Intertwined - Sogni intrecciati di blackmiranda (/viewuser.php?uid=102533)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 1 *** Prologue ***
Prologo
Intertwined
Prologue
A:
La cosa che preferisco dell'alba è che quando arriva non te ne
accorgi mai del tutto. Basta distogliere lo sguardo per un attimo e
-bum!- eccola lì, la luce del mattino, comparsa all'orizzonte da
un momento all'altro. E di colpo il cielo è chiaro, le stelle
svaniscono, gli uccellini iniziano a cinguettare... E io posso
finalmente scivolare sotto le coperte e addormentarmi, incurante dei
raggi del sole che invadono la mia camera. Chiudo gli occhi e sono in
pace, non vedo e non sento nulla – dormo, non importa quando mi
sveglierò.
Q: E fai così ogni notte? Stai sveglia ad aspettare l'alba?
A: Beh, no, non ogni notte. Dipende... Dipende dagli incubi che faccio la sera prima, di solito. (pausa) Lo so cosa sta pensando.
Q: E cosa starei pensando?
A: “Non sei un po' grandicella per passare le notti
insonni a causa dei brutti sogni?” Me l'hanno detto in tanti, sa.
(ride) Persino i miei genitori. Ma io ci sono abituata, sono
organizzata. Tende tirate, luci accese, porta chiusa, snack nel primo
cassetto del comodino, internet a portata di mano, a volte tv se
c'è qualche maratona di un telefilm che seguo. Tengo il volume
al minimo per non svegliare i miei: le cuffie non le uso, non mi piace
essere isolata dai rumori esterni.
Q: …
A: Ovvio che non sempre funziona. Con la scuola è
durissima, non ce la faccio a stare sveglia e prima o poi crollo
– di solito verso le due della notte. Svegliarsi, alzarsi dal
letto, ingoiare qualcosa a colazione... Sono cose che fatico a fare, se
non ho dormito bene la notte prima. Seguire le lezioni è anche
peggio. (sospira) E poi i prof. rompicazzo chiamano a casa, mio padre
si incazza con me e mi tiene sotto controllo per qualche giorno. E
lì amen, lucina attaccata alla testiera del letto, libro e/o
fumetto e via, leggo finché non crollo. Devo distrarmi, in
qualche modo. Da bambina non riuscivo a farlo, stavo semplicemente
immobile, con gli occhi sbarrati e la bocca serrata, attenta a non fare
il minimo rumore. Quasi non respiravo. Stiamo parlando di ore, eh.
Neanche mi passava per la testa di chiamare i miei, perché avrei
fatto troppo rumore, ed era quello che lui
si aspettava che facessi. No, bisognava stare fermi e zitti
finché non si fosse stancato e se ne fosse andato. Me ne stavo
lì, rannicchiata sotto le coperte, a fissare il vuoto, il buio
nero come la pece.
Q: E chi sarebbe questo “lui”?
A: … Che domande. Di cosa hanno paura i bambini?
Q: Dipende. Tu di cosa avevi paura?
A: … Dell'Uomo Nero.
N/A: Questo è, innanzitutto, un esperimento. Lo stile,
per me, è una novità, nel senso che di solito scrivo in
terza persona con narratore onniscente. Inoltre, questa è la
long più seria che io abbia mai tentato di scrivere (speriamo
bene!). Quella che vorrei scrivere potrebbe essere considerata una storia d'amore, ma anche no, nel senso che non vado pazza per le storie d'amore. Forse possesso
sarebbe un termine migliore, in questo caso. Ovviamente, Pitch ne
sarà il protagonista assoluto; spero di riuscire a dipingerlo al
meglio. Dal prologo non si capisce granché, me ne rendo conto,
ma ho voluto lasciare le cose un po' nell'ombra. :) Non so quando
aggiornerò, perché ho già due long in cantiere e
troppo poco tempo libero; si vedrà. Intanto pianto il primo
seme, prima o poi crescerà la pianta. :)
Non ho intenzione di usare lo "stile copione" nei prossimi capitoli,
non preoccupatevi. Questo era strutturato come se si trattasse di una
visita dallo psicologo, di appunti o qualcosa di simile (Q e A starebbero per question e answer).
Ringrazio Pinoolast's Graphic- Video (https://www.facebook.com/PinoolastsGraphicVideo?fref=ts) e Astrid Romanova per il magnifico banner qui sopra. Non riesco a staccare gli occhi... O.o
Grazie per aver letto. ;)
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Capitolo 2 *** I ***
Cap. 1
I
I'd say “sweet dreams”, but there aren't any left.
Sono bottoni, sulla pancia di una
bambola di pezza abbandonata su una sedia. I bottoni sono gialli, forse
appartengono ad una salopette. Due simmetrici bottoni gialli, eppure
paiono fissarmi.
La bambola è in penombra, non
la vedo bene, ma in qualche modo so che è brutta, sgraziata, con
un sorriso cucito malamente sulla faccia grigia e quei capelli
stopposi, di lana nera – eccola, si sta muovendo, oscilla sulla
sedia e quasi cade, apre la bocca e chiede...
“In che anno fu firmato il Trattato di Parigi?”
Sussulto e apro gli occhi. Merda.
“Signorina Compton. Mi fa piacere constatare quanto le interessi la lezione.”
Come sempre, gli occhi dei miei compagni sono tutti addosso a me. Il
professore di Storia incrocia le braccia al petto, aspettando una
risposta o quantomeno delle scuse – anche se forse delle
suppliche sarebbero più utili.
“Mi... dispiace infinitamente.” mormoro chinando il capo. Vorrei sprofondare. Merda!
L'uomo sospira, mi volta le spalle e ripete la domanda, a cui risponde
Jacob Greaves, laggiù dalla prima fila. La lezione riprende,
quasi tutti tornano a farsi gli affari loro, a parte un paio di stronzi
che continuano a guardarmi come se fossi un alieno. Ignorali.
Sfoglio le pagine del libro: sono rimasta indietro di più di
qualche facciata. Eppure ho chiuso gli occhi solo per un secondo...
Mi sembra di morire. Dio, cosa darei per un letto morbido. O anche una
poltrona, o un cuscino. Ora come ora, dormirei anche sul pavimento. Concentrati. Trattato di Parigi. 1783. Affondo le dita nei capelli e tiro, tiro forte. Non devo addormentarmi, non posso.
***
Come sempre, all'uscita da scuola mi sento come una reduce di guerra.
Anche per oggi la tortura è finita. Ora devo solo trovare la
forza necessaria per arrivare a casa senza crollare per strada.
Coraggio, è facile. Basta camminare - piede destro, piede sinistro - e ripetere in sequenza finché non si è arrivati.
Mi sento come il mostro di Frankenstein. In quanto a grazia e
agilità siamo identici, e probabilmente anche il colorito
è quello.
Se non altro, l'aria invernale mi aiuta a stare cosciente. E' il caldo
che mi frega, e in classe sembra di essere in un forno, con i
termosifoni perennemente accesi. Insomma, come si fa a non cedere alle
lusinghe del sonno? E poi dicono che quando muori di freddo senti caldo
e ti addormenti. Aspetta, lo dicono davvero o me lo sono inventato..?
Va beh, evidentemente anche questa è una nozione troppo
complicata, per il mio povero cervello cotto dall'insonnia.
In qualche modo riesco a farmi strada attraverso la neve accumulatasi
per terra tra ieri notte e stamattina. Il pensiero del Natale riesce a
risollevarmi un po' l'umore: niente scuola, niente sveglia alla mattina
– yay! -, niente rotture di scatole per ben due settimane. Un sogno.
Arrivo nel vialetto di casa – fortuna che papà ha spalato
la neve, o avrei seriamente rischiato uno scivolone di quelli da gambe
all'aria -, afferro le chiavi, salgo i tre gradini che mi separano
dalla porta già inghirlandata, entro. Finalmente.
“Heather!”
Oh, e adesso che ho fatto? Sono appena arrivata a casa!
“Che c'è?” Apparentemente, anche la voce è quella del mostro di Frankenstein.
“Ti avevo detto di mettere in ordine la tua stanza una settimana
fa, ed è ancora nel caos più completo. I tuoi zii
arrivano alle sette, regolati come meglio credi.” Il tono di
rimprovero nella voce di mia madre ha quasi il potere di farmi
avvampare per la vergogna.
“Adesso vado!” urlo stancamente dall'ingresso, sfilandomi
gli stivali pieni di neve dai piedi e barcollando in direzione della
mia stanza.
“Tra cinque minuti è pronto!”
“Non ho fame!” Appoggiata alla porta chiusa della mia
camera da letto c'è una brandina marrone ripiegata, un po'
arrugginita agli angoli. “E questa?” chiedo a voce alta,
scostandola dalla porta e appoggiandola al muro.
“Stanotte tu dormi lì, e Kathy dorme nel tuo letto.” risponde mia madre dalla cucina.
“Oh, fantastico! Fai dormire l'insonne nella brandina, sono sicura che dormirà da dio.”
Mia madre sbuffa. “Tesoro, è solo per una notte, non vorrai mica far dormire tua cugina sulla brandina?”
Sbuffo di rimando. “E' una bambina,
i bambini dormono ovunque.” Rimango in ascolto in attesa di una
risposta, ma tutto quello che sento è un familiare quanto
irritante spignattare. Rassegnata, apro la porta ed entro in camera. E'
vero, devo riconoscere che è parecchio incasinata: la scrivania
è letteralmente sepolta sotto una montagna di vestiti; svariati
libri giacciono per terra, abbandonati a se stessi; giusto sotto il
comodino, una flora composta da involucri di merendine cresce
rigogliosa. Inoltre, nonostante gran parte dei vestiti che uso sia
sulla scrivania, l'armadio è pieno da scoppiare.
Corrugo la fronte. Da quanto non apro l'armadio? Faccio mente locale e
realizzo che sono passati mesi, dall'ultima volta. Appoggio lo zaino
sul letto sfatto (tanto dovrò cambiare le lenzuola, ci deve
dormire Kathy) e mi guardo attorno, sconsolata. Non so proprio da dove
iniziare, mi gira la testa, vorrei tanto dormire...
Chiudo gli occhi per un istante, un
solo – benedetto – istante, ed eccoli lì, i bottoni
gialli ci sono ancora, fluttuano nell'oscurità come un paio di...
occhi...
Apro gli occhi di scatto e mi passo una mano sulla fronte.
Perché sono andata dallo psicologo della scuola? Cosa cavolo mi
è venuto in mente? Forse mi diverto a passare per matta? Ammirate, signore e signori, la sedicenne che ha ancora paura dell'Uomo Nero.
Scommetto che Kathy è più coraggiosa di me, e lei ha otto anni.
Mi giro a guardare l'armadio, con le sue ante in legno scuro e le
maniglie di ottone. E' un armadio vecchio, era di mia madre; non l'ho
mai cambiato perché non l'ho mai usato molto, ma forse avrei
dovuto: sa di vecchio, di polvere, e magari è per questo che mi
ha sempre messo un po' di inquietudine addosso.
Prendo un bel respiro e lo apro. Il cuore mi batte forte, ma
perché? Ovviamente, dentro ci sono solo vestiti, buttati
lì alla rinfusa secoli fa. Ne prendo uno in mano, scettica. E'
una vecchia maglietta rossa, probabilmente non mi sta neanche
più. Dovrei proprio buttare via un bel po' di roba, tipo i
vestiti che indossavo da bambina – sono sicura che ci sono anche
quelli, nell'angolo più buio dell'armadio.
“Cosa stai facendo?” chiede mia madre alle mie spalle, facendomi sobbalzare.
“Mamma..! Non ti avevo sentito.” La guardo di sfuggita. “Stavo cercando di...”
“Non c'è tempo per fare le pulizie di primavera, Heather.
Fai sparire i vestiti dalla scrivania e basta, l'armadio lo riordinerai
un altro giorno.” mi zittisce lei, guardandosi intorno.
“Faresti meglio a spazzare per terra, anche. Sotto il letto,
soprattutto, da quanto non ci passi la scopa?”
Faccio una smorfia ma resto in silenzio.
“Dai, è pronto. Dopo mangiato ti metti d'impegno e fai quello che ti ho detto, ok?”
“Ok.”
***
Gli zii arrivano puntuali, completi di sorrisi, baci, abbracci e maquantoseicresciuta e checlassefaiadesso.
Mia cugina Kathy mi osserva da dietro le gambe di sua madre,
sospettosa; se potessi, credo farei lo stesso. La cena è
servita, le chiacchiere si sprecano e io mi do dei pizzicotti sotto il
tavolo per non cadere, addormentata, nel piatto di zuppa. Kathy
continua a fissarmi e io le sorrido nervosamente. Vorrei fare
conversazione, ma non so bene cosa dirle. Non sono molto brava a
rapportarmi con i bambini.
Solo dopo cena, quando ci congediamo dai nostri rispettivi genitori e indossiamo il pigiama, l'atmosfera sembra rilassarsi.
“Jack Frost!” sussurra all'improvviso Kathy guardando fuori
dalla finestra della mia stanza. Il sole è tramontato da un
pezzo e ha appena iniziato a nevicare.
“Bella la neve, eh?” le chiedo, avvicinandomi alla finestra
per vedere meglio. I fiocchi scendono in un ritmo ipnotico, grandi e
fitti.
“E' Jack Frost che manda la neve, vero?” mi fa lei, girandosi a guardarmi con quei suoi grandi occhioni castani.
“Certo!” le dico, sorridendo imbarazzata. Lei ricambia il mio sorriso, tornando ad ammirare la nevicata.
Restiamo ferme a guardare fuori per un bel po' di tempo. “Cosa
hai chiesto a Babbo Natale, quest'anno?” domando ad un tratto.
“Una bambola, una carrozzina e delle costruzioni.”
risponde, senza distogliere lo sguardo dal cortile innevato. “E
tu?”
Scuoto la testa. “A me non fa più regali, sono troppo
grande.” le spiego con una punta di amarezza nella voce.
“Oh.”
Le accarezzo piano i capelli scuri. “Dai, vieni a dormire.”
le dico, dirigendomi verso la brandina che ho posizionato di fianco al
letto. Mi ci stendo cautamente, tirando su il piumino fino al mento.
Kathy sale sul letto, imbronciata. “Non mi piace
quell'armadio.” confessa una volta sotto le coperte.
“Neanche a me, a dire il vero.” dico sbadigliando. Brandina
o no, sto crollando dal sonno: nemmeno la solita lieve inquietudine che
mi prende ogni notte riesce ad impedirmi di chiudere gli occhi.
“... Heather?”
“Mmh?”
“Possiamo tenere la luce accesa?”
Apro gli occhi. Kathy mi fissa, nervosa. “Ma certo.” Mi tiro su a sedere. “Stai bene?”
“Ho paura.” mormora mordendosi il labbro.
“Di cosa? Qui siamo al sicuro, le porte e le finestre sono tutte chiuse a chiave...”
“Lo so, ma ho paura lo stesso.”
Annuisco lentamente. “Va bene, sta' tranquilla. Ecco, teniamo la luce accesa, ok?”
“Ok.”
“Ok.” Mi stendo di nuovo. Ho un curioso senso di déjà vu. “Kathy?”
“Sì?”
“Ti capita mai... di fare dei brutti sogni?” chiedo, sentendomi subito un tantino stupida.
“... A volte. A te?”
“A volte.” Spesso. Ok, diciamo sempre. “Beh, se stanotte dovessi avere degli incubi, io sono qui. Svegliami subito, ok?”
“Va bene. Puoi fare lo stesso con me, se vuoi.”
Sorrido. “Ricevuto. Buonanotte, Kathy.”
“Sogni d'oro, Heather.”
Lo spero.
***
“E' difficile, vero?”
Annuisco. Sì, è difficile, e pesante, tanto pesante. Ho la testa pesante.
Qualcosa mi passa vicino,
strisciando. Provo l'impulso di scostarmi, ma anche il mio corpo
è pesante, non riesco a muovermi.
Ride. Dove sei?
Non risponde. Ma con chi sto parlando?
Un sole nero si alza in un cielo
color seppia. Sembra di essere in una di quelle vecchie foto in bianco
e nero. Il paesaggio è arido, brullo, e non c'è un alito
di vento. Un monolite scuro si staglia all'orizzonte, unico dettaglio
rilevante in questa strana e deserta pianura. Si avvicina, ma non lo
vedo muoversi. Forse sono io che mi sto muovendo...
“Ti assomiglia.”
Chi?
“Kathy.”
Ma tu, tu chi sei?
Ride, ancora. Non è una risata
fragorosa, no: è vellutata, pacata, eppure mi fa rabbrividire. E
adesso mi accorgo che quello non è un monolite, è
un'ombra che si allunga e si assottiglia, palpitando e tremando,
un'ombra con due lunghe braccia -
“Heather, svegliati!”
Trattengo il respiro e riprendo coscienza con la sensazione di stare
riemergendo dal fondo del mare. Kathy mi guarda, allarmata, ma è
quello che vedo dietro di lei a spaventarmi veramente. Sbatto le
palpebre e l'ombra sul soffitto scompare; subito mi domando se l'ho
vista davvero o se si trattava solo dell'ultimo rimasuglio del sogno
che ho appena fatto.
“Che succede? Stai bene?” chiedo con voce impastata, tirandomi su a sedere.
Mia cugina ha gli occhi lucidi. “Ho fatto un incubo
bruttissimo!” piagnucola tirando su col naso. “Posso
dormire con te? Ti prego!”
Guardo l'ora sulla sveglia: le due del mattino. “Ma certo.
Aspetta.” Do un calcio al piumone e mi alzo in piedi, per poi
sedermi ad un lato del letto. “Vieni qui, dai.” Lei mi
raggiunge e, dopo un attimo di esitazione, torna sotto le coperte. Le
poso una mano sulla spalla, come faceva mia madre quando, da bambina,
non riuscivo ad addormentarmi per la paura. “Va tutto bene, ci
sono io a fare la guardia.” cerco di rassicurarla.
La sento tirare un sospiro di sollievo. “Heather?” mi chiede socchiudendo gli occhi.
“Sì?”
“L'Uomo Nero non esiste, vero?”
Raggelata, faccio del mio meglio per non tradire il mio turbamento.
“Perché me lo chiedi?” Incrocio lo sguardo della me
stessa riflessa nello specchio al lato opposto della stanza: una
ragazzina impaurita, con due occhiaie pesanti sotto gli occhi castani,
i capelli arruffati e un pigiama troppo largo, anche per una figura non
proprio esile come la sua (mia?). Corrugo la fronte.
Ti assomiglia.
“E' solo che... non importa. Ma non esiste, vero?” ripete Kathy, speranzosa.
“... No. No, non esiste. E' solo una favola, Kathy.” rispondo, distogliendo lo sguardo dallo specchio.
Bugiarda.
“Adesso chiudi gli occhi e prova a dormire, sono appena le due del mattino.”
“Va bene.”
Mi guardo intorno, aguzzando la vista. La spiacevole sensazione di
essere osservata mi opprime come un macigno. Mi passo una mano tra i
capelli nel tentativo di riavviarli, almeno un po'. Ho freddo, senza le
coperte; mi allungo fino ad agguantare il piumino e me lo stringo
addosso, senza lasciare il letto dove Kathy si è nuovamente
assopita. Ricordo la delusione che provavo, da bambina, quando mi
accorgevo che mia madre o mio padre erano tornati a letto dopo essersi
assicurati che mi fossi riaddormentata. Mi sentivo terribilmente
tradita, come se a loro non importasse nulla delle mie paure.
Sbuffo. Sembra proprio che questa sarà un'altra di quelle notti passate ad aspettare l'alba.
Torno col primo
capitolo, scritto praticamente di getto in poco più di una
giornata. Che bello avere l'ispirazione dalla propria parte! ;)
Spero che vi sia piaciuto. Critiche, commenti e suggerimenti sono più che benvenuti!
Arrivederci al prossimo capitolo. :)
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Capitolo 3 *** II ***
Cap. 2
II
Lisa: Well, I know it's absurd, but I dreamed the boogeyman was after me, and he's hiding under --
Homer: AAAHHHHH! BOOGIE MAN! You nail the windows shut, I'll get the gun!
The Simpsons, 5.10
Apro gli occhi piano e la prima cosa che vedo è la sveglia
digitale, con i suoi numeri rossi squadrati che paiono fissarmi con
rimprovero. Le due del pomeriggio.
Mi alzo lentamente dal letto completamente disfatto. Mi gira la testa,
come sempre quando dormo di giorno. Mi guardo allo specchio di
sfuggita, notando con disappunto che il lenzuolo mi ha lasciato
un'impronta rossa sulla guancia destra. Dio, devo aver dormito
profondamente, non ricordo neanche di aver sognato.
Esco dalla mia stanza in pigiama. I miei sono in salotto: papà
legge il giornale e mamma un romanzo. Alzano entrambi lo sguardo allo
stesso momento. “Era ora che ti svegliassi, bella
addormentata.” borbotta mio padre aggrottando la fronte.
Sbadiglio. “Scusate. Avete già mangiato?” chiedo con voce ancora impastata dal sonno.
“Sì, ma ti ho lasciato in caldo una cotoletta con le
verdure.” dice mia madre alzandosi in piedi e dirigendosi in
cucina con il libro ancora in mano. “Vieni? O preferisci prima
vestirti?”
“E' lo stesso.” mormoro grattandomi la testa. “Prima
mangio, va'.” aggiungo seguendo mia madre in cucina. Crollo
pigramente su una delle sedie bianche della cucina e mi verso un po'
d'acqua dalla caraffa sul tavolo. “Come mai non mi avete
svegliata?”
“E' sabato.” risponde lei apparecchiando frettolosamente la tavola.
“Beh, non mi pare che gli altri sabati vi faceste scrupoli a
buttarmi giù dal letto.” le faccio notare. “Senza
offesa, eh.”
“Cos'è, ti dispiace che ti abbiamo lasciata
dormire?” replica lei in tono leggermente infastidito, un tono
che conosco molto bene.
“Noo, assolutamente.” mi affretto a rispondere. “Anzi, grazie.”
Mia madre sospira. “Kathy ci ha detto che non hai dormito per
tranquillizzarla.” dice mentre versa il contenuto della padella
nel mio piatto.
“Oh.” Affetto e mangio un boccone di carne. E' molto
saporita, anche troppo, per una che si è appena alzata dal
letto.
“Non le avrai detto qualcosa che l'ha spaventata, spero.”
Smetto di masticare per un attimo. L'ho fatto?
“... No! Secondo te sono così stronza da spaventare una
bambina di otto anni?” chiedo dopo un attimo di incertezza.
“Moderiamo i toni, signorina!” mi rimprovera lei.
“... Scusa.”
Non dice altro. Mi è passata la fame, ma finisco tutto lo stesso
per evitare un'altra predica. Mi alzo, raccolgo piatto, bicchiere e
posate e li metto nella lavastoviglie, oltrepasso mia madre a testa
bassa e mi chiudo in bagno. Mi appoggio alla porta chiusa a chiave,
fissando le piastrelle bianche del pavimento.
Odio svegliarmi di pomeriggio. E' come se la giornata mi scivolasse via
tra le dita, come se fossi perennemente in ritardo su una tabella di
marcia invisibile che mi ostino a imporre a me stessa, pur non
seguendola praticamente mai.
Per lo meno non ho sonno. La domanda è: cosa me ne faccio di
questo sabato pomeriggio? Una doccia non sarebbe male, tanto per
cominciare... Potrei vedere se a Laura va di uscire, magari fare un
salto al cinema. Credo di avere bisogno di uscire un po' di casa.
Prendo un respiro profondo e annuisco piano. Ok: doccia, poi sms a Laura - sperando che abbia ancora voglia di uscire con Miss Narcolessia qui presente -, poi... si vedrà, immagino.
Accendo la stufetta elettrica e faccio scorrere l'acqua finché
non diventa bollente; nel mentre mi lavo i denti e spazzolo i capelli,
in modo da riuscire a lavarli più facilmente.
Dopo una trentina di minuti emergo dalla doccia in una nuvola di vapore
acqueo e mi sento subito meglio: più viva, più felice.
Esco dal bagno in accappatoio e mi tuffo subito in camera. La brandina
è ancora lì, accanto all'armadio; mi volto
istantaneamente verso la scrivania, dimentica del fatto che i miei
vestiti sono adesso impilati alla bell'e meglio nell'armadio a muro.
Sarà una gioia tirarli fuori da lì...
Scavalco la brandina e mi siedo sul letto, agguanto il cellulare da
sopra il comodino e scrivo un messaggio a Laura, incrociando le dita.
Rimango seduta con il cellulare in mano ad aspettare una risposta. I
capelli mi gocciolano sulle gambe, non li ho strizzati bene come avrei
dovuto. Dopo cinque minuti, che mi sembrano un'eternità, il
telefono vibra.
Ciao! Certo, stasera io e il mio
ragazzo ci troviamo in piazza alle sette e mezza. Ci sono anche un paio
di suoi amici, non ti dispiace vero? ;)
Rispondo in fretta e furia: ho un po' paura che possa cambiare idea da un momento all'altro. No, figurati. :) Carini, gli amici? XD
Ha ha. :) Uno lo conosci, credo, si chiama David. Quello dell'asilo, ti ricordi?
Aggrotto le sopracciglia. Ora come ora no... Vabbe', vedrò stasera. Grazie! Un bacio.
A stasera! :)
Sorrido, trionfante. Stasera si esce!
Mia madre bussa alla porta. “Heather, papà ed io usciamo per qualche ora, vuoi venire?”
“No, grazie, alle sette esco con gli amici. Dove andate?” chiedo sporgendomi a sinistra in modo da vedere la porta.
“Oh, sai che vuole comprarsi un computer nuovo, e già che
ci sono vedo se hanno anche una lavatrice che non costi troppo...”
“Aha. Beh, divertitevi!” Faccio ciao
con la mano mentre mia madre si chiude la porta alle spalle. Do
un'occhiata alla sveglia: sono quasi le tre, è meglio iniziare a
prepararsi. Mi alzo in piedi, ripiego la brandina alla bell'e meglio e
la appoggio al muro, mi tolgo l'accappatoio (ormai mi sono asciugata),
prendo la biancheria pulita dal cassetto del comodino e la indosso.
“A noi due, armadio.” mormoro appoggiando le mani sulle maniglie in ottone. Uno, due, tre.
Come volevasi dimostrare, una valanga di vestiti mi crolla addosso.
Sbuffo e mi piego a raccogliere da terra la marea di jeans, felpe e
maglioni. Per ora le accumulo sul letto, poi si vedrà.
Adocchio un paio di jeans e un maglione di lana azzurro che fanno al
caso mio e li metto da parte. Mi fermo un secondo, indecisa sul da
farsi. Quella pila di vestiti sul letto mi infastidisce non poco. Non
c'è altra soluzione: devo togliere tutto, svuotare l'armadio,
buttare via un bel po' di roba e forse riuscirò ad avere una stanza ordinata. Forse.
Potrei anche riuscire a farlo entro stasera. Do un'altra occhiata
all'orologio. Alla fine succede sempre che mi preparo con ore di
anticipo e poi non so come riempire i buchi di tempo...
E va bene, vediamo cosa riesco a combinare.
Infilo il pigiama: non voglio sudare nel maglione pulito e i jeans sono
scomodi quando si tratta di fare le pulizie. I capelli umidi mi danno
fastidio; prendo una matita e la uso per raccogliere la mia chioma in
una sottospecie di chignon
– mi ci sono voluti anni per imparare questo trucchetto: non
importa quanti fermagli per capelli io possieda, quando mi servono non
li trovo mai, invece di matite non sono mai a corto.
Mi porto una ciocca di capelli dietro l'orecchio e inizio a piegare i
vestiti sul letto, impilandoli per bene in gruppi – di qua le
maglie, di là i pantaloni e così via. Mi sforzo di fare
un buon lavoro: in fondo, mi capita raramente di avere dei vestiti
piegati con cura - di solito li abbandono come capita sulla scrivania o
sullo schienale della sedia.
Finito di piegare, mi concentro sui vestiti nell'armadio – e qui
inizia la parte difficile. Senza tante cerimonie, giungo alla
conclusione che il metodo più efficace sia quello di svuotare
completamente l'armadio e ricominciare da zero. Inizio a buttare tutti
i vestiti per terra: è quasi rilassante, come fare yoga o
meditare, aiuta a scaricare la tensione e a liberare i pensieri.
Continuo a scavare senza pietà tra cumuli assortiti di
vestiario, fino a svuotare quasi del tutto l'armadio; emana un odore
non molto piacevole, di chiuso e naftalina – eredità di
anni passati da un bel po' -, che non sono mai riuscita del tutto a
togliere.
Scavalco il letto e mi allungo ad aprire la finestra per far passare un
po' d'aria. Adesso manca una sola pila di abiti, sorprendentemente ben
piegati, in un angolo. Ne prendo in mano uno: come avevo predetto, si
tratta di vestitini che indossavo quando frequentavo l'asilo e le
elementari. Sono così piccoli, non posso credere che mi stessero
bene addosso... C'è anche qualche maglioncino di lana, fatto a
mano da mia nonna. Uno è rosso, con Babbo Natale a bordo della
slitta ricamato sopra. Ricordo che da bambina non riuscivo a
sopportarli, perché la lana mi pungeva la pelle. Era una tortura
indossarli per fare piacere alla nonna, che aveva lavorato tanto per regalarmeli...
Scuoto la testa, prendo la pila di abitini con entrambe le mani e la
appoggio delicatamente per terra. Devo assolutamente far vedere questi
vestiti a mia madre, sono sicura che avrebbe un attacco acuto di
nostalgia.
Sul fondo dell'armadio è rimasto solo un pezzo di carta piegato.
Lo prendo in mano e lo apro; è ingiallito, il che testimonia
senza dubbio la sua età. Socchiudo gli occhi. E' un disegno,
fatto chissà quando: decisamente stilizzato, risalente all'epoca
in cui non avevo ancora capito bene da quale parte del busto far
partire le braccia che disegnavo.
Dio, sono ossessionata con questa storia.
La figura disegnata è inconfondibile, almeno per me, che non ho
mai avuto dubbi sulla sua interpretazione. Mi chiedo che cosa ne
direbbe uno psicologo infantile: cosa evincerebbe da quel corpo
triangolare, da quella braccia scheletriche, da quei capelli neri e
dritti, da quelle fauci spalancate in un sorriso storto e da quegli
occhi gialli?
Un brivido mi attraversa la schiena e sono costretta a distogliere lo
sguardo dal disegno. Qualcosa è andato storto, mentre crescevo:
ormai ne sono sicura. Non so bene cosa, ma qualcosa deve essere
successo, qualcosa di grave, altrimenti adesso non mi ritroverei con
una vera e propria fobia che mi impedisce di vivere normalmente e di dormire serenamente.
Vorrei solo che questa cosa la smettesse di perseguitarmi.
Accartoccio il disegno in un gesto secco e rabbioso e lo scaglio con violenza per terra.
Prendo un respiro profondo: sono fortemente tentata di piantare tutto
lì e andare in salotto a guardare la tv. Odio quell'armadio,
odio questa stanza che pare stringermisi addosso e soffocarmi e odio la mia vita.
Un leggero venticello si insinua in camera e mi risolleva un po' il
morale, come spesso succede. Mi alzo in piedi e vado a sedermi un po'
sul davanzale della finestra. La neve ha completamente ricoperto l'erba
del cortile e il tetto del capanno degli attrezzi di mio padre,
facendolo sembrare più bello di quanto non sia in realtà,
tutto legno e grigie lamiere.
Chiudo gli occhi per un po' e rimango seduta a godermi il freddo
pungente sul viso – sì, forse non è la cosa
più intelligente da fare, con i capelli ancora umidi, ma al
momento non mi interessa più di tanto: mi schiarisce le idee,
è questa la cosa importante.
Dopo un bel po' di tempo passato ad ammirare il cortile innevato, mi
giro di scatto e marcio nuovamente di fronte all'armadio, spalancandone
le ante cigolanti. Parrebbe che ora sia completamente vuoto. Mi sposto
a destra in modo da non bloccare la luce naturale proveniente dalla
finestra, ma noto che resta un'ombra nell'angolo sinistro. Apro l'anta
sinistra al massimo, ma la chiazza buia pare non risentirne affatto. Do
un'occhiata veloce alla finestra, per assicurarmi che non ci sia
qualcosa in mezzo a proiettare quell'ombra nell'armadio.
Strano. Mi avvicino lentamente e allungo la mano a toccare il legno.
Ritraggo la mano di scatto. Non è possibile.
Senza staccare gli occhi dall'angolo buio, apro il cassetto del
comodino e afferro la torcia che tengo nascosta tra la biancheria. Le
mani mi tremano, e il fascio di luce fa altrettanto mentre conferma
quello che ho iniziato a temere quando non ho sentito il legno sotto le
dita: c'è un buco nell'armadio.
Allungo di nuovo la mano, perché fatico a credere a quello che
vedo. Ci deve essere anche un buco nel muro, perché non riesco a
vederne la fine. Che razza di animale può aver fatto una cosa
del genere? Un topo o... che altro?
La finestra sbatte all'improvviso e mi fa sobbalzare, mentre la torcia
mi sfugge dalle mani. Il cuore mi batte all'impazzata e ho il respiro
mozzato; senza pensarci due volte, oltrepasso la montagna di vestiti e,
incespicando, mi precipito fuori dalla stanza, chiudendo con violenza
la porta alle mie spalle. Mi allontano, camminando a ritroso, mentre
cerco con tutte le mie forze di calmare la corsa impazzita dei miei
pensieri. Sta' calma, sta' calma, sta' calma, non è successo niente, è solo il vento...
Entro in cucina e accendo la luce. La caraffa mezza piena è
ancora sul tavolo; prendo un bicchiere pulito e bevo un po' d'acqua. Non
è successo niente, adesso torna papà e gli fai vedere il
buco e finalmente si deciderà a buttare quell'armadio di merda.
Rimango immobile, con il bicchiere in mano, a fissare i limoni gialli
sulla tovaglia di plastica del tavolo. Mi sento tremendamente stupida,
ma nonostante ciò non ho proprio il coraggio di rientrare in
camera, neanche per recuperare il cellulare che ho lasciato sul letto.
Prendo un altro sorso d'acqua. Calma. E' solo suggestione, colpa di quel maledetto disegno...
Non riesco a sedermi. Mi guardo intorno di soppiatto. La cucina
è illuminata dalla luce al neon del lampadario, così
bianca che pare splendere. E' tutto in ordine, pulito e profumato: il
contrario di camera mia, praticamente. L'unica nota di colore nella
stanza è appunto la tovaglia, con i suoi limoni, talmente
realistici da sembrare veri. Mia madre ha sempre avuto una predilezione
per il bianco, colore che io non ho mai amato, anche se devo ammettere
che in questo momento ha il potere di tranquillizzarmi.
Mi trascino in salotto. Tutto tranquillo anche qui. Mi siedo sul
divano, ma non riesco a rilassarmi: ho la schiena irrigidita e le mani,
pur se impercettibilmente, mi tremano ancora. Dopo un momento di
esitazione, accendo la televisione, giusto perché il silenzio in
casa mi innervosisce.
Tenendo sempre sott'occhio la porta del salotto, inizio a fare zapping tra i canali finché una vecchia puntata de I Simpson
cattura la mia attenzione. L'avrò già vista un milione di
volte, ma è comunque meglio della maggior parte dei programmi
che ci sono in tv a quest'ora...
Oh, adesso ricordo! Mr. Burns apre un casinò e Marge scopre la
dipendenza dal gioco d'azzardo. Molto carina, come puntata. Stringo le
ginocchia al petto e mi distraggo, in qualche modo, finché Lisa
non corre urlando in camera di Homer e gli confessa di aver sognato
l'Uomo Nero.
Ma dio mio, anche qui? Ma perché, perché sono così sfigata?!
La reazione di Homer mi strappa un sorriso, comunque. Ed ecco che mi
sento di nuovo ridicola. Sì, perché, nonostante
l'esagerazione comica, mi rivedo in Homer, che si barrica dietro un
materasso col fucile imbracciato per paura dell'Uomo Nero. Abbasso lo
sguardo e quasi arrossisco per la vergogna. Sono un caso disperato, da
manicomio. Ma ecco la chiave che gira nella toppa della porta
d'ingresso: i miei sono tornati, finalmente.
“Papà!” esclamo balzando giù dal divano. “Devo farti vedere una cosa.”
“Eh? Oh, sì, un momento solo.” Mi guarda stranito
mentre si toglie sciarpa e cappotto. “Non dovevi uscire,
stasera?”
“Sì, tra poco mi vesto, ma prima devi vedere una cosa.
C'è un buco nel mio armadio, e nel muro dietro l'armadio, credo
porti al posto dove passano le tubature o qualcosa del genere...”
farfuglio indicando la porta della mia camera.
“Cosa? Un buco?” se ne esce mia madre, incredula.
“Sì, non so cosa l'abbia scavato, forse un topo...”
“Un topo?!”
“Sta' calma, Rachel. Adesso vediamo, non può essere così grave...”
Papà apre la porta ed entra nella mia stanza; mamma ed io lo seguiamo a breve distanza.
“Dio, Heather, fa un freddo cane qui dentro! Chiudi quella
dannata finestra!” esclama lui, fermandosi di fronte alla
montagna di vestiti e lanciandomi un'occhiata perplessa.
Corro a chiudere la finestra. “Stavo mettendo in ordine, ho
svuotato l'armadio e l'ho trovato. Lì a sinistra, in fondo, lo
vedi?”
Si inginocchia. “Dove, scusa?”
Mi avvicino. “Lì, nell'angolo a sinistra. Prendi la torcia, è lì per terra...”
“... Io non vedo niente.”
Mia madre si sporge in avanti. “L'hai trovato, Harold?”
“No. Heather, non capisco cosa tu abbia visto, ma qui mi sembra tutto a posto.”
“Cosa? Ma è lì, come fai a non vederlo?”
Oltrepasso mia madre, spazientita, e mi pianto di fronte all'armadio.
Peccato che mio padre abbia ragione e che non ci sia nulla di strano.
Nessun buco, nessuna ombra, nessun passaggio di nessun genere. Solo un
armadio vuoto.
Rimango perfettamente immobile, ammutolita. “Ma...” balbetto sconvolta.
“Ma?” mi incalza mio padre.
“Era... qui... l'ho... l'ho visto, prima c'era, te lo
giuro!” dico a voce un po' troppo alta, quasi stridula.
“Era qui... proprio qui!” aggiungo toccando il legno che
– sono sicura – prima non c'era. Non c'era, maledizione, non c'era! Eppure adesso lo vedo con i miei occhi, ne sento la consistenza sotto le dita...
“Tesoro, sicura di stare bene? Magari hai la febbre, fammi
sentire...” mi fa mia madre cercando di toccarmi la fronte.
“No! Aspetta...” la supplico, afferrando la torcia.
“C'era un buco, non riuscivo a vederne la fine e ho pensato che
proseguisse all'interno del muro...”
“E questo..?” mormora mio padre raccogliendo un foglio da terra. Il foglio che io
avevo accartocciato e che adesso è inspiegabilmente tornato
liscio, senza neanche una piega. “Oh, Heather, ancora con questa
storia?” Non capisco se il suo è un tono di
disapprovazione, di pietà o di rassegnazione, ma in ogni caso mi
sento come se mi avessero appena legato una zavorra al collo e mi
stessero per spingere in acqua.
“Papà, ti giuro che l'avevo... l'ho trovato in fondo
all'armadio, ma l'avevo... accartocciato...” Un groppo in gola mi
impedisce di proferire altro e, senza che me ne renda conto, calde
lacrime iniziano a scivolare sulle mie guance. “Ti giuro che c'era, l'ho visto...”
Mia madre si abbassa e mi posa entrambe le mani sulle spalle.
“Sta' tranquilla, tesoro. Devi avere la febbre, stai delirando.
Andrà tutto bene, devi solo riposare un po'. Adesso ti stendi
sul divano, ti porto una coperta di lana e un po' di latte caldo,
misuriamo la febbre e magari ti prendi una tachipirina, ok?”
Annuisco, singhiozzando. La testa mi gira, ho lo stomaco sottosopra e non sto capendo più niente.
Dio, aiutami, cosa sta succedendo?
Ed eccomi di ritorno! ;) I capitoli iniziali mi vengono
sempre piuttosto facilmente, per fortuna. Spero che il capitolo vi sia
piaciuto!
La citazione iniziale è tratta dalla decima puntata della quinta stagione de I Simpson, $pringfield. L'ho vista l'altro giorno e non ho potuto fare a meno di trovarla deliziosamente divertente. xD
Per tutti coloro che hanno sollevato un sopracciglio alla reazione di
Heather: ricordate che la sua non è una semplice paura, ma una fobia.
Parlando per esperienza personale, trovarsi faccia a faccia con
l'oggetto della propria fobia non è per niente facile, anche se
si è perfettamente consci di quanto irrazionale sia la paura che
si sta provando.
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo, se vi va. :) Intanto ringrazio immensamente Makochan e valix97 per le recensioni e chi ha messo la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate. Significa davvero molto, per me.
Alla prossima!
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