A Dustland Fairytale

di _Krzyz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Due e Ventidue ***
Capitolo 2: *** 1 - La Fiaba di un Barlume di Bellezza Vera in un Mondo Finto ***
Capitolo 3: *** 2 - La Fiaba del Diavolo che Chinava la Testa di Fronte all'Amore ***
Capitolo 4: *** 3 - La Fiaba del Sognatore che Leggeva Romanzi d'Amore ***
Capitolo 5: *** 4 - La Fiaba del Quattordicenne che Voleva Volare e del Pastore Zoppo ***
Capitolo 6: *** 5 - La Fiaba di un Passo di Vento Lasciato sulla Sabbia ***
Capitolo 7: *** 6 - La Fiaba di Cinque Rondini Posate su una Lama ***
Capitolo 8: *** 7 - La Fiaba della Cinciallegra che Cantava Opere di Ragnatele ***
Capitolo 9: *** 8 - La Fiaba del Toro che Guardava le Stelle ***
Capitolo 10: *** 9 - La Fiaba della Volpe che Piangeva Sotto la Pioggia ***
Capitolo 11: *** 10 - La Fiaba della Ragazza che Catalogava gli Arcobaleni ***
Capitolo 12: *** 11 - La Fiaba della Bestia dalle Zampe Sporche che Cercava la Luce ***
Capitolo 13: *** 12 - La Fiaba dei Sei Magnifici Soli che Tramontarono Troppo Presto ***
Capitolo 14: *** Epilogo - Polvere, Rami ed Anime ***



Capitolo 1
*** Prologo - Due e Ventidue ***


“A Dustland Fairytale begins,
Just another white trash county kiss…”

 
Ventidue erano morti. Due erano sopravvissuti.
 
La storia dei Due venne raccontata, rigirata, scritta e narrata in mille modi. Tutti conoscevano la loro storia. Le mamme la raccontavano ai bambini prima di andare a letto. Le persone che erano là, davanti agli schermi, quando la ghiandaia aveva preso il volo, vivevano ricordando e ringraziando. Loro Due non sarebbero mai morti, la loro storia avrebbe vissuto per loro.
 
La storia dei Ventidue non interessava a nessuno. Nessuno la sapeva, perché a nessuno importava di loro.  Le mamme non la raccontavano ai bambini prima di andare a letto, perché nessuno gli chiedeva di raccontarla. Le persone che erano là, davanti agli schermi, quando ogni colpo di cannone risuonava, vivevano con un po’ di dispiacere, che dopo un paio di giorni spariva. I Ventidue erano già morti, le loro storie poco importanti non sarebbero vissute per loro.
 
Per non dimenticare i Ventidue che erano morti per dar vita alla Rivoluzione, durante una notte umida di fine estate, un uomo raccolse le storie. Una sera il nipote dell’uomo gli chiese di raccontare una storia che non veniva narrata da tempo. Così cominciarono le storie dei Ventidue. Così nessuno si dimenticò più di loro.
 
Così La Fiaba da una Terra di Polvere cominciò.

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IL KACTUS DI KRZYZ

E finalmente, dopo secoli di lavoro, ecco a voi una raccolta di One shot che narrano la vita dei Tributi scomparsi generalmente prima dei giochi. Tutta la raccolta si basa sul testo della canzone "A Dustland Fairytale" dei The Killers. 
Un paio di avvisi:
- I personaggi non saranno in ordine di distretto, ma a seconda della strofa della canzone che mi ricordava di più  uno di loro.
- Alcuni personaggi saranno un po' OOC. Laddove ce ne fosse bisogno la cosa sarà segnalata in alto a sinistra.
Saluti dal Kactus! _Krzyz

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Capitolo 2
*** 1 - La Fiaba di un Barlume di Bellezza Vera in un Mondo Finto ***


“Saw Cindarella in a party dress
She was looking for a nightgown…”

 
Questa è La Fiaba di un Barlume di Bellezza Vera  in un Mondo Finto.
 
Perchè quella ragazza era  bellissima. Non di una bellezza falsa, di quelle create artificiosamente a Capitol City, lei era bella davvero. Ma lei non avrebbe voluto essere bella. Lei avrebbe voluto essere normale.

Tutti le facevano i complimenti per come le stavano bene i capelli, per il colore dei suoi occhi, per i suoi lineamenti da bambola. I suoi genitori la portavano di festa in festa per mostrarla alla gente e crogiolarsi nella bellezza della loro creatura.
“Sorridi, stellina!” “Forza tesoro!” “Facciamo una foto!”
I suoi genitori dicevano solo questo. 
Suo padre non le aveva mai rimboccato le coperte alla sera.
Sua mamma non cucinava altro che cibi dietetici per farla stare in forma.

Così lei si iscrisse in accademia per partecipare agli Hunger Games. Sua mamma non le parlò più. Suo padre nemmeno. Continuavano a portarla a sfilate e concorsi , si pavoneggiavano e poi, dopo essere arrivati a casa, si chiudevano in loro mentre lei si inzaccherava il vestito per provare a centrare il bersaglio dipinto in rosso su un albero. Non mise mai a segno un centro. L’arco non le obbediva, le frecce non la seguivano, la sua mano era sempre troppo debole per tendere quella corda.
Dopo l’ultima serata passata a sentire i suoi genitori vantarsi della loro progenie la ragazza si stufò. Era stata usata, fin da bambina. Perché lei era bellissima, bella davvero. Era una principessa vestita da festa.  Una principessa bionda come il grano e con gli occhi verdi come le gemme degli alberi a primavera. Una Cenerentola vestita da festa che a mezzanotte  scappò. Nessun principe la seguì. Rientrò in casa, prese arco e faretra e cercò una borsa. Vi mise dentro un po’ di vestiti, sufficienti  appena per non morire di freddo , e poi cominciò a frugare in giro per tutta la stanza. Poi lo trovò. Quell’abito nero da sera.
Sua madre non voleva che se lo mettesse, era troppo serio.
Suo padre non voleva che se lo mettesse, era privo di personalità.
Eppure a lei piaceva. Lei adorava quel vestito. In fretta si tolse il frivolo completo di chiffon che indossava e infilò l’abito nero. Legò i capelli alla bell’e meglio, indossò il cappotto e scappò.

Corse per tutta la notte, fino ad arrivare alla casa dov’era sempre benvoluta. La casa dove sarebbe sempre voluta andare ma dove non era mai andata per colpa dei suoi genitori. Tre battiti alla porta ed ecco il ragazzo apparire in pigiama.
Lui le voleva bene.
Lui sapeva che era bellissima, bella davvero.
Ma sapeva anche che lei era bella dentro, che la smorfiosa la faceva per i suoi, non per lei stessa.
-“Marvel?”- 
-“ Che diamine ci fai qua a quest’ora e ,come se non bastasse, sei in vestito e cappottino leggero  a metà gennaio! Sei pazza?!”-
Lei lo abbracciò. Era l’unico che la apprezzava per com’era. Era l’unico che non la guardava con occhi invidiosi o avidi. Era il suo unico amico.
Rimase sul divano con lei quando scoppiò a piangere. La stringeva e la consolava, carezzandole la nuca. E quando si addormentò la portò di peso nel suo letto, per farla stare comoda. La guardò per tutta la notte, per assicurarsi che dormisse bene, per essere là se ci fosse stato bisogno. E si addormentò su una sedia di legno, perché non voleva lasciarla sola. E alla mattina le portò la colazione a letto, sua madre aveva sempre detto che portare la colazione a letto alle ragazze era un segno di grande affetto.
E Cenerentola sorrise, sorrise davvero , con i capelli scarmigliati , il mascara colato della notte precedente che faceva risaltare il gonfiore degli occhi. Ma quell’espressione così viva, così autentica… L’espressione che aveva dimenticato come fare , in tanti anni di sorrisi falsi, tirati per venire bene nelle foto.
E il ragazzo sorrise, perché vederla felice , vedere che la sua unica amica stava bene e non piangeva più lo rallegrava.

Riprese gli allenamenti, quella fragile ragazza bionda in abito da sera, ma le frecce non la tradivano più. E quando arrivò la Mietitura e lei, avvolta nel suo vestito di seta nera, si offrì volontaria insieme al suo amico come tributo la folla ammutolì. Perché lei era bella, bella davvero. Perché ora era forte, forte davvero. E i suoi genitori non la vennero a salutare, ma a lei non importava. Non le importava nemmeno vincere. Ce l’aveva fatta. Lei non era più inutile.
 Il Barlume era diventato una Luce, abbagliante, bellissima.
Quando entrò nell’Arena, con la giacca militare e le trecce, tutti per un istante la fissarono. Poteva una ragazza tanto bella essere altrettanto pericolosa?  Si, lo era. Lo era , quando nel bagno di sangue uccise un paio di ragazzi come se non sapesse fare altro. Lo era,  quando sfiorò la ragazza che si era arrampicata sull’albero.

Ma quando gli Aghi Inseguitori cominciarono ad attaccare non era più così pericolosa. Lottava e lottava, ma la sua mente era annebbiata.
 -“Marvel! Marvel!”-
Non arrivò in tempo, Marvel , stordito dalle punture. Il cannone aveva già sparato.
Ma anche allora, nonostante il corpo deformato dal veleno, lui la trovava bellissima. Perché lei era bellissima dentro. Al polso aveva legato un nastro di seta nera. E lui la ricordò quella notte, avvolta nel suo vestito color della notte, sconvolta e infreddolita. E ricordò alla mattina il sorriso di lei, così vero e così triste.
 
E si ricordò di lei così. Perché lei era la Cenerentola vestita da festa che voleva l’abito da sera. Perché lei era Glimmer ed era bella, bella davvero.

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IL KACTUS DI KRZYZ
Ecco qua il primo capitolo di questa storia...come vi sembra? E' venuto più corto di quanto pensassi, i prossimi saranno più lunghi.
Bacioni, _Krzyz

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Capitolo 3
*** 2 - La Fiaba del Diavolo che Chinava la Testa di Fronte all'Amore ***


Avviso: OOC

“ I saw the Devil wrapping up his hands,
he’s getting ready for the showdown…”

Questa è la Fiaba del Diavolo che Chinava la Testa di Fronte all’Amore.
 
E questo dicevano di lui. Che era forte, che era bello, che era il migliore. Lui avrebbe potuto avere tutto, se avesse voluto. Era stato plasmato a regola d’arte per essere spietato, per uccidere.
-“Vincerai!”- gli diceva suo padre.
-“Vincerai!” – gli diceva sua madre.
- “Vincerai!”- gli diceva suo fratello maggiore.
- “Vincerò!”- gli rispondeva tutte le volte lui.
Si allenava avidamente, per giorni interi, senza mai fermarsi. La spada era il suo braccio destro, la lancia il sinistro. I muscoli tesi, scattanti, pronti a colpire. Manichini infilzati, decapitati, mutilati brutalmente erano l’ordinario. Tornava a casa tardi, poche ore di sonno e poi di nuovo in Accademia ad allenarsi. Era un Diavolo, quel ragazzo. Vedere ogni giorno il corpo imbottito che gli stava di fronte cadere  sotto i suoi colpi gli dava soddisfazione, lo riempiva d’orgoglio. Si beava della sua potenza, dei frutti che un rigido allenamento poteva dare. Tutte le ragazze lo adulavano, lo lodavano e lo amavano. Urlavano quando arrivava, si contendevano i saluti che elargiva. Lui era potente, era bello, era il migliore. Tutte tranne una.
Una singola ragazzina bruna che lo fissava seminascosta da dietro lo stipite della porta d’ingresso , facendo scivolare silenziosamente un coltello tra le dita come se fosse una biglia.
Una singola ragazzina bruna con gli occhi verde scuro, profondi come pozzi, che lo guardava freddamente.
Un’unica pecora fuori dal gregge, una pecora che non si avvicinava al lupo come le altre, perché sapeva che era bello e pericoloso, una pecora che lo turbava profondamente.
Cato aveva avuto un’infinità di ragazze. Aveva perso il conto, la prima tresca a 12 anni e poi non le contava più. Tutte ochette bisbetiche, sexy e senza personalità. Era sicuro che almeno mezza Accademia era passata per la sua camera da letto almeno una volta. Ma ad ogni singola ragazza mancava qualcosa. Un qualcosa che non riusciva a capire.

Una mattina il ragazzo, spinto da una motivazione apparentemente inesistente, si alzò prima del solito. Era freddo, il distretto 2 a febbraio. La neve copriva le strade.  Il sole appena sorto riscaldava un po’ l’ambiente freddo che lo circondava. Non sapeva il perché, ma sentiva che doveva uscire prima quella mattina. I suoi occhi di ghiaccio scorrevano da una parte all’altra della strada guardando gli alberi. La soffice coltre bianca cominciava a liquefarsi. Un paio di gocce di neve sciolta gli caddero sui capelli color oro. Sorrise continuando a camminare senza meta.
Ad un tratto sentì un sibilo. Fece appena in tempo a voltarsi che un coltello gli sfiorò un orecchio andandosi a conficcare in un tronco dove altre armi da taglio erano già state infilzate.
-“ Dovresti stare più attento.”- Una voce. Fredda, apatica, priva di sentimento. La voce di una sola persona.
Il Diavolo sapeva già chi era e quando si voltò e immerse lo sguardo negli occhi verdi scuro di lei non poté che averne conferma. Era ad una decina di metri da lui. Un cappotto sgualcito e una sciarpa infeltrita avvolgevano la ragazza dei coltelli, le gote lentigginose rosse per il freddo.
-“ Che ci fai qua tutta sola alle 5 di mattina?”- disse il ragazzo con fare beffardo.
-“ Non deve interessarti.”-
-“Certo che mi interessa! Una ragazza sola in un quartiere come questo!”-
-“So difendermi.” – Ogni singola parola era una lama che sferzava l’aria gelida. Come i fendenti che Cato sferrava ai manichini: calibrata, precisa, dritta e letale.
Lei si avvicinò all’albero passando di fianco al biondo. Rimosse i coltelli dal tronco riponendoli nel fodero della giacca come se fossero la cosa più preziosa del mondo. Le mani secche e livide per il freddo sfioravano quelle armi con la stessa delicatezza con cui si sfiora un gattino abbandonato, le dita affusolate scorrevano sulle lame con sicurezza senza farsi neanche un graffio.
-“Comunque io sono Cato.” – disse sorridente lui tendendo una mano.
- “Lo so chi sei.”- rispose lei senza nemmeno voltarsi. – “Il Grande Cato, il pupillo di tutti gli addestratori, il numero uno dell’Accademia, il desiderio di tutte le ragazze, come non conoscerti?”-
Il biondo la osservò sorridente mentre si spostava per intercettare lo sguardo della ragazza.
-“ Molto bene, tu conosci me ma io non conosco te.”-
-“Chi sono e cosa faccio non è affar tuo. Ora, se permetti, ho da fare.”-  Affermò cominciando a camminare rapidamente verso una stradina sterrata che attraversava il boschetto cittadino. Se fosse stata un’altra ragazza l’avrebbe lasciata andare , ma non poteva farsi scappare lei. Lei aveva quel qualcosa che tutte le altre non avevano. Lei era la ragazza che lo osservava rigirandosi i coltelli tra le mani. Il lupo non voleva farsi scappare l’unica pecora di cui gli importava.
-“Aspetta!”- disse afferrandole un lembo della  giacca.
Poi non capì nulla ma si ritrovò steso in mezzo alla neve, con le mani bloccate e un coltello alla gola.
-“Non toccarmi mai più senza il mio esplicito consenso.” – sibilò tagliente la ragazza.
Il Diavolo era stato inchiodato da una ragazzina, il lupo era stato sopraffatto dalla pecora. Deglutì mentre il suo cuore cominciava a battere all’impazzata. Un cuore? Il grande Cato aveva un cuore?
-“Volevo solo sapere il tuo nome”-
La ragazza ritirò il coltello e gli liberò le mani. Il biondo si issò in piedi scrollandosi la neve di dosso, i suoi occhi di ghiaccio puntati fissi in quelli della ragazza. Lei reggeva lo sguardo,  i due erano persi a vicenda l’uno nelle iridi dell’altra.
-“Clove.”
-“Come?”
-“Il mio nome. Clove. Non farmelo ripetere.”
La ragazza si riavviò verso lo sterrato.
-“Perché mi guardi mentre mi alleno, Clove?”- Le chiese calmo. –“Ti vedo, sai. Seminascosta dietro gli stipiti della porta. Perché lo fai?”  Gli piaceva quel nome, Clove, aveva una bella pronuncia.
La ragazza lo fissò, gli stessi occhi profondi e inespressivi.
-“ Io non ti guardo, Cato. Io ti osservo. E se ti osservo o meno non deve interessarti. ”
Il ragazzo sorrise, non cogliendo appieno il significato di quella frase mentre lei proseguiva per la sua strada.
-“Dove posso trovarti, Clove?”
-“Pensaci. Tu dove pensi che io possa essere trovata?” rispose accennando un lieve sorriso. Lui non fece in tempo a rispondere che era già sparita lungo il sentiero.

Riprese gli allenamenti, ma notò che da dietro la porta nessuno lo fissava più. Gli occhi verdi  che prima lo seguivano in ogni minimo movimento non erano più la. Quando staccava le teste ai manichini tutte le ragazze correvano ad adularlo, ma lei non era dietro lo stipite della porta. E , nonostante ogni giorno Cato posasse lo sguardo sull’entrata nella speranza di intercettare le sue mani intente a sfiorare i coltelli, lei non si fece più viva. Il Diavolo ribolliva. Dove sei finita? Quella domanda si faceva strada nella sua mente sempre più spesso con il passare del tempo. Perché gli importava così tanto di Clove? Questo non lo sapeva nemmeno lui. Ma sentiva che doveva trovarla, l’avrebbe ritrovata prima o poi, ne era sicuro.
Passarono i mesi. L’inverno, divenne primavera, poi estate, poi autunno. Erano 8 mesi che cercava la ragazza dei coltelli. In Accademia non era concesso visitare gli archivi o chiedere informazioni su altri alunni senza possedere un legame familiare di qualsiasi entità. Ormai aveva fatto tutto il giro dei quartieri e ancora non aveva capito dove abitava. Si svegliava presto alla mattina, nella speranza di vederla lanciare i coltelli addosso all’albero. Dov’era?

Una sera uscì di casa a passeggiare. Era tardi ma lui non aveva paura, perché avrebbe dovuto? I ladri non si azzardavano nemmeno a sfiorarlo, sapevano della sua potenza.  Doveva svagarsi. Il pensiero degli Hunger Games che si avvicinavano lo turbavano. Avrebbe vinto? Certo che si. Ne era sicuro, l’allenamento l’aveva formato per vincere, lui lo sapeva. Prese il sentiero che attraversava  il bosco. Non c’era illuminazione, ma la luce della luna che filtrava dai rami più alti degli alberi rischiarava quasi come se fosse giorno. Le foglie cadute scricchiolavano sotto i suoi piedi mentre continuava a camminare senza curarsi di nulla. Per essere ottobre non faceva tanto freddo, ma il suo fiato si condensava comunque in piccole nuvolette. Ad un tratto si sentì bloccare da dietro con una stretta leggera, una stretta che non avrebbe lasciato via d’uscita, mentre si ritrovava un coltello alla gola. Osservò rapidamente la mano del suo aggressore. Dita affusolate che impugnavano l’arma come se fosse di porcellana. Sapeva di chi era quella mano.
-“Clove?”-
Cato si voltò di scatto. Gli occhi verdi, così profondi e contemporaneamente così vicini, erano la. Gli occhi che aveva cercato.
-“Pensavo fossi qualcun altro, non volevo farti del male”- disse con una calma incommensurabile la ragazza ritraendo il coltello. Indossava lo stesso cappotto sgualcito di quella mattina invernale, che però le stava corto. Doveva essere cresciuta di una decina di centimetri dall’ultima volta che l’aveva vista. Era lì, davanti a lui. Viva. Il Diavolo sorrise, di un sorriso sincero. Lo stesso sorriso di quando non trovi più un oggetto a cui tenevi molto e lo dai per perso e poi magicamente ricompare.
-“Dov’eri finita?”-
-“Ho avuto da fare”-
-“Perché non sei più venuta in Accademia?”-
-“Io in Accademia ci vado regolarmente, ma sono passata agli intensivi.”-
Agli intensivi . Era davvero così forte, allora, per entrare agli intensivi a quell’età.  
-“Che ci fai qua? Assali le persone nei boschi?”-
-“La mamma non ti ha detto che ci sono i cattivi nel bosco di notte?”- rispose ironica lei
Poi nessuno parlò più. Rimasero a un metro l’uno dall’altra, impegnati in una conversazione mentale che non iniziava e non finiva in nessun posto. Ma aveva detto più il loro sguardo che non un discorso ben preparato. Non capiva bene quanto tempo era passato. Lui era forte, era bello, era il migliore. E si era innamorato. In quel momento, nuotando nel verde intenso degli occhi della ragazza, il Diavolo si sentì vivo. Il cuore che gli pulsava nelle vene. Eccolo la, Cato. Tu hai un cuore. Sei umano dopotutto.
-“Io devo andare adesso. Non preoccuparti , mi rivedrai prima di quanto pensi”-
Così com’era apparsa la ragazza era sparita.
 
E la rivedette, Cato. Alla Mietitura, come volontaria. Anche lui si offrì, per la gloria tutti pensavano. Il Diavolo arrivò sul palco a testa alta, ma col morale sotto i piedi. Lui non si era offerto per la gloria. Lui si era offerto per protegger lei. Perché se lei moriva,  moriva anche lui.
Arrivò a testa alta, il Diavolo biondo del distretto 2, ma davanti a Clove chinava il capo.
Chinò il capo quando prese tanto quanto lui davanti agli strateghi.
Chinò il capo quando uccise tutti quei tributi al bagno di sangue.
Chinò il capo quando la vide, di notte, tirare i suoi coltelli ad un albero.
Chinò il capo quando lei lo abbracciò, perché pensavano di poter vincere insieme.

E chinò il capo, quando la vide morire tra le sue mani, con il cranio sfondato da una pietra. Tutto quello che era riuscito a costruire si stava sgretolando come centinaia di castelli di sabbia lasciati a seccare al sole. Dovevano tornare insieme, loro due, il lupo e la pecora. Tante cose ancora da dire, ancora da fare.
I suoi occhi verdi non lo avrebbero più osservato. Le sue dita non avrebbero più sfiorato i suoi coltelli.

E pianse, il Diavolo, quando capì che non c’era nulla da fare.

E si sfregò le mani quando andò a uccidere il ragazzo dell’11 che gli aveva strappato dalle mani l’unica cosa per cui voleva tornare a casa.
E chinò il capo davanti agli amanti del Distretto 12, mente lo facevano volare giù dalla Cornucopia per darlo in pasto agli ibridi. Perché lui non poteva vincere da solo, avrebbe dovuto saperlo. Loro dovevano vincere perché loro dovevano sconfiggere Capitol. Insieme.
 E ,qualche istante prima che il cannone sparasse, Cato chinò di nuovo il capo. Perché era andato incontro alla morte a testa alta, ma incontro all’Amore non era riuscito a tirarla su. Lui era forte, era bello, era il migliore, era innamorato, era morto.

Allora il Diavolo dovette chinare un’ultima volta la testa di fronte all’Amore, perché quella è stata l’unica cosa in grado di renderlo vivo, perché è stata l’unica cosa in grado di distruggerlo.
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IL KACTUS DI KRZYZ
Lo so. E’ di un OOC schifosissimo. Ma io avevo avvertito.
Ok, qui abbiamo la storia di Cato. Avevo detto che avrei allungato i capitoli, ma questo è quasi il triplo del precedente! Devo moderarmi, assolutamente.
Ringrazio tutti quelle persone che pazientemente si prendono la briga di recensire i miei aborti letterari :) 
Confido nella vostra clemenza!
Bacioni dal Kactus, _Krzyz

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Capitolo 4
*** 3 - La Fiaba del Sognatore che Leggeva Romanzi d'Amore ***


CONSIGLIO: Prima di iniziare a leggere andate a cercare la canzone Stubborn Love dei Lumineers e piazzatela come sottofondo. E' una cosa che non ha prezzo!

 


I saw the ending when they turned the page
I threw my money and I ran away…”

 
Questa è La Fiaba del Sognatore che Leggeva Romanzi d’Amore.
 
E tutto sapeva di fumo, tutto bruciava, una donna urlava. Poi si sentiva calare di peso dalla finestra e tutto diventava buio. Era l’unico ricordo che il ragazzo aveva di quella notte, in cui perse madre e padre, all’età di sei anni.

Crebbe solo con i suoi fratelli a fargli da genitori, in una casa troppo grande  e troppo dispersiva.
Il suo primo fratello, Rimm, lavorava da quando aveva 12 anni per permettere alla famiglia di mangiare e rientrava solo nei weekend.
Il suo secondo fratello, Max, era rimasto ustionato nell’incendio e nessuno lo voleva in bottega come apprendista perché spaventava i clienti.
Il suo terzo fratello, Revlon, aveva perso un braccio per colpa di un incidente in raffineria.
Il suo quarto fratello, Jack, andava ancora a scuola e voleva diventare un affarista.
E poi c’era lui. Lui si allenava dalla mattina alla sera scagliando lance contro i bersagli in accademia. Avrebbe dovuto partecipare agli Hunger Games per vincere e per permettere alla sua famiglia di vivere una vita decente. Ma lui non voleva lottare. Lui detestava la violenza, la cattiveria. A lui dispiaceva anche solo schiacciare gli scarafaggi con le ciabatte.

A quel ragazzo piaceva leggere. Nulla poteva renderlo più felice che passare un pomeriggio seduto in veranda a riempirsi la mente del loro contenuto , qualsiasi esso fosse. Leggeva qualsiasi cosa, dai gialli più ricchi di suspense di sempre , alle avventure più entusiasmanti, all’ astrologia, ai metodi di comunicazione dei ribelli durante i Giorni Bui. Ma quelli che amava più di tutti erano i romanzi d’amore. Avrebbe potuto morirci, con un libro romantico in mano. Storie struggenti, amori impossibili, gelosia. Tutte cose che lui non aveva mai vissuto e che, dato il suo imminente futuro come Tributo, non avrebbe mai potuto vivere. Poteva anche essere banale, ma il più grande desiderio del ragazzo era avere una famiglia tutta sua un giorno, con una moglie che lo amava e dei bambini. Il distretto 1 non era un posto per lui. Nel distretto 1 devi passare la gioventù ad allenarti per poi offrirti agli Hunger Games come una bestia da macello.  Alcuni ce la facevano, e gli altri morivano. Non era un posto per Sognatori.

L’unico posto dove riusciva a sentirsi libero era il ruscelletto che scorreva vicino al confine distrettuale.  Nessuno andava mai là, perché dicevano che ci avevano ucciso una ragazza una volta. Ma lui sapeva che non era che una di quelle leggende metropolitane che le ragazzine dei quartieri alti si raccontano ai pigiama party. Solo là lui viveva davvero, i piedi nudi immersi nell’acqua gelida, un buon libro d’amore tra le mani, del pane come spuntino e una monetina di poco valore. Prima di andare a casa lui lanciava sempre la monetina nel ruscello. Era una sorta di pegno che pagava alle acque per avergli dato tutta quella tranquillità.
E poi di nuovo a casa, una rapida dormita e in piedi alle cinque di mattina per cominciare l’allenamento. Scagliare lance per tutto il giorno fino alle 9, tornare a casa, rapida doccia e subito a letto, aspettando pazientemente la domenica dopo per immergersi di nuovo tra le pagine dei suoi amatissimi libri.

Non aveva molti amici, il Sognatore. Aveva un’unica amica. Un’unica amica che avrebbe voluto fosse di più. Erano completamente diversi. Tutti conoscevano, adulavano, invidiavano la ragazza, mentre molti non sapevano nemmeno chi fosse lui. Ma entrambi avevano un segreto. Lei non voleva essere bella e lui non voleva uccidere.
Loro c’erano sempre l’uno per l’altra. Lei gli era stata a fianco quando dovettero amputare il braccio di Revlon. Lei gli era stata a fianco quando Jack aveva preso la polmonite e lui aveva dovuto portarlo in bicicletta in ospedale perché i suoi fratelli maggiori non erano a casa. Lei gli era stata a fianco quando il fuoco ritornava, e il fumo annebbiava la mente e gli occhi del ragazzo, e le lacrime si facevano strada sul suo volto scavando solchi salati sulle gote.
Per questo il ragazzo si sentiva sempre in debito con la ragazza bionda.

Una notte lei si presentò davanti alla sua porta, sconvolta, piangente, infreddolita. Lui sapeva il perché di quella visita: i genitori di lei. Sotto questo punto di vista essere orfano era meglio che avere una madre e un padre come quelli di Glimmer.
Visse da loro per un po’.  È vero che una donna in casa faceva bene. Tutto era diventato più pulito, più ordinato, più solare. Jack si era praticamente autoconvinto che suo fratello avrebbe sposato la bionda.
Entrambi alla mattina si svegliavano presto per allenarsi in accademia, dato che si sarebbero offerti come tributi quell’anno. Tornavano alla sera distrutti, molte volte a letto senza cena per mancanza di voglia.

I giorni passarono veloci. La sera prima della Mietitura il Sognatore portò la ragazza al ruscello. In borsa un pezzo di pane, delle monete di poco valore e uno dei suoi romanzi, che a causa degli allenamenti costanti non aveva finito di leggere.
-“Marvel, dove siamo?”-
-“Nel mio mondo!”- disse il ragazzo sospirando.
E lo era diventato davvero. Il ragazzo accese una lanterna che lui stesso aveva posizionato su un albero molti mesi prima. Il posto aveva un che di magico. Era buio, ma la lanterna illuminava a giorno l’area circostante, i lampi del fuoco che ardeva dentro la scatoletta di vetro creavano effetti di luce strabilianti riflettendosi sul rivolo d’acqua. Il ragazzo consegnò la lanterna a Glimmer.
-“Dove vai?”
-“Aspetta qua. Ti mostro una cosa.”
Il Sognatore era sparito. Dopo un paio di minuti di silenzio totale la ragazza cominciava a preoccuparsi. Dov’era finito? E se fosse caduto in acqua
-“Glimmer!”- una voce familiare la fece voltare –“Guarda!”
Marvel reggeva due bastoni in mano. Cominciò a percuoterli con forza contro alcuni cespugli. Un turbinio di piccole luci si levò dagli arbusti in piccoli vortici. I minuscoli insettini creavano figure luminose nel cielo, salendo come le scintille dal fuoco.  Lucciole. Ce n’erano talmente poche a Panem che praticamente metà della nazione le credeva estinte.
E , avvolto dal turbinio di quelle piccole creature, il Sognatore arrivò in tutta fretta all’ultima pagina del suo romanzo, mentre la sua amica mangiava il pane con tranquillità. Poco prima di andarsene il ragazzo disse che doveva rimanere da solo. Quando la bionda si allontanò lui corse al suo torrente. Vi immerse i piedi un’ultima volta, l’acqua gli carezzava le caviglie, gelida e amichevole. E rimase così, il Sognatore, per parecchi minuti, guardando la luna con un sorriso stampato sulla faccia. Non pensava a nulla, non voleva pensare a nulla. Domani sarebbe partito e nel profondo sapeva che non sarebbe mai tornato.
Una voce lo scosse.
-“Marvel, muoviti!” –
Allora il ragazzo infilò la mano nel borsone e vi estrasse il suo romanzo e le sue monete. Un respiro e gettò tutto alla corrente. Il libro era per permettere al ruscello di ricordarsi di lui. I soldi erano per saldare un debito più grande: quel rivolo d’acqua gli aveva regalato un mondo, lo aveva accolto abbraccia aperte. Aveva preso i sogni del ragazzo e li aveva messi al sicuro sotto la sua coperta liquida. Un ultimo sguardo verso i vortici d’acqua e via, verso casa, correndo.

E il ragazzo disse alla sua famiglia di sognare, prima di salire sul treno diretto a Capitol City.
E il ragazzo disse al suo mentore di sognare, prima di salire nell’Arena.
E il ragazzo disse a Glimmer di sognare, quando la vide distesa a terra senza un filo di vita in corpo.
E il ragazzo disse ai suoi alleati di sognare, prima di sparire nel bosco.
E il ragazzo disse alla bambina dell’ 11 di sognare, prima di trafiggerla con una lancia, forzato dalla situazione.
E il Sognatore non smise di sognare quando morì come il protagonista di uno dei suoi romanzi d’amore, con una freccia piantata nel collo.
E quando il Sognatore morì, il ruscello per un attimo smise di scorrere. Perché insieme al Sognatore era morta la storia di quel luogo. E tutte le monete che Marvel aveva donato all’acqua non sarebbero mai bastate per riempire il vuoto che gli lasciò non sentire più i piedi di quello strano ragazzo che leggeva romanzi d’amore dentro di se.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Ed ecco a voi il nuovo, entusiasmante capitolo di questa fic! E questa volta abbiamo Marvel!
Cosa potrà riservare il prossimo capitolo? Non ne ho idea, devo ancora scriverlo :D
Non la smetterò mai di ringraziare quelle persone che in un impeto di follia recensiscono le mie storie invece che uscire a prendere un po' d'aria :)
Alla prossima! Saluti dal Kactus! _Krzyz

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Capitolo 5
*** 4 - La Fiaba del Quattordicenne che Voleva Volare e del Pastore Zoppo ***


 “Sent to the valley of the Great Divide
Out where the dreams all hide…”

Questa è La Fiaba Del Quattordicenne che Voleva Volare e del Pastore Zoppo.
 
Come gli uccelli, come gli insetti, come quegli strani pesci che saltano fuori dall’acqua e poi planano per un po’. Lui voleva volare. Librarsi nel cielo, vedere il mondo da lassù senza preoccuparsi di nulla.
 
L’altro invece voleva solo essere normale. Nato con la caviglia storta, cosa avrebbe potuto fare? Mandava avanti la sua numerosa famiglia pascolando le vacche di uno dei signori più ricchi del distretto 10.
 
Perdeva ore, il Quattordicenne, a pensare nuovi modi per poter raggiungere il cielo. Un paio d’ali di materiale ultraleggero, una specie di catapulta che lanciava le persone, uno zaino a reazione. Tutte cose per il quale il ragazzino viveva.
-“Seth! Va fuori a giocare con gli altri bambini!”- diceva sua mamma.
Lui, chiuso in stanza, a trafficare con modellini e carte. A fare calcoli matematici estremamente complessi, a calibrare apertura alare e superficie di centinaia di piccoli aerei di plastica. Perché stare con gli altri quando hai la volta celeste come obbiettivo? Così, quando scopri che con un’esplosione i frammenti raggiungevano altezze esorbitanti, il ragazzo si diede alla polvere da sparo. Al distretto 3 producevano la dinamite che veniva usata nelle miniere di Panem, quindi per Seth non fu difficile diventare apprendista artificiere. Era molto intelligente, quello strano Quattordicenne. Riusciva a calcolare in 4 secondi esatti la potenza di un esplosivo guardando una porzione in scala della quantità di polvere utilizzata. Ma delle mine, dei candelotti a lui non era mai importato davvero. Lui voleva arrivare lassù e volare, le esplosioni sarebbero solo state un mezzo.
E lui nascondeva il suo sogno, perché tutti l’avrebbero preso in giro.
Ma quando arrivò la Mietitura e chiamarono il suo nome la sua mente non volò più così alta.
 
Perdeva ore, il Pastore Zoppo, trascinandosi dietro la caviglia malformata per raggiungere gli animali più lontani. Lui a casa aveva dodici fratellini e sorelline da mantenere, non poteva permettersi di lasciarsi sfuggire neanche un singolo capo d’allevamento.
-“Nathaniel! Riposati un po’!” – diceva sua mamma.
E lui lavorava sempre, per anche 16 ore al giorno. Non doveva mancare niente alla sua famiglia, né cibo né acqua né vestiti. Alla mattina si trascinava giù dal letto, il piede che non gli rispondeva strascicato contro le assi del pavimento. Indossava un paio di pantaloni tutti sporchi di fango e partiva in sella ad un piccolo, vecchio asino che il vicino gli prestava per pietà. Arrivava al pascolo e via, non c’era un minuto da perdere. Portava le vacche ai ruscelli con l’acqua più pura, le conduceva nelle vallate dove l’erba era più tenera, perché animali sani significavano lavoro e lavoro significava soldi. Mentre le spostava da un pascolo all’altro sognava una casa grande e accogliente, cibo per tutta la sua famiglia e vestiti nuovi. E si beava di quel sogno, sperando che col duro lavoro tutto sarebbe stato possibile.  E quando tornava a casa passava in ogni letto, per controllare che tutti e dodici i suoi fratellini e sorelline fossero tornati. E ogni sera prima di andare a letto pensava a quanti biglietti avrebbe avuto quell’anno. Aveva preso le tessere, le tessere per tutta la sua famiglia.
E lui nascondeva il suo sogno, perché era un sogno stupido.
Così quando alla Mietitura lo estrassero, seppe che 83 nomine erano troppe, e che lui non sarebbe riuscito a tornare.

Pianse, Seth, quando dovette abbandonare il suo sogno.
Pianse, Nathaniel, quando vedette i suoi familiari disperarsi per lui.

E così il Pastore Zoppo e il Quattordicenne che Voleva Volare finirono nell’Arena sapendo che nessuno dei due sarebbe mai tornato.

Seth si alleò con i Favoriti. Nathaniel scappò dai favoriti.

E Seth morì senza un lamento, col collo spezzato da uno dei suoi stessi alleati, perché qualcosa era andato storto con le mine.
E Nathaniel morì senza un lamento, col piede sano sanguinante, gonfio e nero, perché si era ferito su una tagliola e non aveva ricevuto medicine.

Entrambi se ne andarono nell’ottavo giorno e i loro volti illuminarono il cielo sintetico sopra l’Arena.
E ora Seth vola, si libra nel cielo, il sogno nascosto divenuto realtà. E nella Valle sottostante Nathaniel non zoppica più, sta correndo verso un altro futuro.

Seth e Nathaniel, Nathaniel e Seth, distretto 10 e distretto 3. 

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IL KACTUS DI KRZYZ
Ecco a voi un capitolo dedicato a due tributi "fantasma" cioè il ragazzo del 3 e quello del 10.
Perchè Seth e Nathaniel? Perchè sono i nomi dei miei cugini (canadesi)! E un calo di cretività può capitare una volta ogni tanto!
Spero di aver dato un volto a questi due! 
Saluti dal Kactus! _Krzyz

NOTA: il ragazzo nel 10 nel film non è storpio, nel libro si e Katniss lo riconosce spesso per questo.

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Capitolo 6
*** 5 - La Fiaba di un Passo di Vento Lasciato sulla Sabbia ***


“Out where the wind don’t blow…”

 
Questa è La Fiaba di un Passo di Vento Lasciato sulla Sabbia.
 
E di un altro. E un altro ancora. E altri mille passi di vento lasciati da una bambina cresciuta troppo in fretta.
Perché Coraline era cresciuta troppo in fretta. Suo fratello aveva partecipato agli Hunger Games a dodici anni. Nessuno si era offerto volontario per sostituirlo e lui era morto, infilzato da una sciabola.
Sua madre cadde in depressione.
Suo padre lavorava su una piattaforma in mezzo al mare ed era tornato solo per assistere ai funerali.
Sua sorella minore Sandy era diventata sorda a causa di una malattia quando era molto piccola.
Così lei a nove anni prese le redini della situazione. Portava a scuola Sandy tutte le mattine pedalando selvaggiamente su una sgangherata bicicletta rosa. La loro unica fonte di guadagno rimasta era bloccata in pieno oceano, il denaro del  padre arrivava una volta ogni tre mesi e , dato che la madre non lavorava più, abbandonò gli studi in favore di un lavoro. Alla mattina andava a lavorare come apprendista da una famiglia di pescatori, giusto per portare a casa del cibo e un po’ di soldi. Al pomeriggio invece si chiudeva in una di quelle vecchie catapecchie abbandonate attorno a uno dei moli periferici e si allenava. Lanciava per ore fiocine e tridenti contro bersagli fatti da lei unendo varie cassette, una volta usate per contenere il pesce.
Centro. Centro. Centro. Centro.

Una volta raggiunti gli 11 anni si iscrisse in accademia. Avrebbe partecipato agli Hunger Games, avrebbe vendicato suo fratello e li avrebbe vinti, portando a casa abbastanza soldi per poter operare Sandy e non avere più problemi di natura economica. Sua madre peggiorava di giorno in giorno. Mangiava, ma mangiava poco. Non rispondeva se le parlavano. Non spostava mai gli occhi dalla finestra, nemmeno per guardare Sandy, che parlava solo gesticolando. Coraline la lavava due volte a settimana, trascinandola in una tinozza. Una sfregata con una noce di sapone, un colpo di asciugamano e finiva la. Sandy le dava una mano aiutandola a rivestirsi. Poi la donna tornava a sedersi sotto la finestra , perdendosi di nuovo a osservare il vuoto.
Non potendo più lavorare di mattina, la famiglia di pescatori le faceva fare le consegne a domicilio. Coraline saliva  sulla sua bicicletta rosa scassata, passava a prendere la cassa di pesce che doveva consegnare, pedalava a perdifiato, consegnava l’ordine e tornava a portare i soldi al capo.
 Poi un altro ordine. E un altro. E altri mille ordini fino a mezzanotte.
Tornava a casa, si assicurava che sua sorella avesse mangiato a sufficienza alla mensa scolastica e si ficcava sotto le coperte.
 
I giorni si susseguivano veloci. La bicicletta rosa divenne ben presto troppo piccola sia per lei che per sua sorella. Sua madre continuava ad invecchiare fissando il nulla. Sandy migliorava di giorno in giorno, ora riusciva a dire correttamente una decina di parole, ma il suo udito era ancora nullo. Coraline consegnava ancora il pesce a domicilio, ma ora aveva la domenica libera. E lei sapeva benissimo cosa fare quando aveva del tempo libero.
Quando aveva compiuto sette anni suo fratello Maverick le aveva regalato un grande aquilone arancione. Da piccola non l’aveva usato molto, perché il vento la portava via a causa della sua leggerezza. Ma ora che era cresciuta nulla poteva impedirle di usarlo. Andava in spiaggia e faceva volare l’aquilone fino a tardi, il filo stretto tra le mani esili. Anche se erano passati quasi dieci anni quello era stato il più bel regalo che avesse mai ricevuto.

Coraline amava il vento.  Era l’unica cosa che la capiva fino in fondo, il vento. Portava via il dolore, faceva viaggiare le voci, spostava i capelli delle ragazze che passeggiavano con i propri fidanzati lungo il bagnasciuga, portava via il cappello a qualche vecchietto sul molo. Ma soprattutto, il vento parlava. Lo sentiva parlare quando le passava tra le dita, quando spostava un po’ più in su il suo aquilone, quando le lambiva gli orli della gonna rischiando seriamente di farla alzare troppo. Una folata.
E poi un’altra. E un’altra ancora. E altre mille folate di vento accarezzavano Coraline portandole voci lontane. E lei sorrideva.
 
La sera prima della Mietitura portò Sandy e sua madre in spiaggia e poi andò dalla famiglia presso la quale lavorava. Fece promettere  loro di prendersi cura di sua sorella se lei non fosse tornata. Questi dissero che avrebbero acconsentito a operare la piccola Sandy per farle tornare l’udito. Coraline li ringraziò mille volte e tornò a casa.
Alla Mietitura si offrì volontaria. Aveva appena salvato una bambina di dodici anni, ma lei non lo seppe mai.

Nell’Arena non c’era vento. Non un minimo di brezza. Coraline soffocava mentre vedeva tutti i tributi cadere sotto i colpi dei Favoriti. Ma lei si unì a loro, perché il 4 era un distretto benestante e lei era considerata come loro. Lei doveva tornare a casa da Sandy. Poi una puntura.
E un’altra. E un’altra ancora. E altre mille punture di Aghi Inseguitori le trapanavano la carne.
E Coraline sentì il vento, il suo amato vento, portargli la voce di suo fratello. Suo fratello Maverick, che era cresciuto, senza sangue che colava e gli sussurrava –“Ciao sorellina!”-
Poi un passo. E un altro. E un altro ancora. E altri mille passi di vento che nessuno riuscì mai a vedere. Mille passi di vento verso il Paradiso.

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IL KACTUS DI KRZYZ

E il tributo di questa storia è.......la ragazza del 4!
Motivo dei nomi: Coraline da coral (corallo), Sandy da sand (sabbia), Maverick è il nome di una mossa di surf
E boh, io amo il vento!
Spero che vi sia piaciuta! Non sarò mai abbastanza grata a quelli che recensiscono tutte le volte questa roba :)
Buona serata dal Kactus! _Krzyz

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Capitolo 7
*** 6 - La Fiaba di Cinque Rondini Posate su una Lama ***


“Out where the good girls die
And the sky moves slow…”

 
Questa è La Fiaba di Cinque Rondini Posate su una Lama.
 
La prima rondine si chiamava Keira e veniva dal distretto 3.
La seconda rondine si chiamava Edith e veniva dal distretto 6.
La terza rondine si chiamava Myree e veniva dal distretto 7.
La quarta rondine si chiamava Hayley e veniva dal distretto 9.
La quinta rondine si chiamava Romi e veniva dal distretto 10.
Se ne stavano tutte quante sulla lama di una spada, sedute proprio sul filo, senza tagliarsi. Nessuna di loro voleva finire nell’Arena, nessuna di loro voleva uccidere, nessuna di loro voleva morire.

Keira aveva tre fratelli, una mamma e un papà che le volevano bene. Viveva in una casetta modesta e da grande avrebbe voluto essere una designer. Era socievole, simpatica e andava bene a scuola. Aveva tanti amici attorno a lei , era sempre benvoluta da tutti, e il suo colore preferito era il verde bottiglia, perché quello era il colore degli occhi di sua mamma. Aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri ed era molto alta. E agli Hunger Games non ci voleva andare.
Edith aveva un fratellino e una mamma, perché suo papà era morto in un grave incidente ferroviario. Viveva al quarto piano di una palazzina fatiscente e da grande avrebbe voluto essere pilota di aereo. Era riservata, silenziosa e a scuola prendeva sempre il massimo dei voti. Aveva giusto due o tre amici fidati, era timida e aveva paura di socializzare, e il suo colore preferito era il blu cobalto, perché quello era il colore della copertina del suo primo libro. Aveva i capelli color nocciola e gli occhi castani ed era abbastanza bassa. E agli Hunger Games non ci voleva andare.
Myree aveva una sorella gemella, un fratello, una mamma e un papà troppo impegnati a lavorare per arrivare a fine mese. Viveva in un vicolo in discesa, in una casa piccolissima ma accogliente e da grande avrebbe voluto essere una pittrice. Era energica , atletica e non andava a scuola ma lavorava in segheria. Aveva una manciata di buoni amici, che la rispettavano e la aiutavano, e il suo colore preferito era l’arancio chiaro, perché quello era il colore del sole infuocato al tramonto. Aveva i capelli biondo sporco e gli occhi blu scuro ed era tonica e scattante. E agli Hunger Games non ci voleva andare.
Hayley non aveva nessuno, perché era stata abbandonata quando aveva pochi giorni. Viveva  nella stanza 27 dell’orfanotrofio distrettuale e da grande avrebbe voluto essere un’erborista. Era calma, pacifica e a scuola non ci andava perché le suore non avevano abbastanza soldi per farli studiare tutti quanti. Aveva amici che andavano e venivano, dato che l’orfanotrofio non era una dimora stabile, e il suo colore preferito era il giallo oro, perché quello era il colore dei campi di grano del suo distretto. Aveva i capelli rossi e gli occhi castani e aveva il viso spruzzato di lentiggini. E agli Hunger Games non ci voleva andare.
Romi aveva una sorellina e una nonna,  i suoi genitori erano morti quando lei aveva cinque anni. Viveva in una casetta in un pascolo e da grande avrebbe voluto allevare cavalli. Era ubbidiente, tranquilla e a scuola era nella media. Aveva due amici contati, ma tanta gente la ammirava per il suo carattere splendido, e il suo colore preferito era il viola, perché quello era il colore dei fiori preferiti di sua nonna. Aveva i capelli castani e gli occhi neri ed era molto magra. E agli Hunger Games non ci voleva andare.

Tutte e cinque sedute sul filo della spada, tutte e cinque ad aspettare. Ognuna di loro aveva una storia diversa alle spalle, ognuna di loro aveva un sogno, ognuna di loro aveva qualcosa per cui lottare. Ma quando, uno a uno, i bigliettini vennero estratti dalle rispettive urne le rondini cominciarono a tremare.
E Keira pianse. E Edith pianse. E Myree pianse. E Hayley no, non aveva motivi per farlo. E Romi pianse.
E tutte in fila condotte nella Città dello Sfarzo, tutte preparate a dovere, tutte trattate come regine. Tutte e cinque sedute su una spada, proprio sul filo, senza tagliarsi.

Poi venne l’Arena. Nessuna di loro era pronta. Il countdown era iniziato.

A cosa pensava Keira? Alla sua famiglia, da cui voleva tornare disperatamente.
A cosa pensava Edith? A suo papà, perché presto l’avrebbe raggiunto.
A cosa pensava Myree? A raggiungere l’ascia che aveva appena visto nella bocca della Cornucopia.
A cosa pensava Hayley? A Sorella Prudence e al minestrone che le serviva all’orfanotrofio.
A cosa pensava Romi? Alla faccia che avrebbe fatto la nonna se l’avesse vista morire.
3…2…1…0.

Cinque rondini sedevano su una spada, proprio sul filo, senza tagliarsi.
Poi cinque colpi risuonarono.

Al primo colpo, Romi si alzò in volo.
Al secondo, Keira.
Al terzo, Edith.
Al quarto, Myree.
Al quinto, Hayley.

Dove volarono non si sa, nessuno sa cosa c’è dopo la morte.  Ma ancora si sente la loro voce. E’ nelle parole di chi parla di loro. È nei loro parenti che si ricordano delle loro vite sedendosi a tavola. È nella gente che rimembra quelle cinque ragazze sparite in un bagno di sangue.

Cinque rondini sedevano su una spada, proprio sul filo , senza tagliarsi.
Cinque cuori si fermarono nell’Arena, al bagno di sangue, senza un lamento.
Cinque anime volarono via, portate dal vento, senza una meta.
Cinque brave ragazze morirono, mentre il cielo si muoveva piano, senza una colpa per cui morire.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Ed ecco qua altri cinque tributi fantasma, in questo caso le cinque ragazze morte al massacro della Corncopia! 
I nomi sono stati facili, ho scelto i primi 5 nomi che mi sono venuti in mente guardando il film :)
Sperando che questo capitolo vi sia piaciuto, un saluto e un ringraziamento speciale per tutti quelli che seguono questa raccolta!
Buona giornata! Saluti dal Kactus, _Krzyz
P.S: per l'ordine della morte delle ragazze mi sono basata sul film, nel quale in una schermata appaiono tuti i tempi dei Tributi.

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Capitolo 8
*** 7 - La Fiaba della Cinciallegra che Cantava Opere di Ragnatele ***


“I hear the bird don’t sing…”

 
Questa è La Fiaba della Cinciallegra che Cantava Opere di Ragnatele.
 
E hop. Hop. Hop. Da un ramo all’altro degli alberi del frutteto la ragazzina saltava agilmente. Prendeva i frutti più alti senza il minimo sforzo e passava a quelli della pianta successiva. Davanti a lei centinaia di contadini dalla pelle bruciata dal fuoco d’agosto trasportavano le ceste cariche di frutta al Pacificatore di turno. Una passata veloce con il dorso della manica per detergersi il sudore dalla fronte e hop, hop,hop verso il prossimo ramo. Era piccola e agile, quella Cinciallegra. Non una singola mela, pera o pesca rimaneva dove passava lei. Le passava a Jeremiah, un ragazzo d’ebano che avrebbe potuto dimostrare trent’anni  ma ne aveva molti meno. E il giovane, a carico ultimato, partiva a fare la spola verso il carro dei Caschi Bianchi.
 
Al tramonto finiva il turno della ragazzina. Passava dal capo a registrare la fine del suo periodo, riceveva un sacco di iuta con dentro del cibo e s’incamminava verso casa sua. La Cinciallegra abitava parecchio lontano dal frutteto, ci metteva quasi un’ora di passo sostenuto per arrivare. E ,per passare il tempo durante la strada, cantava, il ritmo scandito dall’alternanza dei piedi. Cantava canzoni che nessuno ricordava, che erano andate perse nel tempo e che quelle piccole, dolci mani piene di calli avevano disseppellito dalla polvere dei vecchi volumi abbandonati ai cigli delle strade. E nessuno poteva fare a meno di voltarsi quando la Cinciallegra cantava. Vecchi ricordi tornavano in mente, agli anziani del distretto 11, quando sentivano quelle canzoni. Il primo amore, una rissa violenta, un gioco tra ragazzi. E allora, ricordando le parole, tutti si univano in un coro che veniva trascinato da una piccola ragazzina con gli occhi spalancati e la pelle scura.
A  Rue piaceva vedere l’effetto che vecchie filastrocche canticchiate potevano sortire. In un distretto come il suo, dove le libertà non esistono e dove il debole viene schiacciato da un altro debole per sopravvivenza, vedere sorrisi autentici dipingersi sui volti solcati dalle rughe di quelle persone era una cosa bellissima e senza prezzo. Chissà da quanto tempo non sorridevano quelle persone, che avevano visto i loro figli morire di fame o di malattia. E prima di entrare a casa il coro la ringraziava e tutti ridevano.
 
-“Rue! Bentornata! Cosa c’è da mangiare stasera per cena? ”- dicevano tutte le sere i suoi fratellini correndole incontro. Lei li amava tutti quanti ed era felice di lavorare per permettergli una vita migliore. Si avvicinò al tavolo della cucina rovesciando il contenuto del sacchetto di iuta sul tavolo. Una carota, una patata, un gambo di sedano, un piccolo pacco di cereali, del sale e una mela.
-“Mi sa tanto che stasera avremo brodo per cena!”- esclamò sua mamma sorridendo. Alla Cinciallegra piaceva il modo di fare di sua madre, sorrideva sempre e cercava di aiutare chiunque fosse in difficoltà. Non che avere brodo per cena fosse poco comune, lo mangiavano praticamente tutte le sere, ma sua mamma lo faceva sembrare sempre qualcosa di speciale. Ogni volta tentava di dargli un sapore diverso aggiungendo bacche, radici o erbe che barattava al mercato. Rue aiutava sempre in cucina. Sua mamma riteneva che sarebbe stato indispensabile , se capitava qualcosa di brutto avrebbe dovuto prendere lei il comando in famiglia. Vedeva la passione con cui la madre preparava una cosa semplice come il brodo, la delicatezza con cui dosava l’olio ricevuto dalle tessere, la cura con cui sbucciava la patata per non levare via troppa polpa.  
Poi tutti a tavola, seduti composti, aspettando papà, che comunque non ritardava mai. E poi tutti lanciati sulla zuppa di cereali, patate , carote e sedano. Non era mai molta, ma se la facevano bastare. Come dessert la mela, tagliata in otto spicchi, coperta da un leggerissimo strato di sciroppo fatto in casa. A pasto terminato si ritrovavano tutti in quello che chiamavano ‘salotto’, ma che di salotto aveva ben poco. Un divanetto rattoppato, una sedia a dondolo che non dondolava più e una poltrona traballante. Una cassa di legno al centro fungeva da tavolino da caffè . Rue non sapeva cos’era davvero il caffè, suo papà diceva che i ricchi lo bevevano finita la cena.
Prima di andare a letto papà raccontava sempre una favola ai figli. La Cinciallegra avrebbe compiuto dodici anni a breve e quindi tutte le storie le aveva già sentite, trite e ritrite. Ma per Meum, Daisy e Elm , di 4,6 e 7 anni, ogni storia sembrava nuova. A sua sorella Ivy invece non piacevano le storie, diceva che erano tutte fesserie. Preferiva quando papà gli raccontava di come avessero scelto i nomi per loro, o quando Rue si era incastrata in un secchio. Suo fratello Thistle amava le storie, ma si addormentava sempre a metà e si svegliava che era ora di andare a letto, allora teneva il broncio perché non era riuscito a finire di sentire la favola di turno.
Prima di mettersi a dormire la Cinciallegra passava di letto in letto e cantava a tutti loro una filastrocca. Ad ognuno ne piaceva una in particolare e lei se le ricordava tutte a memoria. Non riuscivano a dormire senza che la loro sorellona fosse passata ad augurargli la buonanotte. Quando terminava il giro entrava in camera dei suoi genitori, lasciava un mazzolino di rute gialle sulla cassapanca ai piedi del letto e poi andava a dormire.
 
Alla mattina si svegliava prima di tutti gli altri, il suo turno cominciava appena sorto il sole. Durante la strada non cantava perché era ancora troppo presto e quasi tutti dormivano ancora. Ma la musica che aveva dentro non era qualcosa di contenibile, quindi la Cinciallegra fischiettava. Motivi trovati appesi ai muri, appiccicati alle ragnatele, nascosti in fondo a un pozzo. Rumori, tutti insieme. E le Ghiandaie Imitatrici si attaccavano alla piccola Cinciallegra in un turbinio di note che davano vita a vere e proprie operette. In questo modo, quando gli abitanti del distretto 11 si svegliavano avevano sempre una canzone pronta ad accoglierli. E hop, hop, hop da un ramo all’altro.
Il tempo passò anche per lei. Jeremiah non la aiutava più a portare la frutta, era stato ucciso dai Pacificatori perché aveva rubato un pollo per sfamare la sua famiglia. L’inverno la faceva congelare fino alle ossa mentre trasportava ceste di frutta essiccata in giro per il distretto. Dovette chiedere ancora più tessere , perché i suoi fratelli più piccoli avevano preso il morbillo e non c’erano soldi per curarli. Ma nonostante tutto Rue continuava a cantare, passando tutte le sere dai suoi fratellini e sorelline e lasciando i fiori sulla cassapanca. Continuava a cantare  tornando dal frutteto e regalando sorrisi a tutti, la Cinciallegra.
 
Ma aveva 36 biglietti dentro quella boccia alla Mietitura. E la Mietitura scelse lei. Prima di andarsene per sempre la Cinciallegra cantò una filastrocca per ogni membro della sua famiglia.
A Meum cantò “Brilla su nel ciel Stellina”.
A Daisy cantò “Hop, hop! Salta cavallino!”.
A Elm canto “La Banda delle Api”.
A Thistle cantò “Quaglie al mattino”.
A Ivy cantò “L’Uomo che Ballava sul Ghiaccio”.
A sua madre e suo padre non ebbe il coraggio di cantare niente. Si limitò a fischiettare le quattro note che nel distretto 11 erano utilizzate per segnalare il termine della giornata lavorativa. Perché la sua giornata finiva così.
Mentre veniva condotta al treno si sporse dal finestrino e fischiettò una canzoncina intitolata “Opera di Ragnatele”. Una voce si unì, poi un’altra e alla fine tutto il distretto fischiettava quella canzoncina, che parlava di un ragno che intesseva tele meravigliose. E tutta la gente che la conosceva la salutò così, con una canzone.
 
E Rue ci morì , nell’Arena. Morì ascoltando un canto che non aveva mai sentito. La Cinciallegra se ne andò tra le ali di una Ghiandaia Imitatrice, avvolta da quelle meravigliose note.
 
 Nessuna canzone risuonò più al tramonto per quelle vie anguste. Nessuno si svegliò più sentendo cantare le ghiandaie. Nessuno raccontò più le filastrocche ai cinque fratellini. Nessuno lasciò più un mazzolino di rute gialle sulla cassapanca dei suoi genitori.
Ma lei continuò a vivere. Qualche volta si sente ancora risuonare “Opera di Ragnatele” nel frutteto dove lavorava. E tutti si ricordarono di quella piccola Cinciallegra, che saltava da un ramo all’altro e intonava operette dimenticate. Di quella piccola ragazzina che non cantava canzoni, ma cantava ricordi.
 
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IL KACTUS DI KRZYZ
Ed eccoci ritornati sulla scia dei personaggi conosciuti! E qui abbiamo la storia della piccola Rue, che nella mia mentre è sempre stata una cinciallegra :)
Riposa in Pace piccola Rue! I nomi dei fratelli sono tutte piante (il Meum è un fiore di campo, Daisy significa margherita, Elm significa olmo, Thistle significa cardo e Ivy significa edera).
“Hop,Hop ! Salta Cavallino!” e “Quaglie al Mattino” sono due canzoni descritte nel libro Castelli di Rabbia di Alessandro Baricco, mia eterna fonte d’ispirazione.
Come non ringraziare tutte le meravigliose persone che sprecano del tempo prezioso per recensire questa cosa? Un abbraccio speciale a Denny Cullen, ehykaya, Sconsy_Crazy, Nene2312 e la Fedelissima Pervinca Potter 97, che puntualmente non mancano mai un capitolo :) grazie mille ragazze!
Abbracci dal Kactus! _Krzyz

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Capitolo 9
*** 8 - La Fiaba del Toro che Guardava le Stelle ***


“I heard the field don’t blow…”
                                    

Questa è La Fiaba del Toro che Guardava le Stelle.
 
E tutti conoscevano Thresh per questo. Era forte, potente, portava carichi pesantissimi senza il minimo sforzo. I bambini avevano paura di lui, perché un ragazzo così alto e così possente non si era mai visto nella parte povera del distretto 11. Ma lui non era cattivo, lui non voleva spaventare nessuno, era un coniglietto confinato nel corpo di un toro.

Era buono, Thresh. I suoi genitori erano morti quando era ancora molto piccolo, e lui e sua sorella erano cresciuti con Nonna May. Avevano un orto dietro casa e si guadagnavano da vivere vendendo quel poco che riuscivano a coltivare a un commerciante della zona. Nella stagione primaverile arrivavano le prime richieste di lavoro dai campi più grandi, allora Thresh e sua sorella Oatey  si mettevano a servizio dei pacificatori per la raccolta della frutta e la trebbiatura. Nonna May non era più in grado di occuparsi delle coltivazioni, gli anni l’avevano ingobbita e indebolita. Comunque doveva contribuire in qualche modo alla sussistenza della famiglia e diede vita ad un piccolo giro di servizi di sartoria. Le persone gli portavano abiti strappati, scuciti, rovinati e lei per un paio di spiccioli li rimetteva a nuovo. Con quei pochi soldi che guadagnava, comprava ago e filo nuovi e un pacco di riso in più per sfamare i suoi nipoti. Entrambi erano stati costretti a chiedere le tessere, perché in inverno non c’era molta richiesta di lavoro e le uniche entrate erano quelle che venivano dai lavoretti di Nonna May. Ma l’orto dietro casa, quello era sempre rigoglioso e pieno di tanta buona verdura per l’inverno.

 Thresh aveva un segreto. Lui conosceva il cielo. Aveva imparato guardando le stelle quali erano i periodi migliori per piantare la verdura.
-“Non cresceranno mai i ravanelli se li pianti a novembre!”- diceva la gente. E invece i ravanelli crescevano.
-“Non è stagione di pomodori, moriranno tutti se li pianti ora!”- diceva la gente. E invece i pomodori crescevano.
Le stelle guidavano la sua mano sulla terra. Una certa notte a una certa ora un asteroide avrebbe attraversato la costellazione del Sestante e quello sarebbe stato il momento ideale per piantare le zucchine.  Era quasi una magia. Coperto dalla neve, accoltellato dal gelo dell’inverno, oppresso dal freddo, quel piccolo orto nutriva la famiglia di Thresh nei periodi duri. E non un singolo gambo di sedano marciva. Non un’unica foglia di lattuga imperfetta. La verdura cresceva rigogliosa sfidando la terra morta, gli astri a dargli forza. I commercianti si scannavano a vicenda per avere i pomodori o le melanzane della sua famiglia in inverno. Non pagavano mai tanto, ma lui era diventato una specie di celebrità. Tanti gli avevano chiesto cosa ci fosse dietro a tutto quel ben di Dio, ma quando il ragazzo rispondeva  -“Le Stelle”- scoppiavano a ridere, dicendo che aveva solo avuto fortuna a beccare la giornata giusta.

Thresh non li aveva mai ascoltati, né lo avrebbe mai fatto . Tutte le sere si stendeva sull’erba e tracciava punti e linee su un vecchio block-notes con un mozzicone di matita che aveva trovato per terra. Annotava ogni minimo spostamento, ogni variazione nella luminosità. Perdeva ore e ore di prezioso riposo per guardare la volta celeste. Era l’unica cosa che gli infondeva pace, l’unica cosa che lo faceva sentire pieno. Tutte quelle migliaia di stelle lo chiamavano come se fosse uno di loro.

Quando erano piccoli, Nonna May gli raccontava che le stelle erano dei buchi nel mantello della Notte. Diceva che la Notte  aveva un mantello di velluto nero molto antico e lo aveva sempre indossato perché era molto vanitosa e le piaceva avvolgersi in quella stoffa morbida. Ma le cose belle non sono eterne e quindi ben presto nel mantello cominciarono a formarsi dei piccoli buchi attraverso i quali filtrava la luce del Sole. La Notte provò a rattopparli in tutti i modi, ma non vi riusciva perché non era brava a cucire. Decise allora di lasciare i piccoli fori dov’erano e in quel modo nacquero le Stelle.
Non aveva molto senso, quella storia, ma quand’era piccolo lui e Oatey ne andavano pazzi. Se la facevano raccontare tutte le sere perché sostenevano che sennò non sarebbero riusciti a dormire.
La Mietitura si avvicinava. Sarebbe stato il suo ultimo anno, poi basta. Sua sorella aveva avuto per l’ultima volta il suo nome nelle urne due anni fa, quindi per lei non c’era da preoccuparsi. Ma il Toro aveva un bruttissimo presentimento. Una cosa non quadrava, nella costellazione della Bilancia.

La sera prima della fatidica giornata, pagando un paio di rape, Thresh comprò un piccolo quaderno e una penna dal suo vicino. Si stese sull’erba e cominciò a scrivere in quel quaderno tutte le notti ideali per piantare cipolle, peperoni, carote, patate e ogni genere di verdura. Asteroidi di passaggio, allineamenti di pianeti, fasi lunari. Un vero e proprio libro sul cielo. Finì tardi di scriverlo e si addormentò sotto le stelle, avvolto dal mantello di velluto della Notte.

La mattina dopo il Toro venne portato in Piazza da due donne tremanti. Non c’erano tante possibilità di essere estratti. Ma lui venne chiamato. Il Toro stava andando al macello.
Disse di tener conto di quel quaderno se volevano sopravvivere. Disse alla sorella di occuparsi di Nonna May. Disse di non piangere e di sperare, lui sarebbe tornato, se le stelle l’avessero voluto.

Ma il cielo sintetico dell’Arena non aveva stelle.
Non c’erano astri dalla sua parte.

Aveva appena fracassato la testa alla ragazza del 2 e sapeva che il suo compagno non avrebbe tardatoa farsi vivo per ucciderlo. Guardò dentro il pacco guadagnato al festino. Vi trovò del cibo e un pezzo di velluto nero con sette buchi. La costellazione dell’Orsa minore.
Poi sentì una lama trapassargli lo stomaco.

Così se ne andò il Toro. Così se ne andò Thresh, il buonissimo ragazzo gigante. Così volò via, senza rancore, senza più nulla da perdere. E divenne una stella, più luminosa, più grande delle altre.
E prima di morire vide la spada di Cato fare un buco nel mantello della Notte , un buco attraverso il quale poteva vedere il distretto 11, con Nonna May e Oatey che lo salutano sorridenti reggendo una cesta di verdura in mano.  

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IL KACTUS DI KRZYZ
 
Ed ecco a voi Thresh! Non sono particolarmente soddisfatta di questo capitolo, spero che almeno a voi sia piaciuto!
Ormai mancano pochi tributi, chi sarà il prossimo?
Scopritelo rimanendo con me :) 
Buona giornata dal Kactus, vostra _Krzyz
P.S: May, la nonna di Thresh, significa maggio, mese ieale per molte verdure e Oatey deriva da Oat, avena.

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Capitolo 10
*** 9 - La Fiaba della Volpe che Piangeva Sotto la Pioggia ***


Consiglio caldamente di cercare la canzone Yellow Light degli Of Monsters and Men e di metterla come sottofondo durante la lettura. Più che un consiglio questo è un ordine.
Forse un po' OOC.

“I hear the bell don’t ring
I hear the bell don’t ring…”

 
Questa è La Fiaba della Volpe  che Piangeva Sotto la Pioggia.
 
Tic, tic, tic, tic. Tendeva le orecchie, attenta, senza muovere un muscolo. Doveva essere cauta, un passo  falso e tutto quanto sarebbe andato in fumo. Eccola là, la campana di mezzogiorno.
Una mano  s’intrufolò tra le ceste di pane. Un paio di pagnotte sparirono sotto la pioggia. La ragazza le nascose dentro la giacca e lesta s’allontanò tra i banchi del mercato cittadino, scivolando come un’ombra. Un paio di occhi ambrati sfuggivano lo sguardo dei compaesani. Passava veloce, quella ragazza, e dove passava prendeva qualcosa. Una mela da una parte, una busta di carne essiccata dall’altra. Le sue dita tastavano sapienti la merce, scegliendo la cosa più piccola. Poco doveva prendere e poco prendeva, l’avrebbero scoperta se avesse preso di  più. Nascondeva tutto nelle tasche, le pagnotte ancora calde che le premevano contro il petto. La pioggia batteva imperterrita sulle sue spalle, provocando confusione al mercato. E la confusione, sommata ai rintocchi delle campane a mezzogiorno, era l’ideale.  Nessuno si accorgeva di niente.

I rintocchi finirono e la ragazza si allontanò dalla piazza affollata. I piedi affondavano sicuri nel fango, un passo dopo l’altro. Quella ragazza aveva ben poche certezze nella vita.
La prima era il suo nome, Finch Vixenair.
La seconda era che non aveva una casa, non aveva una famiglia.
La terza era che per quel giorno avrebbe avuto cibo a sufficienza.
La quarta era che doveva tornare al bosco.

La gente del distretto 5 non si avvicinava al bosco da almeno una settantina d’anni. Le alte sfere di Capitol City l’avevano riempito di Aghi Inseguitori alla fine dei Giorni Bui, per evitare che i Ribelli trovassero rifugio nelle dimore sotterranee costruite tanti anni prima. Le persone erano ancora convinte che quel luogo fosse infestato da quei maledetti insetti. Ma la ragazza sapeva che erano ormai quasi tutti morti, ne vedeva giusto un paio una volta ogni tanto.
Dopo venti minuti buoni di cammino arrivò alla Tana. Spostò un paio di fronde ed ecco apparire una botola. Qualche colpetto e si aprì rivelando un buco largo si e no una settantina di centimetri. Un salto e fu dentro. La Tana era una delle vecchie dimore antiatomiche dei Ribelli. Era stata scavata dentro un promontorio , quindi anche se era sottoterra aveva delle finestre. La ragazza aveva sempre trovato un controsenso delle finestre in una casa antiatomica ma in fondo le andavano bene. Era costituita di due stanze molto piccole più un bagno chimico. Una era adibita a camera ed era arredata con un letto sfondato, una cassapanca, una piccola stufa, un comodino e una mensola . L’altra era una specie di cucina con un tavolo e due sedie, una credenza e una tinozza. No, Finch non aveva rubato tutta quella roba, era già la dai Giorni Bui. Lei si era limitata a riempire le cassapanche e la credenza di vestiti e cibo rubato.

La ragazza si diede una rassettata, i capelli rossi bagnati le si appiccicavano alla faccia come fossero di colla. Vuotò le tasche per vedere cos’aveva recuperato: due pagnotte, una mela, un pacchetto di carne secca, una carota e un paio di calzini di lana. Un buon bottino. Era da un pezzo che non aveva più calzini nuovi, i capi d’abbigliamento erano la cosa più difficile da rubare e l’inverno si stava avvicinando. Era cresciuta parecchio nell’ultimo anno e molti dei vestiti che le avevano permesso di sopportare il freddo lo scorso anno le erano diventati stretti. Sarebbe stato tosto, quell’anno, riuscire a procurarsi addirittura maglioni nuovi.

All’imbrunire accese una candela, non c’era elettricità in quella casa, e prese un quaderno e una penna a sfera. Tutte le sere la Volpe faceva un rapido elenco delle sue certezze:
1 – Mi chiamo Finch Vixenair.
2 – Non ho una famiglia e non ho una casa, per ora vivo nella Tana.
3 – Oggi ho mangiato a sufficienza.
4 – Ho quasi 15 anni.
5 – Mancano 202 giorni alla prossima Mietitura.
Non aveva mai saltato una sera, quella ragazza. Aveva paura di perdere le poche certezze che possedeva. Era cresciuta in mezzo a una strada, rubando, nascondendosi e accontentandosi di mangiare spazzatura se ce n’era bisogno. Non aveva una madre che le cucinava la cena, non aveva un padre che la rassicurava, non aveva fratelli o sorelle con cui condividere quel poco che aveva. Viveva in un mondo precario in cui se arrivava a fine giornata con lo stomaco a metà andava bene lo stesso.
L’unico giorno in cui il distretto 5 si ricordava di lei era il giorno della Mietitura. Per un paio di minuti si chiedevano chi fosse e poi la ragazza ripiombava nel nulla, ma a lei andava bene così .
 
La mattina si svegliò infreddolita, realizzando che fuori pioveva ancora. Un altro giorno fruttuoso. Amava la pioggia, la Volpe. Indossò la sua giacca, prese un sacchetto di stoffa e uscì dalla Tana. Vivendo in un bosco, quella ragazza aveva una vasta conoscenza di radici e bacche commestibili. Solo dal polline del fiore riusciva a capire se un arbusto produceva bacche sane o velenose. Nei giorni in cui non c’era il mercato lei si nutriva così: quello che riusciva a trovare e una parte delle scorte che accumulava. Tic, tic, tic, tic,  la pioggia tamburellava sugli alberi. L’autunno era la stagione preferita della Volpe. Gli aceri si tingevano di colori fiammanti, stagliati contro un cielo plumbeo e uggioso. Con passi leggeri saltava da un cespuglio all’altro, facendo incetta di tutto ciò che poteva essere mangiato. Non era una cacciatrice, non sapeva costruire trappole e non era per niente forte fisicamente. Faceva razzia di tutto quel che trovava e questo le garantiva la sopravvivenza senza incorrere in guai seri, senza contare che uccidere animali boschivi era vietato. Erano ben poche le leggi che la Volpe osservava e questa era una delle poche, molte volte aveva visto ragazzini venire trascinati alla gogna dai Pacificatori per aver ammazzato una quaglia. Finì di raccogliere tutto quello che aveva trovato e si ritirò nella tana, passando il resto della giornata seduta su un ramo.

Era sorprendente l’effetto che la pioggia aveva su di lei. Nulla la faceva sentire più a suo agio. La pioggia cancellava le impronte nel fango, lavava via la tristezza, mascherava rumori indiscreti con il suo continuo scrosciare. Si dondolava sul ramo, la Volpe, gli scarponi inzuppati e la pelle delle mani raggrinzita. La pioggia era il suo primo ricordo. Ricorda freddo, fame e ticchettii. Ma quelle gocce pesanti che cadevano schiantandosi al suolo come kamikaze erano l’unica cosa che le era rimasta da allora.
 Ma lei amava la pioggia soprattutto perché confondeva le lacrime con le gocce. La ragazza per sopportare meglio il dolore dell’abbandono si concedeva 25 giorni allegri e uno triste. Tutto ciò di cattivo che subiva nei giorni allegri veniva fuori nel giorno triste. E piangeva, la Volpe. Nulla le era stato dato, la vita le aveva tolto una mamma, un papà, una casa e la possibilità di crescere come tutti gli altri bambini. Piangeva, quella ragazza dai capelli rossi, perché non sapeva se sarebbe arrivata al giorno dopo. Piangeva, Finch, perché non aveva nulla per cui vivere e non aveva nulla per cui morire. E le lacrime scendevano lungo le sue guance pallide, mentre lei tratteneva i singhiozzi. Piangeva perché al distretto era circondata da migliaia di persone , ma lei era sempre sola. La pioggia che la avvolgeva come una coperta liquida, che la consolava dandole tante piccole pacche sulle spalle. In tanti l’avevano vista da piccola sul ciglio della strada, morente, infreddolita. Tiravano dritto, sprezzanti, a testa bassa. Non un pezzo di pane, non un avanzo di cibo, non un sorso d’acqua, nulla se non occhiate torve e disprezzo.  La pioggia la proteggeva, la pioggia la accoglieva, la pioggia la consolava, la pioggia la faceva sentire viva.
 
I giorni trascorrevano tutti uguali. Rubava qualcosa in città, tornava alla Tana, annotava le certezze sul taccuino e poi tutto daccapo. Si concedeva di piangere nel giorno triste e basta. La pioggia congelò e divenne neve. La neve si sciolse e venne assorbita dalla terra. La terra divenne arida a causa del caldo.
Si fece buio. Tornò alla Tana, la Volpe. Aveva rubato di nuovo al mercato, coperta dal suono delle campane. Vuotò le tasche e controllò il bottino: due pagnotte, un pomodoro, una piccola busta di carne secca, una pesca e un vasetto di miele. Mangiò tutto avidamente, guardando di sbieco l’abito che aveva rubato per la Mietitura. Era di lino color acquamarina sbiadito, con le maniche a sbuffo e una striscia di stoffa nera da legare in vita. Era un gran bel vestito, se non fosse stato l’abito da indossare nel giorno in cui due ragazzi venivano mandati al martirio. Come tutte le sere prima di andare a letto la ragazza fece un elenco delle sue certezze.
1 – Mi chiamo Finch Vixenair.
2 – Non ho una famiglia e non ho una casa, per ora vivo nella Tana.
3 – Oggi ho mangiato a sufficienza.
4 – Ho 15 anni e mezzo.
5 – Domani non tornerò qui. Non ci tornerò più.
 
Sperava che l’ultima affermazione fosse sbagliata. Non lo era. La Mietitura decise che era il suo turno. La Volpe se ne andava a Capitol City, in un’Arena a combattere.
E avrebbe potuto vincere, quella ragazza schiva dai capelli rossi. Sopravvisse nello stesso modo in cui sopravviveva al distretto 5: rubava piccole quantità di cibo dagli altri senza farsi notare e raccoglieva bacche  radici.

Rimasero in quattro nell’Arena. La Volpe, il Diavolo del 2 e gli innamorati del 12. La ragazza aveva seguito questi ultimi, sperando di trovare cibo facile. Ma quando le braccia del ragazzo avvolgevano il corpo della ragazza, quando le loro mani si incontravano il cuore della Volpe perdeva un colpo. Non sarebbe riuscita a sconfiggere loro. Loro Vivevano, lei sopravviveva.  Loro avevano l’amore, l’amore che aveva tanto bramato, ma lei cos’aveva?
Non aveva mai pianto, da quando era entrata in quel posto. La regola dei venticinque giorni allegri e uno triste valeva ancora. Ma quando vedette quei due le lacrime cominciarono a scenderle senza motivo, senza fare rumore. Lei non avrebbe mai vinto quei giochi, non voleva vincerli. Non avrebbe mai vinto perché era sola.

Così quando vide i morsi della notte ammucchiati sulla giacca del ragazzo seppe cosa fare. Doveva avvisare quel giovane così buono e così ingenuo. Perchè loro potevano vincere, loro dovevano vincere.
Non sentì le campane suonare per coprire i suoi passi quando prese una manciata di quelle bacche scure.
Non sentì la pioggia lavarle via le lacrime quando ingoiò il suo ultimo, insignificante pasto.
Non ebbe alcun rimpianto quando il suo respiro si fece affannoso.

Così la Volpe volò via. Silenziosa, schiva, senza che nessuno se ne accorgesse. 
Così l’Arena si portò via un’altra ragazza, una ragazza che aveva solo la colpa di non aver vissuto abbastanza.

E al distretto 5, il fornaio da cui lei aveva sempre rubato le pagnotte sperò che in Paradiso trovasse la famiglia e la casa che non aveva mai avuto.

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IL KACTUS DI KRZYZ

E giù lacrime a fiumi. Vi giuro che mi sono commossa pure io scrivendo questa cosa D: la mia mente mi gioca brutti scherzi a volte.
Bene, e questa era Faccia di Volpe. Chi sarà quello dopo? Solo il tempo può dirlo :)
Ancora mille grazie a tutti quelli che recensiscono questa storia, ogni contributo è ben accetto :)
Un abbraccione dal Kactus! _Krzyz

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Capitolo 11
*** 10 - La Fiaba della Ragazza che Catalogava gli Arcobaleni ***


“Out here the good girls die…”

 
Questa è La Fiaba della Ragazza che Catalogava gli Arcobaleni.

Perché era questo che amava fare. Tra le mani un piccolo quadernino . E colore dopo colore milioni di tonalità diverse  prendevano vita sul tetto della palazzina dove abitava, avvolta dai fumi della città.
 
Reeva lavorava sodo. Chinata su un pezzo di stoffa da tingere per dieci ore al giorno, in una vecchia fabbrica che sapeva di ruggine e vernice. Colorava un metro di tessuto pregiato e passava a quello dopo, senza mai fermarsi. Le sue mani di tredicenne scorrevano rapide sugli intrecci di cotone, dando nuova vita ovunque passassero, tramutando una pezza bianca e sterile in un’esplosione arancione o in un calmo lembo di cielo azzurro.  Usciva di lì che era già buio.

La sua famiglia viveva in periferia, al settimo piano di un condominio abbastanza messo male. Faceva le scale di corsa tutte le volte rischiando sempre di rompersi il setto nasale inciampando sugli scalini, così, senza un motivo preciso. Tornava giusto in tempo per la cena. La sua famiglia era già seduta a tavola, quasi al completo perché suo fratello Donn faceva il turno di notte come guardiano alla fabbrica di seta e cominciava a lavorare quando il sole tramontava.
-“Com’è andata oggi, Reeva?”- gli chiedevano sempre in coro i suoi fratelli. Erano tutti più piccoli di lei e tutti le volevano un gran bene.
-“ A meraviglia, oggi ho fatto un record! 46 metri di stoffa colorata in dieci minuti!”- Molto probabilmente non era vero, ma a lei piaceva il modo in cui la fissavano ammirati.
Prima di andare a dormire saliva sul tetto. Il distretto 8 non godeva di certo di un grande panorama, un’uniforme distesa di fabbriche e ciminiere che sputavano fumi di diverse gradazioni di grigio come draghi di cemento. Eppure in mezzo a quella desolazione Reeva coglieva la diversità: una luce ambrata che veniva da una finestra, un vaso di fiori color caramella che sbucava da una desolata fioriera di ferro, l’insegna al neon azzurro chiaro di una taverna. Era quella la magia, la magia che i colori davano ad un paesaggio in bianco e nero. E nel buio delle fumose sere cittadine la ragazza captava quel bagliore particolare.
 
Sapeva tutti i nomi dei colori, Reeva. Dal rosso sandalo  al giallo cadmio, dall’uovo di pettirosso al verde smeraldo, non una singola sfumatura che le fosse sconosciuta. Quando in fabbrica le chiedevano di tingere di viola lavanda un pezzo di tessuto lei dosava alla perfezione i pigmenti, quasi stesse preparando una pozione magica. La gradazione era perfetta, il tessuto tinto meravigliosamente. Era sorprendente la passione che una piccola ragazzina poteva riversare nel suo lavoro. Perché a Reeva piaceva il suo lavoro. Non le piaceva lavorare, ma era sempre meglio che passare metà della sua vita nella fabbrica di uniformi bianche dei Pacificatori. E quella tredicenne non poteva desiderare posto migliore.
 
Alla domenica terminavano di lavorare a mezzogiorno, al pomeriggio la fabbrica sarebbe stata rifornita di nuova stoffa da tingere e serviva che fosse stata completamente sgomberata da tutti i dipendenti del reparto colore. Tornava a casa, prendeva un frutto e il suo taccuino e si dirigeva alla stazione. Non aveva mai avuto i soldi per pagarsi il biglietto del treno ma era diventata brava a nascondersi tra i bagagli dei signori facoltosi. Saliva sempre sul solito treno, una piccola locomotiva che trasportava tre container di vestiti già imballati al distretto 7. Saltava con un balzo sul retro della terza carrozza e contava un quarto d’ora. Al termine del tempo saltava giù dal treno atterrando sull’erba fresca.
 Il distretto 8 aveva pochissimi spazi verdi e quel posto era come una toppa di Paradiso cucita su una distesa di infeltrita lana color grigio topo. Era un piccolo pascolo circondato da boschi di querce con un minuscolo ruscelletto che lo attraversava proprio nel mezzo.
-“Finalmente sei arrivata!”- Una voce maschile la fece sobbalzare. – “Ti aspettavo mezzora fa!”
-“Il treno è partito un po’ in ritardo, scusa se ti ho fatto aspettare!”- rispose lei sorridendo.
Amaranth era il suo migliore amico. Abitava dirimpetto a casa sua quand’erano piccoli e aveva un paio d’ anni in più di Reeva. Si era trasferito fuori città quando sua madre era morta, schiacciata da un serbatoio in fabbrica. Da allora la ragazza andava a trovarlo tutte le domeniche. Solo una volta all’anno Amaranth veniva in città, ma di sicuro non ci veniva per una gita di piacere. Il ragazzo tornava tra le ciminiere solo per la Mietitura. E mancavano meno di due settimane alla prossima.
-“Quanti biglietti hai quest’anno?”
-“Quattro per l’età e sei per le Tessere, per un totale di dieci volte in tutto”- Amaranth era fortunato, a parte suo padre non aveva fratelli o sorelle da sostenere economicamente e il suo vecchio lavorava. –“Tu come sei messa?”
-“Due biglietti per l’età e quattordici per le Tessere, sedici in tutto.”- rispose mesta la ragazza. Lei aveva sei fratelli, cinque dei quali avevano meno di dieci anni. I suoi genitori lavoravano entrambi ma non prendevano molti soldi, così lei e suo fratello maggiore dovevano lavorare per contribuire alle spese della famiglia.
Passarono il pomeriggio seduti sul prato a chiacchierare del più e del meno, tra un sorso d’acqua e un pezzo di mela. Poco prima che Reeva andasse via in cielo si stagliò l’inconfondibile sagoma di un arcobaleno. Si formavano spesso arcobaleni in quella zona perché tutti i vapori rilasciati dalla città condensavano in quell’area dando vita ad enormi ricadute d’umidità. E allora la ragazza tirò fuori il quadernino e lo annotò.
 
Era uno strano passatempo, quello di Reeva. Perché lei catalogava gli arcobaleni. Adorava con tutta l’anima quegli strani giochi di luce. Scribacchiava rapidamente sul quadernino, gli occhi persi a contemplare i colori. Arcobaleno n° 00854. Rosso pomodoro, zafferano profondo, giallo pastello, verde primavera, fiore di granturco, blu reale ed eliotropo. Questo registrò quel pomeriggio sul quadernino. Mai in vita sua aveva registrato una tale vivacità. I colori si stagliavano contro il cielo, talmente vividi da sembrare irreali. Non ci riusciva a credere , non poteva essere un vero arcobaleno, di certo se l’era solo immaginato. E invece era la, sospeso sopra le loro teste. Non poteva esserci nulla di meglio. Solo in quel momento Reeva respirava davvero, i riccioli castano rossiccio che le cadevano sulla fronte. In quel momento Reeva era più viva che mai.
 
Passarono in fretta le due settimane e la Mietitura arrivò come un fronte temporalesco, portando disgrazie. Reeva e suo fratello Donn partecipavano, gli altri no perché erano ancora troppo piccoli.
“Ho solo sedici biglietti su migliaia, non mi pescheranno mai”- diceva sicura la ragazza. E invece la pescarono.
Prima di salire sul treno la famiglia corse ad abbracciarla, disperata. In quel momento, con grossi lacrimoni che le inondavano gli occhi verdi, Reeva capì. Erano loro il suo arcobaleno.
Donn , diciassette anni, era il rosso, forte e determinato.
Lei , tredici anni, era l’arancio, caldo e vitale.
Mira, dieci anni, era il giallo, diffidente e schivo.
Farch, otto anni, era il verde, tranquillo e rasserenante.
Solea , sette anni, era l’azzurro, calmo e pieno di speranza.
Laster, cinque anni, era l’indaco, misterioso e profondo .
E Siran, la piccola Siran , quattro anni, era il violetto, timida e riservata.
Insieme erano una forza della natura, divisi erano solo colori.
Venne anche Amaranth a salutarla. Amaranth, il suo unico amico, il suo punto di forza, ora le stava davanti, con le guance solcate da gocce salate. Amaranth, che le disse che quello per Capitol City era un treno come quello che prendeva la domenica, anche quello magari l’avrebbe portata in un posto dove c’erano gli arcobaleni.
Ma non c’erano arcobaleni nell’Arena.
 
Reeva si salvò dal bagno di sangue e corse via. E riuscì a distinguere solo quattro sfumature in quel grigiore.

Il verde foresta degli alberi.
Il giallo oro del fuoco che aveva appena acceso.
Il rosso sangue che le sgorgava dallo stomaco, colpita da un Favorito.
E il foglia di tè, il suo colore preferito, dal quale sbucava un ragazzo biondo con gli occhi cristallini e l’anima buona che le chiedeva scusa per tutto il male che stava subendo. Ed immergendosi  in un oceano incolore Reeva sorrise a quel ragazzo, che prima di mettere fine alla sua vita aveva cercato di essergli amico.

 E un ultimo arcobaleno inondò gli occhi della ragazza, un arcobaleno vivido e caldo che lentamente la trascinò via. Un ponte di sette colori che l’avrebbe portata in Paradiso.

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IL KACTUS DI KRZYZ

E ormai ci stiamo avviando agli ultimi, questa qua era la ragazza dell'8 (quella che viene ferita da Cato e poi uccisa da Peeta nel libro. Si, quella babbalea che ha acceso il fuoco!)
I nomi: Reeva è il nome di una collega olandese di mia madre (hahahaha i cali di fantasia portano a questo!) e la prima sillaba dei loro nomi è una nota musicale (DOnn, REeva, MIra, FArch, SOLea, LAster e SIran). Amaranth invece significa Amaranto e l'ho scelto perchè è il colore preferito di mia sorella :)
Se non avete la benchè minima idea di che cappero di colore sia il foglia di tè sappiate che è una gradazione di turchese molto scura, quasi verde bottiglia.
E poi non so più come ringraziare quelle brave ragazze che seguono puntualmente questa storia! Vi amo tutte :)
Un abbraccio dal Kactus, _Krzyz 

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Capitolo 12
*** 11 - La Fiaba della Bestia dalle Zampe Sporche che Cercava la Luce ***


Avviso: OOC (non uccidetemi, ve ne prego!).
Consiglio: mettete come sottofondo la canzone Dirty Paws degli Of Monsters and Man, il tutto merita molto di più!


“Now Cinderella, don't you go to sleep,
 it's such a bitter form of refuge.
Oh, don't you know the kingdom’s under siege
and everybody needs you ?”
 

Questa è La Fiaba della Bestia dalle Zampe Sporche che Cercava la Luce.

 -“E’ colpa tua se tua madre se n’è andata! Tutta colpa tua!”-
Un colpo. No, non era colpa sua.
-“Non tornerà, capito?! E tutto per colpa tua, sudicia puttana!”-
Due colpi. Lei lo sapeva che non era colpa sua. Non poteva essere colpa sua se sua madre era scappata con un altro uomo.
-“ E ora torna su, prima che ti distrugga la faccia completamente! Muoviti, troia!”-
Altri tre colpi. Poi basta.
 
Tornò in camera sua e si chiuse a chiave dentro. Il volto tumefatto e il labbro spaccato si fecero largo sullo specchio. Non aveva più lacrime da versare, quella ragazza. Si pulì il sangue dalla faccia senza emettere un singolo sospiro. Era ubriaco, suo padre, quella sera. Come tutte le sere , d’altronde, era diventata un’abitudine per lei prenderle da lui.
Si distese nel letto, le coperte tirate su fino agli occhi. Non aveva luce quella ragazza. Viveva nel buio, procedendo a tentoni in un mondo che non la capiva. Solo nascosta tra le pieghe del suo cuscino trovava conforto. Erano il suo rifugio, l’unica ancora di salvezza in un oceano in tempesta.
 
Alla mattina usciva alle 6, meno tempo passava in quella casa e meglio era. Camminava a passo serrato, gli ematomi quasi completamente riassorbiti grazie a una crema alle erbe. Nascosti nel fodero del suo cappotto sgualcito una decina di coltelli le premevano contro il petto. Erano loro che le permettevano di tirare avanti, quelle lame sottili e letali. Arrivava in accademia un’ora dopo, in anticipo di parecchio tempo rispetto all’orario d’inizio delle lezioni. E là saliva su un albero e si dilettava a centrare gli uccelli appollaiati sui rami di fronte a lei, senza mai mancarne uno, fino alle 8. Ogni singolo coltello che lanciava si andava a conficcare nel petto di ogni piccione, passero o merlo che si ritrovava, sfortunatamente, sulla sua traiettoria. Dopo che li aveva finiti li andava a recuperare strappandoli violentemente dalla gabbia toracica dei poveri esserini sporcandosi tutte le mani di sangue. Ecco cos’era lei, una Bestia. Una Bestia senza sentimenti, con le zampe sporche di rosso.
E questa era la fama che aveva in accademia: piccola, spietata, apatica, letale. Una precisione innata nel lancio dei coltelli e una voglia di uccidere senza pari. Non falliva un lancio, tutti i manichini si ritrovavano lame su lame piantate nel petto. Era una bestia.

Di macchine da guerra li dentro ce n’erano parecchie, dopotutto erano nel distretto 2, ma una in particolare spiccava su tutte.
Passava spesso per la palestra dove lui si allenava. I suoi muscoli si contraevano infilzando decine di volte il corpo imbottito di un manichino con una spada. I capelli biondi ondeggiavano a ogni colpo. Era forte e spietato, avrebbe potuto spezzare il collo a qualcuno a mani nude .Ma il motivo principale per cui Cato era così conosciuto era il fatto che, essendo un ragazzo piuttosto attraente, praticamente tre quarti dell’accademia era stata a letto con lui almeno una volta. Era il preferito degli allenatori per via del suo atteggiamento spavaldo e molte ragazze assistevano alle sue sessioni d’addestramento incitandolo e adulandolo ad ogni colpo messo a segno. Lo chiamavano Diavolo.

Clove si fermava a osservarlo molto spesso. Non da vicino. Lo guardava di sbieco attraverso la porta d’entrata della palestra, cercando di farsi notare il meno possibile da lui. I suoi occhi verde scuro passavano sul suo corpo come soffi d’aria, impercettibili scrutavano ogni tendine del ragazzo. Le braccia di Cato danzavano sulle note di una musica che non esisteva colpendo più volte il corpo imbottito di fronte a lui. Non sapeva, la Bestia dalle Zampe Sporche, cosa la spingesse a fissarlo da dietro gli stipiti della porta d’ingresso. Non aveva un motivo vero e proprio per farlo e non aveva un motivo vero e proprio per evitarlo. Semplicemente se ne stava la, osservandolo. Aveva una luce negli occhi, quel ragazzo, un bagliore che gli si accendeva quando la sua mano destra impugnava la spada e che si spegneva quando la riponeva nel fodero. E lei tutte le volte cercava quella luce, come una falena che si era persa nella notte. Perché di luce quella ragazza non ne aveva. Non aveva un amico con cui confidarsi, una spalla su cui piangere, una persona con cui ridere. Era sola, sola nel buio, sola con i suoi coltelli e il suo dolore. Avrebbero potuto definirla misantropa, ma lei non respingeva volontariamente le persone. Dopo tutto il male che le era stato fatto fidarsi di qualcuno era difficile.

E tornava a casa. E subiva le ire immotivate di suo padre. E si detergeva il sangue che le colava giù dal mento. E si accoccolava nel suo rifugio. E il giorno dopo tutto daccapo. Si metteva una corazza di diamante quella ragazza. Doveva essere forte, lei era forte.
 
Accadde durante l’inverno. Il gelo s’insinuava nei suoi scarponi congelandole le dita dei piedi. La giacca non le teneva molto caldo, ma era l’unica che aveva e compensava con tre strati di maglioni. Una sciarpa vecchia di dieci anni copriva gli ematomi che il padre le aveva fatto sul collo con un mestolo la sera prima. Si andava ad allenare in un altro quartiere, era mattina presto e non rischiava di certo di incontrare brutti ceffi lungo la strada. Cominciò a lanciare i coltelli contro un albero, disegnando con gli occhi un bersaglio immaginario e tentando di centrarlo. Un ragazzo attraversò la traiettoria, venendo sfiorato da una quelle piccole lame letali. Ma non era un ragazzo qualunque. Era il Diavolo, il Diavolo aveva attraversato la strada alla Bestia. La luce brillava vivida negli occhi color ghiaccio del ragazzo. Non aveva realizzato che lo aveva quasi preso in pieno viso con un coltello. Parlò per un po’ con Cato, senza capire da che parte voleva arrivare il ragazzo. Quando fece per andarsene però sentì la mano del ragazzo trattenerla per un lembo della giacca. Contatto fisico. La reazione di Clove fu istintiva, afferrò il suo polso con forza e lo torse stendendolo a terra e puntando una delle sue tanto amate lame alla gola del ragazzo. Troppe persone l’avevano toccata per farle del male in passato.
-“Non toccarmi mai più senza il mio esplicito consenso.” – sibilò la Bestia.
Il suo allenatore sarebbe stato fiero di lei in quel momento. Aveva appena steso il ragazzo più in vista di tutta l’accademia. Le sue piccole Zampe Sporche , anche se livide e secche per il freddo, tenevano strette le mani di Cato in una morsa dalla quale era praticamente impossibile liberarsi.
-“Volevo solo sapere il tuo nome”- rispose lui fissandola negli occhi.
Solo allora si rese conto di quello che aveva appena fatto. La Bestia stava per uccidere l’unica cosa per cui poteva provare un minimo d’interesse. Ritirò il coltello levandosi dal ragazzo per permettergli di alzarsi. Potevano dire quello che volevano, ma senza una spada in mano Cato era agile come un ippopotamo con problemi a livello motorio. E la cosa la faceva sogghignare, ora come ora in uno scontro corpo a corpo avrebbe stravinto lei. Ma il biondo stava ancora aspettando una risposta.
-“Clove.”
-“Come?”
-“Il mio nome. Clove. Non farmelo ripetere.”
Aveva passato troppo tempo in quel quartiere. La gente parlava, al distretto 2. Non voleva passare per la nuova preda del belloccio dell’accademia. Fece per andarsene, ma la voce del Diavolo la fermò.
-“Perché mi guardi mentre mi alleno, Clove?”- Le chiese calmo. –“Ti vedo, sai. Seminascosta dietro gli stipiti della porta. Perché lo fai?”
Questo temeva. Che cavolo gli rispondeva adesso? Non lo sapeva nemmeno lei.
-“ Io non ti guardo, Cato. Io ti osservo. E se ti osservo o meno non deve interessarti. ”
Un sorriso sincero si fece strada sul volto del biondo. Non era un sorriso stupido, di quelli che rivolgeva alle oche dell’accademia che tanto lo bramavano. Era spontaneo, quasi traumatizzante. La Bestia si voltò di scatto per tornare a casa, ma di nuovo la sua voce la fermò.
-“Dove posso trovarti, Clove?”
Una fitta attraversò il petto della ragazza. Dove poteva essere trovata? Sul pavimento di una casa in periferia, sanguinante e distrutta dal dolore, tutte le sere. Gli ematomi che aveva sul collo ancora le facevano male. Ma la cosa non era importante in quel momento. Lui l’avrebbe cercata. E l’avrebbe trovata prima o poi, questo se lo sentiva, ma non sapeva se gioirne o preoccuparsi.
-“Pensaci. Tu dove pensi che io possa essere trovata?” – rispose la Bestia senza volerlo. Avrebbe potuto rispondere che non le interessava essere trovata da lui. Avrebbe potuto rispondere che le dava fastidio la superficialità con cui trattava le ragazze dell’accademia. Ma non lo fece, l’istinto aveva prevalso sulla ragione.
Si riavviò a testa bassa sulla strada che l’avrebbe riportata a casa. Eppure allontanandosi sentiva che qualcosa era rimasto davanti a lui. Era stata una stupida.

Quel giorno in accademia le comunicarono che sarebbe passata agli intensivi. Finalmente quei quattro beoti dei coordinatori avevano capito quanto valeva. Gli intensivi significavano praticamente passare metà della sua giornata chiusa dentro ad una palestra allestita su misura per lei, focalizzandosi solo sull’allenamento. E questo lei faceva, e lo faceva volentieri. Non perdeva un minuto a cincischiare, era perennemente concentrata sul centro dei bersagli che le si paravano davanti. Non un singolo manichino scappava dai suoi piccoli coltelli.
Quando tornava a casa la situazione era sempre la stessa. Pazientemente, tutte le sere puliva il vomito di suo padre dal pavimento, cucinava la cena e veniva picchiata per lo stesso motivo. Non era colpa sua, come poteva? Se sua madre aveva tradito quell’ombra di uomo che doveva essere stato suo padre la colpa non poteva di sicuro essere di una bambina che all’epoca aveva nove anni appena. E lei si limitava a subire, ribellarsi a lui avrebbe soltanto peggiorato le cose. Si chiudeva in camera e si levava il sangue dalla faccia con un panno. Un po’ di crema e via, nessuno se ne sarebbe accorto. Era questo che la Bestia si era costruita attorno, la fama di un’assassina misantropa e apatica. Lei non era affatto apatica, aveva semplicemente preferito seppellire i suoi sentimenti cinque metri sotto terra per non sembrare debole. Nel distretto 2 non potevi permetterti di essere debole.

Ma , una sera a settimana, lei si dava il permesso di cedere e scappava dalla finestra. Correva via lungo il selciato che attraversava il boschetto cittadino e arrivava davanti a una grande casa bianca. Saliva sull’albero che la affiancava e guardava dalla finestra. La, sepolto dalle coperte, il motivo di tanta strada riposava beatamente, sognando manichini da sgozzare e spade. Clove non sapeva perché lo faceva, ma il solo fatto di non essere chiusa in quella prigione che era casa sua la faceva sentire meglio. E questo faceva per molte ore, lo osservava. Come una falena che rimane ferma a bearsi della luce al neon di un’insegna, lei rimaneva sul ramo, senza curarsi molto del freddo, ad osservarlo. Lei poteva essere trovata.

Il tempo passava e le cose andavano di male in peggio. Suo padre aveva perso il lavoro e tutti i soldi che avevano messo da parte finivano in rum, whisky, vodka e liquori vari. Erano senza una fonte di sostentamento e lei  mai e poi mai avrebbe lasciato l’accademia. Così mise in atto ciò che il suo maestro le aveva insegnato nel bosco, silenziosa come un’ombra. E ,colpo dopo colpo, rapina dopo rapina, la Bestia con le Zampe Sporche portava a casa il denaro che le serviva per vivere. Andò avanti così per molto tempo, tutte le notti un buon bottino.

E poi le capitò tra le mani una vittima conosciuta. Una vittima inspiegabile. Fece tutto come al solito, appostata dietro un frassino. Aveva sentito dei passi. Uno, due , tre. Aveva preso la persona alle spalle, puntandole il coltello alla gola, come amava fare. Ma la vittima quella notte non si era sbrigata a tirare fuori il suo portafogli e a svuotarne il contenuto per terra. Era rimasta ferma, a testa alta, sussurrando una sola parola.
-“Clove?”-
Conosceva quella voce, la conosceva fin troppo bene. Scostò velocemente la lama dalla gola del ragazzo e lo lasciò andare. Ripose il coltello nel fodero della giacca mentre la sagoma di Cato si delineava alla luce della luna. Allora era vero, quel maledetto la stava cercando e lei non sapeva se sputargli in faccia e dirgli di farsi una bella vagonata di cazzi suoi o se esserne felice. Il solo fatto di sentirsi la preda di qualcuno le faceva saltare i nervi. Era lei che predava, non che veniva predata.
-“Pensavo fossi qualcun altro, non volevo farti del male.”- disse la Bestia nella maniera più calma che conosceva.
-“Dov’eri finita?”- Eccolo che cominciava. La vagonata di cazzi suoi se la doveva fare, eccome. Eppure in quel momento lei non voleva che andasse via.
-“Ho avuto da fare”-
-“Perché non sei più venuta in Accademia?”-
-“Io in Accademia ci vado regolarmente, ma sono passata agli intensivi.”-
Stupida. Perché l’hai detto?
-“Che ci fai qua? Assali le persone nei boschi?”-
-“La mamma non ti ha detto che ci sono i cattivi nel bosco di notte?”-
Un sorrisetto sghembo apparve sulla faccia di Cato, donandogli un’espressione da imbecille come poche altre al mondo. Clove soffocò a fatica una risata. Risata? Quella parola le rimbombò in testa. Da quanto tempo era che la Bestia non rideva? Ormai aveva perso il conto. Anni, forse. Non aveva tempo e motivo per ridere. Ma quella faccia, quella faccia era troppo insulsa per non ridere.
Poi nessuno dei due disse più nulla. La ragazza piantò gli occhi nelle iridi ghiaccio del ragazzo, cercando la luce. Quella piccola scintilla che da troppo tempo non vedeva, talmente assorta negli allenamenti da non prestare più attenzione a niente. Quel bagliore che solo lui aveva, che solo lui poteva avere. La lampadina che attirava la falena che era in Clove. Ci si poteva perdere negli occhi della ragazza, ma in quelli del Diavolo no. La luce che aveva dentro avrebbe fatto strada. Per tanto tempo aveva cercato una guida, una luce, un’ancora di salvezza che non fossero il suo letto e la crema per gli ematomi. Forse, e dico forse, per la prima volta la Bestia dalle Zampe Sporche sentiva che si poteva fidare di qualcuno, di qualcuno che a sua volta voleva fidarsi di lei. Passò tanto, troppo tempo. Il guscio che la ragazza si era creata si stava lentamente e inesorabilmente incrinando.
-“Io devo andare adesso. Non preoccuparti , mi rivedrai prima di quanto pensi”- disse la ragazza prima di voltarsi e proseguire per la sua strada, lasciando impalato Cato.

La sera prima della Mietitura la ragazza tornò sull’albero davanti alla finestra del ragazzo. Seduta sul ramo, osservava la luce. E dopo tanto tempo, una piccola lacrima scese giù dai pozzi verde scuro che erano i suoi occhi. E poi un’altra. Nessuno sa perché, ma per una volta la Bestia mise da parte i coltelli e diede ascolto all’anima.
Clove aveva un bellissimo modo di piangere. Il suo viso rimaneva immobile mentre le gocce salate scendevano lungo le sue guance lentigginose. Avrebbe potuto ridere e parlare normalmente, la sua voce era comunque sicura e senza incrinature. Solo quelle lacrime erano il segno della sua tristezza. Non un singhiozzo, non un tremito. Il volto impassibile, solcato da gocce di sale che bruciavano. Le Bestie non piangevano, le Bestie uccidevano e basta. Eppure non fece niente per trattenerle, le lasciò scorrere liberamente sulle sue gote.
Lasciò che portassero via il sangue degli uccelli che alla mattina le facevano da bersagli mobili.
Lasciò che portassero via l’alcool che suo padre ingurgitava a litri.
Lasciò che portassero via i residui di mistura per curare gli ematomi della sera precedente.
Lasciò che portassero via il suo guscio di diamante.
Lasciò che portassero tutto il suo dolore altrove, perché dal giorno dopo non avrebbe più avuto occasioni di farlo.
 
Alla Mietitura la Bestia alzò le sue Zampe Sporche, come volontaria per gli Hunger Games. Salì decisa sul palco, un occhio nero e il labbro spaccato. Nulla da perdere, tutto da vincere. Perché lei poteva vincere, ne era sicura. Poi un altro paio di mani si alzarono, ma non erano le mani che si aspettava. Si ritrovò a stringere la mano del Diavolo, l’altro tributo per l’Arena.
Il fragile equilibrio che la ragazza aveva instaurato con se stessa si era sgretolato in pochi secondi. Cato come tributo significava una cosa sola.
La falena avrebbe dovuto uccidere la luce, o la luce avrebbe ucciso lei.
Nessuno venne a salutarla, prima che salisse sul treno, ma le arrivò un pacchetto. Dentro un tappo di bottiglia, un sacchettino di chiodi di garofano e un biglietto. Scritte con una matita spuntata, a caratteri tremolanti , un paio di parole.
“Scusami, Chiodino”.
Chiodino. Era il suo soprannome da bambina. Sua mamma l’aveva chiamata Clove in onore dei chiodi di garofano, che gli aveva detto possedere un significato speciale. Il pacchetto era di suo padre, che veniva a chiederle scusa dopo tanti anni.

Se lo portò in arena, il sacchetto di chiodi di garofano.
La Bestia si sporcò le Zampe più volte.
Le sporcò del sangue dei tributi più deboli alla Cornucopia.
Le sporcò di terra mentre tentava di fuggire dagli aghi inseguitori.
Le sporcò di farina quando ricevette il primo paracadute, che conteneva del pane.
Le sporcò di nuovo di sangue, lottando contro la sua luce, prima dell’annuncio.
Le usò per abbracciare Cato, l’unica persona di cui si fidava, quando seppe che potevano tornare a casa insieme.
E un’ultima volta le sporcò di sangue, il suo, che colava dalla ferita alla testa che le era stata fatta al Festino con una roccia. Avrebbe potuto uccidere la ragazza in fiamme, con i suoi tanto amati coltelli, se il ragazzo dell’undici non fosse intervenuto.
Poco prima che la roccia le colpisse il cranio, fracassandolo, lei chiamò il Diavolo.

Lui arrivò, quando tutti se n’erano andati e la sua compagna stava morendo. E la Bestia dalle Zampe Sporche cercò un’ultima volta la luce negli occhi del ragazzo. Ma capì solo in quel momento che lei non aveva bisogno della luce. Lei aveva bisogno di lui. Lui , che la stava pregando di restare viva. Non sarebbe vissuta oltre, ne era consapevole. Una lacrima solitaria le scese un’ultima volta dall’occhio destro. Allora la Bestia usò le Zampe un’altra volta. Prese il sacchetto di chiodi di garofano e lo donò ad un Cato piangente, ricordandone improvvisamente il significato. E prima di chiudere i conti col mondo, disse in un respiro al ragazzo
-“Vinci per me…”
E sorrise, Clove.

Poi l’oscurità trascinò via quella piccola Bestia dalle Zampe Sporche. Ma non avrebbe vagato nel buio, aveva una piccola luce tra le mani. Una luce potente, brillante più di ogni altra cosa.

 E prima di andarsene definitivamente dall’Arena si chiese se Cato avrebbe mai capito il significato di quel piccolo sacchetto di chiodi di garofano, piccoli e profumati.

Chiodi che significavano “Ti ho amato a tua insaputa.”

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IL KACTUS DI KRZYZ

E la povera Krzyz ricevette quattro vergate dalla Collins per il tremendo OOC di questo personaggio. 
A parte questo, ecco a voi un nuovo capitolo, questa volta incentrato su Clove :)
E' stato un lavoraccio e spero davvero che vi piaccia. (Scusate per la lunghezza, non è colpa mia D:)
I chiodi di garofano nel linguaggio dei fiori significano proprio "Ti ho amato a tua insaputa" e Clove in inglese vuol dire chiodo di garofano! 
Sperando che questo capitolone melense vi piaccia, un abbraccio! 
Saluti dal Kactus, _Krzyz
Un ringraziamento speciale a tutti quelli che seguono questa storia con passione! Grazie mille :)!

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Capitolo 13
*** 12 - La Fiaba dei Sei Magnifici Soli che Tramontarono Troppo Presto ***


“Is there still magic in the midnight sun
Or did you leave it back in ’61?”

 
Questa è La Fiaba dei Sei Magnifici Soli che Tramontarono troppo Presto.
 
C’era un sole nel distretto 4, che si chiamava Corey. Viveva con tutta la sua famiglia in una piccola casetta di legno di fronte a una baia ventosa. Amava andare a pesca con suo nonno e guardare i pesci affollarsi quando lanciava le briciole di pane in acqua. Era socievole e circondato da amici che gli volevano bene e aveva i capelli ricci e gli occhi chiari. Non era molto alto e non era molto forte, ma a lui andava bene così.

C’era un sole nel distretto 5, che si chiamava Ashen. Viveva con suo padre e sua sorella in una casupola a lato di una centrale idroelettrica. Amava disegnare e osservare le stelle che di notte si riflettevano sui pannelli fotovoltaici di un campo a qualche centinaio di metri da dove abitava. Era molto intelligente e tutti lo ammiravano per la sua determinazione, e aveva i capelli e gli occhi neri come la pece. Non era molto agile e non era molto bello, ma a lui andava bene così.

C’era un sole nel distretto 6, che si chiamava Jason. Viveva con i suoi genitori in una casa adiacente una stazione ferroviaria, di cui suo padre era il controllore. Amava nuotare nel laghetto distrettuale e cucinare piatti sempre nuovi per la sua famiglia, anche se avevano poco. Aveva uno spiccato senso della giustizia e aveva un pugno di amici fidati, e aveva i capelli biondi e gli occhi nocciola. Non era molto scaltro e non era molto veloce, ma a lui andava bene così.

C’era un sole nel distretto 7, che si chiamava Lukasz. Viveva con due cani , unica famiglia che gli era rimasta, in una microscopica casa a cinquanta metri dalla segheria dove lavorava. Amava arrampicarsi sugli alberi e prendersi cura degli animali. Era un tipo solitario e scontroso, non aveva amici e preferiva di gran lunga la compagnia delle bestie a quella delle persone, e aveva i capelli castano rossiccio e gli occhi grigi. Non era molto amichevole e non era molto robusto, ma a lui andava bene così.

C’era un sole nel distretto 8, che si chiamava Vaaron. Viveva con sua mamma e i suoi numerosi fratelli in una palazzina malconcia in periferia. Amava una ragazza già fidanzata e andare in campagna di nascosto nei fine settimana. Era una persona timida e riservata e aveva ben pochi amici, e aveva i capelli castani e gli occhi verdi. Non era molto amato e non era molto ricco, ma a lui andava bene così.

C’era un sole nel distretto 9, che si chiamava Ethan. Viveva con la sua famiglia in una casa piuttosto piccola in mezzo ad una distesa di grano, tipica del suo distretto. Amava il colore dei papaveri che fiorivano nel campo a primavera e vedere le sue sorelline giocare. Era una persona umile e sincera e aveva sempre molte persone su cui fare affidamento , e aveva i capelli biondo sporco e gli occhi color cielo. Non era molto abile con le armi e non era molto resistente, ma a lui andava bene così.

Tutti avevano in comune quei biglietti nelle urne delle Mietiture.
12 ne aveva il primo.  10 il secondo. 15 il terzo. 27 il quarto. 31 il quinto. 24 il sesto.
In tutti i casi quei biglietti vennero estratti e i sei soli strappati al loro distretto e alle loro famiglie.

I Sei Soli vennero curati e coccolati nella Città Del Lusso, rimessi a nuovo e accuditi con amore dai loro preparatori.
Tutti e sei finirono nell’Arena, dove nessuno di loro avrebbe mai voluto essere.
E uscirono uno alla volta dai tubi, tutti determinati a raggiungere un’arma nella Cornucopia sfidando il destino, tutti decisi a splendere ancora.

E il conto alla rovescia finì.
Un solo pensiero nella testa di Corey: correre verso la Cornucopia.
Un solo pensiero nella testa di Ashen: recuperare un machete.
Un solo pensiero nella testa di Jason: prendere la prima arma e scappare.
Un solo pensiero nella testa di Lukasz: diventare una bestia e tornare a casa.
Un solo pensiero nella testa di Varoon: doveva vincere per rivedere lei.
Un solo pensiero nella testa di Ethan: non ucciderà nessuno, non ne sarebbe in grado.
Correvano, i Sei Soli , verso un’ancora di salvezza.

Splendevano nel cielo tutti quanti, poi uno a uno cominciarono a calare, guidati verso il tramonto dai colpi di cannone.

Tramontò Ethan, il sole umile del 9, pensando alle sue sorelline che giocavano felici, con un coltello piantato nella schiena.
Tramontò Jason, il sole giusto del 6,  immergendosi un’ultima volta nelle gelide acque che tanto amava, infilzato dalla spada di un Favorito.
Tramontò Ashen, il sole intelligente del  5, diventando parte di uno scarabocchio rosso sangue a carboncino, con una freccia conficcata di sbieco nel petto.
Tramontò Vaaron, il sole timido dell’8, rimpiangendo di non essersi mai rivelato alla ragazza che tanto amava, con una lancia che gli trapassava lo stomaco.
Tramontò Lukasz, il sole solitario del 7, chiedendosi cosa avrebbero fatto Diesel e Ronnie, i due fedeli cani lupo che aspettavano il suo ritorno, con un machete piantato nel cranio.
Tramontò Corey, il sole amichevole del 4, pensando ai pesci e al vento, con la giugulare recisa da parte a parte da un ragazzo molto più grande di lui.
Tutti quanti vennero spenti troppo presto, troppo in fretta, da un gioco preverso che non potevano evitare.

E ora chissà dove splendono, quei Sei Magnifici Soli.
Chissà se la loro luce scalderà altre genti.
Chissà se il loro fuoco continuerà ad ardere sopra le teste di persone sconosciute.
Ma non sono morti invano, quei sei giovani ragazzi. Perché il fuoco dei loro soli ha contribuito inconsapevolmente a creare la scintilla, la scintilla che molto tempo dopo estinse il dominio di Capitol City sulle innocenti vite di Panem.

I Sei Magnifici soli tramontarono.
Sei giovani vite si spensero.
Sei piccole anime volarono nel nulla.
Sei piccole candele vennero accese quella sera, da un uomo cieco che non aveva nome, per ricordare quei ragazzi morti nel Bagno di Sangue.
E le sei piccole candele non si spegneranno mai, se qualcuno in cuor suo avrà la forza di ricordare quei Sei Magnifici Soli.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Ed ecco a voi un nuovo capitolo! Questa volta abbiamo i sei ragazzi morti al bagno di sanue inizale :) 
Ma sono finiti i tributi? Si, ma questo non vuol dire che sia finita la storia! 
Vi aspetto al prossimo capitolo!
Un abbraccione, _Krzyz

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Capitolo 14
*** Epilogo - Polvere, Rami ed Anime ***


“In the cadence of a young man’s eyes
Out where the dreams all hide…”
 
Il Barlume.
Il Diavolo.
Il Sognatore.
Il Quattordicenne.
Il Pastore Zoppo.
Il Passo di Vento.
Le Cinque Rondini.
La Cinciallegra.
Il Toro.
La Volpe.
La Ragazza.
La Bestia.
I Sei Magnifici Soli.
 Così finirono le storie.
 
E quella stessa sera, l’uomo senza nome e senza volto si avviò in un campo, con una lanterna e una busta di semi.
Era freddo e l’umidità si condensava sul vetro dell’unica fonte di luce che l’uomo aveva tra le mani. E si fermò in un campo polveroso, dove mai nulla era cresciuto e dove mai nulla avrebbe germogliato.
Eppure l’uomo ci provò. Piantò ventidue semi di ventidue alberi diversi e li piantò in cerchio, alla luce della luna. Passò con quel poco di acqua che aveva, un goccio per ogni seme.
E respirò. Chiuse gli occhi e lentamente il suo corpo si dissolse, la polvere tornava alla polvere. Portata via, da venti lontani, granello dopo granello. E dell’uomo senza nome e senza volto non rimase che un libro e la lanterna rovesciata per terra.
Nessuno se lo aspettava, eppure accadde.

I Ventidue alberi crebbero forti e rigogliosi, tutti vicini. E sul tronco di ogni albero un nome.
 
“Glimmer” c’era scritto sul primo. Ed era un frassino bellissimo, dai rami perfetti.
“Marvel” c’era scritto sul secondo. Ed era un’altissima betulla dai rami intricati e rivolti verso l’alto.
“Clove” c’era scritto sul terzo. Ed era una piccola acacia spinosa, su un ramo era posata la lanterna dell’uomo.
“Cato” era scritto sul quarto. Ed era un possente faggio, i cui rami si intrecciavano a protezione del piccolo albero che aveva di fianco.
“Keira” c’era scritto sul quinto. Ed era un carpino slanciato, coi rami diritti.
“Seth” c’era scritto sul sesto. Ed era un ontano, i rami protesi a toccare il cielo.
“Coraline” c’era scritto sul settimo. Ed era un pino marittimo con un aquilone tra i rami, che un bambino incosciente si era fatto sfuggire dalle mani.
“Corey” c’era scritto sull’ottavo. Ed era un piccolissimo corbezzolo dalla folta chioma.
“Finch” c’era scritto sul nono. Ed era un timido acero giapponese dalle foglie rosse come il fuoco, i cui rami erano rivolti verso il basso, come se piangesse.
“Ashen” c’era scritto sul decimo. Ed era un leccio non troppo alto e non troppo grosso.
“Edith” c’era scritto sull’undicesimo. Ed era una roverella dai rami sottili ma resistenti.
“Jason” c’era scritto sul dodicesimo. Ed era un pioppo bianco alto e giusto.
“Myree” c’era scritto sul tredicesimo. Ed era un abete rosso dalle radici robuste.
“Lukasz” c’era scritto sul quattordicesimo. Ed era un ippocastano a cui qualcuno aveva attaccato due collari per cani ai rami.
“Reeva” c’era scritto sul quindicesimo. Ed era uno splendido liquidambar dalle foglie di mille sfumature diverse.
“Vaaron” c’era scritto sul sedicesimo. Ed era un tiglio dai rami timidi, che a stento sfioravano gli alberi vicini.
“Hayley” c’era scritto sul diciassettesimo. Ed era un acero opalo dalle foglie aranciate e dal tronco sottile.
“Ethan” c’era scritto sul diciottesimo. Ed era un noce tra le cui radici erano cresciuti dei papaveri.
 “Romi” c’era scritto sul diciannovesimo. Ed era una tamerice africana non molto alta, che con un ramo aiutava il grande albero di fianco a lei.
“Nathaniel” c’era scritto sul ventesimo. Ed era un grande tasso cresciuto storto, un palo di legno lo aiutava a stare dritto.
“Rue” c’era scritto sul ventunesimo. Ed era un delicato ciliegio selvatico, tra i suoi rami molti uccelli avevano fatto il nido.
“Thresh” c’era scritto sul ventiduesimo. Ed era una quercia grande e forte, ma le sue radici erano accoglienti.
 
La loro storia era nella terra, le radici erano salde.
La loro storia era nel cielo, i rami protesi verso l’alto.
La loro storia era nella polvere di quel luogo, dove affondavano gli alberi.
La loro storia era nel vento, trasportata da mille voci lontane.
 
E nessuno si scordò più di loro, nessuno dimenticò che erano vissuti.
E così, al pari di Katniss e Peeta, anche i Ventidue avrebbero vissuto per l’eternità.

Così finisce La Fiaba di Una Terra di Polvere.
Così comincia la nuova, eterna, meravigliosa vita di Ventidue anime che erano finite nell’oblio e si sono salvate.

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IL KACTUS DI KRZYZ

E anche questa storia è finita. Ma non finiranno loro, se lo vorremo, il loro ricordo resterà vivo.
Come non ringraziare tutte le persone che fino a questo punto mi hanno seguito con fervore? Grazie mille a Lovewillremember, Denny Cullen, moon_26, ehykaya, Nene2312, Sconsy_Crazy, musike e un abbraccio speciale alla Fedelissima Pervinca Potter 97! :) 
Un ringraziamento sentito anche alle 4 preferite, alle 2 ricordate e alle 5 seguite!
Questa storia è anche merito vostro!
Un grande abbraccio e un sentito arrivederci! 
Saluti dal Kactus, _Krzyz

 

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