The man who lost it all

di Sion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I: Negazione ***
Capitolo 2: *** II: Rabbia ***



Capitolo 1
*** I: Negazione ***


Titolo: The man who lost it all
Serie: Sherlock BBC
Rating: Verde.
Capitolo: 1. Negazione
WARNINGS: SPOILERS.
Pairing: JohnLock per chi volesse vederlo.
Credits: Se questo show fosse mio, probabilmente avrei pianto ancora di più. Sherlock appartiene a BBC, Mark Gatiss e Steven Moffat. Non è intesa violazione di copyright.
Note:
Okay, quindi. Sto cercando di farmi passare l’improvvisa e insaziabile voglia di JohnLock che ho negli ultimi tempi, ma sembra essere persistente, perciò cerco di sfogarla a modo mio. Il titolo è banale, ma credetemi quando dico che non mi è venuto in mente niente di meglio. È basata sulla teoria dell’elaborazione del lutto, perciò buona fortuna con la sopportazione!
Probabilmente sarà composta di cinque parti più un bonus se avrò il tempo e la voglia di scriverlo. I ‘capitoli’, inoltre, saranno abbastanza brevi. Non è un granché, ma spero possa piacere. Angst a secchiate e un po’ di lirismo.
Prima incursione – un po’ malandata – sul fandom, spero di essere all’altezza.
Enjoy!
A.



The man who lost it all





Tornare a Baker Street era stato meno complesso di quanto immaginasse. Lo avevano interrogato per ore – Sherlock Holmes era in quale modo coinvolto col rapimento? Era stato tutta una messinscena? Aveva informazioni utili per capire se quanto era stato dichiarato dalla stampa era vero? Sherlock Holmes era un impostore? - e l’unica risposta, mormorata a denti stretti, che avevano ricevuto, era stata ‘No’. No, non era stata una messinscena, no, non aveva informazioni utili, no, Sherlock non era coinvolto, no, Sherlock non era un impostore. Aveva visto con chiarezza la scintilla di follia negli occhi di Moriarty, aveva avuto prova tangibile del suo intelletto criminale, e no, Sherlock non avrebbe mai commesso omicidi così brutali solo per ottenere attenzioni. John Watson conosceva Sherlock Holmes meglio di chiunque altro, e sapeva benissimo che era un bastardo impenitente, ma non era un assassino. Non era un maledetto omicida.
Aveva aperto la porta in silenzio, e aveva evitato le domande incessanti di Mrs. Hudson col silenzio, e aveva lentamente salito le scale – gli si era stretto un po’ il cuore nel non sentire il secondo scricchiolio del settimo gradino – e si era seduto, immobile, sulla sua poltrona. Non fissava quella di Sherlock. Fissava la porta. In religioso silenzio. Perché Sherlock non poteva essere morto. Sherlock sarebbe tornato.
In qualche modo, Sherlock sarebbe tornato.

Il giorno dopo, Sherlock non varcò la soglia di Baker Street. E neanche quello dopo, o quello dopo ancora. John aspettava, impaziente, seduto in poltrona, alzandosi solo per andare al bagno. Mangiava poco, dormiva ancora meno. Ma di questo era convinto: Sherlock avrebbe varcato quella soglia, avrebbe messo su lo sguardo da sapientone che gli piegava gli occhi in un’espressione soddisfatta, perché sapeva di aver preso in giro tutti, di aver superato ogni limite anche stavolta, perché sapeva che John non aveva creduto ad una parola di quello che Anderson, Donovan, e persino Lestrade gli avevano detto. Il dubbio si insinua in chi non crede: e se c’era qualcosa in cui John Watson credeva, era Sherlock Holmes.
Mrs. Hudson, ogni giorno, bussava alla porta. Mormorava, mortificata, qualche debole scusa per entrare, e faceva capolino. Lo guardava, stringeva le labbra, e, in silenzio, usciva. Perché John Watson aspettava. Perché Sherlock Holmes non era morto. Perché, da quella porta, non sarebbe entrato nessuno.

Quando Lestrade aveva chiamato, ottantaquattro ore e sedici minuti e otto secondi dopo la caduta di Sherlock, John aveva risposto a monosillabi che non voleva andare al pub a bere una birra, che stava aspettando qualcuno. Lestrade, in qualche modo, capì. Si salutarono, e John riattaccò. Poi si alzò, andò alla finestra, e guardò di sotto, in cerca della figura allampanata di Sherlock. E non vedendolo, tornò a sedersi. Sarebbe tornato. Doveva tornare.


Sherlock, smettila di... fare tutto questo. J

Lo sai, è crudele. J

Io ti sto aspettando, Sherlock. J

Rispondimi, Sherlock. J

Ti prego. J

Ogni tanto, nei giorni seguenti, inviò diversi messaggi a Sherlock. Seduto in poltrona, scalzo, col cellulare tra le mani, e le lacrime che, pungenti, premevano per cadere. Ma se Sherlock fosse entrato da quella porta e l’avesse visto piangere... non poteva. Semplicemente, non poteva. Perciò, tratteneva in gola l’urlo che premeva per uscire, e aspettava. Stanco, provato. Ma non disposto a lasciare andare.

Quando Mycroft andò a trovarlo, per informarlo che i funerali avevano avuto luogo quel pomeriggio, e che tutti, tutti avevano notato la sua assenza, John arricciò appena il naso. Lui non avrebbe presenziato al funerale di un uomo che non era morto, tanto meno se quell’uomo era Sherlock. Mycroft lo guardò a lungo, in piedi, vicino alla poltrona di Sherlock – troppo vicino, a Sherlock non sarebbe piaciuto che Mycroft stesse tanto vicino alla sua poltrona, pensava John – e per un attimo, nei suoi occhi John lesse la compassione. Quando gli chiese di andarsene, la voce gli tremava appena.

Nell’attesa, John iniziò a leggere gli appunti di Sherlock. Erano scritti in una grafia chiara, lineare, eppure frettolosa, priva di fronzoli, inchiostro blu, carta e puro pensiero. Erano appunti incomprensibili, ma Sherlock avrebbe saputo spiegarglieli. John tentava, comunque. Se fosse tornato, e lui avesse avuto il tempo, la possibilità di dirgli che aveva letto i suoi scritti e li aveva capiti – forse in modo un po’ elementare, senza il rigore logico che Sherlock avrebbe ritenuto indispensabile – sul viso di Sherlock si sarebbe dipinta quell’espressione leggermente stupita, quasi sorpresa, che aveva quando John faceva un intervento che lui reputava intelligente. E a John, anche se non lo avrebbe mai ammesso, quell’espressione piaceva da morire.

Sette giorni dopo la caduta, Lestrade aveva fatto irruzione nell’appartamento, cercando ogni tipo di prova che potesse sostenere la tesi che Sherlock fosse un impostore. Lo fece con scarsa convinzione, John lo vedeva, perché il dubbio, in lui, era vago. Ma Donovan e Anderson furono meticolosi, rovesciarono i cassetti nella camera di Sherlock – sbagliato – portarono via tutta la sua attrezzatura chimica – era sbagliato – sequestrarono i suoi taccuini e il suo computer – tutto sbagliato – e rovistarono ovunque fosse possibile farlo. Sbagliavano in partenza. John sentiva qualcosa di simile alla rabbia – era difficile da decifrare, perché John non riusciva a sentire nulla. Tutto quello che avrebbe potuto in qualche modo compromettere Sherlock era nella sua mente, in quella rete sovraccarica di sinapsi e pensieri e intuizione, e quella mente non era a 221B Baker Street. Anche quello era sbagliato. Profondamente sbagliato.

Sarah lo chiamò la sera della perquisizione. Gli chiese se avesse voglia di parlare. John declinò. Lei si presentò alla porta pochi minuti dopo, ed entrò senza chiedere permesso. Si sedette sul pavimento, accanto a lui, e lo guardò. John abbassò gli occhi, e nei suoi non vide compassione, non vide pena. Vide qualcosa di simile alla risposta ad una richiesta disperata di aiuto, soffocata sino a diventare un sussurro. John abbassò gli occhi, e pianse. Perché era stanco, e aveva paura. Perché Sherlock Holmes era morto, e lui avrebbe aspettato per sempre.


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Capitolo 2
*** II: Rabbia ***


Titolo: The man who lost it all
Serie: Sherlock BBC
Rating: Verde.
Capitolo: 2. Rabbia
WARNINGS: SPOILERS.
Pairing: JohnLock per chi volesse vederlo.
Credits: Se questo show fosse mio, probabilmente avrei pianto ancora di più. Sherlock appartiene a BBC, Mark Gatiss e Steven Moffat. Non è intesa violazione di copyright.
Note: La voglia di JohnLock non diminuisce ma semmai aumenta, e su questa nota dolente, proseguo con la seconda parte. Mi sembra chiaro che, a questo punto, il prossimo capitolo tratterà della contrattazione, poi la depressione e infine l’accettazione. Three chapters to go!
E niente, spero vi piaccia. Enjoy your reading!
A.




The man who lost it all




La rabbia arrivò dopo nove giorni dalla morte di Sherlock Holmes. John Watson era arrabbiato, e avrebbe voluto poter distruggere qualsiasi cosa gli capitasse per le mani, perché Sherlock Holmes, il suo migliore amico, era saltato giù dal maledetto tetto del Barts, e lo aveva lasciato solo, a dover fare i conti con un affitto ridicolmente alto che non poteva pagare, una casa vuota, con delle persone a cui dover spiegare, e con un vuoto che non credeva avrebbe mai potuto colmare. L’espressione ‘cuore spezzato’ era riduttiva, perché a lui non si era spezzato solo il cuore: era come se dai polmoni fosse stata risucchiata via tutta l’aria, come se gli avessero riempito di pugni lo stomaco, come se lo avessero sparato di nuovo. E se il proiettile gli aveva quasi distrutto la spalla, Sherlock Holmes gli aveva distrutto, pezzo per pezzo, ogni cosa gli fosse cara.

La rabbia era rossa; se John Watson avesse dovuto darle un colore, sarebbe stato il rosso del sangue, lo stesso sangue che aveva visto allargarsi in una pozza sotto il cranio fratturato di Sherlock, lo stesso sangue che gli pulsava nelle vene e, maledizione, bruciava, perché avrebbe dato via tutto quello che aveva per poterlo scambiare con Sherlock.

Mycroft si ripresentò alla sua porta, stavolta accompagnato da Anthea, e gli consegnò il testamento di Sherlock Holmes. Tutto era stato lasciato a lui: la sua eredità, la sua attrezzatura chimica, che giaceva negli archivi di Scotland Yard, i suoi possedimenti. John si rifiutò di firmare i documenti e Mycroft disse che non sarebbe cambiato nulla, che se anche non avesse firmato, Sherlock non sarebbe tornato indietro, e che quei soldi gli servivano. Che Baker Street era costosa, e che Sherlock lo aveva rispettato, e avrebbe voluto che quelle cose, le sue cose, rimanessero in mani di cui poteva fidarsi. John avrebbe voluto rispondere che avrebbe potuto lasciargli anche il Tesoro d’Inghilterra, ma lui non sarebbe stato in alcun modo salvo da tutto ciò che gli aveva portato via. Invece, firmò.

Le bugie dette a fin di bene sono dette ‘bugie bianche’. White lies. John ogni tanto si chiedeva se la bugia di Sherlock (che fosse la sua morte o Moriarty) fosse di un bianco abbacinante o talmente sporca da essere rivoltante.

Che poi, a ripensarci, Sherlock forse sapeva di stare per morire, perché uno degli ultimi giorni prima dello scandalo di Reichenbach si era voltato verso di lui e l’aveva guardato come se da John dipendesse la morte del Sole, come se fosse un centro di gravità indistruttibile, e quando John se n’era accorto si era sentito morire un po’, perché un sorriso simile negli occhi di Sherlock non l’aveva mai visto, e se significava qualcosa, a lui era sembrato un canto del cigno.

Molly gli portò una torta. Era storta e non aveva un bell’aspetto, ma era buona. Un po’ come lei. Sedettero insieme in cucina e lei capì la rabbia di John. Lui glielo poteva leggere nel movimento nervoso delle mani attorno al piatto. Intuì anche le lacrime sulle sue guance, e John Watson si arrabbiò ancora di più, perché in qualche modo, quella sofferenza gli sembrava fuori luogo, lì, a Baker Street. Quando lei alzò gli occhi, smise di piangere. E gli sembrò quasi che lo stesse guardando con senso di colpa.

Il sedicesimo giorno dopo la morte di Sherlock Holmes, John Watson aveva perso quattro chili e parecchi capelli, e sembrava invecchiato di vent’anni. Greg Lestrade rimase immobile, seduto sul divano, per tutta la durata della sua visita a Baker Street. Non indossava il distintivo, e aveva le mani che tremavano. John, scalzo e con indosso la vestaglia da giorno – la vestaglia da giorno di Sherlock, che ancora odorava di sapone e pulito, e sulle maniche aveva qualche bruciatura perché, dannazione, quell’idiota la metteva per fare i suoi esperimenti in cucina-- - lo fissava. Aveva il viso perfettamente calmo, e nello stomaco un urlo trattenuto. Perché la rabbia saliva, e saliva, e saliva, e lui voleva solo rompere qualcosa, fare male nello stesso modo in cui era stato fatto del male a lui, e, dannazione, non ci sarebbe riuscito mai. Greg gli aveva portato una scartoffia da firmare. Cadevano tutte le accuse contro Sherlock Holmes.

Se avesse potuto aggiustare le cose, John Watson l’avrebbe fatto. Ma adesso avrebbe solo voluto urlare fino a perdere la voce. La notte del ventiduesimo giorno, John Watson gettò nelle fiamme gli appunti di Sherlock Holmes. Perché, tanto, a cosa servivano?

Cosa ho fatto per meritare questo? J

Sherlock, Cristo, non puoi farmi questo. J

Non puoi. J

Spero che tu sia morto sul serio, perché se non è stata la caduta ad ammazzarti, sarò io. J

Il trentesimo giorno, John Watson era davanti alla tomba di Sherlock Holmes. Era nera, lucida, linda. Lineare. John pensava che quella tomba era completamente sbagliata, perché Sherlock Holmes non era lineare, non era pulito, era un groviglio inestricabile di pensieri e frasi spezzate e cose non dette, deduzioni considerate ovvie e mancanza di affezione. Sherlock non era una persona comune e a John mancava da morire. Avrebbe voluto lanciarsi contro la lapide e distruggerla a mani nude, ma invece abbassò il capo e pianse. Ogni lacrima bruciava come lava negli occhi e sul viso.

Quando il mattino dopo si svegliò, John Watson aveva gli occhi rossi e gonfi, ma si infilò nei vestiti, raccolse la sua borsa e andò alla clinica. Sarah lo guardava, ma negli occhi non aveva compassione. John le fu eternamente grato per questo, e anche se l’aveva visto piangere, non importava. Avrebbe sopportato.

La cosa che più di tutte faceva un male del cazzo era che, dannazione, aveva speso mesi e mesi della sua vita ad amare una persona, e non era stato facile, non era stato facile per niente, perché Sherlock Holmes era un essere umano che funzionava un po’ male, e serviva John Watson, perché andasse bene. Il problema era che se John aveva aggiustato Sherlock, Sherlock lo aveva spezzato un po’, perché ora che non c’era, John non funzionava più. Non avrebbe più funzionato come prima. E John Watson se ne accorgeva dal pianto che bruciava dietro le palpebre, se ne accorgeva dal vuoto incolmabile al centro del petto, dagli incubi che tornavano, ricorrenti, sempre più vividi e sempre più terrificanti, se ne accorgeva dagli sguardi degli altri e dal proprio, che era diventato un po’ più opaco e tanto stanco, e John Watson aveva paura, una paura fottuta, perché come si fa ad avere tutta quella rabbia in corpo e non morirne?

Mycroft gli lasciò il nuovo recapito di Ella, la sua terapista, scritto in grafia elegante e squadrata su un cartoncino di buona fattura, infilato nella cassetta delle lettere. John lasciò un messaggio ad Anthea. «Non infastiditemi più. O giuro che vi faccio saltare tutti in aria». Mycroft smise di presentarsi alla porta, e quando usciva, John non vedeva più la macchina nera dai vetri oscurati parcheggiata a pochi metri dal 221B.

John vedeva rosso ed era un rosso che faceva male agli occhi perché era troppo acceso, troppo forte, gli bruciava il cuore e il petto e una persona non dovrebbe mai sentirsi così, non dovrebbe essere sempre arrabbiata, al punto da non sentire altro che il rombare sordo dell’ira, sordo a qualsiasi altra declinazione dell’umore. A volte guardava la custodia del violino di Sherlock e avrebbe voluto così tanto, così tanto sentirlo di nuovo, e no, non se la sarebbe presa perché erano le quattro di notte e avrebbe voluto dormire e sarebbe sceso giù, nel salone, l’avrebbe visto fermo contro la finestra, il capo appena inclinato di lato e il braccio che svolazzava seguendo il ritmo della melodia, intessendo note su note, a volte arrabbiate, a volte leggere, a volte ironiche, ma sempre belle. John avrebbe dato via tutto, pur di poter quietare la rabbia e sentire il suono, più lieve, delle cose buone che se n’erano andate.

La verità era che la rabbia era solo l’exploit del dolore che gli stava mangiando via lo stomaco e i polmoni, perché non capiva, John Watson non capiva, e avrebbe tanto voluto farlo, perché Sherlock Holmes l’aveva lasciato solo a combattere contro la voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi andare alle urla impigliate in gola, perché il grande consulting detective aveva fatto il banale errore di morire, perché l’unico amico che aveva, l’unica persona per cui sarebbe valsa la pena morire, l’unica persona per cui sarebbe valsa la pena vivere, era scivolata via dalle sue dita, con la stessa facilità dell’acqua, ma lasciandosi dietro il colore del sangue.

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