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Note dell'Autore: Questa storia è già
conclusa e consta di 3 capitoli. E' orribile, secondo me,
iniziare un racconto con la preoccupazione che questo non verrà mai
concluso. Io, di principio, finisco sempre ciò che comincio...
Questo universo, da me
chiamato "Dodici" per motivi coi quali non vi annoierò (magari in seguito,
ora non mi sembrerebbe un bel biglietto da visita XD), altro non è che una
rivisitazione in chiave personale delle sfere gerarchiche di Inferno e
Paradiso e della Terra. Quando ho letto Dante mi sono entusiasmata, ma piano
piano (che ci volete fare, nessuno è perfetto) ho iniziato a creare uno
sfondo alle tante storie che mi vengono in mente. Si tratta del Paleozoico,
ma tant'è. Sono state scritte molte storie a riguardo, poche vedranno la
luce della "pubblicazione" (certe schifezze ve le risparmio ._.)
Buona lettura ^_^ Dicembre
01. Blu
“Colui che cade
non sarà
più
degno del proprio nome, né
ne porterà
memoria. Non potrà
essere chiamato, non potrà
essere ricordato.”
“Ciò che stride con la Tua volontà
ricade su me, che sono noto e ricordato. Ma unico. Ahimè nel mio regno non
esisterà un nome, ma permetterò ai più forti di ricordarne una lettera o un
numero. Chè solo con la forza che si sopravvive. Chè solo per la forza che
si può essere ricordati.”
“Il
Regno dei Cieli non è
un luogo chiuso. Rigioisco e accolgo chiunque pecchi e si redime, nella
Volontà Celeste. Sei mio figlio e sei caduto, risali sulla
Terra e in Paradiso, se la tua anima è
pura.”
“La strada per lasciare il mio regno
è irta di ostacoli, tortuosa e lunga. Abbandonare la mia volontà per
calpestare la sabbia fredda mortale o per accedere all’Eden di nuovo è
infinitamente pedissequo e sciocco. Fin troppo difficile. “
La
locanda è incredibilmente piena.
Solite
facce e facce nuove. Facce che non ho mai visto. Non ho molto tempo di
guardarle, però, perché sono troppo occupata a portare gli ordini ai tavoli
e riportare al bancone le richieste dei clienti. E sono troppo occupata a
spinare la birra.
Quella
scorre sempre a fiumi.
Alzo
per un attimo la testa dal bicchiere che sto riempiendo, per guardare la
sala principale della locanda. Il fumo dei sigari e delle pipe è penetrato
così a fondo che la luce delle torce è affievolita, disciolta nella foschia
che s’è venuta a creare.
Il fumo
ottunde persino i suoni che sembrano arrivare alle mie orecchie più pacati e
più cupi.
E’
notte di luna nuova, questa sera.
Il mio
capo passa davanti al bancone e lo picchietta con le nocche per attirare la
mia attenzione.
Sapevo
già fosse lì davanti a me: io so sempre dove si trova il mio capo. Che sia
alla locanda, nel mezzo di tutti questi forestieri che la occupano, o in
qualche luogo nascosto della città. Quando sono arrivata qui per lavorare,
lui c’era già e ricordo bene di essermene innamorata immediatamente.
Di
essermi innamorata dei suoi occhi. Credo siano stati quelli.
Sono
occhi neri, leggermente allungati, come se in lui scorresse sangue
orientale. Anche il suo nome mi fa presupporre abbia origini asiatiche: Ci.
Non ho
mai saputo come si scriva.
Ho
provato più volte a chiederglielo, ma lui non me l’ha mai detto. Lui non mi
dice mai nulla, se non cose relative alla locanda. Mi passa gli ordini, mi
dice quel che devo fare, cosa manca nelle dispense della cucina e cosa
dobbiamo acquistare. Per il resto il mio capo non dice una parola.
Perciò
non so se il suo nome si scriva Ci, oppure Chi, o forse addirittura Qi. E
non so perché abbia gli occhi a mandorla. Ma quegli occhi – di questo sono
certa – nascondono così tanti segreti da rimanerne impigliati per sempre.
Così è successo a me, appena li ho visti.
Sembrano occhi appartenuti ad un passato lontano. Così belli che m’hanno
conquistata con uno sguardo e io me ne sono accorta quand’era ormai troppo
tardi.
Non so
neanche se il capo abbia qualcuno, ma non penso. Lavora sempre e dorme in
una delle camere al piano di sopra. Non l’ho visto mai con nessuna.
E ormai
lavoro qui da diversi anni.
Il mio
capo – di nuovo – picchietta sul bancone: c’è troppa gente per distrarsi e
per pensare a lui. Appena vede che ho ripreso a versare birra e a preparare
bicchieri, scompare fra la folla. Nonostante la sala sia così piena da non
esserci più spazio neanche per muoversi, il capo si allontana in modo
fluido, come se non avesse ostacoli di fronte a sé.
E per
un po’ non lo vedo più.
Ci sono
molti guerrieri, alcuni mercenari… un tavolo è tutto occupato dalla
delegazione straniera della città di confine. Si sentono le loro voci, ma
non capisco bene la loro lingua quindi non faccio molto caso a quel che
dicono. Il mio capo si occupa di loro, lui parla perfettamente la lingua di
quelle terre e spesso è lui ad occuparsi degli stranieri che alloggiano qui.
Questa
sera, probabilmente, avremo tutte le camere occupate.
Spero
solo che l’eccesso di birra non sia causa di qualche litigio: la mattina
dopo sono io quella che deve raccogliere i vetri e pulire la locanda.
Per
fortuna gli avventori, siano questi forestieri o locali, devono lasciare le
loro armi all’entrata. A nessuno è concesso portarle all’interno. Perciò,
nonostante la birra fomenti spesso gli animi, il pericolo che succeda
qualcosa di irreparabile è molto diminuito da quando il capo ha introdotto
questa regola.
Noto
che uno dei bracieri sul lato opposto al bancone si sta spegnendo e mi
affretto ad andare a ravvivarlo: gia la luce è poca, nella sala, è
importante che tutte le fiammelle danzino alte per riscaldare ed illuminare
l’ambiente.
Mi
pulisco le mani sul grembiule e prendo da dietro il bancone pezzetti di
torba e olio per occuparmi del fuoco. Faccio un passo verso il braciere e
sono troppo occupata a cercare di passare fra le persone per accorgermi
subito di quello che sta succedendo.
La
prima cosa che noto è l’aria gelida dell’esterno che mi investe.
Mi
volto verso la porta d’entrata, verso il punto dove i fumi della stanza
sembrano convergere per scappare fuori, lontano dalla figura che s’è
presentata all’ingresso.
Non so
se la locanda cada per un istante nel silenzio oppure se sono io che mi sono
lasciata suggestionare dall’uomo fermo sulla porta. L’aria però è di nuovo
incredibilmente limpida e gelida.
Nessun
fumo offusca la vista, né attenua i suoni.
L’uomo
all’entrata si guarda intorno e poi fa un passo all’interno della locanda,
permettendomi così di avere una visuale migliore.
Ha i
capelli così lisci da apparire di seta, lunghi sicuramente oltre la vita.
Quelli che gli ricadono sul viso gli coprono gli occhi, tanto che mi chiedo
come possa vedere.
E sono
blu.
Di un
blu così intenso che sembra illuminarsi, nonostante non ci sia la luna in
cielo.
Indossa
un cappotto dal taglio insolito, per queste terre, pare di fattura antica. E
anche questo è perfettamente blu, dello stesso colore dei capelli, che si
confondono col velluto della veste.
Gli
arabeschi sulle maniche e sul collo corrono lungo i bordi di tutti il
vestito. Sono di un blu leggermente più chiaro, ma paiono d’argento.
Colpita
come sono da quello che deduco essere uno straniero, noto in ritardo la sua
mano appoggiata sull’elsa della spada che gli sporge sul fianco destro.
La sua
mano indossa un guanto blu e questo mi fa esitare ulteriormente.
Le
persone nella locanda si spostano, quando lui passa, hanno paura.
Gli
lasciano strada e mormorano.
Forse
no, forse continuano a parlare, ma sicuramente non osano sfiorarlo.
Lo
straniero si avvicina ad un tavolino, in un angolo della sala. Ci sono tre
uomini che lo occupano, ma appena lo vedono si alzano, prendendo i loro
calici e si allontanano.
Lo
straniero si siede e si guarda intorno. Solo quando appoggia i gomiti sul
tavolo e sospira, mi riprendo dal mio torpore e faccio un passo verso di
lui: non è concesso portare armi all’interno della locanda.
Ma
sento una mano afferrarmi con forza il braccio.
“Capo...?”
“Non
parlargli. Prendi la sua ordinazione, ma non dire niente di più”
“Ma ha
una spada…”
Il capo
sorride: “E di certo non chiamare la sua arma spada, non faresti in tempo ad
accorgerti dell’errore”
Aggrotto la fronte, ma non capisco. Aspetto che il capo si spieghi meglio.
“Lasciagli la sua arma, di sicuro non la userà qui. Vedi solo quello che
vuole”
“Ma…”
cerco di nuovo di obiettare, ma lo sguardo del capo mi mette definitivamente
a tacere.
“E’ uno
straniero” cambio quindi discorso “parlerà la nostra lingua?”
Di
nuovo il capo sorride, senza lasciarmi capire il perché.
“Perfettamente”.
E così
dicendo, il capo scompare di nuovo nella folla.
Ho
ancora la torba e l’olio in mano, quindi m’affretto ad appoggiargli sul
bancone e ad andare a fare il mio dovere. Lo straniero mi mette paura, c’è
qualcosa in lui di remoto ed ostile, ogni mio istinto mi dice di non
avvicinarmici. Eppure le mie gambe vanno avanti, imperturbabili.
Voglio
guardare quell’uomo da vicino.
Arrivata al tavolo ho ancora la netta sensazione che l’aria intorno a lui
sia più fredda che nel resto della locanda. La sua pelle bianchissima e quei
capelli lucidi mi fanno chiedere – per un istante – se non sia fatto di
neve.
Quel
pensiero me lo fa apparire innocuo, ma c’è odore di sangue nell’aria, tutt’intorno
a lui e sussulto.
Lo
straniero alza gli occhi su di me e mi guarda, sorridendo: sa benissimo che
ho sentito il suo odore e mi deride.
Col
viso leggermente proteso all’insù, aspetta che io parli, ma quella posizione
lascia cadere le ciocche della sua frangia lontane dagli occhi e io
finalmente li vedo: blu intenso, come i suoi capelli. Come i suoi vestiti. E
gelidi, come l’aria che lo circonda.
“De…Desiderate” trovo il coraggio per aprire bocca “Desiderate che vi porti
qualcosa?”
Attendo
che mi risponda.
Lui
aspetta un attimo, come se ci stesse pensando.
“Una
birra” dice infine “ e una stanza per questa notte!”
Sto per
dirgli che le stanze sono tutte occupate, ma un istinto dentro mi impone di
tacere.
Il capo
mi ha detto di non parlargli e di prendere solo gli ordini: l’unica cosa che
mi sembra saggia fare in quel momento è annuire.
“Sarò
subito da voi con la birra e le chiavi della stanza”
Mi
allontano dal tavolo e cerco con lo sguardo il capo: devo parlargli.
Ma non
è da nessuna parte e, stranamente, non riesco a capire dove possa essere
andato.
Io so
sempre dov’è il mio capo: questa sera però, non è una sera come le altre.
L’ultimo raggio di sole scomparve all’orizzonte. Il cielo notturno era
completamente buio: era notte di luna nuova. Le stelle in cielo, nonostante
fossero numerosissime, non illuminavano la strada di acciottolato che
portava alla villa del console.
Il
lampioni solo ne indicavano il percorso, ma la loro luce era fioca e le
fiammelle erano basse.
Era
stato dato l’ordine di non consumare troppo olio per l’illuminazione
pubblica perché il giacimento nei pressi della città era esaurito e la
costruzione dell’oleodotto, invece, non era ancora stata completata.
Nessuno
rimaneva fuori a lungo dopo il tramonto, inoltre la città ultimamente era
sicura perciò era poco importante che si potesse vedere poco.
La
villa del console, però, era illuminata a giorno.
Un uomo
sul viale d’acciottolato pensò fosse uno spreco. Ugualmente s’incamminò.
Non si
sentivano rumori, se non i passi dello sconosciuto e i sassolini che
venivano sollevati dalle sue scarpe e che ricadevano rotolando. E si sentiva
il leggero tintinnio di una catena che lo sconosciuto portava al fianco
destro, legata all’elsa di una spada.
Arrivato nel giardino della villa, però, non bussò alla porta. Si guardò
intorno, cercando di trovare quale, fra le stanze del secondo piano, fosse
la stanza del figlio del console. Una volta trovata, con un balzo,
raggiunse il cornicione del balcone adiacente.
Uno,
due, tre passi ed eccolo arrivato alla porta che gli permise di entrare
nella stanza. Il ragazzino – avrà avuto più o meno tredici, quindici anni
non di più – era rannicchiato fra le coperte di un letto enorme, coperto
fino al mento. Teneva un libro sollevato sul viso, stando bene attento a non
scoprire le mani e gli occhi erano così intenti a leggere che non si accorse
subito che qualcuno era entrato nella sua stanza.
“Chi
sei?” chiese poi in un sussulto.
Lo
sconosciuto non rispose e si avvicinò al letto. Il ragazzino, allora, si
mise a sedere e osservò meglio l’uomo in piedi di fronte al suo letto.
I
capelli erano blu, lisci e lunghissimi. Dello stesso colore erano i vestiti
e i suoi occhi che lo osservavano, senza parlare: lo straniero aveva gli
occhi completamente vuoti.
Sorrise.
“Sei
solo incapace di leggerli. Non essere così presuntuoso da pensarli vuoti per
questo”
Il
ragazzino sussultò :”Come...?” Ma poi si corresse e chiese di nuovo “Chi
sei?”
“Come,
chi. Tutto ha poca importanza, ormai. Che cosa stai leggendo?” Chiese poi lo
sconosciuto indicando il libro che il ragazzo aveva lasciato in disparte,
fra le coperte.
“Si
chiama L’altro Me” disse allegro il ragazzo. Poter rispondere lo
metteva a suo agio. Quell’uomo lo incuriosiva, ma allo stesso tempo gli
incuteva timore. Vederlo semplicemente seduto sul suo letto e conversare con
lui, invece, dissipava quel filo d’ansia che aveva provato vedendolo. “E’ un
libro che parla di un ragazzo e del suo continuo reincarnarsi, attraverso i
secoli…”
Lo
sconosciuto sorrise “Credi nella reincarnazione?”
“Sarebbe bello, non trovi? Continuare a vivere e vedere il mondo con occhi
sempre diversi”
Lo
sconosciuto rise.
“Lo
trovi divertente?” chiese il ragazzino stupito da quella risata.
“Molto.
Penso che sia molto divertente”
Il
ragazzino aggrottò la fronte. Aveva sopracciglia molto regolari, ben curate.
Erano leggermente più scure dei capelli castani che gli ricadevano sulla
fronte e sulla nuca in abbondanti riccioli. Quell’espressione incerta non
rendeva giustizia a quel viso che pareva essere fatto solo per sorridere.
“Hai
dei bei lineamenti” disse lo sconosciuto “ma stavi meglio quand’eri tutti
intento a leggere il tuo libro, piuttosto che con quest’espressione così
confusa”
“Sono
confuso perché non so chi sei.”
“E
questo ti fa paura?”
“Dovrebbe?” chiese il ragazzino che tradiva, col tono di voce, la
consapevolezza che sì, avrebbe dovuto.
“Sì,
dovrebbe” gli rispose, infatti, lo sconosciuto “ma la tua paura non
cambierebbe la situazione”
“E che
situazione è?”
“Ogni
cosa a suo tempo, ragazzino” lo rimproverò lo sconosciuto.
Il
figlio del console si strinse nelle spalle: “Entri in camera mia e mi
rimproveri? Mi sembra normale che ti faccia delle domande”
“Sarebbe più normale chiedere aiuto”
“Ma io
non ho paura”
“Non
sei bravo a mentire” rispose lo sconosciuto con sufficienza, poi si alzò di
scatto e si guardò intorno.
“E’ una
bella casa, vivi bene qui?”
“E’
casa mia, certo che ci vivo bene!” rispose il ragazzino cercando di darsi un
tono, ma la leggera ansia di poco prima si stava inesorabilmente
trasformando in paura. I secondi di silenzio che seguirono il suo commento,
poi, la fomentarono.
Il
ragazzino cercò qualcosa da dire. Poi vide l’elsa della spada dello
sconosciuto.
“Che
strana” disse allungando il braccio per cercare di toccarla “Non ho mai
visto una spada così”
Lo
straniero si scostò velocemente, con un gesto veloce allontanò l’elsa dalla
mano del ragazzo.
“Non ti
hanno insegnato che si deve chiedere prima di toccare cose non proprie?” Il
viso dello sconosciuto era divertito. I bordi delle sue labbra si curvarono
in un sorriso “ E questa di certo non è una spada” sillabò il termine,
sussurrandolo.
Una
spada…Che volgarità.
Le
parole dello sconosciuto rimasero sospese in aria e il ragazzo,
istintivamente, indietreggiò nel suo letto, fino a che la sua schiena non fu
contro il muro. Non era ansia quella, non era neanche più paura. Era panico.
Lo
sconosciuto rise, brevemente “Finalmente”.
Il
ragazzino sgranò gli occhi.
“Che
cosa vuoi da me?”
“Niente
che non mi possa prendere da solo”
“Ma
non…”
“No,
non ti preoccupare” i capelli dello sconosciuto fluttuarono leggermente
“Saprai tutto, non potrei permetterti di non sapere”
“Che
cosa? Che cosa devo sapere?” Il ragazzo farfugliò, poi si mise di scatto in
piedi, per fuggire verso la porta. Ma lo sconosciuto era di fronte a lui
“Shhhh”
gli disse mettendogli un dito sulle labbra “ Non parlare e non fuggire”
passò il dito dalle labbra al mento, poi al collo ed infine al petto del
ragazzo, nudo, dove il suo cuore batteva all’impazzata.
Cercò
di muoversi o di gridare, non riuscì a fare nessuna delle due cose.
“Questa” disse lo sconosciuto sfilando l’elsa al suo fianco dalla fodera “è
una Ectelium, ma non mi aspetto che il nome ti chiarisca la sua natura” La
lama che venne estratta era lunghissima e luminescente. Brillava di blu.
La catena legata all’elsa,
sfilata anche lei dal fodero, appoggiandosi per terra,
risuonò.
Il
ragazzo iniziò a tremare e lo sconosciuto lo guardò con una leggera aria di
scherno.
“No”
disse poi prevenendo il pensiero del ragazzo “non ci sarebbe stato niente
che avresti potuto fare per impedirmi di trovarti, bimbo”
“Non
sono un bimbo! Io non ho fatto niente…Che cosa vuoi da me?” chiese con la
voce rotta, poi gridò.
“Che
cosa vuoi da me, lasciami in pace!”
Lo
sconosciuto roteò gli occhi “… in pace” disse dondolando la testa “…in pace”
ripeté premendo il suo indice sul petto del ragazzo.
La
luminescenza che prima ricopriva solo l’Ectelium, pervase per un istante
tutto il ragazzo che sgranò gli occhi e fece un passo indietro per non
cadere.
Iniziò
a tremare.
“Cosa?...” chiese, ma la voce gli si spezzò.
“Ora
sai”
Una,
due, cento lacrime. Iniziò a piangere: “Io non…”
”Tu non…” gli fece eco lo sconosciuto.
“Io non
sapevo…” disse il ragazzo, deglutendo con la bocca asciutta “Io non volevo…”
“Nessuno sa. Nessuno vuole. E’ tipico di questo mondo inutile. E delle
persone che lo abitano. Tu non sapevi. Tu non volevi, eppure…”
“Ma è
successo tanto tempo fa…” cercò ancora di protestare il ragazzino “E’
passato, ormai…”
Questo
fece scoppiare a ridere lo sconosciuto. “E’ passato” ripeté “Che strano
concetto ha per voi uomini questo passato.” La parola gli sibilò
sulle labbra.
“Abbi
pietà!” scongiurò il ragazzo che non si resse più sulle sue ginocchia “Per
favore… abbi…”
Ma lo
sconosciuto girò le spalle, per tutta risposta, mentre la lama dell’Ectelium
era già penetrata nel cuore del ragazzo, che smise di battere.
Il
corpo privo di vita del giovane s’accasciò a terra, in una pozza di sangue.
“Io.
Pietà…” sorrise lo sconosciuto “Che controsenso” disse uscendo sul balcone.
L’aria
era fredda e limpida. Tipica delle nottate invernali dove il freddo permette
di vedere così tante stelle in cielo da obbligarti ad alzare lo sguardo.
Lo
sconosciuto camminò lungo il viottolo che l’aveva portato alla casa del
console, guardando il cielo.
Non era
preoccupato che la polizia potesse trovarlo, o di essere accusato: non
sarebbe mai successo. Non era preoccupato di niente, voleva solo cercare una
locanda – o meglio la locanda – per passare la notte e pensare alla sua
prossima vittima.
Il
ragazzo mortale aveva detto qualcosa di vero, nel suo farfugliare: era
passato tanto tempo.
Era
passato così tanto tempo che…
Aprì la
porta della locanda e la nebbia che riempiva il salone principale si
dissolse subito.
Era
stracolma di persone, chiassosa e poco illuminata, ma sembrava molto
accogliente.
Era la
locanda, la sua locanda ed era davvero passato così tanto tempo…
Una
ragazza con in mano della torba e dell’olio squadrò lo straniero, fissandolo
troppo a lungo.
Di
nuovo, quando lo sconosciuto si sedette al tavolo, gli si presentò di fronte
la stessa ragazza coi suoi occhini curiosi e terrore che traspirava da ogni
poro. Lo sconosciuto sapeva di odorare di sangue, il figlio del console era
morto da troppo poco perché l’odore fosse già scomparso. Un qualunque naso
un po’ fino l’avrebbe sentito.
Lo
sconosciuto sorrise: del resto il cuore del ragazzo aveva battuto troppo a
lungo.
La
ragazza tornò poi al suo tavolo con la birra che aveva ordinato e le chiavi
della stanza dodici.
“La
zero?”
La
cameriera guardò lo straniero confusa, poi rispose: “Non abbiamo una stanza
zero, signore, mi dispiace…”
Lo
sconosciuto sorrise “Lo immaginavo” disse, tornando poi a guardare fuori
dalla finestra appannata e congedando così la ragazza che s’affrettò a
tornare al bancone.
Nonostante lo straniero continuasse a guardare fuori dalla finestra, si
accorse benissimo che la cameriera continuava a lanciare delle occhiate
incuriosite nelle sua direzione.
Gli
occhi blu ritornarono poi sulle persone nel salone e la cameriera fu da lui
senza che questi avesse accennato a chiamarla.
La
ragazza si fermò a guardare quegli occhi dal colore irreale.
“Desiderate?” chiese infine.
Lo
straniero sorrise, di quei sorrisi impossibili da leggere, che vogliono dire
tutto e nulla, ma che si preferisce sempre non aver visto.
La
cameriera fece un passo indietro, senza accorgersene.
Lo
straniero distolse lo sguardo.
“Il
padrone?”
Alla
ragazza fu subito ovvio che la domanda non fosse chi fosse, ma
dove fosse. Buon per lei, essere così intuitiva - pensò lo sconosciuto.
“Non so
dove sia” era la verità “deve avere avuto qualcosa di urgente da fare…” per
lasciarmi qui con tutte queste persone. Non lo disse, ma lo lasciò bene
intendere.
Il
padrone non c’era.
Lo
sconosciuto scosse impercettibilmente la testa: lo sapeva. Il chiederlo era
stato superfluo.
Si
alzò, prendendo la chiave della stanza dodici e appoggiando tre monete
d’argento sul tavolo.
“Scusatemi” la ragazza si stupì del suo coraggio nel richiamare l’attenzione
dello straniero “Posso…”esitò “Posso chiedervi da dove venite?”
“No” le
rispose lui fissandola attraverso i ciuffi della sua frangia che di nuovo
gli ricoprivano gli occhi.
La
ragazza ebbe paura di quella risposta, ma ugualmente annuì: “Capisco… e il
vostro nome?”
Era
impazzita, dopo quella risposta, perché insistere con quello straniero?
Quella semplice domanda avrebbe potuto causarle di tutto, ma non era stata
in grado di resistere.
L’aria
vicino allo straniero era davvero gelida.
“Cos’è
questa?” le chiese lui indicando l’elsa dell’Ectelium.
Lo
ragazza aggrottò la fronte “Non lo so, signore. Apparentemente l’elsa di una
spada, ma penso che in realtà sia ben altro”
Lo
straniero la guardò di nuovo, questa volta senza minacciarla
“Sei
stata istruita bene” disse voltandole definitivamente le spalle. “Zero”
disse poi dirigendosi verso lo scalone che portava alle stanze.
La
ragazza lo guardò allontanarsi, inebetita ed incurante delle voci intorno a
lei che la chiamavano perché prendesse i loro ordini.
Il nome
dello straniero era Zero.
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