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di Mave
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Solitudine. Tsubasa/Koudai Ozora ***
Capitolo 2: *** Devozione. Kojiro/ Naoko Hyuga ***
Capitolo 3: *** Testardaggine: Jun/Isamu Misugi ***
Capitolo 4: *** Complicità:Hikaru/ Haruna Matsuyama ***
Capitolo 5: *** Estro. Taro-Ichiro Misaki ***
Capitolo 6: *** Allegria. Ryo/ Kaori Ishizaki ***
Capitolo 7: *** Ambizione. Genzo/Akihiko Wakabayashi ***
Capitolo 8: *** Consolazione. Stephen- Ingrid Levin ***
Capitolo 9: *** Orgoglio. Karl/Rudi Schneider ***
Capitolo 10: *** Perdono. Francisco/ Ines Santana ***



Capitolo 1
*** Solitudine. Tsubasa/Koudai Ozora ***


Ha qualcosa di epico, di misterioso e di sfuggente il Mare del Nord.

Mentre la nave scivola, silenziosamente, tra i fiordi e tra le coste frastagliate, il capitano Ozora alza il naso al cielo plumbeo di fine autunno.

È un effluvio salmastro, fresco, familiare che gli solletica le narici. Lo fa sentire solo nella moltitudine. Solo nonostante i molti passeggeri a bordo.

Così lontano da casa. Dal Giappone con i ciliegi in fiore e le lanterne volanti.

Ha qualcosa di profondamente malinconico il mare d'inverno. Una distesa interminabile di blu cobalto sulla quale, nonostante la desolazione, si snodano storie, si vivono avventure su quella nave da crociera.

Ed è proprio una di queste storie, uno spaccato di vita che fa fare un tuffo al cuore al comandante Ozora: sul ponte della nave un gruppetto di ragazzini tediati dalla traversata ha pensato bene di ingannare la noia della traversata divertendosi con poco.

Un pallone logoro.
Dribbling, passaggi, finte e calci infiniti a quella sfera a scacchi. Capelli arruffati e visi arrossati dalla corsa esagitata, sordi ai richiami dei genitori che li rincorrono e si perdono in un eco lontano.
Sono così simili al suo Tsubasa.


Koudai s'arrotola un baffo e si ritrova a sorridere.

"Saresti così felice di giocare a calcio con questi ragazzini, campione. Ti vedo a tener loro lezioni di tattica, di passione ,ad insegnare che il pallone è il tuo migliore amico!"

Pensa il capitano Ozora e la nostalgia e l'impossibilità di cambiare le cose gli lacerano l'anima.

Tsubasa sta crescendo, sta diventando un campione senza di lui.

Con i consigli e gli incoraggiamenti di Roberto Hongo, che gli fa da mentore e un po' da padre.

Con la pazienza e la dolcezza di Natsuko che lo incita ai lati dei campetti di Nankatsu e magari gli disinfetta ancora le ginocchia sbucciate dopo uno scontro di gioco un po' troppo irruento.

Il campo da calcio per Tsubasa è quello che il mare è per lui. Una calamita. Una passione. Un sogno.

E gli Ozora sono dei determinati, concreti sognatori. Tsubasa farà di tutto per coronare il suo sogno, il padre lo sa.

Il Brasile, forse l'Europa. Quanti sacrifici richiederà essere un grande calciatore!

"Conoscerai la solitudine, Tsubasa. Conoscerai il desiderio di essere allo stesso tempo in due posti differenti. Capirai tuo padre finalmente. Ma non perderai la tua allegria e il tuo sorriso. Io ti conosco. Sei forte, volitivo e determinato."


Sorride ancora Koudai mentre la palla di quell'improvvisata partitella viene quasi scaraventata in mare. Forse ad inabissarsi negli oceani.

Ma nella testa del capitano Ozora c'è spazio solo per pensieri belli adesso: dopo l'ultima virata lascia il timone al comandante in seconda e si rifugia in cabina.

Tira fuori carta e penna e inizia a scrivere, i pensieri che si trasformano in parole, in elogi ed esortazioni per il suo Tsubasa. Sigilla la lettera, ad Oslo vi affrancherà un francobollo e la manderà a casa.

A Tsubasa.

E l'attesa per il momento in cui potrà riabbracciare il suo piccolo campione si fa meno penosa.

Guarda fuori dall'oblò ed è rianimato da una luce bella e tiepida. qualche settimana tornerà a casa. Potrà dirglielo di persona. È tornato di buon umore. E il cielo plumbeo del Nord è stato rischiarato da un pallido sole.

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Capitolo 2
*** Devozione. Kojiro/ Naoko Hyuga ***


Ama quelle ombre leggere, appena accennate che si allungano, tremule sui muri e le foglioline, intrise di rugiada, attaccate l'una all'altra quasi che volessero proteggersi dai primi sentori di freddo.

Ama i colori tenui che tingono il cielo e gli acquazzoni mattutini che rinfrescano l'aria di una città ancora assonnata.

Kojiro ama l'alba.

Gli piace il vivere silenzioso di quell'ora: l'unico momento in cui può svestire il suo cuore e può concedersi di essere tenero.

Pedala in sella alla sua bici, sorpassa gradini, pianerottoli e giardini ben curati e sconosciuti, arricchiti da una copia del giornale del giorno.

Vola con la fantasia e immagina signore ben vestite, con bimbi strillanti al collo o bigodini ancora in testa, uomini tranquilli a sorseggiare una tazza di caffè o signorotti in panciolle, tra qualche ora, a ritirare quella copia. Quei pezzi di carta che faranno da diversivo alle loro colazioni.

Per Kojiro quei giornali non sono un divertimento, significano qualche yen in più. Un'esistenza più dignitosa per lui, per la mamma e per i fratellini.

Pedala e la brezza del mattino lo rinvigorisce: ha fatto una levataccia, come al solito, quando fuori era ancora tutto buio, ha girato per mezza città mentre il cielo si rischiarava e ancora non si è fatto giorno.

I giornali, la scuola, i duri allenamenti per diventare il più bravo a giocare a pallone. Sono sacrifici enormi per un ragazzino della sua età ma mai è uscito un lamento dalle labbra di Kojiro.

"Piagnucolare è roba da femminucce!"


Ammonisce così i fratellini più piccoli quando cedono a qualche infantile capriccio.

Kojiro no. Lui sembra essere nato già grande, forte e determinato. Nato per essere l'uomo di casa, il capofamiglia.


L'orologio batte le sei e mezzo. In casa sono ancora tutti addormentati e Kojiro entra in punta di piedi puntando dritto in cucina.

Avrà ancora un po' di tempo per restare solo e godersi il silenzio.

Sul tatami sono sparse stoffe di tanti colori, ditali, aghi e kimono confezionati a metà. Riverso in mezzo a quella confusione c'è un esile corpo di donna.

Kojiro non è solo.

Naoko ha lavorato fino a notte fonda, come tutte le sere e ora, inginocchiata, con le spalle curve e la testa riversa sulle braccia giunte si è addormentata in questa scomoda posizione.

Alla fine la stanchezza l'ha vinta.


Ha cucinato, pensato alla casa, aiutato i più piccoli a fare i compiti e ha ascoltato problemi e racconti dei loro figli ieri, come ogni giorno, prima di mettersi alla macchina per cucire.

Prima di tutto è una mamma. Poi una brava sarta.


Kojiro si avvicina furtivo incerto e, forse, un po' imbarazzato a quella figura diafana. La contempla e l'ammira in segreto con devozione e profondo amore: le rughe d'espressione e di fatica sulla fronte, i riccioli spettinati e disordinati che ricadono sulla fronte e sul collo, le mani callose e premurose.

Non c'è donna più bella di sua madre.

Ama sua madre al pari dell'alba. Forse un po' di più. Ed è un amore che fa male, che lo annienta e lo fa sentire un po' colpevole per timore di non ricambiare abbastanza l'affetto di lei.


Prende una coperta e gliel'appoggia sulle spalle, tuttavia era un sonno leggero da cui Naoko si ridesta a quel lieve contatto.

Spalanca gli occhi, si stiracchia come una gatta e scatta in piedi pimpante come se avesse fatto una bella dormita.

Regala a Kojiro un delicato, caldo e tenero sorriso.

"Tutto bene a lavoro?"

Lavoro. Che parolone! Come lo fa sentire importante, quanto orgoglio vibra dalla voce della mamma.


"Al solito!"

Smozzica, introverso e scontroso, al solito lui. Naoko allontana i fili per ricami, i pantaloni da accorciare, i vestiti da riassettare e si avvicina al piano cottura.

"“È quasi ora di scuola. Ti preparo una buona colazione!"

Recupera le bustine da tè e il bollitore. Svelto, Kojiro glielo toglie di mano e si affaccenda a riempirlo d'acqua.

"Lascia, faccio io!"

Naoko continua a sorridergli, grata di quelle attenzioni che ha per lei. Prima di tornare a sedersi, fa una carezza a Kojiro.

Non dice niente. Un gesto spesso parla meglio di mille parole.


Kojiro si sfiora la gota come a voler intrappolare quella carezza e portarla con sé per tutta la giornata, poi si volta di scatto, un po' maldestro, e stampa, al volo, un bacio a Naoko.

È questa l'ora del giorno che più ama. Quando tutto e tutti dormono. Quando lei è lì solo per lui e non deve spartirla con gli altri. È un momento solo suo e di Naoko.


*** **** ***

Ringrazio le care ragazze che mi hanno suggerito i nomi di alcuni genitori dei nostri calciatori. Per gli altri mi affiderò alla fantasia^^

Grazie di cuore. Spero apprezziate questa seconda one-shot!

A presto!

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Capitolo 3
*** Testardaggine: Jun/Isamu Misugi ***


Piove. Gocce grosse come chicchi d'uva tintinnano sui vetri della multinazionale nel centro di Tokyo.

Neri nuvoloni hanno oscurato la luce del pomeriggio: si è fatto buio nell'accogliente e ordinato ufficio di Isamu, al secondo piano.

L'uomo alza un sopracciglio perplesso, ha, ormai, perso tutta l'attenzione per concentrarsi sui documenti da finire da redigere o da firmare,

Sospira e si arrotola un baffo tra le dita. Gli occhi si posano, istintivamente e automaticamente, sulla cornice intarsiata che fa bella mostra sulla sua scrivania.

La foto gli rimanda un'immagine di Jun allegro e sorridente.

Gli si stringe il cuore a pensare a quanto sia giovane suo figlio e quante poche volte lo abbia visto con quell'espressione radiosa ad illuminargli il bel viso.

Un boato e una saetta squarciano il cielo di settembre.

La pioggerellina della mattina si sta trasformando in un temporale.

Come quel giorno.

Quel pomeriggio di cinque mesi fa.

L'asfalto è umido, le strade piccoli laghetti artificiali creati dall'acqua che i canali non riescono a drenare. Come il campetto appesantito e impraticabile di Yomiuri Land.

Isamu si alza dalla scrivania e si avvicina alla finestra, si incolla al vetro freddo e si abbandona al plumbeo della giornata e dei ricordi.

Un immagine vivida, opprimente, reale si dipinge sulla lastra.

Sembra uno spettro.

I capelli gocciolanti, attaccati alla fronte; gli occhi chiusi e le labbra serrate in un moto silenzioso di sofferenza; una mano a stringere il pallone e l'altra a stringere, tremante, la maglietta all'altezza del petto.
Isamu ha un sussulto e cerca di scacciare quel ricordo, di allontanare quel giorno.

Il giorno in cui ha rischiato di perdere Jun, per sempre.

Il giorno in cui ha permesso a suo figlio di rischiare di morire per scegliere di vivere.

Nessuno ha capito quella scelta. Nemmeno Junko, sempre pronta a soffocare Jun di attenzioni e di amore.

Li chiamano incoscienti ma lui e Jun sono solo testardi.

Si assomigliano. Sembrano docili e arrendevoli e, invece, nascondono una volontà ferrea e incredibile.

Sono determinati e caparbi Jun e Isamu. Non hanno permesso all'ovvio di distruggere i loro sogni.

Lui è stato un esempio da imitare per suo figlio. Lui è quello che dal niente e con pochi soldi è riuscito a diventare il presidente di un importante compagnia .

Controlla l'orologio: batte le tre e un quarto. C'è ancora un'ora e mezzo di lavoro.

Non vuole più restare a soffocare in ufficio, Isamu. Afferra la giacca dall'attaccapanni e, mentre la infila, dà un ultimo sguardo fiero alla fotografia di Jun: occhi ridenti, sorriso largo, maglietta e pantaloncini e pallone a scacchi sottobraccio.

Quanta fatica ci vorrà per ridipingere quell'espressione estatica sul viso di quel ragazzino!


Isamu dribbla le domande e la sorpresa dei colleghi e dei dipendenti che lo vedono andare via prima.

"Un impegno urgente e improrogabile!"

L'unica giustificazione che da. Corre sotto il temporale fino a raggiungere l'auto. Si mette alla guida e sintonizza la radio sul canale sportivo.

La partita è appena cominciata.


La voce del telecronista, dalla televisione del soggiorno, è l'unica nota di vita ad accoglierlo quando entra in casa.

Avanza in punta di piedi e resta un minuto fermo sull'uscio.

Jun è seduto sul divano, in una posa elegante e raffinata così come quanto è in campo, nonostante la tuta sciatta e l'aria trasandata.

È convalescente. Si sta ancora riprendendo dall'intervento chirurgico di quasi un mese fa.

Un'ombra proiettata sullo schermo piatto della tv spinge Jun a voltarsi e ad incrociare la figura del padre, dritto sulla soglia.

Gli accenna un sorriso.

"Quanto stanno?"

Chiede Isamu, sbirciando interessato il parziale, mentre si sbarazza della giubba fradicia.

"Zero a zero. La Tailandia è un avversario tosto, ci farà sudare la qualificazione!"

Spiega Jun, improvvisamente animato dalle sorti calcistiche del Giappone. Una vittoria significherebbe una qualificazione quasi certa ai prossimi mondiali.

Isamu gli si siede accanto e non può fare a meno di notare che Jun si è fatto triste.

I suoi amici hanno giocato la prima partita del torneo giovanile in Francia, questo pomeriggio. Senza di lui.

"Hai preso le medicine?"

La domanda, entrata di rito, nelle loro giornate parte spontanea.

"Si. Mamma è un'infermiera molto attenta."

Jun sospira e una mano gli trema, affondata sul cuscino. Mille pensieri gli corrono in testa ma ha paura di scoprirsi, di aprire il suo cuore, completamente, al babbo.

"Come ti senti?"

Chiede Isamu e la sua non è una domanda retorica.

"Bene!"

Isamu fissa Jun che continua a tenere il capo chino per impedirgli di vedere i lucciconi che gli stanno bagnando gli occhi.

Pensa alla Francia, a Tsubasa e agli altri, agli avversari europei e a tutte le esperienze che lui non potrà fare, pensa a loro che possono correre, giocare e divertirsi senza rischiare di morire.

"Jun!"

Il tono di Isamu fa capire che non crede alla bugia.

"Li invidio papà. Sono arrabbiato con loro e con la mia malattia, sono meschino. Dovrei essere contento perché oggi Tsubasa mi ha telefonato e mi ha raccontato di quanto sia stato bello vincere contro la Francia di Pierre Leblanc e invece sono triste perché io non c'ero!"

Si sfoga Jun e permette alle lacrime di venire fuori mentre il suo corpo è scosso dai singhiozzi.

Non ha mai pianto Jun, mai. Né quando gli hanno diagnosticato la malattia, né durante i difficili esercizi di riabilitazione.

Isamu se lo attira al petto e fa un'infinità di carezze sul capo del suo ragazzo.

Non dicono più niente e il silenzio, che regna incontrastato per diverso tempo, viene spezzato solo dall'esultanza dei giocatori nipponici che hanno segnato un gol.

"Papà?"

La voce di Jun è esitante. Non osa sollevarsi dall'abbraccio del padre.

"Tu credi che un giorno...beh si....credi che un giorno diventerò bravo come loro?"

Addita i calciatori nipponici sullo schermo. I suoi idoli.

Gli occhi di Isamu cadono sulla camicia sbottonata di Jun, su quella cicatrice che gli deturpa lo sterno.

"No, Jun. Tu diventerai ancora più forte, diventerai il più grande calciatore del Giappone!"

Jun solleva gli occhi arrossati e sorpresi verso il padre. Isamu mantiene la determinazione necessaria a convincerlo che accadrà davvero.

Papà ha sempre ragione.

Jun lo sa.

Sorride. Un sorriso bello e sincero come quello nella foto sulla scrivania.

Intanto, fuori, è uscito il sole.

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Capitolo 4
*** Complicità:Hikaru/ Haruna Matsuyama ***


Fa freddissimo. L'inverno a Sapporo è accompagnato da soffici tappeti bianchi e coltri gelate che sembrano perenni.

È sera. Una sera buia e solitaria, malinconica ed eterna.

Hikaru si è seduto su un mucchietto di neve a guardare la landa desolata che spiana davanti ai suoi occhi, quella pianura sterile e deserta che lui e i suoi amici hanno sempre ripopolato di giochi e di risate spensierate.

Con le guance arrossate, il cappotto troppo grande, i guanti e la sciarpa inzuppati gli sembra quasi di vederla correre giù per il pendio: Yoshiko, sempre affabile e sorridente.

La sua Yoshiko.

Sbuffa e sospira e il suo alito gelato si perde nella notte. A New York è l'alba , deve ancora fare giorno.

Il capitano della Furano strofina le mani, cerca di scaldarsi, poi fruga nella tasca interna del cappotto e ne recupera una fascetta. Un pegno d'amore.

La stringe al cuore e volta lo sguardo ad ovest, verso la sua casa illuminata e accogliente. Gli sembra quasi di sentire le risate di mamma e di papà spezzargli il cuore, lasciarlo solo con la sua invidia.

Silenzio. Solo in lontananza si espande tra le conifere l'ululato di qualche randagio. Un lamento straziante.

Hikaru rabbrividisce e si stringe nel suo cappotto: a rientrare non ci pensa proprio. Non gli va di passare l'ennesima sera fisso davanti al mappamondo in camera sua a rendersi conto di quanto sia lontana l'America.

"Prenderai un raffreddore a startene immobile a fissare le stelle!"

Gli occhi scintillanti di Haruna brillano di sincera preoccupazione.

"Non sto guardando le stelle!"

Replica Hikaru senza scomporsi, senza che la spirale di nostalgia e di rimpianti si allenti. Suo malgrado Haruna sorride: è stata giovane anche lei.

"Lo so. Tieni ti ho portato i Shiroi Koibito!"

Dice la donna allungando un contenitore che rivela dei deliziosi biscottini al cioccolato bianco: i famosi "amanti bianchi" della pasticceria di Hokkaido.

Una delle prelibatezze che Haruna ha sempre preparato a Hikaru quando le malattie dell'infanzia lo rendevano indisposto e indisponente.

"Non sto male!"

Si affretta infatti a rassicurarla Hikaru. La risata cristallina, da ragazzina, di Haruna si espande per il circondario, sovrasta gli ululati cupi e feroci, riscalda il cuore di Hikaru.

Poi la mamma torna seria e lo guarda con un affettuoso sorriso.

"Si invece, stai male Hikaru. Non è un male fisico, è una sensazione, un vuoto...Un vuoto che si è annidato qui e non ti permette di essere felice."

Posa la sua mano vicino al cuore di Hikaru che non replica, anzi, prende un dolcetto e inizia a spiluccarlo.

"Mi manca!"

Riesce finalmente ad affidare quella confidenza al nulla, alla mamma sempre pronta a confortarlo.

"Ti ho mai parlato dell'anno di studio che trascorsi a Firenze?"

Haruna parte da lontano, indaga per raccontare la sua storia. Hikaru ride.

"Mi avrai parlato mille volte della suggestione di Ponte Vecchio, degli affreschi degli Uffizi e dell'incanto dell'Arno!"

"Allora non era tanto meraviglioso essere così lontana da casa. Ero circondata da bellezze mozzafiato e mi sentivo triste, spaesata, fuori luogo. Mi mancava la nevosa e silenziosa Sapporo e, soprattutto, avevo paura di perdere tuo padre!"

Aveva diciotto anni allora Haruna. Takumi l'aveva incitata ad andare, l'aveva rassicurata e, al ritorno a casa, l'aveva aspettata con un mazzo di orchidee e una proposta di matrimonio.

Hikaru ascolta e capisce che lui e sua madre sono più simili di quanto sia mai stato evidente. C'è intesa, c'è complicità tra loro.

"Hai mai avuto paura di poter perdere papà?"

Chiede con una sorta di mistico timore nell'attesa della risposta.

"Ogni giorno. Se tieni ad una persona non la dai mai per scontata ed è questo che permette all'amore di sopravvivere!"

Haruna è ancora giovane ma sa essere molto saggia.

I pensieri di Hikaru volano fino a New York, fino ai verdi vialetti di Central Park dove, magari, Yoshiko starà facendo jogging con quelle guance rosse rosse, i capelli scompigliati dal vento e il sorriso allegro. La stessa Yoshiko che, l'inverno scorso, faceva a gara con lui con lo slittino, giù per quella vallata scoscesa.

Haruka mette una mano sulla coscia del ragazzo, come a battergli una pacca amichevole.

"Devi avere pazienza Hikaru. Vedrai che il tempo, presto, molto più in fretta di quanto tu possa immaginare, ti ripagherà di quest'attesa che sembra infinita!"

Si alza e si scrolla i pantaloni dai residui di neve che li hanno bagnati.

"Brr...sta nevicando di nuovo. Io vado a preparare qualcosa di caldo, ti aspetto in casa. Non tardare."

Hikaru imita sua madre, alza il naso al cielo e fiocchi lievi, quasi invisibili, lo solleticano e lo portano ad abbassare, in fretta, la testa.

Riflette sull'ultima frase della mamma e si chiede perché dovrebbe tardare. Haruka smanaccia nel suo giaccone imbottito, poi porge il cellulare ad Hikaru.

"A New York ormai saranno le sette. Yoshiko sarà felice di sentirsi augurare il buon giorno da te!"

Strizza l'occhio a Hikaru, che si fa rosso, e sorride maliziosa.

"Mamma!"

Obietta il giovane innamorato con il cuore leggero.

New York non sembra più tanto lontana e la primavera tanto lungi dall'inverdire quelle coltri silenziose.

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Capitolo 5
*** Estro. Taro-Ichiro Misaki ***


È Natale. Il boulevard Hausmann ha addobbato a festa le sue vetrine già un mese addietro.

Taro avanza nella sera ghiacciata e colorata. Automaticamente posa le sue iridi nocciola sulle lancette dell'orologio.

In Giappone avranno già brindato a quest'ora. Sua madre Yumiko e Yoshiko sua sorella. Gli altri si ostinano a chiamarla "sorellastra" ma a lui non è mai piaciuto quel dispregiativo da cattiva delle favole.

Yoshiko è la bambina più dolce che abbia mai conosciuto.

Si stanno occidentalizzando anche in Giappone sebbene la festa vera sarà la settimana prossima, l'oshogatsu, il capodanno asiatico festeggiato con allegri costumi e piatti tipici.

Al pensiero Taro, il nomade, è attraversato da una fitta di nostalgia. Le usanze del suo paese gli ricordano la sua infanzia, il tempo in cui mamma e papà andavano d'accordo e lui era un bambino felice e coccolato.

Accelera il passo e cerca di non pensare e di non recriminare. Potrebbe essere anche lui in Giappone a quest'ora: la mamma ha insistito tanto perché passassero assieme le feste.

Si sente combattuto ma sa che il suo cuore lo avrebbe portato, nonostante tutto, a declinare l'invito. Passerà i giorni di festa con la sua unica famiglia: suo padre.

Nel grazioso appartamento parigino filtra una luce artefatta, quasi blu, nell'ora del tramonto.

Ichiro è rimasto rintanato nel suo studio a dipingere tutto il giorno. Ama gli spazi aperti ma oggi faceva troppo freddo per catturare scorci di paesaggi.

È assorto come sempre d'innanzi alla tela che sotto le sue mani esperte prende forma e vita e non si accorge di Taro che lo fissa da un pezzo.

"Hanno inventato macchine fotografiche digitali, fotomontaggi e fotografie istantanee ma un ritratto mantiene sempre il suo fascino!"

Giudica Taro con i suoi modi gentili ed affabili. Ichiro, taciturno e pacifico, intinge il pennello nei colori e da un altro tocco alla sua opera.

Forse con l'anno nuovo esporrà tutti i suoi lavori in una galleria.

" È la passione, l'ispirazione, il cuore che si mette in ciò che si fa a renderlo speciale. Quando ho le mie tavolozze e le tele bianche mi sembra di avere il potere di poter raccontare una storia. Non capita anche a te quando hai il pallone tra i piedi?"

Taro annuisce.

Gol, amicizia, folle festose, separazione, nostalgia, speranza, ambizioni e futuro.

Sì, il calcio e la pittura sono due arti. Sono due modi di vivere e di raccontare.

"Forse ho ereditato l'estro del mio papà!"

Scherza correndo ad abbracciarlo per poi allungargli il pacchetto incartato che contiene un regalo.

"Questo lo mettiamo sotto l'albero fino a domattina!"

Fa piani. Staranno insieme questa sera e anche domani. Ichiro si volta e riprende a dipingere.

"Saresti dovuto andare da tua madre!"

Non è un rimprovero e nemmeno un consiglio: è l'espressione del bene che vuole a Taro.

"Forse."

"Sono felice tu sia restato."

Ammette dopo un po' vincendo i suoi modi da orso. Taro ora sorride.

"Da mamma potrei andare l'anno prossimo!"

*** ***

Dopo una latitanza di mesi ecco finalmente una nuova one-shot in tema natalizio. Ringrazio quanti hanno letto e commentato le precedenti...Spero di aggiornare con più frequenza. Auguro a tutti gli amici di EFP buone feste!

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Capitolo 6
*** Allegria. Ryo/ Kaori Ishizaki ***


Sono queste le storie che, in un futuro lontano, narrerà ai suoi figli.

Storie fatte di semplicità e di quotidianità, di affetto grossolano e di aneddoti divertenti.

Ryo racconterà di sua madre, di quel donnone con le mani sempre incipriate di farina, con il grembiule dai buffi ricami annodato in vita, con il profumo del buono addosso.

Non avrà bisogno di inventare mondi popolati di fate, maghi ed eroi, Ryo, perché Kaori, nel suo piccolo, è la sua eroina. È il suo modello anche se non glielo ha mai detto, una donna coraggiosa che sa sempre sopperire alla stanchezza e alle delusioni e nascondere la fatica dietro ad un largo sorriso.

Ryo e Kaori si somigliano. Non saranno mai i protagonisti, sbaglieranno e non saranno perfetti, eppure è la loro testardaggine autentica, il loro spirito combattivo, il pedalare sempre in salita che li rende persone migliori, che gli permette di migliorarsi.

Ryo lo sa benissimo che, con il pallone, non sarà mai bravo quanto Tsubasa o quanto Taro eppure non rinuncia, non si sente inferiore a nessuno. Lui è bravino e, con costanza e desiderio di migliorare, sa di poter realizzare gli stessi sogni dei suoi amici.

Forse è un po' mascotte, un po' outsider. Eppure Ryo è qualcosa in più delle targhe di riconoscimento, dei dubbi colpi difensivi con cui ferma gli avversari: Ryo è l'uomo spogliatoio.

Con la sua allegria, con la battuta sempre pronta, con il viso sempre arrossato dalle pallonate che, caparbio, impedisce finiscano in rete, sa essere "una carrozza durante un viaggio a piedi".

Perché, in fondo, questo essere estroverso, questo essere solare e positivo lo ha ereditato da Kaori che, dopo tanti anni di matrimonio e mille sogni rimasti nel cassetto, riesce ancora ad essere briosa.

Racconterà di lei, Ryo, ai suoi figli e a chiunque gli chiederà della sua vita. Non dimenticherà mai le sue origini nemmeno se dovesse diventare famoso, un giorno.

Racconterà della mamma che insisteva per farlo diventare un ragazzo modello e uno studente diligente e dei suoi numerosi escamotage per sfuggire al controllo di Kaori per correre al campo di Nankatsu a sgambettare con gli amici o delle improbabili frottole quando c'era da andare a giocare in trasferta.

Anche per la prima partita di qualificazione al torneo nazionale, Ryo è ricorso ad una bugia. Forse quando Kaori lo scoprirà lo rincorrerà per tutta la casa con il mattarello, lo metterà in punizione e poi lo perdonerà. Perché loro sono fatti così: non riescono a tenere il broncio per molto.

Se solo la mamma non considerasse un inutile spreco di tempo giocare a calcio!

Pensa Ryo mentre ferma un tiro avversario con poca eleganza, gettandosi contro quello a peso morto.

"Forza Ryo. Forza. Tieni alto il nome degli Ishizaki! Fa vedere a questi pivelli come si sta in campo!"

La voce gli gela il sangue nelle vene. Fatica a riconoscere quella donna dalle guance rosee che sventola una bandiera e lascia perplessi quanti la circondano sugli spalti.

"Allora ti sei incantato? Su figliolo...se prendete un gol per colpa tua, stasera farai i conti con me!"

Ryo è commosso dal sostegno di questa inaspettata tifosa e gioca come sa, dando il 101%.

Alla fine si ritrova seduto in panchina, vittorioso, con la borsa del ghiaccio sulla guancia gonfia, mentre i compagni gli sfilano davanti, gli danno pacche complici e ridono con lui.

"Capisco che il nostro non sia un viso da fotoromanzi ma ti sembra ragionevole inventarti gli stop di faccia per bloccare la palla! Finirai per romperti il naso!"

Ora Kaori è davanti a lui, con le mani sui fianchi e quel rimprovero più materno che severo.

Ryo si alza e, come se sapesse di meritare una punizione, porge l'altra guancia per ricevere un ceffone dalla mamma.

Lo schiaffo però si trasforma in una carezza.

"Non capisco. Ti ho ingannata per tanto tempo. Ti ho detto tante bugie pur di non aiutarti in negozio...Non sei arrabbiata?"

"Certo che lo sono. Sono arrabbiatissima ma anche pentita. Dovevo capire quanto il calcio è importante per te, Ryo, dovevo capire che, anche se non diventerai un campione, non sarò io ad impedirti di provarci!"

Ryo la guarda con gli occhi lucidi mentre Kaori gli mette una mano sulle spalle e si avvia con lui verso casa.

"Sia chiaro: d'ora in poi verrò a vedere tutte le partite che giocherai e il primo autografo di Ryo Ishizaki, futuro pallone d'oro del Giappone, sarà per me!"

Racconterà anche di questo giorno Ryo, quando sarà padre, nelle interviste quando sarà un bravo difensore nella J-League: del giorno in cui sua madre si è dimostrata orgogliosa di lui.

"Mamma non far galoppare così tanto la fantasia! Non esagerare!"

La frena Ryo grattandosi la testa, un po' imbarazzato, un po' gasato.

Kaori lo scrolla.

"Esagerare? Ehi ragazzino ti ricordo che è di mio figlio che stiamo parlando!"

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Capitolo 7
*** Ambizione. Genzo/Akihiko Wakabayashi ***


Il silenzio che governa villa Wakabayashi è reso meno opprimente dal cadenzare dell'acqua nella fontanella del bellissimo giardino che sgorga fino a gettarsi nella pulitissima piscina.

Non un granello di polvere, non una cosa fuori posto rovinano il perfetto ordine che regna nella villa: c'è un'atmosfera artificiosa, finta.

Genzo si sente quasi un estraneo in casa sua mentre si aggira per le stanze linde e profumate grazie al meticoloso lavoro di Asami, la cameriere fedele che ha reso alla famiglia Wakabayashi un ventennale servizio.

Non è tornato in Giappone per una vacanza bensì per uno stop forzato eppure per Genzo questa è l'occasione per riscoprire le sue origini, per ripensare, non senza una punta di recriminazione, alla sua infanzia.

Si rivede solo in quell'enorme casa senza affetti, senza compagni che, certamente, avrebbero smussato prima il suo essere un bambino arrogante. Eppure era stato un bambino solo, disgraziato ma fortunato.

Suo padre gli aveva ripetuto tante di quelle volte la sua condizione di privilegiato
fino ad inculcare nel suo unico figlio ed erede la convinzione di valere più degli altri di poter superare ogni limite, di essere il numero uno in tutti i sensi e non solo perché il numero dell'inizio di tutte le cose fosse quello stampato sulla sua maglietta da portiere.

Super Great Goal Keeper si era fatto soprannominare per sancire la sua imbattibilità in campo come nella vita.

E un bambino che deve sperimentare presto l'assenza dei genitori, troppo indaffarati per occuparsi di lui, un quindicenne che deve crescere in fretta in un paese così lontano da casa, così teutonico e rigoroso come la Germania che l'aveva adottato come figlio suo, deve avere necessariamente qualcosa di super.

Genzo ricorda di aver disimparato presto a piagnucolare e a recriminare.

"L'ambizione ha gli occhi di bronzo che mai il sentimento ha inumiditi."

E il ragazzino arrogante, taciturno e introverso aveva capito che non gli sarebbero stati fatti sconti, che se voleva appagare la sua sfrenata brama di successo doveva affrontare dei sacrifici e non vivere all'ombra di nessuno.

Così a quindici anni aveva preso quell'aereo per l'Europa, lontano da un padre e da una madre che non aveva mai conosciuto veramente.

In un'ala della casa c'è ancora la palestra nelle quali ha speso ore di duro ed intenso allenamento sotto la supervisione di Tatsuo Mikami, l'ex portiere e l'intransigente allenatore che ha temprato il più forte estremo difensore nipponico forse di tutti i tempi. Un regalo di suo padre, quello più azzeccato.

Genzo vaga ancora un po' in preda ai ricordi, poi va in cucina: gli è venuta fame e ha voglia di spiluccare qualcosa. Apre il frigo e una fitta dolorosa gli attraversa il polso: maledetto Brian Krayfort con i suoi tiri potenti che lo hanno infortunato durante l'amichevole tra Germania e Olanda!

In preda ad un moto di collera scaraventa il piatto di portata con la frutta in terra. Allora si accorge di non essere da solo; due eleganti mocassini compaiono nel suo campo visivo.

Akihiko Wakabayashi, influente e prestigioso magnate, è chino sul pavimento a raccogliere la frutta che suo figlio ha appena rovesciato.

"Non ti ho sentito arrivare!"

Dice Genzo freddamente senza imbarazzarsi per il suo momento di frustrazione. Probabilmente suo padre non ci avrà nemmeno fatto caso.

"Me ne sono accorto! Allora cos'è questa storia che giochi con la maglia dei Crucchi?"

Akihiko è un uomo fiero delle tradizioni e dallo spiccato senso patriottico e, un po' come tutti i giapponesi, considera una sorta di tradimento il fatto che suo figlio abbia indossato la maglia di un'altra nazionale e non si risparmia quella frecciatina, quel luogo comune, per definire i tedeschi.

Genzo si stringe nelle spalle, disinteressato alla polemica.

"Era un amichevole e c'ho anche rimesso! Comunque sarò convocato dalla Nippon Youth per giocare il campionato del mondo giovanile!"

Akihiko fa scivolare sul pavimento uno sgabello, si siede difronte a Genzo e lo fissa negli occhi: è molto invecchiato e sembra aver perso un po' di quella luce sprezzante che lo portava ad essere sempre un vincente.

"Non voglio che tu faccia carriera così! Non comportandoti da mercenario!"

Fa strano sentire quell'ammonimento dall'uomo che un tempo era disposto a vendere l'anima al diavolo per il successo. Eppure per la prima volta Akihiko parla sinceramente, con il cuore, da padre.

Genzo non risponde. Akihiko prende un coltellino, una mela e inizia a sbucciare tagliando poi il frutto in quattro spicchi.

"So che la Germania è la tua seconda patria..."

Cerca di ammorbidirsi, di giustificare il rimprovero di poco prima.

"Ho giocato con loro solo perché era una situazione particolare e poi era un amichevole. Sono un giapponese io!"

Si difende Genzo, calcando orgoglioso sull'ultima definizione.

Akihiko dispone tre spicchi di mela in un piattino e lo avvicina verso il figlio, porgendogli il restante con le sue mani. Genzo è spiazzato da una simile attenzione, un riguardo che suo pare non ha avuto per lui nemmeno quando era bambino.

Allunga la mano incerto e impacciato nel ringraziare. La fasciatura si allenta dal polso e l'ennesimo movimento gli provoca una smorfia di dolore.

"Piano, piano! Sempre impaziente tu...Fammi dare una stretta a queste fasce!"

E senza aspettare una replica da Genzo, si avvicina e inizia a ispezionare i polsi del figlio comportandosi come un dottore navigato. Comportandosi, per la prima volta, da padre.

*** ***

Le situazioni citate nel testo fanno riferimento al Word Youth.

La frase sull'ambizione è di Friedrich Schiller.

Ringrazio quanti continuano a seguire e a commentare questa raccolta. Chiedo scusa e vi ringrazio con la pazienza che portate poiché i miei aggiornamenti, purtroppo, procedono a passo di lumaca.

Alla prossima :)

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Capitolo 8
*** Consolazione. Stephen- Ingrid Levin ***


Distruzione.

È rimasta l'unica parola nel vocabolario e nell'animo di Stephen.

Il nulla.

Senza Karin, senza i suoi occhi caldi e il suo sorriso gentile, il mondo, il suo mondo, non ha più motivo di esistere.

Si siede sulla panchina del porto, che affaccia sul mar Baltico, nel fresco pomeriggio della primavera scandinava e lascia che il Baltico si porti via i suoi progetti, i ricordi, i dolori e qualsiasi altra emozione.

Il matrimonio, il trasferimento insieme in Germania, la Bundesliga...niente lo interessa più. Senza Karin non ha più nemmeno la forza di inseguire i suoi sogni nel mondo del calcio: in fondo è stata colpa sua, per una sua maledetta partita se lei non c'è più.

Volge i suoi occhi color cobalto, occhi glaciali, verso uno spazio vuoto della piazza di Stoccolma: fino a poco tempo fa lì sorgeva una statua.

La statua in bronzo di una ragazza con un'anfora in mano e lo sguardo volto verso il mare. Sembrava una ninfa e tutti, svedesi e non solo, sostavano innanzi a quel simbolo di prosperità e di fortuna per chiedergli favori.

Anche Karin quel maledetto pomeriggio si era fermata a pregare quella malefica sirena. . A pregare per lui, per i suoi sogni.

Se solo non avessero collocato quella statua in una strada così trafficata...

Se solo lui non avesse giocato quel giorno...

Se solo avesse chiesto a Karin di non andare allo stadio...

Stephen serra forte i pugni, vinto dalla rabbia. È stato lui a distruggere la statua portatrice di sventure e fautrice della sua infelicità.

Ha distrutto quell'ammasso di bronzo, ha quasi spezzato le braccia del portiere tedesco Muller...Ormai sembra essersi trasformato in una forza demolitrice senza più altri sentimenti se non la vendetta.

Cyborg. Lo chiamano.

Giocherà il Worth Youth e poi lascerà anche il mondo del calcio. I sensi di colpa sono troppi perché possa essere ancora felice anche solo con un pallone tra i piedi.

Si accorge quasi all'ultimo che qualcuno ha occupato il posto accanto al suo sulla panchina: troppo tardi per cercare di scacciare l'intruso.

La donna dai morbidi capelli biondi raccolti in uno chignon, ha i suoi identici occhi color del mare. Son però occhi lieti, ridenti e comprensivi, così diversi da quelli tristi, inquieti e tormentati di Stephen.

"Per quanto vuoi continuare a punirti? A farti del male?"

La domanda di sua madre lo irrita. Vuole solo che lo lascino in pace, libero di espiare tutta la sua pena.

"Per tutto il tempo che sarà necessario! Forse anche per sempre!"

Replica acido.

Ingrid è una psicologa: l'ha sentita più volte parlare delle cinque fasi del lutto e lui crede di essere rimasto fossilizzato alla seconda fase.

Rabbia. Una rabbia che lo tormenterà per sempre.

"Credi che lei ne sarebbe felice?"

Una domanda a tradimento. Un accenno che fa provare una fitta dolorosa al cuore di Stephen.

Fissa l'orizzonte davanti a loro.

"Ormai non ha più importanza quello che lei pensava!"

Evidenzia in tono accusatorio. Ingrid sospira e poi tende una mano a cercare quella del figlio: fino ad oggi Stephen ha rifiutato ogni forma di consolazione, ogni tentativo di farsi avvicinare.

Stranamente non oppone resistenza e si lascia tenere per mano dalla mamma come quando era bambino.

"Ti darei anche la luna in questo momento pur di vederti sorridere di nuovo. Ma non posso!"

Ammette la donna sommessamente. Qualcosa nel cuore di Stephen muta, la barriera dietro la quale ha censurato tutte le sue emozioni si sfalda e un misto di sensazioni contrastanti straripa.

"Ridammi Karin! Ridammi la mia amata Karin!"

Non lo dice in tono di disapprovazione ma con il tono di disfatta di chi sa di star chiedendo qualcosa di irrealizzabile.

I singhiozzi iniziano a scuoterne il corpo e le lacrime scendono copiose. Non ha mai pianto per Karin, nemmeno il giorno del funerale.

"Oh bambino mio! La tua Karin è qui: è qui e non ti lascerà mai! Portala sempre con te!"

Gli mette una mano sul cuore e Stephen sente, all'improvviso, quel vuoto meno insopportabile.

Forse c'è ancora tempo per cambiare. Per provare ad essere felice di nuovo.

Il cyborg ha ritrovato le sue emozioni.

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Capitolo 9
*** Orgoglio. Karl/Rudi Schneider ***


Non si stancano di applaudire i tifosi teutonici: quasi che stessero festeggiando un trionfo.

Karl deve appoggiarsi alla spessa parete dello spogliatoio per impedire che le sue mani tremino di rabbia. Che sfiorino il braccio a strappare quella fascia di capitano che, in questo momento, si sente poco degno di indossare o che salgano ancora più su a tappargli le orecchie.

Lui quegli applausi che arrivano, scroscianti e implacabili, fin negli spogliatoi non li vuole proprio.

Sono l'onore delle armi che si tributa ai vinti.

Perché Karl, l'orgoglioso e inflessibile kaiser, ha appena perso la partita più importante della sua carriera.

Una partita bellissima, combattuta, epica. E lui ha giocato divinamente incantando tutti...

Solo un maledettissimo secondo, una disattenzione che ha rovinato la partita perfetta. Un maledettissimo secondo che lo condanna ad essere secondo. Lui e la sua Germania.

Un gradino più in basso rispetto ai giapponesi. Sì perché sono stati Genzo, Tsubasa e compagni a trionfare.

Con quanto merito è, in questo momento, una questione di poco conto.

La mente di Karl è rimasta a quel secondo. A quell'azione di gioco che ha cambiato le sorti della partita...Lo spartiacque tra la gloria e il fallimento.

Lo stesso insuccesso che ha segnato la carriera da allenatore di suo padre, che ha rovinato la loro famiglia.

Era anche per questo che Karl voleva vincere a tutti i costi oggi. Per far riappacificare mamma e papà, per convincerli a strappare le carte del divorzio e a ricominciare insieme.

E, finalmente, Hilde e Rudi avevano preso un volo per Parigi e sfruttato i biglietti che Karl aveva loro inviato. È ancora più umiliante pensare che papà ha assistito alla sua disfatta, dalla tribuna, rimuginando magari sull'assonanza della loro débâcle.

Il Kaiser non ce la fa più a nascondere la delusione dietro il suo imperiale cinismo: si è complimentato con gli avversari stampandosi un sorriso convincente sul volto, ha addirittura fatto una battuta a Genzo, ha consolato i compagni con il piglio di vero leader...Ma, ora, è troppo anche per lui.

Sicuro di essere rimasto da solo, si lascia cadere ginocchioni in mezzo alla sala e prende a singhiozzare come un bambino, la maschera di fair play ormai lacera.

"Karl che stai facendo?"

La voce lo coglie di sorpresa e ha quasi timore di voltarsi, di scoprirsi così vulnerabile, di leggere in quegli occhi azzurri, identici ai suoi, delusione e indegnità.

Rudi Schneider fa, convinto, quei due passi che lo separano dal figlio e gli tende la mano.

"Karl Heinz Schneider alzati immediatamente!"

Il suo tono è talmente autoritario che Karl obbedisce quasi per inerzia. I due si studiano per qualche secondo, gli occhi del ragazzo che ancora pizzicano per le lacrime che, ostinatamente, ricaccia indietro.

"Mi dispiace, papà. Ho perso!"

Articola Karl, il capo chino quasi che se ne vergognasse.

"E allora?"

Il ragazzo ingoia a vuoto e poi, finalmente, trova il coraggio di levare gli occhi su quel volto da uomo stranamente rilassato.

"Ho perso l'occasione più importante della mia vita. Volevo vincere per me, per te, per la mamma e per Marie. Volevo vincere per la nostra famiglia, perché fossimo ancora famiglia. Ho combinato un casino e basta!"

Karl vince ogni reticenza e, finalmente, riesce a confessare i desideri, gli sconforti e le amarezze che si tiene dentro da anni.

"Che sciocco che sono stato a pretendere di poter cambiare il mondo, il mio mondo, con una stupida partita!"

Sbotta infine voltandosi per raggiungere l'angolino di spogliatoio che custodisce le sue cose. Rudi lo ferma, mettendogli una mano sulla spalla.

"Gli Schneider non si piangono mai addosso. Gli Schneider sanno sempre rialzarsi, anche dopo la batosta peggiore."

"Papà!"

"Non importa quello che ha deciso il campo poco fa. Io ti ho visto giocare, lottare, spenderti senza sosta per novanta minuti Karl: hai dato tutto. Sono orgoglioso di te, ragazzo mio!"

Le lacrime fanno di nuovo capolino sulle palpebre umide di Karl. Questa volta, però, sono quasi volute, attese.

Da quando aveva sette anni Karl ha sempre lavorato duramente per sentirsi, un giorno, dire queste parole.

"Noi Schneider siamo anche degli antipatici orgogliosi!"

Sorride Karl mettendo la sua mano su quella del padre.

"Nessuno è perfetto. Ma è anche per il nostro esagerato orgoglio se riusciamo ad ottenere ciò che più vogliamo..."

La frase sibillina porta il ragazzo a guardarlo interrogativo. In quel momento una bimbetta corre, allegra, a saltellare intorno al calciatore.

"Bravo Karl. Siamo tutti fieri di te, fratellone!"

La piccola Marie lo tira per la maglietta sudaticcia e slabbrata per farlo chinare alla sua altezza e farsi spupazzare. Hilde Schneider rimprovera la bimba, poco convinta, fa una carezza a Karl e poi la sua mano si intreccia in quella di Rudi.

"Non tutte le partite si vincono sul campo da calcio, Karl!"

E quel gol all'ultimo secondo viene spazzato via dalla calorosa sicurezza di una famiglia ritrovata.

******* ***********

Grazie infinite a chi non ha perso la pazienza di aspettare, di continuare a leggere e soprattutto di recensire^^

Grazie davvero!

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Capitolo 10
*** Perdono. Francisco/ Ines Santana ***


Ha riso quando ha segnato il primo gol e ha pianto a fine partita. Ha ancora un cuore che batte, che si commuove, che si intristisce, che vibra di emozioni.

Non è bastato il signor Bale ad incattivirlo, non sono bastate le lunghe spranghe di ferro della gabbia nella quale lo teneva rinchiuso, come un animale, a fargli perdere l'umanità.

Francisco non è più un cyborg, bravo, freddo e spietato con il pallone tra i piedi. Francisco è ancora un essere umano.

Così credeva. Ora che se la ritrova d'innanzi, negli spogliatoi del Maracanà, minuta, curvata su sé stessa, incapace di alzare gli occhi a guardarlo, un brivido di disprezzo e di livore gli fa tremare la mano.

Francisco cerca di controllare il tremolio aspettando che sia Ines a fare il primo passo. Che sia sua madre a parlare.

Quella mamma che non ha mai conosciuto. Quella mamma che lo ha abbandonato ancora in fasce.

Quella mamma che non l'ha voluto. O non ha potuto tenerlo con sé.

La sua vita fatta di vessazioni, di umiliazioni e di preghiere non esaudite gli scorre davanti agli occhi come un flashback, come il film che racconta la vita di qualcun altro: le derisioni dei ragazzini più grandi, l'incidente mortale dei suoi nonni, i maltrattamenti dei signor Bala.

Sarebbe facile voltare le spalle, andarsene. Additare quella responsabile come responsabile della sua travagliata esistenza e, in una sorta di ritorsione, lasciarla lì senza una parola.

Francisco non lo fa. Resta inchiodato con i piedi sul medesimo punto, con i polpacci contro le panchine, teso e dritto. Ines vince la codardia, i sensi di colpa, le paure e finalmente si concede di osservare suo figlio: la carnagione olivastra, il fisico asciutto ed allenato e gli occhi duri e sprezzanti di chi è stato duramente segnato dalla vita.

Allunga la mano e le dita ghiacciate carezzano, esitanti, la guancia di Francisco. Lui non arretra.

"Perdonami!"

Sussurra Ines con un filo di voce. Sapendo di non meritarselo, sapendo di chiedere l'impossibile.

Il ragazzo scosta la mano della donna, e l'angoscia di un rifiuto paralizza il cuore di Ines, poi la tiene saldamente nella sua e la guida contro il suo petto. Su quel cuore che batte.

"Voglio conoscerti mamma. Voglio imparare a perdonarti!"

Dice con voce ferma, la voce di un uomo.

È un primo, importantissimo, vitale passo. E, per il momento, basta ad entrambi.

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