Mio padre diceva

di Luly Love
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Effie - Volere è potere ***
Capitolo 2: *** Cinna - Dettagli ***
Capitolo 3: *** Haymitch - Fiducia ***
Capitolo 4: *** Finnick - Fiori ***
Capitolo 5: *** Peeta - Incubi ***
Capitolo 6: *** Foxface - Rischi ***
Capitolo 7: *** Clove - Perdere ***
Capitolo 8: *** Marvel - Risate vuote ***
Capitolo 9: *** Johanna - Tesori ***
Capitolo 10: *** Peeta II - Passi ***



Capitolo 1
*** Effie - Volere è potere ***


Effie - Volere è potere
 

 
 
Era cresciuta sentendosi ripetere, specialmente da suo padre, che se si vuole qualcosa dalla vita, non si deve far altro che allungare la mano e prenderla.
E finora, erasempre stato ciò aveva fatto. D’altronde, vivendo a Capitol City, non aveva avuto problemi a seguire questa filosofia; spesso non c’era nemmeno bisogno di allungare la mano: le cose le venivano date senza quasi che le volesse.
Vestiti, estetisti, feste, lusso sfrenato in generale.
Ma ora, davanti alle sofferenze di un moribondo Peeta e di una disperata Katniss, si accorse che qualcosa non andava: nemmeno potendo allungare la mano attraverso lo schermo avrebbe potuto fare qualcosa. E ciò era frustante.
 
[109 parole]
 
 
 
Angolo autrice:
Welcome welcome! The time has come to read another Luly’s freak fic! (non sono sicura sia grammaticalmente corretta, questa frase, ma tant’è  v.v)
Allora, siccome sono una persona altamente autolesionista, ho deciso di avviare questa raccolta nella speranza certezza che la porterò a termine entro il duemilaMAI.
Sarà una raccolta prevalentemente di flash, ma ci saranno anche delle drabble. Ogni fic partirà da un citazione; quella qui presente è presa da Into the wild - Nelle terre selvagge.
Non so dire quanti capitoli porterà di preciso; posso solo assicurarvi che i prossimi due aggiornamenti saranno uno martedì 9 e l’altro martedì 16. Per il resto, navigo in alto mare.
Recensite per la mia felicità e buona crescita da scrittrice!
Un bacio,
Luly

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Capitolo 2
*** Cinna - Dettagli ***


Cinna - Dettagli
 

 
I piccoli dettagli sono i gran lunga i più importanti.
Il suo maestro, che per lui era stato come un padre, glielo aveva ripetuto sin dalla prima volta che l’aveva incontrato.
Ricordava ancora quel giorno: per l’occasione, aveva preparato un album con i suoi migliori schizzi e aveva allestito le proprie creazioni più belle nella stanza dove era previsto l’incontro. L’uomo aveva prima studiato per bene l’album, poi aveva esaminato minuziosamente ogni capo, ponendo di tanto in tanto qualche domanda, a cui aveva prontamente risposto.
Alla fine, gli aveva detto quella frase ed era andato via, per farsi sentire solo tre giorni dopo dicendo che lo accettava come allievo. Da allora, ogni giorno gli ripeteva di prestare attenzione ai dettagli più piccoli.
– Sono loro a fare la differenza, Cinna. Grazie a loro, ciò che è più grande risalta. –
All’inizio, il ragazzo era perplesso.
– Se presto attenzione ai piccoli dettagli, diventano grandi, e quel punto diventa tutto troppo... pacchiano, ecco! – aveva protestato.
Il maestro aveva sorriso dolcemente.
– È proprio questo il segreto: devi saper dare il giusto spessore ad ogni dettaglio piccolo, per far sì che si noti quello grande. Cos’è più importante da notare: la foto o la cornice? La foto, ovviamente. Ma per valorizzarla, la cornice deve avere qualcosa di speciale. – gli aveva spiegato.
Col tempo, Cinna aveva capito cosa il suo mentore volesse dire e aveva fatto tesoro di quell’insegnamento, applicandolo sempre: una sfumatura più tenue sul fianco, una macchia di colore apparentemente casuale sul colletto, una fila di piccole gemme lungo la manica, il tutto senza perdere di vista il vestito di per sé.
Ovviamente, avendo fatto l’occhio per i propri dettagli, riusciva a cogliere anche quelli altrui, ovvero per quelli facenti parte del linguaggio del corpo; capiva subito cosa si nascondeva sotto una fronte aggrottata , un tic all’occhio, una smorfia...
Non era infallibile, certo, anche i migliori commettono errori, e lui era troppo modesto e umile per definirsi tra i migliori.
Ma lì, davanti a quella sedicenne arrivata dal Dodici al posto della propria sorella, determinata e al tempo stesso arrendevole al tragico destino che l’aspettava, non poteva commettere errori: i suoi occhi grigi, il suo sguardo fiero, il cipiglio ribelle, tutti questi dettagli rendevano bene l’idea di chi Katniss Everdeen fosse, e, nella mente di Cinna, di chi sarebbe diventata.
Katniss, la ragazza in fiamme.
I dettagli non sbagliavano mai, men che meno nelle sue mani.
 
 
 
Angolo autrice:
Sono tornata prima del previsto. Il fatto è che ultimamente sto fuori come un balcone (più del solito, si intende) e mi ero dimenticata che martedì a casa non ci sto, vado in gita (a Tivoli, se interessa a qualcuno) e domani nemmeno sto a casa per altri motivi. Insomma, un casino, ma meglio essere in anticipo che in ritardo, no?
Allora, il cap non è venuto come lo volevo, ma siccome non ho voglia né tempo per rifarlo, l’ho pubblicato lo stesso. Forza, dateci dentro con i pomodori e le uova. *corre a nascondersi*
Baggianate a parte, fatemi sapere cosa ne pensate! Un grazie a tutti quelli che hanno recensito e messo nelle seguite/ricordate/preferite la volta scorsa.
Un bacio,
Luly
 
Ps: dimenticavo, la citazione è presa da Sherlock Holmes 

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Capitolo 3
*** Haymitch - Fiducia ***


Haymitch - Fiducia
 

 
 
Molto probabilmente era stato adottato. Non c’erano altre spiegazioni. Beh, una c’era, ma non era ancora pronto ad accettarla. L’altra spiegazione? Era un cinico bastardo. Ma quando sei giovane, un conto è essere fieri di quello che sei, un altro è essere fieri nell’ammetterlo.
Preferiva perciò la teoria dell’adozione.
A ben pensarci, però, c’era anche una terza teoria: suo padre era pazzo. Anche questa era difficile da ammettere: si sa che la mela non cade mai troppo lontano dall’albero.
Perché solo un pazzo potrebbe essere del parere che la fiducia nel prossimo è la chiave di tutto.
– La gravità ci tiene ancorati a terra, Haymitch, ma la fiducia... la fiducia fa volare. –
Volare, certo. All’altro mondo, forse. E, sebbene talvolta l’idea di un mondo dove non avrebbero potuto togliergli più niente lo allettasse, preferiva vivere. Di merda, ma vivere.
La fiducia serviva solo a farsi ammazzare o, nel migliore dei casi, a farsi fregare. E a lui non piaceva nessuna delle due opzioni, perciò preferiva fregare l’avversario prima che quello fregasse lui.
Quando poi il suo nome fu estratto alla mietitura della seconda Edizione della Memoria, Haymitch smise di riporre quel poco di fiducia che avesse in qualcosa, ovvero quella nella fortuna.
Suo padre, invece, continuò sulla sua ottusa  linea di pensiero.
– Haymitch, ragazzo. – gli aveva detto al loro ultimo incontro – Quando sarai nell’Arena, non dimenticare che la speranza viene da fonti inaspettate. L’importante è che tu abbia fiducia, prima in te stesso e poi negli altri. –
C’era voluta tutta la sua buona volontà per non dargli un pugno, per non gridargli che era uno stupido illuso. In fin dei conti, era pur sempre suo padre, e, per quanto gli dolesse ammetterlo, quella era, al novanta percento delle probabilità, l’ultima volta che lo vedeva.
Arrivato a Capitol City, le uniche persone di cui si era fidato (sebbene fidato non fosse il termine giusto: piuttosto, non aveva messo troppo in discussione ciò che dicevano) erano stati il suo mentore e il suo stilista, sebbene quest’ultimo fosse un vecchio idiota mezzo orbo che per la sfilata dei carri aveva conciato lui e gli altri del Dodici come dei pezzenti. Per le interviste, invece, aveva fatto un lavoro discreto.
Una volta nell’arena, il consiglio di suo padre era stato l’ultimo dei suoi pensieri, non aveva tempo per pensare ai valori etici e morali, non se voleva sopravvivere; anzi, non fidarsi si era rivelata la tattica perfetta da usare in quell’arena dall’incantevole e amena bellezza, visto che tutto era mortale, dagli adorabili scoiattoli al profumo dei fiori.
Poi, lei era spuntata dal folto della foresta e coi suoi dardi velenosi l’aveva salvato, per poi uscirsene con quella proposta di alleanza.
– Vivremmo più a lungo, se fossimo in due. –
Haymitch rivolse un’occhiata al tributo che Maysilee aveva ucciso, mentre nelle orecchie gli risuonavano le parole di suo padre. Lei l’aveva salvato, certo, ma cosa gli dava la certezza che non l’avrebbe avvelenato alla prima occasione?
La fiducia fa volare...
– Mi pare che tu l’abbia appena dimostrato. –
Ed era vero: la fiducia l’aveva fatto volare verso la vittoria, perché senza Maysilee non ce l’avrebbe mai fatta.
 
 
Angolo autrice:
Salve gente INESISTENTE!
Scrivere questo capitolo è stato  un po’ difficile, specialmente sul finale. Volevo mettere una bella dose di Haymitch/Maysilee perché, per quanto la Haffie (si chiama così, vero?) mi piaccia, trovo che questa coppia sia meravigliosa, e che abbia qualcosa che per certi versi ricorda la Galeniss, ma ancora più bella.
Perciò, dopo aver cancellato e riscritto e ricancellato circa quindici finali, ho optato per questo, che tuttavia non mi soddisfa totalmente. A voi il giudizio!
La citazione è presa da Fairy Oak.
Come sempre, grazie a tutti quelli che recensiscono, mettono nelle preferite/seguite/ricordate e a chi legge silente. Una recensione, comunque, è sempre gradita.
Bacioni,
Luly 

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Capitolo 4
*** Finnick - Fiori ***


Finnick - Fiori
 

 
 
Finnick adorava suo padre, era il suo eroe, idolo, mentore. Era tutto.
Sapeva sempre cosa dire e cosa fare, in ogni occasione: funerali, matrimoni, nascite; per ogni circostanza aveva una frase che ti costringeva piacevolmente a pensare, e i risultati di quel rimuginare e rimuginare erano sempre utili e riutilizzabili.
Insomma, con lui non smettevi mai di imparare.
In particolare, ricordava quella volta che lo aveva fatto vestire di tutto punto, coi vestiti migliori, e lo aveva costretto a domare la sua chioma.
– Dove stiamo andando? – aveva chiesto il bambino.
– Da una mia vecchia amica. – aveva risposto il padre, che in mano reggeva un mazzo di peonie bianche.
L’aveva portato nella zona più vecchia del distretto, dove le case erano messe davvero male, coi muri scrostati e le finestre rotte. Si era sentito a disagio, ma non aveva detto niente: suo padre sembrava conoscere bene quelle strade, si muoveva con sicurezza, perciò non c’era nulla da temere.
Arrivarono davanti ad una casa di un azzurro scolorito e, senza bussare, entrarono; dentro era piuttosto buio e prima che gli occhi di Finnick avessero il tempo di abituarsi, avevano attraversato un paio di stanze per uscire nel giardino.
Per descrivere questo, non c’erano parole: era semplicemente stupendo, in netto contrasto con la decadenza di quello che stava fuori.
I vari aromi erano così forti da coprirsi gli uni con gli altri e i colori facevano a pugni per spiccare.
Al centro, su una vecchia sdraio, c’era una donna di mezza età che però dimostrava il doppio dei propri anni; i capelli, che un tempo dovevano essere stati rossi, erano color paglia e solo qua e là spuntavano ciocche conservanti l’antico colore; gli occhi azzurro cielo erano sbiaditi e acquosi, contornati da una fitta rete di rughe.
Una donna invecchiata troppo e troppo presto, insomma.
Vedendoli, aveva sorriso e per poi salutati. Suo padre le si avvicinò e le diede i fiori; al giovane Finnick era sembrato abbastanza stupido, dato che il giardino era pieno di piante decisamente più belle di quelle peonie. Ma la donna parve apprezzare moltissimo il gesto, e mentre accettava i fiori i suoi occhi brillarono.
Rimasero lì per circa un’ora: suo padre e la donna parlarono tutto il tempo tenendosi per mano, mentre Finnick, dopo le solito domande di circostanza, aveva esplorato il giardino, annusando ogni fiore e cercando di decidere quale fosse il più bello. Alla fine, non era riuscito a prendere una decisione.
Poi se ne erano andati, ringraziando per l’ospitalità e promettendo che sarebbero andati a trovarla al più presto.
Sulla via del ritorno, il bambino chiese al padre chi fosse quella donna e perché erano andati a trovarla, ma tutto quello che riuscì a cavargli di bocca fu una delle sue frasi ispirate.
– Ho solo qualche certezza nella vita: che i fiori vanno bene in qualunque occasione, e niente è più importante che trovare il tempo per una vecchia amica, specialmente se la vecchia amica ha visto giorni migliori.
 Perchè anche se essere soltanto amici ti spezza il cuore, quando vuoi bene ad una persona incassi il colpo. –
Ci aveva riflettuto su per giorni, arrivando alla conclusione che, come sempre, suo padre aveva ragione.
Poi, aveva archiviato la cosa, perché in fin dei conti, per quanto fosse una brava persona, quella donna era amica di suo padre, non sua, e lui, lui Finnick, aveva altro a cui pensare.
 
Molti anni, morti ed avvenimenti dopo, però, Finnick si ritrovò a pensare quasi ossessivamente alle parole di suo padre. Questo perché Johanna, una delle poche persone che lui potesse davvero definire un’amica, era finita in ospedale per la terza volta (o era la quarta?) nel giro di poco.
Eppure stava andando tutto così bene! Le mancava poco così per diventare un soldato a tutti gli effetti, e sarebbe stata inviata a Capitol City per l’assalto finale.
Dopo tante sconfitte, quella doveva essere la famosa goccia, senza contare che di mezzo non ci andava solo la nomina a soldato, ma anche l’orgoglio di Johanna.
E lei era estremamente orgogliosa.
Si tormentò per giorni: sapeva benissimo che se si fosse presentato con lo sguardo colmo di compassione lei lo avrebbe ucciso per poi uccidersi a sua volta, ma d’altronde come faceva a nascondere gli occhi?
E lì arrivò la folgorazione.
Si precipitò dalla Coin e, dopo moine, suppliche, promesse e minacce riuscì a strapparle il permesso di passare un’ora nei boschi, tempo che passò a raccogliere ogni singolo vegetale anche solo vagamente piacevole all’olfatto e alla vista e, possibilmente, non urticante.
Il risultato fu un bizzarro bouquet, ma sapeva che Johanna non se ne sarebbe lamentata.
Entrò nella sua camera d’ospedale tenendo il mazzo di fiori davanti agli occhi.
– Ehi, che cavolo fai? – lo apostrofò subito lei.
Nonostante le pessime condizioni psicologiche e fisiche, rimaneva la solita. O meglio, la sua maschera di aggressività, seppur incrinata, rimaneva in piedi.
– Per te. – rispose, porgendole il mazzo. Beh, diciamo che più che porgerlo, glielo ficcò quasi su per il naso.
– Cribbio, Odair, ma che hai fumato? – strillò lei, afferrando di mala grazia i fiori e poggiandoli sulle proprie gambe.
Lui si grattò la testa, evitando il suo sguardo. Dopo un imbarazzante minuto di silenzio, durante il quale lei esaminò i fiori e lui esaminò di sottecchi lei, Johanna alzò il capo, un cipiglio divertito negli occhi.
– Lo sai cosa sono questi, pezzo di idiota? – gli chiese, indicando dei fiori vagamente somiglianti a quelli della camomilla.
Lui scosse la testa, e lei schioccò la lingua, infastidita.
– Crisantemi. Si mettono sulle tombe, questi! Dimmi, ti sembro morta? – sbottò Johanna, agitando i fiori.
Poi, scoppiarono a ridere, e continuarono fino a che un dottore non venne a rimproverarli.
Finnick si sedette sul letto e le accarezzò un braccio, lei chiuse gli occhi, forse per nascondere le lacrime, forse per immaginarsi in un luogo diverso, un luogo migliore.
– Grazie. – mormorò.
E Finnick, che già aveva il cuore spezzato, incassò il colpo.
 
 
Angolo autrice:
È stata dura, me ce l’ho fatta a finirlo per oggi. È venuto un po’ lunghetto, eh?
Veniamo alle cose importanti: la mia versione dei fatti è nettamente diversa da quella del libro, I know. Diciamo che ho mischiato la reazione di Katniss a quella di Finnick. Non credo me ne vorrete, anche perché l’ho ammesso, no?
Sinceramente non ho altro da dire. Vi prego, recensite, anche se questo cap è un’accozzaglia, una recensione neutra o negativa ma sta benissimo, purché fondata.
Per il prossimo aggiornamento non credo riuscirò ad essere puntuale, però mai dire mai.
Un bacio,
Luly 

ps: ho dimenticato di dire che la citazione è presa dalla serie televisiva Scrubs.

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Capitolo 5
*** Peeta - Incubi ***


Peeta - Incubi
 

 
 
Si trovava nella sala da pranzo del treno diretto a Capitol City; il tavolo era imbandito a festa, si sentiva sazio solo a guardarlo.
Di fronte a lui, sedeva Katniss, bellissima come sempre, e lo era ancora di più ogni volta che gli sorrideva.
Nei suoi sorrisi, tuttavia, mancava qualcosa: erano gli stessi sorrisi senz’anima dei morfaminomani, sorrisi dell’oblio, sorrisi fatti tanto per fare.
Si accigliò: vedere la persona che più amava in quello stato non era affatto bello.
Provò ad avviare una conversazione, ma, ad ogni cosa che diceva, Katniss rispondeva con uno di quei maledetti sorrisi. Alla fine, lasciò perdere, e si limitò a guardarla in silenzio.
Di colpa, la porta si aprì e una mezza dozzina di persone (tutti uomini) entrarono: Cinna, Finnick Odair, Cato, Darius, Thresh e, il peggiore di tutti, Gale.
Immediatamente, Katniss si animò, il suo sorriso divenne quasi luminoso; i nuovi arrivati parlavano allegri tra loro, sembravano amici di vecchia data. Ignorarono bellamente Peeta e si sedettero attorno a Katniss, fatta eccezione per Gale, che si mise dietro di lei, le mani sulle spalle della ragazza.
Immediatamente, lei girò il collo verso Gale, il sorriso che le andava da un orecchio all’altro.
– Vogliamo andare? – le chiese lui, con voce dolce.
Lei annuì, si alzò e lo prese per mano; insieme si avviarono verso la porta, ma ogni due passi uno dei presenti li interrompeva e si metteva a flirtare (esatto, tutti ci provavano con Katniss) e sia lei che Gale li lasciavano fare.
Alla fine, dopo quella che parve un’eternità, raggiunsero la porta e sparirono dietro di essa; Peeta, che fino a quel momento era rimasto paralizzato sulla propria sedia, scattò in avanti e si diresse verso la porta, inseguito dagli sguardi di scherno degli altri.
– Povero illuso. – mormorò Darius.
– Non ha speranze, fossi in lui getterei la spugna. – rincarò Cato.
– Dovranno raccoglierlo con scopa e paletta, quando andrà a sbattere contro la verità. – concluse Cinna.
Il ragazzo se ne fregò altamente e continuò per la sua strada, sulla scia di Katniss e Gale; percorse un corridoio angusto e poco illuminato e alla fine di esso si trovò in una stanza che al posto di una parete aveva lo schermo piatto di un televisore enorme.
Lo schermo proiettava una replica dei momenti peggiori della settantaquattresima edizione: il bagno di sangue, la morte di Lux, la morte di Rue, di Cato, di Thresh, l’incendio. Katniss, seduta su una poltroncina, si guardava attorno annoiata come in cerca di qualcuno, lanciando ogni tanto delle occhiate allo schermo.
Peeta la raggiunse.
– Eccoti qui! Sei sparita, ho avuto paura. Dove siamo? –
– Perché eri preoccupato? Ero con Gale, niente avrebbe potuto ferirmi. – rispose lei atona, lasciando trasparire emozioni solo nel pronunciare il nome di Gale.
Peeta sentì una stretta al cuore, si sedette di fianco a lei e, d’impulso, le prese una mano.
– Katniss, adesso che siamo soli io voglio approfittarne per... –
Si interruppe nel sentire una risata sprezzante alle proprie spalle.
– Mellark, ancora qui? Sei fastidioso, lo sai? – la voce di Gale trasudava irritazione.
Si portò davanti a loro, un sopracciglio alzato, le braccia conserte. Immediatamente, Katniss si alzò e si gettò tra le sue braccia, mentre Peeta si immobilizzò, i muscoli tesi come se dovesse scappare. O attaccare.
Gale baciò la nuca di Katniss e la abbracciò.
– Ascolta amico, ormai lo sanno tutti che sei innamorato di lei e vorresti averla tutta per te, ma la partita è persa in partenza. Arrenditi, ritirati, fatti una vita. Katniss non ti vuole, sei solo un peso per lei. –
La ragazza nel frattempo, faceva pigramente correre gli occhi da Gale (con sguardo adorante) a Peeta (con sguardo annoiato e altezzoso), annuendo di tanto in tanto.
Il giovane cacciatore, nel frattempo, proseguì, incessabile, insensibile.
– È ora che accetti la sconfitta. Tu non sei alla sua altezza. Lei è mia. Mia, comprendi?
Ma guardati, sei buono solo a fare il cagnolino. Solo perché la mia bella vincitrice, qui, ti ha salvato le penne nell’arena, non vuol dire che ci tenga a te. Semplice senso del dovere, ecco tutto. Indipendentemente dai giochi, le cose sarebbero andate così. – e indicò la ragazza stretta nel suo abbraccio.
Peeta aveva la gola secca, i muscoli iniziavano a dolergli, ma non trovava la forza di muoversi.
– Katniss, è vero quello che dice? – chiese, la voce tremante.
Lei scrollò le spalle e si alzò in punta di piedi per baciare Gale, le mani intrecciate a quelle del ragazzo; poi, restando avvinghiati, i due iniziarono a muoversi lentamente verso la porta, incuranti di qualsiasi cosa non fossero loro stessi.
Peeta iniziò a divincolarsi, urlando, piangendo, ma era come se fosse legato alla sedia. Non poteva nemmeno chiudere gli occhi per evitare di ferirsi l’anima e il cuore con la vista dei due amanti.
Non poteva fare niente, se non guardare Katniss che si allontanava da lui con Gale.
Nemmeno il pensiero che lei sarebbe stata felice riuscì a rassicurarlo.
Alla fine, Gale e Katniss uscirono, lasciandolo solo e sconfitto; lo schermo si annerì, lasciandolo al buio.
L’aveva persa, aveva perso tutto: Gale aveva vinto, adesso sarebbero stati felici, mentre lui avrebbe passato il resto dei suoi giorni in quella stanza.
L’aveva persa...
 
 
Si svegliò di soprassalto, madido di sudore e lacrime; immediatamente si girò a destra e vide il più bello degli spettacoli: Katniss, rannicchiata al suo fianco, dormiva, sul volto una parvenza di tranquillità.
Sospirò sollevato: era solo un incubo, uno dei tanti, tutti diversi e al contempo tutti uguali. Non gli davano tregua.
Tuttavia, dovette ammettere che era sempre stupendo svegliarsi dopo una tale tortura e vedere lei, l’unica ragazza che gli avesse lasciato un segno così profondo e duraturo, dormire nel suo stesso letto tra le sue braccia.
Iniziò a rilassarsi, pensando che suo padre aveva ragione.
“Without nightmares, there would be no dream, Peeta.”
 
 
Angolo autrice:
E dopo mesi di latitanza, sono tornata!
Mi dispiace immensamente per avervi fatto aspettare così tanto, lettori/lettrici, ma si sono venuti a presentare dei piccoli ma cruciali problemi di famiglia e passo tutto il mio tempo (tranne weekend e rare eccezioni come quella di adesso) a casa dei miei nonni che, per quanto adorabili ecc ecc, non sanno nemmeno dove sia di casa un computer e il portatile serve a mio padre per lavoro.
Perciò, i miei aggiornamenti saranno lenti e sporadici, ma nel mio cuore voi e le mie fic ci siete sempre!
Ora, venendo al nuovo cap, la storia è ambientata durante il viaggio verso Capitol City per la settantacinquesima edizione. L’incubo di Peeta prende totalmente ispirazione da un incubo che la sottoscritta ha avuto più o meno una settimana fa. Ancora non mi riprendo...
Detto questo, mi defilo, che il tempo che posso passare nella mia adorata casa è poco e devo dare la caccia ad un fottuto prendisole che non ne vuole sapere di farsi trovare.
Un bacio e grazie della pazienza,
Luly 

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Capitolo 6
*** Foxface - Rischi ***


Attenzione: altissimo contenuto di OOC

   Foxface – Rischi
 
 
   

 

Suo padre le aveva insegnato che alla fine si tratta di superare le proprie paure, perché tutte le volte che si corrono dei grandi rischi, indipendentemente da come finisce, si è sempre contenti di averli corsi.
E aveva ragione: la vita è tutto un rischio e bisogna correre lungo di essa per arrivare alla fine accettando le sfide giornaliere. Altrimenti, rimani inchiodato al punto di partenza, e quella non è vita.
Aveva paura di essere beccata dai Pacificatori a rubare, ma siccome voleva vivere non aveva scelta; aveva paura di finire a giocare negli Hunger Games e lì... beh, volente o nolente doveva correre il rischio. Temeva di rimanere sola al mondo; per quanto cercasse il più possibile di contare solo sulle proprie forze, di tanto in tanto non rifiutava un aiuto. E soprattutto, aveva paura di morire.
Nell’Arena, aveva corso il rischio di seguire, ovviamente a debita distanza, i Favoriti, per poter usufruire delle loro scorte alimentari; aveva anche trovato il coraggio di saltare le mine: la fame, tra le altre cose, la terrorizzava.
Quando il campo si era ristretto a sei tributi, aveva visto le sue possibilità di vittoria diventare tangibili. Ma poi, l’annuncio del cambio di regole le aveva buttate giù come se fossero un castello di sabbia in balia delle onde.
Non ce l’avrebbe fatta, lei era sola e sapeva benissimo quanta forza facesse l’unione.
Ma non poteva scappare dai giochi, se non morendo.
La morte, già. Ora come ora, le sembrava un’allettante via di fuga, il rischio finale di una vita passata a superare le proprie paure. Aveva ponderato la cosa per giorni, quando si era imbattuta nei tributi del dodici; li osservò attentamente, dicendosi che se doveva proprio morire avrebbe preferito che fosse per mano loro piuttosto che per quella di Cato o Clove.
Vide Peeta raccogliere le bacche velenose e sentì una stretta al cuore: se le avesse mangiate sarebbe morto e dopo tutti gli sforzi di Katniss per salvarlo (li aveva spiati davvero per bene) non ne valeva la pena. E poi non aveva voglia di passare il resto della sua vita a fare da mentore, non voleva essere una complice di Capitol City.
Decise in fretta: appena lui si allontanò, corse a prendere una manciata di bacche; gettò un’occhiata al cielo, sperando che suo padre capisse e che non si sentisse in colpa in alcun modo.
Mise in bocca le bacche e le mandò giù.
Indipendentemente da come finisce, sono contenta di aver corso il rischio.
 
E sarebbe stata davvero contenta se avesse potuto vedere quello che Katniss, poco più di un anno dopo, aveva compiuto. 


Angolo autrice:
Vado di fretta. Più del solito. So che verso la fine questo capitolo sembra scritto frettolosamente e parzialmente lo è: il mio computer sta dando di matto e mi da puntualmente problemi con word, mentre sto scrivendo il pc si riavvia di botto e perdo tutto quello che non ho salvato.
Tuttavia sono lo stesso contenta del risultato. A voi che ne pare?
Grazie a tutti di tutto!
Un bacio veloce,
Lux

ps: citazione presa da Scrubs

Pps: vi consiglio una song bellissima scritta e cantata da un fan. La trovate qui: http://www.youtube.com/watch?v=GnIRYvsdzkk
  

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Capitolo 7
*** Clove - Perdere ***


Clove – Perdere
 

 
 
A volte, il modo migliore per perdere qualcosa è volerla troppo.
Questo era uno degli insegnamenti di suo padre, un uomo forte e deciso, la cui unica debolezza, secondo Clove, era proprio questa convinzione. Se una cosa si vuole davvero e molto, alla fine la si ottiene!
Lei, per esempio, voleva, doveva partecipare agli Hunger Games e vincerli. E infatti, il suo nome venne estratto alla 74esima edizione. In ogni caso, se così non fosse avvenuto, si sarebbe offerta, ma la buona sorte era stata in suo favore.
Il suo obbiettivo era vincere, e avrebbe di fatto tutto per raggiungerlo; la regina dei coltelli otteneva sempre quello che voleva, stavolta non sarebbe stato diverso.
Il punteggio dell’addestramento era stato ottimo, ovviamente. Il suo mentore le aveva detto che gli sponsor si erano già presentati. Tutto secondo i piani, tutto quello che voleva lo stava ottenendo.
Poi però... poi si era innamorata di Cato, e così oltre alla vittoria, voleva anche lui. Lui, così irruento ma mai rude (o almeno, non lo era con lei), così sicuro e a volte arrogante, possente e cinico, letale e sadico.
Messi insieme, erano la macchina della morte più efficiente che Panem avesse mai visto. Inarrestabili. Imbattibili. Innamorati.
Per un po’ le era sembrato che potesse ottenere entrambe le cose, gloria e amore, grazie al cambio delle regole, ma il destino aveva avuto piani diversi, e così, a causa di un dannato sasso, aveva perso ciò che più voleva.
Suo padre aveva ragione, dopotutto, e lei l’aveva scoperto nel peggiore dei modi.
La sua unica, magra consolazione era che, mentre lasciava l’Arena e la vita, aveva potuto guardare negli occhi uno degli oggetti dei suoi desideri, forse il più importante e ambito, mentre le parole di lui, che prometteva la vittoria anche nel suo nome, le scivolavano nell’anima (sì, anche lei, la brutale assassina del Due, ne aveva una, incredibile a dirsi) lenendo fievolmente il dolore.
Voleva vincere e aveva perso. Voleva amare ed essere amata, ed era morta.
Forse suo padre non aveva debolezze, dopotutto.
 
 
 
Angolo autrice:
Ok, forse con questo cap ho fallito, ma altro non mi veniva. E poi dai, non è poi tanto male. Mi rifarò col prossimo, promesso!
La frase è presa, manco a dirlo, da Scrubs.
Colgo l’occasione per ringraziare le undici (UNDICI!!!) persone che hanno la mia raccolta tra le seguite, la persona che ce l’ha tra le ricordate e le sei persone che, occasionalmente o sempre, recensiscono. Ci terrei che queste ultime aumentassero di numero, ma già così sono felice. Però ricordate, non c’è limite alla felicità e anche poche parole mi bastano!
Per il prossimo aggiornamento si va per le lunghe, poiché sto lavorando ad una long su PJ e ad una OS fluff Everlark.
Un bacio,
Lux
 
Ps: UNDICI! 

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Capitolo 8
*** Marvel - Risate vuote ***


Nota: presenza elevata di OOC
 
 

Marvel – Risate vuote
 
 

Tua cugina è morta partecipando agli Hunger Games. Ridi, Marvel, ridi per non piangere.
Il tuo nome è stato estratto alla 74esima edizione. Ridi, Marvel, come se fosse quello che volevi.
Cato ha confermato che ti vuole in squadra. Fai una battuta, Marvel, per ingraziarti quell’assassino.
Hai preso nove all’addestramento. Ridi, Marvel, per ignorare l’occhiata di Clove. Ti sta studiando per trovare il tuo punto debole.
Hai superato il bagno di sangue. Ridi, Marvel, scarica la tensione con quella tua abusata risatina che odi.
Lux è morta. Ridi, Marvel, tanto alla fine sarebbe successo lo stesso. Hai sentito Clove dire a Cato che lei stessa si sarebbe occupata “di quella sgualdrina” una volta venuto il tempo.
Le provviste sono saltate in aria. Ridi piano e stavolta quasi di gusto, Marvel, ridi di Cato che è stato beffato. Ma non farti sentire, ci tieni alla vita.
Hai catturato la ragazzina dell’undici. Non ridere stavolta, aspetta, perché ride bene chi ride ultimo.
Ma le tue risate sono vuote da tempo, hanno perso valore, non sai più cosa voglia davvero dire ridere.
Eccola, la così detta ragazza in fiamme. Un ghigno sulle tue labbra, tolte loro di mezzo il campo si restringe notevolmente.
Sferri la lancia contro la ragazzina e immediatamente una freccia ti raggiunge il collo.
Non ridi più adesso, vero Marvel? Non servirebbe a molto, dopotutto.
Tuo padre te l’ha sempre detto: le battute, le risatine non si fanno perché fanno ridere, ma per tirare avanti. E, qualche volta, perché fanno ridere.
Appunto: stavolta nemmeno una battuta aiuterebbe a smorzare il dolore.
 
 
 
Angolo autrice:
Direi che l’angst è toccabile con mano, in questo cap. Inizialmente non mi convinceva il risultato ma alla fine devo dire che mi piace. C’è anche un pizzico di nonsense, ma di preciso non saprei dire dove. Forse è solo una mia sensazione.
Allora, che ne pensate? Le recensioni neutre e/o negative sono sempre bene accette, purchè fondate si intende.
Let me know, guys! La citazione è presa da *rullo di tamburi* SCRUBS! Non ve l’aspettavate, eh? Che volete, quella serie è la cosa più bella che ci sia.
Come sempre ringrazio chi recensisce, preferisce, segue, ricorda e chi legge senza esprimersi.
Un bacio e a presto (si spera)
Jay
 
Ps: lo so che avevo detto che per l’aggiornamento mi sarei fatta attendere a causa dei vari impegni, ma io e la coerenza siamo come Snow e Katniss 

 

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Capitolo 9
*** Johanna - Tesori ***


Johanna – Tesori
 

 
Johanna stimava moltissimo suo padre; forse era la persona a cui era più legata, molto più di quanto lo fosse a sua madre e alle sue sorelle.
Non la trattava come se fosse una piagnucolosa femminuccia e a lei questo piaceva.
E poi era saggio, sebbene la metà delle volte la ragazza non capisse un’accidenti di quello che diceva.
Una frase che però Johanna capiva e apprezzava era sicuramente quella che suo padre ripeteva di continuo.
Dove si trova il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. Ricordatelo e non perderai te stessa. –
L’ultima volta che glielo aveva detto, lei stava per partire per gli Hunger Games, che aveva poi vinto usando una strategia ingegnosa e tenendo a mente le parole di suo padre.
Quando era tornata a casa, la pace era durata poco, molto poco. Snow l’aveva contatta dopo neanche sei mesi, facendole i complimenti per la vittoria, poi era passato al punto: le richieste per il suo corpo e la sua compagnia erano già molte, doveva partire immediatamente per Capitol City.
– No. – era stata la sua secca risposta. Ma non si era fermata lì.
– Avete rovinato già abbastanza la mia vita, adesso lasciate me e la mia famiglia in pace. La sua schifosa gente dovrà fare a meno della mia compagnia. Nessuno dei suoi amici mi sembrava così ansioso di volermi viva prima che vincessi, o sbaglio? Non mi avrà, non più. –
A sue spese, aveva imparato che a Capitol City non si può dire di no: la sua famiglia era morta prima ancora che lei avesse l’occasione di riferirgli della chiamata del presidente.
E così Johanna perse il suo (unico) tesoro più grande e, di conseguenza, anche il cuore.
Solo anni dopo, quando conobbe Finnick, ebbe la flebile sensazione che il suo scrigno fosse meno vuoto e che il suo cuore fosse tornato.
Tuttavia, fu Katniss - sì, Katniss Everdeen, la ragazza in fiamme, la Ghiandaia Imitatrice, la diciassettenne più amata e odiata di Panem, quella che si sforzava ancora di mandare avanti la commediola degli sventurati amanti del dodici - a darle la certezza di avere di nuovo un tesoro da amare e custodire.
E quando Johanna si commosse annusando gli aghi di pino, lo fece pensando al proprio cuore ritrovato e a suo padre, che continuava a vivere in lei attraverso il suo insegnamento.
 
 
 
Angolo autrice:
Ciao a tutti! Sono tornata presto, vero?
Lo so che ultimamente scrivo tutte OS striminzite, ma questo è il massimo che riesco a dare/fare. Comunque non temete, il cap che sto preparando per Peeta (sì, un’altro su Peeta, problemi?) verrà bello lungo. Tuttavia, dovrete aspettare perché più una cosa è lunga, più tempo ci metto.
Detto questo, ringrazio vivamente le 16 (SEDICI!) persone che seguono e li invito a recensire. Un grande grazie anche a Pervinca Potter 97 per tutte le recensioni e i complimenti. Spero che anche questa flash sia di tuo gradimento! ^.^
Un bacio a tutti,
Luly
 
Ps: la citazione è presa dal Discorso della Montagna di Gesù 

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Capitolo 10
*** Peeta II - Passi ***


Peeta II – Passi
 
 
 
Il signor Mellark all’apparenza era un uomo tranquillo e ordinario. Nessuno avrebbe mai sospettavo che avesse dei segreti. D’altro canto, nel distretto dodici erano ben poche le persone che potevano concedersi il lusso di pensare ai segreti altrui e comunque il fornaio era escluso a prescindere.
Peeta era l’unico a conoscenza dei suoi segreti; l’unico a sapere che era stato innamorato della madre di Katniss. L’unico a sapere del suo debole per Prim. E l’unico a sapere del suo libro di poesie e aforismi. Libro, poi, era una parola grossa per descriverlo, effettivamente: contava neanche cento pagine.
Ma era un vero e proprio tesoro che il signor Mellark custodiva gelosamente; l’aveva avuto in eredità da suo padre, che a suo volta l’aveva ricevuto da suo padre e così via. Era scritto a mano e racchiudeva, appunto, poesie ed aforismi che i suoi precedenti possessori avevano raccolto e trascritto.
La prima volta che suo padre glielo aveva mostrato, Peeta aveva otto anni. Erano soli alla panetteria: sua madre e i suoi fratelli, infatti, erano ancora a casa. Padre e figlio, invece, si erano alzati presto per andare a lavorare, dato che la Festa del Raccolto si avvicinava.
Peeta si era occupato di disegnare alcune decorazioni sulla vetrina, mentre suo padre lavorava il pane; quando il ragazzino aveva finito, aveva raggiunto il genitore.
– Adesso che faccio, papà? – chiese.
L’uomo l’aveva guardato a lungo, soppesandolo, poi gli aveva sorriso ed era andato a sedersi su una sedia.
– Ascolti il tuo vecchio, ti va? –
Peeta, entusiasta, era andato a sedersi sulle ginocchia del padre, il quale aveva nel frattempo cacciato da una tasca un libretto dall’aria vissuta.
– Questo, – iniziò – è l’eredità più grande e importante che io possa passarti. Non la panetteria, non la casa. Questo! –
Il bambino aveva preso delicatamente il quadernino dalle mani del padre e, con reverenza, aveva preso a sfogliarlo mentre il genitore gli illustrava la storia di quelle poco più di cento pagine; ad un tratto, Peeta si era fermato per leggere una frase scritta in rosso e, a giudicare dall’angolazione delle lettere, di fretta.
Suo padre, vedendolo così rapito, lesse ad alta voce la frase.
Se il mio udito potesse percepire tutti i suoni del mondo, io sentirei i suoi passi. Bella scelta, molto romantica. Ehi, non starai pensando a Katniss Everdeen? –
Lui aveva scosso la testa, le guance rossissime, e aveva ripreso a sfogliare il quaderno; una volta finito, aveva fatto per restituirlo al padre, che però aveva scosso la testa.
– È tuo. – gli disse. – Ormai sei abbastanza grande per capirne il valore e inoltre credo che qualcuna di quelle frasi possa esserti d’aiuto. –
Con gli occhi colmi di felicità, Peeta aveva accettato il dono e da quel giorno, fino a che gli eventi l’avevano permesso, aveva custodito gelosamente il quadernino, le cui frasi, ormai, sapeva a memoria.
Non aveva mai avuto modo di utilizzarle con Katniss, o almeno, non direttamente.
Ebbe però modo di pensare ad uno dei suoi aforismi preferiti, ovvero quello dei passi, quando, durante i suoi primi giochi, si trovava mimetizzato e mezzo morto sulla sponda del fiume.
La mente annebbiata dalla febbre e dal dolore, non faceva che mordersi le labbra per evitare di sorridere al pensiero di poter davvero udire i passi della sua compagna di distretto. Sarebbe stato bellissimo morire cullato da un suono così dolce...
Ma, fortuna più grande di tutte, ad un certo punto aveva davvero sentito quel rumore, insieme alla sua voce, e aveva anche quasi rischiato di sentirlo fisicamente.
Avrebbe tanto voluto dirle quella frase, ma non ne ebbe mai il tempo, per un motivo o per un altro.
Potè però dirla a suo padre, una volta tornato dai giochi; pur essendo arrabbiato e deluso, causa la scoperta che era tutta una farsa, voleva condividere con qualcuno quello che provava. Perciò, la prima cosa che disse a suo padre, che aveva capito che qualcosa non andava, appena rimasero soli lontani dalle telecamere fu: – Io li sentivo i suoi passi, davvero. –
L’uomo aprì le braccia e accolse il figlio piangente.
– Io non so cosa sia successo fra te e Katniss, e non lo voglio nemmeno sapere. Però ricorda una cosa: quello che deve accadere, accadrà, e comunque in qualche modo finisci sempre con la persona giusta per te. –
Peeta annuì e si ricompose, poi, dopo aver ringraziato il padre, andò a scrivere la frase appena ricevuta, augurandosi che il genitore avesse ragione.
 
 
 
Angolo autrice:
Ci ho messo un po’ a scrivere questo cap e la fine non mi convince nemmeno tanto. Effettivamente ritengo faccia cagare, ma non mi è venuto altro. Ci ho pensato e ripensato, ma niente. Vabbè, il giudizio a voi.
Ringrazio moon_26 e, nuovamente, Pervinca Potter 97. Inoltre, un enorme grazie a chi preferisce/segue/ricorda/recensisce e a chi legge in silenzio.
Le recensioni sono gradite.
Un bacio e a presto (effettivamente dovrete aspettare molto perchè non so dove mettere le mani)
Luly
 
Ps: la solita idiota, mi sono dimenticata di specificare la provenienza delle citazioni. La prima è di Jorge Borges (se non sbaglio) la seconda invece ve lo lascio immaginare, da dove sia presa...

 

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