Freddo.
Il fantoccio.
La luna spiava curiosa. Il bosco mormorò impaurito. Il
vento sussurrava sinistro. Il buio inghiottì. Il silenzio scese. Un colpo
esplose. C’era un bambino. Il bambino era un fantoccio. Il fuoco si spense. Il
freddo pungeva. Era lì. Dentro di lui. La rabbia implose. La bestia emerse.
Divorava, selvaggia e accecata. Era il male.
L’avrebbe colpito. Ancora e ancora. Finché non gli sarebbe
più rimasta forza in corpo.
Un colpo. E la roccia scricchiolò sotto le sue
nocche. Lasciò l’impronta di sangue del suo pugno impressa sulla parete. Senza
vederla, né guardarla. Senza provare dolore. Senza provare nulla, se non
quel freddo che gli scorreva in corpo come veleno.
Ansimava, forse per la stanchezza, forse per la rabbia che
nasceva dentro di lui senza un perché né una ragione. E qualcuno gridava.
Il freddo era ancora pungente, come una neve
perenne.
Un altro colpo. La roccia s’infranse. Il sangue
schizzò, sporcando la sua pelle bianca, immacolata e peccaminosa. Gridò, senza
nemmeno riuscire a scalfire quella lastra di ghiaccio. Era una prigione buia, di
vuoto indolente e gelido nulla. Scatenarvi contro la sua rabbia non sarebbe
bastato a ottenere la grazia per la libertà. C’era un prezzo da pagare più alto
e prezioso: se stesso. Doveva uscirne, o sarebbe morto dal freddo, tramutato in
una statua di ghiaccio. E intanto le grida si facevano più intense e bestiali.
Quando si accorse che chi stava urlando era lui.
Faceva freddo, c’era un maledetto freddo.
Ancora un colpo. A scricchiolare questa volta non fu
la roccia. E quei versi inarticolati e disumani non potevano essere i suoi,
potevano soltanto essere quelli di un mostro.
C’era freddo. Tanto freddo.
Un altro colpo, un altro grido. La pena era stata
scontata per quella notte. La luna si nascose dietro le nubi, impaurita e
orripilata. L’oscurità calò in un sospiro, densa e glaciale. Era finita. Il suo
corpo vibrò quasi fosse una corda di violino e, allo stremo, si ruppe. Il
respiro si mozzò. La bocca rigurgitò sangue. I muscoli pulsavano strappati. Le
ossa gridavano per le lesioni. E taceva. Aspettava. Si ascoltava. E qualcosa
arrivò. Senza gentilezza, o cortesia, ma con sgarbo e violenza. Quel qualcosa
così crudele e brutale lo investì senza ritegno. Era dolore.
La neve si sciolse, la valanga crollò e travolse
impietosa.
Il freddo era svanito. Bruciava il fuoco di un dolore che
lo scaldava, piacevole e brutale. Crollò a terra, investito dalla potenza della
valanga contro la quale sapeva di non poter lottare. E rimase al suolo a
contorcersi come un serpente inchiodato al suolo da una spada. A maledire il suo
nemico che non sapeva sconfiggere. A imprecare contro se stesso, troppo debole
per vincere. Contro chi lo aveva abbandonato e lasciato solo a marcire in quella
prigione. E allora capì. Gemeva senza versare una lacrima contro la verità che
aveva scoperto e compreso. Per quanto lottasse per innalzarsi al candore del
cielo, avrebbe sempre strisciato sulla terra fredda.
Orochimaru si abbandonò. Chiuse gli occhi. E non pensò più.
La bestia affogò. La rabbia morì. Il freddo svaniva. Il
fuoco s’accese. C’era un fantoccio. Il fantoccio era un bambino. Il bambino
gridò. Senza una lacrima. Senza emozione. Il corpo ardeva. Il respirò tremò. Gli
occhi si chiusero. Il sonno calò. Il silenzio avvolse. E tutto finì.
*
Ricordi.
Gocce. Gocce di pioggia . Cadevano stanche sul lago,
increspando l’acqua in strani disegni che distorcevano il mondo riflesso in
quello specchio naturale. Il vecchio molo, ammuffito e decrepito, si stagliava
contro il cielo grigio. La baita scricchiolava con fare sonnacchioso. Un tempo
quel luogo aveva conosciuto la vita che poi lo aveva abbandonato. Ora ne
rimanevano la carcassa e il suo fantasma. L’odore stantio del legno marcio e
quello delicato del muschio erano penetranti. Mai nessuno aveva osato
avvicinarsi a quel luogo di decadenza, dove gli unici inquilini erano il
silenzio e la solitudine. L’unico visitatore che lo aveva profanato era un
bambino triste e pallido seduto sulla banchina. Fissava il proprio riflesso e
faceva dondolare distrattamente i piedi nudi sfiorando appena l’acqua con le
dita. Sembrava che non si accorgesse della pioggia o dell’odore putrido gli
s’impregnava addosso. Si sporse oltre il bordo, per osservarsi meglio. Era un
bambino diverso dagli altri. Si passò una mano tra i capelli, chiedendosi
perché fossero così scuri. Erano morbidi e lisci, di vellutata seta nera.
Così diversi. Poi fece scorrere un dito sul viso. timido. La pelle era
liscia e fredda al tatto, bianca e delicata come porcellana. Sembrava voler
essere sporcata. Perché era così bianca… così diversa? Fece scorrere
ancora il dito, piano, in una carezza gentile. Sospirò, ebbro del piacere che
gli aveva lasciato quel gesto d’affetto, anche se autoimposto. Si soffermò sulle
palpebre. Scostò il dito, aprì gli occhi. Sapeva che il suo sguardo era temuto
ed ammirato, ma non si aspettava di poter stregare se stesso. Le sue iridi erano
due pietre d’ambra incastonate nell’alabastro. Quegli occhi parevano sussurrare
parole che incantavano, un desiderio segreto e insano.
Si chiedeva perché gli occhi degli altri bambini fossero
soltanto occhi, così normali e umani. I suoi erano occhi di serpe. L’aveva
visto. Una volta, da qualche parte, si era soffermato ad ammirare un antico
arazzo, rapito. Raffigurava una vecchia leggenda: un serpente bianco si
contorceva per liberarsi dagli artigli di un falco nero.
«Sarutobi-sensei, quegli occhi sono uguali ai miei»
aveva detto.
Il maestro aveva abbassato lo sguardo e aveva annuito in
silenzio.
«Perché sono così diversi da quelli degli altri?»
«Non lo so, Orochimaru.»
Il ragazzo tacque e riprese a fissare quell'immagine. «Perché il serpente non
riesce a liberarsi?»
Sarutobi esitò. Sembrava a disagio. Evitò di guardare il suo allievo prima di
rispondere. «Perché la leggenda è simbolo della vittoria del bene sul male. Il
falco è colui che porta la luce. È il giustiziere. Il serpente è l’oscurità. Il
peccatore.»
«Quale peccato ha commesso il serpente?»
«Secondo la leggenda, voleva rubare le ali al falco per poter volare. Voleva
giocare con il tempo e l’equilibrio della vit. Questo è sbagliato.»
«Ma non è giusto» ribatté Orochimaru. «Sarutobi-sensei, il serpente non ha mai
potuto volare…»
«Credi davvero che potesse essere giusto provare il falso delle sue ali? Ognuno
deve accettare il proprio destino. La natura ha donato a tutti noi un corpo con
doti e difetti unici. Non possiamo usufruire di quelli degli altri, possiamo
solo migliorare. Capisci?»
Il ragazzo preferì non replicare. Il suo viso si
rabbuiò.
Il maestro sorrise. «Cosa c’è, Orochimaru? Avresti
preferito vedere un serpente volare?»
«È che…» mormorò, concentrandosi sul serpente bianco,
«non… non voglio strisciare per sempre.»
Il sorriso che illuminava il volto di Sarutobi si spense
come se qualcuno avesse soffiato sul lume di una candela. «Certe volte vorrei
sapere cosa ti frulla per quella testa?» Non si aspettò una risposta
dell’allievo, sapeva che non sarebbe arrivata. Sospirò, posandogli una mano
sulla spalla e sorrise di nuovo quando il ragazzo trasalì a quel semplice
contatto. Si chiese come un corpo così esile e delicato potesse sprigionare una
forza mostruosa come quella che svelava durante gli allenamenti. Aveva
un’ossatura sottile e debole al tatto e la pelle bianca gli donava un’aria
ancora più fragile. Cercò il suo sguardo. Avrebbe voluto rassicurarlo,
proteggerlo, vederlo sorridere una volta soltanto, con sincerità. Gli occhi
scuri di Sarutobi incontrarono per un istante quelli del ragazzo. Fu come
tuffarsi nel buio. Quegli occhi erano animati da una fiamma fredda e fievole che
si sarebbe spenta per sempre al primo alito di vento. Una frenesia assopita che
si sarebbe svegliata al minimo tocco. Una rabbia che gridava per la brama di
vendetta, incatenata, nascosta chissà dove in una stanza buia. E là, più a
fondo, un’ambizione ormai libera che vagava senza metà, come un animale
selvatico. Scorse il covo della più splendida solitudine, fino a percepire i
respiri tremanti della paura nella profondità del vuoto. Qualcosa strisciava e
sibilava nell’ombra. Sarutobi sussultò come se fosse scampato a un incubo.
«Sarutobi-sensei, perché mi guardi in quel modo?»
Sobbalzò. La voce del suo allievo lo riportò alla
realtà. «Non è niente, Orochimaru» rispose. Aveva la gola secca. «Non è niente,
stai tranquillo.»
Distolse lo sguardo, orripilato. Si accorse che il suo
corpo era scosso da brividi. Rivoli di sudore freddo gli scorrevano lungo la
schiena. I suoi occhi scivolarono da Orochimaru al serpente ritratto in
quell’arazzo. Per la prima volta, vide quel ragazzo sotto la luce in cui lo
vedevano tutti: era un mostro.
«Torniamo dagli altri?» chiese Sarutobi. Si stupì che la
sua voce suonasse così ferma nonostante l’inquietudine.
Orochimaru annuì. Si incamminò verso i suoi compagni che
ridevano e scherzavano su chissà quale fantasia. Sarutobi rimase a guardarlo
mentre si allontanava. Aveva finalmente scorso ciò che ogni abitante del
villaggio temeva. Strinse le dita in un pugno, affondando le unghie nella carne.
Orochimaru era infinitamente debole nella sua forza immensa. Se avesse
potuto, Sarutobi l’avrebbe aiutato. Sarebbe stato pronto a offrire la sua mano
se solo Orochimaru gliel’avesse chiesto. Ma a volte, parole semplici e brevi
come “aiutami” sono sforzi disumani e così difficili da dire. Orochimaru aveva
ancora un orgoglio e di certo non sarebbe stato il suo maestro a ferirlo.
Credere negli altri è la virtù dell’ingenuo che ha ancora una coscienza.
Sarutobi, molto tempo fa, aveva deciso di lasciarlo libero di scegliere. La sua
opinione non era cambiata. Le cose si sarebbero risolte da sole.
E Orochimaru non avrebbe mai chiesto aiuto se il maestro
non glielo avesse offerto. Non avrebbe sprecato un nemmeno un fiato. E mai
avrebbe scalfito il suo orgoglio. Si sarebbe chiuso in se stesso, aspettando che
quel veleno lo infettasse fino a devastarlo. Senza una parola. Senza opporsi.
Era più semplice l’attesa, si sarebbe consumato come una statua che si sgretola
con il passare del tempo. Si sarebbe frantumato fino a essere niente più di una
rovina. Niente più che un cumulo di macerie. Ma nel frattempo avrebbe aspettato.
Avrebbe continuato a prendere a pugni la roccia ogni notte per accendere quel
fuoco che nasceva alla luce della luna e moriva col sorgere del sole. L’avrebbe
fatto per il cuore che una volta aveva.
«Orochimaru?»
La voce lo strappò dai ricordi. Sussultò. Si girò rapido e
si trovò faccia a faccia con un ragazzino dagli straordinari capelli argentei e
spettinati. Lo fissava a due centimetri dal naso con aria interrogativa.
«Non è meglio ripararsi?»
Orochimaru si accorse di essere completamente fradicio. Si
alzò e si sistemò l’abito con aria disorientata. «Che ci fai qui, Jiraiya?»
«Certo che sei strano!» esclamò, piegando la testa di lato.
«Che diavolo ci fai tu qui? Sei sparito da questa mattina, pioveva a
dirotto e Sarutobi-sensei ci ha chiesto dove fossi finito… ti stavamo cercando.»
Orochimaru non rispose, come se non avesse sentito una
parola di quel che aveva detto il compagno. Lanciò un ultimo sguardo al lago e
iniziò ad incamminarsi lungo il molo, ignorandolo completamente.
Jiraiya s’infervorò. «Dannazione, Orochimaru! Mi vuoi
rispondere? Non credo di essere diventato trasparente!»
L’altro si fermò, senza voltarsi. Passò qualche secondo,
poi la risposta arrivò fredda: «Nessuno vi ha chiesto di venirmi a cercare.»
«Cosa? Che diavolo stai dicendo?! Nessuno ti ha visto al
villaggio, casa tua era deserta… Ci siamo preoccupati, mi pare normale!»
Orochimaru sbuffò, spazientito. «Avevo voglia di stare
solo, Jiraiya. È proibito?»
«Come se fosse una novità.»
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che invece di fare lo sbruffone e di
atteggiarti tanto, qualche volta potresti stare anche in compagnia dei comuni
mortali, come me e Tsunade! Siamo una squadra, se non ti è ancora entrato in
testa!»
Orochimaru strinse la mano in un pugno. «Purtroppo, lo so
perfettamente.»
«Cosa..?»
«Voi due mi ostacolate soltanto. Siete due palle al piede.»
Jiraiya spalancò gli occhi, incredulo. Aprì e chiuse la
bocca, come se non sapesse con quale epiteto offenderlo. Poi abbassò lo sguardo
e lasciò che le braccia gli cadessero lungo i fianchi. Quando guardò Orochimaru
nei suoi occhi c’era una grande tristezza. «Perché? Perché, Orochimaru? Mi vuoi
spiegare perché ti comporti così?»
La pioggia continuava a cadere. «Sei uno stupido, Jiraiya.»
«Sarei uno stupido? Sei tu lo stupido, dannazione! E
rispondimi quando ti chiedo qualcosa!»
«Anche se ti sforzassi, non potresti comunque capire. Puoi
metterti il cuore in pace.»
«Allora perché non provi a spiegarmi? Almeno fammi il
favore di provare prima di trarre le conclusioni.»
Orochimaru fece una smorfia. «Sarebbe comunque inutile. Una
perdita di tempo.»
«Perché?»
«Perché non sei capace di vedere… anche se hai la chiave di
tutto a due centimetri dal naso.»
Jiraiya corrugò le sopracciglia. «Cosa dovrei vedere?»
«Lascia perdere. Torna da dove sei venuto e lasciami in
pace.»
«Credevo fossimo amici.»
«Io credevo che ci fosse un limite alla stupidità.»
Calò il silenzio. La tensione era così densa che sembrava
poter essere toccata. Jiraiya tremava. Digrignò i denti. Poi perse il controllo.
Era troppo. «Ti credi tanto superiore solo perché sei migliore di me in qualche
giochetto, ma non si dimostra così il valore di una persona! Stai solo
dimostrando di essere poco meno di niente, di non essere niente più di un
bambino arrogante ed egoista! Sto cercando di aiutarti, cretino! Almeno vienimi
incontro invece che recitare la parte del misterioso!»
La maschera di Orochimaru crollò con la stessa rapidità con
cui la calma di Jiraiya era svanita. «Non ho bisogno di essere aiutato! Chi mai
ha voluto chiedere aiuto ad un incapace come te?»
Un fulmine cadde in un frastuono. Senza preavviso, Jiraiya
si avventò sull’altro, scaraventandolo a terra. «Sei un maledetto bastardo!» Lo
afferrò per il colletto della divisa e lo colpì al volto con tutta la forza che
aveva in corpo. Colto di sorpresa, Orochimaru non reagì. «Non te ne importa
niente se io, Tsunade e Sarutobi-sensei cerchiamo di capire che diavolo hai per
la testa! Finalmente darò la risposta che tanto cerca al sensei! Sei un
bastardo egoista!»
Questa volta, Orochimaru contrattaccò. «Jiraiya!» Proiettò
l’altro parecchi metri più avanti con un calcio e si lanciò su di lui. Gli
assestò un pugno in pieno viso, ricambiando il colpo. «Stai zitto e non parlare
di cose che non capisci, idiota!»
Orochimaru non diede all’altro la possibilità di sottrarsi
alla sua rabbia. Il suo volto era deformato dall’ira. Continuò a colpirlo,
ancora e ancora. Era come colpire la roccia. Bastava aspettare che la fiamma lo
riempisse, scaldandolo. Uno fiotto di sangue gli schizzò il volto. Il ragazzo si
fermò di colpo. Lasciò Jiraiya e lentamente si portò una mano alla guancia,
pulendosi da quel sangue non proprio. Fissò le sue dita, chiazzate di scarlatto.
Le portò lentamente alla bocca e le leccò. Qualcosa diverso dal dolore si accese
in lui. Vide l’espressione di Jiraiya mutare dal dolore all’orrore. Orochimaru
rideva. Afferrò il compagno per la veste, avvicinandolo al proprio viso. I suoi
occhi erano accesi da un bagliore che non aveva mai visto prima. Era pura
follia. Ansimava, ma non per la stanchezza. Sembrava sotto l’effetto di una
droga, travolto dall’estasi. «Adesso dimmi perché sono felice, Jiraiya. Voglio
sapere perché…» il suo tono era una supplica disperata. Socchiuse gli occhi. Si
morse il labbro inferiore e gettò il capo all’indietro. Scattò nuovamente in
avanti, ebbro d’emozione. «Non fa più freddo.» Jiraiya scosse il
capo, incredulo. Orochimaru fece per colpirlo un’altra volta.
Un calcio sferzò il petto di Orochimaru scagliandolo con
forza sul molo, lontano dal compagno. Sbatté la violentemente testa e rotolò
parecchi metri più in là. Il mondo vorticava furiosamente in una scia di colori.
Tutto era sfuocato e confuso. Fece per alzarsi, ma cadde nuovamente a terra. Udì
un’eco di passi sempre più vicini a lui che risuonavano come rumori lontani anni
luce. Un lampo illuminò il cielo, grigio di collera, e una figura che incombeva
su di lui. Orochimaru socchiuse gli occhi, tentando di mettere a fuoco il suo
aggressore. L’uomo si chinò e il ragazzo cercò di indietreggiare, ma l’uomo gli
afferrò il polso. «Che diavolo stavi facendo?»
Riconobbe la voce di Sarutobi. Jiraiya si affiancò al maestro, ancora sconvolto.
Un rivolo di sangue gli colava dalle labbra.
Orochimaru non rispose. Aprì e chiuse la bocca, ma uscirono solo suoni
strozzati.
Sarutobi si rivolse all’altro. «Jiraiya?»
«Sarutobi-sensei… ho iniziato io. È colpa mia. L’ho
attaccato. Mi ha provocato di nuovo e… non sono riuscito a controllarmi»
mormorò, in un soffio. Abbassò gli occhi neri a terra. Sapeva che quel dettaglio
sarebbe venuto a galla.
«Mi deludete. Mi deludete entrambi, sì» disse in una bassa
voce pericolosa, quando Jiraiya fece per aprir bocca. «A quanto pare non avete
ancora capito la lezione. Mi chiedo perché ho accettato di insegnarvi l’arte dei
ninja. Siete due stupidi.»
«Sarutobi-sensei, ascoltami…Orochimaru…» iniziò Jiraiya, ma
il maestro lo zittì con un cenno della mano.
«Questa volta no, Jiraiya. Non voglio sentire scuse da
nessuno dei due. Se non fossi intervenuto... non so come sarebbe finita.»
Il ragazzo tacque. Rimase silenzioso a fissare il maestro
che esaminava il capo di Orochimaru in cerca di una lesione. Per un attimo, lo
sguardo di Orochimaru incontrò quello di Jiraiya. Quella luce che aveva visto
poco prima era svanita. Gli occhi del ragazzo ora erano privi di rancore o
follia. Erano soltanto due occhi tristi e vuoti.«Sarutobi-sensei… fa freddo.»
Il jonin lo scrutò con aria interrogativa.
«Non sei ferito… Riesci ad alzarti?» gli chiese
freddamente Sarutobi. Il ragazzo annuì. Sostenuto dall’aiuto dell’uomo si resse
in piedi. Le sue gambe erano malferme. Barcollò, gemendo. Sarutobi lo resse
prontamente. «Andiamo. Dobbiamo farti visitare dalla squadra medica.» I due
s’incamminarono sotto la pioggia.
Jiraiya non si mosse. Esitò, poi prese fiato.
«Sarutobi-sensei! Perché non mi ascolti?»
«Ti ho già detto che non voglio sentire scuse. Dovresti
ringraziare per il fatto che non vi abbia puniti, invece di replicare. Ora
vieni. Torniamo al villaggio prima che il tuo compagno perda i sensi.»
«Lo vedi, sensei? Sembri arrabbiato soltanto con me! Ma
anche lui ha giocato la sua parte e prima…»
«Non voglio sentire una parola di più! Smettila con queste
sciocchezze, voi due avete già dato spettacolo per oggi!»
Jiraiya sembrava sull’orlo delle lacrime. Pestò con rabbia
il piede sul pontile. «Ho ammesso di aver sbagliato, ma tu non vuoi nemmeno
ascoltarmi! Hai occhi soltanto per lui!»
Sarutobi fece per controbattere, ma Orochimaru lo
interruppe. «Sarutobi-sensei…» sussurrò piano. «Non arrabbiarti con lui... non è
colpa sua. Mi sono comportato male.»
Fu come se qualcuno avesse appena detto a Jiraiya che il
sole non sarebbe sorto l’indomani. Sbalordito quanto Sarutobi, non si azzardò
neppure a fiatare per paura d’aver sentito male. Il ragazzo moro era accasciato
contro il suo maestro e sembrava quasi incosciente.
«Sensei, credi che si senta bene?» fece Jiraiya in un fil
di voce, gli occhi spalancati.
«Credo solo che la botta in testa l’abbia scombussolato un
po’» disse il maestro, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito. «Andiamo,
Jiraiya. Aiutami a tenerlo. Torniamo al villaggio, Tsunade sarà preoccupata.
Chissà, forse un giorno quella ragazza riuscirà a mettervi un po’ di sale in
zucca.»
I tre si incamminarono verso Konoha. Jiraiya lanciò un
ultimo sguardo a Orochimaru e per un momento gli fece tenerezza. Sentiva di aver
penetrato quella corazza che si era creato il compagno e di averlo toccato dove
mai nessuno l’aveva sfiorato. Rabbrividì mentre le parole che aveva sussurrato
Orochimaru gli rimbombavano nella mente, ma provò una grande compassione mentre
comprendeva il significato di quella frase. “Adesso dimmi perché sono felice,
Jiraiya. Voglio sapere perché…”. Avrebbe mantenuto il segreto e
promise a se stesso di fare in modo di non sentire mai più quelle parole. Si
sarebbe avvicinato a lui di nascosto, in punta di piedi e senza far rumore, per
non spaventarlo. Avrebbe fatto un passo alla volta finché non sarebbe stato al
suo fianco. Perché sapeva cosa significasse essere soli, pur essendo circondati
da un sacco di persone.
Distolse lo sguardo e sorrise, in segreto. Il cielo era
buio e livido, ma lui si accorse che aveva appena smesso di piovere. |