Stubborn love di everlily (/viewuser.php?uid=194617)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. This is not a love story ***
Capitolo 2: *** Come home ***
Capitolo 3: *** Of lovers, friends and strangers ***
Capitolo 4: *** Miserable lie ***
Capitolo 5: *** Silent war ***
Capitolo 6: *** Somebody I don't know ***
Capitolo 7: *** The nearness of you ***
Capitolo 8: *** Ever fallen in love? (...) ***
Capitolo 9: *** Temporary escape ***
Capitolo 10: *** Because the night ***
Capitolo 11: *** Like a hurricane ***
Capitolo 12: *** Boys don't cry ***
Capitolo 13: *** Little broken hearts ***
Capitolo 14: *** What you hide ***
Capitolo 15: *** Wear me out ***
Capitolo 16: *** Are you mine? ***
Capitolo 17: *** A lover of long ago ***
Capitolo 18: *** Before I go ***
Capitolo 19: *** Bedroom hymns ***
Capitolo 20: *** Us ones in between ***
Capitolo 21: *** The one that got away ***
Capitolo 22: *** Accidental babies ***
Capitolo 23: *** All about you ***
Capitolo 24: *** Lovers' eyes ***
Capitolo 25: *** Epilogo. The long way home ***
Capitolo 1 *** Prologo. This is not a love story ***
prologo. efp
Prologo.
This
is not a love story
- No, this is not
a love
story, but it is a story about love.
About those who give in into it, and
the price they pay.
And those who run away from it,
because they are afraid,
or because they do not believe
they're worthy of it.
She ran away. He gave in. –
(- Original Sin
-)
* No,
questa
non è una storia d’amore, ma è una
storia sull’amore. Su coloro che si arrendono ad esso, ed il
prezzo che pagano. E su coloro che fuggono dall’amore,
perché hanno paura, o perché non credono di
meritarlo. Lei fuggì. Lui si arrese.
Mystic
Falls, Estate 2005
Le note dell’assolo centrale di Layla
[1],
già disturbate dalla pessima ricezione radio, si
interruppero bruscamente quando girai la chiave per spegnere il motore
della Camaro, dopo averla parcheggiata nel vialetto
d’ingresso.
Ancora prima di scendere, alzai lo sguardo sulla
dependance ed
individuai immediatamente la luce accesa provenire da dietro le tende
della finestra della camera da letto.
Maledizione.
Quella luce, alle due di notte, poteva significare
solo due
cose.
La prima era che in quello stesso momento stavo per
essere
svaligiato dei ladri più stupidi del pianeta.
O perlomeno, desiderai che fossero dei ladri, se
non altro
quelli avrei potuto gestirli.
L’altra opzione, invece … non
sapevo se
ce l’avrei fatta.
La mia sciocca speranza svanì non
appena, cercando
di fare meno rumore possibile, aprii la porta e misi piede dentro casa.
Niente furfanti dal quoziente intellettivo ridotto
per quella
notte.
Solo lei.
Attraversai l’ingresso al buio e mi
diressi a passi
silenziosi verso la camera. La trovai rannicchiata su un lato del
letto, sopra il groviglio di lenzuola ancora sfatte, scalza del paio di
ballerine rosse che giacevano gettate a terra una sopra
l’altra. La gonna del vestito disegnato in minuscoli fiori
dello stesso colore le avvolgeva le cosce, e non si era neanche tolta
il corto giacchetto di jeans, lo stesso che mi ero ritrovato a
regalarle il
compleanno precedente.
I capelli scuri le nascondevano parte del volto, ma
lasciavano
lo stesso intravedere le labbra appena socchiuse dalle quali
fuoriusciva un leggero e regolare respiro assopito.
Ebbi un moto di frustrazione nel domandarmi di cosa
si
trattasse questa volta. Se di quel coglione di suo padre, di
quell’idiota del suo ragazzo, di altre bollette da pagare o
del fratello più piccolo di cui prendersi cura.
Mi tolsi solo la giacca e le scarpe, facendo
attenzione a non
svegliarla, prima di spegnere la luce e, ancora con i vestiti addosso,
sdraiarmi nell’oscurità accanto a lei per
circondarla con un braccio.
“Ehi,” mormorò con
la voce
impastata, facendosi subito più vicina, tanto che la sua
mano finì per adagiarsi sul mio petto con una naturalezza
che non avrebbe dovuto avere. “Sei tornato.”
“Naturalmente,” sussurrai
sfiorandole la
fronte calda con le labbra. “Avresti potuto chiamarmi, sarei
tornato prima.”
Scosse appena la testa, un movimento che ebbe la
conseguenza
di solleticarmi il mento con i suoi capelli e di strofinarmi la punta
del suo naso nell’incavo del collo, rendendomi duro
all’istante.
Cosa cazzo c’era di sbagliato in me?
Quello davvero
non era il momento per una cosa del genere. Se mai il momento ci fosse
stato.
Se ne accorse, lo so che se ne accorse, sia
perché
la parte alta della sua coscia premeva precisamente
all’altezza giusta, sia perché trasalì
quasi impercettibilmente, inalando un respiro più irregolare
degli altri.
Ma, a parte quello, finse di non aver notato
assolutamente
niente.
Come sempre, del resto.
“Non volevo disturbarti,” disse
in un
bisbiglio.
Non risposi e mi limitai ad accarezzarle senza
fretta i
capelli morbidi sul retro della nuca. Odoravano di shampoo alla mora.
“Cosa è successo?”
domandai,
cercando di capire se avesse bisogno di parlare.
“Solo una brutta giornata,”
sospirò, scaldandomi il collo con quel soffio lieve.
Sospirai anche io, ma non aggiunsi altro.
“Adesso cerca di dormire, ok?”
Le posai un bacio veloce sulla sommità
della testa
e restammo così, in silenzio e al buio, mentre
dell’aria tiepida entrava dalla finestra socchiusa ed io mi
chiedevo se sapesse quanto tutto ciò, ogni singola volta,
finisse per sbriciolarmi il cuore appena un po’ di
più.
Non che avesse davvero importanza. Quei tranquilli
momenti nel
buio erano probabilmente le uniche occasioni in cui, anche se per poco,
potessi sentirla veramente mia.
Fanculo a me, non sapevo chi volessi prendere in
giro.
La stramaledetta verità era che avrebbe
potuto
calpestarmi il cuore tutte le volte che voleva.
Lo sapevo io e, soprattutto, lo sapeva benissimo
anche lei.
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Note:
[1] Layla di
Derek & The Dominos (Eric Clapton)
Spazio autrice.
Moltissimi
motivi mi avevano fatto ripromettere di smettere di
scrivere dopo aver concluso Emotionally
Damaged, ma ci sono volte in
cui una storia ti entra talmente
in testa che non si può fare a meno di buttarla
giù e farle fare il suo corso. E questo è uno di
quei casi.
Come si
può intuire anche dalla data
all’inizio, questo prologo è, in
realtà, un piccolo flashback, in cui Elena ha 16 anni e
Damon 18. La storia vera e propria però inizierà
circa 7/8 anni dopo … so che è breve e che per
ora non è molto, posso solo assicurare che le cose saranno
piuttosto complicate per questi due, perciò restate solo se
vi piace soffrire in puro Delena style.
La
citazione iniziale
è tratta dal film Original
Sin, ma il titolo della fic
è volutamente
ispirato a Stubborn
Love dei Lumineers.
Cercherò
di mantenere la frequenza degli
aggiornamenti il più regolare possibile, più o
meno intorno ai 10/15 giorni: è il meglio che penso di poter
fare. Spero che mi
concederete la vostra pazienza!
E con questo,
spero anche di essere riuscita ad incuriosirvi
abbastanza da concedermi una possibilità.
un bacio
|
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Capitolo 2 *** Come home ***
1.efp
1.
Come
home
- Come home, come home
‘Cause
I’ve been waiting for you, for so long, so long
Right now
there’s a war between the vanities, but all I see is you and
me
And the fight for you is
all I’ve ever known
So come home
–
( Come home, OneRepublic)
Damon
“Signore, le devo chiedere di mettere via il computer, stiamo
per atterrare.”
Alzo lo sguardo verso la hostess che sorridendo gentilmente si
sporge nella mia direzione.
E’ carina, con un leggero sprazzo di lentiggini sul
naso e ad alcune ciocche biondo scuro che sfuggono di proposito dallo
chignon di ordinanza per incorniciarle il viso sottile.
“Naturalmente,” replico chiudendo il mio
lavoro e spegnendo il portatile.
“Desidera qualcos’altro?” mi
domanda e questa volta il suo sorriso si fa un po’
più audace, quel tanto che basta per introdurre nella sua
richiesta la giusta dose di sottintesi.
In qualsiasi altra occasione, il nome dell’hotel in
cui avrebbe alloggiato quella sera sarebbe stata la prima risposta
sulla punta della mia lingua. Ma questa non è qualsiasi
altra occasione ed il pensiero per una volta nemmeno mi sfiora.
La congedo con un semplice cenno di diniego della testa,
suscitando un accenno di delusione nel suo sorriso che comunque non
vacilla, e mi allungo all’indietro sul sedile, ad osservare
le distese verdi mentre lasciano il posto al complesso di edifici e
strade trafficate che confluiscono in Richmond.
Mentre mi dirigo verso l’uscita del terminal,
controllo distrattamente il telefono. Faccio appena in tempo a
riaccenderlo ed immediatamente il suo insistente lampeggiare mi avvisa
di almeno tre nuovi messaggi in segreteria.
“Damon, lo so che
questo non è il momento migliore, ma
c’è quell’investitore di cui ti ho
parlato il mese scorso che insiste per avere un incontro. Non posso
trattenerlo ancora a lungo, se non mi dici-”
Riattacco in faccia alla voce registrata di Ric, quando tra la
folla variegata che attende agli arrivi, tra una donna di mezza
età che tiene in braccio un cagnolino ed un ragazzino
trepidante con in mano un mazzo di fiori, noto l’ultima
persona che mi sarei aspettato di trovare ad attendermi.
Mio fratello si guarda attorno con le mani affondate nelle
tasche, finché anche lui non mi vede dirigermi nella sua
direzione e si prepara ad accogliermi con un accenno di sorriso ed un
abbraccio veloce.
“Non ti avevo detto di venire a prendermi.
Avrei-” inizio sorpreso, ma mi interrompe subito.
“Tu non dici mai un sacco di cose, Damon. Non ci
vediamo da così tanto che era il minimo che potessi
fare,” risponde con naturalezza, ma non posso fare a meno di
notare come, a dispetto delle sue parole, la sua postura sia rigida e
l’atteggiamento fin troppo poco rilassato, persino per i suoi
standard.
“Sei arrabbiato con me,” osservo mentre ci
dirigiamo nel parcheggio sotterraneo verso la sua auto, e non è affatto una domanda.
“Non sono arrabbiato con te,” replica
scrollando le spalle, intanto che con il telecomando elettronico fa
scattare le serrature.
“Andiamo, niente stronzate."
Stefan sospira e si blocca nell’atto di aprire lo
sportello per gettarmi un lungo sguardo.
“Ok, lo sono,” conferma alzando le spalle.
Non ha bisogno di aggiungere il motivo, che conosco perfettamente. Ma
lo fa comunque. “Non sei venuto al funerale.”
“Ero impegnato,” taglio corto, buttando la
valigia sui sedili posteriori.
“Adesso chi è che dice
stronzate?”
Scuoto la testa ed entrambi saliamo in macchina. In breve
tempo abbiamo già lasciato l’aeroporto per andare
ad imboccare l’interstatale che corre in mezzo a distese
erbacee e paesi dell’interno piccoli almeno quanto quello in
cui ci stiamo dirigendo.
“Non depone neanche un po’ a mio favore il
fatto che sia venuto adesso?” domando guardando fuori dal
finestrino, nell’intenzione di distendere almeno un
po’ l’atmosfera e placare il mio senso di colpa.
“Due settimane dopo,” replica con una
smorfia.
Mi volto verso di lui corrugando la fronte.
“Non iniziare a tirare fuori gli occhietti
accusatori, Stef. L’ultima volta che abbiamo parlato mi ha
detto che ero come morto per lui. Beh, immagino che adesso siamo
pari.”
Stefan si gira appositamente per gettarmi
un’esplicita occhiata di rimprovero di fronte al mio macabro
sarcasmo, ma non aggiunge altro. Le notizie sull’andamento
della produzione di tabacco che stanno passando alla radio sono le
uniche cose in grado di rendere il silenzio che segue ancora
più pesante.
“Come sta Caroline?” tento di nuovo,
andando a pescare un argomento su cui almeno so di andare sul sicuro,
“Ancora nessun bambino in disperato bisogno di uno zio figo
come me?”
“Se mai avrò un figlio, puoi stare certo
che non lo lascerò avvicinarsi a te lontano un
miglio,” ribatte, ma posso comunque vedere il suo volto
distendersi per la prima volta in un accenno di sorriso sincero, che di
fatto annulla qualsiasi potere della sua già vuota minaccia.
“E poi, ha appena iniziato questo nuovo lavoro come
assistente nel Consiglio Cittadino. E’ troppo
presto.”
“Potresti assumerla come la tua di assistente. Se
non altro vi fornirebbe l’occasione per interessanti
giochetti di ruolo.”
“Sei disgustoso.”
“Lo so,” commento con un sorrisetto.
Abbasso la radio e torno serio per un istante.
“E che mi dici dell’azienda? Qual
è la situazione adesso?”
Stefan aggrotta le sopracciglia ed emette un lungo sospiro.
“Questo …. È qualcosa di cui
dobbiamo parlare.”
“Damon Joseph Salvatore!”
Non faccio in tempo a chiudere il portone alle mie spalle che
qualcosa di biondo e profumato di vaniglia, con una spinta
sorprendentemente forte per la sua piccola stazza, mi spinge
all’indietro mandandomi la schiena a sbattere contro
l’ingresso.
“Cosa diavolo è questa storia che stai
istigando tuo fratello a mettermi un bambino qui dentro? Ho
ventitré anni, per l’amor del cielo, ed intendo
mantenere questa linea ancora per un bel po’, se non ti
dispiace! Falli te, i bambini, se proprio ci tieni tanto!” mi
urla contro con impeto, ma il fatto di interrompersi per un secondo le
dà subito il tempo necessario per riflettere sulle sue
stesse parole. “Anzi, no, dimentica quello ho detto. Tu non
farli, che è meglio.”
“Adorabile come sempre, Barbie,” la saluto
con un sorriso ironico. “Aspetta, come fai a sapere
…?”
Scambio uno sguardo interrogativo con mio fratello mentre si
allontana per andare a portare la mia valigia nella camera degli ospiti
e lui, per tutta risposta, si stringe nelle spalle con un sorrisino
consapevole.
Lo giuro: odio questi due.
Caroline mette su un broncio offeso e mi assesta
un’altra spintarella indignata, questa volta più
leggera.
“Non mi hai neanche dato un abbraccio.”
Scuoto la testa e mi chino per stringerla, e come le sue esili
braccia mi cingono intorno al collo, mi sussurra, “Oh, e quel
giochino dell’assistente? Già fatto.”
“Dio, Care, non lo voglio sapere,”
commento con una smorfia sciogliendomi dal suo abbraccio.
“Ehi, sei tu che l’hai tirata
fuori!”
Caroline si guarda attorno per assicurarsi che Stefan ancora
non sia ritornato e prosegue a voce più bassa.
“Saresti dovuto venire, lo sai vero? Per lui
…” con un cenno della testa mi indica la direzione
da cui Stefan è appena uscito, “… e per
te. Per esserci l’uno per l’altro.”
Una stretta di rimorso mi attanaglia le viscere, ancora
più forte di prima.
“E’ stato lui ad insegnarti questo sguardo
accusatorio?”
“Non fare lo stronzo,” mi rimprovera,
“Lo sai che hai sbagliato.”
Riesco a salvarmi dal confronto con le mie
responsabilità grazie al ritorno di Stefan, rientrato in
sala in quel momento insieme ad una cartelletta color rosa pallido
piena di documenti.
“Penso sia il caso di lasciare voi due ragazzi da
soli,” ci fa sapere Caroline mentre si infila la borsa sulla
spalla e si avvicina a mio fratello per posargli, in punta di piedi, un
bacio sulle labbra. “Vi ho lasciato qualcosa di pronto in
cucina, se volete mangiare.”
“Grazie, Care,” risponde Stefan sorridendo
al suo saluto, prima che la mia bionda quasi-cognata se ne vada facendo
ciao ciao con la mano.
“Quindi …” inizia Stefan,
mettendo sul tavolo i fogli che ha portato con sé ed andando
ad aprire una bottiglia di bourbon, di quelle prese direttamente dal
mobiletto accanto al camino. Allora deve davvero trattarsi di qualcosa
di serio. “Penso che tu debba dare un’occhiata a
questi.”
“Deve esserci un errore.”
Completamente sconcertato, sfoglio un’altra volta i
documenti con le ultime volontà di nostro padre che Stefan
mi sta illustrando ormai da una buona mezzora.
Il vetro del suo bicchiere riflette per un secondo la luce
bassa e calda del tardo pomeriggio che entra dalle vetrate della sala,
mentre mio fratello si stringe nelle spalle e ne prende un altro sorso.
“Nessun errore. Credi che non abbia fatto
controllare tutto più volte?”
“Allora vuol dire che era impazzito,”
concludo, chiudendo tutto e posandolo nuovamente sul tavolo. Mi alzo
dal divano e mi dirigo verso lo scrittoio dove Stefan ha lasciato la
bottiglia di bourbon per versarmi un secondo drink, mentre ad alta voce
continuo ad esporre il filo del mio ragionamento che, ovviamente, non
fa una piega, “Perché per otto anni ha fatto finta
che io non esistessi e questa cosa, adesso … non ha
minimamente senso. Te lo dico. Era andato fuori di testa e tu non te ne
sei accorto.”
“Era perfettamente lucido,” obietta
Stefan, mentre io scuoto la testa e butto giù un altro
sorso, tanto per vedere se mi aiuta a capire il senso di tutto
ciò. Si alza, si avvicina per posarmi una mano sulla spalla
e prosegue con fare ironico. “Congratulazioni, sei
l’orgoglioso proprietario delle azioni di maggioranza delle
Salvatore’s & Associates.”
“Stefan …” inizio, del tutto a
corto di parole. Poso il bicchiere e lo guardo a lungo, prima di
continuare per cercare di farlo ragionare. “Non voglio il
controllo dell’azienda. Dovresti averlo tu. Io non voglio
averci niente a che fare.”
“Non l’ho scelto io,” replica
incrociando le braccia sul petto.
“Beh, puoi farlo adesso. Puoi prenderti tutta la mia
quota,” offro con un piccolo barlume di speranza, ma dalla
faccia di Stefan capisco che la sta già reputando
l’idea più stupida del mondo.
“Non essere idiota,” mi conferma,
“Non voglio regali e comunque non avrei i fondi per comprarla
in ogni caso. La situazione non è delle migliori.”
“Cosa vuoi dire?”
Aggrotto la fronte e lo guardo sospettoso, mentre lui sospira
e si appoggia all’indietro contro lo scrittoio.
“La crisi, un paio di investimenti sbagliati. Se non
facciamo qualcosa, siamo praticamente sull’orlo del
fallimento.”
Mi osserva in silenzio, in attesa di una mia risposta.
“Perché non mi hai mai detto
niente?”
“Non lo sapevo. L’ho scoperto …
in queste circostanze.” Il volto di Stefan si tira in
un’espressione preoccupata e affranta che mi colpisce dritto
all’altezza dello stomaco. “Damon, non posso
perderla. Noi
non possiamo perderla. Ho bisogno del tuo aiuto.”
Resto ancora qualche minuto fermo nella vecchia Camaro, a tamburellare
sul volante e ad osservare la piazza principale di Mystic Falls che via
via si popola sempre un po’ di più del traffico di
gente della tarda mattinata. La fontana che sta al centro per una volta
sembra aver deciso di funzionare, ed il Grill, davanti a me, almeno
dall’esterno sembra avere lo stesso aspetto di sempre. Sulla
facciata ad est noto una scoloritura dell’intonaco ed
immediatamente mi dico che devo ricordarle di farlo sistemare.
No, non devo. Non è affar mio.
Scuoto la testa fra me e me, stacco la chiavi dal quadro ed
infine mi decido ad andare a trovarla.
Quando la sentii muovere
la lingua più a fondo dentro la mia bocca, lo presi come un
buon segno. Così la spinsi all’indietro, contro il
tronco dell’albero alle sue spalle, e sapendo di essere
abbastanza appartati dal resto della festa, non esitai oltre. Feci
scendere la mano abbastanza in basso da poterla intrufolare sotto la
corta gonna da cheerleader e risalii lungo la coscia puntando dritto
verso il bordo delle mutandine.
“Cosa pensi di
fare?” strillò scansandomi bruscamente la mano
dalle sue gambe.
Alzai gli occhi al cielo e
sbuffai scocciato.
“E dai, Kirstie,
lo so che a Jimmy Donovan due settimane fa glielo hai lasciato
fare.”
Lei incrociò le
braccia sul petto e si strinse nelle spalle con fare di sufficienza.
“Perché
lui mi ha portato al cinema e poi mi ha comprato questo,”
replicò sventolandomi sotto al naso il polso da cui pendeva
una catenina di bassa lega con alcuni ciondoli attaccati.
“Un
braccialetto?” domandai stupito, “Posso darti 10
dollari e domani puoi comprarti tutti i braccialetti che
vuoi.”
Cazzo. Quella mi era
davvero uscita male.
“Mi stai sul
serio dando della prostituta?!”
Non fui costretto a
rispondere alle conseguenze delle parole che mi avevano appena bandito
a vita dall’accesso alle mutandine di Kirstie Davidson,
grazie al rumore di un ramo spezzato a pochi passi da noi.
Mi voltai di scatto ed in
mezzo al fitto degli alberi, rischiarato dalle luci del falò
di fine anno che si stava svolgendo a qualche metro di distanza, scorsi
la figura minuta della ragazza che aveva appena causato
quell’interruzione.
Arretrò di un
passo, visibilmente a disagio.
“Mi dispiace, io
stavo solo …”
“Cosa cavolo hai
da guardare?” la interruppe Kirstie risentita.
“Lasciala in
pace,” le intimai.
Se gli sguardi potessero
incendiare, con quello sarei già stato ridotto a
nient’altro che un mucchietto di cenere.
“Bene. Allora le
mani vai a infilarle sotto la sua di gonna.”
Kirstie se ne
andò spintonandomi per allontanarmi da lei, lasciandomi
lì con quella ragazzina che adesso come minimo mi
considerava alla stregua di un maniaco sessuale.
“Non ho
intenzione di infilarti le mani da nessuna parte,
tranquilla,” cercai di rassicurarla alzando le mani in segno
di resa. “Anche perché stai indossando i
jeans.”
Lei sollevò un
sopracciglio e mi guardò confusa.
“Insomma, non ti
toccherei mai,” tentai subito di rimediare.
Ma impiegai la frazione di
un secondo, precisamente quello che mi servì per incrociare
i suoi intensi occhi scuri e spostare lo sguardo sulle sue labbra
ancora socchiuse per lo sconcerto, per rendermi conto di aver appena
detto la cazzata del secolo.
“Ok
...” mormorò.
“Non che non
vorrei,” mi affrettai a precisare, peggiorando se possibile
ancora di più la situazione. “Voglio dire
...”
Santo cielo, Damon, chiudi
quella cazzo di bocca.
“Sono
Damon,” finii per dire, buttando fuori il mio nome quasi come
se fosse una giustificazione.
Abbassò lo
sguardo ed una ciocca di capelli le finì sugli occhi. La
scostò per portarsela dietro l’orecchio, gesto mi
permise di vedere il mezzo sorriso che le piegò le labbra.
“Lo
so,” rispose piano, strofinando la punta delle converse nel
terriccio umido.
Era una cosa buona?
“Sono
Elena,” aggiunse, questa volta sorridendo apertamente nella
mia direzione.
“Non dovresti
essere al falò?” le domandai indicando il luogo
della festa con un cenno del capo, senza riuscire a non farmi sfuggire
un sorriso più malizioso, “Rischi di fare brutti
incontri a girare da sola nel bosco.”
“Come
te?” ribatté divertita con aria di sfida.
“Esatto,”
le confermai, annuendo con fare solenne, “Sono un pessimo,
pessimo incontro. Corri via più in fretta che
puoi.”
Rise, ed immagino che fu
quella risata limpida a conquistarmi più di qualsiasi altra
cosa. Quella ragazza davvero sapeva come ridere.
“Penso di sapermi
prendere cura di me stessa,” mi rassicurò con fare
serio, ma con un accenno di sorriso ancora lì, agli angoli
della bocca.
“Non ne ho
dubbi.”
Stava per aggiungere
qualcos’altro, ma il rumore di un clacson proveniente dalla
strada che correva poco distante ci fece voltare entrambi in quella
direzione.
“È mia
madre,” osservò Elena e mi sembrò di
vedere un accenno di delusione nel modo in cui corrugò
leggermente le sopracciglia. “Devo andare.”
“E’
stato un piacere, Elena,” la salutai.
Si allontanò, ma
si voltò comunque un’ultima volta per rivolgermi
un altro sorriso, che mi rimase particolarmente impresso. Forse
perché, dopo quella notte, passò molto, troppo,
tempo prima che potessi vederla di nuovo sorridere in quel modo.
Quando metto piede dentro al Grill, non impiego molto ad
individuarla. Non so se sia colpa di una qualche mia
capacità sviluppata in passato e che ancora non ho
perso, o solo dell’incredibile facilità con cui,
senza saperlo, riesce a risaltare anche in una stanza colma di persone.
E’ girata di spalle e si sporge sulle punte dei
piedi per rimettere al suo posto una bottiglia nello scaffale dietro al
bancone. Quel gesto le solleva l’orlo della maglietta,
scoprendole appena la linea del fianco, ed io perdo il controllo dei
miei pensieri nell’immaginare le cose che vorrei farle in
questo momento.
Sono un caso senza speranza. Non importa quante belle ragazze
siano passate nel mio letto, le lunghe gambe che sono adesso in fronte
a me, coperte solo da un paio di corti pantaloncini di jeans, riescono
ancora con niente a dominare qualsiasi mia fantasia.
“Qualcuno mi ha detto che avete i migliori hamburger
del posto.”
Elena si volta di scatto mentre prendo posto al bancone e
trasale con un profondo respiro quando il suo sguardo stupito incrocia
il mio.
“Damon …” esala il mio nome in
un soffio e non posso fare a meno di sentirmi almeno un po’
compiaciuto nel vedere che le faccio ancora qualche effetto.
“Elena,” replico con naturalezza.
Si guarda un attimo attorno spaesata. Non so se stia per caso
aspettando anche la banda in grande stile o forse, più
probabilmente, qualche catastrofe imminente.
“Cosa ci fai qui?” mi domanda.
C’è l’accenno di un sorriso di piacevole
sorpresa sulle sue labbra che sembra stia per venire fuori, ma no, non
arriva mai alla superficie. Se ne va così velocemente come
era apparso.
“Oh, lo sai,” mi stringo nelle spalle e,
noncurante, agito una mano nell’aria, “Padre morto,
eccetera eccetera.”
“Lo so,” risponde a voce più
bassa, con fare partecipe. “Mi dispiace.”
Scrollo le spalle e lei approfitta del mio silenzio per
proseguire più esitante. “Non eri al
funerale.”
“Questo è il mio crimine, sì.
Continuano a ripeterlo tutti,” replico con una smorfia,
“C’è qualcosa di meno deprimente di cui
possiamo parlare?”
Jenna sceglie proprio quel momento per chiamarla dalle cucine
e, come si volta in quella direzione, so già che
l’ho persa e che userà quell’occasione
per spostare altrove la sua attenzione.
“Damon, mi dispiace, ma … devo
lavorare.”
Visto? Potrei scrivere un libro sulla straordinaria
abilità di Elena Gilbert di battere in ritirata.
“Quanto resterai?” si degna di domandarmi
prima di andarsene.
Sto quasi per rispondere, ma un piccolo luccichio attira il
mio interesse. Sposto lo sguardo sulle sue dita affusolate appoggiate
contro il bancone e sento lo stomaco contrarsi in uno spasmo quando mi
accorgo della sottile fascia che circonda il suo anulare sinistro, con
tanto di brillante nel mezzo.
Lei nota la mia espressione smarrita, perché
immediatamente sottrae imbarazzata la mano dalla mia vista
infilandosela nella tasca posteriore dei jeans.
Ma è pazza se pensa davvero che lasci perdere in
quel modo.
“Elena, cosa diavolo significa?”
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Capitolo 3 *** Of lovers, friends and strangers ***
2.efp
2.
Of
Lovers, Friends and Strangers
Elena
Non amo gli imprevisti.
Ecco perché, ad ogni inizio di nuova giornata, la
mia prima operazione, ancora prima di mettere piede fuori dal letto,
è quella di stilare una lista mentale di tutti i possibili
contrattempi che potrebbero capitare e prepararmi per poterli
affrontare a dovere.
Filtri da caffè impazziti, ispezioni a sorpresa,
mancate consegne: questo è il genere di inconvenienti che
sono sempre preparata a gestire.
Ma Damon Salvatore, nel mio bar, ad interrogarmi con
l’espressione da animale ferito su come la mia vita sia
andata avanti senza di lui? Questo è il genere di evento che
non rientrava neanche sotto la categoria delle “remotissime
probabilità”.
La cosa peggiore è il modo in cui tutto
ciò finisce per farmi sentire. Mi è bastato
vedere il suo sguardo dopo aver notato il mio anello di fidanzamento,
quel passaggio repentino dalla sorpresa, allo smarrimento, fino
all’amarezza, per essere investita da
un’inaspettata ondata di senso di colpa.
Incredibile. Lui è quello che sparisce per otto
anni, non una chiamata, non un messaggio. Eppure, a passare come il
cattivo della situazione,
chissà perché, sono io.
A quel pensiero, basta un attimo ed ogni briciola del rimorso
iniziale si trasforma in rabbia.
“Adesso non ho tempo per questo, Damon,”
replico con fare tagliente.
Mi allontano dal bancone, mi allontano da lui,
più in fretta che posso, ma ciò non mi impedisce
di percepire la sensazione del suo sguardo su di me, che non mi lascia
neanche per un istante.
“Lui chi è?” mi grida dietro,
quasi strozzando le parole.
Lo ignoro e tento la ritirata verso la cucina.
Ma Damon è più veloce, mi segue e mi
afferra per una mano, costringendomi a fermarmi sui miei passi.
Non è una presa forte la sua, al contrario,
è talmente leggera che se solo volessi potrei sgusciare via
in un solo secondo. Ma non lo faccio.
Rimango immobile, mentre sento le sue dita intrecciarsi
delicatamente alle mie in una tacita richiesta.
Inspiro a fondo, cercando di riprendere il controllo del mio
respiro. Serve a ben poco, però, perché nel
momento in cui infine mi decido a voltarmi, ho il cuore che martella
impazzito quando i miei occhi incontrano l’intensa sfumatura
di azzurro di quelli dell’uomo al quale per anni ho cercato
di non pensare, ma che al tempo stesso so di aver desiderato rivedere
almeno con pari intensità.
Vorrei poter dire che è cambiato, che non lo
riconosco più, perché, per qualche motivo, quel
pensiero mi farebbe stare meglio, ma non è proprio
così. Certo, i tratti da ragazzo sono scomparsi, ma le nuove
linee intorno agli occhi e alle labbra lo rendono più
affascinante di quanto sia mai stato, ed il suo sguardo mi confonde
ancora come mi confondeva anni fa.
Non dovrei pensare in questi termini. Non dovrei fare certi
pensieri.
Sospiro e non so perché mi guardo attorno
cautamente, come se stessimo facendo qualcosa di sbagliato. Anzi, non
so perché non glielo dico e basta, invece di comportarmi
come quella in dovere di giustificarsi e fornire spiegazioni.
Perché lo so che io non devo niente a lui, così come lui non deve niente a me, tantomeno adesso, quando otto anni di distanza
dovrebbe essere stati sufficienti ad aver spazzato via anche i residui
di ciò che poteva legarci un tempo e renderci due perfetti
estranei.
Allora perché, invece, continuo a sentirmi in
debito di una spiegazione nei suoi confronti?
“Ascolta …” inizio, cercando di
addolcire la mia voce e farne una gentile richiesta,
“Troveremo il momento per parlare, ok? Solo che …
adesso non è quello giusto.”
La sua mano scivola via dalla mia, mentre le sue labbra si
contraggono in un sorriso amaro.
“Naturalmente non lo è.”
Apro la bocca per dire qualcosa, ma so che non
c’è davvero molto da dire. Quindi resto
semplicemente immobile a guardarlo scuotere la testa ed andarsene senza
neanche voltarsi indietro.
A riscuotermi è la voce di Jenna, che per una
seconda volta mi chiama alle mie spalle.
“E’ tutto a posto?” mi domanda
leggermente preoccupata, quando infine mi volto per prestarle
attenzione.
Mi guardo intorno, valutando rapidamente che
c’è ancora del tempo prima
dell’affollamento delle ore di pranzo, e mi sciolgo il
grembiule, rivolgendole un sorriso di scuse.
“Jenna, mi prendo qualche minuto, ok? Torno
subito.”
Attraverso la piazza centrale di Mystic Falls, dopo aver
attentamente controllato che Damon non sia più nei paraggi.
E’ una piacevole giornata primaverile, quasi estiva,
quella all’esterno. L’arrivo imminente
della bella stagione è segnalato anche dal
traffico della piazza più movimentato del solito, grazie
all’arrivo dei primi gruppi di campeggiatori, di passaggio
prima di andare ad accamparsi nei boschi circostanti.
Sheila mi accoglie con un sorriso quando entro al
Bennett’s Antiques, annunciata dal leggero tintinnio del
ciondolo appeso all’ingresso, che per un attimo cattura la
luce vivace dell’esterno e la riflette all’interno
del negozio in tutte le sue diverse sfumature.
“Cosa posso fare per te, bambina?” mi
domanda gentilmente.
“Buongiorno Sheila,” le sorrido di
rimando, “Bonnie è qua?”
“La trovi sul retro a finire
l’inventario,” mi fa sapere.
La ringrazio e con sicurezza mi dirigo verso il retro,
gettando nel passare uno sguardo distratto al variegato insieme di
mobili, ninnoli, gioielli ed altri generi di oggetti strani che
riempiono il negozio. Quando ero piccola, non era difficile pensare a
quel posto come all’antro di una strega, ricordo con un
sorriso.
Trovo Bonnie sulla sommità di una piccola scala,
intenta a controllare alcuni scaffali troppo in alto per la sua bassa
statura e a scribacchiare appunti sulla cartellina-elenco che sta
tenendo in mano.
“Ehi!” mi saluta distrattamente non appena
mi sente arrivare. Quando si volta nella mia direzione, però
la sua espressione si fa subito più seria.
“Tesoro, cosa è successo?”
“Damon è qui,” annuncio tutto
d’un fiato, “E’ passato dal Grill solo
poco fa.”
Bonnie alza un sopracciglio e mi scruta con sospetto.
“Stai bene? Sembri … agitata.”
Posa ciò che ha in mano e scende per venirmi
incontro.
“Sì, certo che sto bene, solo
… Non me lo aspettavo.”
“Andiamo di là, ti va?” mi
propone, ed io la seguo senza obiettare nel piccolo giardinetto che si
apre sul retro del negozio.
In alto, una copertura di edera intrecciata offre ombra e
riparo dal sole, creando un piccolo ambiente confortevole che per noi
è sinonimo di pomeriggi estivi passati a scambiare
confidenze e a bere the freddo da più tempo di quanto possa
ricordare.
“Pensi che lo sapesse?” continuo, mentre
ci accomodiamo entrambe sulle sedie di ferro battuto che circondano il
tavolino di fattura abbinata. “Caroline, intendo. Se Damon
è in città, Caroline deve saperlo per forza. Ma
non mi ha detto niente. E’ tutta colpa sua, avrebbe dovuto
dirmelo,” sentenzio decisa, finalmente soddisfatta di poter
scaricare su qualcuno la responsabilità della mia reazione
irragionevole e poco chiara di poco prima.
Ma Bonnie continua a guardarmi dubbiosa, come se si stesse
perdendo chissà quale passaggio fondamentale.
“Perché?”
“Perché così mi sarei
preparata!”
“Preparata per cosa?”
Per trovare qualcosa da dire? Per non farmi prendere
completamente alla sprovvista dalla sua presenza? Neanche io so bene
per cosa.
Di fronte al mio silenzio, Bonnie si sporge nella mia
direzione con fare conciliante. “Penso che la vera domanda
sia … perché hai bisogno di ʿpreparartiʾ per
rivedere un vecchio amico?”
“Damon non è un amico,” replico
con una smorfia.
“Eh no, Elena, non di nuovo,” mi ammonisce
seria, “Non farti risucchiare nuovamente in qualsiasi cosa
voglia Damon da te.”
“Non c’è niente in cui essere
risucchiati, Bonnie,” rispondo scuotendo la testa.
Damon non era mai stato la persona preferita di Bonnie, se
così si può dire. Buona parte del motivo
è da attribuire ad un rancore di vecchia data tra le Bennett
e gli uomini Salvatore, merito di una relazione extraconiugale tra
Sheila e Giuseppe finita nel peggiore dei modi; il resto lo avevano
fatto due personalità semplicemente non tagliate per andare
d’accordo.
Tanto che Caroline, quando al liceo aveva iniziato a
frequentare Stefan, lo aveva tenuto nascosto da Bonnie per almeno un
paio di mesi, prima di uscire allo scoperto. Era stata una grossa crisi
nella nostra triplice amicizia, risoltasi solo quando Stefan aveva
infine ricevuto anche la sua approvazione, dopo lunghi tentativi. Ma
Damon? Bonnie non aveva mai smesso di guardare con sospetto al nostro
rapporto, che non aveva mai considerato come la semplice amicizia che
invece io continuavo ad assicurarle che fosse.
Morale della favola: Bonnie aveva finito con l’avere
ragione e, se aveva avuto ragione una volta, molto probabilmente ha
ragione anche in questo caso. Non posso lasciare che questo flusso
inaspettato di ricordi ed emozioni mi sconvolga fino a questo punto.
“Non stai avendo dei ripensamenti, vero?”
mi domanda di punto in bianco, scrollandomi dalle mie riflessioni.
“Cosa? No!” mi affretto a negare.
“No, assolutamente no. E’ solo … ha solo
portato fuori un po’ di ricordi, tutto qua.”
“Bene,” prosegue più decisa. Si
alza con il volto illuminato da un sorriso soddisfatto,
“Perché ho una sorpresa per te.”
La osservo con interesse mentre si dirige di nuovo
all’interno ed attraverso la porta rimasta aperta posso
intravederla cercare qualcosa nel cassetto di un mobile di
legno chiaro.
“Sai che Carol mi ha chiamato qualche giorno fa per
aiutarla ad allestire la mostra dell’anniversario della
fondazione, così …” Dal cassetto tira
infine fuori una piccola scatola blu. “… in mezzo
alle varie anticaglie, guarda cosa ho trovato.”
Si avvicina per porgermi il cofanetto, che apro incuriosita.
Trattengo il fiato quando rivelo il suo contenuto, un paio di orecchini
con montatura in oro bianco ed un semplice pendente di perla bianca a
goccia.
“Ho pensato che potessero essere il tuo ʿqualcosa di
vecchioʾ,” mi dice con un sorriso orgoglioso.
La guardo a bocca aperta, incapace di articolare parole.
“Bonnie, sono stupendi, ma non posso accettare
…”
“Sciocchezze! Adesso arriva la parte
migliore.” Si siede accanto a me e mi chiude le dita attorno
alla scatola. “Miranda li aveva dati in prestito per un
evento simile anni fa, solo che … lo sai. Nessuno li aveva
mai richiesti indietro. Sono tuoi in ogni caso.”
Ho quasi le lacrime agli occhi mentre la abbraccio di slancio,
ed un “grazie” soffocato è
l’unica cosa che, commossa, riesco a mormorare.
La piccola scatola che era di mia madre pesa piacevolmente dentro la mia tasca quando esco
dal negozio di Bonnie con l’intenzione di tornare al Grill.
Solo che poi la vedo. Sulle scale che fronteggiano
l’edificio in mattoncini rossi del Comune, in braccio uno
scatolone che cerca disperatamente di tenere in bilico aiutandosi con
il ginocchio a dispetto dei tacchi, mentre annuisce convinta a
qualsiasi cosa Carol Lockwood le stia dicendo.
Ed io ho l’istantaneo istinto di ucciderla.
Quando Carol la congeda con un frettoloso gesto della mano,
per niente al mondo intendo farmi scappare quell’occasione.
“Caroline!” la chiamo a gran voce.
Si volta nella mia direzione e, nell’attimo stesso
in cui mi vede, la sua espressione si trasforma in quella di un
cerbiatto appena sorpreso dai fari di un camion.
“Elena!” risponde in tono acuto,
“Sono davvero di fretta al momento, Carol mi sta facendo
impazzire per stare dietro a questa mostra, e-”
“Oh, non ci provare!” la ammonisco,
arrivandole di fronte. “Tu sapevi che era qua, non
è vero?”
Scuote la testa freneticamente, da sinistra a destra, ancora e
ancora, tanto che anche i suoi capelli oscillano da una parte
all’altra.
“Non ho idea di cosa tu stia parlando,”
butta là, ma la sua faccia tosta dura poco di fronte allo
sguardo inceneritore che le rivolgo. “Ok, va bene!
Sì, lo sapevo,” ammette con un sospiro posando lo
scatolone sul muretto che costeggia la scalinata.
“E’ arrivato ieri, ma è stata davvero
una cosa dell’ultimo momento, te lo giuro, e non ho avuto
modo … Aspetta, vi siete visti?”
“E’ passato dal Grill poco fa,”
mi limito a farle sapere, evitando accuratamente di menzionare la
discussione che non ho avuto intenzione di affrontare con lui,
perché so già cosa Caroline avrebbe da dire al
riguardo e non sono in vena di sentirla. “Sai
perché è qui, quanto
resterà?” domando invece.
“Ci sono alcune questioni con la compagnia che lui e
Stefan stanno cercando di risolvere. Non lo so quanto
rimarrà,” risponde stringendosi nelle spalle, ma i
suoi occhi si sgranano felici mentre tenta con tutte le sue forze di
reprimere un sorriso. “Perché?” mi
domanda con fare fintamente casuale, “Tu vuoi che resti?
…”
“Può fare quello che vuole. Non mi
riguarda.”
“Ok …” Caroline mi guarda con
una fastidiosa espressione accondiscendente ed il suo annuire per darmi
ragione suona terribilmente come una presa in giro. “Se lo
dici tu.”
“Caroline, non iniziare.”
Voglio bene a Caroline come ad una sorella, ma la detesto
quando fa così. Forse la sua relazione di lunga data ha
accentuato la cosa ancora di più, ma la verità
è che tutto ha avuto origine dal giorno in cui ha notato
Stefan ad un allenamento di football ed ha deciso seduta stante, a soli
15 anni, che il loro matrimonio sarebbe stato nel mese di giugno. Fatto
sta che i Salvatore potrebbero tranquillamente darle una medaglia al
valore in quanto loro più accanita fan girl.
Si fa segno con le dita sulle labbra tanto per sottolineare il
suo silenzio, ma la vedo che si sta ancora sforzando di trattenere un
sorrisino che crede di aver capito tutto. Beh, non è
così.
“Siamo ancora d’accordo per la cena di
venerdì, vero?” le chiedo, tanto per farglielo
capire e renderle ancora più chiaro il concetto.
Sospira con fare teatrale. “Naturalmente.”
“Care …” inizio a rimproverarla.
“Ascolta, ho promesso, ok?” ribatte, punta
sul vivo, “Non sono affatto convinta dell’idea che
tu sposi questo tizio e, sia chiaro, non ha niente a che vedere con il
fatto che ti sposi prima di me, cosa che se ben ricordo avevi promesso
di non fare. Ok, forse un pochino ha anche a che fare con quello, ma
…” Alzo gli occhi al cielo, non riesco davvero a
credere che mi ritenga ancora in dovere di tener fede ad una promessa
fatta quando giocavamo con le bambole, “… ho
promesso che avrei cercato di farmelo piacere, e proverò a
farlo. Se tu sei felice, io sono felice.”
“Grazie,” le dico sincera, per farle
sapere quanto apprezzi il suo sforzo. “Lo sai che
è importante per me.”
“Lo so, tesoro,” mi sorride, “E
adesso davvero devo andare, o non ci sarà mai nessuna cena
perché Carol avrà preteso la mia testa su un
piatto d’argento e sarà l’unica cosa che
ritroverete, dopo che avrà finito con me.”
Sto finendo di chiudere il registro di cassa, quando mio fratello
Jeremy mi passa accanto in un soffio e mi lascia un veloce bacio sulla
guancia.
“Esco con degli amici, non mi aspettare.”
Guardo l’orologio a muro che segna l’una
passata, e scuoto la testa rassegnata.
“Non fare tardi!” gli grido dietro, come
se potesse davvero servire a qualcosa, ed infatti è
già sparito oltre la porta, alzando solo la mano in segno di
saluto senza neanche voltarsi.
Anche Jenna si sfila il grembiule e mi domanda.
“C’è bisogno di altro?”
“No, grazie, abbiamo finito per stasera,”
la ringrazio con un sorriso.
“Ho chiesto a Vicky di sostituirmi per il turno di
domani sera,” mi annuncia sedendosi su uno sgabello di fronte
a me.
Di fronte a quella notizia, le rivolgo una smorfia
contrariata. Detesto Vicky, non è brava neanche la
metà di Jenna nel preparare i cocktail, flirta con chiunque
le dia un po’ di attenzione, e non mi piace neanche un
po’ il modo in cui ha iniziato a guardare Jeremy da quando
è diventato maggiorenne.
“Farai meglio ad avere una buona scusa per lasciarmi
una sera extra con quella là,” le dico
scherzosamente.
“Beh,” sul suo volto passa un accenno di
sorriso, mentre si scioglie la coda e lascia ricadere i capelli biondo
ramati sulle spalle, “Ho un appuntamento.”
“Allora sei pienamente scusata,” le
concedo sorridendole di rimando. Mi sporgo verso di lei con fare
complice appoggiando i gomiti sul bancone in trepidante attesa di
maggiori dettagli. “Chi è il fortunato?”
La vedo esitare, e non è buon segno.
“Logan Fell.”
“Logan-la-merdaccia-Fell?” esclamo delusa,
“Quel
Logan Fell?”
“Non chiamarlo in quel modo,” mi
rimprovera puntandomi un dito contro.
“Sei tu che lo chiami in quel modo,” le
ricordo. “E per una buona ragione. E’ andato a
letto con un’altra!”
“Lo so, ma è stato tanto tempo fa, ed ha
insistito molto sul fatto che è cambiato, e che vuole
dimostrarlo … ” Jenna si stringe nelle spalle e
prosegue nella sua difesa dell’indifendibile, non facendo
altro che confermare la mia opinione: ho sempre pensato che fosse
troppo buona.
“Non pensi che le persone meritino una seconda
possibilità?” mi domanda posando il mento sulla
mano.
“Penso che certe porte chiuse è bene che
restino tali,” rispondo piano. Abbassando lo sguardo sulle
mie mani, noto che le mie dita si stanno intrecciando tra loro
nervosamente.
“Anche se non sono veramente chiuse?”
Alzo di nuovo gli occhi incontrando quelli verdi di lei, ma so
di non avere una risposta alla sua domanda, sulla quale non voglio
davvero soffermarmi a riflettere. E per motivi ben diversi da
Logan-la-merdaccia-Fell.
“Solo … stai attenta, ok?” le
dico un po’ apprensiva.
“Ho quasi trent’anni, sono una ragazza
grande, Elena. Non devi prenderti cura anche di me,” ride lei.
“Non essere sciocca,” scuoto la testa e
scaccio quel pensiero ridicolo agitando una mano nell’aria.
Non ha tutti i torti però. Jenna è la
cosa più simile ad una sorella maggiore che abbia mai avuto,
e preoccuparmi per lei mi risulta naturale.
E non è solo perché lavoriamo insieme da
quasi dieci anni, o perché sia impossibile non volerle bene,
ma perché lei per me è stata, ed è
tutt’ora, molto, ma molto di più della semplice
barista che avrebbe dovuto essere quando, appena ventunenne, aveva
accettato quel lavoro. Ci sono molte volte in cui mi chiedo come sarei
riuscita a gestire tutto, senza avere lei al mio fianco.
Guardai Jenna togliersi e
mettere via il grembiule, ripiegandolo con cura come fa sempre dopo la
chiusura, e mi avvicinai a lei leggermente esitante.
“Posso chiederti
ancora un favore?” le domandai con una punta di apprensione,
insicura se quello fosse chiedere troppo.
“Certo.”
Con lo sguardo le indicai
mio fratello addormentato su uno dei divanetti ad angolo, la testa
appoggiata sul gomito ripiegato ed i capelli neri spettinati sulla
fronte.
“Potresti per
favore portare Jeremy a casa?”
Vedendola esitare, mi
affrettai ad aggiungere, “Solo se puoi, altrimenti non
importa.”
Mi rivolse un leggero
sorriso, fece il giro del bancone e si sedette in fronte a me
prendendomi le mani tra le sue.
“Non è
questo il problema …”La guardai senza capire per
alcuni istanti. “Tesoro, stai facendo un lavoro incredibile,
ma hai quindici anni, non dovresti essere sveglia ad un’ora
così tarda a chiudere bar.” Stavo per obiettare
che non ci fossero molte alternative, ma lei proseguì prima
di darmene il tempo, la sua voce così gentile da fare quasi
male. “Tuo padre ha bisogno di aiuto, Elena.”
Seguii il suo sguardo fino
a mio padre mezzo addormentato ad un tavolino davanti ad un bottiglia
di whiskey quasi vuota, con la testa appoggiata contro la parete.
“Ha solo bisogno
di un po’ di tempo per superare quello che è
successo a mamma,” replicai scuotendo la testa.
“Sono passati tre
mesi,” proseguì Jenna, “Non avete
qualche parente che possa darvi una mano? So che tua madre aveva una
sorella, a Denver, magari lei potrebbe-”
“No,”
la interruppi con decisione, subito invasa dal panico, “Ci
porterebbe via, ha già detto che lo farebbe, via da qua, via
da papà, e non posso permetterlo, Jenna ti prego, non voglio
andare via …” la implorai sentendo la lacrime
salirmi agli occhi.
“Ok,
ok,” mi tranquillizzò stringendomi le mani con
dolcezza, “Nessuno vi porterà via. Ma non so se
…”
“Ascolta,” mi sporsi fino al bordo dello
sgabello per cercare il suo sguardo e
cercare di spiegarle la situazione con calma, sorridendole rassicurante
per tentare di convincerla. “Non è così
tutto il tempo, lo vedi anche tu. Solo quando diventa particolarmente
triste.”
Jenna gettò un
altro sguardo verso mio padre e sospirò tornando a voltarsi
nella mia direzione. “Va bene. Ma ne riparleremo di nuovo,
ok?”
Annuii convinta, mentre
Jenna si alzava per andare a prendere in braccio Jeremy e portarlo a
casa.
Quando se ne fu andata, mi
sedetti infine al tavolo di fronte a mio padre.
“Papà
…” lo chiamai. Sollevò le palpebre, e
mi guardò con occhi sfocati, “Papà,
è tardi, io e Jenna abbiamo già chiuso tutto,
penso che dovremmo andare a casa.”
“Solo altri dieci
minuti …” farfugliò tornando a posare
la testa sulla mano.
“Papà,
io ho scuola domani …”
Corrugò la
fronte sorpreso. “Come mai ti fanno andare a scuola durante
le vacanze?”
“Non sono le
vacanze, la scuola è ricominciata una settimana fa
…” tentai di spiegare.
Per un attimo si riscosse e
si raddrizzò, lo sguardo improvvisamente colmo di sensi di
colpa.
“Oh, cazzo,
Elena, mi dispiace, mi dispiace così tanto, io davvero non
…”
“Va bene, va
bene, non ti preoccupare,” lo rassicurai prendendogli una
mano, “Però adesso andiamo a casa, ok?”
Lo aiutai ad alzarsi ed
insieme iniziammo ad incamminarci verso casa, lasciando
l’auto, per la quale ancora non avevo la patente, nel
parcheggio del Grill. Data l’ora tarda ed la stagione
turistica ormai agli sgoccioli, la notte era silenziosa, e
l’aria, a dispetto delle temperature diurne ancora
piuttosto elevate, era piuttosto fresca.
Quando mio padre
inciampò improvvisamente, borbottando qualcosa che non
riuscii a capire, e persi l’equilibrio insieme a lui, sotto
al suo peso, ero già pronta per l’impatto con
l’asfalto, che però non avvenne mai.
“Ci sono, ci
sono.”
Alzai lo sguardo sorpresa
verso la voce di colui che aveva appena afferrato mio padre
impedendogli di cadere, ed il cuore mi affondò nel petto
quando incontrai l’azzurro vivo degli occhi che adesso mi
stavano osservando con un accenno di preoccupazione.
Ancora ricordavo bene la
prima volta che avevo scambiato qualche parola con Damon: il modo in
cui non riuscivo a smettere a sorridere, il nervosismo che potesse
liquidarmi come una ragazzina non degna delle sue attenzioni, la
delusione di dovermene andare quando infine mia madre era arrivata per
prendermi. Probabilmente, se la mia vita non fosse cambiata
così drasticamente dopo quella sera, il mio stomaco avrebbe
iniziato a fare le capriole per il fatto di trovarmi di nuovo di fronte
a lui.
Adesso, sarei solo voluta
scomparire.
“Mi dispiace, non
è …” cercai di spiegare, arrossendo
violentemente.
“Non è
niente,” mi rassicurò lui, rivolgendomi un
confortante mezzo sorriso, “Ho amici che sono stati in
condizioni peggiori.”
Annuii e reciprocai il
lieve sorriso, senza saper bene cosa dire.
“Elena,
giusto?”mi domandò corrugando appena la fronte.
“Ci siamo incontrati, alcuni mesi fa ….”
“Sì
…”dissi un soffio. “Mi
ricordo.”
Decido di tornare a casa piedi, un po’ per il clima
piacevolmente tiepido, un po’ perché so che
camminare può aiutare a smaltire una giornata con un
po’ troppi pensieri almeno quanto può aiutare a
smaltire una serata con un po’ troppo alcol. Decido di
camminare, anche se mio padre è sobrio da mesi e so
perfettamente che Damon non sbucherà ad offrirmi un
passaggio fino a casa, come fece la notte che iniziò ad
entrare nella mia vita.
Quando arrivo a casa, mi dirigo verso la cucina ed opto per
uno spuntino notturno a base di Lucky Charms [1]
che porto con me in camera, vizio che non ho perso sin da quando ero
piccola.
Ho appena posato la ciotola sulla scrivania ingombra di
ritagli di fotografie di abiti bianchi, fiori e torte a più
piani con cui Caroline non ha esitato a sommergermi a dispetto di tutte
le sue rimostranze, quando il mio telefono inizia a suonare.
Un leggero sorriso si forma sulle mie labbra quando noto il
nome sul display.
“Ehi,” rispondo, sedendomi sulla scrivania
dopo aver fatto un po’ di spazio in mezzo
all’ammasso di riviste tagliuzzate.
“Sei tornata?”
“Proprio poco fa.” Sgranocchio
un cuoricino rosa che pesco in mezzo al resto dei cereali.
“E’ successo qualcosa?” mi
domanda con voce apprensiva. Posso quasi vedere la linea che deve
attraversagli la fronte in questo momento. “Mangi quelle cose
disgustose quando sei turbata per qualcosa.”
“No, no,” mi affretto a precisare,
scansando immediatamente la tazza incriminata. “Una giornata
come al solito,” aggiungo con fare convinto. “E la
tua?”
Sospira lievemente, ma sono grata che abbia lasciato cadere il
discorso.
“Ho due notizie per te. Una buona ed una cattiva.
Quella buona è che ho un incontro di lavoro a Mystic Falls
nei prossimi giorni, perciò arriverò con un paio
di giorni di anticipo.”
“E’ fantastico,” dico, domandomi
perplessa cosa possa esserci dietro al suo tono serio. “E
quella brutta?”
Probabilmente adesso mi dirà che avrà
qualche altro impegno per il fine settimana e che dovremmo cancellare
la cena con Stefan e Caroline, penso delusa. Ma in
quell’istante realizzo che al momento
c’è anche un altro inquilino in casa Salvatore, ed
improvvisamente l’idea di dover rimandare suona molto
più allettante.
“Beh, la brutta notizia è che quindi
dovrai sopportarmi per qualche giorno in più del
previsto.”
“Non suona poi così male,”
ridacchio, forse più nervosa che sollevata. “Ehi,
siamo ancora d’accordo per la cena di
venerdì?”
“Naturalmente. Sono più che pronto a
vincere qualsiasi resistenza che la tua migliore amica possa ancora
avere nei miei confronti. In più, mi hanno assicurato che
è una cuoca favolosa.”
“E’ vero, lo è,”
confermo. Del resto, sono poche le cose che Caroline non riesce a fare
bene, una volta che si è messa in testa qualcosa. Tamburello
inquieta le dita contro il bordo della scrivania. “Ascolta,
ti dispiace se vado adesso? Sono piuttosto stanca.”
“Certo. Ci vediamo presto. Ti amo, Elena”
“Ti amo, anch’io.”
Chiudo la telefonata e torno a piluccare figurine colorate in
mezzo ai cereali. D’un tratto mi volto, sempre senza scendere
dalla scrivania, animata da un pensiero improvviso, ed inizio a cercare
tra qualche vecchio annuario che è ancora lì,
accatastato in un angolo, sommerso sotto i brandelli di riviste che
ingombrano il resto dello spazio.
Quando infine trovo ciò che stavo cercando, esito
un attimo prima di prenderlo tra le dita.
E’ il mio sedicesimo compleanno, una già tiepida sera di maggio che
non avrebbe avuto niente di diverso dalle altre, se non per il fatto
che Caroline aveva convinto Stefan a sfruttare casa Salvatore per un
“piccolo” festeggiamento tra pochi intimi, almeno
secondo la sua concezione di “piccolo”. Mi
è sempre piaciuta quella foto, perché sto
ridendo. Di più, sto ridendo per qualcosa che aveva detto
Damon, che lì sul divano accanto a me, i gomiti sulle
ginocchia ed il busto piegato nella mia direzione, mi guarda in un modo
che, a vederlo adesso, mi fa stringere lo stomaco. Perché,
osservando quell’immagine a distanza di tempo, mentre
alliscio il bordo piegato che ha finito per lasciare una venatura
bianca nell’angolo in basso a destra,
c’è una cosa che so, senza ombra di dubbio.
Damon è l’imprevisto che non ho mai
saputo come gestire.
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Note:
[1] Lucky Charms: cereali misti a marshmallows
colorati, insomma, una di quelle robe zuccherosissime per bambini
tipiche americane che ti fanno avere un’impennata glicemica
solo a guardarli.
Spazio
autrice
Buongiorno, mie care, eccomi con un altro capitolo! So che non succede
molto perché è molto introduttivo, ma spero che
vi sia piaciuto lo stesso: ladies and gentlemen, ecco a voi miss Elena
Gilbert.
Come si intuisce, qua la
famiglia di Elena è proprietaria del Grill di Mystic Falls,
anche se le cose iniziano ad andare un po’ a scatafascio da
dopo la morte della madre (Jenna però non è sua
zia, né una sua parente). Il flashback ammetto che
è la parte che mi preoccupa di più,
perché so che con la vita della
“piccola” Elena vado a toccare tematiche delicate e
spero di farlo in modo non banale.
Un grazie gigante a
tutte.
Un bacio, a presto!
|
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Capitolo 4 *** Miserable lie ***
3. efp
3.
Miserable
Lie
- And love is just a miserable
lie -
(The Smiths, Miserable
Lie)
Damon
Sono in anticipo di circa dieci minuti quando arrivo
nell’ufficio di mio padre, dove tra poco dovrei incontrare
Stefan.
Per ingannare l’attesa, sollevo di un poco le
semplici veneziane bianche della finestra dietro la scrivania, quella
che sulla sinistra lascia intravedere uno scorcio della piazza
principale, permettendo ad un po’ di luce mattutina di
entrare nella stanza.
Sposto lo sguardo sull’arredamento sobrio ed
essenziale, in cui niente è fuori posto e tutto è
sempre uguale a come lo ricordavo.
Prendo in mano la vecchia fotografia di mio padre, ad una
qualche raccolta fondi mentre stringe la mano all’ex
governatore della Virginia, che ancora campeggia in bella vista in un
angolo della scrivania. Certe cose, penso con una smorfia, non cambiano
mai.
“Cosa vuoi,
Damon?”
Al suono secco della
domanda di mio padre mentre entrava nella stanza, rimisi a posto la
cornice che mi stavo rigirando fra le mani e mi distesi
all’indietro sulla sedia. Lo osservai prendere posto dietro
la scrivania, di fronte a me, senza che mi rivolgesse neanche mezzo
sguardo.
“Una volta qua
c’era una foto di Charlotte,” feci notare, ben consapevole di quanto lo avrebbe fatto irritare
quell’osservazione.
Ma fu a malapena un piccolo
lampo quello che attraversò la sua espressione impassibile.
“Le cose
cambiano.”
Repressi una smorfia,
considerando che tanto ormai non valeva neanche più la pena
tirare fuori l’argomento, e puntai dritto al vero motivo per
cui mi trovavo lì.
“La mia carta di
credito è stata rifiutata ieri.”
“Questo
è perché l’ho fatta
revocare,” mi informò nell’aprire un
cassetto per tirarne fuori alcuni fogli che si fece scorrere
velocemente tra le dita, prima di schiacciare con decisione un pulsante
sull’interfono. “Janine, ho bisogno di quei
rapporti trimestrali entro due ore.”
Il suo tono non
cambiò dopo aver chiuso la conversazione, tanto che impiegai
qualche secondo prima di rendermi conto che stava di nuovo parlando con
me. “C’è dell’altro?”
“Perché
lo hai fatto?” domandai aggrottando la fronte con un filo di
frustrazione, leggermente confuso ma al tempo stesso
nient’affatto sorpreso che, per spese che ammontavano al
massimo ad un paio di cd e qualche pieno di benzina, stessi ricevendo
lo stesso trattamento di una qualsiasi ragazzina viziata drogata di
vestiti e gioielli in preda ad un attacco di capricci.
“Hai quasi
diciotto anni,” rispose alzando per la prima volta lo sguardo
verso di me ed osservandomi come se fossi una fallimentare colonna in
cui i conti non tornavano nei suoi tanto amati rapporti trimestrali.
“Quando avevo la tua età, avevo già due
tirocini estivi nella compagnia e l’ammissione a Dartmouth.
Non c’è bisogno di dire che tu non hai nulla di
queste cose.”
“Io non sono
te.”
Un accenno di sorriso amaro
gli passò sul volto. “Ne sono ben
consapevole.”
“Cosa ti aspetti
che faccia?” domandai cercando di non far vacillare la voce
per la rabbia e l’umiliazione.
“Che ti prenda le
tue responsabilità, tanto per cominciare,” disse
inchiodandomi con lo sguardo nell’appoggiarsi
all’indietro conto lo schienale. “Se questo un
giorno questo dovrà essere tuo …”
“Non voglio la
tua stupida azienda,” lo interruppi bruscamente.
“Allora farai
meglio a trovarti in fretta qualcos’altro, o nessuno ti
prenderà mai sul serio.”
Con una smorfia talmente
impercettibile che sarebbe sfuggita ad un occhio meno allenato del mio,
riprese a dedicare la sua attenzione a ciò che aveva
interrotto, chiara indicazione che non considerava più
quella conversazione come degna di nota.
“Nessuno,
o tu?”
Un rumore di passi e voci nel corridoio mi riscuote dai miei pensieri.
Stefan apre la porta, tenendola ferma con una mano per far
entrare qualcuno che non ho mai visto prima d’ora, un uomo
distinto che trasuda professionalità dagli orli del suo
impeccabile vestito fino alle punte degli altrettanto impeccabili
capelli.
“Damon, ti presento Elijah Mikaelson. Elijah, mio
fratello Damon.”
Elijah si avvicina e mi stringe la mano con una presa decisa
ed un accenno di sorriso cordiale.
“E’ un piacere Damon, ho sentito molto
parlare di te.”
“Non penso di poter dire lo stesso,”
rispondo reciprocando la stretta.
“Elijah è un avvocato finanziario ed
è nel consiglio degli azionisti,” spiega Stefan,
invitando tutti a prendere posto con un gesto della mano, prima di
accomodarsi lui stesso in una delle due poltroncine che fronteggiano la
scrivania. Elijah si siede nell’altra, io invece preferisco
restare in piedi, appoggiato a braccia incrociate contro la scrivania.
“E’ entrato qualche mese fa in accordo con
papà, nell’intento di aiutarci a riprenderci da
questa situazione.”
Alzo le sopracciglia e non riesco a trattenere
un’espressione sarcastica.
“Senza offesa, ma non sembri aver fatto un buon
lavoro fino a adesso.”
Elijah non si scompone e mi osserva con interesse mentre
tamburella distrattamente le dita contro il bracciolo della poltrona.
“Fidati, Damon, non saremmo neanche qua a parlare,
se io non avessi fatto il mio lavoro.”
Gli rivolgo un sorriso tirato ma prima che io abbia il tempo
di ribattere, Elijah prosegue con fare deciso.
“Andrò dritto al punto. Immagino che
siate già a conoscenza della situazione lasciata da vostro
padre. Damon, tu adesso di fatto possiedi la maggioranza relativa con
il 40%, Stefan ne ha il 30 ed il restante rimane sempre diviso tra gli
altri azionisti. Qualche mese fa, quando si è rivolto a
me,” Elijah afferra la sua ventiquattrore, ne tira fuori un
documento e me lo porge, “ha deciso che, in caso di una sua
dipartita in condizioni aziendali ancora precarie, la mia carica di
manager generale avrebbe garantito stabilità attraverso la
possibilità di poter esercitare il veto su tutte le
decisioni prese dal consiglio degli azionisti, comprese quelle a
maggioranza assoluta.”
Sconcertato, impiego qualche secondo per realizzare a pieno il
significato delle sue parole. Sposto lo sguardo dal foglio tra le mie
mani a mio fratello che è ancora in silenzio in attesa di
una mia reazione, ed infine su Elijah, con il quale mi scambio una
lunga occhiata.
Devo fare uno sforzo incredibile per trattenermi dal non
scoppiare a ridere.
“Mi state prendendo in giro? E’ uno
scherzo?” domando infine, una parte di me che ancora spera
che lo sia. “Mi state dicendo che quel bastardo ha trovato il
modo di lasciarmi il controllo della compagnia, senza darmene
… il controllo?”
“Non la metterei esattamente in questo modo
….” prosegue Elijah, una mano distesa sul
bracciolo e l’altra che si muove elegantemente
nell’aria, come se stesse cercando le giuste parole.
“Pensala più come ad un …
‘sistema di garanzia’.”
“Grandioso,” commento aspro, posando il
documento sulla scrivania e soffocando un moto di frustrazione repressa
da anni, che subito riprende a bruciarmi in petto.
Nonostante tutto, devo dargliene atto: la fantasia di mio
padre nell’incasinarmi l’esistenza davvero non
conosceva limiti.
“Il primo consiglio sarà tra due
settimane, a Richmond. Possiamo contare sulla tua presenza?”
Annuisco con una smorfia, perfettamente conscio di non avere
molta scelta, mentre Elijah si alza, si riabbottona la giacca e mi
porge la mano che stringo senza molta convinzione.
“Immagino che ci vedremo anche venerdì a
cena?” mi domanda accennando di nuovo un sorriso, per nulla
scalfito dal mio atteggiamento, “Niente affari, solo
piacere.”
“Cena?” chiedo, guardando Stefan con fare
interrogativo. Mio fratello si passa una mano tra i capelli ed in quel
gesto mi sembra di notare un vago disagio.
“Elijah è nostro ospite su invito di
Caroline,” mi spiega sbrigativo.
“A quanto pare, è lei che devo
conquistare, per poter serenamente sposare la sua migliore
amica,” aggiunge Elijah, una battuta che forse ha
l’intento di distendere l’atmosfera, ma che su di
me ha l’effetto di una secchiata di acqua gelida.
Nei brevi secondi che il mio cervello impiega per scartare la
fugace illusione che stia parlando di quella piccola sputasentenze di
Bonnie Bennett, prima di fare inevitabilmente due più due,
Stefan
si è già affrettato a salutarlo e ad
accompagnarlo verso la porta.
“No,”
è l’unica cosa che dico, allibito, dopo che Stefan
ha chiuso la porta con un colpo secco.
“Damon …” inizia muovendo
qualche passo nella mia direzione.
“No, no, no, e no,” ribadisco furioso
andandogli incontro, incredulo che mi abbia davvero tenuta nascosta una
cosa del genere. “L’ho già detto?
No.”
Stefan scuote la testa e si stringe le braccia al petto,
fronteggiandomi con altrettanta decisione.
“Lo sapevo che non saresti stato
ragionevole.”
“Ragionevole? Quello …” prendo
un profondo respiro, cercando con scarso successo di mantenere la
calma, “Il tizio che ci sta fottendo l’azienda in
cinquanta sfumature di assurdo, quel tizio, è il fidanzato
di Elena? Non pensavi di dirmelo?”
“Non ci sta fottendo l’azienda. Ci sta
aiutando,” ribatte lui, “E se te lo avessi detto in
anticipo saresti partito prevenuto nei suoi confronti e lo avresti
detestato a prescindere.”
“Già, perché invece adesso lo
adoro.”
“Damon,” prosegue, “Lo so che
hai un punto debole quando si tratta di Elena, ma non puoi davvero
lasciare che questo comprometta ciò per cui papà
ha lavorato così tanto. E’ bravo, è
molto bravo, è uno dei migliori nel suo campo. Ha salvato
situazioni molto più disperate della nostra, e se
papà lo ha scelto c’è un motivo. Lo sai
anche tu che non avrebbe mai lasciato tutto in mano al caso.”
“Ha lasciato la maggioranza della sua quota in mano
a me, è evidente che la sua capacità di giudizio
aveva iniziato a fare le valigie da un pezzo.”
“Pensa quello che vuoi,” Stefan si stringe
nelle spalle, “Mi fido del suo giudizio. E mi piacerebbe che
per una volta lo facessi anche tu.”
Non sono neanche lontanamente d’accordo con Stefan, ma al
momento non vedo molte vie di uscita alla situazione in cui mi sono
cacciato mio malgrado.
Certo, un’altra opzione ci sarebbe: fare di nuovo le
valigie, partire con il primo aereo e sbattermene delle conseguenze.
Quello sì che sarebbe un buon modo di ripagare mio padre.
Così controllo i voli, lascio perdere, mi maledico,
mi ripeto che lo faccio per Stefan e qualche giorno dopo sono ancora
lì, pronto ad una cena in cui dovrò ingoiare
rospi uno più grande dell’altro.
“Stanne fuori, Care.”
E’ la voce di Stefan quella che avverto provenire
dalla cucina, mischiata ad un rumore di stoviglie e
all’inconfondibile aroma del pollo alla parmigiana di
Caroline.
“Perché?” sento Caroline
ribattere in tono più acuto, intanto che mi dirigo verso di
loro, “Non è un diritto sacrosanto
quello di impedire alle persone a cui teniamo di fare degli errori?
Passami il prezzemolo, per favore.”
“No, le persone devono poter fare da sole le proprie
scelte.”
“Oh, ma sul serio?” replica lei
sarcastica, “Adesso vuoi davvero dirmi che tu non hai tentato
in tutti i modi di convincere tuo fratello a cambiare idea e a
sistemare le cose con vostro padre?”
Devo ammettere che il mio grado di simpatia nei confronti
della biondina si alza notevolmente ogni volta che riesce a mettere mio
fratello di fronte a tutte le stronzate che dice. Ma la soddisfazione
dura poco, quando vengo colpito dalla tristezza nel sospiro rassegnato
con cui Stefan risponde.
“Sì, e alla fine ha fatto comunque di
testa sua.”
“State parlando alle mie spalle?” domando
entrando in cucina, le teste di entrambi che scattano nella mia
direzione.
“Solo un pochino,” risponde Stefan
tornando ad affettare pomodori.
“Ehi! Metti giù quelle mani,”
mi rimprovera Caroline puntandomi contro un mestolo grondante di salsa,
mentre tento di sottrarre uno degli invitanti crostini già
pronti accanto al piano cottura, “Questo è per la
cena di stasera.”
“Oh, giusto,” alzo teatralmente gli occhi
al cielo, “La grande cena con il grande uomo venuto a
salvarci da tutti i nostri guai e dalle nostre miserabili
esistenze.”
“Nessun pregiudizio, Damon, hai promesso,”
mi ricorda mio fratello rivolgendomi uno sguardo eloquente.
“Sì, come no. Devo andare, ci vediamo
dopo,” taglio corto.
Prima di andarmene mi chino per dare un bacio veloce sulla
guancia di Caroline, sperando con quel gesto di passarla liscia per il
furto di un po’ di mozzarella tagliuzzata da sotto alle sue
mani.
“Guarda che ti ho visto!” mi urla dietro,
“Alle otto, e vedi di essere puntuale!”
Caroline non ha di che preoccuparsi.
Sono puntuale, puntualissimo, quando due ore dopo si tratta di
aprire la porta all’unica ragazza che abbia mai avuto un vero potere su
di me e ritrovarmela davanti mano nella mano al suo esemplare
fidanzato, perfetto ed elegante anche in maniche di camicia.
Non c’è bisogno di dire che è
perfetta, e bellissima, anche lei, nel suo vestito dal taglio semplice,
bianco e celeste, che mette in risalto l’incarnato olivastro
e le scende a meraviglia lungo la curva dei fianchi.
Elena incrocia il mio sguardo, che si è appena
soffermato sulla sua figura probabilmente un po’
più a lungo del dovuto, con un accenno di sorriso titubante
ed un’ombra indecifrabile negli occhi. Mi costringo a
scostare la mia attenzione da lei per passare a salutare Elijah, che
nel frattempo mi porge una, ad occhio e croce, costosissima bottiglia
di vino rosso italiano.
Per tutta la mezzora successiva, Stefan e Caroline fanno un
lavoro eccellente per mantenere la conversazione nel territorio sicuro
delle chiacchiere senza molta importanza.
“Damon, Stefan mi ha detto che hai una compagnia per
conto tuo, a San Francisco,” osserva ad un tratto Elijah,
seduto di fronte a me, posando il bicchiere di vino dal quale ha appena
preso un sorso misurato.
“Nella Valley, in realtà,”
preciso, “E non è ancora nulla più che
una piccola start-up di software di protezione informatica.”
“Interessante. Non sapevo che avessi competenze in
quel settore.”
“Non ce le ho, infatti,” chiarisco
scrollando le spalle, “Quello è l’ambito
del mio socio Alaric. Io l’ho solo aiutato a dare forma alle
sue idee quando nessun’altro era intenzionato a
farlo.”
“Davvero? Come mai?” continua Elijah con
evidente interesse.
“Alaric è …” cerco
le parole adatte per definire colui che ormai considero a tutti gli
effetti un amico, “… Particolare.”
“Particolare in che senso?”
Questa volta è Elena a porre incuriosita la
domanda, ed il mio sguardo scatta automaticamente nella sua direzione.
Un lampo di occhi castani è subito nei miei, ma lei
è più brava di me a distoglierli in fretta.
“Ha una piccola … passione, se
così vogliamo dire, per le teorie cospirazionistiche.
Diciamo che a volte è un po’ difficile da tenere a
bada,” spiego incerto, corrugando la fronte, mentre mi torna
alla mente la volta che abbiamo perso un contratto da decine di
migliaia di dollari solo perché si era convinto che il
cliente fosse una spia mandata dai servizi segreti.
“Che cosa molto alla Zuckerberg da parte
vostra,” commenta Elijah con altro sorrisino,
“Quindi quale college hai frequentato? Qualcosa nella stessa
area, Stanford magari?”
Quasi mi strozzo con un boccone di pollo.
“No,” scuoto la testa, “Ero solo
nei paraggi, tirando avanti per lo più con lavori saltuari e
qualche classe di straforo.”
Per la prima volta, noto con una certa soddisfazione che
Elijah sembra essere stato preso completamente in contropiede.
“Quindi …” inizia confuso, e
nella sua voce non può fare a meno di inserire una sottile
nota di biasimo, “Vuol dire che non sei neanche andato al
college?”
“Neanche io
sono mai andata al college.”
Questa volta sono io ad essere preso alla sprovvista dal tono
fermo e risoluto con cui Elena ha risposto ad Elijah. La osservo
sostenere il suo sguardo con un atteggiamento di sfida, e non riesco a
non sentirmi improvvisamente piuttosto orgoglioso di lei.
“Steve Jobs non è andato al
college,” osserva Caroline, con l’aria pensierosa
di chi sta giocando alla lista di “personalità che
non sono andate al college”, spezzando così i
brevi secondi di teso silenzio che sono seguiti alla replica di Elena.
“Scusate,” scuote la testa Elijah,
sinceramente dispiaciuto, “A volte tendo ad essere un
terribile snob pretenzioso.” Prende la mano di Elena, seduta
accanto a lui e se la porta alle labbra, posandoci un bacio e mimandole
un “mi dispiace” tutto per lei.
Sono fortunatamente distratto da quella toccante scenetta
grazie alla vibrazione del mio cellulare. Ne approfitto per scusarmi,
alzarmi ed allontanarmi, anche se il nome di Ric sul display
preannuncia già che anche quella non sarà una
conversazione piacevole.
“Ehi, amico,” rispondo quando ho infine
raggiunto lo studio, del quale lascio la porta socchiusa.
“Non chiamarmi amico” replica seccato,
“Sono giorni che ti chiamo e tu continui ad ignorarmi. Avevi
detto che saresti rimasto solo un paio di giorni ed invece è
quasi una settimana che non ti fai vivo. Si può sapere cosa
diavolo sta succedendo?”
“Lo so, non ci sono scuse,” rispondo
portandomi due dita a massaggiare la radice del naso. “Sono
solo sopraggiunte alcune cose.”
“Tipo cosa?”
“Tipo mio padre che riesce a trovare il modo di
complicarmi la vita anche dall’aldilà, tanto per
dirne una,” gli faccio sapere con una smorfia che tanto non
può vedere,.
C’è un lungo silenzio, prima che giunga
la risposta dall’altro del telefono.
“E’ così brutta?”
“Sto cercando di capirlo.”
“Mi servi qua, Damon,” mi dice infine, ed
io sospiro, sapendo che ha ragione.
“Ok, senti, mandami tutto ciò di cui mi
hai parlato nei tuoi messaggi e stasera farò in modo di
lavorarci. Promesso.” Sento un rumore di passi provenire dal
corridoio e proseguo prima che abbia il tempo di protestare,
“Devo andare, ci sentiamo più tardi.”
Quando esco dallo studio trovo Elijah, intento a guardarsi
intorno.
“Stavo cercando la toilette,” mi fa sapere
con un sorriso di scuse.
Gliela indico e mi ringrazia con un cenno della testa, ma
all’ultimo minuto, quando sto già per tornare in
sala, cambia idea, mi richiama e torna sui suoi passi.
“Voglio che tu sappia che spero davvero di poter
lavorare bene insieme,” mi dice schiettamente. “A
dispetto di quanto puoi credere, Damon, non sono qua per
ostacolarti.”
“No, sei qua per salvare il sedere a tutti
quanti. Questo l’ho capito,” replico con un sorriso
tirato, l’ennesimo ormai.
“Lo sai,” prosegue, facendo finta di non
aver colto l’ironia nella mia voce, “Elena mi ha
parlato di quello che c’è stato tra voi
due.”
E’ un pugno dritto nello stomaco quello che mi
colpisce al pensiero di Elena che parla di me con il tizio che le ha
infilato quel maledetto anello al dito.
“Prima di venire qua, lei … Elena temeva
che ci sarebbe stata un po’ di tensione. Insomma, visto che
in passato siete usciti insieme …”
Stringo lo sguardo su di lui, nel tentativo di intuire dove
stia cercando di arrivare.
“Usciti insieme?” ripeto perplesso.
Elijah mi guarda altrettanto stranito, e per un attimo vedo il
dubbio attraversare il suo sguardo.
“Sì, mi ha detto che avete avuto un paio
di appuntamenti e che non ha funzionato, che è stato molto
tempo fa e, a quanto ho capito, anche una cosa di poca importanza.
Quindi, come ho detto a lei, davvero non vedo in che modo possa creare
tensioni, non sei d’accordo?”
Una cosa di poca importanza.
L’idea che questo sia ciò che Elena pensa
di me è come acido corrosivo versato giù per la
gola. Mi fa strozzare qualsiasi parola, perlomeno prima che io mi renda
conto di cosa comporti tutto ciò: Elena ha mentito.
Insomma, almeno una cosa è certa, tra tutte le descrizioni
fantasiose che poteva tirare fuori, quella di essere usciti ad un paio
di appuntamenti, è la più lontana dalla realtà che potesse trovare.
Quindi,
perché diavolo ha mentito?
Ricaccio indietro l’amaro che ho ancora in bocca e
metto su la mia migliore faccia tosta.
“Certamente,” rispondo tranquillo,
decidendo di assecondarlo, “Una cosa da niente, di sicuro
nessun motivo per creare tensioni.”
“Ottimo,” risponde sollevato. Guardo la
sua mano posarsi brevemente sulla mia spalla, e quindi se ne va verso
il bagno, lasciandomi a domandarmi confuso cosa diavolo sia appena
successo.
Non ero mai stato un
tipo dedito agli appuntamenti seri.
O forse, sarebbe stato
più esatto dire che non ero mai stato attirato
dall’idea di poter frequentare la stessa ragazza per
più di un paio di settimane, periodo oltre il quale iniziava
a manifestarsi la fastidiosa tendenza a richiedere un grado maggiore di
attenzioni, un atteggiamento direttamente proporzionale soltanto alla
velocità con cui diminuiva il mio interesse a concederle.
Non era neanche una
questione di riservarsi la possibilità di saltare di letto
in letto.
Molto più
semplicemente, se mi piaceva mantenere le cose su un piano strettamente
casuale era perché c’era una cosa che avevo capito
fin dal principio: frequentare ragazze nel lungo periodo richiedeva un
grado di impegno che io non avevo alcuna intenzione di dedicare
né a quella né tantomeno a qualsiasi altra cosa.
Ecco perché non
so cosa mi fosse saltato in testa la mattina che incrociai Elena
Gilbert - la ragazzina con cui avevo piacevolmente flirtato la sera del
falò di fine anno, la stessa ragazzina che a malapena aveva
alzato lo sguardo su di me quando qualche sera prima mi ero offerto di
riaccompagnarla a casa insieme al padre ubriaco - mentre camminava
frettolosamente verso scuola guardando in continuazione
l’orologio per l’evidente timore di essere in
ritardo.
Anzi, il problema non fu
neanche quello. Del resto, io le offrii lo stesso passaggio che avrei
proposto ad una qualsiasi altra ragazza in grado di incuriosirmi, e
lei, come la volta precedente, accettò più che
altro per mancanza di valide alternative.
Il problema semmai furono i
giorni successivi, quelli in cui ci ritrovammo ad incontrarci sempre
allo stesso orario e allo stesso posto, finendo per rendere quei
passaggi una tacita abitudine molto meno casuale di quanto entrambi
fossimo disposti ad ammettere.
“Cosa stai
facendo?” le domandai un giorno, irritato, dopo che ebbe
buttato distrattamente la borsa ai suoi piedi e si fu sistemata sul
sedile della Camaro con il naso ancora completamente immerso nel libro
che teneva in una mano.
“Sto
ripassando,” rispose senza alzare lo sguardo, sfogliando una
pagina del libro adesso in bilico sulle sue ginocchia.
“Non
quello,” sbuffai, “Quello.”
Staccai un attimo lo
sguardo dalla strada per scoccare un’occhiataccia in
direzione della mela che aveva appena addentato nella sua mano sinistra.
Si voltò verso
di me con gli occhi resi ancora più grandi dalla sua
espressione disorientata.
“Non hai mai
visto qualcuno mangiare una mela?”
“Nessuno mangia
nella mia macchina,” ribadii secco.
“Ma é
una mela, non conta, guarda, non sbriciola neanche!”
Me la mise sotto al naso,
gesto al quale mi sottrassi con una smorfia, ma quando mi voltai a
guardarla, sbatteva le ciglia con una tale aria innocente che fu
un’impresa trattenermi dal non sorriderle.
“Cosa stai
leggendo, in ogni caso?” le domandai tanto per sviare
l’attenzione dalla mia poco onorevole capitolazione.
“Ho un test sulla
guerra civile alla terza ora, e nei giorni passati non ho avuto tempo
di studiare,” rispose riportando lo sguardo sul libro e
scostandosi la ciocca di capelli che immancabilmente le finiva sugli
occhi ogni volta che eseguiva un movimento troppo brusco con la testa.
“C’è
qualche modo in cui posso darti una mano?”
“Sai niente sulle
vicende del fronte orientale?”
“No, è
Stefan quello bravo con le date. Intendevo ...” esitai
lasciando scivolare le dita sul volante, “Posso dare un mano
al Grill?”
Si voltò di
scatto, il volto attraversato da un’espressione a dir poco
stupita.
“Mio padre vuole
che mi trovi un lavoro,” le spiegai stringendomi nelle
spalle, “Beh, in realtà vuole che lavori per lui,
perciò presumo che lavorare in un bar dovrebbe essere
un’alternativa in grado di farlo uscire di testa al punto
giusto.”
“Non lo
so,” mormorò con fare improvvisamente distante,
spostando nervosamente lo sguardo altrove, fuori dal finestrino.
“Dovrei chiedere a papà.”
Divenne silenziosa per
tutto il resto del tragitto, anche a dispetto di tutti i miei tentativi
di conversazione che finirono miseramente in nient’altro che
una serie di monosillabi. Tanto che quando arrivai a parcheggiare
davanti a scuola mi stavo ancora domandando cosa diavolo avessi detto
per farla reagire così.
“Beh, ci
vediamo,” la salutai, dopo che ebbe raccolto le sue cose,
compreso il torsolo di mela che infilò momentaneamente in
una tasca esterna della borsa.
Ma quando si
voltò per salutarmi di rimando, il suo sguardo si
fissò su un punto alle mie spalle e le sue sopracciglia si
corrugarono in un’espressione contrita.
Mi girai e notai Alison,
una ragazza del penultimo anno che avevo frequentato per un
po’ durante l’estate, parlottare con una sua amica
nella nostra direzione.
“Ti sei dato alle
scopate per pietà, adesso?” mi
apostrofò indicando Elena con un cenno della testa.
“Con quelle ho
chiuso dopo che ho smesso con te,” replicai sorridendole
imperturbabile.
Serrò le labbra
in uno sberleffo e scrollò le spalle, ma di fatto se ne
andò senza aggiungere altro. Tornai a scrutare Elena, che
però continuava a non guardarmi e ad avere il volto
contratto in una smorfia amareggiata.
“Non é
la sola a dirlo, sai?” mi disse piano, “Sento cose
simili tutti i giorni. É vero, é così?
Sei gentile con me perché vuoi portarmi a letto?”
Rimasi ad osservarla, senza
sapere bene cosa dire. Avrei mentito se avessi detto di non averci mai
pensato, ma avrei mentito anche se avessi detto che era solo quella la
ragione che mi spingeva a cercare la sua compagnia.
Di fronte al mio silenzio,
Elena scosse la testa ed allungò la mano per aprire la
portiera, pronta ad andarsene.
“No, non
é così” mi precipitai subito a
rassicurarla. Si bloccò e si girò nuovamente
verso di me, incrociando incerta il mio sguardo. “E poi non
é vero che sono gentile con te, non ti faccio neanche
mangiare nella mia auto.”
“Mi hai fatto
mangiare la mela,” osservò.
“Quella non
conta, l’hai detto anche tu,” mi strinsi nelle
spalle.
“Quindi
…” esitò, scrutandomi dal sotto delle
ciglia scure, “… Questo significa che …
siamo solo amici?”
Esitai anch’io.
Non sapevo cosa stesse
succedendo con lei, ma c’era qualcosa nel modo in cui mi pose
quella domanda, la prospettiva di poter trovare una sorta di appiglio,
che finì per farmi fregare con le mie stesse mani. In ogni
caso, mi dissi, era solo una ragazzina, troppo piccola
perché potessi davvero considerarla in altri modi.
“Certo,”
le sorrisi, “Solo amici.”
E quello, in quel preciso
istante, fu l’inizio della sola e unica menzogna che ci
saremmo raccontati anche negli anni a venire.
Quando torno in sala, Elena sta ridendo ad un racconto di Caroline,
qualcosa che coinvolge Carol Lockwood, una sciarpa e una rana, e che in
teoria è roba classificata come altamente top secret
all’interno del Consiglio Cittadino. Queste sono le cose che
ci nascondono i governi, mio caro Ric.
Elena solleva lo sguardo verso di me nel sentirmi rientrare.
Noto con piacere che la traccia di quella risata è ancora
lì a piegare gli angoli delle sue labbra e che non solo non
svanisce, ma anzi per un breve attimo, quello in cui i miei occhi
incontrano i suoi, si estende e sembra ravvivarsi ancora un
po’ di più.
E’ in quel momento che ripenso a ciò che
mi ha detto Elijah poco fa, a ciò che lei gli ha raccontato,
e rifletto che, forse, per lei posso riuscire a mentire anche questa
volta.
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Spazio
autrice.
Eccoci qua, svelata l'identità, svelato il mistero. :)
Siete state proprio
in tante ad ipotizzare il nome di Elijah, ma come ho detto a qualcuna
non era tanto importante l'identità in sè, quanto
il ruolo che avrà nei confronti di Damon ... ecco
perchè ho pensato che fosse più divertente farlo
scoprire attraverso i suoi occhi (sì, lo so: ho uno strano
concetto di divertente).
Lo so che la parte
"finanziaria" sono questioni pallose (tranquille che rimarrà
completamente sullo sfondo), ma sopportatemi un attimo
perchè è bene che la situazione in cui si trovano
sia chiara: in pratica, anche se l'azienda è per la maggior
parte in mano a Damon (e, in misura minore, Stefan), non muove foglia
che Elijah non voglia. So che potrebbe sembrare assurdo, ma qualcuno
che ne sa più di me mi ha assicurato che sì, sono
situazioni che possono davvero capitare. E intanto il nostro Damon fa i
salti di gioia.
Spero che, anche se siamo ancora agli inizi, il capitolo vi sia
piaciuto e che non siate rimaste deluse. Non fatevi problemi, davvero,
a farmi sapere qualsiasi dubbio o qualsiasi critica.
Vi ringrazio tutte di
cuore per il seguito e per tutte le vostre bellissime recensioni!
Apprezzerò moltissimo se volete lasciarmi anche solo due
righe.
A presto!
un bacio
|
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Capitolo 5 *** Silent war ***
4.efp
4.
Silent
war
-
We fought a silent war
In the hardware store
and the air was thick as paint
Though I carried it on,
I knew that I was wrong
But I fight when I'm
afraid –
(A Fine Frenzy
– Silent
War)
Elena
Finisco di lavarmi i denti e getto un’altra veloce occhiata
alla sveglia sul ripiano ingombro del bagno. Segna le sette del
mattino.
Quando
rientro in camera, ravvivandomi con una mano i capelli che ho appena
finito di asciugare, Elijah è in piedi davanti allo
specchio, intento ad annodarsi la cravatta con movimenti delle dita
esperti e misurati.
Quell’immagine,
così rassicurante che non mi stancherei mai di vederla ogni
mattina, mi strappa un leggero sorriso. Lo sguardo però mi
cade subito sulla sua giacca, posata su una sedia a poca distanza, e
quindi sulla piccola valigia che è già stata
sistemata con ordine, pronta a ripartire di nuovo, e non riesco a
ricacciare indietro una piccola stretta al petto.
Mi
avvicino a lui e da dietro gli circondo la vita con le braccia, posando
il mento sulla sua spalla.
“Odio
quanto te ne vai,” dico con un piccolo broncio, “Mi
fai sentire come un’amante sedotta e abbandonata.”
Lui
ride, dissipando quel mio cruccio infantile, finisce di stringersi il
nodo e fa scendere la sua mano a stringere la mia posata sul suo petto,
giocherellando con l’anello al mio anulare.
“Sono
abbastanza sicuro che questo dimostri il contrario,” sorride.
Ma
i suoi occhi scuri si fanno subito più seri quando trovano i
miei, riflessi nello specchio.
“Non
deve per forza essere così, lo sai,” aggiunge in
tono più basso e più cauto.
Incapace
di sostenere la vista dell’ormai abituale domanda che leggo
nel suo sguardo, distolgo gli occhi e mi sciolgo lentamente
dall’abbraccio. Mi appoggio con le mani
all’indietro contro il bordo della scrivania, niente affatto
intenzionata a rovinare il momento affrontando una conversazione che
continua a non portare da nessuna parte.
“Dobbiamo
per forza parlarne adesso?”
“E
quando altrimenti?” Si volta verso di me ed aggrotta le
sopracciglia con fare interrogativo, “Quando saremo
già sposati e non avremo ancora deciso dove
vivere?”
“Te
l’ho detto, non posso trasferirmi a Richmond,”
ribadisco con un sospiro.
Mi
osserva a lungo, con l’espressione concentrata che assume
ogni volta che sta cercando di capire cosa mi stia passando per la
testa.
“Non
puoi, o non vuoi?”
Non
c’è astio o irritazione nella sua domanda, solo un
genuino interesse a comprendere il problema che si sta trovando di
fronte ed il modo migliore per risolverlo. Ma se io so bene che Elijah
non può mai lasciare a lungo Richmond e il suo lavoro, lui
dovrebbe sapere che non posso davvero lasciare il Grill come se niente
fosse e che non ho ancora una vera e propria soluzione da poter
offrire.
Di
fronte al mio silenzio, si avvicina e mi posa le mani sui fianchi,
accarezzandoli lievemente.
“Elena,”
sospira, “Voglio stare
con te, iniziare una vita con te. Me lo permetterai?”
Quando
con lo sguardo cerca i miei occhi, io in risposta porto le mani sulle
sue spalle. Le sfioro per attirarlo in un bacio che, se non altro, mi
aiuta a chiudere la discussione e ad allontanare, almeno per un
po’, il peso che improvvisamente sembra essermi sceso sul
petto.
Appena entro al Grill, che Jeremy deve aver aperto da poco a giudicare
dalla maggior parte delle sedie ancora impilate sui tavoli, con mio
stupore trovo mio fratello appoggiato a braccia incrociate contro il
bancone, intento a parlare con l’unico avventore nel locale
altrimenti deserto.
Ho
un tuffo al cuore quando, non appena poso lo sguardo sulle sue spalle e
sul modo in cui i suoi capelli neri sfumano spettinati lungo la nuca,
riconosco Damon nell’interlocutore responsabile del mezzo
sogghigno che si è allargato sul volto di mio fratello.
“
… sì, ma è anche un po’
pazza,” riesco ad udire le ultime parole di Jeremy, mentre mi
avvicino a loro.
“Sexy
batte pazza. Fidati,” replica Damon con un sorrisetto
complice.
“E’
questo il genere di consigli che dai a mio fratello?” li
interrompo posando la mia borsa in mezzo ai due e facendo roteare gli
occhi al cielo.
Damon
si volta a guardarmi sollevando appena le sopracciglia.
“Beh,
qualcuno deve pure farlo,” risponde senza scomporsi.
Jeremy
sghignazza ormai senza ritegno, così gli sfilo lo straccio
che porta di traverso sulla spalla e glielo tiro addosso, mentre con
un’occhiata eloquente ed un cenno della testa gli intimo di
sparire. Se ne va sbuffando.
“Cosa
posso fare per te, Damon?” gli chiedo con un sospiro
rassegnato.
“Niente,”
risponde disinteressato, scrollando le spalle, “Anzi, in
realtà me ne stavo andando.”
Posa
un biglietto da dieci dollari accanto alla tazza di caffè e
al bicchiere di succo d’arancia adesso vuoti, e mi rivolge un
veloce sorriso. “Dai a Jer una buona mancia da parte
mia.”
Lo
guardo perplessa mentre si rimette in tasca il portafoglio senza
aggiungere altro.
“Pensavo
…” comincio, ma fortunatamente mi blocco prima di
finire la frase e pronunciare le parole ‘… che fossi qua per me’.
Arrossisco di colpo di fronte alla presunzione di quel pensiero, ma
spero ugualmente che Damon non lo abbia notato.
Speranza
vana, dato che i suoi occhi, attenti ed appena divertiti, guizzano
subito in direzione dei miei. Quel lampo azzurro smonta immediatamente
la mia illusione: sa benissimo cosa ero sul punto di dire.
“Pensavi
…?” mi incalza mentre le sue labbra si piegano in
un vago sottinteso di sfida.
Sostengo
il suo sguardo. Subito mi ritrovo coinvolta in una sorta di battaglia
silenziosa che non ha né un vero motivo né
tantomeno un vero scopo, ma nella quale sappiamo benissimo che nessuno
dei due ha intenzione di cedere per primo.
E’
qualcosa di completamente irragionevole.
Deve
pur esserci, da qualche parte, una via di mezzo, un terreno neutrale
sul quale provare a venirsi incontro per dissolvere questa assurda ed
immotivata tensione che ogni volta finisce per crearsi tra noi.
“Non
deve per forza essere strano, Damon,” rispondo infine.
“Non
lo è.”
Il
suo volto è serio quando, dopo alcuni attimi di silenzio, si
sporge nella mia direzione. Sento una inaspettata accelerazione dei
battiti, quando vengo raggiunta da una lieve traccia del suo profumo.
“Ascolta,
Elena …” prosegue, e c’è
qualcosa, nel modo in cui pronuncia il mio nome, che ha su di me
l’effetto tanti piccoli aghi infilati a forza nel petto.
“Sono passati anni. Quel che è stato è
stato. Siamo entrambi andati avanti ed immagino che siamo anche
abbastanza adulti da poter mettere una pietra sopra a tutto
quanto.”
Gli
aghi affondano un po’ di più, non so se per il
fatto che abbia parlato al plurale o per il fatto di non riuscire
davvero a leggere cosa possa nascondersi dietro a quel suo sguardo
così imperscrutabile.
“Non
mi odi?” domando con cautela.
“Odiarti?”
ripete con fare sorpreso, “Per cosa, quel paio di
appuntamenti senza molta importanza?”
A
quelle parole, sento la pelle sulla nuca rizzarsi, mentre
l’accenno di un ghigno compare sulle sue labbra. Non perdo
neanche tempo a domandarmi come abbia saputo ciò che ho
raccontato ad Elijah, troppo arrabbiata con me stessa per avergli
permesso di arrivare esattamente dove voleva.
“Damon
…”
“Va
bene, non che mi importi,” prosegue. Alza le mani ed
indietreggia allontanandosi da me di un paio di passi.
“E’ il tuo fidanzato, non il mio. Per quel che mi riguarda, puoi
raccontargli tutte le storielle che
vuoi.”
La
rabbia mi monta dentro, insieme ad unirrefrenabile voglia di
prenderlo a schiaffi.
“Mi
dispiace, mi dispiace, mi dispiace!”
Mi
volto di scatto verso Vicky, che entra trafelata nel locale facendo
sbattere la porta alle sue spalle chiudendola con un piede, le mani
impegnate a tirarsi su i capelli in una coda. Getto
un’occhiata all’orologio e noto così che
è in ritardo di almeno mezz’ora.
“Io
…” continua a tentare di giustificarsi, ma finisce
per bloccarsi sui suoi passi non appena si trova davanti Damon e, di
colpo, il suo volto si distende in un sorriso accattivante.
“Ciao,”
gli sussurra, abbandonando il proposito di fermare coda e lasciando
ricadere i capelli liberi sulle spalle scompigliandoseli con una mano.
“Ciao,”
replica Damon, sorridendole di rimando.
“Vicky,”
la chiamo secca, con un’inflessione infastidita dalla quale
tento di far trapelare qualcosa di simile ad una minaccia di
licenziamento.
“Arrivo,
arrivo,” sospira lei, andando a mettersi il grembiule mentre
borbotta qualcosa tra sé e sé.
“Beh,
ci vediamo Elena,” mi saluta Damon con un sorriso leggero,
picchiettando le dita contro il bancone e lasciandomi con la netta
sensazione che, se di una battaglia si tratta, sono io quella che ha
appena perso.
“Verde.”
“Giallo.”
“Non
posso vestirmi di giallo!” sbotta Caroline strappando dalle
mani di Bonnie il campione di stoffa e portandoselo accanto al volto.
“Guarda, sembrerei un uovo sbattuto! Elena, diglielo anche
tu. Non mi farai vestire di giallo, vero? Elena? …”
Sobbalzo
appena quando mi ritrovo davanti la perfetta manicure della mano di
Caroline, che mi sventola davanti agli occhi per cercare di riportare
la mia attenzione sugli scampoli di tessuto che stanno ingombrando il
già piccolo tavolino esterno nella veranda del Grill.
“Non
lo so … azzurro?” butto là afferrando
un rettangolo di raso di una delicata tonalità cerulea e
cercando in extremis di recuperare la pausa pranzo dedicata alla scelta
degli abiti per le damigelle.
“No,
l’azzurro lo abbiamo escluso all’inizio,”
mi ricorda Bonnie. Mi prende lo scampolo dalle mani e lo rimette nel
mucchietto degli scartati dal quale lo avevo preso, mossa che Caroline
approva annuendo vigorosamente con il capo.
“Quest’anno
non è di moda, ne abbiamo parlato solo dieci minuti
fa.”
Sospiro,
sentendomi improvvisamente come accerchiata da un fuoco nemico che non
ho le forze per poter affrontare.
“Sentite,
possiamo rimandare ad un’altra volta?”
“Ma
questa è già la terza volta che
rimandiamo!” protesta Caroline, “Il matrimonio
è tra tre mesi e, di questo passo, neanche io sarei capace
di poter organizzare tutto in così poco tempo!”
“Lo
so,” le faccio sapere, sentendomi in colpa per il tempo che
faccio loro perdere, “E’ solo che penso di essere
un po’ troppo distratta oggi.”
“Cosa
è successo?” mi domanda Bonnie.
Poso
il mento sulla mano e fissò lo sguardo su un punto
imprecisato dall’altra parte della strada, mentre ripenso
agli eventi della mattinata, dalla discussione con Elijah a quella con
Damon, e la giornata mi pare improvvisamente più lunga che
mai.
“Io
ed Elijah abbiamo …” Sto per usare la parola
‘litigato’, ma all’ultimo secondo mi
rendo conto che non abbiamo litigato affatto. Del resto, pensandoci,
litighiamo mai davvero? “… discusso questa
mattina. Di nuovo riguardo Richmond.”
Caroline
e Bonnie si scambiano tra di loro un lungo sguardo, ma non dicono una
parola.
“Cosa?”
domando raddrizzando la schiena, irritata dal loro silenzio complice
alle mie spalle.
“Ok,
questa mi dispiace ma devo dirtela,” risponde Caroline con
piglio deciso.
“Care
…” la richiama Bonnie lanciandole
un’occhiata eloquente, mentre scuote appena la testa per
intimarle di non continuare, cosa che mi innervosisce ancora di
più.
Caroline
la liquida con un gesto della mano e prosegue come se niente fosse.
“Senti, sai come la penso su questa cosa del matrimonio, per
cui sono l’ultima persona che ha interesse nel difenderlo, ma
… Smettila di dire che non puoi andare a vivere
là, o che non puoi lasciare questo posto.”
Caroline
indica il Grill con un ampio gesto della mano, ma come apro la bocca
per cercare di obiettare, lei sta già continuando la sua
lezioncina. “Innanzitutto, Richmond sarebbe a solo qualche
ora di distanza e se lo volessi potresti tornare spesso. E comunque, il
vero punto è che tu odi tutto questo, passare qua quasi ogni
minuto della tua vita, sentire di non avere davvero scelta ... Ok,
forse ʿodiʾ non è la parola esatta, lo so che non lo odi e
che hai i tuoi motivi per sentirti molto legata a questo posto, ma
… sono anni che risucchia tutte le tue energie e ti
impedisce di fare quello che davvero vorresti. Cosa lo stai tenendo a
fare, in ogni caso? Tuo padre non ci mette piede da anni e dubito che
avrebbe intenzione di farlo di nuovo. Jeremy quest’anno ha
finito il liceo, sono sicura che anche lui, se solo tu gliene parlassi
….”
Stringo
con forza un pezzettino di stoffa che mi è capitato sotto le
dita, mentre sento qualcosa, in fondo allo stomaco, bruciare di
più ad ogni sua parola
“E’
questo che pensi?” la interrompo bruscamente.
“Entrambe.
Lo pensiamo entrambe,” ammette scambiandosi
un’altra occhiata con Bonnie che invece si limita a guardarmi
mortificata. “Elena, sul serio, io non capisco
perché tu non …”
“Ok,
basta così” mi alzo di scatto, facendo stridere la
sedia contro l’asfalto. “Ho sentito
abbastanza.”
“Elena
…” cerca di richiamarmi Bonnie, ma davvero non ho
alcuna voglia di starmene seduta a sentir analizzare la mia vita e
giudicare le mie scelte da qualcuno che non sa di cosa sta parlando.
Così,
ignoro anche quel piccolo istinto che sotto sotto si domanda se non ci
sia un fondo di verità in ciò che le mie amiche
mi hanno appena sbattuto in faccia, e le saluto di fretta, adducendo
come scusa l’affollamento di clienti dell’ora di
pranzo.
Quando
rientro, però, noto che la mia scusante non si discosta poi
così tanto dalla realtà: la piccola April Young
è da sola a cercare di stare dietro a tutte le ordinazioni,
mentre di Jeremy, che avrebbe dovuto coprirmi per almeno quella
mezz’ora di pausa, non c’è alcuna
traccia.
“Dov’è
mio fratello, April?” le domando preoccupata.
April
molla due piatti ad un tavolo, scusandosi per l’attesa, e si
volta verso di me.
“L’ho
visto andare nella dispensa circa dieci minuti fa,” mi fa
sapere, mentre con uno sbuffo cerca di scostarsi una ciocca di capelli
neri dagli occhi.
La
ringrazio e vado a fare il giro sul retro del bancone, fino alla porta
di legno e vetro smerigliato che conduce alla piccola stanza adibita a
dispensa di prima necessità. Ma, quando la apro, mi congelo
all’istante.
Dietro
ad ripiano che li nasconde alla vista solo in parte, Vicky sta
ansimando mentre si sorregge con una mano allo scaffale, la testa
all’indietro contro il muro e la gonna arrotolata sui
fianchi, mentre mio fratello …
“Cosa
diavolo state facendo?!” non riesco a trattenermi
dall’esclamare a dispetto della palese ovvietà
della risposta, chiudendo di colpo la porta alle mie spalle per non
rischiare che quello spettacolo raggiunga anche il resto della
clientela.
“Cristo
santo, Elena,” impreca Jeremy tra i denti mentre lascia
andare le gambe di Vicky, che si riscuote ed in fretta si tira
giù la gonna.
Boccheggio,
incapace di articolare frasi compiute in grado di esprimere tutto
quello che mi sta passando per la mente in quel momento.
“Siete
completamente impazziti?! Voi qui ci lavorate! Chiunque avrebbe potuto
vedervi!” continuo, incapace di trattenermi
dall’evidenziare una ovvietà dopo
l’altra.
“Ne
stai facendo una tragedia più grande di quello che
è, ‘Lena …” bofonchia mio
fratello. Almeno ha il pudore di voltarsi mentre si richiude i
pantaloni.
Mi
volto verso Vicky, che se ne sta ancora appoggiata al muro stringendosi
le braccia al petto, e la fulmino con lo sguardo.
“E
lui è appena maggiorenne! Ha almeno sei anni meno di te,
cosa diavolo ti passa per il cervello a portarti a letto-”
“Smettila
di trattarmi come un bambino!” mi interrompe Jeremy con
stizza.
“Ti
tratto come un bambino quando ti comporti da immaturo! E’ un
luogo pubblico, per l’amor del cielo!”
“Beh,
sì, ma a chi non è mai capitato, in fondo
…” si intromette Vicky stringendosi nelle spalle.
Quando torno a girarmi verso di lei e mi trovo davanti la sua
espressione neanche minimamente dispiaciuta, qualcosa scatta e so che
non posso sopportare niente di tutto ciò un solo secondo di
più.
“Sei
licenziata.”
“C-cosa?”
balbetta sgranando gli occhi.
“Non
puoi licenziarla!” esclama Jeremy.
“Certo
che posso ed è quello che sto facendo.” Allungo il
braccio per indicarle la porta. “Adesso.”
Vicky
sposta lo sguardo da me a Jeremy, sconvolta, quindi si porta le mani al
volto e scoppia a piangere, prima di correre verso la porta e di
sbattersela con violenza alle spalle.
Uno
strano silenzio si estende per alcuni secondi in quel piccolo spazio.
Quando torno a guardare Jeremy, mi rendo conto che non ho mai visto mio
fratello guardarmi con tanta rabbia come in questo momento.
“Jer
…” tento, con un tono di voce
più conciliante o forse, semplicemente, più
stanco.
“Cosa?”
scatta lui stizzito, “Hai intenzione di licenziare anche
me?”
Se
ne va dietro a Vicky lanciandomi un ultimo sguardo incollerito, ed io
resto lì, ad appoggiarmi ad occhi chiusi contro la parete,
sentendomi all’improvviso completamente esausta.
“Non ti credo,
Elena,” scosse la testa Bonnie.
Distolsi
lo sguardo dal campo sportivo che ci stava rimandando le grida attutite
dei ragazzi e ragazze nel mezzo dei loro allenamenti e tornai a posarlo
sulla mia amica, seduta una gradinata più in basso della mia.
“Perché
no?” le domandai confusa.
“Perché
…” Si guardò un attimo attorno per
assicurarsi di essere al riparo da orecchie indiscrete e
continuò, sporgendosi nella mia direzione,
“Perché sanno tutti come è fatto Damon
Salvatore, e adesso tu vuoi venirmi a dire che passate molto tempo
insieme solo perché … siete amici?”
“E’
quello che ha detto …”
Bonnie
sembrò sul punto di replicare, ma cambiò idea
quando vide Caroline dirigersi nella nostra direzione e raggiungerci
saltellando sui gradini.
“Dio,
sono morta” esordì Caroline buttandosi sdraiata
sulle gradinate in modo teatrale, con i gomiti appoggiati
all’indietro, “Ed ho un disperato bisogno di una
doccia.”
Mi
sentii attraversare da un repentino, inevitabile, moto di invidia nel
guardarla risistemarsi con cura la divisa da cheerleader che le era
rimasta alzata sulle gambe. Il giorno in cui eravamo entrate entrambe
in squadra, l’anno precedente, era stato uno dei giorni
più felici della mia vita. Ricordavo ancora che, una volta
tornata a casa, mia madre per festeggiare mi aveva preparato i brownies
e che io l’avevo rimproverata perché ingozzarmi di
cioccolato era il modo migliore per farmi subito sbattere fuori. Alla
fine, non erano stati i brownies a sbattermi fuori, quanto una piega
degli eventi che non mi lasciava quasi più tempo per niente,
figuriamoci per cose futili come fare la cheerleader.
“Di
cosa stavate parlando?” chiese Caroline buttando la testa
all’indietro per osservarci e facendo ricadere con grazia i
biondi capelli ondulati oltre le spalle.
“Damon,”
risposi, “E di come, secondo Bonnie, mi stia solo
abbindolando.”
Bonnie
alzò gli occhi al cielo, con fare da martire incompresa.
“Sto solo cercando di metterti in guardia. E’
quello che fa, portarsi a letto le ragazze e poi scaricarle senza mai
prendere niente sul serio. Andiamo, lo sanno tutte.”
“Di
un po’, per caso ci sei andata a letto anche tu e non ci hai
detto niente?” le domandò Caroline dandole dei
colpetti con il piede con aria maliziosa.
Bonnie
arrossì di colpo e sembrò visibilmente a disagio.
“Cosa?
N-no, certo che no,” si affrettò a dire con una
smorfia schifata, “Ma, se proprio vuoi saperlo, mia cugina
Lucy sì, e lui non si è mai più fatto
vivo. Ha passato un mese a piangere. Mia nonna glielo aveva detto di
non fidarsi mai di un Salvatore.”
“E
che cosa ha detto tua cugina?” Caroline si tirò
su, incuriosita, “Voglio dire, è bravo?
E’ … ?” Allargò le mani come
per prendere le misure e soffermò lo sguardo sulla lunghezza
che avevano delineato, scrutandola con fare pensoso
“…. Sì, beh, hai capito.”
“Care!”
esclamai, di colpo imbarazzata dal piacevole solletico tra le gambe
provocato dalle immagini che i discorsi di Caroline mi avevano messo in
testa.
“Cosa?”
replicò lei innocentemente, “La mia è
pura curiosità scientifica. Visto che sposerò suo
fratello, è bene sapere se i geni sono buoni.”
“Tu
non sposerai suo fratello,” ribatté Bonnie con un
lungo sospiro rassegnato.
“Cosa
ne sai?” replicò Caroline tirando su il mento con
aria risoluta, “Non sei mica una veggente.”
“Non
ci vuole una veggente per certe cose,” le fece
notare l’altra, “Innanzitutto, Stefan sta con Lexi,
nel caso te ne fossi dimenticata …”
Caroline
allungò la lingua in una boccaccia disgustata al nome della
biondissima (finta, a suo dire) capo-cheerleader che lei stessa aveva
ribattezzato ‘faccia da furetto’.
“…
Seconda cosa, non gli hai neanche mai rivolto la parola.”
Dovetti
convenire che Bonnie non aveva tutti i torti. La disinvoltura con cui
Caroline si informava “scientificamente” era pari
solo alla sua totale incapacità di articolare suoni ogni
volta che se lo trovava davanti. Una volta che lui le aveva sorriso
dopo un allenamento, era andata in un tale stato di shock che non aveva
più spiccicato parola per tutto il giorno. Con nessuno.
“Ci
sto lavorando,” sorrise Caroline, facendo dondolare un piede
nell'aria, per nulla scalfita dal pessimismo
dell’altra mia amica, “Abbi un po’ di
fede.”
“Io
devo andare,” annunciai a malincuore iniziando a raccogliere
le mie cose, dopo aver dato un’occhiata all’ora che
segnava già quasi le due, ovvero il momento di andare a
prendere Jeremy dopo la scuola.
Salutai
le mie amiche e mi allontanai, con la mente affollata dalle
insinuazioni di Bonnie su Damon e dal pensiero che potesse avere
ragione su di lui. In fondo, perché con me avrebbe dovuto
essere diverso rispetto ad una Lucy, una Kirstie o una Alison?
La
risposta, forse, era più facile di quanto pensassi: se
davvero Damon era diverso con me, era semplicemente perché
non mi guardava come qualcuna degna di quel genere di interesse. A
dispetto della piccola fitta che mi causò quel pensiero, era
comunque qualcosa che avrei potuto farmi andare bene. Ciò
che non avevo confessato a Bonnie e Caroline, infatti, era che mi
piaceva passare del tempo con Damon. C’era qualcosa, nello
stare in sua compagnia, che in quei momenti mi faceva dimenticare di
tutto il resto, qualcosa a cui non ero pronta a rinunciare.
Ma,
fu proprio quel ʿqualcosaʾ ciò che vidi infrangersi davanti
ai miei occhi quando, una volta arrivata al Grill insieme a Jeremy,
trovai Damon dietro al bancone, intento a sorridere e servire dei
frullati rosa a due ragazze che ridacchiavano e se lo mangiavano con
gli occhi.
Anche
se non potevo sentire cosa stavano dicendo, il mezzo sorriso malizioso
che stava rivolgendo loro era abbastanza eloquente da farmi invadere da
una sconosciuta sensazione di rabbia, verso lui e verso quelle due, che
per un attimo quasi mi fece dimenticare la vera ragione del mio shock
iniziale.
Cosa
diavolo ci faceva Damon dietro al bar?
Mi
tornò alla mente la richiesta che mi aveva fatto solo
qualche giorno prima e sentii il panico strozzarmi il respiro, mentre
realizzavo che se Damon fosse entrato a far parte di quel frangente
della mia vita - quello incasinato e complicato, che riuscivo a
malapena a tenere insieme in un quanto mai instabile equilibrio
– sarebbe stata la fine di tutto. Perché se Damon
avesse visto fino in fondo l’entità degli infiniti
casini di cui dovevo occuparmi su basi quotidiane, se ne sarebbe andato
alla velocità della luce. Nessuno, amici o non amici,
avrebbe mai voluto essere coinvolto in quel genere di problemi,
tantomeno uno, come lui, sempre così menefreghista nei
confronti di tutto e di tutti.
Ero
ancora ferma vicino alla soglia quando Damon si voltò nella
mia direzione e, dopo aver incrociato il mio sguardo, si
allargò in un sorriso soddisfatto, ignaro dei pensieri che
in quel momento mi stavano passando la testa.
Dissi
a Jeremy di andare in cucina per chiedere a Jenna di preparargli
qualcosa da mangiare, insistendo contro le sue proteste di voler andare
a casa a giocare con la Playstation, e, non appena mio fratello
filò via sbuffando, presi il coraggio a due mani e mi
diressi verso Damon.
Passai
dietro al bancone, lo afferrai per un polso e lo trascinai nella
piccola dispensa che si apriva sul retro, chiudendo la porta alle
nostre spalle con un colpo secco.
“Cosa
pensi di fare qui?”
Damon
mi guardò come se fossi diventata stupida tutto
d’un colpo.
“Ci
lavoro.”
“Tu
non puoi lavorare qui.”
“Perché
no?”
“Perché
non puoi!”
“Beh,
tuo padre ha detto che posso, ci ho parlato questa mattina.”
Mi
sentii sbiancare al solo pensiero.
“Hai
parlato con mio padre?” chiesi nervosa, senza poter fare a
meno di domandarmi, se fosse sobrio o meno, ed in caso contrario cosa
mai avrebbe potuto dire a Damon o cosa potrebbe aver pensato
…
“Ovvio
che ho parlato con tuo padre,” replicò roteando
gli occhi al cielo, “Chi altri avrebbe dovuto assumermi?
Ascolta, Elena, non so cosa ti sia preso ma questa cosa mi sembra
piuttosto ridicola, perciò io adesso torno di là
e-”
Nell’attimo
in cui mosse un passo verso la porta, d’istinto allungai una
mano contro il suo petto per bloccarlo dall’andare oltre. Fu
così che mi ritrovai all’improvviso stretta tra la
porta chiusa ed il suo corpo.
Sentii
il mio battito iniziare ad accelerare quando la mia mano
scivolò appena di un centimetro verso il basso,
permettendomi di percepire sotto alle dita la consistenza dei suoi
muscoli tesi sotto la fine maglietta di cotone.
Lo
sguardo di Damon si spostò sulla mia mano, ferma sul suo
torace. Quando si sollevò di nuovo, c’era qualcosa
di diverso nei suoi occhi, nel modo in cui si soffermarono insistenti
sulle mie labbra, qualcosa che mi fece schizzare il cuore a mille e
sembrò far scomparire immediatamente tutta l’aria
dalla piccola stanza.
Ritirai
la mano dal suo petto di scatto, come se mi fossi appena scottata.
“Beve.
Molto,” dissi tutto d’un fiato, arretrando di un
passo mentre Damon corrugava la fronte come nel tentativo di
capacitarsi di cosa stessi parlando, “Da quando mamma
è morta, a volte penso che non faccia altro. Scompare per
ore, a volte per l’intera giornata, in altri bar oppure di
là nello studio, arriva alla sera che non si regge in piedi.
Negli ultimi mesi si sono licenziati in cinque, perché ci ha
litigato, o perché hanno avvertito quanto le cose stiano
andando male.”
Deglutii
a fatica quando terminai di parlare, rendendomi conto che quella era la
prima volta che ammettevo una tale cosa ad alta voce, di fronte a
qualcuno così come di fronte a me stessa.
“Io
…” iniziò Damon con la voce rauca, come
se avesse la bocca secca, “Non lo sapevo.”
Distolse
lo sguardo, ma intravidi lo stesso qualcosa di molto simile al panico
farsi strada nei suoi occhi.
“Ma
hai ragione …” continuò, mentre si
scioglieva in fretta il grembiule verde e me lo metteva in mano.
Allungò l’altro braccio verso la porta e la
aprì per andarsene, fingendo di non aver neanche notato il
fatto che io fossi sull’orlo delle lacrime. “Non
posso lavorare qui.”
Quando arrivo alla fine di questa lunga giornata, il bilancio economico
è probabilmente uno dei migliori dell’ultimo mese.
Il bilancio personale, invece, preferisco lasciarlo perdere.
Jeremy
ancora si rifiuta di parlarmi e, conoscendolo, quasi sicuramente
stanotte non tornerà neanche a casa e si fermerà
piuttosto a dormire da uno dei suoi amici, se non dalla stessa Vicky.
Ho
tre messaggi di scuse da parte di Caroline, che mi fanno sentire ancora
più in colpa nei suoi confronti e per il modo in cui
l’ho trattata. Rispondo che mi dispiace, e la invito per un
caffè il giorno successivo.
Con
Elijah riesco a sostenere una breve conversazione, qualcosa di non
troppo impegnativo, che non va a sfiorare nessun argomento cruciale ma
che, tuttavia, non riesce nell’intento di farmi sentire
meglio.
Sono
quindi praticamente in una più che precaria condizione
emotiva quando mi fermo per una precedenza all’incrocio che,
svoltando a sinistra, porta verso casa Salvatore.
L’attimo
dopo, è nel loro vialetto di ingresso che mi ritrovo a
fermare la macchina e spegnere il motore, osservando le luci ancora
accese al piano inferiore.
Non
so cosa penso di fare o di ottenere, mentre mi avvicino
all’ingresso con la ghiaia che scricchiola piano sotto ai
miei piedi. So solo che se non fosse stato per Damon, ed i suoi
consigli del cavolo, non mi sarei ritrovata in quella situazione con
Jeremy; se non fosse stato per Damon, non avrei mentito ad Elijah su
qualcosa che in teoria non dovrebbe avere alcuna importanza.
E’
come se, nell’attimo in cui Damon torna nella mia vita, io
iniziassi a perderne il controllo. Ed io non posso, non voglio,
permetterglielo. Su questo, devo essere chiara.
Il
suono del campanello si perde in alcuni minuti di attesa. Tanto che ho
sto quasi per cambiare idea ed essere pronta ad andarmene, quando lo
stridio con cui si apre il portone ed il cono di luce che disegna sul
pavimento del portico mi fanno voltare di nuovo.
“Elena?”
mormora Damon confuso.
C’è
una certa stanchezza nel suo volto e nelle sue linee, che non sembra
attribuibile solo all’ora tarda della sera, ma, forse, a
qualcosa di più profondo.
Rimango
ad osservarlo per un lungo momento, ed è strano. Ogni
fastidio che credevo di provare nei confronti della sua presenza
svanisce, lasciandomi solo il resto, un vuoto a cui non voglio dare un
nome. Ed io realizzo che non ce l’ho con lui per il fatto di
essere qui, quanto per tutte le volte che invece non
c’è stato.
Damon
continua a guardarmi con aria interrogativa. E’ in attesa di
una mia reazione, o di sentirmi spiegare cosa ci faccio alla sua porta
alle due di notte.
“Ho
mentito perché era più facile,” butto
fuori infine. “Più facile che parlargli di te e,
soprattutto, di come un giorno hai deciso di andartene e
non esserci più per me. Perché le cose non
possono essere facili, almeno per una volta?”
Un’ombra
passa sul suo viso, semi-illuminato dalla luce artificiale
dell’ingresso che rischiara il buio del portico, mentre mi
scruta in silenzio. Si stringe le braccia al petto e si appoggia contro
lo stipite della porta, senza rispondere.
“Perché
sei qui?” mi chiede invece.
Mi
scosto una ciocca di capelli dagli occhi, prendo tempo. Ma, mentre sto
ancora cercando di capire io stessa la risposta a quella domanda, dei
fari nel vialetto ci distraggono entrambi.
Strizzo
gli occhi nei confronti della luce accecante, che muore lentamente
quando il motore dell’auto viene spento.
Stefan
esce dalla macchina e rallenta il passo non appena mi nota, aggrottando
la fronte perplesso.
“Elena.
Cosa ci fai qui, è successo qualcosa?”
La
sua domanda però non è neanche davvero rivolta a
me, visto che il suo sguardo corre subito verso quello del fratello.
Damon scuote appena la testa e, come se ciò non bastasse
già a farmi sentire improvvisamente molto stupida, il
silenzio gelato che cala subito dopo è abbastanza per
comunicarmi che la mia presenza lì non è gradita.
“No.
In realtà, me ne stavo andando,” mi affretto ad
aggiungere, “Buonanotte, Damon. Stefan.”
Scendo
in tutta fretta i tre scalini del portico e mi infilo di nuovo nella
mia auto.
Quando
riparto, mi rendo conto che forse è un bene che
quell’interruzione mi abbia impedito di andare fino in fondo
con ciò che avrei potuto finire col dire.
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Capitolo 6 *** Somebody I don't know ***
5.efp
5.
Somebody
I don’t know
- I don’t remember, were
we wild and young
All that’s
faded into memory,
I feel like somebody I
don’t know,
Are we really who we
used to be
Am I really who I was
–
(Ryan
Adams – Lucky
Now)
Damon
La casa è avvolta in un luce fredda ed un silenzio quasi
irreale quando scendo in cucina a prepararmi abbastanza
caffè per rimediare alle tre ore scarse di sonno che sono
riuscito a mettere insieme.
Mentre attendo che la bevanda finisca di prepararsi, mi dirigo
ad aprire dal suo involucro il piatto posto in bella vista sul ripiano
di marmo grigio. Scanso il bigliettino che lo accompagna, sul quale
leggo distrattamente un paio di frasi abbinate ad una C svolazzante, ed
addento uno degli invitanti croissant salati che si trovano al suo
interno, iniziando a leggiucchiare il giornale di ieri che ho trovato
abbandonato su un angolo del tavolo.
“Buongiorno, Stef,” esordisco ad alta voce
poco dopo aver buttato giù l’ultimo boccone,
quando i passi alle mie spalle mi annunciano l’entrata di mio
fratello nella stanza. “Caroline manda tutto il suo
amore,” gli faccio sapere porgendogli il bigliettino che lui
mi strappa bruscamente dalle dita.
“Quella era la mia colazione,” replica
irritato.
Mi stringo nelle spalle e sfoglio un’altra pagina.
“La prossima volta dovrebbe mandare una razione
doppia.”
“Quella era
una razione doppia.”
“Caffè?” domando offrendogli la
caraffa con un sorriso.
Mi lancia un’altra occhiataccia mentre me la prende
dalle mani e, in silenzio, inizia a versarsi il liquido bollente in una
tazza.
“Cosa ci faceva Elena qua, ieri notte?”
domanda talmente di punto in bianco da farmi irrigidire.
Mi concentro su un interessantissimo articolo riguardo ad un
progetto per migliorare l’afflusso di traffico
sull’interstatale, e rispondo in tono asciutto,
“Non ne ho idea.”
Sorprendentemente, non sto neanche mentendo, ma il
“mmh” scettico di mio fratello, insieme al
movimento della testa con cui alza lo sguardo verso di me, mi
suggerisce che non mi crede neanche per un istante.
“Se hai qualcosa da dire, dilla e basta,
Stef.”
Stefan serra le labbra in una linea sottile, ma dopo un attimo
di esitazione scuote la testa e torna al suo caffè come se
niente fosse.
“No, niente.”
“Bene,” ribatto chiudendo il giornale e
posando la mia tazza ormai vuota. “Volevo avvisarti che
domani parto e starò via almeno qualche giorno,”
lo informo, “Ho bisogno di tornare ad occuparmi di alcune
cose insieme a Ric.”
“Non puoi partire domani,” protesta subito
squadrandomi accigliato, “C’è
l’inaugurazione della mostra per l’anniversario
della Fondazione.”
“Dovrebbe importarmi?” domando sarcastico.
“Sì che dovrebbe,”
risponde deciso. “Ti avevo detto che alcuni
azionisti sono preoccupati per la situazione. Sei stato via
così a lungo che non sanno neanche chi sei, vogliono
rassicurazioni, e tu avevi promesso che saresti venuto per incontrarli.
Non puoi tirarti indietro all’ultimo momento.”
Cazzo. Avevo completamente dimenticato. Ric mi avrebbe ucciso.
“Ok, cercherò di spostare il volo e
partire tra un paio di giorni,” concedo con un sospiro,
sempre più fermamente convinto che prima mi libero di tutta
questa storia, meglio è per tutti.
“Qualcos’altro?”
Quando vedo che mio fratello tentenna incerto, capisco che non
è ancora finita e lo incito con lo sguardo a sputare il
rospo. Si passa una mano tra i capelli e mi invita a seguirlo nello
studio.
Si dirige con sicurezza verso la scrivania attraversata da un
fascio di luce che entra dalla finestra alle sue spalle, si siede sulla
poltrona e si china per aprire un cassetto. Per un attimo, vedo
così tanto di mio padre nelle sue movenze da sentire un peso
scendermi sullo stomaco.
“Stavo mettendo a posto le cose di papà
ieri … E ho trovato questa.”
Mi porge una busta bianca, dal taglio orizzontale, sopra la
quale, in una calligrafia che riconosco fin troppo bene,
c’è scritta solo una parola: il mio nome. Lo
guardo confuso, mentre la prendo e me la rigiro tra le mani qualche
secondo. Il lembo superiore è richiuso, infilato con
attenzione in quello inferiore, ma non è sigillato.
“L’hai letta?” mormoro, pur
conoscendo già la risposta.
Stefan si limita a scuotere la testa.
Quel peso fastidioso ritorna a farsi sentire, quando infine la
apro e ne tiro fuori due fogli, anch’essi scritti a mano, che
dispiego quel che tanto che basta per leggere soltanto la data,
risalente a circa due mesi fa, e di nuovo il mio nome come prima
parola.
Tutto il resto, lo ignoro. Con la bocca inaridita come se mi
ci avessero buttato del cemento a presa rapida, ripiego tutto e lo
rimetto dentro così come lo avevo trovato, quindi con un
lancio secco e preciso la getto nel cestino.
“Che cosa fai?” esclama Stefan stupefatto
alzandosi in piedi per andare a recuperarla. “Non la leggi?”
“No.”
“Papà l’ha lasciata per te.
Non vuoi
sapere cosa aveva da dire?”
“No.”
Stefan mi lancia uno sguardo colmo di shock e disapprovazione,
ma quando apre la bocca per parlare, lo precedo senza pensarci due
volte.
“Voglio essere chiaro, Stef. Ci sarò
domani ad incontrare questi azionisti, e prometto che farò
tutto quello che posso per aiutarti ad uscire da questa situazione. Non
appena le cose andranno meglio, ti venderò tutte le mie
partecipazioni e mi tirerò fuori da tutta questa faccenda,
completamente.”
“Damon, non puoi-”
“Se tu ci tieni tanto, avanti, fai pure,”
lo esorto con un gesto in direzione della lettera che tiene stretta tra
le mani come se fosse un preziosissimo cimelio o la custode di
importanti verità nascoste. “Leggila, tienila,
bruciala, facci gli origami. Non potrebbe importarmene di
meno.”
Deluso. Incazzato. Imbronciato. Anzi, una magnifica combinazione di
tutte e tre cose, come solo lui sa fare. Questo è lo Stefan
con il quale il giorno seguente metto piede sul prato addobbato a festa
di villa Lockwood, dal che ne deduco che forse l’incidente
della lettera non gli passerà tanto facilmente.
“Torno subito,” mi annuncia in tono
asciutto non appena scorge la sua ragazza in lontananza.
Lo guardo quindi allontanarsi in direzione di Caroline, che
tutta indaffarata scompare e riappare ad intermittenza tra la folla,
quasi seguendo il ritmo cadenzato ma vivace del quartetto
d’archi impegnato ad offrire una musica d’ambiente.
In effetti, solo una ricca vedova con un lungo curriculum in
organizzazione eventi, diventata sindaco più per
popolarità che per effettive competenze, poteva fare di una
cosa tanto banale come una mostra storica un avvenimento
così sfarzoso ed importante per l’intera cittadina.
Mentre mi guardo intorno per valutare esattamente la portata
di a che cosa sto andando incontro, non posso fare a meno di chiedermi
se anche Elena sia presente. La risposta mi balza davanti agli occhi
quando la intravedo nel suo vestitino da cocktail color blu notte,
intenta a parlare con la sua amica Bonnie. Ma prima che io abbia il
tempo di capire se ciò comporti anche la presenza di un
esemplare di impeccabile fidanzato nascosto da qualche parte nei
dintorni, vengo fermato ed incastrato da una coppia di mezza
età che si presenta come Douglas e Honoria Fell.
Per i successivi venticinque minuti è tutto un
susseguirsi di commenti di circostanza sulla bella persona che era mio
padre, inframmezzata da non troppo casuali domande personali che eludo
distribuendo monosillabi e sorrisi tirati. Quando infine riesco a
congedarmi e penso di essere sopravvissuto, faccio a malapena in tempo
a voltarmi che, per puro caso, vengo raggiunto dal commento sussurrato
da Honoria a quell’altro coglione del marito, “Non
mi stupisce che per tutto questo tempo se ne sia andato senza porsi
alcun problema, probabilmente è perché
è identico a sua madre. Ancora non mi capacito di come
quella donna abbia potuto lasciare così due bambini ancora
piccoli …”
Vedo un bicchiere pieno di bollicine dorate e non ci penso due
volte ad afferrarlo e buttarlo giù in un sorso, tanto per
costringermi a non voltarmi e contro ribattere.
“Ehi!” mi sento richiamare,
“Quello era il mio bicchiere.”
Lascio il bicchiere ormai vuoto su un tavolo lì
vicino e giro lo sguardo sulla donna accanto a me che, con le braccia
incrociate in una posa sinuosa, mi scruta con un divertito accenno
intimidatorio negli occhi castani.
“Desolato,” le sorrido osservando la sua
figura, decisamente attraente, “Posso offrirtene un altro per
rimediare?”
“I drink qua sono gratuiti,” scuote appena
la testa, anche se la leggera piega delle sue labbra mi suggerisce che
è più che compiacente di stare al gioco.
Mi avvicino di un passo e replico in un fare più
allusivo, “Non ho mai detto di volertelo offrire
qua.”
Lei ride piacevolmente della mia proposta.
“Wow, di sicuro non perdi tempo, signor …
?”
“Damon Salvatore,” mi presento, piegando
appena la testa a simulare un inchino.
“Beh, Damon, io sono Andie,” sorride di
rimando, “Andie Starr.”
“E cosa mai ti porta in questo posto, Andie
Starr?”
Si guarda intorno e sospira con fare rassegnato.
“Sono una giornalista. Sono qua per un servizio sulla
mostra.”
“Mmh, sembra …”
“Da suicidio?” finisce lei per me.
“Esattamente. Ma sai come vanno queste cose … Una
ragazza va a studiare giornalismo sognando la Casa Bianca ed invece si
ritrova a coprire mostre di antiquariato.”
“E’ terribile, davvero, hai tutta la mia
solidarietà,” le faccio sapere partecipe. Proseguo
sporgendomi verso di lei in tono complice, “Ma se vuoi posso
rivelarti tutti gli sporchi segreti dei membri che l’hanno
organizzata.”
“Sono tutta orecchie.”
Mi avvicino a lei fino quasi a sfiorarle i capelli biondo
scuro mentre, indicando un punto a qualche metro da noi, le sussurro
vicino all’orecchio, “Vedi quella donna, Honoria
Fell … In questo momento, si sta vantando di tutti i
complimenti che riceve per il suo rinomato chili, che ogni volta vince
tutte le competizioni culinarie. Solo che non lo fa davvero lei, ma
viaggia di nascosto per andare a prenderlo in una rosticceria di
Whytheville.”
Andie mi guarda con aria grave. “Ma è
scioccante.”
“Lo so, vero?”
Si distende in un sorriso divertito. “Te lo sei
appena inventato, non è vero?”
Mi stringo nelle spalle, e rispondo con un sogghigno ambiguo.
“E cosa porta te, in questo posto, Damon
Salvatore?”
“Direi un karma con un pessimo senso
dell’umorismo,” rispondo con una leggera smorfia.
“Miss Starr!” Entrambi ci voltiamo in
direzione del galoppino vestito a festa che è arrivato alle
nostre spalle. “La signora Lockwood è pronta per
quell’intervista e la sta aspettando.”
“Arrivo subito,” annuisce Andie, prima di
tornare a rivolgersi verso di me, ““Beh, Damon,
è stato un vero piacere, ma sfortunatamente il dovere mi
chiama. In ogni caso …” tira fuori un piccolo
blocco dalla borsa e ci scribacchia sopra qualcosa, lo piega e quindi
me lo porge tenendolo tra due dita. “… qua
è dove puoi trovarmi. Sai, se hai altri scoop da rivelarmi,
o se vuoi fare ammenda per il drink che mi hai rubato.”
Accetto il foglietto con un sorriso ed un cenno del capo e me
lo infilo in tasca.
Non appena Andie si allontana spostandosi dalla mia visuale,
è Elena a comparirvi di nuovo. Bonnie le sta ancora
parlando, ma il suo sguardo è adesso fisso su di me, le
sopracciglia appena increspate in un’indecifrabile
espressione. La vedo interrompere la sua amica posandole una mano sul
braccio e, per un fugace attimo, ho l’impressione che stia
per venire verso di me.
Non lo saprò mai, perché proprio in quel
momento mio fratello mi si para davanti accompagnato da un
tizio calvo e con i baffi si presenta come Peter Cartwright,
azionista n.1.
Afferro un altro bicchiere da un cameriere di passaggio. Il
circo è soltanto appena cominciato.
“Mi aspetto di
vederti qui dalle tre alle otto ogni pomeriggio, il sabato dalle dieci.
La cosa più importante da tenere d’occhio sono i
taccheggiatori, quelli ti fregano in tutti i modi, e se fregano
qualcosa sotto al tuo naso io te lo tolgo dallo stipendio. Per il
resto, se qualcosa è fuori posto basta che la rimetti dove
deve stare, secondo il genere e ordine alfabetico. E’
abbastanza a prova di stupido. Tutto chiaro?”
Il mio nuovo capo si
voltò verso di me dopo aver finito di illustrarmi
sbrigativamente ciò che mi sarei dovuto aspettare dal mio
nuovo lavoro nel suo negozio di musica. Distolsi in fretta lo sguardo
dal suo sedere, perfettamente racchiuso in un paio di stretti pantaloni
di pelle.
“Chiarissimo,
Rosemarie,” replicai prontamente con un sorriso.
Quando si
allungò sopra il bancone che fungeva da cassa per sporgersi
nella mia direzione, dovetti fare ricorso a tutta la mia concentrazione
per non far cadere lo sguardo sul ghirigoro di un tatuaggio che
sporgeva dalla sua scollatura, vicino alla linea della clavicola.
Rimasi invece inchiodato sul posto dai suoi occhi verde chiaro.
“E
non chiamarmi mai più Rosemarie, o ti rompo tutte le dita ad una
ad una,” mi ammonì in uno tono basso e minaccioso
che trovai assurdamente eccitante. “Rose va più
che bene.”
In risposta, le sorrisi di
nuovo, questa volta cercando di risultare un po’
più accattivante, ma tutto ciò che ottenni fu una
risata divertita.
“Hai il tuo
fascino, bel faccino, ma non saresti mai capace di reggere con una come
me. Riservalo per la clientela, magari ne attiri un po’ di
più. Questo mercato fa schifo.”
Rose aveva ragione, quel
mercato faceva schifo e quelli che entravano in negozio per comprare
davvero qualcosa non erano altro che una ristretta cerchia di fedeli
appassionati, facilmente individuabili. Il resto della gente che andava
e veniva era composta per lo più da curiosi che frugavano,
passavano lì una buona mezzora, lasciavano tutto fuori posto
e se ne andavano senza aver concluso niente.
Di conseguenza, di cose da
fare ce ne erano ben poche. Il che non era poi così male, se
si considerava che mi permetteva di passare buona parte del mio tempo a
cazzeggiare, ascoltandomi sempre qualcosa, giocando a poker su
internet, o, se proprio mi sentivo in vena e Rose non era nei paraggi,
andando a strimpellare un paio di note su un vecchio pianoforte a muro
in fondo alla sala che nessuno si filava di striscio.
I soldi pure non erano
molti, ma ne avevo più che mai bisogno da quando
un’altra litigata con mio padre sulla annosa questione
college, più violenta delle precedenti, mi aveva portato in
un impeto di rabbia ad andarmene di casa, spergiurando che non ci sarei
più tornato. Giuramento purtroppo durato ben poco, dal
momento che, solo due giorni dopo, quell’altro idiota del mio
amico Mason mi aveva fatto sapere neanche troppo gentilmente che era il
caso di sloggiare da casa sua, io avevo scoperto che
l’affitto di un qualsiasi buco di monolocale si sarebbe
mangiato l’intero stipendio di un lavoro part-time, e Stefan
era infine riuscito a mediare un compromesso tra me e mio padre che mi
aveva convinto a ritornare prendendo dimora nella dependance ai margini
della villa.
Mio padre aveva comunque
preteso che gli pagassi un piccolo affitto, ma almeno quello potevo
permettermelo e, se non altro, mi evitava di incrociarlo su basi
giornaliere, cosa che già di per sé mi sembrava
una grande vittoria.
Ma ogni volta che passavo
davanti al Mystic Grill, c’era sempre quel nodo alla bocca
dello stomaco che non c’era alcun modo di far andare via.
Azionista n.4 è il momento in cui decido che contare sui
bicchieri di champagne di passaggio non è più
abbastanza per poter arrivare alla fine della giornata. Fortunatamente
non è poi così difficile distrarre
un’addetta al catering quel tanto che basta per procurarsene
una bottiglia piena, direttamente dal secchiello del
ghiaccio, ed approfittare di un momento di disattenzione da parte di
Stefan per ritagliarmi un più che meritato momento di pausa
da tutta quella manfrina.
Trovo il posto perfetto sul retro della villa, accanto ad
un’entrata secondaria riservata dalla quale passano solo
camerieri e altro personale di servizio. Alcuni di loro mi gettano
occhiate incuriosite quando mi allento la cravatta, butto a terra la
giacca e mi siedo direttamente sul prato a sorseggiare dalla bottiglia
che ho sgraffignato. E’ comunque troppo poco alcolico
rispetto a ciò che avevo in mente, ma in mancanza di altro
decido di farmelo andare bene.
Ciò che conta è che il resto del
ricevimento è abbastanza lontano da permettermi di restare
indisturbato a godere di un po’ di santa pace.
“Ecco dov’eri finito.”
Riapro gli occhi che avevo socchiuso per ripararli dalla luce
e sollevo di un poco la testa dal muro contro il quale
l’avevo appoggiata. In controluce, Elena è in
piedi di fronte a me, ad osservarmi con le braccia conserte come una
maestrina che ha appena sorpreso un suo alunno a fare qualcosa di
sbagliato. Peccato per lei che quell’espressione di vago
rimprovero sul suo viso sia troppo adorabile per poter davvero mettere
in soggezione chiunque.
“Stefan ti sta cercando ovunque,” aggiunge.
“Ed ha mandato te?” domando diffidente.
“No, io …” scrolla le spalle,
“L’ho solo sentito parlare con alcune persone.
Qualcuno che dovresti incontrare?”
“Lascia che ti riveli un segreto
…” le dico abbassando la mia voce per imitare un
tono cospiratorio. “E’ esattamente questo il motivo
per cui me ne sto qui.”
Scuote la testa e si lascia scappare un accenno di sorriso.
Sono però del tutto impreparato quando,
d’un tratto, si alliscia la gonna e si siede
sull’erba accanto a me. Il vestito le si solleva un
po’ di più sulle cosce nude quando rannicchia le
gambe di lato incrociando le caviglie, ma il momento che veramente
rischia di confondermi la testa già un po’
annebbiata dagli effetti dell’alcol frizzantino è
quello in cui, complice un soffio di vento, vengo raggiunto da una
traccia del suo profumo. Non ho mai incontrato nessun’altra
in grado di rendere così sensuale con un semplicissimo e
delicato profumo di fiori.
Continuo ad osservarla sconcertato mentre distende le braccia
all’indietro per sorreggere il busto, del tutto incurante,
come solo una ragazzina potrebbe esserlo, di sporcarsi con
l’erba il suo bel vestito. E, per un attimo, penso che forse
è proprio ciò che ancora siamo entrambi, a
dispetto degli abiti più ricercati e di tutto ciò
che c’è stato tra quel momento e le memorie che mi
riporta alla mente.
“Il tuo piano di mimetizzazione include anche la
necessità di berci sopra?” mi domanda indicando la
bottiglia al mio fianco con un cenno della testa.
“Abbastanza direi, sì.”
“L’ubriacatura diurna non è il
tuo look più attraente.”
“E sentiamo, qual è il mio look
più attraente?” la provoco con un mezzo sorriso
mentre poso un gomito sul ginocchio e mi allungo un po’ di
più verso di lei.
“Guarda che non sto dicendo che ne hai uno
…” replica accennando un altro leggero sorriso,
“Solo che questo non è quello che
preferisco.”
Giusto, penso appoggiandomi di nuovo all’indietro
contro il muro con lo sguardo fisso davanti a me, mentre mi do
mentalmente del coglione. Scommetto qualsiasi cosa che il perfetto
Elijah non si sarebbe fatto trovare ubriaco dalla ragazza con il padre
con una storia di alcolismo. Ma, del resto, ci deve essere un motivo se
lui se la sta per sposare ed io spreco il mio tempo a nascondermi da un
gruppo di azionisti durante una stramaledetta mostra di antiquariato.
“Damon …”, mi richiama,
“… Stai bene?”
“Una favola, Elena, grazie per averlo
chiesto.”
“Tuo padre è morto da poco e tu ancora ti
comporti come se niente fosse successo. Non stai bene.”
Questa volta accuso il colpo e torno a guardarla. La luce
pomeridiana le crea un riflesso leggermente ramato sui capelli castano
scuro, una cui ciocca le è appena sfuggita dalla treccia
laterale. Resisto all’impulso di allungare le dita per
scostarla dietro al suo orecchio e, tre secondi dopo, è lei
a farlo da sola al posto mio.
“E tu pensi di sapere come sto perché
…” la incalzo quindi sarcasticamente.
“Ti conosco,” ribatte convinta, ma capisco
che l’ha detto d’istinto e che probabilmente se ne
è pure pentita, perché distoglie lo sguardo
nell’attimo in cui i nostri occhi si incontrano e subito
aggiunge, “E perché Caroline non ha ancora
imparato a tenere per sé le sue opinioni.”
“Chissà perché non mi
sorprende,” commento, ed entrambi facciamo finta che la prima
parte della frase non l’abbia neanche pronunciata.
“Ascolta …” prosegue dopo
qualche attimo di silenzio, “Mi dispiace per
l’altra sera. E’ stato sbagliato da parte mia
presentarmi a casa vostra in quel modo, nel mezzo della notte, non so
cosa stessi pensando di ottenere.” Con una mano sta adesso
torturando un filo d’erba, torcendolo a suo piacimento.
Un’ombra le passa sul volto quando questo infine le si spezza
tra le dita. “Ma mi piacerebbe davvero se riuscissimo ad
essere in buoni rapporti. Insomma, voglio che tu sappia che, anche se
è passato tanto tempo, vorrei ancora esserti amica e che, se
hai bisogno di qualcuno con cui parlare … sai dove
trovarmi.”
Raddrizzo la schiena e mi sporgo verso di lei. Questa volta i
suoi occhi rimangono fermi nei miei, probabilmente proprio
perché vuole che io vi legga la sincerità dei
suoi buoni propositi. E quasi sicuramente è colpa
dell’alcol che mi ha già dato alla testa e mi fa
immaginare cose che non ci sono, ma, sfortunatamente per lei, vedo
qualcos’altro nella sua gentile proposta.
“Sei felice?”
Elena corruga le sopracciglia per la sorpresa e si ritrae,
come presa alla sprovvista dalla mia domanda sbucata dal nulla. Non
impiega molto a mettere su un altro sorriso e ad annuire stringendosi
nelle spalle.
“Non ho alcun motivo per non esserlo.”
“Non è quello che ti ho
chiesto.”
Esita per un breve attimo. Infine scuote la testa e si alza,
scrollandosi di dosso la conversazione con la stessa tenacia con cui si
scuote i fili d’erba dal vestito.
“Dovresti tornare da Stefan. E’
preoccupato per te.”
Mi alzo anch’io facendo leva contro il muro che mi
aiuta a non vacillare. Elena mi sta già precedendo di un
paio di passi, quando infine raccolgo la mia giacca e la seguo senza
aggiungere altro.
Facciamo appena in tempo a risbucare nel prato principale che
Stefan ci punta subito come un falco cacciatore.
“Io dovrei andare,” mormora Elena, mentre
mio fratello inizia a venirci incontro a passi decisi. “Ma
Damon … Intendevo quello che ho detto.”
Mi getta un ultimo sguardo e mi saluta con un breve cenno. La
osservo allontanarsi finché non vengo raggiunto dalla voce
di Stefan, che mi scruta con un’espressione ancora
più seria del solito.
“Cosa significa?” mi domanda indicando
Elena con la testa.
“Niente.” Scrollo le spalle.
“Andiamo a fare quello che c’è da
fare.”
Ma mio fratello mi blocca la strada con un braccio e mi si
para davanti, costringendomi ad alzare lo sguardo su di lui.
“Non farlo,” mi ammonisce.
“Fare cosa?” domando irritato.
Stefan porta il volto a pochi centimetri dal mio e mi guarda
dritto negli occhi, mentre risponde scandendo bene ogni parola, come
per assicurarsi che io stia afferrando bene il concetto.
“Sta per sposarsi.”
“Lo so perfettamente,” commento con una
smorfia.
“Ne sei sicuro?” mi chiede alzando
sarcasticamente un sopracciglio.
“Cosa stai cercando di insinuare?” sbotto,
più che mai infastidito da quel suo insopportabile
atteggiamento passivo-aggressivo, “Hai per caso paura che io
possa rovinare le cose con il tuo prezioso Elijah, visto il suo
coinvolgimento nell’azienda? E’ questo che ti
preoccupa?”
“No, idiota, mi preoccupi tu,”
replica seccato, “Non c’è bisogno che ti
dica come diavolo è andata a finire l’ultima
volta. Non voglio vederti sparire per altri otto anni a causa
sua.”
“Non è Elena il motivo per cui me ne sono
andato da qua, e lo sai benissimo. Se papà non avesse
…” mi blocco quando una coppia ci passa a fianco e
ci squadra interessata, rendendomi conto di aver iniziato ad alzare
troppo la voce. Scuoto la testa e decido di lasciar perdere vecchie
questioni che tanto se ritirate fuori non possono far bene a nessuno.
“Piuttosto, non c’era qualche altro azionista da
conquistare con il mio indiscusso fascino?”
“Tu non incontri proprio nessuno. Sei ubriaco, non
pensare che non me ne sia accorto. Anzi, dammi subito le tue chiavi, la
macchina la porto a casa io. Due passi non dovrebbero farti
male.”
Controvoglia, frugo le tasche della giacca per tirarne fuori
le chiavi della Camaro. Faccio per porgergliele, ma
all’ultimo secondo le sottraggo dalla sua portata e lo guardo
minaccioso.
“Se ci trovo anche solo un graffio, giuro che ti
taglio i capelli durante il sonno.”
“Tu provaci ed io dico a Caroline che
l’hai richiesta per portarti a fare shopping.”
Gli rivolgo un’altra occhiata torva. “Non
lo faresti mai.”
“Mettimi alla prova.”
Stefan allunga la mano e, con un ghigno vittorioso, mi strappa
infine le chiavi dalle dita.
Quando voleva, Stefan
sapeva sempre come essere una vera seccatura. Soprattutto quando si
trattava di passare al vaglio e pronunciarsi su ogni mio comportamento.
Quella volta,
però, era stato semplicemente una seccatura con la
mononucleosi che, tra rantoli e occhioni febbricitanti, era infine
riuscito a convincermi a tornare a scuola fuori orario soltanto per
recuperargli dall’armadietto la sua copia de Il Grande
Gatsby, sua personale coperta di Linus senza la quale apparentemente
non poteva sopravvivere al decorso della malattia. E chi ero io per
negare tale consolazione ad un sedicenne per cui essere costretto a
saltare mezzo trimestre rappresentava la più grande tragedia
della sua vita?
Mi infilai il libro nella
tasca interna della giacca e richiusi l’armadietto con un
clack metallico che risuonò nel corridoio deserto, seguito
subito dopo da un leggero singhiozzo soffocato.
Corrugai la fronte
perplesso e rimasi qualche secondo immobile, in ascolto.
Pensando di essermelo
immaginato, mi incamminai per andarmene, così da poter
portare quel benedetto libro a Stefan e riuscire ad arrivare a lavoro
prima che Rose decidesse di dare per davvero seguito ad
un’altra delle sue fantasiose minacce.
Ma, arrivato neanche a
metà del corridoio, un altro singulto mi arrivò
all’orecchio.
Quando mi voltai nella
direzione da cui l’avevo sentito provenire, attraverso il
vetro della porta di un aula vuota, intravidi Elena singhiozzare piano
davanti ad un mucchio di roba sparsa sopra uno dei primi banchi della
fila.
Mi bloccai sul posto, preso
alla sprovvista.
Non avevo più
parlato con Elena dal giorno in cui avevo mollato il lavoro al Grill
una settimana prima. Non che lei me ne avesse dato veramente modo: se
mi ero trovato nei paraggi di casa sua per passare a prenderla come
ormai mi ero abituato a fare, non si era più fatta trovare;
se l’avevo incrociata per caso, si era affrettata a cambiare
strada.
Odiavo la tenacia che
metteva nell’evitarmi, ma dopo qualche giorno ero arrivato
alla conclusione che forse fosse davvero meglio lasciar perdere. Voglio
dire, cosa diavolo avrei mai dovuto fare?
Nessuno, a parte forse mio
fratello, si era mai affidato a me per qualsiasi cosa ed il fatto che
quella ragazzina avesse invece dimostrato di volermi dare anche solo un
po’ della sua fiducia era così sbagliato sotto
così tanti punti di vista. Tutta quella situazione, in fin
dei conti, era soltanto colpa sua. In particolare, di quel suo brutto
vizio, che aveva preso fin troppo in fretta, di guardarmi in un modo in
grado di farmi attorcigliare dentro e confondermi le idee.
Perché, quando mi guardava in quel modo, doveva per forza
vedere qualcun altro, qualcuno che non ero io. Perché io, di
quello sguardo e di quella fiducia, non avevo idea di cosa farci.
Ma poi, eccola
lì, in grado con niente di trasformare in aria fritta
qualsiasi ragionamento e qualsiasi buon senso.
Lentamente, posai una mano
sulla maniglia e spinsi la porta in avanti.
Elena sussultò
nel sentirmi entrare e, di scatto, si voltò nella mia
direzione. Per alcuni lunghi attimi restammo entrambi immobili a
fissarci, anche se dai suoi occhi lucidi non avrei saputo dire se la
mia presenza in quel suo momento così personale fosse di
conforto oppure di fastidio.
D’un tratto
distolse lo sguardo, si asciugò le lacrime con il dorso
della mano, e cominciò, in tutta fretta, a rimettere dentro
la borsa tutto ciò che era ancora rovesciato sopra il banco.
“Cos’è
successo?” le domandai con una neanche troppo nascosta
preoccupazione nella voce, iniziando ad incamminarmi cauto verso di
lei.
Si fermò in
ciò che stava facendo, tentennando un paio di secondi.
“Ho perso una
penna,” disse infine scuotendo la testa, senza voltarsi a
guardarmi.
“Una
penna?”
“Ce
l’avevo fino all’ultima ora, ero sicura di
avercela, ma non riesco più a trovarla, così sono
tornata qui e ho provato a cercarla ovunque …” la
voce le si smorzò prima di arrivare alla fine della frase.
“L’ho persa.”
In un impeto improvviso,
scagliò la borsa a terra e si lasciò cadere a
sedere contro il bordo esterno della cattedra con un lungo sospiro
frustrato. Posò un gomito sulle ginocchia piegate e si
passò una mano tra i capelli, che quindi le ricaddero in
avanti come una cascata scura in fronte al viso.
Mi piegai per
inginocchiarmi accanto a lei, tenendomi in equilibrio sui talloni.
“Vuoi che ti
aiuti a cercarla?” domandai incerto, pieno di dubbi su cosa
diamine avrei dovuto fare in quella situazione.
Sollevò lo
sguardo arrossato su di me e, inclinando la testa di lato, mi
scrutò con una tale intensità da farmi quasi
sentire un completo idiota.
“Non sei
costretto a farlo.”
“Non è
poi tutta questa gran cosa,” scrollai le spalle.
“Intendevo
…” proseguì in tono leggermente
più fievole, “Fingere che ti importi.”
Non riuscii a trattenere un
mezzo sorriso. “Credimi, anche se lo volessi, non sono
affatto bravo a fingere una cosa del genere.”
“In ogni caso,
è solo una stupida penna,”scosse di nuovo la testa
con una smorfia amara.
“Deve essere una
stupida penna molto importante.”
“L’avevo
trovata tra le cose di mia madre,” spiegò
corrugando le sopracciglia. Si portò il dorso della mano
contro le labbra, ed i suoi occhi tornarono ad inumidirsi.
“E’ solo che mi manca. Mi manca davvero
tanto.”
Non so bene chi dei due
iniziò la cosa, se fu colpa del mio braccio che
andò a circondarle la schiena o della sua mano posata sulla
mia spalla, ma un solo secondo dopo il suo viso era seppellito nel mio
collo ad inumidirmi il colletto della maglietta, mentre con le dita
appena esitanti le sfioravo i capelli. Non so bene neanche quanto tempo
restammo in quella strana posizione, prima che se ne sciogliesse
delicatamente ed io mi offrissi di riaccompagnarla a casa.
Anche se non parlammo mai
di ciò che era successo qualche giorno prima, a partire da
quel momento Elena smise di evitarmi ed io scoprii che c’era
una parte di me che intendeva dimostrarle nei fatti quello che non le
dissi mai a parole: che iniziava a piacermi ciò che Elena
aveva visto in me.
Quando mi risveglio, fuori è già buio.
Con le membra un po’ rattrappite per la scomoda
posizione ed un vago stordimento ancora in testa, mi rialzo dal divano
della sala sul quale avevo finito per crollare appena tornato a casa e
vado a buttarmi sotto la doccia, tanto per togliermi di dosso anche gli
ultimi residui dell’alcol e della inaspettata conversazione
avuta con Elena.
Non dubito la sincerità delle sue intenzioni e
forse è proprio lì che risiede il problema. Lei
in qualche modo mi ha offerto una porta aperta per poter rientrare
nella sua vita, e cosa farne adesso dipende solo da me.
Sto scendendo le scale verso il piano di sotto per recuperare
qualcosa da mettere nello stomaco, quando dei fari
dall’esterno illuminano la sala semibuia e mi fanno sapere
che anche Stefan infine è tornato.
Quando il portone si apre, però, noto subito che
non è tornato da solo. Anzi, in verità, Stefan
neanche lo vedo, ciò che vedo è solo un lampo di
lunghi capelli biondi in mezzo ad un groviglio di mani e gambe, appena
prima che scompaiano a rotolarsi oltre il divano. Ma li sento fin
troppo bene, sia i risolini di lei che le mezze parole sussurrate, in
mezzo al rumore di zip che si abbassano.
A quel punto, non ho altra scelta che afferrare la mia giacca
ed attraversare spedito il corridoio di ingresso dritto verso la porta.
“Prego, continuate senza fare caso a me e ai traumi
che rischiate di provocarmi!”
La testa di mio fratello sbuca da dietro la spalliera del
divano, con i capelli così scarmigliati che neanche il suo
gel a presa rapida sembra aver retto all’urto.
“Ritorni … presto?” mi domanda
con il fiato corto. Dalla sua intonazione, il suggerimento che spera
tutt’altro non è neanche troppo sottile da intuire.
“No, se sono fortunato.”
Una mano piccola e perfettamente curata sale ad afferrarlo per
la cravatta che gli pende sfatta intorno al collo e, un attimo dopo,
è sparito di nuovo.
“Ciao ciao, Damon!” sento gridarmi dietro
dalla voce di Caroline, mentre richiudo il portone alle mie spalle.
Mi infilo le chiavi in tasca e qualcos’altro mi
capita in mano.
Tiro fuori il foglietto ripiegato e, mentre me lo rigiro tra
le dita, è come se avessi di fronte due scelte precise. Lo
rimetto via in fretta, dato che tanto so di non avere davvero bisogno
di rifletterci sopra più tanto.
Apre la porta al secondo squillo, ed i suoi occhi si
illuminano in un’espressione di piacevole sorpresa quando si
fermano su di me.
“Damon …” Il vestito elegante
del pomeriggio ha lasciato il posto ad un cardigan ed un abbigliamento
più casual, ma ciò non la rende minimamente meno
bella. “Questo significa che hai preso in considerazione
quello che ti ho detto oggi?”
“Qualcosa del genere.”
Un sorriso si fa strada sul suo volto, mentre si scansa dalla
porta per invitarmi a entrare. “Sono felice che tu lo abbia
fatto.”
-----------------------------------------------------------------------------
Spazio
autrice.
Buona domenica sera ^^
Volevo riuscire a
pubblicare oggi pomeriggio, poi ahimè non ci sono riuscita,
però piuttosto che rimandare a domani ho pensato che
chissà, magari, anche la sera c’è
qualcuno che aveva voglia di leggerselo …
Un grande grazie va a Bloodstream
che ha fatto questa bellissima fan
art ispirata da Stubborn Love. Non
ho parole per dire quanto sono commossa dalla cosa. (Un’altra
cosa che è bellissima sono le sue storie, se non
l’avete mai fatto andate a darci un’occhiata, e non
perchè ha creato questa immagine, ma perché
meritano. Tanto.)
Come sempre, un grazie infinito va
a chi mi dedica un po’ del
proprio tempo per leggere e lasciare un commento. So che, tra studio e
lavoro, con la fine delle vacanze il tempo libero è
drasticamente ridotto per tutte qua, ecco perché sappiate
che lo apprezzo ancora di più.
Prossimo
aggiornamento tra due settimane.
A presto! Un bacio
|
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Capitolo 7 *** The nearness of you ***
6.efp
6.
The nearness of you
-
It's not the pale moon
that excites me
That thrills and delights me, oh
no
It's just the nearness
of you -
(Glenn Miller – The
nearness of you)
Elena
Due minorenni con la gonna talmente invisibile da far voltare
mezza clientela, quella con il cromosoma Y, e da farmi domandare se ci
sia qualcosa di sbagliato in me per non aver mai indossato niente del
genere, né adesso né tantomeno a
quell’età. Un ragazzo con le unghie lunghe ed i
capelli più unti del doppio cheeseburger con bacon e
cipolle, quello per gli stomaci più temerari. Un altro
sedicenne che apparentemente è convinto di dover sostenere
una conversazione con le mie tette.
Trovare
un rimpiazzo per Vicky si sta dimostrando un’impresa
più ardua di quanto potessi mai immaginare.
Perciò,
quando la rossa dai capelli scompigliati e lo sguardo impertinente mi
dice di aver lavorato quattro anni in un Irish pub di Philadelphia, mi
sembra perfino troppo bello per essere vero.
“Come
sei finita qua in Virginia, se posso chiedere?” le domando
dopo aver dato un sorso di assaggio al Whiskey sour perfettamente
equilibrato che ha appena preparato.
“Penso
di aver avuto bisogno di un posto nuovo, dove ricominciare,”
risponde poggiandosi all’indietro contro il ripiano del
bancone. Devo avere lo sguardo piuttosto interrogativo,
perché, accennando un mezzo sorriso, mi spiega,
“Colpa di una storia finita male. Non è per quello
che la gente di solito decide di cambiare aria?”
Forzo
un piccolo sorriso, impreparata alla piccola stretta che per un attimo
mi ha contratto il petto.
“Immagino
di sì,” scrollo le spalle, “Non saprei
dirlo.”
“Posso
chiedere cos’è successo con la ragazza che
c’era di prima?” mi chiede increspando
appena le sopracciglia.
“L’ho
sorpresa nella dispensa con le gambe intorno a mio fratello.”
Sgrana
gli occhi azzurro chiaro e li sposta subito su Jeremy, che sta passando
a distribuire ordinazioni tra i tavoli. Si fa sfuggire un sibilo basso,
a metà tra il malizioso e il divertito. “Beh, non
posso biasimarla.”
L’occhiataccia
che le lancio, però, la fa subito scoppiare a ridere.
“Rilassati,
posso assicurarti che tuo fratello non è il mio tipo nel
modo più assoluto,” si affretta ad aggiungere. Un
altro mezzo sorriso le spunta sulle labbra quando il suo interesse
viene colpito da qualcos’altro alle mie spalle. “La
tua amica, però … è davvero
carina.”
Presa
alla sprovvista dal suo commento, mi volto verso il punto,
all’altra estremità del bancone, da cui le mie due
migliori amiche stanno cercando di attirare la mia attenzione. O
almeno, è quello che sta facendo Caroline, che agita un
braccio in aria neanche dovessi individuarla nel parterre di un
concerto. Bonnie, invece, distoglie immediatamente lo sguardo con un
lieve scatto della testa. Corrugo la fronte, confusa. “Torno
subito.”
“Chi
è quella?” mi chiede timidamente Bonnie non appena
le raggiungo. E’ solo perché la conosco
così bene che noto, sulla sua pelle color caramello, una
leggera, altrimenti impercettibile, colorazione quando la rossa lancia
un altro sguardo nella sua direzione.
“Si
chiama Sage, sto pensando di assumerla.”
“Chi
diavolo se ne importa,” ci interrompe subito Caroline, che
sta chiaramente fremendo di impazienza. “Possiamo passare
alle cose importanti? Me.”
Si indica con entrambe le mani ed un sorriso le illumina il volto.
“Non
ci crederai. Beh, in realtà sì, è
ovvio che ci crederai, perché è logico che, se
c’è qualcuno che se lo è meritato,
quella non avrei potuto che essere io, insomma, riuscire a tenere le
fila di tutto, essere chiamata agli orari più assurdi, a
volte penso che davvero non so cosa potrebbero fare senza di me,
sarebbero persi, te lo dico io, e poi tutto quel lavoro che ho fatto
per la mostra doveva ripagarmi in qualche modo, del rest-”
“Care,”
la ferma Bonnie, richiamandola con uno sbuffo.
La
pausa forzata se non altro permette alla bionda di riprendere un attimo
fiato.
“Sono
stata promossa!” annuncia euforica accompagnando la notizia
con un battito di mani emozionato.
“Non
è davvero stata promossa,” aggiunge Bonnie
cercandomi per un’occhiata d’intesa, che suggerisce
quanto bene conosciamo la nostra amica. “Ma le piace
crederlo.”
“Non
essere la solita guastafeste! Sono assistente esecutiva
adesso!” la rimbecca l’altra.
“Hai
avuto un aumento di stipendio?”
“No,
ma …”
“Continuerai
a fare esattamente quello che facevi prima?”
“Sì,
ma …”
“Visto?
Non sei davvero stata promossa,” sospira Bonnie.
Caroline
la liquida con un movimento sbrigativo della mano, come se stesse
scacciando una mosca fastidiosa.
“Congratulazioni,
Care,” le dico riuscendo a stento a trattenere una risatina
divertita.
“Grazie,
lo sapevo che tu
avresti capito.” Scocca un’altra occhiata in
direzione di Bonnie tanto per dimostrare la propria
superiorità nei confronti del suo solito scetticismo, e
prosegue gongolante. “Quindi, per festeggiare, siete tutte
invitate a casa mia … sì, insomma, da Stefan.
Domani sera. Il giardino è magnifico in questo periodo
dell’anno, ed è l’occasione perfetta per
quel barbecue che tanto avevo in mente da tempo. So che è
con poco preavviso, ma pensi di farcela a venire?” mi domanda
speranzosa.
Getto
uno sguardo verso Sage, che sta ancora aspettando una mia risposta
definitiva.
“Sì,”
dico, “Penso di sì.”
“Grandioso!”
cinguetta Caroline.
Saluto
le mie amiche e vado a mettermi d’accordo con la mia nuova
barista, che sembra più che entusiasta di essere stata
assunta.
Approfitto
di un momento di calma per rimettere un po’ in ordine dietro
al bancone. Sistemo i bicchieri e passo velocemente una spugna umida
lungo i ripiani. Mi blocco di colpo, però, mentre sto
svuotando e ripulendo i filtri della macchina da caffè,
congelata da un pensiero improvviso.
Caroline
non ha fatto menzione della possibilità che anche Damon sia
presente domani sera.
Il
ricordo dell’ultima volta che abbiamo parlato, il giorno
dell’inaugurazione della mostra a villa Lockwood, mi porta in
gola un sapore amaro. Da quel giorno è passata
più di una settimana, durante la quale Damon non
l’ho più né visto né
sentito. Come Caroline mi ha fatto casualmente sapere, sono consapevole
del fatto che negli ultimi giorni non sia stato a Mystic Falls, ma in
California, dove è tornato per questioni di lavoro.
Tuttavia,
ciò non mi impedisce di immaginare che il suo non essere
passato neppure per un saluto veloce sia un indicatore piuttosto chiaro
del fatto che la mia confessione di voler ristabilire un buon rapporto
con lui sia caduta completamente nel vuoto.
Forse,
non dovrebbe neanche importarmene. Ma invece, mio malgrado,
è così, soprattutto se penso a quanto sia stato
ingenuo, e sciocco, da parte mia poter sperare, anche solo per poco,
che alcune cose potessero essere riaggiustate e tornare a come quando,
tra noi, tutto era più semplice. O se non altro
così sembrava.
“Non stai
parlando sul serio.”
Damon
continuò a darmi la schiena, intanto che finiva di tirare
fuori e rimettere in ordine alcuni dischi nella sezione dei vinili, ma,
seduta sopra la postazione di legno che fungeva da cassa, riuscii lo
stesso ad osservare le sue spalle alzarsi e abbassarsi in
quell’atteggiamento di noncuranza che avevo ormai imparato a
riconoscere così bene.
“Puoi
scommetterci che parlo sul serio,” replicò
risoluto.
“Damon!”
proruppi con sconforto crescente di fronte alla sua incredibile
testardaggine, “Sono disperata! Non so se ti rendi conto
della gravità della situazione: la festa di compleanno della
migliore amica è tra meno di un’ora ed io non ho
niente da regalarle perché me ne ero completamente scordata.
Tu devi aiutarmi.”
“Dille
semplicemente che ti sei dimenticata e vedrai che
capirà,” mi rispose voltandosi giusto un secondo
per farmi intravedere il suo sorrisetto sprezzante, prima di tornare
allo scaffale successivo e a farmi avere una conversazione con la sua
nuca.
Colma
di frustrazione, scossi la testa e feci dondolare le gambe con
impazienza.
“Non
Caroline,” dissi convinta, “E’ una che
prende il suo compleanno molto seriamente. Tu non la conosci.”
“E
neanche ci tengo a farlo. Quella lì sembra una vera rottura
di palle da avere intorno.”
Con
un sospiro, gettai un’occhiata fuori. Una pioggia novembrina
leggera ma costante continuava a scendere in rivoli contro la porta a
vetri e contro l’unica piccola vetrina che la affiancava,
entrambe già con le serrande mezze abbassate per indicare la
chiusura del negozio al pubblico. La gialla luce artificiale che
illuminava la stanza, sembrava rendere le strade all’esterno
ancora più buie di quanto non fossero.
“Damon,”
tentai nuovamente, con più calma, decisa a tutti i costi a
farlo ragionare, “Tutti i negozi sono già chiusi.
Non ho tempo. Non ho altre alternative.”
“Elena,”
replicò, girandosi verso di me ed imitando la mia stessa
voce pacata, una cosa così fastidiosa che mi
strappò un’alzata di occhi verso il soffitto,
“Puoi fare tutti gli occhi cerbiattosi che vuoi. Non ho
nessuna intenzione di farti un cd di Avril Lavigne,”
ribadì con una smorfia disgustata.
“Scordatelo.”
“E’
la sua preferita, non devi mica ascoltarla tu.”
Si
avvicinò a passi decisi, e solo all’ultimo momento
mi resi conto che adesso aveva qualcosa tra le mani. “Tieni,
se proprio vuoi piuttosto regalale questo.”
Mi
rigirai tra le dita il cd che mi aveva appena messo in grembo, un solo
nome scritto con il pennarello nero sopra ad una custodia spoglia.
“Arcade
Fire? Mai sentiti.”
“Ovvio,
è uscito da poco. [1]”
“Lo
getterebbe via alla prima occasione,” scossi la testa per
bocciare la sua opzione, ma lo riposi ugualmente sopra la mia borsa con
l’intenzione di prenderlo per me. Difficilmente, in tutto
ciò che Damon mi aveva passato sottobanco nelle ultime
settimane, c’era stato qualcosa che non mi fosse piaciuto.
Sospirai. “C’è nessun modo in cui posso
sperare di convincerti?”
A
quelle parole, mi sembrò di intravedere nel suo sguardo una
piccola scintilla maliziosa. Posò le mani sulla superficie
di legno, ai lati delle mie gambe, e si sporse fino a portare il volto
a pochi miseri centimetri dal mio.
Il
mio cuore fece una piccola capriola per la sorpresa. Le sue labbra
erano all’improvviso così vicine da farmi
avvertire il suo respiro sulle mie.
“No,”
scandì lentamente, appena prima di far incurvare un angolo
della bocca verso l’alto in un ghigno divertito.
Quel
suo mezzo sorriso però scomparve, quando anche io mi protesi
in avanti, riducendo ancora di più le distanze. Non si
ritrasse, ma un moto di incertezza balenò nei suoi occhi
azzurri.
“Per
favore?...” domandai di nuovo in un soffio.
“Oh,
fanculo,” bofonchiò tra i denti mentre, scuotendo
la testa, si allontanava di scatto e mi girava intorno per andare a
mettersi davanti al computer posto al mio fianco.
“Se
lo dici a qualcuno,” mi minacciò, facendo guizzare
velocemente lo sguardo su di me, “neanche quei tuoi begli
occhi da Bambi ti salveranno la prossima volta.”
“Non
lo farò,” lo rassicurai convinta. Dovetti
sforzarmi per trattenere il sorriso che rischiò di sfuggirmi
quando mi ritrovai a domandarmi se mi avesse per caso appena fatto un
complimento.
Rimasi
ad osservare il suo profilo illuminato dalla luce azzurrognola dello
schermo, soffermandomi sul modo in cui ne accarezzava gli zigomi e il
profilo della mascella e gettava una strana sfumatura sui suoi occhi,
rendendoli di un blu quasi irreale. C’era semplicemente
qualcosa in lui … non mi meravigliava che così
tante ragazze ne fossero attratte.
“Vuoi
venire con me stasera?” azzardai a domandargli tutto
d’un tratto.
“Dove,
alla festa di una che ascolta Avril Lavigne?”
replicò con una vaga smorfia che da sola bastava a far
trapelare quanto ritenesse assurda quella proposta. “E poi,
ho già altri piani.”
“Oh,”
mormorai, scacciando via la mia delusione, “Ok.”
Il
suo telefono prese a vibrare contro il ripiano sul quale era posato.
Mentre Damon lo prendeva in mano per controllare chi fosse, scorsi il
nome Sarah lampeggiare sullo schermo. Lo riposò e lo lascio
suonare, ma un altro moto di delusione ritornò prepotente
quando non potei fare a meno di domandarmi se fosse proprio
“Sarah” il suo piano per la serata.
“Ecco
tutto il tuo concentrato di pessimo gusto,” aprì
lo sportellino del cd, lo infilò dentro una custodia e me lo
porse con un sorriso leggero, “Divertiti stasera.”
Si
infilò la giacca di pelle e finì di chiudere il
negozio.
Prima
che me ne andassi mi salutò, come da qualche tempo aveva
preso abitudine di fare, posandomi un veloce bacio sulla fronte. Mi
fece sentire così piccola che, per la prima volta, desiderai
che non lo avesse fatto.
Sono già in ritardo, naturalmente. Ma, a dispetto di questo,
continuo a tirare fuori vestiti dall’armadio e a cambiare
idea sui diversi abbinamenti. L’ultimo cambiamento
è stato scartare una camicetta nera senza maniche a favore
di una maglietta di raso color verde scuro, che ricade morbida sulla
gonna a vita alta dal fondo nero e stampe di rose bianche e che se non
altro si abbina alla stessa tonalità di verde che compare
anche nel disegno [2]. Non ne sono ancora del tutto convinta,
però, dal momento che nessuno degli accessori che uso di
solito, sparsi sulla scrivania, sembra andarci bene.
Mi
accuccio sul fondo della cabina armadio ed inizio ad aprire i vari
cassetti, cercando in fretta e furia qualcosa che possa soddisfarmi.
Mi
blocco quando la vedo, una fine catena d’argento con un unico
ciondolo nero di ossidiana. Mi ero quasi dimenticata che potesse essere
lì. La prendo titubante e lascio scorrere la catenina tra le
dita, con la goccia nera, le dimensioni di una mandorla, che spicca
contro il palmo della mia mano.
Mi sento
stringere il cuore per tutto ciò che mi fa ricordare.
C’era un periodo in cui non la toglievo praticamente mai. E
non posso indossarla, lo so che non posso. Però questo non
mi impedisce di provarla, solo per un momento, per vedere
l’effetto che fa.
La
allaccio dietro al collo, lottando un po’ con la massa di
capelli, e mi alzo per osservarmi nello specchio. Si posa a meraviglia
sullo scollo dal taglio orizzontale, e non resisto alla tentazione di
passarci sopra le dita.
Ma
non posso indossarla. Anzi, proprio in questo frangente a maggior
ragione, dovrei rimetterla esattamente dove l’ho appena
trovata.
Il
suono del campanello mi fa sobbalzare improvvisamente. Non sto
aspettando nessuno ed il primo pensiero che mi passa per la testa
è che si tratti di Jeremy che finalmente si è
deciso a tornare.
Non
ha passato una notte a casa da dopo l’incidente con Vicky e,
se si escludono quei pochi monosillabi necessari per le interazioni di
routine quando siamo al lavoro, a malapena mi rivolge la parola. La mia
è una speranza che però se ne va tanto
velocemente così come è apparsa,
nell’arco di tempo che impiego per scendere le scale alla
massima velocità che il tacco delle decolleté mi
permette. Non appena tocco l’ultimo gradino, mi rendo conto
che Jeremy ha le chiavi e che, se solo lo volesse, non avrebbe alcun
bisogno di suonare.
Non
è Jeremy. Ma ho ugualmente un tuffo al cuore,
perché gli occhi nocciola che mi trovo davanti sono gli
stessi, così come il ciuffo ribelle sulla fronte che non
vuole mai stare al suo posto.
“Ehi,
principessa.”
“Papà,”
sorrido.
Getto
le braccia al collo di mio padre come se non lo vedessi da anni, invece
che da neanche un mese. Mi faccio stringere a mia volta, a lungo,
crogiolandomi nel familiare calore.
“Stavi
andando da qualche parte?” mi dice dando
un’occhiata al mio abbigliamento, dopo che infine mi sono
decisa a staccarmi e lasciarlo entrare. “Non voglio
trattenerti.”
“E’
solo una serata da Caroline,” scrollo le spalle mentre
entrambi ci sediamo sul divano. Mi sfilo le decolleté nere e
rannicchio le gambe. “Può aspettare. Hai
intenzione di fermarti qua qualche giorno?”
Scuote
la testa abbassando per un attimo lo sguardo sulle sue mani. Porta
ancora la fede.
“No,
intendo ripartire stasera.”
Si
è trasferito a Petersburg un paio di anni fa, quando ha
iniziato una programma di riabilitazione in una clinica. Anche dopo,
non è mai tornato davvero ad abitare qua. Immagino sia
semplicemente più facile.
“Lo
sai che puoi restare quando vuoi, questa è anche casa tua
…”
Invece
di rispondere, mi getta un lungo sguardo ed una domanda che da sola
dice tutto.
“Jeremy?”
Forzo
un sorriso. Mio fratello non è esattamente il tipo che rende
le cose semplici, quando ha deciso di non volere qualcuno attorno.
“Devi
solo dargli un po’ di tempo.”
“Va
bene, lo capisco,” risponde annuendo, con il rimpianto che
comunque traspare dalla voce. “Se sono qua, è
perché volevo parlarti di una cosa.”
“Di
che si tratta?” domando incuriosita.
“Qualcosa
a cui ho pensato molto negli ultimi mesi.” Tira fuori una
cartelletta rilegata dall’interno della giacca e me lo porge
con un sorriso. “E’ l’atto di
proprietà del Mystic Grill. E’ tuo.”
Sposto
lo sguardo da lui ai documenti che tiene in mano, sconcertata. Ma non
mi muovo né rispondo, anche perché non sono
ancora certa di aver davvero capito bene.
“Mio?
…”
“Tuo,”
annuisce. “Lo è in pratica da un po’
ormai, ho solo pensato che fosse tempo di renderlo ufficiale.”
Mi
allungo per prendere i documenti, anche se quando inizio a sfogliarli
ho le dita ancora un po’ incerte. Ma è
lì nero su bianco, il locale che aveva aperto con mamma e
che è sempre stata una parte così importante
della sua vita è adesso completamente, in tutto e per tutto,
a nome mio.
“Voglio
che tu lo sappia, Elena,” prosegue, “non devi
sentirti obbligata in nessuno modo. Qualsiasi cosa tu decida di farne
… è una scelta solo tua e mi starà
bene.”
“Non
so cosa dire,” mormoro mentre continuo a farmi scorrere i
fogli tra le mani.
“E
ciò include la possibilità di venderlo, se vuoi,
e poterti trasferire e farti una vita da un’altra parte
…”
Alzo
la testa di scatto, quando quelle parole fanno sì che un
sospetto inizi a farsi strada nella mia mente.
“Hai
parlato con Elijah?” chiedo con diffidenza.
“Sì,
in realtà,” mi conferma, mentre mi osserva come
per cercare di capire se la cosa mi abbia disturbato. “Mi ha
aiutato con tutte le questioni legali, per finalizzare la
cosa.”
“Vuoi
dire che Elijah lo sapeva?” domando ancora più
stupefatta. Non mi piace la sensazione che quel pensiero mi provoca,
anche se cerco di nasconderlo. Mio padre però se ne accorge
lo stesso.
“Tesoro,”
si sporge verso di me e gentilmente mi sfila i documenti che sto ancora
tenendo tra le mani, per posarli sul tavolino da caffè di
fronte a noi e prendermi una mano tra le sue. “Non avercela
con lui. Sono stato io a cercare il suo aiuto e a chiedergli di non
dirti nulla, mi ha solo fatto un favore. Voleva essere una
sorpresa.”
“Lo
è stata …”
“E
io voglio solo che tu sia felice.”
“Lo
so.” Lascio che le mie perplessità si dissolvano,
toccata dal pensiero dolce che ha avuto. Il resto delle questioni
possono aspettare. Sorrido e lo stringo in un altro abbraccio.
“Grazie.”
“Sei
arrivata finalmente!” Bonnie mi accoglie con un sorriso
quando attraverso la soglia di casa Salvatore.
“Perché così in ritardo?”
La
seguo lungo l’ingresso, attraverso la sala e poi la cucina
dalla quale un’ampia porta a vetri conduce verso il giardino
sul retro.
“Mio
padre è passato a trovarmi all’ultimo momento,
doveva parlarmi di una cosa,” spiego.
Bonnie
si ferma sui suoi passi e mi rivolge uno sguardo apprensivo.
“E’
tutto a posto?”
“Sì
…” la rassicuro. “Devo solo fare una
telefonata. Vi raggiungo subito.”
Bonnie
torna in giardino e mi lascia un po’ di privacy. Per la terza
volta da quando sono uscita di casa, riprovo a chiamare Elijah.
Tamburello le dita contro il ripiano di marmo grigio sul quale sono
stati appoggiati alcuni vassoi con il fondo coperto di briciole e
qualche bottiglia vuota, mentre la mia chiamata finisce di nuovo dritta
alla segreteria.
Non
posso negare che tutto ciò stia iniziando ad innervosirmi.
“Ehi,
dove sei?” esordisco, decidendomi questa volta a lasciare un
messaggio. “Ho davvero bisogno di parlarti, è
importante. Appena senti il messaggio …”
Mi
interrompo quando, attraverso il vetro della porta finestra, intravedo
due figure sbucare sulla veranda illuminata. Una di queste è
Damon. Ha le maniche della camicia blu scuro arrotolate fino ai gomiti,
e lo noto perché le sue mani stanno attirando verso di
sé una donna che non riesco a vedere bene. Di lei, noto solo
uno scorcio di sorriso, mentre, sul limitare del cono di luce, Damon si
china per darle un bacio.
E’
un secondo, e sono già spariti oltre. Ma è
abbastanza da farmi salire in bocca uno strano sapore acido, che mi
affretto a ricacciare giù.
“…
chiamami,” finisco di dire alla segreteria di Elijah.
Riattacco
e mi dirigo verso il giardino, che per l’occasione
è stato illuminato da tante piccole luci appese nel buio
sopra le nostre teste. Su alcuni tavoli sono stati disposti sia bevande
che stuzzichini, e nell’aria l’odore pieno di
brace, carne e verdure grigliate si mescola a quello più
dolciastro del gelsomino in fiore. Lo spazio non è molto
grande ed i presenti lo affollano quasi tutto, ma è
innegabile che Caroline sia riuscita nell’intento di renderlo
accogliente e confortevole. C’è qualche suo
collega, qualche contatto di lavoro di Stefan, persino un paio delle
sue amiche del college.
Damon
mi saluta da distanza, con un accenno di sorriso ed un cenno della
testa. Ricambio entrambi, prima che torni a parlare con i suoi
interlocutori. Adesso riconosco la donna che è con lui, la
stessa con cui l’avevo visto parlare
all’inaugurazione per la mostra dei Fondatori. Ha una figura
magra, ma slanciata e armoniosa. Damon fa scivolare una mano a cingerle
la vita.
“Lo
stai fissando.”
Sussulto
e mi giro di scatto verso Bonnie che alza le sopracciglia in un modo
equivocabile.
“Non
è vero,” ribatto, “Io stavo solo
…”
“Tieni,
aiutatemi con questo.”
Caroline
si frappone facendo capolino tra noi e mettendoci in mano un vassoio
ciascuna, per me spiedini di pomodori e mozzarella e per Bonnie alcuni
vol-au-vent dai ripieni di diversi colori.
Sai
chi è quella?” domando a Caroline in un sussurro
mentre poso il vassoio sul tavolo.
Non
ho bisogno di specificare. Caroline alza per un attimo lo sguardo in
direzione di Damon e torna a radunare il cibo rimasto in alcuni piatti
semi-vuoti per fare spazio a quello appena arrivato.
“Addie,
Annie … qualcosa del genere.”
“E’
una cosa seria?”
“E
chi può mai dirlo con Damon,” sospira scrollando
le spalle. Scruta con lo sguardo l’altra estremità
del tavolo ed ha un sobbalzo. “Oddio, sono finiti i
tovaglioli!”
E’
sparita prima che possa chiederle altro.
Bonnie
posa una mano sul mio braccio, richiamando la mia attenzione.
“Ma
quello è Elijah? Non pensavo sarebbe venuto in questi
giorni.”
Colta
alla sprovvista, mi volto di scatto, in tempo per vederlo incedere
verso il giardino insieme a Stefan, una mano in tasca e
l’altra che si muove appena per accompagnare le sue parole.
Si è tolto la cravatta, ma indossa uno dei completi di
sartoria che usa per lavoro, dal che deduco che deve essere venuto
direttamente qua.
“Neanche
io,” le rispondo corrugando lo fronte, a dir poco stupefatta.
Elijah
si congeda da Stefan non appena nota che gli sto andando incontro.
Sorride, quando posa le mani sui miei fianchi per attirarmi verso di
sé.
“Sei
bellissima stasera,” sussurra contro la mia guancia. Faccio
leva con le mani contro le sue spalle per opporre una blanda resistenza
alle sue affettuosità.
“Ti
ho chiamato più volte.” Non riesco a nascondere
del tutto la punta di irritazione nella mia voce. “Stavo
iniziando a preoccuparmi. E pensavo che non saresti potuto venire prima
di un paio di giorni.”
Stacca
una mano dal mio fianco per tirare fuori il telefono dalla tasca e
scuote la testa mortificato.
“Scusa.
Non avevo notato che fosse spento. Sono riuscito a liberarmi prima del
previsto e volevo farti una sorpresa.”
“Non
è stata l’unica di sorprese, stasera,”
commento cercando i suoi occhi, per vedere se abbia già
capito. Ma Elijah mi rimanda uno sguardo interrogativo. “Mio
padre è passato a trovarmi poco fa, per parlarmi del vostro
piccolo accordo alle mie spalle.”
“Non
c’è nessun accordo, Elena,” sorride
divertito, come se avessi appena detto chissà quale
sciocchezza, “Voleva farti una sorpresa e mi ha chiesto di
non parlartene. Pensavo che ti avrebbe fatto felice.”
Mi
domando quando abbia iniziato a dare la precedenza a ciò che
desidera mio padre, piuttosto che preoccuparsi di ciò che
avrei potuto pensarne io. Ma capisco la buona fede dietro al modo in
cui ha agito e non posso fargli una colpa per aver contribuito a
qualcosa nell’intento di farmi contenta.
“E
così,” rispondo facendo scivolare le mani sopra le
sue spalle. “E’ solo che …”
prendo un profondo respiro, “ … dobbiamo parlarne.
Di tutta questa storia.”
“D’accordo,
parliamone.”
Lo
scruto attentamente e non vedo un briciolo di esitazione nel suo
sguardo.
“Adesso?”
replico confusa. Mi guardo un attimo attorno, verso il chiacchiericcio
a pochi metri da noi e la prospettiva di una serata tra amici. Questo
non è davvero il momento giusto per quel genere di
conversazione. Scuoto la testa e gli rivolgo un lieve sorriso.
“Ascolta, hai fatto un bel viaggio per arrivare fin qui, e
sono contenta di vederti. Possiamo sempre parlarne domani, o in
qualsiasi altro momento. Adesso, pensiamo solo a goderci la serata,
ok?”
“Come
vuoi.”
Si
china per darmi, infine, quel bacio che lo avevo fermato dal darmi
prima, un morbido, lungo tocco sulle mie labbra. Mi prende per mano e
torniamo ad unirci agli altri.
Per Caroline, essere
popolare non era solo un’aspirazione. Era un dovere, era una
missione. Ecco perché sapeva bene che buone
possibilità di riuscita passavano inevitabilmente attraverso
il cheerleading, i comitati per l’organizzazione dei balli,
il consiglio studentesco. E feste da paura.
Arrivai
a casa sua piuttosto in ritardo, l’orlo sfilacciato dei jeans
zuppo per l’imprevisto incontro con una pozzanghera sul
vialetto di ingresso e la sensazione di aver sbagliato indirizzo.
Quasi
tutto il mobilio della sala era stato spostato sul lato in fondo alla
stanza, da dove due casse diffondevano una versione remixata di
Let’s Get It Started e due tavoli attiravano un continuo via
vai di gente smaniosa di procurarsi da bere. Nello spazio lasciato
vuoto, alcune coppie stavano ballando sfregandosi i fianchi a ritmo
della musica, mentre da un altro angolo nel quale era stato accostato
il divano qualcun altro stava fumando propagando nell’aria un
odore di acre di sigaretta. Metà delle persone presenti, non
ero neppure sicura di averle mai viste.
“Le
piace fare le cose in grande, eh?” mi affiancò
Bonnie.
Mi
prese subito per mano e mi portò cercare qualcosa da bere.
“Puoi
dirlo forte.”
“Ehi,
ragazze!” Caroline ci venne incontro per abbracciarci
entrambe non appena ci vide.
Le
sue onde bionde, lasciate ricadere sulle spalle, sembravano ancora
più morbide del solito. Indossava un tubino a fantasia nero
e grigio dalle spalline sottili che le stava un po’ largo
sulle spalle ed il petto ancora troppo filiformi, ma era comunque
splendida a dir poco.
“Tua
madre è d’accordo con tutto questo?” le
domandai perplessa.
“Come
se gliene importasse,” scrollò le spalle.
“Tanto starà via almeno fino a domani notte, non
se ne accorgerà neanche. Tieni, prendete questo.
L’ho fatto io.”
Versò
un paio di mestolate di punch in due bicchieri e ce ne porse uno
ciascuno. Odorava di arance, zucchero e di una scia di alcol talmente
forte da procurarmi un’ondata di voltastomaco.
“Cosa,
non ti piace?” mi domandò Caroline squadrandomi
delusa.
“Lo
bevo dopo,” risposi, posandolo sul tavolo.
“Conosciamo qualche Sarah?”
“Beh,
vediamo …” Si portò pensosa un dito
contro le labbra. “C’è Sarah Connelly,
quella stronza che l’anno scorso mi ha soffiato
l’ammissione a Miss Mystic Falls. Oh, ma quest’anno
vedrete che non gliela darò vinta. Sarah Bradley, terzo
anno, sai quella che ride in modo strano …”
“Sarah
Evans,” aggiunse Bonnie, più esitante.
“Quella carina nel nostro corso di storia, capelli neri
…”
“Perché
ti interessa?” mi domandò Caroline perplessa.
“Io
…”
“Oh
mio Dio,” esclamò Caroline prima che potessi
elaborare. La sua mano afferrò il mio avambraccio e lo
chiuse in una morsa stringente. “Cosa ci fa lei
qui?” domandò con una nota isterica nella voce.
Sia
io che Bonnie ci voltammo per guardare che cosa avesse attirato lo
sguardo di Caroline.
Lexi
era entrata in sala ed aveva iniziato a distribuire sorrisi, il braccio
avvinghiato a quello di Stefan.
“Non
l’hai invitata?”
Caroline
scosse la testa ed il suo volto, anche sotto al trucco perfetto che
aveva addosso, mi sembrò improvvisamente più
pallido.
“Lo
sta facendo apposta. Lo sa. Guarda come se lo stritola,”
gracchiò.
Sia
io che Bonnie voltammo di nuovo la testa in contemporanea, in tempo per
vedere Lexi salutare Caroline con la mano e Stefan sorridere
impacciato.
“Non
guardate!” ci richiamò subito la nostra amica con
un filo di voce, esasperata. “Ho bisogno di bere.”
Afferrò
il bicchiere che io avevo posato poco prima e lo buttò
giù in un solo sorso.
“Ehi,
Forbes.” Un ragazzo muscoloso e dai corti capelli neri si
avvicinò alle sue spalle e le posò le mani sui
fianchi. Tyler Lockwood, figlio unico della famiglia più
ricca di Mystic Falls. “Posso darti il tuo regalo di
compleanno speciale?” le disse a bassa voce vicino
all’orecchio, intanto che faceva scivolare le mani un
po’ più verso il basso, completamente incurante
che sia io che l’altra mia amica fossimo ancora lì
presenti.
Caroline
alzò gli occhi al cielo, visibilmente infastidita.
“Dio,
Tyler, te l’ho già detto, non ci vengo
più a lett-” si bloccò a
metà della frase, lo sguardo fisso altrove. Nel giro di un
attimo, la sua espressione cambiò completamente.
“Anzi, sai cosa? Portami a ballare. Ma avrò
bisogno di un po’ più di alcol.”
“Tutto
quello vuoi,” sorrise Tyler, mentre Caroline lo trascinava
via per la mano in un posto più centrale e gli si
avvinghiava gettandogli le braccia al collo. Guardai di nuovo alle mie
spalle e, confermando i miei sospetti, la faccia di Lexi era adesso
completamente incollata a quella di Stefan.
“Non
sarò una sensitiva,” mi disse Bonnie con un
sospiro, “Ma chissà perché ho il
sospetto che tutto questo non andrà a finire bene.”
La
sensazione di Bonnie, che in quel caso mi sentii di condividere in
pieno, non si rivelò poi tanto sbagliata.
Ad
un certo punto, Caroline era semplicemente sparita dai nostri radar. E
l’ultima volta che l’avevamo vista, più
di mezz’ora prima, non solo era su una poltrona intenta ad
infrangere il voto – giurato alla fine delle vacanze
– di non farsi mai più mettere la lingua in bocca
da Tyler, ma avrebbe tranquillamente potuto essersi bevuta da sola
tutto il punch che lei stessa aveva preparato.
Dopo
aver deciso, con Bonnie, di dividerci per cercarla, mi diressi al piano
di sopra.
Lungo
le scale, scavalcai almeno un paio di coppie, troppo impegnate a
pomiciare per prestarmi attenzione. Nessuna di loro includeva Caroline.
Solo
quando fui quasi in cima, udii finalmente la voce della mia amica,
anche se piuttosto flebile.
“Non
mi sento molto bene.”
“Ci
penso io a farti stare meglio.”
“Tyler,
non …”
Caroline
era schiacciata contro il muro accanto alla porta della propria camera.
Tyler le stava addosso, una mano premuta contro la sua schiena e il
volto che scendeva verso la sua scollatura.
“Andiamo,
Forbes, smettila di prendermi sempre in giro,” lo udii dire
di fronte ai, pur deboli, tentativi di Caroline di opporsi alle sue
attenzioni.
“Ehi,”
lo ammonii, sentendo l’indignazione ribollirmi dentro.
“Ti ha detto di lasciarla in pace.”
Tyler
si staccò da Caroline e si voltò ad osservarmi
come se fossi una mosca sulla parete. Caroline, invece, chiuse gli
occhi e abbandonò la testa all’indietro per
sorreggersi contro il muro.
“Non
sono affari tuoi.”
Mi
avvicinai alla mia amica e le passai un braccio intorno alla vita per
aiutarla ad appoggiarsi contro di me.
“Non
lo vedi che è ubriaca?”
Tyler
sogghignò. “E tu sei un’esperta di
questi casi non è vero?”
Un’onda
di calore mi infiammò le guance ma, con mio stesso stupore,
la prima replica che mi saltò alla mente fu uno di quei
“fottiti” che Damon amava così tanto
dispensare. Stavo quasi per sputarlo fuori, forse ancora più
velenoso di quanto già non suonasse nella mia mente, ma
qualcuno mi privò della soddisfazione.
“Tyler.”
Stefan comparve alle spalle del ragazzo. Il suo tono era duro almeno
quanto lo sguardo che gli rivolse. “Smettila.”
I
due si guardarono per alcuni lunghissimi istanti. Poi Tyler
scrollò le spalle con noncuranza.
“Chissene.
In ogni caso, non ne vale la pena.”
Tyler
mi passò davanti e se ne andò lungo le scale
senza gettare un secondo sguardo né a me né
tantomeno a Caroline.
“Mi
dispiace,” biascicò Caroline prima di crollare con
il capo sulla mia spalla.
“Sta
bene?” domandò Stefan corrucciando lo sguardo con
fare apprensivo, intanto che si avvicinava a noi di qualche passo.
“Penso
che abbia solo bisogno di stendersi un po’.”
“Lascia
che ti aiuti.”
Stefan
passò le mani intorno alla vita della mia amica e, senza
alcuno sforzo, la sollevò per prenderla tra le braccia. Mi
sembrò di intravedere un piccolo sorriso formarsi sulle
labbra di lei, quando si ancorò meglio con le braccia
attorno alla sua nuca.
“Hai
un odore così buono …”
mormorò Caroline nel suo collo, cosa che suscitò
un moto di sorpresa nello sguardo di Stefan.
“Grazie
…” rispose lui, esitante, e la strinse un
po’ di più.
Gli
indicai la camera di Caroline e, con attenzione, la fece sdraiare sul
copriletto a stampa di gigli rosa che si abbinava al colore tenue delle
pareti. Si inginocchiò accanto al letto tenendosi in
equilibrio sui talloni e le spostò con delicatezza dal volto
una ciocca di capelli rimasta attaccata sul suo lucidalabbra,
indugiando nella carezza qualche secondo più del necessario.
Ad
un primo sguardo, forse, poche persone avrebbero potuto pensare che lui
e Damon fossero fratelli. Non avevano gli stessi occhi, lo stesso naso,
lo stesso profilo. Ma c’era di sicuro qualcosa, in quel suo
gesto verso Caroline, che inevitabilmente mi ricordò
così tanto Damon da farmi mancare un battito del cuore.
“Grazie,”
gli dissi mentre socchiudevo la porta della camera di Caroline per
tenere fuori un po’ del rumore.
“Non
c’è problema,” disse lui, rialzandosi.
“Sei Elena giusto? Mio fratello parla di te.”
Mi
girai quasi di scatto, un inaspettato sfarfallio sul fondo dello
stomaco.
“Davvero?”
Stefan
si strinse nelle spalle e affondò le mani nelle tasche dei
jeans. “Siete amici, no?”
Annuii.
“E’
un bene. Damon non ha molti amici. Intendo … quelli veri.
Non è uno che si lascia avvicinare molto facilmente. E a
volte può essere duro da sopportare,” il sorriso
con cui concluse la frase lasciava intuire che, a dispetto di
ciò che aveva appena detto, non gli pesava davvero
ʿsopportareʾ il fratello.
Fui
distratta da un timido colpetto sulla porta. Bonnie fece capolino nella
stanza e spostò lo sguardo da me a Stefan, a Caroline mezza
addormentata sul letto.
“Beh,
dovrei andare,” disse Stefan abbassando per un attimo gli
occhi sulla punta delle sue scarpe. “Forse … puoi
farmi sapere come sta?” mi domandò con un cenno
della testa in direzione di Caroline, un po’ tentennante, un
po’ speranzoso.
“Certo,”
gli sorrisi.
Stefan
se ne andò e richiuse la porta alle sue spalle.
Io
e Bonnie ci sedemmo ai due lati del letto ad una piazza e mezza. Non
appena ci fummo sistemate, Caroline, nel mezzo, appoggiò la
testa all’indietro contro la coscia di Bonnie e
passò un braccio attorno alle mie gambe.
“Era
davvero Stefan quello?” farfugliò mentre si
metteva più comoda.
“Pare
proprio di sì.”
“Sono
così felice di non avergli vomitato sulle scarpe.”
Mi
scambiai un’occhiata con Bonnie e ridacchiammo entrambe.
“Sai,
Care …” dissi appoggiandomi contro i cuscini,
“Qualcosa mi dice che probabilmente non gli sarebbe neanche
importato.”
Restammo
là, solo noi tre, mentre al piano di sotto la festa
continuava ad andare avanti.
Ripensai
molto a ciò che Stefan mi aveva detto.
Da
quel giorno a scuola in cui Damon mi aveva sorpreso in un mio momento
di sconforto era passato quasi un mese. Un mese durante il quale mi ero
ritrovata a passare insieme a Damon ancora più tempo di
prima.
Ogni
volta che avevo del tempo libero, ero in negozio da lui, a parlare,
guardare video stupidi o fingere di essere una cliente molto
affezionata ogni volta che Rose spuntava fuori, anche se non penso che
ci abbia mai creduto. Le sere, era lui che spesso passava dal bar, a
volte portando una pizza che condividevamo sul retro dopo averla difesa
dagli assalti di Jeremy.
Certo,
delle volte era sfuggente, come quella sera là.
Ma
l’idea di quanto fosse inusuale che Damon si lasciasse
avvicinare da qualcuno come aveva fatto con me mi fece intuire che,
probabilmente, ciò che avevo con lui era più di
una serata con una Sarah senza volto. E, in fondo, non avrei mai voluto
che fosse diversamente.
La serata è piacevole e vola via in un attimo. E, a dispetto
delle recenti novità, sono comunque contenta che Elijah sia
presente stasera e di aver potuto condividere con lui un momento
insieme ai miei amici.
Scopro
anche che Andie è una giornalista che sta cercando di
sfondare fuori dalla cronaca locale, che è intelligente, con
la battuta pronta e che, accanto ad una bellezza poco classica, ha
davvero un certo carisma. Lei e Damon sono così a loro agio
l’uno con l’altra che sembra si conoscano da anni.
E’
una cosa alla quale ho modo di testimoniare ancora meglio dopo che il
resto degli invitati se ne sono andati e siamo rimasti soltanto noi, i
padroni di casa e le rispettive ragazze, seduti attorno al tavolo
principale sotto al sicomoro che delimita il giardino di casa
Salvatore.
Sono
seduti vicini, con il braccio di Damon posato rilassatamente attorno
alle spalle di lei.
Stefan
si sporge per prendere il suo bicchiere di vino e con l’altra
mano circonda la vita di Caroline, che invece di scegliersi una sedia
ha preferito sedersi direttamente sulle sue gambe. La sua voce
è allegramente brilla quando inizia a parlare.
“Direi
che è ora di proporre un brindisi alla ragazza che ci ha
portato qui, che ha trasformato l’intera cucina …
anzi no, l’intera casa in un campo di battaglia che domani mi
obbligherà a pulire, e che sono così
maledettamente fortunato ad avere accanto a me.”
“Attento
con le parole, Stef, o potrebbe pensare che le intendi davvero. Poi di
questa qua non ce ne liberiamo più,” sogghigna
Damon attirandosi subito uno sguardo fulminante da parte della mia
amica, che però si ammorbidisce all’istante non
appena Damon alza il suo bicchiere verso di lei, “A Caroline.”
I
nostri bicchieri tintinnano tra loro, accompagnati da un altro
“A Caroline” collettivo che la fa visibilmente
andare in estasi.
Stefan
la attira ancora di più a sé, per darle un bacio
sulle labbra e mormorarle “ti amo”.
E’
una strana emozione quella che mi stringe il petto, nel vederli
così; nel ricordare di averli visti quando a malapena
avevano il fegato di rivolgersi la parola a vicenda e nel sapere che,
nonostante tutto, anche dopo più di sette anni insieme sono
ancora capaci di guardarsi come se si stessero innamorando per la prima
volta. Mi chiedo se sarà lo stesso anche per me.
I
miei occhi corrono verso Damon prima che riesca a trattenermi. Del
resto, è l’unico che li conosca da tanto tempo
quanto me, e forse sono solo curiosa di sapere se anche lui stia
pensando la stessa cosa. Un veloce quanto inopportuno batticuore mi
sorprende quando, nella penombra, anche il suo sguardo è
rivolto verso di me.
Elijah,
accanto a me, mi dà una gentile stretta alla mano sinistra
che mi sta accarezzando, mentre la tiene tra la sua. Mi volto per
dedicargli un leggero sorriso. Potrò non sapere come
sarà tra sette anni, ma il modo in cui mi guarda,
così caldo e amorevole, sul momento è come sempre
in grado di dissipare ogni mia irrequietezza.
“Elena,
è un anello di fidanzamento quello?”
Mi
giro di scatto verso Andie che mi ha appena posto la domanda.
“Sì,”
annuisco mentre lei si protende di più verso di me per
ammirarlo meglio. Damon è solo pochi centimetri alla sua
sinistra, ma mi rifiuto di guardarlo e scoprire la sua espressione.
“Il matrimonio è a settembre.”
“E’
davvero meraviglioso. Non sapevo che steste per sposarvi,
congratulazioni!”
Elijah
si sistema meglio sulla sedia, senza lasciarmi andare la mano, e sotto
alle fievoli luci da giardino posso intravedere bene il sorriso
compiaciuto che gli distende il volto.
“Ero
ad Anversa quando l’ho visto. Non ho avuto un attimo di
dubbio. Così limpido e luminoso. E’ fatto per
lei.”
Una
specie di grugnito sommesso proviene dalla parte di Caroline, che
però si affretta a mascherarlo con un colpo di tosse, prima
di portarsi di nuovo il bicchiere alle labbra.
“Scusate,
non fate caso a me. Solo un po’ di gola secca.”
Con
la coda dell’occhio, vedo Damon prodursi in un lieve
sogghigno in direzione della propria cognata.
“Ho
davvero un debole per il romanticismo,” continua Andie
cordialmente, “Come vi siete conosciuti?”
Scambio
uno sguardo con Elijah che, con un piccolo cenno di assenso, mi invita
a rispondere.
“Mio
padre ha avuto qualche problema con l’alcol, ed è
andato in riabilitazione in una clinica di Petersburg un paio di anni
fa. Anche il fratello di Elijah si trovava lì.”
“Io
sono stato conquistato all’istante, ma questa ragazza
…” si avvicina la mia mano alle labbra e posa un
bacio sul dorso. Sorride con una leggera scintilla nello sguardo e, al
ricordo, anche io sorrido di rimando, “…
è stata difficile da far capitolare. Mi ci sono voluti sei
mesi per riuscire a strapparle un appuntamento. Ma sono felice di non
essermi arreso.”
“Si
sta facendo freddo, non pensate?” dice Caroline, passandosi
una mano sul braccio di fronte ad un’altra folata di brezza
notturna, decisamente più gelida. “Forse
è meglio se ci spostiamo dentro.”
Mi
getta un’occhiata eloquente, che mi fa capire che non pensa
sia una buona idea che Andie metta in moto il gioco del ʿe voi come vi
siete conosciutiʾ.
Ad
uno ad uno, dunque, ci alziamo, ed io mi attardo per aiutare Caroline a
sgombrare ciò che ancora è rimasto sui tavoli e a
portare il tutto in cucina.
Sto
finendo di ricoprire del cibo avanzato prima di metterlo nel frigo,
quando Damon compare dall’altro lato del bancone a isola, per
posare un altro piatto accanto a quello che sto incartando.
“Questo
era l’ultimo.”
Sono
praticamente le prime parole che mi ha rivolto direttamente in tutta la
sera, ma, del resto, è anche la prima volta che mi ritrovo
ad essere sola con lui. Dalla stanza accanto giunge il chiacchiericcio
degli altri che si sono spostati in sala, ma il fatto che Damon sembri
esitare ad andarsene mi dà la spinta giusta per parlare.
“E’
simpatica,” gli dico continuando a tenere lo sguardo fisso su
ciò che sto facendo. Metto più lentezza nel
richiudere i lembi della carta stagnola attorno al vassoio.
“Voglio dire è intelligente, e piacevole
…” oltre che indubbiamente affascinante, ma questo
me lo tengo per me.
“Lo
so,” si limita a rispondere, in un tono che non lascia
trasparire nulla.
“Sono
felice per te.”
“L’ho
appena conosciuta, non me la sto mica sposando.”
Mi
mordo le labbra e faccio finta di non aver notato la scelta delle
parole che ha usato.
“Non
penso che tu possa fare meglio di così,” prosegue
e questa volta alzo di scatto lo sguardo verso di lui per capire di
cosa stia parlando. C’è un mezzo sorriso divertito
sulle sue labbra quando con un cenno della testa mi indica
l’angolo attorno al quale sto continuando a piegare la
stagnola. Mi fermo immediatamente ma, prima che io possa replicare,
noto che il suo sguardo adesso si è spostato attorno al mio
collo, sul ciondolo che, tra la fretta e altre questioni per la testa,
mi sono infine dimenticata di togliere. Sono riuscita a tenerlo sotto
la maglia per tutta la sera, ma deve essermi sfuggito quando mi sono
sporta in avanti.
D’istinto,
porto le dita a coprirlo. Troppo tardi.
Qualcosa
si agita nei suoi occhi e le sue labbra si socchiudono per un attimo,
eppure, inaspettatamente, non fa alcun commento.
Solleva
gli occhi sui miei e non riesco ad evitarlo, il mio cuore perde un
battito quando ci ritroviamo solo io ed il così familiare e
contradditorio azzurro che si trova di fronte a me. Le voci
nell’altra stanza si affievoliscono un po’. Non
sarei in grado di guardare altrove neanche se lo volessi.
“Ti
va di … prendere un caffè insieme, uno di questi
giorni? Se questa cosa dell’amicizia e dei buoni rapporti
deve funzionare, abbiamo qualche anno da recuperare,” incurva
le labbra in un sorriso leggero che ha subito il potere di distendere
l’atmosfera e strappare un sorriso anche a me.
“Non
pensavo che fossi interessato,” dico sollevando un
sopracciglio, per tastare il terreno, mentre lascio andare la collana
che non mi ero accorta di stare ancora stringendo tra le dita.
Scrolla
le spalle.
“Tra
il dover tornare qualche giorno a San Francisco e il primo consiglio a
Richmond con il tuo fidanzato, ho solo avuto un sacco di cose a cui
pensare.”
“Certo
… ” annuisco, mentre un’improvvisa
contentezza mi scalda il petto. “Sarò felice di
poter prendere quel caffè.”
Mi
rivolge un altro cenno di assenso, prima di lasciare la stanza.
Finisco
di riporre anche l’ultimo vassoio con un vago sorriso sulle
labbra ed l’audace ottimismo che, forse, dopotutto, ci sono
ancora cose che possono di nuovo essere recuperate.
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Note: [1] Il
flashback è ambientato nel novembre 2004, e Funeral
è uscito nel settembre dello stesso anno, in Canada, poi
l’anno successivo nel resto del mondo. Questo per dire, anche
se forse non gliene fregherà niente a nessuno, che davvero
in quel momento gli Arcade Fire erano degli emeriti sconosciuti.
[2]
This: http://www.polyvore.com/lanvin_volume_skirt_with_green/thing?id=91825284&.locale=it
A
parte il prezzo, naturalmente, voi fate finta che sia di Zara o simili,
perché dubito che la nostra Elena qua potrebbe mai
permettersi di spendere così tanto su una gonna.
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Capitolo 8 *** Ever fallen in love? (...) ***
7.efp
7.
Ever
fallen in love?
(with
someone you shouldn’t’ve fallen in love with)
Damon
Mi sveglio ancora prima che faccia giorno, in un letto che non
è il mio. Se non altro, il profilo della donna al mio
fianco, quel caschetto biondo miele leggermente mosso che arriva a
sfiorarle le spalle, è familiare.
Lentamente,
mi giro fino a sdraiarmi sulla schiena e chiudo gli occhi per cercare
di riafferrare un sonno che tanto so che se ne è
già andato.
“Quindi
… Vuoi dirmi di che si tratta?” mi aveva domandato
Andie la sera prima non appena avevamo messo piede in casa sua, dopo
essercene andati dalla cena all’aperto con cui Barbie aveva
invaso casa mia.
“Di
che parli?”
“Oh,
andiamo, Damon. Sono la prima ad essere d’accordo con il
mantenere tutto molto disimpegnato, ma non mi piace essere presa in
giro, non ne ho il tempo. Tu e quella ragazza, Elena
…” Si era tolta anche il secondo tacco, aveva
gettato entrambi i sandali neri a terra accanto al divano e si era
avvicinata a me scalza, alzando un sopracciglio in modo eloquente.
“… il modo in cui ti guardava, il modo in cui tu
guardavi lei …. Se ne sarebbero accorti anche i sassi del
giardino ed io ho un quoziente di 125. Mi piace considerarmi
intelligente. Onestamente, mi chiedo se quel suo fidanzato sia davvero
così cieco o soltanto tanto bravo a fingere di non notarlo.
Quindi … qual è la storia? E’ la tua
ex?”
“Non
è la mia ex.”
Aveva
allungato le dita per iniziare a sbottonarmi, senza fretta, i bottoni
superiori della camicia.
“Ne
sei ancora innamorato?”
“Ti
ho detto, non è la mia ex.”
Un
veloce sorriso sagace mentre faceva saltare anche l’ultimo
bottone.
“Come
se una cosa escludesse l’altra.”
Le
avevo scansato i capelli dalla nuca e depositato un bacio sulla
porzione di pelle che avevo scoperto.
“Lo
sono stato, è vero,” mi ero ritrovato ad
ammettere, mentre cose a cui da tempo ho imparato a non pensare
iniziavano a minacciare di tornare a galla. Le avevo affogate di nuovo,
in una serie di baci più voluttuosi contro il suo collo.
“Molto tempo fa. E non avrei dovuto. Ho discretamente
incasinato parecchie cose.” Avevo raggiunto la cerniera
laterale del suo vestito e lo avevo fatto cadere a terra. La mia
camicia già aperta era seguita subito dopo. “In
ogni caso, non è un errore che intendo commettere di
nuovo.”
Non
appena i contorni della conversazione con Andie svaniscono, sono
inevitabilmente quelli di Elena che cominciano a susseguirsi dietro le
palpebre.
Elena
che cerca il mio sguardo ad ogni occasione. Elena che si porta le dita
a coprire un ciondolo che neanche pensavo potesse avere ancora. Elena
che mi sorride, con quell’accenno di fiducia negli occhi che
è sempre stato la mia rovina. Io che cedo, venendo meno al
mio proposito di non intromettermi più nella sua vita e
lasciarla essere felice nei modi che ritiene migliori. Cedo e la parte
peggiore è che in fondo non lo rimpiango nemmeno.
Anzi
no, la parte peggiore deve ancora arrivare. Arriva quando
ciò che, per un attimo, mi ritrovo ad immaginare sono lunghi
e lisci capelli color cioccolato sparsi sul cuscino, su
un’altra schiena nuda che non è quella che ho
accanto, insieme ad un ago infilato tra le costole a ricordarmi che
quella, invece, è un’immagine che non
vedrò mai.
Getto
un’occhiata alla sveglia sul comodino e noto che non sono
neanche le cinque, ma non ho mai sentito così forte
l’urgenza di allontanarmi da un letto e da qualcuno come in
questo momento. Raccolgo i vestiti sul pavimento, mi rivesto e me ne
vado col silenzio di una tecnica perfezionata negli anni. Quando chiudo
la porta, Andie non si è nemmeno mossa.
Torno a casa solo per cambiarmi i vestiti, indossare velocemente
maglietta e pantaloncini e buttarmi a correre tra i sentieri del bosco
che si allarga dietro la villa. Una di quelle corse decisamente
più lunghe di quanto dovrebbe, con i polmoni bruciati dal
vento freddo del mattino.
Quando
rientro sono già quasi le otto. Trovo Stefan e Caroline in
cucina a finire di fare colazione, entrambi già vestiti di
tutto punto, l’aria impregnata del gradevole odore di
caffè, pancakes e succo di arancia fresco.
“Li
hai preparati tu, Care?” domando alla biondina che sorseggia
il suo caffè in piedi, appoggiata contro il ripiano della
cucina, indicando le morbide frittelle rimaste impilate su un piatto al
centro del bancone. “Potrei quasi amarti.”
“Mettiti
in fila, allora,” replica lei, squadrandomi
dall’alto in basso mentre sollevo un lembo della maglietta
per asciugarmi il sudore dalla fronte. “E poi,
puzzi.”
“Dunque
non lo vuoi un abbraccio adesso?”
Le
passo accanto nell’allungarmi verso il lavandino alla sua
sinistra per versarmi un bicchiere d’acqua. Si allontana alla
svelta con un lieve picchiettio di tacchi ed una smorfia disgustata.
“Vado.
Ci vediamo stasera.”
Caroline
posa la sua tazza vuota e si protende su Stefan, che invece
è ancora seduto sullo sgabello vicino al bancone centrale.
Alzo gli occhi al cielo mentre si baciano, a lungo, lingua e mani e
tutto quanto.
“Ma
guardati, tutto contento,” lo provoco con fare canzonatorio,
quando la sua onnipresente fidanzata se ne è andata.
Si
stringe nelle spalle mentre dà una sciacquata a tazze e
piatti, ma con un abbozzo di sorriso che cerca malamente di mascherare.
Chiude l’acqua ed afferra uno strofinaccio appeso sulla
parete alla sua destra per asciugarsi le mani.
“C’è
una cosa di cui devo parlarti.”
“E’
incinta. Lo sapevo,” lo anticipo con un sogghigno ed una
pacca di congratulazioni sulla spalla.
“Non
è incinta. E smettila con questa fissa di farle fare
bambini,” si sottrae con un leggero imbarazzo e posa lo
straccio accanto al lavandino. “Ho intenzione di chiederle di
venire a vivere qui.”
Lo
guardo, stranito, per qualche secondo.
“Qui? Nel senso di qui in questa casa,
nel senso di qui
con te e me?”
Mio
fratello incrocia le braccia sul petto e si appoggia
all’indietro, ed ha un vago un mezzo sorriso compiaciuto
mentre replica, “Pensavo che tu non avessi intenzione di
rimanere a lungo nei paraggi.”
“Infatti,”
mi correggo subito. “Ma, Stef … sette giorni su
sette di … Caroline? Sei davvero sicuro di volerlo
fare?”
“Sembra
divertente, vero?” Questa volta è lui a darmi una
paio di pacche consolatorie sul braccio. “Inizia ad
abituarti.”
Rientrai a casa dal
lavoro nel negozio più tardi del solito, trovando accesa la
luce nella dependance che ormai mi faceva da casa. Perciò
non mi sorpresi di scoprire che Stefan mi stava aspettando seduto sul
limitare del divano alla destra dell’ingresso, con i gomiti
posati sulle ginocchia ed intento a fissare in modo assente la
cartolina che si stava rigirando tra le mani.
“Ehi,”
lo salutai gettando le chiavi sul basso tavolino di legno in fronte a
lui, “Cos’è quello?”
“Notizie
da Charlotte.”
Mi
tolsi la giacca e la buttai sul bracciolo accanto a lui.
“Dov’è
questa volta?”
Stefan alzò lo
sguardo per cercare il mio con una smorfia, intanto che con un rapido
movimento ruotava la cartolina tra le dita per mostrarmene il lato
anteriore: un alligatore pronto a mordere accompagnato dalla scritta
ʿHaving a snapping good timeʾ [1]. Che
amore.
“Florida.
Almeno le vacanze di Natale quest’anno le facciamo al
caldo,” commentai.
Stefan
si alzò e in un paio di passi mi raggiunse
dall’altra parte della piccola stanza, accanto
all’angolo cottura.
“Si
chiama Melvin, ha una barca e tre cani,” proseguì.
Depose la cartolina su un ripiano accanto ai fornelli, tirò
fuori dalla tasca i suoi bravi cinque dollari e ce li mise sopra
puntandoci il dito. “Le do sei mesi.”
“Con
uno che si chiama Melvin?” ribattei sarcastico. Tirai fuori
la mia parte della scommessa per unirla alla sua. “Gliene do
massimo quattro.”
Stefan
prese sia la posta in palio che la cartolina e li inchiodò
sul frigo in alto a destra con una calamita del servizio di pizza a
domicilio, a fare come sempre da memo alla nostra ormai radicata
abitudine di scommettere sulla durata delle fiamme amorose di nostra
madre.
“Volevo
parlarti di una cosa,” disse quindi, infilandosi entrambe le
mani nelle tasche di jeans e dondolandosi appena avanti indietro, come
ogni volta che si sentiva nervoso per qualcosa.
Dal
frigo presi due bottiglie di birra, le aprii e gliene porsi una. Mi
appoggiai all’indietro contro il lavandino a sorseggiare la
mia e gli feci cenno di continuare.
Stefan
se la rigirò un po’ tra le dita prima di buttarne
giù una lunga sorsata.
“Si
tratta di ragazze,” esordì quindi d’un
fiato, guardandomi incerto da sotto in su.
Sogghignai
tra me e me.
"Usa
il preservativo, abbastanza preliminari e, soprattutto, usa bene la
lingua, e vedrai che andrai alla grande.”
Si
accigliò, disorientato. “No. Voglio dire
… questo lo so già, grazie,”
ribatté.
Posò
la birra sul tavolino e si tirò su le maniche della felpa,
prendendo un profondo respiro.
“Intendevo che si
tratta di … ʿragazzeʾ.”
Iniziavo
a capire dove stesse andando a parare.
“Tipo
…” mi sfuggì una strana smorfia
“… sentimenti?”
“Sai
cosa?” sospirò, “Lascia stare, non era
poi così importante.”
“Andiamo,
stavo scherzando,” lo richiamai di nuovo, sporgendomi per
dargli un colpetto sulla spalla. “Posso farcela. Fratello
maggiore a rapporto.”
“Ok,
mettiamo che … hai fatto un casino.”
Iniziò a camminare avanti e indietro, mentre mi chiedevo
come mai, chissà perché, i casini dovevo farli
sempre io. “Diciamo che - ipoteticamente -
c’è questa ragazza. E ti piace. Parecchio. Ma non
dovrebbe, dovrebbe piacerti qualcun’altra. Pensavi ti
piacesse qualcun’altra.” Assottigliai lo sguardo su
di lui, che intanto si era ripreso la bottiglia e di nuovo se la stava
incessantemente rigirando tra le dita. “Quindi le dici che
non sei interessato, e non lo sarai mai. E adesso lei ti
odia.”
Continuai
a guardarlo perplesso, con la birra in mano a mezz’aria,
senza avere la minima idea di cosa diavolo stesse blaterando. Mi sarei
forse messo a ridere, se non fosse stato per l’espressione
grave che aveva in faccia.
Mi
gettò un’altra occhiata speranzosa.
“… Cosa faresti?”
“Ipoteticamente,
eh?” ripetei, ma con un’altra occhiata frustrata mi
stroncò sul nascere qualsiasi potenziale battuta.
“Non lo so, lascerei perdere immagino.”
“Ma
non voglio lasciar perdere,” protestò.
“Hai mai avuto la sensazione, immediata, che con qualcuna le
cose siano semplicemente …. Diverse?”
Serrai
le labbra mentre mi soffermavo a pensarci, ma con scarsi risultati.
Insomma, l’unica ragazza che potessi associare alle parole di
Stefan era Elena, ma quella era tutta un’altra storia. Certo,
le cose erano diverse con lei, ma non nel senso in cui potesse
intenderlo lui.
Elena
era … Elena. Mi ero ripromesso di non iniziare a pensare a
lei sotto qualsiasi altro punto di vista. Di non mandare in alcun modo
le cose all’aria. E poi, era una ragazzina, e decisamente
aveva già troppo pensieri per lasciare che a questi mi ci
aggiungessi anche io.
“Mi
dispiace, Stef,” dovetti ammettere, andando ad incrociare il
suo sguardo sconfortato. “Non penso di avere grandi
suggerimenti in questo caso.”
E’ tardi, come minimo l’una passata.
Ma,
dopo una videochiamata di tre ore con Alaric per mandare avanti le cose
anche a distanza, sono ancora qui, nell’ufficio che una volta
era di mio padre, con le gambe allungate sul divano di pelle che
fiancheggia un lato della stanza perché allergico a
qualsiasi genere di scrivania, soprattutto la sua. Sfoglio i verbali
del consiglio degli azionisti della settimana scorsa, con il fermo
intento di scovare, tra i progetti e le proposte che sono state
discusse, una qualsiasi cosa in grado di risollevare le sorti della
compagnia e tirarmi fuori da questo buco.
Finora,
ho trovato davvero poco.
Volto
la testa quando vengo richiamato da un colpo leggero sulla porta.
“Sto
andando a casa,” mi annuncia Stefan facendo capolino.
Ha
il suo ufficio proprio accanto a questo qua, gentile cortesia dovuta al
fatto che a differenza di me lavorasse qui già da prima che
nostro padre ci lasciasse nei casini. Io, d’altro canto, sono
praticamente inchiodato nella medesima stanza in cui avevo giurato di
non mettere più piede.
Alzo
lo sguardo davanti a me, fissandolo verso la finestra alle spalle della
scrivania.
“Perché
pensi che abbia voluto lasciare a me la quota di
maggioranza?” gli domando corrugando appena la fronte.
Stefan
lascia la porta socchiusa, avanza di qualche passo e si appoggia contro
la scrivania a braccia conserte, una gamba incrociata sopra
l’altra.
“Non
so,” alza le spalle, “Però forse lo
capiremmo, se solo tu leggessi quella lettera ….”
“Non
voglio leggere la lettera,” lo fermo subito.
“Voglio sapere cosa ne pensi tu.”
Ci
pensa qualche secondo. “Gli mancavi.”
Scuoto
la testa e piego la bocca in un sorriso doloroso.
“Stronzate.
Non avrebbe mai preso decisioni importanti basandosi su stupidi
sentimentalismi. E poi, se fosse stato quello, avrebbe potuto prendere
quello stramaledetto telefono e chiamarmi. Non l’ha mai
fatto.”
“Dovresti
leggere la lettera,” ribadisce, “Non capisco
perché ti ostini a non farlo.”
“Vuoi
sapere il perché? Ok. Perché tu pensi che sia una
sviolinata sui rimpianti ed il valore della famiglia.” Gli
getto un’occhiata, vedo le sue labbra contrarsi sottilmente e
so che ho colto alla perfezione il suo pensiero. “Non
negarlo. Ma io so che non è così. In ogni caso,
qualsiasi cosa avesse avuto da dirmi, ha avuto otto anni per farlo.
Adesso, non me faccio niente.”
Stefan
inclina il capo ed abbassa lo sguardo sulle sue scarpe sportive, alle
quali non riesce a rinunciare neanche in un ambiente più
professionale. Mi fa pensare che, da qualche parte, sia ancora il
ragazzino sempre con l’incrollabile ed ingenua speranza che
per qualsiasi problema si possa trovare una soluzione.
Tuttavia,
non ribatte questa volta, lasciando che il silenzio si estenda ancora
un po’ più a lungo.
“Dovrei
andare.” Mi passa accanto ed esita, fermandosi sulla porta.
“Non fare troppo tardi,” mi dice quindi prima di
andarsene.
Cerco
di ritornare a quello che stavo facendo, anche se è
pressoché impossibile. Continuo a leggere le stesse righe e
gli stessi dati per minuti interi senza neanche vederli.
Lo
squillo del cellulare mi distrae. Allungo una mano
all’indietro, verso il comodino a cui sto dando le spalle,
per afferrarlo e vedere di chi si tratti, anche se in fondo lo sapevo
già. Andie.
Esito
qualche istante. Poi ignoro la chiamata, insieme alla prospettiva di un
po’ di un sesso per la notte. Non sono neanche troppo
sorpreso di vedere che lei non insiste.
Mi
alzo e vado fino alla finestra, per chiudere le veneziane, finire
lì la giornata ed uscire finalmente da quella stanza.
C’è
uno scorcio della fontana al centro della piazza principale che spicca
nel mezzo del buio più rischiarato rispetto al resto. Colpa
di un paio di luci ancora accese provenienti dal Grill, che si
riflettono sulla superficie dell’acqua e che mi portano a
domandarmi se per caso non sia troppo tardi per andare ad incassare
quel famoso caffè insieme alla proprietaria.
“Mi sono già perso l’ultimo
giro?”
Elena,
di spalle, sobbalza così violentemente che un vassoio vuoto
le cade di mano, abbattendosi sul pavimento con un tonfo metallico. Si
volta di scatto e si porta una mano all’altezza del petto non
appena mi vede uscire dalla cucina.
“Santo
cielo, Damon, mi hai spaventato a morte!” esclama chinandosi
per raccogliere il vassoio e posarlo sul bancone. Si passa il dorso
della mano sulla fronte e sospira pesantemente. “E’
chiuso, come diavolo hai fatto ad entrare?”
Avanzo
di qualche passo nel locale deserto, rivolgendole un veloce sogghigno.
“Ho
usato il vecchio trucchetto con la porta di servizio,” spiego
facendo riferimento ad un difetto nella porta delle cucine che mi aveva
mostrato anni prima. “Non pensavo neanche che avrebbe
funzionato. Dovresti pensare a farla sistemare. Ehi, Jenna.”
Jenna
esce dalla dispensa e si blocca sorpresa nel vedermi. Mi squadra
accigliata.
“Ehi,
Damon,” risponde, marcatamente sospettosa, mentre io mi siedo
su uno sgabello davanti al bancone e le sorrido pacifico.
“Che succede?”
“Jenna,
puoi andare se vuoi. Qua finisco io,” le dice Elena.
“Sei
sicura?”
Le
due si scambiano un lungo sguardo. Elena infine annuisce ed accompagna
Jenna alla porta principale per farla uscire, quindi la richiude di
nuovo dando un paio di giri di chiave.
Si
volta di nuovo, ma rimane qualche secondo ancora ferma
sull’ingresso, dalla parte opposta del locale. Vengo colpito
dall’improvvisa consapevolezza che siamo per davvero solo noi
due e, forse, è lo stesso anche per lei. A dispetto di
ciò che ha detto, non sembra più così
sicura adesso.
“E’
tardi, Damon …” sottolinea l’ovvio e,
probabilmente, anche l’inappropriatezza, mentre infine si
muove per raggiungermi.
“Lo
so,” le faccio sapere, a bassa voce. “Immagino di
non essere mai stato bravo a scegliere il momento giusto.”
Le
suscito l’accenno di un debole sorriso.
“Posso
andarmene, se vuoi.”
A
giudicare dal conflitto che le attraversa lo sguardo,
c’è una parte di lei che quasi lo spera. Solo che
poi scuote la testa e si siede, sullo sgabello adiacente.
“No.
Resta.”
“Quindi
… come vanno le cose?” chiedo, ruotando di un poco
il busto verso di lei.
“Vanno
bene, in realtà …” piega appena le
labbra verso l’alto, lo sguardo abbassato sulle sue mani,
distese sul bancone.
Sono
così vicine alla mia che l’idea di sfiorarle con
le dita è un istinto paurosamente naturale. Ma
c’è quell’anello onnipresente a
ricordarmi che, in realtà, non lo è.
“Sono
contento che tuo padre si sia rimesso in sesto,” le dico
piano, ripensando a ciò che aveva detto un paio di sere
prima dopo il barbecue in giardino.
Increspa
le sopracciglia e socchiude le labbra, ma si blocca come se fosse stata
sul punto di dire qualcosa ed avesse cambiato idea all’ultimo
momento.
“Sai,
circa due anni fa …” comincia quindi,
“Una sera era rientrato a casa in condizioni peggiori del
solito. Lui e Jeremy hanno iniziato a litigare, pesantemente. Non so
neanche come, ma sono arrivati alle mani. E’ stato orribile.
E’ stato lì che ha capito che era andato troppo
oltre, è andato in riabilitazione dopo pochi giorni. Non si
è mai perdonato per quella sera.”
Sentirla
parlare è una ferita ricucita a malapena che si riapre di
colpo tutta insieme. Avrei dovuto esserci.
“Come
sta Jeremy?” domando, pensando che io, al posto suo, non
avrei preso affatto bene una situazione del genere.
Sul
suo volto una piccola smorfia si confonde con un sorriso amaro.
“Vorrei saperlo. Per di più, ha smesso di parlarmi
da quando l’ho sorpreso nella dispensa a fare sesso con una
cameriera.”
“Lui
…” aggrotto la fronte, pensando di non aver capito
bene. “… cosa?”
Devo
essermi lasciato sfuggire un mezzo ghigno, perché Elena mi
lancia un’occhiataccia storta.
“Non
esserne così colpito! Jer era minorenne fino a
solo due mesi fa!” esclama indignata, mentre io mi
sforzo di non ridere di nuovo, “Sono così felice
di averla licenziata.”
“Hai
licenziato la sua ragazza? Ci credo che è
incazzato.”
Le
si spalancano gli occhi per l’indignazione. “Da che
parte stai? ...”
“Andiamo,
Elena, è un ragazzo ed ha diciotto anni. E’ chiaro
che non pensa con la testa.”
“E
con cosa …?” si interrompe da sola di fronte al
mio sopracciglio alzato, e dal cipiglio confuso passa
all’improvvisa illuminazione. “Ooh.”
Ciò
che segue dopo è facile. Fin troppo facile.
E’
facile starla ad ascoltare intanto che pian piano si rilassa e ammette,
coprendosi la fronte con una mano, che quella è
probabilmente la cosa più imbarazzante che le sia mai
capitata, e ciò include un paio di circostanze degli anni
del liceo di cui solo in pochi siamo a conoscenza e che avrebbero
decisamente potuto contendersi il premio.
E’
facile saltare da un argomento all’altro. E’ facile
essere catturato dalle risate che si liberano dalle sue labbra quando
la metto al corrente dei momenti più bizzarri di Alaric.
Credere al modo in cui dice che le piacerebbe da morire poterlo
incontrare.
Nessuno
dei due ha veramente voglia di andare a toccare argomenti –
matrimoni e cuori spezzati, passati e non – che potrebbero
infrangere la fragile illusione che per un attimo sembriamo esserci
creati.
E
forse è anche un po’ colpa della notte, che si sa
tende a far cadere più facilmente qualsiasi apparenza, anche
quelle meglio costruite, ma è dannatamente facile anche
ritrovarmi a riconoscere quanto Elena mi sia mancata, mentre me ne
stavo dall’altra parte del continente.
Così
come è facile ricadere, di nuovo, in una vaga sensazione di
amarezza al pensiero di ciò che avrebbe potuto essere, della
quale ero certo di essermi liberato. Per un attimo penso che forse, se
non fossi stato così avventato, se avessi aspettato, se le
avessi dato più tempo …
Per
fortuna mi costringo ad interrompere il mio inutile e pericoloso gioco
dell’ ʿe se …ʾ prima che possa andare troppo oltre.
Accade
tutto talmente in fretta che in un batter d’occhio sono quasi
le quattro del mattino, ed è qualcosa di piuttosto
imbarazzante da realizzare. Tanto che il quieto commiato sulla porta
che segue a quelle poche ore che abbiamo condiviso, in mezzo ad una
cittadina adesso davvero deserta, è l’unico
momento che porta con sé un non meglio imprecisato disagio.
Non so neanche io bene perché, ma credo che sia un bene non
sforzarsi di capirlo.
Ottenere un pomeriggio
libero, da Rose, era un evento piuttosto raro, dunque immaginai di
dover ringraziare la comparsa inaspettata di un “vecchio
amico” che, da quel poco che avevo avuto modo di intuire, era
un mezzo cantante itinerante che di atteggiamento amicale aveva ben
poco. Mi avevano cacciato fuori dal negozio alla svelta, appena prima
di avvinghiarsi sulla prima superficie disponibile.
Non
avevo nessun programma, di conseguenza una visita al Grill era
sembrata, sul momento, una buona idea. Ingenuo che non ero altro.
“Ehi.
Jenna.”
La
barista carina, anche quel giorno come al solito di turno nel tardo
pomeriggio, sollevò lo sguardo verso di me e mi sorrise di
rimando. Quando arrivai vicino al bancone, non ebbi neanche bisogno di
chiedere.
“Se
cerchi Elena, Damon,” mi disse mentre finiva di spillare una
birra. “La trovi nel retro.”
Girai
quindi sulla sinistra attorno al bancone, conoscendo ormai
perfettamente la strada, passai davanti alla cucina e percorsi lo
stretto corridoio fino alla porta lasciata socchiusa del piccolo
ufficio.
Stavo
per aprirla, ma ciò che intravidi dallo spiraglio rimasto
aperto mi fece immobilizzare all’istante.
Elena,
di spalle, incrociò le mani per afferrare i bordi della
t-shirt nera e tirarli su, fin sopra la testa. Prima che i lunghi
capelli bruni si liberassero dalla maglietta per ricadere di nuovo,
leggermente elettrizzati, mi si presentò una fugace visione
della sua schiena.
Nuda.
Niente
reggiseno.
Ruotò
appena su stessa, quel tanto che bastava per afferrare il ricambio
posato lì vicino.
Non
riuscii ad evitarlo. Lo sguardo mi cascò sulla morbida curva
disegnata dal profilo del seno prima ancora che avessi il tempo di
poter razionalizzare. Deglutii a forza intanto che, in gola, qualcosa
si inspessiva all’istante. Non solo lì.
Mi
ritrassi di scatto, prendendomi qualche secondo per appoggiarmi alla
parete del corridoio, chiudere gli occhi e riprendere il controllo.
ʿMaledizione, datti un contegno,ʾ mi ripetei mentalmente. Neanche
avessi visto certe cose per la prima volta.
“Ehi.”
Quasi
trasalii quando mi sentii chiamare da Elena, mentre usciva dalla stanza
chiudendo, questa volta del tutto, la porta alle sue spalle. Non poteva
pensarci prima?
“Non
ti aspettavo oggi,” mi squadrò con aria
improvvisamente preoccupata, “E’ tutto a
posto?”
Con
un’altra rapida sbirciata, diedi un controllo veloce. Nuova
maglietta e questa volta, sì, un reggiseno al di sotto.
Annuii in risposta, concentrandomi per non fissarci troppo sopra lo
sguardo.
“Ho
un pomeriggio libero.”
“Bene.
Stavo andando a prendere Jeremy agli allenamenti, vieni con
me?” mi chiese mentre con le mani si raccoglieva i capelli e
li fissava in una coda alta.
“Ok.”
“Sei
sicuro di stare bene?” mi domandò soppesandomi
attenta con lo sguardo, mentre ci incamminavamo fuori dal locale.
“Sembri … strano.”
“Sto
benissimo. Andiamo.”
Abbastanza
fastidiosamente, continuò lo stesso a gettarmi occhiate
dubbiose finché non arrivammo al piccolo campo da baseball.
Ci sedemmo entrambi sugli spalti sul lato sinistro, in mezzo a mammine
apprensive e padri troppo coinvolti per notare quanto i loro figli
facessero schifo, a guardare un branco di ragazzini troppo magri o
troppo cicciottelli giocare la peggiore partita che avessi mai visto in
vita mia.
“Forza,
Jer! Puoi farcela!” gridò Elena sporgendosi in
avanti quando suo fratello si alzò dalla panchina e, con una
faccia da patibolo, iniziò a dirigersi verso il quadrante e
a mettersi in posizione per colpire la palla.
“Perché
lo stai illudendo così? Quel ragazzo è
terribile,” commentai con una smorfia, distendendomi
all’indietro appoggiato sui gomiti, mentre Jeremy faceva
roteare la mazza nel vuoto e mancava la palla di almeno cinque
centimetri.
“Si
chiama incoraggiamento,” sbuffò Elena con
un’alzata di occhi al cielo. “Ne hai mai sentito
parlare?”
Aggrottai
la fronte mentre, a dispetto del suo tono retorico e sarcastico, mi
prendevo qualche secondo per riflettere sulla sua domanda.
“Non
proprio.”
Tornai
a guardarla, ma era di nuovo tutta concentrata sulla partita.
Le
coda alta le scopriva la curva del collo. La percorsi con lo sguardo a
partire dall’incavo dietro all’orecchio, verso il
basso, lungo la gola, fino al solco della clavicola, dove appena
più sotto …
“
…. e tuo fratello è uno stronzo.”
Scattai
di nuovo con lo sguardo verso l’alto, sicuro di non aver
capito bene.
“Cosa?”
“Ma
mi stai ascoltando almeno?” chiese assottigliando lo sguardo
su di me. “Ho detto che tuo fratello è uno
stronzo.”
Perplesso,
accennai un vago sorriso che però non fece altro che
attirarmi un altro sguardo fulminante.
“Lo
trovi divertente?”
“Abbastanza,
in realtà. Insomma, sono sicuro che lui si sente ripetere
una cosa del genere praticamente di continuo, ma per me …
questa è di sicuro una prima volta. Cos’ha
fatto?”
“Caroline
non se lo meritava. Lei stava solo cercando di essere gentile.
E’ stato così …. cattivo da parte sua,
trattarla male in quel modo! E dirle che non sarà mai
interessato a lei, solo perché ad un tratto è
arrivata la sua ragazza.”
La
osservai scuotere la testa, il naso corrucciato in
un’espressione infastidita per il grave oltraggio subito
dalla sua amica, mentre io venivo lasciato a mettere insieme i pezzi, a
dir poco confusi, di cosa cavolo avesse voluto dire Stefan un paio di
giorni prima.
Un
fischio prolungato segnò la fine dell’allenamento
ed Elena balzò in piedi per raggiungere il fratello, che
intanto si apprestava a lasciare il campo con aria mesta.
“Andrà
meglio la prossima volta, Jer.”
Il
ragazzino replicò solo con una smorfia ed una scrollata di
spalle. Lei sospirò e lo seguì con lo sguardo
mentre andava a togliersi, con gesti stizziti, le protezioni.
Mi
alzai anche io e la raggiunsi, mentre mi spremevo per farmi venire una
qualche idea in grado di farle sparire dal viso
quell’espressione affranta. Non avevo idea di cosa fosse che
andava a smuovere, dentro di me, ogni volta che la vedevo
così triste.
“Senti
…” iniziai, infilandomi le mani nelle tasche
laterali della giacca di pelle. Il motivo per cui l’amico di
Rose era piombato in città mi aveva improvvisamente dato uno
spunto. “ … So che c’è una
specie di festival cittadino a Blue Ridge, sai, con
…” presi un profondo sospiro, non potevo credere
che lo stessi dicendo veramente, “… musica locale,
e dolci, e cuccioli carini, e sì, insomma, tutte quelle robe
che piacciono tanto ai bambini. E’ solo un’ora di
macchina. Vuoi andare? Magari lo tira su di morale.”
Elena
si voltò e dischiuse appena le labbra, osservandomi stupita.
“Lo
faresti?” chiese con un filo di speranza a trasparire dalla
voce.
Mi
strinsi nelle spalle. “Tanto non ho altro di meglio da
fare.”
Partì
da un angolo delle sue labbra, che si curvarono di un poco verso
l’alto. Il momento dopo, strano ma vero, Elena stava
sorridendo. Completamente. Insomma, occhi, guance, naso. Tutto. Non
sapevo neanche che ne fosse capace, di sorridere in quel modo.
E,
dio, se fu una bella sensazione.
Questa volta non è un campo da baseball: grazie a dio il
ragazzo ha capito che non era proprio storia.
Mi
avvicino all’area in cemento, sulla quale sbiadite linee
bianche ed un solo canestro sulla destra dall’ombra allungata
sono quanto più si avvicini ad un campo da basket. Mi siedo
su una panchina all’ombra tiepida di fine pomeriggio, accanto
a borsoni e felpe abbandonate, e mi metto a guardare, di fronte a me, i
cinque o sei ragazzi che si urlano contro mentre si contendono la
palla.
Jeremy
mi nota quasi subito ma, a parte un attimo di distrazione, per il resto
fa finta di niente e continua a giocare. Così aspetto,
pazientemente, fino a che la partita improvvisata non finisce ed i
ragazzi iniziano a separarsi con svariate pacche sulle spalle.
Jeremy
saluta gli altri e si dirige spedito verso uno dei borsoni, ci fruga
dentro e prende un lungo sorso dalla borraccia che ne tira fuori, senza
guardarmi neanche per sbaglio.
“Cosa
vuoi?” mi chiede però, freddamente.
“Stavo
solo guardando la partita,” mi stringo nelle spalle.
“Non fai completamente schifo.”
“Stronzate,”
ribatte con una smorfia. Con un gesto brusco afferra una felpa che era
scivolata per terra, le dà una scrollata e se la infila,
lasciando la cerniera aperta sul davanti. “Ti ha mandato mia
sorella.”
“Cosa
sono, il suo galoppino?” replico con fare offeso.
“Tua sorella se vuole può parlare da
sola.”
Un
altro ragazzo con gli occhi scuri, un piercing al sopracciglio e l’aria
da sbruffoncello
si avvicina, squadrandomi dall’alto in basso.
“Allora
vieni?” domanda a Jeremy.
“Sì,
arrivo. Dammi solo momento, Kol [2].”
Il
suo amico si allontana e Jeremy afferra il proprio borsone per
metterselo sulle spalle.
“Ok,
senti,” torna a rivolgersi a me, sbrigativo. “Non
mi serve nessuna lezione di vita da un tizio a caso che crede che siamo
amiconi solo perché giocavamo ai videogiochi quando ero
bambino.”
Gli
scoppio a ridere in faccia, cosa che per un attimo lo lascia interdetto.
“Lezione
di vita? Ma mi hai visto? Non sono nella posizione di dare lezioni di
vita a nessuno.”
Continua
ad osservarmi, guardingo. Non posso certo dire di conoscere il ragazzo,
considerando che, prima di ritrovarmi di nuovo a Mystic Falls,
l’ultima volta che ci avevo interagito non era neanche alla
soglia della pubertà. Ma, in mezzo a tutta quella
diffidenza, mi sembra ugualmente di vedere un barlume di interesse.
“E
allora cosa vuoi?” mi chiede, alzando un sopracciglio.
“Riportare
il tuo culo a casa.”
“Allora
stai sprecando il tuo tempo.”
La
piccola apertura di qualche secondo prima se ne va
all’istante e, visto che gira sui tacchi, vedo che anche lui
è sul punto di fare la stessa cosa.
“Ehi.
L’ho capito,” di colpo mi alzo in piedi e lo
richiamo con una leggera spinta sulla spalla. E’
più che mai infastidito, ma almeno si volta di nuovo ad
ascoltarmi mentre io proseguo in tono più duro.
“La vita fa schifo, bella scoperta. Cosa hai intenzione di
farci? Prendertela con l’unica persona a cui importa qualcosa
di te solo perché ti ha licenziato la fidanzatina?”
“Non
è la mia ragazza, ok?” ribatte con più
rabbia del necessario. “Anzi, se proprio vuoi saperlo, dopo
quello che è successo mi ha mollato subito senza pensarci
due volte! Non gliene fregava un cazzo di me.”
Ed
ecco che di colpo capisco, cos’è che lo tormenta
davvero. E’ vero, dopotutto, che spesso non è il
cervello ciò con cui ragioniamo e che non
c’è niente di peggio di un cuore spezzato per
iniziare a comportarsi da vero idiota.
“Le
stronze capitano,” dico con una smorfia e la consapevolezza,
questa volta, di poter parlare per esperienza. “Benvenuto nel
club.”
Non
replica, ma intuisco lo stesso che potrei aver fatto centro quando,
invece di spararmi un’altra rispostina stizzita, getta il
borsone a terra e si siede, sulla panchina, con i gomiti posati sulle
ginocchia e lo sguardo su un punto imprecisato davanti a sé.
“Come
sta Elena?” mi chiede piano, dopo un po’.
Prendo
la sua borsa, gliela tiro di nuovo e con la testa gli faccio cenno di
andare.
“Andiamo
a casa e chiediglielo tu stesso, campione.”
Fermai la macchina nel
vialetto di ingresso di casa Gilbert. Le luci al piano terra erano
accese.
“Mio
padre è già a casa,” mormorò
Elena, osservandole. “Non è un buon
segno.”
Guardai
l’ora sul display della radio e notai che era oltre
mezzanotte. La nostra gita fuori programma era durata un po’
più del previsto.
“Pensi
che si arrabbierà?” domandai, preoccupato di
averla messa nei casini.
“Penso
che neanche se ne accorgerà,” rispose con una
strana nota nella voce, continuando a guardare davanti a sé.
La Elena di qualche ora prima, quella che girava estasiata tra le
bancarelle e che aveva insistito per rimanere almeno per sentire
l’inizio del concerto serale, era già sparita.
Gettò uno sguardo verso il fratello, che durante il ritorno
si era addormentato sui sedili posteriori, e prese un lungo sospiro.
“Andiamo.”
L’accompagnai
fin dentro casa, con alle calcagna il piccoletto che rischiava di
crollare a terra per il torpore da un momento all’altro.
Elena dovette raddrizzarlo almeno un paio di volte.
Quando
entrammo, Grayson Gilbert era steso scompostamente sul divano,
più privo di sensi che addormentato, a giudicare dalla
persistente traccia di alcol che era possibile avvertire
nell’aria.
“Puoi
portare Jeremy di sopra?” mi chiese Elena, fin troppo
imperturbabile.
Con
una mano sulla schiena spinsi un Jeremy barcollante di sonno verso le
scale, anche se a metà mi voltai per gettare
un’altra occhiata verso la sala, in tempo per vedere Elena
sistemare un paio di cuscini sotto la testa del padre e mettergli una
coperta addosso.
Io,
al posto suo, non lo avrei fatto.
“Avanti,
ragazzino, ora della nanna,” dichiarai solennemente quando lo
ebbi infine scortato fino alla porta della sua camera.
Si
voltò a guardarmi, gli occhi gonfi ma curiosi, fin troppo
per i miei gusti.
“Sei
il fidanzato di mia sorella?” mi domandò.
Così, di punto in bianco.
“Cosa?”
esclamai con una smorfia. “No.”
“A
me sembri il suo fidanzato.”
Assottigliai
lo sguardo su di lui, osservandolo dall’alto in basso, per
capire se fosse serio o se stesse solo cercando di prendermi per il
culo.
“Non
sono il suo fidanzato. Proprio no. Nel modo più
assoluto.”
“E
allora cosa sei?”
“Jer?”
La voce di Elena giunse dalle mie spalle, dalla cima delle scale. Mi
voltai, felice di non dover rispondere, e, un paio di secondi dopo,
anche lei ci aveva raggiunto. “E’ tardi, vai a
dormire.”
Lo
accompagnò fin dentro la camera, gettandomi uno sguardo
silenzioso nel passarmi davanti, mentre io rimanevo in corridoio, con
la stupida domanda di un ragazzino di dieci anni ancora sulla mia testa.
“Non
fare caso a lui,” mi disse Elena sottovoce quando riemerse
dalla camera di Jeremy, chiudendosi la porta alle spalle.
Misi
su un mezzo sorriso, probabilmente piuttosto tirato, ignorando la
strisciante sensazione di ambiguo scombussolamento che mi aveva colto
tutto insieme.
“Nessun
problema.”
“Grazie
per oggi. Mi sono divertita. E anche Jeremy,”
bisbigliò, una segreta contentezza che per un attimo
riaffiorò nella sua voce sommessa. “Buonanotte,
Damon.”
Senza
assolutamente nessun preavviso, si sporse sulle punte,
accostò il volto al mio e premette le labbra sulla mia
guancia. D’istinto chiusi gli occhi, mentre sentivo il lieve
solletico dei suoi capelli sul collo, il vago profumo di zucchero
filato che vi era rimasto addosso, la morbidezza della sua bocca sulla
mia pelle.
Quando
si staccò, la voglia di non permetterglielo fu improvvisa e
prepotente. In quella frazione di secondo, pensai davvero che
l’avrei attirata di nuovo verso di me e baciata, baciata
davvero, solo per scoprire che sapore potesse avere e cosa si provasse
ad avere il suo corpo, al quale tutto il giorno avevo cercato
così disperatamente di non pensare, contro il mio.
Invece,
rimasi con entrambe le mani affondate nelle tasche della giacca,
più rigide che mai, senza muovermi di un solo millimetro.
E
fui contento di non aver mosso un muscolo.
Non
avrebbe portato ad altro che disastri. Decisamente non ero il tipo
adatto a fare il fidanzato di nessuna e, con tutta
probabilità, neanche lo sarei mai stato.
“Capolinea,” annuncio accostando la Camaro al
marciapiede.
“Guarda
che casa mia è là più
avanti,” mi ricorda sarcasticamente Jeremy indicando con il
dito, qualche centinaio di metri più avanti, una casa i cui
contorni iniziano a perdersi nel crepuscolo che avanza.
“So
perfettamente dov’è casa tua,” replico
mentre giro la chiave per spegnere il motore. “Ma tu da qui
te ne vai a piedi.”
Mi
guarda stranito corrugando le sopracciglia, io rimango impassibile. Gli
faccio anche sciò-sciò con la mano, nel caso il
concetto non fosse ancora abbastanza chiaro.
Scrolla
le spalle e finalmente si decide ad aprire la portiera. “Come
vuoi.”
Non
un ʿci vediamo in giroʾ, non un ʿgrazie per il passaggioʾ. Quel piccolo
ingrato.
Poggio
il gomito contro lo sportello alla mia sinistra e le dita sul volante,
pronto a ripartire.
Tra
un paio di minuti.
Rimango
ad osservare Jeremy camminare lungo il marciapiede con le mani in
tasca, tirare un calcio a un sassolino che si è trovato
davanti, riposizionarsi la borsa sulla spalla, fino a che non arriva
alla casa. Nella distanza, una luce si accende al piano inferiore ed
un’altra la segue quando la porta di ingresso si spalanca,
per lasciar uscire Elena che si precipita ad abbracciare il fratello.
Visti
da qui, non sono altro che due figurine scure nella luce fioca della
sera. Ma posso immaginare il sorriso che lei deve avere in questo
momento ed è sorprendente quanto possa essere, ancora oggi,
una bella sensazione.
-------------------------------------------------------
Note:
[1]
Gioco di parole un po’ intraducibile sul doppio significato
di “snap” = chiudersi di scatto (come il morso del
coccodrillo) e qualcosa di simile all’ “essere in
forma”
[2]
Kol qua è un amico di Jeremy, quello da cui lui era andato a
stare. Non è il fratello di Elijah, non ci incastra niente
ed è del tutto irrilevante. Probabilmente, neanche lo
rivedrete più.
Spazio
autrice.
Buonasera! C’è qualcuno che si ricorda ancora di
me e di questa storia? ...
Spero,
naturalmente, di sì, così come spero che siate
riuscite a riprendere il filo delle vicende dove le avevamo lasciate,
nonostante la lunga pausa negli aggiornamenti.
E’
stato un periodo che non mi ha davvero lasciato spazio per efp, ma ho
approfittato di questi giorni di calma pre-vacanze per cercare di
recuperare un po’ del tempo perso e pubblicare questo
capitolo.
Spero
solo che come ritorno non vi abbia deluso. E’ stato un
capitolo forse più introspettivo ma era un passaggio
importante dal punto di vista di Damon, che forse non si è
così liberato di quello che prova/provava per Elena come
crede/vuole credere. Ma non temete che presto di cose inizieranno a
succederne fin troppe.
Titolo/citazione
ispirato dalla canzone dei Buzzcocks, Ever
fallen in love (with someone you shouldn’t’ve
fallen in love with)? Letteralmente:
Ti sei
mai innamorato (di
qualcuno di cui non avresti dovuto innamorarti)?
Piccola
curiosità: ci sono due commenti fatti da Damon che al
momento possono essere sembrati senza molta importanza, e che forse
avrete a malapena notato … Ma non sono stati messi a caso, e
vi assicuro che tra qualche capitolo assumeranno tutto un altro significato. Qualche
idea? :)
Se tutto va bene, conto di tornare
con il prossimo aggiornamento
intorno ai primi gennaio.
Con
questo vi mando un abbraccio e auguro un Buon Natale e buone feste a
tutte voi, con la speranza che non mi abbiate abbandonato del
tutto e di potervi sentire anche nei commenti! :)
A presto
|
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Capitolo 9 *** Temporary escape ***
8. efp
8.
Temporary
escape
- Can't help myself but count the flaws
Claw my way out through these walls
One temporary escape
Feel it start to permeate -
(Young Blood, The Naked And Famous)
Elena
Prendo un altro sorso del mio caffè e lascio vagare lo sguardo oltre
l’ampia vetrata, verso la strada che, anche se ancora poco trafficata,
sta iniziando sempre più velocemente a prendere vita.
Dall’altra
parte del marciapiede, una donna sulla trentina dall’aria molto chic si
china per inginocchiarsi all’altezza della bambina che è con lei e
toglierle lo zucchero della ciambella dal naso. L’immagine me ne porta
alla mente un’altra, un vago ricordo di quando ero piccola,
accompagnato
dal familiare dolore sordo sul fondo del petto al quale, nonostante gli
anni, non riesco mai del tutto ad abituarmi: una cucina avvolta
nell’odore di impasto fresco ed io che, assonnata e poco propensa ad
andare a scuola, chiedo a mia madre come riesce ad essere così di buon
umore al mattino presto.
Si era
piegata verso di me come se fosse sul punto di condividere un prezioso
segreto e mi aveva rilevato, a bassa voce, che era impossibile non
amare l'inizio di una nuova
giornata, uno dei pochi momenti in cui tutto riusciva a sembrare pieno
di
possibilità.
Potrebbe
servirmi un momento del genere, mi ritrovo a pensare mentre osservo le
stradine che attraversano il centro di Richmond. C’è, del resto, un non
so che di vivace, e sorprendentemente attraente, in ciò che si
prospetta al di là di vetro. Pieno di possibilità.
Così chiudo
le palpebre, lentamente, come per catturare meglio quel raro istante e
giocare ad immaginare come sarebbe la mia vita qui, senza il Grill,
insieme a Elijah.
Ma vedo
solo nero.
Riapro gli
occhi di colpo, mentre il soffio silenzioso del condizionatore alle mie
spalle manda un brivido improvviso lungo la mia schiena.
“Ti stai
godendo la vista?”
Mi volto al
suono della voce di Elijah, accompagnata dalla cadenza familiare dei
suoi passi che si fanno strada nella stanza.
Il suo
profumo fresco mi avvolge un solo secondo prima che lo facciano anche
le sue braccia. I suoi capelli, ancora umidi dopo la doccia, mi
solleticano piacevolmente le tempie quando posa le labbra contro la mia
guancia.
Inclino la
testa all’indietro per adagiarla sulla sua spalla.
“Stavo
pensando.”
“A cosa?”
mi chiede in un soffio tiepido contro il mio orecchio.
Prendo un
altro breve sorso di caffè, prima di rispondere.
“Noi.”
Non
commenta, non immediatamente. Anche se non scioglie l’abbraccio, mi
sembra di percepire una leggera tensione attraversare il suo corpo. Mi
accarezza la mano, le sue dita che vanno a giocherellare con l’anello
al mio anulare. Mi rendo conto solo adesso che è un gesto che ripete
spesso, soprattutto quando è nervoso. Come se dovesse assicurarsi che
sia ancora lì.
“Qualcosa
che vuoi dirmi? ...” domanda infine, nello stesso tono lieve, ma nel
quale, per quanto cerchi di mascherarlo, mi sembra di avvertire una
nota di preoccupazione.
Poso la
tazza sul mobiletto lì accanto e scuoto la testa, mentre mi giro per
andare a circondargli il collo con le braccia.
“Sai già
tutto ciò che c’è da sapere,” mormoro attirandolo verso di me e
cercando le sue labbra.
Ma non le
trovo.
“Ci sono
ancora delle cose di cui pensavo volessi parlare …” mi ricorda e si
scosta appena per potermi scrutare.
Il suo
sguardo è così scuro, così intenso, da farmi salire un sottile nodo in
gola.
Perché so
bene a cosa si riferisce. Le sorti del mio locale, le case che ho
promesso saremmo andati a vedere insieme, il mio (nostro) intero futuro. Troppe cose
per essere affrontate in poco tempo.
“Più
tardi,” prometto, di nuovo, attirandolo con molta più decisione.
Questa
volta lascia perdere la questione, cedendo non appena intreccio le dita
tra i suoi capelli, baciandomi ancora e ancora. Mi sfugge un sospiro
mentre la sua bocca scende a lambirmi il collo ed io chiudo gli occhi
per assaporare meglio la sensazione.
Per un
attimo, mi sento sopraffare dall’improvvisa, inopportuna fantasia che
siano altre labbra a lasciarmi quei baci sensuali lungo la linea della
clavicola. E’ un attimo piccolo, insignificante. Lo scaccio l’istante
successivo.
Torno a
baciarlo con ancora più trasporto, spingendolo contro il muro alle
nostre spalle e facendo scivolare le mani sotto la sua maglietta di
fine cotone per poter percorrere i contorni del suo petto. Lo sento
rimanere a corto di fiato, ma quando faccio per togliergli l’indumento
mi blocca le mani, inaspettatamente.
“Elena …”
mormora, scuotendo la testa come se solo in quel momento fosse tornato
in sé. “Aspetta.”
Mi fermo e
lo guardo con fare interrogativo.
In
risposta, spinge via le mani che tiene ancora tra le sue per
allontanarmi di un paio di passi, con l’aria grave di chi debba
compiere un dovere importante sebbene gli stia costando un’immensa
fatica.
“Sei sicura
che … vada tutto bene?”
Accenno un
sorriso confuso, non sapendo dove stia cercando di andare a parare,
mentre lui prosegue un po’ più incerto.
“Sei stata
… diversa, ultimamente.”
Questa
volta sono io a ritrarmi di un altro passo.
“Cosa
vorresti dire?” chiedo sollevando un sopracciglio.
Sul suo
volto, compare di nuovo quello sguardo, scuro e intenso.
Nella mia
gola, compare di nuovo quel nodo sottile.
“Distante,”
risponde dopo una lunga pausa, come per cercare le giuste parole. “Come
se la tua mente fosse … altrove.”
Sento il
cuore iniziare a battere un po’ più veloce e scuoto immediatamente la
testa, con convinzione, ma devo deglutire prima di riuscire a ritrovare
stabilità nella mia voce.
“Ho solo
avuto un po’ di pensieri per via di tutte queste decisioni importanti
da prendere, con il bar e Jeremy …” Nel suo sguardo che si assottiglia,
come per investigarmi meglio, c’è un’insicurezza che non voglio vedere.
Perché Elijah non sembra mai avere dubbi su ciò che fa, ed è una delle
tante cose che più apprezzo di lui. Prendo il suo volto tra le mani e
colmo nuovamente le distanze. “Ehi. Ti amo. Lo sai. Non dubitarlo mai.”
***
Nei giorni successivi, non importa quanto io sia determinata a non
darvi peso: le parole di Elijah restano lì, nel retro dei miei
pensieri, insieme al nodo che le accompagna, pronte a tornare a galla
nei momenti meno opportuni.
Sono lì
quando sorrido all’agente immobiliare mentre ci spiega perché il
giardino sul retro con piscina sia qualcosa a cui non possiamo assolutamente rinunciare.
Sono lì
quando al ristorante Elijah allunga la mano per prendere la mia
dall’altra parte del tavolo e, davanti ad un piatto squisito che tutto
d’un tratto non riesco più a buttare giù, carezzandola mi chiede quale
tra le case che abbiamo visto sia la mia preferita.
Sono ancora
lì due giorni dopo, quando metto di nuovo piede a Mystic Falls, insieme
ad uno strano senso di sollievo misto ad insofferenza verso questo
angolo di mondo che, per chissà quale motivo, non è mai stato un guscio
tanto confortevole quanto tremendamente stretto al tempo stesso come
invece mi sembra in questo momento.
In ogni
caso, si sbaglia. Non sono stata ʿdistanteʾ. E la mia mente è
esattamente dove dovrebbe essere, grazie tante.
Cerco di
scrollarmi di dosso le insinuazioni di Elijah non appena parcheggio la
mia auto nelle vicinanze del Grill. Ma non devo neanche sforzarmi più
di tanto perché – per una volta – scompaiono da sole quando,
avvicinandomi all’ingresso, inizio a notare che c’è qualcosa di
inevitabilmente stonato nell’insolita tranquillità che circonda il
locale.
Chiuso.
Solo che il
Grill non chiude in una perfetta giornata estiva come questa, non
quando la città brulica di liceali senza lezioni, campeggiatori
assetati, e appassionati della Guerra Civile pronti a fare il tour di
qualsiasi edificio risalente all’epoca coloniale.
Il cartello
appeso alla porta è la mia prima conferma che qualcosa non va.
La seconda
è ciò che mi accoglie non appena varco la porta.
Quattro giorni. Ecco quanto sono stata assente, ecco evidentemente
quanto ci vuole perché le cose inizino ad andare storte.
“Mi
dispiace,” mi sussurra Jenna, sull’orlo delle lacrime, mentre
l’idraulico di fronte a noi continua a chiarire i motivi che hanno
portato all’allagamento di mezzo locale e a spiegare come dovranno
procedere per controllare quali tubature hanno causato il problema.
“Non è
colpa tua,” la rassicuro in un altro sussurro.
E’ mia.
Come diavolo ho fatto a non accorgermene? A non ricordarmi dei
controlli, ad avere la testa troppo concentrata su altre cose, a …
“ … forse
anche tre settimane, è chiaro che tutto dipende-”
“Prego?” lo
interrompo, non appena registro meglio ciò che sta dicendo.
“Stavo
dicendo,” riprende, mentre si scosta per l’ennesima volta il ciuffo
biondiccio dagli occhi e si infila le mani nelle tasche dei pantaloni,
sembrando ancora più allampanato, “che per cercare la perdita, sondare
le fondamenta e riparare il danno potrebbe anche bastare qualche
giorno, se il problema non è grave e siete fortunati. Dipende quanto in
profondità dovremo cercare.”
Questo
tizio sta parlando di aprire buchi nel mio locale con una tranquillità
a dir poco disturbante.
Come se
fosse una cosa da niente. Mentre io dovrò letteralmente vedere il mio
stesso bar ridotto a pezzi. Per non parlare di quanto verrà a costare.
Ed è piena stagione turistica …
Quel
pensiero ed il caldo mi provocano un leggero giramento di testa e cerco
a tentoni il bancone alle mie spalle per non vacillare.
Alcuni
colpetti sulla vetrata della porta mi costringono a trovare le forze di
voltarmi in quella direzione.
“E’
Caroline?” domanda Jenna allungando il collo per osservare meglio la
figura indistinta che, con le mani a coppa incollate sul vetro, cerca
di spiare ciò che sta avvenendo all’interno.
“E’
decisamente Caroline,” confermo quando, nel tentativo di attirare
l’attenzione, la sagoma familiare riprende a tamburellare più
insistente di prima.
Jenna mi
esorta ad andare dalla mia amica mentre lei rimane a discutere altri
dettagli. Le sono grata, sia perché ho un improvviso bisogno di aria,
sia perché mi fido di lei come di me stessa. Forse anche di più.
Con
Caroline andiamo a sederci su una panchina riparata all’ombra della
torre dell’orologio. L’estate sembra essere arrivata tutta insieme nel
tempo del mio breve soggiorno a Richmond, spazzando via anche quel filo
di brezza che riusciva a dare respiro fino a qualche giorno prima.
“E’ una
vera scocciatura,” commenta Caroline quando ho finito di raccontarle
cosa è successo al Grill. “Ma guarda il lato positivo,” sorride
voltandosi verso di me, “E’ estate e non devi lavorare! Sai cosa
significa?”
La domanda
è accompagnata da uno di quei suoi gridolini eccitati che tendono
sempre a farmi temere ciò che seguirà.
“Che
abbiamo molto più tempo libero per organizzare il matrimonio!" Le sue
dita iniziano a svolazzare veloci sull'iphone rosa che ha tirato fuori
dalla borsa in un battibaleno. "Posso prenotare almeno tre diverse
prove vestiti, insomma tre dovrebbero essere sufficienti per adesso,
c'è una boutique adorabile dove nel frattempo ti servono fragole e
champagne a volontà. Dobbiamo anche pensare ai fiori, quelli stagionali
sono sempre i migliori, ma devi comunque ordinarli per tempo e poi-”
Si
interrompe da sola, prima che io riesca anche solo a poter dire la mia,
quando il cellulare inizia a suonarle tra le mani. Un'aria combattuta
le attraversa lo sguardo, ma dopo soli tre secondi rifiuta la chiamata
con un piccolo umpf e torna a
parlare più velocemente di prima.
“Una
pianificazione impeccabile è vitale. In questo modo sarai sicura di
poter scegliere l’abito giusto, anche se io ho già un’idea molto
precisa, e di poter avere un tema e dei colori che si armonizzino alla
perfezione …”
“Non so …”
tento. Sentir parlare Caroline mi ha improvvisamente provocato i sudori
freddi. Tutto quello che ho sentito è stato ʿscelte, scelte, scelteʾ.
Mai avrei immaginato di dover guardare alla cerimonia come ad una
scienza con così tante variabili da valutare. “Magari ci possiamo
pensare un po’ su?”
La sua
espressione si sfalda leggermente in un accenno di delusione, ma a
distrarla dal colpo al cuore che le ho appena inferto con la mia
mancanza di entusiasmo ci pensa di nuovo il suo telefono. Ancora una
volta, Caroline pone fine alla chiamata in arrivo, ma adesso riesco a
cogliere chi è colui che sta ignorando con tanta determinazione.
“Stai per
caso evitando Stefan?” domando perplessa.
Si
mordicchia le labbra nervosamente e annuisce con un profondo sospiro
amareggiato.
“Mi ha
chiesto di andare a vivere insieme.”
Sto per
farle le mie congratulazioni e dirle quanto sono felice per lei, ma il
suo sguardo fulminante mi blocca prima che abbia il tempo di
pronunciare anche solo mezza parola.
“E non è …
una cosa buona?” le chiedo cauta.
“Certo che
no!” esclama scandalizzata. “Come fai a pensare che sia una cosa
buona?! E’ un disastro,”
scandisce bene l’ultima parola, con fare teatrale. "Non so davvero cosa
gli sia saltato in testa. Insomma, ho detto che ci avrei pensato, e lui
ci è rimasto così male, ed io mi sono sentita malissimo, e so che si
aspetta una risposta, ma io non ce l'ho una risposta, capisci?"
Osservo i
suoi occhi azzurro mare che stanno iniziando a diventare lucidi, per
motivi che in tutta sincerità non riesco affatto ad afferrare.
“Care,”
dico con calma, “Sono almeno due anni che vai regolarmente
dall’architetto a fare progetti per quella casa. Li tieni nel cassetto
dei documenti importanti. Quindi perché ...”
“Perché
pensavo che mi avrebbe fatto La Proposta!” sbotta. Con la “L” e la “P”
maiuscole. “Non porti la tua ragazza nel suo ristorante preferito,
organizzando la serata perfetta, se poi non vuoi farle La Proposta.
Punto.”
“Non lo so,
Care ... Ma suo padre è morto poco più di un mese fa, magari non è
nella stato mentale adatto per pensare al matrimonio …”
Caroline mi
ignora.
“Siamo
sempre stati d’accordo di aspettare fino a dopo il college, ok? Ma sono
sette anni. Cosa diavolo sta ancora aspettando, si può sapere?”
“Dai tempo
alla cosa ...”
Come il mio
commento precedente, anche questo cade completamente nel vuoto.
“E’ solo
che è così ingiusto!” sospira infine, abbandonandosi contro lo
schienale della panchina, “Dovrei essere io quella che si sposa.”
Lo dice
senza pensare, come suggerisce anche il gesto con cui immediatamente
dopo si porta una mano sulla bocca come per potersi rimangiare le
parole. Ciò però non mi impedisce di rimanere di sasso, di fronte alla
mia migliore amica che considera il mio matrimonio alla pari di uno
stravolgimento catastrofico del naturale ordine delle cose.
“Non
intendevo …” inizia. Ma qualcosa le fa cambiare idea e, invece di
ritrattare, alza il mento risoluta. “Beh, forse sì, lo intendevo.
Voglio dire, guardati! Non riesci neanche ad interessarti delle più
piccole cose, mentre io mi sto facendo in quattro per un matrimonio sul
quale neanche sono d’accordo.”
“Si può
sapere perché continui a dire così?” ribatto, una volta di troppo
innervosita da questa sua stupida, e probabilmente solo invidiosa,
presa di posizione. “Cos’è che non ti piace di Elijah? E’ sempre stato
gentile con te e Stefan … con tutti voi.”
“Oh, ma lui
mi piace,” replica Caroline, scrollando le spalle. “Sul serio. Insomma,
come potrebbe essere altrimenti? E’ intelligente, ha fascino, ed è
evidente che farebbe assolutamente qualsiasi cosa per te.”
“E allora
qual è il tuo problema?”
“Il
problema non è lui,” risponde tranquilla, come se fosse così
palesemente ovvio. “Sei tu.”
Sono colta
talmente alla sprovvista che invece di rispondere o chiedere
spiegazioni su cosa intenda, finisco solo per alzare le sopracciglia
stupita.
“Voglio
dire … Sono sicura che lo ami,” prosegue. “Ma … lo ami quanto lui ama
te?”
“Cos’è, una
gara?”
“Non è una
gara, ma, lo sai … dovresti passare il resto della tua vita con la
persona senza la quale il tuo mondo cascherebbe a pezzi. Qualcosa mi
dice che tu te la caveresti alla grande anche senza di lui.”
“E cosa c’è
di male?” domando, con una punta di amarezza mentre le mia dita, in
modo quasi involontario, si serrano strette attorno al bordo della
panchina. “Il mondo di mio padre è cascato a pezzi quando è morta mia
madre. Posso assicurarti che non è una bella cosa.”
“Mi
dispiace, è solo che …” Caroline scuote la testa e lascia cadere la
frase in un silenzio a cui nessuna delle due sa cosa aggiungere.
Mi decido
infine ad alzarmi per tornare al locale e andare ad aiutare Jenna.
“Chiama
Stefan,” le dico prima di andare, “E’ pazzo di te, non rovinare quello
che avete per un’incomprensione del genere.”
Annuisce
osservandosi attentamente le punte dei piedi che sbucano dalle
décolleté aperte color cartazucchero, in accordo con la stessa delicata
tonalità del suo vestito.
“Elena,” mi
richiama all’ultimo momento, “Ti stai accontentando. Ma meriti di avere
qualcosa di meglio, lo sai vero?”
Scaccio
quel suo commento con un movimento della mano, ma questa volta non
replico. Perché, se dovessi davvero rispondere, la verità sarebbe che …
no. Non lo so cosa mi merito.
***
C'erano momenti in cui riuscire a
stare dietro a tutto diventava più difficile del solito.
Giornate
più frenetiche al locale, una maggiore quantità di studio con cui non
riuscivo a tenere il passo, o quei momenti in cui vedevo mio padre
scivolare un po' di più nel suo oblio personale. L'avvicinarsi del
Natale era una combinazione di tutte e tre le cose.
Ma,
da una parte, preferivo che fosse così. Tenermi concentrata su altro o
prendersi di cura di qualcuno - che fosse mio padre, Jeremy o la
signora che tutti i giorni alle tre chiedeva un diverso gusto di tè -
mi aiutava a non pensare troppo al fatto che quello sarebbe stato il
primo Natale senza mia madre. E a quanto male potesse fare.
"Dannazione,"
borbottai frustrata quando la funzione matematica con cui stavo
combattendo da quasi un'ora si rivelò sbagliata per l'ennesima volta.
Il
libro su cui ero piegata si chiuse improvvisamente da solo, facendomi
sussultare e alzare lo sguardo di scatto, un attimo prima che mi
venisse strappato dalle mani.
C'erano
molti studenti venuti a passare la pausa all'aperto, merito della
giornata invernale particolarmente soleggiata, ma non ebbi il minimo
dubbio su chi fosse il responsabile di quell’interruzione.
“Ehi!”
protestai, saltellando per riprendermi il testo.
Lo
avevo quasi sfiorato quando Damon lo alzò ancora più in alto sopra la
sua testa, facendomi perdere l'equilibrio e scivolare oltre il bordo
della gradinata, finendo per franargli addosso, contro il suo torace.
Una
sua mano mi circondò prontamente la schiena per aiutarmi a
stabilizzarmi.
"Attenta,
è pericoloso se non fai caso a dove metti i piedi," sogghignò.
Per
tutta risposta, lo spinsi via facendo leva con le mani contro il suo
petto e mi ripresi il libro con uno sbuffo.
"Quanti
anni hai, dieci?"
"Mi
trovi così invecchiato?" ribatté con fare offeso mentre prendeva posto
sulle gradinate accanto a me, appoggiandosi all'indietro sui gomiti e
distendendo le gambe in avanti. La sua classica posa da vero sbruffone.
"L’ultima volta me ne avevi dati sette.”
Per
ʿl’ultima voltaʾ intendeva la sera in cui mi aveva convinto a guardare
uno stupido film horror giapponese. Nel mezzo di una scena in cui lo
stomaco era arrivato a farmi male per la tensione, mi aveva afferrato
di colpo per i fianchi sussurrandomi bu!, ed io avevo urlato
istericamente con quanto più fiato avessi in gola. Mi aveva chiamata
fifona per una settimana intera.
“Stai
facendo progressi. Ancora un po’ e vedrai che riesci a raggiungere la
pubertà,” risposi, guadagnandomi da parte sua un mezzo sorriso che finì
per far sorridere anche me.
"Cos'era
che ti stava facendo ammattire così tanto?" mi domandò sporgendosi per
sbirciare. "Matematica? Fammi dare un'occhiata."
Gli
porsi il libro con gli esercizi. Il brillante sole invernale creava
riflessi bluastri sulla sua nuca che rimasi ad osservare affascinata,
mentre Damon, in pochi secondi e qualche colpo di penna, creava ordine
in ciò che per me era solo un caos numerico senza senso.
"Tieni,"
me lo porse di nuovo. Sollevò un sopracciglio perplesso. "Perché mi
guardi così?"
Distolsi
lo sguardo come se fossi appena stata sorpresa a fare qualcosa di
sbagliato.
"Non
sapevo che fossi bravo in queste cose," dissi spostandomi una ciocca di
capelli che mi era finita sugli occhi. Era una sempre una strana
sensazione essere messa a conoscenza di quei lati di Damon, quelle
piccole cose, che tendeva a tenere più nascosti.
"Non
è poi questa gran cosa," scrollò le spalle.
Non
c'era modestia nel modo in cui lo disse: lo pensava davvero.
"Lo
è," ribadii. "Forse puoi aiutarmi? ... La mia media è scesa, e ho
bisogno di recuperarla con crediti extra se voglio avere la possibilità
di ottenere una borsa di studio per il college."
"Ugh,
non la parola con la ʿCʾ," mi implorò con una smorfia.
Roteai
gli occhi al cielo, esasperata.
"Dici
così solo per ripicca contro tuo padre."
Si
strinse nelle spalle, ma non rispose.
"Lo
sai che ho ragione. Ma dovrai prendere una decisione prima o poi. Su
cosa farne del tuo futuro …"
"Magari
mollo tutto e me ne vado a giro per l’Europa zaino in spalla," buttò là
con lo sguardo fisso su un punto imprecisato davanti a sé.
L'idea
di Damon dall’altra parte del mondo, così lontano da me, sembrò
scavarmi un vuoto dentro che non sapevo se sarei stata in grado di
sopportare. Quasi leggendo i miei pensieri, Damon sollevò la testa fino
a che non incrociai l'azzurro cristallino dei suoi occhi. “Potremo
farlo insieme.”
Rimasi
in silenzio, con gli occhi fissi nei suoi, mentre l'accenno di un
sorriso giocoso iniziava ad allargarsi sulle sue labbra. Non stava
dicendo sul serio. Ma la sua proposta suonava così terribilmente
invitante …
“Ciao
Elena,” mi sentii chiamare.
Sviai
lo sguardo da quello di Damon per portarlo qualche gradino più basso.
Sentii
la guance scaldarsi nel notare la persona che mi aveva salutato, ma
cercai di mantenere un tono il più possibile normale quando sorrisi per
salutare di rimando.
“Ciao
Matt."
Maledissi
i miei capelli e la loro brutta abitudine di non stare mai al proprio
posto, quando mi ricaddero di nuovo davanti agli occhi e li scostai
pregando di non sembrare troppo impacciata. Alcuni dei suoi compagni lo
richiamarono proprio in quel momento, ma Matt si girò ugualmente per
rivolgermi un altro sorriso, prima di tornare tra le fila della squadra
di football. Sentii le guance avvamparmi di nuovo.
"Chi
è quello?” domandò Damon, tirandosi su come per osservare meglio il
ragazzo.
“Siamo
nella stessa classe di Francese,” risposi sbrigativa. Non mi sembrò il
caso di parlare anche della cotta che avevo per lui sin dall'anno prima.
Con
la coda dell'occhio, notai un'insolita espressione passare sul suo
volto, ma nel tempo che impiegai per girarmi a guardarlo meglio era già
scomparsa. Damon tornò a distendersi all’indietro sui gomiti, la stessa
posa e la stessa aria disinvolta di sempre.
"Seguivo
Francese durante i primi due anni. Posso assicurare per esperienza
personale che fa meraviglie quando vuoi portarti a letto qualcuna."
Il
suo commento mi provocò un immediato moto di fastidio, non sapevo se
più per via di quello che stava insinuando su Matt o per la sua
irritante esigenza di dover sottolineare il fatto che un sacco di
ragazze cascassero sempre ai suoi piedi.
“Perché
devi fare sempre così?”
“Così
come?” domandò con fare noncurante.
“Tu
e le ragazze. Qual è il gusto di passare sempre da una all'altra, come
se niente fosse?”
Lo
chiesi con troppa aggressività, cosa che non avevo mai fatto prima e
che lo sorprese, perché si voltò a guardarmi con le sopracciglia
corrugate. Ma forse fu proprio quello a tirargli fuori una risposta
sincera.
“E’
più facile," disse pensieroso.
“Più
facile in che senso?”
"Non
avere legami. Lasciare prima che lo facciano loro. Non guardarsi
indietro. Quelle cose lì."
Pensai
alla scrollata di spalle con cui una volta aveva accennato al fatto che
sua madre ne fosse andata una mattina di dicembre quando aveva
cinque anni, e l'irritazione che avevo provato nei suoi confronti
qualche secondo prima scomparve improvvisamente.
"E'
un pensiero piuttosto triste," riflettei ad alta voce.
"E'
meglio dell'alternativa," replicò alzandosi in piedi, segno che non
aveva più intenzione di approfondire l'argomento.
Considerai
la cosa per qualche secondo. Amare qualcuno ed essere lasciati, per un
motivo o per l'altro. Il vuoto. Cosa rimane dopo.
E pensai che forse la strategia di Damon
non era poi così sbagliata.
***
Impiego quasi un’ora per riuscire a trovare i documenti
dell’assicurazione. Neanche molto considerando la disorganizzazione che
regna nel piccolo ufficio sul retro del locale.
Portare un
po' di ordine: ecco un altro appunto mentale, un’altra cosa da fare. Mi
chiedo se sia una lista che smetterà mai di allungarsi.
Faccio
spazio sulla scrivania, dove noto alcune brochure di vari college che
Jeremy deve aver portato di recente.
Le
ammucchio tutte insieme, ma esito prima di metterle via. Inizio a
sfogliarle, una pagina dopo l'altra, una ad una, finendo per
dimenticarmi completamente delle carte assicurative che giacciono
sull'angolo della scrivania e rimanere catturata dalla carrellata di
nomi e istituzioni, i dettagli dei diversi programmi e i vantaggi che
ognuno di essi vanta di poter offrire. Ma ad attirare maggiormente la
mia attenzione, e a provocarmi la fitta di rimpianto maggiore, sono i
volti dei ragazzi e ragazze che campeggiano in ognuna. So che molto
probabilmente sono solo delle foto costruite, ma hanno quello sguardo
... Pieno di possibilità.
Vengo
distratta dal rumore della porta di ingresso che si apre. Poso le
brochure e mi alzo per andare a controllare.
“Cos’è
successo qui?” mi chiede Sage gettando l'occhio verso la zona del
bancone e poi più dietro, verso la cucina e verso i mezzi improvvisati
con cui io e Jenna abbiamo tentato nel pomeriggio di arginare il
dilagare dell'acqua.
Mi viene in
mente solo adesso che Sage doveva essere di turno stasera e che,
evidentemente, mi sono completamente dimenticata di avvertirla che il
bar sarebbe rimasto chiuso.
“Mi
dispiace averti fatto venire fin qua,” mi scuso, “Avrei dovuto
avvisarti.”
Ma invece
di andarsene a godersi la sua serata libera, si dirige con sicurezza
dietro il bancone e tira fuori una bottiglia a metà di vodka liscia.
“Hai
l’aspetto di una che ne ha bisogno,” mi dice facendo scivolare un
bicchiere nella mia direzione e colmandolo di liquido trasparente.
“Non posso,
ho un sacco di cose da fare,” rispondo, pensando ai documenti che mi
aspettano nel retro e che devo compilare se voglio avere una
possibilità di rimborso delle spese da sostenere.
"I tuoi
problemi saranno ancora lì domani mattina,” continua lei, issandosi a
sedere sul bancone e porgendomi nuovamente il bicchiere con un sorriso.
"Il mondo non casca a pezzi se per una volta allenti un po' la presa."
Le sue
parole riescono effettivamente a farmi ridere e farmi per un attimo
riconsiderare la sua offerta. Ma poi a prendere di nuovo il sopravvento
è l'altra parte di me, quella che è già pronta a farle l'elenco
dettagliato di tutti i motivi per cui, nel mio caso, si sbaglia di
grosso.
E’ la
vibrazione del mio cellulare ad impedirmi di replicare.
“Scusami un
attimo,” le dico, mentre mi allontano per rispondere ad Elijah.
Sono colta
da un istantaneo senso di colpa: ecco un’altra cosa di cui mi ero
dimenticata, richiamarlo dopo che già altre volte nel corso della
giornata aveva provato a raggiungermi. E il ricordo della conversazione
con Caroline di questo pomeriggio non aiuta a farmi sentire meglio.
“Ho avuto
alcuni problemi con il bar,” mi giustifico quando mi chiede se ci sia
qualche problema. Ma me ne pento subito dopo averlo detto, perché è
tardi, sono stanca, e l’ultima cosa che voglio in questo momento è
discutere un’altra volta dell’allagamento e di ciò che comporta. Ho
l’impressione di non aver fatto altro in tutto il giorno. Così,
minimizzo prima che inizi a fare altre domande, “Niente di grave, non
ti preoccupare.”
“Ok ... Ho
alcune buone notizie per te,” mi fa sapere. “Ho ricevuto una chiamata
dall’agenzia immobiliare questo pomeriggio. Sai quella casa a Bellevue
che era la nostra prima scelta?” Mormoro un ʿsìʾ, anche se devo
sforzarmi un momento per ricordare di quale casa, tra tutte quelle che
abbiamo visitato durante il weekend, stia effettivamente parlando. “I
proprietari hanno molta fretta di vendere e stavano per cedere ad un
altro acquirente. Ho fatto un’offerta maggiore e ho da poco saputo che
l’hanno accettata.”
Impiego
qualche attimo per registrare cosa stia dicendo.
“Hai
comprato una casa? ...” domando infine con un filo di voce quando il
significato delle sue parole inizia ad essermi più chiaro.
“Beh,
tecnicamente dobbiamo ancora finalizzare ufficialmente, ma-”
“Hai
comprato una casa?” ripeto interrompendolo a metà della frase, il mio
tono che assume senza che possa impedirlo una sfumatura più stizzita.
“E non hai pensato che fosse il caso di parlarmene prima?”
“E' tutto
il giorno che provo a chiamarti, non hai mai risposto. Ed era una
decisione che andava presa in fretta" replica deciso. Tuttavia, anche
se sta cercando di trattenersi, c'è qualcosa di inusuale nella sua
voce, qualcosa che non credo di avergli mai sentito usare. E'
arrabbiato.
Il problema
è che, tutto d'un tratto, io credo di esserlo ancora di più.
“E così hai
pensato di decidere per entrambi, invece di parlarmene.”
“Come
dovremmo parlare di tutte le altre cose che tu continui a rimandare?”
“E’ colpa
mia adesso?”
"Hai almeno
un minimo di interesse in ciò che ci riguarda?"
E' la
collera ferita con cui lo chiede a farmi più male. Sono così furiosa
con lui per ciò che ha fatto eppure, dopo questo, mi sento uno schifo
per il modo in cui l'ho messo in secondo piano e mi detesto per questo.
Prendo un profondo respiro e penso ad un modo in cui potrei ancora
sistemare le cose. Solo che non riesco a farmi venire in mente niente.
“E’ solo
che ...” E’ troppo,
vorrei dire. Il vestito perfetto, le case, il bar, i fiori,
l'assicurazione, il nero quando chiudo gli occhi, un futuro in cui non
so cosa fare. Come fa a non capirlo? “E' tardi, e sono stanca," dico
invece, "Non posso pensare anche a questo adesso.”
“Naturalmente.”
Non mi sfuggono la freddezza e il sarcasmo che caratterizzano la sua
risposta. “Magari è davvero meglio se ne riparliamo domani. Devo
andare.”
Elijah
riattacca senza aspettare la mia risposta, ed io rimango ancora qualche
minuto con il telefono tra le mani. Ferita, infuriata, destabilizzata.
Non abbiamo mai litigato così.
Colpevole,
perché in fondo so che sono io ad aver esasperato la situazione fino a
questo punto.
Rimando
indietro le lacrime che mi bruciano in gola, mi rialzo e torno verso il
bar, dove Sage, ancora seduta sul bancone con le gambe accavallate, è
intenta a controllare il proprio telefono.
Non mi
permetto di pensarci una seconda volta: afferro il bicchiere che aveva
preparato per me e lo butto giù in un unico sorso che mi infiamma la
gola e mi fa lacrimare gli occhi. Li asciugo con il dorso della mano,
mentre Sage alza lo sguardo verso di me.
“Hai
ragione. Potrei essere in disperato bisogno di una serata libera." Da
me stessa, mi verrebbe da aggiungere. “Perciò, visto che sembri saperne
più di me, cosa suggerisci?”
Sage mi
sorride, un sorriso impertinente che ha l'effetto di farmi sentire una
ragazzina spaventata ed eccitata in procinto di infrangere tutte le
regole.
“Penso di
avere proprio ciò che ti serve.” Mi mostra lo schermo del suo telefono,
sul quale posso leggere il messaggio che ha appena ricevuto. “Te la
senti di fare una piccola follia?”
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Capitolo 10 *** Because the night ***
9
9.
Because
the night
–
Come on now, try and understand
The way I feel when I'm in your hands
Take my hand, come undercover
They can't hurt you now
Can't hurt you now, can't hurt you now –
(Because the night, Patti Smith)
Damon
Non c'è niente di meglio di una buona, efficace distrazione nel momento
in cui ne hai più bisogno. Tipo quando cerchi di rimandare il più
possibile interminabili, inutili, voglio-sbattere-la-testa-contro-il
muro, conversazioni di lavoro per tenere a galla una compagnia che se
non fosse per tuo fratello avresti già mandato a quel paese.
Il telefono
casca inavvertitamente a terra con un piccolo fracasso di plastica e
fili intrecciati quando faccio spazio per Andie sulla scrivania. Ancora
meglio, una scusa in più per non usarlo.
"Guarda che
io devo andare a lavoro," protesta lei poco convinta mentre la sollevo
sopra la scrivania. Molto poco convinta.
"Lo hai
detto anche dieci minuti fa. Eppure ..." le faccio notare, intanto che
la mia mano scivola sotto la nera gonna a tubino e la solleva ben oltre
la metà coscia. "... sei ancora qui."
"Il tuo è
un punto piuttosto valido," concede ridendo ed afferrandomi per la
cintura così da attirarmi ancora di più contro di lei. "Basta che
facciamo veloci."
Sorrido
anche io mentre riprendo a baciarle il collo, perché le cose sono così
facili con lei. Niente complicazioni, niente drammi superflui. Per non
parlare di quanto è dannatamente brava a tenermi la mente lontana dai
luoghi in cui non dovrebbe andare. Meravigliosa, magnifica distrazione.
"Potrei
quasi innamorarmi," scherzo tra un bacio e l'altro.
Le sue mani
si fermano, la cintura non lascia mai il suo posto, e Andie - Andie con
cui tutto è semplice e poco complicato - alzo lo sguardo su di me. E’
seria e niente affatto divertita.
"Non farlo."
"Perché
no?" domando sollevando un sopracciglio.
Ritiro
lentamente la mano e la gonna scivola di nuovo verso il basso.
Forse
voglio innamorarmi di Andie, dopotutto. Chi lo sa.
"Perché
finiresti solo per spezzarmi il cuore."
Non
distolgo lo sguardo, ma il silenzio che prende il posto della mia
risposta è la conferma, di cui nessuno dei due aveva davvero bisogno,
che non ha poi così torto.
La porta
alle mie spalle si apre con un colpo secco, facendoci trasalire
entrambi.
"Damon!
Devo parlarti. Adesso. Non
crederai a .... Ew! Dio,
prendetevi una stanza, un po’ di decenza!"
Alzo gli
occhi al cielo per fare appello a tutto il mio autocontrollo, già
scarso di per sé e come sempre messo a dura prova dalla fastidiosa
bionda che mio fratello ha avuto la sventurata idea di accollarsi.
"E
buongiorno anche a te, Caroline," replico sarcastico, chiedendomi se
servirebbe davvero a qualcosa farle notare che la porta era chiusa e
che solo la settimana scorsa ho molto galantemente fatto finta di non
sapere come stavano passando la pausa pranzo nell'ufficio qua di fianco.
"Buongiorno,
Damon." Avanza nella stanza come se le appartenesse, ben dritta sui
suoi tacchi, e mette su uno dei suoi migliori sorrisi tirati per
rivolgersi alla mia compagnia. "Ciao, Annie."
"Andie," la
corregge l’altra con un sorriso altrettanto forzato.
Nel
lunghissimo secondo in cui si guardano in silenzio, mi sembra quasi di
sentire gli artigli che iniziano ad affilarsi.
"Devo
andare," dice Andie. Mi lascia un veloce bacio sull'angolo delle
labbra. "Ci sentiamo."
Se ne va
senza rivolgere una seconda occhiata alla cognata che sfortuna ha
voluto mi toccasse in sorte. Caroline invece ci segue con lo sguardo
attento finché non accompagno Andie alla porta, come per assicurarsi
che se ne vada per davvero.
"Dobbiamo
parlare," ribadisce non appena richiudo la porta alle mie spalle.
"Bene,
allora parla," le dico sbrigativo, così che tiri fuori qualsiasi
scaramuccia sia in corso tra lei e il mio fratellino e poi se ne vada a
portarla da qualche altra parte.
"Si tratta
di Elena."
Mi blocco
sui miei passi al centro della stanza.
Un milione
di cose mi passano per la testa. La maggior parte delle quali non
dovrebbe neanche starci, dentro la mia testa.
Quando mi
giro verso di lei per lanciarle uno sguardo interrogativo, noto che una
linea sottile le solca la fronte, segno di una certa preoccupazione.
"Se ne è
andata."
Ho detto un
milione? Facciamo anche due.
"Che vuoi
dire con ‘se ne è andata’?"
Mi avvicino
a lei a passi lunghi, quasi aggressivi. In risposta, Caroline tira
fuori il telefono dalla piccola borsa che tiene appesa all'avambraccio
e me lo mette davanti al naso.
Ho
bisogno di qualche giorno lontano da qui. Sto bene, non preoccuparti.
Il
messaggio di Elena, risalente a ieri sera, è seguito da una serie di Cos’è successo? e Dove sei?
da parte di Caroline rimasti senza risposta. Non appena sposto di nuovo
lo sguardo dal display verso il suo volto, prosegue, "Ho provato a
chiamarla, naturalmente, ma è irraggiungibile. Credo che abbia spento
il cellulare. Damon ..." pronuncia il mio nome con un’insolita
intonazione supplice che non può promettere niente di buono. "Non è da
lei. Devi fare qualcosa."
"Cosa
diavolo c'entro adesso io in tutto questo?"
Caroline
riprende in mano il suo smartphone, inizia a digitarci velocemente
sopra con le dita e me lo rimette davanti.
“Ho
rintracciato la sua carta di credito," continua. "E' stata usata in un
negozio 24 ore su 24 fuori Atlanta e poi ad un distributore
sull’interstatale 59. Significa che è diretta a sud, e se parti adesso-"
"Aspetta,"
la interrompo e le rimetto il telefono in mano, mentre la mia mente
viaggia veloce per afferrare il senso di ciò che la bionda sta
suggerendo. "Elena ti dice di lasciarla in pace per qualche giorno, non
sai cosa stia facendo, ma vuoi che mi metta ad inseguirla da qualche
parte imprecisata nel sud degli Stati Uniti?" Bene, detto ad alta voce
suona ancora più assurdo. "E le hai … tracciato la carta di credito?
Non è neanche legale!"
Scrolla le
spalle ed emette uno sbuffo contrariato.
"Sono la
figlia di uno sceriffo. Mi sono concesse ... eccezioni," il tono
titubante con cui lo dice mi conferma che non ci crede davvero neanche
lei. "In ogni caso, la stai facendo sembrare più complicata di quello
che è. Quando sarai per strada, cercherò di trovare altre informazioni
e ..."
"Sei
pazza," sentenzio, alzando le mani in segno di resa. "Ti ha detto che
sta bene! Non è stata rapita. Ed io non ho intenzione di darti corda.
Anzi, sai cosa? Chiama il suo fidanzato, perché non ci mandi lui nel
tuo pedinamento destinazione Ignota?" finisco con una smorfia.
"Non essere
ridicolo," replica spazientita, come una maestrina davanti ad alunno
che non riesce proprio a dare la risposta giusta. "Qualsiasi cosa le
sia preso per comportarsi così, se c'è qualcosa che non va … A te
parlerà. Hai sempre saputo come saperla prendere.”
Oh cazzo, a
giudicare dalla sua espressione risoluta, questa ci crede davvero in
quello che dice.
"Una vita
fa, forse!" E forse neanche allora,
suggerisce un amaro promemoria in fondo alla mia testa. "Ti rendi conto
vero che per anni non ci siamo neanche parlati ..."
"Non
conta," mi liquida agitando una mano nell'aria. "Perché voi due avete …
" Mi guarda come se fossi davvero in grado di seguire il ragionamento
contorto del suo cervello. " ... lo
sai.”
“No, non lo
so.”
“Quella … cosa," insiste, caparbia.
"Un'intesa."
Certo, come
no. Come ho fatto a non pensarci prima. Questa sì che è la risposta per
tutto.
"Ok, Care,
penso che il momento per le fesserie mattutine sia finito per oggi,"
dico posandole una mano sulla spalla e sospingendola verso l'uscita.
Oppone resistenza e prova più volte ad aprire bocca per protestare, ma
questa volta non le permetto di dare fiato anche solo ad un'altra delle
sue farneticazioni. "Sono sicuro che Elena sta benone. Ma, soprattutto,
io non ho intenzione di andare proprio da nessuna parte."
***
" ... ed è quanto mai fondamentale
che questo delicato passaggio possa avvenire nel solco della continuità
e dell'esperienza che vostro padre aveva costruito ..."
"Naturalmente
…" … coglione.
Lascio che
Peter-Sotuttoio-Cartwright continui a riempirsi la bocca di parole come
leadership, management e professionalità, evitando di puntualizzare per
l'ennesima volta come la tanto declamata tradizione messa in piedi da
nostro padre abbia portato la compagnia sull'orlo del fallimento. Ha
già deciso che non sarà tra gli azionisti disposti ad accettare i
cambiamenti che abbiamo concordato con Stefan negli ultimi giorni,
dunque non ascolterebbe in ogni caso.
Dio, quanto
mi manca la California. Accordi sigillati con una stretta di mano e
persone che non hanno paura di osare. Mi chiedo ancora cosa mi
trattiene davvero da non prendere il primo volo di sola andata domani
mattina stessa.
I miei
occhi vagano verso la finestra e verso ciò che lascia intravedere.
Il Grill è
ancora chiuso.
Ma Elena
sta bene, mi ripeto. Insomma, se vuole farsi i fatti propri per qualche
giorno, ne ha tutto il sacrosanto diritto. Caroline sta reagendo in
modo sproporzionato come al suo solito. Di tutte le idee stupide che le
ho sentito tirare fuori nel corso degli anni, questa si guadagna almeno
la top 5. Un'intesa, poi. E' il tizio che ha deciso di sposarsi quello
con cui semmai avrà un'intesa. Lui lo saprà dove è andata. O ha tenuto
all'oscuro anche lui? Se sì, verrebbe da chiedersi perché ...
"...
ecco perché sono sicuro che tu e tuo fratello riuscirete a capire come
mai è così importante mantenere lo stesso approccio alla gestione ..."
"Capisco la
tua posizione, Peter ..." mormoro automaticamente in un punto a caso
della conversazione, tanto per far credere che sto ancora ascoltando.
"Stai
diventando sempre più bravo a raccontare balle, non è vero?"
Mi volto di
scatto in direzione della voce familiare che mi è appena giunta dalla
mie spalle ed un ghigno di piacevole sorpresa si apre sulle mie labbra.
"Ma dovrò
richiamarti. Devo andare," chiudo sbrigativamente la conversazione,
mentre Ric accosta la porta e inizia a squadrare pensieroso il resto
dell'ufficio.
"Cosa
diamine ci fai qui?" gli domando andandogli incontro per un veloce
abbraccio di saluto.
"Noia,
soprattutto. Le cose sono meno divertenti quando non sei in paraggi. E
poi ero a curioso di vedere cosa ti ha assorbito così tanto al punto da
mollarmi per quasi un mese. Devo dire, non ne vedo il fascino,"
commenta infilandosi le mani in tasca e sporgendosi appena in avanti
per gettare uno sguardo sulla piazza che si apre oltre la finestra.
"Insomma, per Vegas avrei potuto capirlo, ma questo ...”
"Ric,
conosci i patti," lo ammonisco, niente affatto in vena di scherzare
sull'argomento. "Non menzionare mai
Vegas."
Ric
sogghigna mentre si butta di peso sulla sedia dietro la scrivania e la
fa roteare fino a compiere un giro completo su se stesso.
"E solo
troppo bello vedere la tua faccia ogni volta che viene nominata."
Mi lascio
cadere a sedere su una delle due poltroncine davanti a lui e alzo gli
occhi al cielo, chiedendomi quando la smetterà di tormentarmi con
questa storia. Probabilmente mai, ma del resto probabilmente me lo
merito.
"Non posso
credere che tu sia davvero venuto fin qua."
"Neanche
io. Sai quanto odi volare."
Lo so.
Secondo lui, simulare qualcosa di grande come un incidente aereo è il
modo più insospettabile per il governo per liberarsi di una persona
scomoda. Ecco perché, la notte in cui avevamo brindato all'inizio della
nostra compagnia, mi aveva fatto giurare che semmai fosse morto in
simili circostanze sarebbe stato mio compito svelare il complotto.
"E, a
proposito, i sistemi di sicurezza in questo posto sono pessimi. La
signora all'entrata non mi ha neanche chiesto un documento, avrei
potuto essere chiunque ..." Mentre contemplo se valga la pena oppure no
di stare a spiegargli che Janine, che è qui da quarant'anni, non ha mai
avuto motivo di dubitare delle intenzioni dei visitatori delle
Salvatore's & Associates, Ric si protende in avanti e squadra il computer
vecchio di quasi due anni con una smorfia diffidente. "Scommetto che
potrei craccare l'intero sistema in meno di cinque minuti."
Ci
scommetterei anche io.
"Dunque ...
cos'è che ti sta trattenendo così a lungo, si può sapere? Oh, bene.
Whiskey."
Si alza per
dirigersi spedito verso il mobiletto con gli alcolici e si versa una
generosa dose di whiskey da uno dei decanter allineati in perfetto
ordine.
"Mio padre
ha tirato le cuoia lasciandomi in dono una compagnia piena di debiti,
un consiglio di azionisti incompetente e una spina nel fianco di
direttore finanziario," riassumo con un sospiro prendendo in mano il
bicchiere che mi sta porgendo.
"Simpatico."
Ric
continua a frugare tra i cassetti, chiaramente non frenato dalle stesse
remore che ho avuto io che, invece, della roba di mio padre ho
preferito toccare il meno possibile. Tira fuori una scatola di sigari e
si passa un cubano sotto il naso per annusarlo beato mentre torna a
sedersi incrociando i piedi sopra la scrivania. Se non lo avesse già
avuto, a mio padre verrebbe un infarto in questo momento solo a vedere
la scena.
"E cosa mai
gli hai fatto di male per meritarti tutto questo?"
Lo chiede
scherzando, ma non sa che quella è una domanda su cui io ho riflettuto
fin troppo negli ultimi tempi. Sull'idea che tutto questo non sia altro
che la sua personale legge del contrappasso, il suo modo per farmi
scontare il grave torto che gli avevo fatto. Inevitabilmente, torno con
la mente al giorno in cui, in questa stessa stanza, avevamo avuto la
nostra ultima discussione. Il sua rabbia, il modo di guardarmi
come se avessi appena confermato di essere la più grande delusione
della sua vita, le sue parole … tutte cose che fanno ancora male come
se fosse solo ieri.
Ci sono
momenti, come questo, in cui penso che non mi farebbe male scaricarmi
un po' di quel peso. E so che Alaric, che non giudica mai o tantomeno
compatisce, è il tipo giusto per questo genere di cose.
Ma quando
mi volto di nuovo verso di lui e sto per iniziare a raccontargli come
sono andate veramente le cose, vedo che la sua ricerca tra i cassetti
ha prodotto anche qualcos’altro. Sorseggiando tranquillamente il
whiskey che si era versato, con il sigaro dietro l’orecchio e i piedi
sempre incrociati sulla scrivania, sta adesso leggendo la famigerata
lettera che Stefan si premura ogni giorno di farmi comparire nel
cassetto.
"Cazzo,
Ric."
Mi alzo di
scatto e mi allungo oltre la scrivania per strappargliela dalle dita.
Lui alza le mani in segno di scuse, ma non sembra davvero dispiaciuto.
"Non voglio
sapere cosa c’è scritto, chiaro?" gli faccio sapere mentre la piego
alla bell'e meglio e me la infilo nella tasca posteriore dei jeans,
"Quindi vedi di tenere la bocca chiusa.”
Mentre Ric
si fa il segno di cucirsi la bocca, un timido bussare contro la porta
attira la mia attenzione.
"Posso?"
Senza
davvero attendere risposta, Bonnie Bennet entra nell’ufficio.
La squadro
accigliato domandandomi cosa diamine ci faccia qui colei per cui potrei
tranquillamente essere il diavolo in persona. Di rimando, lei lancia
guardi sospettosi prima nella mia direzione, poi in quella di Ric. Poi
di nuovo nella mia.
"Cosa vi è
preso a tutti oggi?" sbuffo roteando gli occhi. "Non sapevo che fosse
la giornata dedicata a molestiamo Damon sul lavoro."
"Te l'ho
detto che la sicurezza fa schifo," ribadisce Ric, senza soffermarsi a
pensare che magari il mio commento include anche lui.
"Ehi!"
Bonnie mi rivolge un'occhiataccia fulminante. Ma il modo in cui sposta
il peso da una gamba all'altra, a disagio, mi suggerisce che non è
esattamente qui di sua spontanea volontà. "E' stata un'idea di Caroline
e, per la cronaca, io ero decisamente contraria a rivolgermi a te," mi
conferma.
"Ti prego
dimmi che non si tratta di viaggi improbabili alla ricerca di una
barista dispersa nel profondo sud."
"Sapevo che
era una pessima idea chiederti qualsiasi cosa. Andrò da Elena da sola,"
ribatte secca, girandosi per andarsene senza neanche aspettare risposta.
"Chi è
Elena?…" sento Ric chiedere in un sussurro cospiratorio.
Avanzo
verso di lei e le richiudo la porta in faccia non appena la sua mano
tocca la maniglia.
"Cosa ti fa
anche solo pensare di riuscire a trovarla?" replico deciso, irritato
dal modo in cui ha insinuato che di Elena non me ne freghi niente. E'
stato sempre così con Bonnie Bennet ed è ciò che me l'ha sempre resa
insopportabile: nessuno è mai bravo abbastanza per la sua preziosa
migliore amica. A parte lei, ovviamente. "Un altro dei dubbi mezzi di
pedinamento usciti dall'iphone di Barbie, per caso?"
Bonnie alza
gli occhi al cielo. In questo momento, sta probabilmente ricacciando
indietro tutti gli insulti che vorrebbe rovesciarmi addosso.
"No,"
risponde guardandomi dritto negli occhi con aria di sfida. “Si dà il
caso che io sappia esattamente dov'è andata."
Alzo un
sopracciglio perplesso e faccio per chiederle spiegazioni, ma lei mi
interrompe alzando un dito prima che io possa proferire parola.
"Ma ho
bisogno di qualcuno con una macchina e Caroline è bloccata in una
conferenza almeno fino a tardo pomeriggio. Quindi …" Un'espressione
riluttante le si dipinge sul viso. "… Vuoi essere il mio passaggio, sì
o no?"
***
Tornare a Mystic Falls fu strano
quella volta.
Non
era inusuale per me e mio fratello andare a passare le intere vacanze
di Natale in qualsiasi posto la nostra adorabile madre Charlotte avesse
deciso di stabilirsi per il momento. E poiché era lei ad insistere ogni
volta , immagino che le feste avessero la singolare capacità di farle
ricordare di avere anche lei, da qualche parte, un tutto suo peculiare
istinto materno.
Stefan
lo odiava. Diceva sempre che sarebbe stato meglio restare con un padre
che, al di là di tutto, almeno non ci aveva abbandonati in favore dei
"sapori del mondo". Ma veniva sempre. Dal mio canto, la cosa mi
lasciava del tutto impassibile. Mystic Falls o Timbuktu non faceva
alcuna differenza. E Charlotte poteva non essere la madre più
tradizionale e presente del mondo, ma almeno era divertente.
Questa
volta, però, stare lontano per quei miseri dieci giorni aveva fatto un
po' la differenza. Non capii in cosa finché non tornai e parcheggiai la
Camaro nei pressi della piazza principale, ancora addobbata con quelle
stupide lucine che una volta passato Capodanno hanno il solo effetto di
dare a tutto un'aria più penosa e decadente, come una vecchia signora
che si è dimenticata di togliersi tutti i gioielli anche dopo che la
festa è finita da un pezzo.
Questa
volta era diverso perché, abbastanza stranamente, avevo sentito la
mancanza di questo posto.
La
calda ed affollata atmosfera che mi accolse quando entrai al Grill mi
confermò quel pensiero.
Elena
era di spalle, i gomiti posati in avanti sul bancone, probabilmente ad
aspettare un'ordinazione. I capelli raccolti in una coda alta, il
fiocco verde del grembiule perfettamente annodato appena al di sopra
del fondoschiena, il piede incrociato all'indietro che tamburellava sul
pavimento al ritmo della canzoncina pop di sottofondo nel locale.
Già,
avevo decisamente sentito la mancanza di questo posto.
Non
mi vide quando presi posto ad un tavolino ad angolo.
"Posso
ordinare qualcosa?" le dissi non appena mi passò davanti in tutta
fretta, diretta così spedita verso un tavolo oltre il mio che non mi
gettò neanche una mezza occhiata.
"Arrivo,
solo un momento e ..." cominciò con l'automatismo di chi ripete spesso
una frase del genere, ma poi si bloccò di colpo e si voltò nella mia
direzione. "Damon!"
L'attimo
dopo mi aveva gettato le braccia al collo ed io mi ero ritrovato
schiacciato contro lo schienale imbottito della panca sulla quale mi
ero seduto. Preso alla sprovvista da una tale reazione, avevo allungato
le braccia attorno alla sua schiena per reciprocare con una certa
esitazione.
Sapeva
di fiori a cui non sapevo dare un nome, pane, casa. Con un accenno di
carne grigliata.
"Quando
sei arrivato?" mi domandò dopo che mi ebbe rilasciato per andare a
prendere posto di fronte a me, dall'altra parte del tavolo. "Pensavo
che non saresti tornato prima di qualche giorno. Com'erano le Keys?"
"Umide.
Com'è stato qui?"
"Orribile,"
sospirò, intrecciando le mani davanti a sé. Sentii tutto il peso di
quel sospiro a fondo nel petto, come se fosse mio. "Voglio dire ...
Senza di lei e con tutto il resto, sai ...."
"Lo
so."
Sollevò
gli occhi verso i miei e piegò appena le labbra in un sorriso triste.
"Ma
Bonnie e sua nonna sono passate da noi la sera di Natale, ed abbiamo
cucinato e preparato biscotti fino a tardi. Ed abbiamo organizzato
qualcosa al locale per Capodanno, Jenna ha cantato con il suo gruppo. E
tu?"
Mi
guardai dal dire che la vera ragione per cui ero tornato con qualche
giorno di anticipo era perché Melvin [1], il fidanzato del mese, mi
aveva beccato a letto con sua figlia e poco gentilmente sbattuto fuori
dalla sua barca ancora prima che avessi il tempo di rimettermi i
pantaloni. Povera Charlotte che, per prendere la mie difese, si era
giocata il maliardo di turno con un paio di mesi di anticipo. Aveva
detto che tanto, in ogni caso, la Florida le faceva increspare troppo i
capelli.
"Tutto
piatto e privo di nota," risposi accennando un sorriso.
"Elena,"
ci interruppe la voce di Jenna che, da dietro il bancone dove stava
servendo alcuni clienti, le fece cenno con la testa verso le
ordinazioni che si stavano accumulando sul davanzale comunicante con le
cucine.
"Devo
andare ..." disse in un altro sospiro alzandosi e lisciandosi il
grembiule. "A dopo, ok?"
"Ok."
Come
Elena tornò a distribuire e prendere ordini, mi appoggiai contro lo
schienale e tirai fuori il telefono per leggere il messaggio con cui
Stefan mi chiedeva se avessi intenzione di tornare a casa per cena. Ma
io non avevo davvero nessuna fretta di tornare a casa e vedere mio
padre se potevo evitarlo per almeno un'altra sera, così gli risposi
piuttosto di raggiungermi qui.
Quando
rialzai lo sguardo, Elena stava portando un piatto di insalata e pollo
grigliato ad un ragazzo biondo dall'altro lato del locale.
Mi
raddrizzai subito perché avevo riconosciuto all'istante chi fosse quel
tipo: quel quarterback che la salutava sempre con quello stupido
sorriso impacciato. Il tizio di Francese.
Elena
lasciò l'ordine ma non se ne andò.
Iniziarono
a parlare. Sorridersi, su qualcosa che non mi era dato afferrare. Lui
si tormentava le dita sotto al tavolo e non staccava lo sguardo da lei.
Lei faceva dondolare il piede piegato all'indietro e continuava ad
appuntarsi ripetutamente i capelli dietro l'orecchio pur non
essendocene nessun bisogno.
Vidi
la potenziale risposta a tutte le mie domande seduta solo un paio di
tavolini più avanti.
"Ehi."
Scivolai
nella panca ponendomi di fronte a lui, ma Jeremy non mi calcolò di
striscio, gli occhi incollati allo schermo del suo videogioco portatile
e tutto il suo impegno investito in un esaltato schiacciamento di
pulsanti.
"Ehi,"
mormorò distrattamente.
"Hai
visto quello lì?" gli domandai indicando il giocatore di football con
un cenno della testa.
"U-uh."
Allungai
un braccio e gli strappai il gioco dalle mani.
"Che
cazz ..." protestò agitando le mani per tentare invano di
riprenderselo, mentre l'aggeggio, che per buona misura mi infilai nella
tasca della giacca, ammetteva la propria sconfitta suonando la triste
musichetta di game over.
"Ora,
fai il bravo ed io non andrò a riferire a nessuno le brutte parole che
hai imparato, intesi?"
Jeremy incrociò le braccia sul petto e
tornò ad appoggiarsi all'indietro, mandandomi occhiate torve.
"Cosa
vuoi?"
"Quel
tipo ..." ricominciai, facendogli segno verso il biondo. "... è venuto
qua spesso ultimamente?"
Jeremy
si sporse fino all'orlo del tavolo per poterlo osservare meglio. Spostò
lo sguardo attento da lui a sua sorella, con cui ancora stava parlando,
e quando tornò a guardare me c'era un vago ed irritante sorrisetto
stampato sul suo volto.
Protese
una mano verso di me con il palmo rivolto verso l'alto.
"20
dollari."
"Cosa?!
..."
Non
ero intenzionato a dargli un bel niente. Ma lui rimase lì, con la
piccola mano protesa sotto al mio naso e lo stesso sorrisetto sornione
di chi, per chissà quale motivo, non ha dubbi che otterrà il suo
prezzo.
Bofonchiando,
tirai fuori il portafoglio e gli misi in mano la banconota. Se la
infilò in tasca con visibile soddisfazione. Maledetto ragazzino.
"E'
passato di qua praticamente tutti i giorni nelle ultime due settimane.
A volte insieme ad altri, più spesso da solo. Ordina sempre un sacco di
roba, ma solo se c'è Elena. Posso riavere il mio game boy adesso?"
Tirai
di nuovo fuori il gioco dalla tasca e glielo porsi.
Jeremy
tornò tutto contento a maltrattare pulsanti e ad uccidere alieni
invasori.
Io
mi alzai e me ne andai, con una bruciante sensazione di fastidio
strozzata a metà gola e la strana consapevolezza che io e quel tipo non
saremmo mai andati d'accordo.
***
"Dovevi
girare a sinistra."
"So dove
sto andando."
"Ne dubito.
Hai detto lo stesso quando-"
"La
prossima volta, allora," la zittisco, "impara a prenderti la patente."
"Voi due mi
fate venire voglia di rotolare fuori e finire spiaccicato sull'asfalto."
Ric
sottolinea il suo desiderio suicida sbattendo la testa contro il
finestrino, mentre Bonnie sbuffa sonoramente tornando ad abbandonarsi
contro il sedile posteriore con fare offeso.
Più di
dieci ore di viaggio e ha ancora il coraggio di mettersi a ribattere su
ogni decisione che prendo, da quale sia la strada più veloce al numero
delle soste pipì che le devo concedere.
Di
conseguenza, è ormai notte quando arriviamo a New Orleans e riusciamo
infine a trovare parcheggio in una stradina laterale non troppo
distante dal Quartiere Francese.
Cosa
diavolo ci faccia Elena a New Orleans? Bella domanda.
Bonnie si è
mantenuta sul vago. Sage, la rossa e piuttosto sexy nuova barista del
Grill, l'ha chiamata questa mattina per farle sapere che lei ed Elena
erano partite su due piedi su invito di un suo vecchio amico, tale Finn
proprietario di un locale del centro, e per esortarla ad unirsi a loro
perché "sarebbe così divertente".
Per quale motivo al mondo questa Sage abbia sentito la necessità di
invitare la tutt'altro che divertente Bonnie Bennet qua presente ad
attraversare sette stati per raggiungerla è qualcosa che sfugge alla
mia
comprensione, ma immagino che non abbia poi molta importanza arrivati a
questo punto.
E' passato
solo qualche anno dall'ultima volta che ho messo piede nella Big Easy
[2], ma potrebbero quasi essere decadi, tanto mi sembra tutto
appartenere ad una vita fa. Non avevo ancora vent'anni, era estate, ero
particolarmente al verde e la tangibile prospettiva di finire per la
strada era stato l'unico motivo a spingermi fin qua, dove, al tempo,
Charlotte condivideva un attico con un musicista jazz che si faceva
chiamare qualcosa come Jimmy B. Sweetlips. Non fu neanche troppo male
come estate: un sacco di erba, un sacco di musica, un sacco di ragazze.
A prima
vista, non sembra essere cambiato molto. La stessa atmosfera rilassata
da avamposto caraibico, le folle che si riversano nelle strade tra
bevute e schiamazzi, i locali aperti a qualsiasi ora del giorno e della
notte. Ciò non significa che io non venga colto piuttosto impreparato
da ciò che mi trovo davanti quando il nostro improbabile trio varca la
soglia del The Originals.
Perché,
diciamolo: imbattersi in Elena che balla, disinvolta e spontanea, sul
tavolo di un pub affollato non è qualcosa che capita tutti i giorni.
Eppure
eccola lì. Le braccia alzate sopra la testa che ondeggiano morbidamente
al ritmo della musica, i lunghi capelli lasciati sciolti sulle spalle,
occhi chiusi e sulle labbra appena l'accenno di un sorriso di chi non
si cura del pubblico o di una folla attorno. Come se non avesse una
sola preoccupazione al mondo. Ed è bellissima.
Il respiro
mi muore in gola per alcuni, lunghissimi secondi. Ogni genere di
pensiero che so bene che non dovrei fare torna prepotentemente in prima
linea, occupando anche il più remoto spazio dentro la mia testa. Questa
volta, non glielo impedisco.
Senza
neanche aspettare per assicurarmi di quali siano le intenzioni dei miei
due accompagnatori, inizio a farmi strada fra la calca, dritto verso di
lei.
Indossa una
maglietta il cui colore è reso indefinito dalle luci soffuse e colorate
del locale, che le scopre ritmicamente i fianchi ad ogni sua movenza,
sopra l'orlo di corti shorts di jeans sfilacciato che le lasciano
scoperte le gambe …. Dio, quelle gambe.
Non stacco
lo sguardo un solo secondo nel camminare, come se potesse rivelarsi
solo una fugace illusione e svanire nel nulla da un momento all'altro.
Il modo in cui i suoi fianchi disegnano un lento otto su se stessi,
quella traccia di sorriso che continua a giocare con i riflessi di luce
sul suo volto … Sono a pochi centimetri da lei, quando i suoi occhi si
aprono. Direttamente nei miei.
I suoi
movimenti rallentano, l'espressione distesa scivola via in favore di
una più meravigliata, e le sue labbra si muovono mormorando qualcosa di
simile al mio nome, appena un secondo prima di sciogliersi in un altro
sorriso. Muove un passo verso il bordo come se stesse per scendere dal
tavolo per venirmi incontro, quando qualcuno alle sue spalle urta con
forza il tavolino e le fa perdere quel già precario equilibrio.
La afferro
al volo nell'istante successivo.
Le sua
braccia si serrano, strette, attorno alla mia schiena. Istintivamente,
faccio lo stesso, tenendola premuta contro il mio corpo. Più di quanto
il mio salvataggio improvvisato concederebbe.
E' la prima
volta che la stringo così da quando … beh, da davvero molto tempo. E'
minuscola, ma dalla presa salda, esattamente come la ricordavo.
Dannazione, forse è per questo che non sembra così sbagliato come
invece dovrebbe. Mi concedo persino di sfiorarle brevemente i capelli
con le labbra, prima di costringermi a sciogliermi dalla sua presa.
"Cosa ci
fai qui?" mi domanda avvicinandosi al mio orecchio per cercare di
sovrastare il resto della confusione.
"Cosa ci
fai tu qui?"
La mia
domanda la fa curiosamente mettere a ridere.
"Sto …" Si
porta un dito sulle labbra con fare pensoso, prima di lasciarsi
sfuggire un'altra risatina. "… prendendo una pausa."
Mi verrebbe
da chiederle da cosa (… chi?),
quando mi rendo conto che c'è qualcosa di insolito nel modo in cui
strascica le parole.
“Sei
ubriaca?”
Un
adorabile lampo malizioso le attraversa lo sguardo, mentre avvicina il
pollice e l'indice e strizza l'occhio destro, per farmi sapere che sì,
lo è, ma solo un pochino piccino picciò.
Subito dopo
piega la testa di lato, la sua attenzione catturata da qualcosa dietro
le mie spalle. Si apre in un altro sorriso. Mi volto appena in tempo
per vederla andare a stritolare anche la sua amica, qualche passo
dietro di me.
Bonnie,
sulle punte dei piedi per riuscire a compensare alla propria statura ed
arrivarle almeno all'altezza della spalla, la stringe di rimando e nel
frattempo mi manda un'occhiata interrogativa, chiedendomi con lo
sguardo cosa stia succedendo. Mi stringo nelle spalle e faccio segno di
non averne la più pallida idea.
"Sono così
felice che siate qui!" esclama Elena ad alta voce, guardando entrambi. "Adoro
questo posto. E Finn mi ha insegnato un cocktail di sua invenzione che
è la fine del mondo. Venite," afferra Bonnie per una mano e con l'altra
invita me a seguirle, "Ve lo preparo. Non ve ne pentirete."
Sotto la
lingua sento tutta la ruvidità della pelle d'oca ed il sapore salato
delle minuscole goccioline di sudore quando, in unico movimento, lecco
via la corta linea di sale posta appena sotto l'ombelico. La tequila
segue subito dopo. La butto giù così di fretta da rovesciarne quasi
mezzo bicchierino, ma a malapena me ne accorgo. Il liquore mi brucia lo
stomaco, mi scioglie il cervello, mi travolge i sensi.
Il numero
di bevute finora? Sconosciuto. Perso per strada da qualche parte nel
passaggio da cocktail colorati a molto più micidiali liquidi
trasparenti.
Chi sia la
bionda sdraiata sul tavolo di fronte a me che ha prontamente offerto la
sua pancia e la tequila per farmi pagare pegno di una (ignota)
scommessa che ho appena perso? Non lo so, né tantomeno mi importa di
saperlo.
Quello che
so è questo: che questa mattina ero impanato a discutere controvoglia
questioni per cui non riesco a vedere una via di uscita; e che questa
notte sono a New Orleans, insieme al mio migliore amico, una tappetta
saputella che - ho scoperto - quando vuole riesce effettivamente ad
essere quasi (quasi)
simpatica, ed una ragazza del mio passato che sa ancora farmi impazzire
con la stessa maledetta facilità.
Ed anche in
mezzo allo scompiglio di musica e sudore che ci circonda,
all'annebbiamento che non mi consente di ragionare lucidamente e
all'enorme casino che è - che è
sempre stato - il nostro rapporto, c'è qualcos'altro che so. So
che è lei la ragione per cui
sono qui. Poco importa che sia sbagliato sotto diecimila aspetti
differenti.
Eccola lì, la ragazza del mio passato. Catturo i suoi occhi appena
rialzo lo sguardo dal corpo della ragazza-tequila. Bruciano nei miei
per un interminabile secondo con un'intensità che mi sorprende, prima
di scomparire, con un un guizzo di capelli scuri, inghiottiti dal resto
della folla.
Non ho
bisogno di pensarci. La seguo senza esitare, tra luci basse, sagome non
identificate tra cui mi faccio spazio e la musica su una principessa
che nessuno sa dove sia [3].
Sono quasi
sul punto di chiedermi se sia perfino stata reale oppure no, quando la
vedo di nuovo.
Afferro la
sua mano prima che possa sfuggirmi.
Si volta,
incatenandomi ancora con lo stesso sguardo ardente. E adesso lo
riconosco, perché l'ho già visto altre volte, una vita fa. E'
arrabbiata. Con me.
L'attimo
dopo vedo le sue labbra muoversi, avvicinarsi al mio orecchio.
"Odio
vederti con le altre."
Qualcosa
disperso in uno degli antri remoti nei quali è finita da un pezzo anche
la mia parte più razionale mi suggerisce che non dovrebbe dire una cosa
del genere. Così come mi suggerisce che io, altrettanto probabilmente,
non dovrei risponderle nel modo in cui invece faccio.
L'altra mia
mano scivola sull'incavo della sua schiena mentre avvicino il volto al
suo, per assicurarmi che possa capire, a fondo, il significato di ciò
che le sto dicendo.
"Non mi
importa niente di loro."
Alza lo
sguardo su di me, come per cercare conferma alle mie parole e, per un
attimo, lo vedo per quello che è: quello di una ragazzina insicura,
confusa, che cerca disperatamente di dare un senso a ciò che sta
facendo.
Ma poi,
esitanti, le sue dita si posano sul mio petto. Lo percorrono
lentamente, tracciando ogni linea fino a salire verso il mio collo, che
sfiorano seguendo il contorno della maglietta. Mi mandano fuori di
testa. Socchiudo gli occhi quando i suoi fianchi si fanno più vicini ai
miei e vi aderiscono con un movimento così assurdamente, dolorosamente
lento.
La
assecondo, ma voglio dirle di smetterla. Sbagliato sotto diecimila
aspetti differenti suona da qualche parte troppo lontana perché io la
possa udire. Non voglio lasciarla andare. Mai.
La mia mano
si muove sulla sua schiena, che accarezza leggera lungo il percorso
della spina dorsale. Il momento in cui immergo il volto nell'incavo del
suo collo e l'odore di fiori, calore e sudore mi penetra nelle narici,
so di volerla così tanto che fa male.
Sento la
sua bocca, di nuovo contro il mio lobo, sussurrarmi qualcosa. Non avrei
neanche bisogno di sentirlo, lo avevo già capito ancora prima che
pronunciasse le parole, nell'attimo in cui mi ha preso la mano tra la
sua.
“Andiamocene
di qui.”
Ed io non
ho davvero più possibilità di scelta. In questo momento, la seguirei
anche all'inferno.
Mi conduce
sul retro e su per una stretta scalinata il cui legno scricchiola ad
ogni passo traballante che accompagna la nostra salita. La sua mano non
mi lascia un istante, non lungo i gradini, non quando mi guida
all'interno del loculo abitabile che si apre quando raggiungiamo il
primo piano.
Nella
penombra rischiarata dalle illuminazioni provenienti dall'esterno,
intravedo gli sprazzi di vita di uno spazio che non ci appartiene. Una
chitarra ed un violino posati malfermi contro il muro, una traccia di
hascisc nell'aria, divani stropicciati abituati ad un via vai di
visitatori temporanei, i tremolanti riflessi delle luci sul Mississippi
River al di là della finestra.
Per un
istante ho la fugace percezione di quanto siamo estranei a questo
posto, e forse anche a questo momento, che in qualsiasi altra
situazione non starebbe neanche accadendo.
Ma non ho
il tempo di approfondire il pensiero perché realizzo che Elena si è
fermata, ed io con lei.
Lascia
andare le mie dita e trova il mio sguardo, mentre si appoggia contro la
soglia di una camera da letto anch'essa immersa nella semioscurità, le
mani incrociate dietro la schiena.
Nessuno ha
ancora detto una sola parola, ma non c'è ne è davvero bisogno. E' tutto
lì, nelle sue labbra socchiuse, nel desiderio che le ombreggia gli
occhi,nel lieve sospiro che le sfugge quando mi avvicino e poso le mie
mani sui suoi fianchi. Sento il calore della sua pelle sotto le dita,
nel punto in cui la maglietta è rimasta leggermente sollevata, e la
accarezzo appena solo per poterla sentire fremere un'altra volta.
E' tutto
così dannatamente giusto sotto così tanti aspetti che non so come abbia
mai potuto dubitarne.
Poso la
fronte contro la sua. Respiro arancia e vodka.
Lo sguardo
da ragazzina confusa che ho intravisto prima riemerge dalla nebbia e mi
lampeggia davanti agli occhi come se ce lo avessi davanti in questo
stesso momento.
“Cosa stai
facendo, Elena?” mi costringo a domandarle sottovoce.
Per un
lungo momento, l'unica risposta è il baccano ovattato che dal piano di
sotto e dalle strade si riversa dentro le finestre aperte in un unico
insieme di musica, schiamazzi e brezza afosa.
Poi la sua
mano sinistra si alza per sfiorarmi la guancia, mi impedisce di
allontanarmi.
“Non ho mai
fatto niente di avventato. Sempre fatto la scelta sensata.” Sussurra
anche lei, inciampando un po’ nelle parole. Non so chi abbiamo paura di
disturbare a parlare a voce più alta. Le sue dita mi sfiorano
lentamente il contorno della mascella. Vorrei inclinare il viso e
baciarle. “Ti sei mai chiesto come sarebbe stato ...? Anche solo una volta …”
Chiudo gli
occhi e inspiro a fondo, perché conosce la risposta, ma mi tortura lo
stesso.
“Elena …”
tento.
Non so
neanche io cosa ho intenzione di dirle o perché stia continuando a
temporeggiare.
Vai fino in
fondo o vattene via adesso, Damon. Falla finita, in un modo o
nell’altro.
“Io sì,” mi
fa sapere in un bisbiglio.
E, fanculo,
è abbastanza da far pendere la bilancia e segnare in modo irrimediabile
la mia decisione.
La stringo
di più e sono solo a pochi millimetri dall'ultimo passo, quando un
tonfo e risatine soffocate alle nostre spalle ci fanno allontanare in
uno scatto più colpevole che sorpreso.
Mi rendo
conto che qualcun altro ha evidentemente avuto la nostra stessa idea
quando mi volto e vedo le due figure baciarsi appassionatamente contro
il muro. Una ha brillanti riflessi rossi tra i capelli, l'altra ancora
si perde nel buio.
E' solo
quando Elena avanza incerta di un paio di passi per poter vedere cosa
sta succedendo che lo capisco anche io. Soprattutto quando la sento
domandare perplessa, "Bonnie?"
————————————————————
Note:
[1]
Nominato già nel cap. 7
[2]
Soprannome per New Orleans
[3] The Princess, Parov
Stelar
|
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Capitolo 11 *** Like a hurricane ***
10
10.
Like
a hurricane
-
You are like a hurricane
There's
calm in your eye.
And
I'm gettin' blown away
To
somewhere safer where the feeling stays.
I want to love you but I'm getting blown
away. –
(Like a hurricane, Neil Young)
Elena
Capisco di essere sveglia per colpa della fitta acuta che mi trafigge
la testa da parte a parte.
Lentamente
sollevo le palpebre, ma il sole intenso mi costringe a chiuderle di
nuovo. Solo dopo alcuni tentativi riesco a tenere gli occhi aperti
abbastanza da poter mettere a fuoco il pulviscolo che vortica nella
controluce che entra dalle finestre spalancate.
Dalla
strada proviene un rumore che non mi è familiare.
Dove diavolo sono?
Lo
spaesamento mi provoca un istantaneo senso di panico e scatto a sedere
di colpo, cosa per cui la mia testa non mi ringrazia affatto.
I pezzi
però iniziano pian piano a tornare e a mettersi insieme, partono dal
divano sul quale ho passato la notte, l'appartamento dell'amico di
Sage, New Orleans, il locale, gli occhi azzurri che emergono dalla
confusione … e il mio cuore fa un salto dritto contro la cassa
toracica. Mio dio.
"Buongiorno.
Come ti senti?"
Alzo la
testa verso la voce gentile che mi ha riportato al tempo presente.
L'uomo che
mi sta di fronte mi porge un bicchiere colmo di succo rosso.
Cautamente, perché i cento martelli nella mia testa si danno alla pazza
gioia ad ogni mio movimento più brusco e sotto sotto sono un po'
convinta che sto per morire, mi sporgo per prendere ciò che mi sta
porgendo, e capisco di che si tratta: Bloody Mary.
Il vago
odore di vodka che emana mi fa subito venire voglia di vomitare. Di
nuovo.
"Chiodo
scaccia chiodo, giusto? Fidati che aiuta," prosegue lui con un sorriso
di fronte alla mia smorfia disgustata.
"Grazie."
La voce mi esce finalmente fuori, ma è come un graffio contro la mia
gola. Fortunatamente, il mio salvatore sa cosa sta dicendo perché
quando mi costringo a buttare giù un sorso del suo cocktail, la
consistenza corposa ed il forte gusto speziato riescono davvero a farmi
sentire un po' meglio. "Grazie …" Phil?
"… Finn."
"Grazie,
Finn," gli sorrido.
Finn sembra
piuttosto abituato all'idea di sconosciuti amici di amici che dopo aver
fatto festa insieme tutta la notte si accampano nel suo salotto senza
neanche ricordarsi il suo nome.
"Ai postumi
del giorno dopo non ci si abitua mai, vero?"
Faccio un
cenno con la testa che spero comunichi che io sappia di cosa sta
parlando, perché l'alternativa sarebbe confessare che questa è la mia
prima volta, che non mi sono mai sentita così fisicamente devastata in
tutta la mia vita, e che non ho davvero intenzione di passarci di nuovo
una seconda volta. Sempre ammesso che riesca a sopravvivere alla prima.
"Penso che
Sage stia ancora dormendo e l'altra vostra amica …" Bonnie. Dov'è Bonnie?… " … è uscita
qualche minuto fa, ha detto che sarebbe andata a comprare qualcosa da
mangiare. Il bagno è in fondo al corridoio, se ne hai bisogno, fai come
se fossi a casa tua."
Le sue
parole mi hanno appena fatto tornare alla mente un altro flash: io che
vomito l'anima nel wc di questo premuroso sconosciuto e Bonnie che
accanto a me mi ripete che andrà tutto bene.
Voglio
morire.
"Mi
dispiace davvero tanto …" farfuglio.
"Questa
casa ha visto molto peggio. Non dimenticarti il Bloody Mary," mi
consiglia prima di salutarmi e dirigersi verso le scale per scendere al
piano di sotto.
Finisco il
mio drink a piccoli sorsi, con la stoicità e la diligenza che di solito
si riservano alle medicine.
Quando con
deboli passi riesco a raggiungere il bagno, mi libero dei vestiti ormai
appiccicaticci che sto ancora indossando dal giorno prima e mi butto
sotto la doccia. E' solo una vecchia doccia a muro e la pressione non è
il massimo, ma non ricordo un'altra doccia così piacevole.
Forse è il
Bloody Mary, forse è l'effetto rinfrescante e rigenerante dell'acqua
appena tiepida ma, per il tempo in cui mi avvolgo in un asciugamano
pulito e finisco di strizzarmi i capelli, a poco a poco la tensione nel
mio stomaco si è distesa ed il dolore martellante si è assestato su
semplice cerchio alla testa decisamente più sopportabile.
Con il
dorso della mano, pulisco una porzione circolare di specchio dal vapore
che l'ha annebbiata.
Ma vengo
colta impreparata da ciò che vedo quando emerge infine il mio riflesso.
Perché la mia faccia dovrebbe quella malconcia delle pubblicità
progresso contro gli eccessi degli alcol, non qualcosa così … normale.
Ok, forse sono un po' più pallida del solito, con gli occhi ancora
leggermente arrossati per la stanchezza. Per il resto, però, sono
soltanto … me stessa.
Mi
aspettavo per caso di sembrare uno schifo perché è così che dovrei
sentirmi anche dentro?
Invece,
mentre mi passo le dita tra i capelli bagnati per districarli come
meglio posso, è come se la sorprendentemente normale versione di me
dentro la specchio mi stesse sussurrando complice: Ammettilo e basta, Elena. La città,
ballare, la musica, le risate, lasciarti andare … Ti sei divertita, e
lo sai.
Le mie
labbra si curvano da sole in un accenno di sorriso.
E poi è
arrivato lui.
Il mio
battito accelera all'improvviso ed io chiudo gli occhi e inspiro a
fondo, preparandomi per la brusca sferzata di senso di colpa che
dovrebbe prontamente rimpiazzare questa scarica di adrenalina al solo
pensiero di cosa ero sul punto di fare ieri notte.
Invece, il
malessere che mi invade quando penso a quanto io sia stata ingiusta nei
confronti dell'uomo che ho promesso di amare per il resto della mia
vita è fin troppo pallido e distante rispetto a tutta quella serie di
emozioni confuse che non penso di essere pronta a processare fino in
fondo.
Si confonde
con il ricordo dei brividi provocati dalle mani dell'altro uomo, quello
che non dovrebbe stare così tanto nei pensieri. Con il tumulto
interiore che il suo sguardo riesce a provocarmi, come se lì dentro
fossi sempre sul punto di perdere me stessa. Con l'idea che forse, per
una volta, perdermi era proprio ciò che volevo.
Così
inspiro e aspetto, per un senso di colpa che non arriva con la violenza
che vorrei. E forse è questo ciò che mi spaventa di più.
Lascio i capelli ancora bagnati sciolti sulle spalle e, sopra ai bassi
stivaletti di leggera pelle scamosciata, indosso il prendisole rosso
che ho comprato ieri pomeriggio a delle bancarelle per pochi spiccioli.
E' un po' troppo grande per me e, non importa quanto provi a tirare su
le spalline, continua a rivelare molta più scollatura di quanto vorrei,
ma immagino che dovrò farmelo andare bene lo stesso.
Quando, due
sere fa, Sage era saltata giù dal bancone e mi aveva detto "Andiamo a
New Orleans", era stato tutto così improvvisato da non includere
neanche il pensiero di beni di prima necessità come un semplice
ricambio di vestiti. Ero partita con dieci dollari in contanti, un
locale in condizioni disastrose, ed un telefono con scarsa batteria
ormai spento da due giorni.
Una stretta
mi attraversa il petto quando mi chiedo se Elijah abbia provato a
cercarmi, vista la nostra ultima discussione. Mi riprometto di trovare
il modo per chiamarlo alla prima occasione.
Socchiudo
la porta per uscire dal bagno, ma mi fermo subito quando vengo
raggiunta da due voci intente a discutere, provenienti dall'angolo
cottura che è celato alla vista da una tenda a cascata di perline
colorate.
"Qual è il
problema?" sta chiedendo Sage.
Dalla
posizione in cui mi trovo, intravedo il retro dei suoi capelli rosso
vivo mentre retrocede allontanassi di qualche passo, prima che venga
nascosta dal séparé e sparisca di nuovo dalla mia visuale.
"Io non …"
mormora Bonnie, in mezzo ad un rumore metallico di pentole. "Lascia
perdere e basta, ok? "
"Perché?
Ieri notte …"
"Non
capisci. Quello è stato un errore." Abbassa la sua voce così tanto, che
sembra quasi sia sul punto di scomparire da un momento all'altro. "Io
non … Io non sono come te."
"Intendi
gay?"
Bonnie non
risponde.
"Non è una
brutta parola, sai."
Il sussurro
di risposta della mia amica questa volta è davvero troppo basso perché
io possa udirlo.
"Bene,
quello che vuoi," replica Sage in un tono più secco, quasi ferito.
C'è un
fruscio di perline ed automaticamente mi ritraggo di nuovo dentro il
bagno, per non far capire di essere rimasta ad ascoltare una
conversazione fin troppo privata. Sento dei passi veloci scendere le
scale ed una porta che sbatte al piano di sotto.
Lascio
passare qualche secondo prima di dirigermi in cucina, dove trovo Bonnie
intenta a sbattere delle uova in un ciotola in modo particolarmente
accanito. Non alza la testa da ciò che sta facendo neanche quando mi
sente arrivare.
"Ehi," la
saluto piano.
"Ehi."
Versa le
uova in una padella ed io mi appoggio contro un piccolo tavolo di legno
scheggiato che fa da ripiano multifunzionale, incrociando una gamba
davanti all'altra e tamburellando esitante le dita contro il suo bordo.
Sulla finestra aperta alle spalle di Bonnie, una leggera tendina
svolazzante color verde scuro fa da schermo alla luce calda e selvaggia
che proviene dall'esterno. Deve essere almeno primo pomeriggio.
"Bonnie,
riguardo ieri notte …"
"Ero
ubriaca."
Richiudo la
bocca, spiazzata dalla sua replica asciutta. Volevo solo ringraziarla
per essermi stata accanto mentre riversavo fino all'ultima goccia di
alcol e cibo scadente inginocchiata sul pavimento del bagno. Non sarei
stata certo io a tirare fuori ciò che era successo prima di quel
momento.
Dopo che
Bonnie e Sage erano salite nell'appartamento, era stato Damon il primo
a rompere l'imbarazzato silenzio che si era creato, strascicando
qualcosa come "Vado a cercare Ric", per poi andarsene come se solo in
quel momento fosse tornato sobrio tutto d'un colpo e non potesse
allontanarsi da me mai abbastanza in fretta. Soltanto a ripensarci, il
mio addome torna a contrarsi di nuovo. E non solo perché era stato
subito dopo che la nausea aveva iniziato a farsi sentire.
"Va bene.
Non sto …"
“Ero
ubriaca,” ripete, mescolando le uova sul fuoco con una spatola di
legno.
"Ok,"
mormoro, intuendo che forse è meglio lasciare perdere completamente un
argomento che evidentemente non ha alcuna intenzione di affrontare. "Ha
un odore delizioso," dico invece, ed anche il mio stomaco martoriato
esprime il proprio accordo con un gorgoglio.
"Dov'è
Damon?" mi domanda ponendo le uova strapazzate su del pane fresco
tostato e porgendomene un piatto.
Il mio
cuore fa un tuffo nel vuoto.
"Non lo
so," ammetto prendendo una forchettata, ma l'amara consapevolezza di
non saperlo mi fa improvvisamente perdere tutto l'appetito. Quando lo
sprazzo di Damon che lecca la pancia di una biondina mi passa davanti
agli occhi e mi suggerisce che magari è tornato al locale per finire la
serata, sono costretta a posare sia il boccone che l'intero piatto per
non rischiare di vomitare di nuovo.
In silenzio
aspetto la ramanzina che secondo logica dovrebbe seguire la domanda di
Bonnie. Cosa ci facevi con lui? Cosa
pensavi di fare? e tutta una serie di altri quesiti inquisitori
ai quali non voglio davvero dover rispondere, ma che se non altro
avrebbero l'effetto di acuire il mio senso di colpa, cosa per la quale
in questo momento potrei esserle molto grata.
Ma anche in
questo caso aspetto invano.
Dopo una
lunga pausa, Bonnie continua con voce neutra, "Voglio solo ripartire il
prima possibile.”
“Tu chiedi
ed io vengo," mi fa sussultare la voce di Damon alla mia destra.
Mi volto
per trovarlo appoggiato a braccia incrociate contro lo stipite del
passaggio ad arco, la cascata multicolore drappeggiata dietro le sue
spalle. Mi getta uno sguardo veloce ed aggiunge con un mezzo sorriso
sarcastico che è tutto per me, "Sono facile fino a questo punto."
Vorrei
rispondere a tono alla sua sottile provocazione, ma ho la bocca arida e
la lingua immobile.
"Dove eri
finito?" gli chiede Bonnie, mentre lui prende la colazione che ho messo
da parte poco fa e la mangia con gusto al posto mio.
Si appoggia
in piedi contro il mio stesso tavolo, con l'aria di uno che non sta
neanche facendo caso al fatto che i nostri fianchi siano a stretto
contatto e che il suo gomito mi sfiori l'avambraccio ad ogni singolo
boccone. Ma io sento ogni millimetro della sua vicinanza fin dentro ad
ogni mio muscolo contratto, come se dopo la scorsa notte ogni minimo
contatto sia diventato di colpo molto più sconveniente.
"A
smaltirla con Ric finché non siamo stramazzati di sonno dentro la
Camaro," Damon posa il piatto che ha ripulito alla velocità della luce
ed io mi mordo le labbra per nascondere un inopportuno sorriso di
sollievo che nessuna bionda fosse coinvolta nel resto della sua serata.
"Partiamo tra una mezzora, ok?"
Bonnie
infilza le uova con decisione. "Perfetto."
"Ti unisci
a noi, sposa che scappa?"
Ancora una
volta, il suo sarcasmo taglia più a fondo di quanto dovrei
permetterglielo. Come se non bastasse, l'espressione di sfida che copre
qualsiasi altra emozione nel suo sguardo mi suggerisce che non sarà un
viaggio facile. Io e lui in uno spazio così ristretto. Ma non posso
neanche restare qui per sempre, così non ho altra scelta che annuire e
sperare di tornare a Mystic Falls senza complicare ulteriormente la
situazione.
***
"Sputa il rospo, non accetto scuse,"
mi sibilò Caroline più minacciosa che mai, dopo avermi afferrato per un
braccio mentre stavo passando ignara tra i tavoli del Grill e
trascinato a sedere al tavolino dove lei e Bonnie mi stavano tendendo
l'agguato.
"Di
che diavolo stai parlando?" ribattei divincolandomi dalla sua presa.
"Tu.
Matt Donovan. Le gradinate dietro lo stadio dopo la partita di ieri.
Non negare, fonti certe vi hanno visti insieme. E lo sanno tutti che
c'è solo un motivo per cui si va dietro le gradinate. Allora? Ti dai
alle cose sconce con il quarterback e non ci dici niente? A noi, le tue
migliore amiche?" Indicò se stessa e Bonnie, che per tutto il tempo era
rimasta in silenzio in un angolo, e mi guardò come se l'avessi appena
pugnalata al cuore.
"Vuoi
parlare più piano per favore?" le intimai dopo aver dato una veloce
occhiata alle mie spalle ed essermi assicurata che né Jenna, né
tantomeno mio padre fossero a portata di orecchio per quei discorsi. "E
non stavamo facendo niente. Solo parlando."
Caroline
strinse lo sguardo e mi scrutò diffidente, probabilmente valutando se
credermi o meno. Fui grata a Bonnie che si intromise in mia difesa.
"Vuoi
darle tregua? Stavano solo parlando."
"Di
cosa?" mi domandò Caroline, ancora non convinta.
Mi
scostai una ciocca di capelli dal volto e mi feci sfuggire un sorriso
quando, nel ripensarci, mi tornò subito quel lieve e caldo batticuore
che accompagnava sempre il pensiero di Matt.
"Mi
ha chiesto di uscire insieme," confessai a bassa voce. Ma, prima ancora
di tornare a sollevare lo sguardo verso le mie amiche, aggiunsi con un
sospiro, "Ma non ve l'ho detto perché non credo che sia una buona idea."
"Perché
no?" chiese Bonnie.
"Perché
... Perché non ho tempo per i ragazzi, perché non voglio coinvolgerlo
nei miei problemi, perché mi piace da impazzire e-"
"Tesoro,"
mi interruppe Caroline, allungando una mano per posarla sopra la mia.
"Non vuoi morire vergine, vero? Persino Bonnie ci ha dato dentro,
perciò voglio dire-"
"Care!"
esclamò l'altra.
Mi
voltai di scatto verso Bonnie, che però aveva già nascosto il volto tra
le mani e sembrava la personificazione dell'umiliazione.
"Ti
avevo chiesto di tenertelo per te," bisbigliò Bonnie rialzando infine
la testa.
Caroline
si limitò a fare spallucce, ma il mio petto si strinse in una morsa che
sapeva di menzogne e tradimento.
"Hai
fatto sesso e non mi hai detto niente?…"
"Mi
dispiace, è solo che è successo l'estate scorsa, e tu avevi appena
perso tua madre … Ma davvero non è stata poi tutta questa gran cosa,"
si scusò Bonnie con un tono mortificato che però non contribuì a farmi
sentire meglio.
"Come
è stato?" le domandai, cercando ugualmente di non farle pesare troppo
la delusione per essere stata esclusa da una cosa così significativa.
Si
strinse nelle spalle. "Strano. E doloroso. Ecco perché ..."
"
... devi farlo il prima possibile e toglierti il pensiero," finì
Caroline.
"
... devi aspettare finché non sei sicura," disse Bonnie al stesso
tempo. Si girò verso la bionda e la guardò sbalordita. "Che razza di
consiglio è?!"
"E'
un ottimo consiglio! Lo sanno tutti che il sesso fa schifo le prime
volte ma migliora con il tempo, perciò prima inizi-"
"E
allora perché tutte le riviste dicono che-"
"La
smettete?" le interruppi prima che le loro voci iniziassero ad alzarsi
troppo e tutto il Grill si mettesse ad ascoltare la poco ortodossa
linea del cuore regalata da queste due. "Non ho intenzione di andare a
letto con Matt, ok?" misi in chiaro.
Caroline
piegò le labbra in un sorriso malizioso.
"Lo
sapevo che ti stavi conservando per Damon." Mi strizzò l'occhio con
fare complice. "Tranquilla, non lo dirò a nessuno."
"Cosa?
No!" ribattei, sentendomi di colpo avvampare fino all'attaccatura dei
capelli.
"E
come biasimarti, ha tanta di quell'esperienza, e come stavo dicendo-"
"O
forse ha tanti pidocchi visto che si scopa qualsiasi cosa respiri,"
disse Bonnie con una smorfia disgustata.
Caroline
aveva già la replica pronta in bocca quando le fermai entrambe per
quella che sperai essere l'ultima volta, ormai sull'orlo
dell'esasperazione.
"Non
farò sesso con nessuno, è chiaro?" ribadii frustrata per quella che mi
sembrò la millesima occasione nel giro di cinque minuti.
"E
va bene, va bene," concesse Caroline con un sospiro ed un'alzata di
occhi al cielo. "Almeno uscirai con Matt?"
Tentennai.
Mi
piaceva davvero Matt. Il suo sorriso, con la fossetta che creava sulla
sua guancia destra. La gentilezza con cui si offriva di portarmi i
libri. Le palpitazioni che mi suscitava ogni volta che incrociavo i
suoi occhi azzurro chiaro, quando lo sorprendevo a guardarmi da due
banchi di distanza. Matt era così dolce, e così normale, che di
riflesso faceva quasi sentire anche me come una ragazza normale, una di
quelle che può permettersi di ridacchiare accanto agli armadietti
dimenticando per un attimo tutto quello che mi piombava addosso non
appena tornavo a casa.
"Oh
andiamo, Elena, vivi un po'," mi incitò Caroline mentre io stavo ancora
rimuginando sulla mia risposta. "E poi è solo un appuntamento, che male
può mai fare?"
***
Il viaggio è quieto e teso esattamente come me lo ero prefigurato.
Alaric
tenta inizialmente di improvvisare un po' di conversazione, sporgendosi
dal sedile del passeggero verso di me per parlare del più o del meno.
Per un po' lo assecondo, sebbene neanche io sia esattamente di spirito
ciarliero, perché sembra una persona interessante ed è sempre meglio
dell'alternativa, ovvero restare troppo a lungo muta e sola con i miei
pensieri. Tuttavia, è difficile continuare a lungo senza la minima
cooperazione da parte degli altri due.
Bonnie,
infatti, è rannicchiata all'altro angolo del sedile posteriore, con la
testa posata contro il finestrino, intenta a dormire o più
probabilmente a fare finta.
Damon,
invece, risponde a monosillabi e non distoglie gli occhi dalla strada,
anche se la sua presenza mi sembra più forte che mai, dentro quella
macchina. Forse è colpa della radio che ha impostato su una stazione di
rock classico, a volume abbastanza alto da scoraggiare ogni ulteriore
tentativo di conversazione: è un'abitudine che conosco bene e che
evidentemente non ha perso, mi ritrovo a pensare mentre mi tornano alla
mente altri suoi silenzi coperti dalle voci di Neil Young o Eddie
Vedder.
Così mi
abbandono contro lo schienale e mi volto verso il paesaggio che scorre
veloce al di fuori, in realtà piuttosto piatto e privo di nota.
Mi impongo
di pensare ad Elijah. A quanto possa essersi preoccupato, a cosa dirgli
e a come lo affronterò quando ci rivedremo … ma più dal finestrino
semiaperto un piacevole alito tiepido mi soffia sul volto, più tutto
sembra ancora più lontano e fuori dal mio focus.
Capisco
presto che quella con la mia mente è una battaglia persa. Dò la colpa a
tutto l'alcol della notte prima, come se la mia scarsa capacità di
concentrazione verso una parte così importante della mia vita non sia
altro che uno strano effetto collaterale che si accompagna ai postumi e
alla mia attuale debolezza fisica e mentale.
Soprattutto
quando chiudo gli occhi, e lo sguardo di Damon è tutto ciò che vedo,
così blu, così combattuto, così liquido di desiderio mentre mi spinge
contro la soglia di una camera di letto. Ed esattamente come la scorsa
notte, sento di nuovo che sto camminando lungo una linea sottile, unica
e fragile barriera verso un groviglio di sentimenti seppelliti alla
perfezione che, sin dal momento in cui il ragazzo diventato uomo è
entrato nel mio bar una mattina di appena un mese fa, ho fatto di tutto
per mantenere tali. Perché è tutto lì, dentro ad un gigantesco e
confusionario vaso di Pandora che certo non posso permettermi di andare
ad aprire adesso.
Ma la mia
mente è così leggera, ed il tocco delle sue dita brucia ancora così
forte sulla linea dei miei fianchi dove mi aveva sfiorato la scorsa
notte. Stringo d'istinto le gambe per calmare, invano, il caldo
formicolio al loro centro, quando immagini di una serata non interrotta
si fanno strada nella mia testa ed un piacevole brivido mi corre lungo
la schiena.
L'ultimo
pensiero coerente, prima di scivolare in un buio accogliente e
peccaminoso, è che sono più nei guai di quanto pensassi.
Tirai su la manica della giacca quel
tanto che bastava per scoprire il sottile orologio argentato, che
penzolava sempre un po' troppo largo sul mio polso dal momento che era
stato fatto per quello di mia madre, e spostarlo sotto la luce per
controllare l'ora sul quadrante.
Il mio respiro si condensò e si dissolse
nell'aria fredda. Non ricordavo un altro inverno così gelido da quando
avevo memoria. Affondai le mani in tasca ed il volto nella sciarpa,
iniziando a domandarmi se non avessi per caso sbagliato l'ora del
nostro appuntamento, o se invece se ne fosse semplicemente dimenticato …
Proprio
nell'attimo in cui formulai quel pensiero, vidi i fari della Camaro
azzurra svoltare nel vialetto e fermarsi a poca distanza dalla
depandance, prestando attenzione ad evitare una pozzanghera
trasformatasi in ghiaccio.
"Mi
dispiace, Rose mi ha trattenuto al negozio per finire l'inventario," si
scusò Damon dopo aver chiuso la macchina, mentre si rovistava nelle
tasche per cercare le chiavi di casa. "Da quanto stai aspettando?"
"Non
molto," mentii scostandomi dallo stipite della porta per permettergli
di aprirla.
Mentre
teneva la porta aperta per farmi entrare, mi lanciò un'occhiata
dubbiosa. "Hai il naso rosso, stavi congelando."
Mi tastai la punta gelata del naso,
sperando con tutta me stessa di non assomigliare troppo alla renna
Rudolph, ed iniziai a togliermi il cappello e la sciarpa per posarli su
un mobiletto posto accanto all'ingresso.
Damon
diceva di non capire perché mai mi piacesse casa sua e preferissi
sempre vederci lì piuttosto che altrove. Avevo provato a spiegargli che
non importava quanto fosse piccola o che non avesse una vera e propria
divisione delle stanze, considerando che l'ingresso un po' soggiorno un
po' cucina era separato dalla camera soltanto da un arcata. Tutto era
reso accogliente dall'ordine ed una disposizione attenta dei mobili,
che lui invece bollava solamente come il retaggio di un'educazione
rigida della quale nonostante tutto era impossibile liberarsi.
E poi aveva il suo odore, ma questo non
glielo avevo mai detto.
Stavo
per togliermi anche la giacca quando notai che Damon era intento a
frugare il fondo di uno dei cassetti accanto alla cucina.
"Cosa
fai?"
"Cercavo
queste," rispose soddisfatto, venendomi incontro.
Mi
prese una mano e la richiuse attorno a qualcosa di metallico. Le sue
dita coprirono le mie, trasmettendo un immediato calore alla mia pelle
gelida e provocandomi un piacevole fremito quando, per un fugace
secondo, il suo pollice si soffermò ad accarezzarmi il dorso.
"Sono
le chiavi," mi spiegò quando lasciò andare la mia mano ed io la aprii
per scoprire meravigliata il contenuto del mio palmo. "Così non devi
aspettare al freddo quando sono in ritardo per le tue lezioni di
matematica. O anche solo nel caso preferissi stare qua quei giorni che
non vuoi tornare a casa."
"Grazie,"
mormorai senza sapere che altro dire, mettendole al sicuro nella tasca
interna della mia borsa e cercando il suo sguardo per fargli sapere
quanto apprezzassi quel pensiero.
Non ci riuscii, perché scelse proprio quel
momento per voltarsi ed appendere la giacca ad un gancio dietro la
porta, dandomi le spalle. Mi domandai se non l'avesse fatto di
proposito.
"Andiamo,"
mi incitò quindi, "Sono già le nove e quella fastidiosa trigonometria
che ti piace tanto non si farà da sola."
Da
quando un'umiliante F rossa aveva marchiato il mio fallimento in
materia alla fine dello scorso trimestre, Damon, a cui quel particolare
campo riusciva incredibilmente facile con una minima quantità di
sforzo, aveva avuto pietà di me ed accettato di aiutarmi.
Ogni
venerdì, dopo che avevamo finito entrambi di lavorare, passavamo circa
un'ora a combattere la mia scolastica bestia nera, prima che io
tornassi a casa per assicurarmi che Jeremy non stesse sveglio tutta la
notte davanti ai videogiochi, e lui uscisse per proseguire la sua
serata con amici o ragazze di cui non mi sforzavo mai di imparare il
nome. Andava bene ad entrambi perché, se da una parte Damon non
scendeva mai nei dettagli riguardo al modo in cui passava le sue serate
quando non era con me, io dal mio canto preferivo continuare a non
saperlo, visto che anche solo immaginarlo mi provocava una punta di
fastidio che poi impiegavo giorni a far andare via. Quelle erano le
tacite fondamenta del nostro accordo del venerdì sera, ma forse,
ripensandoci, lo erano molto più in generale della nostra stessa,
altrimenti improbabile, amicizia.
Cercai
di concentrarmi sui passaggi che mi stava ripetendo già per la seconda
volta, ma quella sera la capacità di ragionamento sembrava essere dalla
mia parte ancora meno del solito.
Andre, che era stato il cuoco del Grill
per quasi dieci anni, quello stesso pomeriggio aveva avuto un violento
litigio con papà e si era licenziato urlandogli che se voleva mandare
il locale a puttane, lui non aveva intenzione di andare a fondo insieme
con lui. Non avevo ben capito a cosa si stesse riferendo, ma come
conseguenza avevo passato il resto della giornata a correre su e giù
per la cucina insieme a Jenna per riuscire a far fronte alla sua
improvvisa dipartita, mentre mio padre si era chiuso nell'ufficio
sbattendo la porta e non ne era più uscito. Passandovi davanti, mi era
sembrato di sentirlo piangere.
Chiesi
a Damon la prima stupida domanda che mi saltò in mente nel vedere un 3
al posto di un 5, per non fargli pensare che stesse sprecando il suo
tempo mentre io pensavo ad altro, ed appoggiai meglio la schiena contro
il bordo inferiore del divano. Ci sedevamo sempre per terra così da
poter usare l'unico tavolino, altrimenti troppo basso. Ma la sua
risposta mi attraversò la testa senza lasciare alcuna traccia, troppo
impegnata com'ero a cercare una posizione più comoda per la mia
nuca.
La trovai vicina alla spalla di Damon.
Qualche minuto e, senza neanche accorgermene, finii a poco a poco per
adagiare la testa contro la curva del suo braccio. Ero così stanca,
fisicamente e mentalmente, ed il contatto con il suo corpo mi fece
sentire così bene, che non prestai attenzione al modo in cui, per un
attimo, lui si irrigidì quando scivolai contro di lui.
Damon
proseguì facendo finta di niente. Ma a quel punto le mie palpebre erano
troppo pesanti per seguire sulla carta ciò che stava dicendo, così
scelsi di concentrarmi semplicemente sul suono della sua voce, che mi
fece compagnia fino a che piano piano tutto il resto non scomparve.
Quando la mano che ad un certo punto salì a stringermi e a circondarmi
il fianco mi fece sentire abbastanza al sicuro per lasciar cadere anche
le ultime resistenze, io stessa svanii nel sonno più profondo che
avessi avuto da mesi.
A svegliarmi è la fine del movimento dell'auto che aveva cullato la mia
sonnolenza fino a questo momento. Ancora intorpidita, mi stiro il collo
indolenzito e sbircio fuori dal finestrino, dove scorgo solo il buio
intervallato dalla luce di un'insegna colorata.
"Siamo
arrivati?" domando confusa, abbandonando la posizione rannicchiata
contro lo sportello per mettermi più comodamente a sedere.
"No, ci
stiamo solo fermando per la notte," mi fa sapere Damon dal sedile di
fronte.
"E perché
non possiamo continuare?" obietta Bonnie.
"Perché
sono stanco e non ho intenzione di guidare per altre sei ore. Hai
qualche altra idea, capo scout?"
"Se proprio
devi," bofonchia la mia amica
"Non stavo
chiedendo il tuo permesso."
Damon
stacca le chiavi dal quadro e scende sbattendo la portiera. Bonnie gli
va dietro.
"Devi
sempre essere così stronzo?"
"No, posso
trasformarmi in un dolce angioletto solo per te," è l'ultima cosa che
lo sento ribattere mentre i due si allontanano verso la reception del
motel, anche se, a giudicare dai loro gesti e dal fatto che continuino
a parlarsi, quell'inutile diatriba non è certo finita lì.
"Se per
caso te lo stai chiedendo, sì, li ho dovuti sopportare così per dieci
ore di viaggio, senza interruzioni," mi fa sapere Alaric quando anche
noi scendiamo per seguirli.
Gli sorrido
perché ho un'idea molto precisa di cosa deve essere stato. "Mi
dispiace."
"Da quanto
conosci Damon?"
"Io …" mi
schiarisco la voce. "Dal liceo. La mia altra migliore amica e suo
fratello sono insieme da allora." Perché diamine ho detto una cosa del
genere? La faccio sembrare come se fosse quella la ragione per cui ci
conosciamo. "Ma ci siamo … persi di vista per alcuni anni."
"Uh."
Alaric si
ferma per scrutare con fare assorto un punto sopra le nostre teste.
Seguendo il suo sguardo, noto che è fisso su una vecchissima fotocamera
di sicurezza che dubito possa davvero funzionare ancora. Mormora
qualcosa tra sé e sé che non riesco ad afferrare, e mi sorge il dubbio
se quell'uh fosse dedicato a me oppure a lei.
"Beh, ci
deve tenere a te se è andato fino in Louisiana per riprenderti,"
prosegue poi, tutto d'un tratto.
Riprende a
camminare verso l'ingresso, ma io rimango un attimo immobile, nel bel
mezzo del parcheggio malamente illuminato, interdetta dalle sue parole.
Una parte di me non può fare a meno di chiedersi: quanto c'è, di
preciso, nel suo tenerci a me? Quanto c'è delle pressioni di Caroline
che mi sono state raccontate la notte prima tra un bicchiere e una
risata, quanto c'è di ciò che avevamo in passato, quanto c'è di ciò che
l'ha distrutto …
E' con uno
strano turbamento in fondo al petto che raggiungo gli altri sul
terrazzino circondato da una balaustra di ferro, la cui pittura bianca
un po' scrostata si fa azzurrognola sotto le luci dei vecchi lampioni
malfunzionanti.
Arrivo
appena in tempo per vedere Bonnie strappare una delle due chiavi dalle
mani di Damon, facendo roteare gli occhi al cielo per qualsiasi
battutina lui abbia appena pronunciato.
"Andiamo,
Elena."
Salutiamo
con un veloce ´buonanotte`, durante il quale il solo fatto di pensare
ancora al commento di Alaric è ragione sufficiente per evitare di
proposito qualsiasi contatto visivo con Damon, e la seguo verso la
camera 319.
Chiudo la
porta blu alle nostre spalle e, mentre lei accende tutte le lampade
nella stanza, poso la borsa e mi siedo su uno dei due letti. Sono
ricoperti da trapunte a fiori che, anche se scolorite, emanano un buon
odore di pulito.
Dò uno
sguardo attorno, ai mobili di legno chiaro e alle vecchie stampe appese
alle pareti. Ha l'aria di essere uno di quei posti che ha incontrato
tante persone e visto tante storie, quelle di chi è solo di passaggio e
quelle di chi è sempre in fuga.
Forse, io
stessa sono meno fuori posto qui di quanto non lo sia altrove.
Bonnie ha
iniziato a tirare fuori dalla borsa le poche cose che abbiamo con noi,
due spazzolini da denti e un pettine di legno adatto ai suoi capelli
folti, ma noto che ha lo sguardo assente.
Capisco
che, anche se lei non vuole parlarne, non sono la sola in questa stanza
ad avere conflitti che non sa come gestire, e non vorrei mai che pensi
che io non possa esserci per lei come lei c'è sempre stata per me.
"Grazie,"
le dico.
"Per cosa?"
"Per tutto.
Per essere venuta a cercarmi, per essermi stata accanto quando stavo
disgustosamente male, ieri notte, gli scorsi anni. Ti voglio bene, e te
ne vorrò sempre."
"Anche io,"
mormora piano.
Esita un
attimo, ma infine viene a sedersi accanto a me, una gamba incrociata
sotto l'altra e un accenno apprensivo negli occhi.
"Cosa c'è
che non va, Elena? Andartene così, e … Dov'è il tuo anello?" mi chiede
indicando la mia mano.
Istintivamente
intreccio le mani posandole in grembo e sfioro con le dita la base
dell'anulare che d'improvviso mi sembra così vuota. Adesso lo sento, il
peso delle mie debolezze e il groppo alla gola che accompagnano il
pensiero di ciò che ho temporaneamente messo da parte e che ho
moralmente già tradito nel momento in cui ho cercato le mani dell'uomo
che non dovrebbe stare così tanto nei pensieri.
"L'avevo
tolto per non rischiare di perderlo o rovinarlo nella confusione di New
Orleans."
"Quindi non
ha niente a che vedere con il motivo per cui te ne sei andata, senza
dire niente a nessuno …"
"Ho
litigato con Elijah," confesso, anche se, ancora una volta, non so bene
perché certe parole lascino la mia bocca. Ma del resto è più facile
incolpare un litigio piuttosto che dare voce all'indefinibile
irrequietezza che sento sempre dentro. "Tutti quei piani, il futuro …
E' stato piuttosto intenso."
Mi lancia
una lunga occhiata a metà tra un ammonimento ed una domanda.
"E
qualsiasi cosa stia succedendo tra tre e Damon?…"
"Non sta
succedendo niente tra…" Mi blocco da sola nel notare il sopracciglio
alzato marchio di fabbrica di Bonnie Bennet quando si trova davanti
scuse o storielle che non è in vena di sentire.
"Va bene,"
concedo con un sospiro.
Mi
abbandono all'indietro con la schiena contro il materasso e lascio
vagare lo sguardo sul soffitto dalla sfumatura giallastra. Il
copriletto mi pizzica la pelle.
"Non lo so.
Damon è …" Scuoto la testa e mi sfugge un sorriso amaro. "… Non lo so
cosa è. E lo so che mi sposo tra due mesi, e che Elijah è un uomo
meraviglioso, e che, onestamente, che cosa dice questo di me? E'
egoista e sbagliato. Ma le cose che Damon a volte mi fa provare …"
piccole farfalle colpevoli si liberano nel mio petto mentre ripenso a
tutte le volte che ho cercato il suo sguardo, alla rabbia,
all'amarezza, a tutti i baci che ho segretamente immaginato. "… non
sempre riesco a controllarle."
"Non
durerà, lo sai vero?" mi dice con un tatto che però non attutisce il
colpo. "Perché se ne andrà non appena gli converrà come ha già fatto
una volta, o magari perché avrà uno dei suoi colpi di testa e ti farà
solo soffrire. Di nuovo. Lo sai anche tu."
Annuisco
vagamente, perché ha ragione e lo so. Per tutto ciò che ha spinto, e
forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche
qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre
pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so
se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite,
anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile
rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no.
Mi svegliai con la sensazione di aver
dormito per un anno intero. Un anno intero ed accanto ad un impianto di
riscaldamento.
Ma
la sconosciuta fonte di calore sulla quale ero adagiata era muscolosa
al tatto ed attraversata da un movimento respiratorio lento e regolare.
Ancora un po' frastornata, sollevai la testa da quello che realizzai
essere il petto di Damon ed iniziai a prendere coscienza di ciò che mi
circondava. Non la mia casa e certo non la mia camera.
Quando
mi tirai su per districarmi prestando attenzione a non svegliarlo, il
suo braccio mollemente posato sulle mie spalle scivolò verso il basso,
insieme alla coperta che ci copriva disordinatamente. Mi resi conto di
essere sul suo letto, con i miei vestiti ancora tutti addosso e nessuna
idea di come fossi passata dalla trigonometria a … questo.
Da
dietro le tende entrava una luce tenue che rischiarava la stanza
abbastanza da farmi notare che Damon, ancora addormentato, a differenza
mia si era cambiato in abiti più comodi.
La
vecchia T-shirt bianca che adesso aveva addosso lasciava intuire ogni
singola linea del torace sul quale mi ero risvegliata.
Mi
inumidii le labbra quasi istintivamente perchè, a quel pensiero,
qualcosa si agitò più o meno dalle parti del mio stomaco. Solo un po'
più in basso.
Davvero non avrei dovuto. Ma, con la
cautela trepidante con cui si fa qualcosa di proibito, i miei occhi
iniziarono a percorrere il suo corpo con un'attenzione che non mi ero
mai concessa. Lì dove si intravedevano i contorni dei pettorali, e poi
più verso il basso, dove i lembi della maglietta si sollevavano
sull'addome ben delineato e, ancora, lungo la sottile linea di peluria
scura che partiva dall'ombelico e proseguiva infilandosi nei pantaloni
della tuta dove …
Oh mio dio.
Il respiro successivo mi rimase fermo in
gola e l'ondata di calore fu così intensa ed improvvisa da darmi alla
testa, che subito scattò di lato per distogliere lo
sguardo. Mi portai una mano sulla guancia che scottava, mentre nella
mia mente prendevano ad affollarsi e a sovrapporsi pezzi confusi di
racconti di Caroline e lezioni di biologia che assicuravano che quella
era una reazione assolutamente fisiologica e normale.
Mi
costrinsi ad inspirare più lentamente ma alla fine, vinta dalla
curiosità, non potei fare a meno di tornare a sbirciare verso la
prominenza distinguibile sotto al tessuto teso. Inclinai un po' la
testa di lato per riuscire a guardare meglio perché, potevo pure non
essere un'esperta, ma ad occhio e croce sembrava davvero …
"Buongiorno."
Sobbalzai e schizzai con gli occhi verso
l'alto.
Damon
si era sollevato per appoggiarsi sui gomiti e mi osservava, i capelli
neri scompigliati in tutte le direzioni e gli occhi ancora offuscati
dal sonno, ma fissi su di me. Anche lui aveva piegato la testa con
un'aria curiosa, come se qualcosa in me lo stesse divertendo
particolarmente.
"G-giorno,"
farfugliai, sentendomi più che mai imbranata sotto a quel suo sguardo.
Per
non parlare di quel leggero, ma decisamente impertinente modo in cui
stava sollevando un angolo delle labbra verso l'alto. Si era per caso
accorto che …?
"Dormito
bene?"
Annuii
e mi sollevai ancora meglio fino a sedermi sui talloni, stando
particolarmente attenta a non far ricadere lo sguardo verso il basso.
Anzi, per precauzione iniziai a guardarmi intorno, perché era meglio
che continuare a vedere il suo sorrisetto e morire di vergogna.
"Che
ore sono?"
"Non
lo so," si sporse verso il comodino e la sua maglietta si sollevò
ancora di più, lasciando scoperti i muscoli dei fianchi e della
schiena. Alla faccia del guardare in aria, Elena. "Le undici e
qualcosa."
Fu allora che la realizzazione mi colpì in
tutta la sua interezza.
"Del
mattino?!" Mi alzai talmente di corsa che quasi inciampai nella coperta
ancora attorcigliata intorno alle mie gambe. "Non posso aver passato la
notte fuori, e senza aver detto niente a nessuno, e chi si è occupato
di Jer, e-"
"Rilassati,"
mi interruppe, mentre stavo freneticamente cercando le scarpe, unico
indumento che mancava all'appello. Trovai i miei stivaletti ai piedi
del letto, uno accanto all'altro. Era stato Damon a togliermeli?
"Ho
chiamato Jenna dopo che ti sei addormentata," proseguì mettendosi a
sedere con il busto in avanti ed i gomiti sulle ginocchia. "Ha detto di
non disturbarti e di lasciarti dormire, che ci avrebbe pensato lei a
Jeremy e ad inventarsi una scusa."
"Ok
…" dissi sorpresa. "Grazie."
Damon
scrollò le spalle e si alzò dal letto, fermandosi sulla soglia per
aggiungere. "Posso riaccompagnarti dopo colazione, se vuoi, il turno di
sabato inizia più tardi ed ho ancora un paio d'ore."
Il mio cuore si tuffò in picchiata dritto
dentro lo stomaco, perché, come Damon aveva appena sottolineato
era sabato. E se era sabato, ed era
tarda mattinata, ciò voleva dire che avevo solo un paio d'ore per
prepararmi, chiamare Caroline e scegliere cosa mettermi al mio primo
appuntamento.
"Penso
che andrò adesso, non preoccuparti," gli sorrisi, mentre finivo di
infilarmi anche il secondo stivale. "Esco con Matt dopo pranzo e non
voglio fare tardi."
Ci
fu uno strano attimo di silenzio, prima che Damon replicasse.
"Esci
con il quarterback? …"
Lo
chiese in una voce lenta e bassa che rese l'aria immediatamente più
fredda ed ebbe l'effetto di far sembrare tutto, compreso che il fatto
che io fossi in quella stanza, completamente, irrimediabilmente
sbagliato.
"Sì,"
risposi, tornando a sollevare lo sguardo verso di lui, che appoggiato a
braccia incrociate contro lo stipite dell'arco osservava un punto sulla
parete con fare distaccato. Non mi piacque la sensazione che ciò mi
provocò. "Qual è il problema?"
"Nessuno,
ovviamente."
La
sua scrollata di spalle mi rassicurò un po'. Magari mi ero solo
immaginata tutto.
"E
poi noi ci rivediamo domani, no? Jeremy ha la trasferta e avevi detto-"
"Non
posso domani, ho altro da fare," mi tagliò corto staccandosi dalla
soglia e dirigendosi verso l'altra stanza senza neanche degnarsi di
guardarmi.
Rimasi
qualche secondo sconcertata, perché me lo aveva promesso due settimane
fa che mi avrebbe accompagnato fuori città alla partita e non poteva
davvero lasciare me e Jer senza un passaggio così all'ultimo momento.
Per quale motivo poi? C'era qualche ragazza che forse non poteva
aspettare fino a sera?
"Hai
da fare cosa?" domandai dopo che lo ebbi seguito, senza riuscire molto
bene a nascondere la mia delusione.
"Da
quando devo renderti conto di cosa faccio e cosa non faccio?"
"Era solo una domanda," replicai secca,
imitando il suo stesso tono. "Non m'importa assolutamente niente
di ciò che fai."
La
sua mascella si contrasse ed il suo sguardo, che finora mi aveva
evitata, mi attraversò con una freddezza che non gli avevo mai visto.
"Bene,
meglio chiarirlo, perché sai, stai iniziando a diventare un tantino
soffocante."
Quella
era stata una pugnalata che non avevo visto arrivare. Ero quello per
lui? Un peso di ragazzina che gli impediva di fare quello che voleva
veramente? Fece così male da farmi bruciare la gola.
"Tu
invece stai diventando un vero stronzo," ribattei con voce strozzata
mentre afferravo la mia borsa e il cappotto con le mani che tremavano.
Damon
mi fu subito alle spalle per porgermi anche la sciarpa, ma non c'era
gentilezza nel suo gesto, né tantomeno sul suo volto. Non c'era niente,
se non forse il prendersi gioco di me per la stupida che ero.
"Io sono uno stronzo," disse piano avvicinando il
viso al mio, come se quello fosse un concetto troppo difficile per me
da afferrare.
"Non
con me!" gli gridai.
"Aw,
mi sa che qualcuna si è presa una cotta per me che le ha fatto pensare
di essere un po' troppo speciale."
Lo
spinsi via con tutta la forza che avevo, detestando con un'intensità
che non avrei creduto possibile ogni millimetro del sorriso beffardo
con cui aveva pronunciato quella frase. Non m'importò che avesse
iniziato a sfaldarsi non appena i miei occhi si riempirono di lacrime,
e non m'importò che avesse allungato una mano verso la mia quando mi
voltai per correre verso l'uscita.
Era
troppo tardi ed io ero già fuori dalla porta.
E' una notte calda, silenziosa e immobile.
Nonostante
la stanchezza, continuo ad aprire e chiudere gli occhi sul buio, sui
contorni delle pale del ventilatore a soffitto, che girano e girano
senza davvero smuovere niente. Mi danno così sui nervi che scalcio via
il lenzuolo arrotolato ai miei piedi, mi alzo di scatto dal letto ed
esco all'esterno, diretta verso il distributore d'acqua.
Ne bevo
almeno tre bicchieri, che non sono freschi e forse non mi aiuteranno a
dormire, ma solo l'idea di sentirmi idratata mi fa già stare meglio. E'
quando getto via il bicchiere di plastica che lo vedo.
E'
appoggiato con i gomiti contro la ringhiera, a solo una decina di metri
da me, i capelli umidi e disordinati, la camicia scura arrotolata fino
ai gomiti e lo sguardo pensieroso fisso su qualcosa che si sta
rigirando tra le dita.
Mi prendo
un momento, solo per restare lì e osservarlo, perché nella luce fredda
e irregolare del lampione che rischiara il ballatoio, è così bello che
sarebbe un crimine non farlo.
"Spiarmi,
Elena?" mi dice d'un tratto, pur senza girarsi a guardarmi. "Non è
educato."
"Scusa,"
rispondo, incamminandomi per avvicinarmi a lui. "Non intendevo."
Damon
inclina la testa verso di me. Mi stringo le braccia al petto quando i
suoi occhi si posano su di me, perché sto ancora indossando il vestito
dalla scollatura troppo ampia e poco importa che in teoria me lo abbia
già visto addosso per tutta la giornata. E' solo nel silenzio di questo
momento, senza nessun altro intorno, che mi sento vulnerabile al suo
sguardo.
"Non
riuscivo a dormire," spiego, appoggiandomi con la schiena contro la
balaustra. Indico con un cenno della testa il foglio ripiegato che
continua a farsi scivolare tra le dita. "Cos'è quello?"
"Questo?
Solo un inutile pezzo di carta che avrei già dovuto gettare via da un
pezzo," commenta con una smorfia. Di fronte al mio sguardo
interrogativo, aggiunge, "Le ultime parole di mio padre sul letto di
morte. Eccetto che non stava morendo quando le ha scritte, dunque
immagino che lo scopo fosse solo quella di riservarsi il privilegio di
avere l'ultima parola in qualsiasi eventualità. Come sempre."
"Che cosa
dice?" gli chiedo piano, scrutando la sua reazione, il guizzo di
incertezza che gli attraversa gli occhi.
"Non lo so.
Non l'ho letta."
Oh, Damon.
"Pensi
davvero che qualsiasi cosa ci sia lì dentro sia peggiore di ciò che ti
stai immaginando nella tua testa?"
Damon torna
a guardarmi, questa volta con un abbozzo di sorriso che sembra
suggerire che entrambi sappiamo già la risposta alla mia domanda.
"Non ne
vale la pena," dice quindi, prendendo il foglio di carta e
infilandoselo nella tasca posteriore dei jeans.
"Dobbiamo
parlare," sussurro dopo qualche attimo di lungo silenzio.
Scuote la
testa. "No, non dobbiamo."
Il lampione
alle sue spalle ha ripreso a singhiozzare ed il chiarore intermittente
sembra avere l'effetto di oscurare l'azzurro del suo sguardo e renderlo
più indecifrabile.
"Eri
ubriaca, lo eravamo entrambi. Non sapevi cosa stavi facendo, grosso
errore, non accadrà più, facciamo finta che non sia successo, eccetera
eccetera. Ho dimenticato qualcosa?"
"Sì,"
ribatto, con un impeto inatteso che sorprende entrambi. Mi fa sempre
questo effetto quando si ostina a coprire con il sarcasmo tutto ciò che
veramente gli passa per la testa. "Non dirmi cosa provo."
"Va bene,"
risponde con voce più bassa e più cauta. I suoi occhi hanno adesso un
altro barlume, quasi curioso. "Non lo farò."
Non chiede
altro ma capisco, dal modo in cui mi osserva e resta in attesa, che si
sta domandando se mai mi deciderò a farglielo sapere, che cosa provo.
"Mi
dispiace," è tutto ciò che infine riesco a dire, mentre scuoto la testa
ed una ciocca di capelli sfugge dalla mia coda scompigliata e mi
finisce sugli occhi. "Mi dispiace di essere un tale casino."
Damon si
sporge verso di me. Rimango immobile, mentre allunga una mano verso la
ciocca che mi è scivolata sul volto e, con un piccolo gesto attento, la
rimette al suo posto dietro il mio orecchio.
"Dimmi
qualcosa che già non so."
Quando le
sue dita restano lì a sfiorarmi i capelli, il cuore mi martella così
forte che ho quasi paura lo possa sentire.
Abbasso lo
sguardo, sulle sue labbra che sono appena dischiuse. Di riflesso, so
che si socchiudono anche le mie.
Sarebbe
davvero così sbagliato? … Nessuno lo saprebbe mai.
"Non
posso," bisbiglio chiudendo gli occhi e facendo il passo indietro che
mi sottrae dal suo tocco. "Non è giusto."
Quando
incrocio di nuovo il suo sguardo, so che non ho bisogno di aggiungere
altro. E forse domani non conterà più niente, perché dovrò fare i conti
con le conseguenze, ma per un attimo, un piccolo ed egoistico attimo,
sono solo contenta che lui sia qui, in una notte calma in un posto
sperduto nel nulla, a vedere attraverso ciò che non so dire e a non
chiedere nulla in cambio.
Si
allontana di me, solo con l'accenno forzato di un sorriso. "Buonanotte,
Elena."
-----------------------------------------------------------------------
Spazio autrice.
Salve, mie care.
So
che sono molto in ritardo e mi dispiace.
Il
mio problema è che non riesco proprio a scrivere capitolo più brevi
(questo, per dire, è il più lungo che io abbia mai scritto finora) e
quindi finisco per impiegarci sempre più del previsto. Infatti, ho
sempre molta paura che siano troppo lunghi, di annoiarvi quando non
siete neanche a metà, di farvi faticare ad arrivare in fondo ... e, se
fosse così, non fatevi problemi a dirmelo, davvero, almeno correggo un
po' il tiro invece di buttarvi addosso 20-25 pagine alla volta.
Vi ringrazio dal profondo del cuore per il seguito e per le vostre
meravigliose parole, non mi stancherò mai di dirvelo che siete il
motore che fa andare avanti questa storia, ogni vostro pensiero, anche
il più piccolo, è importantissimo per me.
Ci sentiamo al più presto,
un
bacio
ps.
Ho anche cambiato editor e non so quale sia il risultato, per cui se
per caso avete problemi di visualizzazione, per esempio se il testo
risulta troppo piccolo, fatemi sapere e provvedo a rendere più
leggibile :)
|
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Capitolo 12 *** Boys don't cry ***
11
11.
Boys
don't cry
- I
try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try and laugh about it
Hiding the tears in my eyes
'cause boys don't cry -
(Boys don't cry, The Cure)
Damon
Accosto l'auto ai margini della piazza, a soli pochi metri
dall'ingresso di un Grill ancora sbarrato.
Spengo il motore, dico i miei saluti, la guardo scendere.
La riconsegno intatta alla sua vita di tutti i giorni, al suo
matrimonio perfetto con l'uomo perfetto, e qualsiasi cosa sia o non sia
successa tra locali di New Orleans e motel della Georgia è destinata a
rimanere solo lì. Nei locali di New Orleans e nei motel della Georgia.
Una parte di me ne è sollevata. Perché se c'è una cosa che ho capito
fin troppo bene da questo viaggetto fuori programma è che, cambia il
tempo e cambia il luogo, ma, in fondo, sono sempre lo stesso idiota
senza cervello pronto a farsi del male dietro alla persona sbagliata.
Soprattutto quando si tratta di Elena.
Così, durante il viaggio di ritorno, da qualche parte tra il South e
il North Carolina, ho mentalmente stilato un piano infallibile: chiusa
l'improbabile parentesi delle ultime due notti, non devo fare altro che
restare concentrato sull'unico motivo per cui davvero sono qui e
lasciarmi tutto alle spalle non appena i miei servigi non saranno più
richiesti, il tutto possibilmente senza fare troppi danni, né agli
altri né al mio ego.
E ciò include necessariamente anche farla finita di lasciarmi
coinvolgere con donne che non posso avere.
E' un piano di cui sono più che mai convinto, mentre la guardo
salutare Bonnie e poi incamminarsi lentamente verso il locale; mentre
si ferma incerta a pochi passi dalla soglia, si volta, incontra il mio
sguardo, curva appena le labbra.
Non è davvero nemmeno un sorriso: è la traccia, fugace ma tangibile,
di locali e motel e troppe cose non dette.
Praticamente di tutto ciò che può mandare il mio piano a puttane in
qualsiasi momento.
"Sei così fottuto che è quasi doloroso da guardare," scuote la testa
Ric mentre io dirigo l'auto verso casa. "Penso di non averti visto così
fottuto dai tempi di-"
"Ric," gli intimo perentorio per la dannata milionesima volta,
sapendo esattamente a cosa sta per riferirsi. "Ricorda i patti: Non. Dirlo."
In risposta lui sogghigna, prendendosi come sempre gioco delle mie
miserie.
"Sei un amico terribile."
"Sono il migliore che tu abbia mai avuto."
Ha così ragione che non ci provo neanche a contro ribattere.
"Wow," commenta con un fischio di apprezzamento non appena imbocco
le curve del vialetto ed i contorni imponenti della villa, annunciati
dal portico bianco in stile coloniale, iniziano ad emergere tra il
folto dei pioppi. "Che bastardo, non mi avevi mai detto di essere pieno
di soldi. Ti avrei estorto molte più bevute."
"Era mio padre quello pieno di soldi."
"Qual è la differenza?"
Oh, c'è una grossa differenza, mio caro amico.
Per potergliela spiegare, quando ci sediamo sulle due poltrone
davanti al camino di marmo nella sala principale, ho bisogno almeno di
una bottiglia di Western Gold e di quasi un secolo di storia dei
Salvatore.
Quella che per la precisione parte dal bisnonno Joseph, quando
durante la Grande Depressione aveva lasciato la sua famiglia di
immigrati italiani a New York per andare ad attraversare il paese in
cerca di fortuna. La fortuna l'aveva trovata due volte, in questo
spazio nascosto rinchiuso tra gli Appalachi e le piantagioni di
tabacco. La prima in una ragazza che sposò nel giro di due mesi; la
seconda quando, intorno alla metà degli anni '30, la creazione dello
Shenandoah National Park [1] lasciò
cinquecento famiglie incazzate e senza casa, e lui sfruttò abilmente la
situazione a proprio vantaggio mettendo su la prima compagnia della
zona che combinava investimenti, costruzioni di nuove case e mutui
finanziari. Divenne schifosamente ricco nel giro di pochi anni.
Sfortunatamente per lui, però, suo figlio non aveva lo stesso interesse
per soldi, status ed influenza, ma ne aveva uno smisurato per donne,
alcol e gioco d'azzardo. Era un perdigiorno pieno di debiti e mio padre
lo odiava con tutto se stesso. Lo odiava e se ne vergognava così tanto
che non eravamo autorizzati a nominarlo neanche per sbaglio, cosa che
non era poi così difficile dato che la sola cosa che a tutt'oggi
sappiamo di nostro nonno è che è morto sì e no a 40 anni, nessuno ci ha
mai voluto dire come. Ma, per contrasto, mio padre ammirava il bisnonno
Joseph, da cui aveva imparato tutto ciò che sapeva, in un modo più che
smisurato.
Peccato che le sue ferree intenzioni di fare lo stesso con me e
trasformarmi in un suo prolungamento vivente non fossero andate
propriamente secondo i suoi piani.
"Come puoi vedere," finisco mentre bevo l'ultimo sorso ed osservo
l'alone liquido che il bourbon ha lasciato sul fondo del bicchiere,
"Noi Salvatore siamo geneticamente programmati ad essere terribili in
tutta quella cosa alla padre-figlio."
Ric mi guarda a lungo, ma non dice niente. Mi torna in mente il
fatto che lui ha almeno in parte letto la lettera che, non appena ci
penso, prende subito a pesare come un macigno nella mia tasca.
"Cosa?" domando spazientito.
"Damon si dimentica sempre la parte in cui lui non ha precisamente
contribuito a rendere le cose più facili," si intromette Stefan.
Giro la testa verso mio fratello in piedi sulla soglia della sala,
incurvato con le mani affondate nelle tasche dei jeans e l'espressione
accigliata.
"Sempre così fiscale, fratello," lo saluto mentre mi sporgo per
posare il bicchiere vuoto sul basso tavolo di vetro. "Ric, ti ricordi
di Stefan vero, l'altra metà, quella migliore, della nostra incantevole
famiglia."
I due si salutano amichevolmente. Anche se si sono visti solo quelle
poche volte in cui Stefan è venuto a trovarmi a San Francisco, hanno
fin da subito sviluppato una simpatia immediata che credo abbia
qualcosa a che fare con la sorte comune di dover sopportare il
sottoscritto.
Mi ricordo ancora della sera in cui ci siamo ubriacati sopra alle
mie varie cazzate grazie ad un drinking game di loro invenzione
chiamato "Quella volta che Damon".
"Dove diavolo sei stato?" mi domanda Stefan prendendo posto sul
divano, di fronte a me.
"Lunga storia, aspetta l'e-book. Davvero il segugio biondo non te
l'ha detto?"
Con un sospiro amareggiato, Stefan si protende in avanti e scuote
avvilito la testa.
"No, perché per farlo dovrebbe parlarmi. Cosa che da tre giorni fa a
malapena, ovvero da quando le ho chiesto di vivere insieme e, a quanto
pare, era una domanda troppo difficile per potermi dare una qualsiasi
risposta. E tu che dicevi che nessuno avrebbe mai trovato il modo di
farla stare zitta."
"Ha detto di no?" domando, un po' stupito e un po' irritato nei
confronti della responsabile dell'espressione frustrata sul volto di
mio fratello.
"Non ha detto niente."
"Mi dispiace. Tieni, amico." Ric si alza per prendere un altro
bicchiere e versagli del liquore, oltre a servire anche il nostro
secondo giro. "Ne hai bisogno."
"Grazie. Sai Damon, per un momento questa mattina ho quasi pensato
che te la fossi squagliata in vista della riunione di domani," mi
confessa Stefan rigirandosi in mano il suo bicchiere.
Io tamburello sul bordo del mio e prendo tempo.
La verità che continuo a nascondere a mio fratello è che della
riunione di domani, così come di quelle future, davvero non me ne
importa abbastanza per farmi pensare di squagliarmela. E' semplicemente
là, come un rumore di sottofondo che devo attraversare prima di
liberarmene e tornare alla mia solita vita, quella in cui le uniche
aspettative da dover soddisfare sono solo le mie o al massimo quelle di
un genio eccentrico e paranoico sempre sull'orlo di mandare le cose a
puttane ben prima che possa farlo io.
Ma Stefan … Stefan che è due anni più piccolo di me e ha già messo
la testa a posto praticamente con la sua prima ragazza; Stefan che è
solo da pochi mesi uscito da una Ivy League e sta già facendo di tutto
per dimostrare di potercela fare a sessantenni diffidenti pronti a
cogliere ogni passo falso della sua inesperienza e a qualcuno che dalla
terra dei morti dubito possa davvero curarsi dei suoi sforzi; Stefan
che è sempre così maturo e responsabile come io non sarò mai.
A Stefan importa, lo capisco quando incontro il suo sguardo
speranzoso.
Per un attimo, è come se gli occhi verdi scuri e gravi che mi
osservano fossero quelli dello Stefan diciassettenne, il giorno di
settembre in cui gli avevo detto che avevo bisogno di allontanarmi da
Mystic Falls, che sarebbe stato solo per un paio di mesi, e poi non ero
più tornato per otto anni.
Forse è per quello, per quel lontano senso di colpa che torna a
stringermi il petto, per quegli otto anni passati ovunque tranne che
qui, a far guarire ferite che non possono davvero essere guarite, che
mi sento in dovere di rassicurarlo che non lo lascerò da solo in tutto
questo.
"Scherzi? Non me lo perderei per niente al mondo."
***
Quando il giorno dopo partiamo alla volta di Richmond, Stefan è così
verde dall'agitazione per il fatto di dover presentare i dettagli
finali del suo piano per evitare il fallimento della compagnia che devo
fermare l'auto ogni quindici minuti, preoccupato per le sorti dei
sedili in pelle della Camaro.
Grazie a dio, Caroline si decide a chiamare quando siamo quasi a
metà strada, per fargli sapere con voce incrinata che le è mancato
terribilmente e che lo aspetta a casa al suo ritorno, aggiungendoci
anche una sequela di incoraggiamenti infiniti per il "grande giorno".
La cosa mi sottopone ad un'infernale mezzora di smancerie, ma se non
altro ha il potere di migliorare sia l'umore che il colorito di mio
fratello e ciò non può che essere un bene.
Quando arriviamo al terzo piano dell'edificio che ospita la sede di
Richmond delle Salvatore Associates, siamo perfino in anticipo di dieci
minuti.
"Torno subito, ho dimenticato in macchina alcuni appunti per la
presentazione," mi fa sapere Stefan, appena prima di tirare fuori il
telefono e scomparire di nuovo dentro l'ascensore.
Dal momento che non mi ha neanche chiesto le chiavi, sono pronto a
scommettere qualsiasi cosa che gli appunti ce li ha ben stretti sotto
il braccio e che sta solo sgattaiolando per andare a chiamare Caroline
un'altra volta.
Qualcuno dovrebbe prendere quei due e sottoporli ad accurati studi
clinici per grave caso di co-dipendenza.
" … no, dispiace a me, non avrei mai dovuto … Sono solo andato nel
panico perché ho pensato che tu non volessi più … Non avrei dovuto
farlo senza parlartene."
La voce di Elijah mi arriva all'orecchio da un ufficio con la porta
socchiusa a solo un paio di metri da me.
E' con lei che sta parlando? …
Penso al mio infallibile piano (resta concentrato, non fare danni) e
mi ripeto che qualsiasi cosa sia successa per far scappare Elena in
quel modo sono solo affari loro, non miei. Però poi mi avvicino lo
stesso di un paio di passi, prendo il telefono per far finta star
leggendo qualcosa e rimango in attesa del resto.
Del resto, faccio schifo ad attenermi ai piani, ho sempre preferito
l'improvvisazione.
Elijah non parla per un tempo considerevolmente lungo ma, quando lo
fa, la sua voce sembra quasi rompersi. Solo un poco, solo per un
frazione di secondo.
"No, capisco. Possiamo parlare domani. Ma posso venire anche stasera
se vuoi …" Un'altra pausa, un altro impercettibile cedimento. "Ok,
domani. Mi sei mancata. Ti amo."
Sono contento di non poter sentire la risposta dall'altra parte del
telefono.
Se la ragazza che solo due notti fa, sul ballatoio di un motel, si è
sottratta alla mia carezza un attimo prima che potessi prendere la
pessima decisione di baciarla gli ha appena professato il suo amore,
preferisco di gran lunga non saperlo.
"Damon, buongiorno," mi saluta Elijah uscendo dalla stanza e
venendomi incontro. Sicuro, professionale, chiunque direbbe che le
incertezze di pochi secondi prima me le sono solo immaginate. "Tuo
fratello?"
"Ci raggiunge."
"Sono passato da Mystic Falls un paio di giorni fa e con l'occasione
volevo parlarti di una cosa che ha attirato la mia attenzione, ma
Stefan ha detto di non sapere dov'eri …" la sua frase sfuma, come se
solo in quel momento gli fosse sovvenuto uno strano pensiero.
Forse che due persone fuori dai radar nello stesso momento è davvero
una curiosa coincidenza?
Si volta a guardarmi, dubbioso, ed io gli sorrido amabilmente.
"Un piccolo viaggetto deciso all'ultimo momento. Pochi intimi. Il
sud è splendido in questo periodo dell'anno."
Poi entro nella sala riunioni senza neanche preoccuparmi di guardare
la sua reazione.
Un venerdì sera inutile, infinito ed
uguale a tanti altri.
Jessica aveva iniziato a lamentarsi non
appena avevo accostato la Camaro in una delle solite stradine laterali
che salivano in mezzo alla boscaglia.
Dopo tre settimane, a quanto pareva, era
arrivato il fatale momento dell'upgrade, e tutto d'un tratto le scopate
in macchina non andavano più bene. No, voleva di meglio, perché "fa
freddo, cazzo, ed io mi rifiuto di andare a nasconderci nei boschi
quando vivi da solo e hai un letto dove non devo slogarmi il ginocchio
tutte le volte". O qualcosa del genere.
Ovviamente neanche in un milione di anni
mi sarei mai sognato di portarla a casa mia.
Soprattutto nel mio letto.
Lo stesso letto che aveva ancora una
traccia del profumo di Elena, ormai talmente impercettibile che più
probabilmente me la stavo solo immaginando. Anche se Elena dopo quella
notte passata rannicchiata accanto a me - dopo quel maledetto mattino -
non mi parlava più, troppo impegnata ad intrecciare le mani nei
corridoi della scuola con il ragazzo che tutti adoravano, l'idea di
fare sesso sopra quella traccia, vera o immaginaria che fosse, era solo
sporca e disgustosa. E neanche mi importava che il solo fatto di
pensare una cosa del genere mi rendesse praticamente l'essere più
patetico sulla faccia della terra.
Così, dopo il fiasco di Jessica,
girai la macchina e la parcheggiai fuori casa di Enzo, per raggiungere
lui e gli altri dentro al suo garage.
Venni accolto da Paranoid dei Black Sabbath sparata dal vecchio
lettore cd appollaiato in un angolo, da un paio di battutine sul fatto
che fossi appena andato in bianco e dagli ultimi due tiri di una canna
come premio di consolazione.
"Ascolta, amico, devi fartela passare,
smettila di stare ancora dietro a questa qua," stava dicendo Enzo con
fare convinto, un altro mozzicone ormai spento ancora tra le dita.
Io, allungato su una delle vecchie
poltrone che arredavano quella tana impregnata dell'odore dolciastro e
pungente del fumo, stavo già finendo di chiuderne e accenderne
un'altra. La quarta, forse la quinta.
"Ma Cathy …" iniziò a protestare
Mason.
Inspirai, chiusi gli occhi e smisi di
ascoltare, perché avrei preferito spararmi un colpo in testa piuttosto
che sentire un'altra volta la triste storia della dolce Cathy, che dopo
un anno limitato a toccatine fugaci sotto la maglietta con Mason,
adesso si rotolava felicemente nel letto di uno dei receivers dei
Timberwolves. Maledetti giocatori di football. Quanti diavolo ce
n'erano in giro? Un cazzo di esercito. Un cazzo di esercito con l'unica
missione di renderti la vita miserabile.
" … hai aspettato un anno e guarda che
hai ottenuto, la figura del coglione. Una botta e via è sempre la cosa
migliore. Ho ragione, Damon?"
Socchiusi gli occhi verso Enzo, che si
era finalmente accorto dopo mezzora che quel mozzicone non tirava più e
si era deciso a buttarlo nel posacenere, gli passai quella nuova e
annuii.
"Perfettamente ragione," concordai.
Mason si alzò per cambiare cd e mettere
su i Led Zeppelin.
"Ok," concesse quindi. Lo sportello del
mini frigo si aprì con un tintinnio di vetri. "Si fotta Cathy."
Mason tornò e posò le birre sul tavolo
di legno davanti al divano, già troppo ingombro di bottiglie vuote,
cartine ed un ultimo pezzettino di hascisc da cui, giudicai ad occhio e
croce, poteva ancora scapparci un'altra canna scarsa.
"Chi suggerite?"
Come sempre quando la conversazione
virava sulle ragazze, saltarono fuori un paio di nomi sui quali avrei
potuto contribuire con diversi commenti ma, al diavolo, mi sarebbe
costata troppa fatica.
E poi le note irrequiete di Dazed
and Confused erano parecchio meglio
delle voci di quei due.
Sweet little baby, I don't know where you've been.
E cosa cazzo ci facevo ancora lì in ogni
caso? Sarei dovuto andare da lei. Anzi, sarei dovuto andare da lei già
giorni fa, a scusarmi per essere stato un tale coglione. Scusarmi per
essere me. E poi pregarla anche solo di parlarmi di nuovo, perché non
poterle parlare era la parte peggiore. Di tutto.
Sweet little baby, I want you again.
Non mi importava neanche quanti
quarterback potessero tenerla per mano o baciarla sulla guancia di
fronte agli armadietti, come dei bravi dodicenni. Ok, forse mi
importava, ma non importava. Avrei
sempre potuto far finta che non bruciasse così tanto, e magari prima o
poi davvero non avrebbe più fatto tanto male. Purché mi parlasse di
nuovo. Perché io avevo bisogno di lei molto più di quanto lei avesse
bisogno di me. Era l'unica cosa buona e vera in mezzo ad un sacco di
stronzate, e senza c'era solo un enorme buco tra lo stomaco e il petto
che non sapevo come rimpiazzare.
Dio, ecco perché odiavo pensare quando
ero così fatto.
"Magari è la volta buona che riesco a
farmela dare dalla Forbes. Giuro che mi fa uscire di testa ogni volta
che passa con quelle minigonne…"
"Quella è fin troppo facile. Ci sono
passati tutti su quel treno. Ma se proprio ci tieni chiedi a Damon,
visto che gli piace giocare a fare il fidanzatino con la sua amica.
Magari ci mette una buona parola."
Come risposta, alzai il dito medio verso
Enzo.
Scoppiarono entrambi a ridere anche se
non ce n'era alcun cazzo di motivo.
"Intendi quella strana, la figlia del
Grill?"
La figlia del Grill.
Quella frase davvero non aveva senso.
"Non è strana," replicai sollevandomi
quel tanto che bastava per afferrare una delle birre.
"E' un po' strana, invece," insistette
Mason. "Non esce mai. Sta quasi sempre per i fatti propri. E suo padre
è strano quanto lei. Potrebbe quasi essere figa, te lo concedo, ma
resta sempre strana."
"Sua madre è morta, coglione," replicò
l'altro.
"Orribile, mi dispiace. Ma sempre
strana."
Il mio cervello non era andato
abbastanza per poter davvero ancora starli a sentire.
"Io me ne vado," annunciai finendo
l'ultimo, lungo, sorso di birra.
"Non resti neanche per l'ultima?" mi
chiese Enzo alzando il pezzettino di fumo che avevo adocchiato prima.
Scossi la testa, tirai fuori le
chiavi della Camaro ed uscii nella notte gelata.
***
Stefan è eccezionale.
Inizia la sua presentazione un po' tentennante, con quel suo tic
nervoso di picchiettare le dita tra di loro, ma dopo un paio di
occhiate di rassicurazione e mano a mano che prosegue acquista una
tale sicurezza che non si direbbe mai che è lo stesso che da
bambino è stato costretto da nostro padre a vedere uno psicologo due
giorni alla settimana per curare una timidezza patologica ai limiti
della fobia sociale, eventualità considerata ovviamente troppo
inaccettabile e fuori da ogni logica per un vero Salvatore.
Quando ha finito, sono tutti conquistati.
Tutti, perfino quell'insopportabile cretino di Cartwright, che si
gratta la pelata con fare assorto e per la prima volta mostra
un'espressione che potrebbe quasi suggerire una parvenza di movimento
tra la ruggine del suo cervello.
Mentre parte la discussione, Stefan torna a sedersi accanto a me
che, sotto al tavolo, gli porgo il pugno chiuso. Lo scontra con il suo
e con la coda dell'occhio lo vedo quasi sorridere.
Escluso il mio che è suo di diritto, ha altri cinque voti a suo
favore, perfino due in più di quanto avevamo sperato, e solamente
l'opposizione di Cartwright, ristabilita dopo quegli unici due minuti
di indecisione in cui il suo cervello ha effettivamente lavorato, ci
separa dall'unanimità.
Solo Elijah non ha ancora detto una parola e continua impassibile a
fissare lo schermo con lo schema riassuntivo del piano di Stefan, le
dita unite in grembo, lo sguardo fermo e serio.
"Non penso che possa funzionare," dice infine, tornando a voltarsi
verso il resto della sala.
Verso di me.
Mi fissa negli occhi per un lungo momento, intanto che un brusio
confuso si solleva nella stanza.
Lui si alza in piedi, si abbottona la giacca e lo sovrasta,
iniziando a spiegare, con tono convincente e gesti lenti e misurati,
perché è una strategia troppo rischiosa; smontandone ogni più piccolo
pezzettino in rischi e calcoli e percentuali.
L'istinto di prenderlo a pugni è così forte da farmi stiracchiare le
dita.
"Ecco perché non posso dare la mia approvazione."
La discussione riprende decisamente più animata di prima, in vista
di una nuova votazione, ma tutto ciò che vedo è la faccia di mio
fratello che impallidisce di più ad ogni secondo che passa, ad ogni
parola che rende chiaro dove se ne sta andando ogni supporto che aveva
trovato.
Osservo quell'uomo che infila una mano in tasca e muove l'altra per
rinforzare le sue ragioni, quell'uomo che adesso tutti ascoltano,
quell'uomo che ha la fiducia che mio padre non ha mai concesso ai suoi
figli, e sono di colpo così incazzato per così tante cose che non sto
neanche a chiedermi da dove vengano la rabbia e la frustrazione che mi
consumano lo stomaco.
"Tutto questo è una gigantesca cazzata," lo interrompo ad un tratto
senza più riuscire a trattenermi, cosa che ha immediatamente il potere
di far acquietare l'intera sala.
"Se qualcosa da obiettare Damon," ribatte calmo, "Ti invito ad
entrare nel merito, possibilmente con un linguaggio adatto alla
situazione."
Qualcuno sussurra, altri si scambiano occhiate e scuotono la testa.
Stefan inclina la testa verso di me, domandandomi con lo sguardo
cosa cazzo sto facendo.
Lo ignoro.
"Uso il linguaggio che mi pare e, se proprio ci tieni a saperlo, il
merito della mia obiezione sei tu. Non me ne frega niente di come
ragionasse mio padre, non puoi davvero pensare di arrivare dall'alto e
prendere decisioni per tutti-"
"E' il mio lavoro," replica freddamente, tamburellando
distrattamente una penna sul tavolo. E' fortunato che è dalla parte
opposta della stanza, o avrei già parecchie idee su dove fargliela
mettere. Rialza lo sguardo su di me, sarcastico. "Un lavoro che
qualcuno mi ha affidato affinché potessi svolgerlo al meglio. Ti crea
qualche problema per caso?"
"Molti. Perché sei chiaramente un incompetente se non riesci a
vedere che ciò che ha proposto Stefan è la migliore idea che qualcuno
potesse mettere sul tavolo e di sicuro la migliore possibilità che
questa compagnia ha per poter restare in piedi …"
"Damon, smettila," mi intima Stefan sottovoce, una richiesta subito
coperta e messa in secondo piano dalla successiva replica di Elijah.
"Si tratta di questo, o forse piuttosto di una tua ridicola fantasia
di voler essere al posto mio?" E' gelido, ma si assicura di
trasmettermi bene il concetto con un altro sguardo prolungato. Per un
fugace attimo, ho l'impressione che solo noi due sappiamo fino in fondo
cosa significhi. "Perché non succederà."
"Non ho bisogno di occupare il posto di nessuno," ribatto asciutto.
"Nel caso non ti sia già chiaro, ti voglio fuori di qui."
"Non puoi licenziarmi," mi ricorda. "Solo il consiglio può."
Indica i presenti con un gesto della mano. Il silenzio solidale e le
occhiate prive di stima indirizzate verso di me e mio fratello rendono
cristallino da che parte stia pendendo la bilancia.
"Bene," replico alzandomi e rivolgendo un bel sorriso sardonico ad
ognuno dei presenti. "Allora potete tutti andare al diavolo."
Parcheggio la macchina sul bordo del vialetto, spengo il motore e mi
giro verso Stefan.
Mio fratello non mi guarda, immerso nello stesso silenzio arido che
mi ha riservato durante l'intero viaggio di ritorno da Richmond e che
non penso di riuscire a sopportare un secondo di più.
Mantiene lo sguardo fisso un momento più a lungo sul tramonto
aranciato che sbuca da dietro il profilo bianco di casa nostra, quindi
scende di scatto sbattendo con violenza la portiera alle sue spalle.
"Potresti anche dire qualcosa, sai," tento scherzoso andandogli
dietro. "Anche solo bladitibla, tanto per dimostrarmi che non hai perso
l'uso della parola."
Stefan si ferma poco prima di salire i gradini del portico.
Torna indietro verso di me, ci ripensa, poi torna indietro di nuovo,
si passa una mano tra i capelli, la stringe a pugno fino a far
sbiancare le nocche, riprende a camminare.
Sì. E' incazzato.
"Hai mandato a fanculo l'intero consiglio. Ben fatto. Contento
adesso?" mi domanda alla fine, ironico.
"No, ho mandato al diavolo
l'intero consiglio," lo correggo. "Suona più educato."
"Cristo santo, Damon! Riesci mai a prendere sul serio una cosa, una
sola cosa, per una dannata volta?"
"La sto prendendo sul serio!" ribatto. "Cosa ti aspetti, che resti
zitto e in disparte mentre un coglione con un palo della luce
incastrato tra le natiche è capace con tre parole di mandare all'aria
tutto ciò per cui ti sei impegnato …"
"No, sei tu che hai mandato tutto all'aria!" esclama allargando le
braccia.
Deglutisco con un notevole sforzo per riuscire a mandar giù
quell'accusa, perché lui non lo sa che ho passato le ultime due ore a
tormentarmi sulla stessa cosa. L'ho fatto davvero, forse ancora prima
di entrare in quella stanza.
"Non puoi proprio farne a meno, vero?" continua imperterrito. "Dio,
papà ha sempre avuto ragione su di te."
"La vuoi smettere per una cazzo di volta di tirare in ballo papà?"
sbotto risentito di fronte a quella corda che non avrebbe dovuto far
saltare. L'amarezza mi esplode nelle vene e finisce dritta a riversarsi
in ogni mia parola. "Ma ti senti parlare? Continui ancora a pendere da
ogni sua stronzata, quando invece dovresti essere il primo ad essere
incazzato nero. Dimmi una cosa, allora, a cosa ti è servito essere
sempre così bravo e irreprensibile, sempre così pronto a compiacerlo, a
voler essere una sua fottuta copia sputata, quando non ti ha lasciato
nient'altro che una quota del cazzo che conta meno di niente? Tu conti
meno di niente. Non ti fa incazzare questa cosa qua? Neanche un po'?
Sapere che fino alla fine lui ha preferito me, quello che ha sempre
combinato casin-"
Il destro di Stefan mi colpisce così all'improvviso da farmi
barcollare all'indietro, il volto mi si spacca dal dolore.
Respiro pesantemente mentre ritrovo l'equilibrio, intontito dal
colpo, dal sangue tra i denti e da un veleno dentro che non sapevo
neanche di avere. Non più almeno.
"Stef!"
L'esclamazione acuta di Caroline, che accorre uscendo di corsa dal
portone, è l'unica cosa che si frappone tra me, mio fratello e la
voglia di schiacciargli la testa contro la ghiaia del vialetto come
quando eravamo ragazzini.
Solo che allora erano sempre zuffe di poco conto, adesso è rabbia e
desiderio di ferirlo, puro e semplice.
"Cosa diavolo vi prende, si può sapere?" domanda con una voce al
limite dell'isteria, mentre afferra Stefan per un braccio per tirarlo
indietro e sposta lo sguardo colmo d'ansia da lui a me.
"Il tuo ragazzo è fottuto nel cervello quanto tutti quanti, ma non
gli piace sentirselo ricordare," rispondo tagliente.
Sputo via il sangue amaro che ho in bocca, in una macchia rossastra
che va a deturpare il vialetto reso grigio dalle ombre del tramonto, a
pochi centimetri dalle scarpe di Stefan che alza lo sguardo su di me
con tutta la furia ferita che mette anche nelle sue parole.
"Sai una cosa, Damon? Era meglio se non ti prendevi neanche il
disturbo di tornare."
"Basta!" grida Caroline, in lacrime. "Entrambi. Per favore."
Vorrei dirle che non ce n'è bisogno. Quell'ultima frase di Stefan,
improvvisa e aspra, mi si conficca nel petto così a fondo che non avrei
parole per rispondere neanche se lo volessi.
"Stefan, vieni dentro."
Caroline lo prende per una mano e lo tira via. Lui la segue docile
con lo sguardo fisso per terra.
"Damon …" Nel rivolgersi nei miei confronti la biondina si ferma,
per indirizzarmi uno sguardo di scuse imbarazzate che rende chiaro cosa
ha deciso di farne di me. "Penso che sia meglio se te vai, per adesso."
***
Cazzo, fu il mio unico pensiero
coerente quando il volante mi sfuggì di mano, le ruote sobbalzarono
fuori dal mio controllo, una scarica di adrenalina mi annebbiò il
cervello e per alcuni interminabili secondi non seppi più dov'era la
strada.
Quando tutto si fermò, fu fortunatamente
in un modo molto più dolce rispetto all'impatto a cui mi ero preparato.
Solo la ruota destra era finita ad ancorarsi nel fossato di fango secco
che fiancheggiava la strada, lasciando la Camaro storta e appena
inclinata verso il basso.
Appoggiai la testa all'indietro e presi
un respiro profondo per far rallentare le pulsazioni impazzite. Ma,
cazzo, fu doppiamente il mio unico pensiero quando, prima che avessi il
tempo di riprendermi del tutto e tornare a ragionare su come tirarmi
fuori da lì, silenziosi lampeggianti blu passarono dal lato opposto,
fecero inversione e si fermarono pochi metri dietro me.
Nello specchietto retrovisore vidi una
figura scendere dall'auto ed avvicinarsi velocemente con il piglio
risoluto di chi è abituato a portare l'uniforme.
Quando mi fu davanti, la donna mi alzò
in faccia il fascio di luce della sua torcia, ferendomi in pieno gli
occhi ancora troppo arrossati e pesanti.
Ero nella merda.
"Cos'è successo?" domandò, abbassandosi
verso il finestrino per guardarmi meglio.
Grandioso, lo sceriffo in persona.
"Una lastra di ghiaccio," buttai là,
mezzo biascicando.
"La strada è a posto." La luce saettò
verso il basso, tornò su a scandagliare dentro l'abitacolo e quindi ad
abbagliarmi di nuovo dritto negli occhi. "Un documento. E scendi dalla
macchina."
Spinsi via lo sportello e mi arrampicai
fuori dalla Camaro.
Mentre lo sceriffo Forbes spostava la
torcia sulla patente che le avevo appena dato, mi feci coraggio e mi
voltai per vedere con i miei occhi quanto danno potessi aver fatto alla
mia auto. Difficile dirlo con quel buio. Cazzo.
La donna mi rialzò la luce in faccia.
"Giuseppe è tuo padre?"
"Purtroppo."
Qualche metro più in là, l'apertura di
uno sportello risuonò nell'estrema silenziosità della notte fonda.
"Cosa hai lì?" le gridò il suo partner,
restando accanto alla volante.
Lo sceriffo mi scrutò con attenzione ed
una discreta dose di disapprovazione, come se sapesse perfettamente
cosa si stava trovando davanti. Un altro ragazzino fatto e ubriaco
dietro al volante.
Benvenuta comunità di recupero.
Ma, con mia estrema sorpresa, gli gridò
di rimando. "Niente. Ci penso io."
"Resta qui," mi intimò più a bassa voce,
quando l'altro poliziotto tornò a rinchiudersi al caldo dentro la
macchina.
La seguii incuriosito con lo sguardo
mentre si allontanava di qualche passo, prendeva il telefono e
componeva la chiamata. Cosa cazzo stava facendo?
" … droghe leggere, molto probabilmente
mischiate con dell'alcol… Sì, sta bene. Ok, aspetto qui."
Chiuse la conversazione e tornò da me,
che la stavo ancora guardando come se fosse lei ad essersi fumata canne
per tutta la sera, invece che il sottoscritto.
"Ha davvero appena chiamato mio padre?…"
le chiesi del tutto disorientato. Forse ero ancora in tempo per
scegliere la comunità di recupero. "Non dovrebbe prima ammanettarmi,
schedarmi e sbattermi in galera?"
"Immagino che sia la tua serata
fortunata."
Chissà perché ne dubitavo.
La familiare Mercedes grigia arrivò dopo
circa quindici minuti e parcheggiò dalla parte opposta della strada.
Mio padre ne scese per dirigersi deciso verso lo sceriffo.
Non mi gettò neanche mezza occhiata.
Rimasi in disparte a braccia conserte,
ad osservarli parlottare a bassa voce, con qualche cenno nella mia
direzione ed un sacco di occhiate gravi e fronti corrugate.
Neanche stessero decidendo le sorti
della fottuta pace in Medio Oriente.
"Grazie, Liz." Mio padre le posò una
mano sulla spalla. "Ti devo un favore."
Non appena lo sceriffo Forbes tornò alla
volante e ripartì, si incamminò e si fermò dritto di fronte a me.
Solo in quel momento si decise a
guardarmi. Direttamente negli occhi, con le mani sprofondate nelle
tasche del cappotto e le spalle dritte. Senza dire niente.
Non ne aveva bisogno. La linea della sua
labbra e l'espressione che lampeggiò nei suoi occhi azzurro intenso
erano, anche immersi nel buio, di gran lunga peggiori di qualsiasi
parola.
Fui io ad abbassare lo sguardo per
primo.
"Tutto qui?" domandai con una smorfia,
tirando un calcio ad un sassolino.
"Sali in macchina," mi intimò asciutto.
Rialzai lo testa per vederlo avviarsi
verso la sua berlina senza né aggiungere altro né preoccuparsi di
aspettarmi, come se non lo sfiorasse neanche per un secondo il pensiero
che potessi non seguirlo. Non che avesse torto.
Quando mise in moto ed io appoggiai la
fronte contro il finestrino, mi resi conto che, passata l'adrenalina e
passato anche qualsiasi stordimento, la testa mi faceva solo un male
cane.
I numeri rossi sul display digitale
scattarono sulle 3:55. E ancora non aveva detto niente.
"Da quando tu e lo sceriffo vi conoscete
per nome?" domandai fingendo noncuranza. "Te la scopi per caso?"
"No, non me la scopo."
Non riuscivo a capire se fosse
incazzato, o disgustato da me, o chissà cos'altro.
Dopo un altro lungo silenzio, aggiunse
solo, "Liz è un'amica e ti ha fatto un favore."
Vidi la smorfia sarcastica che mi
deformò le labbra riflessa contro il buio, sopra il vetro del
finestrino.
"Ha fatto un favore a te."
"E' la stessa cosa."
"Non lo è."
Nello svoltare verso il viale che
portava a casa, la sua mano scivolò dal volante verso il cambio, che
ingranò con fare sicuro ma tenendolo solo con la punta della dita. Io
avevo lo stesso identico vizio. Non avrebbe neanche dovuto essere una
sorpresa visto che era stato lui ad insegnarmi a guidare, ma mi
infastidì comunque.
"In ogni caso, non cambia il fatto che
dovresti essere grato," replicò in un tono che non ammetteva altre
obiezioni. "E se qualcuno ti chiede cos'è successo, è stata colpa del
ghiaccio. Tutto il resto rimane tra noi. Non ne fai parola con nessuno,
nemmeno con tuo fratello."
Aggrottai le sopracciglia, spaesato. Era
davvero tutto qui? Niente lezioni morali, niente sfuriate, niente
stoccate in grado con poco di farmi sentire uno schifo.
No, non stava andando affatto come me lo
ero immaginato.
Parcheggiata l'auto al solito posto, di
fronte all'apertura del garage, si voltò a guardarmi di nuovo,
inchiodandomi con un'occhiata perentoria. "Siamo intesi?"
E allora capii.
"Cazzo," sussurrai tra me e me, quando
collegai tutti i pezzi.
L'intensificarsi delle donazioni e delle
raccolte fondi; gli incontri con il governatore uscente e le cene "di
lavoro" sempre più frequenti; i viaggi a Washington.
"Ti candidi, cazzo, non è così?"
esclamai, girandomi verso di lui. "Ecco perché non vuoi che la gente lo
sappia. Se già essere divorziato è un discreto svantaggio, immagino che
il figlio drogato sia la ciliegina sulla torta."
"Sì, Damon, è la cazzo di ciliegina
sulla torta che tu sai decorare alla perfezione," ribatté con l'impeto
che iniziavo a riconoscere, "Ogni dannata volta che sprechi tutto il
tuo potenziale senza combinare niente dalla mattina sera, che ti
impunti su questa ridicola storia del college, che preferisci andare in
giro con perditempo strafatti e figlie di alcolizzati-"
"Che cosa hai detto? …" lo interruppi,
incredulo. "Cosa diavolo ne sai?"
Mi guardò come se fossi un completo
deficiente.
"Pensi che solo perché vivi a trenta
metri da me, io non sappia quello che fai, o chi frequenti? Ho visto
quella ragazza venire qua e starti intorno fin troppo spesso. Conosco
suo padre, e so che è un buono a nulla, così come so che piega sta
prendendo tutta quella situazione, e tu non vuoi confonderti con certa
gente perché, credimi, l'ultima cosa che vuoi è ritrovarti ad averla
messa incinta e ad aver gettato via in un solo attimo tutto il tuo
futuro."
Non gli risposi nemmeno.
Scesi direttamente dalla macchina
sbattendo la portiera in faccia al suo bel consiglio del cazzo.
Alle mie spalle, lo udii aprire lo
sportello e scendere dall'auto.
"Damon!"
Sentii la ghiaia scricchiolare sotto ai
suoi passi mentre mi raggiungeva.
"Sai," dissi d'un tratto, fermandomi
sotto il flebile cono di luce del portico e voltandomi per
fronteggiarlo di nuovo, con quel grumo amaro di pura rabbia che stava
gridando dalla voglia di essere sputato fuori. "Stasera, avrebbe potuto
esserci un'altra macchina dalla parte opposta, o un cazzo di albero, o
magari perché no, pure un bel ponte da cui saltare. Ho avuto paura, per
un momento, davvero paura. Te ne frega almeno qualcosa?"
Si bloccò, spiazzato. E forse per un
breve istante, sembrò quasi … perso.
Sbatté le palpebre, una volta, due volte.
"Certo che m'importa. Come puoi anche
solo pensare una cosa del genere?"
Già, come potevo?
Scrollai le spalle, gli diedi la schiena
e ripresi a camminare.
Di nuovo non gli diedi una risposta. Ma
questa volta non mi richiamò più.
***
Invio il messaggio prima di avere il tempo di ripensarci e mi dirigo
sul retro. Tiro la porta in avanti, infilo nella serratura un pezzetto
di legno abbastanza appuntito trovato per terra, lo muovo in alto e poi
a sinistra e la faccio scattare.
Il Grill è silenzioso e vuoto, la parete destra della cucina
sventrata fino al suo scheletro di tubi, l'unico suono il basso ronzio
del generatore di emergenza. E' una creatura agonizzante che non vuole
mollare, in paziente attesa di cure che possano rimetterla in sesto.
Dal freezer prendo una busta di spinaci surgelati, mi siedo su un
tavolo, allungo le gambe ed aspetto anche io.
Così forse ci facciamo compagnia a vicenda.
Ma non dobbiamo aspettare a lungo, visto che solo dopo una ventina
di minuti un breve rumore di chiavi anticipa l'apertura della porta
principale.
"Damon, ho visto il tuo messaggio e …" Elena non finisce più la
frase, quando solleva lo sguardo e nota il pacco ghiacciato che
continuo a tenermi premuto contro la mascella. Posa la borsa sul primo
tavolo disponibile e si avvicina a passi piccoli ma veloci,
squadrandomi preoccupata. "Cosa ti è successo?"
Sono ancora troppo sorpreso per risponderle immediatamente perché,
in verità, anche se sono stato io a chiederle di incontrarci qui, ero
piuttosto convinto che avrebbe educatamente rifiutato accampando la più
banale delle scuse disponibili.
In quel mio breve attimo di spiazzamento, la sua mano mi coglie
ancora di più alla sprovvista posandosi sul mio profilo dalla parte non
contusa e muovendolo delicatamente verso di sé.
Incontro i suoi occhi e si ferma, restituendomi lo stesso sguardo.
Cautamente allunga l'altra mano, per invitarmi a scansare la busta di
surgelati. Io la assecondo senza opporre resistenza.
La punta delle sue dita mi sfiora la guancia, che è adesso quasi del
tutto anestetizzata dal ghiaccio, cauta e apprensiva. E' il miglior
balsamo in cui potessi sperare e mi sento in colpa anche solo per
averlo pensato.
"Stefan," dico a bassa voce, e solo a nominarlo il dolore cresce di
nuovo.
Elena lascia cadere la mano e mi scruta stupita.
"Stefan ti ha colpito?"
Annuisco. "Sì, ma non è per approfittarmi del tuo inimitabile
spirito da crocerossina che ti ho chiesto di vederci."
Le sue sopracciglia si increspano, in un misto di prudenza e
aspettativa.
"E allora perché?"
Poso gli spinaci alle mie spalle e mi prendo qualche secondo, per
decidermi se voglio davvero andare fino in fondo e riaprire quel
capitolo. Una parte di me sa che vivrebbe molto meglio se continuasse
semplicemente ad ignorarlo come ha fatto per anni, cacciandolo in
quell'angolino remoto della mia mente che preferisco evitare di
visitare. L'altra … non può sopportare l'idea di non sapere tutto
quello che gli è passato per la testa, fino al giorno in cui un momento
era qui e quello dopo non più.
"In che modo mio padre ha iniziato a lavorare con Elijah?"
Elena mi osserva come se per un momento non avesse capito la mia
domanda. O come se non fosse quella la domanda che si aspettava.
Poi scuote quasi impercettibilmente la testa, si ritrae di un passo,
serra le labbra e se le mordicchia appena. Sta pensando. Perché ci sta
pensando?
"Damon, tuo padre …" inizia, ma il modo in cui ha addolcito il tono
mi fa subito pentire di averglielo chiesto. E' uno di quei toni che si
usano per dare le notizie delicate, e che mi spinge a pensare che non
so più se voglio davvero sapere cosa ha dire. "Io e tuo padre ci siamo
incontrati circa un anno fa. Aveva iniziato a venire qui, al Grill, e
mi ricordo che la cosa all'inizio mi era sembrata piuttosto strana,
perché non lo aveva mai frequentato prima. Ma passava di qua quasi
tutti i giorni … a volte solo per colazione, altre volte si fermava ad
un tavolo ad angolo a lavorare. E parlavamo. Ogni volta."
Cerco i suoi occhi sentendomi smarrito, come se potessero davvero
darmi la risposta a tutti i milioni di domande strozzate che mi sono
improvvisamente salita sul fondo della gola. A fatica, ne faccio uscire
almeno una.
"Di cosa?"
Elena si porta due dita sulle labbra, come se sapesse esattamente
quale è stata la prima cosa che ho pensato, che ho sperato, e fa appena
cenno di no con la testa, quasi per scusarsi del fatto che la risposta
non sia davvero quella che voglio o che ho bisogno di sentire.
"Di niente, in realtà. Insomma … il tempo, le notizie del giorno, la
clientela. Queste piccole cose. Ma era gentile. E divertente," si
lascia sfuggire un accenno di sorriso che ha un effetto peggiore
di quanto potessi pensare, facendomi sentire derubato di qualcosa
che non sapevo neanche di avere. Si sfalda quanto nota la mia
espressione. "Mi dispiace, Damon, vorrei che ci fosse di più, lo vorrei
davvero."
Il trillo del mio telefono risuona ovattato da dentro la mia tasca.
Ma fanculo chiunque sia, fosse anche Stefan, lo tiro fuori solo per
rifiutare la chiamata senza neanche guardare.
"Perché non me lo hai detto?" le chiedo, posando il cellulare sul
tavolo.
"Volevo, ma … Tuo padre non è un argomento che affronti volentieri.
Non sapevo come."
Non posso davvero controbattere, così mi stringo solo nelle spalle e
mi lascio sfuggire una smorfia amara.
"Quindi è così che ha incontrato Elijah. Tramite te," osservo
iniziando ad avere un quadro più preciso della situazione.
"Sì," conferma. "E' stato poco dopo che mi aveva chiesto di
sposarlo, prima dello scorso Natale … Non avevo neanche idea, sul
momento, che potessero iniziare a lavorare insieme. Damon, perché lo
vuoi sapere, che importanza ha?"
"Perché non sopporto il tuo fidanzato. Non sopporto le sue idee. Non
sopporto il modo in cui muove le mani, e non farmi nemmeno iniziare a
dire quanto non sopporto i suoi capelli."
Le vere cose che non sopporto, però, non sono quelle che dico ad
alta voce.
"E' una brava persona," mi ricorda prontamente.
"Non mi importa. Non lo sopporto lo stesso. O magari è solo che non
capisco il perché. Perché lui."
"Beh, è davvero bravo nel suo lavoro e tuo padre-"
"Non stavo parlando di mio padre."
Le parole mi escono di bocca senza che io riesca a trattenermi.
Osservo la sua reazione inclinando la testa, prima che abbia il
tempo di defilarsi nella sua zona sicura, quella in cui diventa quasi
impossibile capire cosa pensa davvero.
I suoi occhi sono grandi, palpitanti, di quell'intenso castano che
diventa ancora più scuro quando è agitato o combattuto per qualcosa.
Li distoglie subito, come se non volesse farmelo scoprire. Non del
tutto, almeno.
Si appoggia alla mia sinistra contro il bordo del tavolo. Porta una
ciocca di capelli, lasciati sciolti sulle spalle, dietro all'orecchio.
Sposta lo sguardo sulla punta delle sue scarpe, un paio di converse
nere mezze sfilacciate che fa dondolare un po' incerta.
Sta prendendo tempo ed io mi chiedo se si renda quanto ogni suo
gesto mi faccia implodere il petto sotto al peso di ricordi e emozioni
passate. Perché in ognuno di quei gesti è ancora la ragazzina che io
conoscevo, a dispetto dell'apparenza e dell'anello da grandi. E io
amavo quella ragazzina.
"Lui …" comincia infine, con le converse che dondolano ancora.
"Elijah è entrato nella mia vita in un momento in cui tutto stava
lentamente iniziando ad andare al suo posto. Mio padre aveva iniziato a
rimettersi in sesto, il locale aveva ripreso ad andare bene, ed io per
la prima volta mi sono concessa di pensare che forse … Che forse le
cose potessero davvero funzionare. Che io potessi funzionare. Ed è stato
così. Lui era là, io mi sono innamorata, ed ha funzionato." Solleva le
spalle, lascia uscire un altro respiro. "Ha funzionato."
"Dunque è questo il grande segreto," dico piano, forse più a me
stesso che a lei. "Il momento giusto."
"Immagino di sì." Sento il suo corpo spostarsi appena, magari solo
di un centimetro, e le punte dei suoi capelli sfiorarmi l'avambraccio
al di sotto delle maniche della camicia arrotolate sui gomiti, in un
piacevole formicolio. Poi aggiunge in un unico, impalpabile, soffio,
"Ma forse a volte il momento può cambiare."
Per un momento, sono perso. Perché ciò che ha appena detto, il modo in cui lo ha appena detto ...
Non può davvero voler dire quello che penso voglia dire.
Ma poi seguo il suo sguardo, che non è più sulle converse. Lo seguo
fino a scoprire che si spostato sulla sua mano. O sulla mia. O su quei
due miseri millimetri che le separano.
E sono tirato, trascinato, ancora una volta, come sempre, verso di
lei. Al
diavolo i piani, le conseguenze, le buone ragioni per cui non dovrei, e
in generale ogni singola cosa che esista al di fuori di questo preciso
momento.
Muovo la mano nello stesso momento in cui lei muove la sua. Quando
la sfioro, o lei sfiora me, quando le nostre dita si intrecciano quasi
con cautela, non sono due millimetri quelli che ho appena attraversato.
Sono più un continente, o otto anni, solo per toccarla.
Ma il momento non è mai giusto.
Se lo sapevo già prima, ne sono più che mai convinto adesso, quando
il mio telefono suona di nuovo, riverberando il suo squillo nell'intero
locale peggio di un allarme anti-incendio.
Elena si raddrizza di scatto con un sussulto e ritira la mano. Tutto
è finito.
"Rispondi, per favore," sospira. Sembra quasi esasperata.
Si stacca decisa dal tavolo, si stringe le braccia al petto, e mette
molto impegno nel fissare la parete di fronte pur di evitare di
guardarmi.
Rispondo al cellulare in uno scatto a metà tra la rassegnazione e
l'istinto omicida.
"Cosa c'è?"
"Vegas è qui," dice Alaric dall'altro lato.
"Ric, cristo santo, per l'ennesima volta, se è uno scherzo non è più
divert-"
"Quando sono tornato, era a casa tua a parlare con tuo fratello e la
sua ragazza, chiedendo di te. Sono arrivato troppo tardi, non ho potuto
…"
"Grazie al cielo, finalmente! Eccoti qui."
Mi congelo all'istante quando sento quella voce giungere dalle mie
spalle.
Lascio scivolare via il telefono dall'orecchio quasi fossi in
trance, senza più ascoltare una sola parola di ciò che sta dicendo Ric
perché, davvero, non ha più importanza.
L'inferno è qui.
"Hai anche solo una vaga idea di quanto mi ci è voluto per trovarti
in questo cavolo di posto dimenticato da dio? Perfino il satellitare si
rifiutava di portarmici."
Probabilmente perché il satellitare ha una coscienza, mi verrebbe da
dirle se non fossi troppo scioccato per spiccicare parola.
Mi volto a rilento, come se potessi davvero ritardare l'inevitabile,
ma comunque in tempo per poterla vedere contro la porta che Elena
aveva lasciato socchiusa e cogliere la smorfia che le arriccia le
labbra quando alza la testa per gettare una veloce un’occhiata attorno.
"Cos …?"
"… diavolo ci faccio qui?" finisce per me, e sorride.
La stronza sorride, mentre avanza verso di me sui tacchi alti dei
suoi stivali. Mollemente, inesorabilmente.
"Oh, penso che tu lo sappia benissimo. Voglio la mia parte di soldi.
Mi spetta di diritto."
Elena fa un passo avanti da dietro le mie spalle.
"Scusa, e tu chi sei?" domanda, con le braccia ancora strette al
petto ma un nuovo sguardo, quasi felino, mentre sospettosa passa in
rassegna ogni centimetro di quella che ha già catalogato come
un'intrusa nel suo territorio.
Sono fottuto. Completamente, totalmente, assolutamente … fottuto.
"Elena …" tento subito, in extremis.
Ma è questione di una manciata di secondi. Tutto accade così in
fretta e così lentamente al tempo stesso, che è come guardare un
incidente stradale svolgersi davanti ai proprio occhi senza avere il
minimo potere di impedirlo.
La punizione per tutti i miei errori sorride di nuovo e le tende una
mano che Elena si limita a guardare con diffidenza.
"Sono Katherine," annuncia come se se ne stesse gustando ogni
singolo secondo. "Sua moglie."
—————————————————————
Note:
[1] Evento storico realmente accaduto nella zona in cui la
storia è ambientata. Tutto il resto è naturalmente di fantasia.
Spazio autrice
Prima di tutto: grazie a Bloodstream_ per il nuovo stupendo banner su in
alto.
Mi ha fatto fangirleggiare come un'idiota.Thank you
Venendo al capitolo. Vi ricordate
quando tempo fa dissi che alcuni commenti fatti da Damon un giorno
avrebbero assunto tutto un altro
significato? Beh, direi che
l'entrata in scena di Katherine spiega cosa intendessi dire. Lo
avevate capito? ...
Siamo circa a metà della storia,
di conseguenza questo capitolo era un po' il "mid-season finale". Il prossimo
aggiornamento dunque non arriverà con le solite tempistiche, ma ci sarà
una pausa più lunga del solito. Spero comunque di avervi lasciato con
abbastanza domande con cui riempire l'attesa.
Grazie a tutte coloro che hanno
messo la storia fra le preferite e grazie per le recensioni! Se avete
anche solo una curiosità, una critica o
una cosa a caso da dire, se ve la
sentite di regalarmi un minutino extra del vostro tempo per un
commento, anche solo con due righe, mi scaldate sempre il cuore.
Un bacio
|
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Capitolo 13 *** Little broken hearts ***
12. Little broken hearts
12.
Little
broken hearts
- Only the fallen need to rise
What
if lightning strikes them twice?
Will
they give up on their lives
And finally divide? -
(Little Broken
Hearts, Norah Jones)
Elena
"Sposato! Spo-sa-to! Come ha
potuto, come?! Come ha potuto fare una cosa del genere e mentire e non
far sapere niente a nessuno, al suo stesso fratello! Ed io che avevo
anche provato a prendere le sue difese, quel buffone ipocrita che non è
altro, quello stronzo bugiardo traditore …" Sposto il telefono da una
spalla all'altra mentre, dall'altro lato della linea, la sfilza di
insulti che Caroline ha in serbo per Damon continua per almeno altri
due minuti buoni, "… e traditore bugiardo! Ma soprattutto, perché
diavolo qua si sposano tutti tranne me?!"
Mi passo
una mano tra i capelli e getto lo sguardo verso l'ora. Sono quasi le
dieci ed Elijah dovrebbe essere qua a momenti. Non dovrei neanche
sprecare minuti importanti a discutere di Damon.
"Stefan
come l'ha presa?" domando.
Caroline
prende un lungo sospiro, non so se più per frustrazione o per
riprendere fiato dalla tirata di dieci minuti che mi ha appena sparato
nelle orecchie.
"Stefan non
ne parla. Dopo il loro litigio di ieri, Damon è argomento off limits. E
le ultime notizie non hanno certo aiutato."
"E' stato
davvero così brutto?"
"Orribile.
Si sono detti certe cose che …" la voce di Caroline si incrina. "Sono
preoccupata, Elena. Hanno sempre avuto le loro discussioni e tutto
quanto, penso che sia un po' il loro modo malato per dimostrarsi che si
vogliono bene, ma questa volta … E' stato diverso. E' stato orribile.
Quando Damon è tornato a casa ieri sera, Stefan si è chiuso da solo
nello studio e non ha neanche voluto farmi entrare. Non si parlano, non
si guardano. E' orribile. E io sono preoccupata.
"Per di
più, adesso c'è pure quella là
che è venuta ad installarsi a casa nostra. Questa mattina ha finito
tutto il mio costosissimo shampoo all'olio di rose, ti rendi conto?
Allora io le ho sputato nel caffè, solo che lei il caffè non l'ha preso
perché dice che macchia la pelle, quindi ci ho sputato per niente. Così
mi sono dovuta accontentare soltanto di lanciarle lo sguardo della
morte ogni volta che mi è capitato di incrociarla." L'immagine dello
"sguardo della morte" di Caroline per un attimo quasi mi strappa un
sorriso di magra soddisfazione. "E poi il caffè non macchia la pelle,
non è vero?"
"Non ne ho
idea, Care."
"E tu? Cosa
ne pensi tu di tutta questa storia?"
Con
l'indice riprendo a disegnare piccoli cerchi sopra il bancone di legno
della cucina.
"Vedrai che
prima o poi si chiariranno. Sono fratelli, non possono davvero
ignorarsi a lungo."
"Non ci
provare," ribatte secca. "Io intendevo l'altra storia."
Fermo il
dito sopra una venatura più chiara del legno, mentre la mia mente torna
inevitabilmente alla sera precedente. All'incredula ingenuità con cui
avevo cercato lo sguardo di Damon, in cerca di una smentita sarcastica,
e forse anche un po' divertita, che naturalmente non era arrivata; a
quella Katherine, e a come aveva spazzato via ogni mia sciocca
illusione suscitata da una notte fuori dagli schemi e momenti in cui ho
visto più di quanto c'era da vedere.
Cosa stavo
pensando?… Cosa stavo pensando, mentre per poco non mandavo all'aria
una solida relazione di due anni per qualche emozione fugace, per
qualcuno che non si è posto il minimo scrupolo di farmi sapere come
stavano davvero le cose, neanche quando siamo stati sul punto di ….
Deglutisco per mandare via il sapore acido che mi ha riempito la bocca.
Del resto,
non che con la giornalista si sia fatto problemi.
Sono stata
una tale stupida.
"Io non
penso niente," rispondo infine.
"Bugiarda."
Sento dei
passi affrettarsi giù per le scale e ne approfitto per chiudere la
conversazione.
"Devo
andare, Care."
"Va bene,"
sospira. "Ma non scordarti di domani, ok? E' la giornata del
volontariato al Whitmore Park e mi avevi promesso che ci saresti stata
anche tu, perciò non accetto nessuna scusa. Alle tre, puntuale."
Naturalmente.
Perché "i suoi ragazzi" si prendono a pugni, una con il corpo e
l'atteggiamento da supermodella si presenta dal nulla come sua
potenziale cognata ed una pioggia di locuste preannuncia l'apocalisse,
ma non sia mai che gli eventi sociali perdano per questo la propria
importanza.
Riattacco
il telefono e mi affaccio sulla soglia di sala, dove trovo Jeremy
inginocchiato ad allacciarsi le sneakers.
"Stai
uscendo?" gli domando. "Elijah passa di qua stasera … Per te va bene?"
Jeremy
solleva la testa verso di me, con una strana espressione perplessa.
"Perché me
lo chiedi? Non ti sei mai fatta problemi finora e adesso all'improvviso
ti interessa chiedermi il permesso su chi ti porti a letto?"
"Cavolo,
Jer, era solo una domanda," alzo gli occhi al cielo mentre faccio
dietrofront e torno verso la cucina.
Jeremy mi
viene dietro e si appoggia a braccia conserte contro la porta, intanto
che io inizio ad asciugare e a rimettere al loro posto i piatti della
cena.
"Stai bene?"
"Certo che
sto bene."
Mio
fratello si avvicina, prende uno strofinaccio e mi aiuta a sistemare.
Noto un nuovo tatuaggio sul suo bicipite sbucare dalle maniche della
maglietta nera attraversata dalla scritta in rosso "Chaos UK".
"Te ne vai
di punto in bianco per andare a fare festa a New Orleans - cosa che,
non fraintendermi, è stata piuttosto figa - mi chiedi di coprirti con
il tuo fidanzato quando poi viene a cercarti, e adesso mi vieni a
domandare se sono io ad
avere qualche problema con lui? Gesù, Elena, mollalo e basta, no?"
"Cosa? … "
Mi volto di scatto e faccio quasi cadere il piatto che mi ha appena
passato. "Non si tratta di questo," mi affretto ad aggiungere scuotendo
vigorosamente la testa, come se il gesto potesse aiutarmi a scacciare
via la consapevolezza che forse, per un breve e piccolo attimo, io
stessa sono stata attraversata dallo stesso pensiero.
"Volevo
solo dire … a te lui piace no? Insomma, in fin dei conti diventerà
parte della nostra famiglia e mi sto solo accertando che anche a te
vada bene."
Jeremy si
stringe nelle spalle.
"E' noioso,
ma non è un pezzo di merda e ti tratta bene, quindi sì, me lo faccio
piacere."
"Jer …"
continuo, dopo che abbiamo messo a posto anche l'ultimo piatto, "Cosa
ne penseresti se io vendessi il Grill?"
Corruga la
fronte e mi osserva con quella sua espressione accigliata che ogni
tanto rompe, almeno per brevi momenti, la sua semi-perenne aria di
indifferenza.
"Perché? Lo
stai vendendo?"
"No, solo …
ipoteticamente."
"Non lo
so," risponde piano. "Ci siamo praticamente cresciuti in quel posto …
Forse fin troppo." Fissa lo sguardo sulla piastrelle color crema della
parete di fronte, poi scrolla di nuovo le spalle e il consueto
disinteresse torna al suo solito posto. "Ma non esiste che me lo prenda
io, perciò alla fine … facci un po' quello che vuoi."
Il suono
del campanello mi impedisce di continuare ad approfondire.
Ancora una
volta, vengo lasciata con la sensazione tronca di non riuscire a capire
quale sia la scelta migliore da fare per tutti quelli che mi stanno
intorno. Come se la risposta giusta fosse solo a pochi centimetri da me
eppure io non riuscissi a vederla, così vicina e così fuori dalla mia
portata.
"Mister
Splendid è qui. Io vado."
Jeremy si
fionda verso la porta e, quando la apre, Elijah è lì sulla soglia. Mio
fratello se ne va scomparendo nel buio oltre il portico, salutandolo
solo con un breve cenno del capo.
Elijah si
appoggia con la spalla allo stipite e mi guarda da sotto in su. Il mio
cuore compie una mezza capriola, come quelle che mi provocavano i
nostri primi appuntamenti. Forse è per via di quello sguardo profondo
che si accende quando incontra il mio, forse è per via della camicia
bianca con il colletto aperto che gli dona incredibilmente … Lo guardo
e lo so, che non sarebbe giusto rovinare ciò che abbiamo per qualche
insicurezza passeggera.
"Ciao,"
sussurra piano.
"Ciao,"
sussurro di rimando.
Prendo un
profondo respiro, gli accenno di sorriso e lo invito ad entrare.
***
La notte fonda del giovedì non era
probabilmente il miglior momento per tentare di recuperare lo studio di
storia.
Seduta
sulla rientranza del davanzale, abbandonai la testa all'indietro contro
la parete ed allungai le gambe per posizionare meglio il libro. Ulysses
S. Grant, le ultime guerre Sioux, il generale Custer; tutte quelle
parole, doppiamente illuminate dalla luce accesa nella stanza e dal
fascio di luna che entrava dalla finestra, fluttuavano fin troppo
leggere dentro la mia mente.
Sfogliai
distrattamente il resto del carico di pagine.
Dal loro fruscio, ne sbucò fuori un foglio
spiegazzato, che cadde delicatamente sul pavimento, a faccia in sù.
Vi
fissai sopra lo sguardo. Il suo contenuto mi guardò di rimando, fermo
ed indifferente come un'insensibile presa in giro.
Era
possibile che quella maledetta semplice C-, scarabocchiata nell'angolo
in alto a destra del mio mid-term di matematica, riuscisse a farmi
quell'effetto? A riempirmi così di soddisfazione e di amarezza al tempo
stesso?
Quando
lo avevo ricevuto, c'era stato un breve e denso momento, in cui ero
stata sul punto di scattare e correre da Damon, solo per farglielo
sapere. Ma, altrettanto repentinamente, il momento era passato, io
avevo soppresso quell'istinto e l'unica cosa che mi era rimasta era
stata quella scorticatura sul retro della gola che il pensiero di Damon
mi lasciava ogni singola volta. Ogni volta che arrivava, ogni volta che
se ne andava.
E più i giorni passavano e più quella
scorticatura faceva male, perché più i giorni passavano e più diventava
chiaro che Damon non aveva nessuna intenzione di avere ancora a che
fare con me. Che intendeva davvero ciò che mi aveva detto. Che non ero
niente per lui.
Quando,
di tanto in tanto, le nostre strade inevitabilmente si erano incrociate
- in un corridoio, nell'ingresso della scuola, nel cortile - era
passato oltre, come se niente fosse.
C'era
sempre un attimo, quasi ineluttabile, in cui finivo per incontrare il
suo sguardo, e qualcosa attraversava i suoi occhi, facendomi quasi
credere, quasi sperare, che fosse sul punto di fermarsi e dire
qualcosa. Un milione di cose.
Ma
c'era anche sempre una campanella che suonava, un libro che cadeva, una
risata che riecheggiava, e con ogni più piccola perturbazione …
quell'attimo passava. E quando l'attimo passava, tornava la
frustrazione verso lui e la sua indifferenza, nonché verso me stessa
per essere così sciocca da continuare a desiderare di significare
qualcosa per lui.
Chiusi
il libro che tenevo sulle ginocchia e, in uno scatto improvviso, lo
gettai per terra, esattamente sopra quello stupido pezzo di carta.
Feci per alzarmi, quando un debole rumore
cristallino di vetri infranti giunse dal piano di sotto.
Gettando
uno sguardo verso l'orologio, mi resi conto che erano da poco passate
le due, l'ora alla quale di solito mio padre rincasava dal Grill.
Scattai in piedi ed uscii di camera per controllare con un'occhiata
verso la porta di Jeremy che non si fosse svegliato, quindi, il più
silenziosamente possibile, iniziai a scendere le scale.
Un
rettangolo di luce si estendeva dalla cucina fino all'ingresso, per il
resto completamente immerso nel buio. Mi avvicinai a piccoli passi, il
parquet freddo sotto le punte dei miei piedi coperti solo dalle calze.
Mio
padre era seduto sul pavimento con una mano tra i capelli, scuri e
folti quanto i miei, accanto ai pezzi trasparenti di una bottiglia
vuota sparsi per terra in schegge appuntite di varie dimensioni. Mi
avvicinai facendo attenzione ad evitarli con i piedi scalzi.
"Cos'è
successo?" domandai piano, inginocchiandomi accanto a lui.
L'aria
era piena dell'alcol emanato dai residui di liquore in mezzo ai vetri
infranti, mischiato a quello più stomachevole e dolciastro della
trascuratezza che ero diventata abituata a riconoscere, soprattutto a
notte fonda.
"Mi
è sfuggita di mano."
"Ci
penso io." Lo fermai mentre stava per sporgersi in avanti, preoccupata
che finisse per farsi per male, e a poco a poco scansai i pezzi più
vicini fino a creare abbastanza spazio per aiutarlo a rialzarsi in
piedi.
Ma quando gli tesi una mano, non la prese.
Fissò le mie dita per qualche secondo e poi alzò gli occhi fino
all'altezza del mio viso, con lo sguardo offuscato come se stesse
osservando qualcosa di molto più lontano.
"Cosa?…"
chiesi confusa, mentre anche l'accenno di sorriso con cui avevo
accompagnato il mio invito scompariva in uno più insicuro.
"Sei
così … cresciuta. Quando è successo?" mi chiese aggrottando incerto le
sopracciglia, nello stesso modo in cui faceva Jeremy quando si
dimenticava di pranzare se non ero io a ricordarglielo. Abbassai la
mano e tornai ad appoggiarmi sui talloni, mentre lui scuoteva la testa
e proseguiva con una voce più ferma, come se qualcosa l'avesse fatto
tornare più lucido tutto di un colpo. "C'era quel ragazzo stasera al
locale … penso che stesse cercando te."
Il
mio cuore fece un piccolo salto, su per la mia gola chiusa. Forse …
"Quale
ragazzo?…" gli domandai, probabilmente con più trepidazione di quanto
avrei dovuto.
"Alto,
biondo."
La scorticatura si riaprì e tornò a
pizzicare. Naturalmente era Matt.
Perché
mai avrebbe dovuto essere qualcun altro? Dannato mid-term di matematica
che mi ci aveva fatto pensare.
"Tu
… con lui … " riprese mio padre buttando fuori le parole con incertezza
e difficoltà. Anche se, per una volta, non ero sicura che fosse solo a
causa dell'alcol.
Mi
sentii arrossire violentemente.
"Non
è … quello che pensi."
"Cosa,
che mia figlia ha un ragazzo e io me ne rendo conto solo ora, invece di
minacciarlo di morte?"
L'accenno
scherzoso di sorriso che accompagnò le sue parole non riuscì a
mascherare del tutto qualcos'altro nella sua voce, una tristezza ed un
senso di colpa così profondi che avrei detto e fatto qualsiasi cosa pur
di alleviarli almeno un pochino.
"Beh,
sono contenta che tu non l'abbia fatto," sorrisi di rimando. "E' uno
dei bravi ragazzi. Ti assicuro."
"Lei
avrebbe saputo cosa dirti molto meglio di me …"
"Va
bene," dissi decisa, facendo del mio meglio per suonare convincente, e
mettendo da parte tutto quello che, invece, non andava bene affatto.
Non
andava bene che mia madre avesse lasciato un vuoto così grande in cui
lui continuava a sprofondare, non andava bene che io non sapessi niente
su come rimettere le cose a posto, e non andava neanche bene che
l'unica persona su cui pensavo di poter contare per sapere come farmi
ancora sentire bene in mezzo a tutto questo si fosse stancato di
frequentarmi.
Non
andava bene, ma ci sarebbe stato tempo, un'altra volta, in un altro
momento, per ammetterlo.
Presi
di nuovo la mano di mio padre. "Avanti, è tardi, andiamo a dormire."
***
Un bacio leggero mi sfiora la spalla nuda. Le sue dita mi accarezzano
lentamente la parte interna del braccio, che si risveglia con un
sussulto di pelle d'oca. Per un momento più a lungo, rimango con gli
occhi chiusi alla luce tenue del mattino, a lasciarmi avvolgere dal
rassicurante calore del suo petto contro la mia schiena e dalla
certezza che nulla sia cambiato.
"Ti amo,"
sussurra Elijah contro il mio orecchio. "Lo sai, vero?"
Mi muovo
nel suo abbraccio, sentendomi improvvisamente a disagio.
Lo so che
mi ama, così come so che io amo lui. Soprattutto dopo ieri sera, dopo
che abbiamo parlato così a lungo come non facevamo da tempo, dopo che
abbiamo concordato che le nostre tensioni degli ultimi tempi sono state
dettate soltanto dal normale nervosismo all'avvicinarsi del grande
passo, dopo che mi è diventato ancora più chiaro che ci sono così tante
ragioni per non mandare tutto all'aria.
Ma non ho
fatto parola del mio momento di debolezza nella soffitta di quel
locale.
In tutta
sincerità, a cosa servirebbe? Gli farebbe solo male e glielo farebbe
per nulla. Non deve essere lui a pagare il prezzo delle mie leggerezze.
E' più facile ricacciare tutto indietro, le emozioni di quella notte,
Damon e i suoi segreti; fino al momento in cui svaniranno del tutto,
così velocemente come sono arrivati.
Anche se
non sono stata in grado di guardarlo negli occhi quando ieri notte
abbiamo fatto l'amore.
"Ti amo
anch'io," mormoro in risposta.
La sua mano
mi solleva la canotta per accarezzarmi il fianco, ma mi sottraggo prima
che abbia il tempo di approfondire. Non in questo momento, non con una
luce così innocente e non con il senso di colpa che ancora mi sento
addosso.
"E' già
così tardi," dico scansando del tutto il lenzuolo e saltando in piedi
con un sorriso. "E oggi sono al servizio di Caroline, quindi sarà una
lunga giornata!"
Facciamo
colazione insieme scherzando sulle forme terribili che hanno sempre le
mie uova strapazzate, dopodiché Elijah sale di nuovo in macchina alla
volta di Richmond, dandomi un passaggio fino al Grill, dove ho
appuntamento con Jenna per discutere gli ultimi aggiornamenti sulla
situazione del locale.
Jenna mi
racconta delle sue trattative con la ditta che si occuperà di rifare
l'impianto idraulico, che inizierà i lavori domani stesso, e di come,
se tutto va bene, saremo addirittura pronti a riaprire in meno di due
settimane.
Ho appena
finito di mettere un paio di firme sui documenti per l'assicurazione,
quando Damon mi chiama, per la decima volta in due giorni.
Per la
decima volta in due giorni, io lo ignoro.
Quando arrivo al Whitmore Park sono un po' più in ritardo del previsto
sulla stretta tabella di marcia targata Caroline Forbes, ma sono anche
abbastanza fortunata da arrivare in un momento in cui la mia amica non
ha modo di accorgersene.
Il sindaco
Lockwood, infatti, ha già iniziato il proprio discorso di
ringraziamento sotto all'ampio gazebo di legno e Caroline è dritta in
piedi alle sue spalle, con l'aria assorta e le labbra che si muovono
quasi impercettibilmente insieme a quelle di Carol, intente a mormorare
tra sé e sé ogni parola rivolta agli insostituibili volontari della
cittadina di Mystic Falls, che ogni giorno mettono il loro tempo e la
loro esperienza al servizio della comunità, eccetera eccetera. Quando
il sindaco finisce, vedo Caroline rilasciare un sospiro ed un
soddisfatto sorriso di sollievo davanti all'applauso per il discorso
che, non ho dubbi, è stato tutta farina del suo sacco.
La gente
inizia a disperdersi e a radunarsi in altri gruppetti verso i vari
stand che sono stati allestiti tutto intorno, a riprendere
conversazioni o a scambiarsi i primi convenevoli, mentre i bambini
prendono a saettare di qua e di là, attirati dal banco delle torte o da
quello del rifugio per animali.
E' la
giornata estiva perfetta e nell'aria c'è una tale atmosfera di leggera
spensieratezza che anche lo scroscio del torrente alle spalle del
parco, ultimo tratto della ripida corsa di una delle sorgenti d'acqua
delle Blue Ridge Mountains, sembra avere un non so che di allegro.
"Sei in
ritardo, guarda che me ne sono accorta," mi ammonisce Caroline appena
raggiungo lei e Bonnie al banchetto dove, con una convinzione degna
delle migliori campagne presidenziali, Caroline sta arruolando
volontari per …
Sbircio il
poster che fa da pubblicità alla sua operazione di reclutamento.
"Masquerade
Ball?" domando perplessa. "E che causa sociale sarebbe?"
"Quella del
divertimento," risponde compunta lei. "Dio solo sa quanto ne abbiamo
bisogno. Ehi, tu! Firma qui per essere tra gli allestitori della più
emozionante serata che questa città abbia mai visto!"
Un ragazzo
dai capelli castano chiaro quasi inciampa sui suoi piedi di fronte al
meraviglioso sorriso irradiato da Caroline e, con espressione mezza
inebetita, si affretta ad annuire e a prendere dalle mani della mia
amica la penna con cui sigla la vendita della sua anima al diavolo.
"Puoi
reclutare volontari anche per organizzare il mio matrimonio?" le
domando, frugandomi le tasche della piccola borsa rossa a tracolla anni
'70. "Ho fatto una lista questa mattina, le cose da fare sono davvero
infinite. Per i vostri vestiti, tanto per cominciare, stavo pensando ad
un grigio argento, visto che la cerimonia sarà alla sera ed è un colore
che dona a entrambe. E poi c'è il mio di vestito, naturalmente.
Caroline avevi detto-" mi fermo nella lettura della lista spiegazzata
che ho tra le mani e sollevo lo sguardo, nel notare il silenzio tombale
con cui reagiscono entrambe le mie amiche.
Caroline è
rimasta con la penna sospesa a mezz'aria e mi guarda come se avessi la
febbre.
Bonnie ha
semplicemente alzato il suo famoso sopracciglio.
"Stai
bene?" domandano all'unisono.
"Sto
benissimo," sbuffo con un sospiro. Perché diamine continuano a
chiedermelo tutti? "Sentite. Lo so che ultimamente posso essere
sembrata un po' … esitante su
alcune questioni, ma è tutto risolto adesso. Io ed Elijah ne abbiamo
parlato, abbiamo chiarito ed è ora che io prenda certe decisioni. Come
quella di trasferirmi a Richmond. Abbiamo già la caparra su una casa
meravigliosa."
Sono ancora
entrambe in silenzio.
"Potete
parlare, sapete," dico roteando gli occhi al cielo.
"E il
locale?" mi chiede Caroline.
"E New
Orleans?" mi chiede Bonnie.
Caroline
gira la testa così di scatto da farmi quasi temere che le si stacchi
dal collo.
"Cos'è
successo a New Orleans?" esclama in un trillo acuto, spostando
ansiosamente lo sguardo da me a Bonnie come se si fosse appena persa
qualcosa di vitale importanza.
"Non è
successo niente a New Orleans," replico asciutta. "Niente. Ok? E per
quanto riguarda il locale, inizierò a pensare a cosa farne non appena
finiamo di rimetterlo a posto. Quindi mi aiutate? Caroline?"
Ma Caroline
ha appena corrugato la fronte, fissando lo sguardo verso un punto alle
mie spalle, e già non mi sta più ascoltando. Mi strattona per una mano
e si avvicina al mio orecchio per farmi sapere in un unico sussurro.
"E' lei! E'
qui."
"Chi è che
è qui?" le domanda Bonnie sempre in un bisbiglio.
La bocca di
Caroline si storce in una smorfia disgustata. "La poco di buono che
Damon ha avuto la brillante idea di sposarsi senza farcelo sapere."
"Damon è
sposato?" esclama Bonnie incredula.
Bonnie si
gira a guardarmi e, nel breve secondo in cui incrocio il suo sguardo,
ci leggo un misto di sospetto e improvvisa realizzazione. Distolgo
subito gli occhi: non è affatto come pensa lei.
"Incredibile,
vero? Alaric la chiama Vegas …"
"Probabilmente
perché si sono sposati ubriachi davanti ad un Elvis altrettanto
ubriaco," dico, di nuovo con quel retrogusto acido non appena penso a
quella ragazza. Con le sue gambe chilometriche, le sue labbra sensuali,
l'indiscutibile fascino che emana … Invece di voltarmi, riprendo in
mano la mia lista e mi concentro su quella.
"Oh no, non
è andata così," scuote la testa Caroline. "Ho indagato."
Ci fa cenno
con una mano di avvicinarci a lei e, con fare cospiratorio, sussurra,
"Penso che sia perché è una spogliarellista …"
"Una
ballerina, prego."
Solleviamo
tutte e tre la testa di scatto verso Katherine, che ci ha appena
sorpreso alle spalle e che prosegue alzando gli occhi al cielo.
"Diplomata
all'AMDA [1]. Ma non mi aspetto davvero
che qualcuno di voi provincialotti possa conoscere la differenza.
Quindi, c'è qualcos'altro che volete sapere?"
Katherine
si appoggia in maniera disinvolta contro il banchetto e non perde tempo
a passarci tutte in rassegna con lo sguardo. Gli stretti
pantaloni neri e il top abbinato semi-trasparente mettono ancora più in
risalto le sue più che invidiabili linee sottili, ma perfettamente,
fastidiosamente formose.
Quando i
suoi occhi si posano su di me, squadrano scettici ogni centimetro del
mio vestito disegnato a fiorellini bianchi e blu, prima che passi
direttamente ad indicarmi con un dito.
"Tu sei
quella che si scopa Damon, non è così? Ha fatto questa chiamata la
scorsa notte, a qualcuno che sicuramente si sta scopando …" Si porta un
dito alle labbra come per ricordare meglio, poi lo fa schioccare
improvvisamente sotto al mio naso. "Andie. Sei tu vero? Scusa, quando
ci siamo incontrate l'altra sera non mi sono certo messa ad imparare il
tuo nome."
Per un
attimo, vedo rosso. Stringo le mani attorno alla tracolla sottile della
borsa, così ferita e così umiliata che le parole mi si strozzano in
gola.
Il mio
primo incontro con Katherine brucia più che mai. "Oh, Damon, tu e le
tue ragazze …" l'avevo sentita commentare divertita al di là della
porta dopo che mi ero ripresa abbastanza da farli uscire entrambi dal
mio locale, disgustata dallo sguardo dispiaciuto di Damon e dai suoi
inutili "Elena …". Il promemoria di non essere stata la sola delle sue
avventure è solo la ciliegina sulla torta.
"Ti serve
qualcosa?" le domanda bruscamente Caroline.
"Oh no,
stavo solo cercando di ambientarmi e fare conversazione," scrolla le
spalle. "Stefan ha insistito perché venissi qua con lui e finalmente ci
conoscessimo tutti un po' meglio."
Caroline
sbianca di colpo. "Sei venuta con … Stefan?"
Katherine
sorride.
Ha uno di
quei sorrisi bellissimi e disturbanti al tempo stesso, come se non
fossi mai sicura di sapere cosa vogliono dire davvero. Quelli in grado
di farti impazzire, e non sempre in senso positivo.
"Certo.
Stefan è così gentile … Oltre che incredibilmente sexy." Katherine si
protende un po' in avanti, in direzione di Caroline che sostiene il suo
sguardo con una inconfondibile furia assassina negli occhi. "Inizio a
pensare di aver puntato sul fratello sbagliato. Ma chi lo sa, magari
sono ancora in tempo per rimediare. Passate una buona giornata."
Con un
ultimo sorriso, Katherine si volta e se ne va, i lunghi e mossi capelli
scuri che ondeggiano morbidi sulle sue spalle, prima che Caroline, a
bocca aperta, abbia anche solo il tempo di formulare una qualsiasi
risposta.
"Io la
ammazzo," sibila la mia amica. "Giuro che le infilo a forza uno di quei
suoi tacchi dodici giù per la gola, giuro che-"
"Ma voi non
vedete …" la interrompe Bonnie, inclinando la testa di lato verso la
direzione in cui Katherine se ne è appena andata. "… una vaga
somiglianza?"
"Oh mio dio
… " mormora stupita Caroline portandosi una mano sulle labbra. "Forse
hai ragione!"
Le loro
teste si girano in contemporanea verso di me, mi scrutano attentamente
come se fossi un pezzo da esibizione, tornano a guardare Katherine ad
alcuni metri di distanza …
"State
scherzando?!" esclamo indignata. "Ma neanche per-"
"… forse il
naso …"
"… forse il
colore degli occhi …"
" … più la
forma del viso …"
"Voi siete
fuori di testa!" ribatto decisa incrociando le braccia sul petto.
"Beh,
evidentemente Damon ha un certo tipo …" commenta Caroline stringendosi
nelle spalle.
Sto per
protestare di nuovo, sbalordita nonché offesa che stiano davvero
facendo un qualsiasi paragone tra me e, come la chiama Caroline, quella
là, ma la mia amica prosegue, assottigliando lo sguardo con aria quasi
minacciosa.
"Ecco
Stefan," annuncia, non appena il suo ragazzo compare tra la folla. "Ed
ha diverse spiegazioni da darmi."
***
Lo vidi insieme ad una ragazza, il
venerdì mattina.
Matt
mi aveva appena augurato "buona giornata" con un lieve bacio
sull'angolo delle labbra (non ero ancora del tutto sicura che tenersi
per mano ed essersi baciati tre volte con la lingua in due settimane
facessero di me la sua ragazza), ed io ero diretta a Letteratura
Inglese, dove Caroline mi stava aspettando con, a giudicare dal suo
sms, "enormi novità".
Lo
riconobbi un attimo prima di entrare in classe anche se era di spalle,
per via dei capelli neri spettinati e della posa in cui si stava
atteggiando, con il braccio alzato appoggiato alla parete del corridoio
che gli sollevava il corto giacchetto scuro sul fianco sinistro. Una
dell'ultimo anno veramente carina, con grandi occhi scuri sotto una
spessa frangia di capelli castano ramato, era protesa verso di lui e
gli sorrideva sbattendo le ciglia come le ali di una falena che orbita
intorno ad una luce in mezzo al buio.
Strinsi
con forza il libro che avevo tra le braccia. Avevo visto altre volte
quel genere di scene, per non parlare dell'effetto che riusciva ad
avere sulle ragazze, ma - forse perché non mi ci ero mai davvero
soffermata, forse perché avevo sempre creduto che non volessero dire
niente - non erano mai stati un taglio dritto in mezzo allo stomaco
come quella volta.
"Ti
passo a prendere stasera allora," disse Damon, in un tono pratico che,
senza il mezzo sorriso che - immaginai - gli stava piegando le labbra,
non sarebbe stato tanto diverso da quello con cui fissava insieme a
Rose i suoi turni nel negozio.
Quella
noncuranza mi fece infuriare ancora di più. Quello era ciò che Damon
era veramente. Non gli importava. Non gli importava di quella ragazza
che aveva davanti e, evidentemente, non gli importava di me. Non sapevo
come avevo fatto a pensare il contrario.
Mi
costrinsi a voltarmi e ad infilarmi in classe, prima che il miscuglio
di rabbia e lacrime che all'improvviso aveva preso a montarmi dentro
minacciasse di sopraffarmi completamente.
Caroline
si sporse con i gomiti allungati sul mio banco per raccontarmi tutti i
dettagli di come Amber le avesse detto che Rachel le aveva detto che
Mandy, o forse era Mindy, aveva sentito Stefan mollare Lexi dopo la
partita di mercoledì.
La lasciai parlare senza ascoltare neanche
una parola.
Lunedì mattina, non era a scuola.
Mercoledì mattina avevo Francese, con
Matt.
Dopo
lezione insistette per accompagnarmi fino all'armadietto a posare i
libri, per raccontarmi i successi della squadra quella stagione e di
come il giorno prima il coach gli avesse fatto sapere che, se
continuava così, decine di college avrebbero fatto a pugni pur di
averlo nelle loro squadre. Non a caso era il più giovane quarterback
degli ultimi dieci anni.
Matt raccontava e sorrideva, con quei suoi
occhi blu e quelle sue piccole fossette agli angoli delle labbra, così
sincero e contagioso da scaldarmi dentro, mentre gli sorridevo di
rimando.
Si
era appena piegato verso di me per lasciarmi il consueto bacio sul
limitare della bocca quando, con la coda dell'occhio, vidi Damon
sbucare da un'aula, insieme a quel suo amico dal nome straniero.
Si
fermò a guardarmi, ancora con quell'espressione che sembrava voler dire
tutto e invece non diceva mai niente.
In
un impeto improvviso, mi sporsi sulle punte dei piedi e con una mano
circondai la nuca di Matt, per dirigerlo dritto verso la mie labbra.
Socchiusi la bocca e cercai la sua lingua, ed il casto bacio da
corridoio divenne in men che non si dica uno ben più approfondito da
seggiolini del pick-up. Qualcuno, passando, ci fischiò pure.
Quando
ci separammo, Matt, a corto di fiato, mi sorrise piacevolmente
sorpreso.
Io
gettai una veloce occhiata alla mia sinistra, ma di Damon non c'era più
nessuna traccia.
Giovedì pomeriggio, finii per
addormentarmi su uno dei tavolini del Grill, con la guancia posata sul
gomito ed il libro ancora aperto davanti, proprio nel mezzo della
battaglia di Little Bighorn.
Quando
Jenna se ne accorse e venne a svegliarmi, erano già passate le cinque.
Jeremy
aveva ormai finito i suoi allenamenti di baseball da un pezzo perciò,
non importò quanto cercai di fare in fretta, arrivai ugualmente a
prenderlo con quasi un'ora di ritardo.
Il
campetto, circondato dalla luce artificiale dei fari che spezzavano il
buio del tardo pomeriggio invernale, era già semi-deserto. Tutti i
ragazzini e i loro genitori se ne erano andati e solo mio fratello era
rimasto, una figurina dinoccolata seduta con la schiena in avanti sui
gradini di cemento che facevano da spalti.
No,
non c'era solo lui.
Sotto
all'alone bianco creato da uno dei riflettori, proprio di fronte a
Jeremy, un'altra sagoma, più snella e sicura di sé ma altrettanto
familiare, era appoggiata con la schiena contro la rete, le mani nelle
tasche della giacca di pelle ed una gamba piegata all'indietro. Stavano
parlando e Jeremy stava ridendo.
Il
mio passo rallentò e il mio cuore iniziò a battere come un uccellino
impazzito dentro la gabbia, quando Damon girò la testa e sollevò lo
sguardo verso di me. Quando incontrai i suoi occhi, di quell'azzurro
trasparente e pieno di ombre al tempo stesso sotto quella luce
traslucida, per un attimo quasi dimenticai quanto avrei dovuto
detestarlo.
Jeremy
si alzò di scatto e corse verso di me. Damon si avvicinò più
cautamente.
Io
non sapevo già più se credere in una piccola aspettativa speranzosa o
rimanere con la paura della solita indifferenza da nulla di fatto.
"Possiamo
andare a casa, adesso? Ho fame," mi chiese Jeremy sistemandosi meglio
il borsone sulle spalla.
"Solo
altri cinque minuti, ragazzino," rispose Damon al posto mio. Poi
proseguì rivolto a me, con una nuova incertezza nella voce che non mi
sembrava di avergli mai sentito prima. "Possiamo parlare?"
***
"Masquerade Ball?" domanda Bonnie mentre io tendo la penna ad un
passante.
La gente
cammina oltre degnandoci a malapena di uno sguardo. Chiaramente noi due
non abbiamo la stessa capacità persuasiva di Caroline, ancora
impegnata, un paio di metri più avanti, a discutere animatamente con
Stefan.
"Quindi …"
prosegue la mia amica, voltandosi verso di me con una sarcastica
espressione indagatrice. "Com'è che si chiama questa mogliettina?"
Le rispondo
con una smorfia. "Smettila, Bonnie. Dico sul serio."
"Argomento
spinoso, eh?"
"Non è come
pensi."
"E cosa
penso, secondo te?"
Le rivolgo
un'occhiata di traverso per farle capire che non ho intenzione di
parlare né di Damon, né tantomeno della sua adorabile coniuge.
"Per tua
fortuna, devo tornare al negozio da mia nonna," risponde raccogliendo
la sua borsa e infilandosela sulla spalla. "Ma, Elena … Non lasciare
che sia uno come Damon a condizionare le tue scelte."
Annuisco e
la saluto. Può starne certa che Damon non condizionerà proprio un bel
niente.
Poso il
mento sulla mano, mormoro un altro "Masquerade Ball?" che cade
completamente nel vuoto e sposto lo sguardo su Caroline e le sue
braccia conserte in una posa risentita, su Stefan e la sua aria da cane
bastonato.
"In ogni
caso, cosa ti é saltato in mente di portare qui quella là?" ribadisce Caroline,
continuando a rifiutarsi di chiamarla per nome.
"Ascolta,
Care …" risponde lui conciliante. "Cosa avrei dovuto fare? Damon non ci
ha pensato due volte a mollarla senza complimenti per farsi gli affari
propri. Mi era sembrata sola, ed ho solo pensato che in fin dei conti
si meritasse di avere una possibilità da parte nostra. Non é colpa sua
se Damon é Damon e non ci ha mai parlato di lei."
"Sei troppo
buono con le persone. Ma puoi contarci che io di quella là non mi fido neanche un
po'. E visto che è già abbastanza fastidioso doverla sopportare in casa
nostra, voglio che sia chiaro
che deve stare il più lontana possibile dal mio shampoo e soprattutto
dal mio rag-"
"Hai
davvero appena detto ´casa nostra`?" la interrompe Stefan, l'accenno di
un sorriso che compare veloce sulle sue labbra, anche se viene
trattenuto subito dopo.
Caroline
alza lo sguardo, sorpresa.
"Sì,
perché?…"
"Questo
significa per caso …" prosegue lui più esitante, come se avesse quasi
paura di pronunciare le parole ad alta voce. "… che viviamo insieme
adesso?"
"Naturalmente!
Te lo avrei detto prima se non fossi stato così tutto serio e
pensieroso, se non fossero successi tutti questi casini …" Dal volto di
Caroline scompare di colpo ogni traccia di risentimento e della
chiaramente immotivata gelosia di qualche attimo prima. Intreccia le
dita sull'orlo della sua maglietta, tirandolo in piccoli timidi
colpettini più verso di sé. Sembrano una coppia di adolescenti che non
sanno come fare a dirsi che si piacciono, ed io non so perché una cosa
così stupida mi faccia sentire così invidiosa. "Non posso pensare di
stare senza di te."
Per la
prima volta da quando è arrivato, Stefan sorride, apertamente, come se
ogni peso si fosse appena sollevato del suo petto o come se tutto il
resto delle sue preoccupazioni di colpo non contassero più niente.
Anche
Caroline sorride, ed io quasi mi aspetto di vederli lanciarsi in uno di
quei baci in grande stile da commedia romantica, con le telecamere che
girano e i protagonisti che si dimenticano del mondo intorno a loro.
Invece, la
mia amica volta perplessa la testa verso il basso, verso la direzione
da cui una biondissima bambina di circa sei anni la sta tirando per
l'orlo della gonna color crema per richiamare la sua attenzione e
porgerle, con un sorriso tra l'impacciato e l'orgoglioso, un bicchiere
di limonata.
Caroline si
irrigidisce ed il suo sguardo si spalanca interdetto, saetta veloce tra
il bicchiere e la bambina, in un misto di esitazione e qualcos'altro,
qualcosa che non si vede spesso negli occhi di Caroline Forbes: paura.
A salvare
la situazione dopo alcuni secondi di imbarazzato silenzio, ci pensa
fortunatamente Stefan, che si inginocchia accanto alla piccola
rimanendo in equilibrio sulle punte dei piedi, e le chiede gentilmente,
"E' per Caroline?"
Lei fa sì
con la testa e avvicina la mano al suo orecchio, come per rivelargli un
grande segreto.
"E' così
bella, sembra una principessa."
Caroline é
ancora paralizzata, ma la bambina ha appena pronunciato le parole
magiche che sono sempre in grado di far breccia nel cuore della mia
amica.
"Grazie,
tesoro … " le dice esitante, sporgendosi infine per prendere la
limonata. Come afferra il bicchiere, la ragazzina corre via come il
vento, tornando al banco delle bevande fresche insieme agli altri
bambini.
Stefan si
rialza in piedi e le posa un bacio sulla tempia.
"Te lo
ripeto un'altra volta, Care: sono bambini, non mordono."
Caroline
prende un sorso della bibita, borbottando scettica tra sé e sé. "Sono
abbastanza sicura da qualche parte di aver letto il contrario."
Sorrido
alla reazione di Caroline, per cui fare la babysitter è sempre stato il
suo peggiore incubo.
Poi il mio
telefono suona di nuovo. Lo tiro fuori dalla borsa con la ferma
intenzione di schiacciare il tasto "Ignora", ma questa volta è Elijah.
Rispondo con un allegro "Pronto", anche se non sono riuscita a schivare
la piccola, minuscola, punta di delusione che mi ha attraversato il
petto nel vedere che era il suo nome a lampeggiare sullo schermo. Nè
tantomeno riesco a evitare quella, più insidiosa e acuta, quando nessun
altro prova più a chiamarmi per tutto il resto della giornata.
***
"Sì, Care, ci ho pensato io," la rassicuro un'altra volta mentre spengo
il motore della macchina nel vialetto di fronte a casa mia.
Accendo la
luce di servizio e mi sporgo verso il sedile del passeggero per
riprendere la borsa, resistendo alla tentazione di roteare gli occhi
davanti alla puntigliosità della mia amica. Essere coinvolta nelle
iniziative di Caroline è più faticoso che gestire un locale. Anche a
fine giornata non la smette di volersi assicurare che tutto sia stato
smontato, catalogato e rimesso in ordine alla perfezione.
"Ho
lasciato tutto al negozio di Bonnie, puoi passare a prenderli domani,"
le faccio sapere mentre scendo dall'auto e la chiudo, tenendo il
telefono tra la testa e la spalla e la borsa in bilico sulle ginocchia.
"Sì, sono sicura. Goditi la serata e salutami Stefan, ok?"
Riattacco
prima che possa farsi venire altre paranoie e tenermi al telefono
un'altra mezzora.
Mi
incammino verso il portico continuando a rovistare nella borsa, al buio
e alla cieca, alla ricerca delle chiavi di casa, trovandole infine
rintanate in una taschina laterale.
"Sei
incredibilmente difficile da raggiungere, quando ti intestardisci a
volermi evitare."
La voce di
Damon mi coglie così alla sprovvista che, con un sussulto, faccio un
passo indietro e perdo almeno tre battiti per la sorpresa e lo
spavento. Quando sollevo la testa dalla mia borsa, lo trovo seduto con
i gomiti posati sulle ginocchia sull'ultimo gradino del portico,
debolmente illuminato dalla piccola lucina che sovrasta la porta di
ingresso.
Si alza in
piedi non appena il mio sguardo si posa di lui.
"E allora
mi tendi gli agguati?" replico sarcasticamente.
Salgo in
fretta i gradini ed arrivo di fronte alla porta, passandogli davanti
senza guardarlo in faccia.
"Se è
quello che ci vuole."
"Non ti sto
evitando, in ogni caso," preciso risoluta mentre infilo le chiavi nella
toppa, "Solo non ho niente da dirti."
Alle mie
spalle, Damon allunga un braccio e posa la mano sulla mia, stretta
intorno alle chiavi, per invitarmi tacitamente a non aprire la porta.
Mi immobilizzo quando, senza lasciarmi andare la mano, compie un
ulteriore passo che lo porta così vicino da darmi l'impressione di
poter sentire il suo respiro soffiarmi sulla pelle esposta della
spalla.
Ho il cuore
che adesso sbatte furiosamente. Di rabbia e forse non solo quella.
"Magari ti
va di ascoltare," risponde piano.
"Grazie per essere rimasto con lui,"
dissi con un tono gentile e distaccato che non sentivo appartenermi.
Jeremy
tornò a sedersi sulle gradinate con uno sbuffo ed un'alzata di occhi al
cielo, mentre io e Damon ci allontanavamo di un paio di passi, fino
alla rete che delimitava il campo da baseball. Intrecciai le dita tra
le sue aperture, giocherellandoci nervosamente.
"Non
c'è di che," rispose a bassa voce.
"Queste
sono tue," proseguii tirando fuori dalla borsa le sue chiavi, che
ancora non avevo avuto modo di ridargli. Gliele restituii
sbattendogliele contro il petto, per non far vedere che le mie dita, un
po' come la mia voce, stavano leggermente tremando. "Io non le voglio."
Damon
le afferrò al volo prima che cascassero. Se le rigirò tra le mani ed un
veloce lampo ferito gli attraversò lo sguardo. Stranamente, non mi
diede soddisfazione.
"Tienile
…" disse infine dopo qualche secondo di silenzio, alzando titubante gli
occhi di nuovo verso i miei. "Magari un giorno cambierai idea."
Me
le porse di nuovo, ma io scossi la testa e la voltai caparbiamente
dall'altra parte, verso il campo sportivo illuminato e deserto. Solo
essere lì con lui mi stava facendo venir voglia di piangere. E non
cedere mi costava uno sforzo pazzesco.
"Non
succederà."
"Ascolta
…" Se le rimise in tasca e fece un solo piccolo passo verso di me. Io
indietreggiai di riflesso. "Sono stato un vero idiota. E se mi dici di
sparire e lasciarti in pace, lo capisco. Me lo merito, immagino. Ma
spero lo stesso che tu non lo faccia."
Sull'ultima
frase la sua voce si assottigliò un poco e si fece più rauca, come se
parlare gli raschiasse la gola. C'era qualcosa crudo e vulnerabile in
tutto ciò, che andò dritto ad artigliarmi il petto.
"E'
stato abbastanza deprimente non averti attorno, perché … beh, mi piace
averti intorno. La nostra amicizia è più o meno la parte migliore della
giornata. E sarebbe uno schifo se fosse finita per sempre."
Lasciai
scivolare le dita che avevo di nuovo allacciato alla rete e,
lentamente, tornai a girarmi verso di lui. Con cautela, incrociai i
suoi occhi. Chiari, inquieti, assoluti.
Mi
disorientarono e colpirono molto più delle sue parole. Non ero
preparata, probabilmente non lo sarei mai stata, al modo in cui i suoi
occhi mi stavano guardando.
"Quindi
…" continuò incerto, di fronte al mio silenzio. "Ti ho perso per
sempre?"
"Cosa c'è da ascoltare?" rispondo con impeto, mentre con un piccolo
strattone libero la mano dalla sua presa e mi volto a fronteggiarlo.
"Sei sposato!"
"Ma non
significa niente! Non …" Damon fa una pausa e sospira, cercando poi il
mio sguardo per scandire bene il resto della frase. "Non cambia niente.
E' solo una stupida cazzata che ho fatto un paio di anni fa, Elena,
niente di più."
"Niente di
più? ..." ripeto incredula.
"Naturalmente!
Cosa ti aspettavi?"
"Lo sai,
Damon," ribatto aspra, mentre una furia sconosciuta mi sale dentro al
pensiero di me e lui, del modo in cui mi ha fatto sentire, delle mie
promesse verso Elijah, di come tutto fino a poco tempo fa fosse
semplice e lineare e adesso con Damon di mezzo di colpo non lo sia più.
"In effetti questo è esattamente ciò che mi aspettavo! Perché tu non ti
poni problemi, non consideri mai le conseguenze, figurarsi se hai anche
solo minimamente contemplato cosa significa prendere un impegno con
qualcuno ..."
"La amavo!"
Mi
ammutolisco spaesata, con la bocca ancora socchiusa, davanti a quella
confessione gridata e arrabbiata che ha troncato di netto il mio intero
discorso. Davanti alla fitta, rapida e dolorosa, che quelle due parole
mi hanno lanciato dritto in mezzo al petto.
Damon
chiude gli occhi e prende un lungo respiro prima di riaprirli e tornare
a guardarmi.
"L'ho
sposata perché l'amavo. Contenta?" prosegue sarcastico piegando le
labbra in una smorfia. "E' stato improvviso, è stato stupido, è stato
breve ... e non è finita bene. Non sapevo neanche dove fosse finita per
l'ultimo anno e mezzo e, francamente, neanche mi importava."
Mi stringo
le braccia contro il torace, serro le labbra e volto la testa verso il
basso. Osservo la soglia della porta di ingresso, il filo di terra che
corre sottile lungo il bordo del portico, le ombre grigio scuro che
disegniamo, e intanto assimilo ogni sua parola.
Non so più
quale versione dovrebbe farmi sentire meglio. Non so più come dovrei
reagire, non so più perché tutto ciò che lo riguarda fa così
dannatamente male. Non so più niente.
"Perciò
sappi che se hai intenzione di usare Katherine come scusa per
comportarti come se tra noi non ci sia niente, avanti, fai pure,"
prosegue deciso. Si avvicina di un altro passo, lo vedo dalla sua ombra
e lo sento dal crescere dell'agitazione che mi provoca la sua presenza.
"Ma io non lo farò."
Sollevo
lentamente lo sguardo e trovo il suo, pieno di una determinazione e di
un ardore che mi fanno salire il cuore in gola e che mi fanno sentire
esposta e vulnerabile. Sta toccando corde che non dovrebbe toccare.
"Non so
cosa vuoi dire," replico.
La bugia
suona così debole che la vedo riflessa nei suoi occhi, nel mezzo
sorriso amaro e consapevole che le sue labbra disegnano in risposta.
"Oh,
giusto, colpa mia. Perché stiamo ancora fingendo che tu non sappia
il modo in cui mi fai sentire."
Fa un altro
passo avanti, ed io ne faccio uno indietro.
"Stiamo
ancora fingendo che non provi lo stesso anche tu."
Non
dovrebbe stare così vicino. Al mio viso, alla mia esistenza.
"Perché
siamo bravissimi nel farlo, non è vero?"
"Cosa
diavolo pretendi da me?" gli grido esasperata, riversando nella mia
reazione accalorata tutto il dilemma che mi sta attanagliando,
consumando dall'interno, che non mi dà più tregua, non importa
quanto ci provi. "Ho un fidanzato, dei piani, una vita che ci ho messo
anni a costruire e, adesso, dovrei semplicemente mandare tutto all'aria
solo perché un giorno ti ripresenti dopo avermi ignorato per anni? Non
posso prendere e mettere da parte tutto questo, in nome di quello che
provavo per te una vita fa, ero una ragazzina! Quindi dammi una
ragione, una sola, per cui dovrei-"
Le sue mani
mi racchiudono il viso e le sue labbra mi bloccano il respiro.
Poso le
mani contro il suo petto per reagire nell'unico modo razionale,
nell'unico modo possibile, e spingerlo via, ma le mie dita si stringono invece
attorno alla stoffa della sua maglietta,
nello stesso momento in cui la sua lingua mi socchiude le labbra e
una delle sue mani scivola sulla mia nuca, mandando piccoli fremiti
caldi giù lungo tutta la mia schiena. Le mie spalle si scontrano piano
contro il muro, il suo corpo aderisce contro il mio petto ed io mi
sciolgo. Mi sciolgo e mi anniento sulla bocca, così morbida e intensa,
in un gemito roco che non so neanche più se provenga dalla sua gola
oppure dalla mia.
Risalgo il
suo petto con le mani, studiandone la consistenza solida, fino al suo
collo e i suoi capelli, tra i quali affondo le dita, tirandolo verso di
me.
Non
respiro. Bevo il suo sapore, e tutto
quello che c'è dietro. L'urgenza, la rabbia, la sua dolcezza, la mia
paura.
Mi intossica la testa e mi scalda le vene, fino a che la sua mano
si sposta ad accarezzarmi il profilo del viso e Damon si separa da me
lentamente, solo pochi centimetri, ma quanto basta per farmi subito
sentire l'alito freddo che si insinua in questa piccola
distanza.
Il suo
respiro caldo torna ad accarezzarmi le labbra quando la sua fronte si
posa contro la mia e le sue dita mi sfiorano la guancia per
toglierne una ciocca di capelli.
"Dimmi …"
inizia, con la voce bassa e roca. " … che non significa niente. Che non
hai provato niente. Dimmelo, e te lo giuro ... ti lascerò alla tua vita
e al tuo fidanzato, giuro che dimenticherò tutto e non ti chiederò più
niente."
Apro gli
occhi nei suoi, ed eccola lì. L'assolutezza nel suo sguardo. Ciò che mi
ha sempre trascinato così a fondo, che - lo so - sempre lo farà.
Ma so anche
che non puoi ricambiare l'assolutezza, non una così, con qualcosa a
metà.
"Lo amo,
Damon … " rispondo in un soffio dovuto, ma che fa fatica a uscire. "Non
posso far finta che non sia così. Questo … non significa niente. Non
può."
Damon
annuisce, lentamente, solo una volta. Le sue mani mi lasciano andare
nello stesso istante in cui compie un passo indietro. La mia gola si
chiude quando non trovo il suo sguardo.
Ma è quando
si volta, quando si volta e se ne va, che qualcosa, dentro di me, si
rompe definitivamente in mille pezzi.
—————————————————
Note:
[1] American Musical and Dramatic Academy. Ne
esistono due, una a NY e una a Los Angeles. Considerando che Damon vive
in California, Katherine si riferisce a quella di LA.
Spazio autrice
Buonasera,
ragazze. ^^
Mi
odiate? Odiate Elena? Lo so che questo capitolo rischia di suscitare
sentimenti simil 3x14, ma così stanno le cose. Un finale diverso non
avrebbe rispettato la coerenza della storia e, soprattutto, dei
personaggi, Elena in particolare. Spero di aver reso a dovere il suo
punto di vista, di aver fatto capire almeno un po' del suo conflitto
interiore, le sue ragioni. Se non è così ... libere di insultarmi. Me
lo merito xD
Ma
spero che, nonostante il risvolto finale, il loro bacio non abbia
deluso. A proposito, piccolo sondaggio: secondo voi, è stato il primo ? ...
Ah, e naturalmente, Katherine non è la
"sosia" di Elena (sorry, il visino di Nina Dobrev era già stato preso),
e nessuno le scambierà mai l'una per l'altra, ma se vi state domandando
che aspetto abbia in questa storia, potete immaginarla simile a Victoria
Justice: stessi "colori" di
Nina, visino simile, ma niente di più. Quella di Caroline e Bonnie
sulla loro somiglianza è ovviamente una battuta.
Altre
cose random:
- Non sono brava a inserire link a
sottofondi musicali nel mezzo del capitolo, ma se vi interessa, nella
mia mente la scena del bacio ha questa colonna sonora (Tonight, Lykke Li).
- I vestiti di Elena e Caroline nel
capitolo sono gli stessi che hanno indossato nella serie: Elena,
Caroline
Sono terribilmente indietro con
tutto, storie e risposte, e me ne rendo conto, ma ci tengo a
ringraziarvi
tutte dal profondo del cuore per il sostegno che date alla storia con i
vostri commenti (a cui prometto di rispondere durante questo fine
settimana), siete insostituibili ed io non sarei qui se non fosse per
voi.
Grazie.
A presto, un bacio!
ever
|
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Capitolo 14 *** What you hide ***
13
13.
What
you hide
- Who you are is
what you hide
I was
yours, but you weren't mine
So now
you've drawn your line
But I
hope it will fade, in time -
(Hear me sing, AM)
Damon
Ci sono tre cose che ho capito a mie spese negli ultimi giorni. Che il
bourbon di bassa lega procura dei postumi terribili. Che odio il
country, quello passato, quello presente e quello futuro. Che quando le
cose si fanno deprimenti, non riesco a non avvelenarmi con entrambi.
Un minuscolo bicchierino di
vetro mi compare davanti, accanto alla bottiglia di Jim Beam senza
infamia e senza lode che subito uso per riempirlo fino all'orlo. Lo
butto giù in un solo sorso e lo faccio sbattere contro il bancone,
proprio mentre nel locale parte un'altra cavolo di canzone di Carrie
Underwood uguale a quella di prima. E, cazzo, non voglio neanche stare
a chiedermi come faccio a sapere chi è Carrie Underwood.
"Dunque, mio fratello non mi
vuole neanche vedere …"
Mi protendo in avanti sullo
sgabello, riempio un altro bicchierino straboccante.
A giudicare dalla stoccata secca
alle mie spalle e dalla risata di esaltazione che segue subito dopo,
qualcuno sta stravincendo la sua partita a biliardo. Buon per loro.
" … la sua irritante fidanzata
rincara la dose guardandomi come se fossi qualcosa di viscido scappato
da sotto una pietra …."
Il bicchiere resta vuoto per
neanche mezzo secondo. Pieno, ci rimane ancora meno.
" …. ho una moglie malefica che
è tornata dall'inferno a caccia del mio sangue e che non placherà la
sua sete fino a che non mi avrà prosciugato di ogni più
piccolo fottuto centesimo …"
Nella mia visione periferica,
una ragazza ed un tizio parecchio più grande di lei, entrambi in jeans
e camicia a quadri, hanno iniziato a spalmarsi l'uno sull'altra con la
pietosa scusa di ballare, sempre la solita canzoncina del cazzo. Ho già
detto quanto odio il country?
Pieno, vuoto, pieno, eccetera.
Liquide strisce incendiare che si accumulano nel mio stomaco colmo di
niente.
".. ho completamente mandato a
puttane il mio ruolo nella prestigiosa, inimitabile, compagnia di
famiglia, facendomi ritenere da un intero consiglio di amministrazione
l'essere più incompetente e indegno sulla faccia della terra …"
Questa volta, la barista - credo
che il suo nome inizi con la J - arriva veloce alla bottiglia di
bourbon prima che possa farlo io, pensandoci lei stessa a servirmi
un'altra dose. Grazie, tesoro.
" … oh, e poi, notizia
dell'ultim'ora. A quanto pare, ho di nuovo perso del tutto la testa
dietro al mio primo amore, la stessa incredibile, esasperante, e
completamente fuori dalla mia portata, ragazza che mi ha baciato come
se non ci fosse un domani, e poi ha finito di fare a pezzi i rimasugli
del mio ego ferito perché si sposa tra meno di due mesi."
Quest'ultimo bicchiere se ne va
via giù per la gola con una scia particolarmente dolciastra, rapida e
infuocata. Sì, mi sento estremamente poetico quando inizio ad essere
ubriaco.
"Quindi, dolcezza …" finisco
rivolgendo a J un veloce sorriso, mentre poso nuovamente il vetro sul
bancone e lei si sporge verso di me, appoggiandosi contro la superficie
di legno e posando il mento su una mano, in interessata attesa della
fine del mio monologo. " … per rispondere la tua domanda, sono
praticamente l'uomo del momento."
Per la cronaca, la domanda era
un "Come va?" accompagnato da un'occhiata smaliziata dalle intenzioni
piuttosto inequivocabili. Non sbaglio mai su quel genere di occhiate.
E' un talento. E, sempre per la cronaca, confermo anche che sì, la
barista il cui nome inizia per la J è anche fottutamente sexy. Canotta
ridotta ai minimi termini, capelli neri corti e spettinati, occhi verdi
che cercano e promettono un sacco di divertimento.
"E' il tuo modo per strapparmi
un pompino nei bagni?" mi domanda, con lo sguardo dritto nel mio ed un
altro sorriso allusivo.
Tra le sua labbra socchiuse
intravedo il luccichio metallico di un piercing sulla lingua. Cazzo.
Qualcuno mi dà una spallata nel
sedersi sullo sgabello accanto a me, rompendo l'incanto inebetito di me
che, già mezzo stordito, sto ancora lì a domandarmi perché non ho
risposto "sì" seduta stante. Mi volto verso colui che, appena tornato
dal bagno, ha appena rovinato tutta l'atmosfera.
"Quindi, stavo pensando …"
Inizia Ric con fare convinto, come se nei cinque minuti dentro alle
toilette avesse ricevuto chissà quale illuminazione divina. " … sei
patetico. E te lo dico consapevole di avere le mie colpe in questo, in
quanto colui che ti ha passato la bottiglia e che è stato con te nelle
ultime tre notti. A proposito, sei uno che abbraccia durante il sonno,
specialmente quando sei completamente andato. Non farlo. Non farlo più."
J lancia una strana occhiata
verso il mio compagno di bevute dal tempismo perfetto e dalla lingua un
po' troppo sciolta dall'alcol (e comunque, sta vaneggiando: io non
abbraccio). Solleva un sopracciglio, si raddrizza dal bancone sul quale
si era protesa e mi rivolge un veloce sorriso condiscendente. "Ho da
fare. Magari un'altra volta."
Come la ragazza se ne va,
colpisco bruscamente il mio amico sulla spalla con il dorso della mano.
"Un piercing sulla lingua, Ric!"
"Cosa?" mi domanda lui confuso,
senza capire.
"Lascia perdere …"
Alzo gli occhi al cielo, scuoto
la testa ed allungo la mano per andare a riempirmi un altro bicchiere.
Ma, con uno scatto
impressionante per il suo stato attuale, Ric mi anticipa e mi sottrae
la bottiglia direttamente sotto al mio naso e al mio sguardo stupito.
"No," scuote la testa con fare
deluso. "Come stavo dicendo, lo so che non sono probabilmente la
migliore persona per farti questo discorso, visto che … potrei essere
io stesso un tantino ubriaco in questo momento. E' solo che davvero mi
piace tanto il whisky … Ciò che voglio dire è, quanto hai intenzione di
andare avanti così, a girare per bar fuori mano e fottertene di tutto
quanto? E' stato divertente le prime due sere … adesso, inizio a
sospettare che stia diventando patetico."
"Non lo so e non mi importa,"
ribatto alzando le spalle. Ci mancava solo che ci si mettesse pure lui.
"Sono permanentemente fuori servizio."
Tento di riprendermi la
bottiglia, ma senza successo, perché Ric me la allontana di nuovo.
Gli rivolgo un mezzo broncio nel
tentativo di dissuaderlo dalla sua crociata tardiva e maldestra.
"Quanti anni hai, quindici?"
ribatte.
La sua domanda, grazie anche
all'ebbrezza che finalmente inizia a farsi sentire, mi fa quasi
scoppiare a ridere, anche se invece della risata ciò che mi esce fuori
è solo un mezzo ghigno in onore della paradossale ironia della
situazione.
Più
o meno, avrei voglia di rispondere.
Perché, ecco la cosa divertente:
fino a neanche due mesi fa ero una semi-specie di semi-adulto
semi-funzionante che era appena riuscito a permettersi un appartamento
decente a Mission Bay [1] con tanto di
terrazza spazzata dal vento gelido dell’oceano; uno che passava le sue
serate tra sushi bar e locali affollati di bionde dalla coda alta,
troppo single e troppo in carriera per preoccuparsi degli impegni di
lungo periodo, e che proprio per questo risultavano l'abbinamento
ideale alla mia incapacità di restare fedele a qualsiasi cosa per più
di una stagione.
Poi è bastato farmi una
passeggiata sul viale dei ricordi di questa fottuta città e, di colpo,
addio semi-specie di semi-adulto ventiseienne e bentornato fresco
diciottenne mai in grado di combinarne una giusta; oggi come allora
decisamente poco intitolato alla fittizia coscienziosità che, a quanto
pare, un banale concetto astratto come la maggiore età dovrebbe
magicamente dare.
"Sembri mio padre," replico.
"Una versione più ubriaca e con meno filtri."
"Dovrebbe essere un insulto?"
Questa volta rido, per davvero,
con la testa leggera piena di alcol e pensieri sconnessi, e con quel
fastidioso groppo alla gola che nessuna quantità di liquore è mai
riuscita a farmi andare giù.
"Torna a San Francisco, Damon,"
prosegue lui, prima di buttare giù l'ultimo sorso rimasto sul fondo del
bicchiere, e poi tornare ad inclinare la testa verso di me. "Era la mia
missione quando sono salito su quell'aereo, prendere le tue chiappe e
riportarle dove devono stare. Dico davvero, cosa ci stai a fare ancora
qui, in ogni caso?"
Bella domanda, non posso dargli
torto.
Avrei dovuto essere su
quell'aereo settimane fa. Tutto questo non avrebbe dovuto essere
nient'altro che una veloce toccata e fuga per mettere in ordine quelle
due o tre cose dopo la dipartita di mio padre, giusto quel tanto che
bastava per pulirmi la coscienza.
Invece, in un modo o nell'altro,
una settimana era passata e poi un'altra e poi un'altra ancora. Fino a
che non mi ci sono ritrovato dentro fino al collo, colato a picco
peggio di una porta-aerei da battaglia navale in mezzo a ciò che ho
perso, ciò che ho ritrovato e ciò che non ho mai avuto. E la verità è
che non lo so più neanche io cosa ci sto a fare qui, in un bar di
periferia con del pessimo country e bariste disinibite, senza più
nessuna vera scusa per restare e senza davvero nessuna voglia di andare.
Faccio leva sul bancone per
alzarmi dallo sgabello e tiro fuori il portafoglio per lasciare una
banconota da 50 sopra il bancone.
"Per il momento, Ric," rispondo.
"Penso che sia solo ora di tornare a casa."
"Quando cresce, vedrai che diventa
più ragionevole."
Era una sera
d'agosto poco prima dell'inizio del liceo e a pronunciare quella frase
era stata zia Julie venuta a trovarci da Atlanta.
L'aria aveva
il tipico odore pieno e dolce dell'estate, la luce sulla veranda era di
un intenso violetto scuro, e mio padre mi aveva appena proibito di
uscire per incontrarmi con Enzo, il nuovo ragazzo che si era appena
trasferito da Manchester con una madre single perennemente assente, una
scorta di sigarette sempre pronta ed un colorito assortimento di nuove
parolacce splendidamente britanniche. Io avevo tredici anni e, per
tutta riposta al suo divieto, gli avevo usato per la prima volta la
parola con la "F" ed ero uscito lo stesso.
Spoiler
alert, zia Julie: ti sbagliavi. Non diventai né più ragionevole, né
altro.
Anche
se il perché di tutta quell'irrequietezza e rabbia repressa,
onestamente, non avrei saputo dirlo neanche io.
Non è che
fossi cresciuto con grossi traumi infantili. Anche se, di quando ero
bambino, a volte tutto ciò che rimaneva era solo la soverchiante
presenza di mio padre. Forte, rigoroso, carismatico, rispettato. Era
dappertutto: nelle strette regole educative con cui aveva cresciuto me
e mio fratello, nello spingerci verso nient'altro che l'eccellenza, ma
anche nelle ore che spesso si prendeva libere da tutto e da tutti solo
per passare del tempo insieme a noi, al fiume in estate, in mezzo alla
neve d'inverno. La sua presenza nelle nostre vite era soverchiante
almeno quanto l'evanescenza di Charlotte, di cui, per almeno un paio di
anni dopo che se ne era andata, tutto ciò che avevamo erano biglietti e
regali spediti via posta per natali e compleanni.
Tanto che,
ad un certo punto, quando aveva sei anni, Stefan aveva iniziato a dire
in giro che fosse morta. Era stato allora che nostro padre ci aveva
preso da parte, si era messo con calma a sedere con entrambi e, mentre
fuori diluviava e il fuoco languiva nell'ampio camino della sala, ci
aveva detto che Charlotte ci voleva bene ma non era felice qui, che per
questo aveva scelto di andarsene e risolvere le sue problematiche da
sola. Niente bugie o pillole indorate. Dopotutto, mio padre non ci
aveva mai, neanche una singola volta, trattato con la condiscendenza
riservata ai bambini da chi crede che non possano capire le cose da
grandi.
Ad ogni
modo, l'irrequietezza. Forse era da lì che arrivava. Forse me la aveva
trasmessa Charlotte. O, forse, era stata la naturale conseguenza
del momento - così poco definito a differenza del resto, un po' come
l'età in cui non si è più bambini ma neanche quel qualcosa di
spaventoso che viene subito dopo - in cui un giorno avevo guardato mio
padre ed avevo realizzato che avevo bisogno di liberarmi di una tale
figura, così incrollabile e infallibile. E, da lì in poi, la mia
irragionevolezza - o irresponsabilità come lui la chiamava - non aveva
mai davvero conosciuto una fine.
Ecco cosa
avevo in testa quando mi svegliai e mi alzai dal letto: zia Julie,
pomeriggi al fiume e pioggia sui vetri, qualcosa che è troppo e
qualcosa che è troppo poco.
Così,
intento a trangugiare un toast al volo prima di andare a scuola, per
poco neanche la notavo.
La busta
giallastra era posata al centro del basso tavolino di fronte al divano,
con il mio nome scritto sopra nella calligrafia ferma ed elegante di
mio padre. Nient'altro: non una nota di accompagnamento, non una firma.
Quando la
aprii e le chiavi della Camaro scivolarono tintinnanti sul mio palmo
aperto, dalla sorpresa il mio cuore balzò contro le costole in un
guizzo così inaspettato e potente da farmi quasi male.
Mormorando
un sommesso "cazzo", mi precipitai alla finestra per averne conferma e,
infatti, eccola lì. Lucida e azzurra sotto il sole tiepido di marzo,
perfetta e senza neanche l'ombra della brutta ammaccatura sulla
fiancata destra e del danno al semiasse anteriore che l'avevano messa
fuori uso dopo il mio incidente.
Afferrai la
giacca e raggiunsi in fretta l'uscita per andare a toccarla con mano,
ma quando aprii la porta mi trovai davanti Stefan, colto proprio nel
bel mezzo dell'atto di bussare.
Mio fratello
aprì la bocca, ma lo stroncai sul nascere prima che potesse proferire
parola.
"Hai visto
papà?"
Stefan
corrugò la fronte, perplesso. Non era un qualcosa che mi sentiva
chiedere spesso.
Scosse la
testa, con aria sinceramente dispiaciuta.
"No, è
partito per DC questa mattina presto ..." Alzò lo sguardo su di me e mi
guardò quasi come se si sentisse in obbligo di dovermi delle scuse o
delle giustificazioni al posto suo. "Ma penso che ti chiamerà, voglio
dire ..."
"Non lo
farà. Ma va bene," risposi, e al dispiacere per me negli occhi di
Stefan si aggiunse quasi un accenno di pietà.
Ma la sua
compassione nei confronti del mio ruolo di figlio degenere mi scivolò
addosso senza scalfirmi, tanto che Stefan mi guardò completamente
disorientato quando, invece che incupirmi, iniziai a fargli dondolare
le chiavi proprio davanti al naso, sorridendo come un idiota.
"Ti serve un
passaggio?"
"Beh, perché
no," riprese lui, "Ma prima volevo ..."
Fu allora
che notai che, tra le mani incrociate dietro la schiena, stava
nascondendo qualcosa.
"Cazzo,
Stef, avevo detto-"
"Lo so, lo
so, cosa avevi detto," sbuffo' impermalito. Mi scaraventò in mano il
libro che si era portato dietro e si strinse impacciato nelle spalle.
"E' mio, perciò è solo un prestito, ok? Me lo ridai quando hai finito."
"Il Giovane
Holden?" commentai nel vedere di che si trattava, alzando un
sopracciglio verso di lui. "Che cliché."
"Sta' zitto
e leggilo."
"Ok,"
concessi. Mi infilai Holden Caulfield nella tasca interna della giacca,
evitando di dirgli che lo avevo già letto l'anno prima. Io ero
sorprendentemente di buon umore e lui era troppo carino per rovinare il
momento. "Grazie."
Poi gli
rivolsi un mezzo ghigno e gli feci cenno con la testa invitandolo a
seguirmi per andare a rimettere in moto la Camaro.
Avevo appena
chiuso la porta della depandance, quando il rumore basso e vibrante di
un'auto che risaliva il vialetto ci fece voltare entrambi.
Il
maggiolino decappottabile color giallo vivo parcheggiò ad una decina di
metri da noi, dandoci modo di intravedere la figura sottile di chi lo
stava guidando, e, cazzo, lì per lì quasi mi caddero le chiavi di mano
dallo stupore. Guardai Stefan, il cui volto era la maschera dello
shock, e poi di nuovo verso l'auto, per esserne sicuro.
Ma non mi
ero sbagliato. I lunghi e lisci capelli biondo cenere, quel modo
delicato e nervoso al tempo stesso di muovere le dita nel tirare giù e
rimettere a posto lo specchio del guidatore, e, soprattutto, i grandi
occhi verdi dall'espressione sempre meravigliata, appena una sfumatura
più chiari di quelli di Stefan.
Charlotte
scese dalla macchina e si appoggiò contro lo sportello, sorridendo e
agitando una mano nella nostra direzione in segno di saluto.
Sorpresa.
Finii per lasciar perdere scuola e
passare la giornata con Charlotte.
Appena
arrivata, mi aveva sussurrato nell'orecchio parole affettuose adatte
alla circostanza e stretto in un abbraccio che mi aveva fatto sentire
tutta la fragilità delle sue ossa. Quando però si era voltata verso
Stefan per fare lo stesso, mio fratello si era sottratto con un veloce
passo indietro ed un'occhiata da tigrotto ferito, se ne era andato
bofonchiando di essere in ritardo per la scuola, ed i grandi occhi di
Charlotte si erano subito riempiti di lacrime. Così, non avevo davvero
avuto altra scelta che stare con lei, se non volevo vederla piangere
proprio lì di fronte a me.
L'aria era
ancora frizzante degli ultimi residui di inverno, ma il sole aveva già
un piacevole tepore che ci concesse di sederci ad uno dei tavolini
all'aperto del Grill, lei con un Martini bianco ed io con la triste
acqua minerale che la mia età mi concedeva [2].
Per un po',
a parlare fu solo lei, a raccontare le storie del suo recente viaggio
in Guatemala e i progressi del suo nuovo libro, il terzo. Un po' la
storia della sua vita: rimasta incinta appena finito il liceo di un
uomo di dieci anni più grande, matrimonio riparatore a seguire,
un altro figlio e cinque anni dopo aveva deciso che non ne poteva più.
E poi era finita a scriverci sopra dei libri.
Si accese
un'altra sigaretta, una di quelle lunghe e sottili che sembravano
sempre un prolungamento naturale delle sue dita inquiete e filiformi.
Uno, due, tre colpetti per scrollare una cenere inesistente che ancora
non si era accumulata.
"Stai bene,
tesoro, ti servono dei soldi?"
"Ce li ho i
soldi. Ho un lavoro, ricordi?" risposi facendo girellare la cannuccia
nell'alto bicchiere cilindrico.
"Anche per
quando finirai il liceo? Sai già cosa fare?"
Alzai lo
sguardo su di lei e mi lasciai sfuggire una smorfia sarcastica.
"Hai parlato
con papà, per caso?"
Si voltò di
lato per soffiare via il fumo, scosse velocemente la testa e riprese a
scrollare la sigaretta.
"Lo sai che
tuo padre con me non parla."
"Magari dopo
tutti questi anni ha cambiato idea."
Charlotte
sorrise tristemente.
"L'ho
ferito, e lui sa essere molto testardo nelle sue decisioni quando viene
ferito."
Affondai un
po' di più nella sedia e scrollai le spalle con noncuranza, niente
affatto intenzionato ad entrare nel discorso del suo fallimentare
rapporto con mio padre, né tantomeno con me e Stefan. Ero l'unico che
le dava un po' di tregua, forse perché sotto sotto mi rendevo conto che
ci provava a rimediare, anche se in un modo che era sempre sbagliato e
che non risolveva mai un cazzo.
"Quindi?
Piani?" riprese in tono più allegro, anche lei evitando subito
l'argomento. Come sempre.
"Per ora
nessuno."
"Lo capirai
quando arriverà il momento, vedrai."
Fu in quel
momento - in quella situazione surreale di essere lì a parlare con
Charlotte, in un luogo perfettamente normale e familiare come il Grill,
invece che su barche o camere di hotel o posti sempre nuovi, tallonati
alle calcagna da sconosciuti che impazzivano per lei senza ricevere mai
lo stesso in cambio - che per davvero lo avvertii: il peso di tutto ciò
che mi ero perfettamente allenato a far sì che non mi toccasse, la
disfunzionale tendenza al menefreghismo che tutta quella situazione del
cazzo mi aveva lasciato addosso, le eccessive aspettative che non sarei
mai stato in grado di soddisfare. Ero fottutamente incasinato dentro e
con nessuna prospettiva di migliorare la cosa.
"E se non
succede?" domandai corrugando la fronte, con lo sguardo fisso sulle
minuscole bollicine d'acqua che risalivano su per andare a scoppiare
verso la superficie. "E se non sarò mai capace di fare una sola cosa
buona?"
Gli occhi di
Charlotte sembrarono allargarsi all'infinito. Per alcuni secondi, si
dimenticò perfino di dare i suoi ossessivi colpettini alla sigaretta.
"Ma certo
che lo farai, tesoro," disse sorridendo convinta.
Lo dici solo perché sei mia
madre, le avrei risposto se la
parola "madre" non fosse suonata così terribilmente stonata in
riferimento a lei. Pentendomi già di essermi lasciato scappare quelle
parole, forzai un sorriso ed un cenno di assenso con la testa per
tranquillizzarla, e tutto il resto lo tenni per me, ingoiandolo giù con
quella triste acqua minerale.
***
Quando con Ric torniamo a villa Salvatore, è notte fonda. La casa
sembra ancora più grande e buia, senza nessuna traccia di persone
ancora sveglie.
Beh, quasi nessuna traccia di persone
ancora sveglie.
Dopo aver salito l'ultimo
scalino, detto buonanotte a Ric e messo piede nel corridoio del secondo
piano, noto una sottile striscia di luce provenire da sotto l'ingresso
della mia camera e, chissà perché, ho subito la fastidiosa sensazione
che il seguito della mia nottata non abbia in serbo niente di buono.
Non mi sbaglio.
Apro la porta ed infatti… detto
fatto.
Mi sorreggo con una mano contro
la cornice della soglia e mi accascio contro di essa per darci un paio
di testate, espressione disperata di tutta la mia frustrazione.
"Due altre camere da letto. Una
dependance recentemente rinnovata. Per non parlare di un mondo
intero là fuori, che sono sicuro ha molti posti adatti per una stronza
psicopatica come te. Devi proprio startene qui?"
Katherine, languidamente distesa
sul ventre sopra al mio letto, alza lo sguardo dal mio portatile su cui
stava trafficando, posa in tranquillità il mento sulla mano e mi guarda
da sotto in su. Le sue gambe, lasciate scoperte dal vestito nero la cui
gonna si è raccolta sopra le sue natiche, sono incrociate in alto e
dondolano pigre nell'aria.
"Non sono mai stata una
psicopatica," si stringe nelle spalle.
"Che fortuna," replico
sarcastico.
Non ho le forze, né la lucidità
mentale per mettermi a discutere con lei in questo momento. Così chiudo
la porta alle mie spalle, mi avvicino al letto, le sottraggo il pc da
sotto lei mani suscitandole un broncio bambinesco, e mi butto sul
materasso senza neanche togliermi le scarpe.
Incrocio le mani sugli occhi per
farmi scudo dalla luce bassa che proviene dalla lampada sopra il
comodino, sforzandomi di ignorare la nefasta presenza nella stanza e
pregando che almeno non sia troppo d'intralcio tra me e l'incoscienza
alcolica che mi attende. Forse, se mi impegno abbastanza a far finta
che lei non sia qui, prima o poi scompare davvero.
Ovviamente, non sono così
fortunato.
Il letto si muove sotto al suo
peso, mentre Katherine cambia posizione e si sdraia su un fianco
accanto a me. Con un dito, inizia a tracciarmi i contorni dei muscoli
sulla parte più bassa del ventre, appena sopra la cintura e appena
sotto l'orlo della maglietta che è rimasta sollevata.
Rabbrividisco. Non so se di
disgusto o di piacere.
"Lo sapevi che, secondo le mie
ricerche, solo questa casa vale due milioni di dollari?" mi domanda in
un sussurro basso contro il mio orecchio. "Per non parlare di tutto il
resto della tua eredità, compreso il valore di una compagnia così
grande …"
Allungo un braccio e blocco la
provocazione messa in atto dalla sua mano, chiudendola nella mia. Ma
lei non la sottrae ed io non la spingo via, così le sue dita rimangono
lì, ferme sul mio addome. Perché sì, non c'è nient'altro che io voglia
di più in questo momento che vederla andarsene a fanculo; eppure, è un
piccolo contatto di calore umano, per quanto umana possa mai essere
Katherine, a cui in questo momento sono troppo debole per rinunciare.
"La compagnia non vale un cazzo
se va avanti di questo passo," rispondo iniziando a strascicare la
voce, con l'altro braccio ancora sugli occhi a crearmi un buio
artificiale su cui danzano piccole lucine colorate.
"Beh, allora vedi di rimediare.
Non sono venuta fin qui per tornarmene a mani vuote."
"E pensare che una volta ti
credevo appassionata e imprevedibile, altro che così calcolatrice."
"Oh, per favore. Guarda che
anche io ti credevo qualcosa che non eri. Ricco. Come vedi, siamo in
due ad essere rimasti fregati."
Le lascio andare la mano con un
sospiro infastidito e riporto il braccio insieme all'altro, sopra la
mia testa, non appena quella frase fa breccia nella nebbia post-sbronza
e mi ricorda con chi è che ho davvero a che fare.
"Ma," prosegue in tono allegro,
"la buona notizia è - almeno per me - che adesso ricco lo sei davvero!"
"Non ti dò un cazzo di niente,
Katherine."
"Certo che lo farai," mi
bisbiglia, con quel tono seducente e appena roco per cui, un tempo,
sarei stato capace di fare follie. Infila lentamente la mano sotto la
mia maglietta e risale, accarezzandomi il torace, delineando sulla mia
pelle tutto il percorso fino alla parte alta del petto, dove voleva
arrivare. "Perché lo so che, in fondo a quel tuo cuoricino morbido e
sentimentale, …" lo accarezza piano mentre parla e, con una coscia
nuda, preme e si struscia contro il cavallo dei miei jeans, che si è
già indurito di sua spontanea volontà. "… una parte di te ancora mi
ama."
"Ti detesto."
Sorprendentemente, le parole mi
escono fuori più piatte ed indifferenti di quanto non avessi
intenzione, senza la forza con cui mi sono sempre immaginato che gliele
avrei dette.
Katherine ride, di una risata
bassa e sinceramente divertita. Non mi crede neanche per un istante.
"Se è davvero così, allora
perché non hai mai chiesto il divorzio?"
Perché se ne è andata da un
giorno all'altro senza lasciare neanche un bigliettino, figuriamoci un
recapito. Perché pensavo che intestardirmi per andare a cercarla e
cancellarla dalla mia vita le avrebbe solo dato l'impressione che ci
tenessi ancora a lei. Perché, forse, in fin dei conti sarebbe stata
l'ammissione finale di aver sbagliato e aver fatto una cazzata, di
nuovo.
Ma col cazzo che si merita una
risposta. Può pensare quello che diavolo le pare.
Le sue labbra mi sfiorano il
collo, accompagnano un altro sfregamento di apprezzamento della sua
coscia.
Lo so che mi sta manipolando. Lo
so che sta solo cercando di dimostrare il suo punto, quello per cui non
sono stato in grado di resisterle in passato e non sarò in grado di
farlo neanche questa volta, quando si tratterà di definire il divorzio
che è tornata per chiedermi dopo aver saputo - dio solo sa come -
quanto fosse cambiata la mia situazione finanziaria.
Ma anche questo pensiero non mi
fa incazzare come dovrebbe. Mi sento impermeabile a qualsiasi suo
giochetto mentale. In questo stato mezzo ottenebrato dall'alcol che
ancora mi intasa le vene, ho la ridicola percezione di essere io ad
usare lei. Per non pensare, per dimenticare, per farmi una scopata con
una qualsiasi altra ragazza in cui perdersi e divertirsi per una notte,
e poi archiviare facilmente il mattino successivo.
Apre il primo bottone e poi la
cerniera dei jeans, per insinuarsi direttamente sotto ai boxer.
"Mi detesti davvero tanto …"
commenta sarcastica soffiando sopra la mia bocca, mentre spingo il
bacino in alto contro la sua presa ed il mio cazzo le riempie la mano.
La afferro deciso per i fianchi
per portarla come si deve sopra di me, e poi mi assicuro che smetta di
parlare.
***
Cose che avevo giurato a me stesso di non fare mai più, prima voce
della lista: svegliarmi nudo accanto a Katherine.
Cose che rimpiango: non
essermelo ricordato quando sarebbe stato il momento.
La luce del mattino e la
ritrovata lucidità mi colpiscono peggio di un faro stroboscopico
puntato dritto in faccia. Mi porto le mani sul volto, per imprecare
sottovoce contro i miei stessi palmi e prendere un profondo respiro,
prima di voltarmi verso l'occupante del lato destro del letto.
Eccola lì: la prova
inconfutabile dell'infimo punto a cui mi sono ridotto. Forse il Ric
ubriaco ha ragione: è il momento di smetterla di fare il coglione.
Katherine è ancora addormentata,
una mano sotto al cuscino e la linea rotonda del seno premuta contro il
materasso. La cosa peggiore è che, a guardarla adesso, ingannerebbe
chiunque. Nessuno sospetterebbe che dietro quel viso dalle linee dolci
e delicate possa nascondersi una tale vipera.
Mi maledico ancora una volta
nell'alzarmi dal letto, tanto per non dimenticarlo neanche io.
Dopo una doccia allo scopo di
liberarmi al più presto di qualsiasi minuscolo ultimo residuo di
Katherine che possa essermi rimasto addosso, finisco di infilarmi la
maglietta mentre sto ancora scendendo le scale fino all'ingresso, ben
intenzionato a svignarmela e a far finta che ieri notte non sia mai
accaduta.
L'anticamera d'ingresso è ancora
completamente ingombra del caos di scatoloni da cui, con la stessa
voracità di una pianta rampicante, adesso che si è trasferita qua, la
roba di Caroline continua a sbucare e ad invadere ogni centimetro di
questa casa. Ne scavalco un paio con la scritta "Sala", dentro ai quali
intravedo vecchie fotografie incorniciate da legno chiaro e tappezzeria
varia dai colori pastello che mi auguro vivamente non abbiano
intenzione di trovare collocamento da queste parti almeno finché ci
sono ancora io nei paraggi. Poi Stefan potrà lasciare che Blondie Girl
trasformi la nostra casa di infanzia in una sala da tè quanto le pare e
piace.
Sto per compiere gli ultimi
passi della mia personale camminata della vergogna verso la porta, ma
ciò che inaspettatamente intravedo nella sala alla mia sinistra mi fa
bloccare all'istante. Dannazione.
Nel mio salotto c'è Elena. O, a
seconda dei punti vista, il karma che ha deciso ancora una volta di
ridermi in faccia.
Quella era probabilmente una pessima
idea. Era tardi, era un qualsiasi giorno nel mezzo della settimana, ed
anche solo per quello mi avrebbe mandato a quel paese. Lasciai che la
cosa mi fermasse? Ovviamente no. Non mi soffermavo mai più di tanto a
soppesare la ragionevolezza delle mie idee.
Parcheggiai
la Camaro accostandola vicino al marciapiede e mi incamminai nel buio
rischiarato dai lampioni ai lati della strada, la maggior parte delle
luci provenienti dall'interno delle altre case già spente. Arrivato
sotto al portico della mia destinazione, girai per un paio di metri
sulla sinistra e sollevai lo sguardo per sbirciare verso la finestra di
Elena, così da poter controllare che la sua luce fosse ancora accesa.
Ero appena
andato via dalla mia comparsata alla festa di Enzo, il quale, anche se
gli avevo detto da giorni che non c'era proprio un cazzo da
festeggiare, si era allegramente sbattuto di ciò che ne pensavo io e mi
aveva usato come scusa per radunare un po' di alcol ed un po' di
ragazze con cui possibilmente andare in seconda base negli angoli bui
del suo garage. Me ne ero andato dopo nemmeno due ore, un po' perché
non ero dell'umore, un po' perché, fanculo, tanto valeva ammetterlo:
non avevo voglia di passare la serata incollato a qualche ragazza della
quale avrei quasi sicuramente dimenticato il nome il mattino successivo.
Raccattai da
terra una manciata di sassolini e li lanciai contro la finestra di
Elena.
Niente.
Ripetei di
nuovo l'operazione e, questa volta, passati alcuni secondi, Elena alzò
il vetro e cautamente si sporse in avanti per scrutare nel buio, anche
se l'ombra dell'albero al limitare del suo giardino, che si innalzava
fino al limitare del tetto, mi nascondeva completamente.
"Damon?" sussurrò incerta, pur senza
vedermi. Mi spostai di qualche passo finché non entrai nella sua
visuale e lei corrugò la fronte perplessa. "Cosa?…"
Le feci
cenno con la testa di scendere, indicandole la sua porta.
Inclinò
la testa di lato e mi rivolse con lo sguardo un muto Sul
serio?, scosse la testa e richiuse
la finestra con un colpo secco, poi si voltò e scomparve in una ventata
di capelli scuri. Lo avevo detto che mi avrebbe mandato a quel paese.
Era
passato quasi un mese, dal giorno in cui mi ero infine deciso a farmi
coraggio e ad andare a chiederle se davvero le parole impulsive dettate
dalla mia stupida competizione con il quarterback avessero per sempre
segnato la fine della nostra amicizia. Certo che no, era stata la sua risposta. Tre parole, ma
erano state abbastanza.
Non riuscivo
ancora a digerire del tutto il suo nuovo ragazzo, né tantomeno quel suo
amichevole e completamente non odiabile sorriso alla famiglia Brady che
sapevo io dove glielo avrei volentieri infilato. Ma non potevo. Non
dopo che Elena si era intestardita a metterci entrambi seduti ad un
tavolino del Grill per farci conoscere meglio, costringendomi ad
iniziare a chiamarlo per nome (Matt. Nome stupido, no?) e ad andarci
d'accordo. Cosa che tra l'altro era fin troppo facile da fare, dato che
il tizio (Matt. Il nome, dannazione) era un maledetto cucciolo di
labrador. E come cavolo fai a prendere a calci un cucciolo di labrador?
Fatto sta
che il cucciolo (Matt) le sottraeva buona parte del suo già limitato
tempo libero, ed io avevo le briciole. In un certo senso, quello aveva
cambiato qualcosa nel nostro rapporto, nel modo in cui avevamo piano
piano iniziato ad avvicinarci di nuovo, a cercarci nei momenti più
impensati. Non in peggio. Solo … diverso. Come se tutto tra noi fosse
più prudente. Meno banale. Più indispensabile.
Rimasi
appoggiato con la spalla contro una colonna del portico con le mani
infilate nelle tasche ad aspettarla scendere finché, qualche minuto
dopo, l'ingresso non si aprì gettando un triangolo di luce gialla sulle
assi di legno della veranda.
"Cosa ci fai
qui?" mi domandò, socchiudendosi la porte alle spalle e venendomi
incontro. "E' quasi mezzanotte."
"Ti va di
venire in un posto?"
"Adesso?…"
La circospetta incertezza della voce, però, si accompagnò al barlume di
vivace curiosità che le accese gli occhi, facendoli sfavillare
anche al buio. "Dove? …"
Piegai le
labbra in un mezzo sorriso. "Ti fidi di me?"
E' la prima volta che vedo Elena dopo la mia totalmente intempestiva
idea di baciarla sul portico di casa sua e già i miei sensi, i miei
pensieri, la mia razionalità … fanno bip e vanno in corto circuito.
Non mi ha visto, quindi
probabilmente la cosa migliore per tutti sarebbe ignorarla e continuare
a dirigersi verso l'ingresso. Certo non appoggiarmi con le braccia
incrociate contro lo stipite della porta, ad osservarla mentre se ne
sta in punta di piedi sulla piccola scala, piegata appena in avanti con
le braccia allungate per sorreggere un nuovo quadro straboccante di
girasoli da piazzare in uno spazio vuoto accanto al camino.
Lei e quella sua brutta
abitudine di indossare gli shorts. Lei e quelle gambe, slanciate e
adesso leggermente in tensione. Lei e …
Ok, ecco come stanno le cose. Ho
cercato in tutti i modi di non pensare a quel bacio. Tanto pazzesco,
quanto impossibile da ripetere. Dopotutto, ho fatto una promessa, no?
E, d'accordo, è vero che il mio
cervello non è di per sé mai stato molto collaborativo quando si tratta
di smettere di pensare a lei, ma qualcuno mi conceda almeno la scusante
di quanto sia ancora più dannatamente difficile mantenere quella
promessa quando solo vederla (non solo le gambe, ma la perfetta
rotondità che le corona, la spalle che sbucano dalla larga maglietta
bianca traforata, l'estremità della coda che dondola sulla curva della
nuca) basta per riportare a galla lo stesso identico afflusso di sangue
alla testa nonché a tutto il reso delle mie estremità.
Del resto, quel bacio non ha
fatto altro che confermare ciò che già sapevo. Ovvero che sotto a tutto
quel suo atteggiamento da "fare-la-cosa-giusta" - perché dio ce ne
scampi che possa concedersi qualcosa che non la faccia sentire sempre
in controllo di tutto - Elena è fuoco, di quelli quieti e silenziosi
che sono solo brace finché non divampano all'improvviso. E dopo che a
ricordarmi questa cosa ci hanno pensato le sue mani che si aggrappavano
strette tra i miei capelli come se ne andasse della sua vita, la sua
schiena arcuata contro il mio corpo fino a che non ho avvertito
nient'altro che le piccole punte indurite dei suoi capezzoli, e quel
sommesso, eccitante, suono che si è lasciata sfuggire dalla parte più
profonda della gola … beh, dopo che Elena ti bacia così, non è
esattamente una passeggiata dimenticarsene e tornare a recitare il caro
vecchio gioco dell'indifferenza.
"Care, sbrigati, non posso stare
qui tutto il giorno!" grida, voltando la testa di lato.
In tempo per vedermi, e
sorprendermi ancora intento a sbirciare le curve di quei maledetti
shorts. Mi vede e reagisce: occhi spalancati, labbra socchiuse … Un
cerbiatto colto alla sprovvista.
"Ehi," la saluto piano.
"Ehi …"
Si guarda attorno, cauta. Non sa
chiaramente cosa fare, impossibilitata a lasciare la sua posizione a
causa del quadro che altrimenti rischierebbe di cadere a terra. Dovrei
forse restare fermo dove sono, a studiare le sue reazioni
contraddittorie alla mia presenza? Probabilmente dovrei.
Invece entro in sala e mi
avvicino, lasciando che Elena mi segua con lo sguardo, afferro il
quadro per lei e la aiuto ad appoggiarlo delicatamente per terra.
Mi accenna un "grazie" mentre
scende dalla scala.
"Non pensavo … cioè, non sapevo
…" Si sposta dalla fronte una ciocca sfuggita dalla coda, evita il mio
sguardo e tira fuori un sospiro che sa di scuse che non mi deve e che
soprattutto non mi va di sentire. "Non sapevo che tu fossi qui."
"Io ci vivo qui."
"Sì, lo so, voglio dire …" Due
ciocche da risistemare, ancora qualcosa all'altezza della mia spalla
che deve sembrarle particolarmente interessante. "Caroline aveva detto
che di solito sei sempre fuori. Altrimenti, se lo avessi saputo, non
sarei mai venuta."
Questa è stata crudele … Ma
immagino che il fatto di eclissarmi dalla sua vita, implichi anche
questo. Una politica zero contatti.
"Così non vuoi neanche vedermi,
o rischiare di incontrarmi. Lo terrò a mente."
I suoi occhi scattano di colpo,
in un riflesso incondizionato, verso il mio volto.
"Cosa? No, io …Dio, Damon, non è
questo che intendevo. Ho solo pensato … che forse eri tu quello che non
aveva voglia di vedermi." Pronuncia le ultime parole cautamente, in
attesa della mia reazione, e dopo un ultimo attimo di esitazione,
aggiunge così semplicemente da far male, "Io ci tengo a te. Questo non
cambia."
E' la risata del karma quella
che sento? Eccolo qui, il vero grosso fottuto problema. Perché una
parte di me quasi vorrebbe che non fosse così. Renderebbe tutto molto
più facile. Prego, Elena, unisciti a Katherine nel club delle stronze.
Riunioni infrasettimanali, cocktail e stuzzichini inclusi.
Peccato che facile non rientri
nel mio vocabolario. Peccato che lei sia Elena, che io sappia che lo
intende per davvero, e che anche in questo frangente io non possa farle
una colpa per questo.
"Sto bene, Elena. Sono un
ragazzo grande, so incassare un rifiuto."
Scuote appena la testa. "Non
avrei mai dovuto lasciare che le cose diventassero così incasinate tra
noi."
"Come ho detto: ragazzo grande."
Tiro un angolo delle labbra
verso l'alto per sottolineare la mia frase, e lei fa lo stesso di
rimando.
Per un breve attimo, ho quasi
l'impressione che questa cavolo di situazione di sentimenti scombinati
e male assortiti possa davvero funzionare: io imparerò di nuovo a
togliermela dalla testa e a pensare a lei solo come ad un'amica, lei si
preoccuperà per me dispensando consigli per arginare la mia costante
promiscuità sentimentale, e ci ritroveremo tutti insieme a riderci su
al primo compleanno del figlio di Stefan e Caroline.
Poi Elena piega il viso di lato
per sbirciare oltre le mie spalle e quell'abbozzo di sorriso sul suo
volto … puff, svanisce all'istante.
Quando mi volto, Katherine è
appena saltellata giù dall'ultimo gradino della scalinata, vestita solo
della maglietta blu che indossavo io ieri sera e che a malapena arriva
a coprirle il sedere.
"Buongiorno!"
Incrocia le mani sopra la testa
per stiracchiarsi e scoprire l'altro pezzo del suo abbigliamento, una
brasiliana di pizzo nero che le incornicia le natiche meglio che a una
modella su una copertina di Playboy, prima di gettarmi entrambe le
braccia al collo ed iniziare a fare le fusa più false di tutto il suo
repertorio.
"Perché ti sei alzato così
presto? Avremmo potuto fare il bis. O tris, o … non lo so, penso di
aver perso il conto ieri notte?"
Mi libero della sua presa con
una smorfia ed uno scatto infastidito delle spalle.
Quando poso di nuovo gli occhi
su Elena, noto che ci sta guardando con una specie di strano orrore
incredulo, la bocca semi-spalancata e le braccia adesso conserte
intorno al petto.
E' un secondo, in realtà, non
molto di più, quello in cui incrocio il suo sguardo e vedo tutto il
mondo che ci passa dentro, il cambiamento da ferito, tradito, a
schifato, ed infine … così incazzato che non so neanche come dovrei
reagire.
E' vero che solo qualche sera le
avevo detto che di Katherine non poteva fregarmene di meno e adesso è
appena balzata fuori seminuda dal mio letto … Ed è vero che, per un
momento, penso quasi di partire con tutte le giustificazioni del caso,
con l'intero pacchetto "ero-ubriaco-e-triste" … solo che poi, beh, era
o non era lei, quella che ha messo in chiaro come stanno le cose come
tra noi?
"Allora, ho trovato solo questi
due di martelli, secondo te quale …" Ci voltiamo tutti di scatto verso
Caroline, che sbuca sulla cima delle scale di ritorno dalla cantina,
con un martello in ognuna mano. Si ferma a rivolgere uno sguardo
disorientato a tutti i presenti "…. Cosa sta succedendo qui?"
"Devo andare," si affretta a
dire Elena, mentre si piega a riprendersi la borsa che aveva posato sul
divano, con un scatto secco che trabocca di furia trattenuta. "Avevo
dimenticato … Devo essere al Grill."
"Ma avevamo appena cominc-"
protesta Caroline.
"Mi dispiace, Care. Ti chiamo,
ok?"
Si avvia a passi decisi verso
l'uscita, senza guardarmi in faccia, ma assicurandosi di scontrarmi
piuttosto violentemente contro la spalla nel passarmi accanto. Vedo lo
scenario del primo compleanno di mio nipote dissolversi nell'aria con
un ultimo, scoppiettante, sbuffo di fumo.
Lo schiocco del portone che si
chiude con forza riecheggia ancora nella sala, quando mi volto
minaccioso verso Katherine, che invece dal canto suo alza infastidita
gli occhi al cielo con fare melodrammatico.
"Oh, ti prego!" mi anticipa.
"Come se non ti avessi appena fatto un favore. Quell'espressione da
cucciolo preso a calci con cui la guardi non ti dona. È solo patetico."
"Ti hanno nutrito a pane e zolfo
da bambina, vero? Perché spiegherebbe un sacco di cose."
"Se tu ti decidessi a firmare
quei cavolo documenti che ti ho portato, stai tranquillo che non
dovresti vedermi mai più, perché sarei fuori dai piedi in un batter
d'occhio!"
"Non ti dò tre quarti del mio
patrimonio!"
"Guarda che un milione e
duecentomila dollari sono una cifra perfettamente ragionev-"
Un colpo secco così violento da
far tremare il pavimento, ci fa sobbalzare entrambi e voltare in
direzione di Caroline, che ha appena scaraventato entrambi i martelli a
terra sul tappeto e ci sta guardando entrambi con una paurosa violenza
assassina.
"La prossima volta …" scandisce
gelida, prendendo un profondo sospiro come per imporsi di controllare
la sua reazione, e poi indicando prima me e poi Katherine con il dito
indice. "Questi finiscono contro le vostre teste. Non vi sopporto più!"
Caroline lascia la stanza
battendo i piedi con un rumoroso click-clock inviperito, ed anche io
esco incazzato di casa, maledicendo Katherine, il giorno in cui l'ho
incontrata, me stesso e la mia fottuta incredibile capacità di
rovinarmi sempre con le mie stesse mani.
"Allora …" cominciò Elena,
sistemandosi meglio in avanti per appoggiare i gomiti sulla sottile
balaustra di metallo. "… adesso mi dici perché siamo qui?"
Mi strinsi
nelle spalle e mi appoggiai all'indietro contro la parete della
struttura, il cui freddo metallico mi percorse la schiena anche
attraverso la giacca di pelle.
"Mi piace la
vista."
Elena posò il mento sulle mani, incrociate
una sull'altra.
"E' una
bella vista."
Sotto di
noi, aguzzando lo sguardo, era ancora possibile intravedere nel buio la
sagoma spigolosa della Camaro, parcheggiata a pochi metri dalla vecchia
torre cisterna dell'acqua su cui ci eravamo arrampicati, su per la
sottile scaletta di metallo mezza arrugginita, usando come unica luce
quella di una torcia di scorta che avevo recuperato dal vano
porta-oggetti. Ci eravamo seduti sul parapetto di quella costruzione
imponente e fuori uso che non aveva mai fatto davvero paura a nessuno,
con le gambe che dondolavano nel vuoto e nell'immobilità silenziosa
della notte.
Più avanti,
in lontananza, semi-nascosto dai rami degli alberi, si apriva
l'agglomerato compatto del centro città, ingoiato dall'oscurità informe
tutto attorno e puntellato dai bagliori più brillanti
dell'illuminazione cittadina e da quelli più fievoli delle case, che
continuavano a spegnersi mano a mano che la notte avanzava.
Elena
inclinò la testa per posare il viso sui suoi gomiti incrociati sulla
ringhiera, rivolgendolo verso di me. Sulle sue labbra comparve l'ombra
di un sorriso leggero e sereno che mi affondò dritto tra il petto e lo
stomaco, e da lì ne tirò come sempre fuori corde e appigli che non
sapevo neanche come diavolo facesse a trovare.
"Venivo qua
spesso con Stefan quando eravamo ragazzini. C'è un piccolo fiume là più
avanti," glielo indicai allungando un braccio. Anche se era impossibile
vederlo nel buio, era comunque possibile sentirne lo scroscio
tranquillo e costante in lontananza, "dove mio padre ci portava tutti
gli anni, di solito appena iniziava la primavera. E' vicino alle
cascate, ma non è grande o troppo profondo, così si può davvero fare il
bagno senza essere trascinati via. Solo che io e Stefan ci
allontanavano sempre per venire fin qua, salire in cima e guardare ciò
che c'era sotto. Mio padre, ogni volta, si incazzava da morire."
Elena si
sporse appena, per dare una sbirciata verso i venti metri di vuoto
sottostante.
"Non è
pericoloso?"
"A undici
anni, sono cascato da quasi metà scalinata e mi sono rotto un gomito.
Frattura esposta. Un inferno."
"Sei un
incosciente," commentò scuotendo appena la testa. "Un maledetto
incosciente."
Scoppiai a
ridere di fronte al tono solenne con cui lo disse.
"Sono
seria!" ribatté con convinzione. "Avresti potuto farti male gravemente."
"Ma non è
successo."
"Quindi,"
asserì dopo essersi lasciata sfuggire un sospiro di rassegnazione ed
essere tornata a posare il mento sulle mani, "Siamo qui per
ripercorrere le malefatte del piccolo Damon."
"No.
Siamo qui perché è il mio compleanno. O meglio," mi corressi subito,
sbirciando l'ora sul display luminoso del mio cellulare che tirai
brevemente fuori dalla tasca, la mezzanotte passata da quasi quaranta
minuti. "Ieri era il mio
compleanno."
Elena si
raddrizzò di colpo, la bocca dischiusa per la sorpresa. Uno avrebbe
pensato che la reazione successiva fosse farne uscire un bel "Oh, buon
compleanno!", magari con tanto di bacino sulla guancia, ed invece no,
ciò che seguì fu un dolore acuto ed improvviso sulla spalla, dove venni
colpito dal suo pugno piccolo e preciso che non avevo neanche
minimamente visto arrivare.
"Ouch!"
reagii, massaggiandomi con la mano il punto colpito. Che cazzo se
faceva male. "Perché?!"
"Perché sei
un idiota!" esclamò infuriata. "Non posso credere che tu mi abbia
tenuto nascosto il fatto che era il tuo compleanno, per di più il tuo
diciottesimo! Ti avrei preso un regalo e avresti potuto avere una festa
e…"
"Non voglio
nessun regalo e di certo nessuna festa," la interruppi roteando gli
occhi al cielo. Quello era proprio ciò che avevo provato ad evitare in
tutto il giorno, regali e sorprese e altre stupide manifestazioni di
giubilo obbligato, quando io mi sentivo solo un giorno più vicino a non
sapere cosa cazzo fare per il resto della mia vita. "I compleanni sono
sopravvalutati."
"Ma avrei
potuto prepararti una torta!" continuò lei a protestare offesa.
"Allora l'ho
scampata bella," sogghignai.
Un altro
pugno, dritto nello stesso identico punto di prima, che riaccese subito
il dolore moltiplicandolo per dieci.
"Dannazione,
Elena! Sei così piccola, da dove diavolo ti viene fuori tutta questa
violenza?"
"Non
insultare le mie torte immaginarie. E' vero che non ci ho mai provato,
ma mia madre aveva anche vinto dei premi per la sua pasticceria, potrei
sempre avere un po' dei suoi geni, no?"
"Ok, va
bene!" concessi alzando le mani in segno di resa, perché, dio, davvero
avevo paura che potesse colpirmi di nuovo. "Allora facciamo che mi devi
una torta."
"Ti devo una
torta. E te la preparerò davvero ..." ribadì risoluta, ma finì per
esitare e lasciar cadere la frase. Poi sospirò e si lasciò anche lei
andare all'indietro contro la solida parete di metallo."… E, hai
ragione, quasi sicuramente sarà terribile."
Le diedi un
colpetto di conforto spalla contro spalla e mi piegai verso di lei per
bisbigliarle, "La mangerei lo stesso."
Sollevò il
volto, appena, verso di me. Sembrò di colpo così vicino. Così reale.
Semi-nascosto dalla notte, eppure così tangibile da poter intuire la
curva piena del suo labbro inferiore, il punto esatto dove disegnava un
mezzo sorriso. Da non vedere nient'altro.
Un lieve
tremito ci passò in mezzo. Il vento, probabilmente.
"Hai
freddo?" domandai, ma la voce mi uscì fuori così smorzata da non
suonare neanche come la mia.
Qualche
secondo di silenzio, prima che Elena si riscuotesse, alzando lo sguardo
verso di me.
"Un po' …"
Ritirò le
gambe e le rannicchiò piegandole sotto al suo corpo. Si avvicinò e, con
la semplicità che mi coglieva ogni volta di sorpresa, posò la testa sul
mio petto, su in alto, vicino alla spalla. Feci scivolare il braccio
attorno alla sua schiena, che mi sembrò piccola anche infagottata nella
giacca, e, per un po', restammo semplicemente così. Senza né parlare,
né sentire il bisogno di farlo.
Avevo
già chiuso gli occhi, quando le sue unghie presero distrattamente a
disegnare linee astratte sulla stoffa dei miei jeans, appena sopra
l'altezza del ginocchio.
Un'improvvisa
serie di tanti piccoli brividi partirono da lì, si diramarono ovunque,
finirono sparati dritti al mio cervello.
Non solo lì.
A tutti i miei sensi, svegli tutto d'un colpo e concentrati solo su
quello.
La
sua mano, il mio ginocchio. La sua mano, il mio …
Dannazione.
Dovetti ringraziare che il buio nascondesse la pronta reazione che
tutto ciò - in quell'attimo in cui me la immaginai salire più su, a
continuare ad accarezzarmi decisamente più in alto tra le mie gambe -
innescò nei miei pantaloni.
Ma non si
mosse di un millimetro da lì. Stranamente, io stesso mi ritrovai a
preferire che fosse così.
Avevo forse
quattordici anni l'ultima volta in cui mi ero davvero trattenuto, in
quel genere di situazioni, dall'agire in base a risposte fisiche per
portare appena possibile le cose al livello successivo. Forse neanche
allora.
Ma
quella era una cosa nuova. Non innocente, non oltre la linea.
Perché lei era Elena e, per una volta,
stare lì a godersi quel formicolio di eccitazione dato da un gesto così
semplice, senza nessuna prospettiva di ottenere qualcosa di più, era
meglio di qualsiasi altra cosa. Un gusto insolito appena scoperto che
non vuoi contaminare mischiandolo con nient'altro.
Mossi la
dita fino alla parte alta del suo braccio, che accarezzai sopra la
stoffa del suo cappotto, nel mentre pensando a come sarebbe stato farle
scorrere davvero a contatto con la sua pelle. Le feci salire tra i suoi
capelli, assaporandone lentamente la consistenza morbida e liscia sotto
i polpastrelli.
Il suo
respiro accelerò. Lo avvertii dal movimento del suo petto, dal ritmico
e più rapido pulsare del suo cuore contro il mio torace.
Come me ne
accorsi, mi fermai. Un altro pensiero mi attraversò il cervello.
Lei
non era mia. Era così
sbagliato da parte mia tenerla e accarezzarla in quel modo, senza
reclamarla come tale né sapere che linea stessi percorrendo, quando un
altro ragazzo, in una di quelle case in lontananza - un maledetto bravo
ragazzo, per di più - ne aveva molto
più diritto di me.
"Cosa ne
dice il tuo ragazzo del tempo che passi con me?" le chiesi, riaprendo
anche gli occhi per riemergere del tutto da quei pensieri sulla mia
migliore amica dal limite indefinito.
"Matt sa che
siamo amici," rispose a bassa voce. Una pausa, incerta. "E poi, è
diverso."
Aspettai,
qualche istante.
Un uccello
notturno, da qualche parte poco lontano, aveva iniziato a lanciare il
suo richiamo e rompere il silenzio.
"Diverso
come?…"
"Sai
…" cominciò, le unghie che avevano ripreso a disegnare i loro motivi.
Dovetti ricorrere ad uno sforzo di concentrazione enorme per non
ricadere negli stessi pensieri di poco prima. "Ci sono volte, piccoli
momenti, in cui penso davvero di essere innamorata di lui. Ma poi … non
ho neanche ancora compiuto sedici anni. Come faccio a sapere cosa vuol
dire essere innamorati? Però tu …" la sua voce sfumò in una nota più
intensa, e esitante al tempo stesso, che mi fece attorcigliare dentro
pur non avendo la più pallida idea di cosa stesse per dire. "… So che
non saprei cosa fare se tu non fossi qui. Mi sei mancato così tanto
quando abbiamo litigato. Nessuno scherzo idiota in mezzo a film
paurosi. Niente commenti maliziosi sugli altri genitori alle partite di
Jeremy. Niente fughe improvvisate da casa nel mezzo della notte. Sei
mio amico. In realtà, sei il mio migliore amico. Di te … ho bisogno."
Avrei
probabilmente dovuto rispondere qualcosa. Qualcosa di profondo,
qualcosa che un bravo ragazzo sensibile come il suo Matt non avrebbe
avuto problemi a tirare fuori. Ma niente - niente - di quello che avrei potuto dire sarebbe
mai suonata giusta o abbastanza in grado di esprimere quanto quelle
parole avevano appena significato per me.
Così non lo
feci. Invece, chiusi gli occhi, chinai la testa per lasciarle un bacio
tra i capelli e, dentro di me, promisi ad entrambi che questa cosa,
quello che avevamo, non lo avrei mai rovinato.
--------------------------------------------------------
Note:
[1]
Quartiere di San Francisco
[2]
Piccolo reminder che, negli USA, l'età legale per bere alcol ed entrare
in alcuni locali non sono i 18 ma i 21 anni.
Spazio
autrice
Buonasera,
care.
Prima di
tutto. A Bloodstream_, che mi
ha consigliato la bella canzone iniziale e incoraggiato spudoratamente
verso il fluff dell'ultima scena: ti devo una torta :)
Lo so, non succede quasi
niente in questo capitolo, che è molto più concentrato sui flashback
rispetto al presente ed è un po' più riflessivo del solito. Ma ho
pensato SL un po' come una storia di crescita, sia nel presente che nel
passato, e mi sembrava giusto che in questo caso il 18esimo compleanno
di Damon fosse il focus principale del capitolo.
Nei flashback, vedete fare la sua
apparizione, per la prima volta, anche miss
Charlotte-non-più-Salvatore, che nella mia mente ha un po' il visino di
Heather
Graham e che sì, ha lasciato
i suoi danni sia su Damon che su Stefan almeno quanto Ciuseppi. Sarei
molto curiosa di sentire che ne pensate di lei, dato che confrontarsi
con il "mito da fanfiction" di Mamy Salvatore fa sempre un po' paura e,
personalmente, non volevo renderla una figura nè troppo
idealizzata-perfetta, nè troppo negativa, come Ciuseppi del resto. Ho
un debole per le sfumature.
Inoltre,
sull'ultima scena: ho cercato di darvi un'idea dei vari strati che
compongono il rapporto tra teen Damon e teen Elena, che non ridurrei
mai nè solo all'etichetta di amicizia, nè solo a quella di
innamoramento, dato che è qualcosa che bene o male è rimasto radicato
in entrambi anche a distanza di anni. Spero di esserci riuscita, a voi
il giudizio.
Ed
è sdolcinata, lo so, ma ormai che
siamo dentro al fluff tanto vale esserci dentro fino in fondo, quindi
questa è la canzone che mi immagino come sottofondo
all'ultimo flashback.
Voglio
mandare davvero un ringraziamento speciale a tutte voi meravigliose
ragazze che mi accompagnate in questa storia con le vostre parole:
impiego sempre molto a portare a termine un capitolo perchè - anche se
il tempo è, come per tutte immagino, quello che è - questa è una storia
che cerco di curare molto, ed anche se il pubblico/le recensioni sono
diminuite, voi che siete rimaste avete sempre pensieri e riflessioni
talmente belle e interessanti che mi commuovete e mi ripagate di tutto.
Se sono ancora qui è grazie a voi.
Un bacio
|
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Capitolo 15 *** Wear me out ***
14
14.
Wear
me out
- Too young, too
frail
But
sometimes I feel
Like old
blue jeans
'Cause
you wear me out -
(Wear me out,
Skylar Grey)
Elena
"Cosa ne pensi di questo?"
Faccio
capolino dalla porta del bagno che si affaccia sul corridoio del piano
terra, senza smettere di tamponarmi i capelli bagnati dopo la doccia, e
sbircio verso ciò che Elijah mi sta mostrando. Osservo il cartoncino
color grigio chiaro che tiene tra le dita, con una sobria decorazione
nell'angolo in alto a destra ed entrambi i nostri nomi scritti in nero
in un carattere arzigogolato che dovrebbe risultare elegante ma a me
sembra solo complicato.
"Qual è la
differenza rispetto a quello di prima?"
"E' una
sfumatura più bluastra. Ed ha i bordi in argento."
"Non so …"
rispondo scrollando le spalle e gettando l'asciugamano bagnato nel
cesto della biancheria.
Vado a
sedermi accanto a lui, una gamba incrociata sotto l'altra ed i capelli
ancora umidi a rinfrescarmi le spalle. L'aria serale che filtra
attraverso le zanzariere dalla finestra aperta è ancora afosa quasi
quanto quella diurna, porta dentro un profumo dolce di gelsomino ma ben
poco sollievo.
Allungo le
dita per giocherellare distrattamente con il primo bottone della sua
camicia.
"Quello che
preferisci tu, per me è uguale."
Elijah posa
di nuovo entrambi i cartoncini sul tavolo. Quando torna a guardarmi ed
incrocio il suo sguardo serio, è il momento in cui capisco di aver
appena detto qualcosa di terribilmente sbagliato.
"Non ti
importa di che aspetto avranno gli inviti del matrimonio."
La sua non
è neanche una domanda, è una constatazione. Una constatazione davanti
alla quale rimaniamo per qualche istante entrambi in silenzio, forse in
attesa di una mia pronta negazione che però in questo momento non ho
davvero molta voglia di offrire.
Ammetto che
sia colpa mia. Nell'ultima settimana, ho insistito molto per procedere
in modo piuttosto accelerato con l'organizzazione del matrimonio, come
se concentrarmi su torte, fiori, scelta dei menù e altri dettagli di
poca importanza potesse aiutarmi a fare ammenda per tutto il tempo in
cui ho rimandato; come se potesse aiutarmi a non sentirmi uno schifo di
fidanzata ogni volta che lo sprazzo di un portico e delle mani di Damon
sul mio viso si fanno caparbie strada nella mia mente e … No. Non voglio pensarci un'altra
volta.
Le cose
stanno andando bene tra me e Elijah, davvero
bene. Non abbiamo più discusso, non una singola volta. Neanche quando
mi sono sforzata di mostrare entusiasmo di fronte a raffinate
degustazioni di dieci torte diverse, di fronte a piani studiati nei
minimi particolari per le decorazioni floreali del luogo della villa
ottocentesca fuori Richmond che sarà il luogo della cerimonia, e, in
generale, di fronte ad una ridicola quantità di dettagli e sprechi per
fare le cose in grande per cui io continuo a non vedere alcuna
necessità.
Solo che
stasera sono stanca. Sabato riapriremo il Grill e, dopo aver passato
tutta la giornata a spuntare la lista delle molte cose da fare per
renderlo di nuovo in uno stato presentabile adesso che i lavori sono
finiti, entusiasmarmi per un pezzo di carta mi sembra un'impresa
titanica.
"Sono solo
bigliettini …" dico stringendomi nelle spalle. "E poi, la maggior parte
delle persone che voglio invitare le vedo praticamente quasi tutti i
giorni. Davvero, mi va bene qualsiasi cosa."
Elijah si
scosta leggermente dal tocco delle mie dita, ancora posate sulla parte
alta del suo petto, e mi lancia un'occhiata sospettosa.
"Si tratta
di nuovo della lista, non è vero?" mi domanda.
Già, la lista.
Quella di tutte le persone invitate da parte sua al nostro matrimonio e
che tra poco rasenta il paragone con il censimento di un'intera
cittadina. Ho sempre avuto l'idea che un matrimonio dovrebbe essere una
cosa intima, riguardare l'amore di due persone … non le altre
quattrocento che stanno lì ad assistere. Sciocca ingenua che non sono
altro.
"Io non
conosco nessuna di quelle persone, Elijah."
"Non è
vero," mi corregge sporgendosi in avanti, il suo tono dolce,
conciliante. "Conosci mio fratello e mia sorella …"
Che ho
incontrato sì e no tre volte. Sua sorella, poi, probabilmente mi odia.
" … E anche
mia madre."
Che sicuramente mi odia.
"Ok, tre
persone su …" Mi costringo a non suonare troppo sarcastica. "…
Duecentoventi? Devi per forza invitarli tutti?"
"Se non
invito queste persone … Molte di loro potrebbero non parlarmi più. E'
importante per la mia famiglia, per il mio lavoro. Non posso non farlo.
Lo capisci, vero?"
Elijah
scuote la testa e si limita a sospirare, cosa che non mi fa sentire
meglio.
Così come
non mi fa sentire meglio il fatto che un mucchio di sconosciuti di cui
non mi importa niente saranno presenti al mio matrimonio e mia madre
no. E' un pensiero infantile, me ne rendo conto, perché so che non c'è
niente che possa davvero cambiare le cose. E' solo che … Mi sembra così
ingiusto.
"Lo
capisco," rispondo invece con un profondo respiro.
"Ehi,"
Elijah allunga la mano per afferrare la mia e attirarmi dolcemente
verso di sé. "Vieni qui."
Lo
assecondo, sedendomi sul suo grembo con le ginocchia ai lati del suo
torace, mentre la sua mano si posa carezzevole sopra la mia coscia
nuda, lasciata scoperta dal vestito leggero che indosso. Ma quando i
suoi occhi scuri guardano su verso i miei, il senso di colpa per quel
maledetto bacio mi attanaglia di nuovo lo stomaco con particolare
ferocia.
Di nuovo,
io lo metto a tacere, prendendo il suo viso tra le mani e chinandomi in
avanti per baciarlo con trasporto. La sua risposta non si fa attendere.
Le sue mani mi circondano la schiena e mi attraggono verso di sé e,
quando la sua bocca scende con fare esperto a lasciarmi baci caldi e
umidi lungo il collo, nei punti che conosce bene e che sa come usare
per farmi impazzire, il brivido di piacere che mi provoca mi fa davvero
pensare che posso farcela. Posso vivere con me stessa per aver baciato
un altro uomo e non averne fatto parola. Posso far tornare tutto tra
noi come era prima. Posso ancora avere soltanto lui nei miei pensieri.
"Voglio
darti tutto quello che desideri, Elena," mi sussurra tra un bacio e
l'altro, adesso più vicino al mio orecchio, mentre il familiare calore
dell'eccitazione provocato dalla frizione dei nostri corpi si fa sempre
di più strada tra le mie gambe. "Il grande matrimonio che sognavi
quando eri bambina … Ho visto tutti i tuoi ritagli, le fotografie e gli
appunti sulla tua scrivania."
Il mio
slancio si spegne come un fiammella soffiata via da un colpo improvviso
di vento.
Il famoso
"Libro Bianco" di cui sta parlando, quello che siede disordinato tra le
mie cose e che ho avuto a malapena modo di guardare, non è nemmeno mio:
è di Caroline. Qualcosa che ha iniziato a compilare quando eravamo
ancora alle elementari, il giorno in cui i suoi genitori hanno
divorziato, suo padre se ne è andato, e lei ha riversato in quel libro
tutto la sua frustrazione per qualcosa che neanche il suo precoce
disturbo ossessivo compulsivo poteva sistemare.
Uno strano
malessere mi invade la gola. Davvero non mi conosce abbastanza da
sapere che a me non importa granché di tutte queste cose?
Mi stacco
dalle sue labbra. Riapre gli occhi per guardarmi, da sotto in su,
disorientato dalla repentina interruzione.
"Quelle
raccolte …." inizio.
Ma quando
sto per rilevare la vera identità della loro proprietaria, il suo
cellulare suona da dentro la tasca dei pantaloni e la ritmica
vibrazione si riverbera tutta su per la mia coscia.
"Rispondi,"
gli dico con un sospiro, perché tanto so già che è lavoro e che, se lo
chiamano a quest'ora, sicuramente deve essere importante.
Elijah mi
lancia un'altra occhiata titubante per averne conferma, io annuisco e
scivolo via dalle sue gambe per tornare a sedermi sul divano, mentre
lui si sfila il telefono dalla tasca e si alza per rispondere.
Sbuffo non
appena si è allontanato, lasciandomi andare con la testa all'indietro
contro la spalliera. Non so quanto rimango così, con i capelli ancora
umidi che adesso mandano brividi gelidi lungo tutta la mia spina
dorsale e lo sguardo fisso sul soffitto, ad aspettare che Elijah
ritorni e che questo malessere indefinito che lascia uno strano sapore
in bocca se ne vada finalmente via.
Sento i
passi di Elijah tornare nella stanza e subito mi volto verso di lui,
che si è fermato vicino a me e mi guarda con la fronte appena corrugata
in un linea sottile. So già cosa sta per arrivare. Conosco quella
faccia. E' sinonimo di scuse, e imprevisti, e lavoro, e altre scuse.
"Cosa?…"
domando posando le mani sulle mie gambe incrociate.
"Erano
dalla Besunyen Holdings." Si rigira il telefono tra le mani, rilascia
un sospiro. "Vogliono liquidare le azioni di una sussidiaria alla
prossima riapertura della borsa, è una cosa urgente e devo-"
Non lo
lascio finire. Non m'importa di cosa deve fare, della borsa o di una
compagnia dall'altra parte del mondo.
"Ma è il
quattro luglio domani," protesto piantando lo sguardo su di lui, con la
sensazione di essere davvero una bambina in confronto alla sua figura,
al suo sguardo dispiaciuto, ai suoi impegni più importanti. "Eravamo
d'accordo che lo avremmo passato insieme …"
"Non hanno
il quattro luglio ad Hong Kong," risponde sedendosi sul bracciolo. Il
leggero sorriso un po' rattristato con cui lo dice ha l'unico effetto
di farmi sentire ancora più frustrata. "Mi farò perdonare, ok? Lo
prometto."
Lui
promette. Io annuisco. Il mio malessere rimane lì, a galleggiare appena
sotto la superficie dei miei pensieri.
***
La celebrazione del quattro luglio, quella ufficiale, si è sempre
tenuta nel solito posto da quando ho memoria, nella piazza principale
allestita con tanto di palco per commemorazioni storiche e concerto
finale di una qualche gruppo locale. Ma tutti sanno che la vera festa è
altrove.
E'
nell'ampia radura riparata dai boschi che costeggia, da ambo i lati, il
più importante dei vari corsi d'acqua creati dalle cascate piccole ma
dirompenti che cadono violente dalle montagne alle spalle della città.
E' dove ragazzi e ragazze - quelli che sono rimasti, quelli che tornano
dal college per le vacanze, quelli che sono solo di passaggio - si
danno ogni anno tacitamente appuntamento per aspettare la notte ed il
suo falò. E' qui dove la giornata scorre via tra il fumo di barbecue
improvvisati, tra l'odore intenso di lozione solare e spray
anti-zanzare, tra le risate e le tante musiche diffuse dagli ipod che
finiscono per mischiarsi in un un unico rumore di sottofondo, mentre i
boschi circostanti proteggono e riparano da tutte le interferenze
esterne.
"Quindi non
sei arrabbiata?" mi domanda Bonnie mentre stendo il mio telo sull'erba
accanto al suo, nello spazio vuoto che abbiamo appena occupato.
"Ovvio che
lo è," risponde al posto mio Caroline che, comodamente seduta sul
lettino che si è fatta trasportare dalla macchina a qui da un muscoloso
ragazzo a caso di passaggio, sta finendo di spalmarsi con cura sulle
braccia candide la sua preziosa crema ad altissima protezione.
Io mi
sdraio appoggiandomi sui gomiti piegati ad angolo, butto indietro la
testa e chiudo gli occhi verso il sole intenso che già brucia piano
sulla pelle delle gambe e della pancia lasciata esposta dal costume
multicolore che ho scelto di indossare oggi.
"Non sono
arrabbiata. E' lavoro," rispondo con fare pratico. "Immagino sia quello
che succede quando il tuo fidanzato è consulente finanziario in tre
diversi consigli di amministrazione. Ma va bene," aggiungo in fretta.
"Almeno così posso passare del tempo con voi."
Ed è vero.
Sono scaldata dal sole e sto bene anche se Elijah è da qualche parte in
un qualche ufficio a pianificare numeri e strategie. Non posso però
fare a meno di sentirmi un po' inquieta, quando mi ritrovo a chiedermi
se sarà lo stesso anche tra qualche mese. Se starò bene anche quando si
ripresenteranno situazioni simili, quando lui avrà da lavorare ed io
sarò lontana dalle mie amiche, da quella che è stata la mia vita fino
ad adesso, da ciò che già conosco.
"Io gli
farei ugualmente passare l'inferno," commenta decisa Caroline
calcandosi sulla testa un cappello di paglia e sdraiandosi contro il
lettino.
"A
proposito …" le chiedo girando la testa verso di lei. "Dov'è Stefan?"
"Doveva
passare dalla commemorazione giù in città, credo per parlare con un
paio di persone per via della compagnia, è così stressato per questa
cosa … Ma ha detto che ci raggiunge appena può." Caroline si interrompe
un attimo, prima di aggiungere con un sospiro. "Vorrei solo che si
decidesse a far pace con quell'altro testone idiota di suo fratello.
Seriamente, è più di una settimana che a malapena si rivolgono parola,
quanto diavolo possono andare avanti? Due idioti troppo cresciuti, ecco
cosa sono. Si vede proprio che condividono gli stessi geni."
Qualcosa mi
sfiora il piede. Riapro gli occhi ed uso una mano per farmi schermo dal
sole, proprio mentre Sage si china per riprendere il pallone bianco da
pallavolo che è rotolato fino al mio piede.
"Ehi!" la
saluto con un sorriso.
Mi piace
Sage. E non solo perché lavoriamo insieme, ma perché è dinamica,
diretta e dice sempre quello che pensa, tutte cose che ho avuto modo di
scoprire condividendo con lei quell'improvvisato viaggio in macchina di
dieci ore verso New Orleans.
Mi saluta
di rimando e si rialza in piedi. Un corto top nero a fascia le circonda
il seno piccolo e a malapena accennato e copre l'inizio di un ben
disegnato intreccio di gigli rossi che ha tatuato su tutto il fianco
sinistro, a partire da sotto le costole fino a dentro la cintura degli
shorts.
Quando il
suo sguardo si posa su Bonnie e quando Bonnie di rimando alza lo
sguardo su di lei, c'è un momento di silenzio più lungo del necessario.
"Alcuni
ragazzi stanno montando la rete in questo momento …" ci fa sapere
schiarendosi la voce e rigirandosi la palla tra le mani. Con un cenno
della testa indica lo spiazzo sabbioso più vicino alla riva, dove
alcuni ragazzi senza maglietta stanno finendo di tirare su una rete
portabile da beach volley. "Abbiamo ancora bisogno di persone. Volete
venire?"
"Io sì,"
accetto subito, usando una mano come leva per saltare in piedi.
"Negativo,"
scuote la testa Caroline, placidamente distesa, senza neanche aprire
gli occhi. "Ho fatto la manicure soltanto ieri, non ho intenzione di
rovinarla."
Sage si
volta, per un attimo esitante, verso l'altra mia amica. "B?…"
Bonnie è
rimasta in silenzio fino ad adesso, ma essere chiamata così sembra
all'improvviso avere un certo effetto su di lei, dal momento che subito
si alza in piedi, afferra il prendisole giallo abbandonato a terra poco
distante e se lo infila sulla sua figura piccola e formosa.
"Ho
dimenticato il telefono in macchina. Vado a prenderlo," butta là.
Si
allontana velocemente mentre Sage rimane interdetta a guardarla andare
via, ancora passandosi la palla da una mano all'altra.
Caroline,
beatamente ignara nel suo piccolo paradiso di sole, muove una mano
nell'aria come per dirle "ci vediamo tra poco".
Io tiro
fuori dalla mia borsa le chiavi della macchina che Bonnie non ha
neanche preso, mi infilo di nuovo le Converse al volo, e corro dietro
alla mia amica.
***
Risalgo la radura e poi il sentiero, in salita ed un po' scosceso, fino
alla strada principale e allo spiazzo che si allarga accanto ad essa.
Cammino in mezzo all'ingombro di macchine parcheggiate piuttosto
disordinatamente, dove la gente continua ad arrivare e a richiamare a
voce alta i cani che già corrono in libertà, finché non trovo Bonnie
appoggiata a braccia incrociate contro il fianco destro della mia
Toyota Prius.
"Bonnie …"
La mia
amica solleva lo sguardo su di me e, mentre mi sto ancora avvicinando,
scuote quasi impercettibilmente la testa.
"Non posso
farlo, Elena," confessa con gli occhi grandi e combattuti, lasciandosi
sfuggire un sospiro frustrato e amareggiato. "Non quando ogni volta che
sono intorno a lei, mi sento così …"
Confusa?
Sbagliata? Emozionata? Non ha neanche finito la frase, eppure io ho la
vivida impressione di avere un pronto repertorio a disposizione per
definire quel conflitto tra la ragione e quei sentimenti - quelli che
vorresti ma non riesci sempre a controllare - che continuano a
tradirla. Forse proprio perché, anche se le nostre situazioni sono
completamente diverse … ciò che ci tormenta, invece, non lo è poi così
tanto.
Bonnie
torna a rivolgere lo sguardo verso la terra battuta ai suoi piedi
accanto alla ruota anteriore dell'auto, che smuove nervosamente con le
punte dei sandali.
"Vuoi
parlarne?" le chiedo piano appoggiandomi allo sportello accanto a lei.
Torna a
guardarmi ed esita. Lo vedo nei suoi occhi un po' verdi e un po'
ambrati lascito del suo sangue misto, divisi tra il bisogno di farlo e
la paura di dire ad alta voce ciò che tacitamente sappiamo già entrambe.
"Bon, siamo
amiche dall'asilo, da quando Caroline giocava a fare la principessa e
noi eravamo le ancelle che dovevano eseguire tutti i suoi ordini," le
rivolgo un leggero sorriso. "Se siamo passate indenni da quello,
possiamo passare indenni da tutto."
Sorride
anche lei. Piccolo, un po' storto, ma è un sorriso.
"Abbiamo
iniziato a vederci poco dopo che ha iniziato a lavorare per te …"
inizia mordendosi le labbra. "Non avevo pensato che potesse essere
niente di serio, non all'inizio. Voglio dire, non lo è mai stato quel
paio di volte che … era capitato al college. Ma poi c'è stato New
Orleans, e tu e Damon ci avete viste e … Sono andata nel panico. Ho
iniziato a pensare, cosa direbbe mia nonna? Cosa direbbero gli altri,
chiunque altro? Questa è Mystic Falls, Elena. E' diverso. Le persone
sono … beh, lo sai come sono. E gliel'ho detto, che non posso farlo,
che non sono come lei."
Torno con
la mente alla loro conversazione del mattino dopo in quell'attico
arrangiato e inondato di luce, quella che ho ascoltato e rubato senza
averne diritto.
"Gay?"
tento titubante.
"Coraggiosa."
"Oh, Bon,"
dico con un sospiro ed una voglia pazzesca di stritolarla in uno di
quelli abbracci che lasciano il segno. "Tu sei quella che dice sempre
in faccia le cose come stanno, anche quando fanno male. Sei quella che
alle medie si è tinta i capelli di arancione come i miei, per non farmi
sentire sola dopo il disastro che avevo combinato quando avevo provato
a farmi bionda. Sei quella che ha tirato una ginocchiata nell'inguine
di Tyler Lockwood quando Caroline ha scoperto che stava con tre ragazze
contemporaneamente. Sei la migliore amica che si possa avere e la
persona più coraggiosa che conosca."
Non faccio
in tempo ad aggiungere altro che le sua braccia mi circondano la nuca
di slancio, abbracciandomi stretta, mentre io ricambio e faccio
altrettanto.
"Grazie,"
mi bisbiglia in un sussurro un po' spezzato, prima di rilasciarmi e
voltarsi immediatamente per passarsi il dorso di una mano sugli occhi,
asciutti ma appena scintillanti.
"E sai,"
continuo, dandole un colpetto spalla contro spalla e rivolgendole un
sorriso complice. "Ho davvero voglia di giocare a beach volley.
Andiamo?"
Bonnie
annuisce con un altro lieve sorriso ed insieme ci incamminiamo tra le
file di macchine parcheggiate, proprio quando un'altra auto, una Camaro
azzurra d'epoca con la capote abbassata svolta la curva e si infila in
un parcheggio vuoto a neanche una decina di metri da noi.
Mi blocco
sui miei passi e Bonnie si ferma con me, la conversazione dei due
occupanti dell'auto che ci arriva più nitida che mai.
"Ripetimi
di nuovo perché dobbiamo farlo," bofonchia Alaric mentre scende dal
lato del passeggero.
Damon mi dà
le spalle. I suoi capelli neri sono come sempre spettinati sulla nuca e
la semplice T-shirt bianca che indossa avvolge il suo torace così bene
da lasciarmi intravedere i contorni dei muscoli nella parte bassa della
sua schiena. L'importuno sfarfallio nella parte bassa del mio addome mi
coglie ancora una volta alla sprovvista quando il riflesso del sole
getta una sfumatura dorata sulla peluria del suo avambraccio, mentre
tira in aria e riprende al volo le chiavi della macchina; quando si
volta appena, solleva gli occhiali da sole sulla testa e le sue labbra
si tendono in un mezzo ghigno rivolto al suo amico, e solo vedere
quella leggera curvatura mi fa subito ripensare alla loro consistenza -
morbida, dolce e peccaminosa - contro le mie. Mi mordo l'interno della
guancia e mi impongo di fermare il corso dei miei pensieri prima che
possa andare troppo oltre.
"Perché non
puoi stare sempre dietro a computer e cose simili," ribatte. "Hai
bisogno di uscire. Goderti le meraviglie che questo posto ha da
offrire. E se la memoria non mi inganna, il falò del quattro luglio è
il posto ideale per questo … "
La sua
frase sfuma e la sua testa ruota di centottanta gradi quando due
ragazze in bikini che sembrano più fili interdentali passano loro
accanto e gettano uno sguardo malizioso ed una risatina in direzione di
Damon, che quindi alza un sopracciglio verso Alaric come riprova di ciò
che ha appena detto.
Faccio
roteare infastidita gli occhi al cielo, indecisa se cedere
all'improvvisa voglia di vomitare o prendere a calci qualcosa. O
qualcuno. Deve aver suscitato la stessa reazione anche in Bonnie,
perché la mia amica incrocia le braccia sul petto ed emette un sonoro
sbuffo di disapprovazione, abbastanza alto perché possano udirci.
Entrambi si
girano verso di noi.
Io però
vedo solo Damon. Resto intrappolata nel momento in cui i suoi occhi si
posano su di me, e quasi di riflesso scivolano in basso sul mio corpo
vestito solo del costume, il momento in cui le sue labbra si
socchiudono appena, la punta della sua lingua che esce fuori per
inumidirle.
Il mio
cuore fa un tuffo nel vuoto, il mio stomaco sfarfalleggia di nuovo, ed
io voglio scappare. Voglio sottrarmi a quello sguardo, almeno quanto
vorrei crogiolarmi in esso. Penso che deve smetterla di guardarmi così,
e che potrei prenderlo a schiaffi alla sola idea che possa guardare
così qualcun'altra.
"Sei
disgustoso," lo apostrofa Bonnie con una smorfia.
"Felice di
mantenere intatte ed incrollabili le tue convinzioni, Bonbon," replica
lui staccando finalmente gli occhi da me e muovendo una mano nell'aria
a mo' di sarcastico gesto da cavalier cortese. "Elena," mi saluta
quindi.
"Andiamo,"
mi fa Bonnie iniziando ad incamminarsi.
Io esito.
Perché, per quanto mi costi ammetterlo, c'è una cosa che devo fare, ed
ho paura che se non lo faccio adesso, se rimando ancora, poi non
lo farò più.
"Ti
raggiungo, Bon," le dico, sostenendo lo sguardo di Damon. "Dammi solo
un attimo."
La colpa in realtà è tutta di mio fratello. Avrei già seguito Bonnie,
se non fosse stato per lui e per ciò che mi aveva detto due giorni fa,
quando io ero seduta ad uno dei tavoli del Grill a revisionare fatture
mordicchiando una penna come una bambina che non ha la minima voglia di
fare i compiti per la scuola e Jeremy si era avvicinato, aveva preso
una delle sedie impilate sul tavolino di fianco e l'aveva piazzata
rivolta al contrario davanti a me, sedendovisi con i gomiti appoggiati
sopra la spalliera. La posa di Jeremy ogni volta che deve dirmi
qualcosa di importante.
"Ho
ricevuto questo ieri," aveva esordito tirando fuori dalla tasca
posteriore dei jeans e poi porgendomi un foglio piegato in quattro
parti.
Già nel
momento in cui avevo visto l'intestazione su in alto a sinistra e
quelle semplici parole in apertura della lettera, quel Siamo lieti di annunciarle …, non
ero più riuscita a trattenere la mia agitazione emozionata, lo scatto
con cui ero tornata a guardare mio fratello.
"Berkeley?…
Sei stato preso?"
Il
sogghigno che Jeremy mi aveva rivolto era stato così ampio da prendere
praticamente tutta la sua faccia. Ero già pronta ad alzarmi e a
lanciarmi in avanti, quando lui aveva alzato i palmi nella mia
direzione a mo' di avvertimento.
"Whoohoa,
ferma lì. Niente abbracci, 'Lena."
Ero rimasta
al mio posto, senza però trattenermi dal rivolgergli uno sguardo a metà
tra il rimprovero per la sua allergia a qualsiasi manifestazione di
affetto ed uno stupido sorriso di contentezza perché, diamine, il mio
fratellino è stato ammesso a Berkeley [1].
Ma quello
era stato anche il momento in cui avevo realizzato … Berkeley,
California. Dall'altra parte del paese. Dall'altra parte del
continente. E qualcosa mi si era piazzato di traverso in mezzo alla
gola, qualcosa che avevo dovuto ricacciare giù a forza per continuare a
parlare senza farmi tradire dalla mia voce.
"Sono solo
davvero contenta per te."
E non era
colpa soltanto dell'idea di separarmi davvero per la prima volta da
Jeremy. Era colpa anche di quella fitta di rimpianto e nostalgia al
pensiero della mia lettera di
accettazione a Berkeley, insieme a quella della NYU e a quella della
Duke, tutte finite da qualche parte in un cassetto a marcire, perché
Jeremy aveva dodici anni, mio padre riusciva a malapena a tirare avanti
e andarmene chissà dove per gli anni del college era uno scenario
semplicemente impossibile.
"Quindi,"
aveva proseguito grattandosi impacciato il retro della nuca, "Dovrei
seguire alcuni precorsi per poter poi frequentare quelli di ingegneria
informatica, quindi potrei dover andare un po' prima dell'inizio del
semestre. Ma ho parlato con Damon … ha detto che non è un problema,
posso andare a San Francisco e stare da lui-"
Quello sì
che era stato sufficiente a farmi riemergere tutto d'un colpo dai miei
pensieri.
"Aspetta.
Damon? …"
"Sì, Damon.
Ci vive là. Per di più, quel suo amico Alaric è un mezzo genio di
sistemi informatici e ho pensato che avrebbe potuto darmi qualche
dritta …"
E questo è il motivo per cui adesso mi ritrovo qui, di fronte a Damon
in questo parcheggio improvvisato, con le braccia incrociate
sull'addome a desiderare di essermi anch'io messa almeno un prendisole
e a cercare di mantenere un tono asciutto e sostenuto.
"Ti devo
parlare," esordisco.
L'ultima
volta che abbiamo avuto qualcosa di simile ad una conversazione è stato
prima di scoprire che tutto il mio tormento al pensiero di avergli
spezzato il cuore era stato eccessivo, inutile ed unidirezionale, dal
momento che aveva trovato subito una pronta consolazione tra le gambe
perfette della sua evidentemente-non-tanto-ex Katherine.
"Allora sai
ancora come si fa," replica ironico appoggiandosi contro il cofano
della Camaro, le gambe distese in avanti una incrociata sull'altra.
"Pensavo che le tue capacità di linguaggio nei miei confronti si
fossero drasticamente ridotte a quei "ciao" di circostanza che ti sei a
malapena degnata di rivolgermi quando mi hai incrociato per caso."
"Possiamo
evitare di farlo?" domando con uno sbuffo. Tre secondi a parlare con
lui e già me ne sto pentendo. Non so come ho fatto a pensare, anche
solo per un secondo, che mi avrebbe reso le cose più facili.
"Fare
cosa?" ribatte sollevando le spalle. Giunge le mani in grembo e rimane
lì, appoggiato contro l'auto a guardarmi con un vago, irritante,
sorrisino canzonatorio. "Rendere le cose tra noi ancora più
imbarazzanti?"
Serro le
labbra e mi avvicino a lui di un altro paio di passi, in modo da poter
contro-ribattere a voce più bassa ed evitare di correre il rischio che
qualcuno dei passanti possa sentirmi.
"Non è di quello
che volevo …" D'istinto, getto un'altra occhiata veloce occhiata oltre
la mia spalla ed abbasso la voce a poco più che un sussurro,
nell'irrazionale paura che possa passare qualcuno di mia conoscenza. "…
parlare. Anche perché, su quello,
non c'è niente da dire."
"Allora
vuoi spiegarmi finalmente cosa diavolo ho fatto per farti incazzare
così tanto? A parte baciarti,
ovviamente," bisbiglia di rimando mentre si sporge verso di me, sul
volto una sarcastica espressione finto-cospiratrice mentre pronuncia la
parola che io avevo cercato di evitare.
La traccia
calda e maschile del suo profumo mi raggiunge e mi solletica le narici,
facendomi pizzicare la pelle di un caldo formicolio, nello stesso
momento in cui i suoi occhi trovano i miei.
Ci sono
minuscoli, quasi impercettibili, sprazzi di verde dorato al centro
delle iridi, in mezzo a tutto quell'azzurro. Non è la prima volta che
lo noto. Ma il fatto che mi ci stia soffermando proprio adesso … il mio
petto si stringe in un misto di frustrazione e qualcos'altro, più
profondo e intenso, a cui non so dare una definizione. Lascio che a
prevalere sia la frustrazione.
"Perché mi
hai baciato dicendo di non provare più niente per lei!" sibilo in
risposta con un sussurro irritato. Mi pento di averlo detto nell'attimo
in cui quella frase lascia la mia bocca perché, davvero, suona così
stupido, ma sono anche talmente sollevata di averlo detto ad alta voce,
di averglielo finalmente rinfacciato, che una volta che le parole sono
fuori non riesco più a fermarle. "E solo due giorni dopo, scopro che ci
vai ancora a letto ... Alla faccia del non mi importa niente di lei,"
finisco sottolineando le ultime parole con una pessima e piuttosto
infantile mimica della sua voce.
"Quindi,
fammi capire bene," replica. Le sue labbra prendono una certa piega
beffarda. "Tu puoi baciarmi e poi scoparti e sposarti qualcun altro, ma
io non sono autorizzato a baciarti e scoparmi qualcuno che mi sono già
sposato?"
Sorride
quasi, come per compiacersi con se stesso per aver appena messo in luce
la gloriosa ironia della situazione. Ribatto con l'unica risposta che
si merita.
"Sei uno
stronzo."
Faccio per
voltarmi ed andarmene, ma Damon mi afferra per un polso e mi attira con
decisione contro di sé, facendomi ritrovare incuneata tra le sue gambe
leggermente divaricate. Gli lancio uno sguardo furibondo ed il mio viso
va a fuoco mentre tento di divincolarmi dalla sua presa, ma le sue dita
rimangono calde e strette attorno alla mia pelle.
"Oppure …"
prosegue in un tono basso, carezzevole e ironico che fa aumentare la
mia voglia di prenderlo a schiaffi ancora di più, " … sei tu che sei
gelosa."
Con un
altro scatto del polso, questa volta mi libero della sua stretta.
"E' per
questo che lo hai fatto? Per ripagarmi e divertirti a vedere come avrei
reagito?"
"Credici o
no, Elena," una punta di amarezza si fa strada nella sua voce, "Non
tutto ciò che faccio ha a che vedere con te. Avevo avuto una pessima
nottata. Anzi, una pessima settimana. Katherine era lì e, sì, sul
momento qualcuno laggiù ha
pensato che fosse una magnifica idea." Posa entrambe le mani sul bordo
del cofano ai suoi lati, prima di continuare, "E se proprio ci tieni a
saperlo … Me ne sono pentito più velocemente di quanto ci si metta a
dire oh, cazzo."
Faccio
finta che la sua risposta non mi tocchi, di non sentire quel piccolo,
sciocco, egoistico, moto di sollievo che mi fa provare il pensiero che
non abbia significato niente. La mia espressione rimane la stessa,
sostenuta e noncurante. Ma anche la mia pronta replica sferzante ha già
perso del tutto di smalto.
"Mi
dispiace che le tue scopate non siano abbastanza soddisfacenti."
Damon mi
guarda negli occhi come se sapesse che la sua rassicurazione non dovuta
ha colpito esattamente dove doveva colpire e, ancora una volta, si
protende in avanti, fino a pochi centimetri dal mio viso. Il mio
battito accelera in protesta.
"E le tue
lo sono?…"
Qualcuno
alle mie spalle si schiarisce rumorosamente la voce.
Ci voltiamo
entrambi verso Alaric, che è ancora ad un paio di metri di distanza da
noi, le braccia conserte al petto e la faccia di uno che preferirebbe
buttarsi dentro a un burrone piuttosto che stare qui.
"No, prego,
continuate pure senza fare caso a me, non capita tutti i giorni di
assistere ad una discussione tra due dodicenni con un tema tanto
sconcio."
Solo in
questo momento mi rendo conto di essere ancora nella stessa posizione
in cui Damon mi ha trascinato, in piedi tra le sue ginocchia, così
vicina a lui da sentirne ancora il profumo e il calore. Con così miseri
strati di aria e tessuto a segnare inesistenti distanze che, anche se
nessuna parte dei nostri corpi è davvero in contatto, quella sola
consapevolezza basta a bruciare più che un'effettiva aderenza.
Mi ritraggo
con uno scatto. Pongo di nuovo tra noi preziosi centimetri di
lontananza, che intendo ulteriormente cementificare dimenticando tutto
l'attuale discorso in cui mi sono ritrovata impelagata senza volerlo e
tornando allo scopo originale della conversazione.
"Jeremy mi
ha detto che ti ha parlato di Berkeley," dico prendendo un profondo
respiro e appuntandomi nervosamente una ciocca dietro l'orecchio per
mandare via del tutto anche gli ultimi residui dell'assurdo
scombussolamento che Damon Salvatore deve sempre provocarmi. "E che può
stare da te finché non si sarà sistemato al campus."
Damon
inclina appena la testa di lato, curioso, anche se non sembra
completamente sorpreso.
"Dunque sei
qui per dirmene quattro sulla pessima influenza che eserciterò su tuo
fratello?"
"Spero di
no," ribatto subito rivolgendogli un'immediata occhiata di ammonimento,
alla quale lui risponde con un veloce sorriso.
"Stavo
scherzando, mamma chioccia."
"Volevo
solo …" proseguo, sbirciando verso di lui da sotto in su. Dirlo mi
costa e mi libera al tempo stesso. "… Ringraziarti."
Il suo
"prego" ha la forma di un piegamento del capo a mo' di inchino.
Un piccolo
sorriso tenta di insinuarsi al di sotto delle mie labbra e farsi strada
per uscire, ma lo sopprimo perché, maledizione, stavamo litigando solo
fino a pochi secondi fa. Per non parlare di come devo chiaramente
sforzarmi di più per tenere sotto controllo le contraddittorie reazioni
che riesce sempre a tirarmi fuori.
"Le mie
amiche mi stanno aspettando, perciò … dovrei andare," mi affretto a
buttare là, iniziando ad indietreggiare e rivolgendomi a tutti e due,
Damon e Alaric, nel tentativo di far suonare il tutto meno strano.
"Partite di pallavolo, e cose del genere e … Beh, immagino che ci
vedremo lì. Entrambi, intendo. Se volete, non lo so. Come volete. Ci
vediamo."
Dopo questa
imbarazzante uscita, mi volto e mi incammino via in tutta fretta, il
respiro un po' corto, i passi accelerati, il sole e un ben altro genere
di calore a scaldarmi la faccia.
***
Damon aveva sempre avuto
l'incredibile, esasperante, capacità di mandarmi fuori di testa anche
solo per le più piccole cose: il pomeriggio in cui mi ero ritrovata ad
arrancare dietro di lui in un polveroso sentiero scosceso era
precisamente uno di quei casi.
"Damon!"
lo richiamai, gridando il suo nome con un sofferto e prezioso ultimo
sbuffo di fiato.
Damon
si voltò verso di me, senza smettere le leggera corsa sul posto che
apparentemente non sembrava richiedergli alcun vero sforzo. I suoi
occhi azzurri sembravano quasi brillare nella calda luce del tardo
pomeriggio che filtrava tra il fogliame degli alberi, ed anche con i
capelli spettinati scuriti dal sudore e quell'insopportabile accenno di
sorrisino gongolante sulle labbra era lo stesso così bello che in quel
momento lo detestai come poche altre volte. Io, al contrario, ero un
disastro di sudore, fatica e guance in fiamme.
"Ti
arrendi già?" mi domandò strafottente inclinando la testa di lato.
"Ti
odio," gli dissi guardandolo storto. Mi fermai per riprendere fiato,
piegandomi in avanti e posando le mani sulle mie ginocchia. "Mi avevi
detto che avremmo corso solo per altri cinquecento metri… Invece sono
quasi altri due chilometri!"
"Ho
davvero detto questo?…" chiese alzando un sopracciglio con fare
innocente, una chiara nota di divertimento ad attraversargli la voce.
Lo sguardo che gli lanciai in risposta,
invece, era tutt'altro che
divertito.
"Per
tre volte."
"Ehi,
sei tu che hai chiesto di venire a correre con me," rispose tranquillo,
tornando indietro verso di me, questa volta a passo normale. Nel vedere
avvicinarsi le sue gambe vestite dai pantaloni morbidi della tuta,
sollevai gli occhi da terra verso il suo viso, sul quale aleggiava
ancora quella irritante espressione di compiacimento per avermi appena
massacrato per quasi dieci chilometri di salite e discese in mezzo ai
boschi. "Ricordi?"
Ricordavo,
sfortunatamente.
Solo
qualche giorno prima, a scuola, mentre stavo pranzando insieme a Matt,
Caroline era piombata al nostro tavolo per informarmi tutta estasiata
che si era appena liberato un posto nella squadra di cheerleading ed
incoraggiarmi a tentare di entrarci nuovamente, come ai vecchi tempi.
Io avevo tentennato, ma anche Matt era sembrato favorevole all'idea,
così avevo davvero iniziato a considerarla come una possibilità. Forse
perché c'era qualcosa di stranamente confortante nel pensiero di poter
essere ancora quella ragazza là, quella con la divisa rossa, poche
preoccupazioni e pomeriggi passati a fare capriole in aria.
Ma
se volevo tornare in squadra, allora dovevo anche tornare ad allenarmi.
E dal momento che dei metodi dispotici con cui Caroline aveva cercato
di insegnarmi una coreografia ne avevo avuto abbastanza dopo una sola
giornata, avevo pensato che andare a correre con Damon potesse essere
una buona alternativa per fare esercizio senza ammattire troppo.
Beh,
stavo iniziando a rimpiangere Caroline.
"Questo
non ti autorizza a sfiancarmi a forza di inganni e false promesse,"
ribattei rialzandomi e assestandogli un pugno sul bicipite che lo fece
indietreggiare a malapena. "Avevi detto, parola di scout!"
Il
suo sogghigno di risposta mi fece soltanto esasperare ancora di più.
Tutta la mia frustrazione e adrenalina accumulata si tradussero
repentinamente in una serie di colpi maldestri contro il suo petto che
parò senza battere ciglio, senza neanche smettere di ridere.
Tutto
d'un tratto, afferrò entrambi i miei polsi nelle sue mani e, con un
movimento fluido, mi voltò e intrappolò stretta tra le sue braccia per
rendermi inoffensiva, con le mani bloccate sul davanti ed il suo
torace solido e accaldato a premere forte contro la mia schiena.
"Dovresti
saperlo," mi bisbigliò. Un piacevole brivido corse giù lungo il mio
collo nel sentire la sua bocca e il suo respiro accarezzarmi
l'orecchio. "Non sono mai stato un boy scout …"
Il
ghigno con cui lo aveva detto era ancora lì, a giocare sulle sue labbra
vicine alla mia pelle, quando la mia caviglia scattò all'indietro,
agguantando la sua e cogliendolo di sorpresa.
Avvertii
il momento esatto in cui le sue ginocchia cedettero e Damon perse
l'equilibrio con un'imprecazione soffocata, ma non feci in tempo a
liberarmi della sua stretta sui miei polsi, che mi impedì di scamparla
e mi trascinò dritta giù con lui. Rotolammo entrambi a terra, nel
terriccio sporco e polveroso che si appiccicò immediatamente ai miei
capelli sudati. Avvertii un vago dolore nell'impatto con il terreno, ma
ero troppo distratta per farci caso a causa della risata senza
fiato - la mia - che mi riempì le orecchie, nonché dell'impresa di
divincolarmi
per sottrarmi alla sua mano che aveva preso a solleticarmi il fianco
senza pietà, come punizione per averlo fatto cadere.
"Sei
finita …" lo sentii dire mentre ancora ridevo e mi dibattevo e lo
imploravo di smetterla.
Finché
la sua stretta non si allentò quel tanto che bastava per concedermi di
afferrargli i polsi, ribaltare i ruoli e bloccarlo a terra sotto di me.
A
cavalcioni sopra di lui, cercai di riprendere fiato, con il petto che
si alzava e abbassava seguendo il ritmo affannato del mio respiro.
Quando vidi tornare il sorrisetto sulle sue labbra non ebbi il minimo
dubbio che, nonostante le braccia distese ai lati della sua testa
tenute saldamente ferme dalle mie mani, se ero in una posizione di
vantaggio era solo perché me lo aveva lasciato fare.
Il
perché non avrei saputo dirlo.
Ciò
che però avrei saputo dire fin troppo bene era la confusa sensazione
che mi provocò l'improvvisa percezione del suo torace snello e asciutto
contro il mio ancora ansimante. In un solo attimo, fui più che mai
consapevole del modo in cui la maglietta sporca e sudata si era
appiccicata ai contorni del suo petto, del disordine di capelli sulla
sua fronte, delle due gocce di sudore sulla sua tempia, della sfumatura
particolare che assumevano i suoi occhi alla luce del sole, della
macchia di terra sul suo zigomo, della curva delle sue labbra, del suo
bacino tra le mie gambe … Di lui, tutto lui.
Ritirai
le mani di scatto con il battito a mille e la testa stordita, rilasciai
la presa e mi affrettai a scivolare di lato, via dal suo corpo,
sentendomi una stupida e sperando con tutta me stessa che non avesse
notato il modo in cui d'un tratto mi si erano infiammate le guance. Non
potevo sopportare l'idea di cosa avrebbe potuto pensare di me o delle
battutine che avrebbe potuto fare, se solo lo avesse notato.
Ma
non disse niente.
Restammo
sdraiati vicini in mezzo al sentiero, fino a che entrambi i nostri
respiri agitati dalla corsa e dalla lotta non tornarono ad un ritmo
normale, e con essi tornò normale anche tutto il resto, compresa la mia
agitazione. Era di nuovo solo Damon accanto a me.
"Stavo
pensando …" disse piano dopo ancora qualche attimo di silenzio, "Perché
lo stai facendo?" Si girò verso di me, sollevandosi su un fianco e
appoggiandosi sul gomito, ed io gli rivolsi un'espressione
interrogativa non capendo a cosa si stesse riferendo.
"Questa
stupida cosa delle cheerleader. Ti ho visto ieri provare con la tua
amica bionda. Avevi un'aria abbastanza depressa."
"Beh,
una volta mi piaceva fare la cheerleader," mi strinsi nelle spalle.
"Era divertente. Ho pensato che forse … se mi ci dedico un po', può
essere di nuovo così."
"E
perché dovresti sprecare il tuo tempo su una cosa del genere?" domandò
storcendo appena le labbra, "Le cose cambiano. Forse … tu sei cambiata."
Il
mio petto si strinse un po' a quel pensiero. Non era dolore vero e
proprio, quanto più una voglia ed un bisogno ed un'impossibilità di
evadere dal sapore amaro di perdita e conseguenze che continuavo a
portarmi dietro senza sapere come dargli voce.
Invece
di rispondere mi alzai in piedi e mi scrollai la polvere dai pantaloni,
evitando di dovermi confrontare con il suo sguardo e di ammettere che
forse aveva ragione, che le cose erano cambiate ed io con loro, perché
poi avrei anche dovuto ammettere quanto ardentemente desiderassi che
invece non fosse così.
Eppure
la sera chiamai Caroline, per dirle che avevo cambiato idea. Ed
incredibilmente, mi fece mi fece sentire molto più leggera.
***
Qualcuno butta altra legna nel falò gigante che arde qualche metro più
avanti. Le ombre aranciate che il fuoco getta tutto intorno si
intensificano e si diffondono insieme alla fiammata rinvigorita che ne
esce fuori e colora la notte.
La mia
mente scivola via di nuovo, a domandarsi dove sia Damon. Non posso
farne a meno. La sola idea della sua presenza in questo posto, per
quanto abbia provato ad ignorarla e a non pensarci, è stata in grado di
distrarmi per tutta la giornata, anche nei momenti meno opportuni.
Durante l'improvvisata partita di pallavolo, ho perso almeno tre
palloni che sarebbero caduti direttamente tra le mie braccia per poter
controllare con brevi occhiate nervose se per caso era scomparso da
qualche parte con una brunetta che si era avvicinata a lui ed Alaric.
(Non lo
aveva fatto. Non che mi sarebbe importato.)
Sono
riportata al momento presente dalla risata divertita in cui scoppia
tutto il gruppo, quando Luke inizia a raccontare le peripezie della sua
settimana come babysitter della capra che fa da mascotte alla squadra
di football della sua università.
Mi scosto
da una spalla i capelli che ho lasciato sciolti per buttarli
all'indietro e sorrido anche io. Alcuni ragazzi attrezzati addirittura
di consolle hanno fatto partire della musica di sottofondo sulla quale
in molti hanno già cominciato a ballare e c'è davvero una bella
atmosfera nell'aria, di quelle che ti fanno sentire bene e parte di
qualcosa, anche se la maggior parte di queste persone con cui sto
passando la serata non avevo neanche idea di chi fossero fino qualche
ora fa. Alcuni sono amici di Sage, altri - come Luke e la sua gemella
Liv - semplicemente improvvisati compagnia di squadra conosciuti oggi
stesso.
Caroline
l'abbiamo data per dispersa fin dal momento in cui è arrivato anche
Stefan, ma ho il sospetto che siano quelle due figure sdraiate sopra
una coperta una decina di metri alla nostra destra che, anche negli
sprazzi di luce che salgono dal fuoco quando una scintilla scoppia nel
buio, rimangono praticamente indistinguibili l'uno dall'altra.
Bonnie è
seduta sopra un tronco a poca distanza da me, si mordicchia un'unghia
che copre parte del suo sorriso, anche lei intenta ad ascoltare le
ragioni per cui non dovresti mai lasciare una capra vicino ai tuoi
appunti di biochimica.
Sage torna
portando tra le mani alcune bottiglie di birre fresche che distribuisce
in giro. Scuoto la testa quando mi si siede accanto, tra me e Bonnie, e
me ne porge una.
"Di solito
non bevo," le faccio sapere.
"Quindi … "
solleva le sopracciglia stupita della mia risposta e mi rivolge un
sorriso scherzoso, " … chi era quella ragazza che ballava sui tavoli
facendo impazzire un intero locale?"
Rido e
arrossisco allo stesso tempo di fronte a quel ricordo, coprendomi il
volto con un mano, forse ancora incredula che potessi davvero essere io.
"Quella …
Era la proverbiale eccezione."
"Sai cosa
non capisco?" mi chiede, voltandosi un attimo per prendere la canna che
qualcuno alla sua sinistra le ha appena passato. "Hai quanto,
ventiquattro anni? Insomma, sei giovane, sei bella, sei divertente …
perché mai sposarti così presto?"
"Lo dici
come se il matrimonio fosse la fine di tutto questo …"
"Oh, no,
non penso questo," scuote appena la testa e prende una lunga boccata.
La soffia fuori allungando la mano che tiene lo spinello verso quella
sagoma indefinita che presumo sempre di più essere Stefan e Caroline, a
giudicare dallo sprazzo di capelli mossi e un po' dorati che lui le
scosta dal viso prima di tornare a baciarla di nuovo. "Insomma, guarda
quei due. Potrei vederceli ad avere tutto il pacchetto. Staccionata,
minivan e bambini biondi. Tu … Lo so che non ci conosciamo da molto, e
lo so che puoi tranquillamente dirmi che non sono affari miei, ma da
quel che ho visto … Tu sembri fatta per qualcos'altro."
Lo sguardo
mi cade automaticamente sull'anello che circonda il mio anulare, che
luccica nel buio all'ombra del fuoco.
Non che la
sua domanda non mi sia già stata fatta prima. Da mio padre, da Jenna,
dalle mie amiche, dal ragazzo delle consegne, dall'aspirante scrittore
che viene a passare a Mystic Falls tutte le estati, si siede sempre nel
terzo tavolino da destra ed ogni anno da cinque anni mi propone di
sposarlo e scappare con lui. La risposta era sempre stata la stessa,
senza neanche stare a pensarci più di tanto: un tranquillo "lo amo"
accompagnato da un veloce sorriso. Questo era solo poco più di sei mesi
fa. Adesso … Penso più a come Elijah è riuscito a farmi sentire con la
sua equilibrata presenza nella mia vita, a come con lui avessi
finalmente avvertito di potermi innamorare di nuovo e questa volta non
restarne tanto dolorosamente scottata.
"Beh, lui
me lo ha chiesto, ed io … " rispondo. "Non volevo perderlo."
Sage mi
osserva senza dire niente per un po', attraverso la sottile striscia di
fumo profumato che sale su dalle sue dita adesso che ha posato il mento
sulla mano, ed il cui sapore dolciastro mi invade piacevolmente le
narici.
"E' più
grande di te, vero?"
"Trentacinque,"
preciso, per poi affrettarmi ad aggiungere. "Ma non è così tanta
differenza, davvero, voglio dire io…"
Mi
interrompo quando noto che Sage mi sta adesso porgendo la canna,
tenendola in verticale tra il pollice e l'indice. Esito, guardandola
spaesata.
"Io … Io
non ho mai provato."
Lei
distende le labbra in un sorriso lento, un po' annebbiato, un po'
divertito.
"Un'altra
proverbiale eccezione?"
Ancora un
po' incerta la prendo dalle sue dita tenendola fra l'indice ed il
medio. In fondo, cosa sarà mai? Il filtro ha quasi toccato le mie
labbra, quando qualcuno si materializza dal niente, si sporge da sopra
di me e me la ruba velocemente di mano.
"Ehi!" mi
volto per protestare contro l'ignoto ladro che, nel frattempo, dopo il
suo furto si è seduto affianco a me.
Ma il mio
cuore perde un battito, o forse anche due, nell'attimo in cui mi trovo
davanti i suoi inconfondibili occhi azzurri.
"Tu …"
sussurra Damon scuotendo appena la testa, con un esageratamente finto
fare deluso, l'angolo un po' dispettoso delle sua labbra piegato verso
l'alto, come se oggi si fosse particolarmente intestardito a mandarmi
completamente fuori di testa, "… bambina cattiva."
Le sue
parole, ed il gusto proibito che hanno acquistato scandite dalla sua
voce, rimangono un secondo di più sospese nell'aria tra noi, nella
sfumatura ambrata che il riflesso del fuoco regala alle sue iridi
cristalline. Mi riverberano dentro fin nel sangue che sento scorrere
più in fretta e - mentre guardo le sue guance ritirarsi e svuotarsi
quando ne prende un lungo tiro, e poi il fumo che soffia via dalla sua
bocca e si dissolve nella notte - devo mordermi il labbro inferiore
fino a che non sento dolore pur di calmare quell'istinto nel mio corpo
che sta urlando per avere un assaggio.
Me la porge
nuovamente dopo quell'unico tiro, ed io non ci penso due volte a
sfilarla dalle sue dita e portarmela alle labbra.
Pessima
mossa. La mia gola rifiuta immediatamente la nuvola di fumo che aspiro,
asfissiandomi la trachea. Tossisco violentemente con il corpo in avanti
ed i capelli che mi cadono sugli occhi, subito pieni di lacrime.
Intorno a me sento almeno un paio di persone iniziare a chiedere se io
stia bene. Una mano si posa sulla mia schiena.
"Sta bene,
è solo la prima volta," li rassicura Sage.
Qualcuno le
fa eco alzando la propria bottiglia di birra e proponendo il brindisi
"Alle prime volte!", che fa subito ripartire la conversazione.
Con la mano
libera mi asciugo le ciglia e quindi mi volto verso Damon. Solo quando
lo faccio mi rendo conto che sua è la mano sulla mia schiena … il palmo
aperto contro il retro dei miei polmoni, quelle due dita che escono dai
confini della mia canotta, sfiorandomi la pelle nuda e intrecciandosi
tra i fili dei miei capelli rimasti sulla schiena. I nostri occhi si
incontrano di nuovo. La sua mano si ritrae.
"Dovresti
inalare normalmente," mi dice curvando appena le labbra e scostandosi
di nuovo quel tanto che basta per ristabilire le giuste distanze.
Lo faccio.
Il secondo
tiro brucia sempre, ma è più piacevole.
Al terzo
riesco a sentire il retrogusto dolce che mi rimane in bocca dopo aver
espirato.
Dopo, c'è
solo leggerezza.
Sto ridendo così tanto che mi fa male il petto, mi fa male lo stomaco,
mi fa male il respiro, eppure né riesco a smettere né ho davvero
intenzione di farlo, anche se devo appoggiarmi un'altra volta contro
Damon dal momento che, pur essendo seduta, la cosa continua a farmi
perdere l'equilibrio.
Adagio la
schiena contro il suo braccio teso all'indietro, vagamente consapevole
che se cadessi soltanto di pochi altri centimetri, ad accogliermi
sarebbe invece il suo torace. Il mio petto si scalda al solo pensiero,
ed io non ho alcuna voglia di combattere la sensazione.
E' strano.
Come se stare seduti qui nel buio in mezzo ad un mucchio di sconosciuti
che non sanno niente di noi fosse quanto di più vicino a lui potrò mai
permettermi di essere. Solo per uno sfioramento del suo braccio contro
il mio, pelle contro pelle. O per un suo commento sarcastico sussurrato
nel mio orecchio. Non c'è niente di sbagliato in questo. Forse è il
buio. Rende più giusto essere accanto a lui. Lo ha sempre reso più
giusto, in qualche modo.
"Sei fatta."
"Cosa? …"
Alzo di
scatto il volto verso Damon, verso il divertito mezzo sorriso che piega
le sue labbra.
"Non sono
fatta!" ribatto con la mia migliore espressione indignata.
Lui prende
un piccolo sorso dalla sua bottiglia di birra. Quel mezzo sorriso è
ancora lì.
"Guarda, ti
faccio vedere," dico decisa.
Mi metto in
ginocchio e mi siedo sui miei talloni, fronteggiandolo con
un'espressione seria e determinata rovinata purtroppo dal sorriso che
continua a strattonarmi gli angoli della bocca e che non riesco a
sopprimere del tutto. Dannazione. Ricordo vagamente la prova che
include il naso ed il dito indice, qualcosa sul toccare entrambi nello
stesso momento ... O forse quello era per l'alcol? Beh, immagino che si
dovrà accontentare.
Poso
l'indice sinistro sul mio naso ed allungo l'altra mano per toccare con
un dito la punta del suo. Damon scoppia a ridere in un suono basso e
vibrante, che mi sembra così bello e prezioso da farmi solo venire
voglia di ridere per tutta la notte, per il resto della mia vita.
"Dio, sei
così …" inizia a dire, ma non finisce mai la frase.
La sua
risata si smorza non appena il suo sguardo trova il mio, quando la sua
espressione si trasforma in qualcos'altro, in un lampo trasparente di
desiderio e rimpianto così vivo e immediato che non ho nessuna
possibilità di sfuggirgli. Anche il mio sorriso cambia, soprattutto
quando le sue dita raggiungono le mie invitandomi ad abbassare i miei
indici, e nel giro di un secondo quel gioco stupido non c'è più.
Ci siamo
noi. Il buio. Sconosciuti attorno. Il fremito nel mio petto. I suoi
occhi. Desiderio e rimpianto. E così tante altre cose che mi sembra di
esplodere dentro.
"Elena."
Sussulto
quando qualcuno mi tocca la spalla.
Mi volto
verso Bonnie che si è inginocchiata accanto a me. La mia amica lancia
una veloce occhiata seria verso Damon e poi, con un cenno della testa,
mi indica qualcos'altro, una sagoma che riconosco come familiare a
circa una ventina di metri in lontananza.
Si piega
per avvertirmi a bassa voce, "Elijah è qui."
***
Elijah gira le chiavi nel quadro della macchina. Il rumore smorzato del
motore si spegne, la luce dei fari sul vialetto muore con lui, e
nessuno di noi due accenna a scendere dell'auto.
Restiamo
qui a riempirla ancor più di silenzio, entrambi guardando avanti verso
la flebile luce che illumina il portico di casa mia.
"Sei
arrabbiato?" gli chiedo infine.
"Ne ho
motivo?"
Il fare
calmo con cui mi rigira la domanda mi infastidisce in un modo che non
avrei mai creduto possibile.
"Non hai
praticamente detto niente da quando siamo saliti in macchina," gli
faccio notare.
"Intendi
sul fatto di raggiungerti a quella festa perché mi mancavi, e trovarti
… strafatta?" pronuncia la parola con un misto di incredulità e
disappunto. "Cosa ti aspetti che dica?"
Mi lascio
sfuggire una smorfia, che però gli nascondo voltandomi verso il
finestrino. Di sicuro, non mi sento fatta in questo momento. Ho una
fame insistente che mi fa scalpitare lo stomaco ed una imminente
pesantezza pronta ad incombermi sugli occhi, ma qualsiasi cosa io possa
aver provato quando ero ancora accanto a quel fuoco se ne è andata da
un pezzo. E' solo una pressante irrequietezza ciò che adesso mi sta
mangiando dentro.
Sento
Elijah muoversi e cambiare posizione nel sedile. L'attimo dopo la sua
mano prende la mia, invitandomi a voltarmi a guardarlo. Sono
vigliaccamente grata che la penombra mi nasconda lo sguardo.
"Elena …"
inizia con un piccolo sospiro che mi irrita e mi fa male al tempo
stesso, perché per quanto non si meriti questo trattamento scostante da
parte mia, al momento non riesco a riservargliene altri. "So che ne
abbiamo già discusso e che probabilmente è solo una stupidaggine, ma …
ci sono momenti in cui continuo ad avere la sensazione di non aver idea
di cosa ti passi per la testa. E non voglio che accada di nuovo come
qualche settimana fa, quando te ne sei andata da un giorno all'altro
invece che parlarmi di come ti sentivi. Se ci fosse qualcosa, qualsiasi
cosa, che non va… me lo diresti, vero? Non mi mentiresti."
"Non c'è
niente che non va," rispondo piano, e mi sento una pessima bugiarda
nell'attimo stesso in cui le parole lasciano la mia bocca.
Ma qual è
l'alternativa? Non posso certo dirgli che sì, ho baciato un altro uomo
e che non riesco a smettere di pensarci, che continuo a riviverlo nella
mia testa in ogni attimo, ogni battito, ogni tocco. Perché dirlo ad
alta voce, anche solo una volta, cambierebbe le cose tra noi per sempre.
E mentre
nella penombra lo guardo negli occhi, pensando a tutto ciò che non gli
posso dire, per un momento quasi temo che lo capisca anche lui, che
veda davvero attraverso la mia menzogna.
Ma non lo
fa.
Il sollievo
quando non dice niente però, quando vedo nel suo sguardo che mi crede,
è di breve durata. Somiglia più ad una speranza delusa.
Elijah mi
lascia andare la mano per tornare ad appoggiarsi contro lo schienale
del guidatore, con le dita che sfiorano i contorni del volante. Neanche
volessero accertarsi che siano in ordine anche quelli. Almeno quelli.
"Devo dirti
una cosa," prosegue quindi cautamente. "Dalla Besunyen vogliono che mi
occupi di persona di alcuni disposizioni. Devo andare ad Hong Kong."
Si gira
verso di me, in attesa di una mia reazione.
Solo che io
non ne ho nessuna. La mia mente è solo una stordita pagina bianca.
Sbatto le
palpebre un paio di volte, mentre lui si sporge nella mia direzione per
accarezzarmi la guancia.
"E' solo
per una decina di giorni, due settimane al massimo. Sarò di ritorno a
parlare di torte nuziali prima che tu abbia il tempo di accorgertene."
Tenta
perfino un sorriso.
"Va bene,"
mi sento dire.
Poi prendo
la sua mano, la stringo appena nella mia mentre la allontano dal mio
viso, e scendo dalla macchina.
Non ho
neanche più voglia di discutere.
—————————————————
Note
[1]
In realtà, nel sistema Usa, le risposte per le ammissioni al college
(che si mandano un anno prima) arrivano verso fine inverno/inizio
primavera prima dell'inizio dei corsi, che di solito è fine agosto. Qua
siamo a luglio, quindi riconosco che come tempistica non sia veritiera,
mi sono presa una piccola licenza.
Spazio
autrice
Lo so, sono pessima. E' passato un mese dall'ultimo aggiornamento ed io
ho quasi paura che di questa storia ve ne siate ormai dimenticate.
Purtroppo,
io e lei siamo state un po' in crisi nell'ultimo periodo, poi c'è stato
il season finale (per cui sono ancora qui a piangere tutte le mie
lacrime ogni volta che lo shuffle mi fa partire Wings a tradimento) ed
un pov Elena - quello di questo capitolo - a cui non è stato facile
dare voce.
Al
di là della lunga attesa, spero che il capitolo non vi abbia annoiato,
dato che mi pare di capire dagli animi di chi commenta che la dinamica
Elena/Elijah non sia esattamente tra le preferite ... Ma mi
sembra lo
stesso giusto dare spazio anche al loro logorio di coppia in crisi, e
poi il Delena dovrebbe controbilanciare. :) In
ogni caso, sappiate che se volete potete tirare fuori quella bottiglia
di champagne d'annata che stavate tenendo da parte per l'occasione: vi
confermo che Elijah davvero non sarà in circolazione per un po' …
Mi
dispiace davvero tanto di non riuscire a rispondere in tempi brevi alle
meravigliose recensioni che siete così gentili e adorabili da
lasciarmi, ma
- ve lo dico con il cuore - mi bevo ogni vostra singola parola e ne
faccio tesoro, sempre e comunque. Sono un sostegno indispensabile,
soprattutto quando, appunto, mi capitano capitoli come questo che anche
senza motivi precisi mi fanno andare in piena crisi e pensare che tutto
faccia schifo.
Quindi
un grazie immenso per il vostro insostituibile supporto!
A presto!
Bacio
|
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Capitolo 16 *** Are you mine? ***
15
15.
Are
you mine?
- And I go crazy 'cause here isn't
where I wanna be
And
satisfaction feels like a distant memory
And
I can't help my self, all I
Wanna hear her say is "Are you mine?"
-
(R U Mine, Arctic Monkeys)
Damon
Dò la colpa a Ric.
Dò la colpa
a lui e a quella brunetta studentessa di medicina per cui mi ha
scaricato ieri sera, lasciandomi da solo a quel maledetto falò in mezzo
al bosco dove le uniche scelte rimaste per una compagnia alternativa
erano: rimorchiare una ragazza carina a caso tra le tante per cui non
avevo alcun interesse; passare del tempo con un fratello al quale non
so cosa dire; cercare colei dalla quale continuo a ripetermi di stare
lontano ma chiaramente senza mai impegnarmi abbastanza.
Qualcuno
che indovini cosa ho scelto.
Così, come
risultato, dò la colpa al mio migliore amico anche se so che dovrei
darla soltanto a me stesso, se poi ho passato la notte praticamente
insonne con ancora addosso l'odore del fuoco ed ancora in testa la
presenza di Elena.
Presenza
che continua testarda a rimanere lì, sebbene io stia correndo per
sentieri isolati ormai da più di un'ora pur di scaricare tutta la
frustrazione, sessuale e non, che la cosa mi provoca.
Giro una
curva, inizio a sentire l'indolenzimento dei muscoli e mi incazzo di
nuovo, quando ripenso all'espressione che le era scivolata sulla faccia
nel momento in cui era arrivato il suo fidanzato. Perché odio vedere quell'espressione sul volto di
Elena, e ancora di più odio chi gliela procura. Ma, nonostante questo,
neanche lo sfizio di cedere alla pruriginosa voglia di alzarmi e
prenderlo a pugni mi sono tolto. No, sono rimasto lì accanto al fuoco
dove solo fino ad un minuto prima c'era anche lei, a guardarla
allontanarsi e andargli incontro. A guardarli parlare con le facce
incupite dal buio. A guardarli andare via insieme.
E, come se
tutto ciò non bastasse, ci si era messa di mezzo pure Bonnie che,
vedendomi in quel modo, mi aveva persino rivolto un quasi sorriso e
allungato una birra a mo' di compassionevole e temporanea offerta di
pace. Cosa che mi porta a chiedermi: quando cazzo è stato il momento
che mi ha portato a ridurmi in uno stato tale da impietosire perfino
Bonnie Bennet?
Quando è
stato il momento in cui ho concesso ad Elena di infilarsi in pensieri e
desideri che non posso neanche permettermi di avere, solo per un
fottuto istante, e poi non sono più stato capace di tornare indietro?
Quando è stato di preciso che Elena mi ha così brutalmente fottuto il
cervello, come già aveva fatto una volta, eppure in questo modo così
nuovo, viscerale e prepotente che è come se fosse la prima?
Sono un
bagno di sudore quando infine svolto di nuovo verso casa, ma continuo a
non aver scaricato proprio un bel niente.
Il mio
umore migliora leggermente solo quando, dopo una doccia di proposito
più fredda del solito, scendo le scale e mi avvicino alla cucina, dalla
quale proviene un celestiale odore di uova strapazzate e salsiccia
arrostita che può solamente essere opera di Caroline.
Sono
momenti come questi, quelli in cui mi rimangio i miei dubbi sulla
sanità mentale di mio fratello riguardo ai suoi gusti in fatto di
fidanzate.
Ma anche il
miraggio di beatitudine che si prospetta per il mio stomaco è di breve
durata.
L'arrivo di
un messaggio mi distrae un solo attimo prima di mettere le mani sulla
colazione avanzata. Tiro fuori il telefono dalla tasca dei jeans.
Mi
annoiavo, quindi sono andata a fare shopping. Ho preso la tua carta di
credito ;)
Katherine.
Non faccio in tempo a maledire lei e quella cazzo di faccina che
ammicca, che un altro messaggio compare subito sotto.
Oh,
e anche la tua macchina ;)
Eppure era
un bravo ragazzo, diranno di me il giorno che le stacco davvero la
testa dal collo. Anzi, forse no, neanche quello.
"Fottiti,
Katherine," impreco al vento contro il display dell'iphone prima di
lanciarlo sopra il bancone.
"Se cerchi
la tua dolce metà, non è qui," commenta altezzosamente Caroline alle
mie spalle.
Mi volto
per vederla entrare in cucina con l'aria compunta e il naso all'insù,
come palese ed esagerata dimostrazione del suo sdegno nel vedermi.
"Potrebbe
inciampare ed infilzarsi su un coltello arrugginito per quel che mi
riguarda," replico asciutto. "Non che io stia dando velati suggerimenti
al riguardo."
Mi appresto
finalmente a prendere un piatto per riempirlo di cibo ma, come allungo
il braccio verso la padella, qualcosa mi colpisce violentemente il
dorso della mano facendomela ritirare all'istante. Sollevo stupefatto
lo sguardo verso Caroline, che mi ha davvero appena schiaffeggiato con
una rivista arrotolata come si fa con i mosconi.
"Quello non
è per te," mi fa sapere, incrociando decisa le braccia sul petto e
lanciandomi uno di quegli sguardi che promettono morte e distruzione
per chiunque osi contraddirla.
"Perché?"
le domando frustrato.
"Lo sai
perché!" esclama stizzita.
Oh, per
l'amor del cazzo. E' passata più di una settimana e ancora non mi ha
perdonato il grave torto di non averle detto prima di Katherine. O
forse il sommo crimine di averle tolto la soddisfazione di poter dire
la sua al riguardo, o forse quello ancora peggiore di averle rubato
l'irripetibile occasione di poter essere la prima signora Salvatore di
questa generazione. Valla a capire.
Lei storce
le labbra, va a sedersi su uno degli sgabelli che circondano il bancone
di marmo chiaro e mette davvero molta enfasi nel non guardarmi ed
iniziare a sfogliare la rivista di gossip che ha tra le mani.
"Non puoi
rimanere arrabbiata con me per sempre, Care," le dico roteando gli
occhi al cielo.
"Smettila
di chiamarmi Care," ribatte piccata sfogliando una pagina con
particolare accanimento e fingendosi poi completamente concentrata
sulla lista dei dieci divorzi più costosi di sempre. Molto
divertente, Barbie.
"Care è per
gli amici, è per i familiari …" prosegue, "Non per i bastardi bugiardi
come te."
"Andiamo,
non ho mentito su Katherine!" mi difendo. Voglio davvero mettere le
mani su quella colazione. "Ho solo … evitato di parlarne."
Caroline
alza la testa e mi osserva offesa a bocca aperta, neanche l'avessi
appena schiaffeggiata in faccia.
"Sei
impossibile, Damon!" Chiude di scatto la sua rivista e per un secondo
temo quasi che possa lanciarmela addosso. "Quale razza di deficiente si
sposa di nascosto senza farne parola con suo fratello? Oh, aspetta. Tu."
Incontra i
miei occhi e, per un momento, la sua furia indignata cade per cedere il
posto a qualcos'altro, un moto ferito che traspare anche dalla sua voce
che adesso si è fatta piccola piccola e che mi fa davvero sentire il
bastardo bugiardo che mi ha appena accusato di essere.
"Come hai
potuto, Damon? Escludere me e Stefan da una cosa così? Pensavo che ci
tenessi a noi, voglio dire, lui è tuo fratello ed io pensavo …
che mi considerassi almeno un po' tua amica. Invece, contiamo davvero
così poco per te?"
Ha vinto.
Non c'è niente con cui posso davvero controbattere di fronte ad
un'accusa come questa, se non con la verità.
Così, con
un sospiro, vado anche io a sedermi su uno sgabello proprio di fronte a
lei. Caroline mi osserva con curiosa cautela per qualche secondo e poi
torna in fretta a riaprire il suo giornale e a tuffarci dentro la
faccia.
"Hai
presente il semestre in Europa?" le chiedo.
Caroline
non mi guarda, ma annuisce leggermente con la testa.
Per chi
conosce bene lei e mio fratello, "semestre in Europa" è la comune
parola in codice per indicare la più grossa crisi che la loro relazione
abbia mai avuto, quando - durante l'ultimo anno di Stefan al college,
quello prima di entrare alla Tuck Business School [1]
- neanche loro avevano retto alla pressione dei nuovi ambienti e della
distanza, con lui nel New Hampshire e lei al Whitmore. Si erano
lasciati tra le lacrime poco prima delle vacanze di primavera, ed io lo
so bene perché Stefan si era presentato alla mia porta dall'altra parte
del paese con il ciuffo ammosciato e un borsone sulla spalla, rimanendo
a campeggiare sul mio divano per due settimane di alcol e occhi lucidi
ogni volta che qualcosa gli faceva tornare in mente lei, il che
avveniva piuttosto spesso. Dopodiché, aveva preso ed era partito per
Parigi in uno scambio di sei mesi, portando il suo cuore spezzato il
più possibile lontano dalla sua bionda crisi esistenziale.
"Beh, è
stato in quel periodo che ho incontrato Katherine," continuo.
Caroline mi
sbircia da sotto in su oltre il bordo della rivista e mi basta quello
per sapere di aver ottenuto il suo interesse. Corrugo la fronte, mentre
tutto inizia a tornarmi in mente in un collage frammentario di pezzi e
sensazioni passate che a distanza di tempo sembrano quasi appartenere
alla vita di qualcun altro. Le notti scatenate fino all'alba, la totale
perdita di concentrazione su qualsiasi cosa non fosse lei e,
soprattutto, quel perenne senso di euforia, come un'iniezione di droga
senza fine. Eccetto che una fine ce l'aveva eccome e, come con le
droghe, è solo quando l'effetto finisce che vedi le cose per ciò che
erano veramente.
"Pensavo
che fosse meravigliosa," le dico. "Sexy, divertente, irraggiungibile.
Mi fece impazzire. Ho pensato davvero … E' solo con lei che voglio
stare. Anzi, molto più probabilmente non ho pensato affatto. Ero in
quel municipio due mesi dopo averla conosciuta. Altri tre mesi, e non
la potevo più soffrire. Lei si scopava il suo coreografo, ed io passavo
le notti nei bar a bere e scoparmi … beh, chiunque. Poi una mattina se
ne è andata, non ne ho più avuto notizie, ed ho iniziato a respirare di
nuovo."
Caroline ha
finalmente smesso di far finta di leggere quella stupida rivista e ha
gli occhi tutti concentrati su di me, in avida attesa del resto.
"Non l'ho
detto a Stefan perché non volevo sbattergli in faccia quanto io fossi
pazzamente innamorato mentre lui era dall'altra parte del mondo a
struggersi per te, e non l'ho detto a Stefan quando è tornato perché …"
scrollo lo spalle e scuoto la testa, "Non c'era più niente da dire."
"E lo sei
ancora …?" mi domanda lei, sporgendosi in avanti fino al bordo dello
sgabello. "Pazzamente innamorato di lei?"
"Dio, no!"
"Ma ci sei
andato a letto."
"Nel caso
ti fossi persa il promemoria, tendo ad andare spesso a letto con donne
di cui mi importa meno di zero."
Caroline
sbuffa sonoramente ed alza gli occhi al cielo.
"Questo è
quello che ti piace ripeterti. Ma ti importa, Damon, lo so che è così,"
afferma annuendo seria con la testa. "Perlomeno … la maggior parte
delle volte, o nel tuo modo contorto, o quando si tratta di certe
persone. E questo mi porta alla mia prossima domanda …"
"Penso che
tu abbia preso questo breve e - fammi essere chiaro - molto una tantum,
molto irripetibile, momento di confidenze un po' troppo sul serio,
Care, se pensi davvero che io abbia voglia di stare qui a-"
"Cosa sta
succedendo tra te ed Elena?" butta fuori velocemente prima che io abbia
il tempo di finire e, soprattutto, di fermarla. "Voglio dire, lo so che
sta succedendo qualcosa, anche se non so cosa perché nessuno qua si
preoccupa mai di tenermi aggiornata su niente a quanto pare,
seriamente, perché non mi dite più le cose? Ma oh mio dio il modo in
cui la guardi, e lo so che lei non lo ammetterebbe mai e poi mai perché
è Elena e lo sai come è fatta Elena, ma il modo in cui ti guarda quando
pensa che nessuno se ne stia accorgendo, e poi quando …"
I miei
occhi si spalancano sgomenti di fronte alla valanga di parole che
Caroline ha iniziato a sputarmi addosso, così velocemente che non so
neanche più cosa stia dicendo, so solo che adesso ha iniziato anche a
contare qualcosa sulle dita (ho timore di sapere cosa), dispiegandole
in avanti una per una.
"…. e poi è
andata così fuori di testa quando ti ha visto con Katherine, perc-"
"E' il mio
telefono quello che suona?" La interrompo alzandomi così di fretta che
faccio quasi cadere all'indietro lo sgabello ed indico il mio cellulare
dall'altra parte del bancone, muto e immobile come un sasso. Dove
diavolo sono molestatrici come Katherine quando ne hai bisogno? "Sono
sicuro che sia una chiamata davvero importantis-"
"Sai,
Damon," Caroline mi afferra per un lembo della maglietta e mi ritira
giù, perentoria. "Se chiedi la mia opinione …."
"Cosa che
non ho fatto …"
"…. Elena
sta facendo un errore," conclude lei imperterrita. "Con questa cosa del
matrimonio, intendo. Ma …" alza le mani in aria in un sarcastico gesto
di resa, "… Nessuno qua vuole darmi retta."
E questo
dovrebbe farmi sentire meglio? Perché non è così.
"Hai
finito?" le domando invece.
"Non
ancora."
Si alza
dalla sedia, perdendosi così la smorfia esasperata che rivolgo al
soffitto, si dirige verso i fornelli e torna indietro con un piatto
colmo di cibo ancora caldo, il cui profumino mi solletica
deliziosamente le narici quando me lo passa sotto al naso. Quando però
allungo la mano pensando giustamente di essermi finalmente guadagnato,
dopo tutto questo supplizio, il diritto ad essere nutrito per decreto
di Caroline Forbes, lei lo solleva in alto per metterlo al sicuro fuori
dalla mia portata e mi lancia un'altra occhiata di ammonimento.
"Ora, per
l'amor del cielo, promettimi che vai a parlare con quel testone di tuo
fratello, perché io non ne posso più. Sta come un cane ma non lo vuole
ammettere, e di conseguenza se ne sta sempre lì a rimuginare ancora più
del solito. Non costringermi a chiudervi in una stanza e buttare la
chiave finché non risolvete le vostre questioni. Sai che ne sarei
capace. Allora?"
Inspiro
profondamente e le rivolgo uno sfiancato cenno di sì con la testa.
Lei mi
mette il piatto davanti e sorride soddisfatta. "Adesso, ho finito."
In ogni caso, non è vero che non parlo con mio fratello.
Caroline
deve esagerare e fare la Barbie Melodramma come al suo solito.
Gli dico
"Ehi" ogni volta che lo incrocio in giro per casa. Lui dice "Ehi" in
risposta. Una volta, abbiamo anche avuto una conversazione di un minuto
e mezzo, quando non riusciva a trovare le chiavi della sua auto ed io
gli ho suggerito di guardare sopra la mensola del camino. Se non è
parlare questo.
Ma,
sfortunatamente, con Ric ancora disperso insieme alla studentessa di
medicina e la mia auto tra le grinfie di Katherine, ho un sacco di
tempo per pensare al mio amabile fratellino durante la lunga
passeggiata a piedi verso il centro città per andare agli uffici della
Salvatore & Associates a mantenere la mia parte dell'accordo con
Caroline con cui ho pagato per la mia colazione.
E la verità
è che non sono incazzato con Stefan per avermi mollato un pugno. Non
era neanche poi così forte, e il livido verde-violastro che ha lasciato
se ne è già quasi andato del tutto. Anzi, non sono neanche incazzato
con lui per avermi accusato di essere un maestro nel mandare le cose a
puttane. In parte perché è vero, in parte perché … beh, è Stefan. Il
suo costante bisogno di sentirsi più virtuoso di me è parte di lui
almeno quanto i suoi capelli folti e il suo cipiglio serio.
Il fatto è
che Stefan può blaterare sulle mie mancanze quanto vuole, ma poi mai,
neanche una singola volta, non è stato lì pronto a spalleggiarmi o a
prendere le mie difese quando ce ne è stato bisogno. Eccetto in questo
caso. E' questa l'unica cosa che brucia.
Quando
arrivo sulla strada principale, lancio automaticamente un'occhiata
veloce verso il Grill, le cui serrande sono sempre abbassate.
Sto già per
passare oltre, ma Elena sbuca all'improvviso da dietro l'angolo verso
cui curva l'edificio, talmente concentrata a cercare qualcosa nella
propria borsa, che per poco non finiamo per scontrarci.
Solleva gli
occhi su di me soltanto all'ultimo momento, con le labbra schiuse in un
"oh" sorpreso ed un veloce sbattere delle lunghe ciglia nere.
"Ciao," mi
saluta in un soffio.
Accenna un
sorriso che sembra uscire fuori più di istinto che di proposito.
Ora, questo
sarebbe il momento giusto per dire "Mi dispiace, sono di fretta, buona
giornata, ci vediamo un'altra volta." Non per restare a fissarla
incurvando di rimando un lato della bocca verso l'alto, come un
qualsiasi cavolo di quindicenne ammutolito, mentre lei si appunta una
ciocca di capelli dietro l'orecchio ed io mi perdo a pensare che ben
altro genere di piccoli suoni sorpresi potrei farle uscire dalla bocca
se solo potessi vezzeggiare con la lingua la curva del collo che ha
appena esposto grazie a quel gesto. Solo che poi mi respingerebbe per
tornare tra le braccia dell'uomo che ama davvero, ed il mio caso di
cervello fottuto non farebbe che peggiorare, perciò … contegno, Damon.
"Come stai,
novizia dell'edonismo?" le domando, mentre lei giocherella con le
chiavi del Grill che tiene tra le dita e si lascia sfuggire un altro
lieve sorriso di fronte al mio nomignolo che ricorda le sue imprese
della sera prima. "E' un po' presto per essere già nei paraggi di bar
che tanto sono chiusi."
"In realtà,
riapriamo domani sera, perciò ho pensato …" si stringe nelle spalle, "
… beh, tanto vale venire qua ed iniziare a pulire e sistemare."
"Non
dovresti avere tipo un esercito di tirapiedi o di liceali sottopagati
per fare il lavoro sporco al posto tuo?"
"Ce li ho,
sì …" ridacchia, anche se poi abbassa lo sguardo sulle chiavi con cui
si sta gingillando e le sue sopracciglia si increspano appena. "Ma
forse ho solo bisogno di tenere le mani e la testa occupate."
Mi basta
quello per sapere che c'è qualcosa ad impensierirla, qualcosa che
immagino sia anche la causa della stanchezza che segna il suo sguardo
al di sotto del trucco leggero che dovrebbe nasconderla. Il pensiero
che possa esserci il suo fidanzato dietro a tutto ciò mi fa ancora una
volta salire un prurito frustrato fin nelle punte della dita.
Ricorda che
non sono affari tuoi, mi fa presente una vocina piccola e distante nel
mio cervello. E che sei ancora in tempo per salutare educatamente e
andartene, prima che per davvero ti scambi per il genere di confidente
che non vuoi essere a cui raccontare le proprie scaramucce matrimoniali.
Ma quel
giocherellare di chiavi e quel labbro piegato all'ingiù mi stanno
uccidendo dentro.
"Brutta
giornata?"
"Qualcosa
del genere," replica con un sospiro. Solleva cautamente lo sguardo su
di me e, per alcuni attimi, rimane a fissarmi come se qualcosa fosse
sul punto di uscire dalle sue labbra, ma poi rimanesse soltanto lì, nei
suoi occhi dalle ciglia troppo scure e dai pensieri troppo
contraddittori. Infine, chiede soltanto, "E la tua com'è?"
"Intendi a
parte la bionda che stamattina mi ha minacciato di denutrizione?" Elena
solleva un sopracciglio in un'espressione a metà tra il confuso e il
divertito. "Lascia perdere," le dico poi scuotendo la testa.
Lei ride,
intuendo che non potrei parlare di altri se non di Caroline, quindi
sceglie una delle chiavi e mi fa un cenno con la testa mentre si
appresta ad aprire la porta del Grill.
"Allora
fammi rimediare, vieni dentro per un caffè. Offre la casa."
Sta già per
aprire, ed io sto già per seguirla. E' quindi forse solo un barlume di
istinto di auto-conservazione, quello che mi spinge all'ultimo secondo
ad appoggiarmi con la spalla contro lo stipite prima che lei possa
davvero aprire quella porta e che io non sia più in grado di dire di no
a quell'offerta che è tanto innocente e innocua in apparenza, almeno
quanto non lo sono gli scenari che fa scattare dentro la mia testa. Ben
poco innocente quello a cui penso quando sono intorno a lei, ben poco
innocuo il male che fa ricordarmi che non la posso avere.
Lei mi
guarda confusa.
"Dovrei
evitarti di più, Elena," dico a bassa voce. "Lasciarti alla tua vita e
al tuo fidanzato … Ho promesso. Ricordi?"
"Ricordo,"
annuisce. Quasi impercettibilmente. "E' solo che … io non voglio
evitarti. Non davvero. Tu sì?"
Sì.
No.
Diavolo,
non lo so.
So solo che
non può, cazzo se non può, farmi questa domanda mentre mi guarda così,
con le labbra quasi socchiuse e gli occhi quasi in attesa, che non si
sa di quale mia risposta - se di un sì, o di un no - sono più timorosi.
Perché se continua a guardarmi così per un solo fottuto secondo di più,
potrei dirle che quello che voglio - quello che davvero voglio - è afferrarla
proprio lì dove finisce l'orlo dei suoi cortissimi shorts, trascinarla
dentro lontano da occhi indiscreti e lasciare libero corso a tutti i
miei pensieri indecenti su di lei sopra ad ogni superficie disponibile,
orizzontale o verticale che sia.
Avanzo di
un passo verso di lei, nell'angolo riparato che racchiude l'ingresso
del locale, e poso istintivamente una mano sulla parete alle sue
spalle, come se quel gesto potesse davvero isolarci dal mondo esterno
che passa per la strada a solo un soffio di distanza da lì.
Lei
sussulta appena, ma non distoglie lo sguardo. Sempre più scuro, sempre
più grande e sempre più in grado di farmi bruciare il sangue nelle vene.
"Vuoi
davvero saperlo? Che ti dica … cosa voglio?" le chiedo infine, in un
tono che viene fuori ancora più roco e ispessito di quanto ogni mia
buona intenzione intendesse.
Elena inala
un respiro così improvviso da farle tremare la labbra, ed io impiego
tutta la mia già debole forza di volontà per non piegare la testa verso
di lei, prendere quel labbro tremante nella mia bocca e assaporarne
fino in fondo tutto il gusto dolce-amaro che avrebbe.
Invece,
rimango semplicemente lì, mentre i secondi passano, le sue labbra si
aprono appena un po' di più ed il suo respiro accelera, ma una risposta
non arriva. Ed io non ho intenzione di ripetere l'intera scena sul
portico di casa sua, essere mandato fuori di testa dal suo corpo
premuto contro il mio solo per poi vederla allontanarsi di nuovo.
"Quello che
pensavo," finisco quindi al posto suo. Abbasso il mio braccio, la
lascio libera. "Ci vediamo, Elena."
***
Una volta, Elena mi aveva chiesto se
fossi mai stato innamorato.
Ero
passato di sera da casa sua solo per dare a Jeremy un nuovo videogioco
piratato che ero da poco riuscito a rimediare, ed Elena mi aveva
chiesto se volevo rimanere per cena - con suo padre al bar, erano come
sempre soltanto lei e suo fratello -, invito che avevo accettato
soltanto dopo essermi assicurato che il cibo provenisse dal Grill e non
dalle sue mani (dubbio legittimo ma per il quale mi ero lo stesso
beccato da parte sua uno scappellotto sulla spalla).
Era
stato piacevole. Avevamo mangiato insalata di pollo e poi parlato del
suo compleanno che sarebbe stato di lì a poco, mentre la aiutavo a
scendere dalla sedia sulla quale era salita per prendere un nuova
bottiglia di ketchup dallo scaffale in alto, forse accarezzandole i
fianchi con le dita un po' più a lungo del necessario. Non lo aveva
notato. Era preoccupata che la sua amica Caroline stesse tramando
qualcosa alle sue spalle per l'occasione, ed aveva cercato di capire se
io ne sapessi qualcosa. Le avevo detto che non ne sapevo niente, ma che
adesso capivo perché l'altro giorno l'avevo per puro caso sentita
parlare con qualcuno sul fatto di voler ingaggiare circhi itineranti e
andare a cavalcare elefanti. Lei aveva riso e mi aveva dato dell'idiota.
Era
stato in un successivo momento di confortevole silenzio che mi aveva
inaspettatamente buttato addosso quella domanda, gli occhi incollati al
piatto che avevo appena finito di asciugare e che le stavo passando per
rimetterlo al suo posto, prendendomi del tutto alla sprovvista e
lasciandomi per un momento completamente immobile ed ammutolito.
"Una
volta …" risposi infine, mentre dalla sala un paio di metri più in
là continuava a provenire il rumore concitato di spari,
mitragliatori e punti segnati da Jeremy. "Patty Nall, seconda
elementare. Mi aveva promesso i suoi biscotti e poi è andata a
dividerli con Tom del primo banco. Mi ha spezzato il cuore."
Ma
Elena non sorrise alla mia battuta. Scosse appena la testa e serrò le
labbra in quello che sembrava quasi disappunto, prima di
proseguire ancora senza guardarmi.
"C'era
questa ragazza stamattina nei bagni. Stava piangendo. Per colpa tua.
Non volevo, ma l'ho sentita parlare con le sue amiche, tutta la storia
di come si è innamorata di te, di come tu l'hai ugualmente scaricata
quando ti sei stancato e trattata come spazzatura," disse,
giocherellando con l'altro strofinaccio a righe gialle e verdi e che
pendeva dalla maniglia del bancone sotto al lavello. "Ha detto che ti
augura di innamorarti anche tu e patire l'inferno."
"Mi
sembra piuttosto esagerata come cosa." Un altro piatto da asciugare, un
altro piatto da passarle. "Chi era, in ogni caso?"
Elena
lo prese e lo posò sul ripiano facendolo tintinnare con un impeto
eccessivo. Un vago sbuffo contrariato accompagnò un'altra sua sottile
smorfia di disapprovazione.
"Non
lo sai neanche. Una ragazza ti ama e piange per questo, e tu non sai
neanche chi sia."
"Ehi,"
ribattei, questa volta con più forza, gettando via lo straccio. "Non
faccio mai promesse o stronzate del genere. Sono sempre molto chiaro su
quello che sto cercando. Se qualcuna capisce a modo suo, è un problema
loro, non mio."
"Oh
mio dio, fai sul serio?" replicò sollevando finalmente lo sguardo su di
me. Era infuriato e sbalordito. "Non puoi comportarti così! Questo è il
classico ragionamento da stronzi!"
Riuscì
quasi nell'intento di farmi sentire uno schifo e non mi piaceva, non mi
piaceva affatto, sentirmi uno schifo. Probabilmente fu quello, più che
le sue accuse, a farmi incazzare e a farmi alzare la voce.
"Cosa
te ne frega improvvisamente di come tratto altre persone?"
"Perché
non voglio che tu sia ciò che pensano tutti gli altri!"
"Ah
sì? E cosa sarebbe, Elena?" le domandai aspramente.
Lei
colmò in un fiato i due passi di distanza che ci separavano e posò una
mano sul mio petto. Vi allargò le dita sopra, come sottili stecche di
ventaglio proprio all'altezza del mio cuore, che per colpa della
discussione adesso stava pulsando più velocemente del normale. I suoi
occhi scuri guardarono intensamente su verso i miei. Le mie pulsazioni
infuriarono ancora di più.
"Sei
migliore di così," disse in un sussurro a bassa voce. Fece un altro
passo in avanti, dal quale non la dissuase neanche lo sguardo ostile
che continuavo a tenere su di lei e che era tutto che ciò che mi
salvava dal non pensare al mio stomaco stretto e a quel maledetto
ventaglio di dita ancora aperto sopra il mio petto. "Perché non lasci
che le persone lo vedano?"
Avrei voluto ribattere che si sbagliava.
Non ero migliore di così.
Certo non lo ero in quel momento, non
quando me la ritrovavo così vicina - con quella bocca appena socchiusa,
quei suoi occhi pieni di belle speranze che non sapevo mai come
dovessero farmi sentire, e quel profumo un po' speziato un po' fiorito
che poi mi tormentava di notte ben più di quanto avrei voluto - e,
invece di ragionare su come elevare il mio discutibile livello morale,
ero molto più propenso a pensare a tutti i modi in cui avrei preferito
far scoprire anche a lei quanto non fossi migliore. Solo che poi … cosa ne
sarebbe stato poi?
"Non
sono come il tuo ragazzo," le dissi, sbattendole in faccia una verità
che era meglio che anche lei si mettesse bene in testa. "Uno che porta
la ragazza al cinema, gira mano nella mano nel cortile, aggiunge un po'
di coccole e chiede se tutto va bene dopo una buona scopata. Quindi
puoi anche smetterla qui di provare a farmici diventare."
Elena
indietreggiò di un passo con un moto ferito negli occhi, riprendendosi
anche il tiepido calore delle sue dita attraverso la mia maglietta. Mi
fece sentire arido, in gola e nel petto.
"Non
lo farò," replicò stringendosi le braccia al petto e voltando il viso
dall'altra parte.
"Bene."
Le
augurai un secco buonanotte e mi diressi verso la porta senza
aggiungere altro.
"Migliore. E cosa cazzo vuol dire
poi, migliore di così?"
Aspirai
con un impeto quasi rabbioso l'ultimo tiro della sigaretta che avevo
rubato ad Enzo, io che le sigarette neanche le fumavo, e con un impeto
altrettanto rabbioso schioccai le dita per far volare via il mozzicone,
che fece un impressionante salto di almeno tre metri fino al limitare
del vialetto, luccicando un'ultima volta prima di spegnersi nella
penombra del crepuscolo.
Enzo
si distese all'indietro, con i gomiti sul cofano Camaro e un piede
appuntato nel parafango anteriore, la sua sigaretta a penzolare con
noncuranza tra le labbra. Socchiuse appena gli occhi nel prenderla tra
due dita e dare un altro tiro.
"Vuol dire che quella ragazza ti sta
fottendo il cervello, mate."
"Ma
sta' zitto."
"Tre giorni e ancora ci stai pensando. Sei
incazzato con lei, eppure hai un cazzo di sweet sixteen a casa tua in questo stesso momento,"
proseguì indicando con la punta rossa della sigaretta verso la massa di
liceali che stava effettivamente ingombrando il prezioso prato
all'inglese di Giuseppe. "Sai cosa dice questo?"
Enzo sibilò tra le labbra un basso
"swisch" a cui, per buona misura,
aggiunse anche il gesto di mimare lo schiocco di una frusta nella mia
direzione. Ma prima ancora che avessi il tempo di dirgli quanto fosse
coglione, il suo sogghigno sparì nel notare qualcosa in lontananza. Nel
giro di pochi secondi, aveva già buttato la sigaretta ancora a metà, si
era passato una mano tra i folti capelli neri ed era tornato alla sua
posa perfezionandola con un pronto sorriso da adescatore.
Roteai
gli occhi al cielo, perché quello significava solo una cosa.
Caroline
Forbes. La ragazza che mi aveva ammorbato ogni cazzo di giorno nelle
ultime tre settimane per mettere su quella dannata festa di compleanno
per Elena.
Aveva
iniziato tendendomi un agguato dopo la scuola accanto alla
Camaro, presentandosi con una voce trillante ed un piglio da
presidentessa degli Stati Uniti d'America ed iniziando a blaterare cose
a caso ("Il problema è che non posso fare una festa da me, perché dopo
l'ultima volta la casa era appena un pochino incasinata e mia mamma si
è un tantino incavolata e mi ha messo in punizione per due settimane, e
non posso rischiare di finire di nuovo in punizione, perché partecipo a
Miss Mystic Falls il mese prossimo e quest'anno bla bla bla …" ) che
avevo smesso di ascoltare dopo dieci-punto-sette secondi. Ma anche quei
dieci-punto-sette secondi erano stati fatali, soprattutto quando era
comparso quell'idiota di mio fratello che, probabilmente preso dalla
smania improvvisa di fare la figura dell'eroe davanti alla ragazza, le
aveva dato carta bianca sull'uso della villa, "tanto nostro padre sarà
in viaggio tutto il fine settimana". Non voglio neanche commentare il
misero bacetto sulla guancia che ci aveva guadagnato e che era poi
rimasto a sfiorarsi vagamente inebetito.
"Ciao,
gorgeous," fece le fusa Enzo calcando di proposito il suo accento
inglese non appena la biondina si fu avvicinata, stando bene attenta a
non far affondare i tacchi nell'erba.
Con
una lunga occhiata, il mio amico dimostrò anche tutto il suo
apprezzamento per la corta - molto corta - minigonna nera della bionda,
sulla quale io invece mi soffermai parecchio meno di quanto avrei fatto
in altre occasioni.
(Questa
Barbie a grandezza naturale non era solo una delle persone più
assillanti che avessi mai avuto il dispiacere di incontrare: era anche
l'amica di Elena, nonché la ragazza su cui avevano messo gli occhi sia
mio fratello sia il mio amico qua presente, anche se uno dei due era
troppo stupido per fare qualcosa al riguardo e l'altro avrebbe
preferito crepare piuttosto che ammettere di volere una che non se
l'era mai filato di striscio. Tre cose sufficienti a renderla ai miei
occhi la ragazza meno attraente di tutta la Virginia.)
Lei
lo ignorò. Un labbro vagamente arricciato in un moto di fastidio fu
l'unica cosa con cui registrò la sua presenza.
"Cosa
ci fai ancora qui?" mi domandò incrociando le braccia sul petto e
guardandomi minacciosa. "Dovresti andare a prendere Elena."
Quella
era stata un'altra delle sue idee. Non dire niente della festa ad Elena
e farle una sorpresa, saltando tutti fuori dal cilindro non appena
anche lei fosse arrivata qui ("Perché non può farlo Donovan che è il
suo ragazzo?" avevo protestato solo quindici minuti prima. "Ma sei
deficiente? Che scuse avrebbe per portarla a casa tua?! E tu sei suo
amico, o no? Inventati qualcosa!").
"Ci
vediamo tra mezzora," aggiunse quindi voltando i tacchi.
Enzo
prontamente si tirò su in piedi, già pronto a scattare e a correrle
dietro.
"Guarda
che non ci starà mai," gli dissi staccandomi anche io dal cofano
dell'auto su cui ero appoggiato per andare ad aprire lo sportello del
guidatore.
Lui
si voltò e, continuando a camminare all'indietro per non rischiare di
perderla di vista neanche per un secondo, mi rivolse un enorme ghigno
da presa per il culo.
"Almeno
io non sto a struggermi dietro all'unica che non mi azzardo a toccare
solo perché sono troppo smidollato per farlo."
Gli
dissi di andare a fanculo, e poi salii per mettere in moto la Camaro.
***
Spingo in avanti la porta di vetro che marca l'ingresso delle Salvatore
& Associates, ricambiando il sorriso con cui mi ha appena salutato
la nuova receptionist.
Mentre
attraverso la lobby piccola ma elegante inondata dalla luce che entra
dalle ampie finestre, non posso fare a meno di pensare come, a dispetto
degli ammodernamenti e di alcuni nuovi quadri di arte contemporanea
alle pareti, quell'atmosfera un po' seriosa, un po' nostalgica e un po'
familiare sia per il resto la stessa dei ricordi di tutte le ore che
crescendo ho passato qui dentro. A quattro anni, a far rotolare
macchinine sul parquet insieme alla segretaria di mio padre, mentre
aspettavo Charlotte che di venirmi a prendere se ne dimenticava sempre.
A sette, a togliere la colla impiastrata dalle dita di Stefan prima che
combinasse qualche danno appiccicandola dappertutto, tanto di aspettare
avevo smesso da un pezzo. A dodici, a sbirciare di nascosto nella
generosa scollatura di Tricia della contabilità, mentre lei dava di
soppiatto a mio fratello i suoi biscotti alla cannella fatti in casa
nonostante il divieto di viziarci imposto da mio padre a tutti i suoi
dipendenti, a cui tanto nessuno dava retta.
Quando
arrivo all'ufficio di Stefan, lo trovo chino sopra la scrivania, una
mano a sorreggergli la testa e l'altra impegnata a scribacchiare
appunti. Dovrebbe apparire più grande e più maturo, con la camicia
azzurra e l'espressione concentrata sui documenti sparsi di fronte a
lui, ma a me sembra sempre lo stesso ragazzino che studiava fino a
tarda notte pur di riuscire bene anche nelle materie che odiava.
Solleva lo
sguardo su me non appena mi appoggio con una spalla contro lo stipite
della porta, le braccia incrociate sul petto.
"Cosa ci
fai qui?" mi domanda più cauto che sorpreso. "E' una settimana che non
metti piede qua dentro."
"Quello è
colpa dell'insopportabile spina nel fianco di fratello che mi ritrovo."
Mi avvicino
alla scrivania, prendo dal suo supporto in metallo il pallone da
football che ci campeggia sopra e lo giro tra le mani fino a trovare
l'autografo che lo attraversa. La firma un po' scolorita è datata 1997,
anno in cui i Redskins andavano alla grande e nostro padre ci aveva
portato fino a Minneapolis per vederli giocare il Superbowl [2].
Ero stato io stesso, fuori dagli spogliatoi, a porgere quella palla al
quarterback che era stato la star della partita per fargliela firmare e
poi passarla a Stefan, che aspettava accanto a me troppo ammutolito per
l'emozione.
"Se ti può
consolare, il mio è ancora peggio," ribatte sarcasticamente Stefan
alzandosi dalla sedia.
In
risposta, gli lancio la palla all'improvviso, ma neanche così riesco a
coglierlo impreparato. I suoi istinti sportivi di anni di football
scattano subito, e lui la afferra al volo in un'unica mossa fluida. Se
la soppesa nervosamente tra le mani, prima di rimetterla a posto e
quindi alzare su di me uno dei suoi migliori volti preoccupati.
"Dobbiamo
parlare, Damon."
"E' per
questo che sono qui," dico mettendomi comodamente seduto sulla
poltroncina che fronteggia la scrivania, una gamba sopra l'altra e le
mani incrociate in grembo. "Ad aspettare di sentire quanto sei
immensamente dispiaciuto per aver messo a repentaglio la mia bellissima
faccia con quel patetico pugno che mi hai mollato."
"Te lo puoi
scordare. Quello te lo sei meritato," ribatte deciso. "Io sto parlando
…" si piega verso la pila di fogli che stanno sulla sua scrivania e con
una mano li fa scivolare verso di me, "… di questo."
Alzo
infastidito gli occhi al soffitto, ma mi sporgo ugualmente per prendere
documenti e appunti ed iniziare a sfogliarli distrattamente.
"Sono le
disposizioni statutarie della compagnia," prosegue appoggiandosi contro
il bordo davanti a me e passandosi una mano sulla nuca con fare
nervoso. "E' una settimana che continuo a ricevere pressioni da parte
di tutto il consiglio di amministrazione. Sono incazzati, Damon.
Incazzati per il tuo atteggiamento, per i tuoi metodi, per la tua
bravata all'ultima riunione … Dinne una. Pensano che la tua presenza
stia peggiorando le cose. Vogliono votarti fuori."
Mi sforzo
di ignorare il retrogusto amaro che mi si riversa giù per la gola
mentre incrocio lo sguardo di mio fratello, perché mi ricorda fin
troppo bene quel senso di fallimento e incapacità da cui avevo giurato
che non mi sarei più fatto colpire.
Butto di
nuovo quell'ammasso di cartaccia sopra il tavolo.
"E tu sei
d'accordo con loro?" domando con voce neutra.
Stefan
incrocia le braccia sul petto, piega le labbra in una linea sottile.
"Ovvio che
sono d'accordo," risponde secco. "Infatti è per questo che nell'ultima
settimana non ho fatto altro che cercare una clausola o una scappatoia
che lo impedisca. Dannazione, Damon, devi davvero chiederlo?"
Mi stringo
nelle spalle, ma non riesco a trattenere l'accenno di sorriso che mi
solleva un angolo della bocca, mentre penso che questa è la spina nel
fianco di fratello che riconosco. Stefan lo intercetta subito e
ricambia allo stesso modo, per il breve momento che basta a rassicurare
entrambi che non è ancora arrivato il giorno in cui abbiamo smesso di
guardarci le spalle.
Poi torna a
corrugare la fronte e alla sua aria tutta affari. "E poi, se ti votano
fuori …"
"… allora
la proprietà non è più rappresentata adeguatamente all'interno del
consiglio," finisco per lui. Con un istinto automatico, la mia mente è
già al lavoro prima ancora che io la metta del tutto in moto, ad
esplorare e valutare tutta una serie di conseguenze e scenari
possibili, nessuno dei quali finisce molto bene. "E se la proprietà non
è rappresentata, diventa ancora più alto il rischio che gli investitori
perdano fiducia e se ne tirino fuori, noi perdiamo altri soldi e siamo
fottuti. Benvenuti compratori esterni. Addio Salvatore."
Stefan
annuisce. "Ma riguadagnarti le fiducia del consiglio di amministrazione
richiede tempo, e noi di tempo non ne abbiamo. Vogliono chiamare un
incontro per il voto non appena Elijah ritorna da Hong Kong. Ciò
significa che abbiamo al massimo due settimane. L'ho guardata da tutti
i punti di vista, Damon. Non vedo molte soluzioni."
"Ho
promesso che ti avrei aiutato a non perdere la compagnia di papà,
Stef," gli dico guardandolo dritto negli occhi, che adesso sembrano già
molto meno sconfortati. "Perciò … Vediamo di trovarle."
E' già quasi il tramonto, quando con Stefan finiamo di mettere insieme
tutte le nostre idee in quella che sembra essere una parvenza di
strategia.
Ci siamo
spostati già da qualche ora nell'ufficio che era di nostro padre,
quello dove c'è più luce ed un grande tavolo circolare adesso
illuminato di un caldo arancio dorato, ingombro di documenti, appunti
scarabocchiati e cartoni sporchi del take away asiatico che ci siamo
fatti consegnare per cena.
"Pensi che
funzionerà?" mi domanda Stefan abbandonandosi all'indietro contro lo
schienale della sedia e massaggiandosi la radice del naso.
"Vale la
pena provare."
"C'è
un'altra cosa, però … " sospira lui, squadrandomi al di sotto delle
sopracciglia serie. "Cosa hai intenzione di fare con tua … dio, non ci
credo che sto davvero per dirlo … moglie? Ha davvero intenzione di
starsene qui?"
"Considerala
un mio regalo di addio," rispondo con un sorriso beffardo,
giocherellando con la penna che tengo tra le dita.
Stranamente,
Stefan non sembra molto divertito dalla mia proposta.
"Te ne devi
occupare. Anche perché, sono piuttosto sicuro che se lei e Caroline
continuano a lungo a vivere sotto lo stesso tetto, uno di questi giorni
finiranno per andare dritte alla gola e, per quanto possa apprezzare
l'idea di una bella lotta tra donne, non ho alcuna intenzione di vedere
Caroline andare in galera per averla uccisa. Perché la mia ragazza
vincerebbe, è ovvio."
"Sempre
così ottimista, Stef," commento. Di fronte all'occhiata di ammonimento
che mi manda, però, lo rassicuro prima che si faccia venire di nuovo il
sopracciglio unico. "Non preoccuparti. Ci sto già pensando. Devo solo
trovare un avvocato abbastanza bravo da farla a pezzi."
"Allora
penso di sapere chi potrebbe fare al caso tuo." Stefan fa per alzarsi,
ma poi sembra subito ripensarci e torna vagamente ad accigliarsi. "… Ma
non ti piacerà."
"Perché mai
non dovrebbe …" inizio a dire, ma Stefan mi fa cenno con le mani di
stare fermo dove sono ed aspettare qui, e poi sparisce veloce oltre la
porta per andare a prendere qualcosa nel suo ufficio.
Quando
ritorna, mi porge un biglietto da visita che accetto con un'occhiata
sospettosa. Mi basta vedere il nome che c'è scritto sopra, per capire
cosa intendeva dire Stefan.
"Mi stai
prendendo per il culo, vero?" gli domando gettando il biglietto sul
tavolo, dove atterra in mezzo ad un foglio di appunti accartocciato ed
un pezzetto randagio di noodle. "Mikaelson? Vuol dire …"
"E' il
fratello di Elijah, sì," mi conferma lui.
"Sto
cercando uno squalo in grado di liberarmi della peggiore piaga che
l'umanità abbia mai conosciuto e risparmiarmi un cazzo di milione e
duecentomila dollari, non qualcuno che al massimo può sfiancarla a
colpi di noia."
"Oh,
credimi. L'ho incontrato una volta qualche mese fa ad una cena a
Washington a cui sono andato con papà. E' molto diverso da suo
fratello. Anche se … ti devo avvertire. Ha avuto qualche guaio
recentemente."
"Che genere
di guaio?"
"E' stato
radiato dall'albo. Temporaneamente," si affretta ad aggiungere alzando
i palmi nella mia direzione, quando vede dalla mia espressione che mi
sto davvero chiedendo se sia impazzito del tutto. "Colpa di alcuni …
vizi personali. Ma si è disintossicato ed è tornato a praticare da un
po', ed inoltre il suo studio legale ha anche una partnership a Los
Angeles perché pare che siano lì i divorzi più redditizi, perciò …
Pensaci."
"Va bene."
Mi sporgo verso il tavolo per riprendere il cartoncino blu. Se questo
tizio può davvero liberarmi di Katherine, per quel che mi riguarda può
pure essere il fratello del diavolo in persona. "Vediamo cosa ha da
proporre questo … Niklaus Mikaelson."
Mi alzo in
piedi per iniziare a sistemare e gettare via i cartoni del take away,
mentre Stefan si occupa delle cartacce inutili. Sono già sulla soglia
della porta pronto ad andarmene, quando la voce di mio fratello mi
richiama e mi fa voltare all'ultimo momento.
"Sai, Damon
…" mi dice, con una mano affondata nella tasca e lo sguardo un po'
soprappensiero voltato verso la finestra, bloccato nell'attimo di
tirare giù le veneziane.
"A volte
penso che … certe tue scelte non le capirò mai. Come il fatto di
opporti da sempre a prendere parte in tutto questo," si gira ed indica
il resto della stanza inondata di luce aranciata con un ampio gesto
della mano. Il divano di pelle nera, il tavolo al quale eravamo seduti
poco fa, il piccolo tavolino di vetro con tre diversi decanter
smerigliati pieni di bourbon. "Quando … andiamo, ammettilo e basta. Ti
piace. Ti ho visto oggi, così come ti ho visto tutte le altre volte in
cui ti si accende … quell'istinto."
"Adesso non
allargarti troppo."
Ma lui si
stringe nelle spalle e so già che proseguirà comunque. Deve aver
contratto dalla sua fidanzata il virus delle paternali non richieste.
"Sei ancora
qui, o no?" insiste infatti. "E non ti sei opposto a papà per tutti
questi anni per andartene a diventare, non lo so, uno scrittore, un
musicista, un surfista su una spiaggia tropicale. Hai messo su una
compagnia tua. E non solo perché non ti piace che siano altri a dirti
cosa fare, ma perché ti piace il rischio, ti piace la caccia a qualcosa
sempre nuovo, la soddisfazione che ti dà quando finalmente ripaga. Così
come avere qualcosa di tuo a cui tenere. Papà lo sapeva. Io lo so.
L'unico che non lo sa … sei tu."
Sono ancora
fermo con una mano contro lo stipite con gli occhi stupiti allargati su
di lui, quando Stefan solleva infine lo sguardo su di me, il volto un
po' arrossato per l'intensità con cui ha caricato le parole di tutto
questo suo accorato discorso che non ho lo più pallida da dove possa
essergli saltato fuori.
"Quello che
preferisci pensare, Stef," replico con una scrollata di spalle,
forzando nella mia voce una buona dose di noncuranza. Suona lo stesso
leggermente incerta, così come è un po' incerta la mia mano quando
lascia andare la cornice della porta e finalmente esco da lì.
***
Rimasi ad aspettare Elena fuori dal
Grill, appoggiato contro il lato passeggero della Camaro che avevo
parcheggiato in un buco libero a poca distanza dall'ingresso,
osservando le persone che andavano e venivano. Poche, in realtà. Non
c'era molto movimento nel locale, perlomeno non per essere un tiepido
venerdì sera di inizio maggio come quello che già lasciava presagire
l'arrivo della bella stagione.
La
porta si aprì di colpo dopo una quindicina di minuti, lasciando uscire
un ragazzino con le gambe secche e un ciuffo scuro sugli occhi che si
tirava dietro la sorella trascinandola per un mano.
"Jer,
smettila, cosa cavolo ti …"
Elena
si bloccò nel mezzo della frase e nel mezzo del marciapiede non appena
mi vide, sotto il debole alone di luce del lampione che rischiarava la
strada.
Jeremy
smise di strattonarle la mano e si voltò per rivolgermi un serio e
compunto cenno di assenso con la testa, per avere conferma che avesse
svolto il suo compito a dovere. Ricambiai indirizzandogli un veloce
saluto militare con la mano al lato della fronte che lo fece sorridere
soddisfatto (più videogiochi in arrivo per lui), poi corse via e tornò
dentro, lasciando Elena a voltare spaesata la testa tra me e il punto
in cui suo fratello era appena sparito.
"Cosa
è questa storia, Damon?" domandò.
Lo
chiese con una punta di fastidio. Dopotutto, non me ne ero andato
esattamente nel migliore dei termini l'ultima volta in cui ci eravamo
visti.
Solo
che … non ci pensai neanche a risponderle. Anzi, la domanda a malapena
la sentii. Perché nell'attimo in cui avevo posato gli occhi su di lei,
qualcuno aveva improvvisamente deciso di tagliarmi i rifornimenti ai
polmoni.
Avevo
sempre saputo che Elena fosse bella, non è che fossi cieco. In quel
modo non appariscente che però colpisce sempre nei momenti più
inaspettati, quando sei distratto. Come quello.
Ed infatti eccola lì, con i capelli
semi-raccolti a scoprirle il volto ed un vestitino color panna tagliato
sotto il seno, la gonna morbida e frusciante che arrivava a malapena a
metà coscia.
E
poi le gambe. Lunghe, slanciate. Un calcio dritto nella gola, di quelli
che ti prendono il fiato e lo scambiano con un'insolita adrenalina che
ha l'unico scopo di mandarti il petto sottosopra.
Elena
si stropicciò il corto orlo della gonna, giocherellandoci nel muoverlo
avanti e indietro, e quel gesto unito al lieve accenno di rossore che
colorò i suoi zigomi quando notò il mio sguardo fu l'attimo che mi fece
mandare al diavolo ogni ostentazione di indifferenza.
Mi
avvicinai a lei in un lampo, le posai una mano sulla vita e accostai le
labbra alla sua guancia. Lei voltò appena il viso per la sorpresa,
facendole inavvertitamente atterrare piuttosto vicine all'angolo della
sua bocca. Non ci muovemmo di millimetro, nessuno dei due, finché non
strinsi appena la presa delle mie dita sul suo fianco per sentirla
ancora più vicino e, a quel gesto, la sentii lasciar andare lo
stupefatto irrigidimento iniziale e premere il volto contro il mio, la
sua pelle sotto alle mie labbra, respirando a fondo. Respirai a fondo
anche io, annegando per un attimo di più nel suo profumo, che poi
quella notte mi avrebbe tormentato ancora più del solito.
Quando
mi staccai da lei, Elena alzò su di me uno sguardo da cerbiatto
smarrito. Io, incerto, non seppi fare meglio che indietreggiare di un
paio di passi.
"Buon
compleanno," le dissi infine accennando un mezzo sorriso.
Elena
ricambiò, con ancora negli occhi quella confusa aria di piacevole
sorpresa.
"Qualcuno
sa davvero come portare bene il look da festeggiata," dissi
guadagnandomi ancora un altro sorriso da parte sua. Più che un
complimento, era un eufemismo. "Vai da qualche parte?"
Piegò
la testa di lato, squadrandomi vagamente sospettosa.
"Lo
so che Caroline mi ha organizzato una festa," rispose. "Si è comportata
in modo strano sull'argomento per tutta la settimana, ed oggi era
ancora più del solito in modalità "missione misteriosa". Ieri ho
sorpreso Bonnie con delle scatole di bicchieri e altre cose simili, e
lei ha fatto finta di non vedermi. Ho provato anche a chiedere a Matt e
lui ha negato, ma è un pessimo bugiardo. Non saprebbe dire una bugia
per salvarsi la vita. Ci sei dentro anche tu?"
"Mettiamola
così. Ero già pronto a chiederti se volevi venire a vedere la mia
collezione di farfalle, ma dato che sei già al corrente di tutto …" Le
porsi un braccio in un teatrale gesto cavalleresco, che mi attirò
un'alzata di occhi al cielo ma anche un nuovo veloce sorriso, mentre
posava le dita leggere sull'incavo del mio gomito. "… Diciamo che sono
qui per essere il tuo autista. Vieni?"
Mi raccontò del resto della sua
giornata una volta saliti in macchina. Suo padre che l'aveva tenuta
stretta senza riuscire a smettere di dirle quanto le volesse bene,
Jeremy meno scontroso del solito che le aveva portato un cupcake
al cioccolato con una candelina sopra rubato dalla cucina, Jenna che le
aveva sistemato i capelli.
Avevo
appena rallentato e scalato la marcia per imboccare la stradina privata
che saliva verso la villa, quando Elena d'improvviso arpionò con una
mano il mio avambraccio, ancora disteso per tenere la mano sul cambio.
"Aspetta,"
esclamò.
Scalai
un'altra marcia e fermai la macchina, voltandomi a guardarla confuso.
Il suo profilo era immerso nel buio che ormai regnava anche fuori,
appena rischiarato dal riverbero dei fari dell'auto, ma sarebbe stato
lo stesso difficile non vedere lo sbigottimento nei suoi occhi
spalancati. Si girò verso di me. "A casa tua? Nel senso della casa
grande?"
"E'
stato uno shock anche per me, credimi," replicai serio. "Niente circo,
però."
Un
sorriso, e poi di nuovo lo sbigottimento, mentre tornava a guardare in
avanti, verso il viale che si apriva davanti a noi e l'enorme casa
parata a festa che aspettava solo lei.
"Quante
persone?"
"Ho
perso il conto."
"Le
conosco?"
"Magari
la maggior parte?" tentai.
Si
portò una mano sulla bocca, come se avesse bisogno di qualche secondo
per processare la cosa. Sembrava davvero incredula e stupefatta.
Sembrava fottutamente adorabile.
"Forse
non dovrei. Forse dovrei stare con la mia famiglia, e-"
"Elena,"
la interruppi.
"Cosa?"
"Andiamo
a divertirci."
***
Il posto è straripante di gente. Di persone che si riversano
all'esterno nell'afosa aria notturna in piccoli gruppetti, e poi
sorseggiano i loro drink in piedi intorno ai pochi fortunati che hanno
trovato posto ai tavolini di metallo che fronteggiano l'ingresso. Di
persone che si riversano all'interno, dove l'aria è calda di respiri e
sudore nonostante il soffio dell'aria condizionata, schiacciate contro
il bancone in attesa di essere servite in un'unica confusione di risate
e chiacchiere a voce alta.
Trovo uno
spazio libero ad una delle estremità del bar, quella che dà le spalle
alla zona dove un'ulteriore massa di gente è accalcata attorno ai
biliardi.
Elena è a
quella opposta, a distribuire rapidamente drink e sorrisi, vestita nel
prendisole rosso che aveva anche a New Orleans, quello che le
incornicia alla perfezione la linea morbida e rotonda del seno, anche
se immagino che lei abbia da dissentire perché è una scollatura più
ampia di quelle che porta di solito. E non sono neanche l'unico a cui
fa un certo effetto, a giudicare dal gruppo di ragazzi che continua a
fare a spallate pur di ordinare soltanto da lei.
La cosa mi
fa scattare il pericoloso istinto da cavernicolo di andare fin lì,
sollevarla e portarla via verso il retro del locale per non dover
dividere quella vista con nessuno, anche se qualcosa mi dice che lei
non perderebbe tempo per assalirmi con piccoli pugni arrabbiati
gridandomi di metterla giù. Scaccio immediatamente via dalla mia testa
le immagini che seguirebbero quella scena. Il cavallo dei jeans ha
iniziato di colpo a sembrarmi fin troppo più stretto.
Una piccola
folla prorompe in un applauso esaltato, quando la barista dai capelli
rossi mette su uno spettacolo improvvisato nel preparare alcuni
cocktail, attirando l'attenzione su di sé.
E' anche
l'attimo in cui incrocio lo sguardo di Elena, che si è appena voltata
per servire un'altra birra. Si blocca sorpresa nel vedermi. Le sue
labbra disegnano uno di quei vaghi sorrisi che assume sempre quando è
piacevolmente stupita di trovarmi dove non si aspetta. Del resto, solo
ieri mattina le ho detto che dovrei starle lontano, questa sera sono
alla riapertura del suo bar. Cosa che magari non gioca molto a favore
della fermezza dei miei propositi, ma in fondo … non è che ci saranno
molte altre occasioni.
Elena
distoglie lo sguardo quando la ragazza che sta servendo le passa i
contanti per pagare, ed io vengo distratto dalla mano che scivola a
circondarmi la vita. Mi volto mentre la donna che stavo aspettando si
siede sullo sgabello accanto al mio.
"Ciao,
straniero," dice Andie.
"Ciao a
te," rispondo con un mezzo sorriso.
Andie sfila
la borsa dalla sua spalla per posarla ai suoi piedi e fa un segno
veloce verso qualcuno al bar per ordinare, bourbon liscio per me e vino
bianco per lei.
E' Jenna ad
avvicinarsi a noi per prendere le nostre ordinazioni. Non mi guarda in
faccia. Dopo due mesi dovrei essermici abituato, ma la sua freddezza
nei miei confronti continua a stridere particolarmente nel pensare che
Jenna, un tempo, mi adorava. Mi rivolgeva sorrisi enormi ogni volta che
mettevo piede dentro al Grill, si assicurava che avessi il miglior
taglio di hamburger, e "Sei qui per vedere Elena? Te la chiamo subito".
Beh, non ho avuto da lei niente di tutto questo da quando sono tornato.
Ho il sospetto che, otto anni o meno, per lei io continui a rimanere il
bastardo che ha mandato a puttane una delle cose a cui la sua piccola
Elena teneva di più. Non che abbia poi tutti i torti.
"Grazie,
Jenna," le dico quando ci fa scivolare davanti i nostri drink, ma
ottenendo in risposta solo un veloce cenno della testa.
Nel momento
in cui si allontana per andare da altri clienti, è Elena a tornare
nella mia visuale.
E' ancora
all'estremità opposta del bar, a servire bevute a cui è troppo
distratta per prestare grande attenzione. C'è un leggero ma
inconfondibile cambiamento nel suo sguardo, nel modo in cui le sue
labbra si serrano appena, quando nota che non sono più da solo. Ma
faccio finta di non notarlo, perché stare a soffermarmi sulle reazioni
di Elena può solo peggiorare la mia situazione.
Afferro il
mio bicchiere e mi volto verso Andie.
"Quindi,
com'è andata a Washington?" le chiedo.
Domanda
stupida, in realtà. Lo so come è andata a Washington.
Anche se
non ci siamo più visti da un paio di settimane, ci siamo ugualmente
sentiti per parlare quelle due o tre volte sufficienti a far sì che io
sappia già tutto delle sue recenti interviste di lavoro e che lei
sappia tutto di ciò che è accaduto qua nel frattempo. Beh, quasi tutto.
Sa che Katherine è qui ad infastidirmi. Non sa che me la sono scopata.
E baciare Elena, e perdere il sonno dietro a lei? Neanche a parlarne.
Non penso fosse il caso di sottolineare un'altra volta quanto io sia
terribile anche solo in relazioni casuali.
"E' andata
bene. Quell'ultima intervista che ho avuto ieri …" Andie fa il girare
il vino chiaro dentro al suo bicchiere, che la differenza di
temperatura tra la bevanda fresca ed il caldo del locale ha già
ricoperto di minuscole goccioline di condensa. "Mi hanno offerto il
lavoro. E' un nuovo giornale online, certo non è il Post, ma hanno
delle idee originali, e chissà che non possa uscirne fuori qualcosa di
interessante."
"Sembra
fantastico."
Sollevo lo
sguardo dal mio bourbon, quando sopra al vociare confuso vengo
raggiunto dalla voce di Elena che sta dicendo qualcosa di irrilevante
come "Due tequila ed un gin fizz". Mi bastano tre secondi per trovarla
di nuovo, adesso che è più vicina. Questa volta è protesa in avanti con
le mani appoggiate contro il bancone, a porgere l'orecchio per sentire
l'ordine al di sopra della confusione. Una goccia di sudore le scende a
partire dall'attaccatura dei capelli raccolti, scivola lungo la curva
del collo fin nella fossetta della sua clavicola. Penso a lingue che
accarezzano spalle nude e olivastre, ed i pantaloni mi si stringono di
nuovo. Cristo santo, devo smetterla. Adesso.
"Inizio
lunedì."
Torno a
voltarmi verso Andie, registrando ciò che ha appena detto.
"Questo
vuol dire che non ti vedrò più molto in giro?"
Lei mi
osserva con un sopracciglio sollevato appena, probabilmente chiedendosi
se davvero me ne freghi qualcosa. Ma è Andie, ed Andie tende sempre a
dimostrare una certa classe, così invece di lanciarmi accuse, prende un
sorso dal suo bicchiere, lo posa, e dice solo,
"Non era
destinata a durare fin dall'inizio. Anche se …" prosegue, gettando una
veloce occhiata in direzione di Elena, "Quando il tipo con cui vai a
letto ti confessa l'esistenza di una moglie passata intenzionata a
rovinargli la vita, penseresti che sia quella la ragione per cui è
completamente non disponibile. Non un'insolita barista che non è la sua
ex e di cui non è più innamorato."
Incurvo
appena le labbra quasi come a volerle dire Touché, davanti alla sua accurata
rappresentazione di quanto io sia incasinato.
"Sei troppo
in gamba per uno come me, Andie."
Lei
sospira, raccoglie la sua borsa, si alza per andarsene. "Lo so."
Mi alzo con
lei e poso la bocca sulla sua guancia. "Prenditi cura di te."
"Anche tu,
Damon."
Andie posa
una mano sul mio mento e si gira quel tanto che basta per spostare il
bacio sulle labbra, lasciandomi un buon sapore di vino e calore,
di cose semplici e facili che forse avrebbero potuto essere o forse no.
Poi se ne è andata.
Ma Elena
no. Elena è ancora lì, e lo so dal modo in cui mi sta guardando adesso,
senza neanche più prestare attenzione alle richieste che le arrivano
dall'altro lato del bancone, che ha visto il bacio con Andie e che
questo non ha fatto altro che lasciarla più confusa. Sui miei
comportamenti, sui suoi, su quando diavolo la smetteremo di gravitarci
intorno e per colpa di questo rimanere inevitabilmente bruciati,
qualsiasi sia la direzione che scegliamo.
Lei nel suo
vestitino rosso che mi ricorda un motel ed un altro attimo anche quello
come sempre rubato, non importa a chi. Lei che non è mai stata mia, se
non in piccoli momenti che poi hanno sempre avuto l'effetto di ferire
ancora di più quando poi sono passati. Lei che devo far uscire dalla
mia testa e dal mio sistema. L'ho fatto una volta. Posso farlo di nuovo.
E'
nell'istante stesso in cui quel pensiero mi attraversa la mente che,
quasi come se lo avesse percepito anche lei, la vedo slacciarsi in
fretta il corto grembiule che ha annodato attorno alla vita,
allontanarsi dal bancone con uno slancio improvviso, e farsi strada tra
la gente per dirigersi verso di me.
Ma sono io
ad aver già scelto per lei. Senza lasciarle il tempo di raggiungermi,
butto giù l'ultimo sorso del bourbon e sparisco tra la folla.
***
Per davvero molto tempo ho pensato che i
discorsi di Elena sulla passione della sua amica Caroline per fare le
cose in grande fossero solo un'esagerazione. Dovetti ricredermi.
Non
credo che la villa, casa dei Salvatore da ormai quattro generazioni,
avesse mai visto niente del genere prima di quella sera. La musica era
ovunque, anche all'esterno, grazie agli altoparlanti che avevo preso in
prestito da Rose (assicurandomi una taglia sulla mia testa se poi non
li avessi restituiti) piazzati in diversi punti strategici e
all'assenza di vicini pronti a lamentarsi del volume; così come
cimiteri di bicchieri di plastica odoranti di alcol, e coppie intente a
slinguazzarsi negli anfratti più improbabili del giardino, e ragazze
che avevano calciato via le scarpe ed erano salite a ballare sopra il
lungo tavolo di mogano della sala a cui qualche anno prima aveva cenato
l'ambasciatore canadese.
"Sarai
ricordata come Elena Gilbert, regina delle feste," avevo detto ad Elena
passandole un braccio attorno spalle quando era atterrata accanto a me
sul divano, di ritorno dopo che Caroline l'aveva trascinata a vorticare
su una di quelle stupide canzoncine pop che mai avrei creduto potessero
mettere piede dalle mie parti.
Elena
aveva riso, con le guance arrossate dal caldo, dal ballo e da quelle
due uniche dita di punch che le avevo visto bere poco prima.
"Ma
se quasi nessuno sa chi sono! Sai cosa mi ha detto un ragazzo, poco fa?
Che è venuto con degli amici dal Whitmore, pensando che fosse una festa
universitaria un po' fuori mano! Come diavolo ha fatto Caroline a far
spargere la voce fino al Whitmore?" mi aveva raccontato divertita, gli
occhi che brillavano più vivi che mai.
(Ed
era bellissima. Non avevo idea di come facessero le altre persone nella
stanza a non notarlo e passarle davanti come se niente fosse.)
Poi mi aveva posato una mano sul ginocchio
e si era alzata di nuovo per andare a cercare Matt, che aveva perso di
vista da quando era andata a ballare con le sue amiche.
Ero
andato a farmi un giro anche io, attraversando la sala ammassata di
gente e cercando di non pensare al casino che sarebbe regnato al
mattino dopo.
Nel
passare davanti alla cucina, sorpresi perfino due sbarbati del secondo
anno che avevano appena trovato il nascondiglio dove io e Stefan
avevamo infilato l'alcol buono togliendolo dal mobiletto della sala.
"Ehi,"
li ripresi avanzando minaccioso verso di loro e riprendendomi dalle
loro mani la bottiglia di scotch, che mi restituirono un po'
intimoriti. "Questa è un festa porta-l'alcol-da-te. Se avete portato
birre scadenti, andate a bervi birre scandenti. Sciò."
Sgattaiolarono
via senza fare obiezioni, sotto lo sguardo perplesso di Stefan che era
appena comparso sulla soglia.
"Per essere il fratello ribelle," calcò volutamente la parola per
imprimergli una chiara connotazione sarcastica, indicando la bottiglia
che avevo appena sequestrato, "Sei piuttosto un guastafeste."
"Questa
roba sembra buona. Non ho intenzione di sprecarla su quindicenni che
saranno in giardino a vomitarla tra meno di un'ora," ribattei,
togliendo il tappo per darne una veloce annusata. Le mie narici si
riempirono del suo gusto dolce e forte, di cuoio e fumo. "E poi, quando
papà verrà a sapere di questa sera e sarà colto da un raptus omicida
nei confronti di entrambi, mi ringrazierai per aver salvato il suo
alcol ed avere qualcosa con cui calmarlo. Detto questo … Cosa ci fai
qui?"
"Che
vuoi dire?"
Stefan
si appoggiò contro il lavandino. Un gruppetto di gente passò davanti
alla soglia, sbirciò dentro, decise che non c'era niente di
interessante in questa zona e proseguì oltre verso la veranda sul retro.
"Voglio
dire che stai rischiando di essere spedito al Collegio Saint Joseph per
Ragazzi Difficili pur di dare questa festa solo per far colpo sulla
bionda, perciò … vai a prendertela. Cosa cavolo aspetti?"
Stefan
sospirò e si passò una mano tra i capelli, che nonostante quel gesto
continuarono a rimanere su e a sfidare le leggi della gravità.
"Mi
odia. L'avevo allontanata e ignorata quando stavo ancora con Lexi e
adesso … me la sta facendo pagare. Mi considera a malapena. E' una
difficile da riconquistare."
"Allora
farai meglio a sbrigarti, pare che sia molto richiesta," gli dissi
dandogli un paio di colpi sulla spalla che però non sembrarono essergli
molto di consolazione.
"Ehi,
Damon."
Mi
voltai verso la voce di Matt, che era appena apparso dal corridoio,
facendo capolino nella stanza. Aveva una faccia un po' stranita.
"Donovan,"
risposi con un cenno del capo mentre lui e Stefan si scambiavano il
loro saluto da compagni della squadra di football. "Cerchi qualcosa?"
domandai.
Non
é che non mi piacesse Matt. Quel ragazzo era probabilmente la
persona più amichevole sulla faccia della terra. Un bravo ragazzo
con buone intenzioni, e non c'erano motivi per non trattarlo come tale.
Andavamo d'accordo. La maggior parte delle volte. Ammetto con un po'
più di colpa da parte mia nelle volte in cui non accadeva.
"Posso
chiederti una cosa?" mi domandò quindi infilandosi una mano in tasca e
passandosi l'altra sul retro della nuca con fare nervoso. Ebbi la netta
sensazione che quella stanza stesse per assomigliare sempre più ad un
bagno delle ragazze durante una pausa pipi' collettiva.
"Riguardo
Elena," proseguì. "Penso di aver fatto un po' un casino."
Let
her go
Non so neanche bene perché lo avevo
fatto.
Beh,
forse in realtà sì. Un po' perché non ero stupido, potevo vedere il
modo in cui Elena lo guardava (quel modo un po' innocente un po'
sognante, quello con cui si guardano le cose buone che ti fanno stare
bene
anche se non lo credevi possibile) e non mi andava di portarglielo via.
O
forse, soprattutto, perché Elena era felice quella sera. Contro ogni
aspettativa si stava divertendo, e quello era davvero qualcosa che non
volevo rovinare. Era stato soltanto una settimana prima che aveva
pianto
raggomitolata contro la mia spalla - solo un pochino, molto piano,
quasi di nascosto - perché sarebbe stato il suo primo compleanno senza
la madre e non sapeva se voleva (poteva) festeggiare. Ma poi eccola
qui,
sorridente e con le guance colorate. Un risultato per cui ero già
dovuto intervenire un paio di volte per poter raggiungere, proprio
come in macchina prima di arrivare, nei momenti in cui avevo visto che
stava per
sentirsi in colpa pure per questo.
Così,
quando Donovan mi aveva preso in disparte, con la faccia di uno che ha
appena messo piede sopra una trappola mortale e sta per farla scattare,
per raccontarmi tutta la storia - di come avesse chiesto consiglio a
sua sorella per il regalo di Elena prendendole un giacchetto di jeans
all'ultima moda; di come poi un'oretta prima avesse sentito Elena e le
sue amiche parlare, loro che le chiedevano tutte eccitate cosa le
avesse regalato il suo ragazzo; "Spero non vestiti," aveva detto la
bionda, "Odio i ragazzi che lo fanno, siamo molto più brave a
comprarceli da sole! E tanto non ci azzeccano mai"; di come Elena
avesse riso e concordato; e adesso non poteva darle quello, non è vero?
-, quando era venuto a chiedermi come avrebbe potuto reagire Elena se
non le avesse dato un regalo stasera, avevo davvero pensato
che fosse una storia molto stupida e molto da teen drama del cazzo. Ma
avevo anche pensato che Elena avrebbe detto che andava bene lo stesso
anche se
poi non era così, tenendosi dentro la delusione per le aspettative
disattese, un po' sue un po' delle sue amiche. Quello sguardo da cose
buone che non vuoi perdere si sarebbe un po' scheggiato, ed ecco
rovinata la serata perfetta che per una volta si meritava.
Ed
era sembrata una buona idea, dare quel ciondolo a Matt. Dopotutto, non
è che lo avessi comprato io o altro. Era solo un piccolo pendente in
ossidiana che Elena aveva già da un paio di anni: lo aveva acquistato
con sua madre ad una bancarella durante la loro ultima vacanza da
qualche parte in Sud America (e lei lo aveva scelto perché le avevano
detto che serviva a tenere lontani gli influssi negativi, o storie del
genere), ma la catenella si era rotta ed Elena aveva smesso di
indossarlo. Io avevo solo fatto intrufolare Jeremy nella sua stanza per
prenderlo e poi far sostituire la catenina spezzata con un filo in
argento. Matt aveva per un po' continuato a dire che non poteva e non
voleva prenderlo, così avevo dovuto insistere a lungo ed inserirci nel
mezzo qualche minaccia per riuscire a spuntarla. Perché lo era, una
buona idea.
E
ne ebbi la conferma quando vidi Matt darle il regalo.
Ero
appollaiato
sopra al parapetto di legno che circondava la veranda separandola dal
resto del giardino, la bottiglia di scotch sequestrata poco prima
ancora appesa alle mie mani. Lo vidi attraverso la porta
finestra che si apriva per sbirciare sulla sala. Vidi Elena illuminarsi
nel
riceverlo, la vidi scostarsi i capelli così che Matt potesse assicurare
la
collana intorno al collo, girarsi e baciarlo. Felice.
(Il
ragazzo, era venuto fuori, sapeva come mentire.)
Aprii
il whisky con un gesto secco e presi un lungo, infuocato, sorso di
quella roba che era fatta per essere elegantemente sorseggiata da
bicchieri di cristallo, non buttata giù per l'esofago direttamente dal
collo della bottiglia. Era forte e dolce e certo diverso da qualsiasi
cosa avessi provato fino a quel momento, ma non fece assolutamente
niente per calmare l'ustione che mi era appena divampata nel petto e
nella
gola. Che motivo c'era poi, per sentirsi
così? Era solo una stupida collana.
"Ciao,"
disse una voce di ragazza comparsa accanto a me.
Salutai
distrattamente di rimando. Poi un altro sorso ed un altro sguardo al di
là
delle porte finestre.
Avvertii
la mano della ragazza posarsi sul mio braccio e accarezzarlo appena,
gesto che per la prima volta mi fece voltare verso di lei e via da
quella scena che continuava a darmi l'impressione che milioni di
schegge
di vetro mi fossero state spinte a forza giù per la gola.
"Ci
siamo incontrati un paio di settimane fa alla partita. Michelle.
Ricordi?" mi chiese avvicinandosi ancora di un altro passo.
Annuii.
Avevamo pomiciato un po' nel parcheggio della scuola mentre nella
distanza esplodeva il boato per il touchdown decisivo, niente di più.
Aveva occhi nocciola, una morbida onda di capelli color miele che le
cadeva di lato sul viso, e la mano ancora sul mio avambraccio. Molto,
molto carina e, a giudicare da ciò che diceva il suo sorriso, anche una
scopata sicura con il minimo sforzo.
"Vuoi
dividere un po' di quello con me?"
"Serviti
pure," risposi passandole il whisky.
Saltò
anche lei sulla balaustra e lo bevve con un sorso piccolo e tipicamente
da ragazza, che a lei fece arricciare il naso e a me fece sorridere.
Poi,
neanche ci fosse stato un cavolo di campo magnetico, ritornai
inevitabilmente con lo sguardo verso la sala, verso Elena con le
braccia attorno al collo di Matt, che la stava baciando così
dolcemente. La bruciatura nella mia gola si fece più selvaggia.
Mi
ritrovai persino a chiedermi come sarebbe stato. Sentire le sue mani
attorno al mio collo, le dita ad accarezzarmi la nuca, vederla
guardarmi con quello sguardo felice e innamorato. Dei mille modi
diversi in cui Elena mi guardava, compresi quelli sprazzi di attrazione
e desiderio che la coglievano di tanto in tanto e dei quali non ero
certo ignaro, quello non ne era mai stato parte.
Ed
era stato in quel momento che mi aveva colpito. La realizzazione che
eccomi qui, a parlare e bere con una bella ragazza chiaramente
disponibile a finire la serata sotto le lenzuola, e a desiderare la
ragazza di qualcun altro.
Non
come amico. Non come qualcuno che vuole
farsela perché infastidito dal fatto di non poterla avere. Ma come
qualcuno che è innamorato di lei.
E
la cosa, maledizione, faceva davvero un male cane.
Sentii
il mio petto implodere su stesso di fronte a quella consapevolezza e
alla paradossale
ironia della cosa. Come diavolo ci ero finito, in quella situazione?
Michelle
mi stava ancora parlando, facendosi più vicina ad ogni sorso che
condividevamo. Me la ritrovai praticamente appiccicata,
braccio contro braccio, gamba contro gamba.
Mi
ripresi la bottiglia per darne un altro sorso, ed in quell'attimo
incrociai lo sguardo di Elena. Matt si era appena staccato da
lei, lasciandole un altro leggero bacio sulle labbra prima di dirle
qualcosa come "torno subito" ed allontanarsi verso la saletta
adiacente, dove Caroline stava finendo di preparare la torta.
Lei
mi guardò e mi sorrise, di quel suo sorriso appena accennato che è più
negli occhi che sulle labbra. Inclinando appena la testa da un lato, mi
fece segno con una mano di
sbrigarmi ad andare dentro e ad unirmi a loro per
quel momento. Di andare da lei. Ma
qualcosa dentro di me, qualcosa martoriato e consapevole e caldo di
whisky, si ribellò al solo pensiero.
Mi
girai verso Michelle e le passai un braccio attorno al fianco,
attirandola più vicino. Le sfiorai il collo con le labbra, in mezzo a
quelle morbide onde biondo scuro, sussurrandole qualcosa di sexy e
promettente che la fece sorridere vicino al mio orecchio.
Quando
scendemmo dalla ringhiera e adagiai mollemente un braccio attorno alle
sue spalle,
Elena non aveva ancora smesso di guardarmi. Solo che adesso era uno
sguardo completamente diverso. Ci si
mischiavano disapprovazione e delusione, perché chiaramente la mia
abitudine di essere quello che ero e di usare ragazze quando mi faceva
comodo non aveva intenzione di andare da nessuna parte.
Mi
fece sentire uno schifo nel passarle davanti e mi fece stringere
l'abbraccio attorno alla nuova ragazza ancora di più, mentre sparivo
con lei
verso il piano di sopra.
***
Quando torno a casa, Ric è seduto al grande tavolo di mogano che occupa
adesso il lato sinistro della, il volto illuminato dalla luce al led
del suo portatile, a scarabocchiare codici e creare roba. Non alza
neanche la testa per salutare.
So
perfettamente che è meglio non importunarlo quando ha la testa così
infangata dentro alle sue cose, ma stasera sento di averne bisogno. E
poi, mi dico che magari non sarà più di tanto arrabbiato quando
scoprirà il perché.
Così, mi
dirigo al mobile accanto il camino da cui afferro una bottiglia di
bourbon invecchiato dieci anni e due bicchieri smerigliati che poso sul
tavolo e riempio generosamente. Ne faccio scivolare uno verso di lui.
"Niente
studentessa di medicina stanotte?"
Ric fa
saettare lo sguardo dai suoi appunti allo schermo e, se non fosse che
ad un certo punto si decide a parlare, potrei giurare che non mi abbia
neanche visto stare seduto nella sedia di fronte alla sua.
"Né
stanotte, né mai più. Te l'ho detto: ha gli occhi da pazza."
"Ma è figa."
"Lo è."
"Come si
chiama?"
"Meredith."
"A cosa
stai lavorando?" chiedo, sporgendomi in avanti e scompigliando con una
mano tutte le sue carte, perché so che è l'unico modo in cui otterrò la
sua attenzione, anche se sarà un'attenzione piuttosto incazzata.
Non mi
sbaglio. Mi spintona via la mano e mi guarda come se desiderasse
fucilarmi seduta stante. Gli rivolgo un ghigno innocente.
"La nuova
piattaforma per il trasferimento dei pagamenti della BuyR Services. Nel
caso te ne fossi dimenticato, dobbiamo presentare loro il primo
prototipo la prossima settimana."
"Non mi
sono dimenticato," gli faccio sapere.
Allungo una
mano all'indietro per tirare fuori dalla mia tasca posteriore i due
fogli che mi porto dietro da ieri e mi sporgo per farglieli cadere
sulla sua tastiera.
Ric mi
lancia un'occhiata sospettosa mentre apre i due biglietti aerei che gli
ho appena passato.
"Business
class. Ho pensato che avresti apprezzato," aggiungo buttando poi giù un
lungo sorso di bourbon.
"Sono per
andare alla presentazione? Quando è il volo di ritorno?" domanda
rigirandoli entrambi per guardarli in ogni loro parte, come se il loro
retro potesse davvero contenere l'inghippo.
"Non c'è."
Alzo il mio bicchiere verso di lui. "Dì i tuoi saluti a questo posto e
alla tua studentessa con gli occhi da pazza. Torniamo a casa, buddy."
———————————————————
[1] Scuola di specializzazione "postgraduate" del
Dartmouth college
[2]
Il Superbowl, ovvero l'evento sportivo americano dell'anno, è una sorta
di "finale" del campionato di football americano della NFL (National
Football League). I Redskins nominati da Damon sono la squadra di
football della Virginia, ma tutti gli altri riferimenti sono inventati.
Non lo so chi l'ha giocata nel 1997.
Spazio autrice
Buongiorno, ladies ^^
Ce
l'avete fatta ad arrivare in fondo? ... Scusatemi per avervi dato un
capitolo così lungo, perché mi rendo conto che rischia davvero di
essere pesante, però purtroppo capirete che era
davvero impossibile dividerlo in due parti, saltare qualcosa o tagliare
i flashback.
Diciamo
che è un capitolo game-changer, che cambia un po' le carte in tavola,
chiude alcune questioni e ne apre di nuove, sia nel presente che nel
passato. Di cose ne succedono molte, ma visto che ho già scritto
tanto la smetto di stracciarvi con le note e lascio a voi qualsiasi
commento in merito. Per esempio, credete che Damon abbia preso la
decisione giusta a lasciare Mystic Falls?
Ah, e la collana che Damon non regala a
Elena .... Ve la ricordate? Era già comparsa nella storia, nel
presente, precisamente nel Capitolo 6.
Di più non dico.
Un
grazie dal profondo del cuore per tutte voi fedelissime, che avete la
pazienza di seguirmi, che lasciate commenti che mi scaldano il cuore e
mi fanno riflettere su questi personaggi così incasinati; ed anche alle
lettrici silenziose, che invito a farsi avanti e lasciare due paroline,
che non costano niente e sono sempre apprezzate :)
Se volete spoiler, pezzi in anteprima e
piccoli extra con cui ingannare
le attese, vi ricordo che siete tutte le benvenute al gruppo su
Facebook qui,
e/o chiedermi l'amicizia qui.
Un
bacio e alla prossima,
ever
|
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Capitolo 17 *** A lover of long ago ***
16
16.
A
lover of long ago
- I have buried you in every place I’ve
been.
You keep ending up in my shaking hands. -
(Bon Iver, Song for a lover of long
ago)
Elena
"No, no, no, no! Così è un disastro!"
Sia io che
Bonnie solleviamo in contemporanea la testa verso l'esclamazione
esasperata di Caroline che ci giunge fin dall'altro lato del prato, là
dove la nostra amica sta dettando ogni genere di ordini agli addetti
tecnici indaffarati attorno all'attrezzatura elettrica.
Nessun
dubbio: è in piena modalità da maniaca del controllo.
"Dobbiamo
spostare tutto all'interno, capito? E anche in fretta, a quanto pare!
Su, su," batte le mani un paio di volte nella loro direzione,
attirandosi prontamente le loro occhiatacce non appena volta loro le
spalle. Punta il dito contro un ragazzo che sta trafficando con i cavi
delle luci. "Tu, vieni con me. Dobbiamo andare dentro a trovare
un'illuminazione alternativa. Ma è possibile che, tra tutti i giorni
che ci sono in un anno, proprio oggi doveva esserci un temporale?" la
sento bofonchiare mentre, seguita dal ragazzo, marcia a passi decisi
lungo il vialetto di pietra grezza, diretta verso l'interno della
residenza d'epoca che questa sera ospiterà la serata in maschera che
Caroline sta organizzando da settimane, per conto della Founding
Fathers Historical Society.
L'enorme
striscione dallo sfondo nero con scritte dorate che campeggia sulla
facciata della villa, appena sotto alle balconate rette da arcate e
colonne intarsiate, annuncia che la causa ufficiale è raccogliere fondi
per la conservazione degli archivi. La verità è che Caroline ha
sfruttato a dovere l'occasione, facendo capitolare il consiglio della
Fondazione e piegandolo al suo volere di trasformare la serata in un
Masquerade Ball in piena regola.
Alzo il
volto verso il cielo, che si è da poco chiuso completamente su se
stesso in un fitto ammasso di grigie nuvole gonfie che gettano su tutto
una soffusa luce plumbea. Non sta ancora piovendo ma, a giudicare dai
rantoli minacciosi che già si iniziano a sentire in lontananza, la
festa a cielo aperto che Caroline aveva inizialmente programmato dovrà
trovare davvero un'altra collocazione.
"Un giorno
probabilmente riuscirà a controllare anche il meteo," commenta Bonnie
tornando ad esaminare le maschere che ha portato qua dal suo negozio di
antiquariato, tutte disposte sopra un tavolino in ferro battuto vicino
all'entrata. Me ne passa una argentata con una cascata di strass ai
lati degli occhi. "Questa?"
Me la
rigiro tra le mani e gliela passo di nuovo. "Credo che starebbe meglio
a te."
Bonnie
scuote la testa ed abbassa lo sguardo, mentre la rimette accuratamente
al suo posto.
"Io non
vengo stasera."
La guardo
perplessa. Getto un'occhiata attorno, cauta, e mi sporgo verso di lei
per sussurrarle a bassa voce, nel caso Caroline fosse magicamente a
portata di orecchio, cosa che non mi stupirebbe affatto. "E lei lo sa?"
Bonnie ride
del mio atteggiamento cospiratore.
"Mi
inventerò una scusa all'ultimo momento, non ti preoccupare. Ho altri …
piani."
"Piani …"
proseguo per lei, prendendo in mano una maschera lilla con un bouquet
di piume su un lato e portandomela davanti alla faccia per mettermi in
posa. Bonnie, divertita, mi fa cenno di no con la testa. "… con capelli
rossi?"
Prendo per
un sì l'abbozzo di sorriso che si lascia sfuggire in risposta.
"Quindi,
questo significa che le cose stanno andando bene?"
"Non lo so
…" Si mordicchia un labbro nervosamente. Sembra incerta. "Voglio dire,
sì, ma … Non so, è che spesso mi sento anche come se non avessi la più
pallida idea di cosa sto facendo. O di cosa potrebbe venirne fuori, o
di dove mai potrebbe andare … Non so pensare a distanza di mesi con
lei, è tutto solo nel presente. Ed è elettrizzante, in un certo senso,
ma anche destabilizzante. Forse, un po' spaventoso."
Finisce di
parlare tutto d'un fiato, con quella scintilla nuova nello sguardo che
non viene mascherata neanche dal consueto accenno di timidezza che non
la lascia mai. Provo quasi un moto di invidia nei suoi confronti, ma
anche di ammirazione. Lei che è sempre stata così riservata e mai
impulsiva e che forse si sta mettendo in gioco più di quanto abbia mai
fatto io, che il gusto di vivere solo nel presente e non sapere cosa
stessi facendo non penso di essermelo mai davvero potuto permettere.
"Magari
invece è una cosa buona," le dico, mentre passo le dita su una maschera
nera dal disegno intrecciato, con i lati allungati che volano su, verso
l'alto. Ha un non so che di civettuolo e malizioso. Forse è per quello
che mi piace. "Improvvisare, ogni tanto. Lasciarsi andare."
Bonnie non
risponde, ma piega la testa di lato come per osservarmi meglio. Mi fa
sentire improvvisamente esposta, come se i miei pensieri non fossero
più solo dentro la mia testa ma lì all'aperto, distesi sul prato in
bella vista affinché tutti possano leggervi dentro. E' Bonnie che tende
spesso a fare questo effetto, anche quando non dice niente. Ma proprio
quando penso che sia sul punto di dire qualcosa, sentiamo Caroline
risbucare alle nostre spalle, annunciata da un picchiettio di tacchi
sui gradini di pietra e dallo squillo della sua voce decisa.
" … No,
Jennifer, c'è stato un cambiamento di piani. Dobbiamo pensare a come
riorganizzare le decorazioni all'interno, qua tra poco sarà un disastro
se non ci sbrighiamo. Certo che sono qui, dove pensi che vada?"
Caroline si avvicina a noi ed indica il proprio telefono con l'altra
mano, domandandoci retoricamente, con un silenzioso movimento di
labbra, Ma è stupida?. "Sì,
ok. Ti aspetto qui."
Riattacca,
emette un lungo sospiro, appoggia un attimo il telefono sul tavolo.
"Uh, mi
piace questa!" esclama poi tornando subito ad illuminarsi come una
bambina, nello scegliere una maschera di satin rosso acceso con bordi e
decorazioni dorate su un lato. "Si abbina al mio vestito. Adesso devo
solo trovare quelle per Stefan e Damon."
"Ci sarà
anche lui?" domando voltando la testa verso di lei, un battito di
troppo a farmi sobbalzare il petto. "Cioè, loro …" mi correggo subito. "Ci
saranno anche loro? …"
Cerco di
dirlo nel tono più naturale e noncurante possibile, ma non sono sicura
di esserci riuscita.
Sono alcuni
giorni che non vedo Damon. Non veramente, almeno. A volte, dal Grill,
noto la sua Camaro parcheggiata dall'altro lato della strada; altre,
quando sono al telefono con Caroline, ne sento la voce in sottofondo,
mentre risponde a tono a suo fratello con una qualche battuta, prima
che Caroline li riprenda entrambi. Niente di più.
E lo so che
non dovrei darci tanto peso, che ci sono altre questioni - altre
persone - a cui dovrei dedicare la totalità dei miei pensieri. Ma
mentirei se dicessi di essere stata così ligia a questo dovere.
"Certo," mi
risponde distrattamente Caroline, digitando qualcosa sul suo telefono.
"Devono. Sono stata molto chiara su questo. Soprattutto considerando
che Damon domani …" La mia amica solleva gli occhi dal suo cellulare,
la sua frase cade nel vuoto. "Seriamente?
Ho detto all'interno! Quale parte non riuscite a capire?"
Seguo il
suo sguardo verso alcuni tecnici che stanno montando una fila di lucine
lungo il muro esterno di recinzione, appena prima che, con uno sbuffo,
Caroline si diriga spedita in quella direzione, lasciandomi con una
strana sensazione di qualcosa detto a metà. La scaccio via scuotendo la
testa, prendo la maschera nera che ho scelto, saluto Bonnie e torno
verso il Grill prima che inizi a piovere.
***
Arrivo al
locale in tempo per il vociare tranquillo che caratterizza l'ora di
pranzo. Mi dirigo verso il retro, dove appendo il mio abito sulla porta
e poso la borsa sulla piccola scrivania perennemente ingombra di
qualsiasi cosa.
"Ehi!"
Mi volto
verso Jenna, che è appena comparsa di ritorno dalla dispensa. La vedo
soffermarsi sull'involucro di plastica trasparente che ho da poco
ritirato dalla lavanderia.
"E' il tuo
vestito per stasera? E' bellissimo."
"Già," le
sorrido velocemente, mentre faccio scorrere tra le dita la posta del
giorno per vedere se c'è qualcosa di importante. "E' uno dei tre che
Caroline mi ha convinto a comprare come scelta per la cena prenuziale [1],
quando siamo andate ad Atlanta per il weekend il mese scorso. Immagino
sia un bene che ne abbia ancora altri due tra cui scegliere."
"Parlando
di nozze," prosegue lei, andando a prendere qualcosa da sopra
l'armadietto rintanato nell'angolo destro, "E' arrivato questo,
stamattina. E' la stampa finale degli inviti, vogliono la conferma
entro stasera che sia quella giusta, insieme alla lista di persone a
cui mandarla."
Mi porge la
busta, da cui estraggo un cartoncino di una delicata tonalità grigio
pallido, con bordi argentati e scritte in bianco. Il mio nome, quello
di Elijah, tutti i dettagli della cerimonia. Un'improvvisa, nervosa
insicurezza mi invade lo stomaco. La mano mi trema.
"Va tutto
bene?"
La voce di
Jenna mi riscuote e mi porta a sollevare lo sguardo su di lei. I suoi
occhi verdi sono pieni di affettuosa premura. Per un momento, la solita
automatica risposta positiva sembra già pronta ad uscire dalla mia
bocca, sospinta dalla forza di un'abitudine costruita negli anni. Forse
come mezzo per non far pesare i miei problemi sugli altri, forse come
modo per convincersene davvero.
Questa
volta, tuttavia, mi ritrovo a scuotere piano la testa. Forse, sono
davvero arrivata al punto in cui neanche questo automatismo basta più a
farmi ingannare me stessa.
"Non
proprio. Non lo so," ammetto, sedendomi contro il bordo della scrivania
mentre mi rigiro nervosamente il biglietto tra le mani. "Ho un
matrimonio programmato tra circa un mese e mezzo, inviti da confermare,
una prova vestito tra due settimane, e sono giorni che uso la scusa del
fuso orario per evitare le chiamate del mio fidanzato."
Jenna si
appoggia contro il bordo accanto a me.
"Come mai?"
chiede con delicatezza.
Vorrei
sputare fuori tutto. L'indefinita irrequietezza che mi mangia dentro.
Tutte le scelte e le decisioni che forse non sono pronta, forse non ho
voglia di prendere. Dubbi che non avevo mai pensato di poter avere, e
la paura che se apro loro la porta - anche solo una volta, anche solo
per un momento - poi non se ne vadano più. Una relazione che credevo
perfetta e che invece è adesso in una crisi che non so più come
gestire. Un altro uomo che sta mandando all'aria ogni fragile certezza
che ero sicura di essere riuscita a conquistare. Come riesci a dar voce
a tutto questo?
"Come lo
sai, se qualcuno è … sì, insomma. Quello giusto,"
le domando, voltando il viso verso di lei, in cerca della
rassicurazione di cui ho così disperatamente bisogno. "E non dirmi, lo
sai e basta."
"Quello non
è stato esattamente un buon consiglio l'ultima volta, non è vero? Visto
come è andata a finire …" Allunga una mano per scostarmi una ciocca di
capelli dal viso, mi suscita un piccolo sorriso. "E lo sai che io sono
terribile con le relazioni, guarda il disastro che è la mia vita
sentimentale. Ma, Elena … Magari non esiste niente del genere. Nessun
quello giusto, con cui non
puoi mai sbagliare. Magari esiste solo chi vuoi avere accanto quando
conta davvero."
Sospiro e
poso la testa sulla sua spalla, lasciandomi per un attimo avvolgere e
cullare dalla confortevole vicinanza di chi, solo perché è più adulto,
riesce a darti l'illusione di saperne un po' di più sulla vita e tutte
le sue scelte.
"E' normale
avere qualche dubbio, Elena," mi dice stringendomi la mano, mentre io
mi sciolgo piano da quel contatto. "Non significa che non siano solo
insignificanti insicurezze passeggere."
"Lo so,"
rispondo, riprendendomi e rivolgendole un altro veloce sorriso.
Peccato
che, il fatto che sia normale, non mi aiuti affatto a dare loro un
senso.
Jenna
ricambia il mio sorriso, prima di tornare di là nel locale.
Io riprendo
in mano la busta con gli inviti, dispiego la lista di nomi che li
accompagna. Li passo in rassegna uno ad uno, del resto i miei invitati
non sono che un paio di decine. L'ho compilata pensando alle persone
che per me contano davvero, alcune di loro così importanti che non
potrei mai fare un passo importante, qualsiasi esso sia, senza sapere
di averle al mio fianco. Mio padre, Jeremy, Jenna, le mie amiche.
Mi fermo,
sopra un dettaglio futile che non so perché mi sembra adesso di vitale
definizione.
Damon non è
tra loro. Ovviamente non lo è: non inviti qualcuno che non vedi da anni
al tuo matrimonio; e a maggior ragione non lo inviti quando lo hai
baciato alle spalle del tuo fidanzato. Ma la sua mancanza su quel
foglio é un buco che sembra ancora più una voragine da quando è
ricomparso nella mia vita. Perché è scomparso da quella lista tanto
tempo fa, il giorno che ha deciso di andare avanti e non guardarsi
indietro, e adesso non so nemmeno più quale posto dovrebbe avere in
essa. Ed io non so fare altro che continuare come ho sempre fatto e
spingerlo via, in quella piccola parte di me che è soltanto sua,
ma che preferisco non andare a visitare.
Eppure è
lì. E lo so che prima o poi dovrò fare i conti anche con lei.
"Elena."
Voltai
la testa verso il richiamo di Jenna, che mi aveva appena messo davanti
sul bancone i due the freddi e l'acqua minerale per il tavolo cinque,
costringendomi così a distogliere lo sguardo da mio padre e dell'uomo
in giacca e cravatta con cui stava parlando a qualche metro di distanza.
"Chi
è quello?" le domandai mentre prendevo il vassoio, indicando l'uomo che
non conoscevo con un cenno della testa. "Papà sembra nervoso."
Tornai
a sbirciare verso mio padre, preoccupata per i suoi capelli scuri in
disordine, per le occhiaie stanche e per il turbamento che traspariva
dai suoi gesti. Le linee serie e poco simpatetiche sul volto dell'altro
non mi fecero sentire meglio.
"Sono
sicura che non è niente di grave," rispose lei agitando una mano
nell'aria come per scacciare quel pensiero. Il sorriso che mi rivolse
voleva essere rassicurante, ma non riuscì ad ottenere l'effetto. "Non è
Damon quello?"
Mi
girai verso la direzione che mi stava accennando, in tempo per vedere
Damon andare a sedersi sulla panca di uno dei tavolini attaccati alle
pareti.
La
mia prima reazione fu un contraddittorio tuffo al cuore a metà tra la
contentezza che fosse venuto per vedermi ed una vaga irritazione nei
suoi confronti per il modo in cui si era comportato nelle ultime
settimane. Spesso non aveva risposto alle mie chiamate. Altre volte era
stato particolarmente scostante ed evasivo. Quando una volta avevo
provato a chiedergli spiegazioni, pensando forse di essere io ad aver
fatto qualcosa per provocare quel suo atteggiamento, Damon le aveva
liquidate con una scrollata di spalle, un sorriso ed uno stupido
buffetto sulla guancia che mi avevano lasciata ancora più confusa di
prima.
Così
feci finta di non vederlo, afferrai il vassoio e portai l'ordine al
tavolo cinque, dove tre signore sulla sessantina, clienti
abituali del Grill da anni, mi trattennero per una buona decina di
minuti tempestandomi di sorrisi, domande su come stessero andando le
cose per la nostra famiglia e sguardi di compassione ad occhieggiarmi
al di là degli occhiali spessi. Sopportai tutto educatamente. Ormai era
un po' che mi ero abituata a farlo.
Quando
riuscii ad allontanarmi e mi voltai, ciò che vidi fu come ricevere un
inaspettato, brusco pugno dritto nello stomaco.
Damon non era da solo, a quel tavolino.
C'era una ragazza con lui. Anzi, sopra di
lui. Braccia intorno al suo collo e sorriso negli occhi. La mano di
Damon ad accarezzarle lentamente la schiena. Piccoli baci scherzosi
sulle labbra, risatine divertite.
Sul
momento, rimasi talmente disorientata da quella scena che perfino il
sapore amaro che mi riempì immediatamente la bocca passò subito in
secondo piano.
Perché
quello non era Damon. Damon non portava ragazze al Grill, né tantomeno
in qualsiasi posto abbastanza pubblico da non poter infilare loro le
mani almeno sotto la maglietta. Manteneva le sue storielle discrete e
anonime. E certo non si metteva a distribuire stupidi bacini zuccherosi
che avrebbero potuto campeggiare tranquillamente in una pubblicità
contro il diabete.
La
ragazza si scostò da lui per dirgli qualcosa. Lui annuì mentre lei si
alzava, prima di riattirarla rapidamente a sé per darle un altro
piccolo bacio sul naso. Sul naso. Le aveva davvero appena dato un
bacino sul naso.
Seguii
allibita con lo sguardo la ragazza che si allontanava verso la
toilette, e poi lo posai di nuovo su Damon, che stava giocherellando in
modo distratto con la cannuccia dentro al suo bicchiere di coca cola.
Misi
giù sul suo tavolo il vassoio vuoto che avevo in mano, forse con un po'
troppa forza. Tintinnò violentemente contro la superficie.
"Cos'era
quello?" domandai asciutta, non appena Damon sollevò lo sguardo su di
me.
Mi
osservò corrugando la fronte, come se davvero non capisse di cosa
stessi parlando. Sbuffai.
"Hai
battuto la testa, o forse ti hanno somministrato qualche intruglio
strano? La ragazza."
"Oh,
quello," esclamò. Fin troppo teatralmente, con fin troppo candore. Le
sue labbra si piegarono verso l'alto. "Quella è Michelle. La mia
ragazza."
"Tu
non hai una ragazza," dissi con una smorfia intesa ad intimargli di
smetterla di raccontarmi cavolate.
"E
chi lo dice?"
"Tu
lo dici!"
"Beh,
magari avevi ragione tu," proseguì sporgendosi verso di me, scivolando
in avanti con i gomiti sul tavolino. "I miei trascorsi non sono stati
dei più onorevoli. Ma adesso sono un bravo fidanzato in una sana,
stabile, monogama relazione."
Rimasi
a fissarlo sconcertata, lui e quel leggero sorriso ancora sulle sue
labbra, annaspando per cercare qualcosa da contro-ribattere, ma
riuscendo solo a restare lì come un pesce incapace di spiccicare parola.
"Ciao,"
sentii dire alle mie spalle da una voce allegra e leggera.
La
ragazza che era con lui andò tranquilla a riprendersi al suo posto
vicino a Damon, che con naturalezza le circondò le spalle con un
braccio.
"Michelle,
questa è Elena. Elena, Michelle," disse lui indicandomi con la mano
libera.
Michelle
mi sorrise e si sporse per tendermi la mano, che strinsi senza troppo
entusiasmo. Potevo notare adesso che era maledettamente carina. Un viso
ovale e regolare, dolci occhi nocciola ed un cerchietto rosso tra i
capelli a fermare le morbide onde biondo scuro che le arrivavano fino
alle spalle. L'ordinato maglioncino rosso corallo e la linda gonna
bianca fino al ginocchio che indossava mi fecero subito sentire
inadatta e trasandata, al confronto con la mia disordinata coda alta,
le converse consumate e il grembiule verde che come minimo aveva anche
un paio di macchie.
"Oh,
tu sei la ragazza di Matt," mi disse. Ma la smetteva mai di sorridere?
"Sono amica di sua sorella da quando eravamo all'asilo, ho giocato per
anni nel loro cortile. Matty è davvero un ragazzo molto dolce."
Sorrisi,
ma sentii gli angoli della bocca tirarmi per lo sforzo.
"Allora
magari dovremmo uscire tutti insieme," mi sentii dire, non senza una
punta di sarcasmo, più per un'irrazionale spirito di rivincita che per
voglia di farlo davvero. Fu l'espressione sgomenta che passò sul volto
di Damon, rompendo per un attimo quella patina di zuccherosa
tranquillità che si ostinava a voler mostrare, ciò che veramente mi
spronò ad insistere.
"Voi
due, io e Matt. Cinema e frullato dopo?" proposi con un altro sorriso,
sapendo bene quanto Damon detestasse con tutto se stesso quella
accoppiata di banalità da adolescente medio. Sperai ardentemente che ci
fosse addirittura una nuova insulsa commedia romantica in uscita da
qualche parte, perché improvvisamente morivo dalla voglia di vederla.
"Perché
no? Sembra divertente. Che ne dici, Dam?" gli chiese lei, dandogli un
colpetto con la mano sul ginocchio.
E
da quando in qua, si faceva chiamare Dam?…
Damon
sollevò un sopracciglio e restò in silenzio per alcuni istanti, ma
tornando presto a sfoderare di nuovo il solito sorrisetto di prima.
"Certo.
Sembra davvero divertente."
Incontrò
il mio sguardo. Io lo sostenni ricambiando la sua stessa espressione di
sfida.
***
Inizia a piovere soltanto verso sera. A dispetto dei ripetuti brontolii
di sottofondo, sembra che il cielo ancora non si voglia decidere ad
esplodere nel temporale che continua a preannunciare, ed è soltanto una
pioggia evanescente e leggera, fine e umida, quella sotto cui cammino a
passo veloce lungo il vialetto che porta verso la villa, con la giacca
tesa sopra la testa per ripararmi come meglio posso.
Alzo lo
sguardo verso la facciata. Il caldo color ocra in cui è illuminata
stacca contro il buio nuvoloso in sottofondo, e le colonne disegnano
strani giochi di luci e ombre nelle balconate che circondano il piano
superiore. L'ingresso è affollato di persone in abiti eleganti e
maschere scintillanti che cercano riparano sotto le arcate del
porticato, tra fumo di sigarette, chiacchiere e scalpiccii di tacchi.
Lascio il
mio soprabito leggero nella stanza adibita a guardaroba e, non appena
metto piede nella sala principale, non posso che lasciarmi sfuggire un
sorriso ammirato di fronte al modo in cui i piani originali sono stati
trasportati per adattarsi all'interno della villa.
Le luci
sono basse ma di atmosfera, piazzate strategicamente in modo da far
risaltare le pareti ad incasso della sala e la balconata che corre
tutto attorno al piano superiore. Dei bar per i drinks sono stati
improvvisati ai due estremi della sala, mentre divanetti circolari e
alti tavolini neri sono sparsi qua e là senza togliere spazio a chi,
senza perdere tempo, si è già buttato a ballare nel mezzo del salone.
Inizio ad
inoltrarmi tra la folla, ma mi fermo sui miei passi quando noto Stefan
in piedi accanto ad un tavolino, intento a parlare con una ragazza in
un corto tubino nero che, complice la maschera che indossa, sul momento
non riconosco. L'espressione di Stefan è in parte coperta dal suo
travestimento - per metà rosso, per metà dorato - ma dalla linea
sottile in cui si serrano le sue labbra, e che rende il suo profilo
ancora più affilato, non sembra molto entusiasta della sua
interlocutrice.
"… quindi,
avanti. Lui dov'è?"
Se non
l'avevo riconosciuta immediatamente, adesso non ho più dubbi dopo aver
sentito la sua voce.
"Non so di
cosa stai parlando, Katherine."
"Va bene,"
sospira lei, con una leggera smorfia. "Allora, per favore, assicurati
di riferire a tuo fratello che lo so che ha qualcosa in mente. E che si
sbaglia se pensa di liberarsi di me così facilmente. Buon divertimento."
Katherine
si volta per andarsene, incrocia il mio sguardo. Lo sostiene per un
lungo secondo, prima di accennarmi un sorriso ambiguo e sparire oltre
verso il resto della festa.
Mi avvicino
a Stefan, perplessa.
"Di che si
tratta?" gli domando indicando il punto in cui Katherine è appena
scomparsa.
"Solo …"
Stefan scuote la testa e prende un lungo sorso di whisky dal suo
bicchiere. E' vuoto quando lo posa di nuovo sul tavolino. "… Katherine.
Ovvero gestire gli effetti collaterali delle splendide idee che a volte
vengono a Damon."
"Come sta?
…" proseguo, incerta. "Damon, intendo. E' solo che non lo vedo da
qualche giorno."
Mi pento di
averglielo chiesto non appena incontro il suo sguardo e vedo la sua
espressione irrigidirsi appena. In fondo, avrei dovuto immaginarlo.
Anche se io e Stefan siamo inevitabilmente buoni amici da anni ormai,
considerato che è il ragazzo della mia migliore amica, Damon è un
argomento che tra noi non tocchiamo mai. E' vero, Stefan è sempre stato
gentile con me. Ma non nego di aver sempre avuto la sottile sensazione
che sotto sotto, per qualche motivo, mi abbia sempre ritenuto
responsabile per l'allontanamento del fratello.
"Impegnato,"
risponde semplicemente. "Lo siamo stati tutti," taglia corto. Si apre
poi in un sorriso quando Caroline emerge da un capannello di persone,
diretta verso di noi. "Ed eccola qui, l'ideatrice di tutto ciò."
La mia
amica indossa un corto e drappeggiato vestito rosso monospalla, con i
nastri della maschera che ha scelto questa mattina intrecciati sul
retro della nuca nella sua pettinatura raccolta. In rosso e oro, brilla
come una stella. Mi saluta posandomi le mani sui fianchi e squittendomi
nell'orecchio, "Lo sapevo che avresti scelto questo vestito!"
Mi fa
ridere come una ragazzina, quando mi costringe a girarmi su me stessa
per farle vedere l'interezza dell'abito ricoperto di pizzo traforato
nero, stretto in vita e poi allargato in una morbida gonna a palloncino.
"E anche
lui, non è bellissimo?" commenta poi, in direzione di Stefan, lisciando
con le dita la sottile cravatta scura che spicca tra il bianco della
camicia e il nero della giacca. "Abbiamo le maschere abbinate, vedi?"
sorride, indicando prima se stessa e poi il suo ragazzo.
"Come se
avessi davvero avuto scelta …" la prende in giro lui.
"Lo sai
quanto sforzo mi è costato, riuscire a farlo venire?" mi domanda
Caroline, tornando a rivolgersi verso di me. "Appena sente la parola ballo, scappa a gambe levate!"
"Perché
odio ballare," le ricorda Stefan circondandole il fianco con una mano.
"Ma amo te, e stasera sono sull'orlo di iniziare a divertirmi, perciò
…." con l'altra mano le prende le dita tra le sue, le solleva verso
alto e la invita a seguirlo, " … Balla con me."
Caroline si
volta per sorridermi un'ultima volta, appena prima di essere trascinata
via.
Li guardo
allontanarsi. Il sorriso sulle mie labbra però finisce per tremare
appena, quando a sostituire l'immagine dei miei due amici, felici anche
per queste piccole cose, è la pungente consapevolezza della distanza
che - non so né quando, né come - si è invece insinuata tra me e l'uomo
che sto per sposare. Cerco di scrollarmela di dosso, almeno per
stasera, ma è comunque difficile sfuggirle. Vagando per la festa,
continuo ad incontrare conoscenze e vecchie compagne di scuola, e
nessuna di loro perde tempo per complimentarsi eccitata per il mio
fidanzamento, facendomi sentire ancora più falsa mentre distribuisco
sorrisi e mostro un anello che non sento neanche di meritare.
Nel
frattempo, fuori, il tempo si è fatto violento. La musica e il
chiacchiericcio coprono i tuoni, i giochi di luce si confondono con i
lampi, ma il battito aggressivo della pioggia spessa e irruente sulle
vetrate è lì a ricordare che, nel buio pesto al di là di tutto questo
scintillio, c'è una tempesta estiva che non ha nessuna intenzione di
placarsi.
La osservo
vicino ad una finestra ad arco che guarda sulla notte, rigirandomi in
una mano il bicchiere di champagne fruttato che mi sono concessa e
stringendo nell'altra la piccola pochette nera, lo sguardo fisso su
tutte quelle maschere che si riflettono indistinte sul vetro strinato
dalla pioggia, persa in pensieri che continuano a non portarmi da
nessuna parte.
Non ho
ancora visto Damon. Non so neanche se sia là in mezzo, o se invece
abbia cambiato idea e deciso di non venire. Dentro di me, lo so che la
sua sfuggevolezza degli ultimi giorni non è altro che il suo modo per
rialzare barriere di cui forse in questo momento abbiamo bisogno
entrambi, cosa per cui gli sono grata e lo detesto al tempo stesso.
Perché per ogni volta in cui mi ripeto che sarebbe davvero meglio così
- smettere di cercarsi, far finta di esser niente - ce ne è subito
un'altra in cui la voglia di vederlo è così prepotente da soffocare
qualsiasi altro pensiero più razionale.
So che deve
esserci, da qualche parte, un confine invalicabile che sarebbe
importante tracciare. Ma la verità è che mi sembra più una linea che
continua a muoversi, impossibile da afferrare.
Scuoto
appena la testa, come se potesse davvero assurdamente aiutarmi a
liberarmi di quei pensieri.
Sto per
tornare a cercare Caroline, ma sento qualcuno sfiorarmi il braccio ed
una voce maschile che ha appena chiamato piano il mio nome. Quando mi
volto ed incontro i chiari occhi azzurri al di là della maschera, il
mio cuore fa un salto emozionato per la sorpresa.
Gli
sorrido, felice di vederlo.
***
Gli appuntamenti a quattro sono
l'invenzione più stupida che esista, mi ritrovai a pensare durante
l'intera serata che io e Matt passammo insieme a Damon e Michelle.
Insomma,
quale dovrebbe essere lo scopo di serate del genere, se poi l'altra
coppia passa tutto il secondo tempo del film ad infilarsi la lingua in
bocca e probabilmente anche le mani sotto la maglietta? Non dovrebbe
essere una cosa vietata da qualche codice non scritto? Non uccidere la
conversazione con il resto dei presenti tenendo le bocche impegnate in
qualcos'altro. Anche se al cinema non si parla.
Come
se ciò non fosse già stato abbastanza, durante l'intervallo al bagno
ero anche stata sommersa dai tentativi di Michelle di fare amicizia,
che a quanto pare dovevano passare obbligatoriamente attraverso
racconti di esperienze "da ragazze" che io avrei di gran lunga
preferito non condividere. Certo non con lei.
Avevo
così scoperto che Damon era stato davvero dolcissimo con lei, non erano
andati a letto la prima sera che avevano passato insieme (quella del
mio compleanno, altra cosa che avrei preferito non sapere), ma si erano
presi del tempo per conoscersi meglio, e questo doveva per forza essere
un chiaro segnale che lei gli piaceva davvero, non era così? Così come
avevo scoperto che, secondo diceria generale, c'erano due tipi di
ragazzi, quelli bravi con la lingua e quelli bravi con le mani. Damon
era bravo con entrambe, forse però con la lingua un pochino di più. E
Matt? Perché Matt aveva tutta l'aria di essere uno davvero bravo con le
mani.
E
mentre Damon e Michelle erano impegnati con gli esercizi ginnici delle
loro lingue, io per la prima volta avevo iniziato a trovare poco
soddisfacente il semplice caldo abbraccio di Matt attraverso le
poltroncine del cinema, e particolarmente frustrante il fatto che,
quando eravamo in pubblico, il limite massimo verso cui si spingeva
erano vaghe carezze appena sopra al ginocchio. Limite che chiaramente
loro non avevano, come mi resi conto quando, gettando un'occhiata nella
loro direzione, intravidi nella penombra la mano di Michelle
accarezzare Damon di nascosto sopra il suo evidentemente rigonfio
cavallo dei jeans. Ero tornata a fissare lo schermo con le guance in
fiamme, ormai incapace di continuare a seguire anche la più banale
delle vicende, tutto per colpa di quell'immagine stampata in mente,
dell'improvviso caldo formicolio tra le gambe, della curiosa voglia di
fare lo stesso con Matt e del conseguente imbarazzo al pensiero che io,
così tanto sfrontata, non lo sarei mai stata.
Solo
quando io e Matt eravamo rimasti da soli a fine serata, nascosti nel
buio e nell'intimità dei sedili del suo pick-up a baciarci e far
saltare i rispettivi bottoni dei jeans per infilare le dita ovunque
potessero arrivare, ero riuscita a dare sfogo a tutta quella
indefinibile frustrazione. Dovevo ammetterlo: era vero che era bravo
con le mani.
Matt
rimase ancora un po' a regalarmi carezze dolci e pigre lungo il mio
fianco, sotto la maglietta. Quando si sollevò e mi scostò una ciocca di
capelli dalla guancia, guardandomi negli occhi e sorridendo quel tanto
che bastava per far comparire le piccole fossette ai lati della bocca
che tanto adoravo di lui, dimenticai perfino il disastro che era stato
il resto della serata. Per più di un anno, avevo guardato Matt da
lontano, alimentando la mia cotta con sguardi di nascosto e sciocche
conversazioni immaginarie dentro la mia testa. Matt era bello e
popolare. E adesso era mio, pensai andando istintivamente a sfiorare
con le dita il piccolo ciondolo al mio collo.
Gli
sorrisi di rimando e mi tirai su, finendo di rimettere i vestiti al
loro posto, perché era davvero tardi ed io dovevo davvero tornare al
più presto a casa. Allungai le mani verso il cruscotto per prendere i
fazzoletti che teneva sempre lì pronti all'uso, ma ciò che mi balzò in
grembo quando lo aprii mi lasciò confusa e a corto di parole. Forse più
per la sorpresa che per l'imbarazzo.
Mi
voltai verso Matt, tenendo tra le dita il quadratino di plastica
colorato di uno dei vari preservativi che avevo appena trovato.
"Oh,"
mormorò lui, passandosi una mano sul retro della nuca. "Quello. E' mia
madre, insiste a farmeli portare dietro ovunque, sai, per il fatto di
essere sicuri, e … e … lo sai," finì, inciampando sulle parole e
guardandomi quasi timoroso di come avrei reagito.
"Tu
… tu vuoi …" iniziai a domandargli, corrugando le sopracciglia. "… fare
sesso con me?"
Suonò
stupido alle mie stesse orecchie. Ma avevo sempre pensato che i baci e
le carezze spinte che ci scambiavamo fossero abbastanza per lui almeno
quanto lo erano per me, che il momento in cui saremmo andati fino in
fondo continuavo a considerarlo ancora qualcosa di piuttosto lontano.
"Beh,
sì, naturalmente, voglio dire …" Si interruppe quando vide la mia
espressione. " … Ma solo se lo vuoi anche tu."
Mi
rigirai il preservativo tra le mani, mordicchiandomi le labbra, il
battito del cuore accelerato per l'agitazione. La ciocca ribelle di
capelli mi cascò di nuovo sul volto.
"Io
… non l'ho mai fatto," confessai. Tornai ad alzare lo sguardo su di lui
per sbirciare la sua reazione. "Possiamo … aspettare? Ancora un po'?"
Matt
si sporse dal sedile del guidatore, scostò di nuovo i capelli dal mio
volto, rimase con la mano ad accarezzarmi la guancia.
"Tutto
il tempo che vuoi," disse un soffio. Cercò il mio sguardo, e nel suo vi
lessi particolare trepidazione. "Ti amo, Elena."
Era
la prima volta che me lo diceva. Era la prima volta che me lo sentivo
dire da un ragazzo.
Non
so cosa mi aspettassi, in realtà. Nei libri e nei film sembrava sempre
qualche circostanza epica, indimenticabile, magica. Invece, era venuto
fuori così, in un momento semplice e qualunque come una serata nel suo
pick-up. Ma, guardandolo negli occhi in quell'azzurro limpido, lo seppi
che era vero, e quello mi bastava.
Lo
baciai. "Ti amo anch'io."
***
Ci spostiamo in un angolo più tranquillo della sala, dove è più facile
parlare e recuperare velocemente anche gli ultimi anni che ci siamo
persi. E' sempre semplice farlo, con Matt.
Ci è voluto
un po', dopo esserci lasciati, ma siamo lo stesso rimasti buoni amici
fino alla fine del liceo. Ed anche dopo che il college e la sua
carriera ci hanno allontanati, portandolo lontano da Mystic Falls, è
bello poterlo rincontrare di tanto in tanto, non appena ha l'occasione
di tornare. Gioca per i Seattle Seahawks adesso.
"Quindi …"
mi dice, posando il suo bicchiere sul tavolino ed indicando la mia mano
con un cenno della testa. "… Fidanzata, uh?"
Muovo la
mano nell'aria, come per congedare scherzosamente quel pensiero,
accompagnando il mio gesto con un sorriso. "A quanto pare …"
"Chi è il
fortunato?"
"Non è qui
stasera. Un viaggio di lavoro."
"Peccato,"
commenta Matt. "Mi sarebbe piaciuto incontrare colui che è riuscito ad
acchiappare l'inafferrabile Elena Gilbert."
"Oh,
andiamo!" lo ammonisco con un leggero colpetto sulla spalla. Ridiamo
entrambi. "Così è ingiusto."
Matt prende
il bicchiere ormai vuoto dalla mie dita per posarlo sopra il tavolo.
"Pensi che se la prenderebbe se ti chiedessi di ballare?"
"No," gli
sorrido, prendendo la mano che mi sta tendendo. "Andiamo."
Ci
mischiamo al resto della folla, tra i corpi che si muovono al ritmo
cadenzato e soffuso della musica e le luci scintillanti che rimbalzano
sulle pareti spezzando la penombra.
"E che mi
dici di te?" gli domando, mentre Matt solleva il mio braccio in alto
per farmi fare una giravolta. "Nessuna ragazza speciale in vista?"
"Un sacco
di ragazze speciali," scherza, ma il fatto che lo dica con lo stesso
sorriso dolce e un po' impacciato di sempre, come se neanche lui
sapesse ben capacitarsene, è la conferma che potrà anche essere
diventato un famoso e ben pagato giocatore professionista, ma in fondo
è ancora lo stesso bravo ragazzo che conoscevo. "Penso faccia parte
dell'essere un giocatore di football, il fatto di essere molto
richiesto. Solo che non sai mai se piaci per quello che sei o soltanto
per ciò che fai."
"Tu mi sei
sempre piaciuto per quello che sei."
"Lo so," mi
fa sapere piano, attirandomi più vicino a sé, il mio braccio che si
drappeggia attorno alle sue spalle ampie.
E' in quel
momento che il mio sguardo cade al di là di esse ed il mio corpo
sussulta appena, quasi iniziasse a palpitare in reazione.
Damon. Lo
vedo camminare attraverso la sala, a qualche decina di metri da noi,
confuso tra le altre figure indistinte e la penombra della stanza. Il
battito nel mio petto affonda e risale su in un solo secondo, quando si
volta nella mia direzione ed io incrocio il suo sguardo al di sopra
della spalla di Matt. Libero da qualsiasi maschera, che indossa
sollevata sopra la fronte tra lo scompiglio scuro dei suoi capelli -
sembra più per gioco che per spirito della serata -, nessuna barriera
tra me e quell'azzurro profondo e pieno.
Matt si
scosta leggermente da me, si gira anche lui.
"E' …
Damon?" domanda aggrottando la fronte.
Annuisco
mentre riporto gli occhi su di lui e riprendiamo senza fretta a
muoverci a ritmo di musica.
"Pensavo
che non mettesse piede da queste parti da anni ormai. Credo di non
averlo più visto da …"
"E' così,"
gli confermo. "E' tornato solo un paio di mesi fa."
Dò un'altra
veloce occhiata di sfuggita al di là delle sue spalle, vedo Damon
voltarsi e riprendere a camminare tra la folla. Una morsa sottile mi
stringe il petto, nel vederlo scomparire.
Matt
avvicina il viso al mio, per poter proseguire più a bassa voce.
"Siete di
nuovo amici?"
Scuoto
appena la testa, e le mie labbra d'istinto si piegano per l'amara
ironia. Ciò che siamo io e Damon, forse, non lo capirò mai.
"Non
proprio … Voglio dire," mi lascio sfuggire un piccolo sospiro che suona
quasi rassegnato. "… E' complicato."
"Giusto …"
sorride appena lui, alzando lo sguardo al soffitto. Mi stringe un po'
di più, rallenta i suoi movimenti. "Lo sai … Tu sei stata la prima
ragazza di cui mi sia davvero innamorato. Ero così preso dall'idea di
rendere tutto perfetto."
"Lo è
stato," gli sorrido, alzando il viso verso di lui. "Eri il fidanzato
perfetto."
"Già … Ma
non ho mai davvero avuto una possibilità, non contro di lui, non è
vero?"
Lo dice
senza amarezza. Forse più con nostalgia, che altro.
Ci siamo
fermati entrambi adesso, la mia mano mollemente posata sulla sua spalla
destra.
"Ero
davvero innamorata di te, Matt."
"Non come
lo eri di lui," risponde, mentre la canzone finisce e ci sciogliamo del
tutto dall'abbraccio del ballo. "E' passato un sacco di tempo, Elena.
Va bene. Puoi anche ammetterlo."
Posso davvero? mi viene da pensare
con uno strano nodo attorcigliato attorno alla gola.
Gli accenno
un sorriso che forse vuole essere di scuse e che forse non è
abbastanza, ma che è tutto quello che gli posso offrire.
"E' stato
bello rivederti, Matt."
"Anche per
me, Elena."
Mi lascia
un leggero bacio sulla guancia e si allontana, lasciando andare anche
la punta delle mie dita che ancora teneva fra le sue, senza guardarsi
indietro. Rimango sola in mezzo alla moltitudine di persone che tornano
a cercarsi per la nuova canzone.
No, non da
sola. Quando rialzo lo sguardo trovo di nuovo Damon, in disparte vicino
alla balaustra curva che segna la fine delle scale ad un lato della
sala. Giacca scura e capelli disordinati che fanno correre un fremito
caldo lungo la mia pelle. Prende un sorso dal bicchiere di whisky che
ha tra le mani, lo posa con accortezza sul tavolino accanto a lui, lo
lascia a metà, torna a guardarmi. Sembra quasi che mi stesse
aspettando.
Inclina
appena la testa di lato, in un cenno veloce verso il retro della sala
che mette in allerta tutti i miei sensi, in un misto di anticipazione e
consapevolezza del fatto che questo è proprio ciò che dovrei evitare,
ritrovarmi con lui in situazioni ambigue che poi finiscono sempre per
lasciarmi più frastornata e traballante di prima.
So che non
dovrei seguirlo.
Solo che lo
faccio lo stesso.
***
"Oh mio dio, ma è stata una cosa così
romantica!" commentò Caroline con un sospiro, quando finii di
raccontarle la mia conversazione con Matt di qualche sera prima.
"Tu
pensi?" domandai accennando un sorriso, mentre tiravo su le gambe per
circondare le ginocchia con le braccia.
Avevo
continuato a pensarci durante tutto il fine settimana, lo stesso
sciocco sorriso pronto a sbucare fuori nei momenti più impensati,
morendo dalla voglia di poterne parlare anche con le mie amiche. Bonnie
era ancora in Massachusetts a trovare la madre, ma Caroline mi aveva
subito trascinato sulle gradinate del campo sportivo nella prima pausa
disponibile tra le lezioni per farsi riportare ogni dettaglio.
Era
una piacevole e rilassata giornata di sole. La fine imminente dell'anno
scolastico era palpabile per tutti.
"Ti
ha detto che ti ama! Ti ha detto che ti aspetterà quanto vuoi per fare
sesso, per la tua prima volta …" ribadì Caroline, posando poi il mento
sulla mano e piegando le labbra all'ingiù in un piccolo broncio.
"Nessun ragazzo a me lo ha mai detto …"
"Perché
non ti stavano raccontando stronzate. Salve, splendore."
Enzo
si materializzò dal nulla alle spalle di Caroline, si lasciò andare a
sedere sulla gradinata accanto a lei e drappeggiò comodamente un
braccio attorno alle spalle della mia amica, che invece arricciò il
naso in una smorfia disgustata e tentò, senza successo, di divincolarsi
per sottrarsi alla sua stretta.
"Scusami,
ti ha per caso interpellato qualcuno?" ribatté stizzita.
"Lo sento come un mio preciso dovere
morale, quello di intervenire ogni volta che una gentile donzella
pronuncia la parola sesso,"
replicò lui portandosi solennemente una mano sul cuore. "E lasciami
dire una cosa: se un ragazzo ti dice che può aspettare, quello che
intende veramente è «mi taglierei la mano destra se servisse ad
infilarmi nelle tue mutande»."
"Tu
non entreresti nelle mie mutande neanche se ti tagliassi tutti gli arti
e li vendessi in beneficenza."
"Stai
suggerendo che ce l'ho grosso?" le chiese lui strizzandole l'occhio.
"Oh
mio dio, sei disgustoso!" esclamò Caroline, prontamente assestandogli
una gomitata nelle costole.
Enzo
si piegò su stesso come conseguenza del colpo, e Caroline ne approfittò
per spostarsi di lato allontanandosi di qualche centimetro. Solo
qualche. Qualcosa mi diceva che sotto sotto non le dispiacesse del
tutto ricevere le sue attenzioni. Pur sempre di attenzioni si trattava.
"Stai
davvero molestando le ragazze, Enzo?" domandò Damon, comparso poco
dietro di lui.
Salì
con un salto sulle gradinate, si sedette appena una sotto di me. Ci
scambiammo un lungo sguardo, in silenzio, ma neanche io avrei saputo
dire esattamente cosa ci passò nel mezzo. Come la strana sensazione di
esserci ritrovati nel mezzo di un conflitto di cui nessuno dei due
sapeva il motivo e che nessuno dei due voleva veramente. Come se
avessimo molto da dirci, ma nessuno dei due sapesse né come né cosa.
"Solo
una," rispose Enzo rivolgendo un sorriso ammiccante verso Caroline che,
in risposta, alzò teatralmente gli occhi al cielo infastidita. "E poi,
ti saresti infilato nella conversazione anche tu, se avessi sentito le
succose notizie che stanno girando. Sembra che qualcuno stia per …"
Spostò lo sguardo su di me, fece schioccare la lingua in un sonoro pop,
"… far scoppiare la ciliegia [2]."
Mi
irrigidii come se mi avessero appena buttato in faccia una secchiata di
acqua gelata, facendomi defluire il sangue dal viso eppure mandandolo a
fuoco nello stesso momento. Perché aveva dovuto proclamare una
cosa del genere di fronte a Damon? Damon che non avevo il coraggio di
voltarmi a guardare. Damon che, lo sentii dalla sua spalla all'altezza
della mie ginocchia, si era appena irrigidito almeno quanto me. E
perché mi sembrava di colpo così importante, quello che Damon avrebbe
potuto pensare?
"Sei
uno schifoso!" lo stava sgridando Caroline, mollandogli una serie di
schiaffi sul braccio da cui Enzo si stava riparando con il sorriso,
come se si stesse godendo ogni secondo di quella schermaglia tra loro.
Avrei
voluto ribattere qualcosa di tagliente e noncurante, ma avevo la lingua
completamente immobile. Pensavo solo a Damon in quella gradinata sotto
alla mia, la sua spalla contro il mio ginocchio, il suo indecifrabile
sguardo fisso altrove.
"Perciò,
Damon, avanti … Hai qualche consiglio da dare in merito?" proseguì
Enzo, parando un altro schiaffo di Caroline e lanciando al suo amico
una beffarda espressione di sfida.
Volevo
morire. In quel posto, in quel momento. Sperai dentro di me che Damon
si decidesse a dire qualcosa e a farlo stare zitto. Ma sperai invano.
Damon
si distese con i gomiti all'indietro sulle gradinate, scrollò le spalle
con fare indifferente.
"Io
non mi faccio le vergini," replicò. "Sono così bisognose di attenzioni
e rassicurazioni che finiscono per toglierti tutto il divertimento."
Scattai
in piedi e corsi via prima di dar loro tempo di aggiungere altro,
lacrime di rabbia e mortificazione a bruciarmi dietro agli occhi almeno
quanto lo avevano appena fatto le parole di Damon.
***
Damon mi aspetta appena dietro la scalinata, in una specie di corridoio
laterale dove i suoni della musica e della serata iniziano già ad
affievolirsi. Ha la mano posata sulla maniglia di un'alta
porta-finestra ad arco che guarda sul giardino sul retro, lo riconosco
dai contorni del gazebo bianco che si intravedono in lontananza in
mezzo al nero grondante della notte. La porta si apre con un leggero
tintinnio del vetro, quando Damon la spinge in avanti.
"Sta
piovendo fuori," gli ricordo alle sue spalle, non appena lui mette
piede all'esterno.
"Non qui."
Mi indica
la balconata sopra alle nostre teste, sorretta da una serie di colonne
di pietra che creano un ampio riparo al di là del quale il temporale
continua ad imperversare violentemente. Spesse gocce di pioggia cadono
più lente dai bordi superiori del porticato, schizzando in macchie
scure oltre i bordi interni delle mattonelle che lo delimitano.
Socchiudo
la finestra alle mie spalle. Il contatto con la notte mi provoca un
rapido brivido, più per il contrasto rispetto all'aria calda di fiati e
persone che si respirava all'interno che per un freddo effettivo. Al
contrario: anche la leggera brezza che soffia è spessa e satura di
pioggia afosa.
"Hai
freddo?" mi domanda Damon, voltandosi a guardarmi.
Non mi
sfugge il modo in cui i suoi occhi non riescono ad evitare di
soffermarsi sulle mie curve fasciate dal vestito, o sulle gambe che mi
lascia scoperte.
Scuoto la
testa, ma mi sento debitrice nei confronti sia della penombra che ci
avvolge, rischiarata solo dalle luci provenienti dall'interno della
villa, sia del travestimento che indosso. Forse almeno loro riescono a
coprire il calore tiepido che il suo sguardo mi ha appena fatto salire
alle guance.
"Perché
siamo qui?"
Damon si
appoggia contro il muro e scrolla le spalle, lascia uscire un vago
sospiro infastidito mentre getta un'occhiata verso l'interno. Sembra
tutto sfuocato e lontano, al di là di quel vetro.
"Katherine
è qua attorno, e sto cercando di evitare … di averla attorno."
"Ti stai
nascondendo da tua moglie?"
Damon torna
a posare gli occhi su di me, le sue labbra accennano un sorriso
divertito di fronte al sarcasmo con cui ho infarcito la mia domanda.
"Non
chiamarla in quel modo. In ogni caso, non mi sto nascondendo. Volevo
solo cercare di parlarti in tranquillità." Sto per chiedergli di cosa,
ma lui mi anticipa corrugando la fronte ed indicandomi la sala con un
cenno della testa. "Era Matt Donovan quello?"
"Sì …"
"Sarei
potuto andare a salutarlo," prosegue sovrappensiero. "Donovan mi è
sempre piaciuto."
Sollevo le
sopracciglia, diffidente. "Non lo ha mai potuto soffrire."
"Solo
perché stava con te."
Lo dice
schiettamente, perché in fondo non è niente che nessuno dei due non
sapesse già, ma accompagnando lo stesso la frase con un leggero sorriso
obliquo che ha per un attimo il potere di farmi tornare indietro nel
tempo, a quando quello stesso sorriso dissimulava e rivelava e mi
confondeva come nessun altro. Mi fa desiderare, anche se è solo per
quell'istante, che alcune cose fossero potute andare in modo diverso.
"Per un
momento," confesso a bassa voce, "Ho pensato che non saresti venuto."
"Credevi
davvero che Caroline mi avrebbe permesso di non farlo? Si è presentata
ieri sera con tre di questi," si indica il vestito, la camicia bianca
che aderisce perfettamente al suo torace, la giacca e la cravatta di
seta nere. "E non ci ha dato scampo. Persino Alaric è stato costretto a
cedere. Dovevi vedere la sua faccia. Un giorno mi ucciderà per avergli
fatto sopportare tutto questo, me lo sento."
Rido piano,
divertita dal tono complice nella sua voce. Mi piace quando siamo così.
A parlare, sorridere, dimenticare per un attimo quanto siano complicate
le cose. E restare solo io e lui.
Mi avvicino
di alcuni passi, finché non siamo che a pochi centimetri di distanza.
"Beh,
Caroline però non sarebbe d'accordo di vederti andare in giro così,"
scherzo, indicando la maschera che porta ancora sollevata impertinente
sopra la testa.
Allungo le
mani verso il suo volto e gentilmente la faccio scivolare giù.
L'azzurro
dei suoi occhi risalta ancora più vivo dietro alla cornice offerta da
quella copertura nera che ho appena fatto andare al suo posto. Un
guizzo li attraversa, nell'attimo in cui si posano sui miei, tra
incertezza e tentazione. E' solo un lampo, ma rende l'aria attorno a
noi carica ed elettrica.
Esito. Ma
c'è qualcosa nella situazione - in questi travestimenti che abbiamo
addosso, nella sicurezza di essere lontano da occhi indiscreti - che mi
fa sentire audace, che mi fa cedere al bisogno di sentire ancora una
volta l'effetto che fa, essere così vicino a lui. Lascio scivolare le
mie dita ai lati del suo viso, tra i capelli morbidi che disegnano la
linea delle corte basette. Traccio le linee forti del suo profilo,
saggiando la pelle sotto ai miei polpastrelli, appena ruvida nei punti
dove la barba sta già premendo per uscire.
Damon
rimane immobile, ma sento il brusco respiro che inala quando le mie
dita arrivano a sfiorarlo lungo la gola ed io realizzo - lo realizziamo
entrambi - che i miei occhi sono rimasti a soffermarsi sulla curva
delle sue labbra già troppo a lungo.
Non so cosa
sto facendo. Nè se davvero mi importi saperlo.
Lo sguardo
di Damon è ancora su di me, ancora pieno di quel misto di cautela e
puro ardore che dissolve tutto il resto. Mente e sensi.
Prende
entrambe le mie mani tra le sue, le porta a circondare la sua nuca, le
lascia giacere lì. Scivola con una mano ad accarezzare la pelle
scoperta del mio braccio, che brucia e prende vita sotto alla
leggerezza del suo tocco. L'altra si posa sul mio fianco.
Non ha
bisogno di trascinarmi più vicino. Sono io a colmare le brevi distanze
che restano. E basta un niente per cadere in un'intimità che è
dolorosamente naturale.
Appoggio il
volto contro il suo mentre iniziamo a dondolare piano, a ballare prima
ancora di rendersi conto di farlo. Chiudo gli occhi, e mi perdo nella
musica distante e confusa, nel rumore compatto e insistente della
pioggia attorno, nel buio e nella sua vicinanza. Respirandolo a fondo.
Solo per un lungo, colpevole momento. So che sto giocando con il fuoco.
Ma voglio concedermi un attimo in cui far finta che non esista
nient'altro. Niente distanze lasciate orgogliosamente crescere con gli
anni; niente parole ferite che siamo stati capaci di riversarci addosso
l'un l'altra; niente matrimoni, niente piani futuri e nessuna
sensazione di essere alla deriva a divorarmi dentro.
E
non dirmi, lo sai e basta.
La sua mano
sul fianco mi stringe appena, e la mia mano destra scivola più in basso
per fermarsi sul suo petto, dove trova immediatamente le sue dita. Si
intrecciano alle mie, il suo pollice ne carezza il dorso lentamente.
Rabbrividisco, dentro e sulla pelle.
Va
bene. Puoi anche ammetterlo.
"Ho pensato
a te," sussurro così piano che non sono sicura possa sentirmi. Il
rumore della pioggia forse è troppo forte. "Mi sei mancato."
Lo dico con
il cuore che martella contro le costole, incredula che quelle semplici
- difficili, liberatorie - parole siano appena uscite dalle mie labbra.
Damon si
ferma. Mi fermo con lui.
"Elena …"
mormora.
C'è
qualcosa di teso e spigoloso nella sua voce che non riesco bene a
definire.
Sollevo lo
sguardo su di lui, maledicendo adesso quella stupida maschera che gli
ho messo io stessa e che non mi lascia capire cosa stia accadendo
dietro i suoi occhi.
"Me ne vado
domani. Torno a San Francisco. Volevo parlarti per dirti questo."
Lo guardo
confusa, non capisco. Non è la prima volta che torna in California per
qualche giorno per poter seguire entrambe le sue attività.
"Ok …"
dico, accennando un sorriso. "Ti fermi là per molto?"
"Non torno
a Mystic Falls. Non in un futuro immediato almeno," scuote appena la
testa. "La mia vita è là, Elena, non qui. Lo è da un bel po'."
Il
significato di quello che sta dicendo mi affonda dentro con la
brutalità di un taglio secco e inaspettato. Mi allontano da lui con uno
scatto, sottraggo la mano dal calore della sua, lo guardo smarrita.
"E non
pensi alla compagnia di tuo padre, e a tuo fratello, e …"
… a me. Due
parole che mi restano strozzate in gola come due affilate schegge di
vetro.
Damon si
stringe nelle spalle, io ancora non riesco a vedere la sua espressione,
coperta dal nero e dal buio. Solo la linea in cui stringe le sue labbra.
"Quello non
è un problema."
"Ma … non
puoi!"
Come fa a
non vederlo? Come fa a …
"Volevo
solo salutarti."
Sono ancora
in uno stato confuso di smarrimento e di emozioni che non hanno senso,
quando Damon prende il mio volto tra le mani e si avvicina per posare
un bacio leggero sulla mia fronte.
Sento le
sue labbra indugiare per alcuni, lunghi secondi, ma sempre troppo brevi
affinché tutte le parole che mi stanno premendo contro la gola,
disperate per uscire, abbiano il tempo di farlo davvero e farmi a pezzi.
Damon si
allontana da me, c'è un altro leggero tintinnio della finestra alle mie
spalle.
Se ne è
andato.
Non riuscii a fermare le lacrime. Ci
avevo provato, perché era assurdo ritrovarsi a piangere per una cosa
così stupida invece che per tutti gli altri motivi che le mie lacrime
se le sarebbero meritate molto di più, ma loro bruciavano semplicemente
troppo. L'avevano avuta vinta.
I
passi di Caroline mi avevano raggiunto in fretta, sui gradini
dell'edificio di Arte dove mi ero accasciata dopo essere corsa via dal
campo sportivo.
"Non
prenderla troppo sul serio," mi disse la mia amica, accarezzandomi una
spalla. "Sono ragazzi. Sono degli idioti per nascita, è colpa del
cromosoma Y."
Presi
il fazzolettino che mi stava porgendo, piegai le labbra in una smorfia.
"E'
vero," proseguì annuendo convinta. "L'ho letto in una rivista medica la
settimana scorsa mentre aspettavo dal dottore, va ad intaccare alcune
funzioni cerebrali fondamentali come quelle della sensibilità e dei
filtri prima di parlare, manda in corto circuito tutte le loro sinapsi
e quindi li fa agire come degli stupidi scimpanzé giganti che non
sarebbero in grado di-"
"Elena."
Sollevai
di scatto la testa, verso la voce di Damon che mi aveva appena
chiamato. Era bastato quello a far scomparire anche l'accenno di
sorriso che Caroline era appena riuscita a suscitarmi. La mia amica si
voltò con la ferocia di una leonessa, guardandolo in cagnesco.
"Cosa
vuoi?"
"Solo
un minuto. Con Elena."
Distolsi
gli occhi dai minuscoli sassolini di cemento che scricchiolavano sotto
le mie scarpe per posarli su Caroline, che mi stava chiedendo con lo
sguardo cosa volessi fare. Scossi la testa.
"Per
favore," insistette lui.
Riportai
lo sguardo fisso sulle mie sneakers, ma non mi sfuggì la nota
implorante e vagamente persa con cui lo disse. Caroline al mio fiancò
si alzò, andò a fronteggiarlo.
"Un
minuto solo," gli concesse con fare gelido.
Quando
si fu allontanata, Damon si inginocchiò di fronte a me, tenendosi in
equilibrio sui talloni. Vedevo solo le sue braccia posate sulle
ginocchia, il sole che brillava dietro a lui. L'ultima cosa che volevo
era che mi vedesse comportarmi come una ragazzina. Solo che non
riuscivo a farne a meno.
"Va'
via."
Non
lo fece.
"Mi
dispiace. Enzo è un cazzone, voleva provocarmi, ed avrei dovuto fargli
chiudere la bocca. E' colpa mia, tendo sempre a dire o fare cose
stupide quando …" lasciò cadere la frase, rimase alcuni istanti in
silenzio. Alzai appena il volto, solo per sbirciare di nascosto la sua
espressione. Lo vidi scuotere la testa, serrare le labbra.
"Ascolta,"
proseguì poi, più deciso. "Sono affari tuoi, con chi vuoi andare a
letto, o se non vuoi farlo affatto. Ma fammi chiarire una cosa," lo
osservai allungare una mano verso il mio volto, sussultai appena quando
passò il pollice sulla mia guancia per asciugarla delicatamente dalle
lacrime. Si erano fermate adesso. "Se Donovan ti fa soffrire, o se fa
il testa di cazzo in qualunque modo … Gli strappo le palle io stesso."
Tornai
a tormentarmi le dita, strappai una pellicina da un'unghia. Sorrisi
appena, senza volerlo. Mi era mancato questo Damon. Quello che era mio
in uno strano modo contorto che forse nessun altro poteva capire. Anche
quando lo detestavo, anche quando era un idiota. L'idea che potesse non
essere più così era terrificante.
"Adesso
che hai una ragazza, una ragazza vera …" dissi, sollevando per la prima
volta lo sguardo in modo da poter incontrare il suo. Aveva la sfumatura
semitrasparente che assumeva sempre alla luce del sole, si mischiava a
quell'azzurro inquieto familiare e inafferrabile al tempo stesso che
avevo imparato a conoscere così bene. A volte mi sembrava lo specchio
delle mie stesse paure. "Significa che starai con lei, che non avrai
più tempo per me?"
"Non
pensarlo neanche."
Respirai a fondo. Non era abbastanza.
Volevo di più. Volevo più lui. Egoisticamente.
Anche senza dargli lo stesso in cambio.
"Dimmi
che non ti perderò."
I
suoi occhi erano seri, attraversati dalla fermezza delle risoluzioni
definitive.
"Mai."
Attraverso l'intera sala facendomi strada tra la folla di gente -
accalcata, ubriaca, divertita - che mi ostruisce il passaggio. Ho
gettato alcune occhiate attorno, in mezzo alle maschere che turbinavano
e danzavano e ridevano a voce alta, cercandolo con lo sguardo ma
sapendo già che sarebbe stato inutile. E' Damon. E quando Damon prende
una decisione, non sta a perdere tempo inutile prima di metterla in
pratica. Ecco perché l'ho saputo dal momento in cui mi ha lasciato in
quel porticato che, se se ne era andato, era stato per dirigersi dritto
fuori dalla porta e fuori da questo posto.
Non so
neanche quanto tempo sono rimasta lì, ad affogare da sola nel suono
della pioggia, incapace di muovermi o pensare lucidamente. In un certo
senso, sapevo che sarebbe successo. Cosa mi aspettavo, dopotutto? Damon
ha ragione. Se ne è andato da molto tempo. Un paio di mesi non cambiano
tutto questo. Non possono. Non lo faranno. Perciò sapevo che questo
gioco malato, che ci avvicina almeno quanto ci allontana, avrebbe
finito per riportarci allo stesso punto.
Lui che
prova ad andare avanti.
Io che
resto indietro a sopportare il peso di tutte le cose non dette e delle
strade non prese.
Non so che
direzione sto prendendo neanche adesso. So solo che non posso
permettergli di nuovo di farmi questo. Andare avanti e lasciarmi
indietro.
Mi tolgo la
maschera quando arrivo sull'ingresso, mediamente affollato da alcuni
capannelli di persone che si riparano sotto la balconata. Ma non riesco
lo stesso a vedere molto. C'è solo la fitta coltre di pioggia che batte
violenta sul prato e sul viale, che avvolge i pochi lampioni che
costeggiano la strada di ingresso e li rende nient'altro che una
macchia di luce indistinta e sfuocata. Alcune persone camminano a passo
veloce sul marciapiede di pietra al riparo di larghi ombrelli, svoltano
sulla destra verso il parcheggio, illuminato della stessa fumosa luce
arancione.
Corro giù
lungo i gradini, e poi dentro a gocce di pioggia così corpose che
sembrano aumentare la forza di gravità e schiacciarla contro la terra.
Mi appesantiscono il vestito, mi disfano i capelli. Taglio lungo il
prato perché è la via più veloce per arrivare, ma i miei tacchi
affondano subito nella terra tenera imbevuta d'acqua. Li afferro con la
mano libera e mi libero anche di loro, mandandoli a raggiungere la
maschera appesa all'altra mia mano, corro più veloce sopra l'erba
fresca, una inconsueta adrenalina che cresce ad un ritmo pulsante,
nelle mie orecchie nel mio petto.
Diventa
ancora più selvaggia, quando finalmente vedo Damon sotto alla debole
luce del parcheggio, accento alla sua Camaro di cui ha appena aperto lo
sportello, grondante dai vestiti e dai capelli almeno quanto lo
sono io.
"Damon!"
gli grido.
Si volta,
gli occhi spalancati per la sorpresa.
Percorro
velocemente gli ultimi metri che ci separano mentre lui richiude con un
colpo secco la portiera, mi squadra disorientato in ogni centimetro,
come se fossi appena impazzita.
"Che
diavolo, Elena?"
"Ho bisogno
di sapere," dico non appena mi fermo davanti a lui.
Ho il fiato
corto per la corsa. Ho il fiato corto per tutto quello che sta per
esplodermi dentro.
"Bisogno di
sapere cosa?" mi domanda con una lieve smorfia, il suo smarrimento che
viene rapidamente sostituito da una vaga irritazione e dalla leggera
tensione nella sua voce e nel suo sguardo. "Diamine, sei fradicia.
Torna dentro o almeno sali in macchina."
"Te ne sai
andato per allontanarti da me?" continuo, ignorandolo.
Damon
continua a tenere lo sguardo fisso su di me, un lampo sofferto nei suoi
occhi quando registra la mia domanda, un altro confuso quando ancora
non capisce dove sto cercando di andare a parare. "Cristo, Elena, no.
Lo sai che-"
Faccio un
altro passo verso di lui, il battito insistente del mio cuore che si
riversa nel tremore della mia voce. "Saresti rimasto, se ti avessi
chiesto di farlo?"
Serra le
labbra e deglutisce con forza, riesco a vederlo, anche se la pioggia mi
appanna la vista riducendola a nient'altro che il suo sguardo, azzurro
e combattuto.
"Torna
dentro, Elena," mi invita di nuovo a fare invece di rispondere, ma lo
sento che c'è ancora una certa tensione a trasparire dalla sua voce
altrimenti fin troppo controllata. "Non c'è motivo di andare a …"
"Non
andartene."
Lo butto
fuori con tutto quello che ho. Deve capire che non può lui e non posso
io. Non può farmi questo di nuovo. Non posso lasciarglielo fare.
Le sue
labbra si socchiudono sconcertate, fanno per dire qualcosa, rimangono
mute.
Così faccio
un altro passo avanti, sul cemento umido e ruvido sotto ai miei piedi
nudi. Poso la mano sulla sua guancia, sulla sua pelle bagnata sotto
alle mie dita. Gocce fredde vi cadono attraverso dalle punte dei suoi
capelli grondanti.
"Non
andartene."
——————————————————————
Note:
[1]
"Rehearsal Dinner". Non sono sicura che esista lo stesso "concetto"
anche in Italia quindi non sapevo come tradurla, in ogni caso è quella
famosa e importante cena con la cerchia più intima che nella tradizione
Usa precede il matrimonio vero e proprio.
[2] "Pop the cherry". Dallo slang british, modo
volgare per dire "perdere la verginità" (vi risparmio cosa simboleggia
metaforicamente la ciliegia). Mi scuso per la traduzione poco calzante
e incomprensibile senza conoscere l'espressione originale, ma non
riuscivo a trovare altre espressioni che potessero rendere bene quanto
questa in bocca ad Enzo, soprattutto per l'immagine di lui che schiocca
le labbra proprio su quel "pop".
Spazio
autrice
Buonasera
... E' sabato sera e diluvia proprio come nel capitolo, ma almeno
grazie a questo sono riuscita a pubblicare addirittura in anticipo.
Fiera di me stessa per non essere in ritardo come al solito :)
Alcune
veloci note sparse sul
capitolo:
-
Su Michelle, la new entry ragazza di Damon nel passato: è un nuovo
personaggio che è nato un po' per caso, si è infilata nella storia in
punta di piedi prendendomi la mano, ecco perché per una volta non ho
usato personaggi presi dalla serie... In ogni caso, fisicamente me la
immagino un po' come Dianna
Agron.
-
Per le maschere ho trovato ispirazione in questo sito. La residenza invece me la
sono immaginata a partire dalla foto di una villa
diroccata che poi ho mentalmente restaurato :)
-
Per la serie, se SL fosse un telefilm e potesse avere una colonna
sonora. Quella del "ballo"/addio Delena sarebbe questa.
Quella di Elena che molla tutto per correre sotto la pioggia sarebbe questa.
Se volete, qui c'è la playlist su Spotify
con le varie canzoni nominate o citate o di "background" che aggiorno
ad ogni nuovo capitolo.
Invece,
per l'angolo social, questo è
il mio fake
e questo è il gruppo Facebook dove pubblico roba e anticipazioni
tra un capitolo e l'altro. Chiunque è la benvenuta. :)
Oltretutto,
mi sono resa conto che è quasi un anno che sto portando avanti questa
storia, e volevo farvi sapere quanto conti per me sapere che c'è ancora
qualcuno che la legge e la supporta, chi addirittura dall'inizio e chi
è arrivato dopo. Vi può sembrare una cosa da poco o che si dice sempre,
ma non lo è. Scrivere una storia è, spesso, impegnativo: per colpa
della mancanza di tempo, di quelle scene che fanno fatica ad uscire,
delle revisioni infinite per rendere al meglio anche solo una frase,
delle volte in cui ti viene da dire "ma chi me lo fa fare?". Solo che
poi c'è il momento in scrivi qualcosa che ti dà la soddisfazione di
aver reso bene quello che avevi in testa, e ci siete voi che mi fate
sapere quanto qualcosa vi abbia colpito, o dato un po' di emozioni, e
queste piccole cose da sole valgono tutto quello che c'è dietro.
So
che può non essere il massimo seguire una storia "a puntate" e
aspettare per il seguito,
ma ricevere sostegno e consigli lungo la strada è davvero più
emozionante e costruttivo che scrivere "in solitaria", quindi senza
tutto questo, senza voi che la leggete mano a mano, questa storia forse
neanche ci sarebbe, ed io vi ringrazio
per questo. It means a lot.
*_*
Io
quindi vi lascio ad immaginare la reazione/risposta di Damon a ciò che
Elena gli ha appena chiesto, nonché con la meravigliosa immagine creata
da Bloodstream_ appositamente per il capitolo che trovate alla fine
delle note. Lei è un cupcake, e se non conoscete la sua This side of paradise, vi consiglio vivamente di
rimediare ;)
Un
grazie di cuore a chi vorrà lasciare le sue impressioni!
A
presto, un bacio
ever
|
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Capitolo 18 *** Before I go ***
17
17.
Before
I go
-
Darling, I'll bathe your skin, I'll even wash your clothes
Just give me some candy before I go
Oh darling, I'll kiss your eyes and lay you down on your rug
Just give me some candy after my hug -
(Candy, Paolo Nutini)
Damon
Chiudo il portone alle mie spalle ed appoggio la schiena contro di
esso, riversando la testa all'indietro e lo sguardo verso il soffitto.
Cazzo.
Fuori il
temporale scroscia ancora con violenza. Ticchetta contro le finestre e
percuote la pietra del vialetto di ingresso. Dovrei togliermi di dosso
questi vestiti umidi, che mi si sono ormai completamente appiccicati
addosso insieme a tutta la pioggia di cui si sono imbevuti. Allungo una
mano verso la cravatta per allentarne il nodo, la tolgo e la getto via
con un gesto secco, quasi rabbioso, su cui sfogo tutta la frustrazione
che mi è di nuovo montata dentro.
Non avrebbe
dovuto farlo. Raggiungermi in quel parcheggio, lucida di pioggia e con
quella scintilla intensa nello sguardo. Posare la mano ad accarezzarmi
un lato del volto. E ancora meno avrebbe dovuto dire quelle due fottute
parole.
"Non
andartene."
Soprattutto,
non avrebbe dovuto dire quelle due fottute parole. Come se potessero
bastare a ribaltare decisioni già prese e tutte le buone intenzioni di
questo mondo.
Cosa che
effettivamente avevano rischiato di fare. Perlomeno in quell'attimo in
cui tutta la mia fermezza era stata spazzata via dalla folle idea di
aggrapparmi al suo viso, spingerla contro la portiera della Camaro e
intrappolarla lì, per baciarla così a fondo e così a lungo da farle
dimenticare tutto su chi siamo e dove eravamo.
Dopotutto,
Elena ha un modo tutto suo di incasinarmi il cervello.
Peccato che
poi, il momento dopo … ho capito. Ho capito cosa c'era dietro le sue
parole, dietro la sua mano appena tremante sul mio volto, dietro la
sfumatura più scura nel suo sguardo. Un tempo, gliel'ho visto scritto
in faccia così tante volte che, persino adesso, sono praticamente in
grado di raffigurarmelo anche ad occhi chiusi.
Voleva che
le provassi, ancora una volta, di essere suo. Non certo dimostrarmi di
essere mia.
Dannazione,
Elena.
Mi passo
una mano tra i capelli umidi, scrollando alcune gocce fredde che
scendono fin dentro il colletto della camicia e mi provocano una breve
scarica di pelle d'oca. Sottovoce, impreco di nuovo.
Al piano di
sopra, trovo ad aspettarmi ciò che sono venuto a finire.
Una valigia
che giace aperta sul pavimento ai piedi del letto, qualche camicia e
maglietta da infilarci dentro, un paio di riviste già lette, il
portatile la cui lucina verde mi informa essere completamente
ricaricato.
Inizio
senza fretta a mettere tutto al suo posto, nel silenzio che avvolge la
casa deserta se non fosse per il battito costante e ritmico della
pioggia, unico dei suoi attuali inquilini ad essere qui invece che,
come tutti, alla festa mascherata dall'altra parte della città.
Eccetto
Elena. Anche lei dovrebbe essere arrivata a casa ormai, penso tirando
fuori il telefono di tasca per gettare un'occhiata veloce all'ora che
lampeggia sul suo display.
Qualcosa mi
contrae il petto, al pensiero.
Potrei
chiamarla. Solo per assicurarmene. Quello che imperversa là fuori è un
tempo selvaggio. E' una valida, solida scusa. Non dovrebbe
necessariamente avere a che vedere con il bisogno che ho di liberarmi
la testa dall'immagine di lei ferma sotto la pioggia, con la sua
espressione da cucciolo confuso sul perché non sta ottenendo quello che
vuole, nel momento in cui mi sono sottratto dalla carezza della sua
mano ed ho scosso la testa in faccia a quelle due fottute parole, che
hanno ribaltato tutto senza davvero significare niente.
"Non me ne
resto qui a guardarti vivere la tua vita insieme a qualcun altro, se è
questo che vuoi."
Io stavo
solo facendo del sarcasmo.
Non
pretendevo davvero che prendesse l'idea sul serio (solo Elena, del
resto, può considerare seriamente una tale affermazione). Eppure in un
certo senso l'aveva fatto, pur buttando fuori le parole con un certa
difficoltà. Non quelle che avrei voluto sentire. Ma decisamente quelle
che mi aspettavo.
"Io non …
Non lo so cosa voglio."
Sì, beh. Ho
pensato di aver bisogno di un tantino più di questo. E, per la seconda
volta questa notte, le avevo detto addio, ignorando lo strappo nel mio
petto che ancora protestava un po' - un fottio di un po', in realtà -
all'idea di lasciarla andare così. Ma orgoglio da maschietti e ultimo
brandello di dignità, e tutte quelle cose lì.
Solo che
adesso, nel silenzio di questa casa enorme, di fronte ad una valigia
riempita per metà ed Elena che ancora si infiltra in ogni angolo dei
miei pensieri, non ne sono più così sicuro. Perché la sveglia
programmata per suonare intorno all'alba mi ricorda che tornerò ad una
vita libera da Elena tra meno di quattro ore, che chissà quando la
rivedrò di nuovo e che, con ogni probabilità, la prossima volta che
succederà ci sarà un altro anello al suo dito a fare il paio con quello
che ha già, rendendola più irraggiungibile che mai.
E forse,
allora, fanculo all'orgoglio da maschietti e all'ultimo brandello di
dignità. Mi prenderei anche un "Non lo so", se solo significasse averla
qui adesso a calmare questo buco dolorante e inappagato almeno per un
altro po', anche se poi dovesse lasciarlo in condizioni peggiori di
prima. Dio se sono fottuto. Magistralmente fottuto.
Sento il
mio telefono appoggiato sul copriletto vibrare sottilmente, vedo il
nome del mio fratellino lampeggiare sul display.
"Te ne sei
già andato?" mi domanda, urlando nel microfono per superare la
confusione.
La festa a
quanto pare non solo è ancora a pieno volume, ma è adesso passata ad
una musica molto più da club rispetto a quella che ho lasciato quando
me ne sono andato.
"Già. I
folletti sono in sciopero, non staranno qui a fare la valigia al posto
mio."
Un paio di
bassi bip, in sottofondo alla conversazione, annunciano un'altra
chiamata in entrata.
"Uno
strizzacervelli avrebbe un sacco da dire sul fatto di esserti ridotto
all'ultimo secondo," replica Stefan mentre io piego e metto via
un'altra maglietta.
"Uno
strizzacervelli avrebbe un sacco da dire su un sacco di cose, quando si
tratta di me."
"Senti,
farò tardi. Care deve restare qui finché non hanno finito, e sembra che
andranno avanti ancora per un po'. A che ore dobbiamo partire per
l'aeroporto?"
"Intorno
alle cinque."
"Perfetto.
Ci vediamo dopo."
Come chiudo
la telefonata, un'icona è comparsa sull'angolo in alto dello schermo
per informarmi di un nuovo messaggio vocale. Ci clicco sopra in
automatico, distrattamente, e riprendo ciò che stavo facendo. Ma mi
congelo nell'atto di allungarmi per afferrare una camicia, non appena a
raggiungermi è la voce esitante, appena roca, che proviene dall'altro
lato.
"Ciao.
Sono … Sono io."
Impiego
qualche secondo per riprendermi da quell'attimo di scompenso.
Lentamente mi siedo sul bordo del letto. Non parla, non immediatamente,
così ascolto solo il silenzio che riempie il quasi impercettibile
ronzio di fondo della registrazione. C'è un leggero intensificarsi del
ticchettare della pioggia sui vetri, come se si fosse appena spostata
più vicino alla finestra. Poi Elena sospira, "Dio,
questo è strano. Sono stata quasi sollevata quando è entrata la
segreteria, perché ho pensato che sarebbe stato più facile farlo senza
sentire la tua voce e parlarti davvero, che così avrei semplicemente
potuto dire quello che …"
Si
interrompe di nuovo.
"Non
lo so. Sto dicendo cose senza senso, non è vero?"
Mi sembra
quasi di sentire l'angolo che le piega appena le labbra in un sorriso
un po' triste, nella breve pausa che prende prima di proseguire.
"Ma
tu hai avuto la tua possibilità di dirmi addio, ed io non davvero,
perciò … beh, ci sono un sacco di cose che non ho mai avuto la
possibilità di dire, e forse non ce l'avrò più. E lo so che non
cambierà niente, è davvero troppo tardi per quello o per fare le cose
in modo diverso, questo lo so, ma … Non credo che tu abbia mai davvero
saputo quanto tu significassi per me tutti quegli anni fa, o tutto
quello che provavo per te. Era … molto. Troppo, forse. E mi ci è voluto
davvero tanto per prenderlo in considerazione, figuriamoci ammetterlo,
perché … beh, fa paura. Tu, tu sei una persona che fa paura.
Meravigliosamente paura, ma è pur sempre paura. Quindi … Adesso l'ho
detto. E lo so che dopo tutto questo tempo per te non significherà
niente, ma ho pensato che almeno questo … dovessi fartelo sapere.
Voglio che tu sia felice, lo voglio davvero."
C'è un
morbido, ultimo "ciao". La registrazione finisce con un click.
Rimango
inanimato sul bordo del letto. Allontano il telefono dall'orecchio,
abbassandolo lentamente, mentre la voce automatica della segreteria
esce un po' metallica dagli altoparlanti annunciando la data e l'ora
del messaggio e quel solito buco inappagato di prima si estende e
guarisce e fa male tutto nello stesso momento.
Questa è
Elena. Che mi incasina il cervello. Che ribalta, in un solo momento,
tutto quello che trova da ribaltare. Ancora, e ancora.
"Quindi, cosa farai adesso?"
La
domanda del mese da un milione di dollari.
Pressoché
impossibile scamparne.
Serpeggiava
nell'aria, trepidante e elettrizzata. Tra le discussioni da corridoio
accanto agli armadietti, tra gli ultimi allungamenti durante le ore di
educazione fisica ai bordi del campo sportivo, perfino tra i complotti
su come contrabbandare alcol durante il prom. Maggio ha questo effetto
su quelli dell'ultimo anno.
Personalmente,
ogni volta che per caso mi imbattevo in quella domanda, me la lasciavo
scivolare addosso con semplici scrollate di spalle. Il mio piano era
semplice, dopotutto. Avrei semplicemente continuato con il lavoro al
negozio di musica di Rose fino a che non me ne fossi venuto fuori con
qualcosa di meglio.
Volevo
rimanere in questo buco di città? Col cavolo. Volevo lasciarlo? Quella
era domanda che si portava dietro tutto un altro genere di implicazioni
alle quali ancora preferivo non pensare.
Così,
mi riempivo la bocca di parole come gap year e nuove esperienze,
indulgendo nei discorsi di Enzo sul mettersi in macchina e basta e
andare verso la cazzo di New York, quando in realtà non stavo facendo
altro che prendere tempo.
Solo
che poi, non è che di tempo ce ne fosse poi molto. L'ultimo mese di
liceo, insieme a tutto ciò che lo accompagna, se ne andò via talmente
in fretta da avere a malapena modo di rendersene conto.
Michelle
era stata irremovibile sul fatto di doverla portare al prom, perlomeno
se volevo continuare ad avere accesso a ciò che stava sotto le sue
gonne. Con tanto di giacca e camicia bianca, corsage abbinato e
presenza alla sua porta. Fortunatamente, sotto a tutto
quell'atteggiamento da ragazza della porta accanto e a tutto lo show
messo su a beneficio dei suoi genitori, c'era ben altro. Ne ebbi ancora
una volta conferma all'after-prom a casa di Georgina Fell - una povera
ragazza molto dimenticabile e molto sfortunata, convinta di aver
organizzato un pigiama party con le sue amiche più intime, che si era
invece ritrovata la casa invasa da tutta la classe del 2005 e ciò che
la accompagnava. Lì, entrambi su di giri per troppi rummy bears [1],
passammo buona parte della serata in una camera rosa e soffice a
mettere su una vivace dimostrazione orale tutta a beneficio della
nutrita schiera di animali di peluche che la affollava.
Anche
lei, però, aveva presto iniziato a chiedermi cosa avessi intenzione di
fare da lì ad un paio di settimane. Aveva accolto le mie chiacchiere
corrugando appena la fronte, forse chiedendosi cosa potesse significare
nei termini della nostra relazione, o forse internamente mettendo in
dubbio le mie ambizioni e i miei talenti, andando così ad aggiungersi
alla crescente lista delle persone che si aspettavano qualcosa da me e
che, in un modo o nell'altro, qualsiasi cosa facessi, io tanto
continuavo a deludere.
Arrivò
in fretta anche il giorno del diploma, una giornata luminosa e
frizzante di piena primavera con appena un residuo di aria fredda a
soffiare dai boschi sotto alle tuniche rosse del Mystic Falls High,
mentre ad uno ad uno venivamo chiamati a salire sul palco a ritirare il
pezzo di carta. Enzo ed io arrivammo solo all'ultimo secondo, voleva
farsi un'ultima canna veloce dietro agli spalti come suo modo per dire
addio in bellezza. Salì sul palco dopo che era già stato chiamato per
tre volte, un segno di vittoria in direzione della folla ed alcuni baci
e ammiccamenti verso un gruppo di brunette che ridacchiavano al di
sotto. Una bionda a qualche metro da loro alzò gli occhi al cielo in un
teatrale moto di fastidio.
E
poi il prato del liceo divenne una roba brulicante di foto,
acclamazioni, abbracci, genitori felici, promesse di amore e amicizia
verso l'infinito e oltre, la maggior parte delle quali destinate ad
infrangersi al massimo nel giro di pochi mesi.
Tirai
via il cappello, mollandolo a Stefan, non appena la cerimonia finì ed
io misi il piede giù dal palco, preoccupandomi piuttosto di passarmi
una mano tra i capelli per rimediare all'appiattimento che aveva
provocato.
"Ti
dona."
Sollevai
lo sguardo verso il commento scherzoso di Elena, appena apparsa davanti
a me.
Fece
scorrere un dito lungo il bordo della tunica da diploma che avevo
lasciata aperta sul davanti, un minuscolo sorriso quando incrociò il
mio sguardo.
Curvai
anche io un angolo della bocca verso l'alto. In quel periodo dell'anno,
era raro ottenere un sorriso da parte di Elena. Più la data si
avvicinava, meno lei sorrideva. Così, mi prendevo semplicemente quello
che riuscivo ad ottenere. Prima però che avessi il tempo di
accompagnarlo con una battuta sarcastica, lei mi aveva già gettato
entrambe le braccia al collo, serrandole strette. Aggrappandovisi con
forza, neanche potessi scivolarle via tra le dita da un momento
all'altro.
Esitai
a reciprocare. Negli ultimi tempi, mi sembrava sempre di non sapere mai
come avrei agito intorno a lei. Non mi fidavo del mio corpo, dei miei
pensieri, delle mie parole. Non c'era modo di prevedere come avrebbero
reagito, anche solo di fronte a piccole cose o contatti innocenti come
quello. Decisi quindi per una semplice carezza lungo la sua schiena ma,
prima che potessi farlo, al di là della sua spalla, venni distratto
dallo sguardo di mio padre, adesso di fronte a me.
Mi
sciolsi dal suo abbraccio. Anche lei si voltò, mentre lui la osservava
con un misto di genuina curiosità e quello strano sguardo pensoso e
vagamente critico che generalmente riservava a tutto ciò che
considerava … guai. Aveva la capacità di mettere chiunque piuttosto a
disagio ed anche Elena non ne uscì del tutto indenne, a giudicare da
come spostò nervosamente il peso da una gamba all'altra ed appuntò una
ciocca di capelli dietro all'orecchio quando mio padre le porse la
mano, per presentarsi con una stretta ferma e decisa.
"Finalmente
incontro la ragazza di mio figlio."
Mi
strozzai su un grumo di saliva che andò immediatamente di traverso.
Elena spalancò gli occhi.
"Non
sono la sua ragazza. No, no, no," si affrettò a chiarire con una
risatina tesa.
Wow.
Quelli erano davvero un sacco di no.
"Noi
siamo solo …" Si girò verso di me in cerca di sostegno e si bloccò,
come se tutto d'un tratto si fosse scordata la terminologia.
Tornai
a voltarmi verso mio padre. "Ti serve qualcosa?"
"Parlarti."
"Io
… vado allora," aggiunse Elena. "E' stato un piacere conoscerla, signor
Salvatore."
Elena
mi gettò un altro sorriso veloce prima di incamminarsi, sempre sotto lo
scrutinio attento di Giuseppe.
"Quindi?"
lo incalzai. Non avevo voglia di stare a sentire i suoi commenti al
riguardo, in caso stesse davvero pensando di farne. "E' questo il
momento in cui mi rifili uno dei tuoi inimitabili discorsi sull'essere
arrivato il momento di essere responsabile e farmi carico del mio
futuro e … Sto dimenticando qualcosa?"
Mi
fece cenno con una mano di iniziare a camminare verso uno spazio più
tranquillo, un po' distante dal resto della folla. Qualche metro alla
nostra sinistra, una famigliola felice era in posa per una foto, così
simmetrici e perfetti nel loro modo di ostentare tutta quella felicità
che avrebbero potuto essere i prossimi testimonials di una campagna
pubblicitaria Repubblicana sul sogno americano.
Mio
padre aprì la giacca del completo per prenderne una busta orizzontale
dalla tasca interna.
Corrugai
la fronte, nel prenderla cautamente dalla sua mano. "Cos'è?"
"Il
tuo regalo di diploma. La tua ammissione al Dartmouth college."
Continuai
a guardarlo senza capire di che diavolo stesse parlando.
"Ho
dovuto parlare personalmente con alcune conoscenze nella Board of
Trustees per convincerli ad accettare la tua domanda tardiva. Vogliono
incontrarti di persona la settimana prossima per un'intervista, devi
solo-"
"Io
non ho fatto domanda per Dartmouth," lo interruppi.
Nè
una tardiva, né una di alcun genere.
Sostenne
il mio sguardo, represse una smorfia. "Lo so."
E
quello bastò per farmi capire tutto.
"Cazzo,
mi prendi in giro?" sbottai, sbattendogli la lettera contro il petto.
"Di tutte le cose, questo è un punto basso persino per te! Sei davvero
così folle da pensare che potrei accettare solo perché tu l'hai
fatta al posto mio e mi hai comprato l'ammissione?"
"Nessuno
ti ha comprato niente!" ribatté con altrettanto impeto. "Ho solo fatto
sì che le dessero una possibilità passati i termini della scadenza.
Tutto il resto, tutto quello che c'è dentro, il motivo per cui l'hanno
accettata, sei tu. Credevi davvero che, con i tuoi risultati ai SATs [2],
fossi rimasto a guardare e non fare niente come stai facendo tu? Hai
fatto 2258, cazzo."
"Allora
puoi prenderli e metterteli dove vuoi per 2258 volte," replicai, la
rabbia a pulsarmi forte nelle orecchie. "Smettila di immischiarti nella
mia vita."
"Lo ha fatto in buona fede," commentò
Elena quella stessa sera, seduti fuori dal Grill sui gradini della
porta
di servizio sul retro.
Scrollai
le spalle e soffiai via una boccata di fumo, lo sguardo fisso sulla
parete di mattoncini rossi e grigi che delimitava l'edificio dall'altra
parte del vicolo.
"E'
solo perché vuole ciò che meglio per te."
"No,"
la corressi, agitando nell'aria le dita che tenevano la sigaretta.
"Vuole ciò che è meglio per l'immagine che vorrebbe avere di me. E'
tutta un'altra cosa."
Elena
rimase in silenzio, pensosa. Appoggiò il mento su una delle mani,
tenendo il gomito in equilibrio sul ginocchio.
"Lo
capirà anche lui. Un giorno."
Diedi
un ultimo tiro e schiacciai il mozzicone sotto alle scarpe.
"Non
trattengo il respiro nel frattempo."
"Da quando fumi, in ogni caso?" mi domandò
inclinando il viso di lato verso di me.
"Da
quando sono incazzato," replicai. Mi girai a guardarla. "Hai intenzione
di farmi la ramanzina?"
"No
…" sospirò roteando gli occhi al cielo. Con una mano indicò la tasca
dei miei jeans, che aveva appena ripreso a squillare per la terza
volta. "Ma qualcuno lo farà, se non rispondi al telefono."
"Cristo,"
bofonchiai scocciato, tirandolo fuori. "E' Michelle. Mi sta aspettando
per passarla a prendere e andare al falò di fine anno."
"A
che ora?"
"Alle
…" sbirciai l'ora sul display, che adesso segnalava una nuova chiamata
persa. "Mezz'ora fa."
"Allora
dovresti andare."
Quando
rialzai gli occhi su di lei, dopo aver rimesso il telefono in tasca,
aveva sempre il viso posato sulla mano ma lo sguardo adesso fisso verso
il basso, sulla punta delle sue ballerine con cui stava molestando uno
sgretolamento nel cemento. Un'invisibile stretta mi chiuse lo stomaco.
Non avevo poi tutta questa gran voglia di andarmene.
"Vieni
anche tu."
Scosse
la testa.
"C'è
bisogno che resti qui. Non c'è nessun altro a parte Jenna, e poi …" Si
morse un labbro, lasciò uscire un sospiro. "Papà non è davvero in sé,
in questi giorni."
"E'
domani, vero?"
Annuì,
ed io non dissi niente. Perché domani sarebbe stato un anno da quando,
una mattina di tarda primavera come tante altre, un paio di giorni dopo
la fine della scuola, sua madre era salita in macchina per un paio di
commissioni fuori città, qualcuno aveva sbandato la curva opposta sul
Wickery Bridge ed aveva lasciato ben poco da dire.
"Lo
sai … Posso restare qui, magari. Sono sicuro che Jer ha qualche nuovo
supereroe appena scoperto di cui muore dalla voglia di parlare, oppure
posso dare una mano con i tavoli, o anche solo … non lo so, restare qui
e basta."
Lentamente,
sollevò la testa verso di me, incrociai il suo sguardo. Sbatté le
palpebre un paio di volte, come se il gesto potesse aiutarla a mettere
bene a fuoco quel che avevo appena detto. E, quando lo fece, c'erano
una profondità ed un luccichio nei suoi occhi che, dannazione, lo
giuro: il mondo si fermò.
Solo
che poi qualcos'altro li attraversò, tornando a prendere il sopravvento.
"Matt
ha già detto che passerà."
Una
fitta acuta mi trapassò le costole. Da parte a parte.
"Giusto
…" annuii, con una voce scricchiolante che sembrò a malapena la mia.
"Beh, allora io …"
Mi
bloccai all'improvviso, sentendo le mie dita sfiorate dalle sue.
Spostai gli occhi sopra la mia mano, posata aperta sopra al ginocchio,
proprio mentre la sua andava un po' tentennante a coprirla,
intrecciando le sue dita sottili con le mie dalle nocche più sporgenti.
Ricordai
come fare a muoverle solo un paio di secondi dopo. Le accarezzai il
pollice con il mio.
"Però,
forse, io …" iniziò a dire, ma la porta alle nostre spalle si aprì in
quello stesso momento, facendoci sobbalzare entrambi. Spezzando quel
contatto, quando ci voltammo per guardare.
Jenna
era sulla soglia, uno sguardo di scuse in faccia e le dita intente a
stropicciare incerte il corto grembiule verde legato alla vita.
"Elena
…. Mi dispiace, lo sai che non vorrei … E' che ho davvero bisogno di un
po' di aiuto con un paio di tavoli," mormorò dispiaciuta.
"Sì,
arrivo subito."
Elena
si alzò, io mi alzai con lei. Evitò di guardarmi. O aggiungere altro.
Solo un veloce accenno di sorriso di saluto, quando tanto era già
rientrata oltre la porta.
***
Non era neanche l'una, quando mi
ritrovai a considerare che forse quella serata era meglio chiuderla lì.
Enzo
mi aveva mollato per farsi i fatti propri circa un'ora prima.
Sospettavo che ci fosse di mezzo una ragazza, ma non ci avrei messo la
mano sul fuoco. Insomma, il fatto che mi avesse chiesto un preservativo
poco prima di sparire avrebbe dovuto di per sé essere un indizio
sufficiente. Solo che, quando gli avevo chiesto se andava a concludere,
era rimasto eccezionalmente sul vago, scrollando le spalle con un
semplice "nah, solo se dovesse capitare", evento più unico che raro per
uno che evitava sempre di risparmiare i dettagli.
Michelle
era di buon umore, anche a dispetto del mio ritardo, per il quale non
aveva fatto tante storie. Non era quel genere di ragazza, e mi piaceva
per quello. Aveva semplicemente preso per buoni i miei borbottii su una
cena di famiglia protrattasi troppo a lungo. Giusto una volta mi aveva
chiesto perché continuassi a sembrare con la testa altrove, domanda che
avevo liquidato con un "mio padre mi assilla. Lascia stare," che aveva
chiuso lì la questione. In definitiva, si stava divertendo di più in
compagnia delle sue amiche che con me e, dio, perfino Stefan là in
mezzo ai suoi compagni della squadra di football aveva una faccia
migliore della mia.
Forse,
dopotutto, era stata una serata migliore l'anno prima, quando una
brunetta piccolina con una bella risata era sbucata fuori dal nulla
soltanto per farmi andare in bianco in cambio di cinque, insoliti,
minuti con lei.
Stavo
giusto per decidere se andare direttamente verso la Camaro o restare
solo per un'ultima bevuta, quando il mio telefono iniziò a suonare. Una
chiamata di Elena.
Mi
allontanai di alcuni passi per poterla sentire meglio sopra alla musica
e allo scoppiettio del fuoco, il pessimo segnale disturbato dal fitto
degli alberi che certo non era d'aiuto.
"Ehi,
mi dispiace chiamarti, non volevo interrompere o …"
La
sua voce suonava metallica e distante, interrotta da brevi scariche.
"Non
interrompi niente," risposi. Mi sedetti su un tronco tagliato e venni
subito investito da un leggero vento fresco, adesso che avevo lasciato
la zona di calore intorno al falò. "Come stai?"
"Mi
hai visto solo poche ore fa."
"Sì,
però mi stai chiamando, perciò … Sei ancora al Grill?"
"No,
non sono al Grill. Abbiamo chiuso circa mezzora fa, non c'erano molte
persone in ogni caso. Matt mi ha accompagnata a casa."
"Bene.
E' lì con te?"
Ci
fu un lungo silenzio. Stavo per iniziare a pensare che fosse caduta la
linea, ma poi parlò di nuovo.
"No.
No, io …" esitò. "… In realtà, sono a casa tua."
Il
lungo silenzio fu mio questa volta. Perché la mia mente era ancora
impegnata a processare quell'informazione e lo strano modo in cui mi
aveva improvvisamente reso più difficile la semplice azione di
deglutire, quando Elena mi domandò, "Sei ancora lì?"
"Sì,"
mi affrettai a dire. "Sì. Perch … Stai bene?"
Un
secondo. Due secondi. Tre …
"Damon
… Non voglio stare da sola stanotte."
Busso quattro o cinque volte.
Quattro o
cinque volte prima di vedere la luce accesa al piano superiore scendere
ad illuminare anche il pianterreno, al di là della finestra posta mezzo
metro alla mia sinistra.
Il
porticato di legno bianco mi ripara dall'acquazzone, ma forse anche per
quello è già un po' troppo tardi. I miei vestiti, che si erano
asciugati a malapena nel tempo della mia breve sosta valigia alla
villa, si sono inzuppati daccapo una seconda volta nell'arrivare fin
qui dalla Camaro che ho lasciato parcheggiata dietro l'angolo.
Pessima
idea, lo so. Scarso buonsenso è il mio secondo nome.
Poi Elena
apre piano la porta. Ha i capelli adesso disordinatamente appuntati
sulla testa, e si è liberata del corto e lusinghiero vestito nero che
indossava un'oretta fa in favore di un forse più corto - e, lo ammetto,
altrettanto lusinghiero - pigiama composto da una sottile canottiera
blu che cade morbida sul suo addome e da dei minuscoli pantaloncini
rossi che rischiano seriamente di anestetizzarmi un po' i polmoni, alla
vista di tutto ciò che lasciano scoperto.
I suoi
occhi si spalancano per la sorpresa e ancora di più per l'incredulità.
Del resto, sono un po' incredulo persino io di trovarmi qui in questo
spicchio di luce che fuoriesce sulla sua soglia.
Eppure non
dice niente.
Incontra
solo il mio sguardo, e deve essere tutto ciò che le serve, perché
silenziosamente compie un passo indietro, permettendomi di riempire
quello spazio che ha appena lasciato libero per me.
La porta si
chiude dietro di noi.
"Cos'è
cambiato?"
E' una voce
di gola, quella con cui lo chiede. Mi fa affluire il sangue alla testa
così selvaggiamente da offuscare la mia capacità di giudizio, o
perlomeno ciò che ne è rimasto, ancora di più.
"Niente,"
ammetto.
Che è un
po' una bugia. Ed un po' non lo è.
Perché
niente è cambiato rispetto a ciò che ci siamo detti solo un'ora prima,
ma niente è cambiato neanche nel modo in cui tutti e due ne abbiamo
bisogno. Ma forse è cambiato il fatto che adesso questo lo sappiamo
entrambi, e questo da solo basta a fare tutta la differenza del mondo.
Elena posa
esitante una mano all'altezza della mia spalla e con lo sguardo ne
segue l'intero percorso mentre scivola verso il basso, seguendo il
bordo bagnato della mia giacca. Vi chiude sopra le dita, lo stringe e
torna a sollevare il viso, usandolo per attirarmi verso di lei finché
non sono che ad un fiato di distanza.
Porto una
mano a racchiudere il suo volto, infiltro le dita tra i capelli ancora
umidi alla base del suo collo. Allungo l'altra per disfare ciò che li
tiene insieme e lasciarli cadere liberi sulle sue spalle. Ancora un po'
disordinati, ancora un po' elettrici di umidità. Magnificamente
incasinati come è lei.
La guardo,
la guardo e basta, mentre con il pollice le accarezzo la guancia;
mentre proseguo verso il labbro inferiore, e guardo anche quello, e il
modo in cui si socchiude per me al suo passaggio. Solo quando ci sento
sopra il soffio del suo respiro accelerato, mi rendo vagamente conto
che anche il mio non è decisamente da meno.
Non so
neanche quanto restiamo in quella situazione assurda, sull'orlo di
cadere ma non ancora al punto di farlo, a girarci intorno come se di
colpo non fossimo sicuri di cosa farne di noi e del casino in cui ci
siamo cacciati.
Ma poi è lo
spazio di un respiro.
Le labbra
di Elena sono sulle mie e basta che la mia bocca risponda al suo
slancio, basta il minimo assaggio del suo sapore, per darmi alla testa
e riempirla di nulla.
Il nulla
quando le sue mani mi lasciano andare la camicia per andare a
mischiarsi con i capelli sulla mia nuca e tenermi lì fermo, come se
davvero potessi anche solo pensare di andare da qualche parte.
Il nulla
quando la premo contro la porta e accarezzo tutto quello che trovo,
spalle, lati del seno, curva dei fianchi.
Il nulla in
mezzo a tutta la serie di respiri frammentati che subito sono l'unica
cosa ad inserirsi in quei piccoli spazi che lasciamo per l'aria di
tanto in tanto. Non molti, in realtà.
Mi sospira
affannata sulla bocca quando le sollevo la schiena per arcuarla e
premermela addosso, stropicciando la stoffa del suo top sotto alle mie
dita, ad un passo dal sollevarlo e toglierlo immediatamente di mezzo.
Ma avrei dovuto sapere che Elena aveva altri piani in mente.
Mi spinge
all'indietro facendo forza con entrambe le mani sul mio petto, ed
entrambi incespichiamo qualche passo cieco e incerto fino a che
non urto con la schiena contro la balaustra di legno che segna la fine
delle scale. Gli intarsi del legno mi premono tra le scapole ma,
fanculo, in questo momento la lascerei schiacciarmi contro un muro di
chiodi per quel che me ne frega. Specialmente quando riprende a
baciarmi e la sua coscia si insinua tra le mie gambe, trova la mia
erezione, ci scivola sopra in movimenti ritmici, mi toglie il fiato. Ed
abbiamo a malapena cominciato.
E' una
piccola cosina prepotente, Elena, un po' come avevo sempre sospettato.
Sorrido. Lo
adoro.
Le sue dita
corrono giù lungo il mio collo e planano sopra i bottoni della mia
camicia, trafficano precipitose per aprirli, intanto che io mi affretto
a liberarmi della giacca. Un paio di essi schioccano aperti un po'
troppo di colpo, come suggerisce un leggero tintinnio di qualcosa che
cade, al quale siamo entrambi troppo impegnati per prestare attenzione,
nel momento in cui le sue mani trovano finalmente quello che volevano
attraverso la camicia aperta.
Altri passi
ciechi e incerti quando la sospingo su verso il piano di sopra, mentre
una delle sue mani è impegnata a tracciare i muscoli nella parte bassa
del mio addome e l'altra a tirare alla base del mio collo in modo che,
in tutto questo, la mia bocca non si azzardi a lasciare la sua.
Ma lei non
è la sola ad essere impaziente o a volere la sua parte, e siamo solo a
metà delle scale quando la premo contro il corrimano e faccio scendere
le mani lungo i suoi fianchi, sulle sue natiche, ed ancora più in basso
finché non trovo nient'altro che pelle nuda. Sollevo una sua coscia
all'altezza della mia vita, lei mi circonda subito con il polpaccio, ed
io torno a baciarla.
Sullo
zigomo. Sul profilo del viso. Sulla curva del suo collo. Leccando e
mordicchiando ogni più piccolo pezzetto di pelle che riesco a trovare.
E' qui che
lo sento, per la prima volta. Quel suono che sfugge sconnesso dalla sua
gola, mezzo tormentato mezzo in estasi. Non che io pensassi davvero di
essere rimasti silenziosi fino adesso ma, che diavolo, non mi sono
praticamente reso conto di niente di tutto ciò che stava succedendo
attorno a me. E' un po' come riemergere da quell'apnea divina dove non
esiste altro se non Elena, soltanto per poi rituffarcisi l'attimo dopo.
Più a fondo, e più intensamente.
Soprattutto
quando le sue gambe si aprono un po' di più, e c'è un'altra cosa che
sento per la prima volta, perché … Cristo santo. E' caldo e scivoloso
al di là di quei pantaloncini, e l'unica ragione per cui non vi insinuo
immediatamente le dita al di sotto come sto morendo dalla voglia di
fare è solo perché Elena ha appena ripreso il controllo, spronandomi
all'indietro e strattonandomi via del tutto la camicia dalle spalle.
Cade sul
pavimento, lì sulla cima delle scale. La calpestiamo entrambi, con gli
ultimi passi che ci fanno cadere nella sua camera da letto.
Mi piacerebbe poter dire che è un po' come lo avevo immaginato, ogni
volta che negli ultimi mesi mi sono concesso di pensare cosa avrei
fatto con Elena mezza svestita tra le mani. Sicuro che mi sarei preso
tutto il tempo del mondo per fare le cose per bene, farla impazzire di
anticipazione e possibilmente rovinarla per chiunque sarebbe arrivato
dopo di me. A lungo, a fondo, con calma.
Oh, beh.
Non va
esattamente così.
Fanculo
alla calma.
E' tutto
piuttosto brusco e incasinato.
E' tutto
fottutamente meglio di qualsiasi altra cosa.
Quando
Elena mi sospinge a sedere sul bordo del letto, e si aggrappa con le
mani sulle mie spalle nude sussurrandomi nell'orecchio i suoi respiri
spezzati. Quando non proprio gentilmente le tiro giù la spallina della
canottiera per scoprire il seno, prenderlo tra le mia dita e tra le
labbra, e la mia rasatura già ruvida la graffia appena sulla pelle
tenera, ma lei non fa che attirarmi più vicino. Quando la rovescio
sopra al letto e mi alzo a sedere sulle ginocchia per sbottonarmi i
pantaloni, e finisce che deve tirarsi su anche lei, perché le mie dita
stanno tremando un po' troppo e deve essere lei a farlo per me. E
quando lo fa, dio quando lo fa, la sola vista delle sue labbra appena
socchiuse alla stessa altezza dei boxers che sta abbassando e quella
dei suoi occhi che guardano in su - mai così scuri, pieni e offuscati -
sarebbe abbastanza da spedirmi direttamente nello spazio profondo.
E' solo
quando la libero anche dei suoi pantaloncini e intimo, tutto in un
unico movimento, e porto una mano tra le sue gambe che mi concedo il
momento di essere delicato, di perdermi a guardarla mentre la porto al
punto da agitarsi e inarcare la schiena per chiedere di più.
Sono dentro
di lei con una tale naturalezza che a malapena lo realizzo, al di là
della molto semplice e molto assoluta constatazione che è una
sensazione dannatamente meravigliosa.
E con
quello la gentilezza se ne è andata di nuovo. Se ne è andata per me,
che le stringo una gamba, le mordicchio la pelle sul collo, e la sento
serrarsi attorno a me sempre di più. Se ne è andata per lei, che ha
deciso l'intensità del ritmo, con le unghie dentro ad una mia spalla e
i talloni premuti contro la mia schiena.
E' il modo
che ha per tenermi esattamente dove vuole e come vuole.
Per
ricordarmi che non c'è nessuno da prendere in giro.
Sono suo.
Sono sempre stato suo.
***
Parcheggiai la macchina sul vialetto
di casa praticamente neanche una ventina di minuti dopo la chiamata di
Elena. Le luci all'interno erano spente. Solo da una finestra usciva
fuori un sottile lampeggiare di luce blu.
Quando
misi piede nella dependance, Elena era seduta con le gambe distese
lungo il divano con una ciotola di cibo tra le mani, la piccola
televisione sul bancone vicino all'angolo cottura sintonizzata su una
replica notturna di The Amazing Race come unica luce nella stanza.
Voltò
la testa verso di me e rimase in silenzio ad osservarmi mentre lasciavo
cadere le chiavi sul mobiletto all'ingresso ed andavo a sedermi
all'altra estremità del divano. Sollevai le sue caviglie incrociate una
sull'altra per farmi spazio e poi riposizionarle sul mio grembo, le mie
mani rigorosamente sopra alla stoffa dei jeans. Uno smalto azzurro
chiaro occhieggiava la situazione dalle unghie dei suoi piedi scalzi.
"Ciao,"
le dissi.
"Ciao,"
sorrise.
Allungai
una mano verso la ciotola che mi stava tendendo per offrirmi il
contenuto di ciò che stava sgranocchiando. Palline di CocoPops. Ne
presi una manciata e me ne feci saltare uno in bocca, mentre sullo
schermo andava in onda l'intervista a uno dei partecipanti al reality.
Aveva appena litigato con il suo compagno di squadra.
"Ho
del cibo spazzatura migliore di cereali al cioccolato, se proprio vuoi."
"Mi
piacciono questi. Hai i gusti di un bambino di cinque anni."
"Yep.
Sono io."
L'altra
mia mano aveva già iniziato ad accarezzarla piano sul polpaccio. Mi
fermai quando me ne resi conto. Se se ne accorse anche lei, non lo
diede a vedere. Piluccò piuttosto un'altra pallina dalla
ciotola.
"Dov'è
Michelle?"
Mi
strinsi nelle spalle. "A fare festa in mezzo al bosco."
Sentii
il suo sguardo su di me, ma non mi voltai.
"Non
avrei dovuto chiamarti. O venire qui. E' stato un momento, e non ho
pensato che magari …"
"Non
vedevo l'ora di andarmene," la interruppi subito. Senza staccare lo
sguardo dalla puntata, tesi una mano di lato e mossi le dita per
domandare altro cibo. Elena si sporse per passarmelo, il suo piede nudo
scivolò sul mio interno coscia per farsi leva. Mi imposi di non
pensarci. Indicai lo schermo. "E' per caso quella in Norvegia, con il
bar fatto di ghiaccio?"
"Già.
Lena e Kristy stanno per essere eliminate."
"Peccato.
Erano fighe."
Una
pallina al cioccolato mi colpì dritta sulla tempia per quel commento.
Quando mi voltai con fare offeso, un sorriso di Elena guizzò nella
penombra bluastra.
Si
trasformò in uno sguardo incerto e appena imbarazzato, quando appoggiai
la testa all'indietro contro la spalliera, girata verso di lei, per
poterla guardare. Mi osservò da sotto le ciglia scure.
"Sei
sicuro che non ti dispiace se resto qui?"
"Puoi
restare ogni volta che vuoi."
***
Appoggiato su un gomito piegato contro il cuscino, lascio scorrere le
dita tra i capelli di Elena.
A quanto
pare, non riesco a smettere di toccarla. E' impossibile. Che sia lì, o
lungo lo schiena, o sulla mano … Non ha importanza. Non penso di aver
smesso anche solo per mezzo secondo. Ma, d'altra parte, è un po' lo
stesso anche per lei.
Anche
adesso, che riposa con la testa adagiata sul cuscino ed un braccio
piegato sotto di esso, l'altro è allungato in avanti, per raggiungermi
e percorrere l'interno del mio avambraccio teso, fin giù sul bicipite,
e poi di nuovo su.
E' quieto.
Silenzioso. Carico.
C'è solo un
debole rumoreggiare di pioggia proveniente da fuori, ma non è niente
più di ciò che rimane dopo che il temporale è già passato oltre.
La osservo.
La curva delle labbra e quella della guancia. Le lunghe ciglia che
incorniciano gli occhi scuri e che, sotto alla luce del lampadario a
soffitto, gettano minuscole ombre sottili sopra il suo zigomo. Le
sbatte appena quando il suo sguardo, finora concentrato su quella
carezza, si allontana un po' per perdersi in pensieri ai quali non ho
accesso.
Ma più la
guardo, più si serra il nodo attorno al mio stomaco. Come diavolo ci
riesco adesso a lasciare questo letto?
Alcuni fili
di capelli le scivolano sopra il suo naso e lei lo arriccia per
soffiarli via. Sorrido per la faccia adorabile che fa. Elena lo nota e
arrossisce.
Arrossisce,
diamine. Voglio dire, dopo tutto quanto e dopo tutto quel che abbiamo
morsicchiato e leccato e toccato … lei arrossisce per questo.
I suoi
occhi mi cercano smarriti, alza leggermente un sopracciglio.
"Cosa c'è?"
Non ce la
faccio a resistere. Sorrido ancora. O meglio, trattengo a stento una
risata. "Niente."
"Bugiardo.
Stai ridendo di me."
Mi dà una
spintarella sulla spalla, fingendo un'indignazione smascherata dalla
piega divertita agli angoli della sua bocca, ed io facilmente rotolo
all'indietro sul materasso accogliendola sopra di me.
Il lenzuolo
cade un po' e scopre i suoi fianchi nudi, che circondo con una mano.
Con l'altra, sposto delicatamente via i suoi lunghi capelli,
spingendoli al di là della spalla.
Quando
incrocio di nuovo il suo sguardo, scopro che mi sta guardando
intensamente, ma anche che la scherzosità di pochi secondi prima dai
suoi occhi se ne è già andata.
"Prenderai
lo stesso quel volo domani, non è vero?" mi chiede infilando le dita
tra i miei capelli, stropicciandoli appena.
"Più che
domani, tra qualche ora, ma … Sì," corrugo appena la fronte, ma non
smetto di sfiorarla lungo tutta la spina dorsale e tra le scapole. Ne
sento la levigatezza trasformarsi in pelle d'oca sotto ai miei
polpastrelli. "Ho bisogno di fare un passo indietro, prendere una pausa
da qui."
Non
aggiungo il perché. Lei è silenziosa per un lungo momento, ed io
proseguo il percorso pigro delle mie carezze verso la parte
superiore del suo braccio, intenzionato almeno per un altro po' a
scacciare lontano - molto, molto lontano - il pensiero di affrontare
davvero tutte le domande che questa notte ha appena fatto nascere.
"Non so
tutto questo cosa sia, Damon," dice infine, a malapena un sussurro.
Mi forzo ad
annuire, alzo lo sguardo su di lei.
"Va bene.
Non ho …" mi fermo, mi correggo. "Non c'è bisogno di saperlo adesso."
Suona quasi
vero mentre lo dico. Quasi.
"Quindi ...
vuoi andartene?" mi domanda, esitante.
"Forse …"
dico, proprio mentre lo sguardo mi cade di nuovo sulla sua bocca, che è
ancora un pochino gonfia per tutti gli assalti di prima. "… forse
dovrei."
Elena preme
verso il basso. Io spingo verso l'alto. Un movimento di troppo ed il
centro delle sue gambe è già in contatto con una mezza erezione.
"Già …"
mormora in un soffio. "… Forse."
Sollevo la
testa per baciarle la spalla. Ha un sapore meraviglioso. Sa di me. Sa
di lei. Sa di noi, e sa di sesso, e non ci provo neanche a fermarmi,
perché solo avere questo sapore sulla lingua e questo odore nelle
narici è abbastanza a indurirmi del tutto. Proseguo sulla clavicola,
sul collo, sul seno dove ritrovo i segni rossi che le ho lasciato e che
stanno già sparendo, ed infine sulla sua bocca, che è forse il sapore
migliore di tutti.
Elena
sospira, si allunga su di me come una gattina, intreccia le dita con le
mie aperte sul cuscino al lato della mia testa.
Mi volto in
quella direzione. Lei mi osserva con una certa curiosità mentre le
sollevo la mano che ha allacciato alla mia ed allungo le dita verso il
suo anello di fidanzamento. Lo sfilo via e mi sporgo per buttarlo sul
comodino accanto al letto.
Non voglio
avere niente di mezzo a tutto quello che ho intenzione di farle.
Lei corruga
le sopracciglia, ma non dice niente.
Inverto le
posizioni e la porto sotto di me. Iniziamo tutto daccapo.
***
Guardammo e commentammo tutta
l'intera puntata del reality show e quella seguente, non so come poi
degenerando verso la tv spazzatura del canale degli annunci locali,
popolato da rivenditori di auto usate e avvocati che promettevano
vincite assicurate a prezzi stracciati; mangiammo un totale di due
ciotole e mezzo di CocoPops; cambiammo gradualmente posizione lungo il
divano, finché non mi ritrovati con le sue ginocchia posate di traverso
sopra le mie ed il mio avambraccio a fornirle un poggiatesta migliore
rispetto alla scomoda spalliera del divano. Erano le tre e mezza
passate, quando Elena iniziò a chiudere le palpebre.
"Andiamo,
principessa," le dissi sporgendomi verso di lei e tendendole una mano
per aiutarla ad alzarsi. "Ora di metterti a letto."
Si
cambiò in bagno, abbandonando i jeans in favore di un paio di più
comodi pantaloncini che le prestai io. Troppo lenti sui suoi fianchi e
troppo larghi sulle sue gambe, tanto che, quando tornò in camera, mi
affrettai a concentrarmi sulla sistemazione di cose che non avevano
bisogno di essere sistemate, nel tentativo di resistere alla tentazione
di guardarle più a lungo del dovuto. Tentativo dai risultati piuttosto
scarsi, dal momento che continuai a gettarle occhiate furtive anche
mentre tirava giù la zip della felpa, se la lasciava scivolare via
dalle spalle, e rimaneva soltanto in uno stretto top senza maniche.
Quando la vidi sedersi sul bordo del letto con le mani tese
all'indietro, l'idea di andare lì, farla sdraiare sulle coperte e
stendermi sopra di lei per farle scoprire un mondo in cui non avrebbe
avuto bisogno di quei vestiti mi provocò un afflusso di sangue verso il
basso così improvviso che impiegai altri dieci minuti buoni di inutile
riordino per scacciare quei pensieri. Lo scaffale d'angolo con i miei
libri e miei cd non era mai stato tanto in ordine.
Solo
quando si fu rannicchiata di lato e infilata sotto al lenzuolo, mi
avvicinai per prendere il secondo cuscino.
"Cosa
fai?" mi domandò, scrutandomi curiosa.
Dovetti
schiarirmi la voce. "Preparo il divano. Per me."
"Oh
…"
Sì,
è vero, avevamo già dormito insieme in quello stesso letto. Una volta.
Ma in quel caso lei era già praticamente addormentata, non aveva
invitanti gambe slanciate a fuoriuscire da un paio di pantaloncini
troppo larghi ed io ero ancora convinto di potermi perfettamente
controllare quando ero vicino a lei. Adesso …
"Puoi
restare solo fino a che non mi addormento?"
Alzai
la testa solo per trovarmi grandi occhi scuri spalancati a guardarmi da
sotto in su. Valeva davvero la pena stare a fingere che non avrei detto
sì a qualsiasi cosa mi avesse chiesto?
Spensi
la luce. Mi sdraiai fuori dalle coperte, il volto verso il suo, un
braccio sotto il cuscino.
Niente
contatti, un'invisibile barriera di qualche centimetro a tenere le
distanze. Pur sempre troppe. Pur sempre troppo poche.
"Dovresti
considerare quel che ha detto tuo padre," disse piano, gli occhi già
chiusi e la voce già strascicata di sonno. "Potrà sbagliare sui metodi,
ma … non ha completamente torto. Potresti fare così tanto."
Soppesai
le sue parole, guardando i suoi contorni fondersi nel buio.
"Non
lo so cosa voglio fare. Mi sto prendendo del tempo per capirlo."
"Mia
madre diceva sempre …" Uno sbadiglio. Tirò il cuscino e si mosse per
sistemarsi più comodamente, il viso posato contro una mano. "Che questo
non è mai vero. Uno lo sa cosa vuole, solo che non sa cosa fare al
riguardo."
Curvai
le labbra verso l'alto. "Sembra proprio una cosa che direbbe una mamma."
Non
che io ne sapessi molto in merito.
"Le
saresti piaciuto."
"Io
non piaccio alle madri. Sono quella cosa da cui avvertono le loro
preziose figlie di stare alla larga."
"Sì,
invece," insistette, testarda anche quando era sull'orlo
dell'incoscienza. "Ti avrebbe visto … come ti vedo io."
Avrei
voluto chiederle cosa intendeva dire, cos'era che vedeva, ma non ci
riuscii. Nel tempo che impiegai per decidermi a farlo, e mandare giù un
vago pizzicore nel mezzo della gola, Elena stava dormendo, solo un
lieve battito dietro alle palpebre chiuse. Oltretutto, non ero sicuro,
non ancora, di voler davvero sapere la risposta.
Rimasi
lo stesso, alla fine. In caso si svegliasse, o avesse gli incubi, o un
sonno agitato.
Senza
toccarla. Ma mai così disperato dalla voglia di farlo.
***
Ascolto il niente.
Niente
pioggia, niente scalpiccii o voci o motori di auto dalla strada, niente
cinguettii degli uccellini. E' troppo tardi per i rumori della notte,
troppo presto per quelli del mattino.
Fisso il
soffitto della camera di Elena e con le dita disegno linee distratte
tra i suoi capelli e sulle sue spalle mentre lei, raggomitolata contro
il mio petto, mi avvolge in un calore morbido e piacevole.
Non so
esattamente quando si sia addormentata. Credo ad un certo punto tra un
altro "lo so che devi andare" e l'ennesimo "Aspettiamo solo qualche
altro minuto". Ma è addormentata da un po' adesso, con un respiro lento
e regolare esalato sopra il mio torace. Io, invece, ho spento la luce e
sono rimasto sveglio nel buio, a raccontarmi che non ci sarebbe stato
niente di male se, ad andarmene, avessi aspettato fino all'ultimo
momento.
Qualcuno mi
ha detto che uno strizzacervelli ci andrebbe a nozze su questa cosa qua.
Rimango
finché non vedo il primo pallido cambiamento nella luce che filtra da
dietro le tende.
E' allora
che mi dico "un altro minuto" per quella che è veramente l'ultima
volta.
Perché poi
chiudo gli occhi per appena un secondo, e dopo ciò non ricordo più
niente.
——————————————————-
Note
[1]
Rummy bears: orsetti gommosi lasciati macerare nel rum per un paio di
giorni. Combinazione piuttosto micidiale di alcol e puro zucchero. Le
cose che non si scoprono alle feste degli americani.
[2]
SATs: test attitudinale per l'ammissione ai college degli Stati Uniti.
2400 è il punteggio massimo.
Spazio
autrice
Buonasera
ragazze, come sta andando la vostra estate? Mi dispiace per la lunga
attesa, spero che siate ancora lì :)
Io
dico
solo che, dopo 17 capitoli, adesso c'ho un'ansia da prestazione
addosso che manco Damon, fate voi.
Anyway ...
Per l'angolino musicale: grazie a
Candy per
la citazione iniziale, e al suo "crescendo" finale per l'ispirazione su
una particolare scena. Per i teen Delena e la loro molto più platonica
notte insieme, invece, il sottofondo è vintage e viene dai Velvet Underground.
Grazie
anche alla mia honey serClizia che ha betato il capitolo alla ricerca
di errori <3
Vi
rispondo sempre in ritardo, ma vi leggo (e rileggo) sempre con avidità.
Sono sempre più grata di avere lettrici come voi, che mi danno voci e
prospettive diverse, che mi motivano, e che non si fanno problemi ad
essere critiche se ce ne è bisogno.
Vi
abbraccio tutte virtualmente da dietro la tastiera del mio pc.
A
presto,
ever
Gruppo facebook qui
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Capitolo 19 *** Bedroom hymns ***
18
18.
Bedroom
hymns
- I'm not here looking for absolution
Elena
Un basso ronzio si insinua insistente nel mio dormiveglia, ritmico e
distante.
Farfuglio
la mia protesta dentro il cuscino, sfuggo a quella minaccia di sveglia
indesiderata rannicchiandomi di più contro il corpo caldo accanto a me.
Gli sfioro le spalle con le labbra, premo il petto sulla sua schiena
che circondo con un braccio, affondo di nuovo piacevolmente nel calore
della sua pelle e del suo odore. Al di là del suo torace, le sue dita
si intrecciano alle mie, allacciandosi alla mia presa. Il ronzio
finisce. Cado un'altra volta nel sonno.
La seconda
volta che lo stesso rumore mi strappa dal mio accogliente torpore,
però, non c'è più niente accanto a me, se non la traccia tiepida che
ancora scalda lo spazio vuoto nel letto.
Apro gli
occhi controvoglia, proprio mentre alla vibrazione si aggiunge un
sommesso "oh cazzo" mormorato sottovoce. Mi tiro su a sedere,
stringendomi addosso il lenzuolo per scacciare il brivido freddo che mi
percorre le spalle non appena mi allontano del calore del letto. Nella
poca luce mattutina che filtra superando la barriera delle tende
chiuse, Damon è in piedi accanto al letto, intento a trafficare con le
tasche dei suoi pantaloni raccolti dal pavimento e a biascicare
sottovoce altre imprecazioni dello stesso genere.
E' nudo.
Gloriosamente nudo, è l'unica descrizione che mi viene in mente mentre
mi regala una splendida vista del suo sedere e delle fossette ai suoi
lati. Sento il calore salirmi alle guance ed un sorriso spontaneo
tendermi all'insù gli angoli della bocca, proprio mentre Damon trova il
suo telefono che ha ripreso a vibrare, volta la testa verso di me ed
incontra il mio sguardo nello stesso attimo in cui finalmente risponde.
Mi scompiglio i capelli e mi giro dall'altra parte nella vana speranza
di mascherare il modo piuttosto sfacciato in cui mi ha sorpreso a
guardarlo.
"Ric."
"Dove cazzo sei?"
sento provenire dall'altra parte della linea, così sonoro da giungermi
forte e chiaro anche mentre Damon incastra il telefono tra la spalla e
l'orecchio per andare a raccogliere la sua biancheria. "Io
non ti faccio domande se tu nel mezzo della notte mi dici "ci vediamo
direttamente in aeroporto", ma qualche domanda me la faccio se poi mi
ritrovo da solo al cazzo di gate e tu non rispondi neanche al telefono!
Tuo fratello è di là alle partenze fottutamente in paranoia."
Damon si
infila in fretta anche i pantaloni. "Lo so, ho solo-"
"Ti prego dimmi che non ti sei ubriacato di
brutto e svegliato nel letto di qualche bionda sconosciuta."
Tiro via il
lenzuolo e mi alzo anche io. Trovo le mie mutandine poco più in là sul
pavimento, ancora aggrovigliate tra i pantaloncini del pigiama, me le
metto insieme alla prima t-shirt che trovo buttata sulla sedia vicino
alla scrivania. Quando riemergo dopo averla tirata giù sull'addome ed
aver scostato dal volto la massa di capelli ancora arruffati, scopro
che Damon mi sta osservando, in pantaloni ancora slacciati ed un
buongiorno mattutino al di sotto di essi.
E ha quello
sguardo. Azzurro carico, ben poco limpido, quello con cui mi guarda
come se intorno non ci fosse nient'altro, quello che è in grado di
inebriare e confondere sotto fin troppi punti di vista.
Alaric
continua a parlare, o inveire, dall'altro lato del telefono. Non lo so,
non sto veramente ascoltando. Nè sono sicura che anche Damon lo stia
davvero facendo.
" …
e abbiamo quella dannata presentazione domani, quindi farai meglio a
muovere il culo, prendere il primo volo ed essere qui entro stasera."
Damon muove
alcuni passi verso di me, ci incontriamo a metà strada vicino al bordo
inferiore del letto.
"Lo farò,"
risponde solo.
"E, Damo-"
"Ciao, Ric."
Chiude la
conversazione e getta il telefono sul letto, dove atterra con un
morbido tonfo.
Restiamo
ancora entrambi in silenzio per alcuni secondi. Mi scosto i capelli dal
viso, distolgo appena lo sguardo e dondolo sulle punte dei miei piedi
scalzi, tutto d'un tratto insicura su come dovrei esattamente sentirmi
e su quale sia il protocollo in queste situazioni. Quelle incerte e
incasinate.
E' lui a
parlare per primo.
"Ho perso
il volo."
Annuisco,
mi stringo le braccia al petto.
"Ho
sentito."
Sollevo
appena lo sguardo. Finisce istintivamente per vagare sopra il suo petto
svestito, su ognuno dei contorni snelli disegnati dai suoi muscoli
asciutti e su quella linea di peluria scura nella parte inferiore
dell'addome che corre verso il basso come un invito esplicito e
sfrontato. Ho un lampo di quando la notte scorsa ne ho tracciato tutto
il percorso con le labbra ed improvvisamente mi sento una persona molto
orribile, perché capisco che questo dovrebbe essere il momento in cui
torno in me e mi pento di tutto quanto, ma i pensieri che mi si
affollano in testa non mi permettono di ragionare molto lucidamente.
Rialzo gli occhi, incontro lo stesso liquido blu chiaro incorniciato da
capelli ancora spettinati dal sonno.
Parliamo
nello stesso momento.
"Forse
dovrei …"
"Forse
dovresti …"
Ci
fermiamo. Ci guardiamo. Dimentico cosa volevo dire. Ho soltanto il
cuore che pulsa più forte nelle vene, qualcosa in me che si accende di
nuovo, un lungo attimo in cui tutto sembra perfettamente e
assolutamente immobile.
Quello dopo
con uno slancio chiudo le mani attorno al suo viso, sento le sue dita
impigliarsi tra i miei capelli nello stesso momento, e la mia bocca
torna ad aprirsi sulla sua senza neanche stare a chiedersi chi dei due
abbia cominciato.
Tutto ciò
che avevo lasciato prorompere ieri notte è ancora lì, pronto a
consumarmi, fuori e dentro, nel calore che mi infiamma la pelle, in
quello ancora più prepotente che mi invade le ossa. Stringo le sue
labbra tra i denti e circondo con le braccia le sue spalle nude, in una
presa che serro ancora più stretta quando le mani di Damon scendono
lungo i miei fianchi fino ad afferrarmi le natiche e sollevarmi
facilmente da terra.
Lo
assecondo stringendo le gambe attorno al suo torace, atterro
bruscamente sopra la scrivania. E' ingombra di una moltitudine di cose
che cadono a terra in una successione di tonfi e fruscii quando allungo
una mano all'indietro, nel duplice intento di cercare sostegno e
sgomberare il campo, l'altra ancora salda attorno al collo di Damon.
Persona orribile
è il vago pensiero che mi attraversa la mente quando sento la sua
lingua sul collo e le sue mani si infilano sotto la maglietta per
percorrermi i fianchi a palmi aperti, persona
orribile quando le sue dita mi accarezzano le punte dei seni in
piccoli cerchi tirandomi fuori sospiri sempre più incoerenti, persona orribile,
davvero, davvero orribile, quando penso che dopotutto non sarà una
volta in più - una sola - a peggiorare l'entità del mio tradimento.
E subito
eccola lì la mia giustificazione, quella che mi autorizza a rimandare a
dopo il senso di colpa e ad abbandonarmi appieno, qualsiasi cosa al di
fuori di questa stanza troppo lontana per potermi davvero toccare.
Percorro
tutto il suo petto con le dita ed insinuo una mano tra i pantaloni già
aperti per abbassare i boxer abbastanza da farmi spazio, sposto le
labbra sul suo collo mentre lo sento indurirsi ancora di più sotto le
mie carezze, alimento con i suoi gemiti rochi nell'orecchio il fuoco e
l'urgenza che ho tra le gambe. Le sue dita vanno ad allacciarsi al
bordo delle mie mutandine e, come le tirano giù con un movimento
deciso, non gli lascio il tempo di fare altro. Lo attiro e lo guido
dove ho più bisogno di lui, ancora stretta per la mancanza di
preliminari.
Mi riempie
completamente, spezzandomi il respiro.
Lo stringo
a me, restiamo fermi così. Senza muoverci, senza respirare. Per lunghi,
bellissimi, strazianti secondi.
Damon mi
sfiora il lobo con le labbra, sussurra piano nel mio orecchio.
"Vieni con
me."
Sorrido
contro la sua guancia. Il mio tallone scivola sopra la sua schiena, si
impiglia tra i pantaloni che abbassa oltre le sue natiche. "Già? …
Abbiamo appena cominciato."
Damon ride,
una meravigliosa risata bassa e spontanea, mi mordicchia giocosamente
la gola. Affonda di più dentro di me, piano, e il mio respiro si spezza
di nuovo.
"A San
Francisco, oggi. Vieni con me a San Francisco."
Il mio
cuore fa un salto così improvviso che non so neanche più dove sia
finito. Sposto il volto quel tanto che mi serve per incontrare il suo
sguardo, avere conferma che stia dicendo sul serio. Mille parole mi
salgono e muoiono in gola nel giro di quel solo secondo, perché
soltanto il pensiero è una cosa da pazzi, completamente da pazzi,
sbagliata e sconsiderata per così tanti motivi che …
"Sì."
E' a
malapena un soffio quello con cui lo dico, e forse l'ho solo pensato e
neanche detto ad alta voce. Ma poi è "sì" sopra la sua bocca quando la
cerco e mi ci perdo di nuovo. E' un "sì" più forte quando stringe la
presa sulla mia coscia, "sì" quando si muove lento e a fondo facendomi
perdere il senso della realtà, "sì" quando aumenta il ritmo e vengo
così velocemente e intensamente che mi coglie quasi di sorpresa.
Stiamo
ancora entrambi respirando pesantemente, con le mie mani attorno al suo
viso e qualche strascico di bacio scomposto, tanto che ho a malapena il
tempo di riprendermi o capire cosa stia succedendo, quando lo squillo
improvviso del campanello ci fa sobbalzare violentemente.
Ci
immobilizziamo. Una scarica di adrenalina mi fa schizzare il battito
alle stelle.
"Jeremy?"
mi domanda cauto Damon.
Scuoto la
testa. "Non suonerebbe."
Lo vedo,
nell'attimo che passa tra i nostri sguardi, che nessuno di noi ha il
coraggio di dirlo ad alta voce, ma che entrambi lo stiamo pensando. Io,
subito trafitta dalla colpevolezza che riemerge da dove l'avevo
seppellita, estremamente più dolorosa di quanto pensassi, mentre ho
ancora le gambe attorno ad un altro uomo. Lui, con quel suo lampo di
realizzazione negli occhi - realizzazione di cosa sto pensando, di cosa
questo fa di noi e, soprattutto, di cosa fa di lui - e che forse mi fa
ancora più male.
"Venditori
di bibbie?" suggerisce speranzoso.
Un rumore
proviene dal piano di sotto, il mio panico aumenta. Ancora qualche
movimento di sottofondo, serrature che girano, la porta di ingresso che
sbatte per richiudersi.
"Elena! Lo
so che ci sei, ho visto la tua macchina nel vialetto! Alzati,
dormigliona!"
Rilascio un
sospiro di sollievo che non sapevo neanche di star trattenendo. Almeno
finché non incontro lo sguardo di Damon. Mi osserva allibito, mima un
nome con le labbra come se fosse un pessimo scherzo: Caroline?
Mi stringo
nelle spalle e lui prosegue, la voce poco più di un sussurro per non
farci sentire dal piano di sotto, "Come diavolo ha fatto ad entrare?"
"Ha le
chiavi," rispondo altrettanto sottovoce.
Fa roteare
gli occhi al cielo. "Chi è così pazzo da dare le chiavi di casa a Miss
Invadenza Caroline?"
"Elena!"
grida ancora la mia amica dal piano di sotto. "Hai lasciato il tuo
soprabito alla festa ieri sera, volevo solo riportartelo! Devo venire
su a tirarti giù dal letto?"
"Cavolo,"
mormoro allontanando Damon con una piccola spinta.
Scivolo giù
dalla scrivania facendo accidentalmente cadere altra roba nel processo,
raccolgo le mutandine rimaste arrotolate intorno ad una caviglia e mi
affretto a correre in bagno per darmi una veloce ripulita che mi aiuti
a non sembrare un gigante cartello con scritto "Sono appena stata
ripassata per bene."
"I miei
vestiti," mi ricorda Damon in un altro rapido bisbiglio quando torno in
camera tre secondi dopo, una mano a tirarsi su la zip e l'altra ad
indicare il corridoio.
Maledizione.
"Resta
qui," gli intimo alzando un dito verso di lui.
Lo vedo
rivolgere un'altra veloce smorfia al soffitto, appena prima di
precipitarmi fuori dalla stanza.
La camicia
bianca di Damon è abbandonata per terra sul primo gradino delle scale.
Con un piede scalzo la spingo via fin dentro la camera attualmente
vuota di Jeremy, di cui chiudo la porta.
"Ehi,
Care," la saluto con la mia migliore imitazione di naturalezza
iniziando a scendere verso il piano di sotto.
Mi blocco
quando arrivo a metà. Caroline è alla fine delle scale, e tra due dita
sta tenendo sollevata in aria la giacca nera di Damon, scrutandola
assorta. Sento il volto andarmi in fiamme.
"Cosa ci fa
questa qui?"
"E' … di
Jeremy," spiego subito, coprendo anche gli ultimi gradini alla velocità
della luce. "E' così disordinato, lascia sempre tutti i vestiti in
giro, glielo dico sempre."
Caroline
alza lo sguardo su di me, corruga le sopracciglia.
"Jeremy
indossa giacche eleganti?"
"Sì, è per
… " Tentenno, porto una mano sulla nuca, mi gratto i capelli. Pensa,
Elena, pensa. "L'aveva comprata per andare al prom un paio di mesi fa."
Se la
rigira comunque tra le mani, sovrappensiero.
"Pensa che
sembra davvero simile a quella che-"
Gliela
strappo di mano e la appoggio di traverso sopra il corrimano. Mi ci
appoggio contro anche io, con nonchalance. O almeno quella che spero
possa sembrare nonchalance.
"Stavi
dicendo, che sei venuta qui perché …?"
Incrocio le
braccia sul petto, cambio idea. Poso con disinvoltura un mano sulla
colonnina della balaustra. Mi sforzo di ricordare quale linguaggio del
corpo suggerisca di non avere niente da nascondere.
"Oh, sì,
giusto," prosegue lei. Mi porge il leggero soprabito impermeabile
appeso al suo avambraccio che, presa da altro, ieri sera mi sono
completamente dimentica di riprendere dal guardaroba. "Hai lasciato
questo al ballo ieri sera. Tieni. A proposito, perché te ne sei andata
così all'improvviso, senza neanche salutare?"
"Mi
dispiace, ero … stanca," le sorrido, sperando che non insista più di
tanto. "Ho provato a cercarti, ma devi essere stata molto impegnata e
non volevo disturbare."
"Oh,
capisco …" Per un attimo mi sembra incerta, e se Caroline sembra
incerta non è mai davvero un buon segno. Quando però la vedo
tormentarsi appena le dita tra di loro, mi rendo conto che non può
essere solo per via dell'incongruo tracciamento dei miei movimenti
della sera prima. Ma non ho il tempo di approfondire quel pensiero che
Caroline scuote appena la testa, scrolla via quella titubanza e mette
su uno dei suoi soliti sorrisi. "Senti, facciamo colazione insieme, ti
va? Magari possiamo parlare un po', c'è questa cosa che è sicuramente
una stupidaggine ma …"
Il mio
sguardo scatta velocemente verso il piano superiore, la interrompo
prima che possa finire.
"Possiamo …
fare un'altra volta? Sono un po' impegnata oggi."
"C'è Jenna
di turno al bar, ci sono passata poco fa," mi fa sapere con una breve
occhiata sospettosa.
"Sì, lo so,
è … per via di Jeremy." Mi dò mentalmente una manata sulla fronte per
la mia penosa incapacità di trovare scuse più creative. Immagino Damon,
di sopra, che non la smette più di alzare gli occhi al cielo. "Ritorna
oggi dal campeggio con i suoi amici a Virginia Beach, ha programmato
questa visita al campus di Berkeley e mi ha chiesto di accompagnarlo.
Per … qualche giorno."
"Oh." I
suoi occhi hanno un moto di delusione, ma lo scaccia via in un secondo.
"Oh, giusto. Beh, Damon è ripartito per San Francisco proprio questa
mattina, lo so perché Stefan è uscito presto per accompagnare lui e
Alaric e … Magari puoi chiamare lui per farti consigliare cosa vedere o
dove stare!" mi suggerisce con un gesto delle mani ad accompagnare la
sua idea geniale.
Mi gratto
nervosamente il retro dell'orecchio. "Certo. Lo farò sicuramente."
Poi
realizzo ciò che ha appena detto. C'è un particolare fondamentale che
non torna nella sua versione dei fatti. Stefan dovrebbe averle detto
che Damon non è esattamente all'aeroporto in questo momento.
Probabilmente sarebbe meglio non farglielo notare, ma …
"Non hai
parlato con Stefan da stamattina?"
Quando i
suoi occhi saettano su di me, brillano di un inaspettato moto di
colpevolezza. Come se fosse lei, quella che sta nascondendo qualcosa.
"Cosa? No,
non ancora, è solo che io …" Si interrompe. Torna a scuotere la
testa. "Davvero, lascia perdere. Non ha importanza. Parliamo quando
ritorni, ok? Può aspettare. Saluta Jeremy!"
Sorride
convinta, agita una mano nell'aria e sparisce verso la porta prima che
io riesca ad aggiungere altro. Ma sono lo stesso ancora un po'
disorientata, quando torno al piano di sopra e apro la porta di camera.
Damon è
seduto sul davanzale interno della finestra, sbircia cauto dalle tende
probabilmente per assicurarsi che Caroline davvero se ne sia andata.
"Ok,"
esordisco corrugando la fronte. Indico con una mano la finestra, nella
generale direzione da cui Caroline è appena uscita. "Tutto ciò è stato
a dir poco … strano."
"Strano?"
mi fa eco lui, lasciando ricadere la tenda per voltarsi verso di me.
"E' stato una totale disfatta. Sei pessima come bugiarda. Cos'era tutta
quella roba assurda su Jeremy?"
Quindi
avevo ragione. Occhi alzati al cielo per tutto il tempo.
"Esattamente,"
dico raggiungendolo a passi decisi. "E lei se l'è bevuta. Non ha fatto
domande. La Caroline che conosco io mi avrebbe sbugiardato in due
secondi netti. Ha un radar micidiale per queste cose, e stamattina era
completamente fuori uso. Qualcosa non andava. Magari dovrei …"
"Non darci
troppo peso." Damon scrolla le spalle. "Se dovessi tirare a indovinare?
Ha avuto qualche stupida scaramuccia con mio fratello la scorsa notte,
qualcosa che lui ha o non ha detto, qualcosa che ha o non ha fatto.
Fanno sempre così. Lei fa l'offesa senza dirgli perché, prima o poi ci
arriva anche lui, e in men che non si dica tornano ad essere quelli di
sempre, di solito dopo qualche bizzarro giochetto di ruolo in camera di
letto. Non vorresti essere nella stanza accanto quando accade, fidati.
Ehi …" Mi prende una mano e mi attira verso di sé. Mi fa sedere tra le
sue gambe e scivola con un braccio attorno alla mia vita. Mi lascio
andare alla piacevole sensazione del suo petto nudo contro la mia
schiena, e sono attraversata da un brivido di pelle d'oca quando posa
un piccolo bacio alla base del mio collo. Continua a voce più bassa,
"Sei ancora sicura del fatto di venire con me? O stavamo davvero
parlando solo per metafore sessuali?"
C'è una
nota esitante nella sua voce che neanche la leggerezza sarcastica che
prova a dare alla frase riesce del tutto a nascondere.
Mi serra il
cuore in una morsa. Perché mi sta offrendo la possibilità di
ripensarci, ed io lo so (lo sa anche lui?) che prenderla sarebbe la
cosa giusta da fare. La cosa giusta per Damon, la cosa giusta per il
mio fidanzamento già fin troppo malandato. Dovrei prendere le distanze
da tutto questo, fermarmi a riflettere su cosa significhi, aspettare
che torni Elijah ed affrontarlo, non invischiare Damon così a fondo nei
miei dubbi più di quanto abbia già fatto. Fare la cosa giusta.
Solo che …
Solo che
c'è questo fremito che mi anima dentro, anche adesso che Damon mi
accarezza piano l'avambraccio con le dita, a cui non voglio ancora
rinunciare. Solo che c'è la strana euforia che l'idea mi provoca, c'è
il calore delle braccia di Damon, e c'è, più insidiosa di tutto, la
voglia di fare la cosa più sbagliata di tutte. Mi mordo leggermente le
labbra.
"Sì," dico.
"Lo sono."
***
E' sorprendente quanto sia facile. Passarla liscia con le bugie,
scivolare in una zona grigia dove inventare scuse da vendere a me
stessa e agli altri.
Dopo che
Damon mi ha confermato di aver trovato posto in un volo nel primo
pomeriggio, non ho dovuto fare altro che chiedere a Jenna di occuparsi
della gestione del locale per qualche giorno e chiamare Jeremy, per
perfezionare una storia di copertura che è improvvisata, debole e piena
di falle, ma che per il momento mi tiene al riparo da spiegazioni e
confronti, e questo è ciò che conta.
Mio
fratello non fa domande, o perlomeno non ne fa di troppo
compromettenti. Davanti alla mia peculiare richiesta, tutto ciò che il
suo atteggiamento da vivi-e-lascia-vivere riesce a partorire è un
"Quindi sono con te a Berkeley per qualche giorno, quando in realtà non
faccio che prolungare le vacanze?"
"Esatto."
"Per
quanto?"
Faccio
scattare la chiusura del trolley con un piccolo click. Non ne ho idea.
"Ti farò
sapere."
C'è una
piccola pausa dall'altro lato della linea, colmata da vento, schiamazzi
e altri rumori di una spiaggia affollata.
"Ma vai
davvero a Berkeley?"
Mi siedo
sul bordo del letto, sulle lenzuola che sono sfatte e stropicciate. Ci
passo sopra le dita, sembrano ancora avere forma e odore della notte
passata, ed il buonsenso mi dice che dovrei cambiarle. So già che non
lo farò.
"Più … o
meno."
"Devo
chiedere?"
Sposto il
telefono sull'altra spalla, chiudo gli occhi e inspiro. "Meglio di no."
Quando li
riapro l'attimo dopo, lo sguardo mi cade sul comodino dove, nella
stessa posizione di precario equilibrio contro il bordo di un libro in
cui si regge da ieri notte, l'anello di Elijah giace messo da parte
senza che nessuno glielo abbia davvero chiesto. Riflette la luce che
entra dalla finestra, limpida come può esserlo solo subito dopo un
temporale, e brilla in quello che sembra quasi un moto di protesta
quando inclino la testa di lato.
"Va bene,"
dice Jeremy con un sospiro, mentre io mi sporgo per prenderlo in mano,
tenendolo fra il pollice e l'indice come se potesse davvero suggerirmi
cosa farne di lui. "Ma, 'Lena … Almeno, lo sai cosa stai facendo?"
C'è una
nota di preoccupazione fraterna nel modo in cui lo chiede, una di
quelle che sembrano voler dire "Chi è che devo prendere a calci per
te?" e che riescono sempre a sorprendermi quando meno me lo aspetto. Mi
farebbe sorridere, se non fosse che mi fa d'un tratto sentire
stranamente vulnerabile.
"No,"
ammetto piano. Mi rigiro l'anello tra le dita un'ultima volta e lo poso
con cura sul fondo del cassetto, che chiudo con la speranza di lasciare
lì tutto ciò che potrà tornare a perseguitarmi in un altro momento.
"Non lo so."
Non sono
sicura, però, che funzioni davvero. C'è una indefinibile sensazione di
disagio ad accompagnarmi nel viaggio verso l'aeroporto dove sto andando
ad incontrare Damon, pensieri che non sono spazzati via neanche dal
vento fresco che soffia dallo spicchio aperto di finestrino e dalla
radio che ho alzato ad un volume più alto del solito.
Quando sono
diventata questa persona? Quella che mente alle persone che ama - a
Jenna, alle mie amiche, ad Elijah … oh dio, Elijah - e agisce
furtivamente come una qualsiasi adultera quando un uomo meraviglioso
che la ama è ignaro di tutto all'altro lato del mondo. Elijah che non
merita un simile trattamento. Elijah che non chiama, non lo fa da un
paio di giorni. Elijah che mi sta dando spazio come ha detto che
avrebbe fatto, con la voce incerta, nella nostra ultima e breve
telefonata piena di silenzi prima che io tradissi così i suoi sforzi e
la sua fiducia.
Il pensiero
fa così male, mentre porgo documenti e biglietto e passo oltre i
controlli per dirigermi al gate, da farmi vedere con estrema chiarezza
quanto io stia facendo una stupidaggine immane.
Penso che
sono ancora in tempo per tornare indietro, andare a riprendermi l'auto
dalla zona a sosta prolungata, dire a Damon che è stato un errore (è
ancora un errore, c'è una fastidiosa vocina che lo sa, anche se io
continuo a non darle ascolto) e che non avrei mai dovuto neanche
arrivare fin qui.
Ecco cosa
sto per dirgli, prendendo un respiro profondo, quando lo vedo comparire
e sedersi accanto a me sulle scomode sedie di metallo dell'affollata
lounge d'attesa.
Ma tutte le
parole e le frasi che mi sono preparata si dissolvono sulle mie labbra,
non appena Damon si volta verso di me e, invece di salutare come
farebbe una persona normale, mi porge un mezzo sorriso compiaciuto ed
una mini-confezione appena aperta di Froot Loops.
Lo osservo
sconcertata per alcuni secondi, un po' presa alla sprovvista ed un po'
incredula che davvero si ricordi ancora della mia insana propensione
verso ogni genere di cereali disgustosamente zuccherati, mentre lui si
lancia nella storia di come è riuscito ad ottenerli mettendo contro tra
di loro due ragazzini che si stavano litigando per l'ultima confezione
e poi soffiandogliela da sotto il naso.
E poi, dal
niente, mi fa scoppiare a ridere. Non riesco a farne a meno, non riesco
a fermarmi.
E' così
stupido, è così fuori luogo, è così senza senso. Ma è anche così vero,
e così stranamente liberatorio, che non ha più importanza quanto sia un
errore.
Sono qui,
sto ridendo ed è come respirare di nuovo.
Non era esattamente un segreto, non
in senso stretto. Insomma, non avevo mai avuto veramente
intenzione di tenerlo nascosto o di mentire al riguardo.
Ma
era … nostro. Qualcosa che non mi andava davvero di condividere con
nessun altro.
Dopotutto,
poi, non capitava neanche tutte le notti. Solo alcune, solo quelle in
cui non credevo di riuscire a prendere un solo altro respiro, al
pensiero di passarle da sola. Quelli erano i casi in cui non riuscivo a
stare lontana da Damon.
Le
giornate le trascorrevo quasi interamente al Grill, ore strascicate che
si appiccicavano addosso come il caldo umido di giugno. Senza la scuola
a distrarmi, tutti i sottili cambiamenti in atto già da un po' mi erano
diventati tutto d'un tratto più palesi che mai.
Tavoli
sempre più vuoti. Meno personale stagionale. Avvisi di pagamenti che si
accumulavano sulla scrivania dell'ufficio. Mio padre che
silenziosamente affogava in tutto questo.
Era
un circolo vizioso di sobrie apparenze nella facciata dietro al
bancone, quieta autodistruzione in bicchieri bevuti di nascosto, sbalzi
di umore ed un estraniamento dal mondo esterno in cui preferiva tornare
a crogiolarsi invece che affrontare le cose.
Ero
arrabbiata, arrabbiata come non lo ero mai stata. Come poteva non voler
vedere? Non vedere come Jeremy fosse sempre più solitario e taciturno,
non vedere quanto io e mio fratello avessimo bisogno di lui, e non solo
nei giorni buoni quando si ricordava che non avremmo dovuto prenderci
da soli cura di noi stessi.
Era
una rabbia chiusa che in superficie non ci arrivava mai. Se solo le
avessi permesso di farlo, avevo paura che tutto sarebbe andato ancora
più in frantumi di quanto non lo fosse già.
Così,
ero arrabbiata con lui ed ero arrabbiata con me stessa - colpevole di
essere così persa e impotente, colpevole di non poter fare di più.
Non
mi sono mai chiesta, perché Damon. Perché scivolare fuori di casa
quando nessuno se ne accorgeva per andarlo a cercare, perché averlo
accanto diradasse quel temporale dentro che non aveva sfogo, o perché
il leggero brivido dato dal fare qualcosa che non avrei dovuto fosse
così rinfrescante nell'aria tiepida delle notti estive.
Era
così e basta. Con Damon, non avevo bisogno di spiegare. Non avevo
bisogno di capire.
Avevo
sempre un po' timore, ogni volta che giravo la chiave nella sua porta,
di non trovarlo da solo, di trovarlo insieme ad un'altra ragazza (la
sua ragazza) al mio posto sul divano o sul letto che reclamavo come
miei senza averne diritto. Ma non mi capitò mai.
Quando
in alcuni casi lo trovavo già lì, qualsiasi cosa stesse facendo a
quell'ora tarda - leggere sdraiato scomposto sul divano, lavare tazze
della colazione rimaste ad aspettare l'intera giornata - mi gettava un
breve sguardo e tutto andava naturalmente al suo posto, come se stesse
aspettando e già sapesse. Ma la maggior parte delle volte rientrava
tardi ed io mi appisolavo prima che fosse tornato, continuando poi a
fingere di essere addormentata anche quando spegneva la luce e si
sdraiava piano accanto a me. Tacite abitudini che avevamo preso fin
troppo in fretta.
Delle
notti, gli sentivo addosso l'odore della sua ragazza. Solo una vaga
scia di quel vivace profumo di agrumi in cui Michelle era sempre
avvolta, residui rimasti nell'incavo del suo collo o sulla stoffa della
sua maglietta. Il mio stomaco diventava più stretto, ed odiavo quella
sensazione.
Mi
portava a domandarmi se anche lui sentisse Matt su di me, se sentisse
la traccia delle sue mani e dei suoi baci, quelli infilati tra una
pausa e l'altra al Grill, quelli senza maglietta sul divano di casa mia
dopo che mi aveva accompagnato ed aver mandato Jeremy in camera sua.
Il
pensiero - starsene lì, sdraiati accanto, con addosso altre persone -
mi lasciava in bocca un sapore sbagliato. Mi ripetevo che non avrebbe
dovuto, che non facevamo nulla di male, non ne avevamo intenzione (me
lo ripetevo anche quando uno sfioramento accidentale o uno sguardo
protratto troppo a lungo mi coglievano impreparata - un battito più
veloce, un breve sentirmi più viva sul fondo del petto. Piccoli
incidenti, niente su cui soffermarsi, archiviati in fretta). Ma, a
dispetto di questo, continuavo a tornare. Damon continuava ad essere lì.
Al
mattino me ne andavo sempre presto, molto presto, abbastanza da poter
scivolare di nuovo in casa senza essere notata - un sacco di albe di
luce fredda e cielo rosa, giallo pallido appena sotto la linea
dell'orizzonte. Lasciavo che Damon continuasse a dormire, sottraendomi
piano al braccio che aveva posato mollemente sul mio fianco, o
districando la gamba che avevo intrecciato con la sua.
A
volte restavo appena un attimo di più a guardarlo, prima di andarmene
davvero. I capelli scarmigliati sulla fronte, il leggero cipiglio delle
sopracciglia, la curva forte delle labbra. Era bello. Lo era sempre, è
vero, ma c'era qualcosa di più in quel momento in cui, da addormentato,
smetteva lui stesso di esserne consapevole e di usarlo come apparenza
(anche se, un paio di volte, mi ero chiesta se fosse sveglio e stesse
solo fingendo. Piccole spie - una leggera contrazione della bocca,
palpebre chiuse con troppa fermezza). Era anche quello niente più che
un piccolo piacere furtivo, rubare una cioccolata pregiata e gustarla
quando nessuno può vederti.
Era
forse ancora più presto del solito la mattina che infilai le converse,
afferrai la mia borsa dal divano, e qualcuno bussò forte contro la
porta facendomi congelare di scatto nel bel mezzo dell'ingresso.
Gettai
un'occhiata perplessa all'indietro verso la zona letto dove Damon si
era appena mosso bofonchiando qualcosa nel cuscino, e poi di nuovo
verso la porta. Inclinai timidamente la testa per sbirciare verso la
finestra. Altri colpi violenti mi fecero sobbalzare.
Chi mai andava a bussare così a qualcuno
alle cinque e mezza del mattino? Suo fratello, suo padre, la sua
ragazza, chi …
"Andiamo,
bastardo, sorgi e splendi!" rimbalzò dall'altro lato dalla porta
risuonando nel piccolo appartamento, le parole sovrapposte e
strascicate in un marcato accento inglese.
"Cristo,"
biascicò Damon dietro di me, passandosi una mano svogliata tra i
capelli e superandomi diretto verso l'ingresso.
"Damon!"
lo richiamai in un sussurro. Si girò verso di me con un laconico
"Buongiorno anche a te, Elena," che chiaramente non aveva colto
l'occhiata eloquente con cui gli stavo intimando di non azzardarsi ad
aprire la porta, dalla quale proveniva adesso un cantilenante "
wakey wakey …".
"Non
puoi aprirgli!" lo fermai posandogli una mano sul braccio. Ancora
stordito dal sonno, guardò prima la mia mano, poi il resto del mio
volto e la mia espressione nervosa. "Cosa penserà a trovarmi qui …"
Damon
scrollò le spalle. "E' solo Enzo. Non se ne accorgerà neanche,"
rispose, ed aprì prima che avessi il tempo di aggiungere altro.
Il suo amico non entrò. Si riversò
all'interno
con un passo incespicante, finendo dritto addosso a Damon e
circondandogli le spalle con un braccio. Mormorò qualcosa molto simile
ad un affettuoso " bloody bastard".
"Cosa
cazzo ci fai sveglio a quest'ora?" domandò Damon quando riuscì a
staccarselo di dosso e ad indirizzarlo verso uno degli sgabelli accanto
al bancone dell'angolo cottura.
Enzo
ci si sedette sopra un po' malfermo.
"Mai
andato a dormire," replicò lampeggiando un sorriso nella sua direzione.
Si piegò appena per prendere qualcosa dalle tasche, posò tutto sopra il
bancone. Aveva gli occhi arrossati e l'inconfondibile odore di alcol
non ancora del tutto smaltito.
"Dunque,
ho grandi notizie," proseguì iniziando a frugare tra le cose che aveva
tirato fuori. Strappò un cartoncino, lo piegò e se lo mise
sull'orecchio, aprì una sigaretta spargendo ovunque fili di
tabacco e prese a mischiarlo con dell'erba presa da un sacchetto
trasparente. Poteva pure essere ancora ubriaco, ma in quei movimenti
era rapido e preciso. "Sai come parliamo sempre di mandare a fanculo
questo posto, partire e andare verso New York?"
Corrugai
la fronte. Quella mi era nuova. Sapevo che Damon non aveva voluto
prendere il college in considerazione, sapevo che c'era ancora aperta
quell'opzione Dartmouth per cui suo padre continuava a fare pressione,
sapevo che stava pensando a cosa fare dopo il liceo, ma … Enzo e New
York? Di quello non ne avevo mai sentito parlare.
Una
strana fitta mi chiuse appena la gola. Però forse non significava
niente. Forse Damon era confuso quanto me. Mi voltai verso di lui per
osservare la sua reazione. La sua espressione non dava via niente, ma
certamente non era confuso. La fitta si fece un po' più acuta.
"Beh,"
proseguì Enzo, leccando il lato della canna che aveva appena finito di
chiudere, "Indovina un po'? Ho trovato un paio di zii imparentati con
quello scherzo di padre che non ho mai visto. Hanno un pub a
Williamsburg, lavoro assicurato quando vogliamo. Dì di sì, e possiamo
partire domani stesso."
Enzo finì con un sorriso gongolante,
accese la canna, soffiò via una boccata.
Si
accorse di me.
"Cosa
ci fa lei qui?" domandò allungando il braccio nella mia direzione
abbastanza da avvolgermi in una nuvola pungente di fumo che scacciai
agitando una mano sotto al naso, ma il volto e la domanda entrambi
rivolti a Damon. Poi si illuminò. "Ooohhh …"
"No,
nessun oooh," mi affrettai a chiarire, mentre Damon piegava la testa e
si portava una mano a massaggiarsi la radice del naso, "Noi non-"
"Aspetta,
adesso non dirmi che questo cambia le cose?" mi interruppe Enzo come se
non avessi neanche parlato, con lo sguardo accigliato e quasi offeso
sempre rivolto solo e soltanto verso Damon.
"Che
cose?" domandai, spostando lo sguardo confuso tra uno e l'altro. "Quali
cose?"
Damon
sfilò con decisione la canna dalle dita di Enzo.
"Sono
le cazzo di cinque del mattino. Prendi il divano, prendi il letto,
quello che vuoi. Smaltiscila e poi ne parliamo."
Enzo
si alzò facendosi leva sul bancone, si appoggiò con una mano sulla
spalla di Damon, gli diede un paio di pacche e barcollò verso il letto
dove collassò occupandolo per intero.
Damon
si sedette su uno degli sgabelli, diede anche lui un lungo tiro, lo
sguardo sulla parete di fronte. Sorvolai sul chiedergli come facesse
sul serio a fumarsi quella roba a quest'ora del mattino dopo essere
appena uscito dal letto e mi sedetti di fronte a lui. Avevo la voce
appena più acuta del normale.
"New
York?"
"Sono solo chiacchiere."
Si
sporse per farsi scivolare davanti un piattino da caffè, ci scrollò la
canna, si strinse nelle spalle.
Incrociò
i miei occhi, mi scrutò per un lungo secondo come nel tentativo di
capire cosa stessi pensando. Aveva un'aria così stropicciata, con i
capelli alzati in testa, gli occhi azzurri ancora un po' annebbiati, e
quella spirale di fumo che saliva in mezzo tra noi due.
Ma
io non sapevo cosa stavo pensando. Perché, improvvisamente, quelle
"chiacchiere" mi apparivano la minaccia più tangibile in grado di
portarmelo via, più di qualsiasi Dartmouth, più di qualsiasi college
che io stessa gli ripetevo sempre di prendere in considerazione.
(Magari
in un anno, quando le ammissioni si sarebbero aperte di nuovo. Magari
quando anche io sarei stata ad un passo dal senior year, e non doveva
per forza significare non vedersi più per chissà quanto tempo. Magari
più avanti, magari più tardi.)
Quelle
"chiacchiere" erano concrete. Ed io realizzai di non esserne parte.
Cercai
di non darci troppo peso. Probabilmente Damon aveva ragione, erano solo
discorsi e non stava davvero programmando di andare, almeno non in un
futuro immediato, o altrimenti me lo avrebbe detto.
Me
lo avrebbe detto.
Nessuno
dei due tornò ad affrontare l'argomento neanche nei giorni seguenti.
Lui non ne fece parola, ed io mi guardai dal porre domande che non
sentivo di avere il diritto di fare. In un certo senso, una parte di me
lo aveva sempre saputo che sarebbe successo, che Damon non aveva
davvero intenzione di restare per sempre in questa città di a malapena
trentamila abitanti [1]. E se io avessi
chiesto e lui avesse confermato … Non sapevo se ero pronta ad
affrontare l'idea.
Così
spingevo anche quella in fondo sotto a tutto il resto, l'estate ad
andare avanti come sempre.
"Cinema
questa sera?" mi domandò Matt, accarezzandomi lentamente il fianco con
la mano.
Dall'angolo
di strada in cui ci eravamo appartati per qualche minuto, sbirciai
oltre la sua spalla, verso il Grill e le ombre lunghe del pomeriggio
che l'edificio e i turisti seduti ai tavolini esterni gettavano sopra
il marciapiede. Anche Bonnie era là, una mano alzata a fianco del volto
per ripararsi dal riflesso diretto del sole.
Mi
stava aspettando, così mi sbrigai a chiudere la conversazione.
"Non
lo so," risposi. "Dipende se riesco a liberarmi più tardi."
Matt
inclinò il volto, mi lasciò un bacio appena sotto l'orecchio, un altro
più giù lungo il collo, risi e mi sottrassi scherzosamente.
"Mi
aspetta un'infernale settimana al lago Roanoke con la mia famiglia da
domani, non posso pensare di non vederti. Mi mancherai."
Oh.
Avevo completamente dimenticato, ma non glielo diedi a vedere. Strinsi
le braccia attorno al suo collo, mi sporsi per baciarlo sulle labbra.
"Anche
tu mi mancherai. Vedrò cosa posso fare, ok? Ti chiamo più tardi,
promesso."
Mi
sarebbe mancato davvero, anche se il pensiero mi provocò una minuscola,
colpevole, onda di sollievo. Tenere la mia storia con Matt un
territorio libero dai problemi della mia incasinata famiglia, in cui
non avevo nessuna intenzione di coinvolgerlo, stava diventando sempre
più complicato di giorno in giorno (a volte desideravo che non passasse
a trovarmi così spesso) e la prospettiva di una settimana in cui non
avrei dovuto preoccuparmi di bilanciare le due cose non sembrava poi
così male.
Lo
salutai con un altro bacio veloce e mi avvicinai al tavolino di Bonnie,
che alzò subito lo sguardo su di me, accogliendomi con un sorriso.
"Dov'è
Caroline?" le domandai, sedendomi accanto a lei. "Sbaglio o il suo
messaggio diceva: ´Riunione urgente emergenza vestito´?"
"E'
in ritardo," rispose lei, subito dopo corrugando la fronte
soprappensiero. "Il che è strano. Caroline non è mai in ritardo,
soprattutto quando si tratta di assillarci con questa storia di Miss
Mystic Falls. Non ti pare … sospetto?" Bonnie proseguì sporgendosi
verso di me, in velato tono cospiratorio. "Penso che stia nascondendo
qualcosa."
Mi
strinsi nelle spalle, ci pensai anche io. Non avevo visto molto
Caroline nelle ultime settimane, ma avevo semplicemente dato per
scontato che fosse solo estremamente presa dalla maniacale preparazione
per la sua imminente partecipazione a Miss Mystic Falls.
"Non
so," risposi. "Forse …"
Mi
interruppi quando vidi una testa bionda apparire dall'altro lato della
strada. Gettò una veloce occhiata dietro di sé, si lisciò il leggero
vestito chiaro e quindi mise su un ampio sorriso nel dirigersi verso di
noi.
"Buongiorno!"
esordì afferrando una sedia dal tavolino di fianco e sedendosi tra noi
due.
"E'
pomeriggio," le fece notare Bonnie. "E sei in ritardo di venti minuti."
"Può
capitare," scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo per tuffare le
mani a prendere qualcosa nella propria borsa.
Ne
tirò fuori un'agenda imbottita di ritagli, con le sue iniziali
intrecciate disegnate sulla copertina in un pennarello a brillantini,
seguite appena sotto dalla scritta "Progetto Miss Mystic Falls."
"Quindi,"
iniziò raddrizzando le spalle nell'aprirla. "Il vestito. Devo scegliere
il colore. Questo azzurro," fece scivolare davanti ai nostri occhi una
fotografia, "farebbe risaltare i miei occhi, ma questo verde," altra
fotografia, "si intona meglio con-"
"Cos'è
quello?" la interruppe Bonnie.
Caroline
scattò su, allargò lo sguardo. "Quello cos-"
"E'
un succhiotto?"
Caroline
si portò istintivamente una mano sulla base del collo, proprio mentre
Bonnie si allungava per andare a scostare il leggero foulard a fiori
che la mia amica portava legato in un grazioso nodo laterale.
"Certo
no!" protestò con voce acuta.
"Certo
che lo è!"
"Fammi
vedere!" mi intromisi sporgendomi anche io dalla sedia.
Caroline
si scostò stizzita da entrambe e si rimise a posto il fazzoletto
mandandoci occhiate fulminanti. Era un succhiotto.
"Oh,
andiamo," le sorrise Bonnie. "Chi è?"
"Nessuno,"
replicò decisa Caroline, tornando a sfogliare indispettita le pagine
della sua preziosa agenda.
Bonnie
si rivolse a me. "Secondo me è Jesse."
"Nah,
secondo me è Nick," le feci eco.
"Smettetela."
"Basta
che non sia di nuovo Tyler," proseguì Bonnie facendo finta di non
averla sentita.
"Ah!"
esclamai in segno di vittoria, strizzando l'occhio alla mia amica. Quel
gioco era troppo divertente. "Secondo me è Stefan."
"Non
è Stefan!" sbottò Caroline. "Perché deve sempre trattarsi di Stefan?"
"Uhm,
perché hai una cotta per lui da almeno un anno?" le ricordai.
Bonnie
alzò gli occhi al cielo ed io sperai che non partisse di nuovo con il
suo ritornello su quanto poco le andassero a genio tutti i membri della
famiglia Salvatore, il fratello del soggetto in questione per primo.
"Beh,
magari mi è passata," replicò alzando il naso all'insù. "Magari sono
andata avanti. Magari non mi fanno più effetto quei suoi intensi occhi
verdi, le sue spalle larghe, o quella sua aria sempre seria che lo
rende così incredibilmente …" Si fermò, scosse fermamente la testa, la
bocca piegata in una smorfia. "Non ho intenzione di parlare di Stefan."
Sfogliò
un altro paio di pagine, senza guardare né me né Bonnie e probabilmente
neanche le pagine stesse.
"Voglio
dire," proseguì riprendendosi bruscamente le foto che aveva tirato
fuori e per rimetterle dentro. "Cosa c'è da dire poi, su Stefan? Ha
mollato la ragazza da mesi, gli interessa di chiedermi di uscire? Mi
dice che lo ha fatto per me? No!" Chiuse con violenza la sua agendina,
due o tre piccoli fogli svolazzarono via e volteggiarono fino a
fermarsi ai piedi di una coppia seduta ad un tavolino un paio di metri
da noi. Entrambi voltarono le teste perplessi, lei neanche se ne
accorse. "Cosa si aspetta, che sia io ad andargli dietro? Quindi basta
parlarne. Ho chiuso con Stefan." Prese un lungo sospiro, alzò lo
sguardo su entrambe, incerto. "Insomma, voi credete che …"
"
'Lena, c'è un tizio che cerca papà, dice che è importante."
Caroline
lasciò cadere la frase, io mi voltai verso Jeremy che era appena
comparso accanto al tavolo. Ruotai sulla sedia per portarmi davanti a
lui, aggrottai la fronte. "Che tizio?"
Mio
fratello sollevò le spalle, le lasciò ricadere in apatia.
"Non
lo so. Ma la ragazza nuova dice che è uscito da più di un'ora, e che
non sa dove trovarlo."
***
E' sera quando arriviamo.
Ho la testa
stordita dalle poche ore di sonno, dalle lunghe ore di viaggio, da
tutta la piega degli eventi.
L'altro
lato della costa, e tutto ciò che vi ho lasciato, è diventato a poco a
poco sempre più distante, sfumandosi in una macchia lontana ed
indistinta ad ogni commento sarcastico che Damon mi ha sussurrato
nell'orecchio, ad ogni carezza furtiva tra i sedili dell'aereo, ad ogni
occhiataccia guadagnata dalla signora della fila di fronte e ad ogni
stupida risatina che la cosa mi ha fatto sfuggire, sentendomi sciocca
come una ragazzina e non curandomene affatto. La macchia si è sfumata
del tutto nell'appisolarmi infine sulla spalla di Damon, cullata dalla
vibrazione oscillante dell'aereo, confortata dalla sua mano attorno al
mio fianco e dalle leggere carezze delle sue dita.
E' uno
stordimento che si abbatte su di me tutto insieme, nei circa venti
minuti di taxi che ci portano dall'aeroporto all'appartamento di Damon,
luci di una città che non conosco che scorrono alla mia sinistra e la
macchia nera di oceano che colma la baia alla mia destra.
Sembra
quasi surreale: comportarsi così, sentirsi così. Ma la mano di Damon
che torno a cercare nella penombra dell'abitacolo è davvero ancora lì,
calda e vicina alla mia, così come è lì il leggero mezzo sorriso che mi
rivolge quando distolgo lo sguardo dal finestrino per portarlo su di
lui, e quelli no, non sono surreali. Sono così reali da fare male.
Mi bacia
come mettiamo piede nel suo appartamento - porta sbattuta alle nostre
spalle, trolley lasciati cadere sul pavimento dell'ingresso e luce
accesa per sbaglio dalla mia schiena premuta sopra l'interruttore. Mi
bacia con le dita attorno al mio viso, mi bacia come se fosse stato un
dolore fisico non poterlo fare come si deve, a fondo e a lungo, fino a
questo momento.
E la mia
testa si fa più ancora più stordita, drogata del peccato colpevole
della consistenza dei capelli di Damon sotto alle mie dita, delle sue
labbra sul mio collo e della tormentosa frizione che i nostri corpi
racchiusi dai jeans stanno cercando.
Faccio
scivolare le mani lungo il suo petto, fino a trovare l'orlo della sua
maglietta e ad infiltrarci sotto le dita.
"Camera,"
gli sussurro sulla bocca non appena è tornato all'altezza del mio viso.
Un sorriso
malizioso si apre lento sulle sue labbra, lui torna a lambirmi il
profilo, "Devo prima mostrarti tutti i pensieri che mi hanno tenuto in
vita durante quelle lunghe ore di volo, mentre tu mi sbavavi addosso e
gli infernali bambini della fila dietro davano calci al mio sedile."
Non so se
ridere e dargli uno scappellotto sulla spalla, o dare ascolto a ciò che
l'accenno roco nella sua voce ha appena fatto fremere tra le mie gambe.
Mantengo il suo stesso tono un po' leggero un po' provocatorio, sgrano
lo sguardo in una finta espressione di innocenza, "Oh, e cosa sarà mai?"
Ma mai
sottovalutare Damon, o pensare di batterlo al suo gioco. Gli basta
spostare la bocca a sfiorarmi l'orecchio, tre sole parole portate dal
suo respiro tiepido.
"Ho una
vasca."
***
Era una trappola, ed avrei dovuto saperlo. O forse era solo impazienza,
perché riempire la vasca stava prendendo troppo tempo e Damon aveva
deciso di smettere di aspettare.
Meglio
sollevarmi e buttarmi sotto il getto dell'acqua calda con ancora tutti
i vestiti addosso. Avevo inventato per lui nuovi tipi di insulti, avevo
protestato e avevo tirato dentro anche lui. Mi aveva tolto il fiato,
prima per colpa delle risate mentre l'acqua straboccava ovunque,
poi per ben altri motivi quando i nostri vestiti zuppi erano spariti
del tutto. Mi aveva tolto il fiato con il suo azzurro offuscato, con le
sue labbra socchiuse in estasi ed i suoi capelli a gocciolarmi sulla
spalla, con le sue mani e la sua lingua intente a scivolarmi addosso
per scoprire nuovi punti e nuovi modi per torturarmi e farmi sua.
Adesso sono
affamata e sono esausta, ancora avvolta dalla traccia di vapore di quel
bagno prolungato in cui siamo rimasti anche dopo, a viziarci
pigramente, e da quel piacevole genere di spossamento che scioglie ogni
tensione dalle ossa.
La voce di
Damon arriva appena ovattata dalla stanza accanto. E' ancora al
telefono a parlare con Stefan, per far seguito alla decina di chiamate
perse sul suo cellulare quando siamo riemersi dalla nostra personale
bolla di vapore.
E mentre la
sua voce mi fa da sottofondo io mi muovo nel suo soggiorno, nello
spazio aperto separato dalla piccola cucina che si apre alla destra
dell'ingresso, e mi guardo attorno, osservandolo veramente per la prima
volta con la cautela curiosa di chi sta per scoprire un nuovo mondo.
Assimilo
l'insieme di spazio aperto e legno scuro, di linee pulite e di
un'essenzialità che non sa di limitazione ma di apprezzamento per
le cose belle. E mi sembra quasi di sentirla, la stessa traccia
nell'aria che era sempre lì ad accogliermi tutte le volte che mi
infilavo non richiesta nel suo piccolo spazio vitale. Non importa il
tempo che passa ed i posti che cambiano, quella leggera traccia lì,
nascosta sotto a tutto il resto … quella è solo Damon.
Cammino
verso la libreria che occupa un'intera parete laterale, dove tutto è
coperto da un sottile strato di polvere impalpabile, quella che si
deposita quando manchi da un po' di tempo. Ci sono un paio di bottiglie
di bourbon invecchiato, che riconosco essere abbastanza costose da non
figurare nel listino di un bar come il Grill, in uno dei ripiani più
alti. Speaker e postazione per l'ipod in uno scaffale più a portata di
mano ma nessun cd in vista, anche se mi ricordo che ne aveva sempre
avuti molti. C'è però un giradischi poco più in basso, insieme ad una
ridotta collezione di LP che mi abbasso in equilibrio sui talloni per
poter sfogliare. Sorrido appena, non mi sorprende poi tanto che vengano
tutti dagli anni '60-'70.
Mi rialzo e
lascio vagare lo sguardo sopra i libri, molto meno ordinati rispetto ai
dischi, accostati uno accanto all'altro senza seguire alcun criterio
conosciuto. Alcuni sono messi in verticale, altri in orizzontale, i più
spessi mischiati ai più sottili. Neanche gli accostamenti hanno davvero
un senso. C'è un'antologia di Ginsberg accanto a "Guida galattica per
autostoppisti", c'è Chomsky vicino ad una copia piuttosto vecchiotta de
"Il giovane Holden" con una "S" scribacchiata di traverso sulla
costola, e poi Krugman insieme ad un libro sul Perù. Li osservo e
aggrotto la fronte, non proprio sicura di ciò che mi sarei aspettata di
trovare.
Quello
davanti ai miei occhi è un Damon tutto nuovo, ed improvvisamente non
sono tanto sicura di conoscerlo ancora completamente. E' il ragazzo dei
miei ricordi che si mischia con l'immagine di lui che mi sono
inconsciamente creata tutte le volte che la mia mente vagava a
chiedersi chi fosse diventato. E' l'uomo che senza neanche volerlo ho
fatto entrare e conosciuto daccapo in questi ultimi mesi, insieme a
tutta un'intera parte di lui e della sua vita di cui, realizzo con una
punta di amarezza, io non sono mai stata parte.
(Sono
sollevata di non aver trovato niente di visibile da poter legare a
Katherine - il pensiero di Damon innamorato di lei, in qualche modo,
punge ancora.)
Mi volto
verso le ampie finestre a soffitto che attraversano l'altra parete, mi
avvicino per scostare le tende scure semichiuse e rivelare la vista di
luci scintillanti che fluttuano nel buio. Una delle finestre è montata
su un pannello scorrevole che porta ad una piccola terrazza abbastanza
grande per un paio di sedie ed un tavolino da caffè, le cui sagome si
intravedono a malapena in mezzo all'oscurità. Faccio scattare
l'apertura e metto piede all'esterno, ma vengo subito accolta da una
folata di vento freddo che di estivo ha molto poco e che mi fa
immediatamente rabbrividire nel leggero vestito a maniche corte in cui
mi sono cambiata, costringendomi a passarmi le mani lungo gli
avambracci.
"Clima
adorabile, vero?"
Mi volto
verso la voce di Damon, che si è appoggiato a braccia incrociate contro
lo stipite della finestra aperta, con la luce interna ad illuminarlo e
l'ombra di un sorriso a piegargli le labbra mentre mi osserva. Si è
cambiato anche lui, in una maglietta bianca ed un paio di vecchi jeans
chiari che gli cadono un po' sformati sulle anche. Ha i capelli ancora
umidi disordinati sulla fronte.
Mi stringo
un po' di più mentre un'altra ventata mi scompiglia i capelli.
"E' sempre
così?" domando.
"Mmm uhm,"
mormora in risposta, indicando con un cenno della testa una direzione
imprecisata al di là del parapetto. "E' l'oceano."
Si stacca
dalla soglia e mi raggiunge al limitare del davanzale. Allunga una mano
per spostare una delle ciocche che continuano piano a svolazzarmi sul
volto, ed io inclino istintivamente la testa verso il suo tocco. Ho
sempre amato il modo in cui lo fa, e non so se mi sono mai presa il
tempo per apprezzarlo davvero.
"Stefan ti
ha detto per caso qualcosa su Caroline?" chiedo, mentre poso le mani
sul suo addome in cerca di calore, percependone le linee definite sotto
al cotone.
Non sono
ancora riuscita a scrollarmi di dosso la sensazione che ci fosse
qualcosa di strano in lei quella mattina. Avevo anche tentato di
ripercorrere mentalmente la serata e i giorni precedenti, ma senza
riuscire a trovare indizi o spiegazioni plausibili, solo una Caroline
affaccendata su un sacco di cose. Ma è anche vero che Caroline tende
spesso ad usare le sue fisse come valvole di sfogo quando qualcosa la
turba, quindi è sempre difficile intuire cosa le stia passando per la
testa. Durante il viaggio avevo pensato di chiamare Bonnie e chiedere a
lei di capire qualcosa, ma Bonnie avrebbe fatto domande ed avrebbe
preteso risposte, e so che con lei non sarei stata in grado di
scamparla facilmente. Meglio non tentare troppo la sorte. Vigliacca.
"No,"
scuote la testa Damon. "Troppo impegnato a torchiarmi per la mia
piccola sparizione di stamattina."
Le sue dita
continuano ad accarezzarmi tra i capelli, piuttosto inutilmente visto
che continuano a svolazzare un po' ovunque, ma va bene così perché non
voglio che smetta.
"Ti ho
messo nei guai?"
Un veloce
sorriso ironico. "Non più del solito."
Stringo la
stoffa sotto le mie dita e mi sporgo in avanti per posare le labbra
sulle sue. Le apre per me scivolando con la mano sulla mia nuca, ed è
forse la prima volta, da questa mattina, che lo bacio davvero per il
gusto di un bacio, non distratta dalla frenesia di toglierci i vestiti
di dosso. Ha un sapore diverso e nuovo, denso e lento. Mi entra dentro
piano. Più a fondo di quanto avessi intenzione di permettergli.
Damon porta i due piatti in cui ha appena trasferito il "miglior pad
thai di San Francisco", si siede accanto a me che lo aspetto sul divano
con le gambe rannicchiate.
(Il frigo
era vuoto, abbiamo considerato l'idea di uscire per mangiare. E' durata
i cinque secondi necessari a realizzare tutto ciò che nei luoghi
pubblici non è possibile fare.)
Gli sorrido
e gli porgo il vino bianco che io ho versato per entrambi nel
frattempo. Di solito non bevo, soprattutto senza un'occasione, ma del
resto di solito non sono all'altro capo degli Stati Uniti in una
situazione in cui non avrei mai pensato di ritrovarmi, quindi presumo
che in uno strappo in più non ci sia niente di male.
Ne bevo a
malapena due bicchieri, ma la mia soglia di tolleranza è talmente
limitata che, per la fine della cena, ho la testa leggera e curiosa. E'
ancora piena di tutti quei suoi pezzetti di vita che ho sbirciato
prima, pezzi che non conosco di tutto quel Damon che è andato avanti
senza di me.
"Come ci
sei finito in questa città?" gli chiedo ad un tratto, accarezzando la
base del bicchiere con le dita. "Hai scelto tu di vivere qua, o …"
"O mi ci
sono ritrovato?" finisce per me. Mette via il suo piatto sul basso
tavolino di fronte e, quando torna ad appoggiarsi all'indietro, si
sporge verso di me per prendere le mie gambe rannicchiate e portarsele
in grembo. Si stringe nelle spalle ed una sua mano mi accarezza sul
ginocchio scoperto. "Non lo so. Certe cose succedono e basta, immagino."
"Raccontami,"
dico, sistemandomi meglio con un gomito sulla spalliera e la testa
posata sulla mano. "Cos'è successo con Enzo e New York? Dopo che siete
andati … Strade diverse?"
"Qualcosa
del genere," risponde. "Si è stabilito a New York, fa il meccanico di
auto d'epoca a Brooklyn Heights, ha tre bambini."
"Sul
serio?" spalanco lo sguardo. Sorrido, ho qualche problema a conciliare
l'immagine dello sbruffone che ricordo con quella di un padre di
famiglia a soli 26 anni. "Mi prendi in giro."
"Nope,"
scuote la testa, sorride anche lui. "Ha trovato questa rossa di origini
irlandesi, Maggie, l'ha messa incinta per sbaglio, e dopo il primo ci
hanno preso gusto. Due maschi, una bambina, il più grande ha 5 anni.
Sono tremendi, lo giuro. Mi chiama "fottuto yuppie" [2]
ogni volta che sono in zona e ci vediamo per un paio di bevute."
"E tu,
perché non sei restato?"
"A New
York? Beh, quando siamo arrivati là … è stato diverso per lui. Ha
trovato quello che voleva, qualcosa che gli piaceva." Continua ad
accarezzarmi lungo la pelle nuda della gamba, lentamente, quasi
distrattamente, ed è una bella sensazione. Lo fa con un istinto
naturale, inconscio, quasi non potesse farne a meno. E' su questo che
fissa lo sguardo mentre continua parlare, "Io no. Sempre irrequieto,
pieno di rabbia, pieno di stronzate. New York può fotterti davvero
quando sei così. Non riuscivo a tenermi neanche il più stupido lavoro,
sono finito completamente al verde nel giro di neanche un anno."
Gli chiedo
di continuare. Rimango ad osservarlo con la testa appoggiata sulla mano
e le gambe tra le sue dita, ad ascoltarlo parlare e mettere insieme
altri pezzi ad un quadro che, con lui, lo so che non sarà mai davvero
completo. C'è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, un altro pezzettino
da aggiungere.
Gli ultimi
100 dollari e la discreta dose d'orgoglio spesi per un bus diretto a
New Orleans, dalla madre estraniata e il tetto sopra la testa che
poteva offrire per qualche mese.
I mesi
trascorsi là tra altri lavori saltuari, sua madre che se ne andava di
nuovo per un altro posto e un altro uomo, la donna del piano di sotto
con il lavandino sempre rotto e appassionate opinioni sul jazz che
condivideva con lui ogni volta che gli chiedeva di farle piccoli
favori. Si mette a ridere quando gli chiedo se ci andava a letto.
"Magari.
Più di quarant'anni, e decisamente un vero schianto. Ma altrettanto decisamente non
interessata a me. La sua compagna era morta da poco dopo più di
quindici anni insieme. Immagino si sentisse semplicemente piuttosto
sola."
Era venuto
fuori che la donna, Bree, era una professoressa al Dipartimento di
Musica di Stanford in aspettativa per un anno, e quando si era trattato
di tornare in California gli aveva chiesto di andare con lei,
offrendogli un posto come aiuto tecnico in un nuovo programma di
ricerca in Teoria Musicale Informatica [3].
Aveva accettato. Aveva iniziato così ad interessarsi ed imparare
qualcosa di informatica; aveva incontrato Alaric, ad una classe di
sistemi crittografici in cui lui non avrebbe neanche dovuto essere,
quando davanti ad un centinaio di persone quest'ultimo aveva portato il
professore sull'orlo di una crisi di nervi trovando almeno dieci falle
diverse nel suo sistema nel giro di quindici minuti. Lo aveva
avvicinato per farsi spiegare in parole spicciole un paio di nozioni
che lo avrebbero aiutato per il lavoro con Bree, offrendo in cambio di
fargli da spalla per far finire qualche ragazza nel suo letto alle
serate delle confraternite. Ma di serate del genere non ce ne erano mai
state molte. Una volta superate le reticenze della sua personalità di
natura sospettosa, avevano concordato che bere e sfottere la media di
studenti alto borghesi finanziati dai soldi di famiglia era un modo più
divertente di passare le loro serate.
"Non sembra
così fuori di testa di persona rispetto a come ne parli," gli dico.
"Oh,
credimi. Lo è. Lo è quando meno te lo aspetti," mi contraddice Damon
con l'accenno di un sorriso furbo. "Ha ricevuto un'offerta di lavoro a
cinque zeri da Google quando non era ancora al terzo anno. Ha rispedito
indietro l'assegno, con scritto sopra un grosso "Si fottano le
corporations". Una cosa del genere ti chiude parecchie porte nella
Valley. Perciò, non ha avuto altra scelta che restare bloccato con uno
come me per inventarsi qualcosa, trovare i soldi e far accadere le sue
idee. Il resto, più o meno, lo sai."
Siamo
silenziosi per un momento, quando lui finisce di parlare.
"Così, è
questa la storia," dico infine.
"La storia
della mia vita?" scherza lui.
Esito.
"La storia
del Damon che un giorno ha lasciato Mystic Falls, e non si è più
guardato indietro."
Lo sguardo
di Damon si alza verso il mio, vi resta qualche secondo. Parla piano
quando risponde.
"Non so
quanto questo sia vero."
"Non hai
mai chiamato. Non sei mai tornato."
Lo dico
abbassando gli occhi sulle dita che mi sto tormentando, con una veloce
piega delle labbra ed un piccolo tremito nella voce, che non è più la
mia ma quella della ragazza che, a dispetto di tutto, dentro di sé
forse non aveva mai davvero smesso di sperare che cambiasse idea.
"Non ho mai
pensato ci fosse qualcosa da cui tornare."
Annuisco,
anche se l'intensità con cui sento che mi sta guardando mi trafigge il
petto, insieme a qualcosa che somiglia più ad un'improvvisa fitta di
rimpianto. In verità, pensavo da tempo di aver fatto pace con tutto ciò
che aveva spinto Damon fuori dalla mia vita. Non gliene avevo neanche
mai veramente fatto una colpa, non razionalmente almeno. Dal punto di
vista meno razionale, beh, quella forse sarebbe tutta un'altra storia.
Ma non sono
sicura se sia il caso di andare davvero ad aprire quel capitolo di
spiegazioni che hanno ormai perso da tempo il loro significato, per di
più in una situazione ancora incerta come questa, in cui è impossibile
prevedere a cosa potrebbe portare.
Il problema non fu gestire il locale
per una sera. Non c'era molto movimento in ogni caso, perciò da quel
punto di vista io e la nuova ragazza ce la cavammo senza troppi
problemi, io tra i tavoli e lei dietro al bancone. Il problema era che
Jenna non c'era, sua sorella aveva avuto un bambino e lei era andata a
trovarla per un paio di giorni, ed io realizzai che senza di lei, in
situazioni del genere, non sapevo più a chi rivolgermi.
Passai
la sera a gettare occhiate preoccupate verso l'orologio, anche più
volte nel corso di un'ora.
Alle
undici, pensai che avrei dovuto accompagnare Jeremy a casa, ma che non
potevo lasciare Lanie, che lavorava lì solo dall'inizio dell'estate, da
sola ad occuparsi del Grill. Pensai anche che avrei dovuto iniziare a
pensare di prendere la patente, perché se mio padre decideva di sparire
così per ore intere, avere una macchina mi sarebbe stato utile in più
di un'occasione.
A
mezzanotte, se ne andò anche Brady che si occupava della cucina, e la
sensazione di ansia crescente che mi premeva sullo stomaco divenne più
pressante con ogni minuto che passava. Le dita mi tremavano sui vassoi
e sui tasti del telefono ogni volta che provavo a chiamare mio padre e
ricevevo solo squilli nel vuoto.
Poco
prima dell'una, qualcuno finalmente rispose. Una voce maschile che non
conoscevo da un bar sulla statale, che mi informò che qualcuno mio
padre doveva andare a riprenderselo, perché avrebbero chiuso tra poco e
lui non era in grado di tornare da solo.
Il
moto di sollievo che mi pervase alla notizia che non gli fosse successo
niente di brutto fu di breve durata. Si trasformò rapidamente in una
frustrazione sorda e inascoltata giù in fondo al petto, consapevole che
domani sarebbe stato a pezzi, non per i postumi ma per la realizzazione
di cosa aveva fatto, ed io sarei stata lì a raccogliere anche quelli.
Avrebbe
chiesto scusa, non avrebbe toccato alcol per due, forse tre giorni. Ma
non avevo bisogno delle sue scuse domani, ne avevo bisogno adesso
mentre chiudevo la porta del Grill dopo aver fatto uscire anche
l'ultimo cliente e tornavo ad impilare sedie sopra i tavoli.
"Ehi."
Mi
voltai verso il richiamo di Lanie, appoggiata contro il tavolo accanto
a quello che avevo appena finito di sistemare, con le braccia
incrociate sul petto. Mi scrutò un secondo, poi parlò con decisione.
"Devo
essere pagata."
Sbattei
le palpebre, la osservai disorientata. Mi girai in automatico per dare
un'occhiata attorno, come per essere sicura che stesse davvero parlando
con me, anche se eravamo le uniche due persone nel locale.
"Non
so cosa dirti, devi chiedere a mio padre," risposi incerta.
Alzò
appena gli occhi al cielo accennando una smorfia, uno spesso ricciolo
nero le cascò in avanti sulle spalle. "Beh, tuo padre non è qui."
Come
se non lo avessi notato. Serrai le labbra e mi spostai ad un altro
tavolo per fare ordine anche su quello.
"Sarà
qui domani," replicai secca.
Lei
mi seguì e posò la mano sulla superficie davanti a me, si sporse nella
mia visuale per assicurarsi di avere la mia attenzione. "Sono due
settimane che ´sarà domani`."
Un
picchiettio sui vetri della porta di ingresso mi diede fortunatamente
la scusa per non dover cercare giustificazioni che non avrei saputo
trovare in risposta a quell'affermazione. La lasciai lì e mi sbrigai ad
andare ad aprire.
Damon
era appoggiato con una spalla contro il muro appena fuori
dall'ingresso, intento a controllare qualcosa sul suo telefono, e la
sensazione di puro sollievo che provai nel vederlo fu così intensa e
immediata che dovetti fare uno sforzo enorme per trattenermi dal
gettargli le braccia al collo e stringerlo forte. Ma doveva essere
scritto ovunque sulla mia faccia, perché, non appena sollevò lo sguardo
su di me, l'accenno di sorriso già pronto ad estendersi all'angolo
delle sue labbra cambiò in un cauto corrugamento delle sopracciglia.
"Qualcosa
non va?" mi chiese mentre lo facevo entrare e richiudevo la porta con
una doppia mandata di chiave. "Pensavo che ti fossi finalmente decisa a
darmi retta e chiamarmi per farti venire a prendere, invece di spuntare
dal nulla a casa mia nel mezzo della notte."
Gettai
una veloce occhiata verso Lanie, che scosse appena la testa e si
diresse a finire di mettere a posto dietro al bancone, ancora in attesa
di una risposta e una paga che tardavano ad arrivare. Posai una mano
sul braccio di Damon e lo portai in disparte.
"Non
ti ho chiamato per quello," dissi, iniziando a spiegare con una punta
di nervosismo. "E' mio padre, non è qui. E' uscito oggi pomeriggio, non
è più tornato. Qualcuno deve andare a prenderlo in quel bar lungo la
statale, ma Jenna non c'è, e non voglio far sapere niente a Matt, e
Jeremy sta dormendo sulla poltrona dello studio, e dovrebbe essere a
casa, e non sapevo cosa fare, e …"
"Va
bene," mi interruppe, il suo sguardo rassicurante a farmi realizzare
quanto instabile fosse appena diventata la mia voce. "Posso andare io,
possiamo andare insieme."
Allungò
le dita per scostare le ciocche sfuggite alla mia coda, piccole carezze
delicate tra i miei capelli che mi fecero subito sentire più
tranquilla. Annuii e gli rivolsi un piccolo sorriso, ma sobbalzai
quando nel locale risuonò un rumore improvviso di vetri infranti.
Mi
affrettai a tornare verso il bancone, accanto al quale Lanie,
mormorando un "dannazione" tra i denti, stava raccogliendo dal
pavimento i pezzi dei due bicchieri che aveva appena fatto cadere.
"Puoi
stare più attenta?" le dissi seccata, inginocchiandomi anche io per
aiutarla. "E' la terza volta questa settimana."
Si
fermò ed alzò il volto per guardarmi socchiudendo le palpebre.
"Seriamente?"
Si
tirò su in piedi e mi raddrizzai anche io. Il sarcasmo nel suo tono mi
fece montare dentro una vampata di irritazione.
"Seriamente," ribattei.
Scosse
la testa in qualcosa a metà tra una smorfia e una risata. Allungò le
dita sulla schiena per sciogliersi in fretta il grembiule, i vetri
rotti ancora sul pavimento. "Dio, non posso credere che sto veramente
prendendo ordini da una quindicenne. Non vengo neanche pagata!"
"Ehi,"
si intromise Damon, comparso alle mie spalle, facendo un passo avanti
per porsi davanti a me. "Non trattarla così."
La
ragazza si girò verso di me, sollevò le sopracciglia in un'espressione
ancora più sarcastica. "Ci si mette anche il tuo ragazzo adesso?"
"Damon,
lascia stare," gli dissi con quanta più calma possibile, posando una
mano sul suo polso.
Si
scansò con un movimento leggero ma deciso, mi ignorò e fece un altro
passo in avanti.
"Non
è colpa sua, trova qualcun altro su cui rifartela."
"Oh,
no, ho chiuso," fu la risposta di Lanie, che alzò le mani e posò con
stizza il grembiule aggrovigliato sopra il bancone. "Questo posto è una
barzelletta."
Si
sporse per afferrare la sua borsa dal ripiano dietro al bar e, a passò
spedito, si avviò per sparire oltre la porta.
Meraviglioso.
Adesso avevo appena perso l'unico personale in grado di servire
alcolici, domani avrei dovuto spiegarlo, e soprattutto ci sarebbe stata
una persona in meno ad occuparsi del locale. Sentii la gola bruciarmi
di lacrime frustrate e avvilite, troppe cose a bollirmi in petto.
"Perché
dovevi farlo?" domandai girandomi di scatto verso Damon.
"Perché?…"
ripeté incredulo, una smorfia appena scocciata come se non fossi in
grado di riconoscere il grande favore che mi aveva appena fatto. "Oh,
andiamo, sono stato perfino gentile."
"Non
dovevi farlo!" esclamai con forza, un passo indietro per
allontanarmi da lui.
"Era
una stupida cameriera che neanche ci voleva lavorare, qui," ribatté
lui. Mi venne incontro, allungò una mano verso il mio braccio, mi
sottrassi bruscamente. "Si può sapere cosa diavolo ti prende?"
"Non
posso …" cercai di dire, ma il respiro mi uscì strozzato, come se tutto
d'un tratto non avessi più abbastanza aria nei polmoni, "… Non posso …
questo … e se tu ti metti di mezzo … io …" Un altro passo indietro, ma
dalla gola non passava più fiato, ed ogni parola era un singulto
dolente e affaticato. E poi tutto saltò, in un solo secondo ed in un
solo singhiozzo gridato, "Non posso!"
Sentii
le braccia di Damon circondarmi nello stesso attimo in cui prorompevo
in un pianto dirotto e prepotente, incoerente e rabbioso, una della sue
mani a circondarmi la schiena, l'altra sulla testa a tenermi salda
contro di lui. Protestai. Cercai di allontanarlo. Singhiozzai e mi
divincolai premendo con forza contro il suo petto. Odiavo tutto ed
odiavo anche lui, odiavo la maglietta che profumava di Michelle, odiavo
quanto lo volessi solo per me, odiavo che fosse lì perché un giorno non
ci sarebbe stato più, lo odiavo perché voleva andarsene ed io non
potevo biasimarlo, ed odiavo perfino il fatto che non lo avesse ancora
fatto perché non capivo cosa diavolo stesse ancora aspettando. Lo
spinsi e lui strinse, gli tirai la maglietta e me lo lasciò fare,
singhiozzai, singhiozzai e singhiozzai, fino a che non mi cedettero le
gambe, ed invece di sorreggermi per farmi rimanere in piedi Damon si
accasciò con me, attutendo la mia caduta senza lasciar andare il
disastro informe che ero diventata lì sul pavimento del locale deserto.
Singhiozzai
fino a che non rimase più niente, niente più resistenze, niente più
lacrime, niente a cui pensare. Singhiozzai fino a che non divenni vuota
e intorpidita, afflosciata sul suo corpo come una bambola di pezza, con
la testa docilmente posata sulla sua spalla, mentre la sua mano ancora
mi carezzava la base della nuca ed intorno tornava solo il silenzio.
Non
mi sarei più mossa da lì. Sarei rimasta lì per sempre e sarebbe andato
bene, sarei rimasta lì per sempre e ci sarebbe rimasto anche lui, il
resto dell'universo che continuava stupidamente a muoversi potesse
essere dannato.
Strinsi
la sua maglietta sotto alle dita, aggrappandomi a quella fantasia.
Damon posò piano la testa contro la mia.
Accadde
inavvertitamente, per sbaglio.
Le
sue labbra mi sfiorarono appena la spalla, sulla pelle nuda lasciata
scoperta dalle spalline sottili della canotta. Erano calde, e morbide,
appena secche in superficie. Rabbrividii ovunque a quell'accidentale
contatto, scintille calde nate dai resti del mio vuoto e del mio
torpore.
Non
mi sottrassi. Spostai appena la spalla per andargli incontro, chiederne
ancora, averne di più.
Damon
respirò sulla mia pelle - in un modo irregolare, rotto - e poi la sua
bocca si posò di nuovo, prima uno sfioramento incerto, poi una
pressione più consapevole e più impura, stringendo la sua presa su di
me.
Ero
liquida dentro. Liquida in testa e liquida tra le gambe, insensibile
ovunque se non in quei due punti così vitali, dove la sua bocca premeva
sulla mia spalla e dove il centro delle mie cosce premeva contro il suo
fianco. E continuò a sfiorarmi e baciarmi più su verso la base del collo, e non c'era più
neanche quell'accenno di secchezza, c'erano le sue labbra aperte e
inumidite, la punta della lingua ad assaporarmi la pelle, e c'era ciò che tirarono fuori dalla
mia gola, unico suono a risuonare nel locale, un gemito roco di piacere o forse solo un
ultimo singhiozzo liberatorio che aveva tardato ad uscire.
Damon
alzò il volto, cercò il mio. Lo misi a fuoco tra lo stordimento e gli
occhi gonfi di pianto, e lo vidi, per la prima volta. Quello sguardo
nei suoi occhi. Più scuro e offuscato, pieno di qualcosa che sapeva di
confini da cui non si torna indietro una volta oltrepassati, allettante
e spaventoso.
Sbatté
lentamente le ciglia, lo abbassò sulle mia labbra.
Il
mio cuore batteva selvaggio, perso, al pensiero di cosa stava per fare.
Annaspò in mezzo a troppe cose per poterne uscire vivo, annaspò tra
altre persone addosso, tra discorsi su New York e tra tutte le certezze
che sarebbero state annullate e riscritte da capo. E tutto sembrava
così sbagliato e complicato - io ero sbagliata e complicata, ancora più
sbagliata e complicata quando ero con lui e mi guardava così.
Scattai via, mi allontanai da lui. Goffamente, con le mani
all'indietro a tentoni sul pavimento.
Damon
sembrò completamente smarrito per un paio di secondi. Ma fu il
cambiamento nel suo sguardo dopo quell'attimo di sconcerto ciò che non
avrei dimenticato facilmente. Non era il mio rifiuto il responsabile
del ferimento che lo attraversò. Vidi il modo in cui io lo stavo
guardando riflesso in quello sguardo, e mi tagliò in due.
"Prendi
Jeremy, dovremmo andare da tuo padre," disse guardando da un'altra
parte.
Si
alzò facendo leva su una mano, si incamminò verso la porta e la sbatté
dietro di sé. Rimasi a fissare il punto in cui era seduto fino a poco
fa, a chiedermi se non avessimo appena oltrepassato un altro tipo di
linea altrettanto irreversibile.
Damon fa scivolare le dita lungo il mio polpaccio, non parla.
Non ha mai
pensato di avere qualcosa per cui valesse la pena tornare, e forse
vorrei contraddirlo, forse vorrebbe che lo facessi, ma non riesco a
dargli del tutto torto. Perché in questo momento, penso che ci siamo
fatti così tanto male e così tante volte che anche il fatto di essere
qui adesso non è niente di meno che pura follia.
Alzo infine
lo sguardo su di lui, rompo un silenzio che è rimasto sospeso troppo a
lungo.
"Non sono
più quella ragazza," dico piano, e non so se lo dico per convincere lui
o solo me stessa.
"Lo so,"
risponde, annuendo lentamente. Considera un istante la mia frase. "Beh,
un po' lo sei."
Ha ragione?
A differenza sua, io non ho una storia da raccontare, non ho città o
incontri bizzarri, non ho opportunità colte o perdute, non ho errori e
non ho cadute. Non lo so cosa ho, oltre ad essere una figlia, una
sorella, un'amica o una fidanzata. E' spaventoso, e la mia voce cede
appena quando incontro l'azzurro intento del suo sguardo e lo ammetto
ad alta voce.
"Non lo so
chi sono."
La sua mano
si sposta sul mio ginocchio, lo attira a sé per attirare anche me. Posa
la fronte contro la mia quando sono su di lui, con le gambe ai lati del
suo torace e gli occhi chiusi, a respirare lui e questo momento come
se, farlo, potesse davvero aiutare a definire tutto.
"Elena,"
dice Damon a bassa voce, con le labbra così vicine al mio volto, ed io
impiego qualche istante a capire che non mi sta chiamando. E' la sua
risposta, la sua personale definizione, e lì sulla sua bocca suona
davvero come se fosse abbastanza. "Sempre … Elena."
Riapro gli
occhi e poso la mano sopra la sua. Lo invito a farla salire, perché ho bisogno della concretezza del suo tocco per crederci davvero. E Damon
sale lungo la mia coscia, sale sotto la gonna che si solleva sui
fianchi, sale e sale anche l'altra mano, mentre i suoi occhi sono fissi
nei miei e bruciano di un tale intensità che fanno bruciare anche me.
Sento il calore divampare dentro, lento e forte.
Gli vado
incontro, alzo il bacino, e le sue dita mi sfiorano appena le
mutandine. Lascio uscire un basso sospiro, consapevole che sta
guardando ogni mia mossa, ogni sfumatura nel mio sguardo. Sono cera
fusa.
Mi
accarezza a lungo sopra la stoffa, provoca le mie già troppo sensibili
terminazioni nervose, l'ennesimo basso sospiro e la sposta
delicatamente di lato.
Guardo i
suoi occhi farsi più scuri mentre un unico dito scivola dentro, ed è
così insoddisfacente e così meraviglioso il modo in cui si muove, che
invece di darmi un briciolo di sollievo fa solo aumentare il mio
bisogno ancora di più. Glielo dico con gli occhi sempre persi nei suoi,
con il respiro sempre più corto, senza parlare.
Due. Più a
fondo. Inarco la schiena, chiudo gli occhi e mi mordo le labbra per
soffocare il gemito alto che ho rischiato di lasciar sfuggire.
"Non
farlo," mi sussurra in un soffio roco a pochi centimetri dal mio volto,
e niente è mai stato così sfocato e così nitido di me che sono e non
sono più come in questo momento. "Non trattenerti. Non ti può sentire
nessuno." Così a fondo … "Solo io."
Lo faccio,
e lascio andare. Tutto. Lo bacio con tutto quello che ho e lascio che
mi porti sotto di sé, la schiena contro il divano e mani che volano
veloci a liberarsi dei vestiti, perché un solo secondo di più senza
sentirlo dentro di me e potrei quasi morire.
E poi
accade. Accade anche se è tutto sbagliato e complicato, esplode nel
petto con la forza di minuscoli granelli in inarrestabile espansione,
inaspettata e improvvisa, almeno quanto lo è il pensiero che la
accompagna.
Sono
felice.
Sono felice
e la cosa mi dissolve.
In tanti
piccoli pezzi che forse non saprò mai più come rimettere insieme.
————————————————————————————
Note:
[1]
La stima della popolazione di MF si basa su questa cosa qui
[2]
Yuppie: http://it.wikipedia.org/wiki/Yuppie
[3]
"Computer-Based Music Theory and Acoustics" è davvero un programma di
studi e ricerca all'università di Stanford, collaborazione tra il
dipartimento di musica, quello di ingegneria e quello di informatica.
Spazio autrice.
Elena
e Damon felici per addirittura
un capitolo?
Premettendo che i capitoli su
Elena sono sempre i più complicati (dopotutto è una donna, noi donne
siamo sempre complicate), questo è stato finora il più complicato di
tutti, e data la grande quantità di introspezione incrocio le dita di
avervi trasmesso qualcosa senza annoiarvi e/o risultare pesante - my
god, non vi dico quanto è lungo questo capitolo che facciamo prima.
Quindi
non so se sia stata la svolta Delena che speravate, perché Elena
evidentemente le idee chiare non ce le ha né probabilmente ha scelto la
strada migliore per chiarirsele, ma per ora prendetela così e
prendetevi il capitolo relativamente drama free (tanto quando non è uno
è l'altro, e stavolta ci pensano i flashback a sopperire).
Siete state meravigliose - meravigliose
- nelle vostre recensioni, commenti e nel vostro entusiasmo allo scorso
capitolo, e cretedemi che vorrei davvero tanto trovare nuove e non
banali parole per ringraziarvi e farvi sapere quanto lo apprezzi. Ho
solo grazie, ma sappiate che è davvero sincero.
Qui se
volete c'è il gruppo facebook, qui
la playlist aggiornata.
un
bacio, a presto
ever
|
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Capitolo 20 *** Us ones in between ***
19. per efp
19.
Us
ones in between
- And I’ve heard of pious men, and
I’ve heard of dirty fiends
But you don’t often hear of us ones in
between -
(Sunset
Rubdown, Us ones in between)
Damon
Credo mi fosse mancata, un po', San Francisco.
Mi era
mancato correre costeggiando la baia, lungo l'Embarcadero semi-deserto
come può esserlo solo alle sei del mattino. Mi era mancato respirare
salsedine e nebbia umida, che questa mattina sembrano ancora più
rivitalizzanti del solito dentro ai polmoni. Forse mi era mancata
persino la ragazza delle sei e trentacinque, quella che non manca mai
di lanciarmi un preciso tipo di sorriso quando le nostre strade si
incrociano all'altezza del Ferry Building. Solo che questa mattina la
ragazza delle sei e trentacinque, lei e quel suo sorriso un po' timido
un po' da "prima o poi dovremmo dedicarci ad un altro tipo di attività
fisica", li vedo a malapena, quando sono già passati oltre.
Quando mi
sono svegliato, una quarantina di minuti fa, la stazione radio
impostata sul mio iphone ha annunciato "una bellissima giornata su tutta la Bay
Area",
ed io non avrei potuto essere più d'accordo. Mi era bastato gettare uno
sguardo ad Elena, che tornava a seppellire la faccia nel cuscino con un
mormorio di protesta, e lasciarle un bacio leggero tra i capelli prima
di uscire, concedendole la grazia di non essere svegliata alle sei di
mattina, per non avere dubbi al riguardo.
E la
giornata migliora ancora di più, quando torno dalla mia corsa, esco
dalla doccia, e trovo Elena davanti ai fornelli, intenta a fissare con
aria assorta e dispiaciuta un intero set di toast anneriti che ha
sparso ovunque odore di bruciato. Perché chissenefrega dei toast quando
hai Elena vestita solo in biancheria ed una t-shirt troppo larga a
farti venire nuove idee su come usare il bancone della cucina.
Lancia un
gridolino di sorpresa quando la attacco da dietro, ride e tenta invano
di sottrarsi mentre la copro di baci gocciolandole addosso con i
capelli bagnati, mi attira a sé afferrandomi il colletto aperto della
camicia. Non passa molto prima che le sue mutandine cadano proprio lì,
ai piedi del frigo, mentre facciamo bruciare anche il secondo giro di
toast.
Una cazzo
di bellissima giornata.
"Sei di
buon umore," è la prima cosa che mi sento dire da Ric quando varco la
soglia del nostro mini-ufficio.
Solleva la
testa dal suo portatile e si dà una spinta con il piede contro il bordo
inferiore della sua incasinata scrivania. Lui e la sua sedia girevole
rotolano nella mia vista.
"Sono
sempre di buon umore quando ti assicuro un nuovo cliente," sogghigno in
risposta mentre afferro al volo la pallina anti-stress che mi ha appena
lanciato per accompagnare la sua frase.
Lascio
socchiusa la porta dei venti miseri metri quadri che paghiamo a peso
d'oro e mi butto sul divano usato verde acido, unico altro pezzo di
arredamento se non si considerano le pile di libri accatastati sul
pavimento in attesa che ci decidiamo a comprare anche gli scaffali.
Dall'open space in fondo al corridoio, arrivano i rimbalzi secchi di
una partita a ping-pong, l'odore di caffè della cucina condivisa e il
ritmico battito sulle tastiere degli altri occupanti del piano sparsi
tra i loro cubicoli o attorno a tavoli giganti, quelli a cui Ric non
potrebbe mai stare perché troppo preoccupato che qualche geek possa
sbirciare oltre la sua spalla e rubargli le idee.
Ric
riacciuffa la pallina che gli ho ritirato e fa scivolare lo sguardo su
di me, un po' cauto un po' sospettoso.
"No, non è
questo …" Si sporge poggiando i gomiti sulle ginocchia, l'anti-stress
che passa da una mano all'altra, e mi osserva come se mi stesse
cercando addosso i segni di una qualche sconosciuta malattia tropicale.
"Questo … Questo è qualcos'altro. Cos'hai combinato?"
Come
risposta mi limito a scrollare le spalle, perché ho appena sentito
tintinnare il telefono nella mia tasca. E' Elena, con tre nuove foto in
arrivo dal Pier 39. Leoni marini che si strusciano e lei che fa facce
buffe all'obiettivo. Piego un angolo della labbra verso l'alto e inizio
a digitare.
"Sei andato
alla presentazione vero?" mi domanda Ric.
Annuisco. Uno di questi soggetti è veramente
adorabile
"Come è
andata?"
"Bene,"
dico senza alzare lo sguardo.
Ci sono anche i cuccioli! compare
sul display. E poi, Spero che tu
stessi parlando di me
"Hai
parlato di quella variazione del protocollo di trasmissione NEC che
intendo usare?"
"Mmh hmm."
Per
te ho altri agget
"Ehi!"
protesto quando Ric mi strappa il telefono di mano e lo solleva in alto
per tenerlo fuori dalla mia portata. Un'altra foto di Elena, con tanto
di cucciolo di leone marino sullo sfondo, riempie lo schermo.
"Aspetta.
Questa non è Elena, la tua amica
da Mystic Falls? Cosa ci fa qui?" mi chiede nel rilanciarmi il telefono
che io afferro al volo con entrambe le mani. Non mi sfugge l'enfasi
sarcastica che mette sulla parola amica. "E' questo il motivo per cui
hai perso il volo ieri mattina? No, non rispondere. Ovvio che è questo."
Cosa posso
dire? Sento le labbra distendersi in un altro lento sorriso.
"Beh, se ti
fa sentire meglio, non è che lo avessi esattamente programmato."
"Mi
stupirebbe il contrario." Ric corruga la fronte. "Quindi? E' tipo la
tua ragazza adesso? Perché avevo capito che fosse fid-"
"Sai, Ric,"
lo interrompo, prima che possa anche solo pensare di finire quella
frase e pronunciare quella parola. "Sono venuto qua, come promesso, ho
fatto una presentazione fantastica del tuo lavoro, come promesso, e
adesso … " Mi alzo ed inizio a radunare velocemente la mia roba.
Impiego più di un'ora a tornare dalla Valley in città e non ho
intenzione di sprecare un altro minuto. "… Ho altri tipi di promesse da
mantenere. Ci vediamo domani."
Il mio
amico scuote la testa. "Ricordami perché ancora ti sopporto."
Gli lancio
un veloce sogghigno dallo stipite della porta.
"Perché
sono favoloso."
Lui mi
grida dietro, "Non te la cavi così!"
Ha
probabilmente ragione. Ma non me ne frega granché.
Per quanto
lui continui a starmi addosso, sia per il lavoro che con domande
buttate là su cosa cazzo io stia facendo, schivo tutto con l'abilità di
un giocatore di dodgeball. La mia presenza in ufficio nei due giorni
successivi si può riassumere in un paio di obbligate visite toccata e
fuga ed una concentrazione seriamente minata, come testimonia una
discussione per un nuovo progetto che per poco non mando a puttane
perché ho la testa ancora sintonizzata su Elena, che quella stessa
mattina decide di ripagarmi per la sera precedente, inginocchiandosi e
guardando in su con quel suo sorriso malizioso appena prima di farmi
dimenticare pure il mio nome, figuriamoci i dettagli del progetto.
Il resto
del tempo non faccio che lasciarmi trascinare su e giù per i colorati
negozi vintage di Haight Street, o lungo i moli affollati, o a godersi
ombra e mini-stralci di qualcosa che
assomiglia pericolosamente alla beatitudine sdraiati sull'erba del
Golden Gate Park.
"Quindi,
spiegami," mi dice Elena quando la sera dopo varchiamo la soglia di un
bar in Haight-Ashbury. "Come mai hai insistito per farmi vestire e
portarmi qui?" La sua voce inizia a subito a perdersi tra il misto di
chiacchiericcio e musica che riempie il locale, così intreccia la mano
alla mia, mi attira verso di sé e si sporge per sussurrarmi
all'orecchio. "Pensavo di piacerti nuda e nel tuo letto."
Questa
ragazza mi ucciderà. Di morte lenta e meravigliosa.
"Ed infatti
ti terrei lì senza più farti andare via…" le rispondo inclinando appena
la testa per avvicinarmi al suo orecchio e sfiorarlo con le labbra. Poi
mi costringo ad allontanarmi dal profumo che proviene dal suo collo,
prima di cambiare idea e tornare a casa per farle davvero capire quanto
sono serio. "Ma ho promesso a Ric che lo avremmo incontrato per una
bevuta stasera. Perciò eccoci qua."
Faccio per
muovermi dall'ingresso e andare a cercare Alaric ma, come muovo un
passo, la mano di Elena mi trattiene. Lei non si è mossa. Mi volto
verso di lei, che mi sta guardando mezza spaesata,
come se le avessi appena teso una trappola.
"Hai detto
ad Alaric che io … che noi …"
Lascia
andare la mia mano, ed io osservo spiazzato quella inaspettata reazione
così stranita. C'è una nota di accusa nella sua voce.
"Perché lo
hai fatto, perché glielo hai detto?"
"Perché,
non avrei dovuto?"
"Non lo so,
pensavo …"
"Cosa, che
avrei tenuto te e tutto questo nascosto al mio migliore amico?"
"Beh,"
incrocia le braccia sul petto. "Pensavo che fossimo d'accordo sul fatto
di non dirlo a nessuno."
"Tu non hai voluto dirlo a nessuno,"
le ricordo.
Un lampo di
colpevolezza le incupisce gli occhi. E' abbastanza da mandare una fitta
di realizzazione dritta ad attraversarmi il petto, perché è l'attimo in
cui mi rendo conto che il chiaro carattere furtivo di qualsiasi cosa
ci sia tra noi è esattamente ciò per cui ho firmato. Scuoto appena
la testa per liberarla da quel pensiero e da tutti i suoi incerti
sottotesti, cerco di dare retta alla mia parte più
razionale, quella che mi ripete che è solo una situazione temporanea
dovuta a
circostanze sfortunatamente delicate.
"E' solo
Alaric, Elena," le dico, più conciliante. "Nessuno a cui ti importa di
non farlo sapere."
Lei si
morde appena le labbra, una traccia residua di dubbio mentre sposta il
peso da una gamba all'altra. Poi sospira.
"Lo so,"
distoglie un attimo lo sguardo e, quando torna a posarlo su di me, la
colpevole esitazione di prima se ne è andata anche da lì. Per qualche
motivo, non riesce del tutto a farmi sentire meglio. Sorride. "Hai
ragione. Mi dispiace. Andiamo, sarà divertente passare una serata
fuori."
Elena mi
prende nuovamente la mano e mi invita a seguirla nel locale. Con
un'occhiata noto Alaric, seduto ad un tavolino ad angolo, fare un gesto
nella nostra direzione. Qualsiasi sensazione avessi pensato di
avvertire pochi secondi fa la scrollo via in fretta.
E' una
bella serata. Il mio amico e la mia ragazza che vanno piuttosto
d'accordo e piuttosto in fretta. Ne avevo già avuto un assaggio nella
notte passata insieme a New Orleans, anche se quella volta eravamo
tutti fin troppo ubriachi per poter davvero contare qualcosa. Ma
stasera è più o meno la stessa atmosfera, divertita e rilassata, solo
con molto meno alcol.
Elena ride
alle sue battute. Alaric ascolta ciò che lei ha da dire. Parlano di un
libro che hanno letto entrambi. Arrivano perfino a coalizzarsi un po'
contro di me su un paio di argomenti, cosa per la quale fingo di
impermalirmi, ma è una finta spazzata via facilmente dalla mano di
Elena stretta sopra la mia al di sotto del tavolo, e dai sorrisi con
cui guarda in su verso di me.
"Ragazza
simpatica," dice Alaric quando Elena si alza per andare al bagno.
"Pensavo che fosse fidanzata. Cos'è successo, si sono lasciati?"
Dannato
Alaric. Alla fine ce l'ha fatta a dire ad alta voce la parola che
finora ero riuscito così abilmente ad evitare. Prendo in mano il mio
bicchiere e mi stringo nelle spalle, guardando verso la folla.
"Lui è ad
Hong Kong."
"Lo prendo
come un no."
Mi volto
verso di lui.
"E' solo …
un po' complicato, ok? Forse non abbiamo avuto il migliore dei
tempismi, ma …" inizio a dire, fermandomi però quando vedo il suo
sguardo. Odio quell'espressione in faccia a Alaric. Alzo gli occhi al
cielo. "Cosa?"
"Senti, lo
so che non vuoi sentirtelo dire," dice lui sporgendosi verso di me. "Ma
l'ultima volta che ti ho visto così sono stato trascinato in un
municipio con addosso una cazzo di cravatta, e sei mesi dopo ero io
quello che trascinava te, fuori dai bar, quasi tutte le notti e quasi
sempre su quattro zampe. Ce ne sono voluti altri sei per farti tornare
a camminare su due."
Scuoto la
testa e butto giù il liquore tutto d'uno sorso. Mi brucia nello
stomaco, insieme a tutto ciò che il suo discorsetto non richiesto
lascia intendere.
"Non è
Katherine, Ric," replico asciutto.
"No, lo so.
Non lo è. Non ho mai potuto soffrire Katherine fin dal primo momento in
cui l'ho vista, e dio se mi piace questa ragazza. Il che significa …
che è peggio," prosegue, mentre io alzo lo sguardo e vedo Elena tornare
dalle toilette. Anche Alaric la vede. Il resto della sua frase mi
arriva mentre incrocio lo sguardo di Elena, e lei torna ad aprirsi in
un altro accenno di sorriso, solo per me. "Ti ridurrà a pezzi. E non
come Katherine, che ti sarà passata nel giro di qualche mese. A pezzi
per davvero."
***
C'era un motivo per cui l'avevo
sempre saputo che non avrei mai potuto essere uno dei buoni.
Voglio
dire, ovviamente potevo provarci. Potevo sforzarmi di non essere sempre
una totale testa di cazzo, potevo tentare di raschiare un pezzettino
nello spazio riservato ai cosiddetti bravi ragazzi, ovvio che potevo
farlo, e forse a modo mio davvero ci avevo provato. Ma cosa cambiava,
alla fine di tutto? Niente.
I
bravi ragazzi non usano le persone a loro piacimento. I bravi ragazzi
non se ne sbattono di chi ci finisce in mezzo come effetto collaterale.
Potevo
provare quanto volevo, ma tanto poi tornavo sempre lì, a piatte notti
di luglio sui sedili della vecchia Camaro, ad approfittare delle bocche
morbide di ragazze di passaggio di cui a malapena mi sforzavo di
imparare il nome, benedetta sia l'estate e la quantità di famiglie con
figlie a carico che ha da sempre portato in questa cittadina. Usando e
andando avanti.
Avrei
potuto dire che era perché, in quelle ore in cui abbassavo sedili e
toglievo magliette senza neanche sapere di che colore avesse gli occhi
la ragazza del caso, riuscivo almeno per un po' a mettere da parte la
bruciatura che mi divorava dentro al pensiero dell'unica persona che
volevo da star male, e dello sguardo nei suoi occhi quando qualche sera
prima mi aveva spinto via come se fossi stato una minaccia alla sua
intera esistenza. Come se davvero potessi mai pensare di farle del
male.
Avrei
potuto dire che era colpa di quello, ma sarebbe stata solo una facile
scusa, ed io odiavo le facili scuse.
La
verità, l'eterna differenza, era che mi piaceva. Mi piaceva non dovermi
curare di ferire i sentimenti degli altri, e forse, ancora di più, in
un modo più contorto e sottile, mi piaceva persino l'idea di infliggere
almeno un po' della stessa pena, per sapere di non essere il solo a
stare da cani.
Una
persona in particolare stava facendo le spese di tutto questo. Perché
lei era la mia valvola di sfogo, lo era stata fin dall'inizio; e perché
era sempre lì, a fare finta di non sapere come passassi le notti quando
non ero con lei, a rimpiazzare un buco e un posto dove non la volevo
veramente. Lei volevo ferirla più di tutti.
La
trovai una notte seduta sui due gradini di fronte alla soglia della
dependance, in una luce fioca in cui si mischiavano quella della luna
quasi piena e quella del porticato della villa a qualche decina di
metri di distanza.
Una
rapida fitta mi attraversò tutto quando, per un breve attimo, i fari
della mia macchina illuminarono la sua figura, e la mente mi giocò il
brutto scherzo di farmi vedere Elena. Ma poi i capelli più chiari e la
gonna più corta sfatarono subito quell'illusione, lasciandomi ancora
più incazzato con lei per cose di cui non aveva nessuna colpa.
Michelle
si alzò in piedi nel vedermi scendere dall'auto. Solo quando fui più
vicino, notai gli occhi gonfi di un pianto probabilmente finito solo da
poco. Feci finta di non accorgermene e tirai fuori le chiavi dalla
tasca.
"Lo
sai che non puoi fermarti a dormire," le dissi, ribadendo una delle
regole che avevo messo in chiaro fin dagli inizi della nostra storia.
"E'
vero?" mi domandò con un tremolio nella voce. "Ti sei scopato Aimee
Cooper?"
Mi
bloccai mentre stavo per aprire la porta. Aimee Cooper non era una
delle ragazze di passaggio per l'estate. Era una delle sue amiche con
cui stava sempre appiccicata, quelle cose da sorellanza da prima
elementare, o stronzate simili. L'avevo incontrata per caso un paio di
sere prima mentre ritornavo da casa di Enzo, mi ero offerto di
accompagnarla a casa, lei era stata più che felice di accettare. Il
seguito è facilmente immaginabile.
"No."
"Bugiardo!"
gridò dandomi una spinta così forte da farmi cadere le chiavi per
terra, scoppiando in lacrime sull'ultima sillaba. "Dimmelo almeno,
guardami in faccia, stronzo!" un'altra spinta contro il mio braccio, e
poi un altro singhiozzo, "Bast-tardo! Trad-"
Le
bloccai le mani afferrandole per i polsi prima che atterrassero con
l'ennesimo violento colpo sopra la mia spalla, ed il resto della frase
si perse in singhiozzi sempre più acuti.
"Stai
facendo una scenata," le dissi abbassandole le braccia con una
delicatezza che contrastava nettamente con la freddezza di cui invece
caricai la mia voce.
Si
allontanò con uno scatto.
"Era
mia a-mica! M-mia amica!" mi urlò contro con forza, in mezzo ad altri
singulti, ed io gettai un'occhiata verso la villa dove una luce si era
adesso accesa al piano superiore. Ci mancava solo avere mio padre come
pubblico. "Come hai potuto? Com-"
"Vuoi
smetterla?" ribadii, "Sveglierai tutti quanti."
Si
portò le mani sulla bocca e ci singhiozzò dentro, con le spalle che
tremavano in scosse irregolari, i capelli sfuggiti dal cerchietto e
macchie di mascara sulle guance.
Avrei
dovuto provare pena per lei. Dopotutto, mi piaceva questa ragazza. Ci
eravamo divertiti insieme, e alla fine, in qualche modo, le avevo
perfino voluto bene. Avrei dovuto ricordare tutto quello e provare pena
per lei e disgusto per me stesso che l'avevo ridotta così, ma non ci
riuscivo. Non provavo niente.
Riuscivo
a pensare solo a quanto fosse patetica lei a stare male per me, e
patetico io a stare male per un'altra. Patetici entrambi, ecco cosa
eravamo.
"Perché?…"
mi domandò piano quando riuscì a calmare il pianto abbastanza da poter
parlare di nuovo. "Perché lei, perché lo hai fatto, perché …"
Mi
strinsi nelle spalle. "Mi andava."
"Dio,
sei un bastardo," rispose, scossa da un altro singulto, meno rabbioso,
più disperato. "Ed io pensavo … pensavo … Perché mi hai fatto questo?"
Alzò il volto verso di me, gli occhi allargati e bagnati, le labbra
tremanti e piene di pathos. "Io ti amo."
Cristo,
pure questa adesso. Avrebbe dovuto impressionarmi, farmi sentire uno
schifo? O magari, farmi gettare in ginocchio ed implorarla di
perdonarmi? Sì, beh, nessuna di queste.
"Oh,
ma per favore," risposi con una smorfia, "Finiscila e basta, ok?"
La
sua mano aperta mi colpì la guancia. Forte, ma non abbastanza da
procurarmi poco più che un diffuso pizzicore. Insomma, pure lo schiaffo
fu patetico. Neanche quella soddisfazione. Poi corse via, e la sentii
ricominciare a piangere mentre si dirigeva verso la propria auto
lasciata fuori dal cancello.
Mi
piegai per riprendere le chiavi cadute e chiusi pure quel capitolo, con
una scrollata di spalle che mandò via anche quella fastidiosa
sensazione di nausea e rimorso che stava minacciando di prendermi lo
stomaco. L'avevo distrutta di proposito, perché io ero distrutto, e
neanche mi importava.
Eccola
l'eterna differenza.
***
Non dovrei neanche stare a pensarci. A fidanzati all'altro lato del
globo, o matrimoni che nessuno ha ancora annullato.
Non dovrei,
perché Elena è qui, ed è con me, tangibile quanto il suo odore tra le
mie lenzuola al mattino, la pelle calda sotto alle mie mani, o il modo
in cui socchiude leggermente gli occhi quando ride, ride per davvero. E
se tutto questo è reale, perché dovrei dubitare che lo sia anche il
resto. Che tutto questo significa qualcosa, e che non è solo una
distrazione momentanea, un momento di pazzia al grido di nessun
rimpianto, l'ultima boccata d'aria sulla strada verso il felici e
contenti insieme a qualcun altro.
Non ho
intenzione di dare ascolto ad un dubbio tanto subdolo. Ma è lì. Pronto
a venire in superficie nei più piccoli momenti, rapida e dolorosa
puntura che arriva, colpisce e se ne va, almeno fino a quando non si
ripresenta di nuovo.
Elena non
torna più sul discorso iniziato accidentalmente e poi rapidamente messo
da parte ieri sera, prima di incontrare Alaric. Io nemmeno.
Raccontandoci che va bene così, che non c'è nessuna fretta di farlo,
senza sapere se è perché ci crediamo davvero o più per le conseguenze a
cui una simile discussione potrebbe portare.
"Quindi, ho
preso del sushi per cena, perché lo so che non mi lasci avvicinare ai
fornelli, e mi sento in colpa a far cucinare sempre te," annuncia
Elena, entrando in casa e sventolando in alto una busta bianca di
cartone con su scritto "Kabuto, Ristorante Giapponese".
Seduto su
uno sgabello al bancone della cucina, sollevo la testa dalle ultime
email di Alaric, e spalanco stupito lo sguardo quando la vedo. Elena
posa la busta sul bancone, gira la testa di lato, scuote un po' i
capelli con fare volutamente teatrale.
"Perciò se
non hai niente in contrario, o altri commenti da fare …"
Sorrido e
allungo una mano per afferrarla per la vita e attirarla verso di me.
Seppellisco le labbra nelle nuove onde un po' scalate che movimentano i
suoi capelli, e sento che sorride anche lei mentre le sussurro
lasciandole piccoli baci sul collo, "Non saprei, sono troppo distratto
dal nuovo sexy taglio di capelli di qualcuno."
Sposto la
bocca lungo tutto il suo profilo, e poi a cercare la sua. Una ciocca di
capelli le cade in avanti, ci finisce in bocca, ed Elena si
scosta per soffiarla via scocciata. Io allungo le dita per metterla al
suo posto, questo ciuffo scuro che, nuovo taglio o no, continua sempre
e comunque a scivolarle sugli occhi. E' la cosa più adorabile di
sempre, e amo il fatto che non sia affatto cambiata.
"Come è
andata la tua giornata?" mi chiede Elena intrecciando le mani dietro
alla mia nuca.
"Mmh … " Le
rubo un altro bacio veloce. Ed un altro. "Bene. E la tua?"
"Molto …"
Ride quando la interrompo per un altro bacio al volo. "… bene. Vuoi
sapere cosa ho fatto oggi?" mi chiede sciogliendosi dalla mia presa sui
suoi fianchi per andare a tirare fuori la cena dalla busta di carta.
"Dimmi."
"Sono stata
a Berkeley."
La aiuto a
togliere il coperchio dai due vassoi di sushi, spezzo le bacchette e
gliene passo un paio.
"Davvero?
Perché?"
"Non lo so
…" si stringe nelle spalle e si appoggia con il gomito sul bancone,
esaminando il cibo ma senza ancora toccarlo. "Ho pensato che dal
momento che ho detto che sarei andata lì e che Jeremy si trasferirà tra
poco … Non so, tanto valeva andare a vedere di che si tratta, no?
Ovviamente il campus era mezzo deserto dato che non ci sono corsi, ma
c'era questo orientamento per nuovi arrivati, fatto da questa
gentilissima professoressa di antropologia, così … abbiamo parlato un
po', ho fatto un giro. Mi hanno anche dato l'orario dei corsi per il
prossimo semestre, ti immagini?"
"Wow,"
commento.
Elena
solleva esitante lo sguardo. "Non ridere di me."
"Non lo sto
facendo," dico serio, porgendole un maki con le mie bacchette. Accenna
un sorriso e si avvicina per mangiarlo.
"Ti capita
mai …" prosegue poi, appuntandosi i capelli dietro l'orecchio, " … di
rimpiangerlo? Sai, il fatto di non essere andato al college?"
"No,"
rispondo, mentre prendo un pezzo di salmone. "Ma a te sì."
"Io … Beh,
sì, forse, ma è stupido," scuote la testa e torna a tormentare il
povero sushi con le sue bacchette. "Voglio dire, non posso tornare
indietro nel tempo."
"Puoi
sempre farlo adesso."
Piega le
labbra in una vaga smorfia. "Forse in college comunitari per divorziate
di mezza età e avvocati senza licenza [1],
dubito che università vere mi accetterebbero di nuovo con sei anni alla
gestione di un bar come unica credenziale. Andiamo, Damon, non sono una
diciottenne fresca di liceo."
"E quindi?
Non puoi dirlo senza averci provato. E poi, pure Jeremy sarebbe qui.
Beh, dall'altra parte della baia, ma è pur sempre meno lontano che
dall'altra parte del paese. Potresti essere vicino a lui, e anche a me."
Cazzo. Mi
blocco con le bacchette a mezz'aria, nell'atto di prendere un altro
pezzo di sushi, quando mi rendo conto di ciò che le ho appena detto.
Ottimo lavoro, Damon, ottimo lavoro davvero, già che ci sei perché non
chiederle anche di venire a vivere qui, tanto non avete passato insieme
a malapena cinque giorni e lei non ha un fottuto matrimonio tra tre
settimane. Realizzo che cazzo di errore sia stato nel momento in cui
sollevo gli occhi e vedo quella frase imprimersi nel suo sguardo, nel
modo in cui cambia la sua espressione.
Socchiude
le labbra ma non risponde. Restiamo ad osservarci in un lungo, incerto
momento di silenzio, in cui la mia gola si fa più spessa per il
desiderio impellente di poter ringoiare quelle ultime dannate parole
insieme a tutte le prospettive di lungo periodo che hanno implicato e
che era tacito accordo non nominare.
"Damon …"
comincia a dire.
Il suo
telefono, appoggiato sul bancone, squilla in quell'esatto momento.
Il nome di
Elijah salta su nel display, accompagnato da una deliziosa miniatura di
loro due insieme, abbracciati, che è la ciliegina sopra il pugno alla
bocca dello stomaco che arriva dritto e preciso nell'attimo in cui il
mio sguardo ci si posa sopra. Elena allunga le dita per prenderlo in
mano, assestando il colpo numero due.
"Mi
dispiace, devo … Devo rispondere."
Evita il
mio sguardo, mormora un "pronto" mentre si allontana di qualche passo
per avvicinarsi alla finestra che guarda sul terrazzo.
"Niente,"
risponde, giocherellando con una tenda, "Stavo solo cenando velocemente
prima di tornare a lavoro."
C'è un tale
silenzio, nell'appartamento, che riesco a sentire piuttosto
distintamente la replica perplessa di Elijah, dall'altro lato della
linea.
"Così
tardi? Non è già mezzanotte da te?"
Promemoria
per Elena. Se racconti balle al tuo fidanzato, assicurati almeno di
azzeccare il giusto fuso orario.
"Sì, io …
intendevo …" farfuglia, mi getta uno sguardo veloce.
L'espressione
di deplorazione per se stessa che intravedo quando lo fa è peggiore di
tutte le foto della coppietta felice che possono esserci là fuori.
Si volta di
nuovo dall'altra parte, apre la finestra scorrevole, ed esce sul
terrazzo.
Vengo
lasciato ad osservarla attraverso il vetro, senza riuscire a sentire
una sola parola. Abbassa gli occhi, picchietta la punta della scarpa
sul pavimento, non smette di tormentarsi un paio di ciocche di capelli.
Quando riattacca, temporeggia qualche secondo invece di tornare subito
dentro.
Getto le
bacchette da sushi sopra il bancone, sopra una cena praticamente ancora
intatta. Una delle due rotola via, fino a cadere per terra dall'altro
lato. Improvvisamente, mi è passato tutto l'appetito.
"Scaricato," sentenziò Enzo,
stravaccato all'altro lato del divano, allungando un braccio di lato
per passarmi ciò che rimaneva della canna tra le sue dita. "Ripetilo
un'altra volta, insieme a me. Sei stato sca-ri-ca-to."
Mi
rivolse un ghigno, mentre gliela sfilavo di mano. Diedi un tiro,
appoggiai la nuca all'indietro contro la spalliera, e soffiai il fumo
verso il soffitto, grato che il torpore nel mio cervello fosse già
abbastanza piacevole da non farmi degnare di dare una risposta alle sue
stronzate, perché non sarebbe stata gentile.
"Neanche
una scopata di addio?"
Il
solo pensiero, considerate le circostanze, era così assurdo che sentii
una risata, amara e artificiosa, salirmi su dalla pancia insieme alla
mia risposta. "Decisamente nessuna scopata di addio."
Tre
colpi contro la porta mi fecero raddrizzare la testa di scatto. Ci misi
alcuni secondi per processare la mossa successiva. Tre nuovi colpi.
Bofonchiai
un'imprecazione tra i denti e mandai frettolosamente il mozzicone a
fare compagnia agli altri già ingialliti sul fondo della tazza
scheggiata che stavamo usando come posacenere improvvisato. La nascosi
alla vista infilandola nello piccolo spazio dietro al divano, e diedi
un colpetto sulla spalla di Enzo, indicando ciò che era rimasto sul
tavolino.
"Fai
sparire."
Con
la testa ancora frastornata per essermi alzato troppo rapidamente,
spiai al di là della finestra per vedere chi fosse venuto a rompere le
palle. Mio fratello era in piedi davanti alla porta con le mani
affondate nelle tasche.
"E'
solo Stef," dissi ad Enzo, che quindi lasciò l'erba esattamente lì dove
si trovava, e tornò ad allungarsi scompostamente sul divano.
"State
fumando erba?" fu la prima cosa che mi domandò Stefan non appena mise
piede dentro, annusando l'aria e corrucciando la fronte in un modo
molto da Stefan. "Qui, in casa sua? Papà ti ammazza se lo viene a
sapere."
Mi
buttai di nuovo a sedere, incrociando i piedi sul tavolino, scrollai le
spalle.
"Chi
se ne frega."
"Ciao,
Stefan!" esclamò Enzo alzandosi in piedi ed allargando le braccia, con
fare entusiasta. Mio fratello lo scrutò con diffidenza, mentre il mio
amico gli passava accanto per dargli un paio di sonore pacche sulla
spalla. "Come va la vita? Aspetta," si sporse in avanti come per
osservarlo meglio e più attentamente. "E' barba quella che finalmente
ti sta spuntando in faccia? Nah, scusa, era solo un riflesso."
Gli
diede un buffetto da cui mio fratello si scansò infastidito. Io
sogghignai, incapace di controllarmi. Stefan mi gettò un'occhiata
offesa.
"Non
è divertente."
Lo
era.
"Vuoi
una birra, Stefan?" domandò Enzo aprendo il frigo. Ne tirò fuori una
bottiglia che si mise a scrutare con particolare attenzione. Poi gliela
porse con un sorriso a trentadue denti. "E' una chiara. Sai com'è, io
adoro le bionde. Ti piacciono le bionde, Stefan?"
La
faccia di mio fratello raggrinzì ulteriormente, in quell'espressione
mezza
perplessa e mezza giudicante che può avere solo chi non riesce a
seguire le logiche di chi è del tutto fatto.
"No,
grazie," scosse la testa, tornò a rivolgersi a me. "Stai bene? Sono
passato al negozio, non c'eri. Rose mi ha chiesto come sta il tuo virus
intestinale, non ti vede da due giorni, e mi sono preoccupato, ma
chiaramente …" indicò il casino di bottiglie e tabacco che ingombrava
il tavolino, "… era una stronzata. Cosa stai facendo, Damon?"
"Ah,
l'eterna domanda!" esclamai con calcata enfasi. "Cosa facciamo? Chi
siamo? Dove andiamo? Cos'è l'esistenza se non un'infinita sequenza di
insignificanti eventi destinati a ripetersi?"
Enzo,
appoggiato in avanti con i gomiti sul bancone, scoppiò a ridere, e
bastò quello per trascinarmi di nuovo a sghignazzare insieme a lui.
Stefan strinse sia la mascella che i pugni nelle tasche.
"Ce
la fai ad essere serio per un momento?"
"E
tu ce la fai a non essere sempre così un dito al culo?"
"Sai
cosa?" sbottò lui. "Vaffanculo."
"No,
fanculo te, Stef!" gli gridai dietro, mentre lui se ne andava sbattendo
la porta dietro di sé.
Enzo
mi porse una delle due bottiglie aperte che aveva preso dal frigo. Lo
afferrai con uno scatto in avanti, buttai giù una lunga sorsata insieme
alla frustrazione e all'auto-commiserazione che adesso grazie a Stefan
erano tornate a mettersi di traverso sulla gola. Grazie, fratellino,
per aver rovinato una altrimenti perfettamente piacevole giornata priva
di pensieri.
Allo
schiocco della porta lasciato da mio fratello, seguirono interi minuti
di silenzio. Fissai lo sguardo su una venatura del legno vecchio e
macchiato del tavolo, estraniandomi completamente.
Poi
Enzo disse, "E' colpa sua. Dovrebbe saperlo, di non andare a fare la
lagna con qualcuno che è appena stato scaricato."
"Non
sono stato scaricato," replicai sovrappensiero, senza staccare gli
occhi da quella dannata riga più scura in mezzo al legno.
"Non siamo mai stati insieme. Non c'è mai stato niente. Niente … Adesso
è solo chiaro che niente mai ci sarà."
"Per
via di quell'insulso palestrato con cui sta? Ma per favore."
"No,"
dissi, sbattendo le palpebre. Magari fosse stata colpa di Donovan.
Sarebbe stato molto più facile. "Sono io. Sono io che non sarò mai la
persona che vorrebbe lei."
Apro la finestra a scorrimento e mi appoggio con una spalla contro lo
stipite della soglia. Elena mi ha sentito arrivare, ma il suo profilo
continua a rimanere voltato in avanti, verso il buio che inghiotte la
baia.
"Stai
bene?" le chiedo.
Ci provo,
ci provo davvero a non metterci dentro quell'indefinito miscuglio amaro
che mi si è piantato sullo stomaco fin dallo squillo promemoria su cosa
esiste al di fuori de "Le avventure di Elena e Damon a San Francisco",
ma nel mio tono un accento di durezza ci finisce lo stesso.
Elena
scuote la testa. "Gli ho mentito in faccia. A qualcuno che mi ama, e si
fida di me, una menzogna dopo l'altra. Che tipo di persona fa una cosa
del genere? No, non sto bene."
"Quindi ne
deduco che non avete avuto quella conversazione sul fatto di rimandare
la data a, non so … mai più?"
Lei serra
strette le labbra, non sembra divertita dalla mia battuta. Non lo sono
neanche io. Il suo silenzio dovrebbe essere indicazione sufficiente, ma
quel miscuglio sul mio stomaco vuole farsi del male e vuole sentirselo
dire da lei.
"Hai
intenzione di dirglielo, prima o poi?"
Si volta
finalmente verso di me, ha lo sguardo lucido di colpa e di accusa.
"E'
dall'altro lato del mondo, cosa dovrei fare? Spezzargli il cuore,
mandare tutto all'aria per telefono? Penso di dovergli un po' più di
questo."
"Bene.
Lasciami riformulare, allora. Non al
telefono, hai intenzione di dirglielo? Va meglio così?" domando
con un leggero sorriso sarcastico.
Mi osserva
con gli occhi appena spalancati e le labbra socchiuse in quella leggera
smorfia incredula che ha quando le piace accusarmi di fare lo stronzo
insensibile. Scuote la testa tra sé e sé, si volta dall'altra parte.
"Non lo so
cosa ho intenzione di dirgli," replica. "Forse lo saprò quando lo
rivedo."
Stringo le
labbra e accuso il colpo, preciso e puntuale, di un altro non lo so.
"Capisco."
Mi stacco
dallo stipite e mi giro per tornare dentro, perché oltre a questo non
vedo cosa altro cazzo ci sia da dire, ma la mano di Elena mi afferra
subito l'avambraccio per farmi voltare di nuovo verso di lei.
"Non
intendevo dire che …"
"Cosa?"
ribatto, liberandomi della sua presa, "Che stai ancora pensando davvero
di sposarlo?"
Gli occhi
le si allargano, offesi e feriti dalla mia accusa.
"Non ho
detto questo!"
"No, ma lo
pensi," le dico avvicinandomi di un passo, fino a che il mio volto non
è che a pochi centimetri dal suo, fino a che non sento io stesso tutta
la frustrazione trattenuta riversarsi nel mio tono di sfida. "Dimmi che
non c'è neanche una piccola, minuscola parte di te che sta ancora
considerando la cosa."
"Io …
i-io…" Scuote la testa, preme i palmi sugli occhi in un moto esasperato
e, quando parla di nuovo, la sua voce si rompe in una così fragile e
intensa che, da qualche parte dentro di me, finisce per spezzare
qualcosa anche lì. "Ho cercato così a lungo e così duramente di dare
una direzione alla mia vita, una direzione qualsiasi, e poi tutto è
cambiato e io … Non riesco neanche a pensarci, Damon! Tornare e
affrontare tutto quanto, e le persone a cui sto facendo del male, e
cosa farò adesso … E mi sento così egoista e ingiusta, per essere così
felice, di essere qui con te e di non riuscire a pensare a
nient'altro," prende un profondo respiro, cerca il mio sguardo. Finisce
con quello che è poco più di un sussurro, "Non riesco a pensare a
nient'altro."
Curva
appena le labbra, dopo averlo detto, e il conflitto in quell'accenno di
sorriso, e negli occhi che nella penombra sono perfino più scuri, e il
modo in cui mi spiazza sempre, è a questo che dò la colpa per il fatto
di sentirmi sempre così fottutamente debole di fronte a lei. Ancora di
più quando allunga incerta la mano per posarla sulla mia guancia, e
appoggia piano il volto contro il mio, anche mentre io rimango
perfettamente immobile.
"Non può
essere abbastanza?"
Vorrei
poter rispondere di sì, dio solo sa quanto lo vorrei, perché forse lo
è, almeno per un altro momento, o un'altra notte. Ma rimango in
silenzio, mentre la punta delle sue dita mi accarezza il viso, mentre
si sporge sulla punta dei piedi e inclina il volto di lato, mentre le
sue labbra mi sfiorano esitanti. Sull'angolo della bocca, sulla
fossetta appena sotto il labbro inferiore, sull'altro angolo, ancora e
ancora, ogni sfioramento leggero che preme sempre più pesante sul mio
petto, soffocandomi a poco a poco.
"Elena …"
cerco di dire, posando la mia mano sulla sua ancora premuta sulla
guancia, per stringerla appena.
Perché lo
so che in un secondo la farò allontanare, perché ho capito quello che
lei ancora non vuole ammettere, e non ho intenzione di giocare a questo
perverso castello di bugie. Non quelle che racconta al suo fidanzato,
che può andarsene a fanculo esattamente dove è adesso per quel che me
ne frega, ma quelle con cui continuiamo a prenderci in giro che tutto
questo possa davvero andare da qualche parte, come se non fossimo
entrambi completamente fottuti dentro come siamo, come se non lo
fossimo sempre stati tanto per cominciare.
Ma Elena mi
mette a tacere con un altro bacio, premendo fermamente le labbra sulle
mie, con la tenacia e l'urgenza di chi non vuole lasciar andare. Ed io
mi arrendo. L'ho detto che sono fottutamente debole.
Circondo
con una mano la sua nuca, con l'altra il suo fianco, cedo e prendo con
la stessa tenacia e la stessa urgenza. La spingo dentro casa,
inciampando appena sulla soglia che delimita il terrazzo, e contro la
prima parete che trovo, quella accanto alla vetrata. Elena sospira
quando lo faccio, tirandomi la maglietta con le sue mani sottili, e
sento anche i denti nel modo in cui mi bacia, denti e lingua e gemiti e
bisogno. Restituisco con la stessa combinazione, dolorosamente duro
contro la cima delle sue cosce, e so che ci sono un milione di cose che
le direi in questo momento e che non le dirò mai.
Dobbiamo
smettere, adesso, e chiarire una volta per tutte, mentre mi sfila la
maglietta, e percorre la mia schiena con i palmi e con le unghie.
Non sposare
quel coglione, mentre le abbasso la canotta intorno ai fianchi e piego
la testa per arrivare con le labbra alle morbide curve del seno,
tracciarle tutte con la lingua.
Sono felice
anche io, e cristo se dovrebbe essere abbastanza, ma per qualche
dannata ragione non lo è, mentre faccio saltare aperto il bottone dei
suoi shorts e questi cadono intorno alle sue caviglie.
Elena li
calcia via, la faccio voltare, appoggia una mano per sorreggersi alla
parete adesso davanti a lei. La copro con la mia, e lei ci intreccia le
dita così strette da non farmi arrivare il sangue alle nocche,
respirando affannosamente mentre con labbra e lingua percorro tutta la
curva delle spalle, e poi quella del collo, serrando più stretta la
presa sulla mia mano quando con l'altra le accarezzo l'addome e vado ad
affondare le dita dentro le sue mutandine. E' incredibilmente calda e
bagnata, e respiro più affannosamente anche io, e mi perdo nel suo
sciogliersi sotto alle mie dita, nel suo inclinare la testa per cercare
la mia bocca, nel leggero cedimento che hanno le sue ginocchia.
E'
maledettamente intenso quando entro in lei, e solo poco dopo la sento
tremare ovunque, le mie gambe incerte pure loro. Abbandono esausto la
testa nell'incavo della sua spalla e la circondo con entrambe le
braccia. Stringe stretto anche lei, fino a che non so più chi si stia
davvero aggrappando a chi. Torno a baciarla prima ancora di aver del
tutto ripreso fiato, piano, sfiorandola ovunque con le labbra, schiena,
spalla, collo.
Poi sulla
sua guancia. La trovo umida, e leggermente salata.
***
Non dormo, quella stessa notte. Rimango sveglio, sdraiato sulla
schiena, per quella che mi appare davvero come un'infinità di tempo,
Elena raggomitolata contro di me con la testa posata sopra al mio
torace nudo. Penso che non stia dormendo neanche lei, la presa del suo
braccio attorno alla mia vita è troppo salda per qualcuno addormentato,
ma fa finta di sì, ed io glielo lascio fare.
Non può essere abbastanza? è un
disco rotto dentro al mio cervello.
Si
intromette in ogni sprazzo di sonno frammentario in cui cado senza
rendermene conto, un assopimento inquieto in mezzo al quale ci finisce
pure mio padre, che mi ritrovo vivo e vegeto a San Francisco, intento a
riprendersi in mano la mia vita e rimpiazzarla con Elijah, perché per
qualche motivo ho mandato tutto a puttane e lui deve rimettere le cose
a posto per me. Mi sveglio di soprassalto, con il cuore che martella
contro le costole.
Mi volto
verso Elena, adesso davvero addormentata con un braccio attorno al
cuscino, le quattro e ventisette sul display del cellulare. Lentamente,
mi alzo stando attento a non svegliarla.
In
soggiorno, mi verso un bicchiere del bourbon più forte che ho, e mi
siedo nella penombra per confrontare e fuggire il fantasma del pezzo di
carta che sono andato a riprendere dal fondo del cassetto in cui
l'avevo cacciato, e che adesso mi fissa dalla superficie del tavolo sul
quale l'ho gettato. E' qualcosa che non facevo da giorni, da quando ho
lasciato Mystic Falls insieme a Elena.
Sollevo lo
sguardo quando alcuni passi leggeri fanno scricchiolare appena il
parquet. Elena, scalza e in piedi sulla soglia che apre sulla camera,
si passa una mano tra i capelli lasciati sciolti, facendoli ricadere di
lato sulla spalla.
"Mi sono
svegliata e tu non c'eri," dice piano.
Distolgo lo
sguardo, mi rigiro in mano il bicchiere che ancora non ho toccato.
"Non
riuscivo a dormire."
Si
avvicina, mi accarezza con la mano sulla spalla nel passarmi accanto,
prende la sedia accanto alla mia. Lei osserva me, io osservo il bourbon.
"E fissare
un pezzo di carta ed un bicchiere di whisky aiuta?"
"Non
proprio."
Indica con
un cenno della testa la lettera che giace immobile sopra al tavolo.
"E' per
caso la stessa che avevi a New Orleans? Di tuo padre?"
Annuisco,
mentre alcune luci provenienti da fuori rompono brevemente la
semioscurità della stanza e le passano sul viso illuminando la sua
espressione interrogativa.
"Perché non
la leggi e basta?"
Corrugo la
fronte, soppeso la sua domanda. Esito un secondo, prima di dirlo ad
alta voce.
"Mi odiava."
"Non ti
odiava."
Forse. Ma
se fosse stato ancora così? Ed avesse voluto ribadirlo una dannata
ultima volta. La cosa più folle è che sono passati anni. E' morto,
cazzo, a marcire sotto terra, e non dovrebbe neanche più avere nessuna
importanza. Scuoto la testa.
"Non puoi
saperlo."
"Sì,
invece, lo so," si sporge verso di me, mi sfiora gentilmente le dita,
ed infonde nel suo tono quella dolcezza piena di comprensione che mi
ricorda perché sono sempre stato destinato ad essere così fottuto
quando si tratta di lei. "Per come l'ho conosciuto, tuo padre non era
uno in grado di odiare il proprio figlio."
Oh, giusto.
La sua tardiva confidenza con mio padre, le chiacchierate in cui io non
ero incluso, avergli presentato il nuovo fidanzato appeso al braccio.
Come se avessi davvero voglia di stare a sentire anche solo una parola
su tutto questo.
"E tu pensi
di conoscerlo perché?" domando storcendo le labbra, "Perché parlavate
del tempo mentre gli servivi i pancakes?"
Elena si
irrigidisce, ed un moto ferito le guizza negli occhi quando incrocio il
suo sguardo. Mi fa sentire uno schifo per averlo detto.
"Non c'è
bisogno di essere cattivo," replica lei.
Ha ragione.
Sono io che a volte non riesco a farne a meno.
Allungo le
dita verso la sua mano sopra al tavolo, e la prendo tra la mia, per
chiederle scusa. La carezzo lentamente, per un lungo momento di
silenzio.
Lei la
stringe appena. "Puoi parlare con me, Damon."
Lo so.
Quello che non so è come la prenderebbe.
Mi alzo in
piedi, le poso un bacio sulla fronte. "Magari un'altra volta."
Quando mio padre diceva di "dovermi
parlare", era un istinto automatico chiedermi cosa diavolo avessi fatto
questa volta. In quel caso, quando lo avevo incrociato per caso fuori
dall'ingresso mentre, appena tornato, chiudeva con un clic del
telecomando la sua berlina, la prima cosa che avevo pensato era stata
che Stefan avesse vuotato il sacco, sia sul fatto di aver saltato il
lavoro il giorno prima, che sulle attività alternative su cui avevo
ripiegato.
La
villa era immersa nell'ombra quando entrai, solo piccole strisce di
luce a filtrare dalle fessure delle imposte, tutte serrate per tenere
fuori l'afa umida delle estati in Virginia, lo stesso buon odore di
sempre. Fresco e pino e infanzia. Avevo ignorato la sensazione, e
seguito mio padre nello studio in cui era andato a posare le sue cose.
"Quindi,"
esordì posando la giacca sopra una sedia ed arrotolandosi sui gomiti la
camicia stropicciata dalla giornata. Mi misi a sedere, volutamente
scomposto, con una caviglia posata sul ginocchio opposto. "Il mese
prossimo, c'è una cena a casa del governatore, durante la quale
annuncerà il suo supporto alla mia candidatura alle primarie per le
prossime elezioni. Ci sarete anche tu e Stefan. E mi aspetto," mi
strappò dalle mani la spillatrice che avevo preso dalla scrivania, con
cui stavo giocando a farle prendere a morsi l'aria, "Che ti impegni per
fare una buona impressione."
"Fammi
indovinare. Vuoi mostrare un po' di quei famosi valori famigliari dei
Salvatore in cui siamo così bravi?" dissi facendo il gesto della
pistola con due dita e strizzando l'occhio nella sua direzione.
"Sono
serio."
"Anche
io," sorrisi, prendendo in mano una penna a sfera. "Ci sarà anche
Charlotte? Potrebbe essere un'occasione carina per riunire tutta la
famiglia, non credi?" Spalancai lo sguardo e la bocca, come se fossi
appena stato colpito da un'idea geniale. "Magari possiamo invitare
anche il suo nuovo ragazzo! Ha ventotto anni, fa l'insegnante di yoga.
Sarebbe divertente e … Niente. Affatto. Imbarazzante."
Sottolineai
la mia frase con un paio di clic della penna, e mantenni intatto il mio
sorriso anche di fronte a quell'espressione che gli prendeva sempre la
faccia al sentir nominare Charlotte, quel misto di amarezza e
risentimento velocemente trasformato in qualcosa di più duro e più
freddo.
"Incasinami
questo, Damon, e scoprirai di non avermi mai visto incazzato."
Mettendo
su la mia migliore espressione seria, feci un veloce, sarcastico gesto
da "agli ordini sissignore" con la mano sulla fronte.
"Mi
hanno detto che hai rifiutato Dartmouth," proseguì incrociando le
braccia sul petto.
"Già,"
confermai, iniziando a far cliccare la penna più sonoramente contro la
superficie del tavolo.
"Perché?"
"Quale
parte," replicai, alzando su di lui uno sguardo interrogativo, "di
´Puoi prendere Dartmouth ed infilartela dove sai bene` non ho
reso abbastanza …" un altro, più violento, clic per guadagnare
abbastanza slancio, "chiara?"
La
penna saltò via dal tavolo, disegnò un arco curvo nell'aria davanti
alla sua faccia, e rotolò sul pavimento con un tintinnio plasticoso.
Il
suo cellulare suonò. Lo tirò fuori dalla tasca gettandomi un'occhiata
accesa di irritazione a malapena trattenuta.
"Resta
qui," mi avvertì mentre si preparava a rispondere. "Non ho ancora
finito."
Roteai
gli occhi al soffitto mentre lui lasciava la stanza, mi alzai per
andare a raccogliere la penna che avevo fatto saltare dall'altro lato
della scrivania. Quando mi sporsi per prenderla, qualcosa tra i
documenti sul tavolo, un nome, attirò la mia attenzione. Corrugai la
fronte, gettai un rapido sguardo oltre la porta. Mio padre era ancora
al telefono.
Sfilai
attentamente la cartella dalla pila in mezzo alla quale si trovava, la
aprii.
Scorsi
velocemente tra i fogli al suo interno, tra i numeri, i nomi e le note,
che però non mi aiutarono a dare senso alla cosa né tantomeno a
rispondere alla domanda principale: cosa diavolo voleva mio padre dal
Mystic Grill?
Lo
sentii salutare ed essere sul punto di chiudere la telefonata, così
richiusi tutto in fretta e lo rimisi al suo posto. Mi infilai le mani
in tasca e mi appoggiai in piedi contro la scrivania, nello stesso
attimo in cui rientrava. Mi gettò uno sguardo cauto, ma non disse
niente.
"Quindi,"
domandai, "Hai finito, posso andare?"
"Solo
una cosa," disse, infilandosi il telefono e le mani in tasca. Mi guardò
dritto negli occhi. "Hai tempo fino alla fine dell'estate, per decidere
una volta per tutte se intendi ciondolare a vita in un negozio di
musica e ai bordi di questa casa, o combinare finalmente qualcosa di
serio. Poi, se non è così … dovrai trovarti un altro posto dove stare."
***
Esco presto al mattino dopo, quando Elena dorme ancora.
L'intera
giornata la impiego tenendo fede alla mia promessa verso Stefan di
aiutarlo a togliere la compagnia dall'orlo della bancarotta, cosa che
se non altro mi aiuta a restare concentrato su qualcosa e a non
lasciare vagare la mente verso altri generi di pensieri. Questo implica
passare ore appresso a tale Kai della Gemini Co., giovane quanto
insopportabile venture capitalist multi-milionario che però al momento
rappresenta la migliore possibilità che abbiamo. Gli parlo del piano di
ristrutturazione messo in piedi da mio fratello prima che Elijah lo
spedisse dentro al cesso, e di tutti i benefici che gli aprirebbe il
fatto di investire in una compagnia finanziaria della Virginia con
connessioni ben oliate dentro Washington, il tutto mentre giochiamo a
mini-golf in un percorso costruito appositamente al ventesimo piano dei
quartieri generali della sua compagnia. Lo lascio vincere ma giocando
con abbastanza impegno da fargli credere di esserselo effettivamente
meritato, e quando si mostra convinto, so che se anche mio fratello ha
giocato bene le sue carte, quelle più diplomatiche e concilianti in cui
è tanto bravo, abbiamo davvero una possibilità di riuscire in ciò che
ci siamo proposti. E' sempre abbastanza un azzardo, e portare dentro un
ragazzino viziatello che ha fatto le prime fortune investendo in
videogiochi online non è esattamente ciò che il caro vecchio papà
avrebbe considerato in linea con la sua visione delle cose, ma in un
certo senso il pensiero di quanto una cosa del genere lo manderebbe in
bestia dà a tutto un certo gusto aggiunto.
Elena non è
a casa quando ritorno, sul finire del pomeriggio. Un paio di ore fa, un
suo imperscrutabile messaggio mi ha fatto sapere che Sono uscita a fare due passi, ho pensato
molto. Dobbiamo parlare. Stasera?. Le due temibili parole,
dobbiamo parlare. Per qualche motivo, non mi piace l'idea di dove tutto
questo stia andando a parare.
Prendo il
telefono, chiamo Stefan per tenerlo aggiornato con gli ultimi sviluppi.
"Kai è
nostro," gli faccio sapere. "Ancora poco, ed avrai una compagnia di
nuovo senza debiti, un consiglio più fedele, e nessun direttore
finanziario a metterti i bastoni tra le ruote. Contento?"
"Ho
incontrato Fairchild oggi, ed ho il suo voto. E' rimasto solo
Cartwright, ma non dovrebbe essere un problema. Se saprà che tutti gli
altri sono d'accordo, non si arrischierebbe mai a restare fuori e non
avere la sua parte. E' solo che …"
"Cosa?"
chiedo, mentre mi tolgo la camicia e la butto sopra il letto.
So
riconoscere la puzza della coscienza di mio fratello anche da tremila
miglia di distanza.
"Ho
ricevuto l'invito per il suo matrimonio oggi. Il che mi ricorda che si
sta sposando la migliore amica della mia ragazza, e che continuerò ad
averci a che fare. Tutto ciò prospetta per future feste di compleanno
abbastanza strane. Caroline non sarà contenta, lo sai quanto ci tiene
alle feste di compleanno. Mi sento un pessimo individuo."
Alzo gli
occhi al cielo, perché Stefan era stato il primo ad essere d'accordo
con
tutto. Portare dentro Kai, e con lui portare i soldi. Io che prometto
di non interferire e starmene defilato, lasciando che il molto più
benvoluto Steffy sia quello ragionevole intento a portare avanti
l'eredità del nome Salvatore. Il nome rimane, il consiglio è felice, e
possono finalmente andare a mettere la caparra per quella barca che li
farà sentire per un altro po' dei giovani capitani di ventura. In
cambio di questo, acconsentono a cambiare un po' di cose e far fuori
Elijah con un voto a sorpresa. Facile e indolore, è il compromesso in
cui vincono tutti.
Ma no, oggi
è una di quelle giornate in cui Stefan deve sentirsi una pessima
persona.
"Ti
passerà, fidati," replico, ingoiando il gusto acido che mi ha riempito
al bocca al solo sentir nominare il matrimonio del secolo. Apro
l'armadio per prenderne una maglietta pulita.
"Ciò non
toglie che mi sembra una mossa poco corretta nei suoi confronti, ciò
che stiamo facendo."
Sento
chiavi girare nella porta. Mi sbrigo a spazzare via i suoi residui di
scrupoli prima che si metta davvero a ripensarci, condannandosi ad anni
e anni sotto la presa di Elijah.
"Se l'è
cercata lui il giorno in cui ha deciso da solo che i suoi metodi più
sicuri erano migliori dei nostri. Impiegheresti anni a tornare in
sesto, lasciandolo fare, e lo hai detto tu stesso che lo trovi
impensabile," gli ricordo. "Forse un voto a sorpresa non è il modo più
gentile per sbattere fuori qualcuno, ma è così che funzionano le cose.
Papà dovrebbe avertelo insegnato."
"Parli come
lui."
Mi blocco
con le maniche della T-shirt infilate per metà. Alzo lo sguardo verso
lo specchio a figura intera nell'anta interna aperta dell'armadio, e
vedo la mia faccia cambiare per lo strano pugno che hanno appena
assestato le sue parole inaspettate. Ma non ho tempo di stare a
chiedermi se abbia o meno ragione. Dietro a me nello specchio, sulla
soglia della stanza, Elena incrocia le braccia sul petto ed inclina la
testa con fare interrogativo.
"Ti
richiamo, Stef," mi affretto a riattaccare.
Entra in
camera, mentre io getto il telefono sul letto e finisco di infilarmi la
maglietta.
"Di cosa
stavi parlando?" mi chiede.
"Aggiornamenti
fraterni," rispondo con un sorriso veloce.
Mi
avvicino, mi sporgo per darle un bacio. Elena fa un passo indietro, mi
scruta con sospetto.
"Hai per
caso appena detto che stai licenziando Elijah?"
"Tecnicamente,"
spiego. "Non posso licenziarlo. Non che non vorrei. Il termine votarlo
fuori è più corretto. Molto più difficile da ottenere. Perciò
apprezzerei moltissimo se evitassi di dirglielo," aggiungo unendo le
mani in un gesto di gratitudine. "Rovinerebbe un po' la festa a
sorpresa, no?"
Ed eccola
lì. Di nuovo quella faccia. Quella in cui mi guarda con fare incredulo
e da cui si può quasi sentire l'incazzatura iniziare ad irradiarsi
verso tutto ciò che le sta intorno.
"Non puoi
fare una cosa del genere," sentenzia decisa, io mi trattengo dal non
farmi sfuggire una smorfia. "Voglio dire, non è giusto, non è neanche
qui al momento, insomma non ha nessuna idea … Ed adora lavorare là, ha
dato così tanto, ed era così affezionato a tuo padre, lo so per certo.
Non puoi fargli questo, non se lo merita, non è giusto," mi butta
addosso, tutto insieme, con una tale intensità indignata che neanche
avessi appena rivelato di star architettando uno sterminio di massa di
cuccioli di orsi polari.
"Tragico,
lo so, non vedo cosa posso farci."
"Non riesco
a crederci che lo faresti veramente." Scuote la testa.
"Dimmi una cosa, era tutto pianificato? Agire così alle sue spalle, per
liberarsene mentre non c'è? Come puoi fare una cosa così meschina?"
Serro le
labbra in una linea, ed è il momento in cui inizio leggermente ad
incazzarmi pure io. Perché non può davvero essere seria. Se sta
cercando qualcosa su cui proiettare e scaricare il suo senso di colpa,
così da non doversi sentire la persona peggiore in tutta questa storia,
allora tanto vale farlo fino in fondo.
"Già,
tempismo perfetto, non è vero?" dico con un sorriso stretto. "Oh, a
proposito, Stefan ha ricevuto il tuo invito di matrimonio. Deve dare
conferma?"
La menzione
taglia dritta attraverso di lei. Nel lampo che le attraversa gli occhi
e che li rende più scuri, in tutta la sua fermezza che vacilla di
colpo, e nel modo in cui sostiene il mio
sguardo con uno ancora più ferito e arrabbiato.
"Non ci
provare. Non farne una questione che riguarda me."
"Perché
no?" ribatto aspro. "Sei tu che ne stai
facendo una questione tua. Cosa diamine te ne frega?"
"Perché non
è giusto! Non se lo merita, niente di tutto questo!"
"Però ti
sta bene, scoparti qualcun altro!"
E' così
veloce e così violento, che a malapena lo vedo arrivare. Sento solo il
dolore caldo e diffuso lasciato dalla sua mano sulla mia guancia, dopo
che il ceffone l'ha già dato. Quando incontro di nuovo i suoi occhi, la
rabbia che li riempiva quando ha alzato la mano se ne è già andata,
rimpiazzata dallo stesso dolore ferito che brucia anche sulla mia
guancia e dentro il mio petto.
Si porta
entrambe le mani sulla bocca, ed è sull'orlo delle lacrime.
"Oh mio
dio," mormora piano, tremando appena, mentre compie un minuscolo passo
indietro e mi guarda con gli occhi allargati dallo shock. "Cosa stiamo
facendo? Non possiamo essere così, Damon. Stiamo facendo del male ad
altre persone. Stiamo facendo del male … a noi. E' tutto troppo
complicato, troppo …"
"Allora
vai," la interrompo. Mi guarda smarrita, e la gola mi fa male, mentre
lo dico, molto più della guancia, molto più di qualsiasi altra cosa.
"Se è così, se la pensi così … Vattene. E' sempre complicato, Elena.
Vuoi prendere la via d'uscita più facile? Eccola qui. Prendila e
vattene."
Si porta di
nuovo una mano sulle labbra, e non replica, ed io non so davvero se
è meglio o peggio così, perché qualsiasi cosa potrebbe dire adesso mi
annienterebbe in un modo o nell'altro e, onestamente, quello sguardo
sulla sua faccia, quello sguardo spalancato e pieno, e perso e bagnato,
e poi oh così dispiaciuto, già dice tutto.
Le passo
davanti, mentre una lacrima non regge più e le cade sulla guancia. Non
dice niente, neanche quando raggiungo la porta ed in un attimo sono
fuori da lì.
***
Il bancone di un pub, il mio telefono, un bicchiere di whisky posato lì
accanto.
Per una
molto lunga, molto torturata, ora, sono queste le uniche cose che mi
riempiono la testa e la visuale.
Ho lasciato
il mio appartamento, ed Elena, un paio di ore fa. Ho camminato, e
camminato, attraverso i viali più ampi e tutte le strade costellate di
bar e pub affollati che conosco così bene da sapere che ci sono posti
dove non devi per forza sentirti troppo solo e malinconico, se non vuoi
farlo. Sono quelli dove c'è sempre abbastanza folla e musica e voci
alte che non ti costringono a stare ad ascoltare il suono della tua
stessa mente fin troppo fottutamente incasinata.
Ho perso il
conto delle volte in cui ho preso in mano il telefono, l'ho controllato
e l'ho riposato, pur sapendo in partenza di non trovarci niente
di nuovo, non fosse solo per il fatto che è l'unica cosa che ho
continuato a fissare tra una bevuta e l'altra per quello che sembra già
un lasso di tempo infinito. Continuo a tornare a quell'ultima
comunicazione di Elena, a quel corto Ho
pensato, dobbiamo parlare
che poteva voler dire tutto senza dire niente. Me lo chiedo adesso,
cosa fosse che aveva da dire. Un sì, una pausa, un no, un non lo so.
Immagino che non lo saprò mai. Tanto, non ha neanche più nessuna cazzo
di importanza.
Penso di
chiamarla più o meno ogni volta che il telefono lo prendo in mano. Non
lo faccio neanche mezza. Non so se voglio scoprire se davvero ha
mollato tutto così, o se sta solo aspettando, come me, che le cose si
calmino un po' e tornino a quando non dobbiamo per forza urlarci in
faccia e tutto questo può essere così maledettamente meraviglioso e non
così maledettamente doloroso come una scheggia piantata nel mezzo del
costato.
"Posso
avere un Martini dry?" dice una voce di donna accanto a me. "Senza
ghiaccio."
Getto
un'occhiata di lato, mentre lei aspetta di essere servita dal barista,
e qualcosa in lei mi sembra familiare. La riconosco l'attimo dopo,
anche se i capelli castani sono sciolti e ondulati sulle spalle invece
che tirati su nella solita pratica coda alta. Tamburella le dita mentre
aspetta la sua ordinazione. Si volta appena, si blocca piacevolmente
sorpresa quando mi vede.
Sorrido,
perché mi ha riconosciuto anche lei. Ovvio che lo ha fatto.
"Tu … tu
sei il ragazzo del Ferry Building!" esclama. Poi muove una mano
nell'aria, sorride appena imbarazzata. "Scusa, è stupido, è così che ti
chiamo."
"Ragazza
delle sei e trentacinque," rispondo, prendendo un sorso. "E' così che
io chiamo te."
"Beh," si
gira per prendere e pagare la sua bevuta. "Adesso puoi chiamarmi
Charlotte. O Charlie, è così che mi chiamano tutti."
Decisamente
meglio, o qua ci sarebbero le basi per un gigantesco complesso materno.
Charlie sia.
"Damon."
"Sei qui da
solo, Damon?"
Il mio
sguardo va automaticamente verso l'immobile telefono, per rinnovare la
fitta al costato quel tanto che basta.
"Sì."
Inclino la testa, studio brevemente lei e quello stesso sorriso un po'
timido e un po' flirtante che mi lancia ogni mattina. "Tu?"
Charlie
lancia un veloce sguardo oltre la sua spalla, verso un tavolo con altre
tre ragazze, che ci osservano, ridono, alzano i loro bicchieri nella
nostra direzione in segno di incoraggiamento.
Si siede
nello sgabello accanto al mio, le faccio spazio.
"Posso
esserlo."
Non alzai lo sguardo, quando sentii
aprirsi la porta del negozio, seguita dal leggero tintinnio che
annunciava la rara entrata di un cliente. Tonight, Tonight [2]
usciva
a basso volume dagli speakers, e la mia ricerca internet sugli
esorbitanti prezzi degli affitti per buchi di stanze in zona New York
mi aveva appena fatto realizzare che avrei avuto bisogno di risparmiare
almeno altri quattro mesi del mio misero stipendio, per potermi
permettere di non morire di fame nei primi trenta giorni. Quattro mesi
che non avevo, dato che il mio caro papà mi avrebbe sbattuto fuori tra
due.
"Stiamo
per chiudere tra dieci minuti, quindi suggerisco vivamente di tornare
domani quando non dovrò rimanere oltre orario per mettere in ordine
quello che ha intenzione di lasciare fuori posto, buona serata e grazie
mille," dissi asciutto all'importuno cliente che aveva avuto la
brillante idea di presentarsi appena prima dell'orario di chiusura.
"Speravo
che potessi fare un'eccezione?"
Mi
voltai di scatto, non senza un imprevisto battito mancato a tradimento.
Elena,
sulla soglia del negozio, sorrise. Di quel sorriso piccolo che le
alzava solo appena gli angoli delle labbra, una mano intenta a
tormentare la cinghia della borsa a tracolla.
Non
la vedevo da giorni. Dalla notte dopo il Grill in cui avevo
riaccompagnato a casa lei e suo padre, nel viaggio in macchina più
pieno di silenzi nella storia dei viaggi pieni di silenzi.
Indossava
un vestitino verde, al ginocchio, e bastò un solo secondo, un'occhiata
a quel vestitino e al modo in cui incrociò nervosa le caviglie e le
basse scarpe di tela, per riaprire tutto quello mi si apriva dentro
quando era vicina e poi si dimenticava sempre di richiudersi perfino
quando non lei non c'era.
"Ciao,"
disse.
Distolsi
lo sguardo.
"Ciao."
"Io
… ti ho portato questi," sollevò un braccio, mi mostrò un sacchettino
ben incartato. "Sono i biscotti grandi con le scaglie di cioccolato, li
abbiamo fatti freschi di questa mattina, avevi detto un po' di tempo fa
che avremmo dovuti venderli di nuovo perché erano i tuoi preferiti, e …
Giuro che non li ho fatti io," scherzò, porgendomelo e tentando un
altro sorriso.
Se
fosse stata una qualsiasi altra occasione, e non una dove per giorni
eravamo stati troppo impegnati a far finta che non avessi provato a
baciarla ottenendo un secco, spaurito, no come risposta, se fosse stata
una sera qualsiasi e non avessi avuto da ingoiare un malloppo di
orgoglio ferito e consapevolezza di quanto unidirezionali fossero
diventate le cose, allora avrei chiuso in fretta ogni serranda, e avrei
preso la Camaro, e avrei guidato in una di quelle radure nascoste
appena fuori città, una con alberi e verde e vista sulle cascate, e
sarei rimasto seduto sul cofano con lei a fare cena con i
biscotti fino a che non avesse fatto buio, e anche di più.
Ma
non lo era. Spensi il computer, Elena aspettò qualche secondo con il
sacchettino ancora teso, e poi li posò un po' delusa lì vicino sul
bancone.
"Stavo
pensando che forse-"
"Ho
da fare stasera," risposi, continuando a rimettere a posto le ultime
cose.
"Ti
vedi con Michelle?"
Il
tono casuale, buttato là, con cui lo chiese, terminò in una leggera
nota acuta che no, non aveva nessun diritto di essere lì.
"Michelle
ed io ci siamo lasciati."
Staccai
anche gli speakers, e l'assenza di una replica da parte sua rese
l'improvviso silenzio nel locale ancora più lungo e ancora più denso.
"Oh.
Io non … Mi …" Si fermò, si schiarì la voce. "Perché?"
Allora
sollevai lo sguardo verso il suo. Lo trovai particolarmente allargato e
improvvisamente incerto. Sorrisi a labbra strette.
"Sono
andato a letto con la sua migliore amica."
Una
linea le solcò la fronte, la sua espressione cambiò.
"Tu
… Cosa?" domandò spiazzata, neanche lo avessi fatto a lei. "Perché
faresti una cosa del genere?"
"Cavoli,
non lo so," roteai gli occhi al cielo. "Perché non dovrei?"
"Perché
è una cosa orribile!"
"Allora
forse faccio cose orribili!"
Elena
richiuse di colpo la bocca, scosse la testa.
"Pensavo
che fossi cambiato, Damon."
Le
passai davanti, andai ad aprire la porta con uno scatto brusco, con la
testa le feci cenno di uscire. Non ero in vena, lo ero meno che mai,
per quel suo solito ritornello.
"Notizia
dell'ultim'ora, Elena. Le persone non cambiano."
Elena
si avvicinò a passi decisi. Ma invece di prendere la porta, si piazzò
di fronte a me, guardò in su con quella scintilla testarda nello
sguardo.
"Ed
è questo che ti ostini a non voler capire! Tu non sei così, ma ti piace
far finta di sì per usarla come scusa per allontanare di proposito
tutti quanti, e questo, in questo, pensavo che fossi cambiato."
"Non
darmi lezioni sull'allontanare le persone," dissi, serrando più strette
le dita attorno alla maniglia della porta. "Tu in questo sei molto più
brava di me."
Si
schermì, con un passo indietro.
"Io
non allontano le persone."
"No.
Solo me."
Il
riferimento non detto lo sapevamo entrambi quale fosse, ma rimase lo
stesso sospeso nell'aria. Nel silenzio con cui ci guardammo, nella nota
più triste che ferita con cui mi erano uscite fuori quelle parole, nel
modo in cui si ammorbidì la sua espressione.
"Sono
tua amica, Damon. Non ti allontanerei mai." Piegò appena un lato delle
labbra. "Non potrei neanche se volessi."
Piano,
chiusi la porta. Mi ci appoggiai contro con la spalla, guardai appena
fuori sulla strada, e poi di nuovo verso il suo viso, le sopracciglia
leggermente increspate, e tutta quella sincerità e tutto quell'affetto
che non era davvero più abbastanza rispetto a ciò che avrei voluto che
fosse, ma che restava quanto di più vicino ci potesse essere.
"Fa
parte del non allontanarmi, avermi ignorato per giorni?" domandai,
odiando ogni briciola della dannata debolezza con cui sapevo, a
dispetto di tutto, di non poterla comunque perdere.
Abbassò
lo sguardo, con un inconscio gesto nervoso chiuse una mano intorno al
ciondolo scuro che portava al collo.
"Sto
con Matt," disse, girandosi a guardare fuori. "Amo Matt."
"Felice
che lo abbiamo chiarito," replicai, incrociando le braccia sul petto,
anche se il sarcasmo con cui lo dissi forse fu chiaro solo a me.
Elena
annuì, smise di torturare il suo ciondolo con le dita. Fece per andare,
esitò all'ultimo momento. Poi si voltò, si sporse rapida sulle punte,
mi baciò la guancia. Altrettanto rapidamente, uscì senza
guardarmi un'altra volta.
Runaway,
The National
Charlie
ride mettendosi una mano davanti alla bocca. E' quasi carina come cosa.
Penso che mi piacerebbe molto meno se non fossi già al mio sesto o
settimo bicchiere di whisky, e lei non fosse al quarto Martini dry. Ma
ci siamo, quindi è carina, o quasi.
"Lo sai,"
dice lei, mentre io finisco anche ciò che era rimasto sul fondo del
bicchiere. "Pensavo che tu …" mi indica, sovrappone un po' le parole,
"… non ti saresti mai deciso a parlarmi."
"Mi stavo
solo rendendo più desiderabile," rispondo avvicinandomi appena di più,
con la voce già abbassata a quel tono più seducente che entra
automaticamente in gioco in certe situazioni, anche quando il mio
istinto di auto-conservazione dovrebbe suggerirmi di meglio.
Soprattutto quando il mio istinto di auto-conservazione dovrebbe
suggerirmi di meglio.
"Ci sei
riuscito," sorride, con lo sguardo sulla mia bocca.
Dio, quante
volte l'ho fatto? Uno sbiadito deja-vu di un me post-Katherine taglia i
miei pensieri per una frazione di secondo, ma comunque abbastanza da
aprire uno squarcio su tutte le volte in cui alcol e sesso erano un
ottimo modo per ripagare la stronza che mi aveva lasciato incazzato e
ammaccato. Non cambiava assolutamente niente, alla fine di tutto,
niente per lei che a malapena se ne fregava, niente per me che restavo
ugualmente incazzato e ammaccato. E lo sapevo che era così, ovvio che
lo
sapevo, ma era sempre meno peggio che lasciare spazio a tutto il resto.
Così come
so adesso che Elena non è Katherine, dio se non lo è. Ma io sono sempre
io. Ed ha dell'incredibile, il modo in cui tale consapevolezza si
intromette in mezzo ad ancora più alcol ed una ragazza perfettamente
carina e perfettamente disponibile. Non si può scappare, da una cosa
del genere. Neanche quando la ragazza delle sei e trentacinque colma la
distanza degli ultimi centimetri, posa le labbra sulle mie.
E' un po'
sbadato come bacio, ma non ci faccio troppo caso.
"Non faccio
mai così, ma …" sussurra sulla mia bocca. "Casa tua o mia?"
Mi guarda
un po' incerta, ed io non
ho una risposta.
Non ce l'ho
perché è qui che tutto quanto mi riempie
la mente, e l'addome, e perfino il costato sempre un po' scheggiato. Le
lacrime di Elena mentre vado via, Elena che si stira nel sonno al
mattino presto, e tutti i piccoli suoni quando la bacio lentamente, e
il modo in cui ride, e quello in cui si arrabbia, e quanto salda sia la
sua presa quando mi stringe. E' la sola risposta che ho, anche
maledettamente complicata e incasinata come è, tornare da lei.
Ma lo so
fin dal momento in cui apro la porta, accendo la luce, e sento il
silenzio fermo che riempie il mio appartamento. Lo so in quel momento,
ma ugualmente cerco nella sala, nella camera, anche sulla terrazza,
accendendo ogni luce e perlustrando per il minimo segno di ciò che
c'era fino a poche ore fa, e adesso non più. Una spazzola sul ripiano
del bagno, un libro tirato fuori dalla libreria, vestiti lasciati
disordinatamente sopra una sedia.
Mi appoggio
alla parete che separa il
soggiorno dalla camera, mentre l'alcol che mi ottura la testa e le vene
rende ogni cosa filtrata come attraverso la patina di un patetico sogno
triste. Scivolo contro la parete finché non sono seduto per terra, e la
stanza gira un po' prima di assestarsi, proprio come tutto ciò che
Elena mi ha lasciato in pezzi nel petto.
Tiro fuori
il telefono. Risponde al terzo squillo, un "ehi" instabile almeno
quanto la domanda che le faccio.
"Dove sei?"
L'annuncio
di un volo per Austin in partenza al gate 72 risponde per lei.
"Avevi
ragione, Damon. Non posso … Non posso restare, non in una situazione
così. E' ingiusto nei confronti di tutti, anche nostri. E' stato un
errore," dice, e non so se a fare più male è l'idea che lo pensi
davvero o quei residui di lacrime che ancora si sentono nella voce. "Ho
trovato un volo che parte tra mezzora, riesco ad essere a casa per
domani mattina. Devo, capisci? Devo sistemare un po' di cose."
"Non
farlo," mi sento dire, l'alcol e la spaventosa idea di una notte senza
Elena a parlare più della mia parte ragionevole. "Almeno non stasera,
non così … Vengo a prenderti. E le sistemerai domani, o quando diamine
vuoi. Non stanotte."
Un altro
volo annunciato in sottofondo riempie il silenzio nella sua risposta.
"Mi
dispiace," sussurra dentro il microfono.
E poi
riattacca, e poi più niente, e poi è finita.
Mi faccio
scivolare il telefono di mano, cade sul pavimento. Lo lascio lì, fisso
il vuoto, e non riesco più a rialzarmi neanche io.
—————————————————————
Note:
[1]
Se avete colto la citazione, sappiate che vi amo. No, seriamente. Vi amo.
[2] Tonight,
Tonight - Smashing Pumpkins
Note autrice
I'm
sorry. I'm so, so sorry.
Per
il ritardo, innanzitutto, sia nel postare il capitolo che nelle
risposte ai commenti (li ho amati tutti, voi non ci
crederete ma mi fate davvero commuovere, tipo lacrimuccia nell'occhio
quando vi leggo. Sono una sentimentale, che ci volete fare). E' solo
che questo capitolo l'ho dovuto scrivere a piccole dosi, piano piano,
perché tutto insieme non ce la facevo, e
immagino che possiate intuire perché. Potete odiarmi, se volete. Il
prossimo torna a Mystic Falls insieme a Elena, e
inizieranno a tirarsi un po' le fila di tutto.
E sono molto più che emozionata di annunciare che, d'ora in poi, Stubborn Love la potrete trovare anche sul
blog It's
Gonna Be Damon (qui per
seguirlo anche su facebook),
che pubblicherà in
esclusiva le anteprime dei
capitoli prima della loro pubblicazione. So che se siete delle brave
Delena lo conoscete già, ma se non fosse così cogliete l'occasione per
rimediare, e fare le brave Delena, perché é
una miniera inesauribile di bellissime riflessioni e analisi sia sul
Damon e Elena
che su TVD tutto.
Di
questo
ringrazio
Ross e Scarlett, che si
sono
prese a cuore questa storia e l'hanno portata anche lì,
ringrazio la nostra Bloodstream che ha realizzato delle meravigliose
gif ispirate a scene di Stubborn Love,
ringrazio tutte
voi che mi
avete incoraggiato a continuare e sostenuto fin qui.
Ringrazio
anche le mie adorabili beta, che qui si sono unite in un triplice
lavoro per correggermi le sviste e sopportare le mie paranoie, e chiudo
la nota con l'ormai solito angolino musicale per quelle che sono
interessate: Us ones in between per la
citazione iniziale e Runaway dei The National per
l'ultima scena (qui la playlist), e con un nuovo gigantesco
grazie per tutto questo incredibile supporto che non smette mai di
stupirmi.
ps.
chi di voi, sul gruppo facebook, aveva azzeccato gli spoiler di "due
verità una bugia"?
un
bacio,
ever
|
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Capitolo 21 *** The one that got away ***
20.
The one that got away
-
I never meant to get us in this deep
I never meant
for this to mean a thing
Oh, I
wish you were the one
Wish you
were the one that got away -
(The One That Got Away, The Civil
Wars)
Elena
Sono le 16:13 di un qualsiasi
pomeriggio pigro, umido e pieno di sole della Virginia. A ricordarmelo
è l'ora digitale sul cruscotto della mia auto, di un verde luminoso
sbiadito dal riflesso del sole.
Sono passate esattamente
otto ore e qualche minuto da quando ho lasciato San Francisco con il
primo volo del mattino, circa diciassette invece dall'ultima volta che
ho parlato con Damon.
La sua voce imbevuta di
alcol, la mia di lacrime e rimorsi.
E la verità è che non
c'era nessun volo imminente da prendere, ieri notte. Se solo lo avessi
voluto, ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo per tornare indietro
e vedersi e chiarirsi. Ma non so a cosa sarebbe servito.
So però che se lo avessi
fatto, se fossi tornata indietro anche solo per un momento, tutta la
mia risoluzione si sarebbe vaporizzata nell'attimo stesso in cui avrei
posato gli occhi su di lui. Avrei sentito prepotente come lo sento
ancora adesso il bisogno di toccarlo, stringerlo, respirare il suo
odore, e il fegato di andarmene non ce lo avrei avuto più, e saremmo
solo finiti - oggi, domani, un altro giorno - a ferirci di nuovo.
E' quello che facciamo,
sempre.
Lo so che non era giusto,
viverla così, con il mio senso di colpa a rendere insopportabile
stargli vicino - non importa quanto ancora più insopportabile sia
l'idea di non farlo - e con il suo modo di sbattermelo in faccia.
Lo so che era la cosa più
ragionevole da fare, chiuderla qui. Ed essere corretta nei confronti di
Elijah, forse provare a sistemare le cose, come posso, per quanto posso
- gli devo almeno questo.
Me lo sono ripetuto
durante l'intera notte passata a non dormire sulle scomode sedie di
metallo della lounge dell'aeroporto, una maglietta come cuscino e
lacrime lente a bagnarmi le guance.
Me lo sono ripetuto
durante le sette infinite ore di volo accanto ad una signora gentile e
un po' impicciona pronta ad offrirmi kleenex e piccoli sorrisi
compassionevoli. Nell'alternanza tra uno stato di esausta sonnolenza e
il sopravvento feroce del pensiero di Damon ogni volta che ho chiuso
gli occhi, di tutte quelle notti in cui era lento e intenso e
nient'altro aveva importanza.
Me lo sono ripetuto
davanti alla mia faccia pallida e sfinita sotto alla violenta luce
bianca del bagno dell'aeroporto di Richmond, mentre ho gettato acqua
fredda sugli occhi gonfi e arrossati e ho legato in alto i capelli,
maledicendo un nuovo taglio sul quale inizio ad avere sentimenti
contrastanti, perché mi sembra adesso così disordinato ed
impossibile da mettere a posto con la stessa facilità di quello vecchio.
Ho fatto la cosa giusta.
Ma qualcuno mi spieghi
perché fare la cosa giusta debba fare così dannatamente male.
Così adesso sono ferma
nella mia auto nello spazio 35B del parcheggio sotterraneo
dell'aeroporto da più di venticinque minuti, incapace di costringermi a
mettere in moto e tornare davvero a Mystic Falls, a mettere tutto a
posto come mi sono prefissata di fare.
Mi strofino gli occhi,
sempre umidi pure loro, e poi la mia mano colpisce con forza il bordo
del volante, in uno scatto rabbioso e frustrato che non so neanche da
dove sia uscito fuori. Poi un profondo respiro.
Quando alzo lo sguardo, è
il cartello con le indicazioni stradali, Petersburg 25 miglia, a darmi
l'idea.
Mezz'ora dopo, accosto
l'auto al lato di una via residenziale costeggiata da verdi prati bassi
e piccole case in mattoncini rossi tutte corredate da mini-portici
nello stesso stile simil-coloniale. Quella di mio padre è dall'altro
lato della strada, l'unica in legno bianco e vialetto di pietra.
Ma non lo trovo da solo.
E' in compagnia della bella dottoressa della casa di fronte (quella in
mattoni rossi, un giardino di rose, un piccolo cedro davanti al
garage), intenti a chiacchierare all'ombra delle colonne del porticato,
e non mi hanno visto, non ancora.
Accompagno la portiera
facendo poco rumore. Rimango qualche istante a guardarli, incerta sul
limitare del vialetto di ingresso. Quando entrambi ridono per qualcosa,
sento un tale strattone dentro al petto, per ragioni che non saprei
neanche spiegarmi, che quando il suo labrador Louis trotta
scodinzolando nella mia direzione ed anche mio padre mi nota
piacevolmente sorpreso, avverto di nuovo quella sensazione. Come se
fossi sul punto di infrangermi in mille pezzi.
La sua espressione si fa
più preoccupata, attraversa la distanza in pochi secondi, e io scuoto
forte la testa mentre mi chiede se è successo qualcosa di grave, appena
prima di farmi abbracciare e andare a seppellire la faccia nella sua
spalla.
Mormoro solo, "Ho rovinato
tutto."
Mio padre mi porge una tazza
piena di acqua bollente che odora di erbe e effetti calmanti. La prendo
con cautela e poi la tengo tra i palmi, perché anche se sono almeno 28
gradi, e lo spazio d'ombra del porticato è solo appena più fresco, ho
le mani che ancora tremano un po' e questo mi aiuta a tenerle ferme.
Louis posa il muso sulla
mia coscia, e il dondolo ondeggia leggermente.
"Da quando bevi tisane?"
gli domando soffiandoci sopra.
Mio padre ride. "E' colpa
di Jo, in realtà. Continua a insistere su quanto facciano bene, e ogni
tanto non riesco a dirle di no."
Giusto, la bella
dottoressa. Quello che sospetto essere l'ultimo pezzetto della vita che
ha impiegato tutti gli ultimi tre anni per ricostruire - lontano dal
Grill e lontano da Mystic Falls. Tra mesi di riabilitazione e un corso
per diventare soccorritore medico, incontri settimanali dagli alcolisti
anonimi, turni notturni, e un cane che porta il nome di un musicista.
La sua decisione di cambiare città non è stata una che ho accettato fin
da subito. Ma poi ho iniziato a vederlo. Il bisogno di ricominciare
daccapo, di dedicarsi a qualcosa che potesse aiutare gli altri e
aiutare lui a dare forse un po' di tregua ai suoi personalissimi sensi
di colpa. E lo vedo adesso, più che mai.
"Dovresti chiederle di
uscire. A Jo," dico. Lui alza un sopracciglio ed io mi sento sorridere.
"Dico davvero. Ho visto come ti guarda."
Scuote la testa. "Lo sai
che non è consigliabile iniziare qualsiasi relazione …"
" … durante i primi
periodi da sobrio," finisco io per lui. "Lo so. Ma sono tre anni
adesso, magari è tempo. Non hai davvero scuse. Chiedile di uscire."
Sembra pensarci. "E a te
non dispiacerebbe?"
Scuoto la testa e provo a
prendere un minuscolo sorso che però mi brucia subito la lingua.
"Va bene. Ti meriti di
andare avanti. Ce lo meritiamo tutti." Lui rimane in silenzio, io torno
a guardare dentro al vapore che sale dalla tazza, sento la gola
ispessirsi appena. "Sai, una volta pensavo … che sarebbe diventato più
facile, col tempo. Che avrebbe fatto meno male, che mi sarebbe mancata
di meno. Ma mi sbagliavo." Mi esce fuori una breve risata, che di
divertito non ha niente, e le parole escono fuori da sole, una dopo
l'altra, prima che le lacrime che mi bruciano dal fondo del petto
abbiano il tempo di soffocarle. "Beh, mi sbaglio sempre su così tante
cose. A volte penso che non sbaglierei così tanto se lei fosse qui.
Perché saprebbe dirmi cosa fare. Sapeva sempre cosa fare. Come ci
riusciva, a saper fare tutto? Non ha mai neanche bruciato una torta in
vita sua. Io non riesco neanche a fare un toast, finisco sempre per
sbagliare anche quello. Io non so mai cosa fare."
La voce mi cede sul finire
del mio sfogo che non so quanto abbia di sensato, e mio padre corruga
appena la fronte. Anche Louis ha alzato il muso e mi guarda con
interessati e simpatetici occhi marroni.
"Non era perfetta, lo sai
vero?"
Sollevo titubante lo
sguardo, mentre mio padre si siede accanto a me.
"Voglio dire, eccezionale,
sì … Perfetta no. Si sbagliava un sacco di volte, anche se non voleva
mai ammetterlo. Era piuttosto prepotente, se proprio vuoi saperlo. E
davvero esasperante a volte, soprattutto quando si metteva in testa
qualcosa," si fa sfuggire un piccolo sorriso, che però si trasforma
rapidamente in qualcosa di più distante, più malinconico. Impiega
qualche secondo, prima di continuare. "Avevamo litigato, quella
mattina. Piuttosto male, per colpa … non lo ricordo neanche, qualche
decisione sul locale. Le ho dato della stronza dispotica. Che è
praticamente l'ultima cosa che le ho detto, prima che uscisse di casa.
L'ultima cosa che le ho detto … e basta."
Una falciatrice ronza su
un prato di qualche vicino, Louis viene distratto da una mosca, e il
mio cuore riceve un colpo a cui decisamente non era preparato.
Non mi aveva mai detto
cose del genere. Improvvisamente del tutto persa, non riesco a far
altro che guardarlo smarrita, mentre sento cadere a pezzi anche
quell'ultima, confortante, consapevolezza che c'era almeno stato un
tempo in cui le cose erano semplici e belle, che erano possibili, e non
solo un frutto della mia immaginazione.
"Io … pensavo che foste
felici."
Mio padre mi restituisce
uno sguardo altrettanto confuso, come se si stesse perdendo qualche
collegamento fondamentale. Poi abbozza un sorriso.
"Lo eravamo," dice, in
tono di fatto. "Molto. Pensi che essere felici sia qualche verità
preconfezionata dove niente va mai male?"
Ingoio un'altra minaccia
di lacrime. Scuoto appena la testa, giocherello con l'etichetta della
bustina del the.
"Non … Non lo so," dico
infine. Sospiro, con una nota amara. "Chiaramente, non lo so."
"Va tutto bene con
Elijah?" mi domanda. "Hai detto che hai rovinato tutto."
"Io …" Mi fermo, mi
schiarisco la voce. Non era ad Elijah che stavo pensando.
Penso di mentire, perché
non saprei neanche da che parte iniziare per parlare con mio padre del
gigantesco casino che è attualmente la mia vita, sentimentale e non. Ma
non ce la faccio.
"No, non va bene. Ed è
colpa mia. Vorrei solo fare ciò che è giusto, lo vorrei davvero, ma …
non so cosa fare, non sono più sicura di niente." Faccio una pausa,
sento che effetto fa avere le parole sulla lingua e nella testa, prima
di dirle anche ad alta voce. "Neanche di sposarlo."
"Allora non farlo."
Alzo gli occhi su di lui,
sorpresa dal fare calmo e pratico con cui lo ha detto. Lo fa sembrare
così facile.
"Ma è tutto già
programmato. Gli inviti sono stati mandati, e-"
"Al diavolo gli inviti."
Sento un minuscolo
pezzetto di sorriso curvarmi le labbra verso l'alto, appena prima che
un'altra fitta colpevole mi colpisca dritta in mezzo al petto. E il
sorriso svanisce, davanti alla vera ragione che rende tutto questo così
difficile.
"Lui mi ama, papà."
"Non è comunque
abbastanza, se non è quello che vuoi."
Abbandono la testa
all'indietro contro il legno del dondolo, che scricchiola appena nei
secondi di silenzio che seguono. Mi sento lacerata. Esausta.
"Posso restare qui per
stanotte?" gli chiedo, esitante. "Me ne vado domattina."
Si alza, posa una carezza
e un bacio sulla mia testa. "Puoi restare quanto vuoi."
Non me ne vado al mattino
dopo. O quello dopo ancora.
Restare da mio padre
diventa una sorta di piccola e confortevole bolla cuscinetto nella
quale non devo necessariamente gettarmi a capofitto in tutto ciò che mi
rende tesa e non mi fa dormire la notte. Non devo tornare a Mystic
Falls e inventare risposte su dove sono stata l'ultima settimana, non
devo essere costantemente ricordata dei preparativi di un matrimonio
del quale non so più cosa fare, non devo passare le mie giornate a
prendere una serie continua di piccole decisioni per mandare avanti un
locale affollato.
E' solo una deviazione, un
modo per rimandare, lo so. Soprattutto nei momenti in cui tutto ciò che
incombe dagli angoli della mia mente torna a far sentire la sua
pressione.
Non è solo Elijah. La
fitta agrodolce che mi lascia ognuno dei suoi "ti amo" alla fine di
ogni messaggio, il modo in cui continuo a ricacciare indietro il
pensiero di cosa farò o cosa proverò quando lo vedrò di nuovo, parole
che non riesco a immaginare, e cosa è cambiato nel modo in cui una
parte di me sa che ancora lo amo.
Non è solo Damon. Quanto
facciano male tutti i pezzettini sparsi di tutto ciò che fino ad un
paio di giorni fa mi aveva fatto sentire incredibilmente viva, e adesso
invece in modo altrettanto spietato mi taglia dentro come tante piccole
schegge di ciò che ne è rimasto; o quanto insonni siano diventate le
notti senza il suo odore e il suo corpo vicino.
E' tutto ciò che giace
irrequieto sul fondo del mio petto. E' l'indefinibile sensazione che
forse in me c'è più di tutto questo - più di questa ragazza, più di due
uomini e tutto ciò che sono per me, più di una piccola città di
provincia che eppure amo in ogni suo piccolo angolo, più da vivere -
qualsiasi cosa significhi.
Non so neanche quando è
cominciata, o perché, ma è sempre lì. Mentre faccio lunghe passeggiate
con Louis al Memorial Park, mi libero dei cibi preconfezionati nel
frigo di mio padre, e per la prima volta nella mia vita mi metto in
testa di affrontare la paura di non essere in grado di trasformare roba
cruda in qualcosa di anche solo vagamente commestibile.
Non va sempre nel migliore
dei modi, ma una mattina riesco addirittura a produrre un intero set di
muffin che sono un pochino troppo bruniti sui bordi, ma che a parte
quello hanno un sapore ottimo. Non riesco a trattenere un sorriso
orgoglioso di me stessa, anche se poi nell'entusiasmo del momento mi
dimentico il guanto da forno e mi brucio il palmo con il bordo della
teglia.
"E quindi, fammi capire,
ti sei stabilita da papà adesso?" chiede l'accenno di amaro sarcasmo
nella voce di Jeremy dall'altro lato del telefono in bilico sulla mia
spalla.
Soffio sopra il segno
rosso e arrabbiato della bruciatura all'interno della mia mano destra.
"Perché non vieni anche
tu?" dico. "Solo per un paio di giorni. Possiamo passare un po' di
tempo insieme, solo noi tre."
Mi sembra quasi di vedere
la smorfia sulla bocca di mio fratello. Non dovrebbe sorprendermi, dal
momento che per Jeremy nostro padre è ancora un argomento sensibile.
Sono anni che gli parla a malapena, intenzionato con tutta la rabbia
dell'adolescenza a fargli pagare ogni colpa e mancanza passate. Io
continuo a provarci lo stesso.
"Intendi come quando era
troppo ubriaco anche solo per ricordarsi di noi?"
"Andiamo, Jer."
"Fammi sapere quando hai
intenzione di tornare alla Città della Realtà."
Lascio uscire un sospiro e
vorrei dirgli molto altro, ma vengo distratta dallo squillo del
campanello. Louis dà un abbaio e corre verso la porta, e dato che mio
padre è fuori per il suo turno di lavoro, saluto mio fratello e lo
seguo nell'entrata.
Sto già per inventarmi le
prime scuse che mi saltano alla mente per qualsiasi gruppo religioso
stia girando per il quartiere, perciò sono completamente impreparata da
ciò che mi trovo davanti quando apro la porta.
Potrò non essere ancora
stata pronta a tornare alla Città della Realtà. Ma la cosa non ha
fermato la Città della Realtà dal presentarsi alla mia porta.
I miei occhi si
spalancano. Il mio cuore perde un battito. E tutto il resto di me
rimane immobile, mentre il mio fidanzato compie un passo avanti e mi
circonda il viso con le mani e sussurra sulle mie labbra, "Mi sei
mancata così tanto."
***
"Jer, per
favore. Stai fermo," dissi per la centesima volta, mentre mio fratello
continuava a dimenarsi per sfuggire all'asciugamano bagnato con cui
stavo cercando di pulirgli la faccia.
Lui
serrò strette le labbra e si voltò verso la parete. Seduto sul tavolo
della cucina, non smise né di dondolare le gambe nell'aria né tantomeno
di ignorarmi, le guance ancora parzialmente ricoperte di fango e sangue.
Sospirai,
poi gli intimai con voce più ferma. "Jeremy, mi sto arrabbiando."
"E
allora? Non sei mamma."
Alle
mie spalle, potevo sentire il disagio di Matt. Desiderai, almeno per un
momento, che non fosse stato lì. Desiderai che non mi avesse
accompagnato a prendere Jeremy ai suoi allenamenti, desiderai che non
avesse dovuto assistere allo spettacolo di mio fratello che gridava e
si dimenava nel terriccio polveroso insieme ad un altro ragazzo della
squadra, entrambi intenti a cercare di prendere l'altro a pugni in
faccia. Jeremy ci era riuscito, un colpo secco sopra il naso, appena
prima che il coach e uno dei genitori arrivassero a separarli,
mandandoli entrambi a casa con una sospensione di due settimane e il
monito di ripresentarsi solo accompagnati da un adulto responsabile.
Ma
Matt era lì quando tutto ciò era accaduto, ed era qui anche adesso che
mio fratello non la smetteva di comportarsi da stronzetto
insopportabile.
"Bene,"
concessi, posando il panno macchiato di quel poco di sangue e terra che
ero riuscita a togliergli dalla faccia. "Vuoi dirmi allora cosa è
successo con quel ragazzino?"
Scrollò
con noncuranza le spalle. "L'ho spinto."
"Lo
hai spinto?"
Con
le unghie si mise a giocherellare con la cucitura laterale dei jeans,
diede un'altra scrollata di spalle.
"Ha
detto cose su papà. Mi sono incazzato."
Lo
osservai in silenzio alcuni secondi. Non aveva ancora neanche undici
anni, e faceva uno strano effetto sentirlo parlare così, con la voce
che non era né più quella di un bambino, né ancora quella di un ragazzo.
"Jer,
non puoi spingere le persone solo perché ti fanno arrabbiare."
Sollevò
lo sguardo, si accigliò. "E perché no?"
"Perché
è sbagliato," sentii Matt fare un passo avanti. Si abbassò appena
posando le mani sulle ginocchia, quel tanto che bastava per essere alla
stessa altezza di Jeremy. "Non è picchiando qualcuno che si risolvono i
problemi."
Jeremy
lo guardò inespressivo, si voltò verso di me. "Dov'è Damon?"
La
domanda mi colse del tutto alla sprovvista. Così come il tono di accusa
con cui lo chiese, così come la rapida e improvvisa stretta al petto
che mi provocò.
"Cosa
c'entra Dam-"
"Non
mi avrebbe detto di comportarmi da fighetta. O trattato come un
bambino," replicò asciutto, spingendomi fuori dai suoi piedi nello
scendere dal tavolo. "Avrebbe capito."
Uscì
dalla cucina in falcate veloci, lunghe e magre, lasciando solo l'eco
della sua corsa su lungo le scale, che culminò con lo sbattere della
porta della sua stanza.
Senza
dire una parola, con le labbra premute strette, presi l'asciugamano che
avevo lasciato sul tavolo ed iniziai a sciacquarlo sotto al getto
dell'acqua, sentendo lo sguardo perplesso di Matt ancora fisso sulla
mia schiena.
"Immagino
di non piacergli," disse in tono leggero, cercando di scherzare.
"A
Jeremy non piace nessuno," ribattei strizzando il tessuto.
"Gli
piace Damon."
Non
replicai. Anche Matt rimase in silenzio per alcuni secondi, lo scorrere
dell'acqua tiepida sulle mie mani l'unico suono nella stanza. Poi lo
sentii avvicinarsi, venirmi accanto.
"E
a te …" Esitò un istante. "A te … piace Damon?"
Mi
immobilizzai. Sentii il cuore accelerare i battiti, e un calore che
avrei voluto ignorare farsi velocemente strada su per il mio collo e le
mie guance. Chiusi l'acqua, misi il panno ad asciugare. Non ce la feci
a guardarlo in faccia.
"Sì,
certo. E' mio amico," risposi, anche se suonò strano e imbarazzato alle
mie stesse orecchie.
Lo
era davvero? Lo era ancora? Ultimamente le cose tra noi erano state
così diverse, così confuse. E volevo così disperatamente che potessero
tornare a come erano prima, a quando dire "è mio amico" non si portava
dietro nessun'altra domanda, a quando aveva un significato molto più
definito rispetto ad adesso. Ma non avevo idea di come fare.
Ci
avevo provato, qualche sera prima, in un momento in cui non ero
riuscita a sopportare quella situazione un solo secondo di più, ma
avevo finito solo per lasciare il negozio di Rose con la disorientante
sensazione di non sapere più il modo in cui mi faceva sentire, essere
vicino a lui. Sempre tesa e sempre in bilico, sempre con la paura di
fare un passo troppo vicino o uno troppo lontano. Solo che mille volte
peggiore era il modo in cui mi faceva sentire essere distanti. Lo
sentivo addosso, il modo in cui mi mancava.
"Lo
so, volevo dire … è solo questo?"
Il
mio stomaco sprofondò, non appena quella domanda mi riportò ancora una
volta alla sensazione delle labbra di Damon sulla pelle, di brividi
lungo la spina dorsale e di una fitta colpevole mentre mi affrettavo a
stroncare quel pensiero. Mi costrinsi a voltarmi verso di lui.
Matt
mi stava guardando ansioso, con una tale incertezza sul volto, nella
postura, nella voce, da farmi domandare da quanto si sentisse in questo
modo senza avere il coraggio di chiederlo ad alta voce. Mi fece
improvvisamente sentire malissimo, e tremendamente in colpa, per nessun
motivo che riuscissi a spiegarmi. Non c'era mai davvero stato niente,
tra me e Damon.
"Ma
certo," dissi, forzando un sorriso. "Cosa ti fa pensare che …."
"Niente,"
rispose scuotendo la testa. Ricambiò il mio sorriso. "Niente,
naturalmente. Solo … domanda stupida."
Mi
sporsi sulle punte e lo baciai, prima che pensasse di fare altre
domande stupide come quella. Mi baciò di rimando stringendomi le
braccia attorno ai fianchi. Dolce e avvolgente e come sempre il mio
Matt. Ma se lo sapeva, se lo sapeva che amavo lui, perché doveva
metterlo in dubbio così? Non avrebbe dovuto. E non avrei dovuto neanche
io.
"Voglio
fare sesso," dissi, quando si separò da me.
Matt
mi guardò confuso con le labbra ancora parzialmente socchiuse. "Tipo
… adesso?"
"No,"
dissi imbarazzata, facendo un passo indietro. "Non adesso. Cioè, c'è
Jeremy di sopra e io probabilmente dovrei tornare al Grill e …"
"No,
sì, ovvio," annuì subito, passandosi una mano sul collo. Era rosso pure
quello.
"Voglio
dire, presto," esalai, in un respiro nervoso. "Appena abbiamo
l'occasione."
Sorrise,
mi prese il volto tra le mani. "Quando vuoi. Ti amo, Elena."
"Farò sesso con Matt."
Jenna
si rizzò con un tale scatto sorpreso da sbattere la testa contro lo
scaffale della dispensa, mormorò un'imprecazione tra i denti e tutti i
barattoli di salsa di pomodoro caddero dalle sue mani rotolando sul
pavimento. Si voltò a guardarmi con gli occhi spalancati. Io mi piegai
per raccoglierli e passarglieli di nuovo.
Avevo
passato ore a parlarne con Bonnie e Caroline, ma nessuna delle due era
stata davvero di aiuto sulla questione. Insomma, Bonnie era stata solo
una profusione di ansiogeni "sei sicura?", e Caroline non aveva fatto
che parlare di tutta la biancheria sexy di cui avrei assolutamente
avuto bisogno, continuando a mettermi davanti pubblicità di modelle con
un sacco di pizzi e un sacco di tette. Così avevo pensato che forse per
rispondere a quella domanda ci voleva qualcuno con più esperienza, e
Jenna era la cosa più vicina a ciò che potesse venirmi in mente, anche
se la sua faccia smarrita per un attimo me ne fece seriamente dubitare.
"Tranquilla,
Jenna," la rassicurai, "Volevo solo-"
"Oh
dio. Questo è uno di quei momenti in cui dovrei comportarmi come
un'adulta responsabile che ti dice di non farlo e non come una
ventiduenne che si ubriaca di tequila tutti i venerdì sera, vero?
Merda. Questo non avrei dovuto dirlo. E' che parlo troppo quando mi
sento sotto pressione. Non ubriacarti di tequila, Elena, pessime
decisioni vengono fuori dalla tequila," disse seria. "E non fare
sesso." Increspò le sopracciglia. "Come sto andando?"
"Alla
grande," risposi con un sorriso di incoraggiamento.
Non
mi credette neanche lei, perché sospirò nel pulirsi le mani sul
grembiule e alzarsi in piedi.
"Devo
… " si guardò attorno incerta, "… farti il discorso? Lo sai, su come
funziona, o …"
"No,
no no," la bloccai prima che andasse di nuovo in crisi. "So … tutto ciò
che c'è da sapere."
Jenna
rilasciò un visibile sospiro di sollievo. "Bene. Perché sarei terribile
a fare il discorso. Mia madre me lo ha fatto quando avevo dodici anni,
e lo ricordo ancora come uno spaventoso racconto di lattice e
irritazioni cutanee che mi ha traumatizzato almeno fino ai diciotto
anni." Ci pensò su. "Forse lo scopo era proprio quello."
Scossi
la testa. "No, stavo solo pensando che …" presi un profondo respiro,
intrecciai tesa le dita tra loro, "… Matt è meraviglioso. E' così dolce
e gentile. E mi ama. Ed io amo lui, naturalmente. E, beh, è un bel po'
ormai che stiamo insieme. Quindi va bene, giusto? Direi che è ora, e
che va bene, no?"
"Certo,
tesoro," sorrise rassicurante. "Se senti che è il momento giusto."
Corrugai
la fronte, la guardai da sotto in su. "Ok, ma … come faccio a saperlo
per certo, quale è il momento giusto?"
Non
sarebbe dovuta andare così. Avrebbe dovuto confermarmi che quando certe
giuste condizioni sono soddisfatte, come in questo caso, sono
sufficienti quelle per saperlo. Invece, Jenna mi rivolse un altro
piccolo sorriso, e mi lasciò esattamente allo stesso punto di prima.
"Non
credo ci sia una formula, sai? In certi casi, lo sai e basta."
***
Elijah, inginocchiato in
equilibrio sui talloni, gratta piano dietro le orecchie di Louis, che
sbatte la coda sul pavimento della cucina. Tutta la mia attenzione è
invece concentrata sulla semplice operazione di preparare del caffè - metti il filtro, metti la polvere -
e su quella parecchio più complessa di tenere sotto controllo il
crescente nervosismo che mi agita dentro - chiudi lo scomparto, accendi il pulsante,
respira. Il profumo dolciastro dei muffin mi riempie le narici.
"Li hai davvero fatti tu?"
mi ha chiesto sorpreso Elijah poco dopo aver messo piede dentro casa,
commento che io ho subito colto come la giusta scusa per scivolare via
dalle sue braccia e andare a mostrarglieli, con un sorriso brioso
talmente forzato da essere sicura che si sarebbe infranto in una brusca
e impulsiva confessione ancora prima di aver raggiunto la cucina.
Non è successo. E' andata
ancora peggio.
E' da quando ho aperto
quella porta che non faccio altro che mettere su extra sorrisi ed extra
allegria in ogni cosa che faccio, o dico.
Una farsa fragile che
continua a peggiorare. Un "Non sapevo che fossi tornato!" più acuto del
normale prima che mi racconti di aver sistemato le cose con qualche
giorno di anticipo e di non poter più aspettare di tornare da me; un
altro leggero e casuale "Oh, sì, l'ho tolto per cucinare" con cui
anticipo ogni possibile domanda quando il suo sguardo è scivolato
sull'anello mancante al mio anulare; la mia mente che continua
freneticamente a ripercorrere ogni singola comunicazione che abbiamo
scambiato negli ultimi giorni - sempre brevi, disconnesse dalla
differenza di orario, menzogne su menzogne - per cercare di capire se
mi sono lasciata sfuggire un dettaglio, o una qualsiasi cosa fuori
posto, nella versione che gli ho venduto mentre passavo le notti tra le
braccia di un altro uomo.
Non so cosa mi sia preso,
non riesco a fermarmi. Mi detesto per questo, per quest'altra finta me
stessa che ha preso completamente il sopravvento. Ma non riesco a
fermarmi.
Con la coda dell'occhio,
vedo adesso Elijah avvicinarsi a me. Posa le mani sulla mia vita,
sull'orlo del mio top, e un bacio gentile nell'incavo del mio collo.
"Lo intendo davvero quando
dico che mi sei mancata," mormora piano contro la mia spalla. Chiudo
gli occhi mentre mi bacia ancora, fino alla spallina, il mio respiro si
fa più corto. Mi accarezza i fianchi, la sua voce è roca contro il mio
orecchio. "Dio, Elena, non hai idea di quanto."
Con uno scatto mi sposto
di lato, via dalle sue labbra sulla mia pelle, via da tutto ciò che sa
di vergogna e bugie.
Lui corruga appena la
fronte. "Cosa c'è?"
"Cosa? Niente," si
affretta a dire l'altra me stessa sempre più allegra e sempre più
acuta. Devo dirglielo. Scosto
una ciocca di capelli, il mio cuore batte più rapido. "E' solo che … Lo
sai, è casa di mio padre, sarebbe a dir poco strano mettersi a … lo
sai."
Elijah sorride e si
appoggia contro il bancone. E' bello in questo momento. Con la
stanchezza sotto agli occhi, le pieghe nella camicia e un po' di
disordine tra i capelli, che il viaggio gli ha lasciato. Mi ritrovo a
pensare che mi piace molto di più in questa versione, e subito dopo mi
pento di averlo pensato, non so neanche per correttezza nei confronti
di chi.
Il caffè è pronto, ed
Elijah spegne la macchinetta e lo versa nelle due tazze già pronte sul
bancone.
Me ne porge una. "Mi piace
ciò che hai fatto ai capelli."
"Grazie," farfuglio. Un
respiro profondo. "Elijah, dobbiamo parl …"
"Sai, volevo parlarti di
una …"
Mi blocco quando mi rendo
conto che stiamo parlando nello stesso momento. Lui abbozza un altro
sorriso. Lo faccio anche io, ma il mio viene fuori molto più
innaturale. Mi schiarisco la voce.
"Comincia tu," dico.
Posa il suo caffè, si
avvicina e mi invita a posare anche il mio. Poi prende le mie mani tra
le sue, le accarezza piano, e la mia agitazione cresce in ogni fibra e
terminazione nervosa dove il suo tocco è caldo e familiare ed estraneo
tutto di un colpo. Guarda in su verso di me, con quello sguardo scuro e
intenso che è stato forse la prima cosa che ho amato di lui. Non posso dirglielo.
"Sai, ho pensato molto
nelle ultime settimane. A te, a noi," inizia incerto. "Credo di averlo
sentito che forse qualcosa non andava, ma ho continuato a ripetermi che
tutto sarebbe andato a posto una volta cominciata la nostra vita
insieme, finendo forse per perdere di vista ciò che era davvero
importante. E per questo mi dispiace."
La sincera devozione che
traspare dalla sua voce mi punge il cuore con particolare violenza.
"Elijah …"
"Fammi finire, per favore.
Il punto è … che tu sei importante, Elena. L'unica cosa che per me
conta davvero. Vederti felice, farti felice. E lo so che l'idea di
cambiare città e lasciare il tuo locale ti ha dato così tanti pensieri,
e che chiaramente non è ciò che vuoi, perciò … Non devi farlo. Mi
trasferirò a Mystic Falls. Dovrò solo sistemare un po' le cose con il
lavoro, ma lo faremo funzionare, prometto. Non mi importa dove viviamo.
Basta che sia con te."
Elijah mi guarda, in
attesa. Io sento le lacrime salirmi dietro agli occhi. Ma la mia gola è
asciutta e graffiata, e nessuna parola, neanche il minimo suono, riesce
a risalire e uscirne fuori.
Sobbalzo letteralmente
quando il campanello suona e Louis ricomincia ad abbaiare.
Mi defilo mormorando un
flebile "scusami" per precipitarmi verso la porta - respira, devo dirglielo, non posso
dirglielo, nel breve tragitto dalla cucina all'ingresso.
Impiego qualche secondo
confuso prima di realizzare che mi sono appena trovata davanti Caroline
e Bonnie, in sorrisi abbinati, che mi fanno "ciao" con la mano in piedi
sulla soglia. Istintivamente, la prima cosa che faccio è voltarmi
nervosamente indietro verso la cucina, dove Elijah sta ancora
sorseggiando il suo caffè. A proposito di diverse versioni ad un passo
dall'entrare in catastrofica collisione l'una con l'altra.
Faccio un passo in avanti
e socchiudo la porta alle mie spalle.
"Cosa diavolo ci fate
qui?" sibilo a bassa voce.
I loro sorrisi abbinati si
sfaldano, facendomi sentire uno schifo.
"Cosa diav …" comincia a
ripetere Caroline, incrociando offesa le braccia sul petto. "Cosa
diavolo ci fai tu qui! Sono giorni che cerco di chiamarti, e poi trovo
tuo fratello e mi dice che siete tornati e tu non ci hai fatto sapere
niente?!"
Dio, ha ragione. La lunga
sequenza di messaggi vocali che mi ha lasciato giace ancora ascoltata
ma non corrisposta sotto all'ammasso del mio senso di colpa ("Elena, mi richiami per favore? Ci sono un
paio di dettagli di cui ti devo parlare. Per esempio, ti piacciono le
peonie?"; "Farò un po' di assaggi di menu nei prossimi giorni, avete
delle preferenze? Altrimenti scelgo io, ok? Ok."; "Oh, quasi
dimenticavo. Martedì ci sono da ritirare le fedi in gioielleria. Vuoi
che me ne occupi io?"; "Seriamente, lo devo sapere. Vanno bene le
peonie?"), che torna immediatamente a pizzicarmi contro il
fianco.
"Lo so, mi dispiace, è
solo che …"
"E invece ti nascondi a
casa di tuo padre?" prosegue.
"Non mi sto nascondendo,
io …"
"Cosa succede?" domanda
quindi Bonnie piegando la testa di lato per cercare di sbirciare
all'interno.
"Niente. Niente, è solo
che Elijah è qui ed eravamo nel mezzo di una disc-"
"Oh, è qui?" cinguetta
Caroline, spingendo in avanti il portone socchiuso alle mie spalle e
entrando prima che io abbia il tempo di replicare. "Grandioso! Ho così
tante cose di cui parlare con voi due sposini!"
Non so cosa sia peggio. Se
essere silenziosamente terrorizzata all'idea che uno dei due tra Elijah
e Caroline si lasci sfuggire qualcosa che mandi all'aria le due diverse
versioni che ho raccontato loro riguardo alla mia ultima settimana (pessima bugiarda, direbbe Damon con
il suo sorriso storto, mezzo provocatorio mezzo compiaciuto, e odio che
finisco per pensare a lui anche in questo momento) e continuare a
pregare che la loro conversazione continui a concentrarsi su ogni più
piccolo stupido dettaglio del matrimonio e nient'altro; oppure doverli
ascoltare mentre passano in rassegna ogni più piccolo stupido dettaglio
della cerimonia e sentire l'aria ridursi e farsi più soffocante ad ogni
secondo che passa. Respira.
"Oh, i servizi di catering
sono i peggiori!" sta adesso dicendo Caroline. "Sai quanti ne ho
testati? E non uno, dico uno,
che andasse bene. Voglio dire, quanto mai sarà difficile fare dei
ravioli ripieni all'aragosta con crema di salsa allo zafferano come si
deve? Ci riuscirebbe anche un bambino."
Elijah ride e mi rivolge
un sorriso complice al di là della spalla di Caroline, che gli sta
adesso mostrando tutte le diverse opzioni per i menu. Mi costringo a
sorridere di rimando, poi mi scuso e velocemente mi alzo dalla sedia
per uscire e andare sul portico. Respira.
Bonnie sta sorseggiando
del the freddo seduta sul dondolo, che fa ondeggiare leggermente.
"Ehi," mi sorride. "Scusa
se non sono rimasta. Ma ho dovuto ascoltare le stesse cose per giorni,
conosco ogni dettaglio a memoria ormai."
"Tranquilla, lo capisco,"
dico mentre mi siedo accanto a lei. "Care ha davvero preso la cosa dei
preparativi molto sul serio, non è vero?"
"Puoi scommetterci. Roba
da far impallidire wedding planners professionisti."
Sento un vago colpevole
malessere tornare a chiudermi la bocca dello stomaco, ma Bonnie
continua sovrappensiero.
"Tipo, ti ricordi quando
in seconda elementare ci diedero quel progetto artistico di costruire
casette con i bastoncini del gelato e lei se ne uscì con una villa a
tre piani che è ancora esibita lì nella teca della scuola? Questa è la
versione matrimonio di quella villa."
Corrugo la fronte. In un
attimo, vengo sopraffatta dal ricordo del comportamento strano di
Caroline quella stessa mattina prima che partissi San Francisco, una
stranezza che troppo presa da altro non mi sono più soffermata a
considerare fino a questo momento.
"Bonnie …" dico, cercando
improvvisamente preoccupata lo sguardo della mia amica. "Quello è stato
quando i suoi genitori stavano divorziando."
Il momento in cui i nostri
occhi si incrociano, so che stiamo pensando esattamente la stessa cosa.
Qualcosa non va con Caroline.
Il portone si apre,
lasciando uscire Elijah e Caroline. Mi alzo subito in piedi, mentre
Elijah si avvicina.
"Avremmo dovuto assumerla
prima. Avremmo risparmiato moltissimo tempo e moltissimi soldi," mi
dice piano con lo stesso sorriso complice che mi fa male dentro. Poi,
rivolto a tutte, "Beh, lascio voi ragazze alle vostre cose. A presto."
Non appena Elijah se ne
va, lasciandomi un bacio veloce e la promessa di chiamarmi più tardi - respira - Caroline mi prende decisa
per un gomito.
"Avanti, andiamo."
"Andiamo dove?" domando
disorientata, divincolandomi.
"Abbiamo un appuntamento
alle tre," mi fa sapere controllando velocemente il suo orologio. "E'
per questo che siamo venute a prenderti. Dai, che siamo già un po' in
ritardo sui tempi."
Mi fa cenno con la testa
di seguirla, fissandomi impaziente. Rimango qualche secondo immobile,
indecisa se sia più imprudente seguirla senza fare domande, oppure
contraddirla e cercare di tirarmene fuori. Mi scambio uno sguardo con
Bonnie. Forse la seconda.
Anche se chissà perché ho
la vaga sensazione che me ne pentirò. Soprattutto quando, mentre chiudo
a chiave il portone, Caroline si volta per gettarmi un'occhiata
scettica.
"Hai cambiato i capelli?
Oh beh. Adesso dovremmo iniziare a ripensare pure alle acconciature."
***
"Oh mio dio …" mormora
Caroline, portandosi entrambe le mani sulle labbra. "Sei bellissima."
Le getto un rapido
sguardo. Sotto alle luci piazzate strategicamente agli angoli della
piccola boutique, vedo i suoi occhi luccicare di lacrime, un solo
attimo prima che distolga lo sguardo. Bonnie sorride, accanto a lei.
Invece di commuovermi, un
gusto amaro mi riempie lo stomaco. Deglutisco per scacciarlo, ma
l'unico effetto che ottengo è accentuarlo ancora di più, quando infine
prendo un respiro e mi volto verso lo specchio. L'immagine di una me
stessa fasciata di bianco e seta che mi restituisce mi sembra più
sconosciuta che mai.
Eravamo già a metà strada,
quando Caroline si era casualmente degnata di informarmi che Pearl's
Boutique ci stava aspettando per la mia prova vestito. La bocca mi si
era seccata di colpo, ma il mio gracchiante "Non so se …" era stato
rapidamente messo a tacere.
"Stiamo parlando di
Pearl's Boutique, Elena! Hanno prenotazioni con mesi di anticipo, in
tutte e tre i loro negozi, e io sono riuscita a trovarti un posto in
quello più vicino. Hai idea di cosa ci voglia per trovare posto da
Pearl? Ci vuole Caroline Forbes per trovare posto da Pearl. Per fortuna
che tu ne hai una."
Per fortuna che ce l'ho.
Un altro profondo, lungo
respiro, mentre passo le mani sul corpetto ricamato attorno al mio
busto (chiudo gli occhi e sono le mani di Damon a correre sulla pelle
nuda lungo lo stesso percorso, solo un attimo, svanito appena li
riapro) e sento tutto sotto ai polpastrelli, i delicati intrecci del
ricamo, il mio battito improvvisamente più accelerato del normale. Lo
ignoro, mi concentro sul compito di respirare regolarmente.
Mi volto appena per
controllare l'allacciatura sul retro composta da una fila di piccoli
bottoncini madreperlati che sento tirarmi sulla schiena. Insicura,
domando, "Non è un po' stretto?"
Pearl mi si avvicina, mi
osserva attentamente da ogni angolazione con uno sguardo affinato da
anni di esperienza, tocca il vestito in alcuni punti con movimenti
esperti e misurati.
"E' perfetto," risponde
alla fine del suo esame. "Sembra glielo abbiano cucito addosso."
L'ennesimo respiro più
profondo degli altri mi riempie i polmoni, il mio seno ingabbiato in
uno spazio troppo limitato si contrae in protesta sotto alla stoffa
semirigida.
Più decisa, ripeto, "E’
troppo stretto."
Pearl mi mette le mani sui
fianchi, controlla di nuovo la chiusura e scuote la testa.
"E' leggermente lento qui
sul fianco," prende un centimetro di stoffa tra due dita, lo tira con
delicatezza. "Ma possiamo senza dubbio adattarlo e restringerlo app-"
"Vi dico che è stretto,"
la fermo, facendole alzare sorpresa la testa per la nota acuta che mi
attraversa la voce. "Non riesco a …" respirare,
ma la parola mi muore in gola, perché il mio battito sta prendendo una
velocità impazzita, l'aria non circola come dovrebbe, piccole macchie
nere mi riempiono la testa. "Può slacciarmelo, per favore?"
Pearl sta adesso
osservando confusa le mie amiche, che ricambiano il suo sguardo
disorientato, ma nessuna si decide a fare niente, e invece di
ascoltarmi perdono tempo stando lì a guardarsi, e io ho la precisa,
chiara, terrificante sensazione che morirò asfissiata nel giro di tre
secondi.
Allungo le mani
all’indietro ed inizio a trafficare freneticamente con i bottoni, ma le
dita mi tremano, non riescono ad aprirne mezzo, le macchie nere si
moltiplicano, e il panico esplode annebbiandomi la vista.
"Non riesco a respirare,
per favore, toglietemelo!"
Un paio di mani corrono
veloci verso i piccoli bottoni madreperlati, li aprono in fretta ad uno
ad uno, mentre la mia testa si fa via via più leggera e il mio fiato
più affannoso, finché non sento cedere anche l'ultimo bottone ed io
cedo con lui, crollando in ginocchio in una nuvola di seta e taffettà.
Chiudo gli occhi, con la
stoffa liscia e scivolosa sotto ai miei palmi e il corpetto che pende
lento e aperto dalle mie spalle. Sento il respiro che cerca di tornare
normale, sento il sale in bocca e sento ancora il sapore residuo di
quelle macchie scure e di quella sensazione - istintiva, orribile,
irrazionale - di essere sul punto di morire da un secondo all'altro.
Mi riscuoto quando sento
una mano posarsi sulla mia spalla.
"Elena," mormora Bonnie.
Sollevo la testa e apro
gli occhi, trovandola nello specchio inginocchiata accanto a me.
Caroline è in piedi alle sue spalle, lo sguardo spalancato e in
apprensione.
"Sono stata a letto con
Damon," dico in un soffio. La voce mi si incrina quando arrivo a
pronunciare il suo nome. "Ero con lui. Tutto questo tempo … Non c'era
nessuna Berkeley. C'era Damon. Solo lui."
***
"Ta-daan!"
Caroline
compì un giro completo su se stessa, facendo frusciare la delicata seta
del lungo vestito verde attorno alle sue gambe.
"Sei
splendida," commentammo sia io che Bonnie. E lo era davvero.
Lei
sorrise, si controllò i capelli che aveva appuntato di lato per poi
farli cadere in morbide onde dorate sulle spalle, tastandoli piano con
una mano, ed andò a sedersi davanti al proprio specchio. Iniziò a
picchiettarsi del lucidalabbra sulla bocca con la punta delle dita,
gettando nel mentre occhiate furtive verso il resto dell'ampia stanza
di villa Lockwood riservata alle partecipanti a Miss Mystic Falls, che
gironzolavano nei loro bei vestiti con tanto di madri al seguito
intente ad assicurarsi di fermare le loro acconciature.
Caroline
storse appena le labbra. "Lo sceriffo è troppo impegnata per farmi i
capelli", aveva risposto asciutta all'organizzatrice e regina degli
eventi mondani Carol Lockwood quando era passata a chiederle perché sua
madre non fosse ancora arrivata.
Dal corridoio oltre la porta, vidi Matt
sorridermi e chiedermi con un cenno della testa se volessi scendere di
sotto insieme a lui. Sorrisi di rimando, mossi l'indice nell'aria,
ti raggiungo tra un po'.
Caroline
osservò il nostro scambio, mi lanciò una breve occhiata.
"Quel
ragazzo," commentò, rimettendo a posto il lucidalabbra, "E' adorabile.
E non vede l'ora di toglierti quel vestito di dosso. Perché lo stai
facendo patire così tanto?"
"Non
lo sto facendo patire!" replicai, sulla difensiva.
"Gli
dici che vuoi farci sesso, e poi ti tiri indietro. Per me, questo è
farlo patire."
"Non
mi sono tirata indietro," dissi un po' arrossendo, un po' infastidita.
"E' solo che non abbiamo ancora deciso quando lo faremo, tutto qui."
Lei
sollevò gli occhi al soffitto. "Cosa c'è da decidere? Non devi
scegliere una data, non è mica un matrimonio. E' solo sesso. Lo fai … e
basta."
"Stiamo
solo aspettando il momento perfetto, ok?" ribattei. "E' così sbagliato?"
"Non
è sbagliato," disse Bonnie, lanciando un'occhiata di traverso a
Caroline.
Caroline
sbuffò, alzò le mani in segno di resa. Ma poi il suo sguardo si spostò
al di là delle mie spalle, ed il suo volto prese immediatamente tutta
una nuova e più vivace colorazione. Tornò di scatto a girarsi verso lo
specchio, mentre io gettavo uno sguardo dietro di me.
Stefan
stava guardando nella nostra direzione, prendendo quello che aveva
tutta l'aria di essere un respiro piuttosto nervoso prima di iniziare
ad avvicinarsi.
"C-ciao."
Si
fermò a pochi passi dalla postazione di Caroline. Fece correre una mano
tra i capelli, le infilò entrambe nelle tasche del suo vestito
scuro, cambiò idea, sembrò non sapere cosa farne. Io e Bonnie ci
scambiammo uno sguardo.
"Ciao,"
rispose lei con una lieve tensione nella voce. Si sistemò di nuovo i
capelli, riprese il lucidalabbra e lo riapplicò per quella che doveva
essere ormai la terza volta in tre minuti, modulò il suo tono in un
discreto sforzo di suonare indifferente. "Cosa … cosa ci fai qui?"
"Io
…" Stefan si guardò attorno. "Niente, solo … ero nei paraggi, e … ti ho
visto e … volevo solo dirti, buona fortuna. Cioè, non che tu ne abbia
bisogno. Voglio dire, sei già così … "
Lentamente
Caroline si voltò, inclinò la testa di lato. Lo guardò cautamente, come
per cercare di decifrare se le stesse dicendo qualcosa di positivo
oppure no. Stefan spostò l'attenzione sulla punta delle proprie scarpe,
la rialzò un paio di secondi dopo.
"Insomma,
stai già bene così, tipo i tuoi capelli, sono davvero …" sembrò
pensarci intensamente, "… biondi."
Caroline
increspò le sopracciglia, confusa. Stefan cambiò colore, e non uno
molto lusinghiero.
Incrociai
lo sguardo di Bonnie con la coda dell'occhio, e ci mordemmo entrambe le
labbra per non iniziare a ridacchiare.
Stefan
aprì di nuovo la bocca, ma sfortunatamente o fortunatamente per lui,
Carol Lockwood fece il suo ingresso in quel momento, esortando tutti i
presenti tranne le concorrenti a lasciare la stanza, ponendo fino alla
sua pena. Ci mescolammo anche noi al rumoroso e vivace flusso di
persone, confluendo tutti piuttosto disordinatamente verso le scale.
La
voce frustrata di Stefan mi raggiunse quando fui quasi alla fine della
scalinata, che avevo impiegato una vita a scendere nello sforzo di
bilanciarmi su scarpe dal tacco decisamente più alto rispetto a quelle
a cui ero di solito abituata.
"Quella
cosa di fare complimenti non banali? Guarda che non funziona."
Mi
girai in quella direzione e mi bloccai, non appena notai chi era il suo
interlocutore.
Damon
era lì, due gradini più in basso, in fondo alla scale, la sua figura di
poco più bassa e più sottile di quella del fratello appoggiata con
indolenza contro una colonna, l'accenno di un sorrisetto vagamente
divertito a dare al suo viso quell'irritante espressione strafottente
che, in un solo momento, spedì il mio cuore a piantarsi su nel bel
mezzo della gola - di colpo estremamente indaffarato nel difficile
compito di decidere se essere felice di vederlo o se prendere e correre
da tutt'altra parte.
Stefan
se ne andò, Damon si voltò appena, e i suoi occhi mi trovarono un
secondo dopo. Strinsi più forte il corrimano nel vedere il modo in cui
cambiarono, lo stupore, l'ammirazione e l'incertezza tutti mischiati
insieme nello stesso azzurro chiaro, e quello in cui mi scivolarono
addosso, e la tensione nel suo corpo sotto alla semplice ed elegante
camicia bianca, e la forma delle sue labbra nell'attimo in cui si
schiusero appena.
Il
respiro successivo mi rimase intrappolato nei polmoni, insieme ad un
palpito più frenetico degli altri e ad un nuovo nervosismo che mi
piombarono addosso con una tale forza da farmi quasi dimenticare tutto
il resto intorno a me - la musica delicata, il profumo forte dei fiori,
il chiacchiericcio eccitato - improvvisamente spiazzata da un unico e
destabilizzante pensiero: da quando mi sentivo così di fronte a Damon?
Poi
qualcuno mi urtò il braccio dicendomi di muovermi e togliermi di mezzo,
e in un momento tutto tornò a girare, il mio tacco vacillò, il mio
equilibrio si perse, un altro volante "oh, scusami!" e una ragazza in
un vestito rosa mi spinsero in avanti.
Damon
mi sorresse per i gomiti. Il mio naso si schiacciò contro la sua
camicia. Respirai per un breve secondo il suo odore familiare e fresco,
qualche traccia di menta e qualche traccia di cuoio, e il mio petto si
fece un po' più tiepido e un po' più liquido.
Le
sue mani si scostarono, io mi raddrizzai, lui fece un passo indietro.
Istintivamente,
andai a lisciare la gonna del vestito blu che Caroline stessa mi aveva
prestato, sentendo l'aria condizionata soffiare piano su tutte le zone
che lasciava scoperte - le gambe, l'allacciatura incrociata sulla
schiena, la scollatura a cuore.
"Ciao,"
dissi, buttando fuori un respiro che mi sembrava di star trattenendo da
un'eternità. "Io … non sapevi che saresti venuto."
"Neanche
io." Scrollò le spalle, guardò altrove oltre la mia spalla, con palese
indifferenza. "E' Enzo che mi ha trascinato qui, non resiste davanti
alla prospettiva di cibo gratis e ragazze tutte in tiro."
Annuii
per aggirare la punta di istantanea delusione. Non che avessi davvero
pensato che fosse venuto sapendo di trovare me, ma …
"Ok.
Io …"
"Dovrei
andare," tagliò corto, corrugando le sopracciglia.
Vidi
Matt farmi un cenno qualche metro più in là, e lo seppi istantaneamente
dal modo in cui Damon strinse le labbra che doveva averlo visto anche
lui. La punta di delusione di poco prima venne velocemente rimpiazzata
da qualcosa di molto più indefinibile, molto più graffiante.
"Ci
vediamo in giro."
"Ci
vediamo," mormorai voltandomi a guardarlo allontanarsi, talmente piano
che neanche mi sentì.
***
Entrambe le mie amiche mi
osservano in silenzio. Hanno negli occhi uno strano miscuglio di
cautela e affamata curiosità, come se stessero letteralmente morendo
dalla voglia di inondarmi di domande ma avessero troppa paura di farlo
e rischiare di far scattare una pericolosa bomba ad orologeria.
Ma, del resto, ciò che è
successo poco fa nella boutique di una efficientissima Pearl (subito
pronta ad aiutarmi con delicatezza ad uscire dal vestito, più
preoccupata della sua incolumità che della mia, a portarmi un paio di
bicchieri d'acqua per farmi smettere di tremare, e a metterci tutte e
tre alla porta quando era stato chiaro che non avrei acquistato niente)
non è stato certo uno dei miei momenti migliori.
Così restiamo tutte e tre
in uno strano silenzio per alcuni secondi, attorno al tavolino
circolare di un café all'ombra dei platani proprio di fronte a Pearl's
Boutique, mentre il cameriere ci posa davanti le nostre ordinazioni.
Del succo d'arancia per me, un caffè forte per Bonnie e un cosmopolitan
per Caroline, ordinato dalla mia amica afferrando il ragazzo per l'orlo
della maglietta con un implorante "E ti prego mettici parecchio alcol"
in barba del fatto che siano appena le quattro del pomeriggio.
"Quindi …" dico
tamburellando le dita sul tavolo.
"Quindi direi che adesso
si spiegano parecchie cose," commenta Caroline buttando giù un generoso
sorso del suo cocktail rosa.
Bonnie si sporge in
avanti. "Come abbiamo fatto a non notarlo?"
"Beh, tu eri chiaramente
troppo occupata ad amoreggiare con la tua ragazza, ed io …" Caroline si
ferma quando vede Bonnie spalancare lo sguardo. "Cosa? Pensavi davvero
che non lo sapessi? Oh, tesoro, lo so dal penultimo anno di liceo,
prima ancora di te." Liquida la questione con un vago cenno della mano
e poi torna velocemente a rivolgersi verso di me, mentre Bonnie
nasconde un sorriso timido dentro una sorsata di caffè. "Da quanto va
avanti?"
Giocherello con il
bicchiere. "Da … la notte del Masquerade Ball. Io …"
"Aspetta un momento," mi
interrompe. "Io ero a casa tua la mattina dop… Oh mio dio. Stavi facendo sesso con
Damon quando sono venuta a casa tua?!" domanda in un sibilo acuto che
fa girare un paio di teste dai tavolini accanto.
Non dico niente, ma credo
che il modo in cui guardo in aria e mi gratto distrattamente il retro
della nuca sia già una risposta piuttosto chiara.
"Oh dio," prosegue
tornando ad abbandonarsi contro lo schienale della sedia e a buttare
giù il resto del cosmopolitan. Con il naso ancora arricciato dalla dose
di alcol fa un cenno verso il cameriere di portargliene un altro. "Più
forte questa volta, grazie. Quindi," mi esorta con lo sguardo. "Dicci!"
"Non lo so cosa dirvi,"
dico in un sospiro, posando il mento su una mano. "Dovrei probabilmente
dire che non ne avevo davvero intenzione, che è successo e basta, che
non so cosa mi sia preso, ma …" Faccio oscillare i cubetti di ghiaccio
che stanno già annacquando il succo, e fisso lo sguardo sulle strisce
di luce e ombra che striano le mie dita nude. Penso a quando Damon le
aveva prese tra le sue per sfilarmi via l'anello di fidanzamento,
quella prima notte insieme, al mio cuore che sbatteva impazzito di
possibilità, alla vera linea dove ho smesso di essere solo la fidanzata
di un uomo per essere anche l'amante di un altro. "… Ma la verità è …
che io lo volevo. Dio, lo volevo così tanto. Forse inconsciamente mi
sono detta che se lo avessi lasciato accadere, se fosse stato solo per
una notte, allora avrei potuto smettere di volerlo, scrollarlo via, e
non pensarci mai più … Ma non l'ho scrollato via, e non ho smesso di
volerlo. Mi è solo entrato sotto la pelle ancora di più."
Prendo il bicchiere per
dare un piccolo sorso. "Ma non ha importanza. E' finita adesso."
"Per via di Elijah?"
domanda Bonnie.
"Per via di tutto. Perché
lui è Damon, ed io sono io, e tutto deve sempre essere così …" Scuoto
la testa e deglutisco una consapevolezza che brucia, si avviluppa su
stessa, mi chiude tutto il petto. "In un modo o nell'altro finiamo
sempre per farci del male. A quanto pare, siamo semplicemente terribili
l'uno per l'altra."
"Sei innamorata di lui?"
Sollevo la testa di
scatto, il mio battito si impenna. Caroline ringrazia tranquillamente
il cameriere che le ha appena portato il suo secondo cosmopolitan, poi
mi guarda in attesa da dietro il bordo del bicchiere. Scuoto decisa la
testa.
"Non posso essere
innamorata di lui. Voglio dire, è stato nei paraggi per quanto, tre
mesi? E' tutto così affrettato ed un tale casino che …"
"Elena," mi taglia corto
Bonnie. Piega la testa di lato e mi regala una delle sue occhiate da niente stronzate che ha l'effetto
immediato di togliermi di bocca tutte le parole. "Andiamo. A me Damon
non piace neanche, ma se c'è una cosa che io stessa ho capito di
recente è che puoi raccontarti tutte le scuse che vuoi. Non cambiano
quello che provi."
Mi mordo l'interno della
guancia. Vorrei saperlo, quello che provo. Affondo un cubetto di
ghiaccio con l'estremità della cannuccia.
"Non cambia neanche il
fatto che io mi starei per sposare."
"Oh, ma per favore!"
sbotta tutto d'un tratto Caroline, posando il suo bicchiere con un tale
impeto che alcune goccioline saltano fuori macchiando la tovaglia
bianca. "Sono mesi che trovi ogni scusa possibile per non pensare a
questo matrimonio, o rimandare, o temporeggiare. E da parecchio prima
che c'entrasse qualcosa Damon. Tu non sposerai Elijah. Lo so io. Lo sai
tu. Per l'amor del cielo, c'è davvero ancora qualcuno che non lo sa?"
Alza gli occhi al cielo,
si rituffa in una decisa sorsata del suo cosmopolitan, con la mano
richiama il cameriere. Un altro.
La guardo stupefatta,
presa in contropiede, con la mente che corre veloce a cercare di
trovare una replica, una contraddizione, un'altra scusa - sapendo già
che forse non ne ho più. E forse, non ne ho più da tempo. Corrugo
appena la fronte, mentre il pensiero emerge piano, inevitabile e
stranamente liberatorio, negli attimi di silenzio che seguono.
Il cameriere ritorna,
prende il bicchiere a coppa dal suo vassoio e lo posa sul tavolo
insieme al nostro conto. Bonnie si sporge per intercettare il drink
dalle mani di Caroline appena prima che arrivi a toccare le sue labbra.
"Stai iniziando ad essere
ubriaca."
"Non è vero!" replica
piccata Caroline. "Questi sono a malapena acqua zuccherata."
"Che ti prende, Care?"
"Qui non stiamo parlando
di me," si schermisce l'altra mettendosi sulla difensiva. "Stiamo
parlando di Elena."
"No, Bonnie ha ragione,"
dico incrociando gli occhi ambrati della mia amica, che annuisce
appena. Mi sporgo verso Caroline che serra appena più strette le labbra
e prende un fazzolettino di carta per andare a tamponare le piccole
macchie rosate che ha causato poco fa. Le sfioro leggermente le dita.
"So che sono stata con la
testa da un'altra parte, forse lo siamo state un po' tutte, ma … c'è
qualcosa che non va, vero?"
Caroline incontra il mio
sguardo. Poi quello di Bonnie.
"C'entra per caso Stefan?"
"No. Non c'entra Stefan."
Getta di lato il fazzolettino umido, sospira. Curva appena le labbra,
ma c'è una vaga tristezza nel modo in cui lo fa, passandosi un dito
sotto all'angolo esterno dell'occhio. "Eccetto per il fatto che le cose
stanno andando così bene ultimamente, è anche il nostro anniversario
domani, e lui sta lasciando tutti questi adorabili sottintesi di avermi
preparato una sorpresa, ed io … Ed io non riesco a dirglielo."
Bonnie ammorbidisce la
voce. "Dirgli cosa?"
Caroline increspa appena
le sopracciglia, ci guarda da sotto in su con gli occhi grandi e
lucidi. E poi inizia a piangere.
***
Caroline
vinse, naturalmente.
Splendette
senza sforzo su qualsiasi altra aspirante Miss Mystic Falls. Brillante
nelle risposte, graziosa nel tradizionale ballo vecchio stile, arguta e
commovente nel raccontare il suo attaccamento alla comunità e il suo
modo per dimostrarlo. Ormai chiunque era perdutamente innamorato di lei
quando, alla fine della giornata, Carol Lockwood piazzò sulla sua testa
la sottile coroncina argentata, che Caroline prontamente risistemò a
modo suo nell'attimo stesso in cui la signora Lockwood voltò le spalle.
La
mano di Matt rimase quasi tutto il tempo attorno alla mia vita, le dita
allacciate alle mie, naturale e confortevole e tutto il contrario
dell'irrequietezza pronta a fremermi dentro ogni volta che gettavo
occhiate furtive tra la folla per tenere traccia dei movimenti di
Damon, nella forse impossibile speranza che potessimo avere l'occasione
di parlare, far scomparire tutta questa stupida tensione e tornare
semplicemente ad essere noi.
Ma
Damon era in qualche modo sempre dal lato opposto del prato, o sempre
con Enzo e le ragazze che giravano loro attorno, mezzi sorrisi e
battute e un gusto amarognolo dentro la mia bocca, ed ogni volta che mi
dicevo di prendere e semplicemente andare da lui finivo solo con lo
stringere più forte la mano di Matt, e per non farlo mai.
Così
la giornata passò e il pomeriggio cominciò a sbiadire e la gente ad
andarsene, lasciando spazi vuoti sul prato e nel parcheggio
all'ingresso della villa. Anche Matt se ne era dovuto andare poco dopo
la proclamazione di Caroline per correre agli allenamenti della
squadra, i primi in vista dell'inizio della stagione sportiva tra
qualche settimana, promettendo di chiamarmi in serata.
Io
stessa mi stavo domandando se fosse il caso di restare ancora un po'
oppure tornare al Grill a dare una mano ("Sei pazza?" mi aveva detto
Jenna quella stessa mattina. "Se non ci vai, ti ci trascino io
stessa"), quando Caroline si avvicinò a me e Bonnie con tre calici
frizzanti in cauto equilibrio tra le mani.
"E'
champagne, shhh," ci disse porgendoceli. "Il ragazzo del catering me li
ha passati di nascosto quando nessuno stava guardando in cambio del mio
numero di telefono. Che potrei aver sbagliato di una cifra o due."
"Ne
hai uno da parte anche per me, splendore?" domandò un accento inglese
appena apparso al suo fianco.
Caroline
quasi risputò tutto il sorso dentro al bicchiere, mentre Enzo
proseguiva avvicinandosi al suo orecchio, "Lo sapevo che li avresti
stesi tutti."
"Cosa
ci fai qui?!" La mia amica si voltò bruscamente con un basso sibilo, si
guardò attorno nervosa. "Ti avevo detto di non venire."
"Esatto,
cosa ci fa qui?" mi sussurrò Bonnie, nascondendosi dietro al bicchiere.
"Ho
una teoria," sussurrai di rimando.
Bonnie
mi gettò un'occhiata interrogativa.
"Lui?"
mimò disgustata con le labbra. "Non ci credo."
"…
piaci quando sei tutta prepotente, te l'ho mai detto?"
"Te
ne devi andare! E se …"
"…
se il principe azzurro mi vede con te, vuoi dire?" Enzo fece scivolare
un braccio attorno alle spalle della mia amica e le indicò con la testa
un punto alla nostra destra. "Non vogliamo che diventi geloso, non è
vero?"
Stefan
aveva in effetti appena smesso di ascoltare la persona con cui stava
parlando - qualcuno più grande, qualcuno che aveva tutta l'aria di
essere una delle importanti conoscenze della famiglia Salvatore - per
guardare nella loro direzione, con una faccia che sembrava essere in
preda a del terribile dolore fisico. Sotto al braccio di Enzo,
Caroline si agitò a disagio, apparentemente molto combattuta tra l'aver
ottenuto l'attenzione di Stefan e il pensiero che si stesse facendo
un'idea sbagliata.
"Enzo,
per favore," disse voltandosi con uno sguardo implorante verso il
ragazzo appoggiato comodamente su di lei, "Io …"
Enzo
si sporse per mormorarle qualcosa nell'orecchio. L'espressione di
Caroline cambiò, un lampo di sorpresa ed interesse ad attraversarle gli
occhi, un quasi impercettibile annuire con la testa, e, il momento
dopo, Enzo la stava baciando con fervore.
Sia
io che Bonnie spalancammo la bocca. E mentre Caroline era impegnata a
dimenarsi e cercare di spingerlo via, ed Enzo era impegnato a non
curarsene, ed entrambi erano impegnati a farlo fin troppo teatralmente,
nessuno notò che Stefan si era rapidamente avvicinato, finché con un
deciso spintone non spedì Enzo lontano da Caroline, appena prima di
mollargli un destro dritto in faccia.
Il
calice di Caroline cadde a terra schizzando champagne tutto intorno e
il mio sussulto scioccato si mischiò con quelli delle mie amiche e con
tutti gli altri sobbalzi e mormorii ed educati "oh mio dio" che si
levarono tutto intorno, quando Enzo non perse tempo a replicare ed
entrambi presero rotolarsi sull'erba sotto agli sguardi allibiti e
sdegnati dei presenti.
Io
e Bonnie prontamente accerchiammo Caroline.
"Ci
esci insieme?"
"Ci
vai a letto?"
"Da
quando?"
"E'
una cosa seria?"
"Oh
mio dio, smettetela!" ribatté lei esasperata, gettando un'occhiata
preoccupata verso Enzo che aveva ribaltato le posizioni placcando
Stefan sulla schiena, e stava adesso cercando di scansare le dita
dell'altro che tentavano di afferrargli e graffiargli la faccia. "E non
siate ridicole! Enzo e io siamo solo … amici, ok? Credo. Non lo so.
Diciamo che non è così irritante come potrebbe sembrare. Cioè, lo è, ma
… può essere anche carino, se vuole. E no, non ci vado a letto. E' vero
che ci sono stati alcuni … intensi incontri lingua a lingua all'inizio,
ma … no!"
Con
un'altra occhiata ai due contendenti, Caroline sussultò e si portò una
mano sulla bocca intanto che Enzo schiacciava il palmo della mano
contro il viso di Stefan, tirandogli i capelli, cosa che più di tutte
sembrò farlo infuriare perché in un solo momento Stefan invertì di
nuovo le posizioni gettando l'altro a terra.
Damon
arrivò correndo, si avvicinò a suo fratello e lo tirò via prima che
potesse sferrare un altro pugno. Il capannello di persone che nel
frattempo si era radunato tutto attorno si separò per lasciar passare
il signor Martin, capo della giuria, che utilizzò qualsiasi autorità
quella carica potesse attribuirgli per gridare ai due attaccabrighe di
lasciare immediatamente questo posto.
Enzo
si alzò, con il dorso della mano si pulì un sottile rivolo di sangue
sotto al naso, e senza alcuna fretta camminò verso Caroline. Le rivolse
un sorriso sbieco.
"Mi
ci voleva, una buona scazzottata," disse con un ghigno soddisfatto,
pulendosi un angolo della bocca con il pollice. Indicò con un cenno
della testa verso Stefan, che stava invece cercando di liberarsi della
presa di Damon impegnato a dirgli di calmarsi. "Visto? Te l'ho detto.
Dannato complesso del cavaliere bianco. E' cotto ed è tutto tuo,
splendore."
Caroline
sorrise. Si alzò sulle punte, lo baciò sulla guancia, corse verso
Stefan.
"Cosa
mi sono persa?" mi domandò perplessa Bonnie, guardandosi attorno.
Mi
strinsi nelle spalle. La folla aveva già iniziato a disperdersi di
nuovo, e fu cercando con lo sguardo tra di essa che vidi Stefan, che
aveva già iniziato ad andarsene a capo basso, girarsi al richiamo di
Caroline. Iniziò a parlare, scuotendo la testa e con lo sguardo
abbattuto, ma si zittì quando la neo-eletta Miss Mystic Falls lo
afferrò per la camicia macchiata e spiegazzata, lo tirò a sé e lo baciò.
***
Mi inginocchio per dare a
Louis un'arruffata carezza di saluto sotto al collo, guadagnandomi in
cambio una leccata appiccicosa sulla mano. Abbraccio mio padre quando
mi rialzo in piedi.
"Grazie per avermi fatto
restare qui un paio di giorni."
Stringe un po' più forte.
"Non lo dire neanche."
"Vieni a trovarci, ok?
Prima che Jeremy parta per il college." Lo sento irrigidirsi appena,
così mi sbrigo ad aggiungere, "Ci parlo io."
"Per il momento,
ragazzina," mi dice nel rilasciarmi, "Pensa a prenderti cura di te.
Noi, il resto del mondo, ce la caviamo lo stesso."
Gli rivolgo un piccolo
sorriso e un vago cenno di assenso con la testa, mentre alzo una mano
per ripararmi dal sole forte della tarda mattinata e lo guardo
richiamare Louis e salutarmi un'altra volta prima di tornare verso casa.
Ho impacchettato le mie
cose dopo essere tornata dal mio pomeriggio di ieri con Caroline e
Bonnie. Ho chiamato Jenna per dirle che sarei rientrata oggi. Ho
chiesto ad Elijah di vederci stasera, a casa mia, per essere finalmente
sincera con lui e con me stessa. Non ci sarà nessun matrimonio.
Elijah non si merita di
vivere una bugia, è vero, ma forse, dopotutto, non me lo merito neanche
io.
E fa comunque male, fare
la cosa giusta. Ma questa volta più come un taglio disinfettato, che
come uno nuovo che si apre. E' già qualcosa.
Il mio telefono suona non
appena entro in auto. Guardo incerta il nome sul display.
"Stefan, ehi," rispondo
esitante. Passo il cellulare nell'altra mano mentre mi sporgo per
posare la borsa sul sedile del passeggero. Immediatamente penso a
Caroline, il mio petto si stringe un po', e nella mia voce filtra una
certa preoccupazione. "Cos'è successo, Caroline sta bene?"
Stefan sembra colto alla
sprovvista. "Perché non dovrebbe?"
"Nessuna ragione," mi
affretto a dire. "Solo … perché mi hai chiamato?"
"Ti volevo parlare."
Questa è strana. Stefan
non è il tipo da chiamare tanto per fare due chiacchiere. Tantomeno se
si tratta di parlare con me.
"Di cosa?"
"Sì, certo, mettili pure
lì, li revisiono subito," dice a voce più bassa a immagino qualcuno del
suo ufficio. Poi, rivolto a me. "Preferisco farlo di persona. Quando ci
possiamo vedere?"
"Tra un paio d'ore?" dico.
Un altro telefono suona in sottofondo dal suo lato della linea. "Mi
trovi al Grill."
"Ok, ci vediamo lì.
Scusami, devo andare."
Quando arrivo al locale,
lo trovo già ad un tavolo in un angolo tranquillo.
E' un'ora pigra del primo
pomeriggio, e ci sono pochi avventori nel locale sotto al magro
sollievo delle pale del ventilatore. Il turno di Jenna inizia tra
qualche ora, per cui c'è solo mio fratello che mi fa un cenno di saluto
con la testa mentre finisce di pulire un tavolino.
Vado dritta verso Stefan,
mi siedo di fronte a lui.
Ci ho pensato durante
tutto il mio viaggio di ritorno. Perché se non si tratta di Caroline,
se non è di lei che vuole parlare …. beh, c'è solo un'altra persona che
io e Stefan abbiamo in comune, ed è una di cui, in un tacito accordo
per mantenere le relazioni amichevoli ed equidistanti, tra noi non
parliamo mai. E non so se questo sia davvero il momento più opportuno
per venire meno al nostro silenzio di lunga data sull'argomento.
Stefan solleva gli occhi
dai documenti che sta leggendo.
"Scusami, a quanto pare le
scartoffie non finiscono mai." Li mette da parte, accanto alla brocca e
al bicchiere d'acqua posati sul tavolo, e sorride, ma il suo sguardo
racconta tutta un'altra storia. "Com'era San Francisco?"
Stringo le labbra, incasso
il colpo.
Replico a voce bassa, "Hai
parlato con Damon."
"Intendi mio fratello?"
chiede di rimando, anche se la mia non era una domanda, gettandomi
un'occhiata veloce mentre si versa dell'altra acqua. Al contrario di
me, non si preoccupa di parlare più piano, e non è difficile intuire,
dal suo asciutto tono sarcastico, che lo sta facendo di proposito. "No,
non ci ho parlato. Perché, vuoi sapere come sta? Immagino uno schifo,
dal momento che, lo sai, di solito è così che si riduce dopo che hai
finito con lui, ma … ne so quanto te." Mi rivolge un altro sorriso
tirato che è come un taglio freddo direttamente nel petto. Faccio per
rispondere, ma mi anticipa. "Me lo ha detto Caroline."
Sospiro. "Naturalmente te
l'ha detto. Senti, Stefan, io-"
"Ma ciao, Stefan."
Volto la testa verso la
morbida voce femminile che è appena scivolata nella sedia accanto alla
sua. Stefan chiude gli occhi per un paio di secondi, in quello che ha
tutta l'aria di essere un appello mentale a tutta la pazienza che ha a
disposizione.
"Ciao, Katherine."
Katherine posa il suo
bicchiere colmo di succo scuro sopra il tavolo, con un gesto fluido
sposta i lunghi riccioli bruni dei suoi capelli oltre la spalla, e non
si preoccupa minimamente di registrare la mia presenza. Tira fuori un
pezzo di carta dalla sua borsa di pelle nera.
"Ti cerco da stamattina.
Cos'è questo?"
Stefan a malapena getta
uno sguardo a ciò che Katherine gli sta mostrando. "E' l'avviso di un
avvocato."
"Sì, grazie, questo lo
vedo. Quello che intendevo dire è: cosa diavolo è questa storia che
quello stronzo di tuo fratello non ha intenzione di darmi un centesimo?
Ho dei diritti. Incluso quello ai suoi soldi."
"Dovresti chiederlo a lui."
"Ci ho provato, cosa
credi? Non risponde alle mie chiamate. E … mio dio, questa roba fa
schifo, che diavolo è?" esclama con fare disgustato mentre riposa il
bicchiere sul tavolo.
"Quello è il nostro succo
al mirtillo biologico," replico infastidita.
"No, mia cara, quello è
ciò che io ho ordinato. Questa roba sa di fogna. Ad ogni modo," lo
allontana da sé schifata, neanche potesse saltarne fuori un topo da un
momento all'altro. Alzo gli occhi al cielo e faccio uno sforzo immenso
per mordermi la lingua e non prendere il bicchiere e rovesciarglielo
addosso. "Digli solo, Stefan, che finora sono stata ragionevole, molto
ragionevole. Non vuole davvero vedermi incazzata. Lui sa cosa
significa."
Katherine si riprende il
suo avviso, la sua borsa e si allontana con una camminata da gatta che
fa girare parecchie teste dentro al bar. Stefan affonda un po' di più
nella sedia, si passa una mano tra i capelli con uno sbuffo frustrato.
"Che ci fa lei ancora
qui?" domando indicando la direzione verso cui Katherine se ne è appena
andata.
"Si aggiunge alla lista di
tutte le cose per cui un giorno Damon dovrà ringraziarmi e ringraziarmi
a dovere," sospira.
Rialza lo sguardo, mi
osserva in silenzio alcuni secondi. Sembra combattuto.
"Ci tieni a lui?"
"Certo che ci tengo,
Stefan!" rispondo senza esitazione. "Pensi davvero che-"
"Allora non dirlo ad
Elijah."
Sbatto le palpebre
confusa. Non sono certa di aver capito bene.
"Almeno non per un altro
po'. E' un momento delicato per la nostra compagnia, abbiamo messo in
moto un po' di cose e siamo nel bel mezzo di un'operazione rischiosa, e
se Elijah viene a sapere o anche solo sospetta qualcosa su voi due e
decide di rifarsela su Damon, potrebbe andare tutto a puttane. Non
posso permettermi un tale rischio. E neanche Damon."
Lo guardo stupefatta. Non
sta dicendo sul serio.
"Sono a conoscenza della
vostra piccola macchinazione," dico, con una punta di fastidio. "Ma
questa è la mia vita. Non sono una pedina nei vostri giochi di affari."
"Elena, per favore. Una
settimana, è tutto quello che ti chiedo."
"E poi cosa, gli dico che
sono andata a letto con colui che gli ha appena fatto perdere il
lavoro? No, Stefan. Non posso farlo."
"Ok, allora."
Prende qualcosa dalla
valigetta porta documenti che ha appoggiato distesa sopra il tavolo e
me lo mette davanti. E' una cartelletta piuttosto anonima, con alcuni
fogli al suo interno. La osservo con sospetto.
"Che cos'è?"
"E' il motivo per cui te
lo sto chiedendo. Naturalmente puoi fare ciò che vuoi, e lo capisco,
non te ne farei una colpa. Ma sono convinto che dopo aver visto questo
mi farai questo piccolo favore, lasciandomi fare ciò che devo fare per
riprenderci la compagnia di nostro padre."
"Stefan," ripeto. "Che
cos'è?"
"E' il motivo per cui
Damon non è più tornato a Mystic Falls. In caso te lo fossi mai
chiesta."
Disorientata, scatto con
lo sguardo verso di lui. Stefan mi fissa in attesa, aspettando una mia
mossa o una mia replica.
Ma io non faccio niente.
Non prendo ciò che mi sta davanti, non so cosa dovrei dire.
Allora Stefan si alza e
raccoglie tutte le sue cose, tutte tranne quella. Beve l'ultimo sorso
d'acqua, mi fa un cenno di saluto ed esce dal locale, lasciandomi sola
con le mie improvvise mille domande e una risposta che non so se voglio
avere.
***
Feci
scorrere tra le dita la catenina d'argento attorno al mio collo fino a
tirarla a segnarmi la pelle, avanti e indietro, avanti e indietro.
Forse non avrei dovuto venire qui. Mi alzai e andai verso la finestra,
per sbirciare verso l'ultimo stralcio di rosso nel cielo basso al di là
della collinetta e l'avanzare della penombra violetta che precede la
sera. Altri dieci minuti e me ne sarei andata.
I
tacchi dei sandali iniziavano a farmi seriamente male, e non vedevo
l'ora di uscire da quel vestito troppo stretto e troppo corto e tornare
alle mie converse, ma era stata una decisione piuttosto impulsiva
quella di venire fin qui dopo Miss Mystic Falls e un cambio di scarpe
non lo avevo contemplato.
Dopo
aver perso Caroline in favore delle braccia di Stefan, avevo declinato
la proposta di Bonnie di tornare insieme a lei e a sua nonna,
preferendo andare a piedi. Ma era stata solo una scusa per fare un
altro giro attorno a villa Lockwood e cercare Damon in un tentativo
dell'ultimo minuto di trovare quell'occasione per parlarci che mi ero
lasciata sfuggire tra le dita durante tutto il giorno.
Solo
che Damon se ne era già andato.
E
mentre mi appoggiavo contro un albero a massaggiarmi una caviglia
tormentata dalle scarpe, uno spaventoso pensiero mi aveva colpito. Era
così che sarebbe stato d'ora in poi? Io e Damon intenti a gravitare a
soli pochi metri di distanza stando attenti a non parlarsi e a non
sfiorarsi, ancora e ancora e ancora, fino a che una parte così
importante della mia vita non sarebbe diventato altro che un perfetto
estraneo ed io lo avrei perso per sempre. Il buco nel mio petto mi era
sembrato così abissale, così irrimediabile, che l'attimo dopo stavo
risalendo la strada privata dei Salvatore con i tacchi in una mano e le
punte dei piedi affondate nell'erba bassa e tiepida che costeggiava il
bordo strada.
Non
avevo davvero realizzato quanto mi fosse mancato uno spazio pieno di
Damon fino a che non avevo aperto piano la porta - l'odore, la
disposizione delle cose, alcuni nuovi cd aperti sopra il tavolo. Tutto
sembrava così al posto giusto che, almeno per un momento, davvero
pensai che sarebbe tornato al posto giusto anche tutto il resto.
(Crown
of love, Arcade Fire) [1]
Mi
voltai come sentii la chiave nella serratura e il leggero cigolio della
porta, precipitandomi ad andargli incontro. Ma niente sembrava giusto e
tantomeno al suo posto quando, avvicinandomi all'arco che si apriva
sull'ingresso, lo sentii ancora prima di vederlo.
I
respiri smorzati e il maldestro inciampare contro il mobilio, e la
ragazza dai capelli biondo ramato che cadeva sul divano con Damon sopra
di lei.
Un
sapore orribile a metà tra nausea e rabbia irrazionale mi avviluppò lo
stomaco. Quella stessa piccola, egoista, parte di me che solo qualche
giorno prima aveva segretamente respirato di nuovo alla notizia che
fosse finita tra lui e Michelle, non aveva pensato che l'altro lato
della medaglia potesse schiaffeggiarla in faccia così presto e così
crudelmente.
Era
la stessa parte che avrebbe voluto gridare, quando Damon fece scivolare
una mano sotto la maglietta della sconosciuta, e piangere, mentre lei
offriva il collo che Damon leccò giù e giù e giù, ma imbottigliò tutte
le lacrime, tutte le grida e tutta la furia che non avrebbe dovuto
provare, troppo stordita per emettere un solo suono.
E
poi la ragazza con il collo arcuato aprì gli occhi, incontrò i miei, si
immobilizzò. Ed anche Damon si immobilizzò, alzando lo sguardo e la
bocca dal seno della ragazza, più pallido tutto di un tratto. Si tirò
su, guardandomi smarrito.
"Cosa
diavolo ci fai qui?"
Deglutii
altra rabbia e altre lacrime e corsi verso l'uscita. Ma Damon si alzò,
mi afferrò per un polso e mi fermò, e l'unica cosa che io riuscii a
fare per non cedere al putiferio dentro che mi aveva avvelenato lo
stomaco fu riversarlo tutto nel tentativo di strattonarmi e svicolarmi,
anche se lui mi riacciuffò tutte le volte.
Mi
bloccò entrambe le mani, fece un passo avanti e fui costretta ad alzare
lo sguardo sul suo volto. Fissò gli occhi nei miei. Non li avevo mai
visti così furenti. Almeno, non con me.
"Non.
Farlo," scandì lentamente.
"Seriamente?"
sbuffò incazzata la ragazza che era con lui, tirando su una spallina
del reggiseno e riprendendosi la borsa dal pavimento. "Non avevi detto
di avere la ragazza, stronzo!"
Damon
non distolse lo sguardo dal mio. Una mano mi tremò, stretta nella sua.
"Non
ce l'ho."
"Come
ti pare," replicò lei. Ci passò accanto e tirò violentemente a sé la
porta. "Stronzo."
Il
portone sbatté alle mie spalle abbastanza forte da farmi sussultare.
Damon mi lasciò andare, in un moto amareggiato.
"Non
le vai dietro?" domandai caricando la mia voce di sarcasmo, anche se
venne fuori leggermente tremante della stessa rabbia impulsiva che
ancora sentivo pomparmi nelle vene.
"Cosa
ci fai qui?"
A
quante altre aveva baciato la pelle come aveva fatto con me? Forse più
dolcemente, forse più appassionatamente. Strinsi la mano fino a
conficcarmi le unghie dentro al palmo.
"Forse,
se ti sbrighi, riesci a trovare qualcun'altra. Tanto non la trovi
sempre?"
La
sua voce si fece meno paziente. "Cosa. Ci fai. Qui?"
Volevo
piangere. Le lacrime mi bruciarono la gola.
"Vai
al diavolo, Damon."
Mi
voltai e posai la mano sulla maniglia. Ma Damon posò la sua sulla
porta, ed io non ci provai neanche ad aprirla. Per alcuni secondi
davvero molto lunghi, restammo entrambi immobili e in silenzio, il mio
sguardo fisso sulle dita che tremavano sopra la maniglia, il suo
braccio accanto alla mia testa, e il suo volto così vicino da sentire
il suo respiro soffiarmi piano tra i capelli.
"Devi
smetterla di fare così," disse piano, in un sussurro che sembrò
costargli molta fatica. La sua mano scivolò più in basso lungo il legno
della porta, lentamente, e sentii i suoi occhi sul mio volto. "Entrambi
… dobbiamo smetterla di fare così."
"Fare
cosa?" domandai, con le lacrime che premevano insistenti dietro agli
occhi. "Parlarci? Vederci?"
"Questo,"
mormorò lui, sfiorandomi appena i capelli con le punta delle dita. "Tu
che ti presenti qui. Io che te lo lascio fare."
"Mi
hai sempre detto di venire quando voglio."
"E
adesso non penso che dovresti farlo."
"Perché?"
"Cazzo,
Elena."
Si
allontanò da me con uno scatto frustrato. L'aria sembrò più fredda, lo
spazio più vuoto. Lo cercai con lo sguardo.
"Perché
è più importante portarti a letto ragazze a caso quando ti pare e
piace?"
Alzò
un angolo delle labbra in un mezzo sorriso amaro. "Pensi davvero che
sia di quello che mi importi?"
"Non
lo so, c'è qualcosa di cui ti importa?"
Qualcosa
vulnerabile gli balenò negli occhi, e il mio cuore si contrasse. Si
avvicinò, esitò un secondo. Posò piano entrambe le mani attorno al mio
viso, cercandomi con lo stesso sguardo incerto e fragile. Io smisi di
respirare.
"Te."
Mosse appena i pollici per accarezzarmi il profilo del viso, con la
delicatezza di chi ha davanti ad una creatura selvaggia pronta a
balzare via al minimo gesto troppo brusco. "Mi importa di te."
Posai
le mani sulle sue, le strinsi strette nelle mie.
"E
a me di te," risposi con slancio. "Non ce la faccio a stare così, non
lo capisci? Ho bisogno di averti nella mia vita."
Damon
sfilò le mani dalle mie, sottraendosi al mio tentativo di impedirglielo
aggrappandomici più forte.
"Come
amico, giusto?"
Lo
guardai senza capire. "E' quello che siamo."
"No,
no che non lo è," ribatté con forza. "O non sarebbe così fottutamente
doloroso ogni volta che ti vedo con Donovan. Non mi farebbe uscire di
testa lo starti vicino e il non starti vicino e tutto ciò che diavolo
ci sta nel mezzo. E tu non saresti qui, a scalciare e incazzarti ad
ogni mio stupido, patetico tentativo di toglierti dalla mia testa."
Abbassò la voce, più dolce, più roca, e tese una mano per scostarmi i
capelli dal volto, "Non lo è, e lo sai anche tu. E io non posso
continuare così, Elena, perché …" Prese un respiro. "Io-"
"Smettila,"
lo fermai con il battito troppo forte e la voce troppo acuta. "Non
farlo, non …"
Il
suo sguardo si frantumò. "Perché no?"
"Non
possiamo semplicemente far tornare le cose a come erano?"
"No!"
replicò. "E se non vuoi sentirmelo dire, va bene, ma ho smesso di far
finta che mi stia bene, o che non sia così! Ho smesso di giocare a
farti l'amico per starti attorno, quando fa solo un male cane. Ho
chiuso."
Fu
peggio di uno schiaffo. Lo fissai disorientata, cercando nel suo volto,
nella sua espressione, un segno, uno solo, che non stesse dicendo sul
serio, ma quando feci un passo verso di lui, Damon ne fece uno
indietro, come se potesse ustionarsi con la mia sola presenza.
Il
sale delle lacrime mi riempì la bocca.
"Damon,
per favore, non farmi questo," lo implorai con un filo di voce.
Ci
fu un lampo di sofferenza nel suo sguardo che quasi scambiai per
incertezza. Ma poi serrò più stretta la mascella e allungò la mano
verso la porta.
"Non
cercarmi più, Elena," prima di sbattersela alle spalle
***
Mi era
sempre piaciuto l'odore del giacchetto di Matt. Sapeva di bucato e
pulito e semplicità, ed affondare il volto lì, tra il bavero e il suo
collo, era una delle cose che amavo di più.
Ed
era stato sempre lì che avevo affogato le lacrime e smesso di piangere
appena una ventina di minuti prima, rannicchiata nello spazio tra i
sedili del pick-up, con la leva del cambio sotto al ginocchio sinistro
e il mascara sbavato a rovinare il colletto dall'odore di bucato, una
lite con mio padre raccontata come scusa per coprire il vero motivo del
mio stato, qualcosa che non avrei mai potuto raccontargli e che
soprattutto non avrebbe mai potuto capire.
Avevo
perso Damon. Davvero. Del tutto. Per sempre. Aveva dovuto rovinare
tutto, ed io lo odiavo per questo, andando a parlare di …
No, ero io ad aver rovinato tutto. E lui
ad odiarmi per questo.
Non ti odia. Tutto il
contrario.
E non lo odi nemmeno tu.
Matt
strinse il braccio attorno alle mie spalle, io chiusi gli occhi dentro
alla sua pelle, ed il buio si fece quasi totale. Posò le labbra sulla
mia testa ed io strofinai il naso nel suo collo. Un bacio nella parte
più calda vicino al suo orecchio, solleticata dai suoi capelli. E lui
sulla mia guancia. Ed io sulla sua mascella.
Era
una bella sensazione. Calda e dolce e beatamente lontana da tutti i
tagli che la nuova assenza di Damon aveva aperto, freschi, irregolari,
e maledettamente dolorosi. Perché lo odiavo. E tutto il contrario.
Scivolai
con le gambe su quelle di Matt, circondai la sua vita, infilai le dita
tra i suoi capelli e la lingua nella sua bocca. Davvero una bella
sensazione. Bastava perdersi nel modo in cui le sue mani risalivano
accarezzandomi le cosce, nel calore crescente tra le gambe, e far
scomparire la persona in grado di dilaniarmi il cuore e il cervello.
Ogni stupido e patetico
tentativo di smettere di pensarti.
No, non era così. Io amavo questo ragazzo
con il fiato corto e le mani sotto la mia gonna, questo ragazzo dolce e
gentile che non mi avrebbe mai mandato il cuore in pezzi. Io non ero
come lui. Che odiavo. E tutto
il contrario.
Portai
le mani tra i nostri corpi, gli slacciai la cintura. Matt tirò giù la
zip del vestito blu, mi baciò lungo il collo.
"Hai
i preservativi?" mormorai respirando più affannosamente.
Si
fermò. Alzò il volto per cercare di scrutarmi al di là penombra scura,
aggrottando la fronte. Sentii le guance farsi più calde, ma il buio era
abbastanza da nasconderlo.
"Pensavo
che volessi … " Fece scorrere una mano lungo il mio braccio. "Pensavo
che volessi aspettare che i miei se ne andassero per quel weekend tra
un paio di settimane, avevamo detto che avremmo potuto avere la notte e
la mia camera tutta per noi … Ricordi?" sorrise. "La sera perfetta?"
"Non
mi importa," dissi prendendogli il volto tra le mani. Abbassai lo
sguardo e, solo per un momento, mi sentii sul punto di piangere di
nuovo. "Non mi importa niente di tutto quello."
***
Ho perso il conto, di tutte
le volte in cui l'ho fatto.
Prendere in mano ciò che
mi ha dato Stefan, posarlo di nuovo sul tavolino di fronte a me.
Intatto, neanche una sbirciata a ciò che contiene.
E' stato facile durante il
giorno. Bene o male, ogni volta sono riuscita a distrarmi con un caffè
da versare, un ordine da fare, un fornitore da chiamare. Lasciando
l'anonima cartelletta lì a sbucare indiscreta dal bordo della mia borsa.
E' meno facile adesso, nel
soggiorno di casa, quando c'è un limite al numero di volte in cui posso
ripetere questo assurdo mordi e fuggi senza sembrare completamente
pazza.
Non so cosa mi trattenga
dall'aprirla e scoprire cos'è che Stefan è così sicuro possa
convincermi a mentire deliberatamente al mio ignaro fidanzato e
tradirlo in un modo forse ancora più crudele. Se si tratti solo di ciò
che contiene (che cosa hai fatto,
Damon?) o dell'idea che Stefan possa avere ragione, e che per
Damon piegherei la mia morale ancora una volta.
Porto il volto tra le mani
e cerco di pensare, anche se non è qualcosa su cui ci sia poi molto da
ragionare.
E' solo un gran casino.
Il campanello suona. Getto
un'occhiata all'ora, e vedo che Elijah è in anticipo di almeno una
ventina di minuti. Velocemente, metto tutto via infilandolo in mezzo ad
alcune riviste musicali di Jeremy lasciate disordinatamente sopra il
tavolino e scatto in piedi.
Prendo un respiro
profondo, mentre apro la porta.
Ma non è Elijah.
E' Caroline in un bel
vestito rosso, con quel sorriso impacciato che le viene fuori quando
non sa più come trattenere le lacrime, e scuote la testa, e si passa le
mani tra i capelli, e scoppia in singhiozzi convulsi e sconnessi non
appena la abbraccio.
"E' finita. Con Stefan, è
finita."
——————————————————————————
Note:
[1] In uno dei
primi capitoli, Damon dà un cd ad Elena, ed era per l'appunto Funeral degli Arcade Fire, che
contiene anche questa canzone. A me fa male, quindi magari se non la
conoscete ve la ascoltate e farà male anche a voi. You're welcome.
Spazio autrice
Mi perdonate il ritardo
abissale?... Mi dispiace davvero tanto di averci messo così tanto ad
aggiornare e a rispondervi (che farò, stasera e nelle prossime, intanto ci tenevo a
fiondarmi a casa dopo lavoro e darvi in pasto questa cosa qua), e mi
piacerebbe poter dire che impiegarci così tanto è stata una cosa una
tantum, ma mi sono resa conto che questi capitoli, essendo quelli che
portano alla fine, richiedono semplicemente più tempo per essere
scritti, con tutti i pezzettini che ci sono da incastrare e far andare
al loro posto.
Quindi mi appello alla vostra
pazienza e alla vostra magnaminità anche per quelli che verranno.
Grazie a It's gonna be
Damon per la pubblicazione
delle anteprime; grazie alle mie adorabili "editrici" per revisionarmi
i capitoli di tutte le sviste; e grazie, come sempre, il più commosso,
a tutte voi, mai avrei sperato di trovare lettrici così appassionate.
Grazie per avermi supportato fin qui e per continuare a farlo.
un bacio, e a presto
ever
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Capitolo 22 *** Accidental babies ***
21
21.
Accidental
babies
- Do you come together ever with him?
And is he dark
enough, enough to see your light? […]
And I
know I make you cry
I know
sometimes you wanna die
But do you really feel alive without me?-
(Damien Rice, Accidental Babies)
Damon
Ho circa trenta chiamate perse. Quarantadue messaggi non letti, e
venticinque inascoltati nella segreteria vocale. Innumerevoli email non
aperte.
Una sola risposta per tutti.
Fanculo.
Ecco la portata delle mie
interazioni con il mondo esterno durante gli ultimi … diavolo, non lo
so, qualcun altro faccia il conto.
Le cose non vanno poi così male,
da quando Elena se ne è andata.
Ho trovato un paio di bottiglie
quasi piene di ottimo bourbon e un mezzo pacchetto di sigarette
lasciato in giro vai a sapere quando da qualche dimenticabile avventura
da una notte e via. Basta aggiungerci qualche consegna a domicilio 24
ore su 24 per ogni volta che il mio stomaco mi ricorda che devo
metterci dentro qualcos'altro oltre a liquidi piuttosto infiammabili, e
la pace dei sensi è servita. L'unica vera scocciatura è stata quella di
infilarmi il primo paio di jeans e maglietta trovati sul pavimento per
andare a rifornirmi di nuove scorte quando sia il bourbon che le
sigarette sono finite. Che credo sia stato piuttosto presto. Anche se
la cosa mi ha fatto guadagnare cinque dollari da una impietosita donna
di mezza età fuori dal mini-market, che deve avermi scambiato per un
senzatetto o robe simili. Chi sono io per protestare.
Rovescio all'ingiù il mio nuovo
pacchetto di sigarette, ma niente ne esce fuori. Merda. Non ho
intenzione di fare la fatica di uscire un'altra volta.
Sto ancora controllando se per
caso non ci sia un'ultima maledetta sigaretta sul fondo che gioca a
nascondino, quando qualcuno entra nel mio appartamento. Non guardo chi,
troppo impegnato a scandagliare il pacchetto in cerca di un indizio.
"Avrei potuto essere un ladro,"
dice Ric appoggiandosi contro la soglia.
Scrollo le spalle. "Non lo sei."
Mi arrendo e getto il pacchetto
vuoto sul tavolo di fronte a me. Lo manco completamente. Però era un
tiro piuttosto difficile, considerando che sono seduto sul pavimento e
che la mia testa sta ancora nuotando nei dolci e nauseanti effetti
della mia dieta bourbon-e-nicotina.
"Ti serve qualcosa?"
"Sì, cazzo di coglione, tirarti
fuori da questo tuo festino di autocommiserazione."
"Sto bene," rispondo con la voce
rauca di troppo fumo. "Ho solo avuto un paio di giornatacce."
"Lo sai che giorno è?"
"Martedì?"
"Venerdì."
"Cazzo."
Ric mi passa davanti,
scavalcando le mie gambe distese, per andare ad aprire la finestra.
"Sei ridotto uno schifo. Penso
che ci sono case di confraternite in condizioni migliori. E quello è …"
Ric getta uno sguardo inorridito verso la tv accesa su cui sono
concentrato, che emette una delicata musica di sottofondo. "… balletto classico? Cristo santo,
Damon."
Appoggio la testa all'indietro
contro la base del divano, mi stringo nelle spalle. Ric sospira e viene
a sedersi sulla poltrona accanto, si sporge in avanti con i gomiti
sulle ginocchia, e per un lungo momento restiamo entrambi in silenzio,
a guardare il cazzo di balletto.
"Fammi indovinare," dice
corrugando la fronte perplesso mentre un tizio fa una perfetta piroetta
per aria. "Se ne è andata."
Non rispondo. Faccio leva con
una mano sul pavimento e mi alzo in piedi, ricacciando indietro
l'ondata di nausea che mi minaccia lo stomaco nell'attimo in cui mi
devo riabituare alla gravità e alla postura verticale. Vado a prepare
del caffè che magari riesce a farmela passare completamente. Mi ci
vuole uno sforzo industriale per azzeccare la posizione del filtro, che
continua a non entrare come dovrebbe.
Ric non molla. "Cosa è successo?"
"Lo hai detto tu. Se ne è
andata. Ha mollato. Fine della storia. Questa cazzo di cosa non
funziona," sbotto dando una manata alla maledetta macchina da caffè. Il
filtro traballa, ma resta sempre storto.
"Tornata dal fidanzato?"
Piego le labbra in una smorfia.
Non ho davvero intenzione di farlo, stare qui a domandarmi cosa faccia
o non faccia Elena, ma prima di potermi fermare, sono già con lo
sguardo fisso sulle mattonelle a riflettere sulla cosa. Se so una
cosetta o due riguardo ai tormentati sensi di colpa di Elena, a
quest'ora dovrebbe già aver vuotato il sacco, quindi c'è una discreta
possibilità che per il suo fidanzato il bentornato non sia stato dei
migliori. D'altra parte però, il caro vecchio Elijah ha tutta l'aria di
essere uno di quei cazzo di tipi che sono tutti compassione e perdono e
bla bla bla, da grande uomo quale è, quindi alla fine chi diavolo lo
sa. In ogni caso, fidanzato o no, non cambia il fatto che mi ha
lasciato con nient'altro che una telefonata dall'aeroporto ed un
inutile "mi dispiace" che neanche ci sarebbe stato se non l'avessi
chiamata io.
Scrollo le spalle. "Ha
importanza?"
"Sai cosa non capisco," prosegue
Ric alzandosi per raggiungermi in cucina. Adesso che ci prova lui, la
macchina da caffè parte senza problemi, piccola merdina traditrice che
non è altro. "Sei qui mezzo ubriaco, con una barba di quattro giorni e
la tua migliore faccia scazzata. E questa ragazza chiaramente significa
tanto per te. Eppure," incrocia le braccia sul petto e si ferma ad
osservarmi. "In cinque anni in cui abbiamo condiviso più whiskey e
confessioni notturne di quanto i nostri fegati dovrebbero sopportare,
non l'hai mai menzionata una sola volta. Perché?"
Ingoio un fastidioso grumo che
mi raschia la gola peggio dei due pacchetti di Marlboro che ho
svuotato.
Non mi piace dire cazzate ad
Alaric. E' una di quelle poche cose che mi fanno davvero
sentire in colpa, e poi tanto il bastardo non se le beve mai in ogni
caso. Ed è vero, che Elena è sempre stato un argomento da cui ho
preferito girare alla larga - sia perché dimenticarla una volta è già
stata una delle cose più fottutamente difficili che abbia mai dovuto
fare, sia perché in ciò ho chiaramente fatto schifo dal momento che …
Beh. Sono qui.
Ma l'ultima cosa che voglio fare
in questo momento, o in qualsiasi altro a venire, è stare qui a
raccontare di Elena, discutere di Elena, pensare ad Elena - per non
parlare di tutto quel capitolo che si porta dietro e che, no grazie,
sta bene lì chiuso dove sta.
"Non c'era niente da dire."
"Certo …" annuisce Ric
sarcastico, porgendomi una tazza di caffè che fa fare le fusa al mio
stomaco martoriato.
Sta per aggiungere qualcosa, ma
il mio telefono suona. Di nuovo.
"Odio questo cazzo di telefono,"
biascico mentre mi allungo sul tavolo per prenderlo, dibattendo
internamente se sia il caso di spegnerlo una volta per tutte (e se
fosse Elena a chiamare, dice
la patetica tormentosa vocina dentro la mia testa ogni volta che mi ha
attraversato il pensiero di farlo - e che non l'ho fatto mai) o usare
chiunque mi stia rompendo le palle questa volta come scusa per troncare
lì le domande troppo ficcanaso del mio migliore amico.
Perciò, per un paio di secondi,
rimango imbambolato come un idiota a guardare il display, preso alla
sprovvista dal nome che compare. Questa sì che è una novità. Corrugo la
fronte e poi, lentamente, rispondo.
"Si è congelato l'inferno per
caso?" domando. "Non riesco a pensare ad altri motivi per cui a te possa venire in mente di
chiamare me."
"Sei ubriaco?" risponde
scocciata l'altra voce dall'altro lato della linea. "Hai la voce da
ubriaco."
"In pieni postumi." Prendo un
sorso di caffè. "Che si dice, Bonbon?"
"Non chiamarmi in quel modo."
"Troppo intimo?"
"Decisamente troppo intimo."
"Che succede?"
"E' per …" La piccola
rompiscatole esita un attimo. "Tuo fratello."
Mi immobilizzo con la tazza a
tre centimetri dalla bocca. Per un orribile momento, tutte quelle
chiamate perse pesano come sassi, dritti sul mio stomaco.
"Cos'è successo a mio fratello?"
"Lui e Caroline si sono
lasciati."
"Aspetta …" Aggrotto la fronte,
poso la mia tazza. Sicuramente non ho capito bene. L'inferno che si
congela era davvero un'alternativa più probabile. "Cosa? … Perché?"
"Non posso … dirlo."
"Che cazzo vuoi dire, che non
puoi dirlo? Sei tu che hai chiamato!"
"Quello che voglio dire è che
Care è la mia migliore amica e che non sta a me … Senti, è solo che
sono passata da casa vostra a prendere alcune delle cose di Caroline, e
mi è sembrato piuttosto distrutto, e lo so che probabilmente non sono
affari miei, ma ho pensato … Non lo so, non lo so se sistemeranno le
cose, ma magari … ha bisogno di te." Bonnie fa una pausa, quasi dovesse
prendersi un attimo per riaversi dallo shock di aver appena fatto una
cosa carina per me. "Tutto qui."
"Lo … apprezzo," rispondo
titubante. C'è un imbarazzante mezzo momento di silenzio, mentre penso
a cosa dirle. "… Grazie?"
"Grazie? Era una domanda?"
ribatte mezza offesa. "Certo che sei un bel tipo."
"Me lo dicono spesso."
Bonnie chiude la chiamata, io mi
rigiro il telefono tra le mani.
Ric mi getta uno sguardo
interrogativo. "Cos'è successo?"
Sospiro. "E' successo che i miei
eccitanti piani per il week-end sono appena andati a farsi fottere."
***
Chevrolet Camaro convertibile del '67, struttura e pezzi di ricambio
originali, sedili in pelle, colore Blu Marina. Prezzo: 11.200 dollari.
Trattabili.
Un cazzo di
regalo praticamente, per cui il mio cuore sanguinava ad ogni nuovo
volantino che lasciavo in giro.
Quella
era la mia macchina.
L'avevo trovata ridotta a poco più che uno scheletro, pagata 4.300
dollari (e quello sì, che era stato un cazzo di furto), rimessa a nuovo
nei successivi sei mesi con ogni straccio di centesimo risparmiato. E
ora la stavo dando via a meno del sessanta per cento del suo valore.
Monetario, s'intende, quello sentimentale neanche volevo mettermi a
calcolarlo.
Ma avevo
bisogno di quei soldi, adesso più che mai. Tra mio padre che aveva
messo in chiaro che dovevo andarmene di casa se non ero intenzionato a
fare come diceva lui, e il bisogno bruciante di fare qualcosa,
qualsiasi cosa, pur di non dovermi torturare dietro alla ragazza che
era stata l'unica vera ragione per cui avevo rimandato una decisione
fin troppo a lungo, il bus in direzione New York che avrei preso con
Enzo di lì a pochi giorni sembrava non arrivare mai abbastanza in
fretta. Anche se prendere quel bus voleva dire dissanguarsi sopra a
quei cazzo di volantini.
Qualche
metro più in là, cheerleaders e squadra di football avevano da poco
finito i loro allentamenti. Stefan compreso, che, non appena vennero
sciolti i ranghi, si gettò ad allacciare labbra e lingua con la
pimpante bionda in divisa e pompon da cui ormai nessuno lo staccava
più, per poi guardarla allontanarsi verso gli spogliatoio con uno
sguardo trasognato. Tornai ad affiggere il mio annuncio sulla bacheca
all'ingresso della struttura del campo sportivo.
"Ehi," mi
chiamò mio fratello, raggiungendomi. Si tolse le spalline protettive
per gettarle sull'erba ai suoi piedi, mi scrutò incuriosito passandosi
una mano tra i capelli sudati. "Che stai facendo?"
"Vedo se
qualcuno di questi tutti muscoli e niente cervello vuole la mia
macchina," risposi con una smorfia indicando con un cenno della testa
verso il resto della combriccola.
Il mio cuore
sanguinò un po' di più soltanto nel dirlo ad alta voce.
Stefan mi
strappò un volantino dalle mani e mi guardò allibito.
"Ma tu ami
questa macchina," protestò.
"Mi servono
i soldi, Stef."
"Ok. Quanto?
Perché se è per questo, ho ancora ciò che ho guadagnato quest'estate
con il tirocinio da papà, e posso-"
"Non ho
intenzione di prendere i tuoi soldi," lo interruppi. Un moto di
delusione gli attraverso lo sguardo, così aggiunsi, più conciliante.
"Mi servono per stare a New York. Non mi basterebbero comunque."
Stefan
annuì e non argomentò oltre. Ma aveva quella faccia da Stefan -
quella di quando ha qualcosa da dire, ma preferisce tenerla per sé e
buttarla sul passivo-aggressivo. Era la stessa faccia che metteva su
praticamente ogni singola volta che saltavano fuori i miei piani di
mettere tra me e questo posto più distanza fisica possibile. L'ho mai
detto che mio fratello ci è nato, un immane dito al culo?
"Vieni stasera?" mi domandò, deviando
l'argomento.
"Ho scelta?"
risposi sarcastico. Passare la serata a recitare la parte del figlio
esemplare per assecondare le mire politiche di mio padre non rientrava
esattamente tra le cose per cui fare i salti di gioia.
Stefan aprì
la bocca per controbattere, sicuramente qualcosa sul fatto di provare a
sforzarmi di stabilire una mezza tregua su qualcosa a cui nostro padre
teneva così tanto, ma io avevo già spostato la mia attenzione sui
quattro tutti muscoli niente cervello che ci stavano passando accanto.
"Cosa
diavolo hai oggi, Donovan? Non riuscivi a prenderne una."
"E' il suo
cazzo," rispose un altro, facendo il gesto di sfottere Donovan
prendendolo per il pacco.
Donovan si
sottrasse infastidito. "Sta' zitto, Tyler."
Tyler zitto
non ci stette. "Si è scopato la sua ragazza appena prima di mollarla, e
adesso sta già pensando che magari avrebbe prima dovuto scoparsela un
po' di più."
Il mio
stomaco sprofondò, si attorcigliò sul colpo appena ricevuto, e il mio
cervello piombò nel buio. Un momento, ed avevo afferrato Donovan per la
maglietta, l'avevo sbattuto contro il palo di acciaio delle gradinate e
colpito così forte, con un pugno dritto in faccia, da far gridare le
mie nocche di dolore.
"Che
cazzo?!" mi urlò contro, incespicando per rimettersi in equilibrio.
Lo
spintonai a terra, tenendolo fermo con una mano attorno alla gola.
Altra gente si radunò attorno a guardare, a gridare qualche "Dagliele,
Donovan!" di incitamento, ma erano un sottofondo confuso che a malapena
sentivo, sovrastato dal fiato corto di una rabbia esplosa
all'improvviso che stava implorando disperatamente di essere sfogata -
per tutto il cazzo di male al pensiero di questo idiota che faceva
sesso con Elena (lo sapevo che forse, forse, sarebbe successo, mi ero
costretto a farmi andare bene la cosa - oh fanculo, no che non mi
andava bene), e a quello ancora peggiore che poi si fosse pure permesso
di mollarla come se fosse una qualsiasi scopata di poco conto
(sto con Matt, amo Matt). In quel
preciso momento, avrei potuto ammazzarlo, il coglione.
"L'hai
lasciata, testa di cazzo?!" gli gridai di rimando.
Ero già
pronto a dare il secondo colpo, ma Donovan lo parò a mezz'aria
allungando la mano.
"Io la amo!"
si sgolò. "E' lei che ha lasciato me! Quanto cazzo sei coglione?"
Matt mi
spinse con forza inaspettata, ed io caddi all'indietro atterrando sulle
ginocchia. Si alzò a sedere e si asciugò con il dorso della mano la
striscia rossa di sangue che dal naso gli stava colando sulla bocca. Mi
aspettavo che contrattaccasse, ma non lo fece. Rimase a guardarmi con
il respiro affannato, lo sguardo ferito, ed estrema circospezione. Ma
quella era reciproca.
Deglutii con
sforzo, sia la rabbia che qualcosa di molto più indefinito.
"E perché lo
avrebbe fatto?" domandai, senza abbandonare il mio tono di sfida.
Glielo vidi
lampeggiare negli occhi. La conoscevo quella cosa, la bruciatura amara
lasciata dal rifiuto da parte di ciò che desideri con tutto ciò che
hai, la conoscevo così bene.
"Come se tu
non lo sapessi," sputò fuori.
Si alzò e
s'incamminò, verso gli spogliatoi, scostando le mani dei compagni di
squadra che si avvicinavano per dargli delle pacche in solidali
dimostrazioni di cameratismo. Dalla mia parte c'era solo Stefan, che si
avvicinò per aiutarmi ad alzarmi, ma anche quando mio fratello mi tese
la mano, invece di afferrarla rimasi immobile a fissare l'aria.
... Cosa
cazzo aveva voluto dire?
***
Smaltisco tutti gli effetti dell'alcol e prenoto il primo aereo
disponibile, con la stessa sensazione di chiusura alla bocca dello
stomaco che ho avuto nel fissare il volo dopo aver saputo della morte
di mio padre, quello per il suo funerale che poi non ho mai preso.
Non voglio tornare. Là, c'è
Elena con il suo matrimonio imminente. Là, c'è un consiglio di
amministrazione che non vede l'ora di sbattermi in faccia il fallimento
che sono. Là, c'è la stronza da cui sto cercando di liberarmi ma che,
come il mio avvocato si è gentilmente premurato di farmi sapere in uno
dei messaggi vocali che mi sono finalmente deciso ad ascoltare,
continua a mandare indietro qualsiasi proposta di accordo per un
divorzio economico e indolore con tanto di note a margine in stile
ti-faccio-passare-l'inferno tutte per me. Perciò no, non voglio tornare.
Voglio stare il più lontano
possibile da tutto questo esattamente come il giorno del volo che non
ho mai preso. Ma, come la mia coscienza ci tiene a ricordarmi, là c'è
anche mio fratello che ne ha bisogno e - così come ha fatto tre mesi
fa, così come ha fatto sempre - è quello che finisce per mettere in
secondo piano tutto il resto.
E' quasi buio quando apro il
pesante portone della villa, che trovo avvolta nella penombra serale e
nell'odore di legno di pino, vuoto e disperazione Salvatore. Non c'è
che dire, quando ci deprimiamo, lo facciamo come si deve.
Sento la voce di Stefan
provenire dalla cucina. Poso il mio borsone sopra il divano e lo
raggiungo, trovandolo impegnato in quella che deve essere una sfibrante
lotta con la segreteria telefonica.
"… dannazione, Care, almeno …
parlami. Lascia che ti veda. Non posso …" Gli si incrina la voce, gli
si abbassano le spalle. "Richiamami. Per la centesima volta,
richiamami."
Busso con le nocche contro lo
stipite. Stefan salta su e si volta così velocemente che gli scivola il
telefono di mano. Poi però vede che sono io, e si affloscia di nuovo
sulla sedia.
"Oh," dice deluso. "Sei tu.
Pensavo …" Scuote la testa come per liberarla degli ultimi residui
delle false speranze che deve aver avuto per circa mezzo secondo.
Apro un armadietto, ne prendo
una bottiglia di scotch, riempio un bicchiere e glielo faccio scivolare
davanti. "Brutta giornata?"
Stefan mi guarda incerto. "Non
dovresti essere qui."
"Lo so."
Cazzo se lo so.
Prendo una sedia, mi siedo di
fronte a lui. Stefan posa la fronte sulle mani, sospira e allunga la
mano verso il bicchiere che gli ho versato. Ne fa sparire mezzo.
"Caroline mi ha lasciato."
"Così ho sentito dire. Che
diavolo è successo?"
Cambia appena posizione così da
poter arrivare alla tasca dei suoi jeans. Getta qualcosa verso di me,
una scatolina di velluto che afferro al volo a mezz'aria.
Oh, merda.
"Le ho chiesto di sposarmi."
Finisce di svuotare il bicchiere, prende il resto della bottiglia,
aggiunge con la voce mezza roca. "Ha detto di no."
"Avevi intenzione di fidanzarti?" domando allibito.
"Perché diavolo non mi ha detto niente?"
Stefan mi getta un'occhiata per
chiedermi se lo stia per caso prendendo per il culo. "Non eri
esattamente … raggiungibile, negli ultimi giorni."
Beh, sì. Giusta osservazione.
Insomma, non sono solo una pessima persona, sono anche un pessimo
fratello. Poso la scatolina sopra il tavolo.
"Da quanto ci stavi pensando?"
Stefan accenna un sorriso amaro.
"Da un po'." Il suo sguardo si
fa un po' più distante, si sposta su un punto non precisato alle mie
spalle, lui rimane con lo scotch fermo a mezz'aria. Ne butta giù un
altro bel sorso. "Un bel po'."
Prende la scatoletta e inizia a
rigirarsela tra le dita.
"L'ho comprato mesi fa, poco
dopo la laurea. Poi papà lo ha trovato. Mi ha fatto un discorso,"
lo dice con lo stesso sarcasmo con cui abbiamo sempre detto quella
parola tra me e lui, i discorsi di papà, e per un attimo i nostri occhi
si incrociano ed entrambi sorridiamo per quella sfumatura che
conosciamo solo noi. Una fitta inaspettata si infiltra da qualche parte
in mezzo a crepe che non so neanche quando di preciso si siano aperte,
nel momento in cui, per la prima volta in tre mesi, vengo colpito
dall'improvvisa consapevolezza che non sentirò mai più nessuno di quei
terribili discorsi, e non ho idea di come la cosa mi faccia sentire.
"Mi ha detto che ero così
giovane, e che adesso che avevo appena finto il college le cose
sarebbero cambiate molto velocemente per me nei mesi a venire. Di darmi
almeno un anno o due, fino a che non avessi avuto qualcosa di più
stabile, o più concreto. Era tutto molto ragionevole, come discorso.
Poi è morto, il mio lavoro è un azzardo incasinato appeso a un filo, e
stabile e concreto io non so neanche cosa vogliano dire." Getta via la
scatolina, contrae le labbra in quello che è un po' un sorriso ed un
po' una smorfia amareggiata. "Ma poi vedo Caroline che canta e balla su
quella stupida Call me maybe
a pieno volume in tutta casa, e lei è fatta così, lo sai, capace di
farti sorridere con niente e rendere tutto più luminoso anche nelle
giornate peggiori. E ho pensato, chi se ne frega se non ho niente in
mano, voglio questa luce nella mia vita ogni singolo giorno. Quindi al
diavolo con l'aspettare, o essere ragionevoli." Si passa una mano tra i
capelli, l'abbozzo di sorriso svanisce. "Magari avrei dovuto."
"Cosa ti ha detto?"
Stefan scuote la testa. "Ha
pianto. Ha detto che sarebbe un errore. Che siamo insieme da sempre, e
magari un giorno vorremo qualcos'altro, o stare con altre persone, e
cose del genere. Le ho detto che non me ne frega niente di altre
persone. Non mi ha ascoltato. Se ne è andata due giorni fa e non mi ha
più parlato." Mio fratello rialza lo sguardo su di me, e non penso di
averlo mai visto così perso come in questo momento. "Sette anni, Damon.
Finiti così. E' la mia migliore amica, è una parte di me. Non so … Non
so neanche come esistere senza di lei."
La botta di avvilimento che
segue lo fa rattrappire completamente su se stesso, facendo scattare in
me qualche ancestrale meccanismo di solidarietà maschile e fraterna che
va anch'esso ad alimentare l'indefinita incazzatura che da giorni non
riesco a farmi passare, e di cui pure Caroline è appena diventata parte.
"Dov'è adesso?"
"Si è trasferita da Elena."
Stefan si blocca. Spia cauto la
mia reazione, come se si fosse di colpo reso conto di aver appena detto
qualcosa di molto pericoloso.
"Ovvio che è lì," borbotto
sarcastico andando a sfilargli la bottiglia dalle mani.
Mio fratello mi osserva mentre
prendo un secondo bicchiere e ricarico le dosi sia per me che per lui.
"Ho sentito anche io," dice.
"Me lo vuoi dire, “te l'avevo
detto”? Perché se è così, fai pure, riccioli d'oro che ti scarica ti
garantisce un lasciapassare, per questa volta. Però guarda che non
durerà."
Stefan resta serio. "Mi
dispiace."
"Già, a te dispiace, a Elena
dispiace, a tutti dispiace," ribatto con una smorfia amara. Giro la
mano ed inclino il mio bicchiere verso il suo. "All'essere infelici e
depressi. E alle donne responsabili di ciò."
Butto giù l'intero bicchiere in
una sorsata. Stefan fa lo stesso, e nessuno dei due ha bisogno di
aggiungere altro.
Mi costrinsi a non fermarmi troppo a
pensare a quello che Donovan aveva detto. Quindi lui ed Elena avevano
rotto. Bene. Non significava niente. C'erano un milione di ragioni per
cui potevano essersi lasciati, per cui lei poteva averlo lasciato.
Giusto? Un milione di ragioni che non implicavano … Non lo so, cosa
pensavo che dovessero implicare.
Non avevo
neanche intenzione di formularlo fino in fondo, quel pensiero. La
breve, inutile, stupida illusione che si portava dietro non valeva
l'immediato schiaffo della delusione che poi ne sarebbe seguito, perciò
tanto voleva non pensarci proprio.
Ma ci avevo
pensato. Solo per un secondo. Forse, solo forse … Nah. Elena non
avrebbe lasciato ragazzo d'oro Donovan per … cosa, me? Quello era un
concetto che aveva messo fin troppo in chiaro.
E poi, se
anche davvero ci fosse stata quella infinitesimale remotissima
possibilità, sarebbe venuta lei stessa a dirmelo che con Mr Brady
avevano chiuso, e non lo aveva fatto.
Perciò
quello chiudeva la questione. Non era cambiato niente.
Non cercarmi più. Ho chiuso con
te.
Ok, forse …
Forse c'era un piccola probabilità che non mi avrebbe cercato in ogni
caso.
Il modo in
cui le si era frantumato lo sguardo quando le avevo detto quelle cose,
sputate fuori più per un ultimo disperato tentativo di
auto-conservazione che per volontà di farlo davvero, mi tormentava
ancora ogni singola volta che il pensiero di Elena mi attraversava la
testa. Il che accadeva, più o meno, praticamente ogni cavolo di minuto.
E più mi sforzavo di spingerla fuori dalla mia testa una volta per
tutte, più l'unica conseguenza che ottenevo era invece quella di
spingerla fin dentro ogni fibra del mio essere - nello stomaco, nei
muscoli, nelle ossa, tutti doloranti ognuno a modo suo davanti all'idea
di non volerla più, di volerla ancora, di averla persa, di non aver
chiuso davvero.
Il mio
essere era un posto fottutamente incasinato.
E lo era
stato tanto di più quando, dilaniato da tutte quelle seghe mentali, mi
ero ritrovato a mettere piede dentro al Grill, quello stesso
pomeriggio. Avevo però trovato solo Jenna.
"C'è … Elena
in giro?" avevo domandato con fare casuale.
"Oh, mi
dispiace, è appena uscita, l'hai mancata di poco," mi aveva risposto
dispiaciuta. "Vuoi che le riferisca qualcosa?"
"No." Avevo
dovuto schiarirmi la voce, tamburellare sul bancone. "No, non era
importante."
"Damon," mi
aveva richiamato quando ero stato sul punto di voltarmi. "Si può sapere
che succede, tra te ed Elena? Tu smetti di farti vedere, lei smette di
menzionarti … E' tutto a posto?"
Lo aveva
chiesto tranquillamente, iniziando ad asciugare e a mettere a posto
alcuni bicchieri, ma c'era stato un non so che di protettivo nella sua
domanda che non mi era sfuggito.
"Non è
niente. Davvero, lascia stare."
"Sorride
molto meno quando non ti ha vicino, lo sai vero?"
Ero stato
costretto ad inghiottire con sforzo, quando su quelle parole aveva
alzato gli occhi dal bicchiere verso di me, lo sguardo frantumato di
Elena che invadeva ogni fibra del mio essere ancora una volta.
"Non dirle
che sono passato, ok?"
Non sapevo
se alla fine lo avesse fatto oppure no. Speravo di no. Speravo di sì.
Ma il mio
cervello era in sostanza ancora più impantanato di prima, quando alla
sera mi presentai alla residenza del governatore per la cena politica a
cui mi aveva costretto mio padre.
Lui e Stefan
erano già lì, insieme ad almeno un'altra trentina di persone - politici
di medio livello con famiglie al seguito, un paio di giornalisti in
veste informali, qualche altro uomo di affari. Dovetti sorbirmi tutto
il tour della residenza infarcito di lagnosi fatti storici e aneddoti
su inquilini e ospiti illustri, varie risate su battute che non
facevano ridere, porzioni di cibo crudo formato mignon servite da
camerieri in divisa bianca nel giardino sul retro che avevano l'unico
effetto di lasciare lo stomaco ancora più insoddisfatto.
Nessuno che
di nome non facesse Salvatore notò i tanti mini momenti di tensione che
rischiarono più di una volta di sfociare nell'incidente diplomatico -
come quando mio padre mi aveva fermato e preso da parte poco prima di
sederci a tavola, "Sul serio?" mi aveva chiesto asciutto tenendo in
mano la canna già fatta che Enzo mi aveva passato prima di venire qui e
che aveva appena tirato fuori dal taschino interno della mia giacca
nera, facendola sparire il secondo dopo prima che nessuno si fosse
accorto di alcunché.
E a dispetto
del fatto che avessi valanghe di commenti sarcastici pronti a mordermi
la lingua ogni cinque minuti, feci ugualmente la mia parte, e la feci
pure dannatamente bene, ogni volta che mio padre mi presentava a
qualcuno e insieme davamo il via al tragicomico duetto di deviare con
grazia qualsiasi conversazione si avvicinasse troppo a domande spinose,
come quale college frequentassi e quanto avessi intenzione di seguire
le orme del mio vecchio.
La cena
finì, drink vennero serviti, altre chiacchiere riempirono l'aria, ed
era chiaro che tutti stavano aspettando il momento in cui il
governatore uscente avrebbe annunciato la candidatura di mio padre ed
il suo appoggio, offrendo in sostanza ottime probabilità che quella
adorabile residenza sarebbe tra qualche mese diventata casa nostra.
Beh, di certo non mia, ma comunque sia. Evviva.
"Finirò per
ammazzarmi se questa cosa non finisce al più presto," bofonchiai a
Stefan, infilando la mani giù nelle tasche del completo elegante che
avevo pure fatto lo sforzo di andare a ripescare.
Stefan aveva
a malapena sollevato lo sguardo dal telefono. "Non è così male …"
"Lo dici
solo perché stai scrivendo i messaggi sconci alla tua ragazza ogni due
minuti."
"Io non sto
… Ehi!"
Gli presi il
telefono di mano, lessi le sdolcinatezze che c'erano scritte e glielo
restituii con una smorfia.
"No, non
stai scrivendo i messaggi sconci. Dovevo immaginarlo che saresti stato
così noioso. Ci fai sesso almeno?"
Stefan non
rispose, ma sorrise a tutta faccia.
Grandioso.
Quindi pure quella palla allucinante di mio fratello era messo meglio
di me - e dio quanto mi mancavano i tempi in cui potevo scoparmi chi
volevo senza sbattermene di niente. Adesso, se lo facevo, c'era
comunque Elena ad invadere ogni fibra del mio essere; se non lo facevo,
c'era sempre Elena ad invadere ogni fibra del mio essere. Praticamente,
era una fregatura da qualsiasi angolazione guardassi la cosa.
Avevo voglia
di quella canna che mio padre mi aveva confiscato prima più che mai.
Maledetto lui.
"Ho bisogno
di un po' di alcol per sopravvivere."
Stefan mi
gettò un'occhiata corrugata. "Non te lo serviranno. Non hai 21 anni."
Risposi con
un sorrisetto. "Sicuro?"
Documenti
falsi e un mezzo sorriso inclinato nel modo giusto possono fare
miracoli con le ragazze del catering. E mentre tutti, mio padre
incluso, erano estremamente impegnati a mettere in piedi il prossimo
affare, a fare colpo gli uni sugli altri, e ad esporre la progenie
prodigio, il me ventiduenne si teneva per le sue dedicandosi ad
un'improvvisata degustazione di whiskeys alle gentili spese del
governatore della Virginia, salute a lui.
La
candidatura di mio padre fu annunciata. Applausi seguirono. La mia
testa ronzava, piacevolmente, lì su quel limite del sorso di troppo tra
l'essere alticcio ad essere un po' meno in controllo di pensieri e
azioni.
Ero di
ritorno da una discretamente lunga pisciata, e forse avevo imboccato il
corridoio sbagliato, quando passai accanto al salottino laterale dove
stavano belli seduti sulle loro poltrone, bicchieri alla mano e nella
sicurezza di non essere interrotti da nessuno.
"E' una cosa
sicura?"
"Lo è. Ci
stiamo lavorando da almeno un anno e mezzo. Ristrutturazione e rinnovo
completo del centro cittadino, più un paio di complessi residenziali di
alta fascia nelle periferie dove il paesaggio è migliore, e tempo un
anno Mystic Falls potrà passare da sosta semi-sconosciuta per
campeggiatori di passaggio ad una delle migliori piccole gemme
turistiche di tutto lo stato. Ho stimato migliaia di nuovi posti di
lavoro, entrate per la città nel giro di qualche milione."
"E
altrettanti voti."
Mio padre
sorrise al suo interlocutore. "Anche quello."
"Pensavo che
Gilbert ti stesse dando ancora problemi."
"Non ne hai
idea. Si rifiuta di vendere, e quel posto è un tale spreco lasciato in
quelle condizioni. Ma è coperto di debiti, che abbiamo recentemente
acquistato. Non durerà altri due mesi. Me ne accerterò io."
"Mi stai
prendendo per culo," dissi.
Entrambi si
zittirono, si voltarono nella mia direzione. I drink sempre in mano e
le facce sorprese, mentre in me sdegno, collera e alcol si mischiavano
in un mix a dir poco pericoloso.
Mio padre
abbassò il bicchiere, lentamente, si alzò. Il suo sguardo si fece più
duro quando mi fu vicino. "Ti sei messo a bere? Lo posso sentire da
qui."
"Che
diavolo è questa storia, papà?"
risposi marcando di proposito quell'ultima parola con tutto il sarcasmo
di cui ero capace.
"Niente che
ti riguardi," disse piano.
Si voltò in
direzione del tizio con cui stava parlando, che molto elegantemente
fece lo sforzo di concentrarsi sul sorseggiare il suo whiskey e far
finta di non ascoltare, e poi di nuovo verso di me. Che col cavolo che
avevo intenzione di lasciar perdere.
"Vuoi far
chiudere il Grill," ribattei, con l'incazzatura a farmi tremare la
voce. "Come cazzo ti viene in mente di fare una cosa del genere?"
"Smettila,
Damon. Mi stai mettendo in imbarazzo. Ne parliamo quando siamo a casa.
Adesso," abbassò la voce ancora di più, "cerca almeno di non sembrare
troppo ubriaco."
Fu il tono,
quel cazzo di tono condiscendente e finto conciliante che aveva sempre
avuto la rispettosa decenza di non usarmi - potevamo scannarci, ma non
mi aveva mai trattato come un idiota. E se voleva un idiota, era
esattamente ciò che avrebbe ottenuto.
"Quale casa?
Tu mi ci stai buttando, fuori di casa. Esatto, hai capito bene," dissi
rivolto al tizio nella poltrona, chiunque cazzo egli fosse, il
presidente degli Stati Uniti d'America per quel che me ne poteva
fregare. "Perché non lo dice che suo figlio è un buono a nulla che fuma
erba, beve illegalmente, e se ne sbatte il cazzo di fare ciò che
vorrebbe lui."
Rabbia e
ferimento gli lampeggiarono negli occhi, si depositarono amari nella
mia bocca.
Incespicai
all'indietro. "Sul serio, papà.
Vai a farti fottere."
Tornai alla mia macchina, ancora
tremante di bile. Che testa di cazzo. Non avevo mai provato tanto odio
e disgusto per lui quanto in quel momento.
Le chiavi
scivolarono sopra la serratura dello sportello, non presero il buco,
caddero in mezzo all'erba.
"Cazzo,"
imprecai mentre mi piegavo per riprenderle, strizzando gli occhi per
vedere dove fossero finite, compito piuttosto arduo tra la luce
artificiale piena di ombre che illuminava lo spiazzo dove avevo
parcheggiato e la mia testa che intanto vorticava lo swing.
Un altra
mano me le sottrasse da sotto le dita prima che riuscissi ad arrivarci.
"Che diavolo
stai facendo?" mi domandò Stefan alzandosi in piedi.
Mi alzai
anche io, facendo leva sul cofano della Camaro.
"A te che
sembra? Me ne sto andando. Non ci resto un attimo di più in questo
maledetto posto. Dammi le chiavi," gli intimai.
Scosse la
testa. Cazzo di Stefan. "Non ti lascio guidare. Aspetta almeno fino a
che non ce ne andiamo anche io e papà, puoi tornare con-"
"Non ho,"
dissi deciso, sputando fuori le parole con violenza, "Nessuna cazzo di
intenzione di andare da nessuna parte insieme a lui. Dammi le chiavi,
Stef, o lo giuro che le cose finiranno davvero, davvero male."
Mi studiò
per un lungo momento, e dovette aver deciso - dalla collera che mi
agitava lo sguardo e le mani, dal veleno nel mio tono - che non stavo
scherzando. Diede un ultimo sguardo alla villa alle nostre spalle.
"Va bene,"
sospirò. "Sali. Ma guido io."
"Non hai
ancora la patente."
"E quindi?"
ribatté offeso. Vai a dire ad uno a malapena sedicenne che non è grande
abbastanza da stare tra gli adulti e farà qualsiasi cosa per
dimostrarti il contrario, specialmente un perfettino come lui che deve
sempre dimostrare di essere capace in tutto quello che fa. "E' solo
perché devo aspettare altri due mesi. So guidare."
"Ok,"
concessi, incamminandomi verso il sedile del passeggero. "Guidi tu."
"Cos'è successo?" mi domandò Stefan,
quando stavamo già sfrecciando giù per l'ultimo tratto di interstatale
cha collega Richmond verso l'interno e porta a Mystic Falls.
"Abbiamo
litigato," bofonchiai stravaccandomi con il culo più in basso sul
sedile, appoggiando i piedi contro il lato del cruscotto. La mezza
sbornia mi stava uccidendo. "Beh, tipo. Si vergognava troppo per
mettersi a fare una scenata."
"Perché
avete litigato?"
Guardai
fuori dal finestrino, buio e luci che filavano via e mi facevano girare
la testa e lo stomaco. Un grumo amaro mi crebbe in mezzo alla gola.
"Abbiamo davvero bisogno di un motivo?"
Stefan
si voltò a guardarmi intento. Sentii le note di All along the
watchtower passare alla radio, mi
sporsi per alzare il volume fino a che non riempì tutto l'abitacolo.
"E pensi
davvero che mettere 300 miglia di distanza possa migliorare le cose?"
proseguì alzando la voce per sovrastare la musica.
"Non le può
peggiorare, no?" Scrollai le spalle. "E poi sarebbero state centinaia
di miglia anche se lo avessi assecondato, e fatto quel che dovevo fare
andando ad un dannato college della Ivy League. Anzi, me ne sarei già
andato da un pezzo. Non è poi tanto diverso."
"Ma ho
l'impressione che lo sia. Che stai bruciando i ponti, e mettendo sempre
più distanze."
Stefan
rimase in silenzio un lungo istante. Mi girai verso di lui, e cazzo
sembrava così giovane a vederlo lì nella penombra con la fronte
corrugata, e così il mio fratellino, con quella voce seria, che mi si
bucò un po' il petto quando proseguì, "Ho come la sensazione che non ti
vedrò praticamente più."
"Ehi," mi
raddrizzai sul sedile, gli misi una mano sull'avambraccio. "Certo che
mi vedrai. Tornerò di tanto in tanto. Così per il Ringraziamento potrai
guardarci discutere da una parte all'altra del tacchino e dire ad
entrambi di darsi una calmata prima che inizino a volare le forchette."
Stefan
annuì, ma senza convinzione.
"In più,"
aggiunsi, "Sei fin troppo preso da questa nuova ragazza. Devo tornare
per controllarti ed assicurarmi che ne avrai anche altre e che non ci
resterai incastrato troppo a lungo."
Si girò a
guardarmi, mi scrutò come per cercare conferma, e infine accennò un
sorriso. Accennai un sorriso di rimando anche io.
Fu appena
prima che tutto andasse completamente fuori controllo.
***
Salgo l'ultimo gradino del portico, ma aspetto qualche secondo prima di
muovere la mano verso il campanello. L'ultima volta che sono stato qui,
ero fradicio di pioggia battente ed è stata una delle migliori notti
della mia vita. Adesso, è una brillante mattina di sole e solo
ripensarci è come mettersi a schiacciare un livido fresco soltanto per
vedere quanto male possa fare, anche se il verdetto è sempre lo stesso:
dannatamente tanto.
Il fatto che io sia anche di
pessimo umore non aiuta.
Di questo, devo ringraziare
Katherine.
Me la sono ritrovata tra i piedi
poco prima di venire qui, nel mentre che, rasoio alla mano, in un
residuo moto di orgoglio mi liberavo della barba incolta segno visibile
di quanto malmesso Elena mi avesse lasciato. Katherine era apparsa
nello specchio alle mie spalle, tra i vapori nebbiosi lasciati dalla
doccia, le braccia incrociate sul petto a spingerle il seno
particolarmente all'insù ed un arricciamento aspro nella curva delle
labbra.
"Guarda guarda chi ha deciso di
farsi rivedere."
"Un po' di privacy? Di confini?"
avevo tentato di cacciarla via indicando me stesso avvolto solo in un
asciugamano attorno alla vita, ma ottenendo in cambio soltanto un
infastidita alzata di occhi al cielo.
"Ti ho visto nudo anche una
volta di troppo per i miei gusti. Stai diventando timido?"
"No, sto diventando Meno vedo la tua faccia e meglio sto."
Avevo ripreso a radermi e ad
ignorarla. Lei aveva preso a girarmi intorno, un felino che studia la
sua preda, ma che per una volta non è tanto bravo a nascondere tutta la
sua impazienza. Deve aver iniziato a rendersi conto che le sue
possibilità di mettere mano sulla quasi totalità del mio patrimonio di
recente acquisizione sono prossime allo zero. Dio benedica le leggi
della California.
"Non mi hai richiamato. Dobbiamo
parlare."
"Quella cosa del meno ti vedo?"
avevo replicato secco, posando il rasoio e finendo di sciacquarmi la
faccia. "Vale anche per meno sento la tua voce. Infatti, c'è un
avvocato pagato profumatamente per farlo al posto mio. Qualsiasi cosa
tu abbia da dire, dilla a lui. Non sono davvero in vena di stare a
sentire anche le tue cazzate."
Il "Fottiti, Damon!" che mi
aveva gridato dietro mentre gettavo via l'asciugamano e uscivo da lì mi
aveva a malapena sfiorato, ma anche solo quel breve incontro era stato
abbastanza da farmi iniziare la giornata nel peggiore dei modi. E
presentarsi volontariamente da Elena dubito che sia il modo giusto per
farla migliorare.
Ripenso a Stefan e alle
condizioni in cui l'ho trovato. Allungo la mano e mi decido a suonare.
Dopo alcuni secondi, sento i
passi che si avvicinano dall'altro lato, smorzati dalla barriera della
porta, piccoli e veloci.
Di colpo, si fermano. Tutto si
fa improvvisamente molto immobile, ed è così che lo so. Che sia stato
perché mi ha visto attraverso lo spioncino o attraverso quella fessura
tra le tendine della finestra che non si chiudono mai del tutto, non ha
importanza. Lo sa che sono io.
Ho avuto un sacco di tempo per
immaginare questa conversazione e questo momento, cosa le avrei detto
quando l'avrei rivista di nuovo. Infinite variazioni sullo stesso tema,
spaziando da educati e freddi "è bello rivederti" altri dieci anni nel
futuro, quando ormai me la sarei tolta dalla testa o almeno avrei finto
di averlo fatto, fino a imploranti e appassionate dichiarazioni nelle
quali avrei fatto e giurato qualsiasi cosa pur di riavere una sola
possibilità di far funzionare le cose tra noi, durante quelle notti in
cui il bourbon colpiva più forte.
Adesso, non è nessuna di queste
cose. E' un gusto agrodolce che oscilla tra il bisogno pulsante che ho
di vederla ed esserle fisicamente vicino e l'altrettanto pulsante
amarezza che mi chiude la gola quando tutto ciò che ci siamo gettati
addosso - la rabbia, i rimpianti, le accuse - torna a mordermi di
nuovo.
Poso una mano contro il portone.
"Lo so che sei lì, Elena."
Lentamente, vi appoggio sopra
anche la fronte, assaporando ogni istante del miscuglio di amaro e di
voglia di lei che mi dà il solo pensiero di Elena al di là di questa
porta.
"Non me ne vado finché non apri."
Estremamente lunghi secondi
passano, prima che io senta scattare il click della serratura.
Altri estremamente lunghi
secondi passano, prima che il portone si apra.
E' la morbida, appena
percettibile, traccia del suo profumo che si mischia con un soffio
caldo di aria estiva, la prima cosa che riporta tutto a galla con
ancora più forza - è un odore in cui mi sono immerso troppe volte,
troppo di recente. La seconda è il battito di esitazione che passa
prima che quell'incisivo sguardo scuro si alzi e incontri il mio. Elena
sa raccontare intere storie, con un solo battito di ciglia.
Eccetto che in questo momento è
una che è troppo simile a tutte le contraddizioni che stanno divorando
dentro anche me, e finisce che nuovi estremamente lunghi secondi
passano - a guardarci da un lato all'altro della soglia, a nutrirci in
quelle contraddizioni e affogarci in mancanza di meglio - prima che uno
di noi dica qualcosa.
Elena prende più fiato di quanto
le serva, la punta della coda in cui ha legato i capelli dondola appena
sfiorandole le spalle nude. "Cosa ci fai qui?"
Lo dico più secco e perentorio
di quanto ce ne sia bisogno. E' più facile così. "Voglio vedere
Caroline."
Mi scruta incerta, o forse solo
presa momentaneamente alla sprovvista dalla mia risposta brusca. Avanza
di un passo, socchiude con attenzione la porta alle sue spalle.
"Questo non è un buon momento,"
scuote la testa. "Sta avendo delle giornate difficili. Lasciala in
pace, Damon."
"Ti pare che me ne importi?"
replico con una smorfia. "Fammici parlare."
Faccio un passo in avanti,
deciso ad entrare, ma Elena si sposta prontamente di lato bloccandomi
il passaggio. Incrocia le braccia sul petto, entra in modalità da
atteggiamento fiero e protettivo.
"No."
"Mio fratello," un altro mio
passo, lei non si muove, "E' a pezzi per causa sua. Le voglio
parlare. Adesso."
"Parlerà," ribatte, sostenendo
il mio tono di sfida, "Quando si sentirà di farlo. Adesso, va' via."
Serro le labbra. La sua
espressione decisa mi intima di non tentarci neanche a contraddirla. Ma
nessuno dei due è chiaramente intenzionato a fare un passo indietro, e,
quando restiamo di nuovo a fronteggiarci tra silenzi e sguardi
sostenuti per un minuto troppo a lungo, ho l'impressione di non sapere
neanche più per cos'è che stiamo davvero prendendo posizione.
Alzo le mani in segno di resa,
faccio per ritirarmi. Nel momento in cui Elena abbassa appena la
guardia, la sorpasso e spingo con decisione la porta alle sue spalle,
entrando senza invito in casa sua mentre lei mi urla dietro un
infuriato, impotente, "Damon!"
Ma mi blocco sulla soglia della
sala, quando vedo lo sconforto con cui Caroline è raggomitolata sul
divano. Solleva appena la testa per osservarmi con i gonfi occhi
azzurri, e poi torna ad appoggiarsi sul cuscino e a guardare di fronte
a lei.
"Non voglio parlare, Damon.
Vattene. Per favore," aggiunge in un piccolo sussurro che manda un po'
a puttane tutto il mio piano di urlarle contro fino a farla sentire un
rottame, perché quel piccolo sussurro mi dice che lo è già.
Non che mi aspettassi davvero di
trovarla a sorseggiare margaritas ridendosela alle spalle di mio
fratello. Ma fa uno strano effetto vederla così, come se qualcuno le
avesse staccato quelle stramaledette pile sempre fastidiosamente
cariche, e per quanto io stesso me lo sia augurato in più di
un'occasione, adesso … oh, fanculo.
Non le urlo contro. Invece, vado
a sedermi sul bordo del divano, nel piccolo spazio tra le sue gambe
rannicchiate. Allungo le dita per scostarle un ciocca bionda dalla
fronte, lei continua ad ignorarmi.
"Ha sbagliato qualcosa, per
caso?"
Caroline chiude gli occhi e un
paio di lacrime rotolano via dalle palpebre chiuse, vanno a lasciare
una sfumatura più scura sul cuscino colorato sotto la sua guancia.
Elena si appoggia in silenzio contro lo stipite della porta. Mi
costringo a non guardare verso di lei.
"Perché se è così, se ha fatto
qualche cazzata, lo posso sempre prendere a calci in culo. Anche se è
mio fratello. Anzi, soprattutto perché è mio fratello. La cosa mi dà
dei privilegi speciali quando si tratta di fargli il culo, nel caso non
lo sapessi."
Caroline ride, un ibrido incerto
a metà tra una risata e un singhiozzo, e altre lacrime vanno a
raggiungere le altre e ad allargare la macchia bagnata sul tessuto.
Tira su col naso, si asciuga sotto gli occhi con il dorso della mano e
scuote la testa.
"E' solo che …" Si tira su a
sedere, finisce di togliersi gli ultimi residui bagnati da sotto le
palpebre.
"E' solo che non penso che
potrebbe funzionare."
"Sei ammattita?" le dico.
"Cristo, se non ce la fate voi due allora non c'è speranza per nessuno
di noi."
"Non capisci."
"E allora fammi capire."
"Lui …" Esita, prende a
giocherellare con un filo di tessuto solitario che sporge dalla
cucitura di un cuscino. Mi getta un'occhiata di lato. "Vuole una
famiglia, lo sai? Voglio dire, non adesso, forse tra qualche anno, ma
lo so che è così, si vede nel modo in cui a volte ne parla, o guarda i
bambini immaginando come sarebbero con quei suoi stupidamente
meravigliosi capelli anti-gravità." Sorride. "E lo amo per questo, è
fatto per queste cose." Si interrompe un secondo, aggiunge più piano.
"Io no."
"Andiamo, Care, se è solo perché
stai avendo un po' di paranoie potete sempre-"
"No, non capisci!" ripete
spazientita, accartocciando il cuscino in un moto frustrato. "Non
posso. Letteralmente, non posso."
Continuo a guardarla senza
capire. Lei sospira.
"Era la settimana della
prevenzione ginecologica qualche settimana fa, ed io ero tra i
volontari perché, beh, è quello che faccio, e così ho fatto anche
qualche esame, e da lì sono venuti fuori altri esami e …" Caroline deve
notare la mia espressione completamente disorientata fin dalla parola
"ginecologica", perché alza gli occhi al cielo davanti alla mia
reazione ritardata. "Non posso avere figli, ok? Insomma, quelle vie …
sono chiuse."
Sbircia cauta la mia reazione,
mentre, finalmente, anche io inizio a realizzare.
"Volevo dirglielo. Davvero. Ci
ho provato. Ma non sapevo come l'avrebbe presa, e poi lui mi chiede di
sposarlo, ed io … Non posso fargli questo. Non posso e basta."
C'è un lungo momento di
silenzio, mentre Caroline torna a tormentare le cuciture del guanciale
che ancora si tiene stretto e io brancolo nel vuoto più totale.
Smarrito, incapace di pensare a cosa dovrei dire davanti a questa cosa
o cosa dovrei fare, sollevo lo sguardo verso Elena.
Mi sta osservando, senza dire
niente, e so che lo ha fatto tutto questo tempo. Le sto chiedendo di
venire in mio soccorso, di dirmi cosa fare. E lei lo fa. Inclina appena
la testa in piccolo cenno - ed è abbastanza.
Mi sporgo in avanti e prendo la
mano di Caroline nella mia, stupendomi di quanto sembri davvero piccola
e fredda.
"Ascoltami bene. Conosco mio
fratello. Ti ama, e non sarà questo a cambiarlo."
Caroline annuisce. "Lo so. Lo so
questo. Ma cambia tutto il resto. Perché ci ho pensato, anche se non lo
avevo mai fatto prima, dio sa quanto ci ho pensato, e credo … credo che
posso accettarlo. Ma può accettarlo anche lui? Cosa succede tra cinque
o dieci anni, quando non sarà più abbastanza, e vorrà quel che ha
sempre voluto, ed invece sarà incastrato con me, che succede allora?"
"Non lo saprai finché non gliene
parli, Care."
"Esatto," replica lei,
voltandosi a guardarmi con gli occhi allargati. "Finché non gli parlo
non stiamo insieme, e finché non stiamo insieme, non ho la conferma che
non staremo più insieme."
Corrugo appena la fronte.
"Questo … è un ragionamento molto contorto."
"Ugh, lo so!" sospira lei,
nascondendosi la faccia tra le mani. Ne riemerge spostandosi i capelli
via dal volto. "E' solo che non sono pronta a perderlo."
"Lo so. Ma o sarai tu a
parlarci, o lo farò io, nell'attimo in cui esco da quella porta. Penso
comunque che preferirebbe fossi tu. Decidi tu, biondina."
Guarda Elena. Guarda me. Di
nuovo Elena. Di nuovo me. Lascia uscire un altro sospiro tormentato.
"Puoi … aspettare qualche
minuto? Mentre mi vesto. Vengo con te."
Annuisco, mentre Caroline si
alza e si dirige al piano di sopra. Elena la guarda allontanarsi.
Quando poi riporta lo sguardo su di me, sono in piedi e diretto verso
la porta a tempo di record.
"Puoi dirle che sono fuori."
"Damon, aspetta."
Mi fermo. Ovvio che mi fermo. Maledizione,
quanto odio me stesso a volte.
Siamo entrambi sulla soglia
della sala, io mezzo fuori e lei mezza dentro, la solita dannata
contraddizione a cui forse siamo da sempre condannati. Volto lentamente
la testa verso di lei.
"Possiamo … parlare?" mi domanda
incerta, piegando appena la testa di lato.
"Quindi adesso vuoi parlare?"
replico, piegando la bocca in una smorfia. "E che mi dici di parlare
quando hai impacchettato le tue cose e sei scappata nel mezzo della
notte?"
Incassa il mio tono tagliente
stringendo le labbra, ma non distoglie lo sguardo. "Mi dispiace."
"Già, questo l'ho capito,"
commento sarcastico.
"Ci sto provando, ok?" ribatte
con più forza, avvicinandosi di un altro passo. "Credi che sia facile
per me? Ma ci sto provando, ci sto provando davvero, a capire co-"
"Era solo sesso?"
Elena si blocca, gli occhi le si
allargano di colpo. Il silenzio immediato che segue e il cambiamento
che passa sul suo volto, quell'espressione accorata che poi si smonta
in un istante come se l'avessi pugnalata allo stomaco, mi fanno quasi
rimpiangere di averlo detto.
"Come puoi chiedermi una cosa
del genere?" risponde piano, ferita. "Lo sai che non è così." Una
piccola pausa, prima di aggiungere, ancora più a bassa voce. "Non lo è
mai stato."
Voglio crederle. Anzi, di più,
una parte di me non l'ha mai davvero pensato neanche per mezzo
nanosecondo. Ma non è quella parte che è qui adesso, qui e adesso ci
sono le contraddizioni, c'è la voglia e c'è la rabbia, c'è il volere
scottante di non averla mai ritrovata e un aggrapparsi folle per non
perderla ancora.
Mi avvicino fino a che non sento
il suo respiro sulle mie labbra, e percepisco il modo sottile ma
evidente in cui cambia ritmo e profondità quando il mio viso è a così
poca distanza dal suo. Elena abbassa lo sguardo sulle mie dita, che le
stanno sollevando l'orlo della maglietta sulla linea dei fianchi.
Appoggia piano la schiena contro lo stipite alle sue spalle.
"Davvero lo so?" chiedo mentre
il bottone che chiude gli shorts compare alla mia vista, sfiorandole la
pelle nuda che sta appena sopra, e quella ancora più calda che invece
sta appena sotto. La pelle d'oca che spunta sotto ai miei polpastrelli
quando accarezzo il bordo delle mutandine si tende di colpo per il
brusco respiro che ha appena inalato.
"Smettila," esala in un sussurro
che dice tutt'altro. "Per favore."
Non lo faccio, anche se giocare
con il fuoco sta facendo male soprattutto a me, come dimostra il tono
roco e smorzato con cui esce fuori al mia voce. "Perché?"
Elena chiude gli occhi, respira
sulla mia bocca, il suo corpo si inarca leggermente verso la carezza
della mia mano, ed io sto bruciando dalla voglia dal tirare via quel
maledetto bottone, cadere in ginocchio e perdermi con la bocca su di
lei fino a ricordarle quanto forte sono capace di farla gridare.
"Sei così anche con lui?"
domando risalendo con il dorso delle dita su verso la linea delle
costole, quel nodo amaro e bisognoso nella mia gola più pressante che
mai. "Lo sa … quello che hai fatto con me? Gli hai davvero …" Avvicino
le labbra al suo orecchio, "… raccontato tutto quanto?"
So che sono andato troppo oltre
quando allontano appena il volto ed incontro la colpa e l'imbarazzo che
brillano nel suo sguardo, così intensi e profondi da farmi provare un
istantaneo moto di odio nei confronti di me stesso e di qualunque sia
la dannata ragione per cui quando ci facciamo del male, dobbiamo sempre
farcene in queste proporzioni.
I passi che scendono dalle scale
ci fanno allontanare e porre distanze nuovamente tollerabili, ma
nessuno dei due riesce a rompere quel lungo sguardo da animali feriti.
I passi rallentano, si fermano del tutto.
"Io …" Caroline è rimasta
incerta sull'ultimo gradino. Si schiarisce la voce, fa finta di
togliersi qualche pelucco dal vestito. "Sapete cosa? E' una così bella
giornata, penso che andrò fuori per … mmh, vedere il sole e … oh, per
l'amor del cielo, ora mi tolgo di torno, ok?"
Ci passa davanti in gran fretta,
diretta verso la porta, ma non mancando di lanciare ad Elena uno
sguardo interrogativo che ha ben poco di sottile.
Non appena il portone si è
richiuso, Elena mi passa davanti, senza guardarmi in faccia. Dal basso
tavolino al centro della sala prende qualcosa tirandolo fuori da una
pila di riviste, torna verso di me e me lo sbatte con furia contro il
petto. E' un'anonima cartelletta con alcuni fogli al suo interno, la
afferro prima che cada.
"No, Damon, non gliel'ho detto,"
prosegue secca. "Vuoi sapere perché? Perché tuo fratello mi ha chiesto
di non farlo per non metterti Elijah contro, suggerendomi di aspettare
ad annullare il matrimonio fino a che voi due non avete finito con le
vostre piccole macchinazioni, così da non metterle a rischio. E quando
mi sono rifiutata di tenere in piedi una menzogna del genere, mi ha
ricattato emotivamente. Con questo. Perché secondo lui mi avrebbe fatto
cambiare idea."
Corrugo la fronte, sposto lo
sguardo da lei a ciò che mi ha appena sbattuto addosso, lo apro
lentamente. E mi congelo. Sono così impietrito da ciò che sto tenendo
in mano che sul momento registro a malapena cosa sta dicendo, incluse
frasi come "annullare il matrimonio".
Sollevo gli occhi su di lei,
deglutisco. "Lo hai letto?"
"No!" sbotta. "Io non voglio
essere parte di tutto questo. Non voglio mentire ad Elijah, mi odio già
abbastanza così senza doverci aggiungere il fatto di prenderlo in giro.
Ma sai qual è la parte peggiore?" chiede cercando il mio sguardo, e ci
vedo tutto il tormento e tutta la battaglia interna che vi si agita
dietro, forse troppo perso dietro alla mia per vederla davvero fino a
questo momento. "E' che per te, lo farei. Se me lo chiedessi, se è
davvero così importante … Andrei contro tutti i miei principi, per te. E senza aver bisogno di leggere
ciò che c'è lì dentro."
Sono un idiota. Ed anche uno
bello grande. Richiudo il fascicolo, lo arrotolo e me lo infilo nella
tasca posteriore dei jeans.
"Mi dispiace. Stefan non aveva
il diritto di chiederti una cosa del genere, e di sicuro non aveva il
diritto di chiedertelo così o farti sentire ricattata."
"Dove stai andando?" mi segue
lei, quando mi giro verso la porta.
"Caroline mi sta aspettando."
Elena posa una mano sulla mia,
mi ferma dal girare la maniglia. Guardo le sue dita chiudersi sulle
mie, alzo lo sguardo su di lei. Sono sempre lì, tutte le nostre
contraddizioni, tutti i passi avanti e quelli indietro, insieme a tutto
quello che siamo stati così attenti ad evitare, quella ferita rimasta
sospesa che forse pesa ancora molto più di quanto vorrei.
"Stefan ha detto che è il motivo
per cui non sei più tornato."
"A Stefan piace essere
melodrammatico."
Elena stringe appena la presa
sulla mia mano.
"Non l'ho letto," prosegue,
"Perché voglio che a dirmelo sia tu, Damon."
Forse dovrei. Forse voglio
farlo. Nel momento in cui penso che potrei, però, quel minuscolo
spiraglio su tutto ciò che ho chiuso e schiaffato dove non sono
costretto a doverlo affrontare torna a richiudersi violentemente come
un portone sbattuto di colpo.
"E' solo una vecchia storia che
non ha più nessuna importanza."
Increspa appena le sopracciglia,
la sua dita scivolano ad accarezzare leggermente le mie. E non è Elena
a chiedermelo. E' la ragazzina che ho ferito, almeno quanto lei ha
ferito me, tutti quegli anni fa.
"Ce l'ha per me," dice piano.
Ma lei non è più quella
ragazzina, e non lo sono più neanche io. O forse, invece, il problema è
che lo sono ancora fin troppo.
Scuoto la testa, sciolgo la mano
dalla sua e finisco di aprire la porta. "Ci vediamo, Elena."
***
Caroline mi fissa per tutto il tragitto di ritorno. E' inquietante.
"Un altro secondo a guardarmi
così, Barbie, e finisce che mi scavi un buco dritto nel cervello."
"Io non stavo-"
Scalo una marcia, le lancio
un'occhiata. "Ti stai letteralmente consumando nello sforzo a te
sconosciuto di non dire quello che lo so che vuoi dire." Cazzo, so già
che me ne pentirò. Sospiro. "Perciò, avanti, dillo e facciamola finita."
Caroline cambia posizione nel
sedile, ruota dei novanta gradi che le servono per essere rivolta tutta
verso di me.
"Non lo sposerà. Me lo ha detto
lei."
Serro la mascella e continuo a
tenere gli occhi fermi sulla strada, le mani decise sul volante, e non
dico niente. Un secondo dopo, Caroline mi schiaffeggia sul braccio.
"Oh, andiamo! Non fare finta di
non stare gongolando dentro!"
Ok, lo ammetto. Mi sfugge un
mezzo sorriso. Solo per mezzo secondo. E lo so, lo so benissimo che non
cambia niente di come stanno le cose tra me e Elena, che non è un
matrimonio annullato a cambiare ciò che siamo e siamo sempre stati e
non siamo stati mai, ma … mi sfugge un mezzo sorriso.
"Non sto gongolando," rispondo
serio. Le getto un ironico sguardo di traverso. "Che persona orribile
sarei?"
Caroline sorride, e torna a
sedersi al suo posto con aria soddisfatta. Posa il mento sulle braccia
incrociate sopra il finestrino tirato tutto giù, e per il resto del
tragitto lei guarda fuori e io guardo la strada e non c'è altro oltre
all'aria calda che dai vetri aperti soffia dentro l'auto.
Non parla più finché non
parcheggio nel viale accanto all'ingresso della villa.
"Grazie."
Mi volto incerto verso di lei.
Sta giocherellando con la maniglia dello sportello, gettando occhiate
nervose verso il portone, e temporeggiando con l'idea di scendere e
vedere cosa succederà quando quel portone lo avrà passato.
"E' fortunato ad averti," mi
sento dire.
Caroline si volta stupita a
guardarmi, ed io corro ai ripari.
"E se lo dici a qualcuno, sappi
che lo negherò fino al giorno della mia morte. Diciamo che mi sono
abituato ad averti intorno. Perciò sarebbe una seccatura immensa dover
imparare daccapo a sopportare qualcun'altra al posto tuo."
Mi strozzo sul respiro
successivo, perché mi ha soffocato buttandomi entrambe le braccia le
collo, e adesso se ne sta lì appesa come un koala. Tento titubante di
farla smollare.
"Sei una persona migliore di
quello che vuoi far credere, Damon Salvatore."
Resto un po' interdetto, anche
quando mi rilascia ed esce dalla macchina. Mi getta un abbozzo di
sorriso, prima di aprire il portone e sparire al suo interno.
Con il petto un po' contratto da
non so bene cosa, tiro fuori i fogli spiegazzati che escono dalla mia
tasca posteriore, li poso sul volante. Stefan è fortunato ad avere
altre questioni per le mani in questo momento, perché andare da Elena
con questo è una di quelle cose che in situazioni normali gli avrebbe
fatto guadagnare una di quelle sfuriate alla fine delle quali solo
tiragli un pugno su quella mascella dritta mi avrebbe dato la giusta
soddisfazione.
Dovrei essere incazzato nero con
lui. E forse, qualche mese fa lo sarei stato eccome.
Ma non sono incazzato con
Stefan, realizzo mentre siedo sul cofano della Camaro in uno spiazzo
d'ombra ai lati di un sentiero nascosto del bosco sul retro fino al
quale ho guidato con uno scopo preciso. Sono più incazzato con me
stesso e con l'idea che anche dopo tutti gli sforzi che ho fatto per
seppellire quella parte della mia vita e il buco che ha lasciato, sono
ancora a qui a farmici condizionare.
Voglio quella parte chiusa e
seppellita due metri sotto terra dove lo è anche fisicamente. Perciò
non lo so perché mi sembra più presente che mai, mentre prendo i fogli
dentro a quella dannata cartelletta, ci avvicino l'accendino, ed uno ad
uno li guardo bruciare.
***
Dissero che cappottammo un paio di
volte, prima di fermarci al limitare della strada, il tettuccio
schiacciato della Camaro appoggiato contro uno degli alberi che
iniziavano dove l'asfalto finiva. Dissero anche che persi conoscenza
immediatamente per via della botta alla testa, e che è per questo che
di quel che seguì, o almeno delle due ore successive, ho solo pezzetti
e frammenti sconnessi. Un momento c'era Jimi Hendrix che cantava cupo e
a tutto volume, e quello dopo c'era Stefan che aveva riportato lo
sguardo sulla strada e sterzato bruscamente dal lato opposto per non
finire nell'altra corsia, e tutto era andato sottosopra. Dopo ancora
c'erano un sacco di luci lampeggianti rosse e blu, e un qualche idiota
col giubbotto medico che mi puntava un piccolo fascio di luce dritto
negli occhi chiedendomi cose stupide tipo se potevo guardare verso
destra invece che rispondere a cose che importavano davvero come dove
cazzo è mio fratello. C'era la barella nel mezzo del pronto soccorso
dove mi misero dicendomi di calmarmi e di stare tranquillo, ma
continuando a non dirmi un assoluto cazzo di niente. Venni tastato,
tamponato, infilzato, e chiesto un sacco di domande senza che nessuno
si degnasse di rispondere alle mie.
Ti fa male
se premo qui? Dove è mio fratello.
Quanto hai
bevuto? Come sta, sta bene.
Sai come
possiamo contattare un genitore? Non ho bisogno di punti, ho bisogno di
sapere di mio fratello!
Poi una di
loro ebbe pietà di me, disse che avrebbe chiesto e sarebbe tornata,
mentre io dovevo solo stare lì fermo con un ago gigante infilato nel
braccio che mi pompava nelle vene qualche soluzione trasparente per
farmi smaltire più in fretta l'alcol dal sangue. Aspettai per quelle
che parvero delle ore, e quando tornò mi disse che lo stavano operando.
"Che tipo di operazione" avevo domandato invaso dal panico, e a quel
punto eravamo già tornati ad un serio "Abbiamo davvero bisogno di
riuscire a contattare un genitore" e "Resta calmo, torno quando ne
saprò di più, adesso però dobbiamo farti quella TAC, ok?"
Fanculo la
TAC. Nel momento in cui venni lasciato di nuovo da solo, strappai l'ago
via dal braccio senza neanche curarmi di mettere un cerotto sopra al
buco, e presi a vagare per corsia dopo corsia, il ronzio in testa che
di tanto in tanto si faceva più forte, la nausea quando giravo un
angolo troppo in fretta e dovevo fermarmi finché non passava - tutto in
una triste e irreale processione di camici bianchi, dell'aspetto
consumato dei malati, di chiacchiere degli addetti all'accettazione, di
persone che aspettavano e aspettavano e aspettavano. Ma non sapevo dove
andare e non sapevo a chi chiedere, e dopo altri quindici "mi dispiace,
non lo so" e altrettanti "vado a chiedere, aspetta qui", mi sentivo
solo e impotente, e stanco e esasperato, e disperato fin nelle ossa.
Uscii
dall'ingresso principale, senza neanche sapere come ci fossi arrivato,
mi appoggiai contro il muro e mi accasciai sul pavimento.
Era una così
piacevole, perfetta, tiepida notte di fine estate là fuori - non più
così afoso da non lasciarti respirare, ma con l'aria lo stesso più
calda di come fosse di solito quel periodo dell'anno, come se l'estate
si rifiutasse testardamente di finire e cedere il passo a ciò che
veniva dopo. Non ho idea di quanto rimasi lì, senza la forza di
rialzarmi, ronzio e nausea che a tratti si facevano più forti e a
tratti sparivano completamente, a tormentarmi in pensieri che non
volevo avere ma che avevo, Stefan così giovane con la voce seria, non
avrei dovuto farlo guidare, e se avessi, e se non avessi, come cazzo
avevo potuto distrarmi e lasciare che accadesse.
Fu il suono
della breve corsa sopra l'asfalto, che risuonò così chiaramente nella
notte che intanto si era fatta più silenziosa, a farmi sollevare la
testa.
Elena
era di fronte a me. Con i capelli legati disordinatamente in una coda
affrettata, le converse su un vestitino a piccoli pallini bianchi, gli
occhi lucidi sotto alla luce bianca dei lampioni, il respiro
accelerato. Era così fuori posto in quel mio scenario alienato e
surreale, e la prima cosa veramente a fuoco da Jimi Hendrix che cantava
All along the watchtower.
"Cosa ci fai
qui?"
"Sono venuta
con Care, lo ha sentito da sua madre alla radio della polizia, stava
dando di matto …" Parlava affrettata, ansiosa. "Stai bene?"
La mia gola
crebbe di tre taglie. "Stefan …"
"Lo so."
Si lasciò
cadere inginocchiandosi lì nello spazio tra le mie gambe piegate, con
le ginocchia nude a graffiarsi contro l'asfalto. Incrociai il suo
sguardo, quello stesso sguardo che aveva tutto il potere di tenermi
insieme e stravolgermi dentro ed entrambe le cose nello stesso momento.
Le sue braccia mi circondarono e l'attimo dopo ero completamente
premuto contro di lei, aggrappato stretto attorno alla sua vita quanto
lei lo era al mio collo, la faccia seppellita nell'incavo del suo collo
e nel vago odore fruttato dei suoi capelli. La strinsi così forte da
farle male, la strinsi fino a che non mi sembrò di stare per romperla,
così piccola e morbida come era. Ma non si ruppe. Quello fui io.
Qualcosa si
tese, si incrinò, e si spaccò, e per la prima volta in non ricordavo
quanto tempo, forse da quando ero bambino, mi sembrò di essere ad un
secondo dalle lacrime. Forse in lacrime ci ero già.
"Andrà tutto
bene," mi sussurrò piano nell'orecchio, e lo sapevo che non ne sapeva
niente, e che non ero un ragazzino che aveva bisogno di sentirsi dire
qualche stronzata per stare più tranquillo, ma dio se fu un momento
meno schifoso degli altri quello in cui l'unica cosa che volevo era
crederle, seppellito nel suo odore e avvolto nel suo calore.
"Damon."
Elena mi
lasciò andare lentamente, delicatamente, ed entrambi ci voltammo in
direzione della voce di mio padre, in piedi lì accanto, che mi aveva
appena chiamato. Lei spostò il peso sedendosi sui talloni, io
incespicai per alzarmi, rivolgendogli il più implorante degli sguardi,
per favore per favore fammi sapere qualcosa.
"Sta bene,"
disse, e se quelle non furono le più belle parole mai uscite dalla sua
bocca io non lo so cosa erano. "La sua milza si è rotta, hanno dovuto
operare e rimuoverla. Ma è stato bravo, è andata bene, sta bene. Starà
bene."
La sua voce
era traballante mentre lo ripeteva, quai dovesse farlo per rassicurarsi
davvero.
Elena si
alzò in piedi. "Vado a dirlo Care. Così sarà più tranquilla."
Annuii nella
sua direzione, abbastanza incapace di parlare per via della gola sempre
troppo spessa (se stessi piangendo o no, ancora non lo avevo capito), e
lei mi restituì un lungo sguardo e l'accenno di un sorriso di
rassicurazione, prima di passare oltre le porte scorrevoli.
Mio padre si
passò una mano sulla faccia. Adesso, stava davvero tremando. Non avevo
mai visto mio padre tremare.
"Cosa
diavolo stavi pensando?"
"Non lo so,"
strozzai fuori. "Non ho pensato …"
"Lo so che
non hai pensato, perché non lo fai mai! Lo sai quanto è stato da
irresponsabili, quando non eri chiaramente in grado di tenerlo d'occhio
o-"
"Mi
dispiace!"
Credeva che
non ci avessi pensato da solo? Che l'unica volta dove avrei dovuto
controllarlo un po', solo per assicurarmi che tenesse le mani sul
volante e gli occhi sulla strada, una cosa così basilare, lo avevo
quasi ammazzato? Pensava che non lo sapessi?
Non replicò.
Cazzo se sembrava miserabile. Cazzo, quanto mi sentivo miserabile pure
io.
"Sei tutto
intero?"
Annuii.
"Cristo
santo," lasciò uscire in un respiro incerto. Chiuse la mano attorno
alla mia testa, scostò via dalla fronte i capelli che coprivano il
taglio superficiale ancora aperto, mi tirò a sé e mi tenne lì. Fu goffo
e stranamente rassicurante, nonché la cosa più vicina ad un abbraccio
che avessimo avuto da davvero parecchio, parecchio tempo. "Vai a farti
controllare la testa, per favore. Ci sono almeno tre infermieri e due
dottori che ti cercano per farti quella dannata TAC. Poi ti porto a
casa."
***
Mi etichettarono come commozione
cerebrale di secondo grado, il che voleva che il mio cervello non era
né danneggiato né in procinto di esplodere, e che gli effetti peggiori
erano già passati, ma anche che sarei dovuto rimanere lì per la notte
per restare in osservazione e avere la mia dose di quel "riposo
assoluto" scribacchiato con grafia incomprensibile nei risultati che mi
diedero. Quindi la prima cosa che feci fu chiedere i fogli per le
dimissioni, meticolosamente spuntando qualsiasi casellina ci fosse da
spuntare per sollevare chiunque altro da ogni responsabilità.
Andai nella
stanza di Stefan. Era ancora addormentato, messo ko dall'anestetico, e
se ne stava lì a giacere nel bianco - bianche le lenzuola, bianca la
sua faccia - con nostro padre seduto in una sedia accanto al letto.
"Che
diavolo è successo qui?" domandai guardandomi attorno.
A
parte il bianco che avvolgeva Stefan, il resto della stanza sembrava
qualcosa uscito da un arcobaleno ubriaco, tra post-it color
evidenziatore, gialli, verdi, blu, fucsia, arancio, e fiori, foto, e
altri ammennicoli vari che rischiarono seriamente di farmi tornare su
la commozione.
Giuseppe si
stirò il collo. "Una ragazzina bionda è venuta a mettere su tutto. Ha
detto qualcosa sul non volere che si svegliasse in una stanza triste.
Credo, parlava davvero tanto per riuscire a starle dietro."
Andai a
sedermi sull'altra sedia, dove c'era una coperta di quelle afghane con
dieci fantasie diverse attaccate insieme che immaginai fosse anche lei
parte della scena.
"Quella è la
sua ragazza."
"Me l'ero
immaginato."
Restammo in
silenzio per quello che sembrò un tempo infinito, rotto solo dal quieto
bip bip delle macchine a cui avevano attaccato mio fratello con tutti
quei fili e tubicini. Seguii con lo sguardo il percorso di ognuno di
essi, quelli che gli finivano nel braccio e quegli che gli finivano sul
petto. Era più facile che guardare quella faccia pallida. Mi chiesi
quanto ci avrebbe messo ad uscire di lì, se avrebbe potuto ancora
giocare a football, se la sua vita sarebbe cambiata in qualche modo.
Avevano detto di no, solo qualche accortezza, ma io avevo mille
paranoie e sensi di colpa per ognuna di esse.
"Là fuori …"
disse infine mio padre. "Era la figlia di Gilbert."
Sentii il
petto contrarsi appena, e una scintilla di collera riemergere da dove
le ultime ore e il pensiero di Stefan l'avevano momentaneamente
eclissata. Continuai a seguire i giri dei fili e tubicini,
ricominciando daccapo, e non dissi niente.
"Sembra una
ragazza a posto."
"Non ti
azzardare," dissi aspro.
Si sporse in
avanti, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia, guardandomi
dall'altro lato del corpo addormentato di Stefan.
"Lo so cosa
stai pensando."
"No, non lo
sai."
"E tu non
sai come stanno le cose. Non è niente di personale, Damon."
"So che stai
prendendo ad una famiglia l'unica cosa che hanno, mandandoli per la
strada per quanto ne sai. Li stai rovinando."
Scosse
lentamente la testa. "Quell'uomo si sta rovinando. Ho cercato di
ragionarci, ho fatto offerte vantaggiose. Lui ha continuato a rovinare
le cose, se stesso, gli affari, la sua famiglia con lui. Ti comporti
come se io fossi il cattivo qui, quando sto solo cercando di fare
qualcosa di buono e quel che è meglio per una città di cui mi importa,
e di farlo come meglio posso. Stiamo parlando di migliaia di posti di
lavoro, e benessere per l'intera area-"
"Se è quello
che ti racconti per sentirti meglio," lo interruppi asciutto, sentendo
la rabbia tornare a pulsarmi contro le tempie.
Si
raddrizzò, tirandosi su. "Non ho bisogno di sentirmi meglio. Vuoi
venire a dirmi che te ne fregherebbe davvero qualcosa, se non fosse per
una ragazza? Sappiamo entrambi la risposta, quindi non venirmi a fare
la morale."
Mi alzai di
scatto, tirai a me la porta aprendola con un colpo brusco.
"Me ne vado."
Fece per
alzarsi. "Ti accompagno."
"No,"
risposi secco senza neanche voltarmi a guardarlo. "Non voglio niente da
te."
Attraversai il corridoio a passo così
inamovibile e incazzato che sul momento quasi non me ne accorsi. Fu il
vestitino nero a minuscoli pallini bianchi ad entrare sfuocato nella
mia visuale laterale e farmi fermare.
Era
addormentata. Le gambe rannicchiate sopra il sedile in plastica da
ospedale, incrociate alle caviglie e con le converse mezze slegate, la
testa appoggiata su una mano.
Tornai
indietro, e mi inginocchiai di fronte a lei, tenendomi in equilibrio
sui talloni. Allungai una mano per spostarle una ciocca scura dal viso
che era sfuggita dalla sua coda allentata, su cui il suo respiro stava
soffiando facendola muovere appena, e mi sentii un po' triste e un po'
patetico e anche un po' un idiota, quando rimasi lì a guardarle il viso
pensando che fosse davvero la cosa più bella dentro a questo posto. Le
accarezzai piano la guancia con il retro delle dita.
Elena si
svegliò con un sobbalzo, sospirando un "Oh, dio, sei tu." Si stropicciò
gli occhi con le mani, premendo i palmi contro le palpebre per
svegliarsi del tutto.
"Cosa ci fai
ancora qui?" le chiesi.
"Ti stavo
aspettando, per sapere come stavi. Stavi finendo di fare altri
controlli."
"Ho paura
che hai aspettato per notizie già risapute. Ho una testa pessima, ma a
quanto pare anche molto dura."
Curvò appena
le labbra all'insù. Quanto ero egoisticamente felice che avesse
aspettato, solo per vedere quella piccola curva all'insù.
Si sfaldò un
poco. "Non sei … arrabbiato che sono qui? Voglio dire, non sapevo se
davvero mi volessi qui, visto che avevi detto …"
Il mio cuore
si infilzò da solo, malamente, sopra alle parole che le avevo detto e
che lei lasciò sospese, sullo sguardo frantumato di Elena che adesso si
mischiava a quello esitante con cui mi stava scrutando in attesa. Lo
spinsi via - ciò che avevo detto, ciò che non avevo detto - e cambiai
discorso prima che fossi costretto a darne conto.
"Sono le
quattro del mattino passate, Elena, ed è stata una notte già fin troppo
lunga. Ti accompagno a casa."
***
Non seppi in che stato ero veramente
ridotto finché non mi ritrovai davanti allo specchio, in un bagno
piastrellato di rosa.
La ferita
che scoprii sollevandomi i capelli sulla fronte, e che era stata infine
incollata e incerottata, era solo l'inizio. Avevo graffi e altri
taglietti superficiali sugli zigomi, la mascella e le mani, che
spiccavano arrossati contro il pallore del resto della faccia e gli
occhi vagamente cerchiati, non sapevo se da un'altra botta o solo dalla
stanchezza. Mi sfuggì una smorfia quando mi tolsi la camicia,
nonostante la cautela con cui la feci scivolare via dalle spalle,
rivelando lividi pesti sotto alle costole e sul fianco destro, nonché
la macchia bluastra nell'incavo del braccio dove doveva essersi rotta
la vena quando avevo tirato via l'ago. Solo in quel momento li
avvertii, tutti insieme, ognuno di quei colpi, sentendomi per davvero
danneggiato fino all'osso.
Mi sciacquai
la faccia, la bocca, il collo, qualsiasi cosa nel tentativo di
togliermi di dosso l'odore di guasto e disinfettante che ancora mi
portavo dietro, e mezzo sorridendo quando l'unico sapone che trovai fu
un bagnoschiuma alla pesca e mandorle che sapeva di ragazza da un metro
di distanza. Ma se non altro avrei avuto addosso l'odore di Elena, che
come prospettiva era decisamente molto meglio.
Ancora non
mi ero del tutto capacitato di cosa ci facessi nel suo bagno, ad usare
il suo sapone ed un asciugamano con un fiore ed una E ricamati sul
lato. Probabilmente era la commozione, che mi stava ancora giocando
qualche ultimo scherzo facendomi perdere altri pezzi.
Eccetto che
i pezzi ce li avevo più o meno tutti, da quando avevamo varcato in
silenzio l'uscita dell'ospedale, a quando in silenzio avevamo camminato
in silenzio per le strade deserte, ed in silenzio eravamo arrivati
sull'ultimo gradino del suo portico avvolto nel buio, la luce di
servizio già spenta chissà da quanto. Ma non era stato un silenzio
strano o imbarazzato. Era invece stato uno sorprendentemente
confortante, nel modo in cui lo sono i silenzi riempiti da tutt'altra
vicinanza, da braccia appena sfiorate di tanto in tanto, da un ritmo
naturale in cui era così facile ricadere. Le avevo davvero detto di non
volerla più vedere? Perché quella notte, in quel silenzio, una cosa del
genere sembrava essere successa in una qualche dimensione parallela.
Sul portico
al buio le avevo dato la buonanotte, ed Elena mi aveva guardato come se
mi fossero appena spuntate tre teste. Ero pazzo, aveva detto, se
pensavo davvero di andarmene in giro da solo, di notte, a piedi, dopo
un incidente e la peggiore nottata della mia vita, quando anzi avrei
dovuto essere ancora in un letto d'ospedale se solo non fossi stato
troppo stupidamente testardo. Dopo una breve discussione che tanto
sapevo in partenza di non avere alcuna speranza di vincere, non con
quell'Elena almeno, quella in versione piccola cosina cocciuta, mi ero
ritrovato sulla soglia del suo bagno mentre lei mi schiaffava in mano
l'asciugamano ricamato con i fiori e straparlava istruzioni come se la
scienza dei rubinetti caldo-freddo fosse diventata materia da
ingegneria nucleare. Si era interrotta e mi aveva guardato da sotto in
su per un momento troppo a lungo, quando si era resa conto che mi stava
sfiorando le dita con la mano che ancora teneva stretto il telo, e
subito dopo era scappata via mormorando un impacciato "ti lascio da
solo."
Rimisi
su la camicia e ne chiusi qualche bottone, troppo stravolto però per
riuscire ad abbottonarli tutti o anche solo metterli nell'ordine
giusto. Fu un piccolo momento di beatitudine, quando toccai il letto.
Anche perché, ammettiamolo, in una condizione in cui ero talmente
sfinito che avrei probabilmente detto di sì anche ad un letto di
chiodi, fiori e rosa a parte, la camera di Elena non era certo la
peggiore prospettiva del mondo.
(Delicate - Damien
Rice)
Non la
sentii tornare. Mi accorsi di lei solo quando il materasso si incurvò
appena sotto al suo peso, mentre si sdraiava accanto a me. Attesi
qualche secondo, lei non disse niente.
Lo sapevo
cosa stava facendo.
"Alcune
persone lo trovano piuttosto inquietante essere guardate mentre
dormono," borbottai.
Le infinite
volte in cui lo aveva fatto - tutte quelle ore folli del mattino presto
in cui temporeggiava e si metteva lì a guardarmi prima di sgattaiolare
via dal mio letto, come se io non fossi stato tremendamente,
perdutamente consapevole di ogni suo movimento e di ogni contorno del
suo essere.
"Non stai
dormendo, o non staresti parlando."
Piegai un
angolo della bocca in un mezzo sorriso. Sentii le sue dita sfiorare le
mie, sopra al cuscino.
"E' stato
orribile, lo sai? Il momento in cui ho sentito dell'incidente e non
sapevo cosa ti fosse successo. Avevo pregato di non dover mai più
provare niente del genere." Il tremore nella sua voce mi fece riaprire
le palpebre. C'era ancora accesa la fioca luce sul comodino alle mie
spalle, e lì in quelle ombre lunghe e sfumate, i suoi occhi su di me mi
parvero più grandi, più scuri e più intensi che mai. Dopo un attimo di
esitazione, mi sfiorò con le dita la base del collo, lì dove il
colletto della camicia si apriva tutto storto, fissando quel punto
tutta assorta come se solo toccandolo potesse assicurarsi che fosse
reale. "Sono stati solo pochi minuti, ma è stato orribile," sussurrò
piano, forse a me, forse solo a se stessa.
"Sto bene,"
dissi, posando la mano sul suo avambraccio.
Realizzai in
quel momento che avrei dovuto parlarle di un milione di cose - di mio
padre e di cosa aveva intenzione di fare, di Donovan che avevo pestato
e di cosa fosse successo davvero tra loro - ma dio che sensazione che
era poterla toccare, ed invece di dirle tutto quello che avevo da
dirle, rimasi lì muto ad accarezzare la peluria impalpabile del braccio
che diventava elettrica sotto alle mia dita. Spostò la mano più su
verso la mia nuca, la intrecciò con i capelli dietro al collo,
stropicciandoli piano, ed io chiusi gli occhi centellinandomi ogni
istante del balsamo che era quel suo gesto.
Sentii il
suo respiro prima di sentire le sue labbra. Una pressione delicata ed
esitante mezza sulla bocca e mezza no.
Aprii gli
occhi. E lei era lì, infinitamente vicina, più di quanto lo fosse mai
stata, con lo sguardo acceso e su di me, pieno di milioni di cose,
ognuna in grado di farmi agitare il sangue ognuna in un modo diverso.
La
tirai a me.
Sapeva di
sere d'estate, dentifricio alla fragola e tutto ciò che c'è di buono a
questo mondo.
Con la mano
salii dal suo braccio al retro della testa, per non farla scappare, per
premere su di lei, per assaggiarla lentamente in ogni nota e sfumatura
familiare che sapevo ci avrei trovato e in quelle completamente nuove
che non avrei mai immaginato di scoprire, e permetterle di fare lo
stesso, con le sue dita sottili nell'incavo del mio collo e la lingua
piccola a modellarsi sulla mia.
Esalò un
respiro più roco e tremolante, e fu quel respiro che davvero cambiò
tutto.
Prememmo più
forte l'uno contro l'altra, il mio corpo tutto sopra al suo, e non
c'era più niente di lento o esitante nelle mani impigliate nei capelli
di entrambi, nelle dita che correvano dove la pelle era più calda, nel
toglierci e restituirci e toglierci tutto il fiato che avevamo da
togliere. Smisi di pensare, smisi di avere lividi, smisi di esistere,
perché non c'era più niente oltre al modo in cui Elena teneva appena il
mio labbro tra i denti per rilasciarlo l'attimo dopo e poi
riprenderselo ancora, alle sue dita affondate nelle mie spalle
attraverso la camicia, costosissima stupidissima camicia sollevata e
storta sul mio addome, al suo corpo che si inarcava e premeva e cercava
le mie mani. Stavo bruciando in un bisogno che non avevo mai
conosciuto, e non me ne resi conto fino a che Elena non prese il mio
volto tra le mani, per sollevarlo dalla scollatura su cui era sceso e
riportarlo verso il suo, che con le ginocchia le avevo aperto le gambe
e la mia erezione stava premendo in movimenti lenti ma decisi contro il
cotone delle sue mutandine. La mia mano destra era sull'esterno della
sua coscia, le aveva appena tirato completamente su la gonna del suo
bel vestitino a pallini arrotolandola intorno ai fianchi.
Mi fermai,
la guardai. Le guance arrossate, gli occhi grandi, il respiro corto.
Posai la
fronte contro la sua - riprendendo fiato, riprendendo il contatto con
la realtà, riprendendo il controllo.
"Mi ... mi
odi?" mormorò in un sussurro spezzato contro il mio orecchio.
La strinsi
più forte.
"Ti amo."
Scivolai ad
appoggiare la testa nell'incavo del suo collo. La sentii smettere di
respirare. La sentii circondarmi più stretto. Non la sentii dire niente.
Non mi
importò. Restai con l'orecchio contro il suo petto, il battito pulsante
al di sotto che correva quasi impazzito, morbido thump thump contro la
mia testa pulsante, fino a perdere la cognizione del tempo e
addormentarmi lì. Era appena iniziata l'alba.
***
"Non avresti dovuto farlo," ripeto per la seconda volta.
Sposto il telefono nell'altra
mano, e continuo a camminare avanti e indietro per il corridoio
gettando un'altra occhiata verso l'orologio alla parete. Un paio di
metri più avanti, dietro alla porta a vetri di una meeting room che ho
con deliberata nonchalance preso in prestito per un paio d'ore dagli
uffici della Salvatore & Associates appositamente per l'occasione,
Katherine sta parlando animatamente con una donna dai capelli scuri che
presumo essere il suo avvocato. La sua faccia sembra tutt'altro che
contenta. Bene.
"Avresti preferito che Elijah se
la rifacesse su di te per essere andato a letto con la sua fidanzata,
mandando all'aria tutti i nostri piani?" replica Stefan con quel suo
irritante tono da "so io cosa è meglio".
Non ho idea di come siano andate
le cose tra lui e la biondina. So solo che lo Stefan medaglia olimpica
in impiccio con triplo salto carpiato di seccatura è tornato, ed è
tornato per rompermi le palle.
"Elena non è parte di tutto
questo e avresti dovuto lasciarla fuori."
"Sì che lo è," ribatte. "Ce
l'hai fatta diventare tu andandoci a letto."
"Non avevi comunque il diritto
di andare a ritirare fuori quella cosa! Cosa pensavi di fare, poi,
usarla davvero come sporco trucchetto per convincerla?"
"O magari pensavo che dovrebbe
saperlo. Magari pensavo di farti un favore. Magari ti farebbe bene,
almeno così riusciremmo a parl-"
"Non c'è niente di cui parlare,"
lo interrompo brusco.
Stefan fa una lunga pausa prima
di rispondere.
"Papà è morto, Damon," dice
ammorbidendo i toni. "Devi far pace con la cosa."
"Sono perfettamente in pace con
la cosa, grazie per l'interessamento," replico con una smorfia. Il ding
dell'ascensore risuona nel corridoio, e questo signori e signore è il
mio segnale per porre fine a questa conversazione. "Sai invece con
cos'è che non sono in pace? Con la mia presto-ex moglie. E ho fatto
volare un avvocato fin qui da Los Angeles apposta per questo scopo,
perciò meglio non farlo aspettare. Devo andare."
Chiudo la chiamata senza neanche
salutare, proprio mentre le porte scorrevoli si aprono su un'alta,
sexy, bionda in uno stretto tailleur nero dall'aria eccessivamente
costosa, che digita rapidamente sul suo cellulare mentre avanza nel
corridoio accompagnata dal ticchettio di tacchi follemente alti e
follemente sottili.
Alza lo sguardo, fa un veloce
scan della mia persona. "Damon Salvatore?"
Corrugo la fronte. "Chi diavolo
sei?"
Rotea lo sguardo, mette via il
telefono.
"Sono il tuo dannato avvocato,"
dice mentre mi sorpassa a passi decisi diretta verso la meeting room.
"O, come tu stesso hai sottolineato quando hai assunto il nostro
studio, quel qualcuno che ti libererà della più grande stronza
esistente."
Si ferma davanti alla porta
chiusa, quando vede che non l'ho seguita. "Beh?"
Sollevo un sopracciglio,
dubbioso. "Sei … Klaus? Credevo di aver parlato con un certo Klaus."
La bionda si produce in una
faccia scocciata, sottolineata da un arricciamento delle labbra piene e
imbronciate, che sembra voler dire uomini,
e non in un'accezione particolarmente lusinghiera. Mi guarda come se
fossi la cosa più mentalmente inetta ad andare in giro sulla faccia
della Terra. Insieme a tutto il genere maschile là fuori, si intende.
"Ti sembro un uomo, per caso?"
"Decisamente no."
"Sono Rebekah, Klaus è mio
fratello. Siamo tutti avvocati in famiglia. E allo studio abbiamo
pensato che io fossi più … adatta, per il tuo caso. Credimi," aggiunge
appena prima di aprire la porta, con un sorriso compiaciuto che mette
vagamente paura. "Non è lei la più grande stronza esistente."
Non è un trattativa. E' una catfight in versione legale ma non per
questo meno sanguinosa giocata secondo regole e logiche che non riesco
ad afferrare del tutto, e non perché ad essermi sconosciuti siano i
termini giuridici. Ad essermi sconosciuti sono i complimenti che
per qualche motivo suonano come insulti, detti col sorriso appena prima
di affondare le richieste dell'altra parte con freddo distacco e
tempismo perfetto. Katherine interviene, il suo avvocato Nadia le dice
di non preoccuparsi.
Beh, fossi in lei mi
preoccuperei eccome. Rebekah è spietata, volge clausole a suo favore,
rigira le questioni, riduce a pezzi tutte le sue richieste.
Il succo del discorso è facile.
Senza accordi pre-esistenti, senza figli, senza proprietà condivise,
senza fondate pretese
su soldi che ho acquisito dopo il matrimonio, senza di fatto essere
stati insieme per l'ultimo anno e mezzo, senza neanche unpesce rosso o
un animaletto domestico, Katherine rimane con le briciole.
"Il mio cliente si offre di
pagare le spese legali così da poter chiudere la questione ancora più
in fretta," sorride Rebekah. "E questo perché siamo generosi. Oh, adoro
quella borsa. E' dello scorso anno, vero?"
Katherine mi osserva. Io osservo
lei. A differenza sua io non ho aperto bocca da quando abbiamo
cominciato, lasciando alle signore il privilegio di tirare fuori gli
artigli e le unghie, per una cazzo di volta sentendomi piuttosto al
sicuro nel mio angoletto, con la mia arma legalmente bionda di nuova
scoperta.
Le sorrido, pacifico. Katherine
fa una smorfia. E' una bella sensazione vederla agitarsi.
"Sto per vomitare."
Allontana la sedia facendola
stridere contro il pavimento, esce velocemente dalla stanza.
Faccio roteare gli occhi al
cielo, mi alzo anche io.
Rebekah mi lancia
un'occhiataccia e mi fa cenno di no con la testa. "Ci tengo a
sconsigliare qualsiasi trattativa privata."
"Voglio solo prendermi la
soddisfazione di darle il colpo finale," rispondo con un sorrisetto,
sistemandomi le maniche della camicia.
Lei mi risponde con di nuovo
quella faccia da uomini.
Cammino verso il bagno delle
signore dall'altro lato del corridoio dove l'ho appena vista entrare.
"Andiamo, Katherine, è finita,"
dico al bagno vuoto, appoggiandomi contro il muro accanto ai lavandini.
"Accetta la sconfitta con grazia così che possiamo entrambi andarcene
per le nostre strade e finalmente far finta che niente di tutto questo
sia mai accaduto."
Uno sciacquone parte da uno dei
cubicoli. Katherine esce e va verso il lavabo per sciacquarsi la
faccia, si scrolla le goccioline d'acqua dalle mani.
"Sono incinta, stronzo."
Scoppio a ridere. "Certo. Come
no. La carta della donna incinta. Solo tu potevi inventarti una cosa
del genere. Davvero la tua bassezza non conosce limiti?"
Getta con violenza nel cestino
la carta con cui ha appena finito di asciugarsi, inizia a frugare nella
borsa e ne tira fuori una manciata di test di gravidanza che sparpaglia
sopra il ripiano.
"Tieni."
Ne conto sei. Mezza dozzina di
segni più che lì su quei bastoncini hanno tutta l'aria di essere una
pessima presa per il culo in formato gioco shanghai. Quando alzo lo
sguardo e incontro il suo nello specchio, è quello il momento in cui
qualcosa di terribilmente simile al panico, vero panico, inizia a strisciarmi
su lungo la pelle. Penso a quella notte quando … No. Dio, no, non voglio neanche
finire di formulare quel pensiero.
Katherine vede il cambiamento
nella mia espressione e solleva un angolo delle labbra, ma non sta
sorridendo, non è divertita, non è neanche sarcastica.
"Non mi chiedi di chi è?"
"No."
La mia debole replica non è una
risposta alla sua domanda. E' negazione pura e cruda.
Mi passa davanti, diretta alla
porta, e quando mi guarda dritto in faccia vedo esattamente quanto sia
incazzata per la cosa. Fredda, aspra, aggiunge, "Mi scuserai se non
faccio le congratulazioni."
La porta del bagno sbatte alle
mie spalle. Pietrificato, immobile dove sono, l'unica cosa che mi viene
da pensare è che adesso sono io quello che sta per vomitare.
———————————————————
Nota. Mi sono
scervellata alla ricerca di una scusa plausibile per cui Caroline
potesse essersi sottoposta ad esami in grado di diagnosticare
un'infertilità-è piuttosto debole, ma passatemela per buona se potete
(o questo capitolo non usciva più)
Spazio autrice
Buonasera! Non chiedo se mi
perdonate il ritardo perché ... beh. Ecco.
Ammetto di non avere nessuna idea
di che reazioni possa suscitare questa "svolta" finale (se il grido di
dolore di Pippo che mi
perseguita da due giorni é un'indicazione, direi non bene xD), ma
qui é dove la storia ed i personaggi mi hanno portato, e quindi é qui
che ci ritroviamo. Personalmente sono un sacco elettrizzata all'idea di
cosa significherà per Damon - ma a me c'è chi mi chiama sadica, quindi
sentitevi libere di unirvi al
grido di dolore, non ve ne farei una colpa.
Mi
dispiace per i due mesi di attesa per il capitolo, ma sono stata
sommersa di lavoro e visto che questi sono gli ultimi capitoli hanno
bisogno di prendersi il loro tempo per venire fuori. Spero che
comunque, al di là di tutto, possa aver ripagato.
Ne ho contati
altri 2, forse 3, prima di mettere la parola fine.
Grazie a IGBD per la
pubblicazione delle anteprime, e grazie a tutte voi che ancora mi
accompagnate leggendo questa storia, con il vostro supporto e i vostri
pensieri. Mi emozionate tutte le volte, non scherzo.
Un bacio, a presto
ever
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Capitolo 23 *** All about you ***
22
Pre-nota. Non lo so
se siete ancora lì, meravigliose appassionate lettrici che hanno fatto
crescere questa storia facendola diventare tutto ciò che è stata per
me. So che i mesi sono stati lunghi e che TVD ha deluso molte
(o almeno la sottoscritta), so che per un bel po' mi sono data al
silenzio, e so
che forse leggere la fine di questa storia adesso, con questo stato
d'animo, magari non sarà la stessa cosa. Mi dispiace di averci messo
così tanto e di aver lasciato tanti bellissimi commenti senza una
risposta.
Comunque
adesso è qui. Ci saranno due ultimi capitoli, questo che è il
penultimo, ed il prossimo che è quello finale, più un epilogo.
Non
dovrebbe passare molto tra la pubblicazione di uno e l'altro.
Al
proposito, prima che leggiate, volevo solo dire che i flashback
di questo capitolo e quelli del prossimo sono strettamente collegati.
Si riferiscono alla stessa giornata, anche se con un focus diverso, ed
è per questo che alcune cose di questi si
capiranno solo nel prossimo, ed alcune cose del prossimo si possono
capire solo tenendo a mente questi.
Le scene "tagliate" non le ho più pubblicate perché mi sono concentrata
sul riuscire a finire la storia principale, e tornare a pubblicarla a
settembre
come avevo detto. Le riprenderò magari nelle prossime settimane,
come extra.
Grazie delle vostre parole e grazie per avermi, nonostante tutto,
riaccolta sempre con entusiasmo. Sarò felicissima di sentirvi ancora,
se ci siete sempre.
Buona lettura, e a presto
ever
22.
All
about you
- Here I am
still holding on,
you’re
finding ways to break the bonds,
they’re
stronger than you realize
You could
say that I’ve not tried,
I’ve let
you down, left you behind
but you’re the one who’s saying goodbye
-
(All about you - Birdy)
Elena
La prima volta che vidi Damon, lui
non sapeva neanche che io esistessi.
Era
l'homecoming del primo anno. Ero particolarmente eccitata e nervosa,
all'idea della mia prima esibizione con la squadra di cheerleading,
mano nella mano con Caroline, il pensiero del se sarei stata in grado
di fare una capriola all'indietro davanti a tutte quelle persone la più
grande delle mie preoccupazioni. Lui se ne stava appoggiato in disparte
contro uno dei pali di sostegno, l'aria annoiata e vagamente
infastidita. Stava aspettando una delle mie compagne di squadra, una
del terzo anno, e mi ricordo di essermi chiesta se lei lo avesse
notato, che quando le aveva sorriso per salutarla, lì sotto a quel
sorrisetto sfrontato, l'aria annoiata e vagamente infastidita era
rimasta fermamente intatta. Tre giorni dopo, la stessa ragazza era
negli spogliatoi ad inveirgli contro, ad insultarlo dando fondo a tutto
il repertorio che aveva, ed io avevo pensato tra me e me, "io non mi
lascerò mai coinvolgere da ragazzi così".
La prima
volta che avevamo parlato, avevo avuto un assaggio di quanto
traballante potesse essere quel proposito. Lì a quel falò ma lontano
dal fuoco e dalla musica e dal rumore, fu la scintilla a farmi
vacillare. Quella che gli illuminò lo sguardo durante le poche frasi
che avevamo scambiato. Quella scintilla che mi aveva fatto sentire
audace e carina e meno la ragazzina che ancora ero. Avevo flirtato
senza rendermi conto che lo stavo facendo, e mi era piaciuto. Mentre
tornavamo a casa, mia madre mi aveva chiesto come mai stessi
sorridendo, ed io mi ero mordicchiata le labbra per nasconderlo, quel
sorriso segreto, rispondendo un "Nessun motivo" che non avrebbe
probabilmente ingannato nessuno.
Come
fossimo arrivati da lì ad essere ciò che eravamo era più difficile da
dire. E' buffo come raramente ci si renda conto del vero inizio di
qualcosa, finché non vi si è già del tutto dentro.
Forse era
stata la coincidenza di trovarci più di una volta sulla stessa strada,
agli stessi incroci.
Ma non sono
le coincidenze ad attirare le persone. Non era coincidenza tutto ciò
che avevamo intravisto, cercato, trovato, perso e ritrovato ancora e
ancora l'una nell'altro. Non era coincidenza il modo in cui avevamo
finito per legarci. Quello lo avevamo cercato. Voluto. Necessitato.
La prima
volta che lo realizzai davvero fu quella notte: quella in cui si
addormentò su di me, ammaccato e sfinito, sul mio petto che non la
voleva smettere di girare per quel bacio che mi aveva tolto tutto il
respiro che c'era da togliere. Quella notte già vicina all'alba in cui
scivolai nel sonno pensando al ragazzo annoiato appoggiato contro il
palo. A quello spezzato sul mio petto. A tutto ciò che c'era nel mezzo.
Ciò che non
avevo considerato, però, era che la stessa cosa avrebbe potuto dirsi
per ogni volta che ci facevamo a pezzi. Neanche ad allontanarci era la
coincidenza; era che non potevamo farne a meno. Se lo avessi fatto, se
avessi considerato anche quello, allora forse lo avrei saputo già, che
il momento in cui credetti di averlo ritrovato era solo quello in cui
lo stavo perdendo davvero.
***
E' decisamente troppo presto per essere al Grill. Sia perché non
apriamo per almeno altre due ore, sia perché è Jenna ad avere il primo
turno del mattino, ed io non dovrei essere qui almeno fino all'ora di
pranzo. Ma ugualmente chiudo la porta alle mie spalle, lasciando
entrare insieme a me un prezioso soffio di fresca aria mattutina,
lascio la borsa ad un lato del bancone, mi lego i capelli, e do il via
ad una routine automatica che è piatta e tediosa ma che è anche l'unica
cosa che ho trovato da frapporre tra me e l'irrequietezza che mi pulsa
dentro.
E' meglio essere qui, alle
cinque e mezza in una frizzante mattina di sole che diventerà calda ed
umida nel giro di poche ore, piuttosto che a rigirarsi in mezzo a
lenzuola spiegazzate dopo un'altra notte mezza insonne come tutte le
notti che ho avuto da quando ho lasciato San Francisco. E' meglio che
dare occhiate nervose al telefono solo per trovare un'altra chiamata
persa di Elijah, è meglio di questo dannato limbo in cui sono andata ad
infilarmi, è meglio che stare senza far niente ed è meglio del
decidersi a fare qualcosa riguardo a tutti i fili sottili che fino a
poco tempo fa tenevano insieme la mia vita e che adesso non so più che
diamine di fine abbiano fatto.
No, l'ultima è una bugia. Non è
meglio. E' una lotta allo sfinimento con me stessa che sono troppo
codarda per vincere.
Sono passati tre giorni da
quando Stefan mi ha chiesto di mantenere la farsa e tenere nascosto il
mio tradimento agli occhi dell'uomo a cui ho già mentito così a lungo,
ed io non sono stata capace né di accettare né tantomeno di rifiutare.
Tre giorni in cui temporeggio, considero cosa sia meglio fare, evito
Elijah, prendo tempo, evito Damon, evito me stessa, temporeggio ancora
un po'. E mi sono resa conto che è un giochetto a cui sono dannatamente
brava. Fin troppo brava. Così brava che non lo so più neanche io, se
sto prendendo tempo perché voglio concedere a Stefan e a quel suo
complicato, frustrante, fratello il tempo che mi ha chiesto o
semplicemente perché non decidere è quello che faccio. A volte, ho la
sensazione di star temporeggiando, e fingendo, da quasi metà della mia
vita.
Così, invece di pensare a
quello, riverso tutta la frustrazione e l'irrequietezza repressa su
miriadi di piccole cose di decisamente più facile soluzione. Passo la
spugna sui tavoli. Riordino le bottiglie sugli scaffali. Pulisco le
macchine del caffè, metto ordine tra le ultime fatture, scrivo liste.
L'inventario della dispensa, le cose in eccesso, le cose da ordinare.
Turni del personale, mercoledì, giovedì, venerdì …
Parlare con
Jenna.
Guardo l'ultima voce che ho
appena scribacchiato sul piccolo bloc-notes giallo. Sollevo la penna e
sto per scarabocchiarla via, mi fermo e la poso sul foglio.
E' uno di quei pensieri un po'
folli, uno di quelli che mi è passato per la testa in una delle mie
notti agitate. Uno di quegli "e se
..." che arrivano lampeggiando nella testa
in un insieme un po' strano di euforia e paura, e se, e poi
quando si fa giorno ti lasciano lì a domandarti, l'ho davvero pensato,
voglio farlo davvero.
Mordicchio la penna. La frase
rimane lì.
La porta si spalanca di colpo,
strappandomi dalle mie liste e dai miei "e se" e facendomi raddrizzare
dal bancone. Caroline irrompe nel locale, io getto uno sguardo confuso
verso l'orologio alla parete.
"Care!" le vado incontro. "Che
ci fa qui così presto, non sono ancora neanche le set…"
Caroline mi taglia corto
sollevando la mano sinistra davanti alla mia faccia, risplende in un
sorriso e nell'alone di sole che filtra dalla porta aperta alle sue
spalle.
"Sto per sposarmi!" grida.
Spalanco gli occhi e li sposto
tra lei e lo scintillio sull'anulare che mi ha messo davanti. L'attimo
dopo mi lancio su di lei abbracciandola così stretta da tirarle fuori
un altro squittio acuto, sentendomi riempire fino all'orlo, scoppiare
di felicità per lei, che ride stringendomi di rimando.
"Oh mio dio," rido. "Oh mio dio,
sono così felice per te!"
La lascio andare solo per
afferrarle la mano e rigirarmela davanti agli occhi in modo da poter
dare un'occhiata come si deve alla nuova aggiunta attorno al suo dito.
E' incantevole. Più piccolo del mio, ma è così perfetto, così delicato,
così armonioso, e così Caroline da essere infinitamente più bello.
Torno a guardare lei, sorrido di
nuovo. "Cosa ti ha fatto cambiare idea?"
Inclina appena la testa di lato,
ed il sorriso che le curva le labbra si fa quasi timido.
"Stefan," risponde
semplicemente, in un modo che da solo dice tutto e non avrebbe neanche
bisogno di aggiungere altro. "Mi ha fatto capire che non vuole sposarmi
per via di qualche concetto di ideale di come dovrebbe essere le cose.
E' perché siamo noi. E in qualsiasi modo andranno le cose, qualsiasi
cosa decideremo … basta che siamo noi."
Deglutisco a forza, attorno a
qualcosa che adesso mi punge la gola. Ho gli occhi inumiditi di
felicità per lei, ma anche di una piccola punta di retrogusto triste
che mi ha appena amareggiato la bocca.
"Oh, non piangere," mi ammonisce
lei con un colpetto sulla spalla. "Per favore. Perché se piangi tu, poi
inizio a piangere anche io, ed ho smesso soltanto tipo un'ora fa, e
proprio oggi non posso andare in giro con gli occhi gonfi, ok?"
Rido e mi asciugo sotto le
palpebre. "Non posso promettere niente."
Caroline sorride. Poi, come
ricordandosi improvvisamente qualcosa di molto più importante, mi
afferra per entrambe le braccia.
"Ho bisogno del tuo locale.
Oggi." Fa un ampio gesto con le mani. "Tipo, tutto quanto."
Sbatto le palpebre perplessa.
"Cosa?"
"Per la festa di fidanzamento.
Stasera."
"Stasera?… Non hai bisogno di
almeno un paio di giorni per organiz-"
"Sette anni!" Mi interrompe
subito lei. "Non ho intenzione di aspettare un giorno di più."
"Ma tutto in giorno solo, come-"
"Pronto? Lo sai con chi stai
parlando, sì?" Si affretta a tirare fuori sia il telefono che
l'agendina dalla tasca e semplicemente così, nel giro di mezzo secondo,
la sua mente è già volata via. "Dunque. Devo chiamare Bonnie e tipo
tutti quelli che conosco, e poi ritorno così possiamo parlare del cibo,
e, oh, poi vado dal fioraio e vediamo anche per la musica, e
naturalmente devo scegliere il vestito, e …" Prende un profondo respiro
e dà il via al conto alla rovescia sul display del telefono. Solleva di
nuovo lo sguardo con un largo sorriso. "Dodici ore. Tanto lavoro da
fare. Ci vediamo!"
Mi schiocca un bacio sulla
guancia e turbina via fuori dalla porta, senza neanche darmi il tempo
di rispondere, lasciandomi frastornata in un locale vuoto
improvvisamente ancora più silenzioso di prima.
Torno verso il bancone.
Giocherello con le mie liste e le mie piccole cose di più facile
soluzione, senza riuscire davvero a riprenderle da dove le avevo
lasciate. Quel grumo felice e solo appena un pochino triste non lascia
spazio a nient'altro.
Mi asciugo di nuovo gli occhi,
anche se non lo so più queste che tipo di lacrime sono, ed esito appena
un altro momento, prima di allungarmi verso la mia borsa. La piccola
scatoletta di velluto dove ho richiuso l'anello che dovrebbe stare al
mio dito mi guarda accusatoria dall'altro lato della zip aperta. Prendo
il mio telefono.
Risponde subito, già senza più
alcuna traccia di sonno nella voce. Quando parlo, devo prima prendermi
un attimo per schiarirmi la voce.
"Ciao … " Inspiro. "Penso che
dobbiamo parlare."
***
Strisce brillanti di sole che
rompevano le ombre pallide della stanza. Il ragazzino dei giornali che
gridava qualcosa fuori dalla finestra. Troppe poche ore di sonno ad
ovattarmi la testa.
Impiegai
qualche secondo, ed una stordita occhiata intorno, per capire cos'era
che mi aveva appena svegliato.
Mio fratello
era in piedi sulla soglia della mia camera, tra la stipite e lo
spiraglio di porta aperto solo quel tanto che bastava per incorniciare
la sua figura lunga e magrolina, intento a fissarmi.
No, non
stava fissando solo me. Ma me accanto a Damon ancora profondamente
addormentato, con la testa sul mio cuscino ed un braccio attorno al mio
fianco per tenermi vicino a lui.
Piano, mi
tirai su a sedere. Un afflusso di calore mi imporporò le guance, sotto
allo sguardo incuriosito di mio fratello, e all'improvvisa
consapevolezza di avere ancora la gonna disordinatamente aggrovigliata
intorno ad una coscia, incastrata sotto alla gamba di Damon. La spinsi
giù - cercando di non soffermarmi sul respiro regolare di Damon che
soffiava piano sulla mia spalla, sul turbinio di sensazioni della
scorsa notte che andava a riaccendere - e riportai lo sguardo su Jeremy.
Mi portai un
dito sulla bocca, per fargli capire di fare silenzio.
"Scuola,"
mimò lui con le labbra.
Annuii ed
aspettai che se ne andasse. Non lo fece.
Gettai un
rapido sguardo verso Damon. Dovetti resistere all'impulso di scostargli
una ciocca spettinata di capelli neri dalla fronte, lì sopra al taglio
rattoppato che gli attraversava l'attaccatura dei capelli, e
costringermi a mettere tutto da parte per un altro momento, uno senza
mio fratello in pigiama ad aspettarmi sulla soglia della porta, per
poter riuscire ad allontanarmi da quel letto. Gentilmente, mi sottrassi
al suo abbraccio. Mi alzai.
Mio fratello
si girò verso di me non appena ebbi richiuso la porta alle mie spalle.
"Scopate,
voi due?"
"Jeremy,
modera il linguaggio!" lo rimproverai, sospingendolo verso la sua
camera e intimandogli di andare a vestirsi, con il viso in fiamme.
Andai anche
io a lavarmi e vestirmi, nel bagno del piano terra, e quando entrai in
cucina, trovai Jeremy già al tavolino impegnato a cacciarsi in bocca
cucchiaiate di cereali. Aprii il frigo per prendere altro latte, solo
per scoprire che non ce ne era più, così come non c'era più niente
praticamente di qualsiasi cosa, ad eccezione di un mezzo barattolo di
maionese ed alcuni avanzi di una cena portata a casa dal Grill.
Sospirai, presi una manciata di cereali e li spruzzai con ciò che era
rimasto sul fondo della bottiglia lasciata da mio fratello. Dovevo
ricordare a mio padre di darmi i soldi per andare a fare la spesa.
"Papà è già
uscito?" domandai.
Jeremy
scrollò le spalle. "Non è mai tornato."
Mi bloccai.
"Cosa?"
In
risposta, ottenni solo un'altra scrollata di spalle.
Mi
abbandonai all'indietro contro lo schienale della sedia, rigirando il
cucchiaio tra i cereali secchi, senza mangiarli. Quella di mio padre di
non presentarsi a casa neanche dopo l'orario di chiusura del locale era
una novità recente delle ultime settimane che stava già diventando
abitudine. O se ne andava in qualche bar fuori mano finendo per dormire
in macchina fino a che non era abbastanza sobrio per tornare il mattino
dopo; oppure direttamente non lasciava mai il locale, a volte con la
scusa di un gruppetto di clienti che rimaneva oltre orario, a volta con
quella di lavorare su fatture e ordini, e altre cose che non poteva
fare durante il giorno. In ognuno di questi casi, le mie notti si
consumavano nell'ansia, fino a che rientrava al mattino comportandosi
come se io e Jeremy non lo avessimo neanche notato. Di solito, glielo
lasciavo credere. A parte una volta, la settimana scorsa, in cui non ci
ero riuscita. Avevo pianto, ed aveva pianto anche lui, una serie di
implausibili, interminabili, scuse e promesse che non sarebbe successo
mai più. Fino a che non sarebbe successo di nuovo.
Mentre
ancora rigiravo, inappetente, il cucchiaio nei cereali, Jeremy si fermò
a riflettere.
"Pensi che
ci darebbero dei soldi se per caso morisse? Tipo un bonus orfani o cose
del genere. Ho sentito dire che a Benny Riley hanno dato dei soldi dopo
che è morto suo padre, forse sarebbe la stessa cosa anche per noi. Però
lui ha ancora una mamma, noi no. Quindi forse ci manderebbero via
lontano, da qualche zio cattivo, come in tutti quei libri sugli orfani.
E lui ci ruberebbe tutti i soldi, e quello sì che farebbe schifo."
Corrugò la
faccia in smorfia delusa, come se fosse quella la cosa più allarmante
di tutto il suo discorso. Lo fissai ammutolita, mentre lui tornava
tranquillo a ruminare i suoi cereali, ignaro dei brividi freddi che mi
aveva appena fatto avere lungo la schiena. Mi tremò la voce.
"Come ti
vengono in mente certe cose?"
Jeremy
sollevò lo sguardo dalla ciotola. "Perché? Tanto è inutile in ogni
caso."
La mia mano
scattò senza pensare. Lo schiaffo che gli diedi fu così brusco e
inaspettato che ci lasciò impietriti entrambi. Non avevo mai alzato le
mani su mio fratello. Non avevo mai neanche pensato che avrei potuto
farlo.
Jeremy mi
guardò con gli occhi sgranati, portandosi una mano incredula sulla
guancia adesso rosso brillante. La mia, di mano, stava ancora bruciando.
"Non
ti azzardare," dissi piano, con una calma che non sentivo, "mai
più, a dire cose del genere."
Jeremy
spinse via la sedia, afferrò con stizza il suo zaino appeso allo
schienale, e corse via.
Come lo
schiocco del portone echeggiò nella casa, mi portai la faccia tra le
mani, imponendomi di non piangere, di arginare tutti quei flutti di
rabbia e frustrazione che mi stavano annegando dentro. Li lasciai
ondeggiare e prendere il sopravvento, ma solo per alcuni istanti.
Passati quelli, inspirai e li rimisi sotto controllo, come avevo
imparato a fare.
Gettai
un'occhiata verso il piano di sopra. Avrei voluto correre su per le
scale, tornare a raggomitolarmi dove ero fino a poco fa, e sciogliermi
contro il suo corpo fino a che di me non fosse rimasto più niente.
Invece,
mi alzai, con lo stomaco ancora vuoto della colazione lasciata intatta,
ed andai a prendere le chiavi di riserva del Grill. Prima di uscire,
feci scivolare un biglietto sotto alla porta di camera.
Scusami se sono dovuta andare
via.
***
"Quindi, non glielo hai detto."
Bonnie mi porge un'altra foto.
Il Grill è chiuso al pubblico se non per gli addetti alla preparazione
della festa di fidanzamento di stasera, ed è incredibile il modo in
cui, sotto alla regia di Caroline, più la giornata progredisce più il
locale si stia trasformando in uno spazio più intimo e romantico tutto
a sua misura. Bonnie ed io abbiamo approfittato della sua tappa dal
parrucchiere per mettere in atto la nostra piccola sorpresa. Abbiamo
ancora più o meno mezz'ora per finire di nascondere tra segnaposto e
decorazioni floreali varie foto della coppia nei loro anni insieme - da
Mystic Falls edizione 2005, al college, ad istantanee recenti - così da
fargliele trovare stasera.
E' stata Bonnie ad andare a
cercare Damon per chiedergli se avesse del materiale da aggiungere. Io
non ce l'avrei fatta, oggi, ad affrontare anche lui. La cosa a lei non
è sfuggita.
"Stasera. Ci parlerò stasera,"
rispondo.
"Vuoi rompere con lui alla festa
di fidanzamento della tua migliore amica? Piuttosto spietata come cosa."
"Lo so, è solo …" scuoto la
testa. "E' solo che non ce la faccio ad andare avanti così, Bon."
Mi rigiro tra le mani l'immagine
di Caroline e Stefan che sorridono all'obiettivo, Damon che passa di lì
e rovina la foto cercando di leccare l'orecchio al fratello, uno scatto
che io non avevo mai visto.
Forse è stato vedere il colorito
radiante sul viso di Caroline questa mattina. Forse è stata quella nota
amara in mezzo a tutta la felicità che sinceramente sento per lei. O
forse, è solo che a volte arriva un momento, arriva e basta, in cui sai
di non poter stare anche solo un giorno di più, senza dire la verità.
Finisco di attaccare la
fotografia.
"Devo annullare questo
matrimonio. Devo lasciar andare Elijah."
"E gli dirai la verità, tutta la
verità, nient'altro che la verità?" chiede la mia amica. Ci scambiamo
uno sguardo, lei solleva un sopracciglio. "Sai … quella che inizia con
la D?"
"Non ho intenzione di sbattergli
in faccia qualsiasi cosa ci sia stata tra me e Damon, se è questo che
intendi."
Del resto, neanche io sono poi
così sicura di cosa esattamente ci sia stato, tra me e Damon. O di
quale sia la situazione in cui ci troviamo adesso, di cosa finiremo per
farne … La porta che mi ha chiuso in faccia quando ho tentato, ancora
una volta, di raggiungerlo lì dove continua a non lasciarmi avvicinare,
brucia ancora almeno quanto il pensiero della sua reazione a quella
cartellina tra le mie mani, del muro che mi ha alzato davanti, e di
quanto sia stata ingenua la mia speranza che magari potesse esserci un
modo, nonostante tutto, di abbattere certe distanze e non dover
continuare con il gioco al massacro ad ogni minimo confronto.
Ma tutto questo, Damon … è
qualcos'altro. Qualcosa che potrà avermi messo di fronte a tutto ciò
che non volevo vedere, ma non è Damon il motivo per cui quell'anello è
tornato nella sua scatoletta invece di stare al mio dito. Quel motivo
sono io.
"Damon è irrilevante," finisco.
Bonnie sospira. "Penso che
possiamo smetterla tutti di far finta che Damon sia mai veramente stato
irrilevante per te."
Non so bene neanche io cosa
rispondere a ciò, in questo momento, così mi limito al silenzio e a
tornare a cercare il nascondiglio per la prossima foto.
"Oh, quasi dimenticavo," dice
Bonnie, per fortuna lasciando cadere il discorso. Si fruga in una tasca
per tirarne fuori un pezzettino di carta che mi porge con un mezzo
sorriso. Lo prendo in mano incuriosita.
"E' il contatto di un professore
e consulente studentesco al Whitmore, un buon amico di mia nonna. Ha
seguito spesso persone che si sono iscritte tardi al college, e può
aiutarti con tutte quelle questioni pratiche e amministrative, magari
consigliarti un po' … Gli ho già detto che lo chiamerai."
Sposto stupita lo sguardo tra
lei e il nome e numero di telefono scritti a mano sopra al foglietto,
senza sapere bene cosa dire.
"Bonnie, io non …"
"Mi hai detto tu che ci stavi
pensando, no? Di iscriverti al college. Così ho pensato …"
"No, sì, lo so, è solo che …"
Rivolto il pezzetto di carta tra le dita, sentendomi al tempo stesso un
po' sciocca ed un po' emozionata esattamente come nel momento in cui mi
sono lasciata sfuggire quella cosa con Bonnie, quel pensiero un po'
folle da notti insonni di dare tutta un'altra direzione alla mia vita.
Mi ritrovo a farfugliare. "Voglio dire, lo so cosa ho detto, ma non so
se sia poi una buona idea, insomma dovrei pensare a cosa fare per la
retta, e poi c'è tutta la questione del bar, non posso semplicemente …"
Mi interrompo da sola, quando la
mia stessa scrittura salta su davanti ai miei occhi - parlare con Jenna -, sollevo di
nuovo gli occhi su Bonnie. La mia amica sta sorridendo.
"Credo che quando smetterai di
raccontarti scuse su ciò che non puoi fare, Elena … Troverai il modo di
fare anche tutto il resto."
***
La deviazione che feci per passare
dal Grill prima di andare a scuola, per controllare che mio padre fosse
lì, mi costò quarantacinque minuti di ritardo a lezione, ed altri
trenta passati nell'ufficio della consulente scolastica, che con aria
grave iniziò il solito ispirato discorso su quanto fosse importante non
iniziare il nuovo anno scolastico nello stesso modo in cui avevo
concluso il precedente, tra ritardi ingiustificati e oscillanti alti e
bassi nel rendimento.
Ascoltai,
annuii. Mi rassegnai al fatto che, come non era la prima, non sarebbe
stata neanche l'ultima volta che lo avrei sentito.
Il resto
della mattinata fu penosamente lento da far passare. Ogni minuto si
dilatava all'infinito; ad ogni occhiata di lato verso l'orologio, le
lancette si erano mosse a malapena.
La
voce dell'incidente di Stefan della notte prima si era sparsa in
fretta, era la notizia del giorno. Perfino Matt mi aveva avvicinato
prima di entrare in classe, per chiedermi se per caso ne sapessi
qualcosa, se Stefan stesse bene. C'era uno spesso livido bluastro al di
sotto del suo occhio destro, ma mi guardai dal fare domande. Tutta la
situazione era già fin troppo imbarazzata così. Non ci eravamo più
parlati, da dopo quella notte.
Ma, in
verità, ero io ad essere completamente fuori dal mondo. Niente di ciò
che mi circondava o accadeva intorno a me riusciva davvero a
focalizzare la mia attenzione. Ognuno dei pensieri che avevo messo da
parte al mattino, ogni dettaglio della notte passata, era tornato più
vivo che mai, a prendere il sopravvento su qualsiasi altra cosa.
A
matematica, a inglese, a storia … non ero lì. Ero nel letto con Damon.
Dietro agli occhi appena chiusi, dietro lo sguardo perso sulla parete
distante, il mento posato sulla mano, c'erano ogni istante e ogni
sfumatura del modo in cui mi aveva baciato - lento e irrefrenabile,
dolce e intenso. E tutto dentro di me si faceva fuso e tremante,
pulsante e irrequieto, e niente esisteva al di fuori di quello. Delle
sue mani sotto la gonna, del timore che non mi volesse più nella sua
vita, delle sue labbra posate appena su quella porzione sensibile di
pelle sotto il mio orecchio, che non sapevo più se fosse davvero sempre
esistita o se l'avesse appena inventata lui, di quel sapore,
quell'odore, quel calore, di più, di più, di più.
Ti amo.
Il mio
respiro si interrompeva di colpo, ogni volta che arrivavo a quella
parte. Esattamente come la notte scorsa, altrettanto bruscamente. Ed
era un calore di tutt'altro genere quello che portava con sé. Non
era di quel tipo tenue e confortevole che aveva reso così facile
restituire le stesse parole quando a dirlo era stato Matt. Questo era
aggressivo, carico di energie proprie, era una sbirciata su tutto ciò
che dava respiro e lo toglieva, era solo domande e nessuna risposta.
Cosa eravamo
adesso? Cosa ne avremmo fatto di tutto questo?
Come fanno
le persone a sopravvivere a qualcosa così? Davvero ci riescono? Davvero
ci sarei riuscita io?
E se se ne
fosse andato, lasciandomi e basta, perché non ero stata capace di
rispondere niente?
(Lo sapeva,
che era solo perché non potevo respirare?)
E se fosse
rimasto, cosa gli avrei detto, nel momento in cui lo avrei rivisto? Mi
avrebbe baciato ancora?
(Dio, fa che
mi baci ancora.)
Mi mossi
sulla sedia, le gambe più liquide al solo pensiero. Intercettai Bonnie
intenta a lanciarmi una mezza occhiata interrogativa, un paio di file
di banchi più giù.
"Stai bene?"
mi chiese muovendo appena le labbra.
Annuii e
riportai a disagio lo sguardo sopra il blocco per gli appunti aperto
sotto alla mia penna, nient'altro che un turbinio di scarabocchi sotto
alla data di oggi.
Bonnie mi
strinse comunque all'angolo non appena finì la lezione, con la spalla
appoggiata contro l'armadietto accanto al mio per non darmi nessuna
possibilità di fuga.
"Hai sentito
Caroline? Mi ha mandato un messaggio che non sarebbe venuta a scuola
oggi."
Misi via i
miei libri. "Forse é andata da Stefan."
"Si, penso
anche io. Ehi," mi diede un colpetto sulla spalla. "Che ti prende oggi?"
"Niente,"
replicai evasiva, scegliendo i libri per la prossima lezione. "Perché?"
"Perché sei
chiaramente da tutt'altra parte."
"Ero con
Caroline al pronto soccorso la notte scorsa. Non ho dormito molto."
"Ed é per
questo che ..." mi scrutò attentamente. ".... sei appena arrossita?"
Mi morsi
l'interno della guancia. Non era rossore. Era fuoco vivo a divorarmi le
guance ogni volta che il solo concetto di "la notte scorsa" mi
attraversava la mente. Chiusi la porta dell'armadietto. Magari avevo
solo bisogno di lasciar uscire tutto quanto. Inspirai a fondo.
"Ho baciato
Damon."
Bonnie
spalancò gli occhi.
"Cosa?
Perc... Perché mai faresti una cosa del genere? E' ..." l'incredulità
nel suo tono cedette il passo al disgusto. "... Damon."
"Grazie per
avermi ricordato il suo nome," risposi sarcastica, gettandole
un'occhiata di traverso.
"Quello che
voglio dire é ..." sospirò, e si sporse di più verso di me, abbassando
la voce. "Dimmi che non stai seriamente considerando di farti
coinvolgere con lui."
Non la
guardai in faccia, mentre rispondevo altrettanto piano. "Magari si."
"Oh,
andiamo, sul serio? Devo davvero ricordarti che si é fatto almeno metà
di questa scuola senza che gliene fregasse mai veramente qualcosa? O
che ha tradito la sua ragazza con la sua migliore amica, ti sei
dimenticata di questo?"
Deglutii con
sforzo. Non lo avevo fatto. Ma per tutto ciò che Bonnie mi stava
mettendo davanti agli occhi, c'era anche così tanto altro, qualcosa che
mi sembrava di aver solo appena iniziato a scoprire, e c'era una parte
di me che lo desiderava con tutto ciò che aveva che fosse questo a
contare di più.
"Senti, lo
so che Damon può essere ... difficile da capire a volte. Ma ... tu non
lo conosci come me. C'é sempre stato, quando ho avuto bisogno di lui."
"Sì, finché
non é così. Lascia perdere come si è comportato con chiunque altro, ma
quante volte ha fatto soffrire te? Solo la settimana scorsa hai pianto
per tre giorni interi, perché ti ha detto di sparire e non cercarlo
più. Pensi che non lo farebbe di nuovo, alla minima cosa?"
Piccole
schegge affilate mi raschiarono l'intera lunghezza della gola. Scossi
la testa per scacciare quel pensiero, per non farle vedere quanto in
realtà quella prospettiva mi terrorizzasse più che mai.
L'espressione
di Bonnie si addolcì, mentre la mia amica mi prendeva la mano e
proseguiva, "E' solo che odio vederti soffrire a causa sua."
"Lo so. Ma
... " Rialzai esitante lo sguardo su di lei. "Penso di essere
innamorata di lui."
Bonnie aprì
la bocca per parlare, ma la richiuse senza dire niente. La campanella
suono'.
Io mi
allontanai in fretta giù per il corridoio, con il cuore che batteva più
forte di quanto fossi in grado di sopportare.
Damon non si fece sentire. Ad ogni
minuto che passava senza una sua chiamata o anche solo un suo
messaggio, uno sgradevole malessere cresceva nel mio stomaco. Sarebbe
dovuto essere già sveglio. Non avrei dovuto lasciare quel biglietto.
Stupido biglietto. Non intendeva davvero quello che aveva detto la
notte scorsa. Lo intendeva ma non voleva più vedermi perché non lo
avevo detto anche io. E se Bonnie avesse avuto ragione?
Mi
concentrai sul dare una mano ai tavoli del Grill, sul cercare di
studiare nei momenti morti. Ma era inutile.
Jeremy,
intanto, ancora non mi parlava. Teneva il broncio e se ne stava chiuso
ad un tavolino d'angolo, curvo sul suo videogioco portatile, senza
neanche alzare lo sguardo.
Pensai al
frigo vuoto a casa, andai nella dispensa a riempire una busta con cui
lo avrei rifornito più tardi. Cercai mio padre con l'intenzione di
chiedergli i soldi per poter andare al negozio a prendere quello che
mancava.
Sapevo che
era nell'ufficio, ma trovai la porta chiusa. Voci arrabbiate
provenivano dall'interno.
"Non puoi
essere davvero così egoista, John! Non è una gran somma per te, e ti ho
già detto che
ti ridarò ogni centesimo. Sono tuo fratello, dannazione!"
"Non è
quello!" replicò l'altra voce, pari a quella di mio padre sia in
collera che in intensità. "Vuoi i miei soldi? Allora smettila con
quella merda. E quando avrai smesso di bere, allora ne riparleremo."
Non
conoscevo molto bene lo zio John. Papà parlava raramente di lui. Non
credo che andassero molto d'accordo. L'ultima volta che lo avevo visto
era stato al funerale di mamma - una carezza tra i capelli, un sorriso
triste, e se ne è era già andato, il tutto avvolto nella stessa nebbia
vuota di quei primi giorni.
Sapevo che
non avrei dovuto. Ma rimasi lo stesso immobile lì, appoggiata contro la
parete del corridoio vicino alla porta chiusa, incapace di smettere di
ascoltare.
"Non ho
bisogno di smettere di bere," ribatté mio padre. "Un paio di bicchieri
a sera non mi rendono un alcolizzato. Quello di cui ho bisogno è che tu
mi presti qualche soldo."
Mi voltai
quando mi resi conto che anche Jeremy era appena apparso all'entrata
del corridoio, con quell'espressione seria che non sta mai bene addosso
un bambino della sua età. Avrei dovuto farlo andare via, ma non lo
feci. Mi limitai a fargli cenno di non fare rumore. Mio fratello si
avvicinò, mi circondò in silenzio la vita con le braccia sottili,
rimase con la testa poggiata contro il mio fianco.
"Fanculo,
stai uno schifo. Ti fai vedere così anche dai tuoi figli?"
"Non ti
azzardare a parlare dei miei figli. Non hai nessun diritto di venire
qui a farmi prediche. Cosa diavolo ne sai di quello che ho passato? Tu
che non hai mai pensato a nient'altro che a te stesso?"
Avevo
sentito abbastanza. Ingoiando amaro, feci segno a Jeremy di muoversi,
le voci che si facevano più indistinte mano a mano che ci allontanavamo
dal corridoio. Portai Jeremy fino all'ingresso delle cucine.
"Perché non
vai a vedere se è rimasta ancora della torta al cioccolato? Non so te,
ma avrei davvero voglia di un po' cioccolato adesso," gli dissi con un
sorriso che fece un discreto lavoro a non lasciar trasparire ciò che
sentivo veramente.
Lui inclinò
la testa. "Tu non vieni?"
"Solo un
momento, ok? Solo un momento e arrivo subito."
Jeremy annuì
solenne e corse via, come se gli avessi appena assegnato un compito di
vitale importanza. Io invece affrettai il passo nella direzione
opposta, oltre la dispensa, oltre la porta sul retro, che spinsi in
avanti per spalancarla di fronte a me.
Ripresi a
respirare solo quando misi piede fuori, lasciando andare le spalle
contro il muro del vicolo laterale, gli occhi chiusi all'aria calda e
spessa di quell'estate persistente, solo un accenno di freddo che
iniziava appena ad infiltrarcisi. Respirai quello, quello spiraglio di
autunno, lentamente e a fondo, fino a che il caos interiore non iniziò
piano piano a placarsi. Come avevo imparato a fare.
Fu in quel
momento che mi resi conto che c'era qualcuno davanti a me. Riaprii le
palpebre.
Damon aveva
i capelli ancora arruffati e scompigliati, graffietti rossi sulle
guance, un po' più lividi attorno ai tagli più profondi. Era così bello
che mi sentii sul punto di scoppiettare nell'aria in mille piccoli
frammenti.
"Ero appena
entrato, e ti ho visto uscire da questa parte," spiegò. Lentamente, la
sua bocca disegnò l'accenno di un sorriso. "Ciao."
Le mie
labbra mimarono spontanee lo stesso identico sorriso.
"Ciao,"
sussurrai.
I secondi si
dilatarono. Il silenzio si riempì di incertezza. L'elettricità mi
percorse la pelle.
Damon si
schiarì la voce. "Ho pensato che forse dovremmo parl-"
Si
interruppe quando feci un passo avanti e gli presi la mano,
stringendola con forza nella mia. Vi abbassò sopra lo sguardo, e serrò
la presa ancora più saldamente, lasciando che le nostre dita
scivolassero ad intrecciarsi tra di loro. Diedi un leggero strattone,
alla sua mano nella mia.
"Portami via
di qui."
***
"Certo. Va bene, a domani allora. Grazie, Professor Shane."
Chiudo la telefonata con un
piccolo sorriso soddisfatto a tirarmi in su le labbra.
Il sole sta tramontando con una
calda sfumatura di giallo e arancio sui profili distanti della
boscaglia alla mia destra, quasi la stessa tonalità dorata scelta da
Caroline come tema per il suo fidanzamento lampo di fine estate. Da
dentro il Grill proviene un rumore addolcito di musica e risate.
Prima di voltarmi e rientrare,
controllo con una contrazione al petto se per caso Elijah abbia
chiamato o stia per arrivare. Preferirei riuscire a parlarci in un
momento più tranquillo, magari da un'altra parte, piuttosto che alla
piccola serata perfetta che i miei amici si sono ritagliati in mezzo
alle loro personali difficoltà. Sto per far partire la chiamata, quando
vedo Bonnie fare capolino dalla porta di ingresso.
"Eccoti!" Agita una mano
impaziente nella mia direzione, mi fa cenno di tornare dentro.
"Andiamo, Caroline ha trovato la prima foto. Non vuoi perdertelo."
La seguo dentro. Il Grill in
questo momento non è più solo un locale: tra le luci avvolte in carta
dorata che pendono dal soffitto, le ombre morbide del tramonto fuori, i
gigli bianchi ai bordi dei tavoli, è un luminoso raggio di sole. Gli
invitati stanno adesso battendo le mani e fischiando verso Stefan, che
ha appena trovato un'altra delle foto nascoste. La sventola verso
Caroline con aria trionfante. A quanto pare, i due si sono lanciati in
una competitiva caccia al tesoro su chi riesce a trovarne di più, e
Caroline sta già mettendo su un finto broncio per essere appena andata
in svantaggio. Cerca di strappargliela dalle mani, lui gliela sottrae,
lei fa una linguaccia.
Scoppio a ridere, insieme a
Bonnie accanto a me, insieme al resto della stanza. Un sorriso residuo
è ancora sulle mie labbra, quando i miei occhi slittano via dalla
coppia felice, verso un'altra familiare figura che ho appena notato
appoggiata contro un tavolo lì vicino.
Deve essere arrivato da poco.
Damon scuote la testa e nasconde
un mezzo sorriso in un sorso dal suo bicchiere. Quando rialza il viso,
e il guizzo azzurro nei suoi occhi trova i miei, la sua espressione
cambia, si immobilizza. Il mio cuore spinge più forte contro le
costole. Ma Damon è particolarmente veloce a sviare lo sguardo e
girarsi da un'altra parte, prima che io possa anche solo accennare,
anche solo capire.
Non so cosa pensarne. Così,
anche se non vorrei, distolgo gli occhi e guardo altrove anche io.
L'erba umida a solleticarmi i palmi e
i polpastrelli. Un cielo pallido di nuvole grasse e instabili, mezze
bianche, mezze grigie. Il sole tiepido a scaldarmi le gambe. L'acqua
che scrosciava energica dalla cascata più in là sulla sinistra.
Gettai la
testa all'indietro ed inspirai.
"Come
conosci questo posto?"
Damon era
appoggiato sui gomiti, una gamba allungata in avanti, una piegata al
ginocchio. Una rapida sfumatura più distante gli passò nello sguardo.
"Ci portava
mio padre quando eravamo piccoli. Ma non ci tornavo da anni. E' un po'
diverso, adesso."
Gettai una
lunga occhiata verso tutto ciò che ci stava attorno - dagli alberi alti
e scuri che ci circondavano e le ombre allungate che riflettevano, al
sentiero quasi invisibile, impossibile da trovare senza conoscerlo, da
cui eravamo arrivati dopo aver lasciato l'auto sulla strada, alla
ripida discesa erbacea che finiva nel fiume, immensamente tranquillo
rispetto allo scoppiettio della piccola cascata d'acqua che andava ad
infrangercisi poco più avanti, una delle tante di questa zona da cui la
stessa Mystic Falls prendeva il nome.
"E'
perfetto," commentai. Mi voltai verso di lui. "Perché non ci sei più
venuto?"
Damon si
tirò su a sedere, piegò entrambe le gambe per posare le braccia sulle
ginocchia. Si strinse nelle spalle, mi gettò un veloce sorriso che mi
sembrò quasi nostalgico.
"Abbiamo
smesso di essere piccoli."
Mi tirai su
anche io, appoggiandomi all'indietro sui palmi delle mani.
Gli ero
grata. Di non aver fatto domande. Di avermi semplicemente portato verso
la scintillante jeep rossa nuova di zecca prelevata dal garage, quella
di Stefan che suo fratello usava per imparare a guidare, borbottando ad
ogni curva che la vecchia Camaro - povera vecchia Camaro che in quel
momento giaceva mezza distrutta in qualche deposito dimenticato - era
lo stesso, sempre e comunque, infinitamente migliore.
Gli avevo
chiesto di Stefan. Sapevo quindi che era andato a trovarlo, che stava
bene, che stava già iniziando a tornare il solito "seccante, pedante,
virtuoso" se stesso, anche attraverso le medicine. Ma non mi erano
sfuggiti l'irrigidimento nelle sue labbra, o l'ombra di senso di colpa
nel suo sguardo. Avevo raggiunto la sua mano, "Non è stata colpa tua".
Damon aveva
annuito, ma dubito che avesse davvero ascoltato.
Dopo quello,
avevamo continuato a guidare in silenzio, i suoi occhi sulla strada, i
miei fuori dal finestrino, scivolando giusto di tanto in tanto verso la
sua direzione.
Non aveva
detto altro, sulla sua giornata prima di passare dal Grill. Ed avevo
l'impressione che ci fosse qualcosa nella sua testa, qualcosa nel modo
in cui fissava la strada, qualcosa di cui non aveva davvero intenzione
di parlare.
Ma era
sparito e lontano, adesso. Adesso che mi aveva sorriso, adesso in
questo piccolo posto perfetto, adesso che era lontano anche tutto il
resto.
Scivolo dietro al bancone, per vedere se Jenna e Sage hanno bisogno di
aiuto con i drink, ma loro mi cacciano via. Mi fermo a chiacchierare
con Bonnie ed un gruppetto di vecchie compagne di liceo, ma la maggior
parte di loro a malapena le sopporto. Poso per una foto ogni volta che
Caroline mi passa accanto, mi afferra per una mano, solleva in alto la
videocamera del suo telefono. Cerco di togliermi dalla testa la
presenza di Damon, le domande su cosa gli stia davvero passando per la
mente. Non qui, non stasera, mi ripeto. Prima devo fare la cosa giusta
per una volta, chiudere un capitolo che non mi rappresenta più.
Ma Elijah è in ritardo. Lavoro,
traffico. E quest'attesa che si trascina, di ore e minuti, mi logora
più di quella di tutti i giorni che ho già perso.
Sto pensando che forse dovrei
aspettarlo a casa, Caroline dovrebbe capire, quando con la coda
dell'occhio noto una nuca bionda, che si guarda attorno con aria
annoiata. Mi blocco all'istante, sorpresa della sua presenza qui.
Mi avvicino a lei, poso il mio
bicchiere sul tavolino lì accanto.
"Rebekah?" la chiamo.
La sorella di Elijah volta lo
sguardo. Mi squadra dalla testa ai piedi, e poi dai piedi alla testa.
Il modo in cui le sue labbra si arricciano in disapprovazione mentre
esamina il modo in cui ho semi-raccolto i capelli, o la scollatura
incrociata del mio vestito aranciato in tema con la festa, mi dice che
non le piace niente di ciò che vede. Ma questa non è una novità. Nelle
poche occasioni in cui ci siamo incontrate, ho sempre ricevuto lo
stesso sguardo da parte sua, e sono piuttosto sicura che non ha niente
a che vedere con acconciature o vestiti, ma con quello che ci sta
dentro. Me.
Quando io ed Elijah avevamo
appena iniziato ad uscire insieme, avevo sinceramente sperato che
saremmo potute andare d'accordo, sua sorella ed io. Adesso, mi ritrovo
a pensare che il freddo distacco con cui mi ha sempre trattato … beh,
forse lo ha sempre saputo, quanto io fossi fasulla.
"Elena. Naturalmente sei qui,"
mi saluta, adorabile come sempre. Segue un sorriso tirato, un doppio
bacio sulla guancia, cortesie di circostanza che nessuna di noi due
sente veramente.
"Cosa ci fai qui?"
"Aspetto Elijah, mi ha detto che
potevamo incontrarci qui, prima del mio volo di ritorno domani mattina.
Che non arriverà mai abbastanza presto," aggiunge con una smorfia ed un
lungo sorso del suo Martini cocktail. "Lo hai sentito?"
"Dovrebbe stare per arrivare, ma
io intendevo …" Corrugo le sopracciglia, confusa. "Cosa ci fai a Mystic
Falls?"
"Oh. Quello." Pilucca l'oliva
sullo stecchino del drink. "Una causa di divorzio, una scocciatura
immensa. Quei due là."
Con l'estremità appuntita del
bastoncino, indica qualcosa all'altro lato della stanza.
Quando mi volto, perdo un
battito. Nell'angolo vicino all'entrata, Damon e Katherine stanno
discutendo, animatamente, i volti vicini come se stessero parlando a
bassa voce. E' impossibile sapere cosa si stiano dicendo. Ma lei ha
un'aria immensamente stizzita, mentre Damon sembra … così spaesato e
turbato che impiego qualche secondo prima di rendermi conto che Rebekah
sta ancora parlando.
"Una totale perdita di tempo,"
sta dicendo, prima di finire con un sorso il resto del bicchiere. "Una
delle mie migliori trattative, sono stata così vicina al portarmi via
tutto, e quell'idiota cosa fa? Mi dice che non vuole andare avanti.
Niente divorzio. Fottuti uomini."
Il cuore mi cade, di colpo, sul
fondo delle viscere. Niente divorzio?…
Mi giro con un scatto verso di
lei. "Cosa? Perché? Com …"
Mi interrompo da sola quando
noto che Rebekah adesso non mi sta soltanto osservando, ma sta
studiando la mia reazione con una nuova scintilla di sospetto che mi
rende all'improvviso perfettamente consapevole di quanto mi sono appena
lasciata sfuggire, nella mia voce e nella mia espressione. Mi sento
arrossire, ma provo a nasconderlo in un sorso d'acqua.
"Voglio dire," dico rimettendo
giù il bicchiere. "Deve essere stata una vera seccatura, per te."
I suoi occhi azzurro chiaro mi
stanno ancora scandagliando come quelli di un predatore, o di una mamma
orsa, che ha appena odorato qualcosa. "Li conosci?"
"Io …" Prima di potermi fermare,
il mio sguardo è già slittato di nuovo nella loro direzione. Katherine
sta per andarsene via. Damon la afferra per un braccio. L'aria persa e
supplicante che compare sul suo volto mi fa contorcere lo stomaco. Mi
costringo a guardare altrove.
"E' il fratello di Stefan,"
spiego schiarendomi la voce. Rebekah mi guarda senza capire. "Stefan,
che si è fidanzato con la mia amica Caroline," indico il locale intorno
a noi. Lei sbatte le palpebre come se stessi parlando di alieni.
"Questa festa di fidanzamento? E' per loro."
"Ooh. E' una festa di
fidanzamento? Ma pensa." Rebekah si sposta i capelli all'indietro sulla
spalla, un gesto che dice banale, banale, banale, e la noia torna a
cadere sulla sua faccia. "Ho bisogno di bere qualcosa."
Come si volta per dirigersi
verso il bar, senza naturalmente degnarsi di aggiungere neanche un
basilare "ciao", i miei occhi balenano di nuovo verso l'angolo accanto
all'ingresso.
Con un lieve martellare sordo
nelle vene, mi faccio strada tra i tavoli e gli invitati fino a che non
sono che ad un paio di metri di distanza. Ma l'unica cosa che riesco a
cogliere è Katherine che si strattona via dalla mano di Damon, tira a
sé la porta e se ne va. Damon che sospira e si passa frustrato una mano
tra i capelli. E poi, con uno scatto impulsivo, si volta e si curva su
se stesso, tira un ancora più frustrato pugno dritto contro il muro.
"Ehi!" gli dico, affrettando il
passo ed avvicinandomi fino a potergli prendere la mano.
Lui d'istinto la sottrae, io la
riafferro, questa volta non si oppone. La giro nella mia per vedere che
c'è un po' di sangue lì dove i mattonicini grezzi del muro hanno appena
graffiato, e l'inizio di un gonfiore appena al di sotto delle nocche.
Turbata, sollevo lo sguardo su di lui.
"Cos'è che ti fa venire voglia
di distruggermi il bar?"
Damon si appoggia contro la
parete, lascia uscire una breve risata, ma è tutt'altro che divertita.
"Il tuo bar è piuttosto duro,
credimi."
Mormora un'imprecazione mentre
si scrolla la mano, flette le dita, ed una vaga smorfia gli attraversa
la bocca.
"Vieni," sospiro. "Ti serve
acqua fredda per quello."
Lo prendo per l'altra mano e lui
mi segue senza fare parola, verso il bagno. Sempre in silenzio, Damon
si dirige verso il lavandino per aprire il rubinetto dell'acqua, io
richiudo la porta.
Vado ad appoggiarmi contro il
mobile lì accanto, giocherello con il cestino delle saponette nel
tentativo di ignorare il vago calore che mi pizzica la pelle quando
sono più vicino a lui. Fallisco, così come fallisco nel mantenere il
mio tono casuale e indifferente quando, dopo interminabili secondi, mi
decido a domandare, "Di che si tratta?"
Ma Damon non sembra neanche
notarlo, il mio tono non del tutto casuale e indifferente.
Con gli occhi incollati
sull'acqua fredda che sta scorrendo sulla sua mano, risponde piano,
"Solo Katherine che mi fotte la testa."
Sbircio da sotto in su, alla
ricerca sul suo volto di quella smorfia o di quel sarcasmo che avrebbe
dovuto trasparire ma che non era nella sua voce, ma non lo trovo
neanche lì. Chiude il rubinetto con uno scatto secco, allunga la mano
verso le carta per asciugarsi. Il mio stomaco si annoda un po' di più,
ripensando a ciò che mi ha appena detto Rebekah.
"E' per questo … per questo che
non vuoi più divorziare?"
Per la prima volta in tutta la
sera, i suoi occhi si alzano spontaneamente per trovare i miei. Guardo
dritto attraverso quell'azzurro adombrato, rendendomi conto con un
sottile nodo alla gola che questa è una di quelle rare volte in cui non
sono in grado, non importa quanto ci provi, di sapere davvero cosa ci
stia passando dentro. Nessuna di quelle volte è mai finita bene per noi.
Damon esita. Poi corruga le
sopracciglia, riporta lo sguardo sull'operazione di tamponarsi piano le
nocche.
"Io … Le cose si sono …
complicate. Non sono sicuro di come … scomplicarle."
Annuisco, anche se non c'è
davvero niente a cui asserire. Provo a respingere l'irrazionale
pensiero che magari è semplicemente di questo che si tratta, che ha
dopotutto deciso che qualsiasi cosa complicata abbia con quella che è
sua moglie sia più importante di qualsiasi cosa potremmo mai avere noi,
che tutto si è esaurito in qualche giorno a San Francisco, che lui è
andato avanti e non c'è più niente da dire. Provo a respingerlo, ma
continua a tornare su, come un riflesso indesiderato, mentre annuisco
un'altra volta, in uno stridente, "Certo. Lo capisco," che in realtà
non capisce assolutamente niente.
Gli passo davanti diretta alla
porta, prima di ritrovarmi a piangere davanti a lui, ma Damon mi ferma
afferrandomi per una mano. Ha le dita fredde, ma il tepore si insinua
lo stesso sotto alla mia pelle, quando le intreccia alle mie.
Mi volto, piano, verso di lui.
Quando lo faccio, è un attimo, un battito che pulsa più intenso, per
sapere che non c'è nessuna Katherine, lì nel suo sguardo, lì nella sua
testa, lì nel modo in cui mi sta guardando. Nel movimento
impercettibile delle dita con cui mi tira verso di sé.
Mi basta quello.
Il mio corpo reagisce prima
ancora che lo faccia la mia testa. Le mie mani lo avvolgono, la mia
bocca si chiude sulla sua, e tutto in me lo accoglie con un tale
immediato abbandono che fa quasi male, sapere quanto ho desiderato
poterlo baciare di nuovo.
"Scendi di lì, Elena! E' un'idea
idiota!"
Come
risposta, oscillando le braccia per mantenere meglio l'equilibrio, gli
rivolsi un gran sorriso.
"Sì, un'idea
tua!" gridai di rimando, in modo da farmi sentire anche al di sopra del
rombo della cascata.
Damon portò
le mani attorno alla bocca, per amplificare meglio la sua replica.
"Non
intendevo sul serio che dovessi provarci tu!"
Lo ignorai.
Ero troppo concentrata a mettere i piedi attentamente uno davanti
all'altro, per trovare il sentiero migliore sopra alle rocce lisce e
scivolose che portavano verso la sommità della cascata. Guardai giù.
Al limitare
della riva, lì dove il getto d'acqua trovava la sua fine
nell'insenatura del fiume sollevando intorno un fine spruzzo nebbioso,
Damon mi osservava con la fronte corrugata, una linea preoccupata in
mezzo alle sopracciglia. Gli mostrai la lingua.
Era iniziato
in modo stupido. Gli avevo chiesto quanto pensava che fosse alta la
cascata. Non tanto, aveva scrollato le spalle, più o meno sette metri,
informandomi con un sorrisetto compiaciuto che lui l'aveva pure
saltata, almeno un paio di volte. La cosa aveva fatto morire Stefan di
paura. Lanciando uno sguardo alle rocce da cui l'acqua si catapultava,
alcune nascoste dagli spruzzi, e al modo in cui la pozza d'acqua si
restringeva appena sotto di essa, potevo capire il sentimento di suo
fratello. Ma non ero riuscita a trattenermi dall'andare a stuzzicare il
suo orgoglio con un noncurante, "Non mi sembra questa gran cosa."
Uno sbuffo
di risposta da parte sua. "Vorrei vedere te, salire lassù."
Così lassù
ero salita. Gli ci era voluto un po', per capire cosa stessi facendo,
quando avevo iniziato a sfilarmi le sneakers di tela e la t-shirt, e
lasciato cadere gli shorts intorno alle caviglie sotto alla sua
espressione spaesata. Erano stati quello sguardo smarrito, quei
titubanti "Che diavolo stai facendo?", la soddisfazione di averlo
lasciato senza parole insieme alla carica di esaltazione di quel
proposito azzardato, a farmi persino scordare, sul momento, di essere
appena rimasta soltanto in biancheria davanti a lui. Per quando anche
lui aveva realizzato quali fossero davvero le mie intenzioni, ed era
scattato in piedi, io ero già a metà strada verso la cima.
"Sei
fottutamente pazza!" mi urlò.
Sorrisi, tra
me e me. C'era un sottotono orgoglioso, dentro a quella frase, che
neanche tutta la parte da stronzo protettivo che stava recitando
sarebbe mai riuscita a mascherare del tutto.
Feci un
altro passo, verso l'alto, tra rivoli di acqua fredda che già
scorrevano sotto ai miei piedi nudi. La roccia sottostante tremò, la
mia presa slittò, persi l'equilibrio, lanciai un grido. Rocce e rami mi
graffiarono le gambe, Damon urlò qualcosa, afferrai al volo un ramo più
spesso che mi impedì di cadere del tutto e sfracellarmi. Sbirciai
nuovamente in giù verso le rocce, questa volta con il respiro più corto
e affannato. Damon era pallidissimo.
"Ok, basta
così, smettila adesso!"
"Sto bene,
sono quasi arrivata!"
Con una mano
pulii dal sangue i graffi sul ginocchio, mi tirai su e ripresi la
salita. Dal basso, mi arrivarono una serie ovattata di "cazzo" e altre
imprecazioni. Quando diedi un'altra occhiata, Damon aveva già tirato
via la sua maglietta e stava per togliersi anche i jeans. Un piacevole
calore, sul petto e sulle guance, mi costrinse a mordermi le labbra e
distogliere lo sguardo. Troppa distrazione. L'apice della cascata era
solo ad un paio di passi di distanza.
Attentamente,
bilanciandomi con le braccia, serrando la presa nelle dita dei piedi,
mi alzai sopra di essa. Fu ebbrezza pura a riempirmi il petto, un
brivido di euforia e di un soffio più freddo di vento, il batticuore
pulsante e vivo dentro le vene. Non mi ero mai sentita così
dannatamente bene.
"Te lo dico
solo un'altra volta, vieni via di lì, o ti vengo a prendere io!"
Gli lanciai
un sorriso, a Damon immerso nell'acqua fino ai fianchi, a Damon
spaventato come doveva a sua volta esserlo stato suo fratello.
"Con
piacere!" risposi.
E saltai.
Fu un afflusso di sangue e adrenalina
così potente, improvviso, elettrizzante, da lasciarmi senza respiro,
almeno quanto l'impatto con l'acqua gelida. Per un istante, vidi solo
bianco e oscurità. Poi scattai d'istinto di nuovo su verso la
superficie, ansimando alla ricerca d'aria. Come l'ossigeno tornò a
riempirmi i polmoni, scoppiai in una risata, carica di vita.
"Oh mio
dio!" gridai. "Oh mio dio, l'ho fatto davvero! E' stato fantastico!"
Scostai
dagli occhi acqua e ciocche appiccicose di capelli bagnati, in respiri
corti e affannati, senza smettere di ridere. Tra l'appannamento sottile
della nebbiolina sottile di gocce d'acqua che spruzzava alle mie
spalle, la figura di Damon prese forma, ondeggiando davanti a me.
"Lo hai
visto?" domandai eccitata afferrandolo per le spalle. "Mi hai visto? E'
stato incredibile!"
Damon provò
a trattenersi, ma poi un lato della sua bocca scattò ugualmente
all'insù.
"Lo so,
vero?"
Risi di
nuovo, incapace di contenermi, con le mani aggrappate alle sue spalle,
galleggiando su e giù nella corrente gelata che non riusciva comunque a
scacciare o rivaleggiare con quel brivido di euforia. Gettai un altro
sguardo all'indietro, verso l'alto, per ricordarmi che ero davvero,
davvero, appena saltata da lì.
Damon mi
diede una leggera spinta sulla spalla, tornando serio. "Mi hai
spaventato a morte."
Ridacchiai,
reciprocando il colpetto. "Quello è stato parte del divertimento."
Un'altra
spinta, un altro strattone, una finta di schermaglia, e l'incastro era
già fatto.
Le mie
braccia gli circondarono la nuca e le mie gambe il torace, cercando il
contatto del suo corpo con la stessa naturalezza dell'abbraccio
dell'acqua che ci avvolgeva all'altezza del petto. Galleggiando
morbidamente, cercai i suoi occhi.
Li trovai
trasparenti di luce riflessa, trasparenti dello stesso calore liquido
che pulsava vivo in ogni punto dove la nostra pelle si sfiorava.
E per me non c'era altro che Damon, Damon e le sue labbra socchiuse,
Damon e la sua mano ad accarezzarmi lenta una coscia, Damon e il mio
cuore straboccante di adrenalina, straboccante del modo in cui mi stava
guardando.
Presi
coraggio.
"Ho rotto
con Matt," gli bisbigliai, appena esitante, sollevando le ciglia per
spiare la sua reazione.
Ma la
notizia, la notizia che avevo in gola da giorni, insieme a tutti i
sottintesi che si portava dietro, sembrò a malapena toccarlo. Sembrava
molto più interessato a fissare la forma della mia bocca, che a ciò che
gli stavo dicendo.
"Sì …"
mormorò distrattamente. "… Lo so."
Inclinò la
testa, pochi millimetri di distanza, verso le mie labbra. Mi scostai,
facendo leva con le mani contro il suo petto. Alzò su di me uno sguardo
del tutto fuori focus.
"Cos'è che
sai?" domandai circospetta, con una punta di delusione, sciogliendomi
dalla sua presa.
Damon esitò,
guardandomi confuso galleggiare via, via all'indietro verso riva, come
se fosse appena inciampato in test a tradimento e fosse ad un secondo
dal dare la risposta completamente sbagliata.
"Solo …
Senti, dei ragazzi ne stavano parlando. Hanno detto che ti ha
scaricato, dopo averti portato a letto." Si guardò attorno, bofonchiò.
"Potrei avergli dato un pugno. O due."
Rimasi
interdetta, la bocca spalancata.
"Hai
picchiato Matt?!" esclamai. Il livido scuro che gli avevo visto in
faccia aveva adesso molto più senso. Decisamente non era quello, ciò
che mi aspettavo. "Che diamine ti è saltato in mente? Non se lo
meritava!"
"Certo che
se lo meritava!" replicò, offeso. "Ti stavo solo difendendo!"
Non ci
riuscii. Ci provai, ma non ci riuscii, a soffocare un'altra risata -
forse per i residui dell'esaltazione, più probabilmente per la faccia
che Damon fece - sentendomi orribile per stare davvero ridendo di
quella cosa. Povero Matt.
Damon mi
guardò sempre più spaesato, incapace di definire se fossi davvero
arrabbiata con lui o se lo stessi soltanto prendendo in giro.
"Cosa,
adesso?" chiese esasperato.
Dietro di
me, con le mani toccai riva. Mi tirai su a sedere, percorsa da un
brivido quando il mio corpo lasciò il rifugio dell'acqua.
"E' che …"
Gettai un'occhiata timida verso Damon, mi mordicchiai le labbra. "E'
che non è andata esattamente così."
Non è un bacio. Lo so dal modo in cui mi riempie, mi espande, mi
espone. E' una liberazione.
Una in cui riverso tutto ciò che
è troppo difficile, troppo complicato, troppo importante per dimostrare
in parole. Le urla e i rimorsi che abbiamo lasciato a San Francisco, le
possibilità che non ci siamo mai davvero concessi, rimpianti, sbagli,
scuse, promesse, ammende. Ci riverso tutto quello che mi concedo di
perdonarmi, tutto quello che mi concedo di poter avere. Il sapore di
scoprire dove voglio stare, di sapere se lo voglio di poter essere sua.
Le sue mani sui miei fianchi che
mi sollevano, mi premono contro il suo corpo, il bordo del lavandino
che mi scava nella coscia. Dita che viaggiano, cercano, tirano vicino.
Labbra sulla pelle, tra i capelli, tenere, bisognose. E' come se non ci
fossimo sfiorati da anni, invece che solo da qualche giorno.
Finché tutto non si ferma, una
girandola che smette di colpo di vorticare. Damon
si ferma. Con i polpastrelli ancora sul mio collo, la fronte posata
contro la mia, il respiro irregolare. Io barcollo in avanti, spaesata
dall'interruzione improvvisa, alla ricerca di un altro po' di fiato, di
un altro bacio, della sensazione di essere finalmente viva che avevo
solo appena iniziato ad acciuffare.
Ma Damon si sottrae, anche se
quasi impercettibilmente, anche se sembra costargli l'inferno.
"Questo, tra noi …" Lui sta
parlando, io non capisco. "Adesso non posso … maledizione, Elena …"
Trasalisco quando tre colpi
impazienti martellano la porta. Il mio battito si impenna, entrambi ci
voltiamo. Damon mormora un "merda" sottovoce.
"Elena, posso entrare?" trilla
la voce di Caroline dall'altro lato della porta. Ma è troppo allegra,
troppo alta, troppo falsa - e lo capiamo subito entrambi, nello sguardo
che ci scambiamo. "Non c'è bisogno che facciate già programmi per gli
addii al celibato, ci ho già pensato io anche per quelli, sciocchini!
Quindi, ora, posso fare pipì?"
Ci separiamo senza una parola,
velocemente, un lampo taciturno per rimettere a posto gonna, capelli,
camicia, consapevoli che più tempo impieghiamo ad aprire quella porta,
più difficile sarà la spiegazione da dare. Sono abbastanza lucida da
sapere che la cosa non promette bene, e ancora abbastanza mezza
stordita da non rendermene davvero conto, mentre prendo fiato, giro la
serratura, mi preparo a reggere qualsiasi scusa Caroline si sia
inventata per coprirmi.
Ed infatti, il sorridente "Oh,
Care, sei semplicemente impossibile da sorprendere" mi muore
immediatamente sulle labbra.
Perché Elijah è con lei. Perché
i suoi occhi si spostano subito sulla spallina del vestito che mi è
rimasta abbassata. Perché il modo in cui mi guarda l'attimo dopo, quel
misto di realizzazione, rabbia e sofferenza pura, mi gela dentro.
Perché è tutto. Lo sa.
Anche Caroline rinuncia subito a
tenere la finta. "Mi dispiace, ci ho provato," mi mima mortificata con
le labbra.
Rebekah appare alle spalle di
Elijah, un nuovo Martini nella mano. Gettandomi un'occhiata gelida, si
sporge verso il fratello, con fare più pratico che dispiaciuto.
"Te lo avevo detto."
"Elena ..." Matt respirò sulla mia
guancia, posando le mani intorno al mio volto. "Elena … aspetta. Elena
… fermati."
Mi circondò
il polso, già a metà strada nei suoi pantaloni. Sollevai lo sguardo su
di lui, con voce tremula. "Cosa?"
La luce
fioca di qualche lampione nella distanza riempiva di ombre l'interno
del pick-up, rendendo la sua espressione ancora più morbida e dolce,
molto più morbida e dolce di quanto meritassi, mentre delicatamente mi
faceva allontanare da lui e dai suoi jeans.
"Rivestiti,
per favore," disse piano, rimettendomi a posto la spallina del vestito
blu che ancora indossavo dopo il pomeriggio di Miss Mystic Falls,
tirando su la zip sulla mia schiena.
Mi scansai
con un scatto brusco. "Perché? Pensavo che lo volessi. Hai cambiato
idea?"
"No, io …
Dio, eccome se lo voglio. Ma non se stai piangendo."
Avvicinò una
mano al mio viso, mi sfiorò la guancia con le dita. Le ritirò umide di
lacrime.
"Che ti
prende?" scrutandomi in volto.
Mi ritirai
ancora di più, rintanata sul sedile del passeggero, un grumo scuro a
chiudermi la gola.
"Niente."
Mi sforzai
di sorridere, attorno agli spigoli che mi stavano tagliando dentro,
quando la mia testa si riempì di nuovo del pensiero di ciò che era
appena successo con Damon, delle parole affilate che mi aveva gettato
addosso, del vuoto che l'idea di averlo perso per sempre mi stava
scavando dentro.
"Te l'ho
detto," squittì la mia voce, mentre ripetevo
la mia bugia. "Ho litigato con mio padre e … Possiamo per favore non
parlarne?"
"Ma io
voglio parlarne," insistette lui facendosi più vicino. "Non sono qui
solo per uscire insieme o baciarci qui nel pick-up, sono il tuo
ragazzo, e ti amo. Voglio che tu sappia che ci sono per te. Perché non
mi lasci avvicinare?"
"Ti sto
lasciando avvicinare, sei tu quello che non vuole fare sesso con me!"
La mia voce
suonò infantile e petulante. Un lampo sofferto gli attraversò lo
sguardo, ma non si diede per vinto.
"Non mi
parli mai davvero. Della tua giornata, o di quando sei triste, o quando
hai qualcosa per la testa … Non … non lo fai mai. Come stasera. Come
ogni sera."
"Magari non
ne ho voglia."
Matt deglutì
a forza. "E' perché non sono Damon?"
Il mio cuore
si congelò. Sanguinò.
"Non farlo,"
gli intimai. "Ne abbiamo già discusso."
"Sì, è tuo
amico. Ma non dovrei essere io quello a cui ti rivolgi quando qualcosa
non va? Voglio essere quella persona per te."
Quanto
sarebbe stato facile dirgli di sì. Dopotutto, Damon lo avevo perso.
Matt era qui. Disperato per avere quel pezzetto di me che custodivo
così gelosamente e così fieramente, quel pezzettino di me che lui non
avrebbe mai e poi mai fatto soffrire. Ma lo seppi con una lucidità ed
una sicurezza affilate e dolorose, in quello stesso istante: Matt non
avrebbe mai sostituito Damon. Nè avrei mai voluto che lo facesse, non
importava quanto sanguinante e vuoto fosse quel pezzetto di me senza di
lui.
"Matt, ti
prego, smettila, questo non-"
"Perché non
ti fidi di me come ti fidi di lui? Cosa devo fare per dimostrartelo?"
"Ti ho detto
che non si tratta di Damon! Smettila di parlare di lui, smettila e
basta!"
Matt inalò
bruscamente, e lo feci anche io, di fronte al mio scatto improvviso.
Mi
abbandonai all'indietro sul sedile, guardando il buio fuori dal
finestrino, lacrime incontrollabili a bagnarmi il viso, il petto scosso
da singhiozzi trattenuti che non volevo far uscire. Le mie dita avevano
iniziano a correre su e giù per il ciondolo attorno al mio collo,
intrecciandosi alla catenina argentata, fino a che non iniziò a fare
male, il modo in cui l'avevo attorcigliata ad un polpastrello fermando
la circolazione del sangue.
"Io e Damon
non siamo amici. Non vuole neanche più vedermi."
Tirai la
catenina fino a che quasi non tagliò la pelle.
Matt rimase
a lungo in silenzio. Ma non mi girai a guardarlo. Restai a fissare il
buio e il vuoto.
"Quella era
da parte sua," disse infine.
Mi voltai,
lentamente. Indicò la collana avvolta stretta attorno alle mie dita, e
proseguì con la voce rotta. Più che rotta. Sconfitta.
"E' stato
lui a farla riparare per il tuo compleanno. Non io. Lo sapevo che
quello che ti avevo regalato non voleva dire niente, certo non in
confronto a questo, e Damon ha voluto che fossi io a dartela. Pensando
che saresti stata più felice, se a regalartela fossi stato io." Matt si
fermò, il mio sguardo su di lui immobile come una pietra. "Ma si
sbagliava, non è vero? E tu lo hai sempre saputo, che non avrebbe mai
potuto essere un'idea mia."
Ingoiai sale
e lacrime ed un'ondata di consapevolezza così potente e amara che quasi
mi soffocò.
Lo avevo
saputo. Lo avevo sempre saputo. Era solo più facile far finta che non
fosse così.
Lasciai
cadere le dita.
E mi
sorpresi, di quanto ferma fosse improvvisamente diventata la mia voce,
quando gli dissi che tra noi era appena finita.
"Elijah, fermati!" grido per una seconda volta.
Non mi ascolta. Affretto i miei
passi lungo il marciapiede, sotto ai lampioni che iniziano ad
accendersi mentre il crepuscolo già sfuma in un blu più scuro. Rallenta
quando arriva vicino alla sua macchina, riesco ad afferrargli il polso.
Lui mi spinge via la mano.
Non so in realtà che cosa sto
facendo, né tantomeno cosa dovrei dire, se c'è davvero un qualsiasi
modo per migliorare anche solo un po' le cose. Ma dopo che si è girato
per andarsene senza dire una parola - tra l'imbarazzo di Caroline che
non sapeva dove guardare, tra la mia espressione sconvolta, tra sua
sorella intenta a guardarmi con una smorfia disgustata, tra le sommesse
imprecazioni mormorate di Damon alle mie spalle - dovevo fare qualcosa,
dovevo provare a spiegare.
Non era così che doveva andare.
Mi maledico per essere stata una tale stupida superficiale, ed aver
finito per fargli del male in ogni modo in cui non meritava di essere
ferito.
"Lasciami solo spiegare …" cerco
di dire, fermandolo dall'aprire lo sportello dell'auto.
Elijah appoggia le mani al
tettuccio della macchina, distende le braccia e guarda il marciapiede,
invece di guardare me, e so che sta, con tutto ciò che ha, facendo lo
sforzo di non gridarmi contro. Non so se è perché siamo nel mezzo di
una strada e ci sono anche i passanti, o se perché cercare di mantenere
il controllo è semplicemente parte integrante di lui.
"Dio, sono stato un idiota,"
mormora. "Mi fidavo di te. Ed ho continuato a farlo nonostante i tuoi
colpi di testa degli ultimi mesi, nonostante tutto, perché eri tu, e tu
non sei capace di … Che idiota. Tutto questo tempo, tutte le tue scuse
… Era di questo che si trattava? Farti una storiella con qualcun altro?"
Scuoto la testa. "No, ascoltami,
non è …"
Si gira a guardarmi adesso, con
la faccia tirata, la calma solo apparente che ugualmente non nasconde
il colpo della pugnalata che ha appena ricevuto.
"Avevi intenzione di dirmelo?"
Deglutisco. "Sì."
Con una spinta si allontana
dall'auto, e la rabbia inizia a stillare nella voce che si alza di
tono.
"Quando? Il giorno prima del
matrimonio? La notte dopo?"
"Elijah, per favore, possiamo-"
"Vuoi smetterla di mentirmi?"
urla infine.
Il dolore nei suoi occhi è quasi
troppo da sopportare. Non dico niente e, per un momento, restiamo
semplicemente a guardarci, a guardare la fine di tutto ciò che c'è
stato, di ogni cosa buona che è già diventata amaro e rimorso e lacrime
ipocrite come quelle che mi stanno pungendo gli occhi. Faccio del mio
meglio, per non lasciarle uscire.
Poi sospira, si passa una mano
tra i capelli, ed io vorrei davvero non dover vedere quell'accenno
lucido nel suo sguardo, o quella supplica nella sua voce.
"Dimmi solo che non ci sei
andata a letto. Dimmi solo questo."
Non voglio mentire. Ma non
voglio neanche ferirlo. Dio, non posso ferirlo così. E sento ancora il
bisogno assurdo di proteggere Damon, di non tirarlo nel mezzo, quindi
ci provo a sviare. Ma è un tentativo così debole.
"Non … Giuro che non ha niente a
che fare con-"
Sussulto, quando sbatte con
violenza la mano contro il tettuccio della macchina, interrompendomi,
in uno sfogo improvviso di rabbia che non credo di avergli mai visto
prima d'ora. Mi guarda dritto negli occhi.
"Da quando?"
Ingoio altre lacrime. "Da quando
sei partito per Hong Kong."
"Perché?" domanda, perso.
"Perché? Perché ti sentivi sotto pressione?"
"Elijah, per favore …"
Fa un passo verso di me, la sua
voce si fa più intensa ad ogni parola. "Perché volevi tirarti indietro
e questo ti è sembrato un buon modo per mandare a puttane le cose?"
Scuoto la testa, con forza.
Lacrime mi annebbiano la vista. Voglio che la smetta. Non lo fa.
"Perché volevi farmi del male
per qualcosa che ho fatto? Perché quello che avevamo non era
abbastanza?"
Si è avvicinato e mi ha preso
per un braccio, e fa così male riuscire a guardarlo negli occhi, ma mi
costringe a farlo con una scrollata, e questo sarà peggio del
tradimento in sé, lo so già che lo sarà …
"Perché, Elena? …" grida, e le
parole mi escono di bocca prima che abbia modo di ragionarci
lucidamente e fermarle.
"Perché lo amo!"
Inspiro a fondo e lascio uscire
un altro respiro tremante, una qualche specie di scusante che in realtà
non è una scusante affatto.
"Lo amo da quando avevo sedici
anni."
Elijah mi lascia andare, fa un
passo indietro. Se lo avessi accoltellato, qui e adesso, e rigirato
lentamente la lama con un sorriso crudele sulle labbra, non gli avrei
provocato lo stesso sguardo umiliato, tradito e disperato con cui mi
sta guardando adesso.
Tiro via le lacrime con il palmo
della mano. "Non ho mai avuto intenzione di …"
E' inutile. Non mi sta neanche
più ascoltando.
Apre bruscamente lo sportello
della macchina e, con questo, so che abbiamo chiuso.
Damon mi aveva raggiunto sulla riva.
Sedevamo lì gocciolando acqua fredda, il tardo pomeriggio già quasi
completamente alle nostre spalle a scaldarci ed asciugarci le schiene.
Con la punta di un piede, continuavo a disturbare nervosamente la
superficie gelida del fiume, sul limitare dell'argine.
Volevo che
capisse. Volevo che capisse, cos'era che gli stavo dicendo.
"Non è vero,
che ci sono andata a letto," dissi. "Pensavo di volerlo, pensavo che
forse era quello che avrebbe fatto andare tutto bene … Ma non andava
bene, e non lo sarebbe mai stato. Matt me lo ha fatto capire."
Mi fermai,
sbirciando esitante verso la reazione di Damon.
Si era
voltato a guardarmi, con quello sguardo un po' corrugato, mezzo
sorpreso e mezzo perso, mezzo speranzoso e mezzo incredulo. Irradiò
un'intensità tale, nel fondo del mio petto, che dovetti guardare
altrove, per continuare a parlare. Presi tra le dita il ciondolo che si
posava sopra le prime curve del mio seno.
"Me lo ha
detto, che sei stato tu a fare questo per me," aggiunsi piano.
A quelle
parole, Damon si girò su un fianco verso di me, appoggiandosi sul
gomito. Lo osservai immobile ed in silenzio, attraverso il pulsare
morbido nel mio petto, mentre l'altra sua mano mi sfilava delicatamente
il ciondolo dalle dita, per prenderlo e rigirarselo tra le sue.
Si schiarì
la voce, ma tutto ciò che disse fu, "Quel coglione. Glielo avevo detto
di tenere la bocca chiusa."
Strappai la
collana dalle sue dita.
"Sei un tale
stronzo," gli rinfacciai. "Matt è un bravo ragazzo."
"Lo è
davvero," ammise. Sospirò. "Ti rendi conto, vero, che adesso mi stai
facendo sentire una merda per avergliele date?"
"Bene!"
replicai risoluta. "Dovresti."
(No way out - Rie
Sinclair) Damon guardò in su verso di me. Restammo ad osservarci,
io con il mio sguardo di rimprovero, lui con il suo cipiglio corrugato.
Poi l'angolo
delle sue labbra si contrasse appena, e si contrasse anche il mio, e il
modo in cui mi sorrise, ed il modo in cui io gli sorrisi, fu tutto
quello che c'era da dire. Diede un lieve colpetto alla collana,
usandola per tirarmi giù verso di sé. Toccai il suo sorriso con il mio,
chiudendo la bocca sulla sua.
Lo baciai a
lungo e lo baciai a fondo, come se potessi prenderne e portarne via
ogni secondo, e ampliarlo, e renderlo infinito. Lo baciai aggrappata
alla base umida del suo collo, portandolo sotto di me, lo baciai
attraverso il disordine bagnato dei miei capelli che caddero intorno
riparandoci dalla luce. Lo baciai inalando il calore della sua dita che
mi accarezzavano la schiena, e i brividi delle gocce fredde che
rotolavano via dalla biancheria ancora fradicia appiccicata alla pelle.
Lo baciai finché un piacevole indolenzimento sordo non iniziò ad
irradiarsi su per tutti i muscoli del collo e della lingua.
Si sollevò e
mi riportò giù con sé, una mano sull'incavo della mia schiena per
muovermi facilmente più in su, di qualche centimetro via dalla riva,
sopra un terreno meno ripido. Tracciò su di me ogni piccola gocciolina
perduta dai miei capelli, dal collo alla clavicola, dalla clavicola al
collo, dal collo alla guancia, dalle guance alle labbra.
Anche io
tracciai su di lui. Tracciai spalle e scapole, fianchi e incavi,
schiena e petto, più delicata sopra ai suoi lividi, marchiando ogni
linea tesa, ogni muscolo asciutto che scoprii e imparai, fin dentro al
fondo dei miei polpastrelli. Damon tremò quando arrivai al suo addome,
la pelle più ruvida tutto d'uno tratto.
Mi fermai,
cercai i suoi occhi. "Hai freddo?"
Damon mi
osservò. La sfumatura distratta nel suo sguardo lentamente cedette il
passo a qualcos'altro, ad una nota di sfacciataggine che filtrò anche
nel suo mezzo sorriso, andando a sciogliersi tiepida tra le mie gambe.
"No."
Abbassò il
viso per riportare dietro al mio collo, con un movimento caldo e lento
della lingua sulla pelle, ed una mano che scendeva adesso verso il mio
fianco. Mi inarcai d'istinto verso quel tocco, chiedendomi come fosse
possibile che qualcosa di così squisito potesse essere una tale
tortura, che ognuno dei suoi baci e ognuna delle sue carezze potesse
dare sempre meno sollievo del precedente. Le sue dita dal fianco
tornarono su, si fermarono leggere vicino al cotone bagnato sul mio
seno, e quando il suo pollice ne sfiorò la cima indurita, fui io a
rabbrividire violentemente.
Damon si
bloccò, sollevò la testa. Sbirciando tra le ciglia, domandò
preoccupato, "Hai freddo?"
Ma poi non
ce la fece a trattenere il sorriso, quel sorrisetto compiaciuto da
stronzo che sapeva perfettamente che non aveva niente a che vedere con
il freddo.
"Stai
zitto," risposi, agguantandolo con una mano sulla nuca per baciare
quello stupido, sexy sorrisetto via dalla sua faccia.
Non me ne
diede la possibilità, perché con uno slancio mi baciò per primo lui.
Entrambi i nostri respiri iniziarono ad uscire fuori più corti, più
incostanti, mentre mi curvavo per aderire tutta addosso a lui, seno
contro petto, coscia a circondare coscia, bacino su bacino.
Amavo il
modo in cui premeva contro il mio interno coscia, e ancora di più amavo
tutti i suoi gemiti rochi e quasi esasperati ogni volta che un mio
minimo movimento lo portava più vicino, più aderente al centro
liquefatto delle mie gambe. Stavo affondando nella voglia di sentirlo,
toccarlo, essere toccata. Ma le labbra di Damon non si allontanavano
mai troppo dal mio collo, le sue mani non andavano oltre carezze sulla
mia schiena e sul mio fianco.
Feci
scivolare una mano tra i nostri corpi, cercando la rigidità che dava
forma ai suoi boxers. Altro calore si irradiò da sotto il tessuto
umido, su per le mie dita, quando Damon spinse istintivamente in
avanti, rantolando un po' di più, affondando il viso nell'incavo del
mio collo. Ma come mi spostai verso l'elastico, una delle sue mani si
chiuse veloce sulla mia, e me lo impedì.
Scosse
leggermente la testa, Io riaprii gli occhi confusa.
"Elena …"
riuscì a dire tra respiri pesanti e irregolari. "Ci sto provando con
tutto me stesso ad essere un gentiluomo qui, e mantenere il più
possibile le cose ad un rating per famiglie. E tu me lo stai già
rendendo un compito davvero, davvero impossibile."
Invece della
mia voce uscì fuori una cosa instabile e roca.
"Non voglio
il rating per famiglie. Voglio … te. Voglio …" Gli sfiorai la guancia
con le dita, leggera sopra i piccoli graffi che ancora la segnavano. "…
farlo con te."
Damon rimase
immobile. Per qualche istante, neanche respirò. Per qualche istante,
forse non respirai neanche io. Erano azzurro e amore e trepidazione a
guardare giù verso di me.
Mi sollevai
con la schiena dall'erba, quanto bastava per raggiungere con una mano
la chiusura del reggiseno e farla scattare. La pelle umida del mio seno
si fece fredda, quando entrò in contatto con l'aria, e ardente, quando
a toccarla furono le sue dita e palmi della mano.
La sua
lingua fu persino migliore.
Ed io mi
sciolsi sul terreno, mi dissolsi nell'aria. Vidi bianco e vidi blu, tra
le sue labbra e le sue dita, le stesse che piano fecero scivolare giù
le mutandine, lungo le cosce, oltre le caviglie.
Si allungò
su di me per raggiungere i jeans abbandonati per terra, trafficando tra
tasche e portafoglio finché non trovò un preservativo.
La sua voce
era rauca. "Va bene lo sai se non …"
Intrecciai
le dita tra i suoi capelli. "Lo so. Va bene."
"Sei
nervosa?"
"No," dissi
piano. "Tu?"
Un mezzo
sorriso teso. "Da morire."
Così mi
sollevai e lo baciai di nuovo, accarezzandogli capelli, spalle, viso,
fino a che ogni tensione non abbandonò le sue membra.
Tutto il mio
mondo si ridusse solo a lui.
***
Giro le chiavi nella porta. La apro piano, sbircio dentro.
E' tutto quieto e quasi buio, se
non fosse per la luce che arriva tenue dalla stanza più avanti, in una
striscia indistinta di giallo caldo. La raggiungo, ma mi fermo sulla
soglia, intrecciando incerte le dita nel cerchietto del portachiavi.
Damon non si volta. La luce che
non è neanche lontanamente sufficiente ad illuminare l'intera stanza è
quella della lampada da tavolo vicino a dove è seduto, con la schiena
contro la base del divano, le gambe abbandonate lungo il tappeto ed un
bicchiere con del bourbon che pende dalla mano del braccio posato su un
ginocchio.
"Tranquilla, Barbie," dice. "Non
lascerò in giro bicchieri sporchi dopo averli usati."
"Mi assicurerò di farglielo
sapere," rispondo.
Damon si gira, corruga sorpreso
la fronte.
"Care mi ha detto che te ne eri
andato." Faccio oscillare in avanti le chiavi dal mio palmo. "E mi ha
dato le sue chiavi."
"Non può proprio fare a meno di
impicciarsi, eh?" replica con un quasi mezzo sorriso, prima di
sporgersi ad appoggiare il vetro sul basso tavolino di fronte a lui.
"Dio, che tempi duri mi aspettano. Sta già pensando che dovrei iniziare
a chiamarla sorella." Una
smorfia. "Come no."
Sopprimendo a malapena un
sorriso, entro in sala. Raccolgo la gonna attorno alle gambe, mi siedo
a terra accanto a lui.
Senza guardarlo in volto, dico a
bassa voce, "Elijah ed io ci siamo lasciati."
"Già," dice soltanto,
accigliandosi un po' di più. "Mi dispiace per quello."
Mi giro di scatto, un
sopracciglio alzato ed un sottotono scettico nella voce. "Ti dispiace?"
Damon piega le gambe, posa
entrambi i gomiti sulle ginocchia.
"Sì. Credici o no, sì." Si volta
a guardarmi e, di fronte all'evidenza della mia faccia incredula,
abbassa appena lo sguardo, l'ombra di un sorriso amaro a curvargli le
labbra. "Ho veramente mandato a puttane ogni cosa per te, non è vero?
Pur sapendo tutto quello che hai passato, e quanto deve essere stato
difficile riuscire a trovare una qualche parvenza di normalità, della
vita che ti meriti, sono comunque venuto qui, ho preso i tuoi piani e
la tua possibilità di essere felice, e l'ho mandata completamente a
puttane." Torna a guardarmi. "E di questo, mi dispiace."
Appoggio la testa all'indietro
contro la curva del divano, e lascio che il silenzio cada sulle sue
parole. Sui miei pensieri, su ogni scelta e conseguenza che mi ha
portato adesso ad essere qui. Mi ritrovo lentamente ad annuire.
"Sì," dico. "Lo hai fatto. Hai
davvero mandato tutto a puttane."
La temperatura cambiò in silenzio,
cogliendoci impreparati, infida come un ladro. Una goccia di pioggia a
bagnare la punta del mio naso, un'altra a chiudere la palpebra di
Damon. Avevo guardato su strizzando gli occhi alla luce grigia filtrata
dalle nuvole, rabbrividendo di quanto fredda fosse diventata l'aria, ma
sempre con l'abbozzo di un sorriso mentre Damon, anche lui disteso su
un fianco, allungava un braccio attorno alle mie spalle, tirandomi di
nuovo indietro verso il calore del suo corpo.
"Dovremmo
andare," dissi con un'altra occhiata all'insù. Socchiusi gli occhi
quando un'altra goccia atterrò sulle mie ciglia. "Tra poco inizia a
piovere."
"Nah,"
replicò, guardando in su anche lui. "E' solo una nuvola passeggera."
Ma il
momento dopo tutto il suo viso si era increspato, sotto alla pioggia
che aveva iniziato tutta insieme a cadere. Quella non era pioggia
estiva. Era fina e fredda, odorava di terra bagnata e foglie secche,
insinuava umidità fin dentro la pelle e le ossa. Quella era pioggia
autunnale.
Recuperammo
in fretta i vestiti, sporchi e fradici, corremmo tenendoci per mano
indietro verso il sentiero, con le scarpe che affondavano nel fango.
Non ci fu
nessun tramonto. Un momento c'era il finire del pomeriggio, quello dopo
c'era un pesante cielo grigio ad inghiottire il mondo. E se ci fu un
tramonto, io sicuramente l'avevo già mancato, perdendo la cognizione
del tempo dentro all'abitacolo dell'auto parcheggiata dall'altro lato
della strada in fronte al Grill. Protetta dal battere pesante della
pioggia contro il tettuccio e dalle strisce d'acqua che colavano sui
vetri, a cavalcioni su Damon sul sedile del guidatore - le mie mani sul
suo collo, le sue sulle mie cosce, ancora piacevolmente indolenzite - incapace di staccare la bocca dalla
sua e ancora meno di andarmene via.
"Quindi,"
scivolai con una mano sul suo petto, giocherellai timidamente con il
colletto della sua maglietta. "Cosa succede adesso?"
Damon
incrociò le braccia alla base della mia schiena. "Tu cosa vuoi che
succeda?"
"Non lo so
…" Mi strinsi nelle spalle. Continuai a tenere lo sguardo fisso sul suo
colletto, mascherando con un leggero sorriso l'incerto nodo
che aveva iniziato a prendere forma nella mia gola più si avvicinava il
momento di tornare alla realtà. "Tu stai per andartene."
"Elena …"
"No, lo
capisco. Davvero. Voglio dire, cosa finiresti per fare a restare qui,
lavorare part-time al negozio di Rose? Lo sappiamo entrambi, che non è
quello che vuoi. Lo sappiamo entrambi, che hai mille motivi per voler
andare via da qui."
I secondi di
silenzio da parte sua, riempiti dal picchiare sordo della pioggia
contro i vetri, furono sfarfallii di amarognola consapevolezza a
prendere il posto del mio petto.
"Fanculo
tutto quanto, Elena," disse piano. "Voglio stare insieme a te."
Sbirciai in
su, verso il suo volto.
"E poi,
voglio dire, chi lo sa come andranno le cose, no? Un po' più di un
anno, e hai finito col liceo, e te ne andrai in uno di quei college
strafighi con un'enorme borsa di studio, perché sei intelligente e
determinata così," premette l'indice sulla punta del mio naso,
facendomelo arricciare in un sorriso. "E ce ne andremo ovunque vorrai.
Ma solo se mi concedi di fare il temuto fidanzato che fa scappare via
tutti quegli idioti di universitari che ti vengono dietro, e che trova
sempre il modo di distrarti dallo studio."
"Lo intendi
davvero?"
Si aprì in
un sorriso. "Certo che sì."
Lo baciai
con forza, serrando gli occhi più chiusi che mai, ma non fece niente
per chiudere fuori anche quel molle, oppressivo grumo che continuava ad
avvolgersi intorno alla mia gola.
Fu
l'ennesimo squillare del suo telefono, che non aveva smesso
ossessivamente di ricevere notifiche da quando eravamo tornati in una
zona con ricezione, a farci staccare. Damon sbatté scocciato la testa
all'indietro contro il poggiatesta, io mi spostai tornando sul sedile
del passeggero.
"Cazzo,"
mormorò dando uno sguardo al display.
"Cosa c'è?"
"Niente,"
scosse la testa, rimettendolo in tasca. "Solo mio padre. Vieni qui."
Mi riattirò
a sé.
"Passo da te
più tardi, ok?" mi disse, tra un bacio e l'altro di saluto.
Corsi via
verso l'entrata sul retro, inzuppandomi daccapo dalla testa alle
scarpe. Come entrai, scuotendomi via l'acqua dai capelli, Jenna mi
prese per un braccio, trascinandomi in disparte.
"Dove sei
stata?" domandò con un sottotono preoccupato nella voce.
Mi
sottrassi, leggermente infastidita. "Fuori. Perché?"
"Jeremy è
con te?"
"No, io …"
Mi fermai. Cercai il suo sguardo, allarmata. "Perché, dov'é?"
Jenna
deglutì, e la sua espressione cambiò. "Non lo so."
"Puoi andare più piano? Non riesco a
vedere niente."
Feci
scivolare le mani giù sul finestrino dell'auto, lasciando una scia di
impronte sul vetro, fuori solo pioggia e oscurità. Lo zio John fece
come avevo appena chiesto, rallentando fino quasi a passo d'uomo,
mentre i miei occhi scandagliavano freneticamente il ciglio
spaventosamente buio della strada al di fuori.
"Magari
sarebbe meglio tornare, e aspettare la polizia …" cercò di dire.
Lo ignorai,
così come avevo già ignorato decine di volte durante l'ultima ora la
forte urgenza di dirgli di tacere. Lui, e chiunque altro. I mormorii di
panico di Jenna, la faccia pallida di mio padre, questo zio
semi-estraneo che cercava di essere razionale e prendere il controllo
della situazione. Potevano tutti andare al diavolo.
Avevano
pensato tutti che fosse con me. Un bambino di dieci anni, che diventava
invisibile e spariva sotto al loro naso, perché avevano semplicemente
dato quello per scontato. Che fosse con me.
C'erano
state chiamate ad ognuno dei suoi compagni di scuola, ad ognuno dei
vicini, ad ogni per quanto piccola conoscenza potessimo pensare. Agli
ospedali, alla polizia. Erano venuti al bar, avevano preso le
dichiarazioni, ci avevano detto di restare fermi e che avevano già
iniziato le ricerche dappertutto.
Ma io non
potevo restare ferma. Perché mio fratello era là fuori, solo,
infreddolito e spaventato, anche se sicuramente stava cercando di
convincersi di non esserlo; perché era là fuori già da ore, e perché il
malessere terrorizzato dentro al mio stomaco aveva già una vita tutta
sua, mangiandomi di più ad ogni secondo che passava.
Damon non
aveva risposto alle mie chiamate. Mio padre era un disastro tremante,
riusciva a malapena a parlare, figuriamoci guidare. Sarei andata a
perlustrare a piedi ogni vicolo io stessa, se lo zio John non si fosse
offerto di accompagnarmi.
E adesso
stava ancora parlando. "Ci siamo già allontanati parecchio dalla città,
e non abbiamo modo di sapere con sicurezza quale direz-"
"Se sta
scappando via," lo interruppi. "Allora è venuto in questa direzione."
Sud. Jeremy
amava il sole e il caldo. Avrebbe scelto questa strada. Ripensai al suo
zaino sparito con lui, così come tutti i suoi videogiochi compresi
quelli che teneva nello scaffale sotto al bancone, e mentre me lo
immaginavo prenderli ad uno ad uno con la sua espressione grave prima
di uscire inosservato dalla porta, i miei occhi si riempirono di
lacrime.
"Forse …"
"Là!"
gridai, premendo le mani contro il finestrino. "Ferma la macchina. Ho
detto, ferma la macchina!"
L'auto si
fermò con un rumore stridente di pneumatici che slittano sull'asfalto
bagnato. Aprii la portiera e corsi fuori, calpestando pozzanghere
d'acqua con le leggere scarpe di tela, corsi finché non raggiunsi la
fermata del bus e lui non guardò verso di me con i suoi grandi occhi
marroni da Jeremy ed io potei gettargli le braccia attorno e tirarlo
stretto verso di me.
Rabbrividì
di freddo, fradicio della pioggia da cui la piccola tettoia della
fermata non poteva ripararlo del tutto, quando lo rilasciai per
iniziare a fargli domande in un torrente di rabbia, paura e sollievo,
cosa stava pensando di fare, come era arrivato fin lì, dieci chilometri
fuori città, cosa stava pensando, cosa stava pensando.
Rimase lì
con la faccia seria.
"Credevo che
tu fossi scappata via," disse. "Non volevo restare, se tu eri scappata
via."
"Oh, Jer,"
Lo strinsi di nuovo, il viso completamente bagnato di lacrime e
pioggia. "Non scapperei mai via da te. Non ti lascerei mai."
"Lo
prometti?"
Mi appoggiai
all'indietro sui talloni, ingoiai attorno al rigonfiamento amaro nel
quale avevo di nuovo avvolta la gola, più spesso che mai. "Lo prometto.
Vieni. Andiamo a casa."
Quando
tornammo, rimasi per ore seduta fuori al buio sul primo gradino del
portico.
La pioggia
andò avanti tutta la notte.
Damon non
arrivò mai.
Damon non replica. Guarda fisso di fronte a se, e anche lui annuisce in
silenzio. Così, io continuo, lascio che tutto venga fuori, diretto,
senza filtri.
"Hai mandato tutto a puttane per
me nel momento in cui hai rimesso piede nel mio bar. E hai continuato
ad incasinare e mandare tutto al diavolo più e più volte, non importa
quanto io abbia provato ad impedirlo, non importa quanta fatica ho
fatto per fermarlo. No, tu hai dovuto gettare tutto sottosopra, hai
dovuto lasciarmi completamente persa, senza più punti di riferimento.
Quindi …" Un lieve sorriso mi tende le labbra. "… Grazie, per averlo
fatto."
Damon si volta lentamente. Mi
osserva cauto, profonde ombre blu nei suoi occhi alla morbida luce
della piccola lampada. Sento il mio cuore farsi un po' più ampio, la
mia voce un po' più tremante.
"Pensi di aver rovinato la mia
possibilità di poter essere felice vivendo un perfetta vita normale?
Beh, la vita non è normale o tantomeno perfetta. E' incasinata, e
complicata. E sai cosa? Va benissimo così. Per così tanto tempo ho
provato a fare le scelte più giuste, quelle che in qualche modo
avrebbero dovuto finire per far andare tutto bene. Ma non lo hanno
fatto. Perché tutto quello che avevo, tutto quello con cui mi ero
ritrovata, non era … non lo so, non era davvero mio. Mi sono aggrappata
al mandare tutto avanti, con la mia famiglia, con il locale … Perché
era il sogno dei miei genitori e tutto ciò che volevo era mantenerlo
vivo. Ma era il loro sogno.
Non il mio. E non sto dicendo che lo rimpiango, sto solo dicendo … che
mi sono concentrata così tanto su quello da lasciare che mi
dimenticassi chi fossi io, al
di fuori di questo. E mi sento come se stessi soltanto adesso iniziando
a scoprirlo." Mi interrompo, giocherello un po' timida con l'orlo del
mio vestito. "Questo pomeriggio ho dato a Jenna la piena gestione del
Grill, e lei quasi non ci credeva. E Bonnie mi ha dato il contatto di
un consulente studentesco al Whitmore. Lo incontro domani per iniziare
a pensare cosa scegliere, alle pratiche di iscrizione. Andrò al
college," e guardo in su verso di lui, senza riuscire a nascondere del
tutto un sorriso, e anche le labbra di Damon si tirano all'insù, e lo
fanno con quella nota di orgoglio che mi fa quasi arrossire. Mi
schiarisco la voce.
"Ma, immagino, che quello che
sto veramente cercando di dire …" Ho la gola più spessa, e il petto più
tiepido, mentre allungo la mano verso la sua, la prendo nervosamente
nella mia. "Quel matrimonio, o illusione di avere una piccola vita
perfetta … Penso che sia io che Elijah avessimo messo fin troppo sforzo
nel cercare di trasformarlo in quello che volevamo che fosse, ma che
non era davvero. Non era reale. Ed io voglio qualcosa di vero, Damon,
lo voglio anche se fa male. Non sapevo più chi io fossi o cosa volessi,
e tu mi ci hai messo di fronte anche se mi spaventava da morire.
Fingevo di stare bene, e tu mi hai fatto mettere tutto in dubbio. Avevo
dimenticato cosa si provasse a sentirsi davvero vivi, e tu me lo hai
ricordato. E ti amo, per questo." La mano mi trema appena mentre
stringo la sua più fermamente, sollevo il volto su di lui. "Ti amo,
Damon."
I suoi occhi si allargano nei
miei, cercano nel mio sguardo per vederlo lì oltre che nelle mie
parole, e quando lo fanno, sono io che vedo un mondo intero nei suoi,
il suo e il mio, da cui mi lascio riempire completamente. Il mio
battito accelera mentre la sua mano raggiunge il mio viso, mi accarezza
i capelli, si posa sulla base del collo. Abbassa la fronte fino a
toccare la mia.
"Hai una vaga idea," mormora
attorno ad un sorriso abbozzato, "quanto ho aspettato di sentirtelo
dire?"
Mi sfugge una leggera risata.
"Solo un'idea vaga."
Chiudo la mia mano sulla sua,
ferma sul mio profilo, gli sfioro piano la pelle con le dita.
"Penso che sia grandioso quello
che stai facendo, quello che vuoi fare," prosegue, abbassando appena lo
sguardo, deglutendo un po'. "E davvero credo che dovresti. Andare là
fuori, essere te, prenderti tutto quello ti meriti. Perché sei
intelligente e determinata così." Mi sento sorridere di nuovo, stringo
più forte la sua mano. "Voglio davvero che tu lo faccia."
"Lo sai," sussurro. "Ci sono un
sacco di ottimi college in California."
Damon si scosta. Non di tanto,
ma abbastanza da farmi alzare lo sguardo a scrutare la sua faccia con
un'occhiata interrogativa. Corruga la fronte, serra leggermente le
labbra.
"Sai quando prima … Ho detto che
le cose con Katherine si sono fatte un po' … complicate."
La sua mano scivola piano via
dal mio volto, e la sua voce si fa particolarmente incerta mentre
aggiunge, "Elena, c'è una cosa che devi sapere."
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Capitolo 24 *** Lovers' eyes ***
Prima
di lasciarvi alla lettura.
A
chiunque mi abbia mai chiesto che intenzioni avessi per la fine delle
mie storie, in generale, qui come altrove, ho sempre risposto la stessa
cosa: non credo nell’happy ending a tutti i costi, così come non credo
nel non-happy ending tanto per fare l’alternativa. Credo nei finali che
sappiano dare compimento ad un percorso, che diano “chiusura” ai
personaggi e a chi li legge, ed ho sempre cercato di lasciare che anche
SL prendesse da sola questa strada, senza forzare la mano.
Ho
iniziato questa storia due anni fa, nell'agosto del 2013. Avrebbe
dovuto essere una mini-long senza troppo impegno, circa una decina di
capitoli, rapida e indolore. Beh, non esattamente indolore, but still: non doveva
prendere troppo tempo. Solo che poi ha preso vita. I suoi personaggi,
dai protagonisti ai personaggi secondari e fino alle comparse minori,
mi hanno preso le dita e la testa. Più io li scoprivo, più loro avevano
cose da dire.
Penso
però che mi sia stato chiaro più o meno fin da subito, che questa non
era mai davvero nata come una storia d’amore tra due persone. Era forse
più la storia di tutto quello che ci sta intorno; dei conflitti e delle
circostanze personali che ci definiscono; delle scelte, giuste o
sbagliate, che per amore (tutti i tipi di amore) si fanno; di
opportunità mancate così come di seconde possibilità.
Credo che
la sua chiusura abbia senso alla luce di tutto questo, e per me questa
è stata la cosa più importante. Non l'ho scelta
io. Come sempre, l'hanno scelta loro.
Anche se
in breve (per adesso), voglio solo ringraziare, dal più profondo del
cuore, tutte le persone che ci sono state fin qui: chi c'è da sempre,
chi si è perso per strada, chi è tornato, chi ha lasciato mille ipotesi
analisi e riflessioni, chi anche solo un pensiero, chi l'ha fatto
sempre e chi solo una volta. Soprattutto ringrazio l'entusiasmo che in
questi due anni mi avete dato, e che ha reso la scrittura un'attività
molto meno solitaria di quanto altrimenti sarebbe stata.
Insomma, solo … grazie.
ever
23.
Lovers'
eyes
- But do not ask the price I paid,
I must live with my quiet rage,
Tame the ghosts in my head,
That run wild and wish me dead.
Should you shake my ash to the wind
Lord, forget all of my sins
Oh, let me die where I lie
'Neath the curse of my lover's eyes.
-
( Lovers' Eyes -
Mumford & Sons)
Damon
Tre
mesi fa
"… e questo, Jack, è il motivo per cui hai bisogno di noi."
Finisco con sicurezza il mio
discorso al tipo in completo e camicia di fronte a me, che ho appena
passato l'ultima ora e mezza a convincere del fatto che le superiori
capacità di programmazione di Ric sono esattamente ciò che gli serve
per la nuova piattaforma di pagamenti online che ha intenzione di
lanciare. Lui appoggia il mento sulle dita e rilassa appena le spalle,
tutte piccole spie che mi dicono che ce l'ho quasi fatta a portarlo
dentro. Ha solo bisogno di quella leggera spintarella finale.
"Ok. Quanto mi costerà?"
Il mio telefono vibra contro la
superficie del tavolo, gli lancio un'occhiata. E' lo stesso numero
sconosciuto che mi sta chiamando per la terza volta. Scambio uno
sguardo con Ric seduto accanto a me, lui annuisce e, senza una parola,
esce dalla meeting room per prendere la chiamata al posto mio.
Mi sporgo in avanti, incrocio le
dita tra di loro. "Diecimila di anticipo. Altri cinquanta a fine
lavoro."
Lui fischia, fa l'esagerato.
"Oh, non essere un idiota,"
replico. "Quel tipo è un genio, e lo sai anche tu."
Ric riappare sulla porta, che
tiene aperta con una mano, ma non rientra. "Damon? Questa la devi
prendere."
Mi alzo, getto un altro sguardo
al nostro potenziale nuovo progetto. "Pensaci. Torno subito."
Mentre sfilo il telefono dalle
mani di Ric con un'occhiata interrogativa, lui mi dice solo, a bassa
voce, "Tuo fratello."
Rientro nel nostro piccolo
ufficio, sgraffigno la pallina anti-stress di Ric dalla sua scrivania e
la tiro in aria con una certa soddisfazione per come sta andando
l'incontro, mentre mi appoggio contro il bordo e rigiro il telefono tra
le dita per portarlo all'orecchio.
"Sarà meglio che ne valga la
pena, Stef."
"Si tratta di papà."
Non è per via del tono. Sono
abituato a quel tono in bocca a mio fratello, quel tono grave che è
capace di usare anche per quando sono finiti i cereali. E' il modo
diretto e senza giri di stronzate in cui lo dice, a far scivolare via
all'istante i residui del vago sorriso che avevo fino ad un attimo fa.
"Ti sto chiamando dall'ospedale.
Questa mattina, dopo che … Il suo cuore … Damon, è stato tutto così
veloce, i-io … non ho potuto …"
Le mie dita allentano la presa
sulla pallina, mentre il mio battito corre più veloce ed io lo so già,
lo so e basta, anche prima che la voce distante di Stefan incespichi
ancora un po' su dettagli sconnessi che non ascolto e finisca di
rompersi.
"Papà non c'è più."
Guardo di fronte a me. E
aspetto, aspetto che la vera realizzazione si depositi, che sia in una
qualche sensazione che sbuca sul fondo del petto, o nella palla
anti-stress che scivola via dalla mia mano. Ma la pallina resta lì tra
le mie dita, meno stabili ma non del tutto, e l'unica sensazione che ho
sul fondo del petto è solo questo teso pulsare che non dice poi niente,
in fin dei conti.
"Damon?" Stefan mi chiama,
incerto, dopo lunghi secondi di silenzio. "Sei lì? …"
Sbatto lentamente le palpebre,
torno a rimettere a fuoco le cose. Poso con attenzione la pallina di
nuovo al suo posto.
"Sì," dico. "Sì."
"Forse potresti-"
"Devo andare, Stef."
Lascio abbassare il braccio che
si è fatto più pesante, premo il tasto che pone fine alla chiamata. Lo
fisso per qualche istante, e poi faccio scivolare il dito più in su,
spengo il telefono del tutto. Lo appoggio sulla scrivania, accanto alla
pallina. Lo lasciò lì, mi dirigo di nuovo verso la meeting room.
"Quindi," dico, tornando alla
mia sedia. "Jack, dove eravamo rimasti?"
***
Adesso
Elena mi osserva disorientata. Sbatte appena le ciglia, come se pur
avendo sentito ciò che le ho appena detto non riuscisse del tutto a
mettere a fuoco il concetto.
Non c'è niente che vorrei di più
che attirarla verso di me, e baciarla con la stessa fierezza con cui
lei ha appena pronunciato quelle due parole che avevo quasi smesso di
sperare di sentirle davvero dire, e restituirgliele un altro migliaio
di volte, ma come provo a sfiorarla di nuovo, lei si scosta
immediatamente.
Cerco altre parole,
qualcos'altro da aggiungere, ma non riesco a trovarne nessuna.
Dopotutto, in quanti possono dire che, di fronte alla più dolce e
perfetta dichiarazione, quella che stanno aspettando da una vita
intera, tutto ciò che costretti dalla loro coscienza riescono a
rispondere è, "Ehi, ti ho mai detto di quella volta che ho messo
incinta la mia moglie malvagia?"
Fanculo a me, solo io ho certi
privilegi.
"Katherine …" Elena mi cerca con
gli occhi di un cerbiatto smarrito. "Lei … ? Insomma, c-come …?"
Quando i nostri sguardi si
incrociano, so che nessuno di noi vuole davvero mettersi ad
approfondire troppo la risposta a quella domanda.
"No, dimentica che io l'abbia
chiesto," infatti aggiunge subito, scuotendo con forza la testa come
per scacciare via l'immagine. Con piacere. "Io non … Voglio dire … Oh
mio dio," deglutisce. "Penso di aver bisogno di un momento."
Fa per alzarsi in piedi, ed io
d'istinto allungo una mano per fermarla, ma lei mi blocca sollevando un
palmo nella mia direzione.
"No. Penso che un momento per
assimilare la cosa sia una richiesta del tutto ragionevole, dato che mi
hai appena detto che stai per avere un figlio da un'altra donna."
Che? Scatto anche io su in piedi
come uno di quei pupazzi a molla che escono dalle scatole.
"Whoa, aspetta un attimo, io non
ho mai detto niente riguardo al-"
"Tu cosa?!"
Sia io che Elena ci voltiamo
verso quello squillo acuto, uno squillo da Caroline, che è appena arrivato
dalla porta alle nostre spalle, dove la mia bionda "sorella" di
prossima acquisizione mi sta fissando con la bocca che tocca terra,
insieme a Stefan lì accanto a lei che invece si limita a cimentarsi in
un accigliamento confuso.
"Stai scherzando?!" prosegue in
altro stridio acuto, rimbalzando lo sguardo incredulo tra me ed Elena.
"Come diavolo è potuto succedere?"
"Oh, cristo santo," mormoro
passandomi entrambe le mani sulla faccia, prima di sbottare esasperato.
"Possiamo per favore bandire completamente questa domanda dalla
questione? Penso che siamo tutti piuttosto familiari con la procedura. Grazie."
Elena, accanto a me, deglutisce
un'altra volta con ancora più sforzo di prima, si volta per riprendersi
la piccola borsa che aveva appoggiato sopra il divano. "E' meglio se me
ne vado."
"Aspetta, Elena, non-"
Mi ferma con una sola occhiata.
Non arrabbiata, non del tutto perlomeno, ma un'occhiata abbastanza
intensa da farmi sapere, senza aggiungere altro, che devo darle il suo
spazio in questo momento. Ed anche se mi costa tutto ciò che ho - la
sola idea di tutti i modi diversi in cui questa notte sarebbe potuta
andare, e ancora di più quella di lasciarla andare quando fino a solo
qualche attimo fa non era mai stata tanto vicina - annuisco appena per
farle sapere che non glielo impedirò.
Mi ritrovo da solo con il doppio
sguardo giudicante di Stefan e Caroline.
Lei scuote sconsolata la testa.
"Oh dio," sospira. "Sei proprio
un coglione."
***
"Benvenuti nella mia casella vocale.
Se non rispondo è perché ho di meglio da fare, oppure non vi voglio
parlare. Se è il primo caso, lasciate un messaggio e forse potrei
richiamarvi. Se è il secondo, non fare neanche lo sforzo, Damon."
Chiudo la chiamata con un altro
"Fanculo, Katherine" che mi rimane stretto tra i denti, nonostante lo
sapessi già in partenza quanto fosse vano tentare di nuovo di parlarle.
Katherine se ne è andata da qui
due sere fa. Praticamente subito dopo quel nostro incontro per il
divorzio che non è mai andato in porto, con tanto di granata che mi ha
gettato addosso, impacchettando in fretta e furia le sue cose per
portarle al bed&breakfast più vicino. Se solo lo avessi immaginato,
di cosa c'era bisogno per farla sloggiare. Ma da come è andata a finire
la mia richiesta di incontrarci per parlare ieri sera, alla festa di
fidanzamento di Stefan e Caroline, dubito che abbia alcuna intenzione
di discutere ulteriormente la questione. Ed in effetti non lo so
nemmeno io cos'altro ci sia da dire, o perché non lascio perdere e
basta, invece di continuare a sbatterci inutilmente la testa.
Elena, invece … Non ci provo
neanche. Almeno due o tre volte, da quando mi sono svegliato, sono
arrivato fino al punto di avere il suo nome e numero sul display,
pronto per essere chiamato, ma quel pulsante verde non l'ho mai
premuto. Ogni volta, ho rivisto lo sguardo con cui mi ha fermato e
chiesto di lasciarla andare ieri sera, e dato che niente è cambiato, mi
costringo a lasciarle lo spazio di cui ha bisogno, anche se starle
lontano in questo momento è pura sofferenza fisica che, combinata con
tutto il resto che mi sta passando per la testa, ha come unico
risultato quello di rendermi un derelitto, fottutamente incasinato,
sacco di depressione.
"Avanti," sussurra pungolante
una voce dietro di me. "Vai."
"Cosa? Perché?" replica un altro
sussurro.
"Perché è così da quando ci
siamo svegliati, sembra miserabile! Ed è tuo fratello, non mi va di
lasciarlo così." Una piccola pausa. "Però io ho un matrimonio da
organizzare, quindi vediamo di sbrigarci."
Faccio roteare gli occhi al
soffitto, scivolo più in basso con la nuca contro la base del divano ed
appoggio un piede sopra il tavolo. "Posso sentirvi, idioti."
"Vai e basta!" sento Caroline
sussurrare di nuovo, prima che mio fratello sospiri ed incespichi
contro il tappeto, come se fosse appena stato spinto in avanti dalla
sua adorabile fidanzata.
L'attimo dopo, entrambi mi
compaiono davanti.
Stefan si siede sul bordo del
tavolino, Caroline invece mi afferra la caviglia e mi costringe con
un'occhiataccia a togliere il piede da lì. Sbuffo infastidito, ma
obbedisco.
"Ora che c'è?" domando scocciato.
Caroline non si perde in tanti
preamboli. Allunga una mano e mi schiaffeggia con forza sul retro della
nuca.
"Che cavolo?!" esclamo allibito
scattando a sedere, massaggiando con una mano il punto dolorante che ha
appena colpito.
"Questo è per non aver usato il
preservativo!"
"Ho usato il preservativo!"
ribatto offeso. Anche se … "Beh, più o meno. Insomma, ero davvero
ubriaco, e potrei non … Sentite, possiamo non farlo? Per favore?"
"E invece sì che dobbiamo farlo!"
"E invece no. Non ho diciassette
anni e tu non sei mia madre - grazie a dio. Cosa vuoi, farmi la
ramanzina e stare a dirmi la gigantesca cazzata che ho fatto? Grazie,
ma non ce ne è bisogno, lo so perfettamente anche da solo."
Stefan solleva lo sguardo, mi
osserva serio.
"Andiamo, Damon. Non è la fine
del mondo."
"Non è la fine del mondo?"
domando sarcastico. "Ho praticamente procreato l'anticristo. Come la
chiameresti tu, se non la fine del mondo?"
Lui e la bionda si scambiano una
lunga occhiata.
"Vuoi farlo tu?" domanda lei.
Stefan mi indica con un gesto
della mano, concede cortesemente. "Prego. Fai pure."
Caroline mi assesta un altro
deciso ceffone sulla nuca.
"La vuoi smettere?!" sbotto
frustrato.
"E tu smettila di fare l'idiota.
Non hai procreato l'anticristo."
"Viene da Katherine. E da me. La genetica non è
chiaramente dalla sua parte." Ci rifletto per qualche secondo. "Credi
che verrebbe fuori con tre teste?"
Alzano entrambi gli occhi al
cielo, in sincrono perfetto, doppia dose di seccatura, doppiamente
insopportabile. Se penso che adesso si sposano pure … L'umanità è
praticamente spacciata.
"Ma sei almeno sicuro che sia
tuo? Che non se lo stia inventando per trascinartici dentro?" prosegue
Caroline.
Stefan le lancia un'occhiata di
traverso. Lei con le labbra gli mima un innocente, "Cosa? E' una
domanda legittima!"
Mi passo una mano tra i capelli,
sospiro, mi accascio ancora più in basso e ancora più depresso lungo il
tappeto. Pensa davvero che quella non sia stata una delle prime cose a
passarmi per la testa, ciò a cui mi sono aggrappato per
auto-convincermi che Katherine stava solo facendo la Katherine con
l'intento di fregarmi e ricavarne qualcosa? E' stata la discussione che
abbiamo avuto ieri sera, quella dopo che le sono corso dietro (Ahah. Io
che corro dietro a Katherine. Qualcosa che non avrei mai pensato
potesse più succedere neanche nei miei incubi peggiori) non appena l'ho
vista apparire alla festa di fidanzamento di questi due, a farmi
scoppiare tra le mani anche quella debole illusione.
"Cosa voglio da te?" mi aveva
sibilato in faccia, prendendo la mia domanda e risputandomela addosso
con stizza. "Voglio non essere incinta del tuo stupido bambino!"
"Non è detto che sia mio!"
"Sul serio?" aveva replicato, un
lampo di ferimento a balenarle nello sguardo che mi aveva quasi fatto
sentire un po' uno schifo per averglielo detto. "Pensi davvero che
andrei a letto con qualcuno in questa stupida città di provinciali? Ho
degli standard. Anzi, no, lo sai cosa? Credi pure quello che ti pare.
Non me ne frega niente. Ho già preso appuntamento per liberarmene
quindi, in ogni caso, non ha nessuna importanza."
Aveva allargato la mani come per
sottolineare che per lei la questione era finita lì, ed io non so
perché mi fossi sentito tutto insieme un tale idiota, né tantomeno
perché, quando si era girata per andarsene, invece di lasciarglielo
fare l'avevo afferrata per il polso per farla voltare di nuovo.
"Non dovremmo …" Avevo esitato,
avevo davvero esitato, costretto ad ingoiare con difficoltà attorno ad
un nocciolo duro appena spuntato nel mezzo alla gola. "…. Non dovremmo
almeno prima parlarne?"
"Parlare?" Katherine aveva riso,
di quella risata leggera e cristallina che un tempo avevo adorato,
macchiata però questa volta di un sottotono più amaro, appena prima di
strattonarsi via dalla mia presa e liberarsi di me. "Vuoi parlare di
qualcosa, fallo con il mio avvocato."
Sì, lo so. La rivincita è una
stronza, quando se la prendono gli altri, e ancora di più quando
risponde al nome di Katherine Pierce.
Ma rivincita o no, era lì che lo
avevo saputo, al di là di ogni dubbio che ancora avrei voluto avere.
Per rispondere a Caroline, scuoto la testa.
"Non mi sta trascinando dentro a
niente. Conosco Katherine. Se era a questo che puntava, se la sarebbe
giocata fin dall'inizio molto diversamente. Penso che in realtà non
volesse neanche farmelo sapere, lo ha fatto solo per gettarmi addosso
qualcosa perché in quel momento era incazzata per non aver avuto il
divorzio che voleva. Voglio dire, non lo vuole neanche tenere. Che è
una buona cosa, alla fine. Insomma, problema risolto." Annuisco per
imprimere ancora più convinzione all'ultima frase. Guardo entrambi.
"Giusto?"
C'è un momento di troppo di
silenzio, nel quale Caroline annuisce leggermente con le labbra serrate
appena prima di spostare lo sguardo sullo status della propria
manicure, e Stefan fissa qualcosa oltre le mie spalle, ed io sospiro
passandomi entrambe le mani tra i capelli, senza sapere perché se il
problema è risolto io mi debba sentire un tale schifo al riguardo.
"E' tutto sbagliato," mormoro
tra me e me. "Non dovrebbe stare accadendo a me. Ho sempre pensato che
sarei stato lo zio figo, no? Quello che viene e va e che può avere
tutte le parti divertenti senza realmente dover rimanere incastrato con
la … cosa. Quello dovresti
essere te, Stef."
Il silenzio che segue è così
immobile che sollevo di nuovo la testa solo quando sento il rumore di
tacchi sul pavimento. Caroline si è alzata, si schiarisce la voce
evitando il mio sguardo.
"Mi sta … suonando il telefono.
Deve essere il fioraio. Devo andare."
Non è vero che il telefono le
sta suonando, ma sono davvero troppo un totale imbecille per realizzare
cosa ho appena detto fino a che Caroline non si affretta a lasciare la
stanza ed io non incrocio ciò che passa negli occhi di mio fratello
mentre la guarda andare.
"Merda," mormoro, premendo due
dita contro la radice del naso, maledicendomi per non far funzionare il
cervello prima di parlare. "Merda. Mi dispiace, non volevo …"
"Va bene," mi ferma lui.
Non va bene per un cazzo.
Mi sporgo in avanti fino a
posare i gomiti sulle ginocchia, ingoio attorno allo stesso nocciolo
duro che non se ne è più andato da ieri sera, senza riuscirci davvero.
Lo faccio suonare come una qualche specie di scusa, non so se più verso
di lui o verso me stesso.
"Non posso avere un figlio. Non
posso … e basta."
Quando incontro il suo sguardo,
mio fratello mi studia in silenzio per un lungo istante.
"Allora è un bene che non lo
voglia tenere."
Lo è? Cazzo, non lo so. Non so
più un cazzo di niente. Il modo in cui lo guardo in risposta è molto
più che implorante. Lui lo nota, perché subito fa di nuovo roteare gli
occhi al soffitto prima di riportarli su di me.
"Cosa ti aspetti che ti dica,
Damon?"
"Non lo so! Una di quelle …"
Agito vago una mano nell'aria. "… cose da Stefan. Lo sai, quelle
noiose, ragionate, in cui mi dici quale è la cosa migliore da fare …
Cose da Stefan."
"Beh, scordatelo. Non ho
intenzione di farlo," dice alzandosi in piedi, verso la direzione da
cui Caroline è appena uscita. Mi posa brevemente una mano sulla spalla.
"Non questa volta."
Stefan stava dormendo. Era sempre bianco come un fantasma, un terreo
alone viola sotto agli occhi che sarebbe stato perfetto per una festa
di Halloween ed una vaga smorfia sofferente a contrargli il volto che
mi si attanagliò dritta attorno al petto. Rimasi lì qualche minuto,
sulla soglia della camera d'ospedale, senza ancora decidermi ad
entrare, stordito dal dolore pulsante alla testa che mi perseguitava
dal primo momento che avevo aperto gli occhi.
Non che
fosse stato male come risveglio. Lì nel letto di Elena, così circondato
dal suo odore da ritrovarmi con indurimento mattutino che era perfino
doloroso, mentre premeva contro il materasso, ma di un dolore così
squisito che quasi cancellava l'altro, quello sordo e persistente
diffuso nelle ossa e nella testa dall'incidente della notte prima.
L'incidente.
Stefan. La cena dal governatore. Mio padre.
Tutte quelle
cose erano da sole bastate a farmi martellare le cervella ancora più
pesantemente. E neanche il bozzolo piacevole dell'odore di Elena era
riuscito a tenere la realtà fuori troppo a lungo.
Realtà
ovvero mio fratello steso in un letto d'ospedale con un organo di meno;
mio padre che si stava costruendo una carriera politica sulla rovina
della famiglia della ragazza che amavo; la ragazza a cui avevo detto di
amarla nella notte, che non era più lì al mattino.
Era sembrata
una buona idea, nel buio, sul momento, buttare fuori ciò che avevo in
egual misura desiderato e temuto dirle da così tanto tempo. Al
risveglio, non sapevo più se lo fosse stata davvero. La nota positiva
era che lei mi aveva baciato (dio se mi aveva baciato, cosa su cui
anche la mia erezione concordava). Quella non così positiva era che da
parte sua prevedibilmente non c'era stata, in effetti, nessuna presa di
posizione sulla cosa. E per quanto ci provassi, non riuscivo a smettere
di pensare che forse non voleva davvero dire niente, che magari si era
solo lasciata trasportare dal momento, insieme ad un po' di compassione
per lo stato in cui mi trovavo, per poi pentirsene non appena si era
svegliata ed era tornata a ragionare con lucidità.
Neanche la
nota scribacchiata su un pezzetto di carta che avevo trovato sul
pavimento mi aveva aiutato granché a far pendere la bilancia dall'una o
dall'altra parte. Quelle parole le avevo lette non so più quante volte,
in ogni diverso tipo di tono o accentazione, come se uno di essi
potesse essere quello giusto per risolvere il mistero di cosa le stesse
davvero passando per la testa.
Anche
mio padre mi aveva lasciato un messaggio, un sms stringato sul
cellulare.
Torna a casa, così possiamo
parlare.
Quello
invece lo avevo cancellato senza pensarci due volte.
Casa.
Parlare. Non era difficile immaginare dove volesse andare a parare: il
mio comportamento indecente della sera prima, mio fratello che quasi ci
rimane perché io ero troppo ubriaco per essere responsabile, i suoi
piani per il bene superiore che non potevano essere disturbati
dall'insignificante dettaglio che a me importasse qualcosa di chi ci
finiva preso nel mezzo. Un'altra litigata, un'altra battaglia, che mi
avrebbe soltanto lasciato svuotato, sbattuto, ed ancora più incazzato
di quanto già non fossi.
Quindi
fanculo. Poteva aspettare.
Avevo
ingoiato una manciata degli antidolorifici con cui ero stato dimesso la
sera prima ed ero andato da mio fratello.
Stefan ce ne
mise di tempo a svegliarsi. Dalla poltroncina accanto al letto in cui
mi ero spostato mentre aspettavo, abbozzai un mezzo sorriso.
"Buongiorno,
fratello."
Si passò una
mano sulla faccia per scacciare via lo stordimento delle medicine.
Quando infine mi mise del tutto a fuoco, disse solo, "Hai un aspetto di
merda."
"Oh, beh,
grazie," replicai. "Pure tu sei un fiorellino."
Sorrise, ma
venne fuori più come una smorfia.
Gesù, non
sapevo neanche da dove cominciare.
"Mi
dispiace, Stef. Non avrei dov-"
"Smettila,"
mi interruppe. "Non sono un bambino, ok?" Cercò di tirarsi su a sedere
più dritto, come per rafforzare il suo punto, ma riuscì solo a lasciar
uscire un'altra smorfia e a riaccasciarsi sui cuscini. "Ero io a
guidare. Mi sono distratto. Ho fatto una cazzata. Non puoi sempre
prendertene il merito tu, ok? Lasciane un po' anche a me."
Curvai le
labbra, Stefan fece una pausa. "Sono solo contento che tu stia bene.
Dal momento che, sai com'è … ti ho distrutto la macchina."
Scossi la
testa. E' vero, il mio cuore piangeva un torrente di lacrime all'idea
della Camaro tutta storta e devastata in un deposito rottami, ma
l'avevo sistemata quando era stata in condizioni peggiori, si sarebbe
potuto sistemare anche questo.
"Va bene."
"No, non va
bene," ribatté. "Te la ripagherò."
Alzai gli
occhi al cielo. "Non essere ridicolo."
"Volevi
venderla, no? Avevi detto che ti servivano i soldi. Bene, allora la
compro io. Lo so che ne avresti ricavato di più se l'avessi venduta in
perfette condizioni, ma te lo prometto. La rimetterò a posto."
"Stef. Stai
zitto, per favore."
Questa volta
ci riuscì a mettersi seduto.
"Voglio
farlo," replicò, con gli occhi allargati in un'espressione così
supplichevole e determinata che fui io a zittirmi. "Così saprò che
avrai un motivo per tornare, per vedere che la stia trattando bene."
Maledizione
a te, Stefan. Stupido, sentimentale, snervante, Stefan.
Ebbi un
distinto ricordo lampo della nostra conversazione della notte prima,
che arrivò un po' ruvida e un po' livida esattamente come erano
entrambe le nostre facce in quel momento. Tornare. Andarmene. Erano
mesi che mi gingillavo con quell'idea, e settimane che insieme ad Enzo
pensavo a come metterla in pratica. Racimolare abbastanza soldi per
avere un po' di base di partenza, e lasciarsi tutto alle spalle. Fino a
ieri, era un piano. Oggi invece c'era Stefan troppo bianco in ospedale,
e c'era la consapevolezza di cosa si provasse ad avere Elena avvolta
stretta tutto intorno a me. Ed anche senza sapere se davvero
significasse qualcosa o meno, soltanto l'accenno, soltanto la
possibilità di poterla tenere ancora in quel modo, era quel genere di
cosa capace di prendere i migliori piani e trasformarli in fumo.
"Va bene,"
dissi vago. "Vedremo, ok?"
Restammo
entrambi in silenzio, finché Stefan non alzò di nuovo la testa.
"Papà è
tornato a casa un paio di ore fa. Ha detto di fartelo sapere, quando
fossi passato a trovarmi, che lo puoi trovare lì."
"Bene, così
adesso so che posto evitare."
Stefan
sbuffò. "Non puoi lasciar perdere? Almeno per una volta?"
Scossi la
testa, mi alzai di scatto in piedi. "Non si tratta di lasciar perdere."
"E allora di
cosa?" mi domandò, confuso ed esasperato come ogni volta che si trovava
ad assistere a certe situazioni.
"Non lo so,
io …" mi interruppi da solo, incapace di spiegargli cos'era davvero,
tutto ciò che non potevo lasciar perdere.
Stefan non
avrebbe mai capito. C'era Elena, è vero. Ma c'era anche il nodo nero di
rabbia e frustrazione che si era tessuto, ingarbugliato in quel modo
che, a cercare di tirarlo via, finiva solo per stringersi
inevitabilmente ancora di più.
E la cosa
più ironica è che fu proprio Stefan a darmi involontariamente l'idea,
quando uscii dall'ospedale e passai dalla sede degli uffici della
Salvatore's&Associates, a prendere la sua auto rossa che aveva
lasciato parcheggiata lì dalla sera prima e che aveva insistito che io
usassi finché non avessi potuto recuperare la Camaro. Aveva detto che
papà lo avrei trovato a casa, quindi sapevo per certo che non sarebbe
stato lì.
In mia
difesa, non avevo intenzione di fare chissà che. Volevo solo sapere
cosa avesse davvero in mente, quali fossero nel dettaglio i suoi piani,
fino a che punto avrebbero danneggiato Elena, sapere se c'era anche
solo un minimo appiglio che avrei potuto usare per fargli cambiare
idea, o qualcosa da usare per dare una mano ad Elena quando gliene
avessi parlato - perché gliene avrei parlato. Non sapevo neanche io
davvero cosa. Qualsiasi cosa.
In mia
difesa, non era mia intenzione fare davvero seri danni.
In mia
difesa, forse un po' lo era.
***
Sono infine costretto ad alzare il culo dal mio confortante e
deprimente posticino alla base del divano e togliermi gentilmente dalle
scatole.
I due futuri sposini non solo
hanno deciso di dare tutto un più profondo significato all'espressione
"non perdere altro tempo", gettandosi in frenetici preparativi di un
matrimonio messo su a tempo di record, ma vogliono fare la cerimonia
qui, in questa stessa casa. E così, nel giro di poche ore, la villa e
tutto il suo acro di terra circostante sono stati rapidamente invasi da
un circo danzante di ogni genere di delirio matrimoniale, tra un
incessante suonare di telefoni e campanello, servizi catering intenti
ad esaminare la cucina, giardinieri a falciare il prato. Mentre scendo
al piano inferiore dopo una doccia veloce, mi trovo perfino a dover a
sorpassare sulle scale alcuni musicisti, intenti ad accordare i propri
strumenti in vista di un'audizione con Caroline.
Ric mi risponde al secondo
squillo.
"Vai a cercarti uno smoking e
metti il culo su un aereo. Sabato andiamo ad un matrimonio."
"Che matrimonio? Di che diavolo
stai parlando?"
"Il mio fratellino si sposa.
Sembra una puntata di Bridezillas da queste parti." Evito al volo e
all'ultimo secondo un trombettista che mi è appena strisciato accanto
precipitandosi verso l'uscita, non so se perché ha dimenticato qualcosa
o perché ha appena preso la decisione più intelligente di tutta la sua
vita e sta scappando via di qui. Lo invidio. "Anzi, vieni prima di
sabato. Magari mi aiuti a sopravvivere. E poi …" Tiro su un angolo
delle labbra in un sorrisetto che è forse il primo in tutta questa
cavolo di giornata. "… Addio al celibato, baby."
"No, fermo un attimo. Pensavo
che si fossero lasciati. Non eri tornato perché si erano lasciati?"
"Già, e adesso si sposano. Tra
quattro giorni."
"Penso di essere davvero
confuso."
"Benvenuto nel club delle follie
Steroline."
"Che vuol dire Steroline?"
"E' questa nuova creatura che
stanno diventando. Una specie di mostro orripilante che viene fuori
dalla fusione del peggio di entrambi … Ne ho avuto un primo assaggio
questa mattina." Non dico in relazione a cosa. La notizia della
progenie di satana è già arrivata a fin troppe orecchie, ed io non sono
così crudele da dargliela per telefono. O così masochista da attirarmi
un'altra paternale pure da lui. Quindi sorvolo, breve e conciso. "E'
terrificante, lo giuro. Quindi, vieni?"
Domanda retorica. Lo sa anche
lui non c'è altra alternativa che una risposta positiva.
Come chiudo la chiamata, vengo
raggiunto da voci animate nel bel mezzo di una accalorata discussione.
Sbircio verso l'interno della sala, dove Caroline sta inveendo
intensamente contro mio fratello.
"E' Time after time! Lo sai
perfettamente, è la canzone del nostro primo appuntamento!"
"Sì, ma la canzone che ti
rappresenta dovrebbe essere qualcosa di più significativo di un primo
appuntamento!"
Lo sguardo di Caroline è un
raggio laser letale.
"Oh, quindi il nostro primo
appuntamento non era significativo, è questo che stai dicendo?"
Uh-oh. Cazzo, Stefan, ti sei
messo davvero nei guai qui. Mi appoggio con una spalla contro lo
stipite della porta e mi fermo per guardare, perché è davvero tutto
troppo divertente. Peccato non avere dei popcorn.
"Non è quello che ho detto, e lo
sai. Sto solo dicendo che la nostra canzone dovrebbe essere All about loving you, perché è
quella con cui ti ho detto che ti amo per la prima volta."
"Ma Time after time è venuta prima!"
Non molla lei. "Non puoi decidere su due piedi quale è la nostra
canzone, viene fuori da sé, è così e basta!"
"Ma è Bon Jovi! E' un classico!"
"Anche Cindy Lauper è un
classico!"
Stefan sbotta allargando le
braccia frustrato, ed è in questo momento che mi vede. Mi indica con la
mano.
"Damon, diglielo anche tu.
Diglielo di quando ti ho detto che era quella la nostra canzone!"
Mi porto pensoso una mano sulle
labbra davanti al vivido ricordo di uno Stefan ubriaco perso intento ad
ascoltare Bon Jovi e a blaterare qualcosa del genere, quella volta in
cui si erano mollati durante gli anni del college - qualcosa per cui
non ho mai sprecato l'opportunità di prenderlo per il culo, data
l'occasione. Poi però vedo lo sguardo di Caroline.
"Nope," scuoto la testa. "Non
riesco a ricordare niente del genere."
Caroline incrocia le braccia sul
petto e si volta verso di lui con un sorrisino vittorioso. Stefan
socchiude gli occhi minaccioso.
"Traditore."
Indico Caroline con il mio
pollice sinistro ed abbasso la voce ad un finto sussurro, "E' che a
volte lei mi fa davvero paura."
Il campanello suona un'altra
volta, e Caroline scuote la testa con un'alzata di occhi al cielo,
passandomi davanti per andare ad aprire alla porta.
"Questa me la pagherai,"
borbotta Stefan, venendomi incontro.
"Lei me l'avrebbe fatta pagare
di più," replico dandogli una consolatoria pacca sulla spalla. "E poi,
andiamo, davvero pensi ancora di avere una minima possibilità di
vincere una qualsiasi discussione con lei? E sto parlando da qui a fin
che morte non vi separi."
Stefan sta per ribattere, ma poi
la sua faccia cambia di colpo espressione. Indica l'ingresso. "Aspetta.
Hai sentito?"
Mi volto per ascoltare le due
voci che arrivano da lì, ed anche la mia di espressione cambia
all'istante, quando quel femminile "Oh mio dio, ma guardati, sei così
adorabile!" rende chiaro, a me come a Stefan, che chi ha appena suonato
il campanello non è soltanto un altro ragazzo delle consegne.
"Cazzo …" mormoro lentamente,
girandomi poi verso la reazione mio fratello.
"Non lo ha fatto," dice lui con
la mascella tesa, scuotendo la testa, in pieno denial con giusto una
punta di panico. "Ti prego dimmi che non l'ha davvero chiamata per
dirle di venire qui."
Oh, sì. Lo ha fatto. Stefan si
porta una mano sulla fronte e si lascia sfuggire un'imprecazione
sottovoce, mentre Caroline ritorna sottobraccio ad una sorridente
Charlotte, come due migliori amiche di lunga data. E meno male che le
spose non vanno d'accordo con le proprie suocere.
Se poi si tratta di Caroline più
nostra madre?
Mi sporgo per bisbigliare a mio
fratello. "Sei troppo fottuto."
"Che diavolo ti è saltato in mente?"
"Come cosa mi è saltato in
mente? E' tua madre!"
"Non significa che dovevi
invitarla alle mie spalle!"
"Vuoi dirmi che non volevi
invitarla al matrimonio?"
"Voglio dire che avresti dovuto
parlarmene prima!"
Charlotte si rigira nervosamente
tra le mani la tazza di caffè che le ho appena porto, prima di sedermi
davanti a lei al bancone della cucina, facendo finta di non stare
ascoltando gli stralci della discussione tra i due fidanzatini che sta
andando avanti nella sala accanto. Ma non sta fingendo poi così bene,
come dimostrano le sue sopracciglia increspate in una linea più
irrequieta, o le labbra che si fanno più sottili.
Erano mesi che non la vedevo. E'
ancora più esile di come me la ricordassi, sempre con quel non-so-che
per cui sembra che possa dal niente dissolversi nell'aria, e pur
restando splendida da fare invidia a gente con vent'anni in meno dei
suoi, è la prima volta in cui le vedo sul viso linee più provate che
non c'erano fino a qualche mese fa.
Si mette a frugare con dita
nervose dentro la borsa, ne tira fuori una sigaretta, mi getta uno
sguardo. "Posso?"
"Fuori," le faccio segno. Alzo
le mani in aria. "Regole di Caroline, non mie."
Annuisce, fa per alzarsi, ma poi
ci ripensa, torna a sedersi, picchietta incerta la sigaretta sul
bancone.
"Pensi che sia stata una pessima
idea?" mi chiede, alzando apprensiva lo sguardo su di me. "Forse non
vuole davvero avermi qui …"
"Lo vuole," le dico, pensandolo
sinceramente. "Ha solo bisogno di fare un po' la primadonna al
riguardo."
Charlotte annuisce e mi rivolge
un abbozzo di sorriso, come per auto-convincersi di crederci anche lei.
Una volta mi ha detto che era arrivata ad accettare la scontrosità con
cui Stefan la tratta da sempre, il fatto che sotto sotto lui non
l'abbia mai davvero perdonata per essersene andata e tutto il resto.
Stronzate. Ogni volta che lui fa così, lei si sente uno schifo. Ogni
volta che lei si sente uno schifo, Stefan segretamente ci gode ad avere
un'occasione in più per mettere su la sua faccia da parte lesa. E' il
modo in cui si relazionano. E poi sono io, quello con problemi.
"E' che sono stata così felice
quando Caroline mi ha dato la notizia … E' una ragazza incantevole, non
credi anche tu? Un matrimonio! Penso che ne avessimo bisogno tutti, di
qualcosa di così bello, di un po' di karma positivo dopo il lutto."
Charlotte sbircia la mia
reazione a quella parola, ed io annuisco vago, già pronto a schivare al
volo il proiettile dell'argomento con un veloce cambio di direzione che
porti il discorso su qualcosa di banale tipo chiederle come è andato il
viaggio, ma lei mi anticipa, ancora più rapida, allungando una mano per
posarla sopra alla mia.
"Come stai, tesoro? Intendo,
veramente. Non abbiamo ancora avuto davvero occasione di parlarne,
della morte di tuo padre. Ho provato a telefonarti, ma tu non hai mai
richiamato, così ho pensato che magari avessi bisogno di un po' di
tempo per-"
Tiro via la mano, sulla
difensiva.
"Sto bene," la taglio corto.
"Davvero. Sto bene."
Lei si sporge un po' titubante
verso di me, abbassa la voce ad un tono quasi furtivo.
"Hai pianto?"
"Cosa?" replico con una smorfia
infastidita. "No."
"Non c'è niente di male, sai,"
prosegue raddrizzando la schiena e prendendo un piccolo sorso di caffè.
"Anche gli uomini possono piangere. E' liberatorio. Infatti, stavo
proprio di recente leggendo questo saggio di questo mio amico
professore di psicologia, e sai lui è davvero aperto sui suoi
sentimenti, e sostiene che-"
"Diamine, Charlotte," la
interrompo secco. Cristo santo, come se non avessi già abbastanza cose
a fottermi la testa, ci mancava solo questa. "Non ho bisogno di
piangere. Lascia perdere."
Lei rimane in silenzio qualche
istante, a rigirarsi la sigaretta spenta tra le dita, sovrappensiero.
"Ci sono alcune cose di cui
dobbiamo parlare, Damon," dice infine. "E ti prometto che lo faremo."
Fortunatamente, non dobbiamo
farlo adesso, perché Stefan è appena comparso sulla soglia della
cucina. Charlotte si volta e lo guarda con aria carica di attesa, come
un imputato che aspetta di sentire di che condanna deve morire. Lui
però fa scivolare lo sguardo su di me.
"Vado in ufficio a rivedere
alcune cose per la riunione del consiglio di domani. Meglio assicurarsi
di nuovo che sia tutto in ordine e prepararsi ad ancora più
opposizione, dato che presumo Elijah non sia troppo felice del fatto
che ti sei portato a letto la sua fidanzata."
Charlotte torna a voltarsi verso
di me, inclina la testa di lato per gettarmi uno sguardo incuriosito.
Congedo la questione con un vago cenno della mano.
"Ex-fidanzata," lo correggo.
Piccole soddisfazioni dove me le posso prendere. "Ma va bene."
Mio fratello si infila
impacciato le mani fin sul fondo delle tasche.
"Charlotte," dice. "Care sarebbe
molto felice se tu potessi darle una mano con la scelta della musica e
del gruppo al posto mio." Sospira per lo sforzo, la primadonna. "E ne
sarei felice anche io."
Charlotte si allarga in un
sorriso raggiante, sbrigandosi a fare cenno di sì, e si alza per
chiuderlo in un abbraccio al volo al quale lui rimane rigido, con le
mani affondate in tasca e la faccia vergognosa di un dodicenne che non
vuole farsi vedere dai compagni di scuola.
"Tu vieni?" mi domanda, quando
infine Charlotte lo lascia andare per raggiungere Caroline.
Ma invece di rispondergli, vengo
distratto dal tintinnio di un nuovo messaggio sul mio telefono. Corrugo
la fronte, un grumo rigido torna a chiudermi la gola. Katherine.
Va bene.
Vediamoci prima che io cambi idea.
Scatto in piedi così velocemente
che faccio quasi cadere la sedia all'indietro.
"Dopo," getto là distrattamente.
"Devo andare."
***
"Ce ne hai messo di tempo," mi saluta Katherine con una vaga smorfia.
"Ce ne hai messo di tempo a
rispondere," ribatto io, sedendomi di fronte a lei.
Rotea gli occhi al cielo, posa
il mento sulla mano. La studio brevemente, nei pochi secondi di
silenzio che seguono, alla ricerca di un qualsiasi indizio su che
genere di offensiva debba aspettarmi arrivati a questo punto. Ma se il
posto che ha scelto - uno dei tavolini esterni del Grill, in un angolo
all'ombra che è abbastanza appartato ma ugualmente circondato di gente
- è di qualche indicazione, posso perlomeno supporre che non abbia
intenzione di fare scenate. Anche se, dopotutto, non è mai stato un po'
di pubblico a fermare Katherine, quindi sono di nuovo al punto di
partenza.
Quando non dico niente,
Katherine sospira infastidita.
"Ok, ascoltami bene, voglio
essere chiara. Questa è l'ultima volta che ne parliamo, ok? Poi la
chiudiamo qui. Ho già sprecato fin troppo tempo con te."
Senza aspettare una risposta,
tira fuori dalla borsa una cartellina con dei documenti e la spinge
verso di me.
"Questo è il tuo divorzio. E'
tutto firmato. Lo firmi anche tu, e poi puoi gentilmente andare a farti
fottere. Torno a Los Angeles, da mia sorella, domani notte, e prima che
tu lo chieda, no, non ho bisogno che tu venga a tenermi la mano. Prego,
non c'è di che."
Poso titubante le dita sui fogli
che mi ha messo davanti, sollevo lo sguardo su di lei.
"Dov'è la fregatura?"
"La fregatura?" mi fa eco acida.
"Oh, fanculo, Damon, sei incredibile! Prima mi molesti con qualcosa
come trenta chiamate in un'ora, poi quando ti dico che non devi vedermi
mai più, mi chiedi dov'è la fregatura?"
"Voglio dire …" Butto giù saliva
acre, troppo densa per passare giù come si deve. "E il bambino?"
"E' quello il punto," mi dice
allungando le braccia in avanti, visto che chiaramente sono troppo
lento a capire le cose. Scandisce bene ogni parola. "Non ci sarà nessun
bambino. Diamine, non avrei neanche dovuto dirtelo. Andiamo, dovresti
esserne felice! La maggior parte degli uomini lo sarebbe. Ti sto
sollevando da qualsiasi obbligo. Quindi, fammi un favore, vedi di
mettere da parte tutta questa ritrovata morale e lasciami in pace."
Porto entrambe la mani sulla
bocca e mi abbandono all'indietro contro lo schienale della sedia,
lasciando uscire un profondo respiro.
"Cazzo, Katherine, non è morale."
"E allora cos'è? Uh?" chiede
ironica. "Che per caso davvero lo vuoi?"
"Diavolo, no, sto solo dicendo
…" Butto fuori altro fiato, mi passo una mano tra i capelli, scuoto la
testa. Non lo so neanche io cosa cazzo sto dicendo. "Non lo so, che
forse dovremmo fermarci almeno un attimo a pensare prima di prendere
una decisione."
Katherine non risponde. Non
immediatamente, almeno, fissando un punto sulla superficie del tavolo
per alcuni istanti, prima di riportare lo sguardo su di me.
"Pensi che io non lo abbia
fatto?" mi domanda, questa volta senza nessuna traccia di sarcasmo.
"Perché l'ho fatto. Sicuramente più di quanto lo abbia fatto tu."
Sollevo la testa, sorpreso da
quell'intonazione più umana che le traspare nella voce, un'intonazione
che quasi avevo dimenticato che suono potesse avere in bocca a lei.
"Ok, senti," prosegue con un
sospiro. "Siamo realisti, ok? Non ho mai voluto una cosa del genere. E
tu nemmeno. L'unico motivo per cui ti ho sposato è perché sei sexy, e
sembrava divertente, e per far incazzare mia madre. Sopratutto, per far
incazzare mia madre. E sì, magari ho pensato, perché non tirare fuori
qualcosa da questo divorzio, ma …" Si ferma, arriccia un po' il naso."
…beh, credimi che non era questo quello che avevo in mente. Tu mi odi.
Io ti detesto. Saremmo dei genitori terribili, ancora peggio che
terribili. E' soltanto un gigantesco sbaglio, perché una notte mi
sentivo sola e tu eri troppo ubriaco per mettere un cavolo di
preservativo come si deve. Andiamo, Damon," mi dice con un piccolo,
quasi impercettibile, brillio implorante nello sguardo. "Sono solo una
ragazzina, lo sai anche tu. E non perché ho ventidue anni, ma perché …
lo sono. Vuoi figli? Bene, vai a farli con la tua barista con gli occhi
da principessa Disney. Ma lasciami fuori. Non chiedermelo perché non
cambierò idea."
Non so cosa dire. Ed anche se lo
sapessi, non so se riuscirei a dirlo comunque perché, invece di
alleggerirsi, tutto ciò che mi blocca si è fatto solo più pesante, più
amaro, più duro da mandare giù.
"E' meglio così, ok?"
Per un attimo, ho l'impressione
che stia per allungarsi e farmi pat-pat sul dorso della mano, ma poi
per fortuna anche lei si rende conto di cosa sta per fare e ritira
velocemente la propria mano, osservandola inorridita come se il suo
posto fosse stato preso da un alieno tentacolare e adesso stesse per
rivoltarlesi contro da un secondo all'altro. Il momento è piuttosto
imbarazzante per entrambi, quindi ci sbrighiamo tutti e due a
distogliere lo sguardo da quella oscenità appena scampata.
Si riprende la borsa, si alza in
piedi. "Fammi sapere del divorzio."
"Kath," la chiamo, la voce
appena roca. Lei si volta, inarca un sopracciglio. "Allora cosa ti ha
fatto cambiare idea, sul fatto di parlarmi?"
Si stringe nelle spalle.
"Non è stato poi tutto così
male, sai. Almeno per un po'." Scuote la testa, torna in sé. "O forse
sono questi fottuti ormoni che mi rammolliscono. Comunque sia … Addio,
Damon."
***
Stefan cammina su e giù per il corridoio, con il naso e la testa tutti
immersi tra gli appunti del nuovo piano che presenterà al consiglio nel
giro di qualche minuto. Me lo immagino mentre mentalmente passa al
setaccio ogni dettaglio, ogni virgola, ogni pausa, rimettendo mano a
parole, frasi e tono di voce, dozzine e dozzine di volte, anche se è
tutto già perfetto così.
Io siedo sul bordo di fronte ad
un'ampia finestra che guarda sul centro di Richmond. La sala riunioni
alla mia destra, dove tutti gli azionisti con anche solo un minimo di
voce in capitolo decideranno se dare fiducia a me e mio fratello, sta
già iniziando a riempirsi. Sono contento che sia lui a doverli
convincere, e non io. Non solo perché é evidentemente più bravo e più
gradito di me nel gestire queste persone, ma anche perché io, in questo
momento, ho la testa da tutt'altra parte.
"Stai bene?" mi domanda Stefan,
sollevando la testa dai fogli.
"Sto bene," butto là poco
convinto, seguendo con lo sguardo due degli azionisti, un uomo ed una
donna, che si scambiano convenevoli e sorridenti strette di mano.
Quanto cazzo odio tutto questo.
Stefan si siede accanto a me.
"Sei ancora turbato da quello
che ti ha detto ieri Katherine."
"Non sono turbato," replico con
una smorfia. "Ha ragione. E quando è Katherine ad avere ragione, e a
dover essere razionale … Beh, prepara il rifugio anti-atomico perché la
fine è davvero vicina."
Stefan posa gli avambracci sulle
ginocchia, arrotola gli appunti in un cono.
"A volte le cose non sono sempre
razionali."
"E' questa la tua perla di
saggezza del caso?"
Si stringe nelle spalle. "Ne
volevi una no?"
Sospiro e mi lascio andare
all'indietro, appoggio la nuca contro il vetro e guardo verso il
soffitto.
"Mi sento uno schifo anche solo
a parlarne con te. Sono qui a piagnucolare, quando so che per te e
Barbie non è neanche una possibilità."
"Ah, ma falla finita. In caso
non lo avessi notato, sono perfettamente felice così," sorride come un
bambino. "Schifosamente felice."
Piego la bocca all'insù, gli do
un colpetto con la spalla.
"Vedi di non mandare le cose a
puttane, con quella lì."
"Ehi," ribatte, con la faccia da
schiaffi. "Non sono mica te."
Gliela lascio passare solo per
il modo affettuoso in cui lo dice.
"A proposito," dice corrugando
la fronte e lanciando un'altra occhiata rapida verso la sala dove la
riunione comincerà a minuti. "Credo di aver bisogno di un testimone.
Niente di che, in realtà, mi accontento anche di qualcuno che invece si
è sposato alle mie spalle senza farmi sapere niente. Sai a chi posso
domandare?"
Questa invece no, che non gliela
lascio passare.
"Oh, sparisci", gli dico,
dandogli una spintarella per farlo alzare. "Sono vivamente indignato
che tu lo debba chiedere. Io lo davo per scontato."
Mi alzo per seguirlo ed entrare
anche io, ma rallento il passo quando vedo Elijah gettare uno sguardo
nella mia direzione, finire di salutare una persona e venire verso di
me.
"Damon," mi ferma, una sottile
nota insofferente nel modo in cui pronuncia il mio nome che non c'era
fino a qualche giorno fa. Comprensibile, immagino. "Una parola?"
"Vuoi prendermi a pugni?" domando mentre entriamo in una saletta
laterale al momento vuota, lontano da occhi e orecchie indiscrete.
Socchiudo la porta alle mie spalle, già pronto ad arrotolarmi su le
maniche della camicia. Magari togliergli un po' del palo che ha in culo
mi aiuta in qualche modo a sentirmi meglio per tutta quella storia con
Katherine. "Perché, nel caso, ti devo avvertire. Lo posso capire se ti
consideri la parte lesa per via di quel che è successo con Elena, ma
onestamente non sono mai stato a bravo a fare il martire o prenderle
passivamente, perciò-"
"Ho detto che era per lavoro,"
mi interrompe con una smorfia, che non so se attribuire di più al fatto
di aver offeso la sua dignità suggerendo lotte tra cani, o allo stoico
sforzo che sta facendo per rivolgermi la parola. "Lo intendevo."
Posa la valigetta sul tavolo, ne
tira fuori un foglio, me lo porge.
"Le mie dimissioni."
Lo prendo perplesso, corrugando
lo sguardo prima su di lui e poi su ciò che mi ha messo tra le mani.
Mentre io inizio a leggere la lettera in cui annuncia di rinunciare
alla sua carica di direttore finanziario per "differenze inconciliabili
con la gestione", Elijah prosegue, "Lo renderò ufficialmente noto al
consiglio durante la riunione. Come proprietario della quota di
maggioranza, sta a te accettarle o meno. Ti chiederei di farlo, se non
ti spiace."
Metto via la lettera, sul tavolo
alle mie spalle. Elijah è serio, risoluto, forse con appena una
sfumatura di disprezzo persistente al di sotto di tutta quella
compostezza che, lo ammetto, mi lascia quasi deluso. Quest' uomo è
stato la mia cavolo di nemesi fin dal giorno in cui ho rimesso piede
negli uffici della compagnia e lui si è fatto avanti per stringermi
cordialmente la mano, il memento ambulante di tutto ciò che sarei
dovuto essere e che non sarei stato mai. Quello che aveva la ragazza e
che camminava benedetto nelle grazie di mio padre. Quello che ho
ostacolato perché lo detestavo, e quello che ho detestato perché dovevo
ostacolarlo.
Ma adesso … quasi mi domando
cosa l'ho detestato a fare.
"Tutto qui? Ti dimetti e basta?
Wow," commento, sinceramente colpito. "Piuttosto anti-climatico, non
trovi?"
Elijah scuote la testa, fa
scattare la chiusura della valigetta ed accenna un sottile sorriso
amaro.
"Lo so che tu non lo hai mai
creduto, ma ho sinceramente avuto a cuore sempre e soltanto i migliori
interessi di questa compagnia. Tutto quello che ho fatto, tutto ciò per
cui ho lavorato … è stato perché sapevo quanto fosse importante per tuo
padre. Era un uomo davvero brillante, lo sai vero?"
Mi getta un'occhiata laterale,
che mi sfida a contraddirlo e che implicitamente sottintende che lo
stesso non si possa dire del sottoscritto. Non so se veramente si
aspetti una risposta, certo io non lo degno della soddisfazione di
riceverne una.
Sembra che sia finalmente sul
punto di andarsene a fanculo, ma invece no, all'ultimo momento cambia
idea e si volta a fronteggiarmi.
"Lo sai almeno, Damon, il motivo
per cui adesso sei in questa posizione?" mi chiede con un luccichio
soddisfatto nello sguardo, avanzando verso di me. "Perché ti sei
ritrovato con la fetta più grande di torta? Te lo sei mai chiesto? Te
lo dico io perché. Qualche mese fa, stavamo per ricevere dei fondi che
richiedevano un cordone collaterale di garanzie. Dovevamo presentare un
piano di trasferimento che servisse da riserva nel caso tuo padre non
fosse stato in grado di tenere fede all'accordo. Avevamo lavorato fino
a tardi, bevuto un paio di bicchieri, e tutto d'un tratto lui se ne
esce fuori con «Dovrebbe andare a mio figlio». Pensavo parlasse di
Stefan, naturalmente, ma «no, l'altro mio figlio». Non sapevo neanche
che ce l'avesse, un altro figlio."
L'ultima frase la dice con una
sfumatura vagamente sprezzante, come se il fatto che non ne avesse mai
parlato la dicesse piuttosto lunga su cosa mio padre pensava davvero di
me. Così adesso sono io ad avere voglia di prenderlo a pugni, per
quello che sta insinuando. E perché ha ragione. E' vero che la dice
lunga.
"Mi ha spiegato cosa intendeva.
«Dato che è stato lui il primo a mettermi nei casini, se lo meriterebbe
di essere quello che ne paga le conseguenze»."
Inspiro bruscamente, Elijah lo
nota. Ma la cosa lo incita soltanto a continuare.
"Vedi, il fatto è che, a volte,
non ci si riprende mai del tutto da un'accusa di frode. La superi,
certo, ma in qualche modo rimane lì. Gli investitori si tirano
indietro, dei progetti vengono abbandonati. Ti macchia la reputazione,
piano piano ti porta a fondo. Uomini con meno acume probabilmente non
sarebbero durati un anno, nella situazione in cui si era trovato.
"In ogni caso, ho pensato che
dicesse sul serio, così ho preparato la proposta. Quando lui l'ha
vista, è scoppiato a ridere. Letteralmente, come con una buona
barzelletta. Solo che avevamo poco tempo per mettere in piedi
qualcos'altro, ed un sacco di altre cose su cui concentrarci, quindi mi
disse di lasciarla così per il momento, avremmo pensato a qualcosa di
più serio non appena ne avessimo avuto la possibilità. Ma non c'è mai
stata la possibilità. Non si aspettava certo di morire.
"Quindi, capisci Damon, che
l'unica ragione per cui ti trovi qui, l'unica ragione per cui pensi di
averne diritto, non è perché tuo padre avesse davvero intenzione di
affidarti qualcosa, o perché anche solo lontanamente pensasse che tu
potessi tirarne fuori qualcosa di buono. E' per via di una battuta,
niente più di una battuta fatta dopo un bicchiere di troppo. E' sempre
stato solo e soltanto questo. Ma non preoccuparti, non ti starò più tra
i piedi mentre ne fai ciò che vuoi. E per rispondere alla tua domanda,"
aggiunge, mentre io non riesco a fare altro che rimane impietrito sul
posto, con ghiaia ruvida a riempirmi la bocca e mangiarsi qualsiasi
replica, "No. Non voglio prenderti a pugni."
Prende la sua ventiquattrore,
tre passi decisi, ed è fuori dalla porta. Io allungo una mano dietro di
me, verso il bordo del tavolo che tasto in cerca di supporto.
Non mi ha preso a pugni. Mi ha
squartato dritto nello stomaco, cazzo.
***
Tre aspetti devono essere provati per
stabilire la colpevolezza in un misfatto.
Mezzi.
Movente. Occasione.
L'occasione
si presentò quando scivolai nell'ufficio di mio padre, blaterando alla
sua preoccupata segretaria che volevo solo sonnecchiare un po' sul suo
divano. Impietositi dalla notizia dell'incidente, bastò quello per
assicurarmi di essere lasciato in pace.
Stefan mi
aveva detto una volta che mio padre cambiava le sue password di accesso
circa ogni tre mesi, ma che non se le ricordava mai e per questo aveva
preso l'abitudine di scribacchiarle tra le note a margine degli
appunti, confondendole in mezzo al resto. Bastava sapere dove guardare.
Ne provai tre, prima di trovare quella giusta.
In tutta
onestà, volevo davvero solo ficcanasare. Passai in rassegna tutto ciò
che si potesse ricollegare al progetto di cui l'avevo sentito parlare
la notte prima: piani e cianografie di ristrutturazioni dal valore di
migliaia e migliaia di dollari, contratti, registri, scambi di email.
Non era neanche una cosa futura e possibilistica. Era già in moto.
Eccetto ovviamente per il dettaglio di quel bar che se ne stava in
mezzo a tutto, e che stava andando a fondo sotto ad una gestione
pessima, ma senza decidersi davvero a togliersi dalla scena. Una doppia
ipoteca non era certo una roba che il signor Gilbert potesse recuperare
in poco tempo. Ma la stessa cifra era una nocciolina per mio padre, che
aveva preso quel debito e lo stava usando come leva per intentare una
procedura fallimentare.
Solo che mio
padre davvero era bravo in quel che faceva. Se si metteva in testa una
cosa, non avevo dubbi su che squalo potesse essere. Ma era anche uno
squalo estremamente preciso, ed estremamente corretto. Giocava secondo
le regole, pur sfruttandole a suo piacimento, cosa che conoscendolo non
era certo un sorpresa. Sfortunatamente per me, ciò voleva anche dire
che in mano non avevo niente, neanche la più piccola cosa, per fargli
fare anche solo un minimo di retromarcia.
A meno che
le cose non fossero giusto quel poco un tantino meno immacolate.
Ora, il
movente. Quello era facile. Un po' di carte arruffate qua e là
avrebbero rallentato le cose, magari dato al padre di Elena un po' di
tempo per smetterla di fare il cazzone e darsi una sistemata.
Per quel che
riguarda i mezzi … Su una cosa mio padre aveva ragione: avevo sempre
avuto un cervello fin troppo sveglio per il mio stesso bene. Non ci
impiegai tanto, in tutto quel ficcanasare, a capire come l'intero
progetto funzionasse. Un paio di ore, e non c'era un bilancio, una riga
o una colonna, che non avesse ricevuto una piccola rettifica.
Il vero
problema fu che mi riuscì bene. Fin troppo bene.
Quando me ne
andai, un formicolio pulsante aveva iniziato a circolarmi tra le dita.
Era iniziato lì, sulla punta dei polpastrelli, e si era preso le
braccia, il petto, mescolandosi con il battito veloce sotto alle mie
costole ed un leggero, strisciante, improvviso senso di nausea.
Lo scrollai
via attribuendolo agli effetti residui della commozione, mi dissi che
in un secondo sarebbe passato.
Ero passato
dal Grill per parlare con Elena di questo. Beh, non di tutta la storia
su mezzi, movente e occasione, chiaro. Ma almeno per farle sapere qual
era la situazione, perché perfino io - nella mia totale inesperienza in
termini di relazioni sane - avevo un po' la sensazione che, qualsiasi
cosa ci fosse tra noi, in qualsiasi direzione stesse andando, iniziare
con il tenerle nascosto il fatto che mio padre aveva intenzione di
farli chiudere non era il massimo come premessa.
Solo che
poi, proprio mentre stavo per farlo, mi aveva preso la mano e mi aveva
guardato e mi aveva trascinato via. E da lì in poi, non ne ero stato
più in grado.
Solo una
cosa rimane di quel pomeriggio, solo una cosa capace di far andare via
anche quel fastidioso, insistente formicolio.
Elena,
sull'erba, mia.
Non per via
del sesso, no. Per il modo in cui l'avevo sentita ridere. Per il
leggero accenno di rossore con cui mi aveva detto che sapeva come erano
andate le cose con la collana. Per l'impaziente, dolce, esitante, modo
in cui mi avevo toccato e cercato per essere toccata a sua volta. Per
lo sguardo scuro e intenso con cui aveva guardato in su, da sotto di
me, mentre mi muovevo in lei e mi sentivo scoppiare via il petto.
L'avevo
lasciata andare a dir poco controvoglia, fuori dal Grill, sotto ad una
pioggia così fitta da non vedere mezzo metro in fronte a te.
Controvoglia, con un bacio ed un promessa che non avrei mantenuto.
Naturalmente, mi aspettavo di trovare
mio padre furioso. Era quello che volevo, dopotutto. Mi aspettavo di
trovarlo pronto a confrontarmi, con quello sguardo gelido e fuori di sé
di quando era seriamente, estremamente incazzato.
Ma fu chiaro
non appena arrivai a casa, che ciò che invece mi trovai davanti era
piuttosto diverso dalle mie aspettative.
Mi stava
aspettando dentro la depandance. Seduto sul divano, appena chino in
avanti, lo sguardo intento su un punto davanti a sé che non stava
davvero vedendo.
Fu seguendo
quello sguardo che vidi un paio dei miei borsoni gettati sopra il
tavolo, riempiti fino all'orlo. Dando un'occhiata attorno, vidi anche
che tutto ciò che c'era di mio, era sparito.
"Che
succede?" domandai, appena con una leggera nota preoccupata a
trasparire dalla voce.
Mio padre si
alzò lentamente in piedi. Indicò le sacche.
"La maggior
parte della tua roba è lì. Ti voglio fuori di qui. Una volta per tutte.
Stasera."
Rimasi
congelato sul posto, incapace di muovermi. Sì, di minacce simili ne
aveva fatte così tante, sopratutto nel mezzo di discussioni accanite,
che avevo perfino perso il conto. Ma erano sempre finite nel niente,
non aveva mai davvero fatto sul serio. Lo guardai, cercando la stessa
cosa. Cercai la rabbia, l'ostinazione, la voce forte, qualcosa. Quella
calma innaturale, quel tono svuotato, quelle spalle curve, il modo in
cui guardava fuori dalla finestra invece che verso di me, niente di
tutto ciò era davvero lui. Fu quello a farmi tornare violento il
pizzicore sotto la pelle, un peso duro sul petto.
Contrassi
involontariamente la bocca in un mezzo sorriso. "Stai scherzando, vero?"
"No," disse
nella stessa voce atona. Corrugò appena la fronte, lo vidi nel riflesso
del vetro. "Non hai bisogno di chiedere perché, giusto?" Non aspettò
una risposta. "No, infatti. Lo immaginavo."
In quel
momento riconobbi il formicolio, la nausea, per quello che erano.
Colpa. Era una strana, nuova sensazione, dal sapore così diverso,
infinitamente peggiore, di tutta la rabbia che avrei mai potuto
provare, dolciastro e marcio.
"Ok, senti,"
dissi, avanzando di qualche passo, le mani alzate. "Se è per quei
documenti, volevo solo fare un po' di scompiglio innocente. Lo
risistemo se-"
"Innocente?"
mormorò voltandosi verso di me con lo stesso accigliamento
indecifrabile. "Hai sovrascritto tutto. Ho passato l'intero pomeriggio
al telefono con un avvocato perché tu hai, innocentemente, simulato una
frode. Non appena questa cosa viene fuori, ne dovrò rispondere. Ci sarà
un'inchiesta. Avremmo potuto parlarne. E' … è …" Annaspò alla ricerca
di parole, ci rinunciò, scosse la testa. "Cosa c'è di innocente in
questo, Damon?"
Non alzò la
voce nel chiederlo, non si mostrò arrabbiato. Solo così … triste.
Mi lasciò stordito, incapace di capire che cosa avrei dovuto fare, o
dire, con questa sua versione. Per favore incazzati, mi ritrovai a
pensare, incazzati e basta.
"Sono sicuro
che hai delle copie da qualche parte," abbozzai alzando le spalle.
"Devi solo tirare fuori quelle, non ti faranno niente."
"Certo che
ho le copie. Pensi che abbia importanza? Pensi che importi il risultato
finale, una volta che la cosa viene fuori?"
"Allora se è
questo dirò che sono stato io," replicai, con un nota più acuta nella
voce che non mi piaceva per niente. "Che è stata una bravata e-"
"Giusto.
Perché mio figlio che cerca di fottermi invece fa tutta un'altra
impressione."
Chiusi la
bocca, mentre lui si lasciava andare contro il davanzale interno della
finestra e ne afferrava i bordi, guardando il pavimento. Il silenzio
ticchettò via insieme al ritmo della pioggia ed in quel silenzio mi
sentii soffocare.
Volevo dire
che mi dispiaceva. Non sapevo se perché lo intendessi davvero o solo
perché non riuscivo a sopportare, neanche un solo secondo più, di dover
vedere questo sconosciuto accasciato che avevo creato io. Ma poi parlò
di nuovo, in una voce ancora più incerta.
"Perché mi
odi così tanto?"
Deglutii, ma
risposi sinceramente. Fu a malapena un mormorio.
"Non lo so."
Rimase in
silenzio per altri lunghissimi secondi, guardando lontano. Infine
annuì, lentamente.
"Bene
allora," disse, rialzandosi in piedi. Il cambiamento fu sottile. Ma ci
fu. "Questo è tutto per me. Prendi tutte le tue cose e vattene, adesso."
Mi passò
accanto, diretto verso la porta, ed io mi girai, sentendomi uno schifo.
"Papà,
possiamo-"
"No, Damon,
non possiamo proprio niente," mi fermò. Quando si voltò, tutto in lui
era affilato, fatto solo di schegge taglienti. "Non lo so se era
esattamente questo ciò che volevi, tutto questo tempo. Liberarti di me,
spingermi oltre il punto di rottura. Non penso neanche che abbia
davvero importanza. Non stai ascoltando, neanche adesso. Non so più
cosa fare con te, non so più cosa dirti, non so più come guardarti. Ti
sto dicendo di sparire dalla mia vista, da questa casa, da questa
città, per farti un ultimo favore. Perché mi conosco, fin troppo bene,
e se ti vedo di nuovo, lo so che mi assicurerò personalmente che tu
sconti le conseguenze di tutto, e che le sconti nel peggiore dei modi.
Ti sto dicendo di sparire, perché dal momento in cui esco da quella
porta, tu sei come morto per me."
Avevo
soltanto ghiaccio, nello stomaco e nei polmoni, quando si girò, tirò a
sé la porta e la richiuse deciso dietro di sé.
Mi sedetti
sul tavolo, floscio come uno straccio, e quando la realizzazione prese
forma, di cos'era appena successo, fu la prima vera volta, in tutta la
mia vita, che mi sentii davvero perso.
***
Potrei non aver reagito bene. Ma dopotutto, non è che io sia
esattamente un maestro nel saper reagire bene.
Stefan ci prova a dissuadermi, a
farmi cambiare idea. Mi ha intercettato davanti agli ascensori,
dopo che è uscito a cercarmi a riunione già iniziata quando non mi
aveva visto arrivare.
Ho passato almeno venti minuti
buoni in quella stanzetta dove Elijah si era preso la sua rivincita,
con il petto a rintronare di un battito furioso e il cervello a roteare
in un nugolo di razionali, mature e sensate reazioni davanti alla
consapevolezza bruciante di aver soltanto perso tempo cercando di
dimostrare qualcosa ad un uomo morto che ce l'ha avuta con me fino alla
fine del suo ultimo respiro. Solo che tutte quelle razionali, mature e
sensate reazioni che ho passato in rassegna, finivano un po' tutte allo
stesso modo: con me che entravo in quella sala riunioni e rompevo ogni
osso della faccia di Elijah.
Ma non volevo davvero rompere la
faccia a Elijah. E non perché probabilmente non avrebbe fatto granché
una buona impressione, davanti a tutti quei culi stretti riuniti là
dentro. No. Non volevo davvero rompergli la faccia, perché quel povero
cazzone alla fine non c'entrava neanche niente. Prendersela con lui
sarebbe stato solo l'ultimo atto in una lunga serie di mettersi a
sfasciare il dito quando il cazzo di problema è sempre stato il cielo.
Così ho fatto quello che avrei
dovuto fare mesi e mesi fa. Ho mollato.
"Non puoi mollare," mi ferma
Stefan, con lo sguardo sgomento ed una mano a bloccarmi la strada verso
la porta dell'ascensore. "Damon, non-"
"Certo che posso. Ho chiuso con
tutto questo. Non hai neanche la più pallida idea, di quanto io abbia
chiuso. Ecco, tieni," strappo un pezzo di carta dagli appunti che sta
ancora tenendo stretti in una mano, prendo la penna che ci ha appuntato
sopra, ed uso il muro come base per scribacchiarci al volo la mia
decisione. Lo firmo con una tale decisione da perforare la carta. "Con
questo me ne tiro fuori e ti lascio tutta la mia quota senza chiedere
niente in cambio. E' valido, non ti preoccupare. O almeno credo."
Ci prova, di nuovo, a farmi
cambiare idea. Con quel pezzo strappato di carta tra le mani e tutte le
sfumature di smarrito, furente, implorante, ragionevole. Mi dice che
facendo così sto solo dando a tutti la soddisfazione di vedermi uscire
dalla porta. Mi dice di fare la persona migliore, quella matura che ci
passa sopra. Ma io non sono una persona migliore. Non lo sono mai
stato. E la verità è che, in tutta onestà, non me ne frega neanche un
cazzo della soddisfazione che certa gente ne può ricavare. Se la
prendano, e ci facciano ciò che vogliono.
"Non lasciarmi da solo," dice
infine, con gli occhi appena lucidi. "Non ti azzardare. Ti ho lasciato
correre un sacco di cose negli ultimi tre mesi, ti ho lasciato correre
il fatto di avermi riattaccato in faccia quando avevo appena perso mio
padre e non sapevo cosa cazzo fare, ti ho lasciato passare di non
esserci stato al funerale, e ti ho lasciato passare ogni singola volta
in cui ti sei rinchiuso in questo dannato atteggiamento menefreghista,
te l'ho lasciato fare anche se avevo un disperato bisogno di
condividere tutto con te. Ti ho lasciato passare tutto perché lo so che
sei un cazzone egocentrico riguardo a qualsiasi menata tu avessi con
papà, ma maledizione, Damon, non puoi lasciarmi da solo anche adesso,
non anche in questo."
"Hai ragione," gli dico,
mandando giù tutti i frantumi appuntiti in cui si sono appena
trasformate le sue parole nel momento in cui mi hanno raggiunto lo
stomaco. "Sono stato un fratello schifoso per te, e mi dispiace. Mi
dispiace di non averlo potuto piangere con te, e mi dispiace di averti,
in quello, lasciato da solo. Ma non qui, non in questo caso, Stefan.
Non hai mai avuto bisogno di me per sapere quello che stavi facendo,
non ce l'hai neanche ora. Sei tu che sei migliore di me, e anche di
tutto il resto delle persone che stanno là dentro. Quindi vai, per una
maledetta buona volta vai, e prenditi quello che è tuo."
Quando le porte dell'ascensore
si chiudono sulla sua faccia allibita, mi sento solo appena un po' in
colpa al riguardo. Ma solo un poco. Si riprenderà, mi dico. Si
riprenderà e gli passerà e nel giro di un paio d'anni sarà un altro
manager sveglio e di successo in una lunga linea di uomini Salvatore
svegli e di successo.
Quando sono di ritorno a Mystic
Falls, c'è il sole che brilla alto nel picco della sua giornata, una
calda, colorata, effervescente giornata di fine estate con giusto quel
sottinteso festoso promesso dal folle circo pre-matrimoniale che invade
la casa.
Lancio la giacca sul letto, mi
allento la cravatta e ne sciolgo il nodo con stizza. Mi metto a
rovistare nell borsone disfatto per metà che giace aperto sul pavimento
della camera, gettando magliette all'aria e per terra, fino a che non
trovo ciò che stavo cercando.
Vado a sedermi sulla rientranza
interna della finestra e la dispiego lentamente, un angolo alla volta,
finché non è tutta aperta di fronte a me, con il sole intenso a farne
brillare il fitto inchiostro blu. Con un'amarezza incandescente ancora
lì a pulsarmi nel petto, ci chiudo il pugno attorno, accartocciandola e
pressandola e schiacciandola nel mio palmo fino a che non è niente più
di una palletta di carta che vale meno di un cazzo. La lancio
energicamente fin dall'altro lato del prato. La guardo volare, quella
fottuta lettera, fino a che non scompare e rotola via tra sedie
pieghevoli lasciate per terra ed i pezzi di un gazebo bianco montato
per metà, un altro pezzo di spazzatura pronto per essere raccolto e
gettato via dagli Umpa Lumpa matrimoniali nella loro operosa
preparazione.
Sento una voce che conosco
provenire dal corridoio, rimbalza morbida e cristallina al di là della
porta, e passi che si avvicinano, ed una maniglia che gira. Mi volto
immediatamente, di scatto, sorpreso, con il petto più sottosopra.
"Oh," sussulta appena Elena,
quando mi vede, immobilizzandosi con una mano ancora sulla maniglia.
Ha addosso un vestito rosa
chiaro che le fruscia morbido ed un po' troppo lungo attorno ai piedi.
Non posso farne a meno. Percorro con lo sguardo la curva morbida del
fianco che si intravede lì sotto a tutti quei drappeggi, il modo in cui
le si avvolgono intorno alla vita. Ma incontro serie difficoltà a
tornare a guardare altrove, quando arrivo al bordo che si apre sopra la
rotondità del seno, che sbircia fuori e viene su grazie al movimento
delle sue braccia, stracariche di un mucchio di vestiti colorati. Con
gli occhi scivolo più su, incontro i suoi. Elena rimane lì,
imbambolata, una punta più arancione sulle guance. Uno dei vestiti
inizia a scivolare di lato e a sfuggirle di mano.
"Mi dispiace, stavo solo …
stavamo …" Si affretta a cercare di afferrare il vestito pendente.
"Caroline ha detto che potevamo usare questa stanza. Oh, cavolo!"
esclama quando, nel suo tentativo di recuperare il vestito, è riuscita
a farne cadere un altro, e poi un altro, fino a che tutta la sua
piramide modaiola non finisce per terra.
Mi alzo per andarla ad aiutare a
tirare su tutti quei vestiti setosi e scivolosi. Nel farlo, le tocco
inavvertitamente la mano, lo sguardo di Elena scatta su. Quasi lo sento
fisicamente, quel palpito incerto con cui restiamo a guardarci,
inginocchiati sul pavimento tra vestiti da sera e le dita a tre
millimetri di distanza.
Non credo che si renda davvero
conto di quanto vorrei baciarla in questo momento. Baciarla come non
sono riuscito a fare due sere fa, baciarla con ancora più disperazione,
baciarla come se potessi davvero prenderle tutto quello che era sul
punto di darmi ed affogarmici dentro. Ma quel momento è andato, perso,
come molti altri che ho sprecato.
Così mi schiarisco la voce, la
indico con un mezzo cenno della testa.
"Molto elegante, come look
mattutino."
Elena lascia uscire una risatina
leggera, solo appena tesa, si alza per lisciarsi il vestito. "Stavamo
scegliendo gli abiti per le damigelle. Ero venuta a mettere via quelli
che sono stati scartati."
"Felice di aiutare come posso,"
annuisco, alzandomi anche io.
Elena curva le labbra in un
leggero sorriso, ed io mi rendo conto che il vestito che ha addosso non
è del tutto chiuso sulla schiena, perché una spallina le cade lenta di
lato. Con le dita le scosto i capelli dalla spalla, gliela tiro su,
solo una banale patetica scusa per poterla sfiorare. Quando lo faccio,
il sorriso le scivola via, sostituito da qualcosa di molto, molto più
carico.
"Anche se," dico piano, davvero
incapace di tirare via le dita da sotto quella spallina troppo lenta,
dal contatto caldo con la sua pelle, "Non ci trovo niente di sbagliato,
in questo vestito."
"Sì?" mormora lei. E' un passo,
minuscolo, inevitabile, uno da parte sua ed uno da parte mia, a far sì
che quel mormorio finisca ad un soffio dalla mia bocca. "Caroline
invece sì."
Inclino appena la testa. "E cosa
ne sa lei?…"
"E' la sposa, può riscrivere le
leggi dell'universo se le va."
Ci troviamo per un altro rapido
sorriso. Elena riduce ancor più le distanze, posa la fronte contro la
mia, le mani sul mio petto. Chiude gli occhi, inspira. Io la inspiro
ancora di più.
"Non avresti dovuto essere qui,"
sussurra, aggrappandosi alle estremità aperte della cravatta lasciate
aperte intorno al collo, come lacci che non dovrebbero farmi scappare
via.
"Neppure tu," dico altrettanto
piano, con la voce più roca. "Cosa ti salta in mente, farti trovare
nella mia camera, con un vestito già mezzo aperto …"
Sottolineo la mia frase tornando
a farci scorrere le dita, sotto a quella spallina che vuole rendermi la
vita difficile perché proprio non ce la fa a restare su.
"Non l'ho fatto di proposito …"
"Dio, Elena," esalo posando una
mano sul lato del suo viso, respirando lei e la sua presenza ed il modo
incerto in cui, pur volendolo da matti, nessuno dei due se la sente di
annullare quegli ultimi maledetti millimetri che ancora rimangono.
Il silenzio si estende per
qualche secondo.
"Come stai?" mi chiede infine.
"Potrei stare meglio. Non è
stata una gran giornata," rispondo. "Beh, almeno finché non sei entrata
tu in questa stanza."
Lei sorride appena, per la mia
frase sdolcinata, e fa scivolare le dita su e giù sopra la cravatta
sciolta.
"Mi dispiace."
"Non c'entri tu."
"No, io … Mi dispiace di
essermene andata in quel modo l'altra sera," dice tutto d'un fiato.
Scuote appena la testa, il suo naso inciampa contro il mio. "Insomma,
mi dispiace per il modo in cui reagito, ho solo … ho perso un attimo la
testa."
"Va bene. Non ti ho gettato
addosso una cosa da poco."
"Già," concorda piano.
Giocherella ancora più nervosamente con i lembi che si attorciglia
intorno ai polpastrelli, si acciglia un po'. "Tu …?"
C'è una domanda incombente lì
alla fine di quella frase, ma di che domanda si tratti non ho tempo di
scoprirlo. Un paio di colpetti sulla porta rimasta socchiusa la
interrompono, ci fanno sussultare, separare di un passo.
"Damon, ti ho visto rientrare e
…" Charlotte si ferma, il suo sguardo si sposta rapido su Elena. "Oh.
Ciao," le dice, un ammaliante ed incuriosito sorriso à-la-Charlotte che si stende
rapidamente sulle sue labbra.
"Madre," la apostrofo
sarcastico. "Tempismo perfetto."
Elena fa un ulteriore, incerto,
passo indietro.
"Salve, signora …" si blocca,
probabilmente prima di dire ‘Salvatore’, che in effetti in questo caso
non si applica granché.
"Oh no," la anticipa lei con un
gesto della mano, che scaccia quelle formalità. "Chiamami Charlotte.
Scusate, non volevo interrompere, solo …" Si produce in un altro
sorriso estasiato. "Scusate."
"Va bene," dice Elena, indicando
il corridoio. "Io … Caroline probabilmente mi rivuole indietro in ogni
caso."
Elena si allontana in fretta,
gettandomi però uno sguardo, tra l'imbarazzato e il divertito, al di là
della spalla, prima di sparire oltre la porta.
Charlotte la guarda andare e la
saluta con la mano, sempre con lo stesso sorrisetto stampato sulla
faccia, lo stesso che poi volta su di me, aggiungendoci giusto un tocco
più ficcanaso che sembra domandarmi se per caso non si debba aspettare
a breve un secondo matrimonio.
La tronco lì con un sospirato,
"Cosa volevi, Charlotte?"
"Oh, niente di che," si stringe
nelle spalle. "Ti ho visto tornare, e dato che stavo andando in un
posto, volevo che tu mi accompagnassi." Mi fa cenno con la mano, e lo
sguardo, di seguirla. "Vieni?"
"Oh, ma per favore," sbotto scocciato, quando mi è chiaro cos'è che
Charlotte aveva in mente.
Getto un'occhiata all'arcata di
ferro battuto che si apre su un'area di terreno irregolare, una distesa
di erba smeraldina inframmezzata da pioppi, betulle e tombe grigie. Le
rivolgo una smorfia. "Seriamente? Che diavolo ci facciamo qui?"
"Lo sai benissimo cosa," replica
lei, sospingendomi in avanti.
"Senti," le dico, fermandomi al
limitare dell'ingresso. "Di tutti i giorni, di tutti i momenti che
potevi scegliere, questo è davvero il peggiore. Oggi come non mai non
ho nessuna intenzione di farlo, parlare di papà. In un cavolo di
cimitero, per di più."
Anche nel bel mezzo di una
perfetta giornata estiva come questa, questo posto riesce a risultare
così deprimente che è quasi ridicolo.
"Finiscila," controbatte, con un
fare che non accetta obiezioni e che quasi la fa suonare come una madre
vera. "Non c'è un giorno peggiore di un altro. E non ho detto che devi
parlare, puoi anche solo … ascoltare." Mi prende per un braccio.
"Cammina con me, ok?"
Soffio fra i denti, ma la lascio
fare. Charlotte cammina lentamente, come se di proposito non volesse
affrettare le cose, o come se di proposito volesse prolungare la mia
tortura.
"Era venuto a trovarmi," dice
infine, scostandosi una ciocca bionda dal viso, prima di infilarla la
mano nella tasca dei pantaloni verde pallido. "A New York, intorno a
marzo dello scorso anno."
Corrugo appena la fronte e mi
volto a guardarla, ma lei continua come se non lo avesse notato.
"Ero nel mezzo di una
presentazione e firma di copie del mio libro, quando lo vedo
comparire," sorride appena tra sé e sé, nel dirlo. "Elegante.
Affascinante. E' stato come se non fosse passato un solo giorno."
Arriccio le labbra in una vaga
smorfia stranita, perché Charlotte che sospira sognante su mio padre è
un po' l'ultima cosa sia che mi aspettavo, sia che ho voglia di stare a
sentire.
"Ma davvero?" domando
sarcastico. "Quello che per vent'anni non ha voluto neanche sentirti
nominare."
"Sì," risponde, del tutto immune
al mio tono. "Lui. Siamo andati a prendere un caffè. Dopo il caffè
siamo andati a cena. Dopo la cena siamo andati a bere qualcosa in
questo piccolo e intimo bar che dà sull'Hudson. E dopo … Beh," si
limita a dire, schiarendosi la voce ed interrompendosi da sola.
Non ha chiaramente intenzione di
condividere cosa c'è stato dopo il bar, e per fortuna aggiungerei io,
dato che altrettanto chiaramente neanche io alcuna voglia di
sentirglielo dire. Quindi mi sbrigo a troncare lì quella possibilità.
"Ok. Cosa voleva?"
Chissà perché, dubito che mio
padre sia andato fino a New York e vent'anni nel passato per qualcosa
che non ha mai avuto problemi a trovarsi vicino casa.
"Parlare." Esita. "Di te."
Mi fermo, sui miei passi. Cade
un silenzio così irreale che pare si fermi anche il fruscio delle
foglie. Da parte mia perché ho i polmoni più rigidi tutto d'un colpo,
da parte sua perché ha adesso in faccia quell'espressione distante di
quando si perde in un mondo tutto suo e si dimentica perfino di ciò che
stava facendo. Poi mi tira in avanti, riprendiamo a camminare. Non ho
intenzione di chiedere, cazzo che no. Ma i secondi che impiega a
continuare sono un'eternità.
"Abbiamo parlato tutta la notte.
Di te, di Stefan … Sai, immagino che, quando hai dei figli con
qualcuno, quel tipo di legame … Non se ne vada mai del tutto."
Serro le labbra, non dico niente.
"Perché lo avrebbe fatto?"
chiedo poi, odiando la voce più incerta che mi esce fuori. "Così, dal
niente."
"Perché ne aveva bisogno,"
risponde semplicemente. "E poi non penso che fosse davvero qualcosa
uscita dal niente. Forse più … non lo so, questo peso che cresce
lentamente, fino a che non diventa qualcos'altro e non lo puoi
sopportare più. Forse stava invecchiando. Ma mi aveva detto di aver
iniziato a conoscere questa ragazza, a cui una volta eri vicino, che
per tutta una serie di cose si era ritrovato a pensare a te."
Ho la bocca come cemento, lo
stomaco come un puntaspilli.
"Anzi, no, non è esatto,"
prosegue lei, sempre persa in un filo di pensieri tutto suo. "Non ha
mai smesso di pensare a te. Pensarci in modo diverso, magari. Qualunque
fosse il motivo, credo che avesse bisogno di condividere alcune cose,
farle uscire, con qualcuno che potesse capire. Non solo quella volta
lì. Ce ne sono state altre, dei weekend, e telefonate, altri … weekend.
Sai, era piuttosto difficile riuscire a smettere."
Devo fermarmi un'altra volta,
perché tra tutti i pensieri e concetti e stati d'animo che mi vorticano
impazziti per la testa, quello è forse il più difficile di tutti da
afferrare.
"Mi stai dicendo …" Mi sento
come quei ragazzini che scoprono per la prima volta cosa si prova a
beccare a letto insieme i propri genitori. Non è una bella cosa. "… che
avete avuto una tresca?"
"Ti sto dicendo," ribatte,
appena spazientita. "Che so come si sentiva riguardo a te."
Si gira, allunga le mani per
togliermi via pelucchi invisibili dalla spalla. "Che gli piaceva
sentirmi raccontare di ogni volta che ti sono venuta a trovare, e
sapere come te la stavi passando. Che aveva un sacco di rimpianti. Che
non sapeva se tu lo volessi di nuovo nella tua vita, ma che non
riusciva a decidersi di scoprirlo. Dopotutto, sei venuto su bene anche
senza di lui." Si ferma appena, sull'ultima frase. "Era piuttosto
fiero."
Chiudo un attimo gli occhi e
devo prendere un profondo respiro. Quando lo rilascio, però, tutto ciò
che ne esce fuori è una breve risata amarognola, che fa vibrare e
sferragliare tutti i pezzi taglienti che ho dentro.
"Ecco, vedi, è qui che stai
esagerando. Non era poi così fiero, se l'unico motivo per cui mi ha
lasciato in mano la sua compagnia era per ribadire il fatto che ero
stato io a rovinarla tanto per cominciare."
Charlotte increspa le
sopracciglia confusa.
"Chi ti ha detto questo?"
Replico con una smorfia. "Il suo
direttore finanziario."
Lei mi guarda, perplessa,
qualche secondo. Poi scoppia improvvisamente a ridere.
"Sembra proprio qualcosa che
Giuseppe avrebbe fatto!"
Davanti all'espressione
accigliata con cui la sto guardando, che silenziosamente le chiede se
pensa così di farmi sentire meglio o solo di prendermi per il culo, lei
mi dà un colpetto sul braccio.
"Oh, andiamo! Probabilmente ha
pensato che ne avresti saputo apprezzare l'ironia. Cielo, che
temperamento che aveva. Lo amavo per quello."
Charlotte si passa un dito sotto
alla palpebra, per asciugarla, con la risata sempre sulle labbra.
Scuoto la testa. Il gusto amaro che ho in bocca ancora non se ne va.
"Ah sì? Eppure lo hai lasciato
lo stesso. Lui e noi."
Non è davvero un'accusa, quanto
un ultimo testardo tentativo di contraddirla in ciò che sta dicendo.
Beh, forse un po' un'accusa lo è.
Il suo sorriso si fa più triste,
inclina appena la testa di lato.
"Avevo diciannove anni quando ho
scoperto di te, Damon. Avevo tutti questi sogni e tutti questi
progetti, tutte le cose che avrei potuto fare e vedere. Volevo
viaggiare, volevo ballare, volevo … Forse troppe cose. Ed ho visto
sparire tutto così, in un solo istante. L'unica ragione per cui ho
pensato che avrei potuto farlo, sposarmi e avere dei figli, è stato
perché era lui. E per favore, tesoro, non prenderla nel modo sbagliato.
Non è che non amassi te e Stefan, perché vi ho sempre amato tanto, e ci
ho provato, davvero ci ho provato, ad essere quella persona, quella che
mette gli altri prima di sé, ma … Non ero davvero brava a fare la moglie e la madre. La mia testa era … sempre altrove, persa in altre cose. E così
sono arrivati i litigi, e i tradimenti, e … l'amore non conta in certi
casi, finisce solo per trasformarsi in qualcos'altro. A volte, penso
che abbiamo solo avuto un pessimo, davvero pessimo, tempismo."
Charlotte si schiarisce la voce,
adesso più incerta, più spezzata. E' quando vedo altra umidità
spuntarle lì tra le ciglia, anche se la tira via in fretta, che mi
ritrovo a domandarmi quanto il sottile cambiamento che l'ha resa ancora
più esile e che le ha lasciato linee più profonde abbia a che vedere
con la tomba che è qui adesso davanti a noi.
"Quindi," dice, sollevando il
mento. "Io vado adesso. Ma tu se vuoi rimani qui, ok?"
Ho ancora la bocca pesante, ma
riesco lo stesso a chiederle.
"Perché?"
Semplicemente, dice, "Perché ne
hai bisogno."
***
Non sto a dire cosa mi è passato per la testa, cosa c'è stato tra me e
quella tomba. Tutte le gradazioni di rabbia, sofferenza, senso di
colpa, e del sapore amaro del rimorso. Ma sì, il lutto l'ho sentito.
Tre mesi, otto anni, che mi sono piombati addosso tutti insieme,
artigliandomi le interiora, torcendomi l'addome, soffocandomi alla
gola. Niente a che vedere con quelle conversazioni silenziose che si
vedono nei film, in cui sistemi quel che devi sistemare e finalmente
trovi pace. Non ho sistemato niente, non ho trovato nessuna pace.
Quando infine volto le spalle e me ne vado, però, alcune cose le ho
capite.
Cose che ho bisogno di far
uscire, con qualcuno che possa capire.
(Run - Snow Patrol)
La mattina
era grigia e sbiadita e innaffiata di altra pioggia.
Sapevo che
l'avrei trovata a casa perché era così presto da essere a malapena
l'alba. Le scrissi in un messaggio di scendere e di uscire sul portico,
mi sedetti sui gradini, li trovai bagnati, mi rialzai, camminai - una
sequenza di azioni dettata solo dal non saperlo neanche io, che cosa mi
stesse davvero passando per la testa.
Avevo
passato la notte sul divano di Enzo. Una notte insonne e lunga di
sigarette, ancora più anti-dolorifici, e pessime scelte.
Non appena
lo shock stordito di mio padre che aveva smesso di essere mio padre
aveva iniziato a depositarsi e darmi modo di pensare, qualcos'altro
l'aveva scacciato e ne aveva preso il posto. Rabbia. Un sacco di
rabbia. Rabbia come non ne avevo mai provata - fredda, distruttrice,
protettiva.
Se l'era
cercata lui. Lo aveva voluto lui. Per ogni volta in cui mi aveva voluto
vedere come quello che non ero, per ogni volta che non aveva ascoltato,
per ogni volta che non era stato ciò che io avrei voluto.
Enzo l'aveva
fatta facile. "Bene, allora, andiamocene, prima cosa domani mattina."
La palla
stretta di rabbia gridava di sì. Fanculo lui, fanculo questa città,
fanculo lui. Se non voleva più vedermi, poteva starne certo che neanche
io avrei più voluto vedere lui.
Ma poi ero
anche rimasto a fissare imbambolato ogni singola delle chiamate senza
risposta di Elena. Cosa le avrei detto? Cosa avrei fatto con lei? C'era
solo un enorme, gigantesco nulla in risposta a quelle domande.
Perché non
potevo restare. Non adesso, dopo tutto quel che era successo.
Perché non
potevo sopportare l'idea di lasciarla. Non adesso, non dopo tutto
quello c'era stato.
Sentii
aprirsi la porta, il petto prese a battermi furioso. Come mi voltai,
Elena si bloccò.
Lo seppi che
c'era qualcosa di diverso fin da quel momento. Non avrei saputo dire
cosa, o perché, ma c'era. C'era nell'espressione che aveva, tesa,
distante, stanca, quando mise piede sul portico; c'era nel modo in cui
si irrigidì stringendosi la felpa al petto.
"Cos'è
successo?" domandai.
Elena
strinse le labbra, tremarono appena.
"Dov'eri,
Damon?"
"Io …"
Scossi la testa. "Sono stato preso da alcune cose."
"Ti ho
chiamato."
"Lo so, mi
dispiace, io …" Non fui in grado di finire.
I suoi occhi
non mi stavano guardando, ma erano andati oltre, dietro la mia spalla,
verso Enzo sul sedile del guidatore della sua auto che soffiava denso
fumo biancastro di sigaretta fuori dal finestrino.
Vidi
l'esatto momento in cui quel fatto si infiltrò nella sua espressione.
Torno a voltarsi verso di me, lo sguardo più largo. Non lo disse come
una domanda.
"Te ne stai
andando."
"Elena,"
avanzai verso di lei, le presi il volto tra le mani, gli occhi nei
suoi.
Ci vidi
dentro un intento delicato ma fermo, come se da un lato stesse cercando
di leggermi addosso quali fossero le mie intenzioni, eppure da un altro
le avesse già decretate da sola.
"Ho solo …
Ho solo bisogno di cambiare aria per un po'". Le dissi esattamente ciò
che avevo detto a Stefan solo pochi momenti prima, mentre gli mettevo
in mano le chiavi della Camaro. Le sapevo ormai quasi a memoria, quelle
frasi, da quanto ci volevo credere. "Non per molto. Solo finché non
sistemo alcune cose, e poi-"
"Te ne stai
andando," ripeté, facendo un passo indietro.
Non glielo
permisi, ma serrai le mani ancora di più intorno al suo viso.
"No," dissi,
con un nodo alla gola. Perché non lo stavo facendo. Avevo un piano.
Ovvero lasciare che mio padre sbollisse, che tutto quel casino passasse
nel giro di un paio di mesi, chiamarla ogni giorno, inventarmi
qualcosa. "No, io non-"
Elena prese
la mia mano nella sua e la scansò, con gentilezza e decisione, dal suo
viso.
"Certo che
lo stai facendo," disse, con un piccolo sorriso ed una voce altrettanto
piccola. Annuì, mentre si passava due dita sotto alle ciglia. "Va bene."
"No,"
ribattei fermo. "Non va bene. Tra un po'-"
"Tra un po'
cosa?" mi interruppe, indietreggiando e mettendo ancora più le
distanze, alzando appena il tono. "Tu non vuoi restare qui. Non lo hai
mai voluto. Tu …"
Inciampò
sulle parole, si coprì la bocca con una mano. Riafferrò i bordi della
felpa e la richiuse, ancora più stretta attorno alla vita, davanti ad
un soffio più freddo di vento.
Avrei voluto
afferrarla e tirarla a me, solo perché adesso sapevo cosa si provasse a
tenerla stretta quel modo completamente diverso, solo perché volevo che
lo provasse anche lei, solo perché volevo poterlo fare almeno un'altra
dannata volta.
Ma lei
continuava a ritrarsi, di poco ma lo faceva, ad ogni minimo movimento
con cui mi tentavo di riavvicinarmi a lei.
"Quante
volte lo hai detto, Damon? Non hai niente a tenerti qui."
Quella cosa
non era mai stata così vera. Eppure così sbagliata.
"Ho te."
"Me?"
mi fece eco, più amara. "Che cosa avresti con me?"
Questa
volta, non le permisi di sottrarsi. La raggiunsi sul bordo del portico
dove si era ritratta e dove gocce più spesse cadevano dalla grondaia,
pesanti contro i nostri fianchi. Intrecciai le dita tra i suoi capelli,
le sfiorai con il pollice la guancia, le cercai lo sguardo.
"Tutto."
Una breve
pressione della sua guancia contro il mio palmo, un sorriso triste, e
si era ritratta di nuovo.
"Tu
vuoi andartene," ribadì.
"Solo perché
ne ho bisogno in questo momento!" replicai con più forza, frustrato
dalla sua testardaggine, dal suo non voler vedere. "Ma è solo per
adesso, in un paio di mesi, o un anno, come avevamo detto, quando tu …"
"Ma io non
posso farlo!" ribatté con altrettanta intensità. "Non lo capisci? Non
in un paio di mesi, o in un anno, o in alcuni! Non posso essere come
te, Damon, non posso, i-io…"
"Ok, allora!
Allora vorrà dire che tornerò da te non appena avrò-"
"Perché?"
gridò. "Perché mai dovresti volerlo fare quando non è quello che vuoi,
perché-"
"Perché ti
amo, dannazione!"
"Beh, io non
amo te!"
Smettemmo di
urlarci contro a quella frase. Tutto si fece immobile, e quieto, solo
con un vago eco persistente in cui quella frase era rimasta appesa,
sparata come un colpo di pistola partito all'improvviso e che lascia
nell'aria soltanto l'odore acre di polvere da sparo.
"E' quella
la ragione?" proseguì lei, con un luccichio all'angolo dell'occhio che
non sapevo se era di lacrime o di sfida. "Io sono la ragione? Allora
non farti problemi, perché non ce n'è bisogno. Io non ho mai … detto, o
… Non voglio, non ho … m-mai voluto … non …"
Aveva
iniziato ad incespicare sulle parole, a balbettare solo sconnessi "non"
e "mai" che ero troppo frastornato per mettere in un vero contesto,
perché tutto ciò che in me si rifiutava di crederle era troppo
schiacciato tra tutto ciò che invece ci aveva creduto e, ancora una
volta, non avrebbe mai dovuto. Quante volte, eravamo arrivati a questo?
Quante volte mi aveva tirato a sé solo per spingermi via con ancora più
forza di prima? E quante altre volte lo avrei dovuto rivivere, prima di
imparare la lezione con lei?
Elena,
sull'erba, mia non lo era poi davvero mai stata. Ed il giorno
prima era adesso uno squarcio in mezzo al petto che desiderai non fosse
mai avvenuto. Chiusi gli occhi un momento, per riprendere fiato. Ma
dovevo sentirmelo dire da lei.
"E ieri,
Elena?" domandai con la gola che sotto a quelle parole finiva di
spaccarsi. "Che cos'è stato allora ieri?"
"Un
momento," rispose alzando le spalle, guardando altrove. "Solo … un
momento. Mi dispiace se hai pensato … Non avrebbe … dovuto … i-io…"
Non lo
sapeva neanche lei cosa stesse dicendo. Nè io sapevo cosa stessi
davvero ascoltando.
"Maledizione,
Damon!" mi gridò addosso, in un singhiozzo, o un'esasperazione, o
un altro schiaffo in faccia. "Vattene, ok? Vattene e basta e lasciami
in pace!" finì di urlarmi contro, voltandosi in uno scatto di
spettinati capelli scuri, elettrici di pioggia, e di un portone
sbattuto.
Fu l'ultima
cosa che vidi di lei.
Arretrai sui
gradini, stordito, fradicio, a pezzi.
Era tutto
lì. Era tutto lì ed io, in un solo attimo, non avevo più niente.
Inizio a parlare che ho malapena varcato la sua soglia di casa. Inizio
a parlare, ed Elena sbatte velocemente le palpebre, disorientata, una
mano ancora sulla porta.
Inizio a parlare in fretta,
perché la storia non l'ho mai ammessa e non l'ho mai confessata, e nel
momento in cui inizio a farlo viene fuori da sola, vivida come se fosse
ieri, acerba come il sapore che non ha mai perso.
Elena mi osserva sorpresa,
turbata, smarrita, nel tentativo di starmi dietro, di mettere insieme
dei pezzi che non del tutto, nel modo in cui vengono fuori, riescono ad
avere un senso compiuto.
"Stai dicendo …" mi dice infine,
aggrottando appena le sopracciglia. "… che hai cercato di non far
risultare i debiti di mio padre?"
"No." Mi passo una mano sulla
faccia e mi lascio cadere sul suo divano con un sospiro amareggiato.
"Cazzo, no. Lo avrei fatto se avessi potuto, ma no. Ci vuole qualcosa
di più di qualche documento falsificato per quello."
"Beh, lo so," risponde lei
seria, sedendosi accanto a me. "Mio zio John ha rilevato quel debito, a
condizione che mio padre iniziasse a vedere gli alcolisti anonimi. Non
che sia durato tanto, quelle prime volte, ma comunque … " Elena posa
una mano sulla mia. "Damon. Cosa vuoi dire?"
"Voglio dire che," deglutisco, a
fatica, intreccio le dita alle sue. "Voglio dire che ho fatto una
cazzata, che non avevo la minima di che conseguenze avrebbe avuto. Ero
così fottuto nella testa in quel momento, e non sapevo cosa fare, e …
Non avrei mai voluto lasciarti."
Elena prende un respiro incerto,
mentre sposta lo sguardo sulla sua mano chiusa sopra la mia e la
stringe ancora di più. Piega appena le labbra in un sorriso, che però
poi svanisce in qualcosa più distante.
"L'ho sempre pensato, sempre
saputo, che prima o poi te ne saresti andato. Che tu volessi altro,
fare a modo tuo. Ma poi ho capito che ci avresti rinunciato per me e,
Damon, io non sarei andata da nessuna parte." E' quasi convulso il modo
in cui mi tiene strette le dita. "Non avrei mai lasciato mio padre e
mio fratello, non in quella situazione, non in un anno, non in cinque.
Non volevo toglierti qualcosa, solo perché io non lo potevo avere."
Sollevo lo sguardo sul suo viso,
vedo ciò che vede anche lei. Che siamo stati così incastrati in tutto
ciò di cui avevamo paura da non vedere niente al di là di quello.
Reciproco la sua presa salda, entrambi accenniamo un sorriso.
Elena mi tira a sé, posa la
fronte contro la mia.
"Quindi sono stata io," sospira.
"Sono io il motivo per cui non hai più parlato con tuo padre, perché-"
"No, Elena," la fermo, scuotendo
la testa. "Non sei mai stata tu. No, era tutto lì da prima, e per così
tanti motivi che … che non li saprei più neanche io. Voglio dire, forse
è vero, è quello ciò che mi sono detto al tempo, che lo stavo in
qualche modo facendo per te, ma … la verità? L'ho fatto perché
volevo farlo incazzare. Perché sapevo che l'avrebbe incasinato alla
grande ed era quello che volevo. Perché volevo fargli dal male. Ed è
stato così, gliel'ho fatto. Non per il problema che gli ho creato, o
quelli che ne sono seguiti. Ma perché gli ho fatto credere di odiarlo."
Mi sento bruciare per tutta quella rabbia di difesa che si rompe, si
logora, e lascia solo il vuoto. "E non ho mai avuto la possibilità di
sistemare le cose, e adesso non ce l'avrò più. Perché non era vero che
lo odiavo, Elena. Non davvero, non era vero."
Non ho più niente in gola,
consumata dal non riuscire a trovare altre parole. Elena mi stringe,
avvolge un braccio attorno alla mia testa, posa piano la guancia contro
il mio orecchio.
"Lo so, Damon. Lo so."
Charlotte è destinata a rimanere estremamente delusa, perché no, non ho
pianto. Non che non abbia sentito un vago pungere negli occhi, o una
presa stringente tra le costole. Non è neanche che non volessi farlo.
Non ho potuto e basta, perché non c'era niente di liberatorio, né mai
davvero ci sarebbe stato.
Ma Elena lo ha fatto per me, se
può contare qualcosa. L'ho sentito nei baci salati che mi ha posato
sulla guancia, e sul lato della testa, e l'ho sentito in quella
gocciolina che le è scesa lungo il mento dove stavo appoggiando il
volto, con le sue dita intrecciate tra i capelli e la sua testa sopra
la mia spalla.
E per questa cosa, l'ho amata.
Beh, sai che scoperta, insomma, ho sempre amato Elena, da quando era
una ragazzina con le gambe troppo lunghe e i comportamenti troppo
cocciuti. Ma in quel preciso istante, l'ho amata in modo diverso, senza
niente a trattenermi, niente dietro cui ripararsi, perché lo aveva
visto davvero quanto fossi pieno di stronzate eppure era ancora lì, ad
avvolgermi di Elena e riempirmi di Elena, e se una volta pensavo di non
poterla amare di più, da lì ho saputo che mi sarei sempre sbagliato a
quel riguardo.
Non gliel'ho detto,
naturalmente. Le mie frasi sdolcinate le lascio per il flirt quando
tento di sedurla.
Non gliel'ho detto in parole
come non ho fatto mille altre volte, ma gliel'ho fatto sapere nel modo
in cui l'ho tirata verso di me, e posato le labbra su quella gocciolina
di lacrima scesa lungo il mento, e su verso la guancia, su verso la
bocca. E, come mille altre volte, lei ha capito cosa volessi dire, e lo
ha messo tutto nella presa ferma alla base del mio collo con cui ha
fatto scontrare la mia bocca sulla sua.
L'ho amata e non gliel'ho detto
lì sul pavimento ai piedi del divano, tirandole via di dosso i vestiti
con una delicatezza macchiata dall'impellenza, in ogni bacio lento e
febbrile con cui sono sceso su di lei, in ginocchio per lei, la gonna
tirata frettolosamente su e spiegazzata tra le mie mani. L'ho amata e
lei l'ha capito in ogni sospiro che le ho preso e in ognuno di quelli
che mi ha tirato fuori, con le mani sul mio petto a tenermi giù, e quel
suo modo diabolico di muovere i fianchi, e quello amorevole di
accarezzarmi la schiena. L'ho amata come l'avevo amata la prima volta,
e come avrei fatto l'ultima. E quello sì, che è stato liberatorio.
La tengo tra le braccia, mentre
lei rannicchiata tra le mie gambe posa il retro della testa sulla mia
spalla, con una mano attorno alla sua vita ed il peso morbido del suo
seno contro l'avambraccio. Sollevo la testa dalla leggera, lenta
traccia di baci che le stavo lasciando lungo il collo, e vedo cosa c'è
lì davanti sul tavolo.
"Come è andato quel tuo incontro
con quel consulente studentesco?" le domando.
"Mmh?" replica, distratta,
alzando appena la nuca e tornando ad aprire gli occhi. Vede ciò che le
indico con un cenno della testa, quei moduli per l'ammissione
sparpagliati sul tavolo. "Oh, sì. Sì, è andato bene. Le ammissioni per
le università aprono solo in primavera, quindi per ora si tratta
sopratutto di capire in cosa mi interessa specializzarmi davvero. Posso
iniziare da un community college per cui le iscrizioni sono aperte
tutto l'anno, e nel mentre preparare una domanda di trasferimento,
oppure usare questi mesi per capirlo."
"Mi sembrano entrambi ottimi
piani," dico, posandole un altro bacio sopra la spalla.
Elena giocherella con le mia
dita intrecciate sul suo fianco.
"Ed i tuoi di piani?" chiede
esitante. "Cioè, con Katherine e …"
"… il mini-anticristo, vuoi
dire?"
Elena si volta di scatto,
esterrefatta, ammonendomi con lo sguardo.
"Scusa," mi affretto a dire.
"Scusa. Ho promesso a Caroline che avrei smesso di chiamarlo così."
Sospiro, scrollo le spalle. "Non
lo so. Insomma, cosa dovrei fare? Katherine è stata molto chiara sul
fatto di non volerne sapere, quindi … Immagino che sia tutto qui."
"E a te sta bene? …" prosegue
lei, passandomi il pollice sul dorso della mano. "Che sia tutto qui?"
Poso il mento sulla sua testa,
il mio petto si contrae.
"Sinceramente, Elena? Non lo so
cosa mi sta bene, o cosa dovrebbe starmi bene. Voglio dire, non è che
lo volessi, con Katherine per di più, e se uno guarda alla situazione
in modo razionale lo so che dovrei provare un gran senso di sollievo.
E' solo che … non è proprio così. Continuo ad aspettare che faccia
effetto, tipo quegli antidolorifici a scoppio ritardato, ma …" Mi
fermo, devo prendere un altro respiro che rilascio sopra i suoi
capelli. "… Non lo so, non ne esco davvero fuori."
"Damon," dice, allacciando le
dita tra le mie. "Tu lo vuoi questo bambino?"
Mi rendo conto, mentre me lo
chiede, che è la prima persona a domandarmelo davvero, senza né
sarcasmo né tanti giri di parole. Le bacio la tempia, la stringo di più
a me.
"Perché dovrei volerlo?" le
dico. "L'ultima cosa di cui ho bisogno è ritrovarmi ad avere un figlio.
Andiamo, guarda la mia vita, è perfetta così. Ho comprato da poco un
appartamento favoloso che è fatto per soli adulti, neanche nel lavoro
ho nessuno che mi dica cosa fare, e adesso potrei stare con te,
neo-studentessa che è davvero abbastanza pazza da pensare di cercare un
college dall'altro lato del paese per stare con me. E potremmo davvero,
seriamente, avere buona possibilità di far funzionare le cose. Perché
mai dovrei voler rinunciare a tutto questo? Sappi che non ho nessuna
intenzione di farti una cosa del genere. Tirarti nel mezzo a crescere
il figlio di qualcun altro proprio adesso che per la prima volta hai la
possibilità di fare qualcosa solo per te stessa."
"Questo lo so." Quando si volta
a guardarmi, c'è un accenno appena rattristato nel suo sorriso. "Ma lo
vuoi lo stesso, non è vero? Ti conosco troppo bene, Damon Salvatore,
per credere alle tue bugie."
Resto in silenzio ed Elena posa
una mano sulla mia guancia. Lascio andare il viso contro il calore del
suo palmo, mentre lei mi osserva per un lungo istante.
"Forse, ecco cos'è," dice
soltanto. "La tua possibilità di sistemare le cose."
Non aggiunge altro, e non lo
faccio neanche io. Ma sto ancora pensando a cosa ha detto quando infine
ci decidiamo a raccogliere i vestiti sparsi sopra il pavimento, e getto
uno sguardo al display del telefono e so che Katherine non se andrà
prima di un'altra ora, ed un pensiero completamente, assolutamente, non
razionale inizia a prendere forma nella mia testa.
"A proposito," Elena riattira la
mia attenzione, si tira su la zip laterale della gonna. Prende la sua
borsa e ne tira fuori un pezzo di carta spiegazzato, macchiato,
pestato, che è stato lisciato e ripiegato attentamente a metà, per
quanto tutti quei segni lo potessero permettere. Me lo passa tenendolo
tra due dita. "L'ho calpestato quando ho lasciato casa vostra questo
pomeriggio. Ho smesso di leggere quando ho capito di che si trattasse,
ma … Non so, ho pensato che potessi rivolerla indietro."
Ci sono una nuova chiazza d'erba
e diversi segni di ghiaia, ma la riconoscerei dovunque, quella
maledetta lettera che ancora mi perseguita. Non so se piangere o
ridere. La seconda, a quanto pare.
"Cosa?" mi chiede lei davanti
alla mia risata, con l'abbozzo di un sorriso smarrito di chi si è
appena perso il senso della barzelletta.
Me la riprendo, la piego
un'altra volta e la infilo nella tasca dei jeans nell'alzarmi in piedi.
"Niente. Stavo solo pensando,
che ne avrebbe apprezzato l'ironia."
——————————————————————
Ps. Manca l'epilogo, sì - ovvero il fiocco (rosa o blu?) per chiudere
il pacchetto. Ma credo che quello arriverà quando la sappy sentimentale
che sono sarò pronta, del tutto e per davvero, a dire addio.
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Capitolo 25 *** Epilogo. The long way home ***
TVD è
finito l'altro giorno e, anche se sono quasi due anni che io e questa
serie ci siamo dette addio, c'è stato un tempo in cui questa storia
significava molto per me e, forse, anche per chi la seguiva e leggeva.
E' per questo che mi è sembrato il momento giusto per riaprire infine
la bozza dell'epilogo già tratteggiato tanto tempo fa e metter anche
io, in tutto e per tutto, la parola fine. E’ un epilogo molto più
frammentario, con molte meno scene e approfondimento, di ciò che
sarebbe stato solo avessi avuto il tempo e la voglia di svilupparlo per
bene, ma il senso è fedele all’idea originale, e credo che alla fine
conti quello.
Anche se per me TVD è finito in delusione (e non l'altro ieri, ma
parecchio tempo prima), è stato bello finché è durato, venire qui a
immaginare queste versioni alternative dei personaggi dello schermo con
chi condivideva la stessa passione - mi siete mancate, ragazze, e mi
dispiace infinitamente non essere stata più in grado, negli ultimi
tempi di questa storia, di rispondere a tutte le belle parole che per
il suo ultimo capitolo mi avete lasciato. Non rimpiango una sola parola
sudata e versata per questi due. Anche perché, scrivere in questo
spazio ha riacceso una passione per la scrittura che era rimasta
dormiente per anni, tanto da avere anche adesso una storia originale in
lavorazione che adoro da impazzire e che non vedo l'ora possa presto
vedere la luce in un modo o nell'altro, e senza questo passaggio
intermedio, senza i vostri incoraggiamenti che andavano al di là del
semplice apprezzamento per la fanfiction, non se avrei mai avuto il
coraggio di imbarcarmi nell'impresa. Quindi grazie, ancora una volta,
alle lettrici, alle autrici, a efp, a Damon e Elena, a Stubborn Love, a
tutto quanto.
E mi sembra giusto, nonostante tutto, poter dire addio a Damon e Elena
a modo mio in questo piccolo spazio felice. Ma basta ciance, ecco
l'epilogo. Vi avviso che contiene alte dosi di fluff. Consumate a
vostro rischio e pericolo.
ever
Epilogo.
The
long way home
- So let's go out past the party lights
We can finally be alone
Come with me,
and we can take the long way home
Come with me,
together
we can take the long way home-
( The long way
home - Norah Jones)
Damon ha rotto con me la
sera del matrimonio di Caroline e Stefan. Dopo la partenza degli sposi
per il loro viaggio di nozze in giro per l'Europa, dopo che anche
l’ultimo invitato se ne era andato ed eravamo rimasti solo noi due,
insieme agli addetti del catering che avevano iniziato a ripulire, la
sua giacca e i miei tacchi abbandonati per terra, seduti al bordo del
patio sotto alle lucine bianche che ancora luccicavano nel buio.
Era stata una cerimonia
incantevole. In tutto e per tutto contraria a ciò che Caroline aveva
sempre fantasticato sarebbe stata, e assolutamente incantevole.
Non era una fresca
giornata di primavera, ma una calda sera di fine agosto, appena dopo il
tramonto, unico momento in cui la calura si era fatta più sopportabile.
Non c'erano un centinaio di persone a vederla in uno splendido vestito
di alta sartoria, ma appena un paio di dozzine di familiari e amici più
stretti, e un semplice vestito da sera color crema perché non c'era
stato tempo di adattargliene uno bianco addosso. Nella fretta dei
preparativi, i fiori erano stati mandati gialli invece che rosa, e
sulla torta la pasticceria aveva scritto Caroline & Steven, ma
Caroline aveva scrollato via ogni contrattempo con un distante sorriso
trasognato.
E io, dopotutto, avevo
avuto la mia camminata verso l'altare, con fiori freschi tra le mani e
l'uomo che amavo alla fine di essa. Con tanto di occhiata ammiccante da
parte mia, e un mezzo sorriso complice da parte sua, prima che io da
brava damigella d'onore prendessi il mio posto alla sinistra, mentre
lui da bravo testimone restava lì sulla destra.
C'era stato solo un breve,
seppure intenso, momento di panico, quando, dopo che Stefan le aveva
messo la fede al dito, Caroline si era immobilizzata di colpo, lo
sguardo allargato, restando muta per alcuni interminabili secondi
riempiti dai mormorii degli invitati.
Finché Stefan non le aveva
stretto appena di più la mano, sussurrandole un preoccupato, "Care?"
"Ho dimenticato i miei
voti," aveva balbettato lei. "Avevo scritto tutte queste cose, fatto
tutte queste ricerche, per trovare le parole più giuste … E adesso non
le ricordo più."
Sembrava sul punto di
piangere. Stefan l'aveva tirata più vicina.
"Va bene," aveva detto
rassicurante. "Va bene, Care."
"No," aveva replicato lei,
scuotendo forte la testa. “No, ci ho messo tutta la notte, per pensare
al modo migliore di dirti quanto ti amo, quanto rendi ogni mia giornata
migliore … e me una persona migliore … e invece … così … non sono
capace…”
Stefan l'aveva tirata a sé
e l’aveva baciata, sopra a tutti quei farfugliamenti, e lei aveva
reciprocato con altrettanto slancio, lasciando un confuso ministro a
domandarsi cosa fare davanti a quel “Puoi baciare la sposa"
completamente fuori tempo, soprattutto quando dopo cinque buoni minuti
ancora non si erano staccati, né sembravano avere alcuna intenzione di
farlo.
Damon aveva dovuto
battergli un colpetto sulla spalla.
"Stef. Il tipo qua deve
prima finire."
La prima canzone era stato
un medley tra Bon Jovi e Cindy Lauper.
Bonnie aveva presentato
Sage a sua nonna.
Alaric aveva spaventato un
giovane cameriere insistendo che venisse perquisito prima di entrare,
perché aveva una “faccia sospetta”.
Charlotte aveva stretto le
braccia al collo di Damon. "Stefan mi ha detto,” gli aveva sussurrato.
“Sono così, così felice per te."
"Di cosa parla?" gli avevo
chiesto quando, terminata quell'interruzione, avevamo ripreso a
dondolare piano sopra la musica, le mia mani sulla sua nuca, le sue
dita sui miei fianchi. Aveva posato il volto contro il mio, un bacio
morbido sulla mia guancia. "Te lo dico dopo."
Lo aveva fatto a festa
finita, quando tutti se ne erano andati.
Ero rimasta appoggiata
contro il parapetto in legno del patio, mentre Damon mi raccontava di
essere andato a cercare Katherine subito dopo aver lasciato casa mia,
un paio di sere prima, trovandola appena prima che salisse su un bus
notturno. Le aveva offerto cinquecentomila dollari come accordo di
divorzio, ovvero tutto che era rimasto della sua eredità dopo aver
liquidato casa e azioni della compagnia per lasciarle a Stefan, se lei
avesse portato a termine la gravidanza e lasciato il bambino con lui,
senza nessun obbligo di restare a fargli da madre. Katherine gli aveva
dato del pazzo. Quindi aveva cautamente provato a contrattare. Poi
aveva detto che ci avrebbe pensato, e preso lo stesso su quel bus.
Infine, lo aveva chiamato la sera prima, dicendogli che allora avrebbe
dovuto sborsare anche per ogni capriccio ormonale e voglia strana che
avrebbe avuto negli otto mesi successivi.
"E' meraviglioso, Damon!"
esclamai felice, prendendogli la mano. "E pensi davvero che Katherine
non vorrà mai averci niente a che fare?"
"Non lo so," disse,
giocherellando con le mie dita. "Per adesso, sì. Ci ha particolarmente
tenuto a metterlo in chiaro. Forse un giorno lo vorrà conoscere, forse
no. Non so neanche bene cosa gli dirò quando chiederà di sua madre. Ma
è qualcosa di cui mi preoccuperò quando accadrà, se mai accadrà.”
"Gli?" domandai, alzando un
sopracciglio. "Potrebbe essere una bambina, sai."
"Cosa vuol dire, una bambina?" ribatté accigliato,
neanche avessi suggerito una strana specie aliena. "No, è un maschio.
Insomma, andiamo," si indicò con un ghigno compiaciuto sulle labbra.
"Ovvio che è un maschio. E' un Salvatore."
Scoppiai a ridere, per il
modo in cui quel suo sorriso mi aveva riempito il cuore. Strinsi più
forte le dita tra le sue.
"Sarai un padre
fantastico."
"Non ne sono poi così
sicuro. Sono terrorizzato, a dire la verità. Ma … Immagino che ci
dovremo accontentare." Sorrise più tristemente, portando lo sguardo
sulle nostre mani. "Non è il migliore dei tempismi, vero?"
"Quando mai lo è?"
Ma poi avevo visto il suo
sguardo, e solo con quello avevo capito cosa stava per dire. Lo
anticipai prima che potesse andare fino in fondo.
"Damon, no. Non ci pensare
neanche. Lo faremo funzionare. Io non vado da nessuna parte."
"Invece sì. Lo farai."
Ed era stato
completamente, insopportabilmente, testardamente irremovibile su
quello. Ci avevo provato in tutti i modi, a fargli cambiare idea, a
impedirgli di lasciarmi. Ero stata rassicurante. Ero stata
supplichevole. Mi ero infuriata.
Aveva lasciato che mi
sfogassi con ogni epiteto e ogni preghiera, fino a che non avevo
esaurito fiato, proteste, lacrime, e opzioni. E poi aveva detto solo:
"Elena. Ti ho aspettato per anni. Cosa credi che siano, appena qualcuno
in più?"
Nonostante tutto, ero
stata così furiosa con lui che, per almeno qualche mese, il suo piano
aveva davvero funzionato. Dopo quella sera, non lo avevo più chiamato,
non lo avevo più cercato. Certo non mi sarei trasferita fino in
California per qualcuno che non voleva stare con me, mi ripetevo tra
una fitta e l'altra del mio cuore e del mio orgoglio feriti.
Così, d’improvviso, senza
più Damon accanto ad offrirmi la direzione e la scelta più ovvia, mi
ero resa conto, non senza un certo disappunto, che a dispetto di tutte
le opzioni che mi si stavano aprendo davanti, non ero ancora in grado
di decidere dove volessi andare, cosa volessi fare, o chi volessi
essere.
Ma se non altro ero
determinata a scoprirlo.
Avevo preso i miei
risparmi, insieme a ciò che avevo messo da parte per il matrimonio con
Elijah, ed ero partita. Per un po’ avevo chiesto accoglienza a Finn,
l’amico di Sage a New Orleans che già aveva ospitato la mia pazza fuga
di qualche mese prima, offrendomi di aiutare nel suo locale in cambio
di una stanza dove dormire. Avevo poi passato l’inverno successivo a
Parigi, tra un minuscolo appartamento condiviso in subaffitto e classi
serali che avevano cercando di insegnarmi nozioni di francese e di
pasticceria - con qualche successo per la prima impresa, e molti meno
per la seconda. Avevo preso treni, visitato città, e incontrato persone
che non avrei mai più rivisto.
Era stata una sensazione
così strana all’inizio, paurosa e stimolante al tempo stesso, come può
esserlo solo la prospettiva di illimitate possibilità ancora aperte in
attesa là fuori indipendenti da chiunque, compreso un uomo frustrante e
meraviglioso che pure mi amava con tutto se stesso. E, pur senza
smettere mai di pensarlo, in un contraddittorio alternarsi di
sentimenti che oscillavano dal desiderio, alla tristezza, alla rabbia,
e alla mancanza di lui che avvertivo in ogni fibra del mio essere, dopo
un po’ avevo iniziato a vedere ciò che aveva fatto.
Damon si era tolto
dall’equazione e mi aveva lasciato andare per la mia strada fino a che
non avessi saputo quando e dove fermarmi, proprio come avevo fatto io
con lui tanti anni prima quando le parti erano state invertite, solo
con un po’ meno drammi.
La prima volta che lo
avevo visto di nuovo era stato quando era nato Thomas.
Ero tornata negli Stati
Uniti da qualche settimana, dopo aver ricevuto risposta positiva da uno
dei college per cui avevo fatto domanda. Ero a Berkeley per una visita
a Jeremy che aveva finito per protrarsi più a lungo del previsto
quando, un po' per caso, un po' perché avevo ancora qualche mese libero
da impegnare prima dell'inizio dei corsi, avevo iniziato a prestare
volontariato presso un centro che organizzava programmi educativi e di
recupero per persone provenienti da situazioni disagiate.
Il pensiero che avrei
potuto rivedere Damon solo attraversando la baia era un sottofondo
costante, tremendamente vicino ma fragile, pieno di tutte le incertezze
che accompagnavano la consapevolezza di non sapere, non fino in fondo,
cosa avrei potuto trovare ad aspettarmi dall'altra parte, se uno
spiraglio di possibilità o un altro cuore spezzato come quello con cui
mi aveva lasciato mesi prima.
Solo la telefonata di
Caroline in un soleggiato pomeriggio di aprile, con la quale mi
informava tutta agitata che lei e Stefan stavano per prendere il primo
volo per San Francisco per non perdersi l'imminente nascita di loro
nipote, era riuscita a farmi compiere quel passo e attraversare quella
sottile, incolmabile, striscia d’acqua che ancora ci separava.
Ero arrivata in ospedale
verso sera. Senza avere bene idea di dove andare, avevo vagato nel
reparto maternità fino a che un infermiere non mi aveva indirizzato
nella giusta direzione e verso la giusta stanza.
Damon non mi aveva visto,
ma io avevo visto lui. Lo avevo intravisto attraverso la porta lasciata
socchiusa, proprio mentre l’infermiera se ne andava e lui restava lì,
un po' impacciato all’inizio, ma con lo sguardo trasognato carico di
nervosismo e felicità e stupore incapace di staccarsi dal neonato
addormentato tra le sue braccia.
Lo vidi sporgersi appena
in avanti per avvicinarsi al suo viso e mormorare con un sospiro
rassegnato, “Mi dispiace davvero molto, dover essere io a dirtelo,
piccolo. Perché a quanto pare sei incastrato con me, il che vuol dire
che sei abbastanza fregato in partenza. Ma prometto di fare del mio
meglio, ok?”
Con la gola più stretta,
stavo per indietreggiare e andarmene, ma poi Damon rialzò la testa, i
suoi occhi di colpo più larghi nel momento in cui mi avevano toccato, e
poi accigliati in una confusione stupita l’attimo dopo.
“Ciao,” bisbigliai, la
voce roca, incapace di dire di più.
“Ciao,” sorrise.
A quel punto, il mio cuore
era già un disastro tamburellante, sveglio e scombinato tutto d’un
tratto.
Avevo fatto un passo in
avanti, incerta, quasi a voler vedere se la terra sotto ai piedi mi
avrebbe tenuto. Poi un altro, e un altro, ed ero corsa da lui, gettando
le braccia intorno a entrambi e seppellendogli la faccia nel collo,
inalando l’odore di caffè, neonato, ospedale, una sigaretta recente, e,
sotto e sopra a tutto ciò, l’odore di lui, lo stesso che mi agitava le
farfalle nel petto fin da quando non eravamo che ragazzi.
“Dove sei stata?” mi
sussurrò nell’orecchio, sfiorandomi appena la pelle con le labbra.
Sussurrai di rimando.
“Qui.”
***
Nevica a Mystic Falls,
così come su tutta la costa orientale, e tutti i voli sono in ritardo,
compreso quello di Damon.
Mi attardo a villa
Salvatore ad aiutare Caroline con gli ultimi regali di Natale, mentre
Stefan aspetta che suo fratello e suo nipote atterrino all’aeroporto.
“Così, ho chiamato
un’altra volta il giornalista,” la mia amica sta finendo di raccontare,
mentre posa un adorabile fiocchetto sopra un piccolo maglione con renne
danzanti che ha preso per Thomas. Ne ha preso uno identico anche per
Damon, e sono piuttosto impaziente di vedere la sua faccia quando
Caroline lo costringerà a indossarlo per le foto. “E gli ho detto, non
me ne frega un cavolo, se si tratta di ciò che ha realizzato con la sua
compagnia e non della sua vita privata, non è un dettaglio di poco
conto! E’ sposato, con me.
Scrivi questo nel tuo stupido giornale.”
Trattengo a stento una
risata. Un paio di settimane fa, Stefan è comparso nella lista di
Forbes degli under 30 più di successo, un riconoscimento che ha
accettato modesto con un sacco di punzecchiamenti da parte di suo
fratello e qualche brontolio da parte di sua moglie, che da quel
momento non aveva più smesso di chiamare l’editore responsabile per
lamentarsi del fatto che l'articolo non specificasse abbastanza
chiaramente che Stefan non fosse uno scapolo disponibile sul mercato.
“Beh, oggi ha pubblicato
la rettifica,” sorride con soddisfazione, mentre finisce di mettere via
il regalo insieme alle altre dozzine che suo nipote di venti mesi sta
per ricevere. “E, per scusarsi, ha fatto un generosa donazione al WHC.”
Il Women Health Center è
la fondazione che Caroline ha fatto partire lo scorso anno per offrire
assistenza sanitaria e supporto a donne che non hanno i mezzi per
permetterselo. E’ la sua missione, la sua creatura, come anche lei la
chiama, e si sta facendo abbastanza conoscere nella zona. Non molto
tempo fa, la mia amica è stata approcciata da un comitato elettorale
che le ha chiesto se avesse mai considerato di entrare in politica.
Beh, lo sta considerando adesso.
“Un’altra vittoria per
Caroline Salvatore,” la prendo in giro.
Lei mette su un finto
broncio, ma in realtà sta gongolando.
“Devo andare,” dico mentre
finisco di avvolgermi in sciarpa e cappotto, preparandomi ad affrontare
il freddo che c’è fuori. “Papà e Jeremy mi aspettano per cena. Quando
arrivano, dai un bacio ai ragazzi da parte mia.”
“Glielo hai detto?” mi
chiede, quando sono già sulla porta.
Esito, mentre finisco di
mettermi i guanti. Scuoto la testa.
“Non ancora.”
Piega la testa di lato,
appoggiandosi con una spalla contro lo stipite della porta del salotto.
Dietro di lei, l’albero di natale luccica in tutti i suoi caldi colori,
riflettendosi contro il vetro buio delle finestre.
“Perché no?”
Sospiro.
“Perché so cosa dirà, e
non voglio avere di nuovo quella discussione, non adesso. Ma lo farò.
Prima della fine delle feste.”
“Non lo capisco,” scuote
la testa lei. “State insieme? Non state insieme? Sono quasi due anni!
Per la mia sanità mentale, vi volete decidere?”
In risposta, sorrido e
basta, calco il cappello in testa, ed esco verso la neve.
***
Non si tratta tanto di
mancanza di volontà, tra me e Damon. La maggior parte della volte, è
più una questione di tempo, geografia, e di due vite parallele che
finiscono per non incrociarsi quasi mai.
Le cose erano state così
frenetiche, nuove e meravigliose, in quei primi giorni quando aveva
portato Thomas a casa. Caroline e Stefan erano rimasti per un po’ ad
aiutare e, senza averne del tutto intenzione - o forse dopotutto un po'
sì - ero rimasta anch’io. Del resto, mi ci era voluto poco meno di un
secondo, precisamente quello in cui lo avevo per la prima volta tenuto
tra le braccia, per innamorarmi del piccolo Thomas almeno quanto già lo
ero del padre.
Ma sapevamo entrambi che,
prima o poi, cosa farne di noi due era un discorso che avremmo dovuto
affrontare di nuovo.
Era successo a notte
tarda, nell’appartamento di Damon. Thomas si era da poco addormentato,
e io stavo finendo di lavare alcune ciotole e stoviglie rimaste nel
lavandino. Avevo sentito Damon avvicinarsi in silenzio alle mie spalle,
lo avevo sentito restare a guardarmi senza dire niente per un lungo
istante.
Chiusi il rubinetto, le
mani ancora gocciolanti.
“Adesso chiamo un taxi e …”
Fu in quel momento che le
sue labbra mi sfiorarono il collo. Non con incertezza, non come una
titubante richiesta, ma come un dato di fatto, premuto sulla pelle a
riassumere tutto quello che, nelle ultime due settimane, non ci eravamo
ancora detti a parole.
Mi si bloccò il respiro,
ma in un solo istante mi ero già abbandonata all'indietro, contro il
suo petto e contro il suo bacio, incurvando appena il collo per
offrirgli un accesso migliore che non esitò ad accettare.
“Resta,” disse piano,
mentre la sua mano si posava sul mio fianco, la voce roca di bisogno.
“Anche solo stanotte.”
Mi sfuggì un gemito quando
avvertii la pressione dura contro le gambe, la pelle a fuoco dove le
sue labbra mi stavano tracciando la spalla, e dove le sue dita si erano
intrufolate sotto alla maglietta per accarezzarmi il fianco.
Fu così difficile,
costringermi a dirglielo.
“Pittsburgh,” sussurrai,
mentre le sue dita risalivano leggere sopra il mio addome fino ad
andare a sfiorarmi la parte inferiore del seno, e non aiutarlo a
liberarmi di quei vestiti io stessa iniziava a costarmi uno sforzo
enorme.
“Mai stato,” mormorò.
“Cosa c’è là?”
“Il college dove mi hanno
accettato.”
“E’ grandioso.”
“Inizio in autunno.”
Sentii la sua pausa, il
momento in cui staccò appena le labbra da me. Mi voltai. Quando
incontrai il suo sguardo, non ebbi bisogno di dire altro.
“Elena,” disse con fare
serio, solenne. “Hai idea da quanto stessi morendo dalla voglia di fare
questo? Autunno è tra mesi.
Pensi che io sia in grado di pensare così a lungo termine, ora in
questo momento, ora che sei qui? Perché, con tutta la buona volontà,
non ce la faccio. Tu ce la fai?”
“No,” ammisi, prima di
infilare le mani ancora bagnate tra i suoi capelli e tirarlo a me per
far scontrare la sua bocca con la mia.
Ma mesi, in realtà, non è affatto un
termine poi tanto lungo, quanto piuttosto lo spazio di un respiro,
finito prima di avere a malapena il tempo di inspirarlo.
Qualche sera prima della
mia partenza per Pittsburgh, avevamo avuto di nuovo la stessa
discussione della sera del matrimonio di Stefan e Caroline. Era finita
con un po' più di speranza per l'immediato futuro rispetto alla prima
volta, ma la conclusione pratica non era stata poi molto diversa.
Nè era cambiata molto nei
mesi successivi. Thomas richiedeva tutto il suo tempo e le sue energie,
mentre il semestre e i corsi in Pennsylvania si prendevano i miei.
Eravamo finiti in un limbo nel quale non avevamo mai, o quasi, modo di
vederci. Quando ciò di rado accadeva - le vacanze di primavera, il
primo compleanno di Thomas, la fine della sessione di esami - nessuno
dei due era capace di pensare oltre il momento presente, proprio come
quella prima notte a casa sua.
Ogni volta che ci
separavamo, avevamo di nuovo la stessa conversazione. Ogni volta, io
gli promettevo: un giorno te lo farò capire.
"Capire cosa?"
Che
posso scegliere e avere entrambe le cose, Damon.
Me stessa, e te.
***
Mi sveglio nel mezzo del
notte e, allungando una mano verso Damon, trovo la sua parte di letto
vuota. Non è la prima volta che capita, così mi alzo, mi getto addosso
una felpa e, scalza, mi avventuro nella casa buia.
Il nuovo appartamento di
Damon è pieno di scatole a metà, mezze aperte e mezze piene, che
ingombrano ogni angoletto e via di passaggio dall'ingresso fino alle
camere. A quanto ne sa Damon, è per questo che sono qui a San
Francisco, per aiutarlo con il suo trasloco nel nuovo appartamento più
grande prima dell'inizio della nuova sessione di corsi di gennaio, non
per l'altro motivo che ancora non gli ho detto.
Mi faccio strada tra il
disordine, attenta a non calpestare qualche mattoncino Lego vagabondo,
sempre capace di sbucare fuori dal nulla quando meno te lo aspetti,
fino alla camera di Thomas.
Come sospettavo, è lì che
lo trovo, addormentato sulla poltrona, con una mano penzolante dentro
al lettino dove anche Thomas dorme afferrandolo per le dita. Da
sveglio, Thomas ha i più begli occhi azzurro chiaro che abbia mai visto
- più belli anche di quelli del padre, lo prendo sempre in giro. Sono
anche pronta a giurare che, ogni volta che mi sorride, lo faccia già
con un sorrisetto furbesco che mi è a dir poco familiare.
Mi rannicchio accanto a
Damon sulla poltrona, e lui si muove appena per aggiustare la sua
posizione così che anche io possa trovare spazio, facendo scivolare un
braccio attorno alla mia vita.
"Non volevo svegliarti,"
mormora in un bisbiglio assonnato.
"Lo so," bisbiglio di
rimando. "Va bene."
Gli metto una mano sul
petto, ci poso anche la guancia, riscaldata dal calore che emana.
Sopra una delle mensole,
tra foto e pupazzi, nella penombra si intravede una busta con il nome
di Damon scribacchiato sopra, che ancora contiene una lettera
stropicciata che non è mai stata letta. So che ha avuto la tentazione
di farlo, una volta o due. Ma non lo ha mai fatto e non penso che lo
farà mai. Damon dice che preferisce così, sempre lì a ricordargli di
non lasciare mai troppe cose non dette tra lui e suo figlio.
Io, invece, ancora non gli
ho parlato dell'altra lettera. Quella con cui, solo qualche settimana
fa, l'università della California ha accettato la mia richiesta di
trasferimento da Pittsburgh insieme alla dichiarazione del mio
indirizzo di studi in psicologia clinica, con cui voglio proseguire il
lavoro iniziato per volontariato da quasi due anni ormai.
Forse, quando lo farò,
ammettendo di essere qui tanto per il suo trasloco quanto per il mio,
torneremo di nuovo alla solita conversazione. E forse non sarà sempre
perfetto, e sarà sempre un po' complicato, ma va bene così.
Non c'è nessun altro modo
in cui lo vorrei.
Lo so io e, soprattutto,
lo sa benissimo anche lui.
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