BLACK OUT

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 La Musica della discordia ***
Capitolo 2: *** #2 E luce (non) fu! ***
Capitolo 3: *** #3 April o June? Questo è il problema! ***
Capitolo 4: *** #4 Macchie indelebili e lingue aliene ***
Capitolo 5: *** #5 Parole parole parole ***
Capitolo 6: *** #6 Chiaroscuro ***



Capitolo 1
*** #1 La Musica della discordia ***



#1 
La Musica della discordia

 

C’ero quasi riuscita.
Davvero, mancava tanto così e avrei finito di imparare quel dannato libro di Diritto Romano che da mesi mi perseguitava da sveglia e torturava i miei sogni.
Mi muovevo in circolo al centro della mia stanza, mormorando all’ambiente vuoto le pagine e pagine di storia che avevo studiato, a malavoglia, ma l’avevo fatto.
Ruotavo su me stessa, gesticolando e sforzandomi di assumere un tono serio, come se davanti a me ci fossero stati i professori intenti ad ascoltarmi e gli assistenti. Quelli poi, erano anche più arpie dei professoroni stessi.
Sul serio, c’ero quasi riuscita.
La mia voce risuonava atona e ferma, il discorso filava liscio come l’olio, senza intoppi, senza balbettii, senza pause causate da quei vuoti di memoria che mi avevano portato ad inveire contro la mia stupidità per aver dimenticato, ancora una volta, l’ennesimo capoverso.
Me lo sentivo: quella notte avrei finalmente dormito senza incubi per l’esame che avrei dovuto sostenere di lì a qualche giorno.
Credetemi quando vi dico che c’ero quasi riuscita.
 
Ero totalmente presa e assorta in quello che stavo pronunciando che quando quella dannata musica rimbombò nella mia camera sussultai e il cuore fece un tuffo per lo spavento. Mi guardai attorno, all’inizio stralunata, ma non mi ci volle molto a comprendere la situazione. Mi portai le mani in testa, esclamando qualcosa di poco gentile.
Le note assordanti di quella che definire musica mi sembra un offesa all’intero universo musicale, mi martellavano nelle orecchie e nelle tempie, mentre sentivo la concentrazione scemare via da me.
Feci un respiro profondo e provai a proseguire con il mio studio, ma dopo qualche secondo mi parve che il suono aumentasse di intensità. Mossa da un impeto di rabbia afferrai la matita che mi teneva raccolti i capelli in uno chignon abbozzato e la strinsi con forza, fino a farmi diventare le nocche bianche, quindi la spezzai in due parti che lasciai cadere sul pavimento. I capelli mi caddero in avanti e li spostai dal viso con un gesto istintivo e consueto.
Mi avvicinai alla finestra e la spalancai. L’aria era intrisa di elettricità e l’umidità mi increspò immediatamente i capelli sciolti. Era l’imbrunire e in lontananza qualche lampo illuminava il cielo plumbeo. Non so precisamente per quale motivo avessi aperto la finestra, ma so che lì il suono fastidioso di quella musica che per me equivaleva a rumore, era ancora più forte. Mi afferrai al davanzale e urlai con quanto fiato avevo in corpo:
«Abbassa la voce, imbecille!»
Ovviamente non accadde nulla, non che ci avessi sperato seriamente, ma mi sentivo appena appena meglio. Ma giusto un pochino.
Lo sguardo mi cadde sul libro aperto alla mia sinistra. Non potevo continuare i miei studi con quella tortura uditiva che faceva vibrare le pareti della mia stanza. Uscii dalla camera a grandi falcate, senza preoccuparmi di mettere addosso almeno un giubbetto o un cardigan di cotone. Afferrai le chiavi sul mobiletto all’entrata e aprii la porta d’ingresso, avanzando lungo il vialetto fino a raggiungere il cancelletto, quindi virai verso occidente.
 
Steve Robert Smith.
Conoscevo fin troppo bene l’artefice di quella situazione, colui che sarebbe dovuto essere arrestato per inquinamento acustico, semmai un tale reato si punirebbe con l’arresto. Per quel che mi riguardava, avrebbero potuto gettare via la chiave, magari nel fondo dell’oceano.
Le nostre famiglie erano vicine di casa da diversi anni oramai, i miei dicevano che erano brave persone, e questo io non l’ho mai messo in dubbio.
Ma lui … lui …
Le ragazze che conoscevo non facevano che ricordarmi quotidianamente di quanto fossi fortunata ad averlo come vicino di casa, di quanto avrebbero voluto essere al mio posto, di quanto fosse bello.
Bello? Ma chi? Lui?
Personalmente lo avrei legato ad un palo al centro della piazza e aizzato del fuoco, un po’ come si faceva durante i tristissimi secoli della “caccia alle streghe”, per il semplice e macabro piacere di vederlo bruciare.
 
Nello spazio antistante la casa della famiglia Smith, vi era parcheggiata una sola auto sportiva, bianco perla con le rifiniture nere. Che scempio! Si dice che sia la macchina a scegliere il proprietario e non viceversa. Beh, passandole accanto, quella sera, ebbi la conferma che quella massima diceva il vero. La guardai di sottecchi, quasi temessi che quel pezzo di ferro inanimato potesse muoversi o parlare e, per un secondo, ho avuto l’impressione che mi sorridesse di sbieco, con quell’aria beffarda tipica del suo autista. Non riuscivo a non pensare ad un vecchio romanzo di Stephen King, Christine, la macchina infernale, che avevo letto qualche anno addietro. Rabbrividii e mi affrettai verso lo zerbino.
Lì il suono della musica era assordante, incollai il dito sul campanello, ma ovviamente nessuno venne ad aprirmi. Ancor più irritata battei il palmo sulla porta, gridando qualcosa tipo:
«Ehi, ehi! Mi sentite?» e proprio al terzo colpo la porta si schiuse e mi parve di sentire un cigolio sinistro, cosa difficile data la situazione.
Aprii la porta e feci un passo avanti, voltandomi di scatto a guardare la macchina parcheggiata nel vialetto. Continuavo ad avere la sensazione che mi sorridesse. Scossi il capo ed entrai piano:
«Scusate, è permesso? C’è nessuno?» ma la mia voce, seppur alta, venne inghiottita dalle note violente che echeggiavano da parte a parte.
La casa era immersa nella penombra ed era fresca. Tutto era tenuto in ordine, gli oggetti sul mobile all’entrata, i fiori artificiali e colorati sistemati con garbo nei vasi, i quadri appesi ai muri sembravano seguire un ordine preciso. Avanzai ancora, sempre chiedendo se ci fosse qualcuno in casa, ma ancora una volta non giunse mai una risposta. Mi affacciai nella camera da pranzo, era enorme. Sulla sinistra, inchiodato alla parete come un quadro di Van Gogh, c’era un televisore a schermo piatto, avrà avuto diecimila pollici, un ampio divano ad angolo, di pelle lucida che la poca luce rendeva difficile decifrare il colore, forse bordeaux, forse vinaccio. Sul lato opposto c’era un tavolo di forma rettangolare, con sei sedie, al centro un cesto colmo di frutta di stagione così lucida che sembrava finta; un isola in formica bianca faceva da confine ad una cucina moderna e immacolata. Le tende a doppio velo erano color panna e il loro ondeggiamento era quasi impercettibile. Sapevo che oltre di loro c’era un ampio terrazzo, dove avevo visto spesso la famiglia al completo cenare o festeggiare i compleanni.
Andai oltre, ancora con quella musica insopportabile che mi stava sfondando i timpani. Una rampa di scala portava ai piani superiori. Mi poggiai al corrimano e lo sentii freddo, quindi guardai verso l’alto, quella parte di casa che non avevo mai visitato. Nonostante il volume alto, c’era una strana quiete. Di nuovo urlai:
«Scusate, c’è nessuno? Signora?» aspettai qualche secondo, poi salii il primo scalino, quindi il secondo e così via. Ricordo che una vocina nella mia testa mi diceva di andare via, ma vuoi la musica alta, vuoi la troppa curiosità o la forza che mi spingeva a salire quelle scale, finsi di non sentirla.
Davanti a me si srotolò un corridoio, lungo il quale vidi diverse porte chiuse, esclusa una in fondo, da cui spiccava un cono di luce. Avanzai, ancora una volta gridando, con la speranza che chiunque ci fosse in quella casa (pregai che fosse la signora dolce e gentile che sempre si complimentava con me quando la incontravo) mi rispondesse.
Ovviamente la mia voce, per quanto alta, fu sovrastata dalla musica.
La porta della camera da cui spiccava la luce gialla era socchiusa. Mi fu chiaro che quelle note rumorose provenivano dal suo interno. Bussai con le nocche chiuse a pugno:
«Mi scusi, signora?»  e con una lentezza esasperata lasciai scivolare la porta sui cardini, ma oltre di essa non c’era nessuno.
Corsi velocemente con lo sguardo le pareti tappezzate da poster di band a me sconosciute, atleti  più o meno famosi che alzavano coppe al cielo, foto che ritraevano ragazzini in divisa da football americano, sporchi di fango e sorridenti. Tra questi riconobbi lui, il padrone della stanza che avevo appena violato. Due mensole erano stracolme di trofei e coppe e medaglie, così tante che mi chiesi come facessero a non crollare sotto il loro peso. Lo schermo di un PC era acceso e immagini astratte, dai colori improbabili, si alternavano e mescolavano fra loro, a ritmo di musica. Quella dannata musica che mi aveva trascinato in quella situazione. La voce nella mia testa si fece più insistente.
Vattene. Vattene. Vattene.
Non me ne andai e, come poco prima mi ero sentita spinta a salire le scale, così mi sentii afferrare il volto per voltarmi indietro.
Un’altra porta era dischiusa, ma tanto bastò per cogliere un braccio nudo. Mi sporsi appena e lo vidi davanti ad un grosso specchio che lo ritraeva fino alla cinta dei jeans. Le dita delle mani si muovevano sapienti fra i capelli, acconciandoli con il gel, forse erano ancora bagnati. Il torso era nudo e glabro, la pelle abbronzata dal sole, e la posizione alzata delle braccia metteva in risalto la forma dei muscoli e l’incavatura delle scapole. Intravidi il bordo chiaro ed elastico della sua biancheria intima, nonostante i pantaloni, i quali, evidentemente, chiedevano di essere tenuti su da una cintura. Tornai a guardare la sua immagine riflessa nel vetro, totalmente preso dall’acconciatura non si era accorto di me. Lo vidi fischiettare, forse scandendo il ritmo della musica che, oramai, neanche sentivo più.
I nostri sguardi si incrociarono nel riflesso dello specchio e di scatto si voltò a fissarmi, a bocca aperta, le braccia lentamente scesero lungo il corpo. Io deglutii e mi sembrò che il cuore battesse un po’ più forte, seguendo il BOOM BOOM della musica.
Lo vidi muoversi verso di me e, quando spalancò la porta del bagno, un buon profumo di bagnoschiuma e dopobarba mi invase le narici.
Si avvicinò e ad una spanna dal mio viso urlò:
«Tutto bene?»
Tutto bene?
TUTTO BENE?
Mi stava prendendo in giro?
Mi sarei aspettata un «che ci fai qua?» o un «come sei entrata?», o meglio, ero pronta ad una domanda del genere, ma un «tutto bene?» non aveva senso. Non per me.
«La voce!» esclamai
«Come?» sentii l’indignazione crescere e il profumo emanato dal suo corpo mezzo nudo mi stava provocando un capogiro. Indietreggiai e indicai il computer nella sua stanza:
«La musica!» aggiunsi gridando
Si batté la mano sulla fronte e sorrise, quindi mi oltrepassò e mi schiacciai contro i battenti della porta per evitare che i nostri corpi si toccassero. Mi sudavano le mani e quella reazione alla sua presenza mi rendeva alquanto nervosa.
Finalmente la musica cessò, ma rimase quel mormorio sordo nella mia testa. Sapevo che me lo sarei portato con me fino all’indomani, un po’ come quando torni da una notte in discoteca e poggi la testa sul cuscino per dormire. Mi massaggiai le tempie con gli indici e chiusi gli occhi:
«Grazie» girai i tacchi e uscii dalla stanza, avevo una certa urgenza ad allontanarmi da lui, il motivo non lo conosco. In ogni caso mi seguì:
«Solo questo?» ero arrivata quasi a metà scalinata quando mi voltai a guardarlo, lui era ancora in cima alla rampa, ancora coperto solo dalla vita in giù:
«Si, solo questo! Ho perso mezz’ora di studio a causa tua e della tua … schifosa musica!»
«Credevo foste andati via per il week end, non ho visto la macchina parcheggiata»
«Io sono rimasta, sai com’è, avevo da studiare …» lasciai la frase a metà, anche se gli avessi risposto in aramaico antico, non ci avrebbe fatto caso. La sua attenzione era troppo concentrata su di me, e solo allora mi ricordai di avere addosso un prendisole assai corto e assai scollato.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena e ripresi a scendere, trattenendomi dal fare le scale a due a due. Mi seguì di nuovo, potevo sentire i suoi passi svelti:
«Visto che sei qui, posso offrirti un bicchiere di …»
«No, non puoi» ero già arrivata in giardino e quando respirai mi parve di non averlo fatto per ore. Il cielo si era scurito e verso il mare si alternavano lampi violenti, mentre un rombo di tuono fece tremare i vetri:
«Bel vestito» disse in tono beffardo e lo immaginai con le braccia conserte appoggiato al massiccio stipite della porta d’ingresso, con un sorrisino sul volto «April»
Mi sentii percorrere da un’onda di calore, oltrepassai il cancelletto e lo chiusi con forza, voltandomi a guardarlo. Non aveva le braccia conserte e la spalla contro lo stipite, ma era sull’uscio dell’ingresso, a trattenere la porta per evitare che la corrente d’aria la chiudesse, ma il sorrisino, quello c’era eccome:
«Mi chiamo June!» sbottai «Hai capito? J-u-n-e» scandii e me ne andai facendogli una linguaccia.
Dopo poco udii la porta che si chiudeva e mi chiesi se stesse ancora sorridendo. 


continua ...

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Capitolo 2
*** #2 E luce (non) fu! ***



#2
E luce (non) fu!

 

Restai per un po’ a fissare il pavimento con le mattonelle chiare, intorno a me era tornato quel silenzio che mi serviva per proseguire i miei studi, interrotti bruscamente da quella dannata musica.
Restai a fissare il pavimento senza vederlo realmente, pizzicandomi il labbro inferiore fra il pollice e l’indice. Sentivo il cuore diminuire i suoi battiti a ogni respiro, chiusi gli occhi e sollevai il capo, trattenendo per qualche secondo l’aria, poi la lasciai fluire e riaprii le palpebre, posando una mano sul petto, dove verificai che il cuore avevo ripreso la sua normale cadenza.
Camminai per tutto il corridoio fino a raggiungere la mia stanza. La luce accesa proiettava i suoi raggi sul libro aperto, guardai le pagine e mi resi conto che tutta l’adrenalina che avevo avuto nel ripetere e ripetere fino alla nausea quelle frasi mi aveva abbandonata, svuotandomi di ogni voglia. Mi lasciai cadere pesantemente sul letto e sentii le molle del materasso lamentarsi. Lessi qualche rigo del libro sul comodino, Misery di Stephen King.
Stephen King.
Steve R. Smith.
Sbuffai, mi sembrava che anche il libro si facesse beffe di me in quel momento. Mi stavo sforzando di non pensare a lui (a lui mezzo nudo, a lui che mi sorpassa e per poco non mi sfiora, lasciando una scia di profumo accattivante), ma scorgere il nome dell’autore del romanzo che stavo leggendo in quel periodo me lo rendeva assai difficile. È come sforzarsi di non pensare ad una determinata cosa e ovunque ti giri, qualsiasi oggetto tu guardi, fa riaffiorare in te proprio quel ricordo che vorresti tenere lontano.
Lasciai perdere l’idea di leggere e presi a giocherellare con il cellulare, cancellando i messaggi inutili, le foto sfocate e cose così, poi mi addormentai, con la luce accesa, chiedendomi se lui fosse ancora a casa a prepararsi o fosse già uscito, una vocina mi rispose che non avevo sentito il consueto rombo del motore di quella macchina pessima lasciare il vialetto. Quindi si, era ancora in casa.  
 
A svegliarmi non fu il rombo del motore della sua macchina, bensì quello di un tuono prolungato, uno di quelli che fanno tremare i vetri e sembrano non dover passare mai, mentre ti chiedi se sia arrivata la fine del mondo. Istintivamente mi raggomitolai su me stessa, aspettando con il cuore in gola (per lo spavento che mi aveva destata di colpo) che passasse quel momento. Passò e frastornata mi puntellai sulle mani per guardarmi attorno, la  camera era così come l’avevo lasciata. Non so per quanto tempo abbia dormito, so solo che a me sembrava un’eternità. Nonostante ci fosse la minaccia di un imminente temporale, avevo la pelle umida a causa dell’afa e avevo caldo. Mi misi a sedere al centro del letto, intenzionata ad andare in cucina a rinfrescarmi con una bibita
«Visto che sei qui, posso offrirti un bicchiere di …»
La sua voce irrisoria mi risuonò nella mente bacata, l’idea di un drink fresco mi aveva fatto tornare in mente quella frase e il ricordo di quello che era accaduto prima (si, ma quanto prima? Un’ora? Un giorno? Cinque minuti?) mi disse che non l’avevo sognato, ma era successo davvero.
Ora più che mai avevo bisogno di una bibita ghiacciata.
Mi alzai trascinandomi lungo il corridoio, dove accesi le lampade al neon per illuminarmi il cammino, mi fermai ad osservare il mio viso allo specchio: occhi socchiusi e gonfi, arrossati, colorito sbiadito, capelli sciolti e spettinati. Sbadigliando li districai con le dita e fu come rivedere Steve acconciarsi i capelli nel bagno di casa sua. Spiazzata da quell’immagine vivida rimasi con le dita fra i capelli a metà lunghezza, a fissare la mia faccia, ma vedendo la sua schiena. Poi il buio.
Buio, nel senso letterale della parola.
Buio, come se mi avessero annodato una fascia sugli occhi e stretto forte.
Buio, così intenso che non riesci a vedere la tua mano ad un palmo di distanza dal naso.
Buio, nero come la pece, come il fondo di un pozzo,  che ti toglie il respiro e ti fa sentire irrimediabilmente vulnerabile a qualsiasi cosa.
E mi sentivo come se mi avessero gettata davvero in un pozzo profondo e … buio.
 
Ho sempre avuto paura del buio, mia mamma mi racconta che da bambina mi venivano le convulsioni al solo calar del sole e quando mi mettevano a letto ed arrivava il momento di spegnere ogni fonte di luce (TV, abat juor, ecc …) iniziavo a strillare e a strapparmi i capelli, tanto che mi portarono in visita da un buon dottore, il quale, per dare un nome alle miei insensate reazioni al buio, sfilò bei soldini a mamma e papà.
Questo me lo ricordo bene.
In ogni caso, la mia malattia è comunemente chiamata acluofobia o nictofobia: paura del buio. Il dottore mi diede dei farmaci a base di morfina per dormire, consigliando ai miei di illuminare la camera durante le notti con una luce, fioca, ma pur sempre illuminata. Poi aggiunse che con il passare degli anni questo terrore, abbastanza comune fra i bambini, sarebbe scomparso.
Quanto si sbagliava!
A vent’anni suonati il buio mi terrorizzava ancora come se ne avessi cinque, e la mia lampada era perennemente accesa, di giorno e di notte.
 
Mi sentii deglutire, più che altro lo feci per accertarmi che la gola non si fosse chiusa del tutto, serrata com’era. Brancolai nell’oscurità più totale, non sapevo se volevo tornare nella mia camera e ficcarmi sotto le coperte, o andare in cucina a bere un po’ d’acqua, nella speranza di placare i battiti del cuore. Non riuscivo a formare pensieri coerenti, mi sentivo come un pesciolino che all’improvviso aveva perso il senso dell’orientamento, ritrovandosi a nuotare negli sconfinati abissi del mare.
Un lampo squarciò il cielo e penetrò attraverso le finestre con le tende chiuse, con la coda dell’occhio vidi una figura nello specchio e gridai, inginocchiandomi sul pavimento che toccai con le gambe nude, era freddo ma non ci feci caso, mentre un nuovo tuono fece vibrare le pareti e i quadri appesi ad esse. Mi coprii le orecchie con le mani continuando ad urlare, fin quando il tuono scemò.
Il giorno dopo, ripensando a quei momenti, mi sarei sentita una vera stupida per essermi spaventata così tanto nel vedere il mio riflesso nello specchio. Ma la paura è davvero una pessima amica con cui passare il tempo.
Il silenzio che mi circondava era assoluto, quasi rimpiansi quella musica fastidiosa, era come stare in una bolla d’acqua e io mi sentivo sempre più alla stregua di un pesce piccolo piccolo. Rimasi ancora un po’ con i palmi schiacciati ai lati del viso e le palpebre strizzate, poi lentamente mi misi in piedi, aggrappandomi al mobile con lo specchio, le gambe mi tremavano, anzi, ero tutta un tremolio: labbra, braccia, busto, gambe. Tutto.
Forse era a causa del buio, forse a causa di quel silenzio tombale, o forse perché il terrore aveva acuminato i miei sensi (eccetto la vista!),  riuscii ad udire un rumore altrimenti impercettibile. Credevo che il cuore non potesse pompare più di così, invece lo fece, potevo sentirlo sbattere contro il petto con così tanta veemenza che lo premetti con una mano, come per tenerlo dentro di me e non farlo balzare fuori. Mi dissi che era solo frutto della mia immaginazione, era la paura a farmi brutti scherzi, molto probabilmente era stato un tuono attutito. Eppure, quando lo sentii di nuovo, non ebbi più dubbi, anche se la mia mente continuava a propinarmi ipotesi assurde per alleggerire la tensione che correva lungo il mio corpo. Per lo meno ripresi il senso dell’orientamento e, passo dopo passo, mi incamminai verso la porta d’ingresso, da cui provenivano quei rumori ammortizzati. Camminavo di sbieco, come un detective in quei film polizieschi che tanto odio, mi mancava solo la pistola da tenere con le braccia tese verso il basso e, in quel momento, avrei tanto voluto averne una.
La porta d’ingresso si dibatteva, era chiaro che qualcuno stava tentando di entrare con la forza. Per un attimo dimenticai il buio che mi circondava, rasentavo il muro, aspettandomi da un momento all’altro di vedere entrare in casa qualche omone con la faccia coperta da un passamontagna, o un calzino nero. Tanto neanche avrei potuto riconoscerlo senza un filo di luce. Avanzai ancora, mi sembravano attimi lunghi una vita, le gambe pesanti e i piedi nudi e freddi, i polpastrelli delle mani scivolavano contro il muro alle mie spalle, la mente vuota e terrorizzata. Quando inciampai nei piedi della credenza era troppo tardi per evitare di finire distesa a terra, come un sacco di patate, e slogarmi una caviglia. Il dolore fu acuto fin da subito, mi morsi il labbro per non urlare e, soprattutto credo, per non inveire contro un dio qualsiasi. Mi misi a sedere e sentii il freddo delle mattonelle contro il sedere, mentre chiudevo le mani intorno alla caviglia destra. Era come se avessi la pelle infilzata da un migliaio di aghi e il dolore si propagava su, lungo la coscia e mi avvolgeva il piede come un fuoco. Avevo le lacrime agli occhi, ma sapevo che rimanere inerme sul pavimento, mentre uno sconosciuto stava tentando in tutti i modi di violare la casa, non era cauto per niente.
Strinsi i denti e mi issai, attenta a non poggiare la pianta del piede dolente per terra, ma fu inutile e una nuova fitta mi salì per la gamba, allora mi lasciai sfuggire un gridolino, serrando immediatamente le labbra. Poggiai le  mani sul mobile contro il quale ero andata a sbattere e rimasi curva su di lui per riprendere fiato e attendere che il dolore si affievolisse, fu allora che con le dita sfiorai un oggetto duro e liscio: era il portafiori in ceramica che i miei avevano comprato durante una vacanza in Italia e un’idea mi balzò in testa. Mi piaceva quel vaso italiano, mi trasmetteva una sensazione di solidità e fermezza e anche il fatto che si trovasse lì proprio in quel frangente.
Ancor più dello sbatacchiare della porta, mi spaventò il classico click metallico della chiave che fa scattare la serratura. Sicuramente i ladri (o chiunque ci fosse nel vialetto di casa mia) avevano portato con sé i ferri del mestiere, un giravite in questo caso, o una di quelle chiavi universali che possono aprire qualsiasi serratura. Non so se esista davvero una cosa simile, l’ho visto nei telefilm. Mossa dall’adrenalina sviluppata dal terrore, afferrai il portafiori e, zoppicando, mi schiacciai contro il muro alla destra della porta d’ingresso, il cuore in gola e il respiro trattenuto, mentre la caviglia inviava il suo disappunto a tutto il corpo.
 
Quello che sto per raccontarvi accadde in una manciata di secondi, o addirittura frazione di secondi, ma a me parve svolgersi tutto al rallentatore, come i fotogrammi di un video che si susseguono così lentamente da poter scorgere anche le sbavature più nascoste.
Nel momento in cui la serratura della porta scattò, la prima cosa che vidi fu un tenue raggio di luce bianca e, scordandomi di respirare probabilmente, alzai il vaso poco sopra il mio capo, in attesa di veder comparire una testa sulla quale romperlo. Invece, inizialmente, fu solo quella luce fioca e la porta che si apriva piano, senza emettere alcun cigolio sinistro. Se avessi potuto, sarei scomparsa nel muro, attraverso il muro, come un X-men. Ma non potevo, ovviamente, e rimasi perfettamente immobile.
Calai il portafiori che stringevo saldamente in mano nell’attimo in cui adocchiai una sagoma scura e informe.
Quello che vidi fu il viso di Steve illuminato dalla torcia che aveva portato con sé. Non saprei decifrare la sua espressione in quel momento, fra l’esterrefatto e il preoccupato. Mi afferrò entrambi i polsi e li tenne in alto, sopra le nostre teste, chiusi gli occhi mentre il vaso si infrangeva in mille pezzi sul pavimento, provocando un gran fragore che mi rimbombò nella testa. A questo si aggiunse un tonfo più lieve, quasi metallico e, solo quando riaprì gli occhi, prima uno poi l’altro formando una sorta di occhiolino approssimativo, mi resi conto che la casa era di nuovo immersa nel buio, dalla porta aperta penetrava la penombra della notte che gli illuminava la schiena, ma non il viso, ai miei piedi la torcia che aveva lasciato cadere per difendersi dal mio attacco, si era spenta. Forse rompendosi in mille pezzi come era accaduto al bellissimo vaso italiano dei miei genitori.
Mi teneva ancora i polsi quando mi scosse leggermente:
«Volevi uccidermi con quel coso?» potevo sentire il suo odore anche a distanza. Completamente fuori controllo, iniziai a singhiozzare, tirando su con il naso, aprii la bocca per parlare, ma non ci riuscii
«Oh, no no no» mi lasciò i polsi e mi strinse, accarezzandomi la testa, il suo tono si era addolcito e il suo profumo adesso era fortissimo e inebriante. Si scusò per avermi spaventata così tanto, sempre tenendomi stretta contro il suo addome. Gli stavo bagnando la maglia all’altezza del cuore con le mie lacrime, ma sembrava un fattore di poco conto per lui:
«La caviglia» farfugliai con la voce incrinata e lui, poggiandomi le mani sulle spalle, erano grandi e rassicuranti sulla pelle nuda, mi spostò indietro. Mi sentii futilmente strappata via dal suo addome, come un neonato allontanato dalle confortevoli braccia materne. Sentivo i suoi occhi puntati su di me mentre mi chiedeva
«Come?»
«La caviglia» la indicai con l’indice sinistro, nel frattempo che il dorso destro era impegnato ad asciugarmi la faccia «Sono caduta e … e ho inciampato e … e …» un violento pianto isterico mi colse alla sprovvista e forse lo spaventò « … mi fa maleeee!».
In realtà non piangevo così disperatamente solo per il dolore al piede, quello si era forte, ma di certo non me lo stavano amputando senza anestesia. Piangevo per la paura che avevo provato quando era andata via la corrente ed ero rimasta sospesa in una dimensione buia e spaventosa (almeno lo era stata per me); piangevo per il terrore viscerale che mi aveva attanagliato lo stomaco quando avevo scorto una figura nello specchio (che poi ero io!) e, subito dopo, avuto la certezza che qualcuno voleva entrare in casa, incurante del temporale che stava per scatenarsi; piangevo per il sollievo che avevo provato vedendo il suo volto fare capolino nell’oscurità; piangevo per la sensazione di protezione che mi aveva donato il suo abbraccio e perché adesso avrei potuto abbassare le difese.
E respirare.


continua ...


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Capitolo 3
*** #3 April o June? Questo è il problema! ***



#3
April o June? Questo è il problema!

 

Mi lasciai scivolare con la schiena contro il muro, una mano schiacciata contro la parete per non ruzzolare a terra come una pera cotta, l’altra stretta in quella di Steve, a cui sobbarcai la maggior parte del mio peso per non infierire sulla caviglia malconcia.
Lo osservai in silenzio cercare a tentoni la pila che aveva fatto cadere, pregando affinché la trovasse e, soprattutto, che non si fosse rotta. La trovò e quando l’accese la luce traballò un pochino, poi divenne fissa e mi sentii sollevata. La luce mi fece lo stesso effetto dell’ossigeno puro, come se fossi rimasta chiusa in una stanza senza aria.
Si piegò sulle ginocchia puntando il raggio di luce sulla caviglia, quindi allungò la mano per toccarla, ma istintivamente la ritirai. Non so da quanto tempo mi stavo pizzicando il labbro inferiore. Lui sospirò:
«Voglio solo accettarmi che non sia rotta» aveva sempre quel fare superiore che detestavo e mi faceva sentire ancor più piccola e vulnerabile. E mi faceva infuriare:
«Non lo è» sbottai «E’ solo slogata»
«Ah davvero?» mi puntò la luce in faccia, con quel sorriso sghembo, gli occhi mi si chiusero infastiditi, troppo abituati al buio «E da quando sei diventata un ortopedico?».
Scandì l’ultima parola come se si stesse rivolgendo ad un completo idiota. Per dargli dimostrazione che io avevo ragione e lui torto distesi la gamba e lui tornò con la luce sulla caviglia, intorno alla quale chiuse tre dita. Quel contatto mi fece salire un brivido su per la gamba, lungo la spina dorsale, provocandomi un vuoto allo stomaco.
Lo detestai ancor di più, come se fosse colpa sua per quella mia reazione imprevista e … eccitante. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo profilo, aveva un’espressione seria, attento ad analizzare lo stato di salute della mia caviglia. La luce creava giochi di ombre e pallore sul suo viso sbarbato.
Era come se lo vedessi veramente per la prima volta.
Un rombo di tuono echeggiò forte, come se avesse voluto introdurre a modo sua la pioggia, fitta e intensa, che venne giù con una forza spaventosa. Sussultai portandomi una mano intorno alla gola, ero così tesa che sarei scattata come una molla anche solo per una mosca che mi volava troppo vicino. Voltai il capo per guardare oltre la porta d’ingresso, ancora aperta, l’acqua era così densa che non riuscivo a vedere neanche il cancello all’entrata del vialetto. Tornai a guardare Steve e i nostri occhi si incontrarono, teneva ancora la mano sulla caviglia dolente, adesso il dolore era pulsante, ma decisamente più sopportabile, la tirò via, ma rimase chinato sulle ginocchia, la torcia abbandonata sul pavimento:
«Non è rotta» disse «Bene»
«Te lo avevo detto!» adoro affermare questa frase.
Ma infondo quale donna non la ama?
Lui sorrise e scosse il capo, toccandosi la nuca, forse era un gesto consueto, forse era l’equivalente del mio pizzicare il labbro inferiore.
«E’ meglio metterci del ghiaccio sopra, prima che diventi una mongolfiera» voleva essere una battuta carina, ma io non ricambiai il suo sorriso, gli chiesi invece:
«Come hai fatto ad entrare?»
«Con queste» rispose, mostrandomi due chiavi tenute insieme da un vecchio portachiavi di mia madre «Il ghiaccio. Dov’è?» aggiunse, i miei occhi erano diventati due fessure
«Perché hai le chiavi di casa mia e del cancello del vialetto?»
«Non sapevo nemmeno che ce le avessi a dire il vero. L’ho scoperto stasera» sospirò rumorosamente, come a farmi intendere che stava perdendo la pazienza, il suo sorriso era scomparso «Il ghiaccio» affermò di nuovo.
Rimasi qualche secondo in silenzio, prima di riprendere con il mio personale interrogatorio, da fuori lo scroscio impetuoso del temporale:
«E perché sei venuto qui?» si passò una mano sul viso, scattando in piedi come uno di quei pupazzi a molla che saltano fuori quando apri il coperchio della scatola nella quale sono contenuti. Mi hanno sempre spaventato molto da piccola, li immaginavo a starsene tutto il tempo chiusi in un luogo angusto, in attesa di qualcuno che li liberasse. Pensieri d’infanzia.
«Sai una cosa?»  mi disse, guardandomi dall’alto, tenendo in mano la pila con la luce, lo guardai ipotizzando quello che stava per dirmi e temendo che si potesse avverare «Tutto sommato stai benone. La caviglia è un po’ malconcia, ma non morirai. Sei più nuda che vestita, ma non siamo a meno zero gradi, quindi non congelerai» a quelle parole arrossii, avevo le guance in fiamme e, credo per la prima volta nella mia vita, fui contenta di quell’oscurità «Stammi bene … April» scorsi quel sorrisetto da pugno in affaccia e feci per replicare sul mio nome, avrei voluto chiedergli se fosse imbecille di suo oppure si sforzava di esserlo ancor di più di quanto già non fosse, ma poi fece una cosa che mi raggelò il cuore, la mente e tutti i muscoli.
Spense la torcia e il buio mi avvolse come una coperta gelida.
Ad un tratto la situazione mi fu, paradossalmente, chiara come il sole: lui significava luce. Se fosse andato via lui, allora sarebbe andata via anche la luce. Ovvio. Se la corrente era saltata in casa mia, doveva esser saltata anche in tutto il quartiere e di sicuro non sarebbe rimasto al buio senza torcia, l’avrebbe portata con sé.
Annaspai nell’ombra, prima di trovare la sua gamba e aggrapparmi ai jeans che indossava. Non si era mosso dal suo posto, riflettendoci con il senno di poi, forse non aveva mai avuto intenzione di andare via, forse non mi avrebbe mai lasciata sola, forse il suo intento era quello di spaventarmi e, devo ammettere, ci era riuscito benissimo.
«E’ nel freezer» esclamai, trattenendomi dal dirgli di non andare via
«Prego?» chiese con quella voce irrisoria a cui mi sforzai di non badare, avevo bisogno di quella maledetta pila
«Il ghiaccio» spiegai con una certa impazienza «E’ nel freezer» riaccese la torcia e mi puntò la luce in faccia, proprio come aveva fatto pocanzi, ferendomi nuovamente le pupille, d’istinto voltai il viso dall’altra parte
«Oh, davvero? E io che credevo fosse nel forno!» la luce che vedevo proiettata contro il muro si abbassò e capii che aveva distolto il fascio all’altezza del mio viso, mi girai nella sua direzione ritrovandomi i suoi occhi ad una spanna dai miei. Deglutii. «Dov’è il frigorifero?» glielo indicai e si voltò indietro, la cucina era immersa nel buio più totale, quindi illumino la direzione con la torcia.
Mobili di ciliegio apparvero come per magia, un tavolo quadrato per quattro persone era coperto da un centrotavola ricamato a mano, di un bianco candido; le pareti erano decorate da piatti dipinti con minuzia dei particolari, tutti rigorosamente artigianali.
Mi lanciò un’ultima occhiata divertita, si alzò e mi posò una mano sul capo:
«Non ti muovere di qui. Torno subito» come se potessi farlo davvero, pensai, e mi parve che stesse sorridendo quando aggiunse «April» di nuovo aprii la bocca per replicare, ma lui si era già allontanato.
 
Lo osservai in silenzio trafficare nella cucina di casa mia. Mi faceva uno strano effetto vederlo lì, nella mia routine e, soprattutto, mi stupivo a provare un senso di sollievo. Seduta sul pavimento, con la porta d’ingresso aperta su una vera  e propria tempesta primaverile, di quelle che danno l’addio all’inverno e il benvenuto all’estate, mi tornarono in mente le ragazze del mio corso universitario, quelle che si portavano le mani davanti alla bocca ed esclamavano, tutte eccitate, di quanto io fossi fortunata, di quanto fossero invidiose di me, e mi scappò un risolino pensando a cosa avrebbero potuto dire se avessero saputo la situazione in cui mi trovavo in quel momento.
Era da circa due anni che Steve si era trasferito alla villetta accanto alla mia. La prima volta che l’avevo visto era stato un giorno di fine estate. Quando avevo sentito il rombo di una macchina avevo alzato gli occhi dal libro che stavo leggendo (mi pare che fosse Il Signore degli Anelli, di Tolkien) e l’avevo seguita con gli occhi passarmi davanti ed arrestarsi nel vialetto dei miei nuovi vicini. Con i vetri scuri mi era stato impossibile vedere chi vi fosse al suo interno, avrei potuto continuare a leggere e lo feci, nonostante la curiosità.
In realtà tenevo lo sguardo fisso sulle pagine aperte del libro senza comprendere una parola di quello che leggevo, ma con l’udito sull’attenti. Lo sportello dell’auto si era aperto e poi richiuso con un tonfo sordo. Per qualche secondo era stato solo il frusciare degli alberi e dell’erbetta appena tagliata del mio giardino. L’aria sapeva di terra e acqua. Chiunque fosse uscito da quella macchina sportiva – e sebbene non me ne intenda molto, intuii che doveva essere anche abbastanza costosa – mi stava fissando, lo sentivo come sentivo la brezza fresca sulla pelle nuda delle gambe e delle braccia.
Con fare scocciato ricordo di aver chiuso il libro con veemenza e di averlo guardato di sottecchi, senza girare il collo nella sua direzione:
«Ti sei perso per caso?» aveva mosso gli angoli della bocca all’insù.
Avevo solo diciassette anni quell’estate e lui mi parve da subito più grande di me di qualche primavera. L’avevo visto incamminarsi verso il selciato che divideva le nostre due proprietà, ampliando quel suo sorriso beffardo che odiavo.
Non riesco mai a distinguere una frase vera da una bugia, una battuta da un’espressione seria; non so mai se la gente, con questo sorriso dipinto sul volto, mi stia prendendo in giro o faccia sul serio. Mi fa sentire stupida.
Mi protese la mano, presentandosi come Steve Robert, il primogenito degli Smith.
Continuando a sbuffare, come se alzarmi dal dondolo sul quale me se stavo beatamente sdraiata fosse la cosa più difficile del mondo, mi avvicinai tenendo la distanza di sicurezza e ricambiai la stretta, pronunciando il mio nome.
Il suo sorriso si ampliò, come se gli avessi detto di chiamarmi Paperina! Mi irritai e tirai via la mia mano dalla sua:
«Che nome è June? June non è un nome, è un mese!»
«June è il mio nome!» avevo detto stizzita, tornando a sedermi sul dondolo e riprendendo a leggere (senza farlo davvero) sperando che lui avesse capito l’antifona e avesse tolto il disturbo. Invece rimase lì, con quel sorriso ebete a guardarmi:
«Quindi non fa differenza se ti chiamo … che ne so» ci aveva pensato prima di aggiungere «April?» lo fulminai con lo sguardo
«June è il mio nome»
«Si, questo l’hai già detto. Ma …»
«Ma adesso devo finire questo libro. Scusa» nascosi il viso dietro lo spesso libro di Tolkien, desiderando ad un certo punto di trovarmi insieme a Gandalf, Aragorn e gli hobbit a combattere gli orchi della Terra di Mezzo.
«E’ un libro bello grosso. Riuscirai mai a leggerlo tut?»
«Si» fece per aggiungere altro, quando la porta di casa sua si aprì e sulla soglia comparve la madre. Ci scambiammo un ultimo sguardo, lui sorridente, io imbronciata:
«E’ stato un piacere … April» gli risposi con gli occhi, poi mi alzai e rientrai in casa.
La voglia di leggere mi era passata, un po’ come, prima del black out, era scemata la volontà che avevo di studiare.
 
La luce gialla della torcia, per l’ennesima volta, mi accecò e con le mani cercai di togliermi quel fascio di luce dalla faccia:
«Che fai April? Ridi da sola?»
Si, stavo sorridendo persa nei miei pensieri e nemmeno me ne ero resa conto.
«Mi chiamo June! E toglimi questa luce dalla faccia!» esclamai e lui eseguì, ridacchiando. Vidi che aveva prelevato una tavoletta di ghiaccio dal freezer che, delicatamente, mi adagiò sulla caviglia.
Il freddo mi penetrò nelle ossa come tanti aghi, non lo sopportavo, era fastidioso, ma strinsi i denti e fissai il soffitto sopra di noi, nonostante non riuscissi a vederlo a causa del buio. Quell’oscurità metteva i brividi, era come un enorme buco nero di cui non si riusciva a vedere la fine.
«April! Ehi, April!»  lo guardai sbattendo le palpebre, come se mi stessi svegliando da un lungo sonno ad occhi aperti
«Che vuoi?» sbottai innervosita. Da quando lo avevo conosciuto, non si era mai rivolto a me con il mio nome di battesimo
«Mi servono delle bende. Ce l’hai?» alzai il sopracciglio destro «E’ da tre ore che te le sto chiedendo per fasciare la caviglia, ma tu dormi!»
«Io non dormo! Ero … soprapensiero» abbassai lo sguardo sulla caviglia e la tavoletta di ghiaccio che vi era ancora adagiata, oramai il dolore era diventato un pulsare debole, intorpidito dal freddo
«Oh, davvero?» d’improvviso la sua voce si era addolcita e ne fui rapita e spaventata insieme, tornai a guardarlo, mentre carponi si allungava, fino a che i nostri visi furono così vicini da mischiare i respiri «E io ero tra questi pensieri?»
In automatico la mia mente formulò un sì muto, provocandomi un tuffo al cuore, gli schiacciai un palmo sulla faccia e lo tenni distante dalla mia:
«Sono nel mobiletto del bagno» dissi, sforzandomi di assumere un tono pacato. Mi sentivo come oppressa dal peso del suo corpo, nonostante non fosse in contatto concreto con il mio
«Cosa? I contraccettivi?» ribadì lui, tornando a quel suo tono irrisorio
«No, idiota! Le bende che mi hai chiesto!»
Ridacchiò e fece dietrofront, alzandosi con la torcia in una mano, grazie alla quale illuminò l’area circostante, soffermandosi sul corridoio che avevo percorso dalla camera a dove mi trovavo in quel momento:
«Il bagno è alla fine del corridoio» gli spiegai, adesso che si era alzato non sentivo più quel peso su di me e potevo parlare con maggiore calma «C’è un mobile bianco, apri le ante in basso. Dovrebbe esserci un kit di pronto soccorso con tanto di bende» mi lanciò uno sguardo di traverso, mi parve che stesse ancora sorridendo
«Torno subito. Non ti muovere» di nuovo quel “non ti muovere”, non capivo se lo dicesse per deridermi o se aveva davvero paura che potessi andarmene in giro a ballare.
S’incamminò e il buio mi inghiottì nella sua morsa. Il terrore tornò ad essere il mio unico compagno:
«Ehi!» tentai di chiamarlo, ma ciò che ne uscì fu solo un po’ di voce strozzata, mi schiarì la gola e riprovai «Ehi, Smith!»
«Che c’è?» chiusi le mani a pugno così strette che le unghie mi penetrarono nella carne
«Potresti parlare o …» mi sentivo una emerita imbecille « … o cantare?»
«E perché?» non sentivo più i suoi passi sul pavimento, doveva essersi fermato, forse si era voltato indietro e magari stava di nuovo ridendo di me
«Per favore» aggiunsi
 
Dopo diversi secondi di assoluto silenzio, tornai a sentire i suoi passi, accompagnati da un fischiettio. Non mi ci volle molto a riconoscere la musica che stava intonando: era la stessa che era rimbombata dalla sua casa fino alla mia, interrompendo i miei studi solo qualche ora addietro; anche dinnanzi allo specchio, mentre si acconciava i capelli nel suo bagno, lo avevo visto fischiettare.
Chiusi gli occhi e poggia la testa contro il muro, rincuorata, ora il buio faceva meno paura.


continua ...

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Capitolo 4
*** #4 Macchie indelebili e lingue aliene ***



#4
Macchie indelebili e lingue aliene


 
Tornò da me fischiettando ancora il motivetto di quella odiosa canzone.
Sollevai una palpebra e lo vidi sedersi sul pavimento, a gambe incrociate, prese a sciogliere le bende, arrotolate come una braciola. Al suo fianco la luce della torcia illuminò anche il mio animo.
Richiusi le palpebre e me ne stetti buona buona, dalla porta aperta proveniva lo scroscio della pioggia battente e l’afa, che aveva troneggiato nella giornata, stava lasciando spazio a temperature decisamente più fresche.
Lui continuò a fischiettare.
 
La seconda volta che lo vidi fu una settimana dopo che ci eravamo stretti la mano, io nel mio giardino, lui nel suo.
Era una giornata calda, tanto che l’aria condizionata del locale mi aveva fatto venire la pelle d’oca sulle braccia. Ero in attesa del mio caffè e, nel frattempo, tamburellavo le unghie sul bancone di marmo chiaro.
Lessi la scritta sulla maglia della barista voltata di schiena, la frase citava più o meno così “scusate le spalle”. Sorrisi e mi guardai intorno. Quella mattina il bar era abbastanza vuoto, qualcuno se ne stava per fatti suoi al tavolino, a leggere il giornale o perso nel mondo virtuale con il suo notebook, qualcun altro era in compagnia: quattro amiche, due amici, una coppia di fidanzati. Poi le porte scorrevoli si aprirono, scivolando silenziose, e lo vidi entrare. Distolsi lo sguardo all’istante, lasciando che i capelli mi ricadessero in avanti a nascondermi il volto.
Non so perché abbia sentito il bisogno imminente di nascondermi, ma lo feci, d’istinto, pregando che non mi vedesse. Mi metteva a disagio, non volevo incontrarlo, non volevo salutarlo, non volevo parlargli. La barista mi porse il caffè che avevo ordinato, accompagnato da un cioccolatino e un gran sorriso. Ero così preoccupata di non farmi scorgere da Steve che non la ringraziai, bevendolo amaro e bollente!
Pagai, farfugliando qualcosa per farle sapere che poteva tenere il resto, i secondi erano preziosi e io volevo uscire al più presto da quel luogo. Ricordo di aver udito a malapena la voce della barista ringraziarmi, mentre afferravo la borsa sullo sgabello e mi voltavo, sempre e rigorosamente a testa china. Andai a sbattere contro qualcuno e rimbalzai all’indietro.
Alzai il capo fino a vedere il volto candido di una giovane ragazza, avrà avuto venti anni o poco più. Ciò che mi colpì di lei, oltre alla fluente chioma bionda e agli occhi azzurri – di un azzurro intenso e carico – furono i suoi denti perfetti e splendenti. Pensai che potesse essere la promoter di un’azienda di dentifrici. Nonostante avessi le zeppe di dodici centimetri quel giorno, lei mi superava di una buona spanna … e indossava le ballerine!
Mi scusai in fretta e in tutta risposta ricevetti solo un’occhiata infastidita, come se avesse visto una mosca posarsi sulla sua profonda, molto profonda, scollatura, benché, devo ammetterlo, aveva poco da mostrare.
«Buongiorno vicina di casa col nome di un mese!» era la voce di Steve, ovviamente. Mi voltai piano nella sua direzione e abbozzai un sorriso di circostanza
«Tu conoscere?» la ragazza bionda puntò l’indice verso di lui, poi su di me, quindi di nuovo su di lui e su di me, dando conferma all’ipotesi che fosse una straniera e, dall’accento, intuii che doveva essere russa.
E, guarda caso, era in compagnia di Smith.
Da quel momento la mia mente non fece che intimarmi un’unica frase: te ne devi andare.
«Si» lo sentii dire «Siamo vicini di casa» poi si rivolse alla barista e ammiccandole chiese due caffè «Si chiama April» aggiunse tornando a guardarmi, con un sorriso di sfottò.
Lo detestai!
La ragazza russa sorrise e io pensai che con due gambe così – messe in risalto dagli short sfilacciati di jeans – hai voglia di sorridere. E lui con lei probabilmente. D’improvviso il mio metro e sessantacinque mi parve insignificante, la mia pelle abbronzata fuori moda,  i miei boccoli castani perennemente in disordine e i miei occhi color nocciola divennero i “classici occhi color nocciola”.
C’era una cosa di cui andavo fiera, però, per la sua originalità: il mio nome.
«Mi chiamo June!» precisai, enfatizzando il fastidio che provavo, ma fu come se non avessi detto una parola e Smith seguitò con le presentazioni:
«Lei è Yania»
«Yanina!» lo corresse la ragazza bionda con quell’accento tipico, guardandolo di sbieco, dall’alto, era più alta anche di lui.
«Yanina, giusto» Steve le aveva sorriso sapendo di aver fatto una gaffe, ma lei non ricambiò «E’ un’amica russa. E’ qui per lavor-»
«Amica?» Yanina parve cacciare fumo dalle orecchie e quel campanello nella mia testa prese a tintinnare con maggior foga.
Sarei dovuta andare via in quel preciso istante, invece non lo feci.
«Io solo amica?» Steve provò a rimangiarsi quello che aveva appena affermato, ma la ragazza dai lunghi capelli biondi non gli diede né il tempo, né il modo «Io solo amica?» aveva ripetuto, forse quelle tre parole erano fra le poche che riusciva a mettere insieme nella nostra lingua.
Impotente la vidi afferrare uno dei due bicchieri d’acqua che la barista aveva risposto accanto alle tazzine fumanti di caffè e minacciò di gettarglielo addosso:
«Ehi, ehi, Yania! Aspetta un att-»
«YANINA!» urlò lei e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. In tutti i sensi.
Mirò il getto d’acqua sotto la cinta dei pantaloni, bagnandogli tutto il davanti dei bermuda di cotone blu «Così tu ricordare mio nome!» esclamò poi, mentre Steve si guardava la macchia d’acqua che si andava espandendo a vista d’occhio, proprio lì, in mezzo alle gambe.
Tutti i clienti erano ovviamente rivolti nella nostra direzione, ma non provai vergogna, anzi, mi sembrava che la vendetta di Yanina fosse anche un po’ la mia. Nascosi un risolino dietro la mano destra:
«Tu perché ridere?» guardai la ragazza russa senza sapere bene cosa rispondere e perché mai adesso se la prendeva con me. Scossi il capo, ma non fui abbastanza scaltra da schivare il caffè che mi gettò addosso, sporcandomi appena sotto il seno. Sbarrai gli occhi mentre vedevo il caffè inzupparmi la camicia bianca che tanto adoravo, scostai il tessuto setoso dalla pelle per evitare di scottarmi.
 
Ora tengo a precisare che di solito non sono una persona aggressiva, ma quella mattina avevo imparato che poteva succedere di tutto, come ad esempio incontrare una russa incavolata perché un emerito imbecille l’ha offesa in qualche modo che neanche conosci e che questa, adirata, se la prenda con te gettandoti del caffè sui vestiti. E tutto questo nel bar che frequenti quotidianamente. 
Puntai gli occhi dentro i suoi, mi parvero blu scuro e non più azzurri, inoltre torreggiava su di me:
«Stronza» bisbigliai fra i denti e solo quando avvertii la stretta di Steve intorno alle mie braccia capii che ero avanzata verso Yanina, con le mani protese in avanti, forse intenzionata a strangolarla, ero come in trance.
La osservai sputarmi in faccia qualche offesa nella sua lingua aliena, mentre cercavo di liberarmi dalla stretta di Smith, nonostante mi rendessi conto della sua forza non smisi di dibattermi, fin quando la bella russa non lasciò il locale e mi accorsi che gli occhi di tutti i presenti erano puntati su di noi. Avvampai e cercai di ricompormi, ravviando i capelli e lisciando il davanti della gonna. Steve mi porse la borsa che avevo lasciato cadere per la foga, gliela strappai di mano mentre mi sorrideva con un’espressione divertita, come se fosse appena uscito dal parco giochi. Lo fulminai con gli occhi e mi avviai alle porte del bar. Mi fu accanto in un attimo:
«Ti do' un passaggio» mi stava dicendo, quando un’anziana seduta ad un tavolino con un signore più vecchio di lei affermò:
«Sporchi adulteri!»
Come poco prima, quando Yanina mi aveva gettato il caffè addosso, sentii la rabbia offuscarmi la ragione:
«Ma chi è lei? Cosa vuole?» urlai contro la donna, troppo truccata per la sua età
«Dai April, lascia stare» Steve mi prese per le spalle, invitandomi a lasciare il bar
«Mi chiamo June!» esclamai, liberandomi dalle sue mani con uno strattone, lanciai un’altra occhiataccia alla signora e uscii in strada, dove la calura della mattina mi piombò addosso, ma perlomeno mi sentivo libera.
 
Rinvenni da quel ricordo quando avvertii una morsa intorno alla caviglia, dove il dolore sembrava essere tornato. Oltre al fruscio della pioggia e qualche sporadico rombo di tuono in lontananza, il fischiettio di Steve era onnipresente. Strinse ancora un po’ la fasciatura e d’istinto ritirai il ginocchio, tenendolo con le mani:
«Ahi!» lui smise di fischiettare e mi guardò, l’ombra della notte gli rendeva l’espressione del viso più seria di quanto non fosse «E’ stretta!»
«Deve essere stretta»
«E’ troppo stretta. Mi fa male così» obiettai e lui fece scivolare lo sguardo dal mio viso al piede, o meglio, credevo che stesse guardando il piede, perché abbozzando un sorrisino disse «In questa posizione ti si vedono le mutandine»
Distesi di scatto la gamba e, di nuovo, sentii le guance in fiamme. Lui riprese ad armeggiare con le bende, intonando il motivetto di quella canzone. Roteai gli occhi al soffitto:
«Smettila di fischiare! Non mi serve più. Grazie» tornò a guardarmi negli occhi
«Ma io non lo facevo per te» quanto avrei voluto spaccargli qualcosa in testa e farlo smettere di darsi tante arie, invece lo guardai perplessa quando si mise in piedi ed estrasse qualcosa dalla tasca dei jeans che poi mi porse. Era la boccetta degli analgesici, probabilmente l’aveva trovata nel kit di pronto soccorso, dove mia madre conservava le medicine «Prendine una» mi disse in tono quasi imperativo:
«Non mi fa tanto male, posso resistere» risposi, ma lui non accennava a muoversi. Gli afferrai la boccetta dalle mani sbuffando e l’aprii, lasciando che una pillola mi cadesse nel palmo:
«Ti prendo dell’acqua» mi disse, mentre ingoiavo la capsula
«Non ce ne bisogno» aggiunsi stizzita, puntellandomi al muro per rimettermi in piedi, mi aiutò senza che glielo chiedessi e in cuor mio gliene fui grata:
«Prendi le pillole senza acqua» cominciò con quel tono di scherno «Sei proprio una selvaggia».
Risi scuotendo il capo. Quella parola, selvaggia, creò nella mia mente l’immagine di me spersa su un'isola allo stato brado, dove sarei morta di fame e sete e paura dopo cinque minuti. Non riuscivo a stare al buio per cinque minuti!
Zoppicando mi incamminai lungo il corridoio, sorreggendomi al muro, sentii il click della porta d’ingresso che lui stesso chiuse, trasmettendomi sollievo e timore insieme; mi affiancò passandomi una mano intorno alla vita, in una sorta di abbraccio grossolano. Mi stupii di non provare vergogna o fastidio per quel contatto, piuttosto approfittai del supporto della sua spalla per evitare di poggiare il piede malconcio sul pavimento.
Davanti a noi la luce della torcia illuminava il nostro lento cammino, proiettando ombre lunghe e deformi sulle pareti. Oltre il sottile tessuto del mio abitino, avvertivo il suo palmo caldo, i polpastrelli delle dita che pigiavano contro le ossa del bacino e inavvertitamente mi ritrovai a chiedermi cosa avessi provato se solo avesse percorso l’intero corpo con quelle mani. Un brivido di freddo mi salì per la spina dorsale:
«Tutto ok?» mi  chiese con un filo di voce, voltandosi nella mia direzione e solleticandomi l’orecchio con il suo respiro.
Così non va bene, pensai.
«S-si si» balbettai e mi sentii stupida.
Dov’era finito l’odio che provavo per lui? E il fastidio che sentivo al suo solo pensiero? Cercai entrambi dentro di me e quando mi resi conto che non li avrei trovati ebbi paura, ma non di lui, bensì di me stessa.
 
Avevo percorso pochi metri a passi veloci quella mattina, lontana dal locale e dall’aria refrigerata al suo interno, cominciavo a sentire le prime goccioline di sudore imperlarmi la schiena e il viso, ma forse sudavo soprattutto per la vergogna degli sguardi dei passanti che mi fissavano quella macchia di caffè sotto il seno, come se fossi stata un'extraterrestre. Un bambino, mano nella mano con una donna dall’età improbabile, mi indicò:
«Guarda mamma, la signorina ha la maglia sporca» rise e io lo fissai male
«Si» dissi irritata «E’ sporca, e allora?» la donna mi fulminò con lo sguardo e nascose il bambino dietro il suo bacino corpulento «Dovrebbe insegnare l’educazione a suo figlio, sa signora?!» la mamma aprì la bocca, furiosa, pronta a controbattere:
«La scusi» era Steve, ancora lui, con un sorriso affabile dipinto sul volto «Si è versata del caffè sulla sua camicia preferita e ora è di pessimo umore» vidi la donna addolcire la sua espressione e mi infuriai maggiormente:
«La tua fidanzata dovrebbe imparare a contenere la sua rabbia, giovanotto» feci per replicare, ma lui mi precedette
«Ha ragione signora, ha ragione» continuava a sorriderle mentre mi cingeva le spalle con un braccio «Le nostre più sentite scuse. Le auguro una buona giornata» non attese la risposta della donna, ci allontanammo insieme e, quando mi voltai indietro, la vidi ferma sul marciapiede a fissarci.
Mi tolsi il suo braccio dalle spalle e contro voglia lo seguii fin dentro alla sua macchina. Avevo troppo caldo per litigare con lui, troppo caldo per aspettare il bus che mi avrebbe riportato a casa, troppo caldo per percorrere a piedi quella stessa strada. Soprattutto, avevo una macchia di caffè oramai raggrinzita sulla camicia di seta bianca. La mia preferita, con bottoni di strass e maniche a palloncino.
L’abitacolo era poco illuminato a causa dei vetri offuscati, ma fresco e profumava di pino. Avviò il motore e si immise nella carreggiata, mi sentivo piccola e a disagio, iniziai a pentirmi di non aver aspettato l’autobus. Rallentò e si fermò al primo semaforo rosso, mi stava guardando, scorsi la sua immagine riflessa nel finestrino, ma io non osai voltarmi, troppe emozioni contrastanti mi stavano confondendo la mente. Eppure, c’era qualcosa di rassicurante in quella macchina, forse i vetri scuri che estraniavano dal caos della città e dal caldo opprimente, forse l’odore che mi avvolgeva e che conoscevo bene, era lo stesso che oramai impregnava la tappezzeria della Mercedes di mio padre, forse era la sua presenza.
«Davvero un peccato» disse all’improvviso e fui costretta a guardarlo
«Cosa?» chiesi, preparandomi alla sua risposta
«Che ti sia sporcata» sfiorò la macchia marrone sotto il seno e mi irrigidii, poi acconciò la piega del colletto, nonostante non ne avesse bisogno, accarezzandomi con un tocco leggero il collo «Ti sta bene» aggiunse.
La pelle della braccia si accapponò, nascosi le mani, strette l’una all’altra, fra le gambe, sperando che il tessuto della gonna, lunga al ginocchio,  occultasse il mio nervosismo.
«A me è andata meglio» continuò e mi chiesi se si rendesse conto che, finora, era stato un monologo «Era solo acqua» si frizionò il cavallo dei bermuda per verificare se si fosse asciugato e sorrisi a quel gesto, ipotizzando che se la bella russa gli aveva gettato proprio lì l’acqua, doveva esserci un motivo.
«E’ la tua ragazza?» gli chiesi di slancio, mentre il semaforo tornava verde e lui inseriva la prima per riprendere il cammino
«Chi? La russa?» rise guardando la strada e io potei finalmente osservarlo «No, no. Ci siamo conosciuti ieri sera ad una festa e … boh!» esclamò facendo spallucce «Forse si aspettava qualcosa di più dopo la notte che abbiamo trascorso»
Tornai a guardare fuori, delusa. Era proprio come lo avevo immaginato, un ragazzo troppo diverso da me, lontano anni luce dal mio modo di vivere, dal mio modo di essere, dai miei principi e dai miei valori morali. Sentii di nuovo l’indignazione nei suoi confronti farsi largo fra le emozioni che mi stavano divorando. Nell’abitacolo dell’auto calò il silenzio.
Quando imboccò il vialetto di casa sua tirai un sospiro di sollievo, aprii lo sportello e feci per scendere, ero con un piede sul selciato e l’altro ancora nella macchina:
«April» mi chiamò e voltandomi mi ritrovai il suo viso vicinissimo al mio, la parte superiore del suo corpo era praticamente riversa sul sedile del passeggero «Nemmeno un grazie o un regalino …» lasciò la frase a mezz’aria e con la mano mi carezzò la coscia sinistra da sopra il tessuto della gonna. Ero completamente imbambolata, rapita dai suoi occhi che si ostinavano a non lasciare i miei. Mi sentivo inerme, senza forze, come legata, fino a quando la sua bocca sfiorò la mia, con delicatezza una volta, poi una seconda, la presa sulla coscia divenne più salda, mi morse il labbro inferiore e lo inumidì con la lingua. Dolore e piacere si fusero. Tutto si fondeva con lui: rabbia e gioia, timore e sollievo.
Lo allontanai, frastornata, oramai il caldo aveva invaso anche la macchina, o forse era semplicemente la mia temperatura corporea ad essere aumentata:
«Perché continui a chiamarmi April?»
«Forse un giorno te lo dirò» sorrise e tirò via la mano dalla gonna «Ma non oggi» ci guardammo negli occhi ancora un po’, poi raccolsi le ultime forze e mi diressi verso la mia parte di giardino.
Il giorno dopo la macchina nel suo vialetto non c’era più e per molto, molto tempo non la vidi rientrare.

continua ...
 

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Capitolo 5
*** #5 Parole parole parole ***


#5

Parole parole parole
 

 
In quinta liceo la professoressa di letteratura straniera ci diede il compito di sviluppare un tema su uno dei capoversi che lei preferiva in assoluto di un noto autore italiano del primo Novecento. Quando tornai a casa rimasi per ore a fissare i righi bianchi che si stendevano sotto la parola “svolgo”.
Il paragrafo che avrei dovuto analizzare citava così: «Si vive per anni accanto a un essere umano, senza vederlo. Un giorno ecco che uno alza gli occhi e lo vede. In un attimo, non si sa perché, non si sa come, qualcosa si rompe: una diga fra due acque. E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano.»
Non riuscivo a comprendere il significato di quelle parole. Non riuscivo a capire come due persone che si conoscono da tempo, possano mutare l’idea che hanno l’uno dell’altro. Non riuscivo a capire come potevano “confondersi e mescolarsi”. Scrissi che gli italiani sono un popolo di romantici e che questo D’Annunzio, evidentemente, aveva riportato semplicemente una parte autobiografica nel suo romanzo. La professoressa sorrise e da sopra gli occhiali mi lanciò uno sguardo ironico, sospirando il mio nome un paio di volte.
Dopo anni che avevo accantonato quelle parole, in quella notte piovosa e buia emersero dai meandri della memoria, impolverate e spaventose. E, soprattutto, vere.
 
Non mi ero resa conto di quanto fosse scomodo il pavimento fin quando non mi sedetti sul mio letto. Steve tirò via il braccio dalla mia schiena e sbirciò le mura che lo circondavano, illuminando l’armadio e la scrivania con i libri aperti e abbandonati a sé stessi, il portatile spento lì accanto, la finestra spalancata con le tende chiuse - proprio dove mi ero sporta a gridare di abbassare il volume della musica dandogli dell’imbecille - il comò accanto al letto con il libro di Stephen King e l'abatjour che tenevo accesa durante la notte. Distesi le gambe, attenta a non urtare la caviglia fasciata, e mi lasciai andare contro lo schienale, solo allora socchiusi le palpebre e sospirai, sentendomi improvvisamente stanca. Desiderai addormentarmi e svegliarmi dopo qualche ora, con la consueta e rassicurante luce ad illuminare la stanza e magari sorridere al sogno assurdo che avevo appena fatto, invece la voce di Smith mi trascinò prepotentemente nella realtà:
«Molto bene» disse e lo guardai di sottecchi «Adesso che ti sei sistemata posso …» fece per uscire dalla camera e lo fermai bruscamente, afferrandogli il polso
«Dove vai?» sorrise fissandomi dall’alto
«Secondo te?» mi accigliai, non ricordavo una sola volta che avesse risposto ad una mia domanda con una risposta semplice e diretta, eppure non erano domande difficili le mie. Mollai la presa al suo polso e smisi di guardarlo. Non potevo costringerlo a restare con me, era stato già abbastanza gentile per essersi preoccupato di “bussare” alla mia porta quando era andata via la corrente, intanto che il temporale imperversava la sua ira su noi mortali. E, di sicuro, non intendevo pregarlo di rimanere, nonostante l’idea di me da sola, al buio, mi spaventava fino a togliermi il respiro.
Ma il respiro si fermò ugualmente quando Steve si sporse in avanti e posò una mano sulla mia guancia, accarezzandomi la nuca con le dita, sotto i capelli, con gentilezza mi voltò nella sua direzione, sorrideva, con le labbra certo, ma anche con quegli occhietti scuri e spavaldi che sembravano sempre pronti a prenderti in giro. Si piegò sulle ginocchia e i nostri volti furono alla medesima altezza:
«Tranquilla, April» fece una pausa, come di routine, per darmi il tempo di metabolizzare la parola April, ma non così a lungo per controbattere «Non vado da nessuna parte» la torcia rifletteva cerchi sul pavimento, uno dentro l’altro, creando quel gioco di ombre e luce che rendeva l’atmosfera più poetica, idilliaca. Non riuscivo a staccare lo sguardo dal suo, forte e magnetico, lo fissavo percorrermi il volto e sfiorarmi la guancia con il pollice:
«Perché sei venuto qui, stasera?» gli chiesi, senza neanche rendermi conto di farlo realmente, la voce che sentivo non era la mia, le labbra che si muovevano fino a formulare quelle parole non potevano essere le mie. No davvero. Allargò quel sorriso, come se si aspettasse una domanda del genere, come se non aspettasse altro in verità. Avvicinò le labbra al mio orecchio e sussurrò:
«Per te» si rimise in piedi e uscì dalla camera, lasciandomi al buio, eppure non ebbi paura. Le sensazioni contrastanti che provavo in quel momento erano troppo forti anche per la mia fobia, avrei preferito di gran lunga rannicchiarmi sul letto e tremare per il buio che mi circondava, o per i tuoni che ancora avvertivo ovattati e lungi da me, invece di rabbrividire per i pochi centimetri che avevano diviso le nostre bocche; avrei preferito provare quella sensazione di vertigine e intorpidimento per l’assenza di luce, non per quella sua carezza, per le sue dita che mi avevano sfiorato la guancia e la base del collo, non per il suo respiro caldo contro la mia pelle. Non per le parole che aveva sussurrato, «per te», due sole paroline che avevano avuto su di me e dentro di me l’effetto di uno tsunami.
 
Fu la luce proiettata lungo il corridoio dalla torcia ad annunciarmi il suo ritorno, se mi concentravo riuscivo a sentire i passi sul pavimento. Quando fece capolino oltre l’uscio della porta rimanemmo entrambi in silenzio per qualche secondo, io con lo sguardo fisso sulle mani che tenevo strette in grembo, lui probabilmente mi stava osservando e so che sarebbe potuto restare così per sempre, se non avessi fatto o detto qualcosa, così mi decisi a  guardarlo di sghembo:
«Che c’è?» l’ansia che provavo si tramutò in irritazione nella mia voce, lo vidi fare spallucce e muoversi in direzione del letto, ove si accomodò perpendicolare a me e spalle al muro, d’istinto ritirai le gambe, sempre attenta a non urtare la caviglia con l’altro piede, e tornai a fissarmi e torturarmi le dita.
Mi porse una bottiglietta d’acqua e la guardai imbambolata per po’, prima di prenderla e alzare gli occhi su di lui. Aveva abbandonato la torcia sul copriletto verde acquamarina e in mano teneva una birra che indirizzò a me:
«Hai preso le medicine, non puoi berla»
«Lo so» risposi in modo antipatico, non volevo essere scortese con lui, ma proprio non riuscivo a comportarmi diversamente. Sollevò un sopracciglio continuando a guardarmi e io sospirai, cacciando fuori l’ansia che mi attorcigliava le viscere, prima di aggiungere: «Grazie» altro sospiro da parte mia «Per tutto» svitai il tappo della bottiglia e ne bevvi un lungo sorso «Soprattutto per questa» ci sorridemmo, senza ambiguità, senza sguardi di sottecchi.
Poggiò la testa contro il muro e socchiuse gli occhi e io mi ritrovai ad osservarlo. Le parole di quell’autore italiano tornarono prepotentemente ad affollarmi la mente, dopo anni riemersero coperte di polvere, eppure mi bastò soffiarvi interiormente sopra per ritrovarle chiare e limpide. Mentre con gli occhi percorrevo le curve marcate del suo volto, le parole prendevano forma nella mia mente "Si vive per anni accanto a un essere umano, senza vederlo", e solo allora stavo vedendo la carnagione resa più scura dalla penombra, quell’accenno di barbetta ispida che mi figurai a carezzargli, sentendomi solleticare i polpastrelli, le labbra appena appena schiuse. "Un giorno ecco che uno alza gli occhi e lo vede", il sopracciglio destro tagliato alla punta, forse una cicatrice, i capelli castani (quasi neri a causa dell’oscurità) erano folti ma acconciati, il respiro regolare gli donava un’aria pacata.
Si, lo stavo vedendo davvero.
Continuando a tenere gli occhi chiusi tracannò direttamente dal collo della bottiglia un altro po’ di birra e io non smisi di osservarlo, non distolsi lo sguardo neanche quando si voltò a guardami, gli occhi un po’ lucidi e l’espressione dura che la luce della torcia gli conferiva. Ci fissammo per un po’, non saprei dire di preciso quanto tempo trascorse prima che io parlassi, forse secondi, forse minuti, forse ore. D’improvviso non mi incuteva più timore, d’improvviso mi parve di conoscere ogni segreto della sua misteriosa vita, ogni singolo difetto del suo corpo, ogni virtù del suo essere uomo.
«Perché hai le chiavi di casa mia?» prese tempo nel rispondermi, non credo si aspettasse quella domanda o che comunque riprendessi l’argomento. Lo vidi estrarre le due chiavi legate ad un vecchio portachiavi di mia madre che le avevo regalato da bambina, vincendolo ad una stupida pesca durante una gita scolastica, ad uno di quei giochi dove il saltimbanco urla in continuazione «si vince sempre, signore e signori, si vince sempre!»
Steve le rimirò nella mano libera, quindi le lanciò in aria e le chiavi ricaddero proprio al centro del suo palmo che chiuse con vigore:
«Le ho rubate. Una notte mi sono intrufolato in casa tua mentre dormivi e le ho rubate dal posto segreto dove tieni le chiavi di riserva e …» mi guardò sorridendo, ma io non ricambiai il sorriso e vidi scemare anche il suo, prima di sospirare e riprendere «Quando è saltata la corrente i tuoi hanno telefonato a casa mia. Hanno detto che la tivù aveva trasmesso la notizia di un black out che avrebbe lasciato al buio diversi quartieri e che non avrebbero potuto porre rimedio al guasto prima dell’indomani» lo ascoltavo in silenzio, ma la mia mente era un turbinio di pensieri «Tua mamma mi è sembrata abbastanza preoccupata al pensiero che tu fossi in casa da sola e mi ha chiesto di chiedere alla mia se, gentilmente, avrebbe potuto fare un salto a vedere come stavi. Gli ho detto che si, sicuramente lo avrebbe fatto ed è stato allora che mi ha confessato che nella cassetta della posta vi erano nascoste queste chiavi, sarebbe bastato infilarci la mano per prenderle. Mi ha ringraziato all’infinito  e si è scusata fino alla nausea per il disturbo. Tua mamma è molto più gentile e cortese di te, sai?» sorvolai sulla sua battuta sarcastica, non avevo più le forze per controbattere alle sue frecciatine, al contrario di lui che, invece, sembrava sempre pieno di energie da consumare facendomi imbestialire. Ed ero delusa: non era venuto per me, di sua spontanea volontà, ma solo perché gli era stato chiesto dai miei genitori e, chissà, forse si era sentito in obbligo di venire a vedere come me la passavo:
«Quindi mia mamma e mio padre sono convinti che sia venuta tua madre da me e non tu»
«Esatto. I tuoi sono dei genitori molto apprensivi»
Mi soffermai su quelle parole. No, i miei non erano molto apprensivi, semplicemente sapevano quanto io fossi terrorizzata dall’oscurità e mi sentii sollevata nell’appurare che non ne avevano fatto parola con Steve. O, perlomeno, sperai che lui mi avesse raccontato tutta la verità, senza omettere nulla.
«Rimettile al loro posto» mi lanciò il mazzo di chiavi e lo presi al volo, era caldo dopo che lo aveva tenuto stretto nel suo pugno e mi sorpresi a desiderare di gettarlo via, come fosse carbone ardente. Sforzandomi di non mostrare una certa urgenza lo adagiai sul comò alla mia sinistra, accanto alla bottiglia d’acqua, e tornai a distendere le gambe, non c’era più motivo di creare distanza fra noi, la notte era ancora lunga, ma sentivo che sarebbe passata e che non sarei stata da sola a combattere la mia più grande paura.
Bevve tutto d’un sorso l’ultima birra che era rimasta e si pulì le labbra con il dorso della mano, poi si allungò per poggiarla accanto al portachiavi e, come quando mi era passato accanto a casa sua, o quando mi aveva abbracciata sull’uscio della porta, consolando le mie lacrime infantili, sentii distintamente il profumo di cui  era cosparso il suo corpo. Mi irrigidii come una pietra e scostai il viso di lato, sperando che lui non notasse quel leggero spostamento, né tantomeno il rossore sulle gote che si andava espandendo.
Tornò al suo posto sbuffando rumorosamente, come se quel movimento fosse stato il più difficile e pesante del mondo e non riuscii a trattenere un risolino, era buffo e in quel momento aveva l’aria di un bambino annoiato durante l’ora di storia. Quando avvertii un peso e un calore diffondersi intorno alla caviglia fasciata però tornai improvvisamente seria e fissai incerta la sua mano adagiata sulle bende. Il palmo era caldo e fu come se le ossa addormentate dal ghiaccio poco prima si risvegliassero e prendessero vita.
«Ti fa male?» mi chiese senza alzare gli occhi dalla caviglia. Risposi di no «Ti pizzica?» di nuovo risposi in modo negativo «Ti da fastidio in qualche modo …» mi lanciò un’occhiata senza muovere il capo e sentii il respiro strozzarsi in gola « … April?» ritirai di nuovo le cosce, stizzita:
«Sei tu ad infastidirmi, non la mia caviglia! E poi io non mi chiamo April. Mi chiamo …»
«Lo so come ti chiami» mi interruppe e io non potei fare a meno di rimanere a bocca aperta, era diventato improvvisamente serio, cominciando a vagare con lo guardo per la stanza
«Perché continui a chiamarmi April allora?»
«Perché avevo un pony che si chiamava April» rimasi di stucco, provai irritazione per quella risposta, ma anche dolcezza. Era sempre così con lui, mai una sensazione chiara e distinta, mai un’emozione schietta, solo farfalle nello stomaco, che sembravano risalirmi lungo la trachea e bloccarmi il respiro, e rabbia. Strinsi i pugni mentre lui aggiungeva «Ero piccolo ed era tutto per me. Lo avevo trovato un giorno vicino ai campetti dove andavo a giocare con un pallone di pezza. Alcuni ragazzini della mia età lo stavano maltrattando. Mi nascosi e aspettai che fossero andati via per avvicinarmi. Che vigliacco, vero?» tornò a guardarmi senza darmi il tempo di rispondere «L’animale era sdraiato sulla terra secca e aveva una miriade di mosche che gli ronzavano intorno. Ho creduto che fosse morto e non me lo sarei mai perdonato» si guardò le mani e proseguì «Invece si alzò quando mi vide e io allungai una mano tremante verso di lui. Non avevo mai visto un pony, credevo fosse un semplice cavallo. Si lasciò accarezzare e lo portai a casa. Mi sembrava un animale che avesse bisogno di cure e di affetto, quasi quanto me» quelle ultime parole mi provocarono un tuffo al cuore e le lacrime mi bruciarono agli angoli degli occhi «Mia madre disse che lo potevamo tenere, ovviamente sarei stato l’unico responsabile di quella bestia che, ci confermò il nostro vicino, era una femmina. Così la chiamai April, come il mese in cui l’avevo incontrata. Come tutte le mattine uscii di casa per salutarla e darle da mangiare, prima della scuola, ma April non c’era più»
«Era scappata?» chiesi di slancio, interessata a quell’aneddoto
«Non c’era più non nel senso letterale. Non c’era più nel senso che l’avevano ammazzata. Morta, in una pozza di sangue»
Gridai come una matta, come se avessi visto la scena più orrenda della mia vita. In verità non vedevo proprio un bel niente, il buio era tornato, senza preavvisi, senza avvertire, era calato e mi aveva inghiottita di nuovo nella sua morsa. Ero di nuovo sola, nell’abisso profondo e oscuro della mia fobia. Scattai a sedere sul letto, avvertendo un lieve fastidio alla caviglia, tuttavia non me ne curai, afferrai la torcia e cominciai ad agitarla come un barista farebbe con il suo shaker per cocktail:
«Come si accende questo affare!» pigiavo il bottone dell’accensione fino a farmi dolere il pollice «Accenditi! Accenditi! Accenditi, accidenti!»

continua ...
 

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Capitolo 6
*** #6 Chiaroscuro ***


#6

Chiaroscuro
 


Era come se una vocina dentro di me gridasse in continuazione la parola buio.
E’ buio, diceva. Accendi la luce, proseguiva.
«April, calmati, si è solo…»
«Io non mi chiamo April, va bene? Io non sono il tuo pony»
«Era una femmina»
«La tua pony o come cavolo si dice, va bene?» non riuscivo a vederlo, sentivo che era lì a pochi centimetri da me, ma non lo vedevo e questa cosa mi inquietava ancor di più «Mi chiamo June, va bene? E mi dispiace per la TUA pony, ma non sono la sua reincarnazione o-o-o non lo so! So solo che mi chiamo June e che questa cavolo di torcia deve riaccendersi!»
«Probabilmente è scarica, non …»
«Come scusa?» ci fu un attimo di silenzio, in effetti la mia domanda era abbastanza stupida, devo ammetterlo
«Ho detto che è scarica e non …»
«Pile. Certo, le pile! Hai delle pile di riserva? Io dovrei averle da qualche parte, solo che non ricordo bene dove… aspetta, forse sono qui…» mi allungai verso il cassetto del comò e lo aprii, infilando la mano per cercare fra varie cianfrusaglie: penne, fogli volanti, smalti, rossetti e ancora penne.
«April»
«Aspetta un attimo. Sono quasi certa che le ho messe qui dentro…» ero un treno in corsa, incapace di arrestarmi, incapace di pensare se non a quelle stupide pile di ricambio, incapace di ricordami di lui, o di chi fosse. Mi afferrò per l’avambraccio e non lo lasciò mentre mi parlava ad una spanna di distanza, aveva l’alito che sapeva di birra:
«Quello che sto cercando di dirti è che non va a batterie! È scarica, punto. Ha bisogno di essere ricaricata con la corrente che, come avrai già notato immagino, manca da diverse ore» un altro tuffo al cuore, questa volta di paura, di terrore puro.
Un tuono rombò in lontananza e una luce tenue illuminò per un attimo le folti nubi in cielo e la mia camera che, come sempre mi succedeva quando sulle cose calava il buio, mi sembrava del tutto estranea, nonostante la vivessi quotidianamente. Vidi per un momento i suoi occhi fissare i miei, come se sapesse perfettamente dove stessero guardando e avvertii qualcosa spezzarsi dentro di me, cedere, abbandonarsi alla rassegnazione e le lacrime presero a bagnarmi il viso:
«Il problema è il buio» dissi singhiozzando quando ancora mi teneva per il braccio «E questa torcia era l’unica fonte di luce che… che…» lasciò la presa e con quella stessa mano mi carezzò la testa, mentre affondavo il volto nell’incavo della sua spalla
«Ti ho detto che non vado da nessuna parte» il suo tono era basso ma serio, senza alcuna sfumatura di scherno e sperai che stesse dicendo la verità.
La base del collo era calda e umida a causa dell’afa, lì l’odore del profumo che avevo imparato a conoscere in quella giornata, tutt'altro che normale, era più forte e si fondeva a quello della sua pelle. Sollevai appena il capo per guardarlo, anche senza luce mi sembrava di poter vedere i suoi occhi scuri scrutarmi il viso e poi magari fissarsi sulla bocca, le sue labbra schiuse e la fronte leggermente madida di sudore. Il suo respiro continuava a sapere di birra e la mano che fino a quel momento mi aveva accarezzato i capelli, discese con tocco leggero lungo la schiena lasciata nuda dal taglio del vestito che indossavo. Le sue dita erano delicate sulla mia pelle, appena percettibili, eppure i brividi affioravano lungo la scia tracciata dal loro passaggio. Non ricordo se chiusi gli occhi oppure no - tanto il risultato era lo stesso: nero come la pece – mentre posavo le mie labbra sulle sue, erano screpolate e secche. Rinvenni e lo allontanai con entrambe le mani che poi passai fra i capelli tirandoli all’indietro:
«Oddio, scusa! N-non volevo, davvero, non …» deglutii e respirai per cercare di riordinare le idee e i pensieri «… è il buio!» esclamai d’un tratto «E’ colpa del buio» quanto ero patetica in quel momento e quanto mi stavo detestando, poi lui scivolò su di me, fino a che i nostri corpi non furono distesi, l’uno sull’altro, e io mi stupii di notare che non avevo la forza di fermare le sue azioni. O forse, semplicemente, non ne avevo voglia, forse desideravamo entrambi la medesima cosa e me ne vergognavo:
«Secondo me» iniziò con quella cadenza ironica nella voce «Lo volevi eccome» la stessa mano che con gentilezza mi aveva accarezzato i capelli e poi corso giù per la schiena, adesso stava risalendo la mia coscia, non più un contatto appena accennato, ma decisamente più veemente. Sentii le dita oltrepassare l’elastico degli slip e soffermarsi sull’addome, pizzicando la pelle.
«Non posso stare con una persona che non ricorda nemmeno il mio nome» mi riscoprii a farneticare, prima di perdere ogni contatto con la realtà, era un po’ come vedere due June – o forse, paradossalmente, erano June ed April - fare a cazzotti per ostacolarsi a vicenda:
«Oh, ma io lo ricordo eccome il tuo nome …» si zittì, sfiorandomi le guance con le labbra e l’ombelico con le dita «June.»
Il mio nome sulle sue labbra assunse un’altra intonazione, qualcosa di tremendamente immorale ed invitante. Un nuovo brivido mi scosse da capo a piedi, gli afferrai il viso fra le mani e gli carezzai le guance, seguendo il contorno delle sopracciglia con i pollici, mai come in quel momento avrei desiderato vedere i suoi occhi, perdermi nel suo sguardo:
«Mi dispiace per April, il tuo pony» si lasciò sfuggire un risolino e io aggrottai la fronte
«Non è mai esistito nessun pony» rise ancora e mi accigliai di più «Ti stavo solo prendendo in giro»
«T-tu… tu sei un-»
Mi baciò, prima che potessi terminare la frase, mi bacio togliendomi il respiro e resistendo anche quando cercai di scostarlo da me, mentre le sue labbra si increspavano in un sorrisetto, la sua mano riprese a muoversi e a risalire fino ai seni e alla base del collo, che accarezzò. Fu solo allora che assaporai fino in fondo quel bacio e il suo sapore di birra che si andava fondendo al mio.
Abbassai le palpebre e questa volta l’oscurità non mi fece paura, né tantomeno le sue mani che mi denudavano senza fretta, ma con gesti netti, sicuri, e nella mente vidi il mio abito abbandonato ai piedi del letto, nascosto ben presto dalla sua T-shirt. Gli passai le mani sulla schiena, sfiorando i muscoli delle spalle, poi intrecciai le dita sulla sua nuca e lo tirai ancor più contro la mia bocca, semmai fosse possibile avvicinarci maggiormente. Scoprii che il peso del suo corpo sul mio non mi opprimeva, tutt’altro.
Come poco prima le parole scritte secoli addietro da quel poeta italiano tornarono a solleticarmi la mente "In un attimo, non si sa perché, non si sa come…" senza smettere di intrecciare la lingua alla sua, ripresi a carezzargli ora la schiena, ora l’addome glabro, fino ad afferrarlo per la cinta dei jeans "… qualcosa si rompe: una diga fra due acque" ed era proprio come mi sentivo io in quel momento: un fiume in piena che non riusciva a fermare la sua corsa, che non si sarebbe fermato fin quando non avrebbe raggiunto la sua meta, il mare per il primo, Steve Robert Smith per me.
Rimanemmo a fissarci per un lasso di tempo breve, ma carico di tensione e, soprattutto, desiderio. Respiravamo entrambi affannati e nudi, completamente nudi, circondati dal buio più profondo, eppure mi sembrava di poterlo vedere, mentre ricurvo su di me si puntellava con le mani sul materasso per non schiacciarmi, la bocca dischiusa per riprendere fiato, quello sguardo spudoratamente intenso che cercava il mio, poi lentamente si riavvicinò fondendo ancora una volta le nostre labbra, il nostro sapore, e infine i nostri corpi agognanti di piacere.
"E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano."
 
A svegliarmi non fu una sua carezza o un suo casto bacio, né la sua voce o un qualsiasi movimento gli potesse appartenere, ma un intenso raggio di sole che penetrava oltre le tende e illuminava la mia stanza. Frastornata mi issai a sedere al centro del letto, osservando l’ambiente che mi circondava con un grande punto interrogativo sul capo, sforzandomi di colmare quella sensazione di vuoto nella mente, poi lo sguardo mi cadde sulla fasciatura alla caviglia e mi sentii riempire come un bicchiere vuoto. Ogni immagine della notte precedente riaffiorò.
Mi affrettai ad avvolgermi nel lenzuolo, lasciando una lunga coda dietro di me, come un abito da sposa. Un tonfo sordo attirò la mia attenzione e vidi la torcia rotolare sotto al letto, ma la ignorai. Un pizzicore alla caviglia quasi mi fece perdere l’equilibrio, senza molta grazia riuscii comunque ad aggrapparmi al battente della porta appena in tempo, prima di ruzzolare sul pavimento. Percorsi velocemente il corridoio, fino a raggiungere la cucina, dove la luce era anche più forte che in camera e strinsi gli occhi per abituarli al chiarore intenso. Vidi i cocci del vaso che avevo cercato di rompergli in testa ai piedi della porta d’ingresso e il kit di pronto soccorso vicino al battiscopa, proprio lì, dove mi ero seduta ad attendere che lui si prendesse cura della caviglia. Ero ancora imbambolata a guardarmi attorno con – potrei giurarci – l’espressione di un pesce lesso, quando delle voci ovattate mi spinsero verso la finestra e a sbirciare oltre le tende.
Steve era nel suo giardino, lo sportello della macchina aperto, non indossava i jeans e la maglia che gli avevo visto addosso e di cui, pensai arrossendo, si era liberato nel corso della nottata, ma la tuta di una società sportiva. Deglutii, sforzandomi di comprendere almeno una parola della conversazione che stava avendo con i suoi famigliari, ma infondo non mi serviva sentire quello che stavano proferendo, mi bastava osservare per capire. Quando lo vidi abbracciare una delle sue sorelle d’istinto mi allontanai dalla finestra e le tende scivolarono al loro posto, oscurandomi la vista, poi il fragore del motore– quella dannata macchina – e quindi lo stridio delle ruote sull’asfalto, poi solo il rombo che andò scemando.
 
Tornai nella mia camera e mi lasciai cadere pesantemente sul letto, sospirando. Sul comò la bottiglia vuota della birra e quella dell’acqua, piena per due terzi, e proprio sotto quest’ultima mi parve di scorgere un foglio e il cuore accelerò i battiti. Mi affrettai a recuperarlo e in una grafia approssimativa e fugace lessi:
 

Avrei voluto svegliarti per salutarti come si deve,
ma quando ci ho provato mi hai aggredito come un doberman.
Per la cronaca, la torcia va a pile, se riesci a trovarne un paio nuove,
ti conviene sostituirle, in caso di emergenza. E, comunque, puoi tenerla, te la regalo.
Ciao… mia April.

 

Sorrisi, scuotendo il capo.
Se ne era andato e, inconsapevolmente, si era portato via con sé una parte di me. Si era portato via con sé quella April a me sconosciuta, lasciando June sola.
Piegai con garbo il foglio in quattro parti, riponendolo nel cassetto del comò, quello dove avevo cercato le pile di ricambio in preda al panico solo poche ore prima, poi un diario che avevo da tempo dimenticato attirò la mia attenzione. Era posizionato a testa in giù e subito notai che l’ultima pagina era stata strappata, d’istinto provai a verificare se quegli strappi combaciavano con il foglio che Steve mi aveva lasciato sul comò. Si, perfettamente. Sospirai, l’ultima cosa che volevo era quella di fargli sapere che tenevo una sorta di diario segreto.
Lentamente, come se scottasse, cominciai a sfogliarlo, dentro vi avevo riportato diverse citazioni di filosofi che mi avevano colpito, interi capoversi di libri letti nel corso della mia vita, frasi prese qua e là da canzoni, per lo più scritte in inglese e accuratamente tradotte, poi una citazione su tutte mi colpii come un pugno allo stomaco,  cogliendomi alla sprovvista:
 
“Amare è breve, dimenticare è lungo – cit. P. Neruda.”
 

Mi venne voglia di piangere.
 
 
FINE

 

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