Agata

di elisa27_99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una festa tranquilla? ***
Capitolo 2: *** Il parco ***
Capitolo 3: *** In punizione ***
Capitolo 4: *** Una rivelazione inaspettata ***
Capitolo 5: *** Clandestinamente ***
Capitolo 6: *** Libera ***
Capitolo 7: *** Una nuova Agata ***



Capitolo 1
*** Una festa tranquilla? ***


Era piccola, invisibile. Sarebbe potuta passare per una foglia se si fosse sdraiata a terra. Era semplice, trascurabile. Avrebbe potuto non parlare per giorni, nascondersi al polo nord e nessuno si sarebbe accorto della sua mancanza.
A scuola sembrava andare tutto male. Nonostante i bei voti e i buoni amici qualcosa nella sua vita mancava. Si guardava intorno e si sentiva fuori luogo, catturata da una sensazione di smarrimento. Era come se le sue gambe potessero prendere vita e portarla in un qualche luogo lontano, chissà dove. Lottava contro questa sua irrefrenabile voglia di scappare, fuggire e ritirarsi per sempre. Più che spesso avrebbe voluto scomparire, rifugiarsi sotto il mantello dell'invisibilità di Harry Potter e dimenticarsi di tutto il resto. Oh, si, le sarebbe piaciuto entrare in uno di quei fantasy che tanto amava e leggeva, immettersi in quei mondi fantastici, fuggire tra le mille parole di qualche favola e sapere che sempre e comunque la fine arriverà, i malintesi saranno risolti e i dispiaceri si frantumeranno dietro i baci del principe azzurro o sotto il mantello di un supereroe. "e se ci fosse anche per me, il lieto fine? Se ad un bel momento comparisse un punto alla mia storia e tutto potesse filare liscio... per sempre?" pensieri come questi fluivano liberi nella sua mente nascondendo e spesso oscurando quelli tristi e quelli felici, lasciando posto al dubbio del mistero, all'angoscia della paura. Quel «per sempre» a volte riecheggiava tutta la notte nella sua testa, insinuandosi nei sogni e trasformandoli in incubi.

Aprì gli occhi dopo 7 ore e mezza di sonno tormentato. I sensi inebriati e i muscoli stirati le impedirono di scattare in piedi. Una nebbia grigio intenso sfumò nei sui occhi fino a mettere a fuoco un piccolo lampadario pendente che le sembrò potersi staccare dal soffitto e caderle addosso. Era così che si sentiva, pensò, come se i tanti piccoli vetri che lo adornavano e penzolavano sotto la lampadina le si fossero conficcati nella pelle. Le pareti verdi le fecero venire il voltastomaco e tutto sembrò rimpicciolirsi con la stanza stessa e girarle intorno in un vortice di oggetti d'arredamento di cattivo gusto, con i muri che parevano schiacciarla nel suo scomodo materasso sotto i mille piumoni.
Con grande sforzo si portò una mano alla testa e si massaggiò la fronte, corrugando e distendendo profonde rughe. La sua mente sembrava ricoperta di uno strato di ghiaccio ed una morsa di gelido freddo le ricopriva i pensieri. Per non parlare della memoria che sembrava non essere mai esistita ed ogni tentativo di riferimento a momenti passati sembrava fallire. Arricciò il naso due o tre volte. Fuoco. Odore di bruciato.
«Oh!» dal bagno uscì un sussulto «la pancetta!»
«Terryyyyyy, cos'è questo odore?»
«Tutto a posto maaaaaamma!»
Sembravano parlarsi da due capi opposti del mondo, invadendo ogni stanza della casa con le loro grida. Agata avrebbe voluto gridare loro di stare zitte, ma anche la sua voce sembrava essere scomparsa. Piano piano si tirò in piedi, desiderando di avere uno di quei bastoni del nonno che la supportasse. Sentì i muscoli delle gambe chiedere pietà quando fece un passo, i muscoli che si stiravano in una spinta di dolore. I piedi ancora addormentati diedero al suo portamento un aria da andicappata mentre attraversava le stanze della villetta tenendo le mani e a volte la testa appoggiate al muro. Passate le scale e dopo un viaggio che sembrò infinito arrivò finalmente nel soggiorno. Seduta al tavolo apparecchiato con tazze, cucchiaini, teiere e biscotti c'era sua sorella Terry, mentre sua madre Annie trafficava con stoviglie e spugne nel cucinotto.
«Ah. Eccoti finalmente» annunciò quasi scocciata Annie vedendola arrivare, tutta stordita.
«Che ore sono?» balbettò Agata passandosi una mano nei capelli arruffati.
«Le 11 e 40»
Agata cercò di elaborare l'informazione. Le ci volle un po', per comprendere che era tardi. «E voi da quanto siete sveglie?»
«Abbastanza da aver già fatto colazione, un po' di spesa e portato fuori la spazzatura», rispose Annie. Fece una pausa, lasciò nel lavello le pentole e si diresse verso Agata con uno sguardo di rimprovero. «Due sacchi pieni di tutte le mie bottiglie di vino e qualche birra di Joe vuote, più molti sacchetti di patatine e cartoni della pizza.»
Agata abbassò lo sguardo cercando di tenere a freno i vaghi lampi di ricordi della sera prima che ora cominciavano ad affiorare. Saltavano a galla e le causavano un gran mal di testa. Ad un tratto si sentì pervadere da un gran senso di colpa. «Mi dispiace» mormorò prendendo posto a tavola, sbilanciandosi nel sedersi.
«insomma si può sapere cos'è successo?» Terry alzò finalmente gli occhi dall'unghia che stava accuratamente limando.
Non aveva voglia di rispondere. Sentiva già nella sua mente i commenti e i rimproveri di entrambe. "Che idiota!", "ma sei impazzita?", "sei proprio un'irresponsabile.", "cosa credevi di fare?"... No, avrebbe mangiato, mettendo a fuoco le immagini e scegliendo accuratamente le parole, poi avrebbe parlato. «Ho molta fame.»
«Sì, sì, mangia, mangia.» disse la sorella sbattendole il cartone del latte davanti al naso. E così tornò al suo intenso lavoro di manicure.
Agata impucciò svogliatamente qualche biscotto nel latte ed infine bevve gli ultimi rimasugli di quella poltiglia, desiderando un po' di alcol da mischiarci dentro. Sprofondò la testa nelle mani cercando invano di tenere aperti gli occhi.

«Insomma?...» Terry la guardava, in attesa.
Agata sbuffò. «Avevo chiamato Berry ed Eva»
«Ma c'era anche quel ragazzo, Pete, quando sono tornata» intervenne la madre.
Pete. Si era completamente dimenticata di lui, ma face finta di averlo sempre saputo. «Un attimo». Era esausta. «Le avevo chiamate per invitarle da me, dato che non avevo passato una giornata molto tranquilla e avevo voglia di stare con le mie amiche. Ma ho scoperto che lo stesso era stato per loro. Quando ci siamo accorte di starci deprimendo a vicenda, abbiamo deciso che ci serviva una persona sana tra di noi ed Eva ha chiamato il suo amico. La situazione ci è sfuggita quando qualcuno di loro ha trovato il vino e poi abbiamo guardando un film alzando un po' il gomito. Tutto qui.» Aveva deciso di tagliare un po' di parti, per sdrammatizzare, ma in questo momento ricordava tutto. Almeno, le parti importanti.
«Mmh.» Annie non sembrava convinta.
Il campanello suonò, con due piccoli squilli che nella testa di Agata si amplificarono fino a rimbombarle nelle vene. Non riuscì a pensare per qualche secondo.
«Vado io.» disse Annie alzandosi. Con quel vestito estivo aveva un'aria davvero giovanile.
Dall'ingresso sentì una voce maschile, ma non riuscì a distinguere nessuna parola. Probabilmente se fosse stata sobria avrebbe capito tutto il discorso. Si rendeva conto solo ora di quanti sbagli aveva commesso in un'unica serata. Annie tornò in soggiorno con in mano una pila di lettere e volantini.
«Era il postino», spiegò.
«Quel tipo lì ha proprio una gran bella cotta per te mamma» ridacchiò Terry, facendola arrossire.
«Smettila Terry, è venuto dentro solo perché aveva un messaggio da Peter per te», posò le carte sul tavolo, sparpagliandole sulla tovaglia.
«Dice che vorrebbe vederti in biblioteca alle 3 e 20 e che ti ama.» Mamma sorrise.
«Non è dolcissimo?» Terry sbattè più volte le ciglia, guardando verso l'alto. Era davvero dolce, pensò Agata. Le piaceva Peter, anche se spesso trovava disgustoso vedere come amoreggiava con sua sorella. Cominciavano a formicolarle le mani quando si baciavano, come tanti piccoli pizzicotti. Lei lo chiavava 'imbarazzo', quando le chiedevano cosa non andava, vedendola salire in camera facendo gli scalini due a due. Ma lei per prima sapeva cos'era. Apriva il suo quaderno ad anelle di Dragon Ball e cominciava a scarabocchiare un'altra pagina: sul foglio a righe, prendevano vita mille parole accompagnate da diversi scarabocchi. I teschi e i cuoricini spesso si trovavano a combattere una guerra ad esclusione di colpi per impossessarsi della maggioranza sul foglio. Alla fine si sdraiava sul letto, sfinita, il corpo ancora indolenzito per la gelosia.
«Sarà meglio che tu ti metta subito a ripulire la casa, cara» disse la madre diretta verso Agata, agitando un dito nell'aria. La prese per un braccio e l'accompagnò nel salotto. Oddio. Annie sentì le braccia della secondogenita cadere e sprofondare in un mare di delusione.
«Ma mamma...»
«Niente ma. Cominciare a tirar su da terra le cartacce, signorinella.»
Agata strattonò il braccio e si divincolò dalla sua presa. Si guardò intorno ruotando su se stessa. Oddio. Si avvicinò al divano e passò un dito sullo strappo che si era formato. Dal buco grosso quanto un pugno si poteva osservare la spugna gialla che lo imbottiva. Raggiunse il comodino dal capo opposto del divano, su cui solitamente si trovava la lampada africana. Ora poteva osservarne un pezzo ai suoi piedi e l'altro davanti alla tv. Infine, raccolse la lampadina caduta sul cuscino della poltrona. Cominciò a montare ogni pezzo, sollevata dal fatto che nulla fosse gravemente rotto. Finito il lavoro, rimise la bajaur al suo posto. Si gettò a sedere.
«Non così in fretta cara.» Annie agitò un dito e chiuse gli occhi scuotendo la testa. «Il lavoro è molto lungo.» Tese verso Agata scopa, spolverino e straccio. Agata si alzò sempre più svogliatamente e li prese con uno strattone. «Ah, giusto.» Tornò nel cucinotto ed estrasse un grosso sacco della spazzatura scuro che lasciò su un tavolino, accanto al vaso di fiori che ora si trovava riverso sul marmo freddo. «A te tutto il lavoro.» E detto questo si dileguò lasciando Agata sola in quel salotto simile ad una discarica.
Furono ore di duro lavoro quelle che seguirono. Cominciò a tirare su ogni cartaccia e rimasuglio di pizza e a gettarli nel sacco, il quale li inghiottiva trasportandoli nel suo tunnel di spazzatura che pareva poter contenere un camion. Le faceva male la schiena ed aveva dal gomito alle punte delle dita sporco di cibo. Seguirono momenti di tensione in cui tirando su gli oggetti caduti sperava che nulla si fosse rotto o rovinato. Non che le importasse molto dell'arredamento di quella casa, ma sapeva che i soldi delle riparazioni li avrebbe scuciti lei. Passò lo straccio qua e là, immergendo di volta in volta gli oggetti nei lunghi peli dello spolverino.
All'una e 47 poteva dire di aver finito il lavoro. Sbuffò, dirigendosi in soggiorno. Il tavolo ora aveva tutt'un altro aspetto: le tazzine e i cucchiaini avevano ceduto il posto a piatti e forchette, i biscotti e le merendine a pasta e cotolette. I piatti di Terry ed Annie erano già stati svuotati ed ora ospitavano briciole e resti di carne.
«Finalmente! Allora hai finito?» disse Annie fissandola.
«Si mamma.» Non la guardò neanche negli occhi ed il suo tono sconsolato si disperse nell'aria tramutandolo in un sussurro. «Cosa c'è da mangiare?»
«Pasta al pesto con cotolette e purè. Spero non ti dispiaccia se non ti abbiamo aspettato.»
'Perché avrebbero dovuto pensare a me?' pensò Agata. «No» il suo tono freddo strisciò nell'aria fino ad insinuarsi nelle orecchie di Annie.
«Mi dispiace tesoro. Devo uscire tra poco e vado a cambiarmi. Scusami se non posso farti compagnia. Quando torno parleremo meglio di quello che è successo ieri, okay?»
Non era okay. «D'accordo mamma.»
«Ciao a tutti, ci vediaaaaaamo!» saltò su Terry, agitando la chiavi e chiudendosi la porta alle spalle.
Agata mangiò in fretta e non finì neppure ciò che aveva nel piatto: aspettò che la casa si svuotasse per sparecchiare e chiudersi in camera sua. Doveva uscire. Doveva vederlo. Gli mancava da morire e non riusciva più a non pensargli, a chiudere gli occhi e non sognarlo, ad uscire e non cercarlo.
Il cuore prendeva a battergli vorticosamente ogni volta che lo trovava in linea su Facebook. "Scrivimi, ti prego, salutami, fa qualcosa" pensava. Una fitta allo stomaco costante tormentava i suoi pensieri quando decideva di dare uno sguardo al passato: apriva la sua chat e navigava tra i vecchi messaggi, di quel periodo così bello della sua vita. Scorreva, scorreva, scorreva, fino a quando il dito cominciava a pulsarle freneticamente. La faceva stare male, ma allo stesso tempo la faceva stare bene.
Si alzò dal letto. Sapeva di non doverlo fare ma si guardò allo specchio. Osservò il viso. Due occhi terribilmente sproporzionati al resto del corpo la fissavano, spalancati, mostrando una pupilla completamente nera che pareva quella di un vampiro. La scrutarono per un po' poi passarono al naso che nella sua mediocrità lasciava parlare le mille imperfezioni. Oh, quanto avrebbe voluto spremerselo fino a far scomparire ogni singolo punto nero! Aprì la bocca in un sorriso maligno. I denti sporgenti credette potessero uscire dallo specchio e rigare il vetro. Voleva piangere. Continuava a fissare quella faccina scarna ed esile, smorta. Dove avrebbero dovuto esserci due belle gote rosse giovani prendevano posizione profonde fosse rientranti che le risucchiarono tutta la bellezza. Era a mezzo passo dallo specchio. I capelli rossi, unti, lunghi e lisci le rigarono il volto quando inclinò il capo. E pensare che lei aveva sempre desiderato i capelli d'un biondo quasi bianco, mossi o anche ricci spumeggianti. Come Cenerentola. In quell'istante avrebbe voluto strapparsi ogni capello. Tirare corda per corda i suoi capelli e rimanere pelata. Non voleva andare oltre. Non voleva abbassare lo sguardo e fissare per l'ennesima volta quel corpo gobbo, ricurvo e striminzito, piatto ed esile come un rametto facilmente spezzabile.
Sospirò, sul punto di scoppiare in una crisi isterica.
Si infilò nei soliti vestiti da bambina che aveva dalla 5ª elementare e si truccò lievemente notando che la matita nera sotto gli occhi non faceva che ingigantirli mostruosamente, dandogli un'aria da pagliaccio maniaco. Sospirò nuovamente, sull'orlo di un precipizio di depressione. Non si sentiva affatto bene.
Scese le scale inciampando varie volte sulle sue scarpe col piccolo tacco. La cinghia sul tallone le stritolava terribilmente la carne, stringendosi al piede in una morsa di dolore e facendo spuntare tagliettini e vescichine. Ma non le importava, o almeno, non poteva importarle perché era il suo unico paio di scarpe decenti. Con molta fatica raggiunse la porta davanti alla quale il suo bel gattino la attendeva. Strofinò varie volte il dorso della mano in cui teneva le chiavi sulla testina del micio che ricambiò l'affetto con fusa e miagolii di gioia. Lo prese in braccio. Un vero, dolce, sincero sorriso si aprì gradualmente sul suo volto. In quel momento sapeva che l'unica cosa davvero in grado di farla felice era il suo gatto.

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Capitolo 2
*** Il parco ***


«Agata!» Una voce stridula si infiltrò nei suoi pensieri. Il parco era vivido di gente e neppure guardandosi intorno riuscì a capire da dove proveniva la vocina.
«Agata sono quiiii» Abbassò gli occhi. Strisciando a terra arrivò Guendaline, sua ex compagna di classe.
«Ciao Guendaline. Tutto bene le vacanze?» non erano molto amiche, anzi, Agata la odiava. Era una tipa un po' stravagante, estroversa. Aveva troppo entusiasmo e voglia di fare per i suoi gusti.
«Scusa non posso parlare ora, i nazisti mi inseguono» bisbigliò sempre strisciando. Passò sotto la panchina di Agata che dovette mettere la testa fra la gambe per sentirla. «Comunque bene, graaaaazie!» gridò ormai lontana. Agata scosse la testa sorridendo. Amava il parco. Le sarebbe piaciuto essere lì con Mike, come ai vecchi tempi. Potevano passare ore intere a chiacchierare insieme. Ridevano continuamente, condividendo stesse idee e pensieri. Si erano persi di vista con le superiori. Gli mancava almeno quanto Jake. Le scomparve il sorriso.
Aguzzò l'udito: voci familiari.
«Berry!» gridò.
«Oh... Ciao Agata.» il suo tono scomparve d'entusiasmo vedendola arrivare. Tra loro c'era un buon rapporto d'amicizia, anche se spesso Agata non gradiva certi suoi patetici comportamenti in cerca d'attenzione. Gli bolliva il sangue quando la vedeva giocherellare con il suo Jake. Berry era molto gentile con lei anche in classe e le lasciava dolci dediche sul diario. Era così bella. La guardava e non poteva che desiderare di avere il suo fisico. Pensava spesso a come sarebbe stato bello essere in lei. Poter guardare un ragazzo e sapere che avrebbe pagato per starci insieme.
Agata notò che qualcosa non andava. «Tutto bene, vero?» disse.
«Si, si... Cioè no. Be' insomma, devo andare. Scusa.» Detto questo corse via verso il cancello principale facendo tristemente dondolare l'altalena penzolante su cui era seduta poco prima. Agata rimase in piedi qualche secondo, scossa. Sapeva già cos'era che non andava. Prese il posto di Berry e cominciò a dondolare sconsolata. Probabilmente aveva appena perso un'amica e non era proprio quello di cui aveva bisogno ora.
Bum bum. Bum bum. Il suo cuore prese a battere vorticosamente, ritmicamente, seguendo la melodia dei passi di Jake quando lo vedette arrivare. Bum bum bum bum. Oddio. Avrebbe tanto voluto corrergli dietro. Chissà dove stava andando così di fretta. Magari la stava cercando. Scoppiò in una risata isterica. Partì. Non riuscì a controllare l'irrefrenabile voglia di saltargli addosso e le sue gambe presero vita. 'È così bello anche spettinato' pensò. Agata faticò a stargli dietro e tenere il ritmo e fu quasi sul punto di chiamarlo, quando Jake rallentò e prese a camminare. Col fiato mozzato per il caldo struggente girò l'ultimo angolo, ansimante. Oddio. Era nella sua via. Che volesse andarla a trovare? L'idea la fece emozionare al punto da ricominciare a correre. Era di fronte al suo portone. Al suo portone! Agata cercò di ricomporsi. Lui non sembrava nemmeno avere il fiatone. 'Prendimi'. Non aveva ancora fatto in tempo a raggiungerlo che suonò il suo campanello. La casa era vuota.
«Serve una mano?» la sorpresa fece sobbalzare Jake, quando Agata gli toccò una spalla, col fiato ancora lungo. Avrebbe tanto voluto stringerselo tra le braccia.
«Agata! Mi hai spaventato.»
Rise. «Scusami» un blocco allo stomaco le impedì di parlare. Cominciò a tirare lunghi sospiri per calmare il fiatone.
«Hai corso?»
«Si, mi ero dimenticata... Il cellulare a casa e sono tornata qui di corsa» mentì. «Anche tu hai l'aria di uno che ha appena attraversato tutta Banham a piedi.» Gli sorrise. Lui ricambiò, mostrando il più bel sorriso che Agata avesse mai visto.
«Si, be'... È abbastanza urgente. Mi vergogno un po' a chiedertelo. Insomma... Siamo amici no?»
«Certo che lo siamo!» Agata stava esplodendo.
«Be'... Ti andrebbe di venire al Café Mezza Giornata?»
«Si. Si, insomma... Mi piacerebbe.» Avrebbe pagato per uscire con lui! Cercò di tenere a freno il suo entusiasmo.
«Bene! Allora... Domani, alle tre e mezza.» disse muovendo le mani in un buffo modo che ad ognuno avrebbe dato un'aria da imbecille. Lui invece aveva un portamento così elegante che sembrò danzare.
«E c'era così bisogno di correre?» improvvisò Agata, ridacchiando. Aveva il cuore a mille, motivo per cui spesso scoppiava in risate isteriche. Lo vide leggermente a disagio. «Coraggio ti offro un bicchiere d'acqua, vieni dentro.» Aprì la porta e fece un gesto con la mano, invitandolo ad entrare.
«Si... In realtà devo chiederti un grande favore. Io... Non so neanche perché sono qui...» fece per andarse ma Agata lo prese dolcemente per una manica.
«Aspetta! Avanti dimmi.» 'Prendigli la mano' diceva una vocina dentro di lei. 'Prendila e non lasciarla mai più'. Lasciò la presa. Jake la seguì dentro casa ed attraverso il salotto arrivarono in soggiorno.
«Davvero non è così importante.»
Gli fece cenno di sedersi, mentre lei entrò nel cucinotto. «Avanti sputa il rospo!» non l'aveva mai detto in vita sua prima d'ora ed anche adesso la trovava una dicitura stupida. Si ricoprì di vergogna. Ma lui sembrò non darci importanza.
«È che vedi... Mia madre è una gran rompipalle e visto che sono stato rimandato in latino mi ha chiesto se c'era qualcuno con una voglia e una pazienza disponibili a recuperare un caso perso come il mio.» Agata arrivò, con due bicchieri d'acqua frizzante. Ne porse uno a Jake che ne bevve un lungo sorso, mentre Agata sorseggiò piano piano. «Saresti così gentile da assumerti questa responsabilità?» concluse Jake.
«Mi farebbe molto piacere aiutarti ma non credo di essere proprio un genio del latino... No, in effetti so dire solo ave.» Risero insieme. Agata era molto brava in latino ma amava vederlo ridere.
«Quindi è un...»
«Certo che sì.» Sorrise cercando di assumere uno sguardo sexy. Chissà cosa ne saltò fuori. Si alzarono.
«È un certo che sì. Grazie Agata sapevo di poter contare su di te!» schioccò un rumoroso bacio verso di lei correndo via. «A domani!» Gridò ormai lontano.
«Ciao!» salutò lei, sull'orlo della porta. Era al settimo cielo.

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Capitolo 3
*** In punizione ***


«Non se ne parla signorinella, tu sei in pu-ni-zio-ne!»
«Ma mamma come puoi essere così crudele?»
«Crudele? Senti cocca non sono io quella che si è ubriacata distruggendo la casa!»
«Tu non capisci! Ogni ragazza in classe con me va a feste e in discoteca tutte le sere, fanno cose che alla mia età non si dovrebbero fare e certi si drogano pure. Io apro qualche bottiglia di vino e mi rovini la vita!»
«Non mi interessa nulla di quello che fanno le tue amiche, tu devi essere diversa.» Era sospettosamente calma.
«Okay hai ragione, ma ogni tanto succede a tutti di superare un po' il limite!»
«E ne pagherai le conseguenze! Tesoro voglio solo farti capire che ciò che hai fatto è sbagliato e un giorno "superare un po' il limite" potrebbe costarti la carriera!»
«Okay, okay, fammi una ramanzina, proibiscimi di guardare la tv, toglimi internet, ma ti prego permettimi di uscire domani!» la pregò Agata, le lacrime agli occhi. Deglutì. Un sapore amaro si disperse nella bocca, facendola raccapricciare.
«Si certo, spassatela pure mentre io compro un nuovo divano, dato che quello in salotto l'hai rotto TU!»
«Non vado a spassarmela! Te l'ho detto, a Jake servono lezioni di latino ed ha bisogno di me!»
«Bella scusa Agata. Il latino. Mah!»
«Chiamalo e chiediglielo se vuoi!» le porse il telofono, disperata. Come poteva essere così crudele da impedirgli di uscire?
«Mi sembra ti importi un po' troppo di questo Jake. Sarà mica che ti piace?»
«Da quando è "troppo" aiutare un amico?» Agata si rendeva conto di stare un esagerando. Ma non ce la faceva più. Avrebbe voluto tirarle un pugno. Si trattenne e si ricompose. Il soggiorno poco illuminato le dava un'aria malvagia, la bocca semichiusa in un ringhio feroce.
Annie sospirò ed appoggiò una mano sul tavolo sbilanciando tutto il peso sul palmo sinistro, sfinita. I capelli spettinati ed arruffati le si intrecciarono davanti al viso, le borse sotto gli occhi accentuate dall'ombra. «Vai in camera tua.»
«Ecco, brava. Mandami in camera mia, come se non bastasse.» Fece qualche passo all'indietro fissando Annie negli occhi, le palpebre a due millimetri di distanza. Toccata la ringhiera della scala, si aggrappò al corrimano e scappò su, piangente.

Si gettò sul letto. Avrebbe preferito non essere mai nata. Ma tanto chi si credeva quella donna per dirle cosa doveva e non doveva fare? L'idea di scappare si dilatò piano piano nella sua testa, inglobando il buon senso. Sarebbe potuta passare per la finestra e piano piano calarsi giù aggrappandosi a mattoni ed occasionali appigli. Oppure avrebbe potuto legare le coperte l'una con l'altra ed usarle come corda per calarsi giù. Tutto sarebbe stato meglio di rimanere in quella casa un secondo di più.
Il telefono cominciò a cantare Eye of the Tiger, segnale che qualcuno la stava cercando. Dovettero passare alcuni secondi prima che Agata se ne accorgesse, assorta nei suoi pensieri ed elaborando diabolici piani. Non aveva neanche voglia di rispondere. Svogliatamente guardò chi era. Eva. Le passò la voglia di parlare. Ad un tratto smise di suonare. 'Meglio così' pensò Agata. Bliiiing. Messaggio da Eva: "rispondi idiota". Ricominciò a squillare. Era sempre lei. 'Uff' sbuffò rumorosamente.
«Pronto?»
«Ciao cara sono io.»
«Non l'avrei mai detto!» scherzò Agata.
«Si, si, fai poco la spiritosa e rispondi subito la prossima volta.»
«Scusami. Allora tutto bene dopo ieri sera, vero?»
«Non molto. Sono nei guai. Guai seri. Sigillata in casa, niente tv, niente computer e cellulare. Almeno, questo lo crede lei, ma è da quando avevo 5 anni che nasconde le cose sequestrate nella credenza.»
«Mia madre credo che preferisca torturarmi e vedermi soffrire, piano piano, lentamente.»
«Ti devo chiedere un grande favore: vieni da me e dì a mia madre che non è stata colpa mia!»
«Niente da fare, non posso uscire.»
«Agata!»
«Mi dispiace tantissimo, davvero. Promesso che appena si calmeranno le acque qui in casa verrò! È tutta colpa mia se sei in questo casino e te ne farò uscire fuori.»
«Mh. Grazie Agata, ci sentiamo.» Sembrava delusa, ma un barlume di speranza filtrava tra le sue parole. 'Magari ha anche lei un appuntamento speciale', pensò Agata.
«Ciao.»

Accese la bajour sulla scrivania ed osservò gli inquietanti giochi di luce sui muri: ombre e sagome animalesche danzavano serene sulle verdi pareti trasformando la sua stanza in una savana notturna. Poteva sentire il leggero ronzio dello stereo di sua sorella, nella camera accanto. Rimase seduta alcuni minuti, una mano che massaggiava lentamente il collo formicolante. Sentiva i nervi e i muscoli stirati, indolenziti per i troppi sforzi. Dopo aver lavato i piatti e passato l'aspirapolvere per tutta la casa, le toccò andare da sua madre ad aiutarla a ricomporre alcuni fogli e cartelle nel suo studio e farle da assistenze durante il lavoro. Agata odiava quel posto. "Annie Dottinger. Studio legale n. 2" diceva il cartello al fianco dell'entrata per il suo piccolo cubo di studio, parte della complicata griglia che costituiva il Dipartimento Distrettuale più famoso di tutta Banham  L'avvocatessa Dottinger, si occupava della difesa da ormai 1 anno, dopo aver perso 3 lavori. La sua squallida scrivania brulicava di fogli, cartelle, penne e nastri. Fu più che stancante riordinarla per Agata, che svogliatamente impilava qualsiasi cosa in precisi, futili ordini. Tenette il muso tutto il giorno a sua madre che sembrò ignorarla e sfruttare le sue giovani forze a suo piacimento. Ripensando alla giornata, non si accorse di aver aperto il suo quadernone e ripreso a scarabocchiare una pagina. Il segno pesante e calcato della sua penna trapassò nelle pagine, imprimendo fulmini, tornado e teschietti tra le righe. Tirò la cordicella della bajaur e sulla stanza calò un velo d'intensa oscurità, che immerse ogni oggetto in un mare di mistero. Sospirò più volte mentre s'infilava sotto le coperte, il pigiama pesante che si accartocciava sotto i piumoni. Scrutò nel buio della notte l'orologio digitale sul comodino: 00.06. Pochi secondi dopo aver chiuso gli occhi, si infiltrò nelle sue palpebre una sottile lama di luce. Uno spiraglio bianco si stagliava sulla parete opposta, espandendosi lentamente.
Quando la porta fu aperta completamente, una figura scura le si materializzò davanti.
«Buonanotte tesoro.» bisbigliò Annie, schioccandole un bacio sulla fronte. Agata si girò dall'altra parte. 
«Ti volevo ringraziare per ciò che hai fatto oggi. Sei stata davvero gentile e sono contenta che tu abbia passato un po' di tempo con me.» Fece per andarsene e chiudere la porta, quando una debole vocina la trattenne.
«Notte.» disse Agata, in tono freddo.

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Capitolo 4
*** Una rivelazione inaspettata ***


Risatine e bisbigli che lentamente si alzarono di volume turbarono il sonno di Agata. Dopo alcuni minuti, capì che provenivano dalla stanza di Terry. Le fu chiaro che di là c'era anche Peter. 8:58. Passi. Il rimbombante ticchettio della scala di legno. Stoviglie. Probabilmente stavano preparando la colazione.
Era ora di alzarsi. Si preparò in fretta, truccandosi anche leggermente, pronta ad affrontare l'inevitabile incontro con il ragazzo di sua sorella. Mise un corto paio di pantaloncini, con la maglietta larga degli Iron Maden di suo padre. Non voleva vestirsi bene e far credere di essersi fatta bella per lui. Li raggiunse in soggiorno.
«Ciao!» Peter fu il primo a curarsi della sua presenza. Le si presentò con un largo sorriso. Non aveva un bellissimo aspetto e le anormalità nei suoi denti gli davano un'aria quasi rozza. Ma la dolcezza della sua sincerità faceva davvero ricredere: un ragazzo educato, gentile, spensierato e sereno.
«Buongiorno Peter» fece Agata, ricambiando il sorriso. Il suo sguardo cambiò tono, quando si voltò verso Annie e Terry.
«Finalmente sei sveglia! Buongiorno Agata.» Fece Annie. Si rivolse a tutti i presenti. «Comunque io devo andare a lavoro, ci vediamo!»
Un coro di saluti si aprì piano piano, finché la porta di casa non si richiuse con un tonfo.
Terry prese Agata per un braccio e la portò in salotto.
«Senti... Preparaci tu la colazione. Caffè, uova, latte... E se ci stai anche pancetta. Forza!» schioccò le mani un paio di volte.
Agata rimase a guardarla.
«Non sei l'Agata in punizione? Su su, c'è Peter di là!»
Agata non disse una parola e si infilò nel cucinotto. Preparò in fretta tutto il necessario ed allestì la tavola con il solito servizio di posate. Terry la raggiunse nel cucinotto. Bisbigliò: «ma che cucchiai hai messo? Usa quelli buoni! E sbrigati.» disse alzando un coperchio da un pentolino sui fornelli. Tornò di là. Peter e Terry parlarono per tutto il tempo: di cosa avevano fatto nei giorni passati, di che libro stavano leggendo, di come avrebbero affrontato il prossimo anno scolastico, di che progetti avevano per il futuro. Agata sapeva che avevano già affrontato diverse volte questi temi in precedenza, e che probabilmente gli faceva semplicemente piacere parlare di loro, conoscersi, unirsi. Finito il suo lavoro di cameriera si sedette anche lei. Mangiò qualcosina velocemente, distrattamente poi si dileguò in camera sua.

Sdraiata sul letto pensò a lui, quasi tutto il tempo. Dovevano vedersi questo pomeriggio! Passò una mattinata tranquilla, chiusa in casa, anzi, nella sua stanza. Lesse diverse riviste di moda e gossip, disegnò qualcosa di molto stilizzato sul suo quadernino e canticchiò qualcuna delle sue canzoni preferite, tenendosi lontana dalla tecnologia che le era stata proibita. A mezzogiorno Agata scese in cucina per cucinare il pranzo. Fece gli spaghetti al sugo, ricetta ereditata da sua nonna, italiana. Le faceva piacere sapere di avere origini italiane, che parte del suo sangue proveniva da quella splendida terra. Un giorno progettava di andarci a vivere e lavorare come cantante con la sua band. Esatto, una vera band, non quel mucchio di scarsi musicisti poco attrezzati con cui si trovava ora. Le mancavano tanto i suoi compagni. Emily, Jennifer, Julie e Noel. Agata suonava il piano, Jennifer ed Emily strimpellavano con la chitarra, Julie suonava una sottospecie di sax, mente Noel stava alla batteria. Tutte cantavano discretamente, con pezzi solisti distribuiti parzialmente durante i brani. Essi erano, per ora, solo cover, ma ogni anno lavoravano a canzoni tutte loro. Agata si occupava principalmente del testo, Noel delle melodie. Pur essendo una pop band, la sua compagnia si dilettava anche in semplici danze, con scarse coreografie tutte loro. Come ballerine, le ragazze erano certamente discrete. Sui piccoli e sconosciuti palchi di Banham sui quali si esibivano, presentavano anche simpatiche scenette comiche, in cui mostravano tutta la loro abilità che si espandeva persino nel campo della recitazione. Si divertiva tanto con loro... Ma si vedevano davvero raramente. Loro abitavano fuori città e le rare volte che trovano il giorno disponibile su tutte le agende, non concludevano molto. La maggior parte della loro opera si organizzava infatti d'estate. Ed ora, finalmente li avrebbe rivisti. L'idea la face eccitare, al punto che quando tornò Annie si mostrò quasi felice nonostante tutte le privazioni che le aveva imposto.
«Grazie di aver preparato il pranzo, anche se tua sorella non tornerà prima di sta sera. Dovremo mangiare una porzione extra noi due.» Annie appese il cappotto in salotto e si sedette a tavola, insieme ad Agata. Pranzarono quasi come se nulla fosse, come se Agata si fosse comportata sempre da brava ragazza di ogni giorno. Un lume di speranza si accese nei suoi occhi. E se l'avesse lasciata uscire?

«Senti mamma... Questo pomeriggio posso uscire allora?»
Gli occhi di Annie la fulminarono, facendola sentire piccola, minuscola. «Agata Sant Dottinger un no è un no. Punto e basta.»
«Cosa? Ma sei impazzita? O stai cercando un piano per rovinarmi la vita?» Sentì il cuore in mille pezzi come se un coltello l'avesse appena pugnalato.
«Insomma Agata cerca di capire!»
«No mamma, cerca TU di capire me! Cosa ti costa lasciarmi uscire un'ora? Un'ora e basta ti chiedo! Perché non vuoi starmi a sentire?!» Si alzarono dal tavolo, le voci simili a strilli. Ci fu una pausa.
«Siediti e ascoltami.» Agata eseguì. «C'è una cosa che non ti ho detto. Non te l'ho detta e non dovrei dirtela neanche ora, quindi promettimi che starai zitta con le tue amiche. Ieri mattina, prima che ti alzassi, ho ricevuto una telefonata. Era la madre di Berry, che aveva già parlato con quella di Eva» un nodo alla gola si aggrovigliò in fondo alla gola di Agata, il sapore amaro delle lacrime che si disperdeva in tutto il suo corpo. «Avevano deciso la punizione che avrebbero dovuto seguire tutte le nostre figlie. Non posso lasciarti uscire perché se una delle loro madri ti vede, tu non potrai più vedere le tue amiche.»
Agata si sedette di nuovo, lo sguardo perso nel vuoto che cercava un appiglio nel doloroso mondo della realtà. «E così hai accettato.»
«Dovevo. In fondo erano a casa mia e mia era la responsabilità. Come potevo continuare ad incontrarle al supermercato ogni sabato, alle riunioni di paese ogni mese e sapere cosa pensavano di me? Una pessima madre, che non riesce a badare a sua figlia, che ha perso il lavoro 3 volte, che non sa tenersi un marito e curarsi della propria casa. La vita, cara Agata, non è così facile per me. E se vuoi aiutarmi,» disse lentamente fissando Agata negli occhi in fare minaccioso, china su di lei. «Se vuoi davvero aiutarmi, cerca di capirmi ed abbi un po' di buon senso.»
Sentì nuovamente in due giorni il bisogno di scappare da sua madre e sigillarsi in camera sua, chiudere il mondo fuori dalla porta. Odiava quando sua madre cominciava a parlare dei problemi che aveva. La faceva stare male e sentire il bisogno di occupare di parole un'altra pagina di quel suo quadernone. Le pareva che la penna penetrasse nella sua mente ed estorcesse parole che lei non riusciva a dire o... vedere. Imprimeva tra le righe le sue emozioni più forti, i suoi pensieri più intensi, le sue idee, le sue fantasie, i dolori e gli amori. Cercava di non accavallare tutti gli episodi di ogni giorno dentro il suo cervello, ma di fare ordine e sistemare le questioni irrisolte come fogli da impilare uno sotto l'altro.

Guardò l'orologio. 14:37. Mancavano 50 minuti. Meno di un'ora, ma Agata lo vedeva come un burrone profondissimo in cui il suo amore per lui si gettava in un oceano di dolore. Riusciva quasi ad immaginarselo dall'altra parte. Lì, con la sua camicia bianca ed i suoi riccioli castani, che la fissava, innamorato. Voleva saltargli addosso, abbracciarlo, baciarlo, vivere ogni istante della sua vita con lui. Vide quell'immagine così vivida nella sua mente che saltò, nella realtà e nel suo sogno ad occhi aperti. Il burrone. Sentì quella sensazione di cadere nel vuoto così reale che le venne da piangere.

'Dovrei chiamarlo e dirgli che non posso' pensò Agata. Sentì un fuoco scoppiare nella sua pancia, come un pugno che disapprovava i suoi stessi pensieri. 'Il mio unico e vero appuntamento con lui dopo tre anni e non posso andarci!', piagnucolava fra sé e sé. Doveva vederlo a tutti i costi. Da quanto sapeva, sua madre non se ne sarebbe mai dovuta accorgere, dato che lavorava fino alle 18:10 al Dipartimento Distrettuale. A meno ché il caso non fosse stato rinviato, non avrebbe dovuto muoversi di lì. 'È per amore che si fanno le cavolate più grandi' si convinse infine.

Si preparò in 40 minuti, coi suoi vestiti migliori - dopo un'accurata scelta di 20 minuti - e un trucco non troppo pesante. Era finalmente pronta per lui. Cercò una via d'uscita. La porta sul retro. Eccola la sua salvezza. Sperò di trovarla già aperta, per non dover tirar fuori le chiavi. La porta-finestra si trovava in fondo al corridoio tra il salotto e il soggiorno. Si chiese dove fosse Annie. Passi. Scivolò fuori dalla camera, in punta di piedi, le scarpe nelle mani per non fare rumore, appiccicata alla parete come un geco. La vide, sporgendosi dalla scala: era seduta sul divano, la testa tra le mani. Che si stesse pentendo di ciò che aveva fatto? Agata capiva le sue ragioni, le sue emozioni, ciò che stava provando in questo momento e vederla in quello stato le fece male. 15:18.  'Mamma ti voglio bene in fondo' avrebbe voluto gridarle, abbracciandola. Ma doveva andare, e subito. 10 minuti. Il divano fortunatamente dava le spalle sia alla scala che al corridoio. Deglutì, poi cominciò a strisciare giù, sempre più giù, fino al salotto. Appoggiò la schiena al retro del divano. Sentì sua madre sdraiarsi, il cuore a mille. Carponi, si mosse. Di colpo si irrigidì quando sentì i cuscini del divano spiegazzarsi. Rimase immobile, in attesa. Silenzio. Respirò lentamente, profondamente e gattonando raggiunse il corridoio, quindi la porta sul retro. Girò la maniglia, con la cautela di un ladro nella notte. GNIIIIIIIIC. Si arrestò di colpo gli occhi spalancati per il rumore metallico, segnale che la porta era chiusa a chiave. Attimi di silenzio. Riprese a respirare sentendosi fuori pericolo, quando: «Agata, sei tu?» Cominciò ad andare in iperventilazione.
«Heeem... Si mamma, sto prendendo un bicchier d'acqua.» Nessuna risposta. Ce l'aveva fatta. Cautamente con le chiavi aprì la porta. Trattenne il fiato e passò per la mini fessura che si creò. Richiuse delicatamente con la maniglia, come se avesse un cristallo fra le mani. Era fuori.

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Capitolo 5
*** Clandestinamente ***


Si guardò intorno col cuore a mille, i tavoli tutti occupati da tazzine di caffè, paste e fette di torta. Magari non era ancora arrivato, si disse. Cercò di mantenere la calma, la gamba che picchiettava contro l'asta del tavolo al suo fianco nervosamente. In piedi di fronte alla finestra davanti a lei c'era Jack. Lo fissò, lo sguardo incantato da una melodia persuadente. Aveva una maglia a righe bianche e nere, i jeans attillati scuri, i capelli tirati indietro. Agata sorrise. Lo vedeva agitato, mentre passeggiava a lunghi passi avanti e indietro seguendo il perimetro del tavolo, con in mano un grosso libro ed un quaderno.
«Agata!» gridò lui, risvegliandola dall'ipnosi. Si sentì pervadere da un senso di debolezza ed il suo corpo piombò in un vortice di indecisione. Sentì i nervi pulsarle vorticosamente sul collo ed il respiro le si fece affannoso. Gettò via il sorriso di poco prima ed il suo volto assunse un'aria spaventata. Non si accorse neppure di avere Jake a due passi, o semplicemente il suo corpo fu incapace di reagire.
«Ti senti bene Agata?»
«C-cosa? Oh, hem, si... insomma, io...»
«Vieni, ordino da bere, credo che ti serva un po' di te.» Le sorrise.
«Grazie, ma mi sento già meglio.» Ancora con lo sguardo un po' smarrito si sedette ad un tavolo con lui. «Ciao» disse involontariamente.
Jake cominciò a ridere come se avesse appena sentito una barzelletta. Agata face lo stesso.
«Ciao!» concluse infine lui. «Allora... Cominciamo?»
«Certo.» Agata iniziò col fare i nomi di alcuni argomenti, unità e capitoli del suo libro, partendo da quelle più complesse, per finire all'abc del latino. Ad ogni sua parola, lo sguardo di Jake marcava l'espressione smarrita di chi ha appena sentito parlare in una lingua straniera. Jake piombò nuovamente in una risata simile a quella precedente, in cui si poteva scorgere una vena sottile di nervosismo.
«Jake! Fammi capire, qui non dobbiamo dare una spolveratina qua e là, dobbiamo ricominciare completamente da zero!»
«Ma no... Cioè, solo per il fatto che questi nomi non mi dicano nulla non significa che non sappia proprio niente!»
«Mi stai dicendo che se aprirò questo libro tu riacquisterai memoria?»
«Non esattamente... Cioè...»
«Okay, prendiamo un te perchè ci vorrà più di un'attimo qua.» Risero insieme.
Jake sospirò. «E' che è stato un anno così difficile... Tutto così diverso dalle medie... Diciamo che la nuova classe non ha voluto collaborare per la mia promozione.»
«Ho capito cialtrone, quest'anno senza di noi non avevi nessuno disposto a farti copiare!»
«Già... Non c'era la mia Agata che mi passava i compiti, e... Tutti gli altri che mi scrivevano bigliettini durante le verifiche.» Aveva un tono scoraggiato ed evitava di guardare Agata negli occhi.
«Anche io ho sentito la mancanza di voi, di te...» Le sfuggì di bocca, trapassando tra le labbra dolcemente, bisbigliando. «Sarà meglio darsi una mossa se dobbiamo rileggerci tutto questo bel libro.»
Uno accanto all'altro riguardarono qualche pagina qua e là ridendo e sorridendo ad ogni parola, sorseggiando te e dividendosi una pasta. Sembrava che un filo di giovane amore avvolgesse dolcemente i loro corpi insieme, unendo le loro anime in un'unica tiepida melodia. Gli attimi passarono in fretta, in quella piccola ora di paradiso, ed Agata non si accorse di dover tornare a casa. Guardò l'ora sul cellulare.
«Oh! Sono molto, molto in ritardo! Devo assolutamente tornare a casa»
«Ma come? Adesso che cominciavo a capirci qualcosa di questo stupido latino?»
«I-io... Vorrei davvero restare qui ma mia madre mi uccide se scopre che sono fuori.»
«Tua madre è molto buona non credo sia capace di ferire sua figlia!»
Cominciò a tirar su la sua roba. «Uccidere, ho detto. Uccidere! E... si, sarebbe capace di farlo.»
«Cosa avrai mai fatto!»
«Ho dato una festa, ci siamo ubriacati ed ho distrutto la casa.» Finì di raccogliere le tazzine sul vassoio e le consegnò al cameriere.
«Tu cosa?»
«Sarei... in punizione tecnicamente.»
«E sei uscita lo stesso?»
«Per un disperato come te si!»
«Oh... Grazie. Okay, allora... Grazie di tutto. Sei la migliore insegnante che abbia mai avuto.»
«Grazie, è stato un piacere, mi sono divertita.» 'Saltagli addosso' diceva la vocina del suo profondo. Rimasero a fissarsi, gli occhi invitanti di chi vorrebbe abbracciarti.
«Quasi dimenticavo» Jake frugò nella tasca qualche secondo. «Ecco. E' un regalo di James per Berry.» Agata prese in mano il piccolo pacchettino blu ornato con un grosso fiocco bianco. Rimase sorpresa.
«N-non sapevo che James e Berry fossero...»
«Infatti non lo sono. Credo sia una sorta di...»
«Corteggiamento?»
«Direi proprio di si.»
«Dovrei darglielo io? Perchè non credo che Berry ed io potremo vederci.»
«James ha chiesto che fossi tu personalmente a darglielo.»
«Oh be'...» Ci pensò su. Probabilmente sarebbe stato il modo giusto di riavvicinare Berry dopo quella sera. Inclinò la testa. «Okay, lo farò.»
Si girò, pronta ad andare a casa. Di fronte a lei, lo sguardo allibito di chi ha appena visto un fantasma.
«Agata?..» Era Eva.
«Ciao Eva! Io stavo giusto tornando a casa...»
«Certo. Tornatene pure a casa mentre io devo fare la spesa con mia madre perchè crede che sia colpa mia tutto il casino in casa tua.»
«Eva volevo venire!»
«Mi avevi promesso che saresti venuta appena avresti potuto. E ti trovo qui con un ragazzo a prendere un bel te caldo!»
«Non ho potuto! Tua madre non ti ha detto niente su un certo accordo?»
«Ma cosa stai dicendo?» la voce acuta, leggermente isterica. «Basta Agata con le stupidaggini!» l'immagine dello sgomento che esplodeva negli occhi di Eva.
«Ascoltami Eva!» Le prese frettolosamente la mano. «C'è un'accordo fra di loro, le nostre madri! E noi... Se infrangiamo le regole non potremo vederci mai più!»
«Basta Agata! Tu e tutte le tue bugie! Cerca di comportarti meno da bambina ogni tanto!» Ci una pausa.
Agata sentì le mani formicolarle per la rabbia, l'imbarazzo e la paura. Rimase ferma, come se ogni sua parola e tutto le avesse trapassato la testa per poi dissolversi al di fuori di essa. Non diede conto al loro significato, come se non avesse bisogno di ascoltarle. Mutò espressione per mostrarle un sorriso serio. Alzò un sopracciglio, sdegnante. «Come vuoi, credi quello che ti pare, pensala come ti pare. Torna pure a fare la spesa. Vado a pettinare le bambole, io.» Le sorrise amaramente, una vena sadica celata tra i denti. «Grazie Eva.» disse lentamente in tono calmo, con un velo di lacrime che le accarezzò le corde vocali storcendo il suono in un ondeggiare di volume. Scappò via a passi lunghi, ancheggiando in modo teatrale. Le sfiorò una spalla, i capelli rossi che si frastagliavano sulla schiena ritmicamente.
In tono dispiaciuto, Eva tentò di parlare: «Agata...» la voce le morì in gola, incapace di reagire.
Da fuori, la voce adulta di sua madre si infiltrò nel bar: «Eva! Coraggio andiamo!». La ragazza tirò su le borse della spesa da terra e la raggiunse fuori. «Non era Agata quella?»
Eva fece una pausa. «Già.»

Fortunatamente, sua madre non era ancora tornata, così potette cambiarsi e struccarsi senza problemi. Appoggiò sul tavolo il pacchettino blu, così bello e delicato. Desiderò che fosse un regalo di Jake per lei. Ricominciò a pensare a lui e tutti i problemi si dissolsero nell'aria. Si dimenticò di Eva, di Berry, di sua madre e sua sorella. Non gliene importava nulla in quel momento. Nella sua mente c'era solo Jake, Jake, nient'altro che Jake. Prese in mano il telefono di casa, intenta a risentire la sua dolce voce. No, non doveva mostrarsi debole. Doveva farsi desiderare, arrivare a farlo sentire la sua mancanza. Chissà, che non fosse già a quel punto?
Col telefono ancora in mano sentì la necessità di chiamare Berry. Era più che altro un dovere, dal momento che James aveva chiesto il suo personale aiuto e le aveva affidato il compito di consegnarle il regalo. Agata lo considerava un ragazzo simpatico, ma non lo vedeva come fidanzato. Ma in fondo, chi mai avrebbe voluto essere il suo ragazzo? Chi avrebbe voluta passare il resto della vita con lei? Pensieri simili se li ripeteva nella mente in continuazione, quasi fosse un disco rotto che suonava da troppo tempo. Cominciava a chiedersi se tutti quei discorsi sui ragazzi un giorno le sarebbero davvero serviti. Digitò il numero scritto nella sua rubrica sotto il nome "Berry". La linea era libera. Squillò e squillò ma nessuna risposta, nessun «pronto» che riempisse le sue orecchie. Allontanò lentamente il telefono dalla testa, il bib bib in lontananza che piano piano scompariva nell'aria. I pensieri le riempirono gli occhi ed il suo sguardo si perse nel vuoto. Riattaccò. Doveva farle sapere che si trattava di James, era certa che non avrebbe sentito ragioni e le avrebbe risposto. Non le venne altra idea: i telefoni pubblici. Mise semplicemente il cappotto, nascondendoci sotto i vestiti trascurati, prese in prestito dal cassetto della mamma qualche soldo e raggiunse la cabina telefonica fuori in strada. Rispose.
«Pronto?» il tono leggermente sorpreso della madre di Berry. Le buttò giù il telefono in faccia. Non aveva considerato l'idea che potesse rispondere sua madre e non poteva nemmeno presentarsi come Agata in quella casa. Sapeva perfettamente che a Berry era stato sequestrato il cellulare. Si sentì stupida, lì fuori, sola, trasgredendo le regole per qualcosa che non avrebbe funzionato. L'idea le si materializzò in testa dopo alcuni istanti: digitò il numero del fratello di Berry, che rispose quasi immediatamente. «Chi parla?»
«Trake sono Agata.» Erano piuttosto amici.
«Oh Agata... Immagino tu voglia parlare con Berry... Ma non credo che...»
«Trake è importante. Fallo per tua sorella, ho un messaggio da darle.» Trake non disse nulla ma Agata poteva sentire il suo respiro attraverso la cornetta. «Per favore.» 
«Okay ma sei in debito.»
«In super debito! Quando ti vedo ti porto una ciambella con gli smarties come piace a te!»
Rise. «Grazie, eccola qua.» Trake diede il cellulare a Berry.
«Chi è?» disse Berry.
«Berry! Sono io, Agata.»
«Agata, senti io... Ma stai chiamando da una cabina telefonica?»
«Già! E solo perché ho una cosa importante da dirti.»
«Agata ora non posso.» La voce che bisbigliava. «Io... Non posso più sentirti o vederti... Devo andare ho anche molte cose da sbrigare...»
«James!» la interruppe Agata. «Ho un messaggio da James. Cioè, veramente una cosa. Un regalo. Un pacchettino blu per te.»
«James?» Sembrava che Berry si fosse persa alla prima parola e tutto il resto le fosse entrato ed uscito da orecchie opposte.
«Esatto.»
«Agata... Io non posso uscire. Mia madre mi ucciderebbe.»
«Scappa di nascosto, oppure... Menti. Dì che vai a far la spesa poi prima di passare al supermercato vieni da me.»
«Quindi dovremmo... Incontrarci clandestinamente?»
«Molto clandestinamente.» fece Agata con voce ironicamente maliziosa.
«Okay, d'accordo, facciamolo. Che ne dici di... Domani mattina davanti al Thefium Museum?»
«Verso le 10?»
«Okay. Agata tu mi porti sulla cattiva strada.»
«Ricordati di James! È per lui che lo fai. Ora devo andare. Ci sentiamo!»
Tornò dentro, soddisfatta. Preparò la cena, aspettando che sua madre tornasse e montarle davanti una barriera di bugie e falsità.

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Capitolo 6
*** Libera ***


Si svegliò di buon'ora, pronta ad uscire. Fortunatamente in casa avevano finito pane e uova, per cui la scusa le si presentò su un piatto d'argento.
Raggiunse il luogo d'incontro stabilito in pochi minuti, con la sua bicicletta rossa, la vernice che si staccava da ogni parte. Arrivò in anticipo e dovette sopportare il solito ritardo di Berry, quando finalmente arrivò: «Agata.»
«Ciao.» i toni quasi formali, il segreto della bugia che si sprigionava nelle loro parole ridotte a sussurri.
«Allora... Avevi qualcosa da darmi?»
«Si, ecco.» tirò fuori dalla tasca il pacchettino. Fissò Berry tutto il tempo: vide il suo sguardo illuminarsi, con quella luce abbagliante e fragorosa che ti viene voglia di amare.
«È direttamente da James?»
«Proprio lui.» Berry sorrise dolcemente. Si avventò sul regalo con la forza di un leone affamato. Fece per aprirlo quando si bloccò e gettò le braccia al collo di Agata. «Grazie.» disse direttamente al suo orecchio.
«Avanti scarta.»
Con la grazia di un gioielliere con un diamante in mano e la cura di un ladro con una cassaforte da scassinare tirò i fili del bel fiocco bianco. Dalla sua postazione Agata non riuscì a vedere cosa ci trovò dentro, ma osservò incuriosita l'espressione di Berry: aprì la bocca, a corto di parole. Cominciò a respirare rumorosamente: «O-o-ommioddio!» disse.
«Cosa?» disse Agata impaziente.
Berry alzò la mano, la luce che creava nel diamante del suo anello un barlume di magica dolcezza. «Mi ha regalato un anello! Oh, è così dolce!»
«È proprio bellissimo.»
Berry si bloccò un momento ed assunse un'espressione preoccupata. «Agata, ma per te cosa significa?»
«Non saprei... Che ti vuole tanto bene e che è pronto a spendere tanti soldi per la tua manina?»
«Agata, per favore. E se volesse chiedermi il passo successivo?»
«Oddio Berry avete 16 anni! Non credo proprio! Significa che è pronto ad impegnarsi davvero con te.»
«E se io non lo fossi?»
«Berry, chiudi gli occhi e pensa a James, all'immagine che hai di lui. Saresti pronta a vedere questa faccia per il resto dei tuoi giorni?»
«Oddio Agata ecco, lo vedi? Credi anche tu che mi voglia sposare.»
«Ma no! Ti preparo a quell'eventualità. Cioè, se è quello giusto giusto un giorno accadrà.»
«Agata mi stai confondendo. Vado a fare la spesa che sono in ritardo. Grazie ancora!»
«Aspetta! Perchè James l'ha dato a me invece che direttamente a te?»
«Non so, lui tecnicamente è partito. Come l'hai avuto?»
«James l'aveva dato a Jake chiedendogli di me per consegnartelo.»
«Oddio... Forse vuole far sapere a tutti che siamo fidanzati!»
«Io ho dovuto dire a Jake che era una sottospecie di... corteggiamento»
«Corteggiamento? Agata non viviamo mica nel medioevo!»
«Non sapevo che volesse farlo sapere! Ma in fondo avrebbe ragione... State insieme da quasi un mese!»
«Non so... Mi pare sia successo tutto così in fretta...» fece Berry, confusa e scoraggiata. «Ma... Sentiamo, tu quand'è che l'avresti visto il caro Jake?» disse tirandole una gomitata.
«Ieri, gli ho fatto una lezione di latino al Cafe Mezzagiornata.»
«Non me l'avevi detto! Allora?... Vi siete baciati?»
«Ma no! È stato tutto molto veloce e formale.»
«Mi racconterai tutto un'altra volta, ciao!»
Agata tornò a casa più tardi del previsto, già decisa di raccontare a sua madre che c'era molta fila al mercato. Aprì la porta piano piano, appoggiò sul tavolo la spesa e si diresse in camera, passando per il salotto dove Annie si trovava seduta sul divano. Sua madre non girò neppure lo sguardo ma con voce concisa, forte e chiara, disse: «Agata.»
«Si mamma? Ho già fatto la spesa, ma c'era molta fi...»
«Vieni qui.»
«Okay.» Agata cominciò a ricoprirsi di paura. Una coperta fredda che la metteva a disagio. Si sedette al suo fianco, tremante.
«Così hai passato tutto il giorno in casa ieri?»
«Si mamma te l'ho detto.»
«Ha telefonato la madre di Berry.»
Il cuore cominciò a pulsarle vorticosamente ed Agata credette che avrebbe potuto fermarsi da un momento all'altro.
Annie continuò: «ti dice niente Café Mezzagiornata?»
«Mamma io... Posso spiegarti...»
«E il Thefium Musium? Avanti dai, dimmi! Cosa ti inventerai questa volta? Ah, avrei dovuto saperlo, sei uguale a tuo padre! Bugie su bugie, promesse su promesse e poi nulla! Nulla! Disobbedire a tua madre? Ma come ti salta in testa? Non c'è una punizione adeguata per tutto ciò che fai, disgraziata che non sei altro!» si alzò in piedi ed assunse un'espressione severa.
Agata scoppiò di rabbia: «e tu invece sei un'insensibile ipocrita! È da quando ero una bambina che mi tratti come se quello che penso io non valga niente! Quello che provo, quello che desidero, quello che sembra giusto a me, le mie opinioni! Tutte soffocate sotto un mare di limiti, privazioni, sgridate, litigi e discussioni! Io non ce la faccio più, vo...»
«Zitta! Non dire una sola parola di più! Piccola impertinente vai in camera tua e restaci! Ipocrita io?! Vola basso! Guai a te se provi ad usare ancora questo tono con me!»
«L'hai fatto di nuovo! Mi dici non urlare e poi sentiti! Forse con un buon esempio io sarei diversa! Dai la colpa a mio padre perchè non vuoi accettare che sia tu ad avermi cresciuta!»
Annie sbarrò gli occhi. Alzò una mano e con la voracità di un'animale la tirò in faccia ad Agata. Cadde, salvata dal divano. Sentì la guancia pulsare per l'impatto e tutto il corpo indolenzito per la caduta. Credette di morire. Si divincolò da quel attimo immobile di tempo e fuggì, il più veloce possibile su per le scale.
Ed un'altra volta Agata dovette scappare, rintanarsi in quella sua piccola stanzina e chiudersi la porta alle spalle desiderando che tutto il resto sparisse, per sempre. Si infilò sotto le sue coperte e non le importava del fatto ormai era giugno inoltrato. Amava il suo piumone morbido. Adorava il caldo abbraccio del suo letto, quando la notte la proteggeva dagli incubi. Ci si infilò sotto, sfinita. Ancora le batteva il cuore per cosa era successo, per cosa aveva detto. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie ed ignorare le parole che scorrevano insostenibili nella sua mente. Chiudere gli occhi per dimenticare il viso di sua madre. Avrebbe voluto tirare indietro le lancette dell'orologio e ricominciare da capo, o almeno ripartire dalla sera della festa. Cambiare ogni cosa. Cambiare la realtà. Si premette un cuscino sulla faccia, le urla che le sfuggivano dalla bocca, incontenibili. Traboccavano, implacabili. Era una battaglia persa. Si sentì pervadere da una sensazione esterna, il calore della stanza che contrastava con i suoi sentimenti freddi. Cominciò a girarle la testa, veloce, immobile. Fu sul punto di vomitare. Vomitare ogni dolore, ogni lacrima marcita dentro se. Era sull'orlo di un precipizio, ogni sua emozione che si perdeva nell'aria. Avrebbe voluto gridare ogni suo pensiero, ogni parola chiusa in fondo all'anima, ogni idea lasciata marcire in qualche cassetto mai aperto, ogni desiderio, ogni sogno scalpitante nella sua mente, ogni ferita mai rimarginata, ripagare ogni lacrima versata. Togliere le catene a parole che non sono mai riuscite a trapassare la sua timidezza, immagini che non hanno mai visto la luce del sole, ma solo le tenebre dell'oscurità la notte, quando si libravano nei suoi sogni, fluivano nel sonno ed inquietavano i suoi giorni.
Nella stanza entrò Annie. Aprì la porta di getto, la mano ancora sulla maniglia.
«E' finita. Non sei più in punizione, non hai più nessuna regola. Sei libera. Ufficialmente non appartieni più a questa casa.» Richiuse la porta frettolosamente, lasciando Agata a meditare. Nessun vincolo la legava più  a quella stanza. Nessuna regola che le impedisse di fare o agire in una certa maniera. Scappare sarebbe stata la risposta giusta a tutto il suo casino?

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Capitolo 7
*** Una nuova Agata ***


«Pronto?»
«Ciao... Papà. Mi serve un favore.»
«Agata... E' da un sacco di tempo che... Insomma... Io... Non mi aspettavo...» Il suo tono era sorpreso, ma quasi entusiasta. Balbettava facendo pause, come se non gli uscissero le parole o stesse cercando i termini adeguati.
«Papà sono nei casini con mamma.»
«Agata di qualsiasi cosa si tratti voglio che tu sappia che da me c'è sempre un posto in più.»
«Grazie papà veramente... Sarei già qui.»
«Come? Ma ne hai parlato con la mamma?»
«Non ce n'è bisogno» si affrettò a dire Agata. «Lei... E' indaffarata in questo momento.»
«Agata ovunque tu sia aspettami che ti passo a prendere.»
«Sono davanti al tuo palazzo.» Joe si sporse dalla finestra, scostando lentamente la tenda. Agata riattaccò, gli fece un saluto con la mano e mostrò un debole sorriso incerto, la valigia appoggiata a terra.
Il portone fece un fastidioso suono metallico ed Agata cautamente entrò dentro. Era un palazzone enorme, maestoso ed imponente. Scalino per scalino arrivò al 3° piano, dove trovò la faccia sorridente di Joe pronta ad accoglierla.
«Che piacere rivederti Agata.» disse. «Sei cresciuta molto dall'ultima volta che ti ho vista.»
«Già, davvero molto tempo fa.» Agata non digeriva ancora il fatto che suo padre fosse uscito così radicalmente dalla sua vita quando ancora era una bambina. Restava lì, un pallino fisso, una macchia nel suo animo che la turbava. Dov'era quel padre che aveva tanto desiderato ed immaginato?
«Mi dispiace Agata, so cos'hai provato.» Lei rimase in silenzio. «Avrei tanto voluto passare più tempo con te ma Annie non me l'ha mai permesso. Mi diceva che avrei dato cattivi esempi e che non avresti dovuto avere un modello come me. Daltronde devo capirla: non mi sono comportato lealmente con tua madre. Poi ovviamente c'era la questione Terry e...» Puntò gli occhi verso il basso, come stesse sfogliando un grosso libro in cerca di ricordi. Agata non interruppe i suoi pensieri e rimase ad ascoltarlo incuriosita. «Se potessi tornare indietro cambierei ogni cosa di me, di come mi sono comportato, da padre e da fidanzato, davvero. Non ne vado fiero e rimpiango di essermi perso momenti della vita di un uomo come quelli che io ho rovinato con voi.» Si bloccò. «Ma quel che è fatto è fatto» disse battendo le mani con enfasi. «Allora, raccontami di te, cosa ci fai qui? Com'è andata la scuola? Ti tratta bene la mamma? Litighi con tua sorella? E gli amici? Come sono?» Agata fu felice di raccontare un po' della sua vita, di com'era andata a scuola, di come aveva vissuto, delle indecisioni, delle scelte, dei compleanni, delle feste, dei brutti voti e di quelli belli. Gli parlò dell'anno scolastico, dei nuovi compagni di liceo, dei professori, del suo tempo libero. Evitò di raccontare l'esperienza della festa venerdì sera, affinché suo padre non si facesse un'idea sbagliata di lei. Joe preparò un te e per quasi due ore si scambiarono amabilmente fatti e racconti sulle loro vite, pensieri ed idee che avevano appurato con gli anni. Agata si sentì così vicina a lui. Lui... non era come un'amica a cui svelare i tuoi segreti più nascosti. Era diverso. Si trattava... Di un padre. Lo fissò a lungo, ascoltandolo molto attentamente, ridendo a tutte le sue battute. Sembrava un uomo così per bene, lì, seduto composto con la giacca nera. Aveva un aspetto particolarmente giovanile, i capelli corti scuri ed un viso dolce. Portava un sorriso stampato sulla faccia. Ti ispirava fiducia, gli occhi sorridenti e sognanti di chi non si è mai arreso. Aveva uno sguardo intelligente, si sarebbe detto un uomo di carriera e non un semplice barista. Aveva la capacità di metterti a tuo agio, con parole dolci, semplici. Emanava tranquillità mentre parlava, mentre ti fissava, o semplicemente mentre ti stava accanto, col suo profumo fresco e delicato. Sapeva di casa, di libro nuovo. 'E' forse di questo, che sanno i padri?' si chiese lei.
Tutti i bei pensieri e gli attimi di felicità si arrestarono quando Agata si ricordò di avere il cellulare in silenziatore. 7 chiamate perse da sua madre. Aveva ancora lo sguardo fisso sullo schermo quando cominciò a vibrare freneticamente. "Annie", diceva una scritta sullo schermo. Suo padre si interruppe, nel bel mezzo del racconto riferito al suo terzo lavoro. Agata sospirò. Era sul punto di metter giù quando un senso di smarrimento la spinse a rispondere. Non face in tempo a dire 'pronto', che sua madre cominciò a sbraitare attraverso la cornetta: «ma cosa credevi di fare?! Ti pensavamo morta! Ho chiamato tutte le tue amiche, ho guardato in tutti i bar della città, gli hotel e i ristoranti! Nessuno che ti aveva parlato o semplicemente vista! Stavo per chiamare la polizia! Ma ti rendi conto della gravità della situa...» Agata allontanò la cornetta dalla faccia e fece una smorfia di dolore. Sentiva ancora i timpani vibrare per le grida. Joe disse, a bassa voce perchè Annie non lo sentisse: «non gliel'hai detto, vero?». Agata assunse un'espressione dispiaciuta e disperata, così Joe le prese il telefono di mano, mentre ancora Annie si agitava dall'altro capo del telefono: «...ed ascoltami signorinella, non fare finta che io non esista! Insomma crescerai un giorno o no?!». Joe la interruppe, intromettendosi nella conversazione: «Ciao Annie.» Lei si fermò di colpo.
«Joe?...»
«E' davvero tanto tempo che non ci sentiamo.»
«Dov'è mia figlia?» fece lei, fredda.
«E' qui con me, sana e salva. E... Si dia il caso che Agata sia anche mia figlia.»
«Senti Joe riportala a casa immediatamente.» Agata spalancò gli occhi e cominciò ad agitare le mani nell'aria in segno di protesta, facendo di no con la testa.
«Io credo... Credo che sia meglio rimanga un po' qui per il momento. Insomma... Finché Agata non deciderà di tornare. Penso sia abbastanza grande da prendere le sue decisioni da sola ormai.» rispose Joe.
«Ah, adesso fai il padre premuroso e responsabile?! Sparisci dalla sua vita quando ancora è un bebè e ora pretendi di sapere se è abbastanza grande o no? Passamela immediatamente.»
Agata sussurrò all'orecchio di Joe cosa dire. Lui obbedì, incerto: «Annie ascoltami. Adesso non vuole parlare. Passerà la notte qui e quando si sentirà pronta ti chiamerà lei.»
L'avvocatessa Dottinger mise giù di colpo. Joe passò il cellulare ad Agata, che decise di spegnerlo. Non voleva più avere a che fare con le persone di tutti i giorni per un bel po' di tempo. Era felice della sua scelta e certamente non le sarebbe dispiaciuto scoprire di più su suo padre, della relazione che aveva avuto con sua madre.
 
Con passo dolce e silenzioso, Joe sgattaiolò nella camera degli ospiti. «Agata?» bisbigliò.
Stordita ed intontita la ragazza aprì a fatica gli occhi. «Papà?»
«Ti ho portato la colazione in camera. Spero non ti dispiaccia se ti ho svegliato, ma io devo uscire ora, dato che sono le 10 e mezza.» disse appoggiando il vassoio sul letto. Aprì le tende di un candido azzurro ed una tiepida calda luce si intromise nella stanza, inondando Agata di un calore e di una pace simile ad un abbraccio. La sua vita si era scaravoltata, pensò Agata. Era una persona completamente diversa da ieri, con una vita del tutto differente a quella di qualche giorno prima. Ma le piaceva. Ci avrebbe fatto l'abitudine.
«Senti... So che in questo momento la situazione con i tuoi amici è un po' agitata, ma credo sarebbe una bella idea se li invitassi qui un pomeriggio.
Agata non ne aveva la minima intenzione ma annuì e ringraziò dell'ospitalità e della gentilezza che stava dimostrando come padre.
Uscito Joe, Agata vagò per la casa, curiosa di scoprire che tipo era suo padre. Il frigo era vuoto, come anche tutte le credenze e i ripostigli. Davanti alla lavatrice Agata trovò diversi cesti della biancheria, completamente pieni di magliette sformate e mutande di colore rosa. Era tipico dei ragazzi non saper fare lo smistamento dei capi, pensò Agata. Per ripagare l'ospitalità, si convinse che sarebbe stato carino da parte sua aiutarlo in casa: fare da mangiare, aiutarlo col bucato, pulire ogni stanza e fare i letti. Al termine della mattinata si sentì soddisfatta per essere riuscita a completare tutta la sua lista di commissioni: ora era davvero una casa degna di un uomo come lui.
Verso le undici e mezza, il telefono fisso di Joe cominciò a squillare. Decise di rispondere ed identificarsi come la figlia. «Casa Therfield, in questo momento Joe è fuori, ma se...»
«Agata sono Eva.»
«Eva? Come hai avuto questo numero?»
«Da tua madre, comunque non è questo il punto. Sono qui per invitarti a casa mia, per una festa. Cioè, non una festa festa come quella a casa tua. E' più un... Ritrovo di amici. Allora sei dei nostri?»
«Eva io ora sono da mio padre, voglio passare un po' di tempo con lui e...»
«Lo farai poi. Allora prendi un foglio: domani a casa mia, ore 15 e 30. A presto!» Concluse Eva riattaccando. Agata era certa che non ci sarebbe andata.

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