Get involved

di Daifha
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - Prima parte - ***
Capitolo 2: *** - Seconda parte - ***
Capitolo 3: *** - Terza parte - ***



Capitolo 1
*** - Prima parte - ***


- Get involved - Prima parte
 

Il primo tra di noi ad andarsene fu Matt, portato via da quei signori vestiti di nero da cui scappavamo ormai da anni. Non ci era mai stato chiaro il motivo per cui noi fossimo stati presi di mira da gente tanto pericolosa, eppure quelli non si fecero assolutamente alcun problema a puntare le pistole contro il nostro compagno, facendo quasi subito fuoco e strappandogli l'anima da quel suo corpo tanto mingherlino - come d'altronde erano i nostri. Il primo proiettile lo colpì sul petto, e forse sarebbe anche potuto sopravvivere se un altro poco dopo non l'avesse preso dritto alle tempie, facendogli spalancare gli occhi e sputare sangue, prima di cadere nell'oblio eterno. Se n'era andato così, un buco che gli trapassava da parte a parte la testa e la faccia schiacciata contro il pavimento, ed è così che quei signori avevano lasciato il suo cadavere, quando erano usciti dalla catapecchia che poco prima fungeva da nostro riparo, ignari che, nascosti nella botola segreta nel pavimento, ci trovavamo io e Mello, tremanti e sconvolti da quel rumore di spari. Neppure per un secondo avevamo avuto la presunzione di sperare che Matt fosse ancora vivo: si era sacrificato per noi, questo era quanto.

Eppure, quando vidi il volto stravolto di Mello, rigato di lacrime, i lati della bocca piegati verso il basso in modo quasi inverosimile, non potei che gettarmi ai piedi del suo corpo, immerso in un lago di sangue, facendo pressione sulle spalle per girarlo e scuotendolo vigorosamente, pretendendo che si risvegliasse. Ma quegli occhi verdi rimasero fissi sul soffitto, vacui, vuoti, privi di vita, e il suo volto morto non diede ascolto ai miei ordini, rimase freddo e pallido senza riacquistare più colore.

Eravamo sempre stati soli al mondo, questa fino ad allora era stata la nostra convinzione, ciò che ci aveva permesso di andare avanti insieme, contando l'uno sull'altro, ma se davvero così fosse stato, se davvero non esisteva nessun altro oltre a noi, allora Matt non sarebbe mai morto. Solo in quel momento, all'alba dei miei dieci anni, con tra le braccia il cadavere del mio amico, arrivai per la prima volta a comprendere quella triste e devastante realtà: noi non eravamo mai stati veramente soli.

 

Matt si era sempre comportato in modo paterno con noi, prendendo spesso le redini della situazione e consolandoci nei momenti più bui - sebbene io e Mello fossimo particolarmente resti a lasciar trasparire i nostri reali sentimenti, lui sembrava intuirli sempre alla perfezione, comportandosi poi di conseguenza. Lo faceva in modo istintivo, per nulla calcolato, questo era evidente. Usava la fantasia, si inventava storie spettacolari e raccontava ogni dettaglio con emozione, finendo per coinvolgere anche noi. Poi, quando c'era bisogno di serietà, cambiava espressione, diventava più duro e autorevole, mandandoci spesso in confusione con i suoi ragionamenti. E non perché questi fossero troppo complicati per noi, ma per la loro assurdità: arrivava a dire cose del tipo "Voi restate qui, io vado a controllare che la via sia libera. Se non torno entro venti minuti, scappate." oppure "Farò da esca, nascondetevi finché non sentirete più alcuna voce e rumore.". In quei momenti potevo chiaramente sentire Mello sussultare, e a volte assottigliava gli occhi uscendosene con un insulto qualunque, poi più nulla. E toccava a me far ragionare Matt.

Non sapevamo perché si comportasse così, per quale assurdo motivo volesse sempre immolarsi al posto nostro, ma probabilmente non c'era alcuna ragione se non che si sentiva in dovere di proteggerci: di costituzione, tra di noi, era il più alto, superava Mello di qualche centimetro, mentre io non potevo assolutamente reggere il confronto, era ovvio che nessuno avrebbe mai fatto troppo affidamento su uno come me, a quei tempi. Lui si sentiva il più grande, e di conseguenza, era certo che fosse suo dovere difendere noi 'piccoli'. Anche a costo della vita.

 

Ricordo ancora il giorno in cui decise di essere lui il più grande. Noi eravamo sempre stati orfani, sin dai primi giorni di cui avevamo memoria, e per questo nessuno di noi sapeva con certezza la propria età, mentre il giorno del proprio compleanno era a noi qualcosa di totalmente oscuro. Per convenzione avevamo deciso di avere tutti e tre la stessa età, a partire dai cinque anni, ma solo verso i sette a Matt venne l'idea di fissarci ognuno una data specifica per il passaggio agli otto. In quel momento ci trovavamo al riparo dalla pioggia dentro dei grandi tubi di cemento destinati alle fognature o al passaggio di cavi elettrici, al momento inutilizzati, in quel periodo dell'anno in cui il freddo comincia a scendere per lasciar posto alla leggera brezza della primavera - il giorno esatto lo scoprii solo poco dopo. Stavamo mangiando dei pezzi di pane con salame che eravamo riusciti a rubare di nascosto poco prima dalla festa di un bambinetto grassottello delle elementari in un parco poco distante, e ci sentivamo abbastanza felici per quella piccola conquista, dato che di quei tempi era raro che riuscissimo a mangiare cibo fresco e non pane vecchio di qualche giorno, duro e racimolato per terra o dall'immondizia. "Chissà, probabilmente stava festeggiando il suo compleanno..." come sempre fu Matt a rompere il silenzio creatosi, lasciando la frase sospesa a metà e sospirando. Mello rispose con un verso di stizza.

"Tsè, non si accorgeranno nemmeno di tre panini in meno. È gente ricca, quella." storse il naso e riprese a mangiucchiare avidamente la sua parte di cibo. Matt gli sorrise di rimando, con un espressione ingenua in volto.

"Mica mi sentivo in colpa, Mello, solo, pensavo che sarebbe bello avere un compleanno," ma lui si limitò a scrollare le spalle come se la cosa non lo interessasse. Io preferii rimanere in silenzio, certo che Matt avrebbe ripreso subito con la sua parlantina. "Dai Mello, dimmi un numero, uno qualunque... Anzi due!" si corresse subito. Mello alzò gli occhi per fissarli sul volto di Matt, per poi riabbassarli subito: per un attimo sembrò ragionarci sopra, mentre si allacciava la gambe al petto, poi "Trentadue e tredici" disse, con un leggero ghigno a spezzare quella linea sottile e dritta che di solito erano le sue labbra. Doveva aver intuito le intenzioni di Matt, come d'altronde anch'io, e aveva deciso di assecondarlo solo per prenderlo di giro. Ma Matt non si lasciò scoraggiare, anzi, subito lo incalzò "Bene, allora il tredici sarà il giorno, mentre per il mese, dato che sei stato cattivo, ti becchi dicembre, ch'è tanto freddo quanto il tuo cuore!" e rise davanti alla faccia infuriata di Mello.

"Ehi, ma manca ancora un'infinità di tempo a dicembre! Faccio prima a morire!" gli sbraitò contro, ormai caduto nella trappola di Matt e totalmente preso da quella pseudo-conversazione. Lui però non cambiò idea, facendogli semplicemente una linguaccia dispettosa e girandosi dalla mia parte, con la chiara intenzione di porre a me la stessa domanda poco prima diretta all'altro. Mello, stizzito, finse nuovamente disinteresse raccattando da terra qualche briciola del panino ormai finito e ficcodosele in bocca rabbioso.

"E tu, Near? Quando vuoi festeggiare il tuo compleanno?"

Esitai. Non avevo mai pensato a una cosa del genere, dato che i problemi da affrontare durante quelle giornate erano stati ben altri. Feci un breve calcolo: come numero avevo sempre trovato elegante il due, e non mi sarebbe dispiaciuto se nella data del mio compleanno ne fosse comparso uno. Già, forse era un modo un pò ingenuo con cui ragionare, ma non avevo idea di che altro metodo usare, quindi non stetti a pensarci più di tanto e risposi, a bassa voce "Due." senza però avere idea di che aggiungere.

"E poi?" subito Matt mi fissò con sguardo indagatore, come fosse un piccolo detective alla ricerca dell'indizio mancante per risolvere un caso di media difficoltà, ed io mi sentii talmente esposto a quegli occhi che mi venne quasi naturale stringermi le gambe al petto come poco prima aveva fatto anche Mello - chissà che pure lui non si sia sentito a disagio e abbia agito inconsciamente di conseguenza allo stesso modo. Fissai lo sguardo a terra, senza idea di cosa dire, e provai istantaneamente un senso di invidia nei confronti di Mello che era riuscito ad uscire da quella situazione senza troppi intoppi, forse solo con un broncio un pò più accentuato del solito. Ma, per fortuna, Matt parve subito intuire il mio disagio, sorridendomi paterno.

"Due, quattro, otto, sedic... Ah, no, sedici è già troppo avanti! Due, quattro, otto, che ne dici?" lo fissai con aria interrogativa, non capendo quale ragionamento lo avesse portato a quelle cifre. "Beh, ecco," Matt parve subito intuire e mi spiegò "Direi che sono i numeri che meglio si collegano al due, ossia due, due alla seconda e due alla terza... Sarebbe il ventiquattro otto... Uhm," cominciò a contare sulle dita i mesi "Agosto! Ventiquattro agosto!" esclamò infine euforico mostrandomi le dita alzate, il sorriso a trentadue denti.

"S-sì..."

"Non ti convince? Preferisci cambiare?"

"No, no, va benissimo." scossi la testa vigorosamente e potei sentire benissimo lo sguardo di Mello su di me, bruciante di rabbia: sembrava proprio che non gli andasse giù l'idea di dover aspettare undici mesi per poter dire 'Ho otto anni' - ce lo vedevo perfettamente, tutto orgoglioso e impettito a ripetercelo ogni cinque minuti.

"No, no che non va bene! In questo modo, io," e si puntò il pollice sul petto indicandosi con veemenza "Io sarei il più piccolo". Attese un attimo "Io!"

Per Matt fu impossibile non scoppiare a ridere - e neanche provò a trattenersi. Mello era per entrambi un libro aperto, per quanto lui fosse convinto che la sua barriera glaciale contro ogni tipo di sentimento potesse rendere quest'ultimi invisibili agli altri - nemmeno lui poteva negare a se stesso che esistessero - io e Matt riuscivamo sempre a cogliere quel cipiglio alzato di arroganza e superiorità che spesso lo portava a parlare più di quel che lui si prestabiliva. Era come una molla ad orologeria, una volta che conosci il meccanismo, non smetti più di divertirti a farla scattare; vedere Mello arrabbiarsi per ogni idiozia, per quanta indifferenza all'inizio lui potesse mostrare, metteva sempre me e Matt di buon umore, a discapito ovviamente del malcapitato Mello - 'È la punizione divina di Dio per essere nato biondo.' si giustificava spesso insensatamente Matt prima di ritrovarsi puntualmente a terra dolorante e con un paio lividi in più.

Quando però smise di ridere, Matt arcuò le sopracciglia con aria interrogativa, fissando Mello con una sorta di insicurezza in volto "Come fai a dirlo, se io non ho ancora detto quando sarà il mio?"

"Tsè, sicuro non sceglierai dicembre, sei troppo un fottuto stronzo."

"In effetti non mi si addice affatto,". Era come giocare con le corde tese di un violino: il divertimento stava nel farle stridere per un paio di minuti prima di bloccarle tutte con un colpo secco di mano. Sì, Matt provava quasi un gusto folle nel torturare mentalmente Mello - forse perché ci riusciva benissimo, sempre e ovunque. Io invece mi divertivo semplicemente stando a guardare.

Mello sbuffò storcendo il naso rabbioso, ma non aggiunse altro, ancora troppo preso dalla ricerca di qualche briciola sfuggita dal panino - quando era arrabbiato cercava sempre qualcosa con gli occhi. "Per me direi l'uno febbraio. Uno due, è una data facile da ricordare." finì di dire Matt, sorridente seppur calmo.

E Mello non perse occasione per ribattere "Lo dici solo perché manca poco, e perché vuoi fare lo sbruffone facendoti più grande di noi!"

"Che ne sai che non sia già passato l'uno febbraio?"

"Sei tu quello che tiene conto dei giorni, non faresti mai un'idiozia simile come quella di stabilirti il compleanno poco dopo ch'è già passato il giorno!"

"Uhm..." Matt parve rifletterci un attimo "Probabilmente hai ragione." sorrise, senza alcuna intenzione di ribattere ancora. Mello gli ringhiò contro un " 'fanculo", girandosi e lasciando cadere anche lui il discorso.

Così, Matt aveva appena dato un'ulteriore prova di essere lui il 'più grande', senza ricevere particolari obiezioni da parte dei 'più piccoli'; solo poco dopo io e Mello ci rendemmo effettivamente conto di ciò che questo comportasse.

Il silenzio era tornato in fretta, mentre Mello scostava con le dita la polvere a la terra accumulatesi ai suoi piedi, nonostante avesse ormai abbandonato la sua impresa di ricerca di qualcosa da mangiare. Si limitava a lasciarci scivolare sopra con l'indice, tracciando piccoli solchi che poi disfava con uno sbuffo più sonoro - e le mani andavano a coprire gli occhi perché puntualmente qualcosa gli entrava dentro facendoglieli arrossare. Un modo come un altro per trascorrere il tempo senza dover ricorrere a parole o risse di vario genere, specialmente con Matt. Matt invece si guardava attorno, facendo sostare lo sguardo fuori, dove il vento continuava a soffiare piegando qualche ramo, se non l'intero albero, e lasciando che il rumore del fruscio delle foglie riempisse il loro mutismo. Poi voltava la testa a fissare Mello, sorrideva leggermente quando lo sentiva imprecare contro la polvere che lui stesso alzava e, poco prima che Mello lo sospendesse con quel ghigno in faccia, si voltava ancora, stavolta verso di me. Io non facevo nulla, tenendo lo sguardo fisso sui due, assorto in pensieri di poca importanza, tanto che sussultai quando vidi entrambi voltarsi verso di me - Matt probabilmente per completare il giro delle sue azioni, Mello spinto da un primordiale istinto interiore, nessuno dei due con un vero e proprio motivo.

Mello sbuffò e tornò alla sua polvere, Matt mi sorrise e girò la testa dall'altra parte.

Quei momenti apparentemente noiosi, altro non erano che i nostri momenti di riflessione personale, in cui ognuno, nel silenzio di ciò che ci circondava, aveva la possibilità di togliere il freno ai suoi pensieri, lasciarli andare, che fossero questi ricordi, idee, sentimenti, storie o pura fantasia. Ci concedevamo solo quelli, quando trovavamo un rifugio abbastanza sicuro dove dormire una o due notti, prima di chiudere gli occhi e fingere tranquillità, prima di addormentarsi. Di giorno si camminava, si parlava, si cercava da mangiare, si cercava un rifugio, si scappava: troppe cose da fare, troppa ansia, spesso anche troppa fame per poter riuscire a ragionare con calma, senza il bisogno di fare qualcosa o parlare con qualcuno per distrarsi dai morsi allo stomaco o dal cuore che batteva troppo veloce nel petto. Quei momenti erano importanti, servivano per non impazzire e per permettere alle nostre menti da bambini di avere un attimo di luce, di liberarsi, di avere un appiglio per continuare in futuro a ragionare con lucidità.

Erano rari i casi in cui ci permettevamo di rompere quel silenzio, mentre più spesso erano gli stessi uomini in nero a costringerci a tornare alla realtà e correre via da quel rifugio che avevamo trovato con tanta fatica. Per questo mi sorpresi di sentire Matt chiamare il mio nome, nonostante non stessi pensando a grandi cose. "Near, che ore sono?"

Io ero l'unico ad avere l'orologio; lo avevo trovato per terra poco meno di un anno prima, senza la lancetta dei secondi e con il vetro rotto, ma funzionava, e questo per noi era l'importante. Con il suo colore verde psichedelico risultava addosso a me come una macchia di colore nel bianco sporco più totale, e per sicurezza lo tenevo nascosto sotto alla manica della maglia.

Lo fissai un attimo. "Mezzanotte e otto." risposi poco dopo, scostando la stoffa della maglia per coprire nuovamente il mio piccolo tesoro - era incredibile come un aggeggio tanto malmesso potesse farmi sentire tanto orgoglioso.

Matt sospirò e fissò lo sguardo a terra, le gambe tese appoggiate al lato opposto di quel tubo che usavamo come rifugio. Mello alzò gli occhi per fissarlo, abbandonando la polvere; forse ormai aveva capito che non era il migliore dei modi per passare il tempo quello di farsi finire la sabbia negli occhi. Lo insultò, senza alcun motivo, lasciandosi sfuggire un "Idiota." prima di incrociare le gambe e appoggiarsi con la schiena alla parete di cemento. Secondo me era rivolto più a se stesso che altro, tanto mi sembrava stupido continuare a fingere di non aver capito. Sospirai prima di sussurrare un penosissimo "Auguri.", e dal silenzio successivo pensai che neanche lo avesse sentito. Alzai gli occhi giusto per incontrare a metà strada quelli di Matt, che sorrideva come suo solito; si sporse verso di me e sorrise abbracciandomi "Grazie, Near!"

Mello fece un verso di stizza: probabilmente lo aveva previsto, ma non sembrava avere alcuna intenzione di congratularsi con Matt per i suoi otto anni compiuti, più mentalmente che fisicamente. Si limitò ad insultare anche me prima di mandarci al diavolo entrambi.

Nessuno aggiunse altro, lasciammo che la notte calasse lenta sotto i nostri occhi, addormentandoci senza quasi accorgercene, ognuno rannicchiato più che poteva a se stesso e alla piccola coperta di pail un tempo azzurra, ora completamente sbiadita e sudicia che Matt tirava sempre fuori quando cominciava ad alzarsi il vento.

Era bello, sai, Matt, quel senso di protezione con cui ci addormentavamo, vicino a te, le notti di inverno…


 

E’ difficile darti la colpa per quel che è successo sapendo che tu non avevi fatto altro che provare a proteggerci, arrivando a mettere a rischio la tua vita, perdendola per noi. Eppure Mello lo fece, quello stesso giorno, mentre io tentavo ancora inutilmente di riportarti tra noi: lui mi poggiò una mano sulla spalla, tremate, gli occhi ancora rossi dal pianto e l’espressione deformata in modo atroce per trattenere altre lacrime, disse “Ci ha abbandonati”. Strinse a pugno la mano, conficcandomi le unghie nella pelle, e cominciò ad insultarti. Cane, traditore, bastardo, come hai potuto, perché, ti odio. Gridava parole a caso, frasi sconnesse, la voce che tremava perdendo tutta la sua aggressività, e io ti giuro, Matt, ti giuro, non vidi mai Mello tanto sconvolto e perso come in quel momento. Teneva la testa bassa, gli occhi spalancati fissati sul pavimento ricoperto di sangue, i muscoli tesi e sussultava, metteva paura. Delirava perdendo ogni attimo che passava una parte della poca lucidità che ancora gli rimaneva, e io ero terrorizzato all’idea di poter perdere anche lui se non avessi fatto qualcosa per fermarlo prima che compisse pazzie. E allora agii di istinto, muovendomi verso di lui, all’inizio con l’intento di bloccargli le mani - che ora vagavano senza meta per terra bagnandosi di sangue e striando di rosso le piastrelle ancora pulite - ma quando gli fui a poca distanza, l’unica cosa che riuscii a fare fu slanciarmi verso di lui e abbracciarlo. Mello si bloccò di scatto, irrigidendosi e smettendo di tremare a quel contatto, e ciò mi bastò per comprendere che ero riuscito a farlo tornare un minimo in sé, permettendogli di riacquistare la ragione che aveva totalmente perso l’attimo prima. E di nuovo non passò molto prima che sciogliesse i muscoli, abbandonando la tensione e l’energia che lo bloccava, scuotendo leggermente la testa contro la mia spalla “Basta, Near… Non voglio… Più. Smettiamola” e sussurrava così, ansimando piano, tornando a piangere silenziosamente e stringendo involontariamente l’abbraccio attorno alla mia vita.

Petto contro petto lo sentii, Matt, sentii distintamente il cuore di Mello battere forte, come un tamburo, prendendo il posto del mio, permettendomi di sentire chiaramente i suoi sentimenti, come se questi si fossero riversati in me con una potenza tale da spiazzarmi completamente. Sentivo la tensione, la paura, la confusione, l’odio e l’amore che si davano battaglia, non comprendendosi l’un l’altro, uccidendoci interiormente e devastando tutto ciò che trovavano. Un’onda che si abbatte sulla spiaggia portando via la sabbia vecchia, mischiandola, e rigettandocela addosso impedendoci di capire. Mi sentivo traboccante di sentimenti incompleti, che tentano ognuno di prevalere sull’altro, agitandomi e rendendo il battito del mio cuore irregolare e impedendomi di respirare se non a scatti simili a singhiozzi. Era come se tutto mi stesse invitando a piangere, a sfogarmi, a urlare, mettere a tacere quelle voci che odiose non facevano che avvallarsi l’un l’altra restando nient’altro che un sottofondo al caos dentro di me. E allora feci come mi sembrava giusto, e piegai la testa, appoggiando la fronte nell’incavo della spalla di Mello e piansi nuovamente liberandomi di tutto quel miasma di emozioni. Ugualmente, sentii Mello fare lo stesso, e restammo così, per molto, molto tempo, confortandoci l’uno nelle braccia dell’altro, bagnando di lacrime i vestiti e artigliandoci le magliette, macchiandole sempre dello stesso sangue, in cerca di un calore che da quella notte sapevamo di non poter più ritrovare.

 

- Era bello, sai, Matt, quel senso di protezione con cui ci addormentavamo, vicino a te, le notti di inverno. -

Se solo potesse tornare, ora, quella sensazione di calore che tu ci donavi, credo che non avrei altri desideri al mondo se non di poter chiudere gli occhi con la certezza di riverderti affianco a noi, la mattina dopo, Matt.

 
 

- Fine -

 

 

 

 

Ehssì, è una passione malata per il drammatico, la mia! Ma mi piace tanto! Tanto, tanto, capite?

 

Quindi che nessuno si faccia strane idee, del tipo che detesto Matt, al contrario, lo adoro… Ed è per questo che l’ho fatto morire… La mia è una dimostrazione di affetto u.u

Comunque, spero vi sia piaciuta - l’avete letta voi, eh!

In realtà sono piuttosto emozionata, è la mia prima fic su Death Note, e non vedevo l’ora di pubblicarla… Spero siate magnanimi e che mi lascerete qualche recensione, oppure anche semplicemente che la mettiate tra preferite/ricordate… Anche quello può far felice un’autrice!

Inoltre, può essere che pubblichi un continuo se vedrò che questa è piaciuta :D

Altrimenti mi inchino e mi scuso profondamente…

Tutto qui, a presto,

By Ming

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Capitolo 2
*** - Seconda parte - ***


- Get involved - Seconda parte

 

Mello sembrava impazzito.

Erano passati un paio di mesi da quando avevamo seppellito Matt, dietro quella stessa casa in cui gli uomini neri lo avevano ucciso, e per quel breve periodo eravamo riusciti a cavarcela spostandoci continuamente, abbandonando ogni rifugio che riuscivamo a trovare dopo appena qualche giorno da che vi eravamo arrivati. Il più delle volte, nemmeno un paio.

Di tanto in tanto Mello si chiudeva in se stesso più di quanto già non facesse, portandosi le ginocchia al petto e appoggiandovi sopra la fronte, e io restavo a fissare i suoi capelli biondi - quegli stessi capelli su cui spesso Matt scherzava - sparsi sulla schiena, divisi a metà dalla linea del collo, il più delle volte arruffati e sporchi. Restavo a guardarlo e mi crogiolavo nella mia inutilità e stupidità. Se ci fosse stato Matt, se solo ci fosse stato lui al mio posto, probabilmente la situazione sarebbe stata diversa, e Mello non avrebbe dovuto scontrarsi con tanti sensi di colpa, che, ne ero sicuro, gli attanagliavano il cuore facendoglielo battere in maniera tanto opprimente da risultare odiosa. Lo sapevo, perché anch’io sentivo quelle stesse emozioni scalpitare nel petto e aggredirmi la gola, stringendomela e impedendomi quasi di respirare. In quei momenti, la voglia di piangere era grandissima.

Però mi trattenevo, perché non volevo che Mello si sentisse in colpa anche per la mia di tristezza, volevo affrontare da solo quel batticuore e quell’angoscia.

Spesso, se non si addormentava in quella posizione, passava poco prima che Mello si riprendesse, alzasse lo sguardo, deciso, forte, con gli occhi fiammeggianti e puntasse dritto, rialzandosi, offrendomi una mano per tirarmi in piedi, evitando i miei di occhi, e riprendendo la strada.

Ed io gelosissimo di quella sua forza, di quella sua straordinaria capacità di rimettersi in cammino nonostante il dolore e il senso di oppressione. La volevo anch’io, con tutto me stesso. Ma l’unica cosa che ero capace di fare era afferrare la mano che mi veniva tesa, tenere lo sguardo fisso a terra, e andargli dietro incerto, goffo e distrutto nell’animo.

Era devastante.

 

Poi avvenne, in maniera tanto improvvisa che non ebbi in alcun modo il tempo di reagire. Era maggio, faceva caldo ed entrambi sapevamo che non avremmo retto ancora molto, che avevamo bisogno di riposo se volevamo continuare a camminare. Per fortuna, potevamo permetterci una pausa. Eravamo in un campo di grano, e le spighe alte ci coprivano abbastanza da darci un riparo, almeno per quella notte, perciò ci accampammo, io appoggiai lo zaino vicino, e Mello si accovacciò sull’erba a gambe incrociate, nello sguardo un velo leggero di incoscienza e sonnolenza.

Avevamo entrambi gli occhi stanchi, sentivamo le palpebre cadere e il desiderio di addormentarsi e poter, seppur per poco, dimenticare ciò che ci circondava, eppure lessi qualcosa di sbagliato in quello sguardo, qualcosa di troppo o qualcosa di meno, qualcosa che non era normale. Gli occhi erano vacui, fissi su di me e appannati, quasi surreali tanto erano chiari e gelati.

Mi sporsi verso di lui, allungando una mano tremante per scuoterlo, ma prima che potessi fare qualunque cosa, lui me la bloccò, stringendo forte il polso e spaventandomi maggiormente. La sentii subito, la paura, perché era ovvio che qualcosa non andava in quel suo comportamento.

Tentai di scansare la mano, lo feci con quanta forza potessi imprimere in quelle piccole braccia che avevo, ma la stretta si fece più forte e il viso di Mello si incrinò appena. Allora cominciai a tremare.

Come una foglia ancora appesa all’albero, il balia del vento che deve solo scegliere il momento opportuno per trascinarla via, avvolgerla e farla danzare con crudeltà avvolta dalle sue spire. Come quella lepre che avevamo catturato, costringendola in un angolo, e che poi non avevamo avuto il coraggio di uccidere. Semplicemente, tremavo.

Mello mi prese anche l’altra mano, e le schiacciò contro il suolo, costringendomi a sdraiarmi di schiena, con le spighe più basse che mi pungevano le spalle, mentre lui mi sovrastava, con l’espressione neutra e la bocca leggermente incrinata verso l’alto, in un sorriso per niente rassicurante.

Tentai ancora di divincolarmi, scalciando e muovendo il bacino, ma non serviva a nulla, davanti alla forza nettamente superiore di Mello, e lo sapevo, eppure ancora provavo e quasi mi facevo male da solo. Avevo paura, non tanto per i gesti del mio amico, quanto per l’espressione indecifrabile che gli solcava il volto, dandogli follia e allo stesso tempo una disperazione profonda.

Lo vidi abbassare il volto, lo sentii appoggiare le labbra ancora curve sul mio collo, percepii l’odore di sporco dei suoi capelli che mi solleticavano il naso. Spalancai gli occhi e sussurrai “Mello…”, con le prime lacrime a bagnarmi le ciglia bianche e a rigarmi le guancie arrossate. Avevo paura e avevo caldo, sentivo di non poter far nulla per oppormi alla lingua di Mello che percorreva lasciva la mia pelle e allo stesso tempo desideravo infinitamente allontanarmi da quel tocco che di dolce non aveva proprio nulla. Tutte le emozioni erano di nuovo, come quell’orribile notte in cui Matt morì, buttate addosso, insite e straripanti dal mio petto, e si mischiavano, mi facevano tremare, si compattavano a creare un unico rimbombo che mi riempiva le orecchie e mi opprimeva terribilmente, scorrendo nelle mie vene e facendo scalpitare il mio cuore come una belva che brama la sua preda.

La lingua di Mello era ancora lì, a bagnarmi e gli schiocchi di saliva si alternavano con veloci baci. E alla fine atterrii completamente quando quel sussurro, quel soffio che raggiunse il mio orecchio tra i leggeri gemiti di Mello mi trapassasse il cuore bloccando ogni emozione. “… Matt.”

Solo in quel momento capii con orrore quanto profonda fosse davvero la disperazione di Mello. Lo percepii, sulla mia stessa pelle, mentre lui si strusciava in cerca di calore - perché di calore si trattava, e non di desideri più profondi -, sospirando e sussurrando il nome del nostro amico morto, distinsi i suoi sentimenti dai miei e lasciai che la consapevolezza mi distruggesse dentro.

Quella notte, di due mesi prima, quando ci eravamo consolati a vicenda, piangendo l’uno sulla spalla dell’altro, avevo percepito i battiti del cuore di Mello, e avevo pensato che fossero gli stessi sentimenti che scuotevano il mio a farlo scalpitare tanto, ero sicuro che provassimo le stesse emozioni, la stessa tristezza, la stessa paura.

In quel momento però capii che non era vero, compresi quanto la disperazione di Mello fosse superiore e più profonda della mia, insita nel suo cuore, uccidendo da dentro il suo stesso spirito.

Quel sussurro mi aprì gli occhi, perché se fin a quel momento ero convinto che la tristezza che provavamo fosse condivisa in modo equo, lì sentii che io ne sopportavo ben poca rispetto a quella che rinchiudeva e oscurava l’animo di Mello. Era così, ed ero stato stupido a pensare di poter portare un tale peso sulle mie spalle, senza prima verificare effettivamente quello che era invece lui a trascinarsi dietro. Mello amava Matt.

Lo amava come me, ma in modo diverso, più profondo e scavato. Il pensiero di Matt era la sua costante, il suo unico punto di riferimento, ciò che gli aveva permesso di andare avanti continuamente.

Da quando poi era morto, aveva provato a scacciare con quanta forza avesse in quel suo corpo magro e denutrito quell’angoscia e quella disperazione che, rinnegata in quel modo, non faceva che distruggerlo lentamente da dentro, oscurando completamente il suo cuore alle sensazioni e alle emozioni che non desiderava. Si era chiuso in una barriera, si era protetto da dentro, e aveva continuato ad ammassare quel miscuglio di emozioni in un unico angolo del suo animo. E alla fine, semplicemente, era esploso.

Quando finalmente compresi quanto la disperazione di Mello fosse grande e come fosse traboccata, tramite quei gesti, quel ghigno di follia, quei sospiri non suoi, smisi di aver paura. Lasciai semplicemente che facesse, abbandonai quell’inutile tentativo di liberarmi, rilassai i muscoli e chiusi gli occhi. Sentivo ancora i miei polsi schiacciati contro il terreno, la schiena punzecchiata dalle spighe, Mello che si sfregava sui miei abiti e i suoi capelli abbandonati sul mio collo. Sapevo che non mi avrebbe fatto nulla di male, lo capivo da come quei gesti avevano cominciato a diventare ritmici e calcolati, e dalle lacrime di Mello che calde mi bagnavano il petto e il collo. Non era fiducia, solo intuito e comprensione dei fatti. Mello era innocente, innamorato di Matt, non di me.

Quando smise di muoversi, lo sentii lasciarsi completamente andare su di me, appoggiandosi e smettendo di fare pressione sui polsi arrossati. Ancora sussurrò “Perché non sei Matt?”, poi chiuse gli occhi e si addormentò, ormai sfogatosi da tutte quelle opprimenti emozioni di tristezza.

Non mi sentii colpito affatto da quelle parole, forse perché sapevo già che pensieri si annidavano della mente di Mello, sapevo già che io non era Matt e, soprattutto, sapevo già di non poter in alcun modo sostituirlo nel suo cuore.

Mi assopii così, e Mello, nonostante fossi più piccolo di lui di corporatura, non mi pesò affatto addosso, anzi, mi donò un senso di calore e tranquillità a cui ormai avevo rinunciato da tempo.

 

 

Quello sfogo aiutò molto sia me che Mello. Da quel giorno riuscimmo ad andare avanti più tranquilli e leggeri, anche se ancora il dolore per la perdita di Matt si sentiva forte e continuava a bruciarci nel petto. Mello non mi chiese scusa se non prima di un paio di giorni, probabilmente più per parlare ed evitare di addormentarsi che altro - dovevamo rimanere allerta per un po’, prima di poterci lasciar abbracciare da Morfeo, nel caso gli uomini neri ci avessero seguiti.

Ora, la preoccupazione maggiore era diventata trovare di che nutrirsi e un buon posto dove riposarsi. Parlavamo poco e di cose riguardanti la situazione attuale di viveri e possibilità di accamparsi, e i silenzi riempivano gran parte delle giornate, eppure io notai subito che Mello aveva cominciato a proteggermi, seppur in modo velato, come a voler seguire le orme di Matt. Questo mi terrorizzava, ma allo stesso tempo mi permetteva di capire che, nonostante i sentimenti molto più forti che provava per Matt, anche io occupavo un posto importante nel suo cuore. Quasi mi veniva da sorridere a quel pensiero, ma mi sembrava ingiusto e stupido, perciò ogni volta mi trattenevo.

Andò avanti così per due anni, nella solita monotonia e nel solito terrore di essere scoperti.

Poi, così come Matt, anche Mello se ne andò.

 

La casa che avevamo trovato per accamparsi era grande e disabitata. Ci sembrava quasi un sogno, eppure nessuno ci aveva seguiti, di questo ne eravamo sicuri, e le porte erano metà a terra e metà penzolanti, come ad invitarci ad entrare.

I pavimenti erano in marmo e l’abitazione era circondata da un giardino verde e incolto, straripante di erbacce e alti alberi, come una piccola villa. Le finestre erano sbarrate da grandi assi di legno marcio, e nell’aria c’era un tanfo terribile di muffa. Ci sembrò una reggia.

Vi entrammo non senza un po’ di agitazione e ci guardammo attorno. Era buio, ma c’era un piccolo camino pieno di legno che poteva fare al caso nostro. Non ci azzardammo al secondo piano, sarebbe stato uno spreco di energie e inoltre non sapevamo in che condizioni versasse la casa, e, per quanto robusta potesse sembrare, non volevamo correre il rischio di vedercela crollare addosso. Ci limitammo a lasciare la nostra roba in un angolino al buio mentre ci adoperavamo per accendere il fuoco. Ma prima che ci riuscissimo, vidi Mello chiudere gli occhi, lentamente, piegarsi sulle ginocchia e cadere a terra, con il viso arrossato e la fronte terribilmente calda. Aveva la febbre, alta, e io mi sentii più spaesato che mai.

Lo feci sdraiare vicino al fuoco appena riuscii ad accenderlo, bagnando un pezzo di stoffa che trovai in giro - nel giardino c’era un piccolo stagno, freddo e maleodorante - e lo posai sulla fronte di Mello, sperando che quel poco potesse bastare a far calare la temperatura. Mi addormentai con la testa poggiata sul suo petto, mentre il fuoco bruciava nel camino creando sinistri giochi di luce sulle pareti.

Andò avanti così per più di una settimana, ogni sera accendevo il camino, più spesso cambiavo la pezza sulla fronte di Mello, ogni volta speravo che migliorasse. Per mangiare ci arrangiavamo con i due frutti che miracolosamente sembravano crescere in quel giardino, anche se Mello raramente mangiava, spesso addormentato o troppo nauseato per poter rischiare di addentare una mela e vomitarla l’attimo dopo. Non voleva sprechi.

Le sue guance erano sempre più rosse, e i momenti in cui era desto e lucido rarissimi. A volte si limitava a tenere gli occhi spalancati fissi sul soffitto, mentre gemeva in preda a strani dolori, a sua detta. Io ripresi ad avere paura, e mi rannicchiavo fissandolo dall’altro lato della stanza, lontano, mentre lo sentivo gemere e lo vedevo sfregarsi i piedi con forza come se potesse attutire il dolore. Non riuscivo a piangere, anche se la voglia era tanta. Quando mi alzavo scostavo subito lo sguardo, ribagnavo il pezzo di stoffa e glielo riporgevo, andando a ravvivare il fuoco. Sentivo lo sguardo di Mello fisso su di me, mi metteva in soggezione e non mi lasciava ragionare su quel che facevo. Ero sicuro che mi odiasse, pensando che lo stessi trascurando e che non ricambiassi quelle attenzioni che lui prima aveva con me, nel proteggermi.

Io invece mi sentivo semplicemente confuso. Non sapevo che fare, avevo paura, tremavo, e la mente era offuscata da mille pensieri, funesti, orribili, di un futuro breve e doloroso. Avevo paura di peggiorare la situazione di Mello, e mi tenevo alla larga perché ero convinto che la mia vicinanza potesse irritarlo, per la mia inutilità.

Il silenzio continuò a regnare in quei giorni, rotto soltanto dai gemiti strozzati di Mello, dallo strusciare delle coperte, dalla scoppiettio del fuoco. Fissavo le onde che le luci del fuoco proiettavano sulle pareti, ballavano e sembravano annullarsi a vicenda l’una sull’altra, dando vita a vampate nuove e più grandi, e tutto quello non faceva altro che farmi pensare al dolore che Mello stava provando. Avrei voluto essere io al suo posto.

Mi sentivo morire più e più volte, ammattire e poi morire di nuovo.

 

Quando mi svegliai il nono giorno, regnava il silenzio. Mi ero addormentato sempre nel solito angolino lontano dal camino, del fuoco della sera prima rimaneva solo il carbone bruciato e ancora caldo, e davanti Mello era fermo, immobile, il volto e le mani completamente bianchi. Il pezzo di stoffa bagnato era scivolato di lato, e ora si trovava per terra, scomposto, mentre la coperta era raggomitolata in fondo, tra i suoi piedi freddi.

Il rossore sulle guance era scomparso, lasciando posto unicamente ad un colore cadaverico, mentre la frangia gli copriva gli occhi chiusi, cerchiati di nero per la stanchezza e la bocca socchiusa asciutta. Tutto era innaturalmente immobile, non c’erano scatti, e il suo torace aveva smesso di alzarsi ed abbassarsi ritmicamente.

Sorrisi. “Sei morto, vero?” da quanto tempo non sorridevo? Due anni, forse tre. Mi alzai con le gambe tremanti e lo ripetei “Sei morto?”

Avevo gli occhi spalancati fissi sul corpo di Mello, e ovviamente non ricevetti risposta. Mi avvicinai barcollando e stavolta non distolsi lo sguardo; continuai a fissarlo fino a che non mi trovai a guardarlo dall’alto in basso, la mia ombra che gli tagliava il viso, privandolo della luce che filtrava dal portone aperto alle mie spalle. La pelle diafana risaltava fin troppo sul nero dei suoi vestiti, e l’immobilità di quel corpo mi ricordava tanto una statua greca che avevo visto una volta su un dépliant trovato per terra, tutto accartocciato. Dava una sensazione di freddezza e innaturalezza totali.

Eppure continuavo a sorridere, avvolto da una sensazione di gelo quasi inebriante. Mi sentivo stranamente calmo.

Mello era morto, non avevo dubbi, eppure non era il panico a muovermi, bensì un vuoto enorme che sentivo come una presenza tangibile che aleggiava nel mio cuore. Tutte le emozioni che fino alla sera prima mi avevano tenuto lontano da quel corpo ora sembravano essersi annullate completamente, distruggendosi l’una contro l’altra dopo che avevano tanto crudelmente duellato nel mio petto. Era la calma a regnare.

Mossi un piede nudo per scuotere il braccio di Mello, quasi calciandolo con la poca forza che tenevo. Nessuna risposta, nessun movimento, nessuna reazione. Solo quegli occhi ancora chiusi, quel petto sempre immobile, quel vuoto ogni secondo più grande che mi avvolgeva.

Mi inginocchiai, piegando le gambe fino a lasciarmi andare completamente a terra, senza la forza di sostenermi. Avevo smesso di avere paura, smesso di chiedermi cosa ne sarebbe stato di me a quel punto. Perché la risposta era troppo ovvia, cieca agli occhi di chiunque per la sua semplicità: non potevo fare proprio nulla. Non potevo scappare da solo, non potevo tornare a distruggermi nella disperazione, non potevo vivere. L’unica cosa che mi rimaneva da fare era lasciarmi andare, addormentarmi, e sperare di non dovermi più svegliare. E se anche avessi riaperto gli occhi, tornare a chiuderli e continuare a vivere fino al momento in cui le forze non mi avessero abbandonato completamente. Poi, finalmente, sarei morto, giunto al termine di un’esistenza piena di sofferenza e che non avevo avuto la possibilità di vivere. Sentivo che era la cosa giusta da fare, l’unica e, allo stesso tempo, la più crudele.

Mi dispiaceva per Matt, non avrei mai voluto dover gettare via così la vita che lui aveva tanto caparbiamente difeso fino alla morte, ma a consolarmi c’era l’idea di una nuova esistenza sotto la forma più pura, quella dell’anima, dove avrei potuto ricongiungermi con le uniche persone cui davvero tenevo. Era l’unica speranza che mi rimaneva.

Appoggiai la testa sul petto di Mello, rannicchiando le gambe al petto, senza aver né ravvivato il fuoco, né preso la coperta, lasciando che l’aria fresca mi congelasse i piedi. Il corpo di Mello era ancora caldo, evidentemente doveva aver lottato fino all’ultimo, aggrappandosi alla vita fino a che la morte non lo aveva strappato alla coscienza, nonostante stesse soffrendo e sapesse che non avrebbe potuto tirar avanti ancora a lungo. Mi chiesi se avesse affrontato quella lotta interiore solo per voglia di vivere o perché si sentiva costretto a difendermi fino alla fine. Quell’ultima opzione mi diede una leggere scossa, come un moto di speranza in un futuro che avevo già dato per disperso. Poi, di nuovo, il nulla.

Smisi di soffrire, smisi di avere paura, smisi di pensare a qualunque cosa.

Volevo solo addormentarmi per sempre.

 

Non volevo piangere, non più, speravo solo che il destino riservato a te potesse contagiarmi. Volevo morire al tuo fianco, sperando che in questo modo tu potessi perdonarmi per averti abbandonato nel momento del bisogno, Mello.

 

 
 

Mi risvegliai poche ore dopo, steso a terra e con il viso ancora poggiato sul corpo freddo di Mello. Era stato un rumore che veniva da fuori a svegliarmi, come un fruscio e dei passi, tanti passi, veloci.

La prima cosa a cui pensai fu che non ero morto. Anzi, in un certo senso mi sentivo più riposato e sveglio del solito, e capivo che non era merito delle ore di sonno, bensì di qualcos’altro.

Fuori percepivo ancora un suono di passi, ritmato e inquietante, e qualche voce che gridava ordini, tutt’intorno. Sicuramente erano gli uomini in nero. Dovevano essere risaliti a noi in qualche modo e aver accerchiato la casa, brandendo i fucili contro l’abitazione, pronti, stavolta, a non farsi sfuggire nessuno.

Sentii l’adrenalina farsi spazio nel mio corpo, agitandomi e facendomi perdere tutta la voglia di morire di solo qualche minuto prima. Non volevo andarmene così, sotto i colpi di pistola di persone sconosciute, non potevo.

Sentii un fruscio alle mie spalle, mi alzai di scatto girando la testa e spalancando gli occhi. Il cuore avevo ripreso tutto d’un tratto a battere feroce nel mio petto, aumentando l’angoscia e la paura di soffrire.

Un uomo, alto, con indosso i soliti pantaloni neri, abbinati alla maglia a mezze maniche, del medesimo colore, che fasciava perfettamente i muscoli delle braccia. Sorrideva strafottente e puntava la sua arma su di me. Rimasi immobile, certo di ricevere il colpo a breve.

Ma quello non fece nulla di ciò che mi aspettavo, abbassò il fucile, si avvicinò e, tramite una radiolina attaccata al collo della maglia, chiamò a raccolta i compagni.

Camminava lento verso di me, ghignando e masticando parole di scherno che il battito troppo forte del mio cuore mi impediva di sentire. Quando mi fu davanti, spostò gli occhi sul corpo di Mello, ostentando un espressione di disgusto. “E’ già morto?” lo sentii dire tanto era vicino. Ebbi l’impulso di spostarmi, ma l’uomo in nero non sembrava più interessato a me, anzi, iniziò a scalciare Mello con il suolo della scarpa, continuando a parlare.

Quel gesto mi fece ribrezzo. Stava infierendo su un corpo già morto, come fosse una semplice pezza da scarpe, e mi sentii sporco e schifoso quanto lui, pensando che era la stessa cosa che avevo fatto io poche ore prima. Continuai a fissarlo, fin quando non giunsero anche gli altri uomini in nero, e allora indietreggiai leggermente, poggiandomi sul palmi delle mani. Respiravo affannosamente e sentivo che ogni parte del mio corpo a stento mi rispondeva.

L’unica cosa che mi consolava era sapere che di lì a poco tutto, tutto sarebbe finito. Definitivamente.

Mi sforzai di ascoltare quel che dicevano, ma prima che potessi concentrarmi sulle loro parole, un suono forte, orribile e destabilizzante mi rimbombò nella testa. Avevano sparato.

Alzai gli occhi su di loro, e ingoiai a fatica un groppo di saliva. Un uomo in nero puntava ancora l’arma fumante al petto di Mello, e, con un ghigno sadico in volto, diede fuoco una seconda volta. Due squarci all’altezza del cuore cominciarono a riversare sangue di un rosso sbiadito a terra. “Sì, capo, era già morto, anche se da poco.” disse infine l’uomo, ritirando il fucile.

Gli sguardi di tutti si spostarono su di me. Scossi la testa, tentai di indietreggiare ancora e scivolai per il sudore. Finii con il reggermi sui soli gomiti, le lacrime agli occhi e il cuore che scoppiava tanto batteva freneticamente.

“Abbiamo un vincitore.” sentenziò alla fine il cosiddetto capo, allungandomi una mano “Vieni via, moccioso. Sei salvo.”

Non c’era gentilezza in quella voce, non era una proposta, ma un ordine.

Mi portarono via, e dentro di me mi sentii morire un’ultima volta.

 
 

 

- Non volevo piangere, non più, speravo solo che il destino riservato a te potesse contagiarmi. Volevo morire al tuo fianco, sperando che in questo modo tu potessi perdonarmi per averti abbandonato nel momento del bisogno, Mello. -

Quell’ultima notte passata al tuo fianco, avevo pianto. Lo avevo fatto senza accorgermene, senza la disperazione di quando era morto Matt, semplicemente le lacrime mi avevano bagnato le guancie silenziose fino a che non mi ero addormentato.

Il giorno dopo, quando mi portarono via senza uccidermi, Mello, sentii di averti tradito di nuovo.

 

- Fine -

 

 

 
 

Sorpresi? No? Io sì.

Alla fine ho ascoltato i consigli di chi ha recensito e ne ho fatto una long. In realtà fin dall’inizio ero indecisa se farne una long oppure pubblicarli come capitoli singoli ma di una stessa serie. Alla fine è andata per la seconda.

Ringrazio prima di tutto Angel666, Lord_Trancy (a cui ho già risposto per messaggio privato) e ChibyLilla per aver recensito e ne approfitto per rispondere a quest’ultima recensione - mi vergogno tanto per non aver risposto dopo tanto tempo che preferisco fare qui, sperando che la legga. Davvero, grazie mille, sono felice che ti sia piaciuta! Il fatto di lasciar un po’ ‘svuotati’… Beh, devo dire che un po’ mi fa felice, perché significa che qualche sensazione l’ho trasmessa con i miei deliri mentali :D La fine di Matt è crudele, lo so, ed è solo colpa mia se è andata a finire così (ma pensa un po’…), ma è voluta. Già, sono cattiva con i personaggi u.u Spero che anche questo capitolo ti piaccia ^^

Non ho molto altro da aggiungere, con la terza parte dovrei terminarla e, non vorrei dar false speranze, ma può essere che non la pubblichi tra tantissimo… Balle, son tutte balle. Passerà un’infinità di tempo, e già me ne scuso. Inoltre col prossimo capitolo dovrebbero chiarirsi tutti i mille punti oscuri su quel che è successo… Ma non anticipo nulla. Se avrete voglia di leggerla, ne sarò felice.

E ancor di più, se ci sarà qualche anima pia a recensire.

Detto ciò, vi abbandono per qualche altro mese, temo.

By Ming

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Capitolo 3
*** - Terza parte - ***


- Get involved - Terza parte
 

 
Uomini che guardano a giudicano, capaci solo di sputare sentenze approssimative su ferite che non possono vedere.
“Sta bene” disse l’ultimo, incapace come gli altri. Si limitò a fissarmi con superiorità, l’altro invece troppo esausto, spazientito, moriva dalla voglia di picchiarmi.
Che si accomodasse pure, per quel che valeva. Che mi uccidesse lì, subito, senza l’esitazione che potevo intravedere invece nei suoi occhi spenti. Ma non poteva, lo so, è reato uccidere, adesso.
I sopravvissuti devono rimanere tali, sono intoccabili, figli illuminati da Dio. 
Su tre, io ero il sopravvissuto. 
Quando anche l’ultimo medico se ne era andato, certo che io non avessi alcuna lesione né ossa rotte e che la debolezza fisica fosse dovuta semplicemente ad una carenza di cibo, l’altro mi prese per un braccio e mi portò nella mia nuova camera, blindata, troppo bianca e spaziosa per un’unica persona. È dove avevano detto che avrei dovuto vivere per un po’.
E poi avevano anche aggiunto che se mi fossi ripreso avrei potuto essere utile alla società, ora che i parassiti erano stati eliminati. Lo avevano fatto con un gran sorriso, sicuri che così mi avrebbero fatto sentire più protetto, per assicurarsi che io collaborassi.
Già pretendevano troppo, da qualcuno a cui era appena stato portato via tutto. Gli amici, la speranza, una vita, un nome.
 
“Come ti chiami” 
“…” 
“Non importa, da oggi sarai Enne”
 
Dicevano che avevo vinto, che ero stato bravo, che ce l’avevo fatta e che ora non mi sarei più dovuto preoccupare di nulla. Dicevano che mi sarebbe stato tutto chiaro più avanti, che ora avrei dovuto riposare, dopo essermi lavato. 
Una donna mi attendeva nella mia camera, con un ampio sorriso e un asciugamano appoggiato al braccio, di un bianco meraviglioso, un bianco pulito, che raramente avevo visto in vita - eppure, sentii quasi subito una calda nostalgia a quella vista. Come gli altri, mi disse che dovevo riposare, che era ora che mi rilassassi.
Che finalmente, era tutto finito.

 
Il sistema di base è semplice: da tre a un solo sopravvissuto. 
E così il ciclo artificiale era concluso.
Di mezzo ci stanno solo i mille organismi interni: fazioni, diverse per scelte, per stile, per principi, che si danno lotta fino ad arrivare alla creazione di tre embrioni base, nati per vivere insieme per un periodo di tempo relativamente lungo.
Relativo perché breve lo è solo per due. Per il terzo, l’ultimo, il tempo successivo si allunga e la vita si dilata.
Ecco, una lotta destinata a non essere vista da chi la compie, una selezione artificiale mirata solo al predominio di un determinato fattore: il carattere.
Tre modelli: il primo, un amico, il secondo, un violento, il terzo, un apatico.
Sviluppati in un laboratorio, sotto analisi costanti, circondati da persone che li costringessero a diventare così come la propria fazione si era imposta. Uno lotta psicologica fin dalla nascita. Ognuno lo ha sviluppato come meglio credeva, con allenamenti, discussioni, isolamenti e un misto di finta felicità e vero dolore iniettato direttamente nelle vene e nella mente.
Questo per sette anni. Da qui, il destino di due era già stabilito: la memoria era cancellata completamente, solo le basi, quello che loro hanno chiamato carattere rimaneva, ormai insediato nelle loro menti, indelebile ed indiscutibile.
I nomi nuovi, sostituiti ai numeri No.1, No.2, No.3, sono stati rispettivamente Matt, Mello e Near. Erano gli stessi nomi che usavamo tra di noi, l’unica cosa che avevano deciso di lasciarci.
Da qui era lotta. Noi scappavamo perché sapevamo di essere inseguiti. Non avevamo bisogno di vederli, con i loro fucili spianati e quei vestiti neri da guerra: noi sapevamo che il nostro compito era scappare e sopravvivere, l’unica cosa alla quale era destinata la nostra esistenza. Così, strappati ai nostri ricordi, ai nostri affetti, ai nostri ambienti, buttati su una spiaggia anonima, la cosa più ovvia da fare era stata di mettersi insieme e lottare insieme, contro qualcosa di ancora non ben definito.
Il carattere determinava tutto: i nostri discorsi, le parole usate, le conoscenze, e le vite erano legate a quell’unico filo coincidente che era la nostra missione. Senza che lo sapessimo, lo scopo ultimo di quella convivenza forzata era l’eliminazione, pezzo dopo pezzo, dei componenti posti sulla scacchiera: noi.
Eravamo nemici, progettati per ucciderci a vicenda, con a disposizione solo il nostro carattere e quel legame che, col passare dei primi tre anni, si era creato, diventando sempre più forte. Ci costringeva a restare insieme, a cercare la sopravvivenza del gruppo, non del singolo: tutti e tre pensavamo di essere pronti a sacrificarci per gli altri, perché così ci imponeva il nostro stesso deleterio legame.
No.1 fu il primo ad essere eliminato. Inaspettatamente, puntavano tutti sul No.3, pure la stessa fazione che mi aveva creato aveva da subito dato per scontato che la mia sarebbe stata l’esistenza più breve: troppo poco allenamento fisico, troppa poca capacità di fare amicizia, anche troppa poca voglia di vivere. Un embrione sviluppato male, difettoso e con poche speranze di un futuro vero e proprio.
Poi però le armi da fuoco erano state puntate su Matt, e lui, l’amico, era stato il primo eliminato di quel macabro gioco.
Sono state fatte varie ipotesi sul perché fosse stato proprio lui a morire per primo, ma secondo la maggior parte era il carattere troppo sbagliato, per poter esistere a lungo. Un amico troppo leale e attaccato ai compagni avrebbe dato tutto per di vederli un giorno sani e al sicuro, a discapito della sua stessa vita. In un certo senso, non era idoneo, per questo era morto.
L’area di gioco era illimitata. Qualsiasi posto potessimo raggiungere con il nostro ingegno e le nostre forze, diventava automaticamente terreno di guerra. Eppure non eravamo liberi, neanche dopo la morte del No.1. Avevamo il nostro compito e dovevamo perseguirlo ad ogni costo.
E così, anche il No.2 non ce l’aveva fatta: il carattere violento non escludeva i sentimenti, una pecca che non si poteva ignorare. 
I legami sono risultati essere quanto di più deleterio potesse esistere per la sopravvivenza del singolo, perché ti imponevano una cura e un rispetto degli altri che limitava la tua libertà.
Mello era morto perché non aveva pensato a se stesso. Era ancora troppo concentrato sul passato, su quel legame tagliato troppo all’improvviso perché lo shock potesse mai svanire completamente; in un certo senso, viveva ancora con gli occhi del passato, con Matt e con il suo calore, con quell’amicizia così calda e confortevole su cui ormai si basava tutta la sua esistenza.
Lo hanno capito anche i signori in nero, che la disperazione di Mello lo stava distruggendo completamente, che vivere, per lui, era ancora più devastante della morte. E se non si era lasciato morire subito, rinunciando a qualsiasi cosa pur di non dover soffrire per la scomparsa di Matt, era stato soltanto perché io dovevo essere protetto, perché io, in quando No.3, non potevo sopravvive da solo. In questo modo, la mia stessa esistenza avrebbe negato a Mello la libertà di morire.
Il colpevole ero io. 
Io che non parlavo, non agivo senza ordini, non prendevo iniziative, io ero la causa di tutto ed avevo vinto perché gli altri non erano stati capaci di rinunciare ai legami e alla libertà. L’apatia era un’ancora di salvezza, la capacità di rimanere distaccati da qualsiasi cosa, approfittando delle situazioni e vivendo sotto l’ala protettiva di qualcun altro. Quello ero io, quello era il carattere vincente. 

 
Sotto le lenzuola bianche potevo ragionare con calma, ragionare sulla mia nuova esistenza, su tutto quello che nella mia vita avevo vissuto. Avevo il tempo di pensare a quello che avevo perso, a quello che avevo guadagnato, al vero motivo che mi aveva portato a quella vittoria non desiderata. Avevo la possibilità di chiudere gli occhi e prendere un sonno, per la prima volta, tranquillo, caldo e pulito. Avevo la libertà di contare i motivi per cui avrei dovuto piangere, e poi farlo per davvero, versando quelle lacrime che mi spettavano di diritto, dopo aver perso le persone più importanti della mia vita per i capricci di uomini ciechi.
Ma non feci niente di questo. Non mi crogiolai nel dolore, non dormii tranquillo, non pensai a quello che mi aspettava l’indomani, non ne fui capace. Quelle prima notte nella mia nuova casa, della mia nuova esistenza, la passai a ricordare, a fare sorrisi tristi e illudermi che, forse, ora Matt e Mello erano in un posto migliore, insieme e felici.
Ricordai tutto, quella calda notte.

 
“Conoscenze di base? Ma che idiozia è questa? Chiunque saprebbe accendere un fuoco con due legnetti!” Mello chiuse il libro sul banco, rendendo così visibile la copertina dove un bimbo sorridente leggeva una mappa disegnata per orientarsi in un bosco. 
Quella era l’unica ora che avevamo in condivisione sia io, che Mello, che Matt. Serviva per insegnarci tutte le basi per sopravvivere in terre desolate, per trovare un rifugio o per trovare da mangiare. Non sapevamo ancora che quelle, un giorno, sarebbero state le nostre unica possibilità di sopravvivenza, che davvero ci saremmo ritrovati in situazioni tanto disperate. Sembravano solo tante nozioni da imparare a memoria e accantonare in un angolo del cervello, nel caso estremo ci fossimo un giorno persi nel bosco. 
Ce le insegnavano per dare a tutti le stesse possibilità di vittoria, a prescindere dal carattere. L’insegnante era una donna abbastanza giovane, col rossetto rosso a marcare le labbra sottili e l’aspetto serio di chi è lì per portare a termine un compito ben preciso, ne più, ne meno. 
“E se i legnetti non ce li hai?” Matt era appoggiato completamente al banco, sul libro aperto alla pagina che l’insegnante doveva spiegarci quel giorno, con l’espressione di chi è pronto ad addormentarsi da un momento all’altro.
“Non accendo il fuoco e tanti saluti, non morirò certo per così poco!”
“Sei proprio tonto, Mello! Il freddo è uno dei nemici più pericolosi per l‘uomo.”  
“Vorrà dire che lo ucciderò.”
Matt non rispose subito, non sicuro se Mello stesse scherzando o meno “… Non puoi uccidere il freddo, Mello. E’ una sensazione, lo senti sulla pelle ma non puoi toccarlo!” 
Mello si limitò a sbuffare, dondolandosi con la sedia esattamente come ci avevano sempre detto esplicitamente di non fare. “E’ una fregatura, il freddo.”
Matt ridacchiò, stirando un po’ le braccia, voltando la testa quando l’insegnante aprì la porta con uno scatto secco. 
“Due! Non dondolarti sulla sedia!” entrò e lanciò uno sguardo alla classe, bianca, lucente, pulita come al solito. Incredibilmente grande per soli tre ragazzini.

 
“Near, aiutami!” la voce lamentosa di Matt arrivò da dietro le mie spalle, facendomi voltare poco prima che riuscissi a prendere la prima cucchiaiata di zuppa. Rimisi il cucchiaio pieno nel piatto e lo guardai avvicinarsi e sedersi affianco a me, aprire dei libri e indicarmi una riga con l’indice “Tu hai un sacco di ore di matematica, quindi ne sai sicuro più di me che ne faccio solo due la settimana… Qui!” pigiò più forte il dito poco sotto un paio di numeri scritti con una calligrafia alquanto discutibile “Non mi viene! Ho provato a rifarlo e… Niente!” 
Osservai un attimo il foglio, seguendo i passaggi di quella breve espressione. “Per forza” risposi poco dopo “Due alla terza fa otto, non sei” 
Matt si voltò subito verso di me, gli occhi spalancati dallo stupore “Davvero? Ma…” si grattò la testa confuso “Due più due più due fa sei, ne sono sicuro… Non è che ti sbagli?”
“No, guarda…” presi la penna che si trovava in mezzo al quaderno “Quello che hai fatto tu è due per tre, non è la stessa cosa. Nelle potenze bisogna moltiplicare lo stesso numero tante volte quanto è indicato dell’esponente, quindi due per due per due. Fa otto, vedi?” scrissi il tutto su un foglio, per poi volgere lo sguardo su di lui. Aveva un’espressione disorientata, come fosse la prima volta che sentiva parlare di quelle cose. “Non ti piacciono molto le potenze, vero?” gli chiesi, accennando un leggerissimo sorriso.
“No, è la matematica in generale… Non la capisco! Tu invece sembri davvero bravo in queste cose! Grazie mille per l‘aiuto!”
Arrossii a quelle parole e a quel suo sorriso tanto stupendo che gli comparve sul volto non appena si voltò verso di me. Non sapevo come facesse a sorridere in quel modo tanto naturale, a mostrare senza alcun problema la sua felicità al mondo, come se non fosse qualcosa che avrebbe potuto perdere da un momento all’altro. Al suo posto, io avrei avuto paura di vederla sparire all’improvviso, senza motivo, senza speranza che ritornasse.
Io preferivo nasconderla dentro di me, tenerla mia, solo mia. Non volevo dare a nessuno l’opportunità di portarmela via.
“Se continui a fare così, finirà che te la ruberanno…” sussurrai tra me e me, abbassando lo sguardo sul piatto ancora caldo davanti a me.
“Eh? Hai detto qualcosa, Near?” fu l’unica cosa che rispose Matt, sfoggiando ancora quel suo meraviglio e caldo sorriso.

 
La scatto della porta seguita dal leggero cigolio nel momento in cui venne aperta mi fece sussultare proprio mentre osservavo l’orologio digitale segnare le 11.34. A quell’ora, era vietato qualsiasi spostamento all’interno del dormitorio.
Mi voltai verso l’entrata, e mi sorpresi di vedere Mello, di spalle, mentre richiudeva la porta dietro di sé. “Che ci fai qui?” gli chiesi, alzandomi col busto dal letto.
“Non mi va di dormire, mi stavo annoiando” rispose semplicemente, avvicinandosi mentre faceva luce con una piccola torcia.
“E’ vietato uscire dalle proprie camere dopo le dieci, Mello”
“E chissene frega. Io e Matt lo facciamo sempre e non ci hanno mai beccato”
Mi sorpresi un attimo a quelle parole; loro si incontravano la notte? Non ne avevo mai saputo niente, ma alla fine, non mi stupiva neanche più di tanto. Che Matt e Mello avessero un legame più forte di quanto non lo fosse il mio con loro, era ovvio.
“E allora perché sei venuto qui?” 
“Ho litigato con Matt” fu la sua risposta sbrigativa mentre si intrufolava tra le coperte per sdraiarsi al mio fianco “E va’ un po’ più in là!”
Mi spostai di poco, per lasciargli lo spazio di mettersi comodo. Non me lo aspettavo ma l’idea che avesse pensato che, nonostante tutto, io ero meglio di nulla, non mi dava poi tanto fastidio.
Attesi in silenzio che dicesse qualcosa, con lo sguardo rivolto al soffitto e la pelle del braccio che sfiorava il pigiama leggero di Mello. Mi sentivo così stranamente tranquillo, nonostante niente di quella situazione rispecchiasse l’ordinario. Ma eravamo soli, io e lui, circondati dal buio della mia camera e col rumore leggermente fastidioso delle cicale in sottofondo. 
“Vedo la Stella Polare” disse poco dopo Mello, tirandosi le coperte fin sotto al mento.
“Non si vedono le stelle da camera mia” risposi perplesso, girandomi verso di lui. Lui però alzò un braccio, ad indicarmi una piccola chiazza più scura nel soffitto. “Mello, quello probabilmente è un moscone, o una macchia, non una stella”
“Per me è una Stella. E quella la Luna” e stavolta indicò la lampadina che pendeva al centro della camera.
“Perché?” 
“Perché il cielo di notte non ce lo fanno mai vedere, quindi può essere come pare a noi. E per me quella è la Luna, e lì c’è anche Saturno” disse, e riprese ad indicare vari punti del soffitto dove immaginava di vederci costellazioni e pianeti, stelle e, quando proprio voleva esagerare, un’intera galassia.
Lui parlava descrivendo perfettamente i dettagli di quel cielo inventato, e io piano piano vedevo. Mille puntini luminosi si accendevano in quel soffitto bianco, nel buio risplendevano le scie di stelle cadenti. Giove e Venere brillavano poco lontano dalla Luna, mentre nell’angolo più lontano della camera vedevo apparire per la prima volta Marte. “Allora, le vedi?” mi chiese, quando ormai aveva finito di elencare tutti i nomi che si ricordava dall’ultima lezione di Astrologia. 
“Sì… E’ davvero bello” dissi soltanto, sottovoce, col terrore di rompere quell’incanto, di vedere quel manto stellato andare in pezzi non appena avessi allungato la mano per diventare parte di esso.
“Allora sei proprio come Matt. Io non vedo proprio nulla. Siete pazzi” disse brusco e si girò di lato, chiudendo gli occhi e strattonando a sé le coperte “Buonanotte”
Distesi di poco le labbra in un sorriso amaro. Mi aveva preso in giro, solo per vedere come avrei reagito.
Eppure, quel cielo c’era ancora. Sopra la mia testa, la bellezza delle stelle ancora si mostrava in tutto il suo splendore, facendomi nascere dal cuore un sorriso che non potei in alcun modo trattenere. Lo feci, sorrisi, per davvero, gli occhi puntati sulla Luna e la mano tesa verso di essa. 
Quella notte, il mio soffitto era un cielo stellato.
 

 
- Fine -
 
 




 
Ed è così che concludo la long. Il sorriso di Near, forse l’unico, mi ispirava davvero tanto.
Forse non ci stava troppo, ma non ho trovato niente da aggiungere, mi sarebbe parso solo di allungare il capitolo sempre con gli stessi discorsi. 
Detto questo, il mio amorevole ritardo. Di un anno e mezzo.
Ne sono pienamente consapevole e non saprei come scusarmi. In parte, posso davvero dire che ci tenevo a finire questa fic in maniera più che decente. Volevo essere totalmente soddisfatta del risultato, e, non dico che è così, ma in sé non mi dispiace.
E spero davvero che voi la pensiate come me.
Non sembra, ma questa storia mi ha davvero impegnato più di quanto mi aspettassi, e ho davvero passato serate a pensare a quali sarebbero stati i giusti ricordi da inserire. Poi mi sono messa a scrivere perché davvero, dopo un anno e mezzo i miei sensi di colpa erano alle stelle, e sono venuti fuori da soli.
Spero non siano OOC, ho fatto del mio meglio ma, dai, avevano si e no sei anni all’epoca, un po’ di farfalline in mente penso ce le avessero anche loro.
Concludo dicendo che sono davvero felice di averla scritta. Sarà perché è la prima long che concludo, o perché scrivere drammatico mi emoziona sempre molto, ma è davvero col sorriso sulle labbra che pubblico quest’ultimo capitolo.
Le recensioni mi hanno fatta davvero felicissima, sono rimasta senza parole perché raramente mi è successo di sentirmi tanto felice per una recensione. 
Quindi ringrazio chi ha recensito o vorrà recensire questo capitolo, e anche chi ha inserito tra Seguite/Preferite/Ricordate, che è sempre un piccolo modo per far sapere ad un’autrice che si ha apprezzato il suo lavoro.
 
Di nuovo grazie mille.
 
By Ming

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