Stubborn love

di everlily
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. This is not a love story ***
Capitolo 2: *** Come home ***
Capitolo 3: *** Of lovers, friends and strangers ***
Capitolo 4: *** Miserable lie ***
Capitolo 5: *** Silent war ***
Capitolo 6: *** Somebody I don't know ***
Capitolo 7: *** The nearness of you ***
Capitolo 8: *** Ever fallen in love? (...) ***
Capitolo 9: *** Temporary escape ***
Capitolo 10: *** Because the night ***
Capitolo 11: *** Like a hurricane ***
Capitolo 12: *** Boys don't cry ***
Capitolo 13: *** Little broken hearts ***
Capitolo 14: *** What you hide ***
Capitolo 15: *** Wear me out ***
Capitolo 16: *** Are you mine? ***
Capitolo 17: *** A lover of long ago ***
Capitolo 18: *** Before I go ***
Capitolo 19: *** Bedroom hymns ***
Capitolo 20: *** Us ones in between ***
Capitolo 21: *** The one that got away ***
Capitolo 22: *** Accidental babies ***
Capitolo 23: *** All about you ***
Capitolo 24: *** Lovers' eyes ***
Capitolo 25: *** Epilogo. The long way home ***



Capitolo 1
*** Prologo. This is not a love story ***


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Prologo.

This is not a love story


- No, this is not a love story, but it is a story about love.
About those who give in into it, and the price they pay.
And those who run away from it, because they are afraid,
or because they do not believe they're worthy of it.
She ran away. He gave in.

(- Original Sin -)

* No, questa non è una storia d’amore, ma è una storia sull’amore. Su coloro che si arrendono ad esso, ed il prezzo che pagano. E su coloro che fuggono dall’amore, perché hanno paura, o perché non credono di meritarlo. Lei fuggì. Lui si arrese.


Mystic Falls, Estate 2005


Le note dell’assolo centrale di Layla [1], già disturbate dalla pessima ricezione radio, si interruppero bruscamente quando girai la chiave per spegnere il motore della Camaro, dopo averla parcheggiata nel vialetto d’ingresso.

Ancora prima di scendere, alzai lo sguardo sulla dependance ed individuai immediatamente la luce accesa provenire da dietro le tende della finestra della camera da letto.

Maledizione.

Quella luce, alle due di notte, poteva significare solo due cose.

La prima era che in quello stesso momento stavo per essere svaligiato dei ladri più stupidi del pianeta.

O perlomeno, desiderai che fossero dei ladri, se non altro quelli avrei potuto gestirli.

L’altra opzione, invece … non sapevo se ce l’avrei fatta.

La mia sciocca speranza svanì non appena, cercando di fare meno rumore possibile, aprii la porta e misi piede dentro casa.

Niente furfanti dal quoziente intellettivo ridotto per quella notte.

Solo lei.

Attraversai l’ingresso al buio e mi diressi a passi silenziosi verso la camera. La trovai rannicchiata su un lato del letto, sopra il groviglio di lenzuola ancora sfatte, scalza del paio di ballerine rosse che giacevano gettate a terra una sopra l’altra. La gonna del vestito disegnato in minuscoli fiori dello stesso colore le avvolgeva le cosce, e non si era neanche tolta il corto giacchetto di jeans, lo stesso che mi ero ritrovato a regalarle il compleanno precedente.

I capelli scuri le nascondevano parte del volto, ma lasciavano lo stesso intravedere le labbra appena socchiuse dalle quali fuoriusciva un leggero e regolare respiro assopito.

Ebbi un moto di frustrazione nel domandarmi di cosa si trattasse questa volta. Se di quel coglione di suo padre, di quell’idiota del suo ragazzo, di altre bollette da pagare o del fratello più piccolo di cui prendersi cura.

Mi tolsi solo la giacca e le scarpe, facendo attenzione a non svegliarla, prima di spegnere la luce e, ancora con i vestiti addosso, sdraiarmi nell’oscurità accanto a lei per circondarla con un braccio.

“Ehi,” mormorò con la voce impastata, facendosi subito più vicina, tanto che la sua mano finì per adagiarsi sul mio petto con una naturalezza che non avrebbe dovuto avere. “Sei tornato.”

“Naturalmente,” sussurrai sfiorandole la fronte calda con le labbra. “Avresti potuto chiamarmi, sarei tornato prima.”

Scosse appena la testa, un movimento che ebbe la conseguenza di solleticarmi il mento con i suoi capelli e di strofinarmi la punta del suo naso nell’incavo del collo, rendendomi duro all’istante.

Cosa cazzo c’era di sbagliato in me? Quello davvero non era il momento per una cosa del genere. Se mai il momento ci fosse stato.

Se ne accorse, lo so che se ne accorse, sia perché la parte alta della sua coscia premeva precisamente all’altezza giusta, sia perché trasalì quasi impercettibilmente, inalando un respiro più irregolare degli altri.

Ma, a parte quello, finse di non aver notato assolutamente niente.

Come sempre, del resto.

“Non volevo disturbarti,” disse in un bisbiglio.

Non risposi e mi limitai ad accarezzarle senza fretta i capelli morbidi sul retro della nuca. Odoravano di shampoo alla mora.

“Cosa è successo?” domandai, cercando di capire se avesse bisogno di parlare.

“Solo una brutta giornata,” sospirò, scaldandomi il collo con quel soffio lieve.

Sospirai anche io, ma non aggiunsi altro.

“Adesso cerca di dormire, ok?”

Le posai un bacio veloce sulla sommità della testa e restammo così, in silenzio e al buio, mentre dell’aria tiepida entrava dalla finestra socchiusa ed io mi chiedevo se sapesse quanto tutto ciò, ogni singola volta, finisse per sbriciolarmi il cuore appena un po’ di più.

Non che avesse davvero importanza. Quei tranquilli momenti nel buio erano probabilmente le uniche occasioni in cui, anche se per poco, potessi sentirla veramente mia.

Fanculo a me, non sapevo chi volessi prendere in giro.

La stramaledetta verità era che avrebbe potuto calpestarmi il cuore tutte le volte che voleva.

Lo sapevo io e, soprattutto, lo sapeva benissimo anche lei.

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Note:

[1] Layla di Derek & The Dominos (Eric Clapton)


Spazio autrice.

Moltissimi motivi mi avevano fatto ripromettere di smettere di scrivere dopo aver concluso Emotionally Damaged, ma ci sono volte in cui una storia ti entra talmente in testa che non si può fare a meno di buttarla giù e farle fare il suo corso. E questo è uno di quei casi.

Come si può intuire anche dalla data all’inizio, questo prologo è, in realtà, un piccolo flashback, in cui Elena ha 16 anni e Damon 18. La storia vera e propria però inizierà circa 7/8 anni dopo … so che è breve e che per ora non è molto, posso solo assicurare che le cose saranno piuttosto complicate per questi due, perciò restate solo se vi piace soffrire in puro Delena style.

La citazione iniziale è tratta dal film Original Sin, ma il titolo della fic è volutamente ispirato a Stubborn Love dei Lumineers.

Cercherò di mantenere la frequenza degli aggiornamenti il più regolare possibile, più o meno intorno ai 10/15 giorni: è il meglio che penso di poter fare. Spero che mi concederete la vostra pazienza!

E con questo, spero anche di essere riuscita ad incuriosirvi abbastanza da concedermi una possibilità.


un bacio

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Capitolo 2
*** Come home ***


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1.

Come home


- Come home, come home
‘Cause I’ve been waiting for you, for so long, so long
Right now there’s a war between the vanities, but all I see is you and me
And the fight for you is all I’ve ever known
So come home
(Come home, OneRepublic)

Damon


“Signore, le devo chiedere di mettere via il computer, stiamo per atterrare.”

Alzo lo sguardo verso la hostess che sorridendo gentilmente si sporge nella mia direzione.

E’ carina, con un leggero sprazzo di lentiggini sul naso e ad alcune ciocche biondo scuro che sfuggono di proposito dallo chignon di ordinanza per incorniciarle il viso sottile.

“Naturalmente,” replico chiudendo il mio lavoro e spegnendo il portatile.

“Desidera qualcos’altro?” mi domanda e questa volta il suo sorriso si fa un po’ più audace, quel tanto che basta per introdurre nella sua richiesta la giusta dose di sottintesi.

In qualsiasi altra occasione, il nome dell’hotel in cui avrebbe alloggiato quella sera sarebbe stata la prima risposta sulla punta della mia lingua. Ma questa non è qualsiasi altra occasione ed il pensiero per una volta nemmeno mi sfiora.

La congedo con un semplice cenno di diniego della testa, suscitando un accenno di delusione nel suo sorriso che comunque non vacilla, e mi allungo all’indietro sul sedile, ad osservare le distese verdi mentre lasciano il posto al complesso di edifici e strade trafficate che confluiscono in Richmond.

Mentre mi dirigo verso l’uscita del terminal, controllo distrattamente il telefono. Faccio appena in tempo a riaccenderlo ed immediatamente il suo insistente lampeggiare mi avvisa di almeno tre nuovi messaggi in segreteria.

“Damon, lo so che questo non è il momento migliore, ma c’è quell’investitore di cui ti ho parlato il mese scorso che insiste per avere un incontro. Non posso trattenerlo ancora a lungo, se non mi dici-”

Riattacco in faccia alla voce registrata di Ric, quando tra la folla variegata che attende agli arrivi, tra una donna di mezza età che tiene in braccio un cagnolino ed un ragazzino trepidante con in mano un mazzo di fiori, noto l’ultima persona che mi sarei aspettato di trovare ad attendermi.

Mio fratello si guarda attorno con le mani affondate nelle tasche, finché anche lui non mi vede dirigermi nella sua direzione e si prepara ad accogliermi con un accenno di sorriso ed un abbraccio veloce.

“Non ti avevo detto di venire a prendermi. Avrei-” inizio sorpreso, ma mi interrompe subito.

“Tu non dici mai un sacco di cose, Damon. Non ci vediamo da così tanto che era il minimo che potessi fare,” risponde con naturalezza, ma non posso fare a meno di notare come, a dispetto delle sue parole, la sua postura sia rigida e l’atteggiamento fin troppo poco rilassato, persino per i suoi standard.

“Sei arrabbiato con me,” osservo mentre ci dirigiamo nel parcheggio sotterraneo verso la sua auto, e non è affatto una domanda.

“Non sono arrabbiato con te,” replica scrollando le spalle, intanto che con il telecomando elettronico fa scattare le serrature.

“Andiamo, niente stronzate."

Stefan sospira e si blocca nell’atto di aprire lo sportello per gettarmi un lungo sguardo.

“Ok, lo sono,” conferma alzando le spalle. Non ha bisogno di aggiungere il motivo, che conosco perfettamente. Ma lo fa comunque. “Non sei venuto al funerale.”

“Ero impegnato,” taglio corto, buttando la valigia sui sedili posteriori.

“Adesso chi è che dice stronzate?”

Scuoto la testa ed entrambi saliamo in macchina. In breve tempo abbiamo già lasciato l’aeroporto per andare ad imboccare l’interstatale che corre in mezzo a distese erbacee e paesi dell’interno piccoli almeno quanto quello in cui ci stiamo dirigendo.

“Non depone neanche un po’ a mio favore il fatto che sia venuto adesso?” domando guardando fuori dal finestrino, nell’intenzione di distendere almeno un po’ l’atmosfera e placare il mio senso di colpa.

“Due settimane dopo,” replica con una smorfia.

Mi volto verso di lui corrugando la fronte.

“Non iniziare a tirare fuori gli occhietti accusatori, Stef. L’ultima volta che abbiamo parlato mi ha detto che ero come morto per lui. Beh, immagino che adesso siamo pari.”

Stefan si gira appositamente per gettarmi un’esplicita occhiata di rimprovero di fronte al mio macabro sarcasmo, ma non aggiunge altro. Le notizie sull’andamento della produzione di tabacco che stanno passando alla radio sono le uniche cose in grado di rendere il silenzio che segue ancora più pesante.

“Come sta Caroline?” tento di nuovo, andando a pescare un argomento su cui almeno so di andare sul sicuro, “Ancora nessun bambino in disperato bisogno di uno zio figo come me?”

“Se mai avrò un figlio, puoi stare certo che non lo lascerò avvicinarsi a te lontano un miglio,” ribatte, ma posso comunque vedere il suo volto distendersi per la prima volta in un accenno di sorriso sincero, che di fatto annulla qualsiasi potere della sua già vuota minaccia. “E poi, ha appena iniziato questo nuovo lavoro come assistente nel Consiglio Cittadino. E’ troppo presto.”

“Potresti assumerla come la tua di assistente. Se non altro vi fornirebbe l’occasione per interessanti giochetti di ruolo.”

“Sei disgustoso.”

“Lo so,” commento con un sorrisetto.

Abbasso la radio e torno serio per un istante.

“E che mi dici dell’azienda? Qual è la situazione adesso?”

Stefan aggrotta le sopracciglia ed emette un lungo sospiro.

“Questo …. È qualcosa di cui dobbiamo parlare.”


***


“Damon Joseph Salvatore!”

Non faccio in tempo a chiudere il portone alle mie spalle che qualcosa di biondo e profumato di vaniglia, con una spinta sorprendentemente forte per la sua piccola stazza, mi spinge all’indietro mandandomi la schiena a sbattere contro l’ingresso.

“Cosa diavolo è questa storia che stai istigando tuo fratello a mettermi un bambino qui dentro? Ho ventitré anni, per l’amor del cielo, ed intendo mantenere questa linea ancora per un bel po’, se non ti dispiace! Falli te, i bambini, se proprio ci tieni tanto!” mi urla contro con impeto, ma il fatto di interrompersi per un secondo le dà subito il tempo necessario per riflettere sulle sue stesse parole. “Anzi, no, dimentica quello ho detto. Tu non farli, che è meglio.”

“Adorabile come sempre, Barbie,” la saluto con un sorriso ironico. “Aspetta, come fai a sapere …?”

Scambio uno sguardo interrogativo con mio fratello mentre si allontana per andare a portare la mia valigia nella camera degli ospiti e lui, per tutta risposta, si stringe nelle spalle con un sorrisino consapevole.

Lo giuro: odio questi due.

Caroline mette su un broncio offeso e mi assesta un’altra spintarella indignata, questa volta più leggera.

“Non mi hai neanche dato un abbraccio.”

Scuoto la testa e mi chino per stringerla, e come le sue esili braccia mi cingono intorno al collo, mi sussurra, “Oh, e quel giochino dell’assistente? Già fatto.”

“Dio, Care, non lo voglio sapere,” commento con una smorfia sciogliendomi dal suo abbraccio.

“Ehi, sei tu che l’hai tirata fuori!”

Caroline si guarda attorno per assicurarsi che Stefan ancora non sia ritornato e prosegue a voce più bassa. “Saresti dovuto venire, lo sai vero? Per lui …” con un cenno della testa mi indica la direzione da cui Stefan è appena uscito, “… e per te. Per esserci l’uno per l’altro.”

Una stretta di rimorso mi attanaglia le viscere, ancora più forte di prima.

“E’ stato lui ad insegnarti questo sguardo accusatorio?”

“Non fare lo stronzo,” mi rimprovera, “Lo sai che hai sbagliato.”

Riesco a salvarmi dal confronto con le mie responsabilità grazie al ritorno di Stefan, rientrato in sala in quel momento insieme ad una cartelletta color rosa pallido piena di documenti.

“Penso sia il caso di lasciare voi due ragazzi da soli,” ci fa sapere Caroline mentre si infila la borsa sulla spalla e si avvicina a mio fratello per posargli, in punta di piedi, un bacio sulle labbra. “Vi ho lasciato qualcosa di pronto in cucina, se volete mangiare.”

“Grazie, Care,” risponde Stefan sorridendo al suo saluto, prima che la mia bionda quasi-cognata se ne vada facendo ciao ciao con la mano.

“Quindi …” inizia Stefan, mettendo sul tavolo i fogli che ha portato con sé ed andando ad aprire una bottiglia di bourbon, di quelle prese direttamente dal mobiletto accanto al camino. Allora deve davvero trattarsi di qualcosa di serio. “Penso che tu debba dare un’occhiata a questi.”


“Deve esserci un errore.”

Completamente sconcertato, sfoglio un’altra volta i documenti con le ultime volontà di nostro padre che Stefan mi sta illustrando ormai da una buona mezzora.

Il vetro del suo bicchiere riflette per un secondo la luce bassa e calda del tardo pomeriggio che entra dalle vetrate della sala, mentre mio fratello si stringe nelle spalle e ne prende un altro sorso.

“Nessun errore. Credi che non abbia fatto controllare tutto più volte?”

“Allora vuol dire che era impazzito,” concludo, chiudendo tutto e posandolo nuovamente sul tavolo. Mi alzo dal divano e mi dirigo verso lo scrittoio dove Stefan ha lasciato la bottiglia di bourbon per versarmi un secondo drink, mentre ad alta voce continuo ad esporre il filo del mio ragionamento che, ovviamente, non fa una piega, “Perché per otto anni ha fatto finta che io non esistessi e questa cosa, adesso … non ha minimamente senso. Te lo dico. Era andato fuori di testa e tu non te ne sei accorto.”

“Era perfettamente lucido,” obietta Stefan, mentre io scuoto la testa e butto giù un altro sorso, tanto per vedere se mi aiuta a capire il senso di tutto ciò. Si alza, si avvicina per posarmi una mano sulla spalla e prosegue con fare ironico. “Congratulazioni, sei l’orgoglioso proprietario delle azioni di maggioranza delle Salvatore’s & Associates.”

“Stefan …” inizio, del tutto a corto di parole. Poso il bicchiere e lo guardo a lungo, prima di continuare per cercare di farlo ragionare. “Non voglio il controllo dell’azienda. Dovresti averlo tu. Io non voglio averci niente a che fare.”

“Non l’ho scelto io,” replica incrociando le braccia sul petto.

“Beh, puoi farlo adesso. Puoi prenderti tutta la mia quota,” offro con un piccolo barlume di speranza, ma dalla faccia di Stefan capisco che la sta già reputando l’idea più stupida del mondo.

“Non essere idiota,” mi conferma, “Non voglio regali e comunque non avrei i fondi per comprarla in ogni caso. La situazione non è delle migliori.”

“Cosa vuoi dire?”

Aggrotto la fronte e lo guardo sospettoso, mentre lui sospira e si appoggia all’indietro contro lo scrittoio.

“La crisi, un paio di investimenti sbagliati. Se non facciamo qualcosa, siamo praticamente sull’orlo del fallimento.”

Mi osserva in silenzio, in attesa di una mia risposta.

“Perché non mi hai mai detto niente?”

“Non lo sapevo. L’ho scoperto … in queste circostanze.” Il volto di Stefan si tira in un’espressione preoccupata e affranta che mi colpisce dritto all’altezza dello stomaco. “Damon, non posso perderla. Noi non possiamo perderla. Ho bisogno del tuo aiuto.”


***


Resto ancora qualche minuto fermo nella vecchia Camaro, a tamburellare sul volante e ad osservare la piazza principale di Mystic Falls che via via si popola sempre un po’ di più del traffico di gente della tarda mattinata. La fontana che sta al centro per una volta sembra aver deciso di funzionare, ed il Grill, davanti a me, almeno dall’esterno sembra avere lo stesso aspetto di sempre. Sulla facciata ad est noto una scoloritura dell’intonaco ed immediatamente mi dico che devo ricordarle di farlo sistemare.

No, non devo. Non è affar mio.

Scuoto la testa fra me e me, stacco la chiavi dal quadro ed infine mi decido ad andare a trovarla.


Quando la sentii muovere la lingua più a fondo dentro la mia bocca, lo presi come un buon segno. Così la spinsi all’indietro, contro il tronco dell’albero alle sue spalle, e sapendo di essere abbastanza appartati dal resto della festa, non esitai oltre. Feci scendere la mano abbastanza in basso da poterla intrufolare sotto la corta gonna da cheerleader e risalii lungo la coscia puntando dritto verso il bordo delle mutandine.

“Cosa pensi di fare?” strillò scansandomi bruscamente la mano dalle sue gambe.

Alzai gli occhi al cielo e sbuffai scocciato.

“E dai, Kirstie, lo so che a Jimmy Donovan due settimane fa glielo hai lasciato fare.”

Lei incrociò le braccia sul petto e si strinse nelle spalle con fare di sufficienza.

“Perché lui mi ha portato al cinema e poi mi ha comprato questo,” replicò sventolandomi sotto al naso il polso da cui pendeva una catenina di bassa lega con alcuni ciondoli attaccati.

“Un braccialetto?” domandai stupito, “Posso darti 10 dollari e domani puoi comprarti tutti i braccialetti che vuoi.”

Cazzo. Quella mi era davvero uscita male.

“Mi stai sul serio dando della prostituta?!”

Non fui costretto a rispondere alle conseguenze delle parole che mi avevano appena bandito a vita dall’accesso alle mutandine di Kirstie Davidson, grazie al rumore di un ramo spezzato a pochi passi da noi.

Mi voltai di scatto ed in mezzo al fitto degli alberi, rischiarato dalle luci del falò di fine anno che si stava svolgendo a qualche metro di distanza, scorsi la figura minuta della ragazza che aveva appena causato quell’interruzione.

Arretrò di un passo, visibilmente a disagio.

“Mi dispiace, io stavo solo …”

“Cosa cavolo hai da guardare?” la interruppe Kirstie risentita.

“Lasciala in pace,” le intimai.

Se gli sguardi potessero incendiare, con quello sarei già stato ridotto a nient’altro che un mucchietto di cenere.

“Bene. Allora le mani vai a infilarle sotto la sua di gonna.”

Kirstie se ne andò spintonandomi per allontanarmi da lei, lasciandomi lì con quella ragazzina che adesso come minimo mi considerava alla stregua di un maniaco sessuale.

“Non ho intenzione di infilarti le mani da nessuna parte, tranquilla,” cercai di rassicurarla alzando le mani in segno di resa. “Anche perché stai indossando i jeans.”

Lei sollevò un sopracciglio e mi guardò confusa.

“Insomma, non ti toccherei mai,” tentai subito di rimediare.

Ma impiegai la frazione di un secondo, precisamente quello che mi servì per incrociare i suoi intensi occhi scuri e spostare lo sguardo sulle sue labbra ancora socchiuse per lo sconcerto, per rendermi conto di aver appena detto la cazzata del secolo.

“Ok ...” mormorò.

“Non che non vorrei,” mi affrettai a precisare, peggiorando se possibile ancora di più la situazione. “Voglio dire ...”

Santo cielo, Damon, chiudi quella cazzo di bocca.

“Sono Damon,” finii per dire, buttando fuori il mio nome quasi come se fosse una giustificazione.

Abbassò lo sguardo ed una ciocca di capelli le finì sugli occhi. La scostò per portarsela dietro l’orecchio, gesto mi permise di vedere il mezzo sorriso che le piegò le labbra.

“Lo so,” rispose piano, strofinando la punta delle converse nel terriccio umido.

Era una cosa buona?

“Sono Elena,” aggiunse, questa volta sorridendo apertamente nella mia direzione.

“Non dovresti essere al falò?” le domandai indicando il luogo della festa con un cenno del capo, senza riuscire a non farmi sfuggire un sorriso più malizioso, “Rischi di fare brutti incontri a girare da sola nel bosco.”

“Come te?” ribatté divertita con aria di sfida.

“Esatto,” le confermai, annuendo con fare solenne, “Sono un pessimo, pessimo incontro. Corri via più in fretta che puoi.”

Rise, ed immagino che fu quella risata limpida a conquistarmi più di qualsiasi altra cosa. Quella ragazza davvero sapeva come ridere.

“Penso di sapermi prendere cura di me stessa,” mi rassicurò con fare serio, ma con un accenno di sorriso ancora lì, agli angoli della bocca.

“Non ne ho dubbi.”

Stava per aggiungere qualcos’altro, ma il rumore di un clacson proveniente dalla strada che correva poco distante ci fece voltare entrambi in quella direzione.

“È mia madre,” osservò Elena e mi sembrò di vedere un accenno di delusione nel modo in cui corrugò leggermente le sopracciglia. “Devo andare.”

“E’ stato un piacere, Elena,” la salutai.

Si allontanò, ma si voltò comunque un’ultima volta per rivolgermi un altro sorriso, che mi rimase particolarmente impresso. Forse perché, dopo quella notte, passò molto, troppo, tempo prima che potessi vederla di nuovo sorridere in quel modo.


Quando metto piede dentro al Grill, non impiego molto ad individuarla. Non so se sia colpa di una qualche mia capacità sviluppata in passato e che ancora non ho perso, o solo dell’incredibile facilità con cui, senza saperlo, riesce a risaltare anche in una stanza colma di persone.

E’ girata di spalle e si sporge sulle punte dei piedi per rimettere al suo posto una bottiglia nello scaffale dietro al bancone. Quel gesto le solleva l’orlo della maglietta, scoprendole appena la linea del fianco, ed io perdo il controllo dei miei pensieri nell’immaginare le cose che vorrei farle in questo momento.

Sono un caso senza speranza. Non importa quante belle ragazze siano passate nel mio letto, le lunghe gambe che sono adesso in fronte a me, coperte solo da un paio di corti pantaloncini di jeans, riescono ancora con niente a dominare qualsiasi mia fantasia.

“Qualcuno mi ha detto che avete i migliori hamburger del posto.”

Elena si volta di scatto mentre prendo posto al bancone e trasale con un profondo respiro quando il suo sguardo stupito incrocia il mio.

“Damon …” esala il mio nome in un soffio e non posso fare a meno di sentirmi almeno un po’ compiaciuto nel vedere che le faccio ancora qualche effetto.

“Elena,” replico con naturalezza.

Si guarda un attimo attorno spaesata. Non so se stia per caso aspettando anche la banda in grande stile o forse, più probabilmente, qualche catastrofe imminente.

“Cosa ci fai qui?” mi domanda. C’è l’accenno di un sorriso di piacevole sorpresa sulle sue labbra che sembra stia per venire fuori, ma no, non arriva mai alla superficie. Se ne va così velocemente come era apparso.

“Oh, lo sai,” mi stringo nelle spalle e, noncurante, agito una mano nell’aria, “Padre morto, eccetera eccetera.”

“Lo so,” risponde a voce più bassa, con fare partecipe. “Mi dispiace.”

Scrollo le spalle e lei approfitta del mio silenzio per proseguire più esitante. “Non eri al funerale.”

“Questo è il mio crimine, sì. Continuano a ripeterlo tutti,” replico con una smorfia, “C’è qualcosa di meno deprimente di cui possiamo parlare?”

Jenna sceglie proprio quel momento per chiamarla dalle cucine e, come si volta in quella direzione, so già che l’ho persa e che userà quell’occasione per spostare altrove la sua attenzione.

“Damon, mi dispiace, ma … devo lavorare.”

Visto? Potrei scrivere un libro sulla straordinaria abilità di Elena Gilbert di battere in ritirata.

“Quanto resterai?” si degna di domandarmi prima di andarsene.

Sto quasi per rispondere, ma un piccolo luccichio attira il mio interesse. Sposto lo sguardo sulle sue dita affusolate appoggiate contro il bancone e sento lo stomaco contrarsi in uno spasmo quando mi accorgo della sottile fascia che circonda il suo anulare sinistro, con tanto di brillante nel mezzo.

Lei nota la mia espressione smarrita, perché immediatamente sottrae imbarazzata la mano dalla mia vista infilandosela nella tasca posteriore dei jeans.

Ma è pazza se pensa davvero che lasci perdere in quel modo.

“Elena, cosa diavolo significa?”


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Capitolo 3
*** Of lovers, friends and strangers ***


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2.

Of Lovers, Friends and Strangers


Elena


Non amo gli imprevisti.

Ecco perché, ad ogni inizio di nuova giornata, la mia prima operazione, ancora prima di mettere piede fuori dal letto, è quella di stilare una lista mentale di tutti i possibili contrattempi che potrebbero capitare e prepararmi per poterli affrontare a dovere.

Filtri da caffè impazziti, ispezioni a sorpresa, mancate consegne: questo è il genere di inconvenienti che sono sempre preparata a gestire.

Ma Damon Salvatore, nel mio bar, ad interrogarmi con l’espressione da animale ferito su come la mia vita sia andata avanti senza di lui? Questo è il genere di evento che non rientrava neanche sotto la categoria delle “remotissime probabilità”.

La cosa peggiore è il modo in cui tutto ciò finisce per farmi sentire. Mi è bastato vedere il suo sguardo dopo aver notato il mio anello di fidanzamento, quel passaggio repentino dalla sorpresa, allo smarrimento, fino all’amarezza, per essere investita da un’inaspettata ondata di senso di colpa.

Incredibile. Lui è quello che sparisce per otto anni, non una chiamata, non un messaggio. Eppure, a passare come il cattivo della situazione, chissà perché, sono io.

A quel pensiero, basta un attimo ed ogni briciola del rimorso iniziale si trasforma in rabbia.

“Adesso non ho tempo per questo, Damon,” replico con fare tagliente.

Mi allontano dal bancone, mi allontano da lui, più in fretta che posso, ma ciò non mi impedisce di percepire la sensazione del suo sguardo su di me, che non mi lascia neanche per un istante.

“Lui chi è?” mi grida dietro, quasi strozzando le parole.

Lo ignoro e tento la ritirata verso la cucina.

Ma Damon è più veloce, mi segue e mi afferra per una mano, costringendomi a fermarmi sui miei passi.

Non è una presa forte la sua, al contrario, è talmente leggera che se solo volessi potrei sgusciare via in un solo secondo. Ma non lo faccio.

Rimango immobile, mentre sento le sue dita intrecciarsi delicatamente alle mie in una tacita richiesta.

Inspiro a fondo, cercando di riprendere il controllo del mio respiro. Serve a ben poco, però, perché nel momento in cui infine mi decido a voltarmi, ho il cuore che martella impazzito quando i miei occhi incontrano l’intensa sfumatura di azzurro di quelli dell’uomo al quale per anni ho cercato di non pensare, ma che al tempo stesso so di aver desiderato rivedere almeno con pari intensità.

Vorrei poter dire che è cambiato, che non lo riconosco più, perché, per qualche motivo, quel pensiero mi farebbe stare meglio, ma non è proprio così. Certo, i tratti da ragazzo sono scomparsi, ma le nuove linee intorno agli occhi e alle labbra lo rendono più affascinante di quanto sia mai stato, ed il suo sguardo mi confonde ancora come mi confondeva anni fa.

Non dovrei pensare in questi termini. Non dovrei fare certi pensieri.

Sospiro e non so perché mi guardo attorno cautamente, come se stessimo facendo qualcosa di sbagliato. Anzi, non so perché non glielo dico e basta, invece di comportarmi come quella in dovere di giustificarsi e fornire spiegazioni.

Perché lo so che io non devo niente a lui, così come lui non deve niente a me, tantomeno adesso, quando otto anni di distanza dovrebbe essere stati sufficienti ad aver spazzato via anche i residui di ciò che poteva legarci un tempo e renderci due perfetti estranei.

Allora perché, invece, continuo a sentirmi in debito di una spiegazione nei suoi confronti?

“Ascolta …” inizio, cercando di addolcire la mia voce e farne una gentile richiesta, “Troveremo il momento per parlare, ok? Solo che … adesso non è quello giusto.”

La sua mano scivola via dalla mia, mentre le sue labbra si contraggono in un sorriso amaro.

“Naturalmente non lo è.”

Apro la bocca per dire qualcosa, ma so che non c’è davvero molto da dire. Quindi resto semplicemente immobile a guardarlo scuotere la testa ed andarsene senza neanche voltarsi indietro.

A riscuotermi è la voce di Jenna, che per una seconda volta mi chiama alle mie spalle.

“E’ tutto a posto?” mi domanda leggermente preoccupata, quando infine mi volto per prestarle attenzione.

Mi guardo intorno, valutando rapidamente che c’è ancora del tempo prima dell’affollamento delle ore di pranzo, e mi sciolgo il grembiule, rivolgendole un sorriso di scuse.

“Jenna, mi prendo qualche minuto, ok? Torno subito.”

Attraverso la piazza centrale di Mystic Falls, dopo aver attentamente controllato che Damon non sia più nei paraggi.

E’ una piacevole giornata primaverile, quasi estiva, quella all’esterno. L’arrivo imminente della bella stagione è segnalato anche dal traffico della piazza più movimentato del solito, grazie all’arrivo dei primi gruppi di campeggiatori, di passaggio prima di andare ad accamparsi nei boschi circostanti.

Sheila mi accoglie con un sorriso quando entro al Bennett’s Antiques, annunciata dal leggero tintinnio del ciondolo appeso all’ingresso, che per un attimo cattura la luce vivace dell’esterno e la riflette all’interno del negozio in tutte le sue diverse sfumature.

“Cosa posso fare per te, bambina?” mi domanda gentilmente.

“Buongiorno Sheila,” le sorrido di rimando, “Bonnie è qua?”

“La trovi sul retro a finire l’inventario,” mi fa sapere.

La ringrazio e con sicurezza mi dirigo verso il retro, gettando nel passare uno sguardo distratto al variegato insieme di mobili, ninnoli, gioielli ed altri generi di oggetti strani che riempiono il negozio. Quando ero piccola, non era difficile pensare a quel posto come all’antro di una strega, ricordo con un sorriso.

Trovo Bonnie sulla sommità di una piccola scala, intenta a controllare alcuni scaffali troppo in alto per la sua bassa statura e a scribacchiare appunti sulla cartellina-elenco che sta tenendo in mano.

“Ehi!” mi saluta distrattamente non appena mi sente arrivare. Quando si volta nella mia direzione, però la sua espressione si fa subito più seria. “Tesoro, cosa è successo?”

“Damon è qui,” annuncio tutto d’un fiato, “E’ passato dal Grill solo poco fa.”

Bonnie alza un sopracciglio e mi scruta con sospetto. “Stai bene? Sembri … agitata.”

Posa ciò che ha in mano e scende per venirmi incontro.

“Sì, certo che sto bene, solo … Non me lo aspettavo.”

“Andiamo di là, ti va?” mi propone, ed io la seguo senza obiettare nel piccolo giardinetto che si apre sul retro del negozio.

In alto, una copertura di edera intrecciata offre ombra e riparo dal sole, creando un piccolo ambiente confortevole che per noi è sinonimo di pomeriggi estivi passati a scambiare confidenze e a bere the freddo da più tempo di quanto possa ricordare.

“Pensi che lo sapesse?” continuo, mentre ci accomodiamo entrambe sulle sedie di ferro battuto che circondano il tavolino di fattura abbinata. “Caroline, intendo. Se Damon è in città, Caroline deve saperlo per forza. Ma non mi ha detto niente. E’ tutta colpa sua, avrebbe dovuto dirmelo,” sentenzio decisa, finalmente soddisfatta di poter scaricare su qualcuno la responsabilità della mia reazione irragionevole e poco chiara di poco prima.

Ma Bonnie continua a guardarmi dubbiosa, come se si stesse perdendo chissà quale passaggio fondamentale. “Perché?”

“Perché così mi sarei preparata!”

“Preparata per cosa?”

Per trovare qualcosa da dire? Per non farmi prendere completamente alla sprovvista dalla sua presenza? Neanche io so bene per cosa.

Di fronte al mio silenzio, Bonnie si sporge nella mia direzione con fare conciliante. “Penso che la vera domanda sia … perché hai bisogno di ʿpreparartiʾ per rivedere un vecchio amico?”

“Damon non è un amico,” replico con una smorfia.

“Eh no, Elena, non di nuovo,” mi ammonisce seria, “Non farti risucchiare nuovamente in qualsiasi cosa voglia Damon da te.”

“Non c’è niente in cui essere risucchiati, Bonnie,” rispondo scuotendo la testa.

Damon non era mai stato la persona preferita di Bonnie, se così si può dire. Buona parte del motivo è da attribuire ad un rancore di vecchia data tra le Bennett e gli uomini Salvatore, merito di una relazione extraconiugale tra Sheila e Giuseppe finita nel peggiore dei modi; il resto lo avevano fatto due personalità semplicemente non tagliate per andare d’accordo.

Tanto che Caroline, quando al liceo aveva iniziato a frequentare Stefan, lo aveva tenuto nascosto da Bonnie per almeno un paio di mesi, prima di uscire allo scoperto. Era stata una grossa crisi nella nostra triplice amicizia, risoltasi solo quando Stefan aveva infine ricevuto anche la sua approvazione, dopo lunghi tentativi. Ma Damon? Bonnie non aveva mai smesso di guardare con sospetto al nostro rapporto, che non aveva mai considerato come la semplice amicizia che invece io continuavo ad assicurarle che fosse.

Morale della favola: Bonnie aveva finito con l’avere ragione e, se aveva avuto ragione una volta, molto probabilmente ha ragione anche in questo caso. Non posso lasciare che questo flusso inaspettato di ricordi ed emozioni mi sconvolga fino a questo punto.

“Non stai avendo dei ripensamenti, vero?” mi domanda di punto in bianco, scrollandomi dalle mie riflessioni.

“Cosa? No!” mi affretto a negare. “No, assolutamente no. E’ solo … ha solo portato fuori un po’ di ricordi, tutto qua.”

“Bene,” prosegue più decisa. Si alza con il volto illuminato da un sorriso soddisfatto, “Perché ho una sorpresa per te.”

La osservo con interesse mentre si dirige di nuovo all’interno ed attraverso la porta rimasta aperta posso intravederla cercare qualcosa nel cassetto di un mobile di legno chiaro.

“Sai che Carol mi ha chiamato qualche giorno fa per aiutarla ad allestire la mostra dell’anniversario della fondazione, così …” Dal cassetto tira infine fuori una piccola scatola blu. “… in mezzo alle varie anticaglie, guarda cosa ho trovato.”

Si avvicina per porgermi il cofanetto, che apro incuriosita. Trattengo il fiato quando rivelo il suo contenuto, un paio di orecchini con montatura in oro bianco ed un semplice pendente di perla bianca a goccia.

“Ho pensato che potessero essere il tuo ʿqualcosa di vecchioʾ,” mi dice con un sorriso orgoglioso.

La guardo a bocca aperta, incapace di articolare parole.

“Bonnie, sono stupendi, ma non posso accettare …”

“Sciocchezze! Adesso arriva la parte migliore.” Si siede accanto a me e mi chiude le dita attorno alla scatola. “Miranda li aveva dati in prestito per un evento simile anni fa, solo che … lo sai. Nessuno li aveva mai richiesti indietro. Sono tuoi in ogni caso.”

Ho quasi le lacrime agli occhi mentre la abbraccio di slancio, ed un “grazie” soffocato è l’unica cosa che, commossa, riesco a mormorare.


La piccola scatola che era di mia madre pesa piacevolmente dentro la mia tasca quando esco dal negozio di Bonnie con l’intenzione di tornare al Grill.

Solo che poi la vedo. Sulle scale che fronteggiano l’edificio in mattoncini rossi del Comune, in braccio uno scatolone che cerca disperatamente di tenere in bilico aiutandosi con il ginocchio a dispetto dei tacchi, mentre annuisce convinta a qualsiasi cosa Carol Lockwood le stia dicendo.

Ed io ho l’istantaneo istinto di ucciderla.

Quando Carol la congeda con un frettoloso gesto della mano, per niente al mondo intendo farmi scappare quell’occasione.

“Caroline!” la chiamo a gran voce.

Si volta nella mia direzione e, nell’attimo stesso in cui mi vede, la sua espressione si trasforma in quella di un cerbiatto appena sorpreso dai fari di un camion.

“Elena!” risponde in tono acuto, “Sono davvero di fretta al momento, Carol mi sta facendo impazzire per stare dietro a questa mostra, e-”

“Oh, non ci provare!” la ammonisco, arrivandole di fronte. “Tu sapevi che era qua, non è vero?”

Scuote la testa freneticamente, da sinistra a destra, ancora e ancora, tanto che anche i suoi capelli oscillano da una parte all’altra.

“Non ho idea di cosa tu stia parlando,” butta là, ma la sua faccia tosta dura poco di fronte allo sguardo inceneritore che le rivolgo. “Ok, va bene! Sì, lo sapevo,” ammette con un sospiro posando lo scatolone sul muretto che costeggia la scalinata. “E’ arrivato ieri, ma è stata davvero una cosa dell’ultimo momento, te lo giuro, e non ho avuto modo … Aspetta, vi siete visti?”

“E’ passato dal Grill poco fa,” mi limito a farle sapere, evitando accuratamente di menzionare la discussione che non ho avuto intenzione di affrontare con lui, perché so già cosa Caroline avrebbe da dire al riguardo e non sono in vena di sentirla. “Sai perché è qui, quanto resterà?” domando invece.

“Ci sono alcune questioni con la compagnia che lui e Stefan stanno cercando di risolvere. Non lo so quanto rimarrà,” risponde stringendosi nelle spalle, ma i suoi occhi si sgranano felici mentre tenta con tutte le sue forze di reprimere un sorriso. “Perché?” mi domanda con fare fintamente casuale, “Tu vuoi che resti? …”

“Può fare quello che vuole. Non mi riguarda.”

“Ok …” Caroline mi guarda con una fastidiosa espressione accondiscendente ed il suo annuire per darmi ragione suona terribilmente come una presa in giro. “Se lo dici tu.”

“Caroline, non iniziare.”

Voglio bene a Caroline come ad una sorella, ma la detesto quando fa così. Forse la sua relazione di lunga data ha accentuato la cosa ancora di più, ma la verità è che tutto ha avuto origine dal giorno in cui ha notato Stefan ad un allenamento di football ed ha deciso seduta stante, a soli 15 anni, che il loro matrimonio sarebbe stato nel mese di giugno. Fatto sta che i Salvatore potrebbero tranquillamente darle una medaglia al valore in quanto loro più accanita fan girl.

Si fa segno con le dita sulle labbra tanto per sottolineare il suo silenzio, ma la vedo che si sta ancora sforzando di trattenere un sorrisino che crede di aver capito tutto. Beh, non è così.

“Siamo ancora d’accordo per la cena di venerdì, vero?” le chiedo, tanto per farglielo capire e renderle ancora più chiaro il concetto.

Sospira con fare teatrale. “Naturalmente.”

“Care …” inizio a rimproverarla.

“Ascolta, ho promesso, ok?” ribatte, punta sul vivo, “Non sono affatto convinta dell’idea che tu sposi questo tizio e, sia chiaro, non ha niente a che vedere con il fatto che ti sposi prima di me, cosa che se ben ricordo avevi promesso di non fare. Ok, forse un pochino ha anche a che fare con quello, ma …” Alzo gli occhi al cielo, non riesco davvero a credere che mi ritenga ancora in dovere di tener fede ad una promessa fatta quando giocavamo con le bambole, “… ho promesso che avrei cercato di farmelo piacere, e proverò a farlo. Se tu sei felice, io sono felice.”

“Grazie,” le dico sincera, per farle sapere quanto apprezzi il suo sforzo. “Lo sai che è importante per me.”

“Lo so, tesoro,” mi sorride, “E adesso davvero devo andare, o non ci sarà mai nessuna cena perché Carol avrà preteso la mia testa su un piatto d’argento e sarà l’unica cosa che ritroverete, dopo che avrà finito con me.”


***


Sto finendo di chiudere il registro di cassa, quando mio fratello Jeremy mi passa accanto in un soffio e mi lascia un veloce bacio sulla guancia.

“Esco con degli amici, non mi aspettare.”

Guardo l’orologio a muro che segna l’una passata, e scuoto la testa rassegnata.

“Non fare tardi!” gli grido dietro, come se potesse davvero servire a qualcosa, ed infatti è già sparito oltre la porta, alzando solo la mano in segno di saluto senza neanche voltarsi.

Anche Jenna si sfila il grembiule e mi domanda. “C’è bisogno di altro?”

“No, grazie, abbiamo finito per stasera,” la ringrazio con un sorriso.

“Ho chiesto a Vicky di sostituirmi per il turno di domani sera,” mi annuncia sedendosi su uno sgabello di fronte a me.

Di fronte a quella notizia, le rivolgo una smorfia contrariata. Detesto Vicky, non è brava neanche la metà di Jenna nel preparare i cocktail, flirta con chiunque le dia un po’ di attenzione, e non mi piace neanche un po’ il modo in cui ha iniziato a guardare Jeremy da quando è diventato maggiorenne.

“Farai meglio ad avere una buona scusa per lasciarmi una sera extra con quella là,” le dico scherzosamente.

“Beh,” sul suo volto passa un accenno di sorriso, mentre si scioglie la coda e lascia ricadere i capelli biondo ramati sulle spalle, “Ho un appuntamento.”

“Allora sei pienamente scusata,” le concedo sorridendole di rimando. Mi sporgo verso di lei con fare complice appoggiando i gomiti sul bancone in trepidante attesa di maggiori dettagli. “Chi è il fortunato?”

La vedo esitare, e non è buon segno.

“Logan Fell.”

“Logan-la-merdaccia-Fell?” esclamo delusa, “Quel Logan Fell?”

“Non chiamarlo in quel modo,” mi rimprovera puntandomi un dito contro.

“Sei tu che lo chiami in quel modo,” le ricordo. “E per una buona ragione. E’ andato a letto con un’altra!”

“Lo so, ma è stato tanto tempo fa, ed ha insistito molto sul fatto che è cambiato, e che vuole dimostrarlo … ” Jenna si stringe nelle spalle e prosegue nella sua difesa dell’indifendibile, non facendo altro che confermare la mia opinione: ho sempre pensato che fosse troppo buona.

“Non pensi che le persone meritino una seconda possibilità?” mi domanda posando il mento sulla mano.

“Penso che certe porte chiuse è bene che restino tali,” rispondo piano. Abbassando lo sguardo sulle mie mani, noto che le mie dita si stanno intrecciando tra loro nervosamente.

“Anche se non sono veramente chiuse?”

Alzo di nuovo gli occhi incontrando quelli verdi di lei, ma so di non avere una risposta alla sua domanda, sulla quale non voglio davvero soffermarmi a riflettere. E per motivi ben diversi da Logan-la-merdaccia-Fell.

“Solo … stai attenta, ok?” le dico un po’ apprensiva.

“Ho quasi trent’anni, sono una ragazza grande, Elena. Non devi prenderti cura anche di me,” ride lei.

“Non essere sciocca,” scuoto la testa e scaccio quel pensiero ridicolo agitando una mano nell’aria.

Non ha tutti i torti però. Jenna è la cosa più simile ad una sorella maggiore che abbia mai avuto, e preoccuparmi per lei mi risulta naturale.

E non è solo perché lavoriamo insieme da quasi dieci anni, o perché sia impossibile non volerle bene, ma perché lei per me è stata, ed è tutt’ora, molto, ma molto di più della semplice barista che avrebbe dovuto essere quando, appena ventunenne, aveva accettato quel lavoro. Ci sono molte volte in cui mi chiedo come sarei riuscita a gestire tutto, senza avere lei al mio fianco.


Guardai Jenna togliersi e mettere via il grembiule, ripiegandolo con cura come fa sempre dopo la chiusura, e mi avvicinai a lei leggermente esitante.

“Posso chiederti ancora un favore?” le domandai con una punta di apprensione, insicura se quello fosse chiedere troppo.

“Certo.”

Con lo sguardo le indicai mio fratello addormentato su uno dei divanetti ad angolo, la testa appoggiata sul gomito ripiegato ed i capelli neri spettinati sulla fronte.

“Potresti per favore portare Jeremy a casa?”

Vedendola esitare, mi affrettai ad aggiungere, “Solo se puoi, altrimenti non importa.”

Mi rivolse un leggero sorriso, fece il giro del bancone e si sedette in fronte a me prendendomi le mani tra le sue.

“Non è questo il problema …”La guardai senza capire per alcuni istanti. “Tesoro, stai facendo un lavoro incredibile, ma hai quindici anni, non dovresti essere sveglia ad un’ora così tarda a chiudere bar.” Stavo per obiettare che non ci fossero molte alternative, ma lei proseguì prima di darmene il tempo, la sua voce così gentile da fare quasi male. “Tuo padre ha bisogno di aiuto, Elena.”

Seguii il suo sguardo fino a mio padre mezzo addormentato ad un tavolino davanti ad un bottiglia di whiskey quasi vuota, con la testa appoggiata contro la parete.

“Ha solo bisogno di un po’ di tempo per superare quello che è successo a mamma,” replicai scuotendo la testa.

“Sono passati tre mesi,” proseguì Jenna, “Non avete qualche parente che possa darvi una mano? So che tua madre aveva una sorella, a Denver, magari lei potrebbe-”

“No,” la interruppi con decisione, subito invasa dal panico, “Ci porterebbe via, ha già detto che lo farebbe, via da qua, via da papà, e non posso permetterlo, Jenna ti prego, non voglio andare via …” la implorai sentendo la lacrime salirmi agli occhi.

“Ok, ok,” mi tranquillizzò stringendomi le mani con dolcezza, “Nessuno vi porterà via. Ma non so se …”

“Ascolta,” mi sporsi fino al bordo dello sgabello per cercare il suo sguardo e cercare di spiegarle la situazione con calma, sorridendole rassicurante per tentare di convincerla. “Non è così tutto il tempo, lo vedi anche tu. Solo quando diventa particolarmente triste.”

Jenna gettò un altro sguardo verso mio padre e sospirò tornando a voltarsi nella mia direzione. “Va bene. Ma ne riparleremo di nuovo, ok?”

Annuii convinta, mentre Jenna si alzava per andare a prendere in braccio Jeremy e portarlo a casa.

Quando se ne fu andata, mi sedetti infine al tavolo di fronte a mio padre.

“Papà …” lo chiamai. Sollevò le palpebre, e mi guardò con occhi sfocati, “Papà, è tardi, io e Jenna abbiamo già chiuso tutto, penso che dovremmo andare a casa.”

“Solo altri dieci minuti …” farfugliò tornando a posare la testa sulla mano.

“Papà, io ho scuola domani …”

Corrugò la fronte sorpreso. “Come mai ti fanno andare a scuola durante le vacanze?”

“Non sono le vacanze, la scuola è ricominciata una settimana fa …” tentai di spiegare.

Per un attimo si riscosse e si raddrizzò, lo sguardo improvvisamente colmo di sensi di colpa.

“Oh, cazzo, Elena, mi dispiace, mi dispiace così tanto, io davvero non …”

“Va bene, va bene, non ti preoccupare,” lo rassicurai prendendogli una mano, “Però adesso andiamo a casa, ok?”

Lo aiutai ad alzarsi ed insieme iniziammo ad incamminarci verso casa, lasciando l’auto, per la quale ancora non avevo la patente, nel parcheggio del Grill. Data l’ora tarda ed la stagione turistica ormai agli sgoccioli, la notte era silenziosa, e l’aria, a dispetto delle temperature diurne ancora piuttosto elevate, era piuttosto fresca.

Quando mio padre inciampò improvvisamente, borbottando qualcosa che non riuscii a capire, e persi l’equilibrio insieme a lui, sotto al suo peso, ero già pronta per l’impatto con l’asfalto, che però non avvenne mai.

“Ci sono, ci sono.”

Alzai lo sguardo sorpresa verso la voce di colui che aveva appena afferrato mio padre impedendogli di cadere, ed il cuore mi affondò nel petto quando incontrai l’azzurro vivo degli occhi che adesso mi stavano osservando con un accenno di preoccupazione.

Ancora ricordavo bene la prima volta che avevo scambiato qualche parola con Damon: il modo in cui non riuscivo a smettere a sorridere, il nervosismo che potesse liquidarmi come una ragazzina non degna delle sue attenzioni, la delusione di dovermene andare quando infine mia madre era arrivata per prendermi. Probabilmente, se la mia vita non fosse cambiata così drasticamente dopo quella sera, il mio stomaco avrebbe iniziato a fare le capriole per il fatto di trovarmi di nuovo di fronte a lui.

Adesso, sarei solo voluta scomparire.

“Mi dispiace, non è …” cercai di spiegare, arrossendo violentemente.

“Non è niente,” mi rassicurò lui, rivolgendomi un confortante mezzo sorriso, “Ho amici che sono stati in condizioni peggiori.”

Annuii e reciprocai il lieve sorriso, senza saper bene cosa dire.

“Elena, giusto?”mi domandò corrugando appena la fronte. “Ci siamo incontrati, alcuni mesi fa ….”

“Sì …”dissi un soffio. “Mi ricordo.”


Decido di tornare a casa piedi, un po’ per il clima piacevolmente tiepido, un po’ perché so che camminare può aiutare a smaltire una giornata con un po’ troppi pensieri almeno quanto può aiutare a smaltire una serata con un po’ troppo alcol. Decido di camminare, anche se mio padre è sobrio da mesi e so perfettamente che Damon non sbucherà ad offrirmi un passaggio fino a casa, come fece la notte che iniziò ad entrare nella mia vita.

Quando arrivo a casa, mi dirigo verso la cucina ed opto per uno spuntino notturno a base di Lucky Charms [1] che porto con me in camera, vizio che non ho perso sin da quando ero piccola.

Ho appena posato la ciotola sulla scrivania ingombra di ritagli di fotografie di abiti bianchi, fiori e torte a più piani con cui Caroline non ha esitato a sommergermi a dispetto di tutte le sue rimostranze, quando il mio telefono inizia a suonare.

Un leggero sorriso si forma sulle mie labbra quando noto il nome sul display.

“Ehi,” rispondo, sedendomi sulla scrivania dopo aver fatto un po’ di spazio in mezzo all’ammasso di riviste tagliuzzate.

“Sei tornata?”

“Proprio poco fa.” Sgranocchio un cuoricino rosa che pesco in mezzo al resto dei cereali.

“E’ successo qualcosa?” mi domanda con voce apprensiva. Posso quasi vedere la linea che deve attraversagli la fronte in questo momento. “Mangi quelle cose disgustose quando sei turbata per qualcosa.”

“No, no,” mi affretto a precisare, scansando immediatamente la tazza incriminata. “Una giornata come al solito,” aggiungo con fare convinto. “E la tua?”

Sospira lievemente, ma sono grata che abbia lasciato cadere il discorso.

“Ho due notizie per te. Una buona ed una cattiva. Quella buona è che ho un incontro di lavoro a Mystic Falls nei prossimi giorni, perciò arriverò con un paio di giorni di anticipo.”

“E’ fantastico,” dico, domandomi perplessa cosa possa esserci dietro al suo tono serio. “E quella brutta?”

Probabilmente adesso mi dirà che avrà qualche altro impegno per il fine settimana e che dovremmo cancellare la cena con Stefan e Caroline, penso delusa. Ma in quell’istante realizzo che al momento c’è anche un altro inquilino in casa Salvatore, ed improvvisamente l’idea di dover rimandare suona molto più allettante.

“Beh, la brutta notizia è che quindi dovrai sopportarmi per qualche giorno in più del previsto.”

“Non suona poi così male,” ridacchio, forse più nervosa che sollevata. “Ehi, siamo ancora d’accordo per la cena di venerdì?”

“Naturalmente. Sono più che pronto a vincere qualsiasi resistenza che la tua migliore amica possa ancora avere nei miei confronti. In più, mi hanno assicurato che è una cuoca favolosa.”

“E’ vero, lo è,” confermo. Del resto, sono poche le cose che Caroline non riesce a fare bene, una volta che si è messa in testa qualcosa. Tamburello inquieta le dita contro il bordo della scrivania. “Ascolta, ti dispiace se vado adesso? Sono piuttosto stanca.”

“Certo. Ci vediamo presto. Ti amo, Elena”

“Ti amo, anch’io.”

Chiudo la telefonata e torno a piluccare figurine colorate in mezzo ai cereali. D’un tratto mi volto, sempre senza scendere dalla scrivania, animata da un pensiero improvviso, ed inizio a cercare tra qualche vecchio annuario che è ancora lì, accatastato in un angolo, sommerso sotto i brandelli di riviste che ingombrano il resto dello spazio.

Quando infine trovo ciò che stavo cercando, esito un attimo prima di prenderlo tra le dita.

E’ il mio sedicesimo compleanno, una già tiepida sera di maggio che non avrebbe avuto niente di diverso dalle altre, se non per il fatto che Caroline aveva convinto Stefan a sfruttare casa Salvatore per un “piccolo” festeggiamento tra pochi intimi, almeno secondo la sua concezione di “piccolo”. Mi è sempre piaciuta quella foto, perché sto ridendo. Di più, sto ridendo per qualcosa che aveva detto Damon, che lì sul divano accanto a me, i gomiti sulle ginocchia ed il busto piegato nella mia direzione, mi guarda in un modo che, a vederlo adesso, mi fa stringere lo stomaco. Perché, osservando quell’immagine a distanza di tempo, mentre alliscio il bordo piegato che ha finito per lasciare una venatura bianca nell’angolo in basso a destra, c’è una cosa che so, senza ombra di dubbio.

Damon è l’imprevisto che non ho mai saputo come gestire.

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Note:

[1] Lucky Charms: cereali misti a marshmallows colorati, insomma, una di quelle robe zuccherosissime per bambini tipiche americane che ti fanno avere un’impennata glicemica solo a guardarli.


Spazio autrice


Buongiorno, mie care, eccomi con un altro capitolo! So che non succede molto perché è molto introduttivo, ma spero che vi sia piaciuto lo stesso: ladies and gentlemen, ecco a voi miss Elena Gilbert.

Come si intuisce, qua la famiglia di Elena è proprietaria del Grill di Mystic Falls, anche se le cose iniziano ad andare un po’ a scatafascio da dopo la morte della madre (Jenna però non è sua zia, né una sua parente). Il flashback ammetto che è la parte che mi preoccupa di più, perché so che con la vita della “piccola” Elena vado a toccare tematiche delicate e spero di farlo in modo non banale.

Un grazie gigante a tutte.

Un bacio, a presto!



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Capitolo 4
*** Miserable lie ***


3. efp

3.

Miserable Lie


- And love is just a miserable lie -

(The Smiths, Miserable Lie)


Damon


Sono in anticipo di circa dieci minuti quando arrivo nell’ufficio di mio padre, dove tra poco dovrei incontrare Stefan.

Per ingannare l’attesa, sollevo di un poco le semplici veneziane bianche della finestra dietro la scrivania, quella che sulla sinistra lascia intravedere uno scorcio della piazza principale, permettendo ad un po’ di luce mattutina di entrare nella stanza.

Sposto lo sguardo sull’arredamento sobrio ed essenziale, in cui niente è fuori posto e tutto è sempre uguale a come lo ricordavo.

Prendo in mano la vecchia fotografia di mio padre, ad una qualche raccolta fondi mentre stringe la mano all’ex governatore della Virginia, che ancora campeggia in bella vista in un angolo della scrivania. Certe cose, penso con una smorfia, non cambiano mai.


“Cosa vuoi, Damon?”

Al suono secco della domanda di mio padre mentre entrava nella stanza, rimisi a posto la cornice che mi stavo rigirando fra le mani e mi distesi all’indietro sulla sedia. Lo osservai prendere posto dietro la scrivania, di fronte a me, senza che mi rivolgesse neanche mezzo sguardo.

“Una volta qua c’era una foto di Charlotte,” feci notare, ben consapevole di quanto lo avrebbe fatto irritare quell’osservazione.

Ma fu a malapena un piccolo lampo quello che attraversò la sua espressione impassibile.

“Le cose cambiano.”

Repressi una smorfia, considerando che tanto ormai non valeva neanche più la pena tirare fuori l’argomento, e puntai dritto al vero motivo per cui mi trovavo lì.

“La mia carta di credito è stata rifiutata ieri.”

“Questo è perché l’ho fatta revocare,” mi informò nell’aprire un cassetto per tirarne fuori alcuni fogli che si fece scorrere velocemente tra le dita, prima di schiacciare con decisione un pulsante sull’interfono. “Janine, ho bisogno di quei rapporti trimestrali entro due ore.”

Il suo tono non cambiò dopo aver chiuso la conversazione, tanto che impiegai qualche secondo prima di rendermi conto che stava di nuovo parlando con me. “C’è dell’altro?”

“Perché lo hai fatto?” domandai aggrottando la fronte con un filo di frustrazione, leggermente confuso ma al tempo stesso nient’affatto sorpreso che, per spese che ammontavano al massimo ad un paio di cd e qualche pieno di benzina, stessi ricevendo lo stesso trattamento di una qualsiasi ragazzina viziata drogata di vestiti e gioielli in preda ad un attacco di capricci.

“Hai quasi diciotto anni,” rispose alzando per la prima volta lo sguardo verso di me ed osservandomi come se fossi una fallimentare colonna in cui i conti non tornavano nei suoi tanto amati rapporti trimestrali. “Quando avevo la tua età, avevo già due tirocini estivi nella compagnia e l’ammissione a Dartmouth. Non c’è bisogno di dire che tu non hai nulla di queste cose.”

“Io non sono te.”

Un accenno di sorriso amaro gli passò sul volto. “Ne sono ben consapevole.”

“Cosa ti aspetti che faccia?” domandai cercando di non far vacillare la voce per la rabbia e l’umiliazione.

“Che ti prenda le tue responsabilità, tanto per cominciare,” disse inchiodandomi con lo sguardo nell’appoggiarsi all’indietro conto lo schienale. “Se questo un giorno questo dovrà essere tuo …”

“Non voglio la tua stupida azienda,” lo interruppi bruscamente.

“Allora farai meglio a trovarti in fretta qualcos’altro, o nessuno ti prenderà mai sul serio.”

Con una smorfia talmente impercettibile che sarebbe sfuggita ad un occhio meno allenato del mio, riprese a dedicare la sua attenzione a ciò che aveva interrotto, chiara indicazione che non considerava più quella conversazione come degna di nota.

“Nessuno, o tu?”


Un rumore di passi e voci nel corridoio mi riscuote dai miei pensieri.

Stefan apre la porta, tenendola ferma con una mano per far entrare qualcuno che non ho mai visto prima d’ora, un uomo distinto che trasuda professionalità dagli orli del suo impeccabile vestito fino alle punte degli altrettanto impeccabili capelli.

“Damon, ti presento Elijah Mikaelson. Elijah, mio fratello Damon.”

Elijah si avvicina e mi stringe la mano con una presa decisa ed un accenno di sorriso cordiale.

“E’ un piacere Damon, ho sentito molto parlare di te.”

“Non penso di poter dire lo stesso,” rispondo reciprocando la stretta.

“Elijah è un avvocato finanziario ed è nel consiglio degli azionisti,” spiega Stefan, invitando tutti a prendere posto con un gesto della mano, prima di accomodarsi lui stesso in una delle due poltroncine che fronteggiano la scrivania. Elijah si siede nell’altra, io invece preferisco restare in piedi, appoggiato a braccia incrociate contro la scrivania. “E’ entrato qualche mese fa in accordo con papà, nell’intento di aiutarci a riprenderci da questa situazione.”

Alzo le sopracciglia e non riesco a trattenere un’espressione sarcastica.

“Senza offesa, ma non sembri aver fatto un buon lavoro fino a adesso.”

Elijah non si scompone e mi osserva con interesse mentre tamburella distrattamente le dita contro il bracciolo della poltrona.

“Fidati, Damon, non saremmo neanche qua a parlare, se io non avessi fatto il mio lavoro.”

Gli rivolgo un sorriso tirato ma prima che io abbia il tempo di ribattere, Elijah prosegue con fare deciso.

“Andrò dritto al punto. Immagino che siate già a conoscenza della situazione lasciata da vostro padre. Damon, tu adesso di fatto possiedi la maggioranza relativa con il 40%, Stefan ne ha il 30 ed il restante rimane sempre diviso tra gli altri azionisti. Qualche mese fa, quando si è rivolto a me,” Elijah afferra la sua ventiquattrore, ne tira fuori un documento e me lo porge, “ha deciso che, in caso di una sua dipartita in condizioni aziendali ancora precarie, la mia carica di manager generale avrebbe garantito stabilità attraverso la possibilità di poter esercitare il veto su tutte le decisioni prese dal consiglio degli azionisti, comprese quelle a maggioranza assoluta.”

Sconcertato, impiego qualche secondo per realizzare a pieno il significato delle sue parole. Sposto lo sguardo dal foglio tra le mie mani a mio fratello che è ancora in silenzio in attesa di una mia reazione, ed infine su Elijah, con il quale mi scambio una lunga occhiata.

Devo fare uno sforzo incredibile per trattenermi dal non scoppiare a ridere.

“Mi state prendendo in giro? E’ uno scherzo?” domando infine, una parte di me che ancora spera che lo sia. “Mi state dicendo che quel bastardo ha trovato il modo di lasciarmi il controllo della compagnia, senza darmene … il controllo?”

“Non la metterei esattamente in questo modo ….” prosegue Elijah, una mano distesa sul bracciolo e l’altra che si muove elegantemente nell’aria, come se stesse cercando le giuste parole. “Pensala più come ad un … ‘sistema di garanzia’.”

“Grandioso,” commento aspro, posando il documento sulla scrivania e soffocando un moto di frustrazione repressa da anni, che subito riprende a bruciarmi in petto.

Nonostante tutto, devo dargliene atto: la fantasia di mio padre nell’incasinarmi l’esistenza davvero non conosceva limiti.

“Il primo consiglio sarà tra due settimane, a Richmond. Possiamo contare sulla tua presenza?”

Annuisco con una smorfia, perfettamente conscio di non avere molta scelta, mentre Elijah si alza, si riabbottona la giacca e mi porge la mano che stringo senza molta convinzione.

“Immagino che ci vedremo anche venerdì a cena?” mi domanda accennando di nuovo un sorriso, per nulla scalfito dal mio atteggiamento, “Niente affari, solo piacere.”

“Cena?” chiedo, guardando Stefan con fare interrogativo. Mio fratello si passa una mano tra i capelli ed in quel gesto mi sembra di notare un vago disagio.

“Elijah è nostro ospite su invito di Caroline,” mi spiega sbrigativo.

“A quanto pare, è lei che devo conquistare, per poter serenamente sposare la sua migliore amica,” aggiunge Elijah, una battuta che forse ha l’intento di distendere l’atmosfera, ma che su di me ha l’effetto di una secchiata di acqua gelida.

Nei brevi secondi che il mio cervello impiega per scartare la fugace illusione che stia parlando di quella piccola sputasentenze di Bonnie Bennett, prima di fare inevitabilmente due più due, Stefan

si è già affrettato a salutarlo e ad accompagnarlo verso la porta.

No,” è l’unica cosa che dico, allibito, dopo che Stefan ha chiuso la porta con un colpo secco.

“Damon …” inizia muovendo qualche passo nella mia direzione.

“No, no, no, e no,” ribadisco furioso andandogli incontro, incredulo che mi abbia davvero tenuta nascosta una cosa del genere. “L’ho già detto? No.”

Stefan scuote la testa e si stringe le braccia al petto, fronteggiandomi con altrettanta decisione.

“Lo sapevo che non saresti stato ragionevole.”

“Ragionevole? Quello …” prendo un profondo respiro, cercando con scarso successo di mantenere la calma, “Il tizio che ci sta fottendo l’azienda in cinquanta sfumature di assurdo, quel tizio, è il fidanzato di Elena? Non pensavi di dirmelo?”

“Non ci sta fottendo l’azienda. Ci sta aiutando,” ribatte lui, “E se te lo avessi detto in anticipo saresti partito prevenuto nei suoi confronti e lo avresti detestato a prescindere.”

“Già, perché invece adesso lo adoro.”

“Damon,” prosegue, “Lo so che hai un punto debole quando si tratta di Elena, ma non puoi davvero lasciare che questo comprometta ciò per cui papà ha lavorato così tanto. E’ bravo, è molto bravo, è uno dei migliori nel suo campo. Ha salvato situazioni molto più disperate della nostra, e se papà lo ha scelto c’è un motivo. Lo sai anche tu che non avrebbe mai lasciato tutto in mano al caso.”

“Ha lasciato la maggioranza della sua quota in mano a me, è evidente che la sua capacità di giudizio aveva iniziato a fare le valigie da un pezzo.”

“Pensa quello che vuoi,” Stefan si stringe nelle spalle, “Mi fido del suo giudizio. E mi piacerebbe che per una volta lo facessi anche tu.”


Non sono neanche lontanamente d’accordo con Stefan, ma al momento non vedo molte vie di uscita alla situazione in cui mi sono cacciato mio malgrado.

Certo, un’altra opzione ci sarebbe: fare di nuovo le valigie, partire con il primo aereo e sbattermene delle conseguenze. Quello sì che sarebbe un buon modo di ripagare mio padre.

Così controllo i voli, lascio perdere, mi maledico, mi ripeto che lo faccio per Stefan e qualche giorno dopo sono ancora lì, pronto ad una cena in cui dovrò ingoiare rospi uno più grande dell’altro.

“Stanne fuori, Care.”

E’ la voce di Stefan quella che avverto provenire dalla cucina, mischiata ad un rumore di stoviglie e all’inconfondibile aroma del pollo alla parmigiana di Caroline.

“Perché?” sento Caroline ribattere in tono più acuto, intanto che mi dirigo verso di loro, “Non è un diritto sacrosanto quello di impedire alle persone a cui teniamo di fare degli errori? Passami il prezzemolo, per favore.”

“No, le persone devono poter fare da sole le proprie scelte.”

“Oh, ma sul serio?” replica lei sarcastica, “Adesso vuoi davvero dirmi che tu non hai tentato in tutti i modi di convincere tuo fratello a cambiare idea e a sistemare le cose con vostro padre?”

Devo ammettere che il mio grado di simpatia nei confronti della biondina si alza notevolmente ogni volta che riesce a mettere mio fratello di fronte a tutte le stronzate che dice. Ma la soddisfazione dura poco, quando vengo colpito dalla tristezza nel sospiro rassegnato con cui Stefan risponde.

“Sì, e alla fine ha fatto comunque di testa sua.”

“State parlando alle mie spalle?” domando entrando in cucina, le teste di entrambi che scattano nella mia direzione.

“Solo un pochino,” risponde Stefan tornando ad affettare pomodori.

“Ehi! Metti giù quelle mani,” mi rimprovera Caroline puntandomi contro un mestolo grondante di salsa, mentre tento di sottrarre uno degli invitanti crostini già pronti accanto al piano cottura, “Questo è per la cena di stasera.”

“Oh, giusto,” alzo teatralmente gli occhi al cielo, “La grande cena con il grande uomo venuto a salvarci da tutti i nostri guai e dalle nostre miserabili esistenze.”

“Nessun pregiudizio, Damon, hai promesso,” mi ricorda mio fratello rivolgendomi uno sguardo eloquente.

“Sì, come no. Devo andare, ci vediamo dopo,” taglio corto.

Prima di andarmene mi chino per dare un bacio veloce sulla guancia di Caroline, sperando con quel gesto di passarla liscia per il furto di un po’ di mozzarella tagliuzzata da sotto alle sue mani.

“Guarda che ti ho visto!” mi urla dietro, “Alle otto, e vedi di essere puntuale!”


Caroline non ha di che preoccuparsi.

Sono puntuale, puntualissimo, quando due ore dopo si tratta di aprire la porta all’unica ragazza che abbia mai avuto un vero potere su di me e ritrovarmela davanti mano nella mano al suo esemplare fidanzato, perfetto ed elegante anche in maniche di camicia.

Non c’è bisogno di dire che è perfetta, e bellissima, anche lei, nel suo vestito dal taglio semplice, bianco e celeste, che mette in risalto l’incarnato olivastro e le scende a meraviglia lungo la curva dei fianchi.

Elena incrocia il mio sguardo, che si è appena soffermato sulla sua figura probabilmente un po’ più a lungo del dovuto, con un accenno di sorriso titubante ed un’ombra indecifrabile negli occhi. Mi costringo a scostare la mia attenzione da lei per passare a salutare Elijah, che nel frattempo mi porge una, ad occhio e croce, costosissima bottiglia di vino rosso italiano.

Per tutta la mezzora successiva, Stefan e Caroline fanno un lavoro eccellente per mantenere la conversazione nel territorio sicuro delle chiacchiere senza molta importanza.

“Damon, Stefan mi ha detto che hai una compagnia per conto tuo, a San Francisco,” osserva ad un tratto Elijah, seduto di fronte a me, posando il bicchiere di vino dal quale ha appena preso un sorso misurato.

“Nella Valley, in realtà,” preciso, “E non è ancora nulla più che una piccola start-up di software di protezione informatica.”

“Interessante. Non sapevo che avessi competenze in quel settore.”

“Non ce le ho, infatti,” chiarisco scrollando le spalle, “Quello è l’ambito del mio socio Alaric. Io l’ho solo aiutato a dare forma alle sue idee quando nessun’altro era intenzionato a farlo.”

“Davvero? Come mai?” continua Elijah con evidente interesse.

“Alaric è …” cerco le parole adatte per definire colui che ormai considero a tutti gli effetti un amico, “… Particolare.”

“Particolare in che senso?”

Questa volta è Elena a porre incuriosita la domanda, ed il mio sguardo scatta automaticamente nella sua direzione. Un lampo di occhi castani è subito nei miei, ma lei è più brava di me a distoglierli in fretta.

“Ha una piccola … passione, se così vogliamo dire, per le teorie cospirazionistiche. Diciamo che a volte è un po’ difficile da tenere a bada,” spiego incerto, corrugando la fronte, mentre mi torna alla mente la volta che abbiamo perso un contratto da decine di migliaia di dollari solo perché si era convinto che il cliente fosse una spia mandata dai servizi segreti.

“Che cosa molto alla Zuckerberg da parte vostra,” commenta Elijah con altro sorrisino, “Quindi quale college hai frequentato? Qualcosa nella stessa area, Stanford magari?”

Quasi mi strozzo con un boccone di pollo.

“No,” scuoto la testa, “Ero solo nei paraggi, tirando avanti per lo più con lavori saltuari e qualche classe di straforo.”

Per la prima volta, noto con una certa soddisfazione che Elijah sembra essere stato preso completamente in contropiede.

“Quindi …” inizia confuso, e nella sua voce non può fare a meno di inserire una sottile nota di biasimo, “Vuol dire che non sei neanche andato al college?”

“Neanche io sono mai andata al college.”

Questa volta sono io ad essere preso alla sprovvista dal tono fermo e risoluto con cui Elena ha risposto ad Elijah. La osservo sostenere il suo sguardo con un atteggiamento di sfida, e non riesco a non sentirmi improvvisamente piuttosto orgoglioso di lei.

“Steve Jobs non è andato al college,” osserva Caroline, con l’aria pensierosa di chi sta giocando alla lista di “personalità che non sono andate al college”, spezzando così i brevi secondi di teso silenzio che sono seguiti alla replica di Elena.

“Scusate,” scuote la testa Elijah, sinceramente dispiaciuto, “A volte tendo ad essere un terribile snob pretenzioso.” Prende la mano di Elena, seduta accanto a lui e se la porta alle labbra, posandoci un bacio e mimandole un “mi dispiace” tutto per lei.

Sono fortunatamente distratto da quella toccante scenetta grazie alla vibrazione del mio cellulare. Ne approfitto per scusarmi, alzarmi ed allontanarmi, anche se il nome di Ric sul display preannuncia già che anche quella non sarà una conversazione piacevole.

“Ehi, amico,” rispondo quando ho infine raggiunto lo studio, del quale lascio la porta socchiusa.

“Non chiamarmi amico” replica seccato, “Sono giorni che ti chiamo e tu continui ad ignorarmi. Avevi detto che saresti rimasto solo un paio di giorni ed invece è quasi una settimana che non ti fai vivo. Si può sapere cosa diavolo sta succedendo?”

“Lo so, non ci sono scuse,” rispondo portandomi due dita a massaggiare la radice del naso. “Sono solo sopraggiunte alcune cose.”

“Tipo cosa?”

“Tipo mio padre che riesce a trovare il modo di complicarmi la vita anche dall’aldilà, tanto per dirne una,” gli faccio sapere con una smorfia che tanto non può vedere,.

C’è un lungo silenzio, prima che giunga la risposta dall’altro del telefono.

“E’ così brutta?”

“Sto cercando di capirlo.”

“Mi servi qua, Damon,” mi dice infine, ed io sospiro, sapendo che ha ragione.

“Ok, senti, mandami tutto ciò di cui mi hai parlato nei tuoi messaggi e stasera farò in modo di lavorarci. Promesso.” Sento un rumore di passi provenire dal corridoio e proseguo prima che abbia il tempo di protestare, “Devo andare, ci sentiamo più tardi.”

Quando esco dallo studio trovo Elijah, intento a guardarsi intorno.

“Stavo cercando la toilette,” mi fa sapere con un sorriso di scuse.

Gliela indico e mi ringrazia con un cenno della testa, ma all’ultimo minuto, quando sto già per tornare in sala, cambia idea, mi richiama e torna sui suoi passi.

“Voglio che tu sappia che spero davvero di poter lavorare bene insieme,” mi dice schiettamente. “A dispetto di quanto puoi credere, Damon, non sono qua per ostacolarti.”

“No, sei qua per salvare il sedere a tutti quanti. Questo l’ho capito,” replico con un sorriso tirato, l’ennesimo ormai.

“Lo sai,” prosegue, facendo finta di non aver colto l’ironia nella mia voce, “Elena mi ha parlato di quello che c’è stato tra voi due.”

E’ un pugno dritto nello stomaco quello che mi colpisce al pensiero di Elena che parla di me con il tizio che le ha infilato quel maledetto anello al dito.

“Prima di venire qua, lei … Elena temeva che ci sarebbe stata un po’ di tensione. Insomma, visto che in passato siete usciti insieme …”

Stringo lo sguardo su di lui, nel tentativo di intuire dove stia cercando di arrivare.

“Usciti insieme?” ripeto perplesso.

Elijah mi guarda altrettanto stranito, e per un attimo vedo il dubbio attraversare il suo sguardo.

“Sì, mi ha detto che avete avuto un paio di appuntamenti e che non ha funzionato, che è stato molto tempo fa e, a quanto ho capito, anche una cosa di poca importanza. Quindi, come ho detto a lei, davvero non vedo in che modo possa creare tensioni, non sei d’accordo?”

Una cosa di poca importanza.

L’idea che questo sia ciò che Elena pensa di me è come acido corrosivo versato giù per la gola. Mi fa strozzare qualsiasi parola, perlomeno prima che io mi renda conto di cosa comporti tutto ciò: Elena ha mentito.

Insomma, almeno una cosa è certa, tra tutte le descrizioni fantasiose che poteva tirare fuori, quella di essere usciti ad un paio di appuntamenti, è la più lontana dalla realtà che potesse trovare. Quindi, perché diavolo ha mentito?

Ricaccio indietro l’amaro che ho ancora in bocca e metto su la mia migliore faccia tosta.

“Certamente,” rispondo tranquillo, decidendo di assecondarlo, “Una cosa da niente, di sicuro nessun motivo per creare tensioni.”

“Ottimo,” risponde sollevato. Guardo la sua mano posarsi brevemente sulla mia spalla, e quindi se ne va verso il bagno, lasciandomi a domandarmi confuso cosa diavolo sia appena successo.


Non ero mai stato un tipo dedito agli appuntamenti seri.

O forse, sarebbe stato più esatto dire che non ero mai stato attirato dall’idea di poter frequentare la stessa ragazza per più di un paio di settimane, periodo oltre il quale iniziava a manifestarsi la fastidiosa tendenza a richiedere un grado maggiore di attenzioni, un atteggiamento direttamente proporzionale soltanto alla velocità con cui diminuiva il mio interesse a concederle.

Non era neanche una questione di riservarsi la possibilità di saltare di letto in letto.

Molto più semplicemente, se mi piaceva mantenere le cose su un piano strettamente casuale era perché c’era una cosa che avevo capito fin dal principio: frequentare ragazze nel lungo periodo richiedeva un grado di impegno che io non avevo alcuna intenzione di dedicare né a quella né tantomeno a qualsiasi altra cosa.

Ecco perché non so cosa mi fosse saltato in testa la mattina che incrociai Elena Gilbert - la ragazzina con cui avevo piacevolmente flirtato la sera del falò di fine anno, la stessa ragazzina che a malapena aveva alzato lo sguardo su di me quando qualche sera prima mi ero offerto di riaccompagnarla a casa insieme al padre ubriaco - mentre camminava frettolosamente verso scuola guardando in continuazione l’orologio per l’evidente timore di essere in ritardo.

Anzi, il problema non fu neanche quello. Del resto, io le offrii lo stesso passaggio che avrei proposto ad una qualsiasi altra ragazza in grado di incuriosirmi, e lei, come la volta precedente, accettò più che altro per mancanza di valide alternative.

Il problema semmai furono i giorni successivi, quelli in cui ci ritrovammo ad incontrarci sempre allo stesso orario e allo stesso posto, finendo per rendere quei passaggi una tacita abitudine molto meno casuale di quanto entrambi fossimo disposti ad ammettere.

“Cosa stai facendo?” le domandai un giorno, irritato, dopo che ebbe buttato distrattamente la borsa ai suoi piedi e si fu sistemata sul sedile della Camaro con il naso ancora completamente immerso nel libro che teneva in una mano.

“Sto ripassando,” rispose senza alzare lo sguardo, sfogliando una pagina del libro adesso in bilico sulle sue ginocchia.

“Non quello,” sbuffai, “Quello.”

Staccai un attimo lo sguardo dalla strada per scoccare un’occhiataccia in direzione della mela che aveva appena addentato nella sua mano sinistra.

Si voltò verso di me con gli occhi resi ancora più grandi dalla sua espressione disorientata.

“Non hai mai visto qualcuno mangiare una mela?”

“Nessuno mangia nella mia macchina,” ribadii secco.

“Ma é una mela, non conta, guarda, non sbriciola neanche!”

Me la mise sotto al naso, gesto al quale mi sottrassi con una smorfia, ma quando mi voltai a guardarla, sbatteva le ciglia con una tale aria innocente che fu un’impresa trattenermi dal non sorriderle.

“Cosa stai leggendo, in ogni caso?” le domandai tanto per sviare l’attenzione dalla mia poco onorevole capitolazione.

“Ho un test sulla guerra civile alla terza ora, e nei giorni passati non ho avuto tempo di studiare,” rispose riportando lo sguardo sul libro e scostandosi la ciocca di capelli che immancabilmente le finiva sugli occhi ogni volta che eseguiva un movimento troppo brusco con la testa.

“C’è qualche modo in cui posso darti una mano?”

“Sai niente sulle vicende del fronte orientale?”

“No, è Stefan quello bravo con le date. Intendevo ...” esitai lasciando scivolare le dita sul volante, “Posso dare un mano al Grill?”

Si voltò di scatto, il volto attraversato da un’espressione a dir poco stupita.

“Mio padre vuole che mi trovi un lavoro,” le spiegai stringendomi nelle spalle, “Beh, in realtà vuole che lavori per lui, perciò presumo che lavorare in un bar dovrebbe essere un’alternativa in grado di farlo uscire di testa al punto giusto.”

“Non lo so,” mormorò con fare improvvisamente distante, spostando nervosamente lo sguardo altrove, fuori dal finestrino. “Dovrei chiedere a papà.”

Divenne silenziosa per tutto il resto del tragitto, anche a dispetto di tutti i miei tentativi di conversazione che finirono miseramente in nient’altro che una serie di monosillabi. Tanto che quando arrivai a parcheggiare davanti a scuola mi stavo ancora domandando cosa diavolo avessi detto per farla reagire così.

“Beh, ci vediamo,” la salutai, dopo che ebbe raccolto le sue cose, compreso il torsolo di mela che infilò momentaneamente in una tasca esterna della borsa.

Ma quando si voltò per salutarmi di rimando, il suo sguardo si fissò su un punto alle mie spalle e le sue sopracciglia si corrugarono in un’espressione contrita.

Mi girai e notai Alison, una ragazza del penultimo anno che avevo frequentato per un po’ durante l’estate, parlottare con una sua amica nella nostra direzione.

“Ti sei dato alle scopate per pietà, adesso?” mi apostrofò indicando Elena con un cenno della testa.

“Con quelle ho chiuso dopo che ho smesso con te,” replicai sorridendole imperturbabile.

Serrò le labbra in uno sberleffo e scrollò le spalle, ma di fatto se ne andò senza aggiungere altro. Tornai a scrutare Elena, che però continuava a non guardarmi e ad avere il volto contratto in una smorfia amareggiata.

“Non é la sola a dirlo, sai?” mi disse piano, “Sento cose simili tutti i giorni. É vero, é così? Sei gentile con me perché vuoi portarmi a letto?”

Rimasi ad osservarla, senza sapere bene cosa dire. Avrei mentito se avessi detto di non averci mai pensato, ma avrei mentito anche se avessi detto che era solo quella la ragione che mi spingeva a cercare la sua compagnia.

Di fronte al mio silenzio, Elena scosse la testa ed allungò la mano per aprire la portiera, pronta ad andarsene.

“No, non é così” mi precipitai subito a rassicurarla. Si bloccò e si girò nuovamente verso di me, incrociando incerta il mio sguardo. “E poi non é vero che sono gentile con te, non ti faccio neanche mangiare nella mia auto.”

“Mi hai fatto mangiare la mela,” osservò.

“Quella non conta, l’hai detto anche tu,” mi strinsi nelle spalle.

“Quindi …” esitò, scrutandomi dal sotto delle ciglia scure, “… Questo significa che … siamo solo amici?”

Esitai anch’io.

Non sapevo cosa stesse succedendo con lei, ma c’era qualcosa nel modo in cui mi pose quella domanda, la prospettiva di poter trovare una sorta di appiglio, che finì per farmi fregare con le mie stesse mani. In ogni caso, mi dissi, era solo una ragazzina, troppo piccola perché potessi davvero considerarla in altri modi.

“Certo,” le sorrisi, “Solo amici.”

E quello, in quel preciso istante, fu l’inizio della sola e unica menzogna che ci saremmo raccontati anche negli anni a venire.


Quando torno in sala, Elena sta ridendo ad un racconto di Caroline, qualcosa che coinvolge Carol Lockwood, una sciarpa e una rana, e che in teoria è roba classificata come altamente top secret all’interno del Consiglio Cittadino. Queste sono le cose che ci nascondono i governi, mio caro Ric.

Elena solleva lo sguardo verso di me nel sentirmi rientrare. Noto con piacere che la traccia di quella risata è ancora lì a piegare gli angoli delle sue labbra e che non solo non svanisce, ma anzi per un breve attimo, quello in cui i miei occhi incontrano i suoi, si estende e sembra ravvivarsi ancora un po’ di più.

E’ in quel momento che ripenso a ciò che mi ha detto Elijah poco fa, a ciò che lei gli ha raccontato, e rifletto che, forse, per lei posso riuscire a mentire anche questa volta.

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Spazio autrice.


Eccoci qua, svelata l'identità, svelato il mistero. :)

Siete state proprio in tante ad ipotizzare il nome di Elijah, ma come ho detto a qualcuna non era tanto importante l'identità in sè, quanto il ruolo che avrà nei confronti di Damon ... ecco perchè ho pensato che fosse più divertente farlo scoprire attraverso i suoi occhi (sì, lo so: ho uno strano concetto di divertente).

Lo so che la parte "finanziaria" sono questioni pallose (tranquille che rimarrà completamente sullo sfondo), ma sopportatemi un attimo perchè è bene che la situazione in cui si trovano sia chiara: in pratica, anche se l'azienda è per la maggior parte in mano a Damon (e, in misura minore, Stefan), non muove foglia che Elijah non voglia. So che potrebbe sembrare assurdo, ma qualcuno che ne sa più di me mi ha assicurato che sì, sono situazioni che possono davvero capitare. E intanto il nostro Damon fa i salti di gioia.


Spero che, anche se siamo ancora agli inizi, il capitolo vi sia piaciuto e che non siate rimaste deluse. Non fatevi problemi, davvero, a farmi sapere qualsiasi dubbio o qualsiasi critica.

Vi ringrazio tutte di cuore per il seguito e per tutte le vostre bellissime recensioni! Apprezzerò moltissimo se volete lasciarmi anche solo due righe.

A presto!

un bacio


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Capitolo 5
*** Silent war ***


4.efp

4.

Silent war


- We fought a silent war
In the hardware store and the air was thick as paint
Though I carried it on, I knew that I was wrong
But I fight when I'm afraid

(A Fine Frenzy – Silent War)

Elena


Finisco di lavarmi i denti e getto un’altra veloce occhiata alla sveglia sul ripiano ingombro del bagno. Segna le sette del mattino.

Quando rientro in camera, ravvivandomi con una mano i capelli che ho appena finito di asciugare, Elijah è in piedi davanti allo specchio, intento ad annodarsi la cravatta con movimenti delle dita esperti e misurati.

Quell’immagine, così rassicurante che non mi stancherei mai di vederla ogni mattina, mi strappa un leggero sorriso. Lo sguardo però mi cade subito sulla sua giacca, posata su una sedia a poca distanza, e quindi sulla piccola valigia che è già stata sistemata con ordine, pronta a ripartire di nuovo, e non riesco a ricacciare indietro una piccola stretta al petto.

Mi avvicino a lui e da dietro gli circondo la vita con le braccia, posando il mento sulla sua spalla.

“Odio quanto te ne vai,” dico con un piccolo broncio, “Mi fai sentire come un’amante sedotta e abbandonata.”

Lui ride, dissipando quel mio cruccio infantile, finisce di stringersi il nodo e fa scendere la sua mano a stringere la mia posata sul suo petto, giocherellando con l’anello al mio anulare.

“Sono abbastanza sicuro che questo dimostri il contrario,” sorride.

Ma i suoi occhi scuri si fanno subito più seri quando trovano i miei, riflessi nello specchio.

“Non deve per forza essere così, lo sai,” aggiunge in tono più basso e più cauto.

Incapace di sostenere la vista dell’ormai abituale domanda che leggo nel suo sguardo, distolgo gli occhi e mi sciolgo lentamente dall’abbraccio. Mi appoggio con le mani all’indietro contro il bordo della scrivania, niente affatto intenzionata a rovinare il momento affrontando una conversazione che continua a non portare da nessuna parte.

“Dobbiamo per forza parlarne adesso?”

“E quando altrimenti?” Si volta verso di me ed aggrotta le sopracciglia con fare interrogativo, “Quando saremo già sposati e non avremo ancora deciso dove vivere?”

“Te l’ho detto, non posso trasferirmi a Richmond,” ribadisco con un sospiro.

Mi osserva a lungo, con l’espressione concentrata che assume ogni volta che sta cercando di capire cosa mi stia passando per la testa.

“Non puoi, o non vuoi?”

Non c’è astio o irritazione nella sua domanda, solo un genuino interesse a comprendere il problema che si sta trovando di fronte ed il modo migliore per risolverlo. Ma se io so bene che Elijah non può mai lasciare a lungo Richmond e il suo lavoro, lui dovrebbe sapere che non posso davvero lasciare il Grill come se niente fosse e che non ho ancora una vera e propria soluzione da poter offrire.

Di fronte al mio silenzio, si avvicina e mi posa le mani sui fianchi, accarezzandoli lievemente.

“Elena,” sospira, “Voglio stare con te, iniziare una vita con te. Me lo permetterai?”

Quando con lo sguardo cerca i miei occhi, io in risposta porto le mani sulle sue spalle. Le sfioro per attirarlo in un bacio che, se non altro, mi aiuta a chiudere la discussione e ad allontanare, almeno per un po’, il peso che improvvisamente sembra essermi sceso sul petto.


***


Appena entro al Grill, che Jeremy deve aver aperto da poco a giudicare dalla maggior parte delle sedie ancora impilate sui tavoli, con mio stupore trovo mio fratello appoggiato a braccia incrociate contro il bancone, intento a parlare con l’unico avventore nel locale altrimenti deserto.

Ho un tuffo al cuore quando, non appena poso lo sguardo sulle sue spalle e sul modo in cui i suoi capelli neri sfumano spettinati lungo la nuca, riconosco Damon nell’interlocutore responsabile del mezzo sogghigno che si è allargato sul volto di mio fratello.

“ … sì, ma è anche un po’ pazza,” riesco ad udire le ultime parole di Jeremy, mentre mi avvicino a loro.

“Sexy batte pazza. Fidati,” replica Damon con un sorrisetto complice.

“E’ questo il genere di consigli che dai a mio fratello?” li interrompo posando la mia borsa in mezzo ai due e facendo roteare gli occhi al cielo.

Damon si volta a guardarmi sollevando appena le sopracciglia.

“Beh, qualcuno deve pure farlo,” risponde senza scomporsi.

Jeremy sghignazza ormai senza ritegno, così gli sfilo lo straccio che porta di traverso sulla spalla e glielo tiro addosso, mentre con un’occhiata eloquente ed un cenno della testa gli intimo di sparire. Se ne va sbuffando.

“Cosa posso fare per te, Damon?” gli chiedo con un sospiro rassegnato.

“Niente,” risponde disinteressato, scrollando le spalle, “Anzi, in realtà me ne stavo andando.”

Posa un biglietto da dieci dollari accanto alla tazza di caffè e al bicchiere di succo d’arancia adesso vuoti, e mi rivolge un veloce sorriso. “Dai a Jer una buona mancia da parte mia.”

Lo guardo perplessa mentre si rimette in tasca il portafoglio senza aggiungere altro.

“Pensavo …” comincio, ma fortunatamente mi blocco prima di finire la frase e pronunciare le parole ‘… che fossi qua per me’. Arrossisco di colpo di fronte alla presunzione di quel pensiero, ma spero ugualmente che Damon non lo abbia notato.

Speranza vana, dato che i suoi occhi, attenti ed appena divertiti, guizzano subito in direzione dei miei. Quel lampo azzurro smonta immediatamente la mia illusione: sa benissimo cosa ero sul punto di dire.

“Pensavi …?” mi incalza mentre le sue labbra si piegano in un vago sottinteso di sfida.

Sostengo il suo sguardo. Subito mi ritrovo coinvolta in una sorta di battaglia silenziosa che non ha né un vero motivo né tantomeno un vero scopo, ma nella quale sappiamo benissimo che nessuno dei due ha intenzione di cedere per primo.

E’ qualcosa di completamente irragionevole.

Deve pur esserci, da qualche parte, una via di mezzo, un terreno neutrale sul quale provare a venirsi incontro per dissolvere questa assurda ed immotivata tensione che ogni volta finisce per crearsi tra noi.

“Non deve per forza essere strano, Damon,” rispondo infine.

“Non lo è.”

Il suo volto è serio quando, dopo alcuni attimi di silenzio, si sporge nella mia direzione. Sento una inaspettata accelerazione dei battiti, quando vengo raggiunta da una lieve traccia del suo profumo.

“Ascolta, Elena …” prosegue, e c’è qualcosa, nel modo in cui pronuncia il mio nome, che ha su di me l’effetto tanti piccoli aghi infilati a forza nel petto. “Sono passati anni. Quel che è stato è stato. Siamo entrambi andati avanti ed immagino che siamo anche abbastanza adulti da poter mettere una pietra sopra a tutto quanto.”

Gli aghi affondano un po’ di più, non so se per il fatto che abbia parlato al plurale o per il fatto di non riuscire davvero a leggere cosa possa nascondersi dietro a quel suo sguardo così imperscrutabile.

“Non mi odi?” domando con cautela.

“Odiarti?” ripete con fare sorpreso, “Per cosa, quel paio di appuntamenti senza molta importanza?”

A quelle parole, sento la pelle sulla nuca rizzarsi, mentre l’accenno di un ghigno compare sulle sue labbra. Non perdo neanche tempo a domandarmi come abbia saputo ciò che ho raccontato ad Elijah, troppo arrabbiata con me stessa per avergli permesso di arrivare esattamente dove voleva.

“Damon …”

“Va bene, non che mi importi,” prosegue. Alza le mani ed indietreggia allontanandosi da me di un paio di passi. “E’ il tuo fidanzato, non il mio. Per quel che mi riguarda, puoi raccontargli tutte le storielle che vuoi.”

La rabbia mi monta dentro, insieme ad un’irrefrenabile voglia di prenderlo a schiaffi.

“Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!”

Mi volto di scatto verso Vicky, che entra trafelata nel locale facendo sbattere la porta alle sue spalle chiudendola con un piede, le mani impegnate a tirarsi su i capelli in una coda. Getto un’occhiata all’orologio e noto così che è in ritardo di almeno mezz’ora.

“Io …” continua a tentare di giustificarsi, ma finisce per bloccarsi sui suoi passi non appena si trova davanti Damon e, di colpo, il suo volto si distende in un sorriso accattivante.

“Ciao,” gli sussurra, abbandonando il proposito di fermare coda e lasciando ricadere i capelli liberi sulle spalle scompigliandoseli con una mano.

“Ciao,” replica Damon, sorridendole di rimando.

“Vicky,” la chiamo secca, con un’inflessione infastidita dalla quale tento di far trapelare qualcosa di simile ad una minaccia di licenziamento.

“Arrivo, arrivo,” sospira lei, andando a mettersi il grembiule mentre borbotta qualcosa tra sé e sé.

“Beh, ci vediamo Elena,” mi saluta Damon con un sorriso leggero, picchiettando le dita contro il bancone e lasciandomi con la netta sensazione che, se di una battaglia si tratta, sono io quella che ha appena perso.


***


“Verde.”

“Giallo.”

“Non posso vestirmi di giallo!” sbotta Caroline strappando dalle mani di Bonnie il campione di stoffa e portandoselo accanto al volto. “Guarda, sembrerei un uovo sbattuto! Elena, diglielo anche tu. Non mi farai vestire di giallo, vero? Elena? …”

Sobbalzo appena quando mi ritrovo davanti la perfetta manicure della mano di Caroline, che mi sventola davanti agli occhi per cercare di riportare la mia attenzione sugli scampoli di tessuto che stanno ingombrando il già piccolo tavolino esterno nella veranda del Grill.

“Non lo so … azzurro?” butto là afferrando un rettangolo di raso di una delicata tonalità cerulea e cercando in extremis di recuperare la pausa pranzo dedicata alla scelta degli abiti per le damigelle.

“No, l’azzurro lo abbiamo escluso all’inizio,” mi ricorda Bonnie. Mi prende lo scampolo dalle mani e lo rimette nel mucchietto degli scartati dal quale lo avevo preso, mossa che Caroline approva annuendo vigorosamente con il capo.

“Quest’anno non è di moda, ne abbiamo parlato solo dieci minuti fa.”

Sospiro, sentendomi improvvisamente come accerchiata da un fuoco nemico che non ho le forze per poter affrontare.

“Sentite, possiamo rimandare ad un’altra volta?”

“Ma questa è già la terza volta che rimandiamo!” protesta Caroline, “Il matrimonio è tra tre mesi e, di questo passo, neanche io sarei capace di poter organizzare tutto in così poco tempo!”

“Lo so,” le faccio sapere, sentendomi in colpa per il tempo che faccio loro perdere, “E’ solo che penso di essere un po’ troppo distratta oggi.”

“Cosa è successo?” mi domanda Bonnie.

Poso il mento sulla mano e fissò lo sguardo su un punto imprecisato dall’altra parte della strada, mentre ripenso agli eventi della mattinata, dalla discussione con Elijah a quella con Damon, e la giornata mi pare improvvisamente più lunga che mai.

“Io ed Elijah abbiamo …” Sto per usare la parola ‘litigato’, ma all’ultimo secondo mi rendo conto che non abbiamo litigato affatto. Del resto, pensandoci, litighiamo mai davvero? “… discusso questa mattina. Di nuovo riguardo Richmond.”

Caroline e Bonnie si scambiano tra di loro un lungo sguardo, ma non dicono una parola.

“Cosa?” domando raddrizzando la schiena, irritata dal loro silenzio complice alle mie spalle.

“Ok, questa mi dispiace ma devo dirtela,” risponde Caroline con piglio deciso.

“Care …” la richiama Bonnie lanciandole un’occhiata eloquente, mentre scuote appena la testa per intimarle di non continuare, cosa che mi innervosisce ancora di più.

Caroline la liquida con un gesto della mano e prosegue come se niente fosse. “Senti, sai come la penso su questa cosa del matrimonio, per cui sono l’ultima persona che ha interesse nel difenderlo, ma … Smettila di dire che non puoi andare a vivere là, o che non puoi lasciare questo posto.”

Caroline indica il Grill con un ampio gesto della mano, ma come apro la bocca per cercare di obiettare, lei sta già continuando la sua lezioncina. “Innanzitutto, Richmond sarebbe a solo qualche ora di distanza e se lo volessi potresti tornare spesso. E comunque, il vero punto è che tu odi tutto questo, passare qua quasi ogni minuto della tua vita, sentire di non avere davvero scelta ... Ok, forse ʿodiʾ non è la parola esatta, lo so che non lo odi e che hai i tuoi motivi per sentirti molto legata a questo posto, ma … sono anni che risucchia tutte le tue energie e ti impedisce di fare quello che davvero vorresti. Cosa lo stai tenendo a fare, in ogni caso? Tuo padre non ci mette piede da anni e dubito che avrebbe intenzione di farlo di nuovo. Jeremy quest’anno ha finito il liceo, sono sicura che anche lui, se solo tu gliene parlassi ….”

Stringo con forza un pezzettino di stoffa che mi è capitato sotto le dita, mentre sento qualcosa, in fondo allo stomaco, bruciare di più ad ogni sua parola

“E’ questo che pensi?” la interrompo bruscamente.

“Entrambe. Lo pensiamo entrambe,” ammette scambiandosi un’altra occhiata con Bonnie che invece si limita a guardarmi mortificata. “Elena, sul serio, io non capisco perché tu non …”

“Ok, basta così” mi alzo di scatto, facendo stridere la sedia contro l’asfalto. “Ho sentito abbastanza.”

“Elena …” cerca di richiamarmi Bonnie, ma davvero non ho alcuna voglia di starmene seduta a sentir analizzare la mia vita e giudicare le mie scelte da qualcuno che non sa di cosa sta parlando.

Così, ignoro anche quel piccolo istinto che sotto sotto si domanda se non ci sia un fondo di verità in ciò che le mie amiche mi hanno appena sbattuto in faccia, e le saluto di fretta, adducendo come scusa l’affollamento di clienti dell’ora di pranzo.

Quando rientro, però, noto che la mia scusante non si discosta poi così tanto dalla realtà: la piccola April Young è da sola a cercare di stare dietro a tutte le ordinazioni, mentre di Jeremy, che avrebbe dovuto coprirmi per almeno quella mezz’ora di pausa, non c’è alcuna traccia.

“Dov’è mio fratello, April?” le domando preoccupata.

April molla due piatti ad un tavolo, scusandosi per l’attesa, e si volta verso di me.

“L’ho visto andare nella dispensa circa dieci minuti fa,” mi fa sapere, mentre con uno sbuffo cerca di scostarsi una ciocca di capelli neri dagli occhi.

La ringrazio e vado a fare il giro sul retro del bancone, fino alla porta di legno e vetro smerigliato che conduce alla piccola stanza adibita a dispensa di prima necessità. Ma, quando la apro, mi congelo all’istante.

Dietro ad ripiano che li nasconde alla vista solo in parte, Vicky sta ansimando mentre si sorregge con una mano allo scaffale, la testa all’indietro contro il muro e la gonna arrotolata sui fianchi, mentre mio fratello …

“Cosa diavolo state facendo?!” non riesco a trattenermi dall’esclamare a dispetto della palese ovvietà della risposta, chiudendo di colpo la porta alle mie spalle per non rischiare che quello spettacolo raggiunga anche il resto della clientela.

“Cristo santo, Elena,” impreca Jeremy tra i denti mentre lascia andare le gambe di Vicky, che si riscuote ed in fretta si tira giù la gonna.

Boccheggio, incapace di articolare frasi compiute in grado di esprimere tutto quello che mi sta passando per la mente in quel momento.

“Siete completamente impazziti?! Voi qui ci lavorate! Chiunque avrebbe potuto vedervi!” continuo, incapace di trattenermi dall’evidenziare una ovvietà dopo l’altra.

“Ne stai facendo una tragedia più grande di quello che è, ‘Lena …” bofonchia mio fratello. Almeno ha il pudore di voltarsi mentre si richiude i pantaloni.

Mi volto verso Vicky, che se ne sta ancora appoggiata al muro stringendosi le braccia al petto, e la fulmino con lo sguardo.

“E lui è appena maggiorenne! Ha almeno sei anni meno di te, cosa diavolo ti passa per il cervello a portarti a letto-”

“Smettila di trattarmi come un bambino!” mi interrompe Jeremy con stizza.

“Ti tratto come un bambino quando ti comporti da immaturo! E’ un luogo pubblico, per l’amor del cielo!”

“Beh, sì, ma a chi non è mai capitato, in fondo …” si intromette Vicky stringendosi nelle spalle. Quando torno a girarmi verso di lei e mi trovo davanti la sua espressione neanche minimamente dispiaciuta, qualcosa scatta e so che non posso sopportare niente di tutto ciò un solo secondo di più.

“Sei licenziata.”

“C-cosa?” balbetta sgranando gli occhi.

“Non puoi licenziarla!” esclama Jeremy.

“Certo che posso ed è quello che sto facendo.” Allungo il braccio per indicarle la porta. “Adesso.”

Vicky sposta lo sguardo da me a Jeremy, sconvolta, quindi si porta le mani al volto e scoppia a piangere, prima di correre verso la porta e di sbattersela con violenza alle spalle.

Uno strano silenzio si estende per alcuni secondi in quel piccolo spazio. Quando torno a guardare Jeremy, mi rendo conto che non ho mai visto mio fratello guardarmi con tanta rabbia come in questo momento.

“Jer …” tento, con un tono di voce più conciliante o forse, semplicemente, più stanco.

“Cosa?” scatta lui stizzito, “Hai intenzione di licenziare anche me?”

Se ne va dietro a Vicky lanciandomi un ultimo sguardo incollerito, ed io resto lì, ad appoggiarmi ad occhi chiusi contro la parete, sentendomi all’improvviso completamente esausta.


“Non ti credo, Elena,” scosse la testa Bonnie.

Distolsi lo sguardo dal campo sportivo che ci stava rimandando le grida attutite dei ragazzi e ragazze nel mezzo dei loro allenamenti e tornai a posarlo sulla mia amica, seduta una gradinata più in basso della mia.

“Perché no?” le domandai confusa.

“Perché …” Si guardò un attimo attorno per assicurarsi di essere al riparo da orecchie indiscrete e continuò, sporgendosi nella mia direzione, “Perché sanno tutti come è fatto Damon Salvatore, e adesso tu vuoi venirmi a dire che passate molto tempo insieme solo perché … siete amici?”

“E’ quello che ha detto …”

Bonnie sembrò sul punto di replicare, ma cambiò idea quando vide Caroline dirigersi nella nostra direzione e raggiungerci saltellando sui gradini.

“Dio, sono morta” esordì Caroline buttandosi sdraiata sulle gradinate in modo teatrale, con i gomiti appoggiati all’indietro, “Ed ho un disperato bisogno di una doccia.”

Mi sentii attraversare da un repentino, inevitabile, moto di invidia nel guardarla risistemarsi con cura la divisa da cheerleader che le era rimasta alzata sulle gambe. Il giorno in cui eravamo entrate entrambe in squadra, l’anno precedente, era stato uno dei giorni più felici della mia vita. Ricordavo ancora che, una volta tornata a casa, mia madre per festeggiare mi aveva preparato i brownies e che io l’avevo rimproverata perché ingozzarmi di cioccolato era il modo migliore per farmi subito sbattere fuori. Alla fine, non erano stati i brownies a sbattermi fuori, quanto una piega degli eventi che non mi lasciava quasi più tempo per niente, figuriamoci per cose futili come fare la cheerleader.

“Di cosa stavate parlando?” chiese Caroline buttando la testa all’indietro per osservarci e facendo ricadere con grazia i biondi capelli ondulati oltre le spalle.

“Damon,” risposi, “E di come, secondo Bonnie, mi stia solo abbindolando.”

Bonnie alzò gli occhi al cielo, con fare da martire incompresa. “Sto solo cercando di metterti in guardia. E’ quello che fa, portarsi a letto le ragazze e poi scaricarle senza mai prendere niente sul serio. Andiamo, lo sanno tutte.”

“Di un po’, per caso ci sei andata a letto anche tu e non ci hai detto niente?” le domandò Caroline dandole dei colpetti con il piede con aria maliziosa.

Bonnie arrossì di colpo e sembrò visibilmente a disagio.

“Cosa? N-no, certo che no,” si affrettò a dire con una smorfia schifata, “Ma, se proprio vuoi saperlo, mia cugina Lucy sì, e lui non si è mai più fatto vivo. Ha passato un mese a piangere. Mia nonna glielo aveva detto di non fidarsi mai di un Salvatore.”

“E che cosa ha detto tua cugina?” Caroline si tirò su, incuriosita, “Voglio dire, è bravo? E’ … ?” Allargò le mani come per prendere le misure e soffermò lo sguardo sulla lunghezza che avevano delineato, scrutandola con fare pensoso “…. Sì, beh, hai capito.”

“Care!” esclamai, di colpo imbarazzata dal piacevole solletico tra le gambe provocato dalle immagini che i discorsi di Caroline mi avevano messo in testa.

“Cosa?” replicò lei innocentemente, “La mia è pura curiosità scientifica. Visto che sposerò suo fratello, è bene sapere se i geni sono buoni.”

“Tu non sposerai suo fratello,” ribatté Bonnie con un lungo sospiro rassegnato.

“Cosa ne sai?” replicò Caroline tirando su il mento con aria risoluta, “Non sei mica una veggente.”

“Non ci vuole una veggente per certe cose,” le fece notare l’altra, “Innanzitutto, Stefan sta con Lexi, nel caso te ne fossi dimenticata …”

Caroline allungò la lingua in una boccaccia disgustata al nome della biondissima (finta, a suo dire) capo-cheerleader che lei stessa aveva ribattezzato ‘faccia da furetto’.

“… Seconda cosa, non gli hai neanche mai rivolto la parola.”

Dovetti convenire che Bonnie non aveva tutti i torti. La disinvoltura con cui Caroline si informava “scientificamente” era pari solo alla sua totale incapacità di articolare suoni ogni volta che se lo trovava davanti. Una volta che lui le aveva sorriso dopo un allenamento, era andata in un tale stato di shock che non aveva più spiccicato parola per tutto il giorno. Con nessuno.

“Ci sto lavorando,” sorrise Caroline, facendo dondolare un piede nell'aria, per nulla scalfita dal pessimismo dell’altra mia amica, “Abbi un po’ di fede.”

“Io devo andare,” annunciai a malincuore iniziando a raccogliere le mie cose, dopo aver dato un’occhiata all’ora che segnava già quasi le due, ovvero il momento di andare a prendere Jeremy dopo la scuola.

Salutai le mie amiche e mi allontanai, con la mente affollata dalle insinuazioni di Bonnie su Damon e dal pensiero che potesse avere ragione su di lui. In fondo, perché con me avrebbe dovuto essere diverso rispetto ad una Lucy, una Kirstie o una Alison?

La risposta, forse, era più facile di quanto pensassi: se davvero Damon era diverso con me, era semplicemente perché non mi guardava come qualcuna degna di quel genere di interesse. A dispetto della piccola fitta che mi causò quel pensiero, era comunque qualcosa che avrei potuto farmi andare bene. Ciò che non avevo confessato a Bonnie e Caroline, infatti, era che mi piaceva passare del tempo con Damon. C’era qualcosa, nello stare in sua compagnia, che in quei momenti mi faceva dimenticare di tutto il resto, qualcosa a cui non ero pronta a rinunciare.

Ma, fu proprio quel ʿqualcosaʾ ciò che vidi infrangersi davanti ai miei occhi quando, una volta arrivata al Grill insieme a Jeremy, trovai Damon dietro al bancone, intento a sorridere e servire dei frullati rosa a due ragazze che ridacchiavano e se lo mangiavano con gli occhi.

Anche se non potevo sentire cosa stavano dicendo, il mezzo sorriso malizioso che stava rivolgendo loro era abbastanza eloquente da farmi invadere da una sconosciuta sensazione di rabbia, verso lui e verso quelle due, che per un attimo quasi mi fece dimenticare la vera ragione del mio shock iniziale.

Cosa diavolo ci faceva Damon dietro al bar?

Mi tornò alla mente la richiesta che mi aveva fatto solo qualche giorno prima e sentii il panico strozzarmi il respiro, mentre realizzavo che se Damon fosse entrato a far parte di quel frangente della mia vita - quello incasinato e complicato, che riuscivo a malapena a tenere insieme in un quanto mai instabile equilibrio – sarebbe stata la fine di tutto. Perché se Damon avesse visto fino in fondo l’entità degli infiniti casini di cui dovevo occuparmi su basi quotidiane, se ne sarebbe andato alla velocità della luce. Nessuno, amici o non amici, avrebbe mai voluto essere coinvolto in quel genere di problemi, tantomeno uno, come lui, sempre così menefreghista nei confronti di tutto e di tutti.

Ero ancora ferma vicino alla soglia quando Damon si voltò nella mia direzione e, dopo aver incrociato il mio sguardo, si allargò in un sorriso soddisfatto, ignaro dei pensieri che in quel momento mi stavano passando la testa.

Dissi a Jeremy di andare in cucina per chiedere a Jenna di preparargli qualcosa da mangiare, insistendo contro le sue proteste di voler andare a casa a giocare con la Playstation, e, non appena mio fratello filò via sbuffando, presi il coraggio a due mani e mi diressi verso Damon.

Passai dietro al bancone, lo afferrai per un polso e lo trascinai nella piccola dispensa che si apriva sul retro, chiudendo la porta alle nostre spalle con un colpo secco.

“Cosa pensi di fare qui?”

Damon mi guardò come se fossi diventata stupida tutto d’un colpo.

“Ci lavoro.”

“Tu non puoi lavorare qui.”

“Perché no?”

“Perché non puoi!”

“Beh, tuo padre ha detto che posso, ci ho parlato questa mattina.”

Mi sentii sbiancare al solo pensiero.

“Hai parlato con mio padre?” chiesi nervosa, senza poter fare a meno di domandarmi, se fosse sobrio o meno, ed in caso contrario cosa mai avrebbe potuto dire a Damon o cosa potrebbe aver pensato …

“Ovvio che ho parlato con tuo padre,” replicò roteando gli occhi al cielo, “Chi altri avrebbe dovuto assumermi? Ascolta, Elena, non so cosa ti sia preso ma questa cosa mi sembra piuttosto ridicola, perciò io adesso torno di là e-”

Nell’attimo in cui mosse un passo verso la porta, d’istinto allungai una mano contro il suo petto per bloccarlo dall’andare oltre. Fu così che mi ritrovai all’improvviso stretta tra la porta chiusa ed il suo corpo.

Sentii il mio battito iniziare ad accelerare quando la mia mano scivolò appena di un centimetro verso il basso, permettendomi di percepire sotto alle dita la consistenza dei suoi muscoli tesi sotto la fine maglietta di cotone.

Lo sguardo di Damon si spostò sulla mia mano, ferma sul suo torace. Quando si sollevò di nuovo, c’era qualcosa di diverso nei suoi occhi, nel modo in cui si soffermarono insistenti sulle mie labbra, qualcosa che mi fece schizzare il cuore a mille e sembrò far scomparire immediatamente tutta l’aria dalla piccola stanza.

Ritirai la mano dal suo petto di scatto, come se mi fossi appena scottata.

“Beve. Molto,” dissi tutto d’un fiato, arretrando di un passo mentre Damon corrugava la fronte come nel tentativo di capacitarsi di cosa stessi parlando, “Da quando mamma è morta, a volte penso che non faccia altro. Scompare per ore, a volte per l’intera giornata, in altri bar oppure di là nello studio, arriva alla sera che non si regge in piedi. Negli ultimi mesi si sono licenziati in cinque, perché ci ha litigato, o perché hanno avvertito quanto le cose stiano andando male.”

Deglutii a fatica quando terminai di parlare, rendendomi conto che quella era la prima volta che ammettevo una tale cosa ad alta voce, di fronte a qualcuno così come di fronte a me stessa.

“Io …” iniziò Damon con la voce rauca, come se avesse la bocca secca, “Non lo sapevo.”

Distolse lo sguardo, ma intravidi lo stesso qualcosa di molto simile al panico farsi strada nei suoi occhi.

“Ma hai ragione …” continuò, mentre si scioglieva in fretta il grembiule verde e me lo metteva in mano. Allungò l’altro braccio verso la porta e la aprì per andarsene, fingendo di non aver neanche notato il fatto che io fossi sull’orlo delle lacrime. “Non posso lavorare qui.”


***


Quando arrivo alla fine di questa lunga giornata, il bilancio economico è probabilmente uno dei migliori dell’ultimo mese. Il bilancio personale, invece, preferisco lasciarlo perdere.

Jeremy ancora si rifiuta di parlarmi e, conoscendolo, quasi sicuramente stanotte non tornerà neanche a casa e si fermerà piuttosto a dormire da uno dei suoi amici, se non dalla stessa Vicky.

Ho tre messaggi di scuse da parte di Caroline, che mi fanno sentire ancora più in colpa nei suoi confronti e per il modo in cui l’ho trattata. Rispondo che mi dispiace, e la invito per un caffè il giorno successivo.

Con Elijah riesco a sostenere una breve conversazione, qualcosa di non troppo impegnativo, che non va a sfiorare nessun argomento cruciale ma che, tuttavia, non riesce nell’intento di farmi sentire meglio.

Sono quindi praticamente in una più che precaria condizione emotiva quando mi fermo per una precedenza all’incrocio che, svoltando a sinistra, porta verso casa Salvatore.

L’attimo dopo, è nel loro vialetto di ingresso che mi ritrovo a fermare la macchina e spegnere il motore, osservando le luci ancora accese al piano inferiore.

Non so cosa penso di fare o di ottenere, mentre mi avvicino all’ingresso con la ghiaia che scricchiola piano sotto ai miei piedi. So solo che se non fosse stato per Damon, ed i suoi consigli del cavolo, non mi sarei ritrovata in quella situazione con Jeremy; se non fosse stato per Damon, non avrei mentito ad Elijah su qualcosa che in teoria non dovrebbe avere alcuna importanza.

E’ come se, nell’attimo in cui Damon torna nella mia vita, io iniziassi a perderne il controllo. Ed io non posso, non voglio, permetterglielo. Su questo, devo essere chiara.

Il suono del campanello si perde in alcuni minuti di attesa. Tanto che ho sto quasi per cambiare idea ed essere pronta ad andarmene, quando lo stridio con cui si apre il portone ed il cono di luce che disegna sul pavimento del portico mi fanno voltare di nuovo.

“Elena?” mormora Damon confuso.

C’è una certa stanchezza nel suo volto e nelle sue linee, che non sembra attribuibile solo all’ora tarda della sera, ma, forse, a qualcosa di più profondo.

Rimango ad osservarlo per un lungo momento, ed è strano. Ogni fastidio che credevo di provare nei confronti della sua presenza svanisce, lasciandomi solo il resto, un vuoto a cui non voglio dare un nome. Ed io realizzo che non ce l’ho con lui per il fatto di essere qui, quanto per tutte le volte che invece non c’è stato.

Damon continua a guardarmi con aria interrogativa. E’ in attesa di una mia reazione, o di sentirmi spiegare cosa ci faccio alla sua porta alle due di notte.

“Ho mentito perché era più facile,” butto fuori infine. “Più facile che parlargli di te e, soprattutto, di come un giorno hai deciso di andartene e non esserci più per me. Perché le cose non possono essere facili, almeno per una volta?”

Un’ombra passa sul suo viso, semi-illuminato dalla luce artificiale dell’ingresso che rischiara il buio del portico, mentre mi scruta in silenzio. Si stringe le braccia al petto e si appoggia contro lo stipite della porta, senza rispondere.

“Perché sei qui?” mi chiede invece.

Mi scosto una ciocca di capelli dagli occhi, prendo tempo. Ma, mentre sto ancora cercando di capire io stessa la risposta a quella domanda, dei fari nel vialetto ci distraggono entrambi.

Strizzo gli occhi nei confronti della luce accecante, che muore lentamente quando il motore dell’auto viene spento.

Stefan esce dalla macchina e rallenta il passo non appena mi nota, aggrottando la fronte perplesso.

“Elena. Cosa ci fai qui, è successo qualcosa?”

La sua domanda però non è neanche davvero rivolta a me, visto che il suo sguardo corre subito verso quello del fratello. Damon scuote appena la testa e, come se ciò non bastasse già a farmi sentire improvvisamente molto stupida, il silenzio gelato che cala subito dopo è abbastanza per comunicarmi che la mia presenza lì non è gradita.

“No. In realtà, me ne stavo andando,” mi affretto ad aggiungere, “Buonanotte, Damon. Stefan.”

Scendo in tutta fretta i tre scalini del portico e mi infilo di nuovo nella mia auto.

Quando riparto, mi rendo conto che forse è un bene che quell’interruzione mi abbia impedito di andare fino in fondo con ciò che avrei potuto finire col dire.


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Capitolo 6
*** Somebody I don't know ***


5.efp

5.

Somebody I don’t know


- I don’t remember, were we wild and young
All that’s faded into memory,
I feel like somebody I don’t know,
Are we really who we used to be
Am I really who I was

(Ryan Adams – Lucky Now)

Damon


La casa è avvolta in un luce fredda ed un silenzio quasi irreale quando scendo in cucina a prepararmi abbastanza caffè per rimediare alle tre ore scarse di sonno che sono riuscito a mettere insieme.

Mentre attendo che la bevanda finisca di prepararsi, mi dirigo ad aprire dal suo involucro il piatto posto in bella vista sul ripiano di marmo grigio. Scanso il bigliettino che lo accompagna, sul quale leggo distrattamente un paio di frasi abbinate ad una C svolazzante, ed addento uno degli invitanti croissant salati che si trovano al suo interno, iniziando a leggiucchiare il giornale di ieri che ho trovato abbandonato su un angolo del tavolo.

“Buongiorno, Stef,” esordisco ad alta voce poco dopo aver buttato giù l’ultimo boccone, quando i passi alle mie spalle mi annunciano l’entrata di mio fratello nella stanza. “Caroline manda tutto il suo amore,” gli faccio sapere porgendogli il bigliettino che lui mi strappa bruscamente dalle dita.

“Quella era la mia colazione,” replica irritato.

Mi stringo nelle spalle e sfoglio un’altra pagina.

“La prossima volta dovrebbe mandare una razione doppia.”

“Quella era una razione doppia.”

“Caffè?” domando offrendogli la caraffa con un sorriso.

Mi lancia un’altra occhiataccia mentre me la prende dalle mani e, in silenzio, inizia a versarsi il liquido bollente in una tazza.

“Cosa ci faceva Elena qua, ieri notte?” domanda talmente di punto in bianco da farmi irrigidire.

Mi concentro su un interessantissimo articolo riguardo ad un progetto per migliorare l’afflusso di traffico sull’interstatale, e rispondo in tono asciutto, “Non ne ho idea.”

Sorprendentemente, non sto neanche mentendo, ma il “mmh” scettico di mio fratello, insieme al movimento della testa con cui alza lo sguardo verso di me, mi suggerisce che non mi crede neanche per un istante.

“Se hai qualcosa da dire, dilla e basta, Stef.”

Stefan serra le labbra in una linea sottile, ma dopo un attimo di esitazione scuote la testa e torna al suo caffè come se niente fosse.

“No, niente.”

“Bene,” ribatto chiudendo il giornale e posando la mia tazza ormai vuota. “Volevo avvisarti che domani parto e starò via almeno qualche giorno,” lo informo, “Ho bisogno di tornare ad occuparmi di alcune cose insieme a Ric.”

“Non puoi partire domani,” protesta subito squadrandomi accigliato, “C’è l’inaugurazione della mostra per l’anniversario della Fondazione.”

“Dovrebbe importarmi?” domando sarcastico.

“Sì che dovrebbe,” risponde deciso. “Ti avevo detto che alcuni azionisti sono preoccupati per la situazione. Sei stato via così a lungo che non sanno neanche chi sei, vogliono rassicurazioni, e tu avevi promesso che saresti venuto per incontrarli. Non puoi tirarti indietro all’ultimo momento.”

Cazzo. Avevo completamente dimenticato. Ric mi avrebbe ucciso.

“Ok, cercherò di spostare il volo e partire tra un paio di giorni,” concedo con un sospiro, sempre più fermamente convinto che prima mi libero di tutta questa storia, meglio è per tutti. “Qualcos’altro?”

Quando vedo che mio fratello tentenna incerto, capisco che non è ancora finita e lo incito con lo sguardo a sputare il rospo. Si passa una mano tra i capelli e mi invita a seguirlo nello studio.

Si dirige con sicurezza verso la scrivania attraversata da un fascio di luce che entra dalla finestra alle sue spalle, si siede sulla poltrona e si china per aprire un cassetto. Per un attimo, vedo così tanto di mio padre nelle sue movenze da sentire un peso scendermi sullo stomaco.

“Stavo mettendo a posto le cose di papà ieri … E ho trovato questa.”

Mi porge una busta bianca, dal taglio orizzontale, sopra la quale, in una calligrafia che riconosco fin troppo bene, c’è scritta solo una parola: il mio nome. Lo guardo confuso, mentre la prendo e me la rigiro tra le mani qualche secondo. Il lembo superiore è richiuso, infilato con attenzione in quello inferiore, ma non è sigillato.

“L’hai letta?” mormoro, pur conoscendo già la risposta.

Stefan si limita a scuotere la testa.

Quel peso fastidioso ritorna a farsi sentire, quando infine la apro e ne tiro fuori due fogli, anch’essi scritti a mano, che dispiego quel che tanto che basta per leggere soltanto la data, risalente a circa due mesi fa, e di nuovo il mio nome come prima parola.

Tutto il resto, lo ignoro. Con la bocca inaridita come se mi ci avessero buttato del cemento a presa rapida, ripiego tutto e lo rimetto dentro così come lo avevo trovato, quindi con un lancio secco e preciso la getto nel cestino.

“Che cosa fai?” esclama Stefan stupefatto alzandosi in piedi per andare a recuperarla. “Non la leggi?”

“No.”

“Papà l’ha lasciata per te. Non vuoi sapere cosa aveva da dire?”

“No.”

Stefan mi lancia uno sguardo colmo di shock e disapprovazione, ma quando apre la bocca per parlare, lo precedo senza pensarci due volte.

“Voglio essere chiaro, Stef. Ci sarò domani ad incontrare questi azionisti, e prometto che farò tutto quello che posso per aiutarti ad uscire da questa situazione. Non appena le cose andranno meglio, ti venderò tutte le mie partecipazioni e mi tirerò fuori da tutta questa faccenda, completamente.”

“Damon, non puoi-”

“Se tu ci tieni tanto, avanti, fai pure,” lo esorto con un gesto in direzione della lettera che tiene stretta tra le mani come se fosse un preziosissimo cimelio o la custode di importanti verità nascoste. “Leggila, tienila, bruciala, facci gli origami. Non potrebbe importarmene di meno.”


***


Deluso. Incazzato. Imbronciato. Anzi, una magnifica combinazione di tutte e tre cose, come solo lui sa fare. Questo è lo Stefan con il quale il giorno seguente metto piede sul prato addobbato a festa di villa Lockwood, dal che ne deduco che forse l’incidente della lettera non gli passerà tanto facilmente.

“Torno subito,” mi annuncia in tono asciutto non appena scorge la sua ragazza in lontananza.

Lo guardo quindi allontanarsi in direzione di Caroline, che tutta indaffarata scompare e riappare ad intermittenza tra la folla, quasi seguendo il ritmo cadenzato ma vivace del quartetto d’archi impegnato ad offrire una musica d’ambiente.

In effetti, solo una ricca vedova con un lungo curriculum in organizzazione eventi, diventata sindaco più per popolarità che per effettive competenze, poteva fare di una cosa tanto banale come una mostra storica un avvenimento così sfarzoso ed importante per l’intera cittadina.

Mentre mi guardo intorno per valutare esattamente la portata di a che cosa sto andando incontro, non posso fare a meno di chiedermi se anche Elena sia presente. La risposta mi balza davanti agli occhi quando la intravedo nel suo vestitino da cocktail color blu notte, intenta a parlare con la sua amica Bonnie. Ma prima che io abbia il tempo di capire se ciò comporti anche la presenza di un esemplare di impeccabile fidanzato nascosto da qualche parte nei dintorni, vengo fermato ed incastrato da una coppia di mezza età che si presenta come Douglas e Honoria Fell.

Per i successivi venticinque minuti è tutto un susseguirsi di commenti di circostanza sulla bella persona che era mio padre, inframmezzata da non troppo casuali domande personali che eludo distribuendo monosillabi e sorrisi tirati. Quando infine riesco a congedarmi e penso di essere sopravvissuto, faccio a malapena in tempo a voltarmi che, per puro caso, vengo raggiunto dal commento sussurrato da Honoria a quell’altro coglione del marito, “Non mi stupisce che per tutto questo tempo se ne sia andato senza porsi alcun problema, probabilmente è perché è identico a sua madre. Ancora non mi capacito di come quella donna abbia potuto lasciare così due bambini ancora piccoli …”

Vedo un bicchiere pieno di bollicine dorate e non ci penso due volte ad afferrarlo e buttarlo giù in un sorso, tanto per costringermi a non voltarmi e contro ribattere.

“Ehi!” mi sento richiamare, “Quello era il mio bicchiere.”

Lascio il bicchiere ormai vuoto su un tavolo lì vicino e giro lo sguardo sulla donna accanto a me che, con le braccia incrociate in una posa sinuosa, mi scruta con un divertito accenno intimidatorio negli occhi castani.

“Desolato,” le sorrido osservando la sua figura, decisamente attraente, “Posso offrirtene un altro per rimediare?”

“I drink qua sono gratuiti,” scuote appena la testa, anche se la leggera piega delle sue labbra mi suggerisce che è più che compiacente di stare al gioco.

Mi avvicino di un passo e replico in un fare più allusivo, “Non ho mai detto di volertelo offrire qua.”

Lei ride piacevolmente della mia proposta.

“Wow, di sicuro non perdi tempo, signor … ?”

“Damon Salvatore,” mi presento, piegando appena la testa a simulare un inchino.

“Beh, Damon, io sono Andie,” sorride di rimando, “Andie Starr.”

“E cosa mai ti porta in questo posto, Andie Starr?”

Si guarda intorno e sospira con fare rassegnato. “Sono una giornalista. Sono qua per un servizio sulla mostra.”

“Mmh, sembra …”

“Da suicidio?” finisce lei per me. “Esattamente. Ma sai come vanno queste cose … Una ragazza va a studiare giornalismo sognando la Casa Bianca ed invece si ritrova a coprire mostre di antiquariato.”

“E’ terribile, davvero, hai tutta la mia solidarietà,” le faccio sapere partecipe. Proseguo sporgendomi verso di lei in tono complice, “Ma se vuoi posso rivelarti tutti gli sporchi segreti dei membri che l’hanno organizzata.”

“Sono tutta orecchie.”

Mi avvicino a lei fino quasi a sfiorarle i capelli biondo scuro mentre, indicando un punto a qualche metro da noi, le sussurro vicino all’orecchio, “Vedi quella donna, Honoria Fell … In questo momento, si sta vantando di tutti i complimenti che riceve per il suo rinomato chili, che ogni volta vince tutte le competizioni culinarie. Solo che non lo fa davvero lei, ma viaggia di nascosto per andare a prenderlo in una rosticceria di Whytheville.”

Andie mi guarda con aria grave. “Ma è scioccante.”

“Lo so, vero?”

Si distende in un sorriso divertito. “Te lo sei appena inventato, non è vero?”

Mi stringo nelle spalle, e rispondo con un sogghigno ambiguo.

“E cosa porta te, in questo posto, Damon Salvatore?”

“Direi un karma con un pessimo senso dell’umorismo,” rispondo con una leggera smorfia.

“Miss Starr!” Entrambi ci voltiamo in direzione del galoppino vestito a festa che è arrivato alle nostre spalle. “La signora Lockwood è pronta per quell’intervista e la sta aspettando.”

“Arrivo subito,” annuisce Andie, prima di tornare a rivolgersi verso di me, ““Beh, Damon, è stato un vero piacere, ma sfortunatamente il dovere mi chiama. In ogni caso …” tira fuori un piccolo blocco dalla borsa e ci scribacchia sopra qualcosa, lo piega e quindi me lo porge tenendolo tra due dita. “… qua è dove puoi trovarmi. Sai, se hai altri scoop da rivelarmi, o se vuoi fare ammenda per il drink che mi hai rubato.”

Accetto il foglietto con un sorriso ed un cenno del capo e me lo infilo in tasca.

Non appena Andie si allontana spostandosi dalla mia visuale, è Elena a comparirvi di nuovo. Bonnie le sta ancora parlando, ma il suo sguardo è adesso fisso su di me, le sopracciglia appena increspate in un’indecifrabile espressione. La vedo interrompere la sua amica posandole una mano sul braccio e, per un fugace attimo, ho l’impressione che stia per venire verso di me.

Non lo saprò mai, perché proprio in quel momento mio fratello mi si para davanti accompagnato da un tizio calvo e con i baffi si presenta come Peter Cartwright, azionista n.1.

Afferro un altro bicchiere da un cameriere di passaggio. Il circo è soltanto appena cominciato.


“Mi aspetto di vederti qui dalle tre alle otto ogni pomeriggio, il sabato dalle dieci. La cosa più importante da tenere d’occhio sono i taccheggiatori, quelli ti fregano in tutti i modi, e se fregano qualcosa sotto al tuo naso io te lo tolgo dallo stipendio. Per il resto, se qualcosa è fuori posto basta che la rimetti dove deve stare, secondo il genere e ordine alfabetico. E’ abbastanza a prova di stupido. Tutto chiaro?”

Il mio nuovo capo si voltò verso di me dopo aver finito di illustrarmi sbrigativamente ciò che mi sarei dovuto aspettare dal mio nuovo lavoro nel suo negozio di musica. Distolsi in fretta lo sguardo dal suo sedere, perfettamente racchiuso in un paio di stretti pantaloni di pelle.

“Chiarissimo, Rosemarie,” replicai prontamente con un sorriso.

Quando si allungò sopra il bancone che fungeva da cassa per sporgersi nella mia direzione, dovetti fare ricorso a tutta la mia concentrazione per non far cadere lo sguardo sul ghirigoro di un tatuaggio che sporgeva dalla sua scollatura, vicino alla linea della clavicola. Rimasi invece inchiodato sul posto dai suoi occhi verde chiaro.

“E non chiamarmi mai più Rosemarie, o ti rompo tutte le dita ad una ad una,” mi ammonì in uno tono basso e minaccioso che trovai assurdamente eccitante. “Rose va più che bene.”

In risposta, le sorrisi di nuovo, questa volta cercando di risultare un po’ più accattivante, ma tutto ciò che ottenni fu una risata divertita.

“Hai il tuo fascino, bel faccino, ma non saresti mai capace di reggere con una come me. Riservalo per la clientela, magari ne attiri un po’ di più. Questo mercato fa schifo.”

Rose aveva ragione, quel mercato faceva schifo e quelli che entravano in negozio per comprare davvero qualcosa non erano altro che una ristretta cerchia di fedeli appassionati, facilmente individuabili. Il resto della gente che andava e veniva era composta per lo più da curiosi che frugavano, passavano lì una buona mezzora, lasciavano tutto fuori posto e se ne andavano senza aver concluso niente.

Di conseguenza, di cose da fare ce ne erano ben poche. Il che non era poi così male, se si considerava che mi permetteva di passare buona parte del mio tempo a cazzeggiare, ascoltandomi sempre qualcosa, giocando a poker su internet, o, se proprio mi sentivo in vena e Rose non era nei paraggi, andando a strimpellare un paio di note su un vecchio pianoforte a muro in fondo alla sala che nessuno si filava di striscio.

I soldi pure non erano molti, ma ne avevo più che mai bisogno da quando un’altra litigata con mio padre sulla annosa questione college, più violenta delle precedenti, mi aveva portato in un impeto di rabbia ad andarmene di casa, spergiurando che non ci sarei più tornato. Giuramento purtroppo durato ben poco, dal momento che, solo due giorni dopo, quell’altro idiota del mio amico Mason mi aveva fatto sapere neanche troppo gentilmente che era il caso di sloggiare da casa sua, io avevo scoperto che l’affitto di un qualsiasi buco di monolocale si sarebbe mangiato l’intero stipendio di un lavoro part-time, e Stefan era infine riuscito a mediare un compromesso tra me e mio padre che mi aveva convinto a ritornare prendendo dimora nella dependance ai margini della villa.

Mio padre aveva comunque preteso che gli pagassi un piccolo affitto, ma almeno quello potevo permettermelo e, se non altro, mi evitava di incrociarlo su basi giornaliere, cosa che già di per sé mi sembrava una grande vittoria.

Ma ogni volta che passavo davanti al Mystic Grill, c’era sempre quel nodo alla bocca dello stomaco che non c’era alcun modo di far andare via.


Azionista n.4 è il momento in cui decido che contare sui bicchieri di champagne di passaggio non è più abbastanza per poter arrivare alla fine della giornata. Fortunatamente non è poi così difficile distrarre un’addetta al catering quel tanto che basta per procurarsene una bottiglia piena, direttamente dal secchiello del ghiaccio, ed approfittare di un momento di disattenzione da parte di Stefan per ritagliarmi un più che meritato momento di pausa da tutta quella manfrina.

Trovo il posto perfetto sul retro della villa, accanto ad un’entrata secondaria riservata dalla quale passano solo camerieri e altro personale di servizio. Alcuni di loro mi gettano occhiate incuriosite quando mi allento la cravatta, butto a terra la giacca e mi siedo direttamente sul prato a sorseggiare dalla bottiglia che ho sgraffignato. E’ comunque troppo poco alcolico rispetto a ciò che avevo in mente, ma in mancanza di altro decido di farmelo andare bene.

Ciò che conta è che il resto del ricevimento è abbastanza lontano da permettermi di restare indisturbato a godere di un po’ di santa pace.

“Ecco dov’eri finito.”

Riapro gli occhi che avevo socchiuso per ripararli dalla luce e sollevo di un poco la testa dal muro contro il quale l’avevo appoggiata. In controluce, Elena è in piedi di fronte a me, ad osservarmi con le braccia conserte come una maestrina che ha appena sorpreso un suo alunno a fare qualcosa di sbagliato. Peccato per lei che quell’espressione di vago rimprovero sul suo viso sia troppo adorabile per poter davvero mettere in soggezione chiunque.

“Stefan ti sta cercando ovunque,” aggiunge.

“Ed ha mandato te?” domando diffidente.

“No, io …” scrolla le spalle, “L’ho solo sentito parlare con alcune persone. Qualcuno che dovresti incontrare?”

“Lascia che ti riveli un segreto …” le dico abbassando la mia voce per imitare un tono cospiratorio. “E’ esattamente questo il motivo per cui me ne sto qui.”

Scuote la testa e si lascia scappare un accenno di sorriso.

Sono però del tutto impreparato quando, d’un tratto, si alliscia la gonna e si siede sull’erba accanto a me. Il vestito le si solleva un po’ di più sulle cosce nude quando rannicchia le gambe di lato incrociando le caviglie, ma il momento che veramente rischia di confondermi la testa già un po’ annebbiata dagli effetti dell’alcol frizzantino è quello in cui, complice un soffio di vento, vengo raggiunto da una traccia del suo profumo. Non ho mai incontrato nessun’altra in grado di rendere così sensuale con un semplicissimo e delicato profumo di fiori.

Continuo ad osservarla sconcertato mentre distende le braccia all’indietro per sorreggere il busto, del tutto incurante, come solo una ragazzina potrebbe esserlo, di sporcarsi con l’erba il suo bel vestito. E, per un attimo, penso che forse è proprio ciò che ancora siamo entrambi, a dispetto degli abiti più ricercati e di tutto ciò che c’è stato tra quel momento e le memorie che mi riporta alla mente.

“Il tuo piano di mimetizzazione include anche la necessità di berci sopra?” mi domanda indicando la bottiglia al mio fianco con un cenno della testa.

“Abbastanza direi, sì.”

“L’ubriacatura diurna non è il tuo look più attraente.”

“E sentiamo, qual è il mio look più attraente?” la provoco con un mezzo sorriso mentre poso un gomito sul ginocchio e mi allungo un po’ di più verso di lei.

“Guarda che non sto dicendo che ne hai uno …” replica accennando un altro leggero sorriso, “Solo che questo non è quello che preferisco.”

Giusto, penso appoggiandomi di nuovo all’indietro contro il muro con lo sguardo fisso davanti a me, mentre mi do mentalmente del coglione. Scommetto qualsiasi cosa che il perfetto Elijah non si sarebbe fatto trovare ubriaco dalla ragazza con il padre con una storia di alcolismo. Ma, del resto, ci deve essere un motivo se lui se la sta per sposare ed io spreco il mio tempo a nascondermi da un gruppo di azionisti durante una stramaledetta mostra di antiquariato.

“Damon …”, mi richiama, “… Stai bene?”

“Una favola, Elena, grazie per averlo chiesto.”

“Tuo padre è morto da poco e tu ancora ti comporti come se niente fosse successo. Non stai bene.”

Questa volta accuso il colpo e torno a guardarla. La luce pomeridiana le crea un riflesso leggermente ramato sui capelli castano scuro, una cui ciocca le è appena sfuggita dalla treccia laterale. Resisto all’impulso di allungare le dita per scostarla dietro al suo orecchio e, tre secondi dopo, è lei a farlo da sola al posto mio.

“E tu pensi di sapere come sto perché …” la incalzo quindi sarcasticamente.

“Ti conosco,” ribatte convinta, ma capisco che l’ha detto d’istinto e che probabilmente se ne è pure pentita, perché distoglie lo sguardo nell’attimo in cui i nostri occhi si incontrano e subito aggiunge, “E perché Caroline non ha ancora imparato a tenere per sé le sue opinioni.”

“Chissà perché non mi sorprende,” commento, ed entrambi facciamo finta che la prima parte della frase non l’abbia neanche pronunciata.

“Ascolta …” prosegue dopo qualche attimo di silenzio, “Mi dispiace per l’altra sera. E’ stato sbagliato da parte mia presentarmi a casa vostra in quel modo, nel mezzo della notte, non so cosa stessi pensando di ottenere.” Con una mano sta adesso torturando un filo d’erba, torcendolo a suo piacimento. Un’ombra le passa sul volto quando questo infine le si spezza tra le dita. “Ma mi piacerebbe davvero se riuscissimo ad essere in buoni rapporti. Insomma, voglio che tu sappia che, anche se è passato tanto tempo, vorrei ancora esserti amica e che, se hai bisogno di qualcuno con cui parlare … sai dove trovarmi.”

Raddrizzo la schiena e mi sporgo verso di lei. Questa volta i suoi occhi rimangono fermi nei miei, probabilmente proprio perché vuole che io vi legga la sincerità dei suoi buoni propositi. E quasi sicuramente è colpa dell’alcol che mi ha già dato alla testa e mi fa immaginare cose che non ci sono, ma, sfortunatamente per lei, vedo qualcos’altro nella sua gentile proposta.

“Sei felice?”

Elena corruga le sopracciglia per la sorpresa e si ritrae, come presa alla sprovvista dalla mia domanda sbucata dal nulla. Non impiega molto a mettere su un altro sorriso e ad annuire stringendosi nelle spalle.

“Non ho alcun motivo per non esserlo.”

“Non è quello che ti ho chiesto.”

Esita per un breve attimo. Infine scuote la testa e si alza, scrollandosi di dosso la conversazione con la stessa tenacia con cui si scuote i fili d’erba dal vestito.

“Dovresti tornare da Stefan. E’ preoccupato per te.”

Mi alzo anch’io facendo leva contro il muro che mi aiuta a non vacillare. Elena mi sta già precedendo di un paio di passi, quando infine raccolgo la mia giacca e la seguo senza aggiungere altro.

Facciamo appena in tempo a risbucare nel prato principale che Stefan ci punta subito come un falco cacciatore.

“Io dovrei andare,” mormora Elena, mentre mio fratello inizia a venirci incontro a passi decisi. “Ma Damon … Intendevo quello che ho detto.”

Mi getta un ultimo sguardo e mi saluta con un breve cenno. La osservo allontanarsi finché non vengo raggiunto dalla voce di Stefan, che mi scruta con un’espressione ancora più seria del solito.

“Cosa significa?” mi domanda indicando Elena con la testa.

“Niente.” Scrollo le spalle. “Andiamo a fare quello che c’è da fare.”

Ma mio fratello mi blocca la strada con un braccio e mi si para davanti, costringendomi ad alzare lo sguardo su di lui.

“Non farlo,” mi ammonisce.

“Fare cosa?” domando irritato.

Stefan porta il volto a pochi centimetri dal mio e mi guarda dritto negli occhi, mentre risponde scandendo bene ogni parola, come per assicurarsi che io stia afferrando bene il concetto.

“Sta per sposarsi.”

“Lo so perfettamente,” commento con una smorfia.

“Ne sei sicuro?” mi chiede alzando sarcasticamente un sopracciglio.

“Cosa stai cercando di insinuare?” sbotto, più che mai infastidito da quel suo insopportabile atteggiamento passivo-aggressivo, “Hai per caso paura che io possa rovinare le cose con il tuo prezioso Elijah, visto il suo coinvolgimento nell’azienda? E’ questo che ti preoccupa?”

“No, idiota, mi preoccupi tu,” replica seccato, “Non c’è bisogno che ti dica come diavolo è andata a finire l’ultima volta. Non voglio vederti sparire per altri otto anni a causa sua.”

“Non è Elena il motivo per cui me ne sono andato da qua, e lo sai benissimo. Se papà non avesse …” mi blocco quando una coppia ci passa a fianco e ci squadra interessata, rendendomi conto di aver iniziato ad alzare troppo la voce. Scuoto la testa e decido di lasciar perdere vecchie questioni che tanto se ritirate fuori non possono far bene a nessuno. “Piuttosto, non c’era qualche altro azionista da conquistare con il mio indiscusso fascino?”

“Tu non incontri proprio nessuno. Sei ubriaco, non pensare che non me ne sia accorto. Anzi, dammi subito le tue chiavi, la macchina la porto a casa io. Due passi non dovrebbero farti male.”

Controvoglia, frugo le tasche della giacca per tirarne fuori le chiavi della Camaro. Faccio per porgergliele, ma all’ultimo secondo le sottraggo dalla sua portata e lo guardo minaccioso.

“Se ci trovo anche solo un graffio, giuro che ti taglio i capelli durante il sonno.”

“Tu provaci ed io dico a Caroline che l’hai richiesta per portarti a fare shopping.”

Gli rivolgo un’altra occhiata torva. “Non lo faresti mai.”

“Mettimi alla prova.”

Stefan allunga la mano e, con un ghigno vittorioso, mi strappa infine le chiavi dalle dita.


Quando voleva, Stefan sapeva sempre come essere una vera seccatura. Soprattutto quando si trattava di passare al vaglio e pronunciarsi su ogni mio comportamento.

Quella volta, però, era stato semplicemente una seccatura con la mononucleosi che, tra rantoli e occhioni febbricitanti, era infine riuscito a convincermi a tornare a scuola fuori orario soltanto per recuperargli dall’armadietto la sua copia de Il Grande Gatsby, sua personale coperta di Linus senza la quale apparentemente non poteva sopravvivere al decorso della malattia. E chi ero io per negare tale consolazione ad un sedicenne per cui essere costretto a saltare mezzo trimestre rappresentava la più grande tragedia della sua vita?

Mi infilai il libro nella tasca interna della giacca e richiusi l’armadietto con un clack metallico che risuonò nel corridoio deserto, seguito subito dopo da un leggero singhiozzo soffocato.

Corrugai la fronte perplesso e rimasi qualche secondo immobile, in ascolto.

Pensando di essermelo immaginato, mi incamminai per andarmene, così da poter portare quel benedetto libro a Stefan e riuscire ad arrivare a lavoro prima che Rose decidesse di dare per davvero seguito ad un’altra delle sue fantasiose minacce.

Ma, arrivato neanche a metà del corridoio, un altro singulto mi arrivò all’orecchio.

Quando mi voltai nella direzione da cui l’avevo sentito provenire, attraverso il vetro della porta di un aula vuota, intravidi Elena singhiozzare piano davanti ad un mucchio di roba sparsa sopra uno dei primi banchi della fila.

Mi bloccai sul posto, preso alla sprovvista.

Non avevo più parlato con Elena dal giorno in cui avevo mollato il lavoro al Grill una settimana prima. Non che lei me ne avesse dato veramente modo: se mi ero trovato nei paraggi di casa sua per passare a prenderla come ormai mi ero abituato a fare, non si era più fatta trovare; se l’avevo incrociata per caso, si era affrettata a cambiare strada.

Odiavo la tenacia che metteva nell’evitarmi, ma dopo qualche giorno ero arrivato alla conclusione che forse fosse davvero meglio lasciar perdere. Voglio dire, cosa diavolo avrei mai dovuto fare?

Nessuno, a parte forse mio fratello, si era mai affidato a me per qualsiasi cosa ed il fatto che quella ragazzina avesse invece dimostrato di volermi dare anche solo un po’ della sua fiducia era così sbagliato sotto così tanti punti di vista. Tutta quella situazione, in fin dei conti, era soltanto colpa sua. In particolare, di quel suo brutto vizio, che aveva preso fin troppo in fretta, di guardarmi in un modo in grado di farmi attorcigliare dentro e confondermi le idee. Perché, quando mi guardava in quel modo, doveva per forza vedere qualcun altro, qualcuno che non ero io. Perché io, di quello sguardo e di quella fiducia, non avevo idea di cosa farci.

Ma poi, eccola lì, in grado con niente di trasformare in aria fritta qualsiasi ragionamento e qualsiasi buon senso.

Lentamente, posai una mano sulla maniglia e spinsi la porta in avanti.

Elena sussultò nel sentirmi entrare e, di scatto, si voltò nella mia direzione. Per alcuni lunghi attimi restammo entrambi immobili a fissarci, anche se dai suoi occhi lucidi non avrei saputo dire se la mia presenza in quel suo momento così personale fosse di conforto oppure di fastidio.

D’un tratto distolse lo sguardo, si asciugò le lacrime con il dorso della mano, e cominciò, in tutta fretta, a rimettere dentro la borsa tutto ciò che era ancora rovesciato sopra il banco.

“Cos’è successo?” le domandai con una neanche troppo nascosta preoccupazione nella voce, iniziando ad incamminarmi cauto verso di lei.

Si fermò in ciò che stava facendo, tentennando un paio di secondi.

“Ho perso una penna,” disse infine scuotendo la testa, senza voltarsi a guardarmi.

“Una penna?”

“Ce l’avevo fino all’ultima ora, ero sicura di avercela, ma non riesco più a trovarla, così sono tornata qui e ho provato a cercarla ovunque …” la voce le si smorzò prima di arrivare alla fine della frase. “L’ho persa.”

In un impeto improvviso, scagliò la borsa a terra e si lasciò cadere a sedere contro il bordo esterno della cattedra con un lungo sospiro frustrato. Posò un gomito sulle ginocchia piegate e si passò una mano tra i capelli, che quindi le ricaddero in avanti come una cascata scura in fronte al viso.

Mi piegai per inginocchiarmi accanto a lei, tenendomi in equilibrio sui talloni.

“Vuoi che ti aiuti a cercarla?” domandai incerto, pieno di dubbi su cosa diamine avrei dovuto fare in quella situazione.

Sollevò lo sguardo arrossato su di me e, inclinando la testa di lato, mi scrutò con una tale intensità da farmi quasi sentire un completo idiota.

“Non sei costretto a farlo.”

“Non è poi tutta questa gran cosa,” scrollai le spalle.

“Intendevo …” proseguì in tono leggermente più fievole, “Fingere che ti importi.”

Non riuscii a trattenere un mezzo sorriso. “Credimi, anche se lo volessi, non sono affatto bravo a fingere una cosa del genere.”

“In ogni caso, è solo una stupida penna,”scosse di nuovo la testa con una smorfia amara.

“Deve essere una stupida penna molto importante.”

“L’avevo trovata tra le cose di mia madre,” spiegò corrugando le sopracciglia. Si portò il dorso della mano contro le labbra, ed i suoi occhi tornarono ad inumidirsi. “E’ solo che mi manca. Mi manca davvero tanto.”

Non so bene chi dei due iniziò la cosa, se fu colpa del mio braccio che andò a circondarle la schiena o della sua mano posata sulla mia spalla, ma un solo secondo dopo il suo viso era seppellito nel mio collo ad inumidirmi il colletto della maglietta, mentre con le dita appena esitanti le sfioravo i capelli. Non so bene neanche quanto tempo restammo in quella strana posizione, prima che se ne sciogliesse delicatamente ed io mi offrissi di riaccompagnarla a casa.

Anche se non parlammo mai di ciò che era successo qualche giorno prima, a partire da quel momento Elena smise di evitarmi ed io scoprii che c’era una parte di me che intendeva dimostrarle nei fatti quello che non le dissi mai a parole: che iniziava a piacermi ciò che Elena aveva visto in me.


Quando mi risveglio, fuori è già buio.

Con le membra un po’ rattrappite per la scomoda posizione ed un vago stordimento ancora in testa, mi rialzo dal divano della sala sul quale avevo finito per crollare appena tornato a casa e vado a buttarmi sotto la doccia, tanto per togliermi di dosso anche gli ultimi residui dell’alcol e della inaspettata conversazione avuta con Elena.

Non dubito la sincerità delle sue intenzioni e forse è proprio lì che risiede il problema. Lei in qualche modo mi ha offerto una porta aperta per poter rientrare nella sua vita, e cosa farne adesso dipende solo da me.

Sto scendendo le scale verso il piano di sotto per recuperare qualcosa da mettere nello stomaco, quando dei fari dall’esterno illuminano la sala semibuia e mi fanno sapere che anche Stefan infine è tornato.

Quando il portone si apre, però, noto subito che non è tornato da solo. Anzi, in verità, Stefan neanche lo vedo, ciò che vedo è solo un lampo di lunghi capelli biondi in mezzo ad un groviglio di mani e gambe, appena prima che scompaiano a rotolarsi oltre il divano. Ma li sento fin troppo bene, sia i risolini di lei che le mezze parole sussurrate, in mezzo al rumore di zip che si abbassano.

A quel punto, non ho altra scelta che afferrare la mia giacca ed attraversare spedito il corridoio di ingresso dritto verso la porta.

“Prego, continuate senza fare caso a me e ai traumi che rischiate di provocarmi!”

La testa di mio fratello sbuca da dietro la spalliera del divano, con i capelli così scarmigliati che neanche il suo gel a presa rapida sembra aver retto all’urto.

“Ritorni … presto?” mi domanda con il fiato corto. Dalla sua intonazione, il suggerimento che spera tutt’altro non è neanche troppo sottile da intuire.

“No, se sono fortunato.”

Una mano piccola e perfettamente curata sale ad afferrarlo per la cravatta che gli pende sfatta intorno al collo e, un attimo dopo, è sparito di nuovo.

“Ciao ciao, Damon!” sento gridarmi dietro dalla voce di Caroline, mentre richiudo il portone alle mie spalle.

Mi infilo le chiavi in tasca e qualcos’altro mi capita in mano.

Tiro fuori il foglietto ripiegato e, mentre me lo rigiro tra le dita, è come se avessi di fronte due scelte precise. Lo rimetto via in fretta, dato che tanto so di non avere davvero bisogno di rifletterci sopra più tanto.

Apre la porta al secondo squillo, ed i suoi occhi si illuminano in un’espressione di piacevole sorpresa quando si fermano su di me.

“Damon …” Il vestito elegante del pomeriggio ha lasciato il posto ad un cardigan ed un abbigliamento più casual, ma ciò non la rende minimamente meno bella. “Questo significa che hai preso in considerazione quello che ti ho detto oggi?”

“Qualcosa del genere.”

Un sorriso si fa strada sul suo volto, mentre si scansa dalla porta per invitarmi a entrare. “Sono felice che tu lo abbia fatto.”


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Spazio autrice.


Buona domenica sera ^^

Volevo riuscire a pubblicare oggi pomeriggio, poi ahimè non ci sono riuscita, però piuttosto che rimandare a domani ho pensato che chissà, magari, anche la sera c’è qualcuno che aveva voglia di leggerselo …

Un grande grazie va a Bloodstream che ha fatto questa bellissima fan art ispirata da Stubborn Love. Non ho parole per dire quanto sono commossa dalla cosa. (Un’altra cosa che è bellissima sono le sue storie, se non l’avete mai fatto andate a darci un’occhiata, e non perchè ha creato questa immagine, ma perché meritano. Tanto.)


Come sempre, un grazie infinito va a chi mi dedica un po’ del proprio tempo per leggere e lasciare un commento. So che, tra studio e lavoro, con la fine delle vacanze il tempo libero è drasticamente ridotto per tutte qua, ecco perché sappiate che lo apprezzo ancora di più.

Prossimo aggiornamento tra due settimane.


A presto! Un bacio


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Capitolo 7
*** The nearness of you ***


6.efp



6.
The nearness of you

- It's not the pale moon that excites me
That thrills and delights me, oh no

It's just the nearness of you -

(Glenn Miller – The nearness of you)


Elena

Due minorenni con la gonna talmente invisibile da far voltare mezza clientela, quella con il cromosoma Y, e da farmi domandare se ci sia qualcosa di sbagliato in me per non aver mai indossato niente del genere, né adesso né tantomeno a quell’età. Un ragazzo con le unghie lunghe ed i capelli più unti del doppio cheeseburger con bacon e cipolle, quello per gli stomaci più temerari. Un altro sedicenne che apparentemente è convinto di dover sostenere una conversazione con le mie tette.

Trovare un rimpiazzo per Vicky si sta dimostrando un’impresa più ardua di quanto potessi mai immaginare.

Perciò, quando la rossa dai capelli scompigliati e lo sguardo impertinente mi dice di aver lavorato quattro anni in un Irish pub di Philadelphia, mi sembra perfino troppo bello per essere vero.

“Come sei finita qua in Virginia, se posso chiedere?” le domando dopo aver dato un sorso di assaggio al Whiskey sour perfettamente equilibrato che ha appena preparato.

“Penso di aver avuto bisogno di un posto nuovo, dove ricominciare,” risponde poggiandosi all’indietro contro il ripiano del bancone. Devo avere lo sguardo piuttosto interrogativo, perché, accennando un mezzo sorriso, mi spiega, “Colpa di una storia finita male. Non è per quello che la gente di solito decide di cambiare aria?”

Forzo un piccolo sorriso, impreparata alla piccola stretta che per un attimo mi ha contratto il petto.

“Immagino di sì,” scrollo le spalle, “Non saprei dirlo.”

“Posso chiedere cos’è successo con la ragazza che c’era di prima?” mi chiede increspando appena le sopracciglia.

“L’ho sorpresa nella dispensa con le gambe intorno a mio fratello.”

Sgrana gli occhi azzurro chiaro e li sposta subito su Jeremy, che sta passando a distribuire ordinazioni tra i tavoli. Si fa sfuggire un sibilo basso, a metà tra il malizioso e il divertito. “Beh, non posso biasimarla.”

L’occhiataccia che le lancio, però, la fa subito scoppiare a ridere.

“Rilassati, posso assicurarti che tuo fratello non è il mio tipo nel modo più assoluto,” si affretta ad aggiungere. Un altro mezzo sorriso le spunta sulle labbra quando il suo interesse viene colpito da qualcos’altro alle mie spalle. “La tua amica, però … è davvero carina.”

Presa alla sprovvista dal suo commento, mi volto verso il punto, all’altra estremità del bancone, da cui le mie due migliori amiche stanno cercando di attirare la mia attenzione. O almeno, è quello che sta facendo Caroline, che agita un braccio in aria neanche dovessi individuarla nel parterre di un concerto. Bonnie, invece, distoglie immediatamente lo sguardo con un lieve scatto della testa. Corrugo la fronte, confusa. “Torno subito.”

“Chi è quella?” mi chiede timidamente Bonnie non appena le raggiungo. E’ solo perché la conosco così bene che noto, sulla sua pelle color caramello, una leggera, altrimenti impercettibile, colorazione quando la rossa lancia un altro sguardo nella sua direzione.

“Si chiama Sage, sto pensando di assumerla.”

“Chi diavolo se ne importa,” ci interrompe subito Caroline, che sta chiaramente fremendo di impazienza. “Possiamo passare alle cose importanti? Me.” Si indica con entrambe le mani ed un sorriso le illumina il volto.

“Non ci crederai. Beh, in realtà sì, è ovvio che ci crederai, perché è logico che, se c’è qualcuno che se lo è meritato, quella non avrei potuto che essere io, insomma, riuscire a tenere le fila di tutto, essere chiamata agli orari più assurdi, a volte penso che davvero non so cosa potrebbero fare senza di me, sarebbero persi, te lo dico io, e poi tutto quel lavoro che ho fatto per la mostra doveva ripagarmi in qualche modo, del rest-”

“Care,” la ferma Bonnie, richiamandola con uno sbuffo.

La pausa forzata se non altro permette alla bionda di riprendere un attimo fiato.

“Sono stata promossa!” annuncia euforica accompagnando la notizia con un battito di mani emozionato.

“Non è davvero stata promossa,” aggiunge Bonnie cercandomi per un’occhiata d’intesa, che suggerisce quanto bene conosciamo la nostra amica. “Ma le piace crederlo.”

“Non essere la solita guastafeste! Sono assistente esecutiva adesso!” la rimbecca l’altra.

“Hai avuto un aumento di stipendio?”

“No, ma …”

“Continuerai a fare esattamente quello che facevi prima?”

“Sì, ma …”

“Visto? Non sei davvero stata promossa,” sospira Bonnie.

Caroline la liquida con un movimento sbrigativo della mano, come se stesse scacciando una mosca fastidiosa.

“Congratulazioni, Care,” le dico riuscendo a stento a trattenere una risatina divertita.

“Grazie, lo sapevo che tu avresti capito.” Scocca un’altra occhiata in direzione di Bonnie tanto per dimostrare la propria superiorità nei confronti del suo solito scetticismo, e prosegue gongolante. “Quindi, per festeggiare, siete tutte invitate a casa mia … sì, insomma, da Stefan. Domani sera. Il giardino è magnifico in questo periodo dell’anno, ed è l’occasione perfetta per quel barbecue che tanto avevo in mente da tempo. So che è con poco preavviso, ma pensi di farcela a venire?” mi domanda speranzosa.

Getto uno sguardo verso Sage, che sta ancora aspettando una mia risposta definitiva.

“Sì,” dico, “Penso di sì.”

“Grandioso!” cinguetta Caroline.

Saluto le mie amiche e vado a mettermi d’accordo con la mia nuova barista, che sembra più che entusiasta di essere stata assunta.

Approfitto di un momento di calma per rimettere un po’ in ordine dietro al bancone. Sistemo i bicchieri e passo velocemente una spugna umida lungo i ripiani. Mi blocco di colpo, però, mentre sto svuotando e ripulendo i filtri della macchina da caffè, congelata da un pensiero improvviso.

Caroline non ha fatto menzione della possibilità che anche Damon sia presente domani sera.

Il ricordo dell’ultima volta che abbiamo parlato, il giorno dell’inaugurazione della mostra a villa Lockwood, mi porta in gola un sapore amaro. Da quel giorno è passata più di una settimana, durante la quale Damon non l’ho più né visto né sentito. Come Caroline mi ha fatto casualmente sapere, sono consapevole del fatto che negli ultimi giorni non sia stato a Mystic Falls, ma in California, dove è tornato per questioni di lavoro.

Tuttavia, ciò non mi impedisce di immaginare che il suo non essere passato neppure per un saluto veloce sia un indicatore piuttosto chiaro del fatto che la mia confessione di voler ristabilire un buon rapporto con lui sia caduta completamente nel vuoto.

Forse, non dovrebbe neanche importarmene. Ma invece, mio malgrado, è così, soprattutto se penso a quanto sia stato ingenuo, e sciocco, da parte mia poter sperare, anche solo per poco, che alcune cose potessero essere riaggiustate e tornare a come quando, tra noi, tutto era più semplice. O se non altro così sembrava.


“Non stai parlando sul serio.”

Damon continuò a darmi la schiena, intanto che finiva di tirare fuori e rimettere in ordine alcuni dischi nella sezione dei vinili, ma, seduta sopra la postazione di legno che fungeva da cassa, riuscii lo stesso ad osservare le sue spalle alzarsi e abbassarsi in quell’atteggiamento di noncuranza che avevo ormai imparato a riconoscere così bene.

“Puoi scommetterci che parlo sul serio,” replicò risoluto.

“Damon!” proruppi con sconforto crescente di fronte alla sua incredibile testardaggine, “Sono disperata! Non so se ti rendi conto della gravità della situazione: la festa di compleanno della migliore amica è tra meno di un’ora ed io non ho niente da regalarle perché me ne ero completamente scordata. Tu devi aiutarmi.”

“Dille semplicemente che ti sei dimenticata e vedrai che capirà,” mi rispose voltandosi giusto un secondo per farmi intravedere il suo sorrisetto sprezzante, prima di tornare allo scaffale successivo e a farmi avere una conversazione con la sua nuca.

Colma di frustrazione, scossi la testa e feci dondolare le gambe con impazienza.

“Non Caroline,” dissi convinta, “E’ una che prende il suo compleanno molto seriamente. Tu non la conosci.”

“E neanche ci tengo a farlo. Quella lì sembra una vera rottura di palle da avere intorno.”

Con un sospiro, gettai un’occhiata fuori. Una pioggia novembrina leggera ma costante continuava a scendere in rivoli contro la porta a vetri e contro l’unica piccola vetrina che la affiancava, entrambe già con le serrande mezze abbassate per indicare la chiusura del negozio al pubblico. La gialla luce artificiale che illuminava la stanza, sembrava rendere le strade all’esterno ancora più buie di quanto non fossero.

“Damon,” tentai nuovamente, con più calma, decisa a tutti i costi a farlo ragionare, “Tutti i negozi sono già chiusi. Non ho tempo. Non ho altre alternative.”

“Elena,” replicò, girandosi verso di me ed imitando la mia stessa voce pacata, una cosa così fastidiosa che mi strappò un’alzata di occhi verso il soffitto, “Puoi fare tutti gli occhi cerbiattosi che vuoi. Non ho nessuna intenzione di farti un cd di Avril Lavigne,” ribadì con una smorfia disgustata. “Scordatelo.”

“E’ la sua preferita, non devi mica ascoltarla tu.”

Si avvicinò a passi decisi, e solo all’ultimo momento mi resi conto che adesso aveva qualcosa tra le mani. “Tieni, se proprio vuoi piuttosto regalale questo.”

Mi rigirai tra le dita il cd che mi aveva appena messo in grembo, un solo nome scritto con il pennarello nero sopra ad una custodia spoglia.

“Arcade Fire? Mai sentiti.”

“Ovvio, è uscito da poco. [1]”

“Lo getterebbe via alla prima occasione,” scossi la testa per bocciare la sua opzione, ma lo riposi ugualmente sopra la mia borsa con l’intenzione di prenderlo per me. Difficilmente, in tutto ciò che Damon mi aveva passato sottobanco nelle ultime settimane, c’era stato qualcosa che non mi fosse piaciuto. Sospirai. “C’è nessun modo in cui posso sperare di convincerti?”

A quelle parole, mi sembrò di intravedere nel suo sguardo una piccola scintilla maliziosa. Posò le mani sulla superficie di legno, ai lati delle mie gambe, e si sporse fino a portare il volto a pochi miseri centimetri dal mio.

Il mio cuore fece una piccola capriola per la sorpresa. Le sue labbra erano all’improvviso così vicine da farmi avvertire il suo respiro sulle mie.

“No,” scandì lentamente, appena prima di far incurvare un angolo della bocca verso l’alto in un ghigno divertito.

Quel suo mezzo sorriso però scomparve, quando anche io mi protesi in avanti, riducendo ancora di più le distanze. Non si ritrasse, ma un moto di incertezza balenò nei suoi occhi azzurri.

“Per favore?...” domandai di nuovo in un soffio.

“Oh, fanculo,” bofonchiò tra i denti mentre, scuotendo la testa, si allontanava di scatto e mi girava intorno per andare a mettersi davanti al computer posto al mio fianco.

“Se lo dici a qualcuno,” mi minacciò, facendo guizzare velocemente lo sguardo su di me, “neanche quei tuoi begli occhi da Bambi ti salveranno la prossima volta.”

“Non lo farò,” lo rassicurai convinta. Dovetti sforzarmi per trattenere il sorriso che rischiò di sfuggirmi quando mi ritrovai a domandarmi se mi avesse per caso appena fatto un complimento.

Rimasi ad osservare il suo profilo illuminato dalla luce azzurrognola dello schermo, soffermandomi sul modo in cui ne accarezzava gli zigomi e il profilo della mascella e gettava una strana sfumatura sui suoi occhi, rendendoli di un blu quasi irreale. C’era semplicemente qualcosa in lui … non mi meravigliava che così tante ragazze ne fossero attratte.

“Vuoi venire con me stasera?” azzardai a domandargli tutto d’un tratto.

“Dove, alla festa di una che ascolta Avril Lavigne?” replicò con una vaga smorfia che da sola bastava a far trapelare quanto ritenesse assurda quella proposta. “E poi, ho già altri piani.”

“Oh,” mormorai, scacciando via la mia delusione, “Ok.”

Il suo telefono prese a vibrare contro il ripiano sul quale era posato. Mentre Damon lo prendeva in mano per controllare chi fosse, scorsi il nome Sarah lampeggiare sullo schermo. Lo riposò e lo lascio suonare, ma un altro moto di delusione ritornò prepotente quando non potei fare a meno di domandarmi se fosse proprio “Sarah” il suo piano per la serata.

“Ecco tutto il tuo concentrato di pessimo gusto,” aprì lo sportellino del cd, lo infilò dentro una custodia e me lo porse con un sorriso leggero, “Divertiti stasera.”

Si infilò la giacca di pelle e finì di chiudere il negozio.

Prima che me ne andassi mi salutò, come da qualche tempo aveva preso abitudine di fare, posandomi un veloce bacio sulla fronte. Mi fece sentire così piccola che, per la prima volta, desiderai che non lo avesse fatto.


Sono già in ritardo, naturalmente. Ma, a dispetto di questo, continuo a tirare fuori vestiti dall’armadio e a cambiare idea sui diversi abbinamenti. L’ultimo cambiamento è stato scartare una camicetta nera senza maniche a favore di una maglietta di raso color verde scuro, che ricade morbida sulla gonna a vita alta dal fondo nero e stampe di rose bianche e che se non altro si abbina alla stessa tonalità di verde che compare anche nel disegno [2]. Non ne sono ancora del tutto convinta, però, dal momento che nessuno degli accessori che uso di solito, sparsi sulla scrivania, sembra andarci bene.

Mi accuccio sul fondo della cabina armadio ed inizio ad aprire i vari cassetti, cercando in fretta e furia qualcosa che possa soddisfarmi.

Mi blocco quando la vedo, una fine catena d’argento con un unico ciondolo nero di ossidiana. Mi ero quasi dimenticata che potesse essere lì. La prendo titubante e lascio scorrere la catenina tra le dita, con la goccia nera, le dimensioni di una mandorla, che spicca contro il palmo della mia mano.

Mi sento stringere il cuore per tutto ciò che mi fa ricordare. C’era un periodo in cui non la toglievo praticamente mai. E non posso indossarla, lo so che non posso. Però questo non mi impedisce di provarla, solo per un momento, per vedere l’effetto che fa.

La allaccio dietro al collo, lottando un po’ con la massa di capelli, e mi alzo per osservarmi nello specchio. Si posa a meraviglia sullo scollo dal taglio orizzontale, e non resisto alla tentazione di passarci sopra le dita.

Ma non posso indossarla. Anzi, proprio in questo frangente a maggior ragione, dovrei rimetterla esattamente dove l’ho appena trovata.

Il suono del campanello mi fa sobbalzare improvvisamente. Non sto aspettando nessuno ed il primo pensiero che mi passa per la testa è che si tratti di Jeremy che finalmente si è deciso a tornare.

Non ha passato una notte a casa da dopo l’incidente con Vicky e, se si escludono quei pochi monosillabi necessari per le interazioni di routine quando siamo al lavoro, a malapena mi rivolge la parola. La mia è una speranza che però se ne va tanto velocemente così come è apparsa, nell’arco di tempo che impiego per scendere le scale alla massima velocità che il tacco delle decolleté mi permette. Non appena tocco l’ultimo gradino, mi rendo conto che Jeremy ha le chiavi e che, se solo lo volesse, non avrebbe alcun bisogno di suonare.

Non è Jeremy. Ma ho ugualmente un tuffo al cuore, perché gli occhi nocciola che mi trovo davanti sono gli stessi, così come il ciuffo ribelle sulla fronte che non vuole mai stare al suo posto.

“Ehi, principessa.”

“Papà,” sorrido.

Getto le braccia al collo di mio padre come se non lo vedessi da anni, invece che da neanche un mese. Mi faccio stringere a mia volta, a lungo, crogiolandomi nel familiare calore.

“Stavi andando da qualche parte?” mi dice dando un’occhiata al mio abbigliamento, dopo che infine mi sono decisa a staccarmi e lasciarlo entrare. “Non voglio trattenerti.”

“E’ solo una serata da Caroline,” scrollo le spalle mentre entrambi ci sediamo sul divano. Mi sfilo le decolleté nere e rannicchio le gambe. “Può aspettare. Hai intenzione di fermarti qua qualche giorno?”

Scuote la testa abbassando per un attimo lo sguardo sulle sue mani. Porta ancora la fede.

“No, intendo ripartire stasera.”

Si è trasferito a Petersburg un paio di anni fa, quando ha iniziato una programma di riabilitazione in una clinica. Anche dopo, non è mai tornato davvero ad abitare qua. Immagino sia semplicemente più facile.

“Lo sai che puoi restare quando vuoi, questa è anche casa tua …”

Invece di rispondere, mi getta un lungo sguardo ed una domanda che da sola dice tutto.

“Jeremy?”

Forzo un sorriso. Mio fratello non è esattamente il tipo che rende le cose semplici, quando ha deciso di non volere qualcuno attorno.

“Devi solo dargli un po’ di tempo.”

“Va bene, lo capisco,” risponde annuendo, con il rimpianto che comunque traspare dalla voce. “Se sono qua, è perché volevo parlarti di una cosa.”

“Di che si tratta?” domando incuriosita.

“Qualcosa a cui ho pensato molto negli ultimi mesi.” Tira fuori una cartelletta rilegata dall’interno della giacca e me lo porge con un sorriso. “E’ l’atto di proprietà del Mystic Grill. E’ tuo.”

Sposto lo sguardo da lui ai documenti che tiene in mano, sconcertata. Ma non mi muovo né rispondo, anche perché non sono ancora certa di aver davvero capito bene.

“Mio? …”

“Tuo,” annuisce. “Lo è in pratica da un po’ ormai, ho solo pensato che fosse tempo di renderlo ufficiale.”

Mi allungo per prendere i documenti, anche se quando inizio a sfogliarli ho le dita ancora un po’ incerte. Ma è lì nero su bianco, il locale che aveva aperto con mamma e che è sempre stata una parte così importante della sua vita è adesso completamente, in tutto e per tutto, a nome mio.

“Voglio che tu lo sappia, Elena,” prosegue, “non devi sentirti obbligata in nessuno modo. Qualsiasi cosa tu decida di farne … è una scelta solo tua e mi starà bene.”

“Non so cosa dire,” mormoro mentre continuo a farmi scorrere i fogli tra le mani.

“E ciò include la possibilità di venderlo, se vuoi, e poterti trasferire e farti una vita da un’altra parte …”

Alzo la testa di scatto, quando quelle parole fanno sì che un sospetto inizi a farsi strada nella mia mente.

“Hai parlato con Elijah?” chiedo con diffidenza.

“Sì, in realtà,” mi conferma, mentre mi osserva come per cercare di capire se la cosa mi abbia disturbato. “Mi ha aiutato con tutte le questioni legali, per finalizzare la cosa.”

“Vuoi dire che Elijah lo sapeva?” domando ancora più stupefatta. Non mi piace la sensazione che quel pensiero mi provoca, anche se cerco di nasconderlo. Mio padre però se ne accorge lo stesso.

“Tesoro,” si sporge verso di me e gentilmente mi sfila i documenti che sto ancora tenendo tra le mani, per posarli sul tavolino da caffè di fronte a noi e prendermi una mano tra le sue. “Non avercela con lui. Sono stato io a cercare il suo aiuto e a chiedergli di non dirti nulla, mi ha solo fatto un favore. Voleva essere una sorpresa.”

“Lo è stata …”

“E io voglio solo che tu sia felice.”

“Lo so.” Lascio che le mie perplessità si dissolvano, toccata dal pensiero dolce che ha avuto. Il resto delle questioni possono aspettare. Sorrido e lo stringo in un altro abbraccio. “Grazie.”


***


“Sei arrivata finalmente!” Bonnie mi accoglie con un sorriso quando attraverso la soglia di casa Salvatore. “Perché così in ritardo?”

La seguo lungo l’ingresso, attraverso la sala e poi la cucina dalla quale un’ampia porta a vetri conduce verso il giardino sul retro.

“Mio padre è passato a trovarmi all’ultimo momento, doveva parlarmi di una cosa,” spiego.

Bonnie si ferma sui suoi passi e mi rivolge uno sguardo apprensivo.

“E’ tutto a posto?”

“Sì …” la rassicuro. “Devo solo fare una telefonata. Vi raggiungo subito.”

Bonnie torna in giardino e mi lascia un po’ di privacy. Per la terza volta da quando sono uscita di casa, riprovo a chiamare Elijah. Tamburello le dita contro il ripiano di marmo grigio sul quale sono stati appoggiati alcuni vassoi con il fondo coperto di briciole e qualche bottiglia vuota, mentre la mia chiamata finisce di nuovo dritta alla segreteria.

Non posso negare che tutto ciò stia iniziando ad innervosirmi.

“Ehi, dove sei?” esordisco, decidendomi questa volta a lasciare un messaggio. “Ho davvero bisogno di parlarti, è importante. Appena senti il messaggio …”

Mi interrompo quando, attraverso il vetro della porta finestra, intravedo due figure sbucare sulla veranda illuminata. Una di queste è Damon. Ha le maniche della camicia blu scuro arrotolate fino ai gomiti, e lo noto perché le sue mani stanno attirando verso di sé una donna che non riesco a vedere bene. Di lei, noto solo uno scorcio di sorriso, mentre, sul limitare del cono di luce, Damon si china per darle un bacio.

E’ un secondo, e sono già spariti oltre. Ma è abbastanza da farmi salire in bocca uno strano sapore acido, che mi affretto a ricacciare giù.

“… chiamami,” finisco di dire alla segreteria di Elijah.

Riattacco e mi dirigo verso il giardino, che per l’occasione è stato illuminato da tante piccole luci appese nel buio sopra le nostre teste. Su alcuni tavoli sono stati disposti sia bevande che stuzzichini, e nell’aria l’odore pieno di brace, carne e verdure grigliate si mescola a quello più dolciastro del gelsomino in fiore. Lo spazio non è molto grande ed i presenti lo affollano quasi tutto, ma è innegabile che Caroline sia riuscita nell’intento di renderlo accogliente e confortevole. C’è qualche suo collega, qualche contatto di lavoro di Stefan, persino un paio delle sue amiche del college.

Damon mi saluta da distanza, con un accenno di sorriso ed un cenno della testa. Ricambio entrambi, prima che torni a parlare con i suoi interlocutori. Adesso riconosco la donna che è con lui, la stessa con cui l’avevo visto parlare all’inaugurazione per la mostra dei Fondatori. Ha una figura magra, ma slanciata e armoniosa. Damon fa scivolare una mano a cingerle la vita.

“Lo stai fissando.”

Sussulto e mi giro di scatto verso Bonnie che alza le sopracciglia in un modo equivocabile.

“Non è vero,” ribatto, “Io stavo solo …”

“Tieni, aiutatemi con questo.”

Caroline si frappone facendo capolino tra noi e mettendoci in mano un vassoio ciascuna, per me spiedini di pomodori e mozzarella e per Bonnie alcuni vol-au-vent dai ripieni di diversi colori.

“Sai chi è quella?” domando a Caroline in un sussurro mentre poso il vassoio sul tavolo.

Non ho bisogno di specificare. Caroline alza per un attimo lo sguardo in direzione di Damon e torna a radunare il cibo rimasto in alcuni piatti semi-vuoti per fare spazio a quello appena arrivato.

“Addie, Annie … qualcosa del genere.”

“E’ una cosa seria?”

“E chi può mai dirlo con Damon,” sospira scrollando le spalle. Scruta con lo sguardo l’altra estremità del tavolo ed ha un sobbalzo. “Oddio, sono finiti i tovaglioli!”

E’ sparita prima che possa chiederle altro.

Bonnie posa una mano sul mio braccio, richiamando la mia attenzione.

“Ma quello è Elijah? Non pensavo sarebbe venuto in questi giorni.”

Colta alla sprovvista, mi volto di scatto, in tempo per vederlo incedere verso il giardino insieme a Stefan, una mano in tasca e l’altra che si muove appena per accompagnare le sue parole. Si è tolto la cravatta, ma indossa uno dei completi di sartoria che usa per lavoro, dal che deduco che deve essere venuto direttamente qua.

“Neanche io,” le rispondo corrugando lo fronte, a dir poco stupefatta.

Elijah si congeda da Stefan non appena nota che gli sto andando incontro. Sorride, quando posa le mani sui miei fianchi per attirarmi verso di sé.

“Sei bellissima stasera,” sussurra contro la mia guancia. Faccio leva con le mani contro le sue spalle per opporre una blanda resistenza alle sue affettuosità.

“Ti ho chiamato più volte.” Non riesco a nascondere del tutto la punta di irritazione nella mia voce. “Stavo iniziando a preoccuparmi. E pensavo che non saresti potuto venire prima di un paio di giorni.”

Stacca una mano dal mio fianco per tirare fuori il telefono dalla tasca e scuote la testa mortificato.

“Scusa. Non avevo notato che fosse spento. Sono riuscito a liberarmi prima del previsto e volevo farti una sorpresa.”

“Non è stata l’unica di sorprese, stasera,” commento cercando i suoi occhi, per vedere se abbia già capito. Ma Elijah mi rimanda uno sguardo interrogativo. “Mio padre è passato a trovarmi poco fa, per parlarmi del vostro piccolo accordo alle mie spalle.”

“Non c’è nessun accordo, Elena,” sorride divertito, come se avessi appena detto chissà quale sciocchezza, “Voleva farti una sorpresa e mi ha chiesto di non parlartene. Pensavo che ti avrebbe fatto felice.”

Mi domando quando abbia iniziato a dare la precedenza a ciò che desidera mio padre, piuttosto che preoccuparsi di ciò che avrei potuto pensarne io. Ma capisco la buona fede dietro al modo in cui ha agito e non posso fargli una colpa per aver contribuito a qualcosa nell’intento di farmi contenta.

“E così,” rispondo facendo scivolare le mani sopra le sue spalle. “E’ solo che …” prendo un profondo respiro, “ … dobbiamo parlarne. Di tutta questa storia.”

“D’accordo, parliamone.”

Lo scruto attentamente e non vedo un briciolo di esitazione nel suo sguardo.

“Adesso?” replico confusa. Mi guardo un attimo attorno, verso il chiacchiericcio a pochi metri da noi e la prospettiva di una serata tra amici. Questo non è davvero il momento giusto per quel genere di conversazione. Scuoto la testa e gli rivolgo un lieve sorriso. “Ascolta, hai fatto un bel viaggio per arrivare fin qui, e sono contenta di vederti. Possiamo sempre parlarne domani, o in qualsiasi altro momento. Adesso, pensiamo solo a goderci la serata, ok?”

“Come vuoi.”

Si china per darmi, infine, quel bacio che lo avevo fermato dal darmi prima, un morbido, lungo tocco sulle mie labbra. Mi prende per mano e torniamo ad unirci agli altri.


Per Caroline, essere popolare non era solo un’aspirazione. Era un dovere, era una missione. Ecco perché sapeva bene che buone possibilità di riuscita passavano inevitabilmente attraverso il cheerleading, i comitati per l’organizzazione dei balli, il consiglio studentesco. E feste da paura.

Arrivai a casa sua piuttosto in ritardo, l’orlo sfilacciato dei jeans zuppo per l’imprevisto incontro con una pozzanghera sul vialetto di ingresso e la sensazione di aver sbagliato indirizzo.

Quasi tutto il mobilio della sala era stato spostato sul lato in fondo alla stanza, da dove due casse diffondevano una versione remixata di Let’s Get It Started e due tavoli attiravano un continuo via vai di gente smaniosa di procurarsi da bere. Nello spazio lasciato vuoto, alcune coppie stavano ballando sfregandosi i fianchi a ritmo della musica, mentre da un altro angolo nel quale era stato accostato il divano qualcun altro stava fumando propagando nell’aria un odore di acre di sigaretta. Metà delle persone presenti, non ero neppure sicura di averle mai viste.

“Le piace fare le cose in grande, eh?” mi affiancò Bonnie.

Mi prese subito per mano e mi portò cercare qualcosa da bere.

“Puoi dirlo forte.”

“Ehi, ragazze!” Caroline ci venne incontro per abbracciarci entrambe non appena ci vide.

Le sue onde bionde, lasciate ricadere sulle spalle, sembravano ancora più morbide del solito. Indossava un tubino a fantasia nero e grigio dalle spalline sottili che le stava un po’ largo sulle spalle ed il petto ancora troppo filiformi, ma era comunque splendida a dir poco.

“Tua madre è d’accordo con tutto questo?” le domandai perplessa.

“Come se gliene importasse,” scrollò le spalle. “Tanto starà via almeno fino a domani notte, non se ne accorgerà neanche. Tieni, prendete questo. L’ho fatto io.”

Versò un paio di mestolate di punch in due bicchieri e ce ne porse uno ciascuno. Odorava di arance, zucchero e di una scia di alcol talmente forte da procurarmi un’ondata di voltastomaco.

“Cosa, non ti piace?” mi domandò Caroline squadrandomi delusa.

“Lo bevo dopo,” risposi, posandolo sul tavolo. “Conosciamo qualche Sarah?”

“Beh, vediamo …” Si portò pensosa un dito contro le labbra. “C’è Sarah Connelly, quella stronza che l’anno scorso mi ha soffiato l’ammissione a Miss Mystic Falls. Oh, ma quest’anno vedrete che non gliela darò vinta. Sarah Bradley, terzo anno, sai quella che ride in modo strano …”

“Sarah Evans,” aggiunse Bonnie, più esitante. “Quella carina nel nostro corso di storia, capelli neri …”

“Perché ti interessa?” mi domandò Caroline perplessa.

“Io …”

“Oh mio Dio,” esclamò Caroline prima che potessi elaborare. La sua mano afferrò il mio avambraccio e lo chiuse in una morsa stringente. “Cosa ci fa lei qui?” domandò con una nota isterica nella voce.

Sia io che Bonnie ci voltammo per guardare che cosa avesse attirato lo sguardo di Caroline.

Lexi era entrata in sala ed aveva iniziato a distribuire sorrisi, il braccio avvinghiato a quello di Stefan.

“Non l’hai invitata?”

Caroline scosse la testa ed il suo volto, anche sotto al trucco perfetto che aveva addosso, mi sembrò improvvisamente più pallido.

“Lo sta facendo apposta. Lo sa. Guarda come se lo stritola,” gracchiò.

Sia io che Bonnie voltammo di nuovo la testa in contemporanea, in tempo per vedere Lexi salutare Caroline con la mano e Stefan sorridere impacciato.

“Non guardate!” ci richiamò subito la nostra amica con un filo di voce, esasperata. “Ho bisogno di bere.”

Afferrò il bicchiere che io avevo posato poco prima e lo buttò giù in un solo sorso.

“Ehi, Forbes.” Un ragazzo muscoloso e dai corti capelli neri si avvicinò alle sue spalle e le posò le mani sui fianchi. Tyler Lockwood, figlio unico della famiglia più ricca di Mystic Falls. “Posso darti il tuo regalo di compleanno speciale?” le disse a bassa voce vicino all’orecchio, intanto che faceva scivolare le mani un po’ più verso il basso, completamente incurante che sia io che l’altra mia amica fossimo ancora lì presenti.

Caroline alzò gli occhi al cielo, visibilmente infastidita.

“Dio, Tyler, te l’ho già detto, non ci vengo più a lett-” si bloccò a metà della frase, lo sguardo fisso altrove. Nel giro di un attimo, la sua espressione cambiò completamente. “Anzi, sai cosa? Portami a ballare. Ma avrò bisogno di un po’ più di alcol.”

“Tutto quello vuoi,” sorrise Tyler, mentre Caroline lo trascinava via per la mano in un posto più centrale e gli si avvinghiava gettandogli le braccia al collo. Guardai di nuovo alle mie spalle e, confermando i miei sospetti, la faccia di Lexi era adesso completamente incollata a quella di Stefan.

“Non sarò una sensitiva,” mi disse Bonnie con un sospiro, “Ma chissà perché ho il sospetto che tutto questo non andrà a finire bene.”

La sensazione di Bonnie, che in quel caso mi sentii di condividere in pieno, non si rivelò poi tanto sbagliata.

Ad un certo punto, Caroline era semplicemente sparita dai nostri radar. E l’ultima volta che l’avevamo vista, più di mezz’ora prima, non solo era su una poltrona intenta ad infrangere il voto – giurato alla fine delle vacanze – di non farsi mai più mettere la lingua in bocca da Tyler, ma avrebbe tranquillamente potuto essersi bevuta da sola tutto il punch che lei stessa aveva preparato.

Dopo aver deciso, con Bonnie, di dividerci per cercarla, mi diressi al piano di sopra.

Lungo le scale, scavalcai almeno un paio di coppie, troppo impegnate a pomiciare per prestarmi attenzione. Nessuna di loro includeva Caroline.

Solo quando fui quasi in cima, udii finalmente la voce della mia amica, anche se piuttosto flebile.

“Non mi sento molto bene.”

“Ci penso io a farti stare meglio.”

“Tyler, non …”

Caroline era schiacciata contro il muro accanto alla porta della propria camera. Tyler le stava addosso, una mano premuta contro la sua schiena e il volto che scendeva verso la sua scollatura.

“Andiamo, Forbes, smettila di prendermi sempre in giro,” lo udii dire di fronte ai, pur deboli, tentativi di Caroline di opporsi alle sue attenzioni.

“Ehi,” lo ammonii, sentendo l’indignazione ribollirmi dentro. “Ti ha detto di lasciarla in pace.”

Tyler si staccò da Caroline e si voltò ad osservarmi come se fossi una mosca sulla parete. Caroline, invece, chiuse gli occhi e abbandonò la testa all’indietro per sorreggersi contro il muro.

“Non sono affari tuoi.”

Mi avvicinai alla mia amica e le passai un braccio intorno alla vita per aiutarla ad appoggiarsi contro di me.

“Non lo vedi che è ubriaca?”

Tyler sogghignò. “E tu sei un’esperta di questi casi non è vero?”

Un’onda di calore mi infiammò le guance ma, con mio stesso stupore, la prima replica che mi saltò alla mente fu uno di quei “fottiti” che Damon amava così tanto dispensare. Stavo quasi per sputarlo fuori, forse ancora più velenoso di quanto già non suonasse nella mia mente, ma qualcuno mi privò della soddisfazione.

“Tyler.” Stefan comparve alle spalle del ragazzo. Il suo tono era duro almeno quanto lo sguardo che gli rivolse. “Smettila.”

I due si guardarono per alcuni lunghissimi istanti. Poi Tyler scrollò le spalle con noncuranza.

“Chissene. In ogni caso, non ne vale la pena.”

Tyler mi passò davanti e se ne andò lungo le scale senza gettare un secondo sguardo né a me né tantomeno a Caroline.

“Mi dispiace,” biascicò Caroline prima di crollare con il capo sulla mia spalla.

“Sta bene?” domandò Stefan corrucciando lo sguardo con fare apprensivo, intanto che si avvicinava a noi di qualche passo.

“Penso che abbia solo bisogno di stendersi un po’.”

“Lascia che ti aiuti.”

Stefan passò le mani intorno alla vita della mia amica e, senza alcuno sforzo, la sollevò per prenderla tra le braccia. Mi sembrò di intravedere un piccolo sorriso formarsi sulle labbra di lei, quando si ancorò meglio con le braccia attorno alla sua nuca.

“Hai un odore così buono …” mormorò Caroline nel suo collo, cosa che suscitò un moto di sorpresa nello sguardo di Stefan.

“Grazie …” rispose lui, esitante, e la strinse un po’ di più.

Gli indicai la camera di Caroline e, con attenzione, la fece sdraiare sul copriletto a stampa di gigli rosa che si abbinava al colore tenue delle pareti. Si inginocchiò accanto al letto tenendosi in equilibrio sui talloni e le spostò con delicatezza dal volto una ciocca di capelli rimasta attaccata sul suo lucidalabbra, indugiando nella carezza qualche secondo più del necessario.

Ad un primo sguardo, forse, poche persone avrebbero potuto pensare che lui e Damon fossero fratelli. Non avevano gli stessi occhi, lo stesso naso, lo stesso profilo. Ma c’era di sicuro qualcosa, in quel suo gesto verso Caroline, che inevitabilmente mi ricordò così tanto Damon da farmi mancare un battito del cuore.

“Grazie,” gli dissi mentre socchiudevo la porta della camera di Caroline per tenere fuori un po’ del rumore.

“Non c’è problema,” disse lui, rialzandosi. “Sei Elena giusto? Mio fratello parla di te.”

Mi girai quasi di scatto, un inaspettato sfarfallio sul fondo dello stomaco.

“Davvero?”

Stefan si strinse nelle spalle e affondò le mani nelle tasche dei jeans. “Siete amici, no?”

Annuii.

“E’ un bene. Damon non ha molti amici. Intendo … quelli veri. Non è uno che si lascia avvicinare molto facilmente. E a volte può essere duro da sopportare,” il sorriso con cui concluse la frase lasciava intuire che, a dispetto di ciò che aveva appena detto, non gli pesava davvero ʿsopportareʾ il fratello.

Fui distratta da un timido colpetto sulla porta. Bonnie fece capolino nella stanza e spostò lo sguardo da me a Stefan, a Caroline mezza addormentata sul letto.

“Beh, dovrei andare,” disse Stefan abbassando per un attimo gli occhi sulla punta delle sue scarpe. “Forse … puoi farmi sapere come sta?” mi domandò con un cenno della testa in direzione di Caroline, un po’ tentennante, un po’ speranzoso.

“Certo,” gli sorrisi.

Stefan se ne andò e richiuse la porta alle sue spalle.

Io e Bonnie ci sedemmo ai due lati del letto ad una piazza e mezza. Non appena ci fummo sistemate, Caroline, nel mezzo, appoggiò la testa all’indietro contro la coscia di Bonnie e passò un braccio attorno alle mie gambe.

“Era davvero Stefan quello?” farfugliò mentre si metteva più comoda.

“Pare proprio di sì.”

“Sono così felice di non avergli vomitato sulle scarpe.”

Mi scambiai un’occhiata con Bonnie e ridacchiammo entrambe.

“Sai, Care …” dissi appoggiandomi contro i cuscini, “Qualcosa mi dice che probabilmente non gli sarebbe neanche importato.”

Restammo là, solo noi tre, mentre al piano di sotto la festa continuava ad andare avanti.

Ripensai molto a ciò che Stefan mi aveva detto.

Da quel giorno a scuola in cui Damon mi aveva sorpreso in un mio momento di sconforto era passato quasi un mese. Un mese durante il quale mi ero ritrovata a passare insieme a Damon ancora più tempo di prima.

Ogni volta che avevo del tempo libero, ero in negozio da lui, a parlare, guardare video stupidi o fingere di essere una cliente molto affezionata ogni volta che Rose spuntava fuori, anche se non penso che ci abbia mai creduto. Le sere, era lui che spesso passava dal bar, a volte portando una pizza che condividevamo sul retro dopo averla difesa dagli assalti di Jeremy.

Certo, delle volte era sfuggente, come quella sera là.

Ma l’idea di quanto fosse inusuale che Damon si lasciasse avvicinare da qualcuno come aveva fatto con me mi fece intuire che, probabilmente, ciò che avevo con lui era più di una serata con una Sarah senza volto. E, in fondo, non avrei mai voluto che fosse diversamente.


La serata è piacevole e vola via in un attimo. E, a dispetto delle recenti novità, sono comunque contenta che Elijah sia presente stasera e di aver potuto condividere con lui un momento insieme ai miei amici.

Scopro anche che Andie è una giornalista che sta cercando di sfondare fuori dalla cronaca locale, che è intelligente, con la battuta pronta e che, accanto ad una bellezza poco classica, ha davvero un certo carisma. Lei e Damon sono così a loro agio l’uno con l’altra che sembra si conoscano da anni.

E’ una cosa alla quale ho modo di testimoniare ancora meglio dopo che il resto degli invitati se ne sono andati e siamo rimasti soltanto noi, i padroni di casa e le rispettive ragazze, seduti attorno al tavolo principale sotto al sicomoro che delimita il giardino di casa Salvatore.

Sono seduti vicini, con il braccio di Damon posato rilassatamente attorno alle spalle di lei.

Stefan si sporge per prendere il suo bicchiere di vino e con l’altra mano circonda la vita di Caroline, che invece di scegliersi una sedia ha preferito sedersi direttamente sulle sue gambe. La sua voce è allegramente brilla quando inizia a parlare.

“Direi che è ora di proporre un brindisi alla ragazza che ci ha portato qui, che ha trasformato l’intera cucina … anzi no, l’intera casa in un campo di battaglia che domani mi obbligherà a pulire, e che sono così maledettamente fortunato ad avere accanto a me.”

“Attento con le parole, Stef, o potrebbe pensare che le intendi davvero. Poi di questa qua non ce ne liberiamo più,” sogghigna Damon attirandosi subito uno sguardo fulminante da parte della mia amica, che però si ammorbidisce all’istante non appena Damon alza il suo bicchiere verso di lei, “A Caroline.”

I nostri bicchieri tintinnano tra loro, accompagnati da un altro “A Caroline” collettivo che la fa visibilmente andare in estasi.

Stefan la attira ancora di più a sé, per darle un bacio sulle labbra e mormorarle “ti amo”.

E’ una strana emozione quella che mi stringe il petto, nel vederli così; nel ricordare di averli visti quando a malapena avevano il fegato di rivolgersi la parola a vicenda e nel sapere che, nonostante tutto, anche dopo più di sette anni insieme sono ancora capaci di guardarsi come se si stessero innamorando per la prima volta. Mi chiedo se sarà lo stesso anche per me.

I miei occhi corrono verso Damon prima che riesca a trattenermi. Del resto, è l’unico che li conosca da tanto tempo quanto me, e forse sono solo curiosa di sapere se anche lui stia pensando la stessa cosa. Un veloce quanto inopportuno batticuore mi sorprende quando, nella penombra, anche il suo sguardo è rivolto verso di me.

Elijah, accanto a me, mi dà una gentile stretta alla mano sinistra che mi sta accarezzando, mentre la tiene tra la sua. Mi volto per dedicargli un leggero sorriso. Potrò non sapere come sarà tra sette anni, ma il modo in cui mi guarda, così caldo e amorevole, sul momento è come sempre in grado di dissipare ogni mia irrequietezza.

“Elena, è un anello di fidanzamento quello?”

Mi giro di scatto verso Andie che mi ha appena posto la domanda.

“Sì,” annuisco mentre lei si protende di più verso di me per ammirarlo meglio. Damon è solo pochi centimetri alla sua sinistra, ma mi rifiuto di guardarlo e scoprire la sua espressione. “Il matrimonio è a settembre.”

“E’ davvero meraviglioso. Non sapevo che steste per sposarvi, congratulazioni!”

Elijah si sistema meglio sulla sedia, senza lasciarmi andare la mano, e sotto alle fievoli luci da giardino posso intravedere bene il sorriso compiaciuto che gli distende il volto.

“Ero ad Anversa quando l’ho visto. Non ho avuto un attimo di dubbio. Così limpido e luminoso. E’ fatto per lei.”

Una specie di grugnito sommesso proviene dalla parte di Caroline, che però si affretta a mascherarlo con un colpo di tosse, prima di portarsi di nuovo il bicchiere alle labbra.

“Scusate, non fate caso a me. Solo un po’ di gola secca.”

Con la coda dell’occhio, vedo Damon prodursi in un lieve sogghigno in direzione della propria cognata.

“Ho davvero un debole per il romanticismo,” continua Andie cordialmente, “Come vi siete conosciuti?”

Scambio uno sguardo con Elijah che, con un piccolo cenno di assenso, mi invita a rispondere.

“Mio padre ha avuto qualche problema con l’alcol, ed è andato in riabilitazione in una clinica di Petersburg un paio di anni fa. Anche il fratello di Elijah si trovava lì.”

“Io sono stato conquistato all’istante, ma questa ragazza …” si avvicina la mia mano alle labbra e posa un bacio sul dorso. Sorride con una leggera scintilla nello sguardo e, al ricordo, anche io sorrido di rimando, “… è stata difficile da far capitolare. Mi ci sono voluti sei mesi per riuscire a strapparle un appuntamento. Ma sono felice di non essermi arreso.”

“Si sta facendo freddo, non pensate?” dice Caroline, passandosi una mano sul braccio di fronte ad un’altra folata di brezza notturna, decisamente più gelida. “Forse è meglio se ci spostiamo dentro.”

Mi getta un’occhiata eloquente, che mi fa capire che non pensa sia una buona idea che Andie metta in moto il gioco del ʿe voi come vi siete conosciutiʾ.

Ad uno ad uno, dunque, ci alziamo, ed io mi attardo per aiutare Caroline a sgombrare ciò che ancora è rimasto sui tavoli e a portare il tutto in cucina.

Sto finendo di ricoprire del cibo avanzato prima di metterlo nel frigo, quando Damon compare dall’altro lato del bancone a isola, per posare un altro piatto accanto a quello che sto incartando.

“Questo era l’ultimo.”

Sono praticamente le prime parole che mi ha rivolto direttamente in tutta la sera, ma, del resto, è anche la prima volta che mi ritrovo ad essere sola con lui. Dalla stanza accanto giunge il chiacchiericcio degli altri che si sono spostati in sala, ma il fatto che Damon sembri esitare ad andarsene mi dà la spinta giusta per parlare.

“E’ simpatica,” gli dico continuando a tenere lo sguardo fisso su ciò che sto facendo. Metto più lentezza nel richiudere i lembi della carta stagnola attorno al vassoio. “Voglio dire è intelligente, e piacevole …” oltre che indubbiamente affascinante, ma questo me lo tengo per me.

“Lo so,” si limita a rispondere, in un tono che non lascia trasparire nulla.

“Sono felice per te.”

“L’ho appena conosciuta, non me la sto mica sposando.”

Mi mordo le labbra e faccio finta di non aver notato la scelta delle parole che ha usato.

“Non penso che tu possa fare meglio di così,” prosegue e questa volta alzo di scatto lo sguardo verso di lui per capire di cosa stia parlando. C’è un mezzo sorriso divertito sulle sue labbra quando con un cenno della testa mi indica l’angolo attorno al quale sto continuando a piegare la stagnola. Mi fermo immediatamente ma, prima che io possa replicare, noto che il suo sguardo adesso si è spostato attorno al mio collo, sul ciondolo che, tra la fretta e altre questioni per la testa, mi sono infine dimenticata di togliere. Sono riuscita a tenerlo sotto la maglia per tutta la sera, ma deve essermi sfuggito quando mi sono sporta in avanti.

D’istinto, porto le dita a coprirlo. Troppo tardi.

Qualcosa si agita nei suoi occhi e le sue labbra si socchiudono per un attimo, eppure, inaspettatamente, non fa alcun commento.

Solleva gli occhi sui miei e non riesco ad evitarlo, il mio cuore perde un battito quando ci ritroviamo solo io ed il così familiare e contradditorio azzurro che si trova di fronte a me. Le voci nell’altra stanza si affievoliscono un po’. Non sarei in grado di guardare altrove neanche se lo volessi.

“Ti va di … prendere un caffè insieme, uno di questi giorni? Se questa cosa dell’amicizia e dei buoni rapporti deve funzionare, abbiamo qualche anno da recuperare,” incurva le labbra in un sorriso leggero che ha subito il potere di distendere l’atmosfera e strappare un sorriso anche a me.

“Non pensavo che fossi interessato,” dico sollevando un sopracciglio, per tastare il terreno, mentre lascio andare la collana che non mi ero accorta di stare ancora stringendo tra le dita.

Scrolla le spalle.

“Tra il dover tornare qualche giorno a San Francisco e il primo consiglio a Richmond con il tuo fidanzato, ho solo avuto un sacco di cose a cui pensare.”

“Certo … ” annuisco, mentre un’improvvisa contentezza mi scalda il petto. “Sarò felice di poter prendere quel caffè.”

Mi rivolge un altro cenno di assenso, prima di lasciare la stanza.

Finisco di riporre anche l’ultimo vassoio con un vago sorriso sulle labbra ed l’audace ottimismo che, forse, dopotutto, ci sono ancora cose che possono di nuovo essere recuperate.

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Note: [1] Il flashback è ambientato nel novembre 2004, e Funeral è uscito nel settembre dello stesso anno, in Canada, poi l’anno successivo nel resto del mondo. Questo per dire, anche se forse non gliene fregherà niente a nessuno, che davvero in quel momento gli Arcade Fire erano degli emeriti sconosciuti.

[2] This: http://www.polyvore.com/lanvin_volume_skirt_with_green/thing?id=91825284&.locale=it A parte il prezzo, naturalmente, voi fate finta che sia di Zara o simili, perché dubito che la nostra Elena qua potrebbe mai permettersi di spendere così tanto su una gonna.

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Capitolo 8
*** Ever fallen in love? (...) ***


7.efp


7.

Ever fallen in love?

(with someone you shouldn’t’ve fallen in love with)


Damon


Mi sveglio ancora prima che faccia giorno, in un letto che non è il mio. Se non altro, il profilo della donna al mio fianco, quel caschetto biondo miele leggermente mosso che arriva a sfiorarle le spalle, è familiare.

Lentamente, mi giro fino a sdraiarmi sulla schiena e chiudo gli occhi per cercare di riafferrare un sonno che tanto so che se ne è già andato.

“Quindi … Vuoi dirmi di che si tratta?” mi aveva domandato Andie la sera prima non appena avevamo messo piede in casa sua, dopo essercene andati dalla cena all’aperto con cui Barbie aveva invaso casa mia.

“Di che parli?”

“Oh, andiamo, Damon. Sono la prima ad essere d’accordo con il mantenere tutto molto disimpegnato, ma non mi piace essere presa in giro, non ne ho il tempo. Tu e quella ragazza, Elena …” Si era tolta anche il secondo tacco, aveva gettato entrambi i sandali neri a terra accanto al divano e si era avvicinata a me scalza, alzando un sopracciglio in modo eloquente. “… il modo in cui ti guardava, il modo in cui tu guardavi lei …. Se ne sarebbero accorti anche i sassi del giardino ed io ho un quoziente di 125. Mi piace considerarmi intelligente. Onestamente, mi chiedo se quel suo fidanzato sia davvero così cieco o soltanto tanto bravo a fingere di non notarlo. Quindi … qual è la storia? E’ la tua ex?”

“Non è la mia ex.”

Aveva allungato le dita per iniziare a sbottonarmi, senza fretta, i bottoni superiori della camicia.

“Ne sei ancora innamorato?”

“Ti ho detto, non è la mia ex.”

Un veloce sorriso sagace mentre faceva saltare anche l’ultimo bottone.

“Come se una cosa escludesse l’altra.”

Le avevo scansato i capelli dalla nuca e depositato un bacio sulla porzione di pelle che avevo scoperto.

“Lo sono stato, è vero,” mi ero ritrovato ad ammettere, mentre cose a cui da tempo ho imparato a non pensare iniziavano a minacciare di tornare a galla. Le avevo affogate di nuovo, in una serie di baci più voluttuosi contro il suo collo. “Molto tempo fa. E non avrei dovuto. Ho discretamente incasinato parecchie cose.” Avevo raggiunto la cerniera laterale del suo vestito e lo avevo fatto cadere a terra. La mia camicia già aperta era seguita subito dopo. “In ogni caso, non è un errore che intendo commettere di nuovo.”

Non appena i contorni della conversazione con Andie svaniscono, sono inevitabilmente quelli di Elena che cominciano a susseguirsi dietro le palpebre.

Elena che cerca il mio sguardo ad ogni occasione. Elena che si porta le dita a coprire un ciondolo che neanche pensavo potesse avere ancora. Elena che mi sorride, con quell’accenno di fiducia negli occhi che è sempre stato la mia rovina. Io che cedo, venendo meno al mio proposito di non intromettermi più nella sua vita e lasciarla essere felice nei modi che ritiene migliori. Cedo e la parte peggiore è che in fondo non lo rimpiango nemmeno.

Anzi no, la parte peggiore deve ancora arrivare. Arriva quando ciò che, per un attimo, mi ritrovo ad immaginare sono lunghi e lisci capelli color cioccolato sparsi sul cuscino, su un’altra schiena nuda che non è quella che ho accanto, insieme ad un ago infilato tra le costole a ricordarmi che quella, invece, è un’immagine che non vedrò mai.

Getto un’occhiata alla sveglia sul comodino e noto che non sono neanche le cinque, ma non ho mai sentito così forte l’urgenza di allontanarmi da un letto e da qualcuno come in questo momento. Raccolgo i vestiti sul pavimento, mi rivesto e me ne vado col silenzio di una tecnica perfezionata negli anni. Quando chiudo la porta, Andie non si è nemmeno mossa.


Torno a casa solo per cambiarmi i vestiti, indossare velocemente maglietta e pantaloncini e buttarmi a correre tra i sentieri del bosco che si allarga dietro la villa. Una di quelle corse decisamente più lunghe di quanto dovrebbe, con i polmoni bruciati dal vento freddo del mattino.

Quando rientro sono già quasi le otto. Trovo Stefan e Caroline in cucina a finire di fare colazione, entrambi già vestiti di tutto punto, l’aria impregnata del gradevole odore di caffè, pancakes e succo di arancia fresco.

“Li hai preparati tu, Care?” domando alla biondina che sorseggia il suo caffè in piedi, appoggiata contro il ripiano della cucina, indicando le morbide frittelle rimaste impilate su un piatto al centro del bancone. “Potrei quasi amarti.”

“Mettiti in fila, allora,” replica lei, squadrandomi dall’alto in basso mentre sollevo un lembo della maglietta per asciugarmi il sudore dalla fronte. “E poi, puzzi.”

“Dunque non lo vuoi un abbraccio adesso?”

Le passo accanto nell’allungarmi verso il lavandino alla sua sinistra per versarmi un bicchiere d’acqua. Si allontana alla svelta con un lieve picchiettio di tacchi ed una smorfia disgustata.

“Vado. Ci vediamo stasera.”

Caroline posa la sua tazza vuota e si protende su Stefan, che invece è ancora seduto sullo sgabello vicino al bancone centrale. Alzo gli occhi al cielo mentre si baciano, a lungo, lingua e mani e tutto quanto.

“Ma guardati, tutto contento,” lo provoco con fare canzonatorio, quando la sua onnipresente fidanzata se ne è andata.

Si stringe nelle spalle mentre dà una sciacquata a tazze e piatti, ma con un abbozzo di sorriso che cerca malamente di mascherare. Chiude l’acqua ed afferra uno strofinaccio appeso sulla parete alla sua destra per asciugarsi le mani.

“C’è una cosa di cui devo parlarti.”

“E’ incinta. Lo sapevo,” lo anticipo con un sogghigno ed una pacca di congratulazioni sulla spalla.

“Non è incinta. E smettila con questa fissa di farle fare bambini,” si sottrae con un leggero imbarazzo e posa lo straccio accanto al lavandino. “Ho intenzione di chiederle di venire a vivere qui.”

Lo guardo, stranito, per qualche secondo.

Qui? Nel senso di qui in questa casa, nel senso di qui con te e me?”

Mio fratello incrocia le braccia sul petto e si appoggia all’indietro, ed ha un vago un mezzo sorriso compiaciuto mentre replica, “Pensavo che tu non avessi intenzione di rimanere a lungo nei paraggi.”

“Infatti,” mi correggo subito. “Ma, Stef … sette giorni su sette di … Caroline? Sei davvero sicuro di volerlo fare?”

“Sembra divertente, vero?” Questa volta è lui a darmi una paio di pacche consolatorie sul braccio. “Inizia ad abituarti.”


Rientrai a casa dal lavoro nel negozio più tardi del solito, trovando accesa la luce nella dependance che ormai mi faceva da casa. Perciò non mi sorpresi di scoprire che Stefan mi stava aspettando seduto sul limitare del divano alla destra dell’ingresso, con i gomiti posati sulle ginocchia ed intento a fissare in modo assente la cartolina che si stava rigirando tra le mani.

“Ehi,” lo salutai gettando le chiavi sul basso tavolino di legno in fronte a lui, “Cos’è quello?”

“Notizie da Charlotte.”

Mi tolsi la giacca e la buttai sul bracciolo accanto a lui.

“Dov’è questa volta?”

Stefan alzò lo sguardo per cercare il mio con una smorfia, intanto che con un rapido movimento ruotava la cartolina tra le dita per mostrarmene il lato anteriore: un alligatore pronto a mordere accompagnato dalla scritta ʿHaving a snapping good timeʾ [1]. Che amore.

“Florida. Almeno le vacanze di Natale quest’anno le facciamo al caldo,” commentai.

Stefan si alzò e in un paio di passi mi raggiunse dall’altra parte della piccola stanza, accanto all’angolo cottura.

“Si chiama Melvin, ha una barca e tre cani,” proseguì. Depose la cartolina su un ripiano accanto ai fornelli, tirò fuori dalla tasca i suoi bravi cinque dollari e ce li mise sopra puntandoci il dito. “Le do sei mesi.”

“Con uno che si chiama Melvin?” ribattei sarcastico. Tirai fuori la mia parte della scommessa per unirla alla sua. “Gliene do massimo quattro.”

Stefan prese sia la posta in palio che la cartolina e li inchiodò sul frigo in alto a destra con una calamita del servizio di pizza a domicilio, a fare come sempre da memo alla nostra ormai radicata abitudine di scommettere sulla durata delle fiamme amorose di nostra madre.

“Volevo parlarti di una cosa,” disse quindi, infilandosi entrambe le mani nelle tasche di jeans e dondolandosi appena avanti indietro, come ogni volta che si sentiva nervoso per qualcosa.

Dal frigo presi due bottiglie di birra, le aprii e gliene porsi una. Mi appoggiai all’indietro contro il lavandino a sorseggiare la mia e gli feci cenno di continuare.

Stefan se la rigirò un po’ tra le dita prima di buttarne giù una lunga sorsata.

“Si tratta di ragazze,” esordì quindi d’un fiato, guardandomi incerto da sotto in su.

Sogghignai tra me e me.

"Usa il preservativo, abbastanza preliminari e, soprattutto, usa bene la lingua, e vedrai che andrai alla grande.”

Si accigliò, disorientato. “No. Voglio dire … questo lo so già, grazie,” ribatté.

Posò la birra sul tavolino e si tirò su le maniche della felpa, prendendo un profondo respiro.

“Intendevo che si tratta di … ʿragazzeʾ.”

Iniziavo a capire dove stesse andando a parare.

“Tipo …” mi sfuggì una strana smorfia “… sentimenti?”

“Sai cosa?” sospirò, “Lascia stare, non era poi così importante.”

“Andiamo, stavo scherzando,” lo richiamai di nuovo, sporgendomi per dargli un colpetto sulla spalla. “Posso farcela. Fratello maggiore a rapporto.”

“Ok, mettiamo che … hai fatto un casino.” Iniziò a camminare avanti e indietro, mentre mi chiedevo come mai, chissà perché, i casini dovevo farli sempre io. “Diciamo che - ipoteticamente - c’è questa ragazza. E ti piace. Parecchio. Ma non dovrebbe, dovrebbe piacerti qualcun’altra. Pensavi ti piacesse qualcun’altra.” Assottigliai lo sguardo su di lui, che intanto si era ripreso la bottiglia e di nuovo se la stava incessantemente rigirando tra le dita. “Quindi le dici che non sei interessato, e non lo sarai mai. E adesso lei ti odia.”

Continuai a guardarlo perplesso, con la birra in mano a mezz’aria, senza avere la minima idea di cosa diavolo stesse blaterando. Mi sarei forse messo a ridere, se non fosse stato per l’espressione grave che aveva in faccia.

Mi gettò un’altra occhiata speranzosa. “… Cosa faresti?”

“Ipoteticamente, eh?” ripetei, ma con un’altra occhiata frustrata mi stroncò sul nascere qualsiasi potenziale battuta. “Non lo so, lascerei perdere immagino.”

“Ma non voglio lasciar perdere,” protestò. “Hai mai avuto la sensazione, immediata, che con qualcuna le cose siano semplicemente …. Diverse?”

Serrai le labbra mentre mi soffermavo a pensarci, ma con scarsi risultati. Insomma, l’unica ragazza che potessi associare alle parole di Stefan era Elena, ma quella era tutta un’altra storia. Certo, le cose erano diverse con lei, ma non nel senso in cui potesse intenderlo lui.

Elena era … Elena. Mi ero ripromesso di non iniziare a pensare a lei sotto qualsiasi altro punto di vista. Di non mandare in alcun modo le cose all’aria. E poi, era una ragazzina, e decisamente aveva già troppo pensieri per lasciare che a questi mi ci aggiungessi anche io.

“Mi dispiace, Stef,” dovetti ammettere, andando ad incrociare il suo sguardo sconfortato. “Non penso di avere grandi suggerimenti in questo caso.”


***


E’ tardi, come minimo l’una passata.

Ma, dopo una videochiamata di tre ore con Alaric per mandare avanti le cose anche a distanza, sono ancora qui, nell’ufficio che una volta era di mio padre, con le gambe allungate sul divano di pelle che fiancheggia un lato della stanza perché allergico a qualsiasi genere di scrivania, soprattutto la sua. Sfoglio i verbali del consiglio degli azionisti della settimana scorsa, con il fermo intento di scovare, tra i progetti e le proposte che sono state discusse, una qualsiasi cosa in grado di risollevare le sorti della compagnia e tirarmi fuori da questo buco.

Finora, ho trovato davvero poco.

Volto la testa quando vengo richiamato da un colpo leggero sulla porta.

“Sto andando a casa,” mi annuncia Stefan facendo capolino.

Ha il suo ufficio proprio accanto a questo qua, gentile cortesia dovuta al fatto che a differenza di me lavorasse qui già da prima che nostro padre ci lasciasse nei casini. Io, d’altro canto, sono praticamente inchiodato nella medesima stanza in cui avevo giurato di non mettere più piede.

Alzo lo sguardo davanti a me, fissandolo verso la finestra alle spalle della scrivania.

“Perché pensi che abbia voluto lasciare a me la quota di maggioranza?” gli domando corrugando appena la fronte.

Stefan lascia la porta socchiusa, avanza di qualche passo e si appoggia contro la scrivania a braccia conserte, una gamba incrociata sopra l’altra.

“Non so,” alza le spalle, “Però forse lo capiremmo, se solo tu leggessi quella lettera ….”

“Non voglio leggere la lettera,” lo fermo subito. “Voglio sapere cosa ne pensi tu.”

Ci pensa qualche secondo. “Gli mancavi.”

Scuoto la testa e piego la bocca in un sorriso doloroso.

“Stronzate. Non avrebbe mai preso decisioni importanti basandosi su stupidi sentimentalismi. E poi, se fosse stato quello, avrebbe potuto prendere quello stramaledetto telefono e chiamarmi. Non l’ha mai fatto.”

“Dovresti leggere la lettera,” ribadisce, “Non capisco perché ti ostini a non farlo.”

“Vuoi sapere il perché? Ok. Perché tu pensi che sia una sviolinata sui rimpianti ed il valore della famiglia.” Gli getto un’occhiata, vedo le sue labbra contrarsi sottilmente e so che ho colto alla perfezione il suo pensiero. “Non negarlo. Ma io so che non è così. In ogni caso, qualsiasi cosa avesse avuto da dirmi, ha avuto otto anni per farlo. Adesso, non me faccio niente.”

Stefan inclina il capo ed abbassa lo sguardo sulle sue scarpe sportive, alle quali non riesce a rinunciare neanche in un ambiente più professionale. Mi fa pensare che, da qualche parte, sia ancora il ragazzino sempre con l’incrollabile ed ingenua speranza che per qualsiasi problema si possa trovare una soluzione.

Tuttavia, non ribatte questa volta, lasciando che il silenzio si estenda ancora un po’ più a lungo.

“Dovrei andare.” Mi passa accanto ed esita, fermandosi sulla porta. “Non fare troppo tardi,” mi dice quindi prima di andarsene.

Cerco di ritornare a quello che stavo facendo, anche se è pressoché impossibile. Continuo a leggere le stesse righe e gli stessi dati per minuti interi senza neanche vederli.

Lo squillo del cellulare mi distrae. Allungo una mano all’indietro, verso il comodino a cui sto dando le spalle, per afferrarlo e vedere di chi si tratti, anche se in fondo lo sapevo già. Andie.

Esito qualche istante. Poi ignoro la chiamata, insieme alla prospettiva di un po’ di un sesso per la notte. Non sono neanche troppo sorpreso di vedere che lei non insiste.

Mi alzo e vado fino alla finestra, per chiudere le veneziane, finire lì la giornata ed uscire finalmente da quella stanza.

C’è uno scorcio della fontana al centro della piazza principale che spicca nel mezzo del buio più rischiarato rispetto al resto. Colpa di un paio di luci ancora accese provenienti dal Grill, che si riflettono sulla superficie dell’acqua e che mi portano a domandarmi se per caso non sia troppo tardi per andare ad incassare quel famoso caffè insieme alla proprietaria.


“Mi sono già perso l’ultimo giro?”

Elena, di spalle, sobbalza così violentemente che un vassoio vuoto le cade di mano, abbattendosi sul pavimento con un tonfo metallico. Si volta di scatto e si porta una mano all’altezza del petto non appena mi vede uscire dalla cucina.

“Santo cielo, Damon, mi hai spaventato a morte!” esclama chinandosi per raccogliere il vassoio e posarlo sul bancone. Si passa il dorso della mano sulla fronte e sospira pesantemente. “E’ chiuso, come diavolo hai fatto ad entrare?”

Avanzo di qualche passo nel locale deserto, rivolgendole un veloce sogghigno.

“Ho usato il vecchio trucchetto con la porta di servizio,” spiego facendo riferimento ad un difetto nella porta delle cucine che mi aveva mostrato anni prima. “Non pensavo neanche che avrebbe funzionato. Dovresti pensare a farla sistemare. Ehi, Jenna.”

Jenna esce dalla dispensa e si blocca sorpresa nel vedermi. Mi squadra accigliata.

“Ehi, Damon,” risponde, marcatamente sospettosa, mentre io mi siedo su uno sgabello davanti al bancone e le sorrido pacifico. “Che succede?”

“Jenna, puoi andare se vuoi. Qua finisco io,” le dice Elena.

“Sei sicura?”

Le due si scambiano un lungo sguardo. Elena infine annuisce ed accompagna Jenna alla porta principale per farla uscire, quindi la richiude di nuovo dando un paio di giri di chiave.

Si volta di nuovo, ma rimane qualche secondo ancora ferma sull’ingresso, dalla parte opposta del locale. Vengo colpito dall’improvvisa consapevolezza che siamo per davvero solo noi due e, forse, è lo stesso anche per lei. A dispetto di ciò che ha detto, non sembra più così sicura adesso.

“E’ tardi, Damon …” sottolinea l’ovvio e, probabilmente, anche l’inappropriatezza, mentre infine si muove per raggiungermi.

“Lo so,” le faccio sapere, a bassa voce. “Immagino di non essere mai stato bravo a scegliere il momento giusto.”

Le suscito l’accenno di un debole sorriso.

“Posso andarmene, se vuoi.”

A giudicare dal conflitto che le attraversa lo sguardo, c’è una parte di lei che quasi lo spera. Solo che poi scuote la testa e si siede, sullo sgabello adiacente.

“No. Resta.”

“Quindi … come vanno le cose?” chiedo, ruotando di un poco il busto verso di lei.

“Vanno bene, in realtà …” piega appena le labbra verso l’alto, lo sguardo abbassato sulle sue mani, distese sul bancone.

Sono così vicine alla mia che l’idea di sfiorarle con le dita è un istinto paurosamente naturale. Ma c’è quell’anello onnipresente a ricordarmi che, in realtà, non lo è.

“Sono contento che tuo padre si sia rimesso in sesto,” le dico piano, ripensando a ciò che aveva detto un paio di sere prima dopo il barbecue in giardino.

Increspa le sopracciglia e socchiude le labbra, ma si blocca come se fosse stata sul punto di dire qualcosa ed avesse cambiato idea all’ultimo momento.

“Sai, circa due anni fa …” comincia quindi, “Una sera era rientrato a casa in condizioni peggiori del solito. Lui e Jeremy hanno iniziato a litigare, pesantemente. Non so neanche come, ma sono arrivati alle mani. E’ stato orribile. E’ stato lì che ha capito che era andato troppo oltre, è andato in riabilitazione dopo pochi giorni. Non si è mai perdonato per quella sera.”

Sentirla parlare è una ferita ricucita a malapena che si riapre di colpo tutta insieme. Avrei dovuto esserci.

“Come sta Jeremy?” domando, pensando che io, al posto suo, non avrei preso affatto bene una situazione del genere.

Sul suo volto una piccola smorfia si confonde con un sorriso amaro. “Vorrei saperlo. Per di più, ha smesso di parlarmi da quando l’ho sorpreso nella dispensa a fare sesso con una cameriera.”

“Lui …” aggrotto la fronte, pensando di non aver capito bene. “… cosa?”

Devo essermi lasciato sfuggire un mezzo ghigno, perché Elena mi lancia un’occhiataccia storta.

“Non esserne così colpito! Jer era minorenne fino a solo due mesi fa!” esclama indignata, mentre io mi sforzo di non ridere di nuovo, “Sono così felice di averla licenziata.”

“Hai licenziato la sua ragazza? Ci credo che è incazzato.”

Le si spalancano gli occhi per l’indignazione. “Da che parte stai? ...”

“Andiamo, Elena, è un ragazzo ed ha diciotto anni. E’ chiaro che non pensa con la testa.”

“E con cosa …?” si interrompe da sola di fronte al mio sopracciglio alzato, e dal cipiglio confuso passa all’improvvisa illuminazione. “Ooh.”

Ciò che segue dopo è facile. Fin troppo facile.

E’ facile starla ad ascoltare intanto che pian piano si rilassa e ammette, coprendosi la fronte con una mano, che quella è probabilmente la cosa più imbarazzante che le sia mai capitata, e ciò include un paio di circostanze degli anni del liceo di cui solo in pochi siamo a conoscenza e che avrebbero decisamente potuto contendersi il premio.

E’ facile saltare da un argomento all’altro. E’ facile essere catturato dalle risate che si liberano dalle sue labbra quando la metto al corrente dei momenti più bizzarri di Alaric. Credere al modo in cui dice che le piacerebbe da morire poterlo incontrare.

Nessuno dei due ha veramente voglia di andare a toccare argomenti – matrimoni e cuori spezzati, passati e non – che potrebbero infrangere la fragile illusione che per un attimo sembriamo esserci creati.

E forse è anche un po’ colpa della notte, che si sa tende a far cadere più facilmente qualsiasi apparenza, anche quelle meglio costruite, ma è dannatamente facile anche ritrovarmi a riconoscere quanto Elena mi sia mancata, mentre me ne stavo dall’altra parte del continente.

Così come è facile ricadere, di nuovo, in una vaga sensazione di amarezza al pensiero di ciò che avrebbe potuto essere, della quale ero certo di essermi liberato. Per un attimo penso che forse, se non fossi stato così avventato, se avessi aspettato, se le avessi dato più tempo …

Per fortuna mi costringo ad interrompere il mio inutile e pericoloso gioco dell’ ʿe se …ʾ prima che possa andare troppo oltre.

Accade tutto talmente in fretta che in un batter d’occhio sono quasi le quattro del mattino, ed è qualcosa di piuttosto imbarazzante da realizzare. Tanto che il quieto commiato sulla porta che segue a quelle poche ore che abbiamo condiviso, in mezzo ad una cittadina adesso davvero deserta, è l’unico momento che porta con sé un non meglio imprecisato disagio. Non so neanche io bene perché, ma credo che sia un bene non sforzarsi di capirlo.


***


Ottenere un pomeriggio libero, da Rose, era un evento piuttosto raro, dunque immaginai di dover ringraziare la comparsa inaspettata di un “vecchio amico” che, da quel poco che avevo avuto modo di intuire, era un mezzo cantante itinerante che di atteggiamento amicale aveva ben poco. Mi avevano cacciato fuori dal negozio alla svelta, appena prima di avvinghiarsi sulla prima superficie disponibile.

Non avevo nessun programma, di conseguenza una visita al Grill era sembrata, sul momento, una buona idea. Ingenuo che non ero altro.

“Ehi. Jenna.”

La barista carina, anche quel giorno come al solito di turno nel tardo pomeriggio, sollevò lo sguardo verso di me e mi sorrise di rimando. Quando arrivai vicino al bancone, non ebbi neanche bisogno di chiedere.

“Se cerchi Elena, Damon,” mi disse mentre finiva di spillare una birra. “La trovi nel retro.”

Girai quindi sulla sinistra attorno al bancone, conoscendo ormai perfettamente la strada, passai davanti alla cucina e percorsi lo stretto corridoio fino alla porta lasciata socchiusa del piccolo ufficio.

Stavo per aprirla, ma ciò che intravidi dallo spiraglio rimasto aperto mi fece immobilizzare all’istante.

Elena, di spalle, incrociò le mani per afferrare i bordi della t-shirt nera e tirarli su, fin sopra la testa. Prima che i lunghi capelli bruni si liberassero dalla maglietta per ricadere di nuovo, leggermente elettrizzati, mi si presentò una fugace visione della sua schiena.

Nuda.

Niente reggiseno.

Ruotò appena su stessa, quel tanto che bastava per afferrare il ricambio posato lì vicino.

Non riuscii ad evitarlo. Lo sguardo mi cascò sulla morbida curva disegnata dal profilo del seno prima ancora che avessi il tempo di poter razionalizzare. Deglutii a forza intanto che, in gola, qualcosa si inspessiva all’istante. Non solo lì.

Mi ritrassi di scatto, prendendomi qualche secondo per appoggiarmi alla parete del corridoio, chiudere gli occhi e riprendere il controllo. ʿMaledizione, datti un contegno,ʾ mi ripetei mentalmente. Neanche avessi visto certe cose per la prima volta.

“Ehi.”

Quasi trasalii quando mi sentii chiamare da Elena, mentre usciva dalla stanza chiudendo, questa volta del tutto, la porta alle sue spalle. Non poteva pensarci prima?

“Non ti aspettavo oggi,” mi squadrò con aria improvvisamente preoccupata, “E’ tutto a posto?”

Con un’altra rapida sbirciata, diedi un controllo veloce. Nuova maglietta e questa volta, sì, un reggiseno al di sotto. Annuii in risposta, concentrandomi per non fissarci troppo sopra lo sguardo.

“Ho un pomeriggio libero.”

“Bene. Stavo andando a prendere Jeremy agli allenamenti, vieni con me?” mi chiese mentre con le mani si raccoglieva i capelli e li fissava in una coda alta.

“Ok.”

“Sei sicuro di stare bene?” mi domandò soppesandomi attenta con lo sguardo, mentre ci incamminavamo fuori dal locale. “Sembri … strano.”

“Sto benissimo. Andiamo.”

Abbastanza fastidiosamente, continuò lo stesso a gettarmi occhiate dubbiose finché non arrivammo al piccolo campo da baseball. Ci sedemmo entrambi sugli spalti sul lato sinistro, in mezzo a mammine apprensive e padri troppo coinvolti per notare quanto i loro figli facessero schifo, a guardare un branco di ragazzini troppo magri o troppo cicciottelli giocare la peggiore partita che avessi mai visto in vita mia.

“Forza, Jer! Puoi farcela!” gridò Elena sporgendosi in avanti quando suo fratello si alzò dalla panchina e, con una faccia da patibolo, iniziò a dirigersi verso il quadrante e a mettersi in posizione per colpire la palla.

“Perché lo stai illudendo così? Quel ragazzo è terribile,” commentai con una smorfia, distendendomi all’indietro appoggiato sui gomiti, mentre Jeremy faceva roteare la mazza nel vuoto e mancava la palla di almeno cinque centimetri.

“Si chiama incoraggiamento,” sbuffò Elena con un’alzata di occhi al cielo. “Ne hai mai sentito parlare?”

Aggrottai la fronte mentre, a dispetto del suo tono retorico e sarcastico, mi prendevo qualche secondo per riflettere sulla sua domanda.

“Non proprio.”

Tornai a guardarla, ma era di nuovo tutta concentrata sulla partita.

Le coda alta le scopriva la curva del collo. La percorsi con lo sguardo a partire dall’incavo dietro all’orecchio, verso il basso, lungo la gola, fino al solco della clavicola, dove appena più sotto …

“ …. e tuo fratello è uno stronzo.”

Scattai di nuovo con lo sguardo verso l’alto, sicuro di non aver capito bene.

“Cosa?”

“Ma mi stai ascoltando almeno?” chiese assottigliando lo sguardo su di me. “Ho detto che tuo fratello è uno stronzo.”

Perplesso, accennai un vago sorriso che però non fece altro che attirarmi un altro sguardo fulminante.

“Lo trovi divertente?”

“Abbastanza, in realtà. Insomma, sono sicuro che lui si sente ripetere una cosa del genere praticamente di continuo, ma per me … questa è di sicuro una prima volta. Cos’ha fatto?”

“Caroline non se lo meritava. Lei stava solo cercando di essere gentile. E’ stato così …. cattivo da parte sua, trattarla male in quel modo! E dirle che non sarà mai interessato a lei, solo perché ad un tratto è arrivata la sua ragazza.”

La osservai scuotere la testa, il naso corrucciato in un’espressione infastidita per il grave oltraggio subito dalla sua amica, mentre io venivo lasciato a mettere insieme i pezzi, a dir poco confusi, di cosa cavolo avesse voluto dire Stefan un paio di giorni prima.

Un fischio prolungato segnò la fine dell’allenamento ed Elena balzò in piedi per raggiungere il fratello, che intanto si apprestava a lasciare il campo con aria mesta.

“Andrà meglio la prossima volta, Jer.”

Il ragazzino replicò solo con una smorfia ed una scrollata di spalle. Lei sospirò e lo seguì con lo sguardo mentre andava a togliersi, con gesti stizziti, le protezioni.

Mi alzai anche io e la raggiunsi, mentre mi spremevo per farmi venire una qualche idea in grado di farle sparire dal viso quell’espressione affranta. Non avevo idea di cosa fosse che andava a smuovere, dentro di me, ogni volta che la vedevo così triste.

“Senti …” iniziai, infilandomi le mani nelle tasche laterali della giacca di pelle. Il motivo per cui l’amico di Rose era piombato in città mi aveva improvvisamente dato uno spunto. “ … So che c’è una specie di festival cittadino a Blue Ridge, sai, con …” presi un profondo sospiro, non potevo credere che lo stessi dicendo veramente, “… musica locale, e dolci, e cuccioli carini, e sì, insomma, tutte quelle robe che piacciono tanto ai bambini. E’ solo un’ora di macchina. Vuoi andare? Magari lo tira su di morale.”

Elena si voltò e dischiuse appena le labbra, osservandomi stupita.

“Lo faresti?” chiese con un filo di speranza a trasparire dalla voce.

Mi strinsi nelle spalle. “Tanto non ho altro di meglio da fare.”

Partì da un angolo delle sue labbra, che si curvarono di un poco verso l’alto. Il momento dopo, strano ma vero, Elena stava sorridendo. Completamente. Insomma, occhi, guance, naso. Tutto. Non sapevo neanche che ne fosse capace, di sorridere in quel modo.

E, dio, se fu una bella sensazione.


Questa volta non è un campo da baseball: grazie a dio il ragazzo ha capito che non era proprio storia.

Mi avvicino all’area in cemento, sulla quale sbiadite linee bianche ed un solo canestro sulla destra dall’ombra allungata sono quanto più si avvicini ad un campo da basket. Mi siedo su una panchina all’ombra tiepida di fine pomeriggio, accanto a borsoni e felpe abbandonate, e mi metto a guardare, di fronte a me, i cinque o sei ragazzi che si urlano contro mentre si contendono la palla.

Jeremy mi nota quasi subito ma, a parte un attimo di distrazione, per il resto fa finta di niente e continua a giocare. Così aspetto, pazientemente, fino a che la partita improvvisata non finisce ed i ragazzi iniziano a separarsi con svariate pacche sulle spalle.

Jeremy saluta gli altri e si dirige spedito verso uno dei borsoni, ci fruga dentro e prende un lungo sorso dalla borraccia che ne tira fuori, senza guardarmi neanche per sbaglio.

“Cosa vuoi?” mi chiede però, freddamente.

“Stavo solo guardando la partita,” mi stringo nelle spalle. “Non fai completamente schifo.”

“Stronzate,” ribatte con una smorfia. Con un gesto brusco afferra una felpa che era scivolata per terra, le dà una scrollata e se la infila, lasciando la cerniera aperta sul davanti. “Ti ha mandato mia sorella.”

“Cosa sono, il suo galoppino?” replico con fare offeso. “Tua sorella se vuole può parlare da sola.”

Un altro ragazzo con gli occhi scuri, un piercing al sopracciglio e l’aria da sbruffoncello si avvicina, squadrandomi dall’alto in basso.

“Allora vieni?” domanda a Jeremy.

“Sì, arrivo. Dammi solo momento, Kol [2].”

Il suo amico si allontana e Jeremy afferra il proprio borsone per metterselo sulle spalle.

“Ok, senti,” torna a rivolgersi a me, sbrigativo. “Non mi serve nessuna lezione di vita da un tizio a caso che crede che siamo amiconi solo perché giocavamo ai videogiochi quando ero bambino.”

Gli scoppio a ridere in faccia, cosa che per un attimo lo lascia interdetto.

“Lezione di vita? Ma mi hai visto? Non sono nella posizione di dare lezioni di vita a nessuno.”

Continua ad osservarmi, guardingo. Non posso certo dire di conoscere il ragazzo, considerando che, prima di ritrovarmi di nuovo a Mystic Falls, l’ultima volta che ci avevo interagito non era neanche alla soglia della pubertà. Ma, in mezzo a tutta quella diffidenza, mi sembra ugualmente di vedere un barlume di interesse.

“E allora cosa vuoi?” mi chiede, alzando un sopracciglio.

“Riportare il tuo culo a casa.”

“Allora stai sprecando il tuo tempo.”

La piccola apertura di qualche secondo prima se ne va all’istante e, visto che gira sui tacchi, vedo che anche lui è sul punto di fare la stessa cosa.

“Ehi. L’ho capito,” di colpo mi alzo in piedi e lo richiamo con una leggera spinta sulla spalla. E’ più che mai infastidito, ma almeno si volta di nuovo ad ascoltarmi mentre io proseguo in tono più duro. “La vita fa schifo, bella scoperta. Cosa hai intenzione di farci? Prendertela con l’unica persona a cui importa qualcosa di te solo perché ti ha licenziato la fidanzatina?”

“Non è la mia ragazza, ok?” ribatte con più rabbia del necessario. “Anzi, se proprio vuoi saperlo, dopo quello che è successo mi ha mollato subito senza pensarci due volte! Non gliene fregava un cazzo di me.”

Ed ecco che di colpo capisco, cos’è che lo tormenta davvero. E’ vero, dopotutto, che spesso non è il cervello ciò con cui ragioniamo e che non c’è niente di peggio di un cuore spezzato per iniziare a comportarsi da vero idiota.

“Le stronze capitano,” dico con una smorfia e la consapevolezza, questa volta, di poter parlare per esperienza. “Benvenuto nel club.”

Non replica, ma intuisco lo stesso che potrei aver fatto centro quando, invece di spararmi un’altra rispostina stizzita, getta il borsone a terra e si siede, sulla panchina, con i gomiti posati sulle ginocchia e lo sguardo su un punto imprecisato davanti a sé.

“Come sta Elena?” mi chiede piano, dopo un po’.

Prendo la sua borsa, gliela tiro di nuovo e con la testa gli faccio cenno di andare.

“Andiamo a casa e chiediglielo tu stesso, campione.”


Fermai la macchina nel vialetto di ingresso di casa Gilbert. Le luci al piano terra erano accese.

“Mio padre è già a casa,” mormorò Elena, osservandole. “Non è un buon segno.”

Guardai l’ora sul display della radio e notai che era oltre mezzanotte. La nostra gita fuori programma era durata un po’ più del previsto.

“Pensi che si arrabbierà?” domandai, preoccupato di averla messa nei casini.

“Penso che neanche se ne accorgerà,” rispose con una strana nota nella voce, continuando a guardare davanti a sé. La Elena di qualche ora prima, quella che girava estasiata tra le bancarelle e che aveva insistito per rimanere almeno per sentire l’inizio del concerto serale, era già sparita. Gettò uno sguardo verso il fratello, che durante il ritorno si era addormentato sui sedili posteriori, e prese un lungo sospiro. “Andiamo.”

L’accompagnai fin dentro casa, con alle calcagna il piccoletto che rischiava di crollare a terra per il torpore da un momento all’altro. Elena dovette raddrizzarlo almeno un paio di volte.

Quando entrammo, Grayson Gilbert era steso scompostamente sul divano, più privo di sensi che addormentato, a giudicare dalla persistente traccia di alcol che era possibile avvertire nell’aria.

“Puoi portare Jeremy di sopra?” mi chiese Elena, fin troppo imperturbabile.

Con una mano sulla schiena spinsi un Jeremy barcollante di sonno verso le scale, anche se a metà mi voltai per gettare un’altra occhiata verso la sala, in tempo per vedere Elena sistemare un paio di cuscini sotto la testa del padre e mettergli una coperta addosso.

Io, al posto suo, non lo avrei fatto.

“Avanti, ragazzino, ora della nanna,” dichiarai solennemente quando lo ebbi infine scortato fino alla porta della sua camera.

Si voltò a guardarmi, gli occhi gonfi ma curiosi, fin troppo per i miei gusti.

“Sei il fidanzato di mia sorella?” mi domandò. Così, di punto in bianco.

“Cosa?” esclamai con una smorfia. “No.”

“A me sembri il suo fidanzato.”

Assottigliai lo sguardo su di lui, osservandolo dall’alto in basso, per capire se fosse serio o se stesse solo cercando di prendermi per il culo.

“Non sono il suo fidanzato. Proprio no. Nel modo più assoluto.”

“E allora cosa sei?”

“Jer?” La voce di Elena giunse dalle mie spalle, dalla cima delle scale. Mi voltai, felice di non dover rispondere, e, un paio di secondi dopo, anche lei ci aveva raggiunto. “E’ tardi, vai a dormire.”

Lo accompagnò fin dentro la camera, gettandomi uno sguardo silenzioso nel passarmi davanti, mentre io rimanevo in corridoio, con la stupida domanda di un ragazzino di dieci anni ancora sulla mia testa.

“Non fare caso a lui,” mi disse Elena sottovoce quando riemerse dalla camera di Jeremy, chiudendosi la porta alle spalle.

Misi su un mezzo sorriso, probabilmente piuttosto tirato, ignorando la strisciante sensazione di ambiguo scombussolamento che mi aveva colto tutto insieme.

“Nessun problema.”

“Grazie per oggi. Mi sono divertita. E anche Jeremy,” bisbigliò, una segreta contentezza che per un attimo riaffiorò nella sua voce sommessa. “Buonanotte, Damon.”

Senza assolutamente nessun preavviso, si sporse sulle punte, accostò il volto al mio e premette le labbra sulla mia guancia. D’istinto chiusi gli occhi, mentre sentivo il lieve solletico dei suoi capelli sul collo, il vago profumo di zucchero filato che vi era rimasto addosso, la morbidezza della sua bocca sulla mia pelle.

Quando si staccò, la voglia di non permetterglielo fu improvvisa e prepotente. In quella frazione di secondo, pensai davvero che l’avrei attirata di nuovo verso di me e baciata, baciata davvero, solo per scoprire che sapore potesse avere e cosa si provasse ad avere il suo corpo, al quale tutto il giorno avevo cercato così disperatamente di non pensare, contro il mio.

Invece, rimasi con entrambe le mani affondate nelle tasche della giacca, più rigide che mai, senza muovermi di un solo millimetro.

E fui contento di non aver mosso un muscolo.

Non avrebbe portato ad altro che disastri. Decisamente non ero il tipo adatto a fare il fidanzato di nessuna e, con tutta probabilità, neanche lo sarei mai stato.


“Capolinea,” annuncio accostando la Camaro al marciapiede.

“Guarda che casa mia è là più avanti,” mi ricorda sarcasticamente Jeremy indicando con il dito, qualche centinaio di metri più avanti, una casa i cui contorni iniziano a perdersi nel crepuscolo che avanza.

“So perfettamente dov’è casa tua,” replico mentre giro la chiave per spegnere il motore. “Ma tu da qui te ne vai a piedi.”

Mi guarda stranito corrugando le sopracciglia, io rimango impassibile. Gli faccio anche sciò-sciò con la mano, nel caso il concetto non fosse ancora abbastanza chiaro.

Scrolla le spalle e finalmente si decide ad aprire la portiera. “Come vuoi.”

Non un ʿci vediamo in giroʾ, non un ʿgrazie per il passaggioʾ. Quel piccolo ingrato.

Poggio il gomito contro lo sportello alla mia sinistra e le dita sul volante, pronto a ripartire.

Tra un paio di minuti.

Rimango ad osservare Jeremy camminare lungo il marciapiede con le mani in tasca, tirare un calcio a un sassolino che si è trovato davanti, riposizionarsi la borsa sulla spalla, fino a che non arriva alla casa. Nella distanza, una luce si accende al piano inferiore ed un’altra la segue quando la porta di ingresso si spalanca, per lasciar uscire Elena che si precipita ad abbracciare il fratello.

Visti da qui, non sono altro che due figurine scure nella luce fioca della sera. Ma posso immaginare il sorriso che lei deve avere in questo momento ed è sorprendente quanto possa essere, ancora oggi, una bella sensazione.

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Note:

[1] Gioco di parole un po’ intraducibile sul doppio significato di “snap” = chiudersi di scatto (come il morso del coccodrillo) e qualcosa di simile all’ “essere in forma”

[2] Kol qua è un amico di Jeremy, quello da cui lui era andato a stare. Non è il fratello di Elijah, non ci incastra niente ed è del tutto irrilevante. Probabilmente, neanche lo rivedrete più.


Spazio autrice.


Buonasera! C’è qualcuno che si ricorda ancora di me e di questa storia? ...

Spero, naturalmente, di sì, così come spero che siate riuscite a riprendere il filo delle vicende dove le avevamo lasciate, nonostante la lunga pausa negli aggiornamenti.

E’ stato un periodo che non mi ha davvero lasciato spazio per efp, ma ho approfittato di questi giorni di calma pre-vacanze per cercare di recuperare un po’ del tempo perso e pubblicare questo capitolo.

Spero solo che come ritorno non vi abbia deluso. E’ stato un capitolo forse più introspettivo ma era un passaggio importante dal punto di vista di Damon, che forse non si è così liberato di quello che prova/provava per Elena come crede/vuole credere. Ma non temete che presto di cose inizieranno a succederne fin troppe.

Titolo/citazione ispirato dalla canzone dei Buzzcocks, Ever fallen in love (with someone you shouldn’t’ve fallen in love with)? Letteralmente: Ti sei mai innamorato (di qualcuno di cui non avresti dovuto innamorarti)?

Piccola curiosità: ci sono due commenti fatti da Damon che al momento possono essere sembrati senza molta importanza, e che forse avrete a malapena notato … Ma non sono stati messi a caso, e vi assicuro che tra qualche capitolo assumeranno tutto un altro significato. Qualche idea? :)


Se tutto va bene, conto di tornare con il prossimo aggiornamento intorno ai primi gennaio.

Con questo vi mando un abbraccio e auguro un Buon Natale e buone feste a tutte voi, con la speranza che non mi abbiate abbandonato del tutto e di potervi sentire anche nei commenti! :)


A presto



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Capitolo 9
*** Temporary escape ***


8. efp

8.

Temporary escape


- Can't help myself but count the flaws
Claw my way out through these walls
One temporary escape
Feel it start to permeate -

(Young Blood, The Naked And Famous)


Elena


Prendo un altro sorso del mio caffè e lascio vagare lo sguardo oltre l’ampia vetrata, verso la strada che, anche se ancora poco trafficata, sta iniziando sempre più velocemente a prendere vita.

Dall’altra parte del marciapiede, una donna sulla trentina dall’aria molto chic si china per inginocchiarsi all’altezza della bambina che è con lei e toglierle lo zucchero della ciambella dal naso. L’immagine me ne porta alla mente un’altra, un vago ricordo di quando ero piccola, accompagnato dal familiare dolore sordo sul fondo del petto al quale, nonostante gli anni, non riesco mai del tutto ad abituarmi: una cucina avvolta nell’odore di impasto fresco ed io che, assonnata e poco propensa ad andare a scuola, chiedo a mia madre come riesce ad essere così di buon umore al mattino presto.

Si era piegata verso di me come se fosse sul punto di condividere un prezioso segreto e mi aveva rilevato, a bassa voce, che era impossibile non amare l'inizio di una nuova giornata, uno dei pochi momenti in cui tutto riusciva a sembrare pieno di possibilità.

Potrebbe servirmi un momento del genere, mi ritrovo a pensare mentre osservo le stradine che attraversano il centro di Richmond. C’è, del resto, un non so che di vivace, e sorprendentemente attraente, in ciò che si prospetta al di là di vetro. Pieno di possibilità.

Così chiudo le palpebre, lentamente, come per catturare meglio quel raro istante e giocare ad immaginare come sarebbe la mia vita qui, senza il Grill, insieme a Elijah.

Ma vedo solo nero.

Riapro gli occhi di colpo, mentre il soffio silenzioso del condizionatore alle mie spalle manda un brivido improvviso lungo la mia schiena.

“Ti stai godendo la vista?”

Mi volto al suono della voce di Elijah, accompagnata dalla cadenza familiare dei suoi passi che si fanno strada nella stanza.

Il suo profumo fresco mi avvolge un solo secondo prima che lo facciano anche le sue braccia. I suoi capelli, ancora umidi dopo la doccia, mi solleticano piacevolmente le tempie quando posa le labbra contro la mia guancia.

Inclino la testa all’indietro per adagiarla sulla sua spalla.

“Stavo pensando.”

“A cosa?” mi chiede in un soffio tiepido contro il mio orecchio.

Prendo un altro breve sorso di caffè, prima di rispondere.

“Noi.”

Non commenta, non immediatamente. Anche se non scioglie l’abbraccio, mi sembra di percepire una leggera tensione attraversare il suo corpo. Mi accarezza la mano, le sue dita che vanno a giocherellare con l’anello al mio anulare. Mi rendo conto solo adesso che è un gesto che ripete spesso, soprattutto quando è nervoso. Come se dovesse assicurarsi che sia ancora lì.

“Qualcosa che vuoi dirmi? ...” domanda infine, nello stesso tono lieve, ma nel quale, per quanto cerchi di mascherarlo, mi sembra di avvertire una nota di preoccupazione.

Poso la tazza sul mobiletto lì accanto e scuoto la testa, mentre mi giro per andare a circondargli il collo con le braccia.

“Sai già tutto ciò che c’è da sapere,” mormoro attirandolo verso di me e cercando le sue labbra.

Ma non le trovo.

“Ci sono ancora delle cose di cui pensavo volessi parlare …” mi ricorda e si scosta appena per potermi scrutare.

Il suo sguardo è così scuro, così intenso, da farmi salire un sottile nodo in gola.

Perché so bene a cosa si riferisce. Le sorti del mio locale, le case che ho promesso saremmo andati a vedere insieme, il mio (nostro) intero futuro. Troppe cose per essere affrontate in poco tempo.

“Più tardi,” prometto, di nuovo, attirandolo con molta più decisione.

Questa volta lascia perdere la questione, cedendo non appena intreccio le dita tra i suoi capelli, baciandomi ancora e ancora. Mi sfugge un sospiro mentre la sua bocca scende a lambirmi il collo ed io chiudo gli occhi per assaporare meglio la sensazione.

Per un attimo, mi sento sopraffare dall’improvvisa, inopportuna fantasia che siano altre labbra a lasciarmi quei baci sensuali lungo la linea della clavicola. E’ un attimo piccolo, insignificante. Lo scaccio l’istante successivo.

Torno a baciarlo con ancora più trasporto, spingendolo contro il muro alle nostre spalle e facendo scivolare le mani sotto la sua maglietta di fine cotone per poter percorrere i contorni del suo petto. Lo sento rimanere a corto di fiato, ma quando faccio per togliergli l’indumento mi blocca le mani, inaspettatamente.

“Elena …” mormora, scuotendo la testa come se solo in quel momento fosse tornato in sé. “Aspetta.”

Mi fermo e lo guardo con fare interrogativo.

In risposta, spinge via le mani che tiene ancora tra le sue per allontanarmi di un paio di passi, con l’aria grave di chi debba compiere un dovere importante sebbene gli stia costando un’immensa fatica.

“Sei sicura che … vada tutto bene?”

Accenno un sorriso confuso, non sapendo dove stia cercando di andare a parare, mentre lui prosegue un po’ più incerto.

“Sei stata … diversa, ultimamente.”

Questa volta sono io a ritrarmi di un altro passo.

“Cosa vorresti dire?” chiedo sollevando un sopracciglio.

Sul suo volto, compare di nuovo quello sguardo, scuro e intenso.

Nella mia gola, compare di nuovo quel nodo sottile.

“Distante,” risponde dopo una lunga pausa, come per cercare le giuste parole. “Come se la tua mente fosse … altrove.”

Sento il cuore iniziare a battere un po’ più veloce e scuoto immediatamente la testa, con convinzione, ma devo deglutire prima di riuscire a ritrovare stabilità nella mia voce.

“Ho solo avuto un po’ di pensieri per via di tutte queste decisioni importanti da prendere, con il bar e Jeremy …” Nel suo sguardo che si assottiglia, come per investigarmi meglio, c’è un’insicurezza che non voglio vedere. Perché Elijah non sembra mai avere dubbi su ciò che fa, ed è una delle tante cose che più apprezzo di lui. Prendo il suo volto tra le mani e colmo nuovamente le distanze. “Ehi. Ti amo. Lo sai. Non dubitarlo mai.”


***


Nei giorni successivi, non importa quanto io sia determinata a non darvi peso: le parole di Elijah restano lì, nel retro dei miei pensieri, insieme al nodo che le accompagna, pronte a tornare a galla nei momenti meno opportuni.

Sono lì quando sorrido all’agente immobiliare mentre ci spiega perché il giardino sul retro con piscina sia qualcosa a cui non possiamo assolutamente rinunciare.

Sono lì quando al ristorante Elijah allunga la mano per prendere la mia dall’altra parte del tavolo e, davanti ad un piatto squisito che tutto d’un tratto non riesco più a buttare giù, carezzandola mi chiede quale tra le case che abbiamo visto sia la mia preferita.

Sono ancora lì due giorni dopo, quando metto di nuovo piede a Mystic Falls, insieme ad uno strano senso di sollievo misto ad insofferenza verso questo angolo di mondo che, per chissà quale motivo, non è mai stato un guscio tanto confortevole quanto tremendamente stretto al tempo stesso come invece mi sembra in questo momento.

In ogni caso, si sbaglia. Non sono stata ʿdistanteʾ. E la mia mente è esattamente dove dovrebbe essere, grazie tante.

Cerco di scrollarmi di dosso le insinuazioni di Elijah non appena parcheggio la mia auto nelle vicinanze del Grill. Ma non devo neanche sforzarmi più di tanto perché – per una volta – scompaiono da sole quando, avvicinandomi all’ingresso, inizio a notare che c’è qualcosa di inevitabilmente stonato nell’insolita tranquillità che circonda il locale.

Chiuso.

Solo che il Grill non chiude in una perfetta giornata estiva come questa, non quando la città brulica di liceali senza lezioni, campeggiatori assetati, e appassionati della Guerra Civile pronti a fare il tour di qualsiasi edificio risalente all’epoca coloniale.

Il cartello appeso alla porta è la mia prima conferma che qualcosa non va.

La seconda è ciò che mi accoglie non appena varco la porta.


Quattro giorni. Ecco quanto sono stata assente, ecco evidentemente quanto ci vuole perché le cose inizino ad andare storte.

“Mi dispiace,” mi sussurra Jenna, sull’orlo delle lacrime, mentre l’idraulico di fronte a noi continua a chiarire i motivi che hanno portato all’allagamento di mezzo locale e a spiegare come dovranno procedere per controllare quali tubature hanno causato il problema.

“Non è colpa tua,” la rassicuro in un altro sussurro.

E’ mia. Come diavolo ho fatto a non accorgermene? A non ricordarmi dei controlli, ad avere la testa troppo concentrata su altre cose, a …

“ … forse anche tre settimane, è chiaro che tutto dipende-”

“Prego?” lo interrompo, non appena registro meglio ciò che sta dicendo.

“Stavo dicendo,” riprende, mentre si scosta per l’ennesima volta il ciuffo biondiccio dagli occhi e si infila le mani nelle tasche dei pantaloni, sembrando ancora più allampanato, “che per cercare la perdita, sondare le fondamenta e riparare il danno potrebbe anche bastare qualche giorno, se il problema non è grave e siete fortunati. Dipende quanto in profondità dovremo cercare.”

Questo tizio sta parlando di aprire buchi nel mio locale con una tranquillità a dir poco disturbante.

Come se fosse una cosa da niente. Mentre io dovrò letteralmente vedere il mio stesso bar ridotto a pezzi. Per non parlare di quanto verrà a costare. Ed è piena stagione turistica …

Quel pensiero ed il caldo mi provocano un leggero giramento di testa e cerco a tentoni il bancone alle mie spalle per non vacillare.

Alcuni colpetti sulla vetrata della porta mi costringono a trovare le forze di voltarmi in quella direzione.

“E’ Caroline?” domanda Jenna allungando il collo per osservare meglio la figura indistinta che, con le mani a coppa incollate sul vetro, cerca di spiare ciò che sta avvenendo all’interno.

“E’ decisamente Caroline,” confermo quando, nel tentativo di attirare l’attenzione, la sagoma familiare riprende a tamburellare più insistente di prima.

Jenna mi esorta ad andare dalla mia amica mentre lei rimane a discutere altri dettagli. Le sono grata, sia perché ho un improvviso bisogno di aria, sia perché mi fido di lei come di me stessa. Forse anche di più.

Con Caroline andiamo a sederci su una panchina riparata all’ombra della torre dell’orologio. L’estate sembra essere arrivata tutta insieme nel tempo del mio breve soggiorno a Richmond, spazzando via anche quel filo di brezza che riusciva a dare respiro fino a qualche giorno prima.

“E’ una vera scocciatura,” commenta Caroline quando ho finito di raccontarle cosa è successo al Grill. “Ma guarda il lato positivo,” sorride voltandosi verso di me, “E’ estate e non devi lavorare! Sai cosa significa?”

La domanda è accompagnata da uno di quei suoi gridolini eccitati che tendono sempre a farmi temere ciò che seguirà.

“Che abbiamo molto più tempo libero per organizzare il matrimonio!" Le sue dita iniziano a svolazzare veloci sull'iphone rosa che ha tirato fuori dalla borsa in un battibaleno. "Posso prenotare almeno tre diverse prove vestiti, insomma tre dovrebbero essere sufficienti per adesso, c'è una boutique adorabile dove nel frattempo ti servono fragole e champagne a volontà. Dobbiamo anche pensare ai fiori, quelli stagionali sono sempre i migliori, ma devi comunque ordinarli per tempo e poi-”

Si interrompe da sola, prima che io riesca anche solo a poter dire la mia, quando il cellulare inizia a suonarle tra le mani. Un'aria combattuta le attraversa lo sguardo, ma dopo soli tre secondi rifiuta la chiamata con un piccolo umpf e torna a parlare più velocemente di prima.

“Una pianificazione impeccabile è vitale. In questo modo sarai sicura di poter scegliere l’abito giusto, anche se io ho già un’idea molto precisa, e di poter avere un tema e dei colori che si armonizzino alla perfezione …”

“Non so …” tento. Sentir parlare Caroline mi ha improvvisamente provocato i sudori freddi. Tutto quello che ho sentito è stato ʿscelte, scelte, scelteʾ. Mai avrei immaginato di dover guardare alla cerimonia come ad una scienza con così tante variabili da valutare. “Magari ci possiamo pensare un po’ su?”

La sua espressione si sfalda leggermente in un accenno di delusione, ma a distrarla dal colpo al cuore che le ho appena inferto con la mia mancanza di entusiasmo ci pensa di nuovo il suo telefono. Ancora una volta, Caroline pone fine alla chiamata in arrivo, ma adesso riesco a cogliere chi è colui che sta ignorando con tanta determinazione.

“Stai per caso evitando Stefan?” domando perplessa.

Si mordicchia le labbra nervosamente e annuisce con un profondo sospiro amareggiato.

“Mi ha chiesto di andare a vivere insieme.”

Sto per farle le mie congratulazioni e dirle quanto sono felice per lei, ma il suo sguardo fulminante mi blocca prima che abbia il tempo di pronunciare anche solo mezza parola.

“E non è … una cosa buona?” le chiedo cauta.

“Certo che no!” esclama scandalizzata. “Come fai a pensare che sia una cosa buona?! E’ un disastro,” scandisce bene l’ultima parola, con fare teatrale. "Non so davvero cosa gli sia saltato in testa. Insomma, ho detto che ci avrei pensato, e lui ci è rimasto così male, ed io mi sono sentita malissimo, e so che si aspetta una risposta, ma io non ce l'ho una risposta, capisci?"

Osservo i suoi occhi azzurro mare che stanno iniziando a diventare lucidi, per motivi che in tutta sincerità non riesco affatto ad afferrare.

“Care,” dico con calma, “Sono almeno due anni che vai regolarmente dall’architetto a fare progetti per quella casa. Li tieni nel cassetto dei documenti importanti. Quindi perché ...”

“Perché pensavo che mi avrebbe fatto La Proposta!” sbotta. Con la “L” e la “P” maiuscole. “Non porti la tua ragazza nel suo ristorante preferito, organizzando la serata perfetta, se poi non vuoi farle La Proposta. Punto.”

“Non lo so, Care ... Ma suo padre è morto poco più di un mese fa, magari non è nella stato mentale adatto per pensare al matrimonio …”

Caroline mi ignora.

“Siamo sempre stati d’accordo di aspettare fino a dopo il college, ok? Ma sono sette anni. Cosa diavolo sta ancora aspettando, si può sapere?”

“Dai tempo alla cosa ...”

Come il mio commento precedente, anche questo cade completamente nel vuoto.

“E’ solo che è così ingiusto!” sospira infine, abbandonandosi contro lo schienale della panchina, “Dovrei essere io quella che si sposa.”

Lo dice senza pensare, come suggerisce anche il gesto con cui immediatamente dopo si porta una mano sulla bocca come per potersi rimangiare le parole. Ciò però non mi impedisce di rimanere di sasso, di fronte alla mia migliore amica che considera il mio matrimonio alla pari di uno stravolgimento catastrofico del naturale ordine delle cose.

“Non intendevo …” inizia. Ma qualcosa le fa cambiare idea e, invece di ritrattare, alza il mento risoluta. “Beh, forse sì, lo intendevo. Voglio dire, guardati! Non riesci neanche ad interessarti delle più piccole cose, mentre io mi sto facendo in quattro per un matrimonio sul quale neanche sono d’accordo.”

“Si può sapere perché continui a dire così?” ribatto, una volta di troppo innervosita da questa sua stupida, e probabilmente solo invidiosa, presa di posizione. “Cos’è che non ti piace di Elijah? E’ sempre stato gentile con te e Stefan … con tutti voi.”

“Oh, ma lui mi piace,” replica Caroline, scrollando le spalle. “Sul serio. Insomma, come potrebbe essere altrimenti? E’ intelligente, ha fascino, ed è evidente che farebbe assolutamente qualsiasi cosa per te.”

“E allora qual è il tuo problema?”

“Il problema non è lui,” risponde tranquilla, come se fosse così palesemente ovvio. “Sei tu.”

Sono colta talmente alla sprovvista che invece di rispondere o chiedere spiegazioni su cosa intenda, finisco solo per alzare le sopracciglia stupita.

“Voglio dire … Sono sicura che lo ami,” prosegue. “Ma … lo ami quanto lui ama te?”

“Cos’è, una gara?”

“Non è una gara, ma, lo sai … dovresti passare il resto della tua vita con la persona senza la quale il tuo mondo cascherebbe a pezzi. Qualcosa mi dice che tu te la caveresti alla grande anche senza di lui.”

“E cosa c’è di male?” domando, con una punta di amarezza mentre le mia dita, in modo quasi involontario, si serrano strette attorno al bordo della panchina. “Il mondo di mio padre è cascato a pezzi quando è morta mia madre. Posso assicurarti che non è una bella cosa.”

“Mi dispiace, è solo che …” Caroline scuote la testa e lascia cadere la frase in un silenzio a cui nessuna delle due sa cosa aggiungere.

Mi decido infine ad alzarmi per tornare al locale e andare ad aiutare Jenna.

“Chiama Stefan,” le dico prima di andare, “E’ pazzo di te, non rovinare quello che avete per un’incomprensione del genere.”

Annuisce osservandosi attentamente le punte dei piedi che sbucano dalle décolleté aperte color cartazucchero, in accordo con la stessa delicata tonalità del suo vestito.

“Elena,” mi richiama all’ultimo momento, “Ti stai accontentando. Ma meriti di avere qualcosa di meglio, lo sai vero?”

Scaccio quel suo commento con un movimento della mano, ma questa volta non replico. Perché, se dovessi davvero rispondere, la verità sarebbe che … no. Non lo so cosa mi merito.


***


C'erano momenti in cui riuscire a stare dietro a tutto diventava più difficile del solito.

Giornate più frenetiche al locale, una maggiore quantità di studio con cui non riuscivo a tenere il passo, o quei momenti in cui vedevo mio padre scivolare un po' di più nel suo oblio personale. L'avvicinarsi del Natale era una combinazione di tutte e tre le cose.

Ma, da una parte, preferivo che fosse così. Tenermi concentrata su altro o prendersi di cura di qualcuno - che fosse mio padre, Jeremy o la signora che tutti i giorni alle tre chiedeva un diverso gusto di tè - mi aiutava a non pensare troppo al fatto che quello sarebbe stato il primo Natale senza mia madre. E a quanto male potesse fare.

"Dannazione," borbottai frustrata quando la funzione matematica con cui stavo combattendo da quasi un'ora si rivelò sbagliata per l'ennesima volta.

Il libro su cui ero piegata si chiuse improvvisamente da solo, facendomi sussultare e alzare lo sguardo di scatto, un attimo prima che mi venisse strappato dalle mani.

C'erano molti studenti venuti a passare la pausa all'aperto, merito della giornata invernale particolarmente soleggiata, ma non ebbi il minimo dubbio su chi fosse il responsabile di quell’interruzione.

“Ehi!” protestai, saltellando per riprendermi il testo.

Lo avevo quasi sfiorato quando Damon lo alzò ancora più in alto sopra la sua testa, facendomi perdere l'equilibrio e scivolare oltre il bordo della gradinata, finendo per franargli addosso, contro il suo torace.

Una sua mano mi circondò prontamente la schiena per aiutarmi a stabilizzarmi.

"Attenta, è pericoloso se non fai caso a dove metti i piedi," sogghignò.

Per tutta risposta, lo spinsi via facendo leva con le mani contro il suo petto e mi ripresi il libro con uno sbuffo.

"Quanti anni hai, dieci?"

"Mi trovi così invecchiato?" ribatté con fare offeso mentre prendeva posto sulle gradinate accanto a me, appoggiandosi all'indietro sui gomiti e distendendo le gambe in avanti. La sua classica posa da vero sbruffone. "L’ultima volta me ne avevi dati sette.”

Per ʿl’ultima voltaʾ intendeva la sera in cui mi aveva convinto a guardare uno stupido film horror giapponese. Nel mezzo di una scena in cui lo stomaco era arrivato a farmi male per la tensione, mi aveva afferrato di colpo per i fianchi sussurrandomi bu!, ed io avevo urlato istericamente con quanto più fiato avessi in gola. Mi aveva chiamata fifona per una settimana intera.

“Stai facendo progressi. Ancora un po’ e vedrai che riesci a raggiungere la pubertà,” risposi, guadagnandomi da parte sua un mezzo sorriso che finì per far sorridere anche me.

"Cos'era che ti stava facendo ammattire così tanto?" mi domandò sporgendosi per sbirciare. "Matematica? Fammi dare un'occhiata."

Gli porsi il libro con gli esercizi. Il brillante sole invernale creava riflessi bluastri sulla sua nuca che rimasi ad osservare affascinata, mentre Damon, in pochi secondi e qualche colpo di penna, creava ordine in ciò che per me era solo un caos numerico senza senso.

"Tieni," me lo porse di nuovo. Sollevò un sopracciglio perplesso. "Perché mi guardi così?"

Distolsi lo sguardo come se fossi appena stata sorpresa a fare qualcosa di sbagliato.

"Non sapevo che fossi bravo in queste cose," dissi spostandomi una ciocca di capelli che mi era finita sugli occhi. Era una sempre una strana sensazione essere messa a conoscenza di quei lati di Damon, quelle piccole cose, che tendeva a tenere più nascosti.

"Non è poi questa gran cosa," scrollò le spalle.

Non c'era modestia nel modo in cui lo disse: lo pensava davvero.

"Lo è," ribadii. "Forse puoi aiutarmi? ... La mia media è scesa, e ho bisogno di recuperarla con crediti extra se voglio avere la possibilità di ottenere una borsa di studio per il college."

"Ugh, non la parola con la ʿCʾ," mi implorò con una smorfia.

Roteai gli occhi al cielo, esasperata.

"Dici così solo per ripicca contro tuo padre."

Si strinse nelle spalle, ma non rispose.

"Lo sai che ho ragione. Ma dovrai prendere una decisione prima o poi. Su cosa farne del tuo futuro …"

"Magari mollo tutto e me ne vado a giro per l’Europa zaino in spalla," buttò là con lo sguardo fisso su un punto imprecisato davanti a sé.

L'idea di Damon dall’altra parte del mondo, così lontano da me, sembrò scavarmi un vuoto dentro che non sapevo se sarei stata in grado di sopportare. Quasi leggendo i miei pensieri, Damon sollevò la testa fino a che non incrociai l'azzurro cristallino dei suoi occhi. “Potremo farlo insieme.”

Rimasi in silenzio, con gli occhi fissi nei suoi, mentre l'accenno di un sorriso giocoso iniziava ad allargarsi sulle sue labbra. Non stava dicendo sul serio. Ma la sua proposta suonava così terribilmente invitante …

“Ciao Elena,” mi sentii chiamare.

Sviai lo sguardo da quello di Damon per portarlo qualche gradino più basso.

Sentii la guance scaldarsi nel notare la persona che mi aveva salutato, ma cercai di mantenere un tono il più possibile normale quando sorrisi per salutare di rimando.

“Ciao Matt."

Maledissi i miei capelli e la loro brutta abitudine di non stare mai al proprio posto, quando mi ricaddero di nuovo davanti agli occhi e li scostai pregando di non sembrare troppo impacciata. Alcuni dei suoi compagni lo richiamarono proprio in quel momento, ma Matt si girò ugualmente per rivolgermi un altro sorriso, prima di tornare tra le fila della squadra di football. Sentii le guance avvamparmi di nuovo.

"Chi è quello?” domandò Damon, tirandosi su come per osservare meglio il ragazzo.

“Siamo nella stessa classe di Francese,” risposi sbrigativa. Non mi sembrò il caso di parlare anche della cotta che avevo per lui sin dall'anno prima.

Con la coda dell'occhio, notai un'insolita espressione passare sul suo volto, ma nel tempo che impiegai per girarmi a guardarlo meglio era già scomparsa. Damon tornò a distendersi all’indietro sui gomiti, la stessa posa e la stessa aria disinvolta di sempre.

"Seguivo Francese durante i primi due anni. Posso assicurare per esperienza personale che fa meraviglie quando vuoi portarti a letto qualcuna."

Il suo commento mi provocò un immediato moto di fastidio, non sapevo se più per via di quello che stava insinuando su Matt o per la sua irritante esigenza di dover sottolineare il fatto che un sacco di ragazze cascassero sempre ai suoi piedi.

“Perché devi fare sempre così?”

“Così come?” domandò con fare noncurante.

“Tu e le ragazze. Qual è il gusto di passare sempre da una all'altra, come se niente fosse?”

Lo chiesi con troppa aggressività, cosa che non avevo mai fatto prima e che lo sorprese, perché si voltò a guardarmi con le sopracciglia corrugate. Ma forse fu proprio quello a tirargli fuori una risposta sincera.

“E’ più facile," disse pensieroso.

“Più facile in che senso?”

"Non avere legami. Lasciare prima che lo facciano loro. Non guardarsi indietro. Quelle cose lì."

Pensai alla scrollata di spalle con cui una volta aveva accennato al fatto che sua madre ne fosse andata una mattina di dicembre quando aveva cinque anni, e l'irritazione che avevo provato nei suoi confronti qualche secondo prima scomparve improvvisamente.

"E' un pensiero piuttosto triste," riflettei ad alta voce.

"E' meglio dell'alternativa," replicò alzandosi in piedi, segno che non aveva più intenzione di approfondire l'argomento.

Considerai la cosa per qualche secondo. Amare qualcuno ed essere lasciati, per un motivo o per l'altro. Il vuoto. Cosa rimane dopo.

E pensai che forse la strategia di Damon non era poi così sbagliata.


***


Impiego quasi un’ora per riuscire a trovare i documenti dell’assicurazione. Neanche molto considerando la disorganizzazione che regna nel piccolo ufficio sul retro del locale.

Portare un po' di ordine: ecco un altro appunto mentale, un’altra cosa da fare. Mi chiedo se sia una lista che smetterà mai di allungarsi.

Faccio spazio sulla scrivania, dove noto alcune brochure di vari college che Jeremy deve aver portato di recente.

Le ammucchio tutte insieme, ma esito prima di metterle via. Inizio a sfogliarle, una pagina dopo l'altra, una ad una, finendo per dimenticarmi completamente delle carte assicurative che giacciono sull'angolo della scrivania e rimanere catturata dalla carrellata di nomi e istituzioni, i dettagli dei diversi programmi e i vantaggi che ognuno di essi vanta di poter offrire. Ma ad attirare maggiormente la mia attenzione, e a provocarmi la fitta di rimpianto maggiore, sono i volti dei ragazzi e ragazze che campeggiano in ognuna. So che molto probabilmente sono solo delle foto costruite, ma hanno quello sguardo ... Pieno di possibilità.

Vengo distratta dal rumore della porta di ingresso che si apre. Poso le brochure e mi alzo per andare a controllare.

“Cos’è successo qui?” mi chiede Sage gettando l'occhio verso la zona del bancone e poi più dietro, verso la cucina e verso i mezzi improvvisati con cui io e Jenna abbiamo tentato nel pomeriggio di arginare il dilagare dell'acqua.

Mi viene in mente solo adesso che Sage doveva essere di turno stasera e che, evidentemente, mi sono completamente dimenticata di avvertirla che il bar sarebbe rimasto chiuso.

“Mi dispiace averti fatto venire fin qua,” mi scuso, “Avrei dovuto avvisarti.”

Ma invece di andarsene a godersi la sua serata libera, si dirige con sicurezza dietro il bancone e tira fuori una bottiglia a metà di vodka liscia.

“Hai l’aspetto di una che ne ha bisogno,” mi dice facendo scivolare un bicchiere nella mia direzione e colmandolo di liquido trasparente.

“Non posso, ho un sacco di cose da fare,” rispondo, pensando ai documenti che mi aspettano nel retro e che devo compilare se voglio avere una possibilità di rimborso delle spese da sostenere.

"I tuoi problemi saranno ancora lì domani mattina,” continua lei, issandosi a sedere sul bancone e porgendomi nuovamente il bicchiere con un sorriso. "Il mondo non casca a pezzi se per una volta allenti un po' la presa."

Le sue parole riescono effettivamente a farmi ridere e farmi per un attimo riconsiderare la sua offerta. Ma poi a prendere di nuovo il sopravvento è l'altra parte di me, quella che è già pronta a farle l'elenco dettagliato di tutti i motivi per cui, nel mio caso, si sbaglia di grosso.

E’ la vibrazione del mio cellulare ad impedirmi di replicare.

“Scusami un attimo,” le dico, mentre mi allontano per rispondere ad Elijah.

Sono colta da un istantaneo senso di colpa: ecco un’altra cosa di cui mi ero dimenticata, richiamarlo dopo che già altre volte nel corso della giornata aveva provato a raggiungermi. E il ricordo della conversazione con Caroline di questo pomeriggio non aiuta a farmi sentire meglio.

“Ho avuto alcuni problemi con il bar,” mi giustifico quando mi chiede se ci sia qualche problema. Ma me ne pento subito dopo averlo detto, perché è tardi, sono stanca, e l’ultima cosa che voglio in questo momento è discutere un’altra volta dell’allagamento e di ciò che comporta. Ho l’impressione di non aver fatto altro in tutto il giorno. Così, minimizzo prima che inizi a fare altre domande, “Niente di grave, non ti preoccupare.”

“Ok ... Ho alcune buone notizie per te,” mi fa sapere. “Ho ricevuto una chiamata dall’agenzia immobiliare questo pomeriggio. Sai quella casa a Bellevue che era la nostra prima scelta?” Mormoro un ʿsìʾ, anche se devo sforzarmi un momento per ricordare di quale casa, tra tutte quelle che abbiamo visitato durante il weekend, stia effettivamente parlando. “I proprietari hanno molta fretta di vendere e stavano per cedere ad un altro acquirente. Ho fatto un’offerta maggiore e ho da poco saputo che l’hanno accettata.”

Impiego qualche attimo per registrare cosa stia dicendo.

“Hai comprato una casa? ...” domando infine con un filo di voce quando il significato delle sue parole inizia ad essermi più chiaro.

“Beh, tecnicamente dobbiamo ancora finalizzare ufficialmente, ma-”

“Hai comprato una casa?” ripeto interrompendolo a metà della frase, il mio tono che assume senza che possa impedirlo una sfumatura più stizzita. “E non hai pensato che fosse il caso di parlarmene prima?”

“E' tutto il giorno che provo a chiamarti, non hai mai risposto. Ed era una decisione che andava presa in fretta" replica deciso. Tuttavia, anche se sta cercando di trattenersi, c'è qualcosa di inusuale nella sua voce, qualcosa che non credo di avergli mai sentito usare. E' arrabbiato.

Il problema è che, tutto d'un tratto, io credo di esserlo ancora di più.

“E così hai pensato di decidere per entrambi, invece di parlarmene.”

“Come dovremmo parlare di tutte le altre cose che tu continui a rimandare?”

“E’ colpa mia adesso?”

"Hai almeno un minimo di interesse in ciò che ci riguarda?"

E' la collera ferita con cui lo chiede a farmi più male. Sono così furiosa con lui per ciò che ha fatto eppure, dopo questo, mi sento uno schifo per il modo in cui l'ho messo in secondo piano e mi detesto per questo. Prendo un profondo respiro e penso ad un modo in cui potrei ancora sistemare le cose. Solo che non riesco a farmi venire in mente niente.

“E’ solo che ...” E’ troppo, vorrei dire. Il vestito perfetto, le case, il bar, i fiori, l'assicurazione, il nero quando chiudo gli occhi, un futuro in cui non so cosa fare. Come fa a non capirlo? “E' tardi, e sono stanca," dico invece, "Non posso pensare anche a questo adesso.”

“Naturalmente.” Non mi sfuggono la freddezza e il sarcasmo che caratterizzano la sua risposta. “Magari è davvero meglio se ne riparliamo domani. Devo andare.”

Elijah riattacca senza aspettare la mia risposta, ed io rimango ancora qualche minuto con il telefono tra le mani. Ferita, infuriata, destabilizzata. Non abbiamo mai litigato così.

Colpevole, perché in fondo so che sono io ad aver esasperato la situazione fino a questo punto.

Rimando indietro le lacrime che mi bruciano in gola, mi rialzo e torno verso il bar, dove Sage, ancora seduta sul bancone con le gambe accavallate, è intenta a controllare il proprio telefono.

Non mi permetto di pensarci una seconda volta: afferro il bicchiere che aveva preparato per me e lo butto giù in un unico sorso che mi infiamma la gola e mi fa lacrimare gli occhi. Li asciugo con il dorso della mano, mentre Sage alza lo sguardo verso di me.

“Hai ragione. Potrei essere in disperato bisogno di una serata libera." Da me stessa, mi verrebbe da aggiungere. “Perciò, visto che sembri saperne più di me, cosa suggerisci?”

Sage mi sorride, un sorriso impertinente che ha l'effetto di farmi sentire una ragazzina spaventata ed eccitata in procinto di infrangere tutte le regole.

“Penso di avere proprio ciò che ti serve.” Mi mostra lo schermo del suo telefono, sul quale posso leggere il messaggio che ha appena ricevuto. “Te la senti di fare una piccola follia?”


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Capitolo 10
*** Because the night ***


9

9.

Because the night


– Come on now, try and understand
The way I feel when I'm in your hands
Take my hand, come undercover
They can't hurt you now
Can't hurt you now, can't hurt you now –

(Because the night, Patti Smith)




Damon


Non c'è niente di meglio di una buona, efficace distrazione nel momento in cui ne hai più bisogno. Tipo quando cerchi di rimandare il più possibile interminabili, inutili, voglio-sbattere-la-testa-contro-il muro, conversazioni di lavoro per tenere a galla una compagnia che se non fosse per tuo fratello avresti già mandato a quel paese.

Il telefono casca inavvertitamente a terra con un piccolo fracasso di plastica e fili intrecciati quando faccio spazio per Andie sulla scrivania. Ancora meglio, una scusa in più per non usarlo.

"Guarda che io devo andare a lavoro," protesta lei poco convinta mentre la sollevo sopra la scrivania. Molto poco convinta.

"Lo hai detto anche dieci minuti fa. Eppure ..." le faccio notare, intanto che la mia mano scivola sotto la nera gonna a tubino e la solleva ben oltre la metà coscia. "... sei ancora qui."

"Il tuo è un punto piuttosto valido," concede ridendo ed afferrandomi per la cintura così da attirarmi ancora di più contro di lei. "Basta che facciamo veloci."

Sorrido anche io mentre riprendo a baciarle il collo, perché le cose sono così facili con lei. Niente complicazioni, niente drammi superflui. Per non parlare di quanto è dannatamente brava a tenermi la mente lontana dai luoghi in cui non dovrebbe andare. Meravigliosa, magnifica distrazione.

"Potrei quasi innamorarmi," scherzo tra un bacio e l'altro.

Le sue mani si fermano, la cintura non lascia mai il suo posto, e Andie - Andie con cui tutto è semplice e poco complicato - alzo lo sguardo su di me. E’ seria e niente affatto divertita.

"Non farlo."

"Perché no?" domando sollevando un sopracciglio.

Ritiro lentamente la mano e la gonna scivola di nuovo verso il basso.

Forse voglio innamorarmi di Andie, dopotutto. Chi lo sa.

"Perché finiresti solo per spezzarmi il cuore."

Non distolgo lo sguardo, ma il silenzio che prende il posto della mia risposta è la conferma, di cui nessuno dei due aveva davvero bisogno, che non ha poi così torto.

La porta alle mie spalle si apre con un colpo secco, facendoci trasalire entrambi.

"Damon! Devo parlarti. Adesso. Non crederai a .... Ew! Dio, prendetevi una stanza, un po’ di decenza!"

Alzo gli occhi al cielo per fare appello a tutto il mio autocontrollo, già scarso di per sé e come sempre messo a dura prova dalla fastidiosa bionda che mio fratello ha avuto la sventurata idea di accollarsi.

"E buongiorno anche a te, Caroline," replico sarcastico, chiedendomi se servirebbe davvero a qualcosa farle notare che la porta era chiusa e che solo la settimana scorsa ho molto galantemente fatto finta di non sapere come stavano passando la pausa pranzo nell'ufficio qua di fianco.

"Buongiorno, Damon." Avanza nella stanza come se le appartenesse, ben dritta sui suoi tacchi, e mette su uno dei suoi migliori sorrisi tirati per rivolgersi alla mia compagnia. "Ciao, Annie."

"Andie," la corregge l’altra con un sorriso altrettanto forzato.

Nel lunghissimo secondo in cui si guardano in silenzio, mi sembra quasi di sentire gli artigli che iniziano ad affilarsi.

"Devo andare," dice Andie. Mi lascia un veloce bacio sull'angolo delle labbra. "Ci sentiamo."

Se ne va senza rivolgere una seconda occhiata alla cognata che sfortuna ha voluto mi toccasse in sorte. Caroline invece ci segue con lo sguardo attento finché non accompagno Andie alla porta, come per assicurarsi che se ne vada per davvero.

"Dobbiamo parlare," ribadisce non appena richiudo la porta alle mie spalle.

"Bene, allora parla," le dico sbrigativo, così che tiri fuori qualsiasi scaramuccia sia in corso tra lei e il mio fratellino e poi se ne vada a portarla da qualche altra parte.

"Si tratta di Elena."

Mi blocco sui miei passi al centro della stanza.

Un milione di cose mi passano per la testa. La maggior parte delle quali non dovrebbe neanche starci, dentro la mia testa.

Quando mi giro verso di lei per lanciarle uno sguardo interrogativo, noto che una linea sottile le solca la fronte, segno di una certa preoccupazione.

"Se ne è andata."

Ho detto un milione? Facciamo anche due.

"Che vuoi dire con ‘se ne è andata’?"

Mi avvicino a lei a passi lunghi, quasi aggressivi. In risposta, Caroline tira fuori il telefono dalla piccola borsa che tiene appesa all'avambraccio e me lo mette davanti al naso.

Ho bisogno di qualche giorno lontano da qui. Sto bene, non preoccuparti.

Il messaggio di Elena, risalente a ieri sera, è seguito da una serie di Cos’è successo? e Dove sei? da parte di Caroline rimasti senza risposta. Non appena sposto di nuovo lo sguardo dal display verso il suo volto, prosegue, "Ho provato a chiamarla, naturalmente, ma è irraggiungibile. Credo che abbia spento il cellulare. Damon ..." pronuncia il mio nome con un’insolita intonazione supplice che non può promettere niente di buono. "Non è da lei. Devi fare qualcosa."

"Cosa diavolo c'entro adesso io in tutto questo?"

Caroline riprende in mano il suo smartphone, inizia a digitarci velocemente sopra con le dita e me lo rimette davanti.

“Ho rintracciato la sua carta di credito," continua. "E' stata usata in un negozio 24 ore su 24 fuori Atlanta e poi ad un distributore sull’interstatale 59. Significa che è diretta a sud, e se parti adesso-"

"Aspetta," la interrompo e le rimetto il telefono in mano, mentre la mia mente viaggia veloce per afferrare il senso di ciò che la bionda sta suggerendo. "Elena ti dice di lasciarla in pace per qualche giorno, non sai cosa stia facendo, ma vuoi che mi metta ad inseguirla da qualche parte imprecisata nel sud degli Stati Uniti?" Bene, detto ad alta voce suona ancora più assurdo. "E le hai … tracciato la carta di credito? Non è neanche legale!"

Scrolla le spalle ed emette uno sbuffo contrariato.

"Sono la figlia di uno sceriffo. Mi sono concesse ... eccezioni," il tono titubante con cui lo dice mi conferma che non ci crede davvero neanche lei. "In ogni caso, la stai facendo sembrare più complicata di quello che è. Quando sarai per strada, cercherò di trovare altre informazioni e ..."

"Sei pazza," sentenzio, alzando le mani in segno di resa. "Ti ha detto che sta bene! Non è stata rapita. Ed io non ho intenzione di darti corda. Anzi, sai cosa? Chiama il suo fidanzato, perché non ci mandi lui nel tuo pedinamento destinazione Ignota?" finisco con una smorfia.

"Non essere ridicolo," replica spazientita, come una maestrina davanti ad alunno che non riesce proprio a dare la risposta giusta. "Qualsiasi cosa le sia preso per comportarsi così, se c'è qualcosa che non va … A te parlerà. Hai sempre saputo come saperla prendere.”

Oh cazzo, a giudicare dalla sua espressione risoluta, questa ci crede davvero in quello che dice.

"Una vita fa, forse!" E forse neanche allora, suggerisce un amaro promemoria in fondo alla mia testa. "Ti rendi conto vero che per anni non ci siamo neanche parlati ..."

"Non conta," mi liquida agitando una mano nell'aria. "Perché voi due avete … " Mi guarda come se fossi davvero in grado di seguire il ragionamento contorto del suo cervello. " ... lo sai.”

“No, non lo so.”

“Quella … cosa," insiste, caparbia. "Un'intesa."

Certo, come no. Come ho fatto a non pensarci prima. Questa sì che è la risposta per tutto.

"Ok, Care, penso che il momento per le fesserie mattutine sia finito per oggi," dico posandole una mano sulla spalla e sospingendola verso l'uscita. Oppone resistenza e prova più volte ad aprire bocca per protestare, ma questa volta non le permetto di dare fiato anche solo ad un'altra delle sue farneticazioni. "Sono sicuro che Elena sta benone. Ma, soprattutto, io non ho intenzione di andare proprio da nessuna parte."


***


" ... ed è quanto mai fondamentale che questo delicato passaggio possa avvenire nel solco della continuità e dell'esperienza che vostro padre aveva costruito ..."

"Naturalmente …" … coglione.

Lascio che Peter-Sotuttoio-Cartwright continui a riempirsi la bocca di parole come leadership, management e professionalità, evitando di puntualizzare per l'ennesima volta come la tanto declamata tradizione messa in piedi da nostro padre abbia portato la compagnia sull'orlo del fallimento. Ha già deciso che non sarà tra gli azionisti disposti ad accettare i cambiamenti che abbiamo concordato con Stefan negli ultimi giorni, dunque non ascolterebbe in ogni caso.

Dio, quanto mi manca la California. Accordi sigillati con una stretta di mano e persone che non hanno paura di osare. Mi chiedo ancora cosa mi trattiene davvero da non prendere il primo volo di sola andata domani mattina stessa.

I miei occhi vagano verso la finestra e verso ciò che lascia intravedere.

Il Grill è ancora chiuso.

Ma Elena sta bene, mi ripeto. Insomma, se vuole farsi i fatti propri per qualche giorno, ne ha tutto il sacrosanto diritto. Caroline sta reagendo in modo sproporzionato come al suo solito. Di tutte le idee stupide che le ho sentito tirare fuori nel corso degli anni, questa si guadagna almeno la top 5. Un'intesa, poi. E' il tizio che ha deciso di sposarsi quello con cui semmai avrà un'intesa. Lui lo saprà dove è andata. O ha tenuto all'oscuro anche lui? Se sì, verrebbe da chiedersi perché ...

"... ecco perché sono sicuro che tu e tuo fratello riuscirete a capire come mai è così importante mantenere lo stesso approccio alla gestione ..."

"Capisco la tua posizione, Peter ..." mormoro automaticamente in un punto a caso della conversazione, tanto per far credere che sto ancora ascoltando.

"Stai diventando sempre più bravo a raccontare balle, non è vero?"

Mi volto di scatto in direzione della voce familiare che mi è appena giunta dalla mie spalle ed un ghigno di piacevole sorpresa si apre sulle mie labbra.

"Ma dovrò richiamarti. Devo andare," chiudo sbrigativamente la conversazione, mentre Ric accosta la porta e inizia a squadrare pensieroso il resto dell'ufficio.

"Cosa diamine ci fai qui?" gli domando andandogli incontro per un veloce abbraccio di saluto.

"Noia, soprattutto. Le cose sono meno divertenti quando non sei in paraggi. E poi ero a curioso di vedere cosa ti ha assorbito così tanto al punto da mollarmi per quasi un mese. Devo dire, non ne vedo il fascino," commenta infilandosi le mani in tasca e sporgendosi appena in avanti per gettare uno sguardo sulla piazza che si apre oltre la finestra. "Insomma, per Vegas avrei potuto capirlo, ma questo ...”

"Ric, conosci i patti," lo ammonisco, niente affatto in vena di scherzare sull'argomento. "Non menzionare mai Vegas."

Ric sogghigna mentre si butta di peso sulla sedia dietro la scrivania e la fa roteare fino a compiere un giro completo su se stesso.

"E’ solo troppo bello vedere la tua faccia ogni volta che viene nominata."

Mi lascio cadere a sedere su una delle due poltroncine davanti a lui e alzo gli occhi al cielo, chiedendomi quando la smetterà di tormentarmi con questa storia. Probabilmente mai, ma del resto probabilmente me lo merito.

"Non posso credere che tu sia davvero venuto fin qua."

"Neanche io. Sai quanto odi volare."

Lo so. Secondo lui, simulare qualcosa di grande come un incidente aereo è il modo più insospettabile per il governo per liberarsi di una persona scomoda. Ecco perché, la notte in cui avevamo brindato all'inizio della nostra compagnia, mi aveva fatto giurare che semmai fosse morto in simili circostanze sarebbe stato mio compito svelare il complotto.

"E, a proposito, i sistemi di sicurezza in questo posto sono pessimi. La signora all'entrata non mi ha neanche chiesto un documento, avrei potuto essere chiunque ..." Mentre contemplo se valga la pena oppure no di stare a spiegargli che Janine, che è qui da quarant'anni, non ha mai avuto motivo di dubitare delle intenzioni dei visitatori delle Salvatore's & Associates, Ric si protende in avanti e squadra il computer vecchio di quasi due anni con una smorfia diffidente. "Scommetto che potrei craccare l'intero sistema in meno di cinque minuti."

Ci scommetterei anche io.

"Dunque ... cos'è che ti sta trattenendo così a lungo, si può sapere? Oh, bene. Whiskey."

Si alza per dirigersi spedito verso il mobiletto con gli alcolici e si versa una generosa dose di whiskey da uno dei decanter allineati in perfetto ordine.

"Mio padre ha tirato le cuoia lasciandomi in dono una compagnia piena di debiti, un consiglio di azionisti incompetente e una spina nel fianco di direttore finanziario," riassumo con un sospiro prendendo in mano il bicchiere che mi sta porgendo.

"Simpatico."

Ric continua a frugare tra i cassetti, chiaramente non frenato dalle stesse remore che ho avuto io che, invece, della roba di mio padre ho preferito toccare il meno possibile. Tira fuori una scatola di sigari e si passa un cubano sotto il naso per annusarlo beato mentre torna a sedersi incrociando i piedi sopra la scrivania. Se non lo avesse già avuto, a mio padre verrebbe un infarto in questo momento solo a vedere la scena.

"E cosa mai gli hai fatto di male per meritarti tutto questo?"

Lo chiede scherzando, ma non sa che quella è una domanda su cui io ho riflettuto fin troppo negli ultimi tempi. Sull'idea che tutto questo non sia altro che la sua personale legge del contrappasso, il suo modo per farmi scontare il grave torto che gli avevo fatto. Inevitabilmente, torno con la mente al giorno in cui, in questa stessa stanza, avevamo avuto la nostra ultima discussione. Il sua rabbia, il modo di guardarmi come se avessi appena confermato di essere la più grande delusione della sua vita, le sue parole … tutte cose che fanno ancora male come se fosse solo ieri.

Ci sono momenti, come questo, in cui penso che non mi farebbe male scaricarmi un po' di quel peso. E so che Alaric, che non giudica mai o tantomeno compatisce, è il tipo giusto per questo genere di cose.

Ma quando mi volto di nuovo verso di lui e sto per iniziare a raccontargli come sono andate veramente le cose, vedo che la sua ricerca tra i cassetti ha prodotto anche qualcos’altro. Sorseggiando tranquillamente il whiskey che si era versato, con il sigaro dietro l’orecchio e i piedi sempre incrociati sulla scrivania, sta adesso leggendo la famigerata lettera che Stefan si premura ogni giorno di farmi comparire nel cassetto.

"Cazzo, Ric."

Mi alzo di scatto e mi allungo oltre la scrivania per strappargliela dalle dita. Lui alza le mani in segno di scuse, ma non sembra davvero dispiaciuto.

"Non voglio sapere cosa c’è scritto, chiaro?" gli faccio sapere mentre la piego alla bell'e meglio e me la infilo nella tasca posteriore dei jeans, "Quindi vedi di tenere la bocca chiusa.”

Mentre Ric si fa il segno di cucirsi la bocca, un timido bussare contro la porta attira la mia attenzione.

"Posso?"

Senza davvero attendere risposta, Bonnie Bennet entra nell’ufficio.

La squadro accigliato domandandomi cosa diamine ci faccia qui colei per cui potrei tranquillamente essere il diavolo in persona. Di rimando, lei lancia guardi sospettosi prima nella mia direzione, poi in quella di Ric. Poi di nuovo nella mia.

"Cosa vi è preso a tutti oggi?" sbuffo roteando gli occhi. "Non sapevo che fosse la giornata dedicata a molestiamo Damon sul lavoro."

"Te l'ho detto che la sicurezza fa schifo," ribadisce Ric, senza soffermarsi a pensare che magari il mio commento include anche lui.

"Ehi!" Bonnie mi rivolge un'occhiataccia fulminante. Ma il modo in cui sposta il peso da una gamba all'altra, a disagio, mi suggerisce che non è esattamente qui di sua spontanea volontà. "E' stata un'idea di Caroline e, per la cronaca, io ero decisamente contraria a rivolgermi a te," mi conferma.

"Ti prego dimmi che non si tratta di viaggi improbabili alla ricerca di una barista dispersa nel profondo sud."

"Sapevo che era una pessima idea chiederti qualsiasi cosa. Andrò da Elena da sola," ribatte secca, girandosi per andarsene senza neanche aspettare risposta.

"Chi è Elena?…" sento Ric chiedere in un sussurro cospiratorio.

Avanzo verso di lei e le richiudo la porta in faccia non appena la sua mano tocca la maniglia.

"Cosa ti fa anche solo pensare di riuscire a trovarla?" replico deciso, irritato dal modo in cui ha insinuato che di Elena non me ne freghi niente. E' stato sempre così con Bonnie Bennet ed è ciò che me l'ha sempre resa insopportabile: nessuno è mai bravo abbastanza per la sua preziosa migliore amica. A parte lei, ovviamente. "Un altro dei dubbi mezzi di pedinamento usciti dall'iphone di Barbie, per caso?"

Bonnie alza gli occhi al cielo. In questo momento, sta probabilmente ricacciando indietro tutti gli insulti che vorrebbe rovesciarmi addosso.

"No," risponde guardandomi dritto negli occhi con aria di sfida. “Si dà il caso che io sappia esattamente dov'è andata."

Alzo un sopracciglio perplesso e faccio per chiederle spiegazioni, ma lei mi interrompe alzando un dito prima che io possa proferire parola.

"Ma ho bisogno di qualcuno con una macchina e Caroline è bloccata in una conferenza almeno fino a tardo pomeriggio. Quindi …" Un'espressione riluttante le si dipinge sul viso. "… Vuoi essere il mio passaggio, sì o no?"


***


Tornare a Mystic Falls fu strano quella volta.

Non era inusuale per me e mio fratello andare a passare le intere vacanze di Natale in qualsiasi posto la nostra adorabile madre Charlotte avesse deciso di stabilirsi per il momento. E poiché era lei ad insistere ogni volta , immagino che le feste avessero la singolare capacità di farle ricordare di avere anche lei, da qualche parte, un tutto suo peculiare istinto materno.

Stefan lo odiava. Diceva sempre che sarebbe stato meglio restare con un padre che, al di là di tutto, almeno non ci aveva abbandonati in favore dei "sapori del mondo". Ma veniva sempre. Dal mio canto, la cosa mi lasciava del tutto impassibile. Mystic Falls o Timbuktu non faceva alcuna differenza. E Charlotte poteva non essere la madre più tradizionale e presente del mondo, ma almeno era divertente.

Questa volta, però, stare lontano per quei miseri dieci giorni aveva fatto un po' la differenza. Non capii in cosa finché non tornai e parcheggiai la Camaro nei pressi della piazza principale, ancora addobbata con quelle stupide lucine che una volta passato Capodanno hanno il solo effetto di dare a tutto un'aria più penosa e decadente, come una vecchia signora che si è dimenticata di togliersi tutti i gioielli anche dopo che la festa è finita da un pezzo.

Questa volta era diverso perché, abbastanza stranamente, avevo sentito la mancanza di questo posto.

La calda ed affollata atmosfera che mi accolse quando entrai al Grill mi confermò quel pensiero.

Elena era di spalle, i gomiti posati in avanti sul bancone, probabilmente ad aspettare un'ordinazione. I capelli raccolti in una coda alta, il fiocco verde del grembiule perfettamente annodato appena al di sopra del fondoschiena, il piede incrociato all'indietro che tamburellava sul pavimento al ritmo della canzoncina pop di sottofondo nel locale.

Già, avevo decisamente sentito la mancanza di questo posto.

Non mi vide quando presi posto ad un tavolino ad angolo.

"Posso ordinare qualcosa?" le dissi non appena mi passò davanti in tutta fretta, diretta così spedita verso un tavolo oltre il mio che non mi gettò neanche una mezza occhiata.

"Arrivo, solo un momento e ..." cominciò con l'automatismo di chi ripete spesso una frase del genere, ma poi si bloccò di colpo e si voltò nella mia direzione. "Damon!"

L'attimo dopo mi aveva gettato le braccia al collo ed io mi ero ritrovato schiacciato contro lo schienale imbottito della panca sulla quale mi ero seduto. Preso alla sprovvista da una tale reazione, avevo allungato le braccia attorno alla sua schiena per reciprocare con una certa esitazione.

Sapeva di fiori a cui non sapevo dare un nome, pane, casa. Con un accenno di carne grigliata.

"Quando sei arrivato?" mi domandò dopo che mi ebbe rilasciato per andare a prendere posto di fronte a me, dall'altra parte del tavolo. "Pensavo che non saresti tornato prima di qualche giorno. Com'erano le Keys?"

"Umide. Com'è stato qui?"

"Orribile," sospirò, intrecciando le mani davanti a sé. Sentii tutto il peso di quel sospiro a fondo nel petto, come se fosse mio. "Voglio dire ... Senza di lei e con tutto il resto, sai ...."

"Lo so."

Sollevò gli occhi verso i miei e piegò appena le labbra in un sorriso triste.

"Ma Bonnie e sua nonna sono passate da noi la sera di Natale, ed abbiamo cucinato e preparato biscotti fino a tardi. Ed abbiamo organizzato qualcosa al locale per Capodanno, Jenna ha cantato con il suo gruppo. E tu?"

Mi guardai dal dire che la vera ragione per cui ero tornato con qualche giorno di anticipo era perché Melvin [1], il fidanzato del mese, mi aveva beccato a letto con sua figlia e poco gentilmente sbattuto fuori dalla sua barca ancora prima che avessi il tempo di rimettermi i pantaloni. Povera Charlotte che, per prendere la mie difese, si era giocata il maliardo di turno con un paio di mesi di anticipo. Aveva detto che tanto, in ogni caso, la Florida le faceva increspare troppo i capelli.

"Tutto piatto e privo di nota," risposi accennando un sorriso.

"Elena," ci interruppe la voce di Jenna che, da dietro il bancone dove stava servendo alcuni clienti, le fece cenno con la testa verso le ordinazioni che si stavano accumulando sul davanzale comunicante con le cucine.

"Devo andare ..." disse in un altro sospiro alzandosi e lisciandosi il grembiule. "A dopo, ok?"

"Ok."

Come Elena tornò a distribuire e prendere ordini, mi appoggiai contro lo schienale e tirai fuori il telefono per leggere il messaggio con cui Stefan mi chiedeva se avessi intenzione di tornare a casa per cena. Ma io non avevo davvero nessuna fretta di tornare a casa e vedere mio padre se potevo evitarlo per almeno un'altra sera, così gli risposi piuttosto di raggiungermi qui.

Quando rialzai lo sguardo, Elena stava portando un piatto di insalata e pollo grigliato ad un ragazzo biondo dall'altro lato del locale.

Mi raddrizzai subito perché avevo riconosciuto all'istante chi fosse quel tipo: quel quarterback che la salutava sempre con quello stupido sorriso impacciato. Il tizio di Francese.

Elena lasciò l'ordine ma non se ne andò.

Iniziarono a parlare. Sorridersi, su qualcosa che non mi era dato afferrare. Lui si tormentava le dita sotto al tavolo e non staccava lo sguardo da lei. Lei faceva dondolare il piede piegato all'indietro e continuava ad appuntarsi ripetutamente i capelli dietro l'orecchio pur non essendocene nessun bisogno.

Vidi la potenziale risposta a tutte le mie domande seduta solo un paio di tavolini più avanti.

"Ehi."

Scivolai nella panca ponendomi di fronte a lui, ma Jeremy non mi calcolò di striscio, gli occhi incollati allo schermo del suo videogioco portatile e tutto il suo impegno investito in un esaltato schiacciamento di pulsanti.

"Ehi," mormorò distrattamente.

"Hai visto quello lì?" gli domandai indicando il giocatore di football con un cenno della testa.

"U-uh."

Allungai un braccio e gli strappai il gioco dalle mani.

"Che cazz ..." protestò agitando le mani per tentare invano di riprenderselo, mentre l'aggeggio, che per buona misura mi infilai nella tasca della giacca, ammetteva la propria sconfitta suonando la triste musichetta di game over.

"Ora, fai il bravo ed io non andrò a riferire a nessuno le brutte parole che hai imparato, intesi?"

Jeremy incrociò le braccia sul petto e tornò ad appoggiarsi all'indietro, mandandomi occhiate torve.

"Cosa vuoi?"

"Quel tipo ..." ricominciai, facendogli segno verso il biondo. "... è venuto qua spesso ultimamente?"

Jeremy si sporse fino all'orlo del tavolo per poterlo osservare meglio. Spostò lo sguardo attento da lui a sua sorella, con cui ancora stava parlando, e quando tornò a guardare me c'era un vago ed irritante sorrisetto stampato sul suo volto.

Protese una mano verso di me con il palmo rivolto verso l'alto.

"20 dollari."

"Cosa?! ..."

Non ero intenzionato a dargli un bel niente. Ma lui rimase lì, con la piccola mano protesa sotto al mio naso e lo stesso sorrisetto sornione di chi, per chissà quale motivo, non ha dubbi che otterrà il suo prezzo.

Bofonchiando, tirai fuori il portafoglio e gli misi in mano la banconota. Se la infilò in tasca con visibile soddisfazione. Maledetto ragazzino.

"E' passato di qua praticamente tutti i giorni nelle ultime due settimane. A volte insieme ad altri, più spesso da solo. Ordina sempre un sacco di roba, ma solo se c'è Elena. Posso riavere il mio game boy adesso?"

Tirai di nuovo fuori il gioco dalla tasca e glielo porsi.

Jeremy tornò tutto contento a maltrattare pulsanti e ad uccidere alieni invasori.

Io mi alzai e me ne andai, con una bruciante sensazione di fastidio strozzata a metà gola e la strana consapevolezza che io e quel tipo non saremmo mai andati d'accordo.


***


"Dovevi girare a sinistra."

"So dove sto andando."

"Ne dubito. Hai detto lo stesso quando-"

"La prossima volta, allora," la zittisco, "impara a prenderti la patente."

"Voi due mi fate venire voglia di rotolare fuori e finire spiaccicato sull'asfalto."

Ric sottolinea il suo desiderio suicida sbattendo la testa contro il finestrino, mentre Bonnie sbuffa sonoramente tornando ad abbandonarsi contro il sedile posteriore con fare offeso.

Più di dieci ore di viaggio e ha ancora il coraggio di mettersi a ribattere su ogni decisione che prendo, da quale sia la strada più veloce al numero delle soste pipì che le devo concedere.

Di conseguenza, è ormai notte quando arriviamo a New Orleans e riusciamo infine a trovare parcheggio in una stradina laterale non troppo distante dal Quartiere Francese.

Cosa diavolo ci faccia Elena a New Orleans? Bella domanda.

Bonnie si è mantenuta sul vago. Sage, la rossa e piuttosto sexy nuova barista del Grill, l'ha chiamata questa mattina per farle sapere che lei ed Elena erano partite su due piedi su invito di un suo vecchio amico, tale Finn proprietario di un locale del centro, e per esortarla ad unirsi a loro perché "sarebbe così divertente". Per quale motivo al mondo questa Sage abbia sentito la necessità di invitare la tutt'altro che divertente Bonnie Bennet qua presente ad attraversare sette stati per raggiungerla è qualcosa che sfugge alla mia comprensione, ma immagino che non abbia poi molta importanza arrivati a questo punto.

E' passato solo qualche anno dall'ultima volta che ho messo piede nella Big Easy [2], ma potrebbero quasi essere decadi, tanto mi sembra tutto appartenere ad una vita fa. Non avevo ancora vent'anni, era estate, ero particolarmente al verde e la tangibile prospettiva di finire per la strada era stato l'unico motivo a spingermi fin qua, dove, al tempo, Charlotte condivideva un attico con un musicista jazz che si faceva chiamare qualcosa come Jimmy B. Sweetlips. Non fu neanche troppo male come estate: un sacco di erba, un sacco di musica, un sacco di ragazze.

A prima vista, non sembra essere cambiato molto. La stessa atmosfera rilassata da avamposto caraibico, le folle che si riversano nelle strade tra bevute e schiamazzi, i locali aperti a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ciò non significa che io non venga colto piuttosto impreparato da ciò che mi trovo davanti quando il nostro improbabile trio varca la soglia del The Originals.

Perché, diciamolo: imbattersi in Elena che balla, disinvolta e spontanea, sul tavolo di un pub affollato non è qualcosa che capita tutti i giorni.

Eppure eccola lì. Le braccia alzate sopra la testa che ondeggiano morbidamente al ritmo della musica, i lunghi capelli lasciati sciolti sulle spalle, occhi chiusi e sulle labbra appena l'accenno di un sorriso di chi non si cura del pubblico o di una folla attorno. Come se non avesse una sola preoccupazione al mondo. Ed è bellissima.

Il respiro mi muore in gola per alcuni, lunghissimi secondi. Ogni genere di pensiero che so bene che non dovrei fare torna prepotentemente in prima linea, occupando anche il più remoto spazio dentro la mia testa. Questa volta, non glielo impedisco.

Senza neanche aspettare per assicurarmi di quali siano le intenzioni dei miei due accompagnatori, inizio a farmi strada fra la calca, dritto verso di lei.

Indossa una maglietta il cui colore è reso indefinito dalle luci soffuse e colorate del locale, che le scopre ritmicamente i fianchi ad ogni sua movenza, sopra l'orlo di corti shorts di jeans sfilacciato che le lasciano scoperte le gambe …. Dio, quelle gambe.

Non stacco lo sguardo un solo secondo nel camminare, come se potesse rivelarsi solo una fugace illusione e svanire nel nulla da un momento all'altro. Il modo in cui i suoi fianchi disegnano un lento otto su se stessi, quella traccia di sorriso che continua a giocare con i riflessi di luce sul suo volto … Sono a pochi centimetri da lei, quando i suoi occhi si aprono. Direttamente nei miei.

I suoi movimenti rallentano, l'espressione distesa scivola via in favore di una più meravigliata, e le sue labbra si muovono mormorando qualcosa di simile al mio nome, appena un secondo prima di sciogliersi in un altro sorriso. Muove un passo verso il bordo come se stesse per scendere dal tavolo per venirmi incontro, quando qualcuno alle sue spalle urta con forza il tavolino e le fa perdere quel già precario equilibrio.

La afferro al volo nell'istante successivo.

Le sua braccia si serrano, strette, attorno alla mia schiena. Istintivamente, faccio lo stesso, tenendola premuta contro il mio corpo. Più di quanto il mio salvataggio improvvisato concederebbe.

E' la prima volta che la stringo così da quando … beh, da davvero molto tempo. E' minuscola, ma dalla presa salda, esattamente come la ricordavo. Dannazione, forse è per questo che non sembra così sbagliato come invece dovrebbe. Mi concedo persino di sfiorarle brevemente i capelli con le labbra, prima di costringermi a sciogliermi dalla sua presa.

"Cosa ci fai qui?" mi domanda avvicinandosi al mio orecchio per cercare di sovrastare il resto della confusione.

"Cosa ci fai tu qui?"

La mia domanda la fa curiosamente mettere a ridere.

"Sto …" Si porta un dito sulle labbra con fare pensoso, prima di lasciarsi sfuggire un'altra risatina. "… prendendo una pausa."

Mi verrebbe da chiederle da cosa (… chi?), quando mi rendo conto che c'è qualcosa di insolito nel modo in cui strascica le parole.

“Sei ubriaca?”

Un adorabile lampo malizioso le attraversa lo sguardo, mentre avvicina il pollice e l'indice e strizza l'occhio destro, per farmi sapere che sì, lo è, ma solo un pochino piccino picciò.

Subito dopo piega la testa di lato, la sua attenzione catturata da qualcosa dietro le mie spalle. Si apre in un altro sorriso. Mi volto appena in tempo per vederla andare a stritolare anche la sua amica, qualche passo dietro di me.

Bonnie, sulle punte dei piedi per riuscire a compensare alla propria statura ed arrivarle almeno all'altezza della spalla, la stringe di rimando e nel frattempo mi manda un'occhiata interrogativa, chiedendomi con lo sguardo cosa stia succedendo. Mi stringo nelle spalle e faccio segno di non averne la più pallida idea.

"Sono così felice che siate qui!" esclama Elena ad alta voce, guardando entrambi. "Adoro questo posto. E Finn mi ha insegnato un cocktail di sua invenzione che è la fine del mondo. Venite," afferra Bonnie per una mano e con l'altra invita me a seguirle, "Ve lo preparo. Non ve ne pentirete."


Sotto la lingua sento tutta la ruvidità della pelle d'oca ed il sapore salato delle minuscole goccioline di sudore quando, in unico movimento, lecco via la corta linea di sale posta appena sotto l'ombelico. La tequila segue subito dopo. La butto giù così di fretta da rovesciarne quasi mezzo bicchierino, ma a malapena me ne accorgo. Il liquore mi brucia lo stomaco, mi scioglie il cervello, mi travolge i sensi.

Il numero di bevute finora? Sconosciuto. Perso per strada da qualche parte nel passaggio da cocktail colorati a molto più micidiali liquidi trasparenti.

Chi sia la bionda sdraiata sul tavolo di fronte a me che ha prontamente offerto la sua pancia e la tequila per farmi pagare pegno di una (ignota) scommessa che ho appena perso? Non lo so, né tantomeno mi importa di saperlo.

Quello che so è questo: che questa mattina ero impanato a discutere controvoglia questioni per cui non riesco a vedere una via di uscita; e che questa notte sono a New Orleans, insieme al mio migliore amico, una tappetta saputella che - ho scoperto - quando vuole riesce effettivamente ad essere quasi (quasi) simpatica, ed una ragazza del mio passato che sa ancora farmi impazzire con la stessa maledetta facilità.

Ed anche in mezzo allo scompiglio di musica e sudore che ci circonda, all'annebbiamento che non mi consente di ragionare lucidamente e all'enorme casino che è - che è sempre stato - il nostro rapporto, c'è qualcos'altro che so. So che è lei la ragione per cui sono qui. Poco importa che sia sbagliato sotto diecimila aspetti differenti.

Eccola lì, la ragazza del mio passato. Catturo i suoi occhi appena rialzo lo sguardo dal corpo della ragazza-tequila. Bruciano nei miei per un interminabile secondo con un'intensità che mi sorprende, prima di scomparire, con un un guizzo di capelli scuri, inghiottiti dal resto della folla.

Non ho bisogno di pensarci. La seguo senza esitare, tra luci basse, sagome non identificate tra cui mi faccio spazio e la musica su una principessa che nessuno sa dove sia [3].

Sono quasi sul punto di chiedermi se sia perfino stata reale oppure no, quando la vedo di nuovo.

Afferro la sua mano prima che possa sfuggirmi.

Si volta, incatenandomi ancora con lo stesso sguardo ardente. E adesso lo riconosco, perché l'ho già visto altre volte, una vita fa. E' arrabbiata. Con me.

L'attimo dopo vedo le sue labbra muoversi, avvicinarsi al mio orecchio.

"Odio vederti con le altre."

Qualcosa disperso in uno degli antri remoti nei quali è finita da un pezzo anche la mia parte più razionale mi suggerisce che non dovrebbe dire una cosa del genere. Così come mi suggerisce che io, altrettanto probabilmente, non dovrei risponderle nel modo in cui invece faccio.

L'altra mia mano scivola sull'incavo della sua schiena mentre avvicino il volto al suo, per assicurarmi che possa capire, a fondo, il significato di ciò che le sto dicendo.

"Non mi importa niente di loro."

Alza lo sguardo su di me, come per cercare conferma alle mie parole e, per un attimo, lo vedo per quello che è: quello di una ragazzina insicura, confusa, che cerca disperatamente di dare un senso a ciò che sta facendo.

Ma poi, esitanti, le sue dita si posano sul mio petto. Lo percorrono lentamente, tracciando ogni linea fino a salire verso il mio collo, che sfiorano seguendo il contorno della maglietta. Mi mandano fuori di testa. Socchiudo gli occhi quando i suoi fianchi si fanno più vicini ai miei e vi aderiscono con un movimento così assurdamente, dolorosamente lento.

La assecondo, ma voglio dirle di smetterla. Sbagliato sotto diecimila aspetti differenti suona da qualche parte troppo lontana perché io la possa udire. Non voglio lasciarla andare. Mai.

La mia mano si muove sulla sua schiena, che accarezza leggera lungo il percorso della spina dorsale. Il momento in cui immergo il volto nell'incavo del suo collo e l'odore di fiori, calore e sudore mi penetra nelle narici, so di volerla così tanto che fa male.

Sento la sua bocca, di nuovo contro il mio lobo, sussurrarmi qualcosa. Non avrei neanche bisogno di sentirlo, lo avevo già capito ancora prima che pronunciasse le parole, nell'attimo in cui mi ha preso la mano tra la sua.

“Andiamocene di qui.”

Ed io non ho davvero più possibilità di scelta. In questo momento, la seguirei anche all'inferno.


Mi conduce sul retro e su per una stretta scalinata il cui legno scricchiola ad ogni passo traballante che accompagna la nostra salita. La sua mano non mi lascia un istante, non lungo i gradini, non quando mi guida all'interno del loculo abitabile che si apre quando raggiungiamo il primo piano.

Nella penombra rischiarata dalle illuminazioni provenienti dall'esterno, intravedo gli sprazzi di vita di uno spazio che non ci appartiene. Una chitarra ed un violino posati malfermi contro il muro, una traccia di hascisc nell'aria, divani stropicciati abituati ad un via vai di visitatori temporanei, i tremolanti riflessi delle luci sul Mississippi River al di là della finestra.

Per un istante ho la fugace percezione di quanto siamo estranei a questo posto, e forse anche a questo momento, che in qualsiasi altra situazione non starebbe neanche accadendo.

Ma non ho il tempo di approfondire il pensiero perché realizzo che Elena si è fermata, ed io con lei.

Lascia andare le mie dita e trova il mio sguardo, mentre si appoggia contro la soglia di una camera da letto anch'essa immersa nella semioscurità, le mani incrociate dietro la schiena.

Nessuno ha ancora detto una sola parola, ma non c'è ne è davvero bisogno. E' tutto lì, nelle sue labbra socchiuse, nel desiderio che le ombreggia gli occhi,nel lieve sospiro che le sfugge quando mi avvicino e poso le mie mani sui suoi fianchi. Sento il calore della sua pelle sotto le dita, nel punto in cui la maglietta è rimasta leggermente sollevata, e la accarezzo appena solo per poterla sentire fremere un'altra volta.

E' tutto così dannatamente giusto sotto così tanti aspetti che non so come abbia mai potuto dubitarne.

Poso la fronte contro la sua. Respiro arancia e vodka.

Lo sguardo da ragazzina confusa che ho intravisto prima riemerge dalla nebbia e mi lampeggia davanti agli occhi come se ce lo avessi davanti in questo stesso momento.

“Cosa stai facendo, Elena?” mi costringo a domandarle sottovoce.

Per un lungo momento, l'unica risposta è il baccano ovattato che dal piano di sotto e dalle strade si riversa dentro le finestre aperte in un unico insieme di musica, schiamazzi e brezza afosa.

Poi la sua mano sinistra si alza per sfiorarmi la guancia, mi impedisce di allontanarmi.

“Non ho mai fatto niente di avventato. Sempre fatto la scelta sensata.” Sussurra anche lei, inciampando un po’ nelle parole. Non so chi abbiamo paura di disturbare a parlare a voce più alta. Le sue dita mi sfiorano lentamente il contorno della mascella. Vorrei inclinare il viso e baciarle. “Ti sei mai chiesto come sarebbe stato ...? Anche solo una volta …”

Chiudo gli occhi e inspiro a fondo, perché conosce la risposta, ma mi tortura lo stesso.

“Elena …” tento.

Non so neanche io cosa ho intenzione di dirle o perché stia continuando a temporeggiare.

Vai fino in fondo o vattene via adesso, Damon. Falla finita, in un modo o nell’altro.

“Io sì,” mi fa sapere in un bisbiglio.

E, fanculo, è abbastanza da far pendere la bilancia e segnare in modo irrimediabile la mia decisione.

La stringo di più e sono solo a pochi millimetri dall'ultimo passo, quando un tonfo e risatine soffocate alle nostre spalle ci fanno allontanare in uno scatto più colpevole che sorpreso.

Mi rendo conto che qualcun altro ha evidentemente avuto la nostra stessa idea quando mi volto e vedo le due figure baciarsi appassionatamente contro il muro. Una ha brillanti riflessi rossi tra i capelli, l'altra ancora si perde nel buio.

E' solo quando Elena avanza incerta di un paio di passi per poter vedere cosa sta succedendo che lo capisco anche io. Soprattutto quando la sento domandare perplessa, "Bonnie?"

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Note:

[1] Nominato già nel cap. 7

[2] Soprannome per New Orleans

[3] The Princess, Parov Stelar



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Capitolo 11
*** Like a hurricane ***



10

10.

Like a hurricane


- You are like a hurricane
There's calm in your eye.
And I'm gettin' blown away
To somewhere safer where the feeling stays.
I want to love you but I'm getting blown away. –

(Like a hurricane, Neil Young)

Elena


Capisco di essere sveglia per colpa della fitta acuta che mi trafigge la testa da parte a parte.

Lentamente sollevo le palpebre, ma il sole intenso mi costringe a chiuderle di nuovo. Solo dopo alcuni tentativi riesco a tenere gli occhi aperti abbastanza da poter mettere a fuoco il pulviscolo che vortica nella controluce che entra dalle finestre spalancate.

Dalla strada proviene un rumore che non mi è familiare.

Dove diavolo sono?

Lo spaesamento mi provoca un istantaneo senso di panico e scatto a sedere di colpo, cosa per cui la mia testa non mi ringrazia affatto.

I pezzi però iniziano pian piano a tornare e a mettersi insieme, partono dal divano sul quale ho passato la notte, l'appartamento dell'amico di Sage, New Orleans, il locale, gli occhi azzurri che emergono dalla confusione … e il mio cuore fa un salto dritto contro la cassa toracica. Mio dio.

"Buongiorno. Come ti senti?"

Alzo la testa verso la voce gentile che mi ha riportato al tempo presente.

L'uomo che mi sta di fronte mi porge un bicchiere colmo di succo rosso. Cautamente, perché i cento martelli nella mia testa si danno alla pazza gioia ad ogni mio movimento più brusco e sotto sotto sono un po' convinta che sto per morire, mi sporgo per prendere ciò che mi sta porgendo, e capisco di che si tratta: Bloody Mary.

Il vago odore di vodka che emana mi fa subito venire voglia di vomitare. Di nuovo.

"Chiodo scaccia chiodo, giusto? Fidati che aiuta," prosegue lui con un sorriso di fronte alla mia smorfia disgustata.

"Grazie." La voce mi esce finalmente fuori, ma è come un graffio contro la mia gola. Fortunatamente, il mio salvatore sa cosa sta dicendo perché quando mi costringo a buttare giù un sorso del suo cocktail, la consistenza corposa ed il forte gusto speziato riescono davvero a farmi sentire un po' meglio. "Grazie …" Phil?

"… Finn."

"Grazie, Finn," gli sorrido.

Finn sembra piuttosto abituato all'idea di sconosciuti amici di amici che dopo aver fatto festa insieme tutta la notte si accampano nel suo salotto senza neanche ricordarsi il suo nome.

"Ai postumi del giorno dopo non ci si abitua mai, vero?"

Faccio un cenno con la testa che spero comunichi che io sappia di cosa sta parlando, perché l'alternativa sarebbe confessare che questa è la mia prima volta, che non mi sono mai sentita così fisicamente devastata in tutta la mia vita, e che non ho davvero intenzione di passarci di nuovo una seconda volta. Sempre ammesso che riesca a sopravvivere alla prima.

"Penso che Sage stia ancora dormendo e l'altra vostra amica …" Bonnie. Dov'è Bonnie?… " … è uscita qualche minuto fa, ha detto che sarebbe andata a comprare qualcosa da mangiare. Il bagno è in fondo al corridoio, se ne hai bisogno, fai come se fossi a casa tua."

Le sue parole mi hanno appena fatto tornare alla mente un altro flash: io che vomito l'anima nel wc di questo premuroso sconosciuto e Bonnie che accanto a me mi ripete che andrà tutto bene.

Voglio morire.

"Mi dispiace davvero tanto …" farfuglio.

"Questa casa ha visto molto peggio. Non dimenticarti il Bloody Mary," mi consiglia prima di salutarmi e dirigersi verso le scale per scendere al piano di sotto.

Finisco il mio drink a piccoli sorsi, con la stoicità e la diligenza che di solito si riservano alle medicine.

Quando con deboli passi riesco a raggiungere il bagno, mi libero dei vestiti ormai appiccicaticci che sto ancora indossando dal giorno prima e mi butto sotto la doccia. E' solo una vecchia doccia a muro e la pressione non è il massimo, ma non ricordo un'altra doccia così piacevole.

Forse è il Bloody Mary, forse è l'effetto rinfrescante e rigenerante dell'acqua appena tiepida ma, per il tempo in cui mi avvolgo in un asciugamano pulito e finisco di strizzarmi i capelli, a poco a poco la tensione nel mio stomaco si è distesa ed il dolore martellante si è assestato su semplice cerchio alla testa decisamente più sopportabile.

Con il dorso della mano, pulisco una porzione circolare di specchio dal vapore che l'ha annebbiata.

Ma vengo colta impreparata da ciò che vedo quando emerge infine il mio riflesso. Perché la mia faccia dovrebbe quella malconcia delle pubblicità progresso contro gli eccessi degli alcol, non qualcosa così … normale. Ok, forse sono un po' più pallida del solito, con gli occhi ancora leggermente arrossati per la stanchezza. Per il resto, però, sono soltanto … me stessa.

Mi aspettavo per caso di sembrare uno schifo perché è così che dovrei sentirmi anche dentro?

Invece, mentre mi passo le dita tra i capelli bagnati per districarli come meglio posso, è come se la sorprendentemente normale versione di me dentro la specchio mi stesse sussurrando complice: Ammettilo e basta, Elena. La città, ballare, la musica, le risate, lasciarti andare … Ti sei divertita, e lo sai.

Le mie labbra si curvano da sole in un accenno di sorriso.

E poi è arrivato lui.

Il mio battito accelera all'improvviso ed io chiudo gli occhi e inspiro a fondo, preparandomi per la brusca sferzata di senso di colpa che dovrebbe prontamente rimpiazzare questa scarica di adrenalina al solo pensiero di cosa ero sul punto di fare ieri notte.

Invece, il malessere che mi invade quando penso a quanto io sia stata ingiusta nei confronti dell'uomo che ho promesso di amare per il resto della mia vita è fin troppo pallido e distante rispetto a tutta quella serie di emozioni confuse che non penso di essere pronta a processare fino in fondo.

Si confonde con il ricordo dei brividi provocati dalle mani dell'altro uomo, quello che non dovrebbe stare così tanto nei pensieri. Con il tumulto interiore che il suo sguardo riesce a provocarmi, come se lì dentro fossi sempre sul punto di perdere me stessa. Con l'idea che forse, per una volta, perdermi era proprio ciò che volevo.

Così inspiro e aspetto, per un senso di colpa che non arriva con la violenza che vorrei. E forse è questo ciò che mi spaventa di più.


Lascio i capelli ancora bagnati sciolti sulle spalle e, sopra ai bassi stivaletti di leggera pelle scamosciata, indosso il prendisole rosso che ho comprato ieri pomeriggio a delle bancarelle per pochi spiccioli. E' un po' troppo grande per me e, non importa quanto provi a tirare su le spalline, continua a rivelare molta più scollatura di quanto vorrei, ma immagino che dovrò farmelo andare bene lo stesso.

Quando, due sere fa, Sage era saltata giù dal bancone e mi aveva detto "Andiamo a New Orleans", era stato tutto così improvvisato da non includere neanche il pensiero di beni di prima necessità come un semplice ricambio di vestiti. Ero partita con dieci dollari in contanti, un locale in condizioni disastrose, ed un telefono con scarsa batteria ormai spento da due giorni.

Una stretta mi attraversa il petto quando mi chiedo se Elijah abbia provato a cercarmi, vista la nostra ultima discussione. Mi riprometto di trovare il modo per chiamarlo alla prima occasione.

Socchiudo la porta per uscire dal bagno, ma mi fermo subito quando vengo raggiunta da due voci intente a discutere, provenienti dall'angolo cottura che è celato alla vista da una tenda a cascata di perline colorate.

"Qual è il problema?" sta chiedendo Sage.

Dalla posizione in cui mi trovo, intravedo il retro dei suoi capelli rosso vivo mentre retrocede allontanassi di qualche passo, prima che venga nascosta dal séparé e sparisca di nuovo dalla mia visuale.

"Io non …" mormora Bonnie, in mezzo ad un rumore metallico di pentole. "Lascia perdere e basta, ok? "

"Perché? Ieri notte …"

"Non capisci. Quello è stato un errore." Abbassa la sua voce così tanto, che sembra quasi sia sul punto di scomparire da un momento all'altro. "Io non … Io non sono come te."

"Intendi gay?"

Bonnie non risponde.

"Non è una brutta parola, sai."

Il sussurro di risposta della mia amica questa volta è davvero troppo basso perché io possa udirlo.

"Bene, quello che vuoi," replica Sage in un tono più secco, quasi ferito.

C'è un fruscio di perline ed automaticamente mi ritraggo di nuovo dentro il bagno, per non far capire di essere rimasta ad ascoltare una conversazione fin troppo privata. Sento dei passi veloci scendere le scale ed una porta che sbatte al piano di sotto.

Lascio passare qualche secondo prima di dirigermi in cucina, dove trovo Bonnie intenta a sbattere delle uova in un ciotola in modo particolarmente accanito. Non alza la testa da ciò che sta facendo neanche quando mi sente arrivare.

"Ehi," la saluto piano.

"Ehi."

Versa le uova in una padella ed io mi appoggio contro un piccolo tavolo di legno scheggiato che fa da ripiano multifunzionale, incrociando una gamba davanti all'altra e tamburellando esitante le dita contro il suo bordo. Sulla finestra aperta alle spalle di Bonnie, una leggera tendina svolazzante color verde scuro fa da schermo alla luce calda e selvaggia che proviene dall'esterno. Deve essere almeno primo pomeriggio.

"Bonnie, riguardo ieri notte …"

"Ero ubriaca."

Richiudo la bocca, spiazzata dalla sua replica asciutta. Volevo solo ringraziarla per essermi stata accanto mentre riversavo fino all'ultima goccia di alcol e cibo scadente inginocchiata sul pavimento del bagno. Non sarei stata certo io a tirare fuori ciò che era successo prima di quel momento.

Dopo che Bonnie e Sage erano salite nell'appartamento, era stato Damon il primo a rompere l'imbarazzato silenzio che si era creato, strascicando qualcosa come "Vado a cercare Ric", per poi andarsene come se solo in quel momento fosse tornato sobrio tutto d'un colpo e non potesse allontanarsi da me mai abbastanza in fretta. Soltanto a ripensarci, il mio addome torna a contrarsi di nuovo. E non solo perché era stato subito dopo che la nausea aveva iniziato a farsi sentire.

"Va bene. Non sto …"

“Ero ubriaca,” ripete, mescolando le uova sul fuoco con una spatola di legno.

"Ok," mormoro, intuendo che forse è meglio lasciare perdere completamente un argomento che evidentemente non ha alcuna intenzione di affrontare. "Ha un odore delizioso," dico invece, ed anche il mio stomaco martoriato esprime il proprio accordo con un gorgoglio.

"Dov'è Damon?" mi domanda ponendo le uova strapazzate su del pane fresco tostato e porgendomene un piatto.

Il mio cuore fa un tuffo nel vuoto.

"Non lo so," ammetto prendendo una forchettata, ma l'amara consapevolezza di non saperlo mi fa improvvisamente perdere tutto l'appetito. Quando lo sprazzo di Damon che lecca la pancia di una biondina mi passa davanti agli occhi e mi suggerisce che magari è tornato al locale per finire la serata, sono costretta a posare sia il boccone che l'intero piatto per non rischiare di vomitare di nuovo.

In silenzio aspetto la ramanzina che secondo logica dovrebbe seguire la domanda di Bonnie. Cosa ci facevi con lui? Cosa pensavi di fare? e tutta una serie di altri quesiti inquisitori ai quali non voglio davvero dover rispondere, ma che se non altro avrebbero l'effetto di acuire il mio senso di colpa, cosa per la quale in questo momento potrei esserle molto grata.

Ma anche in questo caso aspetto invano.

Dopo una lunga pausa, Bonnie continua con voce neutra, "Voglio solo ripartire il prima possibile.”

“Tu chiedi ed io vengo," mi fa sussultare la voce di Damon alla mia destra.

Mi volto per trovarlo appoggiato a braccia incrociate contro lo stipite del passaggio ad arco, la cascata multicolore drappeggiata dietro le sue spalle. Mi getta uno sguardo veloce ed aggiunge con un mezzo sorriso sarcastico che è tutto per me, "Sono facile fino a questo punto."

Vorrei rispondere a tono alla sua sottile provocazione, ma ho la bocca arida e la lingua immobile.

"Dove eri finito?" gli chiede Bonnie, mentre lui prende la colazione che ho messo da parte poco fa e la mangia con gusto al posto mio.

Si appoggia in piedi contro il mio stesso tavolo, con l'aria di uno che non sta neanche facendo caso al fatto che i nostri fianchi siano a stretto contatto e che il suo gomito mi sfiori l'avambraccio ad ogni singolo boccone. Ma io sento ogni millimetro della sua vicinanza fin dentro ad ogni mio muscolo contratto, come se dopo la scorsa notte ogni minimo contatto sia diventato di colpo molto più sconveniente.

"A smaltirla con Ric finché non siamo stramazzati di sonno dentro la Camaro," Damon posa il piatto che ha ripulito alla velocità della luce ed io mi mordo le labbra per nascondere un inopportuno sorriso di sollievo che nessuna bionda fosse coinvolta nel resto della sua serata. "Partiamo tra una mezzora, ok?"

Bonnie infilza le uova con decisione. "Perfetto."

"Ti unisci a noi, sposa che scappa?"

Ancora una volta, il suo sarcasmo taglia più a fondo di quanto dovrei permetterglielo. Come se non bastasse, l'espressione di sfida che copre qualsiasi altra emozione nel suo sguardo mi suggerisce che non sarà un viaggio facile. Io e lui in uno spazio così ristretto. Ma non posso neanche restare qui per sempre, così non ho altra scelta che annuire e sperare di tornare a Mystic Falls senza complicare ulteriormente la situazione.


***


"Sputa il rospo, non accetto scuse," mi sibilò Caroline più minacciosa che mai, dopo avermi afferrato per un braccio mentre stavo passando ignara tra i tavoli del Grill e trascinato a sedere al tavolino dove lei e Bonnie mi stavano tendendo l'agguato.

"Di che diavolo stai parlando?" ribattei divincolandomi dalla sua presa.

"Tu. Matt Donovan. Le gradinate dietro lo stadio dopo la partita di ieri. Non negare, fonti certe vi hanno visti insieme. E lo sanno tutti che c'è solo un motivo per cui si va dietro le gradinate. Allora? Ti dai alle cose sconce con il quarterback e non ci dici niente? A noi, le tue migliore amiche?" Indicò se stessa e Bonnie, che per tutto il tempo era rimasta in silenzio in un angolo, e mi guardò come se l'avessi appena pugnalata al cuore.

"Vuoi parlare più piano per favore?" le intimai dopo aver dato una veloce occhiata alle mie spalle ed essermi assicurata che né Jenna, né tantomeno mio padre fossero a portata di orecchio per quei discorsi. "E non stavamo facendo niente. Solo parlando."

Caroline strinse lo sguardo e mi scrutò diffidente, probabilmente valutando se credermi o meno. Fui grata a Bonnie che si intromise in mia difesa.

"Vuoi darle tregua? Stavano solo parlando."

"Di cosa?" mi domandò Caroline, ancora non convinta.

Mi scostai una ciocca di capelli dal volto e mi feci sfuggire un sorriso quando, nel ripensarci, mi tornò subito quel lieve e caldo batticuore che accompagnava sempre il pensiero di Matt.

"Mi ha chiesto di uscire insieme," confessai a bassa voce. Ma, prima ancora di tornare a sollevare lo sguardo verso le mie amiche, aggiunsi con un sospiro, "Ma non ve l'ho detto perché non credo che sia una buona idea."

"Perché no?" chiese Bonnie.

"Perché ... Perché non ho tempo per i ragazzi, perché non voglio coinvolgerlo nei miei problemi, perché mi piace da impazzire e-"

"Tesoro," mi interruppe Caroline, allungando una mano per posarla sopra la mia. "Non vuoi morire vergine, vero? Persino Bonnie ci ha dato dentro, perciò voglio dire-"

"Care!" esclamò l'altra.

Mi voltai di scatto verso Bonnie, che però aveva già nascosto il volto tra le mani e sembrava la personificazione dell'umiliazione.

"Ti avevo chiesto di tenertelo per te," bisbigliò Bonnie rialzando infine la testa.

Caroline si limitò a fare spallucce, ma il mio petto si strinse in una morsa che sapeva di menzogne e tradimento.

"Hai fatto sesso e non mi hai detto niente?…"

"Mi dispiace, è solo che è successo l'estate scorsa, e tu avevi appena perso tua madre … Ma davvero non è stata poi tutta questa gran cosa," si scusò Bonnie con un tono mortificato che però non contribuì a farmi sentire meglio.

"Come è stato?" le domandai, cercando ugualmente di non farle pesare troppo la delusione per essere stata esclusa da una cosa così significativa.

Si strinse nelle spalle. "Strano. E doloroso. Ecco perché ..."

" ... devi farlo il prima possibile e toglierti il pensiero," finì Caroline.

" ... devi aspettare finché non sei sicura," disse Bonnie al stesso tempo. Si girò verso la bionda e la guardò sbalordita. "Che razza di consiglio è?!"

"E' un ottimo consiglio! Lo sanno tutti che il sesso fa schifo le prime volte ma migliora con il tempo, perciò prima inizi-"

"E allora perché tutte le riviste dicono che-"

"La smettete?" le interruppi prima che le loro voci iniziassero ad alzarsi troppo e tutto il Grill si mettesse ad ascoltare la poco ortodossa linea del cuore regalata da queste due. "Non ho intenzione di andare a letto con Matt, ok?" misi in chiaro.

Caroline piegò le labbra in un sorriso malizioso.

"Lo sapevo che ti stavi conservando per Damon." Mi strizzò l'occhio con fare complice. "Tranquilla, non lo dirò a nessuno."

"Cosa? No!" ribattei, sentendomi di colpo avvampare fino all'attaccatura dei capelli.

"E come biasimarti, ha tanta di quell'esperienza, e come stavo dicendo-"

"O forse ha tanti pidocchi visto che si scopa qualsiasi cosa respiri," disse Bonnie con una smorfia disgustata.

Caroline aveva già la replica pronta in bocca quando le fermai entrambe per quella che sperai essere l'ultima volta, ormai sull'orlo dell'esasperazione.

"Non farò sesso con nessuno, è chiaro?" ribadii frustrata per quella che mi sembrò la millesima occasione nel giro di cinque minuti.

"E va bene, va bene," concesse Caroline con un sospiro ed un'alzata di occhi al cielo. "Almeno uscirai con Matt?"

Tentennai.

Mi piaceva davvero Matt. Il suo sorriso, con la fossetta che creava sulla sua guancia destra. La gentilezza con cui si offriva di portarmi i libri. Le palpitazioni che mi suscitava ogni volta che incrociavo i suoi occhi azzurro chiaro, quando lo sorprendevo a guardarmi da due banchi di distanza. Matt era così dolce, e così normale, che di riflesso faceva quasi sentire anche me come una ragazza normale, una di quelle che può permettersi di ridacchiare accanto agli armadietti dimenticando per un attimo tutto quello che mi piombava addosso non appena tornavo a casa.

"Oh andiamo, Elena, vivi un po'," mi incitò Caroline mentre io stavo ancora rimuginando sulla mia risposta. "E poi è solo un appuntamento, che male può mai fare?"


***


Il viaggio è quieto e teso esattamente come me lo ero prefigurato.

Alaric tenta inizialmente di improvvisare un po' di conversazione, sporgendosi dal sedile del passeggero verso di me per parlare del più o del meno. Per un po' lo assecondo, sebbene neanche io sia esattamente di spirito ciarliero, perché sembra una persona interessante ed è sempre meglio dell'alternativa, ovvero restare troppo a lungo muta e sola con i miei pensieri. Tuttavia, è difficile continuare a lungo senza la minima cooperazione da parte degli altri due.

Bonnie, infatti, è rannicchiata all'altro angolo del sedile posteriore, con la testa posata contro il finestrino, intenta a dormire o più probabilmente a fare finta.

Damon, invece, risponde a monosillabi e non distoglie gli occhi dalla strada, anche se la sua presenza mi sembra più forte che mai, dentro quella macchina. Forse è colpa della radio che ha impostato su una stazione di rock classico, a volume abbastanza alto da scoraggiare ogni ulteriore tentativo di conversazione: è un'abitudine che conosco bene e che evidentemente non ha perso, mi ritrovo a pensare mentre mi tornano alla mente altri suoi silenzi coperti dalle voci di Neil Young o Eddie Vedder.

Così mi abbandono contro lo schienale e mi volto verso il paesaggio che scorre veloce al di fuori, in realtà piuttosto piatto e privo di nota.

Mi impongo di pensare ad Elijah. A quanto possa essersi preoccupato, a cosa dirgli e a come lo affronterò quando ci rivedremo … ma più dal finestrino semiaperto un piacevole alito tiepido mi soffia sul volto, più tutto sembra ancora più lontano e fuori dal mio focus.

Capisco presto che quella con la mia mente è una battaglia persa. Dò la colpa a tutto l'alcol della notte prima, come se la mia scarsa capacità di concentrazione verso una parte così importante della mia vita non sia altro che uno strano effetto collaterale che si accompagna ai postumi e alla mia attuale debolezza fisica e mentale.

Soprattutto quando chiudo gli occhi, e lo sguardo di Damon è tutto ciò che vedo, così blu, così combattuto, così liquido di desiderio mentre mi spinge contro la soglia di una camera di letto. Ed esattamente come la scorsa notte, sento di nuovo che sto camminando lungo una linea sottile, unica e fragile barriera verso un groviglio di sentimenti seppelliti alla perfezione che, sin dal momento in cui il ragazzo diventato uomo è entrato nel mio bar una mattina di appena un mese fa, ho fatto di tutto per mantenere tali. Perché è tutto lì, dentro ad un gigantesco e confusionario vaso di Pandora che certo non posso permettermi di andare ad aprire adesso.

Ma la mia mente è così leggera, ed il tocco delle sue dita brucia ancora così forte sulla linea dei miei fianchi dove mi aveva sfiorato la scorsa notte. Stringo d'istinto le gambe per calmare, invano, il caldo formicolio al loro centro, quando immagini di una serata non interrotta si fanno strada nella mia testa ed un piacevole brivido mi corre lungo la schiena.

L'ultimo pensiero coerente, prima di scivolare in un buio accogliente e peccaminoso, è che sono più nei guai di quanto pensassi.


Tirai su la manica della giacca quel tanto che bastava per scoprire il sottile orologio argentato, che penzolava sempre un po' troppo largo sul mio polso dal momento che era stato fatto per quello di mia madre, e spostarlo sotto la luce per controllare l'ora sul quadrante.

Il mio respiro si condensò e si dissolse nell'aria fredda. Non ricordavo un altro inverno così gelido da quando avevo memoria. Affondai le mani in tasca ed il volto nella sciarpa, iniziando a domandarmi se non avessi per caso sbagliato l'ora del nostro appuntamento, o se invece se ne fosse semplicemente dimenticato …

Proprio nell'attimo in cui formulai quel pensiero, vidi i fari della Camaro azzurra svoltare nel vialetto e fermarsi a poca distanza dalla depandance, prestando attenzione ad evitare una pozzanghera trasformatasi in ghiaccio.

"Mi dispiace, Rose mi ha trattenuto al negozio per finire l'inventario," si scusò Damon dopo aver chiuso la macchina, mentre si rovistava nelle tasche per cercare le chiavi di casa. "Da quanto stai aspettando?"

"Non molto," mentii scostandomi dallo stipite della porta per permettergli di aprirla.

Mentre teneva la porta aperta per farmi entrare, mi lanciò un'occhiata dubbiosa. "Hai il naso rosso, stavi congelando."

Mi tastai la punta gelata del naso, sperando con tutta me stessa di non assomigliare troppo alla renna Rudolph, ed iniziai a togliermi il cappello e la sciarpa per posarli su un mobiletto posto accanto all'ingresso.

Damon diceva di non capire perché mai mi piacesse casa sua e preferissi sempre vederci lì piuttosto che altrove. Avevo provato a spiegargli che non importava quanto fosse piccola o che non avesse una vera e propria divisione delle stanze, considerando che l'ingresso un po' soggiorno un po' cucina era separato dalla camera soltanto da un arcata. Tutto era reso accogliente dall'ordine ed una disposizione attenta dei mobili, che lui invece bollava solamente come il retaggio di un'educazione rigida della quale nonostante tutto era impossibile liberarsi.

E poi aveva il suo odore, ma questo non glielo avevo mai detto.

Stavo per togliermi anche la giacca quando notai che Damon era intento a frugare il fondo di uno dei cassetti accanto alla cucina.

"Cosa fai?"

"Cercavo queste," rispose soddisfatto, venendomi incontro.

Mi prese una mano e la richiuse attorno a qualcosa di metallico. Le sue dita coprirono le mie, trasmettendo un immediato calore alla mia pelle gelida e provocandomi un piacevole fremito quando, per un fugace secondo, il suo pollice si soffermò ad accarezzarmi il dorso.

"Sono le chiavi," mi spiegò quando lasciò andare la mia mano ed io la aprii per scoprire meravigliata il contenuto del mio palmo. "Così non devi aspettare al freddo quando sono in ritardo per le tue lezioni di matematica. O anche solo nel caso preferissi stare qua quei giorni che non vuoi tornare a casa."

"Grazie," mormorai senza sapere che altro dire, mettendole al sicuro nella tasca interna della mia borsa e cercando il suo sguardo per fargli sapere quanto apprezzassi quel pensiero.

Non ci riuscii, perché scelse proprio quel momento per voltarsi ed appendere la giacca ad un gancio dietro la porta, dandomi le spalle. Mi domandai se non l'avesse fatto di proposito.

"Andiamo," mi incitò quindi, "Sono già le nove e quella fastidiosa trigonometria che ti piace tanto non si farà da sola."

Da quando un'umiliante F rossa aveva marchiato il mio fallimento in materia alla fine dello scorso trimestre, Damon, a cui quel particolare campo riusciva incredibilmente facile con una minima quantità di sforzo, aveva avuto pietà di me ed accettato di aiutarmi.

Ogni venerdì, dopo che avevamo finito entrambi di lavorare, passavamo circa un'ora a combattere la mia scolastica bestia nera, prima che io tornassi a casa per assicurarmi che Jeremy non stesse sveglio tutta la notte davanti ai videogiochi, e lui uscisse per proseguire la sua serata con amici o ragazze di cui non mi sforzavo mai di imparare il nome. Andava bene ad entrambi perché, se da una parte Damon non scendeva mai nei dettagli riguardo al modo in cui passava le sue serate quando non era con me, io dal mio canto preferivo continuare a non saperlo, visto che anche solo immaginarlo mi provocava una punta di fastidio che poi impiegavo giorni a far andare via. Quelle erano le tacite fondamenta del nostro accordo del venerdì sera, ma forse, ripensandoci, lo erano molto più in generale della nostra stessa, altrimenti improbabile, amicizia.

Cercai di concentrarmi sui passaggi che mi stava ripetendo già per la seconda volta, ma quella sera la capacità di ragionamento sembrava essere dalla mia parte ancora meno del solito.

Andre, che era stato il cuoco del Grill per quasi dieci anni, quello stesso pomeriggio aveva avuto un violento litigio con papà e si era licenziato urlandogli che se voleva mandare il locale a puttane, lui non aveva intenzione di andare a fondo insieme con lui. Non avevo ben capito a cosa si stesse riferendo, ma come conseguenza avevo passato il resto della giornata a correre su e giù per la cucina insieme a Jenna per riuscire a far fronte alla sua improvvisa dipartita, mentre mio padre si era chiuso nell'ufficio sbattendo la porta e non ne era più uscito. Passandovi davanti, mi era sembrato di sentirlo piangere.

Chiesi a Damon la prima stupida domanda che mi saltò in mente nel vedere un 3 al posto di un 5, per non fargli pensare che stesse sprecando il suo tempo mentre io pensavo ad altro, ed appoggiai meglio la schiena contro il bordo inferiore del divano. Ci sedevamo sempre per terra così da poter usare l'unico tavolino, altrimenti troppo basso. Ma la sua risposta mi attraversò la testa senza lasciare alcuna traccia, troppo impegnata com'ero a cercare una posizione più comoda per la mia nuca.

La trovai vicina alla spalla di Damon. Qualche minuto e, senza neanche accorgermene, finii a poco a poco per adagiare la testa contro la curva del suo braccio. Ero così stanca, fisicamente e mentalmente, ed il contatto con il suo corpo mi fece sentire così bene, che non prestai attenzione al modo in cui, per un attimo, lui si irrigidì quando scivolai contro di lui.

Damon proseguì facendo finta di niente. Ma a quel punto le mie palpebre erano troppo pesanti per seguire sulla carta ciò che stava dicendo, così scelsi di concentrarmi semplicemente sul suono della sua voce, che mi fece compagnia fino a che piano piano tutto il resto non scomparve. Quando la mano che ad un certo punto salì a stringermi e a circondarmi il fianco mi fece sentire abbastanza al sicuro per lasciar cadere anche le ultime resistenze, io stessa svanii nel sonno più profondo che avessi avuto da mesi.


A svegliarmi è la fine del movimento dell'auto che aveva cullato la mia sonnolenza fino a questo momento. Ancora intorpidita, mi stiro il collo indolenzito e sbircio fuori dal finestrino, dove scorgo solo il buio intervallato dalla luce di un'insegna colorata.

"Siamo arrivati?" domando confusa, abbandonando la posizione rannicchiata contro lo sportello per mettermi più comodamente a sedere.

"No, ci stiamo solo fermando per la notte," mi fa sapere Damon dal sedile di fronte.

"E perché non possiamo continuare?" obietta Bonnie.

"Perché sono stanco e non ho intenzione di guidare per altre sei ore. Hai qualche altra idea, capo scout?"

"Se proprio devi," bofonchia la mia amica

"Non stavo chiedendo il tuo permesso."

Damon stacca le chiavi dal quadro e scende sbattendo la portiera. Bonnie gli va dietro.

"Devi sempre essere così stronzo?"

"No, posso trasformarmi in un dolce angioletto solo per te," è l'ultima cosa che lo sento ribattere mentre i due si allontanano verso la reception del motel, anche se, a giudicare dai loro gesti e dal fatto che continuino a parlarsi, quell'inutile diatriba non è certo finita lì.

"Se per caso te lo stai chiedendo, sì, li ho dovuti sopportare così per dieci ore di viaggio, senza interruzioni," mi fa sapere Alaric quando anche noi scendiamo per seguirli.

Gli sorrido perché ho un'idea molto precisa di cosa deve essere stato. "Mi dispiace."

"Da quanto conosci Damon?"

"Io …" mi schiarisco la voce. "Dal liceo. La mia altra migliore amica e suo fratello sono insieme da allora." Perché diamine ho detto una cosa del genere? La faccio sembrare come se fosse quella la ragione per cui ci conosciamo. "Ma ci siamo … persi di vista per alcuni anni."

"Uh."

Alaric si ferma per scrutare con fare assorto un punto sopra le nostre teste. Seguendo il suo sguardo, noto che è fisso su una vecchissima fotocamera di sicurezza che dubito possa davvero funzionare ancora. Mormora qualcosa tra sé e sé che non riesco ad afferrare, e mi sorge il dubbio se quell'uh fosse dedicato a me oppure a lei.

"Beh, ci deve tenere a te se è andato fino in Louisiana per riprenderti," prosegue poi, tutto d'un tratto.

Riprende a camminare verso l'ingresso, ma io rimango un attimo immobile, nel bel mezzo del parcheggio malamente illuminato, interdetta dalle sue parole. Una parte di me non può fare a meno di chiedersi: quanto c'è, di preciso, nel suo tenerci a me? Quanto c'è delle pressioni di Caroline che mi sono state raccontate la notte prima tra un bicchiere e una risata, quanto c'è di ciò che avevamo in passato, quanto c'è di ciò che l'ha distrutto …

E' con uno strano turbamento in fondo al petto che raggiungo gli altri sul terrazzino circondato da una balaustra di ferro, la cui pittura bianca un po' scrostata si fa azzurrognola sotto le luci dei vecchi lampioni malfunzionanti.

Arrivo appena in tempo per vedere Bonnie strappare una delle due chiavi dalle mani di Damon, facendo roteare gli occhi al cielo per qualsiasi battutina lui abbia appena pronunciato.

"Andiamo, Elena."

Salutiamo con un veloce ´buonanotte`, durante il quale il solo fatto di pensare ancora al commento di Alaric è ragione sufficiente per evitare di proposito qualsiasi contatto visivo con Damon, e la seguo verso la camera 319.

Chiudo la porta blu alle nostre spalle e, mentre lei accende tutte le lampade nella stanza, poso la borsa e mi siedo su uno dei due letti. Sono ricoperti da trapunte a fiori che, anche se scolorite, emanano un buon odore di pulito.

Dò uno sguardo attorno, ai mobili di legno chiaro e alle vecchie stampe appese alle pareti. Ha l'aria di essere uno di quei posti che ha incontrato tante persone e visto tante storie, quelle di chi è solo di passaggio e quelle di chi è sempre in fuga.

Forse, io stessa sono meno fuori posto qui di quanto non lo sia altrove.

Bonnie ha iniziato a tirare fuori dalla borsa le poche cose che abbiamo con noi, due spazzolini da denti e un pettine di legno adatto ai suoi capelli folti, ma noto che ha lo sguardo assente.

Capisco che, anche se lei non vuole parlarne, non sono la sola in questa stanza ad avere conflitti che non sa come gestire, e non vorrei mai che pensi che io non possa esserci per lei come lei c'è sempre stata per me.

"Grazie," le dico.

"Per cosa?"

"Per tutto. Per essere venuta a cercarmi, per essermi stata accanto quando stavo disgustosamente male, ieri notte, gli scorsi anni. Ti voglio bene, e te ne vorrò sempre."

"Anche io," mormora piano.

Esita un attimo, ma infine viene a sedersi accanto a me, una gamba incrociata sotto l'altra e un accenno apprensivo negli occhi.

"Cosa c'è che non va, Elena? Andartene così, e … Dov'è il tuo anello?" mi chiede indicando la mia mano.

Istintivamente intreccio le mani posandole in grembo e sfioro con le dita la base dell'anulare che d'improvviso mi sembra così vuota. Adesso lo sento, il peso delle mie debolezze e il groppo alla gola che accompagnano il pensiero di ciò che ho temporaneamente messo da parte e che ho moralmente già tradito nel momento in cui ho cercato le mani dell'uomo che non dovrebbe stare così tanto nei pensieri.

"L'avevo tolto per non rischiare di perderlo o rovinarlo nella confusione di New Orleans."

"Quindi non ha niente a che vedere con il motivo per cui te ne sei andata, senza dire niente a nessuno …"

"Ho litigato con Elijah," confesso, anche se, ancora una volta, non so bene perché certe parole lascino la mia bocca. Ma del resto è più facile incolpare un litigio piuttosto che dare voce all'indefinibile irrequietezza che sento sempre dentro. "Tutti quei piani, il futuro … E' stato piuttosto intenso."

Mi lancia una lunga occhiata a metà tra un ammonimento ed una domanda.

"E qualsiasi cosa stia succedendo tra tre e Damon?…"

"Non sta succedendo niente tra…" Mi blocco da sola nel notare il sopracciglio alzato marchio di fabbrica di Bonnie Bennet quando si trova davanti scuse o storielle che non è in vena di sentire.

"Va bene," concedo con un sospiro.

Mi abbandono all'indietro con la schiena contro il materasso e lascio vagare lo sguardo sul soffitto dalla sfumatura giallastra. Il copriletto mi pizzica la pelle.

"Non lo so. Damon è …" Scuoto la testa e mi sfugge un sorriso amaro. "… Non lo so cosa è. E lo so che mi sposo tra due mesi, e che Elijah è un uomo meraviglioso, e che, onestamente, che cosa dice questo di me? E' egoista e sbagliato. Ma le cose che Damon a volte mi fa provare …" piccole farfalle colpevoli si liberano nel mio petto mentre ripenso a tutte le volte che ho cercato il suo sguardo, alla rabbia, all'amarezza, a tutti i baci che ho segretamente immaginato. "… non sempre riesco a controllarle."

"Non durerà, lo sai vero?" mi dice con un tatto che però non attutisce il colpo. "Perché se ne andrà non appena gli converrà come ha già fatto una volta, o magari perché avrà uno dei suoi colpi di testa e ti farà solo soffrire. Di nuovo. Lo sai anche tu."

Annuisco vagamente, perché ha ragione e lo so. Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no.


Mi svegliai con la sensazione di aver dormito per un anno intero. Un anno intero ed accanto ad un impianto di riscaldamento.

Ma la sconosciuta fonte di calore sulla quale ero adagiata era muscolosa al tatto ed attraversata da un movimento respiratorio lento e regolare. Ancora un po' frastornata, sollevai la testa da quello che realizzai essere il petto di Damon ed iniziai a prendere coscienza di ciò che mi circondava. Non la mia casa e certo non la mia camera.

Quando mi tirai su per districarmi prestando attenzione a non svegliarlo, il suo braccio mollemente posato sulle mie spalle scivolò verso il basso, insieme alla coperta che ci copriva disordinatamente. Mi resi conto di essere sul suo letto, con i miei vestiti ancora tutti addosso e nessuna idea di come fossi passata dalla trigonometria a … questo.

Da dietro le tende entrava una luce tenue che rischiarava la stanza abbastanza da farmi notare che Damon, ancora addormentato, a differenza mia si era cambiato in abiti più comodi.

La vecchia T-shirt bianca che adesso aveva addosso lasciava intuire ogni singola linea del torace sul quale mi ero risvegliata.

Mi inumidii le labbra quasi istintivamente perchè, a quel pensiero, qualcosa si agitò più o meno dalle parti del mio stomaco. Solo un po' più in basso.

Davvero non avrei dovuto. Ma, con la cautela trepidante con cui si fa qualcosa di proibito, i miei occhi iniziarono a percorrere il suo corpo con un'attenzione che non mi ero mai concessa. Lì dove si intravedevano i contorni dei pettorali, e poi più verso il basso, dove i lembi della maglietta si sollevavano sull'addome ben delineato e, ancora, lungo la sottile linea di peluria scura che partiva dall'ombelico e proseguiva infilandosi nei pantaloni della tuta dove …

Oh mio dio.

Il respiro successivo mi rimase fermo in gola e l'ondata di calore fu così intensa ed improvvisa da darmi alla testa, che subito scattò di lato per distogliere lo sguardo. Mi portai una mano sulla guancia che scottava, mentre nella mia mente prendevano ad affollarsi e a sovrapporsi pezzi confusi di racconti di Caroline e lezioni di biologia che assicuravano che quella era una reazione assolutamente fisiologica e normale.

Mi costrinsi ad inspirare più lentamente ma alla fine, vinta dalla curiosità, non potei fare a meno di tornare a sbirciare verso la prominenza distinguibile sotto al tessuto teso. Inclinai un po' la testa di lato per riuscire a guardare meglio perché, potevo pure non essere un'esperta, ma ad occhio e croce sembrava davvero …

"Buongiorno."

Sobbalzai e schizzai con gli occhi verso l'alto.

Damon si era sollevato per appoggiarsi sui gomiti e mi osservava, i capelli neri scompigliati in tutte le direzioni e gli occhi ancora offuscati dal sonno, ma fissi su di me. Anche lui aveva piegato la testa con un'aria curiosa, come se qualcosa in me lo stesse divertendo particolarmente.

"G-giorno," farfugliai, sentendomi più che mai imbranata sotto a quel suo sguardo.

Per non parlare di quel leggero, ma decisamente impertinente modo in cui stava sollevando un angolo delle labbra verso l'alto. Si era per caso accorto che …?

"Dormito bene?"

Annuii e mi sollevai ancora meglio fino a sedermi sui talloni, stando particolarmente attenta a non far ricadere lo sguardo verso il basso. Anzi, per precauzione iniziai a guardarmi intorno, perché era meglio che continuare a vedere il suo sorrisetto e morire di vergogna.

"Che ore sono?"

"Non lo so," si sporse verso il comodino e la sua maglietta si sollevò ancora di più, lasciando scoperti i muscoli dei fianchi e della schiena. Alla faccia del guardare in aria, Elena. "Le undici e qualcosa."

Fu allora che la realizzazione mi colpì in tutta la sua interezza.

"Del mattino?!" Mi alzai talmente di corsa che quasi inciampai nella coperta ancora attorcigliata intorno alle mie gambe. "Non posso aver passato la notte fuori, e senza aver detto niente a nessuno, e chi si è occupato di Jer, e-"

"Rilassati," mi interruppe, mentre stavo freneticamente cercando le scarpe, unico indumento che mancava all'appello. Trovai i miei stivaletti ai piedi del letto, uno accanto all'altro. Era stato Damon a togliermeli?

"Ho chiamato Jenna dopo che ti sei addormentata," proseguì mettendosi a sedere con il busto in avanti ed i gomiti sulle ginocchia. "Ha detto di non disturbarti e di lasciarti dormire, che ci avrebbe pensato lei a Jeremy e ad inventarsi una scusa."

"Ok …" dissi sorpresa. "Grazie."

Damon scrollò le spalle e si alzò dal letto, fermandosi sulla soglia per aggiungere. "Posso riaccompagnarti dopo colazione, se vuoi, il turno di sabato inizia più tardi ed ho ancora un paio d'ore."

Il mio cuore si tuffò in picchiata dritto dentro lo stomaco, perché, come Damon aveva appena sottolineato era sabato. E se era sabato, ed era tarda mattinata, ciò voleva dire che avevo solo un paio d'ore per prepararmi, chiamare Caroline e scegliere cosa mettermi al mio primo appuntamento.

"Penso che andrò adesso, non preoccuparti," gli sorrisi, mentre finivo di infilarmi anche il secondo stivale. "Esco con Matt dopo pranzo e non voglio fare tardi."

Ci fu uno strano attimo di silenzio, prima che Damon replicasse.

"Esci con il quarterback? …"

Lo chiese in una voce lenta e bassa che rese l'aria immediatamente più fredda ed ebbe l'effetto di far sembrare tutto, compreso che il fatto che io fossi in quella stanza, completamente, irrimediabilmente sbagliato.

"Sì," risposi, tornando a sollevare lo sguardo verso di lui, che appoggiato a braccia incrociate contro lo stipite dell'arco osservava un punto sulla parete con fare distaccato. Non mi piacque la sensazione che ciò mi provocò. "Qual è il problema?"

"Nessuno, ovviamente."

La sua scrollata di spalle mi rassicurò un po'. Magari mi ero solo immaginata tutto.

"E poi noi ci rivediamo domani, no? Jeremy ha la trasferta e avevi detto-"

"Non posso domani, ho altro da fare," mi tagliò corto staccandosi dalla soglia e dirigendosi verso l'altra stanza senza neanche degnarsi di guardarmi.

Rimasi qualche secondo sconcertata, perché me lo aveva promesso due settimane fa che mi avrebbe accompagnato fuori città alla partita e non poteva davvero lasciare me e Jer senza un passaggio così all'ultimo momento. Per quale motivo poi? C'era qualche ragazza che forse non poteva aspettare fino a sera?

"Hai da fare cosa?" domandai dopo che lo ebbi seguito, senza riuscire molto bene a nascondere la mia delusione.

"Da quando devo renderti conto di cosa faccio e cosa non faccio?"

"Era solo una domanda," replicai secca, imitando il suo stesso tono. "Non m'importa assolutamente niente di ciò che fai."

La sua mascella si contrasse ed il suo sguardo, che finora mi aveva evitata, mi attraversò con una freddezza che non gli avevo mai visto.

"Bene, meglio chiarirlo, perché sai, stai iniziando a diventare un tantino soffocante."

Quella era stata una pugnalata che non avevo visto arrivare. Ero quello per lui? Un peso di ragazzina che gli impediva di fare quello che voleva veramente? Fece così male da farmi bruciare la gola.

"Tu invece stai diventando un vero stronzo," ribattei con voce strozzata mentre afferravo la mia borsa e il cappotto con le mani che tremavano.

Damon mi fu subito alle spalle per porgermi anche la sciarpa, ma non c'era gentilezza nel suo gesto, né tantomeno sul suo volto. Non c'era niente, se non forse il prendersi gioco di me per la stupida che ero.

"Io sono uno stronzo," disse piano avvicinando il viso al mio, come se quello fosse un concetto troppo difficile per me da afferrare.

"Non con me!" gli gridai.

"Aw, mi sa che qualcuna si è presa una cotta per me che le ha fatto pensare di essere un po' troppo speciale."

Lo spinsi via con tutta la forza che avevo, detestando con un'intensità che non avrei creduto possibile ogni millimetro del sorriso beffardo con cui aveva pronunciato quella frase. Non m'importò che avesse iniziato a sfaldarsi non appena i miei occhi si riempirono di lacrime, e non m'importò che avesse allungato una mano verso la mia quando mi voltai per correre verso l'uscita.

Era troppo tardi ed io ero già fuori dalla porta.


E' una notte calda, silenziosa e immobile.

Nonostante la stanchezza, continuo ad aprire e chiudere gli occhi sul buio, sui contorni delle pale del ventilatore a soffitto, che girano e girano senza davvero smuovere niente. Mi danno così sui nervi che scalcio via il lenzuolo arrotolato ai miei piedi, mi alzo di scatto dal letto ed esco all'esterno, diretta verso il distributore d'acqua.

Ne bevo almeno tre bicchieri, che non sono freschi e forse non mi aiuteranno a dormire, ma solo l'idea di sentirmi idratata mi fa già stare meglio. E' quando getto via il bicchiere di plastica che lo vedo.

E' appoggiato con i gomiti contro la ringhiera, a solo una decina di metri da me, i capelli umidi e disordinati, la camicia scura arrotolata fino ai gomiti e lo sguardo pensieroso fisso su qualcosa che si sta rigirando tra le dita.

Mi prendo un momento, solo per restare lì e osservarlo, perché nella luce fredda e irregolare del lampione che rischiara il ballatoio, è così bello che sarebbe un crimine non farlo.

"Spiarmi, Elena?" mi dice d'un tratto, pur senza girarsi a guardarmi. "Non è educato."

"Scusa," rispondo, incamminandomi per avvicinarmi a lui. "Non intendevo."

Damon inclina la testa verso di me. Mi stringo le braccia al petto quando i suoi occhi si posano su di me, perché sto ancora indossando il vestito dalla scollatura troppo ampia e poco importa che in teoria me lo abbia già visto addosso per tutta la giornata. E' solo nel silenzio di questo momento, senza nessun altro intorno, che mi sento vulnerabile al suo sguardo.

"Non riuscivo a dormire," spiego, appoggiandomi con la schiena contro la balaustra. Indico con un cenno della testa il foglio ripiegato che continua a farsi scivolare tra le dita. "Cos'è quello?"

"Questo? Solo un inutile pezzo di carta che avrei già dovuto gettare via da un pezzo," commenta con una smorfia. Di fronte al mio sguardo interrogativo, aggiunge, "Le ultime parole di mio padre sul letto di morte. Eccetto che non stava morendo quando le ha scritte, dunque immagino che lo scopo fosse solo quella di riservarsi il privilegio di avere l'ultima parola in qualsiasi eventualità. Come sempre."

"Che cosa dice?" gli chiedo piano, scrutando la sua reazione, il guizzo di incertezza che gli attraversa gli occhi.

"Non lo so. Non l'ho letta."

Oh, Damon.

"Pensi davvero che qualsiasi cosa ci sia lì dentro sia peggiore di ciò che ti stai immaginando nella tua testa?"

Damon torna a guardarmi, questa volta con un abbozzo di sorriso che sembra suggerire che entrambi sappiamo già la risposta alla mia domanda.

"Non ne vale la pena," dice quindi, prendendo il foglio di carta e infilandoselo nella tasca posteriore dei jeans.

"Dobbiamo parlare," sussurro dopo qualche attimo di lungo silenzio.

Scuote la testa. "No, non dobbiamo."

Il lampione alle sue spalle ha ripreso a singhiozzare ed il chiarore intermittente sembra avere l'effetto di oscurare l'azzurro del suo sguardo e renderlo più indecifrabile.

"Eri ubriaca, lo eravamo entrambi. Non sapevi cosa stavi facendo, grosso errore, non accadrà più, facciamo finta che non sia successo, eccetera eccetera. Ho dimenticato qualcosa?"

"Sì," ribatto, con un impeto inatteso che sorprende entrambi. Mi fa sempre questo effetto quando si ostina a coprire con il sarcasmo tutto ciò che veramente gli passa per la testa. "Non dirmi cosa provo."

"Va bene," risponde con voce più bassa e più cauta. I suoi occhi hanno adesso un altro barlume, quasi curioso. "Non lo farò."

Non chiede altro ma capisco, dal modo in cui mi osserva e resta in attesa, che si sta domandando se mai mi deciderò a farglielo sapere, che cosa provo.

"Mi dispiace," è tutto ciò che infine riesco a dire, mentre scuoto la testa ed una ciocca di capelli sfugge dalla mia coda scompigliata e mi finisce sugli occhi. "Mi dispiace di essere un tale casino."

Damon si sporge verso di me. Rimango immobile, mentre allunga una mano verso la ciocca che mi è scivolata sul volto e, con un piccolo gesto attento, la rimette al suo posto dietro il mio orecchio.

"Dimmi qualcosa che già non so."

Quando le sue dita restano lì a sfiorarmi i capelli, il cuore mi martella così forte che ho quasi paura lo possa sentire.

Abbasso lo sguardo, sulle sue labbra che sono appena dischiuse. Di riflesso, so che si socchiudono anche le mie.

Sarebbe davvero così sbagliato? … Nessuno lo saprebbe mai.

"Non posso," bisbiglio chiudendo gli occhi e facendo il passo indietro che mi sottrae dal suo tocco. "Non è giusto."

Quando incrocio di nuovo il suo sguardo, so che non ho bisogno di aggiungere altro. E forse domani non conterà più niente, perché dovrò fare i conti con le conseguenze, ma per un attimo, un piccolo ed egoistico attimo, sono solo contenta che lui sia qui, in una notte calma in un posto sperduto nel nulla, a vedere attraverso ciò che non so dire e a non chiedere nulla in cambio.

Si allontana di me, solo con l'accenno forzato di un sorriso. "Buonanotte, Elena."


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Spazio autrice.


Salve, mie care.

So che sono molto in ritardo e mi dispiace.

Il mio problema è che non riesco proprio a scrivere capitolo più brevi (questo, per dire, è il più lungo che io abbia mai scritto finora) e quindi finisco per impiegarci sempre più del previsto. Infatti, ho sempre molta paura che siano troppo lunghi, di annoiarvi quando non siete neanche a metà, di farvi faticare ad arrivare in fondo ... e, se fosse così, non fatevi problemi a dirmelo, davvero, almeno correggo un po' il tiro invece di buttarvi addosso 20-25 pagine alla volta.

Vi ringrazio dal profondo del cuore per il seguito e per le vostre meravigliose parole, non mi stancherò mai di dirvelo che siete il motore che fa andare avanti questa storia, ogni vostro pensiero, anche il più piccolo, è importantissimo per me.


Ci sentiamo al più presto,

un bacio


ps. Ho anche cambiato editor e non so quale sia il risultato, per cui se per caso avete problemi di visualizzazione, per esempio se il testo risulta troppo piccolo, fatemi sapere e provvedo a rendere più leggibile :)


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Capitolo 12
*** Boys don't cry ***


11

11.

Boys don't cry


- I try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try and laugh about it
Hiding the tears in my eyes
'cause boys don't cry -

(Boys don't cry, The Cure)


Damon


Accosto l'auto ai margini della piazza, a soli pochi metri dall'ingresso di un Grill ancora sbarrato.

Spengo il motore, dico i miei saluti, la guardo scendere.

La riconsegno intatta alla sua vita di tutti i giorni, al suo matrimonio perfetto con l'uomo perfetto, e qualsiasi cosa sia o non sia successa tra locali di New Orleans e motel della Georgia è destinata a rimanere solo lì. Nei locali di New Orleans e nei motel della Georgia.

Una parte di me ne è sollevata. Perché se c'è una cosa che ho capito fin troppo bene da questo viaggetto fuori programma è che, cambia il tempo e cambia il luogo, ma, in fondo, sono sempre lo stesso idiota senza cervello pronto a farsi del male dietro alla persona sbagliata.

Soprattutto quando si tratta di Elena.

Così, durante il viaggio di ritorno, da qualche parte tra il South e il North Carolina, ho mentalmente stilato un piano infallibile: chiusa l'improbabile parentesi delle ultime due notti, non devo fare altro che restare concentrato sull'unico motivo per cui davvero sono qui e lasciarmi tutto alle spalle non appena i miei servigi non saranno più richiesti, il tutto possibilmente senza fare troppi danni, né agli altri né al mio ego.

E ciò include necessariamente anche farla finita di lasciarmi coinvolgere con donne che non posso avere.

E' un piano di cui sono più che mai convinto, mentre la guardo salutare Bonnie e poi incamminarsi lentamente verso il locale; mentre si ferma incerta a pochi passi dalla soglia, si volta, incontra il mio sguardo, curva appena le labbra.

Non è davvero nemmeno un sorriso: è la traccia, fugace ma tangibile, di locali e motel e troppe cose non dette.

Praticamente di tutto ciò che può mandare il mio piano a puttane in qualsiasi momento.

"Sei così fottuto che è quasi doloroso da guardare," scuote la testa Ric mentre io dirigo l'auto verso casa. "Penso di non averti visto così fottuto dai tempi di-"

"Ric," gli intimo perentorio per la dannata milionesima volta, sapendo esattamente a cosa sta per riferirsi. "Ricorda i patti: Non. Dirlo."

In risposta lui sogghigna, prendendosi come sempre gioco delle mie miserie.

"Sei un amico terribile."

"Sono il migliore che tu abbia mai avuto."

Ha così ragione che non ci provo neanche a contro ribattere.

"Wow," commenta con un fischio di apprezzamento non appena imbocco le curve del vialetto ed i contorni imponenti della villa, annunciati dal portico bianco in stile coloniale, iniziano ad emergere tra il folto dei pioppi. "Che bastardo, non mi avevi mai detto di essere pieno di soldi. Ti avrei estorto molte più bevute."

"Era mio padre quello pieno di soldi."

"Qual è la differenza?"

Oh, c'è una grossa differenza, mio caro amico.

Per potergliela spiegare, quando ci sediamo sulle due poltrone davanti al camino di marmo nella sala principale, ho bisogno almeno di una bottiglia di Western Gold e di quasi un secolo di storia dei Salvatore.

Quella che per la precisione parte dal bisnonno Joseph, quando durante la Grande Depressione aveva lasciato la sua famiglia di immigrati italiani a New York per andare ad attraversare il paese in cerca di fortuna. La fortuna l'aveva trovata due volte, in questo spazio nascosto rinchiuso tra gli Appalachi e le piantagioni di tabacco. La prima in una ragazza che sposò nel giro di due mesi; la seconda quando, intorno alla metà degli anni '30, la creazione dello Shenandoah National Park [1] lasciò cinquecento famiglie incazzate e senza casa, e lui sfruttò abilmente la situazione a proprio vantaggio mettendo su la prima compagnia della zona che combinava investimenti, costruzioni di nuove case e mutui finanziari. Divenne schifosamente ricco nel giro di pochi anni. Sfortunatamente per lui, però, suo figlio non aveva lo stesso interesse per soldi, status ed influenza, ma ne aveva uno smisurato per donne, alcol e gioco d'azzardo. Era un perdigiorno pieno di debiti e mio padre lo odiava con tutto se stesso. Lo odiava e se ne vergognava così tanto che non eravamo autorizzati a nominarlo neanche per sbaglio, cosa che non era poi così difficile dato che la sola cosa che a tutt'oggi sappiamo di nostro nonno è che è morto sì e no a 40 anni, nessuno ci ha mai voluto dire come. Ma, per contrasto, mio padre ammirava il bisnonno Joseph, da cui aveva imparato tutto ciò che sapeva, in un modo più che smisurato.

Peccato che le sue ferree intenzioni di fare lo stesso con me e trasformarmi in un suo prolungamento vivente non fossero andate propriamente secondo i suoi piani.

"Come puoi vedere," finisco mentre bevo l'ultimo sorso ed osservo l'alone liquido che il bourbon ha lasciato sul fondo del bicchiere, "Noi Salvatore siamo geneticamente programmati ad essere terribili in tutta quella cosa alla padre-figlio."

Ric mi guarda a lungo, ma non dice niente. Mi torna in mente il fatto che lui ha almeno in parte letto la lettera che, non appena ci penso, prende subito a pesare come un macigno nella mia tasca.

"Cosa?" domando spazientito.

"Damon si dimentica sempre la parte in cui lui non ha precisamente contribuito a rendere le cose più facili," si intromette Stefan.

Giro la testa verso mio fratello in piedi sulla soglia della sala, incurvato con le mani affondate nelle tasche dei jeans e l'espressione accigliata.

"Sempre così fiscale, fratello," lo saluto mentre mi sporgo per posare il bicchiere vuoto sul basso tavolo di vetro. "Ric, ti ricordi di Stefan vero, l'altra metà, quella migliore, della nostra incantevole famiglia."

I due si salutano amichevolmente. Anche se si sono visti solo quelle poche volte in cui Stefan è venuto a trovarmi a San Francisco, hanno fin da subito sviluppato una simpatia immediata che credo abbia qualcosa a che fare con la sorte comune di dover sopportare il sottoscritto.

Mi ricordo ancora della sera in cui ci siamo ubriacati sopra alle mie varie cazzate grazie ad un drinking game di loro invenzione chiamato "Quella volta che Damon".

"Dove diavolo sei stato?" mi domanda Stefan prendendo posto sul divano, di fronte a me.

"Lunga storia, aspetta l'e-book. Davvero il segugio biondo non te l'ha detto?"

Con un sospiro amareggiato, Stefan si protende in avanti e scuote avvilito la testa.

"No, perché per farlo dovrebbe parlarmi. Cosa che da tre giorni fa a malapena, ovvero da quando le ho chiesto di vivere insieme e, a quanto pare, era una domanda troppo difficile per potermi dare una qualsiasi risposta. E tu che dicevi che nessuno avrebbe mai trovato il modo di farla stare zitta."

"Ha detto di no?" domando, un po' stupito e un po' irritato nei confronti della responsabile dell'espressione frustrata sul volto di mio fratello.

"Non ha detto niente."

"Mi dispiace. Tieni, amico." Ric si alza per prendere un altro bicchiere e versagli del liquore, oltre a servire anche il nostro secondo giro. "Ne hai bisogno."

"Grazie. Sai Damon, per un momento questa mattina ho quasi pensato che te la fossi squagliata in vista della riunione di domani," mi confessa Stefan rigirandosi in mano il suo bicchiere.

Io tamburello sul bordo del mio e prendo tempo.

La verità che continuo a nascondere a mio fratello è che della riunione di domani, così come di quelle future, davvero non me ne importa abbastanza per farmi pensare di squagliarmela. E' semplicemente là, come un rumore di sottofondo che devo attraversare prima di liberarmene e tornare alla mia solita vita, quella in cui le uniche aspettative da dover soddisfare sono solo le mie o al massimo quelle di un genio eccentrico e paranoico sempre sull'orlo di mandare le cose a puttane ben prima che possa farlo io.

Ma Stefan … Stefan che è due anni più piccolo di me e ha già messo la testa a posto praticamente con la sua prima ragazza; Stefan che è solo da pochi mesi uscito da una Ivy League e sta già facendo di tutto per dimostrare di potercela fare a sessantenni diffidenti pronti a cogliere ogni passo falso della sua inesperienza e a qualcuno che dalla terra dei morti dubito possa davvero curarsi dei suoi sforzi; Stefan che è sempre così maturo e responsabile come io non sarò mai.

A Stefan importa, lo capisco quando incontro il suo sguardo speranzoso.

Per un attimo, è come se gli occhi verdi scuri e gravi che mi osservano fossero quelli dello Stefan diciassettenne, il giorno di settembre in cui gli avevo detto che avevo bisogno di allontanarmi da Mystic Falls, che sarebbe stato solo per un paio di mesi, e poi non ero più tornato per otto anni.

Forse è per quello, per quel lontano senso di colpa che torna a stringermi il petto, per quegli otto anni passati ovunque tranne che qui, a far guarire ferite che non possono davvero essere guarite, che mi sento in dovere di rassicurarlo che non lo lascerò da solo in tutto questo.

"Scherzi? Non me lo perderei per niente al mondo."


***


Quando il giorno dopo partiamo alla volta di Richmond, Stefan è così verde dall'agitazione per il fatto di dover presentare i dettagli finali del suo piano per evitare il fallimento della compagnia che devo fermare l'auto ogni quindici minuti, preoccupato per le sorti dei sedili in pelle della Camaro.

Grazie a dio, Caroline si decide a chiamare quando siamo quasi a metà strada, per fargli sapere con voce incrinata che le è mancato terribilmente e che lo aspetta a casa al suo ritorno, aggiungendoci anche una sequela di incoraggiamenti infiniti per il "grande giorno". La cosa mi sottopone ad un'infernale mezzora di smancerie, ma se non altro ha il potere di migliorare sia l'umore che il colorito di mio fratello e ciò non può che essere un bene.

Quando arriviamo al terzo piano dell'edificio che ospita la sede di Richmond delle Salvatore Associates, siamo perfino in anticipo di dieci minuti.

"Torno subito, ho dimenticato in macchina alcuni appunti per la presentazione," mi fa sapere Stefan, appena prima di tirare fuori il telefono e scomparire di nuovo dentro l'ascensore.

Dal momento che non mi ha neanche chiesto le chiavi, sono pronto a scommettere qualsiasi cosa che gli appunti ce li ha ben stretti sotto il braccio e che sta solo sgattaiolando per andare a chiamare Caroline un'altra volta.

Qualcuno dovrebbe prendere quei due e sottoporli ad accurati studi clinici per grave caso di co-dipendenza.

" … no, dispiace a me, non avrei mai dovuto … Sono solo andato nel panico perché ho pensato che tu non volessi più … Non avrei dovuto farlo senza parlartene."

La voce di Elijah mi arriva all'orecchio da un ufficio con la porta socchiusa a solo un paio di metri da me.

E' con lei che sta parlando? …

Penso al mio infallibile piano (resta concentrato, non fare danni) e mi ripeto che qualsiasi cosa sia successa per far scappare Elena in quel modo sono solo affari loro, non miei. Però poi mi avvicino lo stesso di un paio di passi, prendo il telefono per far finta star leggendo qualcosa e rimango in attesa del resto.

Del resto, faccio schifo ad attenermi ai piani, ho sempre preferito l'improvvisazione.

Elijah non parla per un tempo considerevolmente lungo ma, quando lo fa, la sua voce sembra quasi rompersi. Solo un poco, solo per un frazione di secondo.

"No, capisco. Possiamo parlare domani. Ma posso venire anche stasera se vuoi …" Un'altra pausa, un altro impercettibile cedimento. "Ok, domani. Mi sei mancata. Ti amo."

Sono contento di non poter sentire la risposta dall'altra parte del telefono.

Se la ragazza che solo due notti fa, sul ballatoio di un motel, si è sottratta alla mia carezza un attimo prima che potessi prendere la pessima decisione di baciarla gli ha appena professato il suo amore, preferisco di gran lunga non saperlo.

"Damon, buongiorno," mi saluta Elijah uscendo dalla stanza e venendomi incontro. Sicuro, professionale, chiunque direbbe che le incertezze di pochi secondi prima me le sono solo immaginate. "Tuo fratello?"

"Ci raggiunge."

"Sono passato da Mystic Falls un paio di giorni fa e con l'occasione volevo parlarti di una cosa che ha attirato la mia attenzione, ma Stefan ha detto di non sapere dov'eri …" la sua frase sfuma, come se solo in quel momento gli fosse sovvenuto uno strano pensiero.

Forse che due persone fuori dai radar nello stesso momento è davvero una curiosa coincidenza?

Si volta a guardarmi, dubbioso, ed io gli sorrido amabilmente.

"Un piccolo viaggetto deciso all'ultimo momento. Pochi intimi. Il sud è splendido in questo periodo dell'anno."

Poi entro nella sala riunioni senza neanche preoccuparmi di guardare la sua reazione.


Un venerdì sera inutile, infinito ed uguale a tanti altri.

Jessica aveva iniziato a lamentarsi non appena avevo accostato la Camaro in una delle solite stradine laterali che salivano in mezzo alla boscaglia.

Dopo tre settimane, a quanto pareva, era arrivato il fatale momento dell'upgrade, e tutto d'un tratto le scopate in macchina non andavano più bene. No, voleva di meglio, perché "fa freddo, cazzo, ed io mi rifiuto di andare a nasconderci nei boschi quando vivi da solo e hai un letto dove non devo slogarmi il ginocchio tutte le volte". O qualcosa del genere.

Ovviamente neanche in un milione di anni mi sarei mai sognato di portarla a casa mia.

Soprattutto nel mio letto.

Lo stesso letto che aveva ancora una traccia del profumo di Elena, ormai talmente impercettibile che più probabilmente me la stavo solo immaginando. Anche se Elena dopo quella notte passata rannicchiata accanto a me - dopo quel maledetto mattino - non mi parlava più, troppo impegnata ad intrecciare le mani nei corridoi della scuola con il ragazzo che tutti adoravano, l'idea di fare sesso sopra quella traccia, vera o immaginaria che fosse, era solo sporca e disgustosa. E neanche mi importava che il solo fatto di pensare una cosa del genere mi rendesse praticamente l'essere più patetico sulla faccia della terra.

Così, dopo il fiasco di Jessica, girai la macchina e la parcheggiai fuori casa di Enzo, per raggiungere lui e gli altri dentro al suo garage.

Venni accolto da Paranoid dei Black Sabbath sparata dal vecchio lettore cd appollaiato in un angolo, da un paio di battutine sul fatto che fossi appena andato in bianco e dagli ultimi due tiri di una canna come premio di consolazione.

"Ascolta, amico, devi fartela passare, smettila di stare ancora dietro a questa qua," stava dicendo Enzo con fare convinto, un altro mozzicone ormai spento ancora tra le dita.

Io, allungato su una delle vecchie poltrone che arredavano quella tana impregnata dell'odore dolciastro e pungente del fumo, stavo già finendo di chiuderne e accenderne un'altra. La quarta, forse la quinta.

"Ma Cathy …" iniziò a protestare Mason.

Inspirai, chiusi gli occhi e smisi di ascoltare, perché avrei preferito spararmi un colpo in testa piuttosto che sentire un'altra volta la triste storia della dolce Cathy, che dopo un anno limitato a toccatine fugaci sotto la maglietta con Mason, adesso si rotolava felicemente nel letto di uno dei receivers dei Timberwolves. Maledetti giocatori di football. Quanti diavolo ce n'erano in giro? Un cazzo di esercito. Un cazzo di esercito con l'unica missione di renderti la vita miserabile.

" … hai aspettato un anno e guarda che hai ottenuto, la figura del coglione. Una botta e via è sempre la cosa migliore. Ho ragione, Damon?"

Socchiusi gli occhi verso Enzo, che si era finalmente accorto dopo mezzora che quel mozzicone non tirava più e si era deciso a buttarlo nel posacenere, gli passai quella nuova e annuii.

"Perfettamente ragione," concordai.

Mason si alzò per cambiare cd e mettere su i Led Zeppelin.

"Ok," concesse quindi. Lo sportello del mini frigo si aprì con un tintinnio di vetri. "Si fotta Cathy."

Mason tornò e posò le birre sul tavolo di legno davanti al divano, già troppo ingombro di bottiglie vuote, cartine ed un ultimo pezzettino di hascisc da cui, giudicai ad occhio e croce, poteva ancora scapparci un'altra canna scarsa.

"Chi suggerite?"

Come sempre quando la conversazione virava sulle ragazze, saltarono fuori un paio di nomi sui quali avrei potuto contribuire con diversi commenti ma, al diavolo, mi sarebbe costata troppa fatica.

E poi le note irrequiete di Dazed and Confused erano parecchio meglio delle voci di quei due.

Sweet little baby, I don't know where you've been.

E cosa cazzo ci facevo ancora lì in ogni caso? Sarei dovuto andare da lei. Anzi, sarei dovuto andare da lei già giorni fa, a scusarmi per essere stato un tale coglione. Scusarmi per essere me. E poi pregarla anche solo di parlarmi di nuovo, perché non poterle parlare era la parte peggiore. Di tutto.

Sweet little baby, I want you again.

Non mi importava neanche quanti quarterback potessero tenerla per mano o baciarla sulla guancia di fronte agli armadietti, come dei bravi dodicenni. Ok, forse mi importava, ma non importava. Avrei sempre potuto far finta che non bruciasse così tanto, e magari prima o poi davvero non avrebbe più fatto tanto male. Purché mi parlasse di nuovo. Perché io avevo bisogno di lei molto più di quanto lei avesse bisogno di me. Era l'unica cosa buona e vera in mezzo ad un sacco di stronzate, e senza c'era solo un enorme buco tra lo stomaco e il petto che non sapevo come rimpiazzare.

Dio, ecco perché odiavo pensare quando ero così fatto.

"Magari è la volta buona che riesco a farmela dare dalla Forbes. Giuro che mi fa uscire di testa ogni volta che passa con quelle minigonne…"

"Quella è fin troppo facile. Ci sono passati tutti su quel treno. Ma se proprio ci tieni chiedi a Damon, visto che gli piace giocare a fare il fidanzatino con la sua amica. Magari ci mette una buona parola."

Come risposta, alzai il dito medio verso Enzo.

Scoppiarono entrambi a ridere anche se non ce n'era alcun cazzo di motivo.

"Intendi quella strana, la figlia del Grill?"

La figlia del Grill.

Quella frase davvero non aveva senso.

"Non è strana," replicai sollevandomi quel tanto che bastava per afferrare una delle birre.

"E' un po' strana, invece," insistette Mason. "Non esce mai. Sta quasi sempre per i fatti propri. E suo padre è strano quanto lei. Potrebbe quasi essere figa, te lo concedo, ma resta sempre strana."

"Sua madre è morta, coglione," replicò l'altro.

"Orribile, mi dispiace. Ma sempre strana."

Il mio cervello non era andato abbastanza per poter davvero ancora starli a sentire.

"Io me ne vado," annunciai finendo l'ultimo, lungo, sorso di birra.

"Non resti neanche per l'ultima?" mi chiese Enzo alzando il pezzettino di fumo che avevo adocchiato prima.

Scossi la testa, tirai fuori le chiavi della Camaro ed uscii nella notte gelata.


***


Stefan è eccezionale.

Inizia la sua presentazione un po' tentennante, con quel suo tic nervoso di picchiettare le dita tra di loro, ma dopo un paio di occhiate di rassicurazione e mano a mano che prosegue acquista una tale sicurezza che non si direbbe mai che è lo stesso che da bambino è stato costretto da nostro padre a vedere uno psicologo due giorni alla settimana per curare una timidezza patologica ai limiti della fobia sociale, eventualità considerata ovviamente troppo inaccettabile e fuori da ogni logica per un vero Salvatore.

Quando ha finito, sono tutti conquistati.

Tutti, perfino quell'insopportabile cretino di Cartwright, che si gratta la pelata con fare assorto e per la prima volta mostra un'espressione che potrebbe quasi suggerire una parvenza di movimento tra la ruggine del suo cervello.

Mentre parte la discussione, Stefan torna a sedersi accanto a me che, sotto al tavolo, gli porgo il pugno chiuso. Lo scontra con il suo e con la coda dell'occhio lo vedo quasi sorridere.

Escluso il mio che è suo di diritto, ha altri cinque voti a suo favore, perfino due in più di quanto avevamo sperato, e solamente l'opposizione di Cartwright, ristabilita dopo quegli unici due minuti di indecisione in cui il suo cervello ha effettivamente lavorato, ci separa dall'unanimità.

Solo Elijah non ha ancora detto una parola e continua impassibile a fissare lo schermo con lo schema riassuntivo del piano di Stefan, le dita unite in grembo, lo sguardo fermo e serio.

"Non penso che possa funzionare," dice infine, tornando a voltarsi verso il resto della sala.

Verso di me.

Mi fissa negli occhi per un lungo momento, intanto che un brusio confuso si solleva nella stanza.

Lui si alza in piedi, si abbottona la giacca e lo sovrasta, iniziando a spiegare, con tono convincente e gesti lenti e misurati, perché è una strategia troppo rischiosa; smontandone ogni più piccolo pezzettino in rischi e calcoli e percentuali.

L'istinto di prenderlo a pugni è così forte da farmi stiracchiare le dita.

"Ecco perché non posso dare la mia approvazione."

La discussione riprende decisamente più animata di prima, in vista di una nuova votazione, ma tutto ciò che vedo è la faccia di mio fratello che impallidisce di più ad ogni secondo che passa, ad ogni parola che rende chiaro dove se ne sta andando ogni supporto che aveva trovato.

Osservo quell'uomo che infila una mano in tasca e muove l'altra per rinforzare le sue ragioni, quell'uomo che adesso tutti ascoltano, quell'uomo che ha la fiducia che mio padre non ha mai concesso ai suoi figli, e sono di colpo così incazzato per così tante cose che non sto neanche a chiedermi da dove vengano la rabbia e la frustrazione che mi consumano lo stomaco.

"Tutto questo è una gigantesca cazzata," lo interrompo ad un tratto senza più riuscire a trattenermi, cosa che ha immediatamente il potere di far acquietare l'intera sala.

"Se qualcosa da obiettare Damon," ribatte calmo, "Ti invito ad entrare nel merito, possibilmente con un linguaggio adatto alla situazione."

Qualcuno sussurra, altri si scambiano occhiate e scuotono la testa.

Stefan inclina la testa verso di me, domandandomi con lo sguardo cosa cazzo sto facendo.

Lo ignoro.

"Uso il linguaggio che mi pare e, se proprio ci tieni a saperlo, il merito della mia obiezione sei tu. Non me ne frega niente di come ragionasse mio padre, non puoi davvero pensare di arrivare dall'alto e prendere decisioni per tutti-"

"E' il mio lavoro," replica freddamente, tamburellando distrattamente una penna sul tavolo. E' fortunato che è dalla parte opposta della stanza, o avrei già parecchie idee su dove fargliela mettere. Rialza lo sguardo su di me, sarcastico. "Un lavoro che qualcuno mi ha affidato affinché potessi svolgerlo al meglio. Ti crea qualche problema per caso?"

"Molti. Perché sei chiaramente un incompetente se non riesci a vedere che ciò che ha proposto Stefan è la migliore idea che qualcuno potesse mettere sul tavolo e di sicuro la migliore possibilità che questa compagnia ha per poter restare in piedi …"

"Damon, smettila," mi intima Stefan sottovoce, una richiesta subito coperta e messa in secondo piano dalla successiva replica di Elijah.

"Si tratta di questo, o forse piuttosto di una tua ridicola fantasia di voler essere al posto mio?" E' gelido, ma si assicura di trasmettermi bene il concetto con un altro sguardo prolungato. Per un fugace attimo, ho l'impressione che solo noi due sappiamo fino in fondo cosa significhi. "Perché non succederà."

"Non ho bisogno di occupare il posto di nessuno," ribatto asciutto. "Nel caso non ti sia già chiaro, ti voglio fuori di qui."

"Non puoi licenziarmi," mi ricorda. "Solo il consiglio può."

Indica i presenti con un gesto della mano. Il silenzio solidale e le occhiate prive di stima indirizzate verso di me e mio fratello rendono cristallino da che parte stia pendendo la bilancia.

"Bene," replico alzandomi e rivolgendo un bel sorriso sardonico ad ognuno dei presenti. "Allora potete tutti andare al diavolo."


Parcheggio la macchina sul bordo del vialetto, spengo il motore e mi giro verso Stefan.

Mio fratello non mi guarda, immerso nello stesso silenzio arido che mi ha riservato durante l'intero viaggio di ritorno da Richmond e che non penso di riuscire a sopportare un secondo di più.

Mantiene lo sguardo fisso un momento più a lungo sul tramonto aranciato che sbuca da dietro il profilo bianco di casa nostra, quindi scende di scatto sbattendo con violenza la portiera alle sue spalle.

"Potresti anche dire qualcosa, sai," tento scherzoso andandogli dietro. "Anche solo bladitibla, tanto per dimostrarmi che non hai perso l'uso della parola."

Stefan si ferma poco prima di salire i gradini del portico.

Torna indietro verso di me, ci ripensa, poi torna indietro di nuovo, si passa una mano tra i capelli, la stringe a pugno fino a far sbiancare le nocche, riprende a camminare.

Sì. E' incazzato.

"Hai mandato a fanculo l'intero consiglio. Ben fatto. Contento adesso?" mi domanda alla fine, ironico.

"No, ho mandato al diavolo l'intero consiglio," lo correggo. "Suona più educato."

"Cristo santo, Damon! Riesci mai a prendere sul serio una cosa, una sola cosa, per una dannata volta?"

"La sto prendendo sul serio!" ribatto. "Cosa ti aspetti, che resti zitto e in disparte mentre un coglione con un palo della luce incastrato tra le natiche è capace con tre parole di mandare all'aria tutto ciò per cui ti sei impegnato …"

"No, sei tu che hai mandato tutto all'aria!" esclama allargando le braccia.

Deglutisco con un notevole sforzo per riuscire a mandar giù quell'accusa, perché lui non lo sa che ho passato le ultime due ore a tormentarmi sulla stessa cosa. L'ho fatto davvero, forse ancora prima di entrare in quella stanza.

"Non puoi proprio farne a meno, vero?" continua imperterrito. "Dio, papà ha sempre avuto ragione su di te."

"La vuoi smettere per una cazzo di volta di tirare in ballo papà?" sbotto risentito di fronte a quella corda che non avrebbe dovuto far saltare. L'amarezza mi esplode nelle vene e finisce dritta a riversarsi in ogni mia parola. "Ma ti senti parlare? Continui ancora a pendere da ogni sua stronzata, quando invece dovresti essere il primo ad essere incazzato nero. Dimmi una cosa, allora, a cosa ti è servito essere sempre così bravo e irreprensibile, sempre così pronto a compiacerlo, a voler essere una sua fottuta copia sputata, quando non ti ha lasciato nient'altro che una quota del cazzo che conta meno di niente? Tu conti meno di niente. Non ti fa incazzare questa cosa qua? Neanche un po'? Sapere che fino alla fine lui ha preferito me, quello che ha sempre combinato casin-"

Il destro di Stefan mi colpisce così all'improvviso da farmi barcollare all'indietro, il volto mi si spacca dal dolore.

Respiro pesantemente mentre ritrovo l'equilibrio, intontito dal colpo, dal sangue tra i denti e da un veleno dentro che non sapevo neanche di avere. Non più almeno.

"Stef!"

L'esclamazione acuta di Caroline, che accorre uscendo di corsa dal portone, è l'unica cosa che si frappone tra me, mio fratello e la voglia di schiacciargli la testa contro la ghiaia del vialetto come quando eravamo ragazzini.

Solo che allora erano sempre zuffe di poco conto, adesso è rabbia e desiderio di ferirlo, puro e semplice.

"Cosa diavolo vi prende, si può sapere?" domanda con una voce al limite dell'isteria, mentre afferra Stefan per un braccio per tirarlo indietro e sposta lo sguardo colmo d'ansia da lui a me.

"Il tuo ragazzo è fottuto nel cervello quanto tutti quanti, ma non gli piace sentirselo ricordare," rispondo tagliente.

Sputo via il sangue amaro che ho in bocca, in una macchia rossastra che va a deturpare il vialetto reso grigio dalle ombre del tramonto, a pochi centimetri dalle scarpe di Stefan che alza lo sguardo su di me con tutta la furia ferita che mette anche nelle sue parole.

"Sai una cosa, Damon? Era meglio se non ti prendevi neanche il disturbo di tornare."

"Basta!" grida Caroline, in lacrime. "Entrambi. Per favore."

Vorrei dirle che non ce n'è bisogno. Quell'ultima frase di Stefan, improvvisa e aspra, mi si conficca nel petto così a fondo che non avrei parole per rispondere neanche se lo volessi.

"Stefan, vieni dentro."

Caroline lo prende per una mano e lo tira via. Lui la segue docile con lo sguardo fisso per terra.

"Damon …" Nel rivolgersi nei miei confronti la biondina si ferma, per indirizzarmi uno sguardo di scuse imbarazzate che rende chiaro cosa ha deciso di farne di me. "Penso che sia meglio se te vai, per adesso."


***


Cazzo, fu il mio unico pensiero coerente quando il volante mi sfuggì di mano, le ruote sobbalzarono fuori dal mio controllo, una scarica di adrenalina mi annebbiò il cervello e per alcuni interminabili secondi non seppi più dov'era la strada.

Quando tutto si fermò, fu fortunatamente in un modo molto più dolce rispetto all'impatto a cui mi ero preparato. Solo la ruota destra era finita ad ancorarsi nel fossato di fango secco che fiancheggiava la strada, lasciando la Camaro storta e appena inclinata verso il basso.

Appoggiai la testa all'indietro e presi un respiro profondo per far rallentare le pulsazioni impazzite. Ma, cazzo, fu doppiamente il mio unico pensiero quando, prima che avessi il tempo di riprendermi del tutto e tornare a ragionare su come tirarmi fuori da lì, silenziosi lampeggianti blu passarono dal lato opposto, fecero inversione e si fermarono pochi metri dietro me.

Nello specchietto retrovisore vidi una figura scendere dall'auto ed avvicinarsi velocemente con il piglio risoluto di chi è abituato a portare l'uniforme.

Quando mi fu davanti, la donna mi alzò in faccia il fascio di luce della sua torcia, ferendomi in pieno gli occhi ancora troppo arrossati e pesanti.

Ero nella merda.

"Cos'è successo?" domandò, abbassandosi verso il finestrino per guardarmi meglio.

Grandioso, lo sceriffo in persona.

"Una lastra di ghiaccio," buttai là, mezzo biascicando.

"La strada è a posto." La luce saettò verso il basso, tornò su a scandagliare dentro l'abitacolo e quindi ad abbagliarmi di nuovo dritto negli occhi. "Un documento. E scendi dalla macchina."

Spinsi via lo sportello e mi arrampicai fuori dalla Camaro.

Mentre lo sceriffo Forbes spostava la torcia sulla patente che le avevo appena dato, mi feci coraggio e mi voltai per vedere con i miei occhi quanto danno potessi aver fatto alla mia auto. Difficile dirlo con quel buio. Cazzo.

La donna mi rialzò la luce in faccia.

"Giuseppe è tuo padre?"

"Purtroppo."

Qualche metro più in là, l'apertura di uno sportello risuonò nell'estrema silenziosità della notte fonda.

"Cosa hai lì?" le gridò il suo partner, restando accanto alla volante.

Lo sceriffo mi scrutò con attenzione ed una discreta dose di disapprovazione, come se sapesse perfettamente cosa si stava trovando davanti. Un altro ragazzino fatto e ubriaco dietro al volante.

Benvenuta comunità di recupero.

Ma, con mia estrema sorpresa, gli gridò di rimando. "Niente. Ci penso io."

"Resta qui," mi intimò più a bassa voce, quando l'altro poliziotto tornò a rinchiudersi al caldo dentro la macchina.

La seguii incuriosito con lo sguardo mentre si allontanava di qualche passo, prendeva il telefono e componeva la chiamata. Cosa cazzo stava facendo?

" … droghe leggere, molto probabilmente mischiate con dell'alcol… Sì, sta bene. Ok, aspetto qui."

Chiuse la conversazione e tornò da me, che la stavo ancora guardando come se fosse lei ad essersi fumata canne per tutta la sera, invece che il sottoscritto.

"Ha davvero appena chiamato mio padre?…" le chiesi del tutto disorientato. Forse ero ancora in tempo per scegliere la comunità di recupero. "Non dovrebbe prima ammanettarmi, schedarmi e sbattermi in galera?"

"Immagino che sia la tua serata fortunata."

Chissà perché ne dubitavo.

La familiare Mercedes grigia arrivò dopo circa quindici minuti e parcheggiò dalla parte opposta della strada. Mio padre ne scese per dirigersi deciso verso lo sceriffo.

Non mi gettò neanche mezza occhiata.

Rimasi in disparte a braccia conserte, ad osservarli parlottare a bassa voce, con qualche cenno nella mia direzione ed un sacco di occhiate gravi e fronti corrugate.

Neanche stessero decidendo le sorti della fottuta pace in Medio Oriente.

"Grazie, Liz." Mio padre le posò una mano sulla spalla. "Ti devo un favore."

Non appena lo sceriffo Forbes tornò alla volante e ripartì, si incamminò e si fermò dritto di fronte a me.

Solo in quel momento si decise a guardarmi. Direttamente negli occhi, con le mani sprofondate nelle tasche del cappotto e le spalle dritte. Senza dire niente.

Non ne aveva bisogno. La linea della sua labbra e l'espressione che lampeggiò nei suoi occhi azzurro intenso erano, anche immersi nel buio, di gran lunga peggiori di qualsiasi parola.

Fui io ad abbassare lo sguardo per primo.

"Tutto qui?" domandai con una smorfia, tirando un calcio ad un sassolino.

"Sali in macchina," mi intimò asciutto.

Rialzai lo testa per vederlo avviarsi verso la sua berlina senza né aggiungere altro né preoccuparsi di aspettarmi, come se non lo sfiorasse neanche per un secondo il pensiero che potessi non seguirlo. Non che avesse torto.

Quando mise in moto ed io appoggiai la fronte contro il finestrino, mi resi conto che, passata l'adrenalina e passato anche qualsiasi stordimento, la testa mi faceva solo un male cane.

I numeri rossi sul display digitale scattarono sulle 3:55. E ancora non aveva detto niente.

"Da quando tu e lo sceriffo vi conoscete per nome?" domandai fingendo noncuranza. "Te la scopi per caso?"

"No, non me la scopo."

Non riuscivo a capire se fosse incazzato, o disgustato da me, o chissà cos'altro.

Dopo un altro lungo silenzio, aggiunse solo, "Liz è un'amica e ti ha fatto un favore."

Vidi la smorfia sarcastica che mi deformò le labbra riflessa contro il buio, sopra il vetro del finestrino.

"Ha fatto un favore a te."

"E' la stessa cosa."

"Non lo è."

Nello svoltare verso il viale che portava a casa, la sua mano scivolò dal volante verso il cambio, che ingranò con fare sicuro ma tenendolo solo con la punta della dita. Io avevo lo stesso identico vizio. Non avrebbe neanche dovuto essere una sorpresa visto che era stato lui ad insegnarmi a guidare, ma mi infastidì comunque.

"In ogni caso, non cambia il fatto che dovresti essere grato," replicò in un tono che non ammetteva altre obiezioni. "E se qualcuno ti chiede cos'è successo, è stata colpa del ghiaccio. Tutto il resto rimane tra noi. Non ne fai parola con nessuno, nemmeno con tuo fratello."

Aggrottai le sopracciglia, spaesato. Era davvero tutto qui? Niente lezioni morali, niente sfuriate, niente stoccate in grado con poco di farmi sentire uno schifo.

No, non stava andando affatto come me lo ero immaginato.

Parcheggiata l'auto al solito posto, di fronte all'apertura del garage, si voltò a guardarmi di nuovo, inchiodandomi con un'occhiata perentoria. "Siamo intesi?"

E allora capii.

"Cazzo," sussurrai tra me e me, quando collegai tutti i pezzi.

L'intensificarsi delle donazioni e delle raccolte fondi; gli incontri con il governatore uscente e le cene "di lavoro" sempre più frequenti; i viaggi a Washington.

"Ti candidi, cazzo, non è così?" esclamai, girandomi verso di lui. "Ecco perché non vuoi che la gente lo sappia. Se già essere divorziato è un discreto svantaggio, immagino che il figlio drogato sia la ciliegina sulla torta."

"Sì, Damon, è la cazzo di ciliegina sulla torta che tu sai decorare alla perfezione," ribatté con l'impeto che iniziavo a riconoscere, "Ogni dannata volta che sprechi tutto il tuo potenziale senza combinare niente dalla mattina sera, che ti impunti su questa ridicola storia del college, che preferisci andare in giro con perditempo strafatti e figlie di alcolizzati-"

"Che cosa hai detto? …" lo interruppi, incredulo. "Cosa diavolo ne sai?"

Mi guardò come se fossi un completo deficiente.

"Pensi che solo perché vivi a trenta metri da me, io non sappia quello che fai, o chi frequenti? Ho visto quella ragazza venire qua e starti intorno fin troppo spesso. Conosco suo padre, e so che è un buono a nulla, così come so che piega sta prendendo tutta quella situazione, e tu non vuoi confonderti con certa gente perché, credimi, l'ultima cosa che vuoi è ritrovarti ad averla messa incinta e ad aver gettato via in un solo attimo tutto il tuo futuro."

Non gli risposi nemmeno.

Scesi direttamente dalla macchina sbattendo la portiera in faccia al suo bel consiglio del cazzo.

Alle mie spalle, lo udii aprire lo sportello e scendere dall'auto.

"Damon!"

Sentii la ghiaia scricchiolare sotto ai suoi passi mentre mi raggiungeva.

"Sai," dissi d'un tratto, fermandomi sotto il flebile cono di luce del portico e voltandomi per fronteggiarlo di nuovo, con quel grumo amaro di pura rabbia che stava gridando dalla voglia di essere sputato fuori. "Stasera, avrebbe potuto esserci un'altra macchina dalla parte opposta, o un cazzo di albero, o magari perché no, pure un bel ponte da cui saltare. Ho avuto paura, per un momento, davvero paura. Te ne frega almeno qualcosa?"

Si bloccò, spiazzato. E forse per un breve istante, sembrò quasi … perso.

Sbatté le palpebre, una volta, due volte.

"Certo che m'importa. Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?"

Già, come potevo?

Scrollai le spalle, gli diedi la schiena e ripresi a camminare.

Di nuovo non gli diedi una risposta. Ma questa volta non mi richiamò più.


***

Invio il messaggio prima di avere il tempo di ripensarci e mi dirigo sul retro. Tiro la porta in avanti, infilo nella serratura un pezzetto di legno abbastanza appuntito trovato per terra, lo muovo in alto e poi a sinistra e la faccio scattare.

Il Grill è silenzioso e vuoto, la parete destra della cucina sventrata fino al suo scheletro di tubi, l'unico suono il basso ronzio del generatore di emergenza. E' una creatura agonizzante che non vuole mollare, in paziente attesa di cure che possano rimetterla in sesto.

Dal freezer prendo una busta di spinaci surgelati, mi siedo su un tavolo, allungo le gambe ed aspetto anche io.

Così forse ci facciamo compagnia a vicenda.

Ma non dobbiamo aspettare a lungo, visto che solo dopo una ventina di minuti un breve rumore di chiavi anticipa l'apertura della porta principale.

"Damon, ho visto il tuo messaggio e …" Elena non finisce più la frase, quando solleva lo sguardo e nota il pacco ghiacciato che continuo a tenermi premuto contro la mascella. Posa la borsa sul primo tavolo disponibile e si avvicina a passi piccoli ma veloci, squadrandomi preoccupata. "Cosa ti è successo?"

Sono ancora troppo sorpreso per risponderle immediatamente perché, in verità, anche se sono stato io a chiederle di incontrarci qui, ero piuttosto convinto che avrebbe educatamente rifiutato accampando la più banale delle scuse disponibili.

In quel mio breve attimo di spiazzamento, la sua mano mi coglie ancora di più alla sprovvista posandosi sul mio profilo dalla parte non contusa e muovendolo delicatamente verso di sé.

Incontro i suoi occhi e si ferma, restituendomi lo stesso sguardo. Cautamente allunga l'altra mano, per invitarmi a scansare la busta di surgelati. Io la assecondo senza opporre resistenza.

La punta delle sue dita mi sfiora la guancia, che è adesso quasi del tutto anestetizzata dal ghiaccio, cauta e apprensiva. E' il miglior balsamo in cui potessi sperare e mi sento in colpa anche solo per averlo pensato.

"Stefan," dico a bassa voce, e solo a nominarlo il dolore cresce di nuovo.

Elena lascia cadere la mano e mi scruta stupita.

"Stefan ti ha colpito?"

Annuisco. "Sì, ma non è per approfittarmi del tuo inimitabile spirito da crocerossina che ti ho chiesto di vederci."

Le sue sopracciglia si increspano, in un misto di prudenza e aspettativa.

"E allora perché?"

Poso gli spinaci alle mie spalle e mi prendo qualche secondo, per decidermi se voglio davvero andare fino in fondo e riaprire quel capitolo. Una parte di me sa che vivrebbe molto meglio se continuasse semplicemente ad ignorarlo come ha fatto per anni, cacciandolo in quell'angolino remoto della mia mente che preferisco evitare di visitare. L'altra … non può sopportare l'idea di non sapere tutto quello che gli è passato per la testa, fino al giorno in cui un momento era qui e quello dopo non più.

"In che modo mio padre ha iniziato a lavorare con Elijah?"

Elena mi osserva come se per un momento non avesse capito la mia domanda. O come se non fosse quella la domanda che si aspettava.

Poi scuote quasi impercettibilmente la testa, si ritrae di un passo, serra le labbra e se le mordicchia appena. Sta pensando. Perché ci sta pensando?

"Damon, tuo padre …" inizia, ma il modo in cui ha addolcito il tono mi fa subito pentire di averglielo chiesto. E' uno di quei toni che si usano per dare le notizie delicate, e che mi spinge a pensare che non so più se voglio davvero sapere cosa ha dire. "Io e tuo padre ci siamo incontrati circa un anno fa. Aveva iniziato a venire qui, al Grill, e mi ricordo che la cosa all'inizio mi era sembrata piuttosto strana, perché non lo aveva mai frequentato prima. Ma passava di qua quasi tutti i giorni … a volte solo per colazione, altre volte si fermava ad un tavolo ad angolo a lavorare. E parlavamo. Ogni volta."

Cerco i suoi occhi sentendomi smarrito, come se potessero davvero darmi la risposta a tutti i milioni di domande strozzate che mi sono improvvisamente salita sul fondo della gola. A fatica, ne faccio uscire almeno una.

"Di cosa?"

Elena si porta due dita sulle labbra, come se sapesse esattamente quale è stata la prima cosa che ho pensato, che ho sperato, e fa appena cenno di no con la testa, quasi per scusarsi del fatto che la risposta non sia davvero quella che voglio o che ho bisogno di sentire.

"Di niente, in realtà. Insomma … il tempo, le notizie del giorno, la clientela. Queste piccole cose. Ma era gentile. E divertente," si lascia sfuggire un accenno di sorriso che ha un effetto peggiore di quanto potessi pensare, facendomi sentire derubato di qualcosa che non sapevo neanche di avere. Si sfalda quanto nota la mia espressione. "Mi dispiace, Damon, vorrei che ci fosse di più, lo vorrei davvero."

Il trillo del mio telefono risuona ovattato da dentro la mia tasca. Ma fanculo chiunque sia, fosse anche Stefan, lo tiro fuori solo per rifiutare la chiamata senza neanche guardare.

"Perché non me lo hai detto?" le chiedo, posando il cellulare sul tavolo.

"Volevo, ma … Tuo padre non è un argomento che affronti volentieri. Non sapevo come."

Non posso davvero controbattere, così mi stringo solo nelle spalle e mi lascio sfuggire una smorfia amara.

"Quindi è così che ha incontrato Elijah. Tramite te," osservo iniziando ad avere un quadro più preciso della situazione.

"Sì," conferma. "E' stato poco dopo che mi aveva chiesto di sposarlo, prima dello scorso Natale … Non avevo neanche idea, sul momento, che potessero iniziare a lavorare insieme. Damon, perché lo vuoi sapere, che importanza ha?"

"Perché non sopporto il tuo fidanzato. Non sopporto le sue idee. Non sopporto il modo in cui muove le mani, e non farmi nemmeno iniziare a dire quanto non sopporto i suoi capelli."

Le vere cose che non sopporto, però, non sono quelle che dico ad alta voce.

"E' una brava persona," mi ricorda prontamente.

"Non mi importa. Non lo sopporto lo stesso. O magari è solo che non capisco il perché. Perché lui."

"Beh, è davvero bravo nel suo lavoro e tuo padre-"

"Non stavo parlando di mio padre."

Le parole mi escono di bocca senza che io riesca a trattenermi.

Osservo la sua reazione inclinando la testa, prima che abbia il tempo di defilarsi nella sua zona sicura, quella in cui diventa quasi impossibile capire cosa pensa davvero.

I suoi occhi sono grandi, palpitanti, di quell'intenso castano che diventa ancora più scuro quando è agitato o combattuto per qualcosa.

Li distoglie subito, come se non volesse farmelo scoprire. Non del tutto, almeno.

Si appoggia alla mia sinistra contro il bordo del tavolo. Porta una ciocca di capelli, lasciati sciolti sulle spalle, dietro all'orecchio. Sposta lo sguardo sulla punta delle sue scarpe, un paio di converse nere mezze sfilacciate che fa dondolare un po' incerta.

Sta prendendo tempo ed io mi chiedo se si renda quanto ogni suo gesto mi faccia implodere il petto sotto al peso di ricordi e emozioni passate. Perché in ognuno di quei gesti è ancora la ragazzina che io conoscevo, a dispetto dell'apparenza e dell'anello da grandi. E io amavo quella ragazzina.

"Lui …" comincia infine, con le converse che dondolano ancora. "Elijah è entrato nella mia vita in un momento in cui tutto stava lentamente iniziando ad andare al suo posto. Mio padre aveva iniziato a rimettersi in sesto, il locale aveva ripreso ad andare bene, ed io per la prima volta mi sono concessa di pensare che forse … Che forse le cose potessero davvero funzionare. Che io potessi funzionare. Ed è stato così. Lui era là, io mi sono innamorata, ed ha funzionato." Solleva le spalle, lascia uscire un altro respiro. "Ha funzionato."

"Dunque è questo il grande segreto," dico piano, forse più a me stesso che a lei. "Il momento giusto."

"Immagino di sì." Sento il suo corpo spostarsi appena, magari solo di un centimetro, e le punte dei suoi capelli sfiorarmi l'avambraccio al di sotto delle maniche della camicia arrotolate sui gomiti, in un piacevole formicolio. Poi aggiunge in un unico, impalpabile, soffio, "Ma forse a volte il momento può cambiare."

Per un momento, sono perso. Perché ciò che ha appena detto, il modo in cui lo ha appena detto ... Non può davvero voler dire quello che penso voglia dire.

Ma poi seguo il suo sguardo, che non è più sulle converse. Lo seguo fino a scoprire che si spostato sulla sua mano. O sulla mia. O su quei due miseri millimetri che le separano.

E sono tirato, trascinato, ancora una volta, come sempre, verso di lei. Al diavolo i piani, le conseguenze, le buone ragioni per cui non dovrei, e in generale ogni singola cosa che esista al di fuori di questo preciso momento.

Muovo la mano nello stesso momento in cui lei muove la sua. Quando la sfioro, o lei sfiora me, quando le nostre dita si intrecciano quasi con cautela, non sono due millimetri quelli che ho appena attraversato. Sono più un continente, o otto anni, solo per toccarla.

Ma il momento non è mai giusto.

Se lo sapevo già prima, ne sono più che mai convinto adesso, quando il mio telefono suona di nuovo, riverberando il suo squillo nell'intero locale peggio di un allarme anti-incendio.

Elena si raddrizza di scatto con un sussulto e ritira la mano. Tutto è finito.

"Rispondi, per favore," sospira. Sembra quasi esasperata.

Si stacca decisa dal tavolo, si stringe le braccia al petto, e mette molto impegno nel fissare la parete di fronte pur di evitare di guardarmi.

Rispondo al cellulare in uno scatto a metà tra la rassegnazione e l'istinto omicida.

"Cosa c'è?"

"Vegas è qui," dice Alaric dall'altro lato.

"Ric, cristo santo, per l'ennesima volta, se è uno scherzo non è più divert-"

"Quando sono tornato, era a casa tua a parlare con tuo fratello e la sua ragazza, chiedendo di te. Sono arrivato troppo tardi, non ho potuto …"

"Grazie al cielo, finalmente! Eccoti qui."

Mi congelo all'istante quando sento quella voce giungere dalle mie spalle.

Lascio scivolare via il telefono dall'orecchio quasi fossi in trance, senza più ascoltare una sola parola di ciò che sta dicendo Ric perché, davvero, non ha più importanza.

L'inferno è qui.

"Hai anche solo una vaga idea di quanto mi ci è voluto per trovarti in questo cavolo di posto dimenticato da dio? Perfino il satellitare si rifiutava di portarmici."

Probabilmente perché il satellitare ha una coscienza, mi verrebbe da dirle se non fossi troppo scioccato per spiccicare parola.

Mi volto a rilento, come se potessi davvero ritardare l'inevitabile, ma comunque in tempo per poterla vedere contro la porta che Elena aveva lasciato socchiusa e cogliere la smorfia che le arriccia le labbra quando alza la testa per gettare una veloce un’occhiata attorno.

"Cos …?"

"… diavolo ci faccio qui?" finisce per me, e sorride.

La stronza sorride, mentre avanza verso di me sui tacchi alti dei suoi stivali. Mollemente, inesorabilmente.

"Oh, penso che tu lo sappia benissimo. Voglio la mia parte di soldi. Mi spetta di diritto."

Elena fa un passo avanti da dietro le mie spalle.

"Scusa, e tu chi sei?" domanda, con le braccia ancora strette al petto ma un nuovo sguardo, quasi felino, mentre sospettosa passa in rassegna ogni centimetro di quella che ha già catalogato come un'intrusa nel suo territorio.

Sono fottuto. Completamente, totalmente, assolutamente … fottuto.

"Elena …" tento subito, in extremis.

Ma è questione di una manciata di secondi. Tutto accade così in fretta e così lentamente al tempo stesso, che è come guardare un incidente stradale svolgersi davanti ai proprio occhi senza avere il minimo potere di impedirlo.

La punizione per tutti i miei errori sorride di nuovo e le tende una mano che Elena si limita a guardare con diffidenza.

"Sono Katherine," annuncia come se se ne stesse gustando ogni singolo secondo. "Sua moglie."


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Note:

[1] Evento storico realmente accaduto nella zona in cui la storia è ambientata. Tutto il resto è naturalmente di fantasia.


Spazio autrice

Prima di tutto: grazie a Bloodstream_ per il nuovo stupendo banner su in alto. Mi ha fatto fangirleggiare come un'idiota.Thank you


Venendo al capitolo. Vi ricordate quando tempo fa dissi che alcuni commenti fatti da Damon un giorno avrebbero assunto tutto un altro significato? Beh, direi che l'entrata in scena di Katherine spiega cosa intendessi dire. Lo avevate capito? ...

Siamo circa a metà della storia, di conseguenza questo capitolo era un po' il "mid-season finale". Il prossimo aggiornamento dunque non arriverà con le solite tempistiche, ma ci sarà una pausa più lunga del solito. Spero comunque di avervi lasciato con abbastanza domande con cui riempire l'attesa.

Grazie a tutte coloro che hanno messo la storia fra le preferite e grazie per le recensioni! Se avete anche solo una curiosità, una critica o una cosa a caso da dire, se ve la sentite di regalarmi un minutino extra del vostro tempo per un commento, anche solo con due righe, mi scaldate sempre il cuore.

Un bacio


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Capitolo 13
*** Little broken hearts ***


12. Little broken hearts

12.

Little broken hearts


- Only the fallen need to rise

What if lightning strikes them twice?

Will they give up on their lives

And finally divide? -


(Little Broken Hearts, Norah Jones)


Elena


"Sposato! Spo-sa-to! Come ha potuto, come?! Come ha potuto fare una cosa del genere e mentire e non far sapere niente a nessuno, al suo stesso fratello! Ed io che avevo anche provato a prendere le sue difese, quel buffone ipocrita che non è altro, quello stronzo bugiardo traditore …" Sposto il telefono da una spalla all'altra mentre, dall'altro lato della linea, la sfilza di insulti che Caroline ha in serbo per Damon continua per almeno altri due minuti buoni, "… e traditore bugiardo! Ma soprattutto, perché diavolo qua si sposano tutti tranne me?!"

Mi passo una mano tra i capelli e getto lo sguardo verso l'ora. Sono quasi le dieci ed Elijah dovrebbe essere qua a momenti. Non dovrei neanche sprecare minuti importanti a discutere di Damon.

"Stefan come l'ha presa?" domando.

Caroline prende un lungo sospiro, non so se più per frustrazione o per riprendere fiato dalla tirata di dieci minuti che mi ha appena sparato nelle orecchie.

"Stefan non ne parla. Dopo il loro litigio di ieri, Damon è argomento off limits. E le ultime notizie non hanno certo aiutato."

"E' stato davvero così brutto?"

"Orribile. Si sono detti certe cose che …" la voce di Caroline si incrina. "Sono preoccupata, Elena. Hanno sempre avuto le loro discussioni e tutto quanto, penso che sia un po' il loro modo malato per dimostrarsi che si vogliono bene, ma questa volta … E' stato diverso. E' stato orribile. Quando Damon è tornato a casa ieri sera, Stefan si è chiuso da solo nello studio e non ha neanche voluto farmi entrare. Non si parlano, non si guardano. E' orribile. E io sono preoccupata.

"Per di più, adesso c'è pure quella là che è venuta ad installarsi a casa nostra. Questa mattina ha finito tutto il mio costosissimo shampoo all'olio di rose, ti rendi conto? Allora io le ho sputato nel caffè, solo che lei il caffè non l'ha preso perché dice che macchia la pelle, quindi ci ho sputato per niente. Così mi sono dovuta accontentare soltanto di lanciarle lo sguardo della morte ogni volta che mi è capitato di incrociarla." L'immagine dello "sguardo della morte" di Caroline per un attimo quasi mi strappa un sorriso di magra soddisfazione. "E poi il caffè non macchia la pelle, non è vero?"

"Non ne ho idea, Care."

"E tu? Cosa ne pensi tu di tutta questa storia?"

Con l'indice riprendo a disegnare piccoli cerchi sopra il bancone di legno della cucina.

"Vedrai che prima o poi si chiariranno. Sono fratelli, non possono davvero ignorarsi a lungo."

"Non ci provare," ribatte secca. "Io intendevo l'altra storia."

Fermo il dito sopra una venatura più chiara del legno, mentre la mia mente torna inevitabilmente alla sera precedente. All'incredula ingenuità con cui avevo cercato lo sguardo di Damon, in cerca di una smentita sarcastica, e forse anche un po' divertita, che naturalmente non era arrivata; a quella Katherine, e a come aveva spazzato via ogni mia sciocca illusione suscitata da una notte fuori dagli schemi e momenti in cui ho visto più di quanto c'era da vedere.

Cosa stavo pensando?… Cosa stavo pensando, mentre per poco non mandavo all'aria una solida relazione di due anni per qualche emozione fugace, per qualcuno che non si è posto il minimo scrupolo di farmi sapere come stavano davvero le cose, neanche quando siamo stati sul punto di …. Deglutisco per mandare via il sapore acido che mi ha riempito la bocca.

Del resto, non che con la giornalista si sia fatto problemi.

Sono stata una tale stupida.

"Io non penso niente," rispondo infine.

"Bugiarda."

Sento dei passi affrettarsi giù per le scale e ne approfitto per chiudere la conversazione.

"Devo andare, Care."

"Va bene," sospira. "Ma non scordarti di domani, ok? E' la giornata del volontariato al Whitmore Park e mi avevi promesso che ci saresti stata anche tu, perciò non accetto nessuna scusa. Alle tre, puntuale."

Naturalmente. Perché "i suoi ragazzi" si prendono a pugni, una con il corpo e l'atteggiamento da supermodella si presenta dal nulla come sua potenziale cognata ed una pioggia di locuste preannuncia l'apocalisse, ma non sia mai che gli eventi sociali perdano per questo la propria importanza.

Riattacco il telefono e mi affaccio sulla soglia di sala, dove trovo Jeremy inginocchiato ad allacciarsi le sneakers.

"Stai uscendo?" gli domando. "Elijah passa di qua stasera … Per te va bene?"

Jeremy solleva la testa verso di me, con una strana espressione perplessa.

"Perché me lo chiedi? Non ti sei mai fatta problemi finora e adesso all'improvviso ti interessa chiedermi il permesso su chi ti porti a letto?"

"Cavolo, Jer, era solo una domanda," alzo gli occhi al cielo mentre faccio dietrofront e torno verso la cucina.

Jeremy mi viene dietro e si appoggia a braccia conserte contro la porta, intanto che io inizio ad asciugare e a rimettere al loro posto i piatti della cena.

"Stai bene?"

"Certo che sto bene."

Mio fratello si avvicina, prende uno strofinaccio e mi aiuta a sistemare. Noto un nuovo tatuaggio sul suo bicipite sbucare dalle maniche della maglietta nera attraversata dalla scritta in rosso "Chaos UK".

"Te ne vai di punto in bianco per andare a fare festa a New Orleans - cosa che, non fraintendermi, è stata piuttosto figa - mi chiedi di coprirti con il tuo fidanzato quando poi viene a cercarti, e adesso mi vieni a domandare se sono io ad avere qualche problema con lui? Gesù, Elena, mollalo e basta, no?"

"Cosa? … " Mi volto di scatto e faccio quasi cadere il piatto che mi ha appena passato. "Non si tratta di questo," mi affretto ad aggiungere scuotendo vigorosamente la testa, come se il gesto potesse aiutarmi a scacciare via la consapevolezza che forse, per un breve e piccolo attimo, io stessa sono stata attraversata dallo stesso pensiero.

"Volevo solo dire … a te lui piace no? Insomma, in fin dei conti diventerà parte della nostra famiglia e mi sto solo accertando che anche a te vada bene."

Jeremy si stringe nelle spalle.

"E' noioso, ma non è un pezzo di merda e ti tratta bene, quindi sì, me lo faccio piacere."

"Jer …" continuo, dopo che abbiamo messo a posto anche l'ultimo piatto, "Cosa ne penseresti se io vendessi il Grill?"

Corruga la fronte e mi osserva con quella sua espressione accigliata che ogni tanto rompe, almeno per brevi momenti, la sua semi-perenne aria di indifferenza.

"Perché? Lo stai vendendo?"

"No, solo … ipoteticamente."

"Non lo so," risponde piano. "Ci siamo praticamente cresciuti in quel posto … Forse fin troppo." Fissa lo sguardo sulla piastrelle color crema della parete di fronte, poi scrolla di nuovo le spalle e il consueto disinteresse torna al suo solito posto. "Ma non esiste che me lo prenda io, perciò alla fine … facci un po' quello che vuoi."

Il suono del campanello mi impedisce di continuare ad approfondire.

Ancora una volta, vengo lasciata con la sensazione tronca di non riuscire a capire quale sia la scelta migliore da fare per tutti quelli che mi stanno intorno. Come se la risposta giusta fosse solo a pochi centimetri da me eppure io non riuscissi a vederla, così vicina e così fuori dalla mia portata.

"Mister Splendid è qui. Io vado."

Jeremy si fionda verso la porta e, quando la apre, Elijah è lì sulla soglia. Mio fratello se ne va scomparendo nel buio oltre il portico, salutandolo solo con un breve cenno del capo.

Elijah si appoggia con la spalla allo stipite e mi guarda da sotto in su. Il mio cuore compie una mezza capriola, come quelle che mi provocavano i nostri primi appuntamenti. Forse è per via di quello sguardo profondo che si accende quando incontra il mio, forse è per via della camicia bianca con il colletto aperto che gli dona incredibilmente … Lo guardo e lo so, che non sarebbe giusto rovinare ciò che abbiamo per qualche insicurezza passeggera.

"Ciao," sussurra piano.

"Ciao," sussurro di rimando.

Prendo un profondo respiro, gli accenno di sorriso e lo invito ad entrare.


***


La notte fonda del giovedì non era probabilmente il miglior momento per tentare di recuperare lo studio di storia.

Seduta sulla rientranza del davanzale, abbandonai la testa all'indietro contro la parete ed allungai le gambe per posizionare meglio il libro. Ulysses S. Grant, le ultime guerre Sioux, il generale Custer; tutte quelle parole, doppiamente illuminate dalla luce accesa nella stanza e dal fascio di luna che entrava dalla finestra, fluttuavano fin troppo leggere dentro la mia mente.

Sfogliai distrattamente il resto del carico di pagine.

Dal loro fruscio, ne sbucò fuori un foglio spiegazzato, che cadde delicatamente sul pavimento, a faccia in sù.

Vi fissai sopra lo sguardo. Il suo contenuto mi guardò di rimando, fermo ed indifferente come un'insensibile presa in giro.

Era possibile che quella maledetta semplice C-, scarabocchiata nell'angolo in alto a destra del mio mid-term di matematica, riuscisse a farmi quell'effetto? A riempirmi così di soddisfazione e di amarezza al tempo stesso?

Quando lo avevo ricevuto, c'era stato un breve e denso momento, in cui ero stata sul punto di scattare e correre da Damon, solo per farglielo sapere. Ma, altrettanto repentinamente, il momento era passato, io avevo soppresso quell'istinto e l'unica cosa che mi era rimasta era stata quella scorticatura sul retro della gola che il pensiero di Damon mi lasciava ogni singola volta. Ogni volta che arrivava, ogni volta che se ne andava.

E più i giorni passavano e più quella scorticatura faceva male, perché più i giorni passavano e più diventava chiaro che Damon non aveva nessuna intenzione di avere ancora a che fare con me. Che intendeva davvero ciò che mi aveva detto. Che non ero niente per lui.

Quando, di tanto in tanto, le nostre strade inevitabilmente si erano incrociate - in un corridoio, nell'ingresso della scuola, nel cortile - era passato oltre, come se niente fosse.

C'era sempre un attimo, quasi ineluttabile, in cui finivo per incontrare il suo sguardo, e qualcosa attraversava i suoi occhi, facendomi quasi credere, quasi sperare, che fosse sul punto di fermarsi e dire qualcosa. Un milione di cose.

Ma c'era anche sempre una campanella che suonava, un libro che cadeva, una risata che riecheggiava, e con ogni più piccola perturbazione … quell'attimo passava. E quando l'attimo passava, tornava la frustrazione verso lui e la sua indifferenza, nonché verso me stessa per essere così sciocca da continuare a desiderare di significare qualcosa per lui.

Chiusi il libro che tenevo sulle ginocchia e, in uno scatto improvviso, lo gettai per terra, esattamente sopra quello stupido pezzo di carta.

Feci per alzarmi, quando un debole rumore cristallino di vetri infranti giunse dal piano di sotto.

Gettando uno sguardo verso l'orologio, mi resi conto che erano da poco passate le due, l'ora alla quale di solito mio padre rincasava dal Grill. Scattai in piedi ed uscii di camera per controllare con un'occhiata verso la porta di Jeremy che non si fosse svegliato, quindi, il più silenziosamente possibile, iniziai a scendere le scale.

Un rettangolo di luce si estendeva dalla cucina fino all'ingresso, per il resto completamente immerso nel buio. Mi avvicinai a piccoli passi, il parquet freddo sotto le punte dei miei piedi coperti solo dalle calze.

Mio padre era seduto sul pavimento con una mano tra i capelli, scuri e folti quanto i miei, accanto ai pezzi trasparenti di una bottiglia vuota sparsi per terra in schegge appuntite di varie dimensioni. Mi avvicinai facendo attenzione ad evitarli con i piedi scalzi.

"Cos'è successo?" domandai piano, inginocchiandomi accanto a lui.

L'aria era piena dell'alcol emanato dai residui di liquore in mezzo ai vetri infranti, mischiato a quello più stomachevole e dolciastro della trascuratezza che ero diventata abituata a riconoscere, soprattutto a notte fonda.

"Mi è sfuggita di mano."

"Ci penso io." Lo fermai mentre stava per sporgersi in avanti, preoccupata che finisse per farsi per male, e a poco a poco scansai i pezzi più vicini fino a creare abbastanza spazio per aiutarlo a rialzarsi in piedi.

Ma quando gli tesi una mano, non la prese. Fissò le mie dita per qualche secondo e poi alzò gli occhi fino all'altezza del mio viso, con lo sguardo offuscato come se stesse osservando qualcosa di molto più lontano.

"Cosa?…" chiesi confusa, mentre anche l'accenno di sorriso con cui avevo accompagnato il mio invito scompariva in uno più insicuro.

"Sei così … cresciuta. Quando è successo?" mi chiese aggrottando incerto le sopracciglia, nello stesso modo in cui faceva Jeremy quando si dimenticava di pranzare se non ero io a ricordarglielo. Abbassai la mano e tornai ad appoggiarmi sui talloni, mentre lui scuoteva la testa e proseguiva con una voce più ferma, come se qualcosa l'avesse fatto tornare più lucido tutto di un colpo. "C'era quel ragazzo stasera al locale … penso che stesse cercando te."

Il mio cuore fece un piccolo salto, su per la mia gola chiusa. Forse …

"Quale ragazzo?…" gli domandai, probabilmente con più trepidazione di quanto avrei dovuto.

"Alto, biondo."

La scorticatura si riaprì e tornò a pizzicare. Naturalmente era Matt.

Perché mai avrebbe dovuto essere qualcun altro? Dannato mid-term di matematica che mi ci aveva fatto pensare.

"Tu … con lui … " riprese mio padre buttando fuori le parole con incertezza e difficoltà. Anche se, per una volta, non ero sicura che fosse solo a causa dell'alcol.

Mi sentii arrossire violentemente.

"Non è … quello che pensi."

"Cosa, che mia figlia ha un ragazzo e io me ne rendo conto solo ora, invece di minacciarlo di morte?"

L'accenno scherzoso di sorriso che accompagnò le sue parole non riuscì a mascherare del tutto qualcos'altro nella sua voce, una tristezza ed un senso di colpa così profondi che avrei detto e fatto qualsiasi cosa pur di alleviarli almeno un pochino.

"Beh, sono contenta che tu non l'abbia fatto," sorrisi di rimando. "E' uno dei bravi ragazzi. Ti assicuro."

"Lei avrebbe saputo cosa dirti molto meglio di me …"

"Va bene," dissi decisa, facendo del mio meglio per suonare convincente, e mettendo da parte tutto quello che, invece, non andava bene affatto.

Non andava bene che mia madre avesse lasciato un vuoto così grande in cui lui continuava a sprofondare, non andava bene che io non sapessi niente su come rimettere le cose a posto, e non andava neanche bene che l'unica persona su cui pensavo di poter contare per sapere come farmi ancora sentire bene in mezzo a tutto questo si fosse stancato di frequentarmi.

Non andava bene, ma ci sarebbe stato tempo, un'altra volta, in un altro momento, per ammetterlo.

Presi di nuovo la mano di mio padre. "Avanti, è tardi, andiamo a dormire."


***


Un bacio leggero mi sfiora la spalla nuda. Le sue dita mi accarezzano lentamente la parte interna del braccio, che si risveglia con un sussulto di pelle d'oca. Per un momento più a lungo, rimango con gli occhi chiusi alla luce tenue del mattino, a lasciarmi avvolgere dal rassicurante calore del suo petto contro la mia schiena e dalla certezza che nulla sia cambiato.

"Ti amo," sussurra Elijah contro il mio orecchio. "Lo sai, vero?"

Mi muovo nel suo abbraccio, sentendomi improvvisamente a disagio.

Lo so che mi ama, così come so che io amo lui. Soprattutto dopo ieri sera, dopo che abbiamo parlato così a lungo come non facevamo da tempo, dopo che abbiamo concordato che le nostre tensioni degli ultimi tempi sono state dettate soltanto dal normale nervosismo all'avvicinarsi del grande passo, dopo che mi è diventato ancora più chiaro che ci sono così tante ragioni per non mandare tutto all'aria.

Ma non ho fatto parola del mio momento di debolezza nella soffitta di quel locale.

In tutta sincerità, a cosa servirebbe? Gli farebbe solo male e glielo farebbe per nulla. Non deve essere lui a pagare il prezzo delle mie leggerezze. E' più facile ricacciare tutto indietro, le emozioni di quella notte, Damon e i suoi segreti; fino al momento in cui svaniranno del tutto, così velocemente come sono arrivati.

Anche se non sono stata in grado di guardarlo negli occhi quando ieri notte abbiamo fatto l'amore.

"Ti amo anch'io," mormoro in risposta.

La sua mano mi solleva la canotta per accarezzarmi il fianco, ma mi sottraggo prima che abbia il tempo di approfondire. Non in questo momento, non con una luce così innocente e non con il senso di colpa che ancora mi sento addosso.

"E' già così tardi," dico scansando del tutto il lenzuolo e saltando in piedi con un sorriso. "E oggi sono al servizio di Caroline, quindi sarà una lunga giornata!"

Facciamo colazione insieme scherzando sulle forme terribili che hanno sempre le mie uova strapazzate, dopodiché Elijah sale di nuovo in macchina alla volta di Richmond, dandomi un passaggio fino al Grill, dove ho appuntamento con Jenna per discutere gli ultimi aggiornamenti sulla situazione del locale.

Jenna mi racconta delle sue trattative con la ditta che si occuperà di rifare l'impianto idraulico, che inizierà i lavori domani stesso, e di come, se tutto va bene, saremo addirittura pronti a riaprire in meno di due settimane.

Ho appena finito di mettere un paio di firme sui documenti per l'assicurazione, quando Damon mi chiama, per la decima volta in due giorni.

Per la decima volta in due giorni, io lo ignoro.


Quando arrivo al Whitmore Park sono un po' più in ritardo del previsto sulla stretta tabella di marcia targata Caroline Forbes, ma sono anche abbastanza fortunata da arrivare in un momento in cui la mia amica non ha modo di accorgersene.

Il sindaco Lockwood, infatti, ha già iniziato il proprio discorso di ringraziamento sotto all'ampio gazebo di legno e Caroline è dritta in piedi alle sue spalle, con l'aria assorta e le labbra che si muovono quasi impercettibilmente insieme a quelle di Carol, intente a mormorare tra sé e sé ogni parola rivolta agli insostituibili volontari della cittadina di Mystic Falls, che ogni giorno mettono il loro tempo e la loro esperienza al servizio della comunità, eccetera eccetera. Quando il sindaco finisce, vedo Caroline rilasciare un sospiro ed un soddisfatto sorriso di sollievo davanti all'applauso per il discorso che, non ho dubbi, è stato tutta farina del suo sacco.

La gente inizia a disperdersi e a radunarsi in altri gruppetti verso i vari stand che sono stati allestiti tutto intorno, a riprendere conversazioni o a scambiarsi i primi convenevoli, mentre i bambini prendono a saettare di qua e di là, attirati dal banco delle torte o da quello del rifugio per animali.

E' la giornata estiva perfetta e nell'aria c'è una tale atmosfera di leggera spensieratezza che anche lo scroscio del torrente alle spalle del parco, ultimo tratto della ripida corsa di una delle sorgenti d'acqua delle Blue Ridge Mountains, sembra avere un non so che di allegro.

"Sei in ritardo, guarda che me ne sono accorta," mi ammonisce Caroline appena raggiungo lei e Bonnie al banchetto dove, con una convinzione degna delle migliori campagne presidenziali, Caroline sta arruolando volontari per …

Sbircio il poster che fa da pubblicità alla sua operazione di reclutamento.

"Masquerade Ball?" domando perplessa. "E che causa sociale sarebbe?"

"Quella del divertimento," risponde compunta lei. "Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno. Ehi, tu! Firma qui per essere tra gli allestitori della più emozionante serata che questa città abbia mai visto!"

Un ragazzo dai capelli castano chiaro quasi inciampa sui suoi piedi di fronte al meraviglioso sorriso irradiato da Caroline e, con espressione mezza inebetita, si affretta ad annuire e a prendere dalle mani della mia amica la penna con cui sigla la vendita della sua anima al diavolo.

"Puoi reclutare volontari anche per organizzare il mio matrimonio?" le domando, frugandomi le tasche della piccola borsa rossa a tracolla anni '70. "Ho fatto una lista questa mattina, le cose da fare sono davvero infinite. Per i vostri vestiti, tanto per cominciare, stavo pensando ad un grigio argento, visto che la cerimonia sarà alla sera ed è un colore che dona a entrambe. E poi c'è il mio di vestito, naturalmente. Caroline avevi detto-" mi fermo nella lettura della lista spiegazzata che ho tra le mani e sollevo lo sguardo, nel notare il silenzio tombale con cui reagiscono entrambe le mie amiche.

Caroline è rimasta con la penna sospesa a mezz'aria e mi guarda come se avessi la febbre.

Bonnie ha semplicemente alzato il suo famoso sopracciglio.

"Stai bene?" domandano all'unisono.

"Sto benissimo," sbuffo con un sospiro. Perché diamine continuano a chiedermelo tutti? "Sentite. Lo so che ultimamente posso essere sembrata un po' … esitante su alcune questioni, ma è tutto risolto adesso. Io ed Elijah ne abbiamo parlato, abbiamo chiarito ed è ora che io prenda certe decisioni. Come quella di trasferirmi a Richmond. Abbiamo già la caparra su una casa meravigliosa."

Sono ancora entrambe in silenzio.

"Potete parlare, sapete," dico roteando gli occhi al cielo.

"E il locale?" mi chiede Caroline.

"E New Orleans?" mi chiede Bonnie.

Caroline gira la testa così di scatto da farmi quasi temere che le si stacchi dal collo.

"Cos'è successo a New Orleans?" esclama in un trillo acuto, spostando ansiosamente lo sguardo da me a Bonnie come se si fosse appena persa qualcosa di vitale importanza.

"Non è successo niente a New Orleans," replico asciutta. "Niente. Ok? E per quanto riguarda il locale, inizierò a pensare a cosa farne non appena finiamo di rimetterlo a posto. Quindi mi aiutate? Caroline?"

Ma Caroline ha appena corrugato la fronte, fissando lo sguardo verso un punto alle mie spalle, e già non mi sta più ascoltando. Mi strattona per una mano e si avvicina al mio orecchio per farmi sapere in un unico sussurro.

"E' lei! E' qui."

"Chi è che è qui?" le domanda Bonnie sempre in un bisbiglio.

La bocca di Caroline si storce in una smorfia disgustata. "La poco di buono che Damon ha avuto la brillante idea di sposarsi senza farcelo sapere."

"Damon è sposato?" esclama Bonnie incredula.

Bonnie si gira a guardarmi e, nel breve secondo in cui incrocio il suo sguardo, ci leggo un misto di sospetto e improvvisa realizzazione. Distolgo subito gli occhi: non è affatto come pensa lei.

"Incredibile, vero? Alaric la chiama Vegas …"

"Probabilmente perché si sono sposati ubriachi davanti ad un Elvis altrettanto ubriaco," dico, di nuovo con quel retrogusto acido non appena penso a quella ragazza. Con le sue gambe chilometriche, le sue labbra sensuali, l'indiscutibile fascino che emana … Invece di voltarmi, riprendo in mano la mia lista e mi concentro su quella.

"Oh no, non è andata così," scuote la testa Caroline. "Ho indagato."

Ci fa cenno con una mano di avvicinarci a lei e, con fare cospiratorio, sussurra, "Penso che sia perché è una spogliarellista …"

"Una ballerina, prego."

Solleviamo tutte e tre la testa di scatto verso Katherine, che ci ha appena sorpreso alle spalle e che prosegue alzando gli occhi al cielo.

"Diplomata all'AMDA [1]. Ma non mi aspetto davvero che qualcuno di voi provincialotti possa conoscere la differenza. Quindi, c'è qualcos'altro che volete sapere?"

Katherine si appoggia in maniera disinvolta contro il banchetto e non perde tempo a passarci tutte in rassegna con lo sguardo. Gli stretti pantaloni neri e il top abbinato semi-trasparente mettono ancora più in risalto le sue più che invidiabili linee sottili, ma perfettamente, fastidiosamente formose.

Quando i suoi occhi si posano su di me, squadrano scettici ogni centimetro del mio vestito disegnato a fiorellini bianchi e blu, prima che passi direttamente ad indicarmi con un dito.

"Tu sei quella che si scopa Damon, non è così? Ha fatto questa chiamata la scorsa notte, a qualcuno che sicuramente si sta scopando …" Si porta un dito alle labbra come per ricordare meglio, poi lo fa schioccare improvvisamente sotto al mio naso. "Andie. Sei tu vero? Scusa, quando ci siamo incontrate l'altra sera non mi sono certo messa ad imparare il tuo nome."

Per un attimo, vedo rosso. Stringo le mani attorno alla tracolla sottile della borsa, così ferita e così umiliata che le parole mi si strozzano in gola.

Il mio primo incontro con Katherine brucia più che mai. "Oh, Damon, tu e le tue ragazze …" l'avevo sentita commentare divertita al di là della porta dopo che mi ero ripresa abbastanza da farli uscire entrambi dal mio locale, disgustata dallo sguardo dispiaciuto di Damon e dai suoi inutili "Elena …". Il promemoria di non essere stata la sola delle sue avventure è solo la ciliegina sulla torta.

"Ti serve qualcosa?" le domanda bruscamente Caroline.

"Oh no, stavo solo cercando di ambientarmi e fare conversazione," scrolla le spalle. "Stefan ha insistito perché venissi qua con lui e finalmente ci conoscessimo tutti un po' meglio."

Caroline sbianca di colpo. "Sei venuta con … Stefan?"

Katherine sorride.

Ha uno di quei sorrisi bellissimi e disturbanti al tempo stesso, come se non fossi mai sicura di sapere cosa vogliono dire davvero. Quelli in grado di farti impazzire, e non sempre in senso positivo.

"Certo. Stefan è così gentile … Oltre che incredibilmente sexy." Katherine si protende un po' in avanti, in direzione di Caroline che sostiene il suo sguardo con una inconfondibile furia assassina negli occhi. "Inizio a pensare di aver puntato sul fratello sbagliato. Ma chi lo sa, magari sono ancora in tempo per rimediare. Passate una buona giornata."

Con un ultimo sorriso, Katherine si volta e se ne va, i lunghi e mossi capelli scuri che ondeggiano morbidi sulle sue spalle, prima che Caroline, a bocca aperta, abbia anche solo il tempo di formulare una qualsiasi risposta.

"Io la ammazzo," sibila la mia amica. "Giuro che le infilo a forza uno di quei suoi tacchi dodici giù per la gola, giuro che-"

"Ma voi non vedete …" la interrompe Bonnie, inclinando la testa di lato verso la direzione in cui Katherine se ne è appena andata. "… una vaga somiglianza?"

"Oh mio dio … " mormora stupita Caroline portandosi una mano sulle labbra. "Forse hai ragione!"

Le loro teste si girano in contemporanea verso di me, mi scrutano attentamente come se fossi un pezzo da esibizione, tornano a guardare Katherine ad alcuni metri di distanza …

"State scherzando?!" esclamo indignata. "Ma neanche per-"

"… forse il naso …"

"… forse il colore degli occhi …"

" … più la forma del viso …"

"Voi siete fuori di testa!" ribatto decisa incrociando le braccia sul petto.

"Beh, evidentemente Damon ha un certo tipo …" commenta Caroline stringendosi nelle spalle.

Sto per protestare di nuovo, sbalordita nonché offesa che stiano davvero facendo un qualsiasi paragone tra me e, come la chiama Caroline, quella là, ma la mia amica prosegue, assottigliando lo sguardo con aria quasi minacciosa.

"Ecco Stefan," annuncia, non appena il suo ragazzo compare tra la folla. "Ed ha diverse spiegazioni da darmi."


***


Lo vidi insieme ad una ragazza, il venerdì mattina.

Matt mi aveva appena augurato "buona giornata" con un lieve bacio sull'angolo delle labbra (non ero ancora del tutto sicura che tenersi per mano ed essersi baciati tre volte con la lingua in due settimane facessero di me la sua ragazza), ed io ero diretta a Letteratura Inglese, dove Caroline mi stava aspettando con, a giudicare dal suo sms, "enormi novità".

Lo riconobbi un attimo prima di entrare in classe anche se era di spalle, per via dei capelli neri spettinati e della posa in cui si stava atteggiando, con il braccio alzato appoggiato alla parete del corridoio che gli sollevava il corto giacchetto scuro sul fianco sinistro. Una dell'ultimo anno veramente carina, con grandi occhi scuri sotto una spessa frangia di capelli castano ramato, era protesa verso di lui e gli sorrideva sbattendo le ciglia come le ali di una falena che orbita intorno ad una luce in mezzo al buio.

Strinsi con forza il libro che avevo tra le braccia. Avevo visto altre volte quel genere di scene, per non parlare dell'effetto che riusciva ad avere sulle ragazze, ma - forse perché non mi ci ero mai davvero soffermata, forse perché avevo sempre creduto che non volessero dire niente - non erano mai stati un taglio dritto in mezzo allo stomaco come quella volta.

"Ti passo a prendere stasera allora," disse Damon, in un tono pratico che, senza il mezzo sorriso che - immaginai - gli stava piegando le labbra, non sarebbe stato tanto diverso da quello con cui fissava insieme a Rose i suoi turni nel negozio.

Quella noncuranza mi fece infuriare ancora di più. Quello era ciò che Damon era veramente. Non gli importava. Non gli importava di quella ragazza che aveva davanti e, evidentemente, non gli importava di me. Non sapevo come avevo fatto a pensare il contrario.

Mi costrinsi a voltarmi e ad infilarmi in classe, prima che il miscuglio di rabbia e lacrime che all'improvviso aveva preso a montarmi dentro minacciasse di sopraffarmi completamente.

Caroline si sporse con i gomiti allungati sul mio banco per raccontarmi tutti i dettagli di come Amber le avesse detto che Rachel le aveva detto che Mandy, o forse era Mindy, aveva sentito Stefan mollare Lexi dopo la partita di mercoledì.

La lasciai parlare senza ascoltare neanche una parola.


Lunedì mattina, non era a scuola.


Mercoledì mattina avevo Francese, con Matt.

Dopo lezione insistette per accompagnarmi fino all'armadietto a posare i libri, per raccontarmi i successi della squadra quella stagione e di come il giorno prima il coach gli avesse fatto sapere che, se continuava così, decine di college avrebbero fatto a pugni pur di averlo nelle loro squadre. Non a caso era il più giovane quarterback degli ultimi dieci anni.

Matt raccontava e sorrideva, con quei suoi occhi blu e quelle sue piccole fossette agli angoli delle labbra, così sincero e contagioso da scaldarmi dentro, mentre gli sorridevo di rimando.

Si era appena piegato verso di me per lasciarmi il consueto bacio sul limitare della bocca quando, con la coda dell'occhio, vidi Damon sbucare da un'aula, insieme a quel suo amico dal nome straniero.

Si fermò a guardarmi, ancora con quell'espressione che sembrava voler dire tutto e invece non diceva mai niente.

In un impeto improvviso, mi sporsi sulle punte dei piedi e con una mano circondai la nuca di Matt, per dirigerlo dritto verso la mie labbra. Socchiusi la bocca e cercai la sua lingua, ed il casto bacio da corridoio divenne in men che non si dica uno ben più approfondito da seggiolini del pick-up. Qualcuno, passando, ci fischiò pure.

Quando ci separammo, Matt, a corto di fiato, mi sorrise piacevolmente sorpreso.

Io gettai una veloce occhiata alla mia sinistra, ma di Damon non c'era più nessuna traccia.


Giovedì pomeriggio, finii per addormentarmi su uno dei tavolini del Grill, con la guancia posata sul gomito ed il libro ancora aperto davanti, proprio nel mezzo della battaglia di Little Bighorn.

Quando Jenna se ne accorse e venne a svegliarmi, erano già passate le cinque.

Jeremy aveva ormai finito i suoi allenamenti di baseball da un pezzo perciò, non importò quanto cercai di fare in fretta, arrivai ugualmente a prenderlo con quasi un'ora di ritardo.

Il campetto, circondato dalla luce artificiale dei fari che spezzavano il buio del tardo pomeriggio invernale, era già semi-deserto. Tutti i ragazzini e i loro genitori se ne erano andati e solo mio fratello era rimasto, una figurina dinoccolata seduta con la schiena in avanti sui gradini di cemento che facevano da spalti.

No, non c'era solo lui.

Sotto all'alone bianco creato da uno dei riflettori, proprio di fronte a Jeremy, un'altra sagoma, più snella e sicura di sé ma altrettanto familiare, era appoggiata con la schiena contro la rete, le mani nelle tasche della giacca di pelle ed una gamba piegata all'indietro. Stavano parlando e Jeremy stava ridendo.

Il mio passo rallentò e il mio cuore iniziò a battere come un uccellino impazzito dentro la gabbia, quando Damon girò la testa e sollevò lo sguardo verso di me. Quando incontrai i suoi occhi, di quell'azzurro trasparente e pieno di ombre al tempo stesso sotto quella luce traslucida, per un attimo quasi dimenticai quanto avrei dovuto detestarlo.

Jeremy si alzò di scatto e corse verso di me. Damon si avvicinò più cautamente.

Io non sapevo già più se credere in una piccola aspettativa speranzosa o rimanere con la paura della solita indifferenza da nulla di fatto.

"Possiamo andare a casa, adesso? Ho fame," mi chiese Jeremy sistemandosi meglio il borsone sulle spalla.

"Solo altri cinque minuti, ragazzino," rispose Damon al posto mio. Poi proseguì rivolto a me, con una nuova incertezza nella voce che non mi sembrava di avergli mai sentito prima. "Possiamo parlare?"


***


"Masquerade Ball?" domanda Bonnie mentre io tendo la penna ad un passante.

La gente cammina oltre degnandoci a malapena di uno sguardo. Chiaramente noi due non abbiamo la stessa capacità persuasiva di Caroline, ancora impegnata, un paio di metri più avanti, a discutere animatamente con Stefan.

"Quindi …" prosegue la mia amica, voltandosi verso di me con una sarcastica espressione indagatrice. "Com'è che si chiama questa mogliettina?"

Le rispondo con una smorfia. "Smettila, Bonnie. Dico sul serio."

"Argomento spinoso, eh?"

"Non è come pensi."

"E cosa penso, secondo te?"

Le rivolgo un'occhiata di traverso per farle capire che non ho intenzione di parlare né di Damon, né tantomeno della sua adorabile coniuge.

"Per tua fortuna, devo tornare al negozio da mia nonna," risponde raccogliendo la sua borsa e infilandosela sulla spalla. "Ma, Elena … Non lasciare che sia uno come Damon a condizionare le tue scelte."

Annuisco e la saluto. Può starne certa che Damon non condizionerà proprio un bel niente.

Poso il mento sulla mano, mormoro un altro "Masquerade Ball?" che cade completamente nel vuoto e sposto lo sguardo su Caroline e le sue braccia conserte in una posa risentita, su Stefan e la sua aria da cane bastonato.

"In ogni caso, cosa ti é saltato in mente di portare qui quella là?" ribadisce Caroline, continuando a rifiutarsi di chiamarla per nome.

"Ascolta, Care …" risponde lui conciliante. "Cosa avrei dovuto fare? Damon non ci ha pensato due volte a mollarla senza complimenti per farsi gli affari propri. Mi era sembrata sola, ed ho solo pensato che in fin dei conti si meritasse di avere una possibilità da parte nostra. Non é colpa sua se Damon é Damon e non ci ha mai parlato di lei."

"Sei troppo buono con le persone. Ma puoi contarci che io di quella là non mi fido neanche un po'. E visto che è già abbastanza fastidioso doverla sopportare in casa nostra, voglio che sia chiaro che deve stare il più lontana possibile dal mio shampoo e soprattutto dal mio rag-"

"Hai davvero appena detto ´casa nostra`?" la interrompe Stefan, l'accenno di un sorriso che compare veloce sulle sue labbra, anche se viene trattenuto subito dopo.

Caroline alza lo sguardo, sorpresa.

"Sì, perché?…"

"Questo significa per caso …" prosegue lui più esitante, come se avesse quasi paura di pronunciare le parole ad alta voce. "… che viviamo insieme adesso?"

"Naturalmente! Te lo avrei detto prima se non fossi stato così tutto serio e pensieroso, se non fossero successi tutti questi casini …" Dal volto di Caroline scompare di colpo ogni traccia di risentimento e della chiaramente immotivata gelosia di qualche attimo prima. Intreccia le dita sull'orlo della sua maglietta, tirandolo in piccoli timidi colpettini più verso di sé. Sembrano una coppia di adolescenti che non sanno come fare a dirsi che si piacciono, ed io non so perché una cosa così stupida mi faccia sentire così invidiosa. "Non posso pensare di stare senza di te."

Per la prima volta da quando è arrivato, Stefan sorride, apertamente, come se ogni peso si fosse appena sollevato del suo petto o come se tutto il resto delle sue preoccupazioni di colpo non contassero più niente.

Anche Caroline sorride, ed io quasi mi aspetto di vederli lanciarsi in uno di quei baci in grande stile da commedia romantica, con le telecamere che girano e i protagonisti che si dimenticano del mondo intorno a loro.

Invece, la mia amica volta perplessa la testa verso il basso, verso la direzione da cui una biondissima bambina di circa sei anni la sta tirando per l'orlo della gonna color crema per richiamare la sua attenzione e porgerle, con un sorriso tra l'impacciato e l'orgoglioso, un bicchiere di limonata.

Caroline si irrigidisce ed il suo sguardo si spalanca interdetto, saetta veloce tra il bicchiere e la bambina, in un misto di esitazione e qualcos'altro, qualcosa che non si vede spesso negli occhi di Caroline Forbes: paura.

A salvare la situazione dopo alcuni secondi di imbarazzato silenzio, ci pensa fortunatamente Stefan, che si inginocchia accanto alla piccola rimanendo in equilibrio sulle punte dei piedi, e le chiede gentilmente, "E' per Caroline?"

Lei fa sì con la testa e avvicina la mano al suo orecchio, come per rivelargli un grande segreto.

"E' così bella, sembra una principessa."

Caroline é ancora paralizzata, ma la bambina ha appena pronunciato le parole magiche che sono sempre in grado di far breccia nel cuore della mia amica.

"Grazie, tesoro … " le dice esitante, sporgendosi infine per prendere la limonata. Come afferra il bicchiere, la ragazzina corre via come il vento, tornando al banco delle bevande fresche insieme agli altri bambini.

Stefan si rialza in piedi e le posa un bacio sulla tempia.

"Te lo ripeto un'altra volta, Care: sono bambini, non mordono."

Caroline prende un sorso della bibita, borbottando scettica tra sé e sé. "Sono abbastanza sicura da qualche parte di aver letto il contrario."

Sorrido alla reazione di Caroline, per cui fare la babysitter è sempre stato il suo peggiore incubo.

Poi il mio telefono suona di nuovo. Lo tiro fuori dalla borsa con la ferma intenzione di schiacciare il tasto "Ignora", ma questa volta è Elijah. Rispondo con un allegro "Pronto", anche se non sono riuscita a schivare la piccola, minuscola, punta di delusione che mi ha attraversato il petto nel vedere che era il suo nome a lampeggiare sullo schermo. Nè tantomeno riesco a evitare quella, più insidiosa e acuta, quando nessun altro prova più a chiamarmi per tutto il resto della giornata.


***


"Sì, Care, ci ho pensato io," la rassicuro un'altra volta mentre spengo il motore della macchina nel vialetto di fronte a casa mia.

Accendo la luce di servizio e mi sporgo verso il sedile del passeggero per riprendere la borsa, resistendo alla tentazione di roteare gli occhi davanti alla puntigliosità della mia amica. Essere coinvolta nelle iniziative di Caroline è più faticoso che gestire un locale. Anche a fine giornata non la smette di volersi assicurare che tutto sia stato smontato, catalogato e rimesso in ordine alla perfezione.

"Ho lasciato tutto al negozio di Bonnie, puoi passare a prenderli domani," le faccio sapere mentre scendo dall'auto e la chiudo, tenendo il telefono tra la testa e la spalla e la borsa in bilico sulle ginocchia. "Sì, sono sicura. Goditi la serata e salutami Stefan, ok?"

Riattacco prima che possa farsi venire altre paranoie e tenermi al telefono un'altra mezzora.

Mi incammino verso il portico continuando a rovistare nella borsa, al buio e alla cieca, alla ricerca delle chiavi di casa, trovandole infine rintanate in una taschina laterale.

"Sei incredibilmente difficile da raggiungere, quando ti intestardisci a volermi evitare."

La voce di Damon mi coglie così alla sprovvista che, con un sussulto, faccio un passo indietro e perdo almeno tre battiti per la sorpresa e lo spavento. Quando sollevo la testa dalla mia borsa, lo trovo seduto con i gomiti posati sulle ginocchia sull'ultimo gradino del portico, debolmente illuminato dalla piccola lucina che sovrasta la porta di ingresso.

Si alza in piedi non appena il mio sguardo si posa di lui.

"E allora mi tendi gli agguati?" replico sarcasticamente.

Salgo in fretta i gradini ed arrivo di fronte alla porta, passandogli davanti senza guardarlo in faccia.

"Se è quello che ci vuole."

"Non ti sto evitando, in ogni caso," preciso risoluta mentre infilo le chiavi nella toppa, "Solo non ho niente da dirti."

Alle mie spalle, Damon allunga un braccio e posa la mano sulla mia, stretta intorno alle chiavi, per invitarmi tacitamente a non aprire la porta. Mi immobilizzo quando, senza lasciarmi andare la mano, compie un ulteriore passo che lo porta così vicino da darmi l'impressione di poter sentire il suo respiro soffiarmi sulla pelle esposta della spalla.

Ho il cuore che adesso sbatte furiosamente. Di rabbia e forse non solo quella.

"Magari ti va di ascoltare," risponde piano.


"Grazie per essere rimasto con lui," dissi con un tono gentile e distaccato che non sentivo appartenermi.

Jeremy tornò a sedersi sulle gradinate con uno sbuffo ed un'alzata di occhi al cielo, mentre io e Damon ci allontanavamo di un paio di passi, fino alla rete che delimitava il campo da baseball. Intrecciai le dita tra le sue aperture, giocherellandoci nervosamente.

"Non c'è di che," rispose a bassa voce.

"Queste sono tue," proseguii tirando fuori dalla borsa le sue chiavi, che ancora non avevo avuto modo di ridargli. Gliele restituii sbattendogliele contro il petto, per non far vedere che le mie dita, un po' come la mia voce, stavano leggermente tremando. "Io non le voglio."

Damon le afferrò al volo prima che cascassero. Se le rigirò tra le mani ed un veloce lampo ferito gli attraversò lo sguardo. Stranamente, non mi diede soddisfazione.

"Tienile …" disse infine dopo qualche secondo di silenzio, alzando titubante gli occhi di nuovo verso i miei. "Magari un giorno cambierai idea."

Me le porse di nuovo, ma io scossi la testa e la voltai caparbiamente dall'altra parte, verso il campo sportivo illuminato e deserto. Solo essere lì con lui mi stava facendo venir voglia di piangere. E non cedere mi costava uno sforzo pazzesco.

"Non succederà."

"Ascolta …" Se le rimise in tasca e fece un solo piccolo passo verso di me. Io indietreggiai di riflesso. "Sono stato un vero idiota. E se mi dici di sparire e lasciarti in pace, lo capisco. Me lo merito, immagino. Ma spero lo stesso che tu non lo faccia."

Sull'ultima frase la sua voce si assottigliò un poco e si fece più rauca, come se parlare gli raschiasse la gola. C'era qualcosa crudo e vulnerabile in tutto ciò, che andò dritto ad artigliarmi il petto.

"E' stato abbastanza deprimente non averti attorno, perché … beh, mi piace averti intorno. La nostra amicizia è più o meno la parte migliore della giornata. E sarebbe uno schifo se fosse finita per sempre."

Lasciai scivolare le dita che avevo di nuovo allacciato alla rete e, lentamente, tornai a girarmi verso di lui. Con cautela, incrociai i suoi occhi. Chiari, inquieti, assoluti.

Mi disorientarono e colpirono molto più delle sue parole. Non ero preparata, probabilmente non lo sarei mai stata, al modo in cui i suoi occhi mi stavano guardando.

"Quindi …" continuò incerto, di fronte al mio silenzio. "Ti ho perso per sempre?"


"Cosa c'è da ascoltare?" rispondo con impeto, mentre con un piccolo strattone libero la mano dalla sua presa e mi volto a fronteggiarlo. "Sei sposato!"

"Ma non significa niente! Non …" Damon fa una pausa e sospira, cercando poi il mio sguardo per scandire bene il resto della frase. "Non cambia niente. E' solo una stupida cazzata che ho fatto un paio di anni fa, Elena, niente di più."

"Niente di più? ..." ripeto incredula.

"Naturalmente! Cosa ti aspettavi?"

"Lo sai, Damon," ribatto aspra, mentre una furia sconosciuta mi sale dentro al pensiero di me e lui, del modo in cui mi ha fatto sentire, delle mie promesse verso Elijah, di come tutto fino a poco tempo fa fosse semplice e lineare e adesso con Damon di mezzo di colpo non lo sia più. "In effetti questo è esattamente ciò che mi aspettavo! Perché tu non ti poni problemi, non consideri mai le conseguenze, figurarsi se hai anche solo minimamente contemplato cosa significa prendere un impegno con qualcuno ..."

"La amavo!"

Mi ammutolisco spaesata, con la bocca ancora socchiusa, davanti a quella confessione gridata e arrabbiata che ha troncato di netto il mio intero discorso. Davanti alla fitta, rapida e dolorosa, che quelle due parole mi hanno lanciato dritto in mezzo al petto.

Damon chiude gli occhi e prende un lungo respiro prima di riaprirli e tornare a guardarmi.

"L'ho sposata perché l'amavo. Contenta?" prosegue sarcastico piegando le labbra in una smorfia. "E' stato improvviso, è stato stupido, è stato breve ... e non è finita bene. Non sapevo neanche dove fosse finita per l'ultimo anno e mezzo e, francamente, neanche mi importava."

Mi stringo le braccia contro il torace, serro le labbra e volto la testa verso il basso. Osservo la soglia della porta di ingresso, il filo di terra che corre sottile lungo il bordo del portico, le ombre grigio scuro che disegniamo, e intanto assimilo ogni sua parola.

Non so più quale versione dovrebbe farmi sentire meglio. Non so più come dovrei reagire, non so più perché tutto ciò che lo riguarda fa così dannatamente male. Non so più niente.

"Perciò sappi che se hai intenzione di usare Katherine come scusa per comportarti come se tra noi non ci sia niente, avanti, fai pure," prosegue deciso. Si avvicina di un altro passo, lo vedo dalla sua ombra e lo sento dal crescere dell'agitazione che mi provoca la sua presenza. "Ma io non lo farò."

Sollevo lentamente lo sguardo e trovo il suo, pieno di una determinazione e di un ardore che mi fanno salire il cuore in gola e che mi fanno sentire esposta e vulnerabile. Sta toccando corde che non dovrebbe toccare.

"Non so cosa vuoi dire," replico.

La bugia suona così debole che la vedo riflessa nei suoi occhi, nel mezzo sorriso amaro e consapevole che le sue labbra disegnano in risposta.

"Oh, giusto, colpa mia. Perché stiamo ancora fingendo che tu non sappia il modo in cui mi fai sentire."

Fa un altro passo avanti, ed io ne faccio uno indietro.

"Stiamo ancora fingendo che non provi lo stesso anche tu."

Non dovrebbe stare così vicino. Al mio viso, alla mia esistenza.

"Perché siamo bravissimi nel farlo, non è vero?"

"Cosa diavolo pretendi da me?" gli grido esasperata, riversando nella mia reazione accalorata tutto il dilemma che mi sta attanagliando, consumando dall'interno, che non mi dà più tregua, non importa quanto ci provi. "Ho un fidanzato, dei piani, una vita che ci ho messo anni a costruire e, adesso, dovrei semplicemente mandare tutto all'aria solo perché un giorno ti ripresenti dopo avermi ignorato per anni? Non posso prendere e mettere da parte tutto questo, in nome di quello che provavo per te una vita fa, ero una ragazzina! Quindi dammi una ragione, una sola, per cui dovrei-"

Le sue mani mi racchiudono il viso e le sue labbra mi bloccano il respiro.

Poso le mani contro il suo petto per reagire nell'unico modo razionale, nell'unico modo possibile, e spingerlo via, ma le mie dita si stringono invece attorno alla stoffa della sua maglietta, nello stesso momento in cui la sua lingua mi socchiude le labbra e una delle sue mani scivola sulla mia nuca, mandando piccoli fremiti caldi giù lungo tutta la mia schiena. Le mie spalle si scontrano piano contro il muro, il suo corpo aderisce contro il mio petto ed io mi sciolgo. Mi sciolgo e mi anniento sulla bocca, così morbida e intensa, in un gemito roco che non so neanche più se provenga dalla sua gola oppure dalla mia.

Risalgo il suo petto con le mani, studiandone la consistenza solida, fino al suo collo e i suoi capelli, tra i quali affondo le dita, tirandolo verso di me.

Non respiro. Bevo il suo sapore, e tutto quello che c'è dietro. L'urgenza, la rabbia, la sua dolcezza, la mia paura.

Mi intossica la testa e mi scalda le vene, fino a che la sua mano si sposta ad accarezzarmi il profilo del viso e Damon si separa da me lentamente, solo pochi centimetri, ma quanto basta per farmi subito sentire l'alito freddo che si insinua in questa piccola distanza.

Il suo respiro caldo torna ad accarezzarmi le labbra quando la sua fronte si posa contro la mia e le sue dita mi sfiorano la guancia per toglierne una ciocca di capelli.

"Dimmi …" inizia, con la voce bassa e roca. " … che non significa niente. Che non hai provato niente. Dimmelo, e te lo giuro ... ti lascerò alla tua vita e al tuo fidanzato, giuro che dimenticherò tutto e non ti chiederò più niente."

Apro gli occhi nei suoi, ed eccola lì. L'assolutezza nel suo sguardo. Ciò che mi ha sempre trascinato così a fondo, che - lo so - sempre lo farà.

Ma so anche che non puoi ricambiare l'assolutezza, non una così, con qualcosa a metà.

"Lo amo, Damon … " rispondo in un soffio dovuto, ma che fa fatica a uscire. "Non posso far finta che non sia così. Questo … non significa niente. Non può."

Damon annuisce, lentamente, solo una volta. Le sue mani mi lasciano andare nello stesso istante in cui compie un passo indietro. La mia gola si chiude quando non trovo il suo sguardo.

Ma è quando si volta, quando si volta e se ne va, che qualcosa, dentro di me, si rompe definitivamente in mille pezzi.


—————————————————

Note:

[1] American Musical and Dramatic Academy. Ne esistono due, una a NY e una a Los Angeles. Considerando che Damon vive in California, Katherine si riferisce a quella di LA.


Spazio autrice

Buonasera, ragazze. ^^

Mi odiate? Odiate Elena? Lo so che questo capitolo rischia di suscitare sentimenti simil 3x14, ma così stanno le cose. Un finale diverso non avrebbe rispettato la coerenza della storia e, soprattutto, dei personaggi, Elena in particolare. Spero di aver reso a dovere il suo punto di vista, di aver fatto capire almeno un po' del suo conflitto interiore, le sue ragioni. Se non è così ... libere di insultarmi. Me lo merito xD

Ma spero che, nonostante il risvolto finale, il loro bacio non abbia deluso. A proposito, piccolo sondaggio: secondo voi, è stato il primo ? ...


Ah, e naturalmente, Katherine non è la "sosia" di Elena (sorry, il visino di Nina Dobrev era già stato preso), e nessuno le scambierà mai l'una per l'altra, ma se vi state domandando che aspetto abbia in questa storia, potete immaginarla simile a Victoria Justice: stessi "colori" di Nina, visino simile, ma niente di più. Quella di Caroline e Bonnie sulla loro somiglianza è ovviamente una battuta.

Altre cose random:

- Non sono brava a inserire link a sottofondi musicali nel mezzo del capitolo, ma se vi interessa, nella mia mente la scena del bacio ha questa colonna sonora (Tonight, Lykke Li).

- I vestiti di Elena e Caroline nel capitolo sono gli stessi che hanno indossato nella serie: Elena, Caroline

Sono terribilmente indietro con tutto, storie e risposte, e me ne rendo conto, ma ci tengo a ringraziarvi tutte dal profondo del cuore per il sostegno che date alla storia con i vostri commenti (a cui prometto di rispondere durante questo fine settimana), siete insostituibili ed io non sarei qui se non fosse per voi.

Grazie.

A presto, un bacio!

ever



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Capitolo 14
*** What you hide ***


13

13.

What you hide


- Who you are is what you hide
I was yours, but you weren't mine
So now you've drawn your line
But I hope it will fade, in time -

(Hear me sing, AM)


Damon


Ci sono tre cose che ho capito a mie spese negli ultimi giorni. Che il bourbon di bassa lega procura dei postumi terribili. Che odio il country, quello passato, quello presente e quello futuro. Che quando le cose si fanno deprimenti, non riesco a non avvelenarmi con entrambi.

Un minuscolo bicchierino di vetro mi compare davanti, accanto alla bottiglia di Jim Beam senza infamia e senza lode che subito uso per riempirlo fino all'orlo. Lo butto giù in un solo sorso e lo faccio sbattere contro il bancone, proprio mentre nel locale parte un'altra cavolo di canzone di Carrie Underwood uguale a quella di prima. E, cazzo, non voglio neanche stare a chiedermi come faccio a sapere chi è Carrie Underwood.

"Dunque, mio fratello non mi vuole neanche vedere …"

Mi protendo in avanti sullo sgabello, riempio un altro bicchierino straboccante.

A giudicare dalla stoccata secca alle mie spalle e dalla risata di esaltazione che segue subito dopo, qualcuno sta stravincendo la sua partita a biliardo. Buon per loro.

" … la sua irritante fidanzata rincara la dose guardandomi come se fossi qualcosa di viscido scappato da sotto una pietra …."

Il bicchiere resta vuoto per neanche mezzo secondo. Pieno, ci rimane ancora meno.

" …. ho una moglie malefica che è tornata dall'inferno a caccia del mio sangue e che non placherà la sua sete fino a che non mi avrà prosciugato di ogni più piccolo fottuto centesimo …"

Nella mia visione periferica, una ragazza ed un tizio parecchio più grande di lei, entrambi in jeans e camicia a quadri, hanno iniziato a spalmarsi l'uno sull'altra con la pietosa scusa di ballare, sempre la solita canzoncina del cazzo. Ho già detto quanto odio il country?

Pieno, vuoto, pieno, eccetera. Liquide strisce incendiare che si accumulano nel mio stomaco colmo di niente.

".. ho completamente mandato a puttane il mio ruolo nella prestigiosa, inimitabile, compagnia di famiglia, facendomi ritenere da un intero consiglio di amministrazione l'essere più incompetente e indegno sulla faccia della terra …"

Questa volta, la barista - credo che il suo nome inizi con la J - arriva veloce alla bottiglia di bourbon prima che possa farlo io, pensandoci lei stessa a servirmi un'altra dose. Grazie, tesoro.

" … oh, e poi, notizia dell'ultim'ora. A quanto pare, ho di nuovo perso del tutto la testa dietro al mio primo amore, la stessa incredibile, esasperante, e completamente fuori dalla mia portata, ragazza che mi ha baciato come se non ci fosse un domani, e poi ha finito di fare a pezzi i rimasugli del mio ego ferito perché si sposa tra meno di due mesi."

Quest'ultimo bicchiere se ne va via giù per la gola con una scia particolarmente dolciastra, rapida e infuocata. Sì, mi sento estremamente poetico quando inizio ad essere ubriaco.

"Quindi, dolcezza …" finisco rivolgendo a J un veloce sorriso, mentre poso nuovamente il vetro sul bancone e lei si sporge verso di me, appoggiandosi contro la superficie di legno e posando il mento su una mano, in interessata attesa della fine del mio monologo. " … per rispondere la tua domanda, sono praticamente l'uomo del momento."

Per la cronaca, la domanda era un "Come va?" accompagnato da un'occhiata smaliziata dalle intenzioni piuttosto inequivocabili. Non sbaglio mai su quel genere di occhiate. E' un talento. E, sempre per la cronaca, confermo anche che sì, la barista il cui nome inizia per la J è anche fottutamente sexy. Canotta ridotta ai minimi termini, capelli neri corti e spettinati, occhi verdi che cercano e promettono un sacco di divertimento.

"E' il tuo modo per strapparmi un pompino nei bagni?" mi domanda, con lo sguardo dritto nel mio ed un altro sorriso allusivo.

Tra le sua labbra socchiuse intravedo il luccichio metallico di un piercing sulla lingua. Cazzo.

Qualcuno mi dà una spallata nel sedersi sullo sgabello accanto a me, rompendo l'incanto inebetito di me che, già mezzo stordito, sto ancora lì a domandarmi perché non ho risposto "sì" seduta stante. Mi volto verso colui che, appena tornato dal bagno, ha appena rovinato tutta l'atmosfera.

"Quindi, stavo pensando …" Inizia Ric con fare convinto, come se nei cinque minuti dentro alle toilette avesse ricevuto chissà quale illuminazione divina. " … sei patetico. E te lo dico consapevole di avere le mie colpe in questo, in quanto colui che ti ha passato la bottiglia e che è stato con te nelle ultime tre notti. A proposito, sei uno che abbraccia durante il sonno, specialmente quando sei completamente andato. Non farlo. Non farlo più."

J lancia una strana occhiata verso il mio compagno di bevute dal tempismo perfetto e dalla lingua un po' troppo sciolta dall'alcol (e comunque, sta vaneggiando: io non abbraccio). Solleva un sopracciglio, si raddrizza dal bancone sul quale si era protesa e mi rivolge un veloce sorriso condiscendente. "Ho da fare. Magari un'altra volta."

Come la ragazza se ne va, colpisco bruscamente il mio amico sulla spalla con il dorso della mano.

"Un piercing sulla lingua, Ric!"

"Cosa?" mi domanda lui confuso, senza capire.

"Lascia perdere …"

Alzo gli occhi al cielo, scuoto la testa ed allungo la mano per andare a riempirmi un altro bicchiere.

Ma, con uno scatto impressionante per il suo stato attuale, Ric mi anticipa e mi sottrae la bottiglia direttamente sotto al mio naso e al mio sguardo stupito.

"No," scuote la testa con fare deluso. "Come stavo dicendo, lo so che non sono probabilmente la migliore persona per farti questo discorso, visto che … potrei essere io stesso un tantino ubriaco in questo momento. E' solo che davvero mi piace tanto il whisky … Ciò che voglio dire è, quanto hai intenzione di andare avanti così, a girare per bar fuori mano e fottertene di tutto quanto? E' stato divertente le prime due sere … adesso, inizio a sospettare che stia diventando patetico."

"Non lo so e non mi importa," ribatto alzando le spalle. Ci mancava solo che ci si mettesse pure lui. "Sono permanentemente fuori servizio."

Tento di riprendermi la bottiglia, ma senza successo, perché Ric me la allontana di nuovo.

Gli rivolgo un mezzo broncio nel tentativo di dissuaderlo dalla sua crociata tardiva e maldestra.

"Quanti anni hai, quindici?" ribatte.

La sua domanda, grazie anche all'ebbrezza che finalmente inizia a farsi sentire, mi fa quasi scoppiare a ridere, anche se invece della risata ciò che mi esce fuori è solo un mezzo ghigno in onore della paradossale ironia della situazione.

Più o meno, avrei voglia di rispondere.

Perché, ecco la cosa divertente: fino a neanche due mesi fa ero una semi-specie di semi-adulto semi-funzionante che era appena riuscito a permettersi un appartamento decente a Mission Bay [1] con tanto di terrazza spazzata dal vento gelido dell’oceano; uno che passava le sue serate tra sushi bar e locali affollati di bionde dalla coda alta, troppo single e troppo in carriera per preoccuparsi degli impegni di lungo periodo, e che proprio per questo risultavano l'abbinamento ideale alla mia incapacità di restare fedele a qualsiasi cosa per più di una stagione.

Poi è bastato farmi una passeggiata sul viale dei ricordi di questa fottuta città e, di colpo, addio semi-specie di semi-adulto ventiseienne e bentornato fresco diciottenne mai in grado di combinarne una giusta; oggi come allora decisamente poco intitolato alla fittizia coscienziosità che, a quanto pare, un banale concetto astratto come la maggiore età dovrebbe magicamente dare.

"Sembri mio padre," replico. "Una versione più ubriaca e con meno filtri."

"Dovrebbe essere un insulto?"

Questa volta rido, per davvero, con la testa leggera piena di alcol e pensieri sconnessi, e con quel fastidioso groppo alla gola che nessuna quantità di liquore è mai riuscita a farmi andare giù.

"Torna a San Francisco, Damon," prosegue lui, prima di buttare giù l'ultimo sorso rimasto sul fondo del bicchiere, e poi tornare ad inclinare la testa verso di me. "Era la mia missione quando sono salito su quell'aereo, prendere le tue chiappe e riportarle dove devono stare. Dico davvero, cosa ci stai a fare ancora qui, in ogni caso?"

Bella domanda, non posso dargli torto.

Avrei dovuto essere su quell'aereo settimane fa. Tutto questo non avrebbe dovuto essere nient'altro che una veloce toccata e fuga per mettere in ordine quelle due o tre cose dopo la dipartita di mio padre, giusto quel tanto che bastava per pulirmi la coscienza.

Invece, in un modo o nell'altro, una settimana era passata e poi un'altra e poi un'altra ancora. Fino a che non mi ci sono ritrovato dentro fino al collo, colato a picco peggio di una porta-aerei da battaglia navale in mezzo a ciò che ho perso, ciò che ho ritrovato e ciò che non ho mai avuto. E la verità è che non lo so più neanche io cosa ci sto a fare qui, in un bar di periferia con del pessimo country e bariste disinibite, senza più nessuna vera scusa per restare e senza davvero nessuna voglia di andare.

Faccio leva sul bancone per alzarmi dallo sgabello e tiro fuori il portafoglio per lasciare una banconota da 50 sopra il bancone.

"Per il momento, Ric," rispondo. "Penso che sia solo ora di tornare a casa."


"Quando cresce, vedrai che diventa più ragionevole."

Era una sera d'agosto poco prima dell'inizio del liceo e a pronunciare quella frase era stata zia Julie venuta a trovarci da Atlanta.

L'aria aveva il tipico odore pieno e dolce dell'estate, la luce sulla veranda era di un intenso violetto scuro, e mio padre mi aveva appena proibito di uscire per incontrarmi con Enzo, il nuovo ragazzo che si era appena trasferito da Manchester con una madre single perennemente assente, una scorta di sigarette sempre pronta ed un colorito assortimento di nuove parolacce splendidamente britanniche. Io avevo tredici anni e, per tutta riposta al suo divieto, gli avevo usato per la prima volta la parola con la "F" ed ero uscito lo stesso.

Spoiler alert, zia Julie: ti sbagliavi. Non diventai né più ragionevole, né altro.

Anche se il perché di tutta quell'irrequietezza e rabbia repressa, onestamente, non avrei saputo dirlo neanche io.

Non è che fossi cresciuto con grossi traumi infantili. Anche se, di quando ero bambino, a volte tutto ciò che rimaneva era solo la soverchiante presenza di mio padre. Forte, rigoroso, carismatico, rispettato. Era dappertutto: nelle strette regole educative con cui aveva cresciuto me e mio fratello, nello spingerci verso nient'altro che l'eccellenza, ma anche nelle ore che spesso si prendeva libere da tutto e da tutti solo per passare del tempo insieme a noi, al fiume in estate, in mezzo alla neve d'inverno. La sua presenza nelle nostre vite era soverchiante almeno quanto l'evanescenza di Charlotte, di cui, per almeno un paio di anni dopo che se ne era andata, tutto ciò che avevamo erano biglietti e regali spediti via posta per natali e compleanni.

Tanto che, ad un certo punto, quando aveva sei anni, Stefan aveva iniziato a dire in giro che fosse morta. Era stato allora che nostro padre ci aveva preso da parte, si era messo con calma a sedere con entrambi e, mentre fuori diluviava e il fuoco languiva nell'ampio camino della sala, ci aveva detto che Charlotte ci voleva bene ma non era felice qui, che per questo aveva scelto di andarsene e risolvere le sue problematiche da sola. Niente bugie o pillole indorate. Dopotutto, mio padre non ci aveva mai, neanche una singola volta, trattato con la condiscendenza riservata ai bambini da chi crede che non possano capire le cose da grandi.

Ad ogni modo, l'irrequietezza. Forse era da lì che arrivava. Forse me la aveva trasmessa Charlotte. O, forse, era stata la naturale conseguenza del momento - così poco definito a differenza del resto, un po' come l'età in cui non si è più bambini ma neanche quel qualcosa di spaventoso che viene subito dopo - in cui un giorno avevo guardato mio padre ed avevo realizzato che avevo bisogno di liberarmi di una tale figura, così incrollabile e infallibile. E, da lì in poi, la mia irragionevolezza - o irresponsabilità come lui la chiamava - non aveva mai davvero conosciuto una fine.

Ecco cosa avevo in testa quando mi svegliai e mi alzai dal letto: zia Julie, pomeriggi al fiume e pioggia sui vetri, qualcosa che è troppo e qualcosa che è troppo poco.

Così, intento a trangugiare un toast al volo prima di andare a scuola, per poco neanche la notavo.

La busta giallastra era posata al centro del basso tavolino di fronte al divano, con il mio nome scritto sopra nella calligrafia ferma ed elegante di mio padre. Nient'altro: non una nota di accompagnamento, non una firma.

Quando la aprii e le chiavi della Camaro scivolarono tintinnanti sul mio palmo aperto, dalla sorpresa il mio cuore balzò contro le costole in un guizzo così inaspettato e potente da farmi quasi male.

Mormorando un sommesso "cazzo", mi precipitai alla finestra per averne conferma e, infatti, eccola lì. Lucida e azzurra sotto il sole tiepido di marzo, perfetta e senza neanche l'ombra della brutta ammaccatura sulla fiancata destra e del danno al semiasse anteriore che l'avevano messa fuori uso dopo il mio incidente.

Afferrai la giacca e raggiunsi in fretta l'uscita per andare a toccarla con mano, ma quando aprii la porta mi trovai davanti Stefan, colto proprio nel bel mezzo dell'atto di bussare.

Mio fratello aprì la bocca, ma lo stroncai sul nascere prima che potesse proferire parola.

"Hai visto papà?"

Stefan corrugò la fronte, perplesso. Non era un qualcosa che mi sentiva chiedere spesso.

Scosse la testa, con aria sinceramente dispiaciuta.

"No, è partito per DC questa mattina presto ..." Alzò lo sguardo su di me e mi guardò quasi come se si sentisse in obbligo di dovermi delle scuse o delle giustificazioni al posto suo. "Ma penso che ti chiamerà, voglio dire ..."

"Non lo farà. Ma va bene," risposi, e al dispiacere per me negli occhi di Stefan si aggiunse quasi un accenno di pietà.

Ma la sua compassione nei confronti del mio ruolo di figlio degenere mi scivolò addosso senza scalfirmi, tanto che Stefan mi guardò completamente disorientato quando, invece che incupirmi, iniziai a fargli dondolare le chiavi proprio davanti al naso, sorridendo come un idiota.

"Ti serve un passaggio?"

"Beh, perché no," riprese lui, "Ma prima volevo ..."

Fu allora che notai che, tra le mani incrociate dietro la schiena, stava nascondendo qualcosa.

"Cazzo, Stef, avevo detto-"

"Lo so, lo so, cosa avevi detto," sbuffo' impermalito. Mi scaraventò in mano il libro che si era portato dietro e si strinse impacciato nelle spalle. "E' mio, perciò è solo un prestito, ok? Me lo ridai quando hai finito."

"Il Giovane Holden?" commentai nel vedere di che si trattava, alzando un sopracciglio verso di lui. "Che cliché."

"Sta' zitto e leggilo."

"Ok," concessi. Mi infilai Holden Caulfield nella tasca interna della giacca, evitando di dirgli che lo avevo già letto l'anno prima. Io ero sorprendentemente di buon umore e lui era troppo carino per rovinare il momento. "Grazie."

Poi gli rivolsi un mezzo ghigno e gli feci cenno con la testa invitandolo a seguirmi per andare a rimettere in moto la Camaro.

Avevo appena chiuso la porta della depandance, quando il rumore basso e vibrante di un'auto che risaliva il vialetto ci fece voltare entrambi.

Il maggiolino decappottabile color giallo vivo parcheggiò ad una decina di metri da noi, dandoci modo di intravedere la figura sottile di chi lo stava guidando, e, cazzo, lì per lì quasi mi caddero le chiavi di mano dallo stupore. Guardai Stefan, il cui volto era la maschera dello shock, e poi di nuovo verso l'auto, per esserne sicuro.

Ma non mi ero sbagliato. I lunghi e lisci capelli biondo cenere, quel modo delicato e nervoso al tempo stesso di muovere le dita nel tirare giù e rimettere a posto lo specchio del guidatore, e, soprattutto, i grandi occhi verdi dall'espressione sempre meravigliata, appena una sfumatura più chiari di quelli di Stefan.

Charlotte scese dalla macchina e si appoggiò contro lo sportello, sorridendo e agitando una mano nella nostra direzione in segno di saluto.

Sorpresa.


Finii per lasciar perdere scuola e passare la giornata con Charlotte.

Appena arrivata, mi aveva sussurrato nell'orecchio parole affettuose adatte alla circostanza e stretto in un abbraccio che mi aveva fatto sentire tutta la fragilità delle sue ossa. Quando però si era voltata verso Stefan per fare lo stesso, mio fratello si era sottratto con un veloce passo indietro ed un'occhiata da tigrotto ferito, se ne era andato bofonchiando di essere in ritardo per la scuola, ed i grandi occhi di Charlotte si erano subito riempiti di lacrime. Così, non avevo davvero avuto altra scelta che stare con lei, se non volevo vederla piangere proprio lì di fronte a me.

L'aria era ancora frizzante degli ultimi residui di inverno, ma il sole aveva già un piacevole tepore che ci concesse di sederci ad uno dei tavolini all'aperto del Grill, lei con un Martini bianco ed io con la triste acqua minerale che la mia età mi concedeva [2].

Per un po', a parlare fu solo lei, a raccontare le storie del suo recente viaggio in Guatemala e i progressi del suo nuovo libro, il terzo. Un po' la storia della sua vita: rimasta incinta appena finito il liceo di un uomo di dieci anni più grande, matrimonio riparatore a seguire, un altro figlio e cinque anni dopo aveva deciso che non ne poteva più. E poi era finita a scriverci sopra dei libri.

Si accese un'altra sigaretta, una di quelle lunghe e sottili che sembravano sempre un prolungamento naturale delle sue dita inquiete e filiformi. Uno, due, tre colpetti per scrollare una cenere inesistente che ancora non si era accumulata.

"Stai bene, tesoro, ti servono dei soldi?"

"Ce li ho i soldi. Ho un lavoro, ricordi?" risposi facendo girellare la cannuccia nell'alto bicchiere cilindrico.

"Anche per quando finirai il liceo? Sai già cosa fare?"

Alzai lo sguardo su di lei e mi lasciai sfuggire una smorfia sarcastica.

"Hai parlato con papà, per caso?"

Si voltò di lato per soffiare via il fumo, scosse velocemente la testa e riprese a scrollare la sigaretta.

"Lo sai che tuo padre con me non parla."

"Magari dopo tutti questi anni ha cambiato idea."

Charlotte sorrise tristemente.

"L'ho ferito, e lui sa essere molto testardo nelle sue decisioni quando viene ferito."

Affondai un po' di più nella sedia e scrollai le spalle con noncuranza, niente affatto intenzionato ad entrare nel discorso del suo fallimentare rapporto con mio padre, né tantomeno con me e Stefan. Ero l'unico che le dava un po' di tregua, forse perché sotto sotto mi rendevo conto che ci provava a rimediare, anche se in un modo che era sempre sbagliato e che non risolveva mai un cazzo.

"Quindi? Piani?" riprese in tono più allegro, anche lei evitando subito l'argomento. Come sempre.

"Per ora nessuno."

"Lo capirai quando arriverà il momento, vedrai."

Fu in quel momento - in quella situazione surreale di essere lì a parlare con Charlotte, in un luogo perfettamente normale e familiare come il Grill, invece che su barche o camere di hotel o posti sempre nuovi, tallonati alle calcagna da sconosciuti che impazzivano per lei senza ricevere mai lo stesso in cambio - che per davvero lo avvertii: il peso di tutto ciò che mi ero perfettamente allenato a far sì che non mi toccasse, la disfunzionale tendenza al menefreghismo che tutta quella situazione del cazzo mi aveva lasciato addosso, le eccessive aspettative che non sarei mai stato in grado di soddisfare. Ero fottutamente incasinato dentro e con nessuna prospettiva di migliorare la cosa.

"E se non succede?" domandai corrugando la fronte, con lo sguardo fisso sulle minuscole bollicine d'acqua che risalivano su per andare a scoppiare verso la superficie. "E se non sarò mai capace di fare una sola cosa buona?"

Gli occhi di Charlotte sembrarono allargarsi all'infinito. Per alcuni secondi, si dimenticò perfino di dare i suoi ossessivi colpettini alla sigaretta.

"Ma certo che lo farai, tesoro," disse sorridendo convinta.

Lo dici solo perché sei mia madre, le avrei risposto se la parola "madre" non fosse suonata così terribilmente stonata in riferimento a lei. Pentendomi già di essermi lasciato scappare quelle parole, forzai un sorriso ed un cenno di assenso con la testa per tranquillizzarla, e tutto il resto lo tenni per me, ingoiandolo giù con quella triste acqua minerale.


***


Quando con Ric torniamo a villa Salvatore, è notte fonda. La casa sembra ancora più grande e buia, senza nessuna traccia di persone ancora sveglie.

Beh, quasi nessuna traccia di persone ancora sveglie.

Dopo aver salito l'ultimo scalino, detto buonanotte a Ric e messo piede nel corridoio del secondo piano, noto una sottile striscia di luce provenire da sotto l'ingresso della mia camera e, chissà perché, ho subito la fastidiosa sensazione che il seguito della mia nottata non abbia in serbo niente di buono.

Non mi sbaglio.

Apro la porta ed infatti… detto fatto.

Mi sorreggo con una mano contro la cornice della soglia e mi accascio contro di essa per darci un paio di testate, espressione disperata di tutta la mia frustrazione.

"Due altre camere da letto. Una dependance recentemente rinnovata. Per non parlare di un mondo intero là fuori, che sono sicuro ha molti posti adatti per una stronza psicopatica come te. Devi proprio startene qui?"

Katherine, languidamente distesa sul ventre sopra al mio letto, alza lo sguardo dal mio portatile su cui stava trafficando, posa in tranquillità il mento sulla mano e mi guarda da sotto in su. Le sue gambe, lasciate scoperte dal vestito nero la cui gonna si è raccolta sopra le sue natiche, sono incrociate in alto e dondolano pigre nell'aria.

"Non sono mai stata una psicopatica," si stringe nelle spalle.

"Che fortuna," replico sarcastico.

Non ho le forze, né la lucidità mentale per mettermi a discutere con lei in questo momento. Così chiudo la porta alle mie spalle, mi avvicino al letto, le sottraggo il pc da sotto lei mani suscitandole un broncio bambinesco, e mi butto sul materasso senza neanche togliermi le scarpe.

Incrocio le mani sugli occhi per farmi scudo dalla luce bassa che proviene dalla lampada sopra il comodino, sforzandomi di ignorare la nefasta presenza nella stanza e pregando che almeno non sia troppo d'intralcio tra me e l'incoscienza alcolica che mi attende. Forse, se mi impegno abbastanza a far finta che lei non sia qui, prima o poi scompare davvero.

Ovviamente, non sono così fortunato.

Il letto si muove sotto al suo peso, mentre Katherine cambia posizione e si sdraia su un fianco accanto a me. Con un dito, inizia a tracciarmi i contorni dei muscoli sulla parte più bassa del ventre, appena sopra la cintura e appena sotto l'orlo della maglietta che è rimasta sollevata.

Rabbrividisco. Non so se di disgusto o di piacere.

"Lo sapevi che, secondo le mie ricerche, solo questa casa vale due milioni di dollari?" mi domanda in un sussurro basso contro il mio orecchio. "Per non parlare di tutto il resto della tua eredità, compreso il valore di una compagnia così grande …"

Allungo un braccio e blocco la provocazione messa in atto dalla sua mano, chiudendola nella mia. Ma lei non la sottrae ed io non la spingo via, così le sue dita rimangono lì, ferme sul mio addome. Perché sì, non c'è nient'altro che io voglia di più in questo momento che vederla andarsene a fanculo; eppure, è un piccolo contatto di calore umano, per quanto umana possa mai essere Katherine, a cui in questo momento sono troppo debole per rinunciare.

"La compagnia non vale un cazzo se va avanti di questo passo," rispondo iniziando a strascicare la voce, con l'altro braccio ancora sugli occhi a crearmi un buio artificiale su cui danzano piccole lucine colorate.

"Beh, allora vedi di rimediare. Non sono venuta fin qui per tornarmene a mani vuote."

"E pensare che una volta ti credevo appassionata e imprevedibile, altro che così calcolatrice."

"Oh, per favore. Guarda che anche io ti credevo qualcosa che non eri. Ricco. Come vedi, siamo in due ad essere rimasti fregati."

Le lascio andare la mano con un sospiro infastidito e riporto il braccio insieme all'altro, sopra la mia testa, non appena quella frase fa breccia nella nebbia post-sbronza e mi ricorda con chi è che ho davvero a che fare.

"Ma," prosegue in tono allegro, "la buona notizia è - almeno per me - che adesso ricco lo sei davvero!"

"Non ti dò un cazzo di niente, Katherine."

"Certo che lo farai," mi bisbiglia, con quel tono seducente e appena roco per cui, un tempo, sarei stato capace di fare follie. Infila lentamente la mano sotto la mia maglietta e risale, accarezzandomi il torace, delineando sulla mia pelle tutto il percorso fino alla parte alta del petto, dove voleva arrivare. "Perché lo so che, in fondo a quel tuo cuoricino morbido e sentimentale, …" lo accarezza piano mentre parla e, con una coscia nuda, preme e si struscia contro il cavallo dei miei jeans, che si è già indurito di sua spontanea volontà. "… una parte di te ancora mi ama."

"Ti detesto."

Sorprendentemente, le parole mi escono fuori più piatte ed indifferenti di quanto non avessi intenzione, senza la forza con cui mi sono sempre immaginato che gliele avrei dette.

Katherine ride, di una risata bassa e sinceramente divertita. Non mi crede neanche per un istante.

"Se è davvero così, allora perché non hai mai chiesto il divorzio?"

Perché se ne è andata da un giorno all'altro senza lasciare neanche un bigliettino, figuriamoci un recapito. Perché pensavo che intestardirmi per andare a cercarla e cancellarla dalla mia vita le avrebbe solo dato l'impressione che ci tenessi ancora a lei. Perché, forse, in fin dei conti sarebbe stata l'ammissione finale di aver sbagliato e aver fatto una cazzata, di nuovo.

Ma col cazzo che si merita una risposta. Può pensare quello che diavolo le pare.

Le sue labbra mi sfiorano il collo, accompagnano un altro sfregamento di apprezzamento della sua coscia.

Lo so che mi sta manipolando. Lo so che sta solo cercando di dimostrare il suo punto, quello per cui non sono stato in grado di resisterle in passato e non sarò in grado di farlo neanche questa volta, quando si tratterà di definire il divorzio che è tornata per chiedermi dopo aver saputo - dio solo sa come - quanto fosse cambiata la mia situazione finanziaria.

Ma anche questo pensiero non mi fa incazzare come dovrebbe. Mi sento impermeabile a qualsiasi suo giochetto mentale. In questo stato mezzo ottenebrato dall'alcol che ancora mi intasa le vene, ho la ridicola percezione di essere io ad usare lei. Per non pensare, per dimenticare, per farmi una scopata con una qualsiasi altra ragazza in cui perdersi e divertirsi per una notte, e poi archiviare facilmente il mattino successivo.

Apre il primo bottone e poi la cerniera dei jeans, per insinuarsi direttamente sotto ai boxer.

"Mi detesti davvero tanto …" commenta sarcastica soffiando sopra la mia bocca, mentre spingo il bacino in alto contro la sua presa ed il mio cazzo le riempie la mano.

La afferro deciso per i fianchi per portarla come si deve sopra di me, e poi mi assicuro che smetta di parlare.


***


Cose che avevo giurato a me stesso di non fare mai più, prima voce della lista: svegliarmi nudo accanto a Katherine.

Cose che rimpiango: non essermelo ricordato quando sarebbe stato il momento.

La luce del mattino e la ritrovata lucidità mi colpiscono peggio di un faro stroboscopico puntato dritto in faccia. Mi porto le mani sul volto, per imprecare sottovoce contro i miei stessi palmi e prendere un profondo respiro, prima di voltarmi verso l'occupante del lato destro del letto.

Eccola lì: la prova inconfutabile dell'infimo punto a cui mi sono ridotto. Forse il Ric ubriaco ha ragione: è il momento di smetterla di fare il coglione.

Katherine è ancora addormentata, una mano sotto al cuscino e la linea rotonda del seno premuta contro il materasso. La cosa peggiore è che, a guardarla adesso, ingannerebbe chiunque. Nessuno sospetterebbe che dietro quel viso dalle linee dolci e delicate possa nascondersi una tale vipera.

Mi maledico ancora una volta nell'alzarmi dal letto, tanto per non dimenticarlo neanche io.

Dopo una doccia allo scopo di liberarmi al più presto di qualsiasi minuscolo ultimo residuo di Katherine che possa essermi rimasto addosso, finisco di infilarmi la maglietta mentre sto ancora scendendo le scale fino all'ingresso, ben intenzionato a svignarmela e a far finta che ieri notte non sia mai accaduta.

L'anticamera d'ingresso è ancora completamente ingombra del caos di scatoloni da cui, con la stessa voracità di una pianta rampicante, adesso che si è trasferita qua, la roba di Caroline continua a sbucare e ad invadere ogni centimetro di questa casa. Ne scavalco un paio con la scritta "Sala", dentro ai quali intravedo vecchie fotografie incorniciate da legno chiaro e tappezzeria varia dai colori pastello che mi auguro vivamente non abbiano intenzione di trovare collocamento da queste parti almeno finché ci sono ancora io nei paraggi. Poi Stefan potrà lasciare che Blondie Girl trasformi la nostra casa di infanzia in una sala da tè quanto le pare e piace.

Sto per compiere gli ultimi passi della mia personale camminata della vergogna verso la porta, ma ciò che inaspettatamente intravedo nella sala alla mia sinistra mi fa bloccare all'istante. Dannazione.

Nel mio salotto c'è Elena. O, a seconda dei punti vista, il karma che ha deciso ancora una volta di ridermi in faccia.


Quella era probabilmente una pessima idea. Era tardi, era un qualsiasi giorno nel mezzo della settimana, ed anche solo per quello mi avrebbe mandato a quel paese. Lasciai che la cosa mi fermasse? Ovviamente no. Non mi soffermavo mai più di tanto a soppesare la ragionevolezza delle mie idee.

Parcheggiai la Camaro accostandola vicino al marciapiede e mi incamminai nel buio rischiarato dai lampioni ai lati della strada, la maggior parte delle luci provenienti dall'interno delle altre case già spente. Arrivato sotto al portico della mia destinazione, girai per un paio di metri sulla sinistra e sollevai lo sguardo per sbirciare verso la finestra di Elena, così da poter controllare che la sua luce fosse ancora accesa.

Ero appena andato via dalla mia comparsata alla festa di Enzo, il quale, anche se gli avevo detto da giorni che non c'era proprio un cazzo da festeggiare, si era allegramente sbattuto di ciò che ne pensavo io e mi aveva usato come scusa per radunare un po' di alcol ed un po' di ragazze con cui possibilmente andare in seconda base negli angoli bui del suo garage. Me ne ero andato dopo nemmeno due ore, un po' perché non ero dell'umore, un po' perché, fanculo, tanto valeva ammetterlo: non avevo voglia di passare la serata incollato a qualche ragazza della quale avrei quasi sicuramente dimenticato il nome il mattino successivo.

Raccattai da terra una manciata di sassolini e li lanciai contro la finestra di Elena.

Niente.

Ripetei di nuovo l'operazione e, questa volta, passati alcuni secondi, Elena alzò il vetro e cautamente si sporse in avanti per scrutare nel buio, anche se l'ombra dell'albero al limitare del suo giardino, che si innalzava fino al limitare del tetto, mi nascondeva completamente.

"Damon?" sussurrò incerta, pur senza vedermi. Mi spostai di qualche passo finché non entrai nella sua visuale e lei corrugò la fronte perplessa. "Cosa?…"

Le feci cenno con la testa di scendere, indicandole la sua porta.

Inclinò la testa di lato e mi rivolse con lo sguardo un muto Sul serio?, scosse la testa e richiuse la finestra con un colpo secco, poi si voltò e scomparve in una ventata di capelli scuri. Lo avevo detto che mi avrebbe mandato a quel paese.

Era passato quasi un mese, dal giorno in cui mi ero infine deciso a farmi coraggio e ad andare a chiederle se davvero le parole impulsive dettate dalla mia stupida competizione con il quarterback avessero per sempre segnato la fine della nostra amicizia. Certo che no, era stata la sua risposta. Tre parole, ma erano state abbastanza.

Non riuscivo ancora a digerire del tutto il suo nuovo ragazzo, né tantomeno quel suo amichevole e completamente non odiabile sorriso alla famiglia Brady che sapevo io dove glielo avrei volentieri infilato. Ma non potevo. Non dopo che Elena si era intestardita a metterci entrambi seduti ad un tavolino del Grill per farci conoscere meglio, costringendomi ad iniziare a chiamarlo per nome (Matt. Nome stupido, no?) e ad andarci d'accordo. Cosa che tra l'altro era fin troppo facile da fare, dato che il tizio (Matt. Il nome, dannazione) era un maledetto cucciolo di labrador. E come cavolo fai a prendere a calci un cucciolo di labrador?

Fatto sta che il cucciolo (Matt) le sottraeva buona parte del suo già limitato tempo libero, ed io avevo le briciole. In un certo senso, quello aveva cambiato qualcosa nel nostro rapporto, nel modo in cui avevamo piano piano iniziato ad avvicinarci di nuovo, a cercarci nei momenti più impensati. Non in peggio. Solo … diverso. Come se tutto tra noi fosse più prudente. Meno banale. Più indispensabile.

Rimasi appoggiato con la spalla contro una colonna del portico con le mani infilate nelle tasche ad aspettarla scendere finché, qualche minuto dopo, l'ingresso non si aprì gettando un triangolo di luce gialla sulle assi di legno della veranda.

"Cosa ci fai qui?" mi domandò, socchiudendosi la porte alle spalle e venendomi incontro. "E' quasi mezzanotte."

"Ti va di venire in un posto?"

"Adesso?…" La circospetta incertezza della voce, però, si accompagnò al barlume di vivace curiosità che le accese gli occhi, facendoli sfavillare anche al buio. "Dove? …"

Piegai le labbra in un mezzo sorriso. "Ti fidi di me?"


E' la prima volta che vedo Elena dopo la mia totalmente intempestiva idea di baciarla sul portico di casa sua e già i miei sensi, i miei pensieri, la mia razionalità … fanno bip e vanno in corto circuito.

Non mi ha visto, quindi probabilmente la cosa migliore per tutti sarebbe ignorarla e continuare a dirigersi verso l'ingresso. Certo non appoggiarmi con le braccia incrociate contro lo stipite della porta, ad osservarla mentre se ne sta in punta di piedi sulla piccola scala, piegata appena in avanti con le braccia allungate per sorreggere un nuovo quadro straboccante di girasoli da piazzare in uno spazio vuoto accanto al camino.

Lei e quella sua brutta abitudine di indossare gli shorts. Lei e quelle gambe, slanciate e adesso leggermente in tensione. Lei e …

Ok, ecco come stanno le cose. Ho cercato in tutti i modi di non pensare a quel bacio. Tanto pazzesco, quanto impossibile da ripetere. Dopotutto, ho fatto una promessa, no?

E, d'accordo, è vero che il mio cervello non è di per sé mai stato molto collaborativo quando si tratta di smettere di pensare a lei, ma qualcuno mi conceda almeno la scusante di quanto sia ancora più dannatamente difficile mantenere quella promessa quando solo vederla (non solo le gambe, ma la perfetta rotondità che le corona, la spalle che sbucano dalla larga maglietta bianca traforata, l'estremità della coda che dondola sulla curva della nuca) basta per riportare a galla lo stesso identico afflusso di sangue alla testa nonché a tutto il reso delle mie estremità.

Del resto, quel bacio non ha fatto altro che confermare ciò che già sapevo. Ovvero che sotto a tutto quel suo atteggiamento da "fare-la-cosa-giusta" - perché dio ce ne scampi che possa concedersi qualcosa che non la faccia sentire sempre in controllo di tutto - Elena è fuoco, di quelli quieti e silenziosi che sono solo brace finché non divampano all'improvviso. E dopo che a ricordarmi questa cosa ci hanno pensato le sue mani che si aggrappavano strette tra i miei capelli come se ne andasse della sua vita, la sua schiena arcuata contro il mio corpo fino a che non ho avvertito nient'altro che le piccole punte indurite dei suoi capezzoli, e quel sommesso, eccitante, suono che si è lasciata sfuggire dalla parte più profonda della gola … beh, dopo che Elena ti bacia così, non è esattamente una passeggiata dimenticarsene e tornare a recitare il caro vecchio gioco dell'indifferenza.

"Care, sbrigati, non posso stare qui tutto il giorno!" grida, voltando la testa di lato.

In tempo per vedermi, e sorprendermi ancora intento a sbirciare le curve di quei maledetti shorts. Mi vede e reagisce: occhi spalancati, labbra socchiuse … Un cerbiatto colto alla sprovvista.

"Ehi," la saluto piano.

"Ehi …"

Si guarda attorno, cauta. Non sa chiaramente cosa fare, impossibilitata a lasciare la sua posizione a causa del quadro che altrimenti rischierebbe di cadere a terra. Dovrei forse restare fermo dove sono, a studiare le sue reazioni contraddittorie alla mia presenza? Probabilmente dovrei.

Invece entro in sala e mi avvicino, lasciando che Elena mi segua con lo sguardo, afferro il quadro per lei e la aiuto ad appoggiarlo delicatamente per terra.

Mi accenna un "grazie" mentre scende dalla scala.

"Non pensavo … cioè, non sapevo …" Si sposta dalla fronte una ciocca sfuggita dalla coda, evita il mio sguardo e tira fuori un sospiro che sa di scuse che non mi deve e che soprattutto non mi va di sentire. "Non sapevo che tu fossi qui."

"Io ci vivo qui."

"Sì, lo so, voglio dire …" Due ciocche da risistemare, ancora qualcosa all'altezza della mia spalla che deve sembrarle particolarmente interessante. "Caroline aveva detto che di solito sei sempre fuori. Altrimenti, se lo avessi saputo, non sarei mai venuta."

Questa è stata crudele … Ma immagino che il fatto di eclissarmi dalla sua vita, implichi anche questo. Una politica zero contatti.

"Così non vuoi neanche vedermi, o rischiare di incontrarmi. Lo terrò a mente."

I suoi occhi scattano di colpo, in un riflesso incondizionato, verso il mio volto.

"Cosa? No, io …Dio, Damon, non è questo che intendevo. Ho solo pensato … che forse eri tu quello che non aveva voglia di vedermi." Pronuncia le ultime parole cautamente, in attesa della mia reazione, e dopo un ultimo attimo di esitazione, aggiunge così semplicemente da far male, "Io ci tengo a te. Questo non cambia."

E' la risata del karma quella che sento? Eccolo qui, il vero grosso fottuto problema. Perché una parte di me quasi vorrebbe che non fosse così. Renderebbe tutto molto più facile. Prego, Elena, unisciti a Katherine nel club delle stronze. Riunioni infrasettimanali, cocktail e stuzzichini inclusi.

Peccato che facile non rientri nel mio vocabolario. Peccato che lei sia Elena, che io sappia che lo intende per davvero, e che anche in questo frangente io non possa farle una colpa per questo.

"Sto bene, Elena. Sono un ragazzo grande, so incassare un rifiuto."

Scuote appena la testa. "Non avrei mai dovuto lasciare che le cose diventassero così incasinate tra noi."

"Come ho detto: ragazzo grande."

Tiro un angolo delle labbra verso l'alto per sottolineare la mia frase, e lei fa lo stesso di rimando.

Per un breve attimo, ho quasi l'impressione che questa cavolo di situazione di sentimenti scombinati e male assortiti possa davvero funzionare: io imparerò di nuovo a togliermela dalla testa e a pensare a lei solo come ad un'amica, lei si preoccuperà per me dispensando consigli per arginare la mia costante promiscuità sentimentale, e ci ritroveremo tutti insieme a riderci su al primo compleanno del figlio di Stefan e Caroline.

Poi Elena piega il viso di lato per sbirciare oltre le mie spalle e quell'abbozzo di sorriso sul suo volto … puff, svanisce all'istante.

Quando mi volto, Katherine è appena saltellata giù dall'ultimo gradino della scalinata, vestita solo della maglietta blu che indossavo io ieri sera e che a malapena arriva a coprirle il sedere.

"Buongiorno!"

Incrocia le mani sopra la testa per stiracchiarsi e scoprire l'altro pezzo del suo abbigliamento, una brasiliana di pizzo nero che le incornicia le natiche meglio che a una modella su una copertina di Playboy, prima di gettarmi entrambe le braccia al collo ed iniziare a fare le fusa più false di tutto il suo repertorio.

"Perché ti sei alzato così presto? Avremmo potuto fare il bis. O tris, o … non lo so, penso di aver perso il conto ieri notte?"

Mi libero della sua presa con una smorfia ed uno scatto infastidito delle spalle.

Quando poso di nuovo gli occhi su Elena, noto che ci sta guardando con una specie di strano orrore incredulo, la bocca semi-spalancata e le braccia adesso conserte intorno al petto.

E' un secondo, in realtà, non molto di più, quello in cui incrocio il suo sguardo e vedo tutto il mondo che ci passa dentro, il cambiamento da ferito, tradito, a schifato, ed infine … così incazzato che non so neanche come dovrei reagire.

E' vero che solo qualche sera le avevo detto che di Katherine non poteva fregarmene di meno e adesso è appena balzata fuori seminuda dal mio letto … Ed è vero che, per un momento, penso quasi di partire con tutte le giustificazioni del caso, con l'intero pacchetto "ero-ubriaco-e-triste" … solo che poi, beh, era o non era lei, quella che ha messo in chiaro come stanno le cose come tra noi?

"Allora, ho trovato solo questi due di martelli, secondo te quale …" Ci voltiamo tutti di scatto verso Caroline, che sbuca sulla cima delle scale di ritorno dalla cantina, con un martello in ognuna mano. Si ferma a rivolgere uno sguardo disorientato a tutti i presenti "…. Cosa sta succedendo qui?"

"Devo andare," si affretta a dire Elena, mentre si piega a riprendersi la borsa che aveva posato sul divano, con un scatto secco che trabocca di furia trattenuta. "Avevo dimenticato … Devo essere al Grill."

"Ma avevamo appena cominc-" protesta Caroline.

"Mi dispiace, Care. Ti chiamo, ok?"

Si avvia a passi decisi verso l'uscita, senza guardarmi in faccia, ma assicurandosi di scontrarmi piuttosto violentemente contro la spalla nel passarmi accanto. Vedo lo scenario del primo compleanno di mio nipote dissolversi nell'aria con un ultimo, scoppiettante, sbuffo di fumo.

Lo schiocco del portone che si chiude con forza riecheggia ancora nella sala, quando mi volto minaccioso verso Katherine, che invece dal canto suo alza infastidita gli occhi al cielo con fare melodrammatico.

"Oh, ti prego!" mi anticipa. "Come se non ti avessi appena fatto un favore. Quell'espressione da cucciolo preso a calci con cui la guardi non ti dona. È solo patetico."

"Ti hanno nutrito a pane e zolfo da bambina, vero? Perché spiegherebbe un sacco di cose."

"Se tu ti decidessi a firmare quei cavolo documenti che ti ho portato, stai tranquillo che non dovresti vedermi mai più, perché sarei fuori dai piedi in un batter d'occhio!"

"Non ti dò tre quarti del mio patrimonio!"

"Guarda che un milione e duecentomila dollari sono una cifra perfettamente ragionev-"

Un colpo secco così violento da far tremare il pavimento, ci fa sobbalzare entrambi e voltare in direzione di Caroline, che ha appena scaraventato entrambi i martelli a terra sul tappeto e ci sta guardando entrambi con una paurosa violenza assassina.

"La prossima volta …" scandisce gelida, prendendo un profondo sospiro come per imporsi di controllare la sua reazione, e poi indicando prima me e poi Katherine con il dito indice. "Questi finiscono contro le vostre teste. Non vi sopporto più!"

Caroline lascia la stanza battendo i piedi con un rumoroso click-clock inviperito, ed anche io esco incazzato di casa, maledicendo Katherine, il giorno in cui l'ho incontrata, me stesso e la mia fottuta incredibile capacità di rovinarmi sempre con le mie stesse mani.


"Allora …" cominciò Elena, sistemandosi meglio in avanti per appoggiare i gomiti sulla sottile balaustra di metallo. "… adesso mi dici perché siamo qui?"

Mi strinsi nelle spalle e mi appoggiai all'indietro contro la parete della struttura, il cui freddo metallico mi percorse la schiena anche attraverso la giacca di pelle.

"Mi piace la vista."

Elena posò il mento sulle mani, incrociate una sull'altra.

"E' una bella vista."

Sotto di noi, aguzzando lo sguardo, era ancora possibile intravedere nel buio la sagoma spigolosa della Camaro, parcheggiata a pochi metri dalla vecchia torre cisterna dell'acqua su cui ci eravamo arrampicati, su per la sottile scaletta di metallo mezza arrugginita, usando come unica luce quella di una torcia di scorta che avevo recuperato dal vano porta-oggetti. Ci eravamo seduti sul parapetto di quella costruzione imponente e fuori uso che non aveva mai fatto davvero paura a nessuno, con le gambe che dondolavano nel vuoto e nell'immobilità silenziosa della notte.

Più avanti, in lontananza, semi-nascosto dai rami degli alberi, si apriva l'agglomerato compatto del centro città, ingoiato dall'oscurità informe tutto attorno e puntellato dai bagliori più brillanti dell'illuminazione cittadina e da quelli più fievoli delle case, che continuavano a spegnersi mano a mano che la notte avanzava.

Elena inclinò la testa per posare il viso sui suoi gomiti incrociati sulla ringhiera, rivolgendolo verso di me. Sulle sue labbra comparve l'ombra di un sorriso leggero e sereno che mi affondò dritto tra il petto e lo stomaco, e da lì ne tirò come sempre fuori corde e appigli che non sapevo neanche come diavolo facesse a trovare.

"Venivo qua spesso con Stefan quando eravamo ragazzini. C'è un piccolo fiume là più avanti," glielo indicai allungando un braccio. Anche se era impossibile vederlo nel buio, era comunque possibile sentirne lo scroscio tranquillo e costante in lontananza, "dove mio padre ci portava tutti gli anni, di solito appena iniziava la primavera. E' vicino alle cascate, ma non è grande o troppo profondo, così si può davvero fare il bagno senza essere trascinati via. Solo che io e Stefan ci allontanavano sempre per venire fin qua, salire in cima e guardare ciò che c'era sotto. Mio padre, ogni volta, si incazzava da morire."

Elena si sporse appena, per dare una sbirciata verso i venti metri di vuoto sottostante.

"Non è pericoloso?"

"A undici anni, sono cascato da quasi metà scalinata e mi sono rotto un gomito. Frattura esposta. Un inferno."

"Sei un incosciente," commentò scuotendo appena la testa. "Un maledetto incosciente."

Scoppiai a ridere di fronte al tono solenne con cui lo disse.

"Sono seria!" ribatté con convinzione. "Avresti potuto farti male gravemente."

"Ma non è successo."

"Quindi," asserì dopo essersi lasciata sfuggire un sospiro di rassegnazione ed essere tornata a posare il mento sulle mani, "Siamo qui per ripercorrere le malefatte del piccolo Damon."

"No. Siamo qui perché è il mio compleanno. O meglio," mi corressi subito, sbirciando l'ora sul display luminoso del mio cellulare che tirai brevemente fuori dalla tasca, la mezzanotte passata da quasi quaranta minuti. "Ieri era il mio compleanno."

Elena si raddrizzò di colpo, la bocca dischiusa per la sorpresa. Uno avrebbe pensato che la reazione successiva fosse farne uscire un bel "Oh, buon compleanno!", magari con tanto di bacino sulla guancia, ed invece no, ciò che seguì fu un dolore acuto ed improvviso sulla spalla, dove venni colpito dal suo pugno piccolo e preciso che non avevo neanche minimamente visto arrivare.

"Ouch!" reagii, massaggiandomi con la mano il punto colpito. Che cazzo se faceva male. "Perché?!"

"Perché sei un idiota!" esclamò infuriata. "Non posso credere che tu mi abbia tenuto nascosto il fatto che era il tuo compleanno, per di più il tuo diciottesimo! Ti avrei preso un regalo e avresti potuto avere una festa e…"

"Non voglio nessun regalo e di certo nessuna festa," la interruppi roteando gli occhi al cielo. Quello era proprio ciò che avevo provato ad evitare in tutto il giorno, regali e sorprese e altre stupide manifestazioni di giubilo obbligato, quando io mi sentivo solo un giorno più vicino a non sapere cosa cazzo fare per il resto della mia vita. "I compleanni sono sopravvalutati."

"Ma avrei potuto prepararti una torta!" continuò lei a protestare offesa.

"Allora l'ho scampata bella," sogghignai.

Un altro pugno, dritto nello stesso identico punto di prima, che riaccese subito il dolore moltiplicandolo per dieci.

"Dannazione, Elena! Sei così piccola, da dove diavolo ti viene fuori tutta questa violenza?"

"Non insultare le mie torte immaginarie. E' vero che non ci ho mai provato, ma mia madre aveva anche vinto dei premi per la sua pasticceria, potrei sempre avere un po' dei suoi geni, no?"

"Ok, va bene!" concessi alzando le mani in segno di resa, perché, dio, davvero avevo paura che potesse colpirmi di nuovo. "Allora facciamo che mi devi una torta."

"Ti devo una torta. E te la preparerò davvero ..." ribadì risoluta, ma finì per esitare e lasciar cadere la frase. Poi sospirò e si lasciò anche lei andare all'indietro contro la solida parete di metallo."… E, hai ragione, quasi sicuramente sarà terribile."

Le diedi un colpetto di conforto spalla contro spalla e mi piegai verso di lei per bisbigliarle, "La mangerei lo stesso."

Sollevò il volto, appena, verso di me. Sembrò di colpo così vicino. Così reale. Semi-nascosto dalla notte, eppure così tangibile da poter intuire la curva piena del suo labbro inferiore, il punto esatto dove disegnava un mezzo sorriso. Da non vedere nient'altro.

Un lieve tremito ci passò in mezzo. Il vento, probabilmente.

"Hai freddo?" domandai, ma la voce mi uscì fuori così smorzata da non suonare neanche come la mia.

Qualche secondo di silenzio, prima che Elena si riscuotesse, alzando lo sguardo verso di me.

"Un po' …"

Ritirò le gambe e le rannicchiò piegandole sotto al suo corpo. Si avvicinò e, con la semplicità che mi coglieva ogni volta di sorpresa, posò la testa sul mio petto, su in alto, vicino alla spalla. Feci scivolare il braccio attorno alla sua schiena, che mi sembrò piccola anche infagottata nella giacca, e, per un po', restammo semplicemente così. Senza né parlare, né sentire il bisogno di farlo.

Avevo già chiuso gli occhi, quando le sue unghie presero distrattamente a disegnare linee astratte sulla stoffa dei miei jeans, appena sopra l'altezza del ginocchio.

Un'improvvisa serie di tanti piccoli brividi partirono da lì, si diramarono ovunque, finirono sparati dritti al mio cervello.

Non solo lì. A tutti i miei sensi, svegli tutto d'un colpo e concentrati solo su quello.

La sua mano, il mio ginocchio. La sua mano, il mio …

Dannazione. Dovetti ringraziare che il buio nascondesse la pronta reazione che tutto ciò - in quell'attimo in cui me la immaginai salire più su, a continuare ad accarezzarmi decisamente più in alto tra le mie gambe - innescò nei miei pantaloni.

Ma non si mosse di un millimetro da lì. Stranamente, io stesso mi ritrovai a preferire che fosse così.

Avevo forse quattordici anni l'ultima volta in cui mi ero davvero trattenuto, in quel genere di situazioni, dall'agire in base a risposte fisiche per portare appena possibile le cose al livello successivo. Forse neanche allora.

Ma quella era una cosa nuova. Non innocente, non oltre la linea.

Perché lei era Elena e, per una volta, stare lì a godersi quel formicolio di eccitazione dato da un gesto così semplice, senza nessuna prospettiva di ottenere qualcosa di più, era meglio di qualsiasi altra cosa. Un gusto insolito appena scoperto che non vuoi contaminare mischiandolo con nient'altro.

Mossi la dita fino alla parte alta del suo braccio, che accarezzai sopra la stoffa del suo cappotto, nel mentre pensando a come sarebbe stato farle scorrere davvero a contatto con la sua pelle. Le feci salire tra i suoi capelli, assaporandone lentamente la consistenza morbida e liscia sotto i polpastrelli.

Il suo respiro accelerò. Lo avvertii dal movimento del suo petto, dal ritmico e più rapido pulsare del suo cuore contro il mio torace.

Come me ne accorsi, mi fermai. Un altro pensiero mi attraversò il cervello.

Lei non era mia. Era così sbagliato da parte mia tenerla e accarezzarla in quel modo, senza reclamarla come tale né sapere che linea stessi percorrendo, quando un altro ragazzo, in una di quelle case in lontananza - un maledetto bravo ragazzo, per di più - ne aveva molto più diritto di me.

"Cosa ne dice il tuo ragazzo del tempo che passi con me?" le chiesi, riaprendo anche gli occhi per riemergere del tutto da quei pensieri sulla mia migliore amica dal limite indefinito.

"Matt sa che siamo amici," rispose a bassa voce. Una pausa, incerta. "E poi, è diverso."

Aspettai, qualche istante.

Un uccello notturno, da qualche parte poco lontano, aveva iniziato a lanciare il suo richiamo e rompere il silenzio.

"Diverso come?…"

"Sai …" cominciò, le unghie che avevano ripreso a disegnare i loro motivi. Dovetti ricorrere ad uno sforzo di concentrazione enorme per non ricadere negli stessi pensieri di poco prima. "Ci sono volte, piccoli momenti, in cui penso davvero di essere innamorata di lui. Ma poi … non ho neanche ancora compiuto sedici anni. Come faccio a sapere cosa vuol dire essere innamorati? Però tu …" la sua voce sfumò in una nota più intensa, e esitante al tempo stesso, che mi fece attorcigliare dentro pur non avendo la più pallida idea di cosa stesse per dire. "… So che non saprei cosa fare se tu non fossi qui. Mi sei mancato così tanto quando abbiamo litigato. Nessuno scherzo idiota in mezzo a film paurosi. Niente commenti maliziosi sugli altri genitori alle partite di Jeremy. Niente fughe improvvisate da casa nel mezzo della notte. Sei mio amico. In realtà, sei il mio migliore amico. Di te … ho bisogno."

Avrei probabilmente dovuto rispondere qualcosa. Qualcosa di profondo, qualcosa che un bravo ragazzo sensibile come il suo Matt non avrebbe avuto problemi a tirare fuori. Ma niente - niente - di quello che avrei potuto dire sarebbe mai suonata giusta o abbastanza in grado di esprimere quanto quelle parole avevano appena significato per me.

Così non lo feci. Invece, chiusi gli occhi, chinai la testa per lasciarle un bacio tra i capelli e, dentro di me, promisi ad entrambi che questa cosa, quello che avevamo, non lo avrei mai rovinato.

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Note:

[1] Quartiere di San Francisco

[2] Piccolo reminder che, negli USA, l'età legale per bere alcol ed entrare in alcuni locali non sono i 18 ma i 21 anni.



Spazio autrice

Buonasera, care.

Prima di tutto. A Bloodstream_, che mi ha consigliato la bella canzone iniziale e incoraggiato spudoratamente verso il fluff dell'ultima scena: ti devo una torta :)

Lo so, non succede quasi niente in questo capitolo, che è molto più concentrato sui flashback rispetto al presente ed è un po' più riflessivo del solito. Ma ho pensato SL un po' come una storia di crescita, sia nel presente che nel passato, e mi sembrava giusto che in questo caso il 18esimo compleanno di Damon fosse il focus principale del capitolo.

Nei flashback, vedete fare la sua apparizione, per la prima volta, anche miss Charlotte-non-più-Salvatore, che nella mia mente ha un po' il visino di Heather Graham e che sì, ha lasciato i suoi danni sia su Damon che su Stefan almeno quanto Ciuseppi. Sarei molto curiosa di sentire che ne pensate di lei, dato che confrontarsi con il "mito da fanfiction" di Mamy Salvatore fa sempre un po' paura e, personalmente, non volevo renderla una figura nè troppo idealizzata-perfetta, nè troppo negativa, come Ciuseppi del resto. Ho un debole per le sfumature.

Inoltre, sull'ultima scena: ho cercato di darvi un'idea dei vari strati che compongono il rapporto tra teen Damon e teen Elena, che non ridurrei mai nè solo all'etichetta di amicizia, nè solo a quella di innamoramento, dato che è qualcosa che bene o male è rimasto radicato in entrambi anche a distanza di anni. Spero di esserci riuscita, a voi il giudizio.

Ed è sdolcinata, lo so, ma ormai che siamo dentro al fluff tanto vale esserci dentro fino in fondo, quindi questa è la canzone che mi immagino come sottofondo all'ultimo flashback.

Voglio mandare davvero un ringraziamento speciale a tutte voi meravigliose ragazze che mi accompagnate in questa storia con le vostre parole: impiego sempre molto a portare a termine un capitolo perchè - anche se il tempo è, come per tutte immagino, quello che è - questa è una storia che cerco di curare molto, ed anche se il pubblico/le recensioni sono diminuite, voi che siete rimaste avete sempre pensieri e riflessioni talmente belle e interessanti che mi commuovete e mi ripagate di tutto. Se sono ancora qui è grazie a voi.

Un bacio


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Capitolo 15
*** Wear me out ***


14

14.

Wear me out


- Too young, too frail
But sometimes I feel
Like old blue jeans
'Cause you wear me out -

(Wear me out, Skylar Grey)


Elena


"Cosa ne pensi di questo?"

Faccio capolino dalla porta del bagno che si affaccia sul corridoio del piano terra, senza smettere di tamponarmi i capelli bagnati dopo la doccia, e sbircio verso ciò che Elijah mi sta mostrando. Osservo il cartoncino color grigio chiaro che tiene tra le dita, con una sobria decorazione nell'angolo in alto a destra ed entrambi i nostri nomi scritti in nero in un carattere arzigogolato che dovrebbe risultare elegante ma a me sembra solo complicato.

"Qual è la differenza rispetto a quello di prima?"

"E' una sfumatura più bluastra. Ed ha i bordi in argento."

"Non so …" rispondo scrollando le spalle e gettando l'asciugamano bagnato nel cesto della biancheria.

Vado a sedermi accanto a lui, una gamba incrociata sotto l'altra ed i capelli ancora umidi a rinfrescarmi le spalle. L'aria serale che filtra attraverso le zanzariere dalla finestra aperta è ancora afosa quasi quanto quella diurna, porta dentro un profumo dolce di gelsomino ma ben poco sollievo.

Allungo le dita per giocherellare distrattamente con il primo bottone della sua camicia.

"Quello che preferisci tu, per me è uguale."

Elijah posa di nuovo entrambi i cartoncini sul tavolo. Quando torna a guardarmi ed incrocio il suo sguardo serio, è il momento in cui capisco di aver appena detto qualcosa di terribilmente sbagliato.

"Non ti importa di che aspetto avranno gli inviti del matrimonio."

La sua non è neanche una domanda, è una constatazione. Una constatazione davanti alla quale rimaniamo per qualche istante entrambi in silenzio, forse in attesa di una mia pronta negazione che però in questo momento non ho davvero molta voglia di offrire.

Ammetto che sia colpa mia. Nell'ultima settimana, ho insistito molto per procedere in modo piuttosto accelerato con l'organizzazione del matrimonio, come se concentrarmi su torte, fiori, scelta dei menù e altri dettagli di poca importanza potesse aiutarmi a fare ammenda per tutto il tempo in cui ho rimandato; come se potesse aiutarmi a non sentirmi uno schifo di fidanzata ogni volta che lo sprazzo di un portico e delle mani di Damon sul mio viso si fanno caparbie strada nella mia mente e … No. Non voglio pensarci un'altra volta.

Le cose stanno andando bene tra me e Elijah, davvero bene. Non abbiamo più discusso, non una singola volta. Neanche quando mi sono sforzata di mostrare entusiasmo di fronte a raffinate degustazioni di dieci torte diverse, di fronte a piani studiati nei minimi particolari per le decorazioni floreali del luogo della villa ottocentesca fuori Richmond che sarà il luogo della cerimonia, e, in generale, di fronte ad una ridicola quantità di dettagli e sprechi per fare le cose in grande per cui io continuo a non vedere alcuna necessità.

Solo che stasera sono stanca. Sabato riapriremo il Grill e, dopo aver passato tutta la giornata a spuntare la lista delle molte cose da fare per renderlo di nuovo in uno stato presentabile adesso che i lavori sono finiti, entusiasmarmi per un pezzo di carta mi sembra un'impresa titanica.

"Sono solo bigliettini …" dico stringendomi nelle spalle. "E poi, la maggior parte delle persone che voglio invitare le vedo praticamente quasi tutti i giorni. Davvero, mi va bene qualsiasi cosa."

Elijah si scosta leggermente dal tocco delle mie dita, ancora posate sulla parte alta del suo petto, e mi lancia un'occhiata sospettosa.

"Si tratta di nuovo della lista, non è vero?" mi domanda.

Già, la lista. Quella di tutte le persone invitate da parte sua al nostro matrimonio e che tra poco rasenta il paragone con il censimento di un'intera cittadina. Ho sempre avuto l'idea che un matrimonio dovrebbe essere una cosa intima, riguardare l'amore di due persone … non le altre quattrocento che stanno lì ad assistere. Sciocca ingenua che non sono altro.

"Io non conosco nessuna di quelle persone, Elijah."

"Non è vero," mi corregge sporgendosi in avanti, il suo tono dolce, conciliante. "Conosci mio fratello e mia sorella …"

Che ho incontrato sì e no tre volte. Sua sorella, poi, probabilmente mi odia.

" … E anche mia madre."

Che sicuramente mi odia.

"Ok, tre persone su …" Mi costringo a non suonare troppo sarcastica. "… Duecentoventi? Devi per forza invitarli tutti?"

"Se non invito queste persone … Molte di loro potrebbero non parlarmi più. E' importante per la mia famiglia, per il mio lavoro. Non posso non farlo. Lo capisci, vero?"

Elijah scuote la testa e si limita a sospirare, cosa che non mi fa sentire meglio.

Così come non mi fa sentire meglio il fatto che un mucchio di sconosciuti di cui non mi importa niente saranno presenti al mio matrimonio e mia madre no. E' un pensiero infantile, me ne rendo conto, perché so che non c'è niente che possa davvero cambiare le cose. E' solo che … Mi sembra così ingiusto.

"Lo capisco," rispondo invece con un profondo respiro.

"Ehi," Elijah allunga la mano per afferrare la mia e attirarmi dolcemente verso di sé. "Vieni qui."

Lo assecondo, sedendomi sul suo grembo con le ginocchia ai lati del suo torace, mentre la sua mano si posa carezzevole sopra la mia coscia nuda, lasciata scoperta dal vestito leggero che indosso. Ma quando i suoi occhi scuri guardano su verso i miei, il senso di colpa per quel maledetto bacio mi attanaglia di nuovo lo stomaco con particolare ferocia.

Di nuovo, io lo metto a tacere, prendendo il suo viso tra le mani e chinandomi in avanti per baciarlo con trasporto. La sua risposta non si fa attendere. Le sue mani mi circondano la schiena e mi attraggono verso di sé e, quando la sua bocca scende con fare esperto a lasciarmi baci caldi e umidi lungo il collo, nei punti che conosce bene e che sa come usare per farmi impazzire, il brivido di piacere che mi provoca mi fa davvero pensare che posso farcela. Posso vivere con me stessa per aver baciato un altro uomo e non averne fatto parola. Posso far tornare tutto tra noi come era prima. Posso ancora avere soltanto lui nei miei pensieri.

"Voglio darti tutto quello che desideri, Elena," mi sussurra tra un bacio e l'altro, adesso più vicino al mio orecchio, mentre il familiare calore dell'eccitazione provocato dalla frizione dei nostri corpi si fa sempre di più strada tra le mie gambe. "Il grande matrimonio che sognavi quando eri bambina … Ho visto tutti i tuoi ritagli, le fotografie e gli appunti sulla tua scrivania."

Il mio slancio si spegne come un fiammella soffiata via da un colpo improvviso di vento.

Il famoso "Libro Bianco" di cui sta parlando, quello che siede disordinato tra le mie cose e che ho avuto a malapena modo di guardare, non è nemmeno mio: è di Caroline. Qualcosa che ha iniziato a compilare quando eravamo ancora alle elementari, il giorno in cui i suoi genitori hanno divorziato, suo padre se ne è andato, e lei ha riversato in quel libro tutto la sua frustrazione per qualcosa che neanche il suo precoce disturbo ossessivo compulsivo poteva sistemare.

Uno strano malessere mi invade la gola. Davvero non mi conosce abbastanza da sapere che a me non importa granché di tutte queste cose?

Mi stacco dalle sue labbra. Riapre gli occhi per guardarmi, da sotto in su, disorientato dalla repentina interruzione.

"Quelle raccolte …." inizio.

Ma quando sto per rilevare la vera identità della loro proprietaria, il suo cellulare suona da dentro la tasca dei pantaloni e la ritmica vibrazione si riverbera tutta su per la mia coscia.

"Rispondi," gli dico con un sospiro, perché tanto so già che è lavoro e che, se lo chiamano a quest'ora, sicuramente deve essere importante.

Elijah mi lancia un'altra occhiata titubante per averne conferma, io annuisco e scivolo via dalle sue gambe per tornare a sedermi sul divano, mentre lui si sfila il telefono dalla tasca e si alza per rispondere.

Sbuffo non appena si è allontanato, lasciandomi andare con la testa all'indietro contro la spalliera. Non so quanto rimango così, con i capelli ancora umidi che adesso mandano brividi gelidi lungo tutta la mia spina dorsale e lo sguardo fisso sul soffitto, ad aspettare che Elijah ritorni e che questo malessere indefinito che lascia uno strano sapore in bocca se ne vada finalmente via.

Sento i passi di Elijah tornare nella stanza e subito mi volto verso di lui, che si è fermato vicino a me e mi guarda con la fronte appena corrugata in un linea sottile. So già cosa sta per arrivare. Conosco quella faccia. E' sinonimo di scuse, e imprevisti, e lavoro, e altre scuse.

"Cosa?…" domando posando le mani sulle mie gambe incrociate.

"Erano dalla Besunyen Holdings." Si rigira il telefono tra le mani, rilascia un sospiro. "Vogliono liquidare le azioni di una sussidiaria alla prossima riapertura della borsa, è una cosa urgente e devo-"

Non lo lascio finire. Non m'importa di cosa deve fare, della borsa o di una compagnia dall'altra parte del mondo.

"Ma è il quattro luglio domani," protesto piantando lo sguardo su di lui, con la sensazione di essere davvero una bambina in confronto alla sua figura, al suo sguardo dispiaciuto, ai suoi impegni più importanti. "Eravamo d'accordo che lo avremmo passato insieme …"

"Non hanno il quattro luglio ad Hong Kong," risponde sedendosi sul bracciolo. Il leggero sorriso un po' rattristato con cui lo dice ha l'unico effetto di farmi sentire ancora più frustrata. "Mi farò perdonare, ok? Lo prometto."

Lui promette. Io annuisco. Il mio malessere rimane lì, a galleggiare appena sotto la superficie dei miei pensieri.


***


La celebrazione del quattro luglio, quella ufficiale, si è sempre tenuta nel solito posto da quando ho memoria, nella piazza principale allestita con tanto di palco per commemorazioni storiche e concerto finale di una qualche gruppo locale. Ma tutti sanno che la vera festa è altrove.

E' nell'ampia radura riparata dai boschi che costeggia, da ambo i lati, il più importante dei vari corsi d'acqua creati dalle cascate piccole ma dirompenti che cadono violente dalle montagne alle spalle della città. E' dove ragazzi e ragazze - quelli che sono rimasti, quelli che tornano dal college per le vacanze, quelli che sono solo di passaggio - si danno ogni anno tacitamente appuntamento per aspettare la notte ed il suo falò. E' qui dove la giornata scorre via tra il fumo di barbecue improvvisati, tra l'odore intenso di lozione solare e spray anti-zanzare, tra le risate e le tante musiche diffuse dagli ipod che finiscono per mischiarsi in un un unico rumore di sottofondo, mentre i boschi circostanti proteggono e riparano da tutte le interferenze esterne.

"Quindi non sei arrabbiata?" mi domanda Bonnie mentre stendo il mio telo sull'erba accanto al suo, nello spazio vuoto che abbiamo appena occupato.

"Ovvio che lo è," risponde al posto mio Caroline che, comodamente seduta sul lettino che si è fatta trasportare dalla macchina a qui da un muscoloso ragazzo a caso di passaggio, sta finendo di spalmarsi con cura sulle braccia candide la sua preziosa crema ad altissima protezione.

Io mi sdraio appoggiandomi sui gomiti piegati ad angolo, butto indietro la testa e chiudo gli occhi verso il sole intenso che già brucia piano sulla pelle delle gambe e della pancia lasciata esposta dal costume multicolore che ho scelto di indossare oggi.

"Non sono arrabbiata. E' lavoro," rispondo con fare pratico. "Immagino sia quello che succede quando il tuo fidanzato è consulente finanziario in tre diversi consigli di amministrazione. Ma va bene," aggiungo in fretta. "Almeno così posso passare del tempo con voi."

Ed è vero. Sono scaldata dal sole e sto bene anche se Elijah è da qualche parte in un qualche ufficio a pianificare numeri e strategie. Non posso però fare a meno di sentirmi un po' inquieta, quando mi ritrovo a chiedermi se sarà lo stesso anche tra qualche mese. Se starò bene anche quando si ripresenteranno situazioni simili, quando lui avrà da lavorare ed io sarò lontana dalle mie amiche, da quella che è stata la mia vita fino ad adesso, da ciò che già conosco.

"Io gli farei ugualmente passare l'inferno," commenta decisa Caroline calcandosi sulla testa un cappello di paglia e sdraiandosi contro il lettino.

"A proposito …" le chiedo girando la testa verso di lei. "Dov'è Stefan?"

"Doveva passare dalla commemorazione giù in città, credo per parlare con un paio di persone per via della compagnia, è così stressato per questa cosa … Ma ha detto che ci raggiunge appena può." Caroline si interrompe un attimo, prima di aggiungere con un sospiro. "Vorrei solo che si decidesse a far pace con quell'altro testone idiota di suo fratello. Seriamente, è più di una settimana che a malapena si rivolgono parola, quanto diavolo possono andare avanti? Due idioti troppo cresciuti, ecco cosa sono. Si vede proprio che condividono gli stessi geni."

Qualcosa mi sfiora il piede. Riapro gli occhi ed uso una mano per farmi schermo dal sole, proprio mentre Sage si china per riprendere il pallone bianco da pallavolo che è rotolato fino al mio piede.

"Ehi!" la saluto con un sorriso.

Mi piace Sage. E non solo perché lavoriamo insieme, ma perché è dinamica, diretta e dice sempre quello che pensa, tutte cose che ho avuto modo di scoprire condividendo con lei quell'improvvisato viaggio in macchina di dieci ore verso New Orleans.

Mi saluta di rimando e si rialza in piedi. Un corto top nero a fascia le circonda il seno piccolo e a malapena accennato e copre l'inizio di un ben disegnato intreccio di gigli rossi che ha tatuato su tutto il fianco sinistro, a partire da sotto le costole fino a dentro la cintura degli shorts.

Quando il suo sguardo si posa su Bonnie e quando Bonnie di rimando alza lo sguardo su di lei, c'è un momento di silenzio più lungo del necessario.

"Alcuni ragazzi stanno montando la rete in questo momento …" ci fa sapere schiarendosi la voce e rigirandosi la palla tra le mani. Con un cenno della testa indica lo spiazzo sabbioso più vicino alla riva, dove alcuni ragazzi senza maglietta stanno finendo di tirare su una rete portabile da beach volley. "Abbiamo ancora bisogno di persone. Volete venire?"

"Io sì," accetto subito, usando una mano come leva per saltare in piedi.

"Negativo," scuote la testa Caroline, placidamente distesa, senza neanche aprire gli occhi. "Ho fatto la manicure soltanto ieri, non ho intenzione di rovinarla."

Sage si volta, per un attimo esitante, verso l'altra mia amica. "B?…"

Bonnie è rimasta in silenzio fino ad adesso, ma essere chiamata così sembra all'improvviso avere un certo effetto su di lei, dal momento che subito si alza in piedi, afferra il prendisole giallo abbandonato a terra poco distante e se lo infila sulla sua figura piccola e formosa.

"Ho dimenticato il telefono in macchina. Vado a prenderlo," butta là.

Si allontana velocemente mentre Sage rimane interdetta a guardarla andare via, ancora passandosi la palla da una mano all'altra.

Caroline, beatamente ignara nel suo piccolo paradiso di sole, muove una mano nell'aria come per dirle "ci vediamo tra poco".

Io tiro fuori dalla mia borsa le chiavi della macchina che Bonnie non ha neanche preso, mi infilo di nuovo le Converse al volo, e corro dietro alla mia amica.


***


Risalgo la radura e poi il sentiero, in salita ed un po' scosceso, fino alla strada principale e allo spiazzo che si allarga accanto ad essa. Cammino in mezzo all'ingombro di macchine parcheggiate piuttosto disordinatamente, dove la gente continua ad arrivare e a richiamare a voce alta i cani che già corrono in libertà, finché non trovo Bonnie appoggiata a braccia incrociate contro il fianco destro della mia Toyota Prius.

"Bonnie …"

La mia amica solleva lo sguardo su di me e, mentre mi sto ancora avvicinando, scuote quasi impercettibilmente la testa.

"Non posso farlo, Elena," confessa con gli occhi grandi e combattuti, lasciandosi sfuggire un sospiro frustrato e amareggiato. "Non quando ogni volta che sono intorno a lei, mi sento così …"

Confusa? Sbagliata? Emozionata? Non ha neanche finito la frase, eppure io ho la vivida impressione di avere un pronto repertorio a disposizione per definire quel conflitto tra la ragione e quei sentimenti - quelli che vorresti ma non riesci sempre a controllare - che continuano a tradirla. Forse proprio perché, anche se le nostre situazioni sono completamente diverse … ciò che ci tormenta, invece, non lo è poi così tanto.

Bonnie torna a rivolgere lo sguardo verso la terra battuta ai suoi piedi accanto alla ruota anteriore dell'auto, che smuove nervosamente con le punte dei sandali.

"Vuoi parlarne?" le chiedo piano appoggiandomi allo sportello accanto a lei.

Torna a guardarmi ed esita. Lo vedo nei suoi occhi un po' verdi e un po' ambrati lascito del suo sangue misto, divisi tra il bisogno di farlo e la paura di dire ad alta voce ciò che tacitamente sappiamo già entrambe.

"Bon, siamo amiche dall'asilo, da quando Caroline giocava a fare la principessa e noi eravamo le ancelle che dovevano eseguire tutti i suoi ordini," le rivolgo un leggero sorriso. "Se siamo passate indenni da quello, possiamo passare indenni da tutto."

Sorride anche lei. Piccolo, un po' storto, ma è un sorriso.

"Abbiamo iniziato a vederci poco dopo che ha iniziato a lavorare per te …" inizia mordendosi le labbra. "Non avevo pensato che potesse essere niente di serio, non all'inizio. Voglio dire, non lo è mai stato quel paio di volte che … era capitato al college. Ma poi c'è stato New Orleans, e tu e Damon ci avete viste e … Sono andata nel panico. Ho iniziato a pensare, cosa direbbe mia nonna? Cosa direbbero gli altri, chiunque altro? Questa è Mystic Falls, Elena. E' diverso. Le persone sono … beh, lo sai come sono. E gliel'ho detto, che non posso farlo, che non sono come lei."

Torno con la mente alla loro conversazione del mattino dopo in quell'attico arrangiato e inondato di luce, quella che ho ascoltato e rubato senza averne diritto.

"Gay?" tento titubante.

"Coraggiosa."

"Oh, Bon," dico con un sospiro ed una voglia pazzesca di stritolarla in uno di quelli abbracci che lasciano il segno. "Tu sei quella che dice sempre in faccia le cose come stanno, anche quando fanno male. Sei quella che alle medie si è tinta i capelli di arancione come i miei, per non farmi sentire sola dopo il disastro che avevo combinato quando avevo provato a farmi bionda. Sei quella che ha tirato una ginocchiata nell'inguine di Tyler Lockwood quando Caroline ha scoperto che stava con tre ragazze contemporaneamente. Sei la migliore amica che si possa avere e la persona più coraggiosa che conosca."

Non faccio in tempo ad aggiungere altro che le sua braccia mi circondano la nuca di slancio, abbracciandomi stretta, mentre io ricambio e faccio altrettanto.

"Grazie," mi bisbiglia in un sussurro un po' spezzato, prima di rilasciarmi e voltarsi immediatamente per passarsi il dorso di una mano sugli occhi, asciutti ma appena scintillanti.

"E sai," continuo, dandole un colpetto spalla contro spalla e rivolgendole un sorriso complice. "Ho davvero voglia di giocare a beach volley. Andiamo?"

Bonnie annuisce con un altro lieve sorriso ed insieme ci incamminiamo tra le file di macchine parcheggiate, proprio quando un'altra auto, una Camaro azzurra d'epoca con la capote abbassata svolta la curva e si infila in un parcheggio vuoto a neanche una decina di metri da noi.

Mi blocco sui miei passi e Bonnie si ferma con me, la conversazione dei due occupanti dell'auto che ci arriva più nitida che mai.

"Ripetimi di nuovo perché dobbiamo farlo," bofonchia Alaric mentre scende dal lato del passeggero.

Damon mi dà le spalle. I suoi capelli neri sono come sempre spettinati sulla nuca e la semplice T-shirt bianca che indossa avvolge il suo torace così bene da lasciarmi intravedere i contorni dei muscoli nella parte bassa della sua schiena. L'importuno sfarfallio nella parte bassa del mio addome mi coglie ancora una volta alla sprovvista quando il riflesso del sole getta una sfumatura dorata sulla peluria del suo avambraccio, mentre tira in aria e riprende al volo le chiavi della macchina; quando si volta appena, solleva gli occhiali da sole sulla testa e le sue labbra si tendono in un mezzo ghigno rivolto al suo amico, e solo vedere quella leggera curvatura mi fa subito ripensare alla loro consistenza - morbida, dolce e peccaminosa - contro le mie. Mi mordo l'interno della guancia e mi impongo di fermare il corso dei miei pensieri prima che possa andare troppo oltre.

"Perché non puoi stare sempre dietro a computer e cose simili," ribatte. "Hai bisogno di uscire. Goderti le meraviglie che questo posto ha da offrire. E se la memoria non mi inganna, il falò del quattro luglio è il posto ideale per questo … "

La sua frase sfuma e la sua testa ruota di centottanta gradi quando due ragazze in bikini che sembrano più fili interdentali passano loro accanto e gettano uno sguardo malizioso ed una risatina in direzione di Damon, che quindi alza un sopracciglio verso Alaric come riprova di ciò che ha appena detto.

Faccio roteare infastidita gli occhi al cielo, indecisa se cedere all'improvvisa voglia di vomitare o prendere a calci qualcosa. O qualcuno. Deve aver suscitato la stessa reazione anche in Bonnie, perché la mia amica incrocia le braccia sul petto ed emette un sonoro sbuffo di disapprovazione, abbastanza alto perché possano udirci.

Entrambi si girano verso di noi.

Io però vedo solo Damon. Resto intrappolata nel momento in cui i suoi occhi si posano su di me, e quasi di riflesso scivolano in basso sul mio corpo vestito solo del costume, il momento in cui le sue labbra si socchiudono appena, la punta della sua lingua che esce fuori per inumidirle.

Il mio cuore fa un tuffo nel vuoto, il mio stomaco sfarfalleggia di nuovo, ed io voglio scappare. Voglio sottrarmi a quello sguardo, almeno quanto vorrei crogiolarmi in esso. Penso che deve smetterla di guardarmi così, e che potrei prenderlo a schiaffi alla sola idea che possa guardare così qualcun'altra.

"Sei disgustoso," lo apostrofa Bonnie con una smorfia.

"Felice di mantenere intatte ed incrollabili le tue convinzioni, Bonbon," replica lui staccando finalmente gli occhi da me e muovendo una mano nell'aria a mo' di sarcastico gesto da cavalier cortese. "Elena," mi saluta quindi.

"Andiamo," mi fa Bonnie iniziando ad incamminarsi.

Io esito. Perché, per quanto mi costi ammetterlo, c'è una cosa che devo fare, ed ho paura che se non lo faccio adesso, se rimando ancora, poi non lo farò più.

"Ti raggiungo, Bon," le dico, sostenendo lo sguardo di Damon. "Dammi solo un attimo."


La colpa in realtà è tutta di mio fratello. Avrei già seguito Bonnie, se non fosse stato per lui e per ciò che mi aveva detto due giorni fa, quando io ero seduta ad uno dei tavoli del Grill a revisionare fatture mordicchiando una penna come una bambina che non ha la minima voglia di fare i compiti per la scuola e Jeremy si era avvicinato, aveva preso una delle sedie impilate sul tavolino di fianco e l'aveva piazzata rivolta al contrario davanti a me, sedendovisi con i gomiti appoggiati sopra la spalliera. La posa di Jeremy ogni volta che deve dirmi qualcosa di importante.

"Ho ricevuto questo ieri," aveva esordito tirando fuori dalla tasca posteriore dei jeans e poi porgendomi un foglio piegato in quattro parti.

Già nel momento in cui avevo visto l'intestazione su in alto a sinistra e quelle semplici parole in apertura della lettera, quel Siamo lieti di annunciarle …, non ero più riuscita a trattenere la mia agitazione emozionata, lo scatto con cui ero tornata a guardare mio fratello.

"Berkeley?… Sei stato preso?"

Il sogghigno che Jeremy mi aveva rivolto era stato così ampio da prendere praticamente tutta la sua faccia. Ero già pronta ad alzarmi e a lanciarmi in avanti, quando lui aveva alzato i palmi nella mia direzione a mo' di avvertimento.

"Whoohoa, ferma lì. Niente abbracci, 'Lena."

Ero rimasta al mio posto, senza però trattenermi dal rivolgergli uno sguardo a metà tra il rimprovero per la sua allergia a qualsiasi manifestazione di affetto ed uno stupido sorriso di contentezza perché, diamine, il mio fratellino è stato ammesso a Berkeley [1].

Ma quello era stato anche il momento in cui avevo realizzato … Berkeley, California. Dall'altra parte del paese. Dall'altra parte del continente. E qualcosa mi si era piazzato di traverso in mezzo alla gola, qualcosa che avevo dovuto ricacciare giù a forza per continuare a parlare senza farmi tradire dalla mia voce.

"Sono solo davvero contenta per te."

E non era colpa soltanto dell'idea di separarmi davvero per la prima volta da Jeremy. Era colpa anche di quella fitta di rimpianto e nostalgia al pensiero della mia lettera di accettazione a Berkeley, insieme a quella della NYU e a quella della Duke, tutte finite da qualche parte in un cassetto a marcire, perché Jeremy aveva dodici anni, mio padre riusciva a malapena a tirare avanti e andarmene chissà dove per gli anni del college era uno scenario semplicemente impossibile.

"Quindi," aveva proseguito grattandosi impacciato il retro della nuca, "Dovrei seguire alcuni precorsi per poter poi frequentare quelli di ingegneria informatica, quindi potrei dover andare un po' prima dell'inizio del semestre. Ma ho parlato con Damon … ha detto che non è un problema, posso andare a San Francisco e stare da lui-"

Quello sì che era stato sufficiente a farmi riemergere tutto d'un colpo dai miei pensieri.

"Aspetta. Damon? …"

"Sì, Damon. Ci vive là. Per di più, quel suo amico Alaric è un mezzo genio di sistemi informatici e ho pensato che avrebbe potuto darmi qualche dritta …"


E questo è il motivo per cui adesso mi ritrovo qui, di fronte a Damon in questo parcheggio improvvisato, con le braccia incrociate sull'addome a desiderare di essermi anch'io messa almeno un prendisole e a cercare di mantenere un tono asciutto e sostenuto.

"Ti devo parlare," esordisco.

L'ultima volta che abbiamo avuto qualcosa di simile ad una conversazione è stato prima di scoprire che tutto il mio tormento al pensiero di avergli spezzato il cuore era stato eccessivo, inutile ed unidirezionale, dal momento che aveva trovato subito una pronta consolazione tra le gambe perfette della sua evidentemente-non-tanto-ex Katherine.

"Allora sai ancora come si fa," replica ironico appoggiandosi contro il cofano della Camaro, le gambe distese in avanti una incrociata sull'altra. "Pensavo che le tue capacità di linguaggio nei miei confronti si fossero drasticamente ridotte a quei "ciao" di circostanza che ti sei a malapena degnata di rivolgermi quando mi hai incrociato per caso."

"Possiamo evitare di farlo?" domando con uno sbuffo. Tre secondi a parlare con lui e già me ne sto pentendo. Non so come ho fatto a pensare, anche solo per un secondo, che mi avrebbe reso le cose più facili.

"Fare cosa?" ribatte sollevando le spalle. Giunge le mani in grembo e rimane lì, appoggiato contro l'auto a guardarmi con un vago, irritante, sorrisino canzonatorio. "Rendere le cose tra noi ancora più imbarazzanti?"

Serro le labbra e mi avvicino a lui di un altro paio di passi, in modo da poter contro-ribattere a voce più bassa ed evitare di correre il rischio che qualcuno dei passanti possa sentirmi.

"Non è di quello che volevo …" D'istinto, getto un'altra occhiata veloce occhiata oltre la mia spalla ed abbasso la voce a poco più che un sussurro, nell'irrazionale paura che possa passare qualcuno di mia conoscenza. "… parlare. Anche perché, su quello, non c'è niente da dire."

"Allora vuoi spiegarmi finalmente cosa diavolo ho fatto per farti incazzare così tanto? A parte baciarti, ovviamente," bisbiglia di rimando mentre si sporge verso di me, sul volto una sarcastica espressione finto-cospiratrice mentre pronuncia la parola che io avevo cercato di evitare.

La traccia calda e maschile del suo profumo mi raggiunge e mi solletica le narici, facendomi pizzicare la pelle di un caldo formicolio, nello stesso momento in cui i suoi occhi trovano i miei.

Ci sono minuscoli, quasi impercettibili, sprazzi di verde dorato al centro delle iridi, in mezzo a tutto quell'azzurro. Non è la prima volta che lo noto. Ma il fatto che mi ci stia soffermando proprio adesso … il mio petto si stringe in un misto di frustrazione e qualcos'altro, più profondo e intenso, a cui non so dare una definizione. Lascio che a prevalere sia la frustrazione.

"Perché mi hai baciato dicendo di non provare più niente per lei!" sibilo in risposta con un sussurro irritato. Mi pento di averlo detto nell'attimo in cui quella frase lascia la mia bocca perché, davvero, suona così stupido, ma sono anche talmente sollevata di averlo detto ad alta voce, di averglielo finalmente rinfacciato, che una volta che le parole sono fuori non riesco più a fermarle. "E solo due giorni dopo, scopro che ci vai ancora a letto ... Alla faccia del non mi importa niente di lei," finisco sottolineando le ultime parole con una pessima e piuttosto infantile mimica della sua voce.

"Quindi, fammi capire bene," replica. Le sue labbra prendono una certa piega beffarda. "Tu puoi baciarmi e poi scoparti e sposarti qualcun altro, ma io non sono autorizzato a baciarti e scoparmi qualcuno che mi sono già sposato?"

Sorride quasi, come per compiacersi con se stesso per aver appena messo in luce la gloriosa ironia della situazione. Ribatto con l'unica risposta che si merita.

"Sei uno stronzo."

Faccio per voltarmi ed andarmene, ma Damon mi afferra per un polso e mi attira con decisione contro di sé, facendomi ritrovare incuneata tra le sue gambe leggermente divaricate. Gli lancio uno sguardo furibondo ed il mio viso va a fuoco mentre tento di divincolarmi dalla sua presa, ma le sue dita rimangono calde e strette attorno alla mia pelle.

"Oppure …" prosegue in un tono basso, carezzevole e ironico che fa aumentare la mia voglia di prenderlo a schiaffi ancora di più, " … sei tu che sei gelosa."

Con un altro scatto del polso, questa volta mi libero della sua stretta.

"E' per questo che lo hai fatto? Per ripagarmi e divertirti a vedere come avrei reagito?"

"Credici o no, Elena," una punta di amarezza si fa strada nella sua voce, "Non tutto ciò che faccio ha a che vedere con te. Avevo avuto una pessima nottata. Anzi, una pessima settimana. Katherine era lì e, sì, sul momento qualcuno laggiù ha pensato che fosse una magnifica idea." Posa entrambe le mani sul bordo del cofano ai suoi lati, prima di continuare, "E se proprio ci tieni a saperlo … Me ne sono pentito più velocemente di quanto ci si metta a dire oh, cazzo."

Faccio finta che la sua risposta non mi tocchi, di non sentire quel piccolo, sciocco, egoistico, moto di sollievo che mi fa provare il pensiero che non abbia significato niente. La mia espressione rimane la stessa, sostenuta e noncurante. Ma anche la mia pronta replica sferzante ha già perso del tutto di smalto.

"Mi dispiace che le tue scopate non siano abbastanza soddisfacenti."

Damon mi guarda negli occhi come se sapesse che la sua rassicurazione non dovuta ha colpito esattamente dove doveva colpire e, ancora una volta, si protende in avanti, fino a pochi centimetri dal mio viso. Il mio battito accelera in protesta.

"E le tue lo sono?…"

Qualcuno alle mie spalle si schiarisce rumorosamente la voce.

Ci voltiamo entrambi verso Alaric, che è ancora ad un paio di metri di distanza da noi, le braccia conserte al petto e la faccia di uno che preferirebbe buttarsi dentro a un burrone piuttosto che stare qui.

"No, prego, continuate pure senza fare caso a me, non capita tutti i giorni di assistere ad una discussione tra due dodicenni con un tema tanto sconcio."

Solo in questo momento mi rendo conto di essere ancora nella stessa posizione in cui Damon mi ha trascinato, in piedi tra le sue ginocchia, così vicina a lui da sentirne ancora il profumo e il calore. Con così miseri strati di aria e tessuto a segnare inesistenti distanze che, anche se nessuna parte dei nostri corpi è davvero in contatto, quella sola consapevolezza basta a bruciare più che un'effettiva aderenza.

Mi ritraggo con uno scatto. Pongo di nuovo tra noi preziosi centimetri di lontananza, che intendo ulteriormente cementificare dimenticando tutto l'attuale discorso in cui mi sono ritrovata impelagata senza volerlo e tornando allo scopo originale della conversazione.

"Jeremy mi ha detto che ti ha parlato di Berkeley," dico prendendo un profondo respiro e appuntandomi nervosamente una ciocca dietro l'orecchio per mandare via del tutto anche gli ultimi residui dell'assurdo scombussolamento che Damon Salvatore deve sempre provocarmi. "E che può stare da te finché non si sarà sistemato al campus."

Damon inclina appena la testa di lato, curioso, anche se non sembra completamente sorpreso.

"Dunque sei qui per dirmene quattro sulla pessima influenza che eserciterò su tuo fratello?"

"Spero di no," ribatto subito rivolgendogli un'immediata occhiata di ammonimento, alla quale lui risponde con un veloce sorriso.

"Stavo scherzando, mamma chioccia."

"Volevo solo …" proseguo, sbirciando verso di lui da sotto in su. Dirlo mi costa e mi libera al tempo stesso. "… Ringraziarti."

Il suo "prego" ha la forma di un piegamento del capo a mo' di inchino.

Un piccolo sorriso tenta di insinuarsi al di sotto delle mie labbra e farsi strada per uscire, ma lo sopprimo perché, maledizione, stavamo litigando solo fino a pochi secondi fa. Per non parlare di come devo chiaramente sforzarmi di più per tenere sotto controllo le contraddittorie reazioni che riesce sempre a tirarmi fuori.

"Le mie amiche mi stanno aspettando, perciò … dovrei andare," mi affretto a buttare là, iniziando ad indietreggiare e rivolgendomi a tutti e due, Damon e Alaric, nel tentativo di far suonare il tutto meno strano. "Partite di pallavolo, e cose del genere e … Beh, immagino che ci vedremo lì. Entrambi, intendo. Se volete, non lo so. Come volete. Ci vediamo."

Dopo questa imbarazzante uscita, mi volto e mi incammino via in tutta fretta, il respiro un po' corto, i passi accelerati, il sole e un ben altro genere di calore a scaldarmi la faccia.


***


Damon aveva sempre avuto l'incredibile, esasperante, capacità di mandarmi fuori di testa anche solo per le più piccole cose: il pomeriggio in cui mi ero ritrovata ad arrancare dietro di lui in un polveroso sentiero scosceso era precisamente uno di quei casi.

"Damon!" lo richiamai, gridando il suo nome con un sofferto e prezioso ultimo sbuffo di fiato.

Damon si voltò verso di me, senza smettere le leggera corsa sul posto che apparentemente non sembrava richiedergli alcun vero sforzo. I suoi occhi azzurri sembravano quasi brillare nella calda luce del tardo pomeriggio che filtrava tra il fogliame degli alberi, ed anche con i capelli spettinati scuriti dal sudore e quell'insopportabile accenno di sorrisino gongolante sulle labbra era lo stesso così bello che in quel momento lo detestai come poche altre volte. Io, al contrario, ero un disastro di sudore, fatica e guance in fiamme.

"Ti arrendi già?" mi domandò strafottente inclinando la testa di lato.

"Ti odio," gli dissi guardandolo storto. Mi fermai per riprendere fiato, piegandomi in avanti e posando le mani sulle mie ginocchia. "Mi avevi detto che avremmo corso solo per altri cinquecento metri… Invece sono quasi altri due chilometri!"

"Ho davvero detto questo?…" chiese alzando un sopracciglio con fare innocente, una chiara nota di divertimento ad attraversargli la voce.

Lo sguardo che gli lanciai in risposta, invece, era tutt'altro che divertito.

"Per tre volte."

"Ehi, sei tu che hai chiesto di venire a correre con me," rispose tranquillo, tornando indietro verso di me, questa volta a passo normale. Nel vedere avvicinarsi le sue gambe vestite dai pantaloni morbidi della tuta, sollevai gli occhi da terra verso il suo viso, sul quale aleggiava ancora quella irritante espressione di compiacimento per avermi appena massacrato per quasi dieci chilometri di salite e discese in mezzo ai boschi. "Ricordi?"

Ricordavo, sfortunatamente.

Solo qualche giorno prima, a scuola, mentre stavo pranzando insieme a Matt, Caroline era piombata al nostro tavolo per informarmi tutta estasiata che si era appena liberato un posto nella squadra di cheerleading ed incoraggiarmi a tentare di entrarci nuovamente, come ai vecchi tempi. Io avevo tentennato, ma anche Matt era sembrato favorevole all'idea, così avevo davvero iniziato a considerarla come una possibilità. Forse perché c'era qualcosa di stranamente confortante nel pensiero di poter essere ancora quella ragazza là, quella con la divisa rossa, poche preoccupazioni e pomeriggi passati a fare capriole in aria.

Ma se volevo tornare in squadra, allora dovevo anche tornare ad allenarmi. E dal momento che dei metodi dispotici con cui Caroline aveva cercato di insegnarmi una coreografia ne avevo avuto abbastanza dopo una sola giornata, avevo pensato che andare a correre con Damon potesse essere una buona alternativa per fare esercizio senza ammattire troppo.

Beh, stavo iniziando a rimpiangere Caroline.

"Questo non ti autorizza a sfiancarmi a forza di inganni e false promesse," ribattei rialzandomi e assestandogli un pugno sul bicipite che lo fece indietreggiare a malapena. "Avevi detto, parola di scout!"

Il suo sogghigno di risposta mi fece soltanto esasperare ancora di più. Tutta la mia frustrazione e adrenalina accumulata si tradussero repentinamente in una serie di colpi maldestri contro il suo petto che parò senza battere ciglio, senza neanche smettere di ridere.

Tutto d'un tratto, afferrò entrambi i miei polsi nelle sue mani e, con un movimento fluido, mi voltò e intrappolò stretta tra le sue braccia per rendermi inoffensiva, con le mani bloccate sul davanti ed il suo torace solido e accaldato a premere forte contro la mia schiena.

"Dovresti saperlo," mi bisbigliò. Un piacevole brivido corse giù lungo il mio collo nel sentire la sua bocca e il suo respiro accarezzarmi l'orecchio. "Non sono mai stato un boy scout …"

Il ghigno con cui lo aveva detto era ancora lì, a giocare sulle sue labbra vicine alla mia pelle, quando la mia caviglia scattò all'indietro, agguantando la sua e cogliendolo di sorpresa.

Avvertii il momento esatto in cui le sue ginocchia cedettero e Damon perse l'equilibrio con un'imprecazione soffocata, ma non feci in tempo a liberarmi della sua stretta sui miei polsi, che mi impedì di scamparla e mi trascinò dritta giù con lui. Rotolammo entrambi a terra, nel terriccio sporco e polveroso che si appiccicò immediatamente ai miei capelli sudati. Avvertii un vago dolore nell'impatto con il terreno, ma ero troppo distratta per farci caso a causa della risata senza fiato - la mia - che mi riempì le orecchie, nonché dell'impresa di divincolarmi per sottrarmi alla sua mano che aveva preso a solleticarmi il fianco senza pietà, come punizione per averlo fatto cadere.

"Sei finita …" lo sentii dire mentre ancora ridevo e mi dibattevo e lo imploravo di smetterla.

Finché la sua stretta non si allentò quel tanto che bastava per concedermi di afferrargli i polsi, ribaltare i ruoli e bloccarlo a terra sotto di me.

A cavalcioni sopra di lui, cercai di riprendere fiato, con il petto che si alzava e abbassava seguendo il ritmo affannato del mio respiro. Quando vidi tornare il sorrisetto sulle sue labbra non ebbi il minimo dubbio che, nonostante le braccia distese ai lati della sua testa tenute saldamente ferme dalle mie mani, se ero in una posizione di vantaggio era solo perché me lo aveva lasciato fare.

Il perché non avrei saputo dirlo.

Ciò che però avrei saputo dire fin troppo bene era la confusa sensazione che mi provocò l'improvvisa percezione del suo torace snello e asciutto contro il mio ancora ansimante. In un solo attimo, fui più che mai consapevole del modo in cui la maglietta sporca e sudata si era appiccicata ai contorni del suo petto, del disordine di capelli sulla sua fronte, delle due gocce di sudore sulla sua tempia, della sfumatura particolare che assumevano i suoi occhi alla luce del sole, della macchia di terra sul suo zigomo, della curva delle sue labbra, del suo bacino tra le mie gambe … Di lui, tutto lui.

Ritirai le mani di scatto con il battito a mille e la testa stordita, rilasciai la presa e mi affrettai a scivolare di lato, via dal suo corpo, sentendomi una stupida e sperando con tutta me stessa che non avesse notato il modo in cui d'un tratto mi si erano infiammate le guance. Non potevo sopportare l'idea di cosa avrebbe potuto pensare di me o delle battutine che avrebbe potuto fare, se solo lo avesse notato.

Ma non disse niente.

Restammo sdraiati vicini in mezzo al sentiero, fino a che entrambi i nostri respiri agitati dalla corsa e dalla lotta non tornarono ad un ritmo normale, e con essi tornò normale anche tutto il resto, compresa la mia agitazione. Era di nuovo solo Damon accanto a me.

"Stavo pensando …" disse piano dopo ancora qualche attimo di silenzio, "Perché lo stai facendo?" Si girò verso di me, sollevandosi su un fianco e appoggiandosi sul gomito, ed io gli rivolsi un'espressione interrogativa non capendo a cosa si stesse riferendo.

"Questa stupida cosa delle cheerleader. Ti ho visto ieri provare con la tua amica bionda. Avevi un'aria abbastanza depressa."

"Beh, una volta mi piaceva fare la cheerleader," mi strinsi nelle spalle. "Era divertente. Ho pensato che forse … se mi ci dedico un po', può essere di nuovo così."

"E perché dovresti sprecare il tuo tempo su una cosa del genere?" domandò storcendo appena le labbra, "Le cose cambiano. Forse … tu sei cambiata."

Il mio petto si strinse un po' a quel pensiero. Non era dolore vero e proprio, quanto più una voglia ed un bisogno ed un'impossibilità di evadere dal sapore amaro di perdita e conseguenze che continuavo a portarmi dietro senza sapere come dargli voce.

Invece di rispondere mi alzai in piedi e mi scrollai la polvere dai pantaloni, evitando di dovermi confrontare con il suo sguardo e di ammettere che forse aveva ragione, che le cose erano cambiate ed io con loro, perché poi avrei anche dovuto ammettere quanto ardentemente desiderassi che invece non fosse così.

Eppure la sera chiamai Caroline, per dirle che avevo cambiato idea. Ed incredibilmente, mi fece mi fece sentire molto più leggera.


***


Qualcuno butta altra legna nel falò gigante che arde qualche metro più avanti. Le ombre aranciate che il fuoco getta tutto intorno si intensificano e si diffondono insieme alla fiammata rinvigorita che ne esce fuori e colora la notte.

La mia mente scivola via di nuovo, a domandarsi dove sia Damon. Non posso farne a meno. La sola idea della sua presenza in questo posto, per quanto abbia provato ad ignorarla e a non pensarci, è stata in grado di distrarmi per tutta la giornata, anche nei momenti meno opportuni. Durante l'improvvisata partita di pallavolo, ho perso almeno tre palloni che sarebbero caduti direttamente tra le mie braccia per poter controllare con brevi occhiate nervose se per caso era scomparso da qualche parte con una brunetta che si era avvicinata a lui ed Alaric.

(Non lo aveva fatto. Non che mi sarebbe importato.)

Sono riportata al momento presente dalla risata divertita in cui scoppia tutto il gruppo, quando Luke inizia a raccontare le peripezie della sua settimana come babysitter della capra che fa da mascotte alla squadra di football della sua università.

Mi scosto da una spalla i capelli che ho lasciato sciolti per buttarli all'indietro e sorrido anche io. Alcuni ragazzi attrezzati addirittura di consolle hanno fatto partire della musica di sottofondo sulla quale in molti hanno già cominciato a ballare e c'è davvero una bella atmosfera nell'aria, di quelle che ti fanno sentire bene e parte di qualcosa, anche se la maggior parte di queste persone con cui sto passando la serata non avevo neanche idea di chi fossero fino qualche ora fa. Alcuni sono amici di Sage, altri - come Luke e la sua gemella Liv - semplicemente improvvisati compagnia di squadra conosciuti oggi stesso.

Caroline l'abbiamo data per dispersa fin dal momento in cui è arrivato anche Stefan, ma ho il sospetto che siano quelle due figure sdraiate sopra una coperta una decina di metri alla nostra destra che, anche negli sprazzi di luce che salgono dal fuoco quando una scintilla scoppia nel buio, rimangono praticamente indistinguibili l'uno dall'altra.

Bonnie è seduta sopra un tronco a poca distanza da me, si mordicchia un'unghia che copre parte del suo sorriso, anche lei intenta ad ascoltare le ragioni per cui non dovresti mai lasciare una capra vicino ai tuoi appunti di biochimica.

Sage torna portando tra le mani alcune bottiglie di birre fresche che distribuisce in giro. Scuoto la testa quando mi si siede accanto, tra me e Bonnie, e me ne porge una.

"Di solito non bevo," le faccio sapere.

"Quindi … " solleva le sopracciglia stupita della mia risposta e mi rivolge un sorriso scherzoso, " … chi era quella ragazza che ballava sui tavoli facendo impazzire un intero locale?"

Rido e arrossisco allo stesso tempo di fronte a quel ricordo, coprendomi il volto con un mano, forse ancora incredula che potessi davvero essere io.

"Quella … Era la proverbiale eccezione."

"Sai cosa non capisco?" mi chiede, voltandosi un attimo per prendere la canna che qualcuno alla sua sinistra le ha appena passato. "Hai quanto, ventiquattro anni? Insomma, sei giovane, sei bella, sei divertente … perché mai sposarti così presto?"

"Lo dici come se il matrimonio fosse la fine di tutto questo …"

"Oh, no, non penso questo," scuote appena la testa e prende una lunga boccata. La soffia fuori allungando la mano che tiene lo spinello verso quella sagoma indefinita che presumo sempre di più essere Stefan e Caroline, a giudicare dallo sprazzo di capelli mossi e un po' dorati che lui le scosta dal viso prima di tornare a baciarla di nuovo. "Insomma, guarda quei due. Potrei vederceli ad avere tutto il pacchetto. Staccionata, minivan e bambini biondi. Tu … Lo so che non ci conosciamo da molto, e lo so che puoi tranquillamente dirmi che non sono affari miei, ma da quel che ho visto … Tu sembri fatta per qualcos'altro."

Lo sguardo mi cade automaticamente sull'anello che circonda il mio anulare, che luccica nel buio all'ombra del fuoco.

Non che la sua domanda non mi sia già stata fatta prima. Da mio padre, da Jenna, dalle mie amiche, dal ragazzo delle consegne, dall'aspirante scrittore che viene a passare a Mystic Falls tutte le estati, si siede sempre nel terzo tavolino da destra ed ogni anno da cinque anni mi propone di sposarlo e scappare con lui. La risposta era sempre stata la stessa, senza neanche stare a pensarci più di tanto: un tranquillo "lo amo" accompagnato da un veloce sorriso. Questo era solo poco più di sei mesi fa. Adesso … Penso più a come Elijah è riuscito a farmi sentire con la sua equilibrata presenza nella mia vita, a come con lui avessi finalmente avvertito di potermi innamorare di nuovo e questa volta non restarne tanto dolorosamente scottata.

"Beh, lui me lo ha chiesto, ed io … " rispondo. "Non volevo perderlo."

Sage mi osserva senza dire niente per un po', attraverso la sottile striscia di fumo profumato che sale su dalle sue dita adesso che ha posato il mento sulla mano, ed il cui sapore dolciastro mi invade piacevolmente le narici.

"E' più grande di te, vero?"

"Trentacinque," preciso, per poi affrettarmi ad aggiungere. "Ma non è così tanta differenza, davvero, voglio dire io…"

Mi interrompo quando noto che Sage mi sta adesso porgendo la canna, tenendola in verticale tra il pollice e l'indice. Esito, guardandola spaesata.

"Io … Io non ho mai provato."

Lei distende le labbra in un sorriso lento, un po' annebbiato, un po' divertito.

"Un'altra proverbiale eccezione?"

Ancora un po' incerta la prendo dalle sue dita tenendola fra l'indice ed il medio. In fondo, cosa sarà mai? Il filtro ha quasi toccato le mie labbra, quando qualcuno si materializza dal niente, si sporge da sopra di me e me la ruba velocemente di mano.

"Ehi!" mi volto per protestare contro l'ignoto ladro che, nel frattempo, dopo il suo furto si è seduto affianco a me.

Ma il mio cuore perde un battito, o forse anche due, nell'attimo in cui mi trovo davanti i suoi inconfondibili occhi azzurri.

"Tu …" sussurra Damon scuotendo appena la testa, con un esageratamente finto fare deluso, l'angolo un po' dispettoso delle sua labbra piegato verso l'alto, come se oggi si fosse particolarmente intestardito a mandarmi completamente fuori di testa, "… bambina cattiva."

Le sue parole, ed il gusto proibito che hanno acquistato scandite dalla sua voce, rimangono un secondo di più sospese nell'aria tra noi, nella sfumatura ambrata che il riflesso del fuoco regala alle sue iridi cristalline. Mi riverberano dentro fin nel sangue che sento scorrere più in fretta e - mentre guardo le sue guance ritirarsi e svuotarsi quando ne prende un lungo tiro, e poi il fumo che soffia via dalla sua bocca e si dissolve nella notte - devo mordermi il labbro inferiore fino a che non sento dolore pur di calmare quell'istinto nel mio corpo che sta urlando per avere un assaggio.

Me la porge nuovamente dopo quell'unico tiro, ed io non ci penso due volte a sfilarla dalle sue dita e portarmela alle labbra.

Pessima mossa. La mia gola rifiuta immediatamente la nuvola di fumo che aspiro, asfissiandomi la trachea. Tossisco violentemente con il corpo in avanti ed i capelli che mi cadono sugli occhi, subito pieni di lacrime. Intorno a me sento almeno un paio di persone iniziare a chiedere se io stia bene. Una mano si posa sulla mia schiena.

"Sta bene, è solo la prima volta," li rassicura Sage.

Qualcuno le fa eco alzando la propria bottiglia di birra e proponendo il brindisi "Alle prime volte!", che fa subito ripartire la conversazione.

Con la mano libera mi asciugo le ciglia e quindi mi volto verso Damon. Solo quando lo faccio mi rendo conto che sua è la mano sulla mia schiena … il palmo aperto contro il retro dei miei polmoni, quelle due dita che escono dai confini della mia canotta, sfiorandomi la pelle nuda e intrecciandosi tra i fili dei miei capelli rimasti sulla schiena. I nostri occhi si incontrano di nuovo. La sua mano si ritrae.

"Dovresti inalare normalmente," mi dice curvando appena le labbra e scostandosi di nuovo quel tanto che basta per ristabilire le giuste distanze.

Lo faccio.

Il secondo tiro brucia sempre, ma è più piacevole.

Al terzo riesco a sentire il retrogusto dolce che mi rimane in bocca dopo aver espirato.

Dopo, c'è solo leggerezza.


Sto ridendo così tanto che mi fa male il petto, mi fa male lo stomaco, mi fa male il respiro, eppure né riesco a smettere né ho davvero intenzione di farlo, anche se devo appoggiarmi un'altra volta contro Damon dal momento che, pur essendo seduta, la cosa continua a farmi perdere l'equilibrio.

Adagio la schiena contro il suo braccio teso all'indietro, vagamente consapevole che se cadessi soltanto di pochi altri centimetri, ad accogliermi sarebbe invece il suo torace. Il mio petto si scalda al solo pensiero, ed io non ho alcuna voglia di combattere la sensazione.

E' strano. Come se stare seduti qui nel buio in mezzo ad un mucchio di sconosciuti che non sanno niente di noi fosse quanto di più vicino a lui potrò mai permettermi di essere. Solo per uno sfioramento del suo braccio contro il mio, pelle contro pelle. O per un suo commento sarcastico sussurrato nel mio orecchio. Non c'è niente di sbagliato in questo. Forse è il buio. Rende più giusto essere accanto a lui. Lo ha sempre reso più giusto, in qualche modo.

"Sei fatta."

"Cosa? …"

Alzo di scatto il volto verso Damon, verso il divertito mezzo sorriso che piega le sue labbra.

"Non sono fatta!" ribatto con la mia migliore espressione indignata.

Lui prende un piccolo sorso dalla sua bottiglia di birra. Quel mezzo sorriso è ancora lì.

"Guarda, ti faccio vedere," dico decisa.

Mi metto in ginocchio e mi siedo sui miei talloni, fronteggiandolo con un'espressione seria e determinata rovinata purtroppo dal sorriso che continua a strattonarmi gli angoli della bocca e che non riesco a sopprimere del tutto. Dannazione. Ricordo vagamente la prova che include il naso ed il dito indice, qualcosa sul toccare entrambi nello stesso momento ... O forse quello era per l'alcol? Beh, immagino che si dovrà accontentare.

Poso l'indice sinistro sul mio naso ed allungo l'altra mano per toccare con un dito la punta del suo. Damon scoppia a ridere in un suono basso e vibrante, che mi sembra così bello e prezioso da farmi solo venire voglia di ridere per tutta la notte, per il resto della mia vita.

"Dio, sei così …" inizia a dire, ma non finisce mai la frase.

La sua risata si smorza non appena il suo sguardo trova il mio, quando la sua espressione si trasforma in qualcos'altro, in un lampo trasparente di desiderio e rimpianto così vivo e immediato che non ho nessuna possibilità di sfuggirgli. Anche il mio sorriso cambia, soprattutto quando le sue dita raggiungono le mie invitandomi ad abbassare i miei indici, e nel giro di un secondo quel gioco stupido non c'è più.

Ci siamo noi. Il buio. Sconosciuti attorno. Il fremito nel mio petto. I suoi occhi. Desiderio e rimpianto. E così tante altre cose che mi sembra di esplodere dentro.

"Elena."

Sussulto quando qualcuno mi tocca la spalla.

Mi volto verso Bonnie che si è inginocchiata accanto a me. La mia amica lancia una veloce occhiata seria verso Damon e poi, con un cenno della testa, mi indica qualcos'altro, una sagoma che riconosco come familiare a circa una ventina di metri in lontananza.

Si piega per avvertirmi a bassa voce, "Elijah è qui."


***


Elijah gira le chiavi nel quadro della macchina. Il rumore smorzato del motore si spegne, la luce dei fari sul vialetto muore con lui, e nessuno di noi due accenna a scendere dell'auto.

Restiamo qui a riempirla ancor più di silenzio, entrambi guardando avanti verso la flebile luce che illumina il portico di casa mia.

"Sei arrabbiato?" gli chiedo infine.

"Ne ho motivo?"

Il fare calmo con cui mi rigira la domanda mi infastidisce in un modo che non avrei mai creduto possibile.

"Non hai praticamente detto niente da quando siamo saliti in macchina," gli faccio notare.

"Intendi sul fatto di raggiungerti a quella festa perché mi mancavi, e trovarti … strafatta?" pronuncia la parola con un misto di incredulità e disappunto. "Cosa ti aspetti che dica?"

Mi lascio sfuggire una smorfia, che però gli nascondo voltandomi verso il finestrino. Di sicuro, non mi sento fatta in questo momento. Ho una fame insistente che mi fa scalpitare lo stomaco ed una imminente pesantezza pronta ad incombermi sugli occhi, ma qualsiasi cosa io possa aver provato quando ero ancora accanto a quel fuoco se ne è andata da un pezzo. E' solo una pressante irrequietezza ciò che adesso mi sta mangiando dentro.

Sento Elijah muoversi e cambiare posizione nel sedile. L'attimo dopo la sua mano prende la mia, invitandomi a voltarmi a guardarlo. Sono vigliaccamente grata che la penombra mi nasconda lo sguardo.

"Elena …" inizia con un piccolo sospiro che mi irrita e mi fa male al tempo stesso, perché per quanto non si meriti questo trattamento scostante da parte mia, al momento non riesco a riservargliene altri. "So che ne abbiamo già discusso e che probabilmente è solo una stupidaggine, ma … ci sono momenti in cui continuo ad avere la sensazione di non aver idea di cosa ti passi per la testa. E non voglio che accada di nuovo come qualche settimana fa, quando te ne sei andata da un giorno all'altro invece che parlarmi di come ti sentivi. Se ci fosse qualcosa, qualsiasi cosa, che non va… me lo diresti, vero? Non mi mentiresti."

"Non c'è niente che non va," rispondo piano, e mi sento una pessima bugiarda nell'attimo stesso in cui le parole lasciano la mia bocca.

Ma qual è l'alternativa? Non posso certo dirgli che sì, ho baciato un altro uomo e che non riesco a smettere di pensarci, che continuo a riviverlo nella mia testa in ogni attimo, ogni battito, ogni tocco. Perché dirlo ad alta voce, anche solo una volta, cambierebbe le cose tra noi per sempre.

E mentre nella penombra lo guardo negli occhi, pensando a tutto ciò che non gli posso dire, per un momento quasi temo che lo capisca anche lui, che veda davvero attraverso la mia menzogna.

Ma non lo fa.

Il sollievo quando non dice niente però, quando vedo nel suo sguardo che mi crede, è di breve durata. Somiglia più ad una speranza delusa.

Elijah mi lascia andare la mano per tornare ad appoggiarsi contro lo schienale del guidatore, con le dita che sfiorano i contorni del volante. Neanche volessero accertarsi che siano in ordine anche quelli. Almeno quelli.

"Devo dirti una cosa," prosegue quindi cautamente. "Dalla Besunyen vogliono che mi occupi di persona di alcuni disposizioni. Devo andare ad Hong Kong."

Si gira verso di me, in attesa di una mia reazione.

Solo che io non ne ho nessuna. La mia mente è solo una stordita pagina bianca.

Sbatto le palpebre un paio di volte, mentre lui si sporge nella mia direzione per accarezzarmi la guancia.

"E' solo per una decina di giorni, due settimane al massimo. Sarò di ritorno a parlare di torte nuziali prima che tu abbia il tempo di accorgertene."

Tenta perfino un sorriso.

"Va bene," mi sento dire.

Poi prendo la sua mano, la stringo appena nella mia mentre la allontano dal mio viso, e scendo dalla macchina.

Non ho neanche più voglia di discutere.


—————————————————

Note

[1] In realtà, nel sistema Usa, le risposte per le ammissioni al college (che si mandano un anno prima) arrivano verso fine inverno/inizio primavera prima dell'inizio dei corsi, che di solito è fine agosto. Qua siamo a luglio, quindi riconosco che come tempistica non sia veritiera, mi sono presa una piccola licenza.


Spazio autrice


Lo so, sono pessima. E' passato un mese dall'ultimo aggiornamento ed io ho quasi paura che di questa storia ve ne siate ormai dimenticate.

Purtroppo, io e lei siamo state un po' in crisi nell'ultimo periodo, poi c'è stato il season finale (per cui sono ancora qui a piangere tutte le mie lacrime ogni volta che lo shuffle mi fa partire Wings a tradimento) ed un pov Elena - quello di questo capitolo - a cui non è stato facile dare voce.

Al di là della lunga attesa, spero che il capitolo non vi abbia annoiato, dato che mi pare di capire dagli animi di chi commenta che la dinamica Elena/Elijah non sia esattamente tra le preferite ... Ma mi sembra lo stesso giusto dare spazio anche al loro logorio di coppia in crisi, e poi il Delena dovrebbe controbilanciare. :) In ogni caso, sappiate che se volete potete tirare fuori quella bottiglia di champagne d'annata che stavate tenendo da parte per l'occasione: vi confermo che Elijah davvero non sarà in circolazione per un po' …

Mi dispiace davvero tanto di non riuscire a rispondere in tempi brevi alle meravigliose recensioni che siete così gentili e adorabili da lasciarmi, ma - ve lo dico con il cuore - mi bevo ogni vostra singola parola e ne faccio tesoro, sempre e comunque. Sono un sostegno indispensabile, soprattutto quando, appunto, mi capitano capitoli come questo che anche senza motivi precisi mi fanno andare in piena crisi e pensare che tutto faccia schifo.

Quindi un grazie immenso per il vostro insostituibile supporto!


A presto!

Bacio


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Capitolo 16
*** Are you mine? ***


15

15.

Are you mine?


- And I go crazy 'cause here isn't where I wanna be

And satisfaction feels like a distant memory

And I can't help my self, all I

Wanna hear her say is "Are you mine?" -

(R U Mine, Arctic Monkeys)


Damon


Dò la colpa a Ric.

Dò la colpa a lui e a quella brunetta studentessa di medicina per cui mi ha scaricato ieri sera, lasciandomi da solo a quel maledetto falò in mezzo al bosco dove le uniche scelte rimaste per una compagnia alternativa erano: rimorchiare una ragazza carina a caso tra le tante per cui non avevo alcun interesse; passare del tempo con un fratello al quale non so cosa dire; cercare colei dalla quale continuo a ripetermi di stare lontano ma chiaramente senza mai impegnarmi abbastanza.

Qualcuno che indovini cosa ho scelto.

Così, come risultato, dò la colpa al mio migliore amico anche se so che dovrei darla soltanto a me stesso, se poi ho passato la notte praticamente insonne con ancora addosso l'odore del fuoco ed ancora in testa la presenza di Elena.

Presenza che continua testarda a rimanere lì, sebbene io stia correndo per sentieri isolati ormai da più di un'ora pur di scaricare tutta la frustrazione, sessuale e non, che la cosa mi provoca.

Giro una curva, inizio a sentire l'indolenzimento dei muscoli e mi incazzo di nuovo, quando ripenso all'espressione che le era scivolata sulla faccia nel momento in cui era arrivato il suo fidanzato. Perché odio vedere quell'espressione sul volto di Elena, e ancora di più odio chi gliela procura. Ma, nonostante questo, neanche lo sfizio di cedere alla pruriginosa voglia di alzarmi e prenderlo a pugni mi sono tolto. No, sono rimasto lì accanto al fuoco dove solo fino ad un minuto prima c'era anche lei, a guardarla allontanarsi e andargli incontro. A guardarli parlare con le facce incupite dal buio. A guardarli andare via insieme.

E, come se tutto ciò non bastasse, ci si era messa di mezzo pure Bonnie che, vedendomi in quel modo, mi aveva persino rivolto un quasi sorriso e allungato una birra a mo' di compassionevole e temporanea offerta di pace. Cosa che mi porta a chiedermi: quando cazzo è stato il momento che mi ha portato a ridurmi in uno stato tale da impietosire perfino Bonnie Bennet?

Quando è stato il momento in cui ho concesso ad Elena di infilarsi in pensieri e desideri che non posso neanche permettermi di avere, solo per un fottuto istante, e poi non sono più stato capace di tornare indietro? Quando è stato di preciso che Elena mi ha così brutalmente fottuto il cervello, come già aveva fatto una volta, eppure in questo modo così nuovo, viscerale e prepotente che è come se fosse la prima?

Sono un bagno di sudore quando infine svolto di nuovo verso casa, ma continuo a non aver scaricato proprio un bel niente.

Il mio umore migliora leggermente solo quando, dopo una doccia di proposito più fredda del solito, scendo le scale e mi avvicino alla cucina, dalla quale proviene un celestiale odore di uova strapazzate e salsiccia arrostita che può solamente essere opera di Caroline.

Sono momenti come questi, quelli in cui mi rimangio i miei dubbi sulla sanità mentale di mio fratello riguardo ai suoi gusti in fatto di fidanzate.

Ma anche il miraggio di beatitudine che si prospetta per il mio stomaco è di breve durata.

L'arrivo di un messaggio mi distrae un solo attimo prima di mettere le mani sulla colazione avanzata. Tiro fuori il telefono dalla tasca dei jeans.

Mi annoiavo, quindi sono andata a fare shopping. Ho preso la tua carta di credito ;)

Katherine. Non faccio in tempo a maledire lei e quella cazzo di faccina che ammicca, che un altro messaggio compare subito sotto.

Oh, e anche la tua macchina ;)

Eppure era un bravo ragazzo, diranno di me il giorno che le stacco davvero la testa dal collo. Anzi, forse no, neanche quello.

"Fottiti, Katherine," impreco al vento contro il display dell'iphone prima di lanciarlo sopra il bancone.

"Se cerchi la tua dolce metà, non è qui," commenta altezzosamente Caroline alle mie spalle.

Mi volto per vederla entrare in cucina con l'aria compunta e il naso all'insù, come palese ed esagerata dimostrazione del suo sdegno nel vedermi.

"Potrebbe inciampare ed infilzarsi su un coltello arrugginito per quel che mi riguarda," replico asciutto. "Non che io stia dando velati suggerimenti al riguardo."

Mi appresto finalmente a prendere un piatto per riempirlo di cibo ma, come allungo il braccio verso la padella, qualcosa mi colpisce violentemente il dorso della mano facendomela ritirare all'istante. Sollevo stupefatto lo sguardo verso Caroline, che mi ha davvero appena schiaffeggiato con una rivista arrotolata come si fa con i mosconi.

"Quello non è per te," mi fa sapere, incrociando decisa le braccia sul petto e lanciandomi uno di quegli sguardi che promettono morte e distruzione per chiunque osi contraddirla.

"Perché?" le domando frustrato.

"Lo sai perché!" esclama stizzita.

Oh, per l'amor del cazzo. E' passata più di una settimana e ancora non mi ha perdonato il grave torto di non averle detto prima di Katherine. O forse il sommo crimine di averle tolto la soddisfazione di poter dire la sua al riguardo, o forse quello ancora peggiore di averle rubato l'irripetibile occasione di poter essere la prima signora Salvatore di questa generazione. Valla a capire.

Lei storce le labbra, va a sedersi su uno degli sgabelli che circondano il bancone di marmo chiaro e mette davvero molta enfasi nel non guardarmi ed iniziare a sfogliare la rivista di gossip che ha tra le mani.

"Non puoi rimanere arrabbiata con me per sempre, Care," le dico roteando gli occhi al cielo.

"Smettila di chiamarmi Care," ribatte piccata sfogliando una pagina con particolare accanimento e fingendosi poi completamente concentrata sulla lista dei dieci divorzi più costosi di sempre. Molto divertente, Barbie.

"Care è per gli amici, è per i familiari …" prosegue, "Non per i bastardi bugiardi come te."

"Andiamo, non ho mentito su Katherine!" mi difendo. Voglio davvero mettere le mani su quella colazione. "Ho solo … evitato di parlarne."

Caroline alza la testa e mi osserva offesa a bocca aperta, neanche l'avessi appena schiaffeggiata in faccia.

"Sei impossibile, Damon!" Chiude di scatto la sua rivista e per un secondo temo quasi che possa lanciarmela addosso. "Quale razza di deficiente si sposa di nascosto senza farne parola con suo fratello? Oh, aspetta. Tu."

Incontra i miei occhi e, per un momento, la sua furia indignata cade per cedere il posto a qualcos'altro, un moto ferito che traspare anche dalla sua voce che adesso si è fatta piccola piccola e che mi fa davvero sentire il bastardo bugiardo che mi ha appena accusato di essere.

"Come hai potuto, Damon? Escludere me e Stefan da una cosa così? Pensavo che ci tenessi a noi, voglio dire, lui è tuo fratello ed io pensavo … che mi considerassi almeno un po' tua amica. Invece, contiamo davvero così poco per te?"

Ha vinto. Non c'è niente con cui posso davvero controbattere di fronte ad un'accusa come questa, se non con la verità.

Così, con un sospiro, vado anche io a sedermi su uno sgabello proprio di fronte a lei. Caroline mi osserva con curiosa cautela per qualche secondo e poi torna in fretta a riaprire il suo giornale e a tuffarci dentro la faccia.

"Hai presente il semestre in Europa?" le chiedo.

Caroline non mi guarda, ma annuisce leggermente con la testa.

Per chi conosce bene lei e mio fratello, "semestre in Europa" è la comune parola in codice per indicare la più grossa crisi che la loro relazione abbia mai avuto, quando - durante l'ultimo anno di Stefan al college, quello prima di entrare alla Tuck Business School [1] - neanche loro avevano retto alla pressione dei nuovi ambienti e della distanza, con lui nel New Hampshire e lei al Whitmore. Si erano lasciati tra le lacrime poco prima delle vacanze di primavera, ed io lo so bene perché Stefan si era presentato alla mia porta dall'altra parte del paese con il ciuffo ammosciato e un borsone sulla spalla, rimanendo a campeggiare sul mio divano per due settimane di alcol e occhi lucidi ogni volta che qualcosa gli faceva tornare in mente lei, il che avveniva piuttosto spesso. Dopodiché, aveva preso ed era partito per Parigi in uno scambio di sei mesi, portando il suo cuore spezzato il più possibile lontano dalla sua bionda crisi esistenziale.

"Beh, è stato in quel periodo che ho incontrato Katherine," continuo.

Caroline mi sbircia da sotto in su oltre il bordo della rivista e mi basta quello per sapere di aver ottenuto il suo interesse. Corrugo la fronte, mentre tutto inizia a tornarmi in mente in un collage frammentario di pezzi e sensazioni passate che a distanza di tempo sembrano quasi appartenere alla vita di qualcun altro. Le notti scatenate fino all'alba, la totale perdita di concentrazione su qualsiasi cosa non fosse lei e, soprattutto, quel perenne senso di euforia, come un'iniezione di droga senza fine. Eccetto che una fine ce l'aveva eccome e, come con le droghe, è solo quando l'effetto finisce che vedi le cose per ciò che erano veramente.

"Pensavo che fosse meravigliosa," le dico. "Sexy, divertente, irraggiungibile. Mi fece impazzire. Ho pensato davvero … E' solo con lei che voglio stare. Anzi, molto più probabilmente non ho pensato affatto. Ero in quel municipio due mesi dopo averla conosciuta. Altri tre mesi, e non la potevo più soffrire. Lei si scopava il suo coreografo, ed io passavo le notti nei bar a bere e scoparmi … beh, chiunque. Poi una mattina se ne è andata, non ne ho più avuto notizie, ed ho iniziato a respirare di nuovo."

Caroline ha finalmente smesso di far finta di leggere quella stupida rivista e ha gli occhi tutti concentrati su di me, in avida attesa del resto.

"Non l'ho detto a Stefan perché non volevo sbattergli in faccia quanto io fossi pazzamente innamorato mentre lui era dall'altra parte del mondo a struggersi per te, e non l'ho detto a Stefan quando è tornato perché …" scrollo lo spalle e scuoto la testa, "Non c'era più niente da dire."

"E lo sei ancora …?" mi domanda lei, sporgendosi in avanti fino al bordo dello sgabello. "Pazzamente innamorato di lei?"

"Dio, no!"

"Ma ci sei andato a letto."

"Nel caso ti fossi persa il promemoria, tendo ad andare spesso a letto con donne di cui mi importa meno di zero."

Caroline sbuffa sonoramente ed alza gli occhi al cielo.

"Questo è quello che ti piace ripeterti. Ma ti importa, Damon, lo so che è così," afferma annuendo seria con la testa. "Perlomeno … la maggior parte delle volte, o nel tuo modo contorto, o quando si tratta di certe persone. E questo mi porta alla mia prossima domanda …"

"Penso che tu abbia preso questo breve e - fammi essere chiaro - molto una tantum, molto irripetibile, momento di confidenze un po' troppo sul serio, Care, se pensi davvero che io abbia voglia di stare qui a-"

"Cosa sta succedendo tra te ed Elena?" butta fuori velocemente prima che io abbia il tempo di finire e, soprattutto, di fermarla. "Voglio dire, lo so che sta succedendo qualcosa, anche se non so cosa perché nessuno qua si preoccupa mai di tenermi aggiornata su niente a quanto pare, seriamente, perché non mi dite più le cose? Ma oh mio dio il modo in cui la guardi, e lo so che lei non lo ammetterebbe mai e poi mai perché è Elena e lo sai come è fatta Elena, ma il modo in cui ti guarda quando pensa che nessuno se ne stia accorgendo, e poi quando …"

I miei occhi si spalancano sgomenti di fronte alla valanga di parole che Caroline ha iniziato a sputarmi addosso, così velocemente che non so neanche più cosa stia dicendo, so solo che adesso ha iniziato anche a contare qualcosa sulle dita (ho timore di sapere cosa), dispiegandole in avanti una per una.

"…. e poi è andata così fuori di testa quando ti ha visto con Katherine, perc-"

"E' il mio telefono quello che suona?" La interrompo alzandomi così di fretta che faccio quasi cadere all'indietro lo sgabello ed indico il mio cellulare dall'altra parte del bancone, muto e immobile come un sasso. Dove diavolo sono molestatrici come Katherine quando ne hai bisogno? "Sono sicuro che sia una chiamata davvero importantis-"

"Sai, Damon," Caroline mi afferra per un lembo della maglietta e mi ritira giù, perentoria. "Se chiedi la mia opinione …."

"Cosa che non ho fatto …"

"…. Elena sta facendo un errore," conclude lei imperterrita. "Con questa cosa del matrimonio, intendo. Ma …" alza le mani in aria in un sarcastico gesto di resa, "… Nessuno qua vuole darmi retta."

E questo dovrebbe farmi sentire meglio? Perché non è così.

"Hai finito?" le domando invece.

"Non ancora."

Si alza dalla sedia, perdendosi così la smorfia esasperata che rivolgo al soffitto, si dirige verso i fornelli e torna indietro con un piatto colmo di cibo ancora caldo, il cui profumino mi solletica deliziosamente le narici quando me lo passa sotto al naso. Quando però allungo la mano pensando giustamente di essermi finalmente guadagnato, dopo tutto questo supplizio, il diritto ad essere nutrito per decreto di Caroline Forbes, lei lo solleva in alto per metterlo al sicuro fuori dalla mia portata e mi lancia un'altra occhiata di ammonimento.

"Ora, per l'amor del cielo, promettimi che vai a parlare con quel testone di tuo fratello, perché io non ne posso più. Sta come un cane ma non lo vuole ammettere, e di conseguenza se ne sta sempre lì a rimuginare ancora più del solito. Non costringermi a chiudervi in una stanza e buttare la chiave finché non risolvete le vostre questioni. Sai che ne sarei capace. Allora?"

Inspiro profondamente e le rivolgo uno sfiancato cenno di sì con la testa.

Lei mi mette il piatto davanti e sorride soddisfatta. "Adesso, ho finito."


In ogni caso, non è vero che non parlo con mio fratello.

Caroline deve esagerare e fare la Barbie Melodramma come al suo solito.

Gli dico "Ehi" ogni volta che lo incrocio in giro per casa. Lui dice "Ehi" in risposta. Una volta, abbiamo anche avuto una conversazione di un minuto e mezzo, quando non riusciva a trovare le chiavi della sua auto ed io gli ho suggerito di guardare sopra la mensola del camino. Se non è parlare questo.

Ma, sfortunatamente, con Ric ancora disperso insieme alla studentessa di medicina e la mia auto tra le grinfie di Katherine, ho un sacco di tempo per pensare al mio amabile fratellino durante la lunga passeggiata a piedi verso il centro città per andare agli uffici della Salvatore & Associates a mantenere la mia parte dell'accordo con Caroline con cui ho pagato per la mia colazione.

E la verità è che non sono incazzato con Stefan per avermi mollato un pugno. Non era neanche poi così forte, e il livido verde-violastro che ha lasciato se ne è già quasi andato del tutto. Anzi, non sono neanche incazzato con lui per avermi accusato di essere un maestro nel mandare le cose a puttane. In parte perché è vero, in parte perché … beh, è Stefan. Il suo costante bisogno di sentirsi più virtuoso di me è parte di lui almeno quanto i suoi capelli folti e il suo cipiglio serio.

Il fatto è che Stefan può blaterare sulle mie mancanze quanto vuole, ma poi mai, neanche una singola volta, non è stato lì pronto a spalleggiarmi o a prendere le mie difese quando ce ne è stato bisogno. Eccetto in questo caso. E' questa l'unica cosa che brucia.

Quando arrivo sulla strada principale, lancio automaticamente un'occhiata veloce verso il Grill, le cui serrande sono sempre abbassate.

Sto già per passare oltre, ma Elena sbuca all'improvviso da dietro l'angolo verso cui curva l'edificio, talmente concentrata a cercare qualcosa nella propria borsa, che per poco non finiamo per scontrarci.

Solleva gli occhi su di me soltanto all'ultimo momento, con le labbra schiuse in un "oh" sorpreso ed un veloce sbattere delle lunghe ciglia nere.

"Ciao," mi saluta in un soffio.

Accenna un sorriso che sembra uscire fuori più di istinto che di proposito.

Ora, questo sarebbe il momento giusto per dire "Mi dispiace, sono di fretta, buona giornata, ci vediamo un'altra volta." Non per restare a fissarla incurvando di rimando un lato della bocca verso l'alto, come un qualsiasi cavolo di quindicenne ammutolito, mentre lei si appunta una ciocca di capelli dietro l'orecchio ed io mi perdo a pensare che ben altro genere di piccoli suoni sorpresi potrei farle uscire dalla bocca se solo potessi vezzeggiare con la lingua la curva del collo che ha appena esposto grazie a quel gesto. Solo che poi mi respingerebbe per tornare tra le braccia dell'uomo che ama davvero, ed il mio caso di cervello fottuto non farebbe che peggiorare, perciò … contegno, Damon.

"Come stai, novizia dell'edonismo?" le domando, mentre lei giocherella con le chiavi del Grill che tiene tra le dita e si lascia sfuggire un altro lieve sorriso di fronte al mio nomignolo che ricorda le sue imprese della sera prima. "E' un po' presto per essere già nei paraggi di bar che tanto sono chiusi."

"In realtà, riapriamo domani sera, perciò ho pensato …" si stringe nelle spalle, " … beh, tanto vale venire qua ed iniziare a pulire e sistemare."

"Non dovresti avere tipo un esercito di tirapiedi o di liceali sottopagati per fare il lavoro sporco al posto tuo?"

"Ce li ho, sì …" ridacchia, anche se poi abbassa lo sguardo sulle chiavi con cui si sta gingillando e le sue sopracciglia si increspano appena. "Ma forse ho solo bisogno di tenere le mani e la testa occupate."

Mi basta quello per sapere che c'è qualcosa ad impensierirla, qualcosa che immagino sia anche la causa della stanchezza che segna il suo sguardo al di sotto del trucco leggero che dovrebbe nasconderla. Il pensiero che possa esserci il suo fidanzato dietro a tutto ciò mi fa ancora una volta salire un prurito frustrato fin nelle punte della dita.

Ricorda che non sono affari tuoi, mi fa presente una vocina piccola e distante nel mio cervello. E che sei ancora in tempo per salutare educatamente e andartene, prima che per davvero ti scambi per il genere di confidente che non vuoi essere a cui raccontare le proprie scaramucce matrimoniali.

Ma quel giocherellare di chiavi e quel labbro piegato all'ingiù mi stanno uccidendo dentro.

"Brutta giornata?"

"Qualcosa del genere," replica con un sospiro. Solleva cautamente lo sguardo su di me e, per alcuni attimi, rimane a fissarmi come se qualcosa fosse sul punto di uscire dalle sue labbra, ma poi rimanesse soltanto lì, nei suoi occhi dalle ciglia troppo scure e dai pensieri troppo contraddittori. Infine, chiede soltanto, "E la tua com'è?"

"Intendi a parte la bionda che stamattina mi ha minacciato di denutrizione?" Elena solleva un sopracciglio in un'espressione a metà tra il confuso e il divertito. "Lascia perdere," le dico poi scuotendo la testa.

Lei ride, intuendo che non potrei parlare di altri se non di Caroline, quindi sceglie una delle chiavi e mi fa un cenno con la testa mentre si appresta ad aprire la porta del Grill.

"Allora fammi rimediare, vieni dentro per un caffè. Offre la casa."

Sta già per aprire, ed io sto già per seguirla. E' quindi forse solo un barlume di istinto di auto-conservazione, quello che mi spinge all'ultimo secondo ad appoggiarmi con la spalla contro lo stipite prima che lei possa davvero aprire quella porta e che io non sia più in grado di dire di no a quell'offerta che è tanto innocente e innocua in apparenza, almeno quanto non lo sono gli scenari che fa scattare dentro la mia testa. Ben poco innocente quello a cui penso quando sono intorno a lei, ben poco innocuo il male che fa ricordarmi che non la posso avere.

Lei mi guarda confusa.

"Dovrei evitarti di più, Elena," dico a bassa voce. "Lasciarti alla tua vita e al tuo fidanzato … Ho promesso. Ricordi?"

"Ricordo," annuisce. Quasi impercettibilmente. "E' solo che … io non voglio evitarti. Non davvero. Tu sì?"

Sì.

No.

Diavolo, non lo so.

So solo che non può, cazzo se non può, farmi questa domanda mentre mi guarda così, con le labbra quasi socchiuse e gli occhi quasi in attesa, che non si sa di quale mia risposta - se di un sì, o di un no - sono più timorosi. Perché se continua a guardarmi così per un solo fottuto secondo di più, potrei dirle che quello che voglio - quello che davvero voglio - è afferrarla proprio lì dove finisce l'orlo dei suoi cortissimi shorts, trascinarla dentro lontano da occhi indiscreti e lasciare libero corso a tutti i miei pensieri indecenti su di lei sopra ad ogni superficie disponibile, orizzontale o verticale che sia.

Avanzo di un passo verso di lei, nell'angolo riparato che racchiude l'ingresso del locale, e poso istintivamente una mano sulla parete alle sue spalle, come se quel gesto potesse davvero isolarci dal mondo esterno che passa per la strada a solo un soffio di distanza da lì.

Lei sussulta appena, ma non distoglie lo sguardo. Sempre più scuro, sempre più grande e sempre più in grado di farmi bruciare il sangue nelle vene.

"Vuoi davvero saperlo? Che ti dica … cosa voglio?" le chiedo infine, in un tono che viene fuori ancora più roco e ispessito di quanto ogni mia buona intenzione intendesse.

Elena inala un respiro così improvviso da farle tremare la labbra, ed io impiego tutta la mia già debole forza di volontà per non piegare la testa verso di lei, prendere quel labbro tremante nella mia bocca e assaporarne fino in fondo tutto il gusto dolce-amaro che avrebbe.

Invece, rimango semplicemente lì, mentre i secondi passano, le sue labbra si aprono appena un po' di più ed il suo respiro accelera, ma una risposta non arriva. Ed io non ho intenzione di ripetere l'intera scena sul portico di casa sua, essere mandato fuori di testa dal suo corpo premuto contro il mio solo per poi vederla allontanarsi di nuovo.

"Quello che pensavo," finisco quindi al posto suo. Abbasso il mio braccio, la lascio libera. "Ci vediamo, Elena."


***


Una volta, Elena mi aveva chiesto se fossi mai stato innamorato.

Ero passato di sera da casa sua solo per dare a Jeremy un nuovo videogioco piratato che ero da poco riuscito a rimediare, ed Elena mi aveva chiesto se volevo rimanere per cena - con suo padre al bar, erano come sempre soltanto lei e suo fratello -, invito che avevo accettato soltanto dopo essermi assicurato che il cibo provenisse dal Grill e non dalle sue mani (dubbio legittimo ma per il quale mi ero lo stesso beccato da parte sua uno scappellotto sulla spalla).

Era stato piacevole. Avevamo mangiato insalata di pollo e poi parlato del suo compleanno che sarebbe stato di lì a poco, mentre la aiutavo a scendere dalla sedia sulla quale era salita per prendere un nuova bottiglia di ketchup dallo scaffale in alto, forse accarezzandole i fianchi con le dita un po' più a lungo del necessario. Non lo aveva notato. Era preoccupata che la sua amica Caroline stesse tramando qualcosa alle sue spalle per l'occasione, ed aveva cercato di capire se io ne sapessi qualcosa. Le avevo detto che non ne sapevo niente, ma che adesso capivo perché l'altro giorno l'avevo per puro caso sentita parlare con qualcuno sul fatto di voler ingaggiare circhi itineranti e andare a cavalcare elefanti. Lei aveva riso e mi aveva dato dell'idiota.

Era stato in un successivo momento di confortevole silenzio che mi aveva inaspettatamente buttato addosso quella domanda, gli occhi incollati al piatto che avevo appena finito di asciugare e che le stavo passando per rimetterlo al suo posto, prendendomi del tutto alla sprovvista e lasciandomi per un momento completamente immobile ed ammutolito.

"Una volta …" risposi infine, mentre dalla sala un paio di metri più in là continuava a provenire il rumore concitato di spari, mitragliatori e punti segnati da Jeremy. "Patty Nall, seconda elementare. Mi aveva promesso i suoi biscotti e poi è andata a dividerli con Tom del primo banco. Mi ha spezzato il cuore."

Ma Elena non sorrise alla mia battuta. Scosse appena la testa e serrò le labbra in quello che sembrava quasi disappunto, prima di proseguire ancora senza guardarmi.

"C'era questa ragazza stamattina nei bagni. Stava piangendo. Per colpa tua. Non volevo, ma l'ho sentita parlare con le sue amiche, tutta la storia di come si è innamorata di te, di come tu l'hai ugualmente scaricata quando ti sei stancato e trattata come spazzatura," disse, giocherellando con l'altro strofinaccio a righe gialle e verdi e che pendeva dalla maniglia del bancone sotto al lavello. "Ha detto che ti augura di innamorarti anche tu e patire l'inferno."

"Mi sembra piuttosto esagerata come cosa." Un altro piatto da asciugare, un altro piatto da passarle. "Chi era, in ogni caso?"

Elena lo prese e lo posò sul ripiano facendolo tintinnare con un impeto eccessivo. Un vago sbuffo contrariato accompagnò un'altra sua sottile smorfia di disapprovazione.

"Non lo sai neanche. Una ragazza ti ama e piange per questo, e tu non sai neanche chi sia."

"Ehi," ribattei, questa volta con più forza, gettando via lo straccio. "Non faccio mai promesse o stronzate del genere. Sono sempre molto chiaro su quello che sto cercando. Se qualcuna capisce a modo suo, è un problema loro, non mio."

"Oh mio dio, fai sul serio?" replicò sollevando finalmente lo sguardo su di me. Era infuriato e sbalordito. "Non puoi comportarti così! Questo è il classico ragionamento da stronzi!"

Riuscì quasi nell'intento di farmi sentire uno schifo e non mi piaceva, non mi piaceva affatto, sentirmi uno schifo. Probabilmente fu quello, più che le sue accuse, a farmi incazzare e a farmi alzare la voce.

"Cosa te ne frega improvvisamente di come tratto altre persone?"

"Perché non voglio che tu sia ciò che pensano tutti gli altri!"

"Ah sì? E cosa sarebbe, Elena?" le domandai aspramente.

Lei colmò in un fiato i due passi di distanza che ci separavano e posò una mano sul mio petto. Vi allargò le dita sopra, come sottili stecche di ventaglio proprio all'altezza del mio cuore, che per colpa della discussione adesso stava pulsando più velocemente del normale. I suoi occhi scuri guardarono intensamente su verso i miei. Le mie pulsazioni infuriarono ancora di più.

"Sei migliore di così," disse in un sussurro a bassa voce. Fece un altro passo in avanti, dal quale non la dissuase neanche lo sguardo ostile che continuavo a tenere su di lei e che era tutto che ciò che mi salvava dal non pensare al mio stomaco stretto e a quel maledetto ventaglio di dita ancora aperto sopra il mio petto. "Perché non lasci che le persone lo vedano?"

Avrei voluto ribattere che si sbagliava. Non ero migliore di così.

Certo non lo ero in quel momento, non quando me la ritrovavo così vicina - con quella bocca appena socchiusa, quei suoi occhi pieni di belle speranze che non sapevo mai come dovessero farmi sentire, e quel profumo un po' speziato un po' fiorito che poi mi tormentava di notte ben più di quanto avrei voluto - e, invece di ragionare su come elevare il mio discutibile livello morale, ero molto più propenso a pensare a tutti i modi in cui avrei preferito far scoprire anche a lei quanto non fossi migliore. Solo che poi … cosa ne sarebbe stato poi?

"Non sono come il tuo ragazzo," le dissi, sbattendole in faccia una verità che era meglio che anche lei si mettesse bene in testa. "Uno che porta la ragazza al cinema, gira mano nella mano nel cortile, aggiunge un po' di coccole e chiede se tutto va bene dopo una buona scopata. Quindi puoi anche smetterla qui di provare a farmici diventare."

Elena indietreggiò di un passo con un moto ferito negli occhi, riprendendosi anche il tiepido calore delle sue dita attraverso la mia maglietta. Mi fece sentire arido, in gola e nel petto.

"Non lo farò," replicò stringendosi le braccia al petto e voltando il viso dall'altra parte.

"Bene."

Le augurai un secco buonanotte e mi diressi verso la porta senza aggiungere altro.


"Migliore. E cosa cazzo vuol dire poi, migliore di così?"

Aspirai con un impeto quasi rabbioso l'ultimo tiro della sigaretta che avevo rubato ad Enzo, io che le sigarette neanche le fumavo, e con un impeto altrettanto rabbioso schioccai le dita per far volare via il mozzicone, che fece un impressionante salto di almeno tre metri fino al limitare del vialetto, luccicando un'ultima volta prima di spegnersi nella penombra del crepuscolo.

Enzo si distese all'indietro, con i gomiti sul cofano Camaro e un piede appuntato nel parafango anteriore, la sua sigaretta a penzolare con noncuranza tra le labbra. Socchiuse appena gli occhi nel prenderla tra due dita e dare un altro tiro.

"Vuol dire che quella ragazza ti sta fottendo il cervello, mate."

"Ma sta' zitto."

"Tre giorni e ancora ci stai pensando. Sei incazzato con lei, eppure hai un cazzo di sweet sixteen a casa tua in questo stesso momento," proseguì indicando con la punta rossa della sigaretta verso la massa di liceali che stava effettivamente ingombrando il prezioso prato all'inglese di Giuseppe. "Sai cosa dice questo?"

Enzo sibilò tra le labbra un basso "swisch" a cui, per buona misura, aggiunse anche il gesto di mimare lo schiocco di una frusta nella mia direzione. Ma prima ancora che avessi il tempo di dirgli quanto fosse coglione, il suo sogghigno sparì nel notare qualcosa in lontananza. Nel giro di pochi secondi, aveva già buttato la sigaretta ancora a metà, si era passato una mano tra i folti capelli neri ed era tornato alla sua posa perfezionandola con un pronto sorriso da adescatore.

Roteai gli occhi al cielo, perché quello significava solo una cosa.

Caroline Forbes. La ragazza che mi aveva ammorbato ogni cazzo di giorno nelle ultime tre settimane per mettere su quella dannata festa di compleanno per Elena.

Aveva iniziato tendendomi un agguato dopo la scuola accanto alla Camaro, presentandosi con una voce trillante ed un piglio da presidentessa degli Stati Uniti d'America ed iniziando a blaterare cose a caso ("Il problema è che non posso fare una festa da me, perché dopo l'ultima volta la casa era appena un pochino incasinata e mia mamma si è un tantino incavolata e mi ha messo in punizione per due settimane, e non posso rischiare di finire di nuovo in punizione, perché partecipo a Miss Mystic Falls il mese prossimo e quest'anno bla bla bla …" ) che avevo smesso di ascoltare dopo dieci-punto-sette secondi. Ma anche quei dieci-punto-sette secondi erano stati fatali, soprattutto quando era comparso quell'idiota di mio fratello che, probabilmente preso dalla smania improvvisa di fare la figura dell'eroe davanti alla ragazza, le aveva dato carta bianca sull'uso della villa, "tanto nostro padre sarà in viaggio tutto il fine settimana". Non voglio neanche commentare il misero bacetto sulla guancia che ci aveva guadagnato e che era poi rimasto a sfiorarsi vagamente inebetito.

"Ciao, gorgeous," fece le fusa Enzo calcando di proposito il suo accento inglese non appena la biondina si fu avvicinata, stando bene attenta a non far affondare i tacchi nell'erba.

Con una lunga occhiata, il mio amico dimostrò anche tutto il suo apprezzamento per la corta - molto corta - minigonna nera della bionda, sulla quale io invece mi soffermai parecchio meno di quanto avrei fatto in altre occasioni.

(Questa Barbie a grandezza naturale non era solo una delle persone più assillanti che avessi mai avuto il dispiacere di incontrare: era anche l'amica di Elena, nonché la ragazza su cui avevano messo gli occhi sia mio fratello sia il mio amico qua presente, anche se uno dei due era troppo stupido per fare qualcosa al riguardo e l'altro avrebbe preferito crepare piuttosto che ammettere di volere una che non se l'era mai filato di striscio. Tre cose sufficienti a renderla ai miei occhi la ragazza meno attraente di tutta la Virginia.)

Lei lo ignorò. Un labbro vagamente arricciato in un moto di fastidio fu l'unica cosa con cui registrò la sua presenza.

"Cosa ci fai ancora qui?" mi domandò incrociando le braccia sul petto e guardandomi minacciosa. "Dovresti andare a prendere Elena."

Quella era stata un'altra delle sue idee. Non dire niente della festa ad Elena e farle una sorpresa, saltando tutti fuori dal cilindro non appena anche lei fosse arrivata qui ("Perché non può farlo Donovan che è il suo ragazzo?" avevo protestato solo quindici minuti prima. "Ma sei deficiente? Che scuse avrebbe per portarla a casa tua?! E tu sei suo amico, o no? Inventati qualcosa!").

"Ci vediamo tra mezzora," aggiunse quindi voltando i tacchi.

Enzo prontamente si tirò su in piedi, già pronto a scattare e a correrle dietro.

"Guarda che non ci starà mai," gli dissi staccandomi anche io dal cofano dell'auto su cui ero appoggiato per andare ad aprire lo sportello del guidatore.

Lui si voltò e, continuando a camminare all'indietro per non rischiare di perderla di vista neanche per un secondo, mi rivolse un enorme ghigno da presa per il culo.

"Almeno io non sto a struggermi dietro all'unica che non mi azzardo a toccare solo perché sono troppo smidollato per farlo."

Gli dissi di andare a fanculo, e poi salii per mettere in moto la Camaro.


***


Spingo in avanti la porta di vetro che marca l'ingresso delle Salvatore & Associates, ricambiando il sorriso con cui mi ha appena salutato la nuova receptionist.

Mentre attraverso la lobby piccola ma elegante inondata dalla luce che entra dalle ampie finestre, non posso fare a meno di pensare come, a dispetto degli ammodernamenti e di alcuni nuovi quadri di arte contemporanea alle pareti, quell'atmosfera un po' seriosa, un po' nostalgica e un po' familiare sia per il resto la stessa dei ricordi di tutte le ore che crescendo ho passato qui dentro. A quattro anni, a far rotolare macchinine sul parquet insieme alla segretaria di mio padre, mentre aspettavo Charlotte che di venirmi a prendere se ne dimenticava sempre. A sette, a togliere la colla impiastrata dalle dita di Stefan prima che combinasse qualche danno appiccicandola dappertutto, tanto di aspettare avevo smesso da un pezzo. A dodici, a sbirciare di nascosto nella generosa scollatura di Tricia della contabilità, mentre lei dava di soppiatto a mio fratello i suoi biscotti alla cannella fatti in casa nonostante il divieto di viziarci imposto da mio padre a tutti i suoi dipendenti, a cui tanto nessuno dava retta.

Quando arrivo all'ufficio di Stefan, lo trovo chino sopra la scrivania, una mano a sorreggergli la testa e l'altra impegnata a scribacchiare appunti. Dovrebbe apparire più grande e più maturo, con la camicia azzurra e l'espressione concentrata sui documenti sparsi di fronte a lui, ma a me sembra sempre lo stesso ragazzino che studiava fino a tarda notte pur di riuscire bene anche nelle materie che odiava.

Solleva lo sguardo su me non appena mi appoggio con una spalla contro lo stipite della porta, le braccia incrociate sul petto.

"Cosa ci fai qui?" mi domanda più cauto che sorpreso. "E' una settimana che non metti piede qua dentro."

"Quello è colpa dell'insopportabile spina nel fianco di fratello che mi ritrovo."

Mi avvicino alla scrivania, prendo dal suo supporto in metallo il pallone da football che ci campeggia sopra e lo giro tra le mani fino a trovare l'autografo che lo attraversa. La firma un po' scolorita è datata 1997, anno in cui i Redskins andavano alla grande e nostro padre ci aveva portato fino a Minneapolis per vederli giocare il Superbowl [2]. Ero stato io stesso, fuori dagli spogliatoi, a porgere quella palla al quarterback che era stato la star della partita per fargliela firmare e poi passarla a Stefan, che aspettava accanto a me troppo ammutolito per l'emozione.

"Se ti può consolare, il mio è ancora peggio," ribatte sarcasticamente Stefan alzandosi dalla sedia.

In risposta, gli lancio la palla all'improvviso, ma neanche così riesco a coglierlo impreparato. I suoi istinti sportivi di anni di football scattano subito, e lui la afferra al volo in un'unica mossa fluida. Se la soppesa nervosamente tra le mani, prima di rimetterla a posto e quindi alzare su di me uno dei suoi migliori volti preoccupati.

"Dobbiamo parlare, Damon."

"E' per questo che sono qui," dico mettendomi comodamente seduto sulla poltroncina che fronteggia la scrivania, una gamba sopra l'altra e le mani incrociate in grembo. "Ad aspettare di sentire quanto sei immensamente dispiaciuto per aver messo a repentaglio la mia bellissima faccia con quel patetico pugno che mi hai mollato."

"Te lo puoi scordare. Quello te lo sei meritato," ribatte deciso. "Io sto parlando …" si piega verso la pila di fogli che stanno sulla sua scrivania e con una mano li fa scivolare verso di me, "… di questo."

Alzo infastidito gli occhi al soffitto, ma mi sporgo ugualmente per prendere documenti e appunti ed iniziare a sfogliarli distrattamente.

"Sono le disposizioni statutarie della compagnia," prosegue appoggiandosi contro il bordo davanti a me e passandosi una mano sulla nuca con fare nervoso. "E' una settimana che continuo a ricevere pressioni da parte di tutto il consiglio di amministrazione. Sono incazzati, Damon. Incazzati per il tuo atteggiamento, per i tuoi metodi, per la tua bravata all'ultima riunione … Dinne una. Pensano che la tua presenza stia peggiorando le cose. Vogliono votarti fuori."

Mi sforzo di ignorare il retrogusto amaro che mi si riversa giù per la gola mentre incrocio lo sguardo di mio fratello, perché mi ricorda fin troppo bene quel senso di fallimento e incapacità da cui avevo giurato che non mi sarei più fatto colpire.

Butto di nuovo quell'ammasso di cartaccia sopra il tavolo.

"E tu sei d'accordo con loro?" domando con voce neutra.

Stefan incrocia le braccia sul petto, piega le labbra in una linea sottile.

"Ovvio che sono d'accordo," risponde secco. "Infatti è per questo che nell'ultima settimana non ho fatto altro che cercare una clausola o una scappatoia che lo impedisca. Dannazione, Damon, devi davvero chiederlo?"

Mi stringo nelle spalle, ma non riesco a trattenere l'accenno di sorriso che mi solleva un angolo della bocca, mentre penso che questa è la spina nel fianco di fratello che riconosco. Stefan lo intercetta subito e ricambia allo stesso modo, per il breve momento che basta a rassicurare entrambi che non è ancora arrivato il giorno in cui abbiamo smesso di guardarci le spalle.

Poi torna a corrugare la fronte e alla sua aria tutta affari. "E poi, se ti votano fuori …"

"… allora la proprietà non è più rappresentata adeguatamente all'interno del consiglio," finisco per lui. Con un istinto automatico, la mia mente è già al lavoro prima ancora che io la metta del tutto in moto, ad esplorare e valutare tutta una serie di conseguenze e scenari possibili, nessuno dei quali finisce molto bene. "E se la proprietà non è rappresentata, diventa ancora più alto il rischio che gli investitori perdano fiducia e se ne tirino fuori, noi perdiamo altri soldi e siamo fottuti. Benvenuti compratori esterni. Addio Salvatore."

Stefan annuisce. "Ma riguadagnarti le fiducia del consiglio di amministrazione richiede tempo, e noi di tempo non ne abbiamo. Vogliono chiamare un incontro per il voto non appena Elijah ritorna da Hong Kong. Ciò significa che abbiamo al massimo due settimane. L'ho guardata da tutti i punti di vista, Damon. Non vedo molte soluzioni."

"Ho promesso che ti avrei aiutato a non perdere la compagnia di papà, Stef," gli dico guardandolo dritto negli occhi, che adesso sembrano già molto meno sconfortati. "Perciò … Vediamo di trovarle."


E' già quasi il tramonto, quando con Stefan finiamo di mettere insieme tutte le nostre idee in quella che sembra essere una parvenza di strategia.

Ci siamo spostati già da qualche ora nell'ufficio che era di nostro padre, quello dove c'è più luce ed un grande tavolo circolare adesso illuminato di un caldo arancio dorato, ingombro di documenti, appunti scarabocchiati e cartoni sporchi del take away asiatico che ci siamo fatti consegnare per cena.

"Pensi che funzionerà?" mi domanda Stefan abbandonandosi all'indietro contro lo schienale della sedia e massaggiandosi la radice del naso.

"Vale la pena provare."

"C'è un'altra cosa, però … " sospira lui, squadrandomi al di sotto delle sopracciglia serie. "Cosa hai intenzione di fare con tua … dio, non ci credo che sto davvero per dirlo … moglie? Ha davvero intenzione di starsene qui?"

"Considerala un mio regalo di addio," rispondo con un sorriso beffardo, giocherellando con la penna che tengo tra le dita.

Stranamente, Stefan non sembra molto divertito dalla mia proposta.

"Te ne devi occupare. Anche perché, sono piuttosto sicuro che se lei e Caroline continuano a lungo a vivere sotto lo stesso tetto, uno di questi giorni finiranno per andare dritte alla gola e, per quanto possa apprezzare l'idea di una bella lotta tra donne, non ho alcuna intenzione di vedere Caroline andare in galera per averla uccisa. Perché la mia ragazza vincerebbe, è ovvio."

"Sempre così ottimista, Stef," commento. Di fronte all'occhiata di ammonimento che mi manda, però, lo rassicuro prima che si faccia venire di nuovo il sopracciglio unico. "Non preoccuparti. Ci sto già pensando. Devo solo trovare un avvocato abbastanza bravo da farla a pezzi."

"Allora penso di sapere chi potrebbe fare al caso tuo." Stefan fa per alzarsi, ma poi sembra subito ripensarci e torna vagamente ad accigliarsi. "… Ma non ti piacerà."

"Perché mai non dovrebbe …" inizio a dire, ma Stefan mi fa cenno con le mani di stare fermo dove sono ed aspettare qui, e poi sparisce veloce oltre la porta per andare a prendere qualcosa nel suo ufficio.

Quando ritorna, mi porge un biglietto da visita che accetto con un'occhiata sospettosa. Mi basta vedere il nome che c'è scritto sopra, per capire cosa intendeva dire Stefan.

"Mi stai prendendo per il culo, vero?" gli domando gettando il biglietto sul tavolo, dove atterra in mezzo ad un foglio di appunti accartocciato ed un pezzetto randagio di noodle. "Mikaelson? Vuol dire …"

"E' il fratello di Elijah, sì," mi conferma lui.

"Sto cercando uno squalo in grado di liberarmi della peggiore piaga che l'umanità abbia mai conosciuto e risparmiarmi un cazzo di milione e duecentomila dollari, non qualcuno che al massimo può sfiancarla a colpi di noia."

"Oh, credimi. L'ho incontrato una volta qualche mese fa ad una cena a Washington a cui sono andato con papà. E' molto diverso da suo fratello. Anche se … ti devo avvertire. Ha avuto qualche guaio recentemente."

"Che genere di guaio?"

"E' stato radiato dall'albo. Temporaneamente," si affretta ad aggiungere alzando i palmi nella mia direzione, quando vede dalla mia espressione che mi sto davvero chiedendo se sia impazzito del tutto. "Colpa di alcuni … vizi personali. Ma si è disintossicato ed è tornato a praticare da un po', ed inoltre il suo studio legale ha anche una partnership a Los Angeles perché pare che siano lì i divorzi più redditizi, perciò … Pensaci."

"Va bene." Mi sporgo verso il tavolo per riprendere il cartoncino blu. Se questo tizio può davvero liberarmi di Katherine, per quel che mi riguarda può pure essere il fratello del diavolo in persona. "Vediamo cosa ha da proporre questo … Niklaus Mikaelson."

Mi alzo in piedi per iniziare a sistemare e gettare via i cartoni del take away, mentre Stefan si occupa delle cartacce inutili. Sono già sulla soglia della porta pronto ad andarmene, quando la voce di mio fratello mi richiama e mi fa voltare all'ultimo momento.

"Sai, Damon …" mi dice, con una mano affondata nella tasca e lo sguardo un po' soprappensiero voltato verso la finestra, bloccato nell'attimo di tirare giù le veneziane.

"A volte penso che … certe tue scelte non le capirò mai. Come il fatto di opporti da sempre a prendere parte in tutto questo," si gira ed indica il resto della stanza inondata di luce aranciata con un ampio gesto della mano. Il divano di pelle nera, il tavolo al quale eravamo seduti poco fa, il piccolo tavolino di vetro con tre diversi decanter smerigliati pieni di bourbon. "Quando … andiamo, ammettilo e basta. Ti piace. Ti ho visto oggi, così come ti ho visto tutte le altre volte in cui ti si accende … quell'istinto."

"Adesso non allargarti troppo."

Ma lui si stringe nelle spalle e so già che proseguirà comunque. Deve aver contratto dalla sua fidanzata il virus delle paternali non richieste.

"Sei ancora qui, o no?" insiste infatti. "E non ti sei opposto a papà per tutti questi anni per andartene a diventare, non lo so, uno scrittore, un musicista, un surfista su una spiaggia tropicale. Hai messo su una compagnia tua. E non solo perché non ti piace che siano altri a dirti cosa fare, ma perché ti piace il rischio, ti piace la caccia a qualcosa sempre nuovo, la soddisfazione che ti dà quando finalmente ripaga. Così come avere qualcosa di tuo a cui tenere. Papà lo sapeva. Io lo so. L'unico che non lo sa … sei tu."

Sono ancora fermo con una mano contro lo stipite con gli occhi stupiti allargati su di lui, quando Stefan solleva infine lo sguardo su di me, il volto un po' arrossato per l'intensità con cui ha caricato le parole di tutto questo suo accorato discorso che non ho lo più pallida da dove possa essergli saltato fuori.

"Quello che preferisci pensare, Stef," replico con una scrollata di spalle, forzando nella mia voce una buona dose di noncuranza. Suona lo stesso leggermente incerta, così come è un po' incerta la mia mano quando lascia andare la cornice della porta e finalmente esco da lì.


***


Rimasi ad aspettare Elena fuori dal Grill, appoggiato contro il lato passeggero della Camaro che avevo parcheggiato in un buco libero a poca distanza dall'ingresso, osservando le persone che andavano e venivano. Poche, in realtà. Non c'era molto movimento nel locale, perlomeno non per essere un tiepido venerdì sera di inizio maggio come quello che già lasciava presagire l'arrivo della bella stagione.

La porta si aprì di colpo dopo una quindicina di minuti, lasciando uscire un ragazzino con le gambe secche e un ciuffo scuro sugli occhi che si tirava dietro la sorella trascinandola per un mano.

"Jer, smettila, cosa cavolo ti …"

Elena si bloccò nel mezzo della frase e nel mezzo del marciapiede non appena mi vide, sotto il debole alone di luce del lampione che rischiarava la strada.

Jeremy smise di strattonarle la mano e si voltò per rivolgermi un serio e compunto cenno di assenso con la testa, per avere conferma che avesse svolto il suo compito a dovere. Ricambiai indirizzandogli un veloce saluto militare con la mano al lato della fronte che lo fece sorridere soddisfatto (più videogiochi in arrivo per lui), poi corse via e tornò dentro, lasciando Elena a voltare spaesata la testa tra me e il punto in cui suo fratello era appena sparito.

"Cosa è questa storia, Damon?" domandò.

Lo chiese con una punta di fastidio. Dopotutto, non me ne ero andato esattamente nel migliore dei termini l'ultima volta in cui ci eravamo visti.

Solo che … non ci pensai neanche a risponderle. Anzi, la domanda a malapena la sentii. Perché nell'attimo in cui avevo posato gli occhi su di lei, qualcuno aveva improvvisamente deciso di tagliarmi i rifornimenti ai polmoni.

Avevo sempre saputo che Elena fosse bella, non è che fossi cieco. In quel modo non appariscente che però colpisce sempre nei momenti più inaspettati, quando sei distratto. Come quello.

Ed infatti eccola lì, con i capelli semi-raccolti a scoprirle il volto ed un vestitino color panna tagliato sotto il seno, la gonna morbida e frusciante che arrivava a malapena a metà coscia.

E poi le gambe. Lunghe, slanciate. Un calcio dritto nella gola, di quelli che ti prendono il fiato e lo scambiano con un'insolita adrenalina che ha l'unico scopo di mandarti il petto sottosopra.

Elena si stropicciò il corto orlo della gonna, giocherellandoci nel muoverlo avanti e indietro, e quel gesto unito al lieve accenno di rossore che colorò i suoi zigomi quando notò il mio sguardo fu l'attimo che mi fece mandare al diavolo ogni ostentazione di indifferenza.

Mi avvicinai a lei in un lampo, le posai una mano sulla vita e accostai le labbra alla sua guancia. Lei voltò appena il viso per la sorpresa, facendole inavvertitamente atterrare piuttosto vicine all'angolo della sua bocca. Non ci muovemmo di millimetro, nessuno dei due, finché non strinsi appena la presa delle mie dita sul suo fianco per sentirla ancora più vicino e, a quel gesto, la sentii lasciar andare lo stupefatto irrigidimento iniziale e premere il volto contro il mio, la sua pelle sotto alle mie labbra, respirando a fondo. Respirai a fondo anche io, annegando per un attimo di più nel suo profumo, che poi quella notte mi avrebbe tormentato ancora più del solito.

Quando mi staccai da lei, Elena alzò su di me uno sguardo da cerbiatto smarrito. Io, incerto, non seppi fare meglio che indietreggiare di un paio di passi.

"Buon compleanno," le dissi infine accennando un mezzo sorriso.

Elena ricambiò, con ancora negli occhi quella confusa aria di piacevole sorpresa.

"Qualcuno sa davvero come portare bene il look da festeggiata," dissi guadagnandomi ancora un altro sorriso da parte sua. Più che un complimento, era un eufemismo. "Vai da qualche parte?"

Piegò la testa di lato, squadrandomi vagamente sospettosa.

"Lo so che Caroline mi ha organizzato una festa," rispose. "Si è comportata in modo strano sull'argomento per tutta la settimana, ed oggi era ancora più del solito in modalità "missione misteriosa". Ieri ho sorpreso Bonnie con delle scatole di bicchieri e altre cose simili, e lei ha fatto finta di non vedermi. Ho provato anche a chiedere a Matt e lui ha negato, ma è un pessimo bugiardo. Non saprebbe dire una bugia per salvarsi la vita. Ci sei dentro anche tu?"

"Mettiamola così. Ero già pronto a chiederti se volevi venire a vedere la mia collezione di farfalle, ma dato che sei già al corrente di tutto …" Le porsi un braccio in un teatrale gesto cavalleresco, che mi attirò un'alzata di occhi al cielo ma anche un nuovo veloce sorriso, mentre posava le dita leggere sull'incavo del mio gomito. "… Diciamo che sono qui per essere il tuo autista. Vieni?"


Mi raccontò del resto della sua giornata una volta saliti in macchina. Suo padre che l'aveva tenuta stretta senza riuscire a smettere di dirle quanto le volesse bene, Jeremy meno scontroso del solito che le aveva portato un cupcake al cioccolato con una candelina sopra rubato dalla cucina, Jenna che le aveva sistemato i capelli.

Avevo appena rallentato e scalato la marcia per imboccare la stradina privata che saliva verso la villa, quando Elena d'improvviso arpionò con una mano il mio avambraccio, ancora disteso per tenere la mano sul cambio.

"Aspetta," esclamò.

Scalai un'altra marcia e fermai la macchina, voltandomi a guardarla confuso. Il suo profilo era immerso nel buio che ormai regnava anche fuori, appena rischiarato dal riverbero dei fari dell'auto, ma sarebbe stato lo stesso difficile non vedere lo sbigottimento nei suoi occhi spalancati. Si girò verso di me. "A casa tua? Nel senso della casa grande?"

"E' stato uno shock anche per me, credimi," replicai serio. "Niente circo, però."

Un sorriso, e poi di nuovo lo sbigottimento, mentre tornava a guardare in avanti, verso il viale che si apriva davanti a noi e l'enorme casa parata a festa che aspettava solo lei.

"Quante persone?"

"Ho perso il conto."

"Le conosco?"

"Magari la maggior parte?" tentai.

Si portò una mano sulla bocca, come se avesse bisogno di qualche secondo per processare la cosa. Sembrava davvero incredula e stupefatta. Sembrava fottutamente adorabile.

"Forse non dovrei. Forse dovrei stare con la mia famiglia, e-"

"Elena," la interruppi.

"Cosa?"

"Andiamo a divertirci."

***


Il posto è straripante di gente. Di persone che si riversano all'esterno nell'afosa aria notturna in piccoli gruppetti, e poi sorseggiano i loro drink in piedi intorno ai pochi fortunati che hanno trovato posto ai tavolini di metallo che fronteggiano l'ingresso. Di persone che si riversano all'interno, dove l'aria è calda di respiri e sudore nonostante il soffio dell'aria condizionata, schiacciate contro il bancone in attesa di essere servite in un'unica confusione di risate e chiacchiere a voce alta.

Trovo uno spazio libero ad una delle estremità del bar, quella che dà le spalle alla zona dove un'ulteriore massa di gente è accalcata attorno ai biliardi.

Elena è a quella opposta, a distribuire rapidamente drink e sorrisi, vestita nel prendisole rosso che aveva anche a New Orleans, quello che le incornicia alla perfezione la linea morbida e rotonda del seno, anche se immagino che lei abbia da dissentire perché è una scollatura più ampia di quelle che porta di solito. E non sono neanche l'unico a cui fa un certo effetto, a giudicare dal gruppo di ragazzi che continua a fare a spallate pur di ordinare soltanto da lei.

La cosa mi fa scattare il pericoloso istinto da cavernicolo di andare fin lì, sollevarla e portarla via verso il retro del locale per non dover dividere quella vista con nessuno, anche se qualcosa mi dice che lei non perderebbe tempo per assalirmi con piccoli pugni arrabbiati gridandomi di metterla giù. Scaccio immediatamente via dalla mia testa le immagini che seguirebbero quella scena. Il cavallo dei jeans ha iniziato di colpo a sembrarmi fin troppo più stretto.

Una piccola folla prorompe in un applauso esaltato, quando la barista dai capelli rossi mette su uno spettacolo improvvisato nel preparare alcuni cocktail, attirando l'attenzione su di sé.

E' anche l'attimo in cui incrocio lo sguardo di Elena, che si è appena voltata per servire un'altra birra. Si blocca sorpresa nel vedermi. Le sue labbra disegnano uno di quei vaghi sorrisi che assume sempre quando è piacevolmente stupita di trovarmi dove non si aspetta. Del resto, solo ieri mattina le ho detto che dovrei starle lontano, questa sera sono alla riapertura del suo bar. Cosa che magari non gioca molto a favore della fermezza dei miei propositi, ma in fondo … non è che ci saranno molte altre occasioni.

Elena distoglie lo sguardo quando la ragazza che sta servendo le passa i contanti per pagare, ed io vengo distratto dalla mano che scivola a circondarmi la vita. Mi volto mentre la donna che stavo aspettando si siede sullo sgabello accanto al mio.

"Ciao, straniero," dice Andie.

"Ciao a te," rispondo con un mezzo sorriso.

Andie sfila la borsa dalla sua spalla per posarla ai suoi piedi e fa un segno veloce verso qualcuno al bar per ordinare, bourbon liscio per me e vino bianco per lei.

E' Jenna ad avvicinarsi a noi per prendere le nostre ordinazioni. Non mi guarda in faccia. Dopo due mesi dovrei essermici abituato, ma la sua freddezza nei miei confronti continua a stridere particolarmente nel pensare che Jenna, un tempo, mi adorava. Mi rivolgeva sorrisi enormi ogni volta che mettevo piede dentro al Grill, si assicurava che avessi il miglior taglio di hamburger, e "Sei qui per vedere Elena? Te la chiamo subito". Beh, non ho avuto da lei niente di tutto questo da quando sono tornato. Ho il sospetto che, otto anni o meno, per lei io continui a rimanere il bastardo che ha mandato a puttane una delle cose a cui la sua piccola Elena teneva di più. Non che abbia poi tutti i torti.

"Grazie, Jenna," le dico quando ci fa scivolare davanti i nostri drink, ma ottenendo in risposta solo un veloce cenno della testa.

Nel momento in cui si allontana per andare da altri clienti, è Elena a tornare nella mia visuale.

E' ancora all'estremità opposta del bar, a servire bevute a cui è troppo distratta per prestare grande attenzione. C'è un leggero ma inconfondibile cambiamento nel suo sguardo, nel modo in cui le sue labbra si serrano appena, quando nota che non sono più da solo. Ma faccio finta di non notarlo, perché stare a soffermarmi sulle reazioni di Elena può solo peggiorare la mia situazione.

Afferro il mio bicchiere e mi volto verso Andie.

"Quindi, com'è andata a Washington?" le chiedo.

Domanda stupida, in realtà. Lo so come è andata a Washington.

Anche se non ci siamo più visti da un paio di settimane, ci siamo ugualmente sentiti per parlare quelle due o tre volte sufficienti a far sì che io sappia già tutto delle sue recenti interviste di lavoro e che lei sappia tutto di ciò che è accaduto qua nel frattempo. Beh, quasi tutto. Sa che Katherine è qui ad infastidirmi. Non sa che me la sono scopata. E baciare Elena, e perdere il sonno dietro a lei? Neanche a parlarne. Non penso fosse il caso di sottolineare un'altra volta quanto io sia terribile anche solo in relazioni casuali.

"E' andata bene. Quell'ultima intervista che ho avuto ieri …" Andie fa il girare il vino chiaro dentro al suo bicchiere, che la differenza di temperatura tra la bevanda fresca ed il caldo del locale ha già ricoperto di minuscole goccioline di condensa. "Mi hanno offerto il lavoro. E' un nuovo giornale online, certo non è il Post, ma hanno delle idee originali, e chissà che non possa uscirne fuori qualcosa di interessante."

"Sembra fantastico."

Sollevo lo sguardo dal mio bourbon, quando sopra al vociare confuso vengo raggiunto dalla voce di Elena che sta dicendo qualcosa di irrilevante come "Due tequila ed un gin fizz". Mi bastano tre secondi per trovarla di nuovo, adesso che è più vicina. Questa volta è protesa in avanti con le mani appoggiate contro il bancone, a porgere l'orecchio per sentire l'ordine al di sopra della confusione. Una goccia di sudore le scende a partire dall'attaccatura dei capelli raccolti, scivola lungo la curva del collo fin nella fossetta della sua clavicola. Penso a lingue che accarezzano spalle nude e olivastre, ed i pantaloni mi si stringono di nuovo. Cristo santo, devo smetterla. Adesso.

"Inizio lunedì."

Torno a voltarmi verso Andie, registrando ciò che ha appena detto.

"Questo vuol dire che non ti vedrò più molto in giro?"

Lei mi osserva con un sopracciglio sollevato appena, probabilmente chiedendosi se davvero me ne freghi qualcosa. Ma è Andie, ed Andie tende sempre a dimostrare una certa classe, così invece di lanciarmi accuse, prende un sorso dal suo bicchiere, lo posa, e dice solo,

"Non era destinata a durare fin dall'inizio. Anche se …" prosegue, gettando una veloce occhiata in direzione di Elena, "Quando il tipo con cui vai a letto ti confessa l'esistenza di una moglie passata intenzionata a rovinargli la vita, penseresti che sia quella la ragione per cui è completamente non disponibile. Non un'insolita barista che non è la sua ex e di cui non è più innamorato."

Incurvo appena le labbra quasi come a volerle dire Touché, davanti alla sua accurata rappresentazione di quanto io sia incasinato.

"Sei troppo in gamba per uno come me, Andie."

Lei sospira, raccoglie la sua borsa, si alza per andarsene. "Lo so."

Mi alzo con lei e poso la bocca sulla sua guancia. "Prenditi cura di te."

"Anche tu, Damon."

Andie posa una mano sul mio mento e si gira quel tanto che basta per spostare il bacio sulle labbra, lasciandomi un buon sapore di vino e calore, di cose semplici e facili che forse avrebbero potuto essere o forse no. Poi se ne è andata.

Ma Elena no. Elena è ancora lì, e lo so dal modo in cui mi sta guardando adesso, senza neanche più prestare attenzione alle richieste che le arrivano dall'altro lato del bancone, che ha visto il bacio con Andie e che questo non ha fatto altro che lasciarla più confusa. Sui miei comportamenti, sui suoi, su quando diavolo la smetteremo di gravitarci intorno e per colpa di questo rimanere inevitabilmente bruciati, qualsiasi sia la direzione che scegliamo.

Lei nel suo vestitino rosso che mi ricorda un motel ed un altro attimo anche quello come sempre rubato, non importa a chi. Lei che non è mai stata mia, se non in piccoli momenti che poi hanno sempre avuto l'effetto di ferire ancora di più quando poi sono passati. Lei che devo far uscire dalla mia testa e dal mio sistema. L'ho fatto una volta. Posso farlo di nuovo.

E' nell'istante stesso in cui quel pensiero mi attraversa la mente che, quasi come se lo avesse percepito anche lei, la vedo slacciarsi in fretta il corto grembiule che ha annodato attorno alla vita, allontanarsi dal bancone con uno slancio improvviso, e farsi strada tra la gente per dirigersi verso di me.

Ma sono io ad aver già scelto per lei. Senza lasciarle il tempo di raggiungermi, butto giù l'ultimo sorso del bourbon e sparisco tra la folla.


***

Per davvero molto tempo ho pensato che i discorsi di Elena sulla passione della sua amica Caroline per fare le cose in grande fossero solo un'esagerazione. Dovetti ricredermi.

Non credo che la villa, casa dei Salvatore da ormai quattro generazioni, avesse mai visto niente del genere prima di quella sera. La musica era ovunque, anche all'esterno, grazie agli altoparlanti che avevo preso in prestito da Rose (assicurandomi una taglia sulla mia testa se poi non li avessi restituiti) piazzati in diversi punti strategici e all'assenza di vicini pronti a lamentarsi del volume; così come cimiteri di bicchieri di plastica odoranti di alcol, e coppie intente a slinguazzarsi negli anfratti più improbabili del giardino, e ragazze che avevano calciato via le scarpe ed erano salite a ballare sopra il lungo tavolo di mogano della sala a cui qualche anno prima aveva cenato l'ambasciatore canadese.

"Sarai ricordata come Elena Gilbert, regina delle feste," avevo detto ad Elena passandole un braccio attorno spalle quando era atterrata accanto a me sul divano, di ritorno dopo che Caroline l'aveva trascinata a vorticare su una di quelle stupide canzoncine pop che mai avrei creduto potessero mettere piede dalle mie parti.

Elena aveva riso, con le guance arrossate dal caldo, dal ballo e da quelle due uniche dita di punch che le avevo visto bere poco prima.

"Ma se quasi nessuno sa chi sono! Sai cosa mi ha detto un ragazzo, poco fa? Che è venuto con degli amici dal Whitmore, pensando che fosse una festa universitaria un po' fuori mano! Come diavolo ha fatto Caroline a far spargere la voce fino al Whitmore?" mi aveva raccontato divertita, gli occhi che brillavano più vivi che mai.

(Ed era bellissima. Non avevo idea di come facessero le altre persone nella stanza a non notarlo e passarle davanti come se niente fosse.)

Poi mi aveva posato una mano sul ginocchio e si era alzata di nuovo per andare a cercare Matt, che aveva perso di vista da quando era andata a ballare con le sue amiche.

Ero andato a farmi un giro anche io, attraversando la sala ammassata di gente e cercando di non pensare al casino che sarebbe regnato al mattino dopo.

Nel passare davanti alla cucina, sorpresi perfino due sbarbati del secondo anno che avevano appena trovato il nascondiglio dove io e Stefan avevamo infilato l'alcol buono togliendolo dal mobiletto della sala.

"Ehi," li ripresi avanzando minaccioso verso di loro e riprendendomi dalle loro mani la bottiglia di scotch, che mi restituirono un po' intimoriti. "Questa è un festa porta-l'alcol-da-te. Se avete portato birre scadenti, andate a bervi birre scandenti. Sciò."

Sgattaiolarono via senza fare obiezioni, sotto lo sguardo perplesso di Stefan che era appena comparso sulla soglia.

"Per essere il fratello ribelle," calcò volutamente la parola per imprimergli una chiara connotazione sarcastica, indicando la bottiglia che avevo appena sequestrato, "Sei piuttosto un guastafeste."

"Questa roba sembra buona. Non ho intenzione di sprecarla su quindicenni che saranno in giardino a vomitarla tra meno di un'ora," ribattei, togliendo il tappo per darne una veloce annusata. Le mie narici si riempirono del suo gusto dolce e forte, di cuoio e fumo. "E poi, quando papà verrà a sapere di questa sera e sarà colto da un raptus omicida nei confronti di entrambi, mi ringrazierai per aver salvato il suo alcol ed avere qualcosa con cui calmarlo. Detto questo … Cosa ci fai qui?"

"Che vuoi dire?"

Stefan si appoggiò contro il lavandino. Un gruppetto di gente passò davanti alla soglia, sbirciò dentro, decise che non c'era niente di interessante in questa zona e proseguì oltre verso la veranda sul retro.

"Voglio dire che stai rischiando di essere spedito al Collegio Saint Joseph per Ragazzi Difficili pur di dare questa festa solo per far colpo sulla bionda, perciò … vai a prendertela. Cosa cavolo aspetti?"

Stefan sospirò e si passò una mano tra i capelli, che nonostante quel gesto continuarono a rimanere su e a sfidare le leggi della gravità.

"Mi odia. L'avevo allontanata e ignorata quando stavo ancora con Lexi e adesso … me la sta facendo pagare. Mi considera a malapena. E' una difficile da riconquistare."

"Allora farai meglio a sbrigarti, pare che sia molto richiesta," gli dissi dandogli un paio di colpi sulla spalla che però non sembrarono essergli molto di consolazione.

"Ehi, Damon."

Mi voltai verso la voce di Matt, che era appena apparso dal corridoio, facendo capolino nella stanza. Aveva una faccia un po' stranita.

"Donovan," risposi con un cenno del capo mentre lui e Stefan si scambiavano il loro saluto da compagni della squadra di football. "Cerchi qualcosa?" domandai.

Non é che non mi piacesse Matt. Quel ragazzo era probabilmente la persona più amichevole sulla faccia della terra. Un bravo ragazzo con buone intenzioni, e non c'erano motivi per non trattarlo come tale. Andavamo d'accordo. La maggior parte delle volte. Ammetto con un po' più di colpa da parte mia nelle volte in cui non accadeva.

"Posso chiederti una cosa?" mi domandò quindi infilandosi una mano in tasca e passandosi l'altra sul retro della nuca con fare nervoso. Ebbi la netta sensazione che quella stanza stesse per assomigliare sempre più ad un bagno delle ragazze durante una pausa pipi' collettiva.

"Riguardo Elena," proseguì. "Penso di aver fatto un po' un casino."



Let her go


Non so neanche bene perché lo avevo fatto.

Beh, forse in realtà sì. Un po' perché non ero stupido, potevo vedere il modo in cui Elena lo guardava (quel modo un po' innocente un po' sognante, quello con cui si guardano le cose buone che ti fanno stare bene anche se non lo credevi possibile) e non mi andava di portarglielo via.

O forse, soprattutto, perché Elena era felice quella sera. Contro ogni aspettativa si stava divertendo, e quello era davvero qualcosa che non volevo rovinare. Era stato soltanto una settimana prima che aveva pianto raggomitolata contro la mia spalla - solo un pochino, molto piano, quasi di nascosto - perché sarebbe stato il suo primo compleanno senza la madre e non sapeva se voleva (poteva) festeggiare. Ma poi eccola qui, sorridente e con le guance colorate. Un risultato per cui ero già dovuto intervenire un paio di volte per poter raggiungere, proprio come in macchina prima di arrivare, nei momenti in cui avevo visto che stava per sentirsi in colpa pure per questo.

Così, quando Donovan mi aveva preso in disparte, con la faccia di uno che ha appena messo piede sopra una trappola mortale e sta per farla scattare, per raccontarmi tutta la storia - di come avesse chiesto consiglio a sua sorella per il regalo di Elena prendendole un giacchetto di jeans all'ultima moda; di come poi un'oretta prima avesse sentito Elena e le sue amiche parlare, loro che le chiedevano tutte eccitate cosa le avesse regalato il suo ragazzo; "Spero non vestiti," aveva detto la bionda, "Odio i ragazzi che lo fanno, siamo molto più brave a comprarceli da sole! E tanto non ci azzeccano mai"; di come Elena avesse riso e concordato; e adesso non poteva darle quello, non è vero? -, quando era venuto a chiedermi come avrebbe potuto reagire Elena se non le avesse dato un regalo stasera, avevo davvero pensato che fosse una storia molto stupida e molto da teen drama del cazzo. Ma avevo anche pensato che Elena avrebbe detto che andava bene lo stesso anche se poi non era così, tenendosi dentro la delusione per le aspettative disattese, un po' sue un po' delle sue amiche. Quello sguardo da cose buone che non vuoi perdere si sarebbe un po' scheggiato, ed ecco rovinata la serata perfetta che per una volta si meritava.

Ed era sembrata una buona idea, dare quel ciondolo a Matt. Dopotutto, non è che lo avessi comprato io o altro. Era solo un piccolo pendente in ossidiana che Elena aveva già da un paio di anni: lo aveva acquistato con sua madre ad una bancarella durante la loro ultima vacanza da qualche parte in Sud America (e lei lo aveva scelto perché le avevano detto che serviva a tenere lontani gli influssi negativi, o storie del genere), ma la catenella si era rotta ed Elena aveva smesso di indossarlo. Io avevo solo fatto intrufolare Jeremy nella sua stanza per prenderlo e poi far sostituire la catenina spezzata con un filo in argento. Matt aveva per un po' continuato a dire che non poteva e non voleva prenderlo, così avevo dovuto insistere a lungo ed inserirci nel mezzo qualche minaccia per riuscire a spuntarla. Perché lo era, una buona idea.

E ne ebbi la conferma quando vidi Matt darle il regalo.

Ero appollaiato sopra al parapetto di legno che circondava la veranda separandola dal resto del giardino, la bottiglia di scotch sequestrata poco prima ancora appesa alle mie mani. Lo vidi attraverso la porta finestra che si apriva per sbirciare sulla sala. Vidi Elena illuminarsi nel riceverlo, la vidi scostarsi i capelli così che Matt potesse assicurare la collana intorno al collo, girarsi e baciarlo. Felice.

(Il ragazzo, era venuto fuori, sapeva come mentire.)

Aprii il whisky con un gesto secco e presi un lungo, infuocato, sorso di quella roba che era fatta per essere elegantemente sorseggiata da bicchieri di cristallo, non buttata giù per l'esofago direttamente dal collo della bottiglia. Era forte e dolce e certo diverso da qualsiasi cosa avessi provato fino a quel momento, ma non fece assolutamente niente per calmare l'ustione che mi era appena divampata nel petto e nella gola. Che motivo c'era poi, per sentirsi così? Era solo una stupida collana.

"Ciao," disse una voce di ragazza comparsa accanto a me.

Salutai distrattamente di rimando. Poi un altro sorso ed un altro sguardo al di là delle porte finestre.

Avvertii la mano della ragazza posarsi sul mio braccio e accarezzarlo appena, gesto che per la prima volta mi fece voltare verso di lei e via da quella scena che continuava a darmi l'impressione che milioni di schegge di vetro mi fossero state spinte a forza giù per la gola.

"Ci siamo incontrati un paio di settimane fa alla partita. Michelle. Ricordi?" mi chiese avvicinandosi ancora di un altro passo.

Annuii. Avevamo pomiciato un po' nel parcheggio della scuola mentre nella distanza esplodeva il boato per il touchdown decisivo, niente di più. Aveva occhi nocciola, una morbida onda di capelli color miele che le cadeva di lato sul viso, e la mano ancora sul mio avambraccio. Molto, molto carina e, a giudicare da ciò che diceva il suo sorriso, anche una scopata sicura con il minimo sforzo.

"Vuoi dividere un po' di quello con me?"

"Serviti pure," risposi passandole il whisky.

Saltò anche lei sulla balaustra e lo bevve con un sorso piccolo e tipicamente da ragazza, che a lei fece arricciare il naso e a me fece sorridere.

Poi, neanche ci fosse stato un cavolo di campo magnetico, ritornai inevitabilmente con lo sguardo verso la sala, verso Elena con le braccia attorno al collo di Matt, che la stava baciando così dolcemente. La bruciatura nella mia gola si fece più selvaggia.

Mi ritrovai persino a chiedermi come sarebbe stato. Sentire le sue mani attorno al mio collo, le dita ad accarezzarmi la nuca, vederla guardarmi con quello sguardo felice e innamorato. Dei mille modi diversi in cui Elena mi guardava, compresi quelli sprazzi di attrazione e desiderio che la coglievano di tanto in tanto e dei quali non ero certo ignaro, quello non ne era mai stato parte.

Ed era stato in quel momento che mi aveva colpito. La realizzazione che eccomi qui, a parlare e bere con una bella ragazza chiaramente disponibile a finire la serata sotto le lenzuola, e a desiderare la ragazza di qualcun altro.

Non come amico. Non come qualcuno che vuole farsela perché infastidito dal fatto di non poterla avere. Ma come qualcuno che è innamorato di lei.

E la cosa, maledizione, faceva davvero un male cane.

Sentii il mio petto implodere su stesso di fronte a quella consapevolezza e alla paradossale ironia della cosa. Come diavolo ci ero finito, in quella situazione?

Michelle mi stava ancora parlando, facendosi più vicina ad ogni sorso che condividevamo. Me la ritrovai praticamente appiccicata, braccio contro braccio, gamba contro gamba.

Mi ripresi la bottiglia per darne un altro sorso, ed in quell'attimo incrociai lo sguardo di Elena. Matt si era appena staccato da lei, lasciandole un altro leggero bacio sulle labbra prima di dirle qualcosa come "torno subito" ed allontanarsi verso la saletta adiacente, dove Caroline stava finendo di preparare la torta.

Lei mi guardò e mi sorrise, di quel suo sorriso appena accennato che è più negli occhi che sulle labbra. Inclinando appena la testa da un lato, mi fece segno con una mano di sbrigarmi ad andare dentro e ad unirmi a loro per quel momento. Di andare da lei. Ma qualcosa dentro di me, qualcosa martoriato e consapevole e caldo di whisky, si ribellò al solo pensiero.

Mi girai verso Michelle e le passai un braccio attorno al fianco, attirandola più vicino. Le sfiorai il collo con le labbra, in mezzo a quelle morbide onde biondo scuro, sussurrandole qualcosa di sexy e promettente che la fece sorridere vicino al mio orecchio.

Quando scendemmo dalla ringhiera e adagiai mollemente un braccio attorno alle sue spalle, Elena non aveva ancora smesso di guardarmi. Solo che adesso era uno sguardo completamente diverso. Ci si mischiavano disapprovazione e delusione, perché chiaramente la mia abitudine di essere quello che ero e di usare ragazze quando mi faceva comodo non aveva intenzione di andare da nessuna parte.

Mi fece sentire uno schifo nel passarle davanti e mi fece stringere l'abbraccio attorno alla nuova ragazza ancora di più, mentre sparivo con lei verso il piano di sopra.


***


Quando torno a casa, Ric è seduto al grande tavolo di mogano che occupa adesso il lato sinistro della, il volto illuminato dalla luce al led del suo portatile, a scarabocchiare codici e creare roba. Non alza neanche la testa per salutare.

So perfettamente che è meglio non importunarlo quando ha la testa così infangata dentro alle sue cose, ma stasera sento di averne bisogno. E poi, mi dico che magari non sarà più di tanto arrabbiato quando scoprirà il perché.

Così, mi dirigo al mobile accanto il camino da cui afferro una bottiglia di bourbon invecchiato dieci anni e due bicchieri smerigliati che poso sul tavolo e riempio generosamente. Ne faccio scivolare uno verso di lui.

"Niente studentessa di medicina stanotte?"

Ric fa saettare lo sguardo dai suoi appunti allo schermo e, se non fosse che ad un certo punto si decide a parlare, potrei giurare che non mi abbia neanche visto stare seduto nella sedia di fronte alla sua.

"Né stanotte, né mai più. Te l'ho detto: ha gli occhi da pazza."

"Ma è figa."

"Lo è."

"Come si chiama?"

"Meredith."

"A cosa stai lavorando?" chiedo, sporgendomi in avanti e scompigliando con una mano tutte le sue carte, perché so che è l'unico modo in cui otterrò la sua attenzione, anche se sarà un'attenzione piuttosto incazzata.

Non mi sbaglio. Mi spintona via la mano e mi guarda come se desiderasse fucilarmi seduta stante. Gli rivolgo un ghigno innocente.

"La nuova piattaforma per il trasferimento dei pagamenti della BuyR Services. Nel caso te ne fossi dimenticato, dobbiamo presentare loro il primo prototipo la prossima settimana."

"Non mi sono dimenticato," gli faccio sapere.

Allungo una mano all'indietro per tirare fuori dalla mia tasca posteriore i due fogli che mi porto dietro da ieri e mi sporgo per farglieli cadere sulla sua tastiera.

Ric mi lancia un'occhiata sospettosa mentre apre i due biglietti aerei che gli ho appena passato.

"Business class. Ho pensato che avresti apprezzato," aggiungo buttando poi giù un lungo sorso di bourbon.

"Sono per andare alla presentazione? Quando è il volo di ritorno?" domanda rigirandoli entrambi per guardarli in ogni loro parte, come se il loro retro potesse davvero contenere l'inghippo.

"Non c'è." Alzo il mio bicchiere verso di lui. "Dì i tuoi saluti a questo posto e alla tua studentessa con gli occhi da pazza. Torniamo a casa, buddy."


———————————————————


[1] Scuola di specializzazione "postgraduate" del Dartmouth college

[2] Il Superbowl, ovvero l'evento sportivo americano dell'anno, è una sorta di "finale" del campionato di football americano della NFL (National Football League). I Redskins nominati da Damon sono la squadra di football della Virginia, ma tutti gli altri riferimenti sono inventati. Non lo so chi l'ha giocata nel 1997.


Spazio autrice


Buongiorno, ladies ^^

Ce l'avete fatta ad arrivare in fondo? ... Scusatemi per avervi dato un capitolo così lungo, perché mi rendo conto che rischia davvero di essere pesante, però purtroppo capirete che era davvero impossibile dividerlo in due parti, saltare qualcosa o tagliare i flashback.

Diciamo che è un capitolo game-changer, che cambia un po' le carte in tavola, chiude alcune questioni e ne apre di nuove, sia nel presente che nel passato. Di cose ne succedono molte, ma visto che ho già scritto tanto la smetto di stracciarvi con le note e lascio a voi qualsiasi commento in merito. Per esempio, credete che Damon abbia preso la decisione giusta a lasciare Mystic Falls?

Ah, e la collana che Damon non regala a Elena .... Ve la ricordate? Era già comparsa nella storia, nel presente, precisamente nel Capitolo 6. Di più non dico.

Un grazie dal profondo del cuore per tutte voi fedelissime, che avete la pazienza di seguirmi, che lasciate commenti che mi scaldano il cuore e mi fanno riflettere su questi personaggi così incasinati; ed anche alle lettrici silenziose, che invito a farsi avanti e lasciare due paroline, che non costano niente e sono sempre apprezzate :)

Se volete spoiler, pezzi in anteprima e piccoli extra con cui ingannare le attese, vi ricordo che siete tutte le benvenute al gruppo su Facebook qui, e/o chiedermi l'amicizia qui.

Un bacio e alla prossima,

ever

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Capitolo 17
*** A lover of long ago ***


16

16.

A lover of long ago

- I have buried you in every place I’ve been.
You keep ending up in my shaking hands. -

(Bon Iver, Song for a lover of long ago)


Elena


"No, no, no, no! Così è un disastro!"

Sia io che Bonnie solleviamo in contemporanea la testa verso l'esclamazione esasperata di Caroline che ci giunge fin dall'altro lato del prato, là dove la nostra amica sta dettando ogni genere di ordini agli addetti tecnici indaffarati attorno all'attrezzatura elettrica.

Nessun dubbio: è in piena modalità da maniaca del controllo.

"Dobbiamo spostare tutto all'interno, capito? E anche in fretta, a quanto pare! Su, su," batte le mani un paio di volte nella loro direzione, attirandosi prontamente le loro occhiatacce non appena volta loro le spalle. Punta il dito contro un ragazzo che sta trafficando con i cavi delle luci. "Tu, vieni con me. Dobbiamo andare dentro a trovare un'illuminazione alternativa. Ma è possibile che, tra tutti i giorni che ci sono in un anno, proprio oggi doveva esserci un temporale?" la sento bofonchiare mentre, seguita dal ragazzo, marcia a passi decisi lungo il vialetto di pietra grezza, diretta verso l'interno della residenza d'epoca che questa sera ospiterà la serata in maschera che Caroline sta organizzando da settimane, per conto della Founding Fathers Historical Society.

L'enorme striscione dallo sfondo nero con scritte dorate che campeggia sulla facciata della villa, appena sotto alle balconate rette da arcate e colonne intarsiate, annuncia che la causa ufficiale è raccogliere fondi per la conservazione degli archivi. La verità è che Caroline ha sfruttato a dovere l'occasione, facendo capitolare il consiglio della Fondazione e piegandolo al suo volere di trasformare la serata in un Masquerade Ball in piena regola.

Alzo il volto verso il cielo, che si è da poco chiuso completamente su se stesso in un fitto ammasso di grigie nuvole gonfie che gettano su tutto una soffusa luce plumbea. Non sta ancora piovendo ma, a giudicare dai rantoli minacciosi che già si iniziano a sentire in lontananza, la festa a cielo aperto che Caroline aveva inizialmente programmato dovrà trovare davvero un'altra collocazione.

"Un giorno probabilmente riuscirà a controllare anche il meteo," commenta Bonnie tornando ad esaminare le maschere che ha portato qua dal suo negozio di antiquariato, tutte disposte sopra un tavolino in ferro battuto vicino all'entrata. Me ne passa una argentata con una cascata di strass ai lati degli occhi. "Questa?"

Me la rigiro tra le mani e gliela passo di nuovo. "Credo che starebbe meglio a te."

Bonnie scuote la testa ed abbassa lo sguardo, mentre la rimette accuratamente al suo posto.

"Io non vengo stasera."

La guardo perplessa. Getto un'occhiata attorno, cauta, e mi sporgo verso di lei per sussurrarle a bassa voce, nel caso Caroline fosse magicamente a portata di orecchio, cosa che non mi stupirebbe affatto. "E lei lo sa?"

Bonnie ride del mio atteggiamento cospiratore.

"Mi inventerò una scusa all'ultimo momento, non ti preoccupare. Ho altri … piani."

"Piani …" proseguo per lei, prendendo in mano una maschera lilla con un bouquet di piume su un lato e portandomela davanti alla faccia per mettermi in posa. Bonnie, divertita, mi fa cenno di no con la testa. "… con capelli rossi?"

Prendo per un sì l'abbozzo di sorriso che si lascia sfuggire in risposta.

"Quindi, questo significa che le cose stanno andando bene?"

"Non lo so …" Si mordicchia un labbro nervosamente. Sembra incerta. "Voglio dire, sì, ma … Non so, è che spesso mi sento anche come se non avessi la più pallida idea di cosa sto facendo. O di cosa potrebbe venirne fuori, o di dove mai potrebbe andare … Non so pensare a distanza di mesi con lei, è tutto solo nel presente. Ed è elettrizzante, in un certo senso, ma anche destabilizzante. Forse, un po' spaventoso."

Finisce di parlare tutto d'un fiato, con quella scintilla nuova nello sguardo che non viene mascherata neanche dal consueto accenno di timidezza che non la lascia mai. Provo quasi un moto di invidia nei suoi confronti, ma anche di ammirazione. Lei che è sempre stata così riservata e mai impulsiva e che forse si sta mettendo in gioco più di quanto abbia mai fatto io, che il gusto di vivere solo nel presente e non sapere cosa stessi facendo non penso di essermelo mai davvero potuto permettere.

"Magari invece è una cosa buona," le dico, mentre passo le dita su una maschera nera dal disegno intrecciato, con i lati allungati che volano su, verso l'alto. Ha un non so che di civettuolo e malizioso. Forse è per quello che mi piace. "Improvvisare, ogni tanto. Lasciarsi andare."

Bonnie non risponde, ma piega la testa di lato come per osservarmi meglio. Mi fa sentire improvvisamente esposta, come se i miei pensieri non fossero più solo dentro la mia testa ma lì all'aperto, distesi sul prato in bella vista affinché tutti possano leggervi dentro. E' Bonnie che tende spesso a fare questo effetto, anche quando non dice niente. Ma proprio quando penso che sia sul punto di dire qualcosa, sentiamo Caroline risbucare alle nostre spalle, annunciata da un picchiettio di tacchi sui gradini di pietra e dallo squillo della sua voce decisa.

" … No, Jennifer, c'è stato un cambiamento di piani. Dobbiamo pensare a come riorganizzare le decorazioni all'interno, qua tra poco sarà un disastro se non ci sbrighiamo. Certo che sono qui, dove pensi che vada?" Caroline si avvicina a noi ed indica il proprio telefono con l'altra mano, domandandoci retoricamente, con un silenzioso movimento di labbra, Ma è stupida?. "Sì, ok. Ti aspetto qui."

Riattacca, emette un lungo sospiro, appoggia un attimo il telefono sul tavolo.

"Uh, mi piace questa!" esclama poi tornando subito ad illuminarsi come una bambina, nello scegliere una maschera di satin rosso acceso con bordi e decorazioni dorate su un lato. "Si abbina al mio vestito. Adesso devo solo trovare quelle per Stefan e Damon."

"Ci sarà anche lui?" domando voltando la testa verso di lei, un battito di troppo a farmi sobbalzare il petto. "Cioè, loro …" mi correggo subito. "Ci saranno anche loro? …"

Cerco di dirlo nel tono più naturale e noncurante possibile, ma non sono sicura di esserci riuscita.

Sono alcuni giorni che non vedo Damon. Non veramente, almeno. A volte, dal Grill, noto la sua Camaro parcheggiata dall'altro lato della strada; altre, quando sono al telefono con Caroline, ne sento la voce in sottofondo, mentre risponde a tono a suo fratello con una qualche battuta, prima che Caroline li riprenda entrambi. Niente di più.

E lo so che non dovrei darci tanto peso, che ci sono altre questioni - altre persone - a cui dovrei dedicare la totalità dei miei pensieri. Ma mentirei se dicessi di essere stata così ligia a questo dovere.

"Certo," mi risponde distrattamente Caroline, digitando qualcosa sul suo telefono. "Devono. Sono stata molto chiara su questo. Soprattutto considerando che Damon domani …" La mia amica solleva gli occhi dal suo cellulare, la sua frase cade nel vuoto. "Seriamente? Ho detto all'interno! Quale parte non riuscite a capire?"

Seguo il suo sguardo verso alcuni tecnici che stanno montando una fila di lucine lungo il muro esterno di recinzione, appena prima che, con uno sbuffo, Caroline si diriga spedita in quella direzione, lasciandomi con una strana sensazione di qualcosa detto a metà. La scaccio via scuotendo la testa, prendo la maschera nera che ho scelto, saluto Bonnie e torno verso il Grill prima che inizi a piovere.


***

Arrivo al locale in tempo per il vociare tranquillo che caratterizza l'ora di pranzo. Mi dirigo verso il retro, dove appendo il mio abito sulla porta e poso la borsa sulla piccola scrivania perennemente ingombra di qualsiasi cosa.

"Ehi!"

Mi volto verso Jenna, che è appena comparsa di ritorno dalla dispensa. La vedo soffermarsi sull'involucro di plastica trasparente che ho da poco ritirato dalla lavanderia.

"E' il tuo vestito per stasera? E' bellissimo."

"Già," le sorrido velocemente, mentre faccio scorrere tra le dita la posta del giorno per vedere se c'è qualcosa di importante. "E' uno dei tre che Caroline mi ha convinto a comprare come scelta per la cena prenuziale [1], quando siamo andate ad Atlanta per il weekend il mese scorso. Immagino sia un bene che ne abbia ancora altri due tra cui scegliere."

"Parlando di nozze," prosegue lei, andando a prendere qualcosa da sopra l'armadietto rintanato nell'angolo destro, "E' arrivato questo, stamattina. E' la stampa finale degli inviti, vogliono la conferma entro stasera che sia quella giusta, insieme alla lista di persone a cui mandarla."

Mi porge la busta, da cui estraggo un cartoncino di una delicata tonalità grigio pallido, con bordi argentati e scritte in bianco. Il mio nome, quello di Elijah, tutti i dettagli della cerimonia. Un'improvvisa, nervosa insicurezza mi invade lo stomaco. La mano mi trema.

"Va tutto bene?"

La voce di Jenna mi riscuote e mi porta a sollevare lo sguardo su di lei. I suoi occhi verdi sono pieni di affettuosa premura. Per un momento, la solita automatica risposta positiva sembra già pronta ad uscire dalla mia bocca, sospinta dalla forza di un'abitudine costruita negli anni. Forse come mezzo per non far pesare i miei problemi sugli altri, forse come modo per convincersene davvero.

Questa volta, tuttavia, mi ritrovo a scuotere piano la testa. Forse, sono davvero arrivata al punto in cui neanche questo automatismo basta più a farmi ingannare me stessa.

"Non proprio. Non lo so," ammetto, sedendomi contro il bordo della scrivania mentre mi rigiro nervosamente il biglietto tra le mani. "Ho un matrimonio programmato tra circa un mese e mezzo, inviti da confermare, una prova vestito tra due settimane, e sono giorni che uso la scusa del fuso orario per evitare le chiamate del mio fidanzato."

Jenna si appoggia contro il bordo accanto a me.

"Come mai?" chiede con delicatezza.

Vorrei sputare fuori tutto. L'indefinita irrequietezza che mi mangia dentro. Tutte le scelte e le decisioni che forse non sono pronta, forse non ho voglia di prendere. Dubbi che non avevo mai pensato di poter avere, e la paura che se apro loro la porta - anche solo una volta, anche solo per un momento - poi non se ne vadano più. Una relazione che credevo perfetta e che invece è adesso in una crisi che non so più come gestire. Un altro uomo che sta mandando all'aria ogni fragile certezza che ero sicura di essere riuscita a conquistare. Come riesci a dar voce a tutto questo?

"Come lo sai, se qualcuno è … sì, insomma. Quello giusto," le domando, voltando il viso verso di lei, in cerca della rassicurazione di cui ho così disperatamente bisogno. "E non dirmi, lo sai e basta."

"Quello non è stato esattamente un buon consiglio l'ultima volta, non è vero? Visto come è andata a finire …" Allunga una mano per scostarmi una ciocca di capelli dal viso, mi suscita un piccolo sorriso. "E lo sai che io sono terribile con le relazioni, guarda il disastro che è la mia vita sentimentale. Ma, Elena … Magari non esiste niente del genere. Nessun quello giusto, con cui non puoi mai sbagliare. Magari esiste solo chi vuoi avere accanto quando conta davvero."

Sospiro e poso la testa sulla sua spalla, lasciandomi per un attimo avvolgere e cullare dalla confortevole vicinanza di chi, solo perché è più adulto, riesce a darti l'illusione di saperne un po' di più sulla vita e tutte le sue scelte.

"E' normale avere qualche dubbio, Elena," mi dice stringendomi la mano, mentre io mi sciolgo piano da quel contatto. "Non significa che non siano solo insignificanti insicurezze passeggere."

"Lo so," rispondo, riprendendomi e rivolgendole un altro veloce sorriso.

Peccato che, il fatto che sia normale, non mi aiuti affatto a dare loro un senso.

Jenna ricambia il mio sorriso, prima di tornare di là nel locale.

Io riprendo in mano la busta con gli inviti, dispiego la lista di nomi che li accompagna. Li passo in rassegna uno ad uno, del resto i miei invitati non sono che un paio di decine. L'ho compilata pensando alle persone che per me contano davvero, alcune di loro così importanti che non potrei mai fare un passo importante, qualsiasi esso sia, senza sapere di averle al mio fianco. Mio padre, Jeremy, Jenna, le mie amiche.

Mi fermo, sopra un dettaglio futile che non so perché mi sembra adesso di vitale definizione.

Damon non è tra loro. Ovviamente non lo è: non inviti qualcuno che non vedi da anni al tuo matrimonio; e a maggior ragione non lo inviti quando lo hai baciato alle spalle del tuo fidanzato. Ma la sua mancanza su quel foglio é un buco che sembra ancora più una voragine da quando è ricomparso nella mia vita. Perché è scomparso da quella lista tanto tempo fa, il giorno che ha deciso di andare avanti e non guardarsi indietro, e adesso non so nemmeno più quale posto dovrebbe avere in essa. Ed io non so fare altro che continuare come ho sempre fatto e spingerlo via, in quella piccola parte di me che è soltanto sua, ma che preferisco non andare a visitare.

Eppure è lì. E lo so che prima o poi dovrò fare i conti anche con lei.


"Elena."

Voltai la testa verso il richiamo di Jenna, che mi aveva appena messo davanti sul bancone i due the freddi e l'acqua minerale per il tavolo cinque, costringendomi così a distogliere lo sguardo da mio padre e dell'uomo in giacca e cravatta con cui stava parlando a qualche metro di distanza.

"Chi è quello?" le domandai mentre prendevo il vassoio, indicando l'uomo che non conoscevo con un cenno della testa. "Papà sembra nervoso."

Tornai a sbirciare verso mio padre, preoccupata per i suoi capelli scuri in disordine, per le occhiaie stanche e per il turbamento che traspariva dai suoi gesti. Le linee serie e poco simpatetiche sul volto dell'altro non mi fecero sentire meglio.

"Sono sicura che non è niente di grave," rispose lei agitando una mano nell'aria come per scacciare quel pensiero. Il sorriso che mi rivolse voleva essere rassicurante, ma non riuscì ad ottenere l'effetto. "Non è Damon quello?"

Mi girai verso la direzione che mi stava accennando, in tempo per vedere Damon andare a sedersi sulla panca di uno dei tavolini attaccati alle pareti.

La mia prima reazione fu un contraddittorio tuffo al cuore a metà tra la contentezza che fosse venuto per vedermi ed una vaga irritazione nei suoi confronti per il modo in cui si era comportato nelle ultime settimane. Spesso non aveva risposto alle mie chiamate. Altre volte era stato particolarmente scostante ed evasivo. Quando una volta avevo provato a chiedergli spiegazioni, pensando forse di essere io ad aver fatto qualcosa per provocare quel suo atteggiamento, Damon le aveva liquidate con una scrollata di spalle, un sorriso ed uno stupido buffetto sulla guancia che mi avevano lasciata ancora più confusa di prima.

Così feci finta di non vederlo, afferrai il vassoio e portai l'ordine al tavolo cinque, dove tre signore sulla sessantina, clienti abituali del Grill da anni, mi trattennero per una buona decina di minuti tempestandomi di sorrisi, domande su come stessero andando le cose per la nostra famiglia e sguardi di compassione ad occhieggiarmi al di là degli occhiali spessi. Sopportai tutto educatamente. Ormai era un po' che mi ero abituata a farlo.

Quando riuscii ad allontanarmi e mi voltai, ciò che vidi fu come ricevere un inaspettato, brusco pugno dritto nello stomaco.

Damon non era da solo, a quel tavolino. C'era una ragazza con lui. Anzi, sopra di lui. Braccia intorno al suo collo e sorriso negli occhi. La mano di Damon ad accarezzarle lentamente la schiena. Piccoli baci scherzosi sulle labbra, risatine divertite.

Sul momento, rimasi talmente disorientata da quella scena che perfino il sapore amaro che mi riempì immediatamente la bocca passò subito in secondo piano.

Perché quello non era Damon. Damon non portava ragazze al Grill, né tantomeno in qualsiasi posto abbastanza pubblico da non poter infilare loro le mani almeno sotto la maglietta. Manteneva le sue storielle discrete e anonime. E certo non si metteva a distribuire stupidi bacini zuccherosi che avrebbero potuto campeggiare tranquillamente in una pubblicità contro il diabete.

La ragazza si scostò da lui per dirgli qualcosa. Lui annuì mentre lei si alzava, prima di riattirarla rapidamente a sé per darle un altro piccolo bacio sul naso. Sul naso. Le aveva davvero appena dato un bacino sul naso.

Seguii allibita con lo sguardo la ragazza che si allontanava verso la toilette, e poi lo posai di nuovo su Damon, che stava giocherellando in modo distratto con la cannuccia dentro al suo bicchiere di coca cola.

Misi giù sul suo tavolo il vassoio vuoto che avevo in mano, forse con un po' troppa forza. Tintinnò violentemente contro la superficie.

"Cos'era quello?" domandai asciutta, non appena Damon sollevò lo sguardo su di me.

Mi osservò corrugando la fronte, come se davvero non capisse di cosa stessi parlando. Sbuffai.

"Hai battuto la testa, o forse ti hanno somministrato qualche intruglio strano? La ragazza."

"Oh, quello," esclamò. Fin troppo teatralmente, con fin troppo candore. Le sue labbra si piegarono verso l'alto. "Quella è Michelle. La mia ragazza."

"Tu non hai una ragazza," dissi con una smorfia intesa ad intimargli di smetterla di raccontarmi cavolate.

"E chi lo dice?"

"Tu lo dici!"

"Beh, magari avevi ragione tu," proseguì sporgendosi verso di me, scivolando in avanti con i gomiti sul tavolino. "I miei trascorsi non sono stati dei più onorevoli. Ma adesso sono un bravo fidanzato in una sana, stabile, monogama relazione."

Rimasi a fissarlo sconcertata, lui e quel leggero sorriso ancora sulle sue labbra, annaspando per cercare qualcosa da contro-ribattere, ma riuscendo solo a restare lì come un pesce incapace di spiccicare parola.

"Ciao," sentii dire alle mie spalle da una voce allegra e leggera.

La ragazza che era con lui andò tranquilla a riprendersi al suo posto vicino a Damon, che con naturalezza le circondò le spalle con un braccio.

"Michelle, questa è Elena. Elena, Michelle," disse lui indicandomi con la mano libera.

Michelle mi sorrise e si sporse per tendermi la mano, che strinsi senza troppo entusiasmo. Potevo notare adesso che era maledettamente carina. Un viso ovale e regolare, dolci occhi nocciola ed un cerchietto rosso tra i capelli a fermare le morbide onde biondo scuro che le arrivavano fino alle spalle. L'ordinato maglioncino rosso corallo e la linda gonna bianca fino al ginocchio che indossava mi fecero subito sentire inadatta e trasandata, al confronto con la mia disordinata coda alta, le converse consumate e il grembiule verde che come minimo aveva anche un paio di macchie.

"Oh, tu sei la ragazza di Matt," mi disse. Ma la smetteva mai di sorridere? "Sono amica di sua sorella da quando eravamo all'asilo, ho giocato per anni nel loro cortile. Matty è davvero un ragazzo molto dolce."

Sorrisi, ma sentii gli angoli della bocca tirarmi per lo sforzo.

"Allora magari dovremmo uscire tutti insieme," mi sentii dire, non senza una punta di sarcasmo, più per un'irrazionale spirito di rivincita che per voglia di farlo davvero. Fu l'espressione sgomenta che passò sul volto di Damon, rompendo per un attimo quella patina di zuccherosa tranquillità che si ostinava a voler mostrare, ciò che veramente mi spronò ad insistere.

"Voi due, io e Matt. Cinema e frullato dopo?" proposi con un altro sorriso, sapendo bene quanto Damon detestasse con tutto se stesso quella accoppiata di banalità da adolescente medio. Sperai ardentemente che ci fosse addirittura una nuova insulsa commedia romantica in uscita da qualche parte, perché improvvisamente morivo dalla voglia di vederla.

"Perché no? Sembra divertente. Che ne dici, Dam?" gli chiese lei, dandogli un colpetto con la mano sul ginocchio.

E da quando in qua, si faceva chiamare Dam?…

Damon sollevò un sopracciglio e restò in silenzio per alcuni istanti, ma tornando presto a sfoderare di nuovo il solito sorrisetto di prima.

"Certo. Sembra davvero divertente."

Incontrò il mio sguardo. Io lo sostenni ricambiando la sua stessa espressione di sfida.


***


Inizia a piovere soltanto verso sera. A dispetto dei ripetuti brontolii di sottofondo, sembra che il cielo ancora non si voglia decidere ad esplodere nel temporale che continua a preannunciare, ed è soltanto una pioggia evanescente e leggera, fine e umida, quella sotto cui cammino a passo veloce lungo il vialetto che porta verso la villa, con la giacca tesa sopra la testa per ripararmi come meglio posso.

Alzo lo sguardo verso la facciata. Il caldo color ocra in cui è illuminata stacca contro il buio nuvoloso in sottofondo, e le colonne disegnano strani giochi di luci e ombre nelle balconate che circondano il piano superiore. L'ingresso è affollato di persone in abiti eleganti e maschere scintillanti che cercano riparano sotto le arcate del porticato, tra fumo di sigarette, chiacchiere e scalpiccii di tacchi.

Lascio il mio soprabito leggero nella stanza adibita a guardaroba e, non appena metto piede nella sala principale, non posso che lasciarmi sfuggire un sorriso ammirato di fronte al modo in cui i piani originali sono stati trasportati per adattarsi all'interno della villa.

Le luci sono basse ma di atmosfera, piazzate strategicamente in modo da far risaltare le pareti ad incasso della sala e la balconata che corre tutto attorno al piano superiore. Dei bar per i drinks sono stati improvvisati ai due estremi della sala, mentre divanetti circolari e alti tavolini neri sono sparsi qua e là senza togliere spazio a chi, senza perdere tempo, si è già buttato a ballare nel mezzo del salone.

Inizio ad inoltrarmi tra la folla, ma mi fermo sui miei passi quando noto Stefan in piedi accanto ad un tavolino, intento a parlare con una ragazza in un corto tubino nero che, complice la maschera che indossa, sul momento non riconosco. L'espressione di Stefan è in parte coperta dal suo travestimento - per metà rosso, per metà dorato - ma dalla linea sottile in cui si serrano le sue labbra, e che rende il suo profilo ancora più affilato, non sembra molto entusiasta della sua interlocutrice.

"… quindi, avanti. Lui dov'è?"

Se non l'avevo riconosciuta immediatamente, adesso non ho più dubbi dopo aver sentito la sua voce.

"Non so di cosa stai parlando, Katherine."

"Va bene," sospira lei, con una leggera smorfia. "Allora, per favore, assicurati di riferire a tuo fratello che lo so che ha qualcosa in mente. E che si sbaglia se pensa di liberarsi di me così facilmente. Buon divertimento."

Katherine si volta per andarsene, incrocia il mio sguardo. Lo sostiene per un lungo secondo, prima di accennarmi un sorriso ambiguo e sparire oltre verso il resto della festa.

Mi avvicino a Stefan, perplessa.

"Di che si tratta?" gli domando indicando il punto in cui Katherine è appena scomparsa.

"Solo …" Stefan scuote la testa e prende un lungo sorso di whisky dal suo bicchiere. E' vuoto quando lo posa di nuovo sul tavolino. "… Katherine. Ovvero gestire gli effetti collaterali delle splendide idee che a volte vengono a Damon."

"Come sta? …" proseguo, incerta. "Damon, intendo. E' solo che non lo vedo da qualche giorno."

Mi pento di averglielo chiesto non appena incontro il suo sguardo e vedo la sua espressione irrigidirsi appena. In fondo, avrei dovuto immaginarlo. Anche se io e Stefan siamo inevitabilmente buoni amici da anni ormai, considerato che è il ragazzo della mia migliore amica, Damon è un argomento che tra noi non tocchiamo mai. E' vero, Stefan è sempre stato gentile con me. Ma non nego di aver sempre avuto la sottile sensazione che sotto sotto, per qualche motivo, mi abbia sempre ritenuto responsabile per l'allontanamento del fratello.

"Impegnato," risponde semplicemente. "Lo siamo stati tutti," taglia corto. Si apre poi in un sorriso quando Caroline emerge da un capannello di persone, diretta verso di noi. "Ed eccola qui, l'ideatrice di tutto ciò."

La mia amica indossa un corto e drappeggiato vestito rosso monospalla, con i nastri della maschera che ha scelto questa mattina intrecciati sul retro della nuca nella sua pettinatura raccolta. In rosso e oro, brilla come una stella. Mi saluta posandomi le mani sui fianchi e squittendomi nell'orecchio, "Lo sapevo che avresti scelto questo vestito!"

Mi fa ridere come una ragazzina, quando mi costringe a girarmi su me stessa per farle vedere l'interezza dell'abito ricoperto di pizzo traforato nero, stretto in vita e poi allargato in una morbida gonna a palloncino.

"E anche lui, non è bellissimo?" commenta poi, in direzione di Stefan, lisciando con le dita la sottile cravatta scura che spicca tra il bianco della camicia e il nero della giacca. "Abbiamo le maschere abbinate, vedi?" sorride, indicando prima se stessa e poi il suo ragazzo.

"Come se avessi davvero avuto scelta …" la prende in giro lui.

"Lo sai quanto sforzo mi è costato, riuscire a farlo venire?" mi domanda Caroline, tornando a rivolgersi verso di me. "Appena sente la parola ballo, scappa a gambe levate!"

"Perché odio ballare," le ricorda Stefan circondandole il fianco con una mano. "Ma amo te, e stasera sono sull'orlo di iniziare a divertirmi, perciò …." con l'altra mano le prende le dita tra le sue, le solleva verso alto e la invita a seguirlo, " … Balla con me."

Caroline si volta per sorridermi un'ultima volta, appena prima di essere trascinata via.

Li guardo allontanarsi. Il sorriso sulle mie labbra però finisce per tremare appena, quando a sostituire l'immagine dei miei due amici, felici anche per queste piccole cose, è la pungente consapevolezza della distanza che - non so né quando, né come - si è invece insinuata tra me e l'uomo che sto per sposare. Cerco di scrollarmela di dosso, almeno per stasera, ma è comunque difficile sfuggirle. Vagando per la festa, continuo ad incontrare conoscenze e vecchie compagne di scuola, e nessuna di loro perde tempo per complimentarsi eccitata per il mio fidanzamento, facendomi sentire ancora più falsa mentre distribuisco sorrisi e mostro un anello che non sento neanche di meritare.

Nel frattempo, fuori, il tempo si è fatto violento. La musica e il chiacchiericcio coprono i tuoni, i giochi di luce si confondono con i lampi, ma il battito aggressivo della pioggia spessa e irruente sulle vetrate è lì a ricordare che, nel buio pesto al di là di tutto questo scintillio, c'è una tempesta estiva che non ha nessuna intenzione di placarsi.

La osservo vicino ad una finestra ad arco che guarda sulla notte, rigirandomi in una mano il bicchiere di champagne fruttato che mi sono concessa e stringendo nell'altra la piccola pochette nera, lo sguardo fisso su tutte quelle maschere che si riflettono indistinte sul vetro strinato dalla pioggia, persa in pensieri che continuano a non portarmi da nessuna parte.

Non ho ancora visto Damon. Non so neanche se sia là in mezzo, o se invece abbia cambiato idea e deciso di non venire. Dentro di me, lo so che la sua sfuggevolezza degli ultimi giorni non è altro che il suo modo per rialzare barriere di cui forse in questo momento abbiamo bisogno entrambi, cosa per cui gli sono grata e lo detesto al tempo stesso. Perché per ogni volta in cui mi ripeto che sarebbe davvero meglio così - smettere di cercarsi, far finta di esser niente - ce ne è subito un'altra in cui la voglia di vederlo è così prepotente da soffocare qualsiasi altro pensiero più razionale.

So che deve esserci, da qualche parte, un confine invalicabile che sarebbe importante tracciare. Ma la verità è che mi sembra più una linea che continua a muoversi, impossibile da afferrare.

Scuoto appena la testa, come se potesse davvero assurdamente aiutarmi a liberarmi di quei pensieri.

Sto per tornare a cercare Caroline, ma sento qualcuno sfiorarmi il braccio ed una voce maschile che ha appena chiamato piano il mio nome. Quando mi volto ed incontro i chiari occhi azzurri al di là della maschera, il mio cuore fa un salto emozionato per la sorpresa.

Gli sorrido, felice di vederlo.

***


Gli appuntamenti a quattro sono l'invenzione più stupida che esista, mi ritrovai a pensare durante l'intera serata che io e Matt passammo insieme a Damon e Michelle.

Insomma, quale dovrebbe essere lo scopo di serate del genere, se poi l'altra coppia passa tutto il secondo tempo del film ad infilarsi la lingua in bocca e probabilmente anche le mani sotto la maglietta? Non dovrebbe essere una cosa vietata da qualche codice non scritto? Non uccidere la conversazione con il resto dei presenti tenendo le bocche impegnate in qualcos'altro. Anche se al cinema non si parla.

Come se ciò non fosse già stato abbastanza, durante l'intervallo al bagno ero anche stata sommersa dai tentativi di Michelle di fare amicizia, che a quanto pare dovevano passare obbligatoriamente attraverso racconti di esperienze "da ragazze" che io avrei di gran lunga preferito non condividere. Certo non con lei.

Avevo così scoperto che Damon era stato davvero dolcissimo con lei, non erano andati a letto la prima sera che avevano passato insieme (quella del mio compleanno, altra cosa che avrei preferito non sapere), ma si erano presi del tempo per conoscersi meglio, e questo doveva per forza essere un chiaro segnale che lei gli piaceva davvero, non era così? Così come avevo scoperto che, secondo diceria generale, c'erano due tipi di ragazzi, quelli bravi con la lingua e quelli bravi con le mani. Damon era bravo con entrambe, forse però con la lingua un pochino di più. E Matt? Perché Matt aveva tutta l'aria di essere uno davvero bravo con le mani.

E mentre Damon e Michelle erano impegnati con gli esercizi ginnici delle loro lingue, io per la prima volta avevo iniziato a trovare poco soddisfacente il semplice caldo abbraccio di Matt attraverso le poltroncine del cinema, e particolarmente frustrante il fatto che, quando eravamo in pubblico, il limite massimo verso cui si spingeva erano vaghe carezze appena sopra al ginocchio. Limite che chiaramente loro non avevano, come mi resi conto quando, gettando un'occhiata nella loro direzione, intravidi nella penombra la mano di Michelle accarezzare Damon di nascosto sopra il suo evidentemente rigonfio cavallo dei jeans. Ero tornata a fissare lo schermo con le guance in fiamme, ormai incapace di continuare a seguire anche la più banale delle vicende, tutto per colpa di quell'immagine stampata in mente, dell'improvviso caldo formicolio tra le gambe, della curiosa voglia di fare lo stesso con Matt e del conseguente imbarazzo al pensiero che io, così tanto sfrontata, non lo sarei mai stata.

Solo quando io e Matt eravamo rimasti da soli a fine serata, nascosti nel buio e nell'intimità dei sedili del suo pick-up a baciarci e far saltare i rispettivi bottoni dei jeans per infilare le dita ovunque potessero arrivare, ero riuscita a dare sfogo a tutta quella indefinibile frustrazione. Dovevo ammetterlo: era vero che era bravo con le mani.

Matt rimase ancora un po' a regalarmi carezze dolci e pigre lungo il mio fianco, sotto la maglietta. Quando si sollevò e mi scostò una ciocca di capelli dalla guancia, guardandomi negli occhi e sorridendo quel tanto che bastava per far comparire le piccole fossette ai lati della bocca che tanto adoravo di lui, dimenticai perfino il disastro che era stato il resto della serata. Per più di un anno, avevo guardato Matt da lontano, alimentando la mia cotta con sguardi di nascosto e sciocche conversazioni immaginarie dentro la mia testa. Matt era bello e popolare. E adesso era mio, pensai andando istintivamente a sfiorare con le dita il piccolo ciondolo al mio collo.

Gli sorrisi di rimando e mi tirai su, finendo di rimettere i vestiti al loro posto, perché era davvero tardi ed io dovevo davvero tornare al più presto a casa. Allungai le mani verso il cruscotto per prendere i fazzoletti che teneva sempre lì pronti all'uso, ma ciò che mi balzò in grembo quando lo aprii mi lasciò confusa e a corto di parole. Forse più per la sorpresa che per l'imbarazzo.

Mi voltai verso Matt, tenendo tra le dita il quadratino di plastica colorato di uno dei vari preservativi che avevo appena trovato.

"Oh," mormorò lui, passandosi una mano sul retro della nuca. "Quello. E' mia madre, insiste a farmeli portare dietro ovunque, sai, per il fatto di essere sicuri, e … e … lo sai," finì, inciampando sulle parole e guardandomi quasi timoroso di come avrei reagito.

"Tu … tu vuoi …" iniziai a domandargli, corrugando le sopracciglia. "… fare sesso con me?"

Suonò stupido alle mie stesse orecchie. Ma avevo sempre pensato che i baci e le carezze spinte che ci scambiavamo fossero abbastanza per lui almeno quanto lo erano per me, che il momento in cui saremmo andati fino in fondo continuavo a considerarlo ancora qualcosa di piuttosto lontano.

"Beh, sì, naturalmente, voglio dire …" Si interruppe quando vide la mia espressione. " … Ma solo se lo vuoi anche tu."

Mi rigirai il preservativo tra le mani, mordicchiandomi le labbra, il battito del cuore accelerato per l'agitazione. La ciocca ribelle di capelli mi cascò di nuovo sul volto.

"Io … non l'ho mai fatto," confessai. Tornai ad alzare lo sguardo su di lui per sbirciare la sua reazione. "Possiamo … aspettare? Ancora un po'?"

Matt si sporse dal sedile del guidatore, scostò di nuovo i capelli dal mio volto, rimase con la mano ad accarezzarmi la guancia.

"Tutto il tempo che vuoi," disse un soffio. Cercò il mio sguardo, e nel suo vi lessi particolare trepidazione. "Ti amo, Elena."

Era la prima volta che me lo diceva. Era la prima volta che me lo sentivo dire da un ragazzo.

Non so cosa mi aspettassi, in realtà. Nei libri e nei film sembrava sempre qualche circostanza epica, indimenticabile, magica. Invece, era venuto fuori così, in un momento semplice e qualunque come una serata nel suo pick-up. Ma, guardandolo negli occhi in quell'azzurro limpido, lo seppi che era vero, e quello mi bastava.

Lo baciai. "Ti amo anch'io."


***


Ci spostiamo in un angolo più tranquillo della sala, dove è più facile parlare e recuperare velocemente anche gli ultimi anni che ci siamo persi. E' sempre semplice farlo, con Matt.

Ci è voluto un po', dopo esserci lasciati, ma siamo lo stesso rimasti buoni amici fino alla fine del liceo. Ed anche dopo che il college e la sua carriera ci hanno allontanati, portandolo lontano da Mystic Falls, è bello poterlo rincontrare di tanto in tanto, non appena ha l'occasione di tornare. Gioca per i Seattle Seahawks adesso.

"Quindi …" mi dice, posando il suo bicchiere sul tavolino ed indicando la mia mano con un cenno della testa. "… Fidanzata, uh?"

Muovo la mano nell'aria, come per congedare scherzosamente quel pensiero, accompagnando il mio gesto con un sorriso. "A quanto pare …"

"Chi è il fortunato?"

"Non è qui stasera. Un viaggio di lavoro."

"Peccato," commenta Matt. "Mi sarebbe piaciuto incontrare colui che è riuscito ad acchiappare l'inafferrabile Elena Gilbert."

"Oh, andiamo!" lo ammonisco con un leggero colpetto sulla spalla. Ridiamo entrambi. "Così è ingiusto."

Matt prende il bicchiere ormai vuoto dalla mie dita per posarlo sopra il tavolo. "Pensi che se la prenderebbe se ti chiedessi di ballare?"

"No," gli sorrido, prendendo la mano che mi sta tendendo. "Andiamo."

Ci mischiamo al resto della folla, tra i corpi che si muovono al ritmo cadenzato e soffuso della musica e le luci scintillanti che rimbalzano sulle pareti spezzando la penombra.

"E che mi dici di te?" gli domando, mentre Matt solleva il mio braccio in alto per farmi fare una giravolta. "Nessuna ragazza speciale in vista?"

"Un sacco di ragazze speciali," scherza, ma il fatto che lo dica con lo stesso sorriso dolce e un po' impacciato di sempre, come se neanche lui sapesse ben capacitarsene, è la conferma che potrà anche essere diventato un famoso e ben pagato giocatore professionista, ma in fondo è ancora lo stesso bravo ragazzo che conoscevo. "Penso faccia parte dell'essere un giocatore di football, il fatto di essere molto richiesto. Solo che non sai mai se piaci per quello che sei o soltanto per ciò che fai."

"Tu mi sei sempre piaciuto per quello che sei."

"Lo so," mi fa sapere piano, attirandomi più vicino a sé, il mio braccio che si drappeggia attorno alle sue spalle ampie.

E' in quel momento che il mio sguardo cade al di là di esse ed il mio corpo sussulta appena, quasi iniziasse a palpitare in reazione.

Damon. Lo vedo camminare attraverso la sala, a qualche decina di metri da noi, confuso tra le altre figure indistinte e la penombra della stanza. Il battito nel mio petto affonda e risale su in un solo secondo, quando si volta nella mia direzione ed io incrocio il suo sguardo al di sopra della spalla di Matt. Libero da qualsiasi maschera, che indossa sollevata sopra la fronte tra lo scompiglio scuro dei suoi capelli - sembra più per gioco che per spirito della serata -, nessuna barriera tra me e quell'azzurro profondo e pieno.

Matt si scosta leggermente da me, si gira anche lui.

"E' … Damon?" domanda aggrottando la fronte.

Annuisco mentre riporto gli occhi su di lui e riprendiamo senza fretta a muoverci a ritmo di musica.

"Pensavo che non mettesse piede da queste parti da anni ormai. Credo di non averlo più visto da …"

"E' così," gli confermo. "E' tornato solo un paio di mesi fa."

Dò un'altra veloce occhiata di sfuggita al di là delle sue spalle, vedo Damon voltarsi e riprendere a camminare tra la folla. Una morsa sottile mi stringe il petto, nel vederlo scomparire.

Matt avvicina il viso al mio, per poter proseguire più a bassa voce.

"Siete di nuovo amici?"

Scuoto appena la testa, e le mie labbra d'istinto si piegano per l'amara ironia. Ciò che siamo io e Damon, forse, non lo capirò mai.

"Non proprio … Voglio dire," mi lascio sfuggire un piccolo sospiro che suona quasi rassegnato. "… E' complicato."

"Giusto …" sorride appena lui, alzando lo sguardo al soffitto. Mi stringe un po' di più, rallenta i suoi movimenti. "Lo sai … Tu sei stata la prima ragazza di cui mi sia davvero innamorato. Ero così preso dall'idea di rendere tutto perfetto."

"Lo è stato," gli sorrido, alzando il viso verso di lui. "Eri il fidanzato perfetto."

"Già … Ma non ho mai davvero avuto una possibilità, non contro di lui, non è vero?"

Lo dice senza amarezza. Forse più con nostalgia, che altro.

Ci siamo fermati entrambi adesso, la mia mano mollemente posata sulla sua spalla destra.

"Ero davvero innamorata di te, Matt."

"Non come lo eri di lui," risponde, mentre la canzone finisce e ci sciogliamo del tutto dall'abbraccio del ballo. "E' passato un sacco di tempo, Elena. Va bene. Puoi anche ammetterlo."

Posso davvero? mi viene da pensare con uno strano nodo attorcigliato attorno alla gola.

Gli accenno un sorriso che forse vuole essere di scuse e che forse non è abbastanza, ma che è tutto quello che gli posso offrire.

"E' stato bello rivederti, Matt."

"Anche per me, Elena."

Mi lascia un leggero bacio sulla guancia e si allontana, lasciando andare anche la punta delle mie dita che ancora teneva fra le sue, senza guardarsi indietro. Rimango sola in mezzo alla moltitudine di persone che tornano a cercarsi per la nuova canzone.

No, non da sola. Quando rialzo lo sguardo trovo di nuovo Damon, in disparte vicino alla balaustra curva che segna la fine delle scale ad un lato della sala. Giacca scura e capelli disordinati che fanno correre un fremito caldo lungo la mia pelle. Prende un sorso dal bicchiere di whisky che ha tra le mani, lo posa con accortezza sul tavolino accanto a lui, lo lascia a metà, torna a guardarmi. Sembra quasi che mi stesse aspettando.

Inclina appena la testa di lato, in un cenno veloce verso il retro della sala che mette in allerta tutti i miei sensi, in un misto di anticipazione e consapevolezza del fatto che questo è proprio ciò che dovrei evitare, ritrovarmi con lui in situazioni ambigue che poi finiscono sempre per lasciarmi più frastornata e traballante di prima.

So che non dovrei seguirlo.

Solo che lo faccio lo stesso.

***


"Oh mio dio, ma è stata una cosa così romantica!" commentò Caroline con un sospiro, quando finii di raccontarle la mia conversazione con Matt di qualche sera prima.

"Tu pensi?" domandai accennando un sorriso, mentre tiravo su le gambe per circondare le ginocchia con le braccia.

Avevo continuato a pensarci durante tutto il fine settimana, lo stesso sciocco sorriso pronto a sbucare fuori nei momenti più impensati, morendo dalla voglia di poterne parlare anche con le mie amiche. Bonnie era ancora in Massachusetts a trovare la madre, ma Caroline mi aveva subito trascinato sulle gradinate del campo sportivo nella prima pausa disponibile tra le lezioni per farsi riportare ogni dettaglio.

Era una piacevole e rilassata giornata di sole. La fine imminente dell'anno scolastico era palpabile per tutti.

"Ti ha detto che ti ama! Ti ha detto che ti aspetterà quanto vuoi per fare sesso, per la tua prima volta …" ribadì Caroline, posando poi il mento sulla mano e piegando le labbra all'ingiù in un piccolo broncio. "Nessun ragazzo a me lo ha mai detto …"

"Perché non ti stavano raccontando stronzate. Salve, splendore."

Enzo si materializzò dal nulla alle spalle di Caroline, si lasciò andare a sedere sulla gradinata accanto a lei e drappeggiò comodamente un braccio attorno alle spalle della mia amica, che invece arricciò il naso in una smorfia disgustata e tentò, senza successo, di divincolarsi per sottrarsi alla sua stretta.

"Scusami, ti ha per caso interpellato qualcuno?" ribatté stizzita.

"Lo sento come un mio preciso dovere morale, quello di intervenire ogni volta che una gentile donzella pronuncia la parola sesso," replicò lui portandosi solennemente una mano sul cuore. "E lasciami dire una cosa: se un ragazzo ti dice che può aspettare, quello che intende veramente è «mi taglierei la mano destra se servisse ad infilarmi nelle tue mutande»."

"Tu non entreresti nelle mie mutande neanche se ti tagliassi tutti gli arti e li vendessi in beneficenza."

"Stai suggerendo che ce l'ho grosso?" le chiese lui strizzandole l'occhio.

"Oh mio dio, sei disgustoso!" esclamò Caroline, prontamente assestandogli una gomitata nelle costole.

Enzo si piegò su stesso come conseguenza del colpo, e Caroline ne approfittò per spostarsi di lato allontanandosi di qualche centimetro. Solo qualche. Qualcosa mi diceva che sotto sotto non le dispiacesse del tutto ricevere le sue attenzioni. Pur sempre di attenzioni si trattava.

"Stai davvero molestando le ragazze, Enzo?" domandò Damon, comparso poco dietro di lui.

Salì con un salto sulle gradinate, si sedette appena una sotto di me. Ci scambiammo un lungo sguardo, in silenzio, ma neanche io avrei saputo dire esattamente cosa ci passò nel mezzo. Come la strana sensazione di esserci ritrovati nel mezzo di un conflitto di cui nessuno dei due sapeva il motivo e che nessuno dei due voleva veramente. Come se avessimo molto da dirci, ma nessuno dei due sapesse né come né cosa.

"Solo una," rispose Enzo rivolgendo un sorriso ammiccante verso Caroline che, in risposta, alzò teatralmente gli occhi al cielo infastidita. "E poi, ti saresti infilato nella conversazione anche tu, se avessi sentito le succose notizie che stanno girando. Sembra che qualcuno stia per …" Spostò lo sguardo su di me, fece schioccare la lingua in un sonoro pop, "… far scoppiare la ciliegia [2]."

Mi irrigidii come se mi avessero appena buttato in faccia una secchiata di acqua gelata, facendomi defluire il sangue dal viso eppure mandandolo a fuoco nello stesso momento. Perché aveva dovuto proclamare una cosa del genere di fronte a Damon? Damon che non avevo il coraggio di voltarmi a guardare. Damon che, lo sentii dalla sua spalla all'altezza della mie ginocchia, si era appena irrigidito almeno quanto me. E perché mi sembrava di colpo così importante, quello che Damon avrebbe potuto pensare?

"Sei uno schifoso!" lo stava sgridando Caroline, mollandogli una serie di schiaffi sul braccio da cui Enzo si stava riparando con il sorriso, come se si stesse godendo ogni secondo di quella schermaglia tra loro.

Avrei voluto ribattere qualcosa di tagliente e noncurante, ma avevo la lingua completamente immobile. Pensavo solo a Damon in quella gradinata sotto alla mia, la sua spalla contro il mio ginocchio, il suo indecifrabile sguardo fisso altrove.

"Perciò, Damon, avanti … Hai qualche consiglio da dare in merito?" proseguì Enzo, parando un altro schiaffo di Caroline e lanciando al suo amico una beffarda espressione di sfida.

Volevo morire. In quel posto, in quel momento. Sperai dentro di me che Damon si decidesse a dire qualcosa e a farlo stare zitto. Ma sperai invano.

Damon si distese con i gomiti all'indietro sulle gradinate, scrollò le spalle con fare indifferente.

"Io non mi faccio le vergini," replicò. "Sono così bisognose di attenzioni e rassicurazioni che finiscono per toglierti tutto il divertimento."

Scattai in piedi e corsi via prima di dar loro tempo di aggiungere altro, lacrime di rabbia e mortificazione a bruciarmi dietro agli occhi almeno quanto lo avevano appena fatto le parole di Damon.


***


Damon mi aspetta appena dietro la scalinata, in una specie di corridoio laterale dove i suoni della musica e della serata iniziano già ad affievolirsi. Ha la mano posata sulla maniglia di un'alta porta-finestra ad arco che guarda sul giardino sul retro, lo riconosco dai contorni del gazebo bianco che si intravedono in lontananza in mezzo al nero grondante della notte. La porta si apre con un leggero tintinnio del vetro, quando Damon la spinge in avanti.

"Sta piovendo fuori," gli ricordo alle sue spalle, non appena lui mette piede all'esterno.

"Non qui."

Mi indica la balconata sopra alle nostre teste, sorretta da una serie di colonne di pietra che creano un ampio riparo al di là del quale il temporale continua ad imperversare violentemente. Spesse gocce di pioggia cadono più lente dai bordi superiori del porticato, schizzando in macchie scure oltre i bordi interni delle mattonelle che lo delimitano.

Socchiudo la finestra alle mie spalle. Il contatto con la notte mi provoca un rapido brivido, più per il contrasto rispetto all'aria calda di fiati e persone che si respirava all'interno che per un freddo effettivo. Al contrario: anche la leggera brezza che soffia è spessa e satura di pioggia afosa.

"Hai freddo?" mi domanda Damon, voltandosi a guardarmi.

Non mi sfugge il modo in cui i suoi occhi non riescono ad evitare di soffermarsi sulle mie curve fasciate dal vestito, o sulle gambe che mi lascia scoperte.

Scuoto la testa, ma mi sento debitrice nei confronti sia della penombra che ci avvolge, rischiarata solo dalle luci provenienti dall'interno della villa, sia del travestimento che indosso. Forse almeno loro riescono a coprire il calore tiepido che il suo sguardo mi ha appena fatto salire alle guance.

"Perché siamo qui?"

Damon si appoggia contro il muro e scrolla le spalle, lascia uscire un vago sospiro infastidito mentre getta un'occhiata verso l'interno. Sembra tutto sfuocato e lontano, al di là di quel vetro.

"Katherine è qua attorno, e sto cercando di evitare … di averla attorno."

"Ti stai nascondendo da tua moglie?"

Damon torna a posare gli occhi su di me, le sue labbra accennano un sorriso divertito di fronte al sarcasmo con cui ho infarcito la mia domanda.

"Non chiamarla in quel modo. In ogni caso, non mi sto nascondendo. Volevo solo cercare di parlarti in tranquillità." Sto per chiedergli di cosa, ma lui mi anticipa corrugando la fronte ed indicandomi la sala con un cenno della testa. "Era Matt Donovan quello?"

"Sì …"

"Sarei potuto andare a salutarlo," prosegue sovrappensiero. "Donovan mi è sempre piaciuto."

Sollevo le sopracciglia, diffidente. "Non lo ha mai potuto soffrire."

"Solo perché stava con te."

Lo dice schiettamente, perché in fondo non è niente che nessuno dei due non sapesse già, ma accompagnando lo stesso la frase con un leggero sorriso obliquo che ha per un attimo il potere di farmi tornare indietro nel tempo, a quando quello stesso sorriso dissimulava e rivelava e mi confondeva come nessun altro. Mi fa desiderare, anche se è solo per quell'istante, che alcune cose fossero potute andare in modo diverso.

"Per un momento," confesso a bassa voce, "Ho pensato che non saresti venuto."

"Credevi davvero che Caroline mi avrebbe permesso di non farlo? Si è presentata ieri sera con tre di questi," si indica il vestito, la camicia bianca che aderisce perfettamente al suo torace, la giacca e la cravatta di seta nere. "E non ci ha dato scampo. Persino Alaric è stato costretto a cedere. Dovevi vedere la sua faccia. Un giorno mi ucciderà per avergli fatto sopportare tutto questo, me lo sento."

Rido piano, divertita dal tono complice nella sua voce. Mi piace quando siamo così. A parlare, sorridere, dimenticare per un attimo quanto siano complicate le cose. E restare solo io e lui.

Mi avvicino di alcuni passi, finché non siamo che a pochi centimetri di distanza.

"Beh, Caroline però non sarebbe d'accordo di vederti andare in giro così," scherzo, indicando la maschera che porta ancora sollevata impertinente sopra la testa.

Allungo le mani verso il suo volto e gentilmente la faccio scivolare giù.

L'azzurro dei suoi occhi risalta ancora più vivo dietro alla cornice offerta da quella copertura nera che ho appena fatto andare al suo posto. Un guizzo li attraversa, nell'attimo in cui si posano sui miei, tra incertezza e tentazione. E' solo un lampo, ma rende l'aria attorno a noi carica ed elettrica.

Esito. Ma c'è qualcosa nella situazione - in questi travestimenti che abbiamo addosso, nella sicurezza di essere lontano da occhi indiscreti - che mi fa sentire audace, che mi fa cedere al bisogno di sentire ancora una volta l'effetto che fa, essere così vicino a lui. Lascio scivolare le mie dita ai lati del suo viso, tra i capelli morbidi che disegnano la linea delle corte basette. Traccio le linee forti del suo profilo, saggiando la pelle sotto ai miei polpastrelli, appena ruvida nei punti dove la barba sta già premendo per uscire.

Damon rimane immobile, ma sento il brusco respiro che inala quando le mie dita arrivano a sfiorarlo lungo la gola ed io realizzo - lo realizziamo entrambi - che i miei occhi sono rimasti a soffermarsi sulla curva delle sue labbra già troppo a lungo.

Non so cosa sto facendo. Nè se davvero mi importi saperlo.

Lo sguardo di Damon è ancora su di me, ancora pieno di quel misto di cautela e puro ardore che dissolve tutto il resto. Mente e sensi.

Prende entrambe le mie mani tra le sue, le porta a circondare la sua nuca, le lascia giacere lì. Scivola con una mano ad accarezzare la pelle scoperta del mio braccio, che brucia e prende vita sotto alla leggerezza del suo tocco. L'altra si posa sul mio fianco.

Non ha bisogno di trascinarmi più vicino. Sono io a colmare le brevi distanze che restano. E basta un niente per cadere in un'intimità che è dolorosamente naturale.

Appoggio il volto contro il suo mentre iniziamo a dondolare piano, a ballare prima ancora di rendersi conto di farlo. Chiudo gli occhi, e mi perdo nella musica distante e confusa, nel rumore compatto e insistente della pioggia attorno, nel buio e nella sua vicinanza. Respirandolo a fondo. Solo per un lungo, colpevole momento. So che sto giocando con il fuoco. Ma voglio concedermi un attimo in cui far finta che non esista nient'altro. Niente distanze lasciate orgogliosamente crescere con gli anni; niente parole ferite che siamo stati capaci di riversarci addosso l'un l'altra; niente matrimoni, niente piani futuri e nessuna sensazione di essere alla deriva a divorarmi dentro.

E non dirmi, lo sai e basta.

La sua mano sul fianco mi stringe appena, e la mia mano destra scivola più in basso per fermarsi sul suo petto, dove trova immediatamente le sue dita. Si intrecciano alle mie, il suo pollice ne carezza il dorso lentamente. Rabbrividisco, dentro e sulla pelle.

Va bene. Puoi anche ammetterlo.

"Ho pensato a te," sussurro così piano che non sono sicura possa sentirmi. Il rumore della pioggia forse è troppo forte. "Mi sei mancato."

Lo dico con il cuore che martella contro le costole, incredula che quelle semplici - difficili, liberatorie - parole siano appena uscite dalle mie labbra.

Damon si ferma. Mi fermo con lui.

"Elena …" mormora.

C'è qualcosa di teso e spigoloso nella sua voce che non riesco bene a definire.

Sollevo lo sguardo su di lui, maledicendo adesso quella stupida maschera che gli ho messo io stessa e che non mi lascia capire cosa stia accadendo dietro i suoi occhi.

"Me ne vado domani. Torno a San Francisco. Volevo parlarti per dirti questo."

Lo guardo confusa, non capisco. Non è la prima volta che torna in California per qualche giorno per poter seguire entrambe le sue attività.

"Ok …" dico, accennando un sorriso. "Ti fermi là per molto?"

"Non torno a Mystic Falls. Non in un futuro immediato almeno," scuote appena la testa. "La mia vita è là, Elena, non qui. Lo è da un bel po'."

Il significato di quello che sta dicendo mi affonda dentro con la brutalità di un taglio secco e inaspettato. Mi allontano da lui con uno scatto, sottraggo la mano dal calore della sua, lo guardo smarrita.

"E non pensi alla compagnia di tuo padre, e a tuo fratello, e …"

… a me. Due parole che mi restano strozzate in gola come due affilate schegge di vetro.

Damon si stringe nelle spalle, io ancora non riesco a vedere la sua espressione, coperta dal nero e dal buio. Solo la linea in cui stringe le sue labbra.

"Quello non è un problema."

"Ma … non puoi!"

Come fa a non vederlo? Come fa a …

"Volevo solo salutarti."

Sono ancora in uno stato confuso di smarrimento e di emozioni che non hanno senso, quando Damon prende il mio volto tra le mani e si avvicina per posare un bacio leggero sulla mia fronte.

Sento le sue labbra indugiare per alcuni, lunghi secondi, ma sempre troppo brevi affinché tutte le parole che mi stanno premendo contro la gola, disperate per uscire, abbiano il tempo di farlo davvero e farmi a pezzi.

Damon si allontana da me, c'è un altro leggero tintinnio della finestra alle mie spalle.

Se ne è andato.


Non riuscii a fermare le lacrime. Ci avevo provato, perché era assurdo ritrovarsi a piangere per una cosa così stupida invece che per tutti gli altri motivi che le mie lacrime se le sarebbero meritate molto di più, ma loro bruciavano semplicemente troppo. L'avevano avuta vinta.

I passi di Caroline mi avevano raggiunto in fretta, sui gradini dell'edificio di Arte dove mi ero accasciata dopo essere corsa via dal campo sportivo.

"Non prenderla troppo sul serio," mi disse la mia amica, accarezzandomi una spalla. "Sono ragazzi. Sono degli idioti per nascita, è colpa del cromosoma Y."

Presi il fazzolettino che mi stava porgendo, piegai le labbra in una smorfia.

"E' vero," proseguì annuendo convinta. "L'ho letto in una rivista medica la settimana scorsa mentre aspettavo dal dottore, va ad intaccare alcune funzioni cerebrali fondamentali come quelle della sensibilità e dei filtri prima di parlare, manda in corto circuito tutte le loro sinapsi e quindi li fa agire come degli stupidi scimpanzé giganti che non sarebbero in grado di-"

"Elena."

Sollevai di scatto la testa, verso la voce di Damon che mi aveva appena chiamato. Era bastato quello a far scomparire anche l'accenno di sorriso che Caroline era appena riuscita a suscitarmi. La mia amica si voltò con la ferocia di una leonessa, guardandolo in cagnesco.

"Cosa vuoi?"

"Solo un minuto. Con Elena."

Distolsi gli occhi dai minuscoli sassolini di cemento che scricchiolavano sotto le mie scarpe per posarli su Caroline, che mi stava chiedendo con lo sguardo cosa volessi fare. Scossi la testa.

"Per favore," insistette lui.

Riportai lo sguardo fisso sulle mie sneakers, ma non mi sfuggì la nota implorante e vagamente persa con cui lo disse. Caroline al mio fiancò si alzò, andò a fronteggiarlo.

"Un minuto solo," gli concesse con fare gelido.

Quando si fu allontanata, Damon si inginocchiò di fronte a me, tenendosi in equilibrio sui talloni. Vedevo solo le sue braccia posate sulle ginocchia, il sole che brillava dietro a lui. L'ultima cosa che volevo era che mi vedesse comportarmi come una ragazzina. Solo che non riuscivo a farne a meno.

"Va' via."

Non lo fece.

"Mi dispiace. Enzo è un cazzone, voleva provocarmi, ed avrei dovuto fargli chiudere la bocca. E' colpa mia, tendo sempre a dire o fare cose stupide quando …" lasciò cadere la frase, rimase alcuni istanti in silenzio. Alzai appena il volto, solo per sbirciare di nascosto la sua espressione. Lo vidi scuotere la testa, serrare le labbra.

"Ascolta," proseguì poi, più deciso. "Sono affari tuoi, con chi vuoi andare a letto, o se non vuoi farlo affatto. Ma fammi chiarire una cosa," lo osservai allungare una mano verso il mio volto, sussultai appena quando passò il pollice sulla mia guancia per asciugarla delicatamente dalle lacrime. Si erano fermate adesso. "Se Donovan ti fa soffrire, o se fa il testa di cazzo in qualunque modo … Gli strappo le palle io stesso."

Tornai a tormentarmi le dita, strappai una pellicina da un'unghia. Sorrisi appena, senza volerlo. Mi era mancato questo Damon. Quello che era mio in uno strano modo contorto che forse nessun altro poteva capire. Anche quando lo detestavo, anche quando era un idiota. L'idea che potesse non essere più così era terrificante.

"Adesso che hai una ragazza, una ragazza vera …" dissi, sollevando per la prima volta lo sguardo in modo da poter incontrare il suo. Aveva la sfumatura semitrasparente che assumeva sempre alla luce del sole, si mischiava a quell'azzurro inquieto familiare e inafferrabile al tempo stesso che avevo imparato a conoscere così bene. A volte mi sembrava lo specchio delle mie stesse paure. "Significa che starai con lei, che non avrai più tempo per me?"

"Non pensarlo neanche."

Respirai a fondo. Non era abbastanza. Volevo di più. Volevo più lui. Egoisticamente. Anche senza dargli lo stesso in cambio.

"Dimmi che non ti perderò."

I suoi occhi erano seri, attraversati dalla fermezza delle risoluzioni definitive.

"Mai."


Attraverso l'intera sala facendomi strada tra la folla di gente - accalcata, ubriaca, divertita - che mi ostruisce il passaggio. Ho gettato alcune occhiate attorno, in mezzo alle maschere che turbinavano e danzavano e ridevano a voce alta, cercandolo con lo sguardo ma sapendo già che sarebbe stato inutile. E' Damon. E quando Damon prende una decisione, non sta a perdere tempo inutile prima di metterla in pratica. Ecco perché l'ho saputo dal momento in cui mi ha lasciato in quel porticato che, se se ne era andato, era stato per dirigersi dritto fuori dalla porta e fuori da questo posto.

Non so neanche quanto tempo sono rimasta lì, ad affogare da sola nel suono della pioggia, incapace di muovermi o pensare lucidamente. In un certo senso, sapevo che sarebbe successo. Cosa mi aspettavo, dopotutto? Damon ha ragione. Se ne è andato da molto tempo. Un paio di mesi non cambiano tutto questo. Non possono. Non lo faranno. Perciò sapevo che questo gioco malato, che ci avvicina almeno quanto ci allontana, avrebbe finito per riportarci allo stesso punto.

Lui che prova ad andare avanti.

Io che resto indietro a sopportare il peso di tutte le cose non dette e delle strade non prese.

Non so che direzione sto prendendo neanche adesso. So solo che non posso permettergli di nuovo di farmi questo. Andare avanti e lasciarmi indietro.

Mi tolgo la maschera quando arrivo sull'ingresso, mediamente affollato da alcuni capannelli di persone che si riparano sotto la balconata. Ma non riesco lo stesso a vedere molto. C'è solo la fitta coltre di pioggia che batte violenta sul prato e sul viale, che avvolge i pochi lampioni che costeggiano la strada di ingresso e li rende nient'altro che una macchia di luce indistinta e sfuocata. Alcune persone camminano a passo veloce sul marciapiede di pietra al riparo di larghi ombrelli, svoltano sulla destra verso il parcheggio, illuminato della stessa fumosa luce arancione.

Corro giù lungo i gradini, e poi dentro a gocce di pioggia così corpose che sembrano aumentare la forza di gravità e schiacciarla contro la terra. Mi appesantiscono il vestito, mi disfano i capelli. Taglio lungo il prato perché è la via più veloce per arrivare, ma i miei tacchi affondano subito nella terra tenera imbevuta d'acqua. Li afferro con la mano libera e mi libero anche di loro, mandandoli a raggiungere la maschera appesa all'altra mia mano, corro più veloce sopra l'erba fresca, una inconsueta adrenalina che cresce ad un ritmo pulsante, nelle mie orecchie nel mio petto.

Diventa ancora più selvaggia, quando finalmente vedo Damon sotto alla debole luce del parcheggio, accento alla sua Camaro di cui ha appena aperto lo sportello, grondante dai vestiti e dai capelli almeno quanto lo sono io.

"Damon!" gli grido.

Si volta, gli occhi spalancati per la sorpresa.

Percorro velocemente gli ultimi metri che ci separano mentre lui richiude con un colpo secco la portiera, mi squadra disorientato in ogni centimetro, come se fossi appena impazzita.

"Che diavolo, Elena?"

"Ho bisogno di sapere," dico non appena mi fermo davanti a lui.

Ho il fiato corto per la corsa. Ho il fiato corto per tutto quello che sta per esplodermi dentro.

"Bisogno di sapere cosa?" mi domanda con una lieve smorfia, il suo smarrimento che viene rapidamente sostituito da una vaga irritazione e dalla leggera tensione nella sua voce e nel suo sguardo. "Diamine, sei fradicia. Torna dentro o almeno sali in macchina."

"Te ne sai andato per allontanarti da me?" continuo, ignorandolo.

Damon continua a tenere lo sguardo fisso su di me, un lampo sofferto nei suoi occhi quando registra la mia domanda, un altro confuso quando ancora non capisce dove sto cercando di andare a parare. "Cristo, Elena, no. Lo sai che-"

Faccio un altro passo verso di lui, il battito insistente del mio cuore che si riversa nel tremore della mia voce. "Saresti rimasto, se ti avessi chiesto di farlo?"

Serra le labbra e deglutisce con forza, riesco a vederlo, anche se la pioggia mi appanna la vista riducendola a nient'altro che il suo sguardo, azzurro e combattuto.

"Torna dentro, Elena," mi invita di nuovo a fare invece di rispondere, ma lo sento che c'è ancora una certa tensione a trasparire dalla sua voce altrimenti fin troppo controllata. "Non c'è motivo di andare a …"

"Non andartene."

Lo butto fuori con tutto quello che ho. Deve capire che non può lui e non posso io. Non può farmi questo di nuovo. Non posso lasciarglielo fare.

Le sue labbra si socchiudono sconcertate, fanno per dire qualcosa, rimangono mute.

Così faccio un altro passo avanti, sul cemento umido e ruvido sotto ai miei piedi nudi. Poso la mano sulla sua guancia, sulla sua pelle bagnata sotto alle mie dita. Gocce fredde vi cadono attraverso dalle punte dei suoi capelli grondanti.

"Non andartene."


——————————————————————

Note:

[1] "Rehearsal Dinner". Non sono sicura che esista lo stesso "concetto" anche in Italia quindi non sapevo come tradurla, in ogni caso è quella famosa e importante cena con la cerchia più intima che nella tradizione Usa precede il matrimonio vero e proprio.

[2] "Pop the cherry". Dallo slang british, modo volgare per dire "perdere la verginità" (vi risparmio cosa simboleggia metaforicamente la ciliegia). Mi scuso per la traduzione poco calzante e incomprensibile senza conoscere l'espressione originale, ma non riuscivo a trovare altre espressioni che potessero rendere bene quanto questa in bocca ad Enzo, soprattutto per l'immagine di lui che schiocca le labbra proprio su quel "pop".


Spazio autrice

Buonasera ... E' sabato sera e diluvia proprio come nel capitolo, ma almeno grazie a questo sono riuscita a pubblicare addirittura in anticipo. Fiera di me stessa per non essere in ritardo come al solito :)

Alcune veloci note sparse sul capitolo:

- Su Michelle, la new entry ragazza di Damon nel passato: è un nuovo personaggio che è nato un po' per caso, si è infilata nella storia in punta di piedi prendendomi la mano, ecco perché per una volta non ho usato personaggi presi dalla serie... In ogni caso, fisicamente me la immagino un po' come Dianna Agron.

- Per le maschere ho trovato ispirazione in questo sito. La residenza invece me la sono immaginata a partire dalla foto di una villa diroccata che poi ho mentalmente restaurato :)

- Per la serie, se SL fosse un telefilm e potesse avere una colonna sonora. Quella del "ballo"/addio Delena sarebbe questa. Quella di Elena che molla tutto per correre sotto la pioggia sarebbe questa. Se volete, qui c'è la playlist su Spotify con le varie canzoni nominate o citate o di "background" che aggiorno ad ogni nuovo capitolo.

Invece, per l'angolo social, questo è il mio fake e questo è il gruppo Facebook dove pubblico roba e anticipazioni tra un capitolo e l'altro. Chiunque è la benvenuta. :)

Oltretutto, mi sono resa conto che è quasi un anno che sto portando avanti questa storia, e volevo farvi sapere quanto conti per me sapere che c'è ancora qualcuno che la legge e la supporta, chi addirittura dall'inizio e chi è arrivato dopo. Vi può sembrare una cosa da poco o che si dice sempre, ma non lo è. Scrivere una storia è, spesso, impegnativo: per colpa della mancanza di tempo, di quelle scene che fanno fatica ad uscire, delle revisioni infinite per rendere al meglio anche solo una frase, delle volte in cui ti viene da dire "ma chi me lo fa fare?". Solo che poi c'è il momento in scrivi qualcosa che ti dà la soddisfazione di aver reso bene quello che avevi in testa, e ci siete voi che mi fate sapere quanto qualcosa vi abbia colpito, o dato un po' di emozioni, e queste piccole cose da sole valgono tutto quello che c'è dietro.

So che può non essere il massimo seguire una storia "a puntate" e aspettare per il seguito, ma ricevere sostegno e consigli lungo la strada è davvero più emozionante e costruttivo che scrivere "in solitaria", quindi senza tutto questo, senza voi che la leggete mano a mano, questa storia forse neanche ci sarebbe, ed io vi ringrazio per questo. It means a lot. *_*

Io quindi vi lascio ad immaginare la reazione/risposta di Damon a ciò che Elena gli ha appena chiesto, nonché con la meravigliosa immagine creata da Bloodstream_ appositamente per il capitolo che trovate alla fine delle note. Lei è un cupcake, e se non conoscete la sua This side of paradise, vi consiglio vivamente di rimediare ;)

Un grazie di cuore a chi vorrà lasciare le sue impressioni!

A presto, un bacio

ever





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Capitolo 18
*** Before I go ***


17

17.

Before I go


- Darling, I'll bathe your skin, I'll even wash your clothes
Just give me some candy before I go
Oh darling, I'll kiss your eyes and lay you down on your rug
Just give me some candy after my hug -

(Candy, Paolo Nutini)


Damon


Chiudo il portone alle mie spalle ed appoggio la schiena contro di esso, riversando la testa all'indietro e lo sguardo verso il soffitto. Cazzo.

Fuori il temporale scroscia ancora con violenza. Ticchetta contro le finestre e percuote la pietra del vialetto di ingresso. Dovrei togliermi di dosso questi vestiti umidi, che mi si sono ormai completamente appiccicati addosso insieme a tutta la pioggia di cui si sono imbevuti. Allungo una mano verso la cravatta per allentarne il nodo, la tolgo e la getto via con un gesto secco, quasi rabbioso, su cui sfogo tutta la frustrazione che mi è di nuovo montata dentro.

Non avrebbe dovuto farlo. Raggiungermi in quel parcheggio, lucida di pioggia e con quella scintilla intensa nello sguardo. Posare la mano ad accarezzarmi un lato del volto. E ancora meno avrebbe dovuto dire quelle due fottute parole.

"Non andartene."

Soprattutto, non avrebbe dovuto dire quelle due fottute parole. Come se potessero bastare a ribaltare decisioni già prese e tutte le buone intenzioni di questo mondo.

Cosa che effettivamente avevano rischiato di fare. Perlomeno in quell'attimo in cui tutta la mia fermezza era stata spazzata via dalla folle idea di aggrapparmi al suo viso, spingerla contro la portiera della Camaro e intrappolarla lì, per baciarla così a fondo e così a lungo da farle dimenticare tutto su chi siamo e dove eravamo.

Dopotutto, Elena ha un modo tutto suo di incasinarmi il cervello.

Peccato che poi, il momento dopo … ho capito. Ho capito cosa c'era dietro le sue parole, dietro la sua mano appena tremante sul mio volto, dietro la sfumatura più scura nel suo sguardo. Un tempo, gliel'ho visto scritto in faccia così tante volte che, persino adesso, sono praticamente in grado di raffigurarmelo anche ad occhi chiusi.

Voleva che le provassi, ancora una volta, di essere suo. Non certo dimostrarmi di essere mia.

Dannazione, Elena.

Mi passo una mano tra i capelli umidi, scrollando alcune gocce fredde che scendono fin dentro il colletto della camicia e mi provocano una breve scarica di pelle d'oca. Sottovoce, impreco di nuovo.

Al piano di sopra, trovo ad aspettarmi ciò che sono venuto a finire.

Una valigia che giace aperta sul pavimento ai piedi del letto, qualche camicia e maglietta da infilarci dentro, un paio di riviste già lette, il portatile la cui lucina verde mi informa essere completamente ricaricato.

Inizio senza fretta a mettere tutto al suo posto, nel silenzio che avvolge la casa deserta se non fosse per il battito costante e ritmico della pioggia, unico dei suoi attuali inquilini ad essere qui invece che, come tutti, alla festa mascherata dall'altra parte della città.

Eccetto Elena. Anche lei dovrebbe essere arrivata a casa ormai, penso tirando fuori il telefono di tasca per gettare un'occhiata veloce all'ora che lampeggia sul suo display.

Qualcosa mi contrae il petto, al pensiero.

Potrei chiamarla. Solo per assicurarmene. Quello che imperversa là fuori è un tempo selvaggio. E' una valida, solida scusa. Non dovrebbe necessariamente avere a che vedere con il bisogno che ho di liberarmi la testa dall'immagine di lei ferma sotto la pioggia, con la sua espressione da cucciolo confuso sul perché non sta ottenendo quello che vuole, nel momento in cui mi sono sottratto dalla carezza della sua mano ed ho scosso la testa in faccia a quelle due fottute parole, che hanno ribaltato tutto senza davvero significare niente.

"Non me ne resto qui a guardarti vivere la tua vita insieme a qualcun altro, se è questo che vuoi."

Io stavo solo facendo del sarcasmo.

Non pretendevo davvero che prendesse l'idea sul serio (solo Elena, del resto, può considerare seriamente una tale affermazione). Eppure in un certo senso l'aveva fatto, pur buttando fuori le parole con un certa difficoltà. Non quelle che avrei voluto sentire. Ma decisamente quelle che mi aspettavo.

"Io non … Non lo so cosa voglio."

Sì, beh. Ho pensato di aver bisogno di un tantino più di questo. E, per la seconda volta questa notte, le avevo detto addio, ignorando lo strappo nel mio petto che ancora protestava un po' - un fottio di un po', in realtà - all'idea di lasciarla andare così. Ma orgoglio da maschietti e ultimo brandello di dignità, e tutte quelle cose lì.

Solo che adesso, nel silenzio di questa casa enorme, di fronte ad una valigia riempita per metà ed Elena che ancora si infiltra in ogni angolo dei miei pensieri, non ne sono più così sicuro. Perché la sveglia programmata per suonare intorno all'alba mi ricorda che tornerò ad una vita libera da Elena tra meno di quattro ore, che chissà quando la rivedrò di nuovo e che, con ogni probabilità, la prossima volta che succederà ci sarà un altro anello al suo dito a fare il paio con quello che ha già, rendendola più irraggiungibile che mai.

E forse, allora, fanculo all'orgoglio da maschietti e all'ultimo brandello di dignità. Mi prenderei anche un "Non lo so", se solo significasse averla qui adesso a calmare questo buco dolorante e inappagato almeno per un altro po', anche se poi dovesse lasciarlo in condizioni peggiori di prima. Dio se sono fottuto. Magistralmente fottuto.

Sento il mio telefono appoggiato sul copriletto vibrare sottilmente, vedo il nome del mio fratellino lampeggiare sul display.

"Te ne sei già andato?" mi domanda, urlando nel microfono per superare la confusione.

La festa a quanto pare non solo è ancora a pieno volume, ma è adesso passata ad una musica molto più da club rispetto a quella che ho lasciato quando me ne sono andato.

"Già. I folletti sono in sciopero, non staranno qui a fare la valigia al posto mio."

Un paio di bassi bip, in sottofondo alla conversazione, annunciano un'altra chiamata in entrata.

"Uno strizzacervelli avrebbe un sacco da dire sul fatto di esserti ridotto all'ultimo secondo," replica Stefan mentre io piego e metto via un'altra maglietta.

"Uno strizzacervelli avrebbe un sacco da dire su un sacco di cose, quando si tratta di me."

"Senti, farò tardi. Care deve restare qui finché non hanno finito, e sembra che andranno avanti ancora per un po'. A che ore dobbiamo partire per l'aeroporto?"

"Intorno alle cinque."

"Perfetto. Ci vediamo dopo."

Come chiudo la telefonata, un'icona è comparsa sull'angolo in alto dello schermo per informarmi di un nuovo messaggio vocale. Ci clicco sopra in automatico, distrattamente, e riprendo ciò che stavo facendo. Ma mi congelo nell'atto di allungarmi per afferrare una camicia, non appena a raggiungermi è la voce esitante, appena roca, che proviene dall'altro lato.

"Ciao. Sono … Sono io."

Impiego qualche secondo per riprendermi da quell'attimo di scompenso. Lentamente mi siedo sul bordo del letto. Non parla, non immediatamente, così ascolto solo il silenzio che riempie il quasi impercettibile ronzio di fondo della registrazione. C'è un leggero intensificarsi del ticchettare della pioggia sui vetri, come se si fosse appena spostata più vicino alla finestra. Poi Elena sospira, "Dio, questo è strano. Sono stata quasi sollevata quando è entrata la segreteria, perché ho pensato che sarebbe stato più facile farlo senza sentire la tua voce e parlarti davvero, che così avrei semplicemente potuto dire quello che …"

Si interrompe di nuovo.

"Non lo so. Sto dicendo cose senza senso, non è vero?"

Mi sembra quasi di sentire l'angolo che le piega appena le labbra in un sorriso un po' triste, nella breve pausa che prende prima di proseguire.

"Ma tu hai avuto la tua possibilità di dirmi addio, ed io non davvero, perciò … beh, ci sono un sacco di cose che non ho mai avuto la possibilità di dire, e forse non ce l'avrò più. E lo so che non cambierà niente, è davvero troppo tardi per quello o per fare le cose in modo diverso, questo lo so, ma … Non credo che tu abbia mai davvero saputo quanto tu significassi per me tutti quegli anni fa, o tutto quello che provavo per te. Era … molto. Troppo, forse. E mi ci è voluto davvero tanto per prenderlo in considerazione, figuriamoci ammetterlo, perché … beh, fa paura. Tu, tu sei una persona che fa paura. Meravigliosamente paura, ma è pur sempre paura. Quindi … Adesso l'ho detto. E lo so che dopo tutto questo tempo per te non significherà niente, ma ho pensato che almeno questo … dovessi fartelo sapere. Voglio che tu sia felice, lo voglio davvero."

C'è un morbido, ultimo "ciao". La registrazione finisce con un click.

Rimango inanimato sul bordo del letto. Allontano il telefono dall'orecchio, abbassandolo lentamente, mentre la voce automatica della segreteria esce un po' metallica dagli altoparlanti annunciando la data e l'ora del messaggio e quel solito buco inappagato di prima si estende e guarisce e fa male tutto nello stesso momento.

Questa è Elena. Che mi incasina il cervello. Che ribalta, in un solo momento, tutto quello che trova da ribaltare. Ancora, e ancora.


"Quindi, cosa farai adesso?"

La domanda del mese da un milione di dollari.

Pressoché impossibile scamparne.

Serpeggiava nell'aria, trepidante e elettrizzata. Tra le discussioni da corridoio accanto agli armadietti, tra gli ultimi allungamenti durante le ore di educazione fisica ai bordi del campo sportivo, perfino tra i complotti su come contrabbandare alcol durante il prom. Maggio ha questo effetto su quelli dell'ultimo anno.

Personalmente, ogni volta che per caso mi imbattevo in quella domanda, me la lasciavo scivolare addosso con semplici scrollate di spalle. Il mio piano era semplice, dopotutto. Avrei semplicemente continuato con il lavoro al negozio di musica di Rose fino a che non me ne fossi venuto fuori con qualcosa di meglio.

Volevo rimanere in questo buco di città? Col cavolo. Volevo lasciarlo? Quella era domanda che si portava dietro tutto un altro genere di implicazioni alle quali ancora preferivo non pensare.

Così, mi riempivo la bocca di parole come gap year e nuove esperienze, indulgendo nei discorsi di Enzo sul mettersi in macchina e basta e andare verso la cazzo di New York, quando in realtà non stavo facendo altro che prendere tempo.

Solo che poi, non è che di tempo ce ne fosse poi molto. L'ultimo mese di liceo, insieme a tutto ciò che lo accompagna, se ne andò via talmente in fretta da avere a malapena modo di rendersene conto.

Michelle era stata irremovibile sul fatto di doverla portare al prom, perlomeno se volevo continuare ad avere accesso a ciò che stava sotto le sue gonne. Con tanto di giacca e camicia bianca, corsage abbinato e presenza alla sua porta. Fortunatamente, sotto a tutto quell'atteggiamento da ragazza della porta accanto e a tutto lo show messo su a beneficio dei suoi genitori, c'era ben altro. Ne ebbi ancora una volta conferma all'after-prom a casa di Georgina Fell - una povera ragazza molto dimenticabile e molto sfortunata, convinta di aver organizzato un pigiama party con le sue amiche più intime, che si era invece ritrovata la casa invasa da tutta la classe del 2005 e ciò che la accompagnava. Lì, entrambi su di giri per troppi rummy bears [1], passammo buona parte della serata in una camera rosa e soffice a mettere su una vivace dimostrazione orale tutta a beneficio della nutrita schiera di animali di peluche che la affollava.

Anche lei, però, aveva presto iniziato a chiedermi cosa avessi intenzione di fare da lì ad un paio di settimane. Aveva accolto le mie chiacchiere corrugando appena la fronte, forse chiedendosi cosa potesse significare nei termini della nostra relazione, o forse internamente mettendo in dubbio le mie ambizioni e i miei talenti, andando così ad aggiungersi alla crescente lista delle persone che si aspettavano qualcosa da me e che, in un modo o nell'altro, qualsiasi cosa facessi, io tanto continuavo a deludere.

Arrivò in fretta anche il giorno del diploma, una giornata luminosa e frizzante di piena primavera con appena un residuo di aria fredda a soffiare dai boschi sotto alle tuniche rosse del Mystic Falls High, mentre ad uno ad uno venivamo chiamati a salire sul palco a ritirare il pezzo di carta. Enzo ed io arrivammo solo all'ultimo secondo, voleva farsi un'ultima canna veloce dietro agli spalti come suo modo per dire addio in bellezza. Salì sul palco dopo che era già stato chiamato per tre volte, un segno di vittoria in direzione della folla ed alcuni baci e ammiccamenti verso un gruppo di brunette che ridacchiavano al di sotto. Una bionda a qualche metro da loro alzò gli occhi al cielo in un teatrale moto di fastidio.

E poi il prato del liceo divenne una roba brulicante di foto, acclamazioni, abbracci, genitori felici, promesse di amore e amicizia verso l'infinito e oltre, la maggior parte delle quali destinate ad infrangersi al massimo nel giro di pochi mesi.

Tirai via il cappello, mollandolo a Stefan, non appena la cerimonia finì ed io misi il piede giù dal palco, preoccupandomi piuttosto di passarmi una mano tra i capelli per rimediare all'appiattimento che aveva provocato.

"Ti dona."

Sollevai lo sguardo verso il commento scherzoso di Elena, appena apparsa davanti a me.

Fece scorrere un dito lungo il bordo della tunica da diploma che avevo lasciata aperta sul davanti, un minuscolo sorriso quando incrociò il mio sguardo.

Curvai anche io un angolo della bocca verso l'alto. In quel periodo dell'anno, era raro ottenere un sorriso da parte di Elena. Più la data si avvicinava, meno lei sorrideva. Così, mi prendevo semplicemente quello che riuscivo ad ottenere. Prima però che avessi il tempo di accompagnarlo con una battuta sarcastica, lei mi aveva già gettato entrambe le braccia al collo, serrandole strette. Aggrappandovisi con forza, neanche potessi scivolarle via tra le dita da un momento all'altro.

Esitai a reciprocare. Negli ultimi tempi, mi sembrava sempre di non sapere mai come avrei agito intorno a lei. Non mi fidavo del mio corpo, dei miei pensieri, delle mie parole. Non c'era modo di prevedere come avrebbero reagito, anche solo di fronte a piccole cose o contatti innocenti come quello. Decisi quindi per una semplice carezza lungo la sua schiena ma, prima che potessi farlo, al di là della sua spalla, venni distratto dallo sguardo di mio padre, adesso di fronte a me.

Mi sciolsi dal suo abbraccio. Anche lei si voltò, mentre lui la osservava con un misto di genuina curiosità e quello strano sguardo pensoso e vagamente critico che generalmente riservava a tutto ciò che considerava … guai. Aveva la capacità di mettere chiunque piuttosto a disagio ed anche Elena non ne uscì del tutto indenne, a giudicare da come spostò nervosamente il peso da una gamba all'altra ed appuntò una ciocca di capelli dietro all'orecchio quando mio padre le porse la mano, per presentarsi con una stretta ferma e decisa.

"Finalmente incontro la ragazza di mio figlio."

Mi strozzai su un grumo di saliva che andò immediatamente di traverso. Elena spalancò gli occhi.

"Non sono la sua ragazza. No, no, no," si affrettò a chiarire con una risatina tesa.

Wow. Quelli erano davvero un sacco di no.

"Noi siamo solo …" Si girò verso di me in cerca di sostegno e si bloccò, come se tutto d'un tratto si fosse scordata la terminologia.

Tornai a voltarmi verso mio padre. "Ti serve qualcosa?"

"Parlarti."

"Io … vado allora," aggiunse Elena. "E' stato un piacere conoscerla, signor Salvatore."

Elena mi gettò un altro sorriso veloce prima di incamminarsi, sempre sotto lo scrutinio attento di Giuseppe.

"Quindi?" lo incalzai. Non avevo voglia di stare a sentire i suoi commenti al riguardo, in caso stesse davvero pensando di farne. "E' questo il momento in cui mi rifili uno dei tuoi inimitabili discorsi sull'essere arrivato il momento di essere responsabile e farmi carico del mio futuro e … Sto dimenticando qualcosa?"

Mi fece cenno con una mano di iniziare a camminare verso uno spazio più tranquillo, un po' distante dal resto della folla. Qualche metro alla nostra sinistra, una famigliola felice era in posa per una foto, così simmetrici e perfetti nel loro modo di ostentare tutta quella felicità che avrebbero potuto essere i prossimi testimonials di una campagna pubblicitaria Repubblicana sul sogno americano.

Mio padre aprì la giacca del completo per prenderne una busta orizzontale dalla tasca interna.

Corrugai la fronte, nel prenderla cautamente dalla sua mano. "Cos'è?"

"Il tuo regalo di diploma. La tua ammissione al Dartmouth college."

Continuai a guardarlo senza capire di che diavolo stesse parlando.

"Ho dovuto parlare personalmente con alcune conoscenze nella Board of Trustees per convincerli ad accettare la tua domanda tardiva. Vogliono incontrarti di persona la settimana prossima per un'intervista, devi solo-"

"Io non ho fatto domanda per Dartmouth," lo interruppi.

Nè una tardiva, né una di alcun genere.

Sostenne il mio sguardo, represse una smorfia. "Lo so."

E quello bastò per farmi capire tutto.

"Cazzo, mi prendi in giro?" sbottai, sbattendogli la lettera contro il petto. "Di tutte le cose, questo è un punto basso persino per te! Sei davvero così folle da pensare che potrei accettare solo perché tu l'hai fatta al posto mio e mi hai comprato l'ammissione?"

"Nessuno ti ha comprato niente!" ribatté con altrettanto impeto. "Ho solo fatto sì che le dessero una possibilità passati i termini della scadenza. Tutto il resto, tutto quello che c'è dentro, il motivo per cui l'hanno accettata, sei tu. Credevi davvero che, con i tuoi risultati ai SATs [2], fossi rimasto a guardare e non fare niente come stai facendo tu? Hai fatto 2258, cazzo."

"Allora puoi prenderli e metterteli dove vuoi per 2258 volte," replicai, la rabbia a pulsarmi forte nelle orecchie. "Smettila di immischiarti nella mia vita."


"Lo ha fatto in buona fede," commentò Elena quella stessa sera, seduti fuori dal Grill sui gradini della porta di servizio sul retro.

Scrollai le spalle e soffiai via una boccata di fumo, lo sguardo fisso sulla parete di mattoncini rossi e grigi che delimitava l'edificio dall'altra parte del vicolo.

"E' solo perché vuole ciò che meglio per te."

"No," la corressi, agitando nell'aria le dita che tenevano la sigaretta. "Vuole ciò che è meglio per l'immagine che vorrebbe avere di me. E' tutta un'altra cosa."

Elena rimase in silenzio, pensosa. Appoggiò il mento su una delle mani, tenendo il gomito in equilibrio sul ginocchio.

"Lo capirà anche lui. Un giorno."

Diedi un ultimo tiro e schiacciai il mozzicone sotto alle scarpe.

"Non trattengo il respiro nel frattempo."

"Da quando fumi, in ogni caso?" mi domandò inclinando il viso di lato verso di me.

"Da quando sono incazzato," replicai. Mi girai a guardarla. "Hai intenzione di farmi la ramanzina?"

"No …" sospirò roteando gli occhi al cielo. Con una mano indicò la tasca dei miei jeans, che aveva appena ripreso a squillare per la terza volta. "Ma qualcuno lo farà, se non rispondi al telefono."

"Cristo," bofonchiai scocciato, tirandolo fuori. "E' Michelle. Mi sta aspettando per passarla a prendere e andare al falò di fine anno."

"A che ora?"

"Alle …" sbirciai l'ora sul display, che adesso segnalava una nuova chiamata persa. "Mezz'ora fa."

"Allora dovresti andare."

Quando rialzai gli occhi su di lei, dopo aver rimesso il telefono in tasca, aveva sempre il viso posato sulla mano ma lo sguardo adesso fisso verso il basso, sulla punta delle sue ballerine con cui stava molestando uno sgretolamento nel cemento. Un'invisibile stretta mi chiuse lo stomaco. Non avevo poi tutta questa gran voglia di andarmene.

"Vieni anche tu."

Scosse la testa.

"C'è bisogno che resti qui. Non c'è nessun altro a parte Jenna, e poi …" Si morse un labbro, lasciò uscire un sospiro. "Papà non è davvero in sé, in questi giorni."

"E' domani, vero?"

Annuì, ed io non dissi niente. Perché domani sarebbe stato un anno da quando, una mattina di tarda primavera come tante altre, un paio di giorni dopo la fine della scuola, sua madre era salita in macchina per un paio di commissioni fuori città, qualcuno aveva sbandato la curva opposta sul Wickery Bridge ed aveva lasciato ben poco da dire.

"Lo sai … Posso restare qui, magari. Sono sicuro che Jer ha qualche nuovo supereroe appena scoperto di cui muore dalla voglia di parlare, oppure posso dare una mano con i tavoli, o anche solo … non lo so, restare qui e basta."

Lentamente, sollevò la testa verso di me, incrociai il suo sguardo. Sbatté le palpebre un paio di volte, come se il gesto potesse aiutarla a mettere bene a fuoco quel che avevo appena detto. E, quando lo fece, c'erano una profondità ed un luccichio nei suoi occhi che, dannazione, lo giuro: il mondo si fermò.

Solo che poi qualcos'altro li attraversò, tornando a prendere il sopravvento.

"Matt ha già detto che passerà."

Una fitta acuta mi trapassò le costole. Da parte a parte.

"Giusto …" annuii, con una voce scricchiolante che sembrò a malapena la mia. "Beh, allora io …"

Mi bloccai all'improvviso, sentendo le mie dita sfiorate dalle sue. Spostai gli occhi sopra la mia mano, posata aperta sopra al ginocchio, proprio mentre la sua andava un po' tentennante a coprirla, intrecciando le sue dita sottili con le mie dalle nocche più sporgenti.

Ricordai come fare a muoverle solo un paio di secondi dopo. Le accarezzai il pollice con il mio.

"Però, forse, io …" iniziò a dire, ma la porta alle nostre spalle si aprì in quello stesso momento, facendoci sobbalzare entrambi. Spezzando quel contatto, quando ci voltammo per guardare.

Jenna era sulla soglia, uno sguardo di scuse in faccia e le dita intente a stropicciare incerte il corto grembiule verde legato alla vita.

"Elena …. Mi dispiace, lo sai che non vorrei … E' che ho davvero bisogno di un po' di aiuto con un paio di tavoli," mormorò dispiaciuta.

"Sì, arrivo subito."

Elena si alzò, io mi alzai con lei. Evitò di guardarmi. O aggiungere altro. Solo un veloce accenno di sorriso di saluto, quando tanto era già rientrata oltre la porta.


***


Non era neanche l'una, quando mi ritrovai a considerare che forse quella serata era meglio chiuderla lì.

Enzo mi aveva mollato per farsi i fatti propri circa un'ora prima. Sospettavo che ci fosse di mezzo una ragazza, ma non ci avrei messo la mano sul fuoco. Insomma, il fatto che mi avesse chiesto un preservativo poco prima di sparire avrebbe dovuto di per sé essere un indizio sufficiente. Solo che, quando gli avevo chiesto se andava a concludere, era rimasto eccezionalmente sul vago, scrollando le spalle con un semplice "nah, solo se dovesse capitare", evento più unico che raro per uno che evitava sempre di risparmiare i dettagli.

Michelle era di buon umore, anche a dispetto del mio ritardo, per il quale non aveva fatto tante storie. Non era quel genere di ragazza, e mi piaceva per quello. Aveva semplicemente preso per buoni i miei borbottii su una cena di famiglia protrattasi troppo a lungo. Giusto una volta mi aveva chiesto perché continuassi a sembrare con la testa altrove, domanda che avevo liquidato con un "mio padre mi assilla. Lascia stare," che aveva chiuso lì la questione. In definitiva, si stava divertendo di più in compagnia delle sue amiche che con me e, dio, perfino Stefan là in mezzo ai suoi compagni della squadra di football aveva una faccia migliore della mia.

Forse, dopotutto, era stata una serata migliore l'anno prima, quando una brunetta piccolina con una bella risata era sbucata fuori dal nulla soltanto per farmi andare in bianco in cambio di cinque, insoliti, minuti con lei.

Stavo giusto per decidere se andare direttamente verso la Camaro o restare solo per un'ultima bevuta, quando il mio telefono iniziò a suonare. Una chiamata di Elena.

Mi allontanai di alcuni passi per poterla sentire meglio sopra alla musica e allo scoppiettio del fuoco, il pessimo segnale disturbato dal fitto degli alberi che certo non era d'aiuto.

"Ehi, mi dispiace chiamarti, non volevo interrompere o …"

La sua voce suonava metallica e distante, interrotta da brevi scariche.

"Non interrompi niente," risposi. Mi sedetti su un tronco tagliato e venni subito investito da un leggero vento fresco, adesso che avevo lasciato la zona di calore intorno al falò. "Come stai?"

"Mi hai visto solo poche ore fa."

"Sì, però mi stai chiamando, perciò … Sei ancora al Grill?"

"No, non sono al Grill. Abbiamo chiuso circa mezzora fa, non c'erano molte persone in ogni caso. Matt mi ha accompagnata a casa."

"Bene. E' lì con te?"

Ci fu un lungo silenzio. Stavo per iniziare a pensare che fosse caduta la linea, ma poi parlò di nuovo.

"No. No, io …" esitò. "… In realtà, sono a casa tua."

Il lungo silenzio fu mio questa volta. Perché la mia mente era ancora impegnata a processare quell'informazione e lo strano modo in cui mi aveva improvvisamente reso più difficile la semplice azione di deglutire, quando Elena mi domandò, "Sei ancora lì?"

"Sì," mi affrettai a dire. "Sì. Perch … Stai bene?"

Un secondo. Due secondi. Tre …

"Damon … Non voglio stare da sola stanotte."


Busso quattro o cinque volte.

Quattro o cinque volte prima di vedere la luce accesa al piano superiore scendere ad illuminare anche il pianterreno, al di là della finestra posta mezzo metro alla mia sinistra.

Il porticato di legno bianco mi ripara dall'acquazzone, ma forse anche per quello è già un po' troppo tardi. I miei vestiti, che si erano asciugati a malapena nel tempo della mia breve sosta valigia alla villa, si sono inzuppati daccapo una seconda volta nell'arrivare fin qui dalla Camaro che ho lasciato parcheggiata dietro l'angolo.

Pessima idea, lo so. Scarso buonsenso è il mio secondo nome.

Poi Elena apre piano la porta. Ha i capelli adesso disordinatamente appuntati sulla testa, e si è liberata del corto e lusinghiero vestito nero che indossava un'oretta fa in favore di un forse più corto - e, lo ammetto, altrettanto lusinghiero - pigiama composto da una sottile canottiera blu che cade morbida sul suo addome e da dei minuscoli pantaloncini rossi che rischiano seriamente di anestetizzarmi un po' i polmoni, alla vista di tutto ciò che lasciano scoperto.

I suoi occhi si spalancano per la sorpresa e ancora di più per l'incredulità. Del resto, sono un po' incredulo persino io di trovarmi qui in questo spicchio di luce che fuoriesce sulla sua soglia.

Eppure non dice niente.

Incontra solo il mio sguardo, e deve essere tutto ciò che le serve, perché silenziosamente compie un passo indietro, permettendomi di riempire quello spazio che ha appena lasciato libero per me.

La porta si chiude dietro di noi.

"Cos'è cambiato?"

E' una voce di gola, quella con cui lo chiede. Mi fa affluire il sangue alla testa così selvaggiamente da offuscare la mia capacità di giudizio, o perlomeno ciò che ne è rimasto, ancora di più.

"Niente," ammetto.

Che è un po' una bugia. Ed un po' non lo è.

Perché niente è cambiato rispetto a ciò che ci siamo detti solo un'ora prima, ma niente è cambiato neanche nel modo in cui tutti e due ne abbiamo bisogno. Ma forse è cambiato il fatto che adesso questo lo sappiamo entrambi, e questo da solo basta a fare tutta la differenza del mondo.

Elena posa esitante una mano all'altezza della mia spalla e con lo sguardo ne segue l'intero percorso mentre scivola verso il basso, seguendo il bordo bagnato della mia giacca. Vi chiude sopra le dita, lo stringe e torna a sollevare il viso, usandolo per attirarmi verso di lei finché non sono che ad un fiato di distanza.

Porto una mano a racchiudere il suo volto, infiltro le dita tra i capelli ancora umidi alla base del suo collo. Allungo l'altra per disfare ciò che li tiene insieme e lasciarli cadere liberi sulle sue spalle. Ancora un po' disordinati, ancora un po' elettrici di umidità. Magnificamente incasinati come è lei.

La guardo, la guardo e basta, mentre con il pollice le accarezzo la guancia; mentre proseguo verso il labbro inferiore, e guardo anche quello, e il modo in cui si socchiude per me al suo passaggio. Solo quando ci sento sopra il soffio del suo respiro accelerato, mi rendo vagamente conto che anche il mio non è decisamente da meno.

Non so neanche quanto restiamo in quella situazione assurda, sull'orlo di cadere ma non ancora al punto di farlo, a girarci intorno come se di colpo non fossimo sicuri di cosa farne di noi e del casino in cui ci siamo cacciati.

Ma poi è lo spazio di un respiro.

Le labbra di Elena sono sulle mie e basta che la mia bocca risponda al suo slancio, basta il minimo assaggio del suo sapore, per darmi alla testa e riempirla di nulla.

Il nulla quando le sue mani mi lasciano andare la camicia per andare a mischiarsi con i capelli sulla mia nuca e tenermi lì fermo, come se davvero potessi anche solo pensare di andare da qualche parte.

Il nulla quando la premo contro la porta e accarezzo tutto quello che trovo, spalle, lati del seno, curva dei fianchi.

Il nulla in mezzo a tutta la serie di respiri frammentati che subito sono l'unica cosa ad inserirsi in quei piccoli spazi che lasciamo per l'aria di tanto in tanto. Non molti, in realtà.

Mi sospira affannata sulla bocca quando le sollevo la schiena per arcuarla e premermela addosso, stropicciando la stoffa del suo top sotto alle mie dita, ad un passo dal sollevarlo e toglierlo immediatamente di mezzo. Ma avrei dovuto sapere che Elena aveva altri piani in mente.

Mi spinge all'indietro facendo forza con entrambe le mani sul mio petto, ed entrambi incespichiamo qualche passo cieco e incerto fino a che non urto con la schiena contro la balaustra di legno che segna la fine delle scale. Gli intarsi del legno mi premono tra le scapole ma, fanculo, in questo momento la lascerei schiacciarmi contro un muro di chiodi per quel che me ne frega. Specialmente quando riprende a baciarmi e la sua coscia si insinua tra le mie gambe, trova la mia erezione, ci scivola sopra in movimenti ritmici, mi toglie il fiato. Ed abbiamo a malapena cominciato.

E' una piccola cosina prepotente, Elena, un po' come avevo sempre sospettato.

Sorrido. Lo adoro.

Le sue dita corrono giù lungo il mio collo e planano sopra i bottoni della mia camicia, trafficano precipitose per aprirli, intanto che io mi affretto a liberarmi della giacca. Un paio di essi schioccano aperti un po' troppo di colpo, come suggerisce un leggero tintinnio di qualcosa che cade, al quale siamo entrambi troppo impegnati per prestare attenzione, nel momento in cui le sue mani trovano finalmente quello che volevano attraverso la camicia aperta.

Altri passi ciechi e incerti quando la sospingo su verso il piano di sopra, mentre una delle sue mani è impegnata a tracciare i muscoli nella parte bassa del mio addome e l'altra a tirare alla base del mio collo in modo che, in tutto questo, la mia bocca non si azzardi a lasciare la sua.

Ma lei non è la sola ad essere impaziente o a volere la sua parte, e siamo solo a metà delle scale quando la premo contro il corrimano e faccio scendere le mani lungo i suoi fianchi, sulle sue natiche, ed ancora più in basso finché non trovo nient'altro che pelle nuda. Sollevo una sua coscia all'altezza della mia vita, lei mi circonda subito con il polpaccio, ed io torno a baciarla.

Sullo zigomo. Sul profilo del viso. Sulla curva del suo collo. Leccando e mordicchiando ogni più piccolo pezzetto di pelle che riesco a trovare.

E' qui che lo sento, per la prima volta. Quel suono che sfugge sconnesso dalla sua gola, mezzo tormentato mezzo in estasi. Non che io pensassi davvero di essere rimasti silenziosi fino adesso ma, che diavolo, non mi sono praticamente reso conto di niente di tutto ciò che stava succedendo attorno a me. E' un po' come riemergere da quell'apnea divina dove non esiste altro se non Elena, soltanto per poi rituffarcisi l'attimo dopo. Più a fondo, e più intensamente.

Soprattutto quando le sue gambe si aprono un po' di più, e c'è un'altra cosa che sento per la prima volta, perché … Cristo santo. E' caldo e scivoloso al di là di quei pantaloncini, e l'unica ragione per cui non vi insinuo immediatamente le dita al di sotto come sto morendo dalla voglia di fare è solo perché Elena ha appena ripreso il controllo, spronandomi all'indietro e strattonandomi via del tutto la camicia dalle spalle.

Cade sul pavimento, lì sulla cima delle scale. La calpestiamo entrambi, con gli ultimi passi che ci fanno cadere nella sua camera da letto.



Mi piacerebbe poter dire che è un po' come lo avevo immaginato, ogni volta che negli ultimi mesi mi sono concesso di pensare cosa avrei fatto con Elena mezza svestita tra le mani. Sicuro che mi sarei preso tutto il tempo del mondo per fare le cose per bene, farla impazzire di anticipazione e possibilmente rovinarla per chiunque sarebbe arrivato dopo di me. A lungo, a fondo, con calma.

Oh, beh.

Non va esattamente così.

Fanculo alla calma.

E' tutto piuttosto brusco e incasinato.

E' tutto fottutamente meglio di qualsiasi altra cosa.

Quando Elena mi sospinge a sedere sul bordo del letto, e si aggrappa con le mani sulle mie spalle nude sussurrandomi nell'orecchio i suoi respiri spezzati. Quando non proprio gentilmente le tiro giù la spallina della canottiera per scoprire il seno, prenderlo tra le mia dita e tra le labbra, e la mia rasatura già ruvida la graffia appena sulla pelle tenera, ma lei non fa che attirarmi più vicino. Quando la rovescio sopra al letto e mi alzo a sedere sulle ginocchia per sbottonarmi i pantaloni, e finisce che deve tirarsi su anche lei, perché le mie dita stanno tremando un po' troppo e deve essere lei a farlo per me. E quando lo fa, dio quando lo fa, la sola vista delle sue labbra appena socchiuse alla stessa altezza dei boxers che sta abbassando e quella dei suoi occhi che guardano in su - mai così scuri, pieni e offuscati - sarebbe abbastanza da spedirmi direttamente nello spazio profondo.

E' solo quando la libero anche dei suoi pantaloncini e intimo, tutto in un unico movimento, e porto una mano tra le sue gambe che mi concedo il momento di essere delicato, di perdermi a guardarla mentre la porto al punto da agitarsi e inarcare la schiena per chiedere di più.

Sono dentro di lei con una tale naturalezza che a malapena lo realizzo, al di là della molto semplice e molto assoluta constatazione che è una sensazione dannatamente meravigliosa.

E con quello la gentilezza se ne è andata di nuovo. Se ne è andata per me, che le stringo una gamba, le mordicchio la pelle sul collo, e la sento serrarsi attorno a me sempre di più. Se ne è andata per lei, che ha deciso l'intensità del ritmo, con le unghie dentro ad una mia spalla e i talloni premuti contro la mia schiena.

E' il modo che ha per tenermi esattamente dove vuole e come vuole.

Per ricordarmi che non c'è nessuno da prendere in giro.

Sono suo. Sono sempre stato suo.


***


Parcheggiai la macchina sul vialetto di casa praticamente neanche una ventina di minuti dopo la chiamata di Elena. Le luci all'interno erano spente. Solo da una finestra usciva fuori un sottile lampeggiare di luce blu.

Quando misi piede nella dependance, Elena era seduta con le gambe distese lungo il divano con una ciotola di cibo tra le mani, la piccola televisione sul bancone vicino all'angolo cottura sintonizzata su una replica notturna di The Amazing Race come unica luce nella stanza.

Voltò la testa verso di me e rimase in silenzio ad osservarmi mentre lasciavo cadere le chiavi sul mobiletto all'ingresso ed andavo a sedermi all'altra estremità del divano. Sollevai le sue caviglie incrociate una sull'altra per farmi spazio e poi riposizionarle sul mio grembo, le mie mani rigorosamente sopra alla stoffa dei jeans. Uno smalto azzurro chiaro occhieggiava la situazione dalle unghie dei suoi piedi scalzi.

"Ciao," le dissi.

"Ciao," sorrise.

Allungai una mano verso la ciotola che mi stava tendendo per offrirmi il contenuto di ciò che stava sgranocchiando. Palline di CocoPops. Ne presi una manciata e me ne feci saltare uno in bocca, mentre sullo schermo andava in onda l'intervista a uno dei partecipanti al reality. Aveva appena litigato con il suo compagno di squadra.

"Ho del cibo spazzatura migliore di cereali al cioccolato, se proprio vuoi."

"Mi piacciono questi. Hai i gusti di un bambino di cinque anni."

"Yep. Sono io."

L'altra mia mano aveva già iniziato ad accarezzarla piano sul polpaccio. Mi fermai quando me ne resi conto. Se se ne accorse anche lei, non lo diede a vedere. Piluccò piuttosto un'altra pallina dalla ciotola.

"Dov'è Michelle?"

Mi strinsi nelle spalle. "A fare festa in mezzo al bosco."

Sentii il suo sguardo su di me, ma non mi voltai.

"Non avrei dovuto chiamarti. O venire qui. E' stato un momento, e non ho pensato che magari …"

"Non vedevo l'ora di andarmene," la interruppi subito. Senza staccare lo sguardo dalla puntata, tesi una mano di lato e mossi le dita per domandare altro cibo. Elena si sporse per passarmelo, il suo piede nudo scivolò sul mio interno coscia per farsi leva. Mi imposi di non pensarci. Indicai lo schermo. "E' per caso quella in Norvegia, con il bar fatto di ghiaccio?"

"Già. Lena e Kristy stanno per essere eliminate."

"Peccato. Erano fighe."

Una pallina al cioccolato mi colpì dritta sulla tempia per quel commento. Quando mi voltai con fare offeso, un sorriso di Elena guizzò nella penombra bluastra.

Si trasformò in uno sguardo incerto e appena imbarazzato, quando appoggiai la testa all'indietro contro la spalliera, girata verso di lei, per poterla guardare. Mi osservò da sotto le ciglia scure.

"Sei sicuro che non ti dispiace se resto qui?"

"Puoi restare ogni volta che vuoi."


***


Appoggiato su un gomito piegato contro il cuscino, lascio scorrere le dita tra i capelli di Elena.

A quanto pare, non riesco a smettere di toccarla. E' impossibile. Che sia lì, o lungo lo schiena, o sulla mano … Non ha importanza. Non penso di aver smesso anche solo per mezzo secondo. Ma, d'altra parte, è un po' lo stesso anche per lei.

Anche adesso, che riposa con la testa adagiata sul cuscino ed un braccio piegato sotto di esso, l'altro è allungato in avanti, per raggiungermi e percorrere l'interno del mio avambraccio teso, fin giù sul bicipite, e poi di nuovo su.

E' quieto. Silenzioso. Carico.

C'è solo un debole rumoreggiare di pioggia proveniente da fuori, ma non è niente più di ciò che rimane dopo che il temporale è già passato oltre.

La osservo. La curva delle labbra e quella della guancia. Le lunghe ciglia che incorniciano gli occhi scuri e che, sotto alla luce del lampadario a soffitto, gettano minuscole ombre sottili sopra il suo zigomo. Le sbatte appena quando il suo sguardo, finora concentrato su quella carezza, si allontana un po' per perdersi in pensieri ai quali non ho accesso.

Ma più la guardo, più si serra il nodo attorno al mio stomaco. Come diavolo ci riesco adesso a lasciare questo letto?

Alcuni fili di capelli le scivolano sopra il suo naso e lei lo arriccia per soffiarli via. Sorrido per la faccia adorabile che fa. Elena lo nota e arrossisce.

Arrossisce, diamine. Voglio dire, dopo tutto quanto e dopo tutto quel che abbiamo morsicchiato e leccato e toccato … lei arrossisce per questo.

I suoi occhi mi cercano smarriti, alza leggermente un sopracciglio.

"Cosa c'è?"

Non ce la faccio a resistere. Sorrido ancora. O meglio, trattengo a stento una risata. "Niente."

"Bugiardo. Stai ridendo di me."

Mi dà una spintarella sulla spalla, fingendo un'indignazione smascherata dalla piega divertita agli angoli della sua bocca, ed io facilmente rotolo all'indietro sul materasso accogliendola sopra di me.

Il lenzuolo cade un po' e scopre i suoi fianchi nudi, che circondo con una mano. Con l'altra, sposto delicatamente via i suoi lunghi capelli, spingendoli al di là della spalla.

Quando incrocio di nuovo il suo sguardo, scopro che mi sta guardando intensamente, ma anche che la scherzosità di pochi secondi prima dai suoi occhi se ne è già andata.

"Prenderai lo stesso quel volo domani, non è vero?" mi chiede infilando le dita tra i miei capelli, stropicciandoli appena.

"Più che domani, tra qualche ora, ma … Sì," corrugo appena la fronte, ma non smetto di sfiorarla lungo tutta la spina dorsale e tra le scapole. Ne sento la levigatezza trasformarsi in pelle d'oca sotto ai miei polpastrelli. "Ho bisogno di fare un passo indietro, prendere una pausa da qui."

Non aggiungo il perché. Lei è silenziosa per un lungo momento, ed io proseguo il percorso pigro delle mie carezze verso la parte superiore del suo braccio, intenzionato almeno per un altro po' a scacciare lontano - molto, molto lontano - il pensiero di affrontare davvero tutte le domande che questa notte ha appena fatto nascere.

"Non so tutto questo cosa sia, Damon," dice infine, a malapena un sussurro.

Mi forzo ad annuire, alzo lo sguardo su di lei.

"Va bene. Non ho …" mi fermo, mi correggo. "Non c'è bisogno di saperlo adesso."

Suona quasi vero mentre lo dico. Quasi.

"Quindi ... vuoi andartene?" mi domanda, esitante.

"Forse …" dico, proprio mentre lo sguardo mi cade di nuovo sulla sua bocca, che è ancora un pochino gonfia per tutti gli assalti di prima. "… forse dovrei."

Elena preme verso il basso. Io spingo verso l'alto. Un movimento di troppo ed il centro delle sue gambe è già in contatto con una mezza erezione.

"Già …" mormora in un soffio. "… Forse."

Sollevo la testa per baciarle la spalla. Ha un sapore meraviglioso. Sa di me. Sa di lei. Sa di noi, e sa di sesso, e non ci provo neanche a fermarmi, perché solo avere questo sapore sulla lingua e questo odore nelle narici è abbastanza a indurirmi del tutto. Proseguo sulla clavicola, sul collo, sul seno dove ritrovo i segni rossi che le ho lasciato e che stanno già sparendo, ed infine sulla sua bocca, che è forse il sapore migliore di tutti.

Elena sospira, si allunga su di me come una gattina, intreccia le dita con le mie aperte sul cuscino al lato della mia testa.

Mi volto in quella direzione. Lei mi osserva con una certa curiosità mentre le sollevo la mano che ha allacciato alla mia ed allungo le dita verso il suo anello di fidanzamento. Lo sfilo via e mi sporgo per buttarlo sul comodino accanto al letto.

Non voglio avere niente di mezzo a tutto quello che ho intenzione di farle.

Lei corruga le sopracciglia, ma non dice niente.

Inverto le posizioni e la porto sotto di me. Iniziamo tutto daccapo.


***


Guardammo e commentammo tutta l'intera puntata del reality show e quella seguente, non so come poi degenerando verso la tv spazzatura del canale degli annunci locali, popolato da rivenditori di auto usate e avvocati che promettevano vincite assicurate a prezzi stracciati; mangiammo un totale di due ciotole e mezzo di CocoPops; cambiammo gradualmente posizione lungo il divano, finché non mi ritrovati con le sue ginocchia posate di traverso sopra le mie ed il mio avambraccio a fornirle un poggiatesta migliore rispetto alla scomoda spalliera del divano. Erano le tre e mezza passate, quando Elena iniziò a chiudere le palpebre.

"Andiamo, principessa," le dissi sporgendomi verso di lei e tendendole una mano per aiutarla ad alzarsi. "Ora di metterti a letto."

Si cambiò in bagno, abbandonando i jeans in favore di un paio di più comodi pantaloncini che le prestai io. Troppo lenti sui suoi fianchi e troppo larghi sulle sue gambe, tanto che, quando tornò in camera, mi affrettai a concentrarmi sulla sistemazione di cose che non avevano bisogno di essere sistemate, nel tentativo di resistere alla tentazione di guardarle più a lungo del dovuto. Tentativo dai risultati piuttosto scarsi, dal momento che continuai a gettarle occhiate furtive anche mentre tirava giù la zip della felpa, se la lasciava scivolare via dalle spalle, e rimaneva soltanto in uno stretto top senza maniche. Quando la vidi sedersi sul bordo del letto con le mani tese all'indietro, l'idea di andare lì, farla sdraiare sulle coperte e stendermi sopra di lei per farle scoprire un mondo in cui non avrebbe avuto bisogno di quei vestiti mi provocò un afflusso di sangue verso il basso così improvviso che impiegai altri dieci minuti buoni di inutile riordino per scacciare quei pensieri. Lo scaffale d'angolo con i miei libri e miei cd non era mai stato tanto in ordine.

Solo quando si fu rannicchiata di lato e infilata sotto al lenzuolo, mi avvicinai per prendere il secondo cuscino.

"Cosa fai?" mi domandò, scrutandomi curiosa.

Dovetti schiarirmi la voce. "Preparo il divano. Per me."

"Oh …"

Sì, è vero, avevamo già dormito insieme in quello stesso letto. Una volta. Ma in quel caso lei era già praticamente addormentata, non aveva invitanti gambe slanciate a fuoriuscire da un paio di pantaloncini troppo larghi ed io ero ancora convinto di potermi perfettamente controllare quando ero vicino a lei. Adesso …

"Puoi restare solo fino a che non mi addormento?"

Alzai la testa solo per trovarmi grandi occhi scuri spalancati a guardarmi da sotto in su. Valeva davvero la pena stare a fingere che non avrei detto sì a qualsiasi cosa mi avesse chiesto?

Spensi la luce. Mi sdraiai fuori dalle coperte, il volto verso il suo, un braccio sotto il cuscino.

Niente contatti, un'invisibile barriera di qualche centimetro a tenere le distanze. Pur sempre troppe. Pur sempre troppo poche.

"Dovresti considerare quel che ha detto tuo padre," disse piano, gli occhi già chiusi e la voce già strascicata di sonno. "Potrà sbagliare sui metodi, ma … non ha completamente torto. Potresti fare così tanto."

Soppesai le sue parole, guardando i suoi contorni fondersi nel buio.

"Non lo so cosa voglio fare. Mi sto prendendo del tempo per capirlo."

"Mia madre diceva sempre …" Uno sbadiglio. Tirò il cuscino e si mosse per sistemarsi più comodamente, il viso posato contro una mano. "Che questo non è mai vero. Uno lo sa cosa vuole, solo che non sa cosa fare al riguardo."

Curvai le labbra verso l'alto. "Sembra proprio una cosa che direbbe una mamma."

Non che io ne sapessi molto in merito.

"Le saresti piaciuto."

"Io non piaccio alle madri. Sono quella cosa da cui avvertono le loro preziose figlie di stare alla larga."

"Sì, invece," insistette, testarda anche quando era sull'orlo dell'incoscienza. "Ti avrebbe visto … come ti vedo io."

Avrei voluto chiederle cosa intendeva dire, cos'era che vedeva, ma non ci riuscii. Nel tempo che impiegai per decidermi a farlo, e mandare giù un vago pizzicore nel mezzo della gola, Elena stava dormendo, solo un lieve battito dietro alle palpebre chiuse. Oltretutto, non ero sicuro, non ancora, di voler davvero sapere la risposta.

Rimasi lo stesso, alla fine. In caso si svegliasse, o avesse gli incubi, o un sonno agitato.

Senza toccarla. Ma mai così disperato dalla voglia di farlo.


***


Ascolto il niente.

Niente pioggia, niente scalpiccii o voci o motori di auto dalla strada, niente cinguettii degli uccellini. E' troppo tardi per i rumori della notte, troppo presto per quelli del mattino.

Fisso il soffitto della camera di Elena e con le dita disegno linee distratte tra i suoi capelli e sulle sue spalle mentre lei, raggomitolata contro il mio petto, mi avvolge in un calore morbido e piacevole.

Non so esattamente quando si sia addormentata. Credo ad un certo punto tra un altro "lo so che devi andare" e l'ennesimo "Aspettiamo solo qualche altro minuto". Ma è addormentata da un po' adesso, con un respiro lento e regolare esalato sopra il mio torace. Io, invece, ho spento la luce e sono rimasto sveglio nel buio, a raccontarmi che non ci sarebbe stato niente di male se, ad andarmene, avessi aspettato fino all'ultimo momento.

Qualcuno mi ha detto che uno strizzacervelli ci andrebbe a nozze su questa cosa qua.

Rimango finché non vedo il primo pallido cambiamento nella luce che filtra da dietro le tende.

E' allora che mi dico "un altro minuto" per quella che è veramente l'ultima volta.

Perché poi chiudo gli occhi per appena un secondo, e dopo ciò non ricordo più niente.


——————————————————-

Note

[1] Rummy bears: orsetti gommosi lasciati macerare nel rum per un paio di giorni. Combinazione piuttosto micidiale di alcol e puro zucchero. Le cose che non si scoprono alle feste degli americani.

[2] SATs: test attitudinale per l'ammissione ai college degli Stati Uniti. 2400 è il punteggio massimo.


Spazio autrice

Buonasera ragazze, come sta andando la vostra estate? Mi dispiace per la lunga attesa, spero che siate ancora lì :)

Io dico solo che, dopo 17 capitoli, adesso c'ho un'ansia da prestazione addosso che manco Damon, fate voi.

Anyway ...

Per l'angolino musicale: grazie a Candy per la citazione iniziale, e al suo "crescendo" finale per l'ispirazione su una particolare scena. Per i teen Delena e la loro molto più platonica notte insieme, invece, il sottofondo è vintage e viene dai Velvet Underground.

Grazie anche alla mia honey serClizia che ha betato il capitolo alla ricerca di errori <3

Vi rispondo sempre in ritardo, ma vi leggo (e rileggo) sempre con avidità. Sono sempre più grata di avere lettrici come voi, che mi danno voci e prospettive diverse, che mi motivano, e che non si fanno problemi ad essere critiche se ce ne è bisogno.

Vi abbraccio tutte virtualmente da dietro la tastiera del mio pc.

A presto,

ever


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Capitolo 19
*** Bedroom hymns ***


18

18.

Bedroom hymns


- I'm not here looking for absolution
Because I found myself an old solution

This is his body, this is his love
Such selfish prayers, and I can't get enough -

(Florence + The Machine, Bedroom Hymns)


Elena


Un basso ronzio si insinua insistente nel mio dormiveglia, ritmico e distante.

Farfuglio la mia protesta dentro il cuscino, sfuggo a quella minaccia di sveglia indesiderata rannicchiandomi di più contro il corpo caldo accanto a me. Gli sfioro le spalle con le labbra, premo il petto sulla sua schiena che circondo con un braccio, affondo di nuovo piacevolmente nel calore della sua pelle e del suo odore. Al di là del suo torace, le sue dita si intrecciano alle mie, allacciandosi alla mia presa. Il ronzio finisce. Cado un'altra volta nel sonno.

La seconda volta che lo stesso rumore mi strappa dal mio accogliente torpore, però, non c'è più niente accanto a me, se non la traccia tiepida che ancora scalda lo spazio vuoto nel letto.

Apro gli occhi controvoglia, proprio mentre alla vibrazione si aggiunge un sommesso "oh cazzo" mormorato sottovoce. Mi tiro su a sedere, stringendomi addosso il lenzuolo per scacciare il brivido freddo che mi percorre le spalle non appena mi allontano del calore del letto. Nella poca luce mattutina che filtra superando la barriera delle tende chiuse, Damon è in piedi accanto al letto, intento a trafficare con le tasche dei suoi pantaloni raccolti dal pavimento e a biascicare sottovoce altre imprecazioni dello stesso genere.

E' nudo. Gloriosamente nudo, è l'unica descrizione che mi viene in mente mentre mi regala una splendida vista del suo sedere e delle fossette ai suoi lati. Sento il calore salirmi alle guance ed un sorriso spontaneo tendermi all'insù gli angoli della bocca, proprio mentre Damon trova il suo telefono che ha ripreso a vibrare, volta la testa verso di me ed incontra il mio sguardo nello stesso attimo in cui finalmente risponde. Mi scompiglio i capelli e mi giro dall'altra parte nella vana speranza di mascherare il modo piuttosto sfacciato in cui mi ha sorpreso a guardarlo.

"Ric."

"Dove cazzo sei?" sento provenire dall'altra parte della linea, così sonoro da giungermi forte e chiaro anche mentre Damon incastra il telefono tra la spalla e l'orecchio per andare a raccogliere la sua biancheria. "Io non ti faccio domande se tu nel mezzo della notte mi dici "ci vediamo direttamente in aeroporto", ma qualche domanda me la faccio se poi mi ritrovo da solo al cazzo di gate e tu non rispondi neanche al telefono! Tuo fratello è di là alle partenze fottutamente in paranoia."

Damon si infila in fretta anche i pantaloni. "Lo so, ho solo-"

"Ti prego dimmi che non ti sei ubriacato di brutto e svegliato nel letto di qualche bionda sconosciuta."

Tiro via il lenzuolo e mi alzo anche io. Trovo le mie mutandine poco più in là sul pavimento, ancora aggrovigliate tra i pantaloncini del pigiama, me le metto insieme alla prima t-shirt che trovo buttata sulla sedia vicino alla scrivania. Quando riemergo dopo averla tirata giù sull'addome ed aver scostato dal volto la massa di capelli ancora arruffati, scopro che Damon mi sta osservando, in pantaloni ancora slacciati ed un buongiorno mattutino al di sotto di essi.

E ha quello sguardo. Azzurro carico, ben poco limpido, quello con cui mi guarda come se intorno non ci fosse nient'altro, quello che è in grado di inebriare e confondere sotto fin troppi punti di vista.

Alaric continua a parlare, o inveire, dall'altro lato del telefono. Non lo so, non sto veramente ascoltando. Nè sono sicura che anche Damon lo stia davvero facendo.

" … e abbiamo quella dannata presentazione domani, quindi farai meglio a muovere il culo, prendere il primo volo ed essere qui entro stasera."

Damon muove alcuni passi verso di me, ci incontriamo a metà strada vicino al bordo inferiore del letto.

"Lo farò," risponde solo.

"E, Damo-"

"Ciao, Ric."

Chiude la conversazione e getta il telefono sul letto, dove atterra con un morbido tonfo.

Restiamo ancora entrambi in silenzio per alcuni secondi. Mi scosto i capelli dal viso, distolgo appena lo sguardo e dondolo sulle punte dei miei piedi scalzi, tutto d'un tratto insicura su come dovrei esattamente sentirmi e su quale sia il protocollo in queste situazioni. Quelle incerte e incasinate.

E' lui a parlare per primo.

"Ho perso il volo."

Annuisco, mi stringo le braccia al petto.

"Ho sentito."

Sollevo appena lo sguardo. Finisce istintivamente per vagare sopra il suo petto svestito, su ognuno dei contorni snelli disegnati dai suoi muscoli asciutti e su quella linea di peluria scura nella parte inferiore dell'addome che corre verso il basso come un invito esplicito e sfrontato. Ho un lampo di quando la notte scorsa ne ho tracciato tutto il percorso con le labbra ed improvvisamente mi sento una persona molto orribile, perché capisco che questo dovrebbe essere il momento in cui torno in me e mi pento di tutto quanto, ma i pensieri che mi si affollano in testa non mi permettono di ragionare molto lucidamente. Rialzo gli occhi, incontro lo stesso liquido blu chiaro incorniciato da capelli ancora spettinati dal sonno.

Parliamo nello stesso momento.

"Forse dovrei …"

"Forse dovresti …"

Ci fermiamo. Ci guardiamo. Dimentico cosa volevo dire. Ho soltanto il cuore che pulsa più forte nelle vene, qualcosa in me che si accende di nuovo, un lungo attimo in cui tutto sembra perfettamente e assolutamente immobile.

Quello dopo con uno slancio chiudo le mani attorno al suo viso, sento le sue dita impigliarsi tra i miei capelli nello stesso momento, e la mia bocca torna ad aprirsi sulla sua senza neanche stare a chiedersi chi dei due abbia cominciato.

Tutto ciò che avevo lasciato prorompere ieri notte è ancora lì, pronto a consumarmi, fuori e dentro, nel calore che mi infiamma la pelle, in quello ancora più prepotente che mi invade le ossa. Stringo le sue labbra tra i denti e circondo con le braccia le sue spalle nude, in una presa che serro ancora più stretta quando le mani di Damon scendono lungo i miei fianchi fino ad afferrarmi le natiche e sollevarmi facilmente da terra.

Lo assecondo stringendo le gambe attorno al suo torace, atterro bruscamente sopra la scrivania. E' ingombra di una moltitudine di cose che cadono a terra in una successione di tonfi e fruscii quando allungo una mano all'indietro, nel duplice intento di cercare sostegno e sgomberare il campo, l'altra ancora salda attorno al collo di Damon.

Persona orribile è il vago pensiero che mi attraversa la mente quando sento la sua lingua sul collo e le sue mani si infilano sotto la maglietta per percorrermi i fianchi a palmi aperti, persona orribile quando le sue dita mi accarezzano le punte dei seni in piccoli cerchi tirandomi fuori sospiri sempre più incoerenti, persona orribile, davvero, davvero orribile, quando penso che dopotutto non sarà una volta in più - una sola - a peggiorare l'entità del mio tradimento.

E subito eccola lì la mia giustificazione, quella che mi autorizza a rimandare a dopo il senso di colpa e ad abbandonarmi appieno, qualsiasi cosa al di fuori di questa stanza troppo lontana per potermi davvero toccare.

Percorro tutto il suo petto con le dita ed insinuo una mano tra i pantaloni già aperti per abbassare i boxer abbastanza da farmi spazio, sposto le labbra sul suo collo mentre lo sento indurirsi ancora di più sotto le mie carezze, alimento con i suoi gemiti rochi nell'orecchio il fuoco e l'urgenza che ho tra le gambe. Le sue dita vanno ad allacciarsi al bordo delle mie mutandine e, come le tirano giù con un movimento deciso, non gli lascio il tempo di fare altro. Lo attiro e lo guido dove ho più bisogno di lui, ancora stretta per la mancanza di preliminari.

Mi riempie completamente, spezzandomi il respiro.

Lo stringo a me, restiamo fermi così. Senza muoverci, senza respirare. Per lunghi, bellissimi, strazianti secondi.

Damon mi sfiora il lobo con le labbra, sussurra piano nel mio orecchio.

"Vieni con me."

Sorrido contro la sua guancia. Il mio tallone scivola sopra la sua schiena, si impiglia tra i pantaloni che abbassa oltre le sue natiche. "Già? … Abbiamo appena cominciato."

Damon ride, una meravigliosa risata bassa e spontanea, mi mordicchia giocosamente la gola. Affonda di più dentro di me, piano, e il mio respiro si spezza di nuovo.

"A San Francisco, oggi. Vieni con me a San Francisco."

Il mio cuore fa un salto così improvviso che non so neanche più dove sia finito. Sposto il volto quel tanto che mi serve per incontrare il suo sguardo, avere conferma che stia dicendo sul serio. Mille parole mi salgono e muoiono in gola nel giro di quel solo secondo, perché soltanto il pensiero è una cosa da pazzi, completamente da pazzi, sbagliata e sconsiderata per così tanti motivi che …

"Sì."

E' a malapena un soffio quello con cui lo dico, e forse l'ho solo pensato e neanche detto ad alta voce. Ma poi è "sì" sopra la sua bocca quando la cerco e mi ci perdo di nuovo. E' un "sì" più forte quando stringe la presa sulla mia coscia, "sì" quando si muove lento e a fondo facendomi perdere il senso della realtà, "sì" quando aumenta il ritmo e vengo così velocemente e intensamente che mi coglie quasi di sorpresa.

Stiamo ancora entrambi respirando pesantemente, con le mie mani attorno al suo viso e qualche strascico di bacio scomposto, tanto che ho a malapena il tempo di riprendermi o capire cosa stia succedendo, quando lo squillo improvviso del campanello ci fa sobbalzare violentemente.

Ci immobilizziamo. Una scarica di adrenalina mi fa schizzare il battito alle stelle.

"Jeremy?" mi domanda cauto Damon.

Scuoto la testa. "Non suonerebbe."

Lo vedo, nell'attimo che passa tra i nostri sguardi, che nessuno di noi ha il coraggio di dirlo ad alta voce, ma che entrambi lo stiamo pensando. Io, subito trafitta dalla colpevolezza che riemerge da dove l'avevo seppellita, estremamente più dolorosa di quanto pensassi, mentre ho ancora le gambe attorno ad un altro uomo. Lui, con quel suo lampo di realizzazione negli occhi - realizzazione di cosa sto pensando, di cosa questo fa di noi e, soprattutto, di cosa fa di lui - e che forse mi fa ancora più male.

"Venditori di bibbie?" suggerisce speranzoso.

Un rumore proviene dal piano di sotto, il mio panico aumenta. Ancora qualche movimento di sottofondo, serrature che girano, la porta di ingresso che sbatte per richiudersi.

"Elena! Lo so che ci sei, ho visto la tua macchina nel vialetto! Alzati, dormigliona!"

Rilascio un sospiro di sollievo che non sapevo neanche di star trattenendo. Almeno finché non incontro lo sguardo di Damon. Mi osserva allibito, mima un nome con le labbra come se fosse un pessimo scherzo: Caroline?

Mi stringo nelle spalle e lui prosegue, la voce poco più di un sussurro per non farci sentire dal piano di sotto, "Come diavolo ha fatto ad entrare?"

"Ha le chiavi," rispondo altrettanto sottovoce.

Fa roteare gli occhi al cielo. "Chi è così pazzo da dare le chiavi di casa a Miss Invadenza Caroline?"

"Elena!" grida ancora la mia amica dal piano di sotto. "Hai lasciato il tuo soprabito alla festa ieri sera, volevo solo riportartelo! Devo venire su a tirarti giù dal letto?"

"Cavolo," mormoro allontanando Damon con una piccola spinta.

Scivolo giù dalla scrivania facendo accidentalmente cadere altra roba nel processo, raccolgo le mutandine rimaste arrotolate intorno ad una caviglia e mi affretto a correre in bagno per darmi una veloce ripulita che mi aiuti a non sembrare un gigante cartello con scritto "Sono appena stata ripassata per bene."

"I miei vestiti," mi ricorda Damon in un altro rapido bisbiglio quando torno in camera tre secondi dopo, una mano a tirarsi su la zip e l'altra ad indicare il corridoio.

Maledizione.

"Resta qui," gli intimo alzando un dito verso di lui.

Lo vedo rivolgere un'altra veloce smorfia al soffitto, appena prima di precipitarmi fuori dalla stanza.

La camicia bianca di Damon è abbandonata per terra sul primo gradino delle scale. Con un piede scalzo la spingo via fin dentro la camera attualmente vuota di Jeremy, di cui chiudo la porta.

"Ehi, Care," la saluto con la mia migliore imitazione di naturalezza iniziando a scendere verso il piano di sotto.

Mi blocco quando arrivo a metà. Caroline è alla fine delle scale, e tra due dita sta tenendo sollevata in aria la giacca nera di Damon, scrutandola assorta. Sento il volto andarmi in fiamme.

"Cosa ci fa questa qui?"

"E' … di Jeremy," spiego subito, coprendo anche gli ultimi gradini alla velocità della luce. "E' così disordinato, lascia sempre tutti i vestiti in giro, glielo dico sempre."

Caroline alza lo sguardo su di me, corruga le sopracciglia.

"Jeremy indossa giacche eleganti?"

"Sì, è per … " Tentenno, porto una mano sulla nuca, mi gratto i capelli. Pensa, Elena, pensa. "L'aveva comprata per andare al prom un paio di mesi fa."

Se la rigira comunque tra le mani, sovrappensiero.

"Pensa che sembra davvero simile a quella che-"

Gliela strappo di mano e la appoggio di traverso sopra il corrimano. Mi ci appoggio contro anche io, con nonchalance. O almeno quella che spero possa sembrare nonchalance.

"Stavi dicendo, che sei venuta qui perché …?"

Incrocio le braccia sul petto, cambio idea. Poso con disinvoltura un mano sulla colonnina della balaustra. Mi sforzo di ricordare quale linguaggio del corpo suggerisca di non avere niente da nascondere.

"Oh, sì, giusto," prosegue lei. Mi porge il leggero soprabito impermeabile appeso al suo avambraccio che, presa da altro, ieri sera mi sono completamente dimentica di riprendere dal guardaroba. "Hai lasciato questo al ballo ieri sera. Tieni. A proposito, perché te ne sei andata così all'improvviso, senza neanche salutare?"

"Mi dispiace, ero … stanca," le sorrido, sperando che non insista più di tanto. "Ho provato a cercarti, ma devi essere stata molto impegnata e non volevo disturbare."

"Oh, capisco …" Per un attimo mi sembra incerta, e se Caroline sembra incerta non è mai davvero un buon segno. Quando però la vedo tormentarsi appena le dita tra di loro, mi rendo conto che non può essere solo per via dell'incongruo tracciamento dei miei movimenti della sera prima. Ma non ho il tempo di approfondire quel pensiero che Caroline scuote appena la testa, scrolla via quella titubanza e mette su uno dei suoi soliti sorrisi. "Senti, facciamo colazione insieme, ti va? Magari possiamo parlare un po', c'è questa cosa che è sicuramente una stupidaggine ma …"

Il mio sguardo scatta velocemente verso il piano superiore, la interrompo prima che possa finire.

"Possiamo … fare un'altra volta? Sono un po' impegnata oggi."

"C'è Jenna di turno al bar, ci sono passata poco fa," mi fa sapere con una breve occhiata sospettosa.

"Sì, lo so, è … per via di Jeremy." Mi dò mentalmente una manata sulla fronte per la mia penosa incapacità di trovare scuse più creative. Immagino Damon, di sopra, che non la smette più di alzare gli occhi al cielo. "Ritorna oggi dal campeggio con i suoi amici a Virginia Beach, ha programmato questa visita al campus di Berkeley e mi ha chiesto di accompagnarlo. Per … qualche giorno."

"Oh." I suoi occhi hanno un moto di delusione, ma lo scaccia via in un secondo. "Oh, giusto. Beh, Damon è ripartito per San Francisco proprio questa mattina, lo so perché Stefan è uscito presto per accompagnare lui e Alaric e … Magari puoi chiamare lui per farti consigliare cosa vedere o dove stare!" mi suggerisce con un gesto delle mani ad accompagnare la sua idea geniale.

Mi gratto nervosamente il retro dell'orecchio. "Certo. Lo farò sicuramente."

Poi realizzo ciò che ha appena detto. C'è un particolare fondamentale che non torna nella sua versione dei fatti. Stefan dovrebbe averle detto che Damon non è esattamente all'aeroporto in questo momento. Probabilmente sarebbe meglio non farglielo notare, ma …

"Non hai parlato con Stefan da stamattina?"

Quando i suoi occhi saettano su di me, brillano di un inaspettato moto di colpevolezza. Come se fosse lei, quella che sta nascondendo qualcosa.

"Cosa? No, non ancora, è solo che io …"  Si interrompe. Torna a scuotere la testa. "Davvero, lascia perdere. Non ha importanza. Parliamo quando ritorni, ok? Può aspettare. Saluta Jeremy!"

Sorride convinta, agita una mano nell'aria e sparisce verso la porta prima che io riesca ad aggiungere altro. Ma sono lo stesso ancora un po' disorientata, quando torno al piano di sopra e apro la porta di camera.

Damon è seduto sul davanzale interno della finestra, sbircia cauto dalle tende probabilmente per assicurarsi che Caroline davvero se ne sia andata.

"Ok," esordisco corrugando la fronte. Indico con una mano la finestra, nella generale direzione da cui Caroline è appena uscita. "Tutto ciò è stato a dir poco … strano."

"Strano?" mi fa eco lui, lasciando ricadere la tenda per voltarsi verso di me. "E' stato una totale disfatta. Sei pessima come bugiarda. Cos'era tutta quella roba assurda su Jeremy?"

Quindi avevo ragione. Occhi alzati al cielo per tutto il tempo.

"Esattamente," dico raggiungendolo a passi decisi. "E lei se l'è bevuta. Non ha fatto domande. La Caroline che conosco io mi avrebbe sbugiardato in due secondi netti. Ha un radar micidiale per queste cose, e stamattina era completamente fuori uso. Qualcosa non andava. Magari dovrei …"

"Non darci troppo peso." Damon scrolla le spalle. "Se dovessi tirare a indovinare? Ha avuto qualche stupida scaramuccia con mio fratello la scorsa notte, qualcosa che lui ha o non ha detto, qualcosa che ha o non ha fatto. Fanno sempre così. Lei fa l'offesa senza dirgli perché, prima o poi ci arriva anche lui, e in men che non si dica tornano ad essere quelli di sempre, di solito dopo qualche bizzarro giochetto di ruolo in camera di letto. Non vorresti essere nella stanza accanto quando accade, fidati. Ehi …" Mi prende una mano e mi attira verso di sé. Mi fa sedere tra le sue gambe e scivola con un braccio attorno alla mia vita. Mi lascio andare alla piacevole sensazione del suo petto nudo contro la mia schiena, e sono attraversata da un brivido di pelle d'oca quando posa un piccolo bacio alla base del mio collo. Continua a voce più bassa, "Sei ancora sicura del fatto di venire con me? O stavamo davvero parlando solo per metafore sessuali?"

C'è una nota esitante nella sua voce che neanche la leggerezza sarcastica che prova a dare alla frase riesce del tutto a nascondere.

Mi serra il cuore in una morsa. Perché mi sta offrendo la possibilità di ripensarci, ed io lo so (lo sa anche lui?) che prenderla sarebbe la cosa giusta da fare. La cosa giusta per Damon, la cosa giusta per il mio fidanzamento già fin troppo malandato. Dovrei prendere le distanze da tutto questo, fermarmi a riflettere su cosa significhi, aspettare che torni Elijah ed affrontarlo, non invischiare Damon così a fondo nei miei dubbi più di quanto abbia già fatto. Fare la cosa giusta.

Solo che …

Solo che c'è questo fremito che mi anima dentro, anche adesso che Damon mi accarezza piano l'avambraccio con le dita, a cui non voglio ancora rinunciare. Solo che c'è la strana euforia che l'idea mi provoca, c'è il calore delle braccia di Damon, e c'è, più insidiosa di tutto, la voglia di fare la cosa più sbagliata di tutte. Mi mordo leggermente le labbra.

"Sì," dico. "Lo sono."


***


E' sorprendente quanto sia facile. Passarla liscia con le bugie, scivolare in una zona grigia dove inventare scuse da vendere a me stessa e agli altri.

Dopo che Damon mi ha confermato di aver trovato posto in un volo nel primo pomeriggio, non ho dovuto fare altro che chiedere a Jenna di occuparsi della gestione del locale per qualche giorno e chiamare Jeremy, per perfezionare una storia di copertura che è improvvisata, debole e piena di falle, ma che per il momento mi tiene al riparo da spiegazioni e confronti, e questo è ciò che conta.

Mio fratello non fa domande, o perlomeno non ne fa di troppo compromettenti. Davanti alla mia peculiare richiesta, tutto ciò che il suo atteggiamento da vivi-e-lascia-vivere riesce a partorire è un "Quindi sono con te a Berkeley per qualche giorno, quando in realtà non faccio che prolungare le vacanze?"

"Esatto."

"Per quanto?"

Faccio scattare la chiusura del trolley con un piccolo click. Non ne ho idea.

"Ti farò sapere."

C'è una piccola pausa dall'altro lato della linea, colmata da vento, schiamazzi e altri rumori di una spiaggia affollata.

"Ma vai davvero a Berkeley?"

Mi siedo sul bordo del letto, sulle lenzuola che sono sfatte e stropicciate. Ci passo sopra le dita, sembrano ancora avere forma e odore della notte passata, ed il buonsenso mi dice che dovrei cambiarle. So già che non lo farò.

"Più … o meno."

"Devo chiedere?"

Sposto il telefono sull'altra spalla, chiudo gli occhi e inspiro. "Meglio di no."

Quando li riapro l'attimo dopo, lo sguardo mi cade sul comodino dove, nella stessa posizione di precario equilibrio contro il bordo di un libro in cui si regge da ieri notte, l'anello di Elijah giace messo da parte senza che nessuno glielo abbia davvero chiesto. Riflette la luce che entra dalla finestra, limpida come può esserlo solo subito dopo un temporale, e brilla in quello che sembra quasi un moto di protesta quando inclino la testa di lato.

"Va bene," dice Jeremy con un sospiro, mentre io mi sporgo per prenderlo in mano, tenendolo fra il pollice e l'indice come se potesse davvero suggerirmi cosa farne di lui. "Ma, 'Lena … Almeno, lo sai cosa stai facendo?"

C'è una nota di preoccupazione fraterna nel modo in cui lo chiede, una di quelle che sembrano voler dire "Chi è che devo prendere a calci per te?" e che riescono sempre a sorprendermi quando meno me lo aspetto. Mi farebbe sorridere, se non fosse che mi fa d'un tratto sentire stranamente vulnerabile.

"No," ammetto piano. Mi rigiro l'anello tra le dita un'ultima volta e lo poso con cura sul fondo del cassetto, che chiudo con la speranza di lasciare lì tutto ciò che potrà tornare a perseguitarmi in un altro momento. "Non lo so."

Non sono sicura, però, che funzioni davvero. C'è una indefinibile sensazione di disagio ad accompagnarmi nel viaggio verso l'aeroporto dove sto andando ad incontrare Damon, pensieri che non sono spazzati via neanche dal vento fresco che soffia dallo spicchio aperto di finestrino e dalla radio che ho alzato ad un volume più alto del solito.

Quando sono diventata questa persona? Quella che mente alle persone che ama - a Jenna, alle mie amiche, ad Elijah … oh dio, Elijah - e agisce furtivamente come una qualsiasi adultera quando un uomo meraviglioso che la ama è ignaro di tutto all'altro lato del mondo. Elijah che non merita un simile trattamento. Elijah che non chiama, non lo fa da un paio di giorni. Elijah che mi sta dando spazio come ha detto che avrebbe fatto, con la voce incerta, nella nostra ultima e breve telefonata piena di silenzi prima che io tradissi così i suoi sforzi e la sua fiducia.

Il pensiero fa così male, mentre porgo documenti e biglietto e passo oltre i controlli per dirigermi al gate, da farmi vedere con estrema chiarezza quanto io stia facendo una stupidaggine immane.

Penso che sono ancora in tempo per tornare indietro, andare a riprendermi l'auto dalla zona a sosta prolungata, dire a Damon che è stato un errore (è ancora un errore, c'è una fastidiosa vocina che lo sa, anche se io continuo a non darle ascolto) e che non avrei mai dovuto neanche arrivare fin qui.

Ecco cosa sto per dirgli, prendendo un respiro profondo, quando lo vedo comparire e sedersi accanto a me sulle scomode sedie di metallo dell'affollata lounge d'attesa.

Ma tutte le parole e le frasi che mi sono preparata si dissolvono sulle mie labbra, non appena Damon si volta verso di me e, invece di salutare come farebbe una persona normale, mi porge un mezzo sorriso compiaciuto ed una mini-confezione appena aperta di Froot Loops.

Lo osservo sconcertata per alcuni secondi, un po' presa alla sprovvista ed un po' incredula che davvero si ricordi ancora della mia insana propensione verso ogni genere di cereali disgustosamente zuccherati, mentre lui si lancia nella storia di come è riuscito ad ottenerli mettendo contro tra di loro due ragazzini che si stavano litigando per l'ultima confezione e poi soffiandogliela da sotto il naso.

E poi, dal niente, mi fa scoppiare a ridere. Non riesco a farne a meno, non riesco a fermarmi.

E' così stupido, è così fuori luogo, è così senza senso. Ma è anche così vero, e così stranamente liberatorio, che non ha più importanza quanto sia un errore.

Sono qui, sto ridendo ed è come respirare di nuovo.


Non era esattamente un segreto, non in senso stretto. Insomma, non avevo mai avuto veramente  intenzione di tenerlo nascosto o di mentire al riguardo.

Ma era … nostro. Qualcosa che non mi andava davvero di condividere con nessun altro.

Dopotutto, poi, non capitava neanche tutte le notti. Solo alcune, solo quelle in cui non credevo di riuscire a prendere un solo altro respiro, al pensiero di passarle da sola. Quelli erano i casi in cui non riuscivo a stare lontana da Damon.

Le giornate le trascorrevo quasi interamente al Grill, ore strascicate che si appiccicavano addosso come il caldo umido di giugno. Senza la scuola a distrarmi, tutti i sottili cambiamenti in atto già da un po' mi erano diventati tutto d'un tratto più palesi che mai.

Tavoli sempre più vuoti. Meno personale stagionale. Avvisi di pagamenti che si accumulavano sulla scrivania dell'ufficio. Mio padre che silenziosamente affogava in tutto questo.

Era un circolo vizioso di sobrie apparenze nella facciata dietro al bancone, quieta autodistruzione in bicchieri bevuti di nascosto, sbalzi di umore ed un estraniamento dal mondo esterno in cui preferiva tornare a crogiolarsi invece che affrontare le cose.

Ero arrabbiata, arrabbiata come non lo ero mai stata. Come poteva non voler vedere? Non vedere come Jeremy fosse sempre più solitario e taciturno, non vedere quanto io e mio fratello avessimo bisogno di lui, e non solo nei giorni buoni quando si ricordava che non avremmo dovuto prenderci da soli cura di noi stessi.

Era una rabbia chiusa che in superficie non ci arrivava mai. Se solo le avessi permesso di farlo, avevo paura che tutto sarebbe andato ancora più in frantumi di quanto non lo fosse già.

Così, ero arrabbiata con lui ed ero arrabbiata con me stessa - colpevole di essere così persa e impotente, colpevole di non poter fare di più.

Non mi sono mai chiesta, perché Damon. Perché scivolare fuori di casa quando nessuno se ne accorgeva per andarlo a cercare, perché averlo accanto diradasse quel temporale dentro che non aveva sfogo, o perché il leggero brivido dato dal fare qualcosa che non avrei dovuto fosse così rinfrescante nell'aria tiepida delle notti estive.

Era così e basta. Con Damon, non avevo bisogno di spiegare. Non avevo bisogno di capire.

Avevo sempre un po' timore, ogni volta che giravo la chiave nella sua porta, di non trovarlo da solo, di trovarlo insieme ad un'altra ragazza (la sua ragazza) al mio posto sul divano o sul letto che reclamavo come miei senza averne diritto. Ma non mi capitò mai.

Quando in alcuni casi lo trovavo già lì, qualsiasi cosa stesse facendo a quell'ora tarda - leggere sdraiato scomposto sul divano, lavare tazze della colazione rimaste ad aspettare l'intera giornata - mi gettava un breve sguardo e tutto andava naturalmente al suo posto, come se stesse aspettando e già sapesse. Ma la maggior parte delle volte rientrava tardi ed io mi appisolavo prima che fosse tornato, continuando poi a fingere di essere addormentata anche quando spegneva la luce e si sdraiava piano accanto a me. Tacite abitudini che avevamo preso fin troppo in fretta.

Delle notti, gli sentivo addosso l'odore della sua ragazza. Solo una vaga scia di quel vivace profumo di agrumi in cui Michelle era sempre avvolta, residui rimasti nell'incavo del suo collo o sulla stoffa della sua maglietta. Il mio stomaco diventava più stretto, ed odiavo quella sensazione.

Mi portava a domandarmi se anche lui sentisse Matt su di me, se sentisse la traccia delle sue mani e dei suoi baci, quelli infilati tra una pausa e l'altra al Grill, quelli senza maglietta sul divano di casa mia dopo che mi aveva accompagnato ed aver mandato Jeremy in camera sua.

Il pensiero - starsene lì, sdraiati accanto, con addosso altre persone - mi lasciava in bocca un sapore sbagliato. Mi ripetevo che non avrebbe dovuto, che non facevamo nulla di male, non ne avevamo intenzione (me lo ripetevo anche quando uno sfioramento accidentale o uno sguardo protratto troppo a lungo mi coglievano impreparata - un battito più veloce, un breve sentirmi più viva sul fondo del petto. Piccoli incidenti, niente su cui soffermarsi, archiviati in fretta). Ma, a dispetto di questo, continuavo a tornare. Damon continuava ad essere lì.

Al mattino me ne andavo sempre presto, molto presto, abbastanza da poter scivolare di nuovo in casa senza essere notata - un sacco di albe di luce fredda e cielo rosa, giallo pallido appena sotto la linea dell'orizzonte. Lasciavo che Damon continuasse a dormire, sottraendomi piano al braccio che aveva posato mollemente sul mio fianco, o districando la gamba che avevo intrecciato con la sua.

A volte restavo appena un attimo di più a guardarlo, prima di andarmene davvero. I capelli scarmigliati sulla fronte, il leggero cipiglio delle sopracciglia, la curva forte delle labbra. Era bello. Lo era sempre, è vero, ma c'era qualcosa di più in quel momento in cui, da addormentato, smetteva lui stesso di esserne consapevole e di usarlo come apparenza (anche se, un paio di volte, mi ero chiesta se fosse sveglio e stesse solo fingendo. Piccole spie - una leggera contrazione della bocca, palpebre chiuse con troppa fermezza). Era anche quello niente più che un piccolo piacere furtivo, rubare una cioccolata pregiata e gustarla quando nessuno può vederti.

Era forse ancora più presto del solito la mattina che infilai le converse, afferrai la mia borsa dal divano, e qualcuno bussò forte contro la porta facendomi congelare di scatto nel bel mezzo dell'ingresso.

Gettai un'occhiata perplessa all'indietro verso la zona letto dove Damon si era appena mosso bofonchiando qualcosa nel cuscino, e poi di nuovo verso la porta. Inclinai timidamente la testa per sbirciare verso la finestra. Altri colpi violenti mi fecero sobbalzare.

Chi mai andava a bussare così a qualcuno alle cinque e mezza del mattino? Suo fratello, suo padre,  la sua ragazza, chi …

"Andiamo, bastardo, sorgi e splendi!" rimbalzò dall'altro lato dalla porta risuonando nel piccolo appartamento, le parole sovrapposte e strascicate in un marcato accento inglese.

"Cristo," biascicò Damon dietro di me, passandosi una mano svogliata tra i capelli e superandomi diretto verso l'ingresso.

"Damon!" lo richiamai in un sussurro. Si girò verso di me con un laconico "Buongiorno anche a te, Elena," che chiaramente non aveva colto l'occhiata eloquente con cui gli stavo intimando di non azzardarsi ad aprire la porta, dalla quale proveniva adesso un cantilenante " wakey wakey …".

"Non puoi aprirgli!" lo fermai posandogli una mano sul braccio. Ancora stordito dal sonno, guardò prima la mia mano, poi il resto del mio volto e la mia espressione nervosa. "Cosa penserà a trovarmi qui …"

Damon scrollò le spalle. "E' solo Enzo. Non se ne accorgerà neanche," rispose, ed aprì prima che avessi il tempo di aggiungere altro.

Il suo amico non entrò. Si riversò all'interno con un passo incespicante, finendo dritto addosso a Damon e circondandogli le spalle con un braccio. Mormorò qualcosa molto simile ad un affettuoso " bloody bastard".

"Cosa cazzo ci fai sveglio a quest'ora?" domandò Damon quando riuscì a staccarselo di dosso e ad indirizzarlo verso uno degli sgabelli accanto al bancone dell'angolo cottura.

Enzo ci si sedette sopra un po' malfermo.

"Mai andato a dormire," replicò lampeggiando un sorriso nella sua direzione. Si piegò appena per prendere qualcosa dalle tasche, posò tutto sopra il bancone. Aveva gli occhi arrossati e l'inconfondibile odore di alcol non ancora del tutto smaltito.

"Dunque, ho grandi notizie," proseguì iniziando a frugare tra le cose che aveva tirato fuori. Strappò un cartoncino, lo piegò e se lo mise sull'orecchio, aprì una sigaretta spargendo ovunque fili  di tabacco e prese a mischiarlo con dell'erba presa da un sacchetto trasparente. Poteva pure essere ancora ubriaco, ma in quei movimenti era rapido e preciso. "Sai come parliamo sempre di mandare a fanculo questo posto, partire e andare verso New York?"

Corrugai la fronte. Quella mi era nuova. Sapevo che Damon non aveva voluto prendere il college in considerazione, sapevo che c'era ancora aperta quell'opzione Dartmouth per cui suo padre continuava a fare pressione, sapevo che stava pensando a cosa fare dopo il liceo, ma … Enzo e New York? Di quello non ne avevo mai sentito parlare.

Una strana fitta mi chiuse appena la gola. Però forse non significava niente. Forse Damon era confuso quanto me. Mi voltai verso di lui per osservare la sua reazione. La sua espressione non dava via niente, ma certamente non era confuso. La fitta si fece un po' più acuta.

"Beh," proseguì Enzo, leccando il lato della canna che aveva appena finito di chiudere, "Indovina un po'? Ho trovato un paio di zii imparentati con quello scherzo di padre che non ho mai visto. Hanno un pub a Williamsburg, lavoro assicurato quando vogliamo. Dì di sì, e possiamo partire domani stesso."

Enzo finì con un sorriso gongolante, accese la canna, soffiò via una boccata.

Si accorse di me.

"Cosa ci fa lei qui?" domandò allungando il braccio nella mia direzione abbastanza da avvolgermi in una nuvola pungente di fumo che scacciai agitando una mano sotto al naso, ma il volto e la domanda entrambi rivolti a Damon. Poi si illuminò. "Ooohhh …"

"No, nessun oooh," mi affrettai a chiarire, mentre Damon piegava la testa e si portava una mano a massaggiarsi la radice del naso, "Noi non-"

"Aspetta, adesso non dirmi che questo cambia le cose?" mi interruppe Enzo come se non avessi neanche parlato, con lo sguardo accigliato e quasi offeso sempre rivolto solo e soltanto verso Damon.

"Che cose?" domandai, spostando lo sguardo confuso tra uno e l'altro. "Quali cose?"

Damon sfilò con decisione la canna dalle dita di Enzo.

"Sono le cazzo di cinque del mattino. Prendi il divano, prendi il letto, quello che vuoi. Smaltiscila e poi ne parliamo."

Enzo si alzò facendosi leva sul bancone, si appoggiò con una mano sulla spalla di Damon, gli diede un paio di pacche e barcollò verso il letto dove collassò occupandolo per intero.

Damon si sedette su uno degli sgabelli, diede anche lui un lungo tiro, lo sguardo sulla parete di fronte. Sorvolai sul chiedergli come facesse sul serio a fumarsi quella roba a quest'ora del mattino dopo essere appena uscito dal letto e mi sedetti di fronte a lui. Avevo la voce appena più acuta del normale.

"New York?"

"Sono solo chiacchiere."

Si sporse per farsi scivolare davanti un piattino da caffè, ci scrollò la canna, si strinse nelle spalle.

Incrociò i miei occhi, mi scrutò per un lungo secondo come nel tentativo di capire cosa stessi pensando. Aveva un'aria così stropicciata, con i capelli alzati in testa, gli occhi azzurri ancora un po' annebbiati, e quella spirale di fumo che saliva in mezzo tra noi due.

Ma io non sapevo cosa stavo pensando. Perché, improvvisamente, quelle "chiacchiere" mi apparivano la minaccia più tangibile in grado di portarmelo via, più di qualsiasi Dartmouth, più di qualsiasi college che io stessa gli ripetevo sempre di prendere in considerazione.

(Magari in un anno, quando le ammissioni si sarebbero aperte di nuovo. Magari quando anche io sarei stata ad un passo dal senior year, e non doveva per forza significare non vedersi più per chissà quanto tempo. Magari più avanti, magari più tardi.)

Quelle "chiacchiere" erano concrete. Ed io realizzai di non esserne parte.


Cercai di non darci troppo peso. Probabilmente Damon aveva ragione, erano solo discorsi e non stava davvero programmando di andare, almeno non in un futuro immediato, o altrimenti me lo avrebbe detto.

Me lo avrebbe detto.

Nessuno dei due tornò ad affrontare l'argomento neanche nei giorni seguenti. Lui non ne fece parola, ed io mi guardai dal porre domande che non sentivo di avere il diritto di fare. In un certo senso, una parte di me lo aveva sempre saputo che sarebbe successo, che Damon non aveva davvero intenzione di restare per sempre in questa città di a malapena trentamila abitanti [1]. E se io avessi chiesto e lui avesse confermato … Non sapevo se ero pronta ad affrontare l'idea.

Così spingevo anche quella in fondo sotto a tutto il resto, l'estate ad andare avanti come sempre.

"Cinema questa sera?" mi domandò Matt, accarezzandomi lentamente il fianco con la mano.

Dall'angolo di strada in cui ci eravamo appartati per qualche minuto, sbirciai oltre la sua spalla, verso il Grill e le ombre lunghe del pomeriggio che l'edificio e i turisti seduti ai tavolini esterni gettavano sopra il marciapiede. Anche Bonnie era là, una mano alzata a fianco del volto per ripararsi dal riflesso diretto del sole.

Mi stava aspettando, così mi sbrigai a chiudere la conversazione.

"Non lo so," risposi. "Dipende se riesco a liberarmi più tardi."

Matt inclinò il volto, mi lasciò un bacio appena sotto l'orecchio, un altro più giù lungo il collo, risi e mi sottrassi scherzosamente.

"Mi aspetta un'infernale settimana al lago Roanoke con la mia famiglia da domani, non posso pensare di non vederti. Mi mancherai."

Oh. Avevo completamente dimenticato, ma non glielo diedi a vedere. Strinsi le braccia attorno al suo collo, mi sporsi per baciarlo sulle labbra.

"Anche tu mi mancherai. Vedrò cosa posso fare, ok? Ti chiamo più tardi, promesso."

Mi sarebbe mancato davvero, anche se il pensiero mi provocò una minuscola, colpevole, onda di sollievo. Tenere la mia storia con Matt un territorio libero dai problemi della mia incasinata famiglia, in cui non avevo nessuna intenzione di coinvolgerlo, stava diventando sempre più complicato di giorno in giorno (a volte desideravo che non passasse a trovarmi così spesso) e la prospettiva di una settimana in cui non avrei dovuto preoccuparmi di bilanciare le due cose non sembrava poi così male.

Lo salutai con un altro bacio veloce e mi avvicinai al tavolino di Bonnie, che alzò subito lo sguardo su di me, accogliendomi con un sorriso.

"Dov'è Caroline?" le domandai, sedendomi accanto a lei. "Sbaglio o il suo messaggio diceva: ´Riunione urgente emergenza vestito´?"

"E' in ritardo," rispose lei, subito dopo corrugando la fronte soprappensiero. "Il che è strano. Caroline non è mai in ritardo, soprattutto quando si tratta di assillarci con questa storia di Miss Mystic Falls. Non ti pare … sospetto?" Bonnie proseguì sporgendosi verso di me, in velato tono cospiratorio. "Penso che stia nascondendo qualcosa."

Mi strinsi nelle spalle, ci pensai anche io. Non avevo visto molto Caroline nelle ultime settimane, ma avevo semplicemente dato per scontato che fosse solo estremamente presa dalla maniacale preparazione per la sua imminente partecipazione a Miss Mystic Falls.

"Non so," risposi. "Forse …"

Mi interruppi quando vidi una testa bionda apparire dall'altro lato della strada. Gettò una veloce occhiata dietro di sé, si lisciò il leggero vestito chiaro e quindi mise su un ampio sorriso nel dirigersi verso di noi.

"Buongiorno!" esordì afferrando una sedia dal tavolino di fianco e sedendosi tra noi due.

"E' pomeriggio," le fece notare Bonnie. "E sei in ritardo di venti minuti."

"Può capitare," scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo per tuffare le mani a prendere qualcosa nella propria borsa.

Ne tirò fuori un'agenda imbottita di ritagli, con le sue iniziali intrecciate disegnate sulla copertina in un pennarello a brillantini, seguite appena sotto dalla scritta "Progetto Miss Mystic Falls."

"Quindi," iniziò raddrizzando le spalle nell'aprirla. "Il vestito. Devo scegliere il colore. Questo azzurro," fece scivolare davanti ai nostri occhi una fotografia, "farebbe risaltare i miei occhi, ma questo verde," altra fotografia, "si intona meglio con-"

"Cos'è quello?" la interruppe Bonnie.

Caroline scattò su, allargò lo sguardo. "Quello cos-"

"E' un succhiotto?"

Caroline si portò istintivamente una mano sulla base del collo, proprio mentre Bonnie si allungava per andare a scostare il leggero foulard a fiori che la mia amica portava legato in un grazioso nodo laterale.

"Certo no!" protestò con voce acuta.

"Certo che lo è!"

"Fammi vedere!" mi intromisi sporgendomi anche io dalla sedia.

Caroline si scostò stizzita da entrambe e si rimise a posto il fazzoletto mandandoci occhiate fulminanti. Era un succhiotto.

"Oh, andiamo," le sorrise Bonnie. "Chi è?"

"Nessuno," replicò decisa Caroline, tornando a sfogliare indispettita le pagine della sua preziosa agenda.

Bonnie si rivolse a me. "Secondo me è Jesse."

"Nah, secondo me è Nick," le feci eco.

"Smettetela."

"Basta che non sia di nuovo Tyler," proseguì Bonnie facendo finta di non averla sentita.

"Ah!" esclamai in segno di vittoria, strizzando l'occhio alla mia amica. Quel gioco era troppo divertente. "Secondo me è Stefan."

"Non è Stefan!" sbottò Caroline. "Perché deve sempre trattarsi di Stefan?"

"Uhm, perché hai una cotta per lui da almeno un anno?" le ricordai.

Bonnie alzò gli occhi al cielo ed io sperai che non partisse di nuovo con il suo ritornello su quanto poco le andassero a genio tutti i membri della famiglia Salvatore, il fratello del soggetto in questione per primo.

"Beh, magari mi è passata," replicò alzando il naso all'insù. "Magari sono andata avanti. Magari non mi fanno più effetto quei suoi intensi occhi verdi, le sue spalle larghe, o quella sua aria sempre seria che lo rende così incredibilmente …" Si fermò, scosse fermamente la testa, la bocca piegata in una smorfia. "Non ho intenzione di parlare di Stefan."

Sfogliò un altro paio di pagine, senza guardare né me né Bonnie e probabilmente neanche le pagine stesse.

"Voglio dire," proseguì riprendendosi bruscamente le foto che aveva tirato fuori e per rimetterle dentro. "Cosa c'è da dire poi, su Stefan? Ha mollato la ragazza da mesi, gli interessa di chiedermi di uscire? Mi dice che lo ha fatto per me? No!" Chiuse con violenza la sua agendina, due o tre piccoli fogli svolazzarono via e volteggiarono fino a fermarsi ai piedi di una coppia seduta ad un tavolino un paio di metri da noi. Entrambi voltarono le teste perplessi, lei neanche se ne accorse. "Cosa si aspetta, che sia io ad andargli dietro? Quindi basta parlarne. Ho chiuso con Stefan." Prese un lungo sospiro, alzò lo sguardo su entrambe, incerto. "Insomma, voi credete che …"

" 'Lena, c'è un tizio che cerca papà, dice che è importante."

Caroline lasciò cadere la frase, io mi voltai verso Jeremy che era appena comparso accanto al tavolo. Ruotai sulla sedia per portarmi davanti a lui, aggrottai la fronte. "Che tizio?"

Mio fratello sollevò le spalle, le lasciò ricadere in apatia.

"Non lo so. Ma la ragazza nuova dice che è uscito da più di un'ora, e che non sa dove trovarlo."


***


E' sera quando arriviamo.

Ho la testa stordita dalle poche ore di sonno, dalle lunghe ore di viaggio, da tutta la piega degli eventi.

L'altro lato della costa, e tutto ciò che vi ho lasciato, è diventato a poco a poco sempre più distante, sfumandosi in una macchia lontana ed indistinta ad ogni commento sarcastico che Damon mi ha sussurrato nell'orecchio, ad ogni carezza furtiva tra i sedili dell'aereo, ad ogni occhiataccia guadagnata dalla signora della fila di fronte e ad ogni stupida risatina che la cosa mi ha fatto sfuggire, sentendomi sciocca come una ragazzina e non curandomene affatto. La macchia si è sfumata del tutto nell'appisolarmi infine sulla spalla di Damon, cullata dalla vibrazione oscillante dell'aereo, confortata dalla sua mano attorno al mio fianco e dalle leggere carezze delle sue dita.

E' uno stordimento che si abbatte su di me tutto insieme, nei circa venti minuti di taxi che ci portano dall'aeroporto all'appartamento di Damon, luci di una città che non conosco che scorrono alla mia sinistra e la macchia nera di oceano che colma la baia alla mia destra.

Sembra quasi surreale: comportarsi così, sentirsi così. Ma la mano di Damon che torno a cercare nella penombra dell'abitacolo è davvero ancora lì, calda e vicina alla mia, così come è lì il leggero mezzo sorriso che mi rivolge quando distolgo lo sguardo dal finestrino per portarlo su di lui, e quelli no, non sono surreali. Sono così reali da fare male.

Mi bacia come mettiamo piede nel suo appartamento - porta sbattuta alle nostre spalle, trolley lasciati cadere sul pavimento dell'ingresso e luce accesa per sbaglio dalla mia schiena premuta sopra l'interruttore. Mi bacia con le dita attorno al mio viso, mi bacia come se fosse stato un dolore fisico non poterlo fare come si deve, a fondo e a lungo, fino a questo momento.

E la mia testa si fa più ancora più stordita, drogata del peccato colpevole della consistenza dei capelli di Damon sotto alle mie dita, delle sue labbra sul mio collo e della tormentosa frizione che i nostri corpi racchiusi dai jeans stanno cercando.

Faccio scivolare le mani lungo il suo petto, fino a trovare l'orlo della sua maglietta e ad infiltrarci sotto le dita.

"Camera," gli sussurro sulla bocca non appena è tornato all'altezza del mio viso.

Un sorriso malizioso si apre lento sulle sue labbra, lui torna a lambirmi il profilo, "Devo prima mostrarti tutti i pensieri che mi hanno tenuto in vita durante quelle lunghe ore di volo, mentre tu mi sbavavi addosso e gli infernali bambini della fila dietro davano calci al mio sedile."

Non so se ridere e dargli uno scappellotto sulla spalla, o dare ascolto a ciò che l'accenno roco nella sua voce ha appena fatto fremere tra le mie gambe. Mantengo il suo stesso tono un po' leggero un po' provocatorio, sgrano lo sguardo in una finta espressione di innocenza, "Oh, e cosa sarà mai?"

Ma mai sottovalutare Damon, o pensare di batterlo al suo gioco. Gli basta spostare la bocca a sfiorarmi l'orecchio, tre sole parole portate dal suo respiro tiepido.

"Ho una vasca."

***


Era una trappola, ed avrei dovuto saperlo. O forse era solo impazienza, perché riempire la vasca stava prendendo troppo tempo e Damon aveva deciso di smettere di aspettare.

Meglio sollevarmi e buttarmi sotto il getto dell'acqua calda con ancora tutti i vestiti addosso. Avevo inventato per lui nuovi tipi di insulti, avevo protestato e avevo tirato dentro anche lui. Mi aveva tolto il fiato, prima per colpa delle risate mentre l'acqua straboccava ovunque, poi per ben altri motivi quando i nostri vestiti zuppi erano spariti del tutto. Mi aveva tolto il fiato con il suo azzurro offuscato, con le sue labbra socchiuse in estasi ed i suoi capelli a gocciolarmi sulla spalla, con le sue mani e la sua lingua intente a scivolarmi addosso per scoprire nuovi punti e nuovi modi per torturarmi e farmi sua.

Adesso sono affamata e sono esausta, ancora avvolta dalla traccia di vapore di quel bagno prolungato in cui siamo rimasti anche dopo, a viziarci pigramente, e da quel piacevole genere di spossamento che scioglie ogni tensione dalle ossa.

La voce di Damon arriva appena ovattata dalla stanza accanto. E' ancora al telefono a parlare con Stefan, per far seguito alla decina di chiamate perse sul suo cellulare quando siamo riemersi dalla nostra personale bolla di vapore.

E mentre la sua voce mi fa da sottofondo io mi muovo nel suo soggiorno, nello spazio aperto separato dalla piccola cucina che si apre alla destra dell'ingresso, e mi guardo attorno, osservandolo veramente per la prima volta con la cautela curiosa di chi sta per scoprire un nuovo mondo.

Assimilo l'insieme di spazio aperto e legno scuro, di linee pulite e di un'essenzialità che non sa di  limitazione ma di apprezzamento per le cose belle. E mi sembra quasi di sentirla, la stessa traccia nell'aria che era sempre lì ad accogliermi tutte le volte che mi infilavo non richiesta nel suo piccolo spazio vitale. Non importa il tempo che passa ed i posti che cambiano, quella leggera traccia lì, nascosta sotto a tutto il resto … quella è solo Damon.

Cammino verso la libreria che occupa un'intera parete laterale, dove tutto è coperto da un sottile strato di polvere impalpabile, quella che si deposita quando manchi da un po' di tempo. Ci sono un paio di bottiglie di bourbon invecchiato, che riconosco essere abbastanza costose da non figurare nel listino di un bar come il Grill, in uno dei ripiani più alti. Speaker e postazione per l'ipod in uno scaffale più a portata di mano ma nessun cd in vista, anche se mi ricordo che ne aveva sempre avuti molti. C'è però un giradischi poco più in basso, insieme ad una ridotta collezione di LP che mi abbasso in equilibrio sui talloni per poter sfogliare. Sorrido appena, non mi sorprende poi tanto che vengano tutti dagli anni '60-'70.

Mi rialzo e lascio vagare lo sguardo sopra i libri, molto meno ordinati rispetto ai dischi, accostati uno accanto all'altro senza seguire alcun criterio conosciuto. Alcuni sono messi in verticale, altri in orizzontale, i più spessi mischiati ai più sottili. Neanche gli accostamenti hanno davvero un senso. C'è un'antologia di Ginsberg accanto a "Guida galattica per autostoppisti", c'è Chomsky vicino ad una copia piuttosto vecchiotta de "Il giovane Holden" con una "S" scribacchiata di traverso sulla costola, e poi Krugman insieme ad un libro sul Perù. Li osservo e aggrotto la fronte, non proprio sicura di ciò che mi sarei aspettata di trovare.

Quello davanti ai miei occhi è un Damon tutto nuovo, ed improvvisamente non sono tanto sicura di conoscerlo ancora completamente. E' il ragazzo dei miei ricordi che si mischia con l'immagine di lui che mi sono inconsciamente creata tutte le volte che la mia mente vagava a chiedersi chi fosse diventato. E' l'uomo che senza neanche volerlo ho fatto entrare e conosciuto daccapo in questi ultimi mesi, insieme a tutta un'intera parte di lui e della sua vita di cui, realizzo con una punta di amarezza, io non sono mai stata parte.

(Sono sollevata di non aver trovato niente di visibile da poter legare a Katherine - il pensiero di Damon innamorato di lei, in qualche modo, punge ancora.)

Mi volto verso le ampie finestre a soffitto che attraversano l'altra parete, mi avvicino per scostare le tende scure semichiuse e rivelare la vista di luci scintillanti che fluttuano nel buio. Una delle finestre è montata su un pannello scorrevole che porta ad una piccola terrazza abbastanza grande per un paio di sedie ed un tavolino da caffè, le cui sagome si intravedono a malapena in mezzo all'oscurità. Faccio scattare l'apertura e metto piede all'esterno, ma vengo subito accolta da una folata di vento freddo che di estivo ha molto poco e che mi fa immediatamente rabbrividire nel leggero vestito a maniche corte in cui mi sono cambiata, costringendomi a passarmi le mani lungo gli avambracci.

"Clima adorabile, vero?"

Mi volto verso la voce di Damon, che si è appoggiato a braccia incrociate contro lo stipite della finestra aperta, con la luce interna ad illuminarlo e l'ombra di un sorriso a piegargli le labbra mentre mi osserva. Si è cambiato anche lui, in una maglietta bianca ed un paio di vecchi jeans chiari che gli cadono un po' sformati sulle anche. Ha i capelli ancora umidi disordinati sulla fronte.

Mi stringo un po' di più mentre un'altra ventata mi scompiglia i capelli.

"E' sempre così?" domando.

"Mmm uhm," mormora in risposta, indicando con un cenno della testa una direzione imprecisata al di là del parapetto. "E' l'oceano."

Si stacca dalla soglia e mi raggiunge al limitare del davanzale. Allunga una mano per spostare una delle ciocche che continuano piano a svolazzarmi sul volto, ed io inclino istintivamente la testa verso il suo tocco. Ho sempre amato il modo in cui lo fa, e non so se mi sono mai presa il tempo per apprezzarlo davvero.

"Stefan ti ha detto per caso qualcosa su Caroline?" chiedo, mentre poso le mani sul suo addome in cerca di calore, percependone le linee definite sotto al cotone.

Non sono ancora riuscita a scrollarmi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di strano in lei quella mattina. Avevo anche tentato di ripercorrere mentalmente la serata e i giorni precedenti, ma senza riuscire a trovare indizi o spiegazioni plausibili, solo una Caroline affaccendata su un sacco di cose. Ma è anche vero che Caroline tende spesso ad usare le sue fisse come valvole di sfogo quando qualcosa la turba, quindi è sempre difficile intuire cosa le stia passando per la testa. Durante il viaggio avevo pensato di chiamare Bonnie e chiedere a lei di capire qualcosa, ma Bonnie avrebbe fatto domande ed avrebbe preteso risposte, e so che con lei non sarei stata in grado di scamparla facilmente. Meglio non tentare troppo la sorte. Vigliacca.

"No," scuote la testa Damon. "Troppo impegnato a torchiarmi per la mia piccola sparizione di stamattina."

Le sue dita continuano ad accarezzarmi tra i capelli, piuttosto inutilmente visto che continuano a svolazzare un po' ovunque, ma va bene così perché non voglio che smetta.

"Ti ho messo nei guai?"

Un veloce sorriso ironico. "Non più del solito."

Stringo la stoffa sotto le mie dita e mi sporgo in avanti per posare le labbra sulle sue. Le apre per me scivolando con la mano sulla mia nuca, ed è forse la prima volta, da questa mattina, che lo bacio davvero per il gusto di un bacio, non distratta dalla frenesia di toglierci i vestiti di dosso. Ha un sapore diverso e nuovo, denso e lento. Mi entra dentro piano. Più a fondo di quanto avessi intenzione di permettergli.


Damon porta i due piatti in cui ha appena trasferito il "miglior pad thai di San Francisco", si siede accanto a me che lo aspetto sul divano con le gambe rannicchiate.

(Il frigo era vuoto, abbiamo considerato l'idea di uscire per mangiare. E' durata i cinque secondi necessari a realizzare tutto ciò che nei luoghi pubblici non è possibile fare.)

Gli sorrido e gli porgo il vino bianco che io ho versato per entrambi nel frattempo. Di solito non bevo, soprattutto senza un'occasione, ma del resto di solito non sono all'altro capo degli Stati Uniti in una situazione in cui non avrei mai pensato di ritrovarmi, quindi presumo che in uno strappo in più non ci sia niente di male.

Ne bevo a malapena due bicchieri, ma la mia soglia di tolleranza è talmente limitata che, per la fine della cena, ho la testa leggera e curiosa. E' ancora piena di tutti quei suoi pezzetti di vita che ho sbirciato prima, pezzi che non conosco di tutto quel Damon che è andato avanti senza di me.

"Come ci sei finito in questa città?" gli chiedo ad un tratto, accarezzando la base del bicchiere con le dita. "Hai scelto tu di vivere qua, o …"

"O mi ci sono ritrovato?" finisce per me. Mette via il suo piatto sul basso tavolino di fronte e, quando torna ad appoggiarsi all'indietro, si sporge verso di me per prendere le mie gambe rannicchiate e portarsele in grembo. Si stringe nelle spalle ed una sua mano mi accarezza sul ginocchio scoperto. "Non lo so. Certe cose succedono e basta, immagino."

"Raccontami," dico, sistemandomi meglio con un gomito sulla spalliera e la testa posata sulla mano. "Cos'è successo con Enzo e New York? Dopo che siete andati … Strade diverse?"

"Qualcosa del genere," risponde. "Si è stabilito a New York, fa il meccanico di auto d'epoca a Brooklyn Heights, ha tre bambini."

"Sul serio?" spalanco lo sguardo. Sorrido, ho qualche problema a conciliare l'immagine dello sbruffone che ricordo con quella di un padre di famiglia a soli 26 anni. "Mi prendi in giro."

"Nope," scuote la testa, sorride anche lui. "Ha trovato questa rossa di origini irlandesi, Maggie, l'ha messa incinta per sbaglio, e dopo il primo ci hanno preso gusto. Due maschi, una bambina, il più grande ha 5 anni. Sono tremendi, lo giuro. Mi chiama "fottuto yuppie" [2] ogni volta che sono in zona e ci vediamo per un paio di bevute."

"E tu, perché non sei restato?"

"A New York? Beh, quando siamo arrivati là … è stato diverso per lui. Ha trovato quello che voleva, qualcosa che gli piaceva." Continua ad accarezzarmi lungo la pelle nuda della gamba, lentamente, quasi distrattamente, ed è una bella sensazione. Lo fa con un istinto naturale, inconscio, quasi non potesse farne a meno. E' su questo che fissa lo sguardo mentre continua parlare, "Io no. Sempre irrequieto, pieno di rabbia, pieno di stronzate. New York può fotterti davvero quando sei così. Non riuscivo a tenermi neanche il più stupido lavoro, sono finito completamente al verde nel giro di neanche un anno."

Gli chiedo di continuare. Rimango ad osservarlo con la testa appoggiata sulla mano e le gambe tra le sue dita, ad ascoltarlo parlare e mettere insieme altri pezzi ad un quadro che, con lui, lo so che non sarà mai davvero completo. C'è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, un altro pezzettino da aggiungere.

Gli ultimi 100 dollari e la discreta dose d'orgoglio spesi per un bus diretto a New Orleans, dalla madre estraniata e il tetto sopra la testa che poteva offrire per qualche mese.

I mesi trascorsi là tra altri lavori saltuari, sua madre che se ne andava di nuovo per un altro posto e un altro uomo, la donna del piano di sotto con il lavandino sempre rotto e appassionate opinioni sul jazz che condivideva con lui ogni volta che gli chiedeva di farle piccoli favori. Si mette a ridere quando gli chiedo se ci andava a letto.

"Magari. Più di quarant'anni, e decisamente un vero schianto. Ma altrettanto decisamente non interessata a me. La sua compagna era morta da poco dopo più di quindici anni insieme. Immagino si sentisse semplicemente piuttosto sola."

Era venuto fuori che la donna, Bree, era una professoressa al Dipartimento di Musica di Stanford in aspettativa per un anno, e quando si era trattato di tornare in California gli aveva chiesto di andare con lei, offrendogli un posto come aiuto tecnico in un nuovo programma di ricerca in Teoria Musicale Informatica [3]. Aveva accettato. Aveva iniziato così ad interessarsi ed imparare qualcosa di informatica; aveva incontrato Alaric, ad una classe di sistemi crittografici in cui lui non avrebbe neanche dovuto essere, quando davanti ad un centinaio di persone quest'ultimo aveva portato il professore sull'orlo di una crisi di nervi trovando almeno dieci falle diverse nel suo sistema nel giro di quindici minuti. Lo aveva avvicinato per farsi spiegare in parole spicciole un paio di nozioni che lo avrebbero aiutato per il lavoro con Bree, offrendo in cambio di fargli da spalla per far finire qualche ragazza nel suo letto alle serate delle confraternite. Ma di serate del genere non ce ne erano mai state molte. Una volta superate le reticenze della sua personalità di natura sospettosa, avevano concordato che bere e sfottere la media di studenti alto borghesi finanziati dai soldi di famiglia era un modo più divertente di passare le loro serate.

"Non sembra così fuori di testa di persona rispetto a come ne parli," gli dico.

"Oh, credimi. Lo è. Lo è quando meno te lo aspetti," mi contraddice Damon con l'accenno di un sorriso furbo. "Ha ricevuto un'offerta di lavoro a cinque zeri da Google quando non era ancora al terzo anno. Ha rispedito indietro l'assegno, con scritto sopra un grosso "Si fottano le corporations". Una cosa del genere ti chiude parecchie porte nella Valley. Perciò, non ha avuto altra scelta che restare bloccato con uno come me per inventarsi qualcosa, trovare i soldi e far accadere le sue idee. Il resto, più o meno, lo sai."

Siamo silenziosi per un momento, quando lui finisce di parlare.

"Così, è questa la storia," dico infine.

"La storia della mia vita?" scherza lui.

Esito.

"La storia del Damon che un giorno ha lasciato Mystic Falls, e non si è più guardato indietro."

Lo sguardo di Damon si alza verso il mio, vi resta qualche secondo. Parla piano quando risponde.

"Non so quanto questo sia vero."

"Non hai mai chiamato. Non sei mai tornato."

Lo dico abbassando gli occhi sulle dita che mi sto tormentando, con una veloce piega delle labbra ed un piccolo tremito nella voce, che non è più la mia ma quella della ragazza che, a dispetto di tutto, dentro di sé forse non aveva mai davvero smesso di sperare che cambiasse idea.

"Non ho mai pensato ci fosse qualcosa da cui tornare."

Annuisco, anche se l'intensità con cui sento che mi sta guardando mi trafigge il petto, insieme a qualcosa che somiglia più ad un'improvvisa fitta di rimpianto. In verità, pensavo da tempo di aver fatto pace con tutto ciò che aveva spinto Damon fuori dalla mia vita. Non gliene avevo neanche mai veramente fatto una colpa, non razionalmente almeno. Dal punto di vista meno razionale, beh, quella forse sarebbe tutta un'altra storia.

Ma non sono sicura se sia il caso di andare davvero ad aprire quel capitolo di spiegazioni che hanno ormai perso da tempo il loro significato, per di più in una situazione ancora incerta come questa, in cui è impossibile prevedere a cosa potrebbe portare.


Il problema non fu gestire il locale per una sera. Non c'era molto movimento in ogni caso, perciò da quel punto di vista io e la nuova ragazza ce la cavammo senza troppi problemi, io tra i tavoli e lei dietro al bancone. Il problema era che Jenna non c'era, sua sorella aveva avuto un bambino e lei era andata a trovarla per un paio di giorni, ed io realizzai che senza di lei, in situazioni del genere, non sapevo più a chi rivolgermi.

Passai la sera a gettare occhiate preoccupate verso l'orologio, anche più volte nel corso di un'ora.

Alle undici, pensai che avrei dovuto accompagnare Jeremy a casa, ma che non potevo lasciare Lanie, che lavorava lì solo dall'inizio dell'estate, da sola ad occuparsi del Grill. Pensai anche che avrei dovuto iniziare a pensare di prendere la patente, perché se mio padre decideva di sparire così per ore intere, avere una macchina mi sarebbe stato utile in più di un'occasione.

A mezzanotte, se ne andò anche Brady che si occupava della cucina, e la sensazione di ansia crescente che mi premeva sullo stomaco divenne più pressante con ogni minuto che passava. Le dita mi tremavano sui vassoi e sui tasti del telefono ogni volta che provavo a chiamare mio padre e ricevevo solo squilli nel vuoto.

Poco prima dell'una, qualcuno finalmente rispose. Una voce maschile che non conoscevo da un bar sulla statale, che mi informò che qualcuno mio padre doveva andare a riprenderselo, perché avrebbero chiuso tra poco e lui non era in grado di tornare da solo.

Il moto di sollievo che mi pervase alla notizia che non gli fosse successo niente di brutto fu di breve durata. Si trasformò rapidamente in una frustrazione sorda e inascoltata giù in fondo al petto, consapevole che domani sarebbe stato a pezzi, non per i postumi ma per la realizzazione di cosa aveva fatto, ed io sarei stata lì a raccogliere anche quelli.

Avrebbe chiesto scusa, non avrebbe toccato alcol per due, forse tre giorni. Ma non avevo bisogno delle sue scuse domani, ne avevo bisogno adesso mentre chiudevo la porta del Grill dopo aver fatto uscire anche l'ultimo cliente e tornavo ad impilare sedie sopra i tavoli.

"Ehi."

Mi voltai verso il richiamo di Lanie, appoggiata contro il tavolo accanto a quello che avevo appena finito di sistemare, con le braccia incrociate sul petto. Mi scrutò un secondo, poi parlò con decisione.

"Devo essere pagata."

Sbattei le palpebre, la osservai disorientata. Mi girai in automatico per dare un'occhiata attorno, come per essere sicura che stesse davvero parlando con me, anche se eravamo le uniche due persone nel locale.

"Non so cosa dirti, devi chiedere a mio padre," risposi incerta.

Alzò appena gli occhi al cielo accennando una smorfia, uno spesso ricciolo nero le cascò in avanti sulle spalle. "Beh, tuo padre non è qui."

Come se non lo avessi notato. Serrai le labbra e mi spostai ad un altro tavolo per fare ordine anche su quello.

"Sarà qui domani," replicai secca.

Lei mi seguì e posò la mano sulla superficie davanti a me, si sporse nella mia visuale per assicurarsi di avere la mia attenzione. "Sono due settimane che ´sarà domani`."

Un picchiettio sui vetri della porta di ingresso mi diede fortunatamente la scusa per non dover cercare giustificazioni che non avrei saputo trovare in risposta a quell'affermazione. La lasciai lì e mi sbrigai ad andare ad aprire.

Damon era appoggiato con una spalla contro il muro appena fuori dall'ingresso, intento a controllare qualcosa sul suo telefono, e la sensazione di puro sollievo che provai nel vederlo fu così intensa e immediata che dovetti fare uno sforzo enorme per trattenermi dal gettargli le braccia al collo e stringerlo forte. Ma doveva essere scritto ovunque sulla mia faccia, perché, non appena sollevò lo sguardo su di me, l'accenno di sorriso già pronto ad estendersi all'angolo delle sue labbra cambiò in un cauto corrugamento delle sopracciglia.

"Qualcosa non va?" mi chiese mentre lo facevo entrare e richiudevo la porta con una doppia mandata di chiave. "Pensavo che ti fossi finalmente decisa a darmi retta e chiamarmi per farti venire a prendere, invece di spuntare dal nulla a casa mia nel mezzo della notte."

Gettai una veloce occhiata verso Lanie, che scosse appena la testa e si diresse a finire di mettere a posto dietro al bancone, ancora in attesa di una risposta e una paga che tardavano ad arrivare. Posai una mano sul braccio di Damon e lo portai in disparte.

"Non ti ho chiamato per quello," dissi, iniziando a spiegare con una punta di nervosismo. "E' mio padre, non è qui. E' uscito oggi pomeriggio, non è più tornato. Qualcuno deve andare a prenderlo in quel bar lungo la statale, ma Jenna non c'è, e non voglio far sapere niente a Matt, e Jeremy sta dormendo sulla poltrona dello studio, e dovrebbe essere a casa, e non sapevo cosa fare, e …"

"Va bene," mi interruppe, il suo sguardo rassicurante a farmi realizzare quanto instabile fosse appena diventata la mia voce. "Posso andare io, possiamo andare insieme."

Allungò le dita per scostare le ciocche sfuggite alla mia coda, piccole carezze delicate tra i miei capelli che mi fecero subito sentire più tranquilla. Annuii e gli rivolsi un piccolo sorriso, ma sobbalzai quando nel locale risuonò un rumore improvviso di vetri infranti.

Mi affrettai a tornare verso il bancone, accanto al quale Lanie, mormorando un "dannazione" tra i denti, stava raccogliendo dal pavimento i pezzi dei due bicchieri che aveva appena fatto cadere.

"Puoi stare più attenta?" le dissi seccata, inginocchiandomi anche io per aiutarla. "E' la terza volta questa settimana."

Si fermò ed alzò il volto per guardarmi socchiudendo le palpebre. "Seriamente?"

Si tirò su in piedi e mi raddrizzai anche io. Il sarcasmo nel suo tono mi fece montare dentro una vampata di irritazione.

"Seriamente," ribattei.

Scosse la testa in qualcosa a metà tra una smorfia e una risata. Allungò le dita sulla schiena per sciogliersi in fretta il grembiule, i vetri rotti ancora sul pavimento. "Dio, non posso credere che sto veramente prendendo ordini da una quindicenne. Non vengo neanche pagata!"

"Ehi," si intromise Damon, comparso alle mie spalle, facendo un passo avanti per porsi davanti a me. "Non trattarla così."

La ragazza si girò verso di me, sollevò le sopracciglia in un'espressione ancora più sarcastica. "Ci si mette anche il tuo ragazzo adesso?"

"Damon, lascia stare," gli dissi con quanta più calma possibile, posando una mano sul suo polso.

Si scansò con un movimento leggero ma deciso, mi ignorò e fece un altro passo in avanti.

"Non è colpa sua, trova qualcun altro su cui rifartela."

"Oh, no, ho chiuso," fu la risposta di Lanie, che alzò le mani e posò con stizza il grembiule aggrovigliato sopra il bancone. "Questo posto è una barzelletta."

Si sporse per afferrare la sua borsa dal ripiano dietro al bar e, a passò spedito, si avviò per sparire oltre la porta.

Meraviglioso. Adesso avevo appena perso l'unico personale in grado di servire alcolici, domani avrei dovuto spiegarlo, e soprattutto ci sarebbe stata una persona in meno ad occuparsi del locale. Sentii la gola bruciarmi di lacrime frustrate e avvilite, troppe cose a bollirmi in petto.

"Perché dovevi farlo?" domandai girandomi di scatto verso Damon.

"Perché?…" ripeté incredulo, una smorfia appena scocciata come se non fossi in grado di riconoscere il grande favore che mi aveva appena fatto. "Oh, andiamo, sono stato perfino gentile."

"Non dovevi farlo!" esclamai con forza, un passo indietro per allontanarmi da lui.

"Era una stupida cameriera che neanche ci voleva lavorare, qui," ribatté lui. Mi venne incontro, allungò una mano verso il mio braccio, mi sottrassi bruscamente. "Si può sapere cosa diavolo ti prende?"

"Non posso …" cercai di dire, ma il respiro mi uscì strozzato, come se tutto d'un tratto non avessi più abbastanza aria nei polmoni, "… Non posso … questo … e se tu ti metti di mezzo … io …" Un altro passo indietro, ma dalla gola non passava più fiato, ed ogni parola era un singulto dolente e affaticato. E poi tutto saltò, in un solo secondo ed in un solo singhiozzo gridato, "Non posso!"

Sentii le braccia di Damon circondarmi nello stesso attimo in cui prorompevo in un pianto dirotto e prepotente, incoerente e rabbioso, una della sue mani a circondarmi la schiena, l'altra sulla testa a tenermi salda contro di lui. Protestai. Cercai di allontanarlo. Singhiozzai e mi divincolai premendo con forza contro il suo petto. Odiavo tutto ed odiavo anche lui, odiavo la maglietta che profumava di Michelle, odiavo quanto lo volessi solo per me, odiavo che fosse lì perché un giorno non ci sarebbe stato più, lo odiavo perché voleva andarsene ed io non potevo biasimarlo, ed odiavo perfino il fatto che non lo avesse ancora fatto perché non capivo cosa diavolo stesse ancora aspettando. Lo spinsi e lui strinse, gli tirai la maglietta e me lo lasciò fare, singhiozzai, singhiozzai e singhiozzai, fino a che non mi cedettero le gambe, ed invece di sorreggermi per farmi rimanere in piedi Damon si accasciò con me, attutendo la mia caduta senza lasciar andare il disastro informe che ero diventata lì sul pavimento del locale deserto.

Singhiozzai fino a che non rimase più niente, niente più resistenze, niente più lacrime, niente a cui pensare. Singhiozzai fino a che non divenni vuota e intorpidita, afflosciata sul suo corpo come una bambola di pezza, con la testa docilmente posata sulla sua spalla, mentre la sua mano ancora mi carezzava la base della nuca ed intorno tornava solo il silenzio.

Non mi sarei più mossa da lì. Sarei rimasta lì per sempre e sarebbe andato bene, sarei rimasta lì per sempre e ci sarebbe rimasto anche lui, il resto dell'universo che continuava stupidamente a muoversi potesse essere dannato.

Strinsi la sua maglietta sotto alle dita, aggrappandomi a quella fantasia. Damon posò piano la testa contro la mia.

Accadde inavvertitamente, per sbaglio.

Le sue labbra mi sfiorarono appena la spalla, sulla pelle nuda lasciata scoperta dalle spalline sottili della canotta. Erano calde, e morbide, appena secche in superficie. Rabbrividii ovunque a quell'accidentale contatto, scintille calde nate dai resti del mio vuoto e del mio torpore.

Non mi sottrassi. Spostai appena la spalla per andargli incontro, chiederne ancora, averne di più.

Damon respirò sulla mia pelle - in un modo irregolare, rotto - e poi la sua bocca si posò di nuovo, prima uno sfioramento incerto, poi una pressione più consapevole e più impura, stringendo la sua presa su di me.

Ero liquida dentro. Liquida in testa e liquida tra le gambe, insensibile ovunque se non in quei due punti così vitali, dove la sua bocca premeva sulla mia spalla e dove il centro delle mie cosce premeva contro il suo fianco. E continuò a sfiorarmi e baciarmi più su verso la base del collo, e non c'era più neanche quell'accenno di secchezza, c'erano le sue labbra aperte e inumidite, la punta della lingua ad assaporarmi la pelle, e c'era ciò che tirarono fuori dalla mia gola, unico suono a risuonare nel locale, un gemito roco di piacere o forse solo un ultimo singhiozzo liberatorio che aveva tardato ad uscire.

Damon alzò il volto, cercò il mio. Lo misi a fuoco tra lo stordimento e gli occhi gonfi di pianto, e lo vidi, per la prima volta. Quello sguardo nei suoi occhi. Più scuro e offuscato, pieno di qualcosa che sapeva di confini da cui non si torna indietro una volta oltrepassati, allettante e spaventoso.

Sbatté lentamente le ciglia, lo abbassò sulle mia labbra.

Il mio cuore batteva selvaggio, perso, al pensiero di cosa stava per fare. Annaspò in mezzo a troppe cose per poterne uscire vivo, annaspò tra altre persone addosso, tra discorsi su New York e tra tutte le certezze che sarebbero state annullate e riscritte da capo. E tutto sembrava così sbagliato e complicato - io ero sbagliata e complicata, ancora più sbagliata e complicata quando ero con lui e mi guardava così.

Scattai via, mi allontanai da lui. Goffamente, con le mani all'indietro a tentoni sul pavimento.

Damon sembrò completamente smarrito per un paio di secondi. Ma fu il cambiamento nel suo sguardo dopo quell'attimo di sconcerto ciò che non avrei dimenticato facilmente. Non era il mio rifiuto il responsabile del ferimento che lo attraversò. Vidi il modo in cui io lo stavo guardando riflesso in quello sguardo, e mi tagliò in due.

"Prendi Jeremy, dovremmo andare da tuo padre," disse guardando da un'altra parte.

Si alzò facendo leva su una mano, si incamminò verso la porta e la sbatté dietro di sé. Rimasi a fissare il punto in cui era seduto fino a poco fa, a chiedermi se non avessimo appena oltrepassato un altro tipo di linea altrettanto irreversibile.


Damon fa scivolare le dita lungo il mio polpaccio, non parla.

Non ha mai pensato di avere qualcosa per cui valesse la pena tornare, e forse vorrei contraddirlo, forse vorrebbe che lo facessi, ma non riesco a dargli del tutto torto. Perché in questo momento, penso che ci siamo fatti così tanto male e così tante volte che anche il fatto di essere qui adesso non è niente di meno che pura follia.

Alzo infine lo sguardo su di lui, rompo un silenzio che è rimasto sospeso troppo a lungo.

"Non sono più quella ragazza," dico piano, e non so se lo dico per convincere lui o solo me stessa.

"Lo so," risponde, annuendo lentamente. Considera un istante la mia frase. "Beh, un po' lo sei."

Ha ragione? A differenza sua, io non ho una storia da raccontare, non ho città o incontri bizzarri, non ho opportunità colte o perdute, non ho errori e non ho cadute. Non lo so cosa ho, oltre ad essere una figlia, una sorella, un'amica o una fidanzata. E' spaventoso, e la mia voce cede appena quando incontro l'azzurro intento del suo sguardo e lo ammetto ad alta voce.

"Non lo so chi sono."

La sua mano si sposta sul mio ginocchio, lo attira a sé per attirare anche me. Posa la fronte contro la mia quando sono su di lui, con le gambe ai lati del suo torace e gli occhi chiusi, a respirare lui e questo momento come se, farlo, potesse davvero aiutare a definire tutto.

"Elena," dice Damon a bassa voce, con le labbra così vicine al mio volto, ed io impiego qualche istante a capire che non mi sta chiamando. E' la sua risposta, la sua personale definizione, e lì sulla sua bocca suona davvero come se fosse abbastanza. "Sempre … Elena."

Riapro gli occhi e poso la mano sopra la sua. Lo invito a farla salire, perché ho bisogno della concretezza del suo tocco per crederci davvero. E Damon sale lungo la mia coscia, sale sotto la gonna che si solleva sui fianchi, sale e sale anche l'altra mano, mentre i suoi occhi sono fissi nei miei e bruciano di un tale intensità che fanno bruciare anche me. Sento il calore divampare dentro, lento e forte.

Gli vado incontro, alzo il bacino, e le sue dita mi sfiorano appena le mutandine. Lascio uscire un basso sospiro, consapevole che sta guardando ogni mia mossa, ogni sfumatura nel mio sguardo. Sono cera fusa.

Mi accarezza a lungo sopra la stoffa, provoca le mie già troppo sensibili terminazioni nervose, l'ennesimo basso sospiro e la sposta delicatamente di lato.

Guardo i suoi occhi farsi più scuri mentre un unico dito scivola dentro, ed è così insoddisfacente e così meraviglioso il modo in cui si muove, che invece di darmi un briciolo di sollievo fa solo aumentare il mio bisogno ancora di più. Glielo dico con gli occhi sempre persi nei suoi, con il respiro sempre più corto, senza parlare.

Due. Più a fondo. Inarco la schiena, chiudo gli occhi e mi mordo le labbra per soffocare il gemito alto che ho rischiato di lasciar sfuggire.

"Non farlo," mi sussurra in un soffio roco a pochi centimetri dal mio volto, e niente è mai stato così sfocato e così nitido di me che sono e non sono più come in questo momento. "Non trattenerti. Non ti può sentire nessuno." Così a fondo … "Solo io."

Lo faccio, e lascio andare. Tutto. Lo bacio con tutto quello che ho e lascio che mi porti sotto di sé, la schiena contro il divano e mani che volano veloci a liberarsi dei vestiti, perché un solo secondo di più senza sentirlo dentro di me e potrei quasi morire.

E poi accade. Accade anche se è tutto sbagliato e complicato, esplode nel petto con la forza di minuscoli granelli in inarrestabile espansione, inaspettata e improvvisa, almeno quanto lo è il pensiero che la accompagna.

Sono felice.

Sono felice e la cosa mi dissolve.

In tanti piccoli pezzi che forse non saprò mai più come rimettere insieme.


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Note:

[1] La stima della popolazione di MF si basa su questa cosa qui


[2] Yuppie: http://it.wikipedia.org/wiki/Yuppie

[3] "Computer-Based Music Theory and Acoustics" è davvero un programma di studi e ricerca all'università di Stanford, collaborazione tra il dipartimento di musica, quello di ingegneria e quello di informatica.


Spazio autrice.

Elena e Damon felici per addirittura un capitolo?

I'm shocked!


Premettendo che i capitoli su Elena sono sempre i più complicati (dopotutto è una donna, noi donne siamo sempre complicate), questo è stato finora il più complicato di tutti, e data la grande quantità di introspezione incrocio le dita di avervi trasmesso qualcosa senza annoiarvi e/o risultare pesante - my god, non vi dico quanto è lungo questo capitolo che facciamo prima.

Quindi non so se sia stata la svolta Delena che speravate, perché Elena evidentemente le idee chiare non ce le ha né probabilmente ha scelto la strada migliore per chiarirsele, ma per ora prendetela così e prendetevi il capitolo relativamente drama free (tanto quando non è uno è l'altro, e stavolta ci pensano i flashback a sopperire).

Siete state meravigliose - meravigliose - nelle vostre recensioni, commenti e nel vostro entusiasmo allo scorso capitolo, e cretedemi che vorrei davvero tanto trovare nuove e non banali parole per ringraziarvi e farvi sapere quanto lo apprezzi. Ho solo grazie, ma sappiate che è davvero sincero.

Qui se volete c'è il gruppo facebook, qui la playlist aggiornata.

un bacio, a presto

ever

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Capitolo 20
*** Us ones in between ***


19. per efp


19.

Us ones in between


- And I’ve heard of pious men, and I’ve heard of dirty fiends

But you don’t often hear of us ones in between -

(Sunset Rubdown, Us ones in between)


Damon


Credo mi fosse mancata, un po', San Francisco.

Mi era mancato correre costeggiando la baia, lungo l'Embarcadero semi-deserto come può esserlo solo alle sei del mattino. Mi era mancato respirare salsedine e nebbia umida, che questa mattina sembrano ancora più rivitalizzanti del solito dentro ai polmoni. Forse mi era mancata persino la ragazza delle sei e trentacinque, quella che non manca mai di lanciarmi un preciso tipo di sorriso quando le nostre strade si incrociano all'altezza del Ferry Building. Solo che questa mattina la ragazza delle sei e trentacinque, lei e quel suo sorriso un po' timido un po' da "prima o poi dovremmo dedicarci ad un altro tipo di attività fisica", li vedo a malapena, quando sono già passati oltre.

Quando mi sono svegliato, una quarantina di minuti fa, la stazione radio impostata sul mio iphone ha annunciato "una bellissima giornata su tutta la Bay Area", ed io non avrei potuto essere più d'accordo. Mi era bastato gettare uno sguardo ad Elena, che tornava a seppellire la faccia nel cuscino con un mormorio di protesta, e lasciarle un bacio leggero tra i capelli prima di uscire, concedendole la grazia di non essere svegliata alle sei di mattina, per non avere dubbi al riguardo.

E la giornata migliora ancora di più, quando torno dalla mia corsa, esco dalla doccia, e trovo Elena davanti ai fornelli, intenta a fissare con aria assorta e dispiaciuta un intero set di toast anneriti che ha sparso ovunque odore di bruciato. Perché chissenefrega dei toast quando hai Elena vestita solo in biancheria ed una t-shirt troppo larga a farti venire nuove idee su come usare il bancone della cucina.

Lancia un gridolino di sorpresa quando la attacco da dietro, ride e tenta invano di sottrarsi mentre la copro di baci gocciolandole addosso con i capelli bagnati, mi attira a sé afferrandomi il colletto aperto della camicia. Non passa molto prima che le sue mutandine cadano proprio lì, ai piedi del frigo, mentre facciamo bruciare anche il secondo giro di toast.

Una cazzo di bellissima giornata.

"Sei di buon umore," è la prima cosa che mi sento dire da Ric quando varco la soglia del nostro mini-ufficio.

Solleva la testa dal suo portatile e si dà una spinta con il piede contro il bordo inferiore della sua incasinata scrivania. Lui e la sua sedia girevole rotolano nella mia vista.

"Sono sempre di buon umore quando ti assicuro un nuovo cliente," sogghigno in risposta mentre afferro al volo la pallina anti-stress che mi ha appena lanciato per accompagnare la sua frase.

Lascio socchiusa la porta dei venti miseri metri quadri che paghiamo a peso d'oro e mi butto sul divano usato verde acido, unico altro pezzo di arredamento se non si considerano le pile di libri accatastati sul pavimento in attesa che ci decidiamo a comprare anche gli scaffali. Dall'open space in fondo al corridoio, arrivano i rimbalzi secchi di una partita a ping-pong, l'odore di caffè della cucina condivisa e il ritmico battito sulle tastiere degli altri occupanti del piano sparsi tra i loro cubicoli o attorno a tavoli giganti, quelli a cui Ric non potrebbe mai stare perché troppo preoccupato che qualche geek possa sbirciare oltre la sua spalla e rubargli le idee.

Ric riacciuffa la pallina che gli ho ritirato e fa scivolare lo sguardo su di me, un po' cauto un po' sospettoso.

"No, non è questo …" Si sporge poggiando i gomiti sulle ginocchia, l'anti-stress che passa da una mano all'altra, e mi osserva come se mi stesse cercando addosso i segni di una qualche sconosciuta malattia tropicale. "Questo … Questo è qualcos'altro. Cos'hai combinato?"

Come risposta mi limito a scrollare le spalle, perché ho appena sentito tintinnare il telefono nella mia tasca. E' Elena, con tre nuove foto in arrivo dal Pier 39. Leoni marini che si strusciano e lei che fa facce buffe all'obiettivo. Piego un angolo della labbra verso l'alto e inizio a digitare.

"Sei andato alla presentazione vero?" mi domanda Ric.

Annuisco. Uno di questi soggetti è veramente adorabile

"Come è andata?"

"Bene," dico senza alzare lo sguardo.

Ci sono anche i cuccioli! compare sul display. E poi, Spero che tu stessi parlando di me

"Hai parlato di quella variazione del protocollo di trasmissione NEC che intendo usare?"

"Mmh hmm."

Per te ho altri agget

"Ehi!" protesto quando Ric mi strappa il telefono di mano e lo solleva in alto per tenerlo fuori dalla mia portata. Un'altra foto di Elena, con tanto di cucciolo di leone marino sullo sfondo, riempie lo schermo.

"Aspetta. Questa non è Elena, la tua amica da Mystic Falls? Cosa ci fa qui?" mi chiede nel rilanciarmi il telefono che io afferro al volo con entrambe le mani. Non mi sfugge l'enfasi sarcastica che mette sulla parola amica. "E' questo il motivo per cui hai perso il volo ieri mattina? No, non rispondere. Ovvio che è questo."

Cosa posso dire? Sento le labbra distendersi in un altro lento sorriso.

"Beh, se ti fa sentire meglio, non è che lo avessi esattamente programmato."

"Mi stupirebbe il contrario." Ric corruga la fronte. "Quindi? E' tipo la tua ragazza adesso? Perché avevo capito che fosse fid-"

"Sai, Ric," lo interrompo, prima che possa anche solo pensare di finire quella frase e pronunciare quella parola. "Sono venuto qua, come promesso, ho fatto una presentazione fantastica del tuo lavoro, come promesso, e adesso … " Mi alzo ed inizio a radunare velocemente la mia roba. Impiego più di un'ora a tornare dalla Valley in città e non ho intenzione di sprecare un altro minuto. "… Ho altri tipi di promesse da mantenere. Ci vediamo domani."

Il mio amico scuote la testa. "Ricordami perché ancora ti sopporto."

Gli lancio un veloce sogghigno dallo stipite della porta.

"Perché sono favoloso."

Lui mi grida dietro, "Non te la cavi così!"

Ha probabilmente ragione. Ma non me ne frega granché.

Per quanto lui continui a starmi addosso, sia per il lavoro che con domande buttate là su cosa cazzo io stia facendo, schivo tutto con l'abilità di un giocatore di dodgeball. La mia presenza in ufficio nei due giorni successivi si può riassumere in un paio di obbligate visite toccata e fuga ed una concentrazione seriamente minata, come testimonia una discussione per un nuovo progetto che per poco non mando a puttane perché ho la testa ancora sintonizzata su Elena, che quella stessa mattina decide di ripagarmi per la sera precedente, inginocchiandosi e guardando in su con quel suo sorriso malizioso appena prima di farmi dimenticare pure il mio nome, figuriamoci i dettagli del progetto.

Il resto del tempo non faccio che lasciarmi trascinare su e giù per i colorati negozi vintage di Haight Street, o lungo i moli affollati, o a godersi ombra e mini-stralci di qualcosa che assomiglia pericolosamente alla beatitudine sdraiati sull'erba del Golden Gate Park.

"Quindi, spiegami," mi dice Elena quando la sera dopo varchiamo la soglia di un bar in Haight-Ashbury. "Come mai hai insistito per farmi vestire e portarmi qui?" La sua voce inizia a subito a perdersi tra il misto di chiacchiericcio e musica che riempie il locale, così intreccia la mano alla mia, mi attira verso di sé e si sporge per sussurrarmi all'orecchio. "Pensavo di piacerti nuda e nel tuo letto."

Questa ragazza mi ucciderà. Di morte lenta e meravigliosa.

"Ed infatti ti terrei lì senza più farti andare via…" le rispondo inclinando appena la testa per avvicinarmi al suo orecchio e sfiorarlo con le labbra. Poi mi costringo ad allontanarmi dal profumo che proviene dal suo collo, prima di cambiare idea e tornare a casa per farle davvero capire quanto sono serio. "Ma ho promesso a Ric che lo avremmo incontrato per una bevuta stasera. Perciò eccoci qua."

Faccio per muovermi dall'ingresso e andare a cercare Alaric ma, come muovo un passo, la mano di Elena mi trattiene. Lei non si è mossa. Mi volto verso di lei, che mi sta guardando mezza spaesata, come se le avessi appena teso una trappola.

"Hai detto ad Alaric che io … che noi …"

Lascia andare la mia mano, ed io osservo spiazzato quella inaspettata reazione così stranita. C'è una nota di accusa nella sua voce.

"Perché lo hai fatto, perché glielo hai detto?"

"Perché, non avrei dovuto?"

"Non lo so, pensavo …"

"Cosa, che avrei tenuto te e tutto questo nascosto al mio migliore amico?"

"Beh," incrocia le braccia sul petto. "Pensavo che fossimo d'accordo sul fatto di non dirlo a nessuno."

"Tu non hai voluto dirlo a nessuno," le ricordo.

Un lampo di colpevolezza le incupisce gli occhi. E' abbastanza da mandare una fitta di realizzazione dritta ad attraversarmi il petto, perché è l'attimo in cui mi rendo conto che il chiaro carattere furtivo di qualsiasi cosa ci sia tra noi è esattamente ciò per cui ho firmato. Scuoto appena la testa per liberarla da quel pensiero e da tutti i suoi incerti sottotesti, cerco di dare retta alla mia parte più razionale, quella che mi ripete che è solo una situazione temporanea dovuta a circostanze sfortunatamente delicate.

"E' solo Alaric, Elena," le dico, più conciliante. "Nessuno a cui ti importa di non farlo sapere."

Lei si morde appena le labbra, una traccia residua di dubbio mentre sposta il peso da una gamba all'altra. Poi sospira.

"Lo so," distoglie un attimo lo sguardo e, quando torna a posarlo su di me, la colpevole esitazione di prima se ne è andata anche da lì. Per qualche motivo, non riesce del tutto a farmi sentire meglio. Sorride. "Hai ragione. Mi dispiace. Andiamo, sarà divertente passare una serata fuori."

Elena mi prende nuovamente la mano e mi invita a seguirla nel locale. Con un'occhiata noto Alaric, seduto ad un tavolino ad angolo, fare un gesto nella nostra direzione. Qualsiasi sensazione avessi pensato di avvertire pochi secondi fa la scrollo via in fretta.

E' una bella serata. Il mio amico e la mia ragazza che vanno piuttosto d'accordo e piuttosto in fretta. Ne avevo già avuto un assaggio nella notte passata insieme a New Orleans, anche se quella volta eravamo tutti fin troppo ubriachi per poter davvero contare qualcosa. Ma stasera è più o meno la stessa atmosfera, divertita e rilassata, solo con molto meno alcol.

Elena ride alle sue battute. Alaric ascolta ciò che lei ha da dire. Parlano di un libro che hanno letto entrambi. Arrivano perfino a coalizzarsi un po' contro di me su un paio di argomenti, cosa per la quale fingo di impermalirmi, ma è una finta spazzata via facilmente dalla mano di Elena stretta sopra la mia al di sotto del tavolo, e dai sorrisi con cui guarda in su verso di me.

"Ragazza simpatica," dice Alaric quando Elena si alza per andare al bagno. "Pensavo che fosse fidanzata. Cos'è successo, si sono lasciati?"

Dannato Alaric. Alla fine ce l'ha fatta a dire ad alta voce la parola che finora ero riuscito così abilmente ad evitare. Prendo in mano il mio bicchiere e mi stringo nelle spalle, guardando verso la folla.

"Lui è ad Hong Kong."

"Lo prendo come un no."

Mi volto verso di lui.

"E' solo … un po' complicato, ok? Forse non abbiamo avuto il migliore dei tempismi, ma …" inizio a dire, fermandomi però quando vedo il suo sguardo. Odio quell'espressione in faccia a Alaric. Alzo gli occhi al cielo. "Cosa?"

"Senti, lo so che non vuoi sentirtelo dire," dice lui sporgendosi verso di me. "Ma l'ultima volta che ti ho visto così sono stato trascinato in un municipio con addosso una cazzo di cravatta, e sei mesi dopo ero io quello che trascinava te, fuori dai bar, quasi tutte le notti e quasi sempre su quattro zampe. Ce ne sono voluti altri sei per farti tornare a camminare su due."

Scuoto la testa e butto giù il liquore tutto d'uno sorso. Mi brucia nello stomaco, insieme a tutto ciò che il suo discorsetto non richiesto lascia intendere.

"Non è Katherine, Ric," replico asciutto.

"No, lo so. Non lo è. Non ho mai potuto soffrire Katherine fin dal primo momento in cui l'ho vista, e dio se mi piace questa ragazza. Il che significa … che è peggio," prosegue, mentre io alzo lo sguardo e vedo Elena tornare dalle toilette. Anche Alaric la vede. Il resto della sua frase mi arriva mentre incrocio lo sguardo di Elena, e lei torna ad aprirsi in un altro accenno di sorriso, solo per me. "Ti ridurrà a pezzi. E non come Katherine, che ti sarà passata nel giro di qualche mese. A pezzi per davvero."

***


C'era un motivo per cui l'avevo sempre saputo che non avrei mai potuto essere uno dei buoni.

Voglio dire, ovviamente potevo provarci. Potevo sforzarmi di non essere sempre una totale testa di cazzo, potevo tentare di raschiare un pezzettino nello spazio riservato ai cosiddetti bravi ragazzi, ovvio che potevo farlo, e forse a modo mio davvero ci avevo provato. Ma cosa cambiava, alla fine di tutto? Niente.

I bravi ragazzi non usano le persone a loro piacimento. I bravi ragazzi non se ne sbattono di chi ci finisce in mezzo come effetto collaterale.

Potevo provare quanto volevo, ma tanto poi tornavo sempre lì, a piatte notti di luglio sui sedili della vecchia Camaro, ad approfittare delle bocche morbide di ragazze di passaggio di cui a malapena mi sforzavo di imparare il nome, benedetta sia l'estate e la quantità di famiglie con figlie a carico che ha da sempre portato in questa cittadina. Usando e andando avanti.

Avrei potuto dire che era perché, in quelle ore in cui abbassavo sedili e toglievo magliette senza neanche sapere di che colore avesse gli occhi la ragazza del caso, riuscivo almeno per un po' a mettere da parte la bruciatura che mi divorava dentro al pensiero dell'unica persona che volevo da star male, e dello sguardo nei suoi occhi quando qualche sera prima mi aveva spinto via come se fossi stato una minaccia alla sua intera esistenza. Come se davvero potessi mai pensare di farle del male.

Avrei potuto dire che era colpa di quello, ma sarebbe stata solo una facile scusa, ed io odiavo le facili scuse.

La verità, l'eterna differenza, era che mi piaceva. Mi piaceva non dovermi curare di ferire i sentimenti degli altri, e forse, ancora di più, in un modo più contorto e sottile, mi piaceva persino l'idea di infliggere almeno un po' della stessa pena, per sapere di non essere il solo a stare da cani.

Una persona in particolare stava facendo le spese di tutto questo. Perché lei era la mia valvola di sfogo, lo era stata fin dall'inizio; e perché era sempre lì, a fare finta di non sapere come passassi le notti quando non ero con lei, a rimpiazzare un buco e un posto dove non la volevo veramente. Lei volevo ferirla più di tutti.

La trovai una notte seduta sui due gradini di fronte alla soglia della dependance, in una luce fioca in cui si mischiavano quella della luna quasi piena e quella del porticato della villa a qualche decina di metri di distanza.

Una rapida fitta mi attraversò tutto quando, per un breve attimo, i fari della mia macchina illuminarono la sua figura, e la mente mi giocò il brutto scherzo di farmi vedere Elena. Ma poi i capelli più chiari e la gonna più corta sfatarono subito quell'illusione, lasciandomi ancora più incazzato con lei per cose di cui non aveva nessuna colpa.

Michelle si alzò in piedi nel vedermi scendere dall'auto. Solo quando fui più vicino, notai gli occhi gonfi di un pianto probabilmente finito solo da poco. Feci finta di non accorgermene e tirai fuori le chiavi dalla tasca.

"Lo sai che non puoi fermarti a dormire," le dissi, ribadendo una delle regole che avevo messo in chiaro fin dagli inizi della nostra storia.

"E' vero?" mi domandò con un tremolio nella voce. "Ti sei scopato Aimee Cooper?"

Mi bloccai mentre stavo per aprire la porta. Aimee Cooper non era una delle ragazze di passaggio per l'estate. Era una delle sue amiche con cui stava sempre appiccicata, quelle cose da sorellanza da prima elementare, o stronzate simili. L'avevo incontrata per caso un paio di sere prima mentre ritornavo da casa di Enzo, mi ero offerto di accompagnarla a casa, lei era stata più che felice di accettare. Il seguito è facilmente immaginabile.

"No."

"Bugiardo!" gridò dandomi una spinta così forte da farmi cadere le chiavi per terra, scoppiando in lacrime sull'ultima sillaba. "Dimmelo almeno, guardami in faccia, stronzo!" un'altra spinta contro il mio braccio, e poi un altro singhiozzo, "Bast-tardo! Trad-"

Le bloccai le mani afferrandole per i polsi prima che atterrassero con l'ennesimo violento colpo sopra la mia spalla, ed il resto della frase si perse in singhiozzi sempre più acuti.

"Stai facendo una scenata," le dissi abbassandole le braccia con una delicatezza che contrastava nettamente con la freddezza di cui invece caricai la mia voce.

Si allontanò con uno scatto.

"Era mia a-mica! M-mia amica!" mi urlò contro con forza, in mezzo ad altri singulti, ed io gettai un'occhiata verso la villa dove una luce si era adesso accesa al piano superiore. Ci mancava solo avere mio padre come pubblico. "Come hai potuto? Com-"

"Vuoi smetterla?" ribadii, "Sveglierai tutti quanti."

Si portò le mani sulla bocca e ci singhiozzò dentro, con le spalle che tremavano in scosse irregolari, i capelli sfuggiti dal cerchietto e macchie di mascara sulle guance.

Avrei dovuto provare pena per lei. Dopotutto, mi piaceva questa ragazza. Ci eravamo divertiti insieme, e alla fine, in qualche modo, le avevo perfino voluto bene. Avrei dovuto ricordare tutto quello e provare pena per lei e disgusto per me stesso che l'avevo ridotta così, ma non ci riuscivo. Non provavo niente.

Riuscivo a pensare solo a quanto fosse patetica lei a stare male per me, e patetico io a stare male per un'altra. Patetici entrambi, ecco cosa eravamo.

"Perché?…" mi domandò piano quando riuscì a calmare il pianto abbastanza da poter parlare di nuovo. "Perché lei, perché lo hai fatto, perché …"

Mi strinsi nelle spalle. "Mi andava."

"Dio, sei un bastardo," rispose, scossa da un altro singulto, meno rabbioso, più disperato. "Ed io pensavo … pensavo … Perché mi hai fatto questo?" Alzò il volto verso di me, gli occhi allargati e bagnati, le labbra tremanti e piene di pathos. "Io ti amo."

Cristo, pure questa adesso. Avrebbe dovuto impressionarmi, farmi sentire uno schifo? O magari, farmi gettare in ginocchio ed implorarla di perdonarmi? Sì, beh, nessuna di queste.

"Oh, ma per favore," risposi con una smorfia, "Finiscila e basta, ok?"

La sua mano aperta mi colpì la guancia. Forte, ma non abbastanza da procurarmi poco più che un diffuso pizzicore. Insomma, pure lo schiaffo fu patetico. Neanche quella soddisfazione. Poi corse via, e la sentii ricominciare a piangere mentre si dirigeva verso la propria auto lasciata fuori dal cancello.

Mi piegai per riprendere le chiavi cadute e chiusi pure quel capitolo, con una scrollata di spalle che mandò via anche quella fastidiosa sensazione di nausea e rimorso che stava minacciando di prendermi lo stomaco. L'avevo distrutta di proposito, perché io ero distrutto, e neanche mi importava.

Eccola l'eterna differenza.


***


Non dovrei neanche stare a pensarci. A fidanzati all'altro lato del globo, o matrimoni che nessuno ha ancora annullato.

Non dovrei, perché Elena è qui, ed è con me, tangibile quanto il suo odore tra le mie lenzuola al mattino, la pelle calda sotto alle mie mani, o il modo in cui socchiude leggermente gli occhi quando ride, ride per davvero. E se tutto questo è reale, perché dovrei dubitare che lo sia anche il resto. Che tutto questo significa qualcosa, e che non è solo una distrazione momentanea, un momento di pazzia al grido di nessun rimpianto, l'ultima boccata d'aria sulla strada verso il felici e contenti insieme a qualcun altro.

Non ho intenzione di dare ascolto ad un dubbio tanto subdolo. Ma è lì. Pronto a venire in superficie nei più piccoli momenti, rapida e dolorosa puntura che arriva, colpisce e se ne va, almeno fino a quando non si ripresenta di nuovo.

Elena non torna più sul discorso iniziato accidentalmente e poi rapidamente messo da parte ieri sera, prima di incontrare Alaric. Io nemmeno. Raccontandoci che va bene così, che non c'è nessuna fretta di farlo, senza sapere se è perché ci crediamo davvero o più per le conseguenze a cui una simile discussione potrebbe portare.

"Quindi, ho preso del sushi per cena, perché lo so che non mi lasci avvicinare ai fornelli, e mi sento in colpa a far cucinare sempre te," annuncia Elena, entrando in casa e sventolando in alto una busta bianca di cartone con su scritto "Kabuto, Ristorante Giapponese".

Seduto su uno sgabello al bancone della cucina, sollevo la testa dalle ultime email di Alaric, e spalanco stupito lo sguardo quando la vedo. Elena posa la busta sul bancone, gira la testa di lato, scuote un po' i capelli con fare volutamente teatrale.

"Perciò se non hai niente in contrario, o altri commenti da fare …"

Sorrido e allungo una mano per afferrarla per la vita e attirarla verso di me. Seppellisco le labbra nelle nuove onde un po' scalate che movimentano i suoi capelli, e sento che sorride anche lei mentre le sussurro lasciandole piccoli baci sul collo, "Non saprei, sono troppo distratto dal nuovo sexy taglio di capelli di qualcuno."

Sposto la bocca lungo tutto il suo profilo, e poi a cercare la sua. Una ciocca di capelli le cade in avanti, ci finisce in bocca, ed Elena si scosta per soffiarla via scocciata. Io allungo le dita per metterla al suo posto, questo ciuffo scuro che, nuovo taglio o no, continua sempre e comunque a scivolarle sugli occhi. E' la cosa più adorabile di sempre, e amo il fatto che non sia affatto cambiata.

"Come è andata la tua giornata?" mi chiede Elena intrecciando le mani dietro alla mia nuca.

"Mmh … " Le rubo un altro bacio veloce. Ed un altro. "Bene. E la tua?"

"Molto …" Ride quando la interrompo per un altro bacio al volo. "… bene. Vuoi sapere cosa ho fatto oggi?" mi chiede sciogliendosi dalla mia presa sui suoi fianchi per andare a tirare fuori la cena dalla busta di carta.

"Dimmi."

"Sono stata a Berkeley."

La aiuto a togliere il coperchio dai due vassoi di sushi, spezzo le bacchette e gliene passo un paio.

"Davvero? Perché?"

"Non lo so …" si stringe nelle spalle e si appoggia con il gomito sul bancone, esaminando il cibo ma senza ancora toccarlo. "Ho pensato che dal momento che ho detto che sarei andata lì e che Jeremy si trasferirà tra poco … Non so, tanto valeva andare a vedere di che si tratta, no? Ovviamente il campus era mezzo deserto dato che non ci sono corsi, ma c'era questo orientamento per nuovi arrivati, fatto da questa gentilissima professoressa di antropologia, così … abbiamo parlato un po', ho fatto un giro. Mi hanno anche dato l'orario dei corsi per il prossimo semestre, ti immagini?"

"Wow," commento.

Elena solleva esitante lo sguardo. "Non ridere di me."

"Non lo sto facendo," dico serio, porgendole un maki con le mie bacchette. Accenna un sorriso e si avvicina per mangiarlo.

"Ti capita mai …" prosegue poi, appuntandosi i capelli dietro l'orecchio, " … di rimpiangerlo? Sai, il fatto di non essere andato al college?"

"No," rispondo, mentre prendo un pezzo di salmone. "Ma a te sì."

"Io … Beh, sì, forse, ma è stupido," scuote la testa e torna a tormentare il povero sushi con le sue bacchette. "Voglio dire, non posso tornare indietro nel tempo."

"Puoi sempre farlo adesso."

Piega le labbra in una vaga smorfia. "Forse in college comunitari per divorziate di mezza età e avvocati senza licenza [1], dubito che università vere mi accetterebbero di nuovo con sei anni alla gestione di un bar come unica credenziale. Andiamo, Damon, non sono una diciottenne fresca di liceo."

"E quindi? Non puoi dirlo senza averci provato. E poi, pure Jeremy sarebbe qui. Beh, dall'altra parte della baia, ma è pur sempre meno lontano che dall'altra parte del paese. Potresti essere vicino a lui, e anche a me."

Cazzo. Mi blocco con le bacchette a mezz'aria, nell'atto di prendere un altro pezzo di sushi, quando mi rendo conto di ciò che le ho appena detto. Ottimo lavoro, Damon, ottimo lavoro davvero, già che ci sei perché non chiederle anche di venire a vivere qui, tanto non avete passato insieme a malapena cinque giorni e lei non ha un fottuto matrimonio tra tre settimane. Realizzo che cazzo di errore sia stato nel momento in cui sollevo gli occhi e vedo quella frase imprimersi nel suo sguardo, nel modo in cui cambia la sua espressione.

Socchiude le labbra ma non risponde. Restiamo ad osservarci in un lungo, incerto momento di silenzio, in cui la mia gola si fa più spessa per il desiderio impellente di poter ringoiare quelle ultime dannate parole insieme a tutte le prospettive di lungo periodo che hanno implicato e che era tacito accordo non nominare.

"Damon …" comincia a dire.

Il suo telefono, appoggiato sul bancone, squilla in quell'esatto momento.

Il nome di Elijah salta su nel display, accompagnato da una deliziosa miniatura di loro due insieme, abbracciati, che è la ciliegina sopra il pugno alla bocca dello stomaco che arriva dritto e preciso nell'attimo in cui il mio sguardo ci si posa sopra. Elena allunga le dita per prenderlo in mano, assestando il colpo numero due.

"Mi dispiace, devo … Devo rispondere."

Evita il mio sguardo, mormora un "pronto" mentre si allontana di qualche passo per avvicinarsi alla finestra che guarda sul terrazzo.

"Niente," risponde, giocherellando con una tenda, "Stavo solo cenando velocemente prima di tornare a lavoro."

C'è un tale silenzio, nell'appartamento, che riesco a sentire piuttosto distintamente la replica perplessa di Elijah, dall'altro lato della linea.

"Così tardi? Non è già mezzanotte da te?"

Promemoria per Elena. Se racconti balle al tuo fidanzato, assicurati almeno di azzeccare il giusto fuso orario.

"Sì, io … intendevo …" farfuglia, mi getta uno sguardo veloce.

L'espressione di deplorazione per se stessa che intravedo quando lo fa è peggiore di tutte le foto della coppietta felice che possono esserci là fuori.

Si volta di nuovo dall'altra parte, apre la finestra scorrevole, ed esce sul terrazzo.

Vengo lasciato ad osservarla attraverso il vetro, senza riuscire a sentire una sola parola. Abbassa gli occhi, picchietta la punta della scarpa sul pavimento, non smette di tormentarsi un paio di ciocche di capelli. Quando riattacca, temporeggia qualche secondo invece di tornare subito dentro.

Getto le bacchette da sushi sopra il bancone, sopra una cena praticamente ancora intatta. Una delle due rotola via, fino a cadere per terra dall'altro lato. Improvvisamente, mi è passato tutto l'appetito.


"Scaricato," sentenziò Enzo, stravaccato all'altro lato del divano, allungando un braccio di lato per passarmi ciò che rimaneva della canna tra le sue dita. "Ripetilo un'altra volta, insieme a me. Sei stato sca-ri-ca-to."

Mi rivolse un ghigno, mentre gliela sfilavo di mano. Diedi un tiro, appoggiai la nuca all'indietro contro la spalliera, e soffiai il fumo verso il soffitto, grato che il torpore nel mio cervello fosse già abbastanza piacevole da non farmi degnare di dare una risposta alle sue stronzate, perché non sarebbe stata gentile.

"Neanche una scopata di addio?"

Il solo pensiero, considerate le circostanze, era così assurdo che sentii una risata, amara e artificiosa, salirmi su dalla pancia insieme alla mia risposta. "Decisamente nessuna scopata di addio."

Tre colpi contro la porta mi fecero raddrizzare la testa di scatto. Ci misi alcuni secondi per processare la mossa successiva. Tre nuovi colpi.

Bofonchiai un'imprecazione tra i denti e mandai frettolosamente il mozzicone a fare compagnia agli altri già ingialliti sul fondo della tazza scheggiata che stavamo usando come posacenere improvvisato. La nascosi alla vista infilandola nello piccolo spazio dietro al divano, e diedi un colpetto sulla spalla di Enzo, indicando ciò che era rimasto sul tavolino.

"Fai sparire."

Con la testa ancora frastornata per essermi alzato troppo rapidamente, spiai al di là della finestra per vedere chi fosse venuto a rompere le palle. Mio fratello era in piedi davanti alla porta con le mani affondate nelle tasche.

"E' solo Stef," dissi ad Enzo, che quindi lasciò l'erba esattamente lì dove si trovava, e tornò ad allungarsi scompostamente sul divano.

"State fumando erba?" fu la prima cosa che mi domandò Stefan non appena mise piede dentro, annusando l'aria e corrucciando la fronte in un modo molto da Stefan. "Qui, in casa sua? Papà ti ammazza se lo viene a sapere."

Mi buttai di nuovo a sedere, incrociando i piedi sul tavolino, scrollai le spalle.

"Chi se ne frega."

"Ciao, Stefan!" esclamò Enzo alzandosi in piedi ed allargando le braccia, con fare entusiasta. Mio fratello lo scrutò con diffidenza, mentre il mio amico gli passava accanto per dargli un paio di sonore pacche sulla spalla. "Come va la vita? Aspetta," si sporse in avanti come per osservarlo meglio e più attentamente. "E' barba quella che finalmente ti sta spuntando in faccia? Nah, scusa, era solo un riflesso."

Gli diede un buffetto da cui mio fratello si scansò infastidito. Io sogghignai, incapace di controllarmi. Stefan mi gettò un'occhiata offesa.

"Non è divertente."

Lo era.

"Vuoi una birra, Stefan?" domandò Enzo aprendo il frigo. Ne tirò fuori una bottiglia che si mise a scrutare con particolare attenzione. Poi gliela porse con un sorriso a trentadue denti. "E' una chiara. Sai com'è, io adoro le bionde. Ti piacciono le bionde, Stefan?"

La faccia di mio fratello raggrinzì ulteriormente, in quell'espressione mezza perplessa e mezza giudicante che può avere solo chi non riesce a seguire le logiche di chi è del tutto fatto.

"No, grazie," scosse la testa, tornò a rivolgersi a me. "Stai bene? Sono passato al negozio, non c'eri. Rose mi ha chiesto come sta il tuo virus intestinale, non ti vede da due giorni, e mi sono preoccupato, ma chiaramente …" indicò il casino di bottiglie e tabacco che ingombrava il tavolino, "… era una stronzata. Cosa stai facendo, Damon?"

"Ah, l'eterna domanda!" esclamai con calcata enfasi. "Cosa facciamo? Chi siamo? Dove andiamo? Cos'è l'esistenza se non un'infinita sequenza di insignificanti eventi destinati a ripetersi?"

Enzo, appoggiato in avanti con i gomiti sul bancone, scoppiò a ridere, e bastò quello per trascinarmi di nuovo a sghignazzare insieme a lui. Stefan strinse sia la mascella che i pugni nelle tasche.

"Ce la fai ad essere serio per un momento?"

"E tu ce la fai a non essere sempre così un dito al culo?"

"Sai cosa?" sbottò lui. "Vaffanculo."

"No, fanculo te, Stef!" gli gridai dietro, mentre lui se ne andava sbattendo la porta dietro di sé.

Enzo mi porse una delle due bottiglie aperte che aveva preso dal frigo. Lo afferrai con uno scatto in avanti, buttai giù una lunga sorsata insieme alla frustrazione e all'auto-commiserazione che adesso grazie a Stefan erano tornate a mettersi di traverso sulla gola. Grazie, fratellino, per aver rovinato una altrimenti perfettamente piacevole giornata priva di pensieri.

Allo schiocco della porta lasciato da mio fratello, seguirono interi minuti di silenzio. Fissai lo sguardo su una venatura del legno vecchio e macchiato del tavolo, estraniandomi completamente.

Poi  Enzo disse, "E' colpa sua. Dovrebbe saperlo, di non andare a fare la lagna con qualcuno che è appena stato scaricato."

"Non sono stato scaricato," replicai sovrappensiero, senza staccare gli occhi da quella dannata riga più scura in mezzo al legno. "Non siamo mai stati insieme. Non c'è mai stato niente. Niente … Adesso è solo chiaro che niente mai ci sarà."

"Per via di quell'insulso palestrato con cui sta? Ma per favore."

"No," dissi, sbattendo le palpebre. Magari fosse stata colpa di Donovan. Sarebbe stato molto più facile. "Sono io. Sono io che non sarò mai la persona che vorrebbe lei."


Apro la finestra a scorrimento e mi appoggio con una spalla contro lo stipite della soglia. Elena mi ha sentito arrivare, ma il suo profilo continua a rimanere voltato in avanti, verso il buio che inghiotte la baia.

"Stai bene?" le chiedo.

Ci provo, ci provo davvero a non metterci dentro quell'indefinito miscuglio amaro che mi si è piantato sullo stomaco fin dallo squillo promemoria su cosa esiste al di fuori de "Le avventure di Elena e Damon a San Francisco", ma nel mio tono un accento di durezza ci finisce lo stesso.

Elena scuote la testa. "Gli ho mentito in faccia. A qualcuno che mi ama, e si fida di me, una menzogna dopo l'altra. Che tipo di persona fa una cosa del genere? No, non sto bene."

"Quindi ne deduco che non avete avuto quella conversazione sul fatto di rimandare la data a, non so … mai più?"

Lei serra strette le labbra, non sembra divertita dalla mia battuta. Non lo sono neanche io. Il suo silenzio dovrebbe essere indicazione sufficiente, ma quel miscuglio sul mio stomaco vuole farsi del male e vuole sentirselo dire da lei.

"Hai intenzione di dirglielo, prima o poi?"

Si volta finalmente verso di me, ha lo sguardo lucido di colpa e di accusa.

"E' dall'altro lato del mondo, cosa dovrei fare? Spezzargli il cuore, mandare tutto all'aria per telefono? Penso di dovergli un po' più di questo."

"Bene. Lasciami riformulare, allora. Non al telefono, hai intenzione di dirglielo? Va meglio così?" domando con un leggero sorriso sarcastico.

Mi osserva con gli occhi appena spalancati e le labbra socchiuse in quella leggera smorfia incredula che ha quando le piace accusarmi di fare lo stronzo insensibile. Scuote la testa tra sé e sé, si volta dall'altra parte.

"Non lo so cosa ho intenzione di dirgli," replica. "Forse lo saprò quando lo rivedo."

Stringo le labbra e accuso il colpo, preciso e puntuale, di un altro non lo so.

"Capisco."

Mi stacco dallo stipite e mi giro per tornare dentro, perché oltre a questo non vedo cosa altro cazzo ci sia da dire, ma la mano di Elena mi afferra subito l'avambraccio per farmi voltare di nuovo verso di lei.

"Non intendevo dire che …"

"Cosa?" ribatto, liberandomi della sua presa, "Che stai ancora pensando davvero di sposarlo?"

Gli occhi le si allargano, offesi e feriti dalla mia accusa.

"Non ho detto questo!"

"No, ma lo pensi," le dico avvicinandomi di un passo, fino a che il mio volto non è che a pochi centimetri dal suo, fino a che non sento io stesso tutta la frustrazione trattenuta riversarsi nel mio tono di sfida. "Dimmi che non c'è neanche una piccola, minuscola parte di te che sta ancora considerando la cosa."

"Io … i-io…" Scuote la testa, preme i palmi sugli occhi in un moto esasperato e, quando parla di nuovo, la sua voce si rompe in una così fragile e intensa che, da qualche parte dentro di me, finisce per spezzare qualcosa anche lì. "Ho cercato così a lungo e così duramente di dare una direzione alla mia vita, una direzione qualsiasi, e poi tutto è cambiato e io … Non riesco neanche a pensarci, Damon! Tornare e affrontare tutto quanto, e le persone a cui sto facendo del male, e cosa farò adesso … E mi sento così egoista e ingiusta, per essere così felice, di essere qui con te e di non riuscire a pensare a nient'altro," prende un profondo respiro, cerca il mio sguardo. Finisce con quello che è poco più di un sussurro, "Non riesco a pensare a nient'altro."

Curva appena le labbra, dopo averlo detto, e il conflitto in quell'accenno di sorriso, e negli occhi che nella penombra sono perfino più scuri, e il modo in cui mi spiazza sempre, è a questo che dò la colpa per il fatto di sentirmi sempre così fottutamente debole di fronte a lei. Ancora di più quando allunga incerta la mano per posarla sulla mia guancia, e appoggia piano il volto contro il mio, anche mentre io rimango perfettamente immobile.

"Non può essere abbastanza?"

Vorrei poter rispondere di sì, dio solo sa quanto lo vorrei, perché forse lo è, almeno per un altro momento, o un'altra notte. Ma rimango in silenzio, mentre la punta delle sue dita mi accarezza il viso, mentre si sporge sulla punta dei piedi e inclina il volto di lato, mentre le sue labbra mi sfiorano esitanti. Sull'angolo della bocca, sulla fossetta appena sotto il labbro inferiore, sull'altro angolo, ancora e ancora, ogni sfioramento leggero che preme sempre più pesante sul mio petto, soffocandomi a poco a poco.

"Elena …" cerco di dire, posando la mia mano sulla sua ancora premuta sulla guancia, per stringerla appena.

Perché lo so che in un secondo la farò allontanare, perché ho capito quello che lei ancora non vuole ammettere, e non ho intenzione di giocare a questo perverso castello di bugie. Non quelle che racconta al suo fidanzato, che può andarsene a fanculo esattamente dove è adesso per quel che me ne frega, ma quelle con cui continuiamo a prenderci in giro che tutto questo possa davvero andare da qualche parte, come se non fossimo entrambi completamente fottuti dentro come siamo, come se non lo fossimo sempre stati tanto per cominciare.

Ma Elena mi mette a tacere con un altro bacio, premendo fermamente le labbra sulle mie, con la tenacia e l'urgenza di chi non vuole lasciar andare. Ed io mi arrendo. L'ho detto che sono fottutamente debole.

Circondo con una mano la sua nuca, con l'altra il suo fianco, cedo e prendo con la stessa tenacia e la stessa urgenza. La spingo dentro casa, inciampando appena sulla soglia che delimita il terrazzo, e contro la prima parete che trovo, quella accanto alla vetrata. Elena sospira quando lo faccio, tirandomi la maglietta con le sue mani sottili, e sento anche i denti nel modo in cui mi bacia, denti e lingua e gemiti e bisogno. Restituisco con la stessa combinazione, dolorosamente duro contro la cima delle sue cosce, e so che ci sono un milione di cose che le direi in questo momento e che non le dirò mai.

Dobbiamo smettere, adesso, e chiarire una volta per tutte, mentre mi sfila la maglietta, e percorre la mia schiena con i palmi e con le unghie.

Non sposare quel coglione, mentre le abbasso la canotta intorno ai fianchi e piego la testa per arrivare con le labbra alle morbide curve del seno, tracciarle tutte con la lingua.

Sono felice anche io, e cristo se dovrebbe essere abbastanza, ma per qualche dannata ragione non lo è, mentre faccio saltare aperto il bottone dei suoi shorts e questi cadono intorno alle sue caviglie.

Elena li calcia via, la faccio voltare, appoggia una mano per sorreggersi alla parete adesso davanti a lei. La copro con la mia, e lei ci intreccia le dita così strette da non farmi arrivare il sangue alle nocche, respirando affannosamente mentre con labbra e lingua percorro tutta la curva delle spalle, e poi quella del collo, serrando più stretta la presa sulla mia mano quando con l'altra le accarezzo l'addome e vado ad affondare le dita dentro le sue mutandine. E' incredibilmente calda e bagnata, e respiro più affannosamente anche io, e mi perdo nel suo sciogliersi sotto alle mie dita, nel suo inclinare la testa per cercare la mia bocca, nel leggero cedimento che hanno le sue ginocchia.

E' maledettamente intenso quando entro in lei, e solo poco dopo la sento tremare ovunque, le mie gambe incerte pure loro. Abbandono esausto la testa nell'incavo della sua spalla e la circondo con entrambe le braccia. Stringe stretto anche lei, fino a che non so più chi si stia davvero aggrappando a chi. Torno a baciarla prima ancora di aver del tutto ripreso fiato, piano, sfiorandola ovunque con le labbra, schiena, spalla, collo.

Poi sulla sua guancia. La trovo umida, e leggermente salata.


***


Non dormo, quella stessa notte. Rimango sveglio, sdraiato sulla schiena, per quella che mi appare davvero come un'infinità di tempo, Elena raggomitolata contro di me con la testa posata sopra al mio torace nudo. Penso che non stia dormendo neanche lei, la presa del suo braccio attorno alla mia vita è troppo salda per qualcuno addormentato, ma fa finta di sì, ed io glielo lascio fare.

Non può essere abbastanza? è un disco rotto dentro al mio cervello.

Si intromette in ogni sprazzo di sonno frammentario in cui cado senza rendermene conto, un assopimento inquieto in mezzo al quale ci finisce pure mio padre, che mi ritrovo vivo e vegeto a San Francisco, intento a riprendersi in mano la mia vita e rimpiazzarla con Elijah, perché per qualche motivo ho mandato tutto a puttane e lui deve rimettere le cose a posto per me. Mi sveglio di soprassalto, con il cuore che martella contro le costole.

Mi volto verso Elena, adesso davvero addormentata con un braccio attorno al cuscino, le quattro e ventisette sul display del cellulare. Lentamente, mi alzo stando attento a non svegliarla.

In soggiorno, mi verso un bicchiere del bourbon più forte che ho, e mi siedo nella penombra per confrontare e fuggire il fantasma del pezzo di carta che sono andato a riprendere dal fondo del cassetto in cui l'avevo cacciato, e che adesso mi fissa dalla superficie del tavolo sul quale l'ho gettato. E' qualcosa che non facevo da giorni, da quando ho lasciato Mystic Falls insieme a Elena.

Sollevo lo sguardo quando alcuni passi leggeri fanno scricchiolare appena il parquet. Elena, scalza e in piedi sulla soglia che apre sulla camera, si passa una mano tra i capelli lasciati sciolti, facendoli ricadere di lato sulla spalla.

"Mi sono svegliata e tu non c'eri," dice piano.

Distolgo lo sguardo, mi rigiro in mano il bicchiere che ancora non ho toccato.

"Non riuscivo a dormire."

Si avvicina, mi accarezza con la mano sulla spalla nel passarmi accanto, prende la sedia accanto alla mia. Lei osserva me, io osservo il bourbon.

"E fissare un pezzo di carta ed un bicchiere di whisky aiuta?"

"Non proprio."

Indica con un cenno della testa la lettera che giace immobile sopra al tavolo.

"E' per caso la stessa che avevi a New Orleans? Di tuo padre?"

Annuisco, mentre alcune luci provenienti da fuori rompono brevemente la semioscurità della stanza e le passano sul viso illuminando la sua espressione interrogativa.

"Perché non la leggi e basta?"

Corrugo la fronte, soppeso la sua domanda. Esito un secondo, prima di dirlo ad alta voce.

"Mi odiava."

"Non ti odiava."

Forse. Ma se fosse stato ancora così? Ed avesse voluto ribadirlo una dannata ultima volta. La cosa più folle è che sono passati anni. E' morto, cazzo, a marcire sotto terra, e non dovrebbe neanche più avere nessuna importanza. Scuoto la testa.

"Non puoi saperlo."

"Sì, invece, lo so," si sporge verso di me, mi sfiora gentilmente le dita, ed infonde nel suo tono quella dolcezza piena di comprensione che mi ricorda perché sono sempre stato destinato ad essere così fottuto quando si tratta di lei. "Per come l'ho conosciuto, tuo padre non era uno in grado di odiare il proprio figlio."

Oh, giusto. La sua tardiva confidenza con mio padre, le chiacchierate in cui io non ero incluso, avergli presentato il nuovo fidanzato appeso al braccio. Come se avessi davvero voglia di stare a sentire anche solo una parola su tutto questo.

"E tu pensi di conoscerlo perché?" domando storcendo le labbra, "Perché parlavate del tempo mentre gli servivi i pancakes?"

Elena si irrigidisce, ed un moto ferito le guizza negli occhi quando incrocio il suo sguardo. Mi fa sentire uno schifo per averlo detto.

"Non c'è bisogno di essere cattivo," replica lei.

Ha ragione. Sono io che a volte non riesco a farne a meno.

Allungo le dita verso la sua mano sopra al tavolo, e la prendo tra la mia, per chiederle scusa. La carezzo lentamente, per un lungo momento di silenzio.

Lei la stringe appena. "Puoi parlare con me, Damon."

Lo so. Quello che non so è come la prenderebbe.

Mi alzo in piedi, le poso un bacio sulla fronte. "Magari un'altra volta."


Quando mio padre diceva di "dovermi parlare", era un istinto automatico chiedermi cosa diavolo avessi fatto questa volta. In quel caso, quando lo avevo incrociato per caso fuori dall'ingresso mentre, appena tornato, chiudeva con un clic del telecomando la sua berlina, la prima cosa che avevo pensato era stata che Stefan avesse vuotato il sacco, sia sul fatto di aver saltato il lavoro il giorno prima, che sulle attività alternative su cui avevo ripiegato.

La villa era immersa nell'ombra quando entrai, solo piccole strisce di luce a filtrare dalle fessure delle imposte, tutte serrate per tenere fuori l'afa umida delle estati in Virginia, lo stesso buon odore di sempre. Fresco e pino e infanzia. Avevo ignorato la sensazione, e seguito mio padre nello studio in cui era andato a posare le sue cose.

"Quindi," esordì posando la giacca sopra una sedia ed arrotolandosi sui gomiti la camicia stropicciata dalla giornata. Mi misi a sedere, volutamente scomposto, con una caviglia posata sul ginocchio opposto. "Il mese prossimo, c'è una cena a casa del governatore, durante la quale annuncerà il suo supporto alla mia candidatura alle primarie per le prossime elezioni. Ci sarete anche tu e Stefan. E mi aspetto," mi strappò dalle mani la spillatrice che avevo preso dalla scrivania, con cui stavo giocando a farle prendere a morsi l'aria, "Che ti impegni per fare una buona impressione."

"Fammi indovinare. Vuoi mostrare un po' di quei famosi valori famigliari dei Salvatore in cui siamo così bravi?" dissi facendo il gesto della pistola con due dita e strizzando l'occhio nella sua direzione.

"Sono serio."

"Anche io," sorrisi, prendendo in mano una penna a sfera. "Ci sarà anche Charlotte? Potrebbe essere un'occasione carina per riunire tutta la famiglia, non credi?" Spalancai lo sguardo e la bocca, come se fossi appena stato colpito da un'idea geniale. "Magari possiamo invitare anche il suo nuovo ragazzo! Ha ventotto anni, fa l'insegnante di yoga. Sarebbe divertente e … Niente. Affatto. Imbarazzante."

Sottolineai la mia frase con un paio di clic della penna, e mantenni intatto il mio sorriso anche di fronte a quell'espressione che gli prendeva sempre la faccia al sentir nominare Charlotte, quel misto di amarezza e risentimento velocemente trasformato in qualcosa di più duro e più freddo.

"Incasinami questo, Damon, e scoprirai di non avermi mai visto incazzato."

Mettendo su la mia migliore espressione seria, feci un veloce, sarcastico gesto da "agli ordini sissignore" con la mano sulla fronte.

"Mi hanno detto che hai rifiutato Dartmouth," proseguì incrociando le braccia sul petto.

"Già," confermai, iniziando a far cliccare la penna più sonoramente contro la superficie del tavolo.

"Perché?"

"Quale parte," replicai, alzando su di lui uno sguardo interrogativo, "di ´Puoi prendere Dartmouth  ed infilartela dove sai bene` non ho reso abbastanza …" un altro, più violento, clic per guadagnare abbastanza slancio, "chiara?"

La penna saltò via dal tavolo, disegnò un arco curvo nell'aria davanti alla sua faccia, e rotolò sul pavimento con un tintinnio plasticoso.

Il suo cellulare suonò. Lo tirò fuori dalla tasca gettandomi un'occhiata accesa di irritazione a malapena trattenuta.

"Resta qui," mi avvertì mentre si preparava a rispondere. "Non ho ancora finito."

Roteai gli occhi al soffitto mentre lui lasciava la stanza, mi alzai per andare a raccogliere la penna che avevo fatto saltare dall'altro lato della scrivania. Quando mi sporsi per prenderla, qualcosa tra i documenti sul tavolo, un nome, attirò la mia attenzione. Corrugai la fronte, gettai un rapido sguardo oltre la porta. Mio padre era ancora al telefono.

Sfilai attentamente la cartella dalla pila in mezzo alla quale si trovava, la aprii.

Scorsi velocemente tra i fogli al suo interno, tra i numeri, i nomi e le note, che però non mi aiutarono a dare senso alla cosa né tantomeno a rispondere alla domanda principale: cosa diavolo voleva mio padre dal Mystic Grill?

Lo sentii salutare ed essere sul punto di chiudere la telefonata, così richiusi tutto in fretta e lo rimisi al suo posto. Mi infilai le mani in tasca e mi appoggiai in piedi contro la scrivania, nello stesso attimo in cui rientrava. Mi gettò uno sguardo cauto, ma non disse niente.

"Quindi," domandai, "Hai finito, posso andare?"

"Solo una cosa," disse, infilandosi il telefono e le mani in tasca. Mi guardò dritto negli occhi. "Hai tempo fino alla fine dell'estate, per decidere una volta per tutte se intendi ciondolare a vita in un negozio di musica e ai bordi di questa casa, o combinare finalmente qualcosa di serio. Poi, se non è così … dovrai trovarti un altro posto dove stare."


***


Esco presto al mattino dopo, quando Elena dorme ancora.

L'intera giornata la impiego tenendo fede alla mia promessa verso Stefan di aiutarlo a togliere la compagnia dall'orlo della bancarotta, cosa che se non altro mi aiuta a restare concentrato su qualcosa e a non lasciare vagare la mente verso altri generi di pensieri. Questo implica passare ore appresso a tale Kai della Gemini Co., giovane quanto insopportabile venture capitalist multi-milionario che però al momento rappresenta la migliore possibilità che abbiamo. Gli parlo del piano di ristrutturazione messo in piedi da mio fratello prima che Elijah lo spedisse dentro al cesso, e di tutti i benefici che gli aprirebbe il fatto di investire in una compagnia finanziaria della Virginia con connessioni ben oliate dentro Washington, il tutto mentre giochiamo a mini-golf in un percorso costruito appositamente al ventesimo piano dei quartieri generali della sua compagnia. Lo lascio vincere ma giocando con abbastanza impegno da fargli credere di esserselo effettivamente meritato, e quando si mostra convinto, so che se anche mio fratello ha giocato bene le sue carte, quelle più diplomatiche e concilianti in cui è tanto bravo, abbiamo davvero una possibilità di riuscire in ciò che ci siamo proposti. E' sempre abbastanza un azzardo, e portare dentro un ragazzino viziatello che ha fatto le prime fortune investendo in videogiochi online non è esattamente ciò che il caro vecchio papà avrebbe considerato in linea con la sua visione delle cose, ma in un certo senso il pensiero di quanto una cosa del genere lo manderebbe in bestia dà a tutto un certo gusto aggiunto.

Elena non è a casa quando ritorno, sul finire del pomeriggio. Un paio di ore fa, un suo imperscrutabile messaggio mi ha fatto sapere che Sono uscita a fare due passi, ho pensato molto. Dobbiamo parlare. Stasera?. Le due temibili parole, dobbiamo parlare. Per qualche motivo, non mi piace l'idea di dove tutto questo stia andando a parare.

Prendo il telefono, chiamo Stefan per tenerlo aggiornato con gli ultimi sviluppi.

"Kai è nostro," gli faccio sapere. "Ancora poco, ed avrai una compagnia di nuovo senza debiti, un consiglio più fedele, e nessun direttore finanziario a metterti i bastoni tra le ruote. Contento?"

"Ho incontrato Fairchild oggi, ed ho il suo voto. E' rimasto solo Cartwright, ma non dovrebbe essere un problema. Se saprà che tutti gli altri sono d'accordo, non si arrischierebbe mai a restare fuori e non avere la sua parte. E' solo che …"

"Cosa?" chiedo, mentre mi tolgo la camicia e la butto sopra il letto.

So riconoscere la puzza della coscienza di mio fratello anche da tremila miglia di distanza.

"Ho ricevuto l'invito per il suo matrimonio oggi. Il che mi ricorda che si sta sposando la migliore amica della mia ragazza, e che continuerò ad averci a che fare. Tutto ciò prospetta per future feste di compleanno abbastanza strane. Caroline non sarà contenta, lo sai quanto ci tiene alle feste di compleanno. Mi sento un pessimo individuo."

Alzo gli occhi al cielo, perché Stefan era stato il primo ad essere d'accordo con tutto. Portare dentro Kai, e con lui portare i soldi. Io che prometto di non interferire e starmene defilato, lasciando che il molto più benvoluto Steffy sia quello ragionevole intento a portare avanti l'eredità del nome Salvatore. Il nome rimane, il consiglio è felice, e possono finalmente andare a mettere la caparra per quella barca che li farà sentire per un altro po' dei giovani capitani di ventura. In cambio di questo, acconsentono a cambiare un po' di cose e far fuori Elijah con un voto a sorpresa. Facile e indolore, è il compromesso in cui vincono tutti.

Ma no, oggi è una di quelle giornate in cui Stefan deve sentirsi una pessima persona.

"Ti passerà, fidati," replico, ingoiando il gusto acido che mi ha riempito al bocca al solo sentir nominare il matrimonio del secolo. Apro l'armadio per prenderne una maglietta pulita.

"Ciò non toglie che mi sembra una mossa poco corretta nei suoi confronti, ciò che stiamo facendo."

Sento chiavi girare nella porta. Mi sbrigo a spazzare via i suoi residui di scrupoli prima che si metta davvero a ripensarci, condannandosi ad anni e anni sotto la presa di Elijah.

"Se l'è cercata lui il giorno in cui ha deciso da solo che i suoi metodi più sicuri erano migliori dei nostri. Impiegheresti anni a tornare in sesto, lasciandolo fare, e lo hai detto tu stesso che lo trovi impensabile," gli ricordo. "Forse un voto a sorpresa non è il modo più gentile per sbattere fuori qualcuno, ma è così che funzionano le cose. Papà dovrebbe avertelo insegnato."

"Parli come lui."

Mi blocco con le maniche della T-shirt infilate per metà. Alzo lo sguardo verso lo specchio a figura intera nell'anta interna aperta dell'armadio, e vedo la mia faccia cambiare per lo strano pugno che hanno appena assestato le sue parole inaspettate. Ma non ho tempo di stare a chiedermi se abbia o meno ragione. Dietro a me nello specchio, sulla soglia della stanza, Elena incrocia le braccia sul petto ed inclina la testa con fare interrogativo.

"Ti richiamo, Stef," mi affretto a riattaccare.

Entra in camera, mentre io getto il telefono sul letto e finisco di infilarmi la maglietta.

"Di cosa stavi parlando?" mi chiede.

"Aggiornamenti fraterni," rispondo con un sorriso veloce.

Mi avvicino, mi sporgo per darle un bacio. Elena fa un passo indietro, mi scruta con sospetto.

"Hai per caso appena detto che stai licenziando Elijah?"

"Tecnicamente," spiego. "Non posso licenziarlo. Non che non vorrei. Il termine votarlo fuori è più corretto. Molto più difficile da ottenere. Perciò apprezzerei moltissimo se evitassi di dirglielo," aggiungo unendo le mani in un gesto di gratitudine. "Rovinerebbe un po' la festa a sorpresa, no?"

Ed eccola lì. Di nuovo quella faccia. Quella in cui mi guarda con fare incredulo e da cui si può quasi sentire l'incazzatura iniziare ad irradiarsi verso tutto ciò che le sta intorno.

"Non puoi fare una cosa del genere," sentenzia decisa, io mi trattengo dal non farmi sfuggire una smorfia. "Voglio dire, non è giusto, non è neanche qui al momento, insomma non ha nessuna idea … Ed adora lavorare là, ha dato così tanto, ed era così affezionato a tuo padre, lo so per certo. Non puoi fargli questo, non se lo merita, non è giusto," mi butta addosso, tutto insieme, con una tale intensità indignata che neanche avessi appena rivelato di star architettando uno sterminio di massa di cuccioli di orsi polari.

"Tragico, lo so, non vedo cosa posso farci."

"Non riesco a crederci che lo faresti veramente." Scuote la testa. "Dimmi una cosa, era tutto pianificato? Agire così alle sue spalle, per liberarsene mentre non c'è? Come puoi fare una cosa così meschina?"

Serro le labbra in una linea, ed è il momento in cui inizio leggermente ad incazzarmi pure io. Perché non può davvero essere seria. Se sta cercando qualcosa su cui proiettare e scaricare il suo senso di colpa, così da non doversi sentire la persona peggiore in tutta questa storia, allora tanto vale farlo fino in fondo.

"Già, tempismo perfetto, non è vero?" dico con un sorriso stretto. "Oh, a proposito, Stefan ha ricevuto il tuo invito di matrimonio. Deve dare conferma?"

La menzione taglia dritta attraverso di lei. Nel lampo che le attraversa gli occhi e che li rende più scuri, in tutta la sua fermezza che vacilla di colpo, e nel modo in cui sostiene il mio sguardo con uno ancora più ferito e arrabbiato.

"Non ci provare. Non farne una questione che riguarda me."

"Perché no?" ribatto aspro. "Sei tu che ne stai facendo una questione tua. Cosa diamine te ne frega?"

"Perché non è giusto! Non se lo merita, niente di tutto questo!"

"Però ti sta bene, scoparti qualcun altro!"

E' così veloce e così violento, che a malapena lo vedo arrivare. Sento solo il dolore caldo e diffuso lasciato dalla sua mano sulla mia guancia, dopo che il ceffone l'ha già dato. Quando incontro di nuovo i suoi occhi, la rabbia che li riempiva quando ha alzato la mano se ne è già andata, rimpiazzata dallo stesso dolore ferito che brucia anche sulla mia guancia e dentro il mio petto.

Si porta entrambe le mani sulla bocca, ed è sull'orlo delle lacrime.

"Oh mio dio," mormora piano, tremando appena, mentre compie un minuscolo passo indietro e mi guarda con gli occhi allargati dallo shock. "Cosa stiamo facendo? Non possiamo essere così, Damon. Stiamo facendo del male ad altre persone. Stiamo facendo del male … a noi. E' tutto troppo complicato, troppo …"

"Allora vai," la interrompo. Mi guarda smarrita, e la gola mi fa male, mentre lo dico, molto più della guancia, molto più di qualsiasi altra cosa. "Se è così, se la pensi così … Vattene. E' sempre complicato, Elena. Vuoi prendere la via d'uscita più facile? Eccola qui. Prendila e vattene."

Si porta di nuovo una mano sulle labbra, e non replica, ed io non so davvero se è meglio o peggio così, perché qualsiasi cosa potrebbe dire adesso mi annienterebbe in un modo o nell'altro e, onestamente, quello sguardo sulla sua faccia, quello sguardo spalancato e pieno, e perso e bagnato, e poi oh così dispiaciuto, già dice tutto.

Le passo davanti, mentre una lacrima non regge più e le cade sulla guancia. Non dice niente, neanche quando raggiungo la porta ed in un attimo sono fuori da lì.


***


Il bancone di un pub, il mio telefono, un bicchiere di whisky posato lì accanto.

Per una molto lunga, molto torturata, ora, sono queste le uniche cose che mi riempiono la testa e la visuale.

Ho lasciato il mio appartamento, ed Elena, un paio di ore fa. Ho camminato, e camminato, attraverso i viali più ampi e tutte le strade costellate di bar e pub affollati che conosco così bene da sapere che ci sono posti dove non devi per forza sentirti troppo solo e malinconico, se non vuoi farlo. Sono quelli dove c'è sempre abbastanza folla e musica e voci alte che non ti costringono a stare ad ascoltare il suono della tua stessa mente fin troppo fottutamente incasinata.

Ho perso il conto delle volte in cui ho preso in mano il telefono, l'ho controllato e l'ho riposato,  pur sapendo in partenza di non trovarci niente di nuovo, non fosse solo per il fatto che è l'unica cosa che ho continuato a fissare tra una bevuta e l'altra per quello che sembra già un lasso di tempo infinito. Continuo a tornare a quell'ultima comunicazione di Elena, a quel corto Ho pensato, dobbiamo parlare che poteva voler dire tutto senza dire niente. Me lo chiedo adesso, cosa fosse che aveva da dire. Un sì, una pausa, un no, un non lo so. Immagino che non lo saprò mai. Tanto, non ha neanche più nessuna cazzo di importanza.

Penso di chiamarla più o meno ogni volta che il telefono lo prendo in mano. Non lo faccio neanche mezza. Non so se voglio scoprire se davvero ha mollato tutto così, o se sta solo aspettando, come me, che le cose si calmino un po' e tornino a quando non dobbiamo per forza urlarci in faccia e tutto questo può essere così maledettamente meraviglioso e non così maledettamente doloroso come una scheggia piantata nel mezzo del costato.

"Posso avere un Martini dry?" dice una voce di donna accanto a me. "Senza ghiaccio."

Getto un'occhiata di lato, mentre lei aspetta di essere servita dal barista, e qualcosa in lei mi sembra familiare. La riconosco l'attimo dopo, anche se i capelli castani sono sciolti e ondulati sulle spalle invece che tirati su nella solita pratica coda alta. Tamburella le dita mentre aspetta la sua ordinazione. Si volta appena, si blocca piacevolmente sorpresa quando mi vede.

Sorrido, perché mi ha riconosciuto anche lei. Ovvio che lo ha fatto.

"Tu … tu sei il ragazzo del Ferry Building!" esclama. Poi muove una mano nell'aria, sorride appena imbarazzata. "Scusa, è stupido, è così che ti chiamo."

"Ragazza delle sei e trentacinque," rispondo, prendendo un sorso. "E' così che io chiamo te."

"Beh," si gira per prendere e pagare la sua bevuta. "Adesso puoi chiamarmi Charlotte. O Charlie, è così che mi chiamano tutti."

Decisamente meglio, o qua ci sarebbero le basi per un gigantesco complesso materno. Charlie sia.

"Damon."

"Sei qui da solo, Damon?"

Il mio sguardo va automaticamente verso l'immobile telefono, per rinnovare la fitta al costato quel tanto che basta.

"Sì." Inclino la testa, studio brevemente lei e quello stesso sorriso un po' timido e un po' flirtante che mi lancia ogni mattina. "Tu?"

Charlie lancia un veloce sguardo oltre la sua spalla, verso un tavolo con altre tre ragazze, che ci osservano, ridono, alzano i loro bicchieri nella nostra direzione in segno di incoraggiamento.

Si siede nello sgabello accanto al mio, le faccio spazio.

"Posso esserlo."


Non alzai lo sguardo, quando sentii aprirsi la porta del negozio, seguita dal leggero tintinnio che annunciava la rara entrata di un cliente. Tonight, Tonight [2] usciva a basso volume dagli speakers, e la mia ricerca internet sugli esorbitanti prezzi degli affitti per buchi di stanze in zona New York mi aveva appena fatto realizzare che avrei avuto bisogno di risparmiare almeno altri quattro mesi del mio misero stipendio, per potermi permettere di non morire di fame nei primi trenta giorni. Quattro mesi che non avevo, dato che il mio caro papà mi avrebbe sbattuto fuori tra due.

"Stiamo per chiudere tra dieci minuti, quindi suggerisco vivamente di tornare domani quando non dovrò rimanere oltre orario per mettere in ordine quello che ha intenzione di lasciare fuori posto, buona serata e grazie mille," dissi asciutto all'importuno cliente che aveva avuto la brillante idea di presentarsi appena prima dell'orario di chiusura.

"Speravo che potessi fare un'eccezione?"

Mi voltai di scatto, non senza un imprevisto battito mancato a tradimento.

Elena, sulla soglia del negozio, sorrise. Di quel sorriso piccolo che le alzava solo appena gli angoli delle labbra, una mano intenta a tormentare la cinghia della borsa a tracolla.

Non la vedevo da giorni. Dalla notte dopo il Grill in cui avevo riaccompagnato a casa lei e suo padre, nel viaggio in macchina più pieno di silenzi nella storia dei viaggi pieni di silenzi.

Indossava un vestitino verde, al ginocchio, e bastò un solo secondo, un'occhiata a quel vestitino e al modo in cui incrociò nervosa le caviglie e le basse scarpe di tela, per riaprire tutto quello mi si apriva dentro quando era vicina e poi si dimenticava sempre di richiudersi perfino quando non lei non c'era.

"Ciao," disse.

 Distolsi lo sguardo.

"Ciao."

"Io … ti ho portato questi," sollevò un braccio, mi mostrò un sacchettino ben incartato. "Sono i biscotti grandi con le scaglie di cioccolato, li abbiamo fatti freschi di questa mattina, avevi detto un po' di tempo fa che avremmo dovuti venderli di nuovo perché erano i tuoi preferiti, e … Giuro che non li ho fatti io," scherzò, porgendomelo e tentando un altro sorriso.

Se fosse stata una qualsiasi altra occasione, e non una dove per giorni eravamo stati troppo impegnati a far finta che non avessi provato a baciarla ottenendo un secco, spaurito, no come risposta, se fosse stata una sera qualsiasi e non avessi avuto da ingoiare un malloppo di orgoglio ferito e consapevolezza di quanto unidirezionali fossero diventate le cose, allora avrei chiuso in fretta ogni serranda, e avrei preso la Camaro, e avrei guidato in una di quelle radure nascoste appena fuori città, una con alberi e verde e vista sulle cascate, e sarei rimasto seduto sul cofano  con lei a fare cena con i biscotti fino a che non avesse fatto buio, e anche di più.

Ma non lo era. Spensi il computer, Elena aspettò qualche secondo con il sacchettino ancora teso, e poi li posò un po' delusa lì vicino sul bancone.

"Stavo pensando che forse-"

"Ho da fare stasera," risposi, continuando a rimettere a posto le ultime cose.

"Ti vedi con Michelle?"

Il tono casuale, buttato là, con cui lo chiese, terminò in una leggera nota acuta che no, non aveva nessun diritto di essere lì.

"Michelle ed io ci siamo lasciati."

Staccai anche gli speakers, e l'assenza di una replica da parte sua rese l'improvviso silenzio nel locale ancora più lungo e ancora più denso.

"Oh. Io non … Mi …" Si fermò, si schiarì la voce. "Perché?"

Allora sollevai lo sguardo verso il suo. Lo trovai particolarmente allargato e improvvisamente incerto. Sorrisi a labbra strette.

"Sono andato a letto con la sua migliore amica."

Una linea le solcò la fronte, la sua espressione cambiò.

"Tu … Cosa?" domandò spiazzata, neanche lo avessi fatto a lei. "Perché faresti una cosa del genere?"

"Cavoli, non lo so," roteai gli occhi al cielo. "Perché non dovrei?"

"Perché è una cosa orribile!"

"Allora forse faccio cose orribili!"

Elena richiuse di colpo la bocca, scosse la testa.

"Pensavo che fossi cambiato, Damon."

Le passai davanti, andai ad aprire la porta con uno scatto brusco, con la testa le feci cenno di uscire. Non ero in vena, lo ero meno che mai, per quel suo solito ritornello.

"Notizia dell'ultim'ora, Elena. Le persone non cambiano."

Elena si avvicinò a passi decisi. Ma invece di prendere la porta, si piazzò di fronte a me, guardò in su con quella scintilla testarda nello sguardo.

"Ed è questo che ti ostini a non voler capire! Tu non sei così, ma ti piace far finta di sì per usarla come scusa per allontanare di proposito tutti quanti, e questo, in questo, pensavo che fossi cambiato."

"Non darmi lezioni sull'allontanare le persone," dissi, serrando più strette le dita attorno alla maniglia della porta. "Tu in questo sei molto più brava di me."

Si schermì, con un passo indietro.

"Io non allontano le persone."

"No. Solo me."

Il riferimento non detto lo sapevamo entrambi quale fosse, ma rimase lo stesso sospeso nell'aria. Nel silenzio con cui ci guardammo, nella nota più triste che ferita con cui mi erano uscite fuori quelle parole, nel modo in cui si ammorbidì la sua espressione.

"Sono tua amica, Damon. Non ti allontanerei mai." Piegò appena un lato delle labbra. "Non potrei neanche se volessi."

Piano, chiusi la porta. Mi ci appoggiai contro con la spalla, guardai appena fuori sulla strada, e poi di nuovo verso il suo viso, le sopracciglia leggermente increspate, e tutta quella sincerità e tutto quell'affetto che non era davvero più abbastanza rispetto a ciò che avrei voluto che fosse, ma che restava quanto di più vicino ci potesse essere.

"Fa parte del non allontanarmi, avermi ignorato per giorni?" domandai, odiando ogni briciola della dannata debolezza con cui sapevo, a dispetto di tutto, di non poterla comunque perdere.

Abbassò lo sguardo, con un inconscio gesto nervoso chiuse una mano intorno al ciondolo scuro che portava al collo.

"Sto con Matt," disse, girandosi a guardare fuori. "Amo Matt."

"Felice che lo abbiamo chiarito," replicai, incrociando le braccia sul petto, anche se il sarcasmo con cui lo dissi forse fu chiaro solo a me.

Elena annuì, smise di torturare il suo ciondolo con le dita. Fece per andare, esitò all'ultimo momento. Poi si voltò, si sporse rapida sulle punte, mi baciò la guancia. Altrettanto rapidamente,  uscì senza guardarmi un'altra volta.


Runaway, The National


Charlie ride mettendosi una mano davanti alla bocca. E' quasi carina come cosa. Penso che mi piacerebbe molto meno se non fossi già al mio sesto o settimo bicchiere di whisky, e lei non fosse al quarto Martini dry. Ma ci siamo, quindi è carina, o quasi.

"Lo sai," dice lei, mentre io finisco anche ciò che era rimasto sul fondo del bicchiere. "Pensavo che tu …" mi indica, sovrappone un po' le parole, "… non ti saresti mai deciso a parlarmi."

"Mi stavo solo rendendo più desiderabile," rispondo avvicinandomi appena di più, con la voce già abbassata a quel tono più seducente che entra automaticamente in gioco in certe situazioni, anche quando il mio istinto di auto-conservazione dovrebbe suggerirmi di meglio. Soprattutto quando il mio istinto di auto-conservazione dovrebbe suggerirmi di meglio.

"Ci sei riuscito," sorride, con lo sguardo sulla mia bocca.

Dio, quante volte l'ho fatto? Uno sbiadito deja-vu di un me post-Katherine taglia i miei pensieri per una frazione di secondo, ma comunque abbastanza da aprire uno squarcio su tutte le volte in cui alcol e sesso erano un ottimo modo per ripagare la stronza che mi aveva lasciato incazzato e ammaccato. Non cambiava assolutamente niente, alla fine di tutto, niente per lei che a malapena se ne fregava, niente per me che restavo ugualmente incazzato e ammaccato. E lo sapevo che era così, ovvio che lo sapevo, ma era sempre meno peggio che lasciare spazio a tutto il resto.

Così come so adesso che Elena non è Katherine, dio se non lo è. Ma io sono sempre io. Ed ha dell'incredibile, il modo in cui tale consapevolezza si intromette in mezzo ad ancora più alcol ed una ragazza perfettamente carina e perfettamente disponibile. Non si può scappare, da una cosa del genere. Neanche quando la ragazza delle sei e trentacinque colma la distanza degli ultimi centimetri, posa le labbra sulle mie.

E' un po' sbadato come bacio, ma non ci faccio troppo caso.

"Non faccio mai così, ma …" sussurra sulla mia bocca. "Casa tua o mia?"

Mi guarda un po' incerta, ed io non ho una risposta.

Non ce l'ho perché è qui che tutto quanto mi riempie la mente, e l'addome, e perfino il costato sempre un po' scheggiato. Le lacrime di Elena mentre vado via, Elena che si stira nel sonno al mattino presto, e tutti i piccoli suoni quando la bacio lentamente, e il modo in cui ride, e quello in cui si arrabbia, e quanto salda sia la sua presa quando mi stringe. E' la sola risposta che ho, anche maledettamente complicata e incasinata come è, tornare da lei.

Ma lo so fin dal momento in cui apro la porta, accendo la luce, e sento il silenzio fermo che riempie il mio appartamento. Lo so in quel momento, ma ugualmente cerco nella sala, nella camera, anche sulla terrazza, accendendo ogni luce e perlustrando per il minimo segno di ciò che c'era fino a poche ore fa, e adesso non più. Una spazzola sul ripiano del bagno, un libro tirato fuori dalla libreria, vestiti lasciati disordinatamente sopra una sedia.

Mi appoggio alla parete che separa il soggiorno dalla camera, mentre l'alcol che mi ottura la testa e le vene rende ogni cosa filtrata come attraverso la patina di un patetico sogno triste. Scivolo contro la parete finché non sono seduto per terra, e la stanza gira un po' prima di assestarsi, proprio come tutto ciò che Elena mi ha lasciato in pezzi nel petto.

Tiro fuori il telefono. Risponde al terzo squillo, un "ehi" instabile almeno quanto la domanda che le faccio.

"Dove sei?"

L'annuncio di un volo per Austin in partenza al gate 72 risponde per lei.

"Avevi ragione, Damon. Non posso … Non posso restare, non in una situazione così. E' ingiusto nei confronti di tutti, anche nostri. E' stato un errore," dice, e non so se a fare più male è l'idea che lo pensi davvero o quei residui di lacrime che ancora si sentono nella voce. "Ho trovato un volo che parte tra mezzora, riesco ad essere a casa per domani mattina. Devo, capisci? Devo sistemare un po' di cose."

"Non farlo," mi sento dire, l'alcol e la spaventosa idea di una notte senza Elena a parlare più della mia parte ragionevole. "Almeno non stasera, non così … Vengo a prenderti. E le sistemerai domani, o quando diamine vuoi. Non stanotte."

Un altro volo annunciato in sottofondo riempie il silenzio nella sua risposta.

"Mi dispiace," sussurra dentro il microfono.

E poi riattacca, e poi più niente, e poi è finita.

Mi faccio scivolare il telefono di mano, cade sul pavimento. Lo lascio lì, fisso il vuoto, e non riesco più a rialzarmi neanche io.

—————————————————————

Note:

[1] Se avete colto la citazione, sappiate che vi amo. No, seriamente. Vi amo.

[2] Tonight, Tonight - Smashing Pumpkins


Note autrice

I'm sorry. I'm so, so sorry.

Per il ritardo, innanzitutto, sia nel postare il capitolo che nelle risposte ai commenti (li ho amati tutti, voi non ci crederete ma mi fate davvero commuovere, tipo lacrimuccia nell'occhio quando vi leggo. Sono una sentimentale, che ci volete fare). E' solo che questo capitolo l'ho dovuto scrivere a piccole dosi, piano piano, perché tutto insieme non ce la facevo, e immagino che possiate intuire perché. Potete odiarmi, se volete. Il prossimo torna a Mystic Falls insieme a Elena, e inizieranno a tirarsi un po' le fila di tutto.


E sono molto più che emozionata di annunciare che, d'ora in poi, Stubborn Love la potrete trovare anche sul blog It's Gonna Be Damon (qui per seguirlo anche su facebook), che pubblicherà in esclusiva le anteprime dei capitoli prima della loro pubblicazione. So che se siete delle brave Delena lo conoscete già, ma se non fosse così cogliete l'occasione per rimediare, e fare le brave Delena, perché é una miniera inesauribile di bellissime riflessioni e analisi sia sul Damon e Elena che su TVD tutto.

Di questo

ringrazio Ross e Scarlett, che si sono prese a cuore questa storia e l'hanno portata anche lì,
ringrazio la nostra
Bloodstream che ha realizzato delle meravigliose gif ispirate a scene di Stubborn Love,
ringrazio tutte voi che mi avete incoraggiato a continuare e sostenuto fin qui.


Ringrazio anche le mie adorabili beta, che qui si sono unite in un triplice lavoro per correggermi le sviste e sopportare le mie paranoie, e chiudo la nota con l'ormai solito angolino musicale per quelle che sono interessate: Us ones in between per la citazione iniziale e Runaway dei The National per l'ultima scena (qui la playlist), e con un nuovo gigantesco grazie per tutto questo incredibile supporto che non smette mai di stupirmi.

ps. chi di voi, sul gruppo facebook, aveva azzeccato gli spoiler di "due verità una bugia"?

un bacio,

ever

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Capitolo 21
*** The one that got away ***



20.

The one that got away


- I never meant to get us in this deep
I never meant for this to mean a thing
Oh, I wish you were the one
Wish you were the one that got away -

(The One That Got Away, The Civil Wars)


Elena


Sono le 16:13 di un qualsiasi pomeriggio pigro, umido e pieno di sole della Virginia. A ricordarmelo è l'ora digitale sul cruscotto della mia auto, di un verde luminoso sbiadito dal riflesso del sole.

Sono passate esattamente otto ore e qualche minuto da quando ho lasciato San Francisco con il primo volo del mattino, circa diciassette invece dall'ultima volta che ho parlato con Damon.

La sua voce imbevuta di alcol, la mia di lacrime e rimorsi.

E la verità è che non c'era nessun volo imminente da prendere, ieri notte. Se solo lo avessi voluto, ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo per tornare indietro e vedersi e chiarirsi. Ma non so a cosa sarebbe servito.

So però che se lo avessi fatto, se fossi tornata indietro anche solo per un momento, tutta la mia risoluzione si sarebbe vaporizzata nell'attimo stesso in cui avrei posato gli occhi su di lui. Avrei sentito prepotente come lo sento ancora adesso il bisogno di toccarlo, stringerlo, respirare il suo odore, e il fegato di andarmene non ce lo avrei avuto più, e saremmo solo finiti - oggi, domani, un altro giorno - a ferirci di nuovo.

E' quello che facciamo, sempre.

Lo so che non era giusto, viverla così, con il mio senso di colpa a rendere insopportabile stargli vicino - non importa quanto ancora più insopportabile sia l'idea di non farlo - e con il suo modo di sbattermelo in faccia.

Lo so che era la cosa più ragionevole da fare, chiuderla qui. Ed essere corretta nei confronti di Elijah, forse provare a sistemare le cose, come posso, per quanto posso - gli devo almeno questo.

Me lo sono ripetuto durante l'intera notte passata a non dormire sulle scomode sedie di metallo della lounge dell'aeroporto, una maglietta come cuscino e lacrime lente a bagnarmi le guance.

Me lo sono ripetuto durante le sette infinite ore di volo accanto ad una signora gentile e un po' impicciona pronta ad offrirmi kleenex e piccoli sorrisi compassionevoli. Nell'alternanza tra uno stato di esausta sonnolenza e il sopravvento feroce del pensiero di Damon ogni volta che ho chiuso gli occhi, di tutte quelle notti in cui era lento e intenso e nient'altro aveva importanza.

Me lo sono ripetuto davanti alla mia faccia pallida e sfinita sotto alla violenta luce bianca del bagno dell'aeroporto di Richmond, mentre ho gettato acqua fredda sugli occhi gonfi e arrossati e ho legato in alto i capelli, maledicendo un nuovo taglio sul quale inizio ad avere sentimenti contrastanti, perché mi sembra  adesso così disordinato ed impossibile da mettere a posto con la stessa facilità di quello vecchio.

Ho fatto la cosa giusta.

Ma qualcuno mi spieghi perché fare la cosa giusta debba fare così dannatamente male.

Così adesso sono ferma nella mia auto nello spazio 35B del parcheggio sotterraneo dell'aeroporto da più di venticinque minuti, incapace di costringermi a mettere in moto e tornare davvero a Mystic Falls, a mettere tutto a posto come mi sono prefissata di fare.

Mi strofino gli occhi, sempre umidi pure loro, e poi la mia mano colpisce con forza il bordo del volante, in uno scatto rabbioso e frustrato che non so neanche da dove sia uscito fuori. Poi un profondo respiro.

Quando alzo lo sguardo, è il cartello con le indicazioni stradali, Petersburg 25 miglia, a darmi l'idea.

Mezz'ora dopo, accosto l'auto al lato di una via residenziale costeggiata da verdi prati bassi e piccole case in mattoncini rossi tutte corredate da mini-portici nello stesso stile simil-coloniale. Quella di mio padre è dall'altro lato della strada, l'unica in legno bianco e vialetto di pietra.

Ma non lo trovo da solo. E' in compagnia della bella dottoressa della casa di fronte (quella in mattoni rossi, un giardino di rose, un piccolo cedro davanti al garage), intenti a chiacchierare all'ombra delle colonne del porticato, e non mi hanno visto, non ancora.

Accompagno la portiera facendo poco rumore. Rimango qualche istante a guardarli, incerta sul limitare del vialetto di ingresso. Quando entrambi ridono per qualcosa, sento un tale strattone dentro al petto, per ragioni che non saprei neanche spiegarmi, che quando il suo labrador Louis trotta scodinzolando nella mia direzione ed anche mio padre mi nota piacevolmente sorpreso, avverto di nuovo quella sensazione. Come se fossi sul punto di infrangermi in mille pezzi.

La sua espressione si fa più preoccupata, attraversa la distanza in pochi secondi, e io scuoto forte la testa mentre mi chiede se è successo qualcosa di grave, appena prima di farmi abbracciare e andare a seppellire la faccia nella sua spalla.

Mormoro solo, "Ho rovinato tutto."


Mio padre mi porge una tazza piena di acqua bollente che odora di erbe e effetti calmanti. La prendo con cautela e poi la tengo tra i palmi, perché anche se sono almeno 28 gradi, e lo spazio d'ombra del porticato è solo appena più fresco, ho le mani che ancora tremano un po' e questo mi aiuta a tenerle ferme.

Louis posa il muso sulla mia coscia, e il dondolo ondeggia leggermente.

"Da quando bevi tisane?" gli domando soffiandoci sopra.

Mio padre ride. "E' colpa di Jo, in realtà. Continua a insistere su quanto facciano bene, e ogni tanto non riesco a dirle di no."

Giusto, la bella dottoressa. Quello che sospetto essere l'ultimo pezzetto della vita che ha impiegato tutti gli ultimi tre anni per ricostruire - lontano dal Grill e lontano da Mystic Falls. Tra mesi di riabilitazione e un corso per diventare soccorritore medico, incontri settimanali dagli alcolisti anonimi, turni notturni, e un cane che porta il nome di un musicista. La sua decisione di cambiare città non è stata una che ho accettato fin da subito. Ma poi ho iniziato a vederlo. Il bisogno di ricominciare daccapo, di dedicarsi a qualcosa che potesse aiutare gli altri e aiutare lui a dare forse un po' di tregua ai suoi personalissimi sensi di colpa. E lo vedo adesso, più che mai.

"Dovresti chiederle di uscire. A Jo," dico. Lui alza un sopracciglio ed io mi sento sorridere. "Dico davvero. Ho visto come ti guarda."

Scuote la testa. "Lo sai che non è consigliabile iniziare qualsiasi relazione …"

" … durante i primi periodi da sobrio," finisco io per lui. "Lo so. Ma sono tre anni adesso, magari è tempo. Non hai davvero scuse. Chiedile di uscire."

Sembra pensarci. "E a te non dispiacerebbe?"

Scuoto la testa e provo a prendere un minuscolo sorso che però mi brucia subito la lingua.

"Va bene. Ti meriti di andare avanti. Ce lo meritiamo tutti." Lui rimane in silenzio, io torno a guardare dentro al vapore che sale dalla tazza, sento la gola ispessirsi appena. "Sai, una volta pensavo … che sarebbe diventato più facile, col tempo. Che avrebbe fatto meno male, che mi sarebbe mancata di meno. Ma mi sbagliavo." Mi esce fuori una breve risata, che di divertito non ha niente, e le parole escono fuori da sole, una dopo l'altra, prima che le lacrime che mi bruciano dal fondo del petto abbiano il tempo di soffocarle. "Beh, mi sbaglio sempre su così tante cose. A volte penso che non sbaglierei così tanto se lei fosse qui. Perché saprebbe dirmi cosa fare. Sapeva sempre cosa fare. Come ci riusciva, a saper fare tutto? Non ha mai neanche bruciato una torta in vita sua. Io non riesco neanche a fare un toast, finisco sempre per sbagliare anche quello. Io non so mai cosa fare."

La voce mi cede sul finire del mio sfogo che non so quanto abbia di sensato, e mio padre corruga appena la fronte. Anche Louis ha alzato il muso e mi guarda con interessati e simpatetici occhi marroni.

"Non era perfetta, lo sai vero?"

Sollevo titubante lo sguardo, mentre mio padre si siede accanto a me.

"Voglio dire, eccezionale, sì … Perfetta no. Si sbagliava un sacco di volte, anche se non voleva mai ammetterlo. Era piuttosto prepotente, se proprio vuoi saperlo. E davvero esasperante a volte, soprattutto quando si metteva in testa qualcosa," si fa sfuggire un piccolo sorriso, che però si trasforma rapidamente in qualcosa di più distante, più malinconico. Impiega qualche secondo, prima di continuare. "Avevamo litigato, quella mattina. Piuttosto male, per colpa … non lo ricordo neanche, qualche decisione sul locale. Le ho dato della stronza dispotica. Che è praticamente l'ultima cosa che le ho detto, prima che uscisse di casa. L'ultima cosa che le ho detto … e basta."

Una falciatrice ronza su un prato di qualche vicino, Louis viene distratto da una mosca, e il mio cuore riceve un colpo a cui decisamente non era preparato.

Non mi aveva mai detto cose del genere. Improvvisamente del tutto persa, non riesco a far altro che guardarlo smarrita, mentre sento cadere a pezzi anche quell'ultima, confortante, consapevolezza che c'era almeno stato un tempo in cui le cose erano semplici e belle, che erano possibili, e non solo un frutto della mia immaginazione.

"Io … pensavo che foste felici."

Mio padre mi restituisce uno sguardo altrettanto confuso, come se si stesse perdendo qualche collegamento fondamentale. Poi abbozza un sorriso.

"Lo eravamo," dice, in tono di fatto. "Molto. Pensi che essere felici sia qualche verità preconfezionata dove niente va mai male?"

Ingoio un'altra minaccia di lacrime. Scuoto appena la testa, giocherello con l'etichetta della bustina del the.

"Non … Non lo so," dico infine. Sospiro, con una nota amara. "Chiaramente, non lo so."

"Va tutto bene con Elijah?" mi domanda. "Hai detto che hai rovinato tutto."

"Io …" Mi fermo, mi schiarisco la voce. Non era ad Elijah che stavo pensando.

Penso di mentire, perché non saprei neanche da che parte iniziare per parlare con mio padre del gigantesco casino che è attualmente la mia vita, sentimentale e non. Ma non ce la faccio.

"No, non va bene. Ed è colpa mia. Vorrei solo fare ciò che è giusto, lo vorrei davvero, ma … non so cosa fare, non sono più sicura di niente." Faccio una pausa, sento che effetto fa avere le parole sulla lingua e nella testa, prima di dirle anche ad alta voce. "Neanche di sposarlo."

"Allora non farlo."

Alzo gli occhi su di lui, sorpresa dal fare calmo e pratico con cui lo ha detto. Lo fa sembrare così facile.

"Ma è tutto già programmato. Gli inviti sono stati mandati, e-"

"Al diavolo gli inviti."

Sento un minuscolo pezzetto di sorriso curvarmi le labbra verso l'alto, appena prima che un'altra fitta colpevole mi colpisca dritta in mezzo al petto. E il sorriso svanisce, davanti alla vera ragione che rende tutto questo così difficile.

"Lui mi ama, papà."

"Non è comunque abbastanza, se non è quello che vuoi."

Abbandono la testa all'indietro contro il legno del dondolo, che scricchiola appena nei secondi di silenzio che seguono. Mi sento lacerata. Esausta.

"Posso restare qui per stanotte?" gli chiedo, esitante. "Me ne vado domattina."

Si alza, posa una carezza e un bacio sulla mia testa. "Puoi restare quanto vuoi."


Non me ne vado al mattino dopo. O quello dopo ancora.

Restare da mio padre diventa una sorta di piccola e confortevole bolla cuscinetto nella quale non devo necessariamente gettarmi a capofitto in tutto ciò che mi rende tesa e non mi fa dormire la notte. Non devo tornare a Mystic Falls e inventare risposte su dove sono stata l'ultima settimana, non devo essere costantemente ricordata dei preparativi di un matrimonio del quale non so più cosa fare, non devo passare le mie giornate a prendere una serie continua di piccole decisioni per mandare avanti un locale affollato.

E' solo una deviazione, un modo per rimandare, lo so. Soprattutto nei momenti in cui tutto ciò che incombe dagli angoli della mia mente torna a far sentire la sua pressione.

Non è solo Elijah. La fitta agrodolce che mi lascia ognuno dei suoi "ti amo" alla fine di ogni messaggio, il modo in cui continuo a ricacciare indietro il pensiero di cosa farò o cosa proverò quando lo vedrò di nuovo, parole che non riesco a immaginare, e cosa è cambiato nel modo in cui una parte di me sa che ancora lo amo.

Non è solo Damon. Quanto facciano male tutti i pezzettini sparsi di tutto ciò che fino ad un paio di giorni fa mi aveva fatto sentire incredibilmente viva, e adesso invece in modo altrettanto spietato mi taglia dentro come tante piccole schegge di ciò che ne è rimasto; o quanto insonni siano diventate le notti senza il suo odore e il suo corpo vicino.

E' tutto ciò che giace irrequieto sul fondo del mio petto. E' l'indefinibile sensazione che forse in me c'è più di tutto questo - più di questa ragazza, più di due uomini e tutto ciò che sono per me, più di una piccola città di provincia che eppure amo in ogni suo piccolo angolo, più da vivere - qualsiasi cosa significhi.

Non so neanche quando è cominciata, o perché, ma è sempre lì. Mentre faccio lunghe passeggiate con Louis al Memorial Park, mi libero dei cibi preconfezionati nel frigo di mio padre, e per la prima volta nella mia vita mi metto in testa di affrontare la paura di non essere in grado di trasformare roba cruda in qualcosa di anche solo vagamente commestibile.

Non va sempre nel migliore dei modi, ma una mattina riesco addirittura a produrre un intero set di muffin che sono un pochino troppo bruniti sui bordi, ma che a parte quello hanno un sapore ottimo. Non riesco a trattenere un sorriso orgoglioso di me stessa, anche se poi nell'entusiasmo del momento mi dimentico il guanto da forno e mi brucio il palmo con il bordo della teglia.

"E quindi, fammi capire, ti sei stabilita da papà adesso?" chiede l'accenno di amaro sarcasmo nella voce di Jeremy dall'altro lato del telefono in bilico sulla mia spalla.

Soffio sopra il segno rosso e arrabbiato della bruciatura all'interno della mia mano destra.

"Perché non vieni anche tu?" dico. "Solo per un paio di giorni. Possiamo passare un po' di tempo insieme, solo noi tre."

Mi sembra quasi di vedere la smorfia sulla bocca di mio fratello. Non dovrebbe sorprendermi, dal momento che per Jeremy nostro padre è ancora un argomento sensibile. Sono anni che gli parla a malapena, intenzionato con tutta la rabbia dell'adolescenza a fargli pagare ogni colpa e mancanza passate. Io continuo a provarci lo stesso.

"Intendi come quando era troppo ubriaco anche solo per ricordarsi di noi?"

"Andiamo, Jer."

"Fammi sapere quando hai intenzione di tornare alla Città della Realtà."

Lascio uscire un sospiro e vorrei dirgli molto altro, ma vengo distratta dallo squillo del campanello. Louis dà un abbaio e corre verso la porta, e dato che mio padre è fuori per il suo turno di lavoro, saluto mio fratello e lo seguo nell'entrata.

Sto già per inventarmi le prime scuse che mi saltano alla mente per qualsiasi gruppo religioso stia girando per il quartiere, perciò sono completamente impreparata da ciò che mi trovo davanti quando apro la porta.

Potrò non essere ancora stata pronta a tornare alla Città della Realtà. Ma la cosa non ha fermato la Città della Realtà dal presentarsi alla mia porta.

I miei occhi si spalancano. Il mio cuore perde un battito. E tutto il resto di me rimane immobile, mentre il mio fidanzato compie un passo avanti e mi circonda il viso con le mani e sussurra sulle mie labbra, "Mi sei mancata così tanto."

***


"Jer, per favore. Stai fermo," dissi per la centesima volta, mentre mio fratello continuava a dimenarsi per sfuggire all'asciugamano bagnato con cui stavo cercando di pulirgli la faccia.

Lui serrò strette le labbra e si voltò verso la parete. Seduto sul tavolo della cucina, non smise né di dondolare le gambe nell'aria né tantomeno di ignorarmi, le guance ancora parzialmente ricoperte di fango e sangue.

Sospirai, poi gli intimai con voce più ferma. "Jeremy, mi sto arrabbiando."

"E allora? Non sei mamma."

Alle mie spalle, potevo sentire il disagio di Matt. Desiderai, almeno per un momento, che non fosse stato lì. Desiderai che non mi avesse accompagnato a prendere Jeremy ai suoi allenamenti, desiderai che non avesse dovuto assistere allo spettacolo di mio fratello che gridava e si dimenava nel terriccio polveroso insieme ad un altro ragazzo della squadra, entrambi intenti a cercare di prendere l'altro a pugni in faccia. Jeremy ci era riuscito, un colpo secco sopra il naso, appena prima che il coach e uno dei genitori arrivassero a separarli, mandandoli entrambi a casa con una sospensione di due settimane e il monito di ripresentarsi solo accompagnati da un adulto responsabile.

Ma Matt era lì quando tutto ciò era accaduto, ed era qui anche adesso che mio fratello non la smetteva di comportarsi da stronzetto insopportabile.

"Bene," concessi, posando il panno macchiato di quel poco di sangue e terra che ero riuscita a togliergli dalla faccia. "Vuoi dirmi allora cosa è successo con quel ragazzino?"

Scrollò con noncuranza le spalle. "L'ho spinto."

"Lo hai spinto?"

Con le unghie si mise a giocherellare con la cucitura laterale dei jeans, diede un'altra scrollata di spalle.

"Ha detto cose su papà. Mi sono incazzato."

Lo osservai in silenzio alcuni secondi. Non aveva ancora neanche undici anni, e faceva uno strano effetto sentirlo parlare così, con la voce che non era né più quella di un bambino, né ancora quella di un ragazzo.

"Jer, non puoi spingere le persone solo perché ti fanno arrabbiare."

Sollevò lo sguardo, si accigliò. "E perché no?"

"Perché è sbagliato," sentii Matt fare un passo avanti. Si abbassò appena posando le mani sulle ginocchia, quel tanto che bastava per essere alla stessa altezza di Jeremy. "Non è picchiando qualcuno che si risolvono i problemi."

Jeremy lo guardò inespressivo, si voltò verso di me. "Dov'è Damon?"

La domanda mi colse del tutto alla sprovvista. Così come il tono di accusa con cui lo chiese, così come la rapida e improvvisa stretta al petto che mi provocò.

"Cosa c'entra Dam-"

"Non mi avrebbe detto di comportarmi da fighetta. O trattato come un bambino," replicò asciutto, spingendomi fuori dai suoi piedi nello scendere dal tavolo. "Avrebbe capito."

Uscì dalla cucina in falcate veloci, lunghe e magre, lasciando solo l'eco della sua corsa su lungo le scale, che culminò con lo sbattere della porta della sua stanza.

Senza dire una parola, con le labbra premute strette, presi l'asciugamano che avevo lasciato sul tavolo ed iniziai a sciacquarlo sotto al getto dell'acqua, sentendo lo sguardo perplesso di Matt ancora fisso sulla mia schiena.

"Immagino di non piacergli," disse in tono leggero, cercando di scherzare.

"A Jeremy non piace nessuno," ribattei strizzando il tessuto.

"Gli piace Damon."

Non replicai. Anche Matt rimase in silenzio per alcuni secondi, lo scorrere dell'acqua tiepida sulle mie mani l'unico suono nella stanza. Poi lo sentii avvicinarsi, venirmi accanto.

"E a te …" Esitò un istante. "A te …  piace Damon?"

Mi immobilizzai. Sentii il cuore accelerare i battiti, e un calore che avrei voluto ignorare farsi velocemente strada su per il mio collo e le mie guance. Chiusi l'acqua, misi il panno ad asciugare. Non ce la feci a guardarlo in faccia.

"Sì, certo. E' mio amico," risposi, anche se suonò strano e imbarazzato alle mie stesse orecchie.

Lo era davvero? Lo era ancora? Ultimamente le cose tra noi erano state così diverse, così confuse. E volevo così disperatamente che potessero tornare a come erano prima, a quando dire "è mio amico" non si portava dietro nessun'altra domanda, a quando aveva un significato molto più definito rispetto ad adesso. Ma non avevo idea di come fare.

Ci avevo provato, qualche sera prima, in un momento in cui non ero riuscita a sopportare quella situazione un solo secondo di più, ma avevo finito solo per lasciare il negozio di Rose con la disorientante sensazione di non sapere più il modo in cui mi faceva sentire, essere vicino a lui. Sempre tesa e sempre in bilico, sempre con la paura di fare un passo troppo vicino o uno troppo lontano. Solo che mille volte peggiore era il modo in cui mi faceva sentire essere distanti. Lo sentivo addosso, il modo in cui mi mancava.

"Lo so, volevo dire … è solo questo?"

Il mio stomaco sprofondò, non appena quella domanda mi riportò ancora una volta alla sensazione delle labbra di Damon sulla pelle, di brividi lungo la spina dorsale e di una fitta colpevole mentre mi affrettavo a stroncare quel pensiero. Mi costrinsi a voltarmi verso di lui.

Matt mi stava guardando ansioso, con una tale incertezza sul volto, nella postura, nella voce, da farmi domandare da quanto si sentisse in questo modo senza avere il coraggio di chiederlo ad alta voce. Mi fece improvvisamente sentire malissimo, e tremendamente in colpa, per nessun motivo che riuscissi a spiegarmi. Non c'era mai davvero stato niente, tra me e Damon.

"Ma certo," dissi, forzando un sorriso. "Cosa ti fa pensare che …."

"Niente," rispose scuotendo la testa. Ricambiò il mio sorriso. "Niente, naturalmente. Solo … domanda stupida."

Mi sporsi sulle punte e lo baciai, prima che pensasse di fare altre domande stupide come quella. Mi baciò di rimando stringendomi le braccia attorno ai fianchi. Dolce e avvolgente e come sempre il mio Matt. Ma se lo sapeva, se lo sapeva che amavo lui, perché doveva metterlo in dubbio così? Non avrebbe dovuto. E non avrei dovuto neanche io.

"Voglio fare sesso," dissi, quando si separò da me.

Matt mi guardò confuso con le labbra ancora parzialmente socchiuse. "Tipo …  adesso?"

"No," dissi imbarazzata, facendo un passo indietro. "Non adesso. Cioè, c'è Jeremy di sopra e io probabilmente dovrei tornare al Grill e …"

"No, sì, ovvio," annuì subito, passandosi una mano sul collo. Era rosso pure quello.

"Voglio dire, presto," esalai, in un respiro nervoso. "Appena abbiamo l'occasione."

Sorrise, mi prese il volto tra le mani. "Quando vuoi. Ti amo, Elena."


"Farò sesso con Matt."

Jenna si rizzò con un tale scatto sorpreso da sbattere la testa contro lo scaffale della dispensa, mormorò un'imprecazione tra i denti e tutti i barattoli di salsa di pomodoro caddero dalle sue mani rotolando sul pavimento. Si voltò a guardarmi con gli occhi spalancati. Io mi piegai per raccoglierli e passarglieli di nuovo.

Avevo passato ore a parlarne con Bonnie e Caroline, ma nessuna delle due era stata davvero di aiuto sulla questione. Insomma, Bonnie era stata solo una profusione di ansiogeni "sei sicura?", e Caroline non aveva fatto che parlare di tutta la biancheria sexy di cui avrei assolutamente avuto bisogno, continuando a mettermi davanti pubblicità di modelle con un sacco di pizzi e un sacco di tette. Così avevo pensato che forse per rispondere a quella domanda ci voleva qualcuno con più esperienza, e Jenna era la cosa più vicina a ciò che potesse venirmi in mente, anche se la sua faccia smarrita per un attimo me ne fece seriamente dubitare.

"Tranquilla, Jenna," la rassicurai, "Volevo solo-"

"Oh dio. Questo è uno di quei momenti in cui dovrei comportarmi come un'adulta responsabile che ti dice di non farlo e non come una ventiduenne che si ubriaca di tequila tutti i venerdì sera, vero? Merda. Questo non avrei dovuto dirlo. E' che parlo troppo quando mi sento sotto pressione. Non ubriacarti di tequila, Elena, pessime decisioni vengono fuori dalla tequila," disse seria. "E non fare sesso." Increspò le sopracciglia. "Come sto andando?"

"Alla grande," risposi con un sorriso di incoraggiamento.

Non mi credette neanche lei, perché sospirò nel pulirsi le mani sul grembiule e alzarsi in piedi.

"Devo … " si guardò attorno incerta, "… farti il discorso? Lo sai, su come funziona, o …"

"No, no no," la bloccai prima che andasse di nuovo in crisi. "So … tutto ciò che c'è da sapere."

Jenna rilasciò un visibile sospiro di sollievo. "Bene. Perché sarei terribile a fare il discorso. Mia madre me lo ha fatto quando avevo dodici anni, e lo ricordo ancora come uno spaventoso racconto di lattice e irritazioni cutanee che mi ha traumatizzato almeno fino ai diciotto anni." Ci pensò su. "Forse lo scopo era proprio quello."

Scossi la testa. "No, stavo solo pensando che …" presi un profondo respiro, intrecciai tesa le dita tra loro, "… Matt è meraviglioso. E' così dolce e gentile. E mi ama. Ed io amo lui, naturalmente. E, beh, è un bel po' ormai che stiamo insieme. Quindi va bene, giusto? Direi che è ora, e che va bene, no?"

"Certo, tesoro," sorrise rassicurante. "Se senti che è il momento giusto."

Corrugai la fronte, la guardai da sotto in su. "Ok, ma … come faccio a saperlo per certo, quale è il momento giusto?"

Non sarebbe dovuta andare così. Avrebbe dovuto confermarmi che quando certe giuste condizioni sono soddisfatte, come in questo caso, sono sufficienti quelle per saperlo. Invece, Jenna mi rivolse un altro piccolo sorriso, e mi lasciò esattamente allo stesso punto di prima.

"Non credo ci sia una formula, sai? In certi casi, lo sai e basta."


***


Elijah, inginocchiato in equilibrio sui talloni, gratta piano dietro le orecchie di Louis, che sbatte la coda sul pavimento della cucina. Tutta la mia attenzione è invece concentrata sulla semplice operazione di preparare del caffè - metti il filtro, metti la polvere - e su quella parecchio più complessa di tenere sotto controllo il crescente nervosismo che mi agita dentro - chiudi lo scomparto, accendi il pulsante, respira. Il profumo dolciastro dei muffin mi riempie le narici.

"Li hai davvero fatti tu?" mi ha chiesto sorpreso Elijah poco dopo aver messo piede dentro casa, commento che io ho subito colto come la giusta scusa per scivolare via dalle sue braccia e andare a mostrarglieli, con un sorriso brioso talmente forzato da essere sicura che si sarebbe infranto in una brusca e impulsiva confessione ancora prima di aver raggiunto la cucina.

Non è successo. E' andata ancora peggio.

E' da quando ho aperto quella porta che non faccio altro che mettere su extra sorrisi ed extra allegria in ogni cosa che faccio, o dico.

Una farsa fragile che continua a peggiorare. Un "Non sapevo che fossi tornato!" più acuto del normale prima che mi racconti di aver sistemato le cose con qualche giorno di anticipo e di non poter più aspettare di tornare da me; un altro leggero e casuale "Oh, sì, l'ho tolto per cucinare" con cui anticipo ogni possibile domanda quando il suo sguardo è scivolato sull'anello mancante al mio anulare; la mia mente che continua freneticamente a ripercorrere ogni singola comunicazione che abbiamo scambiato negli ultimi giorni - sempre brevi, disconnesse dalla differenza di orario, menzogne su menzogne - per cercare di capire se mi sono lasciata sfuggire un dettaglio, o una qualsiasi cosa fuori posto, nella versione che gli ho venduto mentre passavo le notti tra le braccia di un altro uomo.

Non so cosa mi sia preso, non riesco a fermarmi. Mi detesto per questo, per quest'altra finta me stessa che ha preso completamente il sopravvento. Ma non riesco a fermarmi.

Con la coda dell'occhio, vedo adesso Elijah avvicinarsi a me. Posa le mani sulla mia vita, sull'orlo del mio top, e un bacio gentile nell'incavo del mio collo.

"Lo intendo davvero quando dico che mi sei mancata," mormora piano contro la mia spalla. Chiudo gli occhi mentre mi bacia ancora, fino alla spallina, il mio respiro si fa più corto. Mi accarezza i fianchi, la sua voce è roca contro il mio orecchio. "Dio, Elena, non hai idea di quanto."

Con uno scatto mi sposto di lato, via dalle sue labbra sulla mia pelle, via da tutto ciò che sa di vergogna e bugie.

Lui corruga appena la fronte. "Cosa c'è?"

"Cosa? Niente," si affretta a dire l'altra me stessa sempre più allegra e sempre più acuta. Devo dirglielo. Scosto una ciocca di capelli, il mio cuore batte più rapido. "E' solo che … Lo sai, è casa di mio padre, sarebbe a dir poco strano mettersi a … lo sai."

Elijah sorride e si appoggia contro il bancone. E' bello in questo momento. Con la stanchezza sotto agli occhi, le pieghe nella camicia e un po' di disordine tra i capelli, che il viaggio gli ha lasciato. Mi ritrovo a pensare che mi piace molto di più in questa versione, e subito dopo mi pento di averlo pensato, non so neanche per correttezza nei confronti di chi.

Il caffè è pronto, ed Elijah spegne la macchinetta e lo versa nelle due tazze già pronte sul bancone.

Me ne porge una. "Mi piace ciò che hai fatto ai capelli."

"Grazie," farfuglio. Un respiro profondo. "Elijah, dobbiamo parl …"

"Sai, volevo parlarti di una …"

Mi blocco quando mi rendo conto che stiamo parlando nello stesso momento. Lui abbozza un altro sorriso. Lo faccio anche io, ma il mio viene fuori molto più innaturale. Mi schiarisco la voce.

"Comincia tu," dico.

Posa il suo caffè, si avvicina e mi invita a posare anche il mio. Poi prende le mie mani tra le sue, le accarezza piano, e la mia agitazione cresce in ogni fibra e terminazione nervosa dove il suo tocco è caldo e familiare ed estraneo tutto di un colpo. Guarda in su verso di me, con quello sguardo scuro e intenso che è stato forse la prima cosa che ho amato di lui. Non posso dirglielo.

"Sai, ho pensato molto nelle ultime settimane. A te, a noi," inizia incerto. "Credo di averlo sentito che forse qualcosa non andava, ma ho continuato a ripetermi che tutto sarebbe andato a posto una volta cominciata la nostra vita insieme, finendo forse per perdere di vista ciò che era davvero importante. E per questo mi dispiace."

La sincera devozione che traspare dalla sua voce mi punge il cuore con particolare violenza.

"Elijah …"

"Fammi finire, per favore. Il punto è … che tu sei importante, Elena. L'unica cosa che per me conta davvero. Vederti felice, farti felice. E lo so che l'idea di cambiare città e lasciare il tuo locale ti ha dato così tanti pensieri, e che chiaramente non è ciò che vuoi, perciò … Non devi farlo. Mi trasferirò a Mystic Falls. Dovrò solo sistemare un po' le cose con il lavoro, ma lo faremo funzionare, prometto. Non mi importa dove viviamo. Basta che sia con te."

Elijah mi guarda, in attesa. Io sento le lacrime salirmi dietro agli occhi. Ma la mia gola è asciutta e graffiata, e nessuna parola, neanche il minimo suono, riesce a risalire e uscirne fuori.

Sobbalzo letteralmente quando il campanello suona e Louis ricomincia ad abbaiare.

Mi defilo mormorando un flebile "scusami" per precipitarmi verso la porta - respira, devo dirglielo, non posso dirglielo, nel breve tragitto dalla cucina all'ingresso.

Impiego qualche secondo confuso prima di realizzare che mi sono appena trovata davanti Caroline e Bonnie, in sorrisi abbinati, che mi fanno "ciao" con la mano in piedi sulla soglia. Istintivamente, la prima cosa che faccio è voltarmi nervosamente indietro verso la cucina, dove Elijah sta ancora sorseggiando il suo caffè. A proposito di diverse versioni ad un passo dall'entrare in catastrofica collisione l'una con l'altra.

Faccio un passo in avanti e socchiudo la porta alle mie spalle.

"Cosa diavolo ci fate qui?" sibilo a bassa voce.

I loro sorrisi abbinati si sfaldano, facendomi sentire uno schifo.

"Cosa diav …" comincia a ripetere Caroline, incrociando offesa le braccia sul petto. "Cosa diavolo ci fai tu qui! Sono giorni che cerco di chiamarti, e poi trovo tuo fratello e mi dice che siete tornati e tu non ci hai fatto sapere niente?!"

Dio, ha ragione. La lunga sequenza di messaggi vocali che mi ha lasciato giace ancora ascoltata ma non corrisposta sotto all'ammasso del mio senso di colpa ("Elena, mi richiami per favore? Ci sono un paio di dettagli di cui ti devo parlare. Per esempio, ti piacciono le peonie?"; "Farò un po' di assaggi di menu nei prossimi giorni, avete delle preferenze? Altrimenti scelgo io, ok? Ok."; "Oh, quasi dimenticavo. Martedì ci sono da ritirare le fedi in gioielleria. Vuoi che me ne occupi io?"; "Seriamente, lo devo sapere. Vanno bene le peonie?"), che torna immediatamente a pizzicarmi contro il fianco.

"Lo so, mi dispiace, è solo che …"

"E invece ti nascondi a casa di tuo padre?" prosegue.

"Non mi sto nascondendo, io …"

"Cosa succede?" domanda quindi Bonnie piegando la testa di lato per cercare di sbirciare all'interno.

"Niente. Niente, è solo che Elijah è qui ed eravamo nel mezzo di una disc-"

"Oh, è qui?" cinguetta Caroline, spingendo in avanti il portone socchiuso alle mie spalle e entrando prima che io abbia il tempo di replicare. "Grandioso! Ho così tante cose di cui parlare con voi due sposini!"


Non so cosa sia peggio. Se essere silenziosamente terrorizzata all'idea che uno dei due tra Elijah e Caroline si lasci sfuggire qualcosa che mandi all'aria le due diverse versioni che ho raccontato loro riguardo alla mia ultima settimana (pessima bugiarda, direbbe Damon con il suo sorriso storto, mezzo provocatorio mezzo compiaciuto, e odio che finisco per pensare a lui anche in questo momento) e continuare a pregare che la loro conversazione continui a concentrarsi su ogni più piccolo stupido dettaglio del matrimonio e nient'altro; oppure doverli ascoltare mentre passano in rassegna ogni più piccolo stupido dettaglio della cerimonia e sentire l'aria ridursi e farsi più soffocante ad ogni secondo che passa. Respira.

"Oh, i servizi di catering sono i peggiori!" sta adesso dicendo Caroline. "Sai quanti ne ho testati? E non uno, dico uno, che andasse bene. Voglio dire, quanto mai sarà difficile fare dei ravioli ripieni all'aragosta con crema di salsa allo zafferano come si deve? Ci riuscirebbe anche un bambino."

Elijah ride e mi rivolge un sorriso complice al di là della spalla di Caroline, che gli sta adesso mostrando tutte le diverse opzioni per i menu. Mi costringo a sorridere di rimando, poi mi scuso e velocemente mi alzo dalla sedia per uscire e andare sul portico. Respira.

Bonnie sta sorseggiando del the freddo seduta sul dondolo, che fa ondeggiare leggermente.

"Ehi," mi sorride. "Scusa se non sono rimasta. Ma ho dovuto ascoltare le stesse cose per giorni, conosco ogni dettaglio a memoria ormai."

"Tranquilla, lo capisco," dico mentre mi siedo accanto a lei. "Care ha davvero preso la cosa dei preparativi molto sul serio, non è vero?"

"Puoi scommetterci. Roba da far impallidire wedding planners professionisti."

Sento un vago colpevole malessere tornare a chiudermi la bocca dello stomaco, ma Bonnie continua sovrappensiero.

"Tipo, ti ricordi quando in seconda elementare ci diedero quel progetto artistico di costruire casette con i bastoncini del gelato e lei se ne uscì con una villa a tre piani che è ancora esibita lì nella teca della scuola? Questa è la versione matrimonio di quella villa."

Corrugo la fronte. In un attimo, vengo sopraffatta dal ricordo del comportamento strano di Caroline quella stessa mattina prima che partissi San Francisco, una stranezza che troppo presa da altro non mi sono più soffermata a considerare fino a questo momento.

"Bonnie …" dico, cercando improvvisamente preoccupata lo sguardo della mia amica. "Quello è stato quando i suoi genitori stavano divorziando."

Il momento in cui i nostri occhi si incrociano, so che stiamo pensando esattamente la stessa cosa. Qualcosa non va con Caroline.

Il portone si apre, lasciando uscire Elijah e Caroline. Mi alzo subito in piedi, mentre Elijah si avvicina.

"Avremmo dovuto assumerla prima. Avremmo risparmiato moltissimo tempo e moltissimi soldi," mi dice piano con lo stesso sorriso complice che mi fa male dentro. Poi, rivolto a tutte, "Beh, lascio voi ragazze alle vostre cose. A presto."

Non appena Elijah se ne va, lasciandomi un bacio veloce e la promessa di chiamarmi più tardi - respira - Caroline mi prende decisa per un gomito.

"Avanti, andiamo."

"Andiamo dove?" domando disorientata, divincolandomi.

"Abbiamo un appuntamento alle tre," mi fa sapere controllando velocemente il suo orologio. "E' per questo che siamo venute a prenderti. Dai, che siamo già un po' in ritardo sui tempi."

Mi fa cenno con la testa di seguirla, fissandomi impaziente. Rimango qualche secondo immobile, indecisa se sia più imprudente seguirla senza fare domande, oppure contraddirla e cercare di tirarmene fuori. Mi scambio uno sguardo con Bonnie. Forse la seconda.

Anche se chissà perché ho la vaga sensazione che me ne pentirò. Soprattutto quando, mentre chiudo a chiave il portone, Caroline si volta per gettarmi un'occhiata scettica.

"Hai cambiato i capelli? Oh beh. Adesso dovremmo iniziare a ripensare pure alle acconciature."


***


"Oh mio dio …" mormora Caroline, portandosi entrambe le mani sulle labbra. "Sei bellissima."

Le getto un rapido sguardo. Sotto alle luci piazzate strategicamente agli angoli della piccola boutique, vedo i suoi occhi luccicare di lacrime, un solo attimo prima che distolga lo sguardo. Bonnie sorride, accanto a lei.

Invece di commuovermi, un gusto amaro mi riempie lo stomaco. Deglutisco per scacciarlo, ma l'unico effetto che ottengo è accentuarlo ancora di più, quando infine prendo un respiro e mi volto verso lo specchio. L'immagine di una me stessa fasciata di bianco e seta che mi restituisce mi sembra più sconosciuta che mai.

Eravamo già a metà strada, quando Caroline si era casualmente degnata di informarmi che Pearl's Boutique ci stava aspettando per la mia prova vestito. La bocca mi si era seccata di colpo, ma il mio gracchiante "Non so se …" era stato rapidamente messo a tacere.

"Stiamo parlando di Pearl's Boutique, Elena! Hanno prenotazioni con mesi di anticipo, in tutte e tre i loro negozi, e io sono riuscita a trovarti un posto in quello più vicino. Hai idea di cosa ci voglia per trovare posto da Pearl? Ci vuole Caroline Forbes per trovare posto da Pearl. Per fortuna che tu ne hai una."

Per fortuna che ce l'ho.

Un altro profondo, lungo respiro, mentre passo le mani sul corpetto ricamato attorno al mio busto (chiudo gli occhi e sono le mani di Damon a correre sulla pelle nuda lungo lo stesso percorso, solo un attimo, svanito appena li riapro) e sento tutto sotto ai polpastrelli, i delicati intrecci del ricamo, il mio battito improvvisamente più accelerato del normale. Lo ignoro, mi concentro sul compito di respirare regolarmente.

Mi volto appena per controllare l'allacciatura sul retro composta da una fila di piccoli bottoncini madreperlati che sento tirarmi sulla schiena. Insicura, domando, "Non è un po' stretto?"

Pearl mi si avvicina, mi osserva attentamente da ogni angolazione con uno sguardo affinato da anni di esperienza, tocca il vestito in alcuni punti con movimenti esperti e misurati.

"E' perfetto," risponde alla fine del suo esame. "Sembra glielo abbiano cucito addosso."

L'ennesimo respiro più profondo degli altri mi riempie i polmoni, il mio seno ingabbiato in uno spazio troppo limitato si contrae in protesta sotto alla stoffa semirigida.

Più decisa, ripeto, "E’ troppo stretto."

Pearl mi mette le mani sui fianchi, controlla di nuovo la chiusura e scuote la testa.

"E' leggermente lento qui sul fianco," prende un centimetro di stoffa tra due dita, lo tira con delicatezza. "Ma possiamo senza dubbio adattarlo e restringerlo app-"

"Vi dico che è stretto," la fermo, facendole alzare sorpresa la testa per la nota acuta che mi attraversa la voce. "Non riesco a …" respirare, ma la parola mi muore in gola, perché il mio battito sta prendendo una velocità impazzita, l'aria non circola come dovrebbe, piccole macchie nere mi riempiono la testa. "Può slacciarmelo, per favore?"

Pearl sta adesso osservando confusa le mie amiche, che ricambiano il suo sguardo disorientato, ma nessuna si decide a fare niente, e invece di ascoltarmi perdono tempo stando lì a guardarsi, e io ho la precisa, chiara, terrificante sensazione che morirò asfissiata nel giro di tre secondi.

Allungo le mani all’indietro ed inizio a trafficare freneticamente con i bottoni, ma le dita mi tremano, non riescono ad aprirne mezzo, le macchie nere si moltiplicano, e il panico esplode annebbiandomi la vista.

"Non riesco a respirare, per favore, toglietemelo!"

Un paio di mani corrono veloci verso i piccoli bottoni madreperlati, li aprono in fretta ad uno ad uno, mentre la mia testa si fa via via più leggera e il mio fiato più affannoso, finché non sento cedere anche l'ultimo bottone ed io cedo con lui, crollando in ginocchio in una nuvola di seta e taffettà.

Chiudo gli occhi, con la stoffa liscia e scivolosa sotto ai miei palmi e il corpetto che pende lento e aperto dalle mie spalle. Sento il respiro che cerca di tornare normale, sento il sale in bocca e sento ancora il sapore residuo di quelle macchie scure e di quella sensazione - istintiva, orribile, irrazionale - di essere sul punto di morire da un secondo all'altro.

Mi riscuoto quando sento una mano posarsi sulla mia spalla.

"Elena," mormora Bonnie.

Sollevo la testa e apro gli occhi, trovandola nello specchio inginocchiata accanto a me. Caroline è in piedi alle sue spalle, lo sguardo spalancato e in apprensione.

"Sono stata a letto con Damon," dico in un soffio. La voce mi si incrina quando arrivo a pronunciare il suo nome. "Ero con lui. Tutto questo tempo … Non c'era nessuna Berkeley. C'era Damon. Solo lui."


***


"Ta-daan!"

Caroline compì un giro completo su se stessa, facendo frusciare la delicata seta del lungo vestito verde attorno alle sue gambe.

"Sei splendida," commentammo sia io che Bonnie. E lo era davvero.

Lei sorrise, si controllò i capelli che aveva appuntato di lato per poi farli cadere in morbide onde dorate sulle spalle, tastandoli piano con una mano, ed andò a sedersi davanti al proprio specchio. Iniziò a picchiettarsi del lucidalabbra sulla bocca con la punta delle dita, gettando nel mentre occhiate furtive verso il resto dell'ampia stanza di villa Lockwood riservata alle partecipanti a Miss Mystic Falls, che gironzolavano nei loro bei vestiti con tanto di madri al seguito intente ad assicurarsi di fermare le loro acconciature.

Caroline storse appena le labbra. "Lo sceriffo è troppo impegnata per farmi i capelli", aveva risposto asciutta all'organizzatrice e regina degli eventi mondani Carol Lockwood quando era passata a chiederle perché sua madre non fosse ancora arrivata.

Dal corridoio oltre la porta, vidi Matt sorridermi e chiedermi con un cenno della testa se volessi scendere di sotto insieme a lui. Sorrisi di rimando, mossi l'indice nell'aria, ti raggiungo tra un po'.

Caroline osservò il nostro scambio, mi lanciò una breve occhiata.

"Quel ragazzo," commentò, rimettendo a posto il lucidalabbra, "E' adorabile. E non vede l'ora di toglierti quel vestito di dosso. Perché lo stai facendo patire così tanto?"

"Non lo sto facendo patire!" replicai, sulla difensiva.

"Gli dici che vuoi farci sesso, e poi ti tiri indietro. Per me, questo è farlo patire."

"Non mi sono tirata indietro," dissi un po' arrossendo, un po' infastidita. "E' solo che non abbiamo ancora deciso quando lo faremo, tutto qui."

Lei sollevò gli occhi al soffitto. "Cosa c'è da decidere? Non devi scegliere una data, non è mica un matrimonio. E' solo sesso. Lo fai … e basta."

"Stiamo solo aspettando il momento perfetto, ok?" ribattei. "E' così sbagliato?"

"Non è sbagliato," disse Bonnie, lanciando un'occhiata di traverso a Caroline.

Caroline sbuffò, alzò le mani in segno di resa. Ma poi il suo sguardo si spostò al di là delle mie spalle, ed il suo volto prese immediatamente tutta una nuova e più vivace colorazione. Tornò di scatto a girarsi verso lo specchio, mentre io gettavo uno sguardo dietro di me.

Stefan stava guardando nella nostra direzione, prendendo quello che aveva tutta l'aria di essere un respiro piuttosto nervoso prima di iniziare ad avvicinarsi.

"C-ciao."

Si fermò a pochi passi dalla postazione di Caroline. Fece correre una mano tra i capelli, le infilò  entrambe nelle tasche del suo vestito scuro, cambiò idea, sembrò non sapere cosa farne. Io e Bonnie ci scambiammo uno sguardo.

"Ciao," rispose lei con una lieve tensione nella voce. Si sistemò di nuovo i capelli, riprese il lucidalabbra e lo riapplicò per quella che doveva essere ormai la terza volta in tre minuti, modulò il suo tono in un discreto sforzo di suonare indifferente. "Cosa … cosa ci fai qui?"

"Io …" Stefan si guardò attorno. "Niente, solo … ero nei paraggi, e … ti ho visto e … volevo solo dirti, buona fortuna. Cioè, non che tu ne abbia bisogno. Voglio dire, sei già così … "

Lentamente Caroline si voltò, inclinò la testa di lato. Lo guardò cautamente, come per cercare di decifrare se le stesse dicendo qualcosa di positivo oppure no. Stefan spostò l'attenzione sulla punta delle proprie scarpe, la rialzò un paio di secondi dopo.

"Insomma, stai già bene così, tipo i tuoi capelli, sono davvero …" sembrò pensarci intensamente, "… biondi."

Caroline increspò le sopracciglia, confusa. Stefan cambiò colore, e non uno molto lusinghiero.

Incrociai lo sguardo di Bonnie con la coda dell'occhio, e ci mordemmo entrambe le labbra per non iniziare a ridacchiare.

Stefan aprì di nuovo la bocca, ma sfortunatamente o fortunatamente per lui, Carol Lockwood fece il suo ingresso in quel momento, esortando tutti i presenti tranne le concorrenti a lasciare la stanza, ponendo fino alla sua pena. Ci mescolammo anche noi al rumoroso e vivace flusso di persone, confluendo tutti piuttosto disordinatamente verso le scale.

La voce frustrata di Stefan mi raggiunse quando fui quasi alla fine della scalinata, che avevo impiegato una vita a scendere nello sforzo di bilanciarmi su scarpe dal tacco decisamente più alto rispetto a quelle a cui ero di solito abituata.

"Quella cosa di fare complimenti non banali? Guarda che non funziona."

Mi girai in quella direzione e mi bloccai, non appena notai chi era il suo interlocutore.

Damon era lì, due gradini più in basso, in fondo alla scale, la sua figura di poco più bassa e più sottile di quella del fratello appoggiata con indolenza contro una colonna, l'accenno di un sorrisetto vagamente divertito a dare al suo viso quell'irritante espressione strafottente che, in un solo momento, spedì il mio cuore a piantarsi su nel bel mezzo della gola - di colpo estremamente indaffarato nel difficile compito di decidere se essere felice di vederlo o se prendere e correre da tutt'altra parte.

Stefan se ne andò, Damon si voltò appena, e i suoi occhi mi trovarono un secondo dopo. Strinsi più forte il corrimano nel vedere il modo in cui cambiarono, lo stupore, l'ammirazione e l'incertezza tutti mischiati insieme nello stesso azzurro chiaro, e quello in cui mi scivolarono addosso, e la tensione nel suo corpo sotto alla semplice ed elegante camicia bianca, e la forma delle sue labbra nell'attimo in cui si schiusero appena.

Il respiro successivo mi rimase intrappolato nei polmoni, insieme ad un palpito più frenetico degli altri e ad un nuovo nervosismo che mi piombarono addosso con una tale forza da farmi quasi dimenticare tutto il resto intorno a me - la musica delicata, il profumo forte dei fiori, il chiacchiericcio eccitato - improvvisamente spiazzata da un unico e destabilizzante pensiero: da quando mi sentivo così di fronte a Damon?

Poi qualcuno mi urtò il braccio dicendomi di muovermi e togliermi di mezzo, e in un momento tutto tornò a girare, il mio tacco vacillò, il mio equilibrio si perse, un altro volante "oh, scusami!" e una ragazza in un vestito rosa mi spinsero in avanti.

Damon mi sorresse per i gomiti. Il mio naso si schiacciò contro la sua camicia. Respirai per un breve secondo il suo odore familiare e fresco, qualche traccia di menta e qualche traccia di cuoio, e il mio petto si fece un po' più tiepido e un po' più liquido.

Le sue mani si scostarono, io mi raddrizzai, lui fece un passo indietro.

Istintivamente, andai a lisciare la gonna del vestito blu che Caroline stessa mi aveva prestato, sentendo l'aria condizionata soffiare piano su tutte le zone che lasciava scoperte - le gambe, l'allacciatura incrociata sulla schiena, la scollatura a cuore.

"Ciao," dissi, buttando fuori un respiro che mi sembrava di star trattenendo da un'eternità. "Io … non sapevi che saresti venuto."

"Neanche io." Scrollò le spalle, guardò altrove oltre la mia spalla, con palese indifferenza. "E' Enzo che mi ha trascinato qui, non resiste davanti alla prospettiva di cibo gratis e ragazze tutte in tiro."

Annuii per aggirare la punta di istantanea delusione. Non che avessi davvero pensato che fosse venuto sapendo di trovare me, ma …

"Ok. Io …"

"Dovrei andare," tagliò corto, corrugando le sopracciglia.

Vidi Matt farmi un cenno qualche metro più in là, e lo seppi istantaneamente dal modo in cui Damon strinse le labbra che doveva averlo visto anche lui. La punta di delusione di poco prima venne velocemente rimpiazzata da qualcosa di molto più indefinibile, molto più graffiante.

"Ci vediamo in giro."

"Ci vediamo," mormorai voltandomi a guardarlo allontanarsi, talmente piano che neanche mi sentì.


***


Entrambe le mie amiche mi osservano in silenzio. Hanno negli occhi uno strano miscuglio di cautela e affamata curiosità, come se stessero letteralmente morendo dalla voglia di inondarmi di domande ma avessero troppa paura di farlo e rischiare di far scattare una pericolosa bomba ad orologeria.

Ma, del resto, ciò che è successo poco fa nella boutique di una efficientissima Pearl (subito pronta ad aiutarmi con delicatezza ad uscire dal vestito, più preoccupata della sua incolumità che della mia, a portarmi un paio di bicchieri d'acqua per farmi smettere di tremare, e a metterci tutte e tre alla porta quando era stato chiaro che non avrei acquistato niente) non è stato certo uno dei miei momenti migliori.

Così restiamo tutte e tre in uno strano silenzio per alcuni secondi, attorno al tavolino circolare di un café all'ombra dei platani proprio di fronte a Pearl's Boutique, mentre il cameriere ci posa davanti le nostre ordinazioni. Del succo d'arancia per me, un caffè forte per Bonnie e un cosmopolitan per Caroline, ordinato dalla mia amica afferrando il ragazzo per l'orlo della maglietta con un implorante "E ti prego mettici parecchio alcol" in barba del fatto che siano appena le quattro del pomeriggio.

"Quindi …" dico tamburellando le dita sul tavolo.

"Quindi direi che adesso si spiegano parecchie cose," commenta Caroline buttando giù un generoso sorso del suo cocktail rosa.

Bonnie si sporge in avanti. "Come abbiamo fatto a non notarlo?"

"Beh, tu eri chiaramente troppo occupata ad amoreggiare con la tua ragazza, ed io …" Caroline si ferma quando vede Bonnie spalancare lo sguardo. "Cosa? Pensavi davvero che non lo sapessi? Oh, tesoro, lo so dal penultimo anno di liceo, prima ancora di te." Liquida la questione con un vago cenno della mano e poi torna velocemente a rivolgersi verso di me, mentre Bonnie nasconde un sorriso timido dentro una sorsata di caffè. "Da quanto va avanti?"

Giocherello con il bicchiere. "Da … la notte del Masquerade Ball. Io …"

"Aspetta un momento," mi interrompe. "Io ero a casa tua la mattina dop… Oh mio dio. Stavi facendo sesso con Damon quando sono venuta a casa tua?!" domanda in un sibilo acuto che fa  girare un paio di teste dai tavolini accanto.

Non dico niente, ma credo che il modo in cui guardo in aria e mi gratto distrattamente il retro della nuca sia già una risposta piuttosto chiara.

"Oh dio," prosegue tornando ad abbandonarsi contro lo schienale della sedia e a buttare giù il resto del cosmopolitan. Con il naso ancora arricciato dalla dose di alcol fa un cenno verso il cameriere di portargliene un altro. "Più forte questa volta, grazie. Quindi," mi esorta con lo sguardo. "Dicci!"

"Non lo so cosa dirvi," dico in un sospiro, posando il mento su una mano. "Dovrei probabilmente dire che non ne avevo davvero intenzione, che è successo e basta, che non so cosa mi sia preso, ma …" Faccio oscillare i cubetti di ghiaccio che stanno già annacquando il succo, e fisso lo sguardo sulle strisce di luce e ombra che striano le mie dita nude. Penso a quando Damon le aveva prese tra le sue per sfilarmi via l'anello di fidanzamento, quella prima notte insieme, al mio cuore che sbatteva impazzito di possibilità, alla vera linea dove ho smesso di essere solo la fidanzata di un uomo per essere anche l'amante di un altro. "… Ma la verità è … che io lo volevo. Dio, lo volevo così tanto. Forse inconsciamente mi sono detta che se lo avessi lasciato accadere, se fosse stato solo per una notte, allora avrei potuto smettere di volerlo, scrollarlo via, e non pensarci mai più … Ma non l'ho scrollato via, e non ho smesso di volerlo. Mi è solo entrato sotto la pelle ancora di più."

Prendo il bicchiere per dare un piccolo sorso. "Ma non ha importanza. E' finita adesso."

"Per via di Elijah?" domanda Bonnie.

"Per via di tutto. Perché lui è Damon, ed io sono io, e tutto deve sempre essere così …" Scuoto la testa e deglutisco una consapevolezza che brucia, si avviluppa su stessa, mi chiude tutto il petto. "In un modo o nell'altro finiamo sempre per farci del male. A quanto pare, siamo semplicemente terribili l'uno per l'altra."

"Sei innamorata di lui?"

Sollevo la testa di scatto, il mio battito si impenna. Caroline ringrazia tranquillamente il cameriere che le ha appena portato il suo secondo cosmopolitan, poi mi guarda in attesa da dietro il bordo del bicchiere. Scuoto decisa la testa.

"Non posso essere innamorata di lui. Voglio dire, è stato nei paraggi per quanto, tre mesi? E' tutto così affrettato ed un tale casino che …"

"Elena," mi taglia corto Bonnie. Piega la testa di lato e mi regala una delle sue occhiate da niente stronzate che ha l'effetto immediato di togliermi di bocca tutte le parole. "Andiamo. A me Damon non piace neanche, ma se c'è una cosa che io stessa ho capito di recente è che puoi raccontarti tutte le scuse che vuoi. Non cambiano quello che provi."

Mi mordo l'interno della guancia. Vorrei saperlo, quello che provo. Affondo un cubetto di ghiaccio con l'estremità della cannuccia.

"Non cambia neanche il fatto che io mi starei per sposare."

"Oh, ma per favore!" sbotta tutto d'un tratto Caroline, posando il suo bicchiere con un tale impeto che alcune goccioline saltano fuori macchiando la tovaglia bianca. "Sono mesi che trovi ogni scusa possibile per non pensare a questo matrimonio, o rimandare, o temporeggiare. E da parecchio prima che c'entrasse qualcosa Damon. Tu non sposerai Elijah. Lo so io. Lo sai tu. Per l'amor del cielo, c'è davvero ancora qualcuno che non lo sa?"

Alza gli occhi al cielo, si rituffa in una decisa sorsata del suo cosmopolitan, con la mano richiama il cameriere. Un altro.

La guardo stupefatta, presa in contropiede, con la mente che corre veloce a cercare di trovare una replica, una contraddizione, un'altra scusa - sapendo già che forse non ne ho più. E forse, non ne ho più da tempo. Corrugo appena la fronte, mentre il pensiero emerge piano, inevitabile e stranamente liberatorio, negli attimi di silenzio che seguono.

Il cameriere ritorna, prende il bicchiere a coppa dal suo vassoio e lo posa sul tavolo insieme al nostro conto. Bonnie si sporge per intercettare il drink dalle mani di Caroline appena prima che arrivi a toccare le sue labbra.

"Stai iniziando ad essere ubriaca."

"Non è vero!" replica piccata Caroline. "Questi sono a malapena acqua zuccherata."

"Che ti prende, Care?"

"Qui non stiamo parlando di me," si schermisce l'altra mettendosi sulla difensiva. "Stiamo parlando di Elena."

"No, Bonnie ha ragione," dico incrociando gli occhi ambrati della mia amica, che annuisce appena. Mi sporgo verso Caroline che serra appena più strette le labbra e prende un fazzolettino di carta per andare a tamponare le piccole macchie rosate che ha causato poco fa. Le sfioro leggermente le dita.

"So che sono stata con la testa da un'altra parte, forse lo siamo state un po' tutte, ma … c'è qualcosa che non va, vero?"

Caroline incontra il mio sguardo. Poi quello di Bonnie.

"C'entra per caso Stefan?"

"No. Non c'entra Stefan." Getta di lato il fazzolettino umido, sospira. Curva appena le labbra, ma c'è una vaga tristezza nel modo in cui lo fa, passandosi un dito sotto all'angolo esterno dell'occhio. "Eccetto per il fatto che le cose stanno andando così bene ultimamente, è anche il nostro anniversario domani, e lui sta lasciando tutti questi adorabili sottintesi di avermi preparato una sorpresa, ed io … Ed io non riesco a dirglielo."

Bonnie ammorbidisce la voce. "Dirgli cosa?"

Caroline increspa appena le sopracciglia, ci guarda da sotto in su con gli occhi grandi e lucidi. E poi inizia a piangere.

***


Caroline vinse, naturalmente.

Splendette senza sforzo su qualsiasi altra aspirante Miss Mystic Falls. Brillante nelle risposte, graziosa nel tradizionale ballo vecchio stile, arguta e commovente nel raccontare il suo attaccamento alla comunità e il suo modo per dimostrarlo. Ormai chiunque era perdutamente innamorato di lei quando, alla fine della giornata, Carol Lockwood piazzò sulla sua testa la sottile coroncina argentata, che Caroline prontamente risistemò a modo suo nell'attimo stesso in cui la signora Lockwood voltò le spalle.

La mano di Matt rimase quasi tutto il tempo attorno alla mia vita, le dita allacciate alle mie, naturale e confortevole e tutto il contrario dell'irrequietezza pronta a fremermi dentro ogni volta che gettavo occhiate furtive tra la folla per tenere traccia dei movimenti di Damon, nella forse impossibile speranza che potessimo avere l'occasione di parlare, far scomparire tutta questa stupida tensione e tornare semplicemente ad essere noi.

Ma Damon era in qualche modo sempre dal lato opposto del prato, o sempre con Enzo e le ragazze che giravano loro attorno, mezzi sorrisi e battute e un gusto amarognolo dentro la mia bocca, ed ogni volta che mi dicevo di prendere e semplicemente andare da lui finivo solo con lo stringere più forte la mano di Matt, e per non farlo mai.

Così la giornata passò e il pomeriggio cominciò a sbiadire e la gente ad andarsene, lasciando spazi vuoti sul prato e nel parcheggio all'ingresso della villa. Anche Matt se ne era dovuto andare poco dopo la proclamazione di Caroline per correre agli allenamenti della squadra, i primi in vista dell'inizio della stagione sportiva tra qualche settimana, promettendo di chiamarmi in serata.

Io stessa mi stavo domandando se fosse il caso di restare ancora un po' oppure tornare al Grill a dare una mano ("Sei pazza?" mi aveva detto Jenna quella stessa mattina. "Se non ci vai, ti ci trascino io stessa"), quando Caroline si avvicinò a me e Bonnie con tre calici frizzanti in cauto equilibrio tra le mani.

"E' champagne, shhh," ci disse porgendoceli. "Il ragazzo del catering me li ha passati di nascosto quando nessuno stava guardando in cambio del mio numero di telefono. Che potrei aver sbagliato di una cifra o due."

"Ne hai uno da parte anche per me, splendore?" domandò un accento inglese appena apparso al suo fianco.

Caroline quasi risputò tutto il sorso dentro al bicchiere, mentre Enzo proseguiva avvicinandosi al suo orecchio, "Lo sapevo che li avresti stesi tutti."

"Cosa ci fai qui?!" La mia amica si voltò bruscamente con un basso sibilo, si guardò attorno nervosa. "Ti avevo detto di non venire."

"Esatto, cosa ci fa qui?" mi sussurrò Bonnie, nascondendosi dietro al bicchiere.

"Ho una teoria," sussurrai di rimando.

Bonnie mi gettò un'occhiata interrogativa.

"Lui?" mimò disgustata con le labbra. "Non ci credo."

"… piaci quando sei tutta prepotente, te l'ho mai detto?"

"Te ne devi andare! E se …"

"… se il principe azzurro mi vede con te, vuoi dire?" Enzo fece scivolare un braccio attorno alle spalle della mia amica e le indicò con la testa un punto alla nostra destra. "Non vogliamo che diventi geloso, non è vero?"

Stefan aveva in effetti appena smesso di ascoltare la persona con cui stava parlando - qualcuno più grande, qualcuno che aveva tutta l'aria di essere una delle importanti conoscenze della famiglia Salvatore - per guardare nella loro direzione, con una faccia che sembrava essere in preda a del  terribile dolore fisico. Sotto al braccio di Enzo, Caroline si agitò a disagio, apparentemente molto combattuta tra l'aver ottenuto l'attenzione di Stefan e il pensiero che si stesse facendo un'idea sbagliata.

"Enzo, per favore," disse voltandosi con uno sguardo implorante verso il ragazzo appoggiato comodamente su di lei, "Io …"

Enzo si sporse per mormorarle qualcosa nell'orecchio. L'espressione di Caroline cambiò, un lampo di sorpresa ed interesse ad attraversarle gli occhi, un quasi impercettibile annuire con la testa, e, il momento dopo, Enzo la stava baciando con fervore.

Sia io che Bonnie spalancammo la bocca. E mentre Caroline era impegnata a dimenarsi e cercare di spingerlo via, ed Enzo era impegnato a non curarsene, ed entrambi erano impegnati a farlo fin troppo teatralmente, nessuno notò che Stefan si era rapidamente avvicinato, finché con un deciso spintone non spedì Enzo lontano da Caroline, appena prima di mollargli un destro dritto in faccia.

Il calice di Caroline cadde a terra schizzando champagne tutto intorno e il mio sussulto scioccato si mischiò con quelli delle mie amiche e con tutti gli altri sobbalzi e mormorii ed educati "oh mio dio" che si levarono tutto intorno, quando Enzo non perse tempo a replicare ed entrambi presero rotolarsi sull'erba sotto agli sguardi allibiti e sdegnati dei presenti.

Io e Bonnie prontamente accerchiammo Caroline.

"Ci esci insieme?"

"Ci vai a letto?"

"Da quando?"

"E' una cosa seria?"

"Oh mio dio, smettetela!" ribatté lei esasperata, gettando un'occhiata preoccupata verso Enzo che aveva ribaltato le posizioni placcando Stefan sulla schiena, e stava adesso cercando di scansare le dita dell'altro che tentavano di afferrargli e graffiargli la faccia. "E non siate ridicole! Enzo e io siamo solo … amici, ok? Credo. Non lo so. Diciamo che non è così irritante come potrebbe sembrare. Cioè, lo è, ma … può essere anche carino, se vuole. E no, non ci vado a letto. E' vero che ci sono stati alcuni … intensi incontri lingua a lingua all'inizio, ma … no!"

Con un'altra occhiata ai due contendenti, Caroline sussultò e si portò una mano sulla bocca intanto che Enzo schiacciava il palmo della mano contro il viso di Stefan, tirandogli i capelli, cosa che più di tutte sembrò farlo infuriare perché in un solo momento Stefan invertì di nuovo le posizioni gettando l'altro a terra.

Damon arrivò correndo, si avvicinò a suo fratello e lo tirò via prima che potesse sferrare un altro pugno. Il capannello di persone che nel frattempo si era radunato tutto attorno si separò per lasciar passare il signor Martin, capo della giuria, che utilizzò qualsiasi autorità quella carica potesse attribuirgli per gridare ai due attaccabrighe di lasciare immediatamente questo posto.

Enzo si alzò, con il dorso della mano si pulì un sottile rivolo di sangue sotto al naso, e senza alcuna fretta camminò verso Caroline. Le rivolse un sorriso sbieco.

"Mi ci voleva, una buona scazzottata," disse con un ghigno soddisfatto, pulendosi un angolo della bocca con il pollice. Indicò con un cenno della testa verso Stefan, che stava invece cercando di liberarsi della presa di Damon impegnato a dirgli di calmarsi. "Visto? Te l'ho detto. Dannato complesso del cavaliere bianco. E' cotto ed è tutto tuo, splendore."

Caroline sorrise. Si alzò sulle punte, lo baciò sulla guancia, corse verso Stefan.

"Cosa mi sono persa?" mi domandò perplessa Bonnie, guardandosi attorno.

Mi strinsi nelle spalle. La folla aveva già iniziato a disperdersi di nuovo, e fu cercando con lo sguardo tra di essa che vidi Stefan, che aveva già iniziato ad andarsene a capo basso, girarsi al richiamo di Caroline. Iniziò a parlare, scuotendo la testa e con lo sguardo abbattuto, ma si zittì quando la neo-eletta Miss Mystic Falls lo afferrò per la camicia macchiata e spiegazzata, lo tirò a sé e lo baciò.


***


Mi inginocchio per dare a Louis un'arruffata carezza di saluto sotto al collo, guadagnandomi in cambio una leccata appiccicosa sulla mano. Abbraccio mio padre quando mi rialzo in piedi.

"Grazie per avermi fatto restare qui un paio di giorni."

Stringe un po' più forte. "Non lo dire neanche."

"Vieni a trovarci, ok? Prima che Jeremy parta per il college." Lo sento irrigidirsi appena, così mi sbrigo ad aggiungere, "Ci parlo io."

"Per il momento, ragazzina," mi dice nel rilasciarmi, "Pensa a prenderti cura di te. Noi, il resto del mondo, ce la caviamo lo stesso."

Gli rivolgo un piccolo sorriso e un vago cenno di assenso con la testa, mentre alzo una mano per ripararmi dal sole forte della tarda mattinata e lo guardo richiamare Louis e salutarmi un'altra volta prima di tornare verso casa.

Ho impacchettato le mie cose dopo essere tornata dal mio pomeriggio di ieri con Caroline e Bonnie. Ho chiamato Jenna per dirle che sarei rientrata oggi. Ho chiesto ad Elijah di vederci stasera, a casa mia, per essere finalmente sincera con lui e con me stessa. Non ci sarà nessun matrimonio.

Elijah non si merita di vivere una bugia, è vero, ma forse, dopotutto, non me lo merito neanche io.

E fa comunque male, fare la cosa giusta. Ma questa volta più come un taglio disinfettato, che come uno nuovo che si apre. E' già qualcosa.

Il mio telefono suona non appena entro in auto. Guardo incerta il nome sul display.

"Stefan, ehi," rispondo esitante. Passo il cellulare nell'altra mano mentre mi sporgo per posare la borsa sul sedile del passeggero. Immediatamente penso a Caroline, il mio petto si stringe un po', e nella mia voce filtra una certa preoccupazione. "Cos'è successo, Caroline sta bene?"

Stefan sembra colto alla sprovvista. "Perché non dovrebbe?"

"Nessuna ragione," mi affretto a dire. "Solo … perché mi hai chiamato?"

"Ti volevo parlare."

Questa è strana. Stefan non è il tipo da chiamare tanto per fare due chiacchiere. Tantomeno se si tratta di parlare con me.

"Di cosa?"

"Sì, certo, mettili pure lì, li revisiono subito," dice a voce più bassa a immagino qualcuno del suo ufficio. Poi, rivolto a me. "Preferisco farlo di persona. Quando ci possiamo vedere?"

"Tra un paio d'ore?" dico. Un altro telefono suona in sottofondo dal suo lato della linea. "Mi trovi al Grill."

"Ok, ci vediamo lì. Scusami, devo andare."

Quando arrivo al locale, lo trovo già ad un tavolo in un angolo tranquillo.

E' un'ora pigra del primo pomeriggio, e ci sono pochi avventori nel locale sotto al magro sollievo delle pale del ventilatore. Il turno di Jenna inizia tra qualche ora, per cui c'è solo mio fratello che mi fa un cenno di saluto con la testa mentre finisce di pulire un tavolino.

Vado dritta verso Stefan, mi siedo di fronte a lui.

Ci ho pensato durante tutto il mio viaggio di ritorno. Perché se non si tratta di Caroline, se non è di lei che vuole parlare …. beh, c'è solo un'altra persona che io e Stefan abbiamo in comune, ed è una di cui, in un tacito accordo per mantenere le relazioni amichevoli ed equidistanti, tra noi non parliamo mai. E non so se questo sia davvero il momento più opportuno per venire meno al nostro silenzio di lunga data sull'argomento.

Stefan solleva gli occhi dai documenti che sta leggendo.

"Scusami, a quanto pare le scartoffie non finiscono mai." Li mette da parte, accanto alla brocca e al bicchiere d'acqua posati sul tavolo, e sorride, ma il suo sguardo racconta tutta un'altra storia. "Com'era San Francisco?"

Stringo le labbra, incasso il colpo.

Replico a voce bassa, "Hai parlato con Damon."

"Intendi mio fratello?" chiede di rimando, anche se la mia non era una domanda, gettandomi un'occhiata veloce mentre si versa dell'altra acqua. Al contrario di me, non si preoccupa di parlare più piano, e non è difficile intuire, dal suo asciutto tono sarcastico, che lo sta facendo di proposito. "No, non ci ho parlato. Perché, vuoi sapere come sta? Immagino uno schifo, dal momento che, lo sai, di solito è così che si riduce dopo che hai finito con lui, ma … ne so quanto te." Mi rivolge un altro sorriso tirato che è come un taglio freddo direttamente nel petto. Faccio per rispondere, ma mi anticipa. "Me lo ha detto Caroline."

Sospiro. "Naturalmente te l'ha detto. Senti, Stefan, io-"

"Ma ciao, Stefan."

Volto la testa verso la morbida voce femminile che è appena scivolata nella sedia accanto alla sua. Stefan chiude gli occhi per un paio di secondi, in quello che ha tutta l'aria di essere un appello mentale a tutta la pazienza che ha a disposizione.

"Ciao, Katherine."

Katherine posa il suo bicchiere colmo di succo scuro sopra il tavolo, con un gesto fluido sposta i lunghi riccioli bruni dei suoi capelli oltre la spalla, e non si preoccupa minimamente di registrare la mia presenza. Tira fuori un pezzo di carta dalla sua borsa di pelle nera.

"Ti cerco da stamattina. Cos'è questo?"

Stefan a malapena getta uno sguardo a ciò che Katherine gli sta mostrando. "E' l'avviso di un avvocato."

"Sì, grazie, questo lo vedo. Quello che intendevo dire è: cosa diavolo è questa storia che quello stronzo di tuo fratello non ha intenzione di darmi un centesimo? Ho dei diritti. Incluso quello ai suoi soldi."

"Dovresti chiederlo a lui."

"Ci ho provato, cosa credi? Non risponde alle mie chiamate. E … mio dio, questa roba fa schifo, che diavolo è?" esclama con fare disgustato mentre riposa il bicchiere sul tavolo.

"Quello è il nostro succo al mirtillo biologico," replico infastidita.

"No, mia cara, quello è ciò che io ho ordinato. Questa roba sa di fogna. Ad ogni modo," lo allontana da sé schifata, neanche potesse saltarne fuori un topo da un momento all'altro. Alzo gli occhi al cielo e faccio uno sforzo immenso per mordermi la lingua e non prendere il bicchiere e rovesciarglielo addosso. "Digli solo, Stefan, che finora sono stata ragionevole, molto ragionevole. Non vuole davvero vedermi incazzata. Lui sa cosa significa."

Katherine si riprende il suo avviso, la sua borsa e si allontana con una camminata da gatta che fa girare parecchie teste dentro al bar. Stefan affonda un po' di più nella sedia, si passa una mano tra i capelli con uno sbuffo frustrato.

"Che ci fa lei ancora qui?" domando indicando la direzione verso cui Katherine se ne è appena andata.

"Si aggiunge alla lista di tutte le cose per cui un giorno Damon dovrà ringraziarmi e ringraziarmi a dovere," sospira.

Rialza lo sguardo, mi osserva in silenzio alcuni secondi. Sembra combattuto.

"Ci tieni a lui?"

"Certo che ci tengo, Stefan!" rispondo senza esitazione. "Pensi davvero che-"

"Allora non dirlo ad Elijah."

Sbatto le palpebre confusa. Non sono certa di aver capito bene.

"Almeno non per un altro po'. E' un momento delicato per la nostra compagnia, abbiamo messo in moto un po' di cose e siamo nel bel mezzo di un'operazione rischiosa, e se Elijah viene a sapere o anche solo sospetta qualcosa su voi due e decide di rifarsela su Damon, potrebbe andare tutto a puttane. Non posso permettermi un tale rischio. E neanche Damon."

Lo guardo stupefatta. Non sta dicendo sul serio.

"Sono a conoscenza della vostra piccola macchinazione," dico, con una punta di fastidio. "Ma questa è la mia vita. Non sono una pedina nei vostri giochi di affari."

"Elena, per favore. Una settimana, è tutto quello che ti chiedo."

"E poi cosa, gli dico che sono andata a letto con colui che gli ha appena fatto perdere il lavoro? No, Stefan. Non posso farlo."

"Ok, allora."

Prende qualcosa dalla valigetta porta documenti che ha appoggiato distesa sopra il tavolo e me lo mette davanti. E' una cartelletta piuttosto anonima, con alcuni fogli al suo interno. La osservo con sospetto.

"Che cos'è?"

"E' il motivo per cui te lo sto chiedendo. Naturalmente puoi fare ciò che vuoi, e lo capisco, non te ne farei una colpa. Ma sono convinto che dopo aver visto questo mi farai questo piccolo favore, lasciandomi fare ciò che devo fare per riprenderci la compagnia di nostro padre."

"Stefan," ripeto. "Che cos'è?"

"E' il motivo per cui Damon non è più tornato a Mystic Falls. In caso te lo fossi mai chiesta."

Disorientata, scatto con lo sguardo verso di lui. Stefan mi fissa in attesa, aspettando una mia mossa o una mia replica.

Ma io non faccio niente. Non prendo ciò che mi sta davanti, non so cosa dovrei dire.

Allora Stefan si alza e raccoglie tutte le sue cose, tutte tranne quella. Beve l'ultimo sorso d'acqua, mi fa un cenno di saluto ed esce dal locale, lasciandomi sola con le mie improvvise mille domande e una risposta che non so se voglio avere.


***


Feci scorrere tra le dita la catenina d'argento attorno al mio collo fino a tirarla a segnarmi la pelle, avanti e indietro, avanti e indietro. Forse non avrei dovuto venire qui. Mi alzai e andai verso la finestra, per sbirciare verso l'ultimo stralcio di rosso nel cielo basso al di là della collinetta e l'avanzare della penombra violetta che precede la sera. Altri dieci minuti e me ne sarei andata.

I tacchi dei sandali iniziavano a farmi seriamente male, e non vedevo l'ora di uscire da quel vestito troppo stretto e troppo corto e tornare alle mie converse, ma era stata una decisione piuttosto impulsiva quella di venire fin qui dopo Miss Mystic Falls e un cambio di scarpe non lo avevo contemplato.

Dopo aver perso Caroline in favore delle braccia di Stefan, avevo declinato la proposta di Bonnie di tornare insieme a lei e a sua nonna, preferendo andare a piedi. Ma era stata solo una scusa per fare un altro giro attorno a villa Lockwood e cercare Damon in un tentativo dell'ultimo minuto di trovare quell'occasione per parlarci che mi ero lasciata sfuggire tra le dita durante tutto il giorno.

Solo che Damon se ne era già andato.

E mentre mi appoggiavo contro un albero a massaggiarmi una caviglia tormentata dalle scarpe, uno spaventoso pensiero mi aveva colpito. Era così che sarebbe stato d'ora in poi? Io e Damon intenti a gravitare a soli pochi metri di distanza stando attenti a non parlarsi e a non sfiorarsi, ancora e ancora e ancora, fino a che una parte così importante della mia vita non sarebbe diventato altro che un perfetto estraneo ed io lo avrei perso per sempre. Il buco nel mio petto mi era sembrato così abissale, così irrimediabile, che l'attimo dopo stavo risalendo la strada privata dei Salvatore con i tacchi in una mano e le punte dei piedi affondate nell'erba bassa e tiepida che costeggiava il bordo strada.

Non avevo davvero realizzato quanto mi fosse mancato uno spazio pieno di Damon fino a che non avevo aperto piano la porta - l'odore, la disposizione delle cose, alcuni nuovi cd aperti sopra il tavolo. Tutto sembrava così al posto giusto che, almeno per un momento, davvero pensai che sarebbe tornato al posto giusto anche tutto il resto.

(Crown of love, Arcade Fire) [1]

Mi voltai come sentii la chiave nella serratura e il leggero cigolio della porta, precipitandomi ad andargli incontro. Ma niente sembrava giusto e tantomeno al suo posto quando, avvicinandomi all'arco che si apriva sull'ingresso, lo sentii ancora prima di vederlo.

I respiri smorzati e il maldestro inciampare contro il mobilio, e la ragazza dai capelli biondo ramato che cadeva sul divano con Damon sopra di lei.

Un sapore orribile a metà tra nausea e rabbia irrazionale mi avviluppò lo stomaco. Quella stessa piccola, egoista, parte di me che solo qualche giorno prima aveva segretamente respirato di nuovo alla notizia che fosse finita tra lui e Michelle, non aveva pensato che l'altro lato della medaglia potesse schiaffeggiarla in faccia così presto e così crudelmente.

Era la stessa parte che avrebbe voluto gridare, quando Damon fece scivolare una mano sotto la maglietta della sconosciuta, e piangere, mentre lei offriva il collo che Damon leccò giù e giù e giù, ma imbottigliò tutte le lacrime, tutte le grida e tutta la furia che non avrebbe dovuto provare, troppo stordita per emettere un solo suono.

E poi la ragazza con il collo arcuato aprì gli occhi, incontrò i miei, si immobilizzò. Ed anche Damon si immobilizzò, alzando lo sguardo e la bocca dal seno della ragazza, più pallido tutto di un tratto. Si tirò su, guardandomi smarrito.

"Cosa diavolo ci fai qui?"

Deglutii altra rabbia e altre lacrime e corsi verso l'uscita. Ma Damon si alzò, mi afferrò per un polso e mi fermò, e l'unica cosa che io riuscii a fare per non cedere al putiferio dentro che mi aveva avvelenato lo stomaco fu riversarlo tutto nel tentativo di strattonarmi e svicolarmi, anche se lui mi riacciuffò tutte le volte.

Mi bloccò entrambe le mani, fece un passo avanti e fui costretta ad alzare lo sguardo sul suo volto. Fissò gli occhi nei miei. Non li avevo mai visti così furenti. Almeno, non con me.

"Non. Farlo," scandì lentamente.

"Seriamente?" sbuffò incazzata la ragazza che era con lui, tirando su una spallina del reggiseno e riprendendosi la borsa dal pavimento. "Non avevi detto di avere la ragazza, stronzo!"

Damon non distolse lo sguardo dal mio. Una mano mi tremò, stretta nella sua.

"Non ce l'ho."

"Come ti pare," replicò lei. Ci passò accanto e tirò violentemente a sé la porta. "Stronzo."

Il portone sbatté alle mie spalle abbastanza forte da farmi sussultare. Damon mi lasciò andare, in un moto amareggiato.

"Non le vai dietro?" domandai caricando la mia voce di sarcasmo, anche se venne fuori leggermente tremante della stessa rabbia impulsiva che ancora sentivo pomparmi nelle vene.

"Cosa ci fai qui?"

A quante altre aveva baciato la pelle come aveva fatto con me? Forse più dolcemente, forse più appassionatamente. Strinsi la mano fino a conficcarmi le unghie dentro al palmo.

"Forse, se ti sbrighi, riesci a trovare qualcun'altra. Tanto non la trovi sempre?"

La sua voce si fece meno paziente. "Cosa. Ci fai. Qui?"

Volevo piangere. Le lacrime mi bruciarono la gola.

"Vai al diavolo, Damon."

Mi voltai e posai la mano sulla maniglia. Ma Damon posò la sua sulla porta, ed io non ci provai neanche ad aprirla. Per alcuni secondi davvero molto lunghi, restammo entrambi immobili e in silenzio, il mio sguardo fisso sulle dita che tremavano sopra la maniglia, il suo braccio accanto alla mia testa, e il suo volto così vicino da sentire il suo respiro soffiarmi piano tra i capelli.

"Devi smetterla di fare così," disse piano, in un sussurro che sembrò costargli molta fatica. La sua mano scivolò più in basso lungo il legno della porta, lentamente, e sentii i suoi occhi sul mio volto. "Entrambi … dobbiamo smetterla di fare così."

"Fare cosa?" domandai, con le lacrime che premevano insistenti dietro agli occhi. "Parlarci? Vederci?"

"Questo," mormorò lui, sfiorandomi appena i capelli con le punta delle dita. "Tu che ti presenti qui. Io che te lo lascio fare."

"Mi hai sempre detto di venire quando voglio."

"E adesso non penso che dovresti farlo."

"Perché?"

"Cazzo, Elena."

Si allontanò da me con uno scatto frustrato. L'aria sembrò più fredda, lo spazio più vuoto. Lo cercai con lo sguardo.

"Perché è più importante portarti a letto ragazze a caso quando ti pare e piace?"

Alzò un angolo delle labbra in un mezzo sorriso amaro. "Pensi davvero che sia di quello che mi importi?"

"Non lo so, c'è qualcosa di cui ti importa?"

Qualcosa vulnerabile gli balenò negli occhi, e il mio cuore si contrasse. Si avvicinò, esitò un secondo. Posò piano entrambe le mani attorno al mio viso, cercandomi con lo stesso sguardo incerto e fragile. Io smisi di respirare.

"Te." Mosse appena i pollici per accarezzarmi il profilo del viso, con la delicatezza di chi ha davanti ad una creatura selvaggia pronta a balzare via al minimo gesto troppo brusco. "Mi importa di te."

Posai le mani sulle sue, le strinsi strette nelle mie.

"E a me di te," risposi con slancio. "Non ce la faccio a stare così, non lo capisci? Ho bisogno di averti nella mia vita."

Damon sfilò le mani dalle mie, sottraendosi al mio tentativo di impedirglielo aggrappandomici più forte.

"Come amico, giusto?"

Lo guardai senza capire. "E' quello che siamo."

"No, no che non lo è," ribatté con forza. "O non sarebbe così fottutamente doloroso ogni volta che ti vedo con Donovan. Non mi farebbe uscire di testa lo starti vicino e il non starti vicino e tutto ciò che diavolo ci sta nel mezzo. E tu non saresti qui, a scalciare e incazzarti ad ogni mio stupido, patetico tentativo di toglierti dalla mia testa." Abbassò la voce, più dolce, più roca, e tese una mano per scostarmi i capelli dal volto, "Non lo è, e lo sai anche tu. E io non posso continuare così, Elena, perché …" Prese un respiro. "Io-"

"Smettila," lo fermai con il battito troppo forte e la voce troppo acuta. "Non farlo, non …"

Il suo sguardo si frantumò. "Perché no?"

"Non possiamo semplicemente far tornare le cose a come erano?"

"No!" replicò. "E se non vuoi sentirmelo dire, va bene, ma ho smesso di far finta che mi stia bene, o che non sia così! Ho smesso di giocare a farti l'amico per starti attorno, quando fa solo un male cane. Ho chiuso."

Fu peggio di uno schiaffo. Lo fissai disorientata, cercando nel suo volto, nella sua espressione, un segno, uno solo, che non stesse dicendo sul serio, ma quando feci un passo verso di lui, Damon ne fece uno indietro, come se potesse ustionarsi con la mia sola presenza.

Il sale delle lacrime mi riempì la bocca.

"Damon, per favore, non farmi questo," lo implorai con un filo di voce.

Ci fu un lampo di sofferenza nel suo sguardo che quasi scambiai per incertezza. Ma poi serrò più stretta la mascella e allungò la mano verso la porta.

"Non cercarmi più, Elena," prima di sbattersela alle spalle


***


Mi era sempre piaciuto l'odore del giacchetto di Matt. Sapeva di bucato e pulito e semplicità, ed affondare il volto lì, tra il bavero e il suo collo, era una delle cose che amavo di più.

Ed era stato sempre lì che avevo affogato le lacrime e smesso di piangere appena una ventina di minuti prima, rannicchiata nello spazio tra i sedili del pick-up, con la leva del cambio sotto al ginocchio sinistro e il mascara sbavato a rovinare il colletto dall'odore di bucato, una lite con mio padre raccontata come scusa per coprire il vero motivo del mio stato, qualcosa che non avrei mai potuto raccontargli e che soprattutto non avrebbe mai potuto capire.

Avevo perso Damon. Davvero. Del tutto. Per sempre. Aveva dovuto rovinare tutto, ed io lo odiavo per questo, andando a parlare di …

No, ero io ad aver rovinato tutto. E lui ad odiarmi per questo.

Non ti odia. Tutto il contrario.

E non lo odi nemmeno tu.

Matt strinse il braccio attorno alle mie spalle, io chiusi gli occhi dentro alla sua pelle, ed il buio si fece quasi totale. Posò le labbra sulla mia testa ed io strofinai il naso nel suo collo. Un bacio nella parte più calda vicino al suo orecchio, solleticata dai suoi capelli. E lui sulla mia guancia. Ed io sulla sua mascella.

Era una bella sensazione. Calda e dolce e beatamente lontana da tutti i tagli che la nuova assenza di Damon aveva aperto, freschi, irregolari, e maledettamente dolorosi. Perché lo odiavo. E tutto il contrario.

Scivolai con le gambe su quelle di Matt, circondai la sua vita, infilai le dita tra i suoi capelli e la lingua nella sua bocca. Davvero una bella sensazione. Bastava perdersi nel modo in cui le sue mani risalivano accarezzandomi le cosce, nel calore crescente tra le gambe, e far scomparire la persona in grado di dilaniarmi il cuore e il cervello.

Ogni stupido e patetico tentativo di smettere di pensarti.

No, non era così. Io amavo questo ragazzo con il fiato corto e le mani sotto la mia gonna, questo ragazzo dolce e gentile che non mi avrebbe mai mandato il cuore in pezzi. Io non ero come lui. Che odiavo. E tutto il contrario.

Portai le mani tra i nostri corpi, gli slacciai la cintura. Matt tirò giù la zip del vestito blu, mi baciò lungo il collo.

"Hai i preservativi?" mormorai respirando più affannosamente.

Si fermò. Alzò il volto per cercare di scrutarmi al di là penombra scura, aggrottando la fronte. Sentii le guance farsi più calde, ma il buio era abbastanza da nasconderlo.

"Pensavo che volessi … " Fece scorrere una mano lungo il mio braccio. "Pensavo che volessi aspettare che i miei se ne andassero per quel weekend tra un paio di settimane, avevamo detto che avremmo potuto avere la notte e la mia camera tutta per noi … Ricordi?" sorrise. "La sera perfetta?"

"Non mi importa," dissi prendendogli il volto tra le mani. Abbassai lo sguardo e, solo per un momento, mi sentii sul punto di piangere di nuovo. "Non mi importa niente di tutto quello."


***


Ho perso il conto, di tutte le volte in cui l'ho fatto.

Prendere in mano ciò che mi ha dato Stefan, posarlo di nuovo sul tavolino di fronte a me. Intatto, neanche una sbirciata a ciò che contiene.

E' stato facile durante il giorno. Bene o male, ogni volta sono riuscita a distrarmi con un caffè da versare, un ordine da fare, un fornitore da chiamare. Lasciando l'anonima cartelletta lì a sbucare indiscreta dal bordo della mia borsa.

E' meno facile adesso, nel soggiorno di casa, quando c'è un limite al numero di volte in cui posso ripetere questo assurdo mordi e fuggi senza sembrare completamente pazza.

Non so cosa mi trattenga dall'aprirla e scoprire cos'è che Stefan è così sicuro possa convincermi a mentire deliberatamente al mio ignaro fidanzato e tradirlo in un modo forse ancora più crudele. Se si tratti solo di ciò che contiene (che cosa hai fatto, Damon?) o dell'idea che Stefan possa avere ragione, e che per Damon piegherei la mia morale ancora una volta.

Porto il volto tra le mani e cerco di pensare, anche se non è qualcosa su cui ci sia poi molto da ragionare.

E' solo un gran casino.

Il campanello suona. Getto un'occhiata all'ora, e vedo che Elijah è in anticipo di almeno una ventina di minuti. Velocemente, metto tutto via infilandolo in mezzo ad alcune riviste musicali di Jeremy lasciate disordinatamente sopra il tavolino e scatto in piedi.

Prendo un respiro profondo, mentre apro la porta.

Ma non è Elijah.

E' Caroline in un bel vestito rosso, con quel sorriso impacciato che le viene fuori quando non sa più come trattenere le lacrime, e scuote la testa, e si passa le mani tra i capelli, e scoppia in singhiozzi convulsi e sconnessi non appena la abbraccio.

"E' finita. Con Stefan, è finita."

——————————————————————————

Note:

[1] In uno dei primi capitoli, Damon dà un cd ad Elena, ed era per l'appunto Funeral degli Arcade Fire, che contiene anche questa canzone. A me fa male, quindi magari se non la conoscete ve la ascoltate e farà male anche a voi. You're welcome.


Spazio autrice

Mi perdonate il ritardo abissale?... Mi dispiace davvero tanto di averci messo così tanto ad aggiornare e a rispondervi (che farò, stasera e nelle prossime, intanto ci tenevo a fiondarmi a casa dopo lavoro e darvi in pasto questa cosa qua), e mi piacerebbe poter dire che impiegarci così tanto è stata una cosa una tantum, ma mi sono resa conto che questi capitoli, essendo quelli che portano alla fine, richiedono semplicemente più tempo per essere scritti, con tutti i pezzettini che ci sono da incastrare e far andare al loro posto.

Quindi mi appello alla vostra pazienza e alla vostra magnaminità anche per quelli che verranno.

Grazie a It's gonna be Damon per la pubblicazione delle anteprime; grazie alle mie adorabili "editrici" per revisionarmi i capitoli di tutte le sviste; e grazie, come sempre, il più commosso, a tutte voi, mai avrei sperato di trovare lettrici così appassionate. Grazie per avermi supportato fin qui e per continuare a farlo.

un bacio, e a presto

ever


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Capitolo 22
*** Accidental babies ***


21

21.

Accidental babies


- Do you come together ever with him?
And is he dark enough, enough to see your light? […]

And I know I make you cry
I know sometimes you wanna die
But do you really feel alive without me?-


(Damien Rice, Accidental Babies)


Damon


Ho circa trenta chiamate perse. Quarantadue messaggi non letti, e venticinque inascoltati nella segreteria vocale. Innumerevoli email non aperte.

Una sola risposta per tutti.

Fanculo.

Ecco la portata delle mie interazioni con il mondo esterno durante gli ultimi … diavolo, non lo so, qualcun altro faccia il conto.

Le cose non vanno poi così male, da quando Elena se ne è andata.

Ho trovato un paio di bottiglie quasi piene di ottimo bourbon e un mezzo pacchetto di sigarette lasciato in giro vai a sapere quando da qualche dimenticabile avventura da una notte e via. Basta aggiungerci qualche consegna a domicilio 24 ore su 24 per ogni volta che il mio stomaco mi ricorda che devo metterci dentro qualcos'altro oltre a liquidi piuttosto infiammabili, e la pace dei sensi è servita. L'unica vera scocciatura è stata quella di infilarmi il primo paio di jeans e maglietta trovati sul pavimento per andare a rifornirmi di nuove scorte quando sia il bourbon che le sigarette sono finite. Che credo sia stato piuttosto presto. Anche se la cosa mi ha fatto guadagnare cinque dollari da una impietosita donna di mezza età fuori dal mini-market, che deve avermi scambiato per un senzatetto o robe simili. Chi sono io per protestare.

Rovescio all'ingiù il mio nuovo pacchetto di sigarette, ma niente ne esce fuori. Merda. Non ho intenzione di fare la fatica di uscire un'altra volta.

Sto ancora controllando se per caso non ci sia un'ultima maledetta sigaretta sul fondo che gioca a nascondino, quando qualcuno entra nel mio appartamento. Non guardo chi, troppo impegnato a scandagliare il pacchetto in cerca di un indizio.

"Avrei potuto essere un ladro," dice Ric appoggiandosi contro la soglia.

Scrollo le spalle. "Non lo sei."

Mi arrendo e getto il pacchetto vuoto sul tavolo di fronte a me. Lo manco completamente. Però era un tiro piuttosto difficile, considerando che sono seduto sul pavimento e che la mia testa sta ancora nuotando nei dolci e nauseanti effetti della mia dieta bourbon-e-nicotina.

"Ti serve qualcosa?"

"Sì, cazzo di coglione, tirarti fuori da questo tuo festino di autocommiserazione."

"Sto bene," rispondo con la voce rauca di troppo fumo. "Ho solo avuto un paio di giornatacce."

"Lo sai che giorno è?"

"Martedì?"

"Venerdì."

"Cazzo."

Ric mi passa davanti, scavalcando le mie gambe distese, per andare ad aprire la finestra.

"Sei ridotto uno schifo. Penso che ci sono case di confraternite in condizioni migliori. E quello è …" Ric getta uno sguardo inorridito verso la tv accesa su cui sono concentrato, che emette una delicata musica di sottofondo. "… balletto classico? Cristo santo, Damon."

Appoggio la testa all'indietro contro la base del divano, mi stringo nelle spalle. Ric sospira e viene a sedersi sulla poltrona accanto, si sporge in avanti con i gomiti sulle ginocchia, e per un lungo momento restiamo entrambi in silenzio, a guardare il cazzo di balletto.

"Fammi indovinare," dice corrugando la fronte perplesso mentre un tizio fa una perfetta piroetta per aria. "Se ne è andata."

Non rispondo. Faccio leva con una mano sul pavimento e mi alzo in piedi, ricacciando indietro l'ondata di nausea che mi minaccia lo stomaco nell'attimo in cui mi devo riabituare alla gravità e alla postura verticale. Vado a prepare del caffè che magari riesce a farmela passare completamente. Mi ci vuole uno sforzo industriale per azzeccare la posizione del filtro, che continua a non entrare come dovrebbe.

Ric non molla. "Cosa è successo?"

"Lo hai detto tu. Se ne è andata. Ha mollato. Fine della storia. Questa cazzo di cosa non funziona," sbotto dando una manata alla maledetta macchina da caffè. Il filtro traballa, ma resta sempre storto.

"Tornata dal fidanzato?"

Piego le labbra in una smorfia. Non ho davvero intenzione di farlo, stare qui a domandarmi cosa faccia o non faccia Elena, ma prima di potermi fermare, sono già con lo sguardo fisso sulle mattonelle a riflettere sulla cosa. Se so una cosetta o due riguardo ai tormentati sensi di colpa di Elena, a quest'ora dovrebbe già aver vuotato il sacco, quindi c'è una discreta possibilità che per il suo fidanzato il bentornato non sia stato dei migliori. D'altra parte però, il caro vecchio Elijah ha tutta l'aria di essere uno di quei cazzo di tipi che sono tutti compassione e perdono e bla bla bla, da grande uomo quale è, quindi alla fine chi diavolo lo sa. In ogni caso, fidanzato o no, non cambia il fatto che mi ha lasciato con nient'altro che una telefonata dall'aeroporto ed un inutile "mi dispiace" che neanche ci sarebbe stato se non l'avessi chiamata io.

Scrollo le spalle. "Ha importanza?"

"Sai cosa non capisco," prosegue Ric alzandosi per raggiungermi in cucina. Adesso che ci prova lui, la macchina da caffè parte senza problemi, piccola merdina traditrice che non è altro. "Sei qui mezzo ubriaco, con una barba di quattro giorni e la tua migliore faccia scazzata. E questa ragazza chiaramente significa tanto per te. Eppure," incrocia le braccia sul petto e si ferma ad osservarmi. "In cinque anni in cui abbiamo condiviso più whiskey e confessioni notturne di quanto i nostri fegati dovrebbero sopportare, non l'hai mai menzionata una sola volta. Perché?"

Ingoio un fastidioso grumo che mi raschia la gola peggio dei due pacchetti di Marlboro che ho svuotato.

Non mi piace dire cazzate ad Alaric. E' una di quelle poche cose che mi fanno davvero sentire in colpa, e poi tanto il bastardo non se le beve mai in ogni caso. Ed è vero, che Elena è sempre stato un argomento da cui ho preferito girare alla larga - sia perché dimenticarla una volta è già stata una delle cose più fottutamente difficili che abbia mai dovuto fare, sia perché in ciò ho chiaramente fatto schifo dal momento che … Beh. Sono qui.

Ma l'ultima cosa che voglio fare in questo momento, o in qualsiasi altro a venire, è stare qui a raccontare di Elena, discutere di Elena, pensare ad Elena - per non parlare di tutto quel capitolo che si porta dietro e che, no grazie, sta bene lì chiuso dove sta.

"Non c'era niente da dire."

"Certo …" annuisce Ric sarcastico, porgendomi una tazza di caffè che fa fare le fusa al mio stomaco martoriato.

Sta per aggiungere qualcosa, ma il mio telefono suona. Di nuovo.

"Odio questo cazzo di telefono," biascico mentre mi allungo sul tavolo per prenderlo, dibattendo internamente se sia il caso di spegnerlo una volta per tutte (e se fosse Elena a chiamare, dice la patetica tormentosa vocina dentro la mia testa ogni volta che mi ha attraversato il pensiero di farlo - e che non l'ho fatto mai) o usare chiunque mi stia rompendo le palle questa volta come scusa per troncare lì le domande troppo ficcanaso del mio migliore amico.

Perciò, per un paio di secondi, rimango imbambolato come un idiota a guardare il display, preso alla sprovvista dal nome che compare. Questa sì che è una novità. Corrugo la fronte e poi, lentamente, rispondo.

"Si è congelato l'inferno per caso?" domando. "Non riesco a pensare ad altri motivi per cui a te possa venire in mente di chiamare me."

"Sei ubriaco?" risponde scocciata l'altra voce dall'altro lato della linea. "Hai la voce da ubriaco."

"In pieni postumi." Prendo un sorso di caffè. "Che si dice, Bonbon?"

"Non chiamarmi in quel modo."

"Troppo intimo?"

"Decisamente troppo intimo."

"Che succede?"

"E' per …" La piccola rompiscatole esita un attimo. "Tuo fratello."

Mi immobilizzo con la tazza a tre centimetri dalla bocca. Per un orribile momento, tutte quelle chiamate perse pesano come sassi, dritti sul mio stomaco.

"Cos'è successo a mio fratello?"

"Lui e Caroline si sono lasciati."

"Aspetta …" Aggrotto la fronte, poso la mia tazza. Sicuramente non ho capito bene. L'inferno che si congela era davvero un'alternativa più probabile. "Cosa? … Perché?"

"Non posso … dirlo."

"Che cazzo vuoi dire, che non puoi dirlo? Sei tu che hai chiamato!"

"Quello che voglio dire è che Care è la mia migliore amica e che non sta a me … Senti, è solo che sono passata da casa vostra a prendere alcune delle cose di Caroline, e mi è sembrato piuttosto distrutto, e lo so che probabilmente non sono affari miei, ma ho pensato … Non lo so, non lo so se sistemeranno le cose, ma magari … ha bisogno di te." Bonnie fa una pausa, quasi dovesse prendersi un attimo per riaversi dallo shock di aver appena fatto una cosa carina per me. "Tutto qui."

"Lo … apprezzo," rispondo titubante. C'è un imbarazzante mezzo momento di silenzio, mentre penso a cosa dirle. "… Grazie?"

"Grazie? Era una domanda?" ribatte mezza offesa. "Certo che sei un bel tipo."

"Me lo dicono spesso."

Bonnie chiude la chiamata, io mi rigiro il telefono tra le mani.

Ric mi getta uno sguardo interrogativo. "Cos'è successo?"

Sospiro. "E' successo che i miei eccitanti piani per il week-end sono appena andati a farsi fottere."


***


Chevrolet Camaro convertibile del '67, struttura e pezzi di ricambio originali, sedili in pelle, colore Blu Marina. Prezzo: 11.200 dollari. Trattabili.

Un cazzo di regalo praticamente, per cui il mio cuore sanguinava ad ogni nuovo volantino che lasciavo in giro.

Quella era la mia macchina. L'avevo trovata ridotta a poco più che uno scheletro, pagata 4.300 dollari (e quello sì, che era stato un cazzo di furto), rimessa a nuovo nei successivi sei mesi con ogni straccio di centesimo risparmiato. E ora la stavo dando via a meno del sessanta per cento del suo valore. Monetario, s'intende, quello sentimentale neanche volevo mettermi a calcolarlo.

Ma avevo bisogno di quei soldi, adesso più che mai. Tra mio padre che aveva messo in chiaro che dovevo andarmene di casa se non ero intenzionato a fare come diceva lui, e il bisogno bruciante di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non dovermi torturare dietro alla ragazza che era stata l'unica vera ragione per cui avevo rimandato una decisione fin troppo a lungo, il bus in direzione New York che avrei preso con Enzo di lì a pochi giorni sembrava non arrivare mai abbastanza in fretta. Anche se prendere quel bus voleva dire dissanguarsi sopra a quei cazzo di volantini.

Qualche metro più in là, cheerleaders e squadra di football avevano da poco finito i loro allentamenti. Stefan compreso, che, non appena vennero sciolti i ranghi, si gettò ad allacciare labbra e lingua con la pimpante bionda in divisa e pompon da cui ormai nessuno lo staccava più, per poi guardarla allontanarsi verso gli spogliatoio con uno sguardo trasognato. Tornai ad affiggere il mio annuncio sulla bacheca all'ingresso della struttura del campo sportivo.

"Ehi," mi chiamò mio fratello, raggiungendomi. Si tolse le spalline protettive per gettarle sull'erba ai suoi piedi, mi scrutò incuriosito passandosi una mano tra i capelli sudati. "Che stai facendo?"

"Vedo se qualcuno di questi tutti muscoli e niente cervello vuole la mia macchina," risposi con una smorfia indicando con un cenno della testa verso il resto della combriccola.

Il mio cuore sanguinò un po' di più soltanto nel dirlo ad alta voce.

Stefan mi strappò un volantino dalle mani e mi guardò allibito.

"Ma tu ami questa macchina," protestò.

"Mi servono i soldi, Stef."

"Ok. Quanto? Perché se è per questo, ho ancora ciò che ho guadagnato quest'estate con il tirocinio da papà, e posso-"

"Non ho intenzione di prendere i tuoi soldi," lo interruppi. Un moto di delusione gli attraverso lo sguardo, così aggiunsi, più conciliante. "Mi servono per stare a New York. Non mi basterebbero comunque."

Stefan annuì e non argomentò oltre. Ma aveva quella faccia da Stefan - quella di quando ha qualcosa da dire, ma preferisce tenerla per sé e buttarla sul passivo-aggressivo. Era la stessa faccia che metteva su praticamente ogni singola volta che saltavano fuori i miei piani di mettere tra me e questo posto più distanza fisica possibile. L'ho mai detto che mio fratello ci è nato, un immane dito al culo?

"Vieni stasera?" mi domandò, deviando l'argomento.

"Ho scelta?" risposi sarcastico. Passare la serata a recitare la parte del figlio esemplare per assecondare le mire politiche di mio padre non rientrava esattamente tra le cose per cui fare i salti di gioia.

Stefan aprì la bocca per controbattere, sicuramente qualcosa sul fatto di provare a sforzarmi di stabilire una mezza tregua su qualcosa a cui nostro padre teneva così tanto, ma io avevo già spostato la mia attenzione sui quattro tutti muscoli niente cervello che ci stavano passando accanto.

"Cosa diavolo hai oggi, Donovan? Non riuscivi a prenderne una."

"E' il suo cazzo," rispose un altro, facendo il gesto di sfottere Donovan prendendolo per il pacco.

Donovan si sottrasse infastidito. "Sta' zitto, Tyler."

Tyler zitto non ci stette. "Si è scopato la sua ragazza appena prima di mollarla, e adesso sta già pensando che magari avrebbe prima dovuto scoparsela un po' di più."

Il mio stomaco sprofondò, si attorcigliò sul colpo appena ricevuto, e il mio cervello piombò nel buio. Un momento, ed avevo afferrato Donovan per la maglietta, l'avevo sbattuto contro il palo di acciaio delle gradinate e colpito così forte, con un pugno dritto in faccia, da far gridare le mie nocche di dolore.

"Che cazzo?!" mi urlò contro, incespicando per rimettersi in equilibrio.

Lo spintonai a terra, tenendolo fermo con una mano attorno alla gola. Altra gente si radunò attorno a guardare, a gridare qualche "Dagliele, Donovan!" di incitamento, ma erano un sottofondo confuso che a malapena sentivo, sovrastato dal fiato corto di una rabbia esplosa all'improvviso che stava implorando disperatamente di essere sfogata - per tutto il cazzo di male al pensiero di questo idiota che faceva sesso con Elena (lo sapevo che forse, forse, sarebbe successo, mi ero costretto a farmi andare bene la cosa - oh fanculo, no che non mi andava bene), e a quello ancora peggiore che poi si fosse pure permesso di mollarla come se fosse una qualsiasi scopata di poco conto (sto con Matt, amo Matt). In quel preciso momento, avrei potuto ammazzarlo, il coglione.

"L'hai lasciata, testa di cazzo?!" gli gridai di rimando.

Ero già pronto a dare il secondo colpo, ma Donovan lo parò a mezz'aria allungando la mano.

"Io la amo!" si sgolò. "E' lei che ha lasciato me! Quanto cazzo sei coglione?"

Matt mi spinse con forza inaspettata, ed io caddi all'indietro atterrando sulle ginocchia. Si alzò a sedere e si asciugò con il dorso della mano la striscia rossa di sangue che dal naso gli stava colando sulla bocca. Mi aspettavo che contrattaccasse, ma non lo fece. Rimase a guardarmi con il respiro affannato, lo sguardo ferito, ed estrema circospezione. Ma quella era reciproca.

Deglutii con sforzo, sia la rabbia che qualcosa di molto più indefinito.

"E perché lo avrebbe fatto?" domandai, senza abbandonare il mio tono di sfida.

Glielo vidi lampeggiare negli occhi. La conoscevo quella cosa, la bruciatura amara lasciata dal rifiuto da parte di ciò che desideri con tutto ciò che hai, la conoscevo così bene.

"Come se tu non lo sapessi," sputò fuori.

Si alzò e s'incamminò, verso gli spogliatoi, scostando le mani dei compagni di squadra che si avvicinavano per dargli delle pacche in solidali dimostrazioni di cameratismo. Dalla mia parte c'era solo Stefan, che si avvicinò per aiutarmi ad alzarmi, ma anche quando mio fratello mi tese la mano, invece di afferrarla rimasi immobile a fissare l'aria.

... Cosa cazzo aveva voluto dire?


***


Smaltisco tutti gli effetti dell'alcol e prenoto il primo aereo disponibile, con la stessa sensazione di chiusura alla bocca dello stomaco che ho avuto nel fissare il volo dopo aver saputo della morte di mio padre, quello per il suo funerale che poi non ho mai preso.

Non voglio tornare. Là, c'è Elena con il suo matrimonio imminente. Là, c'è un consiglio di amministrazione che non vede l'ora di sbattermi in faccia il fallimento che sono. Là, c'è la stronza da cui sto cercando di liberarmi ma che, come il mio avvocato si è gentilmente premurato di farmi sapere in uno dei messaggi vocali che mi sono finalmente deciso ad ascoltare, continua a mandare indietro qualsiasi proposta di accordo per un divorzio economico e indolore con tanto di note a margine in stile ti-faccio-passare-l'inferno tutte per me. Perciò no, non voglio tornare.

Voglio stare il più lontano possibile da tutto questo esattamente come il giorno del volo che non ho mai preso. Ma, come la mia coscienza ci tiene a ricordarmi, là c'è anche mio fratello che ne ha bisogno e - così come ha fatto tre mesi fa, così come ha fatto sempre - è quello che finisce per mettere in secondo piano tutto il resto.

E' quasi buio quando apro il pesante portone della villa, che trovo avvolta nella penombra serale e nell'odore di legno di pino, vuoto e disperazione Salvatore. Non c'è che dire, quando ci deprimiamo, lo facciamo come si deve.

Sento la voce di Stefan provenire dalla cucina. Poso il mio borsone sopra il divano e lo raggiungo, trovandolo impegnato in quella che deve essere una sfibrante lotta con la segreteria telefonica.

"… dannazione, Care, almeno … parlami. Lascia che ti veda. Non posso …" Gli si incrina la voce, gli si abbassano le spalle. "Richiamami. Per la centesima volta, richiamami."

Busso con le nocche contro lo stipite. Stefan salta su e si volta così velocemente che gli scivola il telefono di mano. Poi però vede che sono io, e si affloscia di nuovo sulla sedia.

"Oh," dice deluso. "Sei tu. Pensavo …" Scuote la testa come per liberarla degli ultimi residui delle false speranze che deve aver avuto per circa mezzo secondo.

Apro un armadietto, ne prendo una bottiglia di scotch, riempio un bicchiere e glielo faccio scivolare davanti. "Brutta giornata?"

Stefan mi guarda incerto. "Non dovresti essere qui."

"Lo so."

Cazzo se lo so.

Prendo una sedia, mi siedo di fronte a lui. Stefan posa la fronte sulle mani, sospira e allunga la mano verso il bicchiere che gli ho versato. Ne fa sparire mezzo.

"Caroline mi ha lasciato."

"Così ho sentito dire. Che diavolo è successo?"

Cambia appena posizione così da poter arrivare alla tasca dei suoi jeans. Getta qualcosa verso di me, una scatolina di velluto che afferro al volo a mezz'aria.

Oh, merda.

"Le ho chiesto di sposarmi." Finisce di svuotare il bicchiere, prende il resto della bottiglia, aggiunge con la voce mezza roca. "Ha detto di no."

"Avevi intenzione di fidanzarti?" domando allibito. "Perché diavolo non mi ha detto niente?"

Stefan mi getta un'occhiata per chiedermi se lo stia per caso prendendo per il culo. "Non eri esattamente … raggiungibile, negli ultimi giorni."

Beh, sì. Giusta osservazione. Insomma, non sono solo una pessima persona, sono anche un pessimo fratello. Poso la scatolina sopra il tavolo.

"Da quanto ci stavi pensando?"

Stefan accenna un sorriso amaro.

"Da un po'." Il suo sguardo si fa un po' più distante, si sposta su un punto non precisato alle mie spalle, lui rimane con lo scotch fermo a mezz'aria. Ne butta giù un altro bel sorso. "Un bel po'."

Prende la scatoletta e inizia a rigirarsela tra le dita.

"L'ho comprato mesi fa, poco dopo la laurea. Poi papà lo ha trovato. Mi ha fatto un discorso," lo dice con lo stesso sarcasmo con cui abbiamo sempre detto quella parola tra me e lui, i discorsi di papà, e per un attimo i nostri occhi si incrociano ed entrambi sorridiamo per quella sfumatura che conosciamo solo noi. Una fitta inaspettata si infiltra da qualche parte in mezzo a crepe che non so neanche quando di preciso si siano aperte, nel momento in cui, per la prima volta in tre mesi, vengo colpito dall'improvvisa consapevolezza che non sentirò mai più nessuno di quei terribili discorsi, e non ho idea di come la cosa mi faccia sentire.

"Mi ha detto che ero così giovane, e che adesso che avevo appena finto il college le cose sarebbero cambiate molto velocemente per me nei mesi a venire. Di darmi almeno un anno o due, fino a che non avessi avuto qualcosa di più stabile, o più concreto. Era tutto molto ragionevole, come discorso. Poi è morto, il mio lavoro è un azzardo incasinato appeso a un filo, e stabile e concreto io non so neanche cosa vogliano dire." Getta via la scatolina, contrae le labbra in quello che è un po' un sorriso ed un po' una smorfia amareggiata. "Ma poi vedo Caroline che canta e balla su quella stupida Call me maybe a pieno volume in tutta casa, e lei è fatta così, lo sai, capace di farti sorridere con niente e rendere tutto più luminoso anche nelle giornate peggiori. E ho pensato, chi se ne frega se non ho niente in mano, voglio questa luce nella mia vita ogni singolo giorno. Quindi al diavolo con l'aspettare, o essere ragionevoli." Si passa una mano tra i capelli, l'abbozzo di sorriso svanisce. "Magari avrei dovuto."

"Cosa ti ha detto?"

Stefan scuote la testa. "Ha pianto. Ha detto che sarebbe un errore. Che siamo insieme da sempre, e magari un giorno vorremo qualcos'altro, o stare con altre persone, e cose del genere. Le ho detto che non me ne frega niente di altre persone. Non mi ha ascoltato. Se ne è andata due giorni fa e non mi ha più parlato." Mio fratello rialza lo sguardo su di me, e non penso di averlo mai visto così perso come in questo momento. "Sette anni, Damon. Finiti così. E' la mia migliore amica, è una parte di me. Non so … Non so neanche come esistere senza di lei."

La botta di avvilimento che segue lo fa rattrappire completamente su se stesso, facendo scattare in me qualche ancestrale meccanismo di solidarietà maschile e fraterna che va anch'esso ad alimentare l'indefinita incazzatura che da giorni non riesco a farmi passare, e di cui pure Caroline è appena diventata parte.

"Dov'è adesso?"

"Si è trasferita da Elena."

Stefan si blocca. Spia cauto la mia reazione, come se si fosse di colpo reso conto di aver appena detto qualcosa di molto pericoloso.

"Ovvio che è lì," borbotto sarcastico andando a sfilargli la bottiglia dalle mani.

Mio fratello mi osserva mentre prendo un secondo bicchiere e ricarico le dosi sia per me che per lui.

"Ho sentito anche io," dice.

"Me lo vuoi dire, “te l'avevo detto”? Perché se è così, fai pure, riccioli d'oro che ti scarica ti garantisce un lasciapassare, per questa volta. Però guarda che non durerà."

Stefan resta serio. "Mi dispiace."

"Già, a te dispiace, a Elena dispiace, a tutti dispiace," ribatto con una smorfia amara. Giro la mano ed inclino il mio bicchiere verso il suo. "All'essere infelici e depressi. E alle donne responsabili di ciò."

Butto giù l'intero bicchiere in una sorsata. Stefan fa lo stesso, e nessuno dei due ha bisogno di aggiungere altro.


Mi costrinsi a non fermarmi troppo a pensare a quello che Donovan aveva detto. Quindi lui ed Elena avevano rotto. Bene. Non significava niente. C'erano un milione di ragioni per cui potevano essersi lasciati, per cui lei poteva averlo lasciato. Giusto? Un milione di ragioni che non implicavano … Non lo so, cosa pensavo che dovessero implicare.

Non avevo neanche intenzione di formularlo fino in fondo, quel pensiero. La breve, inutile, stupida illusione che si portava dietro non valeva l'immediato schiaffo della delusione che poi ne sarebbe seguito, perciò tanto voleva non pensarci proprio.

Ma ci avevo pensato. Solo per un secondo. Forse, solo forse … Nah. Elena non avrebbe lasciato ragazzo d'oro Donovan per … cosa, me? Quello era un concetto che aveva messo fin troppo in chiaro.

E poi, se anche davvero ci fosse stata quella infinitesimale remotissima possibilità, sarebbe venuta lei stessa a dirmelo che con Mr Brady avevano chiuso, e non lo aveva fatto.

Perciò quello chiudeva la questione. Non era cambiato niente.

Non cercarmi più. Ho chiuso con te.

Ok, forse … Forse c'era un piccola probabilità che non mi avrebbe cercato in ogni caso.

Il modo in cui le si era frantumato lo sguardo quando le avevo detto quelle cose, sputate fuori più per un ultimo disperato tentativo di auto-conservazione che per volontà di farlo davvero, mi tormentava ancora ogni singola volta che il pensiero di Elena mi attraversava la testa. Il che accadeva, più o meno, praticamente ogni cavolo di minuto. E più mi sforzavo di spingerla fuori dalla mia testa una volta per tutte, più l'unica conseguenza che ottenevo era invece quella di spingerla fin dentro ogni fibra del mio essere - nello stomaco, nei muscoli, nelle ossa, tutti doloranti ognuno a modo suo davanti all'idea di non volerla più, di volerla ancora, di averla persa, di non aver chiuso davvero.

Il mio essere era un posto fottutamente incasinato.

E lo era stato tanto di più quando, dilaniato da tutte quelle seghe mentali, mi ero ritrovato a mettere piede dentro al Grill, quello stesso pomeriggio. Avevo però trovato solo Jenna.

"C'è … Elena in giro?" avevo domandato con fare casuale.

"Oh, mi dispiace, è appena uscita, l'hai mancata di poco," mi aveva risposto dispiaciuta. "Vuoi che le riferisca qualcosa?"

"No." Avevo dovuto schiarirmi la voce, tamburellare sul bancone. "No, non era importante."

"Damon," mi aveva richiamato quando ero stato sul punto di voltarmi. "Si può sapere che succede, tra te ed Elena? Tu smetti di farti vedere, lei smette di menzionarti … E' tutto a posto?"

Lo aveva chiesto tranquillamente, iniziando ad asciugare e a mettere a posto alcuni bicchieri, ma c'era stato un non so che di protettivo nella sua domanda che non mi era sfuggito.

"Non è niente. Davvero, lascia stare."

"Sorride molto meno quando non ti ha vicino, lo sai vero?"

Ero stato costretto ad inghiottire con sforzo, quando su quelle parole aveva alzato gli occhi dal bicchiere verso di me, lo sguardo frantumato di Elena che invadeva ogni fibra del mio essere ancora una volta.

"Non dirle che sono passato, ok?"

Non sapevo se alla fine lo avesse fatto oppure no. Speravo di no. Speravo di sì.

Ma il mio cervello era in sostanza ancora più impantanato di prima, quando alla sera mi presentai alla residenza del governatore per la cena politica a cui mi aveva costretto mio padre.

Lui e Stefan erano già lì, insieme ad almeno un'altra trentina di persone - politici di medio livello con famiglie al seguito, un paio di giornalisti in veste informali, qualche altro uomo di affari. Dovetti sorbirmi tutto il tour della residenza infarcito di lagnosi fatti storici e aneddoti su inquilini e ospiti illustri, varie risate su battute che non facevano ridere, porzioni di cibo crudo formato mignon servite da camerieri in divisa bianca nel giardino sul retro che avevano l'unico effetto di lasciare lo stomaco ancora più insoddisfatto.

Nessuno che di nome non facesse Salvatore notò i tanti mini momenti di tensione che rischiarono più di una volta di sfociare nell'incidente diplomatico - come quando mio padre mi aveva fermato e preso da parte poco prima di sederci a tavola, "Sul serio?" mi aveva chiesto asciutto tenendo in mano la canna già fatta che Enzo mi aveva passato prima di venire qui e che aveva appena tirato fuori dal taschino interno della mia giacca nera, facendola sparire il secondo dopo prima che nessuno si fosse accorto di alcunché.

E a dispetto del fatto che avessi valanghe di commenti sarcastici pronti a mordermi la lingua ogni cinque minuti, feci ugualmente la mia parte, e la feci pure dannatamente bene, ogni volta che mio padre mi presentava a qualcuno e insieme davamo il via al tragicomico duetto di deviare con grazia qualsiasi conversazione si avvicinasse troppo a domande spinose, come quale college frequentassi e quanto avessi intenzione di seguire le orme del mio vecchio.

La cena finì, drink vennero serviti, altre chiacchiere riempirono l'aria, ed era chiaro che tutti stavano aspettando il momento in cui il governatore uscente avrebbe annunciato la candidatura di mio padre ed il suo appoggio, offrendo in sostanza ottime probabilità che quella adorabile residenza sarebbe tra qualche mese diventata casa nostra. Beh, di certo non mia, ma comunque sia. Evviva.

"Finirò per ammazzarmi se questa cosa non finisce al più presto," bofonchiai a Stefan, infilando la mani giù nelle tasche del completo elegante che avevo pure fatto lo sforzo di andare a ripescare.

Stefan aveva a malapena sollevato lo sguardo dal telefono. "Non è così male …"

"Lo dici solo perché stai scrivendo i messaggi sconci alla tua ragazza ogni due minuti."

"Io non sto … Ehi!"

Gli presi il telefono di mano, lessi le sdolcinatezze che c'erano scritte e glielo restituii con una smorfia.

"No, non stai scrivendo i messaggi sconci. Dovevo immaginarlo che saresti stato così noioso. Ci fai sesso almeno?"

Stefan non rispose, ma sorrise a tutta faccia.

Grandioso. Quindi pure quella palla allucinante di mio fratello era messo meglio di me - e dio quanto mi mancavano i tempi in cui potevo scoparmi chi volevo senza sbattermene di niente. Adesso, se lo facevo, c'era comunque Elena ad invadere ogni fibra del mio essere; se non lo facevo, c'era sempre Elena ad invadere ogni fibra del mio essere. Praticamente, era una fregatura da qualsiasi angolazione guardassi la cosa.

Avevo voglia di quella canna che mio padre mi aveva confiscato prima più che mai. Maledetto lui.

"Ho bisogno di un po' di alcol per sopravvivere."

Stefan mi gettò un'occhiata corrugata. "Non te lo serviranno. Non hai 21 anni."

Risposi con un sorrisetto. "Sicuro?"

Documenti falsi e un mezzo sorriso inclinato nel modo giusto possono fare miracoli con le ragazze del catering. E mentre tutti, mio padre incluso, erano estremamente impegnati a mettere in piedi il prossimo affare, a fare colpo gli uni sugli altri, e ad esporre la progenie prodigio, il me ventiduenne si teneva per le sue dedicandosi ad un'improvvisata degustazione di whiskeys alle gentili spese del governatore della Virginia, salute a lui.

La candidatura di mio padre fu annunciata. Applausi seguirono. La mia testa ronzava, piacevolmente, lì su quel limite del sorso di troppo tra l'essere alticcio ad essere un po' meno in controllo di pensieri e azioni.

Ero di ritorno da una discretamente lunga pisciata, e forse avevo imboccato il corridoio sbagliato, quando passai accanto al salottino laterale dove stavano belli seduti sulle loro poltrone, bicchieri alla mano e nella sicurezza di non essere interrotti da nessuno.

"E' una cosa sicura?"

"Lo è. Ci stiamo lavorando da almeno un anno e mezzo. Ristrutturazione e rinnovo completo del centro cittadino, più un paio di complessi residenziali di alta fascia nelle periferie dove il paesaggio è migliore, e tempo un anno Mystic Falls potrà passare da sosta semi-sconosciuta per campeggiatori di passaggio ad una delle migliori piccole gemme turistiche di tutto lo stato. Ho stimato migliaia di nuovi posti di lavoro, entrate per la città nel giro di qualche milione."

"E altrettanti voti."

Mio padre sorrise al suo interlocutore. "Anche quello."

"Pensavo che Gilbert ti stesse dando ancora problemi."

"Non ne hai idea. Si rifiuta di vendere, e quel posto è un tale spreco lasciato in quelle condizioni. Ma è coperto di debiti, che abbiamo recentemente acquistato. Non durerà altri due mesi. Me ne accerterò io."

"Mi stai prendendo per culo," dissi.

Entrambi si zittirono, si voltarono nella mia direzione. I drink sempre in mano e le facce sorprese, mentre in me sdegno, collera e alcol si mischiavano in un mix a dir poco pericoloso.

Mio padre abbassò il bicchiere, lentamente, si alzò. Il suo sguardo si fece più duro quando mi fu vicino. "Ti sei messo a bere? Lo posso sentire da qui."

"Che diavolo è questa storia, papà?" risposi marcando di proposito quell'ultima parola con tutto il sarcasmo di cui ero capace.

"Niente che ti riguardi," disse piano.

Si voltò in direzione del tizio con cui stava parlando, che molto elegantemente fece lo sforzo di concentrarsi sul sorseggiare il suo whiskey e far finta di non ascoltare, e poi di nuovo verso di me. Che col cavolo che avevo intenzione di lasciar perdere.

"Vuoi far chiudere il Grill," ribattei, con l'incazzatura a farmi tremare la voce. "Come cazzo ti viene in mente di fare una cosa del genere?"

"Smettila, Damon. Mi stai mettendo in imbarazzo. Ne parliamo quando siamo a casa. Adesso," abbassò la voce ancora di più, "cerca almeno di non sembrare troppo ubriaco."

Fu il tono, quel cazzo di tono condiscendente e finto conciliante che aveva sempre avuto la rispettosa decenza di non usarmi - potevamo scannarci, ma non mi aveva mai trattato come un idiota. E se voleva un idiota, era esattamente ciò che avrebbe ottenuto.

"Quale casa? Tu mi ci stai buttando, fuori di casa. Esatto, hai capito bene," dissi rivolto al tizio nella poltrona, chiunque cazzo egli fosse, il presidente degli Stati Uniti d'America per quel che me ne poteva fregare. "Perché non lo dice che suo figlio è un buono a nulla che fuma erba, beve illegalmente, e se ne sbatte il cazzo di fare ciò che vorrebbe lui."

Rabbia e ferimento gli lampeggiarono negli occhi, si depositarono amari nella mia bocca.

Incespicai all'indietro. "Sul serio, papà. Vai a farti fottere."


Tornai alla mia macchina, ancora tremante di bile. Che testa di cazzo. Non avevo mai provato tanto odio e disgusto per lui quanto in quel momento.

Le chiavi scivolarono sopra la serratura dello sportello, non presero il buco, caddero in mezzo all'erba.

"Cazzo," imprecai mentre mi piegavo per riprenderle, strizzando gli occhi per vedere dove fossero finite, compito piuttosto arduo tra la luce artificiale piena di ombre che illuminava lo spiazzo dove avevo parcheggiato e la mia testa che intanto vorticava lo swing.

Un altra mano me le sottrasse da sotto le dita prima che riuscissi ad arrivarci.

"Che diavolo stai facendo?" mi domandò Stefan alzandosi in piedi.

Mi alzai anche io, facendo leva sul cofano della Camaro.

"A te che sembra? Me ne sto andando. Non ci resto un attimo di più in questo maledetto posto. Dammi le chiavi," gli intimai.

Scosse la testa. Cazzo di Stefan. "Non ti lascio guidare. Aspetta almeno fino a che non ce ne andiamo anche io e papà, puoi tornare con-"

"Non ho," dissi deciso, sputando fuori le parole con violenza, "Nessuna cazzo di intenzione di andare da nessuna parte insieme a lui. Dammi le chiavi, Stef, o lo giuro che le cose finiranno davvero, davvero male."

Mi studiò per un lungo momento, e dovette aver deciso - dalla collera che mi agitava lo sguardo e le mani, dal veleno nel mio tono - che non stavo scherzando. Diede un ultimo sguardo alla villa alle nostre spalle.

"Va bene," sospirò. "Sali. Ma guido io."

"Non hai ancora la patente."

"E quindi?" ribatté offeso. Vai a dire ad uno a malapena sedicenne che non è grande abbastanza da stare tra gli adulti e farà qualsiasi cosa per dimostrarti il contrario, specialmente un perfettino come lui che deve sempre dimostrare di essere capace in tutto quello che fa. "E' solo perché devo aspettare altri due mesi. So guidare."

"Ok," concessi, incamminandomi verso il sedile del passeggero. "Guidi tu."


"Cos'è successo?" mi domandò Stefan, quando stavamo già sfrecciando giù per l'ultimo tratto di interstatale cha collega Richmond verso l'interno e porta a Mystic Falls.

"Abbiamo litigato," bofonchiai stravaccandomi con il culo più in basso sul sedile, appoggiando i piedi contro il lato del cruscotto. La mezza sbornia mi stava uccidendo. "Beh, tipo. Si vergognava troppo per mettersi a fare una scenata."

"Perché avete litigato?"

Guardai fuori dal finestrino, buio e luci che filavano via e mi facevano girare la testa e lo stomaco. Un grumo amaro mi crebbe in mezzo alla gola. "Abbiamo davvero bisogno di un motivo?"

Stefan si voltò a guardarmi intento. Sentii le note di All along the watchtower passare alla radio, mi sporsi per alzare il volume fino a che non riempì tutto l'abitacolo.

"E pensi davvero che mettere 300 miglia di distanza possa migliorare le cose?" proseguì alzando la voce per sovrastare la musica.

"Non le può peggiorare, no?" Scrollai le spalle. "E poi sarebbero state centinaia di miglia anche se lo avessi assecondato, e fatto quel che dovevo fare andando ad un dannato college della Ivy League. Anzi, me ne sarei già andato da un pezzo. Non è poi tanto diverso."

"Ma ho l'impressione che lo sia. Che stai bruciando i ponti, e mettendo sempre più distanze."

Stefan rimase in silenzio un lungo istante. Mi girai verso di lui, e cazzo sembrava così giovane a vederlo lì nella penombra con la fronte corrugata, e così il mio fratellino, con quella voce seria, che mi si bucò un po' il petto quando proseguì, "Ho come la sensazione che non ti vedrò praticamente più."

"Ehi," mi raddrizzai sul sedile, gli misi una mano sull'avambraccio. "Certo che mi vedrai. Tornerò di tanto in tanto. Così per il Ringraziamento potrai guardarci discutere da una parte all'altra del tacchino e dire ad entrambi di darsi una calmata prima che inizino a volare le forchette."

Stefan annuì, ma senza convinzione.

"In più," aggiunsi, "Sei fin troppo preso da questa nuova ragazza. Devo tornare per controllarti ed assicurarmi che ne avrai anche altre e che non ci resterai incastrato troppo a lungo."

Si girò a guardarmi, mi scrutò come per cercare conferma, e infine accennò un sorriso. Accennai un sorriso di rimando anche io.

Fu appena prima che tutto andasse completamente fuori controllo.


***


Salgo l'ultimo gradino del portico, ma aspetto qualche secondo prima di muovere la mano verso il campanello. L'ultima volta che sono stato qui, ero fradicio di pioggia battente ed è stata una delle migliori notti della mia vita. Adesso, è una brillante mattina di sole e solo ripensarci è come mettersi a schiacciare un livido fresco soltanto per vedere quanto male possa fare, anche se il verdetto è sempre lo stesso: dannatamente tanto.

Il fatto che io sia anche di pessimo umore non aiuta.

Di questo, devo ringraziare Katherine.

Me la sono ritrovata tra i piedi poco prima di venire qui, nel mentre che, rasoio alla mano, in un residuo moto di orgoglio mi liberavo della barba incolta segno visibile di quanto malmesso Elena mi avesse lasciato. Katherine era apparsa nello specchio alle mie spalle, tra i vapori nebbiosi lasciati dalla doccia, le braccia incrociate sul petto a spingerle il seno particolarmente all'insù ed un arricciamento aspro nella curva delle labbra.

"Guarda guarda chi ha deciso di farsi rivedere."

"Un po' di privacy? Di confini?" avevo tentato di cacciarla via indicando me stesso avvolto solo in un asciugamano attorno alla vita, ma ottenendo in cambio soltanto un infastidita alzata di occhi al cielo.

"Ti ho visto nudo anche una volta di troppo per i miei gusti. Stai diventando timido?"

"No, sto diventando Meno vedo la tua faccia e meglio sto."

Avevo ripreso a radermi e ad ignorarla. Lei aveva preso a girarmi intorno, un felino che studia la sua preda, ma che per una volta non è tanto bravo a nascondere tutta la sua impazienza. Deve aver iniziato a rendersi conto che le sue possibilità di mettere mano sulla quasi totalità del mio patrimonio di recente acquisizione sono prossime allo zero. Dio benedica le leggi della California.

"Non mi hai richiamato. Dobbiamo parlare."

"Quella cosa del meno ti vedo?" avevo replicato secco, posando il rasoio e finendo di sciacquarmi la faccia. "Vale anche per meno sento la tua voce. Infatti, c'è un avvocato pagato profumatamente per farlo al posto mio. Qualsiasi cosa tu abbia da dire, dilla a lui. Non sono davvero in vena di stare a sentire anche le tue cazzate."

Il "Fottiti, Damon!" che mi aveva gridato dietro mentre gettavo via l'asciugamano e uscivo da lì mi aveva a malapena sfiorato, ma anche solo quel breve incontro era stato abbastanza da farmi iniziare la giornata nel peggiore dei modi. E presentarsi volontariamente da Elena dubito che sia il modo giusto per farla migliorare.

Ripenso a Stefan e alle condizioni in cui l'ho trovato. Allungo la mano e mi decido a suonare.

Dopo alcuni secondi, sento i passi che si avvicinano dall'altro lato, smorzati dalla barriera della porta, piccoli e veloci.

Di colpo, si fermano. Tutto si fa improvvisamente molto immobile, ed è così che lo so. Che sia stato perché mi ha visto attraverso lo spioncino o attraverso quella fessura tra le tendine della finestra che non si chiudono mai del tutto, non ha importanza. Lo sa che sono io.

Ho avuto un sacco di tempo per immaginare questa conversazione e questo momento, cosa le avrei detto quando l'avrei rivista di nuovo. Infinite variazioni sullo stesso tema, spaziando da educati e freddi "è bello rivederti" altri dieci anni nel futuro, quando ormai me la sarei tolta dalla testa o almeno avrei finto di averlo fatto, fino a imploranti e appassionate dichiarazioni nelle quali avrei fatto e giurato qualsiasi cosa pur di riavere una sola possibilità di far funzionare le cose tra noi, durante quelle notti in cui il bourbon colpiva più forte.

Adesso, non è nessuna di queste cose. E' un gusto agrodolce che oscilla tra il bisogno pulsante che ho di vederla ed esserle fisicamente vicino e l'altrettanto pulsante amarezza che mi chiude la gola quando tutto ciò che ci siamo gettati addosso - la rabbia, i rimpianti, le accuse - torna a mordermi di nuovo.

Poso una mano contro il portone. "Lo so che sei lì, Elena."

Lentamente, vi appoggio sopra anche la fronte, assaporando ogni istante del miscuglio di amaro e di voglia di lei che mi dà il solo pensiero di Elena al di là di questa porta.

"Non me ne vado finché non apri."

Estremamente lunghi secondi passano, prima che io senta scattare il click della serratura.

Altri estremamente lunghi secondi passano, prima che il portone si apra.

E' la morbida, appena percettibile, traccia del suo profumo che si mischia con un soffio caldo di aria estiva, la prima cosa che riporta tutto a galla con ancora più forza - è un odore in cui mi sono immerso troppe volte, troppo di recente. La seconda è il battito di esitazione che passa prima che quell'incisivo sguardo scuro si alzi e incontri il mio. Elena sa raccontare intere storie, con un solo battito di ciglia.

Eccetto che in questo momento è una che è troppo simile a tutte le contraddizioni che stanno divorando dentro anche me, e finisce che nuovi estremamente lunghi secondi passano - a guardarci da un lato all'altro della soglia, a nutrirci in quelle contraddizioni e affogarci in mancanza di meglio - prima che uno di noi dica qualcosa.

Elena prende più fiato di quanto le serva, la punta della coda in cui ha legato i capelli dondola appena sfiorandole le spalle nude. "Cosa ci fai qui?"

Lo dico più secco e perentorio di quanto ce ne sia bisogno. E' più facile così. "Voglio vedere Caroline."

Mi scruta incerta, o forse solo presa momentaneamente alla sprovvista dalla mia risposta brusca. Avanza di un passo, socchiude con attenzione la porta alle sue spalle.

"Questo non è un buon momento," scuote la testa. "Sta avendo delle giornate difficili. Lasciala in pace, Damon."

"Ti pare che me ne importi?" replico con una smorfia. "Fammici parlare."

Faccio un passo in avanti, deciso ad entrare, ma Elena si sposta prontamente di lato bloccandomi il passaggio. Incrocia le braccia sul petto, entra in modalità da atteggiamento fiero e protettivo.

"No."

"Mio fratello," un altro mio passo, lei non si muove, "E' a pezzi per causa sua. Le voglio parlare. Adesso."

"Parlerà," ribatte, sostenendo il mio tono di sfida, "Quando si sentirà di farlo. Adesso, va' via."

Serro le labbra. La sua espressione decisa mi intima di non tentarci neanche a contraddirla. Ma nessuno dei due è chiaramente intenzionato a fare un passo indietro, e, quando restiamo di nuovo a fronteggiarci tra silenzi e sguardi sostenuti per un minuto troppo a lungo, ho l'impressione di non sapere neanche più per cos'è che stiamo davvero prendendo posizione.

Alzo le mani in segno di resa, faccio per ritirarmi. Nel momento in cui Elena abbassa appena la guardia, la sorpasso e spingo con decisione la porta alle sue spalle, entrando senza invito in casa sua mentre lei mi urla dietro un infuriato, impotente, "Damon!"

Ma mi blocco sulla soglia della sala, quando vedo lo sconforto con cui Caroline è raggomitolata sul divano. Solleva appena la testa per osservarmi con i gonfi occhi azzurri, e poi torna ad appoggiarsi sul cuscino e a guardare di fronte a lei.

"Non voglio parlare, Damon. Vattene. Per favore," aggiunge in un piccolo sussurro che manda un po' a puttane tutto il mio piano di urlarle contro fino a farla sentire un rottame, perché quel piccolo sussurro mi dice che lo è già.

Non che mi aspettassi davvero di trovarla a sorseggiare margaritas ridendosela alle spalle di mio fratello. Ma fa uno strano effetto vederla così, come se qualcuno le avesse staccato quelle stramaledette pile sempre fastidiosamente cariche, e per quanto io stesso me lo sia augurato in più di un'occasione, adesso … oh, fanculo.

Non le urlo contro. Invece, vado a sedermi sul bordo del divano, nel piccolo spazio tra le sue gambe rannicchiate. Allungo le dita per scostarle un ciocca bionda dalla fronte, lei continua ad ignorarmi.

"Ha sbagliato qualcosa, per caso?"

Caroline chiude gli occhi e un paio di lacrime rotolano via dalle palpebre chiuse, vanno a lasciare una sfumatura più scura sul cuscino colorato sotto la sua guancia. Elena si appoggia in silenzio contro lo stipite della porta. Mi costringo a non guardare verso di lei.

"Perché se è così, se ha fatto qualche cazzata, lo posso sempre prendere a calci in culo. Anche se è mio fratello. Anzi, soprattutto perché è mio fratello. La cosa mi dà dei privilegi speciali quando si tratta di fargli il culo, nel caso non lo sapessi."

Caroline ride, un ibrido incerto a metà tra una risata e un singhiozzo, e altre lacrime vanno a raggiungere le altre e ad allargare la macchia bagnata sul tessuto. Tira su col naso, si asciuga sotto gli occhi con il dorso della mano e scuote la testa.

"E' solo che …" Si tira su a sedere, finisce di togliersi gli ultimi residui bagnati da sotto le palpebre.

"E' solo che non penso che potrebbe funzionare."

"Sei ammattita?" le dico. "Cristo, se non ce la fate voi due allora non c'è speranza per nessuno di noi."

"Non capisci."

"E allora fammi capire."

"Lui …" Esita, prende a giocherellare con un filo di tessuto solitario che sporge dalla cucitura di un cuscino. Mi getta un'occhiata di lato. "Vuole una famiglia, lo sai? Voglio dire, non adesso, forse tra qualche anno, ma lo so che è così, si vede nel modo in cui a volte ne parla, o guarda i bambini immaginando come sarebbero con quei suoi stupidamente meravigliosi capelli anti-gravità." Sorride. "E lo amo per questo, è fatto per queste cose." Si interrompe un secondo, aggiunge più piano. "Io no."

"Andiamo, Care, se è solo perché stai avendo un po' di paranoie potete sempre-"

"No, non capisci!" ripete spazientita, accartocciando il cuscino in un moto frustrato. "Non posso. Letteralmente, non posso."

Continuo a guardarla senza capire. Lei sospira.

"Era la settimana della prevenzione ginecologica qualche settimana fa, ed io ero tra i volontari perché, beh, è quello che faccio, e così ho fatto anche qualche esame, e da lì sono venuti fuori altri esami e …" Caroline deve notare la mia espressione completamente disorientata fin dalla parola "ginecologica", perché alza gli occhi al cielo davanti alla mia reazione ritardata. "Non posso avere figli, ok? Insomma, quelle vie … sono chiuse."

Sbircia cauta la mia reazione, mentre, finalmente, anche io inizio a realizzare.

"Volevo dirglielo. Davvero. Ci ho provato. Ma non sapevo come l'avrebbe presa, e poi lui mi chiede di sposarlo, ed io … Non posso fargli questo. Non posso e basta."

C'è un lungo momento di silenzio, mentre Caroline torna a tormentare le cuciture del guanciale che ancora si tiene stretto e io brancolo nel vuoto più totale. Smarrito, incapace di pensare a cosa dovrei dire davanti a questa cosa o cosa dovrei fare, sollevo lo sguardo verso Elena.

Mi sta osservando, senza dire niente, e so che lo ha fatto tutto questo tempo. Le sto chiedendo di venire in mio soccorso, di dirmi cosa fare. E lei lo fa. Inclina appena la testa in piccolo cenno - ed è abbastanza.

Mi sporgo in avanti e prendo la mano di Caroline nella mia, stupendomi di quanto sembri davvero piccola e fredda.

"Ascoltami bene. Conosco mio fratello. Ti ama, e non sarà questo a cambiarlo."

Caroline annuisce. "Lo so. Lo so questo. Ma cambia tutto il resto. Perché ci ho pensato, anche se non lo avevo mai fatto prima, dio sa quanto ci ho pensato, e credo … credo che posso accettarlo. Ma può accettarlo anche lui? Cosa succede tra cinque o dieci anni, quando non sarà più abbastanza, e vorrà quel che ha sempre voluto, ed invece sarà incastrato con me, che succede allora?"

"Non lo saprai finché non gliene parli, Care."

"Esatto," replica lei, voltandosi a guardarmi con gli occhi allargati. "Finché non gli parlo non stiamo insieme, e finché non stiamo insieme, non ho la conferma che non staremo più insieme."

Corrugo appena la fronte. "Questo … è un ragionamento molto contorto."

"Ugh, lo so!" sospira lei, nascondendosi la faccia tra le mani. Ne riemerge spostandosi i capelli via dal volto. "E' solo che non sono pronta a perderlo."

"Lo so. Ma o sarai tu a parlarci, o lo farò io, nell'attimo in cui esco da quella porta. Penso comunque che preferirebbe fossi tu. Decidi tu, biondina."

Guarda Elena. Guarda me. Di nuovo Elena. Di nuovo me. Lascia uscire un altro sospiro tormentato.

"Puoi … aspettare qualche minuto? Mentre mi vesto. Vengo con te."

Annuisco, mentre Caroline si alza e si dirige al piano di sopra. Elena la guarda allontanarsi. Quando poi riporta lo sguardo su di me, sono in piedi e diretto verso la porta a tempo di record.

"Puoi dirle che sono fuori."

"Damon, aspetta."

Mi fermo. Ovvio che mi fermo. Maledizione, quanto odio me stesso a volte.

Siamo entrambi sulla soglia della sala, io mezzo fuori e lei mezza dentro, la solita dannata contraddizione a cui forse siamo da sempre condannati. Volto lentamente la testa verso di lei.

"Possiamo … parlare?" mi domanda incerta, piegando appena la testa di lato.

"Quindi adesso vuoi parlare?" replico, piegando la bocca in una smorfia. "E che mi dici di parlare quando hai impacchettato le tue cose e sei scappata nel mezzo della notte?"

Incassa il mio tono tagliente stringendo le labbra, ma non distoglie lo sguardo. "Mi dispiace."

"Già, questo l'ho capito," commento sarcastico.

"Ci sto provando, ok?" ribatte con più forza, avvicinandosi di un altro passo. "Credi che sia facile per me? Ma ci sto provando, ci sto provando davvero, a capire co-"

"Era solo sesso?"

Elena si blocca, gli occhi le si allargano di colpo. Il silenzio immediato che segue e il cambiamento che passa sul suo volto, quell'espressione accorata che poi si smonta in un istante come se l'avessi pugnalata allo stomaco, mi fanno quasi rimpiangere di averlo detto.

"Come puoi chiedermi una cosa del genere?" risponde piano, ferita. "Lo sai che non è così." Una piccola pausa, prima di aggiungere, ancora più a bassa voce. "Non lo è mai stato."

Voglio crederle. Anzi, di più, una parte di me non l'ha mai davvero pensato neanche per mezzo nanosecondo. Ma non è quella parte che è qui adesso, qui e adesso ci sono le contraddizioni, c'è la voglia e c'è la rabbia, c'è il volere scottante di non averla mai ritrovata e un aggrapparsi folle per non perderla ancora.

Mi avvicino fino a che non sento il suo respiro sulle mie labbra, e percepisco il modo sottile ma evidente in cui cambia ritmo e profondità quando il mio viso è a così poca distanza dal suo. Elena abbassa lo sguardo sulle mie dita, che le stanno sollevando l'orlo della maglietta sulla linea dei fianchi. Appoggia piano la schiena contro lo stipite alle sue spalle.

"Davvero lo so?" chiedo mentre il bottone che chiude gli shorts compare alla mia vista, sfiorandole la pelle nuda che sta appena sopra, e quella ancora più calda che invece sta appena sotto. La pelle d'oca che spunta sotto ai miei polpastrelli quando accarezzo il bordo delle mutandine si tende di colpo per il brusco respiro che ha appena inalato.

"Smettila," esala in un sussurro che dice tutt'altro. "Per favore."

Non lo faccio, anche se giocare con il fuoco sta facendo male soprattutto a me, come dimostra il tono roco e smorzato con cui esce fuori al mia voce. "Perché?"

Elena chiude gli occhi, respira sulla mia bocca, il suo corpo si inarca leggermente verso la carezza della mia mano, ed io sto bruciando dalla voglia dal tirare via quel maledetto bottone, cadere in ginocchio e perdermi con la bocca su di lei fino a ricordarle quanto forte sono capace di farla gridare.

"Sei così anche con lui?" domando risalendo con il dorso delle dita su verso la linea delle costole, quel nodo amaro e bisognoso nella mia gola più pressante che mai. "Lo sa … quello che hai fatto con me? Gli hai davvero …" Avvicino le labbra al suo orecchio, "… raccontato tutto quanto?"

So che sono andato troppo oltre quando allontano appena il volto ed incontro la colpa e l'imbarazzo che brillano nel suo sguardo, così intensi e profondi da farmi provare un istantaneo moto di odio nei confronti di me stesso e di qualunque sia la dannata ragione per cui quando ci facciamo del male, dobbiamo sempre farcene in queste proporzioni.

I passi che scendono dalle scale ci fanno allontanare e porre distanze nuovamente tollerabili, ma nessuno dei due riesce a rompere quel lungo sguardo da animali feriti. I passi rallentano, si fermano del tutto.

"Io …" Caroline è rimasta incerta sull'ultimo gradino. Si schiarisce la voce, fa finta di togliersi qualche pelucco dal vestito. "Sapete cosa? E' una così bella giornata, penso che andrò fuori per … mmh, vedere il sole e … oh, per l'amor del cielo, ora mi tolgo di torno, ok?"

Ci passa davanti in gran fretta, diretta verso la porta, ma non mancando di lanciare ad Elena uno sguardo interrogativo che ha ben poco di sottile.

Non appena il portone si è richiuso, Elena mi passa davanti, senza guardarmi in faccia. Dal basso tavolino al centro della sala prende qualcosa tirandolo fuori da una pila di riviste, torna verso di me e me lo sbatte con furia contro il petto. E' un'anonima cartelletta con alcuni fogli al suo interno, la afferro prima che cada.

"No, Damon, non gliel'ho detto," prosegue secca. "Vuoi sapere perché? Perché tuo fratello mi ha chiesto di non farlo per non metterti Elijah contro, suggerendomi di aspettare ad annullare il matrimonio fino a che voi due non avete finito con le vostre piccole macchinazioni, così da non metterle a rischio. E quando mi sono rifiutata di tenere in piedi una menzogna del genere, mi ha ricattato emotivamente. Con questo. Perché secondo lui mi avrebbe fatto cambiare idea."

Corrugo la fronte, sposto lo sguardo da lei a ciò che mi ha appena sbattuto addosso, lo apro lentamente. E mi congelo. Sono così impietrito da ciò che sto tenendo in mano che sul momento registro a malapena cosa sta dicendo, incluse frasi come "annullare il matrimonio".

Sollevo gli occhi su di lei, deglutisco. "Lo hai letto?"

"No!" sbotta. "Io non voglio essere parte di tutto questo. Non voglio mentire ad Elijah, mi odio già abbastanza così senza doverci aggiungere il fatto di prenderlo in giro. Ma sai qual è la parte peggiore?" chiede cercando il mio sguardo, e ci vedo tutto il tormento e tutta la battaglia interna che vi si agita dietro, forse troppo perso dietro alla mia per vederla davvero fino a questo momento. "E' che per te, lo farei. Se me lo chiedessi, se è davvero così importante … Andrei contro tutti i miei principi, per te. E senza aver bisogno di leggere ciò che c'è lì dentro."

Sono un idiota. Ed anche uno bello grande. Richiudo il fascicolo, lo arrotolo e me lo infilo nella tasca posteriore dei jeans.

"Mi dispiace. Stefan non aveva il diritto di chiederti una cosa del genere, e di sicuro non aveva il diritto di chiedertelo così o farti sentire ricattata."

"Dove stai andando?" mi segue lei, quando mi giro verso la porta.

"Caroline mi sta aspettando."

Elena posa una mano sulla mia, mi ferma dal girare la maniglia. Guardo le sue dita chiudersi sulle mie, alzo lo sguardo su di lei. Sono sempre lì, tutte le nostre contraddizioni, tutti i passi avanti e quelli indietro, insieme a tutto quello che siamo stati così attenti ad evitare, quella ferita rimasta sospesa che forse pesa ancora molto più di quanto vorrei.

"Stefan ha detto che è il motivo per cui non sei più tornato."

"A Stefan piace essere melodrammatico."

Elena stringe appena la presa sulla mia mano.

"Non l'ho letto," prosegue, "Perché voglio che a dirmelo sia tu, Damon."

Forse dovrei. Forse voglio farlo. Nel momento in cui penso che potrei, però, quel minuscolo spiraglio su tutto ciò che ho chiuso e schiaffato dove non sono costretto a doverlo affrontare torna a richiudersi violentemente come un portone sbattuto di colpo.

"E' solo una vecchia storia che non ha più nessuna importanza."

Increspa appena le sopracciglia, la sua dita scivolano ad accarezzare leggermente le mie. E non è Elena a chiedermelo. E' la ragazzina che ho ferito, almeno quanto lei ha ferito me, tutti quegli anni fa.

"Ce l'ha per me," dice piano.

Ma lei non è più quella ragazzina, e non lo sono più neanche io. O forse, invece, il problema è che lo sono ancora fin troppo.

Scuoto la testa, sciolgo la mano dalla sua e finisco di aprire la porta. "Ci vediamo, Elena."


***


Caroline mi fissa per tutto il tragitto di ritorno. E' inquietante.

"Un altro secondo a guardarmi così, Barbie, e finisce che mi scavi un buco dritto nel cervello."

"Io non stavo-"

Scalo una marcia, le lancio un'occhiata. "Ti stai letteralmente consumando nello sforzo a te sconosciuto di non dire quello che lo so che vuoi dire." Cazzo, so già che me ne pentirò. Sospiro. "Perciò, avanti, dillo e facciamola finita."

Caroline cambia posizione nel sedile, ruota dei novanta gradi che le servono per essere rivolta tutta verso di me.

"Non lo sposerà. Me lo ha detto lei."

Serro la mascella e continuo a tenere gli occhi fermi sulla strada, le mani decise sul volante, e non dico niente. Un secondo dopo, Caroline mi schiaffeggia sul braccio.

"Oh, andiamo! Non fare finta di non stare gongolando dentro!"

Ok, lo ammetto. Mi sfugge un mezzo sorriso. Solo per mezzo secondo. E lo so, lo so benissimo che non cambia niente di come stanno le cose tra me e Elena, che non è un matrimonio annullato a cambiare ciò che siamo e siamo sempre stati e non siamo stati mai, ma … mi sfugge un mezzo sorriso.

"Non sto gongolando," rispondo serio. Le getto un ironico sguardo di traverso. "Che persona orribile sarei?"

Caroline sorride, e torna a sedersi al suo posto con aria soddisfatta. Posa il mento sulle braccia incrociate sopra il finestrino tirato tutto giù, e per il resto del tragitto lei guarda fuori e io guardo la strada e non c'è altro oltre all'aria calda che dai vetri aperti soffia dentro l'auto.

Non parla più finché non parcheggio nel viale accanto all'ingresso della villa.

"Grazie."

Mi volto incerto verso di lei. Sta giocherellando con la maniglia dello sportello, gettando occhiate nervose verso il portone, e temporeggiando con l'idea di scendere e vedere cosa succederà quando quel portone lo avrà passato.

"E' fortunato ad averti," mi sento dire.

Caroline si volta stupita a guardarmi, ed io corro ai ripari.

"E se lo dici a qualcuno, sappi che lo negherò fino al giorno della mia morte. Diciamo che mi sono abituato ad averti intorno. Perciò sarebbe una seccatura immensa dover imparare daccapo a sopportare qualcun'altra al posto tuo."

Mi strozzo sul respiro successivo, perché mi ha soffocato buttandomi entrambe le braccia le collo, e adesso se ne sta lì appesa come un koala. Tento titubante di farla smollare.

"Sei una persona migliore di quello che vuoi far credere, Damon Salvatore."

Resto un po' interdetto, anche quando mi rilascia ed esce dalla macchina. Mi getta un abbozzo di sorriso, prima di aprire il portone e sparire al suo interno.

Con il petto un po' contratto da non so bene cosa, tiro fuori i fogli spiegazzati che escono dalla mia tasca posteriore, li poso sul volante. Stefan è fortunato ad avere altre questioni per le mani in questo momento, perché andare da Elena con questo è una di quelle cose che in situazioni normali gli avrebbe fatto guadagnare una di quelle sfuriate alla fine delle quali solo tiragli un pugno su quella mascella dritta mi avrebbe dato la giusta soddisfazione.

Dovrei essere incazzato nero con lui. E forse, qualche mese fa lo sarei stato eccome.

Ma non sono incazzato con Stefan, realizzo mentre siedo sul cofano della Camaro in uno spiazzo d'ombra ai lati di un sentiero nascosto del bosco sul retro fino al quale ho guidato con uno scopo preciso. Sono più incazzato con me stesso e con l'idea che anche dopo tutti gli sforzi che ho fatto per seppellire quella parte della mia vita e il buco che ha lasciato, sono ancora a qui a farmici condizionare.

Voglio quella parte chiusa e seppellita due metri sotto terra dove lo è anche fisicamente. Perciò non lo so perché mi sembra più presente che mai, mentre prendo i fogli dentro a quella dannata cartelletta, ci avvicino l'accendino, ed uno ad uno li guardo bruciare.


***


Dissero che cappottammo un paio di volte, prima di fermarci al limitare della strada, il tettuccio schiacciato della Camaro appoggiato contro uno degli alberi che iniziavano dove l'asfalto finiva. Dissero anche che persi conoscenza immediatamente per via della botta alla testa, e che è per questo che di quel che seguì, o almeno delle due ore successive, ho solo pezzetti e frammenti sconnessi. Un momento c'era Jimi Hendrix che cantava cupo e a tutto volume, e quello dopo c'era Stefan che aveva riportato lo sguardo sulla strada e sterzato bruscamente dal lato opposto per non finire nell'altra corsia, e tutto era andato sottosopra. Dopo ancora c'erano un sacco di luci lampeggianti rosse e blu, e un qualche idiota col giubbotto medico che mi puntava un piccolo fascio di luce dritto negli occhi chiedendomi cose stupide tipo se potevo guardare verso destra invece che rispondere a cose che importavano davvero come dove cazzo è mio fratello. C'era la barella nel mezzo del pronto soccorso dove mi misero dicendomi di calmarmi e di stare tranquillo, ma continuando a non dirmi un assoluto cazzo di niente. Venni tastato, tamponato, infilzato, e chiesto un sacco di domande senza che nessuno si degnasse di rispondere alle mie.

Ti fa male se premo qui? Dove è mio fratello.

Quanto hai bevuto? Come sta, sta bene.

Sai come possiamo contattare un genitore? Non ho bisogno di punti, ho bisogno di sapere di mio fratello!

Poi una di loro ebbe pietà di me, disse che avrebbe chiesto e sarebbe tornata, mentre io dovevo solo stare lì fermo con un ago gigante infilato nel braccio che mi pompava nelle vene qualche soluzione trasparente per farmi smaltire più in fretta l'alcol dal sangue. Aspettai per quelle che parvero delle ore, e quando tornò mi disse che lo stavano operando. "Che tipo di operazione" avevo domandato invaso dal panico, e a quel punto eravamo già tornati ad un serio "Abbiamo davvero bisogno di riuscire a contattare un genitore" e "Resta calmo, torno quando ne saprò di più, adesso però dobbiamo farti quella TAC, ok?"

Fanculo la TAC. Nel momento in cui venni lasciato di nuovo da solo, strappai l'ago via dal braccio senza neanche curarmi di mettere un cerotto sopra al buco, e presi a vagare per corsia dopo corsia, il ronzio in testa che di tanto in tanto si faceva più forte, la nausea quando giravo un angolo troppo in fretta e dovevo fermarmi finché non passava - tutto in una triste e irreale processione di camici bianchi, dell'aspetto consumato dei malati, di chiacchiere degli addetti all'accettazione, di persone che aspettavano e aspettavano e aspettavano. Ma non sapevo dove andare e non sapevo a chi chiedere, e dopo altri quindici "mi dispiace, non lo so" e altrettanti "vado a chiedere, aspetta qui", mi sentivo solo e impotente, e stanco e esasperato, e disperato fin nelle ossa.

Uscii dall'ingresso principale, senza neanche sapere come ci fossi arrivato, mi appoggiai contro il muro e mi accasciai sul pavimento.

Era una così piacevole, perfetta, tiepida notte di fine estate là fuori - non più così afoso da non lasciarti respirare, ma con l'aria lo stesso più calda di come fosse di solito quel periodo dell'anno, come se l'estate si rifiutasse testardamente di finire e cedere il passo a ciò che veniva dopo. Non ho idea di quanto rimasi lì, senza la forza di rialzarmi, ronzio e nausea che a tratti si facevano più forti e a tratti sparivano completamente, a tormentarmi in pensieri che non volevo avere ma che avevo, Stefan così giovane con la voce seria, non avrei dovuto farlo guidare, e se avessi, e se non avessi, come cazzo avevo potuto distrarmi e lasciare che accadesse.

Fu il suono della breve corsa sopra l'asfalto, che risuonò così chiaramente nella notte che intanto si era fatta più silenziosa, a farmi sollevare la testa.

Elena era di fronte a me. Con i capelli legati disordinatamente in una coda affrettata, le converse su un vestitino a piccoli pallini bianchi, gli occhi lucidi sotto alla luce bianca dei lampioni, il respiro accelerato. Era così fuori posto in quel mio scenario alienato e surreale, e la prima cosa veramente a fuoco da Jimi Hendrix che cantava All along the watchtower.

"Cosa ci fai qui?"

"Sono venuta con Care, lo ha sentito da sua madre alla radio della polizia, stava dando di matto …" Parlava affrettata, ansiosa. "Stai bene?"

La mia gola crebbe di tre taglie. "Stefan …"

"Lo so."

Si lasciò cadere inginocchiandosi lì nello spazio tra le mie gambe piegate, con le ginocchia nude a graffiarsi contro l'asfalto. Incrociai il suo sguardo, quello stesso sguardo che aveva tutto il potere di tenermi insieme e stravolgermi dentro ed entrambe le cose nello stesso momento. Le sue braccia mi circondarono e l'attimo dopo ero completamente premuto contro di lei, aggrappato stretto attorno alla sua vita quanto lei lo era al mio collo, la faccia seppellita nell'incavo del suo collo e nel vago odore fruttato dei suoi capelli. La strinsi così forte da farle male, la strinsi fino a che non mi sembrò di stare per romperla, così piccola e morbida come era. Ma non si ruppe. Quello fui io.

Qualcosa si tese, si incrinò, e si spaccò, e per la prima volta in non ricordavo quanto tempo, forse da quando ero bambino, mi sembrò di essere ad un secondo dalle lacrime. Forse in lacrime ci ero già.

"Andrà tutto bene," mi sussurrò piano nell'orecchio, e lo sapevo che non ne sapeva niente, e che non ero un ragazzino che aveva bisogno di sentirsi dire qualche stronzata per stare più tranquillo, ma dio se fu un momento meno schifoso degli altri quello in cui l'unica cosa che volevo era crederle, seppellito nel suo odore e avvolto nel suo calore.

"Damon."

Elena mi lasciò andare lentamente, delicatamente, ed entrambi ci voltammo in direzione della voce di mio padre, in piedi lì accanto, che mi aveva appena chiamato. Lei spostò il peso sedendosi sui talloni, io incespicai per alzarmi, rivolgendogli il più implorante degli sguardi, per favore per favore fammi sapere qualcosa.

"Sta bene," disse, e se quelle non furono le più belle parole mai uscite dalla sua bocca io non lo so cosa erano. "La sua milza si è rotta, hanno dovuto operare e rimuoverla. Ma è stato bravo, è andata bene, sta bene. Starà bene."

La sua voce era traballante mentre lo ripeteva, quai dovesse farlo per rassicurarsi davvero.

Elena si alzò in piedi. "Vado a dirlo Care. Così sarà più tranquilla."

Annuii nella sua direzione, abbastanza incapace di parlare per via della gola sempre troppo spessa (se stessi piangendo o no, ancora non lo avevo capito), e lei mi restituì un lungo sguardo e l'accenno di un sorriso di rassicurazione, prima di passare oltre le porte scorrevoli.

Mio padre si passò una mano sulla faccia. Adesso, stava davvero tremando. Non avevo mai visto mio padre tremare.

"Cosa diavolo stavi pensando?"

"Non lo so," strozzai fuori. "Non ho pensato …"

"Lo so che non hai pensato, perché non lo fai mai! Lo sai quanto è stato da irresponsabili, quando non eri chiaramente in grado di tenerlo d'occhio o-"

"Mi dispiace!"

Credeva che non ci avessi pensato da solo? Che l'unica volta dove avrei dovuto controllarlo un po', solo per assicurarmi che tenesse le mani sul volante e gli occhi sulla strada, una cosa così basilare, lo avevo quasi ammazzato? Pensava che non lo sapessi?

Non replicò. Cazzo se sembrava miserabile. Cazzo, quanto mi sentivo miserabile pure io.

"Sei tutto intero?"

Annuii.

"Cristo santo," lasciò uscire in un respiro incerto. Chiuse la mano attorno alla mia testa, scostò via dalla fronte i capelli che coprivano il taglio superficiale ancora aperto, mi tirò a sé e mi tenne lì. Fu goffo e stranamente rassicurante, nonché la cosa più vicina ad un abbraccio che avessimo avuto da davvero parecchio, parecchio tempo. "Vai a farti controllare la testa, per favore. Ci sono almeno tre infermieri e due dottori che ti cercano per farti quella dannata TAC. Poi ti porto a casa."


***


Mi etichettarono come commozione cerebrale di secondo grado, il che voleva che il mio cervello non era né danneggiato né in procinto di esplodere, e che gli effetti peggiori erano già passati, ma anche che sarei dovuto rimanere lì per la notte per restare in osservazione e avere la mia dose di quel "riposo assoluto" scribacchiato con grafia incomprensibile nei risultati che mi diedero. Quindi la prima cosa che feci fu chiedere i fogli per le dimissioni, meticolosamente spuntando qualsiasi casellina ci fosse da spuntare per sollevare chiunque altro da ogni responsabilità.

Andai nella stanza di Stefan. Era ancora addormentato, messo ko dall'anestetico, e se ne stava lì a giacere nel bianco - bianche le lenzuola, bianca la sua faccia - con nostro padre seduto in una sedia accanto al letto.

"Che diavolo è successo qui?" domandai guardandomi attorno.

A parte il bianco che avvolgeva Stefan, il resto della stanza sembrava qualcosa uscito da un arcobaleno ubriaco, tra post-it color evidenziatore, gialli, verdi, blu, fucsia, arancio, e fiori, foto, e altri ammennicoli vari che rischiarono seriamente di farmi tornare su la commozione.

Giuseppe si stirò il collo. "Una ragazzina bionda è venuta a mettere su tutto. Ha detto qualcosa sul non volere che si svegliasse in una stanza triste. Credo, parlava davvero tanto per riuscire a starle dietro."

Andai a sedermi sull'altra sedia, dove c'era una coperta di quelle afghane con dieci fantasie diverse attaccate insieme che immaginai fosse anche lei parte della scena.

"Quella è la sua ragazza."

"Me l'ero immaginato."

Restammo in silenzio per quello che sembrò un tempo infinito, rotto solo dal quieto bip bip delle macchine a cui avevano attaccato mio fratello con tutti quei fili e tubicini. Seguii con lo sguardo il percorso di ognuno di essi, quelli che gli finivano nel braccio e quegli che gli finivano sul petto. Era più facile che guardare quella faccia pallida. Mi chiesi quanto ci avrebbe messo ad uscire di lì, se avrebbe potuto ancora giocare a football, se la sua vita sarebbe cambiata in qualche modo. Avevano detto di no, solo qualche accortezza, ma io avevo mille paranoie e sensi di colpa per ognuna di esse.

"Là fuori …" disse infine mio padre. "Era la figlia di Gilbert."

Sentii il petto contrarsi appena, e una scintilla di collera riemergere da dove le ultime ore e il pensiero di Stefan l'avevano momentaneamente eclissata. Continuai a seguire i giri dei fili e tubicini, ricominciando daccapo, e non dissi niente.

"Sembra una ragazza a posto."

"Non ti azzardare," dissi aspro.

Si sporse in avanti, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia, guardandomi dall'altro lato del corpo addormentato di Stefan.

"Lo so cosa stai pensando."

"No, non lo sai."

"E tu non sai come stanno le cose. Non è niente di personale, Damon."

"So che stai prendendo ad una famiglia l'unica cosa che hanno, mandandoli per la strada per quanto ne sai. Li stai rovinando."

Scosse lentamente la testa. "Quell'uomo si sta rovinando. Ho cercato di ragionarci, ho fatto offerte vantaggiose. Lui ha continuato a rovinare le cose, se stesso, gli affari, la sua famiglia con lui. Ti comporti come se io fossi il cattivo qui, quando sto solo cercando di fare qualcosa di buono e quel che è meglio per una città di cui mi importa, e di farlo come meglio posso. Stiamo parlando di migliaia di posti di lavoro, e benessere per l'intera area-"

"Se è quello che ti racconti per sentirti meglio," lo interruppi asciutto, sentendo la rabbia tornare a pulsarmi contro le tempie.

Si raddrizzò, tirandosi su. "Non ho bisogno di sentirmi meglio. Vuoi venire a dirmi che te ne fregherebbe davvero qualcosa, se non fosse per una ragazza? Sappiamo entrambi la risposta, quindi non venirmi a fare la morale."

Mi alzai di scatto, tirai a me la porta aprendola con un colpo brusco.

"Me ne vado."

Fece per alzarsi. "Ti accompagno."

"No," risposi secco senza neanche voltarmi a guardarlo. "Non voglio niente da te."


Attraversai il corridoio a passo così inamovibile e incazzato che sul momento quasi non me ne accorsi. Fu il vestitino nero a minuscoli pallini bianchi ad entrare sfuocato nella mia visuale laterale e farmi fermare.

Era addormentata. Le gambe rannicchiate sopra il sedile in plastica da ospedale, incrociate alle caviglie e con le converse mezze slegate, la testa appoggiata su una mano.

Tornai indietro, e mi inginocchiai di fronte a lei, tenendomi in equilibrio sui talloni. Allungai una mano per spostarle una ciocca scura dal viso che era sfuggita dalla sua coda allentata, su cui il suo respiro stava soffiando facendola muovere appena, e mi sentii un po' triste e un po' patetico e anche un po' un idiota, quando rimasi lì a guardarle il viso pensando che fosse davvero la cosa più bella dentro a questo posto. Le accarezzai piano la guancia con il retro delle dita.

Elena si svegliò con un sobbalzo, sospirando un "Oh, dio, sei tu." Si stropicciò gli occhi con le mani, premendo i palmi contro le palpebre per svegliarsi del tutto.

"Cosa ci fai ancora qui?" le chiesi.

"Ti stavo aspettando, per sapere come stavi. Stavi finendo di fare altri controlli."

"Ho paura che hai aspettato per notizie già risapute. Ho una testa pessima, ma a quanto pare anche molto dura."

Curvò appena le labbra all'insù. Quanto ero egoisticamente felice che avesse aspettato, solo per vedere quella piccola curva all'insù.

Si sfaldò un poco. "Non sei … arrabbiato che sono qui? Voglio dire, non sapevo se davvero mi volessi qui, visto che avevi detto …"

Il mio cuore si infilzò da solo, malamente, sopra alle parole che le avevo detto e che lei lasciò sospese, sullo sguardo frantumato di Elena che adesso si mischiava a quello esitante con cui mi stava scrutando in attesa. Lo spinsi via - ciò che avevo detto, ciò che non avevo detto - e cambiai discorso prima che fossi costretto a darne conto.

"Sono le quattro del mattino passate, Elena, ed è stata una notte già fin troppo lunga. Ti accompagno a casa."


***


Non seppi in che stato ero veramente ridotto finché non mi ritrovai davanti allo specchio, in un bagno piastrellato di rosa.

La ferita che scoprii sollevandomi i capelli sulla fronte, e che era stata infine incollata e incerottata, era solo l'inizio. Avevo graffi e altri taglietti superficiali sugli zigomi, la mascella e le mani, che spiccavano arrossati contro il pallore del resto della faccia e gli occhi vagamente cerchiati, non sapevo se da un'altra botta o solo dalla stanchezza. Mi sfuggì una smorfia quando mi tolsi la camicia, nonostante la cautela con cui la feci scivolare via dalle spalle, rivelando lividi pesti sotto alle costole e sul fianco destro, nonché la macchia bluastra nell'incavo del braccio dove doveva essersi rotta la vena quando avevo tirato via l'ago. Solo in quel momento li avvertii, tutti insieme, ognuno di quei colpi, sentendomi per davvero danneggiato fino all'osso.

Mi sciacquai la faccia, la bocca, il collo, qualsiasi cosa nel tentativo di togliermi di dosso l'odore di guasto e disinfettante che ancora mi portavo dietro, e mezzo sorridendo quando l'unico sapone che trovai fu un bagnoschiuma alla pesca e mandorle che sapeva di ragazza da un metro di distanza. Ma se non altro avrei avuto addosso l'odore di Elena, che come prospettiva era decisamente molto meglio.

Ancora non mi ero del tutto capacitato di cosa ci facessi nel suo bagno, ad usare il suo sapone ed un asciugamano con un fiore ed una E ricamati sul lato. Probabilmente era la commozione, che mi stava ancora giocando qualche ultimo scherzo facendomi perdere altri pezzi.

Eccetto che i pezzi ce li avevo più o meno tutti, da quando avevamo varcato in silenzio l'uscita dell'ospedale, a quando in silenzio avevamo camminato in silenzio per le strade deserte, ed in silenzio eravamo arrivati sull'ultimo gradino del suo portico avvolto nel buio, la luce di servizio già spenta chissà da quanto. Ma non era stato un silenzio strano o imbarazzato. Era invece stato uno sorprendentemente confortante, nel modo in cui lo sono i silenzi riempiti da tutt'altra vicinanza, da braccia appena sfiorate di tanto in tanto, da un ritmo naturale in cui era così facile ricadere. Le avevo davvero detto di non volerla più vedere? Perché quella notte, in quel silenzio, una cosa del genere sembrava essere successa in una qualche dimensione parallela.

Sul portico al buio le avevo dato la buonanotte, ed Elena mi aveva guardato come se mi fossero appena spuntate tre teste. Ero pazzo, aveva detto, se pensavo davvero di andarmene in giro da solo, di notte, a piedi, dopo un incidente e la peggiore nottata della mia vita, quando anzi avrei dovuto essere ancora in un letto d'ospedale se solo non fossi stato troppo stupidamente testardo. Dopo una breve discussione che tanto sapevo in partenza di non avere alcuna speranza di vincere, non con quell'Elena almeno, quella in versione piccola cosina cocciuta, mi ero ritrovato sulla soglia del suo bagno mentre lei mi schiaffava in mano l'asciugamano ricamato con i fiori e straparlava istruzioni come se la scienza dei rubinetti caldo-freddo fosse diventata materia da ingegneria nucleare. Si era interrotta e mi aveva guardato da sotto in su per un momento troppo a lungo, quando si era resa conto che mi stava sfiorando le dita con la mano che ancora teneva stretto il telo, e subito dopo era scappata via mormorando un impacciato "ti lascio da solo."

Rimisi su la camicia e ne chiusi qualche bottone, troppo stravolto però per riuscire ad abbottonarli tutti o anche solo metterli nell'ordine giusto. Fu un piccolo momento di beatitudine, quando toccai il letto. Anche perché, ammettiamolo, in una condizione in cui ero talmente sfinito che avrei probabilmente detto di sì anche ad un letto di chiodi, fiori e rosa a parte, la camera di Elena non era certo la peggiore prospettiva del mondo.

(Delicate - Damien Rice)

Non la sentii tornare. Mi accorsi di lei solo quando il materasso si incurvò appena sotto al suo peso, mentre si sdraiava accanto a me. Attesi qualche secondo, lei non disse niente.

Lo sapevo cosa stava facendo.

"Alcune persone lo trovano piuttosto inquietante essere guardate mentre dormono," borbottai.

Le infinite volte in cui lo aveva fatto - tutte quelle ore folli del mattino presto in cui temporeggiava e si metteva lì a guardarmi prima di sgattaiolare via dal mio letto, come se io non fossi stato tremendamente, perdutamente consapevole di ogni suo movimento e di ogni contorno del suo essere.

"Non stai dormendo, o non staresti parlando."

Piegai un angolo della bocca in un mezzo sorriso. Sentii le sue dita sfiorare le mie, sopra al cuscino.

"E' stato orribile, lo sai? Il momento in cui ho sentito dell'incidente e non sapevo cosa ti fosse successo. Avevo pregato di non dover mai più provare niente del genere." Il tremore nella sua voce mi fece riaprire le palpebre. C'era ancora accesa la fioca luce sul comodino alle mie spalle, e lì in quelle ombre lunghe e sfumate, i suoi occhi su di me mi parvero più grandi, più scuri e più intensi che mai. Dopo un attimo di esitazione, mi sfiorò con le dita la base del collo, lì dove il colletto della camicia si apriva tutto storto, fissando quel punto tutta assorta come se solo toccandolo potesse assicurarsi che fosse reale. "Sono stati solo pochi minuti, ma è stato orribile," sussurrò piano, forse a me, forse solo a se stessa.

"Sto bene," dissi, posando la mano sul suo avambraccio.

Realizzai in quel momento che avrei dovuto parlarle di un milione di cose - di mio padre e di cosa aveva intenzione di fare, di Donovan che avevo pestato e di cosa fosse successo davvero tra loro - ma dio che sensazione che era poterla toccare, ed invece di dirle tutto quello che avevo da dirle, rimasi lì muto ad accarezzare la peluria impalpabile del braccio che diventava elettrica sotto alle mia dita. Spostò la mano più su verso la mia nuca, la intrecciò con i capelli dietro al collo, stropicciandoli piano, ed io chiusi gli occhi centellinandomi ogni istante del balsamo che era quel suo gesto.

Sentii il suo respiro prima di sentire le sue labbra. Una pressione delicata ed esitante mezza sulla bocca e mezza no.

Aprii gli occhi. E lei era lì, infinitamente vicina, più di quanto lo fosse mai stata, con lo sguardo acceso e su di me, pieno di milioni di cose, ognuna in grado di farmi agitare il sangue ognuna in un modo diverso.

La tirai a me.

Sapeva di sere d'estate, dentifricio alla fragola e tutto ciò che c'è di buono a questo mondo.

Con la mano salii dal suo braccio al retro della testa, per non farla scappare, per premere su di lei, per assaggiarla lentamente in ogni nota e sfumatura familiare che sapevo ci avrei trovato e in quelle completamente nuove che non avrei mai immaginato di scoprire, e permetterle di fare lo stesso, con le sue dita sottili nell'incavo del mio collo e la lingua piccola a modellarsi sulla mia.

Esalò un respiro più roco e tremolante, e fu quel respiro che davvero cambiò tutto.

Prememmo più forte l'uno contro l'altra, il mio corpo tutto sopra al suo, e non c'era più niente di lento o esitante nelle mani impigliate nei capelli di entrambi, nelle dita che correvano dove la pelle era più calda, nel toglierci e restituirci e toglierci tutto il fiato che avevamo da togliere. Smisi di pensare, smisi di avere lividi, smisi di esistere, perché non c'era più niente oltre al modo in cui Elena teneva appena il mio labbro tra i denti per rilasciarlo l'attimo dopo e poi riprenderselo ancora, alle sue dita affondate nelle mie spalle attraverso la camicia, costosissima stupidissima camicia sollevata e storta sul mio addome, al suo corpo che si inarcava e premeva e cercava le mie mani. Stavo bruciando in un bisogno che non avevo mai conosciuto, e non me ne resi conto fino a che Elena non prese il mio volto tra le mani, per sollevarlo dalla scollatura su cui era sceso e riportarlo verso il suo, che con le ginocchia le avevo aperto le gambe e la mia erezione stava premendo in movimenti lenti ma decisi contro il cotone delle sue mutandine. La mia mano destra era sull'esterno della sua coscia, le aveva appena tirato completamente su la gonna del suo bel vestitino a pallini arrotolandola intorno ai fianchi.

Mi fermai, la guardai. Le guance arrossate, gli occhi grandi, il respiro corto.

Posai la fronte contro la sua - riprendendo fiato, riprendendo il contatto con la realtà, riprendendo il controllo.

"Mi ... mi odi?" mormorò in un sussurro spezzato contro il mio orecchio.

La strinsi più forte.

"Ti amo."

Scivolai ad appoggiare la testa nell'incavo del suo collo. La sentii smettere di respirare. La sentii circondarmi più stretto. Non la sentii dire niente.

Non mi importò. Restai con l'orecchio contro il suo petto, il battito pulsante al di sotto che correva quasi impazzito, morbido thump thump contro la mia testa pulsante, fino a perdere la cognizione del tempo e addormentarmi lì. Era appena iniziata l'alba.


***


"Non avresti dovuto farlo," ripeto per la seconda volta.

Sposto il telefono nell'altra mano, e continuo a camminare avanti e indietro per il corridoio gettando un'altra occhiata verso l'orologio alla parete. Un paio di metri più avanti, dietro alla porta a vetri di una meeting room che ho con deliberata nonchalance preso in prestito per un paio d'ore dagli uffici della Salvatore & Associates appositamente per l'occasione, Katherine sta parlando animatamente con una donna dai capelli scuri che presumo essere il suo avvocato. La sua faccia sembra tutt'altro che contenta. Bene.

"Avresti preferito che Elijah se la rifacesse su di te per essere andato a letto con la sua fidanzata, mandando all'aria tutti i nostri piani?" replica Stefan con quel suo irritante tono da "so io cosa è meglio".

Non ho idea di come siano andate le cose tra lui e la biondina. So solo che lo Stefan medaglia olimpica in impiccio con triplo salto carpiato di seccatura è tornato, ed è tornato per rompermi le palle.

"Elena non è parte di tutto questo e avresti dovuto lasciarla fuori."

"Sì che lo è," ribatte. "Ce l'hai fatta diventare tu andandoci a letto."

"Non avevi comunque il diritto di andare a ritirare fuori quella cosa! Cosa pensavi di fare, poi, usarla davvero come sporco trucchetto per convincerla?"

"O magari pensavo che dovrebbe saperlo. Magari pensavo di farti un favore. Magari ti farebbe bene, almeno così riusciremmo a parl-"

"Non c'è niente di cui parlare," lo interrompo brusco.

Stefan fa una lunga pausa prima di rispondere.

"Papà è morto, Damon," dice ammorbidendo i toni. "Devi far pace con la cosa."

"Sono perfettamente in pace con la cosa, grazie per l'interessamento," replico con una smorfia. Il ding dell'ascensore risuona nel corridoio, e questo signori e signore è il mio segnale per porre fine a questa conversazione. "Sai invece con cos'è che non sono in pace? Con la mia presto-ex moglie. E ho fatto volare un avvocato fin qui da Los Angeles apposta per questo scopo, perciò meglio non farlo aspettare. Devo andare."

Chiudo la chiamata senza neanche salutare, proprio mentre le porte scorrevoli si aprono su un'alta, sexy, bionda in uno stretto tailleur nero dall'aria eccessivamente costosa, che digita rapidamente sul suo cellulare mentre avanza nel corridoio accompagnata dal ticchettio di tacchi follemente alti e follemente sottili.

Alza lo sguardo, fa un veloce scan della mia persona. "Damon Salvatore?"

Corrugo la fronte. "Chi diavolo sei?"

Rotea lo sguardo, mette via il telefono.

"Sono il tuo dannato avvocato," dice mentre mi sorpassa a passi decisi diretta verso la meeting room. "O, come tu stesso hai sottolineato quando hai assunto il nostro studio, quel qualcuno che ti libererà della più grande stronza esistente."

Si ferma davanti alla porta chiusa, quando vede che non l'ho seguita. "Beh?"

Sollevo un sopracciglio, dubbioso. "Sei … Klaus? Credevo di aver parlato con un certo Klaus."

La bionda si produce in una faccia scocciata, sottolineata da un arricciamento delle labbra piene e imbronciate, che sembra voler dire uomini, e non in un'accezione particolarmente lusinghiera. Mi guarda come se fossi la cosa più mentalmente inetta ad andare in giro sulla faccia della Terra. Insieme a tutto il genere maschile là fuori, si intende.

"Ti sembro un uomo, per caso?"

"Decisamente no."

"Sono Rebekah, Klaus è mio fratello. Siamo tutti avvocati in famiglia. E allo studio abbiamo pensato che io fossi più … adatta, per il tuo caso. Credimi," aggiunge appena prima di aprire la porta, con un sorriso compiaciuto che mette vagamente paura. "Non è lei la più grande stronza esistente."


Non è un trattativa. E' una catfight in versione legale ma non per questo meno sanguinosa giocata secondo regole e logiche che non riesco ad afferrare del tutto, e non perché ad essermi sconosciuti siano i termini giuridici. Ad essermi sconosciuti sono i complimenti che per qualche motivo suonano come insulti, detti col sorriso appena prima di affondare le richieste dell'altra parte con freddo distacco e tempismo perfetto. Katherine interviene, il suo avvocato Nadia le dice di non preoccuparsi.

Beh, fossi in lei mi preoccuperei eccome. Rebekah è spietata, volge clausole a suo favore, rigira le questioni, riduce a pezzi tutte le sue richieste.

Il succo del discorso è facile. Senza accordi pre-esistenti, senza figli, senza proprietà condivise, senza fondate pretese su soldi che ho acquisito dopo il matrimonio, senza di fatto essere stati insieme per l'ultimo anno e mezzo, senza neanche unpesce rosso o un animaletto domestico, Katherine rimane con le briciole.

"Il mio cliente si offre di pagare le spese legali così da poter chiudere la questione ancora più in fretta," sorride Rebekah. "E questo perché siamo generosi. Oh, adoro quella borsa. E' dello scorso anno, vero?"

Katherine mi osserva. Io osservo lei. A differenza sua io non ho aperto bocca da quando abbiamo cominciato, lasciando alle signore il privilegio di tirare fuori gli artigli e le unghie, per una cazzo di volta sentendomi piuttosto al sicuro nel mio angoletto, con la mia arma legalmente bionda di nuova scoperta.

Le sorrido, pacifico. Katherine fa una smorfia. E' una bella sensazione vederla agitarsi.

"Sto per vomitare."

Allontana la sedia facendola stridere contro il pavimento, esce velocemente dalla stanza.

Faccio roteare gli occhi al cielo, mi alzo anche io.

Rebekah mi lancia un'occhiataccia e mi fa cenno di no con la testa. "Ci tengo a sconsigliare qualsiasi trattativa privata."

"Voglio solo prendermi la soddisfazione di darle il colpo finale," rispondo con un sorrisetto, sistemandomi le maniche della camicia.

Lei mi risponde con di nuovo quella faccia da uomini.

Cammino verso il bagno delle signore dall'altro lato del corridoio dove l'ho appena vista entrare.

"Andiamo, Katherine, è finita," dico al bagno vuoto, appoggiandomi contro il muro accanto ai lavandini. "Accetta la sconfitta con grazia così che possiamo entrambi andarcene per le nostre strade e finalmente far finta che niente di tutto questo sia mai accaduto."

Uno sciacquone parte da uno dei cubicoli. Katherine esce e va verso il lavabo per sciacquarsi la faccia, si scrolla le goccioline d'acqua dalle mani.

"Sono incinta, stronzo."

Scoppio a ridere. "Certo. Come no. La carta della donna incinta. Solo tu potevi inventarti una cosa del genere. Davvero la tua bassezza non conosce limiti?"

Getta con violenza nel cestino la carta con cui ha appena finito di asciugarsi, inizia a frugare nella borsa e ne tira fuori una manciata di test di gravidanza che sparpaglia sopra il ripiano.

"Tieni."

Ne conto sei. Mezza dozzina di segni più che lì su quei bastoncini hanno tutta l'aria di essere una pessima presa per il culo in formato gioco shanghai. Quando alzo lo sguardo e incontro il suo nello specchio, è quello il momento in cui qualcosa di terribilmente simile al panico, vero panico, inizia a strisciarmi su lungo la pelle. Penso a quella notte quando … No. Dio, no, non voglio neanche finire di formulare quel pensiero.

Katherine vede il cambiamento nella mia espressione e solleva un angolo delle labbra, ma non sta sorridendo, non è divertita, non è neanche sarcastica.

"Non mi chiedi di chi è?"

"No."

La mia debole replica non è una risposta alla sua domanda. E' negazione pura e cruda.

Mi passa davanti, diretta alla porta, e quando mi guarda dritto in faccia vedo esattamente quanto sia incazzata per la cosa. Fredda, aspra, aggiunge, "Mi scuserai se non faccio le congratulazioni."

La porta del bagno sbatte alle mie spalle. Pietrificato, immobile dove sono, l'unica cosa che mi viene da pensare è che adesso sono io quello che sta per vomitare.


———————————————————

Nota. Mi sono scervellata alla ricerca di una scusa plausibile per cui Caroline potesse essersi sottoposta ad esami in grado di diagnosticare un'infertilità-è piuttosto debole, ma passatemela per buona se potete (o questo capitolo non usciva più)


Spazio autrice

Buonasera! Non chiedo se mi perdonate il ritardo perché ... beh. Ecco.

Ammetto di non avere nessuna idea di che reazioni possa suscitare questa "svolta" finale (se il grido di dolore di Pippo che mi perseguita da due giorni é un'indicazione, direi non bene xD), ma qui é dove la storia ed i personaggi mi hanno portato, e quindi é qui che ci ritroviamo. Personalmente sono un sacco elettrizzata all'idea di cosa significherà per Damon - ma a me c'è chi mi chiama sadica, quindi sentitevi libere di unirvi al grido di dolore, non ve ne farei una colpa.

Mi dispiace per i due mesi di attesa per il capitolo, ma sono stata sommersa di lavoro e visto che questi sono gli ultimi capitoli hanno bisogno di prendersi il loro tempo per venire fuori. Spero che comunque, al di là di tutto, possa aver ripagato.

Ne ho contati altri 2, forse 3, prima di mettere la parola fine.

Grazie a IGBD per la pubblicazione delle anteprime, e grazie a tutte voi che ancora mi accompagnate leggendo questa storia, con il vostro supporto e i vostri pensieri. Mi emozionate tutte le volte, non scherzo.

Un bacio, a presto

ever

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Capitolo 23
*** All about you ***


22

Pre-nota. Non lo so se siete ancora lì, meravigliose appassionate lettrici che hanno fatto crescere questa storia facendola diventare tutto ciò che è stata per me. So che i mesi sono stati lunghi e che TVD ha deluso molte (o almeno la sottoscritta), so che per un bel po' mi sono data al silenzio, e so che forse leggere la fine di questa storia adesso, con questo stato d'animo, magari non sarà la stessa cosa. Mi dispiace di averci messo così tanto e di aver lasciato tanti bellissimi commenti senza una risposta.

Comunque adesso è qui. Ci saranno due ultimi capitoli, questo che è il penultimo, ed il prossimo che è quello finale, più un epilogo.

Non dovrebbe passare molto tra la pubblicazione di uno e l'altro.

Al proposito, prima che leggiate, volevo solo dire che i flashback di questo capitolo e quelli del prossimo sono strettamente collegati. Si riferiscono alla stessa giornata, anche se con un focus diverso, ed è per questo che alcune cose di questi si capiranno solo nel prossimo, ed alcune cose del prossimo si possono capire solo tenendo a mente questi.

Le scene "tagliate" non le ho più pubblicate perché mi sono concentrata sul riuscire a finire la storia principale, e tornare a pubblicarla a settembre come avevo detto. Le riprenderò magari nelle prossime settimane, come extra.

Grazie delle vostre parole e grazie per avermi, nonostante tutto, riaccolta sempre con entusiasmo. Sarò felicissima di sentirvi ancora, se ci siete sempre.

Buona lettura, e a presto

ever



22.

All about you


- Here I am still holding on,
you’re finding ways to break the bonds,
they’re stronger than you realize

You could say that I’ve not tried,
I’ve let you down, left you behind
but you’re the one who’s saying goodbye -

(All about you - Birdy)


Elena


La prima volta che vidi Damon, lui non sapeva neanche che io esistessi.

Era l'homecoming del primo anno. Ero particolarmente eccitata e nervosa, all'idea della mia prima esibizione con la squadra di cheerleading, mano nella mano con Caroline, il pensiero del se sarei stata in grado di fare una capriola all'indietro davanti a tutte quelle persone la più grande delle mie preoccupazioni. Lui se ne stava appoggiato in disparte contro uno dei pali di sostegno, l'aria annoiata e vagamente infastidita. Stava aspettando una delle mie compagne di squadra, una del terzo anno, e mi ricordo di essermi chiesta se lei lo avesse notato, che quando le aveva sorriso per salutarla, lì sotto a quel sorrisetto sfrontato, l'aria annoiata e vagamente infastidita era rimasta fermamente intatta. Tre giorni dopo, la stessa ragazza era negli spogliatoi ad inveirgli contro, ad insultarlo dando fondo a tutto il repertorio che aveva, ed io avevo pensato tra me e me, "io non mi lascerò mai coinvolgere da ragazzi così".

La prima volta che avevamo parlato, avevo avuto un assaggio di quanto traballante potesse essere quel proposito. Lì a quel falò ma lontano dal fuoco e dalla musica e dal rumore, fu la scintilla a farmi vacillare. Quella che gli illuminò lo sguardo durante le poche frasi che avevamo scambiato. Quella scintilla che mi aveva fatto sentire audace e carina e meno la ragazzina che ancora ero. Avevo flirtato senza rendermi conto che lo stavo facendo, e mi era piaciuto. Mentre tornavamo a casa, mia madre mi aveva chiesto come mai stessi sorridendo, ed io mi ero mordicchiata le labbra per nasconderlo, quel sorriso segreto, rispondendo un "Nessun motivo" che non avrebbe probabilmente ingannato nessuno.

Come fossimo arrivati da lì ad essere ciò che eravamo era più difficile da dire. E' buffo come raramente ci si renda conto del vero inizio di qualcosa, finché non vi si è già del tutto dentro.

Forse era stata la coincidenza di trovarci più di una volta sulla stessa strada, agli stessi incroci.

Ma non sono le coincidenze ad attirare le persone. Non era coincidenza tutto ciò che avevamo intravisto, cercato, trovato, perso e ritrovato ancora e ancora l'una nell'altro. Non era coincidenza il modo in cui avevamo finito per legarci. Quello lo avevamo cercato. Voluto. Necessitato.

La prima volta che lo realizzai davvero fu quella notte: quella in cui si addormentò su di me, ammaccato e sfinito, sul mio petto che non la voleva smettere di girare per quel bacio che mi aveva tolto tutto il respiro che c'era da togliere. Quella notte già vicina all'alba in cui scivolai nel sonno pensando al ragazzo annoiato appoggiato contro il palo. A quello spezzato sul mio petto. A tutto ciò che c'era nel mezzo.

Ciò che non avevo considerato, però, era che la stessa cosa avrebbe potuto dirsi per ogni volta che ci facevamo a pezzi. Neanche ad allontanarci era la coincidenza; era che non potevamo farne a meno. Se lo avessi fatto, se avessi considerato anche quello, allora forse lo avrei saputo già, che il momento in cui credetti di averlo ritrovato era solo quello in cui lo stavo perdendo davvero.


***


E' decisamente troppo presto per essere al Grill. Sia perché non apriamo per almeno altre due ore, sia perché è Jenna ad avere il primo turno del mattino, ed io non dovrei essere qui almeno fino all'ora di pranzo. Ma ugualmente chiudo la porta alle mie spalle, lasciando entrare insieme a me un prezioso soffio di fresca aria mattutina, lascio la borsa ad un lato del bancone, mi lego i capelli, e do il via ad una routine automatica che è piatta e tediosa ma che è anche l'unica cosa che ho trovato da frapporre tra me e l'irrequietezza che mi pulsa dentro.

E' meglio essere qui, alle cinque e mezza in una frizzante mattina di sole che diventerà calda ed umida nel giro di poche ore, piuttosto che a rigirarsi in mezzo a lenzuola spiegazzate dopo un'altra notte mezza insonne come tutte le notti che ho avuto da quando ho lasciato San Francisco. E' meglio che dare occhiate nervose al telefono solo per trovare un'altra chiamata persa di Elijah, è meglio di questo dannato limbo in cui sono andata ad infilarmi, è meglio che stare senza far niente ed è meglio del decidersi a fare qualcosa riguardo a tutti i fili sottili che fino a poco tempo fa tenevano insieme la mia vita e che adesso non so più che diamine di fine abbiano fatto.

No, l'ultima è una bugia. Non è meglio. E' una lotta allo sfinimento con me stessa che sono troppo codarda per vincere.

Sono passati tre giorni da quando Stefan mi ha chiesto di mantenere la farsa e tenere nascosto il mio tradimento agli occhi dell'uomo a cui ho già mentito così a lungo, ed io non sono stata capace né di accettare né tantomeno di rifiutare. Tre giorni in cui temporeggio, considero cosa sia meglio fare, evito Elijah, prendo tempo, evito Damon, evito me stessa, temporeggio ancora un po'. E mi sono resa conto che è un giochetto a cui sono dannatamente brava. Fin troppo brava. Così brava che non lo so più neanche io, se sto prendendo tempo perché voglio concedere a Stefan e a quel suo complicato, frustrante, fratello il tempo che mi ha chiesto o semplicemente perché non decidere è quello che faccio. A volte, ho la sensazione di star temporeggiando, e fingendo, da quasi metà della mia vita.

Così, invece di pensare a quello, riverso tutta la frustrazione e l'irrequietezza repressa su miriadi di piccole cose di decisamente più facile soluzione. Passo la spugna sui tavoli. Riordino le bottiglie sugli scaffali. Pulisco le macchine del caffè, metto ordine tra le ultime fatture, scrivo liste. L'inventario della dispensa, le cose in eccesso, le cose da ordinare. Turni del personale, mercoledì, giovedì, venerdì …

Parlare con Jenna.

Guardo l'ultima voce che ho appena scribacchiato sul piccolo bloc-notes giallo. Sollevo la penna e sto per scarabocchiarla via, mi fermo e la poso sul foglio.

E' uno di quei pensieri un po' folli, uno di quelli che mi è passato per la testa in una delle mie notti agitate. Uno di quegli "e se ..." che arrivano lampeggiando nella testa in un insieme un po' strano di  euforia e paura, e se, e poi quando si fa giorno ti lasciano lì a domandarti, l'ho davvero pensato, voglio farlo davvero.

Mordicchio la penna. La frase rimane lì.

La porta si spalanca di colpo, strappandomi dalle mie liste e dai miei "e se" e facendomi raddrizzare dal bancone. Caroline irrompe nel locale, io getto uno sguardo confuso verso l'orologio alla parete.

"Care!" le vado incontro. "Che ci fa qui così presto, non sono ancora neanche le set…"

Caroline mi taglia corto sollevando la mano sinistra davanti alla mia faccia, risplende in un sorriso e nell'alone di sole che filtra dalla porta aperta alle sue spalle.

"Sto per sposarmi!" grida.

Spalanco gli occhi e li sposto tra lei e lo scintillio sull'anulare che mi ha messo davanti. L'attimo dopo mi lancio su di lei abbracciandola così stretta da tirarle fuori un altro squittio acuto, sentendomi riempire fino all'orlo, scoppiare di felicità per lei, che ride stringendomi di rimando.

"Oh mio dio," rido. "Oh mio dio, sono così felice per te!"

La lascio andare solo per afferrarle la mano e rigirarmela davanti agli occhi in modo da poter dare un'occhiata come si deve alla nuova aggiunta attorno al suo dito. E' incantevole. Più piccolo del mio, ma è così perfetto, così delicato, così armonioso, e così Caroline da essere infinitamente più bello.

Torno a guardare lei, sorrido di nuovo. "Cosa ti ha fatto cambiare idea?"

Inclina appena la testa di lato, ed il sorriso che le curva le labbra si fa quasi timido.

"Stefan," risponde semplicemente, in un modo che da solo dice tutto e non avrebbe neanche bisogno di aggiungere altro. "Mi ha fatto capire che non vuole sposarmi per via di qualche concetto di ideale di come dovrebbe essere le cose. E' perché siamo noi. E in qualsiasi modo andranno le cose, qualsiasi cosa decideremo … basta che siamo noi."

Deglutisco a forza, attorno a qualcosa che adesso mi punge la gola. Ho gli occhi inumiditi di felicità per lei, ma anche di una piccola punta di retrogusto triste che mi ha appena amareggiato la bocca.

"Oh, non piangere," mi ammonisce lei con un colpetto sulla spalla. "Per favore. Perché se piangi tu, poi inizio a piangere anche io, ed ho smesso soltanto tipo un'ora fa, e proprio oggi non posso andare in giro con gli occhi gonfi, ok?"

Rido e mi asciugo sotto le palpebre. "Non posso promettere niente."

Caroline sorride. Poi, come ricordandosi improvvisamente qualcosa di molto più importante, mi afferra per entrambe le braccia.

"Ho bisogno del tuo locale. Oggi." Fa un ampio gesto con le mani. "Tipo, tutto quanto."

Sbatto le palpebre perplessa. "Cosa?"

"Per la festa di fidanzamento. Stasera."

"Stasera?… Non hai bisogno di almeno un paio di giorni per organiz-"

"Sette anni!" Mi interrompe subito lei. "Non ho intenzione di aspettare un giorno di più."

"Ma tutto in giorno solo, come-"

"Pronto? Lo sai con chi stai parlando, sì?" Si affretta a tirare fuori sia il telefono che l'agendina dalla tasca e semplicemente così, nel giro di mezzo secondo, la sua mente è già volata via. "Dunque. Devo chiamare Bonnie e tipo tutti quelli che conosco, e poi ritorno così possiamo parlare del cibo, e, oh, poi vado dal fioraio e vediamo anche per la musica, e naturalmente devo scegliere il vestito, e …" Prende un profondo respiro e dà il via al conto alla rovescia sul display del telefono. Solleva di nuovo lo sguardo con un largo sorriso. "Dodici ore. Tanto lavoro da fare. Ci vediamo!"

Mi schiocca un bacio sulla guancia e turbina via fuori dalla porta, senza neanche darmi il tempo di rispondere, lasciandomi frastornata in un locale vuoto improvvisamente ancora più silenzioso di prima.

Torno verso il bancone. Giocherello con le mie liste e le mie piccole cose di più facile soluzione, senza riuscire davvero a riprenderle da dove le avevo lasciate. Quel grumo felice e solo appena un pochino triste non lascia spazio a nient'altro.

Mi asciugo di nuovo gli occhi, anche se non lo so più queste che tipo di lacrime sono, ed esito appena un altro momento, prima di allungarmi verso la mia borsa. La piccola scatoletta di velluto dove ho richiuso l'anello che dovrebbe stare al mio dito mi guarda accusatoria dall'altro lato della zip aperta. Prendo il mio telefono.

Risponde subito, già senza più alcuna traccia di sonno nella voce. Quando parlo, devo prima prendermi un attimo per schiarirmi la voce.

"Ciao … " Inspiro. "Penso che dobbiamo parlare."


***


Strisce brillanti di sole che rompevano le ombre pallide della stanza. Il ragazzino dei giornali che gridava qualcosa fuori dalla finestra. Troppe poche ore di sonno ad ovattarmi la testa.

Impiegai qualche secondo, ed una stordita occhiata intorno, per capire cos'era che mi aveva appena svegliato.

Mio fratello era in piedi sulla soglia della mia camera, tra la stipite e lo spiraglio di porta aperto solo quel tanto che bastava per incorniciare la sua figura lunga e magrolina, intento a fissarmi.

No, non stava fissando solo me. Ma me accanto a Damon ancora profondamente addormentato, con la testa sul mio cuscino ed un braccio attorno al mio fianco per tenermi vicino a lui.

Piano, mi tirai su a sedere. Un afflusso di calore mi imporporò le guance, sotto allo sguardo incuriosito di mio fratello, e all'improvvisa consapevolezza di avere ancora la gonna disordinatamente aggrovigliata intorno ad una coscia, incastrata sotto alla gamba di Damon. La spinsi giù - cercando di non soffermarmi sul respiro regolare di Damon che soffiava piano sulla mia spalla, sul turbinio di sensazioni della scorsa notte che andava a riaccendere - e riportai lo sguardo su Jeremy.

Mi portai un dito sulla bocca, per fargli capire di fare silenzio.

"Scuola," mimò lui con le labbra.

Annuii ed aspettai che se ne andasse. Non lo fece.

Gettai un rapido sguardo verso Damon. Dovetti resistere all'impulso di scostargli una ciocca spettinata di capelli neri dalla fronte, lì sopra al taglio rattoppato che gli attraversava l'attaccatura dei capelli, e costringermi a mettere tutto da parte per un altro momento, uno senza mio fratello in pigiama ad aspettarmi sulla soglia della porta, per poter riuscire ad allontanarmi da quel letto. Gentilmente, mi sottrassi al suo abbraccio. Mi alzai.

Mio fratello si girò verso di me non appena ebbi richiuso la porta alle mie spalle.

"Scopate, voi due?"

"Jeremy, modera il linguaggio!" lo rimproverai, sospingendolo verso la sua camera e intimandogli di andare a vestirsi, con il viso in fiamme.

Andai anche io a lavarmi e vestirmi, nel bagno del piano terra, e quando entrai in cucina, trovai Jeremy già al tavolino impegnato a cacciarsi in bocca cucchiaiate di cereali. Aprii il frigo per prendere altro latte, solo per scoprire che non ce ne era più, così come non c'era più niente praticamente di qualsiasi cosa, ad eccezione di un mezzo barattolo di maionese ed alcuni avanzi di una cena portata a casa dal Grill. Sospirai, presi una manciata di cereali e li spruzzai con ciò che era rimasto sul fondo della bottiglia lasciata da mio fratello. Dovevo ricordare a mio padre di darmi i soldi per andare a fare la spesa.

"Papà è già uscito?" domandai.

Jeremy scrollò le spalle. "Non è mai tornato."

Mi bloccai. "Cosa?"

In risposta, ottenni solo un'altra scrollata di spalle.

Mi abbandonai all'indietro contro lo schienale della sedia, rigirando il cucchiaio tra i cereali secchi, senza mangiarli. Quella di mio padre di non presentarsi a casa neanche dopo l'orario di chiusura del locale era una novità recente delle ultime settimane che stava già diventando abitudine. O se ne andava in qualche bar fuori mano finendo per dormire in macchina fino a che non era abbastanza sobrio per tornare il mattino dopo; oppure direttamente non lasciava mai il locale, a volte con la scusa di un gruppetto di clienti che rimaneva oltre orario, a volta con quella di lavorare su fatture e ordini, e altre cose che non poteva fare durante il giorno. In ognuno di questi casi, le mie notti si consumavano nell'ansia, fino a che rientrava al mattino comportandosi come se io e Jeremy non lo avessimo neanche notato. Di solito, glielo lasciavo credere. A parte una volta, la settimana scorsa, in cui non ci ero riuscita. Avevo pianto, ed aveva pianto anche lui, una serie di implausibili, interminabili, scuse e promesse che non sarebbe successo mai più. Fino a che non sarebbe successo di nuovo.

Mentre ancora rigiravo, inappetente, il cucchiaio nei cereali, Jeremy si fermò a riflettere.

"Pensi che ci darebbero dei soldi se per caso morisse? Tipo un bonus orfani o cose del genere. Ho sentito dire che a Benny Riley hanno dato dei soldi dopo che è morto suo padre, forse sarebbe la stessa cosa anche per noi. Però lui ha ancora una mamma, noi no. Quindi forse ci manderebbero via lontano, da qualche zio cattivo, come in tutti quei libri sugli orfani. E lui ci ruberebbe tutti i soldi, e quello sì che farebbe schifo."

Corrugò la faccia in smorfia delusa, come se fosse quella la cosa più allarmante di tutto il suo discorso. Lo fissai ammutolita, mentre lui tornava tranquillo a ruminare i suoi cereali, ignaro dei brividi freddi che mi aveva appena fatto avere lungo la schiena. Mi tremò la voce.

"Come ti vengono in mente certe cose?"

Jeremy sollevò lo sguardo dalla ciotola. "Perché? Tanto è inutile in ogni caso."

La mia mano scattò senza pensare. Lo schiaffo che gli diedi fu così brusco e inaspettato che ci lasciò impietriti entrambi. Non avevo mai alzato le mani su mio fratello. Non avevo mai neanche pensato che avrei potuto farlo.

Jeremy mi guardò con gli occhi sgranati, portandosi una mano incredula sulla guancia adesso rosso brillante. La mia, di mano, stava ancora bruciando.

"Non ti azzardare," dissi piano, con una calma che non sentivo, "mai più, a dire cose del genere."

Jeremy spinse via la sedia, afferrò con stizza il suo zaino appeso allo schienale, e corse via.

Come lo schiocco del portone echeggiò nella casa, mi portai la faccia tra le mani, imponendomi di non piangere, di arginare tutti quei flutti di rabbia e frustrazione che mi stavano annegando dentro. Li lasciai ondeggiare e prendere il sopravvento, ma solo per alcuni istanti. Passati quelli, inspirai e li rimisi sotto controllo, come avevo imparato a fare.

Gettai un'occhiata verso il piano di sopra. Avrei voluto correre su per le scale, tornare a raggomitolarmi dove ero fino a poco fa, e sciogliermi contro il suo corpo fino a che di me non fosse rimasto più niente.

Invece, mi alzai, con lo stomaco ancora vuoto della colazione lasciata intatta, ed andai a prendere le chiavi di riserva del Grill. Prima di uscire, feci scivolare un biglietto sotto alla porta di camera.

Scusami se sono dovuta andare via.


***


"Quindi, non glielo hai detto."

Bonnie mi porge un'altra foto. Il Grill è chiuso al pubblico se non per gli addetti alla preparazione della festa di fidanzamento di stasera, ed è incredibile il modo in cui, sotto alla regia di Caroline, più la giornata progredisce più il locale si stia trasformando in uno spazio più intimo e romantico tutto a sua misura. Bonnie ed io abbiamo approfittato della sua tappa dal parrucchiere per mettere in atto la nostra piccola sorpresa. Abbiamo ancora più o meno mezz'ora per finire di nascondere tra segnaposto e decorazioni floreali varie foto della coppia nei loro anni insieme - da Mystic Falls edizione 2005, al college, ad istantanee recenti - così da fargliele trovare stasera.

E' stata Bonnie ad andare a cercare Damon per chiedergli se avesse del materiale da aggiungere. Io non ce l'avrei fatta, oggi, ad affrontare anche lui. La cosa a lei non è sfuggita.

"Stasera. Ci parlerò stasera," rispondo.

"Vuoi rompere con lui alla festa di fidanzamento della tua migliore amica? Piuttosto spietata come cosa."

"Lo so, è solo …" scuoto la testa. "E' solo che non ce la faccio ad andare avanti così, Bon."

Mi rigiro tra le mani l'immagine di Caroline e Stefan che sorridono all'obiettivo, Damon che passa di lì e rovina la foto cercando di leccare l'orecchio al fratello, uno scatto che io non avevo mai visto.

Forse è stato vedere il colorito radiante sul viso di Caroline questa mattina. Forse è stata quella nota amara in mezzo a tutta la felicità che sinceramente sento per lei. O forse, è solo che a volte arriva un momento, arriva e basta, in cui sai di non poter stare anche solo un giorno di più, senza dire la verità.

Finisco di attaccare la fotografia.

"Devo annullare questo matrimonio. Devo lasciar andare Elijah."

"E gli dirai la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità?" chiede la mia amica. Ci scambiamo uno sguardo, lei solleva un sopracciglio. "Sai … quella che inizia con la D?"

"Non ho intenzione di sbattergli in faccia qualsiasi cosa ci sia stata tra me e Damon, se è questo che intendi."

Del resto, neanche io sono poi così sicura di cosa esattamente ci sia stato, tra me e Damon. O di quale sia la situazione in cui ci troviamo adesso, di cosa finiremo per farne … La porta che mi ha chiuso in faccia quando ho tentato, ancora una volta, di raggiungerlo lì dove continua a non lasciarmi avvicinare, brucia ancora almeno quanto il pensiero della sua reazione a quella cartellina tra le mie mani, del muro che mi ha alzato davanti, e di quanto sia stata ingenua la mia speranza che magari potesse esserci un modo, nonostante tutto, di abbattere certe distanze e non dover continuare con il gioco al massacro ad ogni minimo confronto.

Ma tutto questo, Damon … è qualcos'altro. Qualcosa che potrà avermi messo di fronte a tutto ciò che non volevo vedere, ma non è Damon il motivo per cui quell'anello è tornato nella sua scatoletta invece di stare al mio dito. Quel motivo sono io.

"Damon è irrilevante," finisco.

Bonnie sospira. "Penso che possiamo smetterla tutti di far finta che Damon sia mai veramente stato irrilevante per te."

Non so bene neanche io cosa rispondere a ciò, in questo momento, così mi limito al silenzio e a tornare a cercare il nascondiglio per la prossima foto.

"Oh, quasi dimenticavo," dice Bonnie, per fortuna lasciando cadere il discorso. Si fruga in una tasca per tirarne fuori un pezzettino di carta che mi porge con un mezzo sorriso. Lo prendo in mano incuriosita.

"E' il contatto di un professore e consulente studentesco al Whitmore, un buon amico di mia nonna. Ha seguito spesso persone che si sono iscritte tardi al college, e può aiutarti con tutte quelle questioni pratiche e amministrative, magari consigliarti un po' … Gli ho già detto che lo chiamerai."

Sposto stupita lo sguardo tra lei e il nome e numero di telefono scritti a mano sopra al foglietto, senza sapere bene cosa dire.

"Bonnie, io non …"

"Mi hai detto tu che ci stavi pensando, no? Di iscriverti al college. Così ho pensato …"

"No, sì, lo so, è solo che …" Rivolto il pezzetto di carta tra le dita, sentendomi al tempo stesso un po' sciocca ed un po' emozionata esattamente come nel momento in cui mi sono lasciata sfuggire quella cosa con Bonnie, quel pensiero un po' folle da notti insonni di dare tutta un'altra direzione alla mia vita. Mi ritrovo a farfugliare. "Voglio dire, lo so cosa ho detto, ma non so se sia poi una buona idea, insomma dovrei pensare a cosa fare per la retta, e poi c'è tutta la questione del bar, non posso semplicemente …"

Mi interrompo da sola, quando la mia stessa scrittura salta su davanti ai miei occhi - parlare con Jenna -, sollevo di nuovo gli occhi su Bonnie. La mia amica sta sorridendo.

"Credo che quando smetterai di raccontarti scuse su ciò che non puoi fare, Elena … Troverai il modo di fare anche tutto il resto."


***


La deviazione che feci per passare dal Grill prima di andare a scuola, per controllare che mio padre fosse lì, mi costò quarantacinque minuti di ritardo a lezione, ed altri trenta passati nell'ufficio della consulente scolastica, che con aria grave iniziò il solito ispirato discorso su quanto fosse importante non iniziare il nuovo anno scolastico nello stesso modo in cui avevo concluso il precedente, tra ritardi ingiustificati e oscillanti alti e bassi nel rendimento.

Ascoltai, annuii. Mi rassegnai al fatto che, come non era la prima, non sarebbe stata neanche l'ultima volta che lo avrei sentito.

Il resto della mattinata fu penosamente lento da far passare. Ogni minuto si dilatava all'infinito; ad ogni occhiata di lato verso l'orologio, le lancette si erano mosse a malapena.

La voce dell'incidente di Stefan della notte prima si era sparsa in fretta, era la notizia del giorno. Perfino Matt mi aveva avvicinato prima di entrare in classe, per chiedermi se per caso ne sapessi qualcosa, se Stefan stesse bene. C'era uno spesso livido bluastro al di sotto del suo occhio destro, ma mi guardai dal fare domande. Tutta la situazione era già fin troppo imbarazzata così. Non ci eravamo più parlati, da dopo quella notte.

Ma, in verità, ero io ad essere completamente fuori dal mondo. Niente di ciò che mi circondava o accadeva intorno a me riusciva davvero a focalizzare la mia attenzione. Ognuno dei pensieri che avevo messo da parte al mattino, ogni dettaglio della notte passata, era tornato più vivo che mai, a prendere il sopravvento su qualsiasi altra cosa.

A matematica, a inglese, a storia … non ero lì. Ero nel letto con Damon. Dietro agli occhi appena chiusi, dietro lo sguardo perso sulla parete distante, il mento posato sulla mano, c'erano ogni istante e ogni sfumatura del modo in cui mi aveva baciato - lento e irrefrenabile, dolce e intenso. E tutto dentro di me si faceva fuso e tremante, pulsante e irrequieto, e niente esisteva al di fuori di quello. Delle sue mani sotto la gonna, del timore che non mi volesse più nella sua vita, delle sue labbra posate appena su quella porzione sensibile di pelle sotto il mio orecchio, che non sapevo più se fosse davvero sempre esistita o se l'avesse appena inventata lui, di quel sapore, quell'odore, quel calore, di più, di più, di più.

Ti amo.

Il mio respiro si interrompeva di colpo, ogni volta che arrivavo a quella parte. Esattamente come la notte scorsa, altrettanto bruscamente. Ed era un calore di tutt'altro genere quello che portava con sé.  Non era di quel tipo tenue e confortevole che aveva reso così facile restituire le stesse parole quando a dirlo era stato Matt. Questo era aggressivo, carico di energie proprie, era una sbirciata su tutto ciò che dava respiro e lo toglieva, era solo domande e nessuna risposta.

Cosa eravamo adesso? Cosa ne avremmo fatto di tutto questo?

Come fanno le persone a sopravvivere a qualcosa così? Davvero ci riescono? Davvero ci sarei riuscita io?

E se se ne fosse andato, lasciandomi e basta, perché non ero stata capace di rispondere niente?

(Lo sapeva, che era solo perché non potevo respirare?)

E se fosse rimasto, cosa gli avrei detto, nel momento in cui lo avrei rivisto? Mi avrebbe baciato ancora?

(Dio, fa che mi baci ancora.)

Mi mossi sulla sedia, le gambe più liquide al solo pensiero. Intercettai Bonnie intenta a lanciarmi una mezza occhiata interrogativa, un paio di file di banchi più giù.

"Stai bene?" mi chiese muovendo appena le labbra.

Annuii e riportai a disagio lo sguardo sopra il blocco per gli appunti aperto sotto alla mia penna, nient'altro che un turbinio di scarabocchi sotto alla data di oggi.

Bonnie mi strinse comunque all'angolo non appena finì la lezione, con la spalla appoggiata contro l'armadietto accanto al mio per non darmi nessuna possibilità di fuga.

"Hai sentito Caroline? Mi ha mandato un messaggio che non sarebbe venuta a scuola oggi."

Misi via i miei libri. "Forse é andata da Stefan."

"Si, penso anche io. Ehi," mi diede un colpetto sulla spalla. "Che ti prende oggi?"

"Niente," replicai evasiva, scegliendo i libri per la prossima lezione. "Perché?"

"Perché sei chiaramente da tutt'altra parte."

"Ero con Caroline al pronto soccorso la notte scorsa. Non ho dormito molto."

"Ed é per questo che ..." mi scrutò attentamente. ".... sei appena arrossita?"

Mi morsi l'interno della guancia. Non era rossore. Era fuoco vivo a divorarmi le guance ogni volta che il solo concetto di "la notte scorsa" mi attraversava la mente. Chiusi la porta dell'armadietto. Magari avevo solo bisogno di lasciar uscire tutto quanto. Inspirai a fondo.

"Ho baciato Damon."

Bonnie spalancò gli occhi.

"Cosa? Perc... Perché mai faresti una cosa del genere? E' ..." l'incredulità nel suo tono cedette il passo al disgusto. "... Damon."

"Grazie per avermi ricordato il suo nome," risposi sarcastica, gettandole un'occhiata di traverso.

"Quello che voglio dire é ..." sospirò, e si sporse di più verso di me, abbassando la voce. "Dimmi che non stai seriamente considerando di farti coinvolgere con lui."

Non la guardai in faccia, mentre rispondevo altrettanto piano. "Magari si."

"Oh, andiamo, sul serio? Devo davvero ricordarti che si é fatto almeno metà di questa scuola senza che gliene fregasse mai veramente qualcosa? O che ha tradito la sua ragazza con la sua migliore amica, ti sei dimenticata di questo?"

Deglutii con sforzo. Non lo avevo fatto. Ma per tutto ciò che Bonnie mi stava mettendo davanti agli occhi, c'era anche così tanto altro, qualcosa che mi sembrava di aver solo appena iniziato a scoprire, e c'era una parte di me che lo desiderava con tutto ciò che aveva che fosse questo a contare di più.

"Senti, lo so che Damon può essere ... difficile da capire a volte. Ma ... tu non lo conosci come me. C'é sempre stato, quando ho avuto bisogno di lui."

"Sì, finché non é così. Lascia perdere come si è comportato con chiunque altro, ma quante volte ha fatto soffrire te? Solo la settimana scorsa hai pianto per tre giorni interi, perché ti ha detto di sparire e non cercarlo più. Pensi che non lo farebbe di nuovo, alla minima cosa?"

Piccole schegge affilate mi raschiarono l'intera lunghezza della gola. Scossi la testa per scacciare quel pensiero, per non farle vedere quanto in realtà quella prospettiva mi terrorizzasse più che mai.

L'espressione di Bonnie si addolcì, mentre la mia amica mi prendeva la mano e proseguiva, "E' solo che odio vederti soffrire a causa sua."

"Lo so. Ma ... " Rialzai esitante lo sguardo su di lei. "Penso di essere innamorata di lui."

Bonnie aprì la bocca per parlare, ma la richiuse senza dire niente. La campanella suono'.

Io mi allontanai in fretta giù per il corridoio, con il cuore che batteva più forte di quanto fossi in grado di sopportare.


Damon non si fece sentire. Ad ogni minuto che passava senza una sua chiamata o anche solo un suo messaggio, uno sgradevole malessere cresceva nel mio stomaco. Sarebbe dovuto essere già sveglio. Non avrei dovuto lasciare quel biglietto. Stupido biglietto. Non intendeva davvero quello che aveva detto la notte scorsa. Lo intendeva ma non voleva più vedermi perché non lo avevo detto anche io. E se Bonnie avesse avuto ragione?

Mi concentrai sul dare una mano ai tavoli del Grill, sul cercare di studiare nei momenti morti. Ma era inutile.

Jeremy, intanto, ancora non mi parlava. Teneva il broncio e se ne stava chiuso ad un tavolino d'angolo, curvo sul suo videogioco portatile, senza neanche alzare lo sguardo.

Pensai al frigo vuoto a casa, andai nella dispensa a riempire una busta con cui lo avrei rifornito più tardi. Cercai mio padre con l'intenzione di chiedergli i soldi per poter andare al negozio a prendere quello che mancava.

Sapevo che era nell'ufficio, ma trovai la porta chiusa. Voci arrabbiate provenivano dall'interno.

"Non puoi essere davvero così egoista, John! Non è una gran somma per te, e ti ho già detto che ti ridarò ogni centesimo. Sono tuo fratello, dannazione!"

"Non è quello!" replicò l'altra voce, pari a quella di mio padre sia in collera che in intensità. "Vuoi i miei soldi? Allora smettila con quella merda. E quando avrai smesso di bere, allora ne riparleremo."

Non conoscevo molto bene lo zio John. Papà parlava raramente di lui. Non credo che andassero molto d'accordo. L'ultima volta che lo avevo visto era stato al funerale di mamma - una carezza tra i capelli, un sorriso triste, e se ne è era già andato, il tutto avvolto nella stessa nebbia vuota di quei primi giorni.

Sapevo che non avrei dovuto. Ma rimasi lo stesso immobile lì, appoggiata contro la parete del corridoio vicino alla porta chiusa, incapace di smettere di ascoltare.

"Non ho bisogno di smettere di bere," ribatté mio padre. "Un paio di bicchieri a sera non mi rendono un alcolizzato. Quello di cui ho bisogno è che tu mi presti qualche soldo."

Mi voltai quando mi resi conto che anche Jeremy era appena apparso all'entrata del corridoio, con quell'espressione seria che non sta mai bene addosso un bambino della sua età. Avrei dovuto farlo andare via, ma non lo feci. Mi limitai a fargli cenno di non fare rumore. Mio fratello si avvicinò, mi circondò in silenzio la vita con le braccia sottili, rimase con la testa poggiata contro il mio fianco.

"Fanculo, stai uno schifo. Ti fai vedere così anche dai tuoi figli?"

"Non ti azzardare a parlare dei miei figli. Non hai nessun diritto di venire qui a farmi prediche. Cosa diavolo ne sai di quello che ho passato? Tu che non hai mai pensato a nient'altro che a te stesso?"

Avevo sentito abbastanza. Ingoiando amaro, feci segno a Jeremy di muoversi, le voci che si facevano più indistinte mano a mano che ci allontanavamo dal corridoio. Portai Jeremy fino all'ingresso delle cucine.

"Perché non vai a vedere se è rimasta ancora della torta al cioccolato? Non so te, ma avrei davvero voglia di un po' cioccolato adesso," gli dissi con un sorriso che fece un discreto lavoro a non lasciar trasparire ciò che sentivo veramente.

Lui inclinò la testa. "Tu non vieni?"

"Solo un momento, ok? Solo un momento e arrivo subito."

Jeremy annuì solenne e corse via, come se gli avessi appena assegnato un compito di vitale importanza. Io invece affrettai il passo nella direzione opposta, oltre la dispensa, oltre la porta sul retro, che spinsi in avanti per spalancarla di fronte a me.

Ripresi a respirare solo quando misi piede fuori, lasciando andare le spalle contro il muro del vicolo laterale, gli occhi chiusi all'aria calda e spessa di quell'estate persistente, solo un accenno di freddo che iniziava appena ad infiltrarcisi. Respirai quello, quello spiraglio di autunno, lentamente e a fondo, fino a che il caos interiore non iniziò piano piano a placarsi. Come avevo imparato a fare.

Fu in quel momento che mi resi conto che c'era qualcuno davanti a me. Riaprii le palpebre.

Damon aveva i capelli ancora arruffati e scompigliati, graffietti rossi sulle guance, un po' più lividi attorno ai tagli più profondi. Era così bello che mi sentii sul punto di scoppiettare nell'aria in mille piccoli frammenti.

"Ero appena entrato, e ti ho visto uscire da questa parte," spiegò. Lentamente, la sua bocca disegnò l'accenno di un sorriso. "Ciao."

Le mie labbra mimarono spontanee lo stesso identico sorriso.

"Ciao," sussurrai.

I secondi si dilatarono. Il silenzio si riempì di incertezza. L'elettricità mi percorse la pelle.

Damon si schiarì la voce. "Ho pensato che forse dovremmo parl-"

Si interruppe quando feci un passo avanti e gli presi la mano, stringendola con forza nella mia. Vi abbassò sopra lo sguardo, e serrò la presa ancora più saldamente, lasciando che le nostre dita scivolassero ad intrecciarsi tra di loro. Diedi un leggero strattone, alla sua mano nella mia.

"Portami via di qui."


***


"Certo. Va bene, a domani allora. Grazie, Professor Shane."

Chiudo la telefonata con un piccolo sorriso soddisfatto a tirarmi in su le labbra.

Il sole sta tramontando con una calda sfumatura di giallo e arancio sui profili distanti della boscaglia alla mia destra, quasi la stessa tonalità dorata scelta da Caroline come tema per il suo fidanzamento lampo di fine estate. Da dentro il Grill proviene un rumore addolcito di musica e risate.

Prima di voltarmi e rientrare, controllo con una contrazione al petto se per caso Elijah abbia chiamato o stia per arrivare. Preferirei riuscire a parlarci in un momento più tranquillo, magari da un'altra parte, piuttosto che alla piccola serata perfetta che i miei amici si sono ritagliati in mezzo alle loro personali difficoltà. Sto per far partire la chiamata, quando vedo Bonnie fare capolino dalla porta di ingresso.

"Eccoti!" Agita una mano impaziente nella mia direzione, mi fa cenno di tornare dentro. "Andiamo, Caroline ha trovato la prima foto. Non vuoi perdertelo."

La seguo dentro. Il Grill in questo momento non è più solo un locale: tra le luci avvolte in carta dorata che pendono dal soffitto, le ombre morbide del tramonto fuori, i gigli bianchi ai bordi dei tavoli, è un luminoso raggio di sole. Gli invitati stanno adesso battendo le mani e fischiando verso Stefan, che ha appena trovato un'altra delle foto nascoste. La sventola verso Caroline con aria trionfante. A quanto pare, i due si sono lanciati in una competitiva caccia al tesoro su chi riesce a trovarne di più, e Caroline sta già mettendo su un finto broncio per essere appena andata in svantaggio. Cerca di strappargliela dalle mani, lui gliela sottrae, lei fa una linguaccia.

Scoppio a ridere, insieme a Bonnie accanto a me, insieme al resto della stanza. Un sorriso residuo è ancora sulle mie labbra, quando i miei occhi slittano via dalla coppia felice, verso un'altra familiare figura che ho appena notato appoggiata contro un tavolo lì vicino.

Deve essere arrivato da poco.

Damon scuote la testa e nasconde un mezzo sorriso in un sorso dal suo bicchiere. Quando rialza il viso, e il guizzo azzurro nei suoi occhi trova i miei, la sua espressione cambia, si immobilizza. Il mio cuore spinge più forte contro le costole. Ma Damon è particolarmente veloce a sviare lo sguardo e girarsi da un'altra parte, prima che io possa anche solo accennare, anche solo capire.

Non so cosa pensarne. Così, anche se non vorrei, distolgo gli occhi e guardo altrove anche io.


L'erba umida a solleticarmi i palmi e i polpastrelli. Un cielo pallido di nuvole grasse e instabili, mezze bianche, mezze grigie. Il sole tiepido a scaldarmi le gambe. L'acqua che scrosciava energica dalla cascata più in là sulla sinistra.

Gettai la testa all'indietro ed inspirai.

"Come conosci questo posto?"

Damon era appoggiato sui gomiti, una gamba allungata in avanti, una piegata al ginocchio. Una rapida sfumatura più distante gli passò nello sguardo.

"Ci portava mio padre quando eravamo piccoli. Ma non ci tornavo da anni. E' un po' diverso, adesso."

Gettai una lunga occhiata verso tutto ciò che ci stava attorno - dagli alberi alti e scuri che ci circondavano e le ombre allungate che riflettevano, al sentiero quasi invisibile, impossibile da trovare senza conoscerlo, da cui eravamo arrivati dopo aver lasciato l'auto sulla strada, alla ripida discesa erbacea che finiva nel fiume, immensamente tranquillo rispetto allo scoppiettio della piccola cascata d'acqua che andava ad infrangercisi poco più avanti, una delle tante di questa zona da cui la stessa Mystic Falls prendeva il nome.

"E' perfetto," commentai. Mi voltai verso di lui. "Perché non ci sei più venuto?"

Damon si tirò su a sedere, piegò entrambe le gambe per posare le braccia sulle ginocchia. Si strinse nelle spalle, mi gettò un veloce sorriso che mi sembrò quasi nostalgico.

"Abbiamo smesso di essere piccoli."

Mi tirai su anche io, appoggiandomi all'indietro sui palmi delle mani.

Gli ero grata. Di non aver fatto domande. Di avermi semplicemente portato verso la scintillante jeep rossa nuova di zecca prelevata dal garage, quella di Stefan che suo fratello usava per imparare a guidare, borbottando ad ogni curva che la vecchia Camaro - povera vecchia Camaro che in quel momento giaceva mezza distrutta in qualche deposito dimenticato - era lo stesso, sempre e comunque, infinitamente migliore.

Gli avevo chiesto di Stefan. Sapevo quindi che era andato a trovarlo, che stava bene, che stava già iniziando a tornare il solito "seccante, pedante, virtuoso" se stesso, anche attraverso le medicine. Ma non mi erano sfuggiti l'irrigidimento nelle sue labbra, o l'ombra di senso di colpa nel suo sguardo. Avevo raggiunto la sua mano, "Non è stata colpa tua".

Damon aveva annuito, ma dubito che avesse davvero ascoltato.

Dopo quello, avevamo continuato a guidare in silenzio, i suoi occhi sulla strada, i miei fuori dal finestrino, scivolando giusto di tanto in tanto verso la sua direzione.

Non aveva detto altro, sulla sua giornata prima di passare dal Grill. Ed avevo l'impressione che ci fosse qualcosa nella sua testa, qualcosa nel modo in cui fissava la strada, qualcosa di cui non aveva davvero intenzione di parlare.

Ma era sparito e lontano, adesso. Adesso che mi aveva sorriso, adesso in questo piccolo posto perfetto, adesso che era lontano anche tutto il resto.


Scivolo dietro al bancone, per vedere se Jenna e Sage hanno bisogno di aiuto con i drink, ma loro mi cacciano via. Mi fermo a chiacchierare con Bonnie ed un gruppetto di vecchie compagne di liceo, ma la maggior parte di loro a malapena le sopporto. Poso per una foto ogni volta che Caroline mi passa accanto, mi afferra per una mano, solleva in alto la videocamera del suo telefono. Cerco di togliermi dalla testa la presenza di Damon, le domande su cosa gli stia davvero passando per la mente. Non qui, non stasera, mi ripeto. Prima devo fare la cosa giusta per una volta, chiudere un capitolo che non mi rappresenta più.

Ma Elijah è in ritardo. Lavoro, traffico. E quest'attesa che si trascina, di ore e minuti, mi logora più di quella di tutti i giorni che ho già perso.

Sto pensando che forse dovrei aspettarlo a casa, Caroline dovrebbe capire, quando con la coda dell'occhio noto una nuca bionda, che si guarda attorno con aria annoiata. Mi blocco all'istante, sorpresa della sua presenza qui.

Mi avvicino a lei, poso il mio bicchiere sul tavolino lì accanto.

"Rebekah?" la chiamo.

La sorella di Elijah volta lo sguardo. Mi squadra dalla testa ai piedi, e poi dai piedi alla testa. Il modo in cui le sue labbra si arricciano in disapprovazione mentre esamina il modo in cui ho semi-raccolto i capelli, o la scollatura incrociata del mio vestito aranciato in tema con la festa, mi dice che non le piace niente di ciò che vede. Ma questa non è una novità. Nelle poche occasioni in cui ci siamo incontrate, ho sempre ricevuto lo stesso sguardo da parte sua, e sono piuttosto sicura che non ha niente a che vedere con acconciature o vestiti, ma con quello che ci sta dentro. Me.

Quando io ed Elijah avevamo appena iniziato ad uscire insieme, avevo sinceramente sperato che saremmo potute andare d'accordo, sua sorella ed io. Adesso, mi ritrovo a pensare che il freddo distacco con cui mi ha sempre trattato … beh, forse lo ha sempre saputo, quanto io fossi fasulla.

"Elena. Naturalmente sei qui," mi saluta, adorabile come sempre. Segue un sorriso tirato, un doppio bacio sulla guancia, cortesie di circostanza che nessuna di noi due sente veramente.

"Cosa ci fai qui?"

"Aspetto Elijah, mi ha detto che potevamo incontrarci qui, prima del mio volo di ritorno domani mattina. Che non arriverà mai abbastanza presto," aggiunge con una smorfia ed un lungo sorso del suo Martini cocktail. "Lo hai sentito?"

"Dovrebbe stare per arrivare, ma io intendevo …" Corrugo le sopracciglia, confusa. "Cosa ci fai a Mystic Falls?"

"Oh. Quello." Pilucca l'oliva sullo stecchino del drink. "Una causa di divorzio, una scocciatura immensa. Quei due là."

Con l'estremità appuntita del bastoncino, indica qualcosa all'altro lato della stanza.

Quando mi volto, perdo un battito. Nell'angolo vicino all'entrata, Damon e Katherine stanno discutendo, animatamente, i volti vicini come se stessero parlando a bassa voce. E' impossibile sapere cosa si stiano dicendo. Ma lei ha un'aria immensamente stizzita, mentre Damon sembra … così spaesato e turbato che impiego qualche secondo prima di rendermi conto che Rebekah sta ancora parlando.

"Una totale perdita di tempo," sta dicendo, prima di finire con un sorso il resto del bicchiere. "Una delle mie migliori trattative, sono stata così vicina al portarmi via tutto, e quell'idiota cosa fa? Mi dice che non vuole andare avanti. Niente divorzio. Fottuti uomini."

Il cuore mi cade, di colpo, sul fondo delle viscere. Niente divorzio?

Mi giro con un scatto verso di lei. "Cosa? Perché? Com …"

Mi interrompo da sola quando noto che Rebekah adesso non mi sta soltanto osservando, ma sta studiando la mia reazione con una nuova scintilla di sospetto che mi rende all'improvviso perfettamente consapevole di quanto mi sono appena lasciata sfuggire, nella mia voce e nella mia espressione. Mi sento arrossire, ma provo a nasconderlo in un sorso d'acqua.

"Voglio dire," dico rimettendo giù il bicchiere. "Deve essere stata una vera seccatura, per te."

I suoi occhi azzurro chiaro mi stanno ancora scandagliando come quelli di un predatore, o di una mamma orsa, che ha appena odorato qualcosa. "Li conosci?"

"Io …" Prima di potermi fermare, il mio sguardo è già slittato di nuovo nella loro direzione. Katherine sta per andarsene via. Damon la afferra per un braccio. L'aria persa e supplicante che compare sul suo volto mi fa contorcere lo stomaco. Mi costringo a guardare altrove.

"E' il fratello di Stefan," spiego schiarendomi la voce. Rebekah mi guarda senza capire. "Stefan, che si è fidanzato con la mia amica Caroline," indico il locale intorno a noi. Lei sbatte le palpebre come se stessi parlando di alieni. "Questa festa di fidanzamento? E' per loro."

"Ooh. E' una festa di fidanzamento? Ma pensa." Rebekah si sposta i capelli all'indietro sulla spalla, un gesto che dice banale, banale, banale, e la noia torna a cadere sulla sua faccia. "Ho bisogno di bere qualcosa."

Come si volta per dirigersi verso il bar, senza naturalmente degnarsi di aggiungere neanche un basilare "ciao", i miei occhi balenano di nuovo verso l'angolo accanto all'ingresso.

Con un lieve martellare sordo nelle vene, mi faccio strada tra i tavoli e gli invitati fino a che non sono che ad un paio di metri di distanza. Ma l'unica cosa che riesco a cogliere è Katherine che si strattona via dalla mano di Damon, tira a sé la porta e se ne va. Damon che sospira e si passa frustrato una mano tra i capelli. E poi, con uno scatto impulsivo, si volta e si curva su se stesso, tira un ancora più frustrato pugno dritto contro il muro.

"Ehi!" gli dico, affrettando il passo ed avvicinandomi fino a potergli prendere la mano.

Lui d'istinto la sottrae, io la riafferro, questa volta non si oppone. La giro nella mia per vedere che c'è un po' di sangue lì dove i mattonicini grezzi del muro hanno appena graffiato, e l'inizio di un gonfiore appena al di sotto delle nocche. Turbata, sollevo lo sguardo su di lui.

"Cos'è che ti fa venire voglia di distruggermi il bar?"

Damon si appoggia contro la parete, lascia uscire una breve risata, ma è tutt'altro che divertita.

"Il tuo bar è piuttosto duro, credimi."

Mormora un'imprecazione mentre si scrolla la mano, flette le dita, ed una vaga smorfia gli attraversa la bocca.

"Vieni," sospiro. "Ti serve acqua fredda per quello."

Lo prendo per l'altra mano e lui mi segue senza fare parola, verso il bagno. Sempre in silenzio, Damon si dirige verso il lavandino per aprire il rubinetto dell'acqua, io richiudo la porta.

Vado ad appoggiarmi contro il mobile lì accanto, giocherello con il cestino delle saponette nel tentativo di ignorare il vago calore che mi pizzica la pelle quando sono più vicino a lui. Fallisco, così come fallisco nel mantenere il mio tono casuale e indifferente quando, dopo interminabili secondi, mi decido a domandare, "Di che si tratta?"

Ma Damon non sembra neanche notarlo, il mio tono non del tutto casuale e indifferente.

Con gli occhi incollati sull'acqua fredda che sta scorrendo sulla sua mano, risponde piano, "Solo Katherine che mi fotte la testa."

Sbircio da sotto in su, alla ricerca sul suo volto di quella smorfia o di quel sarcasmo che avrebbe dovuto trasparire ma che non era nella sua voce, ma non lo trovo neanche lì. Chiude il rubinetto con uno scatto secco, allunga la mano verso le carta per asciugarsi. Il mio stomaco si annoda un po' di più, ripensando a ciò che mi ha appena detto Rebekah.

"E' per questo … per questo che non vuoi più divorziare?"

Per la prima volta in tutta la sera, i suoi occhi si alzano spontaneamente per trovare i miei. Guardo dritto attraverso quell'azzurro adombrato, rendendomi conto con un sottile nodo alla gola che questa è una di quelle rare volte in cui non sono in grado, non importa quanto ci provi, di sapere davvero cosa ci stia passando dentro. Nessuna di quelle volte è mai finita bene per noi.

Damon esita. Poi corruga le sopracciglia, riporta lo sguardo sull'operazione di tamponarsi piano le nocche.

"Io … Le cose si sono … complicate. Non sono sicuro di come … scomplicarle."

Annuisco, anche se non c'è davvero niente a cui asserire. Provo a respingere l'irrazionale pensiero che magari è semplicemente di questo che si tratta, che ha dopotutto deciso che qualsiasi cosa complicata abbia con quella che è sua moglie sia più importante di qualsiasi cosa potremmo mai avere noi, che tutto si è esaurito in qualche giorno a San Francisco, che lui è andato avanti e non c'è più niente da dire. Provo a respingerlo, ma continua a tornare su, come un riflesso indesiderato, mentre annuisco un'altra volta, in uno stridente, "Certo. Lo capisco," che in realtà non capisce assolutamente niente.

Gli passo davanti diretta alla porta, prima di ritrovarmi a piangere davanti a lui, ma Damon mi ferma afferrandomi per una mano. Ha le dita fredde, ma il tepore si insinua lo stesso sotto alla mia pelle, quando le intreccia alle mie.

Mi volto, piano, verso di lui. Quando lo faccio, è un attimo, un battito che pulsa più intenso, per sapere che non c'è nessuna Katherine, lì nel suo sguardo, lì nella sua testa, lì nel modo in cui mi sta guardando. Nel movimento impercettibile delle dita con cui mi tira verso di sé.

Mi basta quello.

Il mio corpo reagisce prima ancora che lo faccia la mia testa. Le mie mani lo avvolgono, la mia bocca si chiude sulla sua, e tutto in me lo accoglie con un tale immediato abbandono che fa quasi male, sapere quanto ho desiderato poterlo baciare di nuovo.


"Scendi di lì, Elena! E' un'idea idiota!"

Come risposta, oscillando le braccia per mantenere meglio l'equilibrio, gli rivolsi un gran sorriso.

"Sì, un'idea tua!" gridai di rimando, in modo da farmi sentire anche al di sopra del rombo della cascata.

Damon portò le mani attorno alla bocca, per amplificare meglio la sua replica.

"Non intendevo sul serio che dovessi provarci tu!"

Lo ignorai. Ero troppo concentrata a mettere i piedi attentamente uno davanti all'altro, per trovare il sentiero migliore sopra alle rocce lisce e scivolose che portavano verso la sommità della cascata. Guardai giù.

Al limitare della riva, lì dove il getto d'acqua trovava la sua fine nell'insenatura del fiume sollevando intorno un fine spruzzo nebbioso, Damon mi osservava con la fronte corrugata, una linea preoccupata in mezzo alle sopracciglia. Gli mostrai la lingua.

Era iniziato in modo stupido. Gli avevo chiesto quanto pensava che fosse alta la cascata. Non tanto, aveva scrollato le spalle, più o meno sette metri, informandomi con un sorrisetto compiaciuto che lui l'aveva pure saltata, almeno un paio di volte. La cosa aveva fatto morire Stefan di paura. Lanciando uno sguardo alle rocce da cui l'acqua si catapultava, alcune nascoste dagli spruzzi, e al modo in cui la pozza d'acqua si restringeva appena sotto di essa, potevo capire il sentimento di suo fratello. Ma non ero riuscita a trattenermi dall'andare a stuzzicare il suo orgoglio con un noncurante, "Non mi sembra questa gran cosa."

Uno sbuffo di risposta da parte sua. "Vorrei vedere te, salire lassù."

Così lassù ero salita. Gli ci era voluto un po', per capire cosa stessi facendo, quando avevo iniziato a sfilarmi le sneakers di tela e la t-shirt, e lasciato cadere gli shorts intorno alle caviglie sotto alla sua espressione spaesata. Erano stati quello sguardo smarrito, quei titubanti "Che diavolo stai facendo?", la soddisfazione di averlo lasciato senza parole insieme alla carica di esaltazione di quel proposito azzardato, a farmi persino scordare, sul momento, di essere appena rimasta soltanto in biancheria davanti a lui. Per quando anche lui aveva realizzato quali fossero davvero le mie intenzioni, ed era scattato in piedi, io ero già a metà strada verso la cima.

"Sei fottutamente pazza!" mi urlò.

Sorrisi, tra me e me. C'era un sottotono orgoglioso, dentro a quella frase, che neanche tutta la parte da stronzo protettivo che stava recitando sarebbe mai riuscita a mascherare del tutto.

Feci un altro passo, verso l'alto, tra rivoli di acqua fredda che già scorrevano sotto ai miei piedi nudi. La roccia sottostante tremò, la mia presa slittò, persi l'equilibrio, lanciai un grido. Rocce e rami mi graffiarono le gambe, Damon urlò qualcosa, afferrai al volo un ramo più spesso che mi impedì di cadere del tutto e sfracellarmi. Sbirciai nuovamente in giù verso le rocce, questa volta con il respiro più corto e affannato. Damon era pallidissimo.

"Ok, basta così, smettila adesso!"

"Sto bene, sono quasi arrivata!"

Con una mano pulii dal sangue i graffi sul ginocchio, mi tirai su e ripresi la salita. Dal basso, mi arrivarono una serie ovattata di "cazzo" e altre imprecazioni. Quando diedi un'altra occhiata, Damon aveva già tirato via la sua maglietta e stava per togliersi anche i jeans. Un piacevole calore, sul petto e sulle guance, mi costrinse a mordermi le labbra e distogliere lo sguardo. Troppa distrazione. L'apice della cascata era solo ad un paio di passi di distanza.

Attentamente, bilanciandomi con le braccia, serrando la presa nelle dita dei piedi, mi alzai sopra di essa. Fu ebbrezza pura a riempirmi il petto, un brivido di euforia e di un soffio più freddo di vento, il batticuore pulsante e vivo dentro le vene. Non mi ero mai sentita così dannatamente bene.

"Te lo dico solo un'altra volta, vieni via di lì, o ti vengo a prendere io!"

Gli lanciai un sorriso, a Damon immerso nell'acqua fino ai fianchi, a Damon spaventato come doveva a sua volta esserlo stato suo fratello.

"Con piacere!" risposi.

E saltai.


Fu un afflusso di sangue e adrenalina così potente, improvviso, elettrizzante, da lasciarmi senza respiro, almeno quanto l'impatto con l'acqua gelida. Per un istante, vidi solo bianco e oscurità. Poi scattai d'istinto di nuovo su verso la superficie, ansimando alla ricerca d'aria. Come l'ossigeno tornò a riempirmi i polmoni, scoppiai in una risata, carica di vita.

"Oh mio dio!" gridai. "Oh mio dio, l'ho fatto davvero! E' stato fantastico!"

Scostai dagli occhi acqua e ciocche appiccicose di capelli bagnati, in respiri corti e affannati, senza smettere di ridere. Tra l'appannamento sottile della nebbiolina sottile di gocce d'acqua che spruzzava alle mie spalle, la figura di Damon prese forma, ondeggiando davanti a me.

"Lo hai visto?" domandai eccitata afferrandolo per le spalle. "Mi hai visto? E' stato incredibile!"

Damon provò a trattenersi, ma poi un lato della sua bocca scattò ugualmente all'insù.

"Lo so, vero?"

Risi di nuovo, incapace di contenermi, con le mani aggrappate alle sue spalle, galleggiando su e giù nella corrente gelata che non riusciva comunque a scacciare o rivaleggiare con quel brivido di euforia. Gettai un altro sguardo all'indietro, verso l'alto, per ricordarmi che ero davvero, davvero, appena saltata da lì.

Damon mi diede una leggera spinta sulla spalla, tornando serio. "Mi hai spaventato a morte."

Ridacchiai, reciprocando il colpetto. "Quello è stato parte del divertimento."

Un'altra spinta, un altro strattone, una finta di schermaglia, e l'incastro era già fatto.

Le mie braccia gli circondarono la nuca e le mie gambe il torace, cercando il contatto del suo corpo con la stessa naturalezza dell'abbraccio dell'acqua che ci avvolgeva all'altezza del petto. Galleggiando morbidamente, cercai i suoi occhi.

Li trovai trasparenti di luce riflessa, trasparenti dello stesso calore liquido che pulsava vivo in ogni  punto dove la nostra pelle si sfiorava. E per me non c'era altro che Damon, Damon e le sue labbra socchiuse, Damon e la sua mano ad accarezzarmi lenta una coscia, Damon e il mio cuore straboccante di adrenalina, straboccante del modo in cui mi stava guardando.

Presi coraggio.

"Ho rotto con Matt," gli bisbigliai, appena esitante, sollevando le ciglia per spiare la sua reazione.

Ma la notizia, la notizia che avevo in gola da giorni, insieme a tutti i sottintesi che si portava dietro, sembrò a malapena toccarlo. Sembrava molto più interessato a fissare la forma della mia bocca, che a ciò che gli stavo dicendo.

"Sì …" mormorò distrattamente. "…  Lo so."

Inclinò la testa, pochi millimetri di distanza, verso le mie labbra. Mi scostai, facendo leva con le mani contro il suo petto. Alzò su di me uno sguardo del tutto fuori focus.

"Cos'è che sai?" domandai circospetta, con una punta di delusione, sciogliendomi dalla sua presa.

Damon esitò, guardandomi confuso galleggiare via, via all'indietro verso riva, come se fosse appena inciampato in test a tradimento e fosse ad un secondo dal dare la risposta completamente sbagliata.

"Solo … Senti, dei ragazzi ne stavano parlando. Hanno detto che ti ha scaricato, dopo averti portato a letto." Si guardò attorno, bofonchiò. "Potrei avergli dato un pugno. O due."

Rimasi interdetta, la bocca spalancata. 

"Hai picchiato Matt?!" esclamai. Il livido scuro che gli avevo visto in faccia aveva adesso molto più senso. Decisamente non era quello, ciò che mi aspettavo. "Che diamine ti è saltato in mente? Non se lo meritava!"

"Certo che se lo meritava!" replicò, offeso. "Ti stavo solo difendendo!"

Non ci riuscii. Ci provai, ma non ci riuscii, a soffocare un'altra risata - forse per i residui dell'esaltazione, più probabilmente per la faccia che Damon fece - sentendomi orribile per stare davvero ridendo di quella cosa. Povero Matt.

Damon mi guardò sempre più spaesato, incapace di definire se fossi davvero arrabbiata con lui o se lo stessi soltanto prendendo in giro.

"Cosa, adesso?" chiese esasperato.

Dietro di me, con le mani toccai riva. Mi tirai su a sedere, percorsa da un brivido quando il mio corpo lasciò il rifugio dell'acqua.

"E' che …" Gettai un'occhiata timida verso Damon, mi mordicchiai le labbra. "E' che non è andata esattamente così."


Non è un bacio. Lo so dal modo in cui mi riempie, mi espande, mi espone. E' una liberazione.

Una in cui riverso tutto ciò che è troppo difficile, troppo complicato, troppo importante per dimostrare in parole. Le urla e i rimorsi che abbiamo lasciato a San Francisco, le possibilità che non ci siamo mai davvero concessi, rimpianti, sbagli, scuse, promesse, ammende. Ci riverso tutto quello che mi concedo di perdonarmi, tutto quello che mi concedo di poter avere. Il sapore di scoprire dove voglio stare, di sapere se lo voglio di poter essere sua.

Le sue mani sui miei fianchi che mi sollevano, mi premono contro il suo corpo, il bordo del lavandino che mi scava nella coscia. Dita che viaggiano, cercano, tirano vicino. Labbra sulla pelle, tra i capelli, tenere, bisognose. E' come se non ci fossimo sfiorati da anni, invece che solo da qualche giorno.

Finché tutto non si ferma, una girandola che smette di colpo di vorticare. Damon si ferma. Con i polpastrelli ancora sul mio collo, la fronte posata contro la mia, il respiro irregolare. Io barcollo in avanti, spaesata dall'interruzione improvvisa, alla ricerca di un altro po' di fiato, di un altro bacio, della sensazione di essere finalmente viva che avevo solo appena iniziato ad acciuffare.

Ma Damon si sottrae, anche se quasi impercettibilmente, anche se sembra costargli l'inferno.

"Questo, tra noi …" Lui sta parlando, io non capisco. "Adesso non posso … maledizione, Elena …"

Trasalisco quando tre colpi impazienti martellano la porta. Il mio battito si impenna, entrambi ci voltiamo. Damon mormora un "merda" sottovoce.

"Elena, posso entrare?" trilla la voce di Caroline dall'altro lato della porta. Ma è troppo allegra, troppo alta, troppo falsa - e lo capiamo subito entrambi, nello sguardo che ci scambiamo. "Non c'è bisogno che facciate già programmi per gli addii al celibato, ci ho già pensato io anche per quelli, sciocchini! Quindi, ora, posso fare pipì?"

Ci separiamo senza una parola, velocemente, un lampo taciturno per rimettere a posto gonna, capelli, camicia, consapevoli che più tempo impieghiamo ad aprire quella porta, più difficile sarà la spiegazione da dare. Sono abbastanza lucida da sapere che la cosa non promette bene, e ancora abbastanza mezza stordita da non rendermene davvero conto, mentre prendo fiato, giro la serratura, mi preparo a reggere qualsiasi scusa Caroline si sia inventata per coprirmi.

Ed infatti, il sorridente "Oh, Care, sei semplicemente impossibile da sorprendere" mi muore immediatamente sulle labbra.

Perché Elijah è con lei. Perché i suoi occhi si spostano subito sulla spallina del vestito che mi è rimasta abbassata. Perché il modo in cui mi guarda l'attimo dopo, quel misto di realizzazione, rabbia e sofferenza pura, mi gela dentro. Perché è tutto. Lo sa.

Anche Caroline rinuncia subito a tenere la finta. "Mi dispiace, ci ho provato," mi mima mortificata con le labbra.

Rebekah appare alle spalle di Elijah, un nuovo Martini nella mano. Gettandomi un'occhiata gelida, si sporge verso il fratello, con fare più pratico che dispiaciuto.

"Te lo avevo detto."


"Elena ..." Matt respirò sulla mia guancia, posando le mani intorno al mio volto. "Elena … aspetta. Elena … fermati."

Mi circondò il polso, già a metà strada nei suoi pantaloni. Sollevai lo sguardo su di lui, con voce tremula. "Cosa?"

La luce fioca di qualche lampione nella distanza riempiva di ombre l'interno del pick-up, rendendo la sua espressione ancora più morbida e dolce, molto più morbida e dolce di quanto meritassi, mentre delicatamente mi faceva allontanare da lui e dai suoi jeans.

"Rivestiti, per favore," disse piano, rimettendomi a posto la spallina del vestito blu che ancora indossavo dopo il pomeriggio di Miss Mystic Falls, tirando su la zip sulla mia schiena.

Mi scansai con un scatto brusco. "Perché? Pensavo che lo volessi. Hai cambiato idea?"

"No, io … Dio, eccome se lo voglio. Ma non se stai piangendo."

Avvicinò una mano al mio viso, mi sfiorò la guancia con le dita. Le ritirò umide di lacrime.

"Che ti prende?" scrutandomi in volto.

Mi ritirai ancora di più, rintanata sul sedile del passeggero, un grumo scuro a chiudermi la gola.

"Niente."

Mi sforzai di sorridere, attorno agli spigoli che mi stavano tagliando dentro, quando la mia testa si riempì di nuovo del pensiero di ciò che era appena successo con Damon, delle parole affilate che mi aveva gettato addosso, del vuoto che l'idea di averlo perso per sempre mi stava scavando dentro.

"Te l'ho detto," squittì la mia voce, mentre ripetevo la mia bugia. "Ho litigato con mio padre e … Possiamo per favore non parlarne?"

"Ma io voglio parlarne," insistette lui facendosi più vicino. "Non sono qui solo per uscire insieme o baciarci qui nel pick-up, sono il tuo ragazzo, e ti amo. Voglio che tu sappia che ci sono per te. Perché non mi lasci avvicinare?"

"Ti sto lasciando avvicinare, sei tu quello che non vuole fare sesso con me!"

La mia voce suonò infantile e petulante. Un lampo sofferto gli attraversò lo sguardo, ma non si diede per vinto.

"Non mi parli mai davvero. Della tua giornata, o di quando sei triste, o quando hai qualcosa per la testa … Non … non lo fai mai. Come stasera. Come ogni sera."

"Magari non ne ho voglia."

Matt deglutì a forza. "E' perché non sono Damon?"

Il mio cuore si congelò. Sanguinò.

"Non farlo," gli intimai. "Ne abbiamo già discusso."

"Sì, è tuo amico. Ma non dovrei essere io quello a cui ti rivolgi quando qualcosa non va? Voglio essere quella persona per te."

Quanto sarebbe stato facile dirgli di sì. Dopotutto, Damon lo avevo perso. Matt era qui. Disperato per avere quel pezzetto di me che custodivo così gelosamente e così fieramente, quel pezzettino di me che lui non avrebbe mai e poi mai fatto soffrire. Ma lo seppi con una lucidità ed una sicurezza affilate e dolorose, in quello stesso istante: Matt non avrebbe mai sostituito Damon. Nè avrei mai voluto che lo facesse, non importava quanto sanguinante e vuoto fosse quel pezzetto di me senza di lui.

"Matt, ti prego, smettila, questo non-"

"Perché non ti fidi di me come ti fidi di lui? Cosa devo fare per dimostrartelo?"

"Ti ho detto che non si tratta di Damon! Smettila di parlare di lui, smettila e basta!"

Matt inalò bruscamente, e lo feci anche io, di fronte al mio scatto improvviso.

Mi abbandonai all'indietro sul sedile, guardando il buio fuori dal finestrino, lacrime incontrollabili a bagnarmi il viso, il petto scosso da singhiozzi trattenuti che non volevo far uscire. Le mie dita avevano iniziano a correre su e giù per il ciondolo attorno al mio collo, intrecciandosi alla catenina argentata, fino a che non iniziò a fare male, il modo in cui l'avevo attorcigliata ad un polpastrello fermando la circolazione del sangue.

"Io e Damon non siamo amici. Non vuole neanche più vedermi."

Tirai la catenina fino a che quasi non tagliò la pelle.

Matt rimase a lungo in silenzio. Ma non mi girai a guardarlo. Restai a fissare il buio e il vuoto.

"Quella era da parte sua," disse infine.

Mi voltai, lentamente. Indicò la collana avvolta stretta attorno alle mie dita, e proseguì con la voce rotta. Più che rotta. Sconfitta.

"E' stato lui a farla riparare per il tuo compleanno. Non io. Lo sapevo che quello che ti avevo regalato non voleva dire niente, certo non in confronto a questo, e Damon ha voluto che fossi io a dartela. Pensando che saresti stata più felice, se a regalartela fossi stato io." Matt si fermò, il mio sguardo su di lui immobile come una pietra. "Ma si sbagliava, non è vero? E tu lo hai sempre saputo, che non avrebbe mai potuto essere un'idea mia."

Ingoiai sale e lacrime ed un'ondata di consapevolezza così potente e amara che quasi mi soffocò.

Lo avevo saputo. Lo avevo sempre saputo. Era solo più facile far finta che non fosse così.

Lasciai cadere le dita.

E mi sorpresi, di quanto ferma fosse improvvisamente diventata la mia voce, quando gli dissi che tra noi era appena finita.


"Elijah, fermati!" grido per una seconda volta.

Non mi ascolta. Affretto i miei passi lungo il marciapiede, sotto ai lampioni che iniziano ad accendersi mentre il crepuscolo già sfuma in un blu più scuro. Rallenta quando arriva vicino alla sua macchina, riesco ad afferrargli il polso. Lui mi spinge via la mano.

Non so in realtà che cosa sto facendo, né tantomeno cosa dovrei dire, se c'è davvero un qualsiasi modo per migliorare anche solo un po' le cose. Ma dopo che si è girato per andarsene senza dire una parola - tra l'imbarazzo di Caroline che non sapeva dove guardare, tra la mia espressione sconvolta, tra sua sorella intenta a guardarmi con una smorfia disgustata, tra le sommesse imprecazioni mormorate di Damon alle mie spalle - dovevo fare qualcosa, dovevo provare a spiegare.

Non era così che doveva andare. Mi maledico per essere stata una tale stupida superficiale, ed aver finito per fargli del male in ogni modo in cui non meritava di essere ferito.

"Lasciami solo spiegare …" cerco di dire, fermandolo dall'aprire lo sportello dell'auto.

Elijah appoggia le mani al tettuccio della macchina, distende le braccia e guarda il marciapiede, invece di guardare me, e so che sta, con tutto ciò che ha, facendo lo sforzo di non gridarmi contro. Non so se è perché siamo nel mezzo di una strada e ci sono anche i passanti, o se perché cercare di mantenere il controllo è semplicemente parte integrante di lui.

"Dio, sono stato un idiota," mormora. "Mi fidavo di te. Ed ho continuato a farlo nonostante i tuoi colpi di testa degli ultimi mesi, nonostante tutto, perché eri tu, e tu non sei capace di … Che idiota. Tutto questo tempo, tutte le tue scuse … Era di questo che si trattava? Farti una storiella con qualcun altro?"

Scuoto la testa. "No, ascoltami, non è …"

Si gira a guardarmi adesso, con la faccia tirata, la calma solo apparente che ugualmente non nasconde il colpo della pugnalata che ha appena ricevuto.

"Avevi intenzione di dirmelo?"

Deglutisco. "Sì."

Con una spinta si allontana dall'auto, e la rabbia inizia a stillare nella voce che si alza di tono.

"Quando? Il giorno prima del matrimonio? La notte dopo?"

"Elijah, per favore, possiamo-"

"Vuoi smetterla di mentirmi?" urla infine.

Il dolore nei suoi occhi è quasi troppo da sopportare. Non dico niente e, per un momento, restiamo semplicemente a guardarci, a guardare la fine di tutto ciò che c'è stato, di ogni cosa buona che è già diventata amaro e rimorso e lacrime ipocrite come quelle che mi stanno pungendo gli occhi. Faccio del mio meglio, per non lasciarle uscire.

Poi sospira, si passa una mano tra i capelli, ed io vorrei davvero non dover vedere quell'accenno lucido nel suo sguardo, o quella supplica nella sua voce.

"Dimmi solo che non ci sei andata a letto. Dimmi solo questo."

Non voglio mentire. Ma non voglio neanche ferirlo. Dio, non posso ferirlo così. E sento ancora il bisogno assurdo di proteggere Damon, di non tirarlo nel mezzo, quindi ci provo a sviare. Ma è un tentativo così debole.

"Non … Giuro che non ha niente a che fare con-"

Sussulto, quando sbatte con violenza la mano contro il tettuccio della macchina, interrompendomi, in uno sfogo improvviso di rabbia che non credo di avergli mai visto prima d'ora. Mi guarda dritto negli occhi.

"Da quando?"

Ingoio altre lacrime. "Da quando sei partito per Hong Kong."

"Perché?" domanda, perso. "Perché? Perché ti sentivi sotto pressione?"

"Elijah, per favore …"

Fa un passo verso di me, la sua voce si fa più intensa ad ogni parola. "Perché volevi tirarti indietro e questo ti è sembrato un buon modo per mandare a puttane le cose?"

Scuoto la testa, con forza. Lacrime mi annebbiano la vista. Voglio che la smetta. Non lo fa.

"Perché volevi farmi del male per qualcosa che ho fatto? Perché quello che avevamo non era abbastanza?"

Si è avvicinato e mi ha preso per un braccio, e fa così male riuscire a guardarlo negli occhi, ma mi costringe a farlo con una scrollata, e questo sarà peggio del tradimento in sé, lo so già che lo sarà …

"Perché, Elena? …" grida, e le parole mi escono di bocca prima che abbia modo di ragionarci lucidamente e fermarle.

"Perché lo amo!"

Inspiro a fondo e lascio uscire un altro respiro tremante, una qualche specie di scusante che in realtà non è una scusante affatto.

"Lo amo da quando avevo sedici anni."

Elijah mi lascia andare, fa un passo indietro. Se lo avessi accoltellato, qui e adesso, e rigirato lentamente la lama con un sorriso crudele sulle labbra, non gli avrei provocato lo stesso sguardo umiliato, tradito e disperato con cui mi sta guardando adesso.

Tiro via le lacrime con il palmo della mano. "Non ho mai avuto intenzione di …"

E' inutile. Non mi sta neanche più ascoltando.

Apre bruscamente lo sportello della macchina e, con questo, so che abbiamo chiuso.


Damon mi aveva raggiunto sulla riva. Sedevamo lì gocciolando acqua fredda, il tardo pomeriggio già quasi completamente alle nostre spalle a scaldarci ed asciugarci le schiene. Con la punta di un piede, continuavo a disturbare nervosamente la superficie gelida del fiume, sul limitare dell'argine.

Volevo che capisse. Volevo che capisse, cos'era che gli stavo dicendo.

"Non è vero, che ci sono andata a letto," dissi. "Pensavo di volerlo, pensavo che forse era quello che avrebbe fatto andare tutto bene … Ma non andava bene, e non lo sarebbe mai stato. Matt me lo ha fatto capire."

Mi fermai, sbirciando esitante verso la reazione di Damon.

Si era voltato a guardarmi, con quello sguardo un po' corrugato, mezzo sorpreso e mezzo perso, mezzo speranzoso e mezzo incredulo. Irradiò un'intensità tale, nel fondo del mio petto, che dovetti guardare altrove, per continuare a parlare. Presi tra le dita il ciondolo che si posava sopra le prime curve del mio seno.

"Me lo ha detto, che sei stato tu a fare questo per me," aggiunsi piano.

A quelle parole, Damon si girò su un fianco verso di me, appoggiandosi sul gomito. Lo osservai immobile ed in silenzio, attraverso il pulsare morbido nel mio petto, mentre l'altra sua mano mi sfilava delicatamente il ciondolo dalle dita, per prenderlo e rigirarselo tra le sue.

Si schiarì la voce, ma tutto ciò che disse fu, "Quel coglione. Glielo avevo detto di tenere la bocca chiusa."

Strappai la collana dalle sue dita.

"Sei un tale stronzo," gli rinfacciai. "Matt è un bravo ragazzo."

"Lo è davvero," ammise. Sospirò. "Ti rendi conto, vero, che adesso mi stai facendo sentire una merda per avergliele date?"

"Bene!" replicai risoluta. "Dovresti."

(No way out - Rie Sinclair) Damon guardò in su verso di me. Restammo ad osservarci, io con il mio sguardo di rimprovero, lui con il suo cipiglio corrugato.

Poi l'angolo delle sue labbra si contrasse appena, e si contrasse anche il mio, e il modo in cui mi sorrise, ed il modo in cui io gli sorrisi, fu tutto quello che c'era da dire. Diede un lieve colpetto alla collana, usandola per tirarmi giù verso di sé. Toccai il suo sorriso con il mio, chiudendo la bocca sulla sua.

Lo baciai a lungo e lo baciai a fondo, come se potessi prenderne e portarne via ogni secondo, e ampliarlo, e renderlo infinito. Lo baciai aggrappata alla base umida del suo collo, portandolo sotto di me, lo baciai attraverso il disordine bagnato dei miei capelli che caddero intorno riparandoci dalla luce. Lo baciai inalando il calore della sua dita che mi accarezzavano la schiena, e i brividi delle gocce fredde che rotolavano via dalla biancheria ancora fradicia appiccicata alla pelle. Lo baciai finché un piacevole indolenzimento sordo non iniziò ad irradiarsi su per tutti i muscoli del collo e della lingua.

Si sollevò e mi riportò giù con sé, una mano sull'incavo della mia schiena per muovermi facilmente più in su, di qualche centimetro via dalla riva, sopra un terreno meno ripido. Tracciò su di me ogni piccola gocciolina perduta dai miei capelli, dal collo alla clavicola, dalla clavicola al collo, dal collo alla guancia, dalle guance alle labbra.

Anche io tracciai su di lui. Tracciai spalle e scapole, fianchi e incavi, schiena e petto, più delicata sopra ai suoi lividi, marchiando ogni linea tesa, ogni muscolo asciutto che scoprii e imparai, fin dentro al fondo dei miei polpastrelli. Damon tremò quando arrivai al suo addome, la pelle più ruvida tutto d'uno tratto.

Mi fermai, cercai i suoi occhi. "Hai freddo?"

Damon mi osservò. La sfumatura distratta nel suo sguardo lentamente cedette il passo a qualcos'altro, ad una nota di sfacciataggine che filtrò anche nel suo mezzo sorriso, andando a sciogliersi tiepida tra le mie gambe.

"No."

Abbassò il viso per riportare dietro al mio collo, con un movimento caldo e lento della lingua sulla pelle, ed una mano che scendeva adesso verso il mio fianco. Mi inarcai d'istinto verso quel tocco, chiedendomi come fosse possibile che qualcosa di così squisito potesse essere una tale tortura, che ognuno dei suoi baci e ognuna delle sue carezze potesse dare sempre meno sollievo del precedente. Le sue dita dal fianco tornarono su, si fermarono leggere vicino al cotone bagnato sul mio seno, e quando il suo pollice ne sfiorò la cima indurita, fui io a rabbrividire violentemente.

Damon si bloccò, sollevò la testa. Sbirciando tra le ciglia, domandò preoccupato, "Hai freddo?"

Ma poi non ce la fece a trattenere il sorriso, quel sorrisetto compiaciuto da stronzo che sapeva perfettamente che non aveva niente a che vedere con il freddo.

"Stai zitto," risposi, agguantandolo con una mano sulla nuca per baciare quello stupido, sexy sorrisetto via dalla sua faccia.

Non me ne diede la possibilità, perché con uno slancio mi baciò per primo lui. Entrambi i nostri respiri iniziarono ad uscire fuori più corti, più incostanti, mentre mi curvavo per aderire tutta addosso a lui, seno contro petto, coscia a circondare coscia, bacino su bacino.

Amavo il modo in cui premeva contro il mio interno coscia, e ancora di più amavo tutti i suoi gemiti rochi e quasi esasperati ogni volta che un mio minimo movimento lo portava più vicino, più aderente al centro liquefatto delle mie gambe. Stavo affondando nella voglia di sentirlo, toccarlo, essere toccata. Ma le labbra di Damon non si allontanavano mai troppo dal mio collo, le sue mani non andavano oltre carezze sulla mia schiena e sul mio fianco.

Feci scivolare una mano tra i nostri corpi, cercando la rigidità che dava forma ai suoi boxers. Altro calore si irradiò da sotto il tessuto umido, su per le mie dita, quando Damon spinse istintivamente in avanti, rantolando un po' di più, affondando il viso nell'incavo del mio collo. Ma come mi spostai verso l'elastico, una delle sue mani si chiuse veloce sulla mia, e me lo impedì.

Scosse leggermente la testa, Io riaprii gli occhi confusa.

"Elena …" riuscì a dire tra respiri pesanti e irregolari. "Ci sto provando con tutto me stesso ad essere un gentiluomo qui, e mantenere il più possibile le cose ad un rating per famiglie. E tu me lo stai già rendendo un compito davvero, davvero impossibile."

Invece della mia voce uscì fuori una cosa instabile e roca.

"Non voglio il rating per famiglie. Voglio … te. Voglio …" Gli sfiorai la guancia con le dita, leggera sopra i piccoli graffi che ancora la segnavano. "… farlo con te."

Damon rimase immobile. Per qualche istante, neanche respirò. Per qualche istante, forse non respirai neanche io. Erano azzurro e amore e trepidazione a guardare giù verso di me.

Mi sollevai con la schiena dall'erba, quanto bastava per raggiungere con una mano la chiusura del reggiseno e farla scattare. La pelle umida del mio seno si fece fredda, quando entrò in contatto con l'aria, e ardente, quando a toccarla furono le sue dita e palmi della mano.

La sua lingua fu persino migliore.

Ed io mi sciolsi sul terreno, mi dissolsi nell'aria. Vidi bianco e vidi blu, tra le sue labbra e le sue dita, le stesse che piano fecero scivolare giù le mutandine, lungo le cosce, oltre le caviglie.

Si allungò su di me per raggiungere i jeans abbandonati per terra, trafficando tra tasche e portafoglio finché non trovò un preservativo.

La sua voce era rauca. "Va bene lo sai se non …"

Intrecciai le dita tra i suoi capelli. "Lo so. Va bene."

"Sei nervosa?"

"No," dissi piano. "Tu?"

Un mezzo sorriso teso. "Da morire."

Così mi sollevai e lo baciai di nuovo, accarezzandogli capelli, spalle, viso, fino a che ogni tensione non abbandonò le sue membra.

Tutto il mio mondo si ridusse solo a lui.


***


Giro le chiavi nella porta. La apro piano, sbircio dentro.

E' tutto quieto e quasi buio, se non fosse per la luce che arriva tenue dalla stanza più avanti, in una striscia indistinta di giallo caldo. La raggiungo, ma mi fermo sulla soglia, intrecciando incerte le dita nel cerchietto del portachiavi.

Damon non si volta. La luce che non è neanche lontanamente sufficiente ad illuminare l'intera stanza è quella della lampada da tavolo vicino a dove è seduto, con la schiena contro la base del divano, le gambe abbandonate lungo il tappeto ed un bicchiere con del bourbon che pende dalla mano del braccio posato su un ginocchio.

"Tranquilla, Barbie," dice. "Non lascerò in giro bicchieri sporchi dopo averli usati."

"Mi assicurerò di farglielo sapere," rispondo.

Damon si gira, corruga sorpreso la fronte.

"Care mi ha detto che te ne eri andato." Faccio oscillare in avanti le chiavi dal mio palmo. "E mi ha dato le sue chiavi."

"Non può proprio fare a meno di impicciarsi, eh?" replica con un quasi mezzo sorriso, prima di sporgersi ad appoggiare il vetro sul basso tavolino di fronte a lui. "Dio, che tempi duri mi aspettano. Sta già pensando che dovrei iniziare a chiamarla sorella." Una smorfia. "Come no."

Sopprimendo a malapena un sorriso, entro in sala. Raccolgo la gonna attorno alle gambe, mi siedo a terra accanto a lui.

Senza guardarlo in volto, dico a bassa voce, "Elijah ed io ci siamo lasciati."

"Già," dice soltanto, accigliandosi un po' di più. "Mi dispiace per quello."

Mi giro di scatto, un sopracciglio alzato ed un sottotono scettico nella voce. "Ti dispiace?"

Damon piega le gambe, posa entrambi i gomiti sulle ginocchia.

"Sì. Credici o no, sì." Si volta a guardarmi e, di fronte all'evidenza della mia faccia incredula, abbassa appena lo sguardo, l'ombra di un sorriso amaro a curvargli le labbra. "Ho veramente mandato a puttane ogni cosa per te, non è vero? Pur sapendo tutto quello che hai passato, e quanto deve essere stato difficile riuscire a trovare una qualche parvenza di normalità, della vita che ti meriti, sono comunque venuto qui, ho preso i tuoi piani e la tua possibilità di essere felice, e l'ho mandata completamente a puttane." Torna a guardarmi. "E di questo, mi dispiace."

Appoggio la testa all'indietro contro la curva del divano, e lascio che il silenzio cada sulle sue parole. Sui miei pensieri, su ogni scelta e conseguenza che mi ha portato adesso ad essere qui. Mi ritrovo lentamente ad annuire.

"Sì," dico. "Lo hai fatto. Hai davvero mandato tutto a puttane."


La temperatura cambiò in silenzio, cogliendoci impreparati, infida come un ladro. Una goccia di pioggia a bagnare la punta del mio naso, un'altra a chiudere la palpebra di Damon. Avevo guardato su strizzando gli occhi alla luce grigia filtrata dalle nuvole, rabbrividendo di quanto fredda fosse diventata l'aria, ma sempre con l'abbozzo di un sorriso mentre Damon, anche lui disteso su un fianco, allungava un braccio attorno alle mie spalle, tirandomi di nuovo indietro verso il calore del suo corpo.

"Dovremmo andare," dissi con un'altra occhiata all'insù. Socchiusi gli occhi quando un'altra goccia atterrò sulle mie ciglia. "Tra poco inizia a piovere."

"Nah," replicò, guardando in su anche lui. "E' solo una nuvola passeggera."

Ma il momento dopo tutto il suo viso si era increspato, sotto alla pioggia che aveva iniziato tutta insieme a cadere. Quella non era pioggia estiva. Era fina e fredda, odorava di terra bagnata e foglie secche, insinuava umidità fin dentro la pelle e le ossa. Quella era pioggia autunnale.

Recuperammo in fretta i vestiti, sporchi e fradici, corremmo tenendoci per mano indietro verso il sentiero, con le scarpe che affondavano nel fango.

Non ci fu nessun tramonto. Un momento c'era il finire del pomeriggio, quello dopo c'era un pesante cielo grigio ad inghiottire il mondo. E se ci fu un tramonto, io sicuramente l'avevo già mancato, perdendo la cognizione del tempo dentro all'abitacolo dell'auto parcheggiata dall'altro lato della strada in fronte al Grill. Protetta dal battere pesante della pioggia contro il tettuccio e dalle strisce d'acqua che colavano sui vetri, a cavalcioni su Damon sul sedile del guidatore - le mie mani sul suo collo, le sue sulle mie cosce, ancora piacevolmente indolenzite - incapace di staccare la bocca dalla sua e ancora meno di andarmene via.

"Quindi," scivolai con una mano sul suo petto, giocherellai timidamente con il colletto della sua maglietta. "Cosa succede adesso?"

Damon incrociò le braccia alla base della mia schiena. "Tu cosa vuoi che succeda?"

"Non lo so …" Mi strinsi nelle spalle. Continuai a tenere lo sguardo fisso sul suo colletto, mascherando con un leggero sorriso l'incerto nodo che aveva iniziato a prendere forma nella mia gola più si avvicinava il momento di tornare alla realtà. "Tu stai per andartene."

"Elena …"

"No, lo capisco. Davvero. Voglio dire, cosa finiresti per fare a restare qui, lavorare part-time al negozio di Rose? Lo sappiamo entrambi, che non è quello che vuoi. Lo sappiamo entrambi, che hai mille motivi per voler andare via da qui."

I secondi di silenzio da parte sua, riempiti dal picchiare sordo della pioggia contro i vetri, furono sfarfallii di amarognola consapevolezza a prendere il posto del mio petto.

"Fanculo tutto quanto, Elena," disse piano. "Voglio stare insieme a te."

Sbirciai in su, verso il suo volto.

"E poi, voglio dire, chi lo sa come andranno le cose, no? Un po' più di un anno, e hai finito col liceo, e te ne andrai in uno di quei college strafighi con un'enorme borsa di studio, perché sei intelligente e determinata così," premette l'indice sulla punta del mio naso, facendomelo arricciare in un sorriso. "E ce ne andremo ovunque vorrai. Ma solo se mi concedi di fare il temuto fidanzato che fa scappare via tutti quegli idioti di universitari che ti vengono dietro, e che trova sempre il modo di distrarti dallo studio."

"Lo intendi davvero?"

Si aprì in un sorriso. "Certo che sì."

Lo baciai con forza, serrando gli occhi più chiusi che mai, ma non fece niente per chiudere fuori anche quel molle, oppressivo grumo che continuava ad avvolgersi intorno alla mia gola.

Fu l'ennesimo squillare del suo telefono, che non aveva smesso ossessivamente di ricevere notifiche da quando eravamo tornati in una zona con ricezione, a farci staccare. Damon sbatté scocciato la testa all'indietro contro il poggiatesta, io mi spostai tornando sul sedile del passeggero.

"Cazzo," mormorò dando uno sguardo al display.

"Cosa c'è?"

"Niente," scosse la testa, rimettendolo in tasca. "Solo mio padre. Vieni qui."

Mi riattirò a sé.

"Passo da te più tardi, ok?" mi disse, tra un bacio e l'altro di saluto.

Corsi via verso l'entrata sul retro, inzuppandomi daccapo dalla testa alle scarpe. Come entrai, scuotendomi via l'acqua dai capelli, Jenna mi prese per un braccio, trascinandomi in disparte.

"Dove sei stata?" domandò con un sottotono preoccupato nella voce.

Mi sottrassi, leggermente infastidita. "Fuori. Perché?"

"Jeremy è con te?"

"No, io …" Mi fermai. Cercai il suo sguardo, allarmata. "Perché, dov'é?"

Jenna deglutì, e la sua espressione cambiò. "Non lo so."


"Puoi andare più piano? Non riesco a vedere niente."

Feci scivolare le mani giù sul finestrino dell'auto, lasciando una scia di impronte sul vetro, fuori solo pioggia e oscurità. Lo zio John fece come avevo appena chiesto, rallentando fino quasi a passo d'uomo, mentre i miei occhi scandagliavano freneticamente il ciglio spaventosamente buio della strada al di fuori.

"Magari sarebbe meglio tornare, e aspettare la polizia …" cercò di dire.

Lo ignorai, così come avevo già ignorato decine di volte durante l'ultima ora la forte urgenza di dirgli di tacere. Lui, e chiunque altro. I mormorii di panico di Jenna, la faccia pallida di mio padre, questo zio semi-estraneo che cercava di essere razionale e prendere il controllo della situazione. Potevano tutti andare al diavolo.

Avevano pensato tutti che fosse con me. Un bambino di dieci anni, che diventava invisibile e spariva sotto al loro naso, perché avevano semplicemente dato quello per scontato. Che fosse con me.

C'erano state chiamate ad ognuno dei suoi compagni di scuola, ad ognuno dei vicini, ad ogni per quanto piccola conoscenza potessimo pensare. Agli ospedali, alla polizia. Erano venuti al bar, avevano preso le dichiarazioni, ci avevano detto di restare fermi e che avevano già iniziato le ricerche dappertutto.

Ma io non potevo restare ferma. Perché mio fratello era là fuori, solo, infreddolito e spaventato, anche se sicuramente stava cercando di convincersi di non esserlo; perché era là fuori già da ore, e perché il malessere terrorizzato dentro al mio stomaco aveva già una vita tutta sua, mangiandomi di più ad ogni secondo che passava.

Damon non aveva risposto alle mie chiamate. Mio padre era un disastro tremante, riusciva a malapena a parlare, figuriamoci guidare. Sarei andata a perlustrare a piedi ogni vicolo io stessa, se lo zio John non si fosse offerto di accompagnarmi.

E adesso stava ancora parlando. "Ci siamo già allontanati parecchio dalla città, e non abbiamo modo di sapere con sicurezza quale direz-"

"Se sta scappando via," lo interruppi. "Allora è venuto in questa direzione."

Sud. Jeremy amava il sole e il caldo. Avrebbe scelto questa strada. Ripensai al suo zaino sparito con lui, così come tutti i suoi videogiochi compresi quelli che teneva nello scaffale sotto al bancone, e mentre me lo immaginavo prenderli ad uno ad uno con la sua espressione grave prima di uscire inosservato dalla porta, i miei occhi si riempirono di lacrime.

"Forse …"

"Là!" gridai, premendo le mani contro il finestrino. "Ferma la macchina. Ho detto, ferma la macchina!"

L'auto si fermò con un rumore stridente di pneumatici che slittano sull'asfalto bagnato. Aprii la portiera e corsi fuori, calpestando pozzanghere d'acqua con le leggere scarpe di tela, corsi finché non raggiunsi la fermata del bus e lui non guardò verso di me con i suoi grandi occhi marroni da Jeremy ed io potei gettargli le braccia attorno e tirarlo stretto verso di me.

Rabbrividì di freddo, fradicio della pioggia da cui la piccola tettoia della fermata non poteva ripararlo del tutto, quando lo rilasciai per iniziare a fargli domande in un torrente di rabbia, paura e sollievo, cosa stava pensando di fare, come era arrivato fin lì, dieci chilometri fuori città, cosa stava pensando, cosa stava pensando.

Rimase lì con la faccia seria.

"Credevo che tu fossi scappata via," disse. "Non volevo restare, se tu eri scappata via."

"Oh, Jer," Lo strinsi di nuovo, il viso completamente bagnato di lacrime e pioggia. "Non scapperei mai via da te. Non ti lascerei mai."

"Lo prometti?"

Mi appoggiai all'indietro sui talloni, ingoiai attorno al rigonfiamento amaro nel quale avevo di nuovo avvolta la gola, più spesso che mai. "Lo prometto. Vieni. Andiamo a casa."

Quando tornammo, rimasi per ore seduta fuori al buio sul primo gradino del portico.

La pioggia andò avanti tutta la notte.

Damon non arrivò mai.


Damon non replica. Guarda fisso di fronte a se, e anche lui annuisce in silenzio. Così, io continuo, lascio che tutto venga fuori, diretto, senza filtri.

"Hai mandato tutto a puttane per me nel momento in cui hai rimesso piede nel mio bar. E hai continuato ad incasinare e mandare tutto al diavolo più e più volte, non importa quanto io abbia provato ad impedirlo, non importa quanta fatica ho fatto per fermarlo. No, tu hai dovuto gettare tutto sottosopra, hai dovuto lasciarmi completamente persa, senza più punti di riferimento. Quindi …" Un lieve sorriso mi tende le labbra. "… Grazie, per averlo fatto."

Damon si volta lentamente. Mi osserva cauto, profonde ombre blu nei suoi occhi alla morbida luce della piccola lampada. Sento il mio cuore farsi un po' più ampio, la mia voce un po' più tremante.

"Pensi di aver rovinato la mia possibilità di poter essere felice vivendo un perfetta vita normale? Beh, la vita non è normale o tantomeno perfetta. E' incasinata, e complicata. E sai cosa? Va benissimo così. Per così tanto tempo ho provato a fare le scelte più giuste, quelle che in qualche modo avrebbero dovuto finire per far andare tutto bene. Ma non lo hanno fatto. Perché tutto quello che avevo, tutto quello con cui mi ero ritrovata, non era … non lo so, non era davvero mio. Mi sono aggrappata al mandare tutto avanti, con la mia famiglia, con il locale … Perché era il sogno dei miei genitori e tutto ciò che volevo era mantenerlo vivo. Ma era il loro sogno. Non il mio. E non sto dicendo che lo rimpiango, sto solo dicendo … che mi sono concentrata così tanto su quello da lasciare che mi dimenticassi chi fossi io, al di fuori di questo. E mi sento come se stessi soltanto adesso iniziando a scoprirlo." Mi interrompo, giocherello un po' timida con l'orlo del mio vestito. "Questo pomeriggio ho dato a Jenna la piena gestione del Grill, e lei quasi non ci credeva. E Bonnie mi ha dato il contatto di un consulente studentesco al Whitmore. Lo incontro domani per iniziare a pensare cosa scegliere, alle pratiche di iscrizione. Andrò al college," e guardo in su verso di lui, senza riuscire a nascondere del tutto un sorriso, e anche le labbra di Damon si tirano all'insù, e lo fanno con quella nota di orgoglio che mi fa quasi arrossire. Mi schiarisco la voce.

"Ma, immagino, che quello che sto veramente cercando di dire …" Ho la gola più spessa, e il petto più tiepido, mentre allungo la mano verso la sua, la prendo nervosamente nella mia. "Quel matrimonio, o illusione di avere una piccola vita perfetta … Penso che sia io che Elijah avessimo messo fin troppo sforzo nel cercare di trasformarlo in quello che volevamo che fosse, ma che non era davvero. Non era reale. Ed io voglio qualcosa di vero, Damon, lo voglio anche se fa male. Non sapevo più chi io fossi o cosa volessi, e tu mi ci hai messo di fronte anche se mi spaventava da morire. Fingevo di stare bene, e tu mi hai fatto mettere tutto in dubbio. Avevo dimenticato cosa si provasse a sentirsi davvero vivi, e tu me lo hai ricordato. E ti amo, per questo." La mano mi trema appena mentre stringo la sua più fermamente, sollevo il volto su di lui. "Ti amo, Damon."

I suoi occhi si allargano nei miei, cercano nel mio sguardo per vederlo lì oltre che nelle mie parole, e quando lo fanno, sono io che vedo un mondo intero nei suoi, il suo e il mio, da cui mi lascio riempire completamente. Il mio battito accelera mentre la sua mano raggiunge il mio viso, mi accarezza i capelli, si posa sulla base del collo. Abbassa la fronte fino a toccare la mia.

"Hai una vaga idea," mormora attorno ad un sorriso abbozzato, "quanto ho aspettato di sentirtelo dire?"

Mi sfugge una leggera risata. "Solo un'idea vaga."

Chiudo la mia mano sulla sua, ferma sul mio profilo, gli sfioro piano la pelle con le dita.

"Penso che sia grandioso quello che stai facendo, quello che vuoi fare," prosegue, abbassando appena lo sguardo, deglutendo un po'. "E davvero credo che dovresti. Andare là fuori, essere te, prenderti tutto quello ti meriti. Perché sei intelligente e determinata così." Mi sento sorridere di nuovo, stringo più forte la sua mano. "Voglio davvero che tu lo faccia."

"Lo sai," sussurro. "Ci sono un sacco di ottimi college in California."

Damon si scosta. Non di tanto, ma abbastanza da farmi alzare lo sguardo a scrutare la sua faccia con un'occhiata interrogativa. Corruga la fronte, serra leggermente le labbra.

"Sai quando prima … Ho detto che le cose con Katherine si sono fatte un po' … complicate."

La sua mano scivola piano via dal mio volto, e la sua voce si fa particolarmente incerta mentre aggiunge, "Elena, c'è una cosa che devi sapere."

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Capitolo 24
*** Lovers' eyes ***


Prima di lasciarvi alla lettura.

A chiunque mi abbia mai chiesto che intenzioni avessi per la fine delle mie storie, in generale, qui come altrove, ho sempre risposto la stessa cosa: non credo nell’happy ending a tutti i costi, così come non credo nel non-happy ending tanto per fare l’alternativa. Credo nei finali che sappiano dare compimento ad un percorso, che diano “chiusura” ai personaggi e a chi li legge, ed ho sempre cercato di lasciare che anche SL prendesse da sola questa strada, senza forzare la mano.

Ho iniziato questa storia due anni fa, nell'agosto del 2013. Avrebbe dovuto essere una mini-long senza troppo impegno, circa una decina di capitoli, rapida e indolore. Beh, non esattamente indolore, but still: non doveva prendere troppo tempo. Solo che poi ha preso vita. I suoi personaggi, dai protagonisti ai personaggi secondari e fino alle comparse minori, mi hanno preso le dita e la testa. Più io li scoprivo, più loro avevano cose da dire.

Penso però che mi sia stato chiaro più o meno fin da subito, che questa non era mai davvero nata come una storia d’amore tra due persone. Era forse più la storia di tutto quello che ci sta intorno; dei conflitti e delle circostanze personali che ci definiscono; delle scelte, giuste o sbagliate, che per amore (tutti i tipi di amore) si fanno; di opportunità mancate così come di seconde possibilità.

Credo che la sua chiusura abbia senso alla luce di tutto questo, e per me questa è stata la cosa più importante. Non l'ho scelta io. Come sempre, l'hanno scelta loro.

Anche se in breve (per adesso), voglio solo ringraziare, dal più profondo del cuore, tutte le persone che ci sono state fin qui: chi c'è da sempre, chi si è perso per strada, chi è tornato, chi ha lasciato mille ipotesi analisi e riflessioni, chi anche solo un pensiero, chi l'ha fatto sempre e chi solo una volta. Soprattutto ringrazio l'entusiasmo che in questi due anni mi avete dato, e che ha reso la scrittura un'attività molto meno solitaria di quanto altrimenti sarebbe stata.

Insomma, solo … grazie.


ever


23.

Lovers' eyes


- But do not ask the price I paid,
I must live with my quiet rage,
Tame the ghosts in my head,
That run wild and wish me dead.

Should you shake my ash to the wind
Lord, forget all of my sins
Oh, let me die where I lie
'Neath the curse of my lover's eyes. -

(Lovers' Eyes - Mumford & Sons)


Damon


Tre mesi fa


"… e questo, Jack, è il motivo per cui hai bisogno di noi."

Finisco con sicurezza il mio discorso al tipo in completo e camicia di fronte a me, che ho appena passato l'ultima ora e mezza a convincere del fatto che le superiori capacità di programmazione di Ric sono esattamente ciò che gli serve per la nuova piattaforma di pagamenti online che ha intenzione di lanciare. Lui appoggia il mento sulle dita e rilassa appena le spalle, tutte piccole spie che mi dicono che ce l'ho quasi fatta a portarlo dentro. Ha solo bisogno di quella leggera spintarella finale.

"Ok. Quanto mi costerà?"

Il mio telefono vibra contro la superficie del tavolo, gli lancio un'occhiata. E' lo stesso numero sconosciuto che mi sta chiamando per la terza volta. Scambio uno sguardo con Ric seduto accanto a me, lui annuisce e, senza una parola, esce dalla meeting room per prendere la chiamata al posto mio.

Mi sporgo in avanti, incrocio le dita tra di loro. "Diecimila di anticipo. Altri cinquanta a fine lavoro."

Lui fischia, fa l'esagerato.

"Oh, non essere un idiota," replico. "Quel tipo è un genio, e lo sai anche tu."

Ric riappare sulla porta, che tiene aperta con una mano, ma non rientra. "Damon? Questa la devi prendere."

Mi alzo, getto un altro sguardo al nostro potenziale nuovo progetto. "Pensaci. Torno subito."

Mentre sfilo il telefono dalle mani di Ric con un'occhiata interrogativa, lui mi dice solo, a bassa voce, "Tuo fratello."

Rientro nel nostro piccolo ufficio, sgraffigno la pallina anti-stress di Ric dalla sua scrivania e la tiro in aria con una certa soddisfazione per come sta andando l'incontro, mentre mi appoggio contro il bordo e rigiro il telefono tra le dita per portarlo all'orecchio.

"Sarà meglio che ne valga la pena, Stef."

"Si tratta di papà."

Non è per via del tono. Sono abituato a quel tono in bocca a mio fratello, quel tono grave che è capace di usare anche per quando sono finiti i cereali. E' il modo diretto e senza giri di stronzate in cui lo dice, a far scivolare via all'istante i residui del vago sorriso che avevo fino ad un attimo fa.

"Ti sto chiamando dall'ospedale. Questa mattina, dopo che … Il suo cuore … Damon, è stato tutto così veloce, i-io … non ho potuto …"

Le mie dita allentano la presa sulla pallina, mentre il mio battito corre più veloce ed io lo so già, lo so e basta, anche prima che la voce distante di Stefan incespichi ancora un po' su dettagli sconnessi che non ascolto e finisca di rompersi.

"Papà non c'è più."

Guardo di fronte a me. E aspetto, aspetto che la vera realizzazione si depositi, che sia in una qualche sensazione che sbuca sul fondo del petto, o nella palla anti-stress che scivola via dalla mia mano. Ma la pallina resta lì tra le mie dita, meno stabili ma non del tutto, e l'unica sensazione che ho sul fondo del petto è solo questo teso pulsare che non dice poi niente, in fin dei conti.

"Damon?" Stefan mi chiama, incerto, dopo lunghi secondi di silenzio. "Sei lì? …"

Sbatto lentamente le palpebre, torno a rimettere a fuoco le cose. Poso con attenzione la pallina di nuovo al suo posto.

"Sì," dico. "Sì."

"Forse potresti-"

"Devo andare, Stef."

Lascio abbassare il braccio che si è fatto più pesante, premo il tasto che pone fine alla chiamata. Lo fisso per qualche istante, e poi faccio scivolare il dito più in su, spengo il telefono del tutto. Lo appoggio sulla scrivania, accanto alla pallina. Lo lasciò lì, mi dirigo di nuovo verso la meeting room.

"Quindi," dico, tornando alla mia sedia. "Jack, dove eravamo rimasti?"

***


Adesso


Elena mi osserva disorientata. Sbatte appena le ciglia, come se pur avendo sentito ciò che le ho appena detto non riuscisse del tutto a mettere a fuoco il concetto.

Non c'è niente che vorrei di più che attirarla verso di me, e baciarla con la stessa fierezza con cui lei ha appena pronunciato quelle due parole che avevo quasi smesso di sperare di sentirle davvero dire, e restituirgliele un altro migliaio di volte, ma come provo a sfiorarla di nuovo, lei si scosta immediatamente.

Cerco altre parole, qualcos'altro da aggiungere, ma non riesco a trovarne nessuna. Dopotutto, in quanti possono dire che, di fronte alla più dolce e perfetta dichiarazione, quella che stanno aspettando da una vita intera, tutto ciò che costretti dalla loro coscienza riescono a rispondere è, "Ehi, ti ho mai detto di quella volta che ho messo incinta la mia moglie malvagia?"

Fanculo a me, solo io ho certi privilegi.

"Katherine …" Elena mi cerca con gli occhi di un cerbiatto smarrito. "Lei … ? Insomma, c-come …?"

Quando i nostri sguardi si incrociano, so che nessuno di noi vuole davvero mettersi ad approfondire troppo la risposta a quella domanda.

"No, dimentica che io l'abbia chiesto," infatti aggiunge subito, scuotendo con forza la testa come per scacciare via l'immagine. Con piacere. "Io non … Voglio dire … Oh mio dio," deglutisce. "Penso di aver bisogno di un momento."

Fa per alzarsi in piedi, ed io d'istinto allungo una mano per fermarla, ma lei mi blocca sollevando un palmo nella mia direzione.

"No. Penso che un momento per assimilare la cosa sia una richiesta del tutto ragionevole, dato che mi hai appena detto che stai per avere un figlio da un'altra donna."

Che? Scatto anche io su in piedi come uno di quei pupazzi a molla che escono dalle scatole.

"Whoa, aspetta un attimo, io non ho mai detto niente riguardo al-"

"Tu cosa?!"

Sia io che Elena ci voltiamo verso quello squillo acuto, uno squillo da Caroline, che è appena arrivato dalla porta alle nostre spalle, dove la mia bionda "sorella" di prossima acquisizione mi sta fissando con la bocca che tocca terra, insieme a Stefan lì accanto a lei che invece si limita a cimentarsi in un accigliamento confuso.

"Stai scherzando?!" prosegue in altro stridio acuto, rimbalzando lo sguardo incredulo tra me ed Elena. "Come diavolo è potuto succedere?"

"Oh, cristo santo," mormoro passandomi entrambe le mani sulla faccia, prima di sbottare esasperato. "Possiamo per favore bandire completamente questa domanda dalla questione? Penso che siamo tutti piuttosto familiari con la procedura. Grazie."

Elena, accanto a me, deglutisce un'altra volta con ancora più sforzo di prima, si volta per riprendersi la piccola borsa che aveva appoggiato sopra il divano. "E' meglio se me ne vado."

"Aspetta, Elena, non-"

Mi ferma con una sola occhiata. Non arrabbiata, non del tutto perlomeno, ma un'occhiata abbastanza intensa da farmi sapere, senza aggiungere altro, che devo darle il suo spazio in questo momento. Ed anche se mi costa tutto ciò che ho - la sola idea di tutti i modi diversi in cui questa notte sarebbe potuta andare, e ancora di più quella di lasciarla andare quando fino a solo qualche attimo fa non era mai stata tanto vicina - annuisco appena per farle sapere che non glielo impedirò.

Mi ritrovo da solo con il doppio sguardo giudicante di Stefan e Caroline.

Lei scuote sconsolata la testa.

"Oh dio," sospira. "Sei proprio un coglione."


***


"Benvenuti nella mia casella vocale. Se non rispondo è perché ho di meglio da fare, oppure non vi voglio parlare. Se è il primo caso, lasciate un messaggio e forse potrei richiamarvi. Se è il secondo, non fare neanche lo sforzo, Damon."

Chiudo la chiamata con un altro "Fanculo, Katherine" che mi rimane stretto tra i denti, nonostante lo sapessi già in partenza quanto fosse vano tentare di nuovo di parlarle.

Katherine se ne è andata da qui due sere fa. Praticamente subito dopo quel nostro incontro per il divorzio che non è mai andato in porto, con tanto di granata che mi ha gettato addosso, impacchettando in fretta e furia le sue cose per portarle al bed&breakfast più vicino. Se solo lo avessi immaginato, di cosa c'era bisogno per farla sloggiare. Ma da come è andata a finire la mia richiesta di incontrarci per parlare ieri sera, alla festa di fidanzamento di Stefan e Caroline, dubito che abbia alcuna intenzione di discutere ulteriormente la questione. Ed in effetti non lo so nemmeno io cos'altro ci sia da dire, o perché non lascio perdere e basta, invece di continuare a sbatterci inutilmente la testa.

Elena, invece … Non ci provo neanche. Almeno due o tre volte, da quando mi sono svegliato, sono arrivato fino al punto di avere il suo nome e numero sul display, pronto per essere chiamato, ma quel pulsante verde non l'ho mai premuto. Ogni volta, ho rivisto lo sguardo con cui mi ha fermato e chiesto di lasciarla andare ieri sera, e dato che niente è cambiato, mi costringo a lasciarle lo spazio di cui ha bisogno, anche se starle lontano in questo momento è pura sofferenza fisica che, combinata con tutto il resto che mi sta passando per la testa, ha come unico risultato quello di rendermi un derelitto, fottutamente incasinato, sacco di depressione.

"Avanti," sussurra pungolante una voce dietro di me. "Vai."

"Cosa? Perché?" replica un altro sussurro.

"Perché è così da quando ci siamo svegliati, sembra miserabile! Ed è tuo fratello, non mi va di lasciarlo così." Una piccola pausa. "Però io ho un matrimonio da organizzare, quindi vediamo di sbrigarci."

Faccio roteare gli occhi al soffitto, scivolo più in basso con la nuca contro la base del divano ed appoggio un piede sopra il tavolo. "Posso sentirvi, idioti."

"Vai e basta!" sento Caroline sussurrare di nuovo, prima che mio fratello sospiri ed incespichi contro il tappeto, come se fosse appena stato spinto in avanti dalla sua adorabile fidanzata.

L'attimo dopo, entrambi mi compaiono davanti.

Stefan si siede sul bordo del tavolino, Caroline invece mi afferra la caviglia e mi costringe con un'occhiataccia a togliere il piede da lì. Sbuffo infastidito, ma obbedisco.

"Ora che c'è?" domando scocciato.

Caroline non si perde in tanti preamboli. Allunga una mano e mi schiaffeggia con forza sul retro della nuca.

"Che cavolo?!" esclamo allibito scattando a sedere, massaggiando con una mano il punto dolorante che ha appena colpito.

"Questo è per non aver usato il preservativo!"

"Ho usato il preservativo!" ribatto offeso. Anche se … "Beh, più o meno. Insomma, ero davvero ubriaco, e potrei non … Sentite, possiamo non farlo? Per favore?"

"E invece sì che dobbiamo farlo!"

"E invece no. Non ho diciassette anni e tu non sei mia madre - grazie a dio. Cosa vuoi, farmi la ramanzina e stare a dirmi la gigantesca cazzata che ho fatto? Grazie, ma non ce ne è bisogno, lo so perfettamente anche da solo."

Stefan solleva lo sguardo, mi osserva serio.

"Andiamo, Damon. Non è la fine del mondo."

"Non è la fine del mondo?" domando sarcastico. "Ho praticamente procreato l'anticristo. Come la chiameresti tu, se non la fine del mondo?"

Lui e la bionda si scambiano una lunga occhiata.

"Vuoi farlo tu?" domanda lei.

Stefan mi indica con un gesto della mano, concede cortesemente. "Prego. Fai pure."

Caroline mi assesta un altro deciso ceffone sulla nuca.

"La vuoi smettere?!" sbotto frustrato.

"E tu smettila di fare l'idiota. Non hai procreato l'anticristo."

"Viene da Katherine. E da me. La genetica non è chiaramente dalla sua parte." Ci rifletto per qualche secondo. "Credi che verrebbe fuori con tre teste?"

Alzano entrambi gli occhi al cielo, in sincrono perfetto, doppia dose di seccatura, doppiamente insopportabile. Se penso che adesso si sposano pure … L'umanità è praticamente spacciata.

"Ma sei almeno sicuro che sia tuo? Che non se lo stia inventando per trascinartici dentro?" prosegue Caroline.

Stefan le lancia un'occhiata di traverso. Lei con le labbra gli mima un innocente, "Cosa? E' una domanda legittima!"

Mi passo una mano tra i capelli, sospiro, mi accascio ancora più in basso e ancora più depresso lungo il tappeto. Pensa davvero che quella non sia stata una delle prime cose a passarmi per la testa, ciò a cui mi sono aggrappato per auto-convincermi che Katherine stava solo facendo la Katherine con l'intento di fregarmi e ricavarne qualcosa? E' stata la discussione che abbiamo avuto ieri sera, quella dopo che le sono corso dietro (Ahah. Io che corro dietro a Katherine. Qualcosa che non avrei mai pensato potesse più succedere neanche nei miei incubi peggiori) non appena l'ho vista apparire alla festa di fidanzamento di questi due, a farmi scoppiare tra le mani anche quella debole illusione.

"Cosa voglio da te?" mi aveva sibilato in faccia, prendendo la mia domanda e risputandomela addosso con stizza. "Voglio non essere incinta del tuo stupido bambino!"

"Non è detto che sia mio!"

"Sul serio?" aveva replicato, un lampo di ferimento a balenarle nello sguardo che mi aveva quasi fatto sentire un po' uno schifo per averglielo detto. "Pensi davvero che andrei a letto con qualcuno in questa stupida città di provinciali? Ho degli standard. Anzi, no, lo sai cosa? Credi pure quello che ti pare. Non me ne frega niente. Ho già preso appuntamento per liberarmene quindi, in ogni caso, non ha nessuna importanza."

Aveva allargato la mani come per sottolineare che per lei la questione era finita lì, ed io non so perché mi fossi sentito tutto insieme un tale idiota, né tantomeno perché, quando si era girata per andarsene, invece di lasciarglielo fare l'avevo afferrata per il polso per farla voltare di nuovo.

"Non dovremmo …" Avevo esitato, avevo davvero esitato, costretto ad ingoiare con difficoltà attorno ad un nocciolo duro appena spuntato nel mezzo alla gola. "…. Non dovremmo almeno prima parlarne?"

"Parlare?" Katherine aveva riso, di quella risata leggera e cristallina che un tempo avevo adorato, macchiata però questa volta di un sottotono più amaro, appena prima di strattonarsi via dalla mia presa e liberarsi di me. "Vuoi parlare di qualcosa, fallo con il mio avvocato."

Sì, lo so. La rivincita è una stronza, quando se la prendono gli altri, e ancora di più quando risponde al nome di Katherine Pierce.

Ma rivincita o no, era lì che lo avevo saputo, al di là di ogni dubbio che ancora avrei voluto avere. Per rispondere a Caroline, scuoto la testa.

"Non mi sta trascinando dentro a niente. Conosco Katherine. Se era a questo che puntava, se la sarebbe giocata fin dall'inizio molto diversamente. Penso che in realtà non volesse neanche farmelo sapere, lo ha fatto solo per gettarmi addosso qualcosa perché in quel momento era incazzata per non aver avuto il divorzio che voleva. Voglio dire, non lo vuole neanche tenere. Che è una buona cosa, alla fine. Insomma, problema risolto." Annuisco per imprimere ancora più convinzione all'ultima frase. Guardo entrambi. "Giusto?"

C'è un momento di troppo di silenzio, nel quale Caroline annuisce leggermente con le labbra serrate appena prima di spostare lo sguardo sullo status della propria manicure, e Stefan fissa qualcosa oltre le mie spalle, ed io sospiro passandomi entrambe le mani tra i capelli, senza sapere perché se il problema è risolto io mi debba sentire un tale schifo al riguardo.

"E' tutto sbagliato," mormoro tra me e me. "Non dovrebbe stare accadendo a me. Ho sempre pensato che sarei stato lo zio figo, no? Quello che viene e va e che può avere tutte le parti divertenti senza realmente dover rimanere incastrato con la … cosa. Quello dovresti essere te, Stef."

Il silenzio che segue è così immobile che sollevo di nuovo la testa solo quando sento il rumore di tacchi sul pavimento. Caroline si è alzata, si schiarisce la voce evitando il mio sguardo.

"Mi sta … suonando il telefono. Deve essere il fioraio. Devo andare."

Non è vero che il telefono le sta suonando, ma sono davvero troppo un totale imbecille per realizzare cosa ho appena detto fino a che Caroline non si affretta a lasciare la stanza ed io non incrocio ciò che passa negli occhi di mio fratello mentre la guarda andare.

"Merda," mormoro, premendo due dita contro la radice del naso, maledicendomi per non far funzionare il cervello prima di parlare. "Merda. Mi dispiace, non volevo …"

"Va bene," mi ferma lui.

Non va bene per un cazzo.

Mi sporgo in avanti fino a posare i gomiti sulle ginocchia, ingoio attorno allo stesso nocciolo duro che non se ne è più andato da ieri sera, senza riuscirci davvero. Lo faccio suonare come una qualche specie di scusa, non so se più verso di lui o verso me stesso.

"Non posso avere un figlio. Non posso … e basta."

Quando incontro il suo sguardo, mio fratello mi studia in silenzio per un lungo istante.

"Allora è un bene che non lo voglia tenere."

Lo è? Cazzo, non lo so. Non so più un cazzo di niente. Il modo in cui lo guardo in risposta è molto più che implorante. Lui lo nota, perché subito fa di nuovo roteare gli occhi al soffitto prima di riportarli su di me.

"Cosa ti aspetti che ti dica, Damon?"

"Non lo so! Una di quelle …" Agito vago una mano nell'aria. "… cose da Stefan. Lo sai, quelle noiose, ragionate, in cui mi dici quale è la cosa migliore da fare … Cose da Stefan."

"Beh, scordatelo. Non ho intenzione di farlo," dice alzandosi in piedi, verso la direzione da cui Caroline è appena uscita. Mi posa brevemente una mano sulla spalla. "Non questa volta."


Stefan stava dormendo. Era sempre bianco come un fantasma, un terreo alone viola sotto agli occhi che sarebbe stato perfetto per una festa di Halloween ed una vaga smorfia sofferente a contrargli il volto che mi si attanagliò dritta attorno al petto. Rimasi lì qualche minuto, sulla soglia della camera d'ospedale, senza ancora decidermi ad entrare, stordito dal dolore pulsante alla testa che mi perseguitava dal primo momento che avevo aperto gli occhi.

Non che fosse stato male come risveglio. Lì nel letto di Elena, così circondato dal suo odore da ritrovarmi con indurimento mattutino che era perfino doloroso, mentre premeva contro il materasso, ma di un dolore così squisito che quasi cancellava l'altro, quello sordo e persistente diffuso nelle ossa e nella testa dall'incidente della notte prima.

L'incidente. Stefan. La cena dal governatore. Mio padre.

Tutte quelle cose erano da sole bastate a farmi martellare le cervella ancora più pesantemente. E neanche il bozzolo piacevole dell'odore di Elena era riuscito a tenere la realtà fuori troppo a lungo.

Realtà ovvero mio fratello steso in un letto d'ospedale con un organo di meno; mio padre che si stava costruendo una carriera politica sulla rovina della famiglia della ragazza che amavo; la ragazza a cui avevo detto di amarla nella notte, che non era più lì al mattino.

Era sembrata una buona idea, nel buio, sul momento, buttare fuori ciò che avevo in egual misura desiderato e temuto dirle da così tanto tempo. Al risveglio, non sapevo più se lo fosse stata davvero. La nota positiva era che lei mi aveva baciato (dio se mi aveva baciato, cosa su cui anche la mia erezione concordava). Quella non così positiva era che da parte sua prevedibilmente non c'era stata, in effetti, nessuna presa di posizione sulla cosa. E per quanto ci provassi, non riuscivo a smettere di pensare che forse non voleva davvero dire niente, che magari si era solo lasciata trasportare dal momento, insieme ad un po' di compassione per lo stato in cui mi trovavo, per poi pentirsene non appena si era svegliata ed era tornata a ragionare con lucidità.

Neanche la nota scribacchiata su un pezzetto di carta che avevo trovato sul pavimento mi aveva aiutato granché a far pendere la bilancia dall'una o dall'altra parte. Quelle parole le avevo lette non so più quante volte, in ogni diverso tipo di tono o accentazione, come se uno di essi potesse essere quello giusto per risolvere il mistero di cosa le stesse davvero passando per la testa.

Anche mio padre mi aveva lasciato un messaggio, un sms stringato sul cellulare.

Torna a casa, così possiamo parlare.

Quello invece lo avevo cancellato senza pensarci due volte.

Casa. Parlare. Non era difficile immaginare dove volesse andare a parare: il mio comportamento indecente della sera prima, mio fratello che quasi ci rimane perché io ero troppo ubriaco per essere responsabile, i suoi piani per il bene superiore che non potevano essere disturbati dall'insignificante dettaglio che a me importasse qualcosa di chi ci finiva preso nel mezzo. Un'altra litigata, un'altra battaglia, che mi avrebbe soltanto lasciato svuotato, sbattuto, ed ancora più incazzato di quanto già non fossi.

Quindi fanculo. Poteva aspettare.

Avevo ingoiato una manciata degli antidolorifici con cui ero stato dimesso la sera prima ed ero andato da mio fratello.

Stefan ce ne mise di tempo a svegliarsi. Dalla poltroncina accanto al letto in cui mi ero spostato mentre aspettavo, abbozzai un mezzo sorriso.

"Buongiorno, fratello."

Si passò una mano sulla faccia per scacciare via lo stordimento delle medicine. Quando infine mi mise del tutto a fuoco, disse solo, "Hai un aspetto di merda."

"Oh, beh, grazie," replicai. "Pure tu sei un fiorellino."

Sorrise, ma venne fuori più come una smorfia.

Gesù, non sapevo neanche da dove cominciare.

"Mi dispiace, Stef. Non avrei dov-"

"Smettila," mi interruppe. "Non sono un bambino, ok?" Cercò di tirarsi su a sedere più dritto, come per rafforzare il suo punto, ma riuscì solo a lasciar uscire un'altra smorfia e a riaccasciarsi sui cuscini. "Ero io a guidare. Mi sono distratto. Ho fatto una cazzata. Non puoi sempre prendertene il merito tu, ok? Lasciane un po' anche a me."

Curvai le labbra, Stefan fece una pausa. "Sono solo contento che tu stia bene. Dal momento che, sai com'è … ti ho distrutto la macchina."

Scossi la testa. E' vero, il mio cuore piangeva un torrente di lacrime all'idea della Camaro tutta storta e devastata in un deposito rottami, ma l'avevo sistemata quando era stata in condizioni peggiori, si sarebbe potuto sistemare anche questo.

"Va bene."

"No, non va bene," ribatté. "Te la ripagherò."

Alzai gli occhi al cielo. "Non essere ridicolo."

"Volevi venderla, no? Avevi detto che ti servivano i soldi. Bene, allora la compro io. Lo so che ne avresti ricavato di più se l'avessi venduta in perfette condizioni, ma te lo prometto. La rimetterò a posto."

"Stef. Stai zitto, per favore."

Questa volta ci riuscì a mettersi seduto.

"Voglio farlo," replicò, con gli occhi allargati in un'espressione così supplichevole e determinata che fui io a zittirmi. "Così saprò che avrai un motivo per tornare, per vedere che la stia trattando bene."

Maledizione a te, Stefan. Stupido, sentimentale, snervante, Stefan.

Ebbi un distinto ricordo lampo della nostra conversazione della notte prima, che arrivò un po' ruvida e un po' livida esattamente come erano entrambe le nostre facce in quel momento. Tornare. Andarmene. Erano mesi che mi gingillavo con quell'idea, e settimane che insieme ad Enzo pensavo a come metterla in pratica. Racimolare abbastanza soldi per avere un po' di base di partenza, e lasciarsi tutto alle spalle. Fino a ieri, era un piano. Oggi invece c'era Stefan troppo bianco in ospedale, e c'era la consapevolezza di cosa si provasse ad avere Elena avvolta stretta tutto intorno a me. Ed anche senza sapere se davvero significasse qualcosa o meno, soltanto l'accenno, soltanto la possibilità di poterla tenere ancora in quel modo, era quel genere di cosa capace di prendere i migliori piani e trasformarli in fumo.

"Va bene," dissi vago. "Vedremo, ok?"

Restammo entrambi in silenzio, finché Stefan non alzò di nuovo la testa.

"Papà è tornato a casa un paio di ore fa. Ha detto di fartelo sapere, quando fossi passato a trovarmi, che lo puoi trovare lì."

"Bene, così adesso so che posto evitare."

Stefan sbuffò. "Non puoi lasciar perdere? Almeno per una volta?"

Scossi la testa, mi alzai di scatto in piedi. "Non si tratta di lasciar perdere."

"E allora di cosa?" mi domandò, confuso ed esasperato come ogni volta che si trovava ad assistere a certe situazioni.

"Non lo so, io …" mi interruppi da solo, incapace di spiegargli cos'era davvero, tutto ciò che non potevo lasciar perdere.

Stefan non avrebbe mai capito. C'era Elena, è vero. Ma c'era anche il nodo nero di rabbia e frustrazione che si era tessuto, ingarbugliato in quel modo che, a cercare di tirarlo via, finiva solo per stringersi inevitabilmente ancora di più.

E la cosa più ironica è che fu proprio Stefan a darmi involontariamente l'idea, quando uscii dall'ospedale e passai dalla sede degli uffici della Salvatore's&Associates, a prendere la sua auto rossa che aveva lasciato parcheggiata lì dalla sera prima e che aveva insistito che io usassi finché non avessi potuto recuperare la Camaro. Aveva detto che papà lo avrei trovato a casa, quindi sapevo per certo che non sarebbe stato lì.

In mia difesa, non avevo intenzione di fare chissà che. Volevo solo sapere cosa avesse davvero in mente, quali fossero nel dettaglio i suoi piani, fino a che punto avrebbero danneggiato Elena, sapere se c'era anche solo un minimo appiglio che avrei potuto usare per fargli cambiare idea, o qualcosa da usare per dare una mano ad Elena quando gliene avessi parlato - perché gliene avrei parlato. Non sapevo neanche io davvero cosa. Qualsiasi cosa.

In mia difesa, non era mia intenzione fare davvero seri danni.

In mia difesa, forse un po' lo era.

***


Sono infine costretto ad alzare il culo dal mio confortante e deprimente posticino alla base del divano e togliermi gentilmente dalle scatole.

I due futuri sposini non solo hanno deciso di dare tutto un più profondo significato all'espressione "non perdere altro tempo", gettandosi in frenetici preparativi di un matrimonio messo su a tempo di record, ma vogliono fare la cerimonia qui, in questa stessa casa. E così, nel giro di poche ore, la villa e tutto il suo acro di terra circostante sono stati rapidamente invasi da un circo danzante di ogni genere di delirio matrimoniale, tra un incessante suonare di telefoni e campanello, servizi catering intenti ad esaminare la cucina, giardinieri a falciare il prato. Mentre scendo al piano inferiore dopo una doccia veloce, mi trovo perfino a dover a sorpassare sulle scale alcuni musicisti, intenti ad accordare i propri strumenti in vista di un'audizione con Caroline.

Ric mi risponde al secondo squillo.

"Vai a cercarti uno smoking e metti il culo su un aereo. Sabato andiamo ad un matrimonio."

"Che matrimonio? Di che diavolo stai parlando?"

"Il mio fratellino si sposa. Sembra una puntata di Bridezillas da queste parti." Evito al volo e all'ultimo secondo un trombettista che mi è appena strisciato accanto precipitandosi verso l'uscita, non so se perché ha dimenticato qualcosa o perché ha appena preso la decisione più intelligente di tutta la sua vita e sta scappando via di qui. Lo invidio. "Anzi, vieni prima di sabato. Magari mi aiuti a sopravvivere. E poi …" Tiro su un angolo delle labbra in un sorrisetto che è forse il primo in tutta questa cavolo di giornata. "… Addio al celibato, baby."

"No, fermo un attimo. Pensavo che si fossero lasciati. Non eri tornato perché si erano lasciati?"

"Già, e adesso si sposano. Tra quattro giorni."

"Penso di essere davvero confuso."

"Benvenuto nel club delle follie Steroline."

"Che vuol dire Steroline?"

"E' questa nuova creatura che stanno diventando. Una specie di mostro orripilante che viene fuori dalla fusione del peggio di entrambi … Ne ho avuto un primo assaggio questa mattina." Non dico in relazione a cosa. La notizia della progenie di satana è già arrivata a fin troppe orecchie, ed io non sono così crudele da dargliela per telefono. O così masochista da attirarmi un'altra paternale pure da lui. Quindi sorvolo, breve e conciso. "E' terrificante, lo giuro. Quindi, vieni?"

Domanda retorica. Lo sa anche lui non c'è altra alternativa che una risposta positiva.

Come chiudo la chiamata, vengo raggiunto da voci animate nel bel mezzo di una accalorata discussione. Sbircio verso l'interno della sala, dove Caroline sta inveendo intensamente contro mio fratello.

"E' Time after time! Lo sai perfettamente, è la canzone del nostro primo appuntamento!"

"Sì, ma la canzone che ti rappresenta dovrebbe essere qualcosa di più significativo di un primo appuntamento!"

Lo sguardo di Caroline è un raggio laser letale.

"Oh, quindi il nostro primo appuntamento non era significativo, è questo che stai dicendo?"

Uh-oh. Cazzo, Stefan, ti sei messo davvero nei guai qui. Mi appoggio con una spalla contro lo stipite della porta e mi fermo per guardare, perché è davvero tutto troppo divertente. Peccato non avere dei popcorn.

"Non è quello che ho detto, e lo sai. Sto solo dicendo che la nostra canzone dovrebbe essere All about loving you, perché è quella con cui ti ho detto che ti amo per la prima volta."

"Ma Time after time è venuta prima!" Non molla lei. "Non puoi decidere su due piedi quale è la nostra canzone, viene fuori da sé, è così e basta!"

"Ma è Bon Jovi! E' un classico!"

"Anche Cindy Lauper è un classico!"

Stefan sbotta allargando le braccia frustrato, ed è in questo momento che mi vede. Mi indica con la mano.

"Damon, diglielo anche tu. Diglielo di quando ti ho detto che era quella la nostra canzone!"

Mi porto pensoso una mano sulle labbra davanti al vivido ricordo di uno Stefan ubriaco perso intento ad ascoltare Bon Jovi e a blaterare qualcosa del genere, quella volta in cui si erano mollati durante gli anni del college - qualcosa per cui non ho mai sprecato l'opportunità di prenderlo per il culo, data l'occasione. Poi però vedo lo sguardo di Caroline.

"Nope," scuoto la testa. "Non riesco a ricordare niente del genere."

Caroline incrocia le braccia sul petto e si volta verso di lui con un sorrisino vittorioso. Stefan socchiude gli occhi minaccioso.

"Traditore."

Indico Caroline con il mio pollice sinistro ed abbasso la voce ad un finto sussurro, "E' che a volte lei mi fa davvero paura."

Il campanello suona un'altra volta, e Caroline scuote la testa con un'alzata di occhi al cielo, passandomi davanti per andare ad aprire alla porta.

"Questa me la pagherai," borbotta Stefan, venendomi incontro.

"Lei me l'avrebbe fatta pagare di più," replico dandogli una consolatoria pacca sulla spalla. "E poi, andiamo, davvero pensi ancora di avere una minima possibilità di vincere una qualsiasi discussione con lei? E sto parlando da qui a fin che morte non vi separi."

Stefan sta per ribattere, ma poi la sua faccia cambia di colpo espressione. Indica l'ingresso. "Aspetta. Hai sentito?"

Mi volto per ascoltare le due voci che arrivano da lì, ed anche la mia di espressione cambia all'istante, quando quel femminile "Oh mio dio, ma guardati, sei così adorabile!" rende chiaro, a me come a Stefan, che chi ha appena suonato il campanello non è soltanto un altro ragazzo delle consegne.

"Cazzo …" mormoro lentamente, girandomi poi verso la reazione mio fratello.

"Non lo ha fatto," dice lui con la mascella tesa, scuotendo la testa, in pieno denial con giusto una punta di panico. "Ti prego dimmi che non l'ha davvero chiamata per dirle di venire qui."

Oh, sì. Lo ha fatto. Stefan si porta una mano sulla fronte e si lascia sfuggire un'imprecazione sottovoce, mentre Caroline ritorna sottobraccio ad una sorridente Charlotte, come due migliori amiche di lunga data. E meno male che le spose non vanno d'accordo con le proprie suocere.

Se poi si tratta di Caroline più nostra madre?

Mi sporgo per bisbigliare a mio fratello. "Sei troppo fottuto."


"Che diavolo ti è saltato in mente?"

"Come cosa mi è saltato in mente? E' tua madre!"

"Non significa che dovevi invitarla alle mie spalle!"

"Vuoi dirmi che non volevi invitarla al matrimonio?"

"Voglio dire che avresti dovuto parlarmene prima!"

Charlotte si rigira nervosamente tra le mani la tazza di caffè che le ho appena porto, prima di sedermi davanti a lei al bancone della cucina, facendo finta di non stare ascoltando gli stralci della discussione tra i due fidanzatini che sta andando avanti nella sala accanto. Ma non sta fingendo poi così bene, come dimostrano le sue sopracciglia increspate in una linea più irrequieta, o le labbra che si fanno più sottili.

Erano mesi che non la vedevo. E' ancora più esile di come me la ricordassi, sempre con quel non-so-che per cui sembra che possa dal niente dissolversi nell'aria, e pur restando splendida da fare invidia a gente con vent'anni in meno dei suoi, è la prima volta in cui le vedo sul viso linee più provate che non c'erano fino a qualche mese fa.

Si mette a frugare con dita nervose dentro la borsa, ne tira fuori una sigaretta, mi getta uno sguardo. "Posso?"

"Fuori," le faccio segno. Alzo le mani in aria. "Regole di Caroline, non mie."

Annuisce, fa per alzarsi, ma poi ci ripensa, torna a sedersi, picchietta incerta la sigaretta sul bancone.

"Pensi che sia stata una pessima idea?" mi chiede, alzando apprensiva lo sguardo su di me. "Forse non vuole davvero avermi qui …"

"Lo vuole," le dico, pensandolo sinceramente. "Ha solo bisogno di fare un po' la primadonna al riguardo."

Charlotte annuisce e mi rivolge un abbozzo di sorriso, come per auto-convincersi di crederci anche lei. Una volta mi ha detto che era arrivata ad accettare la scontrosità con cui Stefan la tratta da sempre, il fatto che sotto sotto lui non l'abbia mai davvero perdonata per essersene andata e tutto il resto. Stronzate. Ogni volta che lui fa così, lei si sente uno schifo. Ogni volta che lei si sente uno schifo, Stefan segretamente ci gode ad avere un'occasione in più per mettere su la sua faccia da parte lesa. E' il modo in cui si relazionano. E poi sono io, quello con problemi.

"E' che sono stata così felice quando Caroline mi ha dato la notizia … E' una ragazza incantevole, non credi anche tu? Un matrimonio! Penso che ne avessimo bisogno tutti, di qualcosa di così bello, di un po' di karma positivo dopo il lutto."

Charlotte sbircia la mia reazione a quella parola, ed io annuisco vago, già pronto a schivare al volo il proiettile dell'argomento con un veloce cambio di direzione che porti il discorso su qualcosa di banale tipo chiederle come è andato il viaggio, ma lei mi anticipa, ancora più rapida, allungando una mano per posarla sopra alla mia.

"Come stai, tesoro? Intendo, veramente. Non abbiamo ancora avuto davvero occasione di parlarne, della morte di tuo padre. Ho provato a telefonarti, ma tu non hai mai richiamato, così ho pensato che magari avessi bisogno di un po' di tempo per-"

Tiro via la mano, sulla difensiva.

"Sto bene," la taglio corto. "Davvero. Sto bene."

Lei si sporge un po' titubante verso di me, abbassa la voce ad un tono quasi furtivo.

"Hai pianto?"

"Cosa?" replico con una smorfia infastidita. "No."

"Non c'è niente di male, sai," prosegue raddrizzando la schiena e prendendo un piccolo sorso di caffè. "Anche gli uomini possono piangere. E' liberatorio. Infatti, stavo proprio di recente leggendo questo saggio di questo mio amico professore di psicologia, e sai lui è davvero aperto sui suoi sentimenti, e sostiene che-"

"Diamine, Charlotte," la interrompo secco. Cristo santo, come se non avessi già abbastanza cose a fottermi la testa, ci mancava solo questa. "Non ho bisogno di piangere. Lascia perdere."

Lei rimane in silenzio qualche istante, a rigirarsi la sigaretta spenta tra le dita, sovrappensiero.

"Ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare, Damon," dice infine. "E ti prometto che lo faremo."

Fortunatamente, non dobbiamo farlo adesso, perché Stefan è appena comparso sulla soglia della cucina. Charlotte si volta e lo guarda con aria carica di attesa, come un imputato che aspetta di sentire di che condanna deve morire. Lui però fa scivolare lo sguardo su di me.

"Vado in ufficio a rivedere alcune cose per la riunione del consiglio di domani. Meglio assicurarsi di nuovo che sia tutto in ordine e prepararsi ad ancora più opposizione, dato che presumo Elijah non sia troppo felice del fatto che ti sei portato a letto la sua fidanzata."

Charlotte torna a voltarsi verso di me, inclina la testa di lato per gettarmi uno sguardo incuriosito. Congedo la questione con un vago cenno della mano.

"Ex-fidanzata," lo correggo. Piccole soddisfazioni dove me le posso prendere. "Ma va bene."

Mio fratello si infila impacciato le mani fin sul fondo delle tasche.

"Charlotte," dice. "Care sarebbe molto felice se tu potessi darle una mano con la scelta della musica e del gruppo al posto mio." Sospira per lo sforzo, la primadonna. "E ne sarei felice anche io."

Charlotte si allarga in un sorriso raggiante, sbrigandosi a fare cenno di sì, e si alza per chiuderlo in un abbraccio al volo al quale lui rimane rigido, con le mani affondate in tasca e la faccia vergognosa di un dodicenne che non vuole farsi vedere dai compagni di scuola.

"Tu vieni?" mi domanda, quando infine Charlotte lo lascia andare per raggiungere Caroline.

Ma invece di rispondergli, vengo distratto dal tintinnio di un nuovo messaggio sul mio telefono. Corrugo la fronte, un grumo rigido torna a chiudermi la gola. Katherine.

Va bene. Vediamoci prima che io cambi idea.

Scatto in piedi così velocemente che faccio quasi cadere la sedia all'indietro.

"Dopo," getto là distrattamente. "Devo andare."


***


"Ce ne hai messo di tempo," mi saluta Katherine con una vaga smorfia.

"Ce ne hai messo di tempo a rispondere," ribatto io, sedendomi di fronte a lei.

Rotea gli occhi al cielo, posa il mento sulla mano. La studio brevemente, nei pochi secondi di silenzio che seguono, alla ricerca di un qualsiasi indizio su che genere di offensiva debba aspettarmi arrivati a questo punto. Ma se il posto che ha scelto - uno dei tavolini esterni del Grill, in un angolo all'ombra che è abbastanza appartato ma ugualmente circondato di gente - è di qualche indicazione, posso perlomeno supporre che non abbia intenzione di fare scenate. Anche se, dopotutto, non è mai stato un po' di pubblico a fermare Katherine, quindi sono di nuovo al punto di partenza.

Quando non dico niente, Katherine sospira infastidita.

"Ok, ascoltami bene, voglio essere chiara. Questa è l'ultima volta che ne parliamo, ok? Poi la chiudiamo qui. Ho già sprecato fin troppo tempo con te."

Senza aspettare una risposta, tira fuori dalla borsa una cartellina con dei documenti e la spinge verso di me.

"Questo è il tuo divorzio. E' tutto firmato. Lo firmi anche tu, e poi puoi gentilmente andare a farti fottere. Torno a Los Angeles, da mia sorella, domani notte, e prima che tu lo chieda, no, non ho bisogno che tu venga a tenermi la mano. Prego, non c'è di che."

Poso titubante le dita sui fogli che mi ha messo davanti, sollevo lo sguardo su di lei.

"Dov'è la fregatura?"

"La fregatura?" mi fa eco acida. "Oh, fanculo, Damon, sei incredibile! Prima mi molesti con qualcosa come trenta chiamate in un'ora, poi quando ti dico che non devi vedermi mai più, mi chiedi dov'è la fregatura?"

"Voglio dire …" Butto giù saliva acre, troppo densa per passare giù come si deve. "E il bambino?"

"E' quello il punto," mi dice allungando le braccia in avanti, visto che chiaramente sono troppo lento a capire le cose. Scandisce bene ogni parola. "Non ci sarà nessun bambino. Diamine, non avrei neanche dovuto dirtelo. Andiamo, dovresti esserne felice! La maggior parte degli uomini lo sarebbe. Ti sto sollevando da qualsiasi obbligo. Quindi, fammi un favore, vedi di mettere da parte tutta questa ritrovata morale e lasciami in pace."

Porto entrambe la mani sulla bocca e mi abbandono all'indietro contro lo schienale della sedia, lasciando uscire un profondo respiro.

"Cazzo, Katherine, non è morale."

"E allora cos'è? Uh?" chiede ironica. "Che per caso davvero lo vuoi?"

"Diavolo, no, sto solo dicendo …" Butto fuori altro fiato, mi passo una mano tra i capelli, scuoto la testa. Non lo so neanche io cosa cazzo sto dicendo. "Non lo so, che forse dovremmo fermarci almeno un attimo a pensare prima di prendere una decisione."

Katherine non risponde. Non immediatamente, almeno, fissando un punto sulla superficie del tavolo per alcuni istanti, prima di riportare lo sguardo su di me.

"Pensi che io non lo abbia fatto?" mi domanda, questa volta senza nessuna traccia di sarcasmo. "Perché l'ho fatto. Sicuramente più di quanto lo abbia fatto tu."

Sollevo la testa, sorpreso da quell'intonazione più umana che le traspare nella voce, un'intonazione che quasi avevo dimenticato che suono potesse avere in bocca a lei.

"Ok, senti," prosegue con un sospiro. "Siamo realisti, ok? Non ho mai voluto una cosa del genere. E tu nemmeno. L'unico motivo per cui ti ho sposato è perché sei sexy, e sembrava divertente, e per far incazzare mia madre. Sopratutto, per far incazzare mia madre. E sì, magari ho pensato, perché non tirare fuori qualcosa da questo divorzio, ma …" Si ferma, arriccia un po' il naso." …beh, credimi che non era questo quello che avevo in mente. Tu mi odi. Io ti detesto. Saremmo dei genitori terribili, ancora peggio che terribili. E' soltanto un gigantesco sbaglio, perché una notte mi sentivo sola e tu eri troppo ubriaco per mettere un cavolo di preservativo come si deve. Andiamo, Damon," mi dice con un piccolo, quasi impercettibile, brillio implorante nello sguardo. "Sono solo una ragazzina, lo sai anche tu. E non perché ho ventidue anni, ma perché … lo sono. Vuoi figli? Bene, vai a farli con la tua barista con gli occhi da principessa Disney. Ma lasciami fuori. Non chiedermelo perché non cambierò idea."

Non so cosa dire. Ed anche se lo sapessi, non so se riuscirei a dirlo comunque perché, invece di alleggerirsi, tutto ciò che mi blocca si è fatto solo più pesante, più amaro, più duro da mandare giù.

"E' meglio così, ok?"

Per un attimo, ho l'impressione che stia per allungarsi e farmi pat-pat sul dorso della mano, ma poi per fortuna anche lei si rende conto di cosa sta per fare e ritira velocemente la propria mano, osservandola inorridita come se il suo posto fosse stato preso da un alieno tentacolare e adesso stesse per rivoltarlesi contro da un secondo all'altro. Il momento è piuttosto imbarazzante per entrambi, quindi ci sbrighiamo tutti e due a distogliere lo sguardo da quella oscenità appena scampata.

Si riprende la borsa, si alza in piedi. "Fammi sapere del divorzio."

"Kath," la chiamo, la voce appena roca. Lei si volta, inarca un sopracciglio. "Allora cosa ti ha fatto cambiare idea, sul fatto di parlarmi?"

Si stringe nelle spalle.

"Non è stato poi tutto così male, sai. Almeno per un po'." Scuote la testa, torna in sé. "O forse sono questi fottuti ormoni che mi rammolliscono. Comunque sia … Addio, Damon."


***


Stefan cammina su e giù per il corridoio, con il naso e la testa tutti immersi tra gli appunti del nuovo piano che presenterà al consiglio nel giro di qualche minuto. Me lo immagino mentre mentalmente passa al setaccio ogni dettaglio, ogni virgola, ogni pausa, rimettendo mano a parole, frasi e tono di voce, dozzine e dozzine di volte, anche se è tutto già perfetto così.

Io siedo sul bordo di fronte ad un'ampia finestra che guarda sul centro di Richmond. La sala riunioni alla mia destra, dove tutti gli azionisti con anche solo un minimo di voce in capitolo decideranno se dare fiducia a me e mio fratello, sta già iniziando a riempirsi. Sono contento che sia lui a doverli convincere, e non io. Non solo perché é evidentemente più bravo e più gradito di me nel gestire queste persone, ma anche perché io, in questo momento, ho la testa da tutt'altra parte.

"Stai bene?" mi domanda Stefan, sollevando la testa dai fogli.

"Sto bene," butto là poco convinto, seguendo con lo sguardo due degli azionisti, un uomo ed una donna, che si scambiano convenevoli e sorridenti strette di mano.

Quanto cazzo odio tutto questo.

Stefan si siede accanto a me.

"Sei ancora turbato da quello che ti ha detto ieri Katherine."

"Non sono turbato," replico con una smorfia. "Ha ragione. E quando è Katherine ad avere ragione, e a dover essere razionale … Beh, prepara il rifugio anti-atomico perché la fine è davvero vicina."

Stefan posa gli avambracci sulle ginocchia, arrotola gli appunti in un cono.

"A volte le cose non sono sempre razionali."

"E' questa la tua perla di saggezza del caso?"

Si stringe nelle spalle. "Ne volevi una no?"

Sospiro e mi lascio andare all'indietro, appoggio la nuca contro il vetro e guardo verso il soffitto.

"Mi sento uno schifo anche solo a parlarne con te. Sono qui a piagnucolare, quando so che per te e Barbie non è neanche una possibilità."

"Ah, ma falla finita. In caso non lo avessi notato, sono perfettamente felice così," sorride come un bambino. "Schifosamente felice."

Piego la bocca all'insù, gli do un colpetto con la spalla.

"Vedi di non mandare le cose a puttane, con quella lì."

"Ehi," ribatte, con la faccia da schiaffi. "Non sono mica te."

Gliela lascio passare solo per il modo affettuoso in cui lo dice.

"A proposito," dice corrugando la fronte e lanciando un'altra occhiata rapida verso la sala dove la riunione comincerà a minuti. "Credo di aver bisogno di un testimone. Niente di che, in realtà, mi accontento anche di qualcuno che invece si è sposato alle mie spalle senza farmi sapere niente. Sai a chi posso domandare?"

Questa invece no, che non gliela lascio passare.

"Oh, sparisci", gli dico, dandogli una spintarella per farlo alzare. "Sono vivamente indignato che tu lo debba chiedere. Io lo davo per scontato."

Mi alzo per seguirlo ed entrare anche io, ma rallento il passo quando vedo Elijah gettare uno sguardo nella mia direzione, finire di salutare una persona e venire verso di me.

"Damon," mi ferma, una sottile nota insofferente nel modo in cui pronuncia il mio nome che non c'era fino a qualche giorno fa. Comprensibile, immagino. "Una parola?"


"Vuoi prendermi a pugni?" domando mentre entriamo in una saletta laterale al momento vuota, lontano da occhi e orecchie indiscrete. Socchiudo la porta alle mie spalle, già pronto ad arrotolarmi su le maniche della camicia. Magari togliergli un po' del palo che ha in culo mi aiuta in qualche modo a sentirmi meglio per tutta quella storia con Katherine. "Perché, nel caso, ti devo avvertire. Lo posso capire se ti consideri la parte lesa per via di quel che è successo con Elena, ma onestamente non sono mai stato a bravo a fare il martire o prenderle passivamente, perciò-"

"Ho detto che era per lavoro," mi interrompe con una smorfia, che non so se attribuire di più al fatto di aver offeso la sua dignità suggerendo lotte tra cani, o allo stoico sforzo che sta facendo per rivolgermi la parola. "Lo intendevo."

Posa la valigetta sul tavolo, ne tira fuori un foglio, me lo porge.

"Le mie dimissioni."

Lo prendo perplesso, corrugando lo sguardo prima su di lui e poi su ciò che mi ha messo tra le mani. Mentre io inizio a leggere la lettera in cui annuncia di rinunciare alla sua carica di direttore finanziario per "differenze inconciliabili con la gestione", Elijah prosegue, "Lo renderò ufficialmente noto al consiglio durante la riunione. Come proprietario della quota di maggioranza, sta a te accettarle o meno. Ti chiederei di farlo, se non ti spiace."

Metto via la lettera, sul tavolo alle mie spalle. Elijah è serio, risoluto, forse con appena una sfumatura di disprezzo persistente al di sotto di tutta quella compostezza che, lo ammetto, mi lascia quasi deluso. Quest' uomo è stato la mia cavolo di nemesi fin dal giorno in cui ho rimesso piede negli uffici della compagnia e lui si è fatto avanti per stringermi cordialmente la mano, il memento ambulante di tutto ciò che sarei dovuto essere e che non sarei stato mai. Quello che aveva la ragazza e che camminava benedetto nelle grazie di mio padre. Quello che ho ostacolato perché lo detestavo, e quello che ho detestato perché dovevo ostacolarlo.

Ma adesso … quasi mi domando cosa l'ho detestato a fare.

"Tutto qui? Ti dimetti e basta? Wow," commento, sinceramente colpito. "Piuttosto anti-climatico, non trovi?"

Elijah scuote la testa, fa scattare la chiusura della valigetta ed accenna un sottile sorriso amaro.

"Lo so che tu non lo hai mai creduto, ma ho sinceramente avuto a cuore sempre e soltanto i migliori interessi di questa compagnia. Tutto quello che ho fatto, tutto ciò per cui ho lavorato … è stato perché sapevo quanto fosse importante per tuo padre. Era un uomo davvero brillante, lo sai vero?"

Mi getta un'occhiata laterale, che mi sfida a contraddirlo e che implicitamente sottintende che lo stesso non si possa dire del sottoscritto. Non so se veramente si aspetti una risposta, certo io non lo degno della soddisfazione di riceverne una.

Sembra che sia finalmente sul punto di andarsene a fanculo, ma invece no, all'ultimo momento cambia idea e si volta a fronteggiarmi.

"Lo sai almeno, Damon, il motivo per cui adesso sei in questa posizione?" mi chiede con un luccichio soddisfatto nello sguardo, avanzando verso di me. "Perché ti sei ritrovato con la fetta più grande di torta? Te lo sei mai chiesto? Te lo dico io perché. Qualche mese fa, stavamo per ricevere dei fondi che richiedevano un cordone collaterale di garanzie. Dovevamo presentare un piano di trasferimento che servisse da riserva nel caso tuo padre non fosse stato in grado di tenere fede all'accordo. Avevamo lavorato fino a tardi, bevuto un paio di bicchieri, e tutto d'un tratto lui se ne esce fuori con «Dovrebbe andare a mio figlio». Pensavo parlasse di Stefan, naturalmente, ma «no, l'altro mio figlio». Non sapevo neanche che ce l'avesse, un altro figlio."

L'ultima frase la dice con una sfumatura vagamente sprezzante, come se il fatto che non ne avesse mai parlato la dicesse piuttosto lunga su cosa mio padre pensava davvero di me. Così adesso sono io ad avere voglia di prenderlo a pugni, per quello che sta insinuando. E perché ha ragione. E' vero che la dice lunga.

"Mi ha spiegato cosa intendeva. «Dato che è stato lui il primo a mettermi nei casini, se lo meriterebbe di essere quello che ne paga le conseguenze»."

Inspiro bruscamente, Elijah lo nota. Ma la cosa lo incita soltanto a continuare.

"Vedi, il fatto è che, a volte, non ci si riprende mai del tutto da un'accusa di frode. La superi, certo, ma in qualche modo rimane lì. Gli investitori si tirano indietro, dei progetti vengono abbandonati. Ti macchia la reputazione, piano piano ti porta a fondo. Uomini con meno acume probabilmente non sarebbero durati un anno, nella situazione in cui si era trovato.

"In ogni caso, ho pensato che dicesse sul serio, così ho preparato la proposta. Quando lui l'ha vista, è scoppiato a ridere. Letteralmente, come con una buona barzelletta. Solo che avevamo poco tempo per mettere in piedi qualcos'altro, ed un sacco di altre cose su cui concentrarci, quindi mi disse di lasciarla così per il momento, avremmo pensato a qualcosa di più serio non appena ne avessimo avuto la possibilità. Ma non c'è mai stata la possibilità. Non si aspettava certo di morire.

"Quindi, capisci Damon, che l'unica ragione per cui ti trovi qui, l'unica ragione per cui pensi di averne diritto, non è perché tuo padre avesse davvero intenzione di affidarti qualcosa, o perché anche solo lontanamente pensasse che tu potessi tirarne fuori qualcosa di buono. E' per via di una battuta, niente più di una battuta fatta dopo un bicchiere di troppo. E' sempre stato solo e soltanto questo. Ma non preoccuparti, non ti starò più tra i piedi mentre ne fai ciò che vuoi. E per rispondere alla tua domanda," aggiunge, mentre io non riesco a fare altro che rimane impietrito sul posto, con ghiaia ruvida a riempirmi la bocca e mangiarsi qualsiasi replica, "No. Non voglio prenderti a pugni."

Prende la sua ventiquattrore, tre passi decisi, ed è fuori dalla porta. Io allungo una mano dietro di me, verso il bordo del tavolo che tasto in cerca di supporto.

Non mi ha preso a pugni. Mi ha squartato dritto nello stomaco, cazzo.


***


Tre aspetti devono essere provati per stabilire la colpevolezza in un misfatto.

Mezzi. Movente. Occasione.

L'occasione si presentò quando scivolai nell'ufficio di mio padre, blaterando alla sua preoccupata segretaria che volevo solo sonnecchiare un po' sul suo divano. Impietositi dalla notizia dell'incidente, bastò quello per assicurarmi di essere lasciato in pace.

Stefan mi aveva detto una volta che mio padre cambiava le sue password di accesso circa ogni tre mesi, ma che non se le ricordava mai e per questo aveva preso l'abitudine di scribacchiarle tra le note a margine degli appunti, confondendole in mezzo al resto. Bastava sapere dove guardare. Ne provai tre, prima di trovare quella giusta.

In tutta onestà, volevo davvero solo ficcanasare. Passai in rassegna tutto ciò che si potesse ricollegare al progetto di cui l'avevo sentito parlare la notte prima: piani e cianografie di ristrutturazioni dal valore di migliaia e migliaia di dollari, contratti, registri, scambi di email. Non era neanche una cosa futura e possibilistica. Era già in moto. Eccetto ovviamente per il dettaglio di quel bar che se ne stava in mezzo a tutto, e che stava andando a fondo sotto ad una gestione pessima, ma senza decidersi davvero a togliersi dalla scena. Una doppia ipoteca non era certo una roba che il signor Gilbert potesse recuperare in poco tempo. Ma la stessa cifra era una nocciolina per mio padre, che aveva preso quel debito e lo stava usando come leva per intentare una procedura fallimentare.

Solo che mio padre davvero era bravo in quel che faceva. Se si metteva in testa una cosa, non avevo dubbi su che squalo potesse essere. Ma era anche uno squalo estremamente preciso, ed estremamente corretto. Giocava secondo le regole, pur sfruttandole a suo piacimento, cosa che conoscendolo non era certo un sorpresa. Sfortunatamente per me, ciò voleva anche dire che in mano non avevo niente, neanche la più piccola cosa, per fargli fare anche solo un minimo di retromarcia.

A meno che le cose non fossero giusto quel poco un tantino meno immacolate.

Ora, il movente. Quello era facile. Un po' di carte arruffate qua e là avrebbero rallentato le cose, magari dato al padre di Elena un po' di tempo per smetterla di fare il cazzone e darsi una sistemata.

Per quel che riguarda i mezzi … Su una cosa mio padre aveva ragione: avevo sempre avuto un cervello fin troppo sveglio per il mio stesso bene. Non ci impiegai tanto, in tutto quel ficcanasare, a capire come l'intero progetto funzionasse. Un paio di ore, e non c'era un bilancio, una riga o una colonna, che non avesse ricevuto una piccola rettifica.

Il vero problema fu che mi riuscì bene. Fin troppo bene.


Quando me ne andai, un formicolio pulsante aveva iniziato a circolarmi tra le dita. Era iniziato lì, sulla punta dei polpastrelli, e si era preso le braccia, il petto, mescolandosi con il battito veloce sotto alle mie costole ed un leggero, strisciante, improvviso senso di nausea.

Lo scrollai via attribuendolo agli effetti residui della commozione, mi dissi che in un secondo sarebbe passato.

Ero passato dal Grill per parlare con Elena di questo. Beh, non di tutta la storia su mezzi, movente e occasione, chiaro. Ma almeno per farle sapere qual era la situazione, perché perfino io - nella mia totale inesperienza in termini di relazioni sane - avevo un po' la sensazione che, qualsiasi cosa ci fosse tra noi, in qualsiasi direzione stesse andando, iniziare con il tenerle nascosto il fatto che mio padre aveva intenzione di farli chiudere non era il massimo come premessa.

Solo che poi, proprio mentre stavo per farlo, mi aveva preso la mano e mi aveva guardato e mi aveva trascinato via. E da lì in poi, non ne ero stato più in grado.

Solo una cosa rimane di quel pomeriggio, solo una cosa capace di far andare via anche quel fastidioso, insistente formicolio.

Elena, sull'erba, mia.

Non per via del sesso, no. Per il modo in cui l'avevo sentita ridere. Per il leggero accenno di rossore con cui mi aveva detto che sapeva come erano andate le cose con la collana. Per l'impaziente, dolce, esitante, modo in cui mi avevo toccato e cercato per essere toccata a sua volta. Per lo sguardo scuro e intenso con cui aveva guardato in su, da sotto di me, mentre mi muovevo in lei e mi sentivo scoppiare via il petto.

L'avevo lasciata andare a dir poco controvoglia, fuori dal Grill, sotto ad una pioggia così fitta da non vedere mezzo metro in fronte a te. Controvoglia, con un bacio ed un promessa che non avrei mantenuto.


Naturalmente, mi aspettavo di trovare mio padre furioso. Era quello che volevo, dopotutto. Mi aspettavo di trovarlo pronto a confrontarmi, con quello sguardo gelido e fuori di sé di quando era seriamente, estremamente incazzato.

Ma fu chiaro non appena arrivai a casa, che ciò che invece mi trovai davanti era piuttosto diverso dalle mie aspettative.

Mi stava aspettando dentro la depandance. Seduto sul divano, appena chino in avanti, lo sguardo intento su un punto davanti a sé che non stava davvero vedendo.

Fu seguendo quello sguardo che vidi un paio dei miei borsoni gettati sopra il tavolo, riempiti fino all'orlo. Dando un'occhiata attorno, vidi anche che tutto ciò che c'era di mio, era sparito.

"Che succede?" domandai, appena con una leggera nota preoccupata a trasparire dalla voce.

Mio padre si alzò lentamente in piedi. Indicò le sacche.

"La maggior parte della tua roba è lì. Ti voglio fuori di qui. Una volta per tutte. Stasera."

Rimasi congelato sul posto, incapace di muovermi. Sì, di minacce simili ne aveva fatte così tante, sopratutto nel mezzo di discussioni accanite, che avevo perfino perso il conto. Ma erano sempre finite nel niente, non aveva mai davvero fatto sul serio. Lo guardai, cercando la stessa cosa. Cercai la rabbia, l'ostinazione, la voce forte, qualcosa. Quella calma innaturale, quel tono svuotato, quelle spalle curve, il modo in cui guardava fuori dalla finestra invece che verso di me, niente di tutto ciò era davvero lui. Fu quello a farmi tornare violento il pizzicore sotto la pelle, un peso duro sul petto.

Contrassi involontariamente la bocca in un mezzo sorriso. "Stai scherzando, vero?"

"No," disse nella stessa voce atona. Corrugò appena la fronte, lo vidi nel riflesso del vetro. "Non hai bisogno di chiedere perché, giusto?" Non aspettò una risposta. "No, infatti. Lo immaginavo."

In quel momento riconobbi il formicolio, la nausea, per quello che erano. Colpa. Era una strana, nuova sensazione, dal sapore così diverso, infinitamente peggiore, di tutta la rabbia che avrei mai potuto provare, dolciastro e marcio.

"Ok, senti," dissi, avanzando di qualche passo, le mani alzate. "Se è per quei documenti, volevo solo fare un po' di scompiglio innocente. Lo risistemo se-"

"Innocente?" mormorò voltandosi verso di me con lo stesso accigliamento indecifrabile. "Hai sovrascritto tutto. Ho passato l'intero pomeriggio al telefono con un avvocato perché tu hai, innocentemente, simulato una frode. Non appena questa cosa viene fuori, ne dovrò rispondere. Ci sarà un'inchiesta. Avremmo potuto parlarne. E' … è …" Annaspò alla ricerca di parole, ci rinunciò, scosse la testa. "Cosa c'è di innocente in questo, Damon?"

Non alzò la voce nel chiederlo, non si mostrò arrabbiato. Solo così …  triste. Mi lasciò stordito, incapace di capire che cosa avrei dovuto fare, o dire, con questa sua versione. Per favore incazzati, mi ritrovai a pensare, incazzati e basta.

"Sono sicuro che hai delle copie da qualche parte," abbozzai alzando le spalle. "Devi solo tirare fuori quelle, non ti faranno niente."

"Certo che ho le copie. Pensi che abbia importanza? Pensi che importi il risultato finale, una volta che la cosa viene fuori?"

"Allora se è questo dirò che sono stato io," replicai, con un nota più acuta nella voce che non mi piaceva per niente. "Che è stata una bravata e-"

"Giusto. Perché mio figlio che cerca di fottermi invece fa tutta un'altra impressione."

Chiusi la bocca, mentre lui si lasciava andare contro il davanzale interno della finestra e ne afferrava i bordi, guardando il pavimento. Il silenzio ticchettò via insieme al ritmo della pioggia ed in quel silenzio mi sentii soffocare.

Volevo dire che mi dispiaceva. Non sapevo se perché lo intendessi davvero o solo perché non riuscivo a sopportare, neanche un solo secondo più, di dover vedere questo sconosciuto accasciato che avevo creato io. Ma poi parlò di nuovo, in una voce ancora più incerta.

"Perché mi odi così tanto?"

Deglutii, ma risposi sinceramente. Fu a malapena un mormorio.

"Non lo so."

Rimase in silenzio per altri lunghissimi secondi, guardando lontano. Infine annuì, lentamente.

"Bene allora," disse, rialzandosi in piedi. Il cambiamento fu sottile. Ma ci fu. "Questo è tutto per me. Prendi tutte le tue cose e vattene, adesso."

Mi passò accanto, diretto verso la porta, ed io mi girai, sentendomi uno schifo.

"Papà, possiamo-"

"No, Damon, non possiamo proprio niente," mi fermò. Quando si voltò, tutto in lui era affilato, fatto solo di schegge taglienti. "Non lo so se era esattamente questo ciò che volevi, tutto questo tempo. Liberarti di me, spingermi oltre il punto di rottura. Non penso neanche che abbia davvero importanza. Non stai ascoltando, neanche adesso. Non so più cosa fare con te, non so più cosa dirti, non so più come guardarti. Ti sto dicendo di sparire dalla mia vista, da questa casa, da questa città, per farti un ultimo favore. Perché mi conosco, fin troppo bene, e se ti vedo di nuovo, lo so che mi assicurerò personalmente che tu sconti le conseguenze di tutto, e che le sconti nel peggiore dei modi. Ti sto dicendo di sparire, perché dal momento in cui esco da quella porta, tu sei come morto per me."

Avevo soltanto ghiaccio, nello stomaco e nei polmoni, quando si girò, tirò a sé la porta e la richiuse deciso dietro di sé.

Mi sedetti sul tavolo, floscio come uno straccio, e quando la realizzazione prese forma, di cos'era appena successo, fu la prima vera volta, in tutta la mia vita, che mi sentii davvero perso.


***


Potrei non aver reagito bene. Ma dopotutto, non è che io sia esattamente un maestro nel saper reagire bene.

Stefan ci prova a dissuadermi, a farmi cambiare idea. Mi ha intercettato davanti agli ascensori,  dopo che è uscito a cercarmi a riunione già iniziata quando non mi aveva visto arrivare.

Ho passato almeno venti minuti buoni in quella stanzetta dove Elijah si era preso la sua rivincita, con il petto a rintronare di un battito furioso e il cervello a roteare in un nugolo di razionali, mature e sensate reazioni davanti alla consapevolezza bruciante di aver soltanto perso tempo cercando di dimostrare qualcosa ad un uomo morto che ce l'ha avuta con me fino alla fine del suo ultimo respiro. Solo che tutte quelle razionali, mature e sensate reazioni che ho passato in rassegna, finivano un po' tutte allo stesso modo: con me che entravo in quella sala riunioni e rompevo ogni osso della faccia di Elijah.

Ma non volevo davvero rompere la faccia a Elijah. E non perché probabilmente non avrebbe fatto granché una buona impressione, davanti a tutti quei culi stretti riuniti là dentro. No. Non volevo davvero rompergli la faccia, perché quel povero cazzone alla fine non c'entrava neanche niente. Prendersela con lui sarebbe stato solo l'ultimo atto in una lunga serie di mettersi a sfasciare il dito quando il cazzo di problema è sempre stato il cielo.

Così ho fatto quello che avrei dovuto fare mesi e mesi fa. Ho mollato.

"Non puoi mollare," mi ferma Stefan, con lo sguardo sgomento ed una mano a bloccarmi la strada verso la porta dell'ascensore. "Damon, non-"

"Certo che posso. Ho chiuso con tutto questo. Non hai neanche la più pallida idea, di quanto io abbia chiuso. Ecco, tieni," strappo un pezzo di carta dagli appunti che sta ancora tenendo stretti in una mano, prendo la penna che ci ha appuntato sopra, ed uso il muro come base per scribacchiarci al volo la mia decisione. Lo firmo con una tale decisione da perforare la carta. "Con questo me ne tiro fuori e ti lascio tutta la mia quota senza chiedere niente in cambio. E' valido, non ti preoccupare. O almeno credo."

Ci prova, di nuovo, a farmi cambiare idea. Con quel pezzo strappato di carta tra le mani e tutte le sfumature di smarrito, furente, implorante, ragionevole. Mi dice che facendo così sto solo dando a tutti la soddisfazione di vedermi uscire dalla porta. Mi dice di fare la persona migliore, quella matura che ci passa sopra. Ma io non sono una persona migliore. Non lo sono mai stato. E la verità è che, in tutta onestà, non me ne frega neanche un cazzo della soddisfazione che certa gente ne può ricavare. Se la prendano, e ci facciano ciò che vogliono.

"Non lasciarmi da solo," dice infine, con gli occhi appena lucidi. "Non ti azzardare. Ti ho lasciato correre un sacco di cose negli ultimi tre mesi, ti ho lasciato correre il fatto di avermi riattaccato in faccia quando avevo appena perso mio padre e non sapevo cosa cazzo fare, ti ho lasciato passare di non esserci stato al funerale, e ti ho lasciato passare ogni singola volta in cui ti sei rinchiuso in questo dannato atteggiamento menefreghista, te l'ho lasciato fare anche se avevo un disperato bisogno di condividere tutto con te. Ti ho lasciato passare tutto perché lo so che sei un cazzone egocentrico riguardo a qualsiasi menata tu avessi con papà, ma maledizione, Damon, non puoi lasciarmi da solo anche adesso, non anche in questo."

"Hai ragione," gli dico, mandando giù tutti i frantumi appuntiti in cui si sono appena trasformate le sue parole nel momento in cui mi hanno raggiunto lo stomaco. "Sono stato un fratello schifoso per te, e mi dispiace. Mi dispiace di non averlo potuto piangere con te, e mi dispiace di averti, in quello, lasciato da solo. Ma non qui, non in questo caso, Stefan. Non hai mai avuto bisogno di me per sapere quello che stavi facendo, non ce l'hai neanche ora. Sei tu che sei migliore di me, e anche di tutto il resto delle persone che stanno là dentro. Quindi vai, per una maledetta buona volta vai, e prenditi quello che è tuo."

Quando le porte dell'ascensore si chiudono sulla sua faccia allibita, mi sento solo appena un po' in colpa al riguardo. Ma solo un poco. Si riprenderà, mi dico. Si riprenderà e gli passerà e nel giro di un paio d'anni sarà un altro manager sveglio e di successo in una lunga linea di uomini Salvatore svegli e di successo.

Quando sono di ritorno a Mystic Falls, c'è il sole che brilla alto nel picco della sua giornata, una calda, colorata, effervescente giornata di fine estate con giusto quel sottinteso festoso promesso dal folle circo pre-matrimoniale che invade la casa.

Lancio la giacca sul letto, mi allento la cravatta e ne sciolgo il nodo con stizza. Mi metto a rovistare nell borsone disfatto per metà che giace aperto sul pavimento della camera, gettando magliette all'aria e per terra, fino a che non trovo ciò che stavo cercando.

Vado a sedermi sulla rientranza interna della finestra e la dispiego lentamente, un angolo alla volta, finché non è tutta aperta di fronte a me, con il sole intenso a farne brillare il fitto inchiostro blu. Con un'amarezza incandescente ancora lì a pulsarmi nel petto, ci chiudo il pugno attorno, accartocciandola e pressandola e schiacciandola nel mio palmo fino a che non è niente più di una palletta di carta che vale meno di un cazzo. La lancio energicamente fin dall'altro lato del prato. La guardo volare, quella fottuta lettera, fino a che non scompare e rotola via tra sedie pieghevoli lasciate per terra ed i pezzi di un gazebo bianco montato per metà, un altro pezzo di spazzatura pronto per essere raccolto e gettato via dagli Umpa Lumpa matrimoniali nella loro operosa preparazione.

Sento una voce che conosco provenire dal corridoio, rimbalza morbida e cristallina al di là della porta, e passi che si avvicinano, ed una maniglia che gira. Mi volto immediatamente, di scatto, sorpreso, con il petto più sottosopra.

"Oh," sussulta appena Elena, quando mi vede, immobilizzandosi con una mano ancora sulla maniglia.

Ha addosso un vestito rosa chiaro che le fruscia morbido ed un po' troppo lungo attorno ai piedi. Non posso farne a meno. Percorro con lo sguardo la curva morbida del fianco che si intravede lì sotto a tutti quei drappeggi, il modo in cui le si avvolgono intorno alla vita. Ma incontro serie difficoltà a tornare a guardare altrove, quando arrivo al bordo che si apre sopra la rotondità del seno, che sbircia fuori e viene su grazie al movimento delle sue braccia, stracariche di un mucchio di vestiti colorati. Con gli occhi scivolo più su, incontro i suoi. Elena rimane lì, imbambolata, una punta più arancione sulle guance. Uno dei vestiti inizia a scivolare di lato e a sfuggirle di mano.

"Mi dispiace, stavo solo … stavamo …" Si affretta a cercare di afferrare il vestito pendente. "Caroline ha detto che potevamo usare questa stanza. Oh, cavolo!" esclama quando, nel suo tentativo di recuperare il vestito, è riuscita a farne cadere un altro, e poi un altro, fino a che tutta la sua piramide modaiola non finisce per terra.

Mi alzo per andarla ad aiutare a tirare su tutti quei vestiti setosi e scivolosi. Nel farlo, le tocco inavvertitamente la mano, lo sguardo di Elena scatta su. Quasi lo sento fisicamente, quel palpito incerto con cui restiamo a guardarci, inginocchiati sul pavimento tra vestiti da sera e le dita a tre millimetri di distanza.

Non credo che si renda davvero conto di quanto vorrei baciarla in questo momento. Baciarla come non sono riuscito a fare due sere fa, baciarla con ancora più disperazione, baciarla come se potessi davvero prenderle tutto quello che era sul punto di darmi ed affogarmici dentro. Ma quel momento è andato, perso, come molti altri che ho sprecato.

Così mi schiarisco la voce, la indico con un mezzo cenno della testa.

"Molto elegante, come look mattutino."

Elena lascia uscire una risatina leggera, solo appena tesa, si alza per lisciarsi il vestito. "Stavamo scegliendo gli abiti per le damigelle. Ero venuta a mettere via quelli che sono stati scartati."

"Felice di aiutare come posso," annuisco, alzandomi anche io.

Elena curva le labbra in un leggero sorriso, ed io mi rendo conto che il vestito che ha addosso non è del tutto chiuso sulla schiena, perché una spallina le cade lenta di lato. Con le dita le scosto i capelli dalla spalla, gliela tiro su, solo una banale patetica scusa per poterla sfiorare. Quando lo faccio, il sorriso le scivola via, sostituito da qualcosa di molto, molto più carico.

"Anche se," dico piano, davvero incapace di tirare via le dita da sotto quella spallina troppo lenta, dal contatto caldo con la sua pelle, "Non ci trovo niente di sbagliato, in questo vestito."

"Sì?" mormora lei. E' un passo, minuscolo, inevitabile, uno da parte sua ed uno da parte mia, a far sì che quel mormorio finisca ad un soffio dalla mia bocca. "Caroline invece sì."

Inclino appena la testa. "E cosa ne sa lei?…"

"E' la sposa, può riscrivere le leggi dell'universo se le va."

Ci troviamo per un altro rapido sorriso. Elena riduce ancor più le distanze, posa la fronte contro la mia, le mani sul mio petto. Chiude gli occhi, inspira. Io la inspiro ancora di più.

"Non avresti dovuto essere qui," sussurra, aggrappandosi alle estremità aperte della cravatta lasciate aperte intorno al collo, come lacci che non dovrebbero farmi scappare via.

"Neppure tu," dico altrettanto piano, con la voce più roca. "Cosa ti salta in mente, farti trovare nella mia camera, con un vestito già mezzo aperto …"

Sottolineo la mia frase tornando a farci scorrere le dita, sotto a quella spallina che vuole rendermi la vita difficile perché proprio non ce la fa a restare su.

"Non l'ho fatto di proposito …"

"Dio, Elena," esalo posando una mano sul lato del suo viso, respirando lei e la sua presenza ed il modo incerto in cui, pur volendolo da matti, nessuno dei due se la sente di annullare quegli ultimi maledetti millimetri che ancora rimangono.

Il silenzio si estende per qualche secondo.

"Come stai?" mi chiede infine.

"Potrei stare meglio. Non è stata una gran giornata," rispondo. "Beh, almeno finché non sei entrata tu in questa stanza."

Lei sorride appena, per la mia frase sdolcinata, e fa scivolare le dita su e giù sopra la cravatta sciolta.

"Mi dispiace."

"Non c'entri tu."

"No, io … Mi dispiace di essermene andata in quel modo l'altra sera," dice tutto d'un fiato. Scuote appena la testa, il suo naso inciampa contro il mio. "Insomma, mi dispiace per il modo in cui reagito, ho solo … ho perso un attimo la testa."

"Va bene. Non ti ho gettato addosso una cosa da poco."

"Già," concorda piano. Giocherella ancora più nervosamente con i lembi che si attorciglia intorno ai polpastrelli, si acciglia un po'. "Tu …?"

C'è una domanda incombente lì alla fine di quella frase, ma di che domanda si tratti non ho tempo di scoprirlo. Un paio di colpetti sulla porta rimasta socchiusa la interrompono, ci fanno sussultare, separare di un passo.

"Damon, ti ho visto rientrare e …" Charlotte si ferma, il suo sguardo si sposta rapido su Elena. "Oh. Ciao," le dice, un ammaliante ed incuriosito sorriso à-la-Charlotte che si stende rapidamente sulle sue labbra.

"Madre," la apostrofo sarcastico. "Tempismo perfetto."

Elena fa un ulteriore, incerto, passo indietro.

"Salve, signora …" si blocca, probabilmente prima di dire ‘Salvatore’, che in effetti in questo caso non si applica granché.

"Oh no," la anticipa lei con un gesto della mano, che scaccia quelle formalità. "Chiamami Charlotte. Scusate, non volevo interrompere, solo …" Si produce in un altro sorriso estasiato. "Scusate."

"Va bene," dice Elena, indicando il corridoio. "Io … Caroline probabilmente mi rivuole indietro in ogni caso."

Elena si allontana in fretta, gettandomi però uno sguardo, tra l'imbarazzato e il divertito, al di là della spalla, prima di sparire oltre la porta.

Charlotte la guarda andare e la saluta con la mano, sempre con lo stesso sorrisetto stampato sulla faccia, lo stesso che poi volta su di me, aggiungendoci giusto un tocco più ficcanaso che sembra domandarmi se per caso non si debba aspettare a breve un secondo matrimonio.

La tronco lì con un sospirato, "Cosa volevi, Charlotte?"

"Oh, niente di che," si stringe nelle spalle. "Ti ho visto tornare, e dato che stavo andando in un posto, volevo che tu mi accompagnassi." Mi fa cenno con la mano, e lo sguardo, di seguirla. "Vieni?"


"Oh, ma per favore," sbotto scocciato, quando mi è chiaro cos'è che Charlotte aveva in mente.

Getto un'occhiata all'arcata di ferro battuto che si apre su un'area di terreno irregolare, una distesa di erba smeraldina inframmezzata da pioppi, betulle e tombe grigie. Le rivolgo una smorfia. "Seriamente? Che diavolo ci facciamo qui?"

"Lo sai benissimo cosa," replica lei, sospingendomi in avanti.

"Senti," le dico, fermandomi al limitare dell'ingresso. "Di tutti i giorni, di tutti i momenti che potevi scegliere, questo è davvero il peggiore. Oggi come non mai non ho nessuna intenzione di farlo, parlare di papà. In un cavolo di cimitero, per di più."

Anche nel bel mezzo di una perfetta giornata estiva come questa, questo posto riesce a risultare così deprimente che è quasi ridicolo.

"Finiscila," controbatte, con un fare che non accetta obiezioni e che quasi la fa suonare come una madre vera. "Non c'è un giorno peggiore di un altro. E non ho detto che devi parlare, puoi anche solo … ascoltare." Mi prende per un braccio. "Cammina con me, ok?"

Soffio fra i denti, ma la lascio fare. Charlotte cammina lentamente, come se di proposito non volesse affrettare le cose, o come se di proposito volesse prolungare la mia tortura.

"Era venuto a trovarmi," dice infine, scostandosi una ciocca bionda dal viso, prima di infilarla la mano nella tasca dei pantaloni verde pallido. "A New York, intorno a marzo dello scorso anno."

Corrugo appena la fronte e mi volto a guardarla, ma lei continua come se non lo avesse notato.

"Ero nel mezzo di una presentazione e firma di copie del mio libro, quando lo vedo comparire," sorride appena tra sé e sé, nel dirlo. "Elegante. Affascinante. E' stato come se non fosse passato un solo giorno."

Arriccio le labbra in una vaga smorfia stranita, perché Charlotte che sospira sognante su mio padre è un po' l'ultima cosa sia che mi aspettavo, sia che ho voglia di stare a sentire.

"Ma davvero?" domando sarcastico. "Quello che per vent'anni non ha voluto neanche sentirti nominare."

"Sì," risponde, del tutto immune al mio tono. "Lui. Siamo andati a prendere un caffè. Dopo il caffè siamo andati a cena. Dopo la cena siamo andati a bere qualcosa in questo piccolo e intimo bar che dà sull'Hudson. E dopo … Beh," si limita a dire, schiarendosi la voce ed interrompendosi da sola.

Non ha chiaramente intenzione di condividere cosa c'è stato dopo il bar, e per fortuna aggiungerei io, dato che altrettanto chiaramente neanche io alcuna voglia di sentirglielo dire. Quindi mi sbrigo a troncare lì quella possibilità.

"Ok. Cosa voleva?"

Chissà perché, dubito che mio padre sia andato fino a New York e vent'anni nel passato per qualcosa che non ha mai avuto problemi a trovarsi vicino casa.

"Parlare." Esita. "Di te."

Mi fermo, sui miei passi. Cade un silenzio così irreale che pare si fermi anche il fruscio delle foglie. Da parte mia perché ho i polmoni più rigidi tutto d'un colpo, da parte sua perché ha adesso in faccia quell'espressione distante di quando si perde in un mondo tutto suo e si dimentica perfino di ciò che stava facendo. Poi mi tira in avanti, riprendiamo a camminare. Non ho intenzione di chiedere, cazzo che no. Ma i secondi che impiega a continuare sono un'eternità.

"Abbiamo parlato tutta la notte. Di te, di Stefan … Sai, immagino che, quando hai dei figli con qualcuno, quel tipo di legame … Non se ne vada mai del tutto."

Serro le labbra, non dico niente.

"Perché lo avrebbe fatto?" chiedo poi, odiando la voce più incerta che mi esce fuori. "Così, dal niente."

"Perché ne aveva bisogno," risponde semplicemente. "E poi non penso che fosse davvero qualcosa uscita dal niente. Forse più … non lo so, questo peso che cresce lentamente, fino a che non diventa qualcos'altro e non lo puoi sopportare più. Forse stava invecchiando. Ma mi aveva detto di aver iniziato a conoscere questa ragazza, a cui una volta eri vicino, che per tutta una serie di cose si era ritrovato a pensare a te."

Ho la bocca come cemento, lo stomaco come un puntaspilli.

"Anzi, no, non è esatto," prosegue lei, sempre persa in un filo di pensieri tutto suo. "Non ha mai smesso di pensare a te. Pensarci in modo diverso, magari. Qualunque fosse il motivo, credo che avesse bisogno di condividere alcune cose, farle uscire, con qualcuno che potesse capire. Non solo quella volta lì. Ce ne sono state altre, dei weekend, e telefonate, altri … weekend. Sai, era piuttosto difficile riuscire a smettere."

Devo fermarmi un'altra volta, perché tra tutti i pensieri e concetti e stati d'animo che mi vorticano impazziti per la testa, quello è forse il più difficile di tutti da afferrare.

"Mi stai dicendo …" Mi sento come quei ragazzini che scoprono per la prima volta cosa si prova a beccare a letto insieme i propri genitori. Non è una bella cosa. "… che avete avuto una tresca?"

"Ti sto dicendo," ribatte, appena spazientita. "Che so come si sentiva riguardo a te."

Si gira, allunga le mani per togliermi via pelucchi invisibili dalla spalla. "Che gli piaceva sentirmi raccontare di ogni volta che ti sono venuta a trovare, e sapere come te la stavi passando. Che aveva un sacco di rimpianti. Che non sapeva se tu lo volessi di nuovo nella tua vita, ma che non riusciva a decidersi di scoprirlo. Dopotutto, sei venuto su bene anche senza di lui." Si ferma appena, sull'ultima frase. "Era piuttosto fiero."

Chiudo un attimo gli occhi e devo prendere un profondo respiro. Quando lo rilascio, però, tutto ciò che ne esce fuori è una breve risata amarognola, che fa vibrare e sferragliare tutti i pezzi taglienti che ho dentro.

"Ecco, vedi, è qui che stai esagerando. Non era poi così fiero, se l'unico motivo per cui mi ha lasciato in mano la sua compagnia era per ribadire il fatto che ero stato io a rovinarla tanto per cominciare."

Charlotte increspa le sopracciglia confusa.

"Chi ti ha detto questo?"

Replico con una smorfia. "Il suo direttore finanziario."

Lei mi guarda, perplessa, qualche secondo. Poi scoppia improvvisamente a ridere.

"Sembra proprio qualcosa che Giuseppe avrebbe fatto!"

Davanti all'espressione accigliata con cui la sto guardando, che silenziosamente le chiede se pensa così di farmi sentire meglio o solo di prendermi per il culo, lei mi dà un colpetto sul braccio.

"Oh, andiamo! Probabilmente ha pensato che ne avresti saputo apprezzare l'ironia. Cielo, che temperamento che aveva. Lo amavo per quello."

Charlotte si passa un dito sotto alla palpebra, per asciugarla, con la risata sempre sulle labbra. Scuoto la testa. Il gusto amaro che ho in bocca ancora non se ne va.

"Ah sì? Eppure lo hai lasciato lo stesso. Lui e noi."

Non è davvero un'accusa, quanto un ultimo testardo tentativo di contraddirla in ciò che sta dicendo. Beh, forse un po' un'accusa lo è.

Il suo sorriso si fa più triste, inclina appena la testa di lato.

"Avevo diciannove anni quando ho scoperto di te, Damon. Avevo tutti questi sogni e tutti questi progetti, tutte le cose che avrei potuto fare e vedere. Volevo viaggiare, volevo ballare, volevo … Forse troppe cose. Ed ho visto sparire tutto così, in un solo istante. L'unica ragione per cui ho pensato che avrei potuto farlo, sposarmi e avere dei figli, è stato perché era lui. E per favore, tesoro, non prenderla nel modo sbagliato. Non è che non amassi te e Stefan, perché vi ho sempre amato tanto, e ci ho provato, davvero ci ho provato, ad essere quella persona, quella che mette gli altri prima di sé, ma … Non ero davvero brava a fare la moglie e la madre. La mia testa era … sempre altrove, persa in altre cose. E così sono arrivati i litigi, e i tradimenti, e … l'amore non conta in certi casi, finisce solo per trasformarsi in qualcos'altro. A volte, penso che abbiamo solo avuto un pessimo, davvero pessimo, tempismo."

Charlotte si schiarisce la voce, adesso più incerta, più spezzata. E' quando vedo altra umidità spuntarle lì tra le ciglia, anche se la tira via in fretta, che mi ritrovo a domandarmi quanto il sottile cambiamento che l'ha resa ancora più esile e che le ha lasciato linee più profonde abbia a che vedere con la tomba che è qui adesso davanti a noi.

"Quindi," dice, sollevando il mento. "Io vado adesso. Ma tu se vuoi rimani qui, ok?"

Ho ancora la bocca pesante, ma riesco lo stesso a chiederle.

"Perché?"

Semplicemente, dice, "Perché ne hai bisogno."


***


Non sto a dire cosa mi è passato per la testa, cosa c'è stato tra me e quella tomba. Tutte le gradazioni di rabbia, sofferenza, senso di colpa, e del sapore amaro del rimorso. Ma sì, il lutto l'ho sentito. Tre mesi, otto anni, che mi sono piombati addosso tutti insieme, artigliandomi le interiora, torcendomi l'addome, soffocandomi alla gola. Niente a che vedere con quelle conversazioni silenziose che si vedono nei film, in cui sistemi quel che devi sistemare e finalmente trovi pace. Non ho sistemato niente, non ho trovato nessuna pace. Quando infine volto le spalle e me ne vado, però, alcune cose le ho capite.

Cose che ho bisogno di far uscire, con qualcuno che possa capire.


(Run - Snow Patrol)

La mattina era grigia e sbiadita e innaffiata di altra pioggia.

Sapevo che l'avrei trovata a casa perché era così presto da essere a malapena l'alba. Le scrissi in un messaggio di scendere e di uscire sul portico, mi sedetti sui gradini, li trovai bagnati, mi rialzai, camminai - una sequenza di azioni dettata solo dal non saperlo neanche io, che cosa mi stesse davvero passando per la testa.

Avevo passato la notte sul divano di Enzo. Una notte insonne e lunga di sigarette, ancora più anti-dolorifici, e pessime scelte.

Non appena lo shock stordito di mio padre che aveva smesso di essere mio padre aveva iniziato a depositarsi e darmi modo di pensare, qualcos'altro l'aveva scacciato e ne aveva preso il posto. Rabbia. Un sacco di rabbia. Rabbia come non ne avevo mai provata - fredda, distruttrice, protettiva.

Se l'era cercata lui. Lo aveva voluto lui. Per ogni volta in cui mi aveva voluto vedere come quello che non ero, per ogni volta che non aveva ascoltato, per ogni volta che non era stato ciò che io avrei voluto.

Enzo l'aveva fatta facile. "Bene, allora, andiamocene, prima cosa domani mattina."

La palla stretta di rabbia gridava di sì. Fanculo lui, fanculo questa città, fanculo lui. Se non voleva più vedermi, poteva starne certo che neanche io avrei più voluto vedere lui.

Ma poi ero anche rimasto a fissare imbambolato ogni singola delle chiamate senza risposta di Elena. Cosa le avrei detto? Cosa avrei fatto con lei? C'era solo un enorme, gigantesco nulla in risposta a quelle domande.

Perché non potevo restare. Non adesso, dopo tutto quel che era successo.

Perché non potevo sopportare l'idea di lasciarla. Non adesso, non dopo tutto quello c'era stato.

Sentii aprirsi la porta, il petto prese a battermi furioso. Come mi voltai, Elena si bloccò.

Lo seppi che c'era qualcosa di diverso fin da quel momento. Non avrei saputo dire cosa, o perché, ma c'era. C'era nell'espressione che aveva, tesa, distante, stanca, quando mise piede sul portico; c'era nel modo in cui si irrigidì stringendosi la felpa al petto.

"Cos'è successo?" domandai.

Elena strinse le labbra, tremarono appena.

"Dov'eri, Damon?"

"Io …" Scossi la testa. "Sono stato preso da alcune cose."

"Ti ho chiamato."

"Lo so, mi dispiace, io …" Non fui in grado di finire.

I suoi occhi non mi stavano guardando, ma erano andati oltre, dietro la mia spalla, verso Enzo sul sedile del guidatore della sua auto che soffiava denso fumo biancastro di sigaretta fuori dal finestrino.

Vidi l'esatto momento in cui quel fatto si infiltrò nella sua espressione. Torno a voltarsi verso di me, lo sguardo più largo. Non lo disse come una domanda.

"Te ne stai andando."

"Elena," avanzai verso di lei, le presi il volto tra le mani, gli occhi nei suoi.

Ci vidi dentro un intento delicato ma fermo, come se da un lato stesse cercando di leggermi addosso quali fossero le mie intenzioni, eppure da un altro le avesse già decretate da sola.

"Ho solo … Ho solo bisogno di cambiare aria per un po'". Le dissi esattamente ciò che avevo detto a Stefan solo pochi momenti prima, mentre gli mettevo in mano le chiavi della Camaro. Le sapevo ormai quasi a memoria, quelle frasi, da quanto ci volevo credere. "Non per molto. Solo finché non sistemo alcune cose, e poi-"

"Te ne stai andando," ripeté, facendo un passo indietro.

Non glielo permisi, ma serrai le mani ancora di più intorno al suo viso.

"No," dissi, con un nodo alla gola. Perché non lo stavo facendo. Avevo un piano. Ovvero lasciare che mio padre sbollisse, che tutto quel casino passasse nel giro di un paio di mesi, chiamarla ogni giorno, inventarmi qualcosa. "No, io non-"

Elena prese la mia mano nella sua e la scansò, con gentilezza e decisione, dal suo viso.

"Certo che lo stai facendo," disse, con un piccolo sorriso ed una voce altrettanto piccola. Annuì, mentre si passava due dita sotto alle ciglia. "Va bene."

"No," ribattei fermo. "Non va bene. Tra un po'-"

"Tra un po' cosa?" mi interruppe, indietreggiando e mettendo ancora più le distanze, alzando appena il tono. "Tu non vuoi restare qui. Non lo hai mai voluto. Tu …"

Inciampò sulle parole, si coprì la bocca con una mano. Riafferrò i bordi della felpa e la richiuse, ancora più stretta attorno alla vita, davanti ad un soffio più freddo di vento.

Avrei voluto afferrarla e tirarla a me, solo perché adesso sapevo cosa si provasse a tenerla stretta quel modo completamente diverso, solo perché volevo che lo provasse anche lei, solo perché volevo poterlo fare almeno un'altra dannata volta.

Ma lei continuava a ritrarsi, di poco ma lo faceva, ad ogni minimo movimento con cui mi tentavo di riavvicinarmi a lei.

"Quante volte lo hai detto, Damon? Non hai niente a tenerti qui."

Quella cosa non era mai stata così vera. Eppure così sbagliata.

"Ho te."

"Me?" mi fece eco, più amara. "Che cosa avresti con me?"

Questa volta, non le permisi di sottrarsi. La raggiunsi sul bordo del portico dove si era ritratta e dove gocce più spesse cadevano dalla grondaia, pesanti contro i nostri fianchi. Intrecciai le dita tra i suoi capelli, le sfiorai con il pollice la guancia, le cercai lo sguardo.

"Tutto."

Una breve pressione della sua guancia contro il mio palmo, un sorriso triste, e si era ritratta di nuovo.

"Tu vuoi andartene," ribadì.

"Solo perché ne ho bisogno in questo momento!" replicai con più forza, frustrato dalla sua testardaggine, dal suo non voler vedere. "Ma è solo per adesso, in un paio di mesi, o un anno, come avevamo detto, quando tu …"

"Ma io non posso farlo!" ribatté con altrettanta intensità. "Non lo capisci? Non in un paio di mesi, o in un anno, o in alcuni! Non posso essere come te, Damon, non posso, i-io…"

"Ok, allora! Allora vorrà dire che tornerò da te non appena avrò-"

"Perché?" gridò. "Perché mai dovresti volerlo fare quando non è quello che vuoi, perché-"

"Perché ti amo, dannazione!"

"Beh, io non amo te!"

Smettemmo di urlarci contro a quella frase. Tutto si fece immobile, e quieto, solo con un vago eco persistente in cui quella frase era rimasta appesa, sparata come un colpo di pistola partito all'improvviso e che lascia nell'aria soltanto l'odore acre di polvere da sparo.

"E' quella la ragione?" proseguì lei, con un luccichio all'angolo dell'occhio che non sapevo se era di lacrime o di sfida. "Io sono la ragione? Allora non farti problemi, perché non ce n'è bisogno. Io non ho mai … detto, o … Non voglio, non ho … m-mai voluto … non …"

Aveva iniziato ad incespicare sulle parole, a balbettare solo sconnessi "non" e "mai" che ero troppo frastornato per mettere in un vero contesto, perché tutto ciò che in me si rifiutava di crederle era troppo schiacciato tra tutto ciò che invece ci aveva creduto e, ancora una volta, non avrebbe mai dovuto. Quante volte, eravamo arrivati a questo? Quante volte mi aveva tirato a sé solo per spingermi via con ancora più forza di prima? E quante altre volte lo avrei dovuto rivivere, prima di imparare la lezione con lei?

Elena, sull'erba, mia non lo era poi davvero mai stata.  Ed il giorno prima era adesso uno squarcio in mezzo al petto che desiderai non fosse mai avvenuto. Chiusi gli occhi un momento, per riprendere fiato. Ma dovevo sentirmelo dire da lei.

"E ieri, Elena?" domandai con la gola che sotto a quelle parole finiva di spaccarsi. "Che cos'è stato allora ieri?"

"Un momento," rispose alzando le spalle, guardando altrove. "Solo … un momento. Mi dispiace se hai pensato … Non avrebbe … dovuto … i-io…"

Non lo sapeva neanche lei cosa stesse dicendo. Nè io sapevo cosa stessi davvero ascoltando.

"Maledizione, Damon!" mi gridò addosso, in un singhiozzo, o un'esasperazione, o un altro schiaffo in faccia. "Vattene, ok? Vattene e basta e lasciami in pace!" finì di urlarmi contro, voltandosi in uno scatto di spettinati capelli scuri, elettrici di pioggia, e di un portone sbattuto.

Fu l'ultima cosa che vidi di lei.

Arretrai sui gradini, stordito, fradicio, a pezzi.

Era tutto lì. Era tutto lì ed io, in un solo attimo, non avevo più niente.


Inizio a parlare che ho malapena varcato la sua soglia di casa. Inizio a parlare, ed Elena sbatte velocemente le palpebre, disorientata, una mano ancora sulla porta.

Inizio a parlare in fretta, perché la storia non l'ho mai ammessa e non l'ho mai confessata, e nel momento in cui inizio a farlo viene fuori da sola, vivida come se fosse ieri, acerba come il sapore che non ha mai perso.

Elena mi osserva sorpresa, turbata, smarrita, nel tentativo di starmi dietro, di mettere insieme dei pezzi che non del tutto, nel modo in cui vengono fuori, riescono ad avere un senso compiuto.

"Stai dicendo …" mi dice infine, aggrottando appena le sopracciglia. "… che hai cercato di non far risultare i debiti di mio padre?"

"No." Mi passo una mano sulla faccia e mi lascio cadere sul suo divano con un sospiro amareggiato. "Cazzo, no. Lo avrei fatto se avessi potuto, ma no. Ci vuole qualcosa di più di qualche documento falsificato per quello."

"Beh, lo so," risponde lei seria, sedendosi accanto a me. "Mio zio John ha rilevato quel debito, a condizione che mio padre iniziasse a vedere gli alcolisti anonimi. Non che sia durato tanto, quelle prime volte, ma comunque … " Elena posa una mano sulla mia. "Damon. Cosa vuoi dire?"

"Voglio dire che," deglutisco, a fatica, intreccio le dita alle sue. "Voglio dire che ho fatto una cazzata, che non avevo la minima di che conseguenze avrebbe avuto. Ero così fottuto nella testa in quel momento, e non sapevo cosa fare, e … Non avrei mai voluto lasciarti."

Elena prende un respiro incerto, mentre sposta lo sguardo sulla sua mano chiusa sopra la mia e la stringe ancora di più. Piega appena le labbra in un sorriso, che però poi svanisce in qualcosa più distante.

"L'ho sempre pensato, sempre saputo, che prima o poi te ne saresti andato. Che tu volessi altro, fare a modo tuo. Ma poi ho capito che ci avresti rinunciato per me e, Damon, io non sarei andata da nessuna parte." E' quasi convulso il modo in cui mi tiene strette le dita. "Non avrei mai lasciato mio padre e mio fratello, non in quella situazione, non in un anno, non in cinque. Non volevo toglierti qualcosa, solo perché io non lo potevo avere."

Sollevo lo sguardo sul suo viso, vedo ciò che vede anche lei. Che siamo stati così incastrati in tutto ciò di cui avevamo paura da non vedere niente al di là di quello. Reciproco la sua presa salda, entrambi accenniamo un sorriso.

Elena mi tira a sé, posa la fronte contro la mia.

"Quindi sono stata io," sospira. "Sono io il motivo per cui non hai più parlato con tuo padre, perché-"

"No, Elena," la fermo, scuotendo la testa. "Non sei mai stata tu. No, era tutto lì da prima, e per così tanti motivi che … che non li saprei più neanche io. Voglio dire, forse è vero, è quello ciò che mi sono detto al tempo, che lo stavo in qualche modo facendo per te, ma  … la verità? L'ho fatto perché volevo farlo incazzare. Perché sapevo che l'avrebbe incasinato alla grande ed era quello che volevo. Perché volevo fargli dal male. Ed è stato così, gliel'ho fatto. Non per il problema che gli ho creato, o quelli che ne sono seguiti. Ma perché gli ho fatto credere di odiarlo." Mi sento bruciare per tutta quella rabbia di difesa che si rompe, si logora, e lascia solo il vuoto. "E non ho mai avuto la possibilità di sistemare le cose, e adesso non ce l'avrò più. Perché non era vero che lo odiavo, Elena. Non davvero, non era vero."

Non ho più niente in gola, consumata dal non riuscire a trovare altre parole. Elena mi stringe, avvolge un braccio attorno alla mia testa, posa piano la guancia contro il mio orecchio.

"Lo so, Damon. Lo so."


Charlotte è destinata a rimanere estremamente delusa, perché no, non ho pianto. Non che non abbia sentito un vago pungere negli occhi, o una presa stringente tra le costole. Non è neanche che non volessi farlo. Non ho potuto e basta, perché non c'era niente di liberatorio, né mai davvero ci sarebbe stato.

Ma Elena lo ha fatto per me, se può contare qualcosa. L'ho sentito nei baci salati che mi ha posato sulla guancia, e sul lato della testa, e l'ho sentito in quella gocciolina che le è scesa lungo il mento dove stavo appoggiando il volto, con le sue dita intrecciate tra i capelli e la sua testa sopra la mia spalla.

E per questa cosa, l'ho amata. Beh, sai che scoperta, insomma, ho sempre amato Elena, da quando era una ragazzina con le gambe troppo lunghe e i comportamenti troppo cocciuti. Ma in quel preciso istante, l'ho amata in modo diverso, senza niente a trattenermi, niente dietro cui ripararsi, perché lo aveva visto davvero quanto fossi pieno di stronzate eppure era ancora lì, ad avvolgermi di Elena e riempirmi di Elena, e se una volta pensavo di non poterla amare di più, da lì ho saputo che mi sarei sempre sbagliato a quel riguardo.

Non gliel'ho detto, naturalmente. Le mie frasi sdolcinate le lascio per il flirt quando tento di sedurla.

Non gliel'ho detto in parole come non ho fatto mille altre volte, ma gliel'ho fatto sapere nel modo in cui l'ho tirata verso di me, e posato le labbra su quella gocciolina di lacrima scesa lungo il mento, e su verso la guancia, su verso la bocca. E, come mille altre volte, lei ha capito cosa volessi dire, e lo ha messo tutto nella presa ferma alla base del mio collo con cui ha fatto scontrare la mia bocca sulla sua.

L'ho amata e non gliel'ho detto lì sul pavimento ai piedi del divano, tirandole via di dosso i vestiti con una delicatezza macchiata dall'impellenza, in ogni bacio lento e febbrile con cui sono sceso su di lei, in ginocchio per lei, la gonna tirata frettolosamente su e spiegazzata tra le mie mani. L'ho amata e lei l'ha capito in ogni sospiro che le ho preso e in ognuno di quelli che mi ha tirato fuori, con le mani sul mio petto a tenermi giù, e quel suo modo diabolico di muovere i fianchi, e quello amorevole di accarezzarmi la schiena. L'ho amata come l'avevo amata la prima volta, e come avrei fatto l'ultima. E quello sì, che è stato liberatorio.

La tengo tra le braccia, mentre lei rannicchiata tra le mie gambe posa il retro della testa sulla mia spalla, con una mano attorno alla sua vita ed il peso morbido del suo seno contro l'avambraccio. Sollevo la testa dalla leggera, lenta traccia di baci che le stavo lasciando lungo il collo, e vedo cosa c'è lì davanti sul tavolo.

"Come è andato quel tuo incontro con quel consulente studentesco?" le domando.

"Mmh?" replica, distratta, alzando appena la nuca e tornando ad aprire gli occhi. Vede ciò che le indico con un cenno della testa, quei moduli per l'ammissione sparpagliati sul tavolo. "Oh, sì. Sì, è andato bene. Le ammissioni per le università aprono solo in primavera, quindi per ora si tratta sopratutto di capire in cosa mi interessa specializzarmi davvero. Posso iniziare da un community college per cui le iscrizioni sono aperte tutto l'anno, e nel mentre preparare una domanda di trasferimento, oppure usare questi mesi per capirlo."

"Mi sembrano entrambi ottimi piani," dico, posandole un altro bacio sopra la spalla.

Elena giocherella con le mia dita intrecciate sul suo fianco.

"Ed i tuoi di piani?" chiede esitante. "Cioè, con Katherine e …"

"… il mini-anticristo, vuoi dire?"

Elena si volta di scatto, esterrefatta, ammonendomi con lo sguardo.

"Scusa," mi affretto a dire. "Scusa. Ho promesso a Caroline che avrei smesso di chiamarlo così."

Sospiro, scrollo le spalle. "Non lo so. Insomma, cosa dovrei fare? Katherine è stata molto chiara sul fatto di non volerne sapere, quindi … Immagino che sia tutto qui."

"E a te sta bene? …" prosegue lei, passandomi il pollice sul dorso della mano. "Che sia tutto qui?"

Poso il mento sulla sua testa, il mio petto si contrae.

"Sinceramente, Elena? Non lo so cosa mi sta bene, o cosa dovrebbe starmi bene. Voglio dire, non è che lo volessi, con Katherine per di più, e se uno guarda alla situazione in modo razionale lo so che dovrei provare un gran senso di sollievo. E' solo che … non è proprio così. Continuo ad aspettare che faccia effetto, tipo quegli antidolorifici a scoppio ritardato, ma …" Mi fermo, devo prendere un altro respiro che rilascio sopra i suoi capelli. "… Non lo so, non ne esco davvero fuori."

"Damon," dice, allacciando le dita tra le mie. "Tu lo vuoi questo bambino?"

Mi rendo conto, mentre me lo chiede, che è la prima persona a domandarmelo davvero, senza né sarcasmo né tanti giri di parole. Le bacio la tempia, la stringo di più a me.

"Perché dovrei volerlo?" le dico. "L'ultima cosa di cui ho bisogno è ritrovarmi ad avere un figlio. Andiamo, guarda la mia vita, è perfetta così. Ho comprato da poco un appartamento favoloso che è fatto per soli adulti, neanche nel lavoro ho nessuno che mi dica cosa fare, e adesso potrei stare con te, neo-studentessa che è davvero abbastanza pazza da pensare di cercare un college dall'altro lato del paese per stare con me. E potremmo davvero, seriamente, avere buona possibilità di far funzionare le cose. Perché mai dovrei voler rinunciare a tutto questo? Sappi che non ho nessuna intenzione di farti una cosa del genere. Tirarti nel mezzo a crescere il figlio di qualcun altro proprio adesso che per la prima volta hai la possibilità di fare qualcosa solo per te stessa."

"Questo lo so." Quando si volta a guardarmi, c'è un accenno appena rattristato nel suo sorriso. "Ma lo vuoi lo stesso, non è vero? Ti conosco troppo bene, Damon Salvatore, per credere alle tue bugie."

Resto in silenzio ed Elena posa una mano sulla mia guancia. Lascio andare il viso contro il calore del suo palmo, mentre lei mi osserva per un lungo istante.

"Forse, ecco cos'è," dice soltanto. "La tua possibilità di sistemare le cose."

Non aggiunge altro, e non lo faccio neanche io. Ma sto ancora pensando a cosa ha detto quando infine ci decidiamo a raccogliere i vestiti sparsi sopra il pavimento, e getto uno sguardo al display del telefono e so che Katherine non se andrà prima di un'altra ora, ed un pensiero completamente, assolutamente, non razionale inizia a prendere forma nella mia testa.

"A proposito," Elena riattira la mia attenzione, si tira su la zip laterale della gonna. Prende la sua borsa e ne tira fuori un pezzo di carta spiegazzato, macchiato, pestato, che è stato lisciato e ripiegato attentamente a metà, per quanto tutti quei segni lo potessero permettere. Me lo passa tenendolo tra due dita. "L'ho calpestato quando ho lasciato casa vostra questo pomeriggio. Ho smesso di leggere quando ho capito di che si trattasse, ma … Non so, ho pensato che potessi rivolerla indietro."

Ci sono una nuova chiazza d'erba e diversi segni di ghiaia, ma la riconoscerei dovunque, quella maledetta lettera che ancora mi perseguita. Non so se piangere o ridere. La seconda, a quanto pare.

"Cosa?" mi chiede lei davanti alla mia risata, con l'abbozzo di un sorriso smarrito di chi si è appena perso il senso della barzelletta.

Me la riprendo, la piego un'altra volta e la infilo nella tasca dei jeans nell'alzarmi in piedi.

"Niente. Stavo solo pensando, che ne avrebbe apprezzato l'ironia."


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Ps. Manca l'epilogo, sì - ovvero il fiocco (rosa o blu?) per chiudere il pacchetto. Ma credo che quello arriverà quando la sappy sentimentale che sono sarò pronta, del tutto e per davvero, a dire addio.

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Capitolo 25
*** Epilogo. The long way home ***


TVD è finito l'altro giorno e, anche se sono quasi due anni che io e questa serie ci siamo dette addio, c'è stato un tempo in cui questa storia significava molto per me e, forse, anche per chi la seguiva e leggeva. E' per questo che mi è sembrato il momento giusto per riaprire infine la bozza dell'epilogo già tratteggiato tanto tempo fa e metter anche io, in tutto e per tutto, la parola fine. E’ un epilogo molto più frammentario, con molte meno scene e approfondimento, di ciò che sarebbe stato solo avessi avuto il tempo e la voglia di svilupparlo per bene, ma il senso è fedele all’idea originale, e credo che alla fine conti quello.

Anche se per me TVD è finito in delusione (e non l'altro ieri, ma parecchio tempo prima), è stato bello finché è durato, venire qui a immaginare queste versioni alternative dei personaggi dello schermo con chi condivideva la stessa passione - mi siete mancate, ragazze, e mi dispiace infinitamente non essere stata più in grado, negli ultimi tempi di questa storia, di rispondere a tutte le belle parole che per il suo ultimo capitolo mi avete lasciato. Non rimpiango una sola parola sudata e versata per questi due. Anche perché, scrivere in questo spazio ha riacceso una passione per la scrittura che era rimasta dormiente per anni, tanto da avere anche adesso una storia originale in lavorazione che adoro da impazzire e che non vedo l'ora possa presto vedere la luce in un modo o nell'altro, e senza questo passaggio intermedio, senza i vostri incoraggiamenti che andavano al di là del semplice apprezzamento per la fanfiction, non se avrei mai avuto il coraggio di imbarcarmi nell'impresa. Quindi grazie, ancora una volta, alle lettrici, alle autrici, a efp, a Damon e Elena, a Stubborn Love, a tutto quanto.

E mi sembra giusto, nonostante tutto, poter dire addio a Damon e Elena a modo mio in questo piccolo spazio felice. Ma basta ciance, ecco l'epilogo. Vi avviso che contiene alte dosi di fluff. Consumate a vostro rischio e pericolo.


ever


Epilogo.

The long way home


- So let's go out past the party lights
We can finally be alone
Come with me,
and we can take the long way home
Come with me,
together
we can take the long way home
-

(The long way home - Norah Jones)


Damon ha rotto con me la sera del matrimonio di Caroline e Stefan. Dopo la partenza degli sposi per il loro viaggio di nozze in giro per l'Europa, dopo che anche l’ultimo invitato se ne era andato ed eravamo rimasti solo noi due, insieme agli addetti del catering che avevano iniziato a ripulire, la sua giacca e i miei tacchi abbandonati per terra, seduti al bordo del patio sotto alle lucine bianche che ancora luccicavano nel buio.

Era stata una cerimonia incantevole. In tutto e per tutto contraria a ciò che Caroline aveva sempre fantasticato sarebbe stata, e assolutamente incantevole.

Non era una fresca giornata di primavera, ma una calda sera di fine agosto, appena dopo il tramonto, unico momento in cui la calura si era fatta più sopportabile. Non c'erano un centinaio di persone a vederla in uno splendido vestito di alta sartoria, ma appena un paio di dozzine di familiari e amici più stretti, e un semplice vestito da sera color crema perché non c'era stato tempo di adattargliene uno bianco addosso. Nella fretta dei preparativi, i fiori erano stati mandati gialli invece che rosa, e sulla torta la pasticceria aveva scritto Caroline & Steven, ma Caroline aveva scrollato via ogni contrattempo con un distante sorriso trasognato.

E io, dopotutto, avevo avuto la mia camminata verso l'altare, con fiori freschi tra le mani e l'uomo che amavo alla fine di essa. Con tanto di occhiata ammiccante da parte mia, e un mezzo sorriso complice da parte sua, prima che io da brava damigella d'onore prendessi il mio posto alla sinistra, mentre lui da bravo testimone restava lì sulla destra.

C'era stato solo un breve, seppure intenso, momento di panico, quando, dopo che Stefan le aveva messo la fede al dito, Caroline si era immobilizzata di colpo, lo sguardo allargato, restando muta per alcuni interminabili secondi riempiti dai mormorii degli invitati.

Finché Stefan non le aveva stretto appena di più la mano, sussurrandole un preoccupato, "Care?"

"Ho dimenticato i miei voti," aveva balbettato lei. "Avevo scritto tutte queste cose, fatto tutte queste ricerche, per trovare le parole più giuste … E adesso non le ricordo più."

Sembrava sul punto di piangere. Stefan l'aveva tirata più vicina.

"Va bene," aveva detto rassicurante. "Va bene, Care."

"No," aveva replicato lei, scuotendo forte la testa. “No, ci ho messo tutta la notte, per pensare al modo migliore di dirti quanto ti amo, quanto rendi ogni mia giornata migliore … e me una persona migliore … e invece … così … non sono capace…”

Stefan l'aveva tirata a sé e l’aveva baciata, sopra a tutti quei farfugliamenti, e lei aveva reciprocato con altrettanto slancio, lasciando un confuso ministro a domandarsi cosa fare davanti a quel “Puoi baciare la sposa" completamente fuori tempo, soprattutto quando dopo cinque buoni minuti ancora non si erano staccati, né sembravano avere alcuna intenzione di farlo.

Damon aveva dovuto battergli un colpetto sulla spalla.

"Stef. Il tipo qua deve prima finire."

La prima canzone era stato un medley tra Bon Jovi e Cindy Lauper.

Bonnie aveva presentato Sage a sua nonna.

Alaric aveva spaventato un giovane cameriere insistendo che venisse perquisito prima di entrare, perché aveva una “faccia sospetta”.

Charlotte aveva stretto le braccia al collo di Damon. "Stefan mi ha detto,” gli aveva sussurrato. “Sono così, così felice per te."

"Di cosa parla?" gli avevo chiesto quando, terminata quell'interruzione, avevamo ripreso a dondolare piano sopra la musica, le mia mani sulla sua nuca, le sue dita sui miei fianchi. Aveva posato il volto contro il mio, un bacio morbido sulla mia guancia. "Te lo dico dopo."

Lo aveva fatto a festa finita, quando tutti se ne erano andati.

Ero rimasta appoggiata contro il parapetto in legno del patio, mentre Damon mi raccontava di essere andato a cercare Katherine subito dopo aver lasciato casa mia, un paio di sere prima, trovandola appena prima che salisse su un bus notturno. Le aveva offerto cinquecentomila dollari come accordo di divorzio, ovvero tutto che era rimasto della sua eredità dopo aver liquidato casa e azioni della compagnia per lasciarle a Stefan, se lei avesse portato a termine la gravidanza e lasciato il bambino con lui, senza nessun obbligo di restare a fargli da madre. Katherine gli aveva dato del pazzo. Quindi aveva cautamente provato a contrattare. Poi aveva detto che ci avrebbe pensato, e preso lo stesso su quel bus. Infine, lo aveva chiamato la sera prima, dicendogli che allora avrebbe dovuto sborsare anche per ogni capriccio ormonale e voglia strana che avrebbe avuto negli otto mesi successivi.

"E' meraviglioso, Damon!" esclamai felice, prendendogli la mano. "E pensi davvero che Katherine non vorrà mai averci niente a che fare?"

"Non lo so," disse, giocherellando con le mie dita. "Per adesso, sì. Ci ha particolarmente tenuto a metterlo in chiaro. Forse un giorno lo vorrà conoscere, forse no. Non so neanche bene cosa gli dirò quando chiederà di sua madre. Ma è qualcosa di cui mi preoccuperò quando accadrà, se mai accadrà.”

"Gli?" domandai, alzando un sopracciglio. "Potrebbe essere una bambina, sai."

"Cosa vuol dire, una bambina?" ribatté accigliato, neanche avessi suggerito una strana specie aliena. "No, è un maschio. Insomma, andiamo," si indicò con un ghigno compiaciuto sulle labbra. "Ovvio che è un maschio. E' un Salvatore."

Scoppiai a ridere, per il modo in cui quel suo sorriso mi aveva riempito il cuore. Strinsi più forte le dita tra le sue.

"Sarai un padre fantastico."

"Non ne sono poi così sicuro. Sono terrorizzato, a dire la verità. Ma … Immagino che ci dovremo accontentare." Sorrise più tristemente, portando lo sguardo sulle nostre mani. "Non è il migliore dei tempismi, vero?"

"Quando mai lo è?"

Ma poi avevo visto il suo sguardo, e solo con quello avevo capito cosa stava per dire. Lo anticipai prima che potesse andare fino in fondo.

"Damon, no. Non ci pensare neanche. Lo faremo funzionare. Io non vado da nessuna parte."

"Invece sì. Lo farai."

Ed era stato completamente, insopportabilmente, testardamente irremovibile su quello. Ci avevo provato in tutti i modi, a fargli cambiare idea, a impedirgli di lasciarmi. Ero stata rassicurante. Ero stata supplichevole. Mi ero infuriata.

Aveva lasciato che mi sfogassi con ogni epiteto e ogni preghiera, fino a che non avevo esaurito fiato, proteste, lacrime, e opzioni. E poi aveva detto solo: "Elena. Ti ho aspettato per anni. Cosa credi che siano, appena qualcuno in più?"


Nonostante tutto, ero stata così furiosa con lui che, per almeno qualche mese, il suo piano aveva davvero funzionato. Dopo quella sera, non lo avevo più chiamato, non lo avevo più cercato. Certo non mi sarei trasferita fino in California per qualcuno che non voleva stare con me, mi ripetevo tra una fitta e l'altra del mio cuore e del mio orgoglio feriti.

Così, d’improvviso, senza più Damon accanto ad offrirmi la direzione e la scelta più ovvia, mi ero resa conto, non senza un certo disappunto, che a dispetto di tutte le opzioni che mi si stavano aprendo davanti, non ero ancora in grado di decidere dove volessi andare, cosa volessi fare, o chi volessi essere.

Ma se non altro ero determinata a scoprirlo.

Avevo preso i miei risparmi, insieme a ciò che avevo messo da parte per il matrimonio con Elijah, ed ero partita. Per un po’ avevo chiesto accoglienza a Finn, l’amico di Sage a New Orleans che già aveva ospitato la mia pazza fuga di qualche mese prima, offrendomi di aiutare nel suo locale in cambio di una stanza dove dormire. Avevo poi passato l’inverno successivo a Parigi, tra un minuscolo appartamento condiviso in subaffitto e classi serali che avevano cercando di insegnarmi nozioni di francese e di pasticceria - con qualche successo per la prima impresa, e molti meno per la seconda. Avevo preso treni, visitato città, e incontrato persone che non avrei mai più rivisto.

Era stata una sensazione così strana all’inizio, paurosa e stimolante al tempo stesso, come può esserlo solo la prospettiva di illimitate possibilità ancora aperte in attesa là fuori indipendenti da chiunque, compreso un uomo frustrante e meraviglioso che pure mi amava con tutto se stesso. E, pur senza smettere mai di pensarlo, in un contraddittorio alternarsi di sentimenti che oscillavano dal desiderio, alla tristezza, alla rabbia, e alla mancanza di lui che avvertivo in ogni fibra del mio essere, dopo un po’ avevo iniziato a vedere ciò che aveva fatto.

Damon si era tolto dall’equazione e mi aveva lasciato andare per la mia strada fino a che non avessi saputo quando e dove fermarmi, proprio come avevo fatto io con lui tanti anni prima quando le parti erano state invertite, solo con un po’ meno drammi.


La prima volta che lo avevo visto di nuovo era stato quando era nato Thomas.

Ero tornata negli Stati Uniti da qualche settimana, dopo aver ricevuto risposta positiva da uno dei college per cui avevo fatto domanda. Ero a Berkeley per una visita a Jeremy che aveva finito per protrarsi più a lungo del previsto quando, un po' per caso, un po' perché avevo ancora qualche mese libero da impegnare prima dell'inizio dei corsi, avevo iniziato a prestare volontariato presso un centro che organizzava programmi educativi e di recupero per persone provenienti da situazioni disagiate.

Il pensiero che avrei potuto rivedere Damon solo attraversando la baia era un sottofondo costante, tremendamente vicino ma fragile, pieno di tutte le incertezze che accompagnavano la consapevolezza di non sapere, non fino in fondo, cosa avrei potuto trovare ad aspettarmi dall'altra parte, se uno spiraglio di possibilità o un altro cuore spezzato come quello con cui mi aveva lasciato mesi prima.

Solo la telefonata di Caroline in un soleggiato pomeriggio di aprile, con la quale mi informava tutta agitata che lei e Stefan stavano per prendere il primo volo per San Francisco per non perdersi l'imminente nascita di loro nipote, era riuscita a farmi compiere quel passo e attraversare quella sottile, incolmabile, striscia d’acqua che ancora ci separava.

Ero arrivata in ospedale verso sera. Senza avere bene idea di dove andare, avevo vagato nel reparto maternità fino a che un infermiere non mi aveva indirizzato nella giusta direzione e verso la giusta stanza.

Damon non mi aveva visto, ma io avevo visto lui. Lo avevo intravisto attraverso la porta lasciata socchiusa, proprio mentre l’infermiera se ne andava e lui restava lì, un po' impacciato all’inizio, ma con lo sguardo trasognato carico di nervosismo e felicità e stupore incapace di staccarsi dal neonato addormentato tra le sue braccia.

Lo vidi sporgersi appena in avanti per avvicinarsi al suo viso e mormorare con un sospiro rassegnato, “Mi dispiace davvero molto, dover essere io a dirtelo, piccolo. Perché a quanto pare sei incastrato con me, il che vuol dire che sei abbastanza fregato in partenza. Ma prometto di fare del mio meglio, ok?”

Con la gola più stretta, stavo per indietreggiare e andarmene, ma poi Damon rialzò la testa, i suoi occhi di colpo più larghi nel momento in cui mi avevano toccato, e poi accigliati in una confusione stupita l’attimo dopo.

“Ciao,” bisbigliai, la voce roca, incapace di dire di più.

“Ciao,” sorrise.

A quel punto, il mio cuore era già un disastro tamburellante, sveglio e scombinato tutto d’un tratto.

Avevo fatto un passo in avanti, incerta, quasi a voler vedere se la terra sotto ai piedi mi avrebbe tenuto. Poi un altro, e un altro, ed ero corsa da lui, gettando le braccia intorno a entrambi e seppellendogli la faccia nel collo, inalando l’odore di caffè, neonato, ospedale, una sigaretta recente, e, sotto e sopra a tutto ciò, l’odore di lui, lo stesso che mi agitava le farfalle nel petto fin da quando non eravamo che ragazzi.

“Dove sei stata?” mi sussurrò nell’orecchio, sfiorandomi appena la pelle con le labbra.

Sussurrai di rimando.

“Qui.”


***


Nevica a Mystic Falls, così come su tutta la costa orientale, e tutti i voli sono in ritardo, compreso quello di Damon.

Mi attardo a villa Salvatore ad aiutare Caroline con gli ultimi regali di Natale, mentre Stefan aspetta che suo fratello e suo nipote atterrino all’aeroporto.

“Così, ho chiamato un’altra volta il giornalista,” la mia amica sta finendo di raccontare, mentre posa un adorabile fiocchetto sopra un piccolo maglione con renne danzanti che ha preso per Thomas. Ne ha preso uno identico anche per Damon, e sono piuttosto impaziente di vedere la sua faccia quando Caroline lo costringerà a indossarlo per le foto. “E gli ho detto, non me ne frega un cavolo, se si tratta di ciò che ha realizzato con la sua compagnia e non della sua vita privata, non è un dettaglio di poco conto! E’ sposato, con me. Scrivi questo nel tuo stupido giornale.”

Trattengo a stento una risata. Un paio di settimane fa, Stefan è comparso nella lista di Forbes degli under 30 più di successo, un riconoscimento che ha accettato modesto con un sacco di punzecchiamenti da parte di suo fratello e qualche brontolio da parte di sua moglie, che da quel momento non aveva più smesso di chiamare l’editore responsabile per lamentarsi del fatto che l'articolo non specificasse abbastanza chiaramente che Stefan non fosse uno scapolo disponibile sul mercato.

“Beh, oggi ha pubblicato la rettifica,” sorride con soddisfazione, mentre finisce di mettere via il regalo insieme alle altre dozzine che suo nipote di venti mesi sta per ricevere. “E, per scusarsi, ha fatto un generosa donazione al WHC.”

Il Women Health Center è la fondazione che Caroline ha fatto partire lo scorso anno per offrire assistenza sanitaria e supporto a donne che non hanno i mezzi per permetterselo. E’ la sua missione, la sua creatura, come anche lei la chiama, e si sta facendo abbastanza conoscere nella zona. Non molto tempo fa, la mia amica è stata approcciata da un comitato elettorale che le ha chiesto se avesse mai considerato di entrare in politica. Beh, lo sta considerando adesso.

“Un’altra vittoria per Caroline Salvatore,” la prendo in giro.

Lei mette su un finto broncio, ma in realtà sta gongolando.

“Devo andare,” dico mentre finisco di avvolgermi in sciarpa e cappotto, preparandomi ad affrontare il freddo che c’è fuori. “Papà e Jeremy mi aspettano per cena. Quando arrivano, dai un bacio ai ragazzi da parte mia.”

“Glielo hai detto?” mi chiede, quando sono già sulla porta.

Esito, mentre finisco di mettermi i guanti. Scuoto la testa.

“Non ancora.”

Piega la testa di lato, appoggiandosi con una spalla contro lo stipite della porta del salotto. Dietro di lei, l’albero di natale luccica in tutti i suoi caldi colori, riflettendosi contro il vetro buio delle finestre.

“Perché no?”

Sospiro.

“Perché so cosa dirà, e non voglio avere di nuovo quella discussione, non adesso. Ma lo farò. Prima della fine delle feste.”

“Non lo capisco,” scuote la testa lei. “State insieme? Non state insieme? Sono quasi due anni! Per la mia sanità mentale, vi volete decidere?”

In risposta, sorrido e basta, calco il cappello in testa, ed esco verso la neve.


***


Non si tratta tanto di mancanza di volontà, tra me e Damon. La maggior parte della volte, è più una questione di tempo, geografia, e di due vite parallele che finiscono per non incrociarsi quasi mai.

Le cose erano state così frenetiche, nuove e meravigliose, in quei primi giorni quando aveva portato Thomas a casa. Caroline e Stefan erano rimasti per un po’ ad aiutare e, senza averne del tutto intenzione - o forse dopotutto un po' sì - ero rimasta anch’io. Del resto, mi ci era voluto poco meno di un secondo, precisamente quello in cui lo avevo per la prima volta tenuto tra le braccia, per innamorarmi del piccolo Thomas almeno quanto già lo ero del padre.

Ma sapevamo entrambi che, prima o poi, cosa farne di noi due era un discorso che avremmo dovuto affrontare di nuovo.

Era successo a notte tarda, nell’appartamento di Damon. Thomas si era da poco addormentato, e io stavo finendo di lavare alcune ciotole e stoviglie rimaste nel lavandino. Avevo sentito Damon avvicinarsi in silenzio alle mie spalle, lo avevo sentito restare a guardarmi senza dire niente per un lungo istante.

Chiusi il rubinetto, le mani ancora gocciolanti.

“Adesso chiamo un taxi e …”

Fu in quel momento che le sue labbra mi sfiorarono il collo. Non con incertezza, non come una titubante richiesta, ma come un dato di fatto, premuto sulla pelle a riassumere tutto quello che, nelle ultime due settimane, non ci eravamo ancora detti a parole.

Mi si bloccò il respiro, ma in un solo istante mi ero già abbandonata all'indietro, contro il suo petto e contro il suo bacio, incurvando appena il collo per offrirgli un accesso migliore che non esitò ad accettare.

“Resta,” disse piano, mentre la sua mano si posava sul mio fianco, la voce roca di bisogno. “Anche solo stanotte.”

Mi sfuggì un gemito quando avvertii la pressione dura contro le gambe, la pelle a fuoco dove le sue labbra mi stavano tracciando la spalla, e dove le sue dita si erano intrufolate sotto alla maglietta per accarezzarmi il fianco.

Fu così difficile, costringermi a dirglielo.

“Pittsburgh,” sussurrai, mentre le sue dita risalivano leggere sopra il mio addome fino ad andare a sfiorarmi la parte inferiore del seno, e non aiutarlo a liberarmi di quei vestiti io stessa iniziava a costarmi uno sforzo enorme.

“Mai stato,” mormorò. “Cosa c’è là?”

“Il college dove mi hanno accettato.”

“E’ grandioso.”

“Inizio in autunno.”

Sentii la sua pausa, il momento in cui staccò appena le labbra da me. Mi voltai. Quando incontrai il suo sguardo, non ebbi bisogno di dire altro.

“Elena,” disse con fare serio, solenne. “Hai idea da quanto stessi morendo dalla voglia di fare questo? Autunno è tra mesi. Pensi che io sia in grado di pensare così a lungo termine, ora in questo momento, ora che sei qui? Perché, con tutta la buona volontà, non ce la faccio. Tu ce la fai?”

“No,” ammisi, prima di infilare le mani ancora bagnate tra i suoi capelli e tirarlo a me per far scontrare la sua bocca con la mia.

Ma mesi, in realtà, non è affatto un termine poi tanto lungo, quanto piuttosto lo spazio di un respiro, finito prima di avere a malapena il tempo di inspirarlo.

Qualche sera prima della mia partenza per Pittsburgh, avevamo avuto di nuovo la stessa discussione della sera del matrimonio di Stefan e Caroline. Era finita con un po' più di speranza per l'immediato futuro rispetto alla prima volta, ma la conclusione pratica non era stata poi molto diversa.

Nè era cambiata molto nei mesi successivi. Thomas richiedeva tutto il suo tempo e le sue energie, mentre il semestre e i corsi in Pennsylvania si prendevano i miei. Eravamo finiti in un limbo nel quale non avevamo mai, o quasi, modo di vederci. Quando ciò di rado accadeva - le vacanze di primavera, il primo compleanno di Thomas, la fine della sessione di esami - nessuno dei due era capace di pensare oltre il momento presente, proprio come quella prima notte a casa sua.

Ogni volta che ci separavamo, avevamo di nuovo la stessa conversazione. Ogni volta, io gli promettevo: un giorno te lo farò capire.

"Capire cosa?"

Che posso scegliere e avere entrambe le cose, Damon.

Me stessa, e te.


***


Mi sveglio nel mezzo del notte e, allungando una mano verso Damon, trovo la sua parte di letto vuota. Non è la prima volta che capita, così mi alzo, mi getto addosso una felpa e, scalza, mi avventuro nella casa buia.

Il nuovo appartamento di Damon è pieno di scatole a metà, mezze aperte e mezze piene, che ingombrano ogni angoletto e via di passaggio dall'ingresso fino alle camere. A quanto ne sa Damon, è per questo che sono qui a San Francisco, per aiutarlo con il suo trasloco nel nuovo appartamento più grande prima dell'inizio della nuova sessione di corsi di gennaio, non per l'altro motivo che ancora non gli ho detto.

Mi faccio strada tra il disordine, attenta a non calpestare qualche mattoncino Lego vagabondo, sempre capace di sbucare fuori dal nulla quando meno te lo aspetti, fino alla camera di Thomas.

Come sospettavo, è lì che lo trovo, addormentato sulla poltrona, con una mano penzolante dentro al lettino dove anche Thomas dorme afferrandolo per le dita. Da sveglio, Thomas ha i più begli occhi azzurro chiaro che abbia mai visto - più belli anche di quelli del padre, lo prendo sempre in giro. Sono anche pronta a giurare che, ogni volta che mi sorride, lo faccia già con un sorrisetto furbesco che mi è a dir poco familiare.

Mi rannicchio accanto a Damon sulla poltrona, e lui si muove appena per aggiustare la sua posizione così che anche io possa trovare spazio, facendo scivolare un braccio attorno alla mia vita.

"Non volevo svegliarti," mormora in un bisbiglio assonnato.

"Lo so," bisbiglio di rimando. "Va bene."

Gli metto una mano sul petto, ci poso anche la guancia, riscaldata dal calore che emana.

Sopra una delle mensole, tra foto e pupazzi, nella penombra si intravede una busta con il nome di Damon scribacchiato sopra, che ancora contiene una lettera stropicciata che non è mai stata letta. So che ha avuto la tentazione di farlo, una volta o due. Ma non lo ha mai fatto e non penso che lo farà mai. Damon dice che preferisce così, sempre lì a ricordargli di non lasciare mai troppe cose non dette tra lui e suo figlio.

Io, invece, ancora non gli ho parlato dell'altra lettera. Quella con cui, solo qualche settimana fa, l'università della California ha accettato la mia richiesta di trasferimento da Pittsburgh insieme alla dichiarazione del mio indirizzo di studi in psicologia clinica, con cui voglio proseguire il lavoro iniziato per volontariato da quasi due anni ormai.

Forse, quando lo farò, ammettendo di essere qui tanto per il suo trasloco quanto per il mio, torneremo di nuovo alla solita conversazione. E forse non sarà sempre perfetto, e sarà sempre un po' complicato, ma va bene così.

Non c'è nessun altro modo in cui lo vorrei.

Lo so io e, soprattutto, lo sa benissimo anche lui.

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