Agli ordini, mio capitano!

di wanderjess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ottantacinque crepuscoli ***
Capitolo 2: *** Shinpai wa seiko no moto - la sconfitta è l'origine della vittoria ***
Capitolo 3: *** Sen ri no michi mo-ippo yori - anche una strada di mille ri comincia con un passo ***



Capitolo 1
*** Ottantacinque crepuscoli ***


P

AGLI ORDINI, MIO CAPITANO!

Ottantacinquesimo giorno dalla grande battaglia di Marineford.
Erano davvero passati tre mesi? No, non poteva essere trascorso tutto quel tempo.
Quando rimanevo in silenzio e mi concentravo riuscivo ancora a sentirli. Riuscivo ad udire le urla, i lamenti di morte, il cozzare delle spade in battaglia, i rombi dei cannoni e il calpestio degli stivali dei marines sul duro cemento della baia.
Non parevano essere così lontani, quel giorno infausto avrebbe potuto essere ieri.
Eppure qualcosa mi diceva di appartenere ormai ad un altro tempo, così vicino e così distante, così diverso da quello in cui si consumò la strage. Perché quella che era stata progettata come la comune esecuzione di un pirata, si era trasformata in una delle pagine più tremende della storia umana. Nessuno avrebbe mai dimenticato l'ansia, il tremore per ciò che sarebbe successo, la paura per le conseguenze a cui avrebbe portato l'avventatezza del Governo.
Quella stessa mattina, le poche ore che precedevano l'inizio del disastro, chiunque avrebbe potuto percepire qualcosa nell'aria: tutto era teso, in trepida attesa di qualcosa d'importante, qualcosa che, si diceva, avrebbe cambiato le sorti del mondo intero. Il tempo stesso pareva essersi fermato, o aver rallentato la sua corsa per godere degli ultimi istanti di pace prima del caos, per assistere alla tragedia di quegli uomini pronti a morire sul campo di battaglia.
I nostri pirati erano forti, determinati a combattere fino alla fine per l'unità della nostra famiglia, per raggiungere qualcosa che ci era stato portato via con la forza.
Ace. Portuguese D. Ace.
Non solo il comandante della Seconda Flotta della ciurma, non solo uno dei nostri combattenti più forti, non solo una pedina del gioco verso il One Piece, ma un amico, l'amico più leale, più coraggioso, più allegro e, sì, anche più stupido che potessimo mai trovare.
Perché aveva sbagliato. Aveva sbagliato per amore di tutti noi, per l'affetto che provava verso il Babbo e la rabbia nei confronti di Marshall D. Teach. E l'aveva inseguito. Da solo, per dimostrare al mondo che lui valeva, che poteva vendicare l'amico ucciso e fermare almeno un poco il dolore al cuore per non essere stato in grado di impedirlo, per non aver potuto fare niente contro un nemico grande come la morte, o meglio un uomo che ha portato la morte in mezzo a noi. Una morte tanto inaspettata quanto crudele, lacerante.
Satch. L'amico di tutti, al pari di Ace. L'uomo che nella ciurma era in grado di portare un sorriso a chiunque, la persona più buona che conoscessi ci era stata portata via in una notte di tempesta, colpa di un destino che si era divertito a giocare con i desideri e le avidità dell'uomo.
Ci provammo. Tentammo di salvare ciò che ancora ci rimaneva dopo quella tragedia, non sapendo che il vero disastro doveva ancora arrivare. Se solo avessimo potuto vedere cosa sarebbe successo, a cosa avrebbero portato le azioni di Ace, le nostre decisioni prese per avere giustizia, allora avremmo risparmiato al mondo quel giorno tremendo, e ci saremmo risparmiati tutto quel dolore, la perdita di Satch, di Ace, del Babbo e di centinaia dei nostri uomini, così coraggiosi, così leali da non pensarci due volte prima di correre in soccorso di un nostro fratello.
Se n'erano andati, ci avevano abbandonati senza che noi potessimo fare nulla.
E la guerra non è una cosa da prendere alla leggera. Non si può vedere i propri compagni ed i propri amici morire senza sentire un dolore sordo al centro del petto, un male che sembra poter uccidere all'istante, letale. Non si può combattere, non si può uccidere l'uomo che sta di fronte guardandolo dritto negli occhi, perché allora egli non sarà più un nemico da eliminare, ma solo un uomo come gli altri, con una vita, degli affetti, con la stessa, comune voglia di vivere e togliersi dalle mani quelle armi dispensatrici di morte per guardare il cielo ed essere felice d'esistere.
Perché nessuno al mondo gioisce veramente nello spezzare le vite di altri uomini, così come nessuno gioì quel cupo giorno in cui migliaia di soldati e pirati cessarono per sempre di esistere, quel giorno in cui nemmeno il Sole osò mostrarsi ed elevarsi al di sopra dei nuvoloni grigi che ricoprivano interamente il cielo.
E mentre i miei compagni morivano sotto gli attacchi dei Marines e fiotti di sangue si spargevano sul suolo di pietra, una cicatrice si stava formando piano sul mio cuore, e faceva male. Un male che non avrei mai immaginato, un male che non provai nemmeno gli anni precedenti alla mia entrata nella ciurma, quando ero solo, quando pensavo che niente e nessuno avrebbe mai potuto donarmi la felicità. Ma l'avevo trovata, l'avevo trovata nel Babbo, nelle risate dei miei fratelli, nell'amicizia con Satch, Ace, Vista e tutti gli altri.
E in quel momento la guerra me la stava rubando di nuovo. Quel senso di oppressione un tempo così conosciuto stava tornando, impossibile da bloccare, fuggente come un fumo nero e denso che s'infiltra dentro il corpo, si solidifica, prende possesso del petto ed impedisce di respirare chiudendosi in una morsa d'acciaio. E la cicatrice andava formandosi, lo stiletto incideva il cuore creando un taglio profondo a mano a mano che i miei occhi vedevano i miei amici essere colpiti, urlare di dolore, cadere a terra e chiudere per sempre gli occhi.
Chi mai può sopportare un peso così grande e portarlo dentro per tutto questo tempo?
Chi è in grado di resistere, superare la vista delle peggiori brutture del mondo e continuare a vivere, a combattere?
Non ebbi nemmeno il tempo per piangere la loro scomparsa. La guerra era in atto e il comandante della Prima Flotta doveva lottare, doveva battersi e dimostrarsi più forte dei nemici, più forte del destino.
La morte del Babbo, quello fu il vero colpo al cuore, il punto più doloroso in cui lo stiletto
 colpì. Ace era mio amico da tanto tempo ed io tenevo a lui più che ad un mio fratello di sangue, ma Barbabianca mi aveva accolto nella sua famiglia moltissimi anni prima, nel momento più buio della mia vita.
Mi aveva ridato la speranza, mi aveva offerto un posto dove stare, avevo acquisito dei fratelli e per tutto quel tempo ho sentito di aver trovato il mio posto nel mondo. Vederlo morire sotto i colpi dei marines e di Teach è stata l'esperienza più tremenda di tutte. Nessuno di noi riuscì a trattenere le lacrime quando ci parlò, non c'era membro della ciurma che voleva lasciarlo solo a combattere e morire.
Aveva creato una famiglia, una vera, grande famiglia ed ora, soli senza più un padre, noi tutti ci sentivamo perduti. Io più degli altri, perché oltre all'immenso dolore che la sua perdita aveva provocato, mi ero trovato a dover affrontare le responsabilità che l'essere il nuovo capitano comporta. Ho visto i miei fratelli guardarmi con gli occhi di chi non sa più dove andare e cerca qualcuno che lo guidi. Ma nemmeno io, il membro più riflessivo e calmo del gruppo, avevo più una chiara idea di cosa fare.
Con Babbo a fianco tutto sembrava più semplice, lui aveva sempre una meta, una qualche destinazione da raggiungere. Era una di quelle rare persone capaci di rassicurare solo con lo sguardo, quello amorevole di un padre che si preoccupa per i propri figli.
Oh, come sarei riuscito ad eguagliarlo?
Non sarei mai stato alla sua altezza, non avevo le capacità per capitanare una ciurma di migliaia di pirati, lui era unico.
Avrei dovuto sciogliere la ciurma? Non potevo nemmeno pensarci.
Scegliere un altro capitano? Ma chi tra di noi avrebbe avuto la forza d'animo per prendere il mio posto in quel momento?
Sarei stato solamente un vigliacco. Babbo aveva voluto che ci fossi io al comando, avrei deluso le sue aspettative e costretto un altro membro ad addossarsi i carichi, le responsabilità, il pesante compito di avere in mano la sorte di tutti i nostri fratelli. No, era meglio che fossi io a soffrire, dovevo dimostrarmi forte per l'affetto che provavo verso loro e verso nostro padre.
Mentre il Sole dell'ottantacinquesimo giorno dalla battaglia di Marineford sorgeva, io sedevo sulla balaustra della Moby Dick e guardavo l'alba rischiarare l'enorme postazione dove Babbo era solito sedere per guardare il mare e bere sake.
Aspettavo di vederlo arrivare per contemplare il nuovo giorno, circondato dall'allegria dei nostri uomini e dall'insistenza delle infermiere preoccupate, aspettavo di vedermi al suo fianco con addosso la solita aria calma ed annoiata, guardandomi attorno alla ricerca del sorriso scanzonato di Ace che parlottava con gli altri comandanti. Un nodo si formò nella mia gola e cercai di trattenere le lacrime che ogni giorno finivano per uscire dai miei occhi, quando mi resi conto che ero solo. Satch, Ace, il Babbo se n'erano tutti andati.
Nemmeno un'ombra si aggirava per il ponte a quell'ora, mentre solo tre o quattro mesi prima esso sarebbe stato colmo di persone in continuo movimento ed un allegro vociare avrebbe dato inizio ad una nuova giornata di sole. Ma in quel momento nemmeno i gabbiani osavano avvicinarsi alla nave stridendo, quasi non volessero rompere il silenzio di lutto ed infelicità del suo equipaggio.
Ormai ogni membro della ciurma preferiva dormire, almeno per quanto ci riuscisse, fino a quando il Sole si faceva abbastanza alto nel cielo, piuttosto che uscire dalla propria stanza ed affrontare di nuovo la consapevolezza della morte del Babbo, le quotidiane notizie sul giornale da parte del Governo. I titoli continuavano a ribadire la vittoria della Marina militare, la devastante sconfitta e la scomparsa della nostra ciurma. Per tutti quei mesi le nostre navi si erano tenute a dovuta distanza dalle grandi isole e dalle rotte commerciali e sotto mio ordine ci limitammo alle obbligatorie soste per i rifornimenti di cibo, acqua e molti liquori.
Eravamo tutti provati dalla dura battaglia e distrutti per la perdita dei nostri compagni e di nostro padre.
Chiunque mi guardasse lo faceva con speranza, quasi fosse sicuro che io avrei trovato la strada, la soluzione che mettesse fine a tutto quel dolore. Sembravano volermi dire "Ti prego, fai che finisca."
Ma come potevo io avere in mano la chiave per guarirli, se in prima persona non sapevo come uscire da quel lungo tunnel nero che mi circondava da tre mesi?
No, non ci sarei mai riuscito, ecco tutto. Babbo aveva sbagliato, non ero in grado di fare il capitano, non ne avevo le capacità ed anche io mi ero illuso pensando di poterlo fare. Dovevo solo reggere ancora, dovevo solo sopportare tutto quel dolore, anche se era troppo. Tutto era diventato troppo grande, troppo difficile per me.
E mentre la familiare morsa d'acciaio riprendeva a stringermi il petto, una lacrima scese finalmente dal mio viso.




Angolo dell'autrice:

Cheers everyone! :)
Tra due giorni festeggio il mio primo anno di iscrizione su EFP, ed ho pensato di cominciare a scrivere la nuova fanfiction su One Piece che avevo in progetto da tanto.. Che dire, è uscito questo qui. Mi piace molto scrivere questi generi; seguo One Piece da una vita e penso che la battaglia di Marineford abbia sconvolto e rattristito me quanto voi, così ho deciso di parlare di Marco la Fenice, che adoro come personaggio. Spero di aver delineato bene la figura, perché è così che mi immagino approssimativamente i suoi pensieri ed i suoi tormenti.
Avviso che per troppi impegni, mi sono fermata agli episodi immediatamente prossimi a Marineford, e per non sbagliare qualcosa nella storia ho dovuto documentarmi sui successivi avvenimenti della Ciurma di Barbabianca. Su Internet le notizie non erano chiare, ma se Marco alla fine non fosse diventato capitano ditemelo pure :)
Questa storia era stata pensata inizialmente come una One Shot, ma alla fine ho deciso di trasformarla in una Long che sarà comunque corta, potrà avere due capitoli come cinque, ma non penso andrà oltre.
Ringrazio tutti voi che avete letto questo fino alla fine.. Detto questo, incrocio le dita e spero in un vostro parere positivo ;)
Ginko

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Capitolo 2
*** Shinpai wa seiko no moto - la sconfitta è l'origine della vittoria ***


OP

Potrei gridarvi "Ehi, mettete giù i forconi!", ma non sarebbe nel mio stile. Vorrei solo scusarmi per gli (argh!) oltre quattro mesi di totale assenza: il capitolo, o almeno questa parte, è pronto ormai da molto tempo, ma alcuni contest a cui partecipavo e una buona dose di pignoleria mi hanno fatto ritardare di così tanto. So che si tratta di un capitolo davvero corto, ma ho preferito dividerlo a metà (questa è la parte più corta tra le due) per evitare di farvi aspettare ancora; l'altro pezzo è già scritto, deve solo essere riletto e modificato in minima parte, quindi lo posterò prima possibile, sicuramente entro una o due settimane :)

Che altro dire? Spero soltanto che il contenuto compensi almeno parte del tempo di attesa e che non risulti noioso - il che è un po' ciò che temo. Buona lettura! :)

CAPITOLO 2:





I movimenti si susseguivano frenetici. Il mio cuore batteva all'impazzata, mentre colpivo un nemico e subito dopo mi voltavo per ucciderne un altro. L'intero spazio era occupato da marines e pirati in fermento. Nulla era fermo sul campo di battaglia: gli uomini correvano, le spade fendevano l'aria con un sibilo e cozzavano tra loro stridendo, i fucili ed i cannoni sparavano ininterrottamente verso di noi.
Una sola, statuaria figura bloccava la dinamicità di tutti. Diedi una rapida occhiata verso l'alto, osservando il patibolo troneggiare, tetro, sulla baia: Sengoku si erigeva sopra di esso, ferito, serio ed attento allo svolgimento della battaglia.
«Ace!»
Rufy raggiungeva finalmente il fratello liberato, correva al suo fianco verso l'acqua ghiacciata, verso le nostre navi, verso la salvezza. Salvezza che sembrava così vicina, nel nostro pugno, che già potevo pregustare il momento in cui avrei abbracciato di nuovo quel testardo di Portuguese.
Così bello vederlo libero.
Così emozionante vederlo raggiungerci.
Così orribile vederlo morire sotto il colpo di Akainu.
Era successo in un attimo.
Avevo visto con orrore Ace dirigersi versi l'ammiraglio, battersi con lui e rimanere infine sconfitto, inerme tra le braccia di Rufy, morente e con un messaggio per tutti noi.
Grazie. Ci ringraziò  per avergli voluto bene, per avergli dato una famiglia.
E in quel momento pensai che era ingiusto. Che l'intera nostra esistenza era ingiusta. Perché un ragazzo non dovrebbe morire sul campo di battaglia, vittima sacrificale dell'odio del Governo.
Vittima perché figlio di un mostro.

Improvvisamente lo spazio cambiò ed io mi ritrovai sul ponte della Moby Dick, gremito di pirati nemici.

Osservai attentamente l'uomo di fronte a me, cercando i punti deboli che avrei potuto sfruttare a mio vantaggio.
Come se fosse difficile. Quell'uomo massiccio possedeva una forza nemmeno paragonabile alla mia e nei suoi occhi leggevo solamente brama di potere, non quella fiamma ardente, tipica di chi vive per un grande ideale.
Il corpo tozzo era in posizione di difesa: le gambe coperte da lunghi calzoni blu erano divaricate, la sinistra spostata leggermente in avanti. Le mani impugnavano una grossa sciabola e le dita tremavano impercettibilmente. Il volto era teso, un ghigno deformava la bocca e due piccoli occhi scuri mi fissavano truci.
Era convinto di poter vincere contro di noi... illuso.
Si trattava soltanto di un ridicolo pirata a capo di una ciurma di qualche centinaio di uomini, più galeotti e ladri che combattenti veri e propri. Non avevano possibilità di vittoria, ma il capitano che ora mi fronteggiava sembrava convinto di poter contare sulla nostra momentanea debolezza dovuta alla guerra.
Era anche troppo facile, mi venne da pensare mentre schivavo un colpo di spada dell'avversario, che pensò bene di chiamare a sé una decina dei suoi uomini. Questi, sotto suo ordine, cominciarono ad accerchiarmi mentre io, quasi annoiato, mi guardavo attorno, cercando di capire come se la stessero cavando i miei fratelli.
Rimasi soddisfatto dalla situazione: avevamo ormai la vittoria in pugno.
Volsi di nuovo l'attenzione ai pirati intorno a me e vidi i loro volti trasformarsi, diventare euforici, come all'apparizione di qualcosa che avrebbe significato la loro salvezza. Il grassoccio capitano mi stava di fronte e guardava nella mia direzione, il solito ghigno distorto a deformare il volto e a renderlo più simile a quello di un pazzo che di un uomo.
Socchiusi gli occhi e lo guardai meglio: la sua attenzione non era rivolta a me, i suoi piccoli occhi puntavano fissi un particolare a me ignoto.
Una risata, un soffio a me familiare alle mie spalle.
Non poteva essere...
Mi voltai di scatto e il mondo sembrò rallentare.
Lo vidi.
Il cuore diede un colpo più forte, doloroso, poi sembrò arrestarsi.
Sbiancai.
Scarponcini, corti pantaloni neri, cintura ed un coltello chiuso in una fodera.
Petto scoperto, allenato, muscoloso. Un tatuaggio.
Collana di perle arancioni.
Un cappello appena calato sul morbido capo d'ebano.
Una mano che si alzava a spostarlo sulla schiena, la bocca sottile che si piegava in un distorto sorriso.
Le lentiggini che si illuminavano
alla luce del Sole, sullo sfondo di una pelle diafana e due occhi neri che mi osservavano compiaciuti.
«Marco, ci rivediamo.»
Era forse ostile la voce che stavo udendo?
La voce di Ace. Il mio migliore amico.
Impossibile: lui era...
«Morto? No, Marco: io sono qui, davanti a te, guardami.»
Il sorriso si aprì, Ace inarcò un sopracciglio.
Io ero bloccato. La mascella rigida, la bocca semi-aperta, gli occhi sbarrati e il cuore in tumulto.
Mi lacrimavano gli occhi, avevo la gola secca.
No, tutto quello non poteva essere vero: Ace era morto di fronte ai miei occhi, Babbo non era più sulla nave con noi e mio fratello non avrebbe mai potuto allearsi con dei pirati avversari. Tutto quello che vedevo non aveva senso, eppure... eppure era così reale!
Vedevo i miei compagni e gli altri capitani starsene immobili davanti a quella scena. Ero talmente teso che non riuscivo più a muovermi, né a pensare coerentemente, né a reagire.
Me ne resi conto mentre una fiamma rossa cominciava ad ardere nella mano di Ace, e questa si chiuse a pugno quando il proprietario si avventò si di me.

Gridai.
Aprii di scatto gli occhi ed alzai il busto, sedendomi. Ero nella mia cabina, nel mio letto e tutto era al proprio posto. Quello di Ace non era che un incubo, uno dei tanti che popolavano le mie notti da mesi.
Mi distesi di nuovo sul materasso, cercando di calmare il respiro affattato e mi guardai attorno, alla ricerca di segni della quotidianità che potessero riportarmi alla realtà di ogni giorno, per riuscire a rendermi completamente conto che quello era solamente un incubo.
La cabina era un luogo che mi rispecchiava perfettamente: illuminata dalla luce del mattino appariva sobria, spaziosa e calma. I colori chiari erano predominanti e mi donavano un senso di pace; davanti a me si stagliava la grande scrivania in cedro che avevo comprato su una piccola isola anni prima e sopra di essa vi erano la penna e il calamaio, accompagnati da qualche foglio ordinatamente ripiegato sul tavolo. Odiavo il disordine... detestavo che il piano in legno fosse ricoperto di cianfrusaglie e scartoffie, così avevo catalogato le lettere e le mappe e le avevo appoggiate oltre la scrivania e la sedia, sopra due scaffali che facevano bella mostra di loro sul muro.
Dall'altra parte della stanza una piccola libreria poteva sfoggiare una buona quantità di volumi che una volta amavo leggere nelle giornate di sole, quelle in cui tutta la ciurma era rilassata ed il lavoro da svolgere era poco. Si trattava di libri di nautica, elaborate mappe dei quattro mari e delle loro terre, ma anche di romanzi di tutti i generi, dall'avventura alla letteratura storica, ai culti e alle tradizioni degli antichi popoli che abitavano il nostro mondo secoli prima. Potevo scorgere anche alcuni trattati d'astronomia e matematica, che mi dilettavo a leggere da giovane, mentre alcuni testi riportavano le idee dei grandi filosofi sul mondo. Oh, quanto avevo odiato la filosofia quando, da giovane, mio padre mi aveva obbligato a studiarla! Ma un giorno si era infiltrata nel mio cuore e mi aveva appassionato...

«Sono venti Berry, signore.»
Passai le monete all'anziano uomo che mi stava di fronte e uscii dalla libreria. Guardai attentamente l'oggetto che avevo appena comprato: era strano anche per un assiduo lettore come me, l'aver preso quel piccolo volume che ora tenevo tra le mani. Curioso come fosse stato l'unico ad attirare la mia attenzione tra gli stipati scaffali del locale, quasi mi stesse chiamando. Ma dopotutto, dargli un'occhiata non mi avrebbe certo fatto male.
Quella sera, mentre il cielo si scuriva e i miei compagni banchettavano nella mensa, io me ne stavo seduto in un angolo del ponte della nave, leggendo le prime pagine del mio nuovo acquisto.
Dovevo ammettere che era interessante, ma non ebbi nemmeno il tempo di confermare la mia idea iniziale poiché una mano, favorita dalla mia distrazione, sottrasse agilmente il libro dalla mia presa. Mi voltai di scatto per vedere chi fosse quell'avventato in cerca di guai, ma mi bloccai quando vidi che di fronte a me sostava nientemeno che Satch. L'espressione placida ma palesemente divertita mi suggeriva che il mio compagno d'avventure fosse orgoglioso della sua riuscita impresa.
Sospirai innervosito, alzando la mano verso di lui. «Ridammelo, Satch.» dissi eloquente.
Il mio interlocutore sembrò non sentirmi, ma più probabilmente fu solo per sfida che non mi diede retta e sollevò il libro appena sotto i propri occhi vispi e soddisfatti, leggendo il titolo.
Alzò le sopracciglia sorpreso e al contempo divertito:
«Filosofia, Marco? Non sapevo avessi di questi interessi, amico mio!»
«Satch...» era un avvertimento il mio.
«Dai, Marco, non te la prendere. Era per farsi quattro risate!»
«Ehi, li ho trovati: Marco, Satch!»
Mi voltai nella direzione da cui proveniva quella voce. Non ci voleva: si trattava di Vista e di alcuni degli altri capitani e Satch non mi aveva ancora restituito il libro.

Ero nei guai, sapevo che presto sarei stato lo zimbello dei miei fratelli. Penso che si divertissero a prendermi in giro per quella mia passione della lettura. Alcuni di loro sapevano appena leggere e scrivere, o comunque se ne servivano solo per ragioni di tipo pratico: dispacci da inviare al Babbo quando le loro navi erano lontane, lettere ai capovillaggi delle isole sotto la nostra protezione. Nessuno di loro amava particolarmente la letteratura e vedere uno di loro leggere assiduamente ogni genere di testo li aveva lasciati alquanto straniti. O, perlomeno, questo all'inizio... prima che cominciassero a trovare divertente l'idea di punzecchiarmi ogni qualvolta mi trovassero con un libro tra le mani.
Fu per quello che non mi stupii nel vedere Satch sorridere. Probabilmente
già pregustava il momento in cui avrebbe reso partecipi i nuovi arrivati della notizia appena scoperta. E, quasi a confermare la mia idea, lo vidi alzare una mano bloccandomi mentre cercavo di rimpossessarmi del volume, il quale arrivò direttamente nelle mani di Fossa. Il gigantesco uomo lo prese al volo e Izo, sistemato accanto a lui, lesse ad alta voce il titolo stampato sulla copertina rigida, mentre Satch sghignazzava senza riuscire a trattenersi.
«Ahah! Filosofia, Satch, ora pure questa ci voleva!» proruppe senza ritegno Fossa.
Ormai nessuno tratteneva più le risate ed io, pur sapendo che non mi deridevano per davvero, pensai con un briciolo di sconforto che nessuno di loro mi avrebbe mai compreso veramente.
Solo il Babbo...

Angolo dell'autrice:

Rieccomi, solamente per dirvi due cose :)
Be', innanzitutto spero di essere stata capace di esprimere al meglio le emozioni di Marco, anche se questo capitolo è fatto più che altro di sogni e ricordi. È noioso? Il prossimo riguarderà principalmente il passato "più passato" della Fenice, spero vi piacerà... ci sarà comunque più azione (un minimo, almeno) commista ai pensieri del protagonista :)

Volevo infine ringraziare EmmaStarr, Ikki, Miyuki chan, Sugar_Ginger, TokorothX3, Yellow Canadair, _ANNA17_, che hanno seguito e preferito la storia, ed un "grazie" speciale per chi ha lasciato le quattro bellissime recensioni, ricche di consigli e apprezzamenti (siete troppo buone!). Spero di ritrovarvi anche qui, nonostante il colossale ritardo :)
Al prossimo capitolo!
Kora ;)

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Capitolo 3
*** Sen ri no michi mo-ippo yori - anche una strada di mille ri comincia con un passo ***


One Piece

CAPITOLO 2 – parte 2:




Babbo... ora chi tra loro avrebbe potuto ascoltare tutto quello che avevo dentro? Chi sarebbe stato capace di farmi sentire parte di una famiglia, chi avrebbe saputo consigliarmi? Ogni singolo istante del tempo passato con lui mi ritorna alla mente, in un susseguirsi continuo di ricordi: le battaglie, le tranquille serate sul ponte, i pomeriggi in cui sonnecchiava nella sua cabina ed io lo raggiungevo, confidavo tutte le mie preoccupazioni, le speranze, i sogni, e lui se ne stava in silenzio ed ascoltava attentamente, senza giudicare, consigliandomi. Quel vecchio pirata aveva capito molto più della vita di chiunque altro conoscessi e io ero fiero di essere suo figlio. Ma ora il grande Barbabianca, l'uomo più forte del mondo, non c'era più.
Ero solo, a capo di una ciurma distrutta, fatta di uomini che probabilmente non avrebbero mai più avuto la stessa forza d'animo di un tempo, non avrebbero più combattuto con lo stesso ardore che li animava quando eravamo tutti uniti.
Perché? Perché aveva dovuto andare in quel modo, perché il destino aveva preso tutt'un tratto una piega avversa?
Se in quel momento il Babbo fosse stato lì con noi, se non avessimo partecipato alla guerra, se Ace non fosse stato così avventato, se Satch non fosse morto, se Teach non avesse mai solcato i mari con la nostra ciurma... allora noi tutti avremmo ancora una famiglia.
La fiamma della fenice che un tempo ardeva orgogliosa in me mi avrebbe condotto lontano, e in quel momento mi sarei trovato in qualche posto nuovo, tutto da scoprire, assieme al Babbo e i miei fratelli. Non sarei stato chiuso nella mia cabina a rimpiangere i tempi passati più con disperazione che non nostalgia. Perché quando accade un evento del genere non si può far finta di nulla ed andare avanti, e la tentazione di chiudersi a riccio e piangersi addosso è forte.

«Sbrigati, Marco: il capo dice di avere un nuovo incarico per te.»
Alzai gli occhi dall'antica mappa. Domenica? Sapevo che avrebbe potuto disporre di noi quando ne avesse avuto bisogno, ma doveva disturbarmi proprio la domenica?
Sbuffai lievemente ma mi alzai dalla sedia di legno e, indossato un giaccone, uscii di casa alla volta della villa del mio nuovo capo.
Giunsi a destinazione nel giro di pochi minuti. Le guardie mi fecero entrare e mi condussero al grande salone che dominava la casa, dove il capo mi aspettava comodamente seduto su una poltrona davanti al camino, un sigaro in bocca e lo sguardo spento.
Appena mi vide mi fece segno di sedermi di fronte a lui.
Obbedii e lo squadrai. Da noi conosciuto come Bishamon, Jigme Ogawa aveva l'aspetto di un colto e raffinato nobile, con quei suoi baffi grigi come gli occhi e il portamento austero. Agli occhi del mondo era un rispettato cittadino dell'isola di *** e un benefattore per coloro che si trovavano in difficoltà. Aveva ottenuto così, attraverso modi eleganti ma ingannevoli, la stima del popolo, che gli aveva favorito l'ascesa personale ed infine un posto tra i più potenti capi dell'isola.
«Marco, ben arrivato. Ti ho chiamato per avvisarti dell'arrivo di un nuovo carico dal mar Meridionale, vorrei che gli dessi un'occhiata. Sai come si procede, no? Prendi i più giovani, scarti chi non ci serve. Le donne mandale nei bordelli della città bassa, le più belle lasciale per Mada
me Camélie e se vuoi tieni una di loro per te. Ma assicurati che i ragazzi righino dritto. Minaccia, pesta, puoi anche uccidere chi oppone resistenza, come esempio per tutti. Intesi?»
Ed ecco che faceva la sua comparsa il mostro. Era quella la verità celata dietro all'elegante maschera: un commerciante di schiavi, il burattinaio che dall'alto manovrava i fili delle nostre vite, e noi tutti eravamo legati a lui da grosse corde impossibili da spezzare. Alcuni restavano a vita dei membri di scarsa importanza cui venivano assegnati i compiti più semplici, ma se si possedeva talento era facile fare strada e diventare i favoriti del boss. Io ero tra quei fortunati: il vecchio mi aveva inquadrato e mi teneva d'occhio da mesi, quando ancora lavoravo per un altro intraprendente signore. Era stato facile per lui assassinare il mio capo e prendere il comando di tutti i suoi uomini, me compreso. E da parte mia, io non avevo avuto particolari problemi nel passare da una direzione all'altra, tanto le regole parlavano chiaro: una volta entrati nel giro, non c'era più modo di uscirne.
«Intesi. Al solito posto?»
«Ovviamente. Invia qualcuno a far rapporto non appena avrai terminato.»
Accennai un saluto con il capo e uscii dalla villa. Il porto distava mezz'ora di cammino a piedi. Meglio volare, no?
Chiusi gli occhi, mi concentrai e cercai dentro di me. Lentamente, scorsi una piccola fiamma blu al centro del mio petto, un fuoco che si ingrandì, illuminò la mia figura ed infine mi avvolse completamente, trasformando prima le mie braccia, poi le gambe e tutto il mio corpo in una grande, maestosa fenice azzurra.
In un battibaleno mi ritrovai davanti al mare che circondava la nostra isola: acqua gelida, ghiacciata in certi punti, accanto alla costa. Feci un giro di perlustrazione, guardai l'ampia distesa azzurra ed il rudimentale porto grigio, costruito in mezzo alle rocce e celato alla vista degli abitanti della cittadina. I gruppi di guardia erano sparsi nel vicino territorio boscoso, unico accesso per chi raggiungeva il posto da terra. Una nave era ancorata nella baia: era quella la mia destinazione.
Planai , mentre qualcuno tra i miei sottoposti alzava lo sguardo al cielo e mi intravedeva, avvisando poi i compagni del mio arrivo. Quando poggiai i piedi a terra, il mio corpo era già tramutato in quello di un uomo; l'effetto doveva essere stato alquanto teatrale, poiché in molti, fra i prigionieri lì presenti, socchiusero la bocca stupiti e sgranarono gli occhi. Meglio così, se avessero avuto paura di me già da quel momento, avrei potuto evitare che qualche ragazzo coraggioso mi desse problemi.
Osservai le persone davanti a me con aria annoiata. Il solito: si trattava di un gruppo eterogeneo.
Donne, uomini, vecchi e bambini provenienti da ogni angolo dei quattro mari.
Vittime della guerra, di sequestri, orfani, vedove.
Spaventati, confusi, desolati.
«Ascoltatemi bene: d'ora in poi voi tutti siete schiavi di nostra proprietà. Sarete smistati e i miei uomini vi porteranno nei luoghi a voi destinati. Credetemi» continuai vedendo già qualche giovane adirarsi «se vi dico che è meglio che non vi opponiate al nostro volere: le guardie che qui vedete sono solo alcuni dei nostri collaboratori, non avete possibilità di ribellarvi a noi.
Non appena sarete stati divisi, i nostri medici inseriranno nel vostro corpo un microchip che vi seguirà ovunque andiate: fuggire è uno spreco di tempo ed energie...» era la solita pappardella che rifilavo ad ogni nuovo carico che arrivava. Certe volte i prigionieri erano talmente spaventati e mansueti da far quasi pena ad uno come me, ma molto spesso si trattava di persone forti, avidi di libertà e decise a non rinunciare a quella condizione per diventare schiavi. Alcuni preferivano addirittura battersi singolarmente contro di noi e morire... pazzi.
Proprio mentre mi rivolgevo ad un mio sottoposto perché iniziasse a dividerli, udii un bisbiglio provenire dal gruppo di prigionieri prima muto. Una voce si alzò su tutte le altre: «Non potete farci questo, non ne avete il diritto!»
«Chi ha parlato?» tuonai. «Fatti avanti!»
La folla tacque e si immobilizzò.
Li guardai. Paura, rabbia, terrore e rassegnazione erano le emozioni che leggevo sui loro volti, ma nessuno, dopo quel grido, osò rivelarsi o emettere alcun suono. Pareva quasi che non respirassero nemmeno.
Vigliacchi...
Mi rivolsi nuovamente a Dan: «Procedi, e fai in modo che questo non ricapiti più.» alzai maggiormente la voce, per farmi udire da tutti loro «Chiunque oserà di nuovo opporsi, riceverà una punizione esemplare. Avete capito?»
Non aspettai una risposta che non sarebbe comunque arrivata. Feci per voltarmi, quando un guizzo biondo catturò la mia attenzione. Aguzzai la vista: si trattava di uno dei prigionieri... una donna. O meglio, una ragazza dai lunghi capelli color del sole che mi osservava contrita.
La osservai stupito. Aveva qualcosa... qualcosa che mi affascinava terribilmente: sembrava così diversa dagli altri e quello sguardo chiaro che ora appariva crucciato, rivelava un'emozione profonda e indefinita, qualcosa che ancora non riuscivo ad afferrare.
«Dan, quella tienila per me. Che si faccia trovare a casa mia entro questa sera, lavata e vestita decentemente.
Oh, quando avrai finito manda qualcuno da Bishamon a fare rapporto.»
«Ok capo!»

Quella sera, una volta rientrato nella mia modesta abitazione, trovai la ragazza di qualche ora prima seduta sul divano.
«Buongiorno.»
Lei alzò improvvisamente il capo, per poi scrutarmi con cipiglio scuro. Solo in quel momento notavo l'acquamarina dei suoi occhi. Non avevo mai visto un colore così in vita mia...
«È sera, signore.» precisò, fiera.
Il tremolio della voce si notava appena, avrei voluto complimentarmi. Sembrava più giovane di me di circa cinque o sei anni, ma lo sguardo era quello intenso e profondo di una donna.
«Come ti chiami?»
«Moe.»

Bocciolo. Quello era il significato del suo nome, e inizialmente fui così cieco da non rendermi conto di come lei fosse un piccolo fiore che aspettava solo l'occasione giusta per sbocciare ed aprirsi, rivelando quanto di più bello potesse mai mostrare.
Capii che non sarebbe stato un incontro come gli altri.

Qualche settimana dopo, mi sentivo un uomo diverso. Non migliore, né tantomeno felice. Solamente diverso, strano, combattuto.
Moe mi aveva cambiato e non potevo negarlo, perché avrebbe significato mentire a me stesso, di fronte all'evidenza.
Ero tormentato, perché non sapevo più che strada avrebbe dovuto prendere la mia vita. Da una parte c'era la purezza di Moe e la luce che avrebbe portato con sé. Ma io non volevo... avevo paura di scegliere e cambiare, era troppo bella la monotona tranquillità che avevo raggiunto conducendo quella vita, sebbene una lieve voce mi suggerisse che tutto ciò fosse sbagliato.
Moe, qualche giorno dopo il suo arrivo in casa mia, mi accusò di essere infelice: «Tu non vivi: ti limiti a sopravvivere.»
Quante parole sagge da una ragazza così giovane... ed io non potei fare a meno di pensare e rimuginare le sue parole, la notte, nella solitudine della mia stanza.
Se non fossi stato quello che ero, mi sarei lasciato andare alle lacrime fin troppo spesso in quel periodo. In fondo quella ragazzina aveva ragione, ma non poteva sapere che non avevo scelta. Non riuscivo a esternare i miei sentimenti, non potevo urlarle che tutti quelli che amavo se n'erano andati e mi avevano lasciato solo, solo con i miei pensieri e solo a compiere delle scelte. Mi avrebbe fatto sembrare debole ed io non potevo permetterlo, non in quel tempo in cui ancora mi occupavo di rinforzare con il cemento armato quel rassicurante guscio protettivo che mi ero costruito durante l'infanzia.
Il risultato sembrava perfetto: all'età di ventiquattro anni ero un uomo – non più un ragazzo – forte, che pensava di riuscire a confrontarsi con tutto ciò che la vita gli avrebbe messo davanti. Ed ero così preparato a far fronte alle difficoltà, alle sfide, a uomini che tentavano di mettermi i piedi in testa, che rimasi spiazzato davanti alla dolcezza di quella che al tempo chiamai “stupida ragazzina”.
Soltanto dopo anni mi resi conto che in quel periodo buio della mia vita non mi ero tramutato in dura pietra, ma in un piccolo bruco che si era protetto creando un bozzolo attorno a sé, chiudendo la porta in faccia a chiunque cercasse di creare un legame. I primi anni della mia esistenza mi avevano profondamente segnato, ma non pensavo che dentro il bozzolo pulsasse ancora la vita, un me che spingeva per uscire ed aprire le ali.
La farfalla uscì dalla sua protezione in un giorno che ricordo tutt'ora. Il giorno in cui la ciurma di colui che venne conosciuto con il nome di Barbabianca, invase la nostra isola e liberò tutti gli schiavi sotto il dominio del nostro gruppo.
Bishamon venne ferito durante l'assalto e poi processato.
Ma ciò che mi cambiò fu ben più grave del lavoro perduto: in tutto quel caos che era diventata la mia anima, l'unico, saldo punto di riferimento era Moe... i pirati me la portarono via, mi strapparono la sola cosa che teneva assieme i pezzi del mio essere e, come un vaso colmo d'acqua che comincia a traballare, all'assenza di lei tutto in me si ruppe e si riversò all'esterno. Fu come l'infrangersi di una diga, o lo scoppio fragoroso di un pallone pieno d'aria. Mi ritrovai sorpreso, scioccato, solo in una casa che d'improvviso s'era fatta troppo grande, pieno della mia pazzia e della mia disperazione. Dopo anni passati a costruire con precisione maniacale quel guscio cementato attorno a me, la sola sua mancanza fu distruttiva e ruppe tutto: tutte le barriere, tutti gli argini tra me ed il mondo.
Quello che per troppo tempo avevo tenuto nascosto dentro di me, ripudiato dalla mia mente, scoppiò in un tormento disperato, una sensazione che corrode, che lacera e strappa... che fa dannatamente male. E quando mi accorsi di cosa mi stava accadendo, di come stavo diventando nuovamente vulnerabile, gridai: nel vuoto di casa mia urlai tutto il mio dolore, tutta la rabbia e la desolazione della mia vita senza di lei. Un pazzo, mi avrebbero potuto considerare un pazzo... ma era così forte, così impossibile da sopportare quello che provavo, che per la prima volta dopo anni, piansi. Piansi tutte le lacrime che avevo trattenuto quando dovevo uccidere e malmenare i prigionieri, quando il capo mi insultava o quando, nel vedere la dignità umana calpestata in quella maniera, avevo l'obbligo di restare fermo, impassibile.
Scoppiai, gridai, piansi e mi distrussi, mi feci del male per il solo fatto di potermi ancora sentire vivo, buttai all'aria i mobili di casa mia, strappai le vesti ed urlai ancora, affinché qualcuno potesse udire il mio lamento, ma più d'ogni altra cosa per sfogare tutto ciò che sentivo dovesse uscire da me. Ed infine mi sentii vuoto, svuotato di ogni mia emozione e pensiero. Un contenitore che ormai aveva versato tutto il liquido che portava con sé ed ora era rimasto senza più uno scopo.
Ma senza quei giorni, quei terribili giorni di buio denso e nero senza uscita, non sarei arrivato punto in cui ero, decine d'anni dopo. E, nonostante tutto il dolore che avevo dovuto provare anche dopo, non ero pentito... perché sapevo d'aver vissuto, e vissuto veramente. Non mi ero limitato a sopravvivere, ne andavo fiero.
Una volta distrutto, quando ero consapevole di star lentamente morendo, provai ad sporgermi al di là dei pezzi del guscio rotto: uscii di casa un soleggiato pomeriggio, oltrepassai la porta d'ingresso e guardai la baia sotto i miei occhi, dal terrapieno dov'era situata la mia dimora. Decisi di scendere fino alla spiaggia e mi ritrovai, dieci minuti dopo, steso sulla sabbia a riflettere... perché la mia vita aveva dovuto prendere quella strada? Dopo anni passati a brancolare nel buio avevo finalmente trovato un raggio di sole ad illuminare la mia via, e mi era stato subito portata via... dai pirati.
Inutile provare a sconfiggere la ciurma di Edward Newgate: sebbene fosse agli esordi, tutti in città conoscevano la sua forza e la determinazione dei suoi uomini.
Fu quando proprio loro mi trovarono, steso sulla sabbia calda, che capii che da predatore ero divenuto preda. Non riuscivo più a trovare in me la forza di un tempo, e per loro fu facile mettermi a tacere nel momento in cui cercai di battermi, nel disperato tentativo di ritrovare una parte di me che avevo definitivamente perso.
Ma fu in quel momento che la mia vita cambiò per sempre: lo incontrai. Ebbi modo di fare la conoscenza di Edward Newgate, e oltretutto in un modo poco civile. Persi la battaglia, ma lui non rise, non lanciò sguardi carichi di disprezzo o compassione. Contrariamente a tutto ciò che avrebbe potuto dire o fare in quel momento, il gigantesco uomo se ne uscì con un unico: «Vuoi diventare mio figlio?».
Contro ogni ragionevole aspettativa, accettai ed ebbi anche occasione di rivedere Moe, addirittura più bella di qualche settimana prima.
E nemmeno due mesi dopo, stavo salpando assieme al mio capitano alla volta di nuove avventure, pieno di una rigenerata forza e di energia. Felice per la prima volta dopo moltissimi anni, leggero e aperto verso qualsiasi cosa sarebbe successa nella mia vita. Consapevole che Moe e quel saggio pirata che era Barbabianca, mi avevano cambiato per sempre.

Angolo dell'autrice:

Ehm, buonasera! So che avevo detto "due o tre settimane", ed infatti il capitolo era quasi pronto da tempo, solo che la scuola e la pigrizia mi hanno assalito alle spalle e mi ritrovo a pubblicare a quest'ora della sera, non volevo farvi aspettare ancora...
Bene, spero vi piacciano i ricordi di un'ipotetica gioventù di Marco, non so come mi sia venuto in mente ma mi piace abbastanza xD la prima parte non mi soddisfa molto, specialmente l'incontro con Moe, ma ho preferito non approfondirlo e calarmi maggiormente sulla parte che, penso, mi è venuta meglio: il punto di svolta nella vita della nostra fenice/ananas preferita :D
Ringrazio tutti voi che mi avete lasciato delle recensioni bellissime e anche i lettori nuovi!
A presto!
Kora :)

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