Il Giardino Delle Rose

di chocobanana_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ♣ Prologo ♣ ***
Capitolo 2: *** ♣ Capitolo 1 ♣ Qualcuno di cui Fidarsi. ***
Capitolo 3: *** ♣ Capitolo 2 ♣ Perché sono tutti gelosi delle proprie rose? ***



Capitolo 1
*** ♣ Prologo ♣ ***


♣ Il Giardino Delle Rose

 

 Succede che qualcuno senta il bisogno di scappare da tutto, dal male che la vita gli infligge, e allora si cerca rifugio in qualcosa. Può essere un amore, un’amicizia, una casa, qualsiasi cosa che porti conforto. 
l Poi c’è chi chiede alle pagine di un libro di divenire la propria realtà e non essere più fantasia.

 

♣ Prologo ♣

 
 
Mosse piano le dita, avvertendo la rugiada dell’erba inumidirgliele, sbatté lentamente le palpebre, trovandosi accecato da luminosi raggi di sole. Sentiva tutto il corpo indolenzito e dolorante, come se avesse preso una brutta botta.
Si alzò adagio, provando a non  fare movimenti bruschi. 
La testa gli faceva male, come se stesse per scoppiare da un momento all’altro.
Si chiese in quale bizzarro modo fosse arrivato in mezzo a quel prato, anzi, giardino. C’erano alte siepi verde scuro disposte come fossero mura, in mezzo a due di essere compariva un piccolo cancelletto marroncino, di legno.
Il ragazzo dai capelli castani osservò tutto quello che c’era intorno a sé, notò una grande parete piena di rose dai vari colori; le spine erano tutte ben visibili sui fusti rampicanti di quei fiori.
L’edera ricopriva del tutto quella fiancata, dando un tocco inquietante a quel luogo sconosciuto.  Al centro di quel piccolo paradiso si trovava un tavolino bianco, piccolo e circolare. Feliciano strabuzzò gli occhi, chiedendosi se quella figura che vedeva fosse vera, o solo frutto della sua immaginazione.
Un ragazzo biondo era seduto su un’elegante sedia, stringeva tra le mani una tazza di porcellana, dalla quale usciva del fumo.
Il castano poteva percepire l’odore di cannella che impregnava l’aria. L’individuo aveva le spalle coperte da un lungo mantello blu, che sfiorava il terreno.
Aveva un ché di nobile, importante. Sembrava tranquillo, ignaro che ci fosse uno sconosciuto nella propria dimora.
Poi voltò il viso, sul quale vi era un sorriso che lo fece rabbrividire. L’uomo aveva due iridi smeraldine, sopra le quali spiccavano le sopracciglia, scure e doppie.
«Benvenuto.» Mormorò il biondo, appoggiando la tazzina sulla superficie del tavolo e alzandosi.
Aveva un accento inglese che rendeva il tutto più raffinato. Fece qualche passo verso di lui, che indietreggio impaurito.
Feliciano aveva una strana sensazione, non positiva. C’era qualcosa in quell’uomo che lo spaventava. Forse la luce che aveva negli occhi, forse il sorriso sghembo, che, probabilmente, doveva essere semplicemente gentile –almeno per finta-.
«Che posto è questo?» Chiese il più piccolo, squadrando il biondo. «Non mi ricordo di esserci mai stato.» Aggiunse confuso.
«Penso che questa sia la prima volta che metti piede qui anzi, so che è così
Feliciano si soffermò sulle bellissime rose, quelle che aveva già visto qualche minuto prima; c’erano colori che non aveva mai visto su un fiore, come il nero, il blu, il verde.
«Sono belle, vero?» domandò l’altro, voltandosi ad osservarle, compiaciuto. «Peccato che io non abbia molto tempo per curarle, mi servirebbe proprio qualcuno che se ne prendesse cura.» Disse, calmo.
Il castano continuava a rimanere in silenzio, affascinato dalla voce sensuale che aveva la persona di fronte a lui.
«Non me la sento di abbandonare delle vite innocenti.»
Be’, il suo ragionamento non faceva una piega, comunque quei fiori erano essere viventi, e non era giusto abbandonarle come fossero poco importanti.
Oh, se solo Feliciano avesse capito il vero significato di quelle parole.
«Come faccio a tornare da mio fratello?» Indugiò l’italiano, dopo un po’.
L’altro si fece scappare un risolino. «Ti aiuterò io.» Mormorò cordiale. «Però, ti piacerebbe rimanere del tempo qui con me, a prenderti cura di queste bellissime rose? Te ne sarei grato e anche loro.»
Il ragazzino guardò dubbioso gli occhi verdi dello sconosciuto, il cuore gli batteva forte, una voce nella sua testa gli diceva di scappare via. Ma dove? Sembrava non esserci via d’uscita, se non quel piccolo cancelletto, dietro il quale, dopo qualche metro di sentiero ghiaioso, si ergeva un grandissimo castello dalle pareti azzurre.
«Mi…sta aspettando…» Rispose Feliciano, conoscendo l’apprensione animava il fratello maggiore quando si trattava di lui; era davvero molto protettivo, anche se burbero e, spesso, antipatico con molte persone.
Sicuramente lo stava cercando, chiamando, stava strepitando per farlo uscire da un qualsiasi e assurdo nascondiglio.
Ma lui non poteva sentirlo, perché non era a casa, non stava dormendo chissà dove.
«Arthur Kirkland.» Si presentò l’inglese, tendendogli una mano.
Aveva la pelle nivea e delle dita magre e affusolate. Stava ferma a mezz’aria, in attesa di una stretta da parte dell’italiano.
Feliciano allungò piano la mano, intimorito.
Farsi aiutare sarebbe stata la situazione giusta, sì, lo sarebbe stata. Anche se il suo cuore continuava a strepitare, ad urlare di correre lontano. Feliciano sentì le proprie dita sfiorare il palmo di Arthur, si bloccò a pochi centimetri.
«Non ti conviene stringere quella mano, a meno che tu non voglia trovarti a discutere con un falso nobile, o addirittura a diventare un suo schiavetto.» Nel giardino echeggiò una voce profonda, calda, quasi rassicurante.
Feliciano ritrasse confuso la mano, fidandosi di quelle parole che venivano da un punto ignoto di quell’oasi verde.
Sul volto di Arthur si disegnò un’espressione infastidita, girò lo sguardo verso il tavolo dove prima stava prendendo il suo amato tè. Un uomo dai capelli biondi, lunghi fino alle spalle, e il pizzetto, aveva vicino le labbra la tazzina, che Arthur aveva lasciato mezza piena, e sorseggiava calmo la bevanda rimasta.
«Non è male.» Commentò, poi sorrise ad entrambi.
«Cosa ci fai seduto sul mio tavolo, nel mio giardino poi?!» Esclamò Arthur.
Se prima sembrava la persona più posata ed educata del mondo, adesso pareva parecchio arrabbiato. «Ti ho detto che non sei il benvenuto qui.»
«Tu smettila di abbindolare gli stranieri con le tue chiacchiere.» Replicò l’altro, conservando la propria pacatezza.
Si mise in piedi, poi si avvicinò pian piano agli altri due interlocutori.
«Sei nel mio territorio.» Sbraitò l’inglese, mettendosi una mano vicino al fianco, pronto ad impugnare una lama.
«Me ne andrò non appena avrò prelevato l’ospite.» L’uomo lanciò un’occhiata a Feliciano, che continuava a non capire nulla.
Il castano riuscì ad intravedere due profonde iridi blu che, per qualche bizzarro e incognito motivo, lo fecero sentire più tranquillo.
Quello con i capelli lunghi non sembrava andare particolarmente a genio ad Arthur, anzi, lo squadrava con odio. Tutta la gentilezza di prima era svanita, lasciando spazio alla stessa luce inquietante che aveva rilevato al loro primo incrocio di sguardi.
Un qualcosa che Arthur cercava di soffocare dentro, in un posto profondo del proprio animo, sperando che non sfuggisse al proprio controllo; non amava il lato iracondo e cattivo di sé.
Ma di certo, con Françis, non poteva fingere di essere disponibile e nemmeno lo voleva. Era una maschera che avrebbe sgretolato in poche parole, pochi secondi.
Semplicemente perché si conoscevano da una vita, da quando si erano ritrovati imprigionati in quel posto, senza via d’uscita.
«Non lo porterai via, lui viene da fuori.»
«Non lo vedi? È spaventato, non avrà idea di com’è finito qui.»
Per Feliciano quelle parole continuavano ad avere sempre meno senso.
Da fuori? Portare via? Dove diavolo era finito? E chi erano quelle persone? Sentì le lacrime pizzicare per uscire. Avvertiva il bisogno di abbracciare suo fratello Lovino.
La testa continuava a dolergli, e adesso sentiva anche il petto fargli male.
Le gambe tremavano senza controllo, mentre il terreno sembrava diventare liquido sotto i suoi piedi.
Venne inghiottito da quel vuoto che odiava tanto e di cui aveva incredibilmente paura.
 

Quello era un mondo che non gli apparteneva.

♣♣♣
 

.:angolo di un'autrice nana (?):.

Buondì (?)
Questa fic mi è venuta in mente l'altra notte mentre disegnavo una cosa molto angst, e mi sono ripromessa di scriverla c:
Poi alla fine ho anche deciso di pubblicarla, e ringrazio la mia amata valechan che mi ha fatto da beta E finalmente ho imparato a fare le virgolette basse con il nuovo pc -ho passato tutto il tempo a cambiare quelle alte una volta scoperto come fare (?).
Per le altre pair presenti in questa fic... penso che appena posterò il primo capitolo le scriverò (?) ma non so :c dipende dalla mia testa (?)  ora vi saluto c:
chocobanana_ o camy 

 

 

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Capitolo 2
*** ♣ Capitolo 1 ♣ Qualcuno di cui Fidarsi. ***


Capitolo 1 ♣

 Qualcuno di cui Fidarsi

 
 
Aveva appoggiato una mano sul vetro, la pelle iniziava a riprendere un colore roseo, e lui cominciava a sentirsi molto meglio. Quando aveva spalancato le palpebre si era ritrovato a fissare un soffitto bianchissimo, decorato agli angoli con rilievi di gesso. Le pareti erano di marmo, lucido e immacolato. Il tempo, in quel luogo, sembrava essersi fermato, ma a contraddire questa ipotesi c’era il ticchettio di alcune lancette che scandivano il passare dei secondi, dei minuti, delle ore.
Il ragazzino non era riuscito ad intravedere l’orologio, non comprendeva da dove provenisse quell’innocuo picchiettio.
Quando si era messo a sedere, tra le lenzuola color panna, profumate e morbide, si era guardato intorno. Aveva sperato di trovarsi davanti il suo amato salotto dalle pareti gialle -dipinte proprio da lui con quel colore acceso e solare-, il suo divano vecchio e dai colori scambiati, la finestra che affacciava su di un piccolo quanto affollato parco. Voleva di nuovo udire le urla felici dei bambini, quelle preoccupate dei genitori, la voce annoiata di Lovino. Voleva percepire l’odore della pasta che pian piano invadeva l’aria, mentre cucinava.
Il tempo passava e lui capiva sempre meno.
Ancora cercava nella propria mente il ricordo di come fosse finito in quello strano ed inquietante posto. Ogni passo su quel pavimento di cristallo lo turbava sempre di più. Un’agitazione che cresceva ogni volta che poggiava i piedi nudi su quella fredda pavimentazione. Gli occhi nocciola di Feliciano guardavano l’orizzonte, la fioca luce del sole che andava spegnendosi poco a poco, mentre si nascondeva dietro ad una tavola blu, vastissima e calma.
Era così simile al suo amato mare ma, ormai, si era convinto di non essere più dov’era prima. Gli tuonavano nella mente parole udite chissà quante ore prima.
Voleva scoprire cos’era quel “fuori” di cui avevano parlato i due uomini nel giardino, per quale motivo c’entrasse nella discussione che avevano avuto.
Gli avrebbe fatto paura il buio che sarebbe calato tra qualche minuto? Forse sì, in fondo era da solo, senza nessuno da stringere, senza nessuna spalla su cui piangere.
C’era solo un vetro su cui appoggiare le dita, da cui poteva vedere cosa c’era nei dintorni di quel castello.
Non aveva neanche provato ad aprire la porta bianca di quella camera lussuosa e ampia, immaginava che, probabilmente, fosse chiusa a chiave. Come se qualcuno ci tenesse ad averlo lì, imprigionato tra quelle mura, con l’intenzione di usarlo quando gli sarebbe servito. Sarebbe riuscito a salvarsi? Feliciano aveva timore di incrociare ancora quelle iridi smeraldo che tanto lo avevano affascinato e spaventato, di incontrare nuovamente quella figura snella ed elegante che gli aveva teso la mano.
La serratura della porta scattò improvvisamente, destando Feliciano dai suoi pensieri. Si voltò subito, mentre l’infisso color latte veniva spalancato con delicatezza. Fecero capolino una testa biondina e degli occhi violetti, coperti da un paio di occhiali da vista. Il ragazzino che spuntò da dietro l’anta aveva un fisico alto e asciutto. Guardava il pavimento, imbarazzato, mentre teneva un vassoio nero tra le mani. Si avvicinò lentamente al letto a baldacchino, poggiando su un tavolino vicino quella che doveva essere la cena.
Un recluso, ecco cosa gli sembrava di essere. Eppure Feliciano non aveva mia considerato di poter meritare la prigione. Perché il soggiorno in quel luogo gli dava quell’impressione.
Feliciano cercava sempre di essere ottimista, di vedere il lato positivo delle cose. Ma, in quel momento, non ci riusciva, non percepiva nulla di buono, solo sensazioni negative.
L’altro ragazzo non disse nulla, gli lanciò una veloce occhiata e si diresse verso la porta, rapido.
«Come ti chiami?» Feliciano lo guardava curioso, mentre sentiva il bisogno di comunicare con qualcuno, di fare conversazione. Sembrava essere passato un secolo da quando aveva parlato normalmente con qualche persona.
«Dici a me?” Il biondino si indicò, sgranando gli occhi. Non era abituato ad essere notato, lui passava sempre inosservato. Nemmeno il suo amato orsetto color crema, spesso, lo riconosceva. A proposito, doveva cercarlo, Kumajirou non si faceva vedere da almeno venti minuti. Doveva assolutamente trovarlo, anche perché non amava stare da solo.
«Sì, dico a te.» Il castano sorrise, poi si allontanò dalla finestra per poter osservare meglio il ragazzo che aveva di fronte.
«Matthew Williams, per… per servirla!» Farfugliò, mentre il suo viso diventava color porpora. Fece un inchino impacciato.
Feliciano si sorprese a quel gesto, non c’era bisogno di tutti quei cerimoniali.
«Feliciano Vargas.» Il castano allungò la mano davanti a sé.
Matthew non sembrava affatto una persona cattiva, anzi, gli ispirava fiducia. Feliciano amava credere nella parte buona delle persone, voleva fidarsi, non essere diffidente verso tutto e tutti, come faceva Lovino.
Discutevano sempre su quell’argomento. All’italiano mancavano anche quei battibecchi che finivano con scuse silenziose e abbracci affettuosi.
Perché Feliciano era la famiglia di Lovino e viceversa. Avevano bisogno l’uno dell’altro e ne erano consapevoli entrambi.
«Posso sapere cosa ci faccio qui?» il castano sfoderò un altro sorriso.
Il biondo scosse la testa. «Mi hanno solo detto di portarle la cena, non so altro.» si affrettò a rispondere.
Matthew voleva solamente scappare da quel sorriso gentile ed innocente, da quel calore che quella figura sconosciuta emanava.
Forse era per quello che interessava tanto ad Arthur. Non era affatto convinto che una persona come quella dovesse trovarsi in un posto del genere. Si chiedeva come mai si fosse avventurato nella loro realtà.
«Mi faresti compagnia?» Quelle iridi color nocciola sembravano supplicarlo, mentre chiedevano disperatamente aiuto, o semplicemente compagnia.
Matthiew esitò, ancora chiuso nella sua timidezza e abbastanza diffidente. Feliciano si sedette sul letto, e sorrise riconoscente.
Il biondo, tutt’un tratto, si trovò convinto che quel ragazzo non avrebbe potuto fare nulla di grave, era solo un’altra vittima di quel destino che continuava a prendersi gioco di tutti.
Gli si sedette di fianco e il volto dell’altro s’illuminò ancora di più. Matthiew avrebbe cercato Kumajirou più tardi.
E chissà quanto tempo rimase ad ascoltare quella voce squillante quanto confortante.
Dopo tanto tempo passato in quell’enorme castello, Matthew provò di nuovo il benessere di avere qualcuno al proprio fianco, anche se per poche ore.
L’ultima volta che era successo aveva la mano stretta in quella di un bambino della sua stessa età, aveva gli occhi azzurri come il cielo.
 

 ♣♣♣♣

 
Lovino si svegliò di scatto, mettendosi a sedere. Aveva la fronte imperlata di sudore ed il fiatone, il cuore gli batteva all’impazzata, mentre le gote erano arrossate.
Aveva appena fatto un incubo, aveva avvertito un vuoto, a tentoni si era fatto strada nel sudicio fango che gli aveva avvolto le gambe. Aveva teso una mano verso quelle spalle che conosceva bene, così simili alle proprie. Ma suo fratello sembrava non averlo visto, aveva continuato a camminare, imperterrito.
Ma urlavano entrambi, si cercavano. Feliciano continuava a non vederlo, a farsi avanti per la sua strada. Nel momento in cui il minore era sparito all’orizzonte, Lovino aveva aperto gli occhi, ancora più turbato.
Scese dal letto, con l’intenzione di stendersi al fianco di Feliciano, per rassicurarsi senza far sapere nulla al fratello. Era sicuramente mattina. L’italiano poteva intravedere il sole che attraversava le tapparelle di legno della sua camera.
Barcollò, assonnato e inquieto, verso la porta che stava dall’altra parte del corridoio. Era socchiusa, come sempre.
Lovino appoggiò la mano sulla superficie ruvida e spinse leggermente, facendo scricchiolare un po’ il legno. Poi si bloccò.  Girò le spalle e tornò indietro.
La paura di non trovarlo avvolto nelle sue coperte gli invase la mente, lo torturò per tutte le ore successive.
Finché non suonò la sveglia. Feliciano era sempre il primo ad sentirla e a buttarsi giù dal letto. Lovino contò mentalmente dieci secondi. Chiuse gli occhi, sperando di sentire la voce del fratello proveniva dall’altra camera.
Si rese conto di avere timore perfino del
 numero dieci, quello a cui seguì un silenzio allarmante.
 

♣♣♣♣

 
Feliciano salutò per l’ultima volta Matthew, che sparì dietro la porta, scusandosi di doverla chiudere a chiave.
L’altro fece spallucce. Sarebbe scappato in un modo nell’altro. Amava la libertà, assolutamente sì. Quindi prima o poi sarebbe uscito da lì, magari non incrociando nessuno di ambiguo, anche se la vedeva una sfida parecchio difficile.
Dopo quella lunga chiacchierata, si sentiva animato da una nuova energia. Adesso doveva solo trovare un’idea che non facesse acqua da tutte le parti.
L’albero che si ergeva fuori la finestra sembrava volergli dire di scendere arrampicandosi tra i suoi numerosi rami. Feliciano provò ad aprire l’anta di vetro, il materiale rigido vibrò un po’, ma non si mosse nient’altro.  Il castano sospirò deluso.
In effetti sembrava troppo facile così, ammesso che fosse riuscito a scendere, senza farsi male e, soprattutto, senza dare nell’occhio.
Ma quel grande tronco nasceva proprio all’interno del giardino dove si era svegliato la prima volta. Probabilmente, Arthur era ancora lì. O forse no. Era solo questione di fortuna, che sembrava gli avesse voltato le spalle.
Feliciano sospirò, poi lanciò uno sguardo al vassoio con il cibo, che nel frattempo si era fatto sicuramente freddo.  Si convinse a mangiare non appena il suo stomaco cominciò a protestare, brontolando.
 La cena non era tanto male, soprattutto considerando la panna cotta piena di caramello che Feliciano continuava ad esaminare con l’acquolina in bocca.
Il cucchiaio che aveva tra le mani affondò nel dolce, portandone via una parte e sformandolo. Si portò la posata alle labbra, poi un sapore dolciastro gli inondò la bocca. Lo trovò semplicemente delizioso, ma non doveva dimenticarsi chi gliel’aveva offerto. Era ancora all’oscuro di tutto, inconsapevole di quali fossero le parti in disaccordo e cosa volessero da lui.
Avrebbe capito subito con chi schierarsi?  Era conscio di non poter risolvere nulla da solo e, tra le altre cose,  non amava fare le cose da sé. Sicuramente qualcuno sarebbe stato nel giusto… e lui l’avrebbe seguito senza indugi.
Si stese sul letto, non si sentiva per niente stanco. Solo estremamente confuso, ma era normale. Magari stava solo sognando. Ma perché non si svegliava? Continuava a ripetersi di aprire gli occhi, ma non accadeva mai, rimaneva addormentato.
Forse perché lui non stava affatto schiacciando un pisolino.
Riuscì ad udire lontani passi nel corridoio, l’ansia lo invase da capo a piedi.
Fissò il vassoio ormai vuoto, tastò il materiale duro con le dita. Non avrebbe mai immaginato, in passato, che avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. Non l’aveva mai sfiorato il pensiero di rompere qualcosa così, lanciandogli contro qualcosa. La finestra s’infranse sotto i suoi occhi, il vetro cadde al suolo. Feliciano scese di corsa dal letto, cercando di evitare i cocci. Nel momento in cui si ritrovò in piedi sul cornicione e guardò giù, un brivido gli scosse le membra, qualcosa gli disse di tornare indietro. Era piuttosto alto. Non osava pensare cosa sarebbe accaduto nel caso di caduta.
Un rumore di ossa gli rimbombò nel cervello. Il castano scosse la testa, mentre allontanava quelle macabre ipotesi. Allungò la mano verso la chioma verde che aveva a pochi centimetri.
La libertà non era poi così lontana, o almeno così credeva.
 

♣♣♣♣

 
Un ciuffo di capelli castani, arruffati, spuntò dietro ad un grosso cespuglio.
«Spiegami cosa stai facendo.» Un ragazzo dagli occhi color rubino lo guardò perplesso, incapace di intuire cosa stesse facendo l’amico.
L’altro teneva un rametto, sul quale c’erano tre o quattro foglioline giallognole, tra le dita. Se l’era portato sopra la testa, convinto di potersi mimetizzare meglio tra la vegetazione.
«Funzionerà!» esclamò, poi si coprì le labbra con le mani, consapevole di aver appena urlato.
«Idiota.» commentò il più alto, continuando a fissarlo, chiedendosi se Antonio lo facesse apposta, certe volte, ad essere così stupido.
«Gil, dovresti nasconderti anche tu.» Disse all’albino, poi sorrise.
Gilbert si mise le mani sui fianchi. «Sono troppo magnifico per andare in giro con delle foglie in testa.» commentò, fermamente convinto delle proprie parole.
Non era mai stato un tipo modesto e mai lo sarebbe stato.
«Mi ripeti cosa dobbiamo fare?» Il castano spalancò i grandi e limpidi occhi verdi.
L’altro sbuffò. «Per la decima volta, dobbiamo incontrare il nuovo esterno di turno.» spiegò, poi uno strano ghigno si fece spazio sul suo volto. Scrutava un punto preciso davanti a sé, Antonio cercò di capire cosa avesse attirato l’attenzione dell’amico.
«Che succede?» Antonio gli lanciò un’occhiata curiosa.
Gilbert indicò un ragazzino dal viso scorticato; se ne stava raggomitolato dietro il tronco di un albero. Le mani strette contro il petto, alla ricerca di un calore che non riusciva più a recuperare.
«Ehi…» Antonio lo raggiunse e si chinò vicino a lui. «Problemi?» Sorrise cortese.
Feliciano alzò gli occhi. «Non so dove sono.» Mormorò.  Sentiva i graffi sulla pelle fargli incredibilmente male. «Voglio solo andare via.»
«Ci pensiamo noi!» Quello dalla carnagione più abbronzata gli accarezzò una spalla, per rassicurarlo. «Vieni con noi.»
L’italiano sussultò, non aveva idea di cosa fare ora. Gilbert incrociò gli occhi verdi del compagno e annuì. Era proprio lui la persona che stavano cercando.
Incredibile pensare che fosse scappato da solo dal palazzo, doveva avere coraggio, allora. Anche se ora sembrava debole e spaesato.
Antonio lo aiutò, facendolo alzare. Feliciano avvertì del sangue caldo colargli sulle guance e sulle braccia, mentre persisteva il dolore che gli procuravano i lividi violacei che gli macchiavano la pelle  sporca di terra.
Scappando gli aveva risparmiato metà lavoro. Adesso dovevano solo portarlo in un posto sicuro e poi aspettare Françis.
Gilbert avrebbe voluto vedere la faccia di Arthur nel momento in cui avesse scoperto che il suo caro ostaggio non era più sotto controllo, chiuso chissà dove.
Ridacchiò e Antonio intuì subito a cosa stesse pensando. Magari si sarebbero dovuti preoccupare per Françis ma, in fondo, se l’era sempre cavata da solo e l’avrebbe fatto anche questa volta. Sicuramente aveva un piano per incontrare al più presto il loro nuovo ospite.
«Non mi farete del male, vero?» Quando Antonio provò a cingergli i fianchi per sorreggerlo, Feliciano indietreggiò intimorito.
«Certo che no! Siamo qui per aiutarti.» Il sorriso di quel bizzarro uomo non aveva nulla da nascondere, non lo spaventò, non aveva niente di cattivo. Sembrava solo voler essere creduto.
In quel momento, però, Feliciano desiderò essere diffidente come suo fratello.
«Capisco che tu non voglia fidarti…» Mormorò sempre lo stesso ragazzo. «Non dovevo portarmi Gil dietro, ha una faccia sospetta!» Esclamò.  
L’albino s’innervosì. «Non è affatto vero!» Ribatté. «La mia presenza lo intimorisce solamente perché riconosce che sono magnifico.» Aggiunse, per poi sbuffare sonoramente.
Feliciano non riuscì a trattenere un risolino. Se erano cattivi, allora erano proprio buffi. L’italiano si sentì davvero stupido: stava seguendo persone di cui non sapeva nemmeno il nome.
Ma non avrebbe avuto la forza di correre via, tanto valeva recuperare le forze.
E poi, senza dubbio, nessuno dei due ragazzi lo turbava come Arthur Kirkland. Si voltò un’ultima volta a fissare il castello che sembrava fatto di cristallo.
Riuscì ad intravedere, in lontananza, il vetro rotto di quella che era stata, per un breve periodo, la sua camera. Gli dispiaceva lasciare Matthew, ma non poteva rimanere. Suo fratello lo stava aspettando.

♣♣♣♣


.:Angolo dell'autrice:.

Giorno, dopo giorni passati a scrivere, rileggere e correggere, ecco questo primo capitolo. Diciamo che doveva essere del tutto diverso, ma ho dovuto cambiarlo per poter introdurre altri personaggi e seguire la mia ispirazione (?).
Ho preferito incentrare questo primo capitolo su Feliciano -e anche su Lovino, in effetti- e sul legame che instaura con Matthew, e l'incontro con Gilbert e Antonio. Nel prossimo capitolo sicuramente spiegerò alcune cose importanti e sarà presente Arthur , che ho tralasciato un po' in questo primo capitolo c: 
Di Lovino parlerò un po' più avanti, ma comunque è un personaggio importante.
Per le pair ho deciso di optare per le mie amate otp, anche se potrei cambiare idea, dipenderà dalle mie idee (?) e dall'ispirazione.
Ma comunque oltre la GerIta e la SpaMano, dovrebbero esserci la PruHun, la FrUk e la NiChu, ma anche l'AsaKiku e tante altre.
Be', penso di poter andare (?). 
Grazie a chi ha letto e chi leggerà <3 E se volete, mi farebbe piacere ricevere una vostra opinione :3
E un ringraziamento speciale e Roby e Alle che mi hanno aiutata a perfezionare il capitolo c: 
A presto, Chocobanana_


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Capitolo 3
*** ♣ Capitolo 2 ♣ Perché sono tutti gelosi delle proprie rose? ***


Capitolo 2
 
Perché sono tutti gelosi delle proprie rose?

 

 
Ispezionava con ira i vetri rotti che giacevano ai suoi piedi; ad ogni passo che faceva si udivano gli scricchiolii del materiale calpestato.
Si avvicinò alla finestra rotta, si sporse, esaminando la porzione di terreno che riusciva a vedere. Notò tra i cespugli un oggetto che sembrava essere rettangolare.
Era il vassoio nero su cui Matthew aveva poggiato la cena del loro ospite.
Gli occhi smeraldini di Arthur si posarono sui grandi rami dell’albero che aveva di fronte: sicuramente era sceso da lì.
Ma non poteva essere andato lontano, non da solo.
Si voltò verso la porta aperta, e si avvicinò lentamente al ragazzo poggiato al candido muro.
«Matthew.» Lo chiamò. Il biondino rabbrividì sentendo pronunciare il suo nome con quel tono tanto gentile quanto falso. «Spiegami cosa ci faceva quel vassoio ancora qui.» Sul suo volto non c’era nessun sorriso, solo l’ombra di una rabbia che cercava di contenere.
Matthew deglutì, rendendosi conto di non poter indietreggiare. Strinse il suo orsetto bianco tra le braccia, ricordandosi di tutte le volte in cui aveva provato paura nel sentirsi osservato da quegli occhi verde brillante.
In quei giorni lontani si rassicurava cercando la mano del proprio fratello, adesso avrebbe trovato solo il vuoto.
Ogni volta che si sentiva spaventato da Arthur, cercava di riportare alla mente i motivi per cui non aveva accettato la proposta di Alfred, e nemmeno quella di Françis, arrivata qualche mese dopo.
Aveva deciso di sua iniziativa di rimanere al fianco dell’inglese, perché, in fondo, non poteva non volergli bene. E per quanto si fosse inasprito, rimaneva sempre lo stesso Arthur che li aveva accolti qualche anno prima, mentre scappavano dalla città. Matthew non avrebbe mai dimenticato quella mano che si era tesa verso i suoi occhi spalancati, che aveva stretto senza pensarci un minuto.
Alfred era stato più scettico, era sempre stato più ribelle, incline ad una libertà che non era riuscito nemmeno a sfiorare, a suo avviso.
Matthew non aveva idea di cosa volesse davvero suo fratello, ma spesso sentiva la sua mancanza, e allora si accoccolava contro il muro, seduto sul letto, e gli sembrava di avere davanti agli occhi due ragazzini che, seduti sul pavimento, si divertivano a discutere e giocare.
«Io… » Quello con gli occhi violetti cercava le giuste parole da far uscire dalle proprie labbra. Non sapeva se avrebbe dovuto accennare alla lunga chiacchierata che aveva avuto con lo “straniero.”
Conosceva Arthur, ma quello che aveva davanti non era lo stesso, non sapeva come avrebbe reagito, anzi, forse lo sapeva fin troppo bene.
Le dita del più grande scivolarono su di una guancia pallida di Matthew, un tocco delicato e leggero che turbò non poco l’altro.
«Tu…?» Chiese, curioso di sapere cos’avrebbero udito le sue orecchie.
«Dovresti lasciarlo in pace, non credi?» La voce pacata di Françis risuonò nella stanza. L’uomo dai capelli biondi attraversò l’uscio della porta e lanciò un’occhiata seria ad Arthur, poi il suo sguardo si spostò su Matthew, che se ne stava rannicchiato contro la superficie bianca e liscia alle sue spalle.
«Non dovresti spaventare una delle poche persone che ancora ha la voglia di girare per questo castello.» Affermò. Gli occhi violetti di Matthew cercarono quelli blu dell’altro, come a volerlo ringraziare.
«Ancora qui?» Arthur si voltò verso di lui, lanciandogli uno sguardo ostile. «Ti avevo detto di andartene.»
Françis lo ignorò, poi notò la finestra rotta e sorrise compiaciuto. Forse non c’era stato bisogno di far arrivare Antonio e Gilbert fino al castello, che, probabilmente, avevano già incrociato il ragazzino con gli occhi nocciola.
L’inglese vide quel sorriso sghembo e irritante farsi spazio sul viso del francese, non ci ragionò molto. Arrivò subito alla conclusione che Françis ne sapesse qualcosa.
«Sei stato tu.» Disse, adesso il suo viso era a pochi centimetri da quello dell’altro.
Françis sentiva il suo respiro caldo sulla pelle. «Io? Ma se sono sempre stato qui.» si giustificò, fingendosi offeso per quell’accusa.
«Ma tu c’entri qualcosa.» Asserì, assolutamente convinto delle proprie parole.
Matthew osservava quel confronto, spostava lo sguardo dall’uno all’altro e sentì la nostalgia avvolgergli il cuore.
Li aveva sempre visti litigare, contraddirsi, discutere, ma era tutto diverso. Prima Arthur non lo guardava in quel modo, anzi, i suoi occhi s’illuminavano quando Françis si sedeva al suo fianco e gli faceva compagnia.
Quando ciò accadeva, molta più gente frequentava quella fortezza, e lo stesso Françis era il benvenuto all’interno di quelle mura.
Arthur aveva sempre avuto un caratteraccio, ma, in fondo, anche lui aveva dei sentimenti.
E non era raro intravedere un lieve rossore sulle sua guance o un accennato sorriso sulle labbra.
Ad Alfred aveva riservato spesso quell’espressione sollevata e serena.
Poi era venuto il buio. Intere nottate a vagare per i corridoi della rocca, quelle in cui Matthew e Alfred passavano a squadrare l’inglese, chiedendosi cosa avesse.
Arthur sembrava perennemente stanco, il viso pallido, violacee occhiaie sotto gli occhi. Iniziavano a vedersi sempre meno persone.
Cominciavano le urla, i finti sorrisi, le apparenti gentilezze, la ricerca di un qualcosa che il biondino dagli occhi viole ancora ignorava.
Apparvero quelle rose, quelle grandi siepi ornate con quei fiori eleganti e colorati.
Era proibito avvicinarsi a quel giardino.
Françis si vedeva sempre più di rado, e l’ultima volta che passò di lì, Alfred era già andato via. Quel mattino Matthew decise che sarebbe rimasto al fianco di Arthur.
Il francese gli aveva lanciato un’occhiata perplessa, poi aveva sorriso, intuendo i motivi del ragazzino.
Matthew sapeva il mistero delle rose, ma non aveva idea del perché l’inglese fosse cambiato tanto.
Quando l’aveva chiesto a Françis, lui era rimasto in silenzio. Aveva alzato le iridi blu verso l’orizzonte e aveva scosso la testa, come se non avesse avuto le parole necessarie a raccontare l’accaduto.
«Matthew, puoi andare.» Mormorò Arthur. «Parliamo dopo.» aggiunse.
Françis sorrise a Matthew, quest’ultimo strinse Kumakjirou e uscì di corsa, mentre il cuore gli batteva all’impazzata.
«Noi, invece, dobbiamo parlare.» Gli occhi verdi dell’inglese puntarono quelli blu dell’altro uomo, che sospirò.
«Me lo immaginavo.» Scosse la testa, consapevole che non sarebbe tornato presto da Gilbert e Antonio.
Eppure era curioso di conoscere questo nuovo “straniero”.
 
♣♣♣♣
 
Feliciano appoggiò le labbra alla ciotola azzurrina che gli era stata data. Sentì il latte caldo inumidirgli le labbra e poi invadergli la bocca, per poi scivolare lungo la gola.
Una ragazza dai lunghi capelli castani se ne stava seduta di fronte a lui, gli sorrideva intenerita. Lo aveva subito accolto in casa, senza fare domande.
Feliciano era stato scortato da Gilbert e Antonio attraverso una fitta foresta, appena usciti avevano intravisto piccole casa in lontananza.
Le abitazioni erano dipinte con colori chiari, quasi smorti. Feliciano si era sentito confortato, vedere persone che facevano compere, che portavano a giocare i propri bambini, che parlavano per le piccole vie della città lo rassicurava.
Non aveva parlato molto, per quanto lui amasse discorrere e fare amicizia.
Aveva notato che, molte volte, gli abitanti si voltavano ad osservarlo, poi mormoravano qualcosa. Ma tutti, dopo poco, tornavano alle loro commissioni.
Il castano aveva abbassato più volte lo sguardo verso il terreno brullo e ghiaioso, mentre ad ogni passo si alzava una leggera polvere.
Anche Gilbert e Antonio erano rimasti zitti, nonostante avessero litigato per tutto il sentiero che oltrepassava il bosco.
Non appena ebbe bevuto tutto, Feliciano lanciò un’occhiata alla ragazza, ricambiando il suo sorriso.
«Grazie.» Mormorò, poi si rese conto che tutti, in quella stanza, lo stavano squadrando ed esaminando.
«Come sei arrivato qui?» Chiese la ragazza, prendendo il recipiente ormai vuoto, aveva lasciato il suo posto e  aveva riposto l’oggetto nel lavandino.
«Eliza, magari dovremmo farlo riposare un po’.» Propose Antonio. «Magari puoi fare qualcosa per quei lividi e quei graffi.»
Elizaveta osservò quei piccoli tagli rossastri e quelle chiazze violacee. Prese un panno beige e lo sciacquò sotto ad un fiotto d’acqua fredda.
Poggiò il tessuto sulla guancia dell’italiano, che si morse il labbro per il dolore che gli provocò quel delicato contatto.
«Allora parleremo domani.» Acconsentì la castana. «Non appena sarà tornato anche Ludwig.»
«Dovrebbe tornare stanotte.» Disse Gilbert, serio. Quando Eliza aveva pronunciato quel nome, il ragazzo con gli occhi rossi si era irrigidito.
«Vedrai che starà benone.» Antonio si affiancò all’amico e gli diede una pacca sulla spalla.
«Sono troppo magnifico per essere preoccupato.» Ribatté Gilbert, roteando gli occhi e ridacchiando, mentre cercava di nascondere le sue preoccupazioni.
Ludwig era pur sempre suo fratello minore, era lecito stare in ansia per lui.
«Non fare lo sbruffone.» Lo rimbeccò Eliza. «Sembri solo più idiota del solito.»
Gilbert fece una smorfia e sbuffò. «Sei crudele.» Replicò.
Riusciva a respirare un’aria tranquilla, come se tutti loro stessero provando a non farlo preoccupare. Ma Feliciano sapeva benissimo che c’era qualcosa che non andava: si sentiva a disagio, avvertiva di essere “in più” in quella casa, dato che quei  ragazzi sembrava facessero parte di una sola e unica famiglia, in cui lui non c’entrava nulla.
Ancora non sapeva nulla, aveva voglia di apprendere e capire. Si lasciò accompagnare in un’accogliente cameretta dalle pareti giallognole.
«Una volta era la mia camera.»  Eliza guardava un punto indefinito della stanza, un sorriso malinconico che le adornava il volto.
Feliciano annuì e ringraziò a bassa voce. La castana, dopo averlo salutato, richiuse la porta nera alle proprie spalle.
Il ragazzo sospirò, mentre sentiva la stanchezza impadronirsi di lui.
Le palpebre gli si chiudevano da sole, e le gambe gli tremavano leggermente. I graffi gli facevano meno male.
Si stese sul lenzuolo color panna, e s’infilo sotto le coperte rosa chiaro; si vedeva che quella camera era appartenuta ad una bambina.
La carta da parati era un po’ rovinata, e sul muro c’erano varie mensole di legno, piene di libri, diari, fogli.
Poi c’era una scrivania vuota, beige. Il legno di quest’ultima era tutto imbrattato di scritte nere.
Feliciano ne lesse una in particolare.
“Secondo te perché sono tutti gelosi delle proprie rose?” A quella domanda non c’era nessuna risposta, solo un secco “Non lo so”.
L’italiano si soffermò, poi, ad osservare il soffitto.
Continuava a pensare a quegli eleganti fiori dai petali lisci e colorati, così fieri e fragili, protetti solo da piccole ma appuntite spine.
Chissà perché sembravano essere così importanti. L’avrebbe chiesto ad Eliza, sperando in un responso che non fosse silenzio, aveva bisogno di parole e chiarimenti.
 
♣♣♣♣
 
 Camminava velocemente avanti e indietro, le mani incrociate sul petto.
«Dovresti calmarti, non credi?» gli fece notare Françis, che se ne stava appoggiato al muro, sempre composto, come se le occhiate piene di rabbia di Arthur non gli facessero niente di niente.
Quell’apparente indifferenza non faceva che irritare l’inglese ancora di più.
L’uomo con gli occhi blu c’era già stato male, a suo tempo. Non era più il momento di piangersi addosso e cose simili.
Che poi, perché Arthur ce l’avesse tanto con lui non gli era mai stato del tutto chiaro, semmai, per tutto quello che era capitato, il contrario sarebbe stato giustificato.
Françis lo aveva odiato, e lo ammetteva a se stesso. C’era stato un periodo in cui, se l’avesse visto in giro, gli avrebbe puntato volentieri una spada contro.
Ormai iniziava a pensare che Arthur facesse così perché si sentiva in colpa, perché sapeva di aver fatto qualcosa di orribile; prendersi cura delle rose non significava espiare i peccati commessi, e l’inglese lo sapeva fin troppo bene.
«Come facevi a sapere che era nel mio giardino?!» L’inglese arrestò il passo, poi si voltò verso l’altro. «Spiegamelo.» Ordinò.
«Vedi di abbassare i toni.»
Arthur sbuffò, dischiuse le labbra per ribattere, ma si rese conto di non sapere cosa dire. Françis gli sorrise, serafico.
Attese qualche minuto, poi si avvicinò a quello che una volta era stato suo amico.
«Tutti percepiscono l’arrivo di uno straniero, poi c’è chi sta più attento e sa anche dove arriveranno.» Rispose, facendo spallucce.
Arthur non si era mai spiegato come Françis riuscisse a sentire più degli altri l’aura di quelli che venivano da fuori, ma supponeva che neanche lui lo sapesse con esattezza.
«Dove l’avete portato?» Chiese quello con gli occhi verdi.
«Non penso che mi convenga dirtelo.»
Sfortunatamente Arthur era in svantaggio, si era lasciato sfuggire quel ragazzo da sotto al naso, ma lui odiava perdere e quindi non sarebbe successo.
Si sarebbe rifatto presto.
«Comunque…» Françis gli poggiò una mano sulla spalla. «Da quant’è che ti serve un giardiniere?» Ridacchiò, per poi guardare negli occhi Arthur.
«Non sono affari tuoi.»
Tipica risposta di Arthur, tremendamente prevedibile. L’inglese abbassò lo sguardo sul guanto immacolato che copriva la mano dell’altro.
«Penso di potermene andare.» Mormorò Françis. «Au Revoir.» Aggiunse con un perfetto accento francese.
Un passo e si ritrovò a pochi centimetri dal proprio viso la spada argentea di Arthur.
«Non ho detto che puoi andartene.» Il biondino lo guardava con la coda negli occhi, con aria tremendamente seria. «Mettiti in mezzo e ti ammazzo
Davvero Arthur pensava di intimidirlo? Era abituato a quel genere di minacce da parte sua.
Però, nel momento in cui riuscì ad incrociare le iridi smeraldo del ragazzo, si accorse di qualcosa che non c’era le altre volte.
Spesso, mista a quell’ira inspiegabile, c’era anche una scintilla di fragilità, debolezza.
Una luce fioca che sembrava essersi spenta, perché quell’espressione terribilmente seria sembrava affermare che non si sarebbe fatto problemi ad infilargli una spada nel petto.
«Me ne ricorderò».
Arthur abbassò l’arma e rimase immobile. Sentiva i passi di Françis risuonare sul pavimento di marmo bianco, sentì tutta la propria determinazione sgretolarsi e cadergli addosso, come un macigno.
La porta si chiuse con un grande tonfo. Arthur si abbandonò su di una poltrona di pelle rosso scuro, si sentiva incredibilmente stanco e provato.
Pensava di essersi abituato a quel genere di confronti, ma il cuore continuava a soffrire troppo, come se gli importasse ancora qualcosa del suo vecchio amico.
Françis si bloccò subito fuori la porta, davanti a lui si ergevano eleganti e alte colonne candide e regali.
Nella stanza che aveva appena lasciato aveva respirato un’aria piuttosto pesante, che là fuori sembrava essere sparita completamente.
Il biondo respirò a fondo e scosse la testa. Possibile che restare in quel posto avesse cambiato così tanto le loro vite fino a stravolgerle del tutto?
Il francese sapeva benissimo cosa voleva Arthur, era quello che desideravano tutti.
Uscire da lì.
Ma chissà per quale assurdo motivo, l’inglese aveva deciso di farlo da solo, a modo suo.
Françis sentì l’impellente bisogno di uscire fuori da quell’enorme, quanto opprimente, castello.
Gli rimbombavano in testa le ultime parole che Arthur gli aveva rivolto, continuava a sentire la sua voce pronunciarle, tagliente e ferma.
Si ricordò di tutte le volte in cui gli aveva detto qualcosa di simile, sia per gioco o per scherzo, come quando erano bambini, sia per rancore, come succedeva ultimamente.
 
Arthur sgranò gli occhi mentre Françis usciva da quel piccolo nascondiglio di pietra. «Dove vai?» Chiese, timoroso di rimanere solo.
«Vado a cercare qualcosa per ripararci da questo temporale e tornare a casa.» Rispose l’altro, non accorgendosi dell’espressione preoccupata del più piccolo.
Il francese fece un passo verso l’esterno della cavità, ma venne bloccato dalla mano di Arthur, che gli aveva afferrato la maglietta.
«Sei impazzito?».
Si voltò versò il bambino, che cercò di nascondere il rossore che aveva sulle guance. «Se te ne vai… io ti ammazzo.»
Françis gli sorrise intenerito e gli accarezzò i capelli biondo paglia.
«Non ti lascerò.» Mormorò. Il piccolo inglese trattenne un singhiozzo e annuì.
 
♣♣♣♣
 
.:Angolo dell'autrice:.

Giorno c: 
Finalmente ecco il secondo capitolo di questa fic ♥♥
Come avevo detto nello scorso  capitolo, questo è prettamente incentrato su Arthur, e il suo legame con Matthew, Alfred e Françis. L'ultima parte, quella in corsivo, ovviamente è un ricordo, ed è per evidenziare il cambiamento di Arthur. Diciamo che quando sono bambini, io me l'immagino spesso insieme, anche perché alla fine Françis stava sempre in giro su (?). Quindi Arthur è affezionato a lui, soprattutto perché gli fa compagnia ceh--
Avrei voluto spiegare di più in questo capitolo, ma ho preferito spostare il momento-- Però è palese che le rose siano il punto centrale della fic--
Ho voluto anche spezzare i due momenti tra Arthur e Françis per rendere il tutto meno pesante-- 
Ringrazio Vale e Roby che mi hanno controllato il capitolo, perché gli errori ci sono anche dopo aver riletto 456789 volte-- 
Ringrazio anche Belarus per le due recensioni ♥ e mi scuso se non ho risposto alla seconda-- ;w; e poi grazie a chi ha messo la fic tra le seguite e le ricordate, e a chi ha solo letto.
Al prossimo capitolo, sperando di avervi incuriositi ancora di più. 
camy

 

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