Punti di vista

di The Rocker
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Credere all'amore ***
Capitolo 2: *** Patto ***
Capitolo 3: *** Vendetta ***
Capitolo 4: *** Ogni volta ***



Capitolo 1
*** Credere all'amore ***


“Ci credi all’amore vero?”, mi chiese, a bruciapelo.
 
Incastrai i miei occhi nei suoi. Così ordinari, così comuni, eppure sprigionavano un’allegria unica. Quando sorrideva, li riduceva a due fessure, due fessure che ridevano insieme alla sua bocca, al suo cuore.
 
Inspirai profondamente. Mi facevano sempre uno strano effetto quegli occhi. Mi deconcentravano.
 
“Certo che ci credo all’amore vero”, dissi infine.
 
Il suo corpo era lì, nudo, disteso accanto al mio nel suo letto. Niente coccole romantiche e sdolcinate post-coito, solo qualche abbraccio.
 
Non era stata una mia idea, quella delle coccole. Sia chiaro, a me piacciono le coccole dopo aver fatto l’amore. Mi piace quando ci si guarda negli occhi, sospirando, quando s’intrecciano le dita mentre ci si bacia. Mi piace stare abbracciati.
 
Forse, mi piace tutto questo a causa dei sentimenti che provo. Non è solo sesso, non per me.
 
Non appartengo a quel genere, una botta e via. Se mi impegno, lo faccio seriamente.
 
Non dico che il mio primo bacio deve essere l’amore della mia vita, ma, come ho già detto, niente una notte e poi rimaniamo amici.
 
I gesti per me hanno un valore.
 
Osservai ogni suo lineamento, fino a quando non mi prese il mento e mi baciò.
 
“Io no, purtroppo”
 
Sospirai, mentre lasciavo che appoggiasse la testa sulla mia spalla. Mi aveva ferito quella frase.
 
Mi avevo ferito, anche se ormai avrei dovuto aspettarmela. Conoscevo il suo carattere, lo conoscevo bene. E dopo il primo bacio, avevo deciso di accettare tutto: i suoi pregi, il suo bel fisico, i suoi difetti, il suo carattere.
 
Avevo deciso di andare avanti, nonostante il mio cuore si stesse innamorando sempre più, nonostante io mi stessi innamorando sempre più. Andavo avanti perché speravo, come nelle favole di essere la Svolta nella sua vita. Speravo di cambiare quella sua triste prospettiva sull’amore vero.
 
Avevo fatto cilecca, come volevasi dimostrare.
 
“Non è per niente morbida la tua spalla”, rise. Osservai la sua bocca: quelle labbra così chiare, così piene… sognavo ogni secondo di baciarle! E ogni notte mi svegliavo, cercando i suoi capelli, quei ricci castani così morbidi tra le mie dita.
 
Sospirai, aprendomi a mia volta in un sorriso. “Provvederò a comprare della gomma piuma, la prossima volta”
 
Sorrise, e mi baciò.
 
Poi, senza dire una parola, si alzò, andò a farsi la doccia, si vestì e uscì. Era così strano, così irreale. Facevamo l’amore a casa sua, ed io rimanevo nel suo letto, a bearmi del suo profumo. Chissà poi che fine faceva dopo i nostri pomeriggi d’amore. Glielo chiederò un giorno, mi appuntai mentalmente.
 
Ma certo, se li considerava solo sesso, che motivo aveva di tirarla tanto lunga? Era già abbastanza gentile da non sbattermi fuori a calci appena avevamo finito.
 
Era passata mezz’ora, e io avevo solamente recuperato i jeans da sotto il letto. Trovai le calze dietro alla scrivania. Non avevo la più pallida idea di come fossero arrivate fino lì.
 
Mi vibrò il cellulare, messaggio.
 
Lo lessi, sedendomi sul bordo del letto.

Non credo nell’amore vero, lo sai. Ma credo che con te posso fare un’eccezione. PS: credo di aver dimenticato un pezzo prima di uscire”
 
Rimasi di sasso. Con me poteva fare un’eccezione? Mi si stampò un sorriso a trentadue denti sulla faccia, un sorriso che nessuno avrebbe potuto cancellare.
 
Rilessi il messaggio decine di volte, finché non lo imparai a memoria. Solo alla fine realizzai l’esistenza della seconda parte. Aveva dimenticato un pezzo prima di uscire? Cosa intendeva? Mi guardai attorno, e mentre finivo di recuperare le mie cose, lo trovai.
 
Era finito nel cestino, buffo.




Bene, se sono stata anche solo minimamente decente, alla fine della storia non dovreste avere chiaro chi è il ragazzo e chi la ragazza..
Se mi sono lasciata sfuggire qualche aggettivo, o pronome, chiedo scusa. Fatemelo sapere e modificherò subito la storia.
Detto questo, vediamo se riuscite ad indovinare il mio punto di vista.. :)
Al vincitore... Un biscotto, e tanti, tanti, complimenti!

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Capitolo 2
*** Patto ***


Sorrisi, quando entrò in classe il giorno seguente. Non aveva neanche provato a nascondere il succhiotto che aveva sul collo, quella macchia scura che indicava appartenenza e dominio. Era una tra le persone più sfacciate che avessi mai conosciuto.
 
Mi salutò con gli occhi, due occhi enormi, verdi. Ricambiai il saluto con la mano, lasciando che le sue guance si colorassero di un leggero imbarazzo.
 
Era proprio una bella visione, divina. Osservai la sua figura con la coda dell’occhio mentre si sedeva: jeans larghi e scoloriti a coprire quelle gambe così sode e perfette; l’esatto opposto dei miei pantaloni aderenti, che lasciavano poco all’immaginazione.
 
Portava la felpa bianca, il mio regalo dello scorso Natale. L’avevo fatta arrivare anonima a casa sua, non volevo che scoprisse il mio lato tenero e dolce, il mio lato debole.
 
Non mi parlò al cambio dell’ora, né durante l’intervallo.
 
Poco prima dell’uscita da scuola mi arrivò un suo messaggio.
 
“Apriti con me, non te ne pentirai.”
 
Sentii il mio cuore sorridere.
 
Armeggiai con il cellulare diversi minuti, finché non lo infilai nella tasca della felpa. Non avevo la più pallida idea di cosa rispondere. Non che le nostre giornate fossero scandite dal ritmo martellante dei nostri messaggini d’amore, ma mi dava fastidio lasciar cadere così la conversazione.
 
Avevamo un patto, e ceravamo di rispettarlo entrambi. Era stata una mia idea, e lo ammetto, tornando indietro non rifarei la stessa scelta. Forse mi stavo lasciando coinvolgere un po’ troppo.
 
Mi maledissi per questa stupida idea. Evidentemente, esternai il mio disappunto a voce troppo alta, tanto che una primina si girò a fissarmi, sconvolta.
 
Facevo sempre quest’effetto alle ragazze, ancora non capivo il perché.
 
Recuperai il cellulare: avrei dovuto rispondere, a qualunque costo.





Eccomi di nuovo qui.. Chiedo scusa per l'attesa, ma questa storia era nata cone one-shot e mi ci è voluto del tempo per trovare un'adeguata continuazione.
Ho sempre cercato di nascondere il punto di vista, impresa che si sta rivelando ogni volta più complicata! :)
Causa università non credo riuscirò ad aggiornare molto presto, purtroppo.
Ma vi prometto che non appena mi arriverà l'ispirazione pubblicherò!

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Capitolo 3
*** Vendetta ***


Maniacale. Un controllo maniacale.
 
Ma chi si credeva di essere per pretendere un controllo maniacale su di me? Posso chiederti dove vai quando…ecco, quando te ne vai? Dio, che domanda idiota!
 
“Me ne vado, l’hai detto anche tu.”, abbaiai di rimando, scontrosa.
 
“Mi puoi dire dove, per favore?” Ma come faceva a non arrabbiarsi, a mantenere una tale calma dopo che quasi avevo ringhiato una risposta?
 
“No, non posso”, sbuffai. Non aveva il diritto di saperlo. Il patto era chiaro: ti intrufoli nel mio letto, ma non nel mio cuore né nella mia vita. Nessuna gelosia, nessuna pretesa, nessuna smanceria superflua. Nessun coinvolgimento.
 
Lo sentii sospirare, e poi voltarsi. Non appena avevo sentito quella stupida domanda uscire dalle sue labbra, l’avevo lasciato a contemplare le mie spalle.
 
Mi alzai, cercando qualcosa per coprirmi. Mi dava fastidio litigare nuda, mi faceva sentire ancora più nuda, se possibile. Merda, non riuscivo a trovare nulla di mio. La sua giacca era proprio ai piedi del letto, dalla mia parte; la sua felpa nera era sullo schienale della sedia, tutta stropicciata; lasua maglietta era appesa alla maniglia della porta, in perfetto ordine.
 
Sorrisi, involontariamente. Sembrava si fosse spogliato al contrario.
 
Sorridevo, certo, ma ero comunque arrabbiata. Incazzata nera.
 
“Non vestirti”, sospirò, quasi come se fosse una preghiera.
 
Sbuffai, coprendomi ulteriormente con il lenzuolo. Dovevo vestirmi in fretta, se volevo continuare la discussione con una decente quantità di rabbia in corpo.
 
Frugai nel cassetto dell’intimo, arraffando i primi slip che mi capitarono sottomano. Grigi, perfetto.
 
“Il reggiseno ce l’ho io. Era nel cestino”. La sua voce era dura, scontrosa, così diversa da come ero abituata a sentirla. Quella acida e inviperita ero sempre stata io.
 
Mi si gelò il sangue nelle vene al ricordo. Merda. Il famoso reggiseno. Mi ero completamente dimenticata di cercarlo dopo l’ultima volta.
 
Per orgoglio non gli risposi. Afferrai una maglietta sufficientemente larga da coprire le mie già scarse forme.
 
In bagno mi presi tutto il tempo necessario: sistemai i capelli e mi sciacquai il viso prima di vestirmi. Mentre mi legavo i capelli aggrottai le sopracciglia, nell’espressione più cattiva che riuscissi a fare. Devo riconoscere che l’espressione d faccia da schiaffi che avevo appena assunto mi si addiceva parecchio.
 
“Perché lo vuoi sapere?”, abbaiai furiosamente, mentre lasciavo che la porta del bagno sbattesse rumorosamente.
 
Nessuna risposta, solo il mio reggiseno, quello dalle spalline rosa accanto al portatile. Un bigliettino strappato frettolosamente da un quaderno recitava “E ora dimmi come ti senti”.
 
Scoppiai a piangere. Arrancai verso il letto, scossa dai singhiozzi e abbracciai il cuscino.
 
Cercavo il suo odore, il suo profumo, il nostro profumo.




Dopo un'estenuante sessione di esami, rieccomi qui.
Questo capitolo è nato in un momento e in un luogo del tutto imprevedibili: spero piaccia :)
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto, recensito, che l'hanno inserita tra le preferite, tra le storie da ricordare, e chi semplicemente mi dedica qualche minuto del suo tempo :)
Spero di riuscire ad aggiornare anche durante il mese di Agosto; perdonatemi se lascio passare tanto tempo tra un capitolo e l'altro, e se i capitoli sono più corti di quello che vi aspettate.
Ne approfitto per augurarvi buone vacanze :)
Alla prossima,
un abbraccio.

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Capitolo 4
*** Ogni volta ***


 
Era da una settimana che non ci vedevamo. Un’intera settimana senza una chiamata, un messaggio, un saluto, neanche un insulto.
 
Una settimana di indifferenza.
 
Ne conoscevo benissimo il motivo. Sapevo che quel mio gesto, quel mio andarmene –esattamente come se ne andava lei, ogni volta- le avrebbe dato fastidio. Ero consapevole delle conseguenze che avrei dovuto sopportare, eppure… eppure, mi mancava.
 
Mi mancava vederla mentre mi sorrideva complice dal pianerottolo delle scale, mentre mi spogliava con dolcezza, mentre sudata e soddisfatta si lasciava abbracciare ogni volta per qualche minuto in più.
 
Era lei a chiamarmi, ogni volta che aveva voglia di distrarsi, di essere consolata, di sfogarsi. Era lei a comandare nella nostra relazione. O meglio, questo era ciò che credeva.
 
Le lasciavo credere di avere tutto sotto controllo, di poter decidere ogni volta giorno e posizione. Ma ero io, in realtà, a tenere le redini del nostro bizzarro rapporto.
 
Se la mattina la salutavo, con un sorriso caldo e invitante, non dovevo aspettare che due ore prima di ricevere il suo invito. Altrimenti, se mi mostravo svogliato e distante, quasi maleducato, sapevo di potermi considerare libero per il pomeriggio.
 
E se, appena entrato in camera sua, mi sedevo con decisione sulla sedia, senza indugiare in complimenti e sorrisi, mostrandomi scontroso e irritato, mi avrebbe lasciato carta bianca una volta a letto.
 
Mi ci erano volute alcune settimane prima di capire qual era il giro del fumo. Settimane in cui mi rodevo le unghie, sperando in un suo invito, che puntualmente non arrivava mai; settimane in cui mi ero sentivo totalmente e incondizionatamente dominato da lei, da quel suo carattere forte, dalla sua determinazione, dalla sua allegria, dalla sua solarità, dalla sua sicurezza.
 
E ogni volta, dopo aver fatto l’amore, se ne andava senza neanche un bacio, senza una parola, un saluto. E, ogni volta, mi chiedevo il perché di quel gesto, così in disaccordo con il suo carattere.
 
Ogni volta. Ogni singola volta.
 
Senza mai riuscire a trovare una risposta, un motivo quantomeno plausibile.
 
Avevo pianto, a volte. Non sempre, avevo anch’io una dignità.
 
Le prime volte ci ero rimasto troppo male per piangere: me ne tornavo a casa basito, con la mandibola che sfiorava terra. Col tempo mi ci ero abituato, a questo strano rituale: sentivo una strana fitta al petto, come se qualcuno cercasse di schiacciarmi un polmone, ma passava velocemente.
 
Avevo preso l’abitudine di utilizzare la sua doccia, per poter avere sulla pelle il suo profumo ancora qualche ora. Ogni volta, mi facevo la doccia da lei; ogni volta mi ripetevo che sarebbe stata l’ultima, perché solo gli sfigati innamorati si riducono a certi livelli. Adesso, dopo qualche mese, la cosa mi infastidiva: mi sentivo usato, come se esistessi solo per soddisfare le sue voglie.
 
Mi mancava. Mi mancava in maniera irrazionale.
 
Avevo bisogno di un sostegno, un supporto morale. Forse una birra avrebbe potuto aiutarmi. Sospirai, aprendo il frigorifero in cerca di un succo di frutta.
 
Era stata lei a dirmi che le dava fastidio che il mio alito sapesse di birra: non sei un camionista, mi diceva. Mio padre, inappuntabile impiegato, ogni sera, prima di cena, si beveva una bella birra ghiacciata, qualsiasi fosse la temperatura esterna.
 
Ma, come sempre, ogni volta che si lamentava per qualcosa, io correvo subito ai ripari. Avevo abbandonato la birra in favore di un più sano succo di frutta; avevo cominciato a vestirmi con i jeans scuri e i giubbotti di pelle, perché, a suo dire, l’aria da cattivo ragazzo –io che non avevo neanche mai copiato durante una verifica- mi donava; avevo abbandonato il comodo divano per passare pomeriggi interi in palestra. Mi aveva già messo al guinzaglio, e non era neanche la mia ragazza. Era la mia scopamica.
 
Scopamica, non ragazza. Sesso, non amore.
 
Me lo ripetevo sempre, ogni volta che la sera mi saliva quella tristezza improvvisa un attimo prima di addormentarmi. Quella sensazione di abbandono, che nasce nella pancia, e si arresta alla gola.
 
Me lo ripetevo, e ogni volta mi addormentavo ancora più malinconico.
 

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