Ricordi

di Malinne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Freddo ***
Capitolo 2: *** Il bambino triste (I parte) ***



Capitolo 1
*** Freddo ***


Freddo.

Il fantoccio.

La luna spiava curiosa. Il bosco mormorò impaurito. Il vento sussurrava sinistro. Il buio inghiottì. Il silenzio scese. Un colpo esplose. C’era un bambino. Il bambino era un fantoccio. Il fuoco si spense. Il freddo pungeva. Era lì. Dentro di lui. La rabbia implose. La bestia emerse. Divorava, selvaggia e accecata. Era il male.

L’avrebbe colpito. Ancora e ancora. Finché non gli sarebbe più rimasta forza in corpo.

Un colpo. E la roccia scricchiolò sotto le sue nocche. Lasciò l’impronta di sangue del suo pugno impressa sulla parete. Senza vederla, né guardarla. Senza provare dolore. Senza provare nulla, se non quel freddo che gli scorreva in corpo come veleno.

Ansimava, forse per la stanchezza, forse per la rabbia che nasceva dentro di lui senza un perché né una ragione. E qualcuno gridava.

Il freddo era ancora pungente, come una neve perenne.

Un altro colpo. La roccia s’infranse. Il sangue schizzò, sporcando la sua pelle bianca, immacolata e peccaminosa. Gridò, senza nemmeno riuscire a scalfire quella lastra di ghiaccio. Era una prigione buia, di vuoto indolente e gelido nulla. Scatenarvi contro la sua rabbia non sarebbe bastato a ottenere la grazia per la libertà. C’era un prezzo da pagare più alto e prezioso: se stesso. Doveva uscirne, o sarebbe morto dal freddo, tramutato in una statua di ghiaccio. E intanto le grida si facevano più intense e bestiali. Quando si accorse che chi stava urlando era lui.

Faceva freddo, c’era un maledetto freddo.

Ancora un colpo. A scricchiolare questa volta non fu la roccia. E quei versi inarticolati e disumani non potevano essere i suoi, potevano soltanto essere quelli di un mostro.

C’era freddo. Tanto freddo.

Un altro colpo, un altro grido. La pena era stata scontata per quella notte. La luna si nascose dietro le nubi, impaurita e orripilata. L’oscurità calò in un sospiro, densa e glaciale. Era finita. Il suo corpo vibrò quasi fosse una corda di violino e, allo stremo, si ruppe. Il respiro si mozzò. La bocca rigurgitò sangue. I muscoli pulsavano strappati. Le ossa gridavano per le lesioni. E taceva. Aspettava. Si ascoltava. E qualcosa arrivò. Senza gentilezza, o cortesia, ma con sgarbo e violenza. Quel qualcosa così crudele e brutale lo investì senza ritegno. Era dolore.

La neve si sciolse, la valanga crollò e travolse impietosa.

Il freddo era svanito. Bruciava il fuoco di un dolore che lo scaldava, piacevole e brutale. Crollò a terra, investito dalla potenza della valanga contro la quale sapeva di non poter lottare. E rimase al suolo a contorcersi come un serpente inchiodato al suolo da una spada. A maledire il suo nemico che non sapeva sconfiggere. A imprecare contro se stesso, troppo debole per vincere. Contro chi lo aveva abbandonato e lasciato solo a marcire in quella prigione. E allora capì. Gemeva senza versare una lacrima contro la verità che aveva scoperto e compreso. Per quanto lottasse per innalzarsi al candore del cielo, avrebbe sempre strisciato sulla terra fredda.

Orochimaru si abbandonò. Chiuse gli occhi. E non pensò più.

La bestia affogò. La rabbia morì. Il freddo svaniva. Il fuoco s’accese. C’era un fantoccio. Il fantoccio era un bambino. Il bambino gridò. Senza una lacrima. Senza emozione. Il corpo ardeva. Il respirò tremò. Gli occhi si chiusero. Il sonno calò. Il silenzio avvolse. E tutto finì.

*

Ricordi.

Gocce. Gocce di pioggia . Cadevano stanche sul lago, increspando l’acqua in strani disegni che distorcevano il mondo riflesso in quello specchio naturale. Il vecchio molo, ammuffito e decrepito, si stagliava contro il cielo grigio. La baita scricchiolava con fare sonnacchioso. Un tempo quel luogo aveva conosciuto la vita che poi lo aveva abbandonato. Ora ne rimanevano la carcassa e il suo fantasma. L’odore stantio del legno marcio e quello delicato del muschio erano penetranti. Mai nessuno aveva osato avvicinarsi a quel luogo di decadenza, dove gli unici inquilini erano il silenzio e la solitudine. L’unico visitatore che lo aveva profanato era un bambino triste e pallido seduto sulla banchina. Fissava il proprio riflesso e faceva dondolare distrattamente i piedi nudi sfiorando appena l’acqua con le dita. Sembrava che non si accorgesse della pioggia o dell’odore putrido gli s’impregnava addosso. Si sporse oltre il bordo, per osservarsi meglio. Era un bambino diverso dagli altri. Si passò una mano tra i capelli, chiedendosi perché fossero così scuri. Erano morbidi e lisci, di vellutata seta nera. Così diversi. Poi fece scorrere un dito sul viso. timido. La pelle era liscia e fredda al tatto, bianca e delicata come porcellana. Sembrava voler essere sporcata. Perché era così bianca… così diversa? Fece scorrere ancora il dito, piano, in una carezza gentile. Sospirò, ebbro del piacere che gli aveva lasciato quel gesto d’affetto, anche se autoimposto. Si soffermò sulle palpebre. Scostò il dito, aprì gli occhi. Sapeva che il suo sguardo era temuto ed ammirato, ma non si aspettava di poter stregare se stesso. Le sue iridi erano due pietre d’ambra incastonate nell’alabastro. Quegli occhi parevano sussurrare parole che incantavano, un desiderio segreto e insano.

Si chiedeva perché gli occhi degli altri bambini fossero soltanto occhi, così normali e umani. I suoi erano occhi di serpe. L’aveva visto. Una volta, da qualche parte, si era soffermato ad ammirare un antico arazzo, rapito. Raffigurava una vecchia leggenda: un serpente bianco si contorceva per liberarsi dagli artigli di un falco nero.

«Sarutobi-sensei, quegli occhi sono uguali ai miei» aveva detto.

Il maestro aveva abbassato lo sguardo e aveva annuito in silenzio.

«Perché sono così diversi da quelli degli altri?»
«Non lo so, Orochimaru.»
Il ragazzo tacque e riprese a fissare quell'immagine. «Perché il serpente non riesce a liberarsi?»
Sarutobi esitò. Sembrava a disagio. Evitò di guardare il suo allievo prima di rispondere. «Perché la leggenda è simbolo della vittoria del bene sul male. Il falco è colui che porta la luce. È il giustiziere. Il serpente è l’oscurità. Il peccatore.»
«Quale peccato ha commesso il serpente?»
«Secondo la leggenda, voleva rubare le ali al falco per poter volare. Voleva giocare con il tempo e l’equilibrio della vit. Questo è sbagliato.»
«Ma non è giusto» ribatté Orochimaru. «Sarutobi-sensei, il serpente non ha mai potuto volare…»
«Credi davvero che potesse essere giusto provare il falso delle sue ali? Ognuno deve accettare il proprio destino. La natura ha donato a tutti noi un corpo con doti e difetti unici. Non possiamo usufruire di quelli degli altri, possiamo solo migliorare. Capisci?»

Il ragazzo preferì non replicare. Il suo viso si rabbuiò.

Il maestro sorrise. «Cosa c’è, Orochimaru? Avresti preferito vedere un serpente volare?»

«È che…» mormorò, concentrandosi sul serpente bianco, «non… non voglio strisciare per sempre.»

Il sorriso che illuminava il volto di Sarutobi si spense come se qualcuno avesse soffiato sul lume di una candela. «Certe volte vorrei sapere cosa ti frulla per quella testa?» Non si aspettò una risposta dell’allievo, sapeva che non sarebbe arrivata. Sospirò, posandogli una mano sulla spalla e sorrise di nuovo quando il ragazzo trasalì a quel semplice contatto. Si chiese come un corpo così esile e delicato potesse sprigionare una forza mostruosa come quella che svelava durante gli allenamenti. Aveva un’ossatura sottile e debole al tatto e la pelle bianca gli donava un’aria ancora più fragile. Cercò il suo sguardo. Avrebbe voluto rassicurarlo, proteggerlo, vederlo sorridere una volta soltanto, con sincerità. Gli occhi scuri di Sarutobi incontrarono per un istante quelli del ragazzo. Fu come tuffarsi nel buio. Quegli occhi erano animati da una fiamma fredda e fievole che si sarebbe spenta per sempre al primo alito di vento. Una frenesia assopita che si sarebbe svegliata al minimo tocco. Una rabbia che gridava per la brama di vendetta, incatenata, nascosta chissà dove in una stanza buia. E là, più a fondo, un’ambizione ormai libera che vagava senza metà, come un animale selvatico. Scorse il covo della più splendida solitudine, fino a percepire i respiri tremanti della paura nella profondità del vuoto. Qualcosa strisciava e sibilava nell’ombra. Sarutobi sussultò come se fosse scampato a un incubo.

«Sarutobi-sensei, perché mi guardi in quel modo?»

Sobbalzò. La voce del suo allievo lo riportò alla realtà. «Non è niente, Orochimaru» rispose. Aveva la gola secca. «Non è niente, stai tranquillo.»

Distolse lo sguardo, orripilato. Si accorse che il suo corpo era scosso da brividi. Rivoli di sudore freddo gli scorrevano lungo la schiena. I suoi occhi scivolarono da Orochimaru al serpente ritratto in quell’arazzo. Per la prima volta, vide quel ragazzo sotto la luce in cui lo vedevano tutti: era un mostro.

«Torniamo dagli altri?» chiese Sarutobi. Si stupì che la sua voce suonasse così ferma nonostante l’inquietudine.

Orochimaru annuì. Si incamminò verso i suoi compagni che ridevano e scherzavano su chissà quale fantasia. Sarutobi rimase a guardarlo mentre si allontanava. Aveva finalmente scorso ciò che ogni abitante del villaggio temeva. Strinse le dita in un pugno, affondando le unghie nella carne. Orochimaru era infinitamente debole nella sua forza immensa. Se avesse potuto, Sarutobi l’avrebbe aiutato. Sarebbe stato pronto a offrire la sua mano se solo Orochimaru gliel’avesse chiesto. Ma a volte, parole semplici e brevi come “aiutami” sono sforzi disumani e così difficili da dire. Orochimaru aveva ancora un orgoglio e di certo non sarebbe stato il suo maestro a ferirlo. Credere negli altri è la virtù dell’ingenuo che ha ancora una coscienza. Sarutobi, molto tempo fa, aveva deciso di lasciarlo libero di scegliere. La sua opinione non era cambiata. Le cose si sarebbero risolte da sole.

E Orochimaru non avrebbe mai chiesto aiuto se il maestro non glielo avesse offerto. Non avrebbe sprecato un nemmeno un fiato. E mai avrebbe scalfito il suo orgoglio. Si sarebbe chiuso in se stesso, aspettando che quel veleno lo infettasse fino a devastarlo. Senza una parola. Senza opporsi. Era più semplice l’attesa, si sarebbe consumato come una statua che si sgretola con il passare del tempo. Si sarebbe frantumato fino a essere niente più di una rovina. Niente più che un cumulo di macerie. Ma nel frattempo avrebbe aspettato. Avrebbe continuato a prendere a pugni la roccia ogni notte per accendere quel fuoco che nasceva alla luce della luna e moriva col sorgere del sole. L’avrebbe fatto per il cuore che una volta aveva.

«Orochimaru?»

La voce lo strappò dai ricordi. Sussultò. Si girò rapido e si trovò faccia a faccia con un ragazzino dagli straordinari capelli argentei e spettinati. Lo fissava a due centimetri dal naso con aria interrogativa.

«Non è meglio ripararsi?»

Orochimaru si accorse di essere completamente fradicio. Si alzò e si sistemò l’abito con aria disorientata. «Che ci fai qui, Jiraiya?»

«Certo che sei strano!» esclamò, piegando la testa di lato. «Che diavolo ci fai tu qui? Sei sparito da questa mattina, pioveva a dirotto e Sarutobi-sensei ci ha chiesto dove fossi finito… ti stavamo cercando.»

Orochimaru non rispose, come se non avesse sentito una parola di quel che aveva detto il compagno. Lanciò un ultimo sguardo al lago e iniziò ad incamminarsi lungo il molo, ignorandolo completamente.

Jiraiya s’infervorò. «Dannazione, Orochimaru! Mi vuoi rispondere? Non credo di essere diventato trasparente!»

L’altro si fermò, senza voltarsi. Passò qualche secondo, poi la risposta arrivò fredda: «Nessuno vi ha chiesto di venirmi a cercare.»

«Cosa? Che diavolo stai dicendo?! Nessuno ti ha visto al villaggio, casa tua era deserta… Ci siamo preoccupati, mi pare normale!»

Orochimaru sbuffò, spazientito. «Avevo voglia di stare solo, Jiraiya. È proibito?»

«Come se fosse una novità.»

«Cosa vuoi dire?»

«Voglio dire che invece di fare lo sbruffone e di atteggiarti tanto, qualche volta potresti stare anche in compagnia dei comuni mortali, come me e Tsunade! Siamo una squadra, se non ti è ancora entrato in testa!»

Orochimaru strinse la mano in un pugno. «Purtroppo, lo so perfettamente.»

«Cosa..?»

«Voi due mi ostacolate soltanto. Siete due palle al piede.»

Jiraiya spalancò gli occhi, incredulo. Aprì e chiuse la bocca, come se non sapesse con quale epiteto offenderlo. Poi abbassò lo sguardo e lasciò che le braccia gli cadessero lungo i fianchi. Quando guardò Orochimaru nei suoi occhi c’era una grande tristezza. «Perché? Perché, Orochimaru? Mi vuoi spiegare perché ti comporti così?»

La pioggia continuava a cadere. «Sei uno stupido, Jiraiya.»

«Sarei uno stupido? Sei tu lo stupido, dannazione! E rispondimi quando ti chiedo qualcosa!»

«Anche se ti sforzassi, non potresti comunque capire. Puoi metterti il cuore in pace.»

«Allora perché non provi a spiegarmi? Almeno fammi il favore di provare prima di trarre le conclusioni.»

Orochimaru fece una smorfia. «Sarebbe comunque inutile. Una perdita di tempo.»

«Perché?»

«Perché non sei capace di vedere… anche se hai la chiave di tutto a due centimetri dal naso.»

Jiraiya corrugò le sopracciglia. «Cosa dovrei vedere?»

«Lascia perdere. Torna da dove sei venuto e lasciami in pace.»

«Credevo fossimo amici.»

«Io credevo che ci fosse un limite alla stupidità.»

Calò il silenzio. La tensione era così densa che sembrava poter essere toccata. Jiraiya tremava. Digrignò i denti. Poi perse il controllo. Era troppo. «Ti credi tanto superiore solo perché sei migliore di me in qualche giochetto, ma non si dimostra così il valore di una persona! Stai solo dimostrando di essere poco meno di niente, di non essere niente più di un bambino arrogante ed egoista! Sto cercando di aiutarti, cretino! Almeno vienimi incontro invece che recitare la parte del misterioso!»

La maschera di Orochimaru crollò con la stessa rapidità con cui la calma di Jiraiya era svanita. «Non ho bisogno di essere aiutato! Chi mai ha voluto chiedere aiuto ad un incapace come te?»

Un fulmine cadde in un frastuono. Senza preavviso, Jiraiya si avventò sull’altro, scaraventandolo a terra. «Sei un maledetto bastardo!» Lo afferrò per il colletto della divisa e lo colpì al volto con tutta la forza che aveva in corpo. Colto di sorpresa, Orochimaru non reagì. «Non te ne importa niente se io, Tsunade e Sarutobi-sensei cerchiamo di capire che diavolo hai per la testa! Finalmente darò la risposta che tanto cerca al sensei! Sei un bastardo egoista

Questa volta, Orochimaru contrattaccò. «Jiraiya!» Proiettò l’altro parecchi metri più avanti con un calcio e si lanciò su di lui. Gli assestò un pugno in pieno viso, ricambiando il colpo. «Stai zitto e non parlare di cose che non capisci, idiota!»

Orochimaru non diede all’altro la possibilità di sottrarsi alla sua rabbia. Il suo volto era deformato dall’ira. Continuò a colpirlo, ancora e ancora. Era come colpire la roccia. Bastava aspettare che la fiamma lo riempisse, scaldandolo. Uno fiotto di sangue gli schizzò il volto. Il ragazzo si fermò di colpo. Lasciò Jiraiya e lentamente si portò una mano alla guancia, pulendosi da quel sangue non proprio. Fissò le sue dita, chiazzate di scarlatto. Le portò lentamente alla bocca e le leccò. Qualcosa diverso dal dolore si accese in lui. Vide l’espressione di Jiraiya mutare dal dolore all’orrore. Orochimaru rideva. Afferrò il compagno per la veste, avvicinandolo al proprio viso. I suoi occhi erano accesi da un bagliore che non aveva mai visto prima. Era pura follia. Ansimava, ma non per la stanchezza. Sembrava sotto l’effetto di una droga, travolto dall’estasi. «Adesso dimmi perché sono felice, Jiraiya. Voglio sapere perché…» il suo tono era una supplica disperata. Socchiuse gli occhi. Si morse il labbro inferiore e gettò il capo all’indietro. Scattò nuovamente in avanti, ebbro d’emozione. «Non fa più freddo.» Jiraiya scosse il capo, incredulo. Orochimaru fece per colpirlo un’altra volta.

Un calcio sferzò il petto di Orochimaru scagliandolo con forza sul molo, lontano dal compagno. Sbatté la violentemente testa e rotolò parecchi metri più in là. Il mondo vorticava furiosamente in una scia di colori. Tutto era sfuocato e confuso. Fece per alzarsi, ma cadde nuovamente a terra. Udì un’eco di passi sempre più vicini a lui che risuonavano come rumori lontani anni luce. Un lampo illuminò il cielo, grigio di collera, e una figura che incombeva su di lui. Orochimaru socchiuse gli occhi, tentando di mettere a fuoco il suo aggressore. L’uomo si chinò e il ragazzo cercò di indietreggiare, ma l’uomo gli afferrò il polso. «Che diavolo stavi facendo?»
Riconobbe la voce di Sarutobi. Jiraiya si affiancò al maestro, ancora sconvolto. Un rivolo di sangue gli colava dalle labbra.
Orochimaru non rispose. Aprì e chiuse la bocca, ma uscirono solo suoni strozzati.

Sarutobi si rivolse all’altro. «Jiraiya?»

«Sarutobi-sensei… ho iniziato io. È colpa mia. L’ho attaccato. Mi ha provocato di nuovo e… non sono riuscito a controllarmi» mormorò, in un soffio. Abbassò gli occhi neri a terra. Sapeva che quel dettaglio sarebbe venuto a galla.

«Mi deludete. Mi deludete entrambi, sì» disse in una bassa voce pericolosa, quando Jiraiya fece per aprir bocca. «A quanto pare non avete ancora capito la lezione. Mi chiedo perché ho accettato di insegnarvi l’arte dei ninja. Siete due stupidi.»

«Sarutobi-sensei, ascoltami…Orochimaru…» iniziò Jiraiya, ma il maestro lo zittì con un cenno della mano.

«Questa volta no, Jiraiya. Non voglio sentire scuse da nessuno dei due. Se non fossi intervenuto... non so come sarebbe finita.»

Il ragazzo tacque. Rimase silenzioso a fissare il maestro che esaminava il capo di Orochimaru in cerca di una lesione. Per un attimo, lo sguardo di Orochimaru incontrò quello di Jiraiya. Quella luce che aveva visto poco prima era svanita. Gli occhi del ragazzo ora erano privi di rancore o follia. Erano soltanto due occhi tristi e vuoti.«Sarutobi-sensei… fa freddo.»

Il jonin lo scrutò con aria interrogativa.

«Non sei ferito… Riesci ad alzarti?» gli chiese freddamente Sarutobi. Il ragazzo annuì. Sostenuto dall’aiuto dell’uomo si resse in piedi. Le sue gambe erano malferme. Barcollò, gemendo. Sarutobi lo resse prontamente. «Andiamo. Dobbiamo farti visitare dalla squadra medica.» I due s’incamminarono sotto la pioggia.

Jiraiya non si mosse. Esitò, poi prese fiato. «Sarutobi-sensei! Perché non mi ascolti?»

«Ti ho già detto che non voglio sentire scuse. Dovresti ringraziare per il fatto che non vi abbia puniti, invece di replicare. Ora vieni. Torniamo al villaggio prima che il tuo compagno perda i sensi.»

«Lo vedi, sensei? Sembri arrabbiato soltanto con me! Ma anche lui ha giocato la sua parte e prima…»

«Non voglio sentire una parola di più! Smettila con queste sciocchezze, voi due avete già dato spettacolo per oggi!»

Jiraiya sembrava sull’orlo delle lacrime. Pestò con rabbia il piede sul pontile. «Ho ammesso di aver sbagliato, ma tu non vuoi nemmeno ascoltarmi! Hai occhi soltanto per lui!»

Sarutobi fece per controbattere, ma Orochimaru lo interruppe. «Sarutobi-sensei…» sussurrò piano. «Non arrabbiarti con lui... non è colpa sua. Mi sono comportato male.»

Fu come se qualcuno avesse appena detto a Jiraiya che il sole non sarebbe sorto l’indomani. Sbalordito quanto Sarutobi, non si azzardò neppure a fiatare per paura d’aver sentito male. Il ragazzo moro era accasciato contro il suo maestro e sembrava quasi incosciente.

«Sensei, credi che si senta bene?» fece Jiraiya in un fil di voce, gli occhi spalancati.

«Credo solo che la botta in testa l’abbia scombussolato un po’» disse il maestro, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito. «Andiamo, Jiraiya. Aiutami a tenerlo. Torniamo al villaggio, Tsunade sarà preoccupata. Chissà, forse un giorno quella ragazza riuscirà a mettervi un po’ di sale in zucca.»

I tre si incamminarono verso Konoha. Jiraiya lanciò un ultimo sguardo a Orochimaru e per un momento gli fece tenerezza. Sentiva di aver penetrato quella corazza che si era creato il compagno e di averlo toccato dove mai nessuno l’aveva sfiorato. Rabbrividì mentre le parole che aveva sussurrato Orochimaru gli rimbombavano nella mente, ma provò una grande compassione mentre comprendeva il significato di quella frase. “Adesso dimmi perché sono felice, Jiraiya. Voglio sapere perché…”. Avrebbe mantenuto il segreto e promise a se stesso di fare in modo di non sentire mai più quelle parole. Si sarebbe avvicinato a lui di nascosto, in punta di piedi e senza far rumore, per non spaventarlo. Avrebbe fatto un passo alla volta finché non sarebbe stato al suo fianco. Perché sapeva cosa significasse essere soli, pur essendo circondati da un sacco di persone.

Distolse lo sguardo e sorrise, in segreto. Il cielo era buio e livido, ma lui si accorse che aveva appena smesso di piovere.

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Capitolo 2
*** Il bambino triste (I parte) ***


Nuova pagina 1

Il bambino triste.

 

"Questa è la storia di una patetica donna che non sapeva amare.

Aveva partorito e allattato un mostro. Quell’essere si era nutrito di lei, nel suo ventre, per nove mesi.

Poi aveva visto la luce. La donna, invece, aveva visto l’orrore. Il suo cuore si spezzò e si detestò completamente.

L’incapace madre non seppe amare il proprio figlio e da feccia morì. Perché i mostri si uccidono, non si amano. Nient’altro va raccontato. Solo dolore."

 

Il silenzio, curioso e ghignante, origliava nell’oscurità. La notte senza luna sospirava un freddo vento sinistro. La casa taceva. Le ombre sembravano esibirsi in una macabra danza alla fioca luce della candela. Il pianto di una donna era immerso nel buio. Rannicchiata nell’angolo, nel suo corpo ossuto e patetico, puzzava di lacrime e paura. Isterica, affondò le dita tra i capelli neri. Li strappò. Graffiò il volto, le braccia, le gambe. I suoi fastidiosi, tragici singhiozzi si trasformarono in inarticolate grida di rabbia. Una sola parola risuonava nella testa: mostro.

La donna urlò.

La flebile fiammella tremolò incerta. Timidi passi mossi da piedi infantili si avvicinarono a lei. C’era un bambino, un bambino triste. Si chinò sulla donna piangente.

«Mamma, che cos’hai?»

La donna strinse forte le ginocchia al petto. Tremò. Strizzò le palpebre per non vedere. Si morse il labbro inferiore per non gridare. Il bambino allungò una mano bianca per accarezzarle la fronte. «Mamma, cos’hai?» sussurrò.

Lei, schifata, schiaffeggiò via la sua mano. Spalancò gli occhi ricolmi d’orrore.

«Non mi toccare!» ringhiò.

Il bambino triste sussultò. Ma non si diede per vinto. Le sue labbra azzardarono un sorriso tremolante. «Mamma, posso abbracciarti?»

La donna si ritrasse, come se qualcuno l’avesse percossa. «Vattene via!» Alzò lo sguardo. Il respiro le mancò. Il viso che guardava era quello di un mostro. I suoi capelli neri e lisci gli incorniciavano il volto di una mostruosa eleganza. La pelle era di un bianco innaturale; né pallida né chiara, soltanto bianca. I suoi occhi color dell’ambra non erano occhi umani. Erano occhi di serpe.

La donna reclinò il capo in una smorfia d’orripilato dolore.

Il triste bambino mostro era suo figlio.

«Vattene...» mormorò. «Devi andartene, esci di qui…»

Il bambino non capiva. «Perché?»

«Devi ubbidire alla mamma e basta» sussurrò lei. «Devi ubbidirmi e fare il bravo bambino, altrimenti papà ti farà di nuovo male…»

«È stato papà a farti piangere?»

La donna scosse la testa. Lo sforzo che fece a rispondergli fu enorme. «No, non è stato lui. Ma adesso vattene.»

«Non voglio» piagnucolò lui. «Voglio stare con te. Non voglio che tu pianga.»

«È tutto a posto.»

Il bambino si morse il labbro inferiore, scuotendo la testa. «Non è vero, è una bugia. Tu sei triste. Perché?»

Il respiro della donna accelerò. «Perché la mamma è stupida. La mamma non sa amare…»

«Non è vero! Tu mi vuoi bene!»

Lei sorrise tra le lacrime. Il suo cuore si spezzò e si detestò completamente.

La donna guardò il bambino e per un momento lo amò. Fu un unico istante. Allungò le braccia tremanti come per prendere tra le mani quel viso e accarezzarlo, baciarlo sulla fronte e sussurrargli parole dolci. Era suo figlio. In quel momento non vide nient’altro. La donna rise tra i gemiti. Fu madre per pochi secondi.

Ma quando il bambino la implorò in silenzio con quegli occhi di serpe, lei smise d’amarlo per sempre.

Aveva partorito e allattato un mostro. Quell’essere si era nutrito di lei, nel suo ventre, per nove mesi. Poi aveva visto la luce. La donna, invece, aveva visto l’orrore.

Quel ricordo la fece quasi vomitare per il disgusto. Quel bambino mostro era stato parte di lei. Non poteva essere suo figlio. E non l’avrebbe mai amato.

Perché i mostri si uccidono, non si amano.

La paura la invase e la pietrificò. Le lacrime scesero senza che lei se n’accorgesse. Poi trasalì. Il bambino aveva afferrato delicatamente la sua mano e l’aveva portata ad accarezzarsi la guancia. Aveva chiuso gli occhi, godendo di quel falso affetto con un sorriso triste. «Mamma…» mormorò.

L’orrore la travolse. La donna lo schiaffeggiò. Il bambino rovinò a terra.

Lei gridò. Si conficcò le unghie negli occhi. In quel buio squarciato da urla di dolore e paura, la donna si accecò per non vedere mai più quel volto. La sua faccia era una maschera di sangue.

 

La porta si spalancò. Un uomo irruppe nella stanza. La candela si spense. Le grida si fecero più intense. Il bambino premette forte le mani sulle orecchie. L’uomo lo colpì. Ringhiava, animalesco. Colpì più volte quel corpo di mostruoso bambino con tutta la forza che aveva in corpo, come una bestia feroce. Poi lo sollevò e lo gettò come un fantoccio contro la parete. L’uomo cadde in ginocchio, ai piedi della donna urlante. Scosse la testa, incredulo. Mormorò il suo nome. Il volto di lei era sporco di sangue, lacrime e vergogna. La donna sbavava e frignava. Graffiò il proprio viso e lo percosse, dissennata. Imprecò e strillò oscenità. L’uomo disse forte il suo nome, la implorò. La chiamò ancora e ancora. Poi urlò, sfinito e selvaggio. Le afferrò le mani, disperato. Le scostò i capelli dal volto, le afferrò il viso ma non c’erano più occhi per vedere. Gridò il suo nome più e più volte finché le sue urla non si trasformarono in un pianto incontrollato, folle. Si scostò da lei, in lacrime. Si passò una mano insanguinata sul viso, tingendolo di rosso. Estrasse la spada e la finì.

L’incapace madre non seppe amare il proprio figlio e da feccia morì.

Il silenzio piombò in quella stanza intrisa di lacrime, sangue e paura.

L’uomo riprese a singhiozzare. Si alzò e si avvicinò al bambino. La lama della spada scintillò nel buio. Il corpo del bambino era un ammasso informe sul pavimento. Aprì gli occhi, lentamente. L’uomo incombeva su di lui.

«Papà?» sussurrò il bambino.

L’uomo dal viso tinto di rosso non rispose, immobile nella stanza buia, silenziosa e macchiata di sangue. Sollevò la spada.

Il bambino spalancò gli occhi di serpe nell’oscurità.

La spada arse d’argento. Sfuggì dalle mani dell’uomo. Roteò nell’aria. Lo trafisse e lo decapitò. La sua testa rotolò al suolo e scese il silenzio.

Nient’altro va raccontato. Solo dolore.

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