al suo. Normalmente non l’avrei disturbata così presto, voglio dire… le avrei dato quantomeno il tempo di ambientarsi!», disse, con una risatina stridula alla quale Vittoria rispose con un sorriso tirato. «Il proprietario del suo appartamento mi ha pregato di lasciarle questo biglietto».
La signora tirò fuori da sotto la vestaglia una busta bianca.
«Io non l’ho aperto, ovviamente. Non sono un’impicciona».
«Ovviamente». Vittoria le prese il biglietto dalle mani. «C’è dell’altro che deve dirmi?» tagliò corto, inarcando un sopracciglio.
«Oh, beh… solo… benvenuta a Washington!»
A quella frase Vittoria si lasciò sfuggire un impercettibile sospiro.
«Grazie. Buona serata, signora Patterson».
Chiuse la porta dell’appartamento e si diresse nuovamente verso il soggiorno. Strappò il lembo posteriore della busta e tirò fuori il biglietto in essa contenuto.

Gentile Signorina Marchetti,
spero che l’appartamento sia di suo gradimento.
Come specificato nell’annuncio, è poco distante dallo stadio;
se guarda fuori dal balcone della camera da letto può intravederlo,
all'incrocio fra la quinta e la sessantaquattresima.
A piedi lo si raggiunge in venti minuti, basta fare il giro dell’isolato.
Per qualsiasi problema, chieda pure alla signora Patterson.
E’ un po’ impicciona, ma tanto cara.
Le auguro una buona permanenza.

Saluti, Thomas Anderson.

 

P.S.: la maniglia della finestra del soggiorno è rotta da sempre.
Provvederò a mandare qualcuno per aggiustarla.


Vittoria rilesse il biglietto un paio di volte, prima di accartocciarlo fra le dita insieme alla busta. Camminò a passi lenti verso l’unica camera da letto dell’appartamento. Un armadio vuoto, un letto a due piazze e un comodino erano la scarna mobilia che lo adornavano. Gettò la palla di carta sul letto e si avvicinò alla porta-finestra che dava sul balcone. Ne girò la maniglia con molta più energia del dovuto; forse nel timore che anche questa fosse difettosa, ma essa si spalancò immediatamente. Si affacciò oltre la ringhiera in ferro, guardando dritta di fronte a sé. La figura del Nextel Stadium[1], dimora dei Washington Sentinels, le si parava innanzi, poco distante, come promesso dal biglietto. Venti minuti a piedi. Un’occhiata veloce all’orologio da polso.
Chissà quanto ci si impiega correndo?





 

 

 


_________ ₰ _________


 

Note:
[1]
 Lo stadio di football di Washington D.C. in realtà, è il FedExField, casa dei Washington RedSkins, la vera squadra di football della città.


 

_________ ₰ _________
 

 

- Angolo Autrice:
E finalmente, in questo capitolo, fa capolino il nostro amato quarterback con la sua Annabelle.
Oltre che questa misteriosa donna che pare avere un certo caratterino...
Grazie a chiunque passerà di qui e si fermerà a leggere. 


 

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Capitolo 3
*** Cap. 2 - Cheerleader... che passione! ***






Capitolo Due -
Cheerleader... che passione!


***


 

McGinty fulminò con lo sguardo il tunnel di uscita dagli spogliatoi. Di Falco, nessuna traccia. Tirò su la manica della camicia e guardò l’orologio. Un’ora di ritardo al primo allenamento della squadra al completo, una settimana prima dell’inizio della stagione. Fece schioccare la lingua al palato, nervosamente.
«Arriverà. Ti ricordi di due anni fa? E poi l’abbiamo visto negli allenamenti singoli, è in forma. Non farne una tragedia!»
Il faccione tondo di Leo Pilachowski gli si parò innanzi. McGinty sbuffò come un cavallo da corsa fermo ai blocchi di partenza.
«Leo, non possiamo provare gli schemi offensivi, senza di lui. Stiamo perdendo tempo in attesa di allenarci in maniera seria! Ehi, Connor!»
Puntò la mano verso uno dei giocatori, che stava provando una manovra difensiva.
«Più grinta, se non vuoi rimetterci le ossa contro Detroit! Con quella spinta al massimo smuoveresti una femminuccia, non un linebacker da centotrenta chili!» sbraitò, tornando a guardare Leo. «Questo è l’anno buono, me lo sento! Li voglio tutti concentrati sull’obiettivo!»
I Sentinels non arrivavano alla finale del superbowl da dieci anni [1]. Nei due anni precedenti si erano qualificati per i play-off, ma non erano riusciti ad andare oltre. McGinty credeva fermamente che quel traguardo fosse a portata di mano e non avrebbe tollerato intoppi durante la stagione.
Quindi meglio che ti sbrighi a portare le chiappe in campo, Shane.
«Ehi coach!» la voce di Falco lo richiamò. Correva verso di lui, cambiato di tutto punto. Il numero sedici spiccava in bianco sulla casacca rossa della divisa.
McGinty sollevò il braccio destro e picchiettò con l’indice sul quadrante dell’orologio.
«Alla buon’ora, Falco! Si può sapere che fine hai fatto?!» sbraitò contrariato.
«Io… Ho avuto problemi con l’auto» disse Shane tagliando corto.
Leo inarcò le sopracciglia guardandolo di sbieco.
«Problemi con la carrozzeria, immagino. Sempre la stessa scusa, Shane. Dovresti cambiarla, ogni tanto. Non sono mica rimbambito» il coach lo guardò con aria truce. «Muovi il culo, adesso, ti aspettano tutti da un’ora!»
Shane si limitò ad annuire, incassando il colpo. Calcò in testa il casco grigio, sistemandosi la griglia protettiva davanti al viso e corse verso gli altri giocatori, già schierati in campo.
«È un bravo ragazzo, Jimmy. Può capitare di far tardi».
Leo guardò Shane allontanarsi e sorrise.
«Lo so. Ma una strigliata ogni tanto non fa male. E poi, Shane è un ottimo incassatore». Leo alzò gli occhi al cielo con aria melodrammatica.
Non si poteva dire che Jimmy McGinty non avesse ragione. E Falco aveva tre commozioni cerebrali che lo provavano.

 

***

 

«Ecco il nostro quarterback!» Clifford fece un ampio gesto di saluto con la mano destra in direzione di Falco che si avvicinava.
«Gentiluomini, un applauso! Il numero sedici in campo, ma il numero uno nei vostri cuori! Shane Falco!» gridò Nigel alzando il casco prima in direzione di Falco e poi verso gli altri giocatori, che a loro volta accennarono a qualche applauso e a qualche grido disordinato e scimmiesco di benvenuto.
Shane scosse il capo ma non nascose un mezzo sorriso. Sapeva di essere un buon capitano per i suoi compagni di squadra. Ma soprattutto era fiero di essersi guadagnato la loro fiducia come amico.
«Ragazzi, finitela. Il coach è già abbastanza incazzato con me».
«Ma dov’eri?» Clifford lo guardò incrociando le braccia al petto.
«Dove vuoi che fosse?! Tra le cosce di Annabelle, è ovvio!» punzecchiò Nigel con tono malizioso, dando una gomitata all’alto ragazzo di colore.
Si sentirono un paio di risatine malamente nascoste da parte del resto della squadra. Partì qualche fischio di apprezzamento e dalle retrovie tuonò un “Touchdown Falco!”, al quale Shane alzò la mano destra in segno di stop.
«Piantala, Nigel. Il tuo è un chiodo fisso. E poi non sono affari tuoi» il suo tono di voce era adesso più duro, nel tentativo di mettere fine a quella storia. Si sistemò il velcro della chiusura del casco in un gesto stizzito.
«Ehi, amico, due anni fa l’hai baciata in diretta televisiva prima che giocassimo col Dallas! [2] E’ affare di mezza America oramai!»
Nigel alzò le spalle e rise, mettendosi poi in testa il casco.
Clifford annuì facendo l’occhiolino al gallese. Shane scosse il capo ed aprì le braccia con fare arrendevole, mentre sul suo volto si disegnava una punta di imbarazzo che lo portava a guardare ovunque tranne che i compagni di squadra.
«Non si può dire che abbia torto, Shane!»
«D’accordo, d’accordo, adesso basta impicciarvi dei fatti miei e giochiamo!» Falco riuscì infine a tagliar corto, schiarendosi poi la gola in un suono gutturale un paio di volte per levarsi dalla faccia quell’aria imbarazzata. «Proviamo il primo schema d’attacco. Deuce Left, Pro Zig 90 Jag [3]. Ok?»
«Ok!» fu l’unanime risposta della squadra.
Falco battè le mani l’una contro l’altra e andò a prendere il suo posto dietro il centro mediano [4]. I Sentinels erano pronti a mischiarsi di nuovo le ossa in campo.


 

***

 

Vittoria chinò in avanti il busto e posò entrambe le mani sulle cosce, respirando affannata. Riprese fiato e guardò poi l’orologio al polso. Dieci minuti. Si poteva fare di meglio.
Si tastò la parte bassa del torace, con la mano sinistra, rialzandosi; la sua milza chiedeva pietà. Non era più in forma come qualche anno prima. O, quantomeno, non aveva più la stessa resistenza nella corsa.
Forse dovrei riprendere a fare jogging.
Trasse un profondo respiro, divaricò leggermente le gambe e stiracchiò le braccia verso l’alto, inarcando la schiena. La sua colonna vertebrale scricchiolò terribilmente. Quando si rilassò, un ansito spontaneo di benessere fuoriuscì dalle sue labbra. Alzò la testa sulla propria destra, dove si parava la costruzione del Nextel Stadium. Alta, piuttosto impressionante a vedersi. Su una grossa insegna c’era raffigurato il simbolo dei Washington Sentinels: una “W” blu su sfondo rosso, contenuta in un ovale dal bordo blu, e attraversata da un pallone da football che sfrecciava, anch’esso dello stesso colore blu della lettera. Si incamminò verso i cancelli d’ingresso aperti. Appeso alle sbarre c’era un cartello di media grandezza. Vittoria si fermò a leggerlo, sollevando il naso per aria.
Provini per le cheerleader, oggi, ore 4.30 pm. Presso il lato ovest del campo.
Un mezzo sorriso apparve sul suo volto. Ci sarebbe stato da divertirsi. Varcò la soglia del cancello e si incamminò all’interno, seguendo i cartelli che indicavano la via di accesso al campo da gioco.
Quando si ritrovò a posare i piedi sull’erba verde brillante del campo, tagliata e curata, su cui spiccavano le linee bianche di demarcazione dei confini e delle linee delle yarde, non potè fare a meno di restare piacevolmente impressionata. Ne valutò le dimensioni; doveva essere lungo più o meno quanto un classico campo da calcio, ma era sicuramente più stretto. Ad occhio, le tribune avrebbero stipato un mucchio di gente; forse un numero che sfiorava le novantamila persone [5].

Si mise a percorrerne il perimetro, fermandosi poi vicino alle panchine e prendendo posto su una di queste. Si sedette con le gambe incrociate all’indiana, i gomiti puntati sull’interno delle ginocchia e le mani protese in avanti, con le dita intrecciate fra loro. Per il momento, nessuno sembrava curarsi di lei. Erano tutti presi da quello che succedeva in campo, ove era in corso un allenamento. La giovane donna scrutò per un po’ la disposizione dei giocatori, che guadagnavano terreno e punti o ne perdevano a suon di spintoni e placcaggi. Qualche altro giocatore si allenava a parte, a bordo campo, sollevando dei sandbag [6] o spingendo dei grossi e pesanti macchinari simili a sacchi per il pugilato; ancora altri provavano dei calci alla palla ovale, e fra questi un biondino smilzo che - Vittoria lo notò immediatamente - tirava tranquillamente boccate da una sigaretta fra un calcio e l’altro. D’un tratto, un concitato concerto di versi e grida la riportò di nuovo con gli occhi in mezzo al campo. Uno dei giocatori era stato placcato e gli altri, invece di alzarsi per farlo respirare, gli si buttavano addosso di proposito, con tutta l’aria di spassarsela un mondo.
Danno tutta l’idea di un branco di scimmie selvatiche. Che casino.
C’era qualcuno che sembrava pensarla esattamente come lei.
«Vogliamo piantarla e giocare seriamente a football?!»
Un uomo con un cappellino di paglia e i baffi grigi, a qualche metro di distanza, stava riportando all’ordine quegli scalmanati. Vittoria sorrise osservando i modi di fare di quell’uomo. Stringeva nella destra dei fogli arrotolati a mo’ di cannocchiale e li usava per indicare le posizioni ai giocatori. Quando qualcuno di essi faceva un movimento sbagliato, li batteva sul palmo della sinistra con forza, come a voler scaricare la tensione. Non riusciva a smettere di osservarlo. Si concentrò talmente tanto a studiare quegli atteggiamenti così carismatici che a un certo punto le sembrò di essere fuori dal tempo e dallo spazio.
«Ehi! La fila è dall’altra parte del campo!»
Una voce femminile la riportò sul pianeta Terra. Sbattè le palpebre un paio di volte e ruotò il capo in direzione di essa. Una ragazza magra, alta e slanciata, dai capelli castani a caschetto con la frangetta, la guardava fissa col capo appena inclinato e un mezzo sorriso sulle labbra. La osservò per un lungo attimo. Aveva un bel viso proporzionato su cui spiccavano gli occhi, castani anch’essi, e le labbra sottili ma delineate. Forse, notò, aveva le orecchie leggermente a sventola. Indossava una maglietta azzurra a maniche lunghe tagliata sotto il seno, così che lasciasse scoperto il ventre piatto, sopra un pantalone nero largo e scarpe da ginnastica. Oltre che un infinità di bracciali al polso destro ed un orologio al polso sinistro. Fra le mani, stringeva una cartellina azzurra.
Lo sguardo di Vittoria si spostò poi dall’altro lato del campo, dove vide una nutrita schiera di ragazze in attesa, fra le quali si avvide di alcune presenze estremamente meritevoli di nota. Un tripudio di more, bionde e rosse. Ce n’era per tutti i gusti. Ed erano tutte tremendamente alte. Tornò a guardare la ragazza che le aveva rivolto la parola. Stava ancora sorridendo.
«Anche se a dirti la verità, credo che ti toccherà tornare domani. Non mi aspettavo tutte queste ragazze» disse quest’ultima, con un lieve sospiro. «Fino a sera riuscirò, forse, a fare i provini solo a metà di loro» aggiunse, facendo spallucce.
Vittoria sorrise a sua volta e sciolse l’intreccio delle gambe, alzandosi dalla panchina.
«Immagino che sia un gran bel daffare» tornò per un attimo a guardare l’uomo coi baffi che ancora dava istruzioni concitate ai giocatori in campo. «Quello è Jimmy McGinty?» chiese poi, indicandolo con un cenno del capo.
«Sì, il coach» la ragazza annuì. «Ma non ci siamo presentate. Io sono Annabelle» aggiunse, tendendole la mano destra.
«Vittoria. Piacere» Vittoria strinse la mano della ragazza per poi lasciarla.
«Bel nome» la ragazza pareva compiaciuta «Ad ogni modo, io devo iniziare i provini» guardò per un attimo i giocatori che continuavano a provare gli schemi di gioco. «Vieni anche tu, magari resta del tempo… e nel frattempo potrai continuare a goderti l’allenamento» le fece un occhiolino, sorridendo ed avviandosi verso la schiera di ragazze che l’attendevano.
«Aspetta…» cominciò Vittoria, ma la ragazza s’era già allontanata. Scosse il capo e puntò le mani sui fianchi. Dette uno sguardo al campo, cogliendo il momento esatto in cui un giocatore stava effettuando un bel passaggio verso uno dei suoi compagni. Sbuffò leggermente e si incamminò nella direzione presa da Annabelle.
Non le pareva il momento giusto di rivelare che in realtà lei di football non capiva assolutamente un accidenti.

 

***


«Va bene, ragazzi! Basta così per oggi!»
A quelle parole di McGinty, Clifford buttò fuori l’aria dai polmoni e alzò le braccia in alto con fare liberatorio per poi strappare il nastro di velcro che teneva fermo il casco.
«Per fortuna! Altri dieci minuti e avrei chiesto un dannatissimo time out!»
«Il solito mollaccione. E tu saresti un giocatore di football?» Nigel lo schernì attraversando il campo con la sua solita camminata spensierata. Portava sulla spalla, appesa sull’indice della destra, l’intera sua divisa completa delle protezioni, come un modello di un catalogo che per una foto lasciasse scivolare a quel modo una giacca sulla schiena. Era evidente che l’aveva indossata, dato che la maglia era stropicciata. Forse per i soli primi dieci minuti dell’allenamento.
«Senti chi parla! Si fa fatica a prendere a calci la palla, vero Nigel?» rimbeccò Clifford. «Quella dovresti mettertela addosso, non portarla a spasso» aggiunse indicando la divisa del gallese.
«Ehi, pesa dannatamente, e poi fa caldo. Non devo proteggermi da bestioni inferociti, io… al contrario di Shane!»
Nigel puntò il mento verso Falco che si stava togliendo il casco in quel momento, passandosi la mano destra fra i capelli umidi di sudore. Respirava a bocca aperta riprendendo fiato. Al dire di Nigel reclinò la testa indietro deglutendo un quintale di saliva, fermandosi presso i due. Un giocatore grosso come un armadio, nel passare accanto a lui, gli assestò una manata poderosa sulla schiena. Per poco non gli mozzò il poco fiato che gli restava.
«Per oggi siamo stati fin troppo buoni! Al prossimo allenamento te ne diamo di più, Falco!» disse con un allegro vocione baritonale.
«Grazie per la gentilezza, Jack» riuscì ad articolare Shane, con la voce roca, facendogli l’occhiolino e alzando il pollice della mano destra.
«Ehi, ma era oggi il giorno dei provini per le cheerleader?!»
La domanda di Nigel era rivolta a Shane, ma se i suoi occhi erano puntati da tutt’altra parte. Stava passando ai raggi X ogni singolo esemplare femminile che vedeva dall’altro lato del campo.
«Sì. Donna e Kim hanno trovato lavoro e non hanno più tempo per la squadra».
Anche gli occhi di Shane erano fissi su quel gruppetto di fanciulle, ma si soffermarono su una sola di esse. Annabelle, che stava battendo le mani nel tentativo disperato di dare il tempo giusto ad una aspirante particolarmente scoordinata. Sorrise a quella vista.
«Che peccato!» Clifford scosse il capo. «Donna mi piaceva proprio! Comunque, corro a farmi la doccia. Ho un appuntamento con una tipa e sono già in ritardo. Ci vediamo stasera all’End-Zone!» aggiunse, avviandosi di corsa verso gli spogliatoi.
«Al diavolo Donna, Franklin! Guarda là quanto ben di Dio!» Nigel si fregò le mani. Poi, all’improvviso, dette una gomitata a Shane. «Ehi, devi assolutamente convincere Annabelle a prendere quella, nella squadra!»
Falco sobbalzò dolorante alla gomitata, l’ennesima botta del pomeriggio.
«Quale?»
«Quella! Con i capelli legati!»
Nigel indicò un punto preciso sul lato ovest del campo. Shane rivolse lo sguardo in quella direzione. La ragazza in questione era un po’ in disparte rispetto al resto del gruppo. Stava appoggiata con la schiena al muro delle tribune, a braccia incrociate sotto il petto, un piede puntato indietro sul cemento, apparentemente intenta ad osservare proprio Annabelle.
«Sembra un po’ bassina» fu il suo commento, accompagnato da un’alzata di spalle.
«Sì, ma hai visto che tette?!»
«Tu sei malato, amico mio! Ma non pensi ad altro?!»
Shane gli diede una spinta, ridendo. Tornò ad osservare la ragazza, socchiudendo gli occhi per inquadrarla meglio. Nigel non aveva tutti i torti. A dispetto dell’altezza, la maglietta nera a maniche corte che la ragazza indossava rivelava forme prosperose, su una vita stretta e sinuosa. Non avrebbe potuto dir nulla sulle gambe, coperte dal pantalone ampio di una tuta grigia, ma il giovane notò le braccia toniche ed allenate, bianche come il marmo, esattamente come candida era la carnagione del suo viso. In quel candore i capelli castani raccolti in una coda lunga quasi fino a metà schiena spiccavano particolarmente.
«Io vado a fare conoscenza. Vieni con me?» Nigel tornò finalmente a guardare Shane, dopo aver studiato ogni particolare della ragazza.
«Io vado a farmi una doccia. E anche tu dovresti» Shane annusò l’aria. «Puzzi di sudore. Da far schifo».
«Alle donne piace l’uomo sudato. Dicono che sia afrodisiaco».
«Come vuoi. Buona fortuna!» Shane sollevò il casco verso di lui in segno di saluto e s’incamminò verso gli spogliatoi.
«Alle volte sei proprio noioso. Lo sai, vero, Falco?!»
Nigel gli gridò dietro di rimando mentre si allontanava. Ruotò poi il capo, puntando nuovamente gli occhi sulla ragazza.
«Olè, olè olè olè…» canticchiò sommessamente, dirigendosi verso di lei.

 

***


«Ciao, splendore!»
Vittoria inarcò un sopracciglio. Lo smilzo biondino in canottiera bianca e pantaloncini rossi che le si era avvicinato aveva lasciato cadere a terra con un tonfo, a peso morto, quella che sembrava essere una divisa completa da football. Lo riconobbe immediatamente. Era quello che poco prima, fra una sigaretta e l’altra, prendeva a calci la palla ovale.
«Prego?» articolò, in tono neutro.
Non era la prima volta che aveva a che fare con quel genere di conversazione. Sapeva anche che non sarebbe stata l’ultima. Ci era abituata.
Nigel si avvicinò di un altro paio di passi ed indicò con un cenno del capo Annabelle, ancora tutta intenta a selezionare le ragazze. Non era arrivata neanche a metà fino a quel momento e pareva anche che nessuna delle aspiranti cheerleader fosse all’altezza delle aspettative.
«Se vuoi posso metterci una buona parola, con lei. Così non devi fare neanche il provino» si prodigò in un sorriso che pretendeva di essere sexy, ma risultava alquanto buffo su quel viso affilato e pallido. «Io sono Nigel. Il Piede. Kicker dei Sentinels» aggiunse impettito, inclinando un poco il busto ed appoggiandosi con la mano sinistra al muretto accanto alla spalla di Vittoria. La ragazza lo squadrò da capo a piedi con aria truce. Storse leggermente il naso quando l’odore acre di sudore di quel tipo le giunse alle narici.
«Ho un’idea migliore. Se vuoi, posso mettere io una buona parola col mio personal trainer. Così magari inizi a somigliare a un vero giocatore di football. Ciao, Piede».
Vittoria staccò la schiena dal muretto e si incamminò verso l’uscita dal campo, senza attendere replica alcuna. Nigel restò impalato, preso in contropiede. Ruotò il capo per osservarla mentre si allontanava. Chinò la testa verso il basso, annusando la propria ascella sinistra. Non puzzava poi così tanto!
«Che caratterino. E pure con un bel lato B» si raddrizzò, ficcandosi entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre osservava il fondoschiena della ragazza. «Peccato. Non sa cosa si è persa!»
Recuperò da terra l’uniforme e fece dietro-front, incamminandosi verso gli spogliatoi mentre, contraendo il bicipite destro in una posa da body-builder, si auto compiaceva di sé stesso. Un vero chiodo d’acciaio, non c’era dubbio!

 

_________ ₰ _________



 

Note:
[1]
 Licenza libera dell'autrice. Niente di quanto riportato è assimilabile a qualcosa di realmente accaduto, poichè persino le squadre portano nomi completamente di fantasia.

[2] Il film 'Le Riserve' ha, fra le scene più famose, quella del bacio fra Shane ed Annabelle, commentata in diretta dai cronisti storici del football John Madden e Pat Summerall (VIDEO della scena, per i curiosi).
[3] Gli schemi utilizzati nel football hanno nomi che variano da squadra a squadra, molto fantasiosi ed incomprensibili per chi non faccia parte della squadra stessa. Quelli citati nel testo sono presi dal film.
[4] Giocatore che passa all'indietro la palla ovale al quarterback, dando inizio all'azione offensiva.
[5] Il vero stadio di Washington può contenere fino ad 85.000 persone.
[6] Grossi sacchi pieni di sabbia utilizzati per rafforzare la spinta in avanti.

 

_________ ₰ _________
 

 

- Angolo Autrice:
Dopo un'infinità di tempo, causa esame tostissimo e un po' di problemi familiari, eccomi qui ad aggiornare.
Qualche pennellata aggiuntiva sul carattere dei protagonisti, un po' di sano sport e di 'cheerleading style', in questo capitolo. Un pizzico di piacioneria del nostro beneamato biondino gallese e... Falco sudato. Che volete di più dalla vita?
Vi lascio recapiti vari per contatti, curiosità, e anche rotture di scatole:
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Grazie a chiunque passerà di qui e si fermerà a leggere. 


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Capitolo 4
*** Cap. 3 - Sorprese inaspettate ***






Capitolo Tre -
Sorprese inaspettate


***


 

Clifford stava rigirandosi la palla ovale fra le mani, seguendone le cuciture con il polpastrello dell’indice. Faceva un caldo dannato in quel buco che utilizzavano come stanza delle riunioni. Che poi, quella stanza non era neppure così piccola. Ma quando dentro c’erano una cinquantina di giocatori di football con un peso medio di un centinaio di chili l’uno, l’aria diventava irrespirabile. Tuttavia Clifford contribuiva poco ad ingombrare l’ambiente. Pur essendo molto alto, era infatti agile e scattante, mingherlino, adattissimo alle corse lungo il campo.
«Josh, apri un po’ quella cazzo di finestra. Sto crepando di caldo!» sbottò alla fine, rivolgendosi ad uno dei suoi compagni di squadra.
Un filo di aria fresca andò a dargli sollievo e si rimise a cuccia, continuando a studiarsi il pallone nei minimi dettagli.
Nigel dormiva dalla grossa, appoggiato sulla spalla di un linebacker quattro volte più grosso di lui. Era comico vederlo usare quella sorta di armadio umano come poggiatesta. A bocca aperta, ogni tanto rantolava e russava come una locomotiva a vapore. Le borse che aveva sotto gli occhi lo facevano assomigliare ad un panda. Era completamente avulso dall’ambiente circostante e pareva che neanche le cannonate l’avrebbero svegliato.
«Leo, si può sapere perché mai il coach ha voluto vederci a quest’ora del mattino?» chiese uno dei giocatori seduti nella prima fila, davanti alla cattedra e alla enorme lavagna sulla quale erano ancora disegnati gli schemi di gioco della settimana precedente. In effetti, non erano che le otto.
Pilachowski fece spallucce.
«Fra poco lo saprete, Mike. Un po’ di pazienza».
Shane, seduto più o meno al centro della terza fila di sedie, distese le gambe innanzi a sé rilassandosi. Si sistemò sulla testa la visiera del cappellino blu che indossava e incrociò poi le braccia sotto al petto. Se ne stava zitto mentre gli altri chiacchieravano del più e del meno, in attesa che McGinty facesse il suo ingresso nella stanza.
Cosa che non tardò ad avvenire; il coach infatti si presentò davanti ai suoi ragazzi in meno di cinque minuti. Si posizionò dietro la cattedra ed infilò le mani nelle tasche dei pantaloni color kaki che indossava, insieme ad un gilet grigio ferro dall’aria infeltrita sopra una camicia azzurrina.
«Ci sono tutti, Leo?» chiese sbrigativamente.
«Tutti tuoi, coach».
Leo indicò con un cenno il nutrito gruppo di ragazzoni intenti a scrutare il loro allenatore.
McGinty resto in silenzio per qualche secondo. Li osservò tutti con attenzione e, più che su di altri, il suo sguardo si fermò su Nigel che ancora dormiva saporitamente.
«Buongiorno, ragazzi».
«Buongiorno, coach!» risposero all’unisono. O meglio, tutti tranne Nigel, che venne svegliato di soprassalto da quel trambusto di voci e saltò sulla sedia, guardandosi attorno come se non si rendesse effettivamente conto di cosa stesse accadendo.
«Bene, vedo che anche Gruff è dei nostri, nonostante tutto. Ben svegliato, Nigel!»
«Ero sveglio, ero sveglio! Stavo… rimettendo in ordine le idee».
I ragazzi risero a quella affermazione. Pilachowski scosse il capo e McGinty annuì ridendo.
«Certo, certo. Allora…», il suo sguardo andò nuovamente ad alternarsi fra i diversi volti che gli erano davanti, «Vi chiederete il perché di questa riunione così mattiniera» disse infine, in tono serio.
Mike, il ragazzo che poco prima aveva domandato la stessa cosa a Leo, annuì vigorosamente. Clifford sembrò disinteressarsi solo in quel momento della palla che stringeva fra le mani, puntando gli occhi su McGinty, e Nigel si contorse sulla sedia come se non trovasse pace. Dal canto suo, Falco continuava a starsene tranquillo ed immobile, attendendo pazientemente che venisse svelato l’arcano. Solo gli occhi castani tradivano la curiosità del giovane quarterback: essi fissavano costantemente il suo allenatore, quasi volesse coglierne in anticipo le mosse.
«Come già saprete, da un mese a questa parte il dottor Andrew Miller non fa più parte del nostro staff di sanitari, e questo è un peccato», McGinty fece una pausa, «E’ un ottimo professionista e ci ha risolto un bel po’ di problemi in passato».
Molti dei giocatori annuirono. Più di qualcuno aveva avuto modo di avvalersi delle cure del dottor Miller, che si era trasferito esattamente un mese prima in un importante ospedale di New York.
«Tuttavia, non ci sono stati problemi a trovare un degno sostituto. A dire la verità, è stato il dottor Miller stesso a consigliarci in merito», il coach continuò a spiegare, guardando ora a destra, ora a sinistra. «Siamo qui stamattina perché abbia il benvenuto che merita e per stabilire i giorni in cui vi sottoporrete alla visita medica di inizio stagione. Dovrebbe arrivare a momenti».
Si guardò l’orologio al polso e storse leggermente il naso in un movimento buffo che gli fece ondeggiare i baffi grigi.
«Che palle!», sbuffò Clifford, «Perché dobbiamo fare questa dannata cosa ogni anno? Si vede lontano un miglio che siamo tutti sani come pesci!»
Qualche altro approvò quel commento mugugnando, mentre Nigel fece una pallina di carta che si preparò a lanciare in testa a Clifford, seduto tre file avanti a lui, alzandosi in piedi di soppiatto.
«Perché le regole della lega professionistica di football americano riportano scritto chiaro e tondo che se tirate le cuoia sul campo, la società deve poter dimostrare, carte alla mano, che la vostra dipartita non fosse prevedibile. Né tanto meno… evitabile», disse una incisiva voce femminile, facendosi largo bruscamente nella conversazione.
Per poco Nigel non cadde dalla sedia nel tornare a sedersi concitatamente.
McGinty si voltò verso la porta della stanza, esibendo un ampio sorriso verso la proprietaria della voce.
«Lei è chiara e concisa, proprio come aveva detto il dottor Miller. Prego, entri pure. Io e i ragazzi la stavamo aspettando. Sono Jimmy McGinty», disse tendendo la mano verso la figura che si era palesata alla porta.
Vi fu un gran trambusto fra i giocatori seduti. Un brusìo di sottofondo, in crescendo, accompagnò l’ingresso di una giovane donna dai lunghi capelli castani, raccolti in una coda di cavallo lunga fino a metà schiena, che indossava una t-shirt nera a mezze maniche aderente con su in rosso la scritta “Hard Rock Cafè – Barcelona”, abbinata ad un paio di jeans chiari e scarpette da tennis nere. A Shane per poco non prese un colpo, tanto che si raddrizzò di scatto sulla sedia e tese il collo verso la porta della stanza, per guardare meglio la nuova arrivata. Era proprio la ragazza che avevano visto il pomeriggio precedente, dopo l’allenamento! Si voltò verso Nigel e lo trovò intento a nascondersi dietro i compagni della fila davanti, imbarazzatissimo. Non riuscì a trattenere una risata sommessa, che mise a tacere coprendosi il volto con la mano e fingendo un colpo di tosse. Il gallese se ne accorse e gli mostrò il dito medio di rimando.
La ragazza parve non far caso al trambusto che la sua entrata aveva suscitato e strinse la mano del coach, accompagnando il gesto con un sorriso appena accennato.
«Vittoria Marchetti. Piacere. Il dottor Miller ha per me molta più considerazione di quanta ne meriti», ruotò il capo verso i giocatori seduti. «Certo che senza tutte quelle bardature addosso, non sono poi così grossi», aggiunse, scoccando poi una occhiataccia a Nigel che ancora cercava di nascondersi.
McGinty rise a quella affermazione.
«Non si faccia impressionare. Sono dei bravi ragazzi. Anche se un po’ indisciplinati, qualche volta», battè le mani seccamente per far cessare il brusìo che si era fatto sempre più alto. «Allora? La smettiamo, per favore?»
I ragazzi si zittirono immediatamente. McGinty sorrise indicandoli col capo.
«Visto? Basta saperli prendere».
«Speriamo di riuscirci, allora».
«Oh, se è vero quello che il dottor Miller ha detto di lei, ci riuscirà sicuramente».
Vittoria non commentò oltre. Si limitò ad incrociare le braccia sotto il petto e a voltarsi verso i giocatori in modo da trovarseli di fronte. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di prendere parola.
«Salve, ragazzi. Io sono la dottoressa Marchetti. Ho assunto in questa sede il ruolo che è stato del dottor Miller e spero di fare un lavoro buono quanto il suo. Il che sarà difficile, dato che il dottore è un’eminenza nel campo della medicina sportiva. Ma cercherò di fare il possibile. E anche l’impossibile, se sarà necessario».
Falco si mosse nervosamente sulla sedia. La situazione non gli andava per nulla a genio. A parte il fatto di avere per medico sportivo una donna, già di per sé una stranezza, quella ragazza gli sembrava fin troppo giovane per avere anche solo un quarto dell’esperienza del dottor Miller. Una cosa era certa: quello che meno gradiva la situazione era Nigel Gruff, che pareva star seduto sui carboni ardenti e dava proprio l’idea di uno che se la sarebbe filata, se solo avesse potuto.
«So che è sempre difficile guadagnarsi la fiducia di qualcuno, specie in campo medico, ma vi assicuro che se mi conosceste non avreste remore a farlo. Ad ogni modo, sono qui stamattina anche per rispondere ad eventuali domande».
Vittoria ruotò il capo verso McGinty, che guardò i suoi giocatori.
«Forza, ragazzi. Qualche domanda da fare alla dottoressa, prima di lasciarla al suo lavoro?»
Sembrò quasi che fossero tornati al college e che fossero stati interrogati da un professore. Sguardi evasivi, occhiate lanciate ovunque tranne che sul coach, gente che improvvisamente si accorgeva di avere la scarpe slacciate, o che trovava estremamente interessante una crepa nel muro.
Solo Clifford Franklin alzò la mano di scatto. Vittoria lo guardò ed annuì.
«Posso avere il suo numero di telefono?»
Ci fu uno scoppio di ilarità generale. McGinty lo fulminò con una sola occhiata. Fece per ribattere, ma Vittoria alzò la mano destra come a dirgli di lasciar stare. Mosse qualche passo in direzione di Clifford, che era seduto in seconda fila, e attraversata la prima fila di sedie, gli si parò davanti, chinandosi poi fino a poggiare le mani sui braccioli della sedia e a trovarsi col viso a qualche centimetro da quello del ragazzo.
«Oh, lo avrete tutti, il mio numero di telefono. Così potrete chiamarmi quando vi farete la bua e io non sarò presente», disse in un tono di voce condiscendente. Gli occhi scuri erano piantati in quelli di Clifford, talmente profondi e fermi che il ragazzo si pentì immediatamente di essersi messo in quella situazione. «Ci tengo a ricucirvi personalmente. Perché, devo ammetterlo…», fece una pausa voluta, ad effetto, «…mi diverte vedere che ve la fate sotto davanti agli aghi, voi uomini, grandi e grossi come siete», terminò infine, rialzando il busto e scoccando un’ultima occhiata al ragazzo di colore, che parve farsi piccolo piccolo. Falco socchiuse le palpebre per guardare meglio quella ragazza. 
Sarà pure piccolina, ma ha le palle.
McGinty se la rise sotto i baffi.
«Qualcuno che voglia fare una domanda meno stupida?» chiese, mentre Vittoria faceva il percorso a ritroso per tornare vicino a lui.
Nigel non riuscì a non fissarle il sedere mentre era di spalle. L’impressione avuta il pomeriggio precedente sul fondoschiena della ragazza era perfettamente confermata. La sua mano si alzò quasi automaticamente.
Vittoria gli fece segno di parlare, sorridendo di sbieco, un sopracciglio leggermente innalzato. Era curiosa di sapere cosa le avrebbe chiesto quel tipo.
Gruff si sentiva la gola arida come il deserto del Sahara.
«Lei… voglio dire… è… è… specializzata in medicina dello sport o… oppure… ecco… ha qualche altra… qualifica?», balbettò in tono incerto, tanto che si voltarono tutti a guardarlo, stupiti di vedere l’espansivo e solitamente logorroico gallese così in difficoltà.
«Sono un chirurgo ortopedico, in realtà. Mi occupo principalmente di…».
Un sonoro “driin-driin; driin-driin” interruppe il suo discorso. Infilò la mano destra in tasca, e ne trasse fuori il cellulare, guardando il display.
«Scusatemi, è importante», disse, prima di accettare la chiamata e portarsi il telefono all’orecchio.
«Dottore? Buongiorno…», si guardò l’orologio al polso sinistro, «…o meglio, buonasera. Che ore sono da quelle parti, le due di notte?» disse in Italiano, così che stettero tutti a guardarla senza capire una parola di quel che stesse dicendo. D’un tratto dette in una risata cristallina.
«Lo so che lei non dorme mai. Le ricerche sono pronte. Gliele spedisco in meno di un quarto d’ora, d’accordo? Ci sentiamo. Buonanotte». 
Chiuse la telefonata e si rimise in tasca il cellulare.
«Devo andare, ho del lavoro da sbrigare, coach».
«Ma certo, le abbiamo già rubato fin troppo tempo. Per le visite mediche?»
Vittoria si girò a guardare i Sentinels.
«Cominceremo domani mattina, alle otto. Li aspetto allo studio medico interno dello stadio, come faceva il dottor Miller. Le farò avere le liste dei nomi, così ognuno di loro saprà a che ora venire»,fece una pausa, con un lieve sospiro. «In due giorni dovremmo farcela e saranno tutti in regola per la prima partita della stagione».
«Bene, ottimo!»
«D’accordo. Arrivederci, coach. Buona giornata, ragazzi!»
Vittoria uscì dalla stanza, lasciandosi dietro una scia di nervosismo.
Il brusìo fra i giocatori ricominciò. Nigel si nascose la faccia fra le mani. Falco si alzò di scatto dalla sedia e uscì dalla stanza a sua volta senza proferire parola. Scoccò una occhiata al coach, scuotendo il capo: come poteva essere così tranquillo di fronte a quella novità assoluta per un campionato di football? I giocatori lo imitarono poco a poco, svuotando la stanza. Molti scuotevano il capo, alcuni alzavano le spalle. Era evidente che quella novità li lasciasse tanto smarriti quanto, a tratti, addirittura infastiditi.
Quando furono rimasti soli, Leo si avvicinò a McGinty, scuotendo il capo.
«Tu sei sicuro che sia una buona idea, avere un medico donna?»
McGinty annuì convinto, incrociando le braccia al petto in una postura severa.
«Quando ti propongono la scelta migliore, te ne freghi che abbia le tette o meno».
Ed anche quella era una sacrosanta verità.
 

***


Nigel tracannò tutto d’un colpo un bicchierino di Tequila. Fece schioccare le labbra deglutendo e serrò gli occhi. Quella schifezza bruciava come il fuoco.
«Cristo, non posso credere di essere così coglione!», disse, con la voce impastata dall’alcool.
«Meno male che te ne rendi conto da solo».
Shane accostò le labbra al collo di una bottiglia di birra e ne bevve qualche sorso.
LEnd-zone, il bar a pochi passi dallo stadio che era uno dei punti di ritrovo per i Sentinels, quella sera era stranamente quasi deserto. Musica anni ’80 veniva fuori dal vecchio juke-box che non era stato mai cambiato. Le luci fioche illuminavano il bancone lasciando il locale in penombra, e sfumando i contorni dei visi di Nigel, Clifford, Shane ed Annabelle, che se ne stavano seduti a sgranocchiare noccioline e bere drink.
«Aspettate. Dunque il vostro nuovo medico è quella ragazza che era al campo ieri pomeriggio? Vittoria?»
Annabelle era incredula.
Shane posò la bottiglia di birra sul bancone ed annuì, prendendo una manciata di noccioline e ficcandosele in bocca.
«Esattamente», rispose, masticando. La sua voce venne fuori ovattata e distorta, a causa delle noccioline, rendendolo simile a un bambinone cui non avessero insegnato che non si parla a bocca piena.
«E tu Nigel ci hai provato con lei?!», incalzò la ragazza, sgranando gli occhioni castani sul gallese.
«Sì, cazzo! Ma perché capitano tutte a me?!»
Nigel si prese la testa fra le mani, dondolandosi scompostamente.
«Dammene un altro!», disse poi al barman, spingendo il bicchiere vuoto verso di lui. Era l’ennesimo di molti bicchierini che già avevano preso residenza nel suo stomaco.
«Ehi, vacci piano, amico. Domani hai la visita medica!»
Clifford non aveva fatto che spassarsela fino a quel momento. L’intimidazione delle parole che nel pomeriggio aveva ricevuto dalla dottoressa era oramai svanita, e l’unica cosa che riusciva a fare era ridere delle disgrazie di Nigel.
«Ecco perché pareva non essere affatto interessata ai provini! Dio, è la situazione più assurda che abbia mai sentito. E anche la più divertente!»
Annabelle diede un buffetto a Nigel. Lei pareva non cogliere affatto la tragicità della situazione come la vedevano invece Shane e gli altri.
Nigel, per tutta risposta, continuò a starsene con la testa fra le mani, scuotendola, in attesa della sua Tequila, borbottando parole sconnesse e biascicate. Ufficialmente, si poteva dire che fosse ubriaco.
«Tu cosa ne pensi, Shane?», Clifford si fece improvvisamente un po’ più serio. «Voglio dire…non è una cosa…normale».
Alzò le spalle, tamburellando poi con le lunghe dita sul legno del bancone.
Falco mandò giù le noccioline con un altro paio di sorsi di birra. Dondolò un poco la testa, con fare scettico, chinandosi col busto sul bancone e appoggiandovi i gomiti, tenendo le braccia incrociate sotto il petto. I capelli scuri ricaddero morbidi sulla fronte, seguendo i movimenti del suo capo. Un piede si muoveva frenetico su uno degli appoggi di ferro dello sgabello.
«Non so». Respirò profondamente, guardando le bottiglie disposte in ordine dietro il bancone. «Certo, non è una cosa convenzionale. Non credo che mi piaccia l’idea che sia una donna, il mio medico sportivo. E poi…», fece una pausa, voltandosi verso gli altri tre.  «…Voglio dire, sembra… così giovane. Non sono certo che abbia l’esperienza adatta».
Si attaccò nuovamente alla birra.
Clifford annuì ed Annabelle sospirò. Il discorso di Shane non faceva una piega. Nigel fece fuori in un nanosecondo il nuovo bicchierino di Tequila che il barman gli aveva messo davanti.
«Io l’ho pure scambiata per una aspirante cheerleader. Santo Dio! Non posso credere che tutta questa storia sia vera!», piagnucolò il gallese, accendendosi una sigaretta.
Annabelle scese dallo sgabello dove era seduta ed abbracciò da dietro la schiena Shane, posando la testa sulle sue spalle e circondando con le lunghe braccia l’ampio torace del suo uomo.
«Il coach cosa dice in merito, Shane?», chiese, dondolandosi un poco in quell’abbraccio.
Shane posò le sue mani su quelle di Annabelle, intrecciate sul suo petto.
«Lui pare tranquillo, anzi, credo abbia molta fiducia in quella ragazza. E’ l’unico motivo per cui non mi sono opposto apertamente. Mi fido del suo giudizio». Il tono del giovane continuava ad essere serio. «Anche se sono convinto che sia una stupidaggine. Il medico sportivo di una squadra maschile non può essere una donna!»
«Già. I ragazzi non sono affatto contenti. E devo dire che il pensiero di mettermi in mutande davanti a lei dopo che ha minacciato di volermi ricucire non è poi così eccitante come pensavo!» Clifford sbuffò bevendo qualche sorso da un bicchiere pieno di un liquido rosato, un accozzaglia di alcool che doveva somigliare a un cocktail.
Nigel mandò giù un ulteriore bicchierino di Tequila, aspirando l’ultimo tiro della sua sigaretta e spegnendola nel bicchiere.
«Vado a vomitare», annunciò in tono melodrammatico. Rischiò di cadere e rompersi l’osso del collo scendendo dallo sgabello e si avviò verso il bagno.
«Io invece vado a dormire». Shane sciolse l’intreccio delle mani di Annabelle sul suo torace e si mise in piedi scendendo dallo sgabello, cingendole le spalle. «Ti accompagno a casa» disse, stringendola a sé.
«Non vuoi fermarti da me?»
«Non stasera. Sono sfinito, Annabelle».
Le sorrise, e la ragazza si accorse che era la verità dai tratti stanchi del volto di lui.
«Clifford, porta a letto Nigel. Ancora un bicchiere di Tequila e non sarà in grado neanche di ricordarsi il suo nome», aggiunse Shane, lasciando sul bancone una banconota da venti dollari.
Nigel tornò dopo parecchi minuti, ancora più pallido di quanto non fosse già normalmente. Anche se in quel pallore faceva capolino una sfumatura verdognola, segno che il suo stomaco doveva essere in pieno subbuglio. Aveva gli occhi socchiusi e guardava gli sgabelli lasciati vuoti da Falco e Annabelle. Sbuffò guardando Clifford.
«La fortuna di essere il quarterback e farsi la capo cheerleader. Beato lui!»
Clifford rise e si alzò, dando una pacca sulla spalla di Nigel, per poi trascinarlo verso l’uscita del locale.
«Tranquillo, Nigel. Annabelle non te l’avrebbe mai data comunque. Fare il quarterback non avrebbe cambiato la brutta faccia che ti ritrovi!», disse ridendo, mentre ficcava con la forza il gallese nella sua auto.
Nigel riuscì a malapena a trovare la giusta coordinazione occhio-mano per mostrargli il dito medio, prima di cadere profondamente addormentato sul sedile del passeggero, russando talmente tanto da far tremare l’intero abitacolo.

 

_________ ₰ _________

 

- Angolo Autrice:
No, non mi sono dimenticata della mia piccina. Solo che ultimamente ho davvero pochissimo tempo per fare qualsiasi cosa. 
E... ta-daaaaah! Sorpresona riguardo il ruolo della bella Vittoria in questa storia. Commenti? Qualcuno che si aspettava qualcosa del genere? Preferivate fosse una semplice cheerleader?
Quel che è certo è che il suo arrivo ha scombussolato i nostri poveri ragazzoni dei Sentinels, e non poco...
Vi lascio recapiti vari per contatti, curiosità, e anche rotture di scatole:
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Grazie a chiunque passerà di qui e si fermerà a leggere. 

 

 

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